“La fonte della conversione è il nostro cuore”
ANNO SOCIALE 2014/2015
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INTRODUZIONE
CONCLUSIONE
La Fraternità, luogo di aggregazione.
Gli argomenti proposti in questo documento sono stati oggetto di confronto con
tutti i confratelli e le consorelle del nostro Terz’Ordine, che settimanalmente, ci
ha visto impegnati durante gli incontri di formazione. Certamente qui riportiamo
solo un ambito del programma nazionale che dalla nostra fraternità locale è stato
rielaborato e calato nella realtà concreta in cui viviamo e operiamo. In particolare, grande attenzione è stata riservata, per la costruzione di una vera fraternità,
sull’espressione riportata nella nostra regola: “avrete amore scambievole gli uni
verso gli altri e non temerete di chiamarvi fratelli e sorelle (III Reg, III Ordine, 724). Questo aspetto vitale ed essenziale della nostra spiritualità “minima”, ha
offerto l’opportunità di “guardarci dentro” e di comprendere chi siamo e verso
quale direzione stiamo camminando. A partire da queste motivazioni di fondo la
nostra ricerca ha avuto come fondamento la riscoperta della propria identità di
cristiano e di laico minimo che in forza della propria vocazione ha scelto di seguire Gesù Cristo mediante l’osservanza del carisma penitenziale di S. Francesco
di Paola. Inoltre grande rilievo è stato dato alla cura del cuore dell’uomo, cercando di comprendere quali possono essere i limiti, le fragilità, e le situazioni di
conflitto personale che impediscono al fratello di aprirsi nella carità all’altro.
Come afferma Gesù nel Vangelo: ‹‹dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte
queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l'uomo». (Mc 7,21
-23). Questo è l’ invito del nostro Maestro che interpella ciascuno di noi ed
orienta ad impostare la nostra vita a convertire prima di tutto noi stessi e il nostro
modo di agire e pensare. Essere costruttori di vera fraternità esige “spogliarsi
dell’uomo vecchio” e accogliere seriamente la missione alla quale tutti, senza
distinzioni di persone siamo chiamati a svolgere: “siate perfetti come perfetto è
il Padre vostro celeste” (Mt 5,48)
Di fronte alla instabilità delle relazioni che contraddistingue i nostri tempi, e al
cospetto dei rapporti utilitaristici e interessati che la società propone a modello,
calpestando e quasi deridendo quelli fondati sulla sincerità dei legami, appare
necessario recuperare il valore e il senso della fraternità, e, in specie, di quella
terziaria minima.
Non soci, non colleghi o simpatizzanti; non legati da ideali politici o da colori
sportivi, non vincolati da vantaggi economici. Siamo fratelli e sorelle, e lo siamo
non per sangue ma per vocazione; fratelli e sorelle uniti nella fede e nell’amore
di Cristo, sostenuti in viaggio dalla guida sicura di San Francesco di Paola.
Perché la fraternità possa realmente proporsi -innanzitutto ai terziari- come famiglia, e perché, all’interno di questa famiglia, ogni terziario sia capace di sentirsi
membro e non di passaggio, è necessario compiere un cammino innanzitutto interiore, di conoscenza di sé, della propria identità di cristiano e di minimo: conoscere se stesso per riconoscere nell’altro un fratello e una sorella; scoprire o riscoprire i propri doni per metterli al servizio della Comunità; riconciliarsi con se
stesso, con la propria storia, con i propri errori, per riconciliarsi con Dio e con la
fraternità, vivendola così pienamente e non limitandosi ad osservarla.
Si propone alla Comunità il presente sussidio, frutto delle riflessioni sviluppate
durante l’anno sociale 2014/2015; il percorso formativo indicato dal Consiglio
Nazionale TOM, improntato sul tema “la fraternità, luogo di aggregazione”, è
stato trattato all’interno della Fraternità attraverso l’analisi e lo sviluppo di tre
moduli, dedicati rispettivamente alla conoscenza e riconciliazione personale, al
rapporto con i fratelli e al rapporto con Dio. Le argomentazioni illustrate e discusse, in particolare, con riferimento al primo dei tre moduli vengono di seguito
esposte e suggerite come itinerario volto al discernimento interiore, alla intima
pacificazione e alla rivelazione di un più elevato senso di sé, delle proprie attitudini, dei propri scopi, della profondità e robustezza di quel nodo che, il giorno
della nostra professione, ci ha legati alla famiglia minima.
Solo attraverso una piena conoscenza e accettazione di sé, infatti, si può giungere
alla piena intesa e riconciliazione con i fratelli e sorelle del Terz’Ordine e con
Dio, rispondendo con pienezza all’intento instillato nel nostro cuore da Francesco di Paola, che non è quello di far parte di una fraternità, ma di essere fraternità.
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mente spiegare come si fa, suggerire percorsi, persone, guide spirituali, occasioni
di discernimento. Dobbiamo saper ascoltare, trovare le risposte giuste alle domande di chi chiede conto della propria insoddisfazione, lasciarle a chi ne sa più
di noi quando non siamo in grado di replicare, perché, come già chiarito, il primo
frutto della riconciliazione interiore è l’umiltà.
Solo così assolveremo a quell’altissimo compito che lo stesso San Francesco ci
ha affidato, invitandoci alla Sua sequela –e, per suo tramite, alla sequela di Cristo-, attraverso il Terz’Ordine, poiché, come ammonisce un documento del Centro Vocazionale Generale dell’Ordine dei Minimi, “I Minimi, nella Chiesa e
nella società, dietro l’esempio di Francesco, hanno il mandato di raggiungere
la periferia, come il centro e andare in avanscoperta lì dove l’egoismo dell’uomo ne mina la dignità ed è in pericolo la stessa convivenza civile. Essere messaggeri di riconciliazione significa percorrere le medesime strade del Maestro
che prediligeva pubblicani e peccatori e per essi ha dato la vita”.
“AVRETE AMORE SCAMBIEVOLE GLI UNI VERSO GLI
ALTRI E NON TEMERETE DI CHIAMARVI FRATELLI E
SORELLE” (III REG III ORDINE 7, 21)
Il percorso formativo 2014/2015 proposto dal Consiglio Nazionale ha, come tema
principale: “la fraternità, luogo di aggregazione”.
La fraternità, prima ancora di essere un valore sul quale costruire un impegno di
vita, è concretamente il gruppo di persone che Dio ci presenta come suo dono;
queste persone hanno tutte una storia e un progetto di vita da realizzare. Costoro
non potranno mai dirsi fraternità se esse non accetteranno di entrare nella vita
dell’altro e se non consentiranno che gli altri fratelli entrino nella propria.
Perché stiamo insieme?
Fermiamoci a riflettere sulle nostre motivazioni.
“Tenendo anche conto che tale appartenenza è per sempre”.
La fraternità si arricchisce man mano della presenza di nuovi fratelli che vi rimarranno per tutta la vita. Chi entra accetta consapevolmente di legare la propria vita
ai fratelli che già ne fanno parte e a quelli che vi entreranno in futuro.
Le motivazioni profonde del desiderio di vivere in fraternità vanno ricercate non
tanto nella voglia di condividere un’esperienza con quel particolare gruppo di persone dal punto di vista umano, quanto di condividere con loro un particolare progetto di vita che basa le sue certezze sull’impegno a vivere il vangelo, quindi sulla
sequela di Cristo.
La vita fraterna allora non è l’obiettivo, ma è la modalità, lo strumento attraverso
il quale rispondere a questa vocazione.
La fraternità non si costituisce solamente su un piano orizzontale di rapporti. Non
bastano simpatia o affinità a costruire la fraternità: è imprescindibile la linea verticale, il riferimento ad un padre o una madre comuni. Perchè ci sia fraternità è necessaria dunque questa verticalità, non soltanto l’esperienza di un rapporto orizzontale.
Chiamati insieme così come siamo.
L’essere fratelli non dipende dalla scelta, ma da un’accoglienza. Se fra amici ci si
può scegliere, tra fratelli ci si deve accogliere: o ci si accetta, o ci si rifiuta. Nella
fraternità il fondamento della relazione è l’accoglienza. I fratelli non si possono
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scegliere, ma si trovano e si accolgono nella loro interezza, povertà e dignità. Dio
sembra a volte divertirsi a chiamare insieme, in una stessa fraternità, persone molte diverse tra loro, persona che forse non avrebbero mai scelto di vivere insieme.
Umanamente questa sfida pare impossibile, e lo sarebbe realmente se dovessimo
far conto solo sulle nostre capacità. Essere fratelli è possibile, perché Dio ci ha
scelti per camminare insieme, ed egli ci darà, poco per volta, un cuore nuovo e
uno spirito nuovo che ci renderanno capaci di amare.
Quando si comincia a frequentare una fraternità, inizialmente si ha la percezione
che tutto sia bello, che ci sia collaborazione e sostegno reciproco. Poi compaiono
le prime difficoltà: l’altro non è come si pensava che fosse. Alcuni ci attirano e
sono simpatici: abbiamo le stesse idee, lo stesso senso dell’umorismo, la stessa
sensibilità, lo stesso modo di concepire la fraternità. Altri fratelli non ci piacciono
per niente: I loro atteggiamenti c’infastidiscono e a volte rendono scomoda la vita
in fraternità. Il fratello, tuttavia, è portatore di doni preziosi per me e per la fraternità, tutti sono membri di uno stesso corpo, ognuno importante e necessario per la
vita del corpo stesso.
Perché ci sia fraternità devo riconoscere l’altro come fratello.
Si tratta appunto di un riconoscimento. Non sono io a creare o a predeterminare le
condizioni della fraternità, io le posso solo accogliere e riconoscere. Questo significa che l’esperienza della fraternità non rientra nell’ambito di ciò che posso produrre con la mia volontà, con lo sforzo delle mie mani o con la mia fantasia e intelligenza; ha sempre la dimensione di un dono che mi precede, e dunque anche la
dinamica di una vocazione che mi chiama e m’interpella personalmente. Quella
della fraternità è sempre esperienza di vocazione e quindi di responsabilità: devo
rispondere all’appello della fraternità. La fraternità è per la Bibbia un luogo di
relazioni faticose, perché è l’ambito in cui si manifestano alterità e differenza. Colui che devo riconoscere e custodire come fratello si presenta sempre nella sua
diversità. Comunque l’accoglienza del fratello passa sempre attraverso il riconoscimento della sua diversità. La Bibbia ha tutt’altro che una visione idealizzata
della fraternità, tanto che la fraternità è spesso giudicata come il luogo maggiormente esposto all’esplodere del conflitto o quanto meno della difficoltà - la fraternità stessa vissuta da Gesù diventa ragione di scandalo, di non accoglienza, di non
riconoscimento.
La fraternità crea sempre un’intimità, un focolare domestico, un senso di
È, in fondo, il compito di noi laici impegnati; nella Gaudium et Spes si legge “…
Dai sacerdoti i laici si aspettino luce e forza spirituale. Non pensino però che i
loro pastori siano sempre esperti a tal punto che, ad ogni nuovo problema che
sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta,
o che proprio a questo li chiami la loro missione; assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità…”.
E noi terziari come possiamo aiutare gli altri a vivere la riconciliazione interiore
se non, una volta riconciliati con noi stessi, proporre la scuola di San Francesco?
Come non possiamo dire agli altri, se che ne abbiamo fatto tesoro personale e
stile di vita, che, come si legge nella Regola, sono “…felici senza dubbio alcuno, coloro i quali pongono attenzione a una vita virtuosa, piuttosto che longeva, e a una coscienza pura (la riconciliazione) piuttosto che alle ricchezze”?
San Francesco di Paola rappresenta, con la sua vita, le sue opere, i suoi scritti, la
sua eredità, uno stimolo continuo alla riconciliazione interiore. Quel richiamo a
perdonarsi vicendevolmente fino a dimenticare il torto ricevuto vale anche a
livello personale: perdonate anche a voi stessi, riconciliatevi interiormente.
E quel “deponete ogni odio e inimicizia e amate la pace che è il migliore di
qualunque tesoro che i popoli possano avere” che San Francesco rivolge ai
Procuratori dell’Eremo di Corigliano forse non è applicabile anche al rapporto
con se stessi? Placate l’avversione, il risentimento verso voi stessi, accoglietevi
per come siete, e siate in pace anche con voi stessi.
In conclusione: quello della riconciliazione interiore non è un cammino facile.
Qualcuno ha bisogno di tempo, qualcuno di molto tempo, qualcuno anche di tutta una vita. Ma, nel momento in cui ognuno di noi ottiene il dono della riconciliazione interiore, non può tenerlo per sé, renderlo funzionale alla propria salvezza, ma deve condividerlo con gli altri. Dobbiamo offrire l’io riconciliato agli altri, spenderci per la collettività, essere testimoni della nostra redenzione e aiutare
i fratelli a conoscersi, accettarsi, riconciliarsi con sé, perché, come scriveva San
Paolo ai Corinzi, Dio “…ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato
a noi il ministero della riconciliazione…”.
E riconciliare significa anche aiutare gli altri a riconciliarsi. Dobbiamo material-
coappartenenza, una profondità di relazioni che sono indispensabili per la matura4
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Ancora Padre Morosini: “I lavori per la realizzazione di tale opera contribuiranno allo sviluppo del movimento stesso”.
Nel rileggere gli eventi riconnessi alla costruzione della prima chiesa, torna alla
memoria l’immane lavoro di ricerca sulla origine della nostra Fraternità, che è
sfociato nel libro sui 70 anni del Tom a Sambiase, ed in particolare gli scritti relativi alla sua fondazione, del 1939.
Ecco uno stralcio del racconto di Mons. Pasquale Caputo, fondatore del Tom a
Sambiase: “Lavorai da giugno a dicembre 1938 per formare il primo nucleo. Il
Vescovo mi fu vicino, tanto che il 13 gennaio 1939 venne egli, di persona, ad
aggregare i primi novizi a cui dettò una profonda meditazione sulle virtù che
debbono distinguere il terziario. L’avvio ormai dato non doveva più conoscere
soste. I 13 venerdì solenni del 1939 cominciarono a prendere una nuova fisionomia basata sulla vita eucaristica. Crebbero gradatamente le Sante Comunioni e con anime che erano lontane dal banchetto eucaristico da molti anni. La
vigna del Signore si arricchiva sotto lo sguardo giulivo del Pastore, il quale per
la verità nulla trascurava per l’avvicinamento delle anime.”.
Come riuscì a creare una Comunità? La tattica era chiara: “attraverso i primi
aggregati arrivare ad altri. Attraverso i bambini arrivare ai genitori. […] I pomeriggi del giovedì e venerdì d’ogni settimana, ad esclusione del periodo estivo, erano dedicati ai bambini, giovanetti e giovanette; sorse così la scuola di
Catechismo che man mano si andò perfezionando sino ad avere la gara catechistica con relativa premiazione annua. Bambini, giovanetti e giovanette formarono la mia più gradita compagnia in tutti i pomeriggi, in cui ci si dedicava
alla musica, al canto e a rappresentazioni filodrammatiche.”.
Fu così che, grazie a questo cammino di crescita, di testimonianza, di passione,
nel 1948 la sezione maschile del Tom giunse a contare circa 200 persone, e la
sezione femminile all’incirca 400.
zione della persona.
Ciò significa che la fraternità è anche luogo della profondità, dell’intimità della
relazione che personalizza e rende concreta la nostra apertura all’amore. Giovanni,
nella sua Prima lettera afferma che “chi non ama il proprio fratello che vede non
può amare Dio che non vede”, ed è necessario intendere quest’affermazione in
tutta la sua concretezza. E’ proprio colui che vedo, che tocco, con il quale mi relaziono ogni giorno, che devo amare: il fratello che mi sta di fronte, non quello che
immagino in astratto. Il dentro della relazione fraterna è lo spazio della personalizzazione dell’amore, il luogo dove l’amore non rimane una buona intenzione, molto generica, ma si fa parola, sguardo, accoglienza. Vivere l’amore fraterno nella
reciprocità delle relazioni domestiche è anche la condizione per imparare ad
espandere la propria capacità d’amore al di là della reciprocità, in un atteggiamento di sincera gratuità.
È un luogo di rivelazione dei nostri limiti.
L’incontro con l’altro, il vivere insieme rivela le proprie povertà e debolezze, l’incapacità di intendersi con qualcuno, le proprie frustrazioni e gelosie. Adesso ci si
rende conto di quanto si è incapaci di amare, di quanto si rifiutino gli altri. Di
quanto si è ripiegati su se stessi. La vita in fraternità è la rivelazione spesso inattesa dei nostri limiti e debolezze.
Proprio perché inattesa, questa rivelazione è dirompente e difficile da accettare, e
c’è chi cerca di allontanare questa verità illudendosi che non esista, chi fugge la
vita fraterna e i rapporti con gli altri, chi non ammette o riconosce i propri limiti e
pretende che siano solo degli altri. Vivere in fraternità vuol dire accettare e imparare a vivere le proprie difficoltà, lavorare su se stessi per combattere i propri
egoismi e il proprio bisogno di essere al centro di tutto, nella certezza che Dio ci
ama in modo incredibile così come siamo.
La Fraternità: unità nella diversità.
Tornando al nostro argomento, al quale il racconto della origine del Tom di Sambiase ben si adatta, va ribadito che la testimonianza di una vita riconciliata è contagiosa; forti di questo, dobbiamo necessariamente aiutare gli altri a compiere
quel cammino di conoscenza, accettazione, riconciliazione interiore.
La Fraternità raggiunge la sua bellezza più alta e armoniosa quando è frutto
dell’unità nella diversità. Unità nella diversità perché la nostra Fraternità è formata
da noi, che siamo uguali e diversi: uguali, perché ognuno è fondamentalmente un
terziario che si riconosce nella condizione di uguaglianza sostanziale con gli altri
sulla base di una Regola comune professata da tutti; diversi, perché ognuno ha le
sue proprie caratteristiche, i suoi valori e i suoi difetti, che lo distinguono in modo
inconfondibile .
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Questa unità nella diversità non soltanto non danneggia la vita in fraternità ma la
arricchisce, anche se a volte comporta pure delle difficoltà, che però devono essere considerate normali. Si deve vedere la diversità come una ricchezza, una grazia
e un dono. Se «il fratello è un dono di Dio alla Fraternità», lo è con tutto ciò che
forma la sua identità: propria cultura, propri talenti, proprie qualità… Il grande
miracolo della creazione è proprio questo: pur essendo tutti gli esseri umani uguali
per dignità, ognuno di noi è unico. Di conseguenza, accogliere il fratello come
dono di Dio è accettarlo nella sua realtà più profonda. Il nostro essere fraternità è
bello perché è il risultato della diversità, è prezioso perché arricchito da doni talmente vari che possono venire soltanto da Dio. E la ricchezza spirituale e la fecondità delle nostra Fraternità dipendono molto da questa diversità.
L’unità nella diversità ha, allora, il suo fondamento in questa visione di fede: Dio
mi ha fatto dono del fratello che è, per natura e per volere divino, diverso, altro.
Partendo da questa visione, non posso escludere nessuno a causa della sua diversità. I fratelli si ricevono come un dono.
I peccati contro la Fraternità, i problemi che tante volte si vivono nella nostra Fraternità, spesso hanno nella sua origine proprio la mancanza di questa visione di
fede. Si vede e si vive la Fraternità piuttosto come un gruppo umano, tante volte di
amici, unito dalla razza, dal comune interesse, dall’affinità, dell’ideologia… non
si riesce a vedere l’altro come quello che veramente è: dono che Dio mi offre per
arricchirmi. E come conseguenza c’è sempre la tentazione di alzare muri, costruire
barriere, per difendermi dell’altro.
Chiamati a costruire fraternità e comunione.
La fraternità e la comunione fraterna devono essere costruite ed edificate. Una
delle più grande sfide che dobbiamo affrontare oggi è questa: creare comunione,
costruire fraternità, sviluppare una complessa arte della convivenza. Questa difficile arte della convivenza comporta:
– mantenere l’equilibrio tra identità e convivenza: mai l’una senza l’altra;
– conoscersi, parlarsi, informarsi, inter-agire: più abbiamo a che fare gli uni con
gli altri, meglio ci intenderemo.
Tutto questo, però, esige ulteriori comportamenti.
1. Accettare l’altro. Questo è un atteggiamento fondamentale nella costr uzione della fraternità. Senza accettazione lo scontro è sicuro e la comunione non sarà
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alla crisi di valori, di pace, di costumi, di fede che il mondo attualmente vive.
Scrive Padre Galuzzi: “…i Minimi oggi sono chiamati a riscattare con il loro
esempio i fratelli ‘da quel certo lassismo morale che la società contemporanea
offre con troppa facilità’ e a vivere la loro testimonianza con eroismo e coerenza…” (San Francesco di Paola, prezioso esempio di penitenza, BUM, XXIX).
In proposito, diceva Paolo VI: “…L'uomo moderno ascolta più volen-tieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa per-ché sono testimoni…”.
Ecco, dunque, che noi dobbiamo testimoniare alle nostra comunità la nostra riconciliazione interiore, il nostro essere cristiani che hanno fatto un percorso interiore di conoscenza e di accettazione, e che hanno scelto nettamente una guida e
una direzione.
Solo così saremo credibili.
E attenzione: se il mondo ha bisogno di testimoni vuol dire che ha bisogno di
gente riconciliata, in pace con se stessa, perchè in essa vede un elemento fondamentale di crescita.
Tornando alla vita di San Francesco, si ricorda che fin dal suo ritiro a vita eremitica, in molti si avvicinavano a lui, alla ricerca di pace interiore. Scrive Morosini:
“…Tale pace Francesco e i suoi eremiti la diffondevano a piene mani. I fedeli,
pertanto, non mancarono di offrire il loro aiuto all’opera che Francesco pensò
di realizzare, Prima fra tutte, la realizzazione di una chiesa, capace di accogliere la gente e soddisfare il loro bisogno religioso…”.
Raccontando della costruzione della chiesa l’Anonimo chiarisce: “Sia gli uomini
che le donne più ragguardevoli di Paola gli portavano tanta riverenza, da obbedirgli in tutto. Molte signore lo aiutavano non solo con le loro elargizioni,
ma anche lavorando con le loro mani, trasportando pietre, nonostante che vestissero di seta, per fare cosa grata al servo di Dio … quanti erano nella possibilità di prestare il loro aiuto alla costruzione di tale convento, si reputavano
felici…”.
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Nel discorso natalizio alla Curia romana del 2009, papa Benedetto XVI dice: "…
Riconciliazione è un concetto pre-politico e una realtà pre-politica, che proprio
per questo è della massima importanza per il compito della stessa politica … se
non si crea nei cuori la forza della riconciliazione, manca all'impegno politico
per la pace il presupposto interiore. Nel Sinodo (per l'Africa) i Pastori della
Chiesa si sono impegnati per quella purificazione interiore dell'uomo che costituisce l'essenziale condizione preliminare per l'edificazione della giustizia e
della pace…".
Quando parliamo di accettazione non intendiamo essere d’accordo sempre con il
modo di procedere dell’altro o giustificare o approvare sempre la sua condotta.
Non intendiamo, neppure, avere un atteggiamento prevalentemente critico; il giudicare l’altro secondo i propri schemi mentali e affettivi; o l’evitare ogni conflitto
occultando i sentimenti negativi. L’accettazione della quale parliamo suppone:
ricevere amorosamente la persona del fratello nella sua singolarità unica; disponibilità per valorizzare positivamente il suo modo di procedere, i suoi sentimenti e le
sue intenzioni; confidare vivamente nella capacità di crescita della persona dell’altro, del diverso.
Il Papa, dunque, vede nella riconciliazione interiore il primo, fondamentale passo
per costruire la giustizia e la pace all’interno della società.
Ma proprio perché questo atteggiamento non viene fuori automaticamente, l’accettazione deve essere coltivata. E questo avviene nella misura in cui ci sforziamo
di sentire le cose come le sente l’altro; di essere autentici e franchi, ma valutando
ciò che l’altro può assimilare; di potenziare i sentimenti positivi; di dare segnali di
volersi avvicinare all’altro; dimostrando interesse per gli altri e per le “cose” degli
altri, particolarmente dei loro sentimenti.
La Presidenza della CEI scrive, in occasione della Giornata per l'Università Cattolica del Sacro Cuore del 1985: “…la «forza della riconciliazione» non rimane
chiusa nella coscienza cristiana: essa si riverbera e si riflette anche sulle realtà
storiche dell’uomo, sulle sue relazioni e realizzazioni, sulla sua concreta esistenza, sulle comunità stesse, piccole e grandi, in cui egli è chiamato a vivere.
E’ proprio dalla riconciliazione interiore che scaturiscono verità e valori che
illuminano, fondano e orientano anche il cammino dell´uomo nel mondo…”
Ancora, Monsignor Giuseppe Agostino, già Arcivescovo di Cosenza e da poco
scomparso, scriveva alla sua diocesi, in occasione del Giubileo del 2000: “…
Riconciliarsi con la vita (e, si apra una parentesi, nel medesimo discorso aveva
in precedenza spiegato che per riconciliazione con la vita intende riconciliazione
con se stesso) è l'armonia di sé ricomponendo la dispersione dell'essere, fermando la fuga delle responsabilità, controllando l'esasperazione del piacere
fine a se stesso, il culto dell'avere che, spesso, è compensativo del vuoto dell'essere. Se non siamo riconciliati con noi stessi gridiamo contro gli altri, malediciamo la storia, bestemmiamo Iddio. Solo una umanità riconciliata sa essere
umile, quindi, aperta, feconda…”.
Proprio quest’idea di fecondità è centrale: solo il cristiano rinnovato nello spirito,
che si conosce, si accetta e si riconcilia con se stesso ha capacità di fecondare,
ovvero nell’accezione tecnica del termine, di dare vita.
E quella di dare vita alla comunità, di cambiarla dall’interno, di portare in essa i
valori della nostra fede, non è un’opportunità: è un dovere, soprattutto di fronte
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2. Unire testa e cuore. Per ar r ivar e a costr uir e e a viver e un’autentica fraternità e una profonda comunione è fondamentale che nelle nostre relazioni ci sia una
vera armonia tra l’intelligenza e il cuore, complementarietà tra ragione e passione.
Le idee e i valori non devono escludere i sentimenti, ma i sentimenti non possono,
neppure, prendere il posto della ragione. La ragione da sola facilmente prima crea
freddezza nelle relazioni con i fratelli e, con il tempo, distanza e anche rottura. A
loro volta i sentimenti da soli facilmente creano le stesse distanze e rotture; è sufficiente che i miei sentimenti non coincidano con quelli degli altri per correre il
pericolo che sentimenti di amicizia e collaborazione a un certo momento si trasformino in forte opposizione e rottura, difficilmente sanabile. Molti di noi sono
testimoni di amori finiti in odi.
3. Coltivare certi valori umani, cristiani. Nella costr uzione della fr ater nità e
della comunione fraterna giocano un ruolo molto importante certe virtù che, prima
di essere cristiane, sono umane: la cortesia, la gioia del cuore, l’educazione, la
gentilezza, la sincerità, il controllo di sé, la semplicità, la chiarezza e la fiducia
reciproca.
Un valore da considerare fondamentale nella costruzione della fraternità e della
comunione è il perdono. Il perdono produce come effetto, nella persona, l’amore.
Non ci può essere vera fraternità e vera comunione senza il perdono. E perdonare
non è “chiudere gli occhi” sulla realtà, ma leggerla con occhi nuovi, con gli occhi
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dell’amore, coscienti che, mentre il perdono costruisce, l’odio produce devastazione e rovina. Chi non vive il perdono è come colui che pensa che si possono
vivere i valori del vangelo senza il vangelo. Che sia possibile vivere da uomo
nuovo senza lo Spirito Santo, da cristiani senza Cristo.
4. Dialogare. Il super amento delle bar r ier e che impediscono una ver a comunione di vita nella Fraternità non può avvenire che per la via di una riflessione e
di un dialogo pacato, umile e pieno di carità. Il dialogo, se è autentico, può contribuire a stabilire tra di noi legami significativi che abbattono i muri delle divisioni. Il dialogo fraterno possiede il dono di rinforzare le relazioni, curandone
alcune e correggendone altre. Per arrivare a questo è assolutamente imprescindibile che nel dialogo ognuno parta dalla sua interiorità e che riesca a esprimere i
suoi veri sentimenti verso l’altro.
5. Liberazione interiore. Tutto quanto detto finor a non è sufficiente. " Per
vivere da fratelli e sorelle è necessario un vero cammino di liberazione interiore".
La comunione è un dono offerto che richiede anche una risposta, un paziente
tirocinio e un combattimento, per superare tutto ciò che ha il potere di condizionare i nostri pensieri, emozioni e comportamenti.
Questo esige conversione.
6. La preghiera. La pr eghier a deve esser e consider ata la base di una ver a
vita fraterna. Coloro che vogliono vivere come fratelli devono prendersi tempo
per curare particolarmente la propria qualità di vita e, più concretamente, la propria qualità di vita di preghiera.
Conversione alla fraternità.
Coscienti che la costruzione della fraternità e della comunione è un impegno non
facile, i terziari devono assumere come sfida personale la conversione continua e
totale alla “fraternità”. Questa conversione non soltanto richiede di guardarsi «da
ogni azione che possa danneggiare l’unione fraterna» , ma di mettere in atto tutte
i mezzi possibili, affinché la vita in fraternità si converta in «luogo privilegiato
dell’incontro con Dio» e di «piena maturità umana e cristiana».
Tenere pulita la propria coscienza, fare un cammino di riconciliazione interiore,
dunque, non è il fine, ma è un mezzo per essere buoni cristiani, ed essere buoni
cristiani significa spendersi per la redenzione del mondo.
Tornando al momento in cui San Francesco si ritira a vita eremitica, se il fine
della sua scelta fosse stato quello della salvezza personale, avrebbe continuato a
vivere da eremita per sempre.
Inizia la sua vita solitaria in un podere vicino a una strada pubblica; disturbato
dal passaggio e dalla curiosità della gente, si ritira in un terreno più lontano. Nonostante questo, la gente continua a raggiungerlo, ed anzi alcuni giovani si avvicinano a lui chiedendo di condividere la vita eremitica; se San Francesco avesse
voluto, si sarebbe ritirato in un posto ancora più isolato, o avrebbe invitato quei
giovani a trovarsi una grotta da un’altra parte.
Invece no: proprio da questo momento di forte interiorità, di discernimento, di
conoscenza di sé, parte l’apostolato di San Francesco nella comunità. Dall’eremo, oltre che esteriore, interiore, nasce una piccola congregazione che, strutturatasi nel tempo, ancora oggi porta frutto nella società.
Scrive Padre Morosini: le dimensioni della grotta “…gli hanno consentito di
immergersi così profondamente nella realtà della sua terra e nel profondo del
cuore della gente, da poterne poi assumere e portarne i problemi…”
Ancora Padre Morosini in un altro scritto: “…la rigorosa vita eremitica, scaturita dall’entusiasmo di un giovane desideroso di servire il Signore con generosità e radicalità, diventa progressivamente consapevolezza di una missione da
svolgere nella Chiesa, per contribuire al ritorno ad una vita evangelica più
fedele…”.
Ecco dunque che il nostro cammino di conoscenza di sé, di accettazione e di riconciliazione interiore, non può che portare al passaggio successivo: mettere l’io
riconciliato a disposizione della comunità.
O la nostra riconciliazione si fa dono, o sarà fine a se stessa.
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O LA NOSTRA RICONCILIAZIONE SI FA DONO, O SARÀ FINE A SE STESSA
LA FRATERNITÀ ALLA LUCE DELLE COSTITUZIONI
– REGOLA – DIRETTORIO
Sono stati precedentemente analizzati i tre momenti della riconciliazione con se
stessi: la conoscenza di se stessi e la necessità che da questa venga fuori l’io reale; l’accoglienza di se stessi, con i propri pregi e i propri difetti; la riconciliazione
con se stessi vera e propria, momento di sintesi, che ci porta alla necessità di dare
alla nostra vita un mediatore e un senso.
Il processo di rinnovamento interiore che ogni singolo membro della Fraternità
deve affrontare passa attraverso una più profonda indagine introspettiva
(conoscere se stessi), una maggiore consapevolezza della propria scelta vocazionale e quindi una maggiore responsabilizzazione nel volerla concretizzare.
Una domanda sorge naturale: una volta fatto questo percorso, a cosa sarà servito
essersi riconciliati con se stessi?
Nelle nostre Costituzioni (capitolo I), circa l’identità minima è così scritto: “Il
T.O.M. è una associazione ecclesiale pubblica, fondata da San Francesco da
Paola, con una propria finalità spirituale, ascetica e apostolica e con norme di
vita proprie. I suoi membri, consapevoli grazie alla fede, del Progetto di salvezza di Dio per l’umanità, si impegnano con l’atto di Professione a tendere alla
perfezione cristiana (della carità) vivendo il Vangelo, nel proprio stato di vita
(famiglia-lavoro-società) secondo lo stile semplice-umile e penitente del Fondatore, osservando la Santa Regola e animando il mondo con l’Apostolato della
Carità operosa. Quale ramo secolare dell’Ordine dei Minimi, il Tom ne condivide lo stesso Carisma penitenziale e la stessa spiritualità, con l’obiettivo di
esprimere nella vita dei suoi membri : 1) Il Primato di Dio, mediante un maggiore impegno di preghiera e di penitenza che indichi al mondo la via della conversione e della liberazione dal peccato; 2) L’Umiltà della mente, del cuore e della
vita; 3) La carità verso i fratelli con impegno operoso”.
Nel cercare di fornire una risposta a tale quesito, si ritiene opportuno partire dalla
vita di San Francesco di Paola, certi che la completezza storica e spirituale del
nostro Fondatore renderà più agile il percorso.
Pare conveniente iniziare da due momenti della vita di San Francesco, che ben si
attagliano al processo di interiorità, di conoscenza di sé, di riconciliazione con se
stessi:
1) il Paolano torna dal pellegrinaggio ad Assisi e si ritira a vita eremitica;
2) San Francesco si rivolge a una delle tantissime persone che affidavano a Lui
la propria pochezza dicendo “Và, tieni pulita la tua casa, cioè la coscienza, e sii
un buon cristiano”.
Ci si soffermi su questa seconda frase: qual è il fine dell’esortazione di San Francesco? “Tieni pulita la tua casa, cioè la coscienza”. E’ un invito alla riconciliazione interiore, certo, ma se il Santo avesse voluto invitare il suo contraddittore a
restarsene in pace con se stesso avrebbe detto “Tieni pulita la tua casa cioè la
coscienza e tanti saluti in famiglia!”.
In realtà la prima parte della frase non può che essere letta in combinato con la
sua continuazione: tieni pulita la tua casa, cioè la coscienza, e sii un buon cristiano.
E’ un invito a partire, ad essere buoni cristiani, cioè a spendere nella società l’io
riconciliato, a non tenere per se stessi il tesoro della riconciliazione interiore, ma
a portarne il frutto nella collettività.
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Terziari minimi : chi siamo? Qual è la nostra meta?
I mezzi con i quali il TOM si propone di raggiungere il proprio fine sono quelli
indicati dal Vangelo, dal Santo Fondatore nella Regola, dalle Costituzioni e Direttorio.
Nel TOM si é chiamati quindi ad osservare non un ritualismo esteriore, un semplice devozionismo fatto solo di pie pratiche, ma a sperimentare una fede che
diventi vita, una fede che non prescinda dall’altro, ma operi per il bene dell’altro;
e che, in quanto tale, sia credibile, capace di evangelizzare, nel pieno rispetto del
ruolo di missionarietà del laico nel mondo.
“Siete chiamati ad essere i servi fedeli di Dio e coloro i quali ripongono in Lui il
proprio cuore”, si legge nella Regola Tom (capitolo I par.1). Non si può servire
Dio e dargli testimonianza se al centro del proprio cuore c’è il proprio IO: se in
noi prevalgono le nostre passioni, ossia il bisogno di rivalsa, potere, fama, ricchezza. “Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore”, dice il Signore, e anco9
accompagna. La riconciliazione anche tra me e me – tra due parti o aspetti
di me - non può avvenire che attraverso un “terzo”.6
ra : “Non si può servire Dio e Mammona”.
Analogamente, se in noi domina il nostro io, non può esserci spazio per l’altro in
qualità di ascolto, dialogo, rispetto, comprensione, perdono, solidarietà, presupposti necessari per vivere l’Amore e quindi la Comunione con l’altro. In Giovanni: 15, 12-13- Gesù ci dice: “Questo é il Comandamento mio: Che vi amiate
scambievolmente come io, vi ho amati”. “Nessuno ha amore più grande di Colui
che sacrifica la vita per i propri amici”.
Parallelamente, nella nostra Regola (cap. VII- par. 20), il nostro Santo Fondatore
così ci esorta: “Avrete amore scambievole tra tutti e non temerete di chiamarvi
tra voi fratelli e sorelle. Nelle vostre tribolazioni, avversità ed infermità, visitatevi scambievolmente e confortatevi nel Signore”. Siamo pertanto chiamati da Cristo ad essere Fraternità: diversi tra noi, ma uniti in Lui indistintamente, come i
tralci all’unica vite, capaci ognuno di dare il suo frutto, secondo le proprie attitudini, capacità, mansioni; uniti ancora con Cristo, nel rapporto filiale con lo Stesso Padre Celeste, con l’intento comune, nell’obbedienza ai Comandamenti Divini, di conseguire la nostra e altrui salvezza. Ogni singolo membro deve essere
corroborato dalla Fraternità perché possa testimoniare nel mondo il carisma ricevuto, ma ogni testimonianza sarà tanto più credibile, quanto più forte sarà la comunione realizzata nella stessa famiglia Minima.
Nel contesto odierno sia la prima che la seconda condizione non sono scontate.
Nel primo incontro (“Accompagnare alla riscoperta della propria fede”) ci si è
fermati sulla seconda condizione nella dialettica tra soggettivo e oggettivo. In
questo secondo incontro sosteremo sulla prima condizione. Chi accompagna alla
riconciliazione con se stessi, dovrà sapere che spesso dovrà suscitare una conflitto buono, mettendo in discussione chi chiede di essere accompagnato.
Per me Terziario, essere riconciliato con me stesso equivale a:
A) Accettare la sfida di saper riconoscere me stesso, in un confronto costante, diretto e personale con la preghiera ed alla luce dello Spirito (il grande
Mediatore e la forza unificatrice della mia persona) che mi abilita ad un
serio cammino di fede.
B) Vivere la mia vita in una lotta costante con me stesso, perché dal mio tratto, dal mio comportamento, traspaia quella ricchezza interiore che la fede
ed il carisma che ho abbracciato mi ridona continuamente… serenità, pace, ma soprattutto umiltà… tanta umiltà!
C) Convincermi che da solo non ce la posso fare: mi è necessaria una mediazione costante; e questa resta per me la figura del P. Spirituale, del Correttore per ciò gli pertiene, i fratelli la fraternità, come luogo della condivisione e del mio esprimermi in pienezza.
Giovanni: 13,35, enuncia: “Vi riconosceranno da come vi amerete”. In una società globalizzata nell’indifferenza, nel relativismo e nel pressapochismo, urge
un maggiore impegno relazionale, una apertura non solo nelle piccole realtà aggregative locali, ma ad una fraternità universale (uscire dalla chiesetta), come
dice lo stesso Papa Francesco, per sentirsi responsabili del bene comune, dei problemi del mondo in cui viviamo. Ogni iniziativa, però, non potrà giungere a
compimento, se non supportata dalla unione nell’ambito dei singoli gruppi.
D) Sapermi avvalere della correzione fraterna non presumendo di avere la
verità in tasca credendo che tutto ciò che dico, faccio o penso equivalga
al Vangelo.
E) Vivere con una grande generosità di cuore, che mi porta a mettermi in
discussione, a lasciarmi guidare nella tensione verso quel “meglio” che, in
ultima analisi, mi rende protagonista della crescita anche dell’intera fraternità.
Si suggeriscono, nell’ottica di una più attenta riflessione sull’argomento, le seguenti domande:
1) Siamo consapevoli della nostra identità vocazionale?
2) E di appartenere ad una Unità carismatica?
3) Siamo in cammino verso la Fraternità? E quali i limiti a vivere la Fraternità?
4) Quale esperienza di Chiesa viviamo nelle nostre realtà particolari?
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6
E’ anche impraticabile antropologicamente la pretesa di perdonarsi da soli, anche se
ormai è diventato comune nel parlare l’espressioni del tipo: “Perdonarti, sapersi perdonare, devo perdonarmi, non riesco a perdonarmi…” Non è possibile perdonarsi da
soli, ci vuole un altro\Altro. Nella struttura del confessarsi questo è evidente anche nelle
forme più improprie di confessione in pubblico o via chat ecc…
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cioè di accoglierla in maniera passiva, fatalistica o spontaneistica, mentre include
in se stessa anche il discernimento e la lotta: accettare autenticamente se stessi
significa assumere quello che si è nella sua pesantezza e ricchezza, diventando
progressivamente responsabili di se stessi per potersi superare. L’esperienza ci
offre una conferma a questa riflessione sull’accettazione di sé: solo quando trovo
una risposta nuova alle mie domande sono in grado di accettare me stesso anche
nei limiti, solo quando riconosco che un problema non è insolubile ne posso parlare, solo quando trovo un’accoglienza vera e profonda posso riconoscere di non
essere stato amato, solo quando scopro la bontà delle mie scelte posso riconoscere la rabbia verso chi mi impediva l’autonomia, solo quando sperimento il perdono riconosco in profondità il mio peccato. In questa prospettiva l’accettare se
stessi è al servizio di una autentica lotta spirituale, visto che la lotta è il principio
di ogni crescita e maturazione spirituale.
1.3 Riconciliarsi e mettersi in discussione.
Come già visto in tema di accettazione di se stessi, che spesso nel linguaggio
psicologico e spirituale spesso si sovrappone alla riconciliazione con se stessi, è
possibile un’interpretazione al ribasso che non è autentica rispetto al mistero
dell’umano. In conclusione dobbiamo richiamare due condizioni di possibilità
necessarie per parlare di riconciliazione con se stessi.
• Prima di tutto è necessario che ci sia una dialettica tra l’io ideale e l’io attuale, dentro la quale non di rado si manifesta un conflitto tra un falso sé e
un’identità reale5. Non così frequentemente questa discrepanza viene riconosciuta e sostenuta nella sua tensione buona, a volte è semplicemente subita con sofferenza, più spesso viene disconosciuta e dimenticata.
• Inoltre, è necessaria una mediazione che ha bisogno sia di un mediatore che
di un senso. Non ci si può riconciliare se non si riconosce un senso della
vita che dona speranza e un mediatore che ce lo fa incontrare. Nel caso del
Vangelo il senso e il Mediatore coincidono, ma nella vicenda della fede c’è
anche un mediatore, con la “m” minuscola, il testimone, nel nostro caso chi
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5
I processi evolutivi rispetto al costituirsi di un’identità coesa e matura sono articolati e
complessi. Qui viene richiamata in modo schematico la dialettica strutturale per la persona che può essere conflittuale tra Io ideale e Io attuale. Per un’indagine aggiornata e
articolata: A. M=>?>@A – S. GC=DA>?EEA – H. ZHEE>?D, Persona e formazione. Riflessioni
per la pratica educativa e psicoterapeutica, EDB, Bologna 2007.
22
“LA VERITÀ IN SE STESSI PER VIVERE LA FRATERNITÀ”
Tutti noi, come membri della Fraternità TOM, abbiamo professato di essere
“Servi fedeli di Dio e di riporre solo in Lui il nostro cuore”; ossia di contribuire,
come laici (nel nostro caso laici minimi), a realizzare in noi stessi e nel mondo il
regno di Dio, vivendo l’Amore nella nostra quotidianità, vocati a compiere, sulla
scia di Cristo e del nostro Santo Fondatore San Francesco da Paola, un percorso
di rinascita, di rinnovamento interiore, per la nostra ed altrui salvezza.
Dio è verità assoluta, perché con la bellezza della Creazione, ma soprattutto con
il Sacrificio di Cristo, Suo Unico Figlio, ha pienamente dimostrato il Suo Amore
verso di noi, permettendoci nella Sua Infinita Misericordia di risollevarci dalla
schiavitù del peccato e di riacquistare la nostra dignità di “figli di Dio”; anche i
Suoi Comandamenti sono espressione della Sua infinita bontà perché, lungi
dall’essere ostacolo alla libertà umana, mirano a proteggere l’uomo dagli effetti
della sua stessa iniquità. L’osservanza di tali precetti, infatti -primo fra tutti l’amore verso Dio e il prossimo-, porta a vivere la giustizia, la pace e quindi la felicità edificando il Paradiso già sulla terra.
In Gesù Cristo, la Verità di Dio si è manifestata interamente; pieno di Grazia e di
Verità, Egli é “La Luce del mondo”. Giovanni: 8,12 enuncia: “Egli è la Verità.
Chiunque crede in Lui, non rimane nelle tenebre”. Il discepolo di Gesù rimane
fedele alla Sua Parola, alla Verità che fa liberi e santifica, vivendo dello Spirito
di Verità che il Padre manda nel Suo Nome e che guida alla Verità tutta Intera.
Ai suoi discepoli, Gesù insegna l’amore incondizionato alla verità; “Sia il vostro
parlare: Si, si – No, no” (Matteo : 5,37) -- ( I Cap. – par. 2 della nostra Regola),
esortando con ciò alla rettitudine dell’agire e del parlare umano che è detta veracità, sincerità o franchezza. La verità o veracità, è la virtù che consiste nel mostrarsi veri nei propri atti e nell’affermare il vero nelle proprie parole, rifuggendo dalla doppiezza, dalla simulazione e dall’ipocrisia che logorano il rapporto
di comunione fraterna, perché generano confusione, sfiducia nell’altro.
Il discepolo di Cristo accetta di vivere nella Verità, e cioè nella semplicità di una
vita conforme all’esempio del Signore, rimanendo nella Sua Verità. Se diciamo
che siamo in comunione con Lui e camminiamo nelle tenebre, mentiamo e non
mettiamo in pratica la Verità (non possiamo in tal caso testimoniare la fede in
parole ed opere!)
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Desiderio di conoscere, crescere maturare o sufficienza di chi presume
di sapere già tutto e che ogni altra cosa è inutile e superflua o, peggio
ancora, perdita di tempo…
Offese alla verità.
I discepoli di Cristo, rivestendo l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia
e nella Santità vera, deposta la menzogna, devono respingere ogni malizia, ogni
frode e ipocrisia, le gelosie e ogni maldicenza, nel rispetto dell’altro. Bisogna,
quindi, non ledere il rapporto di comunione con l’altro , astenendosi:
• Quanto desiderio ho di essere guidato.
…che si esprime nella docilità ad accogliere, anche se in maniera critica, quanto mi viene proposto senza pretesa di avere sempre l’ultima
parola e con la disponibilità se necessario a mettersi in discussione…
1)- da ogni giudizio temerario (ossia ammettere senza sufficiente fondamento,
anche solo tacitamente, una colpa morale nel prossimo);
2)- da ogni maldicenza (ossia quando, senza motivo valido, si rivelano i difetti e
le mancanze altrui ad altri che le ignorano);
1.2 Accettare se stessi per crescere.
3)- da ogni calunnia (ossia quando, con affermazioni contrarie alla verità, si nuoce alla reputazione altrui e si dà occasione di erronei giudizi sul loro conto).
Ci conosciamo poco, eppure quella di conoscere e accettare se stessi è la prima
scelta per chi vuole veramente crescere:
Offese alla verità sono anche: la lusinga, l’adulazione, la compiacenza, che possono incoraggiare altri nell’errore della propria condotta; e inoltre la millanteria e
l’ironia, che possono intaccare l’apprezzamento di qualcuno, caricaturando in
maniera malevola qualche aspetto del suo comportamento.
«La prima scelta, che sta alla base di ogni crescita umana, è quella di accettare
noi stessi: accettare la nostra realtà così com’è, con i nostri doni e le nostre capacità, ma anche con i nostri limiti, le nostre ferite, le nostre tenebre, i nostri
sensi di colpa, la nostra condizione mortale; accettare il nostro passato, la nostra famiglia, la nostra cultura, ma anche le nostre capacità di crescita.... La
crescita comincia quando superiamo il lutto di ciò che sognavamo di essere,
quando accettiamo la nostra umanità, limitata e povera, ma anche bella. A volte
il rifiuto di noi stessi nasconde i veri doni e le vere capacità della persone. Il
pericolo per l’essere umano, è quello di voler essere diverso, di volere essere
come un altro o addirittura di voler essere Dio. Invece si tratta di essere se stessi, con i propri doni, le proprie competenze, le proprie capacità di comunione e
di collaborazione.»4
La menzogna è, poi, la colpa più grave, perché è una negazione diretta della verità; la sua gravità si commisura alla natura della verità che essa deforma.
Ogni colpa commessa contro la giustizia e la verità, impone il dovere della riparazione, anche se il colpevole è stato perdonato.
Le intemperanze nel vivere la verità in tutte le sue sfaccettature, ostacolano notevolmente il vivere la fraternità, perché generano sofferenze, divisioni, incomprensioni, togliendo concretezza alla nostra vocazione. Per testimoniare la Verità
e, quindi, creare i presupposti per la comunione fraterna, bisogna imparare a liberarci dal proprio IO, dai propri tornaconto morali, di immagine, ecc., per dare poi
spazio ai frutti dello Spirito, aiutandoci in questo percorso arduo con attente analisi introspettive, la preghiera assidua, la meditazione attenta contemplativa della
Parola, i Sacramenti, soprattutto della Riconciliazione e dell’Eucarestia.
In Galati: 6, 8-10 é così scritto: “Chi semina nella carne, dalla carne mieterà la
corruzione; chi invece semina nello Spirito, mieterà la vita eterna”. Non ci stanchiamo mai, dunque, di fare il bene, perché, se resteremo saldi, a suo tempo mieteremo.
Si suggeriscono, ai fini di una adeguata riflessione, i seguenti testi: Lettera ai
Galati, capitoli 5 e 6; Regola, I capitolo, par. 1 e 2 , IV e V capitolo.
12
È doverosa a questo punto una domanda: In che senso dobbiamo accettare noi
stessi nel momento in cui troviamo nel nostro intimo emozioni e tendenze contrastanti tra loro e spesso anche con i valori evangelici?. Mentre nell’antica tradizione monastica si sferrava un duro attacco verso le passioni, considerate fondamentalmente cattive, oggi sembra che si sia passati all’atteggiamento opposto, al
punto che tutto ciò che si sente sembrerebbe immediatamente bene.
L’accettazione di sé è diventato uno slogan nella divulgazione sia psicologica
che spirituale che alla fine sembra giustificare tutto. Occorre riconoscere il rischio presente in questa formula usata troppo spesso e a basso prezzo, il rischio
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4
VANIER J., Ogni uomo è una storia sacra, Dehoniane, Bologna, 1995, 108. Tutto il
capitolo quarto (101-126 ) è una meditazione chiara e sapiente sulle costanti della crescita umana.
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LETTERA DI GIACOMO (CAPITOLI 3 E 4)
• Il contesto in cui vivo
L’ambiente anche fisico nel quale ci si trova ad interagire e vivere,
spesso condiziona la vita del singolo in maniera conscia ed inconscia:
l’esposizione continua ad idee, modi di pensare, di relazionarsi, incidono inevitabilmente sull’io a tal punto da fargli assumere spesso modi e
forme tipici del sistema gruppale nel quale si è inseriti. Una sarà la conoscenza e la coscienza di sè che matura chi si trova inserito in ambiente impregnato dalla serenità, dall’ordine, dalla pulizia, dal rispetto delle
regole, dalle relazionalità sane, altra sarà quella di chi vive in situazioni
contrarie a tutto ciò.
• La mia storia personale
La diversa età dei componenti del gruppo, ci pone di ripensare in maniera seria questo aspetto. L’esperienza accumulata negli anni da parte
di chi ha vissuto contesti di difficoltà e di ricostruzione, affrontando
sovente inevitabili sacrifici, sarà diversa da chi più vicino negli anni, si
è trovato a vivere in un contesto di apparente benessere. Così come le
singole prassi del vissuto personale… mondi da raccontare! Ma tutto
diversifica ed incide sulla conoscenza di sé.
• Il mio cammino di fede
L’apertura del proprio io verso valori Altri ed Alti, corrobora inevitabilmente l’idea di se stessi, facendo superare la soglia di un asettico egocentrismo e realizzando l’apertura al dono di sé.
B) Livello fraternitario e specifico TOM:
• Cosa sto cercando in fraternità.
E’ la risposta che fonda il senso di appartenenza… un semplice luogo di
aggregazione o il LUOGO della mia realizzazione dal punto di vista
cristiano… il luogo in cui ricevo soltanto o del mio spendermi pazientemente con gli altri…
• Quale motivazione mi spinge a questa ricerca.
Appagamento personale o desiderio di crescere nella conoscenza di Cristo, nella spiritualità tipica dell’Ordine dei Minimi…
• Quale grado di docilità metto in atto.
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Introduzione.
Il tema della fraternità, più volte dibattuto, è un aspetto fondamentale e decisivo
per la vita e le scelte di un gruppo o meglio ancora di un nucleo di persone che,
liberamente, decide di fare insieme ad altri fratelli un cammino di riscoperta e di
appartenenza al Vangelo. Quando si vive insieme, le differenze di temperamento,
di stili di vita, punti di vista diversi non solo emergono, ma possono senza ombra
di dubbio, anche incidere.
Si suggerisce, a tal proposito, un percorso, avente come riferimento la Sacra
Scrittura. Tanti sono i brani che mettono in evidenza le chiusure nostre, nei confronti degli altri. In particolare ci si soffermerà, seppur brevemente, su due brani
della lettera dell’apostolo Giacomo: il capitolo terzo e quarto. Attraverso l’analisi
di questi due brani, si cercherà di comprendere quali possono essere i limiti che
impediscono a ciascuno di noi di operare una vera e sincera apertura al fratello.
Sappiamo bene che per creare comunione, fratellanza, unione e, nel nostro specifico, attualizzare quella mirabile espressione riportata nella nostra regola:
“avrete amore scambievole e non temerete di chiamarvi fratelli e sorelle”1, è
necessario partire dall’esperienza personale di ciascuno di noi, scendere nelle
profondità del proprio io, “guardarsi dentro” e correggere le eventuali fragilità
che contraddistinguono la nostra persona.
1. Schiavi del pettegolezzo e dei giudizi
Nel capitolo terzo Giacomo riprende due temi già accennati all’inizio della lettera: la moderazione della lingua e la vera sapienza. Certamente l’insistenza su
questi punti mette in luce la realtà di comunità cristiane dove erano molto forti le
divisioni, i giudizi tra persone, le lotte tra gruppi.
1.1 L’intemperanza del linguaggio (3,1-12)
Riprendendo i forti richiami di Gesù ai maestri della legge e ai responsabili della
religione ebraica, riferiti da Matteo nel Discorso della Montagna (5,19-20) e nel
Discorso contro gli ipocriti (23,7-8), Giacomo ammonisce se stesso e tutti i cristiani ad essere ben coscienti sulla responsabilità nell’uso della parola. Come
richiamato nei libri sapienziali, la parola è un grande dono che permette di lodare
___________________________________________
1
Cfr III regola del terz’ordine n 7,21
13
Dio, di comunicare tra persone, di sostenere chi è in difficoltà, di cantare la bellezza e la gioia della vita, di dare espressione alla creatività umana e alla parola
di Dio. Dio stesso si è fatto “Parola” per entrare in comunione più intima con
l’umanità e manifestare la sua vita divina. Ma la parola è anche arma di offesa,
strumento di menzogna, mezzo di sopraffazione verso i più deboli, causa di discordie, motivo di odi e violenze. Partendo dalla sua realtà di persona fragile e
soggetta a sbagliare nel suo ruolo di responsabile, Giacomo riconosce i suoi errori e ne trae motivo per invitare i cristiani ad essere molto vigilanti sull’uso della
comunicazione nella comunità. Rifacendosi ad antiche e molto diffuse concezioni proverbiali, fa sua una visione molto negativa della parola, presentata come
una cosa malvagia e incontenibile, causa di molti problemi nelle convivenze
umane e religiose. La parola viene considerata come mezzo potente a servizio
del mercato e degli interessi, della propaganda e dell’ideologia, dei gruppi di potere e del bisogno di evasione. Una parola irrefrenabile e senza controllo per confondere, stordire e creare consenso.
La realtà della comunicazione umana, però, non è solo negativa: permette anche
spazi di dialogo e di partecipazione, di creatività e di rapporto fra persone e culture, di riflessione e di approfondimento, di crescita culturale e di ricchezza delle
diversità, di espressione della bellezza e della gioia di vivere. Questa comunicazione, tuttavia, richiede regole di comportamento e lavoro di selezione, controllo
nel modo di esprimersi e rispetto di ogni idea, gusto della ricerca e capacità di
essere critici. La parola è dono che chiede silenzio d’ascolto e desiderio di ricevere, riflessione personale e scambio comunitario, ricerca del positivo e amore
alla verità, coraggio di mettersi in discussione e rifiuto dell’interesse, purezza di
cuore e rispetto di ogni persona. É la gioia e la fatica di comunicare in profondità! Anche nella Chiesa oggi assistiamo ad una inflazione di parole, di documenti,
di interventi su ogni argomento e in ogni circostanza. L’invito alla moderazione
e al controllo della comunicazione diventa importante anche per la comunità cristiana, tentata a volte di seguire e imitare i mezzi della comunicazione sociale nel
loro modo di rapportarsi con la parola e la notizia. Siamo chiamati ad essere un
segno con alcune scelte di comportamenti e di stile che privilegino i contenuti
sulla forma, i valori sugli indici di ascolto, la riflessione pacata sulle emozioni
violente, le esperienze positive sulle vicende di cronaca nera, i messaggi di vita
sui resoconti di morte.
più profondo e autentico che deve essere liberato, che non siamo capaci di ascoltare e di esprimere. Abbiamo bisogno che il Signore Gesù ci porti in disparte, ci
avvicini, ci liberi e sciolga i nostri desideri profondi forse chiusi, dimenticati o
mai conosciuti. Nell’incontro con Gesù, favorito anche dalla guida spirituale, si
può realizzare questa apertura profonda (Mc 7,31-37)2 che mi permette di incontrare la realtà di quello che sono, di dialogare con me stesso e di scoprire quello
che sono. Così spiegava l’Arcivescovo Carlo Maria Martini ad un corso di esercizi spirituali:
«La prima cosa da considerare con attenzione è la persona, la sua situazione
affettiva, il contesto in cui vive, la sua storia umana e di fede; cosa sta cercando, qual è la motivazione che lo spinge a questa ricerca, quale grado di docilità mostra di avere, quale desiderio ha di essere guidato... Tutto questo costituisce l'oggetto di una ricerca delicata e impe-gnativa, in cui è importante non avere fretta e cerca-re di capire con precisione. A volte scopro che sa-cerdoti o religiosi che mi mandano qualcuno per un aiuto spiri-tuale, credono di conoscere
quella persona, ma san-no ben poco di lui. Ne conoscono le idee ma quasi nulla
delle sue abitudini, della sua storia, della sua famiglia. Ho l'impressione che in
questi anni siamo scaduti in un certo spiritualismo disincarnato e sottovalutiamo paradossalmente le influenze, i condi-zionamenti, lo strascico che
comportano le scelte via via fatte».3
Si evidenziano le tappe di questo cammino di conoscenza personale, quali si
evincono dal testo:
A) Livello personale e soggettivo:
• La mia situazione affettiva
L’aver realizzato quel processo di crescita e di maturazione che dovrebbe es-sere il passaggio da una affettività captativa (di ricevere) ad una
affettività oblativa (di donazione), come apertura verso gli altri, originata dalla soddisfazione per l’altro, cioè una af-fettività come mobilitazione di tutte le forze per far felici gli altri.
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2
MARTINI C.M., Effatà. “Apriti”, Centro Ambrosiano, Milano, 1990, n 2 e 7: viene
evidenziata la difficoltà a comunicare dentro di sé.
3
MARTINI C.M., Il sogno di Giacobbe. Partenza per un itinerario spirituale, Centro
Ambrosiano - Piemme, Casale Monf. 1989, 22-28. Viene proposta anche una traccia
più globale e sintetica per rilevare “Dove sono io” tra coordinate visibili e invisibili.
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19
L’io ideale nasce dall’adeguamento di se ad un’immagine-tipo spesso
dettata dal contesto o dal gruppo di appartenenza o dallo stesso ambiente familiare, alla quale ci si piega per ovvie scelte di opportunità
sociali. Quando questa operazione si protrae a lungo, spesso si finisce
per assumere questa idealità come essenza del proprio essere, alienando così se stessi in comportamenti volubili, che nascono dal fatto che
ci si trova a recitare una sorta di parte, che di fatto, non corrisponde
alla vera natura della persona.
B) L’ “IO attuale”… Quello che veramente sono e penso di me
stesso.
É l’accoglienza in modo pieno e maturo della propria individualità,
conosciuta attraverso un cammino di riscoperta interiore, che si esprime innanzi tutto in atteggiamento di interiore riconciliazione che traspare anche dai gesti e dalla maturità delle relazioni intessute nel tempo.
2. L' avidità dell’uomo
Ricollegandosi all’ultima frase del capitolo terzo sull’esperienza della pace per
chi fa il bene, Giacomo passa ora a riflettere sulle cause che generano le liti e le
violenze che ci sono nella società. Come sempre la sua analisi è semplice e concreta, senza troppi giri di parole o scusanti: sono le passioni che si agitano nel
cuore delle persone che le spingono a litigare, invidiare, prevaricare le une sulle
altre; sono i vizi capitali che spesso rendono l’uomo schiavo dei suoi peggiori
istinti. É quel peccato originale per il quale l’uomo è più incline ad assecondare
lo spirito della violenza, dell’interesse, del potere, del piacere personale, dell’invidia, che lo spirito dell’amore, del rispetto, della compassione, della fratellanza,
della gratuità, della misericordia, dell’altruismo.
2.1 Il giudicare… fonte di superbia (4,11-12)
Non è facile sapere che cosa sia conveniente chiedere (Rm 8,26), perché non è
proprio scontato sapere ciò che si desidera veramente; capita di desiderare cose
diverse, anche opposte e contraddittorie. Il nostro desiderare, più che a una voce
solista, assomiglia piuttosto ad un coro a più voci, non sempre in armonia tra
loro; è come le correnti marine che spesso non sono evidenti in superficie. Il
desiderio vero raramente è il più immediato e spontaneo, forse c’è un desiderio
Sempre per collegamento con l’argomentazione precedente, Giacomo torna a
sottolineare un aspetto già trattato nel discorso sulla comunicazione: l’arroganza
di chi giudica le persone e sparla di loro. L’orgoglio che si annida nel cuore
dell’uomo, se non è frenato e dominato, può portarlo a sentirsi superiore agli altri, a ritenersi possessore della verità e giudice del bene e del male nella vita delle persone. Anche questa è una causa di molti contrasti e litigi nelle famiglie e
nei gruppi. Molte volte ritorna nel Nuovo Testamento l’invito a non giudicare
mai nessuno, specialmente i più deboli e indifesi; a rispettare le scelte degli altri;
a guardare i propri limiti più che quelli degli altri; ad essere duri verso se stessi e
misericordiosi verso gli altri (Mt 7,1-5; Rom 14,1-12). L’arroganza della verità, e
l’ergersi a giudici del bene e del male, portano fatalmente anche ad un altro errore, ancora più grave e purtroppo molto diffuso: si arriva a giudicare Dio e il suo
modo di agire, a voler insegnare a Dio come dovrebbe comportarsi con le persone, come dovrebbe intervenire nella storia. La troppa sicurezza di essere nel giusto e il ragionare secondo la logica umana (cioè con il metro della giustizia distributiva e del merito-castigo) porta spesso a dimenticare il messaggio che Gesù
ha ripetuto tante volte e che Giacomo riprende qui: C’è uno solo che può giudicare: Dio. Gesù stesso non è venuto a giudicare le persone (anche se avrebbe
potuto farlo a pieno diritto), ma a salvarle, e ha affidato al giudizio del Padre la
sua stessa vita e la storia dell’umanità. Di fronte all’esempio di Cristo, di fronte
ai nostri limiti di persone e di Chiesa, come si può ergercisi a giudici di tutto e di
tutti? Come coltivare ancora quell’orgoglio della verità che ci fa unici detentori
della salvezza e del bene? Come non superare atteggiamenti di durezza, di con-
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• Doni
Da questa conoscenza di sè interiore, nasce innanzi tutto la consapevolezza della propria unicità individuale, che si esprime in quel patrimonio interiore che cristianamente chiamiamo doni, che altrimenti rimarrebbero sconosciuti.
• Limiti
Insieme ai doni, l’assunzione dell’io attuale, porta con se la conoscenza dei propri limiti. Nessuno è Padre Eterno di se stesso… la consapevolezza che la condizione umana pone e spesso impone uno stato di
fragilità creaturale, costituisce il punto di partenza per intraprendere,
di contra, un buon cammino di perfezione cristiana che trova la sua
porta nell’umiltà e si protrae percorrendo la strada della continua ricerca del meglio.
danna, di esclusione, di intolleranza umana e religiosa? Con la stessa misura con
cui voi trattate gli altri, Dio tratterà voi (Lc 6,38): la misura sarà la misericordia
per chi avrà usato misericordia, il perdono per chi avrà perdonato, l’amore per
chi avrà amato.
Conclusione
I due brani della lettera di Giacomo, brevemente analizzati, vogliono rappresentare una provocazione e insieme una presa di coscienza: ciò che crea divisioni,
o, come direbbe Papa Francesco nelle sue catechesi, i muri, che innalziamo a
partire dal nostro modo di parlare, non solo mettono in cattiva luce il fratello,
ma addirittura lo distruggono. Per creare la vera fraternità ognuno, nel suo piccolo, è chiamato ad edificare “ponti” di relazioni e parole che rendono possibile
l’incontro con l’altro e fanno in modo che ognuno si senta responsabile e custode dell’altro.
“RICONCILIAZIONE CON SE STESSI”
Ogni cammino di perfezione che rispetti, soprattutto se caratterizzato da una forte spinta alla fraternità, risulterebbe mancante o poco reale, se non partisse innanzi tutto da una forte presa di coscienza della propria individualità e funzionalità personale, chiamata poi ad interagirsi in pienezza con altri soggetti, per l’armonica costruzione della stessa fraternità. Tentare di costruire una comunione di
intenti e volontà, senza una forte interpellanza alla maturità individuale, sarebbe
come costruire una casa partendo dal tetto.
Una sana e robusta riflessione su ciò che siamo, come funzioniamo, quali sono i
nostri limiti ed i nostri pregi in concreto, quanto siamo disposti a morire a noi
stessi per far rivivere l’uomo nuovo che rinasce a Pasqua, costituisce una valida
premessa di impegno, di responsabilità e di sincera vocazione alla fraternità. E
perché tutto ciò non risulti estraneo al nostro cammino di perfezione cristiana,
iniziato col Battesimo, confermato con la Cresima, e pubblicamente accettato
come stile di vita permanente con la professione nel TOM, è opportuno richiamare in causa l’essenza stessa della Spiritualità Minima, caratterizzata dallo Stile
penitenziale, come mezzo per raggiungere la perfezione dello stato evangelico.
Tale Spiritualità, se nella prassi è costituita per l’appunto dallo spirito penitenziale quale cammino di liberazione da se stessi, trova la sua essenza in una totale e
permanente conversione della mente e del cuore a Dio, che permane anche l’auspicio più pressante del Santo Fondatore San Francesco. Ma come convertirsi, se
alla base non sussiste una profonda conoscenza del nostro mondo interiore, che
porti alla formazione di un “IO” unificato, maturo e responsabile, capace di determinarsi e lasciarsi guidare alla ricerca del MEGLIO? (Di bene in meglio, camminate in Cristo..). In tale ottica, il percorso della riconciliazione con se stessi
non si presenta semplicemente come il momento di un esercizio psicologico introspettivo, ma come fondamentale premessa unificante di se stessi in vista di un
cammino per creare, in una sintesi personale, lo spazio in cui Dio ed il Fratello
incontrano la mia identità più intima, rendendomi capace ed artefice di percorsi
di umanità e di fede altrimenti imprevedibili, necessari ed urgenti.
1. Conoscersi, accettarsi, riconciliarsi.
1.1 Non è facile conoscersi.
A) L’ “IO ideale”…Quello che gli alteri pensano di me.
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Libretto - Terz`Ordine dei Minimi – Fraternità di Sambiase