L'ANNO DI GIORDANO Realismo meditativo Il quadro che si suole generalmente fare dell'opera verista in Italia non è nè roseo nè allettante; e questo mi sembra che derivi in parte da malumore polemico, in parte dall'aver dato importanza esclusiva alle forme più clamorose e « popolareggianti » del così detto verismo musicale. In un saggio su Mascagni che ebbe particolare risonanza ai suoi tempi, Giannotto Bastianelli osservava che « l'operista italiano ha, quasi sempre, una mentalità del tutto immersa, anzi sommersa, nel flutto della mediocrissima vita che lo circonda. Egli è così un'anima semplice, di quella semplicità un poco artefatta delle anime popolari, che non appena venga varcata da noi, ci desta un'antipatia irrimediabile ». Questa semplicità poteva essere facilmente scambiata con la facile contentabilità, con la mancanza di autocritica e con l'indifferenza verso la cultura; elementi negativi a cui si collegano una vera e propria faciloneria e una eccessiva fiducia nelle varie forme di retorica teatrale consacrate dalla tradizione. Arte popolare, dunque, quella del nostro melodramma verista: popolare perchè facile, perchè sostenuta da una fluida e copiosa vena melodica, in cui tuttavia si riproducono, sempre più logorati dall'uso, i moduli della « vecchia melodia italiana dalle forme regolari, dai blandi ritornelli, dalla serena cadenza finale coronata da una nota tenuta per far piacere alla voce dei cantanti e all'orecchio del pubblico, che ama i cantanti un po' simili a lottatori di molta resistenza ». Questa diagnosi ha certo 1 dei fondamenti di verità, specialmente se la riferiamo a una situazione generale del teatro musicale italiano degli ultimi decenni del sec. XIX. Si può infatti ammettere con una certa facilità che la cattiva retorica e una eccessiva contentabilità formale fossero i pericoli più frequenti che implicava l'adorazione della formula verista. Ma è legittimo considerare conclusa in queste linee la fisionomia dell'opera italiana a cavaliere tra il sec. XIX e il XX? Non si dovrà riconoscere che, sulla base di questi dati sommari e parziali, la visione del melodramma post-verdiano risulta alquanto ristretta e tale da interessare più la storia del costume teatrale che non quella dell'arte musicale? Ognuno può del resto constatare quanto vi sia di generico e di impreciso in certi termini riassuntivi. Il giudizio critico non può nascere se non dall'esame di un particolare ambiente culturale e di concrete personalità; perchè non sarebbe giusto porre sullo stesso piano musicisti così diversi l'uno dall'altro e così diversamente dotati come furono Puccini, Mascagni, Leoncavallo, Cilea e Giordano, anche se è possibile e giustificato farli rientrare in uno stesso clima storico. E' opinione piuttosto comune che la cultura musicale italiana, nella seconda metà del sec. XIX, fosse arretrata nei confronti della contemporanea cultura d'oltralpe. Limitarsi ad osservare ciò non è sufficiente, ai fini di un concreto giudizio storico; occorre darsi una ragione di questo fatto, dal quale è stato determinato, per via di una erronea illazione che deduce la qualità progressiva dell'arte in relazione allo sviluppo della tecnica e del gusto, un giudizio restrittivo, e a volte addirittura negativo, intorno alla musica italiana di quel periodo, generalmente considerata « inferiore » a quella tedesca (Wagner e post-wagneriani) e a quella francese (Debussy e impressionisti). E' necessario rendersi conto che quasi tutta la cultura del sec. XIX fu caratterizzata dal sentimento romantico della nazionalità, e che pertanto l'arte e la letteratura ottocentesca in Europa si sono sviluppate in gran parte nell'ambito di una cultura nazionale. Gli scambi tra una nazione e l'altra si verificarono piuttosto tardi e in maniera sporadica o superficiale; perciò furono poco fecondi. La fedeltà alla tradizione nazionale rappresentava la fedeltà dell'uomo alla sua umanità vera e profonda. Anche il verismo da noi, sebbene fosse nato sotto la spinta del naturalismo francese, valse a riaffermare e a rinsaldare nell'artista il sentimento della tradizione nazionale e l'esigenza di un legame 2 più attivo e più fecondo con la vita del popolo in mezzo a cui egli era nato e di cui veniva cogliendo le peculiarità etniche e l'originalità creatrice. Nato a Foggia il 28 agosto 1867, Umberto Giordano ebbe i primi insegnamenti di solfeggio e di pianoforte da un amico di famiglia il quale, considerate le singolari attitudini del fanciullo, persuase il padre a rinunciare all'idea di fare di lui un medico. Fu quindi affidato alla cura di due musicisti foggiani, Luigi Gissi e Giuseppe Signorelli. A 14 anni partecipò al concorso per un posto gratuito nel Collegio di musica del Conservatorio di S. Pietro a Majella di Napoli; fu respinto per alcuni errori nel basso armonizzato, ma le composizioni presentate al concorso attirarono su di lui l'attenzione di Paolo Serrao, che volle dargli lezioni gratuite. Dopo 6 mesi di insegnamento, Giordano era in grado di guadagnare il posto ambito su 57 concorrenti. Nel Conservatorio napoletano studiò contrappunto e composizione con lo stesso Serrao, organo con M. E. Bossi, pianoforte con Martucci e violino con A. Ferni. Fu allievo del Conservatorio dal 1882 al 1890; in questo periodo ebbe modo di farsi apprezzare dalla stampa napoletana per alcune composizioni orchestrali; nel 1888 inviò l'opera Marina al concorso Sonzogno, quello stesso che doveva dare così grande notorietà alla Cavalleria rusticana. Su 73 opere concorrenti, Marina fu classificata sesta e fu particolarmente apprezzata da F. Marchetti, che faceva parte della Commissione. L'editore Sonzogno non volle tuttavia acquistare l'opera, di cui non apprezzava il libretto, ma per i buoni uffici del famoso direttore d'orchestra Leopoldo Mugnone impegnò Giordano a scrivere in un anno, con un assegno di 200 lire mensili, una nuova opera, che fu Mala vita, dal dramma 'O Voto di S. Di Giacomo e G. Cognetti, che il librettista Nicola Daspuro (leccese di nascita) elaborò sul piano di un realismo senza orpelli, dominato da violenti impulsi sensuali. L'azione si svolge in un « basso » napoletano, nelle vicinanze di un postribolo; il protagonista, Vito Amante, fa voto a Cristo di sposare una prostituta se guarirà dalla passione mordente e tormentosa che lo avvince a Donna Amalia. Cristina ripone in lui le sue speranze di redenzione; ma Donna Amalia non si rassegna a perdere l'amante e riesce di nuovo a soggiogarlo, e a Cristina non rimane che ritornare definitivamente nella mala casa. L'opera fu rappresentata con successo a Roma, protagonisti gli stessi cantanti, la Bellincioni e Stagno, che ave3 vano eseguito Cavalleria rusticana; anche sulla base di una formula naturalistica troppo cruda, Giordano è riuscito a mettere in luce le sue più sensibili qualità, specialmente nella vibrante e pietosa umanità con cui è sottolineata la dolorosa e desolata storia di Cristina. Mala vita ebbe buon esito anche a Vienna e a Berlino, ma a Napoli non piacque. Qui cadde anche l'opera successiva, Regina Diaz, rappresentata nel 1894, e il fiasco indusse Sonzogno a licenziare il compositore, il quale si trovò in serie difficoltà. Intervenne Franchetti, il quale persuase Sonzogno a provare le qualità del giovane musicista con una nuova opera che era stata offerta a lui e che Franchetti cedette generosamente al suo giovane collega. Trasferitosi a Milano, Giordana si mantenne in costante contatto con il librettista, che allora preparava pure il soggetto di Bohème per Puccini. Non senza difficoltà e contrasti con Illica, l'opera fu portata a compimento; ma Amintore Galli, che era consulente musicale di Sonzogno, la giudicò « irrapresentabile » e fece quindi in modo che fosse cancellata dal cartellone. L'intervento di Mascagni evitò questo guaio, ma sorsero altre difficoltà; il tenore A. Garulli, forse intimorito dal giudizio negativo del Galli, si rese irreperibile. Il Borgatti s'indusse a sostituirlo, e così, il 28 marzo 1896, Andrea Chénier veniva rappresentato trionfalmente alla Scala di Milano; e poi le voci dello stesso Borgatti, di Tamagno, di De Lucia, di Battistini e di Sammarco ne consolidarono il successo nei principali teatri d'Europa e d'America. E' stato detto che con l'Andrea Chénier Giordano ha creato l'opera tipo della Rivoluzione francese; tanto è vivo in questo melodramma il senso dell'atmosfera, a volte anche il senso cupamente tragico di quei tempi così torbidi e sanguinosi. Si veda, per esempio, con quale sobrietà e sicurezza di tocchi Giordano riesca, nel primo atto dell'opera, a suggerire il contrasto tra la brillante galanteria della festa settecentesca e il sinistro spettacolo di miseria che viene a turbare l'aristocratica adunanza; vivaci note ambientali cogliamo anche nel secondo atto, specialmente in quel ritmo cupo che accompagna il passaggio delle pattuglie; o nelle fosche note di colore che, nell'ultimo atto, evocano la desolazione del carcere di San Lazzaro, in cui il protagonista è chiuso nella imminenza del suo supplizio. Ma Giordano non era Mussorgsky; non aveva, come il musicista russo, quel potente sentimento corale, in cui passava, con tratti di 4 grande energia realistica, il pathos di vaste folle assorte nella preghiera o esultanti o agitate nell'impeto della ribellione. Tuttavia noi non diremo che il Nostro sia stato evasivo nella rappresentazione ambientale, giacchè se avesse operato qualcosa di diverso da quello che ha fatto avrebbe creato una sproporzione nell'economia del dramma. L'ambiente storico doveva necessariamente rimanere in un secondo piano, e infatti il compositore lo ha realizzato come sfondo, per isolarvi i due protagonisti, Chénier e Maddalena; giacchè questi configurano il nodo drammatico dell'opera, e nella loro vicenda, nella storia del loro amore contrastato e dei loro desideri inadempiuti doveva acuirsi la linea musicale del dramma. Quello che a Giordano importava soprattutto era di raggiungere un equilibrio, un rapporto vivo tra l'individuo e il mondo che lo circonda; e ci è riuscito, qui come altrove. E così egli si è preoccupato di graduare la evidenza dei singoli personaggi in relazione ai due protagonisti, nella cui passione vivevano gli elementi più intensi del suo romanticismo, il sentimento di un miraggio non mai raggiunto, di una salvezza o di una felicità intravista e non mai posseduta. Nell'anno stesso in cui fu rappresentato Chénier Giordano prese in moglie Olga Spatz, figlia del proprietario dell'Hotel Milan. Avendo ascoltato al Teatro Sannazaro, nell'interpretazione magistrale di Sarah Bernhardt, Fedora di Sardou, chiese a costui l'autorizzazione a musicare il dramma. La stessa concessione egli aveva chiesta al drammaturgo francese nel 1885, quando aveva solo 18 anni, e gli era stato risposto seccamente On verra plus tard. Fedora, rappresentata al Lirico di Milano nel 1898, interpreti la Bellincioni e Caruso, consolidò col suo successo la fama di Giordano e cominciò da allora il suo giro trionfale per i teatri del mondo. A Vienna fu diretta da Gustav Mahler, a cui piaceva particolarmente il primo atto. Il travaglio della passione amorosa costituisce senza dubbio la corda più sensibile dell'anima di Giordano; egli vive l'amore con passione immediata, senza complicazioni intellettuali, sentendolo come voluttà, come illusione suprema, purtroppo circoscritta entro un orizzonte che non riesce ad aprirsi. Ma, a differenza dalle creature pucciniane, che sembrano quasi tutte presaghe di una punizione imminente, della amara sorte che le attende, epperò hanno il cuore grave di una prematura tristezza, a differenza dalle creature pucciniane i personaggi di Giordano sono animati da una giovanile ansietà di esistere, da un intimo 5 fervore che li protende ansiosamente verso la vita. Perciò nella vicenda scenica la morte giunge sempre inattesa, come uno scacco improvviso del destino o come una subitanea determinazione della creatura umana che vede irrimediabilmente rovinate le sue speranze, svanite le illusioni su cui poggiavano unicamente le sue possibilità di vita. Sembrano esseri nati per gioire, e che a un tratto il fato sorprende e opprime inesorabilmente. Perciò è naturale che, all'inizio dell'azione scenica, essi figurino immersi in un'atmosfera di elegante seduzione o di lusso: Chénier e Maddalena nella luce sfarzosa di una festa aristocratica, Fedora in un salotto gentilizio, Stephana davanti alla graziosa palazzina donatale dal principe Alexis. In Fedora il rapporto tra ambiente e personaggio scenico è più stretto e costante; perchè protagonista dell'opera è una donna, la cui psicologia, la cui istintiva passionalità hanno il loro elemento naturale in quell'aria di mondanità raffinata che costituisce lo sfondo permanente dell'azione drammatica. Il compositore si è perfettamente reso conto di ciò, ed ha rivelato una singolare sapienza stilistica nel modo con cui ha introdotto e sviluppato la situazione iniziale. L'opera comincia con una introduzione orchestrale che enuncia il tema fervido dell'amore di Fedora. Dopo un breve intervallo arguto e brioso, in cui un cameriere e due staffieri parlano delle imminenti nozze di Vladimiro, ricordando la vita mondana e spensierata del loro padrone, affiora il tema di Vladimiro, un tema che ha qualcosa di ambiguamente dolce e seducente e che evoca, anche per mezzo di un linguaggio armonico ricercato, piuttosto insolito in Giordano, il senso di una raffinatezza voluttuosa e galante. Questo tema commenta, nell'orchestra, la curiosità ammirata con cui Fedora osserva il magnifico arredamento della casa di Vladimiro, e poi costituisce lo spunto iniziale dell'Aria che segue: O grandi occhi lucenti, fondendosi col tema dell'amore di Fedora. Originale modo con cui il Maestro dà senso poetico alle suggestioni offertegli da una vita così preziosa e signorile; ogni oggetto, ogni ninnolo suscita in Fedora vaghe emozioni, che si accordano a uno stato di sensualità raffinata. Il fascino dell'eleganza acquista così una intensità lieve, ma penetrante, che si esplica ampiamente nel secondo atto. Questo è certo tra le cose più riuscite e geniali che abbia scritto Giordano; qui l'abilità del mestiere e la felicità dell'invenzione collaborano perfettamente a realizzare un discorso vivo, fluido, pieno di bella evi6 denza. Tutto è dosato con precisione, direi proprio con bravura, e con un senso sicuro delle varie salienze sceniche o drammatiche. Senza dubbio il punto di maggior riuscita è costituito dal dialogo tra Fedora e Loris, e specialmente dal colloquio sommesso che i due intrecciano sul lento ritmo del Notturno che Lazinski suona al pianoforte. Due fatti diversi sono qui sincronizzati in moda che lo spettatore possa cogliere l'azione nel vivo della sua dinamica interna; giacchè la vaghezza idillica e un po' estatica del Notturno si rifrange sulla situazione dei protagonisti, riflettendo nelle sue dolci e morbide volute da un lato il fascino e la squisitezza sensuale di Fedora, dall'altro lo sgorgo di un sentimento nuovo nell'animo della donna, un sentimento di cui ella non ha ancora coscienza e che stranamente si mescola in lei al desiderio di vendicare l'amore perduto. Esempi di un'arte discretissima nell'impiego dei mezzi sonori e di un sapiente equilibrio tra orchestra e palcoscenico sono le scene successive, nelle quali il movimento drammatico del dialogo (particolarmente nel racconto che Loris ha dell'uccisione di Vladimiro) è articolato e graduato senza forzature, risolvendosi nella calda effusione lirica di due momenti contigui: l'Aria di Loris : Vedi, io piango, e la bellissima Romanza di Fedora: Lascia che pianga io sola. In tutta questa seconda parte dell'atto ricorrono echi o riprese di temi già apparsi nell'atto precedente; in particolar modo significativo l'accostamento, che già notammo a proposito dell'Aria: O grandi occhi lucenti, del tema di Vladimiro e di quello dell'amore di Fedora. L'orchestra riprende i due temi mentre Fedora scorre le lettere che le danno la prova dell'infedeltà di Vladimiro. Però notate: questa volta nella voce della donna affiora appena qualche debole eco delle melodie; ciò indica il suo distacco definitivo dal passato, a cui ormai nessuna cosa potrà più ricongiungerla. Solo l'orchestra, con le sue riprese insistenti, sembra evocare l'ombra dolorosa di una illusione caduta, di un ingannevole sogno a cui Fedora non crede più. Il terzo atto si svolge nella villa di Fedora, nell'Oberland svizzero; la suggestione del paesaggio alpestre è data da una melodia giuliva suonata da un corno e ripresa dall'orchestra. Un quadro dai coloriti lievi e teneri, a cui si accorda il chiaro timbro delle voci di soprano e di contralto che intonano un breve coro festoso. Tutte note gradevoli e armoniose, che evocano un senso di dolcezza idillica, inquadrando la nuova situa7 zione della protagonista; sembra che la vita sia ricominciata per lei, come la vita della natura che si risveglia dopo il letargo invernale. Qualcosa di tenero assume, in questa temperie, anche la leggerezza frivola di Olga, nel cui canto (Sempre lo stesso verde) si avvertono sfumature di affettuosa elegia. Senza dubbio Giordano ha voluto dare una fisionomia particolare a questa prima parte dell'atto, quasi per creare un elemento di contrasto con la seconda parte, in cui la tragedia è avviata al suo epilogo attraverso un discorso incisivo e a volte serrato, malgrado qualche tratto ingenuo, dove il particolare è ridotto alla sua dimensione realistica. Il movimento drammatico procede per lo più a blocchi, collegati spesso tra loro da riprese tematiche, con le quali il Maestro tende a porre un legame tra i vari momenti dell'azione e a renderli più significanti. Un richiamo pieno di forza emotiva è quello che segue la scena in cui Loris apprende la notizia della morte di sua madre e di suo fratello. Egli non sa ancora che causa di quella duplice morte è stata Fedora; ma la donna sa bene che oramai per lei ogni sforzo è vano, vano l'accanimento con cui finora era tesa a proteggere il suo sogno. Torna a questo punto la dolcissima melodia del canto: Lascia che pianga io sola: otto battute soltanto, perduta nostalgia di un amore, di un legame irrimediabilmente spezzato. Nel 1903 ebbe luogo la prima rappresentazione, alla Scala, di Siberia, che Sonzogno poi portò a Parigi, dove ebbe lusinghieri riconoscimenti da parte di Bruneau, Fauré e Lalo. E a titolo di curiosità diremo che proprio dell'opera Siberia è l'unico brano di opera italiana citato come esempio da Charles Marie Widor nel suo supplemento (Technique de l'orchestre moderne, 1904) al Trattato d'istrumentazione di Berlioz. Siberia ha senza dubbio pregi meno appariscenti nei confronti di Andrea Chénier e di Fedora; di qui la diversa fortuna che l'ha accompagnata finora e che autorizza a credere che quest'opera non debba porsi allo stesso livello degli altri due capolavori giordaniani. Ma, oltre a rivelare la presenza di una più esigente cura formale, di una più esperta tecnica, sia nell'armonia che nel contrappunto e nella strumentazione, Siberia contiene elementi di riuscita lirico-drammatica così penetranti da persuaderci che il declassarla senz'altro sarebbe una vera e propria ingiustizia. Ben è vero che, in un'opera a cui prendono parte numerosi personaggi e in cui spesso prevale l'urto di passioni concitate o esasperate, non sempre era facile evitare i pe8 ricoli di una effusione troppo immediata o disordinata; e infatti bisogna riconoscere che più di una volta l'impegno « veristico » ha appesantito la pagina. Ma certi scadimenti momentanei, certe ineguaglianze temporanee non valgono a turbare l'equilibrio dell'insieme, quella unità stilistica in cui è sopratutto la garanzia della riuscita drammatico-musicale. Il tema dominante del dramma, impostato su un sentimento tormentoso dell'amore, di un amore che implica la coscienza del peccato e quindi il desiderio di una purificazione morale, era diventato piuttosto comune nel romanticismo, e aveva ispirato, salvo rare eccezioni, tanta cattiva letteratura, la cui efficacia si affidava per lo più alle suggestioni di un falso umanitarismo e di un falso misticismo. Sarebbe stato facile, quindi, su questo piano, cadere nelle forme più abusate e convenzionali di una retorica sentimentalistica. Ma è certo che la realizzazione di un rinsaldamento stilistico del tutto fedele alla spontaneità della sua maniera originaria ha consentito a Giordano dei risultati di una dimensione esatta, una elasticità e resistenza di frase che gli ha impedito un eccessivo abbandono, e quindi un intenerimento eccessivo di fronte alla umiliata condizione dei suoi personaggi. Il nodo drammatico è l'amore di Vassili e Stephana : una allucinante attrazione sensuale che è come un turbine impetuoso in cui i due personaggi sono presi e sono come sommersi e confusi, quasi a formare una sola individualità. Nel primo atto infatti non riusciamo a cogliere elementi che valgano a formare una discriminazione tra i due amanti. E a me pare che in questo modo il compositore abbia appagato una sua esigenza costruttiva, al fine di graduare l'azione drammatica e di dare un adeguato rilievo agli atti successivi, e specialmente al secondo atto in cui, dall'intimo crescendo della passione e della coscienza della colpa, emerge in Stephana il desiderio di redenzione e di purificazione. La ragione della maggior riuscita del secondo atto nei confronti degli altri due è proprio nel fatto che qui convergono i motivi più intensi della tragedia: il tema della passione amorosa, a cui si intreccia il senso cupo, squallido della pena alla quale sono condannati i forzati in Siberia (particolarmente nel doloroso canto di Vassili : O r r i d e s t e p p e e nelle note vibranti dell'Intermezzo) e l'aspirazione della donna a riscattare gli errori della sua vita precedente (E' q u i c o n t e i l m i o d e s t i n ) . P o 9 trebbe osservarsi che questa differenza di qualità e di intensità tra il secondo atto e gli altri due crea un certo squilibrio nell'interno dell'opera; ma in realtà non si tratta di uno squilibrio, giacchè il secondo atto non altera minimamente l'omogeneità dell'opera, di cui anzi si potrebbe quasi considerare il centro di gravitazione. Esso infatti ha molteplici legami col primo e specialmente col terzo atto (si pensi con quale delicatezza di sfumature sia trasfigurato il desiderio di redenzione morale di Stephana nelle pagine che sottolineano l'avvento della Pasqua) ; e questo concatenamento di motivi implica una precisa funzionalità drammatica, escludendo il sospetto di una ispirazione disorganica e frammentaria. Nella serena pace di villa Fedora, che il Maestro aveva acquistato a Baveno, sul Lago Maggiore, nascevano altre opere Marcella (1907) patetica storia dell'infelice amore tra un principe russo e una ragazza di cabaret; Mese mariano (1909) e Madame Sans-Gêne (1915). Sembra che sia stato Verdi, in uno dei suoi colloqui con Giordano svoltisi nell'Hotel Milan a suggerire al Nostro il soggetto di Madame Sans-Gêne. Avendo Giordano accennato alla difficoltà di far cantare sulla scena la figura di Napoleone, il vecchio maestro replicò che quella difficoltà poteva valere per un Napoleone in divisa e con la mano sul petto, ma un Napoleone in pantofole poteva benissimo cantare in un'opera lirica, tanto più che nè lui Giordano nè il pubblico avevano mai visto Napoleone. Ogni perplessità fu poi superata, dopo che Giordano ebbe modo di assistere a una recita parigina della commedia di Sardou e Moreau; così decise di mettere in musica Madame Sans-Gêne, lasciando interrotta la composizione di un altro lavoro, La festa del Nilo, di cui aveva già abbozzato il primo atto. Gli ultimi lavori, La cena delle beffe e Il re, rappresentati rispettivamente nel 1924 e nel 1929 sotto la direzione di Toscanini, ebbero buona accoglienza sia dal pubblico che dalla critica, ma hanno dimostrato una vitalità piuttosto scarsa in relazione alle opere precedenti. Al fine di rendere più semplici e chiare le partiture musicali, Giordano ideò un sistema di notazione che consentisse di notare tutte le parti orchestrali nelle sole due chiavi di violino e di basso, più comunemente conosciute. Adottando questo sistema, che fu approvato nel Congresso Musicale Didattico Internazionale del 1908, egli curò la ristampa, presso l'editore Ricordi, delle nove Sinfonie di Beethoven. Negli ultimi anni visse 10 piuttosto appartato, comparendo di rado in pubblico, e per lo più in occasione della ripresa di qualche sua opera; poco prima di morire, celebrò a Bergamo con un commosso discorso la figura di Gaetano Donizetti. Si spense a Milano il 12 nov. 1948. Nella impostazione della struttura operistica, Giordano si è attenuto in genere ai criteri prevalsi nell'ambito della estetica verista; criteri che del resto rientravano nella linea della nostra tradizione, dopo le mirabili conquiste dell'ultima produzione verdiana. Una articolazione drammatica fondata sulla successione di zone liriche diverse, ma senza soluzione di continuità, doveva apparire la più naturale ed elastica; capace di una realistica funzionalità, doveva consentire di dare allo svolgimento musicale una chiarezza di contorni e di volumi, oltre a conferire l'opportuno rilievo ai momenti di canto spiegato. Nel quadro di questa struttura equilibrata e serrata, Giordano ha inserito e graduato le varie situazioni sceniche propostegli dai suoi librettisti, modulando con attento scrupolo il suo lirismo ora idillico, ora elegiaco, ora concitato, dosando con bravura i suoi slanci drammatici; di qui l'impressione di organicità che danno le sue opere, anche a dispetto di qualche momentaneo squilibrio. Non sarebbe quindi giusto asserire che Giordano fosse semplicemente un melodista; un intuito sicuro, una vivace sensibilità teatrale lo inducevano alla ricerca di una coerenza architettonica, a contemperare la linea melodica col declamato, gli effetti orchestrali di puro accompagnamento con quelli evocativi e allusivi. Le sue opere rivelano pertanto una singolare unità di concezione, accanto a una singolare flessibilità di scrittura, che nasce da una sensibilità attenta a cogliere con vigile amore le varie inflessioni sceniche, le varie sfumature interiori del personaggio drammatico. Questo a me sembra un sostanziale elemento di valutazione critica. Giacchè è ben vero che, per quanto riguarda il suo linguaggio melodico, Giordano si attenne alla poetica verista, la quale postulava una forma di linguaggio semplice, lontano dalla inconsistenza e dalle preziosità auliche del romanticismo cadente, e vicino alle forme del linguaggio popolare, ricco di concretezza e capace di mettere a fuoco le cose. Ma è anche vero che egli per lo più rifiutò quelle soluzioni troppo facili di cui a volte si contentarono Mascagni e Leoncavallo ; perchè assai vivo fu in lui il gusto della verità, e sempre attiva la forza stimolante del reale, al cui contatto egli sentiva crescere la sua carica sensitiva. Il suo realismo po11 trebbe definirsi realismo meditativo, in quanto implica un grado di attenzione, una coscienza animata da un travaglio fecondo e mirante a cogliere la logica interna del dramma. Perciò egli riuscì spesso a vincere lo schematismo e a salvarsi dalla monotonia, variando continuamente le inflessioni del suo linguaggio, senza mai snaturare se stesso, senza attenuare la forza espansiva del suo lirismo. Andrea Chénier, Fedora e Siberia sono, tra le opere giordaniane, le più celebrate e le più eseguite, ma non sono, in realtà, l'unico polo di attrazione dell'arte del Nostro. Qui egli ha dato vita poetica al dramma della passione amorosa e del sacrificio per amore, giungendo a una lucida delineazione delle figure femminili, specialmente attraverso un melodiare fervido, dalle larghe volute che anche nei toni più dolenti si espandono in risonanze pensose. Ma già queste opere, nella diversità molteplice dei personaggi che le distingue, contenevano in germe gli sviluppi futuri, la possibilità, per il musicista, di estendere la sua attività creativa su un maggior numero di registri spirituali. Difatti le opere successive dovevano rappresentare le varie fasi di questo dispiegarsi dell'indole giordaniana. Quelle forme di lirismo idillico ed elegiaco che abbiamo visto affiorare in alcuni tratti della partitura di Fedora assumeranno sfumature più delicate e sensibili in Marcella, nelle patetiche scene di Mese mariano, il dramma silenzioso dell'amore materno. Quel gioco di mezze tinte, che già avvertimmo in alcune scene di ambiente mondano di Chénier e di Fedora, si assottiglierà in movenze più argute e lievitanti nelle pagine di Madame Sans-Gêne; il gusto quotidiano della storia con cui Sardou aveva ridotto a proporzioni normali, direi quasi domestiche, la figura epica di Napoleone consentì senza dubbio a Giordano la possibilità di una tessitura fluida e leggera, di una scrittura fine, penetrante, gradevolmente volubile. Madame Sans-Gêne rappresenta forse il momento più interessante della evoluzione stilistica di Giordano, per la sapiente dosatura dei toni comici, patetici ed umoristici, per il sottile gusto timbrico-orchestrale, che non ha tolto nulla alla spontaneità dell'espressione, specialmente nelle due figure della lavandaia e del sergente i quali, col loro linguaggio schietto, portano una nota di freschezza e di simpatia nel clima ipocrita e corrotto della corte imperiale. VINCENZO TERENZIO 12 Il piano di coordinamento e la Capitanata Le prospettive di sviluppo economico della Provincia di Foggia, desunte dal Piano di coordinamento degli interventi pubblici del Mezzogiorno, vanno considerate partendo da un pur sommario esame della realtà ereditata dai Governi democratici e modificata dalle trasformazioni successivamente intervenute. Già la politica autarchica aveva impedito all'economia italiana di adeguare le sue strutture e i suoi indirizzi produttivi alla libera evoluzione tecnologica ed alle esigenze di mercato, sicché tali strozzature determinavano un anormale assetto, che ha reso ancora piú difficoltosa la necessaria ripresa. Le vicende belliche, poi, che richiedevano, e in quel contesto, la soluzione di problemi di emergenza, utilizzando le difettose risorse disponibili, maggiormente aggravavano la situazione, ritardando ogni razionale progresso. Inoltre le pressanti esigenze dell'immediato dopoguerra imponevano il soddisfacimento di bisogni urgenti ed immediati ed ogni iniziativa produttiva veniva indirizzata a fronteggiare tali incalzanti necessità. Infine l'assillo di creare nuovi posti di lavoro e di favorire l'espansione dell'economia portava ad assecondare iniziative in località ristrette, senza seguire altro criterio se non quello economicistico del minor costo possibile. D'altra parte il progresso tecnologico rendeva piú spedito lo sviluppo del settore industriale, richiamando sempre un numero maggiore di lavoratori dal settore agricolo, accentuando gli squilibri in atto. Questa rapida crescita, realizzatasi senza un razionale programma, portava ad aggravare quel dualismo economico che caratterizza la società italiana, accentuando il sottosviluppo meridionale nei confronti del progredito settentrione e creando nuovi problemi nel Mezzogiorno e nel settore agricolo. 13 Questa situazione anomala postulava un razionale riordino per instaurare una economia moderna degna di una civile società. Intensi studi ed esperienze collaudate hanno suggerito un metodo preciso per affrontare il problema di uno sviluppo equilibrato dell'economia italiana. Pertanto è stata scartata la soluzione di una pianificazione rigida e centralizzata che riservasse il potere decisionale produttivo unicamente al settore pubblico, eliminando cosí il tradizionale regolatore economico rappresentato dal mercato. E questa esclusione oltre tutto è stata consigliata anche dal fallimento dell'esperienza fatta dai Paesi totalitari di tipo marxista, che, sia pure con molta cautela, stanno progressivamente ritornando ad un aggiornato sistema di economia di mercato. Il modello di sviluppo scelto in Italia tende a creare un meccanismo autopropulsivo che si muova in una economia di mercato, integrata e corretta dall'intervento diretto ed indiretto dello Stato. E' stato cosí concepito un programma di sviluppo che assegni al settore pubblico compiti vincolanti sia per creare le indispensabili infrastrutture capaci di favorire l'azione privata sia per realizzare interventi diretti nella carenza di ogni altra iniziativa. Caratteristiche e finalità del Piano Solo alla luce di queste premesse è possibile correttamente esaminare il Piano di coordinamento per rilevare le sue caratteristiche e l'effettiva incidenza nello sviluppo della nostra Provincia. « Il Piano pluriennale di coordinamento degli interventi pubblici nel Mezzogiorno costituisce lo strumento fondamentale per dare organicità e unitarietà all'intervento pubblico diretto a trasformare la struttura produttiva e le condizioni sociali del Meridione, al fine di conseguire una piena ed organica integrazione delle regioni meridionali nel processo di sviluppo del Paese. « La legge 26 giugno 1965, n. 717, assegna infatti al Piano di coordinamento la funzione di realizzare, in attuazione delle scelte e delle direttive del programma di sviluppo economico nazionale e sulla base anche dei piani regionali, una razionale ed efficiente organizzazione di tutti gli interventi delle amministrazioni pubbliche rivolte a promuovere ed agevolare la localizzazione e l'espansione delle attività produttive e di quelle a carattere sociale nei territori meridionali. « Il piano di coordinamento, pertanto, organizza nel disegno unitario interventi e competenze in modo che non interferiscano reciprocamente e non si sovrappongano ma si integrino vicendevolmente; a tal fine orienta gli interventi straordinari in relazione a quelli ordinari, tenendo conto, in una visione unitaria e globale della economia di entrambe, sia nell'ambito di ciascun settore di intervento, sia in rapporto alle relazioni intersettoriali ». Questa è la finalità del Piano come viene precisata nel documento e che serve ad orientare ogni osservatore per intendere la caratteristica essenziale del metodo di sviluppo previsto dal Piano stesso. 14 Da esso scaturisce il carattere vincolante per le amministrazioni pubbliche che, secondo le rispettive competenze, debbono predisporre i provvedimenti necessari per attuare o favorire i previsti investimenti produttivi. Resta, pertanto, fuori da vincoli diretti l'azione privata, la quale, peraltro, viene condizionata dalle agevolazioni statali concesse solo a chi adegua la sua condotta alle direttive fondamentali del Piano. Giova a questo punto sottolineare che gli investimenti per un adeguato sviluppo anche della nostra Provincia non verranno effettuati unicamente dalla mano pubblica, ma anche e particolarmente dalla iniziativa imprenditoriale dei privati, spronati a realizzare le linee programmate dai predisposti incentivi. Quindi l'esame deve essere globalmente rivolto anche alle agevolazioni che le leggi speciali e quelle ordinarie prevedono per spronare le iniziative dei privati, le quali dovranno necessariamente muoversi nel contesto logico previsto appunto dal Piano e nel solco degli obiettivi prospettati. Gli obiettivi del Piano Intanto occorre cogliere i criteri posti a base degli interventi pubblici diretti ed indiretti: essi hanno un carattere produttivistico in quanto tendono all'accrescimento della produttività del reddito e dell'occupazione. " Il raggiungimento di tali obiettivi presuppone, in primo luogo, una accelerata espansione delle attività industriali ad un saggio di aumento della produttività che sia piú elevato di quello fissato per l'industria delle regioni centro-settentrionali. " L'espansione dell'intera struttura industriale non può, però, assicurare da sola il conseguimento degli obiettivi fissati dal programma di sviluppo economico nazionale. E' necessario a tal fine, una organica crescita degli altri settori produttivi: in primo luogo dell'agricoltura che è ancora una componente importante dell'economia meridionale e allo stato attuale presenta risorse non impiegate al livello di pieno rendimento. " Il programma riconosce, poi, una particolare capacità propulsiva al turismo per l'esistenza nel Mezzogiorno di peculiari risorse ". Quindi il piano prevede degli investimenti selettivi tenendo presente le risorse locali per operare una terapia celere e determinante nella crescita del Mezzogiorno e di particolari zone dotate di speciali suscettività. Questi criteri, però, non comportano l'abbandono di territori, privi di specifiche attitudini per un rapido sviluppo, ma, prevedono l'intervento ordinario per realizzare un assetto rispondente alle particolari caratteristiche delle zone stesse. In sostanza, ad una crescita accelerata ed intensiva con un aumento produttivistico rapido ed un incremento cospicuo della occupazione in territori ad alta suscettività, corrisponde, ma con diverso ritmo nelle zone a risorse limitate, un pur apprezzabile sviluppo caratterizzato da particolari attitudini ambientali. 15 Criteri di intervento Tenendo presente queste indicazioni di natura generale il Piano stabilisce i criteri per il coordinamento degli interventi nei singoli settori operativi: infrastrutture, agricoltura, industria, turismo, progresso tecnico e sviluppo civile, artigianato e pesca, territori caratterizzati da particolare depressione. Naturalmente si tratta di una determinazione e specificazione dei criteri generali cui si ispirerà l'attività pubblica di produzione e di sviluppo. 1) Come criterio fondamentale per tutte le infrastrutture di carattere generale, la localizzazione delle opere, il loro grado di funzionamento, l'organicità in cui si pongono rispetto alle esigenze locali, vengono commisurati alla destinazione delle singole aree del territorio interessato. In questa prospettiva è data priorità: a) alle infrastrutture di comunicazione (porti, aereoporti, viabilità primaria e minore, ferrovie); b) all'approvvigionamento idrico di zone particolarmente carenti, ed ai servizi civili; c) alla conservazione del suolo (opere idrauliche e rimboschimenti) . Particolare importanza viene assegnata alla viabilità primaria che deve avere funzione di stimolo e appoggio all'espansione territoriale dei processi di sviluppo. 2) L'intervento pubblico per lo sviluppo dell'agricoltura, quale componente fondamentale dell'economia meridionale, è finalizzato al conseguimento di piú elevati livelli di produttività. L'obiettivo è quello di agevolare lo sviluppo dei settori produttivi piú rispondenti alle caratteristiche dell'agricoltura locale e all'evoluzione della domanda interna ed internazionale; l'orticoltura, la frutticoltura, la vitiolivicoltura e la zootecnia rappresentano i settori di maggiore attenzione. In questo quadro vengono, in concreto, favoriti: l'estendimento della irrigazione; la sostituzione e l'aggiornamento di alcune culture tradizionali; la realizzazione di infrastrutture di conservazione, trasformazione e commercializzazione che consentano alle imprese agricole di acquisire, anche attraverso piú adeguati rapporti con i settori industriali e quello distributivo, una maggiore quota del valore aggiunto alla produzione agricola-alimentare; la realizzazione di infrastrutture strettamente finalizzate ad un piú intenso sviluppo dell'agricoltura e al miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni rurali. Nelle connesse zone irrigue e di valorizzazione la Cassa per il Mezzogiorno ha il compito di operare nel settore delle opere pubbliche di bonifica e di irrigazione, dei miglioramenti fondiari e delle dotazioni aziendali, in quello degli impianti di trasformazione, commercializzazione e conservazione dei prodotti agricoli, e, dentro certi limiti, in quelli della divulgazione tecnica e della sperimentazione. Nei territori esterni ai comprensori irrigui e di valorizzazione connessi, è prevista l'azione del Ministero dell'Agricoltura che farà leva 16 soprattutto sul provvedimento per lo sviluppo dell'agricoltura nel quinquennio 1966-1970 (2° Piano Verde). Intanto le linee di sviluppo dell'agricoltura dauna si adeguano già agli indirizzi preconizzati e perseguiti dal Piano nazionale. L'investimento di base che mira ad accrescere la produttività e ad aumentare l'occupazione, è rappresentato dai noti invasi di Occhito e dell'Ofanto. L'utilizzazione inoltre delle falde freatiche ed artesiane ha già permesso l'irrigazione di una superficie di circa 36.000 Ha, con impianti irrigui prevalentemente mobili. Con i complessi dell'Ofanto e del Fortore la superficie nominata si aggirerà sui 10.000 Ha con circa 100.000 ettari effettivamente irrigati. Tale cospicua potenzialità potrà ancora essere accresciuta con le sorgenti carsiche, i laghetti collinari, il complesso del Carapelle ed altre iniziative minori, il tutto già tecnicamente rilevato e suscettibile di proficua utilizzazione. Questo poderoso moltiplicatore produttivo consente l'aggiornamento delle culture, l'introduzione di nuovi indirizzi produttivi e l'adeguamento della strutturazione agricola in riferimento alle richieste del mercato comunitario, d'altra parte, già interpretate dal Piano di sviluppo nazionale. La produzione ortofrutticola si va allargando su tutto il Tavoliere (carciofo, peperone, mellone, insalata, patate, cavolo, cavolfiore, sedano, finocchio, broccoletti, cipolla, aglio ecc. e per quanto riguarda la frutti coltura: agrumi, pesche, pere, mele, uva da tavola, mandorlo e olivo); e cosí pure le colture industriali, quali il pomodoro e la barbabietola, vanno imponendosi progressivamente. Inoltre le economie esterne delle aziende agricole, dirette a valorizzare i prodotti ortofrutticoli, vanno realizzandosi: cantine sociali, di cui già 17 costruite, l'impianto vinicolo di interesse nazionale, finanziato e localizzato in S. Severo, centrali ortofrutticole, caseifici, oleifici sociali e privati, zuccherifici ecc. testimoniano l'ammodernamento del settore, anche nell'intento di acquisire una maggiore quota di reddito a favore dei produttori agricoli. Peraltro un'interessante tendenza va affermandosi nel settore degli allevamenti, anche se il Piano di sviluppo non contempla tale comparto come protagonista nel contesto dello sviluppo agricolo meridionale. Siamo dell'opinione che difficilmente si potrà avere un'inversione specialmente allorché le foraggere potranno beneficiare della irrigazione e le zone montane e di alta collina saranno restituite alla loro naturale e specializzata vocazione silvo-pastorale. L'incremento numerico degli allevamenti bovino e ovino ed il miglioramento qualitativo delle razze introdotte rappresentano un indice significativo, che occorrerà riconsiderare nella stesura del successivo secondo Piano di sviluppo. La crescita civile, umana e professionale degli imprenditori agricoli si va concretando nella realizzazione dei servizi civili nelle campagne, nelle sempre piú numerose iniziative per diffondere la prepara 17 zione e qualificazione professionale e l'assistenza tecnica e nella intensificazione ed ampliamento dell'azione previdenziale ed assistenziale nel settore sanitario, ormai prossimo a trasformarsi in sicurezza sociale. Il quadro, sia pure sommario, delle realizzazioni in corso e le nitide prospettive indicano i contorni sempre piú concreti e visibili di un effettivo progresso del settore agricolo in consonanza con le indicazioni del Piano di sviluppo. 3) Passando ad esaminare le possibilità del settore industriale si rileva che una accelerata espansione della sua struttura per il superamento dello squilibrio economico tra Nord e Sud richiede la promozione di quei comparti produttivi caratterizzati da un'azione dinamica della domanda e della produttività. Tale condizione sarà assicurata solo mediante l'introduzione di metodi di produzione e di organizzazione piú progrediti. Da questa esigenza per lo sviluppo industriale meridionale scaturiscono i criteri del coordinamento della politica di industrializzazione del Sud in quanto attiene alla tipologia ed alla localizzazione della attività industriale. a) La tipologia delle industrie deve rispondere alle esigenze di integrazione delle attività produttive locali, di mobilitazione delle relative risorse e di realizzazione di innovazioni strutturali, tecniche e organizzative. Nella nuova fase dell'espansione industriale, l'innovazione produttiva e tecnologica, è destinata a diventare un fattore di sviluppo sempre piú importante. Pertanto, « perché il Mezzogiorno non perda terreno rispetto al resto del Paese, è necessario che l'industria meridionale si sviluppi in senso spiccatamente innovativo. Infatti, anche negli altri Paesi, le regioni sottosviluppate sono riuscite ad avvicinarsi alle regioni di tradizionale concentrazione industriale, soltanto quando è aumentata l'incidenza di industrie di tipo nuovo, caratterizzate da condizioni dinamiche di domanda e da intenso progresso tecnologico ». b) Anche la localizzazione delle attività industriali deve rispondere ai criteri di un razionale sviluppo. Gli interventi della politica di industrializzazione, per quel che concerne la ubicazione delle iniziative, sono perciò diretti a favorire: 1) la concentrazione territoriale, in un numero limitato di aree e nuclei industriali, delle iniziative industriali che esigono una notevole dotazione di infrastrutture, e sono legate ad altre industrie da complessi legami interindustriali. Questa distribuzione territoriale degli interventi costituisce una precisa condizione per lo sviluppo industriale del Mezzogiorno; 2) la diffusione nel territorio di iniziative industriali che non richiedono notevoli dotazioni infrastrutturali e non presentano legami interindustriali tali da consigliarne l'agglomerazione. Si tratta prevalentemente di industrie utilizzanti prodotti agricoli, materie prime e mano d'opera locali, e che dipendono in misura non marcata dalla prossimità di altre industrie. Come rispondenti maggiormente alle esigenze sopra indicate, il Piano indica i seguenti settori: industria meccanica, industria chimica, industria alimentare di tipo moderno. 18 L'azione pubblica rivolta all'industrializzazione del Mezzogiorno sulla base dei criteri e delle priorità enunciati, si avvale di interventi diretti (investimenti delle aziende a partecipazione statale, partecipazione a società finanziarie di sviluppo, coordinata predisposizione delle infrastrutture specifiche e dei servizi necessari per gli insediamenti industriali, servizi dei consorzi per le aree ed in nuclei di industrializzazione) e interventi indiretti (incentivi finanziari, agevolazioni ed esenzioni tributarie, ecc.). Queste indicazioni sono espressamente valide per la nostra Capitanata. Del resto il precorso andamento industriale della nostra Provincia, che, è bene precisare, si è pur venuto svolgendo anche se in misura e ritmo ridotto, conferma che già per il passato si è mosso in maniera conforme, sicché il tipo di industria affermatosi ha obbedito alla esigenza di integrare le attività produttive locali, pur se, per difetto di capitali, ha presentato modeste dimensioni e non è riuscito peraltro ad utilizzare che limitatamente le risorse locali. L'industria agricolo-manifatturiera, quella estrattivo-manifatturiera ed, infine, quella poligrafica hanno iniziato un processo di sviluppo, però con ripercussioni non rilevanti, ma potenzialmente suscettibili di larga espansione sol che fossero state assecondate. E la sua caratteristica prevalente sarebbe consistita in una industria agricolo-manufatturiera solida e diffusa, come certamente andrà a realizzarsi sotto la spinta dell'intervento diretto ed indiretto dello Stato. Ma il rinvenimento di una importante risorsa, quale il metano, apre l'ingresso anche all'industria chimica, sicché i tre grandi gruppi dell'industria manifatturiera troveranno notevoli espressioni nella nostra Provincia con vicendevole e proficua influenza. Cosí le annunziate iniziative industriali di una certa consistenza da parte dell'ENI, della SNIA-VISCOSA e della FIAT dovrebbero dare l'abbrivio a questa nuova componente, che oltre ad un assolvimento occupazionale non trascurabile, assicura l'avvento di un imprevisto allargamento delle prospettive di sviluppo. La costituzione dell'Area Industriale in Capitanata ha lo scopo di concorrere a risolvere il fondamentale problema dell'affluenza di capitali e delle capacità imprenditoriali, creando favorevoli occasioni di investimenti. E la previsione vale per tutte le suscettività industriali offerte dalle risorse locali: alimentari, meccaniche, chimiche ed estrattive nella loro caratteristica manifatturiera. Trattasi di solide premesse di un sicuro fermento operativo. 4) Particolare rilievo assume nel quadro di sviluppo del Mezzogiorno il turismo per il suo dinamismo e per gli effetti economici diretti ed indiretti. In relazione a ciò: « l'intervento pubblico nel Mezzogiorno nel settore turistico, nel periodo di validità del piano di coordinamento, avrà come principale obiettivo sia la riduzione dello squilibrio ancora esistente nelle attrezzature alberghiere ed extra-alberghiere rispetto alle 19 regioni settentrionali, sia la salvaguardia dei fondamentali valori del paesaggio naturale e del ricco patrimonio archeologico, storico ed artistico ». Nell'ambito dei comprensori di sviluppo, particolare incentivazione è prevista per l'attività turistica, agevolazioni creditizie per la realizzazione di iniziative alberghiere ed extra alberghiere sono previste nei territori meridionali fuori dei comprensori di sviluppo. Anche in questo importante settore la nostra Provincia è stata prescelta come fattore propulsivo per la sua particolare suscettività. Occorre subito rilevare che se la classificazione del Gargano in comprensorio turistico rappresenta l'impulso principale per lo sviluppo delle attività terziarie, questo però non esclude che località, parimenti idonee, sebbene fuori comprensorio, possano concorrere ad arricchire ed allargare le possibilità turistiche. Basti rifarsi ad alcune zone del Subappennino dauno per ritenere abbastanza fondate tali prospettive. Indubbiamente, però, e per chiari e concreti segni, l'indicazione del Gargano come fulcro portante dello sviluppo turistico è dimostrata dalle opere già realizzate che assumono una caratterizzazione evidente e significativa. Già prima di ogni sistematico intervento statale il Gargano è stato « scoperto » dall'industria alberghiera privata, cui si è unita recentemente anche l'iniziativa pubblica. I dati confortano tale indicazione: circa il 62% degli esercizi alberghieri della Provincia si trovano nel Gargano con 3 alberghi di 1a categoria, con 5 alberghi di 2a categoria, con 9 alberghi di 3a categoria e ben 24 alberghi di 4a categoria ed infine 70 locande. Inoltre si registrano 9 campeggi con 3.548 postiletto e 5 villaggi turistici con 2.740 posti-letto. In sintesi, già attualmente nel Promontorio Garganico la potenzialità ricettiva si concreta in circa 10 mila posti-letto, sicché in un arco di tempo di solo sette anni vi è stato un incremento del 27%. Questa è l'indicazione piú sintomatica della capacità turistica del Gargano e della tendenza univoca degli utenti: premesse queste che possono assicurare un sicuro sviluppo in questa zona, mentre notevoli iniziative di operatori privati, in corso di realizzazione, confermano tale previsione. Intanto la Cassa per il Mezzogiorno va allestendo il piano comprensoriale per la creazione delle infrastrutture che consentiranno un razionale insediamento delle opere e degli esercizi pubblici e privati, con il rigoroso rispetto delle esigenze urbanistiche e delle peculiari caratteristiche del paesaggio. Le ripercussioni locali che potranno ottenersi da tali investimenti, sono intuibili in riferimento sia all'occupazione operaia, sia alla ripresa di una tipica produzione artigiana, sia ad una intensificazione degli scambi sia ad una selezionata produzione agricola che intenda provvedere a forniture alimentari qualificate. 5) Per il progresso tecnico e lo sviluppo civile particolari interventi sono previsti nei settori della scuola, della formazione professionale, 20 della ricerca scientifica, dell'assistenza tecnica, delle attività sociali ed educative, che, nella nostra Provincia, col potenziamento delle realizzazioni già effettuate, attendono nuovo impulso dai diversi dicasteri competenti. 6) Nei territori caratterizzati da particolare depressione, ossia quei territori interni, collinari e sub-montani dove piú accentuati sono i sintomi di sottosviluppo economico e sociale e che non sono immediatamente influenzati dagli effetti delle grandi aree di sviluppi, gli interventi faranno perno sull'agricoltura come settore di attività dominante e determinante la depressione. E' in questo settore l'obiettivo da raggiungere, per la migliore combinazione dei fattori produttivi al fine di ottenere un piú alto grado di produttività dei fattori stessi. In questo senso si pongono tre ordini di problemi: - ridimensionamento del carico demografico nei limiti imposti dalle risorse locali; - riordinamento delle strutture aziendali e relativi rapporti di produzione; - la localizzazione delle culture e delle attività produttive con riguardo alle suscettività dei terreni e alla disponibilità di risorse di altro genere (finanziarie, idriche, di mano d'opera, di energia). Nel contesto di questa azione generale di intervento nei territori sottosviluppati, il Piano prevede che la Cassa, oltre ad opere di potenziamento ed ammodernamento dei servizi civili (acquedotti, fognature, scuole, servizi sociali, ecc.) realizzi - di intesa con le amministrazioni statali e regionali interessate - programmi di intervento nei settori della agricoltura (impianti lattiero-caseari), dell'artigianato e del turismo. Nella nostra provincia sono stati individuati due territori particolarmente depressi. Il primo è composto dai Comuni di: Accadia, Anzano, Monteleone di Puglia, Panni, S. Agata di Puglia, Rocchetta S. Antonio, Orsara di Puglia, Bovino e Deliceto. Il secondo territorio comprende: Alberona, Castelluccio Valmaggiore, Celle S. Vito, Faeto, Motta Montecorvino, Pietra Montecorvino, Biccari, Casalnuovo Monterotaro, Roseto Valfortore, S. Marco la Catola, Carlantino, Celenza Valfortore, Volturara Appula e Volturino. Cosí pure le zone meno fortunate della nostra Provincia potranno contare su interventi connaturati alla loro particolare situazione ed adatti per una azione promozionale permanente. Il quadro organico, che scaturisce dalle prospettive di sviluppo della Capitanata, indica un disegno realistico suscettibile di fondamentali realizzazioni a medio e a lungo termine. La rispondenza tra i bisogni delle popolazioni e l'utilizzazione delle risorse locali confermano la validità della diagnosi e la conseguente efficacia delle soluzioni prospettate. Naturalmente un giudizio veritiero è possibile formulare solo se l'osservazione si allarga a tutto il contesto, evitando pregiudizi settoriali 21 e campanilistici che tarpano, invece di assecondare, l'andamento dello sviluppo stesso. In definitiva il segreto del successo è incentrato nel conseguimento di un meccanismo autopropulsivo che, incentivato inizialmente dalla promozione statale, trovi nelle energie imprenditoriali locali un definitivo consolidamento tale da assicurare un assetto economico e sociale aperto ed integrale. BERARDINO TIZZANI 22 Origini e sviluppo della civiltà daunia Le civiltà paleolitiche piú antiche sono note in Europa per la varietà dell'attrezzatura litica, che pare seguire uno sviluppo segnato dall'ascia amigdaloide e dal raschiatoio musteriano anche se non mancano ambiti culturali riconosciuti in determinate zone. Con la raccolta del cibo (collettori) si ha la caccia ai grandi mammiferi. Durante l'età musteriana si ebbero un culto dei morti e l'uso della caverna. Bisogna giungere alle culture del Paleolitico superiore per poter parlare di civiltà in senso piú completo e ampio, soprattutto perché nei tre grandi periodi Aurignacoperigordiano, Solutreano e Maddaleniano si ha lo sviluppo dei linguaggi figurativi con la pittura, il graffito parietale e il bassorilievo in argilla. Le tracce del Paleolitico piú antico sono finora assenti nel Tavoliere, mentre sono state di recente individuate nel promontorio garganico, ove erano già state segnalate alla fine del XIX ed agli inizi del presente secolo dagli studiosi locali (Angelucci, Centonza, Del Viscio e altri) 1 . Sono attestate in stratificazioni rilevate sulle terrazze quaternarie dei terreni settentrionali (Romandato, Correntino, Antonino), nelle contrade Mortellito, Crocifisso di Varano, nella foresta Umbra e alle sorgenti di Irchio. I risultati danno un quadro vario dell'attrezzatura litica posseduta dai nomadi collettori che frequentarono il promontorio durante l'Interglaciale Riss-Würm e la glaciazione del Riss. Da uno stadio culturale caratterizzato dall'uso dei ciottoli di torrente appena scheggiati (chopperscultures) si sarebbe passati all'uso dell'ascia acheuleana (Monte Grande presso Vico) e all'utilizzazione delle schegge piú o meno lavorate ed adattate a varie forme di arnesi (raschiatoi di diversa forma, ecc.). La industria su scheggia, che caratterizza la civiltà musteriana in Italia e in Europa occidentale durante il Würm I, risalirebbe invece nel Gargano 1 Rinvio a Palma di Cesnola, Problemi e lineamenti di Preistoria garganica, «Atti della Società Italiana di Scienze naturali e del Museo civico di Storia Naturale in Milano», vol. CII, fasc. III, Milano 1963 (estratto) e ivi bibliografia. Per indicazioni bibl. sull'Angelucci, Centonza, Del Viscio, ved. i miei Gli studi paletnologici in Puglia, « Archivio Storico Pugliese », VII, 1954 e L'ultimo decennio di studi sulla Puglia preclassica, Ibid., XII, 1959 e ivi bibliografia. 23 all'Interglaciale Riss-Würm (Irchio) in un momento di clima caldo arido corrispondente a quello attuale algerino. Gli eventi climatici del primo stadio del Würm sono segnati da un'attività vulcanica provata dai materiali rintracciati nei depositi di Irchio e di altri giacimenti 2 . L'arte e il mondo ideologico dei gruppi di collettori e cacciatori trovano una testimonianza significativa nei dipinti di grotta Paglicci ai piedi di Rignano Garganico 3 . Alcuni frammenti di ossa iliache di cavallo presentano finemente incisi figure di bovini, di cerbiatto, di cervi e di cavallo e segni lineari interpretati come frecce. La caverna fu frequentata dal periodo aurignaco-perigordiano fino ad età mesolitica; sono stati rinvenuti numerosi manufatti litici ed ossei, e frammenti di ossa umane. L'attrezzatura silicea dei gruppi umani di Paglicci comprende lame di tipo gravettiano e epigravettiano, microliti geometrici di tecnica mesolitica. I resti della fauna attestano la presenza del cavallo, dei bovini, dello stambecco e, nei livelli superiori recenziori, è diffusa la volpe con qualche esempio di tasso, martora, lupo e gatto selvatico. Il complesso faunistico trova molti punti di contatto con quello degli strati A-F di grotta Romanelli in Terra d'Otranto 4 . La presenza dello stambecco indica un rincrudimento climatico correlazionabile al Würm II e al post-bühliano, e quindi si estende al Gargano anche l'evoluzione paleoclimatica verificatasi in Terra d'Otranto sul finire dell'era quaternaria. Lo stile dei dipinti si inquadra nella corrente naturalistica d'arte franco-cantabrica del periodo aurignaco-perigordiano fiorita circa 30.000 anni fa. La testimonianza di Paglicci permette di individuare la componente del mondo ideologico dei cacciatori paleolitici che ripone ogni valore nella potenza magica dell'animale, considerato quale sintesi di ogni tipo di bisogno esistenziale5 . Il magismo paleolitico si manifesta nelle raffigurazioni zoomorfiche, che quindi, secondo una corrente opinione, assumono valore rituale, propiziatorio. Come la caccia è l'attività essenziale di questa umanità, cosí anche la donna in seno alle comunità di cacciatori personifica la forza vitale della riproduzione, per cui tutto si rinnova. Plasticamente il concetto si traduce nelle statuette tridimensionali - le cosiddette « Veneri adipose » - raffiguranti un tipo di donna in cui sono accentuate le parti molli o i simboli della fecondità. In Daunia, pur mancando esempi espliciti di « Veneri adipose » paleolitiche, ritroveremo sviluppato molto dopo il tema della donna - fecondità sul vasellame geometrico del VII-VI sec. a. C. L'attrezzatura silicea delle tribú aurignaziane del Gargano ha avuto un notevole sviluppo per l'accentuata presenza di cave silicifere sfruttate per fabbricare utensili e strumenti idonei ai bisogni di un'ecoA. PALMA DI CESNOLA, Problemi cit., p. 4 ss. F. ZORZI, Pitture parietali e oggetti d'arte mobiliare del Paleolitico scoperti nella grotta Paglicci presso Rignano Garganico, « Riv. Sc. Preis », XVII, fasc. 1-4, 1962 (estr.) Id., Palaeolithic Discoveries in the Grotta Paglicci, « Antiquity ». XXXVIII, n. 149, p. 38 ss. 4 G. A. BLANC, Grotta Romanelli, II « Archivio per l'Antropologia e l'Etnologia », LVIII, 1928, p. 365 ss. 5 Sul magismo paleolitico cfr. C. TULLIO ALTAN, Lo spirito religioso del mondo primitivo, Milano 1960 e ivi bibl. 2 3 24 nomia prevalentemente venatoria. Le caverne sono frequentate e alcune come la grotta Paglicci - servono per compiere riti magici propiziatori della buona caccia. Al momento della crisi post-glaciale il quadro culturale della Daunia offre una documentazione di tradizione paleolitica, un congruo gruppo di elementi ergologici riguardanti un'economia di caccia e ambientale ed, infine, le testimonianze su una primordiale organizzazione dell'attività rurale. Il processo di evoluzione dei cacciatori in agricoltori presenta ad un primo sguardo un'articolazione economico-culturale varia e complessa sia se si considera la varietà geomorfologica della Daunia ( dal Gargano con punte fino a 1100 m. si passa attraverso altitudini intermedie a depressioni come quella del Candelaro, di Salpi sotto o a livello marino), sia se si tien conto dei mutamenti cui il paesaggio è andato soggetto per agenti naturali e per il fattore umano. I cacciatori essenzialmente nomadi per la caccia stagionale o occasionale vennero in contatto con altre genti periadriatiche 6 . Altri aggregati umani si erano dedicati alla pesca stabilendosi sulle coste marine o in prossimità di ambienti lagunari come appunto il Candelaro, le cui acque lambivano le rive di Coppa Nevigata (a sud di Manfredonia). I risultati degli scavi ivi condotti dal Pugliesi 7 , dopo quelli del Mosso, ci presentano un insieme economico-culturale di raccoglitori di molluschi dotati di grossi vasi decorati ad incisioni a crudo (ceramica impressa) e di un'attrezzatura silicea (microliti) atta alla lavorazione del Cardium edule, che prolifera in ambienti lagunari salmastri come fu quello del Candelaro. L'assenza finora riscontrata di resti di capanne e di fauna domestica spiega il carattere semisedentario di queste genti, le quali appunto dimoravano presso la laguna nei periodi di raccolta del mollusco. Il complesso economico-culturale di Coppa Nevigata non è isolato nella storia culturale della Puglia e delle civiltà perimediterranee, perchè trova riscontro nella grotta del Cavallo nel Salento 8 e negli analoghi complessi dell'Africa settentrionale e sahariana, il cui livello di civiltà durante il VI millennio offre maggiori punti di contatto con Coppa Nevigata, Nel processo di formazione delle comunità contadine l'eredità sociologica paleolitica ci è attestata dalla ininterrotta presenza dei tipi litotecnici laminari e, come vedremo, da un complesso di dati i quali dimostrano che le grotte in età neo-eneolitica furono frequentate da cacciatori. La « rivoluzione neolitica » influì in maniera decisiva nel processo di selezione socio-economica. Da un lato i cacciatori, che usano il tranchet campignano, divengono disboscatori del promontorio gar6 Richiamo le osservazioni di A. C. BLANC, Testimonianze paletnologiche e biogeografiche sulla via percorsa dai Grimaldiani nella loro immigrazione in Europa e in Italia, «Archivio per l'Antropologia e l'Etnologia», LXVIII, 1938, p. 17 ss. 7 S. M. PUGLISI, Industria microlitica nei livelli a ceramica impressa di Coppa Nevigata, « Riv. Sc. Preist. » X, 1955 (estr.) e ivi bibl. 8 A. PALMA DI CESNOLA, Prima campagna di scavi nella Grotta del Cavallo, presso Santa Caterina (Lecce), « Riv. Sc. Preist. », XVIII, p. 41. 25 ganico per avere terra da mettere a colture ed ottenere legname utile per imbarcazioni, palificazioni, capanne. Altri gruppi come quelli del Candelaro, pervengono alla fabbricazione di recipienti fittili per la conservazione dei molluschi durante i periodi di magra e, successivamente, catturano e addomesticano animali, acquisiscono le proprietà riproduttrici della terra per divenire come al « pulo » di Molfetta e alle Tremiti agricoltori e marinai. Altri gruppi, infine, piú tradizionalisti persistono nelle loro condizioni di cacciatori. In questo processo, che si compie indicativamente durante il VI millennio, un posto di rilievo assumono le genti in possesso del tranchet campignano. I dati topografici indicano chiaramente una gamma di attività correlazionabili all'ambiente vario del promontorio. La zona interna garganica fino a m. 400 se non ha rivelato tracce di insediamenti stabili, ha restituito, invece, una messe di strumenti silicei, tra i quali è accentuata la presenza significativa dell'accetta campignana. La sua diffusione è almeno sinora riscontrata in regioni boscose come l'entroterra garganico oppure l'Abruzzo Teramano o anche il Veronese 9 , un tempo ambienti forestali. All'accetta campignana si associa un corredo di arnesi silicei di varie dimensioni e per lo piú di tecnica paleolitica. Dalle recenti classificazioni dello strumentario campignano si deduce che esso costituisce il corredo per le attività utilitarie delle tribú che frequentarono il promontorio, e che si sviluppa in tempi neolitici, vale a dire quando nel Tavoliere e sulle coste del promontorio si erano stabiliti i contadini dei villaggi 10 . In breve quella che oggi si chiama cultura campignana garganica potrebbe rappresentare il neolitico aceramico, noto nel Medio Oriente, in Tessaglia (Argissa-Magoula) ed anche in parte dell'Africa settentrionale, dove le comunità mesoneolitiche non hanno ancora acquisito le tecniche vascolari 11 . Del campignano garganico si ammettono una facies senza ceramica prevalente nell'interno del promontorio e nella zona subcostiera, cronologicamente parallela alla cultura di Coppa Nevigata (VI millennio) e di sviluppo indipendente dalle culture agricole che si andarono formando a partire dal VI millennio nel Tavoliere. Il suo fondamento economico sono l'ambiente forestale e lo sfruttamento delle cave silicifere. La facies recenziore si estende fino alle soglie dell'età classica sulla costa. I dati topografici suggeriscono che i gruppi campignani si spostano facilmente e soltanto nell'età dei Metalli si andranno stabilizzando in insediamenti costieri. In sostanza, i disbocatori e cavatori di selce vennero in contatto con i contadini del Tavoliere e realizzarono gli aggregati costieri del promontorio dal II millennio a.C. in poi. La presenza del tranchet campignano in strati eneolitici costieri prova che queste genti entrarono tardi in possesso dell'agricoltura, poichè il loro fondo economico tradizionale era costituito dallo sfruttamento dei boschi e delle ca9 Per il Veronese cf. F. ZORZI, Aspetti e problemi del Campignano in Val Padana, « Atti del I Convegno Interregionale Padano », Milano 1956, p. 51. Id., Preistoria veronese, in « Verona e il suo territorio », vol. I, Verona 1960, p. 98. 1 0 Accolgo la classificazione di A. PALMA DI CESNOI.A, Problemi cit. p. 12. 11 Rinvio per bibl. e concetti al mio Origini e sviluppo delle comunità rurali nella Puglia preclassica, « Rivista di Antropologia », LIII, 1966. 26 ve silicifere. L'insediarsi delle tribú campignane sulla costa avviene in un periodo molto ampio e adeguando in prosiego di tempo lo strumentario al tipo di ambiente ove si andarono stabilendo. L'attrezzatura paleolitica non viene abbandonata. Per cui si può ritenere che abitudini pratiche e atteggiamenti mentali paleolitici costituiscono i caratteri prevalenti del comportamento umano di queste genti. Il rapporto dialettico tra il campignano garganico e le culture agricole della Capitanata indica appunto una differenziazione civile e perciò anche ideologica. Sicché le genti che sono stanziate durante lo sviluppo della civiltà contadina a valle (dal V millennio in poi), avendo bisogni differenti, si creano un'attrezzatura adeguata. Durante il V millennio gli insediamenti capannicoli e cavernicoli sono diffusi sulle coste appunto perché in seno ai gruppi dediti alla pesca e alla caccia si formano gli agricoltori, gli allevatori, ossia quei gruppi che sostituiscono all'attività venatoria la coltivazione della terra dopo averla appresa per mezzo dei contatti con genti di altri Paesi. Anche le Tremiti sono interessate costituendo il tramite di diffusione ai Paesi balcanici settentrionali di elementi della « civiltà di Molfetta » (neolitico inferiore), cosí denominata dall'imponente complesso di manifestazioni che la caratterizzano al « pulo » di Molfetta e per lungo tempo 12. Essa è attestata dai fondi di capanna a ceramica impressa di Lesina e di Varano e si va propagando nel Tavoliere, dove troviamo il villaggio cintato di Guadone (S. Severo) che ha raggiunto un'evoluzione economico-culturale caratterizzata da vasellame impresso e dipinto a fasce semplici e non marginate, e dall'uso di cisterne intercomunicanti per l'approviggionamento idrico dell'agglomerato 13. E' durante il IV millennio che si ha il diffondersi del villaggio cintato nel Tavoliere (Passo di Corvo, masseria La Quercia, Amendola, S. Vito) con vasellame, tra gli altri, di « stile di Matera » 14 . La « civiltà di Matera », cosiddetta dal Materano ove fu esplorato sistematicamente uno di questi villaggi (Murgia di Serra d'Alto), si diffonde in tutta la Capitanata e alle Tremiti 15 . Ma il promontorio resta come tagliato fuori da questa corrente civile. Nè si sviluppano altre forme culturali. Nel periodo di formazione e di affermazione delle comunità rurali i cacciatori paleolitici sono sedimentati ed esclusi dal tessuto economico agricolo. Le abitudini nomadistiche dei cacciatori che comportano instabilità di sedi per la ricerca periodica o occasionale di selvaggina, non si concilia con il carattere stabile dell'attività agraria e con la relativa impostazione ideologica. Il nesso dialettico tra agricoltori e cacciatori si riflette nel rapporto topografico-culturale degli insediamenti visto nella dinamica plurimillenaria di stabilizzazione dell'economia rurale. La dimora saltuaria dei cacciatori sono le grotte. Molte caverne dell'Italia V. il mio Origini e sviluppo, cit. Materiali al Museo civico di Foggia, sala I. 14 Materiali al Museo stesso. 15 F. ZORZI, Note paletnologiche relative al Promontorio del Gargano e alle isole Tremiti, « Mem. del Museo civico di Storia Naturale di Verona », Vol. II, Verona 1950. Id., Ricerche paletnologiche effettuate nel Gargano e alle isole Tremiti durante il 1954, Ibid., vol. IV, Verona 1954. 12 13 27 meridionale ci hanno restituito ceramiche, ma non ci hanno dato quegli altri elementi che costituiscono l'apparato ergologico di un'agricoltura arcaica (macine, zappette di corno cervino, ecc.). Per la Daunia vanno ricordate le caverne di Scaloria e di Occhiopinto, la prima aperta nel costone garganico meridionale in direzione di Ruggiano, la seconda a qualche chilometro da Manfredonia presso la via per S. Giovanni Rotondo. Queste grotte cominciano ad essere frequentate al tempo in cui è associata al vasellame a fasce semplici (neolitico medio iniziale) la ceramica impressa evoluta: associazione che si riscontra in altre grotte pugliesi, materane e cosentine 16 . E mentre sono risultate prive di attrezzatura agricola, hanno restituito utensileria silicea di tradizione romanelliana. L'osservazione formale ha un suo valore reale. La funzione della grotta nel Neolitico si identificherebbe con quella che ebbe nel Paleolitico quando accoglieva gruppi di cacciatori, di pescatori (come le numerose caverne costiere) che ormai vengono selezionati da un tessuto agricolo che va divenendo sempre piú omogeneo. D'altro canto, la pratica di domesticazione della specie animali che accompagna la formazione delle comunità rurali si è svolta in concomitanza dei mutamenti ecologici (clima-vegetazione) in seno alle stesse tribú di cacciatori paleolitici attraverso lunghi esperimenti di cattura. A tal riguardo è significativo un dipinto rupestre lucano che illustra scene di cattura animale 17 . I continui spostamenti per la ricerca di selvaggina stagionale e il magismo per propiziare la buona caccia strutturarono il modo di pensare dei cacciatori secondo quanto si deduce dalla documentazione artistica paleolitica 18 , in maniera differente da quello degli agricoltori, legati soprattutto alla terra che tutto riproduce, quindi sedentari, accomunati nel clan rurale che fonda la sua economia sullo sfruttamento del terreno comune. La relativa organizzazione sociale attraverso l'elaborazione di un rituale propiziatorio del buon raccolto riflette l'ideologia delle genti coltivatrici. Per conseguenza, per i cacciatori si erano venute a creare condizioni di vita nelle quali, per ragione della loro stessa economia, non riescono piú ad inserirsi. In breve, l'economia e l'ideologia contadine sedimentano forme di attività diverse o divergenti dai principi del clan rurale. Per cui i cacciatori nomadi, instabili e bellicosi, selezionati dal tessuto agricolo omogeneo del villaggio continuano a vivere la loro condizione umana ai margini dell'aggregato agricolo continuando nell'uso paleolitico di frequentare la grotta. Ciò spiega perché molte caverne dell'Italia meridionale e anche della Daunia cominciano Ved. per tutto il mio Puglia "preistorica" e Oriente premiceneo: relazioni tra i gruppi vascolari, « Archivio Storico Pugliese », IX, 1956 (Bari 1958) e ivi bibl. con revisione dei materiali materani (gli altri sono inediti nel Museo naz. di Matera). Analoga situazione nella grotta del Fico in Salento cfr. A. PALMA DI CESNOLA - F. MINELLOMO, Gli scavi nella grotta del Fico presso S. Maria al Bagno (Lecce), « Riv. Sc. Preist. », XVI, 1961 (estr.). Per il Cosentino cfr. S. TINE’, Il neolitico in Calabria alla luce dei recenti scavi, « Atti dell'VIII e IX riunione scientifica dell'Ist. It. di Preistoria e Protostoria », Firenze 1964, p. 277 ss. 17 Ved. il mio Nuove pitture preistoriche in Lucania, « Rivista di Antropologia », LII, 1965, p. 103 ss. 18 C. TULLIO ALTAN, Lo spirito religioso cit. 16 28 ad essere frequentate, durante la formazione e la organizzazione della civiltà contadina (V millennio). L'insediamento si intensifica quando la civiltà di villaggio si afferma nel Tavoliere (« civiltà di Matera », dal IV millennio circa). Possiamo seguire l'evoluzione di questi gruppi umani lungo il corso del III e II millennio specie se si fa attenzione alle facies rappresentate in grotte. Ma prima chiarisco brevemente come la civiltà contadina di villaggio si afferma nel Tavoliere. Alla « civiltà di Matera » appartengono i concetti planimetrici dei villaggi della Capitanata, che possiamo prendere in considerazione per i rilievi aereofotografici del Bradford. Sono formati di capanne a pianta circolare o ellittica comprese in un fossato interrotto nei punti di accesso all'interno del comprensorio. Occupano aree di circa 3 ettari in media. La planimetria chiusa ci riporta allo scopo difensivo del fossato, ma induce anche a pensare al principio che il villaggio è di proprietà comune del gruppo che lo abita. I materiali rinvenuti a Guadone si ricollegano a quelli materani. Questi ultimi ci permettono di considerare che la composizione socio-economica include cavatori e lavoratori di selce, contadini, allevatori, vasai. La capanna serve anche per sepolcro. I corredi vascolari comprendono ora ceramiche dipinte in « stile di Matera » distinguibile per la grazia delle forme fornite di anse modellate a protome animale e per la decorazione geometrica eseguita in bruno sulla superficie lisciata gialliccia. Questo vasellame è l'antenato della ceramica geometrica del VI secolo a. Cr.: i due tipi sono cotti a identica temperatura e, quindi, l'arte del vasaio in senso tecnico-artigianale in Puglia risale al IV millennio. La « civiltà di Matera » è quella che costituisce l'abito civile a partire dal IV millennio dell'Italia sud-orientale, donde diffonde i prodotti in Calabria, Sicilia, isole Eolie, Campania e Toscana. Essa dura fino a tutto il III millennio, trasformandosi durante il II millennio. Sul promontorio non conosciamo elementi pertinenti, alla civiltà di villaggio. Non v'ha dubbio che il carattere geomorfologico ha favorito attività agricole nelle conche fertili, che dovettero essere prima disboscate. Una cultura agricola si propaga sulle coste settentrionali, ma con caratteri formali, che, pur differenziandola apparentemente da quella del Tavoliere, la ricollegano nel momento in cui nuovi fattori determineranno un'evoluzione della civiltà agricola nei seguenti termini storico-dialettici. I gruppi di cacciatori, dediti peraltro alla pesca costiera, assumeranno dimora stabile in grotta intorno al II millennio. In parecchie caverne pugliesi troviamo tracce di una dimora stabile soltanto in questo periodo. L'evoluzione dei cacciatori, compiutasi ai margini della civiltà agricola, si definisce lentamente quando divengono, specie quelli delle caverne costiere, pescatori, marinai-trafficanti. Sono questi gruppi che intesseranno relazioni con genti di altri Paesi 1 9 . In sintesi, il quadro economico-culturale della Daunia all'avvento della civiltà dei metalli presenta clans agricoli organizzati in villaggi e 1 9 Ved. quelli della caverna dell'Erba e grotta S. Martino presso Avetrana: S. M. P U G L I S I , Nota preliminare sugli scavi nella caverna dell'Era, « Riv. Sc. Preist. », VIII, 1953 (estr.) per contatti micenei. 29 tenuto economico-culturale dei pastori appenninici contrastante con la ideologia e l'organizzazione economico-sociale agraria. La scarsezza in Daunia di documentazione relativa ai precedenti sto- zi della civiltà appenninica 22, a prescindere dall'attribuirsi a deficienza esplorazione, può essere spiegabile anche con quell'aspetto geomorfologico vario cui dianzi accennavo. Il quale, come ha favorito in età precedente una pluralità di ambiti culturali, cosí anche durante il III e II millennio a. Cr. ha impedito una diffusione uniforme della facies culturale appenninica. Una pastorizia nomade è fautrice di terreno incolto per il bisogno di pascoli per le greggi. Dal che il conflitto economico - che è anche ideologico - con una civiltà agricola che trae le sue principali risorse dall'attività coltivatrice. Considerando l'organizzazione socio-economica che i contadini dal IV millennio attuano nel Tavoliere, ne consegue che un'economia armentizia fu condizionata in Daunia dalle aree non interessate dall'attività rurale, ben poche, in verità, se si tiene conto dell'estensione dei villaggi agricoli del Tavoliere. Quindi, frequentazione delle falde garganiche per i pascoli sempreverdi e discesa a valle presso i corsi d'acqua per il bestiame nei periodi in cui i territori montani erano impraticabili. Secondo come ci è stato storicamente delineato, lo spirito della civiltà appenninica perchè appunto legata ad una condizione esistenziale di nomadismo, risulta unitario con manifestazioni culturali differenziate nel tempo da luogo a luogo: è questa la sua dinamica storica, ossia quella unità etnologica che lega le comunità pastorali sotto il profilo soprattutto economico ed ideologico, e che, appunto per essere cronologicamente differenziata da luogo a luogo, respinge qualunque tentativo di spiegarla in uno sviluppo unilineare e livellato, ossia antistorico. La dinamica dei gruppi pastorali determinata dalla loro condizione economica è alla base di quel processo di inurbamento che anche in Daunia si va compiendo nel corso di parecchi secoli. Rapporti saltuari si stabiliscono tra allevatori sedentari dell'orbita culturale agricola e pastori per la necessità di barattare bestiame con gli allevatori quando eventi di vario genere distruggono quello armentizio. Queste relazioni mercantili rappresentano lo sfondo concreto della trasformazione culturale della civiltà di vilMi riferisco al Protoappenninico per cui ved. S. M. PUGLISI, La civiltà appenninica, p. 21 ss. e, per le Marche, dello stesso Sulla facies « Protoappenninica » in Italia, « Atti VI Congr. Int. delle Scienze preist. e prot. », II, Comunicazioni, Firenze 1965, p. 403. Il « protoappenninico » come fatto storico-culturale è documentato, oltrechè nell'Italia meridionale e centrale tirrenica (Gaudo-Rinaldone), in particolare nella Puglia centro-meridionale, dove un suo aspetto si coglie nei corredi delle tombe collettive di Casal Sabini e Cellino S. Marco, la prima studiata bene, mentre la seconda scavata e studiata male: per dati di fatto e inquadramento della tomba di Casal Sabini ved. PONZETTI-BIANCOFIORE, Tomba di tipo siculo con nuovo osso a globuli nel territorio di Altamura (Bari), « Bull. Pal. Ital. », vol. LXVI, 1957 e ivi bibl. Per Cellino S. Marco la documentazione è conservata nel Museo di Taranto: bibliografia buona trovi in G. F. LOPORTO, La tomba di Cellino S. Marco e l'inizio delle civiltà del Bronzo in Puglia, « Bull. Pal. Ital. », 71-72, 1962-'63 (estr.). Per un « proto-appenninico B » ved. dello stesso La tomba di S. Vito dei Normanni e il « Proto-appenninico B » in Puglia, Ibid., 73, 1964, p. 109, ove l'A. riprende quanto scritto in La stazione preistorica di Porto Perone, « Not. Sc. », XVII, 1963, p. 280 ss. 22 31 laggio da un lato e del processo di inurbamento dei pastori. Dai livelli 1 6 di Coppa Nevigata 23 si sa l'abito culturale che si stabilisce a partire indicativamente dall'XI sec. a. Cr. Al vasellame appenninico subentra quello adorno di motivi geometrici e solcature o inadorno, con anse ad apici revoluti, ad ascia, con la caratteristica forma, tra le altre, degli attingitoi (capeduncole) con omphalos sul fondo. Ritroviamo le zappette di corno cervino, uno strumentario ricavato da ossi animali (punteruoli, spatole), mentre l'attrezzatura silicea si riduce a qualche lametta o a scheggie riutilizzate, che suggeriscono l'idea di un progressivo abbandono della litotecnica. I Subappenninici, ossia gruppi che da pastori per i lunghi, saltuari o occasionali contatti con gli agricoltori sono divenuti anche essi contadini, conservano ancora nel tessuto ideologico manifestazioni ancestrali. Il temperamento irrequieto e conservatore degli Appenninici riemerge nei Subappenninici specie nella esigenza difensiva dell'aggregato quale espressione della organizzazione territoriale e dell'acculturamento in terreno agricolo. Gli abitati sorgono o in luoghi naturalmente difesi o si recingono di bastioni in muratura secca. A Coppa Nevigata abbiamo l'esempio piú evidente di abitato subappenninico con cinta muraria, mentre sul promontorio garganico gli insediamenti si dispongono su pianori di piccoli promontori protesi in mare, difesi naturalmente da muratura a monte (Punta Manaccore) 24 . I villaggi Subappenninici del Gargano li ritroviamo in tale stadio culturale ancora nel VI secolo a. Cr. Nè si può dire che la situazione sia diversa nel Tavoliere, dove proprio la vita dell'abitato subappenninico di Coppa Nevigata continuò durante i secoli X-VIII (protogeometrico) e VII-VI a. Cr. (età del geometrico daunio) 2 5 . L'evidenza archeologica dimostra che a partire circa dall'XI sec. a. Cr. si estende nel Gargano e in Daunia la facies subappenninica, peraltro documentata in tutta l'Italia meridionale, la quale con il suo contenuto economico-culturale sarà uno dei presupposti della civiltà daunia 26 . Si 23 cit. S. M. P U G L I S I , Industria microlitica cit. Id., La civiltà appenninica, loc. S. M. P U G L I S I , Le culture dei capannicoli sul promontorio Gargano, « Memorie morali dei Lincei », serie VIII, vol. II, Roma 1948, e ivi bibl. 2 5 V il vaso egiziano studiato dal Pallottino (Vaso egiziano inscritto proveniente . dal villaggio preistorico di Coppa Nevigata, « Rend. morali dei Lincei », vol. VI, 1951), che attesta una vita dell'insediamento nel secondo decennio del VI sec. a Cr. 2 6 Aggiungo anche della civiltà peucetica e messapica: v. il mio Osservazioni sulla storia economica e culturale dell'Apulia preromana. « Atti del I Convegno di studi etrusco-italici », Bologna, 1966. La pluralità onomastica della tradizione storiografica antica, cui ha già accennato il Puglisi (La civiltà appenninica, p. 85), trova in Apulia la sua spiegazione nei differenti processi di acculturamento delle genti pastorali in territorio agricolo, che portarono alla formazione di aggregati gentilizi autonomi. I dati onomastici delle due fonti fondamentali, a prescindere dal fatto che ritengono ovviamente di origine « pelasgica » Dauni, Peucezi, Iapigi e Messapi (Daunio, Peucezio, Iapige, Enotrio figli dell'arcade Licaone autoctono apd. Dion. Hal. I 11 ss. Nicandro in Antonino Liberale, 31 e 37), riflettono una realtà di gruppi socio-economicamente eminenti, ai quali la tradizione storiografica antica attribuì eponimi « pelasgi », che nel pensiero di Dionisio di Alicarnasso erano arcadi autoctoni. La tradizione passata in Dionisio si riferisce al V secolo a. Cr. (come è noto) e, quindi, riporta fatti dei secoli immediatamente precedenti la cui situazione culturale è quella che si è qui delineata. Ved. infra nota 28. 24 32 sa che il fondo subappenninico è agricolo; mutato rispetto alla « civiltà di Matera », si innesta nel Gargano alle culture campignane, delle quali ritroviamo l'accetta (Macchia a Mare e altre affini). Anche al ricordato Guadone si conosce una tomba con due coppe ioniche, vasi geometrici dauni e vasellame subappenninico databile al VI secolo a. Cr. A Teano Apulo si hanno tombe con vasellame geometrico daunio e subappenninico 27 . La tomba di Guadone si inserisce negli strati del villaggio di agricoltori del IV millennio. Il dato prova che una soluzione di continuità esiste tra la civiltà agricola del Tavoliere e i Subappenninici, che fino al VI secolo si erano evoluti anche per via dei commerci transmarini. In breve, in Daunia a partire dal XIV sec. a. Cr. circa riscontriamo la presenza di gruppi agricoli nel Tavoliere, la cui cultura tipo Matera potrebbe essere in fase di avanzata trasformazione o declino; aggregati subappenninici, nella cui compagine socio-economica si individuano pastori, agricoltori, allevatori; tribù campignane particolarmente stanziate nel Gargano. A Coppa Nevigata gli insediamenti appenninico e subappenninico hanno restituito frammenti di vasellame colorato, tra cui è stato possibile distinguere tre frammenti di ceramica micenea i quali attestano che a partire dal XIV sec. a. Cr. Il sito di Coppa Nevigata era conosciuto ai naviganti micenei 28 . I contatti col mondo transadriatico continuano successivamente. Materiali al Museo di Foggia sale I e V. V. il mio La civiltà micenea nell'Italia meridionale 2, Roma 1967. Ricordo che c'è un momento nella storia della civiltà appenninica in cui l'economia pastorale è integrata da attività agricole complementari con insediamenti a Coppa Nevigata, Scoglio del Tonno, Porto Perone (vasellame con decorazione appenninica) di comunità semisedentarie (PUGLISI, La civiltà appenninica, pp. 60, 61, 74 ss.). E' in questo momento che - osserva il Puglisi (o. c. p. 92) - « le correnti quasi esclusivamente commerciali dirette nell'Italia meridionale ricalcano gli stessi itinerari marittimi da noi indicati circa la provenienza dei primi gruppi indoeuropei (Rinaldone-Gaudo), quasi che la consapevolezza di una realtà ancestrale di affinità etnica avesse segnato la mèta dei navigatori egei ». Nella leggenda dei Licaonidi non si può ravvisare un'estensione del regno di Pilo in Arcadia, che è del XIII sec. a. Cr. (L. A. S T E L L A , La civiltà micenea nei documenti contemporanei, Roma 1965, p. 40 ss.); la cronologia data da Dionisio alla migrazione di Enotrio, Daunio, Peucezio ci riporta al XVIII sec. a. Cr. circa, senza considerare che già nel XVIII sec. a. Cr. nel Peloponneso abbiamo una cultura ellenica e, quindi, i Pelasgi non sono gli autoctoni - come invece dice Dionisio - o sono autoctoni in corso di indoeuropeizzazione. L'arcadico, infatti, non è esente da contatti con la lingua delle tabelle di Pilo (V. GEORGIEV, Introduzione alla storia delle lingue indeuropee, Roma 1966, p. 64 ss.) e tali relitti risalgono ad età anteriore al XIII sec. a. Cr. poichè la lingua micenea presuppone un suo processo formativo. Ma - come ha già osservato il Puglisi - le fonti non spiegano la dinamica della civiltà appenninica. Ogni tentativo di accostarle ai fatti culturali fa parte di un metodo combinatorio discutibile. La realtà della pluralità onomastica dell'Italia, e, in questo caso, della Apulia è che gli etnici rispecchiano formazioni di gentes, ossia di gruppi gentilizi culturalmente appenninici e, poi, subappenninici. Anche il tentativo (G. C A P O V I L L A , Il salento messapico e i testi in Lineare B. « Studi Salentini », XII, 1962) di ricollegare l'eponimo Daunio al da - u - no, antroponimo femminile a Cnosso (MORPURGO, Myceneae graecitatis lexicon, Roma 1963, p. 58) è inverosimile. Per la Daunia va sottolineato che se Daunio deriva dall'ide, dhaun (strangolatore, donde lupo) e, quindi, è un totemico, come gli etnici ∆α-oι, Da-ci (ALESSSIO, Apulia et Calabria cit., p. 89), esso rispecchia bene quella situazione storica culturale di comunità intese a difendere il bestiame dai lupi delle 27 28 33 Il che significa che il processo di aggregazione in stanziamenti capannicoli degli Appenninici in Daunia può porsi intorno al XIV set. a. Cr. e si va definendo nei secoli successivi. Il polimorfismo dei Subappenninici ha come filone etnologico la tradizione ideologica pastorale e con essa la lingua e le strutture sociali. Per cui anche l'uso funerario della tomba collettiva, che risale ai gruppi protoappenninici dell'Eneolitico documentati ampiamente in tutta l'Italia meridionale (Salento, Laterza, Cellino S. Marco, Gioia del Colle, Altamura, Lucania e Gaudo nel Salernitano) costituisce la testimonianza piú evidente di un costume ancestrale che non viene neanche modificato dal contatto con i gruppi agricoli a sepoltura individuale. Le tombe collettive di Altamura (Murgia Catena), del VI secolo a. Cr. e di Arpi del VI-III sec. a. Cr. ne sono la documentazione piú chiara 29 . I villaggi subappenninici si intensificano e prosperano per tutto il VI secolo a. Cr. Queste genti raggiungono manifestazioni d'arte ispirate dai contenuti religiosi funerari. Le coste del promontorio si popolano di insediamenti fortificati come è probabile a Monte Saraceno con relativa necropoli geometrica-subappenninica. La civiltà subappenninica raggiunge il suo sviluppo piú significativo nel VI sec. a. Cr. Questa civiltà noi possiamo chiamarla daunia, perchè ne sono possessori i Dauni di Daunio 30 , che ora formano una unità etnica e culturale. Essa corrisponde a quella peucetica diffusa nel territorio corrispondente piú o meno alla provincia di Bari, alla messapica della Puglia peninsulare a sud di Ghathia, alla lucana della Basilicata, alla bruzia della Calabria, alla osta della Campania. Tale è la civiltà che trovarono i coloni greci i quali - come sappiamo - lottarono con le sue genti. Queste guerre tra Greci e indigeni, e tra indigeni stessi sono l'espressione di una incoesione etnica della gente daunia dipendente dal vario e difforme sviluppo che nel suo seno ebbero le comunità subappenniniche, tuttavia coerenti sul terreno politico e militare quando si trattava di difendere l'aggregato, il villaggio il clan gentilizio. Un riflesso è nella ricordata foreste garganiche e dei monti circostanti che a nord-ovest costellano la Daunia, richiamandoci con Lup-ercus, composto di lupus (di origine sabina) e hirquos, hircus, becco = hirpus, lupo. Nella formazione degli Osco-Umbri hanno avuto parte essenziale gli Appenninici, dei quali la funzione (e suoi limiti) nello sviluppo linguistico paleoitalico è stata posta in rilievo dal Puglisi (La civiltà appenninica, capp. IX e X). Altro non è consentito trarre dalle fonti e dalla Linguistica, la quale utilizzando le fonti ne ravvisa i limiti discutendoli col suo metodo: l'Alessio (Apulia et cit.) avverte che si può stabilire la provenienza balcanica di etnici e di ethne, ma non la lingua di questi ultimi. E' inoltre arrischiato identificare nell'onomastica delle fonti facies culturali. Nel nostro caso l'unità daunia si realizza nel VI sec. a. Cr.: essa costituisce un punto di arrivo di un processo storico - culturale precedente. In tal senso metologicamene v. M. PALLOTTINO, Le origini storiche dei popoli italici, « Relazioni del X Congresso Internazionale di Scienze storiche, « vol. II, Firenze, 1955, pp. 60 (mia recensione in « Bull. Pal. Ital. », N. S. vol. 65°, fasc. II, 1956, p. 572). 29 Vedi nota 38. 30 Di Dauno parlano Timeo e Lico (Fragm. Hist. Graec, I, ed Müller, fr. 13 Timeo) e anche Ferecide (Dion. Hal, I 13). 34 leggenda di Diomede coinvolto nelle vicende locali di Daunio 31 . Gli interessi greci si intersecano con quelli locali variamente combinandosi o adeguandosi alle situazioni, come è proprio di un'attività colonizzatrice. Per conseguenza, fermo restando quanto c'è di ellenico nelle città magnogreche e nelle zone di loro influenza, la civiltà iapigia del VII-VI sec. a. Cr. e quella daunia in particolare ne acquisiscono elementi essenziali per l'economia: la moneta e la grafia. La monetazione indigena, che usa iscrizioni in lettere greche, si impone piú tardi forse di pari passo con la diffusione della lingua messapica, che in Daunia presenta influssi oschi. Grafia e moneta incidono notevolmente nella svolta della civiltà daunia. In sostanza le comunità capannicole daunie hanno organizzazione sociale gentilizia. Dalle iscrizioni messapiche, d'accordo con le menzioni negli scrittori classici, apprendiamo i nomi di alcuni gruppi familiari economicamente, socialmente e politicamente eminenti 32 . I nomi dei centri ove vivono tra il VII e V sec. a. Cr. questi gruppi gentilizi, non possono chiamarsi città. Questa intesa come aggregato di strutture edilizie in tessuto urbanistico sorgerà soltanto a partire da circa il IV sec. a. Cr. cinta di murature come Siponto, Salapia, Arpi, Luceria, Herdonea, Ausculum. ecc. Il fondo culturale sul quale sorgono i centri urbani della Daunia come del resto di quasi tutta l'Italia meridionale - è, dunque, culturalmente ed essenzialmente subappenninico. L'arte delle stele funerarie del circondario di Coppa Nevigata è legata al mondo d'oltretomba in nesso dialettico con quello dei viventi. I pezzi risalgono al VII-VI sec. a. Cr. Usano dipingere i campi delle figure a contorni incisi oltrechè in nero, bianco, giallo anche nel rosso opaco che ritroviamo impiegato nella decorazione del vasellame daunio. Effettivamente i contenuti dell'arte daunia rispecchiano il quadro culturale che si è delineato per i secoli VII-VI a. Cr., che sono il periodo di acmè della civiltà daunia. Si tratta, in linea di massima, di scene orgiastiche, sessuali e culturali legate al rituale agrario tramandatosi nella gente daunia e faticosamente elaboratosi, come si è visto, attraverso millenni. Le stele antropomorfiche terminanti a testa con copricapo, sono istoriate sulle due facce. La maniera di disporre la composizione col riempire ogni spazio residuo delle superfici impegnate è proprio della tecnica deco31 Per la leggenda diomedea v. J. BERARD, Storia delle colonie greche dell'Italia meridionale (trad. ital. dal fr. La colonisation grecque dans l'Italie meridionale etc. Parigi 1957), Torino 1963, p. 355 e ivi fonti e bibl. Ricorda che Daunio, combattendo contro i Messapi, fu aiutato da Diomede, che fu poi ucciso; altro non si può vedere nel racconto che una eco delle lotte tra indigeni o, meglio, tra gruppi gentilizi locali assurti a entità etnica, e tra indigeni e colonizzatori greci (Daunio contro Diomede): lotte che non si limitarono al possesso di terre ma anche per ostacolare la penetrazione di culti estranei all'ambiente religioso autoctono, come quelli di Calcante e di Podalirio, che finirono segregati al Gargano, ved. J. BERARD, Storia, p. 361 ss. e ivi bibl. con richiami agli studi del Perret sulle localizzazioni di tali culti (Calcante grotta S. Michele a Monte S. Angelo e l'Alteno di Podalirio sarebbe oggi prosciugato e sue tracce sarebbero rimaste nell'alveo di S. Egidio nella Valle Carbonara). Riflessi di un mondo pastorale trovi in Lycophr. (Ciaceri), vv. 1050-1055. 32 F RIBEZZO, La lingua degli antichi Messapi, Napoli 1907 e ivi bibl., articolo . naturalmente valido per le indicazioni onomastiche, e non per le vedute « illirizzanti » dell'A. 35 rativa geometrica. Pur restando incognite nell'esegesi di questi monumenti, altrettanto numerose quanto quelle che ci pone ancora il mondo ideologico daunio, le stele aprono uno spiraglio su questo mondo che, chiaro negli aspetti ergologici di cultura, ci è oscuro nei suoi contenuti spirituali. E bisogna pur dire che per « leggere » nel mondo spirituale dei Dauni siamo affidati al valore del monumento, del dato archeologico che quindi è essenziale e, almeno finora, fonte esclusiva. Per quanto attiene l'uso di utilizzare monoliti, ricordo gli altri pezzi casualmente rinvenuti presso Castelluccio dei Sauri 34, indatabili e che finora appaiono isolati nel contesto civile daunio. Altri pezzi lapidei sono teste piú o meno plastificate o aniconiche quali simboli anonimi di una divinità universale (Dea Madre?) rinvenuti a monte Saraceno 35. Indicazioni, sia pure nella limitatezza che ci può dare la documentazione vascolare, ci vengono date dalla ceramica geometrica daunia, differente dalle consimili peucetica e messapica. Per la foggia delle anse, delle quali alcune modellate a figure femminili in atteggiamento ieratico e a mani apotropaiche, per le forme tipiche di vasi filtri, dei kantharoi ispirati alla capeduncola buccheroide subappenninica, di vasi a orlo sviluppato, il vasellame daunio riflette specie nella foggia delle anse i contenuti di culti e divinità agrarie. Accanto alla tomba collettiva, che si è ricondotta concettualmente a gruppi subappenninici o ancora culturalmente condizionati da un economia armentizia, si hanno le tombe individuali a fossa con suppellettile tra cui per lo piú compaiono prodotti ionico-corinzi associati al solito geometrico e subappenninico. Nessuno finora ha segnalato al mondo degli studiosi sarcofaghi monolitici, che in altre parti della Puglia sono le tombe ecistiche del VI sec. a. Cr. delle città entro e nei cui pressi sono state rinvenute (Monte Sannace, Azetium, ecc.) 36 . Ma sappiamo - e purtroppo non può essere documentato per la distruzione dei depredatori di antichità - della vasta necropoli daunia di Herdonea con tombe a camera ridotte a cisterna o colmate dai contadini. La civiltà daunia è ancora sfingea per deficienza di esplorazioni, ma è tale anche per incuria. Non si sa nulla della fondazione delle principali città daunie, nè dei suoi fondatori. La tradizione storiografica antica suggerisce molte indicazioni; ma se l'Archeologia non la sostiene, o meglio se non si parte dal dato archeologico per « leggerla », non se ne può comprendere appieno la processualità storica culturale. Dobbiamo, infatti, all'Archeologia se oggi possiamo scorgere un fondo di verità nel racconto di Turno, figlio di Daunio e capo della Daunia gens, ossia una relazione tra i Dauni e i Latini 33 S. FERRI, Stele « daunie », I, « Boll. d'arte », 1962, p. 103 ss.; ibid. 1964, p. 1 ss. M. O. ACANFORA, Le stele antropomorfe di Castelluccio dei Sauri, « Riv. Sc. Preist. », XV, 1960, p. 95. 35 CORRAIN e altri, La necropoli dell'età del ferro di Monte Saraceno ecc. « Sibrium », IV, 1958-'59, p. 141 Cfr. anche « Riv. Sc. Preist », XV, 1960, p. 125 ss. V. FUSCO, Simulacri di divinità preistoriche. « Rend. dell'Ist. lombardo di scienze e lettere » (cl. lettere), 97°, Milano 1963, p. 21 ss. 36 V. il mio Osservazioni sulla storia economica cit. 34 36 culturalmente subappenninici 37 . Questa affinità etnologica si scorge ancora meglio se seguiamo per l'Italia centrale la saga di Diomede, elaborazione fatta su racconti locali riflettenti la penetrazione corinzia che fu accentuata nella Puglia adriatica, Daunia compresa. In altre parole anche all'ambiente culturalmente subappenninico osco-sabellico non fu ignota l'importanza dei traffici con la sfera commerciale corinzia. Del mondo osco si sa che si ramifica nell'Italia meridionale a partire dal V secolo a. Cr. e, dalla metà dello stesso, abbiamo i Sanniti in Campania e in Puglia (Lucera, Venosa, Banzi fondazioni osche) con i prestiti oschi al messapico della Daunia. I Sanniti si insediano agli inizi del IV sec. a. Cr. a Silvium in Peucezia (presso Gravina) riconquistata dai Romani soltanto nel 306, mentre Luceria e Venosa divengono colonie romane rispettivamente nel 315 e nel 292 a. Cr. Disponiamo di testimonianze sulla penetrazione sannitica. Si tratta di sepolcri individuali con tumulo lapideo (specchie) che, come si sa, hanno restituito corredi tipologicamente arcaici ma associati a vasellame geometrico daunio e a vernice nera (V-IV sec. a. Cr.) 3 8 . I tumuli si distribuiscono su tutta la zona murgica; anzi cominciano da Alfedena per scendere attraverso le montagne di Bovino, nel melfitano, sulle alture di Minervino, Spinazzola. Altamura e sino alle alture di Martina Franca. Sono corredi modestissimi, malridotti come del resto i cadaveri a causa della deposizione superficiale, denotante una sommarietà nel seppellimento propria di genti non stabilmente dimoranti nella regione. In realtà la penetrazione sabellica con i relitti di lingua nel messapico, lasciando come sua testimonianza questi sepolcri si profila sul terreno storico politico come una serie di incursioni volte ad ostacolare il pericolo greco in alleanza piú o meno pacifica con le genti daunie, peucetiche, ossia con quelle etnologicamente piú affini. Lo stanziamento sannitico a Silvium sarà effimero ed è da supporsi che scarse saranno le tracce del suo insediamento. D'altro canto le genti osco-sabelliche dovettero contribuire in misura piú accentuata al processo evolutivo della civiltà appenninica in area daunia con le transumanze attraverso il Subappennino ricordate dagli scrittori romani, medioevali e moderni. Dunque, la cresta dei monti dauni con i suoi valichi praticabili fu territorio atto agli spostamenti periodici delle comunità pastorali. In breve il fenomeno lascia evidenza linguistica ed archeologica nel V secolo ed echi negli scrittori classici che ci hanno tramandato come fondazione osca Lucera e Venosa. La civiltà daunia include ora anche questo altro elemento culturale che, come pure dalla sua diffusione nella regione pugliese e in tutta l'Italia meridionale, ha assunto consistenza di apporti linguistici sia pure di modesta entità e, quindi, anche etnici . 3 7 E. PARATORE, La leggenda apula di Diomede e Virgilio, « Archivio Storico Pugliese », VI, 1953, p. 34 ss. 38 V. il mio Struttura e materiali dei sepolcri a tumulo dell'Apulia preromana, « Altamura », n. 8, Bari 1966 (estr.), ristampa dei miei Struttura e materiali dei sepolcri a tumulo di Altamura, «Rend. Acc. Arch. Lettere e Belle arti di Napoli», vol. XXXVIII, 1963 e Contributo alla conoscenza dei sepolcri a tumulo dell'Italia meridionale « Riv. di Antropologia », L. 1963, ivi bibl. 37 Si può ravvisare una barriera osca sull'arco dei monti Dauni. Il motivo di fondo dei contrasti militari e politici in seno alla compagine iapigia comprensiva di Dauni, Peucezi, Osco-sannitici sono determinati dai vari interessi reciproci che hanno per trarre vantaggio nelle guerre di difesa dal mondo ellenico costiero. Nulla, dunque, ci impedisce di ritenere che alla fondazione dei centri urbani dauni abbiano contribuito anche elementi etnici diversi da quelli che la tradizione storica antica ci ha tramandato per la regione apula. La presenza di un sepolcro a tumulo entro la cinta muraria di Arpi suggerisce che alla fondazione della città hanno anche collaborato gruppi sabellici nel periodo della loro permanenza in Apulia. Anche alle origini di Siponto e forse di Salapia hanno contribuito genti di varia etnogenesi. Ma questi centri divengono città dal IV secolo a. Cr. quando la civiltà daunia va perdendo il suo carattere di originalità per divenire apula in senso piú ampio ed evolversi alla luce delle correnti ellenistiche. FRANCO BIANCOFIORE 38 Testimonianze linguistiche della Daunia preromana Innanzi tutto, devo avvertire che il mio discorso potrà apparire poco interessante non soltanto per la mia scarsa scienza, ma anche per gli esigui materiali sui quali mi riprometto di fondare questa prima ricostruzione del più antico panorama linguistico della regione dauna. Ma io preferisco non imbarcarmi in una fantasiosa o fantascientifica trattazione che, pur se avesse il dubbio merito di apparire vasta e divertente, avrebbe certo il grave difetto d'essere insincera o, peggio, falsa. Non che manchino del tutto le iscrizioni o che siano di difficile lettura, ma, purtroppo, i documenti epigrafici dell'antica Daunia, oltre ad essere veramente pochi, o sono scarsamente eloquenti o sono molto oscuri. Potremmo, certo, interrogare gli antichi storiografi e studiare i nomi dei popoli e delle città: e, in parte, lo faremo. Potremmo chiedere soccorso agli archeologi o ai paletnologi: ma questi nostri preziosi collaboratori si occupano di monumenti, noi di parole: essi cercano di studiare la vita dei popoli antichi attraverso gli oggetti d'uso comune o gli edifici; noi linguisti siamo piú... sofisticati o piú esigenti e vorremmo sapere come parlavano quei popoli: anzi, forse, vorremmo addirittura sapere quali fossero i loro pensieri. E vorrei precisare che, nelle loro ricerche rivolte ad illustrare le vicende di genti che non sono ancora entrate nella solare vicenda della storia, i linguisti operano diversamente dai paletnologi. Costoro ricercano gli elementi culturali che riguardano civiltà affini o diverse o assimilate tra loro; i linguisti studiano i rapporti tra le parlate che si continuano nel tempo o si diffondono nello spazio: i primi possono spingere le loro indagini anche a genti lontanissime che non hanno lasciato altro che strumenti muti e relitti fossili; i secondi devono limitarsi a studiare parole testimoniate direttamente da chi le pronuncia ancora o 39 indirettamente da testi scritti, però sempre parole che non restino mute, ma consentano un preciso contatto con le genti che le scrissero o, ancor oggi, le dicono. E dovrà, il linguista, sottrarsi alla tentazione di attribuire modi e tempi paralleli alla diffusione dei fatti di cultura e dei fatti di lingua. Dovrà, inoltre, tener ben presente che la nostra ignoranza dei piú antichi elementi di una lingua non nasconde né l'urlo ferino di popoli selvaggi, né l'attività inventrice di un demiurgo, che, per cosí dire, costituisca dal nulla, per sé e per i suoi simili, una determinata lingua. E' ben vero che nelle età antichissime, per scarsità di mezzi di comunicazione e di trasporto e per primordiali necessità di difesa, i singoli gruppi etnici restavano chiusi in un rigido isolamento conservatore, ma ben spesso l'atomismo tribale poteva essere interrotto da drastici sovvertimenti politici quando un popolo vincitore imponeva a un popolo vinto la sua egemonia militare e, di conseguenza, culturale e linguistica. E ancora: pur nella preistoria potevano esistere organismi sovranazionali capaci di propagandare e di diffondere, insieme con le proprie abitudini culturali e sacrali o con piú perfezionati corredi tecnici e strumentali, anche le parole connesse con le nuove idee e con le nuove merci. Ma i mutamenti culturali e le supremazie militari non sono condizioni indispensabili per spiegare la diffusione di novità linguistiche; né, d'altra parte, i cambiamenti linguistici postulano sempre massicce « invasioni » etniche: non sono rari i casi in cui esigue minoranze, dotate di largo prestigio culturale, siano state apportatrici e promotrici di profonde assimilazioni linguistiche negate, invece, a orde barbariche che, se riescono a imporre ai popoli vinti la loro signoria, non li possono obbligare a rinunziare alla loro piú raffinata civiltà e, soprattutto, alla loro lingua, piú illustre per lunga tradizione letteraria. E mi sia concesso di fare anche un'altra osservazione che potrà sembrare persino ovvia. Nelle nostre descrizioni degli antichi movimenti etnici, culturali e linguistici, noi usiamo metodi e documenti che, ben spesso, richiedono l'impiego di complesse tecniche scientifiche e comportano attente analisi critiche. Tra l'altro, noi siamo abituati a compiere rigorosi accertamenti delle nostre fonti d'informazione e, soprattutto, abbiamo il triste... vizio di rifiutare le notizie poco sicure anche se molto belle e di preferire, invece, le notizie piú certe anche se meno poetiche. Ed è per questo che le notizie trasmesseci dagli antichi storiografi greci, principalmente, e latini, noi abbiamo il dovere di raccoglierle, di studiarle e di rispettarle, ma abbiamo anche il compito di vagliarle e di attribuir loro quei limiti che spesso vengono denunziati dagli stessi autori. Ci piacerebbe, dunque, dar credito a tutto ciò che gli antichi narravano sulle avventure occorse nella nostra Capitanata a Diomede e ai suoi amici e nemici, ma, purtroppo, non avendo a nostra disposizione nessun documento e nessun monumento che ci aiuti ad effettuare il controllo della veridicità di quelle vicende, dovremo accontentarci di registrarle senza accettarle, ma senza neppure rifiutarle definitivamente o totalmente, con la mutria 40 di chi crede d'essere, lui soltanto, il depositario della verità, e di tutta la verità. *** Cominciamo, intanto a precisare l'area in cui si svolge la nostra ricerca: ricerchiamo quale fosse il territorio abitato dai Dauni e quali fossero le loro città. Poi cercheremo di vedere chi fossero i Dauni e con quali altri popoli avessero in comune l'origine della stirpe e, probabilmente, della lingua. La Daunia, nella divisione amministrativa augustea, sembra aver già perduto ogni individualità etnica, economica e amministrativa: era, infatti, compresa nella regio II di cui facevano parte l'Apulia (e cioè la Terra di Bari, sino a Venosa a ovest, Ginosa a sud e Diria-Monopoli a est) e la Calabria (e cioè l'odierno Salento). Ma l'area compresa tra il Fortore a nord e l'Ofanto a sud, tra l'Appennino a ovest e il mare a est, costituiva, secondo antichissime testimonianze, la terra dei Dauni, affini (come vedremo) agli Apuli e ai Messapi,, ma distinti per certe loro caratteristiche etniche, storiche e linguistiche che in parte conosciamo, in parte intravediamo e in parte immaginiamo. Ma già nel fissare i limiti del territorio dauno ci imbattiamo in un problema: Venosa e, specialmente, Canosa facevano parte della Daunia o dell'Apulia propriamente detta? Probabilmente è un problema insolubile, non soltanto pel silenzio o l'ambiguità delle fonti d'informazione, ma anche e soprattutto per lo scarso rilievo che poteva avere, in quei tempi e in quella zona, una rigida divisione che non interrompeva, né politicamente né amministrativamente, un territorio fondamentalmente unitario. Certo, ci resterebbe il criterio linguistico, ma, purtroppo, quelle poche notizie che riusciamo a mettere insieme non bastano a dirci se i Canusini parlassero una lingua uguale in tutto o solo in parte affine a quella degli Argiripini. Fermiamoci, dunque, nella Daunia: nel paese dei Dauni. Chi erano costoro? Antonino Liberale, seguendo una tradizione raccolta da Nicandro (ma, bene o male, nota anche a Festo, a Varrone e ad altri autori antichi), ci racconta che i tre figli di Licaone, Iapige, Dauno e Peucezio, partirono dall'Illiria con le loro genti; giunsero in Italia, cacciarono gli Ausoni dalle Puglie e vi si installarono. I nuovi arrivati avevano in comune la lingua; ce lo disse già Strabone (6.3,11) che però prima (6.3,1) si era espresso in maniera un po' confusa: « La Iapigia i Greci la chiamano anche Messapia, ma gli abitanti dividono se stessi in parte in Salentini e, verso il Capo Iapigio, in Calabri. A nord ci sono i Peuceti e i Dauni: tale è il loro nome in greco, ma gli abitanti chiamano la loro terra Apulia; altri si chiamano Pedicli e soprattutto Peuceti ». C'è poco da dire: il povero Strabone, imbrogliato da tanti nomi, tutti piú o meno superati già ai suoi tempi, sa distinguere soltanto i 41 piú antica) si ha (specialmente nell'adattamento greco e latino) il genere neutro: cosí abbiamo Càrbina accanto a *Carbínium, presupposto dall'odierno Carovigno; Barra e Barium; Lypia e Lipium; Celia e Caelium; Orra e Urium (v. oltre); Brenda e Brundusium; *Valetha e Vale(n) tium; e, infine, le odierne Canosa e Venosa accanto a Canusium e Venusium. Pertanto, un'alternanza tra il femminile Argu(ri)pia e il neutro (oltre tutto imposto dal genere della voce greca) Argos Hippion non ci turba. Ciò che, invece, ci piacerebbe sapere è se il suffisso -ippa (< *-ipia) sia stato aggiunto a una base *argur- o una base *arg-. A questo punto preferisco non lasciarmi sedurre da ricerche etimologiche che sarebbero tanto facili quanto inutili. Per pura curiosità, potremmo dire che il tema *argur- è quello che indica l'argento, ma, a sua volta, non è altro che un ampliamento del tema *arg- che anche esso significa, piú o meno, bianco, splendente e sim. Piú interessanti possono essere gli accostamenti con altri nomi di città che abbiano la stessa origine. Se preferiamo il tema *argur- potremo pensare agli Argurini dell'Epiro (che, si noti, sono ricordati da Licofrone e da Timeo, e cioè da due dei sistematori della saga dauna di Diomede!); ma ricorderemo anche in Dalmazia, tra i Liburni, la città di Argirunto. A favore del semplice *Arg- possiamo addurre la città degli Argesti, in Dacia Argedavo e in Tracia Argilo. Se proprio fossimo costretti a fare una scelta, oseremmo dare una certa preferenza al tema piú semplice, ad *Arg-, anche perché, com'è ben noto, le forme piú facili sono spesso una deformazione o una banalizzazione delle forme piú difficili: possiamo, insomma, pensare che il nome della nostra città sia stato reso dagli scrittori greci etimologicamente piú facile con l'aggiunta di un po' d'argento... Pertanto la nostra preferenza non va ad Argyrippa, ma, attraverso Arpi (o Arpa), che è la forma meglio documentata, a un *Argipia (o *Argipion) che ci sembra la forma piú antica e, forse, piú genuina. *** Ho già detto due parole a proposito di Salapia. Il già ricordato nome di Vibinum non andò a finire, come Vibo, con i cavalli, ma con i buoi e divenne Bovino... C'è chi vede nel nome del lago di Varano la radice indeuropea *var«acqua » (Krahe, Die Sprache._ 1, 93), ma altri autori (Alessio) giurano che esso deriva invece dal nome proprio latino Varius. 44 E ben poco avrei da dire di Siponto (che ci ricorda la seconda parte del nome di Metaponto, ma l'accostamento potrebbe essere quanto mai fallace). Ricorderò Herdonia il cui nome, testimoniato anche come Ordaneae ed Ardaneae, sembra simile a quello di una non meglio identificata (e forse mai esistita...) città messapica Ardanna. Con maggior precisione, un migliore accostamento dei Dauni con le genti dell'altra estremità della regione pugliese, con i Salentini, e con gli abitanti dell'opposta penisola balcanica, ci verrà offerto e confermato dal nome di Uria garganica (quella povera città che, senza nessuna sua colpa, dopo due millenni di silenzio, ha subíto l'oltraggio di quello scrittorúcolo francese inventore della legge o, come diceva lui, de La loi...) . Di Uria gli antichi conoscevano anche un'altra forma del nome, Hyrion - Hirium: essa è, dunque, perfettamente omonima della città salentina che ancor oggi si chiama Oria. Secondo me, il nome dell'Uria garganica e dell'Uria salentina corrisponde perfettamente a quello della città frigia Bria e della città tracia Brea (e lo stesso elemento onomastico ritorna anche in altri nomi di città): la base comune è un tema indeuropeo che significa proprio «città». Ecco, dunque, stabilito, meglio: confermato l'intimo nesso tra gli antichi popoli della nostra regione, tra i Dauni e i Messapi. Ma tale nesso non riguarda soltanto una generica origine storica, ma si concretava in un'intima e antichissima comunanza linguistica. Solo che dei Messapi noi abbiamo un numero veramente imponente di iscrizioni che ci danno discrete, anche se non complete notizie sulla lingua degli antichi abitanti del Salento, mentre, invece, le testimonianze epigrafiche della lingua dei Dauni sono estremamente scarse e assolutamente insufficienti a darci un quadro diretto della lingua che si parlava in Capitanata prima della colonizzazione latina. Ma non è questo l'unico episodio della... loquacità delle genti salentine: recentemente il Susini, raccogliendo le iscrizioni latine del Salento, ha ricordato che in quella zona si ha un numero altissimo (tra i piú alti di tutto il mondo romano) di epigrafi. Egli giustifica questa abbondanza con la presenza del Salento di una pietra tanto tenera da consentire il lusso di un'epigrafe ben economica anche a quegli strati sociali che, altrove, per ristrettezze finanziare, non potevano concedersi il piacere di apporre sulla tomba dei defunti un'iscrizione con il nome ed altre occasionali notizie riguardanti la persona sepolta. Il problema dei Messapi costituisce un capitolo, anzi: per noi il capitolo piú interessante di quel libro indecifrato che è la storia dei popoli di cui ignoriamo tuttora la lingua. E' un capitolo che presenta notevoli affinità con un altro brano di quel libro: il capitolo degli Etruschi. Tutto quello che noi sappiamo dei Messapi e degli Etruschi ci è stato raccontato in greco o in latino: mai in messapico o in etrusco. Eppure possediamo un gran numero di iscrizioni sicuramente autentiche, sicuramente scritte nella lingua di questi due popoli; siamo riusciti persino a precisare che questa epigrafe è piú antica di quella di cento, duecento, trecento anni; siamo anche giunti a capire il senso generico di quel testo 45 o il significato preciso di quella parola, ma siamo ancora ben lontani dal poter affermare che l'etrusco o il messapico non dico non abbiano piú segreti per noi, ma che, almeno, ci siano sufficientemente chiari. Strano destino è, dunque, quello che è toccato agli studiosi italiani e stranieri che si sono dedicati alla decifrazione di queste due lingue almeno dall'epoca rinascimentale. Negli ultimi centocinquant'anni la scienza linguistica ha fatto passi da gigante: è riuscita a leggere l'egiziano, il persiano antico, il tocario e l'ittito. Da qualche anno siamo in grado di leggere e tradurre le tavolette micenee; l'interpretazione delle lingue minori della penisola anatolica precede a ritmo soddisfacente: solo l'etrusco e il messapico segnano il passo. Le iscrizioni sono là, conservate nei nostri musei; può leggerle anche chi riesce appena a leggere l'alfabeto greco, ma nessuno può dire onestamente d'aver capito ciò che ha letto. Perché questo ritardo? Certo, è vero: siamo riusciti a leggere i geroglifici, ma l'aiuto maggiore ci è stato dato dalla pietra di Rosetta e cioè da una lunga iscrizione redatta in tre lingue di cui una a noi ben nota, il greco, ci ha offerto la chiave per capire le altre due; oggi leggiamo le iscrizioni cuneiformi e capiamo l'ittito, ma ciò si deve al fatto che anche lí abbiamo avuto il compito facilitato da lunghi testi bilingui, in cui la lingua nota ci aiuta a leggere quella ignota; e cosí l'interpretazione dei testi tocari ci è stata facilitata dal fatto che essi contenevano testi buddistici che noi conoscevamo già nelle redazioni indiane; la lettura delle tavolette micenee, prima assolutamente disperata, si è rivelata relativamente facile, quando il Ventris ha avuto la brillante intuizione che quei segni contenevano scritture greche, in un greco sicuramente antichissimo, ma pur sempre affine a quello usato da Omero nei suoi poemi, da Aristotele e da Polibio, a quel greco ancor oggi parlato dai Greci. Niente, invece, di tutto ciò per l'etrusco: anche se recentemente sono state trovate a Pyrgi delle lamine auree bilingui, la loro interpretazione non ci ha detto molte cose nuove anche perché esse sono troppo brevi e, soprattutto, perché la redazione punica di quei testi non è perfettamente parallela e perchè, infine, le nostre conoscenze del punito non sono neppure tanto ampie... E anche il messapico è ancora muto: non abbiamo trovato neppure una misera iscrizioncella bilingue che ci offra utili spunti ermeneutici, né abbiamo riconosciuto utili punti di contatto, sufficientemente vasti, con altre lingue meglio conosciute. Possiamo, ad ogni modo, credere che il messapico, insieme con il dauno e il peucezio, rappresenti la fase piú antica (priva delle successive stratificazioni greche, latine, slave e turche) dell'albanese. Alcune particolarità linguistiche e, soprattutto, una notevole massa di nomi di persona e di nomi di luogo, testimoniati in maniera pressoché identica nella penisola balcanica e nella regione pugliese, ha suggerito agli studiosi l'esistenza di un'antica comune origine tra le genti delle opposte sponde dell'Adriatico. 46 Ma, purtroppo, la lingua albanese ha subíto gravi modifiche nel corso dei millenni; della forma che essa, insieme con altre lingue piú o meno affini, quali il trace, il daco e il mesio, aveva prima delle colonizzazioni greca e latina sappiamo tanto poco che possiamo dire di non sapere nulla. Restiamo, dunque, senza alcun valido sussidio per la decifrazione del dauno, del peucezio e del messapico; l'interpretazione linguistica è condannata a progredire molto lentamente e, se non vado errato, non sarà mai compiuta e perfetta... E, peggio ancora, se le iscrizioni messapiche sono abbondanti, quelle della Peucezia e della Daunia sono piuttosto scarse. Né io posso, per impinguare il numero delle epigrafi daune, prendere in prestito quelle trovate oltre l'Ofanto, a Canosa o a Ruvo di Puglia, anche se appare lecito credere che tra la zona peuceta e la zona dauna ci fossero larghe affinità linguistiche. *** Le iscrizioni daune che sono giunte sino a noi sono di due tipi: o sono su pietra o su monete; quelle provengono tutte da Vieste (tranne una trovata a Lucera), queste sono di Arpi e di Salpi. Dall'elenco che do, ometto le iscrizioni viestine che siano troppo frammentarie. Abbiamo, dunque: 1. 2. 3. 4. 5. 6. agol / zon ve/nana diva / dama/tira deiva / dama/tira pre / ve zi ve/na diva / damati/ra / zo-pa kale (de Simone legge opakalgo) dama(tira?) / klator blasit agol zei L'iscrizione lucerina dice ?imeireiv / deinam Sulle monete di Arpi (III sec.?) si legge Salpi 1. poulai; 3. poula - 2. poullou, pullu; - 4. eienam - 5. dazou e su quelle di 1. 2. 3. 4. 5. daze... edamaire damaire / dazeni dazu/s dam domular... zente Mi sia concesso di omettere ogni considerazione sull'iscrizione lucerina e sulle leggende delle monete, non perché esse non siano interessanti, ma soltanto perché il mio commento sarebbe molto semplice: non riusciamo a trarne nessuna utile indicazione linguistica (nelle monete potremmo individuare alcuni nomi propri, certo di magistrati monetari, Pullos e Dazos, ambedue ben noti anche nell'onomastica messapica; 47 potremmo anche dire che edamaire è una forma d'aoristo da cui dipende dazeni, sia esso un dativo o, piuttosto un accusativo, con lo stesso elemento -en- che vedremo, tra poco, in un altro accusativo). Limitiamoci, dunque, a esaminare piú attentamente le iscrizioni viestine. Esse possono essere divise in due gruppi: uno, composto dalle prime tre, era inciso su piccole stele di pietra locale; l'altro si legge su iscrizioni redatte su materiale vario per forma e per stile epigrafico. Quest'ultimo gruppo di iscrizioni, insieme con altri pezzi epigrafici, fu murato sulla facciata di una sua casetta rustica, costruita a poca distanza dall'abitato di Vieste, da Biagio Abatantuono. Di tutte, però, si ignora il luogo, la data e le circostanze di ritrovamento. Le prime tre epigrafi rischiavano invece di restare sconosciute o, peggio, di essere in perpetuo condannate al grave sospetto di non essere autentiche, emesso contro di loro dal Whatmough. Ma, in fondo, lo studioso americano non aveva tutti i torti: né egli né il Ribezzo erano mai riusciti a vederle, ma ciò sol perché non si erano mai recati a Vieste per cercarle. Io, invece, riuscii a ripescarne una (la prima) rovistando sotto il letto della casa di campagna del fu Abatantonio: e lí la trovai rotta in due pezzi, ma non la lasciai dove l'avevo trovata: la portai via, senza neppure chiedere il permesso all'attuale proprietario della casa. Depositai l'epigrafe nel Municipio di Vieste e lí è ancora e mi auguro che sia onorata a dovere ché essa è, praticamente, il piú illustre documento linguistico dell'antica Daunia. Ma, in quell'occasione, fui accolto con grande cortesia dalle autorità viestine che mi permisero di consultare finche tra certe carte depositate in Municipio ed ebbi cosí la possibilità di ritrovare le lastre fotografiche delle prime due iscrizioni che sembrano essere state distrutte. Cerchiamo ora di affrontare i testi dauni per cavarne quelle poche notizie che riusciremo a capire. Lascio da parte ogni interpretazione piú o meno poetica, qual'è quella, ad esempio, per cui le prime quattro iscrizioni costituirebbero un unico testo, scritto in una specie di greco dorico. È, invece, assolutamente certo che la III e la IV iscrizione sono dei testi indipendenti tra loro, come del resto, dalle stesse III e IV iscrizioni sono indipendenti le prime due. Si tratta, per quel che ci è dato di capire, di dediche o di invocazioni sacre a tre divinità: a Zeus, a Demetra e a Venere. Il culto di Zeus e quello di Demetra sono largamente documentati presso le nostre genti iapigie. E’ col nome di Zeus che cominciano i testi piú importanti che si conservino nella Messapia: essi si aprono con l'invocazione klaohi zis che può tradursi quasi sicuramente « Ascolta, o Zeus! » o, forse meglio, « Zeus ascolti! ». Del culto a Demetra abbiamo sicure testimonianze in tutta l'area pugliese, dalla Daunia alla Peucezia, alla Messapia. Qui, soprattutto, abbiamo trovato numerose iscrizioni in cui si parla di sacerdotesse (e di sacerdoti) di Demetra: spesso le tombe in cui furono deposte le persone 48 Insomma, i legami delle genti daune con i vicini Peuceti e Messapi e con i dirimpettai d'oltre Adriatico si vanno facendo sempre piú chiari, piú abbondanti e piú precisi. E certo piú intimi ci si mostrerebbero tali legami se, in genere, le notizie sin qui scarse e frammentarie sugli antichi Dauni e i documenti epigrafici a nostra disposizione fossero piú ampi. O. PARLANGÈLI NOTA BIBLIOGRAFICA I testi dauni sono stati pubblicati negli Studi messapici di O. PARLANGÈLI, Milano 1960 (con tutte le indicazioni della bibliografia precedente) e da C. DE SIMONE (nel secondo volume di Die Sprache der Illyrier di H. KRAHE, nn. 144, 155, 102, 141, 220, 252, 77, 106 e 286). Il saggio d'interpretazione piú importante resta pur sempre quello di V. PISANI (vedi ora nelle Lingue dell'Italia antica oltre il latino, II ed., Torino 1964, p. 235, n. 70). Di altre interpretazioni, piú o meno parziali o fantastiche, non mette conto di parlare. 50 Il Pellegrino al Gargano I - TERRA DI PUGLIA. Quando, agli albori di questo secolo, Emile Bertaux, « ancien membre de l'Ecole de France de Rome », visitò i monumenti dell'Italia meridionale, ne rimase incantato e li esaltò in pagine memorabili e per molti versi ancora attuali 1. Solo che, nella ispirazione e nella esecuzione di quasi tutti quei monumenti, egli vide una manifestazione del genio francese sul suolo italiano. Analogamente, Arthur Haseloff, recatosi piú tardi in Puglia, s'imbatté nella fatidica aquila sveva e ne seguí il volo di paese in paese, dalle pendici del Promontorio del Gargano al Capo di Santa Maria di Leuca 2, senza tener conto di circostanze e documenti che sarebbero bastati da soli, almeno in certi casi, a snebbiargli la vista. Per questo, allorquando un amico, venuto a sapere che stavamo scrivendo un libro sulle « Cattedrali di Puglia » 3 , ci domandò quale fosse la nostra posizione rispetto ai grandi storici dell'arte e ai viaggiatori stranieri che in passato si occuparono piú o meno diffusamente dei monumenti della regione pugliese, non esitammo a rispondere che essa era di rispetto ed anche di gratitudine, per le fatiche pazienti e spesso geniali compiute da qualcuno di quegli scrittori; ma che ciò non poteva impedirci di reagire cosí al loro patente sciovinismo come alla leggerezza con cui qualche scrittore nostrano ne aveva condiviso le opinioni. D'altra parte, aggiungevamo, troppi anni erano trascorsi dalla pubblicazione delle loro opere, e nel frattempo altri elementi erano venuti in luce, altri vestigi, e specialmente altri nomi di artisti, tutti dichiaratamente pugliesi, o circostanze relative alla loro vita. E' questo, per dirne uno, il caso dello scultore Acceptus, operante prima che Normanni e Svevi si fossero stabiliti in Puglia, e cioè dal 1023 circa al 1050, EMILE BERTAUX, L'art dans l'Italie méridionale, Paris 1904. ARTHUR HASELOFF, Die Bauten der Hohenstaufen in Unteritalien, Leipzig 1920. 3 1 a ed., Roma 1960; 2 ,a ed., ibid. 1964 . 1 2 51 quando l'arcivescovo Leone II occupava la sede di Siponto, tutt'una cosa con quella di Monte S. Angelo, suo paese natale 4. Ma ci sono casi non meno tipici, come quello di Simiacca barlettano e di suo figlio Luca. Il Bertaux, giunto a Barletta ed esaminatine sempre piú entusiasta i monumenti del periodo romanico, esclamava: « Qui dovette esserci senza dubbio un focolare d'arte borgognona ». Ebbene, il libro, il meraviglioso libro del Bertaux, è del 1904; dieci anni dopo usciva il secondo volume del Codice Diplomatico Barese con le " carte di Barletta ", e da quelle carte saltava fuori il nome di Simiacca « protomagister ecclesiae Sanctae Mariae », operante ancora nel 1162 con suo figlio Luca, « magister » nella medesima fabbrica. C'è bisogno di commenti? Allo stesso modo le date di molti monumenti erano sospinte a far la spola tra il periodo normanno e il periodo svevo, a seconda degli interessi politici ed intellettuali degli scrittori. Valgano per tutti gli esempi di San Leonardo di Lama Volara, detto San Leonardo di Siponto, e della SS. Trinità di Montesacro in cima al Gargano. Di San Leonardo e della sua decoratissima porta laterale fu sempre detto (Lenormant, Bertaux, Gregorovius, Haseloff e in ultimo anche Willemsen) che appartiene al tempo di Federico II, mentre invece quella comunità monastica, già ricca al tempo dell'abate " Riccardus " (1157-1173) di ventimila ducati d'oro di rendita all'anno, si trovava al tempo di Federico in tale stato di decadenza da far assomigliare la sua chiesa piú ad una spelunca latronum che ad una casa di Dio. Né è vero che il monastero con la sua chiesa e il suo vastissimo ospizio fosse detto « di Terra Alemanna » perché concesso da Federico all'Ordine di S. Maria dei Teutoni, in quanto quella concessione ebbe luogo, per parte del papa Alessandro IV, solo nel 1260, cioè dieci anni dopo la morte di Federico. Comunque, quindici anni prima della morte di Federico il papa Onorio III parlava della memorabile opulenza di Pulsano come di cosa già trascorsa; e quanto a Montesacro abbiamo un diploma di papa Innocenzo IV del 28 ottobre 1235, dal quale risulta che quella badia, un tempo floridissima, non era in grado di pagare il viaggio a Roma di Giovanni, suo nuovo abate. Anche qui, come si vede, ogni commento è superfluo. A parte la questione dei « magistri comancini » o « commageni », che va affrontata, per quanto riguarda il loro trapianto in Puglia, con nuove conoscenze e nuovi criteri, c'è poi chi si gingilla ancora a contrapporre arte romanica lombarda ed arte romanica pugliese e si domanda quale delle due si sia affermata prima ed abbia influito sull'altra. Vana accademia! Quando avessimo per caso accertato che Barisano da Trani, autore delle meravigliose porte di bronzo della sua cattedrale, conobbe l'Altare d'oro di Volvinio in S. Ambrogio a Milano, o che Lanfranco e Viligelmo, attivi in Modena, secondo l'epigrafe di fondazione di quel Duomo e la Relatio del magiscola Aimone, nel 1099 presero a Cfr. la biografia che ne abbiamo data in Dizionario Biografico degli Italiani, I, Roma 1960, pp. 70-2. 4 52 modello per i loro armoniosissimi archetti pensili quelli anteriori del Duomo di Bisceglie, non avremmo detto nulla di veramente conclusivo. L'arte è somma di esperienze, e nè gli artisti nè i popoli ne rifiutano alcuna, perchè valida. Che direste, chiedeva un giorno E. Schmidt, di chi volesse trovare il germe del Pantheon nelle capanne circolari di fango erette dai Galli sotto le mura di Roma? E Benedetto Croce, riferendosi a quanto era stato scritto in piú occasioni da un Lenormant e un Bertaux, un Enlart e un Reymond a proposito di arte francese ed arte italiana in genere, avvertiva quanto errato fosse il loro metodo che poteva condurre a negare originalità all'Ariosto per quel che egli aveva derivato dalle Chansons de gente e dai romanzi della Tavola Rotonda. E specificava: « Castel del Monte sarà dunque un'opera di architetto francese allo stesso modo che l'Orlando Furioso è un'opera di letteratura francese », cosí come, aggiungiamo noi, il pavimento a mosaico del Duomo di Otranto, tuttora esistente, e quello del Duomo di Brindisi, malauguratamente scomparso, sarebbero opera di mosaicisti d'Oltralpe, sol perchè il prete Pantaleone, che li compose firmando e datando il primo nel 1165-66, il secondo, sembra, nel 1178, mostrava di avere anche lui una certa dimestichezza con i personaggi dei cicli leggendari di Alessandro, di Orlando e di Artú 5. Questi preti e questi monaci, questi giudici e questi notai eruditissimi, usi, fra l'altro, a redigere in versi leonini e trinini le invocazioni e le sottoscrizioni dei loro atti 6, conoscevano l'universo mondo. Chi ci meraviglierà nell'apprendere, ora che un nostro studioso ci ha messo l'occhio dentro, che la biblioteca della Abbazia benedettina di Trèmiti annoverava nel Millecento fra i suoi molti libri anche un Omero 7? Il popolo pugliese era nel suo complesso un popolo colto, e la sua cultura, di origine prevalentemente classica, riceveva sempre nuovo alimento dal flusso continuo dei pellegrini ai suoi Santuari, dall'andirivieni dei Crociati dell'intero mondo cristiano, dai suoi sempre piú fiorenti commerci con i maggiori centri del Mediterraneo. Dominatori e predoni di ogni parte di Europa si avvicendarono per secoli sulla terra di Puglia detta « fortunata » come la disse Dante, perchè esposta, a causa della sua posizione geografica, alle diverse vicende della fortuna; ma non riuscirono mai ad essiccarne o alterarne la vena creativa. Lavorare ed innalzare la pietra era per la sua gente un modo, forse il primo modo, di cantare anche nel dolore. La piú maestosa delle basiliche pugliesi a matronei, San Nicola di Bari, fu costruita, per volontà del ceto marinaio e di un religioso « inclitus atque bo5 Per il pavimento di Pantaleone, cf. ora BRUNO LUCREZI; La cattedrale di Otranto e la Divina Commedia, in « La Rassegna Pugliese », I (1966), pp. 401-11 (con bibl.). 6 Cfr. FRANCESCO BABUDRI, La poesia nella diplomatica medievale pugliese, in « Archivio storico pugliese », VI (1953), pp. 50-84. 7 Cfr. ARMANDO PETRUCCI, L'archivio e la biblioteca del monastero benedettino di S. Maria di Tremiti, in « Bullettino dell'Archivio Paleografico italiano », n.s., II-III (1956'57), parte II, pp. 291-307. 53 nus », Elia, prima abate e poi arcivescovo, quando, sottratta al dominio greco, la città si mostrava già insofferente del dominio normanno, e la Cattedrale della stessa città risorgeva piú splendida di prima, poco dopo che la rivolta del 1156 era stata soffocata nel sangue. Quindi piú tardi si assisteva all'esplosione del barocco leccese, un fenomeno tutto locale, culminante nell'opera prodigiosa di Giuseppe Zimbalo, detto lo Zingarello. Ma pensate, spingendovi con la mente indietro nel tempo, alla civiltà preistorica e protostorica della regione, quale ci viene presentata, in misura piú unica che rara, cosí nei pubblici musei come nelle collezioni private, dal suo celebre vasellame dipinto, e in particolare da quello con soggetti fliacici, caratteristici del luogo; pensate a quel che fu nel mondo dello spirito Taranto: la Taranto di Pitagora e di Anassagora, di Livio Andronico e di Leonida, la Taranto cara a Platone e a Virgilio e a cui Orazio sognava sempre di poter ritornare, anche se a dorso di un muletto sfiancato e scorticato dal peso della bisaccia. Quel muletto lo ritroveremo mille anni dopo, o giú di lí, in due fra i piú originali e ben condotti capitelli pugliesi. Il primo nella cosiddetta « Tomba di Rotari », il secondo nella porta laterale di San Leonardo di Siponto. Nell'uno e nell'altro è figurato un uomo in cammino con la sua bestia, nel quale alcuni scrittori vollero vedere non un riflesso della vita locale, ma ... la storia di Balaam, mentre gl' indigeni vi hanno sempre ravvisato la figura del pellegrino medievale in viaggio verso il Santuario del Monte. Chi non riconosce nel rilievo dello sfondo le tipiche arcatelle cieche di un tempio di stile daunosipontino? Ebbene, nessuna cosa è tanto commovente quanto la vista di quell'uomo, non piú pagano (qui dove prima erano adorati Calcante e Podalirio) ma cristiano, che, incurante d'estate del torrido Atabulus e d'inverno del « tremolizzo grandissemo », sia egli un regnante o un villano, un porporato o uno scaccino, si va avvicinando, di tappa in tappa, di ospizio in ospizio, alla favoleggiata ed agognata sua meta. Cosí potessimo anche noi montare oggi fra tanto strepito di macchine frettolose, su quel muletto, con la bisaccia gonfia degli stessi sogni di un tempo, e rifare, un poco alla volta, tutto rivedendo e tutto riamando, la lunga strada di quella terra che ci fu, giorno dopo giorno, culla e dimora, ed ora ci è solo memoria ! I I - MONTE S. ANGELO - LA CATTEDRA DI LEONE. Fra i prodotti piú considerevoli della scultura medievale pugliese figurano, com'è noto, tre cattedre marmoree, giunte a noi integralmente: una a Monte S. Angelo, nella Grotta di San Michele; un'altra a Canosa, nel Duomo di San Sabino; ed un'altra infine a Bari, nella Basilica di San Nicola. Di quest'ultima disse lo Schubring che gli svegliava nella mente l'immagine del sedile dell'Arconte nel teatro di Dioniso ad Atene; ma anche delle altre due si potrebbe dir lo stesso o qualcosa di simile. 54 Quella di Monte S. Angelo, poi, scolpita dal fastigio ai leoni di sostegno in un solo pesantissimo blocco di marmo, quasi a suggerire la massiccia solidità del bel Promontorio che la vide nascere, ha pure una storia sua propria, complicata e burrascosa, che le conferisce un tantino di mistero e che giova comunque conoscere, ai fini di un giudizio appropriato sulla sua età e la sua fattura 1. Il vescovo di Siponto, Leone, insediatosi, secondo la cronologia del Sarnelli e del Gams, nel 1034, o forse, secondo il Gay e il Klewitz, non piú tardi del 1023, si proclamava anche vescovo, o meglio arcivescovo, della sovrastante città di Monte Sant'Angelo, in cui era nato; ma ciò, ammesso o tollerato finché egli visse, doveva dar luogo alla morte, avvenuta nel 1050, a contestazioni e liti tanto lunghe quanto ostinate. E poiché nella competizione furono esibite alcune bolle false, qualcuno affacciò l'ipotesi che anche la cattedra marmorea fosse un falso, prodotto dalla chiesa di Monte S. Angelo, a riprova del suo « diritto ed onore » alla concattedralità con Siponto. Il Bertaux anzi vide nei due esametri latini scolpiti in sommo allo schienale della cattedra un'allusione alla controversia in atto. « Questa cattedra », dice l'iscrizione, con un ingegnoso espediente grafico in cui le parole terminali Siponto e Monte risultano unificate nelle desinenze (Sip-onti M-onti), « differisce per numero da quella di Siponto; il diritto e l'onore della cattedra di Siponto sono anche di Monte ». Orbene, se falso ci fu, esso riguarda, a nostro avviso, soltanto l'iscrizione e non l'oggetto scolpito. Un monumento falso da produrre in giudizio si prepara per solito in fretta, tanto in fretta che assai spesso colui che lo crea cade in errore; ed una cattedra monumentale come quella di Monte S. Angelo, ricavata da un blocco unico di marmo ed intagliata finemente in ogni sua parte, non poteva essere concepita e costruita né in un giorno, né in un mese, né in un anno. La tradizione vuole, nientemeno, che questa cattedra sia stata costruita per Lorenzo Maiorano, tra la fine del V e il principio del VI secolo, poco dopo, cioè, che l'Arcangelo Michele era apparso sul Gargano; ragione per cui è tuttora chiamata la « Sedia di San Lorenzo ». Ma, a parte il valore sentimentale della tradizione, intimamente legata con la leggenda dell'apparizione di san Michele e con l'enorme influenza che questa ebbe per diversi secoli sulla formazione della civiltà locale, sta il fatto che la cattedra appartiene stilisticamente al periodo romanico e si ricollega per mille versi ai numerosi monumenti sorti in quel periodo nella regione garganica. Nulla di strano dunque, che essa sia stata costruita per Leone, il quale, ripetiamo, amò sempre proclamarsi arcivescovo « di Siponto e del Monte Gargano » e risiedette quasi in permanenza sulla Montagna, non solo per amore al Paese natío, ma anche perché il degno tempio da lui incominciato, su fondamenta preesistenti, già a Siponto, non era ancora del tutto compiuto. E qui, a proposito del significato dei due esametri, in cui vengono distinte ed unificate al tempo stesso le due sedi, conviene ricordare come la città di 1 Per le questioni qui affrontate, si veda Cattedrali di Puglia, pp. 37-40. 55 Siponto e il Monte Gargano fossero nel Medioevo considerati talmente uniti, da far dire della prima che « portava sulla cima la chiesa di San Michele » (in cacumine supremo beati Arcangeli gestat ecclesiam). Ma se la cattedra non è falsa, e falsa invece, come tutt'al piú si potrebbe pensare, è la sola iscrizione, in qual momento un tal falso sarebbe stato compiuto? La lite fra Siponto e Monte divampò subito dopo la morte di Leone, avvenuta nel 1050. Allora, dunque, in vista dei prossimi « pronunciamenti », il Capitolo di San Michele potrebbe aver deciso di far incidere sulla cattedra marmorea i due ingegnosi versi latini, che nelle sue previsioni dovevano tagliare la testa al toro. E se non proprio allora, ciò potrebbe essere accaduto nel 1059, quando, cessata la vacanza della sede di Siponto, che il vescovo di Trani aveva tenuta provvisoriamente per nove anni (la pretesa sua aggregazione a Benevento è ormai una favola), la lotta per il riconoscimento o no delle due distinte sedi si riaccese piú violenta. A meno che non si voglia pensare né al 1050 né al 1059, ma piuttosto al momento in cui, deceduto l'arcivescovo Gifredus, il Capitolo di Monte si accinse ad adire la Regia Curia, presso cui godeva di forti protezioni, ed il papa Alessandro III, temendo uno scandalo, emise da Benevento la bolla in data 25 aprile 1167, che oggi si vede scolpita al disopra delle porte di bronzo della Basilica di San Michele. Il tenore della bolla, diretta ai sacerdoti della chiesa di Siponto, è il seguente: il Pontefice riconosce che la chiesa di Siponto e la chiesa di Monte furono considerate solitamente come una sola sede, ma non ammette che ciascuna delle due reclami un suo proprio vescovo, perché ciò sarebbe indegno e derogherebbe dall'onestà dell'una e dell'altra. Esorta pertanto i due Capitoli a mettersi d'accordo fra loro, per evitare che abbia a scoppiare la scintilla di uno scandalo, o una discordia permanente, là dove invece conviene che regni l'unione della fraterna carità. Quanto ai ragionamenti del Bertaux per giungere alla conclusione che la cattedra marmorea di Monte S Angelo è « senza dubbio » contemporanea di quella di Canosa (1080) e di Bari (1098), è superfluo notare come le ornamentazioni accessorie, e specialmente le strisce di losanghe, che egli trova nell'una e nelle altre, si trovano già negli amboni locali di Acceptus (1041) e nelle lesene di Siponto. E ciò senza dire, come lo stesso Bertaux è costretto ad ammettere, che i motivi decorativi fondamentali, quali gl'intrecci dello schienale e di una delle sponde della cattedra, ed il bassorilievo di San Michele dell'altra sponda, « sono tutti propri di questo monumento », come lo sono, aggiungiamo noi, i riempimenti degli intagli ed intarsi con pasta di tartaruga, che Flodoardo di Reims vide sul Gargano già nel X secolo. Nella fattura di questo mirabile blocco di marmo, estratto verosimilmente dalle cave dello stesso Gargano (le cave, poi chiuse, cui attinsero in sèguito i costruttori di Castel del Monte e della Reggia di Caserta) e composto in forma senza una sola giuntura, assistiamo al trionfo dei motivi ornamentali ad intreccio. Dinanzi a tali motivi, che 56 i disegnatori ottocenteschi al sèguito dello Schulz ci spiegarono per primi, come raccontandoci una fiaba, in due dei loro piú ricercati grafici, e che ora ritroviamo suggestivamente velati dall'ombra della Grotta, nella edizione laterziana della Puglia di C. A. Willemsen e D. Odenthal 2, si parlò sempre, e si parla tuttora, di arte bizantina, arabo-moresca, musulmana, ecc., senza tener conto del fatto che anche al fondo di quei motivi c'è un elemento nostro, classico e paleocristiano, come, del resto, in tutte le manifestazioni artistiche del Gargano e, in genere, della regione pugliese. A parte l'« opus reticulatum », tenuto, come ci avverte Vitruvio, in grande onore presso i romani e in cui sono effettivamente adombrati i motivi ad intreccio, a chi ci chiedesse dove gli autori degli ornati di questa cattedra e di altri monumenti delle vicinanze, quali il diruto San Pietro, S. Maria di Siponto, Montesacro, Pulsano, S. Egidio « sotto Monte Calvo », ecc., trovarono i modelli o le loro fonti d'ispirazione, potremmo indicare sia Roma (il gran mosaico, per es., dei Gladiatori delle Terme di Caracalla, ora al Museo Lateranense, e i mosaici delle catacombe dei SS. Marcellino e Pietro presso il mausoleo di S. Elena in via Labicana), sia, per non spingerci fino ad Aquileia ed oltre, lo stesso Gargano, che sappiamo essere stato ricchissimo di ornamentazioni musive romane e paleocristiane, come ci confermano di tanto in tanto gli scavi. E ciò a prescindere dalla familiarità che gli « scriptoria » monastici della regione, da Siponto a Monte S. Angelo, da Pulsano a Tremiti, ebbero con la miniatura cassinese-beneventana, sempre florida, nel suo repertorio ornamentale, di motivi ad intreccio. Né deve far meraviglia che queste forme, analoghe a quelle realizzate con lavoro d'intaglio a squadro e a sottosquadro in antichi « stampi » in legno, ancora in uso per marchiare il pane e i panni, e successivamente in matrici di libri tabellari e in genere in ogni figurazione xilografica, convivevano anche in un medesimo monumento (come nel caso della cattedra di Monte S. Angelo) con rilievi a tutto tondo, essendo siffatta convivenza, cosí bene illustrata dal Lavagnino, una delle caratteristiche della scultura romanica pugliese. Diremo infine, per conchiudere, che la cattedra di Monte S. Angelo recava un tempo, al pari di quella smembrata di Siponto, anche il nome dell'arcivescovo Leone, e se non lo si legge piú oggi, lo poté leggere ancora nel secolo scorso lo Schulz, come l'aveva letto, in epoca piú remota, e consacrato in un atto pubblico, un notaio del luogo. 1023-1050, dunque: la tesi di C. A. Willemsen e D. Odenthal, secondo cui tutto laggiú, in fatto d'arte, sarebbe sbocciato sotto il passo fatale dei Normanni e degli Svevi, ne esce, come si vede, un po' scossa. Proprio in quegli anni Monte S. Angelo, primo fra tutti i centri abitati che lo circondavano, si dava un libero reggimento comunale, e lo scultore "Acceptus", pugliese tra i pugliesi, firmava e datava il terzo dei suoi amboni monumentali. CARL ARNOLD WILLEMSEN-DAGMAR ODENTHAL, Puglia Terra dei Normanni e degli Svevi, Bari 1959. 2 57 III - MONTE S. ANGELO: IL MONUMENTO MISTERIOSO. A breve distanza da S. Maria Maggiore, e quasi attaccato all'abside della diruta chiesa di San Pietro, si eleva il piú caratteristico monumento di Montesantangelo: la cosiddetta « Tomba di Rotari », che a giudizio della maggior parte degli scrittori è anche « il monumento piú misterioso dell'Italia meridionale », cosí per la sua forma come per l'uso a cui doveva essere in origine destinato, ma soprattutto, forse, per la epigrafe apposta al suo interno e intorno a cui ogni visitatore piú o meno colto si vôta da secoli il capo. Il lapicida indigeno che incise queste lettere non doveva avere evidentemente troppa dimestichezza con i comuni caratteri lapidei, e invece di adottare forme tipicamente epigrafiche, trovò naturale attenersi alle forme della scrittura documentaria dei centri scrittorii locali, con speciale preferenza per la maiuscola allungata, di cui solevano servirsi gli scribi e i « notai puplici Garganici » per i « titula » delle loro carte. E chi sa che, non essendo egli un calligrafo, il modello della iscrizione, assai piú rifinito ed impreziosito di quanto non risulti dai grossolani calchi che ne furono ricavati in diversi tempi, non gli sia stato fornito da uno dei tanti Pantaleo, Orso, Pietro, Guglielmo, Giovanni, Maraldo, ecc., di cui son piene le sottoscrizioni delle carte pubbliche e private di Trèmiti, Siponto, Lèsina, Dragonara, Monte, Vieste e delle loro adiacenze. Quando si voglia raffrontare questa epigrafe a qualcuna delle lapidi medioevali piú note, non si può non notare in essa la varietà insolita di alcune lettere, quali la A, la E, la R, l'intrusione inaspettata di un’a minuscola e l'eccessivo ricorso ai nessi, alle lettere inserte, alle abbreviazioni, ciò che, tralasciando il periodo piú arcaico, è tipico delle iscrizioni che vanno dai tempi di Gregorio II (bolla epigrafica in S. Pietro in Vaticano), Gregorio IV (bolla epigrafica nel portico dei SS. Giovanni e Paolo), Adriano II (Grotte Vat. Carme epigraf.), ai secoli XI (reliquiario di San Paolo del 1096) e XII (Memoria della Consacrazione di S. Maria in Cosmedin del 1125). La M piú frequente richiama quella che si vede, sempre a Roma, in un elenco d'indulgenze di San Martino ai Monti, della fine del sec. XII, nonché sul sepolcro del cardinale Conti nella Basilica Lateranense, che è del 1287. Un secolo circa, come si vede, fra l'una e l'altra. Ma in effetti, dopo esser passata, come in un dilettantesco « excursus », dalle antiche forme onciali, allungate ed addossate oltre misura, a quelle tipicamente visigotiche arabesche, la M di questa singolare epigrafe c'introduce alla fine, con la massima disinvoltura, in clima goticheggiante. E il tutto fra vezzi e fiorettature calligrafiche d'ogni sorta, solite a trovarsi piú in scritture membranacee che non in testi lapidari. Questa epigrafe, dunque, è costituita di tre versi leonini incisi di sèguito su d'una sola riga, che il Bertaux trascrisse e riportò nel seguente modo: 58 + INCOLA MONTANI PARMENSIS PROLE PAGANI ET MONTIS NATUS RODELCRIMI VOCITATUS HANC FIERI TUMBAM IUSSERUNT HI DUO PULCHRAM 1. Ma nello sciogliere le abbreviazioni, l'insigne studioso non si accorse che le pretese I terminali delle parole (« MONTANUS », « PAGANUS », « RODELCRIMUS ») non erano propriamente I, ma segni abbreviati della desinenza US (la US, appunto, che viene abbreviata nelle scritture medioevali, sia lapidee sia membranacee, o col segno simile ad un 3 o col « punto e virgola », rassomigliante ad una i col puntino); e in questo errore, che generava nel testo alquanto pretenzioso della iscrizione un triplice genitivo, grammaticalmente inesplicabile (cioè un triplice sproposito), si trascinò dietro tutti gli scrittori venuti dopo di lui. Ma, a parte ciò, il Bertaux congiunse mentalmente « MONTANI » e « PAGANI », facendo di uno dei due ordinatori della « tumba » un tal nativo di Parma, del quale, egli dice, non era indicato il nome, ma che s'era stabilito a Montepagano, distretto della provincia di Teramo, e un tal Rodalgrimo nato sul Gargano e forse a Montesantangelo, come si deduce dalla parola « MONTIS », dato che anche attualmente il paese è designato nella regione col solo nome di « Monte ». L'interpretazione del Bertaux fu accettata e ribadita dal Fulvio 2, mentre il sottoscritto, preoccupato della triplice sconcordanza, grammaticale da essa risultante, se ne proponeva la soluzione, limitandosi frattanto a rettificarne almeno il senso nella parte riguardante la residenza del primo dei due fondatori della « tumba » e rigettando cosí l'assurdo legame fra « MONTE » e « PAGANO ». L'epigrafe aveva pertanto la seguente lettura, che tutti adottano al giorno d'oggi: « Un abitante di Monte, (di nome) Pagano, parmense di origine, ed un nativo di Monte, comunemente denominato Rodelgrino, codesti due (hi duo), ordinarono che fosse costruita questa bella tomba » 3. Ma l'assurdo grammaticale dei tre genitivi al posto di tre nominativi rimaneva sempre, senza che nessuno pensasse a correggerlo o a spiegarselo. Eppure la matassa non era tanto intricata quanto poteva apparire. Vediamo dunque di districarla noi, con la dovuta umiltà, tenendo presente, come dicevamo, la forma abbreviativa della desinenza US, e trascriviamo rettamente la epigrafe: + INCOLA MONTANUS PARMENSIS PROLE PAGANUS ET MONTIS NATUS RODELCRIMUS VOCITATUS HANC FIERI TUMBAM IUSSERUNT HI DUO PULCHRAM. Cosí anche la caratteristica dei versi leonini, con le rime nel mezzo e nella fine, affidata per disperazione alla insussistente corrispondenza fra « MONTANI » e « PAGANI », è del tutto salva. Quanto alle due parole « INCOLA » e « MONTANUS » (non già, 1 EMILE BERTAUX, L'art dans l'Italie Méridionale, Paris 1904. « Rodelcrimus » dice propriamente l'epigrafe, ma nei documenti si legge anche « Rodelgrimus ». 2 L. FULVIO, La Tomba di Rotari, in Apulia, n. 1 fasc. II, Martina Franca, 1910. 3 ALFREDO PETRUCCI, Un monumento misterioso: la Tomba di Rotari, in Emporium, Bergamo, nov. 1929. 59 ripetiamo, « MONTANI »!), è probabile che l'autore della epigrafe le abbia concepite congiuntamente e che debbano pertanto esser lette come un solo vocabolo, « INCOLAMONTANUS », cioè « montanaro », come si è sempre chiamato e continua a chiamarsi anche oggi ogni cittadino di Montesantangelo, a qualunque classe sociale egli appartenga. Si avrebbe quindi la seguente lettura: PAGANO, (CITTADINO) MONTANARO DI ORIGINE PARMENSE E UN NATIVO DI MONTE CHIAMATO RODELCRIMO ORDINARONO CONGIUNTAMENTE (HI DUO) CHE FOSSE ERETTA QUESTA BELLA TOMBA. Non bisogna dimenticare, a tal proposito, che siamo in un tempo in cui non solo il « sermo vulgaris cottidianus », ma anche il latino letterario scritto si va giorno per giorno, e regione per regione, caricando di vocaboli e costrutti paesani, e che già fin dai primi anni del Mille, per esempio, lo zio è chiamato ziano (zianus et nepotes), che il terreno da lavorare a vigna si chiama pastinello (senza neppure la desinenza in us), che platea, tramutandosi in platia, e quindi anche in plassa, è matura già per diventare « la chiazza », ecc. Ma chi erano propiamente il nostro Pagano e il nostro Rodelcrimo o Rodelgrimo, i cui casati ricorrono piú d'una volta nelle carte garganiche dei bassi tempi e che dovevano anche aver avuto rapporti di parentela fra loro, se la sorella di un Pagano, di nome Augessa, come risulta da una carta cavense di Lucera del 1109, aveva sposato un Rodelgrimo, figlio di Sygenolfo, allora dimorante in Lucera? 4. Erano due « boni homines », fra i piú in vista senza dubbio, e per censo e per cariche ricoperte, di quella interessantissima società « montanara » che s'era andata formando col rapido crescere del nuovo centro abitato intorno al Santuario dell'Arcangelo, méta ininterrotta di pontefici, di re, di imperatori, di principi, di porporati, di uomini d'alta cultura e di umili fedeli, provenienti in pellegrinaggio « ab ultimis terrarum finibus ». E se ci si domanda da qual sentimento furono mossi nel dar vita a questa curiosa e « bella tomba », risponderemo che lo fecero un po' per amore di cose belle (in un paese dove tutti facevano a gara per partecipare alla creazione di edifici sacri piú o meno monumentali e rialzarli quando erano per avventura caduti ed arricchirli quindi di suppellettili ed arredi preziosi) e un po' anche per salvarsi l'anima, cosí come lo scultore " Acceptus " aveva donato nel secolo precedente un ambone all'arcivescovo Leone « pro remedio et redemptione animae suae », e non c'era proprietario, di qua e di là dal Fortore e dall'Ofanto, che non facesse dono per lo stesso motivo ad una chiesa 4 C. ANGELILLIS, Guida breve della Città di Montesantangelo (in cui sono riassunti tutti i precedenti studi dell'A. sull'argomento), Monte Sant'Angelo 1953. Cfr.: F. CARABELLESE, L'Apulia e il suo Comune nell'Alto Medio Evo, Trani 1905; T. LECCISOTTI, Le colonie cassinesi in Capitanata, II. Il Gargano, Montecassino 1938; nonchè i vari « Cartolari » e le raccolte di antichi documenti, editi ed inediti, relativi alle varie badie medioevali garganiche. 60 o ad un monastero di una parte delle sue terre, dei suoi castelli, delle sue selve, delle sue « foveae » granarie, dei suoi « molendini », ecc. 5. E qui, venendo all'essenziale, diremo che la « cappella » o « tribuna » di San Giovanni era limitata intorno al Mille al solo dado della galleria a pianterreno. Essa s'arrestava, insomma, alla cornice con bassorilievi nei fondati, tirata al disopra delle arcate a sesto acuto. Caduta piú tardi la cupola a calotta emisferica che poggiava su codesto quadrato poco piú su della cornice (quasi tutte le fabbriche del genere crollavano, all'urto dei terremoti, dal punto in cui nasceva la cupola), ecco intervenire i nostri due « galantuomini », Pagano e Rodelgrimo, l'uno « montanaro » oriundo di Parma, l'altro « montanaro » di Monte, i quali si assumono il còmpito di far ricostruire la parte caduta dello edificio, non però al modo di prima, ma con una singolare sopraelevazione parabolica, giustificata anche (si noti bene) dal fatto che il battistero era stato costruito in origine su d'una depressione del suolo di Monte. E a questa sopraelevazione, ricca di finestre e di ornati di diverse specie, il popolo dà il nome di « tomba », nel senso che a quel tempo era proprio della parola « tumba »; per cui il bel San Giovanni diventa d'ora in poi sulle sue labbra « San Giovanni in tomba ». Si spiegano cosí molte cose: in primis, l'assoluta diversità di stile fra la galleria a pianterreno e la parte superiore dell'edificio, l'una archiacuta, l'altra a pieno centro; secondo, la assenza, all'origine, di una concezione unitaria della costruzione, per cui, mancando questa d'una razionale e comoda comunicazione fra un piano e l'altro, fu giocoforza ricavarne una incredibilmente angusta e bassa, nella grossezza d'un pilastrone di sostegno delle arcate laterali, cui si doveva giungere probabilmente con una scaletta mobile di legno, sostituita in tempi a noi piú prossimi da gradini di pietra, che sono, nel sereno ed armonico vano della galleria, un pugno nell'occhio; terzo, l'associazione, verificatasi a distanza dalla nascita dell'edificio ed altrimenti inesplicabile, dell'appellativo « San Giovanni » e del complemento « in tomba »; quarto, il fatto che i caratteri dell'epigrafe che reca i nomi di Pagano e Rodelgrimo ed indica quasi l'accesso alla fabbrica superiore sono del tutto diversi da quelli ancora leggibili nella fabbrica inferiore: nobili, ben misurati, veramente lapidari questi, d'una lapidarietà che la presenza dell'o a losanga di origine nordica (insulare) sembra voler ribadire anziché negare; incostanti, dilettanteschi, eclettici (per non dire raccogliticci) e provincialescamente compiaciuti del loro eclettismo, quegli altri; quinto, il fatto notevolissimo che quell'epigrafe non figura in un punto essenziale della fabbrica inferiore e con evidente riferimento ad essa, bensí al disopra dell'accesso intermurale alla fabbrica superiore, come per dire: « di qui si sale alla bella tomba eretta sulle mura del vecchio battistero da Pagano e Rodelgrimo ». Per me si va ... Il « San Giovanni » cosí continuava a rimanere, col suo nuovo 5 Ved. « Cartolari » c.s. (San Leonardo, Montesacro, Trèmiti, ecc.). Cfr.: ARMANDO PETRUCCI. I Bizantini e il Gargano al lume del Cartolario di Trèmiti, « Quaderni del Gargano », Foggia, n. 4, 1954. 61 fastoso ed originale coronamento, quel che era sempre stato, cioè un battistero. Che i due generosi montanari Pagano e Rodelcrimo, accresciuto ed abbellito a loro modo l'edificio, si siano voluti riserbare il diritto di andarvi a dormire gli ultimi sonni, è anche probabile; ma ciò non ha nulla a che vedere con la parola « tumba » della tarda epigrafe, la quale, ripetiamo, riguarda solo la sopraelevazione a cupola parabolica del monumento e non il monumento intero. « ... HANC FIERI TUMBAM IUSSERUNT PULCHRAM ... ». Pagano e Rodelcrimo, dunque, ordinarono congiuntamente che fosse alzata quella « bella tomba ». Ed ecco farsi avanti, come una Sfinge, l'ultimo enigma della cosiddetta « Tomba di Rotari ». Qual significato ha la parola « tomba »? Esclusa la ipotesi della sepoltura del Re longobardo e considerato che la parola tumba, come risulta dai numerosi esempi raccolti prima dal Fulvio e poi da altri, ebbe nel Medioevo il significato di rialzo, di prominenza ed anche di copertura a volta, scaturí naturale la supposizione che l'edificio fosse destinato all'uso di campanile o di battistero. Il Bertaux, per farne un campanile, immaginò un impiantito di legno, sostenuto dalla prima cornice sulla cappella quadrata, ed un'armatura per le campane sulla seconda cornice. Ma il Bernich osservò che non c'erano i buchi indispensabili per le testate delle travi, data l'insufficienza del cornicione a sostenere la pesante impalcatura, e che, essendo almeno uno degli ordini di finestre circondato da corridoio, il suono delle campane, anche nella ipotesi delle finestre esterne (per cui non si avevano elementi bastanti) non avrebbe potuto diffondersi bene 6. Bisognava quindi ricorrere all'ipotesi del battistero, che era stata avanzata anche dallo Schulz 7. Il tipo di battistero adottato in tutta la Cristianità risponde alla forma dell'ottagono, essendo il numero 8, pel Cristianesimo, simbolico dei salvati dall'arca: « cum fabricaretur arca: in qua pauci, idest otto animae salvae factae sunt per aquam » 8. Il battistero di Montesantangelo, quindi, rappresenterebbe una deviazione dal tipo normale. Ma già in qualche battistero premillenario s'erano avute deviazioni del genere, come in quello di Riva sul lago di Lugano, che è quadrato all'esterno ed ottagono all'interno, e in quello di Biella, che è ottagono soltanto nella parte superiore. E poiché quest'ultimo battistero ha una botola per la quale si discende alla tomba dei Melii, da qualche secolo adibíta altresí a sepoltura dei Vescovi di Biella, non è da respingersi l'ipotesi, già accennata, che i due facoltosi « montanari » Pagano e Rodelgrimo abbiano voluto anche loro, elevando sugli avanzi dell'antico « San Giovanni » quella magnifica fabbrica, riservarsi il diritto di farvisi seppellire. Anzi, poiché talune forme dell'epigrafe sono da riportarsi, come vedemmo, ad epoca piú tarda di quella in cui i Rodelgrimo e i Pagano, 6 E. BERNICH, Il Battistero di Monte S. Angelo, in « Napoli Nobilissima », vol. XV, fasc. IV, 1906. 7 H. W. SCHULZ, Denkmäler der Kunst des Mittelalters in Unteritalien, Desdra 1860. 8 Epist. Petri, I, tap. III, vv. 20-21. 62 maschi e femmine, sono menzionati nei documenti a noi noti, si può legittimamente pensare che quell'iscrizione sia stata posta lí, dopo che il nostro Pagano e il nostro Rodelgrimo erano già passati di vita (e vi avevano forse trovato sepoltura, o per loro espresso desiderio o per volere dei concittadini riconoscenti), da persona che voleva salvarne la memoria. E questa, in verità, ci sembra l'ipotesi piú accettabile, data anche l'indeterminatezza dell'appellazione. Un fondatore del monumento, o anche d'una sola parte di esso, non avrebbe fatto scrivere di sé, al momento della costruzione, « un tal nativo di Monte, comunemente chiamato Rodelgrimo »! Non sentite che chi parla è un terzo ed ha voce e modi tutt'affatto diversi da quelli che avrà, per esempio, piú tardi e sul medesimo Monte, l'epigrafista del campanile angioino, in cui pure ricorrono i nomi di due congiunti: Giordano e Maraldo? Ma ammettiamo che ciò non sia vero e che il modo e il tono usati dal nostro epigrafista siano soltanto una bella finzione letteraria, da porre sul medesimo piano della forma trascelta per il testo della epigrafe (tre discreti versi leonini, come abbiamo visto, con figure, trasposizioni e fioretti propri del tardo latino medioevale), quel che importa è che questa si riferisca, come effettivamente si riferisce, alla fabbrica che ha innanzi e non a quella che si lascia dietro, del tutto diversa, sia per impianto, sia per materiale e tecnica costruttiva, sia, infine, per stile, e che, ciò constatato, la parola « tumba » riveli a chiunque il suo vero e legittimo significato. Giunti a questo punto, faremo un passo indietro e dopo aver ricordato come lo strano monumento di Montesantangelo suoni sulla bocca del popolo, da tempo immemorabile, non col nome di « Tomba di Rotari », ma con quello di « San Giovanni », e che perfino in scrittori tardi quali il Bacco, il Cavaglieri, il Sarnelli 9, esso riceve il nome di « Cappella di San Giovanni », « Tribuna di San Giovan Battista », « Chiesa di San Giovanni in Tomba », diremo che anche per esso, quando si voglia ricercarne le origini, bisogna risalire allo scrittore anonimo dell'Apparitio Sancti Michaelis. Costui, come sappiamo, visitò di persona nella seconda metà del sec. IX il Santuario del Gargano e ce ne lasciò una dettagliata e scrupolosa descrizione, inserita nel racconto dei tre episodi della leggenda di San Michele: l'Apparizione, la Vittoria, la Consacrazione, specificando che, prima di essere autorizzati ad entrare nella spelonca, i Sipontini, « riunitisi, fondarono e dedicarono, ad oriente di quel luogo, una chiesa al beato Pietro, principe degli Apostoli; e in quella chiesa posero altari alla beata Vergine Maria e a San Giovanni Battista » 10. Il culto di San Giovanni, col sacramento del battesimo, nacque dunque sul Gargano quasi contemporaneamente a quello di San Michele, e cioè a mezzo il secolo V, quando, secondo la leggenda, era vescovo di Siponto Lorenzo Maiorano. Ma San Giovanni non ebbe 9 1609; 1680; 1680. Cfr.: ANGELILLIS, op. cit.; G. TANCREDI, La Tomba di Rotari, Manfredonia 1941. 10 Cfr.: ARMANDO PETRUCCI, Una versione greco-bizantina dell'Apparitio Sancti Michaelis in Monte Gargano, Roma 1955. 63 súbito un suo tempio, bensí solo un altare, eretto nella chiesa di San Pietro, e quell'altare, insieme con l'altro dedicato alla Vergine Maria, fu visto al suo posto nella seconda metà del X secolo dall'autore dell'Apparitio. Quel tempio, però, o a causa di uno dei tanti rovinosi movimenti tellurici cui la montagna andò soggetta, o a sèguito d'una delle tante incursioni saracene (la piú grave delle quali fu proprio del 920), andò completamente distrutto; per cui, quando piú tardi, mentre intorno al Santuario s'andava formando una popolosa borgata, lo si volle ricostruire, si pensò di rialzare anche i due « altaria » della Vergine e di San Giovanni. E poiché la liturgia prescriveva ormai che il battistero fosse sempre costruito distaccatamente dalla chiesa matrice, furono per essi creati due appositi edifici, a breve distanza dal vecchio San Pietro. Nacquero cosí la chiesa primitiva di Santa Maria, che prendeva, quale matrice, il posto del distrutto San Pietro, e la « Cappella » o « Tribuna » di San Giovanni, che rappresentò il primo stadio dell'attuale « Tomba di Rotari ». In tal modo si spiega anche come le tre fabbriche di San Pietro, Santa Maria e « Tomba di Rotari » risultino in pianta, in tutte le loro fasi, talmente vicine da apparire come addossate una all'altra e in certi punti addirittura incastrate. Quando sarebbe avvenuta, dunque, la erezione in chiesa matrice dell'uno, e in cappella battisteriale dell'altro dei due « altaria » di Santa Maria e San Giovanni? Non prima della fine del X secolo, e assai probabilmente nel 900, dato che prima di allora i due altari erano stati visti in San Pietro dall'autore dell'« Apparitio ». Avremmo cosí, con un primo stadio di S. Maria Maggiore, anteriore alla costruzione gemella di Siponto, anche un primo stadio del battistero di Monte, detto poi impropriamente « Tomba di Rotari », a causa della sopraelevazione fattavi dai due cittadini di Montesantangelo, Pagano e Rodelcrimo 11. 11 La parola Tomba fu desunta dall'epigrafe; il nome di Rotari fu suggerito dall'errata lettura del nome di Rodelcrimo (Rod... - Rot...) nell'epigrafe stessa e, forse, com'ebbe a notare l'Angelillis, dall'equivoca interpretazione di due passi di Paolo Diacono (Hist. Lang., IV, 46, 47), in cui casualmente si parla a breve distanza e del Monte Gargano e della morte e sepoltura di Rotari, « iuxta basilicam beati Iohannis Baptistae » (Nota: In Modoetia ni forte Ticinensis est). Il monumento, com'è noto, sorge a guisa di torre entro lo stesso abitato di Monte S. Angelo, su di una pianta quadrangolare, che nella parte superiore si va sfaccettando in forma di ottagono regolare, per poi modificarsi in un giro elissoidale e terminare quindi con una sorta di calotta emisferica. Il movimento inconsueto di codesta struttura è piú manifesto all'interno, dove si vede, appunto, come la galleria del pianterreno, in se stessa compiuta ed omogenea, possa superiormente convertirsi in poligono, mediante piccole arcate impostate negli angoli ed inclinate all'indentro, e risolversi quindi, con inclinazioni a mano a mano piú accentuate, in un giro circolare di sezione ellittica, pronto a ricevere la calotta. Ma di ciò, e del posto che il « bel San Giovanni » di Monte S. Angelo, col suo caratteristico prolungamento parabolico, occupa nella storia civile e religiosa e nella storia dell'arte della regione, si dirà in altro luogo. 64 IV - S. MARIA DI CALENA. Calena, Calenella; avete mai sentito nomi di paesi e di contrade piú dolci e musicali di questi? A Calenella, in tenimento di Vico, si arresta oggi la ferrovia garganica, al termine d'una pineta quant'altra mai folta fresca fragrante, lasciando nell'animo del viaggiatore il rammarico che le avare rotaie non continuino ancora la loro corsa, per inerpicarsi almeno sullo sprone imminente di Montepuccio, vera scolta naturale del Promontorio, tra il levante e il ponente costiero, e poi scendere un'altra volta al piano, tra le ultime propaggini del bosco, fino a raggiungere, aggirando gli spalti petrosi di Peschici, la sorella maggiore: Càlena. Che cosa è rimasto di originario, oltre al paesaggio incantevole, alla località che si vanta ancora di questo nome una volta illustre? Al tempo di Leone, vescovo o arcivescovo (com'egli amava chiamarsi, anche se « sine suffragio ») di Siponto e di Monte S. Angelo, il suo tempio era una « ecclesia deserta », ma aveva già una storia di secoli, ed altra storia, di assai maggiore importanza, avrebbe avuta in sèguito, pur se di essa non si vedono oggi che pochi avanzi del periodo cistercense, incorporati in una vasta fattoria di proprietà privata 1. A codesti avanzi, per fortuna, sono da aggiungere le tracce della pianta su cui la chiesa sorgeva, in modeste dimensioni, e quelle della pianta su cui sarebbe risorta, dopo il Mille, con una navata centrale sormontata da due cupole e le navate laterali con copertura a semibotte. La chiesa di S. Maria di Càlena, prima e dopo ch'essa fosse elevata a dignità di priorato e di badia, è una di quelle il cui nome ricorre piú spesso negli antichi documenti. Lo si incontra per la prima volta nel cosiddetto e tanto discusso « breve di Càlena », databile non al 1023 come pensava il Gay, ma al 1038 circa e nel quale si tratta di una larga donazione fatta dall'arcivescovo Leone alla badia benedettina di Trèmiti. In quel documento è citata appunto una chiesa deserta « in loco qui vocatur Càlena ». Chiesa deserta, dunque, probabilmente chiesa rustica, simile a quella di Calenella (Càlena minor), che tre castellani di Pèschici, Tripo, Giorgio e Teccamiro, possedevano nella rada dove ora, come dicevamo, si arresta inopinatamente la ferrovia garganica, e nel cui retroterra, quando eravamo ragazzi, i nostri vecchi ci mostravano con fare riguardoso i vestigi di antichissime informi costruzioni. La Chiesa di Càlena, quella, cioè, maggiore, che i pirati avevano piú volte assalita e devastata, nonostante la torre di difesa di cui era stata munita sotto Lodovico II (872 d.C.), non aveva nel suo territorio al tempo del presulato di Leone da Monte S. Angelo (1034-1050) altro che una parva terricella e un pastinello (piccolo terreno a vigna); e poiché il dono sembrava troppo modesto, l'arcivescovo vi aveva aggiunto alcune selve « succise » e « non succise » ed altre terre di sua pertinenza, con il pretesto che, essendo troppo lontane dalla sua sede sipontina e montanara, non potevano essere da lui convenientemente 65 coltivate. Motivazione, questa, che impegnava in un certo senso i monaci di Trèmiti a rimettere a cultura le terre e far rifiorire nello stesso tempo la chiesa. Fu appunto in sèguito a questa donazione, confermata nel 1053 dal papa Leone IX, che la « ecclesia deserta » divenne un piccolo tempio romanico a cupola, di tipo schiettamente pugliese. Da questo piccolo tempio, trasformato ed ingrandito posteriormente dai Cistercensi, derivano verosimilmente alcune pietre lavorate, tuttora visibili nel contesto delle fabbriche successive. Tale, per esempio, l'erma scolpita a mezzo tondo sotto una delle grandi arcate della sola facciata superstite, che sembra riattaccarsi alle teste degli amboni di Acceptus, il padre della scultura romanica pugliese. Per i monaci della badia benedettina di Trèmiti, avere lí, sulla costa del Gargàno, di fronte alle loro isole, una dipendenza come quella di Càlena, dalla parte di oriente del Monte Devio, quando ad occidente avevano già, oltre alla città di Devia, le dipendenze lesinesi e civitensi, era un grosso affare, sia d'ordine economico, sia d'ordine strategico. E furono loro stessi, probabilmente, a promuoverne l'elevazione da semplice « cella » a priorato prima, a badia poi. Ma Càlena, forte ormai della sua posizione e dei suoi vasti e floridi possedimenti, non tardò a dichiararsi indipendente e mettersi in lotta con Trèmiti. Fu allora forse che i calenensi incominciarono ad accrescere di mole e di potenza le fortificazioni del loro monastero, per difendersi cosí dai pirati mussulmani come dai confratelli delle isole Trèmiti. Ma le minacce continuarono sempre ad incombere sulla loro casa, come si può desumere dal bel verso leonino che ancora oggi si legge su di una porticina accessoria della fattoria in cui l'antica fabbrica s'è andata trasformando: verso che in origine doveva certamente figurare scolpito sull'architrave di uno degl'ingressi principali: « Invia cuique truci furi sum pervia luci ». Aperta, dunque, alla luce, come chiusa ai predoni d'ogni fatta. Ma Càlena aveva anche, nel periodo della sua maggiore prosperità, alcune invidiabili dipendenze, quali San Nicola di Montenero e San Nicola Imbuti, l'una all'interno, sui monti verso Vico, l'altra prossima alla costa, tra Rodi e Sannicandro. Come le difendeva? Quella, forse, con l'ampio sbarramento dei suoi boschi, « succisi » e « non succisi », questa con la laguna litoranea di Varano, mentre qui il mare era a due passi e i pirati vi potevano sbarcare quando volevano, favoriti dal massiccio cuneo roccioso di Pèschici. Il monastero di Montenero era tenuto molto caro dai calenensi ed ambito d'altro canto dai tremitensi, non solo per le sue ricchezze in olio, vino e agrumi d'ogni specie, ma anche e specialmente per i numerosi « molendini » di cui disponeva lungo la valle che scende giú dall'alta Vico allo sbocco del torrente Asciatizzo e che ancora oggi è chiamata « Valle dei Molini »; ma la chiesa e le fabbriche annesse, già trasformate dai canonici Lateranensi che vi giunsero nel Quattrocento, e quindi incorporate, al pari di Càlena, in una grossa fattoria ottocentesca, non presentano oggi piú nulla del loro aspetto primitivo, cosí 66 com'è di tante altre chiese della zona, a cominciare da quella ingrandita e trasformata di San Pietro sita « supra montem » a Vico Garganico, che troviamo nominata fin dal 1113, con particolare rilievo, nei documenti di San Leonardo di Siponto. La cella di San Nicola « de Monte Nigro », con i suoi molendini e tutte le sue pertinenze, è ricordata già in una bolla di Stefano X del 7 febbraio 1058, nella quale vengono confermate una per una le possessioni della badia di Càlena, compresa la cella di San Nicola Imbuti, sita ai margini del lago Varano e non meno ambita dell'altra per i suoi pingui pascoli e le sue ricchezze in pescagione e cacciagione. Ma né della chiesa né del monastero di questo favoloso San Nicola è rimasto piú nulla, dopo che il territorio su cui sorgevano, detto « imbuto » (da imbuo) perché bagnato dalle acque della laguna, fu destinato alla costruzione d'un idroscalo, in occasione della guerra 1915-18. Memorie, dunque, nient'altro che memorie, o vestigi e travestimenti spesso impenetrabili, ma non per questo privi d'incanto in una terra che, a parte le sue caratteristiche naturali, fu nel Medioevo teatro di importanti avvenimenti storici e soprattutto di singolari manifestazioni d'arte. Ricordiamo per esempio, il senso di mistero, misto a vivissima curiosità, da cui eravamo pervasi quando, fanciulli, ci spingevamo da soli o in frotta fino al fiumicello Lauri, in territorio di Sannicandro garganico, nostro paese natío. Su di un greppo, proprio a ridosso del molino ad acqua tuttora esistente ed attivo, vedevamo a fior di terra le fondamenta superstiti di alcune fabbriche diroccate, di cui nessuno sapeva dirci niente, e pensavamo ad un castello turrito, ad una chiesa affrescata, ai villici dei dintorni che traevano qui a macinare il loro grano e a sentire l'uffizio divino prima di recarsi al lavoro. Qualcuno ci tracciava di « fantastici » o peggio; ma oggi che in un documento del 1058 troviamo nominati e quel fiumicello e quel castello (castellum ubi dicitur Lauri) e quella chiesa (ecclesia vocabulo sancti Petri Apostoli), ci assale il desiderio di ritornare su quel greppo, per poter interrogare con occhi piú esperti quelle vecchie pietre ed allargare lo sguardo attorno, fino a tutte le pertinenze del castello, « vigne e terre coltivate ed incolte, - come dice il documento - alberi fruttiferi e non fruttiferi, selve acque e prati », e il molino e la navicella (il « sandalo ») e la stessa chiesa, che il conte Petrone, figlio di Gualtiero di Lèsina, vendette per 150 soldi schifati. 150 soldi: a quanto corrisponderebbero oggi? Non pensiamoci, e spalanchiamo anche noi l'anima alla luce, facendoci per un momento, in tanto riso di verde e di azzurro, tutti calenensi. V - S. MARIA DI PULSANO. Correva l'anno di grazia 1171, e le suore operaie del monastero di Santa Cecilia presso Foggia, stanche delle eccessive fatiche loro imposte dalla badia di Santa Maria di Pulsano in monte Gargano e dal 67 convento di S. Nicola alle porte della loro stessa città, se ne rammaricavano con papa Alessandro III, allora di ritorno dalla vicina Troia. Il sommo pontefice ascoltava, e nominava una commissione d'inchiesta nelle persone del cardinale Manfredo, vescovo Prenestino, del cardinale Pero de Bono del titolo di Santa Susanna, e del cardinale diacono Giacinto, con l'incarico d'indagare sui fatti ed ingiungere all'abate mitrato di Santa Maria di Pulsano, che allora era il gran Ioele, e a quel prepotentuccio del priore di San Nicola di porre subito termine alle « vessazioni, estorsioni e maltrattamenti » di cui veniva fatto loro carico delle suore di Santa Cecilia. « Vessazioni, estorsioni, maltrattamenti ... ». Di che si trattava? La mente, alla lettura del documento dell'Archivio di Troia pubblicato a suo tempo dal Carabellese, che l'assegnava al tempo di Callisto II, e cioè al 1120 1, è portata naturalmente a fantasticare di chi sa che scandali e fatti orrorosi. Ma niente di tutto ciò: solo, invece, se cosí vogliamo chiamarla, una rivolta operaia, una rivolta in soggòlo, tra le mura di un convento. Le monache di Santa Cecilia, infatti, o meglio quelle di esse che erano addette ai lavori di tessitura e sartoria, avevano il compito di fornire ai fratelli della casa madre tutto ciò che loro poteva occorrere per vestirsi, dormire, andare in giro e farsi lume nelle lunghe notti, e cioè panni di lana, lenzuola, cingoli, bisacciuole, sacconi, stoppini per le lucerne, ecc. (pannos, suderas, cingolas, besacciolas, saccos, papiros et alia ... ); ma i frati si mostravano cosí esigenti e pressanti nelle richieste che le povere operaie erano obbligate a tessere, tagliare, cucire, filare, compor treccioline di stoppa e di bambagia giorno e notte, senza tuttavia riuscire a contentar tutti; e alle pretese della casa madre si erano aggiunte a un certo punto quelle del convento di San Nicola, al cui priore era affidata la vigilanza di Santa Cecilia. Ve l'immaginate il frate grasso che si presenta stronfiando alla madre badessa e protesta per non aver trovato nell'ultima fornitura un cingolo che convenisse al giro della sua pancia, o il frate magro che si lamenta perché la tonaca gli sta addosso come la campana al battaglio? E ciò indipendentemente dal fatto che le richieste erano di gran lunga superiori ai bisogni. Che ne facevano i frati biancovestiti di Pulsano e di San Nicola di tanta roba? Se ne vendevano forse, Dio ci perdoni, una porzioncella? Per fortuna non tutti erano della stessa risma, ed il maggior incolpato, il gran Ioele, non doveva saper nulla, con tutta probabilità, di ciò che accadeva di buono e di cattivo nei sottordini della badia; ad un certo punto, anzi, era tale in Pulsano il numero dei frati colti ed operosi nei diversi campi dell'architettura, della scultura e delle lettere, che l'Ughelli, nel definire quella badia, la diceva « ricettacolo di uomini illustri » (virorum illustrium receptaculum). E per alcuni di quegli uomini illustri, giova dirlo subito, lavorava un altro gruppo di suore di 1 Cfr. per questo documento e per le notizie sui due monasteri di Pulsano e di S. Cecilia, CIBO ANGELILLIS, Pulsano e l'Ordine monastico pulsanese, in Archivio storico pugliese », VI (1953), pp. 421-66, e in particolare le pp. 400-1. 68 Santa Cecilia: quello delle calligrafe e miniatrici, che è dubbio abbiano preso parte alla rivolta. La casa madre dell'Ordine dei pulsanesi aveva sede sulle pendici meridionali del Gargano, in un luogo fra i piú ameni del pittoresco promontorio, ma del tutto « impervio e solitario », detto sempre in antico Pulsano, e in mappe e documenti piú recenti Polsosano o Apolosano. Si vuole che il monastero e il tempio di Santa Maria, di cui ancora oggi si possono ammirare, nei pressi della boscosa Macchia, gli avanzi monumentali, siano stati costruiti qui, sui ruderi di precedenti costruzioni cenobitiche, da San Giovanni Scalcione da Matera, il « pastor bonus », dopo ch'egli si era recato in pellegrinaggio al santuario di San Michele Arcangelo, e cioè nel 1129 secondo alcuni, nel 1131 secondo altri. Ma fu sotto Gioele, terzo abate generale della comunità di Pulsano, e cioè fra il 1145 e il 1176, che questa toccò l'apice del suo splendore, con conseguente incremento delle fabbriche di sua pertinenza e delle sue attività di ordine superiore. E' a codesto periodo, appunto, che bisogna ascrivere le parti piú belle della chiesa giunta a noi mutila, con il suo armonioso portale, due finestre superiori ed un rosone finemente decorati, l'arco d'accesso al cortile, anch'esso abbellito di sculture ornamentali, e lo stesso arredamento sacro. Lo Schulz ricorda appunto una grandissima acquasantiera, oggi scomparsa, sostenuta da un mensolone fra aquile, tutta ad intagli finissimi di foglie e pigne, dinanzi a cui doveva forse impallidire quella della Chiesa Vecchia di Molfetta. Tra le cose a noi giunte quasi intatte c'è invece una tavola dipinta con la Madonna ed il Bambino su fondo d'oro, che destò non solo l'ammirazione dello Schulz, ma anche quella di Domenico Salazaro e che, essendo del tutto simile all'altra Madonna « deaurata » chiesta nel 1064 dal vescovo Gerardo all'abate di Tremiti per la chiesa superiore di Santa Maria di Siponto, sta a dirci come anche nel secolo successivo, e cioè al tempo di Giovanni Scalcione e di Ioele pulsanesi, quel tipo di Madonna continuasse ad essere fornito dai benedettini del monastero isolano alle chiese della propinqua sponda. E le monache di Santa Cecilia? Esse erano molte, tanto che ad un certo momento si dovette ricorrere alla drastica misura di ridurle a cinquanta aspettando che il Signore chiamasse a sè le piú vecchie e sospendendo nel frattempo l'ammissione delle novizie. E delle molte una parte erano prevalentemente operaie, calligrafe e miniaturiste. Che queste abbiano continuato ad ornare carte almeno fino al 1244, è provato da un bellissimo codice miniato, " Martyrologium Monialium Pulsanensium Sanctae Ceciliae ", ora nella Biblioteca nazionale di Napoli, fermo appunto a quell'anno 2. Le altre invece seguitarono, anche se con diminuita frequenza e senza esose pressioni, ad apprestare tonache, lenzuola, sacconi, bisacciuole e stoppini per le lucerne della casa madre, fino a quando anche questa, come già le badie prossime di Montesacro e San Leonardo di Siponto, non prese a decadere. Nel 1235 la badia 2 Ms. VIII C. 13, membr. di cc. 60, scritto in beneventana di tipo cassinese. 69 di Montesacro, già potentissima e doviziosa era ridotta in tale stato di povertà da non poter fornire al suo nuovo abate Giovanni i mezzi per recarsi a Roma a ricevere la conferma e la consacrazione papale, e non molti anni dopo la stupenda chiesa di San Leonardo di Siponto era cosí rovinata da sembrare non piú una casa di Dio, ma, come abbiamo visto, una « spelunca latronum ». La badia di Pulsano, invece, forse perché piú appartata e meno soggetta alle incursioni dei predoni, rimaneva attiva per diverso altro tempo, tanto che nel 1294 poteva perfezionare, col beneplacito di papa Celestino V, una permuta di beni con il monastero di Santo Spirito di Maiella e nel 1375 aveva ancora un suo regolare abate nella persona di « frate Antonio ». Ma le sue dipendenze e la sua potenza non erano piú quelle di una volta. Quindi, di anno in anno, tutto ruinava senza piú rialzarsi: mura, archi, celle, fortificazioni, mobilio artistico. Ed anche se pochi frati, di quelli che sarebbero poi passati ad altri Ordini, rimanevano ancora, dopo altre vicende ed un ultimo spaventoso terremoto, a guardare melanconicamente le vestigia di quello che era stato uno dei maggiori cenobi d'Italia, nessuno si ricordava dei loro bisogni. Le monache di Santa Cecilia non esistevano piú, sembra, dal 1292, e le vecchie lucerne di Pulsano, prive di stoppini, s'impolveravano spente nell'ombra. VI - S. MARIA DI TREMITI.* « Madonnina del mare »: cosí è chiamata una statuetta in legno scolpito e dipinto, alta un metro circa, rappresentante la Madonna in piedi, dritta come un giglio, con il Bambino seduto sul braccio sinistro, che si venera nella chiesa già abbaziale dell'isola di S. Nicola, nel gruppo delle Trèmiti. A questa Madonna, di data e di provenienza incerte, in quanto la tradizione la dice venuta d'Oriente, mentre sembra modellata su di una statua di Giovanni Pisano, è dedicata da secoli una festa che si celebra a mezza estate e si conclude con una toccante processione sulle acque. Una leggenda, radicatissima nella mente del popolo, dice che in passato, nel giorno di quella festa, il mare fra la costa del Gargàno e le isole Trèmiti si abbassava, sí da permettere ai fedeli della terraferma che non disponevano di una barca di compiere il tragitto a piedi o a schiena d'asino. Ma per far ciò occorreva essere senza peccato, e piú d'uno, naturalmente, nonostante le buone intenzioni con cui s'era messo in cammino, finiva per cadere in pasto dei pesci. Ma, a parte la leggenda, c'è un documento del 1556, nel quale si afferma che non meno di « 2000 o 3000 persone, tra maschi e * I documenti citati in questo capitolo sono tutti editi o ricordati nel Codice diplomatico del monastero benedettino di S. Maria di Tremiti, a cura di Armando Petrucci, IIII, Roma 1961. 70 femmine », arrivavano per il giorno della festa della Madonnina dalle coste del Gargàno e dal basso Molise a Trèmiti, « e a tutti, per la vigilia e festa, se gli dava da mangiare », salvo a prolungare il trattamento nel caso che « per il mal tempo, come sôle accadere » gli ospiti fossero costretti a procrastinare il ritorno. La festa ha qualche somiglianza con quella ben nota di San Nicola di Bari, ma è piú pittoresca e nello stesso tempo piú intima e commovente, per il fatto che si svolge di sera, tra la luce del sole che tramonta ed il baluginío delle prime stelle, e comprende il giro delle due isole maggiori dell'arcipelago: quella abitata di San Nicola e l'altra boscosa di San Dòmino. Non vengon piú i fedeli della sponda opposta, né il mare si abbassa o si alza secondo i casi; ma ci sono molti turisti, attratti dalla bellezza del paesaggio e dalla pesca subacquea, qui piú propizia che mai; ed anche per loro è una gioia poter assistere alla processione o parteciparvi di persona, frammischiati all'umile gente del luogo. La Madonnina, avvolta per l'occasione in un manto di seta azzurra, tra fiori di campo e ceri accesi, esce dalla sua casa, portata a braccia da quattro robusti marinai, e si avvia, per i camminamenti della fortezza, alla marina, mentre la folla le si va assiepando intorno. Un peschereccio a vela, pavesato a festa, accoglie subito la statua per portarla in mare, e numerosi battelli gremiti di gente lo seguono da presso. Il sole intanto tramonta, e dai battelli le donne innalzano, lento e solenne, il canto rituale dei marinai tremitesi: « O Madonnina del mare - tu non ti devi scordare - di me. mentre la barca cammina ... ». Poi la notte cade sull'isola. La Madonnina risale nella penombra lo scoglio di San Nicola per raggiungere la sua vetusta casa, e quando, consumati ormai i ceri, si abbassa per l'ultima volta, come inghiottita dalle pietre, sotto gli archi dei camminamenti che danno accesso alla fortezza ed alla chiesa, si ha l'impressione che non la si debba piú vedere. La cerimonia è finita; ma nell'ombra qualche voce canta ancora: « O Madonnina del mare ... ». Ed in quel canto è tutta la vita dell'isola, della sola isola abitata: il mare, la pesca, la solitudine, la attesa del forestiero, che rappresenta, specie nelle lunghe settimane invernali, l'unico contatto con il mondo. Ma la Madonnina non è sola, sia nella chiesa, sia nel complesso monumentale dell'abazia fortificata, prima benedettina, poi cistercense, poi lateranense. Henri Bertaux, riferendosi al periodo benedettino, definiva l'abazia di Trèmiti « una Montecassino in pieno mare ». E tale, a giudicare specialmente dalle carte venute in luce di recente 1, doveva essere davvero, per l'ampiezza di suoi interessi in terraferma, per la dottrina e l'intraprendenza dei suoi frati, per l'attività del suo centro scrittorio e miniaturistico, per la ricchezza e varietà della sua biblioteca, di cui si conosce ora il catalogo, nonché per l'importanza delle opere d'arte possedute, alcune delle quali importate dall'Oriente e dall'Occidente, altre prodotte, a quanto pare, sul posto. Oltre alla Madonnina la chiesa di Trèmiti vantava e vanta altre opere d'arte importanti, quali, per dire delle maggiori, il vasto pavimento a mosaico policromo, un Crocifisso dipinto del tipo detto « vi71 vente », alto quasi tre metri e mezzo, ed un polittico veneziano in legno scolpito e dipinto. Il classico, incomparabile pavimento, che possiamo considerare composto non piú tardi del 1045, anno in cui la chiesa, secondo un documento già pubblicato dal Muratori, risultava già ricostruita « a fundamine », è l'unica testimonianza superstite di quella ricostruzione, che dovette essere veramente favolosa, mentre il Crocifisso rimane sempre un enigma, in quanto sembra uscito dalla bottega di Berlinghiero Berlinghieri (se non, com'è meno probabile, di Alberto Sozio), laddove la tradizione, avvalorata da alcune lettere greche e da un'iscrizione latina, lo dice venuto d'Oriente nel 747 d. C., in modo miracoloso, « nave la stessa Croce nocchiero il Cristo ». Il grande polittico ligneo, con l'Assunzione e l'Incoronazione della Vergine ed un popolo di figure scolpite a tutto tondo, rappresenta invece, senza problemi, la perpetua meraviglia della chiesa. Ma il rimanente? Le iconi dipinte, per esempio, e gli altri oggetti sacri di cui i Benedettini facevano piú o meno mercato, rifornendone le chiese della sponda garganica, in cambio di concessioni e benefici vari? Un documento sipontino del novembre 1064 ci apprende che l'arcivescovo Gerardo chiedeva all'abate di Trèmiti una « icona deaurata » per la sua chiesa ed una « scaramagna bona », in cambio di una parte delle saline di Siponto, ed un altro documento del dicembre 1068 ci assicura dell'avvenuto scambio. Una « icona deaurata » uguale a quella di Siponto arrivava poco dopo alla vicina chiesa abaziale di S. Maria di Pulsano. Ed il Crocifisso dipinto di S. Leonardo le Matine, quasi del tutto simile a quello di Trèmiti, donde veniva? E qui è opportuno ricordare che al tempo dei Cistercensi Trèmiti fu presa dai pirati della Dalmazia con uno stratagemma superante in astuzia e crudeltà quello del Cavallo di Troia, e nulla o quasi di ciò che essa possedeva poté salvarsi. Tutto quindi dovette essere rifatto nel secolo XV dai Lateranensi, stabilitisi a Tremiti nel 1412. Per prima cosa essi rifecero il portale di S. Maria al Mare: ciò che dimostra come quello antico fosse andato in rovina, abbattuto forse dai crudelissimi corsari di Omis in Dalmazia, i quali non contenti, infierirono, dicono i cronisti, perfino sulle pietre, « rapendo, scorrendo tutta la casa, struggendo... spianando la fabbrica ». Della costruzione del nuovo portale furono incaricati nel 1473 il durazzese (« Dyrrachius » o « de Durachio ») Andrea Alessi, allievo di Giorgio da Sebenico, ed il fiorentino Nicolò di Giovanni Cocari, allievo di Donatello, ma attivo a quel tempo, insieme con l'Alessi, a Traú ed a Spalato. Qui l'anno avanti avevano restaurato in collaborazione il campanile del Duomo; e qui forse li conobbe il priore di Tremiti Don Ambrogio da Milano, il quale s'impegnava, in data 20 ottobre 1473, di versar loro per la costruzione del portale, 38 ducati d'oro. Ma per farsi pagare, maestro Andrea e maestro Nicolò dovettero piatire ed arrabbiarsi per un pezzo, fino a che, messi alla disperazione, non citarono in giudizio l'Abazia. Questo avveniva il 27 febbraio 1475. Ma non sappiamo se i due siano stati soddisfatti come chiedevano, perchè i documenti a noi giunti, men1 Edite in Codice diplomatico, già cit. 72 tre parlano del processo svoltosi davanti al giudice di Spalato, non ci dicono come esso sia andato a finire 2. Certo è che la corda fu tirata a lungo, date forse le potenti amicizie di cui l'Abazia godeva sulla sponda opposta, e solo nel 1480 fu pronunziata la sentenza, della quale però non si conosce il testo. Il nuovo portale di S. Maria al Mare fu costruito in delicate forme rinascimentali nel mezzo della facciata tripartita, come in antico, da lesene alte e snelle; ma anch'esso corse il rischio di essere distrutto, quando nell'agosto del 1567 i Turchi si presentarono davanti alle Tremiti, intenzionati ad espugnarle a tutti i costi. Essi disponevano di 150 navi al comando di Alí Pascià, « generale del mare », e di migliaia di armati, al comando di Mustafà « generale di terra », mentre i difensori non erano che un pugno di uomini. Ma l'isola di San Nicola non era più quella di una volta: due abati ingegneri, Cipriano da Milano e Matteo da Vercelli vi avevano innalzato a piena regola d'arte robustissime fortificazioni, munendole di potenti artiglierie; ciò permise agli assediati di sostenere il combattimento per tre giorni di seguito e di uscirne alla fine vittoriosi. Avanti d'iniziare la lotta, tutti i frati si erano confessati e comunicati, « con animo deliberato di morire lietamente tutti », prima che i Turchi potessero metter piede nell'isola, e si erano quindi adunati nella « Cappella della Madonna », davanti alla statuetta in legno scolpito e dipinto della « Madonna del Mare », che ancora oggi, sormontando alle tempestose vicende del luogo, si venera nella chiesa. Ed a quella Madonna, sempre sorridente, sempre pietosa, ritornarono dopo la vittoria, per un Te Deum di ringraziamento, mentre i Turchi fuggivano sconfitti verso Levante, e le loro navi, come racconta padre Ribera, con le vele gonfie in poppa, « formavano quasi una grossa città in mare » 3. Il portale della chiesa di Tremiti, dunque, resistette all'urto, nonostante la gracile e pericolosa grazia dei due ordini di sculture e di nicchiette ingegnosamente sovrapposti all'architrave ed alle colonne binate che lo affiancano; ma non cosí il grandioso porticato del nuovo chiostro, anche esso costruito dai Canonici Regolari Lateranensi ventun anni prima dell'assalto dei Turchi, come ci apprende l'iscrizione appostavi: « 1546 Ave Regina Coelorum ». Di codesto porticato, lungo in origine non meno di 55 metri, non è rimasto un solo lato, con 26 archi e ricercatissime decorazioni a tondini di schietta intonazione rinascimentale. Vogliamo dire che gli autori del portale, cosí mal ripagati, lavorarono meglio dei loro anonimi successori? E se non cosí, diciamo che il destino fu con loro piú benigno di quanto non fosse stato a suo tempo il frate pagatore della Abazia. ALFREDO PETRUCCI 2 Cfr. PETAR KOLENDIC, Aleshi et Fiorentino aux iles de Tremiti, in « Bulletin de la Societé scientifique de Skoplie », I (1926), pp. 205-14. 3 PIETRO PAOLO RIBERA, Successo de' Canonici regolari Lateranensi nelle loro isole Tremitane.... Venezia 1606; per l'assedio cfr. anche MICHELE VOCINO, Nei paesi dell'Arcangelo, Trani 1913, pp. 45-8. 73 Sulla economia di Capitanata nel XVI secolo Mi ero proposta da qualche tempo di riprendere i miei studi sulla storia e l'economia di Capitanata nel Cinquecento: ne ho avuto di recente l'occasione per l'invito rivoltomi a contribuire con un breve studio al Convegno di Foggia su Dogana e Tavoliere, per celebrare il primo centenario della legge del 26 febbraio 1865 n. 2168 che affrancò i pascoli fiscali nelle terre di Puglia. Iniziate dunque le ricerche nella serie Affari diversi della camera della Sommaria, ho esaminato con particolare attenzione il volume n. 21 intitolato Libro de diverse consulte della Regia Camera a Sua Eccellenza per affittare molte terre salte, et restopie, per darle a coltura et sono dal anno 1560 avanti sino al 1590 in circa. I documenti che compongono il piccolo volume, precisamente ventotto, sono tutti, quale per una ragione, quale per l'altra, di capitale importanza per uno studio approfondito delle vicende economiche del demanio fiscale della Dogana negli anni indicati, ma interessantissima fra tutti mi è sembrata la consulta piú antica 1 e cosí ho deciso di farne oggetto di questo lavoro articolandone la presentazione in due parti, la prima di breve illustrazione delle condizioni dell'economia di Capitanata nel Cinquecento, la seconda costituita dalla trascrizione con note di commento della consulta stessa. 1 ARCHIVIO DI STATO DI NAPOLI (abbrev. ASN), Regia Camera della Sommaria, Diversi, vol. 21 (prima numerazione), foll. 39 a 44 t. Il documento si articola in una premessa ed in quattordici paragrafi, quante erano cioè le osservazioni fatte dal sovrano all'operato del viceré. 75 1. LE CONDIZIONI DELL'AGRICOLTURA E DELLA PASTORIZIA. Se millenaria è la storia della transumanza armentizia nelle terre di Puglia altrettanto antica deve ritenersi la lotta sostenuta dagli agricoltori pugliesi per evitare che le loro terre si trasformassero tutte in sterminati pascoli deserti d'estate e popolati d'inverno d'armenti e pastori abruzzesi i quali ultimi, per conservare alle greggi l'erba invernale, sostenevano, non senza fondamento di verità, che le terre di Puglia non erano adatte alla coltivazione perché facili a stancarsi e bisognose di lunghi periodi di riposo, che le stesse, inoltre, non si prestavano a coltivazioni arboree diverse da quelle poche che stentatamente vi attecchivano per l'accennata penuria d'acqua utilizzabile, mentre vi abbondavano i cespugli selvatici e le paludi. Gli agricoltori pugliesi controbbattevano riconoscendo la necessità di un regolare alternarsi di coltura e di pascolo ma portando nello stesso tempo ad esempio le antiche coltivazioni di grano e vigneti nella pianura di Capitanata, che fornivano il sostentamento alla popolazione indigena ed agli stessi pastori abruzzesi durante il soggiorno invernale. Con la famosa lettera del 1° agosto 1447 al Montluber Alfonso d'Aragona, pur riservando al pascolo la massima parte del demanio fiscale di Puglia, conservava alla coltivazione le cosiddette terre di portata o masserie vecchie, prescrivendo però tassativamente che la loro estensione non venisse ulteriormente accresciuta; ma l'aumento costante della popolazione e la necessità di rifornire adeguatamente i mercati cominciò presto ad alimentare continue richieste di terre da sottrarre al pascolo e destinare a coltura 2 e già lo stesso Alfonso dovette concedere che si coltivassero le antiche difese e che una limitata superficie di terreni demaniali intorno a Foggia si utilizzasse a vigneti 3. Nel 1479 l'università di Foggia implorava da Ferrante d'Aragona che le fossero conservate le mezzane antiche onde poter sostenere i buoi da lavoro indispensabili all'unica risorsa della popolazione che « ... non have altra industria che de fare campi de grani ... » 4. Il re accedeva con particolare concessione alle necessità di Foggia, fissando successivamente nei capitoli promulgati il 17 dicembre 1480 dalla stessa città una serie di disposizioni che preparavano la prima L. BIANCHINI, Storia delle finanze del Regno di Napoli, Napoli 1859, III ed., pag. 135. 3 G. M. GALANTI, Nuova d escrizione storica e geografica delle Sicilie, Napoli 1778, tomo II, p. 223, conferma la concessione delle difese ad uso di coltura nel 1457 ed egual notizia ci tramanda NICOLA VIVENZIO, Considerazioni sul Tavoliere di Puglia, Napoli 1796, pp. VII e VIII. 4 ASN, Regia Camera della Sommaria, Partium, Vol. 345, carta n. 23. 2 76 reintegra, effettuata nel 1483 e che riportò ad uso di pascolo tutti i terreni che i coloni pugliesi, disperando di ottenere per regolare concessione, avevano abusivamente coltivato con la complice connivenza del doganiere Gaspare Castiglione. Della reintegra del 1483 e di quella parziale del 1508, disposta da Ferdinando il Cattolico su richiesta dei pastori che lamentavano i continui ritagli di terre operati dai coloni pugliesi, non è rimasta traccia né presso l'archivio di Stato di Foggia né presso quello di Napoli 5. La guerra scoppiata alla morte di Ferdinando interruppe le operazioni di reintegra affidate al presidente della Camera della Sommaria Antonello di Stefano, operazioni che furono riprese nel 1533, quando il viceré Don Pietro di Toledo ne diede incarico al reggente Giovanni Figueroa che le portò a termine restituendo le superfici dei pascoli fiscali all'estensione anteriore alle numerose occupazioni abusive di terreno generalmente utilizzato per coltura o pascolo degli animali da lavoro. Nel 1535, in occasione della visita di Carlo V, pastori d'Abruzzo ed agricoltori di Puglia sollecitarono provvedimenti per ristabilire in maniera definitiva il giusto equilibrio tra le esigenze dei primi e dei secondi, e per porre rimedio alle conseguenze nell'economia particolare delle due provincie ed in quella generale del viceregno, in cui l'incremento demografico 6 cominciava a provocare carestie sempre piú frequenti, dimostrando ad evidenza che il raccolto cerealicolo era insufficiente ai crescenti bisogni. Comunque la transumanza armentizia, per quanto sottoposta per la sua stessa natura a tutte le imprevedibili vicende delle stagioni meteorologiche, delle malattie degli animali, dell'instabilità dei prezzi e 5 La costituzione di un doppio archivio per gli affari della R. Dogana della mena delle pecore di Puglia fu disposta da Alfonso d'Aragona con la lettera del 1447 nella quale si stabiliva testualmente: « Omissis. 15. Item che dal Credenziero ed Auditore si tenghi un libro di Provinti che si fanno. Omissis 21. Item che detto Dohaniero dopo fatta la locazione, mandi copia di quella in Regia Camera». Dei due archivi quello locale della Dogana era ovviamente il piú ricco e completo, mandandosi in pratica alla Sommaria solo copia della documentazione relativa alla parte contabile per le revisioni e di quella riguardante questioni giuridiche e vertenze d'interessi. Per una storia completa dell'Archivio della Dogana vedi DORA MUSTO, La Regia Dogana della mena delle pecore di Puglia, Roma 1964, pp. 85 a 91 (Quaderni della Rassegna degli Archivi di Stato, n. 28). 6 BIANCHINI, o p . cit., p. 140; GALANTI, o p . cit. t o m o I, pp. 223 a 224; L. DE SAMUELE CAGNAZZI, Saggio sulla popolazione del regno di Puglia, vol. I, Napoli 1820, pp. 270 a 279. 77 dei mercati, sembrava ancora costituire l'unica possibilità di valorizzazione delle terre pugliesi. Ricominciarono pertanto la richieste insistenti dei pastori abruzzesi di procedere ad una reintegra generale che completasse le precedenti parziali e nel 1548 il presidente della regia Camera della Sommaria Alfonso Guerrero, mandato a prendere cognizione sul posto degli inconvenienti piú gravi, riconobbe la necessità dell'operazione che fu disposta con privilegio del 3 ottobre 1548 ed affidata al luogotenente della Sommaria Francesco Revertera, cui fu affiancato il Guerrero. Si misurò la superficie delle terre a coltura e si provvide a riportarle alla primitiva estensione per cui, a conclusione delle operazioni di misurazione, si poterono riunire ai terreni destinati a pascolo ben 2.060 versure abusivamente dissodate 7 . L'estensione generale del demanio fiscale della Dogana risultò di carra 15.495 8, di cui 9.139 destinate a pascolo e 6.356 a coltura: i documenti relativi a tutta l'operazione furono raccolti in un grosso volume originale che si conserva presso l'Archivio di Stato di Foggia 9 e di cui esistono copie autentiche di epoca posteriore nell'Archivio di Stato di Napoli 10 ed in quello stesso di Foggia. Dagli atti della reintegra del Revertera risultano le estensioni di tutte le terre fiscali a pascolo, la rispettiva capacità ricettiva di pecore, i terreni fiscali destinati a coltura ecc. L'assetto dato nel 1548 alle terre pugliesi non durò a lungo perché la forte carestia del 1555 costrinse il luogotenente Berardino di Mendoza, che sostituiva il viceré cardinal Paceco, a staccare dall'estensione dei pascoli mille carra di terre da destinare a coltura, le quali presero il nome di masserie nuove o anche terre salde a coltura per distinguerle dalle masserie vecchie, ossia dalle terre a coltura già esistenti al tempo di Alfonso d'Aragona. Oltre alla tradizionale coltivazione dei cereali, del grano in particolar modo, si accrebbero i vigneti, gli oliveti, i mandorleti ed il fisco ne ricavò vantaggio poiché dalle terre date a coltura si riscosse un 7 BIANCHINI, op . cit., p. 196. I terreni di Puglia si misuravano a carra, versure e catene. La prima unità equivaleva a venti versure, ogni versura a venti catene. Essendo una versura equivalente a quattro moggia, ne consegue che un carro equivaleva a ottanta moggia ed una catena ad un moggio. 8 Tale la cifra riportata da F. N. DE DOMINICIS, Lo stato politico ed economico della Dogana di Puglia, Napoli 1781, vol. 1, p. 106. Il BIANCHINI, op. cit., p. 196, ne da un'altra leggermente superiore computando la superficie dell'intero demanio a pascolo a carra 15.641. 9 ARCHIVIO DI STATO DI FOGGIA (abbrev. ASF). Dogana, Serie I, vol. 14. Il successivo vol. 15 è copia del precedente fatta nel 1762. 10 ASN, Sommaria, Diversi, vol. 103 (I numerazione). 78 fitto annuo variante da trenta a quaranta ducati a carro, secondo la qualità delle terre, e si percepí in maggior misura l'antico dazio sulle granaglie, noto col nome di tratta. I risultati dei primi anni di coltivazione furono lusinghieri, trattandosi di terre che erano rimaste a lungo incolte, poi a poco a poco esse resero sempre meno per cui fu indispensabile lasciarle nuovamente a riposo con doppia conseguenza negativa: non si raggiunse il fine di un aumento costante dei prodotti agricoli, sí da soddisfare le crescenti domande dei mercati divenuti incapaci di rispondere ai bisogni essenziali della popolazione, e si restrinsero le estensioni di pascolo, anch'esse divenute scarse da quando la professazione volontaria 11 aveva permesso la moltiplicazione nominale degli animali al fine di concedere maggiori assegnazioni di erba e ricavarne piú forte importo della fida. L'aumento dell'introito fiscale non si era verificato inoltre nella misura desiderata, né in quella almeno sufficiente ai bisogni e nel 1556 il viceré duca d'Alba era costretto ad imporre l'aumento della metà della fida portandola da otto a dodici ducati per centinaio di pecore nei pascoli della Dogana, da sei ad otto in quelli della Doganella d'Abruzzo e, per i bovini e gli equini, da venticinque a trentasette ducati e mezzo per migliaio di capi. Fu aumentato anche l'affitto delle terre a coltura, che fu portato a quaranta o cinquanta ducati a carro, secondo la qualità del terreno: alte si levarono perciò le proteste dei pastori e dei coloni, ma senza risultato, mentre si accentuava la scarsità dei raccolti e gli agricoltori pugliesi sollecitavano l'affitto di nuove terre. Nel 1560 il viceré duca d'Alcalà autorizzò il doganiere Gian Luigi di Sangro a dare in fitto altre cinquecento carra di terreno, staccandolo non piú dai pascoli delle locazioni 12, che erano già stati ridotti dalla prima concessione, 11 Si diceva numerazione la denuncia dei capi di bestiame che i pastori abruzzesi facevano al Doganiere nella seconda metà d'ottobre, scendendo dai loro monti diretti alle pianure pugliesi. Il numero dei capi di bestiame veniva controllato dal Doganiere sia perché era tassativamente proibito aumentarlo artatamente al fine di ottenere maggiori estensioni di pascolo, sia per prenderne nota e calcolare la fida, ossia il prezzo dei pascoli fittati, che si riscuoteva a maggio, quando le greggi ritornavano sui monti per trascorrervi l'estate. Nel 1553, per accrescere il provento della fida, il Doganiere di Sangro mutò il sistema di locazione dei pascoli: alla numerazione sostituì la professazione, ossia la dichiarazione non controllata del numero reale degli animali e lasciò cadere il divieto di Alfonso d'Aragona, confermato dal figlio Ferrante, di concedere quantità di pascolo in piú del necessario. Quando le superfici disponibili erano al completo, gli altri armenti venivano avviati ai pascoli montuosi che si fittavano ai pastori al prezzo di trentadue ducati per migliaio di pecore. Quest'ultima assegnazione andava sotto il nome di dispensazione. 12 I pascoli di Puglia furono divisi da Alfonso d'Aragona in quarantatrè locazioni, ossia parti generalmente molto estese, che a loro volta furono suddivise 79 bensí da alcune difese 13 , fissando il prezzo in sedici ducati al carro e la concessione per cinque anni, e destinando la quinta parte delle superfici al pascolo degli animali da lavoro. Erano condizioni vantaggiose per i coloni pugliesi: pure, se vi fu concorso all'affitto delle terre nuove che promettevano un periodo di buon raccolto, vi fu d'altra parte l'abbandono di quelle già staccate dalle locazioni, sfruttate e di scarso rendimento, cosí che, nonostante le premure del Doganiere di Sangro non fu possibile fittare tutte le millecinquecento carra poste a disposizione 14 , sebbene per invogliare i coloni, il viceré avesse in un primo tempo acconsentito a mutare le terre boscose delle difese con altre migliori e fosse giunto di poi a concedere la facoltà di scelta dei terreni senza salvare nemmeno l'intoccabile tavoliere delle poste 15. Nel 1562 lo stesso duca d'Alcalà autorizzò la dissodazione di altre mille carra di pascolo, ma qualche anno dopo l'intensificata coltura dei cereali produceva la saturazione della domanda ed il conseguente calo dei prezzi sui mercati pugliesi a tutto danno dei coloni, mentre i pastori abruzzesi profittavano del momento favorevole per mettere in evidenza i danni subiti in quanto anche per la lana, i formaggi, i castrati l'abbondanza del prodotto e la rarefazione del denaro avevano acuito il disagio dei professori di pecore che nel 1564 non riuscirono a pagare la fida: fu necessario concedere dilazioni e la situazione si aggravò nel 1570 a causa di una fortissima mortalità di animali 16. Per rifarsi almeno in parte della fida ridotta e sempre nel timore di carestie, il duca d'Alcalà aveva concesso nel 1567 altre cinquecento carra di pascolo ai coloni pugliesi: va però precisato che le nuove concessioni subentravano spesso a quelle che scadevano per l'estinguersi dei relativi contratti. in porzioni minori dette poste o iacci, ossia ovili, con relativo pascolo proporzionato all'armento. 13 Le difese destinate a coltura furono Castelpagano, Tressanti, Schifara, Motta della Regina, Pezza S. Nicola, Alvano, Giardino di Trinità, Pantanella, Barca, Serrone di Bovino, Scarabottolo, Lampisciano, S. Leuci. Ai proprietari fu riconosciuto il diritto di prelazione nel fitto fino al mese di febbraio. 14 La superficie di terre a coltura fittate nel 1563 misurava carra 1.251 e 11 versure, secondo quanto afferma il DE DOMINICIS, op. cit., VOl. I, pp. 274275. 15 S'indicava con questo nome il terreno incolto che circondava i pascoli separandoli dalle terre coltivate: successivamente al XVI secolo fu adottato il termine quadrone. 16 S. DI STEFANO, La Ragione pastorale, Napoli 1731, vol. I, cap. VII, p. 219. La perdita di animali, secondo quest'Autore, si sarebbe aggirata intorno ai quattrocentomila capi. 80 Da ogni parte si ricominciò ad invocare provvedimenti ed il viceré cardinale Granvela affidò ad una commissione formata da Francesco Revertera, dal presidente della R. Camera della Sommaria Annibale Moles e dal doganiere Fabrizio di Sangro l'incarico di studiare e proporre i rimedi opportuni. Il 30 luglio 1574 fu pubblicata finalmente una prammatica in ventotto capitoli con la quale si richiamavano le disposizioni emesse anteriormente, si confermavano gli antichi privilegi e franchigie di gabelle e si stabiliva, per non restringere i pascoli, di rimandare ai primi dell'anno l'autorizzazione ad arare le terre che avevano ultimato il periodo di riposo. L'economia pugliese, come accadeva sempre dopo un riordinamento dell'amministrazione doganale, diede immediati segni di ripresa e le assegnazioni di terre a coltura per quanto sensibilmente ridotte, continuarono. Nel 1577 il viceré de Zuñiga autorizzava a stipulare contratti per complessive duecentotrenta carra, altre quattrocento erano destinate a coltivazione nel 1584 dal duca d'Ossuna ma, proprio quando sembrava che un certo equilibrio si fosse finalmente stabilito, le greggi furono colpite nel 1586 da una tremenda mortalità, che provocò la perdita di circa mezzo milione di capi e ridusse il concorso degli armenti ai pascoli fiscali, mentre qualche anno dopo si faceva nuovamente sentire la penuria di grano. Nell'autunno del 1589 il viceré conte di Miranda accoglieva il suggerimento del presidente della R. Camera della Sommaria Marthos de Gorostiola ed autorizzava la locazione in affitti quadriennali o quinquennali di quattrocento carra di terre da coltivarsi immediatamente a cereali: a questa seguivano altre due assegnazioni, decise anch'esse dal conte di Miranda: una nel febbraio per complessive seicento carra ed un'altra nell'ottobre per ben mille carra da utilizzare a coltura, mentre per la tutela degl'interessi legati alla transumanza si promulgava il 3 gennaio del 1593 una prammatica con nuove istruzioni e provvedimenti, al fine di controllare l'operato dei Doganieri cui veniva affiancato annualmente un presidente della R. Camera della Sommaria. Ancora una volta la pastorizia si riprese e gli ultimi anni del XVI secolo ed i primi del XVII segnarono il periodo del maggiore sviluppo e della netta preminenza nelle terre di Puglia di questo tipo di economia su quello agricolo che gli rimase nel complesso subordinato e complementare. 81 2. LA CONSULTA DEL 23 DICEMBRE 1560. Illustrissimo ed Excellentissimo Signore 17 havemo visto le lettere de sua cattolica Maestà dirette a V. E.18 de la data de li 13 d'ottobre, sopra li cinquecento carri de terreni de la Dohana de le pecore de Puglia, che questo anno se sono dati a massari per uso de campi, quale lettere Vostra Excellentia ne ha date ordine a bocca pongamo la relatione in scriptis de quanto è passato detto negotio et de quel che ne occorre, acciò se ne possa dare ratione a sua Maestà, et per obedire a quanto Vostra Excellentia ne ha comandato havendo bene advertito, et considerato quanto sua Maestà ha scripto con dette lettere, ne occorre con la presente relatione non fare altro solo referire la causa che mosse Vostra Excellentia ad introdurre sopra questo negotio il modo et ordine che tenne, et le ratione che forno discusse, et appontate, quando se pigliò la resolutione che Vostra Excellentia è nota perche da questo se trarrà tutto quello che occorre per resposta a tutti li capi, che sua Maestà scrive essendo tutti detti capi ben considerati per mirare al servitio de sua Maestà nel tempo predetto come semo certi che Vostra Excellentia ne tiene memoria. 1. Et primo Vostra Excellentia se ricorda, il grido universale, et verdadiero che era in tutto il regno, non solo appresso de li populi poveri, ma di tutti Illustrissimi magnifici Baroni, et servitori de sua Maestà che essendo per molti anni soccesse le male ricolte de vettuaglie, in questo regno, et spetialmente in Puglia, quale son continuate da male in peggio, havemo fatti tanta carestia, che una gran parte de li subditi et presertim li poveri, per non posser havere del pane, se sono nutriti de herbe, et vedendosi che questo non procedeva per defetto de massari, perchè li seminati son stati grandissimi et ogni anno, et senza sparagnare spesa nè fatica a la coltura, et alcune volte son ancora concorse le stagiune bone de le neve, et acque a tempo, se iudicava per li massari, baroni et per tutto generalmente che secondo la natura la principal causa de dette male ricolte, era la stracchezza et debiltà de li terreni, che per la continua et deiuturna coltura se trovano infiacchiti, et che non ci era remedio se non coltivar terreni novi, et che a la Regia Corte stava a provederlo in Puglia che è la provintia da la quale depende l'abondantia de questa fedelissima città de Napoli et de tutto il regno, lamentandosi che in tanti anni che son patite le carestie, et che hanno dimandato il detto aiuto et remedio, la Regia Corte non lo havea provisto per haver respetto a la Dohana de le pecore intanto che apertamente se doleano che detta Regia Corte demostrava in questo haver piú cura nel governo de le pecore che de 17 ASN, Regia Camera della Sommaria. Diversi, vol. 21 (prima numerazione), foll. 39 a 44 t. 18 Le lettere erano dirette da Filippo II di Spagna al viceré duca d'Alcalà. 82 la vita de li poveri subditi, et vassalli del regno et che non se dovea comportare che detto regno de tanta cultura et fertilità, che oltra il basto suo suole dare victuaglie ad una gran parte de la Italia et fuor d'Italia, et al presente sia redutto ad tanta necessità, che non habbia pane per lo vitto suo, et che li poveri vassalli vadano nutrendosi d'herbe per le campagnie, et morendosi de fame. 2. Havendo Vostra Excellentia inteso tutte le cose predette, et vedendo la necessità che il regno pativa, le parse cosa necessaria de intenderla maturamente et bisognando provedere come se convenea, et cossi le venire il magnifico Dohaniero 19 dele pecore de Puglia, il peso del quale è mirare il beneficio de la Dohana, et de piú ordinò Vostra Eccellenza che fossero chiamati li gargari 20 et padroni de pecore, et alcuni massari de li campi et seminati, et essendo li predetti venuti in Napoli et ordinatoli che sopra del predetto havessero informato lo conseglio collaterale tanto de stato quanto de iustitia, et la regia camera dela summaria con parere de li quali declarò Vostra Eccellenza voler provedere come se dovea, forno de poi coadunati il detto conseglio collaterale de stato et de iustitia, et questa regia camera inanzi Vostra Eccellenza et intese l'una parte et l'altra fo fatta longa discussione de tutto quello che occorre sopra questo negotio, et inteso il parere de tutti presertim del detto Dohanero e de li gargari per quel che tocca alla Dohana de pecore, se conclusero che li herbagi de detta Dohana sono de due sorte, cioè l'ordinarij antiqui, che sono le locationi principali d'essa Dohana, capace secondo l'extima de novecentomila pecore in le quale son le poste antique dele pecore, et in questi Vostra Eccellenza non ha fatto motivo alcuno per che restano già salde, et intatti ad uso et servitio de essa Dohana come son stati per lo passato. 3. L'altri herbagi sono dele difese deli baroni, et d'altri particulari vicini alle dette locationi ordinarie et in diverse parte de Puglia, Terra de Bari, Capitanata, et Basilicata, quale defese benche son ancora herbagi extraordinarij soliti de detta Dohana, et la regia corte li destribuisce ordinariamente al uso de pecore, non di meno son appartati da detta locatione dele novecentomila pecore, et non de quella perfectione et importanza che è la detta locatione, et in queste non ci è posta alcuna de pecore, se considerò ancora che li medesimi gargari benche sempre affectano et procurano il comodo de dette pecore, non di meno cognoscendo la verità, non possettero negare, anzi affirmaro che per remedio de detta necessità urgentissima deli grani bisognava dare ad coltura una parte deli detti terreni saldi dela Dohana fora Era investito quell'anno della carica di doganiere Gian Luigi di Sangro. Si indicavano col nome di gargari, metatesi di gregari, i pastori al servizio di un padrone di greggi. 19 20 83 però dela locatione ordinaria et che se posseva fare senza danno d'essa Dohana, et dele pecore inprovedersi d'altri herbagi in la medesima Puglia, affirmando ancora che questo compleva al bisognio de tutti l'homini de dohana a causa che per li sei mesi del anno che stanno in Puglia li son necessarij al meno trentamila carri de grani per loro vitto, quali in tanti anni che sono state le carestie hanno comprato a carissimi preczi, et se offersero essi medesimi pigliare la detta cultura de 500 carri con restare contenti che ale pecore se proveda d'altri herbagi et se cossi Vostra Eccellenza con il parere de tutto il conseglio collaterale de giustizia, et de questa regia camera et del Dohanero tra li quali non fo persona alcuna che discrepasse, et de li gargari de detta Dohana deliberò dare detti 500 carra de coltura in le predette defese per spazio de cinque anni, ad ratione de sedeci ducati il carro. De la forma che se sono dati iuxta la capitulatione expedita. 4. Et benche a tempo dell'illustrissimo conde don Berardino de Mendoza fo al governo del regno, havendo vista la medesima necessità, che se pativa de fame volse similmente intendere la causa et il remedio et dopo fatta la discussione che se ne fe in lo consiglio collaterale con intendere lo Dohanero, et li gargari et massari, deliberao 21 dando licentia che se li terreni de detta locatione de 900 mila pecore, che so' li piú pretiosi et importanti che habbia la Dohana se possessero harare et seminare dentro il saldo de detta locatione quale non foro mai harate, o vero erano stati molti anni salde per uso de pecore: dandose a dette pecore la recompensa delle herbe in li territorij annochiari 22 de li campi come appare per lo decreto che alhora ne fo fatto, et se ne puo ancora recordare lo magnifico Regente Paolo, ch'era alhora in regno, et lo sape tambene l'Illustre Marchese d'Oriolo che era alhora Presidente de questa regia Camera in la quale rende l'ordine che detto Illustre Don Berardino che facesse exequire il decreto, quali al presente son tutti due in corte, et a bocca ne porranno informare sua Maestà, non dimeno Vostra Excellentia in la deliberatione che ha fatta deli detti 500 carri non ha voluto havere ratione del detto decreto in quanto apponere mano ala detta locatione ordinaria dele 900 mila pecore per la gelosia che ha avuta ala detta Dohana, alla conservatione et augumento della quale sempre se ha mirato, et adiutandosi con ogni diligentia et vigilanza come meritamente se deve per li respetti et consideratione che sua Maestà ha quali son ben noti a vostra Eccellenza et ali officiali de questo regno li quali sape Vostra Eccellenza quante volte de ciò li hanno fatta relatione, et cosi se piglio per Vostra Eccellenza il detto temperamento de dare li 500 carri de coltura in le difese, come fo concluso, che se posseano dare senza discomodo et danno dela Dohana et de la Corte come è detto, li quali 21 La carestia ed il provvedimento, cui fa riferimento la consulta, risalgono a cinque anni prima, ossia al 1555. 22 Erano comunemente noti col nome di terreni annecchiarici i campi al secondo anno di riposo, che producevano un'erba particolarmente adatta agli ovini. 84 non importano piú che il pascolo de 50 mila pecore che facilmente la corte ce lo può dare del'altre herbe che comprarà in la medesima Puglia senza interesse de un reale d'essa regia corte si come ordinariamente se sole fare in caso de [che] li herbagi dele locationi et defese ordinarie non bastano al pascuo de tutta la Dohana per abondantia de pecore o vero per seccità et sterelità d'herbe, che alhora se pigliano et comprano tanti de li herbagi extraordinari quanto bisognano per colocare quella parte de pecore che non puo capere et nutrirsi in li detti erbagi ordinarij et alhora medesima se hebbe relatione che dette pecore che sariano state restorate in detti carri 500 de terreni se possevano accomodare nel modo predetto in altri herbagi come con effetto si è fatto et da questo Vostra Eccellentia se ricorda quelche alhora se disse che con effetto se conosce che nacque provisione ad ogni cosa perche alla necessità dela fame se provedi con dare comodità de coltura; ala Dohana non se fe mancamento alcuno poichè come se accomodavano le 50 mila pecore in detti carri 500 se sono accomodate in altre parte et ala regia corte non si è dato danno alcuno anzi utile, et la locatione fatta in questo anno ne fa fede perche sono augumentate pecore sessantamila piu dela locatione del anno passato et tutte son state ben proviste, et collocate et così piaccia a nostro Signore Iddio non darli danno per le gran neve che sono. 5. Et venendo alli capi particolari che sua Maestà tocca in dette lettere quanto ale distantie che hanno d'essere d'ogni banda, dale locationi et poste ali seminati iuxta l'ordini antiqui dela Dohana respondemo che questo ha loco, et se osserva inviolabilmente in li herbagi ordinarij dele 900 mila pecore in li quali sono le poste et in quelli lochi dove comodamente se possa dare detta mesura de uno miglio et meczo et un miglio perche non in tutti luochi se puo dare tanta distantia, ma in le difese dele quali son date ad coltura li 500 carri non accade observare la detta distantia perche come non ce sono poste non ci è stabilita distantia alcuna. 6. Quanto a quello che sua Maestà dice che ala misura che se fa dela Puglia se trovò che per uso de campi se lassorno seimila carri de terreni, et che la regia corte non reintegrò piú che 129 carri senza quello d'Andria, et che pare essere preiudicio et inconveniente de haverli dati 500 de terreno saldo contra la forma antiqua per li 129 reintegrati, se risponde che il dare de detti 500 carra si è fatto per aiuto, et subsidio del regno per causa che tutti li campi de Puglia non bastivano al bisogno del vitto come de sopra è detto, et non son dati che abbiano ad essere perpetui deli massari ma per seminarli per certi anni solamente fra il qual tempo se spera che cesseranno le carestie, et che il regno se reduca ad fertelità et abondantia, che in tal modo come si è fatto non pare che sia preiudicio nè inconveniente dela regia corte perche la detta reintegratione fo fatta principalmente in le locationi ordinarie 85 in le quali consiste il principal pascuo e buon governo, et manutentione de detta regia Dohana. In le quali locationi ordinarie non si è toccato come si è detto et la reintegratione loro è stata de molto piú quantità deli detti 129 carri, ma li detti 500 carri che sono dati ad coltura sono dele defese extraordinarie solite et non fanno danno alcuno ala detta regia Dohana, perche restano tutti l'altri extraordinarij soliti et l'altri extraordinarij insoliti che sono molti in li quali se ponno locare comodissimamente molto piú summa de pecore che non importano li detti 500 carri et questo tanto in Puglia, Capitanata, et Terra de Bari, come in Terra d'Otronto, et Basilicata per li quali lochi se exstende la Dohana come de sopra è detto. 7. Quanto ala male ricolta, che non se attribuescano a mancamento de terreni, per causa che siano ancora successe generalmente in le altre parte de Italia, et in Secilia, et che tampoco non se debbiano attribuire a stracchecza d'esti terreni per causa che una parte sene semina, et l'altra reposa, se responde che benche le male ricolte siano state generale et che procedano d'altro che da mancamento et stracchecza de terreni non per questo se deve lassare de provedere alla necessità del regno et per questa causa che procedano per le discossione fatte, non se ha trovato remedio piú pronto et securo de fare coltivare le dette defese in Puglia, a causa che quando le ricolte veneno triste, se in quel anno se trovano seminati luochi saldi, et per molto tempo reposati, benche in l'altri terreni stanchi la ricolta sia generalmente trista non de meno in li saldi et per lo longo tempo riposati se produce gran frutto. 8. Quanto al dubio dela pretendentia deli patroni de dette defese de volere essi l'utile deli sedeci ducati per carro, se dice che già Vostra Excellentia se ricorda, che quando questo negotio fo votato, non se mancò de considerare questo punto, et se resolve che poiche questo se faceva per lo ben pubblico deli subdeti, et la regia corte condescendeva per lo ben pubblico che li patroni non lo ponno dire, poiche hanno il preczo che la regia corte si sole pagare 23, et tanto piú che per capitulatione li medesimi patroni de dette defese so preferiti a tutti l'altri volendo essi patroni far la coltura de detti 500 carri. 9. Et alo che sua Maestà dice che li detti ducati 16 per carro son poco preczo ad respetto che de simiglianti terreni se soleno dare un carro et meczo, et doi de grano, et che saria stato meglio pigliarli in grani, che in denari, se responde che in questo negotio, non se ha trattato del utile dela corte, se non solamente de provedere ala neces23 Per i pascoli delle difese il prezzo fissato era di trentadue ducati a migliaio di pecore. 86 sità del regno, et pare che se habbia fatto asai in haverlo provisto senza danno dela regia corte, anzi con qualche competente utile, ne saria stato conveniente d'esigere grano, poiche la corte exige denari per la fida, et denari paga per li herbagi ali padroni de dette defese, et per non mostrare de voler fare industria in soccorrere li subditi in detta loro necessità, et per evitare la extraditione deli patroni dele defese come de sopra è detto. 10. Quanto al beneficio dele tratte che sua Maestà dice essere interesse per causa che a ... le tratte con la fertilità del regno bisognia che concorra la carestia d'esso regno se responde che l'estractione de li grani de Puglia et d'Apruczo è certissima, et secura per essere regno in ogni tempo che ce siano grani per extrahere perche li bisogni d'extra regno son ordinarij presertim de Schiavonia, Venetia et altri lochi, et hanno ancora il comodo de vecinità a provedersi de dette provisioni et mai mancare la requesta et extractione per extra regno, maxime quando la corte se contenterà dela tratta ordinaria senza exigere novo imposto et piacesse a nostro Signore che sua Maestà havesse comodità de tenere il regno tanto abondante de grani che potesse concedere tratta a soi confederati perche sene causaria magior autorita de sua Maestà con le potentie de Italia, et oltre con gran parte del oro che per grani si è trasportato in levante se trovara in questo regno, il quale abondando de denari saria grande beneficio universale et servitio de sua Maestà. 11. Quanto alla consideratione che sua Maestà dice restringendo il terreno de Dohana se veneria ad patire de carne, questo provedersa quando per la cultura de detti 500 carri venesse ad mancare lo bestiame de detta Dohana, ma per detta causa non manca il bestiame perche resta in la medesima Dohana in Puglia et pero cessa la detta dubitatione. 12. Quanto a quello che sua Maestà nota che li detti 500 carri de terreni non son tanti che se ne possa sperare evidente beneficio del regno et che contrapese il danno che se ne potria causare ala Dohana et incomenciandosi un altra volta a disordinare se remediaria difficilmente, se responde che detti 500 carri per essere terreni intacti et ingrassati cole pecore de longo tempo a comone iuditio d'experti renderanno al manco de ogni uno vinti, et per li primi tre anni se potranno tutti coltivare che a detta ratione se ne sperano diecimila carri de recolta per anno et che è quantità notabile per beneficio del regno; ma presopponendo che rendessero solamente d'ogni uno quindici, che è la piú scarsa recolta che ne potesse soccedere pur serrà 7.500 carri quali agregati alla recolta de Puglia la faranno essere abondante o al piú scarso sarà mediocre con benefizio universale del regno et circa il danno, et disordeni de la Dohana gia avemo detto che ala predetta Dohana non ne seque danno, ne tampoco ne può nascere disordine perche in 87 mano dela regia corte sta de reintegrarli passato il tempo de li cinco anni al pascuo dela Dohana. 13. Et alo che sua Maestà dice che li serenissimi re Ferranti primo et il Re Cattolico d'imortal memoria, mai volseno consentire che si rompesse il terreno saldo dentro li terreni costituiti, non obstante che li fosse preposto l'utile dele tratte, se responde che non se è toccato alla locatione ordinaria come piú volte havemo detto, et mai al tempo de detti serenissimi ri soccesse al regno tanta carestia, come quella che si è vista, et vede a questi tempi, ne tampoco in vita dela Maestà cesarea de santa gloria, eccepto una volta, nel anno 1539, che durao pochi mesi, et dal detto tempo de re Ferrante primo et de la Maestà Cattolica in qua il regno se trova tanto piú populato, et augumentato che se puo dire essere moltiplicato forsi in altro tanto piú de quello che era alhora, quali serenissimi rei, se havessero visti la necessità urgente, che adesso corre et la fame che il regno ha patita, et pate senza dubio haveriano provisto al bisogno come ha fatto Vostra Eccellentia si come se comprende per l'ordini del detto serenissimo re Ferrante primo al quale essendo suplicato che donasse herba in Puglia alli bovi per uso de campi, volentiere ce la donava, dicendo che sua Maestà non percepeva meno utile de li campi che dela Dohana siccome appare per molte lettere de sua Maestà. 14. Et considerate bene tutte le cose predette la provisione fatta per Vostra Eccellentia è stata necessaria et conveniente per tutte le sopradette cause, et rationi e ancora che non ne sequesse tutto quello bene effetto, et aiuto che il regno ne spera, non di meno per il respetto solo de haver dato questa sodisfatione et contentamento al regno, et per demostrarli la bona voluntà che sua Maestà tene de aiutare et remediare suoi subditi in loro necessità sua Maestà deve tener per bene quel che Vostra Eccellentia ha fatto, et restarne servito, tanto piú che procede senza danno de sua regia corte, et in gratia de Vostra Eccellentia de continuo ne raccomandamo, ex eadem Regia Camera die 23 mensis decembris 1560. Vestre Eccellentie servitores locumtenens et presidentes Regie Camere Summarie Franciscus Reverterius Magne curie locumtenens Paulus de Magnanes Antonius de Castillo Thomas Salernitanus Didacus de Scobar Hieronimus de Sigura Iohannes Paulus Crispus magister actorum Notarius Franciscus Palumbus pro not. DORA MUSTO 88 L'epigrafe greca e tre nuove epigrafi latine di Canosa Canosa, la città che si gloriava d'essere bilingue, ma che sinora aveva dato solo epigrafi latine, ha ora finalmente la prima epigrafe greca. Il rinvenimento è avvenuto lo scorso novembre nel recinto di un mausoleo d'età imperiale, chiamato comunemente Barbarossa, dal nome della tenuta in cui sorge; esso si trova a poche centinaia di metri dall'abitato, sulla via di Cerignola: via che scorre sul tracciato della Via Traiana. Il mausoleo, che, frugato scrupolosamente per molto tempo, non aveva dato alcuna iscrizione nella parte monumentale, ha rivelato all'improvviso il suo tesoro epigrafico al limite estremo del recinto, nel lato sud-ovest, in un'umile tomba di modestissime dimensioni, contenente le scarse reliquie d'un cadaverino che, dalla conformazione del coccige, è risultato per quello d'una bimba. La tombicina era formata da quattro lastre: tre con epigrafi latine e la quarta, ai piedi del sepolcro, con epigrafe greca. Le iscrizioni non hanno fra loro rapporto alcuno né per nomi, né per scrittura, né per tecnica epigrafica: segno evidente che si tratta di al stre prese qua e là, su tombe abbandonate, da una povera famigliola che cosí aveva voluto o potuto inumare il corpicino della propria creatura. Le epigrafi latine. - Le iscrizioni latine vengono qui presentate succintamente, poiché non aggiungono molto alla conoscenza di Canosa antica; non si presentano comunque prive di interesse per ciò che concerne peculiarità linguistiche e l'onomastica, la quale è prevalentemente greca. Si rendono qui grazie al prof. Giuseppe Morea, direttore del Museo Civico di Canosa, per la cortesia con cui ha messo a disposizione lapidi e fotografie, e per le informazioni fornite. 91 Esse sono le seguenti: 1) BALONIAE. / HELIADI. BALONI / VS. PRISCVS. FRATER. / BENEMERENTI. FECIT. Si tratta d'un Balonio Prisco che pone tomba ed epigrafe alla sorella Eliade. Interessanti i nomi. I caratteri son quelli propri della capitale quadrata epigrafica, con grandezza decrescente da una riga all'altra. Da notare la i di Balonius soprascritta all'asta della n (fig. 1). 2) D. M. S. / BITALINI / SORORI / DVLCISSIM / [AE] AGATHO / [B.] M. F. / [QVAE] VIXIT /[ANNIS] XIIII / [DIEBVS] X. Ancora un fratello, Agatone, che cura la tomba d'una sorella, Bitaline (= Vitalina), morta in tenera età, se XIIII, come pare potersi dedurre dagli spazi, è l'intero numero. Il nome della fanciulla si rivela linguisticamente interessante: è in grafia fonetica, con b che rappresenta la bilabiale spirante; la i della desinenza fa pensare non a un nome di 3a declinazione, ma a trascrizione fonetica del greco Bιταλ?νη, con ? già pronunciato i 1. A cominciare dal quarto rigo la pietra, che è ora composta di piú pezzi, si presenta priva dell'angolo inferiore sinistro. L'integrazione delle lettere mancanti è piuttosto facile, fuorché nell'ultimo rigo. Se X, come pare, è un numero completo e il lapicida ha preferito l'ablativo all'accusativo, in questo rigo si poteva leggere diebus; che è da preferire a mensibus per la maggiore corrispondenza fra spazi e lettere. I caratteri sono vicini a quelli della capitale rustica lapidaria; la superficie, che è quadrata, è stata sfruttata piuttosto irrazionalmente (fig. 2). 3) [D]. M. / [SATV]RNINO FILI / [QV]I VIXIT ANNIS. II / DIEBVS XXII. / SATVRNINVS ET / SILVANA PAREN / TES BENEMEREN / TI FECERVNT. Delle tre epigrafi la presente è l'unica che potrebbe adattarsi alla tombicina, posto che questa ne avesse avuto una propria e nella scritta non si parlasse d'un maschietto: infatti due poveri coniugi, senza lustro di titoli e tria nomina, ricordano il figlioletto morto a due anni: Saturnino, avente lo stesso nome del padre. Il marmo, di forma quadrata, è rotto negli angoli superiori, soprattutto a sinistra, ma facilissima La v, fin dall'ultima età repubblicana, aveva una pronuncia affievolita, simile al w inglese; in Cicerone si legge, per esempio, il bisticcio cauneas (i famosi fichi secchi di Cauno) = cave ne eas (De div. II, 84). In età imperiale si hanno grafie come Bictorinus. Baleria ecc. citati dal BATTISTI, La crisi del latino, Firenze 1946, p. 110. La desinenza di Bitalini p u ò essere spiegata come un caso di estensione della nuova declinazione che la lingua popolare andava applicando ai nomi femminili di prima declinazione: C h r e s t e-Chrestinis (o Chrestinis, per la tarda pronunzia di η) ecc., per analogia con Iuno-Iunonis e simili. Cfr. V. PISANI, Grammatica latina stor. e comparat.. Torino 1962, p. 159. Il C.I.L. e la Peregrinatio Aetheriae sono pieni di esempi in cui l’η è reso con i. Da questi elementi emerge la seriorità della nostra iscrizione. 1 92 è l'integrazione delle poche lettere mancanti (fig. 3). I caratteri hanno l'agilità della capitale rustica. Da notare la mancanza dell'o in fili: forse ancora un caso di grafia fonetica. E' notevole comunque la tendenza di questi testi, per il resto impeccabili, a risolvere per via estragrammaticale nomi caratteristici del linguaggio affettivo (Vitalina, filius): si ha l'impressione che ogni tanto lo scrivente non riesca a tenere a freno l'urgenza della lingua parlata. La nuova particolarità si potrebbe spiegare con la mediazione dell'osco, a cui si devono nell'ambito latino nominativi quali Octavis, Ianuaris 2. Non per nulla filius nel vocativo subisce sempre il trattamento dei nomi propri in ius. Alla base di questo marmo è disegnato un grazioso motivo floreale: un vaso a due anse, da cui escono quattro foglie cuoriformi, disposte simmetricamente. Qualche fogliolina similare è disegnata anche nelle altre epigrafi. L'epigrafe greca. - L'epigrafe greca è di notevole importanza perché si tratta di testo poetico e perché essa ci porta la prima voce di Canosa bilingue; sinora il bilinguismo era solo postulato sulla fede di autori antichi, non ultimo il Venosino 3, che aveva buttato giú quell'affermazione forse anche per sfogare qualche vecchia ruggine campanilistica. Il marmo, che è perfettamente conservato, ha le dimensioni di cm. 28 x 33 x 2, con lettere di circa 2 cm., elegantemente incise e colorate da una leggera patina rossa (fig. 4). Qui si presentano i primi risultati di uno studio che non ha la pretesa di essere né completo né definitivo. Testo, traduzione e prime considerazioni. - Le caratteristiche foglie cuoriformi rendono agevole la restituzione degli σt ???ι esametrici del testo, che è il seguente: Non sarà inutile darne una traduzione: « Mia patria è Mira, e traggo i natali dalla Licia. Essendo mercante d'arte, venni a causa (della morte) dell'infelice fratello, Zosimo, che qui posi a ricordo per i mortali; non cosí (infatti) crebbe Nireo nella bella Sime, non i figli di Leda presso la vorticosa corrente dell'Eurota. Pose Ametisto, fratello di Zosimo ». Il senso è nell'insieme limpido, anche se è difficile determinare le circostanze particolari alle quali l'epigrafe si riferisce. La situazione che l'ha ispirata può essere stata la seguente. Ametisto ha saputo a Mira della morte del fratello (spentosi in giovane età, come si desume dal2 C.I.L. VI, 4625; XII, 5698. Cfr. anche Mercuris, Clodis in PISANI, op. cit., p. 160. 3 Sat. I, 10, 30. 93 EDIZIONI MERIDIONALI QUADERNI DI « RISORGIMENTO MERIDIONALE » (in 8°, cop. fig.) - DOMENICO PACE , Vincenzo Lanza e la vita universitaria e ospedaliera a Napoli nel primo Ottocento. Presentazione di Raffaele Chiarolanza. Contributo documentario di Alfredo Zazo. Note, bibliografia, indice dei nomi. Pp. 80, tav. f.t. L. 600. - CRISTANZIANO SERRICCHIO, Gian Tommaso Giordani e il liberalismo dauno nel 1820. Note, appendice di documenti ined., indice dei nomi. Pp. 124, tav. f.t. L. 1.000. 3. G. e E. TEDESCHI , Ascoli Satriono dal 1799 al 1829. Diario. Avvertenza e notazioni di Mario Simone, Bibliografia e indice dei nomi. Pp. 152, tavv. f.t. L. 1.000. SERIE « RESISTENZA E LIBERAZIONE » - PASQUALE SCHIANO , La resistenza nel Napoletano. Presentazione di FERRUCCIO PA RR I, con 12 profili, 24 testimonianze, documenti, indice dei nomi. Pp. 232, 10 sanguigne di Cristiano, 24 illustrazioni. L. 2.000. BIBLIOTECA DEL RISORGIMENTO PUGLIESE, sotto gli auspici dell'Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano (in 16°). - 1. ANTONIO LUCARELLI , I moti carbonari della Daunia alla luce di nuovi documenti. Pp. 38. - 2. FRANCESCO GIORDANI , Francesco Paolo Bozzelli. Pp. 64 con ritr. e autogr. f.t. - 3. ERNESTO PONTIERI , I fatti lucerini del 1848. Pp. 58 con 4 tavv. f.t. - CARLO GENTILE , Giuseppe Ricciardi. Pp. 52 con ritr. f.t. Ciascun opuscolo L. 500. PUGLIA 1 9 6 1 - Celebrazione del Centenario dell'Unità nazionale (in 8°, cop. fig.) - MARIO SIMONE , La Capitanata eretta a provincia dello Stato italiano, Pres. del prefetto E. Cerza. Largo corredo di noto. In 4°, pp. 24, ritr. f.t. L. 500. MISCELLANEA GIURIDICO-ECONOMICA MERIDIONALE - SERIE IL PENSIERO DEI NOVATORI (in 8' , sopracc. fig.) - ANGELO FRACCACRETA , Scritti meridionali (a cura di Mario Simone). Pref. di Mario De Luca. Pp. 328, 2 tavv., f.t. sopracc. di Lucia Fraccacreta L. 3.000. SERIE DOGANA E TAVOLIERE DI PUGLIA (in 16° ) - I. ANGELO CARUSO , La Dohana menae pecundum, o Dogana di Foggia, e il suo Archivio, con nota bibliografica. Pp. 52, n. 4 tavv. f.t. L. 500 - GIUSEPPE CONIGLIO, La Dogana di Foggia nel sec. XVII Documenti ined. dagli archivi spagnuoli. Pp. 148, n. 4 tavv. f.t. L. 1.500. - 3. ADDOLORATA SINISI , I beni dei Gesuiti in Capitanata nei sec. XVII102 XVII e l'origine dei centri abitati di Orta, Ordona. Carapelle. Stoenarella e Stornara. Documenti inediti e bibliografia. Pp. 132, n. 8 tavv. f.t. L. 1.500. TEMI e TEMPI. "Biografie del Sud" (in 8°, cop. fig.) . DOMENICO LAMURA , Terra salda. Pres. di Raffaele Ciasca. Note e schiarimenti. Pp. 132, cop. e 4 tavv. orig. f.t. di Francesco Galante. L. 700. - 2. M. BRANDON ALBINI , TOMMASO FIORE , ALFREDO PETRUCCI , MICHELE VOCINO , « FRANCE - OBSERVATEUR », La « Legge » di Vailland, con Due parole dell'editore (Mario Simone). Pp. 80, cop. di Luigi Pellegrino, dis. nel t. di Petrucci e Vocino. L. 500. RACCOLTA DI STUDI FOGGIANI a cura del Comune di Foggia. NUOVA SERIE (in 8° , sopracc. fig.) - CARLO VILLANI , Risorgimento dauno - Cronistoria di Foggia 1848-1870. Nuova ed. riv. e ann. da Mario Simone e pres. dal Sindaco di Foggia. Pp. 248, 14 tavv. f.t., sopracc. e dis. nel t. di Carotenuto. L. 2.000. - MARIO SIMONE (a cura di), Saverio Altamura, pittore e patriota foggiano nell'autobiografia, nella critica e nei documenti. Pres. del Sindaco di Foggia. Pref. di Bruno Molajoli. Note editoriali, testimonianze e giudizi, catalogo delle opere, bibliografia. Pp. 176, 48 tavv. f.t. e dis. nel t. L. 3.000. « LA FORTUNATA TERRA DI PUGLIA», biblioteca del turista (in 16°, sopracc. fig.) 1. MICHELE VOCINO , Alla scoperta della Dauna con viaggiatori di ogni tempo. Nota bibliografica. Pp. 144, 16 tavv. f.t. ril. L. 1.000. PASQUALE SOCCIO - TOMMASO NARDELLA , Stignano, Pp. 64xIV, 10 tavv. f.t. L. 500. 3. CARUSO , V. D'ALTERIO, G. DE MATTEIS, Aria ed arie di Alberona, Pp. 190, 10 tavv. f.t. L. 1.000. BIBLIOTECA DAUNA, collana di monografie regionali sotto gli auspici della Società Dauna di Cultura (in 8°, sopracc. fig.). - 1. SILV E STRO MASTROBUONI , San Leonardo di Siponto. Storia di un antico monastero. Note, append. di doc. ined., bibliogr. Pp. 192. 12 tavv. f.t., dis. di Vera Carotenuto. L. 2.000. - 2. FRANCESCO DELLI MUTI , Le Isole Tremiti. Bibliogr. Pp. 176, 16 tavv. f.t. L. 1.200. - 3. MARIO DE SANTIS, La "Civitas" Troiana e la sun Cattedrale. Note, append. di doc. ined., bibl. Pp. 232, 24 tavv. f.t. L. 3.000. B I L A N C I A, collana di critica letteraria e artistica (in 8°) - 1. ANTONIO REGINA , Pietro Paolo Parzanese a cento anni dalla morte. Premessa bio-bibliografica, note, discorso commemorativo. Pp. 112. 103 con ritratto f.t. L. 800. - 2. ALFREDO DE DONNO , Solitudine di Pirandello. Premessa bio-bibliografica, indice. dei nomi, nota bibliogr. Pp. 76, con ritratto f.t. L. 600. BIBLIOTECA MUSICALE (in 8°, cop. fig.) - VINCENZO TERENZIO, Storia della Musica secondo i programmi ministeriali in vigore. In appendice: Nozioni di acustica. Pp. 224. L. 1000. ENCICLOPEDIA (in 8°, fig.) - SALVATORE CALABRESE , Agostino Gervasio e gli studi umanistici napoletani nel primo Ottocento. Pref. di Antonio Altamura. Pp. VIII-128, 3 tavv. f t. L. 1.500. P 0 E S I A, collana in ricordo di Umberto Fraccacreta (in 8°) JOHN GAWSWORTH, Maggio d'Italia (La Gradogna). Trad. poetica di U. Fraccacreta col testo inglese a f. Pp. 72, 2 rif. F.t. L. 600. ANNALI DELLA NUOVA SCUOLA MERIDIONALE (in 8°, cop. fig.) SERIE « ANNUARI » - il " Galilei " del Liceo Scientifico Statale " Galilei " di Manfredonia. Vol. I (Decennale 1954-1964). Pp. 134, tavv. doppie 6 e dis. nel. t. - il " Poerio ", dell'Istituto Magistrale Statale " Poerio " di Foggia. Vol. I (1965-1966). Nel Centenario. Pp. 184, tavv. doppie 6 (fuori com.). COMMISSIONI A: LAURENZIANA IN NAPOLI (VIA TRIBUNALI, 316), C.C.P. 6/23302. STUDIO EDITORIALE DAUNO IN FOGGIA CASELLA POSTALE C.C.P. 13/3637. BOLLETTINI EDITORIALI A RICHIESTA la Capitanata Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia Direttore: dott. Angelo Celuzza, direttore della Biblioteca Provinciale. Direttore responsabile: m ° Mario Taronna Direzione tecnica dello Studio Editoriale Dauno - Tip. Laurenziana - Napoli Autorizzazioni del Tribunale di Foggia 6 giugno 1962 e 16 aprile 1963 Registrazione presso la Cancelleria del Tribunale di Foggia al n. 150 104 la Capitanata Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia HANNO COLLABORATO A QUESTO FASCICOLO: Prof. FRANCO BIANCOFIORE, dell'Univ. degli studi di Bari; dott. DORA MUSTO, dell'Archivio di Stato di Napoli; prof. ERMINIO PAOLETTA, del liceo « Garibaldi » di Napoli; prof. ORONZO PARLANGELI, dell'Univ. degli studi di Bari; prof. ALFREDO PETRUCCI, dir. onor. del Gabinetto naz. delle stampe in Roma; avv. BERARDINO DI TIZZANI, presidente dell'Amministrazione provinciale di Foggia; prof. VINCENZO TERENZIO, docente e bibliotecario del Liceo Musicale « U. Giordano » di Foggia. SOMMARIO L'ANNO DI GIORDANO - VINCENZO TERENZIO: Realismo meditativo 1 BERARDINO TIZZANI : Il piano di coordinamento e la Capitanata 13 FRANCO BIANCOFIORE : Origini e sviluppo della civiltà daunia 23 ORONZO PARLANGÉLI : Testimonianze linguistiche della Daunia preromana 39 ALFREDO PETRUCCI : Il Pellegrino al Gargano 51 DORA MUSTO : Sulla economia di Capitanata nel XVI secolo . 75 APPENDICE - ERMINIO PAOLETTA : L'epigrafe greca e tre nuove epigrafi latine di Canosa . . 91 Il bilancio provinciale di previsione per l’esercizio finanziario 1967 ∗ AMICI CONSIGLIERI, a meno di un anno dall’insediamento della Giunta ed a poco più di un semestre dall’approvazione del documento programmatico della nostra gestione, presentiamo al vostro obiettivo e responsabile giudizio un primo consuntivo politico ed amministrativo di questo periodo iniziale di attività. Il documento di bilancio è stato sempre ritenuto — e per la verità è così — l’atto più importante della vita dell’Ente. Esso, per noi, rappresenta anche l’occasione di un raffronto e di una verifica di tesi, opinioni ed idee, per la maggioranza e per la minoranza, sui temi dello sviluppo della nostra Provincia, un appuntamento a scadenza fissa, che si ripete ogni anno ed a cui nessuna Amministrazione può sottrarsi naturalmente, e, insieme con il bilancio preventivo, si finisce per discutere, ogni anno, anche il consuntivo dell’attività svolta nell’anno precedente. Naturalmente, questa scadenza è attesa dall’opposizione per confrontare il programma con le realizzazioni e rilevare i ritardi, le carenze, le contraddizioni dell’intera gestione. Un controllo, più che legittimo, al quale purtuttavia potremmo sottrarci con facilità e, per il breve tempo trascorso dall’approvazione del programma, altresì, eccependo che esso era appena sufficiente allo studio e all’impostazione dei problemi proposti alla nuova Giunta. Possiamo invece presentarvi un elenco di soluzioni adottate o prossime ad esserlo, e sollecitare il vostro giudizio non sui nostri propositi, come fu col precedente voto, ma su concrete realizzazioni, ∗ Discorso pronunziato nella seduta 28 luglio del Consiglio provinciale, convocato in sessione straordinaria, per l’esame del bilancio. 1 fedeli alle direttrici indicate nel programma e che, in qualche caso, hanno superato gli stessi obiettivi prefissici. E’ vero, anche, che se i problemi risolti sono solo alcuni di quelli indicati nel programma, tutte o quasi tutte le altre questioni sono state messe a fuoco, anche, se ciò facendo, ci siamo imbattuti in problemi non compresi nel programma, perché a suo tempo erano inattuali od inesistenti. * * * Nel procedere alla esposizione analitica della nostra attività, cominciamo dall’azione indiretta di stimolo verso lo Stato e gli enti. All’ordine del giorno è la relazione del dott. Bucci, nostro rappresentante in seno all’Acquedotto Pugliese. E’ la prima volta nella storia del nostro ente che si verifica in questa forma la collaborazione tra la Provincia ed un suo rappresentante in un altro importante ente pubblico e noi desideriamo che si pratichi anche con gli altri enti, per intensifìcare il nostro intervento nella risoluzione del maggior numero di problemi che interessano le nostre popolazioni. A tal proposito informo che, a settembre il vice presidente De Maio, componente per la Provincia in seno al Comitato Regionale Pugliese per la programmazione economica, riferirà al Consiglio sull’attività di detto Comitato, cui proprio nei giorni scorsi, è stato presentato il primo schema regionale di sviluppo economico della Puglia. Non ci siamo limitati ad occuparci dell’approvvigionamento idrico per usi potabili, ma abbiamo seguito con attenzione gli sviluppi della situazione nel settore dell’irrigazione. Risale a poche settimane il finanziamento, da parte della Cassa, delle opere relative al primo distretto e vi assicuro che non è mancato, in proposito, il nostro interessamento. Mi sembra superfluo ricordare la nostra azione per l’utilizzazione del metano e per l’industrializzazione; su questi argomenti, come su quello della irrigazione, ritorneremo per la votazione dei relativi ordini del giorno. Per il Comprensorio garganico abbiamo curato la redazione di quel piano di collegamenti stradali, che ha riscosso favorevole apprezzamento da parte della Cassa, del gruppo del prof. Pitignani, dei nostri sindaci, della stampa, oltre che, ovviamente, delle popolazioni e da parte di questo consesso, che lo ha approvato all’unanimità. Per migliorare i collegamenti stradali, ferroviari e marittimi abbiamo già registrato l’impegno dell’A.N.A.S., concretizzato con l’approvazione dei progetti di allargamento della Foggia-Lucera e della Foggia-Manfredonia; in proposito ricordo la comunicazione che ebbi a fare al Consiglio dopo l’incontro della nostra delegazione con il Ministro dei LL.PP. E’ stata insediata la commissione dei tecnici per la ferrovia garganica, che è al lavoro già da alcuni mesi e dovrebbe presto presentarci lo studio richiesto. Ho interessato anche il nostro comprovinciale 2 avv. Forcella, componente del Consiglio di amministrazione delle FF.SS., per avere una relazione sulla situazione ferroviaria della nostra Provincia e spero di poter, quanto prima, investire il Consiglio anche di questo problema; conoscete l’azione che abbiamo, frattanto ho, svolto, anche in sede di Comitato regionale per la programmazione economica e di Unione Province Pugliesi, per far mantenere in esercizio la Foggia-Lucera. Per il porto di Manfredonia abbiamo tenuto molte riunioni a vario livello. La Provincia per la prima volta intervenuta con azione meditata e metodica, ha ottenuto sui nuovo piano regolatore del porto, l’adesione di tutti i più qualificati organismi locali, che si sono sempre occupati del problema. Né abbiamo trascurato i porti minori, particolarmente i porticcioli turistici. Nella soluzione dei problemi, cui partecipano anche altri Enti, abbiamo concentrato la nostra azione sull’Aeroporto di Foggia e sulla linea aerea Foggia-Roma, che, spero, siano, ormai, di prossima realizzazione. Nei settori di competenza istituzionale abbiamo ritenuto utile offrire al vostro esame la relazione sull’assistenza, approfondita e completa, redatta dall’assessore del ramo, l’amico Lattanzio; vi presentiamo, inoltre, le proposte per l’Astanteria psichiatrica e l’istituto psicomedico-pedagogico, per l’aumento dei sussidi alle madri naturali, del premio di riconoscimento e di legittimazione; mentre ci accingiamo ad istituire l’anagrafe degli assistiti. Sulla finanza segnalo la relazione chiara ed esauriente, dell’assessore Magnocavallo. Vi si rileva che è migliorata sensibilmente la situazione di cassa. Manteniamo rigorosamente l’impegno di non liquidare spese che risultino non autorizzate; abbiamo ridotto le passività arretrate e lavoriamo per annullarle; abbiamo iniziato le pratiche di recupero verso i debitori della Provincia. Pratichiamo, come vedete, una gestione finanziaria ed economica sana, che tende a migliorare il rapporto fra le spese correnti e quelle in conto capitale ed a ricorrere ai prestiti principalmente per finanziare spese di investimento. Per il personale, l’assessore De Santis, con l’aiuto dei sindacati, sta predisponendo i regolamenti organici, con precedenza di quello dell’Ospedale di Maternità e delle scuole; è in corso, altresì, uno studio settoriale sul corpo dei cantonieri. Si è potenziato anche il nostro Gruppo di Studi, della cui operosità avete tutti preso atto. Verrà distribuito, in questa stessa seduta, un pregevole suo lavoro sul problema degli anziani, che costituisce il primo contributo raccolto in opuscolo su quell’argomento. Per Ottenere la disponibilità totale del secondo piano di Palazzo Dogana, destinato ad accogliere alcuni nostri uffici, si sono approvati, finanziati ed appaltati i lavori necessari, che sono in corso di esecuzione. Nel settore dei lavori pubblici, abbiamo dato un forte impulso alle progettazioni delle opere comprese nel piano generale decennale di sistemazioni stradali. Alcune opere si vanno già eseguendo, altre sono — — 3 di appalto imminente; e numerosi progetti sono in corso di redazione, per cui contiamo di annullare, quanto prima, il divario tra finanziamenti e progettazioni, anche ricorrendo, se necessario, ai liberi professionisti. Alle strade in costruzione (legge Tupini), abbiamo assicurato, come vi è noto, nuovi contributi statali per circa mezzo miliardo; i progetti relativi, già approvati dal Consiglio, sono di appalto imminente. Alle manutenzioni ordinarie abbiamo assegnato le quattro squadre di « pronto intervento », mentre concentriamo gli interventi finanziari sulle strade già bitumate. All’ordine del giorno — anche questa è una nostra innovazione — è un programma di sistemazioni straordinarie per 550 milioni, del quale vi riferirà al momento opportuno l’assessore Protano, da finanziarsi con mutuo a totale carico del bilancio provinciale. Si è ottenuto, finalmente, il passaggio all’A.N.A.S. delle cinque strade provinciali che avrebbero dovuto essere dimesse già da alcuni anni; e si è chiesto il passaggio all’A.N.A.S. di un altro gruppo di strade provinciali; contemporaneamente si è proposto la classificazione fra le strade provinciali delle strade di bonifica che, senza la nostra decisione responsabile, sarebbero state abbandonate con grave danno della economia provinciale. Per l’edilizia pubblica posso comunicare che sono state appaltate in questo semestre, tutte le opere finanziate per il completamento dell’Orfanotrofio « M. Cristina » e della nuova Caserma dei VV.FF. Pertanto possiamo assicurare l’agibilità dei nuovi complessi entro il 1968. Per l’Ospedale di Maternità, abbiamo acquistato i suoli edificatori e stiamo cercando di appaltare, d’intesa con il Ministro dei LL.PP., l’intera opera (e non solo il primo stralcio di 850 milioni). Nel settore dell’edilizia scolastica, si è deliberata la costruzione della nuova sede dell’istituto « Giannone » con il ricavato della vendita dell’ex Caserma CC. di Piazza Cavour. All’ordine del giorno è inclusa l’approvazione del progetto per il completamento dell’istituto Tecnico Commerciale di Lucera, essendosi già ottenuto il mutuo. Si è impostato, in un solo semestre, la costruzione di due nuovi edifici scolastici. Ci proponiamo, ora che è stata finalmente approvata la nuova legge per l’edilizia scolastica, di mantenere lo stesso elevato ritmo di realizzazioni. Siamo intervenuti anche a favore dell’istituto Industriale di Foggia per una spesa di L. 35.000.000, già finanziata; i progetti per il riattamento della sede principale, già approvati, sono di appalto imminente; gli altri 15.000.000 saranno versati come contributo della Provincia nella spesa per la sopraelevazione. L’esecuzione di tutti questi lavori consentirà, fra alcuni mesi, all’istituto di riunire tutte le sue classi nella sola sede principale, eliminando le due sedi staccate, i cui locali saranno disponibili per altre esigenze. Sono stati anche finanziati e progettati il laboratorio di costruzione all’ Istituto tecnico per geom. « Masi » di Foggia e la manutenzione straordinaria della sede del Liceo Scientifico « Marconi » di Foggia. E’ stata ripresa la proposta di statizzare il Liceo musicale « Gior- 4 dano » di Foggia, cui andrà anche un contributo straordinario di L. 20.000.000 a copertura di passività arretrate. Con il fitto di altri locali si sono decongestionati gli uffici del Provveditorato agli studi, mentre è allo studio l’apprestamento di una sede stabile e definitiva. Per la costruzione della nuova Biblioteca è quasi pronto il progetto, mentre abbiamo già ottenuto la promessa verbale di mutuo per il finanziamento, per cui anche questa nuova opera, fra poco, sarà messa in cantiere. Per completare il quadro della pubblica istruzione, informo che è in corso uno studio dell’assessore Matassa su tutta la situazione scolastica provinciale: da esso il Consiglio Provinciale potrà ricavare i dati per responsabili decisioni sulla istituzione di nuove scuole o sezioni staccate. Nel settore dell’igiene avevamo assunto l’impegno di completare il riattamento dei locali del Laboratorio di igiene e profilassi. All’ordine del giorno è inserita la contrazione di un mutuo di L. 60 milioni per tale scopo — (i particolari li potrà illustrare l’assessore Grosso) — e l’approvazione di un primo progetto di L. 15.000.000 per la costruzione della rimessa, cui faranno seguito al più presto gli altri progetti, in corso di redazione, per la sistemazione cortilizia (L. 14.000.000), per la costruzione della casa del custode (L. 7 milioni), per la messa in opera dell’ascensore (L. 8.000.000) e per la manutenzione straordinaria del piano rialzato (L. 16.000.000). Sull’istituendo Gabinetto di analisi dei terreni si sono fatti studi approfonditi e stabiliti utili contatti preliminari. A tal riguardo chiediamo al Consiglio la delega per predisporre il regolamento e la relativa pianta organica. Il Gabinetto funzionerà a vantaggio della nostra agricoltura, cui abbiamo deciso di dedicare particolare attenzione, anche per compensare il maggior sacrificio che questo fondamentale settore della nostra economia viene chiamato a sostenere con l’applicazione del le supercontribuzioni. L’intervento più importante a favore dell’agricoltura è un fondo di 200 milioni per contributi a fondo perduto, in aggiunta a quello statale disposto dal secondo « Piano verde », a favore particolarmente delle aziende coltivatrici dirette, per la costruzione di strade interpoderali. Alla zootecnia abbiamo destinato un contributo di L. 20 milioni per la lotta alla brucellosi, ad integrazione dello sforzo finanziario statale per la lotta alla tubercolosi bovina. Nel settore della pesca abbiamo portato molto avanti l’iniziativa della costituzione di un laboratorio di biologia, marina e lagunare, con la disponibilità del suolo su cui sorgerà la sua sede centrale e la promessa di mutuo per la costruzione dell’opera, dopo aver stabiliti gli opportuni contatti con l’ambiente scientifico universitario e con il Consiglio Nazionale delle Ricerche. Un grande acquario è già funzionante alla Fiera di Foggia, della quale costituisce una nuova attrazione, visitato ed elogiato dal presidente on. Moro. Esso rappresenta una ulteriore presenza del nostro Ente alla manifestazione fieristica, in un settore di istituto. 5 Altra importante iniziativa è stato l’acquisto, che già ebbi ad annunziarvi, di una draga per la pulizia sistematica delle foci dei laghi di Varano e di Lesina e del porto canale di Margherita di Savoia. Essa vuole confermare l’interessamento della Provincia per i due nostri importanti laghi, anche da un punto di vista commerciale e turistico. Per la caccia si lavora con alcuni Comuni a costituire zone di ripopolamento della selvaggina. Nel settore turistico, sono lieto di segnalare, innanzitutto, l’attività della Commissione turistica del Comitato regionale per la programmazione presieduta dal vice presidente De Maio, che ha presentato una pregevole relazione sul turismo nella nostra regione pugliese. Per quanto riguarda il Gargano abbiamo deciso l’intervento della Provincia, oltre che per il settore fondamentale ed istituzionale dei collegamenti stradali, per la realizzazione di un nuovo albergo con ristorante alla Foresta Umbra. La Provincia che, già realizzò trenta anni fa l’attuale « Rifugio », ormai insufficiente, si inserirà ancora e più compiutamente, con questa importante opera, nel processo in atto di sviluppo turistico del comprensorio garganico. Queste ultime iniziative non erano state comprese nel nostro programma; ciò nonostante esse sono già a buon punto. Con ciò ulteriormente dimostrato che la nostra programmazione non è un fatto statico, ma risponde ad una visione dinamica della realtà, che, nella nostra epoca, muta e si trasforma spesso con imprevedibile rapidità. Con Io stesso spirito vanno anche valutate le altre iniziative, pure esse svolte al di fuori del programma, della costruzione di un magazzino di calata al porto di Manfredonia e della nuova sede dell’Archivio di Stato. Ci eravamo impegnati, infine, e si trattava di un’ impegno di fondo della nostra gestione alla redazione di un piano pluriennale, in cui fossero tradotte in termini economici e finanziari le direttrici della nostra programmazione provinciale, ampliata fino a comprendere quella economica di tutto il territorio provinciale. Per l’assolvimento di questo impegno abbiamo inserito all’ordine del giorno — e prevista in bilancio una prima somma necessaria per la relativa spesa — l’affidamento dell’incarico a tecnici qualifìcati ed esperti, che si avvarranno della collaborazione del nostro Gruppo di studi. Vi chiedo scusa se, necessariamente, sono stato monotono con la elencazione delle iniziative, alle quali ho dovuto fare appena un breve accenno per non essere ancor più prolisso. Con il linguaggio semplice dei fatti e delle cifre, vi ho presentato il bilancio della verità e della realtà. Vi sono indicati mutui, anche questi veri e reali, che sono un peso sopportabile. Per la maggior parte di essi c’è l’adesione di massima degli enti erogatori. Alcune opere da realizzare sono legate al bilancio 1967 e le delibere relative, già al vostro esame, ci auguriamo meritino il voto unanime di approvazione. Altre spese non legate al bilancio (il bilancio è molto, ma non rac— — 6 chiude tutta la vasta attività dell’Ente Provincia ci auguriamo possano essere finanziate e realizzate; ed il nostro impegno è ben preciso al riguardo. La nostra azione ha investito tutti i settori della vita economica della provincia in una visione coordinata dei suoi interessi. Ciò è stato possibile perché non abbiamo avuto di mira il soddisfacimento di esigenze particolaristiche, ma abbiamo anche valutato l’incidenza indiretta del nostro intervento, in termini di aggiuntività, nel contesto dello sviluppo economico generale. Alcuni esempi ne possono costituire la testimonianza più valida. L’iniziativa per la costruzione dell’albergo nella Foresta Umbra è indirettamente legata all’attività svolta nel settore stradale, che mentre persegue l’obiettivo immediato del miglioramento dei collegamenti, si inserisce, nell’attività generale di promozione dello sviluppo turistico in direzione della Foresta Umbra e, quindi, di tutto il Ga rgano. L’acquisto della draga persegue l’obiettivo immediato di ottenere la pulizia sistematica delle foci dei laghi e del porto canale e, perciò, andrà a diretto vantaggio dei pescatori e della produzione ittica; ma è evidente che il funzionamento della draga permetterà di rendere più ospitale per i turisti, anche da un punto di vista igienico, le coste dei laghi ed aprirà prospettive al turismo nautico. Gli interventi straordinari in direzione delle strade per la spesa di L. 550 milioni perseguono lo scopo diretto di migliorare lo stato delle strade provinciali, ma indicano, altresì, una precisa volontà politica della Giunta di venire incontro, particolarmente, alle esigenze del subappennino. La sua situazione stradale è davvero critica, e costituisce certamente una delle cause della depressione economica di quelle zone. La Giunta, cosciente di tale carenza, è fortemente impegnata a venire incontro, in maggior misura del passato, alle esigenze di quella zona, anche per svolgere una funzione ridistributiva e diminuire gli squilibri territoriali e sociali esistenti nell’ambito della stessa provincia. L’intervento per le strade vicinali e interpoderali, che conferma l’attenzione del nostro Ente per i coltivatori diretti, finirà per migliorare e ampliare i collegamenti stradali a vantaggio dell’agricoltura e, quindi, dell’intera economia provinciale. E questo vale anche per il contributo relativo alla brucellosi, al gabinetto di analisi e alle altre iniziative. Dobbiamo proseguire questa azione, con impegno maggiore, servendoci anche (e sarà l’occasione per una rimeditazione sulla loro funzionalità) dei Comitati e Consorzi: Caccia, Antitubercolare, Antimalarico, Antitracomatoso ed Antirabbico. Rinnovandoli nelle loro strutture, li faremo operare meglio in direzione dei compiti d’istituto e di quelli nuovi che vorremo loro assegnare, per farli servire meglio le popolazioni di Capitanata. Pertanto, auspichiamo riforme che, nella conclamata autonomia degli enti locali, ammodernino la legge comunale e provinciale e quella sulla finanza locale. La finanza locale è lo specchio in cui si riflette la situazione economica della zona in cui 7 operano gli enti locali. Il suo miglioramento determinerà automaticamente quello della nostra finanza pubblica. Auspichiamo. inoltre, che, nel quadro delle istituende regioni, venga dato maggiore spazio alla nostra azione. La riforma dello Stato passa attraverso gli enti locali, che occorre non solo salvare dal processo di logoramento, ma porre in grado di funzionare come centri primari della vita democratica e come poli della comunità regionale e di quella statale. Prima di chiudere questa premessa, indispensabile e doverosa, alla discussione del bilancio, desidero esprimere il mio vivo, affettuoso e fraterno « grazie » a tutti: agli amici Assessori collaboratori più diretti e più vicini; agli amici Consiglieri della maggioranza per i preziosi aiuti, suggerimenti e sostegni; a quelli delle minoranze, per l’utile e necessaria funzione di critica; ai funzionari ed impiegati. Né posso astenermi dal sottolineare la lealtà dei rapporti tra Socialisti e Democristiani, non pregiudicata da qualche nube, subito diradatasi, sulla collaudata vitalità del Centro-Sinistra. Debbo pure rilevare, con compiacimento, che si sono intensificati i contatti tra la Giunta e il Consiglio Provinciale, anche per le riunioni più frequenti di quest’ultimo e per l’assoluto rispetto che la Giunta si è imposta delle prerogative del Consiglio stesso, non adottando delibere di urgenza se non nei particolari casi veramente indispensabili. Gli amici Consiglieri vorranno darci atto, inoltre, di aver rispettato l’impegno spontaneamente assunto di non assumere nuovi impiegati e di non operare dispersioni o frantumazioni negli interventi. Non sollecitiamo plausi, convinti come siamo di aver fatto il nostro dovere. Pertanto, qualunque sia il vostro giudizio, e nel pieno rispetto delle critiche costruttive, che ci potranno venire, continueremo a lavorare, senza strombazzamenti propagandistici, con lo stesso impegno. la stessa dedizione, lo stesso amore di prima, e con la speranza di prospettarvi, al prossimo incontro, una nuova serie di realizzazioni. Siamo convinti di trovarci al bivio del nostro avvenire; è un mo mento storico che stiamo vivendo; la nostra crescita si decide oggi o mai più. Con l’irrigazione e l’aumento del reddito agricolo; con l’industrializzazione, e in specie con gli insediamenti ANIC di Manfredonia, SNIA di Ascoli ed ENI di Biccari; con lo sviluppo del turismo sul Gargano; sono questi gli eventi, i cui effetti si integreranno ed armonizzeranno reciprocamente in un quadro generale di sviluppo economico della nostra Provincia. Certi dell’avvenire migliore della Capitanata, convinti che valida e necessaria è la funzione e l’azione del nostro Ente, continueremo a spendere ogni energia per accelerare il processo di crescita, per dare ai nostri conterranei, e ai loro figli, l’occasione di lavoro e di vita nella loro stessa provincia. 8 AMICI CONSIGLIERI, per un’opera di così vaste proporzioni, di così ampio contenuto umano, cristiano e sociale, irta di difficoltà, imposte dal tempo e dalle leggi (alcune delle quali superate ed inadeguate), anche in futuro — questo è l’auspicio sincero e profondo del nostro cuore — ci vengano il vostro intelligente consiglio, la vostra appassionata collaborazione. Ognuno, per la parte che rappresenta, nella responsabilità delle sue convinzioni e dei suoi impegni politici, senza tradire le attese delle popolazioni. dia il suo contributo alla costruzione di una nuova Capitanata. BERARDINO TIZZANI Dopo il discorso del Presidente ha preso la parola l’assessore alle Finanze, Primiano Magnocavallo. Egli, parafrasando il Vangelo secondo Matteo, asserisce che il bilancio in discussione è fondato sulla roccia; che, fedele al programma di massima tracciato a suo tempo nei suoi i Appunti, considerazioni ed indirizzi per un’azione amministrativa della Giunta Provinciale », risulta dall’esame realistico delle condizioni della finanza locale e risponde alle attese delle popolazioni. Considerate le difficoltà in cui versano tutti gli enti locali, per cause proprie, ma soprattutto del Governo — che non ancora ammoderna la Legge comunale e provinciale, nonostante gli aumentati compiti d’istituto, senza corrispondente incremento di fondi —, il signor Magnocavallo ha rilevato che quelle difficoltà sono più sentite dalle Provincie dell’Italia Meridionale. Vi è tuttavia, uno spiraglio di speranze, attraverso il Piano quinquennale, per il cosidetto « principio della tecnica comparativa », che riconosce l’opportunità di dimensionare gli interventi del Governo seconda delle condizioni finanziarie dei singoli enti locali. Passando ad illustrare dettagliatamente le entrate, ripartite in titoli, categorie, capitoli ed articoli, e le uscite, ripartite in titoli, sezioni, rubriche, capitoli ed articoli, l’Assessore caratterizza il do- cumento come un « bilancio -ponte, portatore di un programma-ponte, nella sfera di una più vaste programmazione provinciale e regionale ». I dati più salienti, sono, per quanto riguarda l’entrata, l’applicazione delle supercontribuzioni sulla sovrimposta fondiaria sui terreni nella misura del 60 % per i comuni montani e del 120 % per gli altri, e, per quanto riguarda la spesa, gli interventi in campo sociale, che sono al primo posto, con netto distacco sulle altre voci. 9 Questi dati generali : ENTRATA Avanzo di amministrazione L. 12.871.940 . » 1.266.331.371 Titolo II - Entrate per compartecipazioni a tributi erariali . » 2.576.819.214 Titolo III - Entrate extratributarie . . » 1.134.072.593 Titolo IV - Entrate provenienti da alienazione ed ammortamento di beni patrimoniali, da trasferimenti di capitali e da rimborso di crediti . . . . » 1.132.603.476 Titolo V - Entrate provenienti dell’assunzione di prestiti . 7.833.632.300 Titolo I - Entrate tributarie. T itolo VI - Contabilità speciali . . . . . » . . . » 721.894.665 L. 14.678.225.559 . . . L. 5.607.757.104 . . . » 4.800.132.300 TitoloIII - Spese per rimborso di prestiti . . . » 3.548.441.490 TitoloIV - Contabilità speciali . . » 721.894.665 L. 14.678.225.559 SPESA TitoloI - Spese correnti . TitoloII - Spese in conto capitale . Esposto il bilancio, e rinviate la discussione al giorno seguente, sono intervenuti al dibattito i consiglieri, Vania, Magno, Galasso, Marinelli, Rocca, Grosso, De Tullio, Perfetto, Protano, Ricciardelli, De Maio, Pistillo, il relatore Magnocavallo e, alla fine il presidente Tizzani, che ha ribadito l’impegno della Giunte di centro-sinistra « Non si può avere sviluppo della nostra terra — egli ha detto — se dovessero rimanere delle zone in ombra... Rifiutiamo la facile, comode tentazione, di elencare o mettere assieme tutti i problemi che ci assillano. La rotta che dobbiamo seguire è ben precisa e la mete da raggiungere è chiaramente determinata, per merito dei nostri principi e dell’approfondimento continuo che ne facciamo, ed è l’espansione e la crescita, in una visione unitaria ed armonica, della capitanata, non solo sul piano economico, ma anche su quello civile e spirituale. Le votazioni hanno dato il seguente risultato: Consiglieri presenti in aula 27 Voti favorevoli 16 Voti contrari 11 In base alle avvenute votazioni, il Presidente ha dichiarato approvato il bilancio di Previsione per l’esercizio finanziario 1967. 10 Per lo sviluppo economico della regione pugliese Introduzione al dibattito innanzi il Consiglio Provinciale ∗ Signori Consiglieri, l’analisi che tenterò del « I schema regionale di sviluppo » muove da molteplici esigenze: — dare cognizione del suo contenuto con opportuna sinteticità; — spiegare i termini del rapporto tra le linee conclusive del documento e l’attività del Comitato Regionale della Programmazione; — accentrare la visione provinciale, non tanto attraverso una disaggregazione di elementi, ma estrapolando la componente territoriale, per segnarne la sua funzione nell’ambito regionale, meridionale e nazionale; — individuare i termini di approfondimento della problematica provinciale anche in vista dello sforzo autonomo di elaborazione, che ci proponiamo di affrontare con la programmazione provinciale. Mi auguro di poter superare le difficoltà del compito spettantemi. Criteri di compilazione dello « Schema Regionale di sviluppo » E’ opportuno esporre preliminarmente i criteri che hanno informato il lavoro di compilazione dello « schema » innanzitutto per notiziare il Consiglio Provinciale sull’attività del C.R.P.E.P., ma soprattutto per spiegare alcune diversità di impostazione e di trattazione che emergono dallo studio dei risultati dell’indagine settoriale, compiuta dalle varie commissioni, e le conclusioni globali alle quali giunge lo «schema». Il Comitato impostò il suo lavoro con la costituzione delle seguenti Commissioni di studio: 1a Commissione. — Infrastrutture, attrezzature sociali, assetto territoriale (presieduta dall’avv. Vincenzo Palma, presidente dell’Amministrazione prov.le di Brindisi); ∗ Nelle pagine seguenti è registrato il dibattito consiliare. 11 2a Commissione. — Strutture sociali, popolazione, lavoro, istruzione (presieduta dal prof. dott. Matteo Fantasia, presidente dell’Amministrazione prov.le di Bari); 3a Commissione. — Agricoltura (presieduta dal prof. Egidio Grasso, presidente dell’Amministrazione prov.le di Lecce); 4a Commissione. — Industria, Artigianato (presieduta dall’avv. Nicola Lazzaro, presidente dell’Amministrazione prov.le di Taranto); 5a Commissione. — Turismo, Commercio (presieduta dall’ avv. Gabriele Consiglio, presidente dell’Amministrazione prov.le di Foggia e successivamente dal vice presidente Bios De Maio); 6a Commissione. — Istruzione, Finanza pubblica, Credito (presieduta dal dott. Salvatore Formica, esperto del Comitato). Le predette commissioni — i cui presidenti, insieme con gli altri esperti del Comitato, costituiscono la Commissione di coordinamento —, iniziarono i loro studi settoriali, pervenendo a delle conclusioni che, singolarmente, sottoposero all’esame del Comitato che le vagliò sempre in maniera settoriale. A lavoro inoltrato da parte delle Commissioni di studio, la Commissione di coordinamento, su richiesta del Ministro del Bilancio — per l’esercizio della facoltà concessagli dall’art. 2 della legge 10-6-65, n. 613 —, propose il conferimento di incarico di studio ad alcuni enti ed istituti e lo stesso Ministro, a sua volta, affidò altri incarichi per cui la Svimez, l’Ente Regionale di Sviluppo, l’Università di Bari e la Tekne furono appunto incaricati di eseguire studi e ricerche sulla situazione regionale (tendenze della sua evoluzione, possibilità di sfruttamento delle risorse, ecc.). I predetti studi avrebbero dovuto costituire la verifica scientifica dell’attività delle varie Commissioni al fine di approfondire le proprie ricerche e mettere in condizione il Comitato di provvedere alle opportune saldature fra settore e settore e successivamente giungere ad una ipotesi globale di sviluppo economico regionale « ai fini dell’articolazione territoriale del problema economico nazionale » con le conseguenti scelte utili per la prospettazione dei « potenziali obiettivi e mezzi di intervento nella regione ». Sennonché, i termini di scadenza per la presentazione del « Piano » colsero il Comitato in una fase intermedia della sua attività: le Commis sioni avevano ultimato, con gli elementi a loro disposizione, il lavoro settoriale che il Comitato aveva vagliato, ma occorreva il lavoro di coordinamento attraverso le fasi suddescritte. Fu giocoforza affidare il lavoro di sintesi al Presidente il quale, con l’aiuto di un esperto coordinatore, provvide a disporre la compilazione dello « schema », avvalendosi di elementi di indagine alcuni dei quali neppure vagliati dalle Commis sioni, talvolta tenendoli a base del proprio lavoro anche in alternativa si è verificato con lo studio Tekne sullo sviluppo della popolazione e a quelli sui quali si erano basate le Commissioni stesse, come in particolare si è verificato con lo studio Tekne sullo sviluppo della popolazione e dell’occupazione, nettamente preferito all’indagine operata dalla 2a Commissione. D’altra parte il « coordinatore » non poteva trasmodare i suoi limiti 12 obiettivi per cui la lettura dello « schema » offre al lettore la possibilità di formulare un giudizio sulle limitazioni organiche del Comitato e sulla qualità dei risultati del suo lavoro. Per cui, nonostante l’ampia quantità del lavoro svolto che ha portato a tracciare un panorama abbastanza esauriente ed aggiornato della situazione pugliese e dei suoi problemi, si rileva la mancanza di una chiara visione ed un chiaro indirizzo tendente ad individuare nettamente le caratteristiche precipue dello sviluppo regionale futuro e la sua funzione nel quadro dello sviluppo meridionale e nel più generale problema del riequilibrio strutturale del nostro paese, funzione che alla Puglia compete in maniera essenziale. Da ciò deriva la inesistenza, nel documento, di precise scelte e, di conseguenza, la indicazione di un meccanismo di priorità degli interventi che mettesse in moto ed aumentasse un ben preciso processo di sviluppo. Naturalmente quanto è stato detto non può essere ritenuto come la manifestazione del gusto della critica, che potrebbe sembrare eccessiva quanto inopportuna; perché non si è mancato di rilevare sia la notevole e meritoria mole di lavoro svolto dal C.R.P.E.P. sia i risultati positivi conseguiti, ma la individuazione dei limiti obiettivi dello « schema » deve offrirci la possibilità di tentare di dare, in questa sede, indicazioni più precise che, partendo dai predetti risultati, costituiscono un ulteriore passo in avanti rispetto ai lavori del C.R.P.E.P. Introduzione allo « schema » La introduzione allo « schema » dedica la prima parte essenzialmente ad indicare i limiti di indagine della realtà economica e sociale della Regione. La carenza di strumenti scientifici di indagine e di studio ha reso difficoltoso il lavoro di acquisizione di dati. Ma è forse opportuno avvertire che, anche quando riusciremo a creare strumenti efficienti di indagine, non potremo ritenere la realtà acquisita come elemento permanente dello studio della prospettiva regionale in quanto le sue tendenze di evoluzione o di involuzione si scontrano con profonde esigenze di mutamento o addirittura di inversione. E ciò per due elementi fondamentali, l’uno di carattere permanente e l’altro dinamico. E’ permanente il dato che lo sviluppo economico previsto dalla programmazione nazionale tende a dare una nuova realtà con nuove tendenze; è dinamico l’ineluttabile processo di rottura a catena che creando nuovi equilibri individua nuove realtà. Di qui la necessità di tenere conto dell’aspetto scorrevole del piano che per le regioni meridionali costituisce l’essenza vera di ogni indagine ed elaborazione. Dopo questa premessa « lo schema » passa a configurare la Puglia nella sua posizione geografica, nella sua tradizione storica e nella sua essenza economica che fanno della regione non una realtà a se stante, avulsa dal contesto geo-economico che la circonda. Quindi la necessità di tenere sempre presente la Puglia al centro delle relazioni « fra paesi industrializzati dell’Europa e dell’Occidente e nuovi paesi del bacino del Mediterranneo, dell’Africa e del Medio e vicino Oriente in via di instabile e spesso burrascoso sviluppo ». 13 Perciò ogni ipotesi di sviluppo della regione pugliese deve vedere: — le interrelazioni tra la Puglia e le altre regioni, specialmente attigue, ma anche più lontane; — la presenza ed operatività, su tutto il territorio meridionale; di qui la visione obbligata, ma nel tempo stesso concreta, dell’inserimento nelle disposizioni legislative che regolano, spesso dettagliatamente, la politica degli interventi sia pubblici che privati, con riferimento particolare al « piano di coordinamento degli interventi pubblici nel Mezzogiorno »; — la posizione della Puglia nel Mediterraneo e quindi la necessità di tenere in conto la « componente estera » dello sviluppo economico e sociale della regione. Obiettivi dello sviluppo regionale Lo « schema » parte da un’analisi secondo la quale « negli ultimi dieci anni la Puglia ha avviato un processo di sviluppo, a volte spontaneo, a volte determinato, che le ha permesso di risalire, sia pure lentamente, le posizioni di arretratezza che l’avevano contraddistinta nel periodo precedente e la situazione di estremo disagio in cui era venuta a trovarsi nell’immediato dopoguerra ». Registra negli ultimi anni « un costante incremento del reddito in misura all’incirca pari al 10% ». Afferma che « un quarto del reddito regionale proviene dal settore agricolo », mentre leggermente superiore è il reddito industriale. Il settore terziario manterrebbe, nella composizione del reddito, le sue posizioni. Considera di fissare, come obiettivo fondamentale della regione, l’evoluzione del reddito netto interno al costo dei fattori prodotto nel settore privato e della Pubblica Amministrazione in Puglia, negli anni fino al 1970, ad un tasso convenzionale medio dell’11%, più che doppio rispetto al 5% previsto dal programma quinquennale come media nazionale generale. Il reddito netto complessivo dovrebbe dunque passare da 1.376.399 milioni di lire del 1965 a 2.319.313 milioni nel 1970, con una differenza in più di circa 932.913 milioni, pari ad una media annua di circa 186.585 milioni. Al termine del quinquennio considerato, il reddito medio pro-capite dei pugliesi dovrebbe essere praticamente pari a quello medio dell’Italia; fatto nuovo per una regione meridionale. All’incremento globale dell’11% si giunge attraverso la composizione dei vari trends, di sviluppo settoriale, che sono stati anch’essi considerati sulla base degli andamenti degli ultimi dieci anni, ma specialmente dell’ultimo triennio. Sono stati dunque ipotizzati i seguenti incrementi percentuali medi annui di reddito, nei settori produttivi: Agricoltura + 3% Pesca + 3% Industria + 17 % Commercio + 10 % 14 Trasporti, comunicazioni, credito, servizi e assicurazioni + 12% Fabbricati + 4% Pubblica Amm.ne + 13% Nella composizione percentuale del reddito complessivo regionale, il peso del settore agricolo dovrebbe gradualmente tendere a diminuire, passando dal 25,5% del 1965 al 17,29% del 1970. Dovrebbe invece percentualmente accrescersi il peso del settore industriale, passando dal 33,5% del 1965 al 39,95% del 1970. Sempre oscillante intorno al 23,5% dovrebbe essere il reddito del settore terziario, mentre quello della pubblica amministrazione dovrebbe registrare un lievissimo incremento, passando dal 17,9% al 19,32%. Lo « schema » indica alcuni obiettivi di sviluppo « trascinanti »e come tali prioritari rispetto a qualsiasi altro, che si ritengono essenziali e da realizzare contestualmente in quanto « il venir meno di qualcuno di essi potrebbe mettere seriamente in crisi ogni coerente prospettiva di progresso della regione pugliese ». Essi sono: 1) La creazione dell’Istituto Pugliese di Ricerche Economiche e Sociali. 2) La soluzione del problema dell’approvvigionamento idrico 3) Il completo sfruttamento in loco di tutta le risorse energetiche presenti nella regione e particolarmente del metano del Subappennino Dauno. 4) La formazione nella regione di una massa più ingente di valore aggiuntivo riveniente dalla trasformazione dei prodotti agricoli e da una migliore strutturazione del sistema distributivo. 5) La pratica attuazione, con tutti gli aggiustamenti resi necessari dal lento e passivo trascorrere del tempo, del progetto elaborato dalla Comunità Europea, per la realizzazione di un polo industriale di sviluppo nell’ambito delle Provincie di Bari, Brindisi e Taranto, che operi particolarmente nel settore meccanico. 6) Il Turismo che è considerato « un fattore decisivo per il decollo della Economia Regionale ». 7) Protosincrotone di Nardò. 8) Una politica di assetto territoriale che tenda al riequilibrio tra le varie zone della regione, e particolarmente tra zone interne e zone marittime. 9) L’individuazione di un ruolo essenziale di tramite, che la Puglia deve svolgere, tra l’Italia e Mercato Comune da un lato e paesi del Mediterraneo e del Levante dall’altro. Anche la posizione geografica della regione è una « risorsa » che va saggiamente ed accortamente sfruttata, in tutte le sue implicazioni. A questo punto si inserisce un’altra considerazione che si considera fondamentale, per una corretta impostazione dei programmi di sviluppo economico della regione: il quinquennio 1966-70 non è un periodo sufficiente a consentire corrette previsioni di sviluppo e soprattutto, a garantire che i programmi vengano effettivamente avviati a rapida ed efficace soluzione. 15 Si ritiene che ci sia addirittura da valutare l’ipotesi che la messa in moto di quel vasto e complesso meccanismo che è la programmazione, insieme alla coincidenza di certe prospettive specifiche, nel settore degli investimenti industriali più probabile, possa al limite rappresentare un freno all’espansione della occupazione. Ritenuto che lo scorcio dei quinquennio già trascorso, a cominciare dal 1° gennaio 1966, non ha rappresentato per la regione pugliese un periodo molto favorevole, si guarda all’altra parte del quinquennio —lungo l’arco del quale si collocheranno alcune iniziative che sono state già avviate a realizzazione ed altre di cui è stato annunciato l’imminente avvio e si considerano tali programmi di largo impegno, specialmente finanziari, ma di redditività differita, specialmente dal punto di vista dell’occupazione — si afferma che vi è il rischio di giungere al 1970 con molti o addirittura con tutti i programmi avviati —, ma con un incremento di mano d’opera assolutamente insufficiente, nella migliore delle ipotesi, poco qualificato, poiché si tratterà nella maggior parte dei casi di maestranze addette alla costruzione degli impianti. Nel frattempo, l’esodo agricolo continuerà, sia pure in misura più ridotta — giustificata dai massicci interventi che si prevedono nel settore e dalla poca elasticità di domanda degli altri settori, impegnati in questa fase abbastanza difficile — e non concorrerà, quindi, ad attenuare il problema. La Puglia si trova dunque dinanzi ad un grosso dilemma: come avviare, attraverso questi programmi, il proprio definitivo decollo, senza creare squilibri, sia pure contingenti, nella struttura stessa dell’occupazione? In sostanza le considerazioni che precedono servono ad indicare, per una realizzazione piena degli obbiettivi segnatamente ai fini occupazionali, un’arco di tempo più lungo (il quindicennio 1966-1980) o addirittura del ventennio 1966-1985 per quanto riguarda l’Agricoltura, affermando che solo al termine di tale arco, vale a dire almeno nel 1980, la regione non avrà tensioni nè problemi di equilibrio avendoli risolti tutti gradualmente, nel quadro d’una ordinata programmazione degli interventi settoriali e territoriali. E’ un discorso, naturalmente, che non può avere né fini nullisti né dilatori, ma che individua una ipotesi possibile che, se non avesse alternative, non solo porrebbe in termini abbastanza gravi il problema dell’aggancio delle previsioni pugliesi al programma nazionale, ma ci farebbe trarre la conclusione che l’occupazione riceverebbe un duro colpo. E le alternative si pongono considerandole distinte sul piano tecnico, ma completamentari sul piano politico e quindi scelte insieme. Premesso che il problema riguarda soprattutto il settore industriale — in quanto per l’Agricoltura l’esodo appare declinante, mentre per il terziario il discorso è tutto da cominciare, ed è probabile che cominci sotto buoni auspici, anche sul piano dell’occupazione —, si ritiene che: a) gli investimenti previsti nei settori siderurgico, chimico ed elettrico, i quali — pur essendo localizzati nella regione pugliese — appaiono di portata così vasta da spiegare i loro effetti a livello inter- 16 regionale, debbono essere « caricati » anche sulle altre regioni interessate. Si chiede allora che venga destinata alla Puglia una quota di investimenti aggiuntivi, che riequilibri la situazione, offrendo nuove occasioni di lavoro, specialmente nei settori dell’industria di trasformazione dei prodotti agricoli, di materiale da costruzione e metalmeccanica; b) anche in presenza di questo necessario intervento aggiuntivo — che deve essere prelevato, possibilmente, dalla quota di investimenti previsti per il Nord, in modo da non danneggiare le altre regioni meridionali —, le prospettive sul piano occupazionale non diventano molto più rosee limitatamente allo scorcio di quinquennio 1967-1970. Potranno infatti essere avviati in questo periodo alcuni programmi; il che porterà a un incremento dell’occupazione — come abbiamo detto specialmente di mano d’opera adibita alla costruzione degli impianti e quindi poco qualificata. Perché si incrementi l’occupazione occorre allora impostare un ulteriore discorso di estrema delicatezza ed importanza. Esso riguarda in modo particolare la realizzazione della rete irrigua, nel quadro del piano degli acquedotti; la predisposizione di tutte le infrastrutture necessarie a promuovere lo sviluppo globale del territorio e ad eliminare i residui squilibri tra zona e zona; la costruzione di scuole, ospedali ed altre attrezzature sociali in misura eccezionalmente massiccia, essendone la Puglia particolarmente priva. Questi programmi vanno avviati a realizzazione con assoluta priorità: ecco l’obiettivo fondamentale che va perseguito per assicurare un immediato impiego della mano d’opera che porti a dare concreti risultati sul piano della diminuzione dell’esodo e della disoccupazione. Non si tratta di ingigantire il discorso sulle opere pubbliche, ma soltanto di anticipano e conglobano soprattutto in questo scorcio finale di quinquennio. D’altra parte, se non si avvia con effettiva priorità il discorso su queste opere pubbliche — e specialmente sul piano per l’irrigazione —si corre il rischio di arrivare al 1980 senza aver potuto completare l’intero disegno programmatico della regione. Si pone però, correlativamente all’avviamento del discorso sulla priorità delle opere pubbliche, l’esigenza di approfondire l’altro importante argomento della formazione professionale della mano d’opera. L’occupazione che si verrebbe a creare sarebbe infatti un tipo di occupazione a breve termine, che si concluderebbe una volta realizzata l’opera. E’ necessario perciò che, contemporaneamente, si sviluppi e si approfondisca il piano relativo alla formazione professionale delle nuove leve di lavoro che gradualmente andranno ad occupare i posti nelle industrie in via di realizzazione. L’operazione è di estrema delicatezza e richiede lo studio attento dei tempi di avviamento e di realizzazione, per evitare delle serie sfasature che creerebbero ripercussioni sempre sul piano dell’occupazione. Queste le due alternative, ed anche queste, a nostro parere — pur considerandosi alternative sul piano tecnico — non dovrebbero sul piano politico. Le due richieste vanno cioè avanzate correlativamente, 17 giacché possono benis simo coesistere e, anzi, coesistendo, si sostengono ancor meglio. La Puglia dunque chiede che, in sede di esame delle prospettive di sviluppo regionale, da parte dell’Ufficio del Piano e del CIPE, sia dato parere favorevole all’impostazione di lavoro avanzata particolarmente in questo capitolo, la quale articola nei modi, nei tempi e nei settori più dettagliatamente riferiti nei capitoli successivi. Individuazione delle risorse Un breve capitolo dello « schema » è dedicato alla individuazione delle ris orse. Non si tratta delle « risorse » indicate sommariamente nei capitoli precedenti e più dettagliatamente in quelli riguardanti i singoli settori produttivi, ma di « mezzi » per raggiungere gli obiettivi. Si nota che la Puglia non ha energie sufficienti per realizzare un autonomo processo di sviluppo senza attingere all’esterno, specialmente per approvvigionarsi di nuovi capitali. C’è ancora troppa distanza tra il risparmiatore pugliese e gli impieghi finanziari della regione — Bari è al 33° posto tra le città italiane per numero di azionisti — gli altri capoluoghi pugliesi seguono a molta distanza. I risparmi pugliesi vanno dunque soprattutto agli sportelli bancari e postali sotto forma di depositi che rifluiscono spesso verso impieghi al di fuori della regione. Si fanno in proposito due proposte concrete: — la creazione di una società finanziaria, a partecipazione anche pubblica; — la formazione del risparmio contrattuale. La creazione di una società finanziaria regionale alla cui realizzazione concorrano lo Stato, le banche, gli Enti, i privati, appare una prospettiva certamente allettante. Se è vero che una delle difficoltà maggiori che si incontrano nel Sud, e quindi anche in Puglia, è la mancanza di imprenditori, la presenza di una società finanziaria potrebbe risolvere egregiamente questo handicap. Il risparmio contrattuale costituisce la seconda forma di raccolta di fondi da impiegare in loco. E’ possibile anche collegare i due fenomeni facendo in modo che il risparmio contrattuale, direttamente o indirettamente, rifluisca nella società finanziaria. Le risorse si individuano anche nelle quote di investimenti che, per ciascun settore produttivo e per gli impieghi sociali, vanno assegnate alla regione, nell’ambito delle generali previsioni effettuate dal programma nazionale. In questa parte puramente descrittiva dello schema si è voluto, con qualche breve commento, omettere l’illustrazione del capitolo riguardante la popolazione e l’occupazione. Oltre alle cifre, peraltro opinabili si trattava di svolgere concetti che in maniera più appropriata saranno richiamati in occasione della trattazione dei singoli capitoli dedicati ai settori. In tali capitoli successivi si darà luogo anche a diffusi commenti con accentuazione della visione provinciale. 18 Assetto territoriale Gli obiettivi di assetto territoriale proposti dallo schema si riassumono, per quanto riguarda i rapporti extra-regionali, nella enunciazione della necessità di un inserimento in sistemi più ampi dei poli di interessi economici che si vanno formando e nella individuazione delle funzioni della Puglia come centro del bacino del Mediterraneo. Queste intuizioni, fondamentalmente esatte, vanno però ulteriormente approfondite; occorre pertanto dire che questa esigenza e questa funzione possono essere svolte soltanto mediante la formazione di una struttura urbano-territoriale integrata e continua, che con le sue funzioni metropolitane e direzionali possa effettivamente fungere da centro per il bacino mediterraneo, e possa contemporaneamente servire da elemento equilibratore della struttura economica, territoriale e sociale italiana. Una « metropoli di equilibrio », quindi, a scala — tanto per intenderci — « padana », che dia continuità a tutti gli episodi isolati di sviluppo che in questi tempi si vanno verificando. Non è quindi per un ristretto spirito campanilistico, ma per una obiettiva esigenza tecnicamente documentabile, che non possiamo considerare positiva l’indicazione del « triangolo » Bari-Brindisi-Taranto come centro motore della regione. Ciò equivarrebbe a supporre un impossibile sviluppo regionale autonomo e concluso in sé stesso, nel quale le altre zone della regione verrebbero a trovarsi in condizione periferica. Ma questa visione è in contrasto con le stesse impostazioni del documento, che vede lo sviluppo regionale integrato nel quadro meridionale; ne deriva di conseguenza la necessità di una ipotesi di assetto territoriale che si basi sulla formazione di una struttura continua, lungo la direttrice Tavoliere-Bari-Taranto-Metaponto-Sibari Il funzionamento di questa direttrice è la condizione indispensabile perché lo sviluppo del Mezzogiorno avvenga in maniera unitaria, e quindi assuma dimensioni tali da poter equilibrare la struttura italiana e pertanto non rimanere come fenomeno « subalterno » rispetto al funzionamento del sistema centro-settentrionale. D’altra parte tale ipotesi, e la sua strumentazione urbanistica, era già contenuta nello studio Fabbri-Giovanale-Vittorini, redatto a cura del Ministero del Bilancio e da questo distribuito ai membri del Comitato. E’ quindi un fatto negativo, che non si può non notare, la constatazione che non ne è stato tenuto conto da parte del relatore. E’ necessario quindi che in questa sede venga data una chiara indicazione in tal senso. Senza questa visione unitaria di fondo, le proposte di assetto territoriale formulate dal documento diventano più una sommatoria di elementi che un sistema integrato. Acquista quindi un particolare significato l’iniziativa dell’Amm.ne Prov.le di Foggia, di approfondire lo studio fino a giungere ad un ben preciso ed individuato piano di sviluppo. Infatti soltanto con la realizzazione di una struttura continua è possibile conseguire lo scopo, enunciato dal documento, di inserire anche le zone più depresse, come il Subappennino Dauno, in un sistema integrato di sviluppo, si potranno porre le premesse per la realizzazione di un sistema di rapporti integrati all’interno del comprensorio stesso, in 19 modo tale che gli effetti dello sviluppo, dalla direttrice, si diffondano nel territorio. Tale metodo — che è una delle più recenti acquisizioni nella teoria dello sviluppo delle zone depresse — è stato individuato nello studio dell’ISES sul comprensorio di Soverato, e potrà formare la base per lo studio del nostro piano di sviluppo provinciale. Il documento del C.R.P.E.P. passa quindi, ad illustrare la necessità di attuare un « effetto urbano », come motore dello sviluppo. Ciò coincide con quanto già detto a proposito della struttura continua urbanoterritoriale. E’ necessario però che tale « effetto urbano » non venga visto come una estrapolazione delle caratteristiche degli agglomerati urbani attuali. Non si deve certamente tendere alla moltiplicazione nella regione o sul territorio dei molteplici aspetti pesantemente negativi accumulatisi in questi ultimi anni nelle città che maggiormente hanno subito un processo di espansione: particolarmente Bari e Taranto. L’effetto urbano è un risultato che deve essere conseguito con i più avanzati strumenti dell’urbanistica moderna, e commisurato alle esigenze della Puglia futura. Quindi la priorità deve essere data a quelle grandi opere infrastrutturali che devono formare la grande ossatura della regione e dei rapporti interregionali. Anzitutto al grande complesso autostradale, che deve proseguire oltre Bari, per raggiungere a monte di Taranto e qui biforcarsi, con un ramo per Brindisi ed una continuazione per Metaponto e Sibari fino a congiungersi con la Salerno-Reggio Calabria. Questa è la condizione fondamentale della continuità dello sviluppo meridionale, ed è compito di tutte le forze politiche meridionali imporne la priorità su scala nazionale, anche su altre opere autostradali che in pratica rappresentano un doppione di autostrade esistenti (come la Piacenza-Torino), o sulla idrovia padana, che ha in sé caratteristiche negative rispetto alla funzione di testa di ponte della Puglia. A monte di questa grande via di comunicazione, il collegamento Tavoliere-Fossapremurgiana-Matera-Metaponto deve formare la base per la continuità per una minore direttrice destinata ad alleggerire la tendenza alla congestione costiera. A questo proposito va osservato che il collegamento diretto di questi grandi comprensori di sviluppo agricolo irriguo costituisce un fattore della massima importanza per l’economia appulo-lucana. Fattore condizionato però dalla necessità di creare una efficiente rete di trasporti, anche ferroviari, che possano immettere sul Tavoliere una quantità di prodotti agricoli tali da giustificare il funzionamento di impianti di conservazione, di trasformazione, e di distribuzione modernamente dimensionati e direttamente collegati con i grandi mercati di consumo. Il Tavoliere, e quindi Foggia, potrebbe svolgere pertanto la funzione che gli è congeniale, di grande mercato di smistamento della produzione agricola del versante Adriatico e Ionico: ma osta a ciò la carenza della rete ferroviaria. E’ quindi necessario appoggiare le giuste richieste materane di un diretto collegamento ferroviario fra il Tavoliere, Matera e Metaponto, mentre unanime deve essere l’azione per l’eliminazione della strozzatura adriatica nei rapporti ferroviari con il Nord. 20 Circa la grande viabilità, è ancora necessario ricordare l’urgenza di realizzare un efficiente collegamento trasversale Manfredonia-FoggiaCandela-Vulture-Conca di Muro-Vallo di Diano, e di collegamenti diretti fra il Tavoliere e l’Irpinia, e fra il Tavoliere e il Molise. Per quanto riguarda i porti, la genericità del documento non ha permesso di fare cenno alla necessità di uno sviluppo plurifunzionale del porto di Manfredonia, che pure è la base essenziale per lo sviluppo industriale e turistico della nostra Provincia, e quindi costituisce elemento determinante per il funzionamento della direttrice di sviluppo. Per concludere si ritiene di accennare alla necessità che le enunciazioni relative alla situazione delle attrezzature e dei servizi civili vengano approfondite localmente, con una individuazione dei fabbisogni in relazione allo sviluppo futuro. A questo compito, per quanto ci compete, assolverà il piano di sviluppo che l’Amministrazione Provinciale ha messo allo studio. Agricoltura Gli obiettivi enunciati dal documento C.R.P.E.P. si compendiano nei seguenti punti: — piena ed efficiente utilizzazione delle risorse; le forze di lavoro devono essere tutte occupate al più alto livello di remunerazione possibile; — valorizzazione di tutte le risorse agricole esistenti e di quelle idriche in modo particolare; — riassetto territoriale delle attività produttive onde evitare lo spopolamento di alcune regioni e la congestione di altre; — miglioramento della distribuzione dei redditi; — mantenimento di un alto saggio di crescita nel lungo periodo. Inoltre il documento enuncia le necessità di chiamare a questo sforzo di utilizzazione di tutte le risorse regionali, tutte le forze locali, e a questo scopo propone lo studio e l’attuazione di « piani zonali ». Passando all’esame della situazione agricola regionale risulta subito dal documento la preponderanza della Provincia di Foggia che ha le maggiori aree utilizzate, produttrici di cereali, foraggere, coltivazioni ortive, coltivazioni industriali, e nella quale è presente il solo patrimonio boschivo della regione. La stessa constatazione si può fare per la zootecnia, con il maggior numero di capi bovini, ovini, suini ed equini. Quindi risulta ancora più evidente come il Tavoliere sia una delle basi fondamentali per lo sviluppo agricolo pugliese e meridionale e ne risulta ancora più evidenziata la necessità di un collegamento con l’altra area di sviluppo Metapontina, al fine di integrare in una grande dimensione — a livello « emiliano » — reciproche possibilità di sviluppo. Il programma di intervento industriale nel settore olivicolo prevede, per la Provincia di Foggia, la costruzione e costituzione di oleifici cooperativi a Trinitapoli (capacità lavorativa 30.000 q.li di olive), Torremaggiore (20.000), Stornara (20.000), Matine di S. Giovanni R. (20.000), Ortanova-Ordona (10.000) e Mattinata (15.000). 21 Nel settore orticolo il documento si limita ad enunciare la necessità di un sistema di commercializzazione e trasformazione. Per il settore cerealicolo, che interessa in maniera particolare la nostra provincia, il documento pone l’accento sulla eventualità di un futuro contenimento della produzione, in conseguenza della accettazione della politica MEC. Pertanto è necessario anche qui proporre una scelta, che dia un giudizio su tale politica, e che indichi di conseguenza culture alternative ad alto reddito: è necessario pertanto pensare in tempo alle riconversioni culturali qualora si rendessero necessarie. E in questo argomento si inserisce largamente il discorso sulla espansione della zootecnia legato da una parte all’aumento del consumo di carne dovuto all’aumento del livello di vita delle popolazioni, e legato dall’altra alla espansione dell’irrigazione. Ma prima di accennare a questo argomento di importanza vitale, è il caso di riassumere brevemente le previsioni che il documento fa a proposito delle zone montane e collinari di particolare depressione: il Gargano e il Subappennino Dauno. Le enunciazioni di riconversioni silvo pastorali o agro-silvo-pastorali fatte dal documento appaiono del tutto generiche se non sono accompagnate dalle indicazioni degli strumenti operativi. Uno di questi strumenti può essere costituito da quei piani zonali di cui si è già parlato: ma la base per ottenere risultati positivi mi pare che vada cercata nella proposta fatta da Manlio Rossi Doria, di accorpare sotto una gestione unica sia i demani esistenti, sia le piccole proprietà frazionate, sia le proprietà maggiori inutilizzate o abbandonate o sfruttate con una agricoltura di rapina che si riduce in una continua degradazione del suolo, formando in tal modo un solo demanio pubblico. In sostanza — ha sostenuto Rossi Doria (e si ritiene di poter concordare con lui) — se l’Italia si può permettere spese in-produttive per puri scopi di prestigio come la costruzione e la gestione di navi tipo « Michelangelo » (nettamente passiva) si può e si deve permettere la spesa di un equivalente numero di miliardi per l’acquisto o l’esproprio dei territori montani, da sistemare, rimboschire o adibire ad altre destinazioni che potranno essere anche redditizie, e che comunque salveranno il suolo dalla continua degradazione. Questo è un argomento che deve essere sostenuto e ripreso con maggiore approfondimento proprio nell’ambito provinciale. In ordine alla irrigazione, il problema generale della Puglia è la insufficienza delle acque disponibili rispetto alla superficie suscettibile di grande sviluppo agricolo irriguo. Tale differenza sussiste e sussisterà in futuro anche con il completamento delle grandi opere irrigue in corso di esecuzione. Questo è un dramma non soltanto pugliese, e che riguarda tutta l’economia nazionale, perché non permette il pieno sfruttamento delle nostre risorse (in Puglia, ad esempio, non può essere pienamente sfruttato il potenziale agricolo di territori come il Salento e lo stesso Tavoliere), con una grave incidenza anche sul saldo del commercio con l’estero e quindi sulla bilancia dei pagamenti. La necessità fondamentale che risulta quindi da questa constatazione — come del resto dall’intero schema — è che il piano di sviluppo deve allargarsi dai ristretti ambiti regionali e trovare intese e accordi con le altre regioni. 22 In particolare per la Provincia di Foggia, la ricerca delle acque irrigue va estesa al Molise e all’Abruzzo, anche con contatti diretti con i Comitati Regionali e con le Amministrazioni interessate. Una conclusione della massima importanza, e che riteniamo sia una delle maggiori acquisizioni programmatiche contenute nel documento, chiude questo esame delle prospettive di sviluppo agricolo. Si rileva infatti che le forze occupate in agricoltura oscillano in Puglia sulle 500.000 unità e si pone un quesito fondamentale: è auspicabile che il numero di tali unità si mantenga a questo livello o deve prevedersi una diminuzione, in conseguenza dell’aumento della produttività? A questa domanda il documento risponde con una importante affermazione, e cioè che le risorse agricole pugliesi sono sottosfruttate, e quindi l’aumento della produttività non deve andare a scapito della diminuzione di mano d’opera, ma deve tendere ad ampliare le superfici ad agricoltura altamente moderna, e ad altissimo livello di occupazione sia diretta che addizionale. E qui si riapre il discorso di tutta l’organizzazione di commercializzazione di prodotti che è inscindibile da tali prospettive di sviluppo. Industria Lo sfruttamento dei prodotti agricoli apre il discorso sulla industrializzazione della regione, ed è di particolare importanza per la nostra Provincia; poiché già vi abbiamo accennato, riteniamo di non dilungarci oltre su questo argomento.Ma per quanto riguarda il settore industriale, questa appare come la parte più debole del documento: dall’esame della situazione attuale non è facile infatti passare alla ipotizzazione di prospettive future. E ciò non certo per cattiva volontà, o per carenza degli estensori del documento, ma per le condizioni obiettive in cui si viene a trovare il C.R.P.E.P. Infatti le grandi decisioni di politica industriale, di localizzazione, quelle cioè che decidono di un avvenire di una regione, sono completamente al di fuori di qualsiasi possibilità di decisione o di intervento del Comitato, come dimostra anche il recente caso dell’Alfa-Sud e la stessa ANIC. In mancanza di queste premesse di base, è inevitabile che tutti i discorsi divengano generici e ipotetici. Pertanto appare prima di tutto necessario che le Amministrazioni locali, e prima fra tutte la nostra Amministrazione, sappiano dare concrete indicazioni, tecnicamente fondate, capaci di formare oggetto di una battaglia per le scelte nel settore della industrializzazione meridionale, e per una eventuale contestazione delle altre scelte che risultino errate o dettate da preoccupazioni contingenti e non positive dal punto di vista delle impostazioni economico-sociali e di assetto territoriale. E pertanto in questo quadro va ricondotto anche il discorso sulla utilizzazione del metano della nostra Provincia, che va effettuato nell’ambito della provincia stessa, non per considerazioni campanilistiche, ma perché da qui deve cominciare quella direttrice di sviluppo che deve appunto trovare i suoi punti di forza nella utilizzazione industriale del metano e nella presenza del porto di Manfredonia. Dopo la recente decisione del CIPE concernente l’approvazione 23 dell’iniziativa ANIC per l’insediamento di una industria chimica di base per la produzione di ammoniaca ed urea si aprono per la provincia, la regione e l’intero Mezzogiorno nuove concrete prospettive che intanto convalidano quelle considerazioni già fatte in sede di esame dell’assetto territoriale. La promozione del Nucleo industriale di Foggia in area, dovrà consentire il moltiplicarsi di iniziative industriali che non soltanto dovranno interessare la nostra provincia, ma dovranno operare un ricongiungimento con le altre « aree » pugliesi. Intanto in una regione come la nostra che presenterà a Nord con Foggia e con la presenza dell’ANIC ed a Sud con Brindisi e con la presenza della Montesud l’ambiente naturale per un polo chimico, dovranno intensificarsi gli insediamenti industriali per la lavorazione di prodotti derivati dall’industria chimica. Per cui riesce strano comprendere l’evidente atteggiamento della nascente industria di isolarsi, sia attraverso il suo orientamento relativo all’ubicazione sia per l’accertata volontà di esportare, per la successiva lavorazione, fuori della regione la materia prima prodotta. E’ infatti contestuale all’annuncio dell’insediamento dell’ANIC la notizia che parte dei prodotti dovranno essere avviati a Ravenna per la loro lavorazione. Non si può non essere d’accordo con le dichiarazioni del Ministro Pieraccini secondo le quali le ulteriori decisioni del CIPE dovranno essere riguardate nell’ambito di uno sviluppo globale del Mezzogiorno. Ciò perché le stesse linee di sviluppo della provincia e dell’intera regione più volte ipotizzate ed ultimamente indicate nell’ordine del giorno del 21luglio presentato al Consiglio Provinciale a firma dei consiglieri dott. Galasso e dott. Moretti, ordine del giorno che si richiama e si conferma, non si ritengono avulse appunto dallo sviluppo globale del Mezzogiorno. Sennonché il richiamato e minacciato isolamento dell’industria ANIC trova la sua conferma nell’assenza di altre iniziative, alcune in precedenza ventilate, come lo stabilimento di Biccari, da parte delle partecipazioni statali, assenza che si nota nella « relazione programmatica sugli Enti autonomi di gestione per l’esercizio 1968 » presentata al Parlamento. Là stessa iniziativa relativa all’insediamento SNIA sembra stia segnando il passo. Per concludere su questo capitolo va aperto un piccolo inciso sulla industria di Stato e a partecipazione statale. Alle affermazioni dei massimi organi dell’IRI, che questo Istituto deve funzionare con criteri di economicità aziendale, non si può che acconsentire, ma il discorso è viziato dal fatto che dal canto suo, allarga la sua attività a settori che niente hanno a che fare con l’economicità di una gestione aziendale e soprattutto niente hanno a che fare con i suoi compiti istituzionali, che sono limitati alle iniziative industriali. La presenza dell’IRI nel settore autostradale, in primo luogo, sottrae energie ed investimenti che dovrebbero essere invece destinati al settore industriale, per drenarli invece verso grandi infrastrutture, che — se sono elementi essenziali del 24 tutto positivi per lo sviluppo — non possono però essere considerate come iniziative speculative, nel modo in cui sono costruite, attuate e gestite. Quindi l’IRI deve abbandonare questa forma di speculazione su servizi di interesse pubblico, che competono ad altri enti di Stato, come ad esempio l’ANAS, o, nel caso del Mezzogiorno potrebbero anche essere affidati alla Cassa per il Mezzogiorno, e si concentri sulla realizzazione di quelle percentuali di investimenti direttamente produttivi che la legge gli impone di realizzare, e che devono essere studiati come investimenti veramente produttivi e promotori dello sviluppo, cioè come grandi industrie di base. Lavoro e pubblica istruzione Quanto ho detto finora diventa di una evidenza tragica se si riesaminano poi le considerazioni che il documento fa a proposito del settore del lavoro. Non abbiamo lo spazio per dilungarci a sufficienza né per citare cifre, come d’altra parte l’argomento meriterebbe, ma basti dire che il recente sviluppo della Puglia risulta più apparente che reale se si guarda lo stato della disoccupazione, al quale va aggiunto l’altro gravissimo fenomeno della emigrazione. Ma per citare una cifra sola, fra le più significative, ricorderemo che la media delle giornate lavorative effettuate in Puglia in un anno, è di 184, ed è inferiore alle 243 della Sicilia, alle 246 della Lombardia, alle 245 dell’Emilia, alle 247 del Lazio. Questa cifra è ulteriormente resa significativa dal fatto che l’andamento dei salari è inferiore a quello delle altre regioni, e che la Puglia risulta al primo posto in ordine alle somme erogate per sussidi di disoccupazione ai braccianti agricoli. Ciò che è una ulteriore riprova dell’inadeguato sfruttamento delle nostre risorse agricole. Da questo panorama di disimpegno delle risorse umane, che trova, come ripeto, la sua evidenza numerica nella cifra riportata dal documento, risulta la necessità di urgentissime iniziative di sviluppo economico, se non si vogliono rendere nulli i risultati finora ottenuti, e perdere definitivamente l’occasione di fermare il divario fra la nostra regione e quelle del entro Nord. In questo quadro vanno affrontati i problemi della pubblica istruzione e della formazione professionale. Anche qui sarebbe troppo lungo riportare le cifre del documento riguardante il fabbisogno di aule e di scuole, commisurate alle popolazioni prevedibile nel 1970, che per la Regione dovrebbe essere di L. 3.745.400 abitanti, e per la provincia di Foggia di 715.000. Una indicazione importante, che deve essere approfondita, contiene il documento sulla necessità di decentrare a Foggia qualche facoltà universitaria che, aggiungiamo, dovrebbe essere di concezioni totalmente moderne e legata alla modernizzazione e allo sviluppo regionale e di tutto il Mezzogiorno. A questo proposito, più che ad una vera facoltà, riterrei che si dovrebbe pensare ad una scuola superiore di specializzazione ad altissimo livello, nel settore agricolo e idraulico, dotata di amplissime possi- 25 bilità di ricerca e di sperimentazione e capace di attirare per il livello dei suoi insegnamenti e delle sue ricerche, le migliori risorse scientifiche in formazione dei paesi in via di sviluppo del bacino del Mediterraneo. Commercio e turismo E’ necessario, a premessa delle considerazioni che si possono fare circa la relazione relativa al commercio, che ogni ipotesi del programma regionale verrebbe immediatamente vanificata qualora si realizzasse ed entrasse in funzione, con le finalità e le dimensioni previste, la grande centrale monopolistica prevista presso Trieste e destinata a conservare, trasformare e immettere sui mercati la maggior parte della produzione agricola rastrellata sul versante adriatico del Mezzogiorno, così come l’impianto di Rivalta Scrivia svolge le stesse funzioni per il versante tirrenico. Per una provincia come la nostra, che fonda le sue speranze di decollo sullo sviluppo moderno dell’agricoltura, questa operazione mo nopolistica di tipo colonialistico è una vera e propria jattura che deve essere scongiurata, se non si vuole che buona parte delle ipotesi (e delle speranze) contenute nel documento del C.R.P.E.P. divengano vane. In particolare le ipotesi di sviluppo delle funzioni della Fiera di Foggia, come elemento motore dello sviluppo agricolo del Tavoliere, verrebbero a ridursi notevolmente. Viceversa riteniamo che il documento possa essere meglio puntualizzato, se si fonderà su una specializzazione delle manifestazioni fieristiche e delle loro funzioni; e la sciando quindi alla Fiera del Levante la grande funzione dei rapporti commerciali mediterranei, mentre si dovrà specializzare sempre di più la Fiera di Foggia ai fini dello sviluppo agricolo. Ma ciò è condizionato dalla realizzazione di quella ipotesi di struttura territoriale di cui si è accennato in precedenza, e che si fonda sulla creazione di una direttrice, eminentemente di sviluppo agricolo, da Metaponto al Tavoliere, con l’assunzione da parte di Foggia di grande centro di conservazione, di trasformazione e di smistamento dei prodotti. Per concludere questo rapido esame, ci resta da esaminare il settore del turismo. Il documento del Comitato Regionale rileva i promettenti sviluppi avutisi in questi ultimi anni, in particolare nel Ga rgano, e ne ipotizza un notevole incremento nel futuro. Ma anche a questo proposito appare utile approfondire, sia pure rapidamente, l’esame dell’argomento. Finora il turismo nel Gargano ha assunto due aspetti contrastanti: da u na parte si sono avute iniziative, turistiche che chiameremo, anche se impropriamente, di lusso, tendenti a creare nuclei e episodi isolati, vere isole nel territorio, che non apportano praticamente nessun beneficio alla economia locale in quanto non formano quel tessuto connettivo che è alla base dello sviluppo turistico. D’altra parte si sono invece venute a verificare iniziative capillari, che pur formando l’inizio di tale tessuto, si sono sviluppate disordinatamente, deturpando alcune fra le località più pregevoli e compromettendo quindi gravemente lo sviluppo futuro. In attesa di conoscere i risultati dello studio che la Cassa per il Mezzogiorno ha fatto redigere per il Gargano, e in attesa soprattutto 26 degli interventi che ne dovrebbero conseguire, vediamo di trarre delle indicazioni del documento C.R.P.E.P. e dalle considerazioni precedenti alcuni suggerimenti per una linea d’azione da tenere, come Amministrazione provinciale, e come Ente che può assumere un ruolo notevole in questo che appare come uno dei più promettenti settori di sviluppo. Sulla base delle indicazioni del piano della Cassa, e con i finanziamenti della Cassa stessa predisposti, l’Amministrazione Prov. le può farsi promotrice di esempi-pilota di utilizzazione del territorio, con la predisposizione di strutture per il turismo di massa, che appare come il più promettente ed il più redditizio. Si tratta cioè di mettere allo studio e di realizzare strutture integrate — costiere e montane — sia ricettive che per il tempo libero, che presentino economicità di gestione e alto indice di utenza nel massimo rispetto dell’ambiente paesistico. Queste strutture dovrebbero avere caratteristiche tali da attrarre il turismo di massa sia proveniente da mete extra regionali ed ext ra nazionali, sia provenienti dalla provincia stessa, anche a carattere pendolare. Anche qui gli studi necessari possono essere effettuati nel quadro del piano di sviluppo. Si è appreso con soddisfazione quanto dichiarato dal Ministro Pieraccini sempre in occasione del progetto ANIC nel senso che « si procederà alla industrializzazione della zona salvaguardando anche le prospettive di sviluppo turistico ». Bisogna, infatti, come afferma lo schema di piano, resistere alla tentazione di consentire l’insediamento di industrie in località ove le risorse turistiche, e quelle agricole, presentano già notevoli condizioni di redditività o sono suscettibili di larga utilizzazione. In conclusione, l’esame del documento del C.R.P.E.P. ci ha portato soprattutto ad individuare alcuni tra quelli che dovranno essere gli elementi fondamentali e gli obiettivi del piano di sviluppo che l’Amministrazione Prov.le si accinge a fare proprio. La genericità del documento che abbiamo esaminato, quindi, potrà essere puntualizzata e approfondita con un esame più ravvicinato della nostra realtà provinciale, con lo studio dei nostri problemi e con l’individuazione degli strumenti tecnici per affrontarli in un quadro integrato che tenga conto non soltanto delle esigenze della nostra Provincia, ma di tutta la regione; e siamo certi che, da un obiettivo esame, risulteranno evidenti le funzioni fondamentali che la nostra Provincia deve assolvere se si vuole che il Mezzogiorno abbia quello sviluppo unitario, autonomo ed autopropulsivo che è la condizione essenziale per il riequilibrio della struttura economico-sociale italiana. BIOS DE MAIO 27 I collegamenti stradali del comprensorio turistico garganico Orientamenti ed impegni della Giunta Provinciale La Giunta Provinciale ha esaminato lo studio sulla situazione stradale del Gargano, approntato dal Gruppo di Studio della Provincia in collaborazione con l’Ufficio Tecnico Provinciale, e ha deciso di farlo proprio e di presentarlo all’approvazione del Consiglio Provinciale con le seguenti considerazioni. La Giunta ritiene che l’Ente comprensoriale, destinato ad operare sul Gargano per l’attuazione degli interventi previsti dal Piano di coordinamento della Cassa per il Mezzogiorno, debba essere individuato nell’Amministrazione provinciale di Foggia. La Giunta è, perciò, impegnata ad intensificare i contatti con la Cassa per il Mezzogiorno per rivendicare all’Amministrazione provinciale un ruolo primario nella individuazione e nella esecuzione delle nuove infrastrutture del comprensorio garganico. Nella scelta dell’organismo comprensoriale dovrà essere tenuto presente il parere già espresso dal Comitato Regionale per la Programmazione Pugliese, che ha indicato nelle Amministrazioni Provinciali gli enti idonei ad assumere tale ruolo. Ciò è per noi tanto più valido ove si pensi alla circostanza che il comprensorio garganico, a differenza di altri previsti dal piano di coordinamento, ricade interamente nei confini geografici della sola Capitanata. La Giunta ritiene, inoltre, che bisognerà preoccuparsi non solo della esecuzione delle opere infrastrutturali, ma anche della loro successiva manutenzione, per eliminare il pericolo che la mancata manutenzione delle opere che saranno realizzate possa annullare lo sforzo finanziario relativo all’intervento pubblico della Cassa. L’Amministrazione provinciale, a tale scopo, farà presente alla Cassa per il Mezzogiorno che assumerà la manutenzione delle sole opere che avrà realizzato direttamente con il finanziamento Cassa. 28 Si ritiene, a tal’uopo, che le infrastrutture stradali da realizzare debbano essere preventivamente distinte in base ai criteri di classificazione previsti dalla legge 12-2-1958, n. 126, e che, perciò, le strade a scorrimento veloce di grande traffico debbano essere, sia pure successivamente, classificate fra le strade statali. Per queste, quindi, l’esecuzione dei lavori di sistemazione e di ammodernamento dei tronchi già esistenti e la costruzione dei tronchi da realizzare ex novo dovrà essere affidata esclusivamente all’Anas. In tal modo verrebbero a trovare accoglimento anche le richieste, già avanzate da quest’Amministrazione, di statizzazione di alcune strade garganiche tuttora provinciali. Invece, l’incarico dell’esecuzione dei lavori, (costruzione o sistemazione), sulle strade indicate come arterie di collegamento o di circuiti turistici comprensoriali, classificate o classificabili tra le strade provinciali, dovrebbe essere affidato esclusivamente all’Amministrazione provinciale. Infine l’esecuzione delle infrastrutture specifiche, al servizio di iniziative alberghiere, dovrebbe essere affidata alle Amministrazioni comunali o alla Provincia a seconda che tali strade possano essere classificate comunali o provinciali. La Giunta ha inteso limitare il lavoro affidato al Gruppo di studio al solo settore stradale per un duplice motivo: — l’urgenza di esprimere l’orientamento dell’Amministrazione provinciale in un proprio settore istituzionale, prima che fosse presentato alla Cassa il piano che sta predisponendo il gruppo di lavoro guidato dal prof. Pitigliani; — l’opportunità di fare precedere lo studio sulla situazione stradale a quello globale interessante l’intero comprensorio garganico. Tale studio globale farà parte integrante del Piano di sviluppo generale della nostra Provincia. Conseguentemente la Giunta s’impegna a far seguire al lavoro già presentato lo studio completò, relativo alle altre infrastrutture (acquedotti, fognature, elettrodotti, attrezzature portuali, trasporti pubblici ecc.), dopo aver, al riguardo, preso gli opportuni contatti con gli altri enti interessati (Acquedotto Pugliese, Enel, ecc.), e soprattutto, dopo che saranno stati resi noti i piani territoriali e paesaggistici, tuttora in corso di redazione — rispettivamente — da parte del Provveditorato regionale alle OO. PP. di Bari e della Soprintendenza ai monumenti e alle gallerie di Puglia e Lucania. Lo studio completo potrà essere utile al Consiglio provinciale allorché sarà sottoposto all’esame ed al parere dell’Amministrazione provinciale il piano redatto dal gruppo guidato dal prof. Pitigliani. L’Amministrazione provinciale di Foggia — in occasione della compilazione del piano di sviluppo turistico del comprensorio garganico, il cui incarico è stato affidato dalla Cassa per il Mezzogiorno ad una equipe di tecnici diretta dal prof. Pitigliani — ha ritenuto necessario procedere, autonomamente, alla redazione di uno studio, limitato ai collegamenti stradali strettamente pertinenti al comprensorio, anche allo scopo di offrire alla Cassa un utile contributo di esperienze, che 29 solo l’Ente territoriale competente istituzionalmente nel settore stradale noi riteniamo sia in grado di fornire. Pregiudiziale appare, anche per ovvi criteri di opportunità, distinguere, nello studio generale dei problemi stradali garganici, i collegamenti stradali del comprensorio con la grande viabilità nazionale dai collegamenti interni al comprensorio stesso. Tale distinzione è opportuna in quanto le realizzazioni ed i miglioramenti relativi alla viabilità di adduzione sono previsti, in gran parte, nei programmi di Enti distinti dalla Cassa (Ministero dei LL. PP. — ANAS — Società Autostrade), con tempi tecnici di esecuzione diversi e, soprattutto, con obiettivi diversi da quello dello sviluppo turistico del comprensorio garganico. E’ noto, infatti, che il settore delle infrastrutture primarie è quello in cui maggiormente si evidenzia il carattere aggiuntivo e straordinario dell’intervento della Cassa rispetto agli interventi ordinari che vengono effettuati dalle altre amministrazioni pubbliche. Si rende, perciò, indispensabile predisporre il coordinamento fra le realizzazioni già programmate dagli altri Enti pubblici e gli interventi che dovranno essere finanziati dalla Cassa. Per quanto riguarda la viabilità interna del comprensorio — ed in particolare quella interessante i circuiti turistici garganici — il coordinamento dovrà riguardare gli interventi del piano Cassa ed il programma di realizzazioni stradali dell’Amministrazione Provinciale di Foggia, oltre quello di altri Enti locali a struttura consortile, nella misura in cui le opere stradali programmate da questi ultimi Enti possano svolgere una funzione di interesse turistico. Nello studio dei collegamenti primari del Gargano (ed anche dell’intera provincia di Foggia) con la viabilità nazionale non si può prescindere dalla individuazione delle grandi correnti di traffico turistico e dalle valutazioni che tengano giusto conto del loro incremento nel quadro generale del miglioramento delle infrastrutture previsto per i prossimi quinquenni. E’ indiscutibile che la principale corrente di traffico turistico diretta al Gargano si svolge e si svolgerà lungo la direttrice adriatica ed avrà, fra breve, a disposizione, fino ai confini settentrionali del comprensorio, l’autostrada Bologna-Canosa, le strade statali 16 e 16 bis ed anche la linea ferroviaria Bologna-Foggia, di cui è stato già previsto il raddoppio. Lungo la più importante direttrice di traffico si avrà, perciò, entro il 1969, una situazione soddisfacente per le grandi infrastrutture di adduzione; risulta inadeguato, invece, il collegamento fra la rete primaria e la punta estrema del Promontorio, nella quale si vanno localizzando i più importanti insediamenti turistici. Si avverte, infatti, allo stato, la necessità di una grande arteria di penetrazione che, pur snodandosi ad una congrua distanza dal mare, non presenti grosse difficoltà plano-altimetriche e permetta, perciò, un rapido scorrimento del traffico motorizzato. Il tracciato ideale di questa strada, la cui realizzazione dovrà esse- 30 re prevista con assoluta priorità, è già chiaramente configurabile con l’utilizzazione, previo ammodernamento, di tratti già esistenti e con l’apertura di nuovi. La nuova strada dovrà avere inizio dal casello di uscita dell’Autostrada, presso Lesina, e utilizzare, con i necessari ammodernamenti e varianti, la strada provinciale esistente che da Lesina, attraverso la località di S. Nazario, va ad incrociare l’altra provinciale S. Nicandro Torremileto, costeggiando, ad una certa distanza, la sponda occidentale del lago di Lesina in una zona completamente pianeggiante. Dall’incrocio suddetto la grande arteria dovrà proseguire tagliando alla base la piccola collina di Monte D’Elio, per raggiungere il lago di Varano, nei pressi del Villaggio di S. Nicola Varano, utilizzando parzialmente i tracciati di strade già esistenti. Da S. Nicola Varano la strada potrà proseguire, con un tratto da realizzare a valle dell’attuale tracciato della statale 89, ad una certa distanza dalla sponda occidentale del Lago di Varano, fino a raggiungere la statale 89 dopo la grotta di S. Michele, ad est dell’abitato di Cagnano Varano ed all’imbocco della piana di Carpino. Da questo punto fino alla zona di Romondato potrà essere utilizzata la statale 89, con gli opportuni ammodernamenti. Dopo Romondato la strada dovrà proseguire, con tratto da costruire ex novo a mezza costa, fra Rodi ed Ischitella e fra S. Menaio e Vico del Gargano, alle spalle di Monte Pucci e della piana di Calenelle, fino ad innestarsi a sud di Peschici nella nuova provinciale che collega Peschici a Vieste con un tracciato litoraneo, ma quasi sempre ben distante dal mare. Tale tracciato dovrà essere arretrato solo nella zona di Manacore ed all’inizio della spiaggia di S. Lorenzo, a circa quattro chilometri dall’abitato di Vieste. L’intera arteria da Lesina a Vieste avrà una lunghezza di circa 96 chilometri e potrà essere percorsa interamente, da una autovettura di media cilindrata, in circa ottanta minuti.Il tracciato, pur essendo quasi del tutto panoramico, si svolgerebbe sempre ad una congrua distanza dal litorale; non disturberebbe gli insediamenti turistici localizzati o localizzabili sull’Isola di Varano e valorizzerebbe adeguatamente la costa occidentale del lago di Varano, attualmente priva di comunicazioni stradali; avrebbe, infine, il vantaggio di passare alle spalle di tutti i centri litoranei (Rodi-Peschici-Vieste) e di avvicinarsi anche ai centri abitati collinari (S. Nicandro-Cagnano-Carpino-Ischitella-Vico); ed infine porterebbe alla decongestione del traffico che attualmente si svolge sul tratto Rodi-S. Menaio, agevolando in tal modo gli insediamenti in una delle più belle zone del litorale. La maggior parte della nuova arteria, e precisamente il tratto da S. Nazario a Vieste, verrà utilizzata anche come tratto terminale dell’altro collegamento da realizzarsi con il capoluogo. Il traffico turistico incanalato nella direttrice Nord non si dirigerà esclusivamente verso la costa settentrionale del Gargano; ma si orienterà anche verso il centro del promontorio e cioè verso le località di richiamo mistico-religioso (Oasi di Stignano, S. Matteo, S. Giovanni 31 Rotondo, Pulsano, Monte S. Angelo), verso la Foresta e la zona di Mattinata; e verso la parte sud-occidentale (golfo di Manfredonia, i due litorali Manfredonia-Mattinata e Manfredonia-Margherita di Savoia). Il traffico destinato a queste due località dispone già di una rete stradale in buone condizioni, che ha bisogno solo di essere migliorata e completata nei tratti terminali. A partire dalla zona di Lesina il traffico potrà usufruire della «provinciale » per Poggio Imperiale ed Apricena, e del primo tratto della « pedegarganica », entrambe asfaltate, anche se bisognose di alcuni miglioramenti; all’incrocio con la statale 272 il traffico diretto al centro del Gargano potrà confluire dalla citata statale 272, recentemente ammodernata, fino a Monte S. Angelo; prima di quest’ultimo abitato e precisamente in località Ponte S. Raffaele è posto il bivio per la Foresta Umbra; da Ponte S. Raffaele bisognerà costruire ex novo il tratto terminale, lungo la valle Carbonara, fino a Mattinata e cioè fino all’innesto con la grande arteria sud di cui più avanti si farà cenno. Il traffico diretto a Manfredonia potrà proseguire dall’incrocio con la statale 272 per la « pedegarganica » fino al ponte Villanova; da questa località dovrà essere costruito ex novo un tratto di collegamento fino all’incrocio con la statale 273, per allacciarsi, infine, in località Matine all’altra provinciale fino a Manfredonia. La seconda grande direttrice del traffico al Gargano è quella proveniente dal retroterra dauno, e avente per base la città di Foggia, dalla quale possono diramarsi numerose arterie di collegamento con il Promontorio. Questa direttrice è molto importante non tanto per il volume attuale di traffico, quanto per quello futuro, se si tiene conto del prevedibile sviluppo dei collegamenti aerei, che saranno preferiti dalle correnti turistiche estere, e del fatto che detti collegamenti dovranno necessariamente utilizzare lo scalo aereo di Foggia. Lo sviluppo futuro del collegamento coordinato (linea aereastrada) può essere già delineato ove si tenga conto del successo dei voli Charter già in atto con scalo ad Amendola. Nella zona di Foggia confluiranno le correnti di traffico provenienti dalle altre regioni e soprattutto dai vicini comprensori turistici del Matese e del Vulture. Le correnti del Molise e del retroterra laziale usufruiranno della strada a scorrimento veloce Roma-Molise-Puglie, attraverso la Fondo Valle del Tammaro e la statale 87, la Fondo Valle Tappino ed infine la statale 17 che potrà giovarsi, quanto prima, della realizzazione della galleria nella zona di Volturara-Motta (progetto ing. Felici con finanziamento Cassa) e dell’allargamento della Lucera Foggia (progetto già approvato con finanziamento Anas). Le correnti provenienti dalla Lucania e dal retroterra campano avranno a disposizione, oltre all’autostrada Napoli-Bari e le statali 90 e 90 bis, la strada a scorrimento veloce già in corso di esecuzione, con finanziamento Cassa, fra Potenza e l’autostrada adriatica (PotenzaBasso Melfese-Stazione autostradale di Candela-Foggia). Nel Tavoliere confluiranno, inoltre, le correnti di traffico locali, 32 I collegamenti stradali del comprensorio turistico garganico TAVOLE provenienti dal Subappennino dauno e particolarmente dalle località turis tiche già in via di sviluppo (Bovino-Faeto-S.CristoforoCasalnuovo ecc.) e dalle zone dei ritrovamenti metaniferi e di prossima industrializzazione. A partire dall’abitato di Foggia è possibile configurare due fondamentali arterie di collegamento con il Gargano, oltre ad una serie di collegamenti minori sventagliati verso le diverse località garganiche. L’arteria settentrionale, Costituita dal primo tratto della statale 16 per San Severo, già perfettamente idonea, dovrà poi svilupparsi, a circa chilometri cinque prima di San Severo, utilizzando una rete di strade provinciali e di bonifica, che dovranno essere ammodernate, fino all’importante nodo stradale che si verrà ad istituire in località S. Nazario e cioè all’innesto con la grande strada a scorrimento veloce proveniente da Lesina e sopra illustrata. Il tracciato di questo secondo tronco, dall’innesto della statale 16 a S. Nazario, attraverserà le seguenti località: Innesto statale 16-Casone-Mezzana di Quercia-Innesto con provinciale Pedegarganica fino all’imbocco dell’attuale strada di bonifica Apricena S. Nazario, previa costruzione di un raccordo ad est di Apricena. L’arteria meridionale sarà costituita da una grande asta tangenziale, rappresentata dalla statale 89 nel tratto Foggia-Mattinata e da una serie di collegamenti trasversali con inizio dalla citata statale 89 e termine alle varie località dell’opposto versante garganico. Il citato tratto di statale 89 ha bisogno di essere urgentemente ammodernato, anche in relazione agli annunziati insediamenti industriali nell’agro di Manfredonia e al conseguente potenziamento del porto. E’ indispensabile realizzare, inoltre, la circumvallazione dell’abitato di Manfredonia ed un attraversamento più agevole, dal punto di vista plano-altimetrico, della località Sellino Cavola, all’incrocio con la diramazione per Monte S Angelo. All’altezza di Manfredonia, l’arteria a scorrimento veloce proveniente da Foggia si incrocerà con l’arteria di adduzione proveniente dal sud, di cui si farà cenno in seguito. Da Manfredonia a Vieste l’arteria sarà, poi, unica, in analogia al tratto S. Nazario-Vieste dell’arteria a scorrimento veloce settentrionale. A partire dal tratto tangenziale Foggia-Manfredonia della statale 89 si possono configurare numerosi collegamenti trasversali con il Gargano, alcuni dei quali già in stato di efficienza, altri da ammodernare o da completare. Subito dopo Foggia esiste un primo collegamento trasversale sulla direttrice statale 89-S. Marco in Lamis -Sannicandro-Torremileto da ammodernare in alcuni tratti ed un secondo collegamento sulla direttrice statale 89-S.Giovanni Rotondo-Cagnano Varano. Un terzo collegamento potrà essere realizzato con la costruzione ex novo di un tronco stradale dalla statale 89, in località S. Lucia, fino all’innesto della strada provinciale per il Santuario di Pulsano attraverso le masserie Signoritti e Valente. Il traffico potrà svolgersi, in alternativa, sulla strada provinciale denominata « Scaloria » (Manfredonia-S. SalvatoreRuggiano-Innesto statale 272) o sull’altra provinciale, già citata, per 33 Pulsano fino a Monte S. Angelo e, da questa località, fino al ponte S. Raffaele attraverso la statale 272; entrambe queste arterie provinciali hanno bisogno di ammo dernamento. Da ponte S. Raffaele il tratto potrà avvalersi della strada per la Foresta, di imminente statalizzazione, che sarà certamente ammodernata con finanziamento Anas fino a Vico del Gargano, e del successivo collegamento, già esistente, con la riviera di S. Menaio. in contrada Valazzo. Vi è, inoltre, un altro collegamento, già esistente, con partenza da Manfredonia per Monte S. Angelo, attraverso la strada provinciale Ponte S. Venanzio-Monte S. Angelo (la cosiddetta strada corta) recentemente bitumata ed allargata dalla Provincia. Da Monte S. Angelo la prosecuzione è comune al precedente tracciato attraverso la statale 272 fino a Ponte S. Raffaele. Il collegamento da Foggia per la Foresta Umbra potrà avvenire, anche, attraverso la statale 89 fino a Mattinata, con la realizzazione del tratto Mattinata-Bivio Carbonara, la cui costruzione è stata già prevista come ultimo tronco della statale 272. La terza grande direttrice del traffico diretta al Gargano è quella proveniente dall’Italia meridionale e particolarmente dagli altri comprensori turistici dei Trulli e delle Grotte, di Metaponto e della penisola salentina, oltre alle correnti turistiche di ritorno dalla Grecia. Questa terza direttrice ha a disposizione l’autostrada Bari-Napoli, con uscita a Barletta ed a Cerignola, le strade statali 16, 98 e 159 e le strade provinciali di imminente statalizzazione Cerignola-Ponte Rivoli e Trinitapoli-Foggia. A partire dall’abitato di Manfredonia tutte queste arterie confluiranno nel tratto Manfredonia-Mattinata della statale 89, che dovrà essere ammodernato come sopra indicato. Da Mattinata a Vieste la grande arteria di penetrazione dovrà abbandonare il tracciato della statale 89 per seguire piuttosto, con opportune varianti, il tracciato della nuova litoranea Mattinata-Vieste. Il primo tratto della litoranea, fino alla località Coppa S. Tecla, ha bis ogno solo di allargamenti e di miglioramenti plano-altimetrici, oltre ad un arretramento di almeno mezzo chilometro in prossimità del nuovo molo di Mattinata. Il secondo tratto, da Coppa S. Tecla a Vieste deve essere, oltre che allargato, allontanato notevolmente dal mare, per evitare gli attraversamenti delle spiaggie, di porto nuovo e del castello, per realizzare l’innesto, alle spalle di Vieste, con l’altra arteria a scorrimento veloce proveniente da Lesina, in prossimità dell’attuale innesto della statale 89 con la diramazione per l’abitato di Vieste. Le strade di adduzione e di penetrazione dovranno essere idonee ad assicurare grande scorrevolezza al traffico per permettere ai turisti di raggiungere, velocemente e comodamente, le principali località garganiche; le strade di collegamento interno al comprensorio dovranno, invece, offrire al turista, che abbia deciso di soggiornare in una deter- 34 minata località, la possibilità di visitare tutte le altre località in una serie di circuiti turistici da percorrersi in escursioni di uno o più giorni. Ne consegue che le strade interne al comprensorio dovranno collegare tutte le località turistiche già valorizzate o suscettibili di valorizzazione sulla base delle indicazioni che saranno fornite dalla carta per l’utilizzazione turistica del territorio in armonia con il « quadro di riferimento territoriale ». E’ ovvio che per gli itinerari turistici si potrà usufruire dei tratti coincidenti con le arterie di penetrazione sopra indicate; alcune strade già esistenti, provinciali, consorziali o comunali potranno essere utilizzate previo ammodernamento, mentre alcuni altri tratti dovranno essere realizzati ex novo. E’ possibile delineare alcuni circuiti turistici e collegamenti fra località già valorizzate anche prima della localizzazione dei nuovi insediamenti turistici. I più importanti sono i collegamenti monte-mare; in considerazione della forma geografica del comprensorio detti collegamenti assumeranno necessariamente uno sviluppo a raggiera, avendo come fulcro il centro della Foresta Umbra e come circonferenza il litorale da Rodi a Mattinata. I collegamenti radiali da realizzare sono: 1) Strada Mattinata-Monte Iacotenente-Albergo Rifugio Foresta Umbra; 2) Strada Pugnochiuso-Torre di Sacro-Monte Iacotenente-Albergo Rifugio-Foresta Umbra; 3) Strada Segheria del Mandrione-Albergo Rifugio-Foresta Umbra. I collegamenti già esistenti da migliorare sono: 1) Foresta Umbra-Vico del Gargano-San Menaio; 2) Foresta Umbra-Vico del Gargano-Ischitella-Romondato-Foce di Varano. Per completare la rete stradale dell’alto Gargano è necessario, inoltre, realizzare il nuovo tronco Foresta Umbra-località Postofitto all’innesto con la strada Carpino-San Giovanni R. ed il tratto di collegamento fra la strada Carpino-Piano Canale e l’innesto della Ponte S. Raffaele-Vico; e migliorare le seguenti strade già esistenti: 1) tratto di collegamento tra l’innesto statale 272 in località Masseria Cassano e l’innesto Carpino San Giovanni in località Postofitto; 2) tratto di collegamento fra l’innesto strada: San Giovanni-Cagnano ed il ponte Romondato all’incrocio con la strada Carpino-Innesto statale 89. E’ necessario, poi, completare le strade circumlagunari ai due laghi di Lesina e di Varano. Il lago di Lesina è già circondato da strade per tre lati su quattro; è necessario, perciò, realizzare la strada di collegamento sull’isola, da Torrefortore a Torremileto. Il lago di Varano è costeggiato attualmente lungo uno solo dei quattro lati, dalla strada dell’isola, da Capoiale a Foce di Varano. Con la realizzazione dell’arteria a scorrimento veloce proveniente da Lesina, si dovrà eseguire ex novo il tronco da S. Nicola all’innesto della statale 89. Resterebbero da realizzare le strade costiere per gli 35 altri due lati, da S. Nicola Varano a Capoiale, sfruttando il tracciato già esistente, e dalla statale 89, nei pressi del magazzino Anas, fino a Foce di Varano, con strada da costruire ex novo. L’ultima serie di collegamenti da realizzare è costituita dalle strade a pettine fra le arterie a scorrimento veloce ed il litorale. La maggior parte di questi ultimi collegamenti potrà essere studiata solo dopo l’ubicazione dei nuovi insediamenti turistici. Esistono, peraltro, già le seguenti strade che assolvono la funzione sopra indicata: 1) Strada provinciale da Chieuti a Marina di Chieuti; 2) Strada provinciale di collegamento fra la provinciale RipaltaLesina e la spiaggia di Torrefortore; 3) Strada provinciale S. Nicandro-Torremileto; 4) Strada comunale Vico del Gargano-San Menaio; 5) Strada comunale di collegamento fra la provinciale PeschiciVieste ed il litorale a sud di Peschici; 6) Strada provinciale dall’innesto statale 89 in località Segheria del Mandrione alla spiaggia di S. Maria di Merino; 7) Strada provinciale da Coppa S. Tecla a Cala della Pergola, nei pressi del complesso alberghiero di Pugnochiuso; 8) Strada privata fra la litoranea Vieste-Mattinata e la località « Imeldoli »; 9) Strada comunale di Varcaro, fra la statale 89 ed il litorale di Macchia fra Manfredonia e Mattinata. Per concludere lo studio sui collegamenti stradali garganici, il Gruppo ha ritenuto effettuare dei calcoli di larga massima circa il chilometraggio stradale da costruire ex novo o da ammodernare ed indicare la presumibile relativa spesa, tenendo conto anche delle caratteristiche plano-altimetriche delle località attraversate: STRADE DI SCORRIMENTO VELOCE a) Tratti da costruire ex novo: 1) Direttrice Nord SV1 SV2 SV3 2) 1) piano viabile mt. 10,50 Km. 32 » » » 7,00 » 20 » » » 7,00 » 15 Direttrice da Foggia SV1 SV2 - piano viabile mt. 10,50 Km. 40 Totali parziali Km. 107 b) Tratti da ammodernare: Direttrici Nord SVI - piano viabile mt. 10,50 Km. 64 36 Spesa presumibile in milioni 2.200 1.000 500 2.800 6.500 2.500 SV2 » » » 7,00 » 18 SV3 » » » 7,00 » 16 SVI - piano viabile mt. 10,50 Km. 25 SV2 » » » 10,50 » 27 3) Direttrice Sud Totali parziali Km. 150 270 230 600 1.000 4.600 STRADE DI COLLEGAMENTO INTERNO AL COMPRENSORIO Tratti da costruire ex novo: piano viabile mt. 7,00 Km. 145 5.800 Tratti da ammodernare: piano viabile mt. 7,00 Km. 87 Totali parziali Km. 232 2.200 8.000 La spesa complessiva per l’esecuzione del programma statale, comprendente la costruzione ex novo di oltre 250 chilometri e l’ammodernamento di oltre 230 chilometri, con esclusione delle strade a pettine e delle infrastrutture specifiche, ammonterebbe presumibilmente ad oltre 19 miliardi. Nel caso che non fosse possibile finanziare l’intero programma stradale nel primo quinquennio di attuazione del piano di coordinamento Cassa, sarà necessario stabilire una scala di priorità delle opere con spesa rapportata ai finanziamenti disponibili. Lo studio sulla situazione stradale del Comprensorio garganico è stato corredato da una parte grafica, composta di n. 9 tabelle, in cui sono ubicati i tracciati stradali oggetto dello studio. 37 Giuseppe Di Vittorio Riflessioni sulla figura e sull’opera nel X anniversario della sua morte Ricorre quest’anno il decimo anniversario della morte di Giuseppe Di Vittorio. Era a Lecco, per l’inaugurazione della locale Camera del lavoro quando, il 3 novembre 1957, un infarto cardiaco lo stroncò: aveva 65 anni. L’emozione, che la notizia della sua morte suscitò in Italia e nel mondo, e l’imponenza dei funerali romani, imposero a uomini politici di ogni tendenza, a osservatori e a studiosi di questioni politiche e sociali, di meditare sulle ragioni della eccezionale popolarità del dirigente sindacale pugliese. La sua fibra era già stata indebolita da un precedente infarto, due anni prima. Egli avrebbe dovuto allentare i suoi impegni e imporsi un regime di lavoro e di vita severamente controllato. Invece continuò non solo ad assolvere ai gravosi incarichi di segretario della C.G.I.L. e di presidente della Federazione sindacale mondiale, ma anche ad essere uno dei parlamentari più attivi e dei dirigenti più impegnati del suo partito: quello comunista. Insofferente delle premure e dei richiami di quanti si preoccupavano della sua salute, poco prima di morire si prodigò nella campagna elettorale amministrativa in Puglia, concludendo così il suo lungo e appassionato colloquio con i lavoratori della sua terra. Il modo di vivere, di pensare e di sentire della sua gente era per Di Vittorio non solo un incancellabile ricordo del passato, ma anche una realtà da approfondire continuamente per attingervi nuova capacità di comprendere i bisogni del Mezzogiorno. Ed Egli era profondamente convinto che se non avesse vissuto e sofferto la vita del bracciante nel Tavoliere di Puglia, in tempi di intense e importanti lotte sociali, non avrebbe potuto trovare in sé la forza, la fede e la tenacia che fecero di lui una delle personalità più rappresentative del mondo sindacale e democratico. « Io non sarei stato nulla, io non sarei stato tratto mai dalla massa anonima dei miei fratelli lavoratori, dei miei fratelli braccianti di Ceri- 38 gnola e della Puglia, se non fosse esistito, se non si fosse sviluppato, e non avesse lottato il movimento operaio organizzato... E’ vero, io ho avuto una inclinazione istintiva, naturale, allo studio; ma qui, davanti a voi, debbo confessare che lo stimolo più potente a studiare, a ricercare, mi è venuto dalle esigenze, dai bisogni quotidiani del nostro movimento, dei nostri primi circoli giovanili, dei nostri primi sindacati. Avevamo bisogno di comprendere perché avevamo bisogno di aprirci la strada e di aprircela con le nostre forze, i nostri mezzi, la nostra volontà, per uscire dallo stato di abbrutimento e di umiliazione in cui erano tenuti i lavoratori e conquistarci un destino migliore ». Queste parole furono pronunciate da Di Vittorio davanti a migliaia di lavoratori e a rappresentanze sindacali italiane e straniere, convenuti a La Spezia il 10 agosto 1952 per festeggiare il suo sessantesimo compleanno. L’infanzia e la fanciullezza di Di Vittorio sono anni di mis eria e di sofferenze. Il padre, salariato fisso in una grande masseria, muore di polmonite per aver voluto mettere in salvo il bestiame dell’azienda nel corso di un violento temporale. La madre, rimasta sola con i due figli, Stella di dodici anni e Peppino di sette anni, cerca di guadagnarsi il pane, lavando i panni dei vicini di casa. Ma le difficoltà sono tali che il fanciullo, nonostante le insistenze del maestro, che poco prima aveva premiato il suo profitto con un ambito riconoscimento, deve abbandonare la scuola, prima della fine dell’anno scolastico, alla seconda elementare. Il suo primo giorno di occupazione non soddisfa il padrone. Questi constata che fino al tramonto il ragazzo ha raccolto solo pochi chili di piselli e lo avverte che se l’indomani non avrà reso sufficientemente lo dovrà licenziare. Di Vittorio tiene ben conto dell’avvertimento, che amerà ricordare come « la prima lezione di economia » da lui appresa nella vita. Lavora come è necessario e a distanza di due mesi ottiene il primo ingaggio per la mietitura. Per la prima volta si allontanerà per settimane dalla famiglia e sperimenterà la vita collettiva della grande masseria pugliese. Allora i braccianti del Tavoliere lavoravano quattordici ore al giorno e l’unico pasto che somministrava il padrone era l’acquasale, consistente in un mestolo di acqua calda versata in una ciotola piena di pane nero, condito con poche gocce d’olio. Si è agli inizi del secolo. Al Nord lo sviluppo del capitalismo industriale e del capitalismo agrario crea già importanti fattori di aggregazione operaia che spingono il proletariato a organizzarsi e a lottare unito; nel Mezzogiorno, al contrario, la rara presenza di fabbriche e di moderne imprese agrarie capitalistiche, — nonostante l’unificazione statale, l’emanazione delle leggi eversive della feudalità, e la liquidazione dei beni dell’asse ecclesiastico — mantiene ancora uno stato di forte disgregazione. Non che nel Mezzogiorno non sia avviato il processo di decomposizione delle vecchie strutture e della vecchia organizzazione economica e sociale, ma ciò non fa posto in città ad imprese industriali e nelle campagne dà vita a una moltitudine di piccole e 39 piccolissime aziende contadine primitive, accanto a medie e grandi aziende di ex feudatari e galantuomini, che per struttura organizzativa e produttiva non si differenziano di molto dai vecchi feudi. Però a Cerignola e nel resto del Tavoliere le cose vanno ben diversamente. Anche in Capitanata, certo, la liquidazione dei diritti promiscui nelle campagne aveva portato alla distribuzione di una notevole quantità di terra a favore di braccianti e di contadini poveri. Dal 1806 al 1883 erano state eseguite quotizzazioni, conciliazioni e scioglimenti di promiscuità e di vincoli su 54.460 ettari e già alla fine di quel periodo risultavano assegnate 44.787 piccole quote. Però su buona parte della superficie di questa provincia aveva dominato per secoli uno speciale regime fondiario e anche di rapporti sociali, dovuto all’esistenza del demanio statale del Tavoliere, destinato dal 29 settembre all’8 maggio di ogni anno al pascolo delle greggi transumanti e sottoposto all’amministrazione della Dogana delle pecore di Foggia. Al tempo della sua liquidazione il Tavoliere si estendeva per 310 mila ettari, di cui 221.760 ricadevano in Capitanata e 98.240 in province limitrofe.Perciò nella vasta pianura foggiana non solo la consistenza dei beni feudali e dei demani universali era stata più limitata che altrove, ma la stessa proprietà privata, prima dell’affrancazione del Tavoliere, aveva avuta poca rilevanza. Lo Stato unitario, operando sulle orme dell’amministrazione borbonica liquidò l’estesissimo demanio senza tenere in alcun conto i bisogni e i diritti naturali e civili de lavoratori, ai quali negò qualsiasi possibilità di partecipare al riordinamento sociale ed economico del Tavoliere. Questo, in virtù di una serie dileggi approvate dal Parlamento nazionale tra il 1863 e il 1894, fu affrancato quasi interamente a favore degli armentari che lo tenevano in locazione, i quali erano in buona parte vecchi feudatari e galantuomini abbruzzesi. Ciò diede vita nella pianura foggiana e in vasti territori vicini a numerose grandi masserie. Sicché i braccianti, rimasti in gran numero senza terra e anche spogliati di antichi diritti, trovarono una base nuova di aggregazione, non riscontrabile nel resto del Mezzogiorno, oltre che nel tipico borgo pugliese, ove molti di essi erano concentrati con le famiglie, nella masseria, che nei periodi delle semine e in quelli dei raccolti doveva impiegarli in gran numero e sottoporli a un comune sistema di sfruttamento padronale. Particolarmente favorevole a un processo di aggregazione operaia e sociale è la situazione di Cerignola. Qui all’inizio del nostro secolo dominano cinque famiglie: Pavoncelli, Larochefoucauld, Berlingieri, Zezza e Palmieri, che con le loro grandi aziende determinano un rilevante sviluppo capitalistico nell’agricoltura della zona. La famiglia Pavoncelli, che è la più potente, dopo essere stata per anni l’arbitra incontrastata del mercato granario del regno di Napoli, dalla metà del secolo scorso fino all’epoca dell’affrancazione delle terre del Tavoliere, riesce a darsi nell’agro di Cerignola una vasta proprietà. Nel 1887 i suoi vigneti occupano una superficie di 2.191 ettari, i suoi oliveti hanno una consistenza di 150 mila piante, la sua industria armentizia è 40 ricca di 3.500 pecore di razza. Anche le altro quattro famiglie hanno proprietà molto estese. Di qui la funzione di punta che assumono i lavoratori agricoli di Cerignola e del resto del Tavoliere, chiamati a operare in un ambiente che, sotto l’aspetto dell’organizzazione e della concentrazione della produzione, somiglia più all’ambiente del Ferrarese, del Polesine e di altre parti della Valle Padana, che non a quello tipicamente meridionale. E’ in questa realtà che Di Vittorio impara a conoscere e a comprendere il lavoro salariato, che è condanna a orari estenuanti e a salari di fame, a uno sfruttamento insopportabile e a condizioni che debilitano il fisico e avviliscono moralmente, alla disoccupazione per lunghi periodi e alla soggezione più completa al padrone e ai suoi massari e mazzieri, all’impossibilità di fare intervenire a propria difesa il potere pubblico. Queste condizioni non solo esasperano lo spirito di rivolta dei braccianti, ma alimentano in loro, sia pure lentamente, la consapevolezza di una completa comunanza di interessi e la coscienza della necessità e della possibilità di esprimere una volontà comune di riscatto, di far valere cioè con l’organizzazione e con la lotta, come in tante parti del Nord, i loro diritti. La Capitanata aveva già nel passato preoccupato più seriamente che altre province meridionali la classe dominante, per le maggiori dimensioni che vi ebbe il brigantaggio postunitario, come fatto di resistenza e di opposizione al nuovo Stato. Uomini di governo e parlamentari, infatti, dovettero rivolgere proprio a questa provincia la maggiore attenzione, non solo intervenendo con un’azione repressiva più massiccia, addirittura spietata, ma anche cercando di approfondire con più impegno le cause storiche, sociali e ambientali del fenomeno. La Commissione parlamentare d’inchiesta u1 brigantaggio scopre che « su 375 briganti che si trovano il giorno 15 aprile (1863) passati alle carceri della provincia di Capitanata, 293 appartengono al misero ceto dei cosi detti braccianti » e deve riconoscere che la causa principale di ciò è da ricercarsi nel fatto che « ivi la proprietà è raccolta in pochissime mani... ed ivi il numero dei proletari è grandissimo ». Di anarchismo e di socialismo in più parti della Puglia si parlava già prima che iniziasse il nuovo secolo, ma si era trattato fino ad allora di iniziative di sparuti gruppi di uomini appartenenti ai ceti urbani, specialmente artigiani, cui erano mancate significative adesioni e partecipazioni di lavoratori della terra. Le stesse sortite del pugliese Carlo Cafiero e di altri seguaci di Bakunin, compreso il tentativo di iniziare da Castel del Monte l’insurrezione plebea, non fecero presa fra i braccianti e i contadini. Solo ad inoltrato Novecento le cose cominciano a cambiare e il proletariato agricolo, compiute le prime esperienze di sciopero e di organizzazione, va avvicinandosi alle idee del socialismo. E’ così che la bandiera dell’ideale e della lotta socialista passa dalle mani di modesti nuclei di ceti urbani, impantanati nel municipalismo, a quelle ben più salde di grandi masse di braccianti, impegnate in lotte sempre più 41 importanti per l’occupazione, l’orario di lavoro, l’accordo salariale e i migliori rapporti sociali. Di Vittorio non ha ancora compiuto i 13 anni quando, nel 1905, Cerignola fa il primo sciopero generale. Egli si astiene dal lavoro e prende parte alla grande manifestazione che si svolge al centro del paese. La cavalleria carica, uccidendo cinque lavoratori. Il più giovane di questi aveva l’età di Di Vittorio ed era suo amico. Nel primo anniversario dell’eccidio, all’età di 14 anni, davanti a una piccola folla commossa, Di Vittorio pronuncia il suo primo discorso per commemorare il ragazzo caduto. L’anno successivo fonda il circolo giovanile socialista, che in poco tempo raggiunge i 400 soci. Quel circolo non si interessa soltanto dei problemi dell’orario di lavoro e del salario dei ragazzi, ma anche della lotta contro l’alcoolismo, dell’istituzione di una scuola serale a spese del Comune e della soluzione di altri problemi riguardanti l’ambiente e il costume. Tra l’altro, il circolo decide di abolire il tabarro, soprabito invernale che indossano solo i poveri per distinguersi dai signori. Avviene così che, fra le proteste dei galantuomini e lo stupore degli anziani, Di Vittorio e altri giovani braccianti indossano per la prima volta il cappotto, come segno della loro volontà di cancellare ogni distinzione di classe. Lo stesso anno 1907, forte dell’influenza che ha fra i giovani, Di Vittorio entra nel direttivo della locale lega dei braccianti,. alla quale darà un contributo determinante nella preparazione di memorabili lotte. Egli sa trovare il tempo non solo per guadagnare il necessario per sé e la famiglia come bracciante e per assolvere ai suoi impegni di dirigente, ma anche per studiare.Quest’ultima attività deve compierla nelle condizioni più difficili, perché non ha denaro per acquistare giornali e libri e non ha persona che possa dargli consigli e aiuti. E’ cosi isolato nello studio, che solo dopo anni di letture scopre che esiste un libro che si chiama vocabolario, nel quale è spiegato il significato di ogni parola. Molti sono i braccianti che dai comuni vicini si portano frequentemente nelle campagne di Cerignola per lavorare in quelle masserie. Essi vengono a conoscenza dell’esistenza e dell’attività del circolo giovanile e della lega e perciò in poco tempo la popolarità di Di Vittorio travalica i ristretti confini del suo comune. Egli è invitato a recarsi in altre località, per parlare in assemblee e tenere comizi, per preparare e dirigere scioperi, per costituire circoli giovanili e leghe. Nel 1911 è così popolare a Minervino Murge, ove per merito suo esistono un circolo giovanile socialista e una lega di braccianti con 4 mila soci, che i lavoratori del posto lo eleggono segretario della Camera comunale del lavoro. In quello stesso anno, dopo un grande sciopero dei braccianti di Cerignola per la riduzione dell’orario di lavoro, Di Vittorio viene arrestato e sconta tre mesi di carcere. L’anno seguente è eletto segretario della Federazione giovanile socialista pugliese ed entra negli organi dirigenti sindacali baresi; quindi al congresso dell’Unione sindacale italiana è eletto componente del comitato centrale di quell’organizzazione nazionale. I sindacati influenzati da Di Vittorio aderiscono all’Unione sindacale perché non accettano la politica della Confederazione del lavoro, dominata dai rifornisti. Quella politica è giudicata accomodante e incapace di risolvere i problemi del movimento-sindacale del Mezzogiorno. 42 L’adesione di larga parte dei lavoratori agricoli della Puglia e di altre regioni al movimento sindacalista, definita da Gramsci « espressione istintiva, elementare, primitiva, ma sana » esprime anche l’illusione che il sindacato possa e debba da solo decidere della lotta per la trasformazione della società. L’adesione di Di Vittorio all’Unione sindacale italiana non è mai accettazione acritica delle sue decisioni e direttive. Quando si è alla scissione sindacale e si vuole che accanto alle Camere del lavoro e ai sindacati di categoria della Confederazione ne sorgano altri dell’Unione, egli si schiera decisamente contro questa soluzione e fa in modo che in Puglia i lavoratori si mantengano ancora uniti, decidendo a maggioranza di voti l’adesione dell’intera lega o camera del lavoro all’una o all’altra centrale sindacale. E quando nel 1913, in occasione delle elezioni politiche, la unione sindacale invita i lavoratori all’astensione, Di Vittorio non accetta l’invito e si impegna a fondo nella lotta elettorale, a favore del candidato socialista Gaetano Salvemini, di cui sono note le posizioni di critica alla politica dei riformisti del Nord. In quello stesso anno i lavoratori conquistano per la prima volta la maggioranza nel Consiglio comunale di Cerignola. Nel 1913 la Puglia conta 218 leghe di lavoratori, con 88.008 iscritti: più della Campania, della Calabria, degli Abruzzi e della Basilicata messe assieme, che contano 46.976 iscritti ai sindacati. Le leghe bracciantili da sole vantano nella regione 65.818 soci, più di quanti ne contino in qualsiasi altra regione italiana fatta eccezione dell’Emilia. Nella sola Cerignola, che è la roccaforte del movimento in Puglia, la lega dei braccianti già nel 1909 supera i 10 mila soci e il circolo giovanile socialista conta mille iscritti. Anche sul piano elettorale, cori l’estensione del suffragio, il movimento proletario pugliese è una grande forza. Nel 1913 i voti socialisti sono in tutta la regione 50.855, quasi la metà dei voti raccolti dal partito in tutto il Mezzogiorno continentale. La forza del movimento sindacale e operaio pugliese si fece sentire pienamente, nel 1914, in occasione della settimana rossa, alla quale i lavoratori della regione parteciparono con grandi manifestazioni e scioperi, indetti anche per la soluzione di rivendicazioni salariali. Furono colpiti da mandato di cattura numerosi dirigenti, fra i quali Di Vittorio, che perciò venne aiutato a espatriare clandestinamente in Svizzera, ove dovette trattenersi fino a quando, otto mesi dopo, non venne concessa una larga amnistia. Al suo ritorno in patria, la lotta fra interventisti e neutralisti aveva già portato profonde divisioni nel movimento operaio e sindacale, in ogni parte del Paese. Di Vittorio visse anche lui momenti di incertezze e di dubbi. « Anch’io — egli scriveva più tardi — per breve tempo ero rimasto scosso dall’argomento che occorresse distruggere gli imperi centrali per battere la reazione europea e realizzare il socialismo. Ma soprattutto mi illudevo che fosse possibile ancora salvare l’unità. La questione era troppo grave e la mia illusione scaturiva dalla mia debolezza ideologica e politica ». 43 Allo scoppio della guerra raggiunse il reggimento bersaglieri di Napoli e dopo poco il comandante del suo reparto, credendo che egli avesse il titolo di studio richiesto, lo avviò al corso per ufficiali. Di Vittorio, che aveva fatto presente invano di aver superato solo la terza elementare alla scuola serale, superò brillantemente il corso; ma, mentre era in attesa della promozione, giunsero al comando informazioni sulla sua condotta di « sovversivo », (e si seppe anche di un suo articolo pubblicato su « La scintilla » di Ferrara, con il quale aveva incitati i giovani della classe 1892, al momento della loro chiamata alle armi, a non sparare mai sui lavoratori) e perdette la possibilità di diventare ufficiale. Trasferito al fronte e gravemente ferito, non più idoneo alla Vita di trincea, a causa dei suoi precedenti politici fu assegnato a La Maddalena, poi in Sicilia e quindi in Libia, ove fu trattenuto fino al termine della guerra. Rientrato in patria, Di Vittorio riprende immediatamente il suo posto di lotta, come segretario della Camera del lavoro di Bari, alla testa dei lavoratori pugliesi, che nella drammatica situazione del dopoguerra sono costretti a grandi scontri con gli agrari e poi con le squadre fasciste da questi finanziate e armate. Arrestato e tradotto nelle carceri di Lucera nell’aprile 1921, il 21 maggio successivo viene rimesso in libertà perché eletto deputato. Le manifestazioni che si hanno a Lucera, a Foggia e a Bari al suo arrivo dopo la scarcerazione sono avvenimenti politici dei più memorabili. « Neppure quando si è sposato nella nostra città Vittorio Emanuele III — si legge nella corrispondenza da Bari de “La Voce Repubblicana” — si era vista una manifestazione tanto imponente ». A Cerignola, ove le elezioni erano state funestate dall’uccisione di nove lavoratori da parte delle squadre di Caradonna, che avevano imposto ai braccianti di non presentarsi alle urne, i fascisti lo bandiscono dalla città a mezzo di un manifesto, minacciandolo di morte. Appena lo sa, Di Vittorio si mette in treno per raggiungere il suo paese: qui la notizia del suo arrivo raccoglie una folla mai vista prima, che in buona parte pernotta all’aperto intorno alla sua abitazione, per difenderlo dai temuti attacchi degli squadristi. Lo squadrismo imperversa in tutta la Puglia con particolare accanimento. Le bande armate uccidono il deputato socialista Di Vagno e altri dirigenti e lavoratori e distruggono numerose sedi di organizzazioni politiche e sindacali. Di Vittorio in tutto questo periodo è alla testa di una resistenza accanita, promuovendo e presiedendo il comitato dell’Alleanza del lavoro e dirigendo gli « Arditi del popolo », che sono gruppi di lavoratori decisi a contrapporsi al fascismo con le armi. Egli capeggia vere e proprie battaglie, come quella che si svolge a Bari vecchia dal 31 luglio ai primi di agosto del 1922. La dolorosa esperienza di quel periodo fece maturare in lui il convincimento dell’insufficienza del partito socialista, indebolito da profonde divisioni interne e condizionato dai riformisti. Infatti, quando nel partito si costituì la corrente dei « terzinternazionalisti », favorevole alla fusione tra socialisti e comunisti, egli vi aderì. Successiva- 44 mente risultato infruttuoso il tentativo di fusione delle due forze politiche operaie, si iscrisse al partito comunista. Sul finire del 1925 fu arrestato. Restituito ai suoi nel giugno dell’anno successivo, per decisione del suo partito poco dopo espatria, sottraendosi così alla pena di dodici anni di carcere inflittagli dal tribunale speciale. All’estero Di Vittorio svolge un’attività intensissima. Dal 1928 al 1930 è in Unione Sovietica quale rappresentante della Confederazione del lavoro nell’internazionale sindacale. Poi è a Parigi, ove si dedica al lavoro di direzione della Confederazione del lavoro e all’attività di propaganda fra i lavoratori italiani in Francia. Nel 1936 è tra i primi a raggiungere la Spagna come combattente a difesa della repubblica. Rientrato a Parigi assume la direzione de « La voce degli italiani », quotidiano degli antifascisti in Francia. Nel 1939 anche in Francia inizia la caccia agli esponenti comunisti. Il giornale « La voce degli italiani » viene soppresso e Di Vittorio deve darsi alla clandestinità; il 10 febbraio 1941 viene scoperto e arrestato e, dopo un penoso peregrinare di carcere in carcere in territorio tedesco e poi in Italia, nel settembre successivo è avviato al confino a Ventotene, da dove viene liberato unitamente a tutti gli altri confinati politici nell’agosto 1943. Questa volta la libertà per lui deve durare solo pochi giorni, perché dopo l’8 settembre, ricercato nuovamente da tedeschi e fascisti, deve ritornare alla clandestinità. Viene catturato, ma il sottufficiale dei carabinieri, che lo traduce sotto scorta, lungo il tragitto si assume la responsabilità di rilasciarlo. Con la liberazione di Roma, Di Vittorio riprende finalmente l’attività legale, che inizia con un atto storico: la firma del Patto di unità sindacale, che è il coronamento di un mirabile lavoro compiuto nella clandestinità da lui e da autorevoli rappresentanti del partito socialista e della democrazia cristiana, per la costituzione della C.G.I.L. quale organizzazione sindacale unitaria dei lavoratori italiani. Di Vittorio difende il significato di quel patto anche nei momenti più difficili. Le scissioni sindacali lo addolorano profondamente, ma non intaccano la sua fede nella capacità dei lavoratori di ritrovare la via dell’unità. E’ per questo che egli le fronteggia con spirito fortemente unitario. Preoccupato di limitarne il più possibile il danno, non cede mai alla tentazione di condurre la polemica fino a compromettere la possibilità di nuovi incontri e intese. Quando ad altri appare impossibile il più modesto accordo fra sindacati di diverso orientamento, egli pazientemente e insistentemente cerca di dimostrarne la necessità e la possibilità. Quando a molti suona predica astratta parlare della possibilità del ritorno al sindacato unico, Di Vittorio ripropone la questione ai lavoratori e ai dirigenti di ogni tendenza come problema che si può e si deve affrontare, sia pure con gradualità. Una costante di tutta la vita di Di Vittorio è questa sua azione per l’unità sindacale dei lavoratori, che egli considera non solo il primo presupposto di successo delle rivendicazioni sindacali, ma anche un 45 fattore importante per lo sviluppo economico e sociale del Paese e per il consolidamento della democrazia. Questa concezione dell’unità e della funzione del sindacato porta Di Vittorio a spingere l’interessamento e l’iniziativa dell’organizzazione sindacale oltre i problemi strettamente rivendicativi delle categorie, fino ai temi più diversi interessanti la nazione e le strutture economiche, sociali e statuali del Paese. Convinto che il sindacato debba sempre preoccuparsi di inquadrare la sua azione in una visione generale degli interessi dei lavoratori e della società, egli è deciso e fermo nel combattere ogni posizione che gli appaia particolaristica, corporativa, demagogica. Si preoccupa che qualsiasi rivendicazione, prima che sia assunta come motivo di azione sindacale, venga valutata in rapporto non solo all’interesse dei lavoratori per i quali è proposta, ma anche all’interesse generale; così come si preoccupa che una qualsiasi forma di lotta sindacale, prima di essere adottata, sia valutata anche in rapporto alle reazioni che può suscitare nell’opinione pubblica. Perciò i suoi discorsi, tanto se pronunciati nelle riunioni sindacali quanto se pronunciati nelle piazze e al Parlamento, contengono sempre un forte accento umano, che tocca profondamente chiunque sia interessato al progresso della società; essi danno ad ogni rivendicazione e ad ogni azione sindacale il valore difatti interessanti la collettività. Tutta l’opera di Di Vittorio dal 1945 al 1957 risente fortemente delle esperienze da lui accumulate durante un lungo e molto travagliato periodo della storia italiana. E’ per questo che con il ricordo di una vita esemplare e prestigiosa, tutta spesa al servizio dei lavoratori e della democrazia, Di Vittorio ha lasciato tracce profonde nella realtà del Paese e nella coscienza degli italiani. MICHELE MAGNO 46 Puglia linguistica Un nuovo atlante fonetico per la Regione CAPITOLO I: Principi e metodo I. 1 - Il metodo che va integrato. L’Atlante fonetico pugliese nella redazione nuova, che andiamo concludendo sotto gli auspici (non sempre generosi e continuativi) della Discoteca di Stato e del C.N.R., è nato come continuazione e come completamento dell’atlantino regionale del 1955, che si era limitato alle province di Foggia e Bari1 . Nella nuova redazione saranno comprese le restanti province pugliesi, cioè a dire quelle di Brindisi, Taranto e Lecce. Strada facendo, ci si è accorti che andavano rifatte anche le parti che riguardavano le province già servite, perché si era andata chiarendo la necessità di far ricorso a una metodica e a un’impostazione diversissime. Negli atlanti degli anni 55 (oltre quello pugliese ricorda quello lucano)2 eravamo partiti da un materiale in certo qual modo precostituito, ossia dall’esame delle reazioni dei vari dialetti a un determinato numero di fatti fonetici riuniti in poco più di un centinaio di paragrafi. Un metodo del genere (a sfondo tutto grammaticale) oggi non lo ripudiamo. Anzi lo stimiamo essenziale per la illustrazione della genesi e della diffusione di un fenomeno. Occorre però integrarlo in maniera che la ricerca possa essere spostata anche al di là dei paragrafi preventivati. Bisogna perfezionarlo per un esame ancora più diretto e più completo della realtà, la quale costituisce l’oggetto essenziale della ricerca dialettologica3 . 1 M.MELILLO, Atlante fonetico pugliese. Parte I e II: Capitanata e Terra di Bari, San Marcello, Roma, 1955. 2 ID., Atlante fonetico lucano, San Marcello, Roma, 1955. 3 Si utilizza diffusamente quanto abbiamo già scritto altrove: nella Premessa al Sussidiario per il raccoglitore della Carta dei dialetti italiani. Napoli 1966; in Materiali nuovi per una carta nuova, Messina, 1965; ed. 47 I.2 - Lo svolgimento del metodo storico-geografico. Per quanto la geografia linguistica sia naturalmente disponibile per indagini sempre vivaci e nuove, è innegabile che non ancora si sia riusciti a liberare le nostre inchieste di quella parte di razionalità che le minaccia pesantemente già prima di avviarle. Da una parte il materia e linguistico eternamente vivace ed imprendibile, dall’altra il ricercatore che lo incatena per mortificarlo. Lo stesso Gilliéron, che aveva proclamato il principio della varietà e della individualità delle istantanee4 , ha poi devitalizzato tanta parte delle sue ricerche ordinando il materiale raccolto alfabeticamente, come una serie di pezzi destinati alla collezione di un museo linguistico. L’AIS (l’Atlante di Jaberg e Jud)5 , l’ALI (l’Atlante già diretto da B. Terracini)6 , 1’ALEC (quello linguistico-etnografico della Corsica)7 e i vari Atlanti del territorio romanzo e non romanzo (ad esempio lo stesso Atlante slavo ancora in elaborazione) hanno aumentato questo accostamento alla realtà, ordinando i materiali ideologicamente o anche al contatto diretto con la realtà etnografica (ricorda a questo proposito l’azione del Gardette attraverso i suoi Atlanti regionali)8 . I.3 - La necessità di studiare un testo libero ed ampio. Va fatto però ancora un passo avanti. La frase da tradurre o anche la risposta, provocata con una domanda indiretta oppure con l’indicazione diretta di un oggetto, possono servire a darci un saggio più o meno abbondante di una parlata. Ma vi è sempre un qualcosa di rimediato, qualcosa che sa di accostamenti molto approssimativi. Il discorso è appena iniziato. E può aver termine soltanto in un’esposizione che sia espressa liberamente ed ampiamente. Oggi abbiamo il soccorso della tecnica. Vi è il magnetofono che finalmente ci consente di poter ritrarre tutto il parlato, la realtà piena del parlato. La linguistica deve tener conto della possibilità di studiare un testo intero, ultimamente nella relazione su Tentativi per una geografia linguistica più avanzata presentata al XII Congresso di linguistica e filologia romanza nell’aprile del 1968 a Bucarest. 4 J. GILLIERON, Généalogie des mots qui désignent l’abeille, 1919 (pp. 3-5). Non dimenticando naturalmente il suo fondamentale Atlas unguistique de la France, 1902. 5 K. JABERG-J. JUD, Sprach-und Sachatlas Italiens und der Siidschweiz, Zofingen, 1928 e ss. 6 M. BARTOLI-G. VIDOSSI, Atlante linguistico italiano (in corso di pubblicazione a Torino). 7 G. Bottiglioni, Atlante linguistico-etnografico della Corsica, Pisa, 1935. 8 P. GARDETTE, Atlas linguistique et ethnographique du Lyonnais (ora in ristampa sotto gli auspici del C.N.R.S.), a cui si affiancano J. SÉGUY, Atlas linguistique et ethnographique de la Gascogne e P. NAUTON, Atlas unguistique et ethnographique du Massif Central (sempre sotto gli auspici del C.N.R.S.). 48 in cui siano espressi non solo fatti noti (fonetica, morfologia e lessico), ma anche fatti poco esplorati (la sintassi), o anche fatti non ancora esplorati (la parte emotiva del parlante: la sua accentuazione, il ritmo, le sue varianti, le sue incertezze, le sue oscillazioni, la sua umanità). I. 4 - La scelta del testo. Siamo così arrivati alla conclusione che avremmo dovuto impostare il prosieguo dell’Atlante fonetico pugliese partendo da un testo completo. E la scelta è caduta sulla parabola del figlio! prodigo (una scelta indovinata a giudicare dalle preferenze che ora le danno la Discoteca di Stato e la Carta dei dialetti italiani). Al caso nostro l’ideale sarebbe stato quello di assicurare dei testi liberi, dei testi, che, nati dalle particolari disponibilità ambientali, riproducessero una parlata pienamente libera. Avremmo dovuto registrare tutto il registrabile, preoccupati soltanto della bontà e della sincerità del materiale. Una ricerca ideale, che per giunta non consentirebbe di preventivare un orientamento già prima che ci si muova. I. 5 - Il criterio della comparabilltà. Purtroppo si è dovuto fare qualche concessione. Il ricercatore privato o isolato che dir si voglia può anche concedersi il gusto di esperimentare delle vie di cui non si conosca proprio nulla della loro uscita, ma quando si tratta di avviare o di stendere un piano di lavoro che si presume di ripetere in altre regioni, è necessario che venga indicato, a titolo puramente orientativo e senza preventivare comunque nessuna conclusione, un termine di raffronto o di comparabilità, che ci consenta di collocare nello spazio e nel tempo parlate e varietà di domini linguistici diversi. I. 6 - Una comparabilità reale. Dobbiamo senz’altro mantenere salvo il principio della comparazione. Ma dobbiamo anche garantirci contro il rischio di una comparazione puramente grammaticale o molto astratta.Una frase, una parola o anche il più semplice fonema hanno un significato reale, solo quando provengono da un discorso effettivamente svolto e quando sono studiati in relazione al posto particolare che essi occupano nel complesso del discorso. Perché, come da tempo ci ha ammonito il Castiglione, “il dividere le sentenze dalle parole (ossia dall’ambientazione esatta da cui traggono origine parole e suoni) è un dividere l’anima dal corpo”9 . 9 B. CASTIGLIONI, IL Cortegiano, I, 33. 49 I. 7 - L’individualità del parlante. Stabilita la necessità o anche la convenienza di fare scaturire lo studio da un tessuto discorsivo reale e comparabile, resta da prendere degli accorgimenti per assicurarsi la genuinità ossia l’individualità del testo da esaminare. Un suono o una voce o una forma o un costrutto che fossero considerati in un discorso con contenuto storico o logico completo, ma non fossero espressi liberamente ossia spontaneamente, resterebbero sempre dei materiali inutilizzabili. Bisogna assicurarsi un testo che nasca sotto la spinta del mondo sentimentale dell’individuo. Occorre raccogliere un’esposizione che porti con sé tutto il particolare calore del parlante, la ricchezza e la vivacità della sua lingua. Fermatici sulla parabola, ci si è dovuti preoccupare di far produrre una parabola che fosse stata vissuta per intero con le immagini e le impressioni, che sono proprie della lingua della persona che si è voluto fotografare. I. 8 - La tecnica della rivelazione. Prima di raggiungere la località previs ta per la rilevazione, in genere, è stato fatto recapitare alla persona indicata dal Sindaco o da qualsiasi altro il testo italiano da tradurre. L’esperto, o quello che tale è ritenuto nella reputazione pubblica, prepara una sua traduzione che trascrive o fa trascrivere, a modo proprio, e tante volte la fa trovare già bella e pronta su nastro magnetizzato. E’ veramente molto difficile che queste traduzioni possano essere utilizzate come edizioni definitive. In queste traduzioni vengono riversate delle ricercatezze lessicali individualissime, che non sempre trovano rispondenza nell’uso comune; o anche vengono ripetuti gli stessi costrutti del testo italiano fonetizzati su degli elementi o su dei vezzi canzonatori, che sono sempre dei fatti molto individuali e per niente presenti nella realtà di una parlata abituale e spontanea. La condanna di questa prima traduzione degli esperti te la forniscono gli altri parlanti, che trovano da ridire su quel suono, su quella parola o su quella frase. “Da noi non si dice così”, è il giudizio che raccogli immediatamente. Quindi negli altri si va formulando una traduzione più esatta. Fino a quando l’interesse della cosa non aumenta e prende qualcuno dei presenti, che ormai ha capito tutto, e cosi la parabola può dirla tutta, a modo suo, senza la preoccupazione di leggerla. I. 9 - La migliore traduzione. Il testo migliore è senza dubbio nell’esposizione accalorata di chi si è fatto coraggio e vuole essere registrato. Non vi è alcun impaccio. Né la suggestione del microfono, né il passaggio obbligato di certi costrutti, di certi forzamenti, di certe espressioni un po’ troppo astratte e pertanto lontane dalla realtà, dalla sostanzialità e dalla concretezza 50 della lingua parlata. Vengono fuori delle aggiunte di colore come quella iniziale del “C’era una volta”, come quella del padre “che spia il figlio da una loggia della casa” (là dove la parabola parla solo di un padre che lo “vede arrivare”), o quella del “secchio che è arrivato fino alle pietre, fino al fondo del pozzo” per dire del figliol prodigo “che aveva dissipato ogni sostanza”, o quella conclusiva dei fratelli “che fanno la pace” (là dove la parabola chiude l’episodio a mezzo, quasi senza concluderlo). I. 10 - L’episodicità della parabola. Abbiamo delle aggiunte. Ma queste sono soltanto apparenti. Nella sostanza il fatto non cambia. Sono le espressioni, le immagini che cambiano. Ed è necessario che questo avvenga, se si vuole ottenere una traduzione che non distrugga il veramente vitale o il veramente individuale di una parlata. Cambiano le parole, vengono fuori delle immagini nuove, ma l’episodio, il fatto è lì nella sua interezza. Anche perché, per buona fortuna, la parabola è congegnata episodicamente, in maniera tale che, volendola ripetere in una lingua diversa o anche in un ordine diverso, sei costretto a ritornare su tutti i particolari episodici, a tradurre cioè ordinatamente tutti i versetti, che rappresentano i momenti necessari di tutta la narrazione. Insomma anche nella traduzione libera sono salvi tutti i costrutti richiesti per avviare un lavoro di riferimenti e di comparabilità. I. 11 - La nozione di atlante. Siamo cosi arrivati ad una raccolta di testi. E sarebbe stato di conseguenza più facile pensare alla nozione di un’antologia che a quella di un atlante. A qualcosa come i testi dialettali raccolti da un Salvioni10 , da un Biondelli11 , da un Battisti12 , o ancora prima da uno stesso Papanti13 . Ma la prevalenza dell’interesse geografico (almeno per la distribuzione topografica dei centri da studiare) e la stessa prospettiva di stendere direttamente delle carte, o anche di favorirne la stesura da parte di altri, ci hanno bloccati all’idea di fare un’opera linguistica su di un piano fondamentalmente geografico. Oggi poi che la geografia 10 C. SALVIONI, Versioni varie centrali e meridionali della parabola del figliol prodigo trat te dalle carte del Biondelli, in Rend. Ist. Lomb., 48; ID., Versioni alessandro-monferrine e liguri della parabola del figliol prodigo, in Rend. Acc.Lincei, vol. 15, fs. 8, 1918. 11 B. BIONDELLI, Saggio sui dialetti gallo -italici, 1853 (versioni della parabola del figliol prodigo pp. 36-55; 224-246; 505-556). 12 C. BATTISTI, Testi dialettali italiani, in Beilzefte 49 e 56 della Zeit scl-zrift fiir rom. Philologie, 1914 e 1921; ID., Testi dialettali it aliani, edizione minore, 1921. 13 G. PAPANTI, I parlari italiani in Certaldo alla lesta del V Centenario di Messer Giovanni Boccaccio, Livorno, 1875. 51 linguistica è penetrata fin nei “testi medievali e trattati scientifici rinascimentali” 14 , come non si dovrebbe preferire la nozione di atlante per una serie di rilievi che sono stati ordinati in una dislocazione squis itamente topografica? I. 12 - L’lntitolazione dell’opera. Poche parole ora per chiarire come possa essere definito un atlante con materiali linguistici del genere. Va subito detto che un atlante fonetico inteso ad evidenziare soltanto dei fatti fonetici, cosi come era nei propositi iniziali, non è più possibile ottenerlo, una volta presupposta l’essenzialità di un testo completo che interessi in uno stesso tempo tutti i settori grammaticali. D’altra parte non sarebbe possibile ottenerne con gli stessi materiali uno che fosse soltanto morfologico, o soltanto lessicale, o soltanto sintattico. Probabilmente meglio sarebbe stato intenderlo come atlante linguistico pugliese. Ma perché una qualificazione del genere, chiaramente ambiziosa, non confondesse la modestia dei nostri intenti con l’aspettativa di una vera e propria enciclopedia linguistica regionale, si è stimato opportuno ripiegare sulla qualificazione di origine. In fondo motivatamente. Si sa bene che da un punto di vista teoretico vi sono dei settori grammaticali (e ci si riferisce in special modo a quelli di ordine sintattico, i più tenacemente legati al segreto del nostro pensiero), che possono interessare ancora più dei fatti fonetici. Ma nella difficoltà di trovare una limitazione che definisse compiutamente i termini dell’opera, è parso giusto insistere sull’aspetto fonetico, perché i materiali da cui si parte oltretutto sono indiscutibilmente ‘fonici’ e sono riversati su testi in trascrizione fonetica (come si dirà subito), e perché in ultima analisi ogni materiale linguistico, prima di assumere una qualsiasi funzione, è un fatto sostanzialmente fonetico. I. 13 - L’organizzazione dell’opera. L’opera non è nata con degli indici e con dei capitoli predisposti in partenza, ma si è andata organizzando da sé col peso del materiale che si veniva gradualmente accrescendo, nell’ordine che il proposito della ricerca (la produzione di un parlato sincero nel dominio di un’intera regione) ha imposto di tempo in tempo, di tappa in tappa. Primo tempo: quello della registrazione. Secondo tempo: quello della trascrizione del registrato. Terzo tempo: illustrazione dell’ambiente dal quale è stato tratto il parlato. E da ultimo un elenco dei fatti e dei suoni da 14 Si rinvia alla relazione fatta da G. FOLENA su Geografia linguistica, testi medievali e trattati scientifici rinascimentali al Convegno ai Lincei nell’ottobre del 1967. 52 mettere a disposizione degli studiosi. Quattro tempi che corrispondono più precisamente alle quattro parti dell’opera complessiva: 1) un archivio sonoro; 2) un’antologia di testi; 3) un commento-guida; 4) un glossario generale. I. 14 - L’archivio sonoro. Consiste nei materiali che sono stati registrati e che sono stati destinati alla redazione dell’Atlante fonetico pugliese. Assommano ad 84 parabole, tante quanti sono i centri prescelti per l’intero dominio pugliese (in ragione di un terzo sul numero complessivo dei comuni della regione). Detti materiali sonori attualmente sono consultabili in edizione originale presso l’Archivio linguistico-musicale della Discoteca di Stato in via dei Funari a Roma 15 ed in copia (ottenuta da riversamenti diretti) presso il Centro di rilevazioni etnofoniche16 (dislocato attualmente nelle scuole nuove in Viale dei Pini al Lido di Siponto). A richiesta dello studioso, la Discoteca di Stato e il Centro di rilevazioni etnofoniche sono in grado di rimetterti immediatamente il nastro contenente la voce o la parlata che può interessarti. I. 15 - I testi. Tutti i nastri, che sono stati prescelti ed ordinati per l’archivio sonoro dell’Atlante, successivamente sono stati riascoltati e trascritti, utilizzando i segni diacritici suggeriti da C. Merlo per la rivista L’italia dialettale17 . Non sono state introdotte delle lettere particolari. Ma è stato fatto un largo uso dei segni sottoposti alle vocali (il puntino per indicarne la chiusura, lo spirito aspro per l’apertura, e il cerchietto intero per indicare l’affievolimento) e alle consonanti (il puntino per la serie delle cacuminali siculo-salentine), ed un uso altrettanto abbondante di segni sovrapposti alle vocali (due puntini per le palatilizzazioni e un cerchietto per le velarizzazioni) o alle consonanti (il circonflesso capovolto per gli schiacciamenti e le palatalizzazioni). Altri accorgimenti particolari (sovrapposizione di due vocali o di due consonanti per indicare la coincidenza di due suoni diversi, la ripetizione dei segni sottoposti e sovrapposti per accentuare il grado del fenomeno denunciato, ecc.) sono intesi a facilitare la lettura o anche a richiamare l’attenzione dello studioso sul fenomeno, che può essere diagnosticato ancora meglio, facendo ricorso all’ascolto del testo, direttamente dal materiale registrato. 15 16 17 Discoteca di Stato, Archivio etnico, linguistico-musicale, catalo go 1967. Cf. in Orbis, VII, 1956, pp. 239-42. Vol. I, 1 e ss., III, 1 e ss. 53 I. 16 - Il commento. La terza parte dell’opera è dedicata al commento illustrativo: su particolari segni adoperati, su particolari suoni, su particolari cadenze, sulle condizioni in cui la fonte ha parlato, sulla provenienza sociale della fonte, e sugli interessi, che una traduzione dialettale ha suscitato negli interventi del pubblico presente alla registrazione od anche al riascolto. Il commento è puramente descrittivo. Le conclusioni di ordine storico non sono state espresse, neppure quando l’esposizione dei fatti le ha angolate in una direzione ormai inequivocabile. I. 17 - Il glossario. La quarta ed ultima parte consiste in un glossario, in cui sono registrate le concordanze di tutti i termini e di tutti i Costrutti che sono stati incontrati nel testo. Con lo stesso rigore che si richiederebbe per un lavoro di filologia. Ed ora ci si domanderà: ma le carte dell’Atlante dove sono andate a finire? Le carte del tipo di quelle su cui ci siamo andati esercitando, le stenderanno gli altri, o le stenderemo noi stessi. Ma a questo punto il compito dell’Atlante può dirsi compiuto.La carta è un fatto esteriore, è un esercizio di lavoro personale, che non si ha il diritto di imporre come sintesi di ritrovati sinceramente scientifici. Il ritrovato sincero è posto nel lemma del glossario, dove troverai indicati suoni, voci e costrutti, e per ognuno di questi fatti il rinvio ai testi di origine, che tu puoi controllare rileggendoli o riascoltandoli nell’interezza della frase o del racconto completo. Il raccoglitore ha compiuto la sua parte, creandoti le condizioni per sviluppare il tuo lavoro. Toccherà a te storico della lingua ricostruirti la carta, nella composizione della quale al ricercatore resterà soltanto il merito di averti messo in condizione di conoscere come è nata e dove e nata la parola su cui tu vai indagando. La prospettiva di un ulteriore progresso della geografia linguistica è posta tutta in questo richiamo alla vivacità e alla molteplicità della realtà linguistica, che non può essere contenuta in una serie di carte diventate ormai volutamente sempre le stesse, e che aspira a liberarsi di ogni limitazione concettuale, investendo il fatto linguistico non più negli aspetti parziali (carte fonetiche, carte morfologiche, carte lessicali, atlanti linguistico-etnografici, ecc.), ma nella sua interezza, che si rivela a noi soltanto in un testo che sia stato detto liberamente ed ampiamente. MICHELE MELILLO L’A. ci ha gentilmente concesso di pubblicare questa primizia di un suo testo, che sarà pubblicato l’anno venturo nelle collane del C.E.S.P. 54 S. Domenico e la cappella de «la Maddalena» in Manfredonia ∗ Mi piace innanzi tutto citare, per quel suo tono che tradisce l’emozione della scoperta, e per un suo stile vecchiotto, ma per bene, onesto, di intellettuale d’altri tempi, una lettera del sindaco di Manfredonia, dott. Pietro Guerra, inviata il 29 novembre 1895 al direttore dei monumenti antichi presso il Ministero della Pubblica Istruzione. In essa vi si dà notizia che il 15 dello stesso mese il custode delle carceri, lavorando una aiuola « pertinente alla propria casa, scorse la cima di un arco gotico, dal quale scavando la terra, venne fuori una nicchia con l’effigie del Cristo morto nel punto in cui la Maddalena lo pose nel sepolcro. Fatte quindi altre escavazioni, a dritta ed a manca, nel muro prospiciente ad oriente furon trovate delle pitture a fresco che, a giudizio di persone competenti, son degne di essere custodite. Si sono quindi scoverte le quattro colonne che sostener dovevano la volta e si è pure scoverto un arco maestro di stile gotico, che sebbene restasse nascosto sotto un muro della Chiesa di S. Domenico, è tuttavia degno di ammirazione. Gli scavi sono proceduti fino alla profondità di circa ∗ Nel corso del 1967, tra le altre iniziative del Centro di cultura popolare e biblioteca ‘Antonio Simone’ di Manfredonia, si svolse un primo ciclo di conversazioni con visite guidate: « Alla scoperta della Città ». Pubblichiamo quella del vice segretario del Comune, rag. Nicola De Feudis, cultore di studi locali, che ci ha gentilmente fornita la fotografia del protale di S. Domenico (quelle degli affreschi, tratte dall’archivio iconografico del Centro, provengono dallo Studio di Umberto Va lente). 55 3 metri, dopo di che si è visto il pavimento e, sotto ad esso, si son scoverti antichi sepolcri ». Così la lettera, la quale alla descrizione della « scoverta »premette la leggenda di Manfredi che, superato il grave pericolo di un naufragio, sbarca a salvamento proprio in questo sito ove, per sciogliere un voto, innalza la Cappella. Si sarà anche notato come il nome di « Cappella della Maddalena » sia stato attribuito al monumento dallo stesso sindaco Guerra che, nella figura femminile che sorregge il Cristo morto, ritenne raffigurare la Maddalena, più precisamente Maria di Magdala. Il nome così disinvoltamente coniato rimase poi acquisito, senza contrasti, nella corrispondenza ufficiale che si protrasse fino ai primi anni del nuovo secolo tra Comune ed uffici ministeriali, e nelle citazioni di quanti si occuparono del monumento. Comunque, si trattò di un felice ritrovamento che confermò, in sieme alla testimonianza del portale, l’erezione di un tempio di stile gotico sulle mura prospicienti la marina, nella seconda metà del XIII secolo, prima o contemporaneamente all’altra chiesa trecentesca di S. Francesco. Sono gli ultimi bagliori artistici di questa terra, prima che inizi il secondo oscuro medio evo. Ma si tratta davvero di una chiesa di stile gotico? E chi la volle: Manfredi o l’Angioino? Lasciamo stare per un momento le leggende, e tentiamo innanzitutto un’analisi estetica del monumento, o, per essere più precisi, dei resti del monumento primitivo, l’elegante portale e la Cappella, poiché, come è noto, l’interno di S. Domenico è un modesto rifacimento posteriore. L’archivolto del portale è a sesto acuto con timpano probabilmente affrescato (oggi vi figura una graziosa Madonna del Rosario di buona ma recente fattura); i capitelli a calice sono realizzati con foglie e volute ripiegate a valve con preminenti fini decorativi e di eleganza; le due colonne laterali già esili, sono ulteriormente alleggerite e impreziosite da due profonde scanalature che simulano un insieme polistili. Pilastri con semicolonne addossate troviamo anche in angoli della cappella, e ricchi capitelli a foglie stilizzate ed appuntite sotto l’arcone ogivale, e tracce di costoloni o nervature per l’impostazione della 56 S. DOMENICO E LA «MADDALENA» IN MANFREDONIA S. DOMENICO E LA «MADDALENA» IN MANFREDONIA IL CENTRO SERVIZI CULTURALI DEL GARGANO CELEBRAZIONE GIORDANIANA DI FOGGIA volta a crociera; ed ancora l’edicola o nicchia con manofora trilobata assolutamente di gusto gotico. Ma, nel contempo, non può sfuggire in facciata la presenza di due leoni stilofori (non saranno stati presi a prestito da altro portale?) ed il falsò protiro con ornamento di palmette ricurve, tanto care agli architetti romanici, la cornice di una finestra a rosone, ed un frontone a spioventi moderati sotto il cui finimento la mia fantasia vede una fuga di architetti pensili. Siamo dunque di fronte ad un monumento nel quale sono numerosi ed evidenti gli elementi del nuovo stile, quello gotico, ma forti sono ancora i richiami del glorioso romanico, così consono allo spirito ed alla tradizione locali. E’ questa, insomma, una opera di transizione, di rielaborazione del romanico in omaggio al nuovo gusto più raffinato e più agile, ma meno espressivo e meno spontaneo, che va diffondendosi per l’Europa cristiana. Di questo stile saranno ormai le nuove chiese di Capitanata e di Puglia, come S. Francesco di Manfredonia e di Lucera, come S. Domenico di Taranto e tante altre più note e meno note. Cosa dire degli affreschi nella così detta Cappella? I soggetti sono estremamente chiari: una Pietà notevole per sincerità ed efficacia di espressione, un ingenuo albero genealogico di Maria, un drammatico gruppo della madre con Bambino, la quale ostenta presaga una croce ad un santo vescovo (S. Nicola?), un S. Domenico infine che sorregge una chiesa nella destra (e la storia ci dimostra quanto questa immagine sia Calzante). Non ne conosciamo l’autore, né possiamo azzardare un nome. Essi non sono di fattura eccelsa, denunciano anzi un primitivismo comp ositivo, prospettico ed anatomico, direi quasi popolare, ma costituiscono pur sempre un apprezzabile tentativo di svincolo dalla tradizione bizantina, una libera espressione d’arte pittorica, che solo Giotto, il quale nasceva proprio in questo torno di anni, saprà affermare e valorizzare. Ma chi, dunque, ha il merito di questa chiesa? Manfredi o Carlo? Chi il costruttore? Occorre chiedere un aiuto alla Storia. Sappiamo che il decreto « Datum Orte» è del 1263, che nel 1266 Manfredi scomparve nella battaglia di Benevento. Sappiamo anche che alla sua morte solo un paio di torri quadrate del Castello erano state impostate e forse compiute, e qualche tratto delle mura lungo il mare. 57 L’Arcivescovo permaneva ancora a Siponto, e vi rimarrà ancora per molti anni, per mancanza nel nuovo centro di una cattedrale e di una sede arcivescovile. Ma vi era già una zecca, vi era qualche palazzo come quello « apud siclam » del conte Manfredi Maletta, e vi era già la famosa campana, per la quale Manfredonia ha goduto e forse gode tuttora una particolare notorietà. Manfredonia, dunque, alla morte di Manfredi c’era e non c era: tutto, o quasi tutto, era in fieri. Carlo primo d’Angiò del resto ordinava ancora, qualche anno dopo, al Secreto di Puglia di porre a disposizione del « magister carpentarius », facendole pervenire da Trani, « omnia lignamina» ed « omnes scalas ligneas... que sunt apud Sipontum novellum ». Essa era dunque un cantiere, un grande cantiere se vogliamo. E’ può anche darsi che Manfredi, lo scomunicato pensasse, tra le prime cose a costruirsi, ad una chiesa in questa sua città ch’era più nei suoi sogni che nella realtà. Ma certamente egli non poté portarla a compimento; la meravigliosa campana non poté ancora essere issata su di una torre campanaria. Senza dire poi che Manfredi avrebbe potuto approvare la volta a crociera e gli arconi a stesso acuto, la monofora trilobata e le nervature (essi sono già presenti a Castel del Monte), ma quel portale no: era troppo lontano dal suo ideale artistico, imperiale e romano. Sarà invece il francese Carlo primo, e suo figlio dopo, a portare a termine il tempio. in uno col Castello e la cinta muraria (tutto però in dimensioni più ridotte rispetto ai programmi del Fondatore). Egli infatti, dopo alcuni anni di profondo rancore verso il grande rivale alla cui memoria attribuisce rivolte ed insurezzioni, e quindi di avversione verso tutto ciò che lo ricorda, in particolare questa città che addirittura ne porta il nome, si rende conto della preziosa funzione che Manfredonia può assolvere, sia nei piani difensivi e sia anche in quelli di espansione verso l’altra sponda dell’Adriatico, e ne decide il completamento e lo sviluppo. E’ stato accertato che con diploma del 3 aprile 1278 egli concede in appalto al maestro Giordano di Monte S. Angelo la costruzione della cinta muraria, dandogli la facoltà di disporre di tutte le pietre sparse per la Città, e in particolare nella ruga detta del Conte e di tutto il materiale lapideo esistente in Siponto. Rinuncia perfino alla pretesa di cambiare il nome di Manfredonia in quello di « Sipontum novellum », e finisce per seguire con un fervore insospettato l’esecuzione delle 58 opere pubbliche di questo meraviglioso nuovo centro marittimo, sollecitando, raccomandando, punendo gli operai che disertano i lavori e, ciò che più importa, controllando di persona. L’Angioino, è qui dal 21 al 24 ottobre 1277, poi dal 23 al 26 ottobre 1278, ed il 9 e 10 del novembre dello stesso anno, ed ancora altre due volte nel 1279, e poi nel 1280 e ancora nel successivo 1281. Abbiamo fatto poc’anzi un nome: Giordano da Monte Sant’Angelo. Chi era costui? Era uno degli allievi di Bartolomeo da Foggia, apprendista presso la fabbrica di Castel del Monte, autore del campanile di Monte Sant’Angelo, maestro architetto di grande e riconosciuta capacità, imprenditore sagace ed energico. Egli era, come abbiamo detto, presente a Manfredonia per grossi compiti costruttivi, commessigli dal re Carlo I. Perchè non pensare a lui quando ci chiediamo chi ha costruito S. Domenico? Petrucci ce lo dà per certo; e non sarò io a contraddirlo. A Monte duravano tuttora le vecchie gloriose scuole artigianali dei maestri della pietra, depositarie di mille preziosi segreti costruttivi, specie nel voltare. Oggi, come s’è innanzi avvertito, rimangono alcuni elementi dell’antico tempio, insufficiente perfino, senza adeguati saggi, per una ricostruzione ideale planimetrica e strutturale. Qualcosa conviene qui aggiungere a proposito dell’altra parte trecentesca del complesso edilizio di S. Domenico: il convento. Un primo nucleo dell’edificio, costruito sulle mura di cinta cittadine, in aderenza alla trecentesca cappella della Maddalena da molti anni adibito e sede degli Uffici sanitari e della Pretura (nel primo trentennio di questo secolo adattato a scuola elementare), fu realizzato per volere dell’Arcivescovo Andrea De China, già canonico sipontino carissimo a Carlo II d’Angiò, come avverte Mastrobuoni, ed inaugurato il 1299 con la presenza dello stesso Carlo. Il nuovo convento fu affidato ai padri predicatori, o domenicani, tra i quali poté esserci anche l’affrescatore della Cappella. C’induce a tanto la presenza di S. Domenico sulla parete affrescata, e la scontata frequenza di frati artisti, specie in un ordine come quello domenicano dedito ad ogni attività culturale (non occorrono dimostrazioni, né citazioni; ricordiamo solo il grande Beato Angelico). 59 Per la parte settecentesca antistante la piazza, anzi per i tre lati residui, occorre un discorso a parte, che si potrebbe tentare quando si dovessero illustrare, col palazzo di S. Domenico, altri edifici cittadini del periodo rinascimentale barocco (molto gradevole torna ad un sensibile osservatore tutta la parte alta della facciata col portico di bellissimo disegno, ma di imperfetta esecuzione, ed il portale d’ingresso al palazzo, recentemente ripulito da incrostazioni e risanato di alcune ferite). Al Comune di Manfredonia pervenne tutto l’edificio, compresa la Chiesa ed i locali verso mare, in seguito ai noti provvedimenti di soppressione delle corporazioni religiose, con il R. D. 28 aprile 1813 confermato poi dal successivo R. D. 6 gennaio 1816. Il Comune si ebbe anche i locali fiancheggianti la Chiesa sulla piazzetta del pesce, ma due vani furono dati in censuazione (come si diceva allora) al defunto dott. Giuseppe Borgia che poi alienò ad altri, mentre altri due, già concessi in uso alla congregazione laica del SS. Rosario, successivamente riottenuti per permuta degli ambienti ricavati dalla Cappella della Maddalena, furono poi adibiti a vari usi, e quindi definitivamente ceduti all’Arcivescovo in cambio d’immobile in Via Tribuna, utilizzato per la centrale teleselettiva. Non è possibile lasciar cadere l’occasione, senza prospettare il rammarico di molti nel vedere condannati ad una progressiva scomparsa gli affreschi, malamente difesi dall’umidità e dagli agenti atmosferici, e nel dover rinunciare ad una più garbata sistemazione della facciata. E che dire poi delle incrostazioni di calce e di terra colorata che tanto fascino sottraggono al nobile palazzo ex conventuale? Auguriamoci che in un non lontano giorno gli amministratori di Manfredonia trovino la maniera ed i mezzi per attuare un generale, intelligente restauro del tutto. NICOLA DE FEUDIS 60 Foggia 1862 Con l’afflusso dei soldati piemontesi — fanteria, bersaglieri, lancieri genio — Foggia, da quel sonnacchioso e assolato centro agrario di provincia che era, aveva cambiato i connotati in una maniera anche troppo rapida perché le novità si accordassero con la più elementare delle leggi del progresso: la gradualità. La trasformazione della vita cittadina, quindi, non era stata la naturale evoluzione di una cultura e di un miglioramento conseguito per vie interiori e adattato al particolare clima storico-sociale dell’ambiente. Ma una sovrapposizione di circostanze esterne dettate dall’improvviso ruolo a cui la Città era stata chiamata, affrettatamente adottate, esse circostanze, e non sempre con buon gusto, a grande difficoltà condivise da quegli stessi che, pur ritraendone conforto culturale, se non vantaggio materiale, (certi liberali, per es.) le consideravano un urto alle forme di vita locale ormai consacrate dalla storia, dagli affetti e dalle costumanze. — Vestiteci a nuovo — si era detto e si diceva ancora — ma con abiti nostri e non ci camuffate per quel che non siamo —. Comunque, il Ristorante Piemontese, il Caffè e Latteria Garibaldi, la Trattoria del Soldato, una Birreria (era stata la prima ad apparire, nei locali al Corso dov’è, oggi, la Ditta Uliveri, aperta da Vincenzo Ferreri, un reduce dell’Italia Settentrionale) e tutti gli altri esercizi pubblici che, più o meno, si ripulivano e si rammodernavano (ed anche case private molto delle quali ospitavano ufficiali e impiegati civili1 ); i nuovi negozi che affrettatamente si erano aperti; le bancarelle parecchio rimediate che erano apparse sulle cantonate (pizze c’alice, rosicatilli, patate lesse calde, acqua limonata, frutti di stagione, piccoli oggetti d’uso; molto chiesti asciugamani e fazzoletti-pezze da piedi di canapa); u’ gelate, zuccher’e limone ambulante e perfino di lustrascarpe (mai visto all’angolo Stradone dell’Epitaffio con la Strada dei Cappuccini, ecc.) e, soprattutto, il denaro che correva, rapidamente 1 La truppa era acquartierata alla Caserma Cappuccini ed in baraccamenti costruiti dal Genio Militare. Gli ufficiali, invece, a cura e spese del Comune, erano alloggiati presso le migliori famiglie; e ciò fino al 1865. 61 guadagnato e rapidamente speso, erano, indubbiamente, un qualche cosa che si vedeva con concretezza, che rallegrava, che frizzava, scuotendo la polvere dei secoli e la pigrizia caratteristica della gente meridionale. Naturalmente erano state del tutto dimenticate le piccole dimostrazioni, inscenate qualche anno prima, per gridare re, al posto di Francesco, di Luigi di Borbone e del Conte d’Aquila. Un po’ dappertutto, ma nel Circolo liberale specialmente (aperte le finestre sulla strada) si cantava: Vattene via Re Burbone C’a regnar non se’ più buone; Lass’u’ posto a Re Vittorio Che ‘nce port’ ‘a libertà ‘A libertà. . . ‘a libertà..! per quanto, ormai al secondo anno di occupazione, di libertà se ne fosse fatta una scorpacciata e c’era nell’aria, per più segni, qualche stanchezza che non era desiderio di cambiar minestra ma quasi. Berardo aveva imparato anche lui il ritornello ma non era in grado di capire cosa fosse quella parola libertà. Non certamente una bella signora. In cuor suo pensava che la libertà piemontese fosse pane di grano, sale che costasse poco, facilità di comperare un cappotto, gendarmi che non stessero a spiarti, contadini che lavorassero su terra propria e pastori che avessero una casa e un gregge, anche a dover restare eternamente nel catalogo dei poveri così come segnati dal destino. Non c’era male. Il popolo napoletano aveva inteso la libertà, nel ‘60, in modo mo lto diverso, facendo temere disordini e chissà cos’altro dietro!2 A sera specialmente, il movimento dei soldati in libera sortita per lo Stradone Sant’Antonio Abate e per le laterali Strada dell’Epitaffio, Mercantile, De Zingani3 , a gruppi, fra la gente; i forestieri (impiegati civili) venuti al seguito della truppa, pochi ma ben vestiti e che allo aspetto della cittadinanza conferivano tono e distinzione; gli attacchi singoli o a pariglie dei signori del luogo e delle autorità che uscivano per la scarrozzata pomeridiana (guardatissimi il sindaco vecchio Don Vincenzo Celentano e quello nuovo, il Marchese di Rose, il prefetto Del Giudice, i generali Doda e Mazè 4 , i De Nittis, i Saggese, i Freda) e certe signore mai viste (petti e fianchi...: ristòrete uocchie!) che pas- 2 Nel giugno, per la riconcessione dello Statuto e nel settembre per l’accostarsi delle truppe garibaldine. 3 Oggi Corso Vitt. Em., Via Arpi, Corso Garibaldi, Piazza XX Settembre. 4 Colonnello comandante il 36° Fanteria, il Gen. Mazè de La Roche aveva fatto la campagna contro il brigantaggio nel Mouse orientale. Da Montecilfone di Larino scriveva ai suoi: — . . . qui briganti dappertutto; noi non facciamo che fucilare « par ci, par la » — (da Cesari, Memorie del 36° Fant.). « Non facciamo che fucilare!! ... ». Forse eran soltanto parole. Se eran fatti, il veder briganti dappertutto (anche dove non c’erano) portava a repressioni ingiustificate e, quel che importa, ad atteggiamenti sbagliati nei confronti delle popolazioni. 62 savano al braccio di ufficiali o, meglio, sole in cerca di fortuna (“e perciò Dio ci gastiga!” dicevano le donne costumate del posto) erano lo spettacolo più o meno teatrale di tutti i pomeriggi giacché, ormai, la piega che avevan preso le cose era quella e non era facile rientrare nel solco un po’ crudo di certe realtà quotidiane. Il brigantaggio era alle porte, o quasi, e di esso arrivavano notizie anche di cronaca grossa, a tratti, come certe folate di vento caldo del sud. Si, è vero; lo spirito liberale restava sempre, il tricolore era esposto a permanenza in qualche pubblico esercizio, sebbene alquanto sbiadito, e le cronache piemontesi avevano la precedenza, se non la esclusiva, sugli inevitabili ricordi delle cronache napoletane. Ma eran passati gli entusiasmi chiassaioli, alla garibaldina, di fine ‘60 e di gran parte del ‘61, bande e bandiere in testa, ritratti di Vittorio a capo in su e di Francesco a capo in giù; ed era subentrato un senso più calmo e riflessivo nella considerazione delle cose. In quanto al vescovo...: era tornato? Voleva tornare? Mah! Facesse quel che volesse!5 . Si era fatto gran festa (bande, spari, luminarie, elargizioni) per la visita di Vittorio Emanuele a Napoli6 . E, in sostanza, nel giro delle cose piemontesi, ormai s’aveva interesse a restare. « Il Cittadino », settimanale foggiano d’informazione, commentava fiaccamente i preparativi che faceva Garibaldi e che portarono al fatto d’Aspromonte7 . S’era scoperto che Garibaldi era buono a disfare venti regni ma non era buono a organizzare un comune, frase d’importazione settentrionale e sfruttata fino all’estremo in pro del costruttivo Piemonte. Il senso più calmo e riflessivo di cui sopra si riscontrava, però, anche nelle valutazioni piemontesi che, piano piano, si accostavano ai modi di vita meridionali. Eran punti d’incontro che si potevano cogliere in più d’una occasione, qui o là, e che sfociavano, gradatamente, in una reciproca comprensione. La « Locanda Apicella », prima rifiutata sdegnosamente dai settentrionali (grande meraviglia: aveva i cessi a secco) veniva, ora, frequentata tranquillamente. S’era capito che i cessi a secco, a Foggia, stavano dappertutto, anche a Palazzo Reale. Nè più si facevano le meraviglie perché le case dei signori non avessero il bagno. E ciò in attesa che sorges se quel grande albergo (o gruppo di alberghi) di cui correvano già le prime voci, realizzazioni di una società promossa (si diceva) dal concittadino Nicola Capozzi, vecchio liberale e perseguitato borbonico. S’era smesso, quindi, dai piemontesi quel gioco di parole, né di buon gusto, né opportuno, che prima era suonato provocazione ai foggiani: anziché « settentrionali e meridionali » si diceva « nordici e su- 5 Era fuggito nell’agosto del ‘60 minacciato dagli estremisti che vedevano in lui un reo contro lo Statuto e un nemico dell’Italia. 6 Primi di maggio 1862. 7 Fine agosto 1862. 63 dici ». Il riferimento era evidente ed ... evidente era stato anche qualche ceffone ch’era volato, per ciò, in più d’una occasione. E s’era smesso di dire ai meridionali « beduini », « caffoni » ed epiteti simili. I soldati avevano cominciato a far la corte alle « fuggianelle », mostrandosi essi molto sensibili a quei tipi bruni albanesi dagli occhi zingareschi, che rappresentavano per loro un mondo esotico tutto da scoprire 8 . E pigliando gusto alle cose locali, un po’ sul serio, un po’ per burla, avevano cominciato a cantare: « Te voglio bene / Te voglio bene assaie » (la canzonetta sempre di moda per quanto avesse i suoi anni9 ) punto riuscendo, però, nella pronunzia napoletana per quanto sforzi e smorfie facessero, punto riuscendo a darsi un’aria passionale e, addirittura, facendo starnuti quando arrivavano a quel difficile « dincitegliele vuie... ». Nel ritrovato senso più calmo e riflessivo delle cose di cui si è fatto cenno, c’era stato un riaccostamento al sottofondo della città che, volere o volare (e bisognava tenerne conto) restava ancora in molta parte rurale. C’era, cioè, anche a Foggia, della gente povera, piccolo anticipo di una povertà più grande e più tragica che si ritrovava nelle zone rurali. Bastava sconfinare dal centro urbano, oltre le strade periferiche, nella zona che città non era più e campagna non era ancora (intorno al Parco Pila e Croce, per es.10 ) per trovare viuzze, slarghi e catapecchie ove, in mezzo alla miseria, non arrivavano gli evviva e gli abbasso della parte cittadina della città. Ed anche nel centro, dietro il chiuso e deserto convento delle Redentoriste11 e fino al convento del Salvatore, c’era tutto un dedalo di viuzze e di chiassoli che facevano capo al vicolo Vega (Via Sant’Angelo. il malfamato vico San Donato, vico Scalella, Arco San Michele ed altri budelli anonimi) ove si nascondeva quella caratteristica miseria di città che più stringe il cuore in quanto vicina a chi conduce vita da ricchi. Proprio riflettendo sulle festosità del centro urbano, non mancava (ed erano persone molto molto serie) chi faceva garbatamente rilevare che talune novità presentavano più parte coreografica che contenuto sostanziale e che, a guardar bene, c’era anche una arretratezza sociale dolorante e trascurata. E, una volta sulla via delle riflessioni, fors’anche del raccoglimento: che certe troppo rosee speranze potevano anche essere soltanto illusioni; che l’amministrazione piemontese, onesta ma pignola, poteva anche non dare buoni frutti in terra pugliese; che la libertà su cui tanto s’era giocato, poteva anche restare solo negli alti cieli della cultura; che la caduta dei Borboni poteva aver trascinato seco anche qualche fatto importante specifico della gente meridionale; e che Foggia, dopo tutto, ove pareva che in quel 1862 stesse per trovarsi il terreno per un accordo comune, e Lucera e San Severo, non erano tutta la Capitanata. con il Gargano e la Valle dell’Ofanto (tanto per stare nella zona del Tavoliere) ove l’urto del nuovo e la rea- 8 Si tenga presente che gli albanesi erano molto numerosi in tutta la Puglia e che conservavano anche di qua la lingua, la religione e le costumanze dei luoghi d’origine. 9 Era del 1835, parole di Raffaele Sacco e musica attribuita a Donizetti. Ai suoi tempi fu famosa; ne parlò anche Luigi Settembrini. 10 Piano delle Fosse. 11 Occupava l’area dell’attuale Palazzo Municipale. 64 zione del vecchio si sviluppavano. inconciliabili, in forme aspre, superiori, forse, al previsto e al prevedibile. Il brigantaggio.., la parola grossa correva di bocca in bocca fra l’uno e l’altro impegno quotidiano, pur se poco ci si capiva per mancanza di autentiche informazioni e per debole senso storicopsicologico delle cose. Interessava per la parte episodica, a volte romantica, a volte tragica, poi passava alla storia. Già sulla fine del 1861 manifesti informavano che un cordone di sicurezza era stato disposto lungo la falda del Gargano da un pelottone di lancieri agli ordini del Sottotenente Fossati. Ma allora i briganti c’erano, ed anche in numero considerevole! Quanti? Mille ... millecinquecento... Ma di dove erano usciti? Dicembre 31 (1861): imboscata al podere Mercaldi, sulla confluenza Sàlsola-Candelaro; 16 lancieri uccisi. Gennaio 15 (1862): arrivo a Foggia dell’8° reggimento di linea. Il generale Doda prende il comando della guarnigione. Fine dello stesso mese: ma come mai a San Marco c’era stata tanta commozione — e ne era stata fatta perfino una leggenda — per la fucilazione in pubblico del brigante Giuseppe Nardella catturato da un plotone del 49° fanteria in tenimento Calderoso? Febbraio 1862: scontri ad Apricena, a Torremaggiore, al Mezzanone: due soldati.., tre soldati.., cinque soldati uccisi. E i briganti? Morti, feriti e vivi: dileguati, inghiottiti dal terreno e dallo spazio. Impossibile risalire il Vallone di Stignano. Ma perché il presidio di San Marco (Capitano Briggia) richiamato a Foggia da oltre sei mesi (per una festa celebrativa, pare) non è stato restituito? Che s’aspetta?12 . Marzo 17 (1862): come ad un appuntamento, due o tre bande provenienti dai boschi di Dragonara e di Montecorvino, s’incontrano alla masseria Petrulla (al confine Lucera-Torremaggiore) e sorprendono il capitano Richard con 19 uomini dell’8° Fanteria. Uccisi tutti. Funerali grandiosi e commoventi a Lucera del Capitano Richard. Fine Marzo 1862: ma come mai non si riesce, nemmeno in pianura, ad accerchiare i briganti che continuamente fanno puntate contro i lavori della strada di ferro? Aprile 8 (1862): due squadroni di lancieri di Montebello, al comando del maggiore Municchi, presso Torre Fiorentino (o Castello Fiorentino, a sud di San Severo) disperdono le bande Minelli e Coppa, circa 300 briganti. Trenta briganti uccisi sul terreno. Trecento briganti! Ma che si scherza? Forse si esagerava...! Aprile 21 (1862): manifesto del prefetto Del Giudice. Il brigantaggio è in regresso, attaccato dovunque; si invitano le popolazioni a collaborare con la truppa. Alla fine dello stesso mese altro manifesto prefettizio: avverte i proprietari di bestiame, fattori, commercianti che in occasione della prossima fiera di maggio a Foggia, i vialoni di ac- 12 A Poggio Imperiale il 10 giugno 1862. Esordi in quest’occasione un giovane brigante, allievo del fucilato Del Sambro e di cui avremo modo di riparlare. 65 cesso alla Città saranno pattugliati notte e giorno, per prevenire incursioni e ladronecci da parte dei briganti che infestano il Tavoliere. Ma allora? No. Il brigantaggio non era in regresso. Caso mai, se non aumentato di numero, migliorava nel ... servizio con concentramenti e dispersioni rapidissimi, arroccamenti in luoghi introvabili, travestimenti e camuffamenti abilissimi. Maggio 1862: e che si fa? I briganti par che siano risaliti sul Gargano segnalati a Poggio Imperiale, a Rignano, a San Nicandro, a Ischitella, al Bosco Umbria, alla Montagna degli Angeli. Pochi... molti...: e chi lo sa! Le notizie sono contraddittorie. Giugno 1862: si rompono gli indugi. Si stabilisce una guarnigione a San Marco in Lamis al comando del maggiore Rajola-Pescarini e di altri ufficiali valorosi: il capitano Facino, il maggiore Briggia, il capitano Cavallero, il tenente Federici. Giugno 28 (1862): è catturato e fucilato con tre compagni il fino allora imprendibile capo brigante del Gargano, Angelo Maria Del Sambro detto « Lu Zambro ». Ma la banda? E i sottocapi? Mah!... Il popolo si sentiva investire dalle « folate » degli avvenimenti che j gli si rimescolavano attorno, nel tempo, nello spazio, nei modi, e che turbinavano con nuovo e sempre vecchio linguaggio, con presentazioni e significati di cui non capiva gran che, preso dal problema di soddisfare i bisogni elementari. Aveva delle intuizioni, però, che cercava di riassumere e di collocare nella sua mentalità: I briganti: e chi lo sa! Qualche cosa dovevano pur avere in corpo, forse! In quanto ai piemontesi, soldati e non soldati, aveva finito col reputarli gente attiva, operosa, soprattutto costruttiva; che avevano qualche cosa da insegnare e la cui forza era al servizio di una mente, oltre che di un programma. Gente non antipatica; gente non simpatica, la cui superiorità, ostentata o no che fosse con quell’eccesso di militarismo, dava soggezione, da alcuni con buon animo accettata, da altri respinta per insopportabilità di intruseria e di cosa nuova. Ecco perché c’era chi batteva le mani a Re Vittorio, nei centri urbani per lo più, e c’era chi il ritratto di Vittorio e lo stemma dei Savoia bruciava in pubbliche dimostrazioni12 , nel Gargano, per esempio, e faceva a schioppettate con la fanteria. Ed ecco perchè c’era chi emigrava nel Nord incontro a sicura fortuna o rispondeva regolarmente agli arruolamenti civili e militari e c’era chi scappava per paura di essere preso nei servizi di leva. Tutto sommato gente che faceva, che induceva a fare, sia pure a modo suo; che, servita, pagava; e qui si ritornava alla bianca liretta che, indubbiamente, faceva molta breccia nelle menti e nei cuori, determinando tutto un orientamento del popolo basso che si gettava dalla parte di chi gli faceva guadagnare il pane quotidiano. La bianca liretta. proprio di quei giorni cominciavano a circolare lire e piastre nuove coniate nella zecca di Napoli e che superavano il valore delle corrispondenti monete d’argento borboniche13 . IGINO DI MARCO 13 L’argento delle monete borboniche aveva titolo 835/1000; quelle del regno d’Italia 900/1000. 66 FOLCLORE Per la nostra canzone popolare Un anno che sfuma nel ricordo Foggia maturò un grosso avvenimento per il quale si accesero gli animi più ingenui ed ardenti della città: la grande festa popolare per la « Regina del Grano », articolata intorno ad un concorso di bellezza per la elezione di Sua Maestà Cerere I. Con essa il Capoluogo del famoso Tavoliere poté vantarsi del primato di precursore di simili manifestazioni. Nel fanatismo popolare, tra le varie iniziative, si fecero largo melodisti di riconosciuta preparazione musicale (Gaetano Capozzi, Roberto Consagro) e parolieri, quali Gino La Capria, Guido Mucelli, Ga briele Garofalo. Nacquero canzoni vivaci, anche caustiche, intonate all’argomento principe, delle quali una sola è giunta sino a noi, a ricordare Cerere Prima e le prosperose principesse del regal corteggio: Giuvina Pitruccello, che aveva i versi di Guido Mucelli rivestiti da una musichetta agile e «traseticcia » di Gino La Capria, un giovane foggiano che viveva a Napoli. Giuvina, ritratto della madre di una delle concorrenti al titolo di regina, defraudata, secondo la smaniosa genitrice, del trono agreste: un donnone tremendo, facile a menar le mani, che ci riproduceva, con l’arte del Mucelli, il tipo indigeno della popolana analfabeta e attaccabrighe, le cui parole più generose rivolte, direttamente o in contumacia, ai membri della giuria del concorso, erano: « … sti quatte sbruvugnete » (questi quattro svergognati). Una Giuvina fortunata, rimasta in vita perchè il padre suo putativo la portò in giro, per molti anni, nei salotti, nei teatri, nei circoli cittadini e, di recente, l’ha compresa in una raccolta di versi foggiani. Anche in tempi a noi più vicini fiorirono iniziative, sia pure stimo late dall’alto, per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari, del folclore, e altrove si seppe cogliere il momento buono in cui piovvero sovvenzioni e fiorirono attività popolaresche tra le quali la canzone dialettale ha avuto vita rigogliosa, affermandosi in Europa ed in America. A Foggia l’occasione fu sprecata... Dirò, per giustificare le premesse di questo scritto, che, chiamato dall’O.N.D. a ricoprire la carica di fiduciario provinciale per l’Arte popolare di Capitanata, mi dedicai a’ compito affidatomi, mettendo a frutto i miei studi classici e musicali. Ottenni la collaborazione di Geni Sadero, la nota vivificatrice italiana di tradizioni popolari, che venne a Foggia e con la sua competenza specifica e le cognizioni acquisite in loco, mi indicò come avrebbe potuto formarsi la canzone foggiana e, 67 acquistando forme precise, ben figurare tra i canti della Penisola. Molti anni dopo, il Dopo-lavoro Provinciale prima, e poi l’Ente Provinciale per il Turismo bandirono due concorsi per la “Canzone di Foggia”. Vi parteciparono molti ed agguerriti, ma pochi si adeguarono ai dettami concordati con la Sadero; i più non seppero sottrarsi all’influenza della melodia napoletana. Tra i partecipanti che meglio si affermarono ricordo i maestri Mimì Petrilli e Guglielmo Renzulli (testé scomparso, quest’ultimo), ed Amelia Rabbaglietti, fedele interprete delle nostre voci popolane, che ha ricomposto e pubblicato. Chi scrive, avendo approfondita, con lo spirito del concorso, la tecnica per una nuova forma di canzone foggiana, memore delle conclusioni raggiunte con la Sadero, risultò primo nelle due gare, con Reginella d’ ‘u Grane (versi di Aldo Taronna) e con Margarita, di cui scrisse anche le parole. Ma, tornando a Geni Sadero, la canzone tipica di Foggia dovrebbe basarsi su due forme tecnicamente ed esteticamente diverse: l’una con le caratteristiche delle antiche nenie e filastrocche popolari, Costruita su quella scala minore che risente della sua lontanissima origine greca, con il quarto e sesto grado ascendenti e d iscendenti, alternati, ed il secondo grado discendente diminuito che risolve sulla tonica. Ispirarsi a questa sequenza melodica, naturalmente malinconica, non è agevole per chi voglia detrarne un canto fresco ed originale Paisiello, Mercadante, Salvator Rosa, Donizetti ci provarono ed anche positivamente; ma a « Quelli » tutto era consentito … 68 Alla prima maniera appartengono i canti dei nostri vecchi e vanno additati al rispetto, più che per altro, per l’ispirato contenuto dei versi. ‘U CACCIATORE Ie me ‘aveze Ie me ‘aveze a la matine e me ne vache, nenna mie, a cacce a [qquaglie e cu fucile, nenna mia, ca carabine, addò a trave a quaglia [mia, l’agghia sparà. Ie me ‘aveze a la lunètte e me la pigghie, nenna mia, la mia [scuppètte. Ca tagghiole, nenna mia. ca vaiunètte, addò a trove a quaglia mia l’agghia ngappà?. E’ una poesia che affonda nella tradizione contadina di Foggia, che si definisce da quel « Ie me aveze a la lunette »! Eccovi, ora, una seconda canzone popolare, di almeno cento anni fa. Con essa si aiutavano i bimbi ad addormentarsi nella culla perché, dondolandoli, andassero a congiungersi con gli angeli: NANINNA NINNARELLA I E naninna ninnarella ogge u lupe nigre nigre, s’a magnàte a pecurella. Oh! oh! oh!... Pecurelle, che facisse quann’ i muzzeche sentisse? Oh! Durme! Durme! II Ninnarella ninnananna! —Cume stace ‘stu uaglione? — m’m’addumanne, a me, Sant’Anna. Oh! — Nen ‘u vide, vecchiarelle? Dorme e conte tutt’ ‘i stelle... — Oh! Durme! Durme..! III Durme, ninne, ca ‘u papone, cu’ nu sacche e nu curtille, stece arrete a ‘u stepone... Oh! Nen chiagnenne jigghie belle... Oh! E naninna ninnarelle... Oh! Durme! Durme..! Il secondo esemplare di canzone foggiana, briosa, satura di elementi agresti, con cui i mietitori si accompagnavano nell’andare verso i campi, ricchi di spighe d’oro, ha le caratteristiche dell’antica « Pastourelle » che era una schermaglia tra contadinella e cavaliere. Il canto, intramezzato da « echi »squisitamente indigeni, non comu ni ad altre regioni, alla base ha un basso continuo: trovata armonica di effetto suggestivo. E’ questa la canzone nostra che Geni Sadero indicò perchè fosse compresa nella raccolta dei motivi popolareschi italiani. Nel suo schema, che consente sviluppi musicali nobili e caratteristici, si inquadrarono le foggianissime E Mariuccia, addò sì gghiuta?, E ma’ che vole, da nuie, ‘sta campagnola?, insieme con le più giovani consorelle Reginella d’ ‘u Grane e Margarita. Quest’ultimo è lo schema da adottare, per la canzone di Foggia, da parte di parolieri e musicisti allorché vorranno rinverdirla. MARGARIT A I Canuscite a Margarita mia? L’agghia presentà: Si ‘n’angele vedite ‘mmizze a’ via, èie essa e nen ce stéce da sbaglià. Tene ‘a cape bionde cum’ ‘u grane, tene ‘a vacche ca, ‘n chenfrante, tutte quante ‘i ceraselle s’avrinne sulamente i’ a ammuccià.. Margaretè! Tutt’ ‘i vote che me guarde cu’ quill’ucchie, tu me garde. Quella vacche de cerase scioppe, a mille a mille, ‘i vase.. .. Teng’ ‘a cape ca me scatte... sent’ ‘u core ca me sbatte... Senza come ne pecchè vengh’ semp’ appriss a te... Margareté! II Tene ‘a case a « Pezzeretunne », proprio la... « in cità »…. Ch’ tutt’ ‘i « trezzelose» de là atturne nen trove propie ‘u mezze de parlà. L’agghie scritte: — Vine « avite » ‘i [Cruce, sola, a passia……. Quanne stanne stutete tutt’ ‘i luce, che pizzele, che vase t’agghia dà... Margaretè! Tutte ‘i vote ca me guarde ecc. ecc, ecc. III M’ha respuste: — Ci virrò stasera ‘nzime ch’ mammà... A poste eh’ li mane... Margarita nen dace nlnd’ prime de spusà... Se alle Cruci ci sarà la luna, che « priezzità..!» Andremo, cuore a cuor per le [« trasonne... » ma, patte annanze, senze d’« attantà... ». Margaretè! 69 E va bune... Sissignore...: Purte a mammeta... ‘u priore... Purte ‘u Sinnche... ‘u cumbare... purte a che te piace e pare... Tenghe ‘a cape ca m’avvampe... accussi cchiù nen se campe... Vogghie avè’, ‘nzime ch’ te, ogni vote, tre « nguè... nguè... Margaretè! Per concludere: la canzone è sempre stata tra gli elementi atti a porre in risalto, con eccezionale comunicati va, gli eventi, usi e costumi dei popoli (quelli che sanno cantare, possiedono maturità etica e gentilezza innata). Anche la Capitanata, come altre regioni, racchiude in sé presupposti essenziali di un’arte popolare e, quindi di una canzone che ne 70 documenti gli aspetti poetici e musicali: oggi, più che mai, essendo entrata la nostra terra nel circuito turistico internazionale. Società Dauna di Cultura, Ente del Turismo ed Ente Fiera di Foggia, dovrebbero sentire particolarmente le sorti del nostro folclore, inteso quale documentazione del passato e incentivo di sviluppo culturale e turistico. La Fiera di primavera e la Sagra della foresta costituiscono, infatti, le cornici più ampie e prestigiose di un concorso periodico di canzoni vernacole, che arricchirebbe molto la parte spettacolare delle manifestazioni suddette, e nel contempo assicurerebbe vitalità a un’autentica espressione artistica della nostra gente. MARIO TARONNA Igiene e disadattamenti socio-ambientali Considerazioni sul problema in provincia di Foggia Importanza del tutto particolare hanno, in questi ultimi tempi, assunto studi su fenomeni sociali che, pur non rientrando nel novero (almeno in senso stretto) delle malattie, influiscono sulla economia della nostra società determinandone squilibri e scompensi. Lo studio della loro natura e delle cause che possono influire sul loro sviluppo ha creato nell’Igiene una nuova branca, quella dell’Igiene mentale, ed indicato una « nuova frontiera » di enorme importanza societaria. I disadattamenti socio-ambientali, future matrici dei fenomeni criminali e delinquenziali, meritano in - particolare la nostra attenzione. Le caratteristiche delle personalità disadattate socialmente possono esser espresse in due direttive fondamentali: 1) predominanza del principio del piacere o impulsività; 2) orientamento esternalizzante delle pulsioni. I Glueck distinguono il minore socializzato da quello disadattato affermando che quest’ultimo appare in continua agitazione, è impuls ivo, estroverso e distruttivo. Ha un atteggiamento ostile, pieno di risentimento, sospettoso, testardo, avventuroso, non sottomesso all’autorità, animato da rivendicazioni. La Merril parla nei disadattati di una « non integrazione dei motivi » (manca la valutazione del pro e del contro delle azioni e delle esigenze contrastanti con scelta di quella che porta alla soddisfazione più immediata). Il soggetto disadattato quindi, rifiuta l’ordine sociale e le sue regole per evadere verso sistemi in cui l’importanza del « gruppo » quale elemento base viene negato a favore del prevalere del singolo il quale diviene così elemento negativo e « infettante ». E’ il mondo degli istinti che prevale rompendo quell’equilibrio armo nico che la nostra Società si è data nei millenni della sua storia, non diverso quindi nella sua azione dalla malattia che, insidiando e scompigliando l’equilibrio fisico, determina uno scompenso nel nostro corpo. 71 Spesso nella interpretazione della genesi della personalità dissociale, gli Autori invocano la carenza di principi igienici generali e, talora sostengono il loro prevalere rispetto a quelli di natura psicologica. I Glueck ad esempio trovano che i ragazzi antisociali presentano con maggiore frequenza le seguenti condizioni negative: insufficienti condizioni igieniche, sovraffollamento della casa, scarsa pulizia ed ordine della stessa, dipendenza economica della famiglia. Il sovraffollamento è rilevato anche da Burt e Chombart de Lauwe, dalla Merrill, e da Bennett. L’antisocialità è spesso associata agli strati inferiori della struttura sociale in quanto si sostiene che nelle classi popolari è più facile la carenza di principi igienici generali. Ciò, almeno in senso stretto, non appare giustificabile in quanto i I - AFFOLLAMENTO DELLA CASA DISADAT TATI % NORMALI % TOTALI 165 59 90 32,1 255* Non sovraffollam. 115 41 190 67,9 305 Totali 280 Sovraffollam. 280 560 *Differenza % 26,9. Probabilità basate sul X2 = 0,01. principi igienici non sono peculiarità di una classe. Ben altri devono esser i fattori determinanti. Cloward e Ohlin, all’origine delle motivazioni che portano alla antisocialità parlano di una discrepanza fra le aspirazioni indotte nei giovani delle classi popolari e la possibilità di realizzarle con mezzi legittimi. In ciò vediamo implicitamente il confronto che si viene a stabilire fra le condizioni igienicamente disastrose in cui tanti vivono e gli allettamenti della strada. Il nostro studio è stato effettuato nell’arco di tempo 1962-1967, vagliando i casi giunti all’osservazione del Centro di Igiene mentale della Amministrazione Provinciale di Foggia. La ricerca riguarda minori dell’età compresa fra i 7 ed i 14 anni, sia presentatisi accompagnati dai genitori, sia segnalati dal servizio sociale del Tribunale dei Minori, sia reperiti attraverso selezioni scolastiche (estese queste ultime nel 1963 a tutte le scuole elementari della Provincia e limitate nel 1964-1967 solo a quelle del Capoluogo). 72 Sono stati considerati solo i casi in cui i minori avevano compiuto furti ripetuti, si erano allontanati da casa per vari giorni senza dare notizie di sé, si erano ripetutamente ribellati all’autorità dei Maestri mostrandosi insofferenti ad ogni forma di disciplina e avevano talvolta determinato a compagni occasionali, lesioni tali da richiedere l’intervento della Magistratura. I casi reperiti sono 280 ed appartengono tutti a categorie del ceto popolare. Esso è costituito, almeno in provincia di Foggia, da lavoratori occasionali quali contadini e manovali. Si tratta di soggetti per lo più privi di mestiere qualificato o di attività specifica. In questa classe II – PULIZIA E ORDINE DELL’ABITAZIONE DISADAT TATI % NORMALI % TOTALI Casa sporca 220 78,5 90 32,2 310 Casa pulita 60 21,5 190 67,8 250 Totali 280 280 560 Probabilità basate sul X2 = 0,01. un fortissimo nucleo è costituito da famiglie il cui capo si è recato all’estero o nelle città del Nord d’Italia in cerca di lavoro. Numerose anche famiglie in cui i genitori non sono sposati e presenti, anche se in misura minore di quanto ci si potrebbe attendere, alcoolismo e precedenti penali nei capi famiglia. Per ogni minore disadattato selezionato abbiamo preso un suo coetaneo della stessa scuola, residente nello stesso quartiere ed avente lo stesso grado di cultura, scelto a caso. Naturalmente nelle famiglie dei soggetti-campione abbiamo escluso la presenza di elementi disadattati. Abbiamo considerato per ogni caso i seguenti fattori: 1) indice di affollamento della casa stabilito dal rapporto abitanti/vano; 2) ordine e pulizia della casa; 3) stato di nutrizione; 4) occupazione del padre; 5) grado di istruzione del padre. L’affollamento della casa, determinato come si è detto in base al numero degli abitanti provano è stato valutato tenendo presenti le 73 seguenti caratteristiche indicate dal Puntoni: indice di affollamento buono se inferiore a 1.4 abitanti vano, cattivo se maggiore di 1.7. Come scrive il Puntoni, quando l’affollamento supera tali valori l’abitazione non rappresenta più il focolare domestico ma un semplice ritrovo notturno. Si vengono a perdere quindi quelli che sono i principi basilari della famiglia. Ricorderemo inoltre che in ambienti sovraffollati sono facili gli inquinamenti dell’aria e che, anche una accurata ventilazione non sempre è in grado di eliminare i gas tossici penetrati nei muri. Da ciò consegue, oltre ad uno stato di disagio, una minore resistenza nei soggetti ed una maggiore tendenza a contrarre malattie. Come d’altra parte rileva il Saccani, si è ormai concordi nell’assegnare al fattore casa un valore molto importante nel promuovere e mantenere quello stato di completo benessere fisico, mentale e sociale che III – STATO DI NUTRIZIONE DISADAT TATI % NORMALI % TOTALI Mal nutriti 200 71,5 84 30 284 Ben nutriti 80 28,5 196 70 276 Totali 280 280 560 Probabilità basate sul X2 = 0,01. caratterizza la salute dell’uomo secondo la definizione della Organizzazione Mondiale della Sanità. La ristrettezza dell’ambiente favorisce le evasioni, la fuga verso la vita della strada (Halbwachs) in cui l’ambiente è senza dubbio anonimo e molto più meccanizzato ed asociale di quello che si può riscontrare nella famiglia ordinata. Il sovraffollamento determina tensioni emotive, anche sul piano sessuale per gli inevitabili contrasti che si accumulano fra gli abitanti. Per ben intendere l’importanza di questo fattore nella Provincia di Foggia, occorre considerare che, malgrado i massicci interventi di Enti quale la Cassa del Mezzogiorno, Istituto Case Popolari etc. in molte case abbiamo punte che raggiungono o 6-7 abitanti provano e che moltissime sono sprovviste dei servizi igienici e talune anche dell’acqua. Solo due anni addietro è stato bonificata a Foggia una Zona, quella indicata come « Casermette », in cui in una incredibile promiscuità vivevano centinaia di persone prive di ogni sussidio igienico. 74 L’asocialità, in una zona come quella citata (e che per altro sarà oggetto di un altro tipo di indagine e pertanto non viene qui considerata), raggiunge punte elevatissime. E’ fuor di dubbio quindi, così come hanno concordemente sottolineato igienisti e psicologi europei, che la casa assume importanza fondamentale nella socializzazione dell’individuo. Il secondo dei dati da noi preso in considerazione è quello relativo alla pulizia ed all’ordine della casa. Abbiamo definito come casa sporca e disordinata quella in cui sia le pareti che i pavimenti, in uno al mobilio ed alle suppellettili. presentavano segni evidenti di incuria. E’ indubbiamente più facile reperire tali dati in case sovraffollate ma essi sono anche presenti in case in cui l’indice può esser definito come buono. Abbiamo ritenuto che individui che curano scarsamente la propria casa, ignorando principi igienici basilari, devono esser considerati al IV - STABILITA’ LAVORATIVA DEL PADRE DISADAT TATI % NORMALI % TOTALI Padre occupato 100 35,7 210 75 310 Padre non occupato 180 64,3 70 25 250 Totali 280 280 560 Probabilità basate sul X2 = 0,01. meno in potenza, come nuclei di cristallizzazione di fattori asociali. Igiene e socialità camminano insieme in ogni tempo ed in ogni luogo. Anche in questi casi, l’alloggio non viene più sentito come il rifugio della famiglia nel quale si sviluppa la vita domestica. La scarsa igiene della abitazione inoltre favorisce il propagarsi delle malattie infettive ed ingenera negli abitanti un completo disinteresse per ogni buona norma sociale. Il terzo fattore considerato riguarda lo stato di nutrizione generale. Malgrado la generosità del sole, che risplende nelle nostre terre in maniera particolarmente intensa, e la presenza di una economia di tipo agricolo, che dovrebbe quanto meno assicurare un buon apporto vitaminico, sono frequenti nella nostra provincia malattie carenziali come il rachitismo e le avitaminosi. 75 A parte questi rilievi è evidente che una scarsa igiene della alimentazione si traduce prima o poi in una fonte di squilibro. In molti famiglie ci è stato riferito che ai bambini bisogna dare il vino perché « fa sangue », ed in moltissime abbiamo riscontrato una alimentazione basata su di un solo pasto quotidiano, costituito essenzialmente da idrati di carbonio. Scarso il consumo di latte e di alimenti ricchi di proteine; per quel che riguarda i grassi in prevalenza si usa olio di oliva o di semi. Il quarto fattore riguarda l’occupazione del capo-famiglia. Date le premesse da noi poste, e che cioè l’indagine si è svolta tra soggetti appartenenti a classi popolari i cui genitori erano per la maggior parte contadini o manovali, abbiamo considerato come stabilmente oc V - GRADO DI ISTRUZIONE DEL PADRE DISADAT TATI % NORMALI % TOTALI 130 46,5 205 73,2 353 Sottoalfabet ismo 150 53,5 75 26,8 225 Totali 280 Istruzione eleme tare 280 560 Probabilità basate sul X2 = 0,01. cupati anche quei capi-famiglia i quali esplicavano attività lavorativa per almeno 270 giorni all’anno. I dati, nell’esame di questo fattore, sono stati per lo più ricavati dall’interrogatorio diretto degli interessati e spesso confortati dal controllo dei libretti di lavoro o della Cassa Mutua Malattie. Abbiamo voluto dare importanza a questo fattore in quanto riteniamo che una stabile attività lavorativa possa contribuire, a parte le considerazioni sin troppo ovvie di natura economica, alla socializzazione dell’individuo, stabilendo un contatto interumano, che quindi possa influire sugli altri elementi da noi considerati. L’uomo che lavora acquista un maggiore rispetto di sé e degli altri ed appare più portato a rispettare quelle regole di buon vivere civile che la società gli richiede. Ultimo dato è quello relativo al grado di istruzione del capo-famiglia ed anche per questo le considerazioni che si possono porre appaiono ovvie. Abbiamo registrato, come soggetti con istruzione elementare, quelli in possesso della licenza elementare o comunque in 76 grado di leggere, scrivere e far di conto in maniera corrente; come sottoalfabeti quelli invece i cui studi si erano fermati alla II o III elementare e che, al colloquio, ci sono apparsi privi di nozioni acquisite. Abbiamo raccolto i dati suddividendoli in tabelle 2 x 2, che mo strano la presenza o l’assenza di un carattere specifico nel gruppo dei disadattati e dei normali. Accanto ad ogni frequenza osservata abbiamo annotata il rispettivo valore in percentuale. E’ stato anche computato in ciascuna di queste tavole il chi quadrato (x2 ) ed attribuito ad ognuna un indice di probabilità (P) che misura la possibilità che il variare del campione abbia prodotto la differenza tra le percentuali dei disadattati e dei normali, che presentavano quel carattere particolare. I valori trovati in ciascuna indagine, nelle nostre condizioni di esperimento, hanno messo in luce una differenza altamente significativa fra i due caratteri esaminati, il che ci porta ad affermare che le differenze riscontrate sono reali. In tutti i rilievi abbiamo avuto infatti probabilità di errore inferiore all’uno per cento. Dall’esame dei dati che riportiamo in tabella, la differenza percentuale più significativa ci appare esser quella relativa alla pulizia e ordine della abitazione. Seguono in ordine progressivo, la nutrizione, la stabilità lavorativa dei padre ed il grado d’istruzione del capo famiglia. Nell’indagine effettuata dai Glueck il valore percentuale più alto è invece detenuto dalla stabilità lavorativa del padre cui seguono la pulizia e l’ordine della abitazione, dall’istruzione del padre, dall’affollamento e, come ultimo, quello relativo allo stato di nutrizione del soggetto. Ma l’indagine dei Glueck è stata effettuata su di una società, quella nord americana, in cui possono porsi considerazioni alquanto diverse. All’inizio di questa relazione abbiamo parlato di « nuova frontiera », attenendoci a quanto il Giovanardi ebbe a sostenere quando scriveva che la profilassi e la prevenzione devono esser incorporati nella epidemiologia e che l’Igiene doveva intensificare i suoi interventi per quel che riguardava le malattie in rapporto all’ambiente, alla attività professionali ed a quelle psico-sociali. Ebbene, i disadattamenti socio-ambientali possono a buona ragione esser definiti come disturbi generati si da carenze affettive, ma anche da fatti di non trascurabile importanza ai quali, tutta una nazione, se vuoi essere ritenuta civile deve interessarsi. Non pretendiamo di certo di aver indicato con la nostra indagine gli elementi generatori della asocialità. Molto lungo sarebbe a questo proposito il discorso ed implicherebbe l’esame di tutta una serie di fattori, da quelli antropologici a quelli sociologici a quelli psicologici. L’alta significatività dei nostri dati deve però indurre a riflessioni. Molti dei fattori da noi considerati come significativi potranno variare in meglio con gli interventi sempre più decisi nel campo della edilizia popolare, della occupazione e della lotta all’analfabetismo ma l’opera 77 più valida sarà senza alcun dubbio frustata se i principi igienici generali non raggiungeranno i cittadini ad ogni livello. La asocialità non nasce con l’individuo e tanto meno è inevitabile. Non vi è predestinazione, ma « destinazione », così come scrivono i Glueck. Alla società tutta, ma all’igiene in prima linea, il compito di opporsi a questo fenomeno negativo. A.LONERO - A. MONTEDORO BIBLIOGRAFIA GLUECK SH., The problem of delinquency. Boston, Houghton Mifflin 1959. GLUECK SH. - GLUECK E., 500 criminal careers. New York, Knopf, 1930. Id., Fisico e delinquenza. Firenze, Barbera, 1965. Id., Predicting delinquency and crime. Cambridge, Harvard Un., Press, 1959. MERRILL M. A., Problems of child delinquency. Boston, Houghton-Mifflin, 1947. BURT C., The young delinquent. London, Univ. London Press, 1957. CHOMBART DE LAUWE Y. M., Psycopatologie so ciale de l’enfant inadaptè. Paris, C.N.R.S., 1959. BENNET I., Delinquent and neurotic children. New York, Basic Books, 1960. CLOWARD R. A., OHLIN L. E., Delinquency and opportunity. Free Press Glencoe, 1960. PUNTONI V., Trattato d’Igiene. Roma, Tumminelli. HALBWACHS M., Psicologia delle classi sociali. Milano, Feltrinelli, 1963. GIOVANARDI A., La riforma degli studi medici e l’insegnamento dell’Igiene. « Igiene moderna », 1963. 78 PALAZZO DOGANA Il piano regionale di sviluppo economico Dibattito innanzi il Consiglio provinciale Con i Comitati regionali per la programmazione economica il legislatore ha promosso studi ed indagini — nell’ambito regionale — nei vari settori dell’economia, che si concludono con la redazione di schemi regionali di sviluppo economico. Pertanto anche il C.R.P.E., in base all’art. 1 del D. M. 22 aprile 1964, ha elaborato e compilato un tale documento per il quinquennio 1966-1970. Alla redazione dello schema, che costituisce la prima esperienza pugliese in materia di programmazione, hanno validamente contribuito gli esponenti dauni, chiamati a far parte del C.R.P.E. pugliese, e soprattutto, il vice presidente dell’Amministrazione Provinciale di Foggia, dr. Bios de Majo, cui è stata affidata la presidenza della quinta Commissione di studio per i settori del turismo e del commercio. Il Consiglio Provinciale di Capitanata, nelle sedute dei 23 e 31 ottobre 1967 e del 7 novembre successivo, ha discusso lo schema regionale di sviluppo pugliese. Aperto il dibattito sulla relazione De Majo (pubblicata nel primo fascicolo 1967 di questa rassegna), ha preso per primo la parola il consigliere Pistillo (PC.I.) il quale, riportandosi a un documento, che dice preparato dal suo partito con proposte per lo sviluppo della Regione pugliese, ha affermato che nel settore agricolo, per ottenere dei risultati positivi in Puglia, occorre andare incontro ai lavoratori (stabilizzazione di almeno 500 mila unità), puntando su due obiettivi: l’attuazione di tutto il piano di irrigazione nei prossimi dieci anni e il passaggio della terra in proprietà a chi la lavora. Infatti, uno degli aspetti più negativi dello « schema » redatto dal comitato regionale per la programmazione, e dello stesso piano Pieraccini, sarebbe l’impossibilità di realizzare il pieno impiego della manodopera 1 . « Per procedere ad una programmazione — ha concluso il consigliere Pistillo — bisogna prima di tutto scegliere fra una programmazione democratica, che riformi in maniera sensibile il sistema sul quale agisce, creando nuovi meccanismi di accumulazione e nuovi centri di potere, e una programmazione, che si ponga come unico obiettivo la razionalizzazione e il consolidamento del meccanismo e del sistema. Quest’ultima forma però è possibile solo in una società 79 capitalistica avanzata, in cui un meccanismo di riproduzione allargata del capitale sia funzionante. Ne consegue che in una società come quella pugliese, nella quale, dai dati a nostra disposizione, il meccanismo in atto non permette neanche la riproduzione semplice (la produzione infatti ha un valore inferiore alla somma dei consumi e degli ammortamenti), si può programmare solo democraticamente, cioè operando riforme che incidano sui rapporti giuridici e creino un meccanismo produttivo nuovo, valorizzando le forze che sono in grado di fare ciò ». Secondo oratore è stato il capogruppo della D. C., dr. Galasso. Dopo aver affermato che il piano di sviluppo regionale costituisce soltanto uno studio schematico delle tendenze e delle prospettive della regione, egli ha ravvisato nello schema la prima prospettiva economica della regione pugliese, e la volontà politica di andare nel fondo della nostra realtà regionale. L’oratore ha quindi polemizzato a lungo con l’opposizione di sinistra per alcune accese critiche ai problemi di fondo contenuti nel piano, critiche che, come nel caso del ruolo della proprietà privata vanno trovando un naturale superamento nella stessa economia sovietica. Ga lasso, dopo aver passato in rassegna i punti cardini del documento, ha sostenuto che esso vuol dare l’avvio ad un definitivo disegno di chiarificazione. In questo contesto di variazione della realtà, deve adeguatamente inserirsi la provincia di Foggia. Affermata la esigenza del coordinamento fra gli enti preposti allo sviluppo del Mezzogiorno, l’oratore ha indicato in due particolari linee direttrici del piano, la società finanziaria e il risparmio contrattuale, i motivi esaltanti per accelerare il progresso di crescita economica della regione. Ha di poi rilevato come nel contesto dello sviluppo industriale della provincia, del quale il piano si occupa a proposito dello sfruttamento in loco delle risorse energetiche, particolare importanza assume il quarto centro petrolchimico che a cura dell’ENI, sarà realizzato a Manfredonia. L’avv. Marinelli (MSI), ha esordito affermando che il Consiglio non si trova nelle condizioni di poter esprimere un giudizio sullo schema di programmazione regionale, perché esso non è stato portato prima a conoscenza del Consiglio. L’unico atto sul quale è possibile discutere, è la relazione del dott. De Majo, in modo che non resta che costituire una commissione di studio, per approfondire la conoscenza del documento programmatico. Egli si è detto perplesso soprattutto per il problema creditizio, che non si può risolvere con la creazione di una società finanziaria e col risparmio contrattuale, investendo la formazione di una vera e propria classe imprenditoriale, che possa decisamente dare una svolta al processo di sviluppo produttivo della regione. « Nello schema — ha detto l’avvocato Marinelli — si parla di agricoltura e di tante altre cose ,come di oleifici ad Orta Nova, Matine, Torremaggiore. Ebbene, proprio per Torremaggiore non vedo questa necessità, essendo più che sufficienti gli oleifici già esistenti “in loco" , mentre sarebbe più opportuno un conservificio. Sarebbe piuttosto necessario costruire una strada TorremaggioreFoggia, per collegare direttamente la zona col Capoluogo e sarebbe opportuno progettare la strada Torremaggiore-Casalvecchio di Puglia, allo scopo di permettere il congiungimento delle Puglie col Molise. 80 Ecco la necessità di far sentire la nostra voce. Ecco la opportunità delle riunioni dei capigruppo congiuntamente al gruppo studi. Nello schema si accenna all’idea di Manlio Rossi Doria; io trovo questa idea veramente interessante, perché, i capitali sarebbero investiti in maniera produttiva e si difenderebbe nel contempo la montagna. Un altro problema da studiare e da rappresentare al Comitato per la programmazione è quello relativo all’Università a Foggia, tenuto conto che già nel 1963 avevamo, nella nostra Provincia, una popolazione universitaria di oltre 25.000 studenti e, senza dubbio, oggi è aumentata notevolmente ». Secondo il consigliere Panico (PCI), lo schema di piano regionale non ha soddisfatto le attese del mondo del lavoro. Il “piano Pieraccini”, divenuto legge dello Stato, prevede tre obiettivi di fondo: la piena occupazione, l’eliminazione egli squilibri tra varie zone e l’aumento del reddito. Purtroppo soltanto di uno di questi obiettivi, l’aumento del reddito, si trova traccia nel documento programmatico elaborato dal comitato regionale. Panico ha sostenuto che è da rigettarsi l’impostazione relativa alla società finanziaria e al risparmio contrattuale. L’una e l’altro, a prescindere dal fatto che il mondo del lavoro regionale non può sostenere l’onere del risparmio contrattuale, non potrebbero costituire le valvole necessarie per avviare a soluzione il problema dello sviluppo economico. L’oratore ha concluso che sia a livello regionale che provinciale si è in ritardo rispetto ai termini applicativi della programmazione nazionale che, a suo dire, non rappresenta l’optimum, visto che il « piano Pieraccini » costituisce un arretramento rispetto alle posizioni più aderenti alle realtà formulate dall’ex ministro al Bilancio on. Giolitti. « E’ una pura illusione voler ottenere la piena occupazione con il solo sviluppo industriale. La fabbrica di Manfredonia, per la produzione di ammoniaca ed urea, costerà 35 miliardi di lire, ma occuperà, a pieno ritmo, soltanto 500 operai, mentre noi abbiamo bisogno di ben centomila posti-lavoro. Nel piano regionale si lascia intendere che il problema della piena occupazione è rinviato: è facile rimandare un problema, quando esso è di difficile soluzione. Che cosa programmiamo, dunque? E non è neppure vero che sia mancato il tempo al Comitato Regionale, perché è da ben due anni che esso si riunisce. Rendiamoci, dunque, promotori di un Comitato che coordini le proposte da avanzare in sede regionale, in difesa della nostra Provincia tanto trascurata. C’è il problema del metano, quello dell’irrigazione, del commercio, della trasformazione agricola e ce ne sono tanti altri che ciascuno di noi potrà far presente con la propria esperienza e con la propria provenienza politica ». Il dr. De Tullio (Dc), ha esaminato alcuni aspetti di fondo dello schema programmatico: agricoltura e industria. In particolare ha sottolineato l’importanza della commercializzazione dei prodotti agricoli, sostenendo che tale fase del complesso ciclo economico, va potenziato nell’interesse soprattutto degli operatori agricoli. Per quanto riguarda l’assetto industriale, l’oratore ha affrontato il problema alla luce delle 81 risultanze accertate che hanno visto la provincia di Foggia prescelta per l’insediamento del quarto centro petrolchimico. L’oratore ha quindi puntualizzato la validità dell’azione perseguita dal governo di centro-sinistra che presenta la linea direttrice di una politica volta a superare tradizionali squilibri e situazioni di grave depressione economica. « Sta per realizzarsi — ha concluso il consigliere dr. De Tullio — una grande aspirazione delle nostre popolazioni, cioè l’industrializzazione della nostra Provincia che nessuno di noi sperava di vedere. Molti avversari avevano affermato che a noi conviene ottenere una industria capace di dare lavoro a mille operai, piuttosto che andar dietro alla chimera del metano. Noi della D.C. e del P.S.U. non ci facemmo abbagliare, ed eccoci finalmente alla realizzazione della fabbrica di Manfredonia: la fortuna, la provvidenza e la lotta unitaria hanno voluto che le nostre speranze comincino a realizzarsi. Non si deve scandalizzare alcuno se Galasso afferma che il merito è della D.C.: quanto meno essa ha il merito di aver affrettato la realizzazione dell’opera. La battaglia per il metano, non è finita, nè deve finire. Che cosa dobbiamo fare? Non disperdere le nostre forze in una inutile polemica; collaborare tutti nell’interesse dei nostri figli e nipoti. Condivido perfettamente quanto chiesto dall’Avv. Marinelli: i due tecnici operino per conto loro, ma resti alla Provincia l’iniziativa della programmazione. E’ necessario unificare le forze, sommarle per avere risultati soddisfacenti, come quando ci trovammo a lottare per il metano. La Camera di Commercio è interessata alla programmazione, l’Ente del Turismo lo è altrettanto, i Sindacati pure, la Provincia anche e soprattutto, come altresì l’Associazione Industriali e l’Associazione Agricoltori: sia il Presidente dell’Amministrazione Provinciale — conclude il Dr. De Tullio — a coordinare le iniziative dei vari Enti interessati alla programmazione, ad una programmazione seria da poter discutere, e, se sarà il caso, anche imporre alle altre provincie pugliesi ». In apertura di seduta del 7 novembre 1967, il presidente avv. Tizzani, dopo aver sottolineato la serietà dell’ampio e responsabile dibattito svolto dal Consiglio Provinciale e aver dato atto al vice Presidente di aver aperto il dibattito stesso con una relazione chiara ed esauriente, ha aggiunto: « Non mi sento di condividere le critiche distruttive del gruppo comunista, che non tengono conto della circostanza che, per la prima volta nella sua storia, la nostra Regione dispone di uno strumento conoscitivo dei propri problemi, sia pure incompleto ed imperfetto, ma certamente utile e soprattutto perfezionabile, quando si andrà a proseguire il lavoro già iniziato. Secondo il consigliere Pistillo lo schema di piano non modifica i meccanismi fondamentali di produzione e distribuzione della ricchezza: mi sembra che questa sia stata la critica di fondo allo schema, giudicato dal gruppo comunista scarsamente rivoluzionario; come se il piano modificasse radicalmente le strutture su cui poggia la nostra economia, che è e deve rimanere una economia mista di mercato, fon- 82 data anche sulla libera iniziativa. Mi sembra evidente che per modificare il nostro attuale schema economico, si dovrebbe, prima di tutto, modificare la nostra legge fondamentale, cioè la Costituzione, che prevede, all’art. 41 “che l’iniziativa economica privata è libera” anche se non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale ed in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Il limite alla libertà economica è costituito dalla seconda parte dell’articolo 41 che stabilisce testualmente: “La legge determina i programmi ed i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. E la Corte Costituzionale, con alcune sentenze, anche recenti, ha stabilito i limiti ed i contenuti dell’intervento pubblico sull’attività economica privata. Questo articolo costituisce la chiave giuridica della politica di programmazione economica a tutti i livelli. La nostra Costituzione non consente, pertanto, la mortificazione della privata iniziativa nè la collettivizzazione pressoché integrale della vita economica, che sono nei programmi del massimalismo marxista. Devo aggiungere, d’altra parte, che il consigliere Pistillo ha sottolineato, nel suo intervento, alcuni aspetti del piano che sono veramente preoccupanti: prendiamo ad esempio il problema dell’occupazione. Mi pare che nessuno di noi, a qualsiasi parte politica appartenga, possa accettare, a cuor leggero, l’aumento a breve ed a medio termine, della disoccupazione. Non dimentichiamo nella nostra azione quotidiana, che se anche lavoriamo per una società moderna, sempre più meccanica e tecnica, e quindi portata ad una valutazione essenzialmente economica degli aspetti singoli e globali dei vari problemi che la riguardano, non si può, e in ogni caso, non si deve, prescindere dal considerare l’uomo come centro motore di ogni azione, soggetto e non semplice oggetto di diritto. Una civiltà a misura d’uomo intanto esiste, progredisce ed opera in quanto non discrimina o differenzia in classi o categorie gli uomini di fronte agli essenziali problemi della dignità e della libertà, ma anche di fronte ai problemi della vita, intesa in termini socio-economici. Lo schema di piano contiene, per quanto riguarda la disoccupazione, semplicemente delle ipotesi, che presentano certamente, delle alternative, sia sul piano tecnico che sul piano politico. E De Majo le ha anche individuate ed indicate, due di queste alternative, nella realizzazione puntuale delle opere pubbliche e nella formazione professionale della mano d’opera. Vi è, poi l’ipotizzato scarso incremento di reddito per l’agricoltura, che ci deve preoccupare, perché la nostra è, e resterà ancora per molto tempo, una provincia fondamentalmente agricola. Non condivido però, la sfiducia della opposizione circa la risoluzione, nei tempi tecnici previsti, del problema dell’irrigazione. Certo si dovranno superare molte difficoltà, non solo di natura finanziaria, per la puntuale ed inte- 83 grale realizzazione dei programmi già iniziati; bisognerà soprattutto fare in modo che l’acqua venga utilizzata dalle aziende agricole (ricordo a tale proposito, per amore di obiettività, le perplessità espresse circa la possibilità degli operatori agricoli di investire, per le trasformazioni culturali, un capitale calcolato in L. 100.000 all’anno per ettaro catastale, che è all’incirca pari all’attuale prodotto netto aziendale per ettaro). Ma proprio perché gli obiettivi sono ardui, dobbiamo unire tutte le nostre forze e non farci sopraffare dal nostro atavico pessimismo per rompere finalmente la maligna spirale del sottosviluppo e della mis eria. Per l’agricoltura i problemi da affrontare sono molti e complessi; ma l’opposizione comunista invece di indicare soluzioni concrete rispolvera, per l’occasione, i frusti e logori slogans tipo “la terra ai contadini", dimenticando che, ormai l’agricoltura, sotto qualsiasi regime politico, deve tener conto della produttività, della riduzione dei costi di produzione e di trasporto, della convenienza delle scelte colturali, della commerciabilità dei prodotti, della dimensione ottimale delle imprese, della dinamica degli scambi ecc.; esigenze queste che si stanno facendo strada anche nelle economie dei paesi comunisti più progrediti e che prima o poi, dovranno affermarsi anche in Cina, per non ripetere i recenti fallimenti dei piani agricoli e le conseguenti carestie. Si è detto, anche, che esiste una difformità di valutazione sullo sviluppo ipotizzato del reddito agricolo; è evidente, a mio avviso, che è una difformità sfuggita al coordinatore, così come credo più vicino alla realtà l’incremento del 4%, perché ho fiducia nell’avvenire della nostra agricoltura. Concordo pienamente con l’amico De Tullio, il quale ha sostenuto, nel suo intervento, che non è sufficiente aumentare la produzione agricola, ma bisogna pensare anche a vendere i prodotti. I grandi collegamenti in corso di realizzazione ridurranno i tempi ed i costi dei trasporti fra le nostre zone produttrici ed i mercati di consumo; questo sarà un altro importante fattore “trascinante “, accanto alla irrigazione, ai fini dell’aumento del reddito agricolo. Ecco perché si ritiene possibile il raggiungimento dell’obiettivo della stabilizzazione dell’attuale livello della mano d’opera, che è obbiettivo positivo anche per i comunisti. Non posso, d’altra parte, non concordare con il consigliere Pistillo quando egli afferma che il capitolo della pesca va approfondito per studiare la migliore utilizzazione dei laghi di Lesina e Varano; ma è necessario che il problema dei laghi sia impostato a livello regionale, perché sono necessari altri interventi, in aggiunta a quelli che abbiamo già deciso a livello provinciale con l’acquisto della draga e la istituzione del laboratorio di biologia lagunare. Per l’industria ho notato con piacere che sta per essere ormai definitivamente superato il vezzo, o meglio il malvezzo, della geometria applicata all’economia, con i triangoli, i quadrilateri, gli assi, ecc., che mascheravano il tentativo di escludere la nostra provincia dal processo di sviluppo industriale pugliese e meridionale. Il tentativo è stato sventato sopratutto grazie al successo che ha ottenuto l’azione diretta allo sfruttamento in loco del nostro metano. 84 Il Presidente Tizzani, a questo punto, ha affrontato i temi dell’assetto territoriale, del commercio e del turismo, dichiarandosi d’accordo con l’impostazione data dal relatore. E’ passato, quindi, a parlare di programmazione provinciale e della necessità di sollecitarne lo studio. « Questo studio », egli dice, « è oltre che indispensabile, urgente, perché c’è l’esigenza di tutelare, in sede regionale, le legittime aspettative della nostra Provincia. E nella difesa dei nostri interessi provinciali può e deve verificarsi la più larga convergenza di forze politiche, al di là ed al di sopra delle divergenze ideologiche; ciò perché, se è vero che non dobbiamo farci portavoce di istanze campanilistiche, è anche giusto che dobbiamo operare in modo da impedire ad altri di fare il campanilismo ai nostri danni. E’ necessario disaggregare ed extrapolare, dallo schema di piano regionale, la componente provinciale. E’ ora, per esempio, che si acquisisca, a livello regionale, l’assunto che il porto di Manfredonia è, ormai, per importanza industriale e per essere l’unico della Capitanata, il quarto porto della Puglia, subito dopo o insieme a Taranto, Brindisi e Bari; e che i problemi del nostro porto sono di più urgente soluzione rispetto a quelli dei porti di Barletta, Molfetta, Monopoli, Otranto e Gallipoli. E’ bene, poi, che sia fatto rilevare che nella nostra Provincia esiste, già, da oltre cinquant’anni, una vocazione per l’industria aerea, se è vero che nel nostro territorio fu già impiantata la fabbrica Caproni; così come a Taranto esiste una vocazione per l’industria cantieristica navale. Noi abbiamo, perciò, titoli quanto meno per concorrere con le altre province (è di questi giorni la notizia che a Bari è stata chiesta la creazione di un istituto aereonautico) per ottenere la localizzazione dell’AVIO-SUD. Il nostro Tavoliere costituisce una zona strategica di eccezionale importanza per l’aereonautica militare, e durante la seconda guerra mondiale, abbiamo pagato, con lutti e rovine, questo singolare privilegio. Non vedo perché le stesse considerazioni non debbano essere fatte anche per l’aereonautica civile. Sempre a mero titolo di esemplificazione, desidero far rilevare che nello schema di piano, e precisamente nella relazione sull’istruzione redatta dalla Sottocommissione Fantasia, viene riconosciuta la necessità della istituzione in Puglia di un terzo Centro Universitario e la sua localizzazione a Foggia. E’ detto, inoltre, che l’istituzione di facoltà nei capoluoghi di Provincia deve avere una relazione con le vocazioni socio-economiche e storico-ambientali delle singole zone. Partendo da queste accettabili premesse si arriva, però, alle conclusioni per me inaccettabili, che le facoltà da istituire devono servire solo a decentrare le facoltà sovraffollate dell’Ateneo barese (e cioè quelle ad indirizzo umanistico) e che, sopratutto, il terzo centro universitario dovrebbe essere istituito e gestito a cura di un locale consorzio di enti pubblici, vale a dire, a spese nostre. Ritengo, invece, che l’istanza della istituzione del terzo centro Universitario debba diventare una rivendicazione dell’intera regione pugliese verso il Governo Nazionale e come tale debba essere inserita 85 nel documento di programmazione regionale come uno dei fattori trascinanti dello sviluppo della Puglia. Noi, come Provincia, continueremo, anche in questa direzione, a fare il nostro dovere nei confronti delle attese e delle aspettative di tanti. I nostro compito, infatti, non è solo quello di chiedere l’istituzione a Foggia dell’università, ma è anche quella di preparare l’ambiente a ricevere un tale istituto superiore. E la Provincia, ritengo, che lavori anche per questo, quando decide la costruzione della nuova Biblioteca, quando decide, nel progetto della nuova Maternità, di costruire i locali per la scuola d’Ostetricia, quando chiede la statizzazione del Liceo Musicale di Foggia, quando chiede, all’unanimità dei consensi, la trasformazione dell’istituto Agrario di Capitanata, in base all’art. 3 della legge 27.10.1966, n. 10, in istituto scientifico e tecnologico, cioè in istituto sperimentale per la meccanizzazione agricola e la irrigazione. E’ necessario, inoltre, che vengano rettificate alcune gravi inesattezze, a nostro danno, contenute nel piano regionale di sviluppo della scuola ed in quello ospedaliero. Mi sembra opportuno, a questo punto, puntualizzare brevemente, fra i tanti problemi trattati dallo schema di piano, la parte relativa al nostro Subappennino. Nello studio condotto sull’assetto territoriale, la zona dell’Alto Fortore viene considerata territorio caratterizzato da particolare depressione. Per risolvere i problemi di questo comprensorio, che viene ritenuto il più depresso di tutta la Puglia, « l’azione delle Amministrazioni dello Stato o della Cassa (cito testualmente lo schema) dovrà organicamente coordinarsi in modo da riattivare e potenziare le interrelazioni fra queste zone ed il territtorio circostante, dando particolare rilievo ai fattori di stabilizzazioni quali l’orografia, le condizioni fisiche dei terreni, i gradi d’infrastrutture, i valori socio-economici propri delle singole comunità. Dovranno essere valorizzate le possibili risorse interne, operando contemporaneamente per il potenziamento e l’ammodernamento dei servizi civili ». Fin qui lo schema di piano. Personalmente ritengo che è necessario fare molto, molto di più di una generica impostazione dei problemi. Bisogna sfruttare le possibilità che esistono di chiedere ed ottenere, nella maggiore misura possibile, l’intervento statale in attuazione del capitolo 13 (difesa e conservazione del suolo) del programma economico nazionale quinquennale che prevede un investimento sociale complessivo nel quinquennio, in tale direzione, di ben 200 miliardi. Riprenderemo ed approfondiremo questo discorso, quando andremo a trattare più specificamente i problemi del Subappennino in sede di discussione dell’ordine del giorno già presentato dal gruppo Comunista. Posso solo anticipare, in sintesi, la mia personale opinione in proposito: tutti gli Enti pubblici, a cominciare dallo Stato, debbono fare il loro dovere verso il derelitto Subappennino, intervenendo con maggiore intensità del passato. Per quanto ci riguarda direttamente, 86 posso dirvi — e ve lo dimostrerò — che la nostra Amministrazione sta già attuando concretamente questa linea direttrice. Il Presidente Tizzani, dopo aver espresso l’adesione alla parte dello schema relativa alle « risorse », sottolineando la necessità urgente della utilizzazione razionale ed appiena di esse, s’è detto convinto che un discorso politico su tutta la programmazione non può essere disgiunto dalla realizzazione e dalla vita dell’Ente Regione. Ha, quindi, ringraziato il Vice Presidente per la relazione svolta e per il lavoro compiuto, soggiungendo: Le conclusioni del gruppo comunista, espresse dai consigliere Pistillo non ci convincono. Esse esprimono appieno il divario che c’è, ed è un divario profondo, tra le nostre forze politiche del centro-sinistra e le forze politiche comuniste. Queste, rigettando tutto il piano, in modo integrale, e nelle proposte e nelle soluzioni, confermano di non essere disponibili per un discorso ed un colloquio democratico. Il nostro metodo è sostanzialmente diverso: dall’interno noi vogliamo colmare le lacune e rettificare gli errori che vi possano essere, con una critica, come quella fatta prima dal relatore, poi dagli intervenuti dr. Ga lasso e dr. De Tullio e da quella modesta fatta da me, una critica, dicevo, che è positiva e costruttiva. Respingiamo, quindi, la « camicia di Nesso » che il gruppo comu nista vuoi mettere alla programmazione regionale per soffocarla ed ucciderla. Il nostro metodo è, senza dubbio, più vicino agli interessi della nostra popolazione. La recente decisione del CIPE per l’insediamento ANIC a Manfredonia, ne è la prova e la conferma più valida. Agli inviti ed alle sollecitazioni del gruppo comunista che ci invitavano alla « lotta » e che incitavano le popolazioni alla « rivolta », abbiamo risposto con la fiducia nel Governo e negli uomini dei Governo: e il tempo ci ha detto che la nostra fiducia era ben risposta. Ancora oggi confermiamo (e, non certo, per piatto e sterile conformismo ) tale fiducia e nell’opera del Governo democratico e nell’opera di tutti i dirigenti gli Enti della Provincia e nell’azione di questo Consiglio Provinciale, e nell’attività degli amici della stampa. Fiducia, soprattutto, consentitemi, nella sagacia, intelligenza volontà di tutto il nostro popolo di ogni ceto e grado, nella .maturità, responsabilità e consapevolezza dei nostri operatori economici e delle forze del 1avoro di Capitanata. L’assessore De Maio, in replica a tutti gli interventi nella discussione, esordisce, affermando che il serio ed approfondito dibattito ha dato il via ad un’azione, nel campo della programmazione, che quanto prima vedrà direttamente impegnato il massimo Ente Provinciale. Dopo aver ringraziato i numerosi Consiglieri per il contributo di idee e argomentazioni fornito, si sofferma sull’aspetto scorrevole e dinamico del piano che deve essere posto a base delle nostre visioni prospettiche, perché il Mezzogiorno, nella misura in cui muta la sua realtà, deve fissare pietre miliari nel cammino dello sviluppo, nuovi ob- 87 biettivi e nuovi traguardi. Contesta all’opposizione di sinistra la validità delle tesi sostenute nei riguardi del piano: tesi che hanno assunto aspetto di « discorso di chiusura » e di « affermazioni ciniche » che l’elaborato, in relazione alla sua validità, non merita. Indi, ribadito il concetto che il piano di programmazione regionale affonda le sue radici nella realtà economica, sociale e politica nella quale si trova la Regione Pugliese, afferma che egli, nel corso di una sua recente visita alla Repubblica Cecoslovacca, interessandosi ai problemi dello sviluppo economico di quella Nazione, ha avuto modo di constatare come in quel Paese, retto da un Governo che annette grande importanza alla politica pianificata, siano stati mutati i termini fondamentali del piano perché erano venute a manifestarsi realtà non previste. L’oratore ha quindi ribadito la validità programmatica del piano di sviluppo, rilevando come proprio il suo aspetto scorrevole e dinamico consente di adeguarlo alle realtà che man mano verranno a determinarsi nella Regione. Ha poi passato in rassegna i vari aspetti settoriali del documento programmatico, rigettando i motivi di critica delle opposizioni. In merito al risparmio contrattuale, egli ha sostenuto che esso va visto nell’ambito dell’utilizzazione delle risorse economiche, come un inserimento del mondo del lavoro nel ciclo produttivo. Circa il « progetto Trieste », che, com’è noto, prevede l’accentramento nella città del Nord delle strutture distributive dei prodotti agricoli, l’oratore ha affermato che tale iniziativa è da ritenersi lesiva negli interessi degli operatori agricoli della Regione Pugliese e, quindi, negativa. A livello locale si impone la necessità di rendere funzionali gli strumenti operanti nel settore, e prima fra tutti la centale ortofrutticola, che lavorerebbe molto al di sotto delle sue effettive capacità operative, non assolvendo, in tal modo alla sua funzione di strumento di tutela della produzione ortofrutticola. Sul problema della utilizzazione delle acque e della irrigazione, l’Assessore De Maio ha auspicato che i competenti organismi, attraverso una organica azione di coordinamento possano chiaramente indicare in che modo e con quali limiti l’acqua potrà essere utilizzata. L’assessore De Maio ha rilevato che il documento illustrato al Consiglio e la discussione che su di esso si è sviluppata, costituiscono, alla luce delle argomentazioni trattate, la proiezione concreta e diretta del documento elaborato dal Comitato Regionale. Non ci sono perciò conclusioni da trarre al termine del dibattito; bisogna portare avanti il discorso con le ulteriori indicazioni che il Consiglio Provinciale darà in sede di elaborazione del piano programmatico provinciale. L’oratore ha concluso che la Provincia ha l’ambizione di affermare che il progresso della Capitanata, proprio in relazione agli orientamenti emersi nello schema approntato dal Comitato Regionale, rappresenta la premessa del progresso e dello sviluppo della Regione Pugliese. Il Presidente comunica all’Assemblea che è pervenuto il seguente ordine del giorno, a firma dei Consiglieri Galasso e Moretti: 88 IL CONSIGLIO PROVINCIALE: ASCOLTATA la relazione del vice presidente De Maio sullo « Schema di piano di sviluppo della Regione Pugliese », ne approva le linee generali; PRENDE atto della indicazione del relatore di considerare detto piano non chiuso in rigidi schemi ma dinamico nel suo svolgersi attraverso il tempo per tener conto del naturale sviluppo della realtà umana sociale e politica; RICONOSCE la necessità di elaborare rapidamente il piano definitivo di sviluppo della nostra regione che dovrà tenere nel debito conto: 1) la nuova realtà della Provincia di Foggia evidenziatasi con il rinvenimento delle risorse metanifere e con l’insediamento del IV Petrolchimico; 2) lo sviluppo futuro della nostra Provincia nel settore agricolo che verrà a determinarsi con la realizzazione dei progetti di irrigazione già in parte iniziata, e che comporterà l’ingigantimento in maniera pressante del problema della commercializzazione ed industrializzazione dei prodotti; FA VOTI perché al più presto si porti all’attenzione del Consiglio Provinciale un piano di sviluppo della Provincia di Foggia che potrà utilmente contribuire alla impostazione dello stesso piano definitivo regionale. Il Presidente informa che a fine dibattito metterà in votazione prima l’ordine del giorno comunista e poi quello a firma dei Consiglieri Galasso e Moretti, a meno che i Comunisti non ritirino il proprio. Il consigliere Pistillo informa che l’ordine del giorno comunista non sarà ritirato. « Respingiamo — egli dice — la tesi De Maio, secondo la quale la nostra è stata soltanto una critica distruttiva dello schema di piano regionale. Non può trattarsi di critica soltanto distruttiva perché il Partito al quale appartengo ha anche preparato un proprio documento sul piano, col quale si sono dati suggerimenti, si sono avanzate proposte e sono state mosse osservazioni. E’ stato detto anche che noi siamo cinici: la nostra posizione non può essere considerata con la morale, ma con la politica, alla quale si può aderire o meno. Noi siamo partiti dall’interno dello schema per criticarlo e non dalla critica preconcetta, e ciò è nel nostro diritto. Più di un Consigliere, durante il presente dibattito, si è richiamato alle conclusioni del Congresso di Napoli della Democrazia Cristiana: nessuno dei democristiani, però, ha risposto alle nostre osservazioni in merito. Noi ci siamo limitati a presentare una serie di considerazioni, e non capisco proprio perché ci si voglia accusare di incostituzionalità. Gli è che voi dimenticate troppo spesso il processo avvenuto in Italia dall’epoca del Risorgimento ad oggi e continuate a considerare l’operaio al servizio delle grandi industrie, mentre noi vogliamo che si spezzi finalmente questa catena di servitù. Le osservazioni tecniche da noi mosse — rileva l’oratore per concludere, — sono rimaste senza risposta alcuna: noi non diciamo che lo 89 schema di piano sia da mettere agli atti, come si vuoi far apparire, ma che esso contiene anche cose buone; soltanto affermiamo che esso può servire unicamente come base per uno studio successivo sulla programmazione regionale: il nostro è stato un contributo serio che voi non potete ignorare ». Il dott. De Tullio è del parere che sia necessario rettificare alcune delle osservazioni mosse dal Consigliere Pistillo. « Nell’ordine del giorno comunista, egli sostiene, vi sono dei punti che il mio gruppo condivide pienamente e che, purtroppo, costituiscono soltanto il risultato delle condizioni in cui per secoli si è trascinata la nostra Provincia. Non è esatto assolutamente che i dirigenti della D.C. abbiano dichiarato che per il Mezzogiorno nulla sia stato fatto. Esiste, è vero, uno squilibrio che occorre eliminare al più presto possibile tra Nord e Sud, ma con ciò possiamo proprio affermare che per il Sud non sia stato mai fatto niente? Non credo ». E’ noto che la Capitanata è al quinto posto, sulle 92 Province Italiane, nell’aumento percentuale del reddito, e questo mi pare il miglior metro per giudicare se sia stata fatta qualcosa. Bisogna riconoscere che si è lavorato molto per l’agricoltura e per il turismo, mentre per la industria non è stato fatto alcun passo avanti. Bisogna senz’altro fare di più — conclude il Dr. De Tullio — ma abbiate l’onestà di dire che si è fatto molto, anche se tanto resta ancora da fare. Secondo l’avv. Marinelli, dopo un dibattito di un certo interesse, in definitiva si è giunti ad una conclusione cui non si doveva arrivare. Se è vero che il dibattito aveva i suoi limiti — egli afferma — in quanto si doveva discutere la relazione De Maio e non lo schema di piano, non si può votare su due ordini del giorno relativi allo schema di piano, perché noi — lo ripeto questa sera — non conosciamo il piano stesso. Lasciamo da parte le valutazioni politiche sul piano; formiamo piuttosto una Commissione di studio costituita da tutti i rappresentanti dei gruppi politici presenti in Consiglio ed integrata dai tecnici nominati nella seduta del 31luglio scorso e dai componenti il Gruppo Studi della Provincia, che lavori seriamente e con celerità per puntualizzare le richieste e gli obiettivi della Provincia di Foggia. Nominiamo questa sera stessa, a conclusione del dibattito, la Commissione, al di sopra ed al di là delle valutazioni politiche. Io non voglio assolutamente, come ha fatto qualche altro Consigliere, mettere in evidenza i contrasti tra Galasso e De Majo. Quello che propongo — conclude l’Avv. Marinelli — é di bandire le discussioni e le polemiche politiche per studiare, insieme al Gruppo Studi dell’Amministrazione, i problemi che assillano la Capitanata. Secondo il dr. Galasso, la proposta Marinelli è suggestiva per quanto riguarda i problemi di Foggia e della Capitanata. Egli rileva che i due ordini del giorno nella prima parte contengono giudizi e valutazioni politiche sul piano di programmazione regionale. Pertanto, si dichiara disposto a ritirare il proprio, per la stesura di un nuovo ordine del giorno concordato, qualora il Gruppo Comunista sia d’accordo. 90 La proposta è accolta all’unanimità e il Presidente sospende brevemente i lavori. Alla ripresa dei lavori il Presidente informa che, non essendo stato possibile ottenere un unico ordine del giorno concordato, si procederà come segue: si voterà prima l’ordine del giorno del Gruppo Comunista avanti riportato, fino alla lettera e) esclusa; successivamente si metterà in votazione l’ordine del giorno e firma dei consiglieri Galasso e Moretti per la sola premessa, esclusa la conclusione, e cioè fino alla parola « prodotti »; infine si metteranno in votazione le sole conclusioni, sotto la lettera c). così concordate: c) Il Consiglio Provinciale conferma la validità di una programmazione provinciale così come deciso nella delibera del giorno 31 luglio 1967, stabilendo che della Commissione della programmazione, in modo permanente, facciano parte i rappresentanti dei Gruppi del Consiglio ». Procedutosi alla votazione, per alzata e seduta, nei modi suddetti, la medesima dà i seguenti risultati: — N. 28 Consiglieri presenti e votanti (assenti: Di Venosa e Vania) — Ordine del giorno comunista: voti favorevoli N. 9 voti contrari N. 19 — Ordine del giorno Galasso-Moretti: voti favorevoli N. 16 voti contrari N. 12 — Parte conclusiva concordata sotto la lettera c): approvata all’unanimità. 91 ISTITUTI DI CULTURA Il Centro servizi culturali del Comprensorio garganico L’anno passato facemmo relazione di una notevole esperienza comunitaria nell’area socio-educativa della Capitanana (v. Il Centro di cultura popolare e biblioteca « Antonio Simone » di Manfredonia, p. I, pp. 96 s.). Le sue esperienze, con i risultati ottenuti nel corso di quest’anno, sono stati raccolti dalla collana Istituti d’arte e di cultura, edita dallo S.E.D., in un « quaderno » al quale rimandiamo i nostri lettori (Il Centro di Cultura Popolare « Antonio Simone »). Questa volta ci tocca registrare un avvenimento, che può segnare l’inizio di un nuovo corso della politica culturale nella nostra provincia, e particolarmente in quella zona di essa, che più sembra diseredata dallo Stato. Il 25 maggio a Manfredonia, promosso dal Centro « Simone », col patrocinio e l’ospitalità del sindaco, prof. Valente, si svolse in quella Città una conferenza informativa, con l’intervento dell’on. prof. Anna Matera, consigliere della Cassa per il Mezzogiorno e vice presidente del suo FORMEZ, e altresì del prof. Mario Melino, direttore generale della Società Umanitaria di Milano. Causale della riunione un nuovo intervento della Cassa predetta, con la creazione in tutte le province meridionali e insulari di Centri di Servizi Culturali, tra essi uno a Manfredonia, gestito appunto dalla Umanitaria, per un vasto comprensorio del Gargano. Eccone, per la voce autorevole della sig.ra Matera, la illustrazione autentica: «L’art. 20 della legge n. 717, di proroga per un quinquennio dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, prescrive:” Per favorire il progresso civile delle popolazioni meridionali sono promosse e finanziate attività di carattere sociale ed educativo. Tali attività possono essere rivolte anche ad assistere, nelle zone di nuovo insediamento, gli emigrati provenienti dai territori meridionali. All’espletamento di tali compiti provvede la Cassa, tramite il Centro di Formazione e Studi... sulla base di programmi esecutivi, predisposti in attuazione del piano di coordinamento, approvati dal Ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno. Per le stesse finalità, la Cassa può essere autorizzata dal Ministro.., ad utilizzare anche enti ed istituti specializzati già operanti nel settore « Il piano di coordinamento, predisposto in attuazione della citata 92 legge, precisa e articola in quattro direttrici le suddette attività sociali ed educative: a) promozione e animazione culturale, imperniata su un Centro Comunitario, sede delle iniziative varie (giovanili, di lotta contro l’analfabetismo, di educazione degli adulti ecc.) e organizzato intorno a un moderno servizio di biblioteca e alla scuola; b) potenziamento dei servizi sociali fondamentali, in collaborazione con i quadri locali amministrativi e tecnici, assistenziali, scolastici, medicosanitari ecc.; c) azione sociale legata alla promozione tecnicoprofessionale; d) assistenza agli emigranti « Risale al 1959 l’inizio dell’intervento straordinario nel settore sociale ed educativo, quando ci si cominciò a rendere conto che era assurdo pensare a un tipo di sviluppo indotto dall’esterno su popolazioni sprovvedute e passive, e della necessità di mettere in moto una componente culturale e tecnico-professionale. Allora, in virtù della legge n. 555 del 18 luglio 1959, si rese possibile l’avvio di un programma sperimentale, rivolto ai giovani, agli adulti, agli analfabeti, in convenzione con vari enti; le attività di tale programma sono successivamente state ampliate e sono proseguite fino al 31 ottobre 1966. Non si parte quindi da zero; ciò vale per il Comitato dei Ministri, per la Cassa, per il Centro di Formazione e Studi (ex Formez), per gli enti specializzati. Si parte però con una dimensione diversa, che non è quantitativa, ma qualitativa perché ricca di una esperienza già fatta e di una più approfondita consapevolezza, che ha trovato la sua sintesi nel disposto legislativo, il quale, per la prima volta, non si limita più a tagliare una fettina dallo stanziamento per l’intervento straordinario nel suo complesso, per devolverla all’elevazione culturale e civile delle popolazioni, ma entra nel merito delle attività da svolgere in tale direzione, ne indica le linee di sviluppo, gli strumenti, i metodi, la collaborazione (scuola, enti locali, associazioni professionali ecc.), e soprattutto ne ridimensiona la componente assistenziale (nel senso che noi meridionali ben conosciamo) mentre ne accentua fortemente la componente culturale. « In fine, stabilisce che il Centro di Formazione e Studi “... assume una funzione di propulsione e di coordinamento tecnico rispetto all’intero programma e provvede anche allo aggiornamento e al perfezionamento dei quadri impegnati nell’attività nonché a fornire alle strutture operative dell’intervento sociale, nel suo insieme, informazioni, documentazioni e servizi tecnici...”. « E’ questo nient’altro che un giudizio di valore da parte del potere pubblico e una conseguente scelta politica.Il potere pubblico afferma, se non la priorità dello sviluppo culturale su quello economico (è sempre difficile fissare un prima e un poi), certamente la contestualità dei due; contestualità che non significa che i due aspetti si pongano sullo stesso piano, ma il contrario; dato che è chiaro che, nello sviluppo economico che così faticosamente sta decollando nel Mezzogiorno (e dappertutto), devono essere i valori culturali e politici, cioè in definitiva i valori della libertà umana, a dirigere, a decidere, a dire l’ultima parola. 93 « A questo punto c’è un dubbio da fugare: questa cultura a cui il potere pubblico offre una struttura per la sua promozione e creazione, che cosa è precisamente? Si vuole forse che sia un certo tipo di cultura, gradito al potere pubblico, meglio, a coloro che oggi lo gestiscono, che in definitiva gli faccia da supporto politico? Tale dubbio è Sorto nella mente dei dirigenti degli enti specializzati già operanti nel settore appena il piano di coordinamento è apparso con le sue indicazioni di merito; ha prodotto diffidenza, che non è ancora scomparsa, che solo nello sviluppo dell’attività potrà scomparire del tutto. « E certo la frase “diffusione della cultura” può generare delle preoccupazioni, far pensare a un tipo prestabilito di “merce” da diffondere. Non così le parole “promozione e animazione “, le quali pongono la questione nei suoi termini esatti, che sono i seguenti: il potere pubblico crea una struttura, un Centro Comunitario, che fa perno sulla scuola da un lato, dall’altro su una biblioteca, intesa non come deposito di libri in attesa che la gente si avvicini ad essi (cosa che molto raramente accade), ma come raccolta di libri da rendere vivi e mobili, da avvicinare ai potenziali lettori affinché questi si mutino in lettori reali; attribuisce compiti tecnici a un istituto preesistente, il CFS, allargandone le competenze; affida la gestione delle strutture ad enti specializzati (è evidente che al termine dell’intervento straordinario, la gestione dei Centri passerà ai Comuni) i quali, legandosi a tutte lei istituzioni “presenti e vive” nella comunità, offriranno ai cittadini quegli elementi di base che vanno dall’alfabeto all’informazione più varia, e la sede e le opportunità e le sollecitazioni perché le popolazioni gradatamente si scuotano dalla staticità che caratterizza tanta parte ancora della società meridionale, superino la fase dell’accettazione acritica di quanto è loro offerto, principalmente dai mass-media, e si formino criticamente le proprie idee, facciano autonomamente le proprie scelte culturali. In modo non dissimile, del resto, ogni azione educativa, da chiunque svolta, deve tendere a so ttrarre gli uomini ai pesanti e alienanti condizionamenti esterni e abituarli a scegliere autonomamente ciascuno la propria via e ad avanzare su di essa o su un’altra, se e quando a ciascuno piaccia, sulla base della qualificazione raggiunta. « Se crediamo nei valori della libertà, e non vogliamo limitarci a rendere quello che gli inglesi con frase efficace chiamano lip-service, pur rendendoci conto della difficoltà della meta, non dobbiamo a nessun costo distogliere da essa i nostri occhi. « Né possiamo, in questa nostra società meridionale così premuta tra vecchio e nuovo, indulgere a nostalgie per una ben definita civiltà contadina o roba del genere. Dobbiamo andare avanti, volere il nuovo, ma saperlo dominare. « Le considerazioni che precedono riguardano particolarmente i Centri Comunitari; le altre direttrici di intervento hanno anch’esse un fondamento educativo, ma hanno una sostanza p iù concreta di servizio; anche il punto c), diretto a legare la promozione tecnicoprofessionale alla realtà sociale ed economica circostante, ha un contenuto più concreto ed inequivocabile. 94 « In Puglia, la Cassa assicura nel triennio 1967-69 il finanziamento di Otto centri, dei quali, quelli di S. Severo, Canosa e Brindisi saranno gestiti dal Movimento di Collaborazione Civica; quelli di Manfredonia, Altamura e Massa fra dalla Società Umanitaria; infine, quelli di Grottaglie e Nardò dall’Unione per la lotta contro l’analfabetismo. Nel primo programma esecutivo la Cassa provvede, d’intesa con gli Enti locali territoriali, alla costruzione di quattro b iblioteche precisamente a S. Severo, Manfredonia, Canosa e Nardò. « E’ da precisare che il Centro Comunitario ha carattere comprensoriale; l’attività che da esso si irradia deve proiettarsi all’interno di un comprensorio ragionevolmente ampio. Per ogni Centro è prevista una équipe di tre persone, le quali, qualificate ed appassionate, dovranno essere i promotori di una ampia fascia di lavoro volontario, senza il quale il Centro finirebbe col subire una inarrestabile degradazione burocratica ». Il Centro Servizi Culturali di Manfredonia, insediato il 10 giugno presso il Centro di cultura popolare « Simone » e quindi con ufficio suo proprio in via Riviera n. 85, ha svolto nel secondo semestre dell’anno una notevole attività, che ci riserviamo di riferire nel successivo fascicolo. LA RUBRICA « LIBRERIA » precedentemente impaginata nella prima parte della rassegna, da questa annata in poi appare nel « Bollettino d’informazioni della Biblioteca provinciale di Foggia », che ne costituisce la seconda parte con autonoma numerazione (il fascicolo, che lo contiene, esce a breve termine dalla pubblicazione presente). 95 MANIFESTAZIONI NAZIONALI Le celebrazioni giordaniane La città, che il 27 agosto 1867 dette i natali al cantore di Chénier, ha realizzato nel centenario della nascita una serie di manifestazioni, che non chiameremmo soltanto collaterali a quelle teatrali e concertistiche, perché riteniamo che resteranno a testimoniare come le nuove generazioni intendano compiutamente e realmente tramandare ai posteri i valori più espressivi di una tradizione artistica. Parleremo prima di queste manifestazioni e poi di teatro e di concerti giordaniani. Il comitato per le onoranze, presieduto dall’on. Moro, presidente del Consiglio dei Ministri, indisse innanzi tutto un concorso nazionale per il manifesto celebrativo del centenario. La commissione per la scelta del bozzetto vincente, presieduta dal sindaco Salvatori, esaminati i ventitré bozzetti presentati, ritenne quello di Silvano Pellegrino il più idoneo ad esprimere, con moderna concezione, il significato celebrativo che si intendeva attribuire al manifesto, decidendo, a maggioranza, di assegnargli il premio costituito da una targa in oro. La seconda manifestazione si concretizzò in una mostra di manoscritti e cimeli giordaniani il cui catalogo costituisce un completo compendio antologico di tutta la produzione giordaniana. La mostra, allestita presso il civico Museo, si avvalse di « fondi » della biblioteca del Conservatorio San Pietro a Maiella di Napoli e dell’archivio di Casa Sonzogno, maggiore editrice del Nostro, e comprese alcune rare composizioni cameristiche e sinfoniche edite da Ricordi. La mostra fu inaugurata dall’on. Moro. Terza manifestazione di rilievo internazionale il premio Giordano di un milione di lire, bandito dalla città di Foggia per una composizione sinfonica (con o senza solisti vocali o strumentali) in uno o più tempi, medita e mai eseguita, della durata massima di venti minuti. Il 22 febbraio 1968 alle ore 10, nella sede del Liceo Musicale «Umberto Giordano » di Foggia si riunì la commissione giudicatrice del « Premio », costituita dai maestri Iacopo Napoli, direttore del Conservatorio di Musica di Milano, Terenzio Gargiulo, direttore del Conservatorio di Musica di Napoli, Nino Rota, direttore del Conservatorio di Musica di Bari, Aladino di Martino, docente di armonia e contrappunto nel Conservatorio di Musica di Napoli e prof. Vincenzo Terenzio, docente di storia ed estetica della musica nel Liceo Musicale di 96 Foggia, oltre il segretario, dott. Franco Chieco della « Gazzetta del Mezzogiorno » (assenti giustificati i maestri Ottavio Ziino e Pietro Argento). All’unanimità la commissione decise di premiare il concerto per violino e orchestra del maestro Raffaele Gervasio, barese domiciliato in Roma, lavoro che si distacca dagli altri perché rivela la mano solida di un musicista preparato e cosciente e per la intensità liricodrammatica del discorso musicale. Il concerto sarà incluso nei programmi pubblici della RAI-TV per la stagione in corso. Inoltre la giuria ritenne di dover segnalare il lavoro contrassegnato dal motto « Archicembalo », concerto per pianoforte ottoni e percussione. Un concerto celebrativo giordaniano fu realizzato dalla RAI-TV il 12 novembre 1967 a Foggia e successivamente trasmesso per radio e televisione. Al concerto antologico parteciparono il soprano Antonietta Stella, il tenore Aldo Bottion, i baritoni Giangiacomo Guelfi e Vinicio Coccaieri ed il mezzo soprano Giuseppina Arista. Orchestra sinfonica della Radio Televisione Italiana diretta da Pietro Argento. Vennero eseguiti il preludio dell’atto secondo della Siberia e notissirni brani della Fedora e di André Chénier. All’ETI (Ente Teatrale Italiano), il comitato affidò il compito di organizzare dal 19 al 20 novembre due eccezionali recite, con repliche, di Siberia e Chénier con Claudia Parada, Angelo Loforese, Salvatore Catania, Walter Monachesi, Marcella De Osma, Gastone Limarilli, Carlo Meliciani, direttore Danilo Berardinelli. Il 12 febbraio prossimo, nel ventesimo anniversario della morte di Umberto Giordano, sarà concluso il ciclo commemorativo con una rappresentazione straordinaria di Fedora, la cui organizzazione è stata già affidata allo stesso Ente che ha curato i precedenti spettacoli. A.T. 97 CRONACHE DELLA CULTURA Bilancio di due stagioni teatrali Potrebbe riuscire difficile tracciare un bilancio delle manifestazioni svoltesi a Foggia nel Teatro Giordano dalla sua inaugurazione dopo il restauro — 29 aprile 66, — alla chiusura della stagione 67. Polemiche, inchieste statistiche, sondaggi d’opinione pubblica, disparatamente pubblicati su locali periodici, hanno, infatti, creato un po’ di confusione. Pertanto, si vuole offrire qui la valutazione dei dati raccolti con rigore estremo, per un quadro chiaro dell’attività di due stagioni. Quella 1966 va considerata come inaugurale e sperimentale, se si pensa che il « Giordano” fu riscattato dalla biasimevole esperienza di sala cinematografica e restituito al suo ruolo in un ambiente che, dal dopoguerra, aveva perso l’abitudine di andare al teatro. Ciò premesso, è spiegabile la delusione degli amatori alla chiusura della stagione 1966, considerando che i cinque spettacoli presentati hanno avuto un numero ed una qualità di presenze poco incoraggianti (a volte il sipario si è alzato dinanzi ad un teatro quasi vuoto!), mentre altrove, anche nel Mezzogiorno, arridevano insperati successi alle rappresentazioni ivi allestite. Nella serata inaugurale l’orchestra « Scarlatti », diretta dal Maestro Massimo Pradella, eseguì magistral- 98 mente musiche di Hajdn, Mendelson e Scarlatti, suo applauditissimo e fin troppo noto repertorio; ma il pubblico era costituito interamente da invitati. Nè le successive rappresentazioni dell’Andrea Chénier e della Boheme suscitarono un significante entusiasmo. Lo stesso può dirsi per la presentazione della Fanciulla per il vento di Andrea Aubey, datane dalla filodrammatica dell’ENAL. Assenza di spettatori, soprattutto di quei gruppi di professionisti, commercianti, impiegati, che, per reddito e livello di cultura, sono tradizionalmente legati al teatro. Va precisato che le strutture organizzative sono state improntate alle esigenze di tale pubblico: prezzi a livelli di consumo delle altre città, piccola mondanità che ha circondato gli spettacoli, etc. Ammirevole la partecipazione degli studenti: e tuttavia modesta, perché su 1189 studenti di scuole medie e superiori, che desiderano andare al teatro, solo il 6% ne ha avuto la possibilità. Se ne deduce che nella stagione inaugurale poco si è fatto per avvicinare al teatro il mo ndo studentesco. Sono emerse, così, per la nuova stagione 1967, le seguenti esigenze: — politica dei prezzi più adeguata alla disponibilità del pubblico foggiano; — propaganda per il teatro idonea a stimolare certe istanze culturali, rivolta a tutti gli ambienti ben predisposti; — cartellone interessante un largo pubblico. La stagione 1967 è stata senza dubbio di gran lunga migliore della precedente, anche se qualche lacuna non è stata colmata. Il « Giordano » ha ospitato 19 spettacoli, con 14 compagnie, comprese quella del Piccolo Teatro di Milano, i migliori nomi degli attori italiani di prosa: Lupo, Randone, Magnani, Valeri, Foà, Albertazzi, Proclemer, Millo, Ricci, Magni, Tedeschi. Positiva la campagna prezzi: l’E.T.I., gestore del « comunale », ha offerto possibilità di consumo, finanche a livello di normale spettacolo cinematografico (vedi prezzi per Compagnia Valori-Pannelli in L’alba, il giorno, e la notte e, per Arlecchino servo di due padroni del Piccolo di Milano). Si è aperto, così, il « Giordano »anche ai gruppi culturalmente più impegnati e meno abbienti: agli operai e, soprattutto, agli studenti universitari e delle scuola medie superiori. Ma è venuta a mancare in questa stagione, una precisa sincronizzazione del cartellone con le esigenze del pubblico. Di notevole importanza e di difficile soluzione infatti, si è dimostrato il problema del repertorio, basato sul presupposto di sganciare sempre più il teatro da possibili identificazioni con beni di consumo e svaghi per ristretta élite, con determinate esigenze economiche e di tempo libero. Questa esperienza impone scelte, la cui validità non può essere data da moduli fissi, indicanti serie di requisiti a cui riportarsi; bensì dalla costante uomo -storia-società-teatro al di fuori di una sterile ricerca di stili e sollecitando un colloquio concreto sulla contemporaneità dei problemi umani. Il punto negativo del repertorio del 1967 va riscontrato nella casualità delle rappresentazioni. Continue variazione ha dovuto subire il cartellone, producendo un disorganico imposto culturale, strettamente legato a impreviste esigenze di mercato teatrale all’ingrosso. Per cui, come si legge nel « Bollettino » del Teatro Club riservato ai soci, del 10 aprile 1967, il pubblico è rimasto in una curiosità generica. Vale a dire che, per quanto concerne l’educazione popolare, in questo campo, poco bene si è agito e poco si è ottenuto. Così, all’inizio della stagione di prosa (11 nov. 1967) abbiamo dovuto subire una inattuale riduzione delle Notti bianche di Dostojevski, con la compagnia Vosetti-Lazzarini. Per fortuna, immediatamente dopo, la recita d’arte varia del « Teatrino dei Gufi », piovuto inatteso, al posto del RuyBlas di Hugo, ha suscitato interesse per la primizia e piacevole intrattenimento con numeri di impegno e valore diverso. Troppo tuttavia, ad un consuntivo generale, la stagione è stata positiva: venduti 7091 biglietti per un incasso lordo di L. 7.577.700; media, cioè, di 373 biglietti a spettacolo, con incasso medio di L. 398.000. Gli abbonamenti hanno dato un apporto di L. 156200 a spettacolo. Il «gruppo studi e inchieste statistiche »del Teatro Club ha reso noto ai soci i risultati di alcune indagini compiute. Riportiamo un campione, fra i più significativi. Di circa 650 presenti solo il 77% ha frequentato abitualmente il teatro; il 16% vi si è recato occasionalmente. Fra gli abbonati, divisi in due gruppi — anteriore e posteriore alla campagna abbonamenti — il primo 99 ha raggiunto un minimo di presenze del 35% per Notti bianche, e un massimo del 41% per Leonzio e Lena di Buchner, del CUT Bari! il secondo gruppo, invece, ha fatto registrare un massimo del 68% per Il piacere dell’onestà di Pirandello ed un minimo del 50% per La maschera e il volto di Chiarelli. Questi dati, offerti da un pubblico nuovo, qual’è stato quello del rinnovato « Giordano », non sono da trascurare, anche se le lacune sono state molte. La stagione 1967, inaugurata con le citate Notti Bianche e il « Teatrino dei Gufi », si è chiusa il 20-21 maggio con L’alba, il giorno e la notte di D. Niccodemi. Altri spettacoli sono stati: Il piacere dell’onestà, La maschera e il volto, C’è speranza nel sesso? (Bellow), Leonzio e Lena (Buchner), Il testimone (Foà), Lunga marcia verso la notte (O’ Neill), Enrico IV (Pirandelo), Arlecchino servo di due padroni (Goldoni), Il divorzio (Alfieri), Ti ho sposato per allegria (Ginzburg), Gli amanti (Rondi). Vanno aggiunti a questi il « Balletto Folkloristico » cecoslovacco e il concerto di Peppino Prencipe, svoltosi in una atmosfera di sagra strapaesana, con coppe e medaglie ad artisti foggiani. Per concludere, rileviamo l’enorme importanza culturale e il successo della rappresentazione dell’Arlecchino della Compagnia del Piccolo di Milano. Strehler ha strutturato una rappresentazione mo derna e autenticamente popolare. Nico Pepe, il capocomico, ha diretto nell’aula magna del Palazzo degli studi un notevole dibattito per un numeroso pubblico. Luigi Mancino Il premio letterario Gargano. L’Ente Provinciale per il Turismo di Foggia, che ha suo commissario il prof. Matteo Vigilante, ha indetto anche il concorso letterario rivolto alla individuazione di opere letterariamente valide e idonee a valorizzare la « Montagna madre ». La Commissione giudicatrice del Premio Letterario « Gargano » 1967, si legge nella relazione di Alfredo Petrucci, nella seduta conclusiva del 7 luglio di quest’anno, ha dato atto che alla competizione hanno partecipato alcuni scrittori di rinomanza nazionale, quali Gino De Santis, Marcello Venturoli, Silvano Cecche- 100 rini e altri con opere, però, che non hanno alcuna attinenza col tema del concorso. Tuttavia, per i suoi pregi di ordine narrativo e stilistico, l’opera di un’esordiente, Le stanze vuote, di Maria Ricci Marcone, è stata ritenuta degna di una segnalazione a parte. Hanno partecipato, inoltre, al concorso alcuni studiosi regionali, con saggi di argomento più o meno inerente alla conoscenza e alla divulgazione della storia, dell’arte e della vita pugliese. La commis sione ha fermato la sua attenzione specialmente su due di codesti lavori, e cioè, Lingua e società in Capitanata di Michele Melillo, e Puglia. La terra e la gente, di Giovanni Bronzini, che si staccano nettamente da tutti gli altri, per felicità di spunti e rigore di trattazione. L’opera del Melillo è fondata su un’ampia ricerca linguistica condotta nei centri della Capitanata e del Gargano, ed è volta a riconoscere ed individuare, attraverso le diverse caratterizzazioni del linguaggio, gli aspetti del costume, le strutture e le categorie sociali, le abitudini mentali collettive della popolazione locale, per giungere ad una felice sintesi interpretativa degli aspetti più propri della regione dauna, sintesi nella quale si fondono l’analisi linguistica, quella sociologica e quella storico-urbanistica. L’opera del Bronzini, abbraccia nella sua vasta sintesi l’intera Puglia, di cui esamina, dalla Capitanata al Salento, la storia culturale, il folklore, il paesaggio, l’attività e le credenze degli uomini in pagine di alta suggestione, che finiscono per costituire una ideale guida alla conoscenza dei più pro fondi caratteri della regione e della sua gente. La Commissione, perciò, trovandosi nella necessità di dover dividere il premio d’un milione, lo ha assegnato ex-aequo ai due suddetti lavori. Il prof. Michele Melillo, nostro autorevole collaboratore, è nato a Volturino di Foggia il 1915 — come si legge nella presentazione di Lingua e società, fattane dallo Studio Editoriale Dauno di Foggia, che ha pubblicato in elegante veste l’originale saggio, accolto dalla nostra Amministrazione provinciale tra i « Quaderni di “La Capitanata” » a cura della sua bibliotecarie’ libero docente di Dialettologia nella Università di Roma, nei limiti consentitigli dalla direzione negli istituti medi superiori. Proviene dalla scuola glottologica pisana, ai metodi e ai principi della quale resta costantemente legato, come conferma uno dei suoi ultimi saggi (L’eredità di Clemente Merlo, in « Revue de Ling. Rom. », 1966), dove sostiene la validità dei canoni rigorosamente grammaticali e razionalizzanti, pur presupponendo una dialettica di ordine generale, che naturalmente non può risparmiare i fatti della lingua. La varietà dei suoni e delle voci, della quale l’A. è sinceramente convinto (cfr. la sua Relazione su S. Nicandro, nel « Bollettino dell’Atlante Ling. Ital. », 1962, e il suo intervento a proposito di Atlanti nazionali e Atlanti regionali, in « L’Italia dialett. », 1967), acquista consistenza reale soltanto quando riusciamo a cogliere la natura della cosa che cambia e i motivi o le leggi che determinano detto cambiamento (cfr. Materiali nuovi per una carta nuova, Messina, 1965). Nel quadro di questa convinzione metodologica trovano la loro spiegazione lavori estremamente analitici e schematizzanti (Atlante fo netico pugliese, Roma, 1955, e Atlante fonetico lucano, Roma, 1955), in tesi a caratterizzare le parlate centromeridionali interessate; o anche lavori che consentono di ricostruire attraverso i dati di una colonia linguistica odierna, le condizioni dell’intero dominio francoprovenzale nel Medioevo (cfr. Tesoro francoprovenzale ecc., in « L’Italia dialett., », 1956, e Intorno le probabili sedi originarie delle colonie francoprovenzali ecc., in « Revue de ling. rom. », 1960; rec. a Testi abruzzesi del Duecento, in « Arch. Glott. Ital. », 1961; Et eo sence abbengo, in Studi in onore di A. Schiaffino, 1965).Il tutto è confortato dall’uso di un materiale in buona parte di prima mano, raccolto sotto gli auspici della Recherche Scientifique del Governo francese nelle Savoie e nelle Delnate in genere per conto del Centro naz. di Rilevazione Etnofonica (sulla finalità del quale v. « Orbis », Bull. 101 Intern. de Documentation Ling., 1958), per conto della Discoteca di Stato (cfr. L’antologia sonora della Tuscia viterbese, in « Cultura neol. », 1959), o anche in collaborazione con i gruppi del Consiglio Nazionale delle Ricerche (cfr. il suo Sussidiario per il raccoglitore della Carta dei dialetti italiani, Napoli, 1966), o anche per preparare il suo Nuovo Atlante pugliese, che ora volge a felice compimento. In Lingua e Società l’Autore, premesso che parole e suoni di un gruppo sociale camminano di pari passo con le altra manifest azioni, che caratterizzano la sua vita, riconosce la esigenza di accordar ciascun fatto linguistico con la vicenda dei rispettivi parlanti, propone un quadro storico dell’alta Puglia, mai prima di oggi nemmeno abbozzato. E’ un lavoro che rende accessibile anche al pubblico argomenti trattati con un metodo rigorosamente scientifico attraverso l’indagine diretta sui parlanti, accostati nei centri, che caratterizzano le varietà della Capitananta. Bruno Potenza 102 IN MEMORIA Umberto Fraccacreta « Il sole del 2 febbraio 1947 attese invano alle imposte di Umberto in San Severo, che gli aveva dato i natali cinquantuno anni prima. Si avverò il pronostico di Manara Valgimigli, suo antico maestro e presentatore: La terra che tu benedici ed esalti, benedirà ed esalterà te come il suo poeta. E tutti fummo intorno a lui, nella sua casa e tra il suo popolo, a pagare il debito comune della riconoscenza. Poi gli uomini, che se n’erano distaccati un momento, per comunicarsi con quello Spirito, ritornarono al remo della vita pratica. Sembrò che il Favonio del Tavoliere dovesse isterilire la pianta del ricordo, quando la Società Dauna di Cultura promosse e organizzò le onoranze « in memoriam ». Con questa iniziativa, la vita e l’opera del « Poeta del Tavoliere », furono proposte a una valutazione globale, che ha impegnato più di quanto consentono di registrare i limiti di questa rubrica. Le onoranze tributate alla memo ria del Fraccacreta lungo il corso di un sessennio, vale la pena di ricordare, per l’esame, che un giorno potrà farsene, distaccato e comparativo con altre iniziative provinciali del genere, pur tanto più pompose e dispendiose. La Società Dauna di Cultura, con i mezzi finanziari erogati e amministrati dagli Eredi Fraccacreta, elaborò e svolse con metodo e sobrietà un complesso programma, incentrato su un « Premio nazionale di poesia ». Dotato di mezzo milione, esso fu attribuito due volte in San Severo: il 1963 a David Maria Turoldo, per la sua raccolta Udii una voce; il 1957 (in parti uguali) a Gaetano Arcangeli di Bologna, con Solo se ombra e Vittore Fiore, di Gallipoli, con Ero nato sui mari del tonno. Parteciparono alle due giurie: Maria Bellonci, Manara Valgimigli, Antonio Baldini, Arnaldo Boccelli, Francesco Piccolo, Pasquale Soccio, Antonio Casiglio (segretario). 103 A sostegno e integrazione del « Premio », furono pubblicati due opuscoli: Carlo Gentile, Poesia di Umberto Fraccacreta, prefazione, note e bibliografia di Mario Simone con inediti e ritratto, (S. Agata di Puglia, Tip. S. Cuore, 1956. In 16°, pp. XII-80. « Nuovi scrittori Dauni », collana della Società Dauna di Cultura, n. 3); John Gawsworth, Maggio d’Italia (La Gradogna), trad. poetica di Umberto Fraccacreta col testo inglese e fr. (Foggia, 1957. L. 600. In 8°, pp. 72, ritr.n. 2. Collana « Poesia » n. 1). Quest’ultimo documenta nel suo pieno e vario significato l’incontro con Umberto in San Severo (1944), sul piano della poesia e della libertà, di T.I.F. Armstrong, ufficiale della R.A.F. e celebrato poeta inglese col pseudonimo di John Gawsworth: un’amicizia feconda di collaborazione letteraria, che la Società Dauna di Cultura seppe valorizzare con un « ponte » culturale tra la nostra provincia e Londra, presente nel 1957 alla manifestazione conclusiva col dott. Precope. Nella stessa circostanza venne tra noi di Francia il poeta e dantista A. E. Bojany, inviato dall’Accademia Provenzale dei Poeti a rendere omaggio alla memoria del Mistral italiano. Per queste numerose e valide testimonianze, i vent’anni trascorsi dalla morte di Umberto ne hanno mantenuto vivo il ricordo anche tra gli estranei al suo mondo. Non più finanziato, e perciò estintosi, il « Premio », che a lui s’intitolava; trasformata la casa del suo ultimo sogno, il nome, ormai acquisito alla storia letteraria di Puglia, sarà dato in patria a una scuola, mo numento perenne e monito di una vita e della Poesia, che la nobilitò. Sir Joman La bibliografia del Fraccareta, a cura di Mario Simone, che propose e diresse le onoranze, curò e lanciò le edizioni, appare nella seconda parte di questa rassegna, dedicata al bollettino della Biblioteca Provinciale. Umberto Onorato Si rivive in questi righi, il momento del 14 settembre in cui, sul video, dopo l’apparizione della immagine di Umberto Onorato — che di solito ben diversamente preparava l’animo — fu la terrificante notizia, che non volle lasciare aperta alcuna via alla speranza: Umberto non era più del nostro mondo attivo, ed entrava improvvisamente in quello dell’ignoto: Egli che pur aveva amato tanto la vita i cui tratti, negli uomini e nelle cose più notevoli, aveva riprodotti per gaudio del momento e per 104 l’arte del domani. Era nato a Lucera il febbraio 1898, in un ambiente familiare intonato alle tradizionali virtù civiche, delle quali erano esempio costante i genitori, educatori perfetti: ivi, sotto quella impagabile direttiva che, specie nel padre, aveva il maestro di innumerevoli cittadini, prese ad amare gli studi umanistici. Le prime ispirazioni, i primi mo delli dell’arte del disegno gli furono offerti dal suo piccolo mondo pro- vinciale: tipi caratteristici, pettegolezzi di cronaca, fatti di grande rilievo, che, sapeva stupendamente interpretare, sì che ne veniva fuori un caleidoscopio, che attraeva, anche se a volte irritava chi nella caricatura si riconosceva attraverso le inevitabili deformazioni che l’arte sua imponeva. Emigrato a Roma, divenne collaboratore assiduo ed apprezzato di mo lte riviste, del "Travaso" in ispecie, che gli fu familiare; fin che il mondo del teatro, i cui principali attori erano fra le sue.., vittime, non lo attrasse del tutto, e divenne collaboratore dei più famosi complessi artistici. Sempre i suoi lavori ebbero la sua impronta personale, pur se non firmati con la solita sigla: ONOR. Salendo a gradi a gradi la via tracciatagli dal talento creativo, giunse alla scenografia: arte non profittevole per chi quel talento non abbia, e non sia animato dalla fantasia. Il suo studio nei locali del Teatro Quirino era una fucina insuperabile di opere che il pubblico ammirava nelle sale di esposizione od applaudiva al Teatro: era un coacervo di disegni, di prove e riprove, di bozzetti, ai quali egli affidava la propria ispirazione: e ne venivan fuori gioielli, che si affidano sicuri al tempo. Si è detto che la sua sedia, oramai vuota della sala del Quirino, immalinconisce coloro che erano abituati a vederlo, a godere della sua abituale bonomia e dell’immancabile tratto di spirito, che ne arricchiva la conversazione. Quanto lo pianga la sua terra, che egli amava, è facile intuire. M. P. 105 APPENDICE La sigaretta Variazioni di ONORATO ∗ * La sigaretta è quel cartoccino, in forma di rotolino, di foglia di tabacco, leggero e odoroso, che si fuma come un sigaro. Da questi cartoccini dipende, il più delle volte, la riuscita o meno di molte azioni importanti della vita. Almeno della vita dei fumatori. * Anche fra le sigarette esiste una differenza di razza e di grado sociale. Ci sono delle sigarette bionde e delle sigarette brune; ci sono arroganti sigarette adagiate su carte d’argento e racchiuse in scatole dorate comodamente allineate come viaggiatori di treni di lusso, ce ne sono altre che vivono racchiuse in un pacchetto di volgare carta di paglia addossate le une alle altre come la folla che si agglomera sui tramvai e sugli autobus. Ci sono sigarette sottili e fini che hanno poco tabacco per giovani persone sottili e fini che hanno poco danaro e ci sono sigarette grosse come salsicce, rimpinzate di tabacco, per grossi signori che hanno il portafoglio congestionato di banconote. ∗ Queste « variazioni » risalgono al 1946, quando Umberto Onorato ne fece dono a Mario Simone, editore in Bari di « Puglia », che non poté pubblicarle, per la intervenuta fusione della sua rassegna con un altro periodico non regionale. Siamo lieti di poterle fare rivivere tra le nostre pagine, in omaggio alla cara memoria del geniale Artista, scomparso quest’anno. 106 * I fumatori che aprono il pacchetto di sigarette stracciandolo come una busta da lettere, dimostrano, generalmente, il loro carattere indipendente; rivelano invece un temperamento meticoloso e abitudinario coloro i quali ripongono il pacchetto in tasca dopo averlo aperto con cautela senza troppo sciuparne l’apertura. Coloro che racchiudono subito le sigarette acquistate in un astuccio di metallo prezioso, sono delle persone ordinate e che hanno una moglie dalla quale hanno ricevuto un regalo per l’onomastico o per Capodanno. * Il prezzo delle sigarette è vario: ce ne sono di care e ce ne sono di carissime. Sigarette a buon mercato non esistono. * Una volta acquistate, le sigarette perdono ogni valore. Infatti nessuno chiederebbe ad un amico, due o tre volte al giorno, venti o trenta lire, mentre tutti non si peritano di chiedere continuamente delle sigarette come se non costassero nulla. C’è il detto (e quel che è peggio, la consuetudine) che una sigaretta non si rifiuta mai. Non dicono il vero coloro che dichiarano di fumare un certo numero di sigarette al giorno: la metà di questo numero è sottratta dagli amici. Il diritto di richiesta di una sigaretta è sancito al punto che il richiedente si riserva di rifiutare la sigaretta offertagli se non è della marca che preferisce. * I fumatori. Ci sono i così detti fumatori « locomotiva » che hanno, tutto il giorno, fra le labbra una sigaretta nuova appena accesa e ci sono dei fumatori che potremmo chiamare « cascamisti », i quali hanno continuamente fra le labbra delle cicche: sembra che costoro non abbiano mai conosciuto una sigaretta intera. C’è chi fuma una sigaretta per riposarsi dal lavoro; c’è chi dichiara di non poter lavorare senza fumare continuamente. Generalmente questi ultimi sono degli scansafatiche. C’è il fumatore contemplativo che si compiace di seguire lo svolgersi delle spire del fumo, e si dice che ciò denota bontà d’animo; c’è il fumatore dinamico che accende diecine di sigarette e, dopo una sola aspirata,, le depone, dimenticandole, sui mobili, sui libri, nel portacenere, sui davanzali delle finestre e nei luoghi più impensati ed incredibili: ciò denoterebbe sventatezza e superficialità. 107 C’è chi, accesa una sigaretta, soffia invece di aspirare: potete giurare che si tratta di un novellino. * Le donne che fumano. Le donne che fumano, fumano male e quelle che fumano bene perdono i tre quarti della loro femminilità. la Capitanata Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia Direttore: dott. Angelo Celuzza, direttore della Biblioteca Provinciale. Direttore responsabile: m 0 Mario Taronna Direzione tecnica dello Stadio Editoriale Dauno - Tip. Laurenziana - Napoli Autorizzazioni del Tribunale di Foggia 6 giugno 1962 e 16 aprile 1963 Registrazione presso la Cancelleria del Tribunale di Foggia al n. 150 108 la Capitanata Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia BOLLETTINO D'INFORMAZIONE della Biblioteca Provinciale di Foggia Anno V (1967) n. 1-3 (genn.-giu.) Scrittura e cultura nella Puglia altomedievale Nei lunghi secoli antecedenti all'invenzione della stampa fu costantemente presente nelle regioni europee uno stretto rapporto fra scrittura e cultura, cioè fra caratteristiche e sviluppo dei sistemi grafici adottati nei paesi civili da una parte, e orientamenti, tendenze, mutamenti della civiltà culturale dall'altra. Ricercare tale rapporto nei diversi periodi e nei diversi ambienti, scoprire come esso di volta in volta si stabilisca e perchè ora appaia in piena evidenza, ora invece divenga labile e quasi irriconoscibile, è compito affascinante, che interessa così il paleografo, come lo storico della cultura e quello delle forme artistiche. Qualsiasi forma di scrittura, in realtà, obbedisce al gusto ed alle esigenze di una determinata civiltà culturale; ma in alcuni periodi e in talune regioni, quando soprattutto sorge il bisogno di un rinnovamento culturale profondo o di una diversa organizzazione della cultura, allora, inevitabilmente, gli stessi promotori del rivolgimento provocheranno o proporranno, in un lasso di tempo più o meno breve, anche l'insorgere di nuove forme grafiche, di nuovi tipi di scrittura, di nuovi « segni », insomma, espressivi di nuovi contenuti. La conferma di ciò si trova in alcune grandi rivoluzioni intervenute nel corso della lunga storia della scrittura latina, che, inquadrate in una cornice più ampia di quella meramente grafica, si rivelano strettamente legate a momenti o eventi decisivi della civiltà europea. 1 Basterà ricordare di esse soltanto le più importanti, note anche al profano: l'affermarsi fra VIII e IX secolo della « minuscola carolina », che, divenendo, dopo secoli di « particolarismo grafico », veicolo di una cultura rinnovata, riuscì ad imporre in Francia, in Germania, nell'Italia centrosettentrionale e poi anche in Inghilterra e in Spagna un unico linguaggio grafico; la nascita e il diffondersi della stilizzazione gotica, sorta in Francia alla fine dell'XI secolo come prodotto di un gusto locale e in breve tempo propagatasi a tutti i centri culturali europei attraverso la struttura delle istituzioni universitarie; l'affermazione nel corso del XV secolo come universale linguaggio grafico degli umanisti europei di quella minuscola tonda preparata dal Petrarca e dal Salutati e fatta prepotentemente rinascere a Firenze nel 1402-1403 dal genio di Poggio Bracciolini. Nell'alto medioevo il rapporto fra scrittura e cultura fu nell'Europa occidentale fenomeno riservato ad una categoria molto ristretta di persone, anzi a veri e propri gruppi di « tecnici », depositari essi soli, in una società popolata di analfabeti, del segreto della scrittura: gli amanuensi, per la maggior parte ecclesiastici, scrittori dei libri; i. notai e i cancellieri, laici ed ecclesiastici, scrittori dei documenti. La natura astrattamente calligrafica di molte delle scritture altomedievali europee si spiega proprio con il fatto che esse venivano elaborate, entro ambienti ristretti e poco permeabili ad influenze esterne, da calligrafi attenti più all'aspetto estetico delle loro creazioni che non alla funzione pubblica dello scritto, il quale finiva così per perdere quelle caratteristiche di leggibilità e di chiarezza che dovrebbero essere proprie di ogni scrittura, e soprattutto di quella dei libri. Una di queste scritture, e precisamente la « beneventana », così detta perchè nata e diffusasi nell'ambito territoriale del ducato (poi principato) di Benevento fra il IX e il XIII secolo, fu la scrittura libraria principale dell'Italia del sud nell'alta medioevo. In questo nostro saggio vedremo come le particolari condizioni politiche e culturali della Puglia consentirono agli scribi di questa regione di elaborare, pur partendo dalla « beneventana », un bene individuato linguaggio grafico, e come tale linguaggio fu infine abbandonato per nuove forme quando l'autonomia culturale pugliese declinò e finì per esaurirsi nel XIII secolo 1. Per il IX e il X secolo non sono stati conservati manoscritti latini sicuramente scritti in Puglia; lo studio della scrittura pugliese in questo periodo dovrà dunque essere limitato ai tipi In questo nostro saggio ci siamo permessi di riutilizzare largamente (e in qualche caso anche testualmente) quanto ci è già occorso di dire in un articolo di qualche anno fa dal titolo Note ed ipotesi sulla origine della scrittura barese, in « Bullettino dell'Archivio paleografico italiano », n. s., IV-V (1958-1959), pp. 101-14. 1 2 testimoniati dai documenti privati della regione, le cui riproduzioni sono, purtroppo, scarse e disperse; ciononostante dall'esame di quelle poche che siamo riusciti a consultare abbiamo potuto trarre alcuni importanti elementi. Si può infatti affermare che intorno alla metà del X secolo in Bari e nei centri vicini i rogatari adoperavano una scrittura più o meno corsiva e di tipo fondamentalmente beneventano; questa scrittura, non canonizzata e con notevoli diversità fra mano e mano, presenta però alcune sostanziali caratteristiche comuni, che la differenziano dalle coeve scritture documentarie di area beneventana; esse sono: il tratteggio fluido e privo di spezzature, la fondamentale rotondità delle forme, le aste innalzantisi a forma di clava, l'ampio tratto curvo verso sinistra che chiude i legamenti con i, il frequente uso della c crestata. Tali caratteristiche appaiono esemplificate in modo evidente in alcuni documenti di Bari e di Casamassima intorno alla metà del secolo 2, mentre una carta barese del giugno 952 3 mostra invece una scrittura calligrafica, posata, di netta derivazione cassinese e di aspetto librario. L'uso di una scrittura siffatta potrebbe significare che a Bari intorno alla metà del X secolo, la tendenza verso la canonizzazione della scrittura avveniva secondo l'imitazione della libraria beneventana; e ciò, con tutta probabilità, perchè mancava ancora un tipo locale di libraria. Particolarmente interessante appare la scrittura, corsiva nel d u c t u s e rotondeggiante nel tratteggio piuttosto grosso, di un atto barese del giugno 990 4; essa, oltre a mostrare le caratteristiche già viste (cf. ad esempio i tratti curvi a sinistra delle lettere e dei legamenti che scendono sotto il rigo e la separazione delle lettere), presenta anche una notevole tendenza ad ingrandire le iniziali (cf. le grandi c non crestate) ; la e iniziale appare identica alla corrispondente lettera greca ricorrente nella sottoscrizione di ËÝù nello stesso documento. La scrittura delle carte di Bari e di altri centri pugliesi presenta dunque nel X secolo caratteristiche sue proprie che la individuano agevolmente rispetto al canone beneventano puro, sebbene appaia strettamente affine alle scritture documentarie del territorio beneventano. Le ragioni e i modi di questa individualizzazione potrebbero ricercarsi soltanto risalendo indietro con l'indagine paleografica; ma ciò è impossibile per l'assenza quasi totale di testimonianze utilizzabili dei secoli VIII e IX. Possiamo permetterci di formulare soltanto qualche ipotesi. Già lo Schiaparelli rilevò che sia in Puglia sia in tutta 2 Cfr. Note ed ipotesi, cit., tav. I , e Il Clhartularium del monastero di S. Benedetto di Conversano, a cura di D. Morea, Montecassino, 1892, tav. II. 3 Cfr. Le perg amene del Duomo di Bari (952-1268), per G. B. NITTO DE ROSSI, Bari 1897 (Codice diplomatico barese, I ) , tav. I . 4 Non ne esiste riproduzione: cfr. ed. in Codex diplomaticus Cavensis, I I , Mediolani 1875, n. CCXX, pp. 21-2. 3 l'Italia meridionale tra la fine del secolo VIII e l'inizio del IX la scrittura documentaria era fondamentalmente una corsiva nuova che non presentava ancora alcuna caratteristica del tipo beneventano 5. Questa situazione non durò molto a lungo; e ben presto scritture di tipo beneventano apparvero nei documenti del territorio appartenente al principato di Benevento per divenire fra IX e X secolo scritture usuali delle cancellerie e dei notai longobardi. Non è questo il luogo adatto allo studio di un tale fenomeno dovuto essenzialmente all'imporsi come scrittura nazionale dei Longobardi del sud di una scrittura nata invece come espressione grafica di una determinata cultura religiosa: quella benedettina. A noi interessa invece rilevare che le nuove scritture documentarie di tipo beneventano non poterono non diffondersi in Puglia insieme con il diritto e con la colonizzazione etnica longobarda, visto che il principato di Benevento fra VIII e IX secolo si era praticamente annesso i maggiori centri pugliesi. In Puglia del resto (e questa è forse la considerazione che più importa fare) la civilizzazione longobarda riuscì a permeare di sè le popolazioni molto più largamente e profondamente che non il dominio bizantino, anche se ad un livello diverso, limitato alla sfera della vita quotidiana, ai modi del costume, all'uso del diritto. D'altra parte non pare che l'influenza propriamente benedettina abbia mai acquistato nella Puglia centrale e meridionale una posizione importante; la mancanza di s c r i p t o r i a benedettini portatori di una tradizione libraria canonizzata ed attiva, spiegherebbe come la scrittura documentaria pugliese abbia potuto, pur rimanendo profondamente influenzata dai modelli grafici importati dai notai beneventani, conservare ed elaborare caratteristiche grafiche proprie, così da mantenere una sua individualità 6. 5 L. SCHIAPARELLI, Influenze straniere nella scrittura italiana dei secoli VIII e IX, Roma 1927 (« Studi e Testi », 47), pp. 49-50; il documento tarantino dell'809 maggio cui accenna lo Schiaparelli fu poi edito da A. GALLO, Il più antico documento originale dell'Archivio di Montecassino, in « Bullettino dell'Istituto storico italiano per il medioevo e Archivio Muratoriano», 45 (1929), pp. 159-64; cfr. anche T. LECCISOTTI, Scrittorii monastici nelle terre di Puglia, in « Archivio storico pugliese », XI (1958), pp. 8-9. 6 Cfr. per la documentazione e la bibliografia relative, Note ed ipotesi, cit., pp. 104-5; il LEcciSOTT1 invece, Scrittorii monastici, cit., p. 12, pone in rilievo l'esistenza di centri scrittorii benedettini nella Puglia settentrionale. La diversità fra la scrittura documentaria di territorio sannitico e quella di territorio pugliese sono state recentemente poste in nuova luce da E. GALASSO, I caratteri paleografici e diplomatici dell'atto privato a Capua e a Benevento prima del secolo XI, in Atti del Convegno nazionale di studi storici promosso dalla Società di storia patria di Terra di Lavoro, Roma 1967, pp. 296-301, ove si rivela la presenza di forme grafiche intermedie nelle zone di confine fra le due diverse are. 4 Questo processo di elaborazione indipendente fu certamente reso più facile dalla riconquista bizantina. Essa, iniziatasi subito dopo 1'871, data della liberazione di Bari dalla dominazione araba, contribuì ad allontanare dalla Puglia, per circa un secolo, il peso della diretta influenza longobarda. Il periodo che seguì, segnò la preminenza in campo civile e religioso della cultura greca nei maggiori centri pugliesi, destinata ad avere, come vedremo, notevoli conseguenze anche in campo grafico. Con i primi anni del secolo XI compaiono in Puglia alcuni manoscritti vergati in un particolare tipo di scrittura definito « tipo di Bari » dal Lowe 7, di cui il più antico ed illustre esempio è il ben noto Exultet I della Cattedrale barese 8. Tale scrittura, fino a qualche tempo fa giudicata come una semplice variante stilistica della beneventana vera e propria, presenta invece, a nostro avviso, tali caratteristiche di individualità, da apparire come un fenomeno grafico e culturale del tutto autonomo e degno in sè e per sè di attenta considerazione; tanto più che i primi esempi del nuovo tipo mostrano uno stile scrittorio pienamente maturo, un canone formale già fissato, un complesso di norme e di proporzioni già in avanzato stato di elaborazione. Le caratteristiche principali della scrittura « barese » furono indicate con chiarezza dal Lowe fin dal 1914 9 e possono riassumersi così: forme rotondeggianti, tratteggio uniforme, ridotta quadrilinearità, uso della c crestata, della e larga con i due occhielli quasi uguali e dalla r finale con asta corta; egli notò inoltre le legature con i che scendono sotto il rigo con una accentuata curva verso sinistra e l'uso, come segno abbreviativo, di una linea sormontata da un punto e della particolare nota tachigrafica per est. In realtà, chiunque si ponga dinanzi agli occhi un esempio di scrittura beneventana di Montecassino o di Benevento e un esempio di scrittura « barese », nota immediatamente le grandi diversità che separano i due sistemi e che investono la sostanza stessa del linguaggio grafico, e cioè il tratteggio, nell'una pesante e spezzato, nell'altra sottile e fluido, e l'aspetto generale, nell'una compatto, nell'altra arioso e spaziato; mentre le concordanze appaiono piuttosto attinenti agli aspetti puramente formali delle due scritture, e cioè al disegno di determinate lettere o all'uso di particolari legamenti. E. A. LOEW, The Beneventan Script, Oxford 1914, pp. 56-8, 150-2. Cf. oltre, p. nota n. 9 The Beneventan Script, cit. p. 150. Sulle particolarità della notazione neumatica pugliese, cfr. ora R. ARNESE, I codici notati della Biblioteca Nazionale di Napoli, Firenze 1967, pp. 13-4. 7 8 5 La formazione di una scrittura libraria presuppone l'esistenza di un ambiente, in seno al quale nasce ad un certo punto il bisogno di essa; di un ambiente necessariamente colto, in possesso di un proprio gusto estetico e capace di far agire attivamente questo gusto in campo grafico: capace cioè di scegliere modelli e di modificare sul loro schema la scrittura usuale per adattarla all'uso librario; capace infine di creare nuove forme e di imporre una nuova tradizione. È questo ambiente che noi dovremo individuare nella Puglia del 1000, per ricostruire la genesi del « tipo di Bari », per riconoscere lo scrittorio nel quale esso si formò, per rispondere, infine, all'interrogativo già postoci circa le origini della nuova scrittura. Non v'è dubbio che questo ambiente vada localizzato nella Bari del 1000. Non solo e non tanto perchè da Bari provengono i primi esempi in nostro possesso di questa scrittura libraria, ma perchè, come abbiamo potuto vedere, baresi erano i notai che nel corso del X secolo avevano elaborato gli esempi più tipici della documentaria pugliese, non rifuggendo, qualche volta, da tentativi di calligrafizzazione particolarmente interessanti. Dopo il IX secolo s'era venuta formando in Bari una aristocrazia strettamente legata al governo bizantino e costituita da ricchi commercianti, proprietari, funzionari e giudici insigniti di alte dignità greche, loro largamente concesse dai governatori imperiali. A questa aristocrazia era intimamente connesso il clero, che da essa emanava e che, riunito intorno al vescovo e altrettanto, se non più, dipendente dal catapano bizantino, godeva nella città di una assoluta posizione di preminenza, non soltanto culturale, ma anche economica 10. Nella seconda metà del X secolo la diocesi barese comprendeva una amplissima zona della Puglia centrale, e i suoi legami con Bisanzio erano tanto stretti (uno dei suoi presuli, Crisostomo, che resse l'arcidiocesi dal 993 al 1006, era quasi sicuramente greco), da provocare la preoccupazione di Roma. Questi legami spiegano d'altra parte la protezione che i catapani riservarono all'arcidiocesi stessa 11, mentre la ricchezza che ne derivava alla Chiesa barese giustifica la preminenza goduta dal clero nella vita civile e ancor più in quella culturale della città. Vale la pena di ricordare a questo proposito che tutti i rogatari di documenti baresi del X secolo appartenevano al clero cittadino; e la cosa è per noi particolarmente importante, in quanto furono proprio i notai baresi ad elaborare i più compiuti esempi della documentaria di Puglia. Al clero di Bari apparteneva anche quel Girolamo suddiacono e notaio che alla metà del X secolo operò, come si è visto, in un primo tentativo di calligrafizzazione 10 Cfr. per questo, F. CARABELLESE, L'Apulia ed il suo Comune nell'alto medio evo, Bari 1905, pp. 80-5. 11 Per la documentazione relativa, cfr. Note ed ipotesi, p. 106. 6 della scrittura documentaria, sia pure secondo gli schemi della beneventana libraria. È perciò più che naturale supporre che proprio questo clero, colto e già in possesso di una scrittura non canonizzata, ma con caratteristiche individuate, abbia costituito l'ambiente propizio alla nascita della nuova scrittura libraria. Ed è bene a questo punto osservare che, naturalmente, questo clero veniva educato nella scuola vescovile e faceva capo all'arcivescovo. Sorge naturale dunque l'ipotesi che la scrittura « barese » sia nata nell'ambito dell'episcopio di Bari. Il più antico esempio databile del nuovo tipo di scrittura è il famoso Exsultet I conservato nell'Archivio della Cattedrale di Bari ed eseguito per la Chiesa barese 12. Esso, come dimostra la miniatura raffigurante gli imperatori Basilio II e Costantino XI, fu composto prima del 1025, data di morte di Basilio. Ma il fatto che l'Exsultet sia stato scritto per la Chiesa barese e sia da essa tuttora conservato, non significa necessariamente che esso sia nato nello scrittorio arcivescovile. Occorre, per ammettere ciò, un'altra conferma. E questa è fornita da alcuni documenti di arcivescovi baresi, anch'essi della prima metà dell'XI secolo, nei quali è adoperato lo stesso tipo di scrittura, e in particolare da tre privilegi emanati dall'arcivescovo Nicola, rispettivamente nel maggio del 1036, nell'ottobre del 1039 e nell'aprile del 1047, attualmente conservati nell'archivio del monastero della SS.ma Trinità di Cava dei Tirreni 13. Essi sono opera di uno stesso scriba, Lademario, suddiacono e scriniario della Chiesa di Bari, e presentano le medesime caratteristiche grafiche dell'Exsultet I. Tali caratteristiche contraddistinguono anche un privilegio di Giovanni III arcivescovo, dell'aprile 1024 14, e un atto privato barese vergato nel dicembre del 1027 da un diacono Pandone, che presenta al centro una grande e bella miniatura (cf. Tav. I), del tutto corrispondente, nella tecnica del disegno, a quelle che costellano l'Exsultet il dell'Archivio della Cattedrale di Bari, comunemente (ed erratamente) attribuito alla fine del secolo XI o ai primi anni del secolo seguente 15. Ciò rivela che tra l'ambiente dei religiosi baresi rogatari di documenti e lo scrittorio arcivescovile, nell'ambito del quale, dopo il primo, deve essere stato eseguito anche il secondo Exsultet, correvano rapporti molto stretti, e conferma l'influenza che la scrittura documentaria pugliese può avere avuto sulla formazione della libraria di Bari. Ouesta influenza non può comunque bastare a spiegare compiutamente la nascita di una scrittura quale quella « ba12 Cfr. F. BABUDRI, L'Exultet di Bari del secolo XI, in «Archivio storico pugliese», X (1957), pp. 8-169, con bibl. 14 Cfr. Note ed ipotesi, cit., pp. 108-9. 14 Cfr. Note ed ipotesi, pp. 108-9. 15 Cfr. Note ed ipotesi, cit., p. 109; ripr. dell' E x u l t e t I I i n M. AVERY, T h e E x u l t e t R o l l s o f s o u t h I t a l y , I I , Princeton 1936, tavv. XXVII-XXXIII. 7 rese », i cui schemi formali furono creati e diffusi in un periodo di tempo estremamente breve, compreso nei primi anni dell'XI secolo; tale costatazione già ci indusse ad affacciare qualche tempo addietro l'ipotesi della diretta ispirazione degli scribi dell'episcopio barese a un modello diverso, e precisamente a una scrittura non latina, ma greca: la scrittura, cioè, dei documenti imperiali emanati dalla cancelleria di Bisanzio, che presenta analoghe caratteristiche generali di rotondità, linearità, uniformità di tratteggio, nonchè l'uso, tipico dell'ambiente greco-bizantino, di un calamo a punta sottile 16. Tale ipotesi non può apparire strana, ove si consideri il notevole numero di persone che nella Bari dell'XI secolo sapeva scrivere in greco 17 e il fatto che lo stesso scriba dell'Exsultet I vergò nei medaglioni del rotolo e con lo stesso calamo i nomi dei santi in eleganti capitali greche. Niente di più facile, dunque, che a Bari, città profondamente legata, come abbiamo visto, a Bisanzio, esistessero nell'arcivescovado una o più crisobolle imperiali, e che ad esse gli scribi (o lo scriba) della cancelleria o dello scrittorio della Chiesa barese, dovendo, per incitamento dell'arcivescovo (quale: Crisostomo o Giovanni III?) vergare i privilegi arcivescovili e i codici della cattedrale in forme più degne che non per il passato, volgessero gli occhi e l'attenzione, adottando anche, perchè la concordanza fosse più completa, il calamo greco che permetteva di tratteggiare forme più leggere e sottili. L'assunzione di modelli grafici greci da parte degli scribi dell'episcopio barese, che fu, se non andiamo errati, alle origini della canonizzazione della scrittura libraria locale, non deve però far credere ad una prevalenza decisiva dell'elemento bizantino nella cultura pugliese del tempo, che era, come si è già detto, al livello degli usi, delle leggi, delle costumanze, profondamente longobarda. È, questo della barese, infatti, uno di quei casi in cui i rapporti fra scrittura e ambiente culturale si rivelano assai complessi, in quanto determinati dall'incontro di disparati e contrastanti elementi, che nel caso specifico possono riassumersi così: una popolazione latina, longobardizzata nella onomastica e nelle costumanze, ma per lungo tempo indipendente dal dominio beneventano e legata invece a quello di Bisanzio; una scrittura documentaria sostanzialmente di tipo beneventano, ma via via sempre più originale nelle forme; una classe dirigente che amava imitare nelle forme esteriori della vita (vesti, lusso, titoli, a volte anche scrittura) gli usi greci, ma che aspirava ad una indipendenza di fatto; e infine un ceto ecclesiastico prevalentemente latino, ma a volte guidato da presuli greci, che si nutriva di una cultura religiosa ristrettamente tradizionale 18, ma che nell'elaborazione di una scrittura nuova preferì volgersi ad esempi aulici provenienti dalla lontana Bi16 17 Cfr. Note ed ipotesi, cit., pp. 111-2 e tav. IX. Cfr. BABUDRI , l ' E x u l t e t , cit., pp. 40-1 e Note ed ipotesi, cit., p. 112, n. 4. 8 SCRITTURA E CULTURA IN PUGLIA Tav. II – Bibl. Apost. Vaticana. Ottob. lat. 296, c. 1v. sanzio. Ci pare, insomma, che proprio il contrasto di questi elementi diversi finisse per costituire fra X e XII secolo la ragione e il carattere distintivo della cultura pugliese, il cui aspetto più evidente e notevole fu indubbiamente costituito dalla produzione monumentale; e che nella sintesi di elementi grafici beneventani e di stile calligrafico bizantino, forse inconsapevolmente tentata nello stesso periodo dagli scribi della Puglia centrale, si possa legittimamente riconoscere un valore di simbolo di una cultura provinciale e tradizionale nei contenuti, ma originale nei modi espressivi; ed è appunto questo il valore che la scrittura nata ai primi dell'XI secolo fra le pareti dell'episcopio di Bari finisce per assumere ai nostri occhi. I manoscritti vergati in scrittura barese sono abbastanza numerosi: già nel 1914 il Lowe ne elencò trentuno 19, di cui sette almeno non pugliesi, ma dalmati, in quanto il tipo grafica sorto a Bari ai primi dell'XI secolo emigrò ben presto, insieme con la beneventana classica, sull'opposta sponda dell'Adriatico per mezzo degli attivi scambi culturali che collegavano allora i monasteri benedettini di Puglia e di Dalmazia, secondo un processo che Giuseppe Praga e Viktor Novak hanno ben ricostruito 20, A quei primi ritrovamenti ne sono seguiti altri 21, per cui oggi si può calcolare a circa quaranta il numero dei manoscritti (o frammenti di manoscritti) in scrittura barese prodotti in Puglia fra XI e XIII secolo a tutt'oggi rinvenuti. Non tutti questi codici furono scritti a Bari. L'area di diffusione della scrittura barese, pur volendone escludere in questa sede la Dalmazia, fu piuttosto vasta, perchè andò almeno da Bari a Monopoli, a Bisceglie, spingendosi occasionalmente a nord sino a Troia. Purtroppo finora non è stata sufficientemente studiata l'origine delle singole testimonianze di tale fenomeno grafico; ci pare però che si possa fin d'ora affermare che la scrittura barese servì di espressione per circa due secoli alla cultura di una gran parte della Puglia più propriamente bizantina, giungendo sino a toccare gli estremi limiti della sua area di diffusione geografica, costituiti dalla barriera naturale del fiume Fortore. 18 Per alcuni codici di autori classici, cfr. l'elenco dei codici in scrittura barese fornito dal LOWE, in The Beneve n tan Script, cit., pp. 151-2 e in A new list of beneventan manuscripts, in Collectanea Vaticana in honorein Anselmi M. Albareda, Città del Vaticano 1962 (Studi e Testi, 220), pp. 222, 224, 240, e tav. III. 19 The Be neventan Script, cit., pp. 151-2. 20 Cfr. la relativa bibl. in Note ed ipotesi, cit., p. 102, nota n. 2, cui deve aggiungersi del NOVAK almeno il saggio La paleografia latina e i rapporti dell'It alia meridionale con la Dalmazia, in « Archivio storico pugliese », XIV (1961), pp. 145155. 21 LOWE, A new list, cit., e M. MURJANOFF - R. QUADRI, Zum bene ventanischen Schrifttum und Initialornamentik, in « Italia medioevale e umanistica», VIII (1965), pp. 309-21. 9 Le vicende della colonizzazione bizantina della Daunia avvenuta nel secondo decennio del secolo XI sono ben note e non è questa la sede per ripeterle ancora una volta. Basterà qui ricordare che, ritiratisi dopo la battaglia di Stilo Germanici e Saraceni dall'Italia meridionale, i Bizantini intrapresero una nuova e decisa avanzata nella Puglia settentrionale, che li portò alla riconquista prima di Ascoli, fra il 981 e il 983, poi di Lesina. In tal modo il Fortore diveniva un confine politico effettivo, oltre che un preciso limite geografico, tra il principato beneventano e il Gargano bizantino, e tale sarebbe rimasto sino all'invasione normanna, per merito della efficace opera di colonizzazione e di fortificazione compiuta dal Boioannes, che culminò nel 1018 nella fondazione di Troia e creò o ripopolò altri centri vicini, come Dragonara e Fiorentino 22. I decenni che corsero fra la fondazione di Troia nel 1018 e la battaglia di Civitate nel 1053 costituirono il periodo più felice del Gargano bizantino, periodo dominato dalla figura dell'arcivescovo sipontino Leone 23 e dal primo manifestarsi di una ricca produzione monumentale in diversi centri della zona 24 È probabile che in questo stesso periodo negli stessi centri siano stati prodotti, oltre che opere d'arte, anche codici; ma di tale produzione non ci è rimasta alcuna traccia riconoscibile. Diversa è la situazione per Troia. In questa città, infatti, fu molto probabilmente scritto qualche tempo prima del 1060 uno dei più bei manoscritti esistenti in scrittura barese, l'Omiliario VI B 2 della Biblioteca Nazionale di Napoli 25. La storia del codice è compendiata nella nota d'acquisto, che il compratore, « Letus abbas », tracciò in fluida « barese » sul recto della prima carta 26. Fra i personaggi nominati come testimoni all'atto di vendita almeno due risultano noti anche da altre fonti. Essi sono: Giovanni vescovo della città, che succedette nel 1041 ad Angelo, ucciso in battaglia quell'anno dai Normanni, e che go. vernò la Chiesa troiana fin verso la fine del sesto decennio del Cfr. per questo soprattutto W. HOLTZMANN, Der Katepan Boio annes und die kirchliche Organisation der Capitanata, in « Nachrichten der Akademie der Wissenschaften in Göttingen », phil.-hist. klasse, 1960, 2, nonchè C. G. MOR, La difesa militare della Capitanata ed i confini della regione al principio del secolo XI, in « Papers of the British School at Rorrne », XXIV (1956), pp. 29-36. 23 Cfr. Codice diplomatico del monastero benedettino di S. Maria di Tremit i , a cura di A. PETRUCCI, II, Roma 1960, p. 25, e Italia pontificia, IX, Samnium Apu lia Lucania, a cura di W. HOLTZMANN, Berolini 1962, p. 235 (con bibl.). 24 Cfr. per questo ALFREDO PETRUCCI, Cattedrali di Puglia, Roma, 2a ed., 1964, pp. 37-41. 25 Per il quale cfr. M. AVERY, A manuscript from Troia: Naples VI B 2, in Mediaeval Studies in memory of A. Kingsley Porter, a cura di W. R. W. Koehler, I, Cambridge 1939, pp. 153-64, con ripr.; cfr. anche ARNESE, I codici, cit., n. 3 pp. 734; cfr. ibid., pp. 20-1, per altri codici troiani notati. 26 Il testo scritto da Leto è il seguente: « Recordatione facio ego Letus abbas de ista homelia quod comparavit in civitate Troia ante Hio22 10 secolo 27; e Giovanni « de Ursengario » tumarco, che, ancora privo di questo titolo, compare in un documento troiano del 1040 come garante del suocero Pietro Natali « tepoteriti » imperiale 28. Se ne può concludere che il codice fu venduto a Leto dopo il 1041 e prima del 1059, e che perciò fu sicuramente scritto nei primi anni di vita della nuova città. Si potrebbe in verità obbiettare che l'Omiliario di Napoli potrebbe anche essere stato scritto ed ornato lontano da Troia, a Bari stessa, ad esempio, per essere quindi portato nella città dauna e subito dopo venduto. Ma il fluido disegno delle lettere e l'andamento stesso della scrittura, leggermente più corsivo che non nei primi esempi di Bari (cf. Tav. III), fanno dubitare di un'origine schiettamente barese del codice, mentre i disegni che lo adornano, stando a quanto ha concluso l'Avery, mostrano influenze campane ben precise 29. L'ipotesi di un'origine troiana dell'Omiliario di Napoli trova dunque conforto in tali sia pur lievi deviazioni dal canone proprio della scrittura barese e nel particolare stile dei disegni, in quanto Troia, benchè di fondazione tutta bizantina, apparteneva nell'XI secolo ad un'area culturale ben diversa da quella della Puglia centromeridionale. La Capitanata e il Gargano, infatti, risentirono costantemente l'attrazione culturale delle vicine aree longobarde, o subirono per un breve periodo, nel corso dello stesso X secolo, la diretta dominazione dei Longobardi, spintisi nel 965 sino a Lesina e nel 973 giunti a Siponto 30. In tutta la Puglia settentrionale inoltre fu presente e determinante nel X e soprattutto nell'XI secolo l'influenza dei grandi monasteri campani di Montecassino, Cava dei Tirreni, San Vincenzo al Volturno e S. Sofia di Benevento, che vi possedevano beni, diritti e dipendenze 31. Tutto ciò può spiegare perchè un tipo di scrittura quale quello barese, nato ai primi dell'XI secolo nella maggiore città pugliese e prontamente diffusosi in altri centri della regione circonvicina e in Dalmazia, non sia riuscito ad affermarsi stabilmente h(annes) episcopus et Ambrosius archipresbiter et Iohannes de Ursengarii trumarcho da Iohannes sacerdos fi(lius) de Guido et guadia michi dedit et mediatore michi posuit seipsum et boni fratres eius ». L'annotazione è parzialmente ripetuta nella stessa carta da altre due mani, delle quali la prima si limita a riprodurne in piccola e rotondeggiante beneventana il solo primo rigo, mentre l'altra, più tarda (XII secolo?) ricopía in beneventana assai pesante quasi tutto il breve testo. 27 Cfr. Italia pontificia IX, cit., p. 203. 28 Cfr. Codice diplomatico dei monastero benedettino di S. Maria di Tremiti, cit., II, n. 28, pp. 87-91. 29 Cfr. AVERY, A manuscript, cit., p. 164. 30 Cfr. per questo Codice diplomatico, cit., I, p. XXIII. 31 Sul carattere prevalentemente longobardo della cultura dei grandi monasteri benedettini dell'Italia meridionale, cfr. ora le belle pagine di N. CILENTO, Italia meridionale longobarda, Milano-Napoli 1966, pp. 7-10, e dello stesso anche Le origini della signoria Capuana nella Longobardia minore, Roma, 1966, pp. 182-8. 11 a nord dell'Ofanto, dopo il raro, se non unico, esempio offerto dall'Omiliario troiano. Nella stessa Troia, infatti, furono scritti e miniati nell'XI e nel XII secolo ben tre rotoli di Exsultet, il primo e il più antico dei quali mostra una beneventana rotondeggiante e piuttosto fluida, ma sostanzialmente cassinese nel disegno e nell'aspetto generale 32, mentre decisamente lontana dal canone barese appare la scrittura degli altri due rotoli prodotti nel corso del XII secolo 33. Nella Biblioteca Nazionale di Napoli, oltre al già citato Omiliario, è conservato un gruppo di codici provenienti dalla collezione di un napoletano, Giacomo Emilio Cavalieri, che fu vescovo di Troia fra il 1694 e il 1726 34. Di essi soltanto uno, il VI G 34, può vantare un'origine sicuramente troiana ; si tratta di un Processionale in beneventana cassinese con notazione neumatica, nel quale è esplicitamente menzionata la « pleps troiana » (c. 113r), databile intorno alla fine del secolo XII o agli inizi del Duecento, con aggiunte in gotica e in minuscola cancelleresca. Dei codici più antichi del gruppo, è probabilmente troiano il VI B 11, contenente il Commentario alle Epistole di S. Paolo attribuito ad Aimone di Halberstadt ; si tratta di un manoscritto della fine dell'XI secolo, la cui prima parte è scritta in una beneventana che nel tratteggio uniforme e nel disegno non spezzato delle lettere mostra di aver subìto l'influenza barese. In scrittura schiettamente barese è invece il manoscritto VIII B 6, contenente un'ampia raccolta di vite di santi; vergato da più mani, ora con tratteggio pesante, ora (cc. 75r-145v) con pieno rispetto del canone della barese, questo codice rivela nelle iniziali (cf. in particolare le cc. 38r e 134r) una certa somiglianza con l'ornamentazione del già più volte ricordato Omiliario VI B 2. L'esiguo numero di manoscritti sicuramente o probabilmente troiani qui elencati non costituisce prova dell'esistenza a Troia fra XI e XIII secolo di un vero e proprio centro scrittorio organizzato, anche se appare estremamente probabile che nella città si scrivessero codici per uso del clero locale. La stessa biblioteca vescovile veniva però sicuramente accresciuta anche con codici acquistati altrove; e di ciò fanno fede i due ben noti cataloghi dei doni offerti alla propria chiesa dal vescovo di Troia Guglielmo II fra il 1108 ed il 1137, di cui il primo si trova in un codice da lui donato, ma certamente non Cfr. AVERY, The Exultet Rolls, cit., I, p. 37; II, tavv. CLXIV-VII. Cfr. AVERY, The Exultet Rolls, cit., I, pp. 37-40; II, tavv. CLXXICLXXXV. 34 Cfr. LOEW, The Beneventan Script, cit., p. 77. Per il Cavalieri, cfr. R . RITZLER-P. SEFRIN, Hierarchia catholica, V. Patavii 1952, p. 392; il vescovo troiano morì n el 1726, non, come riporta il Loew, nel 1739. 32 33 12 scritto nella città dauna 35. Dai due elenchi si ricava che in quel periodo Guglielmo II donò alla propria chiesa ben ventisette codici, nessuno dei quali sembra comunque corrispondere ai manoscritti di provenienza Cavalieri cui abbiamo più sopra accennato. In un monastero sito nei pressi di Troia, S. Lorenzo « in Carminiano » 36, un paziente scriba di nome Ascaro vergava intanto in più di venti anni, fra il 1145 e il 1165, uno splendido codice di grande formato contenente (ed è la seconda volta che incontriamo in territorio troiano quest'opera) il commentario paolino attribuito ad Aimone di Halberstadt (Bibl. Naz. Napoli, VI B 3) 37. La scrittura di Ascaro è una beneventana cassinese dal tratteggio ora più, ora meno contrastato (cf. Tav. IV); nell'ornamentazione ad elementi cassinesi sembra accompagnarsi qualche motivo di stile pugliese. In classica scrittura barese (lo si riferisce soltanto per scrupolo) sono però alcuni frustuli di pergamena tagliati da un codice probabilmente biblico ed usati per rinforzare il dorso del primo e dell'ultimo fascicolo del codice; ma nessuno potrà mai dirci quando e dove quest'opera di rinforzo (che si ripete pure nel manoscritto napoletano VI AA 4, cc. 207, 214, 260, anch'esso proveniente dalla collezione Cavalieri) sia stata eseguita 37 bis. La beneventana di tipo cassinese sembra essere stata l'unica scrittura libraria adoperata nel XII secolo in Capitanata e nel Gargano. Oltre che a Troia e a S. Lorenzo « in Carminiano », essa era usata anche in altri centri religiosi della zona, e precisamente nel monastero femminile di S. Cecilia presso Foggia 38, in quello di S. Maria delle isole Tremiti 39 e in quello di S. Maria di Gualdo Mazzocca 40. 35 E precisamente nel ms. VI B 12 della Biblioteca Nazionale di Napoli, del periodo 817-835, contenente il De vita contemplativa di Pomerio: cf. LOEW, The Beneventan Script, cit., p. 376 (con rinvio alle pp.): e dello stesso Scriptura beneventana, Oxford 1929, I, tav. XIV; per l'edizione dei; due cataloghi, cfr. CARABELLESE, L'Apulia, cit., pp. 528-31. 36 Per il quale cfr. Italia pontificia IX, cit., p. 227. 37 Cfr. LOEW, The Beneventan Script, cit., pp. 59, 322; Id., Scriptura beneventana, cit.. II, tav. LXXXVII. 37 bis Alla Puglia setentrionale pare che debba essere assegnato anche un Messale in scrittura barese della metà del secolo undecimo, conservato nella Walters Art Gallery di Baltimora (ms. W 6). Secondo i benedettini di Solesmes (Paléographie musicale, XV, Tournai 1953, pp. 76 e 176) il codice potrebbe essere stato scritto o nel santuario di S. Michele sul Gargano, o a Canosa, e questa seconda ipotesi ci sembra più probabile dell'altra. Per lo stesso codice, cfr. anche: 2000 Years of Calligraphy, Baltimore 1965, p. 35, n. 17, con tav. 38 Cfr. Italia pontificia IX, pp. 224-5, con bibl. 39 Cfr. Codice diplomatico, cit. 40 Cfr. Italia pontificia IX, pp. 107-8, con bibl. 13 Del monastero di S. Cecilia, dipendente da quello garganico di S. Maria di Pulsano, la Biblioteca Nazionale di Napoli conserva un Martirologio della seconda metà del XII secolo (VIII C l3)41, che alla fine (c. 60v) reca anche l'inizio della Regola di S. Benedetto. La scrittura di questo codice è una beneventana cassinese di modulo grande e molto accurata; l'ornamentazione è costituita da grandi iniziali a intreccio e motivi zoomorfi in rosso e verde e da quattro disegni colorati (cc. 3v, 13v, 14r, 27v), uno dei quali rappresenta lo stesso fondatore del monastero di Pulsano, Giovanni Scalcione (c. 27v). Nei margini del codice compaiono qua e là, vergate da mani diverse del secolo XIII, numerose note obituarie di monache del convento di S. Cecilia 42, nonchè la menzione di santi particolarmente venerati in quel monastero. Il monastero benedettino di S. Maria di Tremiti, oltre al ricco catalogo della biblioteca isolana, databile al 1174-1175 43, ci ha lasciato anche un manoscritto contenente la copia di un certo numero di documenti pubblici e privati relativi ai beni di quella comunità monastica dai primi del Mille al 1163, e attualmente conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana (Vat. lat. 10657) 44. Opera di cinque scribi diversi operanti nell'isola intorno ai primi anni del Duecento, il Chartularium Tremitense rivela a prima vista le caratteristiche tipiche di un centro scrittorio in decadenza; la pergamena di pessima concia, la scrittura rozza ed irregolare di alcuni degli scribi, le diversità grandi di formato e di allineamento, confermano questa impressione, con la quale soltanto apparentemente contrastano la regolarità calligrafica del primo amanuense e la grazia di alcuni minori elementi (cf. Tav. V)45. Da un'altra zona estrema della Capitanata, sottoposta al contatto diretto con il territorio beneventano e all'influenza preponderante sia sul piano economico, che su quello culturale del monastero di S. Sofia di Benevento, proviene un secondo cartulario, di poco più tardo di quello tremitense: il Chartularium del priorato benedettino di S. Matteo « de Sculcula » in territorio di Dragonara 46. Questo codice contiene la copia di docu41 Cfr. C. ANGELILLIS, Pulsano e l'ordine monastico pulsanese, in « Arch ivio storico pugliese », VI (1953), pp. 440-1; LOWE, A new list, cit., p. 228; PETRUCCI, Cattedrali, p. 56. 42 Cfr. ad esempio la nota di c. 22 v : « Die veneris vicessimo mensis madii secunde indicionis. Obitus sororis Stephanie neptis fratris Guidonis prioris Sancte Cecilie, cuius anima vivat in Christo. Amen. Anno millesimo ducentessimo quadragessimo quarto ». 43 Edito in A. PETRUCCI, L'archivio e la biblioteca del monastero benedettino di S. Maria di Tremiti, in « Bullettino dell'Archivio paleografico italiano », n. s., II-III (1956-57), parte I I , p p . 306-7, e riedito in Codice diplomat i c o , cit., I I , p p . 369-71. 44 Cfr. Codice diplomatico, cit., I, pp. CLV I I I -CLXXVII. 45 Cfr. Codice diplomatico, cit., I, pp. CLXXII-s 46 Per il codice, cf. A new list, cit., p. 227; Italia pontificia IX, cit., p. 108. 14 menti datati dal 1177 al 1238 relativi ai possessi del priorato e a quelli della casa madre, l'abbazia di S. Maria « de Gualdo », sita nel territorio dell'attuale comune di Foiano Valfortore, a pochi chilometri dal naturale confine del Sannio con la Capitanata. Il cartolario di S. Matteo mostra una tarda beneventana di tipo cassinese e molto probabilmente fu scritto nella casa madre e non a « Sculcula ». Tutti sappiamo, però, che negli argomenti e periodi di cui qui si tratta, è assai difficile, anzi senz'altro pericoloso, tracciare rigidi confini geografici. Ciò ci valga di scusa per aver voluto inserire in questa rassegna di codici e di scrittorii pugliesi, non soltanto il cartolario di S. Matteo, ma anche un martirologio proveniente proprio dall'abbazia di S. Maria « de Gualdo », che del resto aveva possedimenti, benefattori ed interessi soprattutto in Capitanata e, come si è già detto, distava dal Fortore soltanto pochi chilometri. Il Martirologio gualdese (oggi Vat. lat. 5949) 47, databile fra il 1197 ed il 1203, è un codice di grande formato, scritto in pesante beneventana di modulo ampio, un po' rigida nel tratteggio e artificiosa nelle forme, ma molto calligrafica; esso contiene, oltre a testi diversi, anche il necrologio della comunità monastica fino al XV secolo. L'ornamentazione, a base di grossi intrecci vivacemente colorati e, da c. 121r in poi, di elementi zoomorfi ed umani fantasiosamente combinati, è di stile puramente cassinese ; più incerte nel disegno vi appaiono talune iniziali nelle quali il miniatore ha voluto raffigurare brevi scene di vita monastica (cf. cc. 128v, 161r, 170r). Molto probabilmente alla mano dello scriba va invece attribuito il bel disegno posto in testa alla carta 231r, che raffigura un amanuense al suo banco, dinanzi al quale si trova, in piedi, l'abate del monastero: un autoritratto, dunque, del quale non può essere negata la forte suggestione (cf. Tav. VI). Con l'inizio del XIII secolo la beneventana era ormai giunta in Puglia al termine della sua parabola, e gli scribi che in ogni luogo si sostituivano ai vecchi monaci benedettini preferivano adoperare i nuovi tivi grafici importati dall'esterno: la minuscola di tipo carolino o addirittura la gotica. Dalla beneventana alla gotica si passò di colpo anche nelle isole Tremiti con il 1237, quando cioè ai benedettini furono sostituiti i cistercensi di S. Maria di Casanova degli Abruzzi 48; ma già lo stesso Chartularium rivela nella mano di un correttore coevo l'uso di una minuscola di tipo carolino, mentre gli archivisti isolani introducevano nella loro tarda beneventana sempre più numerosi elementi minuscoli 49. 47 Cfr. A. CASAMASSA, Per una nota marginale del Cod. Vat. lat. 5949, in « Antonianum », XX (1945), pp. 201-26. 48 Cfr. Codice diplomatico, cit., I, pp. CLXXXIV. 49 Per l'uso in Tremiti di scritture diverse dalla beneventana, cf. A. PETRUCCI, Postille alla questione « beneventana » e non « beneventana » nei documenti dell'Italia meridionale, in « Archivio storico per le province napoletane », 3 a serie. I (1961), p p . 169-74. 15 Un identico processo è in atto fra XII e XIII secolo anche in altri centri scrittorii della Puglia settentrionale: a Troia i testi aggiunti nel XII secolo al già ricordato codice di Pomerio (Napol. VI B 12) mostrano con grande evidenza un graduale passaggio dalla beneventana alla minuscola di tipo carolino ; nel monastero di S. Cecilia le note del XIII secolo aggiunte al testo in beneventana del ricordato Martirologio sono tutte in scritture di diverso genere; nel necrologio del monastero di S. Maria di Gualdo Mazzocca, infine, alle molte mani che ancora ai primi del secolo XIII adoperano la beneventana se ne sostituiscono intorno al 1240 altre che scrivono in minuscola cancelleresca o in gotica libraria. Nella Puglia centromeridionale, intanto, la scrittura « barese », già espressione per due secoli di una cultura e di un gusto grafico particolari, veniva gradualmente perdendo le proprie caratteristiche e la propria eleganza. Forme più piccole, a volte addirittura minute, tratteggio più pesante, incertezza nell'esecuzione e nel gusto, non le fecero perdere però per tutto il XII e anche nel XIII secolo la sua individualità: l'individualità di una scrittura già vecchia e superata dopo appena due secoli di vita, che alcuni amanuensi, ignari degli eventi che, alle soglie dell'età sveva, ormai maturavano, continuavano a tracciare ostinatamente sui loro fogli di pergamena, insieme a fantastiche figure di animali, di mostri, di uomini, irrimediabilmente brutte a fianco dell'ellenistico angelo dell'Evangeliario Ottoboniano ormai per sempre dimenticato 50. In campo documentario i rogatari pugliesi avevano in tutta la regione abbandonato, molti anni prima degli scrittori di codici, le tradizionali scritture di tipo beneventano. Nella zona di Bari la documentaria pugliese subì già fra la seconda metà dell'XI secolo e il secolo seguente una rapida evoluzione caratterizzata da un progressivo infittirsi delle aste, da un tratteggio sempre più angoloso, da forme via via più minute, per poi scomparire di fronte alla minuscola diplomatica di tipo carolino importata ed imposta nell'uso documentario dai Normanni 51 . Si osserva, dunque, dopo un breve periodo di concorde sviluppo, un sempre più accentuato divario fra uso librario e uso documentario. Il fenomeno è, da un certo punto di vista, naturale, in quanto le scritture canonizzate come sono quelle librarie - rimangono sempre meno sensibili a tendenze innovatrici di quanto non possano esserlo le documentarie non cancelleresche, libere da tradizione, largamente diffuse e perciò spesso soggette ad influenze di ogni genere. 50 51 R i p r . i n Note ed ipotesi, cit., tav. V. Note ed ipotesi cit., p. 113. 16 SCRITTURA E CULTURA IN PUGLIA Tav. III – Bibl. Naz. di Napoli. VI B 2, c. 137r D'altra parte ci sembra che nella Puglia centrale questa diversità di sviluppo nasconda un significato diverso e più particolare. La documentaria pugliese era all'inizio dell'XI secolo la scrittura dei religiosi che, in Bari e nei centri circonvicini, rogavano documenti per i privati, era cioè la scrittura normale di una categoria che faceva capo all'episcopato barese; e quando nello scrittorio arcivescovile alcuni amanuensi (anch'essi religiosi) crearono la libraria, questa fu una scrittura che della documentaria aveva canonizzato le fondamentali tendenze e caratteristiche. Nessuno potrà dirci con esattezza quali e quanti sconvolgimenti abbia apportato nella Bari e nella Puglia centrale, fino ad allora bizantine, la conquista normanna del 1071. Ma certo in Bari la potenza del clero filogreco fu spezzata, così come fu rovesciata la vecchia classe dirigente dei pr oprietari insigniti di dignità bizantine e legati ai catapani. L'assunzione di Elia all'arcivescovado significò nel 1089 un rovesciamento della situazione precedente anche in campo religioso. Egli, benedettino, portò un indirizzo filoromano nella politica dell'arcidiocesi e si legò ai nuovi ceti mercantili e marinari della città, già da tempo insofferenti della dominazione greca. Ciò é noto, ed è stato già ampiamente espresso e documentato da altri 52 . Ma come credere che sconvolgimenti così gravi in campo politico e religioso non abbiano avuto i loro riflessi anche in campo culturale? Negli ultimi decenni dell'XI secolo cominciarono ad operare in Bari rogatari laici; d'altra parte i Normanni diffusero la minuscola cancelleresca di tipo carolino adoperata dai loro scribi nelle cancellerie ducali e comitali di Puglia, inducendo sia i notai baresi, sia i rogatari degli altri centri pugliesi ad abbandonare le vecchie forme, legate a tradizioni ormai rinnegate, per adottare la scrittura nuova, la scrittura dei conquistatori 53 . Più a nord, nelle maggiori città della Capitanata, già prima del 1050 vivevano ed operavano numerosi notai laici, che venivano gradatamente sostituendosi ai diaconi e ai chierici attivi come rogatari nella prima metà del secolo: così avveniva a Troia, così a Luc era 54 . In ciò il notariato di Capitanata non faceva che seguire un processo di mutamento in corso anche nelle vicine zone del Molise e del Sannio 55 ; tale processo fu nel Gargano, invece, assai più lento ed incerto, in quanto la 52 C f r . CARABELLESE, L'Apulia, cit., pp. 324-37. Per la documentazione del processo cui qui si accenna, cfr. Note ed ipote si, cit., p. 114, note nn. 2 e 4. 54 Cfr. per questo A. PETRUCCI, Note di diplomatica normanna. II. Enrico conte di Montesantangelo ed i suoi documenti, in « Bullettino dell'Istituto storico italiano per il medio evo ed Archivio muratoriano », 72 (1961), p. 143. 55 Cfr. Codice diplomatico, cit., I, pp. CXCVI-CXCIX. 53 17 documentazione vi rimase per tutto il secolo XI monopolizzata da suddiaconi, diaconi, presbiteri, con poche eccezioni 56 . Questa diversità non influì nè sul formulario dei documenti, nè sulla loro scrittura, in quanto i primi rogatari laici dell'XI secolo rimasero fedeli, nella Puglia, settentrionale, alle forme tradizionali loro trasmesse dai predecessori ecclesiastici 57 , anche quando dovettero passare al servizio dei primi signori normanni. Un caso veramente singolare è a questo proposito rappresentato dai documenti di Enrico conte normanno prima di Lucera, poi di Montesantangelo, noto fra il 1078 e il 1101, e signore per lunghi anni di parte della Capitanata e dell'intero Gargano 58 . Quattro di essi, redatti a Monte fra il 1086 e il 1101 da un « clericus et notarius » locale di nome Giovanni, presentano un particolare tipo di scrittura, fondamentalmente beneventano, ma reso più elegante e solenne dall'uso di artifici cancellereschi, quali l'allungamento delle aste alte, le abnormi proporzioni dei segni di compendio, l'uso di particolari lettere maiuscole per le sottoscrizioni non autografe dei testimoni 59. Un solo documento di Enrico, redatto nel 1098 da un « protonotarius » Guglielmo, presenta la tipica scrittura delle cancellerie normanne: una minuscola, cioè, di tipo carolino, con le aste alte aperte a forcella in cima 60 ; ma quest'esperimento rimase nella regione isolato, poichè fino ai primi decenni del XII secolo, i notai di Capitanata e del Gargano continuarono ancora concordemente ad adottare una scrittura di tipo beneventano con spezzature nette nel tratteggio e andamento corsivo 61. Soltanto con la metà del secolo XII (ma in campo librario, è bene rammentarlo, la beneventana regnava ancora sovrana) la minuscola diplomatica di tipo carolino si introdusse stabilmente nei documenti privati pugliesi. Per il Gargano un bell'esempio è fornito dallo splendido documento rogato a Tremiti nel 1152 da un notaio Roberto « Borscelli » in una elegantissima scrittura cancelleresca che sembrerebbe uscita dalla curia regia di Palermo 62 . Meno di un decennio appresso si affacciava anche in Puglia l'uso documentario della gotica primitiva di tipo librario, con gli atti rogati a Salpi da un « Homodei », « regius Salpine civitatis protonotarius », calligrafo di rara abilità 63 . Di un analogo tipo di scrittura si serviva a Bari nel 1201 il protonotario 56 Cfr. 57 PETRUCCI, Note di diplomatica, cit., p. 145. C f r . PETRUCCI, Note di diplomatica, cit., pp. 144-5. 58 C f r . PETRUCCI, Note di diplomatica, cit., pp. 135-43. 59 C f r . PETRUCCI, Note di diplomatica, cit. pp., 158-60. 60 Cfr. PETRUCCI, Note di diplomatica, cit., p. 160. 61 Cfr. PETRUCCI, Note di diplomatica, cit., pp. 160-1. 62 Cfr. Codice diplomatico, cit., III, n. 106, pp. 294-7, tav. VI. 63 E d . e ripr. in Le pergamene di Barletta. Archivio capitolare., a cura di F. Nitti di Vito, Bari 1914 (« Codice diplomatico barese », V1II), pp. 128-9, tav. VI; A. PETRUCCI, Notarii. Documenti per la storia del notariato, italiano, Milano 1958, n. 22, pp. 75-6, tav. 22. 18 Lupone, che nella ricca ornamentazione del documento ostinatamente si richiamava ai pavoni, ai cani, agli intrecci propri della miniatura pugliese di uno e due secoli addietro 64 . Nel campo della scrittura dei documenti la Puglia con la seconda metà del XII secolo mostra insomma di avere ormai perduto per sempre le originali forme stilistiche, elaborate autonomamente dai rogatari locali già alla fine del X secolo e durate nell'uso per duecento anni. Si è già visto più sopra come con i primi decenni del XIII secolo nei centri scrittorii della Puglia settentrionale alla scrittura beneventana si venne sostituendo quella gotica, in alcuni casi gradualmente, in altri, come a Tremiti, di colpo. Tale sostituzione non può considerarsi soltanto un fenomeno esclusivamente grafico, bensì anche il sintomo di un vero e proprio rivolgimento cu lturale, della sostituzione di una cultura nuova, d'intonazione scolastica e di ambito europeo, ad un'altra, ormai tradizionale, radicata da secoli nei monasteri e nelle scuole vescovili meridionali. La cultura nuova, insieme con la scrittura gotica che ne fu mezzo di espressione e di diffusione, giunse quasi dovunque in Puglia con i Cistercensi, l'ordine monastico che in molti dei monasteri già benedettini venne a sostituirsi nella prima metà del Duecento ai monaci bianchi 65 . Di tale rivolgimento culturale e grafico insieme, si ha una simbolica testimonianza nell'opera di un abate dell'abbazia di Montesacro nel Gargano, Gregorio, che resse la sua comunità dal 1220 al 1248 66. Gregorio era un tipico esponente di quella che abbiamo definito la « nuova » cultura; aveva infatti studiato teologia a Roma e a Parigi, capitale della Scolastica; e a Montesacro, fra il 1227 e il 1241, scrisse un lungo poema in esametri sulla creazione del mondo e dell'uomo, intitolato D e h o m i n u m d e i f i c a t i o n e . Come rilevò il Silvagni nel lontano 1901 67 , il poema di Gregorio è in realtà un trattato scolastico di carattere enciclopedico, redatto non con intenti letterari, ma a fini meramente didascalici. Esso è tramandato da due codici coevi, ambedue attualmente conservati nella Biblioteca Apostolica Vaticana: il Vat. lat. 5977 e il Barb. lat. 2089. I due manoscritti sono assai simili nel formato, nell'uso delle iniziali rosse e turchine e delle rubriche, nella disposizione del testo in colonna nella pagina, e infine nella scrittura (pur di mani diverse), che è la tipica go64 Ed. e ripr. in Le pergamene del Duomo di Bari, cit., p. 37, tav. VIII; P E T R U C C I , Notarii, cit., n. 29, pp. 83-4 e tav. 29, 65 Cfr. per questo Codice diplomatico, cit., I, pp. LXVI-LXVII. 66 Cfr. S. PRENCIPE, L'abbazia benedettina di Monte Sacro nel Garg a n o , S. Maria Capua Vetere 1953, pp. 69-73. 67 A. SILVAGNI, Un ignoto poema latino del secolo XIII sulla creazio ne, in Scritti vari di filologia a Ernesto Monaci, R o m a 1901, pp. 413-27. 19 tichetta scolastica del primo Duecento, chiara, ordinata e ravvivata da qualche elemento corsivo, come la g con ampia ansa della minuscola cancelleresca coeva. Fra i due codici ci pare corra una relazione molto stretta, anche per quanto riguarda la trasmissione del testo; sia perchè alcune ampie correzioni apportate nel Barberiniano appaiono inserite al loro posto nel Vaticano; sia perchè il commento che nel Barberiniano accompagna il testo, ritorna anche nel Vaticano, ma con ampliamenti cospicui; si aggiunga a queste considerazioni il fatto che il Barberiniano ha tutto l'aspetto, trascurato e tormentato, di un originale rivisto dall'autore (del quale riporta in fine anche altri componimenti), mentre il Vaticano può essere considerato senza alcun dubbio un esemplare definitivo. Il logico ragionamento finora svolto (e con esso la ragione stessa dell'inserimento dei due codici del D e h o m i n u m d e i f i c a t i o n e in questa rassegna) potrebbe rivelarsi vano, se non fosse possibile provare l'origine da Montesacro stesso di uno almeno dei due codici; ma tale prova è fortunatamente offerta da una annotazione apposta a c. 4v del codice Vaticano, dalla quale risulta che nel 1365 quel manoscritto era ancora in possesso dell'allora abate di Montesacro, Luca 68 . Si può dunque concludere affermando con sufficiente sicurezza che nell'interno stesso del Gargano, prima della metà del Duecento, venivano già prodotti codici che nell'aspetto, nel formato, nell'ornamentazione, nella scrittura infine non avevano più un determinato carattere regionale e forse neppure uno spiccato carattere italiano: chiarissimo segno, questo, della prepotente affermazione e dell'uniforme diffusione europea della cultura universitaria e scolastica e della sua propria scrittura la gotica. ARMANDO PETRUCCI 68 Cfr. P R E N C I P E , L'abbazia, cit., p p . 9 3 - 6 . L'annotazione è del tenore seguente: « Die iovis duodecimo marcii in die sancti Gregorii in civitate Taranti venerabilis pater dominus Luas abbas monasterii Montis Sacri [com]mendavit michi R[ ... ]o de Ur[.... ] palatio comiti hunc librum restituendum per me sibi ad omnem eius requisicionem. Anno Domini MCCCLXVI quarte indictionis, tempore domini Urbani pape V». 20 Il “ Servizio nazionale di lettura „ in Capitanata In questi ultimi tempi, fervore di opere, discussioni e notizie di stampa hanno portato all'ordine del giorno il problema della diffusione della cultura nella nostra provincia. Qui, nonostante quello che finora dal punto di vista culturale è stato fatto, il problema non era stato mai affrontato con visione unitaria, nel suo complesso e in maniera così concreta. La scuola d'obbligo ha avvicinato la massa dei giovani al libro, sia pure attraverso il lavoro di ricerca che, nato per essere lavoro di gruppo, si risolve, il più delle volte, in una frettolosa copiatura da questo o quel librone. Ma l'incontro dei più piccoli con il libro - in una libera palestra di democrazia, qual'è la biblioteca pubblica - è un fatto di grande importanza e sta a noi far sì che questo incontro avvenga nelle migliori condizioni perchè il bambino di oggi sia l'attento e assiduo lettore di domani. I pilastri sui quali dovrebbe poggiare questa nuova opera di rinnovamento e di incentivazione culturale sono costituiti da 3 leggi fondamentali: 1) la n. 685 del 27 luglio 1967, che approva il piano quinquennale di sviluppo nazionale; 2) la n. 717 del 26 giugno 1965, che proroga per un quinquennio l'intervento straordinario dello Stato nel Mezzogiorno; 3) la legge 31 ottobre 1966, n. 942 che agli articoli 24 e 25 promuove il finanziamento nel settore delle biblioteche pubbliche. L'articolo 104 della legge n. 685 così dice, tra l'altro: « Un importante contributo alla promozione e alla diffusione della cultura sarà dato da un sistema capillare di biblioteche, facente capo ad una biblioteca autonoma per ogni capoluogo di provincia, in grado di soddisfare le esigenze di tutti gli abitanti dei comuni, attraverso un'apposita rete di diffusione ». Nel quinquennio, oltre al rafforzamento delle 84 biblioteche di capoluoghi di provincia di proprietà degli Enti Locali, saranno create 200 biblioteche in centri minori. L'art. 20 della legge 717 prescrive che per favorire il pro21 gresso civile delle popolazioni meridionali sono promosse e finanziate attività a carattere sociale ed educativo. Tali attività possono essere rivolte anche ad assistere, nelle zone di nuovo insediamento, gli emigrati provenienti dai territori meridionali. All'espletamento di tali compiti provvede la Cassa, tramite il Centro di Formazione e Studi sulla base di programmi esecutivi predisposti in attuazione del piano di coordinamento, approvati dal Ministro per gli interventi nel Mezzogiorno. In tale piano quattro sono le direttrici indicate in ordine al conseguimento delle indicate finalità sociali ed educative 1) promozione e animazione culturale imperniata su un Centro comunitario, sede delle iniziative varie (lotta contro l'analfabetismo, educazione degli adulti, organizzato intorno a un moderno servizio di biblioteca e alla scuola); 2) potenziamento dei servizi sociali locali, in collaborazione con i quadri locali amministrativi e tecnici, assistenzali e scolastici, medico-sanitari etc.; 3) azione sociale legata alla promozione tecnico-professionale; 4) assistenza agli emigrati. Al potere pubblico non è sfuggito, pertanto, l'importanza primaria della elevazione culturale e civile delle popolazioni in ordine al tanto sospirato sviluppo economico e sociale delle popolazioni, anzi, si è riconosciuta l'importanza del fattore cultura proprio perchè si vuole che siano i valori della libertà dell'uomo a dirigere e a conseguire quel progresso civile (sociale e culturale) che noi già preavvertiamo pur nel suo faticoso divenire. Insomma è pur sempre l'uomo la misura di tutte le cose. Nel campo della organizzazione bibliotecaria il distacco che ci separa dalle altre nazioni più progredite è enorme. Noi non possiamo accettare le solite querimoniose giustificazioni (che non giustificano un bel niente) sul perchè di questo ritardo. Però dobbiamo anche onestamente affermare che se lo Stato ha trascurato in maniera così grossolana le biblioteche, ciò è potuto succedere perchè il problema non era sentito, non era compreso, interamente e integralmente, dal cittadino italiano. In breve: ogni comunità ha la biblioteca che si merita! Oggi finalmente, in mezzo a una ridda di miliardi da spendere nell'ambito del programma di sviluppo nazionale, alcuni fondi sono stati messi a disposizione della Direzione Generale delle Accademie e Biblioteche e per la diffusione della cultura. Poichè tali fondi non sono molti (45 miliardi in cinque anni), l'uomo della strada si potrà chiedere come mai proprio la Capitanata abbia avuto la fortuna di essere compresa nel numero delle provincie che beneficieranno delle provvidenze governative. Bisognerà in proposito ricordare che nell'anno 1963, quando il Ministero a titolo di esperimento decise di attuare il cosidetto « PIANO L » (L da libro e lettura), Foggia fu tra le poche provincie a mettere a punto in pochi mesi tutta l'organizzazione 22 necessaria. Alcuni comuni, per l'esattezza 14, ricevettero scaffalature e schedari. Poi il cambio della guardia alla Direzione Generale portò alla esclusione di Foggia dal Piano, che invece fu realizzato nelle più fortunate provincie di Gorizia, Cremona, La Spezia, Rieti e Lecce. Altre componenti in favore della scelta della nostra provincia sono: il riconoscimento del Gargano quale « polo » ; gli annunciati importanti insediamenti industriali e la trasformazione del nucleo industriale in area di sviluppo industriale. Tali esigenze particolari si inseriscono nel piano generale di sviluppo civile del Mezzogiorno e dell'intera nazione, essendo ormai acquisito che, in seguito alla ristrutturazione in senso veramente democratico della società italiana, lo Stato deve porre l'individuo in grado di partecipare, direttamente e indirettamente, al governo della cosa pubblica; e ciò può avvenire soltanto attraverso l'aggiornamento, l'educazione e la rieducazione degli adulti, in una parola, attraverso la cultura. La Direzione Generale delle Accademie e Biblioteche, intende perciò attuare il « servizio nazionale di lettura », articolato in sistemi provinciali facenti capo a una biblioteca di capoluogo di provincia che sarà il Centro RETE. Il traguardo è quello di dotare tutti i comuni di una biblioteca fornita di un fondo fisso costituito da opere di carattere generale e di consultazione (enciclopedie, dizionari, atlanti, codici, collane di classici italiani e stranieri, storie letterarie dei vari paesi etc.). Tale fondo sarà incrementato mensilmente attraverso il Centro Rete o - come nel caso della nostra Provincia, considerata la sua ampiezza e la particolare situazione orografica e stradale - da due sub Centri o Bacini di alimentazione (Manfredonia e S. Severo) che forniranno, a richiesta, opere di narrativa, di studio, di critica, di attualità, opere per ragazzi etc. Ai comuni, poichè ogni spesa di gestione e di impianto è a carico dello Stato, si richiederà: la delibera di istituzione della Biblioteca pubblica; la messa a disposizione di uno o più locali, a seconda del numero degli abitanti, e l'assunzione delle spese generali di illuminazione, riscaldamento e pulizia. Per il personale assunto dal Comune il Ministero interviene con un contributo di L. 20.000 mensili. E qui, il fatto nuovo, rispetto al precedente Piano: l'Amministrazione Provinciale a sua volta contribuirà con una somma, da fissare per ogni comune, a sollievo delle spese per il personale cui l'ente andrà incontro. Le spese di impianto sia delle biblioteche comunali che del Centro Rete saranno a completo carico dello Stato. E ciò sarà possibile con i fondi previsti della citata legge di finanziamento del piano di sviluppo della scuola per il quinquennio 1966-70 (legge 31 ottobre 1966, n. 942), che agli articoli 24 e 25 prevede il finanziamento del settore delle biblioteche pubbliche. 23 Possiamo assicurare che l'Amministrazione Provinciale di Foggia contribuirà in maniera concreta e determinante all'attuazione del piano in Capitanata. L'organizzazione, affidata al direttore della Biblioteca del Capoluogo, è già a buon punto. Hanno finora aderito, con riserva di inviare i relativi provvedimenti deliberativi, i seguenti comuni: Deliceto, Orsara di Puglia, Serracapriola, Carpino, Casalnuovo Monterotaro, Rodi Garganico, Carlantino, Apricena, Castelnuovo della Daunia, Motta Montecorvino, Candela, Rocchetta S. Antonio, Vieste, Alberona, Casalvecchio di Puglia, Rignano Garganico, Volturino, Margherita di Savoia, S. Ferdinando di Puglia. La Prefettura ha assicurato il suo completo appoggio. Però, insistiamo, queste biblioteche debbono essere moderne, vive, non limitate al compito della pura conservazione o sclerotizzate in attesa dell'ipotetico lettore. Dovranno i responsabili essere uomini dotati, oltre che di entusiasmo e di idee chiare, di buona cultura e capaci di sapersi avvalere di tutti i mezzi moderni per richiamare il pubblico in biblioteca: dagli impianti di audizione da tavolo e a cuffie, a tutti gli altri sussidi audiovisivi oggi a nostra disposizione. Dovrà cogliere l'occasione di un avvenimento importante della vita della comunità per mettere a disposizione dei lettori libri che consentano una conoscenza approfondita del problema o dell'avvenimento. Gli potrà soccorrere, nella sua opera - che è soprattutto opera profondamente educativa - la teoria pedagogica dell'Herbart sui « centri di interesse ». Lo squallore di tante biblioteche, anche di recente istituzione, ci ha profondamente addolorato. Non è possibile che con tanti ottimi libri e con tanti periodici che si pubblicano oggi - e non c'è che l'imbarazzo della scelta - il bibliotecario non possa trovare il modo per richiamare in biblioteca un certo numero di persone tra bambini, studenti, operai e professionisti. La visione del bibliotecario con papalina in testa e mantellina sulle spalle, che preferisce vivere in un atmosfera umbratile, avvolto in un polveroso, anche se per lui eloquente silenzio, utile soprattutto a se stesso, è superatissima. Oggi, ripeto, il bibliotecario deve vivere in mezzo alla comunità, preavvertirne bisogni e necessità, e quindi porsi, con intelletto di amore, al suo servizio. Per un formativo impiego del tempo libero bisognerà tener presente, inoltre, che le strade del futuro si trovano nello svago interiore, in quella vacatio animae in cui l'essere umano, lottando contro gli automatismi e le sollecitazioni esterne, mantiene libera la propria estrinsecazione. Noi possiamo aiutare il nostro prossimo a recuperare la propria intimità, favorendo l'incontro del lettore con il libro e, quindi offrendogli la possibilità di elevare la sua cultura al limite massimo consentito dalla direzione dei suoi interessi (interesse - in senso herbartiano - è quella maniera di attività spirituale per cui si tende ad allargare e ad ap24 profondire continuamente la sfera delle proprie cognizioni) - e qui la nostra opera si affianca strettamente a quella preziosissima della scuola - facendo sì che ogni nuova serie di cognizioni si innesti organicamente sulle vecchie cognizioni, in quanto il frammentario e l'inorganico uccidono l'interesse. E qui si innesta l'opera dei Centri di Servizi Culturali, istituiti dalla Cassa: circa cinquanta nelle provincie continentali e insulari, dei quali due in Capitanata, a San Severo e Manfredonia. Qui, e nel vasto Comprensorio garganico che ricade nella sua giurisdizione, mi risulta che l'intervento straordinario è a buon punto, avvalendosi della consulenza di Mario Simone e della collaborazione di giovani preparati ed entusiasti, ai quali egli è riuscito a trasfondere la fede nella cultura e la tecnica moderna della sua organizzazione. Anche se dai competenti organi centrali non ci sono pervenuti consigli e disposizioni per una concorde e armonica attuazione delle sue iniziative, io mi auguro che ciò possa realizzarsi in periferia ugualmente, per volontà di uomini, pensosi e preoccupati dell'avvenire e del progresso delle nostre città. Quando l'Italia avrà alla pari con le democrazie moderne più progredite una rete di biblioteche minori, collegate o alimentate, estese come le scuole in tutti i comuni, allora il compito di diffusione della cultura e quello della formazione sociale e professionale dei cittadini, assunti di necessità dalle biblioteche maggiori, diverranno ovviamente compiti principali delle biblioteche pubbliche minori, restando alle maggiori il compito della ricerca e dell'attività scientifica. Il sistema di collegamento dì queste biblioteche minori, con una biblioteca centrale (Centro Rete) o con altre biblioteche (centro di bacino di alimentazione), impedirà che le piccole biblioteche cadano nel più squallido abbandono, e, collegate, sapranno mantenersi a un livello dignitoso e offrire, anche attraverso il prestito, collegate come saranno con tutte le biblioteche pubbliche italiane e straniere, un servizio pubblico di grande utilità. Gli standards raccomandati per ogni mille abitanti, sono questi: superficie della biblioteca mq. 35; voll. 1350; posti a sedere 5 ; area per il prestito adulti mq. 10; volumi destinati al prestito per adulti 600-800; consultazione: area sezione consultazione mq. 8; voll. destinati alla consultazione 175-200; posti a sedere 2; ragazzi: area mq. 6; volumi sezione ragazzi 200; posti a sedere 2; altri servizi: area destinata ad altri servizi, libri meno usati, fuori uso mq. 11; volumi non accessibili direttamente 150-200. Inoltre nelle biblioteche di media grandezza, che abbiano a disposizione una sala di lettura e una piccola sala di consultazione, il materiale librario messo a disposizione in scaffali aperti, sarà così ripartito: prestito adulti 6%; consultazione e lettura 20'% ; sala ragazzi 20 %. 25 Se si terranno presenti questi dati fondamentali, frutto della esperienza di un grande bibliotecario, quale il Thompson, con le correzioni e le varianti che la locale situazione consiglierà (sviluppo culturale della zona, scuole esistenti, industrializzazione etc.), le nostre nuove biblioteche saranno indispensabili strumenti di progresso civile delle comunità. E se, per richiamare molti lettori e favorire l'incontro, soprattutto degli adulti, con il libro, non potremo imitare Luigi XVIII, il quale pare abbia regalato alla signora Du Cayla un bellissimo libro, con intercalati fogli di banca di grosso taglio, dobbiamo essere cautamente ottimisti e fiduciosi nel successo delle iniziative alle quali, conversando con gli amici di Manfredonia, abbiamo accennato *. ANGELO CELUZZA * Questa relazione del direttore della « Provinciale » dauna trae l'occasione dall'intervento straordinario della Cassa per il Mezzogiorno, volto alla promozione culturale del Sud, con la istituzione dei Centri di Servizi Culturali: tra essi, quello di Manfredonia, che tutti gli altri ha preceduto, tesaurizzando le esperienze del Centro di Cultura Popolare e Biblioteca « Antonio Simone » (v. in « la Capitanata » 1967, parte I, fase. 1-3, pag. 92 seg.). La notificata decisione di quell'ente di costituire nella Città sveva una grande e moderna biblioteca co mprensoriale, ha stimolato lo svolgimento dei temi posti nella Conferenza informativa, tenutasi il 25 maggio (v. 1. c.); pertanto il 29 novembre il Centro « Simone » dedicò uno dei suoi « Incontri » al Problema delle pubbliche biblioteche nei programmi del Ministero della P. I., della Cassa per il Mezzogiorno e dell'Amministrazione Provinciale ». Alla relazione del prof. Celuzza seguì un ampio dibattito, presenti il sindaco, prof. Valente, e il presidente della « Provincia », avv. Tizzani. 26 SCRITTURA E CULTURA IN PUGLIA Tav. IV - Bibl. Naz. di Napoli. VI B 3, c. 1r. (Si notino i frustuli membranacei di rinforzo al dorso del foglio, provenienti da altro codice in scrittura «barese»). SCRITTURA E CULTURA IN PUGLIA Tav. V – Bibl. Apost. Vaticana. Vat. lat. 10657, c. 7v. SCRITTURA E CULTURA IN PUGLIA Tav. VI – Bibl. Apost. Vaticana. Vat. lat. 5949, c. 231r. la Capitanata Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia BOLLETTINO D'INFORMAZIONE della Biblioteca Provinciale di Foggia Anno V (1967) n. 4-6 (lu.-dic.) «DEMONI DEL TEMPO NOSTRO» Informazione e Cultura Quello dell'informazione, della pubblicità appartiene ormai di diritto ai « demoni » dell'era contemporanea, alla ricca e variegata mitologia della società odierna. Ed in realtà esso è un derivato diretto della civiltà attuale, soprattutto per due ordini di considerazioni: in primo luogo, perchè la rapidità di conoscenze e di spostamenti, consentita dagli sviluppi della tecnica di oggi, impone la necessità di informazioni sempre più veloci, compiute, sintetiche ed esaurienti al tempo stesso; in secondo luogo, perchè l'elevato grado di perfezio ne cui sono giunti l'industria editoriale e i settori ad essa collegati mettono in grado l'uomo contemporaneo di attingere a una massa sempre più vasta di informazioni attraverso la carta stampata. Ovviamente ancora oggi esiste la notizia, il dato informativo nella sua struttura e concezione tradizionali. Ma appare ogni giorno sempre più evidente che essi sono superati nello stesso interesse del pubblico da stili nuovi di presentazione - dal parlato al filmato - da formule diverse di commento, da valutazioni anti-convenzionali che finiscono per farne appunto un fatto culturale, sia pure inteso entro determinati limiti. Naturalmente, questo orientamento nuovo - e, se voglia67 mo, a modo suo rivoluzionario - ha portato e porta con sè tutto un complesso di responsabilità morali e di organizzazione pratica nonchè la necessità di conoscere l'ampiezza e la intensità dei mezzi di comunicazione di cui oggi l'individuo e la collettività possono disporre. In fatto di responsabilità morale, emerge fin troppo chiaro che la stessa vastità e facilità dell'informazione odierna rappresentano un'arma a doppio taglio, che può incidere sia in senso positivo come negativo. Per cui la stessa interpretazione del concetto di censura oggi ha assunto aspetti, contenuti e forme diverse da quelle di un tempo. In fatto di conoscenza dei mezzi di informazione, abbiamo già osservato che oggi essi sono tanti e tendono costantemente a crescere. A quelli tradizionali, addirittura antichi, se ne aggiungono di nuovi, originali, adeguati a esigenze che si vanno prospettando, potremmo quasi dire, di giorno in giorno. E, tra le varie classificazioni che di questi nuovi mezzi si fanno, non va certo trascurata una delle più importanti anche se delle meno avvertite dai più: e cioè mezzi di informazione e di pubblicità palesi da un lato e mezzi occulti dall'altro, quei mezzi, cioè, che agiscono su quella sottile sfera dell'inconscio che gli americani hanno denominato « subliminale ». La sostanza di quanto detto è dunque che prima di tutto è necessario informare sull'informazione. Ed è appunto questo il significato del volume apparso per i tipi di Rizzoli e dovuto alla penna di Giuseppe Padellaro, il quale, per la sua carica di direttore generale per le « Informazioni e la Proprietà Letteraria, Artistica e Scientifica » della Presidenza del Consiglio dei Ministri, e per la sua vasta competenza nel relativo campo, appare quanto mai qualificato nel trattare i problemi della « Informazione e Cultura » (tale il titolo dell'opera). Il prof. Giacomo Devoto, che ha dettato la prefazione della opera, tenta una sintetica classificazione degli strumenti più evidenti e più potenti dell'informazione: il quotidiano, il periodico, il mezzo audiovisivo, l'editoria. Il quotidiano è ormai un mezzo relativamente antico di informazione, che ha subito le più svariate vicissitudini nella sua storia secolare e che ha posto ed imposto di volta in volta gravi problemi e sollevato delicate questioni. Ma, nonostante la sua anzianità e il suo glorioso stato di servizio, il quotidiano an68 cora resiste validamente sul campo e riesce a rintuzzare con energia la concorrenza che gli muovono i mezzi più moderni di comunicazione sociale e di massa. Purtroppo, però, la tendenza odierna della stampa quotidiana è verso il concentramento, cosa questa che da alcuni viene auspicata ma da altri paventata per il timore, sia pure un pò paradossale, di arrivare addirittura al giornale unico! Anche il periodico appartiene alla vecchia guardia della informazione, ma per esso il problema appare - sempre ad avviso di alcuni - inverso a quello del quotidiano. Nel senso cioè che la concentrazione della stampa periodica, specialmente quella di alto livello culturale, appare proficua, perchè consente strumenti di consultazione e di aggiornamento rapidi, sicuri, qualificati. Il libro può appartenere indifferentemente alla sfera della cultura come a quella dell'informazione. Inutile rammentare la perfetta attualità del libro come veicolo di cultura. Dal punto di vista della informazione, secondo il Devoto, esso può esercitare un'utile funzione sotto un duplice aspetto: sia come libro scolastico che come mezzo di penetrazione in Paesi culturalmente poveri e bisognosi di lettura. Tra i mezzi macroscopici di informazione resta infine da citare quelli che si suole definire audiovisivi, cioè la radio, il cinema e la televisione. Sono questi i frutti della civiltà recente e recentissima posta al servizio della comunicazione di massa. Sono un tramite di enorme presa suggestiva e quindi anche suscettibili di influenzare in maniera più o meno positiva la psicologia individuale e collettiva nonchè la sua struttura culturale ed umana. Tuttavia, la civiltà o l'originalità inventiva ci mettono oggi a disposizione altri mezzi per la comunicazione di massa, dalle pubblicazioni a dispense facilmente reperibili in tutte le edicole ai dischi, che possono impartire lezioni di lingua come di storia della letteratura, di musica, di recitazione, ecc. ecc. L'esemplificazione sarebbe lunga e la precisa documentazione di un'opera come quella di Giuseppe Padellaro ne fa ampiamente fede. Tuttavia, alla base del problema, come al solito, si pone innanzitutto una questione, o meglio, un'esigenza etica 69 e morale, cioè, far sì che questi potenti mezzi di informazione che la civiltà ci ha via via offerti non si trasformino in mezzi di diseducazione, di prevaricazione, di soffocamento dell'individuo nelle sue libertà spirituali ed intellettuali. In definitiva è, ancora una volta il postulato della libertà delle coscienze quello che è destinato a condizionare i freddi strumenti tecnici creati per rendere agevole lo scambio delle idee, dei sentimenti, delle innovazioni e delle scoperte. G. D. M. La I Mostra bibliografica del Gargano Un migliaio di libri documentano il vigoroso movimento culturale garganico e rivelano un umanesimo autenticamente locale, in cui si scorge un ritratto vivente della garganica gente, col suo acume e intelligenza, con la sua mistica spiritualità e calda umanità. Non è perciò una fredda rassegna culturale o una fuga di libri muti e sorpassati, ma una mostra sostanziata dallo spirito e dal fatto del suo popolo, col volto del passato rifatto presente e attuale. Essa mentre stimola agli identici valori culturali e umani fa anche sentire il fascino e la magia d'una terra originariamente selvaggia. La rassegna dal tema singolare « Il Gargano », programmata da un comitato di studiosi, istituito per i festeggiamenti del XIV centenario della gloriosa Abbazia di S. Matteo, presieduto dall'insigne scrittore prof. Pasquale Soccio e composta dal M.R.P. Provinciale di Puglia P. Angelo Marracino e da altri illustri professori, è stata organizzata dalla Biblioteca Provinciale di Foggia, con il patrocinio dell'Amministrazione Provinciale di Capitanata. L'allestimento, condotto secondo un filo cronologico delle vicende, è stato realizzato con organicità didattica e intelligente dal dott. Angelo Celuzza, direttore della predetta Biblioteca, e dal prof. Tommaso Nardella, che ha curato con affetto filiale la Sezione « S. Matteo e S. Marco in Lamis » considerati una simbiosi di vita e di storia perennemente complementari. La mostra all'ingresso ci saluta con due pensieri o immagini di Orazio e del Pascoli sul Gargano. La prima: « Al vento ti sembra che ululi il Gargano », l'altra, scritta ad un allievo pugliese con oraziana memoria: « Salutami il Gargano e i suoi boschi ». Vero è che in omaggio ai poeti venosino e romagnolo, attualmente il convento di S. Matteo ha la ventura di varchi aperti verso folti e rumorosi boschi, in un impressionante incontro dell'antico e del nuovo dopo due millenni. A guisa della perenne accresciuta vitalità di questi boschi, oltre alla coincidenza presunta del quattordicesimo centenario, il convento è avviato decisamente a un ripristino periodo di splendore, da ricordare quello iniziale benedettino, subito dopo il mille con l'Abate Alessandro (1007), come è giustificato dalla fervida opera iniziata fin dal lontano settembre 1940 con un congresso di studi pedagogici e didattici 71 promosso dal compianto mons. Castrillo, continuata dai successivi Superiori, promotori dell'attuale ripresa culturale. Il visitatore riceve una emozione estetica intensa anche per la grandiosa mole della costruzione e il lavoro immane di restauro, condotto nei primi due piani, cioè quelli del periodo longobardo e benedettino. A tale opera di costruzione materiale ed artistica corrisponde una accresciuta ripresa di attività culturale che riscuote un interesse non solo locale e regionale, ma anche di sicura risonanza nazionale, come è attestato dai numerosi visitatori, provenienti da Bari, Firenze, Roma... La rassegna bibliografica non è quindi di scrittori locali o garganici tanto da sollecitare la vanità di scrittori oscuri, vivi o morti che siano, ma una mostra di quanto è stato scritto sul Gargano in ogni tempo. Così il visitatore ha modo di scorgere nei numerosi libri ed opuscoli, il lungo cammino di queste popolazioni attraverso vicende difficili e drammatiche. La lunga storia garganica emerge, con suasiva scientifica documentazione dai numerosi studi sulla preistoria, geologia e archeologia, mentre rare monografie, quali preziose gemme, illustrano la vita religiosa, civile e politica dei diversi Comuni locali. Né mancano opere fondamentali, che coadiuvate da scrupolosa documentazione archivistica, restano fonti insostituibili per una sicura indagine storica. Seguono in un reparto distinto le numerose monografie che illustrano la storia della secolare Abbazia di S. Giovanni in Lamis (S. Matteo), e gli studi più importanti sui Santuari garganici e sugli antichi oracoli locali. Tutta la felice e triste storia del Gargano dal Risorgimento alla Unità d'Italia, insieme ai sanguinosi episodi del brigantaggio, che tanto afflissero queste contrade, è documentata con esaurienti ed obiettive relazioni. E' un continuo riscontrare nel presente, in modo intellegibile, l'intero incorrotto apporto del passato, tanto che l'odierno progresso culturale, sociale ed economico risulta necessariamente condizionato a quello. Non meno curata e sistematicamente documentata con opere pregevoli e valide è il reparto concernente la geografia, la geologia, l'arte e i monumenti garganici, come anche le sezioni riguardanti gli usi, costumi, lingua e tradizioni popolari, il turismo e lo sviluppo socio-economico. Impreziosiscono la rassegna gli scritti di Pietro Giannone, il più illustre garganico, particolarmente « La professione di Fede »; manoscritti del Vocino e principalmente la Bolla pergamenacea del papa Gregorio XII del 14 febbraio 1578, con cui il Monastero di S. Giovanni in Lamis passò dai Cistercensi ai Frati Minori Osservanti della Provincia di Sant'Angelo in Puglia. Finalmente si annoverano opere dei più noti scrittori gargani e, 72 quale Giuseppe Cassieri di Rodi, romanziere della « vis narrativa prorompente », come ha affermato il Corriere della Sera. Questi, all'inaugurazione della Mostra - dopo il saluto porto dall'avvocato Berardino Tizzani, presidente dell'Amministrazione Provinciale di Foggia, ai numerosi convenuti tra i quali i vescovi mons. Lenotti e mons. De Santis, il Prefetto di Foggia, onorevoli e altre illustri personalità - veniva presentato con commosse parole, in quanto ex-allievo, dal preside Soccio e svolgeva con ampia e acuta disamina il tema del disagio su l'uomo contemporaneo, dal titolo « Il margine di sicurezza ». Vi è esposta anche una interessante tesi del giovane G. Manduzio. In essa l'autore, sotto la guida del prof. Armando Petrucci dell'Università di Roma, conduce uno studio particolareggiato sul periodo benedettino dell'antica Badia di S. Giovanni in Lamis dei sec. X-XIV, riportando in luce documenti riguardanti l'Abbazia dal fondo Chigi della Biblioteca Vaticana. La mostra è resa ancora più plastica nelle sue coordinate di pensiero e di vita che si profilano da una sala all'altra, dalle numerose illustrazioni grafiche del prof. G. Zaccheria, il quale ha così inteso riproporre al vivo la forza recondita di quegli scritti, fonte dell'odierno progresso religioso politico e sociale delle nuove generazioni garganiche. Così questa prima rassegna bibliografica sul « Gargano » appare un vero dono per gli uomini di oggi che nella cultura sono chiamati ad un avvenire sicuro e più ricco di valori. Questi libri non restano muti, essi stanno a dirci che il duro cammino percorso è stato lungo e fattivo, e che tuttavia ne rimane molto e più promettente. Molti problemi appaiono superati, ma tanti altri ancora restano insoluti. Perciò una voce prorompe di continuo dai numerosi scritti esposti, richiamandoci a nuovi impegni e a più larghi orizzonti dai quali l'umanità potrà trarre immenso bene. Resti dunque questo incontro col libro garganico una spinta efficace, un ammonimento più cosciente per le giovani generazioni a proseguire con fiducia sulla via della cultura nella quale l'uomo si imbatte con Dio e con se stesso per un destino e una storia integralmente migliori. LINO MONTANARO (L'Osservatore Romano del 10-11-1967, pag. 8) 73 AMMINISTRAZIONE PROVINCIALE DI CAPITANATA EDIZIONI «Atti dell'Amministrazione Pro- « Documenti e monografie della vinciale di Capitanata » (voll. 12). Biblioteca Provinciale » (voll. 2). «Quaderni dell'Amministrazione « La Capitanata eretta a provincia Pro-vinciale di Capitanata » (nn. dello Stato Italiano - Nel primo 5). centenario ( 1861-1961 ) ». « La Biblioteca Provinciale di Fog- « La Biblioteca Provinciale di Fog- gia», bollettino d'informazioni bi- gia ». bliografiche ( 1962). « Realtà, esigenze, prospettive della « La Capitanata », rassegna di vita Biblioteca Provinciale di Foggia ». e di studi della provincia di Foggia, contenente il « Bollettino Miscellanea per il XIV Centenario della Biblioteca Provinciale » (dal del Convento di S. Matteo sul 1963). Gargano (nn. 2). « Quaderni di La Capitanata » (numeri 8). BIBLIOTECA PROVINCIALE Piazza X settembre - Pal. Dogana FOGGIA Presentazione della Rassegna La 1a Mostra bibliografica garganica, voluta dal Comitato, costituitosi per le celebrazioni del XIV centenario dell'Abbazia di S. Matteo, è stata organizzata dalla Biblioteca Provinciale di Foggia con il patrocinio dell'Amministrazione Provinciale di Capitanata. La Mostra ha avuto per tema, unico e suggestivo, « II Gargano » che noi abbiamo voluto presentare nella realtà del suo passato, nelle ansie del presente e nelle prospettive del futuro. Si tratta pertanto di una mostra speciale, importante non solo per lo studio e la valorizzazione delle tradizioni locali di pensiero, ma anche perchè, con le mostre dei monumenti bibliografici del passato, si può dare il senso del cammino percorso. Perchè la rassegna fosse il più possibile rappresentativa abbiamo chiesto la collaborazione di quattordici biblioteche e di alcuni noti studiosi garganici. Hanno risposto al nostro invito soltanto tre biblioteche pubbliche (Lucera, San Severo e Manfredonia). Il Gargano, tema di grande attualità, è ormai all'ordine del giorno dell'intera nazione. Noi che assistiamo con trepida ansia - per l'amore che portiamo a questa terra - al faticoso inserimento in atto nello sviluppo economico e sociale del nostro paese, quali responsabili della direzione del più importante istituto culturale della Capitanata, abbiamo aderito con entusiasmo all'invito del Comitato organizzatore, consci delle responsabilità e del difficile lavoro di ricerca e di scelta che ci si chiedeva. Nonostante la ristrettezza del tempo a nostra disposizione - due mesi, per una mole di lavoro così impegnativa - crediamo di aver esaudita l'attesa dei promotori e dei visitatori. Nello scorrere i vari libri e opuscoli presentati nelle teche, è stato così possibile rendersi conto come alle speranze del futuro si sia giunti attraverso vicende spesso drammatiche e angosciose. Infatti, il più ampio spazio è stato riservato alla vita della nostra Montagna, iniziando molto lontano il filo cronologico della vicenda umana, attraverso le ricerche scientifiche sulla preistoria, sulla geologia, e sulla archeologia, in corso tuttoggi. Sulla storia religiosa civile e politica dei singoli comuni sono esposte le monografie più rappresentative e i documenti più probanti; e non mancano le opere fondamentali che, insieme con la documentazione archivistica, costituiscono per ogni seria indagine storica le fonti insostituibili. Le vicende storiche della gloriosa Abbazia di San Giovanni in Lamis, della quale stiamo celebrando il XIV centenario, sono documentate in un'apposita ed elegante vetrina. Mentre in una teca della prima sala, con la indicazione «Gargano Mistico» si possono seguire gli studi più importanti sui Santuari e sugli antichi oracoli del Gargano. Gli avvenimenti tristi e lieti, spesso turbinosi, dal Risorgimento all'Unità d'Italia e alla successiva reazione, e i sanguinosi episodi del brigantaggio, che proprio in questi comuni ha scritto pagine di sangue, sono documentati con puntuale rilievo. Molti aspetti del nostro presente sono già « in nuce » intellegibili e spiegabili attraverso lo studio di questo nostro non certo remoto passato. 75 La seconda sezione riguarda l'arte i monumenti la geografia e la geologia del Gargano. Ampio rilievo è stato dato alle sezioni « usi, costumi, lingua e tradizioni popolari » e « Turismo e sviluppo socio-economico ». Chiude la rassegna la « Sezione locale » che, a cura del prof. Tommaso Nardella, è stata allestita in fondo alla seconda sala. Siamo partiti, nell'allestimento e nella sistemazione, anche topografica, delle varie sezioni della Mostra, forti di un nostro intimo e profondo convincimento: dal convincimento, cioè, che il progresso economico e sociale del Gargano non possa prescindere dallo sviluppo civile e culturale nel quale non è difficile individuare il carattere di una condizionante ambivalenza di causa e di effetto. Riteniamo inoltre che questa Mostra non sarà avara di ammonimenti per tutti i visitatori più attenti. Essi potranno rendersi conto che troppi problemi, ancora oggi insoluti, e che tuttora frenano e angustiano le operose popolazioni garganiche, sono i problemi di sempre: da quello dei porti a quello della pescosità dei laghi; dall'insabbiamento delle foci a quello della ferrovia; dalle strade all'acquedotto: su tutti questi problemi presentiamo una ricca e significativa documentazione. Questo crediamo sia il contributo più apprezzabile - sotto il profilo di un impegno morale e civile - che il nostro istituto culturale, cui tanta attenzione dedicano i nostri amministratori, ha inteso offrire alla pensosa meditazione di tutti. Dei garganici prima di tutti, cui non nuocerebbero un più cristiano spirito di fratellanza e una più operosa unità d'intenti. Come bibliotecario, infine, è per me motivo di grande soddisfazione l'aver favorito, su un tema così suggestivo, l'incontro del libro, sempre in ansiosa aspettazione di venir letto, con un più vasto pubblico. Un illustre bibliotecario, il Jones - e mi piace citare le sue parole - dice, in proposito, che « i libri esistono solo nei momenti in cui qualcuno li legge; per il rimanente del tempo, sono oggetti inerti, che richiedono spazio e attenzione. La somma di quei momenti di contatto tra libri e lettori è ciò che giustifica l'esistenza di una biblioteca pubblica ». II libro, cioè, si anima e si fa « trasparente » solo se investito dalla luce dell'intelligenza. Con questi propositi e con queste speranze noi affidiamo alla vostra cortese attenzione il frutto del nostro lavoro. Doverosi alcuni ringraziamenti. Prima di tutti al Padre Angelo, chiamato in questi giorni per le sue doti elette di mente e di cuore, a maggiori e più pesanti responsabilità. A lui siamo grati per la cortese ospitalità e per le affettuose attenzioni avute per noi. AI Presidente e al Vice Presidente dell'Amministrazione Provinciale di Capitanata, per le agevolazioni e i mezzi messi a nostra ampia disposizione. Al prof. Soccio e agli amici componenti il Comitato, per i consigli e i suggerimenti da essi ricevuti; al professore Giuseppe Zaccheria, artista sensibile e amico carissimo, che ha tradotto in realtà - attraverso la progettazione delle teche e delle vetrine e la illustrazione grafica dei vari aspetti della Mostra, le nostre idee e i nostri intendimenti; all'ing. Missori per i libri e le carte gentilmente prestatici; ai collaboratori della Biblioteca Provinciale, per tutto quanto hanno fatto per la migliore realizzazione di questo importante avvenimento culturale; e infine - e perchè no? - anche a quegli amici, bibliotecari e non, dimostratisi tanto insensibili al nostro pressante appello, da lasciarci quasi soli nell'ordinare questa prima mostra generale degli studi garganici. ANGELO CELUZZA 76 la Capitanata Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia * Hanno collaborato a questo fascicolo: dott. ANGELO CELUZZA, direttore della Biblioteca prov.le di Foggia; p. lettore LINO MONTANARO (O.F.M.). SOMMARIO G.D.M.: « Demoni del tempo nostro » - Informazione e cultura 67 LINO MONTANARO: La prima Mostra bibliografica del Gargano 71 ANGELO CELUZZA: Presentazione della Rassegna 75 SCHEDARIO - I a Mostra bibliografica del Gargano (continua) 77