QUADERNI DI PSICOLOGIA GIURIDICA
PUBBLICAZIONE DELLO
STUDIO DI PSICOLOGIA FORENSE E ASSISTENZA GIUDIZIARIA DI MILANO
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DIRETTORE RESPONSABILE: RENATO VOLTOLIN
AUT. TRIB. MILANO N. 74 DEL 27/1/1999
QUADERNO N. 5
I DISTURBI DI APPRENDIMENTO DEL BAMBINO
IN REGIME DI SEPARAZIONE CONIUGALE
di Giovanna Baffi
Premessa
Con questo scritto, rivolto all’attenzione dell’uomo di Legge, propongo una
riflessione su alcuni temi normalmente insoliti in ambito giuridico, quali le
difficoltà di bambini e ragazzi nell'inserimento e apprendimento scolastico.
Questa scelta è motivata dalla considerazione che, in situazioni a rilevanza
giuridica come quella della separazione legale in presenza di minori, le dimensioni
e connotazioni del disagio sono tanto varie quanto difficili da individuare e,
quindi, molte e diverse sono anche le prospettive dalle quali è opportuno cercare
di coglierne la presenza.
Un punto di vista privilegiato per valutare il benessere/malessere del
minore e la qualità delle sue relazioni familiari è, senz’altro, quello scolastico che
tuttavia viene ben poco considerato in sede giudiziale e ritenuto appannaggio
esclusivo di insegnanti e genitori.
Vorrei invece dimostrare come potrebbe essere utile una maggiore
attenzione a tale settore educativo, in grado com’è di rivelarsi preziosa per il
magistrato e l’avvocato che intendano svolgere una tutela sociale funzionalmente
centrata sui diritti della persona.
Cercherò pertanto di mettere in evidenza le correlazioni tra clima familiare e
apprendimento, con particolare riferimento alle situazioni
in regime di
separazione coniugale, per permettere all’uomo di Legge di cogliere elementi
significativi riguardo all’assetto familiare post separazione, e al Giudice di
decidere possibili interventi «psico pedagogici» che potrebbe utilmente prendere
in considerazione nell'ambito della sua funzione.
Sono evidenti le conseguenze di una effettiva, dimostrata, correlazione tra
apprendimento e disagio minorile: la presenza di un problema di apprendimento
potrebbe essere visto, ad esempio, come un segnale di inadeguatezza del criterio
di affidamento adottato in sede giudiziale e quindi portare a richieste di
modificazione dell’assetto familiare nell’interesse del minore; oppure potrebbe
essere una conseguenza di un elevato livello di conflittualità tra i coniugi. Ma di
questo avrò modo di trattare in maniera articolata.
Introduzione
Separazione, divorzio: tali eventi assumono un significato ben più ampio di
uno scioglimento del contratto coniugale quando, in presenza di figli, comportano
il disgregarsi, insieme all’unità familiare, di quel primo gruppo di appartenenza al
quale ogni soggetto in crescita fa riferimento per costruire le proprie certezze.
Due sono i più ricorrenti atteggiamenti nei confronti della separazione:
quello che la interpreta come un trauma, una sorta di perdita improvvisa da
rielaborare alla stregua di un lutto; quello, invece, che vi ravvisa un evento
prevedibile e, in qualche modo, implicito nelle vicende della coppia: il «segnale»
conclusivo di un processo di disgregazione più o meno sommerso, ma già in atto
da tempo.
Questa seconda e più ampia visuale ci sembra meglio adattarsi alla
necessità di comprendere le conseguenze sulla prole della separazione dei
genitori. Comunque, che tale evento, trauma imprevisto o esito di un lento
processo che sia, ponga i minori in situazioni sempre difficili da accettare e
sperimentare, è un dato tanto ovvio e scontato, quanto, forse, oggi un po’
dimenticato. Il dubbio in tal senso sorge nel constatare che, alla diffusione del
fenomeno, che fa sì che lo stato di figli di divorziati venga vissuto come meno
anomalo, sembra corrispondere la convinzione che quanto è condiviso sia anche
meno problematico.
Ma l’estensione e la «normalizzazione» della situazione ne possono davvero
mitigare gli effetti? E’ l’ipotesi che spesso traspare nelle opinioni comuni espresse
da genitori, insegnanti ed educatori: si tende a sdrammatizzare la situazione del
bambino «diviso» in una famiglia divisa appoggiandosi a fattori statistici (come
dire: «mal comune mezzo gaudio»). Vero, sì, che se ne riconosce il disagio, ma
ridimensionandone le conseguenze forse più di quanto non sarebbe lecito fare.
Se consideriamo la separazione come l’atto formale che sancisce la
constatazione del fallimento di un progetto, è consequenziale che, laddove esiste
un fallimento, vi siano esiti negativi che, nel caso specifico, risultano soprattutto
a carico della prole.
Il motivo della propensione a minimizzare tali esiti è, in parte, intuibile. La
Legge, nel consentire la reversibilità del contratto matrimoniale, riconosce il
diritto della persona a darsi un nuovo progetto di vita: è naturale quindi che chi
vi è direttamente coinvolto spesso desideri «voltare pagina» nel modo più indolore
possibile e sia restio a considerare gli effetti negativi della propria decisione. Egli
in qualche modo si sente «autorizzato» a farlo dall’ordinamento giuridico.
Ne consegue la tendenza sociale ad occultare il problema, anziché
preoccuparsi di rilevarne i parametri significativi e, soprattutto, le conseguenze.
A maggior ragione è però indispensabile che coloro che sono deputati alla
tutela dei diritti dei minori, e quindi in primo luogo giudici ed avvocati,
dimostrino un’attenzione particolare alle conseguenze che l’atto giuridico della
separazione coniugale comporta anche sull’equilibrio emotivo e affettivo del
minore, e non solo negli aspetti pratici relativi all'organizzazione di vita.
Un atteggiamento attento implicherebbe la necessità di prendere iniziative a
favore del minore ogni qual volta si ravvisino situazioni che possano accentuarne
anziché alleviarne la sofferenza.Tale buona norma, per quanto possa essere in
linea di principio condivisa, è, di fatto, disattesa nella maggior parte dei casi.
La tendenza del Diritto è, infatti, quella di intervenire quasi esclusivamente
quando la situazione apertamente conflittuale fra i coniugi rende necessaria una
delibera; vi è invece scarsa attenzione alle conseguenze di decisioni che, prese
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«consensualmente» dalle parti in causa, possono risultare gravose e disfunzionali
sul piano psicologico per il bambino o il ragazzo coinvolto.
Questa tendenza alla deresponsabilizzazione è favorita innanzitutto dal
fatto che quando la situazione familiare e relazionale è disfunzionale rispetto alle
esigenze del soggetto in crescita, può essere che gli esiti a livello psicologico
risultino evidenti solo in tempi successivi, come nei casi di devianza nell’età
adolescenziale o, ancora più tardivi, vale a dire nell’età adulta. Inoltre, anche
quando il bambino fornisce «segnali» di disagio precoci e significativi, se pur meno
evidenti, una scarsa sensibilità agli stessi può però impedire di cogliere quei
«campanelli d’allarme» che sarebbe tanto utile poter decifrare al loro primo
apparire.
L'obiettivo di questo scritto è pertanto quello di fornire una breve
riflessione in merito ad alcune manifestazioni che possono essere
considerate indici importanti per evidenziare stati di disagio del bambino e
che non sono facili da interpretare, in quanto tali, da parte di chi non si
occupi abitualmente di problemi psicologici dell'infanzia.
In particolar modo, si è scelto di richiamare l'attenzione sulle disfunzioni
nell’apprendimento scolastico, non perché si voglia attribuire minore importanza
ad altre manifestazioni di disagio, bensì perché è evidente che le difficoltà in
ambito scolastico (sia in quanto a rendimento che a comportamento) sono un
problema al quale difficilmente un genitore resta indifferente: anche genitori poco
attenti sono estremamente sensibili alla riuscita scolastica dei propri figli che
viene vissuta come espressione del successo della famiglia stessa.
L’insuccesso scolastico è una specie di offesa al «blasone» della famiglia e
talora, quando si tratta, ad esempio, di minoranze etniche o religiose, persino
della stirpe. Catalizza quindi, nella maggior parte dei casi, l'attenzione dei
genitori.
Non è peraltro casuale che il disadattamento scolastico sia a volte proprio
una manifestazione, più o meno inconsapevole, di protesta e ribellione, da parte
del bambino/ragazzo, per l'atteggiamento di disattenzione e «archiviazione del
caso» a cui abbiamo accennato: è forse l'unico modo per accentrare l'interesse
degli adulti!
Quello del funzionamento scolastico risulta quindi essere uno spazio di
osservazione che può essere utilmente sfruttato per conoscere la personalità del
minore e anche per comprendere l'impatto che hanno su di lui eventi familiari in
grado di modificare la relazione tra e con i genitori, quali, appunto, la separazione
e il divorzio.
Ne consegue che assume rilievo la posizione di osservatore privilegiato nella
quale si trova l'insegnante e che, a volte, gli permette di evidenziare meglio di altri
situazioni di disagio nel minore1.
Segnali di malessere
Cosa capita, allora, realmente, nel piccolo universo individuale del bambino
(o anche del ragazzo) quando il progetto di una unione costruttiva si è dapprima
deteriorato e poi è fallito, cosicché i genitori imboccano strade separate?
Emozioni e sentimenti possono essere differenti perché diverse sono le
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E’ per questo motivo che sarebbe opportuno inserire anche la figura dell’insegnante tra «le persone
maggiormente significative per il minore», alle quali si fa di regola accenno nella formulazione del «quesito
peritale» nelle C.T.U. disposte dal Giudice.
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situazioni che si creano, in funzione di molte variabili che dipendono sia dal
soggetto stesso (età, sesso, personalità del minore,...) che dalle condizioni
familiari e ambientali (organizzazione di vita che permetta o meno di conservare
rapporti significativi con entrambi i genitori, permanenza o meno di situazioni
conflittuali nella coppia genitoriale, capacità del genitore affidatario di creare
condizioni ambientali favorevoli alla crescita del figlio...).
Ideale e auspicabile per il minore è che sia la funzione paterna che quella
materna possano essere salvaguardate, pur nello smembramento dell'unità
familiare. Tuttavia ciò non è né facile né, diciamolo pure, frequente. Il motivo
della difficoltà è insito nella situazione stessa: persone che non sono riuscite a
realizzare nel progetto matrimoniale una relazione matura e soddisfacente spesso
possono aver riscontrato altrettante difficoltà nell'appropriarsi di un ruolo
genitoriale sano e complementare tra i due partner. Non è raro, ad esempio, che
uno dei genitori - più di frequente la madre - a parziale compensazione di un
rapporto coniugale insoddisfacente, abbia posto, nella relazione con i figli, una
carica emotiva e affettiva tanto intensa da invadere tutti gli spazi e da escludere
l’altro genitore, quasi sempre, a sua volta, corresponsabile per una presenza
scarsa o comunque poco significativa nel contesto familiare.
E’ poi diversa la posizione dei figli a seconda che si tratti di separazioni
consensuali o giudiziali (conflittuali) e, comunque, varia da caso a caso con un
ampio spettro che va da situazioni caratterizzate dal fallimento della capacità di
amare, ma ancora aperte alla fiducia, a situazioni in cui hanno trionfato l’odio e
l’aggressività.
La separazione legale, in quanto atto finale che sancisce una situazione di
fatto già preesistente, è spesso, per il minore, l'evento che concretamente
conferma la realtà di un processo di disgregazione del nucleo familiare già
percepito, più o meno consapevolmente, da tempo.
Forse, in tal senso è, per lo meno, un momento di chiarezza, se pur
dolorosa, rispetto a uno stato di malessere presente, ma non esplicitato;
malessere che, comunque, può aver già trovato espressione nei comportamenti
del bambino. Incapace di esprimere a parole quanto sente e vive profondamente
(il che richiederebbe processi introspettivi non ancora sviluppati), il bambino ci
indica la sua difficoltà attraverso manifestazioni molto diverse.
Il «campanello d’allarme» di un disagio profondo può essere un’alterazione
del comportamento (oppositività, aggressività, difficoltà nella relazione,...), una
variazione dell’umore (tristezza, irritabilità, apatia,...) o, ancora, un disturbo
somatico (problemi del sonno, dell'alimentazione, disturbi di vario tipo senza
evidente causa organica,...).
Tra i vari segnali di disagio psicoaffettivo, si evidenziano, sempre più
spesso, le difficoltà nell’apprendimento scolastico.
E' facilmente intuibile che l’apprendimento scolastico sia strettamente
correlato alla dimensione affettiva ed emozionale: basta pensare che non si tratta
solo di acquisizione strumentale di abilità e competenze, ma si inserisce in un
ampio processo di conoscenza e di sviluppo che non può che coinvolgere la
persona nella sua interezza.
Non è però altrettanto evidente in che misura e con quali modalità
l’apprendimento possa essere considerato un indicatore significativo di
benessere/malessere e, in alcuni casi, il principale (o anche l’unico) sintomo di
un disagio psicologico nel bambino.
E’ proprio su questo aspetto che intendo qui proporre alcune
considerazioni, con una attenzione specifica alla situazione infantile in regime di
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separazione coniugale.
La difficoltà di apprendimento
Per poter considerare la possibile correlazione tra disagio conseguente a
problemi familiari e difficoltà in ambito scolastico, occorre prima aprire una breve
parentesi su quelle che sono oggi alcune caratteristiche dell'insuccesso scolastico
e della difficoltà di apprendimento.
L’esperienza maturata in anni di attività in Servizi Psicopedagogici mi
permette di rilevare che una tra le motivazioni più frequenti che determinano i
genitori a richiedere una consultazione è la presenza di problemi relativi
all'inserimento e al rendimento scolastico dei loro figli.
Quasi sempre all'origine della richiesta vi è la constatazione di un profitto
giudicato insufficiente o, comunque, inferiore alle aspettative, spesso associato a
comportamenti in qualche modo distonici rispetto alle esigenze dell’ambiente
scolastico.
E’ ovvio che molto meno ci si preoccupa quando il rendimento è buono o
addirittura ottimo, anche se l’alunno dimostra un investimento eccessivo delle
proprie energie nel lavoro scolastico: è il caso di quei bambini precisi in maniera
ossessiva, puntigliosi nel loro impegno, incapaci di accettare di sbagliare e
talmente presi dal ruolo di «primi della classe» che, a ben vedere, attraverso tali
manifestazioni, possono evidenziare un disagio anche più grave!
Difficoltà nell'apprendimento e/o in genere nell’inserimento scolastico sono
attualmente molto diffuse: stime recenti individuano intorno al 20 % della
popolazione scolastica la proporzione di alunni che completano la scuola
dell’obbligo avendo raggiunto solo parzialmente gli obiettivi di apprendimento e
con risultati sensibilmente inferiori alla media. Ben il 10% presenta seri problemi
nell’apprendimento.
L’iniziativa di indagare i motivi dello scarso risultato è motivata nei genitori
dalla consapevolezza che «qualcosa non va» e dal disagio per gli inevitabili
sentimenti di delusione e frustrazione che l'insuccesso scolastico dei propri figli
comporta. Spesso si rivolgono allo psicologo su sollecitazione degli insegnanti,
disorientati quando l’alunno rende inefficaci le loro abituali strategie in ambito
didattico e/o relazionale.
Nel migliore dei casi vi è un’alleanza, almeno apparente, tra famiglia e
scuola nel voler «aiutare» il bambino; a volte la conflittualità, con reciproco
addebito di responsabilità, è aperta o solo vagamente mistificata.
E’ evidente comunque che, quasi sempre, il problema è individuato «nel»
bambino e non, come sarebbe il caso, «nel rapporto» bambino/genitori o
addirittura «nei» genitori. Tale tendenza risponde ad un criterio
inconsapevolmente difensivo da parte dei genitori i quali, restii a mettere in
discussione i propri modelli genitoriali (il che potrebbe equivalere a rivedere
criticamente se stessi e le proprie scelte di vita), sono più propensi a ricercare
cause extra relazionali e soluzioni semplificate.
Di solito vi è, allora, il desiderio di comprendere le cause delle difficoltà del
bambino, ma, soprattutto, la richiesta è di individuare strategie - ma anche
ricette magiche - atte alla risoluzione, possibilmente rapida e indolore, del
problema.
Dare una risposta a queste richieste non è facile, ma risulterebbe in ogni
modo improduttiva, perché i problemi evidenziati in ambito scolastico debbono
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essere utilizzati allo scopo di diventare rivelatori di situazioni molto complesse
che coinvolgono non solo la realtà soggettiva del bambino, ma anche la sua
relazione nell'ambiente familiare ed extra familiare. In certi casi, addirittura, il
bambino, quando manifesta il proprio malessere attraverso un comportamento
disadattato alle richieste scolastiche, si fa «portavoce» di un più ampio malessere
familiare e, quindi, è impossibile «curare»
il bambino senza modificare
profondamente gli assetti e le dinamiche familiari.
Nel caso di genitori separati, che è quello che qui ci interessa, si ravvisano,
più di frequente, due tipi di atteggiamenti.
Vi è chi manifesta una resistenza, ancora maggiore rispetto a quella degli
altri genitori, a prendere in considerazione l’insuccesso del proprio figlio. In
questi casi è come se l’adattamento e la riuscita scolastica costituissero una sorta
di assoluzione e deresponsabilizzazione rispetto al timore di aver danneggiato la
prole con il proprio fallimento coniugale. Se non è possibile negare l’evidenza dei
problemi scolastici, si tende allora ad attribuirne la responsabilità a cause esterne
(cattivo insegnamento, ambiente scolastico o sociale inadatto,...) o interne al
bambino (sue caratteristiche o deficit peculiari); si evitano invece possibili
correlazioni tra i comportamenti del figlio, la situazione familiare e il rapporto
bambino/ genitori.
Vi sono, in alternativa, genitori che, pur solleciti nel riconoscere il
disadattamento scolastico del figlio come esito del disfacimento del nucleo
familiare, non sono disponibili ad una assunzione di responsabilità. Questo
accade, però, soprattutto in coppie che mantengono rapporti conflittuali, laddove
il disagio della prole viene strumentalizzato alfine di colpevolizzarsi
vicendevolmente. In tali casi il genitore affidatario tende ad attribuire le difficoltà
del bambino alla scarsa o poco significativa presenza dell’altro; viceversa il
genitore non affidatario imputa all’altro scarse capacità educative.
La «fascia grigia»
L’insuccesso scolastico sottende una casistica molto differenziata.
Tra i soggetti che riscontrano difficoltà nell’apprendimento solo una minima
parte presenta situazioni di disabilità che possono essere definite come
«handicap». Con questo termine, che è molto generico e improprio, ma diffuso nel
linguaggio comune, ci si riferisce a situazioni di deficit intellettivo, collegate o
meno a patologie organiche, o a quadri di patologia psichica tali da precludere o
limitare fortemente l’apprendimento.
Per ogni bambino «handicappato» ci sono, però, almeno dieci bambini che
segnalano problemi.
Vi è una sorta di «fascia grigia» fatta di alunni che, apparentemente sani e
«normali», hanno difficoltà ad imparare, difficoltà a stare a scuola.
In buona parte di questi casi, il disfunzionamento intellettivo ha origine da
problemi nello sviluppo emozionale ed affettivo del bambino.
Cause di natura emotiva e affettiva possono infatti ridurre le funzioni
dell’intelligenza, determinando una sorta di disattivazione delle capacità. La
disponibilità a conoscere appare, allora, scarsa, e il soggetto, pur sano e
apparentemente dotato, in quanto a livello intellettivo, rallenta lo sviluppo delle
proprie capacità (fino a giungere, nei casi più gravi, ad una vera e propria
«disattivazione» del pensiero valutata come «pseudoinsufficienza» mentale).
Dal punto di vista scolastico alcune manifestazioni tipiche sono: la difficoltà
a concentrarsi (sembra «con la testa fra le nuvole», assente, fatica a seguire,...) e
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l'indecisione (non sa come attivarsi, chiede aiuto,...).
Quelli che appaiono compromessi non sono tanto i livelli di funzionamento
più basali e automatici (innati e legati al substrato nervoso), quanto i livelli più
attivi ed elaborati di funzionamento, cioè quelli che richiedono una maggiore
disponibilità cognitiva.
L’alunno appare allora poco consapevole delle capacità che pur possiede,
fatica ad organizzarsi rispetto ad un compito, non trova le strategie più adeguate
e, spesso, nell’affrontare situazioni problematiche, ha la tendenza a procedere in
modo casuale e con atteggiamenti rinunciatari.
Purtroppo quadri di questo tipo non sono facilmente riconosciuti e
compresi dagli adulti, genitori e insegnanti, i quali, delusi nelle loro aspettative,
tendono a colpevolizzare il bambino per i comportamenti giudicati come «scarso
impegno», «cattiva volontà», anziché cogliere i comportamenti stessi come
espressione di malessere e quindi indicatori di un disagio profondo.
D’altronde spesso è il bambino stesso a dimostrare una inconsapevole
connivenza con gli adulti nell'occultare i suoi reali problemi.
Se all’origine del disagio vi è un rapporto in qualche modo disfunzionale
con i genitori e in seno alla famiglia, prendere consapevolezza ed esplicitare
apertamente tali motivi equivarrebbe ad «attaccare» proprio quei rapporti che il
bambino tende istintivamente a difendere. E tanto più viene sperimentata la
fragilità familiare, come nel caso di disaccordo o separazione dei genitori, tanto
più il soggetto in crescita teme di perdere, o più ancora, di distruggere quegli
affetti tanto importanti per la propria sicurezza personale.
Talora il timore è tale da indurre il bambino a comportamenti «iperadattivi»:
sempre accondiscendente alle richieste dell’ambiente, non esprime desideri o
sentimenti che possano disturbare il contesto.E’ proprio in tali casi che più di
frequente i disagi non resi manifesti trovano espressione attraverso segnali meno
espliciti, come già indicato.
Riguardo alla condizione dei figli in regime di separazione coniugale,
sembra evidente che, se è vero che non esistono patologie o situazioni specifiche
espressione di tale stato, è pur vero che tali soggetti si possono più facilmente
trovare in situazioni a rischio rispetto al quadro di difficoltà sopra indicato.
Il «caso» di Francesca
Si ritiene, a questo punto, funzionale la presentazione di un «caso» specifico
attraverso il quale esemplificare alcune caratteristiche che possono essere
ritenute le più comuni, pur nell'estrema variabilità soggettiva, nelle situazioni di
separazione coniugale.
L’obiettivo è quello di evidenziare le reazioni spontanee più frequenti nei
genitori divisi e nei loro figli.
Prendiamo quindi in esame la situazione di Francesca, una bambina di
dieci anni, graziosa e vivace che frequenta l'ultimo anno della scuola elementare.
E’ la madre, una signora ancora giovane e dall'aspetto piacevole alla quale la
bambina è affidata dopo la separazione dei genitori avvenuta tre anni fa, a
richiedere una consultazione psicologica per comprendere la natura di alcuni
comportamenti della figlia a suo avviso preoccupanti.
Della propria relazione con l’ex coniuge e dei motivi della separazione la
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signora non riferisce, tranne alcuni accenni a rapporti tuttora tesi («quando ci
sentiamo per telefono si litiga sempre...») e alla loro difficoltà a comunicare.
Con il figlio maggiore dodicenne e con il convivente, presente in famiglia da
alcuni mesi, i rapporti vengono invece descritti come tranquilli, di accettazione
reciproca.
E’ proprio Francesca a creare problemi! «E’ molto vivace e in continua
agitazione - riferisce la signora - un peperino: disubbidiente a casa, litigiosa a
scuola, soprattutto con i compagni maschi con i quali si confronta».
Già dalla scuola materna la bambina manifestava un carattere un po’
prepotente: «attaccabrighe, combinava guai». Ed ora è «violenta nei giochi,
provocatoria, impulsiva, agisce senza riflettere, non accetta rimproveri»...
insomma una bambina difficile da controllare da parte della sola madre. La
signora si sta implicitamente lamentando della mancanza di una funzione
paterna e del fatto che la figlia sembra sfidarla ad assumere un ruolo autorevole
che competerebbe al padre.
Il rendimento scolastico è, nel complesso, sufficiente, ma viene considerato
inferiore alle reali possibilità della bambina.
Negli aspetti di apprendimento scolastico Francesca diventa passiva, poco
propositiva.
Viene rimarcato soprattutto il suo scarso impegno: si distrae, lavora
malvolentieri, è restia ad eseguire i compiti che, solitamente, rimanda il più
possibile, attendendo il ritorno della madre.
La scarsa motivazione e la poca autonomia nello studio costringono la
madre a situazioni di aiuto definite «stressanti», termine utilizzato per definire la
fatica del comunicare.
Penso che forse la difficoltà sta nel comprendere il significato reale di
quanto la bambina propone. La richiesta di accudimento che Francesca rivolge
alla madre attraverso la dipendenza nel lavoro scolastico può sottendere, infatti,
un bisogno di accoglimento affettivo che la signora non riesce a cogliere nella sua
essenza.
Tale incomprensione può derivare, come vedremo meglio in seguito,
dall'adesione della madre ad un ruolo che non le è proprio: l’assumere una
funzione
«regolativa» con modalità tipicamente paterne, determina in lei
atteggiamenti rigidi che soffocano la spontaneità.
L’istintiva capacità di capire i bisogni e dare risposte adeguate, stabilendo
un rapporto empatico, risulta, di conseguenza, sacrificata.
La signora sottolinea anche la difficoltà nei rapporti della figlia con il
padre, conseguente, a suo giudizio, alla preferenza che l'ex coniuge
manifesterebbe per il figlio maschio, rispetto alla femmina.
La bambina sembrerebbe risentire del rapporto di solidarietà e confidenza
che intercorre tra padre e fratello, con sentimenti di esclusione.
Le informazioni date sul rapporto padre/figlia sono brevi, ma indicative del
tentativo di addebitare in qualche modo lo scontento di Francesca a
manchevolezze nel comportamento del padre stesso.
Già dal primo colloquio, risulta evidente la tendenza della signora a
«isolare» il problema in Francesca: individua con molta precisione gli aspetti
considerati «disfunzionali» nell'agire della bambina e discordanti rispetto a una
situazione familiare descritta come «normale».
La conflittualità, se pur riconosciuta, è tenuta «distante», relegata nel
passato o, comunque, nel rapporto con l'ex coniuge che «fa parte» del passato. E'
Francesca a turbare un clima familiare ora complessivamente sereno.
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Certo è che il desiderio di mettere da parte scelte, errori e delusioni
precedenti è molto forte.
Il considerare le difficoltà attuali della figlia come conseguenza di eventi del
passato (il conflitto e la separazione dei genitori) e di situazioni presenti (la
relazione attuale tra e con i genitori) non porterebbe, secondo la madre, ad una
opportuna chiarificazione, ma verrebbe a vanificare il tentativo di «ricostruzione»
del clima familiare.
In quale modo il perenne dissidio tra i coniugi, ora sommerso, ma pur
sempre latente in un clima teso e di incomprensione, può influire sulla
bambina?
La signora evita difensivamente di porsi il quesito.
Il padre di Francesca richiede, a sua volta, un colloquio per avere
chiarimenti in merito ai comportamenti problematici della bambina che, peraltro,
egli tende a minimizzare. Si tratta di un uomo di circa quaranta anni, operaio;
l'aspetto è piuttosto modesto, un po’ trasandato. Sembra alquanto agitato e si
esprime in maniera concitata. Tendenzialmente verboso, dimostra difficoltà
nell’ascoltare quanto gli viene comunicato. Ci tiene a mettere in evidenza il
proprio attaccamento ai figli: ha rinunciato per loro ad un rapporto sentimentale
durato qualche tempo; nonostante ristrettezze economiche concede loro quanto
possibile, compreso un viaggio in aereo, per non porli in situazione di inferiorità
rispetto ai compagni; cerca di dialogare molto con loro, di dare buoni principi,
ecc. Assume, insomma, un atteggiamento materno- sacrificale.
Evidenzia, in antitesi, le carenze della madre nei confronti dei figli: non li
ama, antepone ai loro interessi quelli del convivente, è preda di attacchi di ira
poco controllabili e, secondo quanto riferito dal figlio maggiore e constatato da lui
stesso, li picchia con eccessiva violenza. E’ per tali motivi che dichiara la sua
intenzione di chiedere prossimamente l’affido dei figli.
Ne trae risalto il suo atteggiamento riparativo e compensativo: esibisce il tentativo
di assumere in sé parti «materne», supplendo alle carenze della madre reale.
Alla signora peraltro attribuisce, pur senza entrare nei dettagli, la responsabilità
del loro divorzio, facendo vagamente riferimento a relazioni extraconiugali; nel
riferire ciò assume un tono da donna tradita che si lamenta. Rispetto alla
personalità dei figli, conferma di avere un rapporto più facile con il maschio che
«gli racconta tutto» e manifesta il desiderio di vivere con lui avendo un pessimo
rapporto con la madre.
Francesca esprime poco le proprie idee e i propri sentimenti e gli risulta
difficile comprenderla, tuttavia cerca di esserle vicino, ad esempio aiutandola nei
compiti scolastici. Riferisce inoltre di aver sofferto di disturbi depressivi nel
periodo precedente la separazione e di essere uscito dalla depressione rifiutando
farmaci e cure e solo facendo leva sulla propria volontà.
Con la velleità di esibire una posizione «forte» (con la «volontà» ha risolto i
propri problemi e sarà in grado di modificare la situazione dei figli), sembra voler
recuperare una posizione «virile».
Chi sono i genitori di Francesca?
Che questa coppia abbia messo da parte, ma non risolto i propri conflitti
emerge già dai primi colloqui.
Nella loro separazione si coglie non tanto un processo maturativo, come
riconoscimento di una situazione di fatto non più soddisfacente per entrambe le
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parti che necessita di soluzione, quanto un processo distruttivo denso di
colpevolizzazioni reciproche e di intenti punitivi che perpetuano la conflittualità.
Padre e madre sembrano entrambi in difficoltà nell'assumere il proprio ruolo e,
nel contempo, preoccupati più di supplire il genitore assente per non farne
sentire la mancanza, che di favorire l'esplicazione del ruolo da parte dell'altro.
Cosi, nella madre prevale un rapporto regolativo finalizzato ad assumere funzioni
paterne mancanti. Tenta di compensare un'assenza che non è solo fisica, ma che
corrisponde all'immagine che la signora ha del marito: identificato come una
figura svalutata, debole, incapace, non solo è rifiutato come partner, ma ritenuto
inefficace nel condividere le responsabilità genitoriali.
La madre si carica di una situazione di gestione familiare molto pesante e, nello
stesso tempo, lamenta di «subire» tale carico.
Il padre, a sua volta, sembra aver demandato le funzioni paterne: riconosce
di fatto la sua scarsa incisività nei processi decisionali relativi ai figli. Per quanto
riguarda Francesca, ammette anche la scarsa conoscenza di questa bambina che
gli appare enigmatica: quali realtà, quali sentimenti, quali fantasie si celano in
quella difficoltà comunicativa che egli riconosce?
E quando «gioca» il ruolo materno, o meglio quello che egli ritiene essere il
ruolo materno mancante nella madre stessa (fare per i figli rinunce e sacrifici,
cercare la confidenza complice), il suo appare, più che altro, il tentativo di
appropriarsi di una famiglia che sente non appartenergli.
Questo reciproco contendersi i propri ruoli, che ha forse radice, ancor
prima della separazione, nella convivenza conflittuale, rende problematiche le
funzioni genitoriali.
Chi è Francesca?
La descrizione della bambina da parte dei genitori si focalizza su due
aspetti apparentemente contraddittori:
- un comportamento, quello riferito, molto più mascolino che femminile; l'aspetto
«attivo» di Francesca sembra prevalentemente convogliato in atteggiamenti
talvolta provocatori, talvolta oppositivi, ma comunque con tonalità aggressive.
Facendo «il maschiaccio», la bambina sembra più identificarsi con il genitore che
vorrebbe avere (il padre), piuttosto che con il genitore che dovrebbe voler essere
(la madre).
- un atteggiamento poco attivo, dipendente, un po’ «spento» per quanto riguarda
la possibilità di affrontare impegni di apprendimento scolastico. Ella assume in sé
anche il modello di un padre depresso? O l'immagine di un padre svalutato agli
occhi della madre?
In ogni caso la bisessualità di Francesca (parti femminili e maschili) sembra
in conflitto, anziché complementare.
Al primo incontro la bambina appare comunicativa e ben disposta a
collaborare. Ciò che spontaneamente racconta di sé trova corrispondenza con la
descrizione dei genitori. Dichiara di essere venuta per migliorare il proprio
carattere, in quanto «si arrabbia facilmente». Quando i compagni «la scherzano»
lei «se la prende».
Con il fratello, «lotta» e, a volte, «si scontra» un po’ anche con la mamma.
Della scuola riferisce che le maestre sono «serie» e la sgridano spesso, le attività
didattiche le appaiono faticose.
Spontaneamente non fa alcun riferimento al padre, al quale accennerà solo
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in un momento successivo, esprimendo il desiderio che i genitori ritornino
insieme o, comunque, di vedere il papà tutti i giorni.
Nel dialogare Francesca appare molto loquace, dà l'impressione di voler
«riempire gli spazi», raccontando molte cose restando, però, in superficie, quasi ad
evitare di soffermarsi su particolari in qualche modo problematici. La bambina si
esprime con proprietà e con logica, dal che sembrerebbe possibile dedurre un
ottimo livello di capacità in generale che, viceversa, non riesce ad esprimere a
fronte di un compito, test di intelligenza o prova scolastica che sia.
In situazioni problematiche la vivacità di Francesca sembra, infatti,
«spegnersi», la bambina pare procedere a caso, senza linee di azione precise e
preordinate. Alla prontezza intuitiva, che pure dimostra, non segue un progetto
risolutivo funzionale, l'errore non viene utilizzato per individuare strategie più
utili, l’atteggiamento è tendenzialmente rinunciatario.
Sembra, quindi, disorientata e «incapace di pensare».
L’immagine di sé appare confusa: sembra che per Francesca sia difficile
definire un proprio spazio personale e comprendere veramente che cosa gli altri si
aspettino da lei.
Nel rapporto con il padre pare emergere un desiderio di vicinanza maggiore
rispetto a quanto espresso nella realtà. La bambina sente di non avere uno spazio
reale con lui.
Ma nemmeno con la madre esiste uno spazio soddisfacente: la relazione
con lei sembrerebbe infatti caratterizzata da sentimenti ambivalenti, come se
Francesca sentisse un forte contrasto tra i suoi desideri di accoglimento e la
realtà di una madre presente soprattutto negli aspetti regolativi. Francesca mi
appare caricata delle situazioni di conflitto dei genitori e pare contenere la loro
confusione di cose non dette. Dimostra peraltro una situazione di incertezza
rispetto al clima affettivo, come se, pur desiderando rapporti intensi e
significativi, non sapesse se e in chi riporre la sua fiducia, né con chi stringere
alleanze.
Alcune considerazioni consequenziali
Si è scelto volutamente di descrivere una situazione di separazione
coniugale che, rispetto a molti altri casi, riveste caratteristiche di apparente
«normalità». Non vi sono, infatti, aperti dissidi, né, per ora, fatti rilevanti dal
punto di vista giuridico e solo un'eventuale richiesta del padre di avere i figli con
sé potrebbe spostare il problema in sede giudiziale.
Eppure il malessere è diffuso, anche se poco manifesto. L’abbiamo rilevato
in Francesca, ma il suo disagio non è di facile lettura e risulta evidente solo se lo
si interpreta attraverso i comportamenti della bambina.
I segnali di disturbo di Francesca, a fronte di situazioni di deprivazione o
abuso subite da altri bambini, potrebbero apparire di scarsa rilevanza, non sono
tuttavia trascurabili nella sua economia personale.
I rischi per la sua evoluzione sono ravvisabili:
- nello sviluppo della personalità, per la possibilità che emergano problemi
maggiori, anche in relazione alla difficoltà a identificarsi in un ruolo
femminile
- nell'ambito dell'apprendimento, per la probabilità di una sempre più scarsa
riuscita scolastica, condizionante per le prospettive future della ragazza.
La difficoltà a motivarsi e concentrarsi nelle attività scolastiche, infatti, se
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pur conseguente alla permanenza di conflitti emotivi irrisolti, ha, in genere, come
esito un graduale ritardo nei ritmi di apprendimento.
Peraltro i comportamenti di Francesca, se non compresi adeguatamente,
possono facilmente essere interpretati come scarsa volontà o scarsa intelligenza,
inducendo, in entrambi i casi, indebite penalizzazioni.
Funzioni genitoriali e conoscenza
Per meglio comprendere la natura del problema, occorre illustrare, se pur
sinteticamente, il concetto di funzioni genitoriali e valutarne l'essenzialità per lo
sviluppo del bambino, sia dal punto di vista psicofisico che cognitivo.
Ciò soprattutto se si vuole capire che cosa possa essere messo
maggiormente in difficoltà nel rapporto figlio/genitore, a fronte di una
separazione coniugale.
Se è vero che il processo di crescita, in tutti i suoi aspetti ivi compreso
l’apprendimento, è un evento spontaneo connaturato all’uomo, è altrettanto vero
che tale sviluppo può essere favorito o meno dall’ambiente nel quale si realizza. E
nell’ambiente è, in primo luogo, la relazione con i genitori che condiziona la
crescita e determina le sorti dello sviluppo di ogni soggetto.
Il bambino, si potrebbe dire, «si costruisce» nel suo rapporto con i genitori,
interiorizzandone le caratteristiche. Non si tratta, però, di semplice imitazione,
bensì di un processo molto più ampio e complesso.
La psicoanalisi definisce «organizzazione di oggetti interni» la capacità che
ognuno di noi possiede di costruire dentro di sé fantasie e immagini con le quali
si rappresenta le persone, le relazioni e gli eventi della propria esperienza di vita.
I primi «oggetti interni» che il bambino, fin dalla nascita, comincia a
costruire corrispondono all’immagine dei genitori collegata al loro agire e al modo
di svolgere le loro funzioni.
In che modo la madre, dapprima, e, successivamente, il padre sanno
contenere e gestire le emozioni, soprattutto quelle negative: sofferenza, paura,
angoscia, che il bambino si trova ad affrontare fin dai primi momenti di vita?
Se il genitore è capace di modulare tali emozioni in modo da renderle
accettabili, può aiutare il bambino. Viceversa se lo lascerà solo con le proprie
sofferenze, lo indurrà a negarle o a tentare di eluderle, a scapito delle essenziali
esperienze emotive di cui egli ha bisogno per un adeguato sviluppo psicologico.
Padre e madre possono trasmettere fiducia o sfiducia, mostrarsi tolleranti
oppure no, infondere sentimenti di ottimismo e sicurezza o, al contrario, di
frustrazione e incapacità.
Sono tali atteggiamenti che il bambino gradualmente fa propri,
interiorizzando immagini parentali con le quali tende ad identificarsi, che prende
come modello e che saranno l’elemento portante della propria struttura di
personalità.
Durante la crescita e nelle fasi successive della vita altre persone,
nell’ambito familiare ed extrafamiliare, saranno oggetto di introiezioni
complementari che andranno ad integrare quelle precedenti; il ruolo delle figure
genitoriali rimarrà comunque primario nella strutturazione della personalità.
Per quanto riguarda, in particolare, la genesi dei processi di
apprendimento, è relativamente recente nel tempo l’acquisizione che lo stesso
sviluppo della conoscenza possa determinarsi solo in presenza di condizioni
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emotive e affettive idonee.
E’ soprattutto merito della psicoanalisi l’aver dato un contributo
significativo in tal senso, inserendo il processo di conoscenza nella dimensione
affettiva ed emozionale della personalità.
In particolar modo, grazie a Wilfred Bion, si è giunti a ipotizzare che ciò
che spinge l’individuo a conoscere il mondo esterno sia una pulsione
epistemofilica, un vero e proprio istinto innato: il desiderio di colmare il vuoto,
l’incertezza, una specie di «fame di verità» a fronte della quale il conoscere diventa
«cibo per la mente».
Non si tratta tuttavia di una conoscenza «asettica» del mondo esterno. Il
mondo assume un significato in funzione delle nostre emozioni, delle quali, per
un meccanismo di proiezione, diventa un «contenitore».
Questo ci appare evidente quando consideriamo, ad esempio, quanto possa
diventare per noi dolorosamente negativo un luogo dove abbiamo sperimentato
disperazione, mentre, invece, luoghi e oggetti cari ai nostri ricordi sono quelli che
abbiamo associato ad emozioni positive.
E quindi anche la spinta a conoscere è determinata dalla qualità delle
emozioni che accompagnano e traducono l’esperienza: si apprende
significativamente ciò che stimola in noi emozioni siano esse positive o anche
negative purché tollerabili. Una angoscia eccessiva, non modulata dall’intervento
esterno, può impedire la conoscenza e, in casi estremi (e patologici) bloccare lo
stesso sviluppo del pensiero; ma anche l’assoluta assenza di esperienze dolorose è
poco funzionale alla crescita.
Alcuni esempi: per il bambino molto piccolo il mondo esterno si presenta
attraverso emozioni positive, ma anche altre negative: disagio, dolore, paura della
separazione e della solitudine.
E’ la presenza di una madre attenta che può rendere possibili tali
esperienze emotive, contenendo una angoscia che, se eccessiva, potrebbe indurre
il bambino a rifiutare l’esperienza, ma, nel contempo, permettendogli di affrontare
piccole frustrazioni in un clima fiducioso e costruttivo per poter apprendere
dall’esperienza.
Così, quando il neonato esprime il suo disagio attraverso il pianto, un
intervento materno troppo procrastinato nel tempo può indurlo a chiudersi in uno
stato di angoscia, negando quelle stesse emozioni che gli procurano una sofferenza
intollerabile. D’altronde, un intervento troppo immediato, o ancor più, un modo di
prevenire con ansia ogni bisogno del bambino può, a sua volta, evitare al bambino
quelle esperienze emotive necessarie alla conoscenza.
E’ quanto accade anche quando genitori iperprotettivi impediscono al figlio
esperienze che gli permetterebbero di crescere affrontando le proprie sofferenze e
paure. Concedere al bambino di dormire con i genitori non è, ad esempio, il modo
migliore per fargli superare le normali ansie del distacco serale, così come
assecondarlo nelle sue richieste di dipendenza non ne favorisce la possibilità di
sperimentare forme di autonomia vincendo la paura della solitudine (pur
acconsentendo che il tutto deve avvenire con gradualità).
L’azione di contenimento delle angosce del bambino al fine di consentirgli la
sperimentazione e la conoscenza, è quindi uno dei compiti fondamentali del
genitore ed è, in particolare, prerogativa della funzione materna.
Se nella madre il bambino ripone e scarica le proprie ansie e bisogni
cercandone la rassicurazione, è però il padre che a ciò pone un freno e, con la
sua presenza significativa, contribuisce a diluire il primo legame del bambino con
la madre, ne facilita la difficile separazione e lo stimola ad aprirsi alla conoscenza
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del mondo e quindi alla crescita.
Quando il bambino, al suo ingresso nella scuola, acquista per la prima
volta un ruolo sociale ben definito, è del supporto di entrambi i genitori che egli
ha necessità.
La funzione del padre, che agli occhi del bambino rappresenta l’universo
maschile caratterizzato dall’ordine e dalla norma, è, a questo punto, essenziale.
Anche quando è la madre a stabilire le regole, il loro imprinting risulta sempre di
stampo «paterno».
Esistono quindi funzioni più specificamente «paterne» e «materne», anche se
vi possono essere compensazioni, per cui entrambe le funzioni possono essere
svolte in parte da ambedue i genitori.
L’organizzazione di una personalità adulta, che inizia a strutturarsi già
dalla prima infanzia, prevede, peraltro, un’equa integrazione di attributi maschili
e femminili, possibile se vi è una buona interiorizzazione della coppia genitoriale.
Possiamo già facilmente intuire quanto possa risultare disfunzionale a queste
necessità il fatto che la coppia sia separata.
Rapporto tra funzioni genitoriali e tipi di apprendimento
Una buona crescita appare quindi condizionata da varie capacità che
madre e padre riescono ad esplicare: in primo luogo la capacità di generare amore
che è il presupposto per creare un clima di fiducia e sicurezza e per rendere
accettabile la dipendenza dai genitori. Altre funzioni sono quelle di infondere
speranza e ottimismo, fondate sulla fiducia che le forze costruttive sono in grado
di prevalere su quelle distruttive e, come già accennato, di contenere e rendere
accettabile la sofferenza depressiva (dolore del distacco, timore di perdere
l’oggetto amato) che è sempre implicita nella crescita.
Tale azione di contenimento di emozioni negative è quella che permette al
bambino di rapportarsi all’esperienza in modo sufficientemente positivo e quindi
di poter sviluppare quei processi di simbolizzazione che sono alla base della
capacità di pensare.
Sono queste pertanto le condizioni attraverso le quali si può accedere alla
conoscenza e, quindi, all’apprendimento inteso, secondo la definizione data da
Bion, come un apprendere dall'esperienza, dove la partecipazione ad
un’esperienza emotiva induce un cambiamento nella struttura della personalità.
Quando, invece, tali funzioni genitoriali positive non sono esercitate, si ha
ugualmente la conoscenza, ma il bambino sarà orientato a tipi diversi di
apprendimento.
Donald Meltzer, rifacendosi al modello della mente di Bion e, prima ancora,
al modello freudiano già rielaborato da Melanie Klein, ha sottolineato la
correlazione che esiste tra le modalità di apprendimento dei bambini e i diversi
modi di svolgere le funzioni emotive che si riscontrano nelle varie forme di
organizzazione familiare. Ha quindi individuato alcune modalità di
apprendimento distorto che sono l’esito di condizioni ambientali inadeguate.
Quando nella famiglia prevalgono odio e sfiducia, si tenderà ad imparare
solo per sottomissione a colui che insegna, vissuto come persecutore, e quindi
l’apprendimento sarà superficiale e presto espulso dalla mente oppure riprodotto
rigidamente.
Se il clima è caratterizzato da pessimismo e paura di forze distruttive
soverchianti, i membri della famiglia sono portati ad assumere atteggiamenti
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difensivi e i meccanismi di apprendimento saranno di tipo ossessivo (con attività
tipiche quali classificare, catalogare, collezionare, tutte attività volte a controllare
simbolicamente gli oggetti).
Si potrà anche sviluppare un apprendimento raccattato, così detto in
quanto basato sul desiderio di appropriarsi di abilità e conoscenze altrui; e, nel
contempo, coesistente con un’invidia svalutativa.
In alcuni casi vi sarà una identificazione adesiva con le qualità superficiali
di un modello, quelle socialmente «visibili».
Un’atmosfera familiare caratterizzata da poca chiarezza e confusività non
potrà poi che tradursi in una tendenza a «non pensare» e «non imparare».
Da tutto ciò si può facilmente dedurre:
a) che la possibilità e modalità di apprendimento è fortemente condizionata dal
clima e dalle esperienze con i genitori nelle loro funzioni;
b) che vari tipi di difficoltà riscontrate nel partecipare all’esperienza scolastica
possono essere indice di problemi nella relazione familiare
c) che quello dell’apprendimento può essere considerato un ambito prezioso per
l’osservazione del bambino;
d) che l’insegnante può trovarsi nella situazione di un osservatore privilegiato, ma
potrà, a sua volta, diventare, nello svolgimento delle proprie
funzioni, un
modello complementare o alternativo a quello genitoriale.
Infatti, per una naturale tendenza a ripetere (che la psicoanalisi definisce
come transfert), l’alunno tende a riprodurre nel rapporto con gli insegnanti, il
rapporto con l’immagine interiorizzata dei propri genitori. L’insegnante,
nell’assumere una funzione vicaria, può, però, modificare l’esperienza del
bambino, fornendogli un modello diverso con il quale identificarsi.
Il problema dei genitori separati, modo di affrontarlo, conclusioni
Per ricondurre il tutto a quello che è l’oggetto di questa riflessione, ovvero lo
sviluppo e l’apprendimento del bambino nella famiglia divisa, è consequenziale
ritenere che, laddove i genitori sono presenti alternativamente e in modo
diseguale e soprattutto non complementare, lo svolgere funzioni genitoriali
equilibrate diventi un compito non impossibile, ma molto più difficile.
Anche se non si può stabilire una tipicità, in quanto ogni situazione
individuale è diversa e irripetibile, si possono comunque rilevare le caratteristiche
più frequenti.
Quando la madre, per esempio, si sente sola nell’allevamento della prole, e
non adeguatamente sostenuta dalla presenza «razionalizzante» di un partner che
possa attenuare le sue insicurezze, spesso è indotta a sviluppare modalità
ansiose che la inducono ad atteggiamenti iperprotettivi, con una presenza
invasiva rispetto ai figli. In tal caso è probabile che il bambino stenti ad assumere
in sé quelle parti identificate come «maschili»: capacità di emergere, farsi valere,
assumersi responsabilità di protezione e sostegno.
L’apprendimento, in queste situazioni, è, di solito, connotato da scarsa
iniziativa e atteggiamenti superficiali, prettamente improntati all’acquisizione
passiva e senza sforzo.
Altro caso ricorrente si ha quando la madre, nel sentirsi sola ad assolvere il
suo compito, tende a compensare la mancanza del partner assumendo anche un
ruolo paterno e identificandosi con l’assente. Ciò può funzionare o meno, ma
dipende dalla capacità della donna a calarsi in tale ruolo e questo, a sua volta,
dipende dall’introiezione delle funzioni paterne che ella possiede in base alle
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esperienze maturate nel rapporto con i propri genitori.
Può accadere che la prevalenza di aspetti regolativi, magari interpretati in
maniera rigida, o comunque non adeguata, risulti disfunzionale.
Può essere allora che il bambino metta in atto comportamenti reattivi, di
rifiuto delle regole.
Gli esempi riportati si riferiscono alle situazioni, in genere prevalenti, di
minori conviventi con la madre. Ciò non toglie che dinamiche analoghe, se pur
ribaltate nel ruolo, possano esistere nel rapporto con il padre affidatario.
Per parte sua, il genitore non convivente, può trovarsi, nello svolgere la
propria funzione con i figli, in situazioni non affatto facilitanti. Quando poi nella
coppia, prima e dopo l’atto di separazione, è presente una forte conflittualità,
manifesta o implicita, ma pur sempre significativa, la situazione si fa anche più
complessa. Talora il genitore assente non è soltanto oggetto del desiderio del
bambino, ma fantasticato come presenza cattiva e persecutoria.
Per non parlare poi dell’inserirsi, nei progetti di ricostruzione familiare,
delle figure di nuovi partner che possono porsi in una vasta gamma di situazioni
e la cui presenza può essere, da caso, a caso, sostitutiva, integrante oppure di
ostacolo rispetto alla funzione del genitore lontano.
Come si può ben capire, al di là di questa descrizione necessariamente
molto riduttiva del problema, la complessità è tale da dover essere attentamente
vagliata ogni singola situazione: ogni caso è da considerarsi anomalo.
Né si può pensare che interventi di counseling familiare superficiali e di
breve durata possano modificare interazioni e dinamiche tanto intricate.
Ciò tanto più se si considera che la fine di una unione di coppia comporta,
per entrambi o almeno per uno dei coniugi, il fallimento delle proprie aspettative
rispetto alle funzioni familiari. Ma tali aspettative deluse altro non sono che una
proiezione di un’immagine fantasticata di coppia, frutto delle esperienze infantili
ed adolescenziali in seno alla propria famiglia. E tali esperienze, a loro volta,
dipendono da come i propri genitori hanno saputo svolgere le funzioni di padre e
madre.
Allora un «accomodamento» di condizioni esterne, non basato su un reale
approfondimento del problema e cambiamento delle situazioni intrinseche, come
in alcune forme di «mediazione familiare», può solo dare l’illusione di aver fatto
qualcosa di utile.
Ancor prima di poter individuare quale intervento possa essere idoneo a
ricreare le condizioni migliori per lo sviluppo del bambino, occorre però accertarsi
di quali realmente siano i disagi conseguenti al disfacimento della famiglia. Ma
tale compito, essenziale per chi è deputato alla tutela del minore, non è certo
semplice perché situazioni di malessere anche grave possono rimanere
nell’ombra, a meno che non vi sia una valutazione molto accurata.
Come si è più volte sottolineato, i segnali attraverso i quali il bambino
comunica il suo disagio emotivo e affettivo sono diversi e possono essere fraintesi
come accade, il più delle volte, per le difficoltà scolastiche.
Un ambito di indagine che ci pare prezioso, accanto a quello familiare, è
quindi proprio quello scolastico dove il bambino esprime attraverso il suo modo di
essere e di imparare le proprie condizioni di benessere/malessere e ci può
utilmente indirizzare a comprendere eventuali impedimenti ad un suo sviluppo
armonico.
Concludendo, si ritiene che proprio oggi, in funzione dell'estendersi di
situazioni di separazione, non debba calare l'attenzione alle conseguenze sul
minore, ma anzi, vadano individuate nuove forme di collaborazione fra chi si
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occupa di difenderne i diritti e chi può, per il proprio ruolo e funzione, averne un
punto di osservazione privilegiato.
L'opinione dell'insegnante assieme, eventualmente, al parere dello
psicopedagogista, oltre che dello psicologo, può, quindi, senza dubbio, facilitare la
definizione del caso che, in quanto complessa, richiede l’attivarsi di una rete di
risorse e collaborazioni.
Esperienze effettuate nella nostra équipe hanno mostrato come un
attento "monitoraggio" post separazione, nei casi di elevata conflittualità,
concretizzato attraverso un'osservazione e un intervento multidimensionale
(comprendente bambino, madre, padre, insegnanti), abbia permesso una
serie di riassetti progressivi che hanno dato esiti sorprendentemente
positivi.
Tenuto conto di tutto ciò, si ritiene particolarmente utile ed efficace
che il Giudice, al momento della separazione, includa, nelle modalità di
attuazione del nuovo regime familiare, un periodo di osservazione del
bambino, utilizzando anche la collaborazione delle strutture scolastiche,
attraverso
la
consulenza
dello
psicologo
esperto
negli
aspetti
psicopedagogici.
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Libretto 5 - Studio di psicologia forense e assistenza giudiziaria