“Uguali e diversi”
Diritti di cittadinanza
in un contesto multiculturale
Prof. Nicola Colaianni
Villa Elena, Affi (VR)
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La Fondazione Elena da Persico,
ispirandosi particolarmente al pensiero di
Elena da Persico (1869 –1948), giornalista
e collaboratrice di Giuseppe Toniolo
in ambito sociale, ha, tra i suoi scopi,
“la promozione di iniziative sociali e culturali
per una crescita della società secondo i valori
della solidarietà cristiana”
Con piacere inviamo la relazione
del prof. Nicola Colaianni,
docente di Diritto Ecclesiastico
della Facoltà di Giurisprudenza
dell’Università di Bari, già
magistrato della Corte Suprema
di Cassazione, a quanti hanno
partecipato all’iniziativa della
Fondazione e ai simpatizzanti
della stessa.
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“UGUALI E DIVERSI”
Diritti di cittadinanza
in un contesto multiculturale
Affi, 24 marzo 2007
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Premessa
Grazie dell’invito. Io credo che dei problemi posti dai
rapporti tra uguaglianza e diversità sia necessario parlare in
tutti gli ambienti, perché bisogna costruire una nuova idea di
cittadinanza. Credo sia opportuno che ognuno di noi dia il suo
apporto a questo dibattito.
Quindi vi ringrazio perché mi date l’opportunità di
contribuire con qualche mia riflessione ad affrontare questo
tema.
Le diversità
Il problema in realtà è questo: noi siamo abituati da due
secoli a questa parte, dalla Rivoluzione francese, a considerare
l’uguaglianza come la bussola e come uno dei principi
fondamentali della nostra coesione sociale. Tuttavia, negli
ultimi decenni si sono verificate tali emigrazioni di popoli e
soprattutto una tale globalizzazione, che è anche di carattere
culturale non soltanto economico, per cui sono emerse delle
diversità nello stesso territorio, specialmente nella nostra
Europa e nell’America del nord, di modo che quelle diversità,
che fino a qualche decennio fa erano confinate in territori
distinti, adesso entrano in contatto con quelle che noi
consideriamo legittimamente le nostre radici.
Assistiamo quindi ad un fenomeno di spaesamento. È un po’
come quando noi italiano andiamo in Alto Adige. Non si parla
correntemente italiano e quindi ci chiediamo: ma non è Italia
qui? No, ci ritroviamo nello stesso Stato però lì in maggioranza
non sono italiani, hanno una cultura tedesca. Molti perciò non
andavano a villeggiare in Alto Adige, andavano in Trentino,
dove si parla italiano, per non sentirsi spaesati.
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Questo fenomeno, che prima si aveva soltanto nelle regioni
di confine, adesso è un fenomeno che sta nelle nostre città.
L’Esquilino a Roma è un quartiere da dove i romani vanno via,
perché le case costano meno ma sono abitate ormai in
prevalenza da coreani e asiatici in genere, che si sono
impossessati del quartiere. A San Salvario a Torino è la stessa
cosa.
L’identità
Questo fenomeno mette in crisi la nostra identità. Ecco
allora la necessità di affrontare il tema dell’uguaglianza e della
diversità.
Ci troviamo di fronte a nuove identità che chiedono un
riconoscimento pubblico. Alcune di esse sono vere, altre sono
false. Anche le false identità chiedono il riconoscimento.
Le identità vere sono le identità culturali, le identità
religiose, le identità linguistiche.
L’Unione europea - dice la Carta di Nizza sui diritti del
cittadino europeo, che poi è stata trasfusa in quel progetto di
Costituzione che speriamo prima o poi venga approvato dopo i
referendum negativi in Francia e in Belgio - rispetta la diversità
culturale, religiosa e linguistica.
Cultura, religione e lingua sono molto spesso intersecate tra
di loro. Ogni religione provoca cultura, ma molte culture hanno
un collegamento con la religione. Molte religioni sono però
totalizzanti. Pensiamo all’Islam per esempio, che coincide
anche con una lingua. L’italiano che si vuole convertire
all’Islam prende anche un nome arabo, perché quella è la
lingua di Dio. Rispetto a tutte le altre lingue quella è la lingua
sacra. La religione inoltre si identifica con una cultura e quindi
non lascia spazio alla legittima molteplicità di opzioni culturali
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e politiche come noi siamo abituati a pensare col cristianesimo
in occidente, grazie alla diffusione del principio di laicità.
Si hanno quindi delle identità forti, culturali, religiose e
linguistiche che chiedono un riconoscimento pubblico.
Un politologo americano Michael Walzer diceva anni fa, in
un libro che l’editore italiano ha significativamente intitolato:
“Che cosa significa essere americani”, che ciò che è importante
nella società americana, del Nord America, è ciò che sta a
sinistra del trattino. Gli americani si qualificano, infatti, con il
trattino: afro-americani, italo-americani, anglo-americani,
ispano-americani, ecc. Diceva Walzer che quello che identifica
l’americano è ciò che sta a sinistra del trattino: cioè afro, italo,
ispanico, ecc., mentre ciò che è a destra - americano - è quel
complesso di principi di coesione politica senz’altro
importante, perché rappresenta la misura della realtà che ogni
cittadino deve avere per la patria americana, ma non è ciò che
tocca il cuore. Il cuore sta a sinistra, il sentimento sta lì e sta
nell’essere africani, nell’essere italiani, nell’essere irlandesi e
così via.
Nella società americana queste identità forti si manifestano
già da decenni, praticamente da quando si sono formati gli Stati
Uniti. Ma, grazie al fenomeno di globalizzazione comunicativa,
ormai si affermano anche in altri contesti, che in passato, da
secoli, erano contesti mono-culturali. Oggi, ha scritto un
antropologo, Appadurai, in Germania, dove c’è una forte
comunità turca che raggiunge qualche milione di abitanti, un
turco può continuare benissimo a essere quello che è: andare
nel suo posto di lavoro e comunicare in tedesco, regolarsi
secondo le leggi tedesche, e poi grazie ad una televisione
satellitare, per esempio, vedersi tutti i film, tutti i programmi,
tutti i telegiornali del suo paese d’origine. Tornato a casa con la
moglie e con i figli, parlerà nella sua lingua originaria. Quindi,
in fondo, non assimilerà più la lingua e la cultura del popolo
tedesco.
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Da noi, in passato succedeva invece che chi trovava
finalmente posto in una fabbrica di Milano, dopo qualche
mese, in maniera artificiosa assumeva già la parlata milanese,
perché era un momento di emancipazione. Lui doveva
assimilarsi al lombardo, al milanese: in fondo lì aveva trovato
la sua identità, aveva trovato il posto di lavoro, aveva trovato
una rete sociale che lo accoglieva e che lo faceva sentire
cittadino. Voleva perciò manifestare con questo accento
milanese, appena dopo qualche mese, la sua nuova identità.
Adesso però non succede più, non solo per i meridionali che
vanno al nord, ma neanche per il turco, per il marocchino, per
il senegalese che viene dalle nostre parti, perché ciascuno
coltiva le sue relazioni nell’ambito della propria comunità e
quindi vuole che venga rispettata questa identità e vuole anche
degli spazi pubblici in cui possa manifestarla. Se è religioso
vorrà insieme agli altri correligionari avere un luogo di culto,
avere la moschea.
Noi siamo abituati invece a dare i sussidi pubblici soltanto
alle nostre chiese, o a qualche sinagoga se c’è qualche ebreo,
ma non siamo abituati a pensare che si debba fare una moschea
e costruire addirittura un minareto o cose del genere. Ci sono
proposte di legge leghista che cercherebbero di vietare che si
possano costruire moschee se non uniformandole al contesto
architettonico del Paese: praticamente fare delle chiese e non
delle moschee.
Poi ci sono anche delle false identità. Le false identità sono
quelle che noi ci costruiamo attraverso gli strumenti nuovi del
comunicare, attraverso Internet, attraverso un meticciato
culturale artificioso.
Anni fa fece il giro dei giornali una vignetta sul New-Yorker
in cui si vedevano due cani davanti ad un computer, connesso
con Internet. Un cane diceva all’altro: “Il bello di internet è che
io posso scrivere e nessuno sa che sono un cane”.
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Effettivamente l’identità attraverso internet non si riconosce
più. (Può darsi però che prima o poi ci si arrivi).
Ci sono false identità, poi, che nascono da una
contaminazione artificiosa e strumentale. Questo avviene
specialmente a livello politico con i teo-con della destra
americana, ma anche della destra italiana. Per un certo periodo
abbiamo avuto addirittura un presidente del senato che si
faceva paladino di questo movimento. Oggi, lo possiamo dire
(prima era difficile perché poteva sembrare una polemica
antiistituzionale e i capi delle nostre istituzioni vanno sempre
rispettati per il rispetto dovuto alle istituzioni) perchè Pera è
solo un deputato: egli non ha esercitato secondo il dovuto
quella funzione nel momento in cui – sposando la tesi di un
cristianesimo secolarizzato, intessendo dialoghi con l’allora
cardinale Ratzinger sulla base di un cristianesimo di cui
assumeva soltanto alcuni spunti etici e non la sostanza perché
si dichiarava naturalmente non credente e laico – ha con
l’autorità dell’istituzione che rappresentava accreditato una
falsa identità, perché costruita su un cristianesimo parziale.
C’era per esempio, nel quadro di una consonanza con
Giovanni Paolo II sulle radici cristiane dell’Europa come
barriera contro l’Islam, una critica forte alle sue posizioni sulla
pace: siccome l’impegno del Papa per la pace non gli andava
bene, insegnava al Papa cos’era in realtà il cristianesimo.
Queste sono delle false identità che si vanno ormai
costruendo nella nostra società, la quale diventa una società
liquida, come dice Bauman, in cui non sappiamo bene quali
siano le effettive identità, perché tutto è soggetto a
liquefazione. Abbiamo dei non credenti che insegnano al Papa
come si deve fare il Papa, abbiamo dei credenti che vogliono
chiedere al Parlamento di rispettare non soltanto la loro fede,
ma una certa loro visione dei problemi etici, dimenticando che
c’è una Costituzione che detta i principi e le regole del gioco. I
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parlamentari devono rispondere innanzitutto alla Costituzione
se vogliono essere fedeli al loro mandato.
Il riconoscimento delle identità
Queste identità, alcune vere e altre false, chiedono un
riconoscimento pubblico: cioè, coltivate nel privato, nella
famiglia, nelle associazioni, non si accontentano di essere
essere rispettate ma chiedono di essere pubblicamente
riconosciute.
La ragazza musulmana vuole portare il velo anche a scuola,
non solamente per strada: chiede un pubblico riconoscimento.
Il cristiano, il cattolico chiede che ci sia il Crocifisso nelle
scuole. Anche quello è il riconoscimento di una identità che
non è di tutti. In certe comunità si chiede di poter praticare le
mutilazioni genitali femminili alle bambine perché ciò è
interpretato come un rito che rappresenta l’ingresso della
bambina nella più vasta comunità, quindi un riconoscimento
pieno della identità. Così come del resto per gli ebrei è normale
la circoncisione dei maschi.
Qualcuno poi comincia a chiedere anche il
ricongiungimento al coniuge musulmano che lavora in Italia da
parte di quella che è la sua seconda moglie. E questo crea un
altro problema per il nostro Paese. Possiamo riconoscere il
ricongiungimento ad una persona che, secondo il nostro diritto,
non può essere sposata, proprio perché il marito è già sposato
con un’altra donna?
Oppure si possono avere casi in cui si chiede che nella
scuola pubblica si abbiano delle classi formate in maniera
omogenea per alunni che hanno la stessa religione: per esempio
le classi islamiche. A Milano è sorto un problema di questo
genere a cui si è cercato di dare delle risposte: ma abbastanza
controverse.
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Quali le risposte a questi problemi?
Quali sono le risposte che possiamo dare a questi problemi?
Schematizzando, potremmo dire che ci sono due risposte
tradizionali e storicamente radicate in due Paesi: la Francia e il
Regno Unito.
1. Il Regno Unito è un Paese di tradizione imperiale e
quindi Londra è stata per secoli il centro di commerci, di
culture, di etnie. Era la capitale del Commonwealth e quindi ha
sempre consentito nella sua tradizione che le varie comunità
etnico-religiose potessero vivere con ordinamenti propri,
specialmente nel campo delle convinzioni più eticamente
sensibili: la famiglia, il matrimonio, le scuole.
In questo campo l’Inghilterra riconosce l’efficacia civile di
matrimoni religiosi, fatti secondo le forme che le varie culture,
le varie comunità esistenti nel suo territorio tradizionalmente
concepiscono. Oppure consente che si possono formare classi
formate da alunni di una sola religione e così via.
L’Inghilterra è arrivata anche oltre: ha riconosciuto, in una
legge recente, che persone religiose, i sikh, i cui maschi non
possono tagliarsi i capelli e quindi portano un turbante per
raccoglierli (ma lo portano tutti, anche quelli che i capelli non
li hanno più, perché il turbante è un segno religioso), possano
andare in motocicletta senza mettersi il casco. Una norma
dettata per la sicurezza sulla strada viene così derogata
addirittura per motivi di carattere religioso.
Si potrebbe dire che il motto del Regno Unito è “Fate pure,
l’importante è che assicuriate la coesione politica e l’ordine
pubblico”.
Naturalmente questa concezione è entrata in crisi dopo
l’attentato alla metropolitana, perché ci si è resi conto che a
compiere quegli attentati non erano dei kamikaze venuti
dall’Oriente come alle torri gemelle di New York, ma erano
ragazzi inglesi, cresciuti ed educati in quelle famose classi
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islamiche e nelle loro comunità e quindi erano figli di Londra,
di origine diversa e di cultura diversa. Erano stati proprio loro a
fare quegli attentati alla metropolitana.
Allora è entrato in crisi il patto, che riconosceva
pubblicamente queste diversità, perché dall’altra parte l’ordine
pubblico non è stato affatto rispettato.
Anche l’Inghilterra allora comincia a tornare indietro: sulle
classi omogenee per esempio c’è un forte ripensamento, nel
senso che si incomincia a vietarle.
La risposta tradizionale inglese è di carattere
comunitaristico, nel senso che riconosce le varie comunità. Al
limite, se dovessimo adottare questo schema, potremmo avere
comunità islamiche, in cui è possibile avere matrimoni
poligamici, e comunità cattoliche, in cui invece è impossibile
avere il divorzio. Del resto, in Italia si cercò 35 anni fa da parte
della Chiesa di ottenere che il divorzio valesse soltanto per i
matrimoni civili e non anche per i matrimoni religiosi con
effetti civili. Una regola simile, se fosse stata adottata, sarebbe
stata una soluzione all’inglese.
La soluzione fu diversa, giustamente, perché i diritti di
cittadinanza sono uguali per tutti, qualunque sia la forma di
matrimonio che abbiano scelto a suo tempo. In un caso si
chiama divorzio, nell’altro caso si chiama cessazione degli
effetti civili, però gli effetti sono gli stessi.
2. Una seconda risposta è quella della Repubblica francese.
La Francia è una comunità che ha un suo ruolo nella storia,
una comunità di destino.
Il preambolo della Rivoluzione Francese dice: “La Francia è
una repubblica democratica laica”. È l’unico stato che usa già
nel preambolo della sua Costituzione questo aggettivo. La
Francia vuole quindi che tutti quanti i cittadini abbiano uno
statuto identico. Ogni abitante dell’ex impero francese può
chiedere la cittadinanza francese, però in questo caso si deve
adeguare a quella che è la legge uguale per tutti.
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Tre anni fa si è avuta una legge, la legge Stasì, dal nome
della Presidente della commissione che l’aveva elaborata,
secondo cui non è possibile portare negli spazi pubblici, in
particolare nelle scuole, dei segni di carattere religioso in
maniera vistosa. Quindi sono vietate grosse croci, oppure il
velo delle ragazze islamiche e così via.
Questa è un’altra impostazione: non si riconoscono più le
diversità, ma vale l’uguaglianza soltanto. Mentre nel Regno
Unito ci sono soltanto le diversità, qui la soluzione è opposta.
Soluzione con falle vistose, perché la Francia, in alcuni
territori d’oltremare, ammette che si possa andare con il velo a
scuola. Quindi quella legge vale soltanto per la Francia
europea, non vale per gli altri paesi. La Francia è anche il paese
che finanzia regolarmente, purchè rispettino alcuni standards
qualitativi, scuole private, anche di carattere confessionale,
ponendosi in maniera abbastanza contraddittoria con il
principio di laicità dello Stato.
Le risposte dell’Inghilterra e della Francia, che prospettano
soluzioni di carattere diametralmente opposto, non riescono
quindi a bilanciare sicuramente l’uguaglianza e la diversità.
Si può essere uguali e diversi?
È possibile bilanciare uguaglianza e diversità? Io penso di
sì. La nostra Costituzione consente questo bilanciamento: cioè
si può essere uguali e diversi. E questa è la sfida del giorno
d’oggi: da un lato riconoscere le diversità, ma dall’altro
salvaguardare quel nucleo fondamentale di valori che fanno
corpo con la democrazia e che quindi rappresentano il nostro
fattore di coesione sociale. Senza questi valori la nostra società
si frammenterebbe in tante comunità quante sono quelle
esistenti nel nostro territorio. E quindi non saremmo più uguali.
L’uguaglianza ha una tensione universalistica che ci mette
davvero tutti sullo stesso piano, che non mette nessuno alla
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mercé del suo gruppo confessionale, del suo gruppo culturale,
della sua minoranza linguistica. Questa è la conquista davvero
importante dell’uguaglianza che non consente che ci siano dei
nuovi príncipi, come possono essere le formazioni sociali:
chiese, confessioni religiose, partiti, sindacati, ecc., perché
questi nuovi príncipi dominano chiunque aderisca al credo, allo
statuto del partito, ai regolamenti anche non scritti e così via.
L’uguaglianza rende possibile al giudice di entrare
all’interno di questi gruppi per sindacare se sono almeno
salvaguardati i diritti fondamentali della persona.E questa è una
conquista che dobbiamo cercare di salvaguardare.
D’altro canto, l’uguaglianza non significa appiattire tutti
quanti e non riconoscere le diversità, perché non abbiamo
bisogno di una società come quella della rivoluzione culturale
cinese, in cui tutti si vestivano alla stessa maniera e quindi
venivano appiattite le differenze: addirittura la differenza di
genere.
L’idea di laicità pluralista
In questo senso io credo che bisognerebbe mandare avanti
una idea che la nostra Corte Costituzionale ha da tempo
enunciato: l’idea di laicità, ma intesa in senso pluralistico.
Il termine “laicità” è scritto nella Costituzione francese,
laicità è anche quella inglese, laicità è quella americana (anche
se lì il termine usato è piuttosto “separatismo”). Però nel caso
francese la laicità è di carattere esclusivista, perché cerca di
escludere le differenze nello spazio pubblico; quindi è una
laicità in qualche modo ostile alle persone, alle loro identità.
Una ragazza islamica, che entra nella scuola e si sente vietare
dal dirigente scolastico il porto del velo, avvertirà questa laicità
come un fatto ostile alla sua identità: “Perché non posso vestire
come penso di dover vestire?”.
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Una ragazza inglese questi problemi non li troverebbe, in
linea di massima. Anche se l’Inghilterra, con il ripensamento in
atto ha cominciato a concedere alle scuole e ai presidi la
possibilità di non far entrare in classe le ragazze con il velo.
Ma anche questa laicità accogliente non è priva di problemi per
gli inglesi: si tratta comunque di trovare qualcosa che
accomuni tutti gli studenti. Se uno va vestito non come crede
ma come gli è imposto dalla sua religione o dalla sua cultura
c’è qualcosa che li tiene insieme? Il fatto di vivere il tempo
scolastico, di avere delle nozioni e una trasmissione di saperi,
basta? Gli alunni sono dei clienti della scuola oppure c’è anche
una comunità? La possiamo chiamare comunità scolastica,
palestra dell’educazione delle persone, dei cittadini? C’è anche
questo fattore di coesione oppure non c’è nient’altro a parte le
diversità, perché tutta l’educazione avviene poi nelle comunità
di appartenenza?
Una laicità di carattere pluralistico probabilmente è quello di
cui noi abbiamo bisogno e verso la quale la nostra
giurisprudenza costituzionale, le nostre leggi, in qualche modo
ci orientano.
Che significa questo?
Uguali e diversi
Significa bilanciare nella laicità la uguaglianza e la
diversità, cercare di essere uguali e diversi.
Faccio qualche esempio.
* Prendiamo il caso del velo delle ragazze musulmane. Si
può o non si può portare il velo?
Da noi si può, perché le nostre leggi prevedono che soltanto
nelle manifestazioni pubbliche non si possa circolare con il
volto coperto in modo da non farsi riconoscere: in tal caso
facciamo prevalere il motivo della coesione sociale e il motivo
dell’ordine pubblico.
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Da noi una legge come quella inglese che consente al
motociclista sikh di andare senza casco non sarebbe
ammissibile, proprio perché riconosciamo sì la possibilità di
andare vestiti come si crede, purché però non si vengano ad
offendere alcuni principi che di sicurezza pubblica.
Naturalmente dobbiamo distinguere: va bene la ragazza con
il velo a scuola, ma va bene lo stesso anche l’insegnante con il
velo? Qui si può ragionare perché essere vestiti in un certo
modo può rappresentare una forma subliminale di
condizionamento dei ragazzi da parte dell’insegnante. Ma fino
ad un certo punto, almeno finchè si tollera senza problemi che,
al di là del velo, ci siano anche insegnanti che vanno vestite,
per dire, con i pantaloni a vita bassa: anche quello può essere
un condizionamento subliminale.
In questo campo entriamo in un problema più vasto che non
è più quello semplicemente della religione e della cultura
dell’insegnante, ma del modo di vestirsi da parte di chi ha una
funzione anche pedagogica nel trasmettere saperi, nello stesso
modo di comunicare. E l’abbigliamento è un modo di
comunicazione sia pure implicito. Entriamo in un campo che
non riguarda più le religioni soltanto, ma riguarda il modo di
porsi davanti agli alunni.
In Belgio hanno adottato una soluzione che secondo me è
molto accettabile, anche dal punto di vista di una laicità a
carattere pluralistico. Era capitato il caso di alcune ragazze che
frequentavano l’università e facevano anche degli stage, fuori
dalla scuola, in cui facevano loro le insegnanti per
esercitazione. Nel caso delle ragazze islamiche con il velo la
Corte d’Appello di Liegi ha stabilito un principio che molto
intelligente perché bilancia l’uguaglianza e la diversità.
Ha stabilito: nel momento in cui le ragazze vanno nella loro
scuola e sono davvero soltanto delle alunne possono portare il
velo, ma nel momento in cui vanno a fare lo stage fuori e
fanno, sia pure per esercitazione, la parte dell’insegnante,
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personificano una funzione pubblica e allora non possono
portare il velo.
Si vede come è possibile bilanciare la diversità con il
principio di uguaglianza e quindi con il principio di neutralità
dello Stato, perché lo Stato non si identifica con nessuna delle
concezioni esistenti nella società.
* Una soluzione diversa potremmo averla per le classi
islamiche. C’è un principio scritto in un’intesa tra lo Stato e la
Chiesa Cattolica vent’anni fa per l’insegnamento della
religione nelle scuole pubbliche, secondo cui i dirigenti
scolastici provvederanno alla formazione delle classi secondo
gli ordinari criteri, cioè non tenendo conto del fatto che i
ragazzi abbiano dichiarano di avvalersi o di non avvalersi
dell’insegnamento della religione cattolica. Lo scopo è di
evitare delle classi omogenee, delle classi cioè di soli alunni
avvalentisi dell’insegnamento della religione cattolica. Perché
allora avremmo delle classi cattoliche e poi magari avremmo
all’interno della Chiesa cattolica una galassia, come ad
esempio classi di Comunione e Liberazione, ecc. Si potrebbe
arrivare ad avere perfino la classe dei figli di genitori non
credenti.
Questo principio sta in un’intesa con la Chiesa cattolica, ma
in realtà è espressione di un principio di carattere generale,
quello del pluralismo scolastico.
La scuola pubblica ha la sua funzione forte, la sua essenza,
soprattutto nel pluralismo.
In teoria ciò che giustifica la pubblicità della scuola è il fatto
che l’arte e la scienza, dice l’art. 33 della Costituzione, sono
libere e libero ne è l’insegnamento.
Attraverso questa libertà di insegnamento si consente che si
formi la libertà degli alunni e tutto ciò comporta che vi sia un
effettivo pluralismo a prescindere dalle opzioni di carattere
religioso.
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Io capisco quanto è stato fatto a Milano, anche perché
conosco la persona che stava dietro quella proposta: è un
professore dell’università cattolica, Paolo Branca, persona di
grande cultura e di assoluta apertura verso i nuovi problemi
posti dalla necessità di integrazione. Però non ho condiviso
quella proposta fatta allo scopo di favorire l’ingresso di ragazze
musulmane nella scuola pubblica superiore, consentendo la
formazione di una classe islamica. Si voleva sottrarre le
ragazze all’autoritarismo della propria comunità musulmana e
favorire la loro carriera scolastica, piuttosto che la dispersione
scolastica, ma la risposta a questa pienamente condivisibile
esigenza a mio avviso era ed è sbagliata, perché contrasta con il
principio del pluralismo scolastico. Finisce che per raggiungere
uno scopo del tutto condivisibile vengono distrutti altri principi
che sono fondamentali per la scuola.
* Così è per le mutilazioni dei genitali femminili. Quello è
un altro campo in cui noi non possiamo consentire con chi le
pratica perché, anche secondo l’Organizzazione Mondiale della
Sanità, esse sono delle lesioni volontarie.
Semmai si tratta di distinguere, perché le mutilazioni non
sono dello stesso tipo, al fine di individuare possibili forme di
bilanciamento. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ne
enuncia quattro. Alcune sono molto leggere e quindi
assomigliano alla circoncisione dei maschi ebrei e non
comportano delle diminuzioni o degli indebolimenti di organi
sessuali. Ci sono degli esperimenti, fatti da un medico di
origine somala che opera all’ospedale di Careggi di Firenze,
che ha eseguito semplicemente delle punture di aghi sul
clitoride in modo che esca qualche stilla di sangue. Così il rito
è compiuto, ma non succede niente e non c’è nessuna
mutilazione.
Si possono, come si vede, ideare delle metodiche per evitare
che avvenga la vera e propria mutilazione cercando di
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salvaguardare il rito, visto che per le persone di una certa
cultura è importante.
Si può anche cercare di vedere quale sia il modo migliore
per fare emergere queste pratiche e quindi evitare una
penalizzazione eccessiva di questi reati, che mettono sul banco
degli imputati i genitori e perciò la persona offesa, una figlia,
normalmente una ragazzina, è in una condizione di imbarazzo,
di ricatto psicologico, perché denunciare il fatto significa
mandare in carcere il padre. La legge approvata l’anno scorso a
fine legislatura prevede botte da orbi, reclusioni fino a 10, 15
anni, e a queste condizioni nessuno denuncerà un genitore per
condannarlo ad una reclusione così lunga per un fatto avvertito
dalla comunità cultural-religiosa, di cui la persona offesa
continua a far parte, come un atto lecito. Si avrà una forte
pressione anche sulle persone culturalmente più avanzate (che
sono tra gli islamici sempre più numerose) a non denunciare il
fatto per non sgretolare il nucleo familiare.
Il nostro compito invece è di aiutare queste persone, che
hanno realizzato un cammino di emancipazione e di
integrazione, a far emergere, anche a livello giudiziario, questi
fatti, in modo da poterli effettivamente contrastare: contrastare
con un’opera educativa, con la persuasione, con il far capire
che non è quel rito il modo necessario perché una ragazza si
emancipi e faccia parte a pieno titolo della comunità, anche
secondo la religione. Nel Corano, infatti, non è prescritta come
obbligo la pratica delle mutilazioni: è una pratica di alcune
popolazioni del centro Africa e riguarda soprattutto i
musulmani, ma è diffusa anche tra i cristiani, i cattolici dei
paesi del centro Africa.
Insomma si tratta, senza acconsentire alle pratiche di
mutilazione, di favorire con opportuni accorgimenti
l’emersione del fenomeno per poterlo contrastare.
* Un ultimo esempio: il matrimonio poligamico.
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Per la nostra civiltà il matrimonio è monogamico, tant’è che
una
persona
già
sposata
non
può
sposarne
contemporaneamente un’altra: il codice civile lo vieta. Non
possiamo nemmeno riconoscere un matrimonio poligamico
celebrato all’estero.
Tuttavia in questo caso la laicità pluralista può consentire,
ad esempio, che i figli nati dal secondo matrimonio, quello che
per noi è un matrimonio in contrasto con l’ordine pubblico,
vengano riconosciuti nei loro diritti alla pari dei figli del primo
matrimonio. Questa è già una forma di bilanciamento. Non si
riconosce il matrimonio, però si riconoscono alcuni effetti
derivanti da quel matrimonio, come per esempio i figli.
La Corte di Cassazione ha già fatto un paio di sentenze sui
diritti ereditari in questo senso. Si è trovata infatti davanti al
caso di figli, diciamo così, di primo letto, che contrastavano gli
altri, perché non volevano farli partecipare all’eredità, in
quanto nati da un matrimonio poligamico. La Cassazione ha
detto che, senza riconoscere quel matrimonio, però se ne
possono riconoscere alcuni effetti come l’esistenza dei figli.
Così per quanto riguarda il ricongiungimento della seconda
moglie al marito che vive in Italia, lavora in Italia e ha la
cittadinanza italiana con la prima moglie. Può la seconda
moglie chiedere il ricongiungimento? In un primo momento c’è
stato un provvedimento del questore di Bologna che aveva
impedito il ricongiungimento proprio a motivo del matrimonio
poligamico inammissibile. Poi, però, questo provvedimento è
stato impugnato davanti al TAR dell’Emilia Romagna, che ha
sospeso l’efficacia dell’atto amministrativo, per il motivo che
per i figli era importante vivere con entrambi i genitori.
Questa è un’altra forma di bilanciamento nel senso che il
matrimonio poligamico non viene riconosciuto e quindi il
ricongiungimento viene motivato non in virtù di un matrimonio
non riconoscibile ma esclusivamente del superiore interesse del
bambino.La bussola in questo caso non è il riconoscimento del
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secondo matrimonio, ma il diritto del bambino a vivere con
entrambi i genitori.
Conclusione
Io credo che il bilanciamento fra uguaglianza e diversità sia
possibile.
L’art. 3 della nostra Costituzione dice infatti: “Tutti i
cittadini sono uguali davanti alla legge senza distinzione di
sesso, di lingua, di razza, di religione, di condizioni sociali”.
Sono molto importanti queste parole: “senza distinzione”.
Si è uguali senza distinzione. Non si dice che siamo uguali
contro le distinzioni, perché non vogliamo le distinzioni. Le
distinzioni ci sono, le riconosciamo, ma non devono diventare
motivo di discriminazione tra i cittadini. E devono essere
riconosciute purché non comportino delle disuguaglianze.
Se i cittadini sono disuguali a motivo delle distinzioni noi
andiamo contro la Carta costituzionale, ma se i cittadini sono
uguali pur conservando le proprie distinzioni, questo è
conforme alla norma. Non è una norma banale:
dell’uguaglianza siamo tutti convinti dalla Rivoluzione
francese in poi. Invece questa norma ha un senso più forte,
proprio per il fatto che riconosce che ci sono delle distinzioni,
quindi dà rilevanza giuridica alle distinzioni, alle differenze,
alla diversità, e dice che ciononostante, a partire da queste
distinzioni, dobbiamo essere uguali.
È il bilanciamento che è necessario fare tra uguaglianza e
differenza.
22
Per fare questo cosa occorre?
Occorrono delle leggi e occorre che i giudici continuino a
svolgere il tipo di lavoro che emerge da sentenze come quelle
citate della Corte Costituzionale, della Cassazione, del TAR
dell’Emilia Romagna, del Pretore di Torino, nella direzione di
questo bilanciamento. Sarebbe ora semmai che anche il
legislatore si desse una mossa di orientamento saggio, perché
non sempre azzecca il bilanciamento tra questi problemi.
Vorrei però sottolineare che questo è un problema che spetta
soprattutto a noi, spetta a tutta la società, perché il legislatore, il
giudice, alla fine si muovono con le antenne che si indirizzano
all’anima profonda della nostra società. Questo bilanciamento
quindi può avvenire se noi abbiamo una società davvero
dialogica. Il dialogo tra le diversità come caratteristica della
nostra società dipende esclusivamente da noi.
Il dialogo è annuncio, dichiarazione della propria identità.
Un dialogo che annulla le differenze non serve. Il dialogo è
annuncio delle nostre radici, della nostra cultura, che per noi è
la cultura occidentale. Ma è anche silenzio, il dialogo, ascolto
dell’identità dell’altro.
Non bisogna fare il predicatore e dire alle persone: “Fate
così altrimenti non entrate in questa comunità” Perché allora
avremo delle comunità separate. È sbagliato affermare: “Più ci
separeremo e meglio convivremo” come sosteneva un gruppo
di estrema destra in Alto Adige. Lì è stato Alex Langer il
politico che ha rappresentato davvero un progetto di
integrazione reale. Una persona di cultura tedesca come lui,
non si dichiarava né ladino, né tedesco, né italiano quando
facevano il censimento. E perse anche il posto di lavoro, perché
non è possibile in Alto Adige insegnare, o comunque avere un
ompiego pubblico, senza dichiarare l’appartenenza ad un
gruppo linguistico. Così una persona positiva per l’integrazione
23
è stato in Alto Adige Rheinold Messner, che rinunciava a
piantare la bandiera del Tirolo sulle montagne “conquistate”.
Non piantare nessuna bandiera significa fare silenzio.
Dialogo significa annuncio, ma anche silenzio. Dobbiamo
domandare se noi riusciamo a farlo.
La figura di Nicodemo: un esempio di dialogo
Vorrei che ci sintonizzassimo in proposito su una figura del
Vangelo che a mio avviso è significativa: Nicodemo che va di
notte a parlare con Gesù.
Secondo una certa apologetica, una certa interpretazione,
che a mio avviso non ha fondamento (ma io non sono un
esegeta e mi posso sbagliare), Nicodemo è un convertito.
Ci sono però altri passi del Vangelo in cui si vede che
Nicodemo non si è convertito, perché ha continuato ad andare
nel Sinedrio, a far parte dei dottori della legge. Anzi, viene
attaccato dai dottori della legge perché nel momento in cui
Gesù doveva essere arrestato, lui interviene dicendo: “Dove si
è visto che secondo la nostra legge si arresti una persona senza
prima averla ascoltata?”.
È incredibile: Nicodemo nel Vangelo enuncia un principio
che noi abbiamo affermato soltanto 50 anni fa nella
Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Naturalmente i
soldati lo criticano: “Ma tu sei della Galilea come lui? E tu
saresti un dottore della legge?”. Nicodemo va incontro a questa
critica, però rimane ancora un dottore della legge. Nel sinedrio
rimane in minoranza.
Nicodemo è una persona che secondo me conserva la sua
identità. All’epoca era chiaro che la predicazione di Gesù
rappresentava una cultura diversa, un’interpretazione diversa
della legge rispetto a quella dei dottori.
24
Nicodemo probabilmente rimane nel suo ruolo, rimane nelle
sue convinzioni, però va ad ascoltare Gesù e gli fa delle
domande, cerca di capire qual è la mentalità e l’identità di
quella persona. Certo, se ne lascia conquistare, tant’è che va
insieme a Giuseppe d’Arimatea a chiedere anche il corpo di
Gesù, che altrimenti sarebbe rimasto, secondo le usanze
dell’epoca circa la pena della crocifissione, esposto per giorni.
Tanto più che il giorno successivo era sabato e non si poteva
rimuoverlo. Nicodemo va insieme a Giuseppe d’Arimatea a
chiedere il corpo a Pilato: un gesto di carità, di accoglienza
verso una vittima. Però Nicodemo rimane un dottore della
legge.
Il dialogo con Gesù, tra due persone culturalmente diverse, è
un’icona del dialogo occorrente nella nostra società, che deve
dire di no al monologo. Sotto questo profilo il nostro occidente
ha provocato dei danni enormi.
Todorov, un sociologo, mette in evidenza un’annotazione
nei diari di Cristoforo Colombo sbarcato in America: “Sono
venute delle persone davanti a noi; erano un centinaio ma
davanti a 10 nostri soldati armati sono fuggiti a gambe levate”.
Colombo inclinava a credere che non fossero degli uomini,
visto che scappavano davanti a loro senza combattere. Dunque,
l’altro non veniva considerato nella sua identità, anzi non era
un uomo, dal momento che non adottava la nostra cultura
bellica, guerrafondaia.
No al monologo ma no anche all’opposto del monologo, a
quello cioè che potremmo chiamare un eccesso di culture, per
cui sembra che si debba soltanto rispettare le culture e non ci
sia niente che ci possa mettere assieme. Faccio un esempio dei
giorni nostri. Don Gallo, un prete di Torino che vive una realtà
a maggioranza di immigrati racconta come in una scuola della
sua città si fosse organizzata una delle solite festicciole in
classe, in cui anche si mangia qualcosa insieme. Siccome
alcuni ragazzi erano figli di immigrati maghrebini, si pensò
bene di preparare tra l’altro un cuscus come fatto di
25
intercultura. Alla fine una maestra domanda ad uno dei
ragazzini magrebini: “Com’è questo cuscus?”. E quello:
“Buono, ma la mia mamma lo fa meglio”. La maestra replica:
“È chiaro che la tua mamma lo sa far meglio. Ma dicci: come
lo fa la tua mamma?”. Risponde: “Fa uno strato di cuscus e uno
strato di gnocchi, uno strato di cuscus e uno strato di gnocchi”.
In quella maniera molto semplice il bambino e la sua
mamma danno un grande esempio, cominciando dal mondo
culinario, di dialogo e di integrazione tra diversità.
26
Dibattito
Per quanto riguarda l’intervento sui vissuti, il conflitto tra le
identità è molto forte. È naturale che quando si tratta di
comunità tendenzialmente totalizzanti, cioè che in maniera
integralistica non vedono la distinzione tra fede, cultura di
origine e politica, che è la casa di tutti, dobbiamo trovare dei
motivi, delle ragioni per stare insieme e quindi fare
eventualmente delle rinunce; quando ci si trova di fronte a
comunità del genere, il conflitto è notevole.
Quello che possiamo fare è cercare di capire le ragioni del
conflitto ed essere inflessibili là dove viene lesa la dignità
umana e quindi i diritti fondamentali delle persone, ma essere
al contrario temperanti, tolleranti quando si tratta di usanze, di
pratiche che si possono in qualche modo armonizzare con i
nostri principi.
Approfitto per comunicare a tutti qualche osservazione, che
mi è stata fatta durante l’intervallo da persone che dovevano
andar via, la quale si accorda con questo tipo di domanda: “Se
c’è la donna che non vuole farsi visitare nell’ospedale da un
medico uomo, che si fa? Le si dice: “Questo è il medico di
turno, quindi ti arrangi?”. Io credo che è fattibile, è possibile
invece aspettare un altro turno, chiamare un medico donna e
rispettare la cultura di questa persona che è abituata a farsi
visitare da persona del proprio sesso.
La Cassazione francese una volta si è occupata del problema
del musulmano che non può toccare carne di maiale. Aveva
trovato lavoro in un supermercato e la mansione a cui era stato
addetto era quella di confezionare vari cibi, tra cui anche le
carni di maiale. Il datore di lavoro aveva licenziato il
musulmano per inadempienza del contratto di lavoro.
La Cassazione ha ritenuto giustificato il licenziamento
perché i francesi non ammettono che le differenze religiose
debbano emergere nella sfera pubblica. Ha detto che, soltanto
se questa indisponibilità a manipolare carne di maiale fosse
27
stata dedotta nel contratto di lavoro, il licenziamento sarebbe
stato ingiustificato. Figuriamoci se oggi un immigrato, un
extracomunitario è in grado di contrattare le sue mansioni con
il datore di lavoro! Non mi pare una decisione realistica quella
francese.
Da noi, molti anni fa, invece ci fu una decisione più
tollerante, che io assumerei come esempio. Un pretore
lombardo ritenne ingiustificato il licenziamento di un operaio
che, per aver maturato un orientamento pacifista, si rifiutava, in
una fabbrica d’armi, di lavorare in quel settore. Il pretore disse
che il licenziamento era ingiustificato se il datore di lavoro non
dimostrava di non poter adibire il lavoratore ad altre mansioni,
che non fossero a contatto con la fabbricazione delle armi.
Questo mi sembra un atteggiamento più tollerante, perché
non mette in discussione il fatto che la produzione deve essere
salvaguardata in una fabbrica, però, là dove sia possibile
adibire il lavoratore ad altre mansioni, è un gesto di tolleranza
riconoscere, nei limiti dell’iniziativa economica e del profitto
del datore di lavoro, le differenze, riconoscere le identità.
Il caso del taglio dei capelli da parte dei genitori ad una
ragazza che aveva disobbedito, mi pare un fatto abbastanza
emblematico, perché viene interpretato dal giudice come un
atto repressivo. Solitamente invece significa anche un’altra
cosa. Siccome però era capitato dopo la trasgressione della
ragazza, il giudice ha ritenuto che fosse un atto repressivo. In
realtà non era tale.
Il tema delle difese culturali è molto presente nelle nostre
società occidentali. Difese culturali è un termine che usano gli
americani per individuare una categoria di difese dell’imputato
nei processi, quando cioè l’imputato si difende da un’azione
considerata illecita secondo il Codice penale. È un’azione che
corrisponde ai dettami di una cultura o di una religione.
28
In America ci sono state alcune decisioni che hanno
suscitato molto clamore. Un americano, aderente a una
religione orientale che aveva sequestrato e violentato una
ragazza, è stato assolto in primo grado perché, secondo la
religione dell’imputato, questo era il modo con cui si
dichiarava la volontà di sposare una ragazza.
Evidentemente anche in Italia succedevano queste cose. C’è
un film sui costumi siciliani di Pietro Germi, di qualche
decennio come fa, Matrimonio all’italiana, che racconta una
storia simile.
Ma ormai nel nostro Paese non costituisce una
discriminante, una causa di giustificazione, o un attenuante il
fatto che, per esempio, dei genitori non consentano la
trasfusione di sangue per il proprio figlio a motivo del
comandamento religioso.
Ci fu il caso di due coniugi cagliaritani, testimoni di Geova,
che una ventina d’anni fa si erano difesi con quella che si
chiama difesa culturale, appellandosi al comandamento divino.
E la Cassazione ritenne tutto ciò essere irrilevante dal punto di
vista penale. Ormai il problema non esiste più: si fanno
possibilmente le autotrasfusioni e perfino nell’intesa con i
testimoni di Geova non figura alcuna disciplina speciale sulle
trasfusioni di sangue.
Nel campo delle difese culturali bisogna procedere molto
cauti, non fare di tutta l’erba un fascio, mettendo sullo stesso
piano trasfusioni di sangue, stupro e taglio dei capelli.
Per quanto riguarda la conoscenza della lingua italiana,
credo che nelle scuole si debba cercare di stimolare questa
conoscenza
reciproca.
Abbiamo
il
testo
unico
sull’immigrazione, quello del 98, cosiddetto - TurcoNapolitano – riformato dalla Bossi-Fini soltanto per quanto
riguarda i permessi. I principi fondamentali sono rimasti
uguali.
29
Questa legge, agli artt. 42 e 43, prevede nelle scuole
programmi e attività di carattere interculturale per conoscere le
identità, le lingue, le usanze dei ragazzi immigrati, sempre
comunque sul presupposto che si studi italiano e la storia
italiana.
Io credo che è nella scuola che si deve incentivare, stimolare
la conoscenza della lingua italiana, però non in una maniera
esclusiva.
Se questa è casa nostra, ma è anche la casa di tutti, noi
possiamo pensare che la conoscenza della lingua italiana possa
essere incrementata anche attraverso lo sforzo di conoscenza da
parte nostra delle lingue degli altri o per lo meno delle loro
usanze, delle loro culture, ecc.
Quella legge prevede addirittura che nella biblioteca delle
scuole ci siano dei libri che riguardano le pratiche, le usanze, la
storia, la lingua di queste altre persone.
Non so se ci siano delle risorse economiche destinate a
realizzare questo, ma la legge è fatta benissimo.
Per i genitori, per gli adulti che vengono nel nostro Paese
credo però che dobbiamo accettare in qualche modo che ci
possano essere dei livelli di pigrizia nell’apprendimento della
nostra lingua. È infatti una situazione transitoria. È soprattutto
sulla scuola che bisogna puntare per avere questa integrazione
e quindi anche perché si conosca meglio l’italiano.
Le distinzioni vengono avvertite spesso come minacce. Noi
ci sentiamo spaesati. Non so quale sarebbe la mia reazione se
abitassi all’Esquilino, per dire un quartiere di Roma che
conosco bene. Mi troverei in difficoltà, perché in alcuni punti,
per le persone che circolano, per il tipo di negozi e delle merci
in esposizione sembra di non essere in Italia. Molti reagiscono
cambiando quartiere, così come mandano i figli alle scuole
private, per salvaguardare un certa identità.
30
È una risposta sbagliata, perché questa identità rafforzata si
sentirà sempre più minacciata nel momento in cui entra in
contatto ma senza conoscere l’altro.
Noi costruiremmo in questa maniera una serie di monadi
che non comunicano tra di loro, di compartimenti stagni.
Che fare per bilanciare?
La speranza è sempre nella scuola pubblica. La risposta
della scuola privata è sbagliata perché costruisce un’altra
monade. Se invece le politiche regionali, o le politiche statali
sono nel senso di dare risorse alla scuola privata, è chiaro che
abbiamo messo le basi perché i genitori aumentino la domanda
di scuola privata. Una politica chiara sarebbe quella di negare
finanziamenti alle scuole private proprio a motivo della
necessità di realizzare l’integrazione.
Ho partecipato la settimana scorsa a un convegno
organizzato a Roma da un’Associazione che si chiama “Scuola
e Costituzione - per la scuola della Repubblica”. Un
funzionario del ministero dell’istruzione ha indicato alcune
cifre del finanziamento destinato alle scuole private in base alla
legge sulla parità scolastica fatta nel 2000, essendo ministro
Berlinguer. Si prevedeva che fossero date delle risorse
finanziarie alle scuole private in attesa di un certo regolamento
che non è stato ancora emanato. Nella legislatura scorsa,
essendo ministro Tremonti, nel quadro di un taglio
generalizzato delle risorse destinate al sociale, fatto nella legge
di bilancio, erano stati sottratti 150 milioni di euro alle scuole
paritarie. Era un taglio.
La nuova finanziaria del governo di centrosinistra, tuttavia,
ha aumentato la quota prevista nella legge di bilancio, così la
somma effettivamente erogata alle scuole private è di 100
milioni di euro. In quella sede venne fuori una polemica:
perché il centrosinistra, che dovrebbe essere per la scuola
pubblica, non conferma, quanto meno, la stessa cifra diminuita
da Tremonti e invece l’aumenta?
31
Se non incentiviamo la scuola pubblica, se i dirigenti
scolastici della scuola pubblica non hanno risorse per allestire
la biblioteca interculturale, non possiamo poi lamentarci se non
c’è integrazione.
Quanto alle scuole tenute dai religiosi, se anch’esse
diventano un modo per salvaguardare l’identità credo che i
religiosi avrebbero il dovere di dire di no.
Mi hanno fatte vedere scuole di salesiani a Rio de Janeiro,
circondate da muri di cinta alti 3 metri. Rappresentano
esclusivamente le scuole dei bianchi che non si vogliono
meticciare con nessuno.
Sono rimasto estremamente sorpreso perché da noi i
salesiani sono altro. Lì invece ho visto scuole per i ricchi, che
servono appunto a distinguere, a salvaguardare i ricchi.
Secondo me questo è sbagliato.
Io sono molto amico di alcuni gesuiti che hanno dei collegi
come ben sappiamo. Già cinquant’anni fa vi si andava perché
non si facevano scioperi, si studiavo soltanto. Non vorrei che
adesso la motivazione sia diventata altra: quella di preservare
un’identità. Credo che non fosse (solo) questa l’intenzione di
sant’Ignazio.
Questa è una possibile risposta, ma certamente non può
essere l’unica.
Ci sono modelli culturali che vengono dalle religioni. Il
clero ammonisce: “Occorre che i governanti non distruggano
le famiglie con le loro leggi”. Oppure si stigmatizza il
matrimonio in Comune, ecc.
Io sono cattolico, ma mi sono sposato in Comune, ho fatto il
matrimonio cosiddetto anticoncordatario: mi sono sposato
prima in Comune e poi in chiesa nella stessa giornata. Sono
sposato civilmente agli effetti della legge italiana. Ho avuto la
dispensa ecclesiastica - perché secondo il codice di diritto
canonico ci si deve sposare religiosamente e chiedere gli effetti
32
civili del matrimonio religioso - da un vescovo illuminato.
Eravamo nel 1974. Come mai la Chiesa italiana ha fatto passi
indietro? Dal 1974 al 2007 questi esempi non li troviamo più.
Certo il vescovo ci interrogò, ci chiese per quale motivo
volevamo far in questo modo. Quando si accertò che le
motivazioni erano valide, ha dato la dispensa. Oggi sarebbe
inimmaginabile una cosa del genere, ma questo è un segno di
regressione, perché dopo 35 anni le cose dovrebbero
modificarsi in maniera più aperta, più tollerante.
Stamani ho fatto una dichiarazione a Telepace per quanto
riguarda i DICO, la difesa della famiglia, ecc. Ho detto che il
problema oggi non è quello della difesa. La famiglia è fondata
sul matrimonio: questo è l’unico modello di famiglia che noi
abbiamo per Costituzione.
Non si deve dire, come si sente dire spesso sui giornali: la
famiglia tradizionale. Non c’è una famiglia tradizionale e poi
una famiglia nuova, o le convivenze, i pacs e cose del genere.
Non è così. L’unica famiglia è quella fondata sul matrimonio
per Costituzione.
Noi possiamo dire che c’è un’altra famiglia, ma allora
dobbiamo cambiare la Costituzione. Se la Costituzione rimane
invariata, allora dobbiamo dire che l’unico modello di famiglia
è quello fondato sul matrimonio.
Il problema è quello poi di vedere se c’è una tutela
attribuibile anche ad altre forme di convivenza. Finché
rimangono nel buio, nel sommerso, naturalmente provocano
una disuguaglianza tra coniugi e quindi una minore tutela del
convivente economicamente più debole e così via.
Allora cosa dobbiamo fare noi? La linea sembra quella di
difendere la famiglia. Ma come si difende la famiglia?
Negando diritti ad altre forme di convivenza?
A mio avviso la risposta l’ha data mons. Bettazzi. La
famiglia bisogna difenderla allora anche dall’attacco del
denaro, dell’usura, di tutta una serie di attacchi nei confronti
dei quali noi non possiamo nulla.
33
Il problema non è quello di difendere la famiglia, ma quello
di promuoverla, come diceva il cardinal Martini in
un’intervista. Non negando diritti ad altre forme di convivenza;
all’opposto, il problema è quello di riconoscere diritti ad altre
forme di convivenza promuovendo con altre forme di sostegno
la famiglia.
Quindi è in modo positivo che bisognerebbe chiedere al
legislatore italiano di intervenire, non nel senso di difendere
questa nicchia in cui si è costituita la famiglia, negando diritti
agli altri.
Concediamo il diritto alla compagna di Strehler (un caso che
capitò anni fa) di andare a visitare il suo compagno morente,
quando invece fu esclusa perché in quel momento subentrò la
moglie ormai separata di fatto da vent’anni.
Questa è tutta la questione: non difendere, ma promuovere.
Se si promuove si possono concedere determinati diritti ad
altre forme di convivenza.
Come mai la Costituzione viene disattesa e come istruire il
popolo italiano?
La Costituzione viene disattesa perché noi (noi come classe
politica, ma anche come comunità generale dei cittadini) non
siamo ancora entrati nell’idea che la Costituzione sia una legge
superiore, non una legge tra le altre. È una legge superiore, una
specie di bussola che deve orientare tutta la legislazione
ordinaria, non farsi orientare dalla legislazione ordinaria.
Si sta facendo a livello parlamentare una revisione
strisciante della Costituzione del 1948. Non una revisione
formale, perché grazie a Dio quella l’abbiamo bocciata in
maniera clamorosa l’anno scorso. Stiamo facendo una
revisione strisciante, perché modifichiamo di fatto, per
esempio, una norma fondamentale, l’art. 36, secondo cui “Ogni
lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla
quantità e alla qualità del lavoro svolto, ma comunque tale da
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assicurare a lui e alla propria famiglia un’esistenza libera e
dignitosa”.
La retribuzione non è una variabile dipendente dal mercato
secondo il nostro costituente, è una variabile indipendente,
perché deve essere tale da assicurare comunque un’esistenza
libera e dignitosa non solo al lavoratore, ma anche alla sua
famiglia. È una norma di grande spessore morale.
A Bari avevamo ideato un’iniziativa per cui si chiedeva a
dei professori di commentare un brano del Vangelo, della
Bibbia, secondo la loro cultura. Lo si chiedeva a persone non
credenti, agnostiche. Ricordo che lo chiesi a un professore di
diritto privato ateo che mi disse: “Io voglio commentare il
brano degli operai della vigna, quello in cui arriva l’operaio
della undicesima ora e riceve la stessa retribuzione dell’operaio
della prima ora il quale protestò”. Ma il padrone della vigna
replicò: “Di che ti lamenti? Io ti ho dato quello che avevamo
pattuito. Sarò pure padrone di dare quello che voglio a quello
che ha lavorato soltanto un’ora”.
Gli chiesi perché proprio quel brano e mi rispose: “Perché
così posso spiegare l’art. 36 della Costituzione”.
Vedete quale suggestione ha l’art. 36 della Costituzione. Se
noi però andiamo avanti con tutte le flessibilità che abbiamo
introdotto nei nostri rapporti di lavoro non c’è più il lavoro a
tempo indeterminato, ma solo lavori a contratti progetto, co-coco, forme di precariato diffuse. Questa che cos’è? È una
revisione della Costituzione. Significa dire che l’art. 36 è una
norma come un’altra che non orienta nella legislazione di ogni
giorno, altrimenti la legge Biagi non sarebbe stata fatta, almeno
in quei termini.
Altro esempio: l’art. 24 della Costituzione dice che la difesa
è sacra in ogni stato e grado del processo e l’art. 13 che
nessuno di noi può essere ristretto nella sua libertà personale se
non per ordine dell’autorità giudiziaria. Se però noi
esageriamo, come fa la riforma dell’ordinamento giudiziario,
nel sottoporre i magistrati ad una serie di concorsi interni per
35
progredire in carriera, essi, piuttosto di pensare a fare giustizia
nel caso concreto, penseranno a fare delle belle sentenze per
procurarsi titoli idonei a superare i gradini di valutazione
periodici.
Con questi marchingegni il nostro diritto di difesa, il nostro
diritto di cittadini a non essere privati della libertà personale se
non per ordine motivato, viene ridimensionato. Non è che i
Magistrati godono di un’indipendenza per loro, perché sono
una categoria privilegiata, ne godono per noi, perché ogni
cittadino deve sapere che dietro a ogni magistrato c’è soltanto
la sua coscienza e la sua conoscenza delle legge, non c’è un
dirigente o un governo che gli può dire come deve giudicare.
Questa è la garanzia. Poi, naturalmente, c’è una serie di
magistrati infingardi e fannulloni che magari approfittano di
questa indipendenza per non lavorare abbastanza. Però in
termini istituzionali la garanzia è a favore di tutti i cittadini.
Come fare di fronte a questa serie di revisioni striscianti
della Costituzione? Siamo sempre lì. Primo: se nella scuola non
si insegna la Costituzione, e di fatto non si insegna, allora non
possiamo lamentarci. Bisogna trovare il tempo per insegnare la
Costituzione
magari
anche
con
delle
verifiche
dell’pprendimento.
Secondo: quando lanciò i Comitati per la Costituzione nel
1994 Dossetti diceva di farli sorgere addirittura in ogni
quartiere, possibilmente per fare della Costituzione un libro di
lettura corrente. Quindi chiedeva un lavoro di base.
Dossetti era talmente intriso della cultura costituzionale che
negli ultimi anni della sua vita, nel 94-95, accettò di andare in
giro a fare qualche lezione. In una di queste, a Pordenone in
una comunità di giovani cattolici, raccomandò: “Se poi il
Vangelo è così difficile da seguire, per lo meno osservate la
Costituzione”.
Era questo il concetto che aveva Giuseppe Rossetti della
Costituzione e, come componente dei comitati da lui promossi,
non posso non richiamare questo grande insegnamento.
36
Per quanto riguarda il diritto di voto ai cittadini stranieri
credo che lo si debba ormai riconoscere almeno a livello
amministrativo. A livello politico no, bisogna essere cittadini
italiani per votare, anche se poi con questa storia dei cittadini
italiani all’estero abbiamo creato difficoltà. Queste persone non
hanno più nessun rapporto con la comunità nazionale.
Abbiamo così un senatore Pallaro che dice al governo: “Se mi
dai 15 milioni di euro da spendere in America Latina ti do il
voto a favore della finanziaria”. Lui non risponde a nessuno,
perché è chiaro che chi vota in Argentina o altrove per il
Parlamento italiano non ha assolutamente nessuna idea precisa
dei problemi che riguardano il nostro Paese. Danno la delega
alla persona che è capace di raccogliere consenso e questi se ne
può servire per un potere di carattere personale.
Sono stato di recente in Argentina e ho fatto una conferenza
al circolo degli italiani di Buenos Aires; ho notato che con me
parlavano in italiano, più o meno, però tra loro parlavano in
spagnolo. Mi ha fatto una certa impressione, perché è come
succede da noi: nei rapporti formali si parla in italiano, poi
ognuno di noi con i familiari parla in dialetto. Se così è ormai,
mi pare che abbiano molto più diritto di votare i cittadini
stranieri che vivono nel nostro Paese.
In tutta questa questione ci facciamo fuorviare dalla
cittadinanza. Quelli sono comunque italiani all’esterno, ma
sono italiani. Questi invece sono stranieri, anche se stanno in
Italia. Allora i primi votano e i secondi no. La realtà è invece
del tutto diversa. Questi stanno davvero da noi e sanno quali
sono i nostri problemi e debbono partecipare in qualche modo
alla vita delle istituzioni, quelli invece vivono ormai in un’altra
situazione.
Comunque dare il diritto di voto ai cittadini stranieri,
almeno sul piano amministrativo, penso sia un dovere.
Naturalmente parlo di un diritto di voto che si dovrebbe
esprimere attraverso rappresentanti non solo a carattere
37
consultivo, ma con un voto deliberativo, sia pur limitato a
materie che li possono riguardare.
L’ultimo intervento è di prospettiva, sulla quale sono
d’accordo. Bisognerebbe avere un progetto, una visione di
sviluppo della società a livello mondiale, avere delle coordinate
verso cui muoverci.
Come al solito il problema è di carattere educativo e di
carattere politico. Noi dobbiamo avere la consapevolezza che le
nostre identità sono delle identità parziali, quindi cercare già
sul piano educativo, nell’ambito scolastico, di saperci vedere
tutti quanti sulla linea di confine, dove appunto le identità non
sono mai delle identità definite.
In questa maniera noi possiamo vedere le cose al di qua del
confine, ma possiamo vedere, perché il confine è facilmente
raggiungibile e oltrepassabile, anche dall’altra parte del
confine.
È questa linea di confine che dovremmo cercare di
concepire. Non è facile, perché si tratta di fare non qualcosa in
cui tutte le identità si perdono, il melting pot come dicono gli
americani, ma di fare il salad bowl, la ciotola in cui gli
ingredienti dell’insalata sono mescolati insieme, ma si possono
anche distinguere. Stanno tutti assieme con la propria identità.
Credo che questa possibilità di concepire le nostre identità
come identità parziali sia un imperativo da seguire. Potremmo
dire anche con il Lévinas di “Totalità e infinito” che dovremmo
essere capaci di pensarci non in maniera totale, totalizzante, ma
nella maniera dell’infinito, del non finito, di ciò che non ha
confine. Levinas arriva a dire che la nostra identità è nell’altro,
è il volto dell’altro, perché il volto dell’altro dice che cosa io
sono.
Può sembrare un’impostazione troppo filosofica, poco
concreta, ma è la realtà. Se io riesco a vedere nell’altro non un
altro da me, ma addirittura il mio volto stesso, allora supero la
38
linea di confine. Non c’è più un finito, un totale, ma c’è il non
finito.
Questo è lo sforzo che dovremo fare. In fondo se facciamo
le Nazioni unite, se pensiamo a un nuovo ordine mondiale, il
progetto c’è. La dichiarazione dei diritti fondamentali delle
nazioni Unite del ’48, le varie convenzioni europee, anche una
convenzione islamica sui diritti dell’uomo, a che cosa tendono
se non a ipotizzare questo nuovo ordine universale in cui non ci
sono più delle identità che si contrastano una con l’altra, ma in
cui ognuna riconosce la propria finitezza e quindi il fatto di
doversi concepire insieme a tutte quante le altre identità?
La dichiarazione dei diritti fondamentali sono molto
importanti perché non fanno altro che costituzionalizzare delle
esigenze, dei bisogni di tutte le culture, di tutti gli uomini.
Ed è significativo che per esempio la prima volta che un
Papa, Giovanni XXIII nella Pacem in terris, ha citato non se
stesso, non solo i documenti della Chiesa, ma un documento
“laico”, ha citato appunto la dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo. Come dire: c’è una possibilità anche per le Chiese
di aprirsi ad un orizzonte infinito.
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Stampato in proprio ad uso interno
Eventuali imprecisioni nel testo (non rivisto dall’autore) dipendono dal fatto
che esso è stato trascritto direttamente dalla registrazione.
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Uguali e diversi