LE NUOVE
PROFESSIONI DIGITALI
a cura di
Giulio Xhaet, Ginevra Fidora
LE NUOVE
PROFESSIONI DIGITALI
Risorse, opportunità
e competenze
per la tua carriera online
Serie a cura di Luca Conti
EDITORE ULRICO HOEPLI MILANO
Copyright © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. 2015
via Hoepli 5, 20121 Milano (Italy)
tel. +39 02 864871 – fax +39 02 8052886
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rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta
Romana 108, 20122 Milano, e-mail: [email protected] e sito web: www.clearedi.org.
ISBN 978-88-203-7030-5
Ristampa:
4 3 2 1 0
2015
2016 2017 2018 2019
Progetto editoriale: Maurizio Vedovati – Servizi editoriali ([email protected])
Copertina: Sara Taglialegne
Redazione: Davide Gianetti
Stampa: L.E.G.O. S.p.A., stabilimento di Lavis (TN)
Printed in Italy
Sommario
ringraziamenti
cenni Sugli autori
1
Le sfide della digital transformation
xiii
xv
capitolo
La sfida del mercato del lavoro
Social media & selfie economy
Ubernomics
Ne resterà soltanto uno
Gratis per sempre. Finché saremo noi la moneta
Nuove prospettive
La sfida della convivenza con le macchine
Dove arrivano oggi i cervelli artificiali
Un imprevisto ci salverà
La sfida della formazione
Blended learning
I social network come strumenti di apprendimento
Formazione digitale per tutte le generazioni
Verso le nuove professioni digitali
1
1
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3
4
7
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24
25
28
31
33
VIII
Sommario

Un’intelligenza a misura di Rete
capitolo
35
C’era un tempo in cui Internet era un luogo per soli smanettoni
Dalle competenze alle attitudini
Resilienza
Real-time attitude
All-line attitude
Descrying attitude
Le nuove professioni del digitale
35
36
37
38
40
44
46

Digital copywriter: il designer dei contenuti
47
capitolo
Chi è il digital copywriter?
Che cosa fa il digital copywriter?
Micro copy
Long copy
Visual copy
Video content
L’annosa questione dei prezzi
Un focus sui prezzi della content creation
La formazione di un digital copywriter
Gli strumenti del digital copywriter
Gli strumenti per scrivere meglio
Gli strumenti per il lavoro di gruppo
Gli strumenti per il visual
Gli strumenti per ottimizzare i tempi
Conclusioni
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49
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55
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61
61
61
63
64

Community manager: il demiurgo
delle community online
67
capitolo
Tanto per capirci
Il passo indietro
67
69
Sommario
Le quattro chiavi: resisto, sono, ci sono, per voi (e per me)
Resisto, dunque sono
Eccomi! Contate pure su di me, amici
Le 3 C: comunico, coinvolgo, curo
Dos and dont’s: strategia e strumenti
Social care, social education
3 C+1: le quattro core competence del community manager
Quando l’interazione si fa paid: uno sguardo al futuro
Social, dunque pago
Lunga vita al community manager
Oltre le gambe c’è di più
Riepilogando: le dieci parole chiave del community manager
Conclusioni. Chi sono, perché sono qui
IX
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74
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90

Digital PR: l’architetto delle relazioni online
93
Gli ambiti delle digital PR
Le pubbliche relazioni corrono in Rete
Gli obiettivi del digital PR
Guardate al vostro pubblico finale
Analizzare i dati di PR online
Influencer e brand ambassador
Mappare e selezionare gli influencer
Odi et amo: gestire i contatti con gli influencer
Il “best-fit influencer”
Nel cantiere delle digital PR: le attività promozionali
Diventare un esperto di relazioni digitali: la formazione
La vita del digital PR
Conclusioni
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99
99
101
104
105
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111
112
113
capitolo

Digital advertiser: l’ingegnere della visibilità
capitolo
Perché il digital advertising è diverso?
Le basi del digital advertising
115
116
120
X
Sommario
Il ruolo del digital advertiser
Competenze del digital advertiser
L’operatività del digital advertiser
Le sfide per il digital advertiser: intercettare il bisogno
Le sfide per il digital advertiser: branding o conversion?
Le sfide per il digital advertiser: dalla campagna al customer journey
Come si diventa digital advertiser?
Gli strumenti del mestiere per il digital advertiser
Trend di settore: che cosa aspetta il digital advertiser?
Conclusioni

Web analyst: l’interprete dei dati
di navigazione
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134
135
136
capitolo
Il dizionario del web analyst
Chi è il web analyst?
Scaricatore seriale vs web analyst, ovvero il problema
dei cinque minuti
La cassetta degli attrezzi analitici
Strumenti analitici indispensabili
Excel e grafici
Condividere i dati con il cliente
Alla ricerca del significato nascosto tra i dati
Una giornata da web analyst
What’s next: come si sta evolvendo la figura del web analyst?
Conclusioni: dal teorema di Fermat alla professione,
passando per otto stage
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139
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141
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
E-reputation manager: lo scienziato
dei dati social
159
Chi è e che cosa fa
Monitorare clienti e competitor e fronteggiare le crisi
Monitorare i clienti
159
162
162
capitolo
Sommario
Creare dei benchmark
Gestire le crisi: dall’#epicfail al monitoring
Monitorare la reputazione personale
Perché diventare un e-reputation manager: la mia esperienza

SEO: il Super Eroe dell’Ottimizzazione
XI
164
166
167
168
capitolo
Chi è il SEO
Gli obiettivi del SEO
Le competenze di un SEO e i contesti
in cui opera
Diventare SEO: dal sapere al saper fare
Come vive un SEO: in agenzia, in azienda, da lupo solitario
Uno squarcio nel cielo: l’attività SEO step by step
SEO listening
Query analysis
SEO onpage
SEO offpage
Quanto guadagna Bruce Wayne?
Che cosa succederà nei prossimi anni
Conclusioni
171
171
173
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182
182
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185
185
186
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
Data scientist: l’alchimista delle informazioni 189
capitolo
Dimmi che cosa compri e ti dirò chi sei
Dimmi che cosa clicchi e ti dirò se sei intelligente
Chi è il data scientist?
Le competenze del data scientist: il Mr T. dell’azienda
Due annunci reali di ricerca di data scientist
L’obiettivo del data scientist negli ambiti digitali: il raccordo
tra molteplici professionisti
What’s next
La mia esperienza
189
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195
197
198
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204
RINGRAZIAMENTI
Grazie a tutti i vecchi e nuovi compagni d’avventura, con cui condivido le
strade online e offline delle mie avventure professionali.
Grazie a Gaetano De Marco per essere diventato prima amico e poi socio,
e aver condiviso tanto in questi ultimi anni di vita, spesso frenetica, ma
sempre ricca di soddisfazioni e di significato.
Stai senza pensieri Bud!
Grazie a tutto il team Made in Digital. In particolare grazie a Ginevra,
Cristina e Daniele. Sono stato fortunato ad avervi incontrato, ragazzi.
Senza di voi non saremmo dove siamo arrivati oggi. Grandi!
Sempre grazie a Hoepli, in particolare a Andrea Sparacino e Maurizio
Vedovati, per il supporto, la pazienza e la competenza che dimostrano in
ogni occasione.
Grazie agli amici, tutti eccellenti professionisti nel digitale, che si sono
spesi per rendere questo volume un bellissimo viaggio condiviso e collaborativo: Emanuela, Valentina F., Valentina V., Rachele, Ilaria, Marco,
Simone, Benedetto. Questo libro esiste anche grazie al vostro impegno e
al vostro talento.
Un grazie particolare va ad Adecco Italia, per l’energico sostegno che continua a dare alle attività di training e formazione sulle nuove professioni
digitali, e per aver voluto essere partner di comunicazione del libro che
tenete tra le mani.
Grazie a te Sofia, perché esisti. E sei esattamente come sei. Una bellezza
straordinaria, dentro e fuori.
Giulio
XIV
Ringraziamenti
A mia nonna, che mi ha insegnato a studiare, e a tutta la mia famiglia, per
avermi sempre supportato e sopportato.
Agli amici di RAM, perché è lì che è cominciato tutto.
A Dani e Cri, per essere stati un gran team.
Ad Alb, per i preziosi consigli.
A Gae, autore ad honorem di questo libro, per avermi insegnato tanto nonostante il poco tempo trascorso insieme.
A Diego, Andrea e Sam, per tutto quello che sarà.
A Bugi, per esserci. E per le storie della buonanotte, of course.
A Mulan, che ho trascurato per questo libro. Scusa socia, ci rifaremo.
Grazie a tutti voi.
E ovviamente a Giulio, al quale di solito dico semplicemente “thx”.
Stavolta sento di dovertelo per esteso. Grazie Boss.
Ginevra
Cenni sugli Autori
Giulio Xhaet. Da diversi anni si occupa di strategie digitali
e progetti di formazione innovativi. Co-fondatore di Made in
Digital e autore del volume Le nuove professioni del Web, edito
da Hoepli nel 2012, è coordinatore e docente per la Business
School del Sole 24 Ore, consulente strategico in Adecco
Training e ha svolto il ruolo di coordinatore didattico per la
Ninja Academy. La sua missione è quella di aiutare aziende e
professionisti nel trovare la propria “digital way”.
Ginevra Fidora. Marketing manager di Made in Digital e
consulente digital communication e social media per La
Fabbrica. È coordinatrice di diversi corsi e docente di community management, digital advertising e strategie di marketing digitale presso scuole di alta formazione in tutta Italia,
tra cui IED, Formaper e la Business School del Sole 24 Ore.
Valentina Falcinelli. Titolare della web agency Pennamontata, content designer e formatrice su tematiche inerenti copywriting, content marketing e social media marketing.
Dice di sé: “So scrivere senza guardare la tastiera, ma non so
guardare la tastiera senza scrivere”.
Rachele Zinzocchi. Web communication e social media
manager a 3 Italia, lavora da anni nella comunicazione come social media manager R&D, giornalista, PR manager,
conference manager, autrice TV. Oggi si occupa di digital
marketing, social media marketing e new media. Il suo imperativo è “lifelong learning”: apprendimento permanente e
formazione continua.
#SociallyDevoted e con il pallino del #SocialCare, per dire
chi è basta una parola, anzi due: filosofia teoretica. Di cui si è innamorata a 15
anni leggendo Heidegger in lingua originale e in cui si è laureata alla Scuola
Normale Superiore di Pisa. Specializzata in missioni impossibili, ha un pregio:
non si arrende mai. E un difetto: non si arrende mai.
XVI
Cenni sugli Autori
Ilaria Barbotti. Laureata in Marketing e pubbliche relazioni, oggi sviluppa e supporta progetti social per le più importanti aziende e brand internazionali, tra cui Lavazza, Citroën,
Ferrero, Ente Turismo Catalunya, Ente Turismo Malta, Italia.
it, Biteg Italia, Regione Marche.
Una forte passione per la fotografia e il racconto del territorio
la portano a sostenere e ideare progetti di marketing territoriale social.
Crea infatti il format Exploring Marche, un nuovo modo di raccontare il territorio, i marchigiani, il “Made in Marche”.
Fonda nel 2011 la prima community instagramer italiana, Igersitalia, tra le più
attive e strutturate del mondo, oggi associazione senza scopo di lucro di cui è
presidente.
Nel 2015 pubblica il suo primo libro: Instagram Marketing, edito da Hoepli.
La trovate su www.ilariabarbotti.it
Simone Tornabene. Meglio conosciuto come Mushin, nasce a Catania nel 1984 ed è un grande appassionato di
Oriente, in particolare di zen e tè verde. Laureato in Scienze
politiche, è stato allievo della Scuola Superiore di Catania.
Oggi insegna Communication strategy allo IULM ed è responsabile strategy in WHY, un collettivo di consulenza
strategica e marketing in ambito mobile, social media e
growth hacking.
Ex Mondadori, dove ha occupato il ruolo di responsabile digital per Cemit
Interactive Media, è docente in diversi master presso IED, Università di Parma,
Università di Catania, Università di Torino, Università Cattolica del Sacro Cuore,
Publitalia80, Digital Accademia e Ninja Academy. Tra le sue esperienze imprenditoriali la fondazione di Digital Dictionary, Viralbeat, Endivia e Cookare.
Valentina Vellucci. Digital strategist in MagillaGuerrilla,
network creativo che sviluppa progetti di marketing non
convenzionale. Dal 2012 è docente di social media marketing presso Studio Samo. Dal 2013 è speaker per diversi
eventi a tema digital organizzati da GT Idea e dalla fondazione Comunica di Padova.
Dal 2013 è consulente digitale per Leotron sas, e nel 2014 è
stata social media editor e consulente digitale per La Stampa.
Cenni sugli Autori
XVII
Emanuela Zaccone. Social media strategist e analyst, cofounder di TOK.tv e autrice di Social media monitoring: dalle
conversazioni alla strategia, edito nel 2015 da Dario Flaccovio.
Nel 2011 ha completato un dottorato di ricerca tra Bologna
e Nottingham. Scrive su Wired, Il Sole 24 Ore e Digitalic. La
trovate su www.emanuelazaccone.com.
Benedetto Motisi.
SEO e copywriter freelance, lo trovate in Rete anche come
SEOJedi. Ha tenuto e tiene corsi per Upter, Politecnico di
Milano, DoLab School. Aiuta ogni giorno singoli e aziende a
trovare la giusta visibilità sul canale Search, che per lui è un
po’ come quello che conduce al cuore della Morte Nera: di
vitale importanza!
Marco Magnaghi. Ha maturato esperienza in consulenza
strategica e nel mondo del largo consumo. Dal 2014 è chief
digital officer di Maxus, media agency di GroupM (WPP),
con responsabilità su tutte le attività di media e advertising
digitale. Nello stesso anno ha pubblicato con Hoepli il libro
Social CRM: email, social media e Web 2.0. Creare nuove relazioni con i clienti, oltre a essere nominato uno dei 25 social business leader al mondo secondo l’Intelligence Unit della prestigiosa rivista Economist. Insegna presso diverse business school.
capitolo
1
LE SFIDE DELLA DIGITAL
TRANSFORMATION
di Giulio Xhaet
La tecnologia è il mezzo attraverso cui si testa la visione, ma può
diventare obsoleta in un anno.
La visione, invece, sopravvive di gran lunga alla nostra esistenza.
Hiroshii Ishii
Sarà la gara tra computer ed esseri umani a definire il contesto
dell’economia globale dei prossimi 25 anni. E gli esseri umani saranno
costretti a vincere.
Eric Schmidt
Alice rise: “È inutile che ci provi, non si può credere a una cosa
impossibile.”
“Oserei dire che non ti sei allenata molto” ribatté la Regina. “Quando
ero giovane, mi esercitavo sempre mezz’ora al giorno. A volte riuscivo
a credere anche a sei cose impossibili prima di colazione.”
Lewis Carroll
La sfida del mercato del lavoro
Domanda da un miliardo di dollari: l’innovazione digitale sta creando o distruggendo posti di lavoro?
Molti i pareri illustri, molte le voci discordanti.
Tra i tecno-scettici più in vista troviamo Andrew Keen, che negli ultimi anni si è
distinto per la sua capacità di portare al pubblico i lati oscuri della Rete, tanto da
essersi autodefinito “l’anticristo della Silicon Valley”.
2
Capitolo 1
Nel suo ultimo lavoro, Internet non è la risposta,1 riporta dati significativi
da cui emerge come la tecnologia possa fare a meno dei lavoratori in carne
e ossa, o perlomeno della maggior parte di loro.
Amazon, il supermercato online per eccellenza, è uno degli esempi più significativi, in grado di ridurre l’occupazione in diversi settori della vendita
al dettaglio, dagli indumenti all’elettronica, dai giocattoli alla gioielleria.
Keen riprende una ricerca statunitense del 2013,2 che spiega come un
comune negozio offra lavoro a 47 persone per ogni 10 milioni di fatturato, mentre Amazon per la stessa cifra riesca a utilizzare solo 14 persone.
L’indagine si conclude con un’affermazione netta: nel 2012 l’azienda
avrebbe contributo direttamente all’eliminazione di 27.000 posti di lavoro solo negli Stati Uniti.
Il settore più colpito è ovviamente quello editoriale. Negli States esistevano 4.000 librerie. Ma solo fino alla metà degli anni Novanta, perché poi è
arrivato Amazon.com, così che nel 2015 ne resiste solo la metà, mentre
le altre hanno chiuso. Situazione analoga nel Regno Unito, dove nel 2005
esistevano quasi 1.400 librerie, ridotte oggi a meno di mille.
A far riflettere è anche l’atteggiamento del fondatore Jeff Bezos, aggressivo come pochi nella storia dell’imprenditoria. È suo il piano per eliminare
i piccoli editori che, per incapacità di adeguamento o per spirito di ribellione, non rispettano i vincoli di partnership con Amazon rispetto a prezzi e
pagamenti. Il nome del piano? “Progetto Gazzella”, in quanto, secondo lo
stesso Bezos, “Amazon deve porsi nei confronti dei piccoli editori come un
ghepardo che insegue una gazzella malconcia”.3
D’altronde, statistiche simili le troviamo sparse un po’ ovunque nella storia recente di Internet.
Social media & selfie economy
Prendiamo i social network: Instagram, applicazione per condividere
fotografie online, viene acquistata nel 2012 dal colosso Facebook. Costo
dell’acquisizione: un miliardo di dollari. Quante persone lavoravano in
Instagram all’epoca dell’acquisizione? Tredici. Sicuramente un colpaccio
per la nascente economia dei selfie, che vive oggi la sua età dell’oro, ma
un terremoto per i tanti professionisti delle immagini: Instagram li sta
letteralmente spazzando via. Non a caso, nello stesso periodo la Kodak
chiude 13 fabbriche e 130 laboratori, lasciando a casa 47.000 dipenden1. Andrew Keen. Internet non è la risposta. Milano, EGEA, 2015.
2. Stacy Mitchell. “The truth about Amazon and job creation”, pubblicato il 29 luglio 2013 su
www.ilsr.org/amazonfacts
3. Come riportato da Brad Stone.Vendere tutto: Jeff Bezos e l’era di Amazon. Milano, Hoepli, 2014.
Le sfide della digital transformation
3
ti. Nel frattempo, i fotografi freelance boccheggiano e quelli assunti nelle
redazioni di giornali rimangono a casa. È sempre Keen a ricordarci come
“tra il 2000 e il 2012, il numero di fotografi e artisti che lavoravano nelle
redazioni dei quotidiani statunitensi è passato da 6.171 a 3.493. Un calo
del 43% in un periodo in cui le immagini sono più sexy delle parole e si
scattano triliardi di foto ogni anno”.
L’altro grande acquisto di Facebook, WhatsApp, offre dati se possibile ancora più evidenti: un’acquisizione di 19 miliardi di dollari per un’azienda
con appena 55 dipendenti. Per renderci conto del gap, pensiamo a colossi
della old economy come la storica catena di negozi al dettaglio Walmart:
attualmente il suo valore stimato è di 235 miliardi di dollari, e dà lavoro a
2,2 milioni di dipendenti. Se il rapporto fosse lo stesso di WhatsApp, l’intera Walmart dovrebbe stare in piedi con appena 680 persone in busta paga.
Per la cronaca, Facebook ha effettuato a giugno 2015 uno storico sorpasso su Walmart, raggiungendo una capitalizzazione in borsa di 245 miliardi di dollari. Il numero dei suoi dipendenti si attesta sui 10.000, confermando quindi il problema, seppur in un rapporto leggermente minore.
Non si tratta di esempi isolati: Tumblr, piattaforma che unisce l’immediatezza dei social media alla possibilità di creare contenuti propri tipica di
un blog, è stata rilevata da Yahoo! nel novembre 2014 per 1,1 miliardi
di dollari, e manteneva all’epoca 178 impiegati. Snapchat, il social dove
i contenuti postati si autodistruggono dopo dieci secondi, ha rifiutato
diverse offerte di acquisizione, tra cui quella da parte di Facebook per 3
miliardi di dollari. Numero dei dipendenti? 19. E l’elenco potrebbe continuare a lungo.
Tutti dati che sembrerebbero confermare le parole di David Brooks, giornalista del New York Times: “L’economia di Internet produce aziende con
pochissimi impiegati”.
“
Ubernomics
La preoccupazione
per il mondo
del lavoro come
l’abbiamo conosciuto
sino a oggi passa
anche attraverso la
cosiddetta ‘sharing
economy’.
„
La preoccupazione per il mondo del lavoro come l’abbiamo
conosciuto sino a oggi passa anche attraverso la cosiddetta
“sharing economy”, il modello economico basato sullo scambio e condivisione di beni e servizi reso possibile dalla Rete.
Nella sua accezione originaria, soluzioni quali BlaBlaCar (per
scoprire con chi condividere un passaggio in auto) o i siti di
“couchsurfing” (per cercare chi vi possa ospitare sul divano di
casa sua) proponevano un’alternativa sociale al consumismo,
permettendo di ottimizzare risorse, risparmiare e in alcuni
casi ridurre l’impatto sull’ambiente.
4
Capitolo 1
Nella sua nuova espressione, dal taglio decisamente capitalistico, la sharing economy si trasforma in qualcos’altro.
Molti di noi usano Airbnb e Uber. Il primo permette a chiunque di affittare un appartamento, una stanza o un alloggio, il secondo di affittare la
propria auto o mezzo di trasporto. Ebbene, si tratta di aziende che stanno
dando filo da torcere a interi settori professionali: Airbnb agli alberghi
e al settore turistico, Uber ai taxisti e a gran parte dei trasporti. Mentre
molti hanno paura di Taskrabbit, sito che mette in contatto la domanda
e l’offerta dei lavori manuali tipicamente domestici: commissioni, pulizie,
riparazioni, babysitting, dogsitting, fino ai traslochi.
Alan Murray, editor di Fortune e in realtà entusiasta delle nuove piattaforme digitali, ha dato un nome ai modelli di business messi a punto da Uber
e soci, battezzandolo non a caso Ubernomics.4
I critici contestano ferocemente il modello: a detta loro si tratta di un sistema ipercapitalistico dove poche aziende reclamano onerose percentuali su
ogni scambio effettuato e violano sistematicamente la legge non pagando
le tasse e/o non offrendo servizi con le tutele imposte dal caso. Il più attaccato è lo stesso Uber, che tra le altre cose sfrutterebbe i noleggiatori di auto
lasciando loro una quota troppo bassa, portando così gli “uberisti” a dover
effettuare un numero elevatissimo di corse per portare a casa qualcosa
che possa assomigliare a uno stipendio.
L’influente analista Mary Meeker, conosciuta tra gli addetti ai lavori come
“la regina della Rete”, è arrivata a sostenere che “pur con tutto l’impeto
della democratizzazione, Internet, nella sua forma attuale, non ha fatto
altro che sostituire i vecchi padroni con i nuovi, i quali hanno un potere di
mercato che, col tempo, sarà infinitamente più vasto di quello dei padroni
precedenti”.
Ne resterà soltanto uno
Nel 2004 Chris Anderson usciva con un articolo che avrebbe fatto la
storia dell’economia digitale, diventato presto un libro: The long tail. In
esso si sosteneva che il digitale avrebbe offerto un sacco di opportunità a
piccoli produttori di beni e servizi, in quanto la digitalizzazione avrebbe
portato vicino allo zero i costi di produzione e distribuzione, permettendo
così di produrre poche copie di un prodotto per venderlo e portare a casa
una gratificazione economica. Addirittura, le tantissime “microvendite”
avrebbero superato, se messe tutte insieme, la vendita dei prodotti best4. Vedi www.fortune.com/2014/12/29/uber-nomics. Considerato che la parola tedesca
“über” significa “oltre” o “al di sopra”, il neologismo può leggersi sia come “economia creata
da Uber”, sia come “economia che va oltre sé stessa”.
Le sfide della digital transformation
5
seller. Per fare un esempio, l’insieme dei libri fantasy scritti da autori di
nicchia venduti e distribuiti online avrebbe potuto battere le vendite della
serie di Harry Potter.
Spinta con l’idea secondo cui stessimo passando “da un mercato di massa
a una massa di mercati”, la coda lunga è diventata un punto di riferimento per moltissimi manager e imprenditori.
Negli ultimi anni però, la teoria di Anderson inizia a scricchiolare, ad apparire meno realistica. Forse troppo ottimista per alcuni. Un grande bluff
per altri. Perché?
Il punto è che il mercato digitale, se è vero che permette potenzialmente
a tutti di produrre e distribuire beni, non sembra altrettanto bravo nel
permettere a tutti di emergere, farsi notare e vendere effettivamente qualcosa. Anzi, potrebbe paradossalmente portare in direzione opposta: un
monopolio di mercato, dove per ogni settore esiste un colosso che domina
su tutti gli altri.
Il concetto è espresso in modo convincente da due economisti del MIT:
Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee in La nuova rivoluzione delle macchine.5
Secondo i due autori, in una situazione classica, chi acquista sceglie tra
prodotti secondo dinamiche di qualità/prezzo, quindi “se ci sono limiti
nella fornitura o costi significativi di trasporto, l’azienda miglior offerente
sarà in grado di soddisfare solo una piccola frazione del mercato globale.
Gli altri venditori meno qualitativi o di nicchia avranno anche loro un
mercato per i loro prodotti. Ma che succede se arriva una tecnologia che
permette a ciascun venditore di replicare i propri servizi e consegnarli
globalmente a costo zero o quasi? D’un tratto il fornitore con la massima
qualità potrà conquistare l’intero mercato. Il secondo potrà essere quasi
altrettanto valido o interessante, ma non conterà”.
La situazione si ripresenta se ci spostiamo dal fronte aziendale a quello del
singolo professionista, in quanto “un programmatore che scrive un’applicazione per scrivere le mappe un po’ migliore, che si carica più alla
svelta, ha dati più completi o icone più accattivanti, potrebbe arrivare a
dominare totalmente il mercato. La gente non sprecherà tempo o energie
sul decimo prodotto per qualità quando può avere il migliore”.
Avete mai sentito parlare di Ruzzle, l’app lanciata dagli sviluppatori della
Mag Interactive che permette di sfidare gli amici online nel comporre parole il più velocemente possibile? Sono quasi sicuro di sì.
5. A voler essere precisi gli autori riprendono e attualizzano molte idee già discusse da altri due
economisti, Robert H. Frank e Philip Cook, nel loro testo The winner-take-all society: why the few
at the top get so much more than the rest of us. New York, Penguin Books, 1995.
6
Capitolo 1
Avete mai sentito parlare delle decine di giochi online praticamente identici, e che sono stati lanciati prima, nello stesso periodo o successivamente
a Ruzzle? Sono quasi sicuro di no.
Il fatto è che Ruzzle era leggermente più giocabile, leggermente più accattivante, e probabilmente ha avuto un po’ più di fortuna sul momento di
lancio rispetto a qualsiasi altro.
Et voilà: chi vince piglia tutto. Agli altri, se va bene, le briciole.
La Media Consulting, agenzia che si occupa del rapporto tra media e tecnologia, ha pubblicato un report che raccoglieva i dati del mercato musicale globale, dal titolo eloquente: “La morte della coda lunga”.6 Come si
può vedere nella Figura 1.1, è emerso che il 77% degli incassi è finito nelle
tasche dell’1% degli artisti. Se conoscete la legge di Pareto, che da tempo
ha definito i rapporti di forza tra più forti e più deboli, e secondo la quale
l’80% delle risorse finisce nelle mani di un 20% di persone, c’è da restare
allibiti. Per chi non si trova nella hit parade di qualche classifica i conti
non vanno “maluccio” come prima: a leggere questi numeri sembrano
crollare in modo disumano!
Figura 1.1 Ð ÒThe death of the long tailÓ: i dati che mostrano la disparitˆ di introiti
tra gli artisti superstar del mercato discografico e tutti gli altri.
Nel caso specifico, si fa in fretta a ricomporre il quadro: la sovrabbondanza di titoli musicali che affollano i device e gli smartphone di chiunque
6. musicindustryblog.wordpress.com/2014/03/04/the-death-of-the-long-tail
Le sfide della digital transformation
7
in qualsiasi istante, grazie a colossi digitali quali iTunes e ai servizi di
streaming 24/24 come Spotify, Pandora o Deezer, spinge in definitiva
l’utente medio a limitare la propria ricerca verso contenuti già conosciuti
o comunque al top delle classifiche. Di tempo ce n’è poco, online si parla
degli stessi artisti, a livello nazionale o internazionale, le persone vogliono
discutere dei fenomeni del momento: sui social network diventa molto
più facile ricevere commenti e interazioni. Gli emergenti e quelli al di fuori
della top ten finiscono in un porto delle nebbie popolato da qualche amico
e parente, al limite conoscente capitato lì per puro caso. Insomma, la diversità esiste, è a portata di mano tanto quanto il best-seller, ma nessuno
se ne accorge, perché portata a interessarsi alla superstar, al vincitoreche-piglia-tutto.
Il cantante-icona dei Radiohead, Thom Yorke, è sempre stato un pioniere
amante del digitale. La band sconvolse la propria casa discografica, la
EMI, quando il 10 ottobre 2007 fece uscire l’album In Rainbows unicamente online, scaricabile con un’offerta libera. Eppure fu lo stesso Yorke a
dichiarare qualche anno più tardi che “i nuovi artisti non intascano nulla
con il modello Spotify”, togliendo successivamente dalla piattaforma tutti
i suoi brani da solista.
Tra le diverse implicazioni parrebbe così avverarsi la profezia dell’imprenditore e attivista digitale Eli Parisier che, dando alle stampe The
filter bubble,7 prevedeva un mondo dove le idee e convinzioni di ognuno
saranno solo rafforzate e non criticate. Secondo Parisier, in Rete troviamo
sempre meno opinioni discordanti, meno novità, e le eccezioni si autobandiscono. Questo perché le bacheche dei motori di ricerca e sui social
tendono a mostrarci ciò che già ci interessa e che apprezziamo.
Insomma, una coda cortissima di proposte tale da evocare una lobotomia
di pensiero, che arriveremmo ad autoinfliggerci, aiutati dai superalgoritmi consenzienti.
Gratis per sempre. Finché saremo noi la moneta
La pagina d’iscrizione di Facebook recita in modo chiaro: “Iscriviti. È gratis e lo sarà sempre”.
Come fa a reggersi una multinazionale basata sugli utenti senza chiedere
un minimo canone d’iscrizione? Con la pubblicità, direte voi.
Giusto, ma non solo.
I social media sono interessati a noi in quanto produttori, curatori e diffusori dei contenuti. Siamo noi a popolare le bacheche dei nostri amici
7. Eli Parisier. Il filtro. Quello che Internet ci nasconde. Milano, Il Saggiatore, 2012.
8
Capitolo 1
di attività interessanti. Da un certo punto di vista svolgiamo per Mark
Zuckerberg il ruolo quotidiano di creatori e curatori di contenuti, di digital
copywriter, di community manager e digital PR. In maniera inconsapevole, non professionale forse, ma in massa, senza sosta. Lo stesso accade
su qualsiasi altro social: quando carichiamo immagini su Instagram o le
condividiamo su Pinterest, cinguettiamo su Twitter o pubblichiamo post
di lavoro su LinkedIn.
Un aspetto tutt’altro che secondario nel successo di un’azienda social media: gli utenti si occupano dei contenuti, e lo fanno gratis. Da un punto di
vita di business è semplicemente geniale.
Durante i miei corsi di social media marketing sottolineo come i veri
competitor per le pagine aziendali di Facebook non siano tanto le pagine
concorrenti, bensì gli amici dei fan della vostra pagina. Diversi studi confermano (ma basterebbe il buon senso) come lo stesso identico contenuto
riscuota maggior successo quando pubblicato da un amico rispetto a una
pagina aziendale (al netto delle investimenti pubblicitari che mette in
moto la pagina).
È sempre Andrew Keen ad aiutarci a fare il punto, sostenendo:
“Diversamente da quanto accadeva per quella industriale, la qualità della
tecnologia stessa diventa secondaria. Nel dare avvio all’asta per l’acquisto
di Instagram, Facebook e Twitter non erano certo in competizione per
accaparrarsi i filtri fotografici economici e già pronti di Kevin Systrom
oppure il codice informatico realizzato insieme a Mike Krieger8 nel giro
di pochi mesi. Eravamo noi tutti il loro obiettivo: volevano accaparrarsi il
lavoro, la produttività, la presunta creatività che potevamo offrire”.
Il mio non è un discorso ideologico legato allo sfruttamento: sarei sfruttato da Facebook perché scrivo contenuti gratis? E allora? Non pago un canone proprio per questo. I problemi per gli utenti dei social sono e saranno
altri: privacy e dipendenze digitali in primis.
Ciò che preoccupa è il ruolo dei creatori di contenuti di professione: giornalisti, blogger, fotografi, videomaker e quelle professioni digitali legate ai
contenuti ed elencate poco fa.
La Rete sembra scoraggiare in tutti i modi chi si ostina a voler fare dei
contenuti, siano essi testi, immagini, video, una professione remunerata,
online e offline. Sarà davvero così?
8. Systrom e Krieger sono i cofondatori di Instagram.
Le sfide della digital transformation
9
Nuove prospettive
Ci troviamo dunque di fronte a uno scenario inquietante. Proviamo a
riassumere le principali criticità riscontrate:
f il mercato digitale ha un fabbisogno di persone e dipendenti scarsissimo;
f il mercato digitale distrugge le vecchie aziende creando il deserto
intorno a sé, tendendo verso la realizzazione di poche realtà dove
chi vince piglia tutto;
f il mercato digitale in versione Ubernomics sfrutta le persone;
f il mercato digitale uccide la diversità, anche professionale;
f il mercato digitale fa scomparire i professionisti dei contenuti.
C’è del vero in tutte queste affermazioni. Ma, a ben vedere, è anche possibile ribattere punto per punto.
Innanzitutto, se le aziende digitali hanno pochi dipendenti, hanno anche
dimostrato di poter creare interi ecosistemi professionali: nuovi lavori,
nuove startup e nuovi modelli di business nascono ogni anno proprio
grazie a colossi dell’innovazione tecnologica.
Riprendendo le parole di un esponente del digitale italiano, sono perfettamente d’accordo con il giornalista e imprenditore Marco Minghetti,
che sul blog “Le aziende invisibili” del Sole 24 Ore afferma: “Facebook dà
lavoro solo a 10.000 persone? Direttamente certo, ma quanti sono gli
imprenditori, le startup, le grandi e piccole aziende che lo utilizzano per
fare business e generare valore economico? Ammesso che del miliardo e
trecentomila milioni di utenti solo una percentuale minima trovi di che vivere grazie a Facebook, questa percentuale sarebbe comunque costituita
da un numero di persone che producono reddito molte volte superiore a
quello dei dipendenti di Walmart e in condizioni di autonomia, benessere,
creatività incomparabilmente superiori”.
Le professioni di questo libro, che riguardano solo una parte di tutti i ruoli
professionali che Internet è stata in grado di sfornare finora, ne rappresentano il chiaro esempio. I motori di ricerca hanno portato alla ribalta i
SEO, e con essi le agenzie e le aziende dedicate all’ottimizzazione dei motori
di ricerca. Le community online e i social media hanno creato ruoli quali
i community manager e i digital PR, mentre il mondo della pubblicità ha
visto nascere le professioni legate al digital advertising, che si stanno differenziando e si moltiplicano di anno in anno. Non dimentichiamo le statistiche e i “big data” che affollano le pagine in Rete: hanno un disperato
bisogno di web analyst, e-reputation manager e nuove figure emergenti,
quali il data scientist.
10
Capitolo 1
Nel mondo del lavoro si sta facendo strada un clima ottimistico: secondo
un’indagine pubblicata il maggio 2015 da Accenture Strategy, su 2.500
dipendenti interpellati (in aziende di diversi settori) il 57% è convinto che
le nuove tecnologie quali social, app, web analytics miglioreranno il loro
lavoro e le aspettative di impiego futuro. Interessante notare come la convinzione dei lavoratori italiani sia ben sopra la media, arrivando al 71%
dei consensi e superando di gran lunga la fiducia di britannici (al 47%), e
di tedeschi e francesi (al 46%).
I business leader si dicono ancora più fiduciosi: tra 500 top manager
interpellati, il 77% è consapevole che entro i prossimi tre anni l’impresa
dove lavora dovrà trasformarsi in un’impresa digitale, quindi rivedere
i processi di business in modo da farli funzionare tanto offline quanto
online. Anche qui i manager italiani sono in pole position: l’81% cerca di
muoversi in questa direzione.
Più o meno nello stesso periodo, l’osservatorio della divisione Digital &
New Media di Michael Page ha condotto un’analisi che mette insieme i
profili più richiesti del 2014 e le previsioni per il 2015,9 muovendosi su
un campione di 12.000 candidati. Ebbene, il digitale offre segnali più che
confortanti per lo sviluppo occupazionale: il trend di crescita oscilla tra il
20% e il 27% di anno in anno in base al ruolo specifico richiesto. Come
mostra la Figura 1.2, anche per quanto riguarda lo stipendio le cose iniziano ad assestarsi: partiamo da minimi di 40.000 euro all’anno per gli
junior e chi in generale ha messo piede sul digitale da pochi anni, fino a
toccare i 100.000 euro per chi milita da più di una dozzina di anni nel
settore.
Un’altra ricerca, questa volta realizzata dal Politecnico di Milano10 e
orientata in particolare sugli obiettivi del settore delle risorse umane,
tratteggia anche altre figure professionali, evidenziando il gap tra offerta
e domanda presente nel nostro Paese: le aziende avrebbero bisogno di
persone con le competenze giuste ma faticano a trovarle, tanto che spesso
devono cercarle all’estero.
Si tratta di figure di taglio manageriale e direzionale. La più corteggiata
in assoluto nel 2015, secondo i 100 direttori del personale delle aziende
interpellate, sarebbe l’eCRM & profiling manager, colui che si occupa di
ottimizzare l’efficacia delle relazioni con i clienti attraverso il digitale e
lavora coordinando uno o più community manager. La sta introducendo
il 17% delle aziende interpellate.
9. www.michaelpage.it/productsApp/brochure/MP_DIGITAL.pdf
10. In particolare, dall’osservatorio HR Innovation Practice della School of Management del
Politecnico. Lo studio, dal titolo “HR Digital Leadership”, è riassunto da un’infografica a questo
link: bit.ly/1fvOYP8
Le sfide della digital transformation
11
Figura 1.2 – Digital jobs: alcune tra le figure digitali più richieste secondo
Michael Page tra il 2014 e 2015 e rispettive retribuzioni medie.
Richiestissimo ma quasi introvabile (non riesce a reperirlo quasi la metà delle aziende) è il chief innovation officer, che ha la responsabilità di
proporre modelli innovativi di business per sfruttare le risorse digitali a
disposizione. Stesso discorso anche per il data scientist, professione che
tratteremo al termine di questo libro: colui che va a caccia dei trend socioculturali aggregando fonti di dati ed elabora le informazioni raccolte in linee guida di grande aiuto per lo sviluppo di scelte strategiche consapevoli.
L’istantanea offerta è quella di un mercato in puro fermento, dove le occasioni sono in moto e crescono con agilità.
Anche la seconda criticità, ovvero il mercato digitale come distruttore e
desertificatore del lavoro tradizionale, dove chi vince si accaparra tutta la
torta, appare ridimensionata. Ma possiamo fare di meglio: ribaltarla. Per
farlo dobbiamo osservare attenzione la città-simbolo dello tsunami digitale: Rochester. La vecchia patria della Kodak.
Andrew Keen, nel raccontare lo sfacelo prodotto da piattaforme come
Instagram e Pinterest, si dimentica un particolare che cambia comple-
12
Capitolo 1
tamente lo scenario: successivamente alla miriade di licenziamenti, sono
arrivate a frotte nuove opportunità di lavoro per gli ex dipendenti, che
sono stati assunti in nuove aziende legate in particolare alla fotonica e
all’ottica, o si sono addirittura trasformai in startupper digitali. Federico
Rampini, editorialista e lucido osservatore (all’occorrenza molto critico)
di Internet, ce ne parla così nel suo libro Rete padrona11: “Il futuro bussa
sempre due volte. Un’ecatombe come quella avrebbe potuto trasformare
Rochester in una città fantasma. Invece la catastrofe annunciata non si è
verificata. Anzi, proprio quei lavoratori qualificati che la Kodak ha mandato via sono diventati il giacimento di talenti che ha alimentato il fiorire
di startup”. Un ruolo decisivo si è poi rivelato quello della stessa Kodak, in
quanto “anziché offrire ai suoi tecnici e ricercatori delle buonuscite verso
il pensionamento anticipato, l’azienda ha incoraggiato gli ‘spin out’, cioè
l’uscita finalizzata alla creazione di altre imprese”.
Rampini conclude con una considerazione che dovrebbe essere condivisa
sul desktop di PC, smartphone e tablet di qualsiasi imprenditore italiano
della vecchia guardia, oggi in difficoltà a causa del digitale: “Perché non
è mai stata pensata in Piemonte, nei luoghi dove si è ristretta la Fiat e
tuttavia poteva nascere un distretto mondiale del design automobilistico? Perché si è preferito saccheggiare gli ammortizzatori sociali a spese
del contribuente invece di seguire i comportamenti virtuosi della Kodak,
che ha accompagnato i propri ex ingegneri sulla via della rinascita come
piccoli imprenditori? C’è ancora tempo per studiare il modello Rochester,
vista la quantità di zone d’Italia dove la grande impresa ha alzato bandiera bianca”.
E ancora, per quanto riguarda l’economia delle superstar incentivata dalla Rete, dove gli unici a vincere sono coloro che propongono un prodotto
leggermente migliore o al momento giusto: è verissimo, ma è altrettanto
vero che la stessa Rete pone tutti gli altri in condizione di poter superare le
superstar, sempre che riescano a trovare soluzioni che rendano obsolete
quelle finora sul podio.
Facebook ha da poco reso pubblico un libretto analogico, scherzosamente
battezzato “Il libretto rosso di Facebook”, dove sono racchiusi i valori e
i principi che guidano Mark Zuckerberg e tutti i dipendenti dell’azienda
leader tra i social network.
Circola tra le scrivanie dal 2012, da quando gli iscritti hanno superato
il miliardo. Ben Barry, communication designer e leader del Facebook
11. Federico Rampini. Rete padrona: Amazon, Apple, Google & Co. Il volto oscuro della rivoluzione
digitale. Milano, Feltrinelli, 2014.
Le sfide della digital transformation
13
Analog Research Laboratory,12 ne ha mostrato alcune pagine. In una
campeggia una scritta: “Se non creeremo noi qualcosa che ucciderà
Facebook, qualcun altro lo farà”. La frase viene argomentata spiegando
come Internet non sia un posto amichevole: se le persone non si trovano
a loro agio nella vostra piattaforma e trovano qualcosa che reputano migliore, possono abbandonarvi senza tanti complimenti. Il concetto viene
ribadito in un’altra sezione del libretto, che possiamo vedere in Figura 1.3,
dove si dichiara: “Ricordate: le persone non usano Facebook perché gli
piacciamo noi. Usano Facebook perché gli piacciono i loro amici”.
Figura 1.3 – “People don’t like Facebook.” Due pagine tratte dal “libretto rosso”
di Facebook.
Andiamo avanti. Che cosa rispondere a chi si accanisce contro la
Ubernomics, il modello che ha portato Uber, Airbnb e altre realtà emergenti sulla cresta dell’onda? La faccenda è dannatamente seria: i tassisti
sono in rivolta in mezzo mondo, a partire proprio dall’Italia, dove Uber
Pop (le versione più economica del servizio) è stato messo in quarantena
in quanto considerato in concorrenza sleale rispetto ai taxi, e quindi dichiarato illegale. Situazioni analoghe si sono verificate in Francia, dove
sono stati arrestati due dirigenti di Uber, e addirittura negli Stati Uniti,
dove la piattaforma è nata, in seguito a proteste violente che hanno messo
a ferro e fuoco le strade di grandi città. Sul fronte degli alloggi, le catene
alberghiere si lamentano perché i loro clienti o ex tali possono trovare
stanze senza intermediari, direttamente a casa delle persone. Anche le
agenzie di viaggio sono in seria difficoltà: perché pagare i loro servizi
12. www.facebook.com/analoglab
14
Capitolo 1
quando basta un’app per progettarsi un viaggio su misura completo di
itinerari, prenotazioni, spostamenti, biglietti e persino il valore aggiunto
del divertimento e del senso di scoperta offerto dalle persone in loco raggiungibili in modalità social?
La risposta, seppur difficile da dimostrare dati alla mano (proprio perché
si tratta di modelli che non esistevano fino a una manciata di anni fa),
è semplice: queste realtà non creano lavoro nel modo in cui siamo stati
abituati a pensare dalla rivoluzione industriale in poi. Oltre ai pochi, competenti e fortunati dipendenti di Uber e Airbnb, esiste anche qui un tipo di
occupazione inedita: guadagnano affittando mezzi di trasporto e luoghi
dove soggiornare. Mentre il già citato TaskRabbit e piattaforme simili
hanno portato negli USA milioni di persone a mordere l’immobilismo di
lavanderie, poliambulatori, fiorai, aziende di manutenzione e riparazione.
Probabilmente a breve troveremo un nome per questo tipo di lavoro, parzialmente autogestito, con vincoli differenti, qualcosa che si avvicinerà al
concetto di “partner professionali”. Ma non possiamo rifiutare il fatto che
si tratti di occasioni concrete.
A patto però, e su questo do ragione agli scettici, di regolarizzarle e di
trovare modelli che guardino con maggiore attenzione ai diritti e anche
agli incassi dei partner professionali. Chi investe tempo e risorse per offrire
passaggi, alloggi e manodopera non può farlo gratis, né senza garanzie, né
con percentuali misere o troppo ondivaghe.
Per quanto riguarda la coda lunga e la diversità, vanno distinte. Sembra
assodato che la long tail non possa applicarsi in tutti gli ambienti di
mercato, ma sposarsi solo in certe situazioni particolari, come negozi di
nicchia, outlet, produttori di oggetti cult.
Da qui a gridare alla “scomparsa della diversità” ce ne passa. Le persone
mal sopportano la troppa omologazione e i pensieri a senso unico. I vincitori e le personalità di grande potere, le superstar, sono anche quelle viste
con maggior sospetto e più criticate. La storia del Novecento è piena di
narrazioni affascinanti che collegano i nuovi media a sistemi totalitaristici
e spaventosi, racchiudendole in capolavori della letteratura quali 1984 di
George Orwell, Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, Mondo nuovo di Aldous
Huxley e Ubik di Philip K. Dick, giusto per citare i preferiti del sottoscritto.
Per ora l’occhio del Grande Fratello (non quello televisivo, che riguarda
un’altra storia), gli agenti che bruciano i libri e la cultura, i manager
ridotti a schiavi drogati e la pubblicità che sostituisce le forme di amicizia
si sono rivelate previsioni tanto forti quanto fantasiose, distopie nel senso
letterario del termine: situazioni impossibili in negativo, troppo brutte per
essere vere. Tendiamo forse ad avvicinarci, ma questo non significa che ci
arriveremo davvero.
Le sfide della digital transformation
15
Consideriamo inoltre che l’ingresso di Internet come medium di massa, o
meglio come un insieme integrato di diversi media di massa, è straordinariamente recente. Noi tutti possiamo ancora considerarci degli analfabeti
digitali, dei bambini che maneggiano congegni potenziati troppo rapidamente nel volgere di una mezza generazione. Fatichiamo a organizzare la
vita quotidiana, ci facciamo deliberatamente invadere da notizie e notifiche inutili e ridondanti, non capiamo più dove siano i limiti tra strumenti
lavorativi e personali, dato che le informazioni utili alla nostra vita arrivano tutte dallo schermo di un unico oggetto che teniamo in tasca ogni
momento della giornata. Le stesse attitudini digitali che si affronteranno
nel secondo capitolo di questo libro, e gli studi sulle “digital soft skill” che
iniziano a fare capolino dagli studi di consulenza più prestigiosi, sono primi passi che dovranno essere integrati, rivisti, completati con forza negli
ultimi anni, per creare professionisti digitali esperti e capaci, e soprattutto
cittadini digitali consapevoli.
È quindi lecito immaginare che a breve inizieremo a utilizzare i canali
digitali in modo migliore, e impareremo a orientarci oltre le hit parade
dei prodotti e servizi più venduti, di cui tutti parlano. Arrivano momenti
in cui le persone hanno una dannatissima fame di diversità. Altrimenti si
annoiano.
Resta infine la questione della scomparsa delle professioni legate ai contenuti, assediate dai creatori e curatori di contenuti non professionisti,
ovvero chiunque usi la Rete e i social media.
In questo caso mi viene in mente la storia di Dave Carr, tra i più grandi
giornalisti del New York Times dell’ultimo decennio, professionista fuori
dagli schemi e dallo stile sferzante, venuto purtroppo a mancare nel febbraio 2015. Carr era uno strenuo difensore del modello cartaceo. Non
mancava mai di sottolineare come la maggior parte dei contenuti digitali
fosse inevitabilmente ripresa dai grandi giornali che per primi lanciano
le notizie principali. Senza di loro, testate online orgogliose di pubblicare
notizie “della gente per la gente”, quali Huffington Post e Gawker, si ridurrebbero a “una sorta di groviera piena di spazi vuoti”. È rimasto convinto
delle sue idee, anche quando ha accettato di utilizzare Twitter come fonte
di notizie. Le sue argomentazioni sono ancora solide, e lo dimostra la figuraccia che ha fatto fare durante diverse interviste e talk show ai pionieri
dei modelli di giornalismo digitale “dal basso”, facendoli apparire come
dei roditori perlopiù privi di idee originali.
Ma i pionieri si stanno attrezzando. Le startup giornalistiche migliorano la
loro offerta, cercando di intercettare soprattutto il pubblico più giovane,
e sembra che inizino a prosperare, riuscendo nell’impresa di guadagnare
sia lettori sia finanziatori. Ecco un trittico di testate da tenere d’occhio
16
Capitolo 1
per prendere spunto su come indirizzare la propria strategia e convincersi
che i creatori di contenuto non sono ancora morti: Vice News, BuzzFeed e
Vox.com. Per tutte loro il 2014 è stato l’anno della consacrazione, il 2015
quello dell’espansione. Tra tutte spicca Vice News, capeggiata da Shane
Smith, un vero personaggio mediatico che si infuria se qualcuno osa dargli del “giornalista”. L’azienda lavora su racconti di storie a forte impatto
emotivo, sfruttando canali come YouTube per creare video-reportage dal
taglio innovativo che hanno toccato ormai il milione e mezzo di iscritti.
A livello di occupazione occupa oltre 100 redattori in 35 uffici intorno al
mondo: non molto rispetto agli standard di altre grandi testate, ma il tasso
di crescita è continuo, così come per il numero di collaboratori freelance
esterni.
Possiamo quindi affermare che il mercato digitale è certamente colmo di
rischi, sta provocando cambiamenti pericolosi e molti licenziamenti, ma
è anche in grado di sfornare opportunità in modo consistente, a volte in
modi e luoghi che non ci saremmo aspettati.
Ma in realtà, la più grande minaccia per i creatori di contenuti, online e
offline, oltre che per tutti gli altri professioni digitali, e in definitiva per la
maggior parte dei professionisti come oggi li conosciamo, la dobbiamo
ancora trattare.
Sono le macchine.
La sfida della convivenza con le macchine
“È davvero così bravo?”
“Te lo posso assicurare. È una macchina nel suo lavoro!”
Non è un caso se molti rispondono in questo modo per indicare l’estrema
Da quando competenza, efficacia e rapidità di una persona nello svolgere un
l’automazione compito. Se guardiamo oltre la metafora, notiamo un modo di pensaè entrata re radicato nelle ultime generazioni: una persona in grado di lavorare
con prepotenza come un simulacro artificiale è più produttiva.
nelle nostre vite, Da quando l’automazione è entrata con prepotenza nelle nostre vite,
noi esseri umani noi esseri umani competiamo con loro. All’inizio dell’Ottocento si
competiamo diffuse tra gli operai un movimento che si prefiggeva di sabotare e
distruggere sistematicamente i filari e gli altri macchinari della rivocon loro.
luzione industriale: dal mitico fondatore Ned Ludd13 prese il nome
di luddismo. La motivazione era data dal calo degli stipendi e della stessa
manodopera.
“
„
13. Non si è certi della sua esistenza. I più reputano che fosse una figura leggendaria che servì
a spronare gli operai in battaglia.
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