CONFIMI
Rassegna Stampa del 16/01/2014
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INDICE
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CONFIMI WEB
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SCENARIO ECONOMIA
16/01/2014 Corriere della Sera - Nazionale
Lupi: ai pendolari sconti del 20% fino a 50 chilometri Ma basta aumenti in autostrada
senza verifiche
5
16/01/2014 Corriere della Sera - Nazionale
Unipol, ad Allianz le polizze ex Milano
7
16/01/2014 Corriere della Sera - Nazionale
Le due intuizioni giuste del «jobs act» e le idee che non possono funzionare
8
16/01/2014 Il Sole 24 Ore
Un'occasione da cogliere
10
16/01/2014 Il Sole 24 Ore
Da Wall Street euforia contagiosa
12
16/01/2014 Il Sole 24 Ore
Se l'Italia è l'unico Paese fermo al palo
13
16/01/2014 Il Sole 24 Ore
Riforma dei mercati, c'è il sì europeo
15
16/01/2014 La Repubblica - Nazionale
Quei 2 miliardi persi dalle società pubbliche
17
16/01/2014 La Repubblica - Nazionale
Il fantasma della deflazione
19
16/01/2014 La Repubblica - Nazionale
WELFARE IN TEMPO DI CRISI
21
16/01/2014 La Stampa - Nazionale
La battaglia dell'Europa per fermare gli speculatori
23
16/01/2014 La Stampa - Nazionale
LA PREMESSA PER RIPARTIRE
25
16/01/2014 La Stampa - Nazionale
Piazza Affari di nuovo sopra quota 20 mila Non accadeva dal 2011
27
16/01/2014 Il Messaggero - Nazionale
Telecom accelera sulle torri, Deutsche Bank advisor
28
16/01/2014 Il Giornale - Nazionale
IL TEMPO PERSO? LO PAGHEREMO
29
16/01/2014 MF - Nazionale
Il credit crunch si attenuerebbe se le imprese chiedessero prestiti per fare
investimenti
30
16/01/2014 MF - Nazionale
Il vero Jobs Act è un piano regolatore del lavoro
31
16/01/2014 Panorama
non è un paese per imprese
32
16/01/2014 Panorama
come ti salvo l'azienda dove lavoro
34
16/01/2014 Panorama
Profumo mi ha sottovalutato. Non lo farà più
36
SCENARIO PMI
16/01/2014 Il Messaggero - Marche
Il modello coopregge meglio la crisie'
39
16/01/2014 Il Foglio
L'UTOPIA E' IL NUOVO NEW DEAL
40
16/01/2014 ItaliaOggi
Finanziamenti alle imprese rosa, garanzia diretta al fondo pmi
45
16/01/2014 MF - Nazionale
Assietta compra la sgr delle Bcc e apre il capitale a Intermonte e Iccrea
46
15/01/2014 Panorama
non è un paese per imprese
47
15/01/2014 Panorama
come ti salvo l'azienda dove lavoro
49
SCENARIO ECONOMIA
20 articoli
16/01/2014
Corriere della Sera - Ed. nazionale
Pag. 13
(diffusione:619980, tiratura:779916)
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L'intervista Il ministro dei Trasporti: i concessionari disponibili a valutare le nuove agevolazioni
Lupi: ai pendolari sconti del 20% fino a 50 chilometri Ma basta aumenti in
autostrada senza verifiche
R. Ba.
ROMA - «Per attutire gli effetti sociali degli aumenti ho chiesto ai concessionari abbonamenti scontati per i
pendolari fino al 20% per un percorso massimo di 50 chilometri ma il problema centrale è quello di rivedere il
sistema tariffario, non è possibile che i pedaggi aumentino sempre, proprio per compensare il calo della
domanda». Maurizio Lupi, 54 anni, ministro dei Trasporti,reagisce così alla rabbia popolare contro la stangata
continua che da più di un lustro le società proprietarie o di gestione appioppano agli automobilisti. Arricchita
dal primo gennaio di un altro più 3,9%. Ieri ha incontrato l'Aiscat, l'associazione delle autostrade, e in nome
della trasparenza ha scritto ai presidenti di Camera e Senato affinché convochino le commissioni competenti
per verificare l'iter seguito dal governo per decretare gli odiati aumenti.
Ministro cominciamo dalla richiesta di sconto. Come hanno reagito i «signori del pedaggio» e come dovrebbe
funzionare?
«Ho visto grande disponibilità e spero che nei prossimi giorni si raggiunga un accordo. La mia proposta si
basa su una agevolazione variabile e graduale a seconda del numero delle tratte percorse (ognuna per una
massimo di 50 chilometri: Milano-Varese, per esempio) fino al 20% se un pendolare si sposta tutti i giorni. Se
utilizza l'autostrada solo due-tre volte la settimana, il bonus scende. Naturalmente il lavoratore dovrà
dichiarare o dimostrare la sua necessità e munirsi di un Telepass che monitora frequenza e riduzione
tariffaria».
Uno dei punti da rivedere nella convenzione è il cosiddetto fattore di riequilibrio tra costi e ricavi. In pratica il
pedaggio sale per compensare il calo della domanda. Ma così il rischio di impresa non esiste più....
«Certo, ecco perché si pone l'enorme necessità di rivedere le compatibilità per tenere in piedi investimenti
privati e recupero tariffario. Negli ultimi sei anni si fanno solo aumenti. Voglio essere preciso: nel 2009 più
3,47%; 2010, più 2,7%; 2011, più 3,3%; 2012, più 4,2%; 2013, più 4,4%; 2014, più 3,9%».
Ma chi ha fatto questa convenzione? L'ex ministro Di Pietro?
«Non voglio fare polemica con lui. La realtà è che nel 2006-2007 il traffico autostradale aumentava sempre e
quindi Di Pietro, anche con buona intenzione, volle introdurre un elemento nuovo che riequilibrasse le tariffe
ma senza immaginare un calo della domanda che oggi ha un effetto devastante».
Resta il fatto che il pedaggio è come la benzina, aumenta sempre...
«Inutile illudersi, le convenzioni passate vanno rispettate. È doveroso che il governo non cambi le regole
pattuite altrimenti salta tutto il sistema Paese degli investimenti. Fatto salvo questo principio ora noi dobbiamo
fare due interventi irrinunciabili. Uno, individuare agevolazioni immediate per alcune categorie più esposte
come i pendolari. Due, avere il coraggio di rivedere le compatibilità. In questo la funzione di una authority
sarà fondamentale».
Naturalmente vale per il futuro.
«Si, ma già adesso per concedere gli adeguamenti tariffari occorre la verifica che tutte le opere siano state
concretamente eseguite e contabilizzate. Per il futuro bisognerà valutare che tutte quelle previste siano
necessarie. Non sarebbe accettabile che il ministero dell'Economia o quello dei Trasporti con le loro strutture
di controllo abbiano concesso aumenti senza che venissero rispettate le regole».
Faccia un esempio.
«Se una autostrada aumenta di una corsia è giusto che l'impresa venga remunerata con un aumento del
pedaggio. Ma occorre verificare se quell'opera era necessaria, se è stata fatta bene, se gli aumenti si
possono spalmare nel tempo, ripartirli in modo diverso. Detto questo le tariffe autostradali italiane sono
sempre inferiori alla media europea».
SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 16/01/2014
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16/01/2014
Corriere della Sera - Ed. nazionale
Pag. 13
(diffusione:619980, tiratura:779916)
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I concessionari faranno muro. Abituati a considerare i caselli come un bancomat. O no?
«Di fronte a un calo della domanda senza precedenti è interesse anche loro fare di tutto per invertire il trend .
Bisogna poi considerare che nel 2013 i tre concessionari privati hanno fatto 2 miliardi di lavori, un terzo di tutti
gli investimenti in grandi infrastrutture».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
La vicenda
L'aumento
Il governo all'inizio dell'anno decide un aumento medio del 3,9% delle autostrade, in virtù della convenzione
tra Stato e gestori.
Il ministro Maurizio Lupi propone lo sconto del 20% per i pendolari. Ieri l'incontro con i rappresentanti dei
concessionari. Luca Zaia, governatore del Veneto, rilancia: pedaggi gratis per i pendolari.
L'authority
Da ieri è operativa la nuova Autorità di regolazione dei trasporti presieduta da Andrea Camanzi.
Foto: Maurizio Lupi, 54 anni: il problema centrale è quello di rivedere il sistema tariffario, non è possibile che i
pedaggi aumentino sempre
SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 16/01/2014
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16/01/2014
Corriere della Sera - Ed. nazionale
Pag. 25
(diffusione:619980, tiratura:779916)
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La fusione Respinta l'offerta della belga Ageas per gli asset in vendita. La proposta ai consigli del 21 gennaio
Unipol, ad Allianz le polizze ex Milano
L'Antitrust aveva chiesto cessioni di premi fino a 1,7 miliardi
Sergio Bocconi
Unipol respinge l'offerta della belga Ageas e si appresta a cedere attività della ex Milano ad Allianz Italia, che
quindi potrebbe fare un passo avanti consistente sul nostro mercato. L'offerta da parte della compagnia che
fa parte del colosso tedesco è arrivata martedì e la decisione definitiva da parte del gruppo guidato da Carlo
Cimbri sarà presa martedì prossimo.
Ieri i consigli di UnipolSai e della holding controllante (al 63%) hanno dunque deliberato di «non ritenere
accettabile» l'offerta presenta da Ageas il 19 dicembre. E Cimbri, nella nota diffusa ieri da Unipol, ha
sottolineato che «sulla base delle valutazioni effettuate dal management del gruppo, la proposta ricevuta da
Allianz, pur non comparabile in termini di struttura e perimetro con quanto in precedenza ricevuto da altri
offerenti, presenta adeguate caratteristiche di congruità per UnipolSai ed è idonea a consentire al gruppo
Unipol di adempiere alle misure particolarmente rigorose, impartite dall'Antitrust. La proposta sarà pertanto
sottoposta con parere favorevole ai competenti organi deliberanti». I consigli sono stati convocati per il 21
gennaio «per poi procedere alla negoziazione e finalizzazione di accordi vincolanti».
Per il momento non è noto il perimetro della proposta Allianz. L'Antitrust, nell'approvare la fusione tra Unipol e
Fonsai, aveva subordinato il via libera alla cessione di premi ex Milano assicurazioni fino a 1,7 miliardi
affinché il gruppo post-aggregazione scendesse sotto le soglie di concentrazione (pari al 30%) previste per i
mercati nazionale e provinciali. Ed è qui il punto chiave. Dal comunicato sembra di capire che Unipol ritenga
venga assolto l'impegno con l'Antitrust nonostante l'importo delle cessioni sia probabilmente inferiore a
quanto indicato nel provvedimento. L'Autorità guidata da Giovanni Pitruzzella, nel valutare il rispetto degli
impegni, potrebbe verificare anzitutto il rientro nelle soglie che, con la concentrazione, risultavano superate a
livello nazionale su alcuni rami danni, fra cui la Rc auto, e in 93 province. E considerare quindi adeguata
anche un'operazione di dimensioni minori rispetto agli 1,7 miliardi stabiliti.
In ogni caso la cessione ad Allianz è destinata a cambiare lla graduatoria nazionale del settore. Se UnipolSai
non perderà comunque il secondo posto in Italia per raccolta premi (pari a fine 2012 a 15,6 miliardi dietro
Generali con circa 20,1), è molto probabile che Allianz superi Poste: il gruppo ex Ras guidato da Klaus-Peter
Roehler conta finora su una raccolta (sempre a fine 2012) pari a 10,4 miliardi, e quindi solo di un soffio
inferiore a quella del gruppo pubblico, che si posiziona sui 10,5 miliardi. La composizione della raccolta di
Allianz Italia è per circa due terzi nel vita, mentre un terzo è nei rami danni: poiché dunque l'operazione con
Unipol riguarda pressoché esclusivamente premi danni, appare poco probabile sussistano significativi
problemi Antitrust, sebbene una valutazione in sede di concentrazione vada comunque fatta.
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I vincoli I paletti Antitrust
La fusione Unipol-Fonsai è stata approvata a condizione che il gruppo cedesse premi ex Milano assicurazioni
fino a 1,7 miliardi per scendere sotto il 30% del mercato
Foto: Carlo Cimbri di Unipol
SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 16/01/2014
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16/01/2014
Corriere della Sera - Ed. nazionale
Pag. 34
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LA PROPOSTA DI RENZI SUL LAVORO
Le due intuizioni giuste del «jobs act» e le idee che non possono
funzionare
ROGER ABRAVANEL
Il «jobs act», che Matteo Renzi sta sviluppando e del quale ha pubblicato le prime idee, è una piattaforma di
discussione che lo stesso leader del Pd auspica possa molto evolvere nei prossimi mesi. I commenti di questi
giorni ne hanno sottovalutato sia due importanti contributi sia alcune significative carenze.
Il primo importante contributo è il coraggio con cui per la prima volta un segretario del Pd ha imbracciato
senza se e senza ma un'idea radicale, la protezione del lavoratore e non del posto di lavoro. Quelli che
criticano la proposta di Renzi sottolineando che non c'è nulla di nuovo in questa idea sottovalutano
l'importanza che essa diventi la base del programma di lavoro del maggior partito della sinistra. È
sicuramente vero che il cosiddetto «modello danese» esiste da decenni e che esperti come Pietro Ichino
hanno già fatto proposte simili, ma la sinistra italiana le ha sempre rifiutate, come si è visto nel caso dello
stesso Ichino che fu «scomunicato» dal Partito democratico. Invece in questi giorni personaggi come Landini
e la Camusso hanno applaudito
il «jobs act».
È anche vero che il percorso per realizzare questa idea è tutto da studiare: come finanziare il sussidio
universale di qualcuno che perde il posto di lavoro con un ridisegno degli ammortizzatori sociali (inclusa la
ormai obsoleta cassa integrazione) e con i risparmi graduali della spesa pubblica? Ed è anche vero che la
attuazione sarà immensamente difficile perché la macchina pubblica italiana non è quella danese: lì le
agenzie del lavoro funzionano e la seconda offerta «che non si può rifiutare» di solito arriva presto; da noi le
agenzie del lavoro, pur avendo un numero di dipendenti come quelle tedesche, creano meno di un quinto
delle opportunità che in Germania.
Il secondo valido contributo è la scelta di alcuni settori, soprattutto nei servizi, come aree dove focalizzare gli
sforzi per fare crescere l'economia e creare lavoro. Nel turismo per esempio, dove si spera che
il «jobs act» possa portare al centro del dibattito proposte come quella contenuta nel mio saggio Regole per
una nuova regolazione sulle concessioni, orientata
non più al turismo da «secchiello e paletta» delle piccole pensioni familiari ma a fare emergere qualche
grande investitore italiano e straniero. Un altro esempio viene dall'Ict (Information and telecommunication
technology), dove il «jobs act» delinea un ruolo dello Stato come regolatore intelligente capace di imporre alle
aziende di fatturare elettronicamente per combattere la evasione fiscale e stimolare nel contempo la nascita
di nuove imprese innovative.
Nel «jobs act» esistono però anche alcune ombre.
Ridurre del 10 per cento l'Irap è sicuramente un'idea che va nella giusta direzione, ma farlo con la tassazione
delle rendite finanziarie è tutt'altro che facile. La tassazione sulla casa esiste quasi ovunque perché la casa si
vede e non si muove, cosa che non è per le ricchezze finanziarie che sono difficili da tracciare e la cui
tassazione rischia di produrre gettiti ridotti ed elevata evasione.
Si rivelerà probabilmente una pia illusione anche l'idea di aumentare la competitività delle piccole e medie
imprese riducendone del 10 per cento il costo per l'energia. Intanto perché un quarto di questa riduzione si
vorrebbe ottenerla eliminando quei contratti di favore per l'energia detti «interrompibili» perché le aziende
possono interrompere la fornitura ottenendo uno sconto. È giusto eliminare questi sussidi utilizzati soprattutto
da aziende in settori del passato e poco «verdi» come l'alluminio, l'acciao e la carta. Ma non sarà facile
perché a breve alcuni impianti chiuderanno e la disoccupazione aumenterà. E poi non è chiaro dove il «jobs
act» intenda reperire il resto dei tagli, dato che si limita ad indicare genericamente «ulteriori misure da parte
della Autorità per l'energia».
SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 16/01/2014
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16/01/2014
Corriere della Sera - Ed. nazionale
Pag. 34
(diffusione:619980, tiratura:779916)
La proprietà intellettuale è riconducibile alla fonte specificata in testa alla pagina. Il ritaglio stampa è da intendersi per uso privato
Anche nella «green economy» (uno degli otto settori del «jobs act») lo Stato potrebbe giocare un ruolo di
regolatore innovativo: il problema è che il Pd ha sempre sostenuto delle politiche di regolazione poco efficaci
(per esempio gli incentivi delle rinnovabili). E ha appoggiato amministrazioni locali, soprattutto nel Centro
Sud, responsabili di cattiva gestione dei rifiuti. È quindi un errore citare questo settore tra quelli da sviluppare
senza accennare all'esigenza di una revisione profonda delle logiche seguite sinora, per esempio con una
radicale nazionalizzazione delle politiche di regolazione che deve essere sottratta alle Regioni e ai Comuni.
Infine stona la presenza del «made in Italy» tra gli otto settori da sviluppare: qui lo Stato può fare ben poco
come regolatore e committente perché questo settore è ormai esposto alla concorrenza globale. Le sfide del
«made in Italy» hanno a che fare con l'incapacità del capitalismo familiare di valorizzare il capitale umano e la
meritocrazia e su questo lo Stato e il «jobs act» possono fare ben poco .
Avendo riconosciuto al «jobs act» il pregio di affrontare il problema della disoccupazione giovanile in un'ottica
di crescita dell'economia, ci auguriamo che facciano seguito al più presto un «justice act» e un «education
act». Con una giustizia civile con i tempi del Gabon, le imprese italiane non cresceranno e non creeranno
posti di lavoro. E, senza una scuola italiana che si adeguerà al lavoro che cambia, le imprese continueranno
a non trovare nei giovani le competenze per il 21° secolo, che non sono le professionalità tecniche, ma le
capacità cognitive, l'etica del lavoro, la capacità di lavorare con gli altri e comunicare. Cose che oggi la scuola
italiana insegna poco e male .
meritocrazia.corriere.it
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Foto: CHIARA DATTOLA
SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 16/01/2014
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16/01/2014
Il Sole 24 Ore
Pag. 1
(diffusione:334076, tiratura:405061)
Un'occasione da cogliere
Donato Masciandaro
L'Unione Europea sembra finalmente muoversi verso mercati più trasparenti, con vantaggi per la finanza
sana e per l'attività bancaria più coerente con la ripresa dell'attività produttiva.
Il Commissario Europeo Michel Barnier ha annunciato l'accordo di principio tra il Parlamento Europeo ed il
consiglio per la riforma dei mercati degli strumenti finanziari (Mifid II). È una buona notizia, sempre sottoposta
alla condizione che poi la concreta attuazione dei principi in esame mantenga fede alle attese. L'obiettivo
della riforma è quello di rendere i mercati finanziari più trasparenti, in modo da evitare che le parti più opache
degli stessi siano il detonatore e/o il catalizzatore di nuove crisi sistemiche.
Prevenire le condizioni che creano le crisi sistemiche è divenuta la priorità nel disegno delle regole
finanziarie, dopo la Grande Crisi. La crisi ha insegnato che il rischio sistemico si può combattere
efficacemente solo agendo simultaneamente e sistematicamente su tre fronti: regolamentazione prudenziale,
regolamentazione strutturale e tassazione.
Sul fronte della regolamentazione prudenziale, la settimana era iniziata male con la decisione presa a
Basilea di ridurre specifici coefficienti di capitali richiesti alle banche, a partire dal 2018. È stata una pessima
decisione, perché la lezione della crisi sulla regolamentazione prudenziale è facile da ricordare: le regole
devono essere più rigorose, ma posticipate. Da un lato, la necessità di un maggiore rigore delle regole sul
capitale è stata evidente a tutti, di fronte ad un disegno dei controlli dei capitali basati esclusivamente sul
criterio della ponderazione del rischio. Di più: si è consentito - e si consente ancora - alle banche di
personalizzare il disegno di tali coefficienti. Definire regole non ponderate, che si aggiungano a quelle
ponderate, con il fine ultimo di irrobustire le banche è un imperativo categorico. Dall'altro lato, la
regolamentazione più rigorosa doveva però essere necessariamente posticipata, per evitare che la nuova
architettura non avesse l'effetto indesiderato e negativo di ostacolare, direttamente o indirettamente, lo sforzo
per la ripresa economica. Delle due esigenze - rigore e dilazione - le decisioni di Basilea hanno finora seguito
solo la seconda, dando un pessimo segnale di lassismo finanziario. Ora sarebbe naturale augurarsi che
l'Unione europea assumesse una posizione autonoma, disegnando regole più efficaci e stringenti,
mantenendo le scadenze posticipate. Queste regole vanno però contro gli interessi delle grandi banche: è
credibile che l'Unione lo faccia?
Sulla regolamentazione strutturale, finora non si è fatto nulla, negli Stati Uniti come in Europa. La rischiosità
sistemica può essere affrontata solo smantellando l'architettura della finanza ombra. Fanno parte della
finanza ombra tutte quelle attività il cui garante ultimo non è, ma potrebbe diventare, il contribuente.
Traduzione: l'unica attività finanziaria che può prevedere l'intervento dello Stato come garante ultimo è quello
delle banche, le cui passività vengono utilizzate come mezzo di pagamento. In questi ultimi due decenni la
crescita delle attività non bancarie ombra ha assunto però tre connotati non desiderabili: dimensioni,
complessità ed interconnessione con l'attività bancaria. Per cui è cresciuto il rischio che la collettività si trovi a
pagare costi non attesi a causa della finanza opaca, che è tossica per definizione. Il primo grande strumento
contro la finanza tossica è la trasparenza, che passa attraverso l'obbligo degli scambi su mercati regolati.
Solo disegnando veri mercati si può ridurre il rischio sistemico. Da questo punto di vista, il comunicato di
Barnier va accolto con soddisfazione. Ora occorrerà misurare i passi concreti che l'Unione farà, sempre che
gli interessi specifici della finanza opaca non facciamo premio sulle finalità generali. Infatti, anche sul piano
della regolamentazione bancaria strutturale, l'Unione finora non ha combinato nulla, a parte far scrivere il
Rapporto Liikanen.
Il bilancio regolamentare diventa ancor più negativo se si guarda a quello che è accaduto con la tassazione:
qui il bilancio non è quasi nullo, è negativo. Invece di provare a disegnare una tassazione delle attività
finanziarie che scoraggiasse l'assunzione di rischio sistemico, si continuano a perseguire nei fatti o illusorie
SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 16/01/2014
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LE REGOLE
16/01/2014
Il Sole 24 Ore
Pag. 1
(diffusione:334076, tiratura:405061)
SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 16/01/2014
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prospettive di gettito, o proclami demagogici. Per tutti, si veda l'inutile Tobin Tax promulgata dal Governo
italiano.
La Mifid II può essere allora una occasione di riscatto per l'Unione. Speriamo non sia l'ennesima delusione.
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16/01/2014
Il Sole 24 Ore
Pag. 1
(diffusione:334076, tiratura:405061)
Da Wall Street euforia contagiosa
Walter Riolfi
Anche ieri Wall Street ha dato un saggio di quella discrasia che pesa da mesi sui mercati. Davanti a dati
macro positivi, il rendimento dei Treasury è salito, il dollaro s'è apprezzato e la Borsa è volata a nuovi
massimi.
Visto che i dati (attività nell'area di New York migliore del previsto e prezzi alla produzione superiori alle
attese) segnalano un rafforzamento della crescita economica, e dunque in prospettiva una politica monetaria
un po' meno espansiva, il comportamento dei bond e del dollaro è perfettamente logico. Lo è meno quello di
Wall Street: cresciuta del 30% nel corso del 2013 sia quando gli indicatori macro erano negativi (perchè c'era
la protezione della Fed), sia quando erano positivi (perchè la Fed restava comunque accondiscendente). E
continua a salire la borsa americana, sebbene la Federal Reserve abbia deciso di ridurre ogni mese gli
acquisti di titoli di Stato (quantitative easing).
Quella che a Wall Street appare ad alcuni economisti una eccessiva esuberanza (non necessariamente una
bolla speculativa) sta tuttavia portando benefici a buona parte dei mercati internazionali: non proprio agli
emergenti, ma sicuramente alle borse europee e ai titoli di Stato spagnoli, italiani e dei Paesi periferici in
genere. C'è una correlazione abbastanza evidente tra l'andamento degli indici azionari europei e l'S&P500,
cosicché quando sale Wall Street vanno bene anche le borse del Vecchio continente. Ma c'è una
correlazione ancor più significativa tra una bassa percezione del rischio negli Stati Uniti e una diminuita
percezione dei rischi anche su mercati, un tempo squassati dalla crisi, come Italia e Spagna. Non è un caso
che il ritrovato interesse per i Bonos e i Btp sia stato negli ultimi mesi alimentato proprio da investitori esteri:
americani e soprattutto asiatici.
Il fatto che una fetta consistente di questi flussi d'acquisto sia arrivata dal Giappone (più che dagli Usa), non
intacca il ruolo propulsore di Wall Street, poiché la medesima euforia che da mesi si respira a Tokyo è sì il
risultato della ultraespansiva politica monetaria della Banca del Giappone e del carry trade sullo yen; ma il
tutto è figlio dell'esuberanza americana e della politica monetaria della Fed. Non a caso quando, tra maggio e
giugno, s'era diffusa la paura di una prematura fine del Qe, la reazione più scomposta avvenne proprio a
Tokyo.
Ora Wall Street s'è convinta d'aver trovato un'altra formidabile protezione, di nuovo tra le braccia della Fed:
non più nel Qe, che andrà ad esaurirsi nel corso dell'anno, ma nella forward guidance (guida per il futuro) sui
tassi d'interesse. Con la stessa fede con cui i mercati s'erano affidati al quantitative easing di Bernanke, la
borsa americana è convinta adesso che la promessa di tassi a zero fino al 2016 sia in grado di metterla al
riparo da ogni imprevisto. Per questo l'S&P sale anche quando aumentano gli occupati: infatti la soglia del
tasso di disoccupazione individuata dalla Fed per invertire il corso della propria politica monetaria può essere
estremamente elastica. Ma la soglia del tasso d'inflazione al 2% resta invece cruciale e su di essa dovrà
concentrarsi l'attenzione dei mercati nelle prossime settimane. Non è stata propriamente una manifestazione
di razionalità aver ignorato, ieri, il balzo dei prezzi alla produzione (all'1,2% dal precedente 0,7%) e sarà
interessante osservare, oggi, la reazione al dato sui prezzi al consumo: stimati comunque in crescita all'1,5%
dall'1,2% di novembre.
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01/11/13 15/01/14
SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 16/01/2014
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IL MERCATO
16/01/2014
Il Sole 24 Ore
Pag. 1
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Se l'Italia è l'unico Paese fermo al palo
Adriana Cerretelli
Di questo passo, tra molte chiacchiere e ancora più indecisioni su riforme e tagli alla spesa, la discesa agli
Inferi dell'Italia nell'eurozona, più che un rischio, appare una scelta quasi scientifica. Ormai però in perfetta
solitudine. Non a caso, in un incontro a porte chiuse a Strasburgo il presidente della Commissione, Josè
Barroso, ha richiamato il nostro paese al «coraggio delle riforme, senza le quali non può poi lamentare
l'assenza di crescita e di lavoro».
Fino all'altro ieri ci si poteva illudere di avere ancora una buona spalla nella Francia riluttante di François
Hollande, dopo che Irlanda e tutti i paesi mediterranei avevano capitolato uno dopo l'altro nelle braccia della
troika europea, costretti a rigore e drastiche cure dimagranti inseguendo salute dei conti pubblici,
competitività e crescita economica.
La favola è finita. Il bastione francese, l'ultimo, è caduto. Già 30 anni fa François Mitterrand aveva dovuto, in
pieno disastro economico, affossare il suo «socialismo in un solo paese» insieme all'orgoglio della differenza
francese. Alla fine anche il nuovo presidente socialista ne ha seguito le orme arrendendosi all'evidenza:
niente riforme, niente crescita.
E così, mentre in Italia si versano a rilento le decine di miliardi di arretrati di pagamenti dovuti alle imprese
(16,3 miliardi sui 47 concordati e i 100 totali), sul cuneo fiscale ci si ferma ai gesti simbolici, di
sburocratizzazione, semplificazioni, efficienza di pubblica amministrazione e giustizia civile, riforma del
mercato del lavoro si parla molto ma si decide poco, in Francia si cambia musica.
Lo spartito è quello del «patto di responsabilità». In cambio del loro impegno a creare occupazione, Hollande
annuncia 30 miliardi di tagli agli oneri sociali delle imprese, promette riduzioni delle imposte societarie, meno
pastoie burocratiche e alleggerimento della normativa sul lavoro. Niente di nuovo, invece, sui tagli alla spesa
pubblica, che però sono già di 15 miliardi quest'anno e di altri 50 nel triennio successivo.
La Francia riparte dalla competitività delle imprese perché, avverte Hollande, «è imperativo ritrovare la forza
della sua economia senza la quale il paese non può mantenere la propria influenza in Europa e nel mondo» e
perché «se le aziende non producono ricchezza, non c'è niente da redistribuire».
I Paesi in quarantena, intanto, entrano in convalescenza. Grazie alla riforma del mercato del lavoro, la
Spagna torna a crescere e ad attirare investimenti, ha ricordato ieri Barroso davanti all'europarlamento, il
Portogallo ritrova dinamismo e riassorbe disoccupati, l'Irlanda finanzia il debito a lungo termine sui mercati al
3%, cioè a tassi inferiori a quelli dei Paesi che non hanno chiesto aiuti Ue, perfino la Grecia dovrebbe tornare
quest'anno allo sviluppo.
Certo, la crisi dell'eurozona non è finita. La ripresa economica che si profila resta incerta e fragile, La stessa
locomotiva tedesca perde colpi, se è vero come è vero che l'anno scorso è cresciuta della metà (+0,4)
rispetto al 2012. Nessuno, quindi, è al riparo da nuove riforme. Ma il processo di risanamento e di
convergenza interna nell'euro avanza e comincia a produrre risultati positivi. Il "new deal" francese lo
accelererà e porrà anche le basi per riassorbire l'eccesso di divergenze economiche franco-tedesche e di qui
per ricostruire un'intesa politica vitale per il futuro dell'Europa.
L'Italia non può ostinarsi a restare alla finestra: ogni giorno di più le riforme strutturali rimandate, la mancata
modernizzazione dello Stato e dei suoi apparati, del mercato del lavoro come del fisco appaiono opportunità
di crescita e di occupazione bruciate sull'altare di una miopia politica imperdonabile. Che distrugge l'industria,
brucia il lavoro, desertifica il Paese e il suo futuro.
Se l'ha capito anche Hollande che la crescita nel mondo globale non si fa con il dirigismo e i decreti
keynesiani ma rivitalizzando attività produttiva, economia reale e fiducia e smagrendo lo Stato, possibile che
in Italia non si riesca a fare altrettanto e presto? Siamo troppo grandi per fallire ma anche troppo grandi per
essere aiutati. Però senza crescita il nostro debito diventerà insostenibile. O ci decidiamo ad agire o prima o
SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 16/01/2014
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I TAGLI DI PARIGI ALLE TASSE
16/01/2014
Il Sole 24 Ore
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 16/01/2014
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poi saranno gli altri a costringerci a farlo.
Ps. Non guasta ricordare che dalla nascita dell'euro, cioè dal 1999 a oggi, l'Italia è l'unico paese che ha visto
calare il suo Pil pro capite (-3%). In Germania è aumentato di più del 20%, In Francia quasi del 10. Perfino in
Grecia è salito del 3 per cento.
© RIPRODUZIONE RISERVATA LA PAROLA CHIAVE Total tax rate Il Total tax rate sulle imprese è
calcolato dalla Banca mondiale in percentuale sui profitti totali e comprende la tassa sui profitti stessi
(corporate tax), i contributi e tasse sociali e previdenziali; le tasse su dividendi, capital gain e transazioni
finanziarie; tasse su rifiuti, veicoli, trasporti e simili: tiene dunque conto dell'intera pressione fiscale
sull'azienda.
16/01/2014
Il Sole 24 Ore
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Riforma dei mercati, c'è il sì europeo
Accordo fra governi ed Europarlamento sulle nuove regole su derivati e trading I TEMPI L'entrata in vigore
del pacchetto è prevista due anni e mezzo dopo la pubblicazione del testo definitivo
Beda Romano
BRUXELLES. Dal nostro corrispondente
Continua in Europa il lungo processo di regolamentazione finanziaria sulla scia della crisi borsisitica del
2007-2008. Nella notte tra martedì e mercoledì Parlamento e Consiglio hanno trovato un accordo su un
nuovo pacchetto di regole, chiamato Mifid 2. L'intesa, che impone tra le altre cose un giro di vite sugli scambi
ad alta velocità, è giunta due anni dopo la presentazione delle proposte della Commissione, alla fine di un
braccio di ferro tra istituzioni e con le diverse lobbies del settore.
Tra le misure più importanti c'è la possibilità per le autorità competenti di imporre limiti alle posizioni che gli
operatori potranno assumere su alcuni strumenti finanziari, e in particolare sui derivati relativi alle materie
prime. Il tentativo è di impedire la speculazione sui prodotti agricoli ed energetici. Il pacchetto di norme
prevede anche una maggiore regolamentazione delle numerose piattaforme alternative di contrattazione nate
con la liberalizzazione dei mercati finanziari alla fine degli anni 90.
La legislazione impone alle banche di informare i clienti sulla natura degli strumenti finanziari utilizzati nella
gestione dei portafogli d'investimento. Nuove regole saranno introdotte contro il high-frequency trading, vale a
dire le contrattazioni ad alta velocità, gestite da computer sulla base del semplice superamento di soglie di
prezzo. Le società che si avvalgono di questi sistemi dovranno prevedere meccanismi di blocco e dovranno
ricevere un benestare tecnico per ogni algoritmo utilizzato.
«Queste nuove regole - ha spiegato il commissario al mercato unico Michel Barnier - miglioreranno il modo
in cui funzionano i mercati dei capitali a tutto beneficio dell'economia reale». L'uomo politico francese ha poi
aggiunto: «Sono un passo decisivo sulla strada di un sistema finanziario che sia più sicuro, più trasparente,
più responsabile e che riporti la fiducia tra gli investitori». Il pacchetto legislativo dovrà ora essere approvato
in plenaria e dai governi.
Le trattative sono state particolarmente difficili perché società del settore hanno tentato di limitare la
regolamentazione, soprattutto nel campo dei derivati sulle materie prime. In questi mesi, alcune società
petrolifere hanno messo in luce che troppe nuove regole potrebbero imporre loro un cambio radicale del
modello di business. Sarà interessante capire come reagiranno gli Stati Uniti al pacchetto europeo.
Washington ha chiesto norme che siano comparabili a quelle americane.
L'entrata in vigore del pacchetto è prevista due anni e mezzo dopo la pubblicazione del testo. L'accordo
raggiunto nella notte dopo oltre sette ore di negoziato tecnico ha provocato reazioni diverse. «La decisione
(...) è un buon inizio contro la speculazione sui prezzi dei prodotti alimentari, che sono una questione di vita o
di morte per milioni di persone nel mondo in via di sviluppo», ha spiegato Marc Olivier Herman, un portavoce
di Oxfam, una organizzazione senza scopo di lucro.
Meno positivo è stato il commento da Londra. Le banche «restano preoccupate dall'impatto delle nuove
regole sull'economia reale per il rischio che queste limitino la liquidità di mercato e penalizzino la competitività
delle società europee», ha detto Gergely Polner, un portavoce dell'associazione bancaria britannica (Bba).
«Ciò detto, siamo pronti a lavorare insieme alle autorità europee sugli standard tecnici e sull'adozione» delle
misure.
La presa di posizione inglese lascia intendere come vi sia margine di manovra sulla messa in pratica delle
nuove regole. Tra le altre cose, i limiti di investimento da imporre agli operatori saranno decisi su base
nazionale. Su questo aspetto, Oxfam teme che ci sia il rischio, in particolare in Gran Bretagna, di «limiti
inefficaci», suscettibili di creare «una corsa al ribasso tra i paesi europei». Ancora una volta il confronto è tra i
paesi più liberali e quelli che invece vorrebbero un settore finanziario assai più regolamentato.
SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 16/01/2014
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Mercati globali VERSO LA NUOVA MIFID
16/01/2014
Il Sole 24 Ore
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I sette punti dell'accordo
Sono sette i punti qualificanti dell'aggiornamento della direttiva Mifid II sui mercati degli strumenti finanziari
secondo l'accordo raggiunto la notte scorsa tra governi, Parlamento europeo e Commissione. Tra le novità
più rilevanti la possibilità di mettere freni alle negoziazioni iperspeculative ad alta frequenza e alle
speculazioni sui derivati su materie prime. Dopo una serie di affinamenti su alcuni dettagli, la legislazione
concordata dovrà passare al vaglio del Consiglio ed entrerà in vigore due anni e mezzo dopo la
pubblicazione.
2
SUPERVISIONE
Vengono rafforzati i poteri di vigilanza ed è previsto un regime armonizzato sui limiti delle posizioni in
derivatisu materie prime. Le autorità competenti (nazionali) potranno imporre limiti alle posizioni di persone
secondo un metodo di calcolo stabilito da Esma.
4
ALTA FREQUENZA
Saranno stretti i controlli del trading algoritmico che ha notevolmente aumentato la velocità del trading e può
causare rischi sistemici. Chi opera con gli algoritmi deve essere adeguatamente regolamentato e deve fornire
la liquidità.
6
SANZIONI
L'uso di sanzioni penali viene definito in modo da garantire la cooperazione tra le autorità e la trasparenza.
Uno dei temi potenzialmente critici riguarda proprio l'applicazione delle regole e il rischio di una «corsa al
ribasso» fra i Paesi europei con limiti inefficaci.
1
TRASPARENZA
Per la prima volta si stabilisce un principio di trasparenza per
gli strumenti come obbligazioni e derivati. Per le azioni un tetto sui volumi limita l'uso di deroghe sui prezzi di
riferimento e sui prezzi negoziati. Viene ampliato anche il regime di trasparenza pre e post-negoziazione
3
CONCORRENZA
Viene istituito un regime comunitario armonizzato per l'accesso non discriminatorio alle sedi di negoziazione
e alle controparti centrali. Piccole sedi di negoziazione e controparti centrali di nuova costituzione potranno
beneficiare di periodi transitori opzionali.
5
PROTEZIONE INVESTITORI
Si prevedono regole di condotta più stringenti e test appropriati, informazioni più estese ai clienti. Esma potrà
vietare o limitare la commercializzazione e la distribuzione di alcuni strumenti finanziari in circostanze ben
definite e poteri simili avrà l'Eba nel caso di depositi strutturati .
7
PAESI TERZI
Un regime armonizzato per concedere l'accesso ai mercati Ue alle società di paesi terzi si basa sulla
valutazione dell'equivalenza delle varie giurisdizioni da parte della Commissione. Il regime si applica solo alla
prestazione transfrontaliera di servizi e attività di investimento prestati a controparti professionali.
16/01/2014
La Repubblica - Ed. nazionale
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Quei 2 miliardi persi dalle società pubbliche
FEDERICO FUBINI
PER la precisione, sempre che essa non sia una chimera in questo campo, sono 7.340 le società di cui
risultano azionisti ministeri, enti locali, enti pubblici di previdenza, l'Automobile Club d'Italia, le case di riposo o
varie altre articolazioni dello Stato. Una selva inestricabile di 30.133 «legami», come il Tesoro chiama
pudicamente le partecipazioni direttee indirette.
QUELLE che fanno dello Stato italiano allo stesso tempo uno dei più indebitati al mondo e fra i più presenti
nei gangli di una delle economie che, per inciso, resta fra le più incapaci di crescere.
Forse non è un caso se le tre qualità - Stato azionista di migliaia di imprese, alto debito e bassa crescitaconvivono nello stesso Paese. Ma ora il Tesoro cerca se non altro di capire qualcosa di più in questa
nebulosa.
Ieri ha pubblicato il primo rapporto mai visto in Italia - meglio tardi che mai - sulle partecipazioni detenute
dalle amministrazioni, i loro guadagni e soprattutto le perdite di esercizio da 2,2 miliardi di euro l'anno. E
qualunque siano i dettagli di ciò l'indagine ha scoperto, essa pone prima di tutto una questione di buon senso.
Perché se una holding privata vedesse che un terzo delle società di cui essa è azionista viaggia in rosso e
che quelle perdite sono così pesanti da portare in rosso il saldo totale, le opzioni sarebbero chiare: vendere,
oppure ristrutturare al più presto le imprese in perdita per arrestare l'emorragia; la terza ipotesi, fingere di non
vedere perché così conviene a qualche manager corrotto, non atterrerebbe neppure sul tavolo.
Il problema con le 7340 società partecipate dalle amministrazioni italiane è che il più delle volte, finora, si è
imboccato quest'ultima strada. Ora il ministero dell'Economia cerca di mettere ordine almeno mentale perché,
dichiara, «la gestione efficiente del patrimonio pubblico può giocare un ruolo importante per il contenimento
del deficit e la riduzione del debito pubblico». La strada da fare è lunga, ma non impossibile a leggere il
censimento pubblicato ieri dal Tesoro. È stato un lavoro complesso perché solo i Comuni italiani dichiarano
l'esorbitante cifra di 29.583 partecipazioni dirette e indirette che, spesso, si accavallano fra loro nelle stesse
imprese: in tutto le giunte cittadine sono presenti in circa 5.000 società. L'Automobil Club d'Italia dice di avere
molte più partecipazioni di qualunque fondo d'investimento italiano, a quota 153 imprese. Le università
italiane sono socie dirette e indirette di uno sconfinato arcipelago di 1,562 imprese. Con buona pace di chi
vuole abolirle, le Provincie vantano ben 2679 «legami» azionari con aziende che operano in Italia. E le
Regioni ne hanno oltre cinquecento, quasi che i governatori di giunta fossero il consiglio d'amministrazione di
un gigante del private equity globale come Blackstone o Pai.
Tra i settori, c'è un po' di tutto: classiche società di rete nei rifiuti, nell'acqua o nei trasporti, ma anche
costruzioni (ben 365 partecipate pubbliche) o «servizi d'informazione e comunicazione» (249).
Peccato che questa giungla di interessi alla resa dei conti risulti perfettamente in rosso. I dati sono aggiornati
all'esercizio 2011, ma è molto probabile che quelli del 2012 e 2013 presenti
no risultati simili o peggiori, visto l'andamento dell'economia. Viene fuori così che solo per le società
partecipate dalle amministrazioni locali, la galassia del cosiddetto socialismo municipale, i benefici non
compensino le perdite. Le società in utile risultano 2.879 (il 47% del totale), quelle in pareggio 1.249 e quelle
in rosso solo il 31%, cioè circa duemila. Ma la voragine che queste ultime creano, 2,2 miliardi di euro solo nel
2011, è tale da azzerare e oltre l'utile da 1,4 delle imprese con andamento positivo.
I dati sui saldi, naturalmente, si riferiscono alla parte dei margini in capo alle pubbliche amministrazioni in
base alle loro quote. E un esame attento da parte del Tesoro rivela che i buchi di bilancio delle ex
municipalizzate è fortemente concentrato in poche imprese. Appena 23 società fra le duemila in rosso
provocano perdite per oltre un miliardo e mezzo. Solo quattro holding delle giunte locali (ma il Tesoro si
guarda bene dal fare nomi) pesano per quasi mezzo miliardo di euro. Un'unica so- cietà a partecipazione
pubblica locale nel settore «finanziario e assicurativo» presenta un'emorragia di cassa da 258 milioni. E
SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 16/01/2014
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L'inchiesta
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quattro municipalizzate del gas e della luce bruciano quasi 400 milioni. Non è chiaro poi perché le
amministrazioni locali d'Italia debbano continuare a giocare un ruolo da azioniste con 93 aziende nel settore
«agricoltura, silvicoltura e pesca» (dove peraltro perdono 244 mila euro).
In Grecia, la decisione di integrare nel bilancio dello Stato le perdite delle partecipate portò nel 2010 una
forte correzione al rialzo del deficit. Fu una dolorosa operazione-verità. In Italia il peggioramento dei conti non
sarebbe così drastico. Ma individuare la rete di partecipazioni in rosso utili a nutrire le clientele locali e a
distribuire le prebende della politica è stato almeno un primo passo. Ora le carte sono sul tavolo: far finta di
non sapere non è più un'opzione.PER SAPERNE DI PIÙ www.tesoro.it www.anci.it
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Il fantasma della deflazione
ALBERTO BISIN
IDATI Istat sul livello dei prezzi al consumo segnano un ulteriore rallentamento dell'inflazione in Italia, che su
base annua si attesterà nel 2013 vicino allo 0,7%. Non ancora deflazione (i prezzi non calano), quindi, ma ci
siamo quasi. La deflazione in generale fa paura. Innanzitutto ha effetti re-distributivi che non favoriscono certo
i Paesi fortemente indebitati. Tende a guadagnare chi compra e chi presta denaro e a perdere chi vende e
prende a prestito. Ma soprattutto, attese deflazionistiche possono portare famiglie ed imprese ad attendere i
prezzi più bassi in futuro, a ridurre cioè la domanda di consumo ed investimento, generando quindi ulteriore
deflazione. Come per l'inflazione quello che si teme non è tanto la deflazione in sé quanto piuttosto una
spirale deflazionistica o comunque una deflazione continuata e persistente come quella giapponese (che è
durata più di 20 anni).
Non ci siamo ancora quindi, in deflazione, ma potremmo arrivarci presto. A questo punto in realtà è difficile
prevedere cosa possa succedere. Prevedere l'andamento della domanda aggregata e dei prezzi è
operazione complessa, che richiede sofisticati modelli econometrici, con il necessario contorno di incertezza
statistica.
Chi lo fa annusando l'aria, o con modelli che danno risposte univoche, non sa di cosa parla. Il governatore
della Bce (che i modelli sofisticati li ha e li usa) promette grande attenzione alla situazione e risposte
appropriate ma condizionali, del tipo «se si avrà deflazione sappiamo come intervenire ed interverremo». La
Bce ancora una volta si dimostra quindi più cauta della Federal Reserve negli Stati Uniti, per non parlare della
banca centrale del Giappone. Ci sarà certamente chi attribuirà questa cautela all'influenza nefasta della
Germania, il capro espiatorio di questi tempi preferito nel nostro Paese. Ed è anche possibile che la necessità
della Bce di mediare tra le esigenze dei Paesi economicamente più solidie quelle dei Piigs spieghi una parte
di questa cautela. Dopotutto non si registrano particolari tendenze deflazionistiche nei Paesi del Nord Europa,
a parte appunto l'Irlanda.
Ma basta guardare ad un qualunque grafico che mostri la correlazione dal 2008 ad oggi tra gli interventi di
politica monetaria della Fed (la sua posizione di bilancio, che misura quello che si chiama quantitative easing)
e gli indici di Borsa negli Stati Uniti per farsi tremare le vene ai polsi. La possibilità che gli indici di Borsa Usa
siano drogati in modo sostanziale dalla liquidità immessa dalla Fed, cioè la possibilità che si stia creando
un'altra bolla questa volta mobiliare invece che immobiliare, è assolutamente reale. La possibilità che anche
questo, assieme al celebre "whatever it takes" di Draghi, stia contribuendo alla calma che stiamo osservando
sui titoli sovrani in Europa è anch'essa assolutamente reale.
In questo contesto, se così stanno le cose, la cautela del governatore Draghi appare ben più che
ragionevole. È anche comprensibile che la Bce sia restia ad accelerare la creazione di liquidità prima che i
Paesi che più hanno risentito della crisi, per ragioni di offerta o di bilancio, non abbiano almeno messo in
cantiere quelle riforme strutturali che potrebbero far sperare in una loro sostenuta crescita futura.
Se le tendenze deflattive sono certamente un effetto della contrazione della domanda in questi Paesi, la
domanda aggregata oggi dipende fortemente anche dalle aspettative di crescita del reddito. L'incertezza che
si percepisce in Italia ha enormi effetti su consumi ed investimenti, così come le aspettative di nuove tasse
e/o di tagli di spesa generalizzati (non mirati cioè ai capitoli più improduttivi).
Infine, e io sono del modesto avviso che questa sia la ragione principale della cautela della Bce, i possibili
effetti di fortie sostenute iniezioni di liquidità come quelle operate dalla Fed dipendono in modo cruciale dalle
condizioni dei mercati finanziari. Effetti perversi sono maggiormente probabili quando la governancee la
regolamentazione delle banche, come nel caso europeo, siano deboli perché ancora troppo soggette al
controllo degli stati membri. Iniezioni di liquidità che non fossero accompagnate da una ricapitalizzazione
delle banche non porterebbero a quelle condizioni più favorevoli di credito alle imprese che sono necessarie
SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 16/01/2014
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L'analisi
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per la ripresa. Questo purtroppo è stato il caso degli interventi della Bce (chiamati Ltro) nel 2011, che sono
finiti largamente in acquisti da parte delle banche di debito sovrano del proprio Paese. È naturale quindi che
nel corso della transizione verso l'unione bancaria, nell'attesa degli stress test sulle condizioni di
capitalizzazione delle banche che questa prevede, la Bce dimostri più cautela rispetto alla Fed che invece ha
potuto meglio guidare la ricapitalizzazione delle banche Usa a partire già dal 2008. Non ci resta che sperare
che l'unione bancaria porti rapidamente ad un miglioramento delle condizioni finanziarie affinché la debole
ripresa in atto in Europa non si interrompa e possa essere aiutata dalla politica monetaria. E che tutto ciò non
sia mandato all'aria da una irresponsabile politica economica del nostro Paese che confonda le riforme
strutturali per la crescita con le solite politiche di spesa vendute come politiche per la crescita.
16/01/2014
La Repubblica - Ed. nazionale
Pag. 29
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MASSIMO L. SALVADORI
Contro la proposta di Renzi di attribuire un "assegno universale" a chi rimane senza lavoroe la proposta,
rinnovata dalla Camusso, di introdurre una tassa sui patrimoni si è prontamente levato un corso di voci
negative. Alla prima si obietta che è bella moralmente, ma che la questione è sempre la solita: la mancanza
di soldi; alla seconda, che per parte sua indica dove trovare dei soldi, che siamo in un Paese democratico e
civile, in cui non si può mica dare l'assalto alle vistose diligenze in cui viaggiano i ricchi. Il coro di coloro che
invitano alla moderazione e alla ragionevolezza in tema di politiche sociali direttea toglierea chi ha troppo e a
dare qualcosa a chi ha troppo poco è che per poter promuovere una maggiore equità bisogna aspettare una
consolidata ripresa economica, rendendo tutti contenti senza far torto a nessuno, neanche a chi
probabilmente domani avrà ancora di più. Senza quel presupposto oggettivo, le nobili intenzioni restano
chiacchiere. Ma è vero che per varare politiche sociali efficaci e persino ardite occorre attendere che il
sistema economico trasudi salute? Falso, interamente falso. Le grandi politiche sociali, quelle che, culminate
nei sistemi di welfare, hanno segnato un passo avanti di storico significato nell'assicurare sostanziali tutele
agli strati sociali più deboli, non sono state lanciate in Paesi in cui il miele scorreva abbondante, ma al
contrario in Paesi impoveriti, anche terribilmente impoveriti e scossi alla radice da crisi economiche e sociali
della massima gravità. Così è avvenuto dopo la crisi del 1929, in Europa ad opera delle socialdemocrazie
scandinave e degli stessi regimi nazista e fascista, negli Stati Uniti per impulso del New Deal rooseveltiano; e
ancor più è avvenuto, per la forte determinazione del governo laburista di Attlee, dopo la fine della seconda
guerra mondiale in Gran Bretagna, quando vi erano ancora le tessere, aprendo poi la strada alla progressiva
estensione, favorita dalla ripresa economica, dello "Stato del benessere" in un numero crescente di Paesi.
Le risposte date alla crisi del 1929 e a quella seguente al 1945 furono i prodotti congiunti per un verso di un
risveglio morale che unì la parte progressista delle classi dirigenti, socialisti riformisti, liberali di sinistra e
cristiani sociali, per l'altro del timore del diffondersi del comunismo. E furono risposte alte e vincenti. Tutta
opposta è stata ed è la risposta alla crisi che, iniziata nel 2008, morde ancora pesantemente. Quando
quest'ultima scoppiò, da quasi trent'anni era in corso l'offensiva neoliberista, che, mentre invocava la libera
iniziativa di ciascun individuo, nei fatti aveva lasciato padrone del campo le oligarchie finanziarie e industriali
e seguito linee di sempre maggiore contrazione delle istituzioni del welfare. La parola d'ordine era che, se in
passato era stata la spesa pubblica a sostenerle, era giunto il tempo di porre fine al malo andazzo, invitando
alla corresponsabilizzazione delle singole persone e, per soccorrere quanti rimasti ai margini, alle iniziative di
carattere caritativo. Negli anni successivi al 2008 le oligarchie plutocratiche - le quali grazie alle loro avidità
speculative avevano provocato il disastro e a differenza che dopo il 1929 e il 1945 non avevano più da
temere né la diffusione di un comunismo ormai fallito né una seria resistenza di esauste socialdemocrazie - ci
fecero assistere a questo spettacolo, davvero brillante dal loro punto di vista: i nemici giurati dell'intervento
pubblico rovesciarono sui bilanci statali e sulle tasche della massa dei contribuenti semi-poveri e poveri i costi
della crisi di cui erano interamente responsabili. Al danno si aggiunsero le beffe. L'esito è stato l'accrescersi
in maniera esponenziale delle diseguaglianze. Questa tendenza si è pienamente dispiegata anche in Italia,
dove il divario tra ricchi e poveri è andato costantemente aumentando, al punto che il reddito di circa il 10 per
cento della popolazione è arrivato ad essere pari a quello di circa il 40 per cento del resto.
Davvero in quel pozzo, che, se non senza fondo,è profondo, non si possono pescare risorse per finanziare
l'"assegno universale" ai senza lavoro caldeggiato da Renzi, e davvero la patrimoniale auspicata dalla leader
della Cgil avrebbe il carattere di una espropriazione comunista? Tra poche settimane, esattamente il 26
febbraio, saranno vent'anni da quando Norberto Bobbio diede alle stampe presso l'editore Donzelli il
fortunatissimo saggio Destra e sinistra, nel quale il vecchio filosofo levava (e non gli toccò di vedere il
seguito) la sua indignata denuncia contro l'acuirsi indecente delle diseguaglianze ed esortava una sinistra
SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 16/01/2014
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WELFARE IN TEMPO DI CRISI
16/01/2014
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La proprietà intellettuale è riconducibile alla fonte specificata in testa alla pagina. Il ritaglio stampa è da intendersi per uso privato
sbandata a rialzare la bandiera della giustizia sociale: da intendersi quest'ultima, sia chiaro, non alla maniera
di Babeuf, ma di un movimento inteso, mediante il metodo delle riforme, ad assegnare ai poveri quel quantum
di risorse senza le quali essi non possono condurre una dignitosa esistenza. I ricchi, si sa, non tutti per
fortuna ma per sfortuna nella grande maggioranza, oppongono orecchie sorde a questo messaggio. Spetta ai
buoni governi in generalee in particolare alle sinistre che non dimentichino la loro ragion d'essere di suonare
la sveglia al senso della responsabilità sociale, senza il quale la sfiducia dei più verso lo Statoe la politicaè
destinata, del tutto motivatamente, a dilagare in masse ridotte addirittura alla disperazione.
PER SAPERNE DI PIÙ www.ecb.europa.eu www.federalreserve.gov
16/01/2014
La Stampa - Ed. nazionale
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La battaglia dell'Europa per fermare gli speculatori
M. ZAT. CORRISPONDENTE DA BRUXELLES
Il Parlamento europeo e il Consiglio (i governi Ue) hanno chiuso martedì notte l'accordo sulla riforma della
direttiva che regola i mercati finanziari. È un patto destinato a imbrigliare gli affari più speculativi, tossici e
pericolosi nel vecchio Continente. Spini e Zatterin ALLE PAGINE 8 E 9 Sette ore e mezzo di trattativa serrata
e, finalmente, ecco il patto destinato a imbrigliare per quanto possibile gli affari più speculativi, tossici e
pericolosi nel vecchio continente. Il Parlamento europeo e il Consiglio (i governi Ue) hanno chiuso martedì
notte l'accordo sulla riforma della direttiva Mifid che regola i mercati finanziari, aumentando la concentrazione
dei contratti sulle piazze disciplinate, la trasparenza degli scambi e la solvibilità degli operatori. «Con questi
vincoli - ammette un portavoce europeo - la crisi del 2007 avrebbe avuto una storia completamente diversa. E
meno dolorosa». È la mossa con cui si vuole dimostrare che la lezione è stata capita e appresa. Il
responsabile per i mercati finanziari, Michel Barnier, è soddisfatto, parla di «un grande passo in avanti»,
anche se lamenta che «sui bond e i derivati si poteva fare di più». È una sintesi corretta, in un condominio
che conta ventotto inquilini non si riesce ad avanzare senza compromessi. Il francese dice qualcosa di
credibile quando precisa che «le regole migliorano il funzionamento dei mercati dei capitali a beneficio
dell'economia reale». Scritte d'intesa con Usa e G20, semplificano, fanno scudo, alimentano la fiducia. Per
chi gioca pulito, è una buona nuova. La riorganizzazione La Mifid modificata riorganizza le attività di
compravendita meno tradizionali, stabilendo che debbano avvenire sui mercati regolamenti, come le borse,
sui sistemi alternativi (Multilateral trading facilities), o sul nuovo Otf, il sistema organizzato di trading sul quale
quoteranno articoli non azionari, come interessi su obbligazioni, prodotti strutturati, derivati e quote di
emissioni, con precisi tetti per l'uso di capitale proprio. L'obiettivo di fondo è tappare le falle nella regolazione
dei mercati resi sempre più larghi dall'innovazione tecnologica e alle pratiche iperspeculative. Particolare la
cura nel cercare di garantire un libero accesso alle stanze di compensazione, e a far luce sui «Dark Pools»,
attribuendo un limite ai volumi su queste piattaforme finanziarie esterne ai circuiti regolamentati in cui gli
investitori istituzionali fanno affari tra loro e pubblicano i prezzi sollo alla fine. Ogni possibile controversia sarà
risolta dall'Esma, garante Ue per i mercati finanziari. Le materie prime Per la prima volta, per stringere la
supervisione, le autorità di regolazione avranno facoltà di limitare la posizione netta detenibile in derivati su
materie prime, dato il loro impatto potenziale sui prezzi dei prodotti alimentari e energetici (petrolio e carbone
mantengono le vecchi regole). Lo si richiede per imporre l'ordine sui mercati ed evitare abusi. Allo stesso
modo, ci saranno tetti per le posizioni nette di trading ad alta frequenza (interventi sui mercati pilotati da
algoritmi velocissimi) che facilitano la volatilità degli scambi, e quelle sui derivati sulle materie prime. Gli
algoritmi usati devono essere valutati nelle sedi di negoziazione e autorizzati dai regolatori. Una più netta
protezione degli investitori, spiegano fonti della Commissione, verrà raggiunta attraverso un nuovo codice di
condotta, e la possibilità concessa all'Esma di proibire o limitare l'offerta di prodotti considerati pericolosi.
Deve essere assicurato che ogni informazione sia chiaramente identificabile e non ingannevole. I clienti
devono inoltre sapere le indicazioni e i consigli ricevuti sono frutto di analisi indipendenti. Qualunque rischio
deve essere dichiarato ex ante, chi firma deve sapere. L'Ue ha deciso, il passato non dovrà ripetersi, non
almeno come lo abbiamo conosciuto. Adesso si cambia, anche se le banche inglesi brontolano e paventano
scenari di gran crisi di liquidità e dunque di crescita. Bruxelles nega. Approvazione formale in primavera ed
entrata in vigore entro due anni e mezzo.
DLe dark pool (o black pools, letteralmente "vasca oscura" o "piscina oscura") sono borse elettroniche
alternative rispetto a quelle regolamentate - infatti hanno anche il nome, meno suggestivo, di alternative
trading systems - nelle quali è possibile effettuare operazioni in modo anonimo e senza rendere pubblici i
prezzi, nonché i quantitativi di azioni scambiate. Gran parte delle transazioni azionarie si svolge proprio
all'interno di questi spazi non regolamentati con sede in edifici anonimi e super protetti (se ne contano una
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Le norme sui derivati
16/01/2014
La Stampa - Ed. nazionale
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(diffusione:309253, tiratura:418328)
SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 16/01/2014
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quarantina solo negli Stati Uniti). Il vantaggio principale sta nel fatto che il mercato non viene a conoscenza
dei movimenti di acquisto o di vendita, e di conseguenza non ci sono contraccolpi sui titoli azionari collegati.
DGli strumenti derivati sono contratti il cui prezzo è basato sul valore di mercato di un'altro strumento
finanziario, che viene detto sottostante (azioni, indici finanziari, valute, tassi d'interesse). I derivati sono usati
per la copertura di un rischio finanziario (come assicurazione), l'arbitraggio (l'acquisto di un prodotto su un
mercato e la sua vendita su un altro) e la speculazione. Esistono derivati basati sulle più diverse variabili,
perfino sulla quantità di neve caduta in una determinata zona. I derivati sono oggetto di contrattazione
soprattutto su mercati alternativi alle borse vere e proprie (i cosiddetti Otc, over the counter): si tratta di
mercati creati da istituzioni finanziarie e professionisti tramite reti telematiche e che, di solito, non sono
regolamentati.
Foto: RALPH ORLOWSKI/REUTERS Un toro (il simbolo dei mercati positivi) fatto con 210 mila pezzi di Lego
alla Borsa di Francoforte
16/01/2014
La Stampa - Ed. nazionale
Pag. 1
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MARIO DEAGLIO
Il presidente del Consiglio greco, Antonis Samaras, deve aver avuto un moto di soddisfazione ieri mattina,
una soddisfazione forse un po' maligna ma sicuramente giustificata. PAGINA Samaras ha inaugurato il
«semestre greco» di presidenza dell'Unione Europea - cui seguirà un «semestre italiano», al quale l'Italia non
sembra affatto prepararsi - annunciando, a una seduta plenaria del Parlamento di Strasburgo, il
raggiungimento, dopo due anni di paralisi, di un accordo politico tra Parlamento e Consiglio per una
regolazione più severa dei mercati finanziari. Precisamente sui mercati finanziari negli ultimi dieci anni, il
debito del suo Paese ha potuto tranquillamente essere gonfiato senza alcun controllo, naturalmente con
colpe anche greche; i titoli di questo debito hanno potuto essere inseriti in prodotti finanziari «derivati» di tipo
non trasparente; questi titoli sono stati scambiati in mercati non regolamentati, i cosiddetti «stagni scuri» della
finanza globale. Tutto ciò ha dato origine a una variante europea della grande crisi economico -finanziaria
mondiale, sospinto l'euro sull'orlo di un burrone dal quale si è allontanato solo al prezzo di una dura frenata
produttiva, fatto cadere l'economia greca in quel burrone riportandola all'indietro forse di un'intera
generazione e procurato guadagni imprecisati ma comunque enormi a una ristretta élite di finanzieri. Un
presidente greco ha ieri chiuso questa parentesi: è un po' come se la storia chiedesse scusa a quello che è
forse il primo (e speriamo resti l'unico) Paese al mondo a esser stato rovinato esclusivamente dalla finanza,
almeno in tempi moderni. E come se l'Europa cercasse di rimediare a una colpevole inerzia durata almeno
cinque anni. L'accordo dovrebbe - il condizionale è d'obbligo, fino a quando dal livello politico non si passerà
a un testo fitto e minuto, preparato dai tecnici - comprendere tre punti fondamentali: il controllo del tipo di
operazioni, il controllo del tipo di prodotti, il controllo di chi opera nei mercati. Questo complesso di limiti
suonerà mortificante ai sostenitori a oltranza del mercato come supremo regolatore della vita economica e
sociale ma appena adeguato a chi considera i guasti provocati da una libertà priva di regole. In base al primo
punto, sarà vietato operare su mercati non controllati e svolgere quello che viene indicato come «commercio
algoritmico di alta frequenza», ossia operazioni in rapidissima serie, determinate automaticamente da un
computer appositamente programmato. Il computer, con i suoi programmi, è ancora ammesso ma dovrà
esser dotato di un meccanismo che interrompe le operazioni se il mercato diventa troppo volatile e i
programmi dovranno essere in precedenza verificati dalle autorità di supervisione e da queste specificamente
autorizzati. Su questi mercati resi più mansueti, ed è questo il secondo punto, ci saranno controlli sulla
«tossicità» dei titoli dei quali si potrà anche imporre il ritiro, oppure la fornitura di informazioni dettagliate agli
investitori. Questi, spesso, come mostrano recenti sentenze americane sulle operazioni della prima fase della
crisi finanziaria, non sono in grado di sapere bene che cosa stanno comprando. Ci saranno infine tutele per
gli investitori, ossia per i cittadini, con un raffinamento di procedure complesse e scarsamente efficaci già in
vigore oggi nonché limiti alla posizione netta di ciascun operatore sui mercati delle materie prime. In
quest'ultimo caso si tratta di un freno a movimenti puramente speculativi che, come è successo molte volte
negli ultimi anni, si ripercuotono fortemente sui movimenti dei prezzi del petrolio e dei cereali creando
difficoltà all'economia reale. In un mondo sempre più interconnesso e globalizzato, il vero scontro, o, se si
preferisce, la vera dialettica è tra «mercati» e «democrazie»: i mercati hanno imposto, in maniera tutto
sommato giustificata, alle democrazie, di pagare regolarmente alla scadenza i debiti contratti dagli Stati. Le
democrazie cercano ora di imporre ai mercati di operare alla luce del sole e non, appunto, in «stagni scuri»
che possono trasformarsi in paludi. Si tratta di uno scontro durissimo che, per la prima volta, vede la finanza
sulla difensiva: il numero di multe inflitte alle grandi banche internazionali nel corso del 2013 è probabilmente
a livello record e raggiunge in ogni caso le decine di miliardi di euro. Si aggiungano inoltre i limiti crescenti
imposti alle banche nell'impiego dei fondi messi a loro disposizione dai depositanti, un impiego che non deve
superare livelli predeterminati di rischio, il che spiega la riluttanza o l'indisponibilità delle banche in questo
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LA PREMESSA PER RIPARTIRE
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La Stampa - Ed. nazionale
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periodo a prestare a clienti «rischiosi». Attorno a questi fondi deve essere eretto uno «steccato di
protezione», come dice la riforma bancaria inglese appena approvata e che entrerà in vigore in aprile; nella
stessa direzione si muove la riforma americana, anch'essa sulla linea di partenza. Entrambe sembrano
andare verso una separazione simile a quella introdotta negli Anni Trenta, ma rimasta in vigore fino agli Anni
Novanta, tra l'attività bancaria «normale», finanziata da depositi «normali», e l'attività bancaria di lungo
termine, finanziata da appositi titoli e depositi. Le leggi bancarie degli Anni Trenta non furono sufficienti a far
uscire il mondo dalla crisi di allora ma, grazie queste leggi, nel dopoguerra le banche furono in grado di
finanziare i «miracoli economici». Non bisogna forzare i parallelismi in un mondo che è profondamente
mutato ma si può ragionevolmente sperare che, a livello mondiale, il controllo accresciuto di mercati e banche
sia una premessa per una ripresa sostenibile.
16/01/2014
La Stampa - Ed. nazionale
Pag. 8
(diffusione:309253, tiratura:418328)
Piazza Affari di nuovo sopra quota 20 mila Non accadeva dal 2011
Passata la tempesta torna la fiducia La Banca Mondiale alza le stime di crescita
FRANCESCO SPINI
MILANO Lancette indietro, a Piazza Affari. Con il superamento di quota 20 mila punti, il FtseMib, principale
indice di Piazza Affari, ritorna ai livelli visti l'ultima volta il 5 luglio del 2011. Prima, insomma, che l'escalation
dello spread prendesse il sopravvento, caratterizzando la grande crisi dei debiti sovrani. Quella insomma che,
dopo aver travolto la Grecia, colpì duramente i cosiddetti Paesi «Pigs» e portò il differenziale tra il rendimento
dei nostri Btp decennali e i tedeschi Bund di pari durata ad arrivare, nel novembre 2011 a quota 500. Tempi
andati, visto che oggi lo spread naviga attorno ai 200 punti base (204 la chiusura di ieri), dopo settimane
passate addirittura al di sotto di tale livello. In realtà con l'allungo di ieri, che ha visto l'indice principale
chiudere, appunto, a 20.045 punti in rialzo dell'1,60% e il più generale Ftse All Share guadagnare l'1,49%,
Piazza Affari arriva buona ultima, tra le Borse dei principali Paesi, nel recupero di quanto perso negli ultimi
due anni. La prevalenza del settore bancario che vale circa il 30% della capitalizzazione della Borsa, ha
ritardato il recupero del listino milanese, su cui i grandi fondi internazionali si stanno riaffacciando. A sentire
gli asset manager, nella corsa delle Borse giocano un ruolo cruciale le prospettive globali di ripresa
(corroborate da buoni dati macroeconomici americani e dal buon andamento delle trimestrali Usa, ieri in
particolare dai conti di Bank of America) che inducono gli investitori a puntare sul settore azionario, rispetto a
un obbligazionario che, con i tassi ai minimi e spread in calo, non promette scintille sul fronte dei rendimenti.
E difatti anche ieri a influire sullo sprint di un po' di tutte le Piazze europee è anche la revisione al rialzo delle
stime sulla crescita della Banca Mondiale, che parla di «punto di svolta» vicino per l'economia globale. Nel
rapporto annuale, l'istituto prevede per quest'anno una crescita a livello mondiale del 3,2% contro il 3%
stimato in precedenza e in rialzo rispetto al 2,4% del 2013. Nell'Eurozona, dopo due anni in contrazione, è
attesa una crescita dell'1,1% quest'anno e dell'1,4% l'anno prossimo. In questo quadro l'Italia conserva un
buon appeal per la sottovalutazione del proprio listino, e in particolare dei titoli bancari (che hanno pagato la
forte esposizione sui titoli di Stato italiani, di cui hanno pieni i forzieri), tra i grandi protagonisti del recupero.
Dal 7 gennaio l'indice Italia banche registra un +6,8%; nell'ultimo anno il recupero è stato del 30%, un dato
che che fa il paio col +57% dell'indicatore che riunisce i servizi finanziari. A beneficiarne più di altri di questo
clima di euforia (difficile dire quanto durerà) delle Borse mondiali è la locomotiva dell'Eurozona, la Germania.
A Francoforte l'indice Dax, in spolvero già da settimane, aggiorna nuovamente al rialzo (a quota 9.733,81
punti, +2,03%) il proprio record storico, già arrotondato più volte in questi ultimi tempi. Buona la prova anche
delle altre principali piazze europee. Londra segna un +0,78%, Madrid (il suo indice ha recuparato il terreno
perso più rapidamente di Piazza Affari) galoppa dell'1,38%, Parigi segue da vicino a +1,35%. L'andamento di
Piazza Affari 5 LUGLIO 2011 Ultimo giorno sopra quota 20.000 CHIUSURA DI IERI 20.045 punti Centimetri
LA STAMPA 26.000 24.000 22.000 20.000 18.000 16.000 14.000 12.000 GEN 2011 GEN 2012 GEN 2013
GEN 2014
SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 16/01/2014
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L'indice Ftse Mib
16/01/2014
Il Messaggero - Ed. nazionale
Pag. 19
(diffusione:210842, tiratura:295190)
Telecom accelera sulle torri, Deutsche Bank advisor
Oggi sul tavolo del cda riforma della governance e vendita delle frequenze MEDIOBANCA SUI MUX
r. dim.
ROMA Telecom avvia il percorso per la valorizzazione delle torri che potrebbe fruttare circa 1 miliardo. Nelle
ultime ore il gruppo di tlc, secondo quanto risulta al Messaggero , avrebbe scelto l'advisor che dovrà seguire
l'operazione da realizzare entro l'anno: Deutsche Bank. L'incarico alla banca tedesca rientra tra le informative
che oggi Marco Patuano fornirà al consiglio. La riunione è stata preceduta ieri dal comitato controllo
presieduto da Luigi Zingales e formato dai consiglieri indipendenti che avrebbe valutato la proposta al board
di scegliere un advisor per promuovere uno studio comparato sulla governance delle altre Telecom del
mondo e degli altri competitor operanti in Italia. I consiglieri indipendenti avrebbero anche predisposto una
proposta per rafforzare i meccanismi di protezione su Tim Brasil: qualunque offerta dovesse arrivare, anche
da soggetti esterni a Telco, dovrà essere valutata come operazione con parti correlate di maggiore rilevanza.
Sarebbe stata esaminata anche la lettera di Marco Fossati, patron della Findim che, sulla base di uno studio
allegato, valorizza il Brasile un multiplo superiore a 25 miliardi, ovviamente frutto di una serie di assunzioni
teoriche. Se la governance occupa un posto importante nella scala delle priorità del cda, le informative sulle
operazioni straordinarie in corso non lo sono da meno. Partendo dalle torri che, dopo tante false partenze,
potrebbero davvero arrivare al traguardo. Deutsche Bank avrebbe avuto il mandato di costruire l'operazione
per vendere le 11 mila torri a supporto delle trasmissioni mobili di Tim. La banca guidata da Flavio Valeri l'ha
spuntata rispetto a una serie di pretendenti, tra i quali Banca Imi: non è escluso che l'investment bank di
Intesa Sanpaolo possa essere anch'essa coinvolta. Non è la prima volta che Telecom tenta la strada della
vendita delle torri. Ci aveva provato già nel 2008 Franco Bernabè con un maxi-polo fra le antenne di Tim,
Wind, H3G: il progetto si arenò per l'incompatibilità degli impianti e per le modalità di manutenzione. In
particolare l'accorpamento avrebbe avuto ripercussioni sull'inquinamento urbano. L'advisor inizierà presto il
lavoro definendo compiutamente il perimetro e gli altri dettagli: la newco nella quale verranno conferite le
antenne potrebbe avere un'interprise value di 1 miliardo, comprensivo anche dei debiti. Una volta chiuso il
lavoro preparatorio sarà possibile mandare gli info memo ai potenziali interessati: Abertis, Macquarie,
Babcock, e la società francese Tdf, più qualche altro gruppo internazionale. Al cda finirà anche il piano di
integrazione fra Telecom Italia Media Broadcasting e Rete A (gruppo L'Espresso). Al piano sta lavorando
Mediobanca per mettere insieme gli asset attraverso una fusione oppure il conferimento dei mux di Telecom
in Rete A. Nella nuova società, Telecom dovrebbe avere il 70%, il partner il 30%. Valore complessivo: 300
milioni. Tra i potenziali interessati potrebbe esserci F2i.
Foto: Marco Patuano ad di Telecom Italia
SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 16/01/2014
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RIASSETTI
16/01/2014
Il Giornale - Ed. nazionale
Pag. 1
(diffusione:192677, tiratura:292798)
Marcello Zacché
Nelle sale operative vicine a Piazza Affari lo chiamano in vari modi. Per esempio «governo barzelletta». O,
come lo potrebbe battezzare anche la Lepre marzolina di Alice nel Paese delle Meraviglie, un «nongoverno».
È l'esecutivo Letta-Alfano. Giudizio sprezzante che i banchieri milanesi sostengono imputando al premier
l'incapacità di incidere sulle uniche tre riforme che servirebbero, subito, all'Italia: giustizia, burocrazia e lavoro.
Nonché la debolezza dei suoi ministri nel cincischiare da nove mesi con l'Imu piuttosto che la spending
review ; o nel perdersi di fronte ariforme divisive quali lo jus soli e le unioni civili. Eppure in questi stessi mesi
il mercato finanziario sta raccontando una storia tutta diversa e ieri il principale indice della Borsa italiana è
tornato sopra i 20mila punti. Non accadeva dal 5 luglio del 2011, due anni e mezzo fa. Dal giuramento di
Enrico Letta, l'indice ha guadagnato il 30%. E lo spread tra i rendimenti dei Btp e quelli dei bund tedeschi è
calato di 100 punti, lasciando i dintorni di quota 300 per quelli più rassicurantidei 200. Che spiegazionec'è?
Perché il nongoverno - con il suo calo del Pil dell'1,8%, il debito pubblico al nuovo record di 2.104 miliardi, il
41% di disoccupazione giovanile e il 12,7% totale - ispira questo rialzo sfrenato del mercato azionario? Le
risposte sono tante. La prima è che si tratta di una scommessa sulla ripresa: o questa si farà sentire, o anche
il listino è destinato a sgonfiarsi in primavera. La seconda è che la Borsa di Milano a quota 20mila è tuttora
sotto del 55% dai suoi massimi del 2007, mentre sia gli Usa che il resto d'Europa hanno ampiamente
superato i loro precedenti record. Ci sono poi le nuove regole di Basilea3 sui bilanci bancari, molto tecniche
ma in grado di spingere al rialzo un settore che domina la piazza azionaria milanese. Ma a parte le questioni
macroeconomiche e tecniche, c'è un'altra e più convincente spiegazione per questa (apparente)
contraddizione: al mercato del governo (...) segue a pagina 18 Restelli a pagina 18 dalla prima pagina (...)
dell'Italia non importa granché. Non è stato così nell'estate-autunno 2011,
quandoèormaiassodatocheafarschizzare lo spread verso i 600 punti sono state le banche tedesche che
hanno scaricato qualche centinaia di miliardi di Btp per condizionare le scelte europeiste dell'Italia. Né è stato
così nel febbraio scorso, quandol'ingovernabilitàdeldopo-elezioni non ha mosso di molto né la Borsa né il Btp.
Il governo del Paese, o la sua stabilità, non c'entrano con questa storia. Nel bene e nel male. Il fatto è molto
più prosaico: la liquidità (resa abbondante dalle politiche delle banche centrali) non rende più nulla. Bisogna
inventarsi qualcosa. Con i tassi d'interesse a breve vicini allo zero, chi cerca un rendimento decente ha solo
due possibilità: o i Btp 10 anni per portarsi a casa un misero 3,8% annuo, o se vuole qualcosa di più deve
andare in Borsa. Ed ecco spiegato il boom di listino e spread, semplice risultato della riallocazione
degliassetdichivivedi rendita(non soloiricchi, ma anche i fondi pensione, per esempio).
Percuinoncredaquestogovernodiaveremeriti. Né il prossimodi potercapitalizzare chissà quale successo. Per
adesso va così. Ma il tempo che stiamo buttando via prima o poi lo dovremo pagare caro. Marcello Zacché
SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 16/01/2014
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IL TEMPO PERSO? LO PAGHEREMO
16/01/2014
MF - Ed. nazionale
Pag. 18
(diffusione:104189, tiratura:173386)
Il credit crunch si attenuerebbe se le imprese chiedessero prestiti per fare
investimenti
Guido Rosa*
Sono state molto confuse le reazioni ai dati di novembre, prevedibili, che indicano un calo del 6% dei crediti
alle imprese. Una confusione che rischia di distorcere la realtà, quella di una profonda crisi che dura da un
quinquennio e delle azioni intraprese per superarla. Le banche, con nuove regole, «hanno affrontato le
distorsioni, alleviato la pressione sui finanziamenti alle aziende e aiutato le piccole e medie imprese», come
afferma Mario Draghi a commento della presentazione dei nuovi accordi di Basilea 3, incentrati proprio sulla
questione dei finanziamenti «troppo pochi e troppo cari». Sulle cause del credit crunch va ben chiarito quanto
sia dovuto al calo della domanda di prestiti e quanto all'azione pro-ciclica di Basilea 3, che vincolando il
credito a una maggiore patrimonializzazione delle banche lo ha reso più costoso. Ancora una volta la
confusione porta a raffigurare un eccesso di cattiveria della finanza; la colpa della crisi sarebbe delle banche
che volutamente non farebbero più credito a discapito dell'economia reale, fatta di pmi che non avrebbero
problemi a investire, salvo chiedere di finanziare il loro alto debito con altro debito. Non si può continuare a
parlare di eccessiva stretta del credito come di volontà della finanza di ledere l'economia reale. È vero il
contrario, il sistema italiano è il più bancocentrico d'Europa. Le aziende italiane sono sottocapitalizzate. È
scarsa la domanda di credito «buono», che finanzia gli investimenti invece del debito in essere. Se è
fisiologica la selettività del credito in periodo di crisi - per la sostanziale riduzione del capitale erogabile visto il
pil in calo da 3 anni - i motivi sono anche da ricercare nelle stesse imprese, che presentano diverse criticità:
1) da una parte sono molto meno capitalizzate della media europea. Una banca non può assumersi il rischio
di impresa, può invece affiancare l'imprenditore nello sviluppo dell'attivitá con progetti, idee, mercati da
aggredire. Pensare che il debito con le banche surroghi il capitale porta a un ulteriore situazione di crisi; 2)
dall'altra sono poco trasparenti, a causa anche dell'economia sommersa, non hanno rating interni e i bilanci
non sono certificati da enti preposti; 3) altri problemi sono le piccole o piccolissime dimensioni delle imprese e
l'incapacità di perseguire accorpamenti dimensionali ai fini di un più efficace accesso al credito. L'allocazione
delle risorse sui mercati internazionali, e in particolare su quello italiano, è diventata più esigente e selettiva
anche per queste debolezze strutturali del sistema produttivo, cui si aggiungono i ritardi e le debolezze del
sistema Paese con eccessi di fiscalizzazione e burocrazia. Inoltre non migliora la situazione penalizzare i
rendimenti degli investimenti e le transazioni finanziarie che sostengono produzione e lavoro, linfa vitale di un
sistema produttivo che ha bisogno anche del risparmio privato. Penalizzare ancora la finanza è come tagliare
il ramo su cui siedono gli investimenti per la crescita e l'occupazione. (riproduzione riservata) *presidente
Associazione italiana banche estere
SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 16/01/2014
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COMMENTI & ANALISI
16/01/2014
MF - Ed. nazionale
Pag. 18
(diffusione:104189, tiratura:173386)
Il vero Jobs Act è un piano regolatore del lavoro
Stefano Scabbio*
Si è finalmente aperto, pur con qualche incertezza sull'autorizzazione ai lavori, il cantiere per il lavoro e
l'occupazione. Come noto, l'avvio è partito con una perentoria dichiarazione di inizio di attività da parte di
Matteo Renzi alcuni giorni prima della vittoria alle primarie, concretatasi nella formula efficace del Jobs Act,
poi più volte riproposta con progressive indicazioni di massima sui contenuti. In seguito, man mano che il
tempo passava il cantiere si è arricchito di altri apporti. Anche lo stesso Angelino Alfano ha dichiarato che il
Nuovo centrodestra è pronto a confrontarsi su nuove politiche per il lavoro. La Cgil, per bocca della sua
segretaria, ha chiesto un piano urgente per l'occupazione. Il ministro del Lavoro Giovannini, ha annunciato
nei giorni scorsi al Messaggero una serie di misure per ridurre i senza lavoro. Questo per citare solo alcuni
dei partecipanti al cantiere. E oggi il Jobs Act viene ufficializzato da parte del neosegretario del Pd. Sin qui ho
utilizzato la metafora del cantiere, maa dire il vero ciò che è più che mai necessario al mercato del lavoro è
un vero piano regolatore che ridisegni ruoli e funzioni dei singoli istituti, strumenti e soggetti, e che ridefinisca
confini e responsabilità, in modo innovativo, tra soggetti pubblici e privati. Senza pretendere di essere
esaustivo, mi riferirò ad alcuni aspetti precisi. Vogliamo finalmente togliere i vincoli e le bardature che
impediscono il decollo di uno strumento fondamentale come l'apprendistato? Non sarebbe giunto il momento
di costruire un modello europeo, collegato al imprese e lavoro, di formazione professionale? A quando una
profonda riforma del collocamento, basata su una sinergia tra soggetti pubblici e agenzie private? Perché non
procedere a una ridefinizione dei diversi modelli di lavoro flessibile, limitandone al massimo i costi e
sviluppandone invece i benefici? Perché non incentivare la «buona flessibilità» il lavoro in somministrazione,
così come le iniziative di outplacement, che le società private sanno svolgere al meglio, e sono fondamentali
in periodi di crisi aziendali diffuse? Perché non accelerare il passaggio da politiche passive a quelle attive per
adeguare le competenze dei lavoratori agevolandone così la mobilità dalle aziende in declino a quelle in
crescita? Un esperimento importante in tal senso è quello proposta dal senatore Ichino ed è relativo al
contratto di ricollocazione, che verrà applicato nel Lazio ed è previsto nella legge di Stabilità del 2013.
L'elenco non è esaustivo ma voleva essere una sollecitazione, perché credo proprio che il Paese abbia più
che mai bisogno di un simile piano, per il quale ho indicato solo alcune direttrici,e non di nuove dispute
ideologiche, così come credo che sia più che mai urgente quel nuovo Codice del lavoro più volte evocato da
Matteo Renzi e non solo, fatto di poche decine di articoli, semplici e leggibili, per ridare certezza ai diritti di
imprenditori, operatori e lavoratori. (riproduzione riservata) *amministratore delegato, Manpower Group Italia
SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 16/01/2014
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COMMENTI & ANALISI
16/01/2014
Panorama - N.4 - 22 gennaio 2014
Pag. 44
(diffusione:446553, tiratura:561533)
Il governo Letta voleva attirare investimenti e facilitare la vita alle aziende. Invece il carico fiscale resta tra i
più alti al mondo. Tutte le settimane piomba una nuova norma. E la burocrazia aumenta. Risultato? Ogni
giorno 50 aziende portano i libri in tribunale.
Mikol Belluzzi
Paolo Virzì l'ha scelta come ambientazione del suo ultimo film, Il capitale umano , inno alla speculazionee ai
soldi facili. Ma la Brianza, con le villette unifamiliari e il suv parcheggiato in giardino, da stereotipo di patria
dell'imprenditore arricchitoè diventata il prototipo della deindustrializzazione in Italia: al Tribunale di Monza lo
scorso anno sono stati dichiarati 358 fallimenti, uno al giorno, e ci sono altre 650 richieste in attesa di
pronuncia. E mentre il governo s'incarta su sterili dibattiti e plaude al primo flebile recupero della produzione
industriale a novembre dopo 26 mesi di calo, i «giapponesi d'Italia» e i loro colleghi di tutt'Italia cercano di
parare, da soli, i contraccolpi di una crisi che il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi ha definito «come
una guerra». Secondo i dati di Crif, società d'analisi specializzata in business information, in Italia nei primi 9
mesi del 2013 hanno portato i libri in tribunale oltre 10 mila imprese, cioè più di due all'ora e quasi 50 al
giorno. Un'emorragia che non si arresta, nonostante il saldo tra aperture e chiusure aziendali nel terzo
trimestre 2013 sia stato positivo per oltre 12 mila unità, dato che comunque resta il più basso dell'ultimo
decennio: spesso aperte grazie a contributi europei (il 30 per cento sono imprenditori under 35) o per
rispondere all'esigenza di crearsi un lavoro in proprio dopo che se n'è perso uno, sono aziende fragili,
destinate a non mettere radici. Che lo Stato, per primo, cerca di seccare. Paradigmatico è il settore della birra
che da qualche anno registra una grande effervescenza, grazie all'intraprendenza di 500 nuovi piccoli e medi
imprenditori che hanno realizzato birrifici in tutta Italia, spesso in zone disagiate, creando migliaia di posti di
lavoro soprattutto tra i giovani. Lo scorso ottobre il governo ha deciso che per finanziare interventi su
università e cultura era necessario aumentare le accise sulla birra, una manovra che da qui al 2015 farà
incassare allo stato 200 milioni di euro, ma che graverà di un 15 per cento sul prezzo finale delle bionde. «A
regime un sorso su due del nostro boccale di birra se lo berrà il governo» ricorda amaramente Alberto
Frausin, presidente di Assobirra, «ma intanto in novembre le vendite sono scese del 14,3 per cento. Tutto ciò
è demenziale se si pensa che in6 anni abbiamo triplicato le esportazioni di birra all'estero, che per ognuno dei
quattro ritocchi previsti dovremo aggiornare i sistemi informatici con notevoli costi per le aziende e che
all'erario versiamo già 4,1 miliardi di tasse». E si potrebbe continuare con il comparto delle sigarette
elettroniche, che il 1° gennaio di quest'anno ha brindato al suo primo compleanno con una nuova super
imposizione del 58,5 per cento e con la richiesta di messa in mobilità per mille dipendenti, che magari
potranno sperare nell'assegno universale promesso dal nuovo «jobs act» renziano. Perché l'erario ormai è il
vero socio di maggioranza delle imprese italiane, come conferma il Centro studi di Confindustria, secondo cui
le nostre aziende nel 2012 hanno avuto il primato negativo del prelievo fiscale più elevato al mondo, pari al
65,8 per cento degli utili, contro il 49,4 per cento della Germania. In arrivo c'è la Tasi, la tassa sui servizi
indivisibili, che promette una nuova stangata da almeno 1 miliardo sui portafogli già dissanguati degli
imprenditori. «Il governo ci aveva promesso la deducibilità dell'Imu sugli immobili commerciali, che poi non è
arrivata, e ora con la Tasi innalza ancora la fiscalità sulle aziende che invece di semplici bancomat
dovrebbero essere il motore della crescita di questo Paese» sottolinea Andrea Bolla, presidente del comitato
tecnico per il fisco di Confindustriae imprenditore veneto dell'energia. «Le riforme da fare in Italia? La primaèa
costo zero: semplificaree creare un rapporto più giusto tra Stato e contribuenti. Bisogna approvare in tempi
brevi le proposte concrete che le imprese hanno presentato da mesi. Poi c'è bisogno di una significativa
riduzione del cuneo fiscale, almeno 10 miliardi di euro. Le risorse si possono e si devono trovare attraverso
una seria lotta all'evasione e una vera spending review. Ma le istituzioni devono rispettare lo statuto dei
contribuenti e i loro diritti inviolabili, altrimenti la nostra motivazione via via si spegne soprattutto quando
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vediamo che all'estero ci trattano molto meglio». Così la «fabbrichetta»e il «capannoncino» di brianzola
memoria rischiano davvero di diventare un ricordo, demoliti pezzo a pezzo dal moloch della burocrazia che
inghiotte tempo e risorse senza sosta. Secondo il rapporto Doing business 2014 della Banca Mondiale, l'Italia
è al 112° posto al mondo per tempo medio d'ottenimento di permessi edilizi, con una durata media della
pratica di 233,5 giorni e 11 procedure da ottemperare. Tempi morti che prosciugano il fatturato delle aziende
di quasi 1 miliardo di euro l'anno, con la perdita di almeno6 mila posti di lavoro secondo i calcoli di
Confartigianato. Poi ci sono le 269 ore «sprecate» ogni 12 mesi per preparare documenti ed effettuare
pagamenti fiscalie contributivi: 93 procedure burocratiche che fiaccano le piccolee medie imprese italiane e
che costano al sistema la cifra iperbolica di 31 miliardi di euro, pari a 2 punti di Pil. Ma si può arrivare ai7 anni
dei processi autorizzativi per il quartier generale lombardo del colosso dell'abbigliamento sportivo Decathlon
oppure ai5 anni per una centrale turbogas in Puglia, che il proponente svizzero ha deciso di spostare alle
porte di Parigi, dove in sei mesi era già cantierizzata. «E potrei citare altri 350 casi di questo tipo, dove la
malafede di molti sindaci e l'ostilità delle comunità blocca la creazione di migliaia di posti di lavoroe fa
scappare gli investimenti stranieri» conferma Alessandro Beulcke, presidente dell'Osservatorio Nimby Forum.
Perché la semplificazione, nonostante slogan azzeccati, ma mai realizzati come «l'impresa in7 giorni»,
rimane l'araba fenice. Gli esperti di Confartigianato hanno stimato come nei 29 provvedimenti fiscali emanati
tra l'aprile 2008 e il maggio 2013 era contenuta la cifra-mostre di 491 norme fiscali, di cui 288 con impatto
burocratico sulle imprese, qualcosa come una disposizione ogni 6,4 giorni. Ridotte al lumicino, invece, quelle
che semplificano la vita degli imprenditori: nello stesso periodo sono stati solo 67 gli interventi che hanno
abbassato il carico burocratico alle aziende, con un rapporto schiacciante di uno a favore e quattro contro. «Il
governo dovrebbe intervenire, anche con norme impopolari, e disboscare questa pletorica massa di
adempimentie organismi inutili» suggerisce l'avvocato Alessandro Munari, dello studio legale Munari Cavani.
«E mi riferisco anche a norme-pilastro come la legge sulla privacy, quella sulla responsabilità amministrativa
delle societàe sulla sicurezza sul lavoro che moltiplicano i compiti inutili di imprenditorie amministrativi,
diventando una penalizzazione per gli investitori stranieri».E anche quando si va in tribunale, le cose non
migliorano. L'Italia, infatti, è fanalino di coda in Europa per i tempi di risoluzione delle cause commerciali: per
avere giustizia servono 564 giorni per il primo gradoe 1.210 per i tre gradi di giudizio. Ma allora l'Italia non è
più un Paese per imprenditori? «Io sono un ottimista nato» dice Paolo Preti, docente di organizzazione
aziendale delle piccole e medie imprese all'Università Bocconi di Milano, «e preferisco pensare che
l'imprenditore è chi ha idee, le vuole realizzare in prima persona e indipendentemente da aiuti esterni. Una
sorta di pioniere, come nel dopoguerra». Allora l'Italia è un Paese per pionieri.
LA nuovA TASI: un BALZELLo DA un mILIArDo fisco esoso
Il carico fiscale sulle aziende Gran Bretagna 34 Germania 49,4 Spagna 58,6 Francia 64,7 Italia 65,8 Fonte:
Centro studi Confindustria Le imposte sul lavoro Gran Bretagna 26 Spagna 33,2 Germania 37,1 Francia 38,6
Italia 42,3 Fonte: Centro studi Confindustria Ore che servono ogni anno per pagare le tasse Gran Bretagna
110 Francia 132 Spagna 167 Germania 218 Italia 269 Fonte: Doing business 2014 Giorni per ottenere un
permesso di costruzione Gran Bretagna 88 Germania 97 Francia 184 Spagna 230 Italia 233,5 Fonte: Doing
business 2014 Paesi dov'è più facile ottenere credito Gran Bretagna 1° Germania 28° Francia 55° Spagna
55° Italia 109° Fonte: Doing business 2014
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come ti salvo l'azienda dove lavoro
Nel 2008 l'impresa stava per fallire. Poi i dipendenti hanno messo insieme i loro soldi, hanno preso il
comando e hanno ribaltato la situazione. Così una piccola fabbrica emiliana di cravatte si è trasformata in un
grande esempio per battere la crisi.
Carmelo Abbate foto di Alberto Bevilacqua
In primo piano, da sinistra: Stefania Ghidoni, vicepresidente della Art Lining di Sant'Ilario d'Enza (Reggio
Emilia), e Natalia Lei, a capo del reparto commerciale. Con loro Patrizia Morini, responsabile della produzione
delle cravatte. Anche le cravatte, nel loro piccolo, hanno un'anima. Che sia di seta o lana, a righe o tinta
unita, regimental o a pois, che siano indossate per il matrimonio a Cefalù o un ricevimento alla Casa Bianca,
ogni cravatta ha qualcosa che la rende uguale all'altra: l'imbottitura, il sostegno interno, l'asse portante. E
quella che andiamo a raccontare è proprio una storia di cravatte. E di donne. Donne che fanno a pezzi
paroloni buoni per animare dibattiti ma a cui spesso non segue nulla, vedi le riflessioni sulla scarsa
valorizzazione del loro tempo e del talento. Donne che se ne fregano di un sistema bancario più portato a
disegnare operazioni di sistema che a selezionaree valorizzare imprenditori capaci e visionari. Donne
lavoratrici dipendenti che nel momento in cui l'azienda nella quale lavorano porta i libri contabili in tribunale, si
mettono insieme, investono la liquidazione, rischiano e si trasformano in imprenditrici, riuscendo a tenere in
vita l'impresa e a rilanciarla. Questo, nel caso specifico della società Art Lining, che produce interni per
cravatte, è stato possibile grazie al supporto di Coopfond, il fondo mutualistico di Legacoop, che negli ultimi
cinque anni ha garantito supporto economico e professionale a una trentina di piccole e medie imprese in
gravissime difficoltà. Nel 2008, quando la crisi investe in pieno il suo lavoro e la sua vita, Stefania Ghidoni ha
43 anni, un bambino che inizia le elementarie una figlia di 11 anni. La mamma di Stefania, invece, è sul letto
di un ospedale in stato vegetativo. Stefania lavora all'ufficio contabile da oltre 15 anni, si occupa di fatture e
bilanci, capisce che la situazione è senza uscita, il primo istinto è quello di andar via, scappare, cambiare
lavoro. Ma più passano i giorni, più gli altri vedono in lei lo scoglio a cui aggrapparsi, la leadership che
emerge naturale e spontanea in mezzo al mare in tempesta. Stefania prende coscienza della stimae del
ruolo,e sale in plancia di comando. L'azienda è nata negli anni Ottanta, produce interni per cravatte. Sembra
qualcosa di banale, meccanico, industriale, ma in due millimetri di larghezza, lunghezza o consistenza, si
giocano mille variabili di prodotto. Siamo a Sant'Ilario d'Enza, paesone di 11 mila abitanti tra le province di
Parma e Reggio, sulla via Emilia. Negli anni Novanta, l'azienda conta una quarantina di dipendenti, che
vivono in un ambiente lavorativo sereno e felice, con gratificazioni personali ed economiche. Le cose vanno
bene per tutti, la famiglia che gestisce l'impresa investe sul mercato americano. Poi arriva l'anno terribile, il
2005, la stretta, la crisi, l'acqua alla gola. Forse il pugno non eccessivamente fermo nell'operazione di
ristrutturazione, forse l'eccesso d'amore per il gruppo di lavoro che impedisce al management di prendere
decisioni drastiche, forse il carattere visionario del capo, e le sue grandi passioni extralavorative. Chissà, fatto
sta che si scivola dritti fino al concordato fallimentare con i creditori, che viene sancito nel 2008. L'azienda
viene dichiarata tecnicamente fallita. È fine luglio, i circa 20 dipendenti rimasti prendono coscienza
dell'imminente baratro. L'unico che sembra vivere in una bolla è proprio il titolare, che parla di difficoltà
passeggere. In tanti iniziano a domandarsi se ci è o ci fa. Natalia, che ha 34 anni e lavora là dentro da
quando ne aveva 17, va da lui in lacrime, implora verità, si sente rispondere che va tutto bene. Il tribunale nel
frattempo gli vieta di mettere piede in azienda e nomina un commissario straordinario. La situazione è
pesante, i lavoratori sono presi in mezzo, tra un commissario che ordina, vigila, controlla, un vecchio capo
che impartisce direttive diverse al telefono, lavoratori che fuggono altrove e sindacati che raccomandano di
trattenerli per non scendere sotto la soglia fatidica dei 15 dipendenti. Stefania ha sotto gli occhi i numeri.
Lavora a stretto contatto con i consulenti esterni chiamati a verificare i conti e ha chiara la situazione
finanziaria. Ma la sua è una posizione scomoda: il capo dell'azienda è il cognato, fratello del marito, che
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lavora altrove, ma quella è pur sempre l'azienda di famiglia. E lei è soltanto una dipendente dell'ufficio
contabile. Che all'improvviso si ritrova stretta tra due fuochi. Messo di fronte all'evidenza dei dati forniti dai
consulenti, dai quali emerge la necessità inderogabile di forti tagli aziendali, il cognato reagisce licenziando i
consulenti, colpevoli a suo dire di rappresentare una situazione non veritiera. È guerra tra le parti, Stefania
sta in mezzo. Vive alla giornata, ora per ora, fino a che tutti le chiedono di prendere in mano la patata
bollente, è lei l'unica che può tirarli fuori dai guai. Stefania riescea non fermare la produzione, richiama il
consulente cacciato dal cognato e riparte proprio da lui. Il primo buco nero è l'imprevedibilità dei costi, per cui
la voce messaa bilancio alla fine risulta regolarmente disattesa. Si cambia radicalmente l'organizzazione
produttiva, la filiera, spostando la produzione del tessuto all'esterno, per avere costi fissi e certi. Ma per
sopravvivere ci vogliono 400 mila euro. Il progetto di rilancio prevede 12 posti di lavoro, figure ben precise.
Ognuno dovrà investire 10 mila euro, 80 li mette il Consorzio finanziario di Legacoop, i restanti 200 mila
sonoa carico di Coopfond: entrambi diventano soci finanziatori in cambio della partecipazione agli utili futuri
nella misura del 2 per cento. I dipendenti bussano alle porte dell'Inps, chiedono la mobilità anticipata, che
viene versata una tantum, come riscatto anticipato, se dichiari che hai aperto una attività imprenditoriale e ti
impegni a mantenerla in vita per almeno due anni. Siamo a gennaio 2009, la Art Lining riparte, 9 donne e 3
uomini, età media 35-40 anni, anche se in realtà non si è mai fermata, nessun dipendente ha mai perso uno
stipendio. «Era una condizione che avevo messo per iscritto con il curatore fallimentare, ne andava della
credibilità del progetto con la squadra», racconta Stefania Ghidoni, che oggi è vicepresidente della società.
Tecnicamente, l'attività riparte attraverso l'affitto di ramo d'azienda. In sostanza, i soci pagano un canone di
locazione al curatore fallimentare, con diritto di prelazione da esercitare entro i tre anni. Il primo anno si
chiude con un fatturato di 1 milione e mezzo. «Molti clienti ci avevano confermato la fiducia, ma erano
guardinghi e tenevano i piedi in due scarpe». Ma alla fine il bilancio è comunque in pareggio, dall'anno
successivo si ricomincia a crescere e nel 2010 il diritto di prelazione è già esercitato. Oggi i clienti sono pezzi
grossi della moda come Ferragamo, Zegna, Tom Ford, Brioni, Armani, Hugo Boss. Nonostante la crisi, il
fatturato è salito a 2 milioni e 200 mila euro, ed entro l'anno prossimo saranno estinti i mutui sui macchinari.
Le parole a margine di Stefania: «Ho imparato che i valori hanno ancora un peso nella vita. L'onestà, il
rispetto, laddove esistono, fanno la differenza». Bastano? «No». Come vede il futuro? «Ho due figli di 16 e 10
anni: devo vederlo bene, punto». (carmelo. [email protected]) Oggi la Art Lining dà lavoro a 12 addetti,
che si sono riuniti in cooperativa.
Riscattando l'assegno di mobilità e ottenendo un finanziamento si è Riusciti a non bloccaRe la pRoduzione e
a RilanciaRe la fabbRica
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Profumo mi ha sottovalutato. Non lo farà più
Antonella Mansi, 39 anni, presidente della Fondazione Mps, ha battuto il più tosto banchiere italiano. Perché,
come spiega in questa intervista, «mi credono debole, ma io vado fino in fondo».
Marco Cobianchi
Antonella Mansi dal 2013 è presidente della Fondazione Mps che ha ottenuto uno slittamento dell'aumento di
capitale chiesto da Alessandro Profumo. L'acido solforico è un liquido incolore e inodore. Se lo si diluisce in
acqua diventa vetriolo che, in forma concentrata, ustiona mentre, combinato con altri acidi, produce la
nitroglicerina, il fulmicotone e molti altri tipi di esplosivi. Quando i 14 componenti della deputazione del Monte
dei Paschi di Siena hanno scelto Antonella Mansi come presidente, sapevano che la sua azienda produce
acido solforico. Alessandro Profumo no. E infatti ne è rimasto ustionato. Pensando di trovarsi di fronte a una
39enne dolce e mansueta, taciturna perché timida, ha proposto un aumento di capitale di 3 miliardi della
banca Mps, della quale è presidente, che avrebbe portato il 33,5 per cento della Fondazione a zero. La
Mansi, solforica, lo ha ustionato ottenendo il rinvio dell'aumento del capitale per avere il tempo di decidere lei,
e non lui, il futuro della storica banca. Chi l'avrebbe mai detto? Che la presidente-ragazzina che lavora
nell'azienda del padre, che è stata presidente della Confindustria Toscana, che è vicepresidente di
Confindustria e Cavaliere al Merito della Repubblica, insomma, una che il potere già lo conosce piuttosto
bene, potesse cercare rogne? «Amo complicarmi la vita» risponde con una voce angelica, «comunque io non
mi sono messa contro nessuno». Tipica frase da Prima repubblica. Lei nega l'evidenza. Sbagliato. Io sono
arrivata a settembre e ho trovato una Fondazione con più o meno 350 milioni di debiti. Veramente un gran
casino. E mi è stato anche chiarissimo che la banca aveva bisogno di un aumento di capitale e, infatti, è stato
approvato esattamente come la banca lo aveva scritto. L'unico dettaglio che è cambiato è stata la tempistica,
si va a maggio. Abbiamo bisogno di più tempo. Più tempo per fare che cosa? Per trovare un investitore che
possa aiutarci a non disperdere il patrimonio della Fondazione che, al 90 per cento, è in azioni della banca. Io
non sono stata messa qui per fare il commissario liquidatore mentre invece, con i tempi stabiliti dalla banca,
l'ente sarebbe potuto fallire e io avrei potuto anche risponderne con il mio patrimonio personale. E non basta?
No... guardi, proprio no... tra l'altro certi stipendi che vedo girare nelle banche io non li avevo mai visti. Ma
questo cavaliere bianco che salverà la Fondazione Mps dal fallimento, chi sarà? Non lo dico. Un'altra
Fondazione? Non lo dico. Una banca? Non lo dico. Un investitore? Non lo dico, dico solo che su questo io
sono laica, può essere chiunque basta che abbia un profilo di tipo strategico, non mordi e fuggi. Ma lo state
cercando almeno? Certo, lo stiamo cercando dal giorno dopo che sono arrivata, prima che iniziasse tutto
questo circo. Possiamo quindi dire che la banca ha cercato di... non mi viene la parola... di... Uccidere
l'azionista? Ecco, un omicidio dell'azionista Eh, qualcosa del genere. Ma non ci sono riusciti. La mia fortuna è
che gli uomini mi sottovalutano, mi credono debole perché donna e giovane. Ma io glielo avevo detto che
avrei votato contro quella proposta di aumento di capitale, ma non hanno creduto che sarei andata fino in
fondo. Adesso quando parlo mi ascolteranno. Lo spero per loro. Sarà per quei quattro anni di liceo al convitto
di Santa Caterina? Una che ha studiato dalle suore può sembrare sia una persona accondiscendente,
debole... Ho studiato dalle suore perché volevo fare il liceo linguistico e, ai tempi, non ne esistevano altri che
quello. Grande scuola. Poi è entrata nell'azienda del padre. Papà è ingegnere minerario e ha lavora per l'Eni,
poi, insieme ad altri soci, ha comprato l'azienda nella quale lavoro anche io. Tutti i giorni ho a che fare con
camionisti, trasportatori, omoni che lavorano nella logistica. Qualcuno pensava che in questa faccenda mi
sarei spaventata, ma quando una donna come me per mestiere dà ordini a decine di camionisti poi non si
intimorisce di fronte a nessuno. Chi l'ha nominata all'Mps? I 14 membri della Fondazione. No, intendevo,
quale politico? Ah... no, guardi, mettiamo le cose in chiaro: io Matteo Renzi non l'ho mai sentito. Ehh? Ma
viaaaaa.... Liberissimo di non credermi. Vabbè, allora passava da lì e in 14 hanno pensato che nominarla
sarebbe stata una buona idea. Beh, sì, in un certo senso la mia nomina è stata rocambolesca, nel senso di
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Intervista lady di ferro
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non preventivata, come tutto nella mia vita. Sono stata chiamata dal sindaco di Siena, Bruno Valentini...
...renziano... ...un martedì, e il lunedì della settimana successiva mi hanno nominata. Con Renzi ha in
comune l'età, almeno questo si può dire? Sì, certo, io penso che la mia generazione sia quella che deve
raccogliere le macerie. Che ne pensa della nazionalizzazione della Mps? Come azionista, non posso
esprimermi. Ma a che serve un Mps che boccheggia e che fatica a dare soldi all'economia reale? Io non
voglio fare quella che vuole divagare e che, per evitare la domanda, inizia a parlare della supercazzola, ma
se il problema è quello di fare arrivare il credito alle imprese, bisogna anche dire che la normativa che regola
il settore bancario è mostruosa, asfissiante, e danneggia prima di tutto i clienti. Resta il fatto che lei è
un'imprenditrice che, una volta arrivata a sedere su una poltrona pubblica, non vuole più scendere. Uh...
quanto si sbaglia. A me dispiace molto per quello che è successo, ma dovremmo anche dargli una nuance
diversa da quella che gli è stata data. Nuance? Interpretazione. Lei ha 39 anni e un curriculum da paura. Non
mi sono mai annoiata. E non ha avuto nemmeno il tempo per sposarsi. Esatto, è proprio così. Amo
complicarmi la vita e, a forza di complicarmela, non ho trovato il tempo. Però sono una persona semplice. Per
esempio? Il mio cervello funziona con il sistema binario, «1» o «0», non riesco a fare dietrologie o architettare
sotterfugi. Anche la politica è un sistema binario: o destra o sinistra. Uffa... queste etichette... è inutile che
proviate ad appiccicarmele addosso, tanto non ci riuscite. Io non sono nemmeno politically correct: per
esempio, sono contraria alle quote rosa e all'ambientalismo in cashmere, come quello che non vuole
l'autostrada a Grosseto. E poi non dico le bugie perché poi non mi ricordo di averle dette. Allora le rifaccio la
domanda: ha mai sentito Renzi? No. (twitter@marcocobianchi)
Alessandro Profumo (56 anni) è presidente del Monte dei Paschi di Siena dal 2011. «Io avevo detto a
Profumo che avrei votato contro quell'aumento di capitale. Adesso quando parlo mi ascolteranno. Lo spero
per loro».
A guardare il curriculum di Antonella Mansi si capisce perché è contraria alle quote rosa: non ne ha bisogno.
Nata 39 anni fa a Siena, inizia a lavorare prestissimo come direttore commerciale nell'azienda di famiglia, la
Nuova Solmine, azienda chimica di Scarlino, in provincia di Grosseto, che fattura 100 milioni. Poi, dal 2005,
inizia ad accumulare incarichi. Entra nel comitato di presidenza dei giovani industriali toscani; due anni dopo,
a 33 anni, è presidente della Confindustria Toscana; nel 2010 è Cavaliere al Merito della Repubblica. Nel
2012 diventa presidente della banca Federico Del Vecchio, scicchissima cassaforte dei ricchi fiorentini, e
vicepresidente di Confindustria. Infine, l'anno scorso, viene nominata presidente della Fondazione Monte dei
Paschi di Siena. Bio
SCENARIO PMI
6 articoli
16/01/2014
Il Messaggero - Marche
Pag. 46
(diffusione:210842, tiratura:295190)
MACERATA
La formula della cooperativa premia, ma il 2014 «fa paura». In Provincia dal 2009 ad oggi le imprese coop
sono passate da 330 a 402. Il presidente della direzione provinciale del lavoro, Pierluigi Rausei (nella foto in
basso), ha presentato i dati relativi all'attività di vigilanza nel settore cooperativistico e la collaborazione con le
centrali cooperative. In Provincia di Macerata le centrali coop sono quattro: Agci, Confocooperative,
Legacoop e Unci.
Il modello cooperativo - spiega Rausei - soprattutto nei momenti di crisi, permette un più ampio respiro nella
gestione dell'impresa. Nel nostro territorio delle 402 imprese coop, 153 sono aderenti alle centrali
cooperative, 249 no. Però a livello di fatturato quelle iscritte pesano il 71,3%, mentre le altre il 28,7%. Le
cooperative che non aderiscono alle centrali sono maggiormente esposte ad un rischio di illegalità». I dati
dell'attività ispettiva, aggiornati a dicembre 2013: 13 le imprese coop iscritte, 38 quelle non iscritte alle centrali
coop, ispezionate. Delle prime, 3 sono risultate irregolari, delle seconde ben 10. «Per quanto riguarda il
lavoro sommerso - continua Rausei - il dato è buono. In quattro anni siamo passati da 168 lavoratori irregolari
ai 16 di fine 2013, di cui 5 lavoratori in nero». «Le cooperative nel complesso hanno tenuto di più rispetto a
altri modelli imprenditoriali - aggiunge il dirigente Legacoop, Massimo Lanzavecchia - ma iniziamo il 2014 con
grandi difficoltà. Paradossalmente quest'anno è più difficile del 2012 o 2013. Siamo preoccupati. Le imprese
più strutturate tendono a chiudere, ma contemporaneamente ne nascono di nuove, più piccole. L'aumento
delle realtà coop è un dato in "chiaroscuro". Nei servizi non legati al manifatturiero si riesce a mantenere
bene l'occupazione. La condizione negativa si verifica al momento della riscossione: anche se la cooperativa
lavora, spesso non è garantito il pagamento dai privati e nei tempi utili dal pubblico. La positività del modello,
però è reale. Basti pensare alla coop Risorgimento di Montecosaro o a quella appena nata sulle ceneri della
conceria del Chienti, una storica impresa del territorio. Dovrebbe iniziare l'attività a febbraio con il 60% degli
occupati». Poi sottolinea: «Possiamo dire che nelle Marche, così come in Provincia di Macerata, il numero
delle imprese copre il 2%, gli addetti circa un 4% e il fatturato circa l'8%». Nel corso dell'incontro presentate
sei pubblicazioni realizzate dalle centrali coop: «Sono opuscoli per semplificare l'aspetto normativo ai nostri
soci. Il protocollo sugli appalti ha fatto da apripista in Regione», chiude Mauro Scattolini di Confcooperative.
Alessandra Bruno
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Il modello coopregge meglio la crisie'
16/01/2014
Il Foglio
Pag. 6
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Venti tesi di rivoluzione sociale per uscire dalla crisi dopo la fine dell'età salariale Le funzioni di un sistema
capitalistico, ma in un quadro di diritti proprietari modificato, con una diversa remunerazione Tra un anno sarà
tardi per salvarci dal cataclisma sociale. Prendiamo subito il largo. Spezziamo il 3 per cento Si tratta di
cambiare paradigma, superando la società dei salariati, verso sistemi, sempre più diffusi, di partecipazione
Mercati e concorrenza, capitalismo competitivo e stati. Occorre ri
Renato Brunetta*
E'stato proprio il Foglio a scrivere che assomiglio a Joker. Alludendo a una mia certa follia, più che al gusto
del male (oso presumere). Oggi appare follia sperare. Io spero. Sono dunque folle? Rischio volentieri di
sembrarlo, e persino di esserlo. Non rinuncio all'avventura intellettuale e, se qualcuno ci sta, anche politica
verso terre nuove. Montale scrisse in "Prima del viaggio": "E ora che ne sarà / del mio viaggio? / Troppo
accuratamente l'ho studiato / senza saperne nulla. Un imprevisto / è la sola speranza. Ma mi dicono / che è
una stoltezza dirselo". Io credo sia il tempo del possibile, sperabile imprevisto. Un imprevisto però che nasce,
come sanno gli scienziati, nel momento di distrazione dal lungo studio. Quasi un premio che prende forma nel
momento del riposo. Ho studiato, come tanti. E l'idea è quella che leggerete. Di certo non c'è "imprevisto"
come "sola speranza" se non ci si mette in viaggio, scegliendo di imbarcarsi, alzando le vele. Questo è il
momento di tirare fuori dai cassetti dello studio e dell'immaginazione nuove mappe. Le mappe di un'utopia
possibile. Quello che sto per esporre è il "caso serio" del mio lavoro di economista. Agli inizi degli anni
Novanta cominciai a presentire, come molti del resto, che la fine del comunismo non potesse essere la fine
della storia. Lasciare le briglie sciolte al capitalismo e al mercato, quasi fossero creature divine e provvidenti,
perché si arrivasse al benessere, era utopia fasulla. E non sarebbe bastata neanche la vittoria delle
democrazie liberali per garantirsi dai guai. Insieme a questo sogno fallace, soprattutto in Italia se ne
manifestava un altro, nelle forme dell'utopia non conclamata di un comunismo rifluente, guidato non più da
avanguardie operaie, ma da ottimati. Entrambe le opzioni avevano (e hanno) il limite terrificante di togliere
serietà alla libertà degli individui. Quasi che il meccanismo sociale capitalista o para-comunista fosse
garanzia di una felicità da riscuotere a fine mese o dal mercato o dallo stato. Falsa e squallida felicità. Per
fortuna siamo sempre chiamati a scegliere, altrimenti la vita non sarebbe il dramma che la rende saporita e
umana. Cominciai in quegli anni a elaborare una teoria, un modello di sintesi, un po' keynesiano, un po'
marxiano nel senso della "Critica al Programma di Gotha", un po' capitalista nel senso felice di Adam Smith.
Ne scrissi e riscrissi, qualcosa ho pubblicato nel 1994. Un lavoro mai finito, perché la politica è crudele,
prende tutto o quasi del tempo. Ho continuato a sviluppare quelle idee giorno per giorno, depositate nel fondo
caldo della battaglia politica. Ora quelle idee urgono, hanno becchettato il guscio. Lo dico sperando che
Freud mi assista. Se fossi cattolico direi alla Mounier, che è "comunitarismo personalistico". Ma sono
Brunetta e lo chiamo socialismo liberale, quello che viene dopo la fine dell'età salariale. Un'utopia alla
Tommaso Moro, per cui non si sparge il sangue degli altri, ma al massimo si è disponibili a offrire al re il
proprio collo. Il re è l'Europa con i suoi servi italiani. Una pacifica ribellione ci potrà salvare. Violiamo i dogmi
dell'Europa, senza presunzione di impunità, ma confidando nel precedente del New Deal. Come capitò a
Roosevelt, che riuscì a salvare l'America dalla catastrofe applicando criteri, strategie, decisioni e princìpi che
poi anni dopo sarebbero stati condannati dalla Corte suprema, ma troppo tardi per fermarlo. Quando ormai
aveva fatto tutto. Per fortuna. Tra un anno sarà troppo tardi per salvarci, temo, dal cataclisma sociale. Questa
crisi dura da troppo tempo, con gli stessi effetti, gli stessi drammi, le stesse macerie di una guerra perduta.
Noi dobbiamo deciderci a partire verso le Indie e magari troveremo il Nuovo mondo. Ho scritto "noi": intendo
noi come occidente, intendo noi come Italia. Io propongo la mia mappa. La metto sul tavolo del dibattito.
Intanto, però, prendiamo subito il largo. Spezziamo il 3 per cento di Maastricht. Facciamo respirare la nostra
società, i nostri giovani. Sviluppiamo. Investiamo. Facciamo manutenzione del nostro territorio, delle nostre
case, del nostro patrimonio urbano. Restauriamo e ristrutturiamo. Modernizziamo. Costruiamo le reti del
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L'UTOPIA E' IL NUOVO NEW DEAL
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nostro futuro. Togliamo la gente dalle scrivanie della pigrizia statale. Aggiusteremo la rotta in mare aperto.
Keynes, Roosevelt, New Deal, economia sociale di mercato, Eucken, Müller-Armack, Röpke. Weitzman,
Meade. L'etimologia, che è la mistica dei laici, ci aiuta a capire che è l'ora. La parola "crisi" - come ognun sa deriva dal greco e vuol dire decisione, scelta, che segue a un giudizio. E', in greco, anche il momento
culminante di una malattia. Dopo di che si scivola sul versante di pascoli erbosi oppure si precipita nella valle
oscura. Questo nostro 2014 è il tempo della crisi, che più non si può. Non abbandoniamoci alla marea del
pensiero unico e meschino. Decidiamo. Certo, per scegliere bene occorre conoscere. Ma anche immaginare
con coraggio. Vedere più in là. Questa è l'utopia positiva. Può essere non-luogo, qualcosa che non c'è
proprio ( ou-topos ) oppure un luogo del bene, del benessere ( eu-topos ). Forse entrambe le cose. Ma
l'alternativa è la disperazione sociale. Espongo allora le mie 20 tesi. Patti sociali, istituzioni e piena
occupazione 1. Le moderne società industrializzate si sono fondate, non senza contraddizioni e traumi, su un
insieme di patti sociali (più o meno espliciti) che hanno sin qui fornito benessere, stabilità e sicurezza per la
gran parte degli individui coinvolti. Dalle regole salariali a quelle democratiche, da quelle sul welfare state a
quelle sulla competizione e sull'azione dei mercati in condizioni di concorrenza. 2. Le nostre istituzioni,
dunque, non sono altro che i prodotti di questi molteplici patti sociali. Ogni patto sociale, d'altra parte,
incorpora una sorta di equilibrio più o meno stabile tra costi e benefici: un compromesso in cui vengono
opportunamente distribuiti vantaggi e svantaggi degli equilibri raggiunti. 3. Nel patto salariale il lavoro viene
scambiato in ragione di una remunerazione data: in cambio di questa "sicurezza" il lavoratore cede al
capitalista il controllo sulla produttività della propria forza lavoro. Nel patto democratico ciascun cittadino cede
una parte della propria libertà, in cambio di sicurezza consapevole e di potenzialità di espressione e di
rappresentanza per tutti i cittadini. 4. E ancora il patto sul welfare stabilisce forme le più varie di solidarietà
(pubblica e obbligatoria) tra attivi e non attivi, e tra individui di generazioni diverse, con costi distribuiti su
capitale e lavoro. In presenza di modificazioni sempre più rapide della struttura produttiva, le categorie in
declino, caratterizzate da un rapporto "demografico" sfavorevole fra pensionati e lavoratori, hanno bisogno
della solidarietà delle categorie emergenti, caratterizzate, invece, da un rapporto "demografico" favorevole.
Tale solidarietà, nei sistemi a ripartizione, non è gratuita, dal momento che è offerta dalle categorie giovani in
cambio di quella che verrà ricevuta nella fase della maturità dalle nuove categorie che allora emergeranno. 5.
Mercati e concorrenza non sono altro, poi, che insiemi di regole che cercano di coniugare efficienza e buon
funzionamento delle economie, in un quadro di compatibilità sociali, politiche e morali. Ciascuno di questi
compromessi definisce al suo formarsi una chiara matrice di costi-benefici (chi paga e chi riceve), di
inclusioni-esclusioni (chi è ammesso a giocare e chi no), che è strettamente condizionata dai livelli e dalla
diffusione delle tecnologie. Anzi lo stesso progresso tecnologico è stato visto come un processo sociale. 6.
Nella storia del capitalismo industriale si è assistito a una costante evoluzione di questi patti sociali, in ragione
del più o meno lento modificarsi del progresso tecnico incorporato nei singoli sistemi. Così sono
progressivamente cambiati i rapporti tra costi e benefici, e tra inclusioni ed esclusioni sociali di ciascun
compromesso, sempre alla ricerca di nuovi equilibri. I rapporti che notiamo, oggi, nella distribuzione del
reddito e nel welfare come nella rappresentanza democratica e nel funzionamento dei mercati non sono
certamente gli stessi di un secolo o due fa, avendo dovuto essi adattarsi di volta in volta ai cambiamenti
economici e sociali prodotti dal cambiamento tecnologico. 7. Le nostre società, devono oggi affrontare lo
stesso problema che le società nel XIX e nel XX secolo hanno affrontato, e in una certa misura, risolto
positivamente soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale: l'eccesso di capitalismo competitivo all'interno
dei singoli sistemi economici. 8. Oggi la fonte dei problemi è la stessa, cioè un capitalismo competitivo
mondializzante e i suoi eccessi, con il potere però dei singoli stati e dei singoli sistemi nazionali molto
affievolito, se non del tutto inesistente. La maggior parte degli eccessi del capitalismo competitivo sta
riemergendo dunque su scala mondiale: in un contesto di deregolamentazione e liberalizzazione dei mercati,
la mobilità del capitale finanziario e industriale a livello globale è in grado di aggirare e rendere inefficaci le
politiche economiche messe in atto a livello nazionale; in un numero crescente di settori finanziari o
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industriali, c'è una forte tendenza verso strutture oligopolistiche, sempre giustificata dalla necessità di favorire
la competitività di questo o quel sistema nazionale o sovranazionale; e ancora la legislazione del lavoro e le
misure dello stato sociale sono indebolite, o lentamente in via di smantellamento, proprio per aumentare la
competitività delle imprese locali, così da favorire la nascita di nuovi posti di lavoro a livello nazionale, in una
vana rincorsa (perché i divari sono troppo ampi) nei confronti di chi ha il costo del lavoro più basso. 9. La
crescente apertura dei mercati tende a indurre una disarticolazione profonda delle classi sociali nelle società
occidentali. La disponibilità di nuove opportunità di profitto e di "dumping sociale" tendono a rafforzare la
posizione dei datori di lavoro nei confronti dei lavoratori, con il ricatto sempre più frequente che "altrove"
esistono costi della manodopera più convenienti, così la deindustrializzazione (minacciata o realizzata)
indebolisce il potere di controllo delle istituzioni statali nei confronti tanto del capitale che del lavoro. 10. Da
qui l'esigenza di proporre una nuova generazione di patti sociali che vada al di là dei confini delle nazioni. Ma
non è pensabile di realizzare soluzioni cooperative a livello globale se prima non si risolve la causa originaria
della crisi attuale del modo di produzione capitalistico: l'anacronistica e inefficiente remunerazione, attraverso
la forma salariale, del lavoro. D'altra parte, se i paesi ricchi sono la causa degli squilibri a livello globale, è dai
paesi ricchi che deve venire la riforma capace di innescare il circuito virtuoso. 11. La società attiva come
bene pubblico "Share economy" di Weitzman e "LabourCapital Partnership" di Meade, che vedremo in
seguito nel dettaglio, pur con le ovvie differenze, hanno in sé i catalizzatori automatici per la piena
occupazione. Dunque l'adozione generalizzata e progressiva di questi schemi di remunerazione del lavoro
potrebbe portare, in tempi relativamente brevi, a un'inversione epocale di tendenza: non più disoccupazione
ed esclusione sociale in aumento, non più emarginazione e spreco di capitale umano, ma inclusione sociale,
responsabilizzazione e qualificazione delle potenzialità individuali e collettive, non solo all'interno dei paesi
ricchi, ma anche nel resto del mondo. 12. Ma andiamo con ordine. La fine della società dei salariati porta a
una sorta di "effetto domino" positivo nei regolatori sociali che da essa avevano tratto origine. Infatti, in un
regime salariale stabilizzare i redditi dei lavoratori che riuscivano a rimanere occupati significava dover
"aggiustare" gli equilibri del mercato del lavoro attraverso la disoccupazione. Per far sì che questa
disoccupazione non fosse conflittuale, e quindi eversiva nei confronti del sistema, occorreva trattarla con i
cosiddetti ammortizzatori sociali, tutti quegli strumenti, cioè, che fornendo un reddito ai disoccupati
contribuivano a mantenerli in una lista d'attesa di durata indefinita. Ma, più si protrae la lista d'attesa, più la
disoccupazione diventa di lunga durata, più il capitale umano diventa obsoleto, e sempre meno il lavoratore
riesce a inserirsi in nuove realtà occupazionali. Con l'aumento della disoccupazione di lungo periodo e lo
spreco di capitale umano conseguente, aumentano pure le spese per il welfare, in un circuito vizioso senza
fine. I costi aggiuntivi del welfare, poi, non possono che ricadere sui lavoratori occupati, aumentando il costo
del loro lavoro, e diminuendo la competitività delle merci da essi prodotte. Da qui ulteriori investimenti e
razionalizzazioni organizzative volti a risparmiare lavoro, quindi ulteriori distruzioni di impieghi e nuovo
aumento della disoccupazione. 13. Questo tipo di meccanismo infernale porta, dunque, all'esclusione dalla
vita attiva di fasce sempre più rilevanti di individui, relegandoli nella marginalità economica (nei lavori
sommersi, neri, irregolari o illegali) e sociale, facendone dei disadattati e, quindi, dei potenziali free-rider. Se
lo stesso meccanismo salariale viene applicato nei paesi poveri o in via di sviluppo, assistiamo a un
simmetrico aumento della precarizzazione, attraverso il lavoro, però aumentando l'occupazione mal pagata,
non protetta, senza regole di welfare. Nel frattempo vengono distrutti i posti di lavoro tradizionali nelle attività
primarie ed artigianali. Il risultato di un simile processo è l'impoverimento progressivo, il rallentamento della
crescita e la spinta all'emigrazione. 14. Ma l'emigrazione viene attratta non già dai segmenti primari del
mercato del lavoro dei paesi ricchi come per il passato (le industrie manifatturiere), ma dai segmenti
secondari, marginali e sommersi, in una sorta di precarizzazione cumulativa. Sotto l'alibi della competizione
globale, il sistema salariale miete così le sue vittime. In questo modo le società civili, fondate tutte sui valori
portanti del lavoro, finiscono per perdere di identità, lasciando spazio agli egoismi (ciascuno cerca di risolvere
individualmente i problemi della sopravvivenza) e ai fondamentalismi (l'esclusione del dialogo e della
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possibile convivenza di modelli culturali e politici diversi). 15. In questo contesto le politiche
macroeconomiche, le politiche di cooperazione, le strategie volte a migliorare l'efficienza e la trasparenza dei
mercati sono tutte armi spuntate che portano unicamente a incancrenire gli squilibri, di fatto ritardando
solamente la loro virulenza. Alla fine prevale solo la miopia del protezionismo non solo economico, ma
politico e culturale. 16. Si tratta, quindi, di cambiare "paradigma", superando la società dei salariati, verso
sistemi, sempre più diffusi, di partecipazione. Ma cosa comporta l'innesco di meccanismi che portano
automaticamente verso la piena occupazione? Innanzitutto i sistemi economici a partecipazione tendono a
stabilizzare la produzione e il consumo di beni e servizi al livello di pieno impiego, mentre consentono
l'aggiustamento dei redditi nominali. Ne deriva un implicito azzeramento della disoccupazione. 17. Da qui un
miglior utilizzo del capitale umano che diventa, di fatto, una merce scarsa, fortemente ricercata dalle imprese.
Dunque, se il lavoro diventa una merce scarsa, dal lato dell'offerta si mettono in moto meccanismi e
comportamenti tali da indurre miglioramenti generalizzati nella formazione del capitale umano, sia prima di
entrare per la prima volta nel mercato del lavoro (scuola e prima formazione), sia durante tutto il ciclo di vita
dell'individuo. 18. La piena occupazione, infatti, fa venir meno l'angoscia del distacco dal lavoro, e consente
sempre maggiori possibilità di programmare, nel medio lungo periodo, i cicli di lavoro e di investimento,
informazione e cultura. Sia dunque che assumiamo modelli della "Share economy" di Weitzman che quelli
della "Labour-Capital Partnership" di Meade, oppure modelli misti, la mobilità sociale degli occupati diventa
centrale nel processo di sviluppo. 19. La "Share economy" di Weitzman. L'idea essenziale di Weitzman è che
si possa sconfiggere disoccupazione e inflazione attraverso nuovi modi di remunerazione del fattore lavoro.
Weitzman afferma che è il sistema di remunerazione basato sul salario a rendere difficile l'uscita dalla
stagflazione, mentre un sistema retributivo alternativo, dove sia considerato normale legare la remunerazione
del lavoro a un qualsiasi indice dell'andamento dell'impresa (come quota dei ricavi o dei profitti) potrebbe
produrre proprio gli anticorpi necessari per combattere la stagflazione. Secondo Weitzman, un sistema di
partecipazione non è globalmente più rischioso di un sistema salariale. Sono soltanto la forma e l'effetto
dell'incertezza che si presentano in forma differente. Un'economia di partecipazione stabilizzerebbe il
prodotto aggregato (e il consumo) dei beni e dei servizi a livello di piena occupazione, mentre consentirebbe
l'aggiustamento dei redditi nominali. Mentre un'economia salariale può garantire i redditi solo di alcuni,
scaricando sui disoccupati, sul prodotto e sui consumi il costo dell'aggiustamento. Vi è quindi un'ineludibile
dimensione di miopia, se non di vero e proprio egoismo, da parte dei lavoratori più garantiti, e verosimilmente
a più alto tasso di sindacalizzazione, che si oppongono a modalità partecipative di flessibilità dei redditi
nominali, senza vedere i benefici di medio periodo che potrebbero derivare da questa loro concessione: la
diminuzione dei prezzi, l'aumento dei redditi reali dei lavoratori, la piena occupazione. 20. La "Labour-Capital
Partnership" di Meade. La partnership d'impresa assomiglia, nella versione di Meade, a una cooperativa, ma
è al tempo stesso qualcosa di più. In essa, sia i lavoratori sia i soci di capitale detengono quote azionarie, con
caratteristiche peraltro ben distinte, nel senso che, oltre alle normali azioni di capitale, esistono anche "azioni
di lavoro", con pari diritto ai dividendi, ma non trasferibili, e che si annullano al momento dell'uscita volontaria
dall'impresa del lavoratore. Meade in sostanza cerca di coniugare i vantaggi di una società per azioni, con i
vantaggi di una cooperativa. Il "passaggio al macro" è del tutto conseguente: mantenere tutte le funzioni
tipiche di un sistema capitalistico, ma in un quadro di diritti proprietari modificato, e quindi di una diversa
remunerazione dei fattori produttivi: in parte con un salario fisso, in parte con i dividendi delle azioni (che
mantiene anche in caso di disoccupazione involontaria). Pur nella massima varietà dei possibili equilibri fra
capitale e lavoro nelle diverse partnership, il risultato è comunque tendenzialmente tale da assicurare ai soci
lavoratori un peso decisivo nella struttura societaria. Conclusioni Tutto quanto esposto non può non
riguardare anche 2 altri aspetti: 1) la gestione flessibile e contrattata degli schemi a partecipazione, che adotti
di azienda in azienda, di reparto in reparto, di gruppo in gruppo coefficienti e parametri, in una sorta di
pluralismo partecipativo, capace di apprendere in tempo reale e, quindi, continuamente monitorare e
modificare, sia le quote variabili che quelle fisse della remunerazione del lavoro, in ragione dei cambiamenti
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tecnologici in atto. 2) Il problema del welfare state che, sviluppatosi nella società dei salariati, è sempre di più
diventato l'ammortizzatore delle inefficienze e delle iniquità distributive proprie del modo di produzione
capitalistico. Al contrario, una società attiva in cui, attraverso gli schemi della Share Economy o della LabourCapital Partnership, la piena occupazione fosse la norma, non avrebbe certamente problemi di finanziamento
per i suoi sistemi di sicurezza sociale pubblici e/o privati. Il numero degli occupati sarebbe sempre e
comunque di gran lunga superiore a quello dei non attivi, anche scontando l'aumento della vita media,
cosicché tutte le reti di mutua assistenza, solidarietà e assicurazione avrebbero costanti e incrementali fonti di
approvvigionamento. In Italia quella che ho esposto come utopia esiste nella pratica di molte piccole imprese
industriali e artigiane, in moltissime attività professionali, nell'universo delle partite Iva, della miriade di attività
distributive, dove questa circolazione di talenti umani è praticata come mobilità virtuosa, dove vige il merito,
dove padrone e dipendente, principale e subordinati, sono in fondo tutti imprenditori di un'opera comune,
capaci di realizzare prodotti e servizi di qualità e di rischiare ed essere solidali tutti insieme, in una sorta di
welfare dal basso. La fine dell'età salariale - come l'ho chiamata - esiste già nel corpo sociale e produttivo
italiano, nel permanente miracolo di chi regge una concorrenza internazionale spietata nonostante la
gramigna burocratica e l'imperversare di una cultura egemone, di un classismo ancora marxista e statalista,
con il simmetrico cinismo di un capitalismo senza capitali, sussidiato, ancorato all'egoismo dei paradisi fiscali
e della cattiva finanza. Si tratta di dare dignità e rappresentanza politica piena a questa utopia con i piedi per
terra, trasformandola in un soggetto dominante, sia nel sociale che nella società e nella rappresentazione
della stessa. Insomma far governare l'Italia migliore. Sono pronto naturalmente a discutere di queste mie
ipotesi con chi abbia la pazienza di cimentarsi con esse, al di fuori delle schermaglie dialettiche di
circostanza, per lavorare insieme su un futuro possibile che non sia il piccolo cabotaggio sulle rotte
conosciute. Consapevole che "ogni giorno ha la sua pena". Ma questi sono giorni in cui la nostra pena deve
lottare per la speranza e non abbandonarsi alla deriva del nostro naufragio. * capogruppo di Forza Italia alla
Camera
Foto: Agli inizi del Novecento l'isola di Ellis Island, sul fiume Hudson nella baia di New York, era il primo
approdo degli immigrati in America
16/01/2014
ItaliaOggi
Pag. 18
(diffusione:88538, tiratura:156000)
Finanziamenti alle imprese rosa, garanzia diretta al fondo pmi
Arrivano le istruzioni operative per prenotare la garanzia diretta al fondo pmi per i fi nanziamenti stanziati a
favore delle imprese femminile. Le risorse stanziate per le piccole e medie imprese femminili per accedere a
condizioni vantaggiose a 300 milioni di euro di credito garantito ammontano a 20 milioni di euro. Nella
sezione speciale del fondo di garanzia Pmi (operativo dal 14 gennaio scorso) «presidenza del consiglio dei
ministri dipartimento per le pari opportunità» sono disponibili i modelli di prenotazione. La modulistica in
formato Excel svolge automaticamente i calcoli per la determinazione della fascia di appartenenza
dell'impresa. Questo è quanto si legge nella circolare del Medio credito centrale del 14 gennaio 2014 n. 660.
Per la defi nizione delle voci relative al modello di valutazione si deve fare riferimento alla scheda 6 bis del
modulo di prenotazione. Nel caso l'impresa risultasse in fascia 2 è obbligatorio compilare anche «scheda 7»
della Richiesta di prenotazione. Qualora l'impresa fosse una start up (cioè costituita o avviata non oltre tre
anni prima della richiesta di ammissione) dovrà compilare il modello di valutazione per operazioni presentate
con bilanci previsionali contenuto nella scheda 6.12 o 6.13 della richiesta di prenotazione (da scegliere in
base all'importo dell'operazione). Dovrà inoltre inviare un business plan utilizzando l'allegato 7 o 7 bis
(sempre in base all'importo del fi nanziamento).
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Diritto & Fisco Le istruzioni operative arrivano con circolare del Mediocredito centrale
16/01/2014
MF - Ed. nazionale
Pag. 13
(diffusione:104189, tiratura:173386)
Assietta compra la sgr delle Bcc e apre il capitale a Intermonte e Iccrea
Stefania Peveraro
Assietta Private Equity sgr ha comprato Intermonte Bcc Private Equity sgr. All'operazione seguirà la fusione
tra le due sgr e l'ingresso nel capitale della società risultante di Iccrea holding e di Intermonte sim, al fianco di
Assietta spa. Quest'ultima è oggi socio unico di Assietta sgr, che è l'ex Aletti Private Equity sgr, acquisita nel
l'autunno 2009 dal gruppo Exilles, espressione dei soci del noto studio di commercialisti milanesi Cornaglia &
Associati, guidato da Marco Cornaglia. Intermonte Bcc Private Equity sgr è invece al momento controllata al
50,1% da Intermonte sim e al 17% dall'amministratore delegato della stessa sim, Roberto Magnoni
(direttamente e tramite Emei srl), mentre a Iccrea Holding fa capo il 20% del capitale. Secondo quanto risulta
a MF-Milano Finanza, Iccrea acquisirà una quota tra il 10 e il 20% del capitale di Assietta Pe (Ape), mentre
Intermonte entrerà in possesso del 10%. Magnoni, invece, almeno per il momento, non acquisirà azioni
personalmente. Con l'acquisto di Intermonte Bcc Private Equity, Ape acquisisce anche il relativo team di
gestione, composto di tre persone, il back office e i tre fondi in gestione, che totalizzano 85 milioni di euro di
capitale investito e 14 società partecipate in Italia. Questi ultimi sono entrambi interamente investiti e
giungeranno a scadenza tra due anni e mezzo. Il senso dell'operazione non si esaurisce però con il
rafforzamento di strutture operative e flussi di commissioni. L'ingresso nel capitale della società di gestione da
parte di una grande sim e soprattutto di una banca che fa capo al mondo del credito cooperativo, per
definizione più radicato nel territorio, rappresenta per Cornaglia e soci un'opportunità molto interessante dal
punto di vista delle opportunità di reperire affari e una carta in più da giocare al momento del lancio della
raccolta del nuovo fondo. Infatti il terzo fondo, che punta a 50 milioni, ha già effettuato il primo closing a 30
milioni grazie alle sottoscrizioni di persone fisiche e family office, ma ora punta a coinvolgere qualche
investitori istituzionali, in modo da chiudere la raccolta alla fine del primo semestre dell'anno. Anche grazie a
investitori esteri, puntando sui contatti ad alto livello del neo consigliere di amministrazione Maurizio Atzori.
Quest'ultimo per Assietta ha infatti lasciato i vertici di Abn Amro in Olanda, dove è stato responsabile globale
dell'area Debt Capital Markets dal 2010 all'estate 2013. Atzori già pensa alle prossime mosse: un quarto
fondo, per il quale il target sarà di 100 milioni, proprio grazie al contributo degli investitori esteri, e l'ingresso di
Assietta nel business del debito, con la strutturazione di cartolarizzazioni di crediti verso piccole e medie
imprese, che pure potranno essere collocate a investitori istituzionali esteri. (riproduzione riservata)
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MERCATI
15/01/2014
Panorama - N.4 - 22 gennaio 2014
Pag. 44
(diffusione:446553, tiratura:561533)
Il governo Letta voleva attirare investimenti e facilitare la vita alle aziende. Invece il carico fiscale resta tra i
più alti al mondo. Tutte le settimane piomba una nuova norma. E la burocrazia aumenta. Risultato? Ogni
giorno 50 aziende portano i libri in tribunale.
Mikol Belluzzi
Paolo Virzì l'ha scelta come ambientazione del suo ultimo film, Il capitale umano , inno alla speculazionee ai
soldi facili. Ma la Brianza, con le villette unifamiliari e il suv parcheggiato in giardino, da stereotipo di patria
dell'imprenditore arricchitoè diventata il prototipo della deindustrializzazione in Italia: al Tribunale di Monza lo
scorso anno sono stati dichiarati 358 fallimenti, uno al giorno, e ci sono altre 650 richieste in attesa di
pronuncia. E mentre il governo s'incarta su sterili dibattiti e plaude al primo flebile recupero della produzione
industriale a novembre dopo 26 mesi di calo, i «giapponesi d'Italia» e i loro colleghi di tutt'Italia cercano di
parare, da soli, i contraccolpi di una crisi che il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi ha definito «come
una guerra». Secondo i dati di Crif, società d'analisi specializzata in business information, in Italia nei primi 9
mesi del 2013 hanno portato i libri in tribunale oltre 10 mila imprese, cioè più di due all'ora e quasi 50 al
giorno. Un'emorragia che non si arresta, nonostante il saldo tra aperture e chiusure aziendali nel terzo
trimestre 2013 sia stato positivo per oltre 12 mila unità, dato che comunque resta il più basso dell'ultimo
decennio: spesso aperte grazie a contributi europei (il 30 per cento sono imprenditori under 35) o per
rispondere all'esigenza di crearsi un lavoro in proprio dopo che se n'è perso uno, sono aziende fragili,
destinate a non mettere radici. Che lo Stato, per primo, cerca di seccare. Paradigmatico è il settore della birra
che da qualche anno registra una grande effervescenza, grazie all'intraprendenza di 500 nuovi piccoli e medi
imprenditori che hanno realizzato birrifici in tutta Italia, spesso in zone disagiate, creando migliaia di posti di
lavoro soprattutto tra i giovani. Lo scorso ottobre il governo ha deciso che per finanziare interventi su
università e cultura era necessario aumentare le accise sulla birra, una manovra che da qui al 2015 farà
incassare allo stato 200 milioni di euro, ma che graverà di un 15 per cento sul prezzo finale delle bionde. «A
regime un sorso su due del nostro boccale di birra se lo berrà il governo» ricorda amaramente Alberto
Frausin, presidente di Assobirra, «ma intanto in novembre le vendite sono scese del 14,3 per cento. Tutto ciò
è demenziale se si pensa che in6 anni abbiamo triplicato le esportazioni di birra all'estero, che per ognuno dei
quattro ritocchi previsti dovremo aggiornare i sistemi informatici con notevoli costi per le aziende e che
all'erario versiamo già 4,1 miliardi di tasse». E si potrebbe continuare con il comparto delle sigarette
elettroniche, che il 1° gennaio di quest'anno ha brindato al suo primo compleanno con una nuova super
imposizione del 58,5 per cento e con la richiesta di messa in mobilità per mille dipendenti, che magari
potranno sperare nell'assegno universale promesso dal nuovo «jobs act» renziano. Perché l'erario ormai è il
vero socio di maggioranza delle imprese italiane, come conferma il Centro studi di Confindustria, secondo cui
le nostre aziende nel 2012 hanno avuto il primato negativo del prelievo fiscale più elevato al mondo, pari al
65,8 per cento degli utili, contro il 49,4 per cento della Germania. In arrivo c'è la Tasi, la tassa sui servizi
indivisibili, che promette una nuova stangata da almeno 1 miliardo sui portafogli già dissanguati degli
imprenditori. «Il governo ci aveva promesso la deducibilità dell'Imu sugli immobili commerciali, che poi non è
arrivata, e ora con la Tasi innalza ancora la fiscalità sulle aziende che invece di semplici bancomat
dovrebbero essere il motore della crescita di questo Paese» sottolinea Andrea Bolla, presidente del comitato
tecnico per il fisco di Confindustriae imprenditore veneto dell'energia. «Le riforme da fare in Italia? La primaèa
costo zero: semplificaree creare un rapporto più giusto tra Stato e contribuenti. Bisogna approvare in tempi
brevi le proposte concrete che le imprese hanno presentato da mesi. Poi c'è bisogno di una significativa
riduzione del cuneo fiscale, almeno 10 miliardi di euro. Le risorse si possono e si devono trovare attraverso
una seria lotta all'evasione e una vera spending review. Ma le istituzioni devono rispettare lo statuto dei
contribuenti e i loro diritti inviolabili, altrimenti la nostra motivazione via via si spegne soprattutto quando
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vediamo che all'estero ci trattano molto meglio». Così la «fabbrichetta»e il «capannoncino» di brianzola
memoria rischiano davvero di diventare un ricordo, demoliti pezzo a pezzo dal moloch della burocrazia che
inghiotte tempo e risorse senza sosta. Secondo il rapporto Doing business 2014 della Banca Mondiale, l'Italia
è al 112° posto al mondo per tempo medio d'ottenimento di permessi edilizi, con una durata media della
pratica di 233,5 giorni e 11 procedure da ottemperare. Tempi morti che prosciugano il fatturato delle aziende
di quasi 1 miliardo di euro l'anno, con la perdita di almeno6 mila posti di lavoro secondo i calcoli di
Confartigianato. Poi ci sono le 269 ore «sprecate» ogni 12 mesi per preparare documenti ed effettuare
pagamenti fiscalie contributivi: 93 procedure burocratiche che fiaccano le piccolee medie imprese italiane e
che costano al sistema la cifra iperbolica di 31 miliardi di euro, pari a 2 punti di Pil. Ma si può arrivare ai7 anni
dei processi autorizzativi per il quartier generale lombardo del colosso dell'abbigliamento sportivo Decathlon
oppure ai5 anni per una centrale turbogas in Puglia, che il proponente svizzero ha deciso di spostare alle
porte di Parigi, dove in sei mesi era già cantierizzata. «E potrei citare altri 350 casi di questo tipo, dove la
malafede di molti sindaci e l'ostilità delle comunità blocca la creazione di migliaia di posti di lavoroe fa
scappare gli investimenti stranieri» conferma Alessandro Beulcke, presidente dell'Osservatorio Nimby Forum.
Perché la semplificazione, nonostante slogan azzeccati, ma mai realizzati come «l'impresa in7 giorni»,
rimane l'araba fenice. Gli esperti di Confartigianato hanno stimato come nei 29 provvedimenti fiscali emanati
tra l'aprile 2008 e il maggio 2013 era contenuta la cifra-mostre di 491 norme fiscali, di cui 288 con impatto
burocratico sulle imprese, qualcosa come una disposizione ogni 6,4 giorni. Ridotte al lumicino, invece, quelle
che semplificano la vita degli imprenditori: nello stesso periodo sono stati solo 67 gli interventi che hanno
abbassato il carico burocratico alle aziende, con un rapporto schiacciante di uno a favore e quattro contro. «Il
governo dovrebbe intervenire, anche con norme impopolari, e disboscare questa pletorica massa di
adempimentie organismi inutili» suggerisce l'avvocato Alessandro Munari, dello studio legale Munari Cavani.
«E mi riferisco anche a norme-pilastro come la legge sulla privacy, quella sulla responsabilità amministrativa
delle societàe sulla sicurezza sul lavoro che moltiplicano i compiti inutili di imprenditorie amministrativi,
diventando una penalizzazione per gli investitori stranieri».E anche quando si va in tribunale, le cose non
migliorano. L'Italia, infatti, è fanalino di coda in Europa per i tempi di risoluzione delle cause commerciali: per
avere giustizia servono 564 giorni per il primo gradoe 1.210 per i tre gradi di giudizio. Ma allora l'Italia non è
più un Paese per imprenditori? «Io sono un ottimista nato» dice Paolo Preti, docente di organizzazione
aziendale delle piccole e medie imprese all'Università Bocconi di Milano, «e preferisco pensare che
l'imprenditore è chi ha idee, le vuole realizzare in prima persona e indipendentemente da aiuti esterni. Una
sorta di pioniere, come nel dopoguerra». Allora l'Italia è un Paese per pionieri.LA nuovA TASI: un BALZELLo
DA un mILIArDo fisco esosoIl carico fiscale sulle aziende Gran Bretagna 34 Germania 49,4 Spagna 58,6
Francia 64,7 Italia 65,8 Fonte: Centro studi Confindustria Le imposte sul lavoro Gran Bretagna 26 Spagna
33,2 Germania 37,1 Francia 38,6 Italia 42,3 Fonte: Centro studi Confindustria Ore che servono ogni anno per
pagare le tasse Gran Bretagna 110 Francia 132 Spagna 167 Germania 218 Italia 269 Fonte: Doing business
2014 Giorni per ottenere un permesso di costruzione Gran Bretagna 88 Germania 97 Francia 184 Spagna
230 Italia 233,5 Fonte: Doing business 2014 Paesi dov'è più facile ottenere credito Gran Bretagna 1°
Germania 28° Francia 55° Spagna 55° Italia 109° Fonte: Doing business 2014
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come ti salvo l'azienda dove lavoro
Nel 2008 l'impresa stava per fallire. Poi i dipendenti hanno messo insieme i loro soldi, hanno preso il
comando e hanno ribaltato la situazione. Così una piccola fabbrica emiliana di cravatte si è trasformata in un
grande esempio per battere la crisi.
Carmelo Abbate foto di Alberto Bevilacqua
In primo piano, da sinistra: Stefania Ghidoni, vicepresidente della Art Lining di Sant'Ilario d'Enza (Reggio
Emilia), e Natalia Lei, a capo del reparto commerciale. Con loro Patrizia Morini, responsabile della produzione
delle cravatte. Anche le cravatte, nel loro piccolo, hanno un'anima. Che sia di seta o lana, a righe o tinta
unita, regimental o a pois, che siano indossate per il matrimonio a Cefalù o un ricevimento alla Casa Bianca,
ogni cravatta ha qualcosa che la rende uguale all'altra: l'imbottitura, il sostegno interno, l'asse portante. E
quella che andiamo a raccontare è proprio una storia di cravatte. E di donne. Donne che fanno a pezzi
paroloni buoni per animare dibattiti ma a cui spesso non segue nulla, vedi le riflessioni sulla scarsa
valorizzazione del loro tempo e del talento. Donne che se ne fregano di un sistema bancario più portato a
disegnare operazioni di sistema che a selezionaree valorizzare imprenditori capaci e visionari. Donne
lavoratrici dipendenti che nel momento in cui l'azienda nella quale lavorano porta i libri contabili in tribunale, si
mettono insieme, investono la liquidazione, rischiano e si trasformano in imprenditrici, riuscendo a tenere in
vita l'impresa e a rilanciarla. Questo, nel caso specifico della società Art Lining, che produce interni per
cravatte, è stato possibile grazie al supporto di Coopfond, il fondo mutualistico di Legacoop, che negli ultimi
cinque anni ha garantito supporto economico e professionale a una trentina di piccole e medie imprese in
gravissime difficoltà. Nel 2008, quando la crisi investe in pieno il suo lavoro e la sua vita, Stefania Ghidoni ha
43 anni, un bambino che inizia le elementarie una figlia di 11 anni. La mamma di Stefania, invece, è sul letto
di un ospedale in stato vegetativo. Stefania lavora all'ufficio contabile da oltre 15 anni, si occupa di fatture e
bilanci, capisce che la situazione è senza uscita, il primo istinto è quello di andar via, scappare, cambiare
lavoro. Ma più passano i giorni, più gli altri vedono in lei lo scoglio a cui aggrapparsi, la leadership che
emerge naturale e spontanea in mezzo al mare in tempesta. Stefania prende coscienza della stimae del
ruolo,e sale in plancia di comando. L'azienda è nata negli anni Ottanta, produce interni per cravatte. Sembra
qualcosa di banale, meccanico, industriale, ma in due millimetri di larghezza, lunghezza o consistenza, si
giocano mille variabili di prodotto. Siamo a Sant'Ilario d'Enza, paesone di 11 mila abitanti tra le province di
Parma e Reggio, sulla via Emilia. Negli anni Novanta, l'azienda conta una quarantina di dipendenti, che
vivono in un ambiente lavorativo sereno e felice, con gratificazioni personali ed economiche. Le cose vanno
bene per tutti, la famiglia che gestisce l'impresa investe sul mercato americano. Poi arriva l'anno terribile, il
2005, la stretta, la crisi, l'acqua alla gola. Forse il pugno non eccessivamente fermo nell'operazione di
ristrutturazione, forse l'eccesso d'amore per il gruppo di lavoro che impedisce al management di prendere
decisioni drastiche, forse il carattere visionario del capo, e le sue grandi passioni extralavorative. Chissà, fatto
sta che si scivola dritti fino al concordato fallimentare con i creditori, che viene sancito nel 2008. L'azienda
viene dichiarata tecnicamente fallita. È fine luglio, i circa 20 dipendenti rimasti prendono coscienza
dell'imminente baratro. L'unico che sembra vivere in una bolla è proprio il titolare, che parla di difficoltà
passeggere. In tanti iniziano a domandarsi se ci è o ci fa. Natalia, che ha 34 anni e lavora là dentro da
quando ne aveva 17, va da lui in lacrime, implora verità, si sente rispondere che va tutto bene. Il tribunale nel
frattempo gli vieta di mettere piede in azienda e nomina un commissario straordinario. La situazione è
pesante, i lavoratori sono presi in mezzo, tra un commissario che ordina, vigila, controlla, un vecchio capo
che impartisce direttive diverse al telefono, lavoratori che fuggono altrove e sindacati che raccomandano di
trattenerli per non scendere sotto la soglia fatidica dei 15 dipendenti. Stefania ha sotto gli occhi i numeri.
Lavora a stretto contatto con i consulenti esterni chiamati a verificare i conti e ha chiara la situazione
finanziaria. Ma la sua è una posizione scomoda: il capo dell'azienda è il cognato, fratello del marito, che
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lavora altrove, ma quella è pur sempre l'azienda di famiglia. E lei è soltanto una dipendente dell'ufficio
contabile. Che all'improvviso si ritrova stretta tra due fuochi. Messo di fronte all'evidenza dei dati forniti dai
consulenti, dai quali emerge la necessità inderogabile di forti tagli aziendali, il cognato reagisce licenziando i
consulenti, colpevoli a suo dire di rappresentare una situazione non veritiera. È guerra tra le parti, Stefania
sta in mezzo. Vive alla giornata, ora per ora, fino a che tutti le chiedono di prendere in mano la patata
bollente, è lei l'unica che può tirarli fuori dai guai. Stefania riescea non fermare la produzione, richiama il
consulente cacciato dal cognato e riparte proprio da lui. Il primo buco nero è l'imprevedibilità dei costi, per cui
la voce messaa bilancio alla fine risulta regolarmente disattesa. Si cambia radicalmente l'organizzazione
produttiva, la filiera, spostando la produzione del tessuto all'esterno, per avere costi fissi e certi. Ma per
sopravvivere ci vogliono 400 mila euro. Il progetto di rilancio prevede 12 posti di lavoro, figure ben precise.
Ognuno dovrà investire 10 mila euro, 80 li mette il Consorzio finanziario di Legacoop, i restanti 200 mila
sonoa carico di Coopfond: entrambi diventano soci finanziatori in cambio della partecipazione agli utili futuri
nella misura del 2 per cento. I dipendenti bussano alle porte dell'Inps, chiedono la mobilità anticipata, che
viene versata una tantum, come riscatto anticipato, se dichiari che hai aperto una attività imprenditoriale e ti
impegni a mantenerla in vita per almeno due anni. Siamo a gennaio 2009, la Art Lining riparte, 9 donne e 3
uomini, età media 35-40 anni, anche se in realtà non si è mai fermata, nessun dipendente ha mai perso uno
stipendio. «Era una condizione che avevo messo per iscritto con il curatore fallimentare, ne andava della
credibilità del progetto con la squadra», racconta Stefania Ghidoni, che oggi è vicepresidente della società.
Tecnicamente, l'attività riparte attraverso l'affitto di ramo d'azienda. In sostanza, i soci pagano un canone di
locazione al curatore fallimentare, con diritto di prelazione da esercitare entro i tre anni. Il primo anno si
chiude con un fatturato di 1 milione e mezzo. «Molti clienti ci avevano confermato la fiducia, ma erano
guardinghi e tenevano i piedi in due scarpe». Ma alla fine il bilancio è comunque in pareggio, dall'anno
successivo si ricomincia a crescere e nel 2010 il diritto di prelazione è già esercitato. Oggi i clienti sono pezzi
grossi della moda come Ferragamo, Zegna, Tom Ford, Brioni, Armani, Hugo Boss. Nonostante la crisi, il
fatturato è salito a 2 milioni e 200 mila euro, ed entro l'anno prossimo saranno estinti i mutui sui macchinari.
Le parole a margine di Stefania: «Ho imparato che i valori hanno ancora un peso nella vita. L'onestà, il
rispetto, laddove esistono, fanno la differenza». Bastano? «No». Come vede il futuro? «Ho due figli di 16 e 10
anni: devo vederlo bene, punto». (carmelo. [email protected]) Oggi la Art Lining dà lavoro a 12 addetti,
che si sono riuniti in cooperativa.Riscattando l'assegno di mobilità e ottenendo un finanziamento si è Riusciti
a non bloccaRe la pRoduzione e a RilanciaRe la fabbRica
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