L'ANNO DI GIORDANO
Realismo meditativo
Il quadro che si suole generalmente fare dell'opera verista in Italia non è
nè roseo nè allettante; e questo mi sembra che derivi in parte da malumore
polemico, in parte dall'aver dato importanza esclusiva alle forme più clamorose
e « popolareggianti » del così detto verismo musicale. In un saggio su Mascagni
che ebbe particolare risonanza ai suoi tempi, Giannotto Bastianelli osservava
che « l'operista italiano ha, quasi sempre, una mentalità del tutto immersa, anzi
sommersa, nel flutto della mediocrissima vita che lo circonda. Egli è così
un'anima semplice, di quella semplicità un poco artefatta delle anime popolari,
che non appena venga varcata da noi, ci desta un'antipatia irrimediabile ».
Questa semplicità poteva essere facilmente scambiata con la facile
contentabilità, con la mancanza di autocritica e con l'indifferenza verso la
cultura; elementi negativi a cui si collegano una vera e propria faciloneria e una
eccessiva fiducia nelle varie forme di retorica teatrale consacrate dalla
tradizione.
Arte popolare, dunque, quella del nostro melodramma verista: popolare
perchè facile, perchè sostenuta da una fluida e copiosa vena melodica, in cui
tuttavia si riproducono, sempre più logorati dall'uso, i moduli della « vecchia
melodia italiana dalle forme regolari, dai blandi ritornelli, dalla serena cadenza
finale coronata da una nota tenuta per far piacere alla voce dei cantanti e
all'orecchio del pubblico, che ama i cantanti un po' simili a lottatori di molta
resistenza ». Questa diagnosi ha certo
1
dei fondamenti di verità, specialmente se la riferiamo a una situazione generale
del teatro musicale italiano degli ultimi decenni del sec. XIX. Si può infatti
ammettere con una certa facilità che la cattiva retorica e una eccessiva
contentabilità formale fossero i pericoli più frequenti che implicava
l'adorazione della formula verista. Ma è legittimo considerare conclusa in
queste linee la fisionomia dell'opera italiana a cavaliere tra il sec. XIX e il XX?
Non si dovrà riconoscere che, sulla base di questi dati sommari e parziali, la
visione del melodramma post-verdiano risulta alquanto ristretta e tale da
interessare più la storia del costume teatrale che non quella dell'arte musicale?
Ognuno può del resto constatare quanto vi sia di generico e di impreciso in
certi termini riassuntivi. Il giudizio critico non può nascere se non dall'esame di
un particolare ambiente culturale e di concrete personalità; perchè non sarebbe
giusto porre sullo stesso piano musicisti così diversi l'uno dall'altro e così
diversamente dotati come furono Puccini, Mascagni, Leoncavallo, Cilea e
Giordano, anche se è possibile e giustificato farli rientrare in uno stesso clima
storico.
E' opinione piuttosto comune che la cultura musicale italiana, nella
seconda metà del sec. XIX, fosse arretrata nei confronti della contemporanea
cultura d'oltralpe. Limitarsi ad osservare ciò non è sufficiente, ai fini di un
concreto giudizio storico; occorre darsi una ragione di questo fatto, dal quale è
stato determinato, per via di una erronea illazione che deduce la qualità
progressiva dell'arte in relazione allo sviluppo della tecnica e del gusto, un
giudizio restrittivo, e a volte addirittura negativo, intorno alla musica italiana di
quel periodo, generalmente considerata « inferiore » a quella tedesca (Wagner e
post-wagneriani) e a quella francese (Debussy e impressionisti). E' necessario
rendersi conto che quasi tutta la cultura del sec. XIX fu caratterizzata dal
sentimento romantico della nazionalità, e che pertanto l'arte e la letteratura
ottocentesca in Europa si sono sviluppate in gran parte nell'ambito di una
cultura nazionale. Gli scambi tra una nazione e l'altra si verificarono piuttosto
tardi e in maniera sporadica o superficiale; perciò furono poco fecondi. La
fedeltà alla tradizione nazionale rappresentava la fedeltà dell'uomo alla sua
umanità vera e profonda. Anche il verismo da noi, sebbene fosse nato sotto la
spinta del naturalismo francese, valse a riaffermare e a rinsaldare nell'artista il
sentimento della tradizione nazionale e l'esigenza di un legame
2
più attivo e più fecondo con la vita del popolo in mezzo a cui egli era nato e di
cui veniva cogliendo le peculiarità etniche e l'originalità creatrice.
Nato a Foggia il 28 agosto 1867, Umberto Giordano ebbe i primi
insegnamenti di solfeggio e di pianoforte da un amico di famiglia il quale,
considerate le singolari attitudini del fanciullo, persuase il padre a rinunciare
all'idea di fare di lui un medico. Fu quindi affidato alla cura di due musicisti
foggiani, Luigi Gissi e Giuseppe Signorelli. A 14 anni partecipò al concorso per
un posto gratuito nel Collegio di musica del Conservatorio di S. Pietro a
Majella di Napoli; fu respinto per alcuni errori nel basso armonizzato, ma le
composizioni presentate al concorso attirarono su di lui l'attenzione di Paolo
Serrao, che volle dargli lezioni gratuite. Dopo 6 mesi di insegnamento,
Giordano era in grado di guadagnare il posto ambito su 57 concorrenti. Nel
Conservatorio napoletano studiò contrappunto e composizione con lo stesso
Serrao, organo con M. E. Bossi, pianoforte con Martucci e violino con A.
Ferni. Fu allievo del Conservatorio dal 1882 al 1890; in questo periodo ebbe
modo di farsi apprezzare dalla stampa napoletana per alcune composizioni
orchestrali; nel 1888 inviò l'opera Marina al concorso Sonzogno, quello stesso
che doveva dare così grande notorietà alla Cavalleria rusticana. Su 73 opere
concorrenti, Marina fu classificata sesta e fu particolarmente apprezzata da F.
Marchetti, che faceva parte della Commissione. L'editore Sonzogno non volle
tuttavia acquistare l'opera, di cui non apprezzava il libretto, ma per i buoni
uffici del famoso direttore d'orchestra Leopoldo Mugnone impegnò Giordano
a scrivere in un anno, con un assegno di 200 lire mensili, una nuova opera, che
fu Mala vita, dal dramma 'O Voto di S. Di Giacomo e G. Cognetti, che il
librettista Nicola Daspuro (leccese di nascita) elaborò sul piano di un realismo
senza orpelli, dominato da violenti impulsi sensuali.
L'azione si svolge in un « basso » napoletano, nelle vicinanze di un
postribolo; il protagonista, Vito Amante, fa voto a Cristo di sposare una
prostituta se guarirà dalla passione mordente e tormentosa che lo avvince a
Donna Amalia. Cristina ripone in lui le sue speranze di redenzione; ma Donna
Amalia non si rassegna a perdere l'amante e riesce di nuovo a soggiogarlo, e a
Cristina non rimane che ritornare definitivamente nella mala casa. L'opera fu
rappresentata con successo a Roma, protagonisti gli stessi cantanti, la
Bellincioni e Stagno, che ave3
vano eseguito Cavalleria rusticana; anche sulla base di una formula naturalistica
troppo cruda, Giordano è riuscito a mettere in luce le sue più sensibili qualità,
specialmente nella vibrante e pietosa umanità con cui è sottolineata la dolorosa
e desolata storia di Cristina. Mala vita ebbe buon esito anche a Vienna e a
Berlino, ma a Napoli non piacque. Qui cadde anche l'opera successiva, Regina
Diaz, rappresentata nel 1894, e il fiasco indusse Sonzogno a licenziare il
compositore, il quale si trovò in serie difficoltà. Intervenne Franchetti, il quale
persuase Sonzogno a provare le qualità del giovane musicista con una nuova
opera che era stata offerta a lui e che Franchetti cedette generosamente al suo
giovane collega.
Trasferitosi a Milano, Giordana si mantenne in costante contatto con il
librettista, che allora preparava pure il soggetto di Bohème per Puccini. Non
senza difficoltà e contrasti con Illica, l'opera fu portata a compimento; ma
Amintore Galli, che era consulente musicale di Sonzogno, la giudicò «
irrapresentabile » e fece quindi in modo che fosse cancellata dal cartellone.
L'intervento di Mascagni evitò questo guaio, ma sorsero altre difficoltà; il
tenore A. Garulli, forse intimorito dal giudizio negativo del Galli, si rese
irreperibile. Il Borgatti s'indusse a sostituirlo, e così, il 28 marzo 1896, Andrea
Chénier veniva rappresentato trionfalmente alla Scala di Milano; e poi le voci
dello stesso Borgatti, di Tamagno, di De Lucia, di Battistini e di Sammarco ne
consolidarono il successo nei principali teatri d'Europa e d'America.
E' stato detto che con l'Andrea Chénier Giordano ha creato l'opera tipo
della Rivoluzione francese; tanto è vivo in questo melodramma il senso
dell'atmosfera, a volte anche il senso cupamente tragico di quei tempi così
torbidi e sanguinosi. Si veda, per esempio, con quale sobrietà e sicurezza di
tocchi Giordano riesca, nel primo atto dell'opera, a suggerire il contrasto tra la
brillante galanteria della festa settecentesca e il sinistro spettacolo di miseria che
viene a turbare l'aristocratica adunanza; vivaci note ambientali cogliamo anche
nel secondo atto, specialmente in quel ritmo cupo che accompagna il passaggio
delle pattuglie; o nelle fosche note di colore che, nell'ultimo atto, evocano la
desolazione del carcere di San Lazzaro, in cui il protagonista è chiuso nella
imminenza del suo supplizio. Ma Giordano non era Mussorgsky; non aveva,
come il musicista russo, quel potente sentimento corale, in cui passava, con
tratti di
4
grande energia realistica, il pathos di vaste folle assorte nella preghiera o
esultanti o agitate nell'impeto della ribellione. Tuttavia noi non diremo che il
Nostro sia stato evasivo nella rappresentazione ambientale, giacchè se avesse
operato qualcosa di diverso da quello che ha fatto avrebbe creato una
sproporzione nell'economia del dramma. L'ambiente storico doveva
necessariamente rimanere in un secondo piano, e infatti il compositore lo ha
realizzato come sfondo, per isolarvi i due protagonisti, Chénier e Maddalena;
giacchè questi configurano il nodo drammatico dell'opera, e nella loro vicenda,
nella storia del loro amore contrastato e dei loro desideri inadempiuti doveva
acuirsi la linea musicale del dramma. Quello che a Giordano importava
soprattutto era di raggiungere un equilibrio, un rapporto vivo tra l'individuo e il
mondo che lo circonda; e ci è riuscito, qui come altrove. E così egli si è
preoccupato di graduare la evidenza dei singoli personaggi in relazione ai due
protagonisti, nella cui passione vivevano gli elementi più intensi del suo
romanticismo, il sentimento di un miraggio non mai raggiunto, di una salvezza
o di una felicità intravista e non mai posseduta.
Nell'anno stesso in cui fu rappresentato Chénier Giordano prese in
moglie Olga Spatz, figlia del proprietario dell'Hotel Milan. Avendo ascoltato al
Teatro Sannazaro, nell'interpretazione magistrale di Sarah Bernhardt, Fedora di
Sardou, chiese a costui l'autorizzazione a musicare il dramma. La stessa
concessione egli aveva chiesta al drammaturgo francese nel 1885, quando aveva
solo 18 anni, e gli era stato risposto seccamente On verra plus tard. Fedora,
rappresentata al Lirico di Milano nel 1898, interpreti la Bellincioni e Caruso,
consolidò col suo successo la fama di Giordano e cominciò da allora il suo giro
trionfale per i teatri del mondo. A Vienna fu diretta da Gustav Mahler, a cui
piaceva particolarmente il primo atto.
Il travaglio della passione amorosa costituisce senza dubbio la corda più
sensibile dell'anima di Giordano; egli vive l'amore con passione immediata,
senza complicazioni intellettuali, sentendolo come voluttà, come illusione
suprema, purtroppo circoscritta entro un orizzonte che non riesce ad aprirsi.
Ma, a differenza dalle creature pucciniane, che sembrano quasi tutte presaghe
di una punizione imminente, della amara sorte che le attende, epperò hanno il
cuore grave di una prematura tristezza, a differenza dalle creature pucciniane i
personaggi di Giordano sono animati da una giovanile ansietà di esistere, da un
intimo
5
fervore che li protende ansiosamente verso la vita. Perciò nella vicenda scenica
la morte giunge sempre inattesa, come uno scacco improvviso del destino o
come una subitanea determinazione della creatura umana che vede
irrimediabilmente rovinate le sue speranze, svanite le illusioni su cui
poggiavano unicamente le sue possibilità di vita. Sembrano esseri nati per
gioire, e che a un tratto il fato sorprende e opprime inesorabilmente. Perciò è
naturale che, all'inizio dell'azione scenica, essi figurino immersi in un'atmosfera
di elegante seduzione o di lusso: Chénier e Maddalena nella luce sfarzosa di una
festa aristocratica, Fedora in un salotto gentilizio, Stephana davanti alla graziosa
palazzina donatale dal principe Alexis.
In Fedora il rapporto tra ambiente e personaggio scenico è più stretto e
costante; perchè protagonista dell'opera è una donna, la cui psicologia, la cui
istintiva passionalità hanno il loro elemento naturale in quell'aria di mondanità
raffinata che costituisce lo sfondo permanente dell'azione drammatica. Il
compositore si è perfettamente reso conto di ciò, ed ha rivelato una singolare
sapienza stilistica nel modo con cui ha introdotto e sviluppato la situazione
iniziale. L'opera comincia con una introduzione orchestrale che enuncia il tema
fervido dell'amore di Fedora. Dopo un breve intervallo arguto e brioso, in cui
un cameriere e due staffieri parlano delle imminenti nozze di Vladimiro,
ricordando la vita mondana e spensierata del loro padrone, affiora il tema di
Vladimiro, un tema che ha qualcosa di ambiguamente dolce e seducente e che
evoca, anche per mezzo di un linguaggio armonico ricercato, piuttosto insolito
in Giordano, il senso di una raffinatezza voluttuosa e galante. Questo tema
commenta, nell'orchestra, la curiosità ammirata con cui Fedora osserva il
magnifico arredamento della casa di Vladimiro, e poi costituisce lo spunto
iniziale dell'Aria che segue: O grandi occhi lucenti, fondendosi col tema dell'amore
di Fedora.
Originale modo con cui il Maestro dà senso poetico alle suggestioni
offertegli da una vita così preziosa e signorile; ogni oggetto, ogni ninnolo
suscita in Fedora vaghe emozioni, che si accordano a uno stato di sensualità
raffinata. Il fascino dell'eleganza acquista così una intensità lieve, ma
penetrante, che si esplica ampiamente nel secondo atto. Questo è certo tra le
cose più riuscite e geniali che abbia scritto Giordano; qui l'abilità del mestiere e
la felicità dell'invenzione collaborano perfettamente a realizzare un discorso
vivo, fluido, pieno di bella evi6
denza. Tutto è dosato con precisione, direi proprio con bravura, e con un
senso sicuro delle varie salienze sceniche o drammatiche. Senza dubbio il punto
di maggior riuscita è costituito dal dialogo tra Fedora e Loris, e specialmente
dal colloquio sommesso che i due intrecciano sul lento ritmo del Notturno che
Lazinski suona al pianoforte. Due fatti diversi sono qui sincronizzati in moda
che lo spettatore possa cogliere l'azione nel vivo della sua dinamica interna;
giacchè la vaghezza idillica e un po' estatica del Notturno si rifrange sulla
situazione dei protagonisti, riflettendo nelle sue dolci e morbide volute da un
lato il fascino e la squisitezza sensuale di Fedora, dall'altro lo sgorgo di un
sentimento nuovo nell'animo della donna, un sentimento di cui ella non ha
ancora coscienza e che stranamente si mescola in lei al desiderio di vendicare
l'amore perduto.
Esempi di un'arte discretissima nell'impiego dei mezzi sonori e di un
sapiente equilibrio tra orchestra e palcoscenico sono le scene successive, nelle
quali il movimento drammatico del dialogo (particolarmente nel racconto che
Loris ha dell'uccisione di Vladimiro) è articolato e graduato senza forzature,
risolvendosi nella calda effusione lirica di due momenti contigui: l'Aria di Loris
: Vedi, io piango, e la bellissima Romanza di Fedora: Lascia che pianga io sola. In
tutta questa seconda parte dell'atto ricorrono echi o riprese di temi già apparsi
nell'atto precedente; in particolar modo significativo l'accostamento, che già
notammo a proposito dell'Aria: O grandi occhi lucenti, del tema di Vladimiro e di
quello dell'amore di Fedora. L'orchestra riprende i due temi mentre Fedora
scorre le lettere che le danno la prova dell'infedeltà di Vladimiro. Però notate:
questa volta nella voce della donna affiora appena qualche debole eco delle
melodie; ciò indica il suo distacco definitivo dal passato, a cui ormai nessuna
cosa potrà più ricongiungerla. Solo l'orchestra, con le sue riprese insistenti,
sembra evocare l'ombra dolorosa di una illusione caduta, di un ingannevole
sogno a cui Fedora non crede più.
Il terzo atto si svolge nella villa di Fedora, nell'Oberland svizzero; la
suggestione del paesaggio alpestre è data da una melodia giuliva suonata da un
corno e ripresa dall'orchestra. Un quadro dai coloriti lievi e teneri, a cui si
accorda il chiaro timbro delle voci di soprano e di contralto che intonano un
breve coro festoso. Tutte note gradevoli e armoniose, che evocano un senso di
dolcezza idillica, inquadrando la nuova situa7
zione della protagonista; sembra che la vita sia ricominciata per lei, come la vita
della natura che si risveglia dopo il letargo invernale. Qualcosa di tenero
assume, in questa temperie, anche la leggerezza frivola di Olga, nel cui canto
(Sempre lo stesso verde) si avvertono sfumature di affettuosa elegia. Senza
dubbio Giordano ha voluto dare una fisionomia particolare a questa prima
parte dell'atto, quasi per creare un elemento di contrasto con la seconda parte,
in cui la tragedia è avviata al suo epilogo attraverso un discorso incisivo e a
volte serrato, malgrado qualche tratto ingenuo, dove il particolare è ridotto alla
sua dimensione realistica. Il movimento drammatico procede per lo più a
blocchi, collegati spesso tra loro da riprese tematiche, con le quali il Maestro
tende a porre un legame tra i vari momenti dell'azione e a renderli più
significanti. Un richiamo pieno di forza emotiva è quello che segue la scena in
cui Loris apprende la notizia della morte di sua madre e di suo fratello. Egli
non sa ancora che causa di quella duplice morte è stata Fedora; ma la donna sa
bene che oramai per lei ogni sforzo è vano, vano l'accanimento con cui finora
era tesa a proteggere il suo sogno. Torna a questo punto la dolcissima melodia
del canto: Lascia che pianga io sola: otto battute soltanto, perduta nostalgia di
un amore, di un legame irrimediabilmente spezzato.
Nel 1903 ebbe luogo la prima rappresentazione, alla Scala, di Siberia,
che Sonzogno poi portò a Parigi, dove ebbe lusinghieri riconoscimenti da parte
di Bruneau, Fauré e Lalo. E a titolo di curiosità diremo che proprio dell'opera
Siberia è l'unico brano di opera italiana citato come esempio da Charles Marie
Widor nel suo supplemento (Technique de l'orchestre moderne, 1904) al Trattato
d'istrumentazione di Berlioz.
Siberia ha senza dubbio pregi meno appariscenti nei confronti di Andrea
Chénier e di Fedora; di qui la diversa fortuna che l'ha accompagnata finora e
che autorizza a credere che quest'opera non debba porsi allo stesso livello degli
altri due capolavori giordaniani. Ma, oltre a rivelare la presenza di una più
esigente cura formale, di una più esperta tecnica, sia nell'armonia che nel
contrappunto e nella strumentazione, Siberia contiene elementi di riuscita
lirico-drammatica così penetranti da persuaderci che il declassarla senz'altro
sarebbe una vera e propria ingiustizia. Ben è vero che, in un'opera a cui
prendono parte numerosi personaggi e in cui spesso prevale l'urto di passioni
concitate o esasperate, non sempre era facile evitare i pe8
ricoli di una effusione troppo immediata o disordinata; e infatti bisogna
riconoscere che più di una volta l'impegno « veristico » ha appesantito la
pagina. Ma certi scadimenti momentanei, certe ineguaglianze temporanee
non valgono a turbare l'equilibrio dell'insieme, quella unità stilistica in cui
è sopratutto la garanzia della riuscita drammatico-musicale.
Il tema dominante del dramma, impostato su un sentimento
tormentoso dell'amore, di un amore che implica la coscienza del peccato e
quindi il desiderio di una purificazione morale, era diventato piuttosto
comune nel romanticismo, e aveva ispirato, salvo rare eccezioni, tanta
cattiva letteratura, la cui efficacia si affidava per lo più alle suggestioni di
un falso umanitarismo e di un falso misticismo. Sarebbe stato facile,
quindi, su questo piano, cadere nelle forme più abusate e convenzionali di
una retorica sentimentalistica. Ma è certo che la realizzazione di un
rinsaldamento stilistico del tutto fedele alla spontaneità della sua maniera
originaria ha consentito a Giordano dei risultati di una dimensione esatta,
una elasticità e resistenza di frase che gli ha impedito un eccessivo
abbandono, e quindi un intenerimento eccessivo di fronte alla umiliata
condizione dei suoi personaggi.
Il nodo drammatico è l'amore di Vassili e Stephana : una allucinante
attrazione sensuale che è come un turbine impetuoso in cui i due
personaggi sono presi e sono come sommersi e confusi, quasi a formare
una sola individualità. Nel primo atto infatti non riusciamo a cogliere
elementi che valgano a formare una discriminazione tra i due amanti. E a
me pare che in questo modo il compositore abbia appagato una sua
esigenza costruttiva, al fine di graduare l'azione drammatica e di dare un
adeguato rilievo agli atti successivi, e specialmente al secondo atto in cui,
dall'intimo crescendo della passione e della coscienza della colpa, emerge
in Stephana il desiderio di redenzione e di purificazione.
La ragione della maggior riuscita del secondo atto nei confronti
degli altri due è proprio nel fatto che qui convergono i motivi più intensi
della tragedia: il tema della passione amorosa, a cui si intreccia il senso
cupo, squallido della pena alla quale sono condannati i forzati in Siberia
(particolarmente nel doloroso canto di Vassili : O r r i d e s t e p p e e nelle note
vibranti dell'Intermezzo) e l'aspirazione della donna a riscattare gli errori
della sua vita precedente (E' q u i c o n t e i l m i o d e s t i n ) . P o 9
trebbe osservarsi che questa differenza di qualità e di intensità tra il secondo
atto e gli altri due crea un certo squilibrio nell'interno dell'opera; ma in realtà
non si tratta di uno squilibrio, giacchè il secondo atto non altera minimamente
l'omogeneità dell'opera, di cui anzi si potrebbe quasi considerare il centro di
gravitazione. Esso infatti ha molteplici legami col primo e specialmente col
terzo atto (si pensi con quale delicatezza di sfumature sia trasfigurato il
desiderio di redenzione morale di Stephana nelle pagine che sottolineano
l'avvento della Pasqua) ; e questo concatenamento di motivi implica una precisa
funzionalità drammatica, escludendo il sospetto di una ispirazione disorganica e
frammentaria.
Nella serena pace di villa Fedora, che il Maestro aveva acquistato a
Baveno, sul Lago Maggiore, nascevano altre opere Marcella (1907) patetica
storia dell'infelice amore tra un principe russo e una ragazza di cabaret; Mese
mariano (1909) e Madame Sans-Gêne (1915). Sembra che sia stato Verdi, in uno
dei suoi colloqui con Giordano svoltisi nell'Hotel Milan a suggerire al Nostro il
soggetto di Madame Sans-Gêne. Avendo Giordano accennato alla difficoltà di
far cantare sulla scena la figura di Napoleone, il vecchio maestro replicò che
quella difficoltà poteva valere per un Napoleone in divisa e con la mano sul
petto, ma un Napoleone in pantofole poteva benissimo cantare in un'opera
lirica, tanto più che nè lui Giordano nè il pubblico avevano mai visto
Napoleone. Ogni perplessità fu poi superata, dopo che Giordano ebbe modo
di assistere a una recita parigina della commedia di Sardou e Moreau; così
decise di mettere in musica Madame Sans-Gêne, lasciando interrotta la
composizione di un altro lavoro, La festa del Nilo, di cui aveva già abbozzato il
primo atto. Gli ultimi lavori, La cena delle beffe e Il re, rappresentati
rispettivamente nel 1924 e nel 1929 sotto la direzione di Toscanini, ebbero
buona accoglienza sia dal pubblico che dalla critica, ma hanno dimostrato una
vitalità piuttosto scarsa in relazione alle opere precedenti.
Al fine di rendere più semplici e chiare le partiture musicali, Giordano
ideò un sistema di notazione che consentisse di notare tutte le parti orchestrali
nelle sole due chiavi di violino e di basso, più comunemente conosciute.
Adottando questo sistema, che fu approvato nel Congresso Musicale Didattico
Internazionale del 1908, egli curò la ristampa, presso l'editore Ricordi, delle
nove Sinfonie di Beethoven. Negli ultimi anni visse
10
piuttosto appartato, comparendo di rado in pubblico, e per lo più in occasione
della ripresa di qualche sua opera; poco prima di morire, celebrò a Bergamo
con un commosso discorso la figura di Gaetano Donizetti. Si spense a Milano
il 12 nov. 1948.
Nella impostazione della struttura operistica, Giordano si è attenuto in
genere ai criteri prevalsi nell'ambito della estetica verista; criteri che del resto
rientravano nella linea della nostra tradizione, dopo le mirabili conquiste
dell'ultima produzione verdiana. Una articolazione drammatica fondata sulla
successione di zone liriche diverse, ma senza soluzione di continuità, doveva
apparire la più naturale ed elastica; capace di una realistica funzionalità, doveva
consentire di dare allo svolgimento musicale una chiarezza di contorni e di
volumi, oltre a conferire l'opportuno rilievo ai momenti di canto spiegato. Nel
quadro di questa struttura equilibrata e serrata, Giordano ha inserito e graduato
le varie situazioni sceniche propostegli dai suoi librettisti, modulando con
attento scrupolo il suo lirismo ora idillico, ora elegiaco, ora concitato, dosando
con bravura i suoi slanci drammatici; di qui l'impressione di organicità che
danno le sue opere, anche a dispetto di qualche momentaneo squilibrio.
Non sarebbe quindi giusto asserire che Giordano fosse semplicemente
un melodista; un intuito sicuro, una vivace sensibilità teatrale lo inducevano alla
ricerca di una coerenza architettonica, a contemperare la linea melodica col
declamato, gli effetti orchestrali di puro accompagnamento con quelli evocativi
e allusivi. Le sue opere rivelano pertanto una singolare unità di concezione,
accanto a una singolare flessibilità di scrittura, che nasce da una sensibilità
attenta a cogliere con vigile amore le varie inflessioni sceniche, le varie
sfumature interiori del personaggio drammatico. Questo a me sembra un
sostanziale elemento di valutazione critica. Giacchè è ben vero che, per quanto
riguarda il suo linguaggio melodico, Giordano si attenne alla poetica verista, la
quale postulava una forma di linguaggio semplice, lontano dalla inconsistenza e
dalle preziosità auliche del romanticismo cadente, e vicino alle forme del
linguaggio popolare, ricco di concretezza e capace di mettere a fuoco le cose.
Ma è anche vero che egli per lo più rifiutò quelle soluzioni troppo facili di cui a
volte si contentarono Mascagni e Leoncavallo ; perchè assai vivo fu in lui il
gusto della verità, e sempre attiva la forza stimolante del reale, al cui contatto
egli sentiva crescere la sua carica sensitiva. Il suo realismo po11
trebbe definirsi realismo meditativo, in quanto implica un grado di attenzione,
una coscienza animata da un travaglio fecondo e mirante a cogliere la logica
interna del dramma. Perciò egli riuscì spesso a vincere lo schematismo e a
salvarsi dalla monotonia, variando continuamente le inflessioni del suo
linguaggio, senza mai snaturare se stesso, senza attenuare la forza espansiva del
suo lirismo.
Andrea Chénier, Fedora e Siberia sono, tra le opere giordaniane, le più
celebrate e le più eseguite, ma non sono, in realtà, l'unico polo di attrazione
dell'arte del Nostro. Qui egli ha dato vita poetica al dramma della passione
amorosa e del sacrificio per amore, giungendo a una lucida delineazione delle
figure femminili, specialmente attraverso un melodiare fervido, dalle larghe
volute che anche nei toni più dolenti si espandono in risonanze pensose. Ma
già queste opere, nella diversità molteplice dei personaggi che le distingue,
contenevano in germe gli sviluppi futuri, la possibilità, per il musicista, di
estendere la sua attività creativa su un maggior numero di registri spirituali.
Difatti le opere successive dovevano rappresentare le varie fasi di questo
dispiegarsi dell'indole giordaniana. Quelle forme di lirismo idillico ed elegiaco
che abbiamo visto affiorare in alcuni tratti della partitura di Fedora
assumeranno sfumature più delicate e sensibili in Marcella, nelle patetiche scene
di Mese mariano, il dramma silenzioso dell'amore materno. Quel gioco di mezze
tinte, che già avvertimmo in alcune scene di ambiente mondano di Chénier e di
Fedora, si assottiglierà in movenze più argute e lievitanti nelle pagine di Madame
Sans-Gêne; il gusto quotidiano della storia con cui Sardou aveva ridotto a
proporzioni normali, direi quasi domestiche, la figura epica di Napoleone
consentì senza dubbio a Giordano la possibilità di una tessitura fluida e leggera,
di una scrittura fine, penetrante, gradevolmente volubile.
Madame Sans-Gêne rappresenta forse il momento più interessante della
evoluzione stilistica di Giordano, per la sapiente dosatura dei toni comici,
patetici ed umoristici, per il sottile gusto timbrico-orchestrale, che non ha tolto
nulla alla spontaneità dell'espressione, specialmente nelle due figure della
lavandaia e del sergente i quali, col loro linguaggio schietto, portano una nota di
freschezza e di simpatia nel clima ipocrita e corrotto della corte imperiale.
VINCENZO TERENZIO
12
Il piano di coordinamento
e la Capitanata
Le prospettive di sviluppo economico della Provincia di Foggia,
desunte dal Piano di coordinamento degli interventi pubblici del
Mezzogiorno, vanno considerate partendo da un pur sommario esame
della realtà ereditata dai Governi democratici e modificata dalle
trasformazioni successivamente intervenute.
Già la politica autarchica aveva impedito all'economia italiana di
adeguare le sue strutture e i suoi indirizzi produttivi alla libera evoluzione
tecnologica ed alle esigenze di mercato, sicché tali strozzature
determinavano un anormale assetto, che ha reso ancora piú difficoltosa la
necessaria ripresa.
Le vicende belliche, poi, che richiedevano, e in quel contesto, la
soluzione di problemi di emergenza, utilizzando le difettose risorse
disponibili, maggiormente aggravavano la situazione, ritardando ogni
razionale progresso.
Inoltre le pressanti esigenze dell'immediato dopoguerra
imponevano il soddisfacimento di bisogni urgenti ed immediati ed ogni
iniziativa produttiva veniva indirizzata a fronteggiare tali incalzanti
necessità.
Infine l'assillo di creare nuovi posti di lavoro e di favorire
l'espansione dell'economia portava ad assecondare iniziative in località
ristrette, senza seguire altro criterio se non quello economicistico del
minor costo possibile.
D'altra parte il progresso tecnologico rendeva piú spedito lo
sviluppo del settore industriale, richiamando sempre un numero maggiore
di lavoratori dal settore agricolo, accentuando gli squilibri in atto. Questa
rapida crescita, realizzatasi senza un razionale programma, portava ad
aggravare quel dualismo economico che caratterizza la società italiana,
accentuando il sottosviluppo meridionale nei confronti del progredito
settentrione e creando nuovi problemi nel Mezzogiorno e nel settore
agricolo.
13
Questa situazione anomala postulava un razionale riordino per
instaurare una economia moderna degna di una civile società.
Intensi studi ed esperienze collaudate hanno suggerito un metodo
preciso per affrontare il problema di uno sviluppo equilibrato
dell'economia italiana.
Pertanto è stata scartata la soluzione di una pianificazione rigida e
centralizzata che riservasse il potere decisionale produttivo unicamente al
settore pubblico, eliminando cosí il tradizionale regolatore economico
rappresentato dal mercato. E questa esclusione oltre tutto è stata
consigliata anche dal fallimento dell'esperienza fatta dai Paesi totalitari di
tipo marxista, che, sia pure con molta cautela, stanno progressivamente
ritornando ad un aggiornato sistema di economia di mercato.
Il modello di sviluppo scelto in Italia tende a creare un meccanismo
autopropulsivo che si muova in una economia di mercato, integrata e
corretta dall'intervento diretto ed indiretto dello Stato.
E' stato cosí concepito un programma di sviluppo che assegni al
settore pubblico compiti vincolanti sia per creare le indispensabili
infrastrutture capaci di favorire l'azione privata sia per realizzare
interventi diretti nella carenza di ogni altra iniziativa.
Caratteristiche e finalità del Piano
Solo alla luce di queste premesse è possibile correttamente
esaminare il Piano di coordinamento per rilevare le sue caratteristiche e
l'effettiva incidenza nello sviluppo della nostra Provincia.
« Il Piano pluriennale di coordinamento degli interventi pubblici nel
Mezzogiorno costituisce lo strumento fondamentale per dare organicità e
unitarietà all'intervento pubblico diretto a trasformare la struttura
produttiva e le condizioni sociali del Meridione, al fine di conseguire una
piena ed organica integrazione delle regioni meridionali nel processo di
sviluppo del Paese.
« La legge 26 giugno 1965, n. 717, assegna infatti al Piano di
coordinamento la funzione di realizzare, in attuazione delle scelte e delle
direttive del programma di sviluppo economico nazionale e sulla base
anche dei piani regionali, una razionale ed efficiente organizzazione di
tutti gli interventi delle amministrazioni pubbliche rivolte a promuovere
ed agevolare la localizzazione e l'espansione delle attività produttive e di
quelle a carattere sociale nei territori meridionali.
« Il piano di coordinamento, pertanto, organizza nel disegno
unitario interventi e competenze in modo che non interferiscano
reciprocamente e non si sovrappongano ma si integrino vicendevolmente;
a tal fine orienta gli interventi straordinari in relazione a quelli ordinari,
tenendo conto, in una visione unitaria e globale della economia di
entrambe, sia nell'ambito di ciascun settore di intervento, sia in rapporto
alle relazioni intersettoriali ».
Questa è la finalità del Piano come viene precisata nel documento e
che serve ad orientare ogni osservatore per intendere la caratteristica
essenziale del metodo di sviluppo previsto dal Piano stesso.
14
Da esso scaturisce il carattere vincolante per le amministrazioni
pubbliche che, secondo le rispettive competenze, debbono predisporre i
provvedimenti necessari per attuare o favorire i previsti investimenti
produttivi.
Resta, pertanto, fuori da vincoli diretti l'azione privata, la quale,
peraltro, viene condizionata dalle agevolazioni statali concesse solo a chi
adegua la sua condotta alle direttive fondamentali del Piano.
Giova a questo punto sottolineare che gli investimenti per un
adeguato sviluppo anche della nostra Provincia non verranno effettuati
unicamente dalla mano pubblica, ma anche e particolarmente dalla
iniziativa imprenditoriale dei privati, spronati a realizzare le linee
programmate dai predisposti incentivi.
Quindi l'esame deve essere globalmente rivolto anche alle
agevolazioni che le leggi speciali e quelle ordinarie prevedono per
spronare le iniziative dei privati, le quali dovranno necessariamente
muoversi nel contesto logico previsto appunto dal Piano e nel solco degli
obiettivi prospettati.
Gli obiettivi del Piano
Intanto occorre cogliere i criteri posti a base degli interventi
pubblici diretti ed indiretti: essi hanno un carattere produttivistico in
quanto tendono all'accrescimento della produttività del reddito e
dell'occupazione.
" Il raggiungimento di tali obiettivi presuppone, in primo luogo,
una accelerata espansione delle attività industriali ad un saggio di aumento
della produttività che sia piú elevato di quello fissato per l'industria delle
regioni centro-settentrionali.
" L'espansione dell'intera struttura industriale non può, però,
assicurare da sola il conseguimento degli obiettivi fissati dal programma di
sviluppo economico nazionale. E' necessario a tal fine, una organica
crescita degli altri settori produttivi: in primo luogo dell'agricoltura che è
ancora una componente importante dell'economia meridionale e allo stato
attuale presenta risorse non impiegate al livello di pieno rendimento.
" Il programma riconosce, poi, una particolare capacità propulsiva
al turismo per l'esistenza nel Mezzogiorno di peculiari risorse ".
Quindi il piano prevede degli investimenti selettivi tenendo
presente le risorse locali per operare una terapia celere e determinante
nella crescita del Mezzogiorno e di particolari zone dotate di speciali
suscettività.
Questi criteri, però, non comportano l'abbandono di territori, privi
di specifiche attitudini per un rapido sviluppo, ma, prevedono l'intervento
ordinario per realizzare un assetto rispondente alle particolari
caratteristiche delle zone stesse.
In sostanza, ad una crescita accelerata ed intensiva con un aumento
produttivistico rapido ed un incremento cospicuo della occupazione in
territori ad alta suscettività, corrisponde, ma con diverso ritmo nelle zone
a risorse limitate, un pur apprezzabile sviluppo caratterizzato da
particolari attitudini ambientali.
15
Criteri di intervento
Tenendo presente queste indicazioni di natura generale il Piano
stabilisce i criteri per il coordinamento degli interventi nei singoli settori
operativi: infrastrutture, agricoltura, industria, turismo, progresso tecnico e
sviluppo civile, artigianato e pesca, territori caratterizzati da particolare
depressione.
Naturalmente si tratta di una determinazione e specificazione dei
criteri generali cui si ispirerà l'attività pubblica di produzione e di sviluppo.
1) Come criterio fondamentale per tutte le infrastrutture di carattere
generale, la localizzazione delle opere, il loro grado di funzionamento,
l'organicità in cui si pongono rispetto alle esigenze locali, vengono
commisurati alla destinazione delle singole aree del territorio interessato.
In questa prospettiva è data priorità:
a) alle infrastrutture di comunicazione (porti, aereoporti, viabilità
primaria e minore, ferrovie);
b) all'approvvigionamento idrico di zone particolarmente carenti, ed
ai servizi civili;
c) alla conservazione del suolo (opere idrauliche e rimboschimenti) .
Particolare importanza viene assegnata alla viabilità primaria che deve
avere funzione di stimolo e appoggio all'espansione territoriale dei processi
di sviluppo.
2) L'intervento pubblico per lo sviluppo dell'agricoltura, quale
componente fondamentale dell'economia meridionale, è finalizzato al
conseguimento di piú elevati livelli di produttività.
L'obiettivo è quello di agevolare lo sviluppo dei settori produttivi piú
rispondenti alle caratteristiche dell'agricoltura locale e all'evoluzione della
domanda interna ed internazionale; l'orticoltura, la frutticoltura, la vitiolivicoltura e la zootecnia rappresentano i settori di maggiore attenzione. In
questo quadro vengono, in concreto, favoriti: l'estendimento della
irrigazione; la sostituzione e l'aggiornamento di alcune culture tradizionali;
la realizzazione di infrastrutture di conservazione, trasformazione e
commercializzazione che consentano alle imprese agricole di acquisire,
anche attraverso piú adeguati rapporti con i settori industriali e quello
distributivo, una maggiore quota del valore aggiunto alla produzione
agricola-alimentare; la realizzazione di infrastrutture strettamente finalizzate
ad un piú intenso sviluppo dell'agricoltura e al miglioramento delle
condizioni di vita delle popolazioni rurali.
Nelle connesse zone irrigue e di valorizzazione la Cassa per il
Mezzogiorno ha il compito di operare nel settore delle opere pubbliche di
bonifica e di irrigazione, dei miglioramenti fondiari e delle dotazioni
aziendali, in quello degli impianti di trasformazione, commercializzazione e
conservazione dei prodotti agricoli, e, dentro certi limiti, in quelli della
divulgazione tecnica e della sperimentazione.
Nei territori esterni ai comprensori irrigui e di valorizzazione
connessi, è prevista l'azione del Ministero dell'Agricoltura che farà leva
16
soprattutto sul provvedimento per lo sviluppo dell'agricoltura nel
quinquennio 1966-1970 (2° Piano Verde).
Intanto le linee di sviluppo dell'agricoltura dauna si adeguano già
agli indirizzi preconizzati e perseguiti dal Piano nazionale.
L'investimento di base che mira ad accrescere la produttività e ad
aumentare l'occupazione, è rappresentato dai noti invasi di Occhito e
dell'Ofanto. L'utilizzazione inoltre delle falde freatiche ed artesiane ha già
permesso l'irrigazione di una superficie di circa 36.000 Ha, con impianti
irrigui prevalentemente mobili.
Con i complessi dell'Ofanto e del Fortore la superficie nominata si
aggirerà sui 10.000 Ha con circa 100.000 ettari effettivamente irrigati.
Tale cospicua potenzialità potrà ancora essere accresciuta con le
sorgenti carsiche, i laghetti collinari, il complesso del Carapelle ed altre
iniziative minori, il tutto già tecnicamente rilevato e suscettibile di
proficua utilizzazione.
Questo
poderoso
moltiplicatore
produttivo
consente
l'aggiornamento delle culture, l'introduzione di nuovi indirizzi produttivi e
l'adeguamento della strutturazione agricola in riferimento alle richieste del
mercato comunitario, d'altra parte, già interpretate dal Piano di sviluppo
nazionale.
La produzione ortofrutticola si va allargando su tutto il Tavoliere
(carciofo, peperone, mellone, insalata, patate, cavolo, cavolfiore, sedano,
finocchio, broccoletti, cipolla, aglio ecc. e per quanto riguarda la frutti
coltura: agrumi, pesche, pere, mele, uva da tavola, mandorlo e olivo); e
cosí pure le colture industriali, quali il pomodoro e la barbabietola, vanno
imponendosi progressivamente.
Inoltre le economie esterne delle aziende agricole, dirette a
valorizzare i prodotti ortofrutticoli, vanno realizzandosi: cantine sociali, di
cui già 17 costruite, l'impianto vinicolo di interesse nazionale, finanziato e
localizzato in S. Severo, centrali ortofrutticole, caseifici, oleifici sociali e
privati, zuccherifici ecc. testimoniano l'ammodernamento del settore,
anche nell'intento di acquisire una maggiore quota di reddito a favore dei
produttori agricoli.
Peraltro un'interessante tendenza va affermandosi nel settore degli
allevamenti, anche se il Piano di sviluppo non contempla tale comparto
come protagonista nel contesto dello sviluppo agricolo meridionale.
Siamo dell'opinione che difficilmente si potrà avere un'inversione
specialmente allorché le foraggere potranno beneficiare della irrigazione e
le zone montane e di alta collina saranno restituite alla loro naturale e
specializzata vocazione silvo-pastorale.
L'incremento numerico degli allevamenti bovino e ovino ed il
miglioramento qualitativo delle razze introdotte rappresentano un indice
significativo, che occorrerà riconsiderare nella stesura del successivo
secondo Piano di sviluppo.
La crescita civile, umana e professionale degli imprenditori agricoli
si va concretando nella realizzazione dei servizi civili nelle campagne,
nelle sempre piú numerose iniziative per diffondere la prepara
17
zione e qualificazione professionale e l'assistenza tecnica e nella
intensificazione ed ampliamento dell'azione previdenziale ed assistenziale
nel settore sanitario, ormai prossimo a trasformarsi in sicurezza sociale.
Il quadro, sia pure sommario, delle realizzazioni in corso e le nitide
prospettive indicano i contorni sempre piú concreti e visibili di un
effettivo progresso del settore agricolo in consonanza con le indicazioni
del Piano di sviluppo.
3) Passando ad esaminare le possibilità del settore industriale si rileva
che una accelerata espansione della sua struttura per il superamento dello
squilibrio economico tra Nord e Sud richiede la promozione di quei comparti
produttivi caratterizzati da un'azione dinamica della domanda e della
produttività.
Tale condizione sarà assicurata solo mediante l'introduzione di
metodi di produzione e di organizzazione piú progrediti. Da questa
esigenza per lo sviluppo industriale meridionale scaturiscono i criteri del
coordinamento della politica di industrializzazione del Sud in quanto
attiene alla tipologia ed alla localizzazione della attività industriale.
a) La tipologia delle industrie deve rispondere alle esigenze di
integrazione delle attività produttive locali, di mobilitazione delle relative
risorse e di realizzazione di innovazioni strutturali, tecniche e
organizzative.
Nella nuova fase dell'espansione industriale, l'innovazione
produttiva e tecnologica, è destinata a diventare un fattore di sviluppo
sempre piú importante.
Pertanto, « perché il Mezzogiorno non perda terreno rispetto al resto del
Paese, è necessario che l'industria meridionale si sviluppi in senso
spiccatamente innovativo. Infatti, anche negli altri Paesi, le regioni
sottosviluppate sono riuscite ad avvicinarsi alle regioni di tradizionale
concentrazione industriale, soltanto quando è aumentata l'incidenza di industrie
di tipo nuovo, caratterizzate da condizioni dinamiche di domanda e da intenso
progresso tecnologico ».
b) Anche la localizzazione delle attività industriali deve rispondere
ai criteri di un razionale sviluppo. Gli interventi della politica di
industrializzazione, per quel che concerne la ubicazione delle iniziative,
sono perciò diretti a favorire: 1) la concentrazione territoriale, in un
numero limitato di aree e nuclei industriali, delle iniziative industriali che
esigono una notevole dotazione di infrastrutture, e sono legate ad altre
industrie da complessi legami interindustriali. Questa distribuzione
territoriale degli interventi costituisce una precisa condizione per lo
sviluppo industriale del Mezzogiorno; 2) la diffusione nel territorio di
iniziative industriali che non richiedono notevoli dotazioni infrastrutturali
e non presentano legami interindustriali tali da consigliarne
l'agglomerazione. Si tratta prevalentemente di industrie utilizzanti prodotti
agricoli, materie prime e mano d'opera locali, e che dipendono in misura
non marcata dalla prossimità di altre industrie.
Come rispondenti maggiormente alle esigenze sopra indicate, il
Piano indica i seguenti settori: industria meccanica, industria chimica,
industria alimentare di tipo moderno.
18
L'azione pubblica rivolta all'industrializzazione del Mezzogiorno
sulla base dei criteri e delle priorità enunciati, si avvale di interventi diretti
(investimenti delle aziende a partecipazione statale, partecipazione a
società finanziarie di sviluppo, coordinata predisposizione delle
infrastrutture specifiche e dei servizi necessari per gli insediamenti
industriali, servizi dei consorzi per le aree ed in nuclei di
industrializzazione) e interventi indiretti (incentivi finanziari, agevolazioni
ed esenzioni tributarie, ecc.).
Queste indicazioni sono espressamente valide per la nostra
Capitanata.
Del resto il precorso andamento industriale della nostra Provincia,
che, è bene precisare, si è pur venuto svolgendo anche se in misura e
ritmo ridotto, conferma che già per il passato si è mosso in maniera
conforme, sicché il tipo di industria affermatosi ha obbedito alla esigenza
di integrare le attività produttive locali, pur se, per difetto di capitali, ha
presentato modeste dimensioni e non è riuscito peraltro ad utilizzare che
limitatamente le risorse locali.
L'industria agricolo-manifatturiera, quella estrattivo-manifatturiera
ed, infine, quella poligrafica hanno iniziato un processo di sviluppo, però
con ripercussioni non rilevanti, ma potenzialmente suscettibili di larga
espansione sol che fossero state assecondate.
E la sua caratteristica prevalente sarebbe consistita in una industria
agricolo-manufatturiera solida e diffusa, come certamente andrà a
realizzarsi sotto la spinta dell'intervento diretto ed indiretto dello Stato.
Ma il rinvenimento di una importante risorsa, quale il metano, apre
l'ingresso anche all'industria chimica, sicché i tre grandi gruppi
dell'industria manifatturiera troveranno notevoli espressioni nella nostra
Provincia con vicendevole e proficua influenza.
Cosí le annunziate iniziative industriali di una certa consistenza da
parte dell'ENI, della SNIA-VISCOSA e della FIAT dovrebbero dare
l'abbrivio a questa nuova componente, che oltre ad un assolvimento
occupazionale non trascurabile, assicura l'avvento di un imprevisto
allargamento delle prospettive di sviluppo.
La costituzione dell'Area Industriale in Capitanata ha lo scopo di
concorrere a risolvere il fondamentale problema dell'affluenza di capitali e
delle capacità imprenditoriali, creando favorevoli occasioni di
investimenti.
E la previsione vale per tutte le suscettività industriali offerte dalle
risorse locali: alimentari, meccaniche, chimiche ed estrattive nella loro
caratteristica manifatturiera.
Trattasi di solide premesse di un sicuro fermento operativo.
4) Particolare rilievo assume nel quadro di sviluppo del
Mezzogiorno il turismo per il suo dinamismo e per gli effetti economici
diretti ed indiretti.
In relazione a ciò: « l'intervento pubblico nel Mezzogiorno nel settore
turistico, nel periodo di validità del piano di coordinamento, avrà come
principale obiettivo sia la riduzione dello squilibrio ancora esistente nelle
attrezzature alberghiere ed extra-alberghiere rispetto alle
19
regioni settentrionali, sia la salvaguardia dei fondamentali valori del paesaggio
naturale e del ricco patrimonio archeologico, storico ed artistico ».
Nell'ambito dei comprensori di sviluppo, particolare incentivazione è
prevista per l'attività turistica, agevolazioni creditizie per la realizzazione di
iniziative alberghiere ed extra alberghiere sono previste nei territori meridionali
fuori dei comprensori di sviluppo.
Anche in questo importante settore la nostra Provincia è stata prescelta
come fattore propulsivo per la sua particolare suscettività.
Occorre subito rilevare che se la classificazione del Gargano in
comprensorio turistico rappresenta l'impulso principale per lo sviluppo delle
attività terziarie, questo però non esclude che località, parimenti idonee,
sebbene fuori comprensorio, possano concorrere ad arricchire ed allargare le
possibilità turistiche.
Basti rifarsi ad alcune zone del Subappennino dauno per ritenere
abbastanza fondate tali prospettive.
Indubbiamente, però, e per chiari e concreti segni, l'indicazione del
Gargano come fulcro portante dello sviluppo turistico è dimostrata dalle opere
già realizzate che assumono una caratterizzazione evidente e significativa.
Già prima di ogni sistematico intervento statale il Gargano è stato «
scoperto » dall'industria alberghiera privata, cui si è unita recentemente anche
l'iniziativa pubblica.
I dati confortano tale indicazione: circa il 62% degli esercizi alberghieri
della Provincia si trovano nel Gargano con 3 alberghi di 1a categoria, con 5
alberghi di 2a categoria, con 9 alberghi di 3a categoria e ben 24 alberghi di 4a
categoria ed infine 70 locande. Inoltre si registrano 9 campeggi con 3.548 postiletto e 5 villaggi turistici con 2.740 posti-letto. In sintesi, già attualmente nel
Promontorio Garganico la potenzialità ricettiva si concreta in circa 10 mila
posti-letto, sicché in un arco di tempo di solo sette anni vi è stato un
incremento del 27%.
Questa è l'indicazione piú sintomatica della capacità turistica del
Gargano e della tendenza univoca degli utenti: premesse queste che possono
assicurare un sicuro sviluppo in questa zona, mentre notevoli iniziative di
operatori privati, in corso di realizzazione, confermano tale previsione.
Intanto la Cassa per il Mezzogiorno va allestendo il piano
comprensoriale per la creazione delle infrastrutture che consentiranno un
razionale insediamento delle opere e degli esercizi pubblici e privati, con il
rigoroso rispetto delle esigenze urbanistiche e delle peculiari caratteristiche del
paesaggio.
Le ripercussioni locali che potranno ottenersi da tali investimenti, sono
intuibili in riferimento sia all'occupazione operaia, sia alla ripresa di una tipica
produzione artigiana, sia ad una intensificazione degli scambi sia ad una
selezionata produzione agricola che intenda provvedere a forniture alimentari
qualificate.
5) Per il progresso tecnico e lo sviluppo civile particolari interventi sono
previsti nei settori della scuola, della formazione professionale,
20
della ricerca scientifica, dell'assistenza tecnica, delle attività sociali ed
educative, che, nella nostra Provincia, col potenziamento delle
realizzazioni già effettuate, attendono nuovo impulso dai diversi dicasteri
competenti.
6) Nei territori caratterizzati da particolare depressione, ossia quei
territori interni, collinari e sub-montani dove piú accentuati sono i
sintomi di sottosviluppo economico e sociale e che non sono
immediatamente influenzati dagli effetti delle grandi aree di sviluppi, gli
interventi faranno perno sull'agricoltura come settore di attività
dominante e determinante la depressione.
E' in questo settore l'obiettivo da raggiungere, per la migliore
combinazione dei fattori produttivi al fine di ottenere un piú alto grado di
produttività dei fattori stessi. In questo senso si pongono tre ordini di
problemi:
- ridimensionamento del carico demografico nei limiti imposti dalle
risorse locali;
- riordinamento delle strutture aziendali e relativi rapporti di
produzione;
- la localizzazione delle culture e delle attività produttive con
riguardo alle suscettività dei terreni e alla disponibilità di risorse di altro
genere (finanziarie, idriche, di mano d'opera, di energia).
Nel contesto di questa azione generale di intervento nei territori
sottosviluppati, il Piano prevede che la Cassa, oltre ad opere di
potenziamento ed ammodernamento dei servizi civili (acquedotti,
fognature, scuole, servizi sociali, ecc.) realizzi - di intesa con le
amministrazioni statali e regionali interessate - programmi di intervento
nei settori della agricoltura (impianti lattiero-caseari), dell'artigianato e del
turismo.
Nella nostra provincia sono stati individuati due territori
particolarmente depressi. Il primo è composto dai Comuni di: Accadia,
Anzano, Monteleone di Puglia, Panni, S. Agata di Puglia, Rocchetta S.
Antonio, Orsara di Puglia, Bovino e Deliceto. Il secondo territorio
comprende: Alberona, Castelluccio Valmaggiore, Celle S. Vito, Faeto,
Motta Montecorvino, Pietra Montecorvino, Biccari, Casalnuovo
Monterotaro, Roseto Valfortore, S. Marco la Catola, Carlantino, Celenza
Valfortore, Volturara Appula e Volturino.
Cosí pure le zone meno fortunate della nostra Provincia potranno
contare su interventi connaturati alla loro particolare situazione ed adatti
per una azione promozionale permanente.
Il quadro organico, che scaturisce dalle prospettive di sviluppo della
Capitanata, indica un disegno realistico suscettibile di fondamentali
realizzazioni a medio e a lungo termine.
La rispondenza tra i bisogni delle popolazioni e l'utilizzazione delle
risorse locali confermano la validità della diagnosi e la conseguente
efficacia delle soluzioni prospettate.
Naturalmente un giudizio veritiero è possibile formulare solo se
l'osservazione si allarga a tutto il contesto, evitando pregiudizi settoriali
21
e campanilistici che tarpano, invece di assecondare, l'andamento dello
sviluppo stesso.
In definitiva il segreto del successo è incentrato nel conseguimento di
un meccanismo autopropulsivo che, incentivato inizialmente dalla
promozione statale, trovi nelle energie imprenditoriali locali un definitivo
consolidamento tale da assicurare un assetto economico e sociale aperto ed
integrale.
BERARDINO TIZZANI
22
Origini e sviluppo della civiltà daunia
Le civiltà paleolitiche piú antiche sono note in Europa per la varietà
dell'attrezzatura litica, che pare seguire uno sviluppo segnato dall'ascia
amigdaloide e dal raschiatoio musteriano anche se non mancano ambiti
culturali riconosciuti in determinate zone. Con la raccolta del cibo
(collettori) si ha la caccia ai grandi mammiferi. Durante l'età musteriana si
ebbero un culto dei morti e l'uso della caverna. Bisogna giungere alle
culture del Paleolitico superiore per poter parlare di civiltà in senso piú
completo e ampio, soprattutto perché nei tre grandi periodi
Aurignacoperigordiano, Solutreano e Maddaleniano si ha lo sviluppo dei
linguaggi figurativi con la pittura, il graffito parietale e il bassorilievo in
argilla.
Le tracce del Paleolitico piú antico sono finora assenti nel
Tavoliere, mentre sono state di recente individuate nel promontorio
garganico, ove erano già state segnalate alla fine del XIX ed agli inizi del
presente secolo dagli studiosi locali (Angelucci, Centonza, Del Viscio e
altri) 1 . Sono attestate in stratificazioni rilevate sulle terrazze quaternarie
dei terreni settentrionali (Romandato, Correntino, Antonino), nelle
contrade Mortellito, Crocifisso di Varano, nella foresta Umbra e alle
sorgenti di Irchio.
I risultati danno un quadro vario dell'attrezzatura litica posseduta
dai nomadi collettori che frequentarono il promontorio durante
l'Interglaciale Riss-Würm e la glaciazione del Riss. Da uno stadio culturale
caratterizzato dall'uso dei ciottoli di torrente appena scheggiati
(chopperscultures) si sarebbe passati all'uso dell'ascia acheuleana (Monte
Grande presso Vico) e all'utilizzazione delle schegge piú o meno lavorate
ed adattate a varie forme di arnesi (raschiatoi di diversa forma, ecc.). La
industria su scheggia, che caratterizza la civiltà musteriana in Italia e in
Europa occidentale durante il Würm I, risalirebbe invece nel Gargano
1 Rinvio a Palma di Cesnola, Problemi e lineamenti di Preistoria garganica, «Atti
della Società Italiana di Scienze naturali e del Museo civico di Storia Naturale in
Milano», vol. CII, fasc. III, Milano 1963 (estratto) e ivi bibliografia. Per indicazioni
bibl. sull'Angelucci, Centonza, Del Viscio, ved. i miei Gli studi paletnologici in Puglia,
« Archivio Storico Pugliese », VII, 1954 e L'ultimo decennio di studi sulla Puglia
preclassica, Ibid., XII, 1959 e ivi bibliografia.
23
all'Interglaciale Riss-Würm (Irchio) in un momento di clima caldo arido
corrispondente a quello attuale algerino. Gli eventi climatici del primo
stadio del Würm sono segnati da un'attività vulcanica provata dai materiali
rintracciati nei depositi di Irchio e di altri giacimenti 2 .
L'arte e il mondo ideologico dei gruppi di collettori e cacciatori
trovano una testimonianza significativa nei dipinti di grotta Paglicci ai
piedi di Rignano Garganico 3 . Alcuni frammenti di ossa iliache di cavallo
presentano finemente incisi figure di bovini, di cerbiatto, di cervi e di
cavallo e segni lineari interpretati come frecce. La caverna fu frequentata
dal periodo aurignaco-perigordiano fino ad età mesolitica; sono stati
rinvenuti numerosi manufatti litici ed ossei, e frammenti di ossa umane.
L'attrezzatura silicea dei gruppi umani di Paglicci comprende lame di tipo
gravettiano e epigravettiano, microliti geometrici di tecnica mesolitica. I
resti della fauna attestano la presenza del cavallo, dei bovini, dello
stambecco e, nei livelli superiori recenziori, è diffusa la volpe con qualche
esempio di tasso, martora, lupo e gatto selvatico. Il complesso faunistico
trova molti punti di contatto con quello degli strati A-F di grotta
Romanelli in Terra d'Otranto 4 . La presenza dello stambecco indica un
rincrudimento climatico correlazionabile al Würm II e al post-bühliano, e
quindi si estende al Gargano anche l'evoluzione paleoclimatica verificatasi
in Terra d'Otranto sul finire dell'era quaternaria. Lo stile dei dipinti si
inquadra nella corrente naturalistica d'arte franco-cantabrica del periodo
aurignaco-perigordiano fiorita circa 30.000 anni fa. La testimonianza di
Paglicci permette di individuare la componente del mondo ideologico dei
cacciatori paleolitici che ripone ogni valore nella potenza magica
dell'animale, considerato quale sintesi di ogni tipo di bisogno esistenziale5 .
Il magismo paleolitico si manifesta nelle raffigurazioni zoomorfiche, che
quindi, secondo una corrente opinione, assumono valore rituale,
propiziatorio. Come la caccia è l'attività essenziale di questa umanità, cosí
anche la donna in seno alle comunità di cacciatori personifica la forza
vitale della riproduzione, per cui tutto si rinnova. Plasticamente il
concetto si traduce nelle statuette tridimensionali - le cosiddette « Veneri
adipose » - raffiguranti un tipo di donna in cui sono accentuate le parti
molli o i simboli della fecondità. In Daunia, pur mancando esempi
espliciti di « Veneri adipose » paleolitiche, ritroveremo sviluppato molto
dopo il tema della donna - fecondità sul vasellame geometrico del VII-VI
sec. a. C.
L'attrezzatura silicea delle tribú aurignaziane del Gargano ha avuto
un notevole sviluppo per l'accentuata presenza di cave silicifere sfruttate
per fabbricare utensili e strumenti idonei ai bisogni di un'ecoA. PALMA DI CESNOLA, Problemi cit., p. 4 ss.
F. ZORZI, Pitture parietali e oggetti d'arte mobiliare del Paleolitico scoperti
nella grotta Paglicci presso Rignano Garganico, « Riv. Sc. Preis », XVII, fasc. 1-4,
1962 (estr.) Id., Palaeolithic Discoveries in the Grotta Paglicci, « Antiquity ».
XXXVIII, n. 149, p. 38 ss.
4 G. A. BLANC, Grotta Romanelli, II « Archivio per l'Antropologia e
l'Etnologia », LVIII, 1928, p. 365 ss.
5 Sul magismo paleolitico cfr. C. TULLIO ALTAN, Lo spirito religioso
del mondo primitivo, Milano 1960 e ivi bibl.
2
3
24
nomia prevalentemente venatoria. Le caverne sono frequentate e alcune come la grotta Paglicci - servono per compiere riti magici propiziatori
della buona caccia.
Al momento della crisi post-glaciale il quadro culturale della Daunia
offre una documentazione di tradizione paleolitica, un congruo gruppo di
elementi ergologici riguardanti un'economia di caccia e ambientale ed,
infine, le testimonianze su una primordiale organizzazione dell'attività
rurale.
Il processo di evoluzione dei cacciatori in agricoltori presenta ad un
primo sguardo un'articolazione economico-culturale varia e complessa sia
se si considera la varietà geomorfologica della Daunia ( dal Gargano con
punte fino a 1100 m. si passa attraverso altitudini intermedie a depressioni
come quella del Candelaro, di Salpi sotto o a livello marino), sia se si tien
conto dei mutamenti cui il paesaggio è andato soggetto per agenti naturali
e per il fattore umano. I cacciatori essenzialmente nomadi per la caccia
stagionale o occasionale vennero in contatto con altre genti periadriatiche
6 . Altri aggregati umani si erano dedicati alla pesca stabilendosi sulle coste
marine o in prossimità di ambienti lagunari come appunto il Candelaro, le
cui acque lambivano le rive di Coppa Nevigata (a sud di Manfredonia). I
risultati degli scavi ivi condotti dal Pugliesi 7 , dopo quelli del Mosso, ci
presentano un insieme economico-culturale di raccoglitori di molluschi
dotati di grossi vasi decorati ad incisioni a crudo (ceramica impressa) e di
un'attrezzatura silicea (microliti) atta alla lavorazione del Cardium edule, che
prolifera in ambienti lagunari salmastri come fu quello del Candelaro.
L'assenza finora riscontrata di resti di capanne e di fauna domestica spiega
il carattere semisedentario di queste genti, le quali appunto dimoravano
presso la laguna nei periodi di raccolta del mollusco.
Il complesso economico-culturale di Coppa Nevigata non è isolato
nella storia culturale della Puglia e delle civiltà perimediterranee, perchè
trova riscontro nella grotta del Cavallo nel Salento 8 e negli analoghi
complessi dell'Africa settentrionale e sahariana, il cui livello di civiltà
durante il VI millennio offre maggiori punti di contatto con Coppa
Nevigata,
Nel processo di formazione delle comunità contadine l'eredità
sociologica paleolitica ci è attestata dalla ininterrotta presenza dei tipi
litotecnici laminari e, come vedremo, da un complesso di dati i quali
dimostrano che le grotte in età neo-eneolitica furono frequentate da
cacciatori. La « rivoluzione neolitica » influì in maniera decisiva nel
processo di selezione socio-economica. Da un lato i cacciatori, che usano
il tranchet campignano, divengono disboscatori del promontorio gar6 Richiamo le osservazioni di A. C. BLANC, Testimonianze paletnologiche e
biogeografiche sulla via percorsa dai Grimaldiani nella loro immigrazione in Europa e in
Italia, «Archivio per l'Antropologia e l'Etnologia», LXVIII, 1938, p. 17 ss.
7 S. M. PUGLISI, Industria microlitica nei livelli a ceramica impressa di Coppa
Nevigata, « Riv. Sc. Preist. » X, 1955 (estr.) e ivi bibl.
8 A. PALMA DI CESNOLA, Prima campagna di scavi nella Grotta del
Cavallo, presso Santa Caterina (Lecce), « Riv. Sc. Preist. », XVIII, p. 41.
25
ganico per avere terra da mettere a colture ed ottenere legname utile per
imbarcazioni, palificazioni, capanne. Altri gruppi come quelli del
Candelaro, pervengono alla fabbricazione di recipienti fittili per la
conservazione dei molluschi durante i periodi di magra e,
successivamente, catturano e addomesticano animali, acquisiscono le
proprietà riproduttrici della terra per divenire come al « pulo » di Molfetta
e alle Tremiti agricoltori e marinai. Altri gruppi, infine, piú tradizionalisti
persistono nelle loro condizioni di cacciatori. In questo processo, che si
compie indicativamente durante il VI millennio, un posto di rilievo
assumono le genti in possesso del tranchet campignano.
I dati topografici indicano chiaramente una gamma di attività
correlazionabili all'ambiente vario del promontorio. La zona interna
garganica fino a m. 400 se non ha rivelato tracce di insediamenti stabili, ha
restituito, invece, una messe di strumenti silicei, tra i quali è accentuata la
presenza significativa dell'accetta campignana. La sua diffusione è almeno
sinora riscontrata in regioni boscose come l'entroterra garganico oppure
l'Abruzzo Teramano o anche il Veronese 9 , un tempo ambienti forestali.
All'accetta campignana si associa un corredo di arnesi silicei di varie
dimensioni e per lo piú di tecnica paleolitica. Dalle recenti classificazioni
dello strumentario campignano si deduce che esso costituisce il corredo
per le attività utilitarie delle tribú che frequentarono il promontorio, e che
si sviluppa in tempi neolitici, vale a dire quando nel Tavoliere e sulle coste
del promontorio si erano stabiliti i contadini dei villaggi 10 . In breve quella
che oggi si chiama cultura campignana garganica potrebbe rappresentare il
neolitico aceramico, noto nel Medio Oriente, in Tessaglia (Argissa-Magoula)
ed anche in parte dell'Africa settentrionale, dove le comunità
mesoneolitiche non hanno ancora acquisito le tecniche vascolari 11 . Del
campignano garganico si ammettono una facies senza ceramica prevalente
nell'interno del promontorio e nella zona subcostiera, cronologicamente
parallela alla cultura di Coppa Nevigata (VI millennio) e di sviluppo
indipendente dalle culture agricole che si andarono formando a partire dal
VI millennio nel Tavoliere. Il suo fondamento economico sono l'ambiente
forestale e lo sfruttamento delle cave silicifere. La facies recenziore si
estende fino alle soglie dell'età classica sulla costa.
I dati topografici suggeriscono che i gruppi campignani si spostano
facilmente e soltanto nell'età dei Metalli si andranno stabilizzando in
insediamenti costieri. In sostanza, i disbocatori e cavatori di selce vennero
in contatto con i contadini del Tavoliere e realizzarono gli aggregati
costieri del promontorio dal II millennio a.C. in poi. La presenza del
tranchet campignano in strati eneolitici costieri prova che queste genti
entrarono tardi in possesso dell'agricoltura, poichè il loro fondo
economico tradizionale era costituito dallo sfruttamento dei boschi e delle
ca9 Per il Veronese cf. F. ZORZI, Aspetti e problemi del Campignano in Val
Padana, « Atti del I Convegno Interregionale Padano », Milano 1956, p. 51. Id.,
Preistoria veronese, in « Verona e il suo territorio », vol. I, Verona 1960, p. 98.
1 0 Accolgo la classificazione di A. PALMA DI CESNOI.A,
Problemi cit. p. 12.
11 Rinvio per bibl. e concetti al mio Origini e sviluppo delle comunità rurali nella
Puglia preclassica, « Rivista di Antropologia », LIII, 1966.
26
ve silicifere. L'insediarsi delle tribú campignane sulla costa avviene in un
periodo molto ampio e adeguando in prosiego di tempo lo strumentario al
tipo di ambiente ove si andarono stabilendo. L'attrezzatura paleolitica non
viene abbandonata. Per cui si può ritenere che abitudini pratiche e
atteggiamenti mentali paleolitici costituiscono i caratteri prevalenti del
comportamento umano di queste genti.
Il rapporto dialettico tra il campignano garganico e le culture agricole
della Capitanata indica appunto una differenziazione civile e perciò anche
ideologica. Sicché le genti che sono stanziate durante lo sviluppo della civiltà
contadina a valle (dal V millennio in poi), avendo bisogni differenti, si creano
un'attrezzatura adeguata. Durante il V millennio gli insediamenti capannicoli e
cavernicoli sono diffusi sulle coste appunto perché in seno ai gruppi dediti alla
pesca e alla caccia si formano gli agricoltori, gli allevatori, ossia quei gruppi che
sostituiscono all'attività venatoria la coltivazione della terra dopo averla appresa
per mezzo dei contatti con genti di altri Paesi. Anche le Tremiti sono
interessate costituendo il tramite di diffusione ai Paesi balcanici settentrionali di
elementi della « civiltà di Molfetta » (neolitico inferiore), cosí denominata
dall'imponente complesso di manifestazioni che la caratterizzano al « pulo » di
Molfetta e per lungo tempo 12. Essa è attestata dai fondi di capanna a ceramica
impressa di Lesina e di Varano e si va propagando nel Tavoliere, dove
troviamo il villaggio cintato di Guadone (S. Severo) che ha raggiunto
un'evoluzione economico-culturale caratterizzata da vasellame impresso e
dipinto a fasce semplici e non marginate, e dall'uso di cisterne intercomunicanti
per l'approviggionamento idrico dell'agglomerato 13.
E' durante il IV millennio che si ha il diffondersi del villaggio
cintato nel Tavoliere (Passo di Corvo, masseria La Quercia, Amendola, S.
Vito) con vasellame, tra gli altri, di « stile di Matera » 14 . La « civiltà di
Matera », cosiddetta dal Materano ove fu esplorato sistematicamente uno
di questi villaggi (Murgia di Serra d'Alto), si diffonde in tutta la Capitanata
e alle Tremiti 15 . Ma il promontorio resta come tagliato fuori da questa
corrente civile. Nè si sviluppano altre forme culturali.
Nel periodo di formazione e di affermazione delle comunità rurali i
cacciatori paleolitici sono sedimentati ed esclusi dal tessuto economico
agricolo. Le abitudini nomadistiche dei cacciatori che comportano
instabilità di sedi per la ricerca periodica o occasionale di selvaggina, non
si concilia con il carattere stabile dell'attività agraria e con la relativa
impostazione ideologica. Il nesso dialettico tra agricoltori e cacciatori si
riflette nel rapporto topografico-culturale degli insediamenti visto nella
dinamica plurimillenaria di stabilizzazione dell'economia rurale. La dimora
saltuaria dei cacciatori sono le grotte. Molte caverne dell'Italia
V. il mio Origini e sviluppo, cit.
Materiali al Museo civico di Foggia, sala I.
14 Materiali al Museo stesso.
15 F. ZORZI, Note paletnologiche relative al Promontorio del Gargano e alle isole Tremiti,
« Mem. del Museo civico di Storia Naturale di Verona », Vol. II, Verona 1950. Id.,
Ricerche paletnologiche effettuate nel Gargano e alle isole Tremiti durante il 1954, Ibid., vol. IV,
Verona 1954.
12
13
27
meridionale ci hanno restituito ceramiche, ma non ci hanno dato quegli
altri elementi che costituiscono l'apparato ergologico di un'agricoltura
arcaica (macine, zappette di corno cervino, ecc.). Per la Daunia vanno
ricordate le caverne di Scaloria e di Occhiopinto, la prima aperta nel
costone garganico meridionale in direzione di Ruggiano, la seconda a
qualche chilometro da Manfredonia presso la via per S. Giovanni
Rotondo. Queste grotte cominciano ad essere frequentate al tempo in cui
è associata al vasellame a fasce semplici (neolitico medio iniziale) la
ceramica impressa evoluta: associazione che si riscontra in altre grotte
pugliesi, materane e cosentine 16 . E mentre sono risultate prive di
attrezzatura agricola, hanno restituito utensileria silicea di tradizione
romanelliana. L'osservazione formale ha un suo valore reale.
La funzione della grotta nel Neolitico si identificherebbe con quella
che ebbe nel Paleolitico quando accoglieva gruppi di cacciatori, di
pescatori (come le numerose caverne costiere) che ormai vengono
selezionati da un tessuto agricolo che va divenendo sempre piú
omogeneo. D'altro canto, la pratica di domesticazione della specie animali
che accompagna la formazione delle comunità rurali si è svolta in
concomitanza dei mutamenti ecologici (clima-vegetazione) in seno alle
stesse tribú di cacciatori paleolitici attraverso lunghi esperimenti di
cattura. A tal riguardo è significativo un dipinto rupestre lucano che
illustra scene di cattura animale 17 . I continui spostamenti per la ricerca di
selvaggina stagionale e il magismo per propiziare la buona caccia
strutturarono il modo di pensare dei cacciatori secondo quanto si deduce
dalla documentazione artistica paleolitica 18 , in maniera differente da
quello degli agricoltori, legati soprattutto alla terra che tutto riproduce,
quindi sedentari, accomunati nel clan rurale che fonda la sua economia
sullo sfruttamento del terreno comune. La relativa organizzazione sociale
attraverso l'elaborazione di un rituale propiziatorio del buon raccolto
riflette l'ideologia delle genti coltivatrici. Per conseguenza, per i cacciatori
si erano venute a creare condizioni di vita nelle quali, per ragione della
loro stessa economia, non riescono piú ad inserirsi. In breve, l'economia e
l'ideologia contadine sedimentano forme di attività diverse o divergenti
dai principi del clan rurale. Per cui i cacciatori nomadi, instabili e bellicosi,
selezionati dal tessuto agricolo omogeneo del villaggio continuano a
vivere la loro condizione umana ai margini dell'aggregato agricolo
continuando nell'uso paleolitico di frequentare la grotta. Ciò spiega
perché molte caverne dell'Italia meridionale e anche della Daunia
cominciano
Ved. per tutto il mio Puglia "preistorica" e Oriente premiceneo: relazioni tra
i gruppi vascolari, « Archivio Storico Pugliese », IX, 1956 (Bari 1958) e ivi bibl.
con revisione dei materiali materani (gli altri sono inediti nel Museo naz. di
Matera). Analoga situazione nella grotta del Fico in Salento cfr. A. PALMA DI
CESNOLA - F. MINELLOMO, Gli scavi nella grotta del Fico presso S. Maria al
Bagno (Lecce), « Riv. Sc. Preist. », XVI, 1961 (estr.). Per il Cosentino cfr. S.
TINE’, Il neolitico in Calabria alla luce dei recenti scavi, « Atti dell'VIII e IX
riunione scientifica dell'Ist. It. di Preistoria e Protostoria », Firenze 1964, p.
277 ss.
17 Ved. il mio Nuove pitture preistoriche in Lucania, « Rivista di
Antropologia », LII, 1965, p. 103 ss.
18 C. TULLIO ALTAN, Lo spirito religioso cit.
16
28
ad essere frequentate, durante la formazione e la organizzazione della
civiltà contadina (V millennio). L'insediamento si intensifica quando la
civiltà di villaggio si afferma nel Tavoliere (« civiltà di Matera », dal IV
millennio circa). Possiamo seguire l'evoluzione di questi gruppi umani
lungo il corso del III e II millennio specie se si fa attenzione alle facies
rappresentate in grotte. Ma prima chiarisco brevemente come la civiltà
contadina di villaggio si afferma nel Tavoliere.
Alla « civiltà di Matera » appartengono i concetti planimetrici dei
villaggi della Capitanata, che possiamo prendere in considerazione per i
rilievi aereofotografici del Bradford. Sono formati di capanne a pianta
circolare o ellittica comprese in un fossato interrotto nei punti di accesso
all'interno del comprensorio. Occupano aree di circa 3 ettari in media. La
planimetria chiusa ci riporta allo scopo difensivo del fossato, ma induce
anche a pensare al principio che il villaggio è di proprietà comune del
gruppo che lo abita. I materiali rinvenuti a Guadone si ricollegano a quelli
materani. Questi ultimi ci permettono di considerare che la composizione
socio-economica include cavatori e lavoratori di selce, contadini,
allevatori, vasai. La capanna serve anche per sepolcro. I corredi vascolari
comprendono ora ceramiche dipinte in « stile di Matera » distinguibile per
la grazia delle forme fornite di anse modellate a protome animale e per la
decorazione geometrica eseguita in bruno sulla superficie lisciata gialliccia.
Questo vasellame è l'antenato della ceramica geometrica del VI secolo a.
Cr.: i due tipi sono cotti a identica temperatura e, quindi, l'arte del vasaio
in senso tecnico-artigianale in Puglia risale al IV millennio.
La « civiltà di Matera » è quella che costituisce l'abito civile a partire
dal IV millennio dell'Italia sud-orientale, donde diffonde i prodotti in
Calabria, Sicilia, isole Eolie, Campania e Toscana. Essa dura fino a tutto il
III millennio, trasformandosi durante il II millennio. Sul promontorio
non conosciamo elementi pertinenti, alla civiltà di villaggio. Non v'ha
dubbio che il carattere geomorfologico ha favorito attività agricole nelle
conche fertili, che dovettero essere prima disboscate. Una cultura agricola
si propaga sulle coste settentrionali, ma con caratteri formali, che, pur
differenziandola apparentemente da quella del Tavoliere, la ricollegano nel
momento in cui nuovi fattori determineranno un'evoluzione della civiltà
agricola nei seguenti termini storico-dialettici.
I gruppi di cacciatori, dediti peraltro alla pesca costiera,
assumeranno dimora stabile in grotta intorno al II millennio. In parecchie
caverne pugliesi troviamo tracce di una dimora stabile soltanto in questo
periodo. L'evoluzione dei cacciatori, compiutasi ai margini della civiltà
agricola, si definisce lentamente quando divengono, specie quelli delle
caverne costiere, pescatori, marinai-trafficanti. Sono questi gruppi che
intesseranno relazioni con genti di altri Paesi 1 9 .
In sintesi, il quadro economico-culturale della Daunia all'avvento
della civiltà dei metalli presenta clans agricoli organizzati in villaggi e
1 9 Ved. quelli della caverna dell'Erba e grotta S. Martino presso Avetrana: S.
M. P U G L I S I , Nota preliminare sugli scavi nella caverna dell'Era, « Riv. Sc. Preist.
», VIII, 1953 (estr.) per contatti micenei.
29
tenuto economico-culturale dei pastori appenninici contrastante con la
ideologia e l'organizzazione economico-sociale agraria.
La scarsezza in Daunia di documentazione relativa ai precedenti sto- zi
della civiltà appenninica 22, a prescindere dall'attribuirsi a deficienza
esplorazione, può essere spiegabile anche con quell'aspetto geomorfologico
vario cui dianzi accennavo. Il quale, come ha favorito in età precedente una
pluralità di ambiti culturali, cosí anche durante il III e II millennio a. Cr. ha
impedito una diffusione uniforme della facies culturale appenninica. Una
pastorizia nomade è fautrice di terreno incolto per il bisogno di pascoli per le
greggi. Dal che il conflitto economico - che è anche ideologico - con una
civiltà agricola che trae le sue principali risorse dall'attività coltivatrice.
Considerando l'organizzazione socio-economica che i contadini dal IV
millennio attuano nel Tavoliere, ne consegue che un'economia armentizia fu
condizionata in Daunia dalle aree non interessate dall'attività rurale, ben
poche, in verità, se si tiene conto dell'estensione dei villaggi agricoli del
Tavoliere. Quindi, frequentazione delle falde garganiche per i pascoli
sempreverdi e discesa a valle presso i corsi d'acqua per il bestiame nei periodi
in cui i territori montani erano impraticabili.
Secondo come ci è stato storicamente delineato, lo spirito della civiltà
appenninica perchè appunto legata ad una condizione esistenziale di
nomadismo, risulta unitario con manifestazioni culturali differenziate nel
tempo da luogo a luogo: è questa la sua dinamica storica, ossia quella unità
etnologica che lega le comunità pastorali sotto il profilo soprattutto
economico ed ideologico, e che, appunto per essere cronologicamente
differenziata da luogo a luogo, respinge qualunque tentativo di spiegarla in
uno sviluppo unilineare e livellato, ossia antistorico. La dinamica dei gruppi
pastorali determinata dalla loro condizione economica è alla base di quel
processo di inurbamento che anche in Daunia si va compiendo nel corso di
parecchi secoli. Rapporti saltuari si stabiliscono tra allevatori sedentari
dell'orbita culturale agricola e pastori per la necessità di barattare bestiame
con gli allevatori quando eventi di vario genere distruggono quello
armentizio. Queste relazioni mercantili rappresentano lo sfondo concreto
della trasformazione culturale della civiltà di vilMi riferisco al Protoappenninico per cui ved. S. M. PUGLISI, La civiltà
appenninica, p. 21 ss. e, per le Marche, dello stesso Sulla facies « Protoappenninica »
in Italia, « Atti VI Congr. Int. delle Scienze preist. e prot. », II, Comunicazioni,
Firenze 1965, p. 403. Il « protoappenninico » come fatto storico-culturale è
documentato, oltrechè nell'Italia meridionale e centrale tirrenica (Gaudo-Rinaldone),
in particolare nella Puglia centro-meridionale, dove un suo aspetto si coglie nei
corredi delle tombe collettive di Casal Sabini e Cellino S. Marco, la prima studiata
bene, mentre la seconda scavata e studiata male: per dati di fatto e inquadramento
della tomba di Casal Sabini ved. PONZETTI-BIANCOFIORE, Tomba di tipo
siculo con nuovo osso a globuli nel territorio di Altamura (Bari), « Bull. Pal. Ital. »,
vol. LXVI, 1957 e ivi bibl. Per Cellino S. Marco la documentazione è conservata
nel Museo di Taranto: bibliografia buona trovi in G. F. LOPORTO, La tomba di
Cellino S. Marco e l'inizio delle civiltà del Bronzo in Puglia, « Bull. Pal. Ital. », 71-72,
1962-'63 (estr.). Per un « proto-appenninico B » ved. dello stesso La tomba di S.
Vito dei Normanni e il « Proto-appenninico B » in Puglia, Ibid., 73, 1964, p. 109,
ove l'A. riprende quanto scritto in La stazione preistorica di Porto Perone, « Not. Sc.
», XVII, 1963, p. 280 ss.
22
31
laggio da un lato e del processo di inurbamento dei pastori. Dai livelli 1 6 di Coppa Nevigata 23 si sa l'abito culturale che si stabilisce a partire
indicativamente dall'XI sec. a. Cr. Al vasellame appenninico subentra
quello adorno di motivi geometrici e solcature o inadorno, con anse ad
apici revoluti, ad ascia, con la caratteristica forma, tra le altre, degli
attingitoi (capeduncole) con omphalos sul fondo. Ritroviamo le zappette di
corno cervino, uno strumentario ricavato da ossi animali (punteruoli,
spatole), mentre l'attrezzatura silicea si riduce a qualche lametta o a
scheggie riutilizzate, che suggeriscono l'idea di un progressivo abbandono
della litotecnica. I Subappenninici, ossia gruppi che da pastori per i
lunghi, saltuari o occasionali contatti con gli agricoltori sono divenuti
anche essi contadini, conservano ancora nel tessuto ideologico
manifestazioni ancestrali. Il temperamento irrequieto e conservatore degli
Appenninici riemerge nei Subappenninici specie nella esigenza difensiva
dell'aggregato quale espressione della organizzazione territoriale e
dell'acculturamento in terreno agricolo. Gli abitati sorgono o in luoghi
naturalmente difesi o si recingono di bastioni in muratura secca. A Coppa
Nevigata abbiamo l'esempio piú evidente di abitato subappenninico con
cinta muraria, mentre sul promontorio garganico gli insediamenti si
dispongono su pianori di piccoli promontori protesi in mare, difesi
naturalmente da muratura a monte (Punta Manaccore) 24 . I villaggi
Subappenninici del Gargano li ritroviamo in tale stadio culturale ancora
nel VI secolo a. Cr. Nè si può dire che la situazione sia diversa nel
Tavoliere, dove proprio la vita dell'abitato subappenninico di Coppa
Nevigata continuò durante i secoli X-VIII (protogeometrico) e VII-VI a.
Cr. (età del geometrico daunio) 2 5 . L'evidenza archeologica dimostra che
a partire circa dall'XI sec. a. Cr. si estende nel Gargano e in Daunia la
facies subappenninica, peraltro documentata in tutta l'Italia meridionale, la
quale con il suo contenuto economico-culturale sarà uno dei presupposti
della civiltà daunia 26 . Si
23
cit.
S. M. P U G L I S I , Industria microlitica cit. Id., La civiltà appenninica, loc.
S. M. P U G L I S I , Le culture dei capannicoli sul promontorio Gargano, «
Memorie morali dei Lincei », serie VIII, vol. II, Roma 1948, e ivi bibl.
2 5 V il vaso egiziano studiato dal Pallottino (Vaso egiziano inscritto proveniente
.
dal villaggio preistorico di Coppa Nevigata, « Rend. morali dei Lincei », vol. VI, 1951),
che attesta una vita dell'insediamento nel secondo decennio del VI sec. a Cr.
2 6 Aggiungo anche della civiltà peucetica e messapica: v. il mio Osservazioni
sulla storia economica e culturale dell'Apulia preromana. « Atti del I Convegno di studi
etrusco-italici », Bologna, 1966. La pluralità onomastica della tradizione storiografica
antica, cui ha già accennato il Puglisi (La civiltà appenninica, p. 85), trova in Apulia la
sua spiegazione nei differenti processi di acculturamento delle genti pastorali in
territorio agricolo, che portarono alla formazione di aggregati gentilizi autonomi. I dati
onomastici delle due fonti fondamentali, a prescindere dal fatto che ritengono
ovviamente di origine « pelasgica » Dauni, Peucezi, Iapigi e Messapi (Daunio, Peucezio,
Iapige, Enotrio figli dell'arcade Licaone autoctono apd. Dion. Hal. I 11 ss. Nicandro in
Antonino Liberale, 31 e 37), riflettono una realtà di gruppi socio-economicamente
eminenti, ai quali la tradizione storiografica antica attribuì eponimi « pelasgi », che nel
pensiero di Dionisio di Alicarnasso erano arcadi autoctoni. La tradizione passata in
Dionisio si riferisce al V secolo a. Cr. (come è noto) e, quindi, riporta fatti dei secoli
immediatamente precedenti la cui situazione culturale è quella che si è qui delineata.
Ved. infra nota 28.
24
32
sa che il fondo subappenninico è agricolo; mutato rispetto alla « civiltà di
Matera », si innesta nel Gargano alle culture campignane, delle quali
ritroviamo l'accetta (Macchia a Mare e altre affini). Anche al ricordato
Guadone si conosce una tomba con due coppe ioniche, vasi geometrici
dauni e vasellame subappenninico databile al VI secolo a. Cr.
A Teano Apulo si hanno tombe con vasellame geometrico daunio e
subappenninico 27 . La tomba di Guadone si inserisce negli strati del
villaggio di agricoltori del IV millennio. Il dato prova che una soluzione di
continuità esiste tra la civiltà agricola del Tavoliere e i Subappenninici, che
fino al VI secolo si erano evoluti anche per via dei commerci transmarini.
In breve, in Daunia a partire dal XIV sec. a. Cr. circa riscontriamo la
presenza di gruppi agricoli nel Tavoliere, la cui cultura tipo Matera
potrebbe essere in fase di avanzata trasformazione o declino; aggregati
subappenninici, nella cui compagine socio-economica si individuano
pastori, agricoltori, allevatori; tribù campignane particolarmente stanziate
nel Gargano.
A Coppa Nevigata gli insediamenti appenninico e subappenninico
hanno restituito frammenti di vasellame colorato, tra cui è stato possibile
distinguere tre frammenti di ceramica micenea i quali attestano che a
partire dal XIV sec. a. Cr. Il sito di Coppa Nevigata era conosciuto ai
naviganti micenei 28 . I contatti col mondo transadriatico continuano
successivamente.
Materiali al Museo di Foggia sale I e V.
V. il mio La civiltà micenea nell'Italia meridionale 2, Roma 1967. Ricordo che c'è
un momento nella storia della civiltà appenninica in cui l'economia pastorale è integrata
da attività agricole complementari con insediamenti a Coppa Nevigata, Scoglio del
Tonno, Porto Perone (vasellame con decorazione appenninica) di comunità
semisedentarie (PUGLISI, La civiltà appenninica, pp. 60, 61, 74 ss.). E' in questo
momento che - osserva il Puglisi (o. c. p. 92) - « le correnti quasi esclusivamente
commerciali dirette nell'Italia meridionale ricalcano gli stessi itinerari marittimi da noi
indicati circa la provenienza dei primi gruppi indoeuropei (Rinaldone-Gaudo), quasi
che la consapevolezza di una realtà ancestrale di affinità etnica avesse segnato la mèta
dei navigatori egei ». Nella leggenda dei Licaonidi non si può ravvisare un'estensione
del regno di Pilo in Arcadia, che è del XIII sec. a. Cr. (L. A. S T E L L A , La civiltà
micenea nei documenti contemporanei, Roma 1965, p. 40 ss.); la cronologia data da Dionisio
alla migrazione di Enotrio, Daunio, Peucezio ci riporta al XVIII sec. a. Cr. circa, senza
considerare che già nel XVIII sec. a. Cr. nel Peloponneso abbiamo una cultura ellenica
e, quindi, i Pelasgi non sono gli autoctoni - come invece dice Dionisio - o sono
autoctoni in corso di indoeuropeizzazione. L'arcadico, infatti, non è esente da contatti
con la lingua delle tabelle di Pilo (V. GEORGIEV, Introduzione alla storia delle lingue
indeuropee, Roma 1966, p. 64 ss.) e tali relitti risalgono ad età anteriore al XIII sec. a. Cr.
poichè la lingua micenea presuppone un suo processo formativo. Ma - come ha già
osservato il Puglisi - le fonti non spiegano la dinamica della civiltà appenninica. Ogni
tentativo di accostarle ai fatti culturali fa parte di un metodo combinatorio discutibile.
La realtà della pluralità onomastica dell'Italia, e, in questo caso, della Apulia è che gli
etnici rispecchiano formazioni di gentes, ossia di gruppi gentilizi culturalmente
appenninici e, poi, subappenninici.
Anche il tentativo (G. C A P O V I L L A , Il salento messapico e i testi in Lineare B. «
Studi Salentini », XII, 1962) di ricollegare l'eponimo Daunio al da - u - no, antroponimo
femminile a Cnosso (MORPURGO, Myceneae graecitatis lexicon, Roma 1963, p. 58) è
inverosimile. Per la Daunia va sottolineato che se Daunio deriva dall'ide, dhaun
(strangolatore, donde lupo) e, quindi, è un totemico, come gli etnici ∆α-oι, Da-ci
(ALESSSIO, Apulia et Calabria cit., p. 89), esso rispecchia bene quella situazione storica
culturale di comunità intese a difendere il bestiame dai lupi delle
27
28
33
Il che significa che il processo di aggregazione in stanziamenti capannicoli
degli Appenninici in Daunia può porsi intorno al XIV set. a. Cr. e si va
definendo nei secoli successivi. Il polimorfismo dei Subappenninici ha
come filone etnologico la tradizione ideologica pastorale e con essa la
lingua e le strutture sociali. Per cui anche l'uso funerario della tomba
collettiva, che risale ai gruppi protoappenninici dell'Eneolitico
documentati ampiamente in tutta l'Italia meridionale (Salento, Laterza,
Cellino S. Marco, Gioia del Colle, Altamura, Lucania e Gaudo nel
Salernitano) costituisce la testimonianza piú evidente di un costume
ancestrale che non viene neanche modificato dal contatto con i gruppi
agricoli a sepoltura individuale. Le tombe collettive di Altamura (Murgia
Catena), del VI secolo a. Cr. e di Arpi del VI-III sec. a. Cr. ne sono la
documentazione piú chiara 29 .
I villaggi subappenninici si intensificano e prosperano per tutto il
VI secolo a. Cr. Queste genti raggiungono manifestazioni d'arte ispirate
dai contenuti religiosi funerari. Le coste del promontorio si popolano di
insediamenti fortificati come è probabile a Monte Saraceno con relativa
necropoli geometrica-subappenninica.
La civiltà subappenninica raggiunge il suo sviluppo piú significativo
nel VI sec. a. Cr. Questa civiltà noi possiamo chiamarla daunia, perchè ne
sono possessori i Dauni di Daunio 30 , che ora formano una unità etnica e
culturale. Essa corrisponde a quella peucetica diffusa nel territorio
corrispondente piú o meno alla provincia di Bari, alla messapica della
Puglia peninsulare a sud di Ghathia, alla lucana della Basilicata, alla bruzia
della Calabria, alla osta della Campania. Tale è la civiltà che trovarono i
coloni greci i quali - come sappiamo - lottarono con le sue genti. Queste
guerre tra Greci e indigeni, e tra indigeni stessi sono l'espressione di una
incoesione etnica della gente daunia dipendente dal vario e difforme
sviluppo che nel suo seno ebbero le comunità subappenniniche, tuttavia
coerenti sul terreno politico e militare quando si trattava di difendere
l'aggregato, il villaggio il clan gentilizio. Un riflesso è nella ricordata
foreste garganiche e dei monti circostanti che a nord-ovest costellano la Daunia,
richiamandoci con Lup-ercus, composto di lupus (di origine sabina) e hirquos, hircus, becco
= hirpus, lupo. Nella formazione degli Osco-Umbri hanno avuto parte essenziale gli
Appenninici, dei quali la funzione (e suoi limiti) nello sviluppo linguistico paleoitalico è
stata posta in rilievo dal Puglisi (La civiltà appenninica, capp. IX e X). Altro non è
consentito trarre dalle fonti e dalla Linguistica, la quale utilizzando le fonti ne ravvisa i
limiti discutendoli col suo metodo: l'Alessio (Apulia et cit.) avverte che si può stabilire la
provenienza balcanica di etnici e di ethne, ma non la lingua di questi ultimi. E' inoltre
arrischiato identificare nell'onomastica delle fonti facies culturali. Nel nostro caso
l'unità daunia si realizza nel VI sec. a. Cr.: essa costituisce un punto di arrivo di un
processo storico - culturale precedente. In tal senso metologicamene v. M.
PALLOTTINO, Le origini storiche dei popoli italici, « Relazioni del X Congresso
Internazionale di Scienze storiche, « vol. II, Firenze, 1955, pp. 60 (mia recensione in «
Bull. Pal. Ital. », N. S. vol. 65°, fasc. II, 1956, p. 572).
29 Vedi nota 38.
30 Di Dauno parlano Timeo e Lico (Fragm. Hist. Graec, I, ed Müller, fr. 13
Timeo) e anche Ferecide (Dion. Hal, I 13).
34
leggenda di Diomede coinvolto nelle vicende locali di Daunio 31 . Gli
interessi greci si intersecano con quelli locali variamente combinandosi o
adeguandosi alle situazioni, come è proprio di un'attività colonizzatrice.
Per conseguenza, fermo restando quanto c'è di ellenico nelle città
magnogreche e nelle zone di loro influenza, la civiltà iapigia del VII-VI
sec. a. Cr. e quella daunia in particolare ne acquisiscono elementi
essenziali per l'economia: la moneta e la grafia. La monetazione indigena,
che usa iscrizioni in lettere greche, si impone piú tardi forse di pari passo
con la diffusione della lingua messapica, che in Daunia presenta influssi
oschi. Grafia e moneta incidono notevolmente nella svolta della civiltà
daunia.
In sostanza le comunità capannicole daunie hanno organizzazione
sociale gentilizia. Dalle iscrizioni messapiche, d'accordo con le menzioni
negli scrittori classici, apprendiamo i nomi di alcuni gruppi familiari
economicamente, socialmente e politicamente eminenti 32 . I nomi dei
centri ove vivono tra il VII e V sec. a. Cr. questi gruppi gentilizi, non
possono chiamarsi città. Questa intesa come aggregato di strutture edilizie
in tessuto urbanistico sorgerà soltanto a partire da circa il IV sec. a. Cr.
cinta di murature come Siponto, Salapia, Arpi, Luceria, Herdonea, Ausculum.
ecc. Il fondo culturale sul quale sorgono i centri urbani della Daunia come del resto di quasi tutta l'Italia meridionale - è, dunque,
culturalmente ed essenzialmente subappenninico.
L'arte delle stele funerarie del circondario di Coppa Nevigata è
legata al mondo d'oltretomba in nesso dialettico con quello dei viventi. I
pezzi risalgono al VII-VI sec. a. Cr. Usano dipingere i campi delle figure a
contorni incisi oltrechè in nero, bianco, giallo anche nel rosso opaco che
ritroviamo impiegato nella decorazione del vasellame daunio.
Effettivamente i contenuti dell'arte daunia rispecchiano il quadro culturale
che si è delineato per i secoli VII-VI a. Cr., che sono il periodo di acmè
della civiltà daunia. Si tratta, in linea di massima, di scene orgiastiche,
sessuali e culturali legate al rituale agrario tramandatosi nella gente daunia
e faticosamente elaboratosi, come si è visto, attraverso millenni. Le stele
antropomorfiche terminanti a testa con copricapo, sono istoriate sulle due
facce. La maniera di disporre la composizione col riempire ogni spazio
residuo delle superfici impegnate è proprio della tecnica deco31 Per la leggenda diomedea v. J. BERARD, Storia delle colonie greche dell'Italia
meridionale (trad. ital. dal fr. La colonisation grecque dans l'Italie meridionale etc. Parigi 1957),
Torino 1963, p. 355 e ivi fonti e bibl. Ricorda che Daunio, combattendo contro i
Messapi, fu aiutato da Diomede, che fu poi ucciso; altro non si può vedere nel
racconto che una eco delle lotte tra indigeni o, meglio, tra gruppi gentilizi locali assurti
a entità etnica, e tra indigeni e colonizzatori greci (Daunio contro Diomede): lotte che
non si limitarono al possesso di terre ma anche per ostacolare la penetrazione di culti
estranei all'ambiente religioso autoctono, come quelli di Calcante e di Podalirio, che
finirono segregati al Gargano, ved. J. BERARD, Storia, p. 361 ss. e ivi bibl. con
richiami agli studi del Perret sulle localizzazioni di tali culti (Calcante grotta S. Michele
a Monte S. Angelo e l'Alteno di Podalirio sarebbe oggi prosciugato e sue tracce
sarebbero rimaste nell'alveo di S. Egidio nella Valle Carbonara). Riflessi di un mondo
pastorale trovi in Lycophr. (Ciaceri), vv. 1050-1055.
32 F RIBEZZO, La lingua degli antichi Messapi, Napoli 1907 e ivi bibl., articolo
.
naturalmente valido per le indicazioni onomastiche, e non per le vedute « illirizzanti »
dell'A.
35
rativa geometrica. Pur restando incognite nell'esegesi di questi monumenti,
altrettanto numerose quanto quelle che ci pone ancora il mondo ideologico
daunio, le stele aprono uno spiraglio su questo mondo che, chiaro negli aspetti
ergologici di cultura, ci è oscuro nei suoi contenuti spirituali. E bisogna pur dire
che per « leggere » nel mondo spirituale dei Dauni siamo affidati al valore del
monumento, del dato archeologico che quindi è essenziale e, almeno finora,
fonte esclusiva. Per quanto attiene l'uso di utilizzare monoliti, ricordo gli altri
pezzi casualmente rinvenuti presso Castelluccio dei Sauri 34, indatabili e che
finora appaiono isolati nel contesto civile daunio. Altri pezzi lapidei sono teste
piú o meno plastificate o aniconiche quali simboli anonimi di una divinità
universale (Dea Madre?) rinvenuti a monte Saraceno 35.
Indicazioni, sia pure nella limitatezza che ci può dare la documentazione
vascolare, ci vengono date dalla ceramica geometrica daunia, differente dalle
consimili peucetica e messapica. Per la foggia delle anse, delle quali alcune
modellate a figure femminili in atteggiamento ieratico e a mani apotropaiche,
per le forme tipiche di vasi filtri, dei kantharoi ispirati alla capeduncola
buccheroide subappenninica, di vasi a orlo sviluppato, il vasellame daunio
riflette specie nella foggia delle anse i contenuti di culti e divinità agrarie.
Accanto alla tomba collettiva, che si è ricondotta concettualmente a gruppi
subappenninici o ancora culturalmente condizionati da un economia
armentizia, si hanno le tombe individuali a fossa con suppellettile tra cui per lo
piú compaiono prodotti ionico-corinzi associati al solito geometrico e
subappenninico. Nessuno finora ha segnalato al mondo degli studiosi
sarcofaghi monolitici, che in altre parti della Puglia sono le tombe ecistiche del
VI sec. a. Cr. delle città entro e nei cui pressi sono state rinvenute (Monte
Sannace, Azetium, ecc.) 36 . Ma sappiamo - e purtroppo non può essere
documentato per la distruzione dei depredatori di antichità - della vasta
necropoli daunia di Herdonea con tombe a camera ridotte a cisterna o colmate
dai contadini. La civiltà daunia è ancora sfingea per deficienza di esplorazioni,
ma è tale anche per incuria.
Non si sa nulla della fondazione delle principali città daunie, nè dei suoi
fondatori. La tradizione storiografica antica suggerisce molte indicazioni; ma se
l'Archeologia non la sostiene, o meglio se non si parte dal dato archeologico
per « leggerla », non se ne può comprendere appieno la processualità storica
culturale. Dobbiamo, infatti, all'Archeologia se oggi possiamo scorgere un
fondo di verità nel racconto di Turno, figlio di Daunio e capo della Daunia
gens, ossia una relazione tra i Dauni e i Latini
33
S. FERRI, Stele « daunie », I, « Boll. d'arte », 1962, p. 103 ss.; ibid. 1964, p.
1 ss.
M. O. ACANFORA, Le stele antropomorfe di Castelluccio dei Sauri, « Riv.
Sc. Preist. », XV, 1960, p. 95.
35 CORRAIN e altri, La necropoli dell'età del ferro di Monte Saraceno ecc. «
Sibrium », IV, 1958-'59, p. 141 Cfr. anche « Riv. Sc. Preist », XV, 1960, p. 125 ss. V.
FUSCO, Simulacri di divinità preistoriche. « Rend. dell'Ist. lombardo di scienze e
lettere » (cl. lettere), 97°, Milano 1963, p. 21 ss.
36 V. il mio Osservazioni sulla storia economica cit.
34
36
culturalmente subappenninici 37 . Questa affinità etnologica si scorge
ancora meglio se seguiamo per l'Italia centrale la saga di Diomede,
elaborazione fatta su racconti locali riflettenti la penetrazione corinzia che
fu accentuata nella Puglia adriatica, Daunia compresa. In altre parole
anche all'ambiente culturalmente subappenninico osco-sabellico non fu
ignota l'importanza dei traffici con la sfera commerciale corinzia. Del
mondo osco si sa che si ramifica nell'Italia meridionale a partire dal V
secolo a. Cr. e, dalla metà dello stesso, abbiamo i Sanniti in Campania e in
Puglia (Lucera, Venosa, Banzi fondazioni osche) con i prestiti oschi al
messapico della Daunia. I Sanniti si insediano agli inizi del IV sec. a. Cr. a
Silvium in Peucezia (presso Gravina) riconquistata dai Romani soltanto nel
306, mentre Luceria e Venosa divengono colonie romane rispettivamente
nel 315 e nel 292 a. Cr.
Disponiamo di testimonianze sulla penetrazione sannitica. Si tratta
di sepolcri individuali con tumulo lapideo (specchie) che, come si sa,
hanno restituito corredi tipologicamente arcaici ma associati a vasellame
geometrico daunio e a vernice nera (V-IV sec. a. Cr.) 3 8 . I tumuli si
distribuiscono su tutta la zona murgica; anzi cominciano da Alfedena per
scendere attraverso le montagne di Bovino, nel melfitano, sulle alture di
Minervino, Spinazzola. Altamura e sino alle alture di Martina Franca.
Sono corredi modestissimi, malridotti come del resto i cadaveri a causa
della deposizione superficiale, denotante una sommarietà nel
seppellimento propria di genti non stabilmente dimoranti nella regione. In
realtà la penetrazione sabellica con i relitti di lingua nel messapico,
lasciando come sua testimonianza questi sepolcri si profila sul terreno
storico politico come una serie di incursioni volte ad ostacolare il pericolo
greco in alleanza piú o meno pacifica con le genti daunie, peucetiche,
ossia con quelle etnologicamente piú affini. Lo stanziamento sannitico a
Silvium sarà effimero ed è da supporsi che scarse saranno le tracce del suo
insediamento. D'altro canto le genti osco-sabelliche dovettero contribuire
in misura piú accentuata al processo evolutivo della civiltà appenninica in
area daunia con le transumanze attraverso il Subappennino ricordate dagli
scrittori romani, medioevali e moderni. Dunque, la cresta dei monti dauni
con i suoi valichi praticabili fu territorio atto agli spostamenti periodici
delle comunità pastorali. In breve il fenomeno lascia evidenza linguistica
ed archeologica nel V secolo ed echi negli scrittori classici che ci hanno
tramandato come fondazione osca Lucera e Venosa.
La civiltà daunia include ora anche questo altro elemento culturale
che, come pure dalla sua diffusione nella regione pugliese e in tutta l'Italia
meridionale, ha assunto consistenza di apporti linguistici sia pure di
modesta entità e, quindi, anche etnici .
3 7 E. PARATORE, La leggenda apula di Diomede e Virgilio, « Archivio Storico
Pugliese », VI, 1953, p. 34 ss.
38 V. il mio Struttura e materiali dei sepolcri a tumulo dell'Apulia preromana, «
Altamura », n. 8, Bari 1966 (estr.), ristampa dei miei Struttura e materiali dei sepolcri a
tumulo di Altamura, «Rend. Acc. Arch. Lettere e Belle arti di Napoli», vol. XXXVIII,
1963 e Contributo alla conoscenza dei sepolcri a tumulo dell'Italia meridionale « Riv. di
Antropologia », L. 1963, ivi bibl.
37
Si può ravvisare una barriera osca sull'arco dei monti Dauni. Il
motivo di fondo dei contrasti militari e politici in seno alla compagine
iapigia comprensiva di Dauni, Peucezi, Osco-sannitici sono determinati
dai vari interessi reciproci che hanno per trarre vantaggio nelle guerre di
difesa dal mondo ellenico costiero.
Nulla, dunque, ci impedisce di ritenere che alla fondazione dei
centri urbani dauni abbiano contribuito anche elementi etnici diversi da
quelli che la tradizione storica antica ci ha tramandato per la regione
apula. La presenza di un sepolcro a tumulo entro la cinta muraria di Arpi
suggerisce che alla fondazione della città hanno anche collaborato gruppi
sabellici nel periodo della loro permanenza in Apulia. Anche alle origini di
Siponto e forse di Salapia hanno contribuito genti di varia etnogenesi. Ma
questi centri divengono città dal IV secolo a. Cr. quando la civiltà daunia
va perdendo il suo carattere di originalità per divenire apula in senso piú
ampio ed evolversi alla luce delle correnti ellenistiche.
FRANCO BIANCOFIORE
38
Testimonianze linguistiche
della Daunia preromana
Innanzi tutto, devo avvertire che il mio discorso potrà apparire
poco interessante non soltanto per la mia scarsa scienza, ma anche per gli
esigui materiali sui quali mi riprometto di fondare questa prima
ricostruzione del più antico panorama linguistico della regione dauna.
Ma io preferisco non imbarcarmi in una fantasiosa o fantascientifica
trattazione che, pur se avesse il dubbio merito di apparire vasta e
divertente, avrebbe certo il grave difetto d'essere insincera o, peggio,
falsa.
Non che manchino del tutto le iscrizioni o che siano di difficile
lettura, ma, purtroppo, i documenti epigrafici dell'antica Daunia, oltre ad
essere veramente pochi, o sono scarsamente eloquenti o sono molto
oscuri.
Potremmo, certo, interrogare gli antichi storiografi e studiare i nomi
dei popoli e delle città: e, in parte, lo faremo.
Potremmo chiedere soccorso agli archeologi o ai paletnologi: ma
questi nostri preziosi collaboratori si occupano di monumenti, noi di
parole: essi cercano di studiare la vita dei popoli antichi attraverso gli
oggetti d'uso comune o gli edifici; noi linguisti siamo piú... sofisticati o
piú esigenti e vorremmo sapere come parlavano quei popoli: anzi, forse,
vorremmo addirittura sapere quali fossero i loro pensieri.
E vorrei precisare che, nelle loro ricerche rivolte ad illustrare le
vicende di genti che non sono ancora entrate nella solare vicenda della
storia, i linguisti operano diversamente dai paletnologi. Costoro ricercano
gli elementi culturali che riguardano civiltà affini o diverse o assimilate tra
loro; i linguisti studiano i rapporti tra le parlate che si continuano nel
tempo o si diffondono nello spazio: i primi possono spingere le loro
indagini anche a genti lontanissime che non hanno lasciato altro che
strumenti muti e relitti fossili; i secondi devono limitarsi a studiare parole
testimoniate direttamente da chi le pronuncia ancora o
39
indirettamente da testi scritti, però sempre parole che non restino mute,
ma consentano un preciso contatto con le genti che le scrissero o, ancor
oggi, le dicono.
E dovrà, il linguista, sottrarsi alla tentazione di attribuire modi e
tempi paralleli alla diffusione dei fatti di cultura e dei fatti di lingua.
Dovrà, inoltre, tener ben presente che la nostra ignoranza dei piú
antichi elementi di una lingua non nasconde né l'urlo ferino di popoli
selvaggi, né l'attività inventrice di un demiurgo, che, per cosí dire,
costituisca dal nulla, per sé e per i suoi simili, una determinata lingua.
E' ben vero che nelle età antichissime, per scarsità di mezzi di
comunicazione e di trasporto e per primordiali necessità di difesa, i singoli
gruppi etnici restavano chiusi in un rigido isolamento conservatore, ma
ben spesso l'atomismo tribale poteva essere interrotto da drastici
sovvertimenti politici quando un popolo vincitore imponeva a un popolo
vinto la sua egemonia militare e, di conseguenza, culturale e linguistica. E
ancora: pur nella preistoria potevano esistere organismi sovranazionali
capaci di propagandare e di diffondere, insieme con le proprie abitudini
culturali e sacrali o con piú perfezionati corredi tecnici e strumentali,
anche le parole connesse con le nuove idee e con le nuove merci.
Ma i mutamenti culturali e le supremazie militari non sono
condizioni indispensabili per spiegare la diffusione di novità linguistiche;
né, d'altra parte, i cambiamenti linguistici postulano sempre massicce «
invasioni » etniche: non sono rari i casi in cui esigue minoranze, dotate di
largo prestigio culturale, siano state apportatrici e promotrici di profonde
assimilazioni linguistiche negate, invece, a orde barbariche che, se
riescono a imporre ai popoli vinti la loro signoria, non li possono
obbligare a rinunziare alla loro piú raffinata civiltà e, soprattutto, alla loro
lingua, piú illustre per lunga tradizione letteraria.
E mi sia concesso di fare anche un'altra osservazione che potrà
sembrare persino ovvia.
Nelle nostre descrizioni degli antichi movimenti etnici, culturali e
linguistici, noi usiamo metodi e documenti che, ben spesso, richiedono
l'impiego di complesse tecniche scientifiche e comportano attente analisi
critiche. Tra l'altro, noi siamo abituati a compiere rigorosi accertamenti
delle nostre fonti d'informazione e, soprattutto, abbiamo il triste... vizio di
rifiutare le notizie poco sicure anche se molto belle e di preferire, invece,
le notizie piú certe anche se meno poetiche. Ed è per questo che le notizie
trasmesseci dagli antichi storiografi greci, principalmente, e latini, noi
abbiamo il dovere di raccoglierle, di studiarle e di rispettarle, ma abbiamo
anche il compito di vagliarle e di attribuir loro quei limiti che spesso
vengono denunziati dagli stessi autori. Ci piacerebbe, dunque, dar credito
a tutto ciò che gli antichi narravano sulle avventure occorse nella nostra
Capitanata a Diomede e ai suoi amici e nemici, ma, purtroppo, non
avendo a nostra disposizione nessun documento e nessun monumento
che ci aiuti ad effettuare il controllo della veridicità di quelle vicende,
dovremo accontentarci di registrarle senza accettarle, ma senza neppure
rifiutarle definitivamente o totalmente, con la mutria
40
di chi crede d'essere, lui soltanto, il depositario della verità, e di tutta la
verità.
***
Cominciamo, intanto a precisare l'area in cui si svolge la nostra
ricerca: ricerchiamo quale fosse il territorio abitato dai Dauni e quali
fossero le loro città. Poi cercheremo di vedere chi fossero i Dauni e con
quali altri popoli avessero in comune l'origine della stirpe e,
probabilmente, della lingua.
La Daunia, nella divisione amministrativa augustea, sembra aver già
perduto ogni individualità etnica, economica e amministrativa: era, infatti,
compresa nella regio II di cui facevano parte l'Apulia (e cioè la Terra di
Bari, sino a Venosa a ovest, Ginosa a sud e Diria-Monopoli a est) e la
Calabria (e cioè l'odierno Salento).
Ma l'area compresa tra il Fortore a nord e l'Ofanto a sud, tra
l'Appennino a ovest e il mare a est, costituiva, secondo antichissime
testimonianze, la terra dei Dauni, affini (come vedremo) agli Apuli e ai
Messapi,, ma distinti per certe loro caratteristiche etniche, storiche e
linguistiche che in parte conosciamo, in parte intravediamo e in parte
immaginiamo.
Ma già nel fissare i limiti del territorio dauno ci imbattiamo in un
problema: Venosa e, specialmente, Canosa facevano parte della Daunia o
dell'Apulia propriamente detta? Probabilmente è un problema insolubile,
non soltanto pel silenzio o l'ambiguità delle fonti d'informazione, ma
anche e soprattutto per lo scarso rilievo che poteva avere, in quei tempi e
in quella zona, una rigida divisione che non interrompeva, né
politicamente né amministrativamente, un territorio fondamentalmente
unitario.
Certo, ci resterebbe il criterio linguistico, ma, purtroppo, quelle
poche notizie che riusciamo a mettere insieme non bastano a dirci se i
Canusini parlassero una lingua uguale in tutto o solo in parte affine a
quella degli Argiripini.
Fermiamoci, dunque, nella Daunia: nel paese dei Dauni.
Chi erano costoro?
Antonino Liberale, seguendo una tradizione raccolta da Nicandro
(ma, bene o male, nota anche a Festo, a Varrone e ad altri autori antichi),
ci racconta che i tre figli di Licaone, Iapige, Dauno e Peucezio, partirono
dall'Illiria con le loro genti; giunsero in Italia, cacciarono gli Ausoni dalle
Puglie e vi si installarono. I nuovi arrivati avevano in comune la lingua; ce
lo disse già Strabone (6.3,11) che però prima (6.3,1) si era espresso in
maniera un po' confusa: « La Iapigia i Greci la chiamano anche Messapia,
ma gli abitanti dividono se stessi in parte in Salentini e, verso il Capo
Iapigio, in Calabri. A nord ci sono i Peuceti e i Dauni: tale è il loro nome
in greco, ma gli abitanti chiamano la loro terra Apulia; altri si chiamano
Pedicli e soprattutto Peuceti ».
C'è poco da dire: il povero Strabone, imbrogliato da tanti nomi,
tutti piú o meno superati già ai suoi tempi, sa distinguere soltanto i
41
piú antica) si ha (specialmente nell'adattamento greco e latino) il genere
neutro: cosí abbiamo
Càrbina accanto a *Carbínium, presupposto dall'odierno Carovigno;
Barra e Barium;
Lypia e Lipium;
Celia e Caelium;
Orra e Urium (v. oltre);
Brenda e Brundusium;
*Valetha e Vale(n) tium;
e, infine, le odierne Canosa e Venosa accanto a Canusium e Venusium.
Pertanto, un'alternanza tra il femminile Argu(ri)pia e il neutro (oltre
tutto imposto dal genere della voce greca) Argos Hippion non ci turba.
Ciò che, invece, ci piacerebbe sapere è se il suffisso -ippa (< *-ipia)
sia stato aggiunto a una base *argur- o una base *arg-.
A questo punto preferisco non lasciarmi sedurre da ricerche
etimologiche che sarebbero tanto facili quanto inutili. Per pura curiosità,
potremmo dire che il tema *argur- è quello che indica l'argento, ma, a sua
volta, non è altro che un ampliamento del tema *arg- che anche esso
significa, piú o meno, bianco, splendente e sim.
Piú interessanti possono essere gli accostamenti con altri nomi di
città che abbiano la stessa origine.
Se preferiamo il tema *argur- potremo pensare agli Argurini
dell'Epiro (che, si noti, sono ricordati da Licofrone e da Timeo, e cioè da
due dei sistematori della saga dauna di Diomede!); ma ricorderemo anche
in Dalmazia, tra i Liburni, la città di Argirunto.
A favore del semplice *Arg- possiamo addurre la città degli Argesti,
in Dacia Argedavo e in Tracia Argilo. Se proprio fossimo costretti a fare
una scelta, oseremmo dare una certa preferenza al tema piú semplice, ad
*Arg-, anche perché, com'è ben noto, le forme piú facili sono spesso una
deformazione o una banalizzazione delle forme piú difficili: possiamo,
insomma, pensare che il nome della nostra città sia stato reso dagli
scrittori greci etimologicamente piú facile con l'aggiunta di un po'
d'argento...
Pertanto la nostra preferenza non va ad Argyrippa, ma, attraverso
Arpi (o Arpa), che è la forma meglio documentata, a un *Argipia (o
*Argipion) che ci sembra la forma piú antica e, forse, piú genuina.
***
Ho già detto due parole a proposito di Salapia. Il già ricordato
nome di Vibinum non andò a finire, come Vibo, con i cavalli, ma con i
buoi e divenne Bovino...
C'è chi vede nel nome del lago di Varano la radice indeuropea *var«acqua » (Krahe, Die Sprache._ 1, 93), ma altri autori (Alessio) giurano che
esso deriva invece dal nome proprio latino Varius.
44
E ben poco avrei da dire di Siponto (che ci ricorda la seconda parte
del nome di Metaponto, ma l'accostamento potrebbe essere quanto mai
fallace). Ricorderò Herdonia il cui nome, testimoniato anche come Ordaneae
ed Ardaneae, sembra simile a quello di una non meglio identificata (e forse
mai esistita...) città messapica Ardanna.
Con maggior precisione, un migliore accostamento dei Dauni con le
genti dell'altra estremità della regione pugliese, con i Salentini, e con gli
abitanti dell'opposta penisola balcanica, ci verrà offerto e confermato dal
nome di Uria garganica (quella povera città che, senza nessuna sua colpa,
dopo due millenni di silenzio, ha subíto l'oltraggio di quello scrittorúcolo
francese inventore della legge o, come diceva lui, de La loi...) .
Di Uria gli antichi conoscevano anche un'altra forma del nome,
Hyrion - Hirium: essa è, dunque, perfettamente omonima della città
salentina che ancor oggi si chiama Oria.
Secondo me, il nome dell'Uria garganica e dell'Uria salentina
corrisponde perfettamente a quello della città frigia Bria e della città tracia
Brea (e lo stesso elemento onomastico ritorna anche in altri nomi di città):
la base comune è un tema indeuropeo che significa proprio «città».
Ecco, dunque, stabilito, meglio: confermato l'intimo nesso tra gli
antichi popoli della nostra regione, tra i Dauni e i Messapi. Ma tale nesso
non riguarda soltanto una generica origine storica, ma si concretava in
un'intima e antichissima comunanza linguistica.
Solo che dei Messapi noi abbiamo un numero veramente imponente
di iscrizioni che ci danno discrete, anche se non complete notizie sulla
lingua degli antichi abitanti del Salento, mentre, invece, le testimonianze
epigrafiche della lingua dei Dauni sono estremamente scarse e
assolutamente insufficienti a darci un quadro diretto della lingua che si
parlava in Capitanata prima della colonizzazione latina.
Ma non è questo l'unico episodio della... loquacità delle genti
salentine: recentemente il Susini, raccogliendo le iscrizioni latine del
Salento, ha ricordato che in quella zona si ha un numero altissimo (tra i
piú alti di tutto il mondo romano) di epigrafi. Egli giustifica questa
abbondanza con la presenza del Salento di una pietra tanto tenera da
consentire il lusso di un'epigrafe ben economica anche a quegli strati
sociali che, altrove, per ristrettezze finanziare, non potevano concedersi il
piacere di apporre sulla tomba dei defunti un'iscrizione con il nome ed
altre occasionali notizie riguardanti la persona sepolta.
Il problema dei Messapi costituisce un capitolo, anzi: per noi il
capitolo piú interessante di quel libro indecifrato che è la storia dei popoli
di cui ignoriamo tuttora la lingua. E' un capitolo che presenta notevoli
affinità con un altro brano di quel libro: il capitolo degli Etruschi.
Tutto quello che noi sappiamo dei Messapi e degli Etruschi ci è
stato raccontato in greco o in latino: mai in messapico o in etrusco.
Eppure possediamo un gran numero di iscrizioni sicuramente autentiche,
sicuramente scritte nella lingua di questi due popoli; siamo riusciti persino
a precisare che questa epigrafe è piú antica di quella di cento, duecento,
trecento anni; siamo anche giunti a capire il senso generico di quel testo
45
o il significato preciso di quella parola, ma siamo ancora ben lontani dal
poter affermare che l'etrusco o il messapico non dico non abbiano piú
segreti per noi, ma che, almeno, ci siano sufficientemente chiari.
Strano destino è, dunque, quello che è toccato agli studiosi italiani e
stranieri che si sono dedicati alla decifrazione di queste due lingue almeno
dall'epoca rinascimentale. Negli ultimi centocinquant'anni la scienza linguistica
ha fatto passi da gigante: è riuscita a leggere l'egiziano, il persiano antico, il
tocario e l'ittito. Da qualche anno siamo in grado di leggere e tradurre le
tavolette micenee; l'interpretazione delle lingue minori della penisola anatolica
precede a ritmo soddisfacente: solo l'etrusco e il messapico segnano il passo. Le
iscrizioni sono là, conservate nei nostri musei; può leggerle anche chi riesce
appena a leggere l'alfabeto greco, ma nessuno può dire onestamente d'aver
capito ciò che ha letto.
Perché questo ritardo?
Certo, è vero: siamo riusciti a leggere i geroglifici, ma l'aiuto
maggiore ci è stato dato dalla pietra di Rosetta e cioè da una lunga
iscrizione redatta in tre lingue di cui una a noi ben nota, il greco, ci ha
offerto la chiave per capire le altre due;
oggi leggiamo le iscrizioni cuneiformi e capiamo l'ittito, ma ciò si
deve al fatto che anche lí abbiamo avuto il compito facilitato da lunghi
testi bilingui, in cui la lingua nota ci aiuta a leggere quella ignota;
e cosí l'interpretazione dei testi tocari ci è stata facilitata dal fatto
che essi contenevano testi buddistici che noi conoscevamo già nelle
redazioni indiane;
la lettura delle tavolette micenee, prima assolutamente disperata, si
è rivelata relativamente facile, quando il Ventris ha avuto la brillante
intuizione che quei segni contenevano scritture greche, in un greco
sicuramente antichissimo, ma pur sempre affine a quello usato da Omero
nei suoi poemi, da Aristotele e da Polibio, a quel greco ancor oggi parlato
dai Greci.
Niente, invece, di tutto ciò per l'etrusco: anche se recentemente
sono state trovate a Pyrgi delle lamine auree bilingui, la loro
interpretazione non ci ha detto molte cose nuove anche perché esse sono
troppo brevi e, soprattutto, perché la redazione punica di quei testi non è
perfettamente parallela e perchè, infine, le nostre conoscenze del punito
non sono neppure tanto ampie...
E anche il messapico è ancora muto: non abbiamo trovato neppure
una misera iscrizioncella bilingue che ci offra utili spunti ermeneutici, né
abbiamo riconosciuto utili punti di contatto, sufficientemente vasti, con
altre lingue meglio conosciute.
Possiamo, ad ogni modo, credere che il messapico, insieme con il
dauno e il peucezio, rappresenti la fase piú antica (priva delle successive
stratificazioni greche, latine, slave e turche) dell'albanese. Alcune
particolarità linguistiche e, soprattutto, una notevole massa di nomi di
persona e di nomi di luogo, testimoniati in maniera pressoché identica
nella penisola balcanica e nella regione pugliese, ha suggerito agli studiosi
l'esistenza di un'antica comune origine tra le genti delle opposte sponde
dell'Adriatico.
46
Ma, purtroppo, la lingua albanese ha subíto gravi modifiche nel
corso dei millenni; della forma che essa, insieme con altre lingue piú o
meno affini, quali il trace, il daco e il mesio, aveva prima delle
colonizzazioni greca e latina sappiamo tanto poco che possiamo dire di
non sapere nulla.
Restiamo, dunque, senza alcun valido sussidio per la decifrazione
del dauno, del peucezio e del messapico; l'interpretazione linguistica è
condannata a progredire molto lentamente e, se non vado errato, non sarà
mai compiuta e perfetta...
E, peggio ancora, se le iscrizioni messapiche sono abbondanti,
quelle della Peucezia e della Daunia sono piuttosto scarse. Né io posso,
per impinguare il numero delle epigrafi daune, prendere in prestito quelle
trovate oltre l'Ofanto, a Canosa o a Ruvo di Puglia, anche se appare lecito
credere che tra la zona peuceta e la zona dauna ci fossero larghe affinità
linguistiche.
***
Le iscrizioni daune che sono giunte sino a noi sono di due tipi: o
sono su pietra o su monete; quelle provengono tutte da Vieste (tranne una
trovata a Lucera), queste sono di Arpi e di Salpi.
Dall'elenco che do, ometto le iscrizioni viestine che siano troppo
frammentarie. Abbiamo, dunque:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
agol / zon ve/nana
diva / dama/tira
deiva / dama/tira pre / ve zi ve/na
diva / damati/ra / zo-pa kale (de Simone legge opakalgo)
dama(tira?) / klator
blasit agol zei
L'iscrizione lucerina dice
?imeireiv / deinam
Sulle monete di Arpi (III sec.?) si legge
Salpi
1. poulai; 3. poula - 2. poullou, pullu; - 4. eienam - 5. dazou e su quelle di
1.
2.
3.
4.
5.
daze... edamaire
damaire / dazeni
dazu/s dam
domular...
zente
Mi sia concesso di omettere ogni considerazione sull'iscrizione
lucerina e sulle leggende delle monete, non perché esse non siano
interessanti, ma soltanto perché il mio commento sarebbe molto semplice:
non riusciamo a trarne nessuna utile indicazione linguistica (nelle monete
potremmo individuare alcuni nomi propri, certo di magistrati monetari,
Pullos e Dazos, ambedue ben noti anche nell'onomastica messapica;
47
potremmo anche dire che edamaire è una forma d'aoristo da cui dipende
dazeni, sia esso un dativo o, piuttosto un accusativo, con lo stesso
elemento -en- che vedremo, tra poco, in un altro accusativo).
Limitiamoci, dunque, a esaminare piú attentamente le iscrizioni
viestine.
Esse possono essere divise in due gruppi: uno, composto dalle
prime tre, era inciso su piccole stele di pietra locale; l'altro si legge su
iscrizioni redatte su materiale vario per forma e per stile epigrafico.
Quest'ultimo gruppo di iscrizioni, insieme con altri pezzi epigrafici, fu
murato sulla facciata di una sua casetta rustica, costruita a poca distanza
dall'abitato di Vieste, da Biagio Abatantuono. Di tutte, però, si ignora il
luogo, la data e le circostanze di ritrovamento.
Le prime tre epigrafi rischiavano invece di restare sconosciute o,
peggio, di essere in perpetuo condannate al grave sospetto di non essere
autentiche, emesso contro di loro dal Whatmough. Ma, in fondo, lo
studioso americano non aveva tutti i torti: né egli né il Ribezzo erano mai
riusciti a vederle, ma ciò sol perché non si erano mai recati a Vieste per
cercarle.
Io, invece, riuscii a ripescarne una (la prima) rovistando sotto il
letto della casa di campagna del fu Abatantonio: e lí la trovai rotta in due
pezzi, ma non la lasciai dove l'avevo trovata: la portai via, senza neppure
chiedere il permesso all'attuale proprietario della casa. Depositai l'epigrafe
nel Municipio di Vieste e lí è ancora e mi auguro che sia onorata a dovere
ché essa è, praticamente, il piú illustre documento linguistico dell'antica
Daunia. Ma, in quell'occasione, fui accolto con grande cortesia dalle
autorità viestine che mi permisero di consultare finche tra certe carte
depositate in Municipio ed ebbi cosí la possibilità di ritrovare le lastre
fotografiche delle prime due iscrizioni che sembrano essere state distrutte.
Cerchiamo ora di affrontare i testi dauni per cavarne quelle poche
notizie che riusciremo a capire.
Lascio da parte ogni interpretazione piú o meno poetica, qual'è
quella, ad esempio, per cui le prime quattro iscrizioni costituirebbero un
unico testo, scritto in una specie di greco dorico. È, invece, assolutamente
certo che la III e la IV iscrizione sono dei testi indipendenti tra loro,
come del resto, dalle stesse III e IV iscrizioni sono indipendenti le prime
due.
Si tratta, per quel che ci è dato di capire, di dediche o di invocazioni
sacre a tre divinità: a Zeus, a Demetra e a Venere.
Il culto di Zeus e quello di Demetra sono largamente documentati
presso le nostre genti iapigie. E’ col nome di Zeus che cominciano i testi
piú importanti che si conservino nella Messapia: essi si aprono con
l'invocazione klaohi zis che può tradursi quasi sicuramente « Ascolta, o
Zeus! » o, forse meglio, « Zeus ascolti! ».
Del culto a Demetra abbiamo sicure testimonianze in tutta l'area
pugliese, dalla Daunia alla Peucezia, alla Messapia. Qui, soprattutto,
abbiamo trovato numerose iscrizioni in cui si parla di sacerdotesse (e di
sacerdoti) di Demetra: spesso le tombe in cui furono deposte le persone
48
Insomma, i legami delle genti daune con i vicini Peuceti e Messapi e
con i dirimpettai d'oltre Adriatico si vanno facendo sempre piú chiari, piú
abbondanti e piú precisi.
E certo piú intimi ci si mostrerebbero tali legami se, in genere, le
notizie sin qui scarse e frammentarie sugli antichi Dauni e i documenti
epigrafici a nostra disposizione fossero piú ampi.
O. PARLANGÈLI
NOTA BIBLIOGRAFICA
I testi dauni sono stati pubblicati negli Studi messapici di O. PARLANGÈLI,
Milano 1960 (con tutte le indicazioni della bibliografia precedente) e da C. DE
SIMONE (nel secondo volume di Die Sprache der Illyrier di H. KRAHE, nn. 144, 155,
102, 141, 220, 252, 77, 106 e 286).
Il saggio d'interpretazione piú importante resta pur sempre quello di V.
PISANI (vedi ora nelle Lingue dell'Italia antica oltre il latino, II ed., Torino 1964, p. 235,
n. 70).
Di altre interpretazioni, piú o meno parziali o fantastiche, non mette conto di
parlare.
50
Il Pellegrino al Gargano
I - TERRA DI PUGLIA.
Quando, agli albori di questo secolo, Emile Bertaux, « ancien
membre de l'Ecole de France de Rome », visitò i monumenti dell'Italia
meridionale, ne rimase incantato e li esaltò in pagine memorabili e per
molti versi ancora attuali 1. Solo che, nella ispirazione e nella esecuzione
di quasi tutti quei monumenti, egli vide una manifestazione del genio
francese sul suolo italiano. Analogamente, Arthur Haseloff, recatosi piú
tardi in Puglia, s'imbatté nella fatidica aquila sveva e ne seguí il volo di
paese in paese, dalle pendici del Promontorio del Gargano al Capo di
Santa Maria di Leuca 2, senza tener conto di circostanze e documenti che
sarebbero bastati da soli, almeno in certi casi, a snebbiargli la vista. Per
questo, allorquando un amico, venuto a sapere che stavamo scrivendo un
libro sulle « Cattedrali di Puglia » 3 , ci domandò quale fosse la nostra
posizione rispetto ai grandi storici dell'arte e ai viaggiatori stranieri che in
passato si occuparono piú o meno diffusamente dei monumenti della
regione pugliese, non esitammo a rispondere che essa era di rispetto ed
anche di gratitudine, per le fatiche pazienti e spesso geniali compiute da
qualcuno di quegli scrittori; ma che ciò non poteva impedirci di reagire
cosí al loro patente sciovinismo come alla leggerezza con cui qualche
scrittore nostrano ne aveva condiviso le opinioni. D'altra parte,
aggiungevamo, troppi anni erano trascorsi dalla pubblicazione delle loro
opere, e nel frattempo altri elementi erano venuti in luce, altri vestigi, e
specialmente altri nomi di artisti, tutti dichiaratamente pugliesi, o
circostanze relative alla loro vita. E' questo, per dirne uno, il caso dello
scultore Acceptus, operante prima che Normanni e Svevi si fossero
stabiliti in Puglia, e cioè dal 1023 circa al 1050,
EMILE BERTAUX, L'art dans l'Italie méridionale, Paris 1904.
ARTHUR HASELOFF, Die Bauten der Hohenstaufen in Unteritalien,
Leipzig 1920.
3 1 a ed., Roma 1960; 2 ,a ed., ibid. 1964 .
1
2
51
quando l'arcivescovo Leone II occupava la sede di Siponto, tutt'una cosa
con quella di Monte S. Angelo, suo paese natale 4. Ma ci sono casi non
meno tipici, come quello di Simiacca barlettano e di suo figlio Luca. Il
Bertaux, giunto a Barletta ed esaminatine sempre piú entusiasta i
monumenti del periodo romanico, esclamava: « Qui dovette esserci senza
dubbio un focolare d'arte borgognona ». Ebbene, il libro, il meraviglioso
libro del Bertaux, è del 1904; dieci anni dopo usciva il secondo volume del
Codice Diplomatico Barese con le " carte di Barletta ", e da quelle carte
saltava fuori il nome di Simiacca « protomagister ecclesiae Sanctae Mariae
», operante ancora nel 1162 con suo figlio Luca, « magister » nella
medesima fabbrica. C'è bisogno di commenti?
Allo stesso modo le date di molti monumenti erano sospinte a far la
spola tra il periodo normanno e il periodo svevo, a seconda degli interessi
politici ed intellettuali degli scrittori. Valgano per tutti gli esempi di San
Leonardo di Lama Volara, detto San Leonardo di Siponto, e della SS.
Trinità di Montesacro in cima al Gargano. Di San Leonardo e della sua
decoratissima porta laterale fu sempre detto (Lenormant, Bertaux,
Gregorovius, Haseloff e in ultimo anche Willemsen) che appartiene al
tempo di Federico II, mentre invece quella comunità monastica, già ricca
al tempo dell'abate " Riccardus " (1157-1173) di ventimila ducati d'oro di
rendita all'anno, si trovava al tempo di Federico in tale stato di decadenza
da far assomigliare la sua chiesa piú ad una spelunca latronum che ad una
casa di Dio. Né è vero che il monastero con la sua chiesa e il suo
vastissimo ospizio fosse detto « di Terra Alemanna » perché concesso da
Federico all'Ordine di S. Maria dei Teutoni, in quanto quella concessione
ebbe luogo, per parte del papa Alessandro IV, solo nel 1260, cioè dieci
anni dopo la morte di Federico. Comunque, quindici anni prima della
morte di Federico il papa Onorio III parlava della memorabile opulenza
di Pulsano come di cosa già trascorsa; e quanto a Montesacro abbiamo un
diploma di papa Innocenzo IV del 28 ottobre 1235, dal quale risulta che
quella badia, un tempo floridissima, non era in grado di pagare il viaggio a
Roma di Giovanni, suo nuovo abate. Anche qui, come si vede, ogni
commento è superfluo.
A parte la questione dei « magistri comancini » o « commageni »,
che va affrontata, per quanto riguarda il loro trapianto in Puglia, con
nuove conoscenze e nuovi criteri, c'è poi chi si gingilla ancora a
contrapporre arte romanica lombarda ed arte romanica pugliese e si
domanda quale delle due si sia affermata prima ed abbia influito sull'altra.
Vana accademia! Quando avessimo per caso accertato che Barisano da
Trani, autore delle meravigliose porte di bronzo della sua cattedrale,
conobbe l'Altare d'oro di Volvinio in S. Ambrogio a Milano, o che
Lanfranco e Viligelmo, attivi in Modena, secondo l'epigrafe di fondazione
di quel Duomo e la Relatio del magiscola Aimone, nel 1099 presero a
Cfr. la biografia che ne abbiamo data in Dizionario Biografico degli Italiani,
I, Roma 1960, pp. 70-2.
4
52
modello per i loro armoniosissimi archetti pensili quelli anteriori del
Duomo di Bisceglie, non avremmo detto nulla di veramente conclusivo.
L'arte è somma di esperienze, e nè gli artisti nè i popoli ne rifiutano
alcuna, perchè valida.
Che direste, chiedeva un giorno E. Schmidt, di chi volesse trovare il
germe del Pantheon nelle capanne circolari di fango erette dai Galli sotto le
mura di Roma? E Benedetto Croce, riferendosi a quanto era stato scritto in piú
occasioni da un Lenormant e un Bertaux, un Enlart e un Reymond a proposito
di arte francese ed arte italiana in genere, avvertiva quanto errato fosse il loro
metodo che poteva condurre a negare originalità all'Ariosto per quel che egli
aveva derivato dalle Chansons de gente e dai romanzi della Tavola Rotonda. E
specificava: « Castel del Monte sarà dunque un'opera di architetto francese allo
stesso modo che l'Orlando Furioso è un'opera di letteratura francese », cosí
come, aggiungiamo noi, il pavimento a mosaico del Duomo di Otranto, tuttora
esistente, e quello del Duomo di Brindisi, malauguratamente scomparso,
sarebbero opera di mosaicisti d'Oltralpe, sol perchè il prete Pantaleone, che li
compose firmando e datando il primo nel 1165-66, il secondo, sembra, nel
1178, mostrava di avere anche lui una certa dimestichezza con i personaggi dei
cicli leggendari di Alessandro, di Orlando e di Artú 5. Questi preti e questi
monaci, questi giudici e questi notai eruditissimi, usi, fra l'altro, a redigere in
versi leonini e trinini le invocazioni e le sottoscrizioni dei loro atti 6,
conoscevano l'universo mondo. Chi ci meraviglierà nell'apprendere, ora che un
nostro studioso ci ha messo l'occhio dentro, che la biblioteca della Abbazia
benedettina di Trèmiti annoverava nel Millecento fra i suoi molti libri anche un
Omero 7?
Il popolo pugliese era nel suo complesso un popolo colto, e la sua
cultura, di origine prevalentemente classica, riceveva sempre nuovo
alimento dal flusso continuo dei pellegrini ai suoi Santuari, dall'andirivieni
dei Crociati dell'intero mondo cristiano, dai suoi sempre piú fiorenti
commerci con i maggiori centri del Mediterraneo. Dominatori e predoni
di ogni parte di Europa si avvicendarono per secoli sulla terra di Puglia
detta « fortunata » come la disse Dante, perchè esposta, a causa della sua
posizione geografica, alle diverse vicende della fortuna; ma non riuscirono
mai ad essiccarne o alterarne la vena creativa. Lavorare ed innalzare la
pietra era per la sua gente un modo, forse il primo modo, di cantare anche
nel dolore. La piú maestosa delle basiliche pugliesi a matronei, San Nicola
di Bari, fu costruita, per volontà del ceto marinaio e di un religioso «
inclitus atque bo5 Per il pavimento di Pantaleone, cf. ora BRUNO LUCREZI; La cattedrale di
Otranto e la Divina Commedia, in « La Rassegna Pugliese », I (1966), pp. 401-11 (con
bibl.).
6 Cfr. FRANCESCO BABUDRI, La poesia nella diplomatica medievale pugliese, in «
Archivio storico pugliese », VI (1953), pp. 50-84.
7 Cfr. ARMANDO PETRUCCI, L'archivio e la biblioteca del monastero benedettino di
S. Maria di Tremiti, in « Bullettino dell'Archivio Paleografico italiano », n.s., II-III (1956'57), parte II, pp. 291-307.
53
nus », Elia, prima abate e poi arcivescovo, quando, sottratta al dominio
greco, la città si mostrava già insofferente del dominio normanno, e la
Cattedrale della stessa città risorgeva piú splendida di prima, poco dopo
che la rivolta del 1156 era stata soffocata nel sangue. Quindi piú tardi si
assisteva all'esplosione del barocco leccese, un fenomeno tutto locale,
culminante nell'opera prodigiosa di Giuseppe Zimbalo, detto lo
Zingarello. Ma pensate, spingendovi con la mente indietro nel tempo, alla
civiltà preistorica e protostorica della regione, quale ci viene presentata, in
misura piú unica che rara, cosí nei pubblici musei come nelle collezioni
private, dal suo celebre vasellame dipinto, e in particolare da quello con
soggetti fliacici, caratteristici del luogo; pensate a quel che fu nel mondo
dello spirito Taranto: la Taranto di Pitagora e di Anassagora, di Livio
Andronico e di Leonida, la Taranto cara a Platone e a Virgilio e a cui
Orazio sognava sempre di poter ritornare, anche se a dorso di un muletto
sfiancato e scorticato dal peso della bisaccia. Quel muletto lo ritroveremo
mille anni dopo, o giú di lí, in due fra i piú originali e ben condotti
capitelli pugliesi. Il primo nella cosiddetta « Tomba di Rotari », il secondo
nella porta laterale di San Leonardo di Siponto. Nell'uno e nell'altro è
figurato un uomo in cammino con la sua bestia, nel quale alcuni scrittori
vollero vedere non un riflesso della vita locale, ma ... la storia di Balaam,
mentre gl' indigeni vi hanno sempre ravvisato la figura del pellegrino
medievale in viaggio verso il Santuario del Monte. Chi non riconosce nel
rilievo dello sfondo le tipiche arcatelle cieche di un tempio di stile daunosipontino? Ebbene, nessuna cosa è tanto commovente quanto la vista di
quell'uomo, non piú pagano (qui dove prima erano adorati Calcante e
Podalirio) ma cristiano, che, incurante d'estate del torrido Atabulus e
d'inverno del « tremolizzo grandissemo », sia egli un regnante o un
villano, un porporato o uno scaccino, si va avvicinando, di tappa in tappa,
di ospizio in ospizio, alla favoleggiata ed agognata sua meta. Cosí
potessimo anche noi montare oggi fra tanto strepito di macchine
frettolose, su quel muletto, con la bisaccia gonfia degli stessi sogni di un
tempo, e rifare, un poco alla volta, tutto rivedendo e tutto riamando, la
lunga strada di quella terra che ci fu, giorno dopo giorno, culla e dimora,
ed ora ci è solo memoria !
I I - MONTE S. ANGELO - LA CATTEDRA DI LEONE.
Fra i prodotti piú considerevoli della scultura medievale pugliese
figurano, com'è noto, tre cattedre marmoree, giunte a noi integralmente:
una a Monte S. Angelo, nella Grotta di San Michele; un'altra a Canosa, nel
Duomo di San Sabino; ed un'altra infine a Bari, nella Basilica di San
Nicola. Di quest'ultima disse lo Schubring che gli svegliava nella mente
l'immagine del sedile dell'Arconte nel teatro di Dioniso ad Atene; ma
anche delle altre due si potrebbe dir lo stesso o qualcosa di simile.
54
Quella di Monte S. Angelo, poi, scolpita dal fastigio ai leoni di
sostegno in un solo pesantissimo blocco di marmo, quasi a suggerire la
massiccia solidità del bel Promontorio che la vide nascere, ha pure una
storia sua propria, complicata e burrascosa, che le conferisce un tantino di
mistero e che giova comunque conoscere, ai fini di un giudizio
appropriato sulla sua età e la sua fattura 1.
Il vescovo di Siponto, Leone, insediatosi, secondo la cronologia del
Sarnelli e del Gams, nel 1034, o forse, secondo il Gay e il Klewitz, non
piú tardi del 1023, si proclamava anche vescovo, o meglio arcivescovo,
della sovrastante città di Monte Sant'Angelo, in cui era nato; ma ciò,
ammesso o tollerato finché egli visse, doveva dar luogo alla morte,
avvenuta nel 1050, a contestazioni e liti tanto lunghe quanto ostinate. E
poiché nella competizione furono esibite alcune bolle false, qualcuno
affacciò l'ipotesi che anche la cattedra marmorea fosse un falso, prodotto
dalla chiesa di Monte S. Angelo, a riprova del suo « diritto ed onore » alla
concattedralità con Siponto. Il Bertaux anzi vide nei due esametri latini
scolpiti in sommo allo schienale della cattedra un'allusione alla
controversia in atto. « Questa cattedra », dice l'iscrizione, con un
ingegnoso espediente grafico in cui le parole terminali Siponto e Monte
risultano unificate nelle desinenze (Sip-onti M-onti), « differisce per
numero da quella di Siponto; il diritto e l'onore della cattedra di Siponto
sono anche di Monte ».
Orbene, se falso ci fu, esso riguarda, a nostro avviso, soltanto
l'iscrizione e non l'oggetto scolpito. Un monumento falso da produrre in
giudizio si prepara per solito in fretta, tanto in fretta che assai spesso
colui che lo crea cade in errore; ed una cattedra monumentale come quella
di Monte S. Angelo, ricavata da un blocco unico di marmo ed intagliata
finemente in ogni sua parte, non poteva essere concepita e costruita né in
un giorno, né in un mese, né in un anno.
La tradizione vuole, nientemeno, che questa cattedra sia stata
costruita per Lorenzo Maiorano, tra la fine del V e il principio del VI
secolo, poco dopo, cioè, che l'Arcangelo Michele era apparso sul
Gargano; ragione per cui è tuttora chiamata la « Sedia di San Lorenzo ».
Ma, a parte il valore sentimentale della tradizione, intimamente legata con
la leggenda dell'apparizione di san Michele e con l'enorme influenza che
questa ebbe per diversi secoli sulla formazione della civiltà locale, sta il
fatto che la cattedra appartiene stilisticamente al periodo romanico e si
ricollega per mille versi ai numerosi monumenti sorti in quel periodo nella
regione garganica. Nulla di strano dunque, che essa sia stata costruita per
Leone, il quale, ripetiamo, amò sempre proclamarsi arcivescovo « di
Siponto e del Monte Gargano » e risiedette quasi in permanenza sulla
Montagna, non solo per amore al Paese natío, ma anche perché il degno
tempio da lui incominciato, su fondamenta preesistenti, già a Siponto, non
era ancora del tutto compiuto. E qui, a proposito del significato dei due
esametri, in cui vengono distinte ed unificate al tempo stesso le due sedi,
conviene ricordare come la città di
1 Per
le questioni qui affrontate, si veda Cattedrali di Puglia, pp. 37-40.
55
Siponto e il Monte Gargano fossero nel Medioevo considerati
talmente uniti, da far dire della prima che « portava sulla cima la chiesa di
San Michele » (in cacumine supremo beati Arcangeli gestat ecclesiam).
Ma se la cattedra non è falsa, e falsa invece, come tutt'al piú si
potrebbe pensare, è la sola iscrizione, in qual momento un tal falso
sarebbe stato compiuto? La lite fra Siponto e Monte divampò subito dopo
la morte di Leone, avvenuta nel 1050. Allora, dunque, in vista dei
prossimi « pronunciamenti », il Capitolo di San Michele potrebbe aver
deciso di far incidere sulla cattedra marmorea i due ingegnosi versi latini,
che nelle sue previsioni dovevano tagliare la testa al toro. E se non
proprio allora, ciò potrebbe essere accaduto nel 1059, quando, cessata la
vacanza della sede di Siponto, che il vescovo di Trani aveva tenuta
provvisoriamente per nove anni (la pretesa sua aggregazione a Benevento
è ormai una favola), la lotta per il riconoscimento o no delle due distinte
sedi si riaccese piú violenta. A meno che non si voglia pensare né al 1050
né al 1059, ma piuttosto al momento in cui, deceduto l'arcivescovo
Gifredus, il Capitolo di Monte si accinse ad adire la Regia Curia, presso
cui godeva di forti protezioni, ed il papa Alessandro III, temendo uno
scandalo, emise da Benevento la bolla in data 25 aprile 1167, che oggi si
vede scolpita al disopra delle porte di bronzo della Basilica di San
Michele.
Il tenore della bolla, diretta ai sacerdoti della chiesa di Siponto, è il
seguente: il Pontefice riconosce che la chiesa di Siponto e la chiesa di
Monte furono considerate solitamente come una sola sede, ma non
ammette che ciascuna delle due reclami un suo proprio vescovo, perché
ciò sarebbe indegno e derogherebbe dall'onestà dell'una e dell'altra. Esorta
pertanto i due Capitoli a mettersi d'accordo fra loro, per evitare che abbia
a scoppiare la scintilla di uno scandalo, o una discordia permanente, là
dove invece conviene che regni l'unione della fraterna carità.
Quanto ai ragionamenti del Bertaux per giungere alla conclusione
che la cattedra marmorea di Monte S Angelo è « senza dubbio »
contemporanea di quella di Canosa (1080) e di Bari (1098), è superfluo
notare come le ornamentazioni accessorie, e specialmente le strisce di
losanghe, che egli trova nell'una e nelle altre, si trovano già negli amboni
locali di Acceptus (1041) e nelle lesene di Siponto. E ciò senza dire, come
lo stesso Bertaux è costretto ad ammettere, che i motivi decorativi
fondamentali, quali gl'intrecci dello schienale e di una delle sponde della
cattedra, ed il bassorilievo di San Michele dell'altra sponda, « sono tutti
propri di questo monumento », come lo sono, aggiungiamo noi, i
riempimenti degli intagli ed intarsi con pasta di tartaruga, che Flodoardo
di Reims vide sul Gargano già nel X secolo.
Nella fattura di questo mirabile blocco di marmo, estratto
verosimilmente dalle cave dello stesso Gargano (le cave, poi chiuse, cui
attinsero in sèguito i costruttori di Castel del Monte e della Reggia di
Caserta) e composto in forma senza una sola giuntura, assistiamo al
trionfo dei motivi ornamentali ad intreccio. Dinanzi a tali motivi, che
56
i disegnatori ottocenteschi al sèguito dello Schulz ci spiegarono per primi,
come raccontandoci una fiaba, in due dei loro piú ricercati grafici, e che
ora ritroviamo suggestivamente velati dall'ombra della Grotta, nella
edizione laterziana della Puglia di C. A. Willemsen e D. Odenthal 2, si
parlò sempre, e si parla tuttora, di arte bizantina, arabo-moresca,
musulmana, ecc., senza tener conto del fatto che anche al fondo di quei
motivi c'è un elemento nostro, classico e paleocristiano, come, del resto,
in tutte le manifestazioni artistiche del Gargano e, in genere, della regione
pugliese. A parte l'« opus reticulatum », tenuto, come ci avverte Vitruvio,
in grande onore presso i romani e in cui sono effettivamente adombrati i
motivi ad intreccio, a chi ci chiedesse dove gli autori degli ornati di questa
cattedra e di altri monumenti delle vicinanze, quali il diruto San Pietro, S.
Maria di Siponto, Montesacro, Pulsano, S. Egidio « sotto Monte Calvo »,
ecc., trovarono i modelli o le loro fonti d'ispirazione, potremmo indicare
sia Roma (il gran mosaico, per es., dei Gladiatori delle Terme di Caracalla,
ora al Museo Lateranense, e i mosaici delle catacombe dei SS. Marcellino
e Pietro presso il mausoleo di S. Elena in via Labicana), sia, per non
spingerci fino ad Aquileia ed oltre, lo stesso Gargano, che sappiamo
essere stato ricchissimo di ornamentazioni musive romane e
paleocristiane, come ci confermano di tanto in tanto gli scavi. E ciò a
prescindere dalla familiarità che gli « scriptoria » monastici della regione,
da Siponto a Monte S. Angelo, da Pulsano a Tremiti, ebbero con la
miniatura cassinese-beneventana, sempre florida, nel suo repertorio
ornamentale, di motivi ad intreccio.
Né deve far meraviglia che queste forme, analoghe a quelle
realizzate con lavoro d'intaglio a squadro e a sottosquadro in antichi «
stampi » in legno, ancora in uso per marchiare il pane e i panni, e
successivamente in matrici di libri tabellari e in genere in ogni figurazione
xilografica, convivevano anche in un medesimo monumento (come nel
caso della cattedra di Monte S. Angelo) con rilievi a tutto tondo, essendo
siffatta convivenza, cosí bene illustrata dal Lavagnino, una delle
caratteristiche della scultura romanica pugliese. Diremo infine, per
conchiudere, che la cattedra di Monte S. Angelo recava un tempo, al pari
di quella smembrata di Siponto, anche il nome dell'arcivescovo Leone, e
se non lo si legge piú oggi, lo poté leggere ancora nel secolo scorso lo
Schulz, come l'aveva letto, in epoca piú remota, e consacrato in un atto
pubblico, un notaio del luogo.
1023-1050, dunque: la tesi di C. A. Willemsen e D. Odenthal,
secondo cui tutto laggiú, in fatto d'arte, sarebbe sbocciato sotto il passo
fatale dei Normanni e degli Svevi, ne esce, come si vede, un po' scossa.
Proprio in quegli anni Monte S. Angelo, primo fra tutti i centri abitati che
lo circondavano, si dava un libero reggimento comunale, e lo scultore
"Acceptus", pugliese tra i pugliesi, firmava e datava il terzo dei suoi
amboni monumentali.
CARL ARNOLD WILLEMSEN-DAGMAR ODENTHAL, Puglia Terra dei Normanni e degli Svevi, Bari 1959.
2
57
III - MONTE S. ANGELO: IL MONUMENTO MISTERIOSO.
A breve distanza da S. Maria Maggiore, e quasi attaccato all'abside
della diruta chiesa di San Pietro, si eleva il piú caratteristico monumento
di Montesantangelo: la cosiddetta « Tomba di Rotari », che a giudizio della
maggior parte degli scrittori è anche « il monumento piú misterioso
dell'Italia meridionale », cosí per la sua forma come per l'uso a cui doveva
essere in origine destinato, ma soprattutto, forse, per la epigrafe apposta
al suo interno e intorno a cui ogni visitatore piú o meno colto si vôta da
secoli il capo.
Il lapicida indigeno che incise queste lettere non doveva avere
evidentemente troppa dimestichezza con i comuni caratteri lapidei, e
invece di adottare forme tipicamente epigrafiche, trovò naturale attenersi
alle forme della scrittura documentaria dei centri scrittorii locali, con
speciale preferenza per la maiuscola allungata, di cui solevano servirsi gli
scribi e i « notai puplici Garganici » per i « titula » delle loro carte. E chi sa
che, non essendo egli un calligrafo, il modello della iscrizione, assai piú
rifinito ed impreziosito di quanto non risulti dai grossolani calchi che ne
furono ricavati in diversi tempi, non gli sia stato fornito da uno dei tanti
Pantaleo, Orso, Pietro, Guglielmo, Giovanni, Maraldo, ecc., di cui son
piene le sottoscrizioni delle carte pubbliche e private di Trèmiti, Siponto,
Lèsina, Dragonara, Monte, Vieste e delle loro adiacenze.
Quando si voglia raffrontare questa epigrafe a qualcuna delle lapidi
medioevali piú note, non si può non notare in essa la varietà insolita di
alcune lettere, quali la A, la E, la R, l'intrusione inaspettata di un’a
minuscola e l'eccessivo ricorso ai nessi, alle lettere inserte, alle
abbreviazioni, ciò che, tralasciando il periodo piú arcaico, è tipico delle
iscrizioni che vanno dai tempi di Gregorio II (bolla epigrafica in S. Pietro
in Vaticano), Gregorio IV (bolla epigrafica nel portico dei SS. Giovanni e
Paolo), Adriano II (Grotte Vat. Carme epigraf.), ai secoli XI (reliquiario di
San Paolo del 1096) e XII (Memoria della Consacrazione di S. Maria in
Cosmedin del 1125). La M piú frequente richiama quella che si vede,
sempre a Roma, in un elenco d'indulgenze di San Martino ai Monti, della
fine del sec. XII, nonché sul sepolcro del cardinale Conti nella Basilica
Lateranense, che è del 1287. Un secolo circa, come si vede, fra l'una e
l'altra. Ma in effetti, dopo esser passata, come in un dilettantesco «
excursus », dalle antiche forme onciali, allungate ed addossate oltre
misura, a quelle tipicamente visigotiche arabesche, la M di questa
singolare epigrafe c'introduce alla fine, con la massima disinvoltura, in
clima goticheggiante. E il tutto fra vezzi e fiorettature calligrafiche d'ogni
sorta, solite a trovarsi piú in scritture membranacee che non in testi
lapidari.
Questa epigrafe, dunque, è costituita di tre versi leonini incisi di
sèguito su d'una sola riga, che il Bertaux trascrisse e riportò nel seguente
modo:
58
+ INCOLA MONTANI PARMENSIS PROLE PAGANI ET
MONTIS NATUS RODELCRIMI VOCITATUS HANC FIERI
TUMBAM IUSSERUNT HI DUO PULCHRAM 1.
Ma nello sciogliere le abbreviazioni, l'insigne studioso non si
accorse che le pretese I terminali delle parole (« MONTANUS », «
PAGANUS », « RODELCRIMUS ») non erano propriamente I, ma segni
abbreviati della desinenza US (la US, appunto, che viene abbreviata nelle
scritture medioevali, sia lapidee sia membranacee, o col segno simile ad un
3 o col « punto e virgola », rassomigliante ad una i col puntino); e in
questo errore, che generava nel testo alquanto pretenzioso della iscrizione
un triplice genitivo, grammaticalmente inesplicabile (cioè un triplice
sproposito), si trascinò dietro tutti gli scrittori venuti dopo di lui. Ma, a
parte ciò, il Bertaux congiunse mentalmente « MONTANI » e « PAGANI
», facendo di uno dei due ordinatori della « tumba » un tal nativo di
Parma, del quale, egli dice, non era indicato il nome, ma che s'era stabilito
a Montepagano, distretto della provincia di Teramo, e un tal Rodalgrimo
nato sul Gargano e forse a Montesantangelo, come si deduce dalla parola
« MONTIS », dato che anche attualmente il paese è designato nella
regione col solo nome di « Monte ».
L'interpretazione del Bertaux fu accettata e ribadita dal Fulvio 2,
mentre il sottoscritto, preoccupato della triplice sconcordanza,
grammaticale da essa risultante, se ne proponeva la soluzione, limitandosi
frattanto a rettificarne almeno il senso nella parte riguardante la residenza
del primo dei due fondatori della « tumba » e rigettando cosí l'assurdo
legame fra « MONTE » e « PAGANO ». L'epigrafe aveva pertanto la
seguente lettura, che tutti adottano al giorno d'oggi: « Un abitante di
Monte, (di nome) Pagano, parmense di origine, ed un nativo di Monte,
comunemente denominato Rodelgrino, codesti due (hi duo), ordinarono
che fosse costruita questa bella tomba » 3. Ma l'assurdo grammaticale dei
tre genitivi al posto di tre nominativi rimaneva sempre, senza che nessuno
pensasse a correggerlo o a spiegarselo. Eppure la matassa non era tanto
intricata quanto poteva apparire. Vediamo dunque di districarla noi, con
la dovuta umiltà, tenendo presente, come dicevamo, la forma abbreviativa
della desinenza US, e trascriviamo rettamente la epigrafe:
+ INCOLA MONTANUS PARMENSIS PROLE PAGANUS ET
MONTIS NATUS RODELCRIMUS VOCITATUS HANC FIERI
TUMBAM IUSSERUNT HI DUO PULCHRAM.
Cosí anche la caratteristica dei versi leonini, con le rime nel mezzo
e nella fine, affidata per disperazione alla insussistente corrispondenza fra
« MONTANI » e « PAGANI », è del tutto salva.
Quanto alle due parole « INCOLA » e « MONTANUS » (non già,
1 EMILE BERTAUX, L'art dans l'Italie Méridionale, Paris 1904. « Rodelcrimus »
dice propriamente l'epigrafe, ma nei documenti si legge anche « Rodelgrimus ».
2 L. FULVIO, La Tomba di Rotari, in Apulia, n. 1 fasc. II, Martina Franca, 1910.
3 ALFREDO PETRUCCI, Un monumento misterioso: la Tomba di Rotari, in
Emporium, Bergamo, nov. 1929.
59
ripetiamo, « MONTANI »!), è probabile che l'autore della epigrafe le
abbia concepite congiuntamente e che debbano pertanto esser lette come
un solo vocabolo, « INCOLAMONTANUS », cioè « montanaro », come
si è sempre chiamato e continua a chiamarsi anche oggi ogni cittadino di
Montesantangelo, a qualunque classe sociale egli appartenga. Si avrebbe
quindi la seguente lettura:
PAGANO, (CITTADINO) MONTANARO
DI ORIGINE PARMENSE
E UN NATIVO DI MONTE CHIAMATO RODELCRIMO
ORDINARONO CONGIUNTAMENTE (HI DUO)
CHE FOSSE ERETTA QUESTA BELLA TOMBA.
Non bisogna dimenticare, a tal proposito, che siamo in un tempo in
cui non solo il « sermo vulgaris cottidianus », ma anche il latino letterario
scritto si va giorno per giorno, e regione per regione, caricando di
vocaboli e costrutti paesani, e che già fin dai primi anni del Mille, per
esempio, lo zio è chiamato ziano (zianus et nepotes), che il terreno da
lavorare a vigna si chiama pastinello (senza neppure la desinenza in us),
che platea, tramutandosi in platia, e quindi anche in plassa, è matura già
per diventare « la chiazza », ecc.
Ma chi erano propiamente il nostro Pagano e il nostro Rodelcrimo
o Rodelgrimo, i cui casati ricorrono piú d'una volta nelle carte garganiche
dei bassi tempi e che dovevano anche aver avuto rapporti di parentela fra
loro, se la sorella di un Pagano, di nome Augessa, come risulta da una
carta cavense di Lucera del 1109, aveva sposato un Rodelgrimo, figlio di
Sygenolfo, allora dimorante in Lucera? 4. Erano due « boni homines », fra
i piú in vista senza dubbio, e per censo e per cariche ricoperte, di quella
interessantissima società « montanara » che s'era andata formando col
rapido crescere del nuovo centro abitato intorno al Santuario
dell'Arcangelo, méta ininterrotta di pontefici, di re, di imperatori, di
principi, di porporati, di uomini d'alta cultura e di umili fedeli, provenienti
in pellegrinaggio « ab ultimis terrarum finibus ». E se ci si domanda da
qual sentimento furono mossi nel dar vita a questa curiosa e « bella tomba
», risponderemo che lo fecero un po' per amore di cose belle (in un paese
dove tutti facevano a gara per partecipare alla creazione di edifici sacri piú
o meno monumentali e rialzarli quando erano per avventura caduti ed
arricchirli quindi di suppellettili ed arredi preziosi) e un po' anche per
salvarsi l'anima, cosí come lo scultore " Acceptus " aveva donato nel
secolo precedente un ambone all'arcivescovo Leone « pro remedio et
redemptione animae suae », e non c'era proprietario, di qua e di là dal
Fortore e dall'Ofanto, che non facesse dono per lo stesso motivo ad una
chiesa
4 C. ANGELILLIS, Guida breve della Città di Montesantangelo (in cui sono
riassunti tutti i precedenti studi dell'A. sull'argomento), Monte Sant'Angelo 1953. Cfr.:
F. CARABELLESE, L'Apulia e il suo Comune nell'Alto Medio Evo, Trani 1905; T.
LECCISOTTI, Le colonie cassinesi in Capitanata, II. Il Gargano, Montecassino 1938;
nonchè i vari « Cartolari » e le raccolte di antichi documenti, editi ed inediti, relativi alle
varie badie medioevali garganiche.
60
o ad un monastero di una parte delle sue terre, dei suoi castelli, delle sue
selve, delle sue « foveae » granarie, dei suoi « molendini », ecc. 5.
E qui, venendo all'essenziale, diremo che la « cappella » o « tribuna
» di San Giovanni era limitata intorno al Mille al solo dado della galleria a
pianterreno. Essa s'arrestava, insomma, alla cornice con bassorilievi nei
fondati, tirata al disopra delle arcate a sesto acuto. Caduta piú tardi la
cupola a calotta emisferica che poggiava su codesto quadrato poco piú su
della cornice (quasi tutte le fabbriche del genere crollavano, all'urto dei
terremoti, dal punto in cui nasceva la cupola), ecco intervenire i nostri due
« galantuomini », Pagano e Rodelgrimo, l'uno « montanaro » oriundo di
Parma, l'altro « montanaro » di Monte, i quali si assumono il còmpito di
far ricostruire la parte caduta dello edificio, non però al modo di prima,
ma con una singolare sopraelevazione parabolica, giustificata anche (si
noti bene) dal fatto che il battistero era stato costruito in origine su d'una
depressione del suolo di Monte. E a questa sopraelevazione, ricca di
finestre e di ornati di diverse specie, il popolo dà il nome di « tomba », nel
senso che a quel tempo era proprio della parola « tumba »; per cui il bel
San Giovanni diventa d'ora in poi sulle sue labbra « San Giovanni in
tomba ».
Si spiegano cosí molte cose: in primis, l'assoluta diversità di stile fra
la galleria a pianterreno e la parte superiore dell'edificio, l'una archiacuta,
l'altra a pieno centro; secondo, la assenza, all'origine, di una concezione
unitaria della costruzione, per cui, mancando questa d'una razionale e
comoda comunicazione fra un piano e l'altro, fu giocoforza ricavarne una
incredibilmente angusta e bassa, nella grossezza d'un pilastrone di
sostegno delle arcate laterali, cui si doveva giungere probabilmente con
una scaletta mobile di legno, sostituita in tempi a noi piú prossimi da
gradini di pietra, che sono, nel sereno ed armonico vano della galleria, un
pugno nell'occhio; terzo, l'associazione, verificatasi a distanza dalla nascita
dell'edificio ed altrimenti inesplicabile, dell'appellativo « San Giovanni » e
del complemento « in tomba »; quarto, il fatto che i caratteri dell'epigrafe
che reca i nomi di Pagano e Rodelgrimo ed indica quasi l'accesso alla
fabbrica superiore sono del tutto diversi da quelli ancora leggibili nella
fabbrica inferiore: nobili, ben misurati, veramente lapidari questi, d'una
lapidarietà che la presenza dell'o a losanga di origine nordica (insulare)
sembra voler ribadire anziché negare; incostanti, dilettanteschi, eclettici
(per non dire raccogliticci) e provincialescamente compiaciuti del loro
eclettismo, quegli altri; quinto, il fatto notevolissimo che quell'epigrafe
non figura in un punto essenziale della fabbrica inferiore e con evidente
riferimento ad essa, bensí al disopra dell'accesso intermurale alla fabbrica
superiore, come per dire: « di qui si sale alla bella tomba eretta sulle mura
del vecchio battistero da Pagano e Rodelgrimo ». Per me si va ...
Il « San Giovanni » cosí continuava a rimanere, col suo nuovo
5 Ved. « Cartolari » c.s. (San Leonardo, Montesacro, Trèmiti, ecc.). Cfr.:
ARMANDO PETRUCCI. I Bizantini e il Gargano al lume del Cartolario di Trèmiti, «
Quaderni del Gargano », Foggia, n. 4, 1954.
61
fastoso ed originale coronamento, quel che era sempre stato, cioè un
battistero. Che i due generosi montanari Pagano e Rodelcrimo,
accresciuto ed abbellito a loro modo l'edificio, si siano voluti riserbare il
diritto di andarvi a dormire gli ultimi sonni, è anche probabile; ma ciò non
ha nulla a che vedere con la parola « tumba » della tarda epigrafe, la quale,
ripetiamo, riguarda solo la sopraelevazione a cupola parabolica del
monumento e non il monumento intero.
« ... HANC FIERI TUMBAM IUSSERUNT PULCHRAM ... ».
Pagano e Rodelcrimo, dunque, ordinarono congiuntamente che fosse
alzata quella « bella tomba ». Ed ecco farsi avanti, come una Sfinge,
l'ultimo enigma della cosiddetta « Tomba di Rotari ». Qual significato ha
la parola « tomba »? Esclusa la ipotesi della sepoltura del Re longobardo e
considerato che la parola tumba, come risulta dai numerosi esempi
raccolti prima dal Fulvio e poi da altri, ebbe nel Medioevo il significato di
rialzo, di prominenza ed anche di copertura a volta, scaturí naturale la
supposizione che l'edificio fosse destinato all'uso di campanile o di
battistero. Il Bertaux, per farne un campanile, immaginò un impiantito di
legno, sostenuto dalla prima cornice sulla cappella quadrata, ed
un'armatura per le campane sulla seconda cornice. Ma il Bernich osservò
che non c'erano i buchi indispensabili per le testate delle travi, data
l'insufficienza del cornicione a sostenere la pesante impalcatura, e che,
essendo almeno uno degli ordini di finestre circondato da corridoio, il
suono delle campane, anche nella ipotesi delle finestre esterne (per cui
non si avevano elementi bastanti) non avrebbe potuto diffondersi bene 6.
Bisognava quindi ricorrere all'ipotesi del battistero, che era stata avanzata
anche dallo Schulz 7.
Il tipo di battistero adottato in tutta la Cristianità risponde alla
forma dell'ottagono, essendo il numero 8, pel Cristianesimo, simbolico dei
salvati dall'arca: « cum fabricaretur arca: in qua pauci, idest otto animae
salvae factae sunt per aquam » 8.
Il battistero di Montesantangelo, quindi, rappresenterebbe una
deviazione dal tipo normale. Ma già in qualche battistero premillenario
s'erano avute deviazioni del genere, come in quello di Riva sul lago di
Lugano, che è quadrato all'esterno ed ottagono all'interno, e in quello di
Biella, che è ottagono soltanto nella parte superiore. E poiché
quest'ultimo battistero ha una botola per la quale si discende alla tomba
dei Melii, da qualche secolo adibíta altresí a sepoltura dei Vescovi di
Biella, non è da respingersi l'ipotesi, già accennata, che i due facoltosi «
montanari » Pagano e Rodelgrimo abbiano voluto anche loro, elevando
sugli avanzi dell'antico « San Giovanni » quella magnifica fabbrica,
riservarsi il diritto di farvisi seppellire.
Anzi, poiché talune forme dell'epigrafe sono da riportarsi, come
vedemmo, ad epoca piú tarda di quella in cui i Rodelgrimo e i Pagano,
6 E. BERNICH, Il Battistero di Monte S. Angelo, in « Napoli Nobilissima », vol.
XV, fasc. IV, 1906.
7 H. W. SCHULZ, Denkmäler der Kunst des Mittelalters in Unteritalien, Desdra
1860.
8 Epist. Petri, I, tap. III, vv. 20-21.
62
maschi e femmine, sono menzionati nei documenti a noi noti, si può
legittimamente pensare che quell'iscrizione sia stata posta lí, dopo che il
nostro Pagano e il nostro Rodelgrimo erano già passati di vita (e vi
avevano forse trovato sepoltura, o per loro espresso desiderio o per
volere dei concittadini riconoscenti), da persona che voleva salvarne la
memoria. E questa, in verità, ci sembra l'ipotesi piú accettabile, data anche
l'indeterminatezza dell'appellazione. Un fondatore del monumento, o
anche d'una sola parte di esso, non avrebbe fatto scrivere di sé, al
momento della costruzione, « un tal nativo di Monte, comunemente
chiamato Rodelgrimo »! Non sentite che chi parla è un terzo ed ha voce e
modi tutt'affatto diversi da quelli che avrà, per esempio, piú tardi e sul
medesimo Monte, l'epigrafista del campanile angioino, in cui pure
ricorrono i nomi di due congiunti: Giordano e Maraldo?
Ma ammettiamo che ciò non sia vero e che il modo e il tono usati
dal nostro epigrafista siano soltanto una bella finzione letteraria, da porre
sul medesimo piano della forma trascelta per il testo della epigrafe (tre
discreti versi leonini, come abbiamo visto, con figure, trasposizioni e
fioretti propri del tardo latino medioevale), quel che importa è che questa
si riferisca, come effettivamente si riferisce, alla fabbrica che ha innanzi e
non a quella che si lascia dietro, del tutto diversa, sia per impianto, sia per
materiale e tecnica costruttiva, sia, infine, per stile, e che, ciò constatato,
la parola « tumba » riveli a chiunque il suo vero e legittimo significato.
Giunti a questo punto, faremo un passo indietro e dopo aver
ricordato come lo strano monumento di Montesantangelo suoni sulla
bocca del popolo, da tempo immemorabile, non col nome di « Tomba di
Rotari », ma con quello di « San Giovanni », e che perfino in scrittori tardi
quali il Bacco, il Cavaglieri, il Sarnelli 9, esso riceve il nome di « Cappella
di San Giovanni », « Tribuna di San Giovan Battista », « Chiesa di San
Giovanni in Tomba », diremo che anche per esso, quando si voglia
ricercarne le origini, bisogna risalire allo scrittore anonimo dell'Apparitio
Sancti Michaelis. Costui, come sappiamo, visitò di persona nella seconda
metà del sec. IX il Santuario del Gargano e ce ne lasciò una dettagliata e
scrupolosa descrizione, inserita nel racconto dei tre episodi della leggenda
di San Michele: l'Apparizione, la Vittoria, la Consacrazione, specificando
che, prima di essere autorizzati ad entrare nella spelonca, i Sipontini, «
riunitisi, fondarono e dedicarono, ad oriente di quel luogo, una chiesa al
beato Pietro, principe degli Apostoli; e in quella chiesa posero altari alla
beata Vergine Maria e a San Giovanni Battista » 10.
Il culto di San Giovanni, col sacramento del battesimo, nacque
dunque sul Gargano quasi contemporaneamente a quello di San Michele,
e cioè a mezzo il secolo V, quando, secondo la leggenda, era vescovo di
Siponto Lorenzo Maiorano. Ma San Giovanni non ebbe
9 1609; 1680; 1680. Cfr.: ANGELILLIS, op. cit.; G. TANCREDI, La
Tomba di Rotari, Manfredonia 1941.
10
Cfr.: ARMANDO PETRUCCI, Una versione greco-bizantina
dell'Apparitio Sancti Michaelis in Monte Gargano, Roma 1955.
63
súbito un suo tempio, bensí solo un altare, eretto nella chiesa di San
Pietro, e quell'altare, insieme con l'altro dedicato alla Vergine Maria, fu
visto al suo posto nella seconda metà del X secolo dall'autore
dell'Apparitio.
Quel tempio, però, o a causa di uno dei tanti rovinosi movimenti
tellurici cui la montagna andò soggetta, o a sèguito d'una delle tante
incursioni saracene (la piú grave delle quali fu proprio del 920), andò
completamente distrutto; per cui, quando piú tardi, mentre intorno al
Santuario s'andava formando una popolosa borgata, lo si volle ricostruire,
si pensò di rialzare anche i due « altaria » della Vergine e di San Giovanni.
E poiché la liturgia prescriveva ormai che il battistero fosse sempre
costruito distaccatamente dalla chiesa matrice, furono per essi creati due
appositi edifici, a breve distanza dal vecchio San Pietro. Nacquero cosí la
chiesa primitiva di Santa Maria, che prendeva, quale matrice, il posto del
distrutto San Pietro, e la « Cappella » o « Tribuna » di San Giovanni, che
rappresentò il primo stadio dell'attuale « Tomba di Rotari ».
In tal modo si spiega anche come le tre fabbriche di San Pietro,
Santa Maria e « Tomba di Rotari » risultino in pianta, in tutte le loro fasi,
talmente vicine da apparire come addossate una all'altra e in certi punti
addirittura incastrate.
Quando sarebbe avvenuta, dunque, la erezione in chiesa matrice
dell'uno, e in cappella battisteriale dell'altro dei due « altaria » di Santa
Maria e San Giovanni? Non prima della fine del X secolo, e assai
probabilmente nel 900, dato che prima di allora i due altari erano stati
visti in San Pietro dall'autore dell'« Apparitio ». Avremmo cosí, con un
primo stadio di S. Maria Maggiore, anteriore alla costruzione gemella di
Siponto, anche un primo stadio del battistero di Monte, detto poi
impropriamente « Tomba di Rotari », a causa della sopraelevazione fattavi
dai due cittadini di Montesantangelo, Pagano e Rodelcrimo 11.
11 La parola Tomba fu desunta dall'epigrafe; il nome di Rotari fu suggerito
dall'errata lettura del nome di Rodelcrimo (Rod... - Rot...) nell'epigrafe stessa e, forse,
com'ebbe a notare l'Angelillis, dall'equivoca interpretazione di due passi di Paolo
Diacono (Hist. Lang., IV, 46, 47), in cui casualmente si parla a breve distanza e del
Monte Gargano e della morte e sepoltura di Rotari, « iuxta basilicam beati Iohannis
Baptistae » (Nota: In Modoetia ni forte Ticinensis est). Il monumento, com'è noto,
sorge a guisa di torre entro lo stesso abitato di Monte S. Angelo, su di una pianta
quadrangolare, che nella parte superiore si va sfaccettando in forma di ottagono
regolare, per poi modificarsi in un giro elissoidale e terminare quindi con una sorta di
calotta emisferica. Il movimento inconsueto di codesta struttura è piú manifesto
all'interno, dove si vede, appunto, come la galleria del pianterreno, in se stessa
compiuta ed omogenea, possa superiormente convertirsi in poligono, mediante
piccole arcate impostate negli angoli ed inclinate all'indentro, e risolversi quindi, con
inclinazioni a mano a mano piú accentuate, in un giro circolare di sezione ellittica,
pronto a ricevere la calotta. Ma di ciò, e del posto che il « bel San Giovanni » di
Monte S. Angelo, col suo caratteristico prolungamento parabolico, occupa nella
storia civile e religiosa e nella storia dell'arte della regione, si dirà in altro luogo.
64
IV - S. MARIA DI CALENA.
Calena, Calenella; avete mai sentito nomi di paesi e di contrade piú
dolci e musicali di questi? A Calenella, in tenimento di Vico, si arresta
oggi la ferrovia garganica, al termine d'una pineta quant'altra mai folta
fresca fragrante, lasciando nell'animo del viaggiatore il rammarico che le
avare rotaie non continuino ancora la loro corsa, per inerpicarsi almeno
sullo sprone imminente di Montepuccio, vera scolta naturale del
Promontorio, tra il levante e il ponente costiero, e poi scendere un'altra
volta al piano, tra le ultime propaggini del bosco, fino a raggiungere,
aggirando gli spalti petrosi di Peschici, la sorella maggiore: Càlena. Che
cosa è rimasto di originario, oltre al paesaggio incantevole, alla località che
si vanta ancora di questo nome una volta illustre? Al tempo di Leone,
vescovo o arcivescovo (com'egli amava chiamarsi, anche se « sine
suffragio ») di Siponto e di Monte S. Angelo, il suo tempio era una «
ecclesia deserta », ma aveva già una storia di secoli, ed altra storia, di assai
maggiore importanza, avrebbe avuta in sèguito, pur se di essa non si
vedono oggi che pochi avanzi del periodo cistercense, incorporati in una
vasta fattoria di proprietà privata 1. A codesti avanzi, per fortuna, sono da
aggiungere le tracce della pianta su cui la chiesa sorgeva, in modeste
dimensioni, e quelle della pianta su cui sarebbe risorta, dopo il Mille, con
una navata centrale sormontata da due cupole e le navate laterali con
copertura a semibotte.
La chiesa di S. Maria di Càlena, prima e dopo ch'essa fosse elevata a
dignità di priorato e di badia, è una di quelle il cui nome ricorre piú spesso
negli antichi documenti. Lo si incontra per la prima volta nel cosiddetto e
tanto discusso « breve di Càlena », databile non al 1023 come pensava il
Gay, ma al 1038 circa e nel quale si tratta di una larga donazione fatta
dall'arcivescovo Leone alla badia benedettina di Trèmiti. In quel
documento è citata appunto una chiesa deserta « in loco qui vocatur
Càlena ». Chiesa deserta, dunque, probabilmente chiesa rustica, simile a
quella di Calenella (Càlena minor), che tre castellani di Pèschici, Tripo,
Giorgio e Teccamiro, possedevano nella rada dove ora, come dicevamo, si
arresta inopinatamente la ferrovia garganica, e nel cui retroterra, quando
eravamo ragazzi, i nostri vecchi ci mostravano con fare riguardoso i
vestigi di antichissime informi costruzioni.
La Chiesa di Càlena, quella, cioè, maggiore, che i pirati avevano piú
volte assalita e devastata, nonostante la torre di difesa di cui era stata
munita sotto Lodovico II (872 d.C.), non aveva nel suo territorio al tempo
del presulato di Leone da Monte S. Angelo (1034-1050) altro che una
parva terricella e un pastinello (piccolo terreno a vigna); e poiché il dono
sembrava troppo modesto, l'arcivescovo vi aveva aggiunto alcune selve «
succise » e « non succise » ed altre terre di sua pertinenza, con il pretesto
che, essendo troppo lontane dalla sua sede sipontina e montanara, non
potevano essere da lui convenientemente
65
coltivate. Motivazione, questa, che impegnava in un certo senso i monaci
di Trèmiti a rimettere a cultura le terre e far rifiorire nello stesso tempo la
chiesa.
Fu appunto in sèguito a questa donazione, confermata nel 1053 dal
papa Leone IX, che la « ecclesia deserta » divenne un piccolo tempio
romanico a cupola, di tipo schiettamente pugliese. Da questo piccolo
tempio, trasformato ed ingrandito posteriormente dai Cistercensi,
derivano verosimilmente alcune pietre lavorate, tuttora visibili nel
contesto delle fabbriche successive. Tale, per esempio, l'erma scolpita a
mezzo tondo sotto una delle grandi arcate della sola facciata superstite,
che sembra riattaccarsi alle teste degli amboni di Acceptus, il padre della
scultura romanica pugliese.
Per i monaci della badia benedettina di Trèmiti, avere lí, sulla costa
del Gargàno, di fronte alle loro isole, una dipendenza come quella di
Càlena, dalla parte di oriente del Monte Devio, quando ad occidente
avevano già, oltre alla città di Devia, le dipendenze lesinesi e civitensi, era
un grosso affare, sia d'ordine economico, sia d'ordine strategico. E furono
loro stessi, probabilmente, a promuoverne l'elevazione da semplice « cella
» a priorato prima, a badia poi. Ma Càlena, forte ormai della sua posizione
e dei suoi vasti e floridi possedimenti, non tardò a dichiararsi
indipendente e mettersi in lotta con Trèmiti. Fu allora forse che i
calenensi incominciarono ad accrescere di mole e di potenza le
fortificazioni del loro monastero, per difendersi cosí dai pirati mussulmani
come dai confratelli delle isole Trèmiti. Ma le minacce continuarono
sempre ad incombere sulla loro casa, come si può desumere dal bel verso
leonino che ancora oggi si legge su di una porticina accessoria della
fattoria in cui l'antica fabbrica s'è andata trasformando: verso che in
origine doveva certamente figurare scolpito sull'architrave di uno
degl'ingressi principali: « Invia cuique truci furi sum pervia luci ».
Aperta, dunque, alla luce, come chiusa ai predoni d'ogni fatta. Ma
Càlena aveva anche, nel periodo della sua maggiore prosperità, alcune
invidiabili dipendenze, quali San Nicola di Montenero e San Nicola
Imbuti, l'una all'interno, sui monti verso Vico, l'altra prossima alla costa,
tra Rodi e Sannicandro. Come le difendeva? Quella, forse, con l'ampio
sbarramento dei suoi boschi, « succisi » e « non succisi », questa con la
laguna litoranea di Varano, mentre qui il mare era a due passi e i pirati vi
potevano sbarcare quando volevano, favoriti dal massiccio cuneo roccioso
di Pèschici.
Il monastero di Montenero era tenuto molto caro dai calenensi ed
ambito d'altro canto dai tremitensi, non solo per le sue ricchezze in olio,
vino e agrumi d'ogni specie, ma anche e specialmente per i numerosi «
molendini » di cui disponeva lungo la valle che scende giú dall'alta Vico
allo sbocco del torrente Asciatizzo e che ancora oggi è chiamata « Valle
dei Molini »; ma la chiesa e le fabbriche annesse, già trasformate dai
canonici Lateranensi che vi giunsero nel Quattrocento, e quindi
incorporate, al pari di Càlena, in una grossa fattoria ottocentesca, non
presentano oggi piú nulla del loro aspetto primitivo, cosí
66
com'è di tante altre chiese della zona, a cominciare da quella ingrandita e
trasformata di San Pietro sita « supra montem » a Vico Garganico, che
troviamo nominata fin dal 1113, con particolare rilievo, nei documenti di
San Leonardo di Siponto.
La cella di San Nicola « de Monte Nigro », con i suoi molendini e
tutte le sue pertinenze, è ricordata già in una bolla di Stefano X del 7
febbraio 1058, nella quale vengono confermate una per una le possessioni
della badia di Càlena, compresa la cella di San Nicola Imbuti, sita ai
margini del lago Varano e non meno ambita dell'altra per i suoi pingui
pascoli e le sue ricchezze in pescagione e cacciagione. Ma né della chiesa
né del monastero di questo favoloso San Nicola è rimasto piú nulla, dopo
che il territorio su cui sorgevano, detto « imbuto » (da imbuo) perché
bagnato dalle acque della laguna, fu destinato alla costruzione d'un
idroscalo, in occasione della guerra 1915-18. Memorie, dunque, nient'altro
che memorie, o vestigi e travestimenti spesso impenetrabili, ma non per
questo privi d'incanto in una terra che, a parte le sue caratteristiche
naturali, fu nel Medioevo teatro di importanti avvenimenti storici e
soprattutto di singolari manifestazioni d'arte. Ricordiamo per esempio, il
senso di mistero, misto a vivissima curiosità, da cui eravamo pervasi
quando, fanciulli, ci spingevamo da soli o in frotta fino al fiumicello
Lauri, in territorio di Sannicandro garganico, nostro paese natío. Su di un
greppo, proprio a ridosso del molino ad acqua tuttora esistente ed attivo,
vedevamo a fior di terra le fondamenta superstiti di alcune fabbriche
diroccate, di cui nessuno sapeva dirci niente, e pensavamo ad un castello
turrito, ad una chiesa affrescata, ai villici dei dintorni che traevano qui a
macinare il loro grano e a sentire l'uffizio divino prima di recarsi al lavoro.
Qualcuno ci tracciava di « fantastici » o peggio; ma oggi che in un
documento del 1058 troviamo nominati e quel fiumicello e quel castello
(castellum ubi dicitur Lauri) e quella chiesa (ecclesia vocabulo sancti Petri
Apostoli), ci assale il desiderio di ritornare su quel greppo, per poter
interrogare con occhi piú esperti quelle vecchie pietre ed allargare lo
sguardo attorno, fino a tutte le pertinenze del castello, « vigne e terre
coltivate ed incolte, - come dice il documento - alberi fruttiferi e non
fruttiferi, selve acque e prati », e il molino e la navicella (il « sandalo ») e la
stessa chiesa, che il conte Petrone, figlio di Gualtiero di Lèsina, vendette
per 150 soldi schifati. 150 soldi: a quanto corrisponderebbero oggi? Non
pensiamoci, e spalanchiamo anche noi l'anima alla luce, facendoci per un
momento, in tanto riso di verde e di azzurro, tutti calenensi.
V - S. MARIA DI PULSANO.
Correva l'anno di grazia 1171, e le suore operaie del monastero di
Santa Cecilia presso Foggia, stanche delle eccessive fatiche loro imposte
dalla badia di Santa Maria di Pulsano in monte Gargano e dal
67
convento di S. Nicola alle porte della loro stessa città, se ne
rammaricavano con papa Alessandro III, allora di ritorno dalla vicina
Troia. Il sommo pontefice ascoltava, e nominava una commissione
d'inchiesta nelle persone del cardinale Manfredo, vescovo Prenestino, del
cardinale Pero de Bono del titolo di Santa Susanna, e del cardinale
diacono Giacinto, con l'incarico d'indagare sui fatti ed ingiungere all'abate
mitrato di Santa Maria di Pulsano, che allora era il gran Ioele, e a quel
prepotentuccio del priore di San Nicola di porre subito termine alle «
vessazioni, estorsioni e maltrattamenti » di cui veniva fatto loro carico
delle suore di Santa Cecilia.
« Vessazioni, estorsioni, maltrattamenti ... ». Di che si trattava? La mente,
alla lettura del documento dell'Archivio di Troia pubblicato a suo tempo dal
Carabellese, che l'assegnava al tempo di Callisto II, e cioè al 1120 1, è portata
naturalmente a fantasticare di chi sa che scandali e fatti orrorosi. Ma niente di
tutto ciò: solo, invece, se cosí vogliamo chiamarla, una rivolta operaia, una
rivolta in soggòlo, tra le mura di un convento. Le monache di Santa Cecilia,
infatti, o meglio quelle di esse che erano addette ai lavori di tessitura e sartoria,
avevano il compito di fornire ai fratelli della casa madre tutto ciò che loro
poteva occorrere per vestirsi, dormire, andare in giro e farsi lume nelle lunghe
notti, e cioè panni di lana, lenzuola, cingoli, bisacciuole, sacconi, stoppini per le
lucerne, ecc. (pannos, suderas, cingolas, besacciolas, saccos, papiros et alia ... );
ma i frati si mostravano cosí esigenti e pressanti nelle richieste che le povere
operaie erano obbligate a tessere, tagliare, cucire, filare, compor treccioline di
stoppa e di bambagia giorno e notte, senza tuttavia riuscire a contentar tutti; e
alle pretese della casa madre si erano aggiunte a un certo punto quelle del
convento di San Nicola, al cui priore era affidata la vigilanza di Santa Cecilia.
Ve l'immaginate il frate grasso che si presenta stronfiando alla madre badessa e
protesta per non aver trovato nell'ultima fornitura un cingolo che convenisse al
giro della sua pancia, o il frate magro che si lamenta perché la tonaca gli sta
addosso come la campana al battaglio? E ciò indipendentemente dal fatto che
le richieste erano di gran lunga superiori ai bisogni. Che ne facevano i frati
biancovestiti di Pulsano e di San Nicola di tanta roba? Se ne vendevano forse,
Dio ci perdoni, una porzioncella?
Per fortuna non tutti erano della stessa risma, ed il maggior
incolpato, il gran Ioele, non doveva saper nulla, con tutta probabilità, di
ciò che accadeva di buono e di cattivo nei sottordini della badia; ad un
certo punto, anzi, era tale in Pulsano il numero dei frati colti ed operosi
nei diversi campi dell'architettura, della scultura e delle lettere, che
l'Ughelli, nel definire quella badia, la diceva « ricettacolo di uomini illustri
» (virorum illustrium receptaculum). E per alcuni di quegli uomini illustri,
giova dirlo subito, lavorava un altro gruppo di suore di
1 Cfr. per questo documento e per le notizie sui due monasteri di Pulsano e di S.
Cecilia, CIBO ANGELILLIS, Pulsano e l'Ordine monastico pulsanese, in Archivio storico
pugliese », VI (1953), pp. 421-66, e in particolare le pp. 400-1.
68
Santa Cecilia: quello delle calligrafe e miniatrici, che è dubbio abbiano
preso parte alla rivolta.
La casa madre dell'Ordine dei pulsanesi aveva sede sulle pendici
meridionali del Gargano, in un luogo fra i piú ameni del pittoresco
promontorio, ma del tutto « impervio e solitario », detto sempre in antico
Pulsano, e in mappe e documenti piú recenti Polsosano o Apolosano. Si vuole
che il monastero e il tempio di Santa Maria, di cui ancora oggi si possono
ammirare, nei pressi della boscosa Macchia, gli avanzi monumentali, siano stati
costruiti qui, sui ruderi di precedenti costruzioni cenobitiche, da San Giovanni
Scalcione da Matera, il « pastor bonus », dopo ch'egli si era recato in
pellegrinaggio al santuario di San Michele Arcangelo, e cioè nel 1129 secondo
alcuni, nel 1131 secondo altri. Ma fu sotto Gioele, terzo abate generale della
comunità di Pulsano, e cioè fra il 1145 e il 1176, che questa toccò l'apice del
suo splendore, con conseguente incremento delle fabbriche di sua pertinenza e
delle sue attività di ordine superiore. E' a codesto periodo, appunto, che
bisogna ascrivere le parti piú belle della chiesa giunta a noi mutila, con il suo
armonioso portale, due finestre superiori ed un rosone finemente decorati,
l'arco d'accesso al cortile, anch'esso abbellito di sculture ornamentali, e lo
stesso arredamento sacro.
Lo Schulz ricorda appunto una grandissima acquasantiera, oggi
scomparsa, sostenuta da un mensolone fra aquile, tutta ad intagli finissimi
di foglie e pigne, dinanzi a cui doveva forse impallidire quella della Chiesa
Vecchia di Molfetta.
Tra le cose a noi giunte quasi intatte c'è invece una tavola dipinta con la
Madonna ed il Bambino su fondo d'oro, che destò non solo l'ammirazione
dello Schulz, ma anche quella di Domenico Salazaro e che, essendo del tutto
simile all'altra Madonna « deaurata » chiesta nel 1064 dal vescovo Gerardo
all'abate di Tremiti per la chiesa superiore di Santa Maria di Siponto, sta a dirci
come anche nel secolo successivo, e cioè al tempo di Giovanni Scalcione e di
Ioele pulsanesi, quel tipo di Madonna continuasse ad essere fornito dai
benedettini del monastero isolano alle chiese della propinqua sponda.
E le monache di Santa Cecilia? Esse erano molte, tanto che ad un certo
momento si dovette ricorrere alla drastica misura di ridurle a cinquanta
aspettando che il Signore chiamasse a sè le piú vecchie e sospendendo nel
frattempo l'ammissione delle novizie. E delle molte una parte erano
prevalentemente operaie, calligrafe e miniaturiste. Che queste abbiano
continuato ad ornare carte almeno fino al 1244, è provato da un bellissimo
codice miniato, " Martyrologium Monialium Pulsanensium Sanctae Ceciliae ",
ora nella Biblioteca nazionale di Napoli, fermo appunto a quell'anno 2. Le altre
invece seguitarono, anche se con diminuita frequenza e senza esose pressioni,
ad apprestare tonache, lenzuola, sacconi, bisacciuole e stoppini per le lucerne
della casa madre, fino a quando anche questa, come già le badie prossime di
Montesacro e San Leonardo di Siponto, non prese a decadere. Nel 1235 la
badia
2
Ms. VIII C. 13, membr. di cc. 60, scritto in beneventana di tipo cassinese.
69
di Montesacro, già potentissima e doviziosa era ridotta in tale stato di
povertà da non poter fornire al suo nuovo abate Giovanni i mezzi per
recarsi a Roma a ricevere la conferma e la consacrazione papale, e non
molti anni dopo la stupenda chiesa di San Leonardo di Siponto era cosí
rovinata da sembrare non piú una casa di Dio, ma, come abbiamo visto,
una « spelunca latronum ». La badia di Pulsano, invece, forse perché piú
appartata e meno soggetta alle incursioni dei predoni, rimaneva attiva per
diverso altro tempo, tanto che nel 1294 poteva perfezionare, col
beneplacito di papa Celestino V, una permuta di beni con il monastero di
Santo Spirito di Maiella e nel 1375 aveva ancora un suo regolare abate
nella persona di « frate Antonio ». Ma le sue dipendenze e la sua potenza
non erano piú quelle di una volta. Quindi, di anno in anno, tutto ruinava
senza piú rialzarsi: mura, archi, celle, fortificazioni, mobilio artistico. Ed
anche se pochi frati, di quelli che sarebbero poi passati ad altri Ordini,
rimanevano ancora, dopo altre vicende ed un ultimo spaventoso
terremoto, a guardare melanconicamente le vestigia di quello che era stato
uno dei maggiori cenobi d'Italia, nessuno si ricordava dei loro bisogni.
Le monache di Santa Cecilia non esistevano piú, sembra, dal 1292, e
le vecchie lucerne di Pulsano, prive di stoppini, s'impolveravano spente
nell'ombra.
VI - S. MARIA DI TREMITI.*
« Madonnina del mare »: cosí è chiamata una statuetta in legno
scolpito e dipinto, alta un metro circa, rappresentante la Madonna in
piedi, dritta come un giglio, con il Bambino seduto sul braccio sinistro,
che si venera nella chiesa già abbaziale dell'isola di S. Nicola, nel gruppo
delle Trèmiti. A questa Madonna, di data e di provenienza incerte, in
quanto la tradizione la dice venuta d'Oriente, mentre sembra modellata su
di una statua di Giovanni Pisano, è dedicata da secoli una festa che si
celebra a mezza estate e si conclude con una toccante processione sulle
acque. Una leggenda, radicatissima nella mente del popolo, dice che in
passato, nel giorno di quella festa, il mare fra la costa del Gargàno e le
isole Trèmiti si abbassava, sí da permettere ai fedeli della terraferma che
non disponevano di una barca di compiere il tragitto a piedi o a schiena
d'asino. Ma per far ciò occorreva essere senza peccato, e piú d'uno,
naturalmente, nonostante le buone intenzioni con cui s'era messo in
cammino, finiva per cadere in pasto dei pesci. Ma, a parte la leggenda, c'è
un documento del 1556, nel quale si afferma che non meno di « 2000 o
3000 persone, tra maschi e
* I documenti citati in questo capitolo sono tutti editi o ricordati nel Codice
diplomatico del monastero benedettino di S. Maria di Tremiti, a cura di Armando Petrucci, IIII, Roma 1961.
70
femmine », arrivavano per il giorno della festa della Madonnina dalle coste
del Gargàno e dal basso Molise a Trèmiti, « e a tutti, per la vigilia e festa,
se gli dava da mangiare », salvo a prolungare il trattamento nel caso che «
per il mal tempo, come sôle accadere » gli ospiti fossero costretti a
procrastinare il ritorno.
La festa ha qualche somiglianza con quella ben nota di San Nicola
di Bari, ma è piú pittoresca e nello stesso tempo piú intima e
commovente, per il fatto che si svolge di sera, tra la luce del sole che
tramonta ed il baluginío delle prime stelle, e comprende il giro delle due
isole maggiori dell'arcipelago: quella abitata di San Nicola e l'altra boscosa
di San Dòmino. Non vengon piú i fedeli della sponda opposta, né il mare
si abbassa o si alza secondo i casi; ma ci sono molti turisti, attratti dalla
bellezza del paesaggio e dalla pesca subacquea, qui piú propizia che mai;
ed anche per loro è una gioia poter assistere alla processione o
parteciparvi di persona, frammischiati all'umile gente del luogo. La
Madonnina, avvolta per l'occasione in un manto di seta azzurra, tra fiori
di campo e ceri accesi, esce dalla sua casa, portata a braccia da quattro
robusti marinai, e si avvia, per i camminamenti della fortezza, alla marina,
mentre la folla le si va assiepando intorno. Un peschereccio a vela,
pavesato a festa, accoglie subito la statua per portarla in mare, e numerosi
battelli gremiti di gente lo seguono da presso. Il sole intanto tramonta, e
dai battelli le donne innalzano, lento e solenne, il canto rituale dei marinai
tremitesi: « O Madonnina del mare - tu non ti devi scordare - di me. mentre la barca cammina ... ». Poi la notte cade sull'isola. La Madonnina
risale nella penombra lo scoglio di San Nicola per raggiungere la sua
vetusta casa, e quando, consumati ormai i ceri, si abbassa per l'ultima
volta, come inghiottita dalle pietre, sotto gli archi dei camminamenti che
danno accesso alla fortezza ed alla chiesa, si ha l'impressione che non la si
debba piú vedere. La cerimonia è finita; ma nell'ombra qualche voce canta
ancora: « O Madonnina del mare ... ». Ed in quel canto è tutta la vita
dell'isola, della sola isola abitata: il mare, la pesca, la solitudine, la attesa
del forestiero, che rappresenta, specie nelle lunghe settimane invernali,
l'unico contatto con il mondo.
Ma la Madonnina non è sola, sia nella chiesa, sia nel complesso
monumentale dell'abazia fortificata, prima benedettina, poi cistercense,
poi lateranense. Henri Bertaux, riferendosi al periodo benedettino,
definiva l'abazia di Trèmiti « una Montecassino in pieno mare ». E tale, a
giudicare specialmente dalle carte venute in luce di recente 1, doveva
essere davvero, per l'ampiezza di suoi interessi in terraferma, per la
dottrina e l'intraprendenza dei suoi frati, per l'attività del suo centro
scrittorio e miniaturistico, per la ricchezza e varietà della sua biblioteca, di
cui si conosce ora il catalogo, nonché per l'importanza delle opere d'arte
possedute, alcune delle quali importate dall'Oriente e dall'Occidente, altre
prodotte, a quanto pare, sul posto.
Oltre alla Madonnina la chiesa di Trèmiti vantava e vanta altre
opere d'arte importanti, quali, per dire delle maggiori, il vasto pavimento a
mosaico policromo, un Crocifisso dipinto del tipo detto « vi71
vente », alto quasi tre metri e mezzo, ed un polittico veneziano in legno
scolpito e dipinto. Il classico, incomparabile pavimento, che possiamo
considerare composto non piú tardi del 1045, anno in cui la chiesa,
secondo un documento già pubblicato dal Muratori, risultava già
ricostruita « a fundamine », è l'unica testimonianza superstite di quella
ricostruzione, che dovette essere veramente favolosa, mentre il Crocifisso
rimane sempre un enigma, in quanto sembra uscito dalla bottega di
Berlinghiero Berlinghieri (se non, com'è meno probabile, di Alberto
Sozio), laddove la tradizione, avvalorata da alcune lettere greche e da
un'iscrizione latina, lo dice venuto d'Oriente nel 747 d. C., in modo
miracoloso, « nave la stessa Croce nocchiero il Cristo ». Il grande polittico
ligneo, con l'Assunzione e l'Incoronazione della Vergine ed un popolo di
figure scolpite a tutto tondo, rappresenta invece, senza problemi, la
perpetua meraviglia della chiesa. Ma il rimanente? Le iconi dipinte, per
esempio, e gli altri oggetti sacri di cui i Benedettini facevano piú o meno
mercato, rifornendone le chiese della sponda garganica, in cambio di
concessioni e benefici vari? Un documento sipontino del novembre 1064
ci apprende che l'arcivescovo Gerardo chiedeva all'abate di Trèmiti una «
icona deaurata » per la sua chiesa ed una « scaramagna bona », in cambio
di una parte delle saline di Siponto, ed un altro documento del dicembre
1068 ci assicura dell'avvenuto scambio. Una « icona deaurata » uguale a
quella di Siponto arrivava poco dopo alla vicina chiesa abaziale di S. Maria
di Pulsano. Ed il Crocifisso dipinto di S. Leonardo le Matine, quasi del
tutto simile a quello di Trèmiti, donde veniva? E qui è opportuno
ricordare che al tempo dei Cistercensi Trèmiti fu presa dai pirati della
Dalmazia con uno stratagemma superante in astuzia e crudeltà quello del
Cavallo di Troia, e nulla o quasi di ciò che essa possedeva poté salvarsi.
Tutto quindi dovette essere rifatto nel secolo XV dai Lateranensi,
stabilitisi a Tremiti nel 1412. Per prima cosa essi rifecero il portale di S.
Maria al Mare: ciò che dimostra come quello antico fosse andato in
rovina, abbattuto forse dai crudelissimi corsari di Omis in Dalmazia, i
quali non contenti, infierirono, dicono i cronisti, perfino sulle pietre, «
rapendo, scorrendo tutta la casa, struggendo... spianando la fabbrica ».
Della costruzione del nuovo portale furono incaricati nel 1473 il
durazzese (« Dyrrachius » o « de Durachio ») Andrea Alessi, allievo di
Giorgio da Sebenico, ed il fiorentino Nicolò di Giovanni Cocari, allievo di
Donatello, ma attivo a quel tempo, insieme con l'Alessi, a Traú ed a
Spalato. Qui l'anno avanti avevano restaurato in collaborazione il
campanile del Duomo; e qui forse li conobbe il priore di Tremiti Don
Ambrogio da Milano, il quale s'impegnava, in data 20 ottobre 1473, di
versar loro per la costruzione del portale, 38 ducati d'oro. Ma per farsi
pagare, maestro Andrea e maestro Nicolò dovettero piatire ed arrabbiarsi
per un pezzo, fino a che, messi alla disperazione, non citarono in giudizio
l'Abazia. Questo avveniva il 27 febbraio 1475. Ma non sappiamo se i due
siano stati soddisfatti come chiedevano, perchè i documenti a noi giunti,
men1
Edite in Codice diplomatico, già cit.
72
tre parlano del processo svoltosi davanti al giudice di Spalato, non ci
dicono come esso sia andato a finire 2. Certo è che la corda fu tirata a
lungo, date forse le potenti amicizie di cui l'Abazia godeva sulla sponda
opposta, e solo nel 1480 fu pronunziata la sentenza, della quale però non
si conosce il testo.
Il nuovo portale di S. Maria al Mare fu costruito in delicate forme
rinascimentali nel mezzo della facciata tripartita, come in antico, da lesene alte e
snelle; ma anch'esso corse il rischio di essere distrutto, quando nell'agosto del
1567 i Turchi si presentarono davanti alle Tremiti, intenzionati ad espugnarle a
tutti i costi. Essi disponevano di 150 navi al comando di Alí Pascià, « generale
del mare », e di migliaia di armati, al comando di Mustafà « generale di terra »,
mentre i difensori non erano che un pugno di uomini. Ma l'isola di San Nicola
non era più quella di una volta: due abati ingegneri, Cipriano da Milano e
Matteo da Vercelli vi avevano innalzato a piena regola d'arte robustissime
fortificazioni, munendole di potenti artiglierie; ciò permise agli assediati di
sostenere il combattimento per tre giorni di seguito e di uscirne alla fine
vittoriosi. Avanti d'iniziare la lotta, tutti i frati si erano confessati e comunicati,
« con animo deliberato di morire lietamente tutti », prima che i Turchi
potessero metter piede nell'isola, e si erano quindi adunati nella « Cappella della
Madonna », davanti alla statuetta in legno scolpito e dipinto della « Madonna
del Mare », che ancora oggi, sormontando alle tempestose vicende del luogo, si
venera nella chiesa. Ed a quella Madonna, sempre sorridente, sempre pietosa,
ritornarono dopo la vittoria, per un Te Deum di ringraziamento, mentre i
Turchi fuggivano sconfitti verso Levante, e le loro navi, come racconta padre
Ribera, con le vele gonfie in poppa, « formavano quasi una grossa città in mare
» 3.
Il portale della chiesa di Tremiti, dunque, resistette all'urto,
nonostante la gracile e pericolosa grazia dei due ordini di sculture e di
nicchiette ingegnosamente sovrapposti all'architrave ed alle colonne binate
che lo affiancano; ma non cosí il grandioso porticato del nuovo chiostro,
anche esso costruito dai Canonici Regolari Lateranensi ventun anni prima
dell'assalto dei Turchi, come ci apprende l'iscrizione appostavi: « 1546 Ave
Regina Coelorum ». Di codesto porticato, lungo in origine non meno di
55 metri, non è rimasto un solo lato, con 26 archi e ricercatissime
decorazioni a tondini di schietta intonazione rinascimentale. Vogliamo
dire che gli autori del portale, cosí mal ripagati, lavorarono meglio dei loro
anonimi successori? E se non cosí, diciamo che il destino fu con loro piú
benigno di quanto non fosse stato a suo tempo il frate pagatore della
Abazia.
ALFREDO PETRUCCI
2 Cfr. PETAR KOLENDIC, Aleshi et Fiorentino aux iles de Tremiti, in « Bulletin
de la Societé scientifique de Skoplie », I (1926), pp. 205-14.
3 PIETRO PAOLO RIBERA, Successo de' Canonici regolari Lateranensi nelle loro
isole Tremitane.... Venezia 1606; per l'assedio cfr. anche MICHELE VOCINO, Nei
paesi dell'Arcangelo, Trani 1913, pp. 45-8.
73
Sulla economia di Capitanata
nel XVI secolo
Mi ero proposta da qualche tempo di riprendere i miei studi sulla
storia e l'economia di Capitanata nel Cinquecento: ne ho avuto di recente
l'occasione per l'invito rivoltomi a contribuire con un breve studio al
Convegno di Foggia su Dogana e Tavoliere, per celebrare il primo
centenario della legge del 26 febbraio 1865 n. 2168 che affrancò i pascoli
fiscali nelle terre di Puglia.
Iniziate dunque le ricerche nella serie Affari diversi della camera della
Sommaria, ho esaminato con particolare attenzione il volume n. 21
intitolato Libro de diverse consulte della Regia Camera a Sua Eccellenza per affittare
molte terre salte, et restopie, per darle a coltura et sono dal anno 1560 avanti sino al
1590 in circa.
I documenti che compongono il piccolo volume, precisamente
ventotto, sono tutti, quale per una ragione, quale per l'altra, di capitale
importanza per uno studio approfondito delle vicende economiche del
demanio fiscale della Dogana negli anni indicati, ma interessantissima fra
tutti mi è sembrata la consulta piú antica 1 e cosí ho deciso di farne
oggetto di questo lavoro articolandone la presentazione in due parti, la
prima di breve illustrazione delle condizioni dell'economia di Capitanata
nel Cinquecento, la seconda costituita dalla trascrizione con note di
commento della consulta stessa.
1 ARCHIVIO DI STATO DI NAPOLI (abbrev. ASN), Regia Camera della
Sommaria, Diversi, vol. 21 (prima numerazione), foll. 39 a 44 t. Il documento si
articola in una premessa ed in quattordici paragrafi, quante erano cioè le osservazioni
fatte dal sovrano all'operato del viceré.
75
1. LE CONDIZIONI DELL'AGRICOLTURA E DELLA PASTORIZIA.
Se millenaria è la storia della transumanza armentizia nelle terre di
Puglia altrettanto antica deve ritenersi la lotta sostenuta dagli agricoltori
pugliesi per evitare che le loro terre si trasformassero tutte in sterminati
pascoli deserti d'estate e popolati d'inverno d'armenti e pastori abruzzesi i
quali ultimi, per conservare alle greggi l'erba invernale, sostenevano, non
senza fondamento di verità, che le terre di Puglia non erano adatte alla
coltivazione perché facili a stancarsi e bisognose di lunghi periodi di riposo,
che le stesse, inoltre, non si prestavano a coltivazioni arboree diverse da
quelle poche che stentatamente vi attecchivano per l'accennata penuria
d'acqua utilizzabile, mentre vi abbondavano i cespugli selvatici e le paludi.
Gli agricoltori pugliesi controbbattevano riconoscendo la necessità di un
regolare alternarsi di coltura e di pascolo ma portando nello stesso tempo
ad esempio le antiche coltivazioni di grano e vigneti nella pianura di
Capitanata, che fornivano il sostentamento alla popolazione indigena ed agli
stessi pastori abruzzesi durante il soggiorno invernale.
Con la famosa lettera del 1° agosto 1447 al Montluber Alfonso
d'Aragona, pur riservando al pascolo la massima parte del demanio fiscale di
Puglia, conservava alla coltivazione le cosiddette terre di portata o masserie vecchie,
prescrivendo però tassativamente che la loro estensione non venisse
ulteriormente accresciuta; ma l'aumento costante della popolazione e la
necessità di rifornire adeguatamente i mercati cominciò presto ad alimentare
continue richieste di terre da sottrarre al pascolo e destinare a coltura 2 e già lo
stesso Alfonso dovette concedere che si coltivassero le antiche difese e che una
limitata superficie di terreni demaniali intorno a Foggia si utilizzasse a vigneti 3.
Nel 1479 l'università di Foggia implorava da Ferrante d'Aragona che
le fossero conservate le mezzane antiche onde poter sostenere i buoi da
lavoro indispensabili all'unica risorsa della popolazione che « ... non have
altra industria che de fare campi de grani ... » 4.
Il re accedeva con particolare concessione alle necessità di Foggia,
fissando successivamente nei capitoli promulgati il 17 dicembre 1480 dalla
stessa città una serie di disposizioni che preparavano la prima
L. BIANCHINI, Storia delle finanze del Regno di Napoli, Napoli 1859, III
ed., pag. 135.
3 G. M. GALANTI, Nuova d escrizione storica e geografica delle Sicilie, Napoli
1778, tomo II, p. 223, conferma la concessione delle difese ad uso di coltura
nel 1457 ed egual notizia ci tramanda NICOLA VIVENZIO, Considerazioni sul
Tavoliere di Puglia, Napoli 1796, pp. VII e VIII.
4 ASN, Regia Camera della Sommaria, Partium, Vol. 345, carta n. 23.
2
76
reintegra, effettuata nel 1483 e che riportò ad uso di pascolo tutti i terreni
che i coloni pugliesi, disperando di ottenere per regolare concessione,
avevano abusivamente coltivato con la complice connivenza del doganiere
Gaspare Castiglione.
Della reintegra del 1483 e di quella parziale del 1508, disposta da
Ferdinando il Cattolico su richiesta dei pastori che lamentavano i continui
ritagli di terre operati dai coloni pugliesi, non è rimasta traccia né presso
l'archivio di Stato di Foggia né presso quello di Napoli 5. La guerra
scoppiata alla morte di Ferdinando interruppe le operazioni di reintegra
affidate al presidente della Camera della Sommaria Antonello di Stefano,
operazioni che furono riprese nel 1533, quando il viceré Don Pietro di
Toledo ne diede incarico al reggente Giovanni Figueroa che le portò a
termine restituendo le superfici dei pascoli fiscali all'estensione anteriore
alle numerose occupazioni abusive di terreno generalmente utilizzato per
coltura o pascolo degli animali da lavoro.
Nel 1535, in occasione della visita di Carlo V, pastori d'Abruzzo ed
agricoltori di Puglia sollecitarono provvedimenti per ristabilire in maniera
definitiva il giusto equilibrio tra le esigenze dei primi e dei secondi, e per
porre rimedio alle conseguenze nell'economia particolare delle due
provincie ed in quella generale del viceregno, in cui l'incremento
demografico 6 cominciava a provocare carestie sempre piú frequenti,
dimostrando ad evidenza che il raccolto cerealicolo era insufficiente ai
crescenti bisogni.
Comunque la transumanza armentizia, per quanto sottoposta per la
sua stessa natura a tutte le imprevedibili vicende delle stagioni
meteorologiche, delle malattie degli animali, dell'instabilità dei prezzi e
5 La costituzione di un doppio archivio per gli affari della R. Dogana della
mena delle pecore di Puglia fu disposta da Alfonso d'Aragona con la lettera del
1447 nella quale si stabiliva testualmente:
« Omissis.
15. Item che dal Credenziero ed Auditore si tenghi un libro di Provinti che si
fanno.
Omissis
21. Item che detto Dohaniero dopo fatta la locazione, mandi copia di quella in
Regia Camera».
Dei due archivi quello locale della Dogana era ovviamente il piú ricco e
completo, mandandosi in pratica alla Sommaria solo copia della documentazione
relativa alla parte contabile per le revisioni e di quella riguardante questioni
giuridiche e vertenze d'interessi. Per una storia completa dell'Archivio della
Dogana vedi DORA MUSTO, La Regia Dogana della mena delle pecore di Puglia,
Roma 1964, pp. 85 a 91 (Quaderni della Rassegna degli Archivi di Stato, n. 28).
6 BIANCHINI, o p . cit., p. 140; GALANTI, o p . cit. t o m o I, pp. 223 a
224; L. DE SAMUELE CAGNAZZI, Saggio sulla popolazione del regno di Puglia,
vol. I, Napoli 1820, pp. 270 a 279.
77
dei mercati, sembrava ancora costituire l'unica possibilità di valorizzazione
delle terre pugliesi.
Ricominciarono pertanto la richieste insistenti dei pastori abruzzesi
di procedere ad una reintegra generale che completasse le precedenti
parziali e nel 1548 il presidente della regia Camera della Sommaria Alfonso
Guerrero, mandato a prendere cognizione sul posto degli inconvenienti piú
gravi, riconobbe la necessità dell'operazione che fu disposta con privilegio
del 3 ottobre 1548 ed affidata al luogotenente della Sommaria Francesco
Revertera, cui fu affiancato il Guerrero.
Si misurò la superficie delle terre a coltura e si provvide a riportarle
alla primitiva estensione per cui, a conclusione delle operazioni di
misurazione, si poterono riunire ai terreni destinati a pascolo ben 2.060
versure abusivamente dissodate 7 .
L'estensione generale del demanio fiscale della Dogana risultò di
carra 15.495 8, di cui 9.139 destinate a pascolo e 6.356 a coltura: i
documenti relativi a tutta l'operazione furono raccolti in un grosso volume
originale che si conserva presso l'Archivio di Stato di Foggia 9 e di cui
esistono copie autentiche di epoca posteriore nell'Archivio di Stato di
Napoli 10 ed in quello stesso di Foggia.
Dagli atti della reintegra del Revertera risultano le estensioni di tutte
le terre fiscali a pascolo, la rispettiva capacità ricettiva di pecore, i terreni
fiscali destinati a coltura ecc.
L'assetto dato nel 1548 alle terre pugliesi non durò a lungo perché la
forte carestia del 1555 costrinse il luogotenente Berardino di Mendoza, che
sostituiva il viceré cardinal Paceco, a staccare dall'estensione dei pascoli
mille carra di terre da destinare a coltura, le quali presero il nome di masserie
nuove o anche terre salde a coltura per distinguerle dalle masserie vecchie, ossia
dalle terre a coltura già esistenti al tempo di Alfonso d'Aragona.
Oltre alla tradizionale coltivazione dei cereali, del grano in particolar
modo, si accrebbero i vigneti, gli oliveti, i mandorleti ed il fisco ne ricavò
vantaggio poiché dalle terre date a coltura si riscosse un
7 BIANCHINI, op . cit., p. 196. I terreni di Puglia si misuravano a carra,
versure e catene. La prima unità equivaleva a venti versure, ogni versura a venti catene.
Essendo una versura equivalente a quattro moggia, ne consegue che un carro
equivaleva a ottanta moggia ed una catena ad un moggio.
8 Tale la cifra riportata da F. N. DE DOMINICIS, Lo stato politico ed economico
della Dogana di Puglia, Napoli 1781, vol. 1, p. 106. Il BIANCHINI, op. cit., p.
196, ne da un'altra leggermente superiore computando la superficie dell'intero demanio
a pascolo a carra 15.641.
9 ARCHIVIO DI STATO DI FOGGIA (abbrev. ASF). Dogana, Serie I, vol.
14. Il successivo vol. 15 è copia del precedente fatta nel 1762.
10 ASN, Sommaria, Diversi, vol. 103 (I numerazione).
78
fitto annuo variante da trenta a quaranta ducati a carro, secondo la qualità
delle terre, e si percepí in maggior misura l'antico dazio sulle granaglie, noto
col nome di tratta.
I risultati dei primi anni di coltivazione furono lusinghieri, trattandosi
di terre che erano rimaste a lungo incolte, poi a poco a poco esse resero
sempre meno per cui fu indispensabile lasciarle nuovamente a riposo con
doppia conseguenza negativa: non si raggiunse il fine di un aumento
costante dei prodotti agricoli, sí da soddisfare le crescenti domande dei
mercati divenuti incapaci di rispondere ai bisogni essenziali della
popolazione, e si restrinsero le estensioni di pascolo, anch'esse divenute
scarse da quando la professazione volontaria 11 aveva permesso la
moltiplicazione nominale degli animali al fine di concedere maggiori
assegnazioni di erba e ricavarne piú forte importo della fida. L'aumento
dell'introito fiscale non si era verificato inoltre nella misura desiderata, né in
quella almeno sufficiente ai bisogni e nel 1556 il viceré duca d'Alba era
costretto ad imporre l'aumento della metà della fida portandola da otto a
dodici ducati per centinaio di pecore nei pascoli della Dogana, da sei ad
otto in quelli della Doganella d'Abruzzo e, per i bovini e gli equini, da
venticinque a trentasette ducati e mezzo per migliaio di capi.
Fu aumentato anche l'affitto delle terre a coltura, che fu portato a
quaranta o cinquanta ducati a carro, secondo la qualità del terreno: alte si
levarono perciò le proteste dei pastori e dei coloni, ma senza risultato,
mentre si accentuava la scarsità dei raccolti e gli agricoltori pugliesi
sollecitavano l'affitto di nuove terre. Nel 1560 il viceré duca d'Alcalà
autorizzò il doganiere Gian Luigi di Sangro a dare in fitto altre cinquecento
carra di terreno, staccandolo non piú dai pascoli delle locazioni 12, che
erano già stati ridotti dalla prima concessione,
11 Si diceva numerazione la denuncia dei capi di bestiame che i pastori
abruzzesi facevano al Doganiere nella seconda metà d'ottobre, scendendo dai loro
monti diretti alle pianure pugliesi. Il numero dei capi di bestiame veniva
controllato dal Doganiere sia perché era tassativamente proibito aumentarlo
artatamente al fine di ottenere maggiori estensioni di pascolo, sia per prenderne
nota e calcolare la fida, ossia il prezzo dei pascoli fittati, che si riscuoteva a maggio,
quando le greggi ritornavano sui monti per trascorrervi l'estate. Nel 1553, per
accrescere il provento della fida, il Doganiere di Sangro mutò il sistema di
locazione dei pascoli: alla numerazione sostituì la professazione, ossia la dichiarazione
non controllata del numero reale degli animali e lasciò cadere il divieto di Alfonso
d'Aragona, confermato dal figlio Ferrante, di concedere quantità di pascolo in piú
del necessario. Quando le superfici disponibili erano al completo, gli altri armenti
venivano avviati ai pascoli montuosi che si fittavano ai pastori al prezzo di
trentadue ducati per migliaio di pecore. Quest'ultima assegnazione andava sotto il
nome di dispensazione.
12 I pascoli di Puglia furono divisi da Alfonso d'Aragona in quarantatrè
locazioni, ossia parti generalmente molto estese, che a loro volta furono suddivise
79
bensí da alcune difese 13 , fissando il prezzo in sedici ducati al carro e la
concessione per cinque anni, e destinando la quinta parte delle superfici al
pascolo degli animali da lavoro.
Erano condizioni vantaggiose per i coloni pugliesi: pure, se vi fu
concorso all'affitto delle terre nuove che promettevano un periodo di
buon raccolto, vi fu d'altra parte l'abbandono di quelle già staccate dalle
locazioni, sfruttate e di scarso rendimento, cosí che, nonostante le
premure del Doganiere di Sangro non fu possibile fittare tutte le
millecinquecento carra poste a disposizione 14 , sebbene per invogliare i
coloni, il viceré avesse in un primo tempo acconsentito a mutare le terre
boscose delle difese con altre migliori e fosse giunto di poi a concedere la
facoltà di scelta dei terreni senza salvare nemmeno l'intoccabile tavoliere
delle poste 15.
Nel 1562 lo stesso duca d'Alcalà autorizzò la dissodazione di altre
mille carra di pascolo, ma qualche anno dopo l'intensificata coltura dei
cereali produceva la saturazione della domanda ed il conseguente calo dei
prezzi sui mercati pugliesi a tutto danno dei coloni, mentre i pastori
abruzzesi profittavano del momento favorevole per mettere in evidenza i
danni subiti in quanto anche per la lana, i formaggi, i castrati l'abbondanza
del prodotto e la rarefazione del denaro avevano acuito il disagio dei
professori di pecore che nel 1564 non riuscirono a pagare la fida: fu
necessario concedere dilazioni e la situazione si aggravò nel 1570 a causa
di una fortissima mortalità di animali 16.
Per rifarsi almeno in parte della fida ridotta e sempre nel timore di
carestie, il duca d'Alcalà aveva concesso nel 1567 altre cinquecento carra
di pascolo ai coloni pugliesi: va però precisato che le nuove concessioni
subentravano spesso a quelle che scadevano per l'estinguersi dei relativi
contratti.
in porzioni minori dette poste o iacci, ossia ovili, con relativo pascolo proporzionato
all'armento.
13 Le difese destinate a coltura furono Castelpagano, Tressanti, Schifara,
Motta della Regina, Pezza S. Nicola, Alvano, Giardino di Trinità, Pantanella, Barca,
Serrone di Bovino, Scarabottolo, Lampisciano, S. Leuci. Ai proprietari fu
riconosciuto il diritto di prelazione nel fitto fino al mese di febbraio.
14 La superficie di terre a coltura fittate nel 1563 misurava carra 1.251 e 11
versure, secondo quanto afferma il DE DOMINICIS, op. cit., VOl. I, pp. 274275.
15 S'indicava con questo nome il terreno incolto che circondava i pascoli
separandoli dalle terre coltivate: successivamente al XVI secolo fu adottato il termine
quadrone.
16 S. DI STEFANO, La Ragione pastorale, Napoli 1731, vol. I, cap. VII, p.
219. La perdita di animali, secondo quest'Autore, si sarebbe aggirata intorno ai
quattrocentomila capi.
80
Da ogni parte si ricominciò ad invocare provvedimenti ed il viceré
cardinale Granvela affidò ad una commissione formata da Francesco
Revertera, dal presidente della R. Camera della Sommaria Annibale Moles
e dal doganiere Fabrizio di Sangro l'incarico di studiare e proporre i
rimedi opportuni. Il 30 luglio 1574 fu pubblicata finalmente una
prammatica in ventotto capitoli con la quale si richiamavano le
disposizioni emesse anteriormente, si confermavano gli antichi privilegi e
franchigie di gabelle e si stabiliva, per non restringere i pascoli, di
rimandare ai primi dell'anno l'autorizzazione ad arare le terre che avevano
ultimato il periodo di riposo.
L'economia pugliese, come accadeva sempre dopo un
riordinamento dell'amministrazione doganale, diede immediati segni di
ripresa e le assegnazioni di terre a coltura per quanto sensibilmente
ridotte, continuarono. Nel 1577 il viceré de Zuñiga autorizzava a stipulare
contratti per complessive duecentotrenta carra, altre quattrocento erano
destinate a coltivazione nel 1584 dal duca d'Ossuna ma, proprio quando
sembrava che un certo equilibrio si fosse finalmente stabilito, le greggi
furono colpite nel 1586 da una tremenda mortalità, che provocò la perdita
di circa mezzo milione di capi e ridusse il concorso degli armenti ai
pascoli fiscali, mentre qualche anno dopo si faceva nuovamente sentire la
penuria di grano.
Nell'autunno del 1589 il viceré conte di Miranda accoglieva il
suggerimento del presidente della R. Camera della Sommaria Marthos de
Gorostiola ed autorizzava la locazione in affitti quadriennali o
quinquennali di quattrocento carra di terre da coltivarsi immediatamente a
cereali: a questa seguivano altre due assegnazioni, decise anch'esse dal
conte di Miranda: una nel febbraio per complessive seicento carra ed
un'altra nell'ottobre per ben mille carra da utilizzare a coltura, mentre per
la tutela degl'interessi legati alla transumanza si promulgava il 3 gennaio
del 1593 una prammatica con nuove istruzioni e provvedimenti, al fine di
controllare l'operato dei Doganieri cui veniva affiancato annualmente un
presidente della R. Camera della Sommaria.
Ancora una volta la pastorizia si riprese e gli ultimi anni del XVI
secolo ed i primi del XVII segnarono il periodo del maggiore sviluppo e
della netta preminenza nelle terre di Puglia di questo tipo di economia su
quello agricolo che gli rimase nel complesso subordinato e
complementare.
81
2. LA CONSULTA DEL 23 DICEMBRE 1560.
Illustrissimo ed Excellentissimo Signore 17
havemo visto le lettere de sua cattolica Maestà dirette a V. E.18 de la
data de li 13 d'ottobre, sopra li cinquecento carri de terreni de la Dohana
de le pecore de Puglia, che questo anno se sono dati a massari per uso de
campi, quale lettere Vostra Excellentia ne ha date ordine a bocca
pongamo la relatione in scriptis de quanto è passato detto negotio et de
quel che ne occorre, acciò se ne possa dare ratione a sua Maestà, et per
obedire a quanto Vostra Excellentia ne ha comandato havendo bene
advertito, et considerato quanto sua Maestà ha scripto con dette lettere,
ne occorre con la presente relatione non fare altro solo referire la causa
che mosse Vostra Excellentia ad introdurre sopra questo negotio il modo
et ordine che tenne, et le ratione che forno discusse, et appontate, quando
se pigliò la resolutione che Vostra Excellentia è nota perche da questo se
trarrà tutto quello che occorre per resposta a tutti li capi, che sua Maestà
scrive essendo tutti detti capi ben considerati per mirare al servitio de sua
Maestà nel tempo predetto come semo certi che Vostra Excellentia ne
tiene memoria.
1. Et primo Vostra Excellentia se ricorda, il grido universale, et
verdadiero che era in tutto il regno, non solo appresso de li populi poveri,
ma di tutti Illustrissimi magnifici Baroni, et servitori de sua Maestà che
essendo per molti anni soccesse le male ricolte de vettuaglie, in questo
regno, et spetialmente in Puglia, quale son continuate da male in peggio,
havemo fatti tanta carestia, che una gran parte de li subditi et presertim li
poveri, per non posser havere del pane, se sono nutriti de herbe, et
vedendosi che questo non procedeva per defetto de massari, perchè li
seminati son stati grandissimi et ogni anno, et senza sparagnare spesa nè
fatica a la coltura, et alcune volte son ancora concorse le stagiune bone de
le neve, et acque a tempo, se iudicava per li massari, baroni et per tutto
generalmente che secondo la natura la principal causa de dette male
ricolte, era la stracchezza et debiltà de li terreni, che per la continua et
deiuturna coltura se trovano infiacchiti, et che non ci era remedio se non
coltivar terreni novi, et che a la Regia Corte stava a provederlo in Puglia
che è la provintia da la quale depende l'abondantia de questa fedelissima
città de Napoli et de tutto il regno, lamentandosi che in tanti anni che son
patite le carestie, et che hanno dimandato il detto aiuto et remedio, la
Regia Corte non lo havea provisto per haver respetto a la Dohana de le
pecore intanto che apertamente se doleano che detta Regia Corte
demostrava in questo haver piú cura nel governo de le pecore che de
17 ASN, Regia Camera della Sommaria. Diversi, vol. 21 (prima numerazione),
foll. 39 a 44 t.
18 Le lettere erano dirette da Filippo II di Spagna al viceré duca d'Alcalà.
82
la vita de li poveri subditi, et vassalli del regno et che non se dovea
comportare che detto regno de tanta cultura et fertilità, che oltra il basto
suo suole dare victuaglie ad una gran parte de la Italia et fuor d'Italia, et al
presente sia redutto ad tanta necessità, che non habbia pane per lo vitto
suo, et che li poveri vassalli vadano nutrendosi d'herbe per le campagnie,
et morendosi de fame.
2. Havendo Vostra Excellentia inteso tutte le cose predette, et
vedendo la necessità che il regno pativa, le parse cosa necessaria de
intenderla maturamente et bisognando provedere come se convenea, et
cossi le venire il magnifico Dohaniero 19 dele pecore de Puglia, il peso del
quale è mirare il beneficio de la Dohana, et de piú ordinò Vostra
Eccellenza che fossero chiamati li gargari 20 et padroni de pecore, et
alcuni massari de li campi et seminati, et essendo li predetti venuti in
Napoli et ordinatoli che sopra del predetto havessero informato lo
conseglio collaterale tanto de stato quanto de iustitia, et la regia camera
dela summaria con parere de li quali declarò Vostra Eccellenza voler
provedere come se dovea, forno de poi coadunati il detto conseglio
collaterale de stato et de iustitia, et questa regia camera inanzi Vostra
Eccellenza et intese l'una parte et l'altra fo fatta longa discussione de tutto
quello che occorre sopra questo negotio, et inteso il parere de tutti
presertim del detto Dohanero e de li gargari per quel che tocca alla
Dohana de pecore, se conclusero che li herbagi de detta Dohana sono de
due sorte, cioè l'ordinarij antiqui, che sono le locationi principali d'essa
Dohana, capace secondo l'extima de novecentomila pecore in le quale son
le poste antique dele pecore, et in questi Vostra Eccellenza non ha fatto
motivo alcuno per che restano già salde, et intatti ad uso et servitio de
essa Dohana come son stati per lo passato.
3. L'altri herbagi sono dele difese deli baroni, et d'altri particulari
vicini alle dette locationi ordinarie et in diverse parte de Puglia, Terra de
Bari, Capitanata, et Basilicata, quale defese benche son ancora herbagi
extraordinarij soliti de detta Dohana, et la regia corte li destribuisce
ordinariamente al uso de pecore, non di meno son appartati da detta
locatione dele novecentomila pecore, et non de quella perfectione et
importanza che è la detta locatione, et in queste non ci è posta alcuna de
pecore, se considerò ancora che li medesimi gargari benche sempre
affectano et procurano il comodo de dette pecore, non di meno
cognoscendo la verità, non possettero negare, anzi affirmaro che per
remedio de detta necessità urgentissima deli grani bisognava dare ad
coltura una parte deli detti terreni saldi dela Dohana fora
Era investito quell'anno della carica di doganiere Gian Luigi di Sangro.
Si indicavano col nome di gargari, metatesi di gregari, i pastori al servizio di un
padrone di greggi.
19
20
83
però dela locatione ordinaria et che se posseva fare senza danno d'essa
Dohana, et dele pecore inprovedersi d'altri herbagi in la medesima Puglia,
affirmando ancora che questo compleva al bisognio de tutti l'homini de
dohana a causa che per li sei mesi del anno che stanno in Puglia li son
necessarij al meno trentamila carri de grani per loro vitto, quali in tanti
anni che sono state le carestie hanno comprato a carissimi preczi, et se
offersero essi medesimi pigliare la detta cultura de 500 carri con restare
contenti che ale pecore se proveda d'altri herbagi et se cossi Vostra
Eccellenza con il parere de tutto il conseglio collaterale de giustizia, et de
questa regia camera et del Dohanero tra li quali non fo persona alcuna che
discrepasse, et de li gargari de detta Dohana deliberò dare detti 500 carra
de coltura in le predette defese per spazio de cinque anni, ad ratione de
sedeci ducati il carro. De la forma che se sono dati iuxta la capitulatione
expedita.
4. Et benche a tempo dell'illustrissimo conde don Berardino de
Mendoza fo al governo del regno, havendo vista la medesima necessità,
che se pativa de fame volse similmente intendere la causa et il remedio et
dopo fatta la discussione che se ne fe in lo consiglio collaterale con
intendere lo Dohanero, et li gargari et massari, deliberao 21 dando licentia
che se li terreni de detta locatione de 900 mila pecore, che so' li piú
pretiosi et importanti che habbia la Dohana se possessero harare et
seminare dentro il saldo de detta locatione quale non foro mai harate, o
vero erano stati molti anni salde per uso de pecore: dandose a dette
pecore la recompensa delle herbe in li territorij annochiari 22 de li campi
come appare per lo decreto che alhora ne fo fatto, et se ne puo ancora
recordare lo magnifico Regente Paolo, ch'era alhora in regno, et lo sape
tambene l'Illustre Marchese d'Oriolo che era alhora Presidente de questa
regia Camera in la quale rende l'ordine che detto Illustre Don Berardino
che facesse exequire il decreto, quali al presente son tutti due in corte, et a
bocca ne porranno informare sua Maestà, non dimeno Vostra Excellentia
in la deliberatione che ha fatta deli detti 500 carri non ha voluto havere
ratione del detto decreto in quanto apponere mano ala detta locatione
ordinaria dele 900 mila pecore per la gelosia che ha avuta ala detta
Dohana, alla conservatione et augumento della quale sempre se ha mirato,
et adiutandosi con ogni diligentia et vigilanza come meritamente se deve
per li respetti et consideratione che sua Maestà ha quali son ben noti a
vostra Eccellenza et ali officiali de questo regno li quali sape Vostra
Eccellenza quante volte de ciò li hanno fatta relatione, et cosi se piglio per
Vostra Eccellenza il detto temperamento de dare li 500 carri de coltura in
le difese, come fo concluso, che se posseano dare senza discomodo et
danno dela Dohana et de la Corte come è detto, li quali
21 La carestia ed il provvedimento, cui fa riferimento la consulta, risalgono a
cinque anni prima, ossia al 1555.
22 Erano comunemente noti col nome di terreni annecchiarici i campi al secondo
anno di riposo, che producevano un'erba particolarmente adatta agli ovini.
84
non importano piú che il pascolo de 50 mila pecore che facilmente la
corte ce lo può dare del'altre herbe che comprarà in la medesima Puglia
senza interesse de un reale d'essa regia corte si come ordinariamente se
sole fare in caso de [che] li herbagi dele locationi et defese ordinarie non
bastano al pascuo de tutta la Dohana per abondantia de pecore o vero per
seccità et sterelità d'herbe, che alhora se pigliano et comprano tanti de li
herbagi extraordinari quanto bisognano per colocare quella parte de
pecore che non puo capere et nutrirsi in li detti erbagi ordinarij et alhora
medesima se hebbe relatione che dette pecore che sariano state restorate
in detti carri 500 de terreni se possevano accomodare nel modo predetto
in altri herbagi come con effetto si è fatto et da questo Vostra Eccellentia
se ricorda quelche alhora se disse che con effetto se conosce che nacque
provisione ad ogni cosa perche alla necessità dela fame se provedi con
dare comodità de coltura; ala Dohana non se fe mancamento alcuno
poichè come se accomodavano le 50 mila pecore in detti carri 500 se sono
accomodate in altre parte et ala regia corte non si è dato danno alcuno
anzi utile, et la locatione fatta in questo anno ne fa fede perche sono
augumentate pecore sessantamila piu dela locatione del anno passato et
tutte son state ben proviste, et collocate et così piaccia a nostro Signore
Iddio non darli danno per le gran neve che sono.
5. Et venendo alli capi particolari che sua Maestà tocca in dette lettere
quanto ale distantie che hanno d'essere d'ogni banda, dale locationi et poste ali
seminati iuxta l'ordini antiqui dela Dohana respondemo che questo ha loco, et
se osserva inviolabilmente in li herbagi ordinarij dele 900 mila pecore in li quali
sono le poste et in quelli lochi dove comodamente se possa dare detta mesura
de uno miglio et meczo et un miglio perche non in tutti luochi se puo dare
tanta distantia, ma in le difese dele quali son date ad coltura li 500 carri non
accade observare la detta distantia perche come non ce sono poste non ci è
stabilita distantia alcuna.
6. Quanto a quello che sua Maestà dice che ala misura che se fa dela
Puglia se trovò che per uso de campi se lassorno seimila carri de terreni, et che
la regia corte non reintegrò piú che 129 carri senza quello d'Andria, et che pare
essere preiudicio et inconveniente de haverli dati 500 de terreno saldo contra la
forma antiqua per li 129 reintegrati, se risponde che il dare de detti 500 carra si
è fatto per aiuto, et subsidio del regno per causa che tutti li campi de Puglia
non bastivano al bisogno del vitto come de sopra è detto, et non son dati che
abbiano ad essere perpetui deli massari ma per seminarli per certi anni
solamente fra il qual tempo se spera che cesseranno le carestie, et che il regno
se reduca ad fertelità et abondantia, che in tal modo come si è fatto non pare
che sia preiudicio nè inconveniente dela regia corte perche la detta
reintegratione fo fatta principalmente in le locationi ordinarie
85
in le quali consiste il principal pascuo e buon governo, et manutentione
de detta regia Dohana. In le quali locationi ordinarie non si è toccato
come si è detto et la reintegratione loro è stata de molto piú quantità deli
detti 129 carri, ma li detti 500 carri che sono dati ad coltura sono dele
defese extraordinarie solite et non fanno danno alcuno ala detta regia
Dohana, perche restano tutti l'altri extraordinarij soliti et l'altri
extraordinarij insoliti che sono molti in li quali se ponno locare
comodissimamente molto piú summa de pecore che non importano li
detti 500 carri et questo tanto in Puglia, Capitanata, et Terra de Bari,
come in Terra d'Otronto, et Basilicata per li quali lochi se exstende la
Dohana come de sopra è detto.
7. Quanto ala male ricolta, che non se attribuescano a mancamento
de terreni, per causa che siano ancora successe generalmente in le altre
parte de Italia, et in Secilia, et che tampoco non se debbiano attribuire a
stracchecza d'esti terreni per causa che una parte sene semina, et l'altra
reposa, se responde che benche le male ricolte siano state generale et che
procedano d'altro che da mancamento et stracchecza de terreni non per
questo se deve lassare de provedere alla necessità del regno et per questa
causa che procedano per le discossione fatte, non se ha trovato remedio
piú pronto et securo de fare coltivare le dette defese in Puglia, a causa che
quando le ricolte veneno triste, se in quel anno se trovano seminati luochi
saldi, et per molto tempo reposati, benche in l'altri terreni stanchi la
ricolta sia generalmente trista non de meno in li saldi et per lo longo
tempo riposati se produce gran frutto.
8. Quanto al dubio dela pretendentia deli patroni de dette defese de
volere essi l'utile deli sedeci ducati per carro, se dice che già Vostra
Excellentia se ricorda, che quando questo negotio fo votato, non se
mancò de considerare questo punto, et se resolve che poiche questo se
faceva per lo ben pubblico deli subdeti, et la regia corte condescendeva
per lo ben pubblico che li patroni non lo ponno dire, poiche hanno il
preczo che la regia corte si sole pagare 23, et tanto piú che per
capitulatione li medesimi patroni de dette defese so preferiti a tutti l'altri
volendo essi patroni far la coltura de detti 500 carri.
9. Et alo che sua Maestà dice che li detti ducati 16 per carro son
poco preczo ad respetto che de simiglianti terreni se soleno dare un carro
et meczo, et doi de grano, et che saria stato meglio pigliarli in grani, che
in denari, se responde che in questo negotio, non se ha trattato del utile
dela corte, se non solamente de provedere ala neces23
Per i pascoli delle difese il prezzo fissato era di trentadue ducati a migliaio di
pecore.
86
sità del regno, et pare che se habbia fatto asai in haverlo provisto senza
danno dela regia corte, anzi con qualche competente utile, ne saria stato
conveniente d'esigere grano, poiche la corte exige denari per la fida, et
denari paga per li herbagi ali padroni de dette defese, et per non mostrare
de voler fare industria in soccorrere li subditi in detta loro necessità, et
per evitare la extraditione deli patroni dele defese come de sopra è detto.
10. Quanto al beneficio dele tratte che sua Maestà dice essere
interesse per causa che a ... le tratte con la fertilità del regno bisognia che
concorra la carestia d'esso regno se responde che l'estractione de li grani
de Puglia et d'Apruczo è certissima, et secura per essere regno in ogni
tempo che ce siano grani per extrahere perche li bisogni d'extra regno son
ordinarij presertim de Schiavonia, Venetia et altri lochi, et hanno ancora il
comodo de vecinità a provedersi de dette provisioni et mai mancare la
requesta et extractione per extra regno, maxime quando la corte se
contenterà dela tratta ordinaria senza exigere novo imposto et piacesse a
nostro Signore che sua Maestà havesse comodità de tenere il regno tanto
abondante de grani che potesse concedere tratta a soi confederati perche
sene causaria magior autorita de sua Maestà con le potentie de Italia, et
oltre con gran parte del oro che per grani si è trasportato in levante se
trovara in questo regno, il quale abondando de denari saria grande
beneficio universale et servitio de sua Maestà.
11. Quanto alla consideratione che sua Maestà dice restringendo il
terreno de Dohana se veneria ad patire de carne, questo provedersa
quando per la cultura de detti 500 carri venesse ad mancare lo bestiame de
detta Dohana, ma per detta causa non manca il bestiame perche resta in la
medesima Dohana in Puglia et pero cessa la detta dubitatione.
12. Quanto a quello che sua Maestà nota che li detti 500 carri de
terreni non son tanti che se ne possa sperare evidente beneficio del regno
et che contrapese il danno che se ne potria causare ala Dohana et
incomenciandosi un altra volta a disordinare se remediaria difficilmente,
se responde che detti 500 carri per essere terreni intacti et ingrassati cole
pecore de longo tempo a comone iuditio d'experti renderanno al manco
de ogni uno vinti, et per li primi tre anni se potranno tutti coltivare che a
detta ratione se ne sperano diecimila carri de recolta per anno et che è
quantità notabile per beneficio del regno; ma presopponendo che
rendessero solamente d'ogni uno quindici, che è la piú scarsa recolta che
ne potesse soccedere pur serrà 7.500 carri quali agregati alla recolta de
Puglia la faranno essere abondante o al piú scarso sarà mediocre con
benefizio universale del regno et circa il danno, et disordeni de la Dohana
gia avemo detto che ala predetta Dohana non ne seque danno, ne
tampoco ne può nascere disordine perche in
87
mano dela regia corte sta de reintegrarli passato il tempo de li cinco anni
al pascuo dela Dohana.
13. Et alo che sua Maestà dice che li serenissimi re Ferranti primo
et il Re Cattolico d'imortal memoria, mai volseno consentire che si
rompesse il terreno saldo dentro li terreni costituiti, non obstante che li
fosse preposto l'utile dele tratte, se responde che non se è toccato alla
locatione ordinaria come piú volte havemo detto, et mai al tempo de detti
serenissimi ri soccesse al regno tanta carestia, come quella che si è vista, et
vede a questi tempi, ne tampoco in vita dela Maestà cesarea de santa
gloria, eccepto una volta, nel anno 1539, che durao pochi mesi, et dal
detto tempo de re Ferrante primo et de la Maestà Cattolica in qua il regno
se trova tanto piú populato, et augumentato che se puo dire essere
moltiplicato forsi in altro tanto piú de quello che era alhora, quali
serenissimi rei, se havessero visti la necessità urgente, che adesso corre et
la fame che il regno ha patita, et pate senza dubio haveriano provisto al
bisogno come ha fatto Vostra Eccellentia si come se comprende per
l'ordini del detto serenissimo re Ferrante primo al quale essendo suplicato
che donasse herba in Puglia alli bovi per uso de campi, volentiere ce la
donava, dicendo che sua Maestà non percepeva meno utile de li campi che
dela Dohana siccome appare per molte lettere de sua Maestà.
14. Et considerate bene tutte le cose predette la provisione fatta per
Vostra Eccellentia è stata necessaria et conveniente per tutte le sopradette
cause, et rationi e ancora che non ne sequesse tutto quello bene effetto, et
aiuto che il regno ne spera, non di meno per il respetto solo de haver dato
questa sodisfatione et contentamento al regno, et per demostrarli la bona
voluntà che sua Maestà tene de aiutare et remediare suoi subditi in loro
necessità sua Maestà deve tener per bene quel che Vostra Eccellentia ha
fatto, et restarne servito, tanto piú che procede senza danno de sua regia
corte, et in gratia de Vostra Eccellentia de continuo ne raccomandamo, ex
eadem Regia Camera die 23 mensis decembris 1560.
Vestre Eccellentie servitores locumtenens et presidentes Regie
Camere Summarie
Franciscus Reverterius Magne curie locumtenens
Paulus de Magnanes
Antonius de Castillo
Thomas Salernitanus
Didacus de Scobar
Hieronimus de Sigura
Iohannes Paulus Crispus magister actorum
Notarius Franciscus Palumbus pro not.
DORA MUSTO
88
L'epigrafe greca e tre nuove epigrafi
latine di Canosa
Canosa, la città che si gloriava d'essere bilingue, ma che sinora aveva dato solo epigrafi latine, ha ora finalmente la prima epigrafe greca. Il
rinvenimento è avvenuto lo scorso novembre nel recinto di un mausoleo
d'età imperiale, chiamato comunemente Barbarossa, dal nome della tenuta
in cui sorge; esso si trova a poche centinaia di metri dall'abitato, sulla via
di Cerignola: via che scorre sul tracciato della Via Traiana. Il mausoleo,
che, frugato scrupolosamente per molto tempo, non aveva dato alcuna
iscrizione nella parte monumentale, ha rivelato all'improvviso il suo tesoro epigrafico al limite estremo del recinto, nel lato sud-ovest, in un'umile
tomba di modestissime dimensioni, contenente le scarse reliquie d'un cadaverino che, dalla conformazione del coccige, è risultato per quello d'una
bimba. La tombicina era formata da quattro lastre: tre con epigrafi latine e
la quarta, ai piedi del sepolcro, con epigrafe greca.
Le iscrizioni non hanno fra loro rapporto alcuno né per nomi, né
per scrittura, né per tecnica epigrafica: segno evidente che si tratta di al stre prese qua e là, su tombe abbandonate, da una povera famigliola che
cosí aveva voluto o potuto inumare il corpicino della propria creatura.
Le epigrafi latine. - Le iscrizioni latine vengono qui presentate succintamente, poiché non aggiungono molto alla conoscenza di Canosa antica; non si presentano comunque prive di interesse per ciò che concerne
peculiarità linguistiche e l'onomastica, la quale è prevalentemente greca.
Si rendono qui grazie al prof. Giuseppe Morea, direttore del Museo Civico di
Canosa, per la cortesia con cui ha messo a disposizione lapidi e fotografie, e per le
informazioni fornite.
91
Esse sono le seguenti:
1)
BALONIAE. / HELIADI. BALONI / VS. PRISCVS. FRATER. /
BENEMERENTI. FECIT.
Si tratta d'un Balonio Prisco che pone tomba ed epigrafe alla sorella Eliade. Interessanti i nomi. I caratteri son quelli propri della capitale quadrata
epigrafica, con grandezza decrescente da una riga all'altra. Da notare la i di
Balonius soprascritta all'asta della n (fig. 1).
2)
D. M. S. / BITALINI / SORORI / DVLCISSIM / [AE] AGATHO /
[B.] M. F. / [QVAE] VIXIT /[ANNIS] XIIII / [DIEBVS] X.
Ancora un fratello, Agatone, che cura la tomba d'una sorella, Bitaline
(= Vitalina), morta in tenera età, se XIIII, come pare potersi dedurre dagli
spazi, è l'intero numero. Il nome della fanciulla si rivela linguisticamente interessante: è in grafia fonetica, con b che rappresenta la bilabiale spirante; la i
della desinenza fa pensare non a un nome di 3a declinazione, ma a trascrizione fonetica del greco Bιταλ?νη, con ? già pronunciato i 1. A cominciare dal
quarto rigo la pietra, che è ora composta di piú pezzi, si presenta priva dell'angolo inferiore sinistro. L'integrazione delle lettere mancanti è piuttosto
facile, fuorché nell'ultimo rigo. Se X, come pare, è un numero completo e il
lapicida ha preferito l'ablativo all'accusativo, in questo rigo si poteva leggere
diebus; che è da preferire a mensibus per la maggiore corrispondenza fra spazi e
lettere. I caratteri sono vicini a quelli della capitale rustica lapidaria; la superficie, che è quadrata, è stata sfruttata piuttosto irrazionalmente (fig. 2).
3)
[D]. M. / [SATV]RNINO FILI / [QV]I VIXIT ANNIS. II / DIEBVS
XXII. / SATVRNINVS ET / SILVANA PAREN / TES BENEMEREN / TI FECERVNT.
Delle tre epigrafi la presente è l'unica che potrebbe adattarsi alla tombicina, posto che questa ne avesse avuto una propria e nella scritta non si
parlasse d'un maschietto: infatti due poveri coniugi, senza lustro di titoli e tria
nomina, ricordano il figlioletto morto a due anni: Saturnino, avente lo stesso
nome del padre. Il marmo, di forma quadrata, è rotto negli angoli superiori,
soprattutto a sinistra, ma facilissima
La v, fin dall'ultima età repubblicana, aveva una pronuncia affievolita, simile
al w inglese; in Cicerone si legge, per esempio, il bisticcio cauneas (i famosi fichi secchi di Cauno) = cave ne eas (De div. II, 84). In età imperiale si hanno grafie come
Bictorinus. Baleria ecc. citati dal BATTISTI, La crisi del latino, Firenze 1946, p. 110.
La desinenza di Bitalini p u ò essere spiegata come un caso di estensione della nuova
declinazione che la lingua popolare andava applicando ai nomi femminili di prima
declinazione: C h r e s t e-Chrestinis (o Chrestinis, per la tarda pronunzia di η) ecc., per
analogia con Iuno-Iunonis e simili. Cfr. V. PISANI, Grammatica latina stor. e comparat.. Torino 1962, p. 159. Il C.I.L. e la Peregrinatio Aetheriae sono pieni di esempi in
cui l’η è reso con i. Da questi elementi emerge la seriorità della nostra iscrizione.
1
92
è l'integrazione delle poche lettere mancanti (fig. 3). I caratteri hanno l'agilità della capitale rustica. Da notare la mancanza dell'o in fili: forse ancora un
caso di grafia fonetica. E' notevole comunque la tendenza di questi testi,
per il resto impeccabili, a risolvere per via estragrammaticale nomi caratteristici del linguaggio affettivo (Vitalina, filius): si ha l'impressione che ogni
tanto lo scrivente non riesca a tenere a freno l'urgenza della lingua parlata.
La nuova particolarità si potrebbe spiegare con la mediazione dell'osco, a
cui si devono nell'ambito latino nominativi quali Octavis, Ianuaris 2. Non per
nulla filius nel vocativo subisce sempre il trattamento dei nomi propri in ius.
Alla base di questo marmo è disegnato un grazioso motivo floreale:
un vaso a due anse, da cui escono quattro foglie cuoriformi, disposte simmetricamente. Qualche fogliolina similare è disegnata anche nelle altre epigrafi.
L'epigrafe greca. - L'epigrafe greca è di notevole importanza perché si
tratta di testo poetico e perché essa ci porta la prima voce di Canosa bilingue; sinora il bilinguismo era solo postulato sulla fede di autori antichi, non
ultimo il Venosino 3, che aveva buttato giú quell'affermazione forse anche
per sfogare qualche vecchia ruggine campanilistica.
Il marmo, che è perfettamente conservato, ha le dimensioni di cm. 28
x 33 x 2, con lettere di circa 2 cm., elegantemente incise e colorate da una
leggera patina rossa (fig. 4).
Qui si presentano i primi risultati di uno studio che non ha la pretesa
di essere né completo né definitivo.
Testo, traduzione e prime considerazioni. - Le caratteristiche foglie cuoriformi rendono agevole la restituzione degli σt ???ι esametrici del testo, che
è il seguente:
Non sarà inutile darne una traduzione: « Mia patria è Mira, e traggo i
natali dalla Licia. Essendo mercante d'arte, venni a causa (della morte) dell'infelice fratello, Zosimo, che qui posi a ricordo per i mortali; non cosí (infatti) crebbe Nireo nella bella Sime, non i figli di Leda presso la vorticosa
corrente dell'Eurota. Pose Ametisto, fratello di Zosimo ».
Il senso è nell'insieme limpido, anche se è difficile determinare le circostanze particolari alle quali l'epigrafe si riferisce. La situazione che l'ha
ispirata può essere stata la seguente. Ametisto ha saputo a Mira della morte
del fratello (spentosi in giovane età, come si desume dal2
C.I.L. VI, 4625; XII, 5698. Cfr. anche Mercuris, Clodis in PISANI, op. cit.,
p. 160.
3 Sat.
I, 10, 30.
93
EDIZIONI MERIDIONALI
QUADERNI DI « RISORGIMENTO MERIDIONALE » (in 8°, cop.
fig.) - DOMENICO PACE , Vincenzo Lanza e la vita universitaria e ospedaliera a Napoli nel primo Ottocento. Presentazione di Raffaele Chiarolanza. Contributo documentario di Alfredo Zazo. Note, bibliografia, indice dei nomi. Pp. 80, tav. f.t. L. 600. - CRISTANZIANO
SERRICCHIO, Gian Tommaso Giordani e il liberalismo dauno nel 1820.
Note, appendice di documenti ined., indice dei nomi. Pp. 124, tav.
f.t. L. 1.000. 3. G. e E. TEDESCHI , Ascoli Satriono dal 1799 al 1829.
Diario. Avvertenza e notazioni di Mario Simone, Bibliografia e indice dei nomi. Pp. 152, tavv. f.t. L. 1.000.
SERIE « RESISTENZA E LIBERAZIONE » - PASQUALE SCHIANO , La resistenza nel Napoletano. Presentazione di FERRUCCIO PA RR I, con 12 profili, 24 testimonianze, documenti, indice dei nomi. Pp.
232, 10 sanguigne di Cristiano, 24 illustrazioni. L. 2.000.
BIBLIOTECA DEL RISORGIMENTO PUGLIESE, sotto gli auspici
dell'Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano (in 16°). - 1.
ANTONIO LUCARELLI , I moti carbonari della Daunia alla luce di nuovi
documenti. Pp. 38. - 2. FRANCESCO GIORDANI , Francesco Paolo Bozzelli. Pp. 64 con ritr. e autogr. f.t. - 3. ERNESTO PONTIERI , I fatti
lucerini del 1848. Pp. 58 con 4 tavv. f.t. - CARLO GENTILE , Giuseppe
Ricciardi. Pp. 52 con ritr. f.t. Ciascun opuscolo L. 500.
PUGLIA
1 9 6 1 - Celebrazione del Centenario dell'Unità nazionale (in 8°, cop. fig.) - MARIO SIMONE , La Capitanata eretta a provincia
dello Stato italiano, Pres. del prefetto E. Cerza. Largo corredo di noto.
In 4°, pp. 24, ritr. f.t. L. 500.
MISCELLANEA GIURIDICO-ECONOMICA MERIDIONALE - SERIE IL
PENSIERO DEI NOVATORI (in 8' , sopracc. fig.) - ANGELO FRACCACRETA , Scritti meridionali (a cura di Mario Simone). Pref. di Mario
De Luca. Pp. 328, 2 tavv., f.t. sopracc. di Lucia Fraccacreta L. 3.000. SERIE DOGANA E TAVOLIERE DI PUGLIA (in 16° ) - I. ANGELO
CARUSO , La Dohana menae pecundum, o Dogana di Foggia, e il suo Archivio, con nota bibliografica. Pp. 52, n. 4 tavv. f.t. L. 500 - GIUSEPPE
CONIGLIO, La Dogana di Foggia nel sec. XVII Documenti ined. dagli
archivi spagnuoli. Pp. 148, n. 4 tavv. f.t. L. 1.500. - 3. ADDOLORATA
SINISI , I beni dei Gesuiti in Capitanata nei sec. XVII102
XVII e l'origine dei centri abitati di Orta, Ordona. Carapelle. Stoenarella e
Stornara. Documenti inediti e bibliografia. Pp. 132, n. 8 tavv. f.t. L.
1.500.
TEMI e TEMPI. "Biografie del Sud" (in 8°, cop. fig.) . DOMENICO
LAMURA , Terra salda. Pres. di Raffaele Ciasca. Note e schiarimenti.
Pp. 132, cop. e 4 tavv. orig. f.t. di Francesco Galante. L. 700. - 2. M.
BRANDON ALBINI , TOMMASO FIORE , ALFREDO PETRUCCI ,
MICHELE VOCINO , « FRANCE - OBSERVATEUR », La « Legge »
di Vailland, con Due parole dell'editore (Mario Simone). Pp. 80, cop. di
Luigi Pellegrino, dis. nel t. di Petrucci e Vocino. L. 500.
RACCOLTA DI STUDI FOGGIANI a cura del Comune di Foggia.
NUOVA SERIE (in 8° , sopracc. fig.) - CARLO VILLANI , Risorgimento dauno - Cronistoria di Foggia 1848-1870. Nuova ed. riv. e ann. da
Mario Simone e pres. dal Sindaco di Foggia. Pp. 248, 14 tavv. f.t.,
sopracc. e dis. nel t. di Carotenuto. L. 2.000. - MARIO SIMONE (a
cura di), Saverio Altamura, pittore e patriota foggiano nell'autobiografia, nella
critica e nei documenti. Pres. del Sindaco di Foggia. Pref. di Bruno Molajoli. Note editoriali, testimonianze e giudizi, catalogo delle opere,
bibliografia. Pp. 176, 48 tavv. f.t. e dis. nel t. L. 3.000.
« LA FORTUNATA TERRA DI PUGLIA», biblioteca del turista (in
16°, sopracc. fig.) 1. MICHELE VOCINO , Alla scoperta della Dauna
con viaggiatori di ogni tempo. Nota bibliografica. Pp. 144, 16 tavv. f.t. ril.
L. 1.000. PASQUALE SOCCIO - TOMMASO NARDELLA , Stignano,
Pp. 64xIV, 10 tavv. f.t. L. 500. 3. CARUSO , V. D'ALTERIO, G. DE
MATTEIS, Aria ed arie di Alberona, Pp. 190, 10 tavv. f.t. L. 1.000.
BIBLIOTECA DAUNA, collana di monografie regionali sotto gli auspici della Società Dauna di Cultura (in 8°, sopracc. fig.). - 1. SILV E STRO MASTROBUONI , San Leonardo di Siponto. Storia di un antico monastero. Note, append. di doc. ined., bibliogr. Pp. 192. 12 tavv. f.t.,
dis. di Vera Carotenuto. L. 2.000. - 2. FRANCESCO DELLI MUTI ,
Le Isole Tremiti. Bibliogr. Pp. 176, 16 tavv. f.t. L. 1.200. - 3. MARIO
DE SANTIS, La "Civitas" Troiana e la sun Cattedrale. Note, append.
di doc. ined., bibl. Pp. 232, 24 tavv. f.t. L. 3.000.
B I L A N C I A, collana di critica letteraria e artistica (in 8°) - 1. ANTONIO REGINA , Pietro Paolo Parzanese a cento anni dalla morte. Premessa bio-bibliografica, note, discorso commemorativo. Pp. 112.
103
con ritratto f.t. L. 800. - 2. ALFREDO DE DONNO , Solitudine di Pirandello. Premessa bio-bibliografica, indice. dei nomi, nota bibliogr. Pp. 76,
con ritratto f.t. L. 600.
BIBLIOTECA MUSICALE (in 8°, cop. fig.) - VINCENZO TERENZIO,
Storia della Musica secondo i programmi ministeriali in vigore. In appendice: Nozioni di acustica. Pp. 224. L. 1000.
ENCICLOPEDIA (in 8°, fig.) - SALVATORE CALABRESE , Agostino Gervasio e gli studi umanistici napoletani nel primo Ottocento. Pref. di Antonio Altamura. Pp. VIII-128, 3 tavv. f t. L. 1.500.
P 0 E S I A, collana in ricordo di Umberto Fraccacreta (in 8°) JOHN GAWSWORTH, Maggio d'Italia (La Gradogna). Trad. poetica di U. Fraccacreta col
testo inglese a f. Pp. 72, 2 rif. F.t. L. 600.
ANNALI DELLA NUOVA SCUOLA MERIDIONALE (in 8°, cop. fig.) SERIE « ANNUARI » - il " Galilei " del Liceo Scientifico Statale " Galilei "
di Manfredonia. Vol. I (Decennale 1954-1964). Pp. 134, tavv. doppie 6 e dis.
nel. t. - il " Poerio ", dell'Istituto Magistrale Statale " Poerio " di Foggia. Vol. I
(1965-1966). Nel Centenario. Pp. 184, tavv. doppie 6 (fuori com.).
COMMISSIONI A: LAURENZIANA IN NAPOLI (VIA TRIBUNALI, 316), C.C.P.
6/23302.
STUDIO EDITORIALE DAUNO IN FOGGIA CASELLA POSTALE C.C.P. 13/3637.
BOLLETTINI EDITORIALI A RICHIESTA
la Capitanata
Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia
Direttore: dott. Angelo Celuzza, direttore della Biblioteca Provinciale.
Direttore responsabile: m ° Mario Taronna
Direzione tecnica dello Studio Editoriale Dauno - Tip. Laurenziana - Napoli Autorizzazioni del Tribunale di Foggia 6 giugno 1962 e 16 aprile 1963 Registrazione
presso la Cancelleria del Tribunale di Foggia al n. 150
104
la Capitanata
Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia
HANNO COLLABORATO A QUESTO FASCICOLO: Prof.
FRANCO BIANCOFIORE, dell'Univ. degli studi di Bari; dott. DORA
MUSTO, dell'Archivio di Stato di Napoli; prof. ERMINIO PAOLETTA,
del liceo « Garibaldi » di Napoli; prof. ORONZO PARLANGELI,
dell'Univ. degli studi di Bari; prof. ALFREDO PETRUCCI, dir. onor.
del Gabinetto naz. delle stampe in Roma; avv. BERARDINO DI
TIZZANI, presidente dell'Amministrazione provinciale di Foggia; prof.
VINCENZO TERENZIO, docente e bibliotecario del Liceo Musicale «
U. Giordano » di Foggia.
SOMMARIO
L'ANNO DI GIORDANO - VINCENZO TERENZIO:
Realismo meditativo
1
BERARDINO TIZZANI : Il piano di coordinamento e la Capitanata
13
FRANCO BIANCOFIORE : Origini e sviluppo della civiltà
daunia
23
ORONZO PARLANGÉLI : Testimonianze linguistiche della Daunia
preromana
39
ALFREDO PETRUCCI : Il Pellegrino al Gargano
51
DORA MUSTO : Sulla economia di Capitanata nel XVI secolo .
75
APPENDICE - ERMINIO PAOLETTA : L'epigrafe greca e tre
nuove epigrafi latine di Canosa .
.
91
Il bilancio provinciale di previsione
per l’esercizio finanziario 1967 ∗
AMICI CONSIGLIERI,
a meno di un anno dall’insediamento della Giunta ed a poco più di
un semestre dall’approvazione del documento programmatico della
nostra gestione, presentiamo al vostro obiettivo e responsabile giudizio un primo consuntivo politico ed amministrativo di questo periodo
iniziale di attività.
Il documento di bilancio è stato sempre ritenuto — e per la verità è
così — l’atto più importante della vita dell’Ente. Esso, per noi, rappresenta anche l’occasione di un raffronto e di una verifica di tesi, opinioni ed idee, per la maggioranza e per la minoranza, sui temi dello
sviluppo della nostra Provincia, un appuntamento a scadenza fissa,
che si ripete ogni anno ed a cui nessuna Amministrazione può sottrarsi
naturalmente, e, insieme con il bilancio preventivo, si finisce per discutere, ogni anno, anche il consuntivo dell’attività svolta nell’anno
precedente.
Naturalmente, questa scadenza è attesa dall’opposizione per confrontare il programma con le realizzazioni e rilevare i ritardi, le carenze, le contraddizioni dell’intera gestione.
Un controllo, più che legittimo, al quale purtuttavia potremmo sottrarci con facilità e, per il breve tempo trascorso dall’approvazione del
programma, altresì, eccependo che esso era appena sufficiente allo
studio e all’impostazione dei problemi proposti alla nuova Giunta.
Possiamo invece presentarvi un elenco di soluzioni adottate o
prossime ad esserlo, e sollecitare il vostro giudizio non sui nostri propositi, come fu col precedente voto, ma su concrete realizzazioni,
∗
Discorso pronunziato nella seduta 28 luglio del Consiglio provinciale, convocato
in sessione straordinaria, per l’esame del bilancio.
1
fedeli alle direttrici indicate nel programma e che, in qualche caso,
hanno superato gli stessi obiettivi prefissici.
E’ vero, anche, che se i problemi risolti sono solo alcuni di quelli
indicati nel programma, tutte o quasi tutte le altre questioni sono state
messe a fuoco, anche, se ciò facendo, ci siamo imbattuti in problemi
non compresi nel programma, perché a suo tempo erano inattuali od
inesistenti.
* * *
Nel procedere alla esposizione analitica della nostra attività, cominciamo dall’azione indiretta di stimolo verso lo Stato e gli enti.
All’ordine del giorno è la relazione del dott. Bucci, nostro rappresentante in seno all’Acquedotto Pugliese. E’ la prima volta nella
storia del nostro ente che si verifica in questa forma la collaborazione
tra la Provincia ed un suo rappresentante in un altro importante ente
pubblico e noi desideriamo che si pratichi anche con gli altri enti, per
intensifìcare il nostro intervento nella risoluzione del maggior numero
di problemi che interessano le nostre popolazioni. A tal proposito informo che, a settembre il vice presidente De Maio, componente per la
Provincia in seno al Comitato Regionale Pugliese per la programmazione economica, riferirà al Consiglio sull’attività di detto Comitato,
cui proprio nei giorni scorsi, è stato presentato il primo schema regionale di sviluppo economico della Puglia.
Non ci siamo limitati ad occuparci dell’approvvigionamento idrico
per usi potabili, ma abbiamo seguito con attenzione gli sviluppi della
situazione nel settore dell’irrigazione. Risale a poche settimane il finanziamento, da parte della Cassa, delle opere relative al primo distretto e vi assicuro che non è mancato, in proposito, il nostro interessamento.
Mi sembra superfluo ricordare la nostra azione per l’utilizzazione
del metano e per l’industrializzazione; su questi argomenti, come su
quello della irrigazione, ritorneremo per la votazione dei relativi ordini
del giorno.
Per il Comprensorio garganico abbiamo curato la redazione di quel
piano di collegamenti stradali, che ha riscosso favorevole apprezzamento da parte della Cassa, del gruppo del prof. Pitignani, dei
nostri sindaci, della stampa, oltre che, ovviamente, delle popolazioni e
da parte di questo consesso, che lo ha approvato all’unanimità.
Per migliorare i collegamenti stradali, ferroviari e marittimi abbiamo già registrato l’impegno dell’A.N.A.S., concretizzato con l’approvazione dei progetti di allargamento della Foggia-Lucera e della
Foggia-Manfredonia; in proposito ricordo la comunicazione che ebbi a
fare al Consiglio dopo l’incontro della nostra delegazione con il Ministro dei LL.PP.
E’ stata insediata la commissione dei tecnici per la ferrovia garganica, che è al lavoro già da alcuni mesi e dovrebbe presto presentarci lo studio richiesto. Ho interessato anche il nostro comprovinciale
2
avv. Forcella, componente del Consiglio di amministrazione delle
FF.SS., per avere una relazione sulla situazione ferroviaria della nostra
Provincia e spero di poter, quanto prima, investire il Consiglio anche
di questo problema; conoscete l’azione che abbiamo, frattanto ho,
svolto, anche in sede di Comitato regionale per la programmazione
economica e di Unione Province Pugliesi, per far mantenere in esercizio la Foggia-Lucera.
Per il porto di Manfredonia abbiamo tenuto molte riunioni a vario
livello. La Provincia per la prima volta intervenuta con azione meditata e metodica, ha ottenuto sui nuovo piano regolatore del porto,
l’adesione di tutti i più qualificati organismi locali, che si sono sempre
occupati del problema. Né abbiamo trascurato i porti minori, particolarmente i porticcioli turistici.
Nella soluzione dei problemi, cui partecipano anche altri Enti, abbiamo concentrato la nostra azione sull’Aeroporto di Foggia e sulla linea aerea Foggia-Roma, che, spero, siano, ormai, di prossima realizzazione.
Nei settori di competenza istituzionale abbiamo ritenuto utile offrire al vostro esame la relazione sull’assistenza, approfondita e completa, redatta dall’assessore del ramo, l’amico Lattanzio; vi presentiamo,
inoltre, le proposte per l’Astanteria psichiatrica e l’istituto psicomedico-pedagogico, per l’aumento dei sussidi alle madri naturali, del
premio di riconoscimento e di legittimazione; mentre ci accingiamo ad
istituire l’anagrafe degli assistiti.
Sulla finanza segnalo la relazione chiara ed esauriente, dell’assessore Magnocavallo. Vi si rileva che è migliorata sensibilmente la
situazione di cassa. Manteniamo rigorosamente l’impegno di non liquidare spese che risultino non autorizzate; abbiamo ridotto le passività arretrate e lavoriamo per annullarle; abbiamo iniziato le pratiche
di recupero verso i debitori della Provincia. Pratichiamo, come vedete,
una gestione finanziaria ed economica sana, che tende a migliorare il
rapporto fra le spese correnti e quelle in conto capitale ed a ricorrere ai
prestiti principalmente per finanziare spese di investimento.
Per il personale, l’assessore De Santis, con l’aiuto dei sindacati, sta
predisponendo i regolamenti organici, con precedenza di quello
dell’Ospedale di Maternità e delle scuole; è in corso, altresì, uno studio settoriale sul corpo dei cantonieri.
Si è potenziato anche il nostro Gruppo di Studi, della cui operosità
avete tutti preso atto. Verrà distribuito, in questa stessa seduta, un pregevole suo lavoro sul problema degli anziani, che costituisce il primo
contributo raccolto in opuscolo su quell’argomento.
Per Ottenere la disponibilità totale del secondo piano di Palazzo
Dogana, destinato ad accogliere alcuni nostri uffici, si sono approvati,
finanziati ed appaltati i lavori necessari, che sono in corso di esecuzione.
Nel settore dei lavori pubblici, abbiamo dato un forte impulso alle
progettazioni delle opere comprese nel piano generale decennale di sistemazioni stradali. Alcune opere si vanno già eseguendo, altre sono
—
—
3
di appalto imminente; e numerosi progetti sono in corso di redazione,
per cui contiamo di annullare, quanto prima, il divario tra finanziamenti e progettazioni, anche ricorrendo, se necessario, ai liberi professionisti.
Alle strade in costruzione (legge Tupini), abbiamo assicurato, come vi è noto, nuovi contributi statali per circa mezzo miliardo; i progetti relativi, già approvati dal Consiglio, sono di appalto imminente.
Alle manutenzioni ordinarie abbiamo assegnato le quattro squadre di «
pronto intervento », mentre concentriamo gli interventi finanziari sulle
strade già bitumate.
All’ordine del giorno — anche questa è una nostra innovazione —
è un programma di sistemazioni straordinarie per 550 milioni, del quale vi riferirà al momento opportuno l’assessore Protano, da finanziarsi
con mutuo a totale carico del bilancio provinciale.
Si è ottenuto, finalmente, il passaggio all’A.N.A.S. delle cinque
strade provinciali che avrebbero dovuto essere dimesse già da alcuni
anni; e si è chiesto il passaggio all’A.N.A.S. di un altro gruppo di
strade provinciali; contemporaneamente si è proposto la classificazione fra le strade provinciali delle strade di bonifica che, senza la
nostra decisione responsabile, sarebbero state abbandonate con grave
danno della economia provinciale.
Per l’edilizia pubblica posso comunicare che sono state appaltate
in questo semestre, tutte le opere finanziate per il completamento
dell’Orfanotrofio « M. Cristina » e della nuova Caserma dei VV.FF.
Pertanto possiamo assicurare l’agibilità dei nuovi complessi entro il
1968. Per l’Ospedale di Maternità, abbiamo acquistato i suoli edificatori e stiamo cercando di appaltare, d’intesa con il Ministro dei
LL.PP., l’intera opera (e non solo il primo stralcio di 850 milioni). Nel
settore dell’edilizia scolastica, si è deliberata la costruzione della nuova sede dell’istituto « Giannone » con il ricavato della vendita dell’ex
Caserma CC. di Piazza Cavour. All’ordine del giorno è inclusa
l’approvazione del progetto per il completamento dell’istituto Tecnico
Commerciale di Lucera, essendosi già ottenuto il mutuo. Si è impostato, in un solo semestre, la costruzione di due nuovi edifici scolastici. Ci proponiamo, ora che è stata finalmente approvata la nuova
legge per l’edilizia scolastica, di mantenere lo stesso elevato ritmo di
realizzazioni.
Siamo intervenuti anche a favore dell’istituto Industriale di Foggia
per una spesa di L. 35.000.000, già finanziata; i progetti per il riattamento della sede principale, già approvati, sono di appalto imminente;
gli altri 15.000.000 saranno versati come contributo della Provincia
nella spesa per la sopraelevazione. L’esecuzione di tutti questi lavori
consentirà, fra alcuni mesi, all’istituto di riunire tutte le sue classi nella sola sede principale, eliminando le due sedi staccate, i cui locali saranno disponibili per altre esigenze. Sono stati anche finanziati e progettati il laboratorio di costruzione all’ Istituto tecnico per geom. «
Masi » di Foggia e la manutenzione straordinaria della sede del Liceo
Scientifico « Marconi » di Foggia.
E’ stata ripresa la proposta di statizzare il Liceo musicale « Gior-
4
dano » di Foggia, cui andrà anche un contributo straordinario di L.
20.000.000 a copertura di passività arretrate.
Con il fitto di altri locali si sono decongestionati gli uffici del
Provveditorato agli studi, mentre è allo studio l’apprestamento di una
sede stabile e definitiva.
Per la costruzione della nuova Biblioteca è quasi pronto il progetto, mentre abbiamo già ottenuto la promessa verbale di mutuo per il
finanziamento, per cui anche questa nuova opera, fra poco, sarà messa
in cantiere.
Per completare il quadro della pubblica istruzione, informo che è
in corso uno studio dell’assessore Matassa su tutta la situazione scolastica provinciale: da esso il Consiglio Provinciale potrà ricavare i dati
per responsabili decisioni sulla istituzione di nuove scuole o sezioni
staccate.
Nel settore dell’igiene avevamo assunto l’impegno di completare il
riattamento dei locali del Laboratorio di igiene e profilassi. All’ordine
del giorno è inserita la contrazione di un mutuo di L. 60 milioni per tale scopo — (i particolari li potrà illustrare l’assessore Grosso) — e
l’approvazione di un primo progetto di L. 15.000.000 per la costruzione della rimessa, cui faranno seguito al più presto gli altri progetti, in
corso di redazione, per la sistemazione cortilizia (L. 14.000.000), per
la costruzione della casa del custode (L. 7 milioni), per la messa in
opera dell’ascensore (L. 8.000.000) e per la manutenzione straordinaria del piano rialzato (L. 16.000.000).
Sull’istituendo Gabinetto di analisi dei terreni si sono fatti studi
approfonditi e stabiliti utili contatti preliminari. A tal riguardo chiediamo al Consiglio la delega per predisporre il regolamento e la relativa pianta organica. Il Gabinetto funzionerà a vantaggio della nostra
agricoltura, cui abbiamo deciso di dedicare particolare attenzione, anche per compensare il maggior sacrificio che questo fondamentale settore della nostra economia viene chiamato a sostenere con
l’applicazione del le supercontribuzioni.
L’intervento più importante a favore dell’agricoltura è un fondo di
200 milioni per contributi a fondo perduto, in aggiunta a quello statale
disposto dal secondo « Piano verde », a favore particolarmente delle
aziende coltivatrici dirette, per la costruzione di strade interpoderali.
Alla zootecnia abbiamo destinato un contributo di L. 20 milioni per la
lotta alla brucellosi, ad integrazione dello sforzo finanziario statale per
la lotta alla tubercolosi bovina.
Nel settore della pesca abbiamo portato molto avanti l’iniziativa
della costituzione di un laboratorio di biologia, marina e lagunare, con
la disponibilità del suolo su cui sorgerà la sua sede centrale e la promessa di mutuo per la costruzione dell’opera, dopo aver stabiliti gli
opportuni contatti con l’ambiente scientifico universitario e con il
Consiglio Nazionale delle Ricerche.
Un grande acquario è già funzionante alla Fiera di Foggia, della
quale costituisce una nuova attrazione, visitato ed elogiato dal presidente on. Moro. Esso rappresenta una ulteriore presenza del nostro
Ente alla manifestazione fieristica, in un settore di istituto.
5
Altra importante iniziativa è stato l’acquisto, che già ebbi ad annunziarvi, di una draga per la pulizia sistematica delle foci dei laghi di
Varano e di Lesina e del porto canale di Margherita di Savoia. Essa
vuole confermare l’interessamento della Provincia per i due nostri importanti laghi, anche da un punto di vista commerciale e turistico.
Per la caccia si lavora con alcuni Comuni a costituire zone di ripopolamento della selvaggina.
Nel settore turistico, sono lieto di segnalare, innanzitutto, l’attività
della Commissione turistica del Comitato regionale per la programmazione presieduta dal vice presidente De Maio, che ha presentato una pregevole relazione sul turismo nella nostra regione pugliese.
Per quanto riguarda il Gargano abbiamo deciso l’intervento della
Provincia, oltre che per il settore fondamentale ed istituzionale dei
collegamenti stradali, per la realizzazione di un nuovo albergo con ristorante alla Foresta Umbra. La Provincia che, già realizzò trenta anni
fa l’attuale « Rifugio », ormai insufficiente, si inserirà ancora e più
compiutamente, con questa importante opera, nel processo in atto di
sviluppo turistico del comprensorio garganico.
Queste ultime iniziative non erano state comprese nel nostro programma; ciò nonostante esse sono già a buon punto. Con ciò ulteriormente dimostrato che la nostra programmazione non è un fatto statico,
ma risponde ad una visione dinamica della realtà, che, nella nostra epoca, muta e si trasforma spesso con imprevedibile rapidità. Con Io
stesso spirito vanno anche valutate le altre iniziative, pure esse svolte
al di fuori del programma, della costruzione di un magazzino di calata
al porto di Manfredonia e della nuova sede dell’Archivio di Stato.
Ci eravamo impegnati, infine, e si trattava di un’ impegno di fondo della nostra gestione alla redazione di un piano pluriennale, in cui
fossero tradotte in termini economici e finanziari le direttrici della nostra programmazione provinciale, ampliata fino a comprendere quella
economica di tutto il territorio provinciale.
Per l’assolvimento di questo impegno abbiamo inserito all’ordine
del giorno — e prevista in bilancio una prima somma necessaria per la
relativa spesa — l’affidamento dell’incarico a tecnici qualifìcati ed esperti, che si avvarranno della collaborazione del nostro Gruppo di
studi.
Vi chiedo scusa se, necessariamente, sono stato monotono con la
elencazione delle iniziative, alle quali ho dovuto fare appena un breve
accenno per non essere ancor più prolisso.
Con il linguaggio semplice dei fatti e delle cifre, vi ho presentato il
bilancio della verità e della realtà. Vi sono indicati mutui, anche questi
veri e reali, che sono un peso sopportabile. Per la maggior parte di essi
c’è l’adesione di massima degli enti erogatori.
Alcune opere da realizzare sono legate al bilancio 1967 e le delibere relative, già al vostro esame, ci auguriamo meritino il voto unanime di approvazione.
Altre spese non legate al bilancio (il bilancio è molto, ma non rac—
—
6
chiude tutta la vasta attività dell’Ente Provincia ci auguriamo possano
essere finanziate e realizzate; ed il nostro impegno è ben preciso al riguardo.
La nostra azione ha investito tutti i settori della vita economica
della provincia in una visione coordinata dei suoi interessi. Ciò è stato
possibile perché non abbiamo avuto di mira il soddisfacimento di esigenze particolaristiche, ma abbiamo anche valutato l’incidenza indiretta del nostro intervento, in termini di aggiuntività, nel contesto dello
sviluppo economico generale.
Alcuni esempi ne possono costituire la testimonianza più valida.
L’iniziativa per la costruzione dell’albergo nella Foresta Umbra è indirettamente legata all’attività svolta nel settore stradale, che mentre
persegue l’obiettivo immediato del miglioramento dei collegamenti, si
inserisce, nell’attività generale di promozione dello sviluppo turistico
in direzione della Foresta Umbra e, quindi, di tutto il Ga rgano.
L’acquisto della draga persegue l’obiettivo immediato di ottenere la
pulizia sistematica delle foci dei laghi e del porto canale e, perciò, andrà a diretto vantaggio dei pescatori e della produzione ittica; ma è evidente che il funzionamento della draga permetterà di rendere più ospitale per i turisti, anche da un punto di vista igienico, le coste dei laghi ed aprirà prospettive al turismo nautico. Gli interventi straordinari
in direzione delle strade per la spesa di L. 550 milioni perseguono lo
scopo diretto di migliorare lo stato delle strade provinciali, ma indicano, altresì, una precisa volontà politica della Giunta di venire incontro,
particolarmente, alle esigenze del subappennino. La sua situazione
stradale è davvero critica, e costituisce certamente una delle cause della depressione economica di quelle zone.
La Giunta, cosciente di tale carenza, è fortemente impegnata a venire incontro, in maggior misura del passato, alle esigenze di quella
zona, anche per svolgere una funzione ridistributiva e diminuire gli
squilibri territoriali e sociali esistenti nell’ambito della stessa provincia.
L’intervento per le strade vicinali e interpoderali, che conferma
l’attenzione del nostro Ente per i coltivatori diretti, finirà per migliorare e ampliare i collegamenti stradali a vantaggio dell’agricoltura
e, quindi, dell’intera economia provinciale. E questo vale anche per il
contributo relativo alla brucellosi, al gabinetto di analisi e alle altre iniziative.
Dobbiamo proseguire questa azione, con impegno maggiore, servendoci anche (e sarà l’occasione per una rimeditazione sulla loro
funzionalità) dei Comitati e Consorzi: Caccia, Antitubercolare, Antimalarico, Antitracomatoso ed Antirabbico. Rinnovandoli nelle loro
strutture, li faremo operare meglio in direzione dei compiti d’istituto e
di quelli nuovi che vorremo loro assegnare, per farli servire meglio le
popolazioni di Capitanata. Pertanto, auspichiamo riforme che, nella
conclamata autonomia degli enti locali, ammodernino la legge comunale e provinciale e quella sulla finanza locale. La finanza locale è
lo specchio in cui si riflette la situazione economica della zona in cui
7
operano gli enti locali. Il suo miglioramento determinerà automaticamente quello della nostra finanza pubblica.
Auspichiamo. inoltre, che, nel quadro delle istituende regioni,
venga dato maggiore spazio alla nostra azione. La riforma dello Stato
passa attraverso gli enti locali, che occorre non solo salvare dal processo di logoramento, ma porre in grado di funzionare come centri
primari della vita democratica e come poli della comunità regionale e
di quella statale.
Prima di chiudere questa premessa, indispensabile e doverosa, alla
discussione del bilancio, desidero esprimere il mio vivo, affettuoso e
fraterno « grazie » a tutti: agli amici Assessori collaboratori più diretti e
più vicini; agli amici Consiglieri della maggioranza per i preziosi aiuti, suggerimenti e sostegni; a quelli delle minoranze, per l’utile e necessaria funzione di critica; ai funzionari ed impiegati. Né posso astenermi dal sottolineare la lealtà dei rapporti tra Socialisti e Democristiani, non pregiudicata da qualche nube, subito diradatasi, sulla collaudata vitalità del Centro-Sinistra.
Debbo pure rilevare, con compiacimento, che si sono intensificati i
contatti tra la Giunta e il Consiglio Provinciale, anche per le riunioni
più frequenti di quest’ultimo e per l’assoluto rispetto che la Giunta si è
imposta delle prerogative del Consiglio stesso, non adottando delibere
di urgenza se non nei particolari casi veramente indispensabili. Gli
amici Consiglieri vorranno darci atto, inoltre, di aver rispettato
l’impegno spontaneamente assunto di non assumere nuovi impiegati e
di non operare dispersioni o frantumazioni negli interventi.
Non sollecitiamo plausi, convinti come siamo di aver fatto il nostro dovere. Pertanto, qualunque sia il vostro giudizio, e nel pieno rispetto delle critiche costruttive, che ci potranno venire, continueremo
a lavorare, senza strombazzamenti propagandistici, con lo stesso impegno. la stessa dedizione, lo stesso amore di prima, e con la speranza
di prospettarvi, al prossimo incontro, una nuova serie di realizzazioni.
Siamo convinti di trovarci al bivio del nostro avvenire; è un mo mento storico che stiamo vivendo; la nostra crescita si decide oggi o
mai più.
Con l’irrigazione e l’aumento del reddito agricolo; con l’industrializzazione, e in specie con gli insediamenti ANIC di Manfredonia,
SNIA di Ascoli ed ENI di Biccari; con lo sviluppo del turismo sul
Gargano; sono questi gli eventi, i cui effetti si integreranno ed armonizzeranno reciprocamente in un quadro generale di sviluppo economico della nostra Provincia.
Certi dell’avvenire migliore della Capitanata, convinti che valida e
necessaria è la funzione e l’azione del nostro Ente, continueremo a
spendere ogni energia per accelerare il processo di crescita, per dare ai
nostri conterranei, e ai loro figli, l’occasione di lavoro e di vita nella
loro stessa provincia.
8
AMICI CONSIGLIERI,
per un’opera di così vaste proporzioni, di così ampio contenuto
umano, cristiano e sociale, irta di difficoltà, imposte dal tempo e dalle
leggi (alcune delle quali superate ed inadeguate), anche in futuro —
questo è l’auspicio sincero e profondo del nostro cuore — ci vengano
il vostro intelligente consiglio, la vostra appassionata collaborazione.
Ognuno, per la parte che rappresenta, nella responsabilità delle sue
convinzioni e dei suoi impegni politici, senza tradire le attese delle
popolazioni. dia il suo contributo alla costruzione di una nuova Capitanata.
BERARDINO TIZZANI
Dopo il discorso del Presidente ha preso la parola l’assessore alle Finanze, Primiano Magnocavallo. Egli, parafrasando il Vangelo secondo Matteo, asserisce che il bilancio in discussione è fondato sulla roccia; che, fedele al programma di massima tracciato a suo tempo nei suoi i Appunti, considerazioni ed indirizzi per un’azione amministrativa della Giunta Provinciale », risulta dall’esame realistico delle condizioni della finanza locale e risponde alle attese delle popolazioni.
Considerate le difficoltà in cui versano tutti gli enti locali, per cause proprie, ma soprattutto del
Governo — che non ancora ammoderna la Legge comunale e provinciale, nonostante gli aumentati
compiti d’istituto, senza corrispondente incremento di fondi —, il signor Magnocavallo ha rilevato
che quelle difficoltà sono più sentite dalle Provincie dell’Italia Meridionale. Vi è tuttavia, uno spiraglio di speranze, attraverso il Piano quinquennale, per il cosidetto « principio della tecnica comparativa », che riconosce l’opportunità di dimensionare gli interventi del Governo seconda delle condizioni finanziarie dei singoli enti locali.
Passando ad illustrare dettagliatamente le entrate, ripartite in titoli, categorie, capitoli ed articoli, e le uscite, ripartite in titoli, sezioni, rubriche, capitoli ed articoli, l’Assessore caratterizza il do-
cumento come un « bilancio -ponte, portatore di un programma-ponte, nella sfera di una
più vaste programmazione provinciale e regionale ».
I dati più salienti, sono, per quanto riguarda l’entrata, l’applicazione delle supercontribuzioni
sulla sovrimposta fondiaria sui terreni nella misura del 60 % per i comuni montani e del 120 % per
gli altri, e, per quanto riguarda la spesa, gli interventi in campo sociale, che sono al primo posto, con
netto distacco sulle altre voci.
9
Questi dati generali :
ENTRATA
Avanzo di amministrazione
L.
12.871.940
.
»
1.266.331.371
Titolo II - Entrate per compartecipazioni a tributi erariali .
»
2.576.819.214
Titolo III - Entrate extratributarie . .
»
1.134.072.593
Titolo IV - Entrate provenienti da alienazione ed ammortamento
di beni patrimoniali, da trasferimenti di capitali e da
rimborso di crediti .
.
.
.
»
1.132.603.476
Titolo V - Entrate provenienti dell’assunzione di prestiti .
7.833.632.300
Titolo I - Entrate tributarie.
T itolo VI - Contabilità speciali .
.
.
.
.
»
.
.
.
»
721.894.665
L. 14.678.225.559
.
.
.
L.
5.607.757.104
.
.
.
»
4.800.132.300
TitoloIII - Spese per rimborso di prestiti .
.
.
»
3.548.441.490
TitoloIV - Contabilità speciali
.
.
»
721.894.665
L. 14.678.225.559
SPESA
TitoloI -
Spese correnti .
TitoloII - Spese in conto capitale
.
Esposto il bilancio, e rinviate la discussione al giorno seguente, sono intervenuti al
dibattito i consiglieri, Vania, Magno, Galasso, Marinelli, Rocca, Grosso, De Tullio, Perfetto, Protano, Ricciardelli, De Maio, Pistillo, il relatore Magnocavallo e, alla fine il
presidente Tizzani, che ha ribadito l’impegno della Giunte di centro-sinistra « Non si
può avere sviluppo della nostra terra — egli ha detto — se dovessero rimanere delle zone in ombra... Rifiutiamo la facile, comode tentazione, di elencare o mettere assieme
tutti i problemi che ci assillano. La rotta che dobbiamo seguire è ben precisa e la mete
da raggiungere è chiaramente determinata, per merito dei nostri principi e
dell’approfondimento continuo che ne facciamo, ed è l’espansione e la crescita, in una
visione unitaria ed armonica, della capitanata, non solo sul piano economico, ma anche
su quello civile e spirituale.
Le votazioni hanno dato il seguente risultato:
Consiglieri presenti in aula 27
Voti favorevoli
16
Voti contrari
11
In base alle avvenute votazioni, il Presidente ha dichiarato approvato il bilancio di
Previsione per l’esercizio finanziario 1967.
10
Per lo sviluppo economico
della regione pugliese
Introduzione al dibattito
innanzi il Consiglio Provinciale ∗
Signori Consiglieri, l’analisi che tenterò del « I schema regionale
di sviluppo » muove da molteplici esigenze:
— dare cognizione del suo contenuto con opportuna sinteticità;
— spiegare i termini del rapporto tra le linee conclusive del documento e l’attività del Comitato Regionale della Programmazione;
— accentrare la visione provinciale, non tanto attraverso una disaggregazione di elementi, ma estrapolando la componente territoriale,
per segnarne la sua funzione nell’ambito regionale, meridionale e nazionale;
— individuare i termini di approfondimento della problematica
provinciale anche in vista dello sforzo autonomo di elaborazione, che
ci proponiamo di affrontare con la programmazione provinciale.
Mi auguro di poter superare le difficoltà del compito spettantemi.
Criteri di compilazione dello « Schema Regionale di sviluppo »
E’ opportuno esporre preliminarmente i criteri che hanno informato il lavoro di compilazione dello « schema » innanzitutto per notiziare il Consiglio Provinciale sull’attività del C.R.P.E.P., ma
soprattutto per spiegare alcune diversità di impostazione e di
trattazione che emergono dallo studio dei risultati dell’indagine
settoriale, compiuta dalle varie commissioni, e le conclusioni globali
alle quali giunge lo «schema».
Il Comitato impostò il suo lavoro con la costituzione delle seguenti
Commissioni di studio:
1a Commissione. — Infrastrutture, attrezzature sociali, assetto territoriale (presieduta dall’avv. Vincenzo Palma, presidente
dell’Amministrazione prov.le di Brindisi);
∗
Nelle pagine seguenti è registrato il dibattito consiliare.
11
2a Commissione. — Strutture sociali, popolazione, lavoro, istruzione (presieduta dal prof. dott. Matteo Fantasia, presidente dell’Amministrazione prov.le di Bari);
3a Commissione. — Agricoltura (presieduta dal prof. Egidio Grasso, presidente dell’Amministrazione prov.le di Lecce);
4a Commissione. — Industria, Artigianato (presieduta dall’avv.
Nicola Lazzaro, presidente dell’Amministrazione prov.le di Taranto);
5a Commissione. — Turismo, Commercio (presieduta dall’ avv.
Gabriele Consiglio, presidente dell’Amministrazione prov.le di Foggia
e successivamente dal vice presidente Bios De Maio);
6a Commissione. — Istruzione, Finanza pubblica, Credito (presieduta dal dott. Salvatore Formica, esperto del Comitato).
Le predette commissioni — i cui presidenti, insieme con gli altri
esperti del Comitato, costituiscono la Commissione di coordinamento
—, iniziarono i loro studi settoriali, pervenendo a delle conclusioni
che, singolarmente, sottoposero all’esame del Comitato che le vagliò
sempre in maniera settoriale.
A lavoro inoltrato da parte delle Commissioni di studio, la Commissione di coordinamento, su richiesta del Ministro del Bilancio —
per l’esercizio della facoltà concessagli dall’art. 2 della legge 10-6-65,
n. 613 —, propose il conferimento di incarico di studio ad alcuni enti
ed istituti e lo stesso Ministro, a sua volta, affidò altri incarichi per cui
la Svimez, l’Ente Regionale di Sviluppo, l’Università di Bari e la Tekne furono appunto incaricati di eseguire studi e ricerche sulla situazione regionale (tendenze della sua evoluzione, possibilità di sfruttamento delle risorse, ecc.).
I predetti studi avrebbero dovuto costituire la verifica scientifica
dell’attività delle varie Commissioni al fine di approfondire le proprie
ricerche e mettere in condizione il Comitato di provvedere alle opportune saldature fra settore e settore e successivamente giungere ad una
ipotesi globale di sviluppo economico regionale « ai fini
dell’articolazione territoriale del problema economico nazionale » con
le conseguenti scelte utili per la prospettazione dei « potenziali obiettivi e mezzi di intervento nella regione ».
Sennonché, i termini di scadenza per la presentazione del « Piano
» colsero il Comitato in una fase intermedia della sua attività: le
Commis sioni avevano ultimato, con gli elementi a loro disposizione, il
lavoro settoriale che il Comitato aveva vagliato, ma occorreva il lavoro di coordinamento attraverso le fasi suddescritte. Fu giocoforza affidare il lavoro di sintesi al Presidente il quale, con l’aiuto di un esperto
coordinatore, provvide a disporre la compilazione dello « schema »,
avvalendosi di elementi di indagine alcuni dei quali neppure vagliati
dalle Commis sioni, talvolta tenendoli a base del proprio lavoro anche
in alternativa si è verificato con lo studio Tekne sullo sviluppo della
popolazione e a quelli sui quali si erano basate le Commissioni stesse,
come in particolare si è verificato con lo studio Tekne sullo sviluppo
della popolazione e dell’occupazione, nettamente preferito
all’indagine operata dalla 2a Commissione.
D’altra parte il « coordinatore » non poteva trasmodare i suoi limiti
12
obiettivi per cui la lettura dello « schema » offre al lettore la possibilità di formulare un giudizio sulle limitazioni organiche del Comitato e sulla qualità dei risultati del suo lavoro. Per cui, nonostante
l’ampia quantità del lavoro svolto che ha portato a tracciare un panorama abbastanza esauriente ed aggiornato della situazione pugliese e dei
suoi problemi, si rileva la mancanza di una chiara visione ed un chiaro
indirizzo tendente ad individuare nettamente le caratteristiche precipue
dello sviluppo regionale futuro e la sua funzione nel quadro dello sviluppo meridionale e nel più generale problema del riequilibrio strutturale del nostro paese, funzione che alla Puglia compete in maniera
essenziale.
Da ciò deriva la inesistenza, nel documento, di precise scelte e, di
conseguenza, la indicazione di un meccanismo di priorità degli interventi che mettesse in moto ed aumentasse un ben preciso processo di
sviluppo.
Naturalmente quanto è stato detto non può essere ritenuto come la
manifestazione del gusto della critica, che potrebbe sembrare eccessiva quanto inopportuna; perché non si è mancato di rilevare sia la notevole e meritoria mole di lavoro svolto dal C.R.P.E.P. sia i risultati
positivi conseguiti, ma la individuazione dei limiti obiettivi dello «
schema » deve offrirci la possibilità di tentare di dare, in questa sede,
indicazioni più precise che, partendo dai predetti risultati, costituiscono un ulteriore passo in avanti rispetto ai lavori del C.R.P.E.P.
Introduzione allo « schema »
La introduzione allo « schema » dedica la prima parte essenzialmente ad indicare i limiti di indagine della realtà economica e sociale
della Regione.
La carenza di strumenti scientifici di indagine e di studio ha reso
difficoltoso il lavoro di acquisizione di dati. Ma è forse opportuno avvertire che, anche quando riusciremo a creare strumenti efficienti di
indagine, non potremo ritenere la realtà acquisita come elemento permanente dello studio della prospettiva regionale in quanto le sue tendenze di evoluzione o di involuzione si scontrano con profonde esigenze di mutamento o addirittura di inversione. E ciò per due elementi
fondamentali, l’uno di carattere permanente e l’altro dinamico.
E’ permanente il dato che lo sviluppo economico previsto dalla
programmazione nazionale tende a dare una nuova realtà con nuove
tendenze; è dinamico l’ineluttabile processo di rottura a catena che
creando nuovi equilibri individua nuove realtà. Di qui la necessità di
tenere conto dell’aspetto scorrevole del piano che per le regioni meridionali costituisce l’essenza vera di ogni indagine ed elaborazione.
Dopo questa premessa « lo schema » passa a configurare la Puglia
nella sua posizione geografica, nella sua tradizione storica e nella sua
essenza economica che fanno della regione non una realtà a se stante,
avulsa dal contesto geo-economico che la circonda. Quindi la necessità di tenere sempre presente la Puglia al centro delle relazioni « fra
paesi industrializzati dell’Europa e dell’Occidente e nuovi paesi del
bacino del Mediterranneo, dell’Africa e del Medio e vicino Oriente in
via di instabile e spesso burrascoso sviluppo ».
13
Perciò ogni ipotesi di sviluppo della regione pugliese deve vedere:
— le interrelazioni tra la Puglia e le altre regioni, specialmente attigue, ma anche più lontane;
— la presenza ed operatività, su tutto il territorio meridionale; di
qui la visione obbligata, ma nel tempo stesso concreta,
dell’inserimento nelle disposizioni legislative che regolano, spesso
dettagliatamente, la politica degli interventi sia pubblici che privati,
con riferimento particolare al « piano di coordinamento degli interventi pubblici nel Mezzogiorno »;
— la posizione della Puglia nel Mediterraneo e quindi la necessità
di tenere in conto la « componente estera » dello sviluppo economico
e sociale della regione.
Obiettivi dello sviluppo regionale
Lo « schema » parte da un’analisi secondo la quale « negli ultimi
dieci anni la Puglia ha avviato un processo di sviluppo, a volte spontaneo, a volte determinato, che le ha permesso di risalire, sia pure lentamente, le posizioni di arretratezza che l’avevano contraddistinta nel
periodo precedente e la situazione di estremo disagio in cui era venuta
a trovarsi nell’immediato dopoguerra ». Registra negli ultimi anni «
un costante incremento del reddito in misura all’incirca pari al 10% ».
Afferma che « un quarto del reddito regionale proviene dal settore agricolo », mentre leggermente superiore è il reddito industriale. Il settore terziario manterrebbe, nella composizione del reddito, le sue posizioni. Considera di fissare, come obiettivo fondamentale della regione, l’evoluzione del reddito netto interno al costo dei fattori prodotto
nel settore privato e della Pubblica Amministrazione in Puglia, negli
anni fino al 1970, ad un tasso convenzionale medio dell’11%, più che
doppio rispetto al 5% previsto dal programma quinquennale come
media nazionale generale.
Il reddito netto complessivo dovrebbe dunque passare da
1.376.399 milioni di lire del 1965 a 2.319.313 milioni nel 1970, con
una differenza in più di circa 932.913 milioni, pari ad una media annua di circa 186.585 milioni. Al termine del quinquennio considerato,
il reddito medio pro-capite dei pugliesi dovrebbe essere praticamente
pari a quello medio dell’Italia; fatto nuovo per una regione meridionale.
All’incremento globale dell’11% si giunge attraverso la composizione dei vari trends, di sviluppo settoriale, che sono stati anch’essi
considerati sulla base degli andamenti degli ultimi dieci anni, ma specialmente dell’ultimo triennio.
Sono stati dunque ipotizzati i seguenti incrementi percentuali medi
annui di reddito, nei settori produttivi:
Agricoltura
+ 3%
Pesca
+ 3%
Industria
+ 17 %
Commercio
+ 10 %
14
Trasporti, comunicazioni, credito, servizi e assicurazioni + 12%
Fabbricati
+
4%
Pubblica Amm.ne
+ 13%
Nella composizione percentuale del reddito complessivo regionale,
il peso del settore agricolo dovrebbe gradualmente tendere a diminuire, passando dal 25,5% del 1965 al 17,29% del 1970. Dovrebbe invece
percentualmente accrescersi il peso del settore industriale, passando
dal 33,5% del 1965 al 39,95% del 1970.
Sempre oscillante intorno al 23,5% dovrebbe essere il reddito del
settore terziario, mentre quello della pubblica amministrazione dovrebbe registrare un lievissimo incremento, passando dal 17,9% al
19,32%.
Lo « schema » indica alcuni obiettivi di sviluppo « trascinanti »e
come tali prioritari rispetto a qualsiasi altro, che si ritengono essenziali
e da realizzare contestualmente in quanto « il venir meno di qualcuno
di essi potrebbe mettere seriamente in crisi ogni coerente prospettiva
di progresso della regione pugliese ». Essi sono:
1) La creazione dell’Istituto Pugliese di Ricerche Economiche e
Sociali.
2) La soluzione del problema dell’approvvigionamento idrico
3) Il completo sfruttamento in loco di tutta le risorse energetiche
presenti nella regione e particolarmente del metano del Subappennino
Dauno.
4) La formazione nella regione di una massa più ingente di valore
aggiuntivo riveniente dalla trasformazione dei prodotti agricoli e da
una migliore strutturazione del sistema distributivo.
5) La pratica attuazione, con tutti gli aggiustamenti resi necessari
dal lento e passivo trascorrere del tempo, del progetto elaborato dalla
Comunità Europea, per la realizzazione di un polo industriale di sviluppo nell’ambito delle Provincie di Bari, Brindisi e Taranto, che operi particolarmente nel settore meccanico.
6) Il Turismo che è considerato « un fattore decisivo per il decollo
della Economia Regionale ».
7) Protosincrotone di Nardò.
8) Una politica di assetto territoriale che tenda al riequilibrio tra le
varie zone della regione, e particolarmente tra zone interne e zone marittime.
9) L’individuazione di un ruolo essenziale di tramite, che la Puglia
deve svolgere, tra l’Italia e Mercato Comune da un lato e paesi del
Mediterraneo e del Levante dall’altro.
Anche la posizione geografica della regione è una « risorsa » che
va saggiamente ed accortamente sfruttata, in tutte le sue implicazioni.
A questo punto si inserisce un’altra considerazione che si considera fondamentale, per una corretta impostazione dei programmi di sviluppo economico della regione: il quinquennio 1966-70 non è un periodo sufficiente a consentire corrette previsioni di sviluppo e soprattutto, a garantire che i programmi vengano effettivamente avviati a rapida ed efficace soluzione.
15
Si ritiene che ci sia addirittura da valutare l’ipotesi che la messa in
moto di quel vasto e complesso meccanismo che è la programmazione, insieme alla coincidenza di certe prospettive specifiche, nel settore degli investimenti industriali più probabile, possa al limite rappresentare un freno all’espansione della occupazione.
Ritenuto che lo scorcio dei quinquennio già trascorso, a cominciare dal 1° gennaio 1966, non ha rappresentato per la regione pugliese
un periodo molto favorevole, si guarda all’altra parte del quinquennio
—lungo l’arco del quale si collocheranno alcune iniziative che sono
state già avviate a realizzazione ed altre di cui è stato annunciato
l’imminente avvio e si considerano tali programmi di largo impegno,
specialmente finanziari, ma di redditività differita, specialmente dal
punto di vista dell’occupazione — si afferma che vi è il rischio di
giungere al 1970 con molti o addirittura con tutti i programmi avviati
—, ma con un incremento di mano d’opera assolutamente insufficiente, nella migliore delle ipotesi, poco qualificato, poiché si tratterà nella
maggior parte dei casi di maestranze addette alla costruzione degli
impianti.
Nel frattempo, l’esodo agricolo continuerà, sia pure in misura più
ridotta — giustificata dai massicci interventi che si prevedono nel settore e dalla poca elasticità di domanda degli altri settori, impegnati in
questa fase abbastanza difficile — e non concorrerà, quindi, ad attenuare il problema.
La Puglia si trova dunque dinanzi ad un grosso dilemma: come avviare, attraverso questi programmi, il proprio definitivo decollo, senza
creare squilibri, sia pure contingenti, nella struttura stessa dell’occupazione?
In sostanza le considerazioni che precedono servono ad indicare,
per una realizzazione piena degli obbiettivi segnatamente ai fini occupazionali, un’arco di tempo più lungo (il quindicennio 1966-1980) o
addirittura del ventennio 1966-1985 per quanto riguarda l’Agricoltura,
affermando che solo al termine di tale arco, vale a dire almeno nel
1980, la regione non avrà tensioni nè problemi di equilibrio avendoli
risolti tutti gradualmente, nel quadro d’una ordinata programmazione
degli interventi settoriali e territoriali.
E’ un discorso, naturalmente, che non può avere né fini nullisti né
dilatori, ma che individua una ipotesi possibile che, se non avesse alternative, non solo porrebbe in termini abbastanza gravi il problema
dell’aggancio delle previsioni pugliesi al programma nazionale, ma ci
farebbe trarre la conclusione che l’occupazione riceverebbe un duro
colpo.
E le alternative si pongono considerandole distinte sul piano tecnico, ma completamentari sul piano politico e quindi scelte insieme.
Premesso che il problema riguarda soprattutto il settore industriale
— in quanto per l’Agricoltura l’esodo appare declinante, mentre per il
terziario il discorso è tutto da cominciare, ed è probabile che cominci
sotto buoni auspici, anche sul piano dell’occupazione —, si ritiene
che:
a) gli investimenti previsti nei settori siderurgico, chimico ed elettrico, i quali — pur essendo localizzati nella regione pugliese — appaiono di portata così vasta da spiegare i loro effetti a livello inter-
16
regionale, debbono essere « caricati » anche sulle altre regioni interessate. Si chiede allora che venga destinata alla Puglia una quota di investimenti aggiuntivi, che riequilibri la situazione, offrendo nuove occasioni di lavoro, specialmente nei settori dell’industria di trasformazione dei prodotti agricoli, di materiale da costruzione e metalmeccanica;
b) anche in presenza di questo necessario intervento aggiuntivo —
che deve essere prelevato, possibilmente, dalla quota di investimenti
previsti per il Nord, in modo da non danneggiare le altre regioni meridionali —, le prospettive sul piano occupazionale non diventano molto
più rosee limitatamente allo scorcio di quinquennio 1967-1970. Potranno infatti essere avviati in questo periodo alcuni programmi; il che
porterà a un incremento dell’occupazione — come abbiamo detto specialmente di mano d’opera adibita alla costruzione degli impianti e
quindi poco qualificata. Perché si incrementi l’occupazione occorre allora impostare un ulteriore discorso di estrema delicatezza ed importanza.
Esso riguarda in modo particolare la realizzazione della rete irrigua, nel quadro del piano degli acquedotti; la predisposizione di tutte
le infrastrutture necessarie a promuovere lo sviluppo globale del territorio e ad eliminare i residui squilibri tra zona e zona; la costruzione di
scuole, ospedali ed altre attrezzature sociali in misura eccezionalmente
massiccia, essendone la Puglia particolarmente priva.
Questi programmi vanno avviati a realizzazione con assoluta priorità: ecco l’obiettivo fondamentale che va perseguito per assicurare un
immediato impiego della mano d’opera che porti a dare concreti risultati sul piano della diminuzione dell’esodo e della disoccupazione.
Non si tratta di ingigantire il discorso sulle opere pubbliche, ma
soltanto di anticipano e conglobano soprattutto in questo scorcio finale
di quinquennio.
D’altra parte, se non si avvia con effettiva priorità il discorso su
queste opere pubbliche — e specialmente sul piano per l’irrigazione
—si corre il rischio di arrivare al 1980 senza aver potuto completare
l’intero disegno programmatico della regione.
Si pone però, correlativamente all’avviamento del discorso sulla
priorità delle opere pubbliche, l’esigenza di approfondire l’altro importante argomento della formazione professionale della mano
d’opera.
L’occupazione che si verrebbe a creare sarebbe infatti un tipo di
occupazione a breve termine, che si concluderebbe una volta realizzata l’opera. E’ necessario perciò che, contemporaneamente, si sviluppi
e si approfondisca il piano relativo alla formazione professionale delle
nuove leve di lavoro che gradualmente andranno ad occupare i posti
nelle industrie in via di realizzazione.
L’operazione è di estrema delicatezza e richiede lo studio attento
dei tempi di avviamento e di realizzazione, per evitare delle serie sfasature che creerebbero ripercussioni sempre sul piano
dell’occupazione.
Queste le due alternative, ed anche queste, a nostro parere — pur
considerandosi alternative sul piano tecnico — non dovrebbero sul
piano politico. Le due richieste vanno cioè avanzate correlativamente,
17
giacché possono benis simo coesistere e, anzi, coesistendo, si sostengono ancor meglio. La Puglia dunque chiede che, in sede di esame
delle prospettive di sviluppo regionale, da parte dell’Ufficio del Piano
e del CIPE, sia dato parere favorevole all’impostazione di lavoro avanzata particolarmente in questo capitolo, la quale articola nei modi,
nei tempi e nei settori più dettagliatamente riferiti nei capitoli successivi.
Individuazione delle risorse
Un breve capitolo dello « schema » è dedicato alla individuazione
delle ris orse. Non si tratta delle « risorse » indicate sommariamente
nei capitoli precedenti e più dettagliatamente in quelli riguardanti i
singoli settori produttivi, ma di « mezzi » per raggiungere gli obiettivi.
Si nota che la Puglia non ha energie sufficienti per realizzare un
autonomo processo di sviluppo senza attingere all’esterno, specialmente per approvvigionarsi di nuovi capitali. C’è ancora troppa distanza tra il risparmiatore pugliese e gli impieghi finanziari della regione — Bari è al 33° posto tra le città italiane per numero di azionisti
— gli altri capoluoghi pugliesi seguono a molta distanza. I risparmi
pugliesi vanno dunque soprattutto agli sportelli bancari e postali sotto
forma di depositi che rifluiscono spesso verso impieghi al di fuori della regione.
Si fanno in proposito due proposte concrete:
— la creazione di una società finanziaria, a partecipazione anche
pubblica;
— la formazione del risparmio contrattuale.
La creazione di una società finanziaria regionale alla cui realizzazione concorrano lo Stato, le banche, gli Enti, i privati, appare una
prospettiva certamente allettante. Se è vero che una delle difficoltà
maggiori che si incontrano nel Sud, e quindi anche in Puglia, è la
mancanza di imprenditori, la presenza di una società finanziaria potrebbe risolvere egregiamente questo handicap.
Il risparmio contrattuale costituisce la seconda forma di raccolta di
fondi da impiegare in loco. E’ possibile anche collegare i due fenomeni facendo in modo che il risparmio contrattuale, direttamente o indirettamente, rifluisca nella società finanziaria.
Le risorse si individuano anche nelle quote di investimenti che, per
ciascun settore produttivo e per gli impieghi sociali, vanno assegnate
alla regione, nell’ambito delle generali previsioni effettuate dal programma nazionale.
In questa parte puramente descrittiva dello schema si è voluto, con
qualche breve commento, omettere l’illustrazione del capitolo riguardante la popolazione e l’occupazione.
Oltre alle cifre, peraltro opinabili si trattava di svolgere concetti
che in maniera più appropriata saranno richiamati in occasione della
trattazione dei singoli capitoli dedicati ai settori.
In tali capitoli successivi si darà luogo anche a diffusi commenti
con accentuazione della visione provinciale.
18
Assetto territoriale
Gli obiettivi di assetto territoriale proposti dallo schema si riassumono, per quanto riguarda i rapporti extra-regionali, nella enunciazione della necessità di un inserimento in sistemi più ampi dei poli di
interessi economici che si vanno formando e nella individuazione delle funzioni della Puglia come centro del bacino del Mediterraneo.
Queste intuizioni, fondamentalmente esatte, vanno però ulteriormente approfondite; occorre pertanto dire che questa esigenza e questa
funzione possono essere svolte soltanto mediante la formazione di una
struttura urbano-territoriale integrata e continua, che con le sue funzioni metropolitane e direzionali possa effettivamente fungere da centro per il bacino mediterraneo, e possa contemporaneamente servire da
elemento equilibratore della struttura economica, territoriale e sociale
italiana. Una « metropoli di equilibrio », quindi, a scala — tanto per
intenderci — « padana », che dia continuità a tutti gli episodi isolati di
sviluppo che in questi tempi si vanno verificando.
Non è quindi per un ristretto spirito campanilistico, ma per una obiettiva esigenza tecnicamente documentabile, che non possiamo considerare positiva l’indicazione del « triangolo » Bari-Brindisi-Taranto
come centro motore della regione. Ciò equivarrebbe a supporre un
impossibile sviluppo regionale autonomo e concluso in sé stesso, nel
quale le altre zone della regione verrebbero a trovarsi in condizione
periferica. Ma questa visione è in contrasto con le stesse impostazioni
del documento, che vede lo sviluppo regionale integrato nel quadro
meridionale; ne deriva di conseguenza la necessità di una ipotesi di
assetto territoriale che si basi sulla formazione di una struttura continua, lungo la direttrice Tavoliere-Bari-Taranto-Metaponto-Sibari Il
funzionamento di questa direttrice è la condizione indispensabile perché lo sviluppo del Mezzogiorno avvenga in maniera unitaria, e quindi
assuma dimensioni tali da poter equilibrare la struttura italiana e pertanto non rimanere come fenomeno « subalterno » rispetto al funzionamento del sistema centro-settentrionale. D’altra parte tale ipotesi, e
la sua strumentazione urbanistica, era già contenuta nello studio Fabbri-Giovanale-Vittorini, redatto a cura del Ministero del Bilancio e da
questo distribuito ai membri del Comitato. E’ quindi un fatto negativo,
che non si può non notare, la constatazione che non ne è stato tenuto
conto da parte del relatore. E’ necessario quindi che in questa sede
venga data una chiara indicazione in tal senso.
Senza questa visione unitaria di fondo, le proposte di assetto territoriale formulate dal documento diventano più una sommatoria di elementi che un sistema integrato. Acquista quindi un particolare significato l’iniziativa dell’Amm.ne Prov.le di Foggia, di approfondire
lo studio fino a giungere ad un ben preciso ed individuato piano di sviluppo.
Infatti soltanto con la realizzazione di una struttura continua è possibile conseguire lo scopo, enunciato dal documento, di inserire anche
le zone più depresse, come il Subappennino Dauno, in un sistema integrato di sviluppo, si potranno porre le premesse per la realizzazione di
un sistema di rapporti integrati all’interno del comprensorio stesso, in
19
modo tale che gli effetti dello sviluppo, dalla direttrice, si diffondano
nel territorio. Tale metodo — che è una delle più recenti acquisizioni
nella teoria dello sviluppo delle zone depresse — è stato individuato
nello studio dell’ISES sul comprensorio di Soverato, e potrà formare
la base per lo studio del nostro piano di sviluppo provinciale.
Il documento del C.R.P.E.P. passa quindi, ad illustrare la necessità
di attuare un « effetto urbano », come motore dello sviluppo. Ciò coincide con quanto già detto a proposito della struttura continua urbanoterritoriale. E’ necessario però che tale « effetto urbano » non venga
visto come una estrapolazione delle caratteristiche degli agglomerati
urbani attuali.
Non si deve certamente tendere alla moltiplicazione nella regione
o sul territorio dei molteplici aspetti pesantemente negativi accumulatisi in questi ultimi anni nelle città che maggiormente hanno subito un
processo di espansione: particolarmente Bari e Taranto.
L’effetto urbano è un risultato che deve essere conseguito con i più
avanzati strumenti dell’urbanistica moderna, e commisurato alle esigenze della Puglia futura. Quindi la priorità deve essere data a quelle
grandi opere infrastrutturali che devono formare la grande ossatura
della regione e dei rapporti interregionali.
Anzitutto al grande complesso autostradale, che deve proseguire
oltre Bari, per raggiungere a monte di Taranto e qui biforcarsi, con un
ramo per Brindisi ed una continuazione per Metaponto e Sibari fino a
congiungersi con la Salerno-Reggio Calabria. Questa è la condizione
fondamentale della continuità dello sviluppo meridionale, ed è compito di tutte le forze politiche meridionali imporne la priorità su scala
nazionale, anche su altre opere autostradali che in pratica rappresentano un doppione di autostrade esistenti (come la Piacenza-Torino), o
sulla idrovia padana, che ha in sé caratteristiche negative rispetto alla
funzione di testa di ponte della Puglia.
A monte di questa grande via di comunicazione, il collegamento
Tavoliere-Fossapremurgiana-Matera-Metaponto deve formare la base
per la continuità per una minore direttrice destinata ad alleggerire la
tendenza alla congestione costiera. A questo proposito va osservato
che il collegamento diretto di questi grandi comprensori di sviluppo
agricolo irriguo costituisce un fattore della massima importanza per
l’economia appulo-lucana. Fattore condizionato però dalla necessità di
creare una efficiente rete di trasporti, anche ferroviari, che possano
immettere sul Tavoliere una quantità di prodotti agricoli tali da giustificare il funzionamento di impianti di conservazione, di trasformazione, e di distribuzione modernamente dimensionati e direttamente collegati con i grandi mercati di consumo. Il Tavoliere, e quindi Foggia,
potrebbe svolgere pertanto la funzione che gli è congeniale, di grande
mercato di smistamento della produzione agricola del versante Adriatico e Ionico: ma osta a ciò la carenza della rete ferroviaria. E’ quindi
necessario appoggiare le giuste richieste materane di un diretto collegamento ferroviario fra il Tavoliere, Matera e Metaponto, mentre unanime deve essere l’azione per l’eliminazione della strozzatura adriatica nei rapporti ferroviari con il Nord.
20
Circa la grande viabilità, è ancora necessario ricordare l’urgenza di
realizzare un efficiente collegamento trasversale Manfredonia-FoggiaCandela-Vulture-Conca di Muro-Vallo di Diano, e di collegamenti diretti fra il Tavoliere e l’Irpinia, e fra il Tavoliere e il Molise. Per quanto riguarda i porti, la genericità del documento non ha permesso di fare cenno alla necessità di uno sviluppo plurifunzionale del porto di
Manfredonia, che pure è la base essenziale per lo sviluppo industriale
e turistico della nostra Provincia, e quindi costituisce elemento determinante per il funzionamento della direttrice di sviluppo.
Per concludere si ritiene di accennare alla necessità che le enunciazioni relative alla situazione delle attrezzature e dei servizi civili
vengano approfondite localmente, con una individuazione dei fabbisogni in relazione allo sviluppo futuro. A questo compito, per quanto
ci compete, assolverà il piano di sviluppo che l’Amministrazione Provinciale ha messo allo studio.
Agricoltura
Gli obiettivi enunciati dal documento C.R.P.E.P. si compendiano
nei seguenti punti:
— piena ed efficiente utilizzazione delle risorse; le forze di lavoro
devono essere tutte occupate al più alto livello di remunerazione possibile;
— valorizzazione di tutte le risorse agricole esistenti e di quelle idriche in modo particolare;
— riassetto territoriale delle attività produttive onde evitare lo spopolamento di alcune regioni e la congestione di altre;
— miglioramento della distribuzione dei redditi;
— mantenimento di un alto saggio di crescita nel lungo periodo.
Inoltre il documento enuncia le necessità di chiamare a questo
sforzo di utilizzazione di tutte le risorse regionali, tutte le forze locali,
e a questo scopo propone lo studio e l’attuazione di « piani zonali ».
Passando all’esame della situazione agricola regionale risulta subito dal documento la preponderanza della Provincia di Foggia che ha le
maggiori aree utilizzate, produttrici di cereali, foraggere, coltivazioni
ortive, coltivazioni industriali, e nella quale è presente il solo patrimonio boschivo della regione.
La stessa constatazione si può fare per la zootecnia, con il maggior
numero di capi bovini, ovini, suini ed equini.
Quindi risulta ancora più evidente come il Tavoliere sia una delle
basi fondamentali per lo sviluppo agricolo pugliese e meridionale e ne
risulta ancora più evidenziata la necessità di un collegamento con l’altra area di sviluppo Metapontina, al fine di integrare in una grande dimensione — a livello « emiliano » — reciproche possibilità di sviluppo.
Il programma di intervento industriale nel settore olivicolo prevede, per la Provincia di Foggia, la costruzione e costituzione di oleifici cooperativi a Trinitapoli (capacità lavorativa 30.000 q.li di olive),
Torremaggiore (20.000), Stornara (20.000), Matine di S. Giovanni R.
(20.000), Ortanova-Ordona (10.000) e Mattinata (15.000).
21
Nel settore orticolo il documento si limita ad enunciare la necessità
di un sistema di commercializzazione e trasformazione. Per il settore
cerealicolo, che interessa in maniera particolare la nostra provincia, il
documento pone l’accento sulla eventualità di un futuro contenimento
della produzione, in conseguenza della accettazione della politica
MEC. Pertanto è necessario anche qui proporre una scelta, che dia un
giudizio su tale politica, e che indichi di conseguenza culture alternative ad alto reddito: è necessario pertanto pensare in tempo alle riconversioni culturali qualora si rendessero necessarie. E in questo argomento si inserisce largamente il discorso sulla espansione della zootecnia legato da una parte all’aumento del consumo di carne dovuto
all’aumento del livello di vita delle popolazioni, e legato dall’altra alla
espansione dell’irrigazione.
Ma prima di accennare a questo argomento di importanza vitale, è
il caso di riassumere brevemente le previsioni che il documento fa a
proposito delle zone montane e collinari di particolare depressione: il
Gargano e il Subappennino Dauno. Le enunciazioni di riconversioni
silvo pastorali o agro-silvo-pastorali fatte dal documento appaiono del
tutto generiche se non sono accompagnate dalle indicazioni degli strumenti operativi. Uno di questi strumenti può essere costituito da quei
piani zonali di cui si è già parlato: ma la base per ottenere risultati positivi mi pare che vada cercata nella proposta fatta da Manlio Rossi
Doria, di accorpare sotto una gestione unica sia i demani esistenti, sia
le piccole proprietà frazionate, sia le proprietà maggiori inutilizzate o
abbandonate o sfruttate con una agricoltura di rapina che si riduce in
una continua degradazione del suolo, formando in tal modo un solo
demanio pubblico. In sostanza — ha sostenuto Rossi Doria (e si ritiene di poter concordare con lui) — se l’Italia si può permettere spese
in-produttive per puri scopi di prestigio come la costruzione e la gestione di navi tipo « Michelangelo » (nettamente passiva) si può e si
deve permettere la spesa di un equivalente numero di miliardi per
l’acquisto o l’esproprio dei territori montani, da sistemare, rimboschire o adibire ad altre destinazioni che potranno essere anche redditizie,
e che comunque salveranno il suolo dalla continua degradazione. Questo è un argomento che deve essere sostenuto e ripreso con maggiore
approfondimento proprio nell’ambito provinciale.
In ordine alla irrigazione, il problema generale della Puglia è la insufficienza delle acque disponibili rispetto alla superficie suscettibile
di grande sviluppo agricolo irriguo. Tale differenza sussiste e sussisterà in futuro anche con il completamento delle grandi opere irrigue in
corso di esecuzione. Questo è un dramma non soltanto pugliese, e che
riguarda tutta l’economia nazionale, perché non permette il pieno
sfruttamento delle nostre risorse (in Puglia, ad esempio, non può essere pienamente sfruttato il potenziale agricolo di territori come il Salento e lo stesso Tavoliere), con una grave incidenza anche sul saldo del
commercio con l’estero e quindi sulla bilancia dei pagamenti. La necessità fondamentale che risulta quindi da questa constatazione —
come del resto dall’intero schema — è che il piano di sviluppo deve
allargarsi dai ristretti ambiti regionali e trovare intese e accordi con le
altre regioni.
22
In particolare per la Provincia di Foggia, la ricerca delle acque irrigue va estesa al Molise e all’Abruzzo, anche con contatti diretti con i
Comitati Regionali e con le Amministrazioni interessate.
Una conclusione della massima importanza, e che riteniamo sia
una delle maggiori acquisizioni programmatiche contenute nel documento, chiude questo esame delle prospettive di sviluppo agricolo. Si
rileva infatti che le forze occupate in agricoltura oscillano in Puglia
sulle 500.000 unità e si pone un quesito fondamentale: è auspicabile
che il numero di tali unità si mantenga a questo livello o deve prevedersi una diminuzione, in conseguenza dell’aumento della produttività? A questa domanda il documento risponde con una importante affermazione, e cioè che le risorse agricole pugliesi sono sottosfruttate, e
quindi l’aumento della produttività non deve andare a scapito della
diminuzione di mano d’opera, ma deve tendere ad ampliare le superfici ad agricoltura altamente moderna, e ad altissimo livello di occupazione sia diretta che addizionale. E qui si riapre il discorso di tutta
l’organizzazione di commercializzazione di prodotti che è inscindibile
da tali prospettive di sviluppo.
Industria
Lo sfruttamento dei prodotti agricoli apre il discorso sulla industrializzazione della regione, ed è di particolare importanza per la nostra Provincia; poiché già vi abbiamo accennato, riteniamo di non dilungarci oltre su questo argomento.Ma per quanto riguarda il settore
industriale, questa appare come la parte più debole del documento:
dall’esame della situazione attuale non è facile infatti passare alla ipotizzazione di prospettive future. E ciò non certo per cattiva volontà, o
per carenza degli estensori del documento, ma per le condizioni obiettive in cui si viene a trovare il C.R.P.E.P. Infatti le grandi decisioni di
politica industriale, di localizzazione, quelle cioè che decidono di un
avvenire di una regione, sono completamente al di fuori di qualsiasi
possibilità di decisione o di intervento del Comitato, come dimostra
anche il recente caso dell’Alfa-Sud e la stessa ANIC. In mancanza di
queste premesse di base, è inevitabile che tutti i discorsi divengano
generici e ipotetici. Pertanto appare prima di tutto necessario che le
Amministrazioni locali, e prima fra tutte la nostra Amministrazione,
sappiano dare concrete indicazioni, tecnicamente fondate, capaci di
formare oggetto di una battaglia per le scelte nel settore della industrializzazione meridionale, e per una eventuale contestazione delle altre scelte che risultino errate o dettate da preoccupazioni contingenti e
non positive dal punto di vista delle impostazioni economico-sociali e
di assetto territoriale. E pertanto in questo quadro va ricondotto anche
il discorso sulla utilizzazione del metano della nostra Provincia, che
va effettuato nell’ambito della provincia stessa, non per considerazioni
campanilistiche, ma perché da qui deve cominciare quella direttrice di
sviluppo che deve appunto trovare i suoi punti di forza nella utilizzazione industriale del metano e nella presenza del porto di Manfredonia.
Dopo la recente decisione del CIPE concernente l’approvazione
23
dell’iniziativa ANIC per l’insediamento di una industria chimica di
base per la produzione di ammoniaca ed urea si aprono per la provincia, la regione e l’intero Mezzogiorno nuove concrete prospettive che
intanto convalidano quelle considerazioni già fatte in sede di esame
dell’assetto territoriale.
La promozione del Nucleo industriale di Foggia in area, dovrà
consentire il moltiplicarsi di iniziative industriali che non soltanto dovranno interessare la nostra provincia, ma dovranno operare un ricongiungimento con le altre « aree » pugliesi.
Intanto in una regione come la nostra che presenterà a Nord con
Foggia e con la presenza dell’ANIC ed a Sud con Brindisi e con la
presenza della Montesud l’ambiente naturale per un polo chimico, dovranno intensificarsi gli insediamenti industriali per la lavorazione di
prodotti derivati dall’industria chimica. Per cui riesce strano comprendere l’evidente atteggiamento della nascente industria di isolarsi, sia
attraverso il suo orientamento relativo all’ubicazione sia per
l’accertata volontà di esportare, per la successiva lavorazione, fuori
della regione la materia prima prodotta.
E’ infatti contestuale all’annuncio dell’insediamento dell’ANIC la
notizia che parte dei prodotti dovranno essere avviati a Ravenna per la
loro lavorazione.
Non si può non essere d’accordo con le dichiarazioni del Ministro
Pieraccini secondo le quali le ulteriori decisioni del CIPE dovranno
essere riguardate nell’ambito di uno sviluppo globale del Mezzogiorno. Ciò perché le stesse linee di sviluppo della provincia e dell’intera
regione più volte ipotizzate ed ultimamente indicate nell’ordine del
giorno del 21luglio presentato al Consiglio Provinciale a firma dei
consiglieri dott. Galasso e dott. Moretti, ordine del giorno che si richiama e si conferma, non si ritengono avulse appunto dallo sviluppo
globale del Mezzogiorno.
Sennonché il richiamato e minacciato isolamento dell’industria
ANIC trova la sua conferma nell’assenza di altre iniziative, alcune in
precedenza ventilate, come lo stabilimento di Biccari, da parte delle
partecipazioni statali, assenza che si nota nella « relazione programmatica sugli Enti autonomi di gestione per l’esercizio 1968 » presentata al Parlamento.
Là stessa iniziativa relativa all’insediamento SNIA sembra stia segnando il passo.
Per concludere su questo capitolo va aperto un piccolo inciso sulla
industria di Stato e a partecipazione statale. Alle affermazioni dei massimi organi dell’IRI, che questo Istituto deve funzionare con criteri di
economicità aziendale, non si può che acconsentire, ma il discorso è
viziato dal fatto che dal canto suo, allarga la sua attività a settori che
niente hanno a che fare con l’economicità di una gestione aziendale e
soprattutto niente hanno a che fare con i suoi compiti istituzionali, che
sono limitati alle iniziative industriali. La presenza dell’IRI nel settore
autostradale, in primo luogo, sottrae energie ed investimenti che dovrebbero essere invece destinati al settore industriale, per drenarli invece verso grandi infrastrutture, che — se sono elementi essenziali del
24
tutto positivi per lo sviluppo — non possono però essere considerate
come iniziative speculative, nel modo in cui sono costruite, attuate e
gestite. Quindi l’IRI deve abbandonare questa forma di speculazione
su servizi di interesse pubblico, che competono ad altri enti di Stato,
come ad esempio l’ANAS, o, nel caso del Mezzogiorno potrebbero
anche essere affidati alla Cassa per il Mezzogiorno, e si concentri sulla
realizzazione di quelle percentuali di investimenti direttamente produttivi che la legge gli impone di realizzare, e che devono essere studiati
come investimenti veramente produttivi e promotori dello sviluppo,
cioè come grandi industrie di base.
Lavoro e pubblica istruzione
Quanto ho detto finora diventa di una evidenza tragica se si riesaminano poi le considerazioni che il documento fa a proposito del
settore del lavoro.
Non abbiamo lo spazio per dilungarci a sufficienza né per citare cifre, come d’altra parte l’argomento meriterebbe, ma basti dire che il
recente sviluppo della Puglia risulta più apparente che reale se si
guarda lo stato della disoccupazione, al quale va aggiunto l’altro gravissimo fenomeno della emigrazione. Ma per citare una cifra sola, fra
le più significative, ricorderemo che la media delle giornate lavorative
effettuate in Puglia in un anno, è di 184, ed è inferiore alle 243 della
Sicilia, alle 246 della Lombardia, alle 245 dell’Emilia, alle 247 del
Lazio. Questa cifra è ulteriormente resa significativa dal fatto che
l’andamento dei salari è inferiore a quello delle altre regioni, e che la
Puglia risulta al primo posto in ordine alle somme erogate per sussidi
di disoccupazione ai braccianti agricoli. Ciò che è una ulteriore riprova dell’inadeguato sfruttamento delle nostre risorse agricole. Da questo panorama di disimpegno delle risorse umane, che trova, come ripeto, la sua evidenza numerica nella cifra riportata dal documento, risulta la necessità di urgentissime iniziative di sviluppo economico, se
non si vogliono rendere nulli i risultati finora ottenuti, e perdere definitivamente l’occasione di fermare il divario fra la nostra regione e
quelle del entro Nord.
In questo quadro vanno affrontati i problemi della pubblica istruzione e della formazione professionale. Anche qui sarebbe troppo lungo riportare le cifre del documento riguardante il fabbisogno di aule e
di scuole, commisurate alle popolazioni prevedibile nel 1970, che per
la Regione dovrebbe essere di L. 3.745.400 abitanti, e per la provincia
di Foggia di 715.000.
Una indicazione importante, che deve essere approfondita, contiene il documento sulla necessità di decentrare a Foggia qualche facoltà
universitaria che, aggiungiamo, dovrebbe essere di concezioni totalmente moderne e legata alla modernizzazione e allo sviluppo regionale e di tutto il Mezzogiorno.
A questo proposito, più che ad una vera facoltà, riterrei che si dovrebbe pensare ad una scuola superiore di specializzazione ad altissimo livello, nel settore agricolo e idraulico, dotata di amplissime possi-
25
bilità di ricerca e di sperimentazione e capace di attirare per il livello
dei suoi insegnamenti e delle sue ricerche, le migliori risorse scientifiche in formazione dei paesi in via di sviluppo del bacino del Mediterraneo.
Commercio e turismo
E’ necessario, a premessa delle considerazioni che si possono fare
circa la relazione relativa al commercio, che ogni ipotesi del programma regionale verrebbe immediatamente vanificata qualora si realizzasse ed entrasse in funzione, con le finalità e le dimensioni previste, la grande centrale monopolistica prevista presso Trieste e destinata a conservare, trasformare e immettere sui mercati la maggior parte
della produzione agricola rastrellata sul versante adriatico del Mezzogiorno, così come l’impianto di Rivalta Scrivia svolge le stesse funzioni per il versante tirrenico. Per una provincia come la nostra, che
fonda le sue speranze di decollo sullo sviluppo moderno
dell’agricoltura, questa operazione mo nopolistica di tipo colonialistico
è una vera e propria jattura che deve essere scongiurata, se non si vuole che buona parte delle ipotesi (e delle speranze) contenute nel documento del C.R.P.E.P. divengano vane.
In particolare le ipotesi di sviluppo delle funzioni della Fiera di
Foggia, come elemento motore dello sviluppo agricolo del Tavoliere,
verrebbero a ridursi notevolmente. Viceversa riteniamo che il documento possa essere meglio puntualizzato, se si fonderà su una specializzazione delle manifestazioni fieristiche e delle loro funzioni; e la sciando quindi alla Fiera del Levante la grande funzione dei rapporti
commerciali mediterranei, mentre si dovrà specializzare sempre di più
la Fiera di Foggia ai fini dello sviluppo agricolo. Ma ciò è condizionato dalla realizzazione di quella ipotesi di struttura territoriale di cui si è
accennato in precedenza, e che si fonda sulla creazione di una direttrice, eminentemente di sviluppo agricolo, da Metaponto al Tavoliere,
con l’assunzione da parte di Foggia di grande centro di conservazione,
di trasformazione e di smistamento dei prodotti.
Per concludere questo rapido esame, ci resta da esaminare il settore del turismo. Il documento del Comitato Regionale rileva i promettenti sviluppi avutisi in questi ultimi anni, in particolare nel Ga rgano, e ne ipotizza un notevole incremento nel futuro.
Ma anche a questo proposito appare utile approfondire, sia pure
rapidamente, l’esame dell’argomento. Finora il turismo nel Gargano
ha assunto due aspetti contrastanti: da u na parte si sono avute iniziative, turistiche che chiameremo, anche se impropriamente, di lusso,
tendenti a creare nuclei e episodi isolati, vere isole nel territorio, che
non apportano praticamente nessun beneficio alla economia locale in
quanto non formano quel tessuto connettivo che è alla base dello sviluppo turistico. D’altra parte si sono invece venute a verificare iniziative capillari, che pur formando l’inizio di tale tessuto, si sono sviluppate disordinatamente, deturpando alcune fra le località più pregevoli
e compromettendo quindi gravemente lo sviluppo futuro.
In attesa di conoscere i risultati dello studio che la Cassa per il
Mezzogiorno ha fatto redigere per il Gargano, e in attesa soprattutto
26
degli interventi che ne dovrebbero conseguire, vediamo di trarre delle
indicazioni del documento C.R.P.E.P. e dalle considerazioni precedenti alcuni suggerimenti per una linea d’azione da tenere, come Amministrazione provinciale, e come Ente che può assumere un ruolo notevole in questo che appare come uno dei più promettenti settori di sviluppo.
Sulla base delle indicazioni del piano della Cassa, e con i finanziamenti della Cassa stessa predisposti, l’Amministrazione Prov. le può
farsi promotrice di esempi-pilota di utilizzazione del territorio, con la
predisposizione di strutture per il turismo di massa, che appare come il
più promettente ed il più redditizio. Si tratta cioè di mettere allo studio
e di realizzare strutture integrate — costiere e montane — sia ricettive
che per il tempo libero, che presentino economicità di gestione e alto
indice di utenza nel massimo rispetto dell’ambiente paesistico. Queste
strutture dovrebbero avere caratteristiche tali da attrarre il turismo di
massa sia proveniente da mete extra regionali ed ext ra nazionali, sia
provenienti dalla provincia stessa, anche a carattere pendolare. Anche
qui gli studi necessari possono essere effettuati nel quadro del piano di
sviluppo.
Si è appreso con soddisfazione quanto dichiarato dal Ministro Pieraccini sempre in occasione del progetto ANIC nel senso che « si procederà alla industrializzazione della zona salvaguardando anche le
prospettive di sviluppo turistico ». Bisogna, infatti, come afferma lo
schema di piano, resistere alla tentazione di consentire l’insediamento
di industrie in località ove le risorse turistiche, e quelle agricole, presentano già notevoli condizioni di redditività o sono suscettibili di larga utilizzazione.
In conclusione, l’esame del documento del C.R.P.E.P. ci ha portato
soprattutto ad individuare alcuni tra quelli che dovranno essere gli elementi fondamentali e gli obiettivi del piano di sviluppo che l’Amministrazione Prov.le si accinge a fare proprio. La genericità del documento che abbiamo esaminato, quindi, potrà essere puntualizzata e approfondita con un esame più ravvicinato della nostra realtà provinciale,
con lo studio dei nostri problemi e con l’individuazione degli strumenti tecnici per affrontarli in un quadro integrato che tenga conto non
soltanto delle esigenze della nostra Provincia, ma di tutta la regione; e
siamo certi che, da un obiettivo esame, risulteranno evidenti le funzioni fondamentali che la nostra Provincia deve assolvere se si vuole che
il Mezzogiorno abbia quello sviluppo unitario, autonomo ed autopropulsivo che è la condizione essenziale per il riequilibrio della struttura
economico-sociale italiana.
BIOS DE MAIO
27
I collegamenti stradali
del comprensorio turistico garganico
Orientamenti ed impegni della Giunta Provinciale
La Giunta Provinciale ha esaminato lo studio sulla situazione stradale del Gargano, approntato dal Gruppo di Studio della Provincia in
collaborazione con l’Ufficio Tecnico Provinciale, e ha deciso di farlo
proprio e di presentarlo all’approvazione del Consiglio Provinciale
con le seguenti considerazioni.
La Giunta ritiene che l’Ente comprensoriale, destinato ad operare
sul Gargano per l’attuazione degli interventi previsti dal Piano di coordinamento della Cassa per il Mezzogiorno, debba essere individuato
nell’Amministrazione provinciale di Foggia. La Giunta è, perciò, impegnata ad intensificare i contatti con la Cassa per il Mezzogiorno per
rivendicare all’Amministrazione provinciale un ruolo primario nella
individuazione e nella esecuzione delle nuove infrastrutture del comprensorio garganico.
Nella scelta dell’organismo comprensoriale dovrà essere tenuto
presente il parere già espresso dal Comitato Regionale per la Programmazione Pugliese, che ha indicato nelle Amministrazioni Provinciali gli enti idonei ad assumere tale ruolo. Ciò è per noi tanto più valido ove si pensi alla circostanza che il comprensorio garganico, a differenza di altri previsti dal piano di coordinamento, ricade interamente
nei confini geografici della sola Capitanata.
La Giunta ritiene, inoltre, che bisognerà preoccuparsi non solo della esecuzione delle opere infrastrutturali, ma anche della loro successiva manutenzione, per eliminare il pericolo che la mancata manutenzione delle opere che saranno realizzate possa annullare lo sforzo finanziario relativo all’intervento pubblico della Cassa.
L’Amministrazione provinciale, a tale scopo, farà presente alla
Cassa per il Mezzogiorno che assumerà la manutenzione delle sole
opere che avrà realizzato direttamente con il finanziamento Cassa.
28
Si ritiene, a tal’uopo, che le infrastrutture stradali da realizzare
debbano essere preventivamente distinte in base ai criteri di classificazione previsti dalla legge 12-2-1958, n. 126, e che, perciò, le strade a
scorrimento veloce di grande traffico debbano essere, sia pure successivamente, classificate fra le strade statali. Per queste, quindi, l’esecuzione dei lavori di sistemazione e di ammodernamento dei tronchi già
esistenti e la costruzione dei tronchi da realizzare ex novo dovrà essere
affidata esclusivamente all’Anas. In tal modo verrebbero a trovare accoglimento anche le richieste, già avanzate da quest’Amministrazione,
di statizzazione di alcune strade garganiche tuttora provinciali.
Invece, l’incarico dell’esecuzione dei lavori, (costruzione o sistemazione), sulle strade indicate come arterie di collegamento o di circuiti turistici comprensoriali, classificate o classificabili tra le strade
provinciali,
dovrebbe
essere
affidato
esclusivamente
all’Amministrazione provinciale. Infine l’esecuzione delle infrastrutture specifiche, al servizio di iniziative alberghiere, dovrebbe essere
affidata alle Amministrazioni comunali o alla Provincia a seconda che
tali strade possano essere classificate comunali o provinciali.
La Giunta ha inteso limitare il lavoro affidato al Gruppo di studio
al solo settore stradale per un duplice motivo:
— l’urgenza di esprimere l’orientamento dell’Amministrazione
provinciale in un proprio settore istituzionale, prima che fosse presentato alla Cassa il piano che sta predisponendo il gruppo di lavoro guidato dal prof. Pitigliani;
— l’opportunità di fare precedere lo studio sulla situazione stradale a quello globale interessante l’intero comprensorio garganico. Tale
studio globale farà parte integrante del Piano di sviluppo generale della nostra Provincia.
Conseguentemente la Giunta s’impegna a far seguire al lavoro già
presentato lo studio completò, relativo alle altre infrastrutture (acquedotti, fognature, elettrodotti, attrezzature portuali, trasporti pubblici
ecc.), dopo aver, al riguardo, preso gli opportuni contatti con gli altri
enti interessati (Acquedotto Pugliese, Enel, ecc.), e soprattutto, dopo
che saranno stati resi noti i piani territoriali e paesaggistici, tuttora in
corso di redazione — rispettivamente — da parte del Provveditorato
regionale alle OO. PP. di Bari e della Soprintendenza ai monumenti e
alle gallerie di Puglia e Lucania.
Lo studio completo potrà essere utile al Consiglio provinciale allorché sarà sottoposto all’esame ed al parere dell’Amministrazione
provinciale il piano redatto dal gruppo guidato dal prof. Pitigliani.
L’Amministrazione provinciale di Foggia — in occasione della
compilazione del piano di sviluppo turistico del comprensorio garganico, il cui incarico è stato affidato dalla Cassa per il Mezzogiorno ad
una equipe di tecnici diretta dal prof. Pitigliani — ha ritenuto necessario procedere, autonomamente, alla redazione di uno studio, limitato ai
collegamenti stradali strettamente pertinenti al comprensorio, anche
allo scopo di offrire alla Cassa un utile contributo di esperienze, che
29
solo l’Ente territoriale competente istituzionalmente nel settore stradale noi riteniamo sia in grado di fornire.
Pregiudiziale appare, anche per ovvi criteri di opportunità, distinguere, nello studio generale dei problemi stradali garganici, i collegamenti stradali del comprensorio con la grande viabilità nazionale dai
collegamenti interni al comprensorio stesso.
Tale distinzione è opportuna in quanto le realizzazioni ed i miglioramenti relativi alla viabilità di adduzione sono previsti, in gran parte,
nei programmi di Enti distinti dalla Cassa (Ministero dei LL. PP. —
ANAS — Società Autostrade), con tempi tecnici di esecuzione diversi
e, soprattutto, con obiettivi diversi da quello dello sviluppo turistico
del comprensorio garganico.
E’ noto, infatti, che il settore delle infrastrutture primarie è quello
in cui maggiormente si evidenzia il carattere aggiuntivo e straordinario dell’intervento della Cassa rispetto agli interventi ordinari che
vengono effettuati dalle altre amministrazioni pubbliche.
Si rende, perciò, indispensabile predisporre il coordinamento fra le
realizzazioni già programmate dagli altri Enti pubblici e gli interventi
che dovranno essere finanziati dalla Cassa.
Per quanto riguarda la viabilità interna del comprensorio — ed in
particolare quella interessante i circuiti turistici garganici — il coordinamento dovrà riguardare gli interventi del piano Cassa ed il programma di realizzazioni stradali dell’Amministrazione Provinciale di
Foggia, oltre quello di altri Enti locali a struttura consortile, nella misura in cui le opere stradali programmate da questi ultimi Enti possano
svolgere una funzione di interesse turistico.
Nello studio dei collegamenti primari del Gargano (ed anche dell’intera provincia di Foggia) con la viabilità nazionale non si può prescindere dalla individuazione delle grandi correnti di traffico turistico
e dalle valutazioni che tengano giusto conto del loro incremento nel
quadro generale del miglioramento delle infrastrutture previsto per i
prossimi quinquenni.
E’ indiscutibile che la principale corrente di traffico turistico diretta al Gargano si svolge e si svolgerà lungo la direttrice adriatica ed avrà, fra breve, a disposizione, fino ai confini settentrionali del comprensorio, l’autostrada Bologna-Canosa, le strade statali 16 e 16 bis ed
anche la linea ferroviaria Bologna-Foggia, di cui è stato già previsto il
raddoppio.
Lungo la più importante direttrice di traffico si avrà, perciò, entro
il 1969, una situazione soddisfacente per le grandi infrastrutture di adduzione; risulta inadeguato, invece, il collegamento fra la rete primaria
e la punta estrema del Promontorio, nella quale si vanno localizzando i
più importanti insediamenti turistici.
Si avverte, infatti, allo stato, la necessità di una grande arteria di
penetrazione che, pur snodandosi ad una congrua distanza dal mare,
non presenti grosse difficoltà plano-altimetriche e permetta, perciò, un
rapido scorrimento del traffico motorizzato.
Il tracciato ideale di questa strada, la cui realizzazione dovrà esse-
30
re prevista con assoluta priorità, è già chiaramente configurabile con
l’utilizzazione, previo ammodernamento, di tratti già esistenti e con
l’apertura di nuovi.
La nuova strada dovrà avere inizio dal casello di uscita dell’Autostrada, presso Lesina, e utilizzare, con i necessari ammodernamenti e
varianti, la strada provinciale esistente che da Lesina, attraverso la località di S. Nazario, va ad incrociare l’altra provinciale S. Nicandro
Torremileto, costeggiando, ad una certa distanza, la sponda occidentale del lago di Lesina in una zona completamente pianeggiante.
Dall’incrocio suddetto la grande arteria dovrà proseguire tagliando
alla base la piccola collina di Monte D’Elio, per raggiungere il lago di
Varano, nei pressi del Villaggio di S. Nicola Varano, utilizzando parzialmente i tracciati di strade già esistenti.
Da S. Nicola Varano la strada potrà proseguire, con un tratto da
realizzare a valle dell’attuale tracciato della statale 89, ad una certa distanza dalla sponda occidentale del Lago di Varano, fino a raggiungere la statale 89 dopo la grotta di S. Michele, ad est dell’abitato di Cagnano Varano ed all’imbocco della piana di Carpino. Da questo punto
fino alla zona di Romondato potrà essere utilizzata la statale 89, con
gli opportuni ammodernamenti.
Dopo Romondato la strada dovrà proseguire, con tratto da costruire ex novo a mezza costa, fra Rodi ed Ischitella e fra S. Menaio e Vico
del Gargano, alle spalle di Monte Pucci e della piana di Calenelle, fino
ad innestarsi a sud di Peschici nella nuova provinciale che collega Peschici a Vieste con un tracciato litoraneo, ma quasi sempre ben distante dal mare. Tale tracciato dovrà essere arretrato solo nella zona di
Manacore ed all’inizio della spiaggia di S. Lorenzo, a circa quattro
chilometri dall’abitato di Vieste.
L’intera arteria da Lesina a Vieste avrà una lunghezza di circa 96
chilometri e potrà essere percorsa interamente, da una autovettura di
media cilindrata, in circa ottanta minuti.Il tracciato, pur essendo quasi
del tutto panoramico, si svolgerebbe sempre ad una congrua distanza
dal litorale; non disturberebbe gli insediamenti turistici localizzati o
localizzabili sull’Isola di Varano e valorizzerebbe adeguatamente la
costa occidentale del lago di Varano, attualmente priva di comunicazioni stradali; avrebbe, infine, il vantaggio di passare alle spalle di tutti i centri litoranei (Rodi-Peschici-Vieste) e di avvicinarsi anche ai
centri abitati collinari (S. Nicandro-Cagnano-Carpino-Ischitella-Vico);
ed infine porterebbe alla decongestione del traffico che attualmente si
svolge sul tratto Rodi-S. Menaio, agevolando in tal modo gli insediamenti in una delle più belle zone del litorale.
La maggior parte della nuova arteria, e precisamente il tratto da S.
Nazario a Vieste, verrà utilizzata anche come tratto terminale dell’altro collegamento da realizzarsi con il capoluogo.
Il traffico turistico incanalato nella direttrice Nord non si dirigerà
esclusivamente verso la costa settentrionale del Gargano; ma si orienterà anche verso il centro del promontorio e cioè verso le località di richiamo mistico-religioso (Oasi di Stignano, S. Matteo, S. Giovanni
31
Rotondo, Pulsano, Monte S. Angelo), verso la Foresta e la zona di
Mattinata; e verso la parte sud-occidentale (golfo di Manfredonia, i
due litorali Manfredonia-Mattinata e Manfredonia-Margherita di Savoia).
Il traffico destinato a queste due località dispone già di una rete
stradale in buone condizioni, che ha bisogno solo di essere migliorata
e completata nei tratti terminali.
A partire dalla zona di Lesina il traffico potrà usufruire della «provinciale » per Poggio Imperiale ed Apricena, e del primo tratto della «
pedegarganica », entrambe asfaltate, anche se bisognose di alcuni miglioramenti; all’incrocio con la statale 272 il traffico diretto al centro
del Gargano potrà confluire dalla citata statale 272, recentemente ammodernata, fino a Monte S. Angelo; prima di quest’ultimo abitato e
precisamente in località Ponte S. Raffaele è posto il bivio per la Foresta Umbra; da Ponte S. Raffaele bisognerà costruire ex novo il tratto
terminale, lungo la valle Carbonara, fino a Mattinata e cioè fino
all’innesto con la grande arteria sud di cui più avanti si farà cenno.
Il traffico diretto a Manfredonia potrà proseguire dall’incrocio con
la statale 272 per la « pedegarganica » fino al ponte Villanova; da
questa località dovrà essere costruito ex novo un tratto di collegamento fino all’incrocio con la statale 273, per allacciarsi, infine, in località
Matine all’altra provinciale fino a Manfredonia.
La seconda grande direttrice del traffico al Gargano è quella proveniente dal retroterra dauno, e avente per base la città di Foggia, dalla
quale possono diramarsi numerose arterie di collegamento con il Promontorio. Questa direttrice è molto importante non tanto per il volume
attuale di traffico, quanto per quello futuro, se si tiene conto del prevedibile sviluppo dei collegamenti aerei, che saranno preferiti dalle
correnti turistiche estere, e del fatto che detti collegamenti dovranno
necessariamente utilizzare lo scalo aereo di Foggia.
Lo sviluppo futuro del collegamento coordinato (linea aereastrada) può essere già delineato ove si tenga conto del successo dei voli Charter già in atto con scalo ad Amendola.
Nella zona di Foggia confluiranno le correnti di traffico provenienti dalle altre regioni e soprattutto dai vicini comprensori turistici del
Matese e del Vulture.
Le correnti del Molise e del retroterra laziale usufruiranno della
strada a scorrimento veloce Roma-Molise-Puglie, attraverso la Fondo
Valle del Tammaro e la statale 87, la Fondo Valle Tappino ed infine la
statale 17 che potrà giovarsi, quanto prima, della realizzazione della
galleria nella zona di Volturara-Motta (progetto ing. Felici con finanziamento Cassa) e dell’allargamento della Lucera Foggia (progetto già
approvato con finanziamento Anas).
Le correnti provenienti dalla Lucania e dal retroterra campano avranno a disposizione, oltre all’autostrada Napoli-Bari e le statali 90 e
90 bis, la strada a scorrimento veloce già in corso di esecuzione, con
finanziamento Cassa, fra Potenza e l’autostrada adriatica (PotenzaBasso Melfese-Stazione autostradale di Candela-Foggia).
Nel Tavoliere confluiranno, inoltre, le correnti di traffico locali,
32
I collegamenti stradali
del comprensorio turistico garganico
TAVOLE
provenienti dal Subappennino dauno e particolarmente dalle località
turis tiche già in via di sviluppo (Bovino-Faeto-S.CristoforoCasalnuovo ecc.) e dalle zone dei ritrovamenti metaniferi e di prossima industrializzazione.
A partire dall’abitato di Foggia è possibile configurare due fondamentali arterie di collegamento con il Gargano, oltre ad una serie di
collegamenti minori sventagliati verso le diverse località garganiche.
L’arteria settentrionale, Costituita dal primo tratto della statale 16
per San Severo, già perfettamente idonea, dovrà poi svilupparsi, a circa chilometri cinque prima di San Severo, utilizzando una rete di strade provinciali e di bonifica, che dovranno essere ammodernate, fino
all’importante nodo stradale che si verrà ad istituire in località S. Nazario e cioè all’innesto con la grande strada a scorrimento veloce proveniente da Lesina e sopra illustrata. Il tracciato di questo secondo
tronco, dall’innesto della statale 16 a S. Nazario, attraverserà le seguenti località: Innesto statale 16-Casone-Mezzana di Quercia-Innesto
con provinciale Pedegarganica fino all’imbocco dell’attuale strada di
bonifica Apricena S. Nazario, previa costruzione di un raccordo ad est
di Apricena.
L’arteria meridionale sarà costituita da una grande asta tangenziale, rappresentata dalla statale 89 nel tratto Foggia-Mattinata e da una
serie di collegamenti trasversali con inizio dalla citata statale 89 e termine alle varie località dell’opposto versante garganico. Il citato tratto
di statale 89 ha bisogno di essere urgentemente ammodernato, anche
in relazione agli annunziati insediamenti industriali nell’agro di Manfredonia e al conseguente potenziamento del porto. E’ indispensabile
realizzare, inoltre, la circumvallazione dell’abitato di Manfredonia ed
un attraversamento più agevole, dal punto di vista plano-altimetrico,
della località Sellino Cavola, all’incrocio con la diramazione per Monte S Angelo.
All’altezza di Manfredonia, l’arteria a scorrimento veloce proveniente da Foggia si incrocerà con l’arteria di adduzione proveniente
dal sud, di cui si farà cenno in seguito. Da Manfredonia a Vieste
l’arteria sarà, poi, unica, in analogia al tratto S. Nazario-Vieste dell’arteria a scorrimento veloce settentrionale.
A partire dal tratto tangenziale Foggia-Manfredonia della statale
89 si possono configurare numerosi collegamenti trasversali con il
Gargano, alcuni dei quali già in stato di efficienza, altri da ammodernare o da completare.
Subito dopo Foggia esiste un primo collegamento trasversale sulla
direttrice statale 89-S. Marco in Lamis -Sannicandro-Torremileto da
ammodernare in alcuni tratti ed un secondo collegamento sulla direttrice statale 89-S.Giovanni Rotondo-Cagnano Varano. Un terzo collegamento potrà essere realizzato con la costruzione ex novo di un tronco stradale dalla statale 89, in località S. Lucia, fino all’innesto della
strada provinciale per il Santuario di Pulsano attraverso le masserie
Signoritti e Valente. Il traffico potrà svolgersi, in alternativa, sulla
strada provinciale denominata « Scaloria » (Manfredonia-S. SalvatoreRuggiano-Innesto statale 272) o sull’altra provinciale, già citata, per
33
Pulsano fino a Monte S. Angelo e, da questa località, fino al ponte S.
Raffaele attraverso la statale 272; entrambe queste arterie provinciali
hanno bisogno di ammo dernamento. Da ponte S. Raffaele il tratto potrà avvalersi della strada per la Foresta, di imminente statalizzazione,
che sarà certamente ammodernata con finanziamento Anas fino a Vico
del Gargano, e del successivo collegamento, già esistente, con la riviera di S. Menaio. in contrada Valazzo.
Vi è, inoltre, un altro collegamento, già esistente, con partenza da
Manfredonia per Monte S. Angelo, attraverso la strada provinciale
Ponte S. Venanzio-Monte S. Angelo (la cosiddetta strada corta) recentemente bitumata ed allargata dalla Provincia.
Da Monte S. Angelo la prosecuzione è comune al precedente tracciato attraverso la statale 272 fino a Ponte S. Raffaele.
Il collegamento da Foggia per la Foresta Umbra potrà avvenire,
anche, attraverso la statale 89 fino a Mattinata, con la realizzazione del
tratto Mattinata-Bivio Carbonara, la cui costruzione è stata già prevista come ultimo tronco della statale 272.
La terza grande direttrice del traffico diretta al Gargano è quella
proveniente dall’Italia meridionale e particolarmente dagli altri comprensori turistici dei Trulli e delle Grotte, di Metaponto e della penisola salentina, oltre alle correnti turistiche di ritorno dalla Grecia. Questa
terza direttrice ha a disposizione l’autostrada Bari-Napoli, con uscita a
Barletta ed a Cerignola, le strade statali 16, 98 e 159 e le strade provinciali di imminente statalizzazione Cerignola-Ponte Rivoli e Trinitapoli-Foggia.
A partire dall’abitato di Manfredonia tutte queste arterie confluiranno nel tratto Manfredonia-Mattinata della statale 89, che dovrà essere ammodernato come sopra indicato.
Da Mattinata a Vieste la grande arteria di penetrazione dovrà abbandonare il tracciato della statale 89 per seguire piuttosto, con opportune varianti, il tracciato della nuova litoranea Mattinata-Vieste. Il
primo tratto della litoranea, fino alla località Coppa S. Tecla, ha bis ogno solo di allargamenti e di miglioramenti plano-altimetrici, oltre ad
un arretramento di almeno mezzo chilometro in prossimità del nuovo
molo di Mattinata.
Il secondo tratto, da Coppa S. Tecla a Vieste deve essere, oltre che
allargato, allontanato notevolmente dal mare, per evitare gli attraversamenti delle spiaggie, di porto nuovo e del castello, per realizzare
l’innesto, alle spalle di Vieste, con l’altra arteria a scorrimento veloce
proveniente da Lesina, in prossimità dell’attuale innesto della statale
89 con la diramazione per l’abitato di Vieste.
Le strade di adduzione e di penetrazione dovranno essere idonee
ad assicurare grande scorrevolezza al traffico per permettere ai turisti
di raggiungere, velocemente e comodamente, le principali località garganiche; le strade di collegamento interno al comprensorio dovranno,
invece, offrire al turista, che abbia deciso di soggiornare in una deter-
34
minata località, la possibilità di visitare tutte le altre località in una serie di circuiti turistici da percorrersi in escursioni di uno o più giorni.
Ne consegue che le strade interne al comprensorio dovranno collegare
tutte le località turistiche già valorizzate o suscettibili di valorizzazione sulla base delle indicazioni che saranno fornite dalla carta per
l’utilizzazione turistica del territorio in armonia con il « quadro di riferimento territoriale ».
E’ ovvio che per gli itinerari turistici si potrà usufruire dei tratti
coincidenti con le arterie di penetrazione sopra indicate; alcune strade
già esistenti, provinciali, consorziali o comunali potranno essere utilizzate previo ammodernamento, mentre alcuni altri tratti dovranno essere realizzati ex novo.
E’ possibile delineare alcuni circuiti turistici e collegamenti fra località già valorizzate anche prima della localizzazione dei nuovi insediamenti turistici. I più importanti sono i collegamenti monte-mare; in
considerazione della forma geografica del comprensorio detti collegamenti assumeranno necessariamente uno sviluppo a raggiera, avendo
come fulcro il centro della Foresta Umbra e come circonferenza il litorale da Rodi a Mattinata.
I collegamenti radiali da realizzare sono:
1) Strada Mattinata-Monte Iacotenente-Albergo Rifugio Foresta
Umbra;
2) Strada Pugnochiuso-Torre di Sacro-Monte Iacotenente-Albergo
Rifugio-Foresta Umbra;
3) Strada Segheria del Mandrione-Albergo Rifugio-Foresta Umbra.
I collegamenti già esistenti da migliorare sono:
1) Foresta Umbra-Vico del Gargano-San Menaio;
2) Foresta Umbra-Vico del Gargano-Ischitella-Romondato-Foce
di Varano.
Per completare la rete stradale dell’alto Gargano è necessario, inoltre, realizzare il nuovo tronco Foresta Umbra-località Postofitto
all’innesto con la strada Carpino-San Giovanni R. ed il tratto di collegamento fra la strada Carpino-Piano Canale e l’innesto della Ponte S.
Raffaele-Vico; e migliorare le seguenti strade già esistenti: 1) tratto di
collegamento tra l’innesto statale 272 in località Masseria Cassano e
l’innesto Carpino San Giovanni in località Postofitto; 2) tratto di collegamento fra l’innesto strada: San Giovanni-Cagnano ed il ponte
Romondato all’incrocio con la strada Carpino-Innesto statale 89.
E’ necessario, poi, completare le strade circumlagunari ai due laghi
di Lesina e di Varano. Il lago di Lesina è già circondato da strade per
tre lati su quattro; è necessario, perciò, realizzare la strada di collegamento sull’isola, da Torrefortore a Torremileto. Il lago di Varano è
costeggiato attualmente lungo uno solo dei quattro lati, dalla strada
dell’isola, da Capoiale a Foce di Varano.
Con la realizzazione dell’arteria a scorrimento veloce proveniente
da Lesina, si dovrà eseguire ex novo il tronco da S. Nicola all’innesto
della statale 89. Resterebbero da realizzare le strade costiere per gli
35
altri due lati, da S. Nicola Varano a Capoiale, sfruttando il tracciato
già esistente, e dalla statale 89, nei pressi del magazzino Anas, fino a
Foce di Varano, con strada da costruire ex novo.
L’ultima serie di collegamenti da realizzare è costituita dalle strade
a pettine fra le arterie a scorrimento veloce ed il litorale. La maggior
parte di questi ultimi collegamenti potrà essere studiata solo dopo
l’ubicazione dei nuovi insediamenti turistici. Esistono, peraltro, già le
seguenti strade che assolvono la funzione sopra indicata:
1) Strada provinciale da Chieuti a Marina di Chieuti;
2) Strada provinciale di collegamento fra la provinciale RipaltaLesina e la spiaggia di Torrefortore;
3) Strada provinciale S. Nicandro-Torremileto;
4) Strada comunale Vico del Gargano-San Menaio;
5) Strada comunale di collegamento fra la provinciale PeschiciVieste ed il litorale a sud di Peschici;
6) Strada provinciale dall’innesto statale 89 in località Segheria
del Mandrione alla spiaggia di S. Maria di Merino;
7) Strada provinciale da Coppa S. Tecla a Cala della Pergola, nei
pressi del complesso alberghiero di Pugnochiuso;
8) Strada privata fra la litoranea Vieste-Mattinata e la località «
Imeldoli »;
9) Strada comunale di Varcaro, fra la statale 89 ed il litorale di
Macchia fra Manfredonia e Mattinata.
Per concludere lo studio sui collegamenti stradali garganici, il
Gruppo ha ritenuto effettuare dei calcoli di larga massima circa il chilometraggio stradale da costruire ex novo o da ammodernare ed indicare la presumibile relativa spesa, tenendo conto anche delle caratteristiche plano-altimetriche delle località attraversate:
STRADE DI SCORRIMENTO VELOCE
a) Tratti da costruire ex novo:
1) Direttrice Nord
SV1 SV2 SV3 2)
1)
piano viabile mt. 10,50 Km. 32
»
»
»
7,00 » 20
»
»
» 7,00 »
15
Direttrice da Foggia
SV1
SV2 - piano viabile mt. 10,50 Km. 40
Totali parziali
Km. 107
b) Tratti da ammodernare:
Direttrici Nord
SVI - piano viabile mt. 10,50 Km. 64
36
Spesa presumibile
in milioni
2.200
1.000
500
2.800
6.500
2.500
SV2 »
»
» 7,00 » 18
SV3 »
»
» 7,00 » 16
SVI - piano viabile mt. 10,50 Km. 25
SV2 »
»
» 10,50 » 27
3) Direttrice Sud
Totali parziali
Km. 150
270
230
600
1.000
4.600
STRADE DI COLLEGAMENTO INTERNO AL COMPRENSORIO
Tratti da costruire ex novo:
piano viabile mt. 7,00 Km. 145
5.800
Tratti da ammodernare:
piano viabile mt. 7,00 Km. 87
Totali parziali
Km. 232
2.200
8.000
La spesa complessiva per l’esecuzione del programma statale,
comprendente la costruzione ex novo di oltre 250 chilometri e
l’ammodernamento di oltre 230 chilometri, con esclusione delle strade
a pettine e delle infrastrutture specifiche, ammonterebbe presumibilmente ad oltre 19 miliardi.
Nel caso che non fosse possibile finanziare l’intero programma
stradale nel primo quinquennio di attuazione del piano di coordinamento Cassa, sarà necessario stabilire una scala di priorità delle opere
con spesa rapportata ai finanziamenti disponibili.
Lo studio sulla situazione stradale del Comprensorio garganico è
stato corredato da una parte grafica, composta di n. 9 tabelle, in cui
sono ubicati i tracciati stradali oggetto dello studio.
37
Giuseppe Di Vittorio
Riflessioni sulla figura e sull’opera
nel X anniversario della sua morte
Ricorre quest’anno il decimo anniversario della morte di Giuseppe
Di Vittorio. Era a Lecco, per l’inaugurazione della locale Camera del
lavoro quando, il 3 novembre 1957, un infarto cardiaco lo stroncò:
aveva 65 anni.
L’emozione, che la notizia della sua morte suscitò in Italia e nel
mondo, e l’imponenza dei funerali romani, imposero a uomini politici
di ogni tendenza, a osservatori e a studiosi di questioni politiche e sociali, di meditare sulle ragioni della eccezionale popolarità del dirigente sindacale pugliese.
La sua fibra era già stata indebolita da un precedente infarto, due
anni prima. Egli avrebbe dovuto allentare i suoi impegni e imporsi un
regime di lavoro e di vita severamente controllato. Invece continuò
non solo ad assolvere ai gravosi incarichi di segretario della C.G.I.L. e
di presidente della Federazione sindacale mondiale, ma anche ad essere uno dei parlamentari più attivi e dei dirigenti più impegnati del suo
partito: quello comunista.
Insofferente delle premure e dei richiami di quanti si preoccupavano della sua salute, poco prima di morire si prodigò nella campagna
elettorale amministrativa in Puglia, concludendo così il suo lungo e
appassionato colloquio con i lavoratori della sua terra.
Il modo di vivere, di pensare e di sentire della sua gente era per Di
Vittorio non solo un incancellabile ricordo del passato, ma anche una
realtà da approfondire continuamente per attingervi nuova capacità di
comprendere i bisogni del Mezzogiorno. Ed Egli era profondamente
convinto che se non avesse vissuto e sofferto la vita del bracciante nel
Tavoliere di Puglia, in tempi di intense e importanti lotte sociali, non
avrebbe potuto trovare in sé la forza, la fede e la tenacia che fecero di
lui una delle personalità più rappresentative del mondo sindacale e
democratico.
« Io non sarei stato nulla, io non sarei stato tratto mai dalla massa
anonima dei miei fratelli lavoratori, dei miei fratelli braccianti di Ceri-
38
gnola e della Puglia, se non fosse esistito, se non si fosse sviluppato, e
non avesse lottato il movimento operaio organizzato... E’ vero, io ho
avuto una inclinazione istintiva, naturale, allo studio; ma qui, davanti
a voi, debbo confessare che lo stimolo più potente a studiare, a ricercare, mi è venuto dalle esigenze, dai bisogni quotidiani del nostro movimento, dei nostri primi circoli giovanili, dei nostri primi sindacati.
Avevamo bisogno di comprendere perché avevamo bisogno di aprirci
la strada e di aprircela con le nostre forze, i nostri mezzi, la nostra volontà, per uscire dallo stato di abbrutimento e di umiliazione in cui erano tenuti i lavoratori e conquistarci un destino migliore ». Queste
parole furono pronunciate da Di Vittorio davanti a migliaia di lavoratori e a rappresentanze sindacali italiane e straniere, convenuti a La
Spezia il 10 agosto 1952 per festeggiare il suo sessantesimo compleanno.
L’infanzia e la fanciullezza di Di Vittorio sono anni di mis eria e di
sofferenze. Il padre, salariato fisso in una grande masseria, muore di
polmonite per aver voluto mettere in salvo il bestiame dell’azienda nel
corso di un violento temporale. La madre, rimasta sola con i due figli,
Stella di dodici anni e Peppino di sette anni, cerca di guadagnarsi il
pane, lavando i panni dei vicini di casa. Ma le difficoltà sono tali che
il fanciullo, nonostante le insistenze del maestro, che poco prima aveva premiato il suo profitto con un ambito riconoscimento, deve abbandonare la scuola, prima della fine dell’anno scolastico, alla seconda elementare.
Il suo primo giorno di occupazione non soddisfa il padrone. Questi
constata che fino al tramonto il ragazzo ha raccolto solo pochi chili di
piselli e lo avverte che se l’indomani non avrà reso sufficientemente lo
dovrà licenziare. Di Vittorio tiene ben conto dell’avvertimento, che
amerà ricordare come « la prima lezione di economia » da lui appresa
nella vita. Lavora come è necessario e a distanza di due mesi ottiene il
primo ingaggio per la mietitura. Per la prima volta si allontanerà per
settimane dalla famiglia e sperimenterà la vita collettiva della grande
masseria pugliese.
Allora i braccianti del Tavoliere lavoravano quattordici ore al giorno e l’unico pasto che somministrava il padrone era l’acquasale, consistente in un mestolo di acqua calda versata in una ciotola piena di
pane nero, condito con poche gocce d’olio.
Si è agli inizi del secolo. Al Nord lo sviluppo del capitalismo industriale e del capitalismo agrario crea già importanti fattori di aggregazione operaia che spingono il proletariato a organizzarsi e a lottare
unito; nel Mezzogiorno, al contrario, la rara presenza di fabbriche e di
moderne imprese agrarie capitalistiche, — nonostante l’unificazione
statale, l’emanazione delle leggi eversive della feudalità, e la liquidazione dei beni dell’asse ecclesiastico — mantiene ancora uno stato di
forte disgregazione. Non che nel Mezzogiorno non sia avviato il processo di decomposizione delle vecchie strutture e della vecchia organizzazione economica e sociale, ma ciò non fa posto in città ad imprese industriali e nelle campagne dà vita a una moltitudine di piccole e
39
piccolissime aziende contadine primitive, accanto a medie e grandi aziende di ex feudatari e galantuomini, che per struttura organizzativa e
produttiva non si differenziano di molto dai vecchi feudi.
Però a Cerignola e nel resto del Tavoliere le cose vanno ben diversamente. Anche in Capitanata, certo, la liquidazione dei diritti promiscui nelle campagne aveva portato alla distribuzione di una notevole quantità di terra a favore di braccianti e di contadini poveri. Dal
1806 al 1883 erano state eseguite quotizzazioni, conciliazioni e scioglimenti di promiscuità e di vincoli su 54.460 ettari e già alla fine di
quel periodo risultavano assegnate 44.787 piccole quote. Però su buona parte della superficie di questa provincia aveva dominato per secoli
uno speciale regime fondiario e anche di rapporti sociali, dovuto
all’esistenza del demanio statale del Tavoliere, destinato dal 29 settembre all’8 maggio di ogni anno al pascolo delle greggi transumanti e
sottoposto all’amministrazione della Dogana delle pecore di Foggia.
Al tempo della sua liquidazione il Tavoliere si estendeva per 310
mila ettari, di cui 221.760 ricadevano in Capitanata e 98.240 in province limitrofe.Perciò nella vasta pianura foggiana non solo la consistenza dei beni feudali e dei demani universali era stata più limitata
che altrove, ma la stessa proprietà privata, prima dell’affrancazione
del Tavoliere, aveva avuta poca rilevanza. Lo Stato unitario, operando
sulle orme dell’amministrazione borbonica liquidò l’estesissimo demanio senza tenere in alcun conto i bisogni e i diritti naturali e civili
de lavoratori, ai quali negò qualsiasi possibilità di partecipare al riordinamento sociale ed economico del Tavoliere.
Questo, in virtù di una serie dileggi approvate dal Parlamento nazionale tra il 1863 e il 1894, fu affrancato quasi interamente a favore
degli armentari che lo tenevano in locazione, i quali erano in buona
parte vecchi feudatari e galantuomini abbruzzesi. Ciò diede vita nella
pianura foggiana e in vasti territori vicini a numerose grandi masserie.
Sicché i braccianti, rimasti in gran numero senza terra e anche spogliati di antichi diritti, trovarono una base nuova di aggregazione, non riscontrabile nel resto del Mezzogiorno, oltre che nel tipico borgo pugliese, ove molti di essi erano concentrati con le famiglie, nella masseria, che nei periodi delle semine e in quelli dei raccolti doveva impiegarli in gran numero e sottoporli a un comune sistema di sfruttamento
padronale.
Particolarmente favorevole a un processo di aggregazione operaia
e sociale è la situazione di Cerignola. Qui all’inizio del nostro secolo
dominano cinque famiglie: Pavoncelli, Larochefoucauld, Berlingieri,
Zezza e Palmieri, che con le loro grandi aziende determinano un rilevante sviluppo capitalistico nell’agricoltura della zona. La famiglia
Pavoncelli, che è la più potente, dopo essere stata per anni l’arbitra incontrastata del mercato granario del regno di Napoli, dalla metà del
secolo scorso fino all’epoca dell’affrancazione delle terre del Tavoliere, riesce a darsi nell’agro di Cerignola una vasta proprietà. Nel 1887 i
suoi vigneti occupano una superficie di 2.191 ettari, i suoi oliveti hanno una consistenza di 150 mila piante, la sua industria armentizia è
40
ricca di 3.500 pecore di razza. Anche le altro quattro famiglie hanno
proprietà molto estese.
Di qui la funzione di punta che assumono i lavoratori agricoli di
Cerignola e del resto del Tavoliere, chiamati a operare in un ambiente
che, sotto l’aspetto dell’organizzazione e della concentrazione della
produzione, somiglia più all’ambiente del Ferrarese, del Polesine e di
altre parti della Valle Padana, che non a quello tipicamente meridionale. E’ in questa realtà che Di Vittorio impara a conoscere e a comprendere il lavoro salariato, che è condanna a orari estenuanti e a salari
di fame, a uno sfruttamento insopportabile e a condizioni che debilitano il fisico e avviliscono moralmente, alla disoccupazione per lunghi
periodi e alla soggezione più completa al padrone e ai suoi massari e
mazzieri, all’impossibilità di fare intervenire a propria difesa il potere
pubblico.
Queste condizioni non solo esasperano lo spirito di rivolta dei
braccianti, ma alimentano in loro, sia pure lentamente, la consapevolezza di una completa comunanza di interessi e la coscienza della necessità e della possibilità di esprimere una volontà comune di riscatto,
di far valere cioè con l’organizzazione e con la lotta, come in tante
parti del Nord, i loro diritti.
La Capitanata aveva già nel passato preoccupato più seriamente
che altre province meridionali la classe dominante, per le maggiori
dimensioni che vi ebbe il brigantaggio postunitario, come fatto di resistenza e di opposizione al nuovo Stato. Uomini di governo e parlamentari, infatti, dovettero rivolgere proprio a questa provincia la maggiore attenzione, non solo intervenendo con un’azione repressiva più
massiccia, addirittura spietata, ma anche cercando di approfondire con
più impegno le cause storiche, sociali e ambientali del fenomeno. La
Commissione parlamentare d’inchiesta u1 brigantaggio scopre che «
su 375 briganti che si trovano il giorno 15 aprile (1863) passati alle
carceri della provincia di Capitanata, 293 appartengono al misero ceto
dei cosi detti braccianti » e deve riconoscere che la causa principale di
ciò è da ricercarsi nel fatto che « ivi la proprietà è raccolta in pochissime mani... ed ivi il numero dei proletari è grandissimo ».
Di anarchismo e di socialismo in più parti della Puglia si parlava
già prima che iniziasse il nuovo secolo, ma si era trattato fino ad allora
di iniziative di sparuti gruppi di uomini appartenenti ai ceti urbani,
specialmente artigiani, cui erano mancate significative adesioni e partecipazioni di lavoratori della terra. Le stesse sortite del pugliese Carlo
Cafiero e di altri seguaci di Bakunin, compreso il tentativo di iniziare
da Castel del Monte l’insurrezione plebea, non fecero presa fra i braccianti e i contadini.
Solo ad inoltrato Novecento le cose cominciano a cambiare e il
proletariato agricolo, compiute le prime esperienze di sciopero e di
organizzazione, va avvicinandosi alle idee del socialismo. E’ così che
la bandiera dell’ideale e della lotta socialista passa dalle mani di modesti nuclei di ceti urbani, impantanati nel municipalismo, a quelle ben
più salde di grandi masse di braccianti, impegnate in lotte sempre più
41
importanti per l’occupazione, l’orario di lavoro, l’accordo salariale e i
migliori rapporti sociali.
Di Vittorio non ha ancora compiuto i 13 anni quando, nel 1905,
Cerignola fa il primo sciopero generale. Egli si astiene dal lavoro e
prende parte alla grande manifestazione che si svolge al centro del paese. La cavalleria carica, uccidendo cinque lavoratori. Il più giovane di
questi aveva l’età di Di Vittorio ed era suo amico. Nel primo anniversario dell’eccidio, all’età di 14 anni, davanti a una piccola folla commossa, Di Vittorio pronuncia il suo primo discorso per commemorare
il ragazzo caduto. L’anno successivo fonda il circolo giovanile socialista, che in poco tempo raggiunge i 400 soci.
Quel circolo non si interessa soltanto dei problemi dell’orario di
lavoro e del salario dei ragazzi, ma anche della lotta contro
l’alcoolismo,
dell’istituzione di una scuola serale a spese del Comune e della soluzione di altri problemi riguardanti l’ambiente e il costume. Tra
l’altro, il circolo decide di abolire il tabarro, soprabito invernale che
indossano solo i poveri per distinguersi dai signori. Avviene così che,
fra le proteste dei galantuomini e lo stupore degli anziani, Di Vittorio
e altri giovani braccianti indossano per la prima volta il cappotto, come segno della loro volontà di cancellare ogni distinzione di classe.
Lo stesso anno 1907, forte dell’influenza che ha fra i giovani, Di
Vittorio entra nel direttivo della locale lega dei braccianti,. alla quale
darà un contributo determinante nella preparazione di memorabili lotte. Egli sa trovare il tempo non solo per guadagnare il necessario per
sé e la famiglia come bracciante e per assolvere ai suoi impegni di dirigente, ma anche per studiare.Quest’ultima attività deve compierla
nelle condizioni più difficili, perché non ha denaro per acquistare
giornali e libri e non ha persona che possa dargli consigli e aiuti. E’
cosi isolato nello studio, che solo dopo anni di letture scopre che esiste
un libro che si chiama vocabolario, nel quale è spiegato il significato
di ogni parola.
Molti sono i braccianti che dai comuni vicini si portano frequentemente nelle campagne di Cerignola per lavorare in quelle masserie.
Essi vengono a conoscenza dell’esistenza e dell’attività del circolo
giovanile e della lega e perciò in poco tempo la popolarità di Di Vittorio travalica i ristretti confini del suo comune. Egli è invitato a recarsi
in altre località, per parlare in assemblee e tenere comizi, per preparare
e dirigere scioperi, per costituire circoli giovanili e leghe. Nel 1911 è
così popolare a Minervino Murge, ove per merito suo esistono un circolo giovanile socialista e una lega di braccianti con 4 mila soci, che i
lavoratori del posto lo eleggono segretario della Camera comunale del
lavoro. In quello stesso anno, dopo un grande sciopero dei braccianti
di Cerignola per la riduzione dell’orario di lavoro, Di Vittorio viene
arrestato e sconta tre mesi di carcere. L’anno seguente è eletto segretario della Federazione giovanile socialista pugliese ed entra negli organi dirigenti sindacali baresi; quindi al congresso dell’Unione sindacale
italiana è eletto componente del comitato centrale di
quell’organizzazione nazionale.
I sindacati influenzati da Di Vittorio aderiscono all’Unione sindacale perché non accettano la politica della Confederazione del lavoro,
dominata dai rifornisti. Quella politica è giudicata accomodante e incapace di risolvere i problemi del movimento-sindacale del Mezzogiorno.
42
L’adesione di larga parte dei lavoratori agricoli della Puglia e di altre regioni al movimento sindacalista, definita da Gramsci « espressione istintiva, elementare, primitiva, ma sana » esprime anche
l’illusione che il sindacato possa e debba da solo decidere della lotta
per la trasformazione della società.
L’adesione di Di Vittorio all’Unione sindacale italiana non è mai
accettazione acritica delle sue decisioni e direttive. Quando si è alla
scissione sindacale e si vuole che accanto alle Camere del lavoro e ai
sindacati di categoria della Confederazione ne sorgano altri
dell’Unione, egli si schiera decisamente contro questa soluzione e fa
in modo che in Puglia i lavoratori si mantengano ancora uniti, decidendo a maggioranza di voti l’adesione dell’intera lega o camera del
lavoro all’una o all’altra centrale sindacale. E quando nel 1913, in occasione delle elezioni politiche, la unione sindacale invita i lavoratori
all’astensione, Di Vittorio non accetta l’invito e si impegna a fondo
nella lotta elettorale, a favore del candidato socialista Gaetano Salvemini, di cui sono note le posizioni di critica alla politica dei riformisti
del Nord. In quello stesso anno i lavoratori conquistano per la prima
volta la maggioranza nel Consiglio comunale di Cerignola.
Nel 1913 la Puglia conta 218 leghe di lavoratori, con 88.008 iscritti: più della Campania, della Calabria, degli Abruzzi e della Basilicata
messe assieme, che contano 46.976 iscritti ai sindacati. Le leghe bracciantili da sole vantano nella regione 65.818 soci, più di quanti ne contino in qualsiasi altra regione italiana fatta eccezione dell’Emilia. Nella sola Cerignola, che è la roccaforte del movimento in Puglia, la lega
dei braccianti già nel 1909 supera i 10 mila soci e il circolo giovanile
socialista conta mille iscritti.
Anche sul piano elettorale, cori l’estensione del suffragio, il movimento proletario pugliese è una grande forza. Nel 1913 i voti socialisti
sono in tutta la regione 50.855, quasi la metà dei voti raccolti dal partito in tutto il Mezzogiorno continentale.
La forza del movimento sindacale e operaio pugliese si fece sentire
pienamente, nel 1914, in occasione della settimana rossa, alla quale i
lavoratori della regione parteciparono con grandi manifestazioni e
scioperi, indetti anche per la soluzione di rivendicazioni salariali. Furono colpiti da mandato di cattura numerosi dirigenti, fra i quali Di
Vittorio, che perciò venne aiutato a espatriare clandestinamente in
Svizzera, ove dovette trattenersi fino a quando, otto mesi dopo, non
venne concessa una larga amnistia.
Al suo ritorno in patria, la lotta fra interventisti e neutralisti aveva
già portato profonde divisioni nel movimento operaio e sindacale, in
ogni parte del Paese. Di Vittorio visse anche lui momenti di incertezze
e di dubbi. « Anch’io — egli scriveva più tardi — per breve tempo ero
rimasto scosso dall’argomento che occorresse distruggere gli imperi
centrali per battere la reazione europea e realizzare il socialismo. Ma
soprattutto mi illudevo che fosse possibile ancora salvare l’unità. La
questione era troppo grave e la mia illusione scaturiva dalla mia debolezza ideologica e politica ».
43
Allo scoppio della guerra raggiunse il reggimento bersaglieri di
Napoli e dopo poco il comandante del suo reparto, credendo che egli
avesse il titolo di studio richiesto, lo avviò al corso per ufficiali. Di
Vittorio, che aveva fatto presente invano di aver superato solo la terza
elementare alla scuola serale, superò brillantemente il corso; ma, mentre era in attesa della promozione, giunsero al comando informazioni
sulla sua condotta di « sovversivo », (e si seppe anche di un suo articolo pubblicato su « La scintilla » di Ferrara, con il quale aveva incitati i giovani della classe 1892, al momento della loro chiamata alle armi, a non sparare mai sui lavoratori) e perdette la possibilità di diventare ufficiale. Trasferito al fronte e gravemente ferito, non più idoneo
alla Vita di trincea, a causa dei suoi precedenti politici fu assegnato a
La Maddalena, poi in Sicilia e quindi in Libia, ove fu trattenuto fino al
termine della guerra.
Rientrato in patria, Di Vittorio riprende immediatamente il suo posto di lotta, come segretario della Camera del lavoro di Bari, alla testa
dei lavoratori pugliesi, che nella drammatica situazione del dopoguerra sono costretti a grandi scontri con gli agrari e poi con le squadre fasciste da questi finanziate e armate.
Arrestato e tradotto nelle carceri di Lucera nell’aprile 1921, il 21
maggio successivo viene rimesso in libertà perché eletto deputato. Le
manifestazioni che si hanno a Lucera, a Foggia e a Bari al suo arrivo
dopo la scarcerazione sono avvenimenti politici dei più memorabili. «
Neppure quando si è sposato nella nostra città Vittorio Emanuele III
— si legge nella corrispondenza da Bari de “La Voce Repubblicana” — si era vista una manifestazione tanto imponente ». A Cerignola,
ove le elezioni erano state funestate dall’uccisione di nove lavoratori
da parte delle squadre di Caradonna, che avevano imposto ai braccianti di non presentarsi alle urne, i fascisti lo bandiscono dalla città a
mezzo di un manifesto, minacciandolo di morte. Appena lo sa, Di Vittorio si mette in treno per raggiungere il suo paese: qui la notizia del
suo arrivo raccoglie una folla mai vista prima, che in buona parte pernotta all’aperto intorno alla sua abitazione, per difenderlo dai temuti
attacchi degli squadristi.
Lo squadrismo imperversa in tutta la Puglia con particolare accanimento. Le bande armate uccidono il deputato socialista Di Vagno e
altri dirigenti e lavoratori e distruggono numerose sedi di organizzazioni politiche e sindacali. Di Vittorio in tutto questo periodo è alla testa di una resistenza accanita, promuovendo e presiedendo il comitato
dell’Alleanza del lavoro e dirigendo gli « Arditi del popolo », che sono gruppi di lavoratori decisi a contrapporsi al fascismo con le armi.
Egli capeggia vere e proprie battaglie, come quella che si svolge a Bari vecchia dal 31 luglio ai primi di agosto del 1922.
La dolorosa esperienza di quel periodo fece maturare in lui il convincimento dell’insufficienza del partito socialista, indebolito da profonde divisioni interne e condizionato dai riformisti. Infatti, quando
nel partito si costituì la corrente dei « terzinternazionalisti », favorevole alla fusione tra socialisti e comunisti, egli vi aderì. Successiva-
44
mente risultato infruttuoso il tentativo di fusione delle due forze politiche operaie, si iscrisse al partito comunista.
Sul finire del 1925 fu arrestato. Restituito ai suoi nel giugno dell’anno successivo, per decisione del suo partito poco dopo espatria,
sottraendosi così alla pena di dodici anni di carcere inflittagli dal tribunale speciale.
All’estero Di Vittorio svolge un’attività intensissima. Dal 1928 al
1930 è in Unione Sovietica quale rappresentante della Confederazione
del lavoro nell’internazionale sindacale. Poi è a Parigi, ove si dedica al
lavoro di direzione della Confederazione del lavoro e all’attività di
propaganda fra i lavoratori italiani in Francia. Nel 1936 è tra i primi a
raggiungere la Spagna come combattente a difesa della repubblica.
Rientrato a Parigi assume la direzione de « La voce degli italiani »,
quotidiano degli antifascisti in Francia.
Nel 1939 anche in Francia inizia la caccia agli esponenti comunisti. Il giornale « La voce degli italiani » viene soppresso e Di Vittorio
deve darsi alla clandestinità; il 10 febbraio 1941 viene scoperto e arrestato e, dopo un penoso peregrinare di carcere in carcere in territorio
tedesco e poi in Italia, nel settembre successivo è avviato al confino a
Ventotene, da dove viene liberato unitamente a tutti gli altri confinati
politici nell’agosto 1943. Questa volta la libertà per lui deve durare solo pochi giorni, perché dopo l’8 settembre, ricercato nuovamente da
tedeschi e fascisti, deve ritornare alla clandestinità. Viene catturato,
ma il sottufficiale dei carabinieri, che lo traduce sotto scorta, lungo il
tragitto si assume la responsabilità di rilasciarlo.
Con la liberazione di Roma, Di Vittorio riprende finalmente l’attività legale, che inizia con un atto storico: la firma del Patto di unità
sindacale, che è il coronamento di un mirabile lavoro compiuto nella
clandestinità da lui e da autorevoli rappresentanti del partito socialista
e della democrazia cristiana, per la costituzione della C.G.I.L. quale
organizzazione sindacale unitaria dei lavoratori italiani.
Di Vittorio difende il significato di quel patto anche nei momenti
più difficili. Le scissioni sindacali lo addolorano profondamente, ma
non intaccano la sua fede nella capacità dei lavoratori di ritrovare la
via dell’unità. E’ per questo che egli le fronteggia con spirito fortemente unitario. Preoccupato di limitarne il più possibile il danno, non
cede mai alla tentazione di condurre la polemica fino a compromettere
la possibilità di nuovi incontri e intese. Quando ad altri appare impossibile il più modesto accordo fra sindacati di diverso orientamento, egli pazientemente e insistentemente cerca di dimostrarne la necessità e
la possibilità. Quando a molti suona predica astratta parlare della possibilità del ritorno al sindacato unico, Di Vittorio ripropone la questione ai lavoratori e ai dirigenti di ogni tendenza come problema che si
può e si deve affrontare, sia pure con gradualità.
Una costante di tutta la vita di Di Vittorio è questa sua azione per
l’unità sindacale dei lavoratori, che egli considera non solo il primo
presupposto di successo delle rivendicazioni sindacali, ma anche un
45
fattore importante per lo sviluppo economico e sociale del Paese e per
il consolidamento della democrazia.
Questa concezione dell’unità e della funzione del sindacato porta
Di
Vittorio
a
spingere
l’interessamento
e
l’iniziativa
dell’organizzazione sindacale oltre i problemi strettamente rivendicativi delle categorie, fino ai temi più diversi interessanti la nazione e le
strutture economiche, sociali e statuali del Paese. Convinto che il sindacato debba sempre preoccuparsi di inquadrare la sua azione in una
visione generale degli interessi dei lavoratori e della società, egli è deciso e fermo nel combattere ogni posizione che gli appaia particolaristica, corporativa, demagogica. Si preoccupa che qualsiasi rivendicazione, prima che sia assunta come motivo di azione sindacale, venga
valutata in rapporto non solo all’interesse dei lavoratori per i quali è
proposta, ma anche all’interesse generale; così come si preoccupa che
una qualsiasi forma di lotta sindacale, prima di essere adottata, sia valutata anche in rapporto alle reazioni che può suscitare nell’opinione
pubblica. Perciò i suoi discorsi, tanto se pronunciati nelle riunioni sindacali quanto se pronunciati nelle piazze e al Parlamento, contengono
sempre un forte accento umano, che tocca profondamente chiunque
sia interessato al progresso della società; essi danno ad ogni rivendicazione e ad ogni azione sindacale il valore difatti interessanti la collettività.
Tutta l’opera di Di Vittorio dal 1945 al 1957 risente fortemente
delle esperienze da lui accumulate durante un lungo e molto travagliato periodo della storia italiana. E’ per questo che con il ricordo di una
vita esemplare e prestigiosa, tutta spesa al servizio dei lavoratori e della democrazia, Di Vittorio ha lasciato tracce profonde nella realtà del
Paese e nella coscienza degli italiani.
MICHELE MAGNO
46
Puglia linguistica
Un nuovo atlante fonetico per la Regione
CAPITOLO I: Principi e metodo
I. 1 - Il metodo che va integrato.
L’Atlante fonetico pugliese nella redazione nuova, che andiamo
concludendo sotto gli auspici (non sempre generosi e continuativi)
della Discoteca di Stato e del C.N.R., è nato come continuazione e
come completamento dell’atlantino regionale del 1955, che si era limitato alle province di Foggia e Bari1 .
Nella nuova redazione saranno comprese le restanti province pugliesi, cioè a dire quelle di Brindisi, Taranto e Lecce. Strada facendo,
ci si è accorti che andavano rifatte anche le parti che riguardavano le
province già servite, perché si era andata chiarendo la necessità di far
ricorso a una metodica e a un’impostazione diversissime.
Negli atlanti degli anni 55 (oltre quello pugliese ricorda quello lucano)2 eravamo partiti da un materiale in certo qual modo precostituito, ossia dall’esame delle reazioni dei vari dialetti a un determinato
numero di fatti fonetici riuniti in poco più di un centinaio di paragrafi.
Un metodo del genere (a sfondo tutto grammaticale) oggi non lo ripudiamo. Anzi lo stimiamo essenziale per la illustrazione della genesi e
della diffusione di un fenomeno. Occorre però integrarlo in maniera
che la ricerca possa essere spostata anche al di là dei paragrafi preventivati. Bisogna perfezionarlo per un esame ancora più diretto e più
completo della realtà, la quale costituisce l’oggetto essenziale della ricerca dialettologica3 .
1
M.MELILLO, Atlante fonetico pugliese. Parte I e II: Capitanata e Terra di Bari,
San Marcello, Roma, 1955.
2
ID., Atlante fonetico lucano, San Marcello, Roma, 1955.
3
Si utilizza diffusamente quanto abbiamo già scritto altrove: nella Premessa al Sussidiario per il raccoglitore della Carta dei dialetti italiani. Napoli 1966; in Materiali
nuovi per una carta nuova, Messina, 1965; ed.
47
I.2 - Lo svolgimento del metodo storico-geografico.
Per quanto la geografia linguistica sia naturalmente disponibile per
indagini sempre vivaci e nuove, è innegabile che non ancora si sia riusciti a liberare le nostre inchieste di quella parte di razionalità che le
minaccia pesantemente già prima di avviarle. Da una parte il materia e
linguistico eternamente vivace ed imprendibile, dall’altra il ricercatore
che lo incatena per mortificarlo.
Lo stesso Gilliéron, che aveva proclamato il principio della varietà
e della individualità delle istantanee4 , ha poi devitalizzato tanta parte
delle sue ricerche ordinando il materiale raccolto alfabeticamente, come una serie di pezzi destinati alla collezione di un museo linguistico.
L’AIS (l’Atlante di Jaberg e Jud)5 , l’ALI (l’Atlante già diretto da B.
Terracini)6 , 1’ALEC (quello linguistico-etnografico della Corsica)7 e i
vari Atlanti del territorio romanzo e non romanzo (ad esempio lo stesso Atlante slavo ancora in elaborazione) hanno aumentato questo accostamento alla realtà, ordinando i materiali ideologicamente o anche
al contatto diretto con la realtà etnografica (ricorda a questo proposito
l’azione del Gardette attraverso i suoi Atlanti regionali)8 .
I.3 - La necessità di studiare un testo libero ed ampio.
Va fatto però ancora un passo avanti. La frase da tradurre o anche
la risposta, provocata con una domanda indiretta oppure con
l’indicazione diretta di un oggetto, possono servire a darci un saggio
più o meno abbondante di una parlata. Ma vi è sempre un qualcosa di
rimediato, qualcosa che sa di accostamenti molto approssimativi.
Il discorso è appena iniziato. E può aver termine soltanto in
un’esposizione che sia espressa liberamente ed ampiamente. Oggi abbiamo il soccorso della tecnica. Vi è il magnetofono che finalmente ci
consente di poter ritrarre tutto il parlato, la realtà piena del parlato. La
linguistica deve tener conto della possibilità di studiare un testo intero,
ultimamente nella relazione su Tentativi per una geografia linguistica più avanzata presentata al XII Congresso di linguistica e filologia romanza nell’aprile del 1968 a Bucarest.
4
J. GILLIERON, Généalogie des mots qui désignent l’abeille, 1919 (pp. 3-5). Non
dimenticando naturalmente il suo fondamentale Atlas unguistique de la France, 1902.
5
K. JABERG-J. JUD, Sprach-und Sachatlas Italiens und der Siidschweiz, Zofingen, 1928 e ss.
6
M. BARTOLI-G. VIDOSSI, Atlante linguistico italiano (in corso di pubblicazione a Torino).
7
G. Bottiglioni, Atlante linguistico-etnografico della Corsica, Pisa, 1935.
8
P. GARDETTE, Atlas linguistique et ethnographique du Lyonnais (ora in ristampa sotto gli auspici del C.N.R.S.), a cui si affiancano J. SÉGUY, Atlas linguistique et
ethnographique de la Gascogne e P. NAUTON, Atlas unguistique et ethnographique du
Massif Central (sempre sotto gli auspici del C.N.R.S.).
48
in cui siano espressi non solo fatti noti (fonetica, morfologia e lessico), ma anche fatti poco esplorati (la sintassi), o anche fatti non ancora
esplorati (la parte emotiva del parlante: la sua accentuazione, il ritmo,
le sue varianti, le sue incertezze, le sue oscillazioni, la sua umanità).
I. 4 - La scelta del testo.
Siamo così arrivati alla conclusione che avremmo dovuto impostare il prosieguo dell’Atlante fonetico pugliese partendo da un testo
completo. E la scelta è caduta sulla parabola del figlio! prodigo (una
scelta indovinata a giudicare dalle preferenze che ora le danno la Discoteca di Stato e la Carta dei dialetti italiani). Al caso nostro l’ideale
sarebbe stato quello di assicurare dei testi liberi, dei testi, che, nati dalle particolari disponibilità ambientali, riproducessero una parlata pienamente libera. Avremmo dovuto registrare tutto il registrabile, preoccupati soltanto della bontà e della sincerità del materiale. Una ricerca
ideale, che per giunta non consentirebbe di preventivare un orientamento già prima che ci si muova.
I. 5 - Il criterio della comparabilltà.
Purtroppo si è dovuto fare qualche concessione. Il ricercatore privato o isolato che dir si voglia può anche concedersi il gusto di esperimentare delle vie di cui non si conosca proprio nulla della loro uscita, ma quando si tratta di avviare o di stendere un piano di lavoro che
si presume di ripetere in altre regioni, è necessario che venga indicato,
a titolo puramente orientativo e senza preventivare comunque nessuna
conclusione, un termine di raffronto o di comparabilità, che ci consenta di collocare nello spazio e nel tempo parlate e varietà di domini linguistici diversi.
I. 6 - Una comparabilità reale.
Dobbiamo senz’altro mantenere salvo il principio della comparazione. Ma dobbiamo anche garantirci contro il rischio di una
comparazione puramente grammaticale o molto astratta.Una frase, una
parola o anche il più semplice fonema hanno un significato reale, solo
quando provengono da un discorso effettivamente svolto e quando sono studiati in relazione al posto particolare che essi occupano nel
complesso del discorso. Perché, come da tempo ci ha ammonito il Castiglione, “il dividere le sentenze dalle parole (ossia
dall’ambientazione esatta da cui traggono origine parole e suoni) è
un dividere l’anima dal corpo”9 .
9
B. CASTIGLIONI, IL Cortegiano, I, 33.
49
I. 7 - L’individualità del parlante.
Stabilita la necessità o anche la convenienza di fare scaturire lo
studio da un tessuto discorsivo reale e comparabile, resta da prendere
degli accorgimenti per assicurarsi la genuinità ossia l’individualità del
testo da esaminare. Un suono o una voce o una forma o un costrutto
che fossero considerati in un discorso con contenuto storico o logico
completo, ma non fossero espressi liberamente ossia spontaneamente,
resterebbero sempre dei materiali inutilizzabili. Bisogna assicurarsi un
testo che nasca sotto la spinta del mondo sentimentale dell’individuo.
Occorre raccogliere un’esposizione che porti con sé tutto il particolare
calore del parlante, la ricchezza e la vivacità della sua lingua. Fermatici sulla parabola, ci si è dovuti preoccupare di far produrre una parabola che fosse stata vissuta per intero con le immagini e le impressioni, che sono proprie della lingua della persona che si è voluto fotografare.
I. 8 - La tecnica della rivelazione.
Prima di raggiungere la località previs ta per la rilevazione, in genere, è stato fatto recapitare alla persona indicata dal Sindaco o da
qualsiasi altro il testo italiano da tradurre. L’esperto, o quello che tale
è ritenuto nella reputazione pubblica, prepara una sua traduzione che
trascrive o fa trascrivere, a modo proprio, e tante volte la fa trovare già
bella e pronta su nastro magnetizzato. E’ veramente molto difficile che
queste traduzioni possano essere utilizzate come edizioni definitive. In
queste traduzioni vengono riversate delle ricercatezze lessicali individualissime, che non sempre trovano rispondenza nell’uso comune; o
anche vengono ripetuti gli stessi costrutti del testo italiano fonetizzati
su degli elementi o su dei vezzi canzonatori, che sono sempre dei fatti
molto individuali e per niente presenti nella realtà di una parlata abituale e spontanea. La condanna di questa prima traduzione degli esperti te la forniscono gli altri parlanti, che trovano da ridire su quel suono,
su quella parola o su quella frase. “Da noi non si dice così”, è il giudizio che raccogli immediatamente. Quindi negli altri si va formulando
una traduzione più esatta. Fino a quando l’interesse della cosa non
aumenta e prende qualcuno dei presenti, che ormai ha capito tutto, e
cosi la parabola può dirla tutta, a modo suo, senza la preoccupazione
di leggerla.
I. 9 - La migliore traduzione.
Il testo migliore è senza dubbio nell’esposizione accalorata di chi
si è fatto coraggio e vuole essere registrato. Non vi è alcun impaccio.
Né la suggestione del microfono, né il passaggio obbligato di certi costrutti, di certi forzamenti, di certe espressioni un po’ troppo astratte e
pertanto lontane dalla realtà, dalla sostanzialità e dalla concretezza
50
della lingua parlata. Vengono fuori delle aggiunte di colore come
quella iniziale del “C’era una volta”, come quella del padre “che spia
il figlio da una loggia della casa” (là dove la parabola parla solo di un
padre che lo “vede arrivare”), o quella del “secchio che è arrivato fino
alle pietre, fino al fondo del pozzo” per dire del figliol prodigo “che
aveva dissipato ogni sostanza”, o quella conclusiva dei fratelli “che
fanno la pace” (là dove la parabola chiude l’episodio a mezzo, quasi
senza concluderlo).
I. 10 - L’episodicità della parabola.
Abbiamo delle aggiunte. Ma queste sono soltanto apparenti. Nella
sostanza il fatto non cambia. Sono le espressioni, le immagini che
cambiano. Ed è necessario che questo avvenga, se si vuole ottenere
una traduzione che non distrugga il veramente vitale o il veramente
individuale di una parlata. Cambiano le parole, vengono fuori delle
immagini nuove, ma l’episodio, il fatto è lì nella sua interezza. Anche
perché, per buona fortuna, la parabola è congegnata episodicamente,
in maniera tale che, volendola ripetere in una lingua diversa o anche in
un ordine diverso, sei costretto a ritornare su tutti i particolari episodici, a tradurre cioè ordinatamente tutti i versetti, che rappresentano i
momenti necessari di tutta la narrazione. Insomma anche nella traduzione libera sono salvi tutti i costrutti richiesti per avviare un lavoro di
riferimenti e di comparabilità.
I. 11 - La nozione di atlante.
Siamo cosi arrivati ad una raccolta di testi. E sarebbe stato di conseguenza più facile pensare alla nozione di un’antologia che a quella
di un atlante. A qualcosa come i testi dialettali raccolti da un Salvioni10 , da un Biondelli11 , da un Battisti12 , o ancora prima da uno stesso
Papanti13 . Ma la prevalenza dell’interesse geografico (almeno per la
distribuzione topografica dei centri da studiare) e la stessa prospettiva
di stendere direttamente delle carte, o anche di favorirne la stesura da
parte di altri, ci hanno bloccati all’idea di fare un’opera linguistica su
di un piano fondamentalmente geografico. Oggi poi che la geografia
10
C. SALVIONI, Versioni varie centrali e meridionali della parabola del figliol
prodigo trat te dalle carte del Biondelli, in Rend. Ist. Lomb., 48; ID., Versioni alessandro-monferrine e liguri della parabola del figliol prodigo, in Rend. Acc.Lincei, vol. 15,
fs. 8, 1918.
11
B. BIONDELLI, Saggio sui dialetti gallo -italici, 1853 (versioni della parabola
del figliol prodigo pp. 36-55; 224-246; 505-556).
12
C. BATTISTI, Testi dialettali italiani, in Beilzefte 49 e 56 della Zeit scl-zrift fiir
rom. Philologie, 1914 e 1921; ID., Testi dialettali it aliani, edizione minore, 1921.
13
G. PAPANTI, I parlari italiani in Certaldo alla lesta del V Centenario di Messer
Giovanni Boccaccio, Livorno, 1875.
51
linguistica è penetrata fin nei “testi medievali e trattati scientifici rinascimentali” 14 , come non si dovrebbe preferire la nozione di atlante per
una serie di rilievi che sono stati ordinati in una dislocazione squis itamente topografica?
I. 12 - L’lntitolazione dell’opera.
Poche parole ora per chiarire come possa essere definito un atlante
con materiali linguistici del genere. Va subito detto che un atlante fonetico inteso ad evidenziare soltanto dei fatti fonetici, cosi come era
nei propositi iniziali, non è più possibile ottenerlo, una volta presupposta l’essenzialità di un testo completo che interessi in uno stesso
tempo tutti i settori grammaticali. D’altra parte non sarebbe possibile
ottenerne con gli stessi materiali uno che fosse soltanto morfologico, o
soltanto lessicale, o soltanto sintattico.
Probabilmente meglio sarebbe stato intenderlo come atlante linguistico pugliese. Ma perché una qualificazione del genere, chiaramente
ambiziosa, non confondesse la modestia dei nostri intenti con
l’aspettativa di una vera e propria enciclopedia linguistica regionale, si
è stimato opportuno ripiegare sulla qualificazione di origine. In fondo
motivatamente. Si sa bene che da un punto di vista teoretico vi sono
dei settori grammaticali (e ci si riferisce in special modo a quelli di
ordine sintattico, i più tenacemente legati al segreto del nostro pensiero), che possono interessare ancora più dei fatti fonetici. Ma nella difficoltà di trovare una limitazione che definisse compiutamente i termini dell’opera, è parso giusto insistere sull’aspetto fonetico, perché i
materiali da cui si parte oltretutto sono indiscutibilmente ‘fonici’ e sono riversati su testi in trascrizione fonetica (come si dirà subito), e
perché in ultima analisi ogni materiale linguistico, prima di assumere
una qualsiasi funzione, è un fatto sostanzialmente fonetico.
I. 13 - L’organizzazione dell’opera.
L’opera non è nata con degli indici e con dei capitoli predisposti in
partenza, ma si è andata organizzando da sé col peso del materiale che
si veniva gradualmente accrescendo, nell’ordine che il proposito della
ricerca (la produzione di un parlato sincero nel dominio di un’intera
regione) ha imposto di tempo in tempo, di tappa in tappa. Primo tempo: quello della registrazione. Secondo tempo: quello della trascrizione del registrato. Terzo tempo: illustrazione dell’ambiente dal quale è
stato tratto il parlato. E da ultimo un elenco dei fatti e dei suoni da
14
Si rinvia alla relazione fatta da G. FOLENA su Geografia linguistica, testi medievali e trattati scientifici rinascimentali al Convegno ai Lincei nell’ottobre del 1967.
52
mettere a disposizione degli studiosi. Quattro tempi che corrispondono
più precisamente alle quattro parti dell’opera complessiva: 1) un archivio sonoro; 2) un’antologia di testi; 3) un commento-guida; 4) un
glossario generale.
I. 14 - L’archivio sonoro.
Consiste nei materiali che sono stati registrati e che sono stati destinati alla redazione dell’Atlante fonetico pugliese. Assommano ad 84
parabole, tante quanti sono i centri prescelti per l’intero dominio pugliese (in ragione di un terzo sul numero complessivo dei comuni della regione). Detti materiali sonori attualmente sono consultabili in edizione originale presso l’Archivio linguistico-musicale della Discoteca
di Stato in via dei Funari a Roma 15 ed in copia (ottenuta da riversamenti diretti) presso il Centro di rilevazioni etnofoniche16 (dislocato
attualmente nelle scuole nuove in Viale dei Pini al Lido di Siponto). A
richiesta dello studioso, la Discoteca di Stato e il Centro di rilevazioni
etnofoniche sono in grado di rimetterti immediatamente il nastro contenente la voce o la parlata che può interessarti.
I. 15 - I testi.
Tutti i nastri, che sono stati prescelti ed ordinati per l’archivio sonoro dell’Atlante, successivamente sono stati riascoltati e trascritti,
utilizzando i segni diacritici suggeriti da C. Merlo per la rivista
L’italia dialettale17 . Non sono state introdotte delle lettere particolari.
Ma è stato fatto un largo uso dei segni sottoposti alle vocali (il puntino
per indicarne la chiusura, lo spirito aspro per l’apertura, e il cerchietto
intero per indicare l’affievolimento) e alle consonanti (il puntino per la
serie delle cacuminali siculo-salentine), ed un uso altrettanto abbondante di segni sovrapposti alle vocali (due puntini per le palatilizzazioni e un cerchietto per le velarizzazioni) o alle consonanti (il
circonflesso capovolto per gli schiacciamenti e le palatalizzazioni).
Altri accorgimenti particolari (sovrapposizione di due vocali o di due
consonanti per indicare la coincidenza di due suoni diversi, la ripetizione dei segni sottoposti e sovrapposti per accentuare il grado del fenomeno denunciato, ecc.) sono intesi a facilitare la lettura o anche a
richiamare l’attenzione dello studioso sul fenomeno, che può essere
diagnosticato ancora meglio, facendo ricorso all’ascolto del testo, direttamente dal materiale registrato.
15
16
17
Discoteca di Stato, Archivio etnico, linguistico-musicale, catalo go 1967.
Cf. in Orbis, VII, 1956, pp. 239-42.
Vol. I, 1 e ss., III, 1 e ss.
53
I. 16 - Il commento.
La terza parte dell’opera è dedicata al commento illustrativo: su
particolari segni adoperati, su particolari suoni, su particolari cadenze,
sulle condizioni in cui la fonte ha parlato, sulla provenienza sociale
della fonte, e sugli interessi, che una traduzione dialettale ha suscitato
negli interventi del pubblico presente alla registrazione od anche al
riascolto. Il commento è puramente descrittivo. Le conclusioni di ordine storico non sono state espresse, neppure quando l’esposizione dei
fatti le ha angolate in una direzione ormai inequivocabile.
I. 17 - Il glossario.
La quarta ed ultima parte consiste in un glossario, in cui sono registrate le concordanze di tutti i termini e di tutti i Costrutti che sono stati incontrati nel testo. Con lo stesso rigore che si richiederebbe per un
lavoro di filologia.
Ed ora ci si domanderà: ma le carte dell’Atlante dove sono andate
a finire?
Le carte del tipo di quelle su cui ci siamo andati esercitando, le
stenderanno gli altri, o le stenderemo noi stessi. Ma a questo punto il
compito dell’Atlante può dirsi compiuto.La carta è un fatto esteriore, è
un esercizio di lavoro personale, che non si ha il diritto di imporre
come sintesi di ritrovati sinceramente scientifici. Il ritrovato sincero è
posto nel lemma del glossario, dove troverai indicati suoni, voci e costrutti, e per ognuno di questi fatti il rinvio ai testi di origine, che tu
puoi controllare rileggendoli o riascoltandoli nell’interezza della frase
o del racconto completo. Il raccoglitore ha compiuto la sua parte, creandoti le condizioni per sviluppare il tuo lavoro. Toccherà a te storico
della lingua ricostruirti la carta, nella composizione della quale al ricercatore resterà soltanto il merito di averti messo in condizione di
conoscere come è nata e dove e nata la parola su cui tu vai indagando.
La prospettiva di un ulteriore progresso della geografia linguistica
è posta tutta in questo richiamo alla vivacità e alla molteplicità della
realtà linguistica, che non può essere contenuta in una serie di carte
diventate ormai volutamente sempre le stesse, e che aspira a liberarsi
di ogni limitazione concettuale, investendo il fatto linguistico non più
negli aspetti parziali (carte fonetiche, carte morfologiche, carte lessicali, atlanti linguistico-etnografici, ecc.), ma nella sua interezza, che si
rivela a noi soltanto in un testo che sia stato detto liberamente ed ampiamente.
MICHELE MELILLO
L’A. ci ha gentilmente concesso di pubblicare questa primizia di un suo testo, che
sarà pubblicato l’anno venturo nelle collane del C.E.S.P.
54
S. Domenico e la cappella
de «la Maddalena» in Manfredonia ∗
Mi piace innanzi tutto citare, per quel suo tono che tradisce
l’emozione della scoperta, e per un suo stile vecchiotto, ma per bene,
onesto, di intellettuale d’altri tempi, una lettera del sindaco di Manfredonia, dott. Pietro Guerra, inviata il 29 novembre 1895 al direttore dei
monumenti antichi presso il Ministero della Pubblica Istruzione. In essa vi si dà notizia che il 15 dello stesso mese il custode delle carceri,
lavorando una aiuola « pertinente alla propria casa, scorse la cima di
un arco gotico, dal quale scavando la terra, venne fuori una nicchia
con l’effigie del Cristo morto nel punto in cui la Maddalena lo pose
nel sepolcro. Fatte quindi altre escavazioni, a dritta ed a manca, nel
muro prospiciente ad oriente furon trovate delle pitture a fresco che, a
giudizio di persone competenti, son degne di essere custodite. Si sono
quindi scoverte le quattro colonne che sostener dovevano la volta e si
è pure scoverto un arco maestro di stile gotico, che sebbene restasse
nascosto sotto un muro della Chiesa di S. Domenico, è tuttavia degno
di ammirazione. Gli scavi sono proceduti fino alla profondità di circa
∗
Nel corso del 1967, tra le altre iniziative del Centro di cultura popolare e biblioteca ‘Antonio Simone’ di Manfredonia, si svolse un primo ciclo di conversazioni con visite guidate: « Alla scoperta della Città ». Pubblichiamo quella del vice segretario del
Comune, rag. Nicola De Feudis, cultore di studi locali, che ci ha gentilmente fornita la
fotografia del protale di S. Domenico (quelle degli affreschi, tratte dall’archivio
iconografico del Centro, provengono dallo Studio di Umberto Va lente).
55
3 metri, dopo di che si è visto il pavimento e, sotto ad esso, si son scoverti antichi sepolcri ».
Così la lettera, la quale alla descrizione della « scoverta »premette
la leggenda di Manfredi che, superato il grave pericolo di un naufragio, sbarca a salvamento proprio in questo sito ove, per sciogliere un
voto, innalza la Cappella.
Si sarà anche notato come il nome di « Cappella della Maddalena
» sia stato attribuito al monumento dallo stesso sindaco Guerra che,
nella figura femminile che sorregge il Cristo morto, ritenne raffigurare
la Maddalena, più precisamente Maria di Magdala.
Il nome così disinvoltamente coniato rimase poi acquisito, senza
contrasti, nella corrispondenza ufficiale che si protrasse fino ai primi
anni del nuovo secolo tra Comune ed uffici ministeriali, e nelle citazioni di quanti si occuparono del monumento.
Comunque, si trattò di un felice ritrovamento che confermò, in sieme alla testimonianza del portale, l’erezione di un tempio di stile
gotico sulle mura prospicienti la marina, nella seconda metà del XIII
secolo, prima o contemporaneamente all’altra chiesa trecentesca di S.
Francesco.
Sono gli ultimi bagliori artistici di questa terra, prima che inizi il
secondo oscuro medio evo.
Ma si tratta davvero di una chiesa di stile gotico? E chi la volle:
Manfredi o l’Angioino?
Lasciamo stare per un momento le leggende, e tentiamo innanzitutto un’analisi estetica del monumento, o, per essere più precisi, dei
resti del monumento primitivo, l’elegante portale e la Cappella, poiché, come è noto, l’interno di S. Domenico è un modesto rifacimento
posteriore.
L’archivolto del portale è a sesto acuto con timpano probabilmente
affrescato (oggi vi figura una graziosa Madonna del Rosario di buona
ma recente fattura); i capitelli a calice sono realizzati con foglie e volute ripiegate a valve con preminenti fini decorativi e di eleganza; le
due colonne laterali già esili, sono ulteriormente alleggerite e impreziosite da due profonde scanalature che simulano un insieme polistili.
Pilastri con semicolonne addossate troviamo anche in angoli della
cappella, e ricchi capitelli a foglie stilizzate ed appuntite sotto l’arcone
ogivale, e tracce di costoloni o nervature per l’impostazione della
56
S. DOMENICO E LA «MADDALENA» IN MANFREDONIA
S. DOMENICO E LA «MADDALENA» IN MANFREDONIA
IL CENTRO SERVIZI CULTURALI DEL GARGANO
CELEBRAZIONE GIORDANIANA DI FOGGIA
volta a crociera; ed ancora l’edicola o nicchia con manofora trilobata
assolutamente di gusto gotico.
Ma, nel contempo, non può sfuggire in facciata la presenza di due
leoni stilofori (non saranno stati presi a prestito da altro portale?) ed il
falsò protiro con ornamento di palmette ricurve, tanto care agli architetti romanici, la cornice di una finestra a rosone, ed un frontone a
spioventi moderati sotto il cui finimento la mia fantasia vede una fuga
di architetti pensili.
Siamo dunque di fronte ad un monumento nel quale sono numerosi
ed evidenti gli elementi del nuovo stile, quello gotico, ma forti sono
ancora i richiami del glorioso romanico, così consono allo spirito ed
alla tradizione locali. E’ questa, insomma, una opera di transizione, di
rielaborazione del romanico in omaggio al nuovo gusto più raffinato e
più agile, ma meno espressivo e meno spontaneo, che va diffondendosi per l’Europa cristiana. Di questo stile saranno ormai le nuove chiese
di Capitanata e di Puglia, come S. Francesco di Manfredonia e di Lucera, come S. Domenico di Taranto e tante altre più note e meno note.
Cosa dire degli affreschi nella così detta Cappella? I soggetti sono
estremamente chiari: una Pietà notevole per sincerità ed efficacia di
espressione, un ingenuo albero genealogico di Maria, un drammatico
gruppo della madre con Bambino, la quale ostenta presaga una croce
ad un santo vescovo (S. Nicola?), un S. Domenico infine che sorregge
una chiesa nella destra (e la storia ci dimostra quanto questa immagine
sia Calzante).
Non ne conosciamo l’autore, né possiamo azzardare un nome. Essi
non sono di fattura eccelsa, denunciano anzi un primitivismo comp ositivo, prospettico ed anatomico, direi quasi popolare, ma costituiscono
pur sempre un apprezzabile tentativo di svincolo dalla tradizione bizantina, una libera espressione d’arte pittorica, che solo Giotto, il quale nasceva proprio in questo torno di anni, saprà affermare e valorizzare.
Ma chi, dunque, ha il merito di questa chiesa? Manfredi o Carlo?
Chi il costruttore?
Occorre chiedere un aiuto alla Storia.
Sappiamo che il decreto « Datum Orte» è del 1263, che nel 1266
Manfredi scomparve nella battaglia di Benevento. Sappiamo anche
che alla sua morte solo un paio di torri quadrate del Castello erano state impostate e forse compiute, e qualche tratto delle mura lungo il mare.
57
L’Arcivescovo permaneva ancora a Siponto, e vi rimarrà ancora
per molti anni, per mancanza nel nuovo centro di una cattedrale e di
una sede arcivescovile.
Ma vi era già una zecca, vi era qualche palazzo come quello « apud siclam » del conte Manfredi Maletta, e vi era già la famosa campana, per la quale Manfredonia ha goduto e forse gode tuttora una particolare notorietà.
Manfredonia, dunque, alla morte di Manfredi c’era e non c era: tutto, o quasi tutto, era in fieri. Carlo primo d’Angiò del resto ordinava
ancora, qualche anno dopo, al Secreto di Puglia di porre a disposizione del « magister carpentarius », facendole pervenire da Trani, «
omnia lignamina» ed « omnes scalas ligneas... que sunt apud Sipontum novellum ». Essa era dunque un cantiere, un grande cantiere se
vogliamo. E’ può anche darsi che Manfredi, lo scomunicato pensasse,
tra le prime cose a costruirsi, ad una chiesa in questa sua città ch’era
più nei suoi sogni che nella realtà. Ma certamente egli non poté portarla a compimento; la meravigliosa campana non poté ancora essere issata su di una torre campanaria.
Senza dire poi che Manfredi avrebbe potuto approvare la volta a
crociera e gli arconi a stesso acuto, la monofora trilobata e le nervature
(essi sono già presenti a Castel del Monte), ma quel portale no: era
troppo lontano dal suo ideale artistico, imperiale e romano. Sarà invece il francese Carlo primo, e suo figlio dopo, a portare a termine il
tempio. in uno col Castello e la cinta muraria (tutto però in dimensioni
più ridotte rispetto ai programmi del Fondatore). Egli infatti, dopo alcuni anni di profondo rancore verso il grande rivale alla cui memoria
attribuisce rivolte ed insurezzioni, e quindi di avversione verso tutto
ciò che lo ricorda, in particolare questa città che addirittura ne porta il
nome, si rende conto della preziosa funzione che Manfredonia può assolvere, sia nei piani difensivi e sia anche in quelli di espansione verso
l’altra sponda dell’Adriatico, e ne decide il completamento e lo sviluppo.
E’ stato accertato che con diploma del 3 aprile 1278 egli concede
in appalto al maestro Giordano di Monte S. Angelo la costruzione della cinta muraria, dandogli la facoltà di disporre di tutte le pietre sparse
per la Città, e in particolare nella ruga detta del Conte e di tutto il materiale lapideo esistente in Siponto. Rinuncia perfino alla pretesa di
cambiare il nome di Manfredonia in quello di « Sipontum novellum »,
e finisce per seguire con un fervore insospettato l’esecuzione delle
58
opere pubbliche di questo meraviglioso nuovo centro marittimo, sollecitando, raccomandando, punendo gli operai che disertano i lavori e,
ciò che più importa, controllando di persona.
L’Angioino, è qui dal 21 al 24 ottobre 1277, poi dal 23 al 26 ottobre 1278, ed il 9 e 10 del novembre dello stesso anno, ed ancora altre
due volte nel 1279, e poi nel 1280 e ancora nel successivo 1281.
Abbiamo fatto poc’anzi un nome: Giordano da Monte Sant’Angelo. Chi era costui? Era uno degli allievi di Bartolomeo da Foggia, apprendista presso la fabbrica di Castel del Monte, autore del
campanile di Monte Sant’Angelo, maestro architetto di grande e riconosciuta capacità, imprenditore sagace ed energico. Egli era, come abbiamo detto, presente a Manfredonia per grossi compiti costruttivi,
commessigli dal re Carlo I. Perchè non pensare a lui quando ci chiediamo chi ha costruito S. Domenico? Petrucci ce lo dà per certo; e non
sarò io a contraddirlo. A Monte duravano tuttora le vecchie gloriose
scuole artigianali dei maestri della pietra, depositarie di mille preziosi
segreti costruttivi, specie nel voltare.
Oggi, come s’è innanzi avvertito, rimangono alcuni elementi
dell’antico tempio, insufficiente perfino, senza adeguati saggi, per una
ricostruzione ideale planimetrica e strutturale.
Qualcosa conviene qui aggiungere a proposito dell’altra parte trecentesca del complesso edilizio di S. Domenico: il convento.
Un primo nucleo dell’edificio, costruito sulle mura di cinta cittadine, in aderenza alla trecentesca cappella della Maddalena da molti anni adibito e sede degli Uffici sanitari e della Pretura (nel primo trentennio di questo secolo adattato a scuola elementare), fu realizzato per
volere dell’Arcivescovo Andrea De China, già canonico sipontino carissimo a Carlo II d’Angiò, come avverte Mastrobuoni, ed inaugurato
il 1299 con la presenza dello stesso Carlo. Il nuovo convento fu affidato ai padri predicatori, o domenicani, tra i quali poté esserci anche
l’affrescatore della Cappella. C’induce a tanto la presenza di S. Domenico sulla parete affrescata, e la scontata frequenza di frati artisti,
specie in un ordine come quello domenicano dedito ad ogni attività
culturale (non occorrono dimostrazioni, né citazioni; ricordiamo solo
il grande Beato Angelico).
59
Per la parte settecentesca antistante la piazza, anzi per i tre lati residui, occorre un discorso a parte, che si potrebbe tentare quando si
dovessero illustrare, col palazzo di S. Domenico, altri edifici cittadini
del periodo rinascimentale barocco (molto gradevole torna ad un sensibile osservatore tutta la parte alta della facciata col portico di bellissimo disegno, ma di imperfetta esecuzione, ed il portale d’ingresso al
palazzo, recentemente ripulito da incrostazioni e risanato di alcune ferite).
Al Comune di Manfredonia pervenne tutto l’edificio, compresa la
Chiesa ed i locali verso mare, in seguito ai noti provvedimenti di soppressione delle corporazioni religiose, con il R. D. 28 aprile 1813 confermato poi dal successivo R. D. 6 gennaio 1816.
Il Comune si ebbe anche i locali fiancheggianti la Chiesa sulla
piazzetta del pesce, ma due vani furono dati in censuazione (come si
diceva allora) al defunto dott. Giuseppe Borgia che poi alienò ad altri,
mentre altri due, già concessi in uso alla congregazione laica del SS.
Rosario, successivamente riottenuti per permuta degli ambienti ricavati dalla Cappella della Maddalena, furono poi adibiti a vari usi, e quindi definitivamente ceduti all’Arcivescovo in cambio d’immobile in
Via Tribuna, utilizzato per la centrale teleselettiva.
Non è possibile lasciar cadere l’occasione, senza prospettare il
rammarico di molti nel vedere condannati ad una progressiva scomparsa gli affreschi, malamente difesi dall’umidità e dagli agenti atmosferici, e nel dover rinunciare ad una più garbata sistemazione della
facciata. E che dire poi delle incrostazioni di calce e di terra colorata
che tanto fascino sottraggono al nobile palazzo ex conventuale? Auguriamoci che in un non lontano giorno gli amministratori di Manfredonia trovino la maniera ed i mezzi per attuare un generale, intelligente
restauro del tutto.
NICOLA DE FEUDIS
60
Foggia 1862
Con l’afflusso dei soldati piemontesi — fanteria, bersaglieri, lancieri genio — Foggia, da quel sonnacchioso e assolato centro agrario
di provincia che era, aveva cambiato i connotati in una maniera anche
troppo rapida perché le novità si accordassero con la più elementare
delle leggi del progresso: la gradualità. La trasformazione della vita
cittadina, quindi, non era stata la naturale evoluzione di una cultura e
di un miglioramento conseguito per vie interiori e adattato al particolare clima storico-sociale dell’ambiente. Ma una sovrapposizione di
circostanze esterne dettate dall’improvviso ruolo a cui la Città era stata chiamata, affrettatamente adottate, esse circostanze, e non sempre
con buon gusto, a grande difficoltà condivise da quegli stessi che, pur
ritraendone conforto culturale, se non vantaggio materiale, (certi liberali, per es.) le consideravano un urto alle forme di vita locale ormai
consacrate dalla storia, dagli affetti e dalle costumanze.
— Vestiteci a nuovo — si era detto e si diceva ancora — ma con
abiti nostri e non ci camuffate per quel che non siamo —.
Comunque, il Ristorante Piemontese, il Caffè e Latteria Garibaldi,
la Trattoria del Soldato, una Birreria (era stata la prima ad apparire,
nei locali al Corso dov’è, oggi, la Ditta Uliveri, aperta da Vincenzo
Ferreri, un reduce dell’Italia Settentrionale) e tutti gli altri esercizi
pubblici che, più o meno, si ripulivano e si rammodernavano (ed anche case private molto delle quali ospitavano ufficiali e impiegati civili1 ); i nuovi negozi che affrettatamente si erano aperti; le bancarelle
parecchio rimediate che erano apparse sulle cantonate (pizze c’alice,
rosicatilli, patate lesse calde, acqua limonata, frutti di stagione, piccoli
oggetti d’uso; molto chiesti asciugamani e fazzoletti-pezze da piedi di
canapa); u’ gelate, zuccher’e limone ambulante e perfino di lustrascarpe (mai visto all’angolo Stradone dell’Epitaffio con la Strada dei
Cappuccini, ecc.) e, soprattutto, il denaro che correva, rapidamente
1
La truppa era acquartierata alla Caserma Cappuccini ed in baraccamenti costruiti
dal Genio Militare. Gli ufficiali, invece, a cura e spese del Comune, erano alloggiati
presso le migliori famiglie; e ciò fino al 1865.
61
guadagnato e rapidamente speso, erano, indubbiamente, un qualche
cosa che si vedeva con concretezza, che rallegrava, che frizzava, scuotendo la polvere dei secoli e la pigrizia caratteristica della gente meridionale.
Naturalmente erano state del tutto dimenticate le piccole dimostrazioni, inscenate qualche anno prima, per gridare re, al posto di Francesco, di Luigi di Borbone e del Conte d’Aquila.
Un po’ dappertutto, ma nel Circolo liberale specialmente (aperte le
finestre sulla strada) si cantava:
Vattene via Re Burbone
C’a regnar non se’ più buone;
Lass’u’ posto a Re Vittorio
Che ‘nce port’ ‘a libertà
‘A libertà. . . ‘a libertà..!
per quanto, ormai al secondo anno di occupazione, di libertà se ne fosse fatta una scorpacciata e c’era nell’aria, per più segni, qualche stanchezza che non era desiderio di cambiar minestra ma quasi.
Berardo aveva imparato anche lui il ritornello ma non era in grado
di capire cosa fosse quella parola libertà.
Non certamente una bella signora.
In cuor suo pensava che la libertà piemontese fosse pane di grano,
sale che costasse poco, facilità di comperare un cappotto, gendarmi
che non stessero a spiarti, contadini che lavorassero su terra propria e
pastori che avessero una casa e un gregge, anche a dover restare eternamente nel catalogo dei poveri così come segnati dal destino.
Non c’era male.
Il popolo napoletano aveva inteso la libertà, nel ‘60, in modo mo lto diverso, facendo temere disordini e chissà cos’altro dietro!2
A sera specialmente, il movimento dei soldati in libera sortita per
lo Stradone Sant’Antonio Abate e per le laterali Strada dell’Epitaffio,
Mercantile, De Zingani3 , a gruppi, fra la gente; i forestieri (impiegati
civili) venuti al seguito della truppa, pochi ma ben vestiti e che allo
aspetto della cittadinanza conferivano tono e distinzione; gli attacchi
singoli o a pariglie dei signori del luogo e delle autorità che uscivano
per la scarrozzata pomeridiana (guardatissimi il sindaco vecchio Don
Vincenzo Celentano e quello nuovo, il Marchese di Rose, il prefetto
Del Giudice, i generali Doda e Mazè 4 , i De Nittis, i Saggese, i Freda) e
certe signore mai viste (petti e fianchi...: ristòrete uocchie!) che pas-
2
Nel giugno, per la riconcessione dello Statuto e nel settembre per l’accostarsi delle
truppe garibaldine.
3
Oggi Corso Vitt. Em., Via Arpi, Corso Garibaldi, Piazza XX Settembre.
4
Colonnello comandante il 36° Fanteria, il Gen. Mazè de La Roche aveva fatto la
campagna contro il brigantaggio nel Mouse orientale. Da Montecilfone di Larino scriveva ai suoi: — . . . qui briganti dappertutto; noi non facciamo che fucilare « par ci, par
la » — (da Cesari, Memorie del 36° Fant.). « Non facciamo che fucilare!! ... ». Forse
eran soltanto parole. Se eran fatti, il veder briganti dappertutto (anche dove non c’erano)
portava a repressioni ingiustificate e, quel che importa, ad atteggiamenti sbagliati nei
confronti delle popolazioni.
62
savano al braccio di ufficiali o, meglio, sole in cerca di fortuna (“e
perciò Dio ci gastiga!” dicevano le donne costumate del posto) erano
lo spettacolo più o meno teatrale di tutti i pomeriggi giacché, ormai, la
piega che avevan preso le cose era quella e non era facile rientrare nel
solco un po’ crudo di certe realtà quotidiane.
Il brigantaggio era alle porte, o quasi, e di esso arrivavano notizie
anche di cronaca grossa, a tratti, come certe folate di vento caldo del
sud.
Si, è vero; lo spirito liberale restava sempre, il tricolore era esposto
a permanenza in qualche pubblico esercizio, sebbene alquanto sbiadito, e le cronache piemontesi avevano la precedenza, se non la esclusiva, sugli inevitabili ricordi delle cronache napoletane. Ma eran passati
gli entusiasmi chiassaioli, alla garibaldina, di fine ‘60 e di gran parte
del ‘61, bande e bandiere in testa, ritratti di Vittorio a capo in su e di
Francesco a capo in giù; ed era subentrato un senso più calmo e riflessivo nella considerazione delle cose.
In quanto al vescovo...: era tornato? Voleva tornare? Mah! Facesse
quel che volesse!5 .
Si era fatto gran festa (bande, spari, luminarie, elargizioni) per la
visita di Vittorio Emanuele a Napoli6 . E, in sostanza, nel giro delle cose piemontesi, ormai s’aveva interesse a restare.
« Il Cittadino », settimanale foggiano d’informazione, commentava fiaccamente i preparativi che faceva Garibaldi e che portarono al
fatto d’Aspromonte7 . S’era scoperto che Garibaldi era buono a disfare
venti regni ma non era buono a organizzare un comune, frase
d’importazione settentrionale e sfruttata fino all’estremo in pro del costruttivo Piemonte.
Il senso più calmo e riflessivo di cui sopra si riscontrava, però, anche nelle valutazioni piemontesi che, piano piano, si accostavano ai
modi di vita meridionali. Eran punti d’incontro che si potevano cogliere in più d’una occasione, qui o là, e che sfociavano, gradatamente, in
una reciproca comprensione.
La « Locanda Apicella », prima rifiutata sdegnosamente dai settentrionali (grande meraviglia: aveva i cessi a secco) veniva, ora, frequentata tranquillamente. S’era capito che i cessi a secco, a Foggia,
stavano dappertutto, anche a Palazzo Reale. Nè più si facevano le meraviglie perché le case dei signori non avessero il bagno. E ciò in attesa che sorges se quel grande albergo (o gruppo di alberghi) di cui correvano già le prime voci, realizzazioni di una società promossa (si diceva) dal concittadino Nicola Capozzi, vecchio liberale e perseguitato
borbonico.
S’era smesso, quindi, dai piemontesi quel gioco di parole, né di
buon gusto, né opportuno, che prima era suonato provocazione ai foggiani: anziché « settentrionali e meridionali » si diceva « nordici e su-
5
Era fuggito nell’agosto del ‘60 minacciato dagli estremisti che vedevano in lui un
reo contro lo Statuto e un nemico dell’Italia.
6
Primi di maggio 1862.
7
Fine agosto 1862.
63
dici ». Il riferimento era evidente ed ... evidente era stato anche qualche ceffone ch’era volato, per ciò, in più d’una occasione. E s’era
smesso di dire ai meridionali « beduini », « caffoni » ed epiteti simili.
I soldati avevano cominciato a far la corte alle « fuggianelle », mostrandosi essi molto sensibili a quei tipi bruni albanesi dagli occhi zingareschi, che rappresentavano per loro un mondo esotico tutto da scoprire 8 . E pigliando gusto alle cose locali, un po’ sul serio, un po’ per
burla, avevano cominciato a cantare:
« Te voglio bene / Te voglio bene assaie » (la canzonetta sempre di
moda per quanto avesse i suoi anni9 ) punto riuscendo, però, nella pronunzia napoletana per quanto sforzi e smorfie facessero, punto riuscendo a darsi un’aria passionale e, addirittura, facendo starnuti quando arrivavano a quel difficile « dincitegliele vuie... ».
Nel ritrovato senso più calmo e riflessivo delle cose di cui si è fatto
cenno, c’era stato un riaccostamento al sottofondo della città che, volere o volare (e bisognava tenerne conto) restava ancora in molta parte
rurale. C’era, cioè, anche a Foggia, della gente povera, piccolo anticipo di una povertà più grande e più tragica che si ritrovava nelle zone
rurali. Bastava sconfinare dal centro urbano, oltre le strade periferiche,
nella zona che città non era più e campagna non era ancora (intorno al
Parco Pila e Croce, per es.10 ) per trovare viuzze, slarghi e catapecchie
ove, in mezzo alla miseria, non arrivavano gli evviva e gli abbasso
della parte cittadina della città. Ed anche nel centro, dietro il chiuso e
deserto convento delle Redentoriste11 e fino al convento del Salvatore,
c’era tutto un dedalo di viuzze e di chiassoli che facevano capo al vicolo Vega (Via Sant’Angelo. il malfamato vico San Donato, vico Scalella, Arco San Michele ed altri budelli anonimi) ove si nascondeva
quella caratteristica miseria di città che più stringe il cuore in quanto
vicina a chi conduce vita da ricchi.
Proprio riflettendo sulle festosità del centro urbano, non mancava
(ed erano persone molto molto serie) chi faceva garbatamente rilevare
che talune novità presentavano più parte coreografica che contenuto
sostanziale e che, a guardar bene, c’era anche una arretratezza sociale
dolorante e trascurata. E, una volta sulla via delle riflessioni,
fors’anche del raccoglimento: che certe troppo rosee speranze potevano anche essere soltanto illusioni; che l’amministrazione piemontese,
onesta ma pignola, poteva anche non dare buoni frutti in terra pugliese; che la libertà su cui tanto s’era giocato, poteva anche restare solo
negli alti cieli della cultura; che la caduta dei Borboni poteva aver trascinato seco anche qualche fatto importante specifico della gente meridionale; e che Foggia, dopo tutto, ove pareva che in quel 1862 stesse
per trovarsi il terreno per un accordo comune, e Lucera e San Severo,
non erano tutta la Capitanata. con il Gargano e la Valle dell’Ofanto
(tanto per stare nella zona del Tavoliere) ove l’urto del nuovo e la rea-
8
Si tenga presente che gli albanesi erano molto numerosi in tutta la Puglia e che
conservavano anche di qua la lingua, la religione e le costumanze dei luoghi d’origine.
9
Era del 1835, parole di Raffaele Sacco e musica attribuita a Donizetti. Ai suoi
tempi fu famosa; ne parlò anche Luigi Settembrini.
10
Piano delle Fosse.
11
Occupava l’area dell’attuale Palazzo Municipale.
64
zione del vecchio si sviluppavano. inconciliabili, in forme aspre, superiori, forse, al previsto e al prevedibile.
Il brigantaggio.., la parola grossa correva di bocca in bocca fra
l’uno e l’altro impegno quotidiano, pur se poco ci si capiva per mancanza di autentiche informazioni e per debole senso storicopsicologico delle cose. Interessava per la parte episodica, a volte romantica, a volte tragica, poi passava alla storia.
Già sulla fine del 1861 manifesti informavano che un cordone di
sicurezza era stato disposto lungo la falda del Gargano da un pelottone
di lancieri agli ordini del Sottotenente Fossati. Ma allora i briganti
c’erano, ed anche in numero considerevole! Quanti? Mille ... millecinquecento... Ma di dove erano usciti?
Dicembre 31 (1861): imboscata al podere Mercaldi, sulla confluenza Sàlsola-Candelaro; 16 lancieri uccisi.
Gennaio 15 (1862): arrivo a Foggia dell’8° reggimento di linea.
Il generale Doda prende il comando della guarnigione.
Fine dello stesso mese: ma come mai a San Marco c’era stata tanta
commozione — e ne era stata fatta perfino una leggenda — per la fucilazione in pubblico del brigante Giuseppe Nardella catturato da un
plotone del 49° fanteria in tenimento Calderoso?
Febbraio 1862: scontri ad Apricena, a Torremaggiore, al Mezzanone: due soldati.., tre soldati.., cinque soldati uccisi. E i briganti?
Morti, feriti e vivi: dileguati, inghiottiti dal terreno e dallo spazio. Impossibile risalire il Vallone di Stignano. Ma perché il presidio di San
Marco (Capitano Briggia) richiamato a Foggia da oltre sei mesi (per
una festa celebrativa, pare) non è stato restituito? Che s’aspetta?12 .
Marzo 17 (1862): come ad un appuntamento, due o tre bande provenienti dai boschi di Dragonara e di Montecorvino, s’incontrano alla
masseria Petrulla (al confine Lucera-Torremaggiore) e sorprendono il
capitano Richard con 19 uomini dell’8° Fanteria. Uccisi tutti. Funerali
grandiosi e commoventi a Lucera del Capitano Richard.
Fine Marzo 1862: ma come mai non si riesce, nemmeno in pianura, ad accerchiare i briganti che continuamente fanno puntate contro i
lavori della strada di ferro?
Aprile 8 (1862): due squadroni di lancieri di Montebello, al comando del maggiore Municchi, presso Torre Fiorentino (o Castello
Fiorentino, a sud di San Severo) disperdono le bande Minelli e Coppa,
circa 300 briganti. Trenta briganti uccisi sul terreno. Trecento briganti! Ma che si scherza? Forse si esagerava...!
Aprile 21 (1862): manifesto del prefetto Del Giudice. Il brigantaggio è in regresso, attaccato dovunque; si invitano le popolazioni a
collaborare con la truppa. Alla fine dello stesso mese altro manifesto
prefettizio: avverte i proprietari di bestiame, fattori, commercianti che
in occasione della prossima fiera di maggio a Foggia, i vialoni di ac-
12
A Poggio Imperiale il 10 giugno 1862. Esordi in quest’occasione un giovane brigante, allievo del fucilato Del Sambro e di cui avremo modo di riparlare.
65
cesso alla Città saranno pattugliati notte e giorno, per prevenire incursioni e ladronecci da parte dei briganti che infestano il Tavoliere.
Ma allora? No. Il brigantaggio non era in regresso. Caso mai, se
non aumentato di numero, migliorava nel ... servizio con concentramenti e dispersioni rapidissimi, arroccamenti in luoghi introvabili, travestimenti e camuffamenti abilissimi.
Maggio 1862: e che si fa? I briganti par che siano risaliti sul Gargano segnalati a Poggio Imperiale, a Rignano, a San Nicandro, a Ischitella, al Bosco Umbria, alla Montagna degli Angeli. Pochi... molti...: e
chi lo sa! Le notizie sono contraddittorie.
Giugno 1862: si rompono gli indugi. Si stabilisce una guarnigione
a San Marco in Lamis al comando del maggiore Rajola-Pescarini e di
altri ufficiali valorosi: il capitano Facino, il maggiore Briggia, il capitano Cavallero, il tenente Federici.
Giugno 28 (1862): è catturato e fucilato con tre compagni il fino
allora imprendibile capo brigante del Gargano, Angelo Maria Del
Sambro detto « Lu Zambro ». Ma la banda? E i sottocapi? Mah!...
Il popolo si sentiva investire dalle « folate » degli avvenimenti che
j gli si rimescolavano attorno, nel tempo, nello spazio, nei modi, e che
turbinavano con nuovo e sempre vecchio linguaggio, con presentazioni e significati di cui non capiva gran che, preso dal problema di soddisfare i bisogni elementari. Aveva delle intuizioni, però, che cercava
di riassumere e di collocare nella sua mentalità: I briganti: e chi lo sa!
Qualche cosa dovevano pur avere in corpo, forse!
In quanto ai piemontesi, soldati e non soldati, aveva finito col reputarli gente attiva, operosa, soprattutto costruttiva; che avevano qualche cosa da insegnare e la cui forza era al servizio di una mente, oltre
che di un programma. Gente non antipatica; gente non simpatica, la
cui superiorità, ostentata o no che fosse con quell’eccesso di militarismo, dava soggezione, da alcuni con buon animo accettata, da altri respinta per insopportabilità di intruseria e di cosa nuova.
Ecco perché c’era chi batteva le mani a Re Vittorio, nei centri urbani per lo più, e c’era chi il ritratto di Vittorio e lo stemma dei Savoia
bruciava in pubbliche dimostrazioni12 , nel Gargano, per esempio, e faceva a schioppettate con la fanteria. Ed ecco perchè c’era chi emigrava
nel Nord incontro a sicura fortuna o rispondeva regolarmente agli arruolamenti civili e militari e c’era chi scappava per paura di essere
preso nei servizi di leva.
Tutto sommato gente che faceva, che induceva a fare, sia pure a
modo suo; che, servita, pagava; e qui si ritornava alla bianca liretta
che, indubbiamente, faceva molta breccia nelle menti e nei cuori, determinando tutto un orientamento del popolo basso che si gettava dalla
parte di chi gli faceva guadagnare il pane quotidiano. La bianca liretta.
proprio di quei giorni cominciavano a circolare lire e piastre nuove
coniate nella zecca di Napoli e che superavano il valore delle corrispondenti monete d’argento borboniche13 .
IGINO DI MARCO
13
L’argento delle monete borboniche aveva titolo 835/1000; quelle del regno
d’Italia 900/1000.
66
FOLCLORE
Per la nostra canzone popolare
Un anno che sfuma nel ricordo
Foggia maturò un grosso avvenimento per il quale si accesero gli animi più ingenui ed ardenti della città: la grande festa popolare per la «
Regina del Grano », articolata intorno ad un concorso di bellezza per la
elezione di Sua Maestà Cerere I.
Con essa il Capoluogo del famoso
Tavoliere poté vantarsi del primato
di precursore di simili manifestazioni.
Nel fanatismo popolare, tra le varie iniziative, si fecero largo melodisti di riconosciuta preparazione
musicale (Gaetano Capozzi, Roberto
Consagro) e parolieri, quali Gino La
Capria, Guido Mucelli, Ga briele Garofalo. Nacquero canzoni vivaci, anche
caustiche,
intonate
all’argomento principe, delle quali
una sola è giunta sino a noi, a ricordare Cerere Prima e le prosperose principesse del regal corteggio:
Giuvina Pitruccello, che aveva i versi di Guido Mucelli rivestiti da una
musichetta agile e «traseticcia » di
Gino La Capria, un giovane foggiano che viveva a Napoli.
Giuvina, ritratto della madre di
una delle concorrenti al titolo di regina, defraudata, secondo la smaniosa genitrice, del trono agreste: un
donnone tremendo, facile a menar le
mani, che ci riproduceva, con l’arte
del Mucelli, il tipo indigeno della
popolana analfabeta e attaccabrighe,
le cui parole più generose rivolte, direttamente o in contumacia, ai membri della giuria del concorso, erano:
« … sti quatte sbruvugnete » (questi
quattro svergognati). Una Giuvina
fortunata, rimasta in vita perchè il
padre suo putativo la portò in giro,
per molti anni, nei salotti, nei teatri,
nei circoli cittadini e, di recente, l’ha
compresa in una raccolta di versi
foggiani.
Anche in tempi a noi più vicini
fiorirono iniziative, sia pure stimo late dall’alto, per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari, del folclore, e altrove si seppe cogliere il
momento buono in cui piovvero
sovvenzioni e fiorirono attività popolaresche tra le quali la canzone
dialettale ha avuto vita rigogliosa,
affermandosi in Europa ed in America. A Foggia l’occasione fu
sprecata...
Dirò, per giustificare le premesse
di questo scritto, che, chiamato
dall’O.N.D. a ricoprire la carica di
fiduciario provinciale per l’Arte popolare di Capitanata, mi dedicai a’
compito affidatomi, mettendo a frutto i miei studi classici e musicali.
Ottenni la collaborazione di Geni
Sadero, la nota vivificatrice italiana
di tradizioni popolari, che venne a
Foggia e con la sua competenza specifica e le cognizioni acquisite in loco, mi indicò come avrebbe potuto
formarsi la canzone foggiana e,
67
acquistando forme precise, ben figurare tra i canti della Penisola. Molti
anni dopo, il Dopo-lavoro Provinciale prima, e poi l’Ente Provinciale per
il Turismo bandirono due concorsi
per la “Canzone di Foggia”. Vi parteciparono molti ed agguerriti, ma
pochi si adeguarono ai dettami concordati con la Sadero; i più non seppero sottrarsi all’influenza della melodia napoletana. Tra i partecipanti
che meglio si affermarono ricordo i
maestri Mimì Petrilli e Guglielmo
Renzulli
(testé
scomparso,
quest’ultimo), ed Amelia Rabbaglietti, fedele interprete delle nostre
voci popolane, che ha ricomposto e
pubblicato.
Chi scrive, avendo approfondita,
con lo spirito del concorso, la tecnica per una nuova forma di canzone
foggiana, memore delle conclusioni
raggiunte con la Sadero, risultò primo nelle due gare, con Reginella d’ ‘u
Grane (versi di Aldo Taronna) e con
Margarita, di cui scrisse anche le parole.
Ma, tornando a Geni Sadero, la
canzone tipica di Foggia dovrebbe
basarsi su due forme tecnicamente
ed esteticamente diverse: l’una con
le caratteristiche delle antiche nenie
e filastrocche popolari, Costruita su
quella scala minore che risente della
sua lontanissima origine greca, con il
quarto e sesto grado ascendenti e d iscendenti, alternati, ed il secondo
grado discendente diminuito che risolve sulla tonica.
Ispirarsi a questa sequenza melodica, naturalmente malinconica,
non è agevole per chi voglia detrarne
un canto fresco ed originale Paisiello, Mercadante, Salvator Rosa, Donizetti ci provarono ed anche positivamente; ma a « Quelli » tutto era
consentito …
68
Alla prima maniera appartengono i canti dei nostri vecchi e
vanno additati al rispetto, più che
per altro, per l’ispirato contenuto
dei versi.
‘U CACCIATORE
Ie me ‘aveze
Ie me ‘aveze
a la matine
e me ne vache, nenna mie, a cacce a
[qquaglie
e cu fucile, nenna mia,
ca carabine, addò a trave a quaglia
[mia, l’agghia sparà.
Ie me ‘aveze
a la lunètte
e me la pigghie, nenna mia, la mia
[scuppètte.
Ca tagghiole, nenna mia.
ca vaiunètte,
addò a trove
a quaglia mia l’agghia ngappà?.
E’ una poesia che affonda nella
tradizione contadina di Foggia, che
si definisce da quel « Ie me aveze a
la lunette »!
Eccovi, ora, una seconda canzone popolare, di almeno cento anni fa. Con essa si aiutavano i bimbi
ad addormentarsi nella culla perché, dondolandoli, andassero a
congiungersi con gli angeli:
NANINNA NINNARELLA
I
E naninna ninnarella
ogge u lupe nigre nigre,
s’a magnàte a pecurella.
Oh! oh! oh!...
Pecurelle, che facisse
quann’ i muzzeche sentisse?
Oh!
Durme! Durme!
II
Ninnarella ninnananna!
—Cume stace ‘stu uaglione? —
m’m’addumanne, a me, Sant’Anna.
Oh!
— Nen ‘u vide, vecchiarelle?
Dorme e conte tutt’ ‘i stelle... —
Oh!
Durme! Durme..!
III
Durme, ninne, ca ‘u papone,
cu’ nu sacche e nu curtille,
stece arrete a ‘u stepone...
Oh!
Nen chiagnenne jigghie belle...
Oh!
E naninna ninnarelle...
Oh!
Durme! Durme..!
Il secondo esemplare di canzone
foggiana, briosa, satura di elementi
agresti, con cui i mietitori si accompagnavano nell’andare verso i
campi, ricchi di spighe d’oro, ha le
caratteristiche dell’antica « Pastourelle » che era una schermaglia
tra contadinella e cavaliere. Il canto,
intramezzato da « echi »squisitamente indigeni, non comu ni ad altre regioni, alla base ha un basso continuo: trovata armonica di effetto suggestivo.
E’ questa la canzone nostra che
Geni Sadero indicò perchè fosse
compresa nella raccolta dei motivi
popolareschi italiani. Nel suo schema, che consente sviluppi musicali
nobili e caratteristici, si inquadrarono le foggianissime E Mariuccia,
addò sì gghiuta?, E ma’ che vole, da
nuie, ‘sta campagnola?, insieme con
le più giovani consorelle Reginella
d’ ‘u Grane e Margarita.
Quest’ultimo è lo schema da adottare, per la canzone di Foggia, da
parte di parolieri e musicisti allorché
vorranno rinverdirla.
MARGARIT A
I
Canuscite a Margarita mia?
L’agghia presentà:
Si ‘n’angele vedite ‘mmizze a’ via,
èie essa e nen ce stéce da sbaglià.
Tene ‘a cape bionde cum’ ‘u grane,
tene ‘a vacche ca,
‘n chenfrante, tutte quante ‘i ceraselle
s’avrinne sulamente i’ a ammuccià..
Margaretè!
Tutt’ ‘i vote che me guarde
cu’ quill’ucchie, tu me garde.
Quella vacche de cerase
scioppe, a mille a mille, ‘i vase..
.. Teng’ ‘a cape ca me scatte...
sent’ ‘u core ca me sbatte...
Senza come ne pecchè
vengh’ semp’ appriss a te...
Margareté!
II
Tene ‘a case a « Pezzeretunne »,
proprio la... « in cità »….
Ch’ tutt’ ‘i « trezzelose» de là atturne
nen trove propie ‘u mezze de parlà.
L’agghie scritte: — Vine « avite » ‘i
[Cruce,
sola, a passia…….
Quanne stanne stutete tutt’ ‘i luce,
che pizzele, che vase t’agghia dà...
Margaretè!
Tutte ‘i vote ca me guarde
ecc. ecc, ecc.
III
M’ha respuste: — Ci virrò stasera
‘nzime ch’ mammà...
A poste eh’ li mane... Margarita
nen dace nlnd’ prime de spusà...
Se alle Cruci ci sarà la luna,
che « priezzità..!»
Andremo, cuore a cuor per le
[« trasonne... »
ma, patte annanze, senze d’« attantà... ».
Margaretè!
69
E va bune... Sissignore...:
Purte a mammeta... ‘u priore...
Purte ‘u Sinnche... ‘u cumbare...
purte a che te piace e pare...
Tenghe ‘a cape ca m’avvampe...
accussi cchiù nen se campe...
Vogghie avè’, ‘nzime ch’ te,
ogni vote, tre « nguè... nguè...
Margaretè!
Per concludere: la canzone è
sempre stata tra gli elementi atti a
porre in risalto, con eccezionale comunicati va, gli eventi, usi e costumi
dei popoli (quelli che sanno cantare,
possiedono maturità etica e gentilezza innata). Anche la Capitanata, come altre regioni, racchiude in sé presupposti essenziali di un’arte popolare e, quindi di una canzone che ne
70
documenti gli aspetti poetici e musicali: oggi, più che mai, essendo entrata la nostra terra nel circuito turistico internazionale. Società Dauna
di Cultura, Ente del Turismo ed Ente
Fiera di Foggia, dovrebbero sentire
particolarmente le sorti del nostro
folclore, inteso quale documentazione del passato e incentivo di sviluppo culturale e turistico. La Fiera di
primavera e la Sagra della foresta
costituiscono, infatti, le cornici più
ampie e prestigiose di un concorso
periodico di canzoni vernacole, che
arricchirebbe molto la parte spettacolare delle manifestazioni suddette, e nel contempo assicurerebbe
vitalità a un’autentica espressione artistica della nostra gente.
MARIO TARONNA
Igiene e disadattamenti socio-ambientali
Considerazioni sul problema in provincia di Foggia
Importanza del tutto particolare hanno, in questi ultimi tempi, assunto studi su fenomeni sociali che, pur non rientrando nel novero
(almeno in senso stretto) delle malattie, influiscono sulla economia
della nostra società determinandone squilibri e scompensi.
Lo studio della loro natura e delle cause che possono influire sul
loro sviluppo ha creato nell’Igiene una nuova branca, quella
dell’Igiene mentale, ed indicato una « nuova frontiera » di enorme importanza societaria.
I disadattamenti socio-ambientali, future matrici dei fenomeni criminali e delinquenziali, meritano in - particolare la nostra attenzione.
Le caratteristiche delle personalità disadattate socialmente possono
esser espresse in due direttive fondamentali:
1) predominanza del principio del piacere o impulsività;
2) orientamento esternalizzante delle pulsioni.
I Glueck distinguono il minore socializzato da quello disadattato
affermando che quest’ultimo appare in continua agitazione, è impuls ivo, estroverso e distruttivo. Ha un atteggiamento ostile, pieno di risentimento, sospettoso, testardo, avventuroso, non sottomesso
all’autorità, animato da rivendicazioni.
La Merril parla nei disadattati di una « non integrazione dei motivi
» (manca la valutazione del pro e del contro delle azioni e delle esigenze contrastanti con scelta di quella che porta alla soddisfazione più
immediata).
Il soggetto disadattato quindi, rifiuta l’ordine sociale e le sue regole per evadere verso sistemi in cui l’importanza del « gruppo » quale
elemento base viene negato a favore del prevalere del singolo il quale
diviene così elemento negativo e « infettante ».
E’ il mondo degli istinti che prevale rompendo quell’equilibrio
armo nico che la nostra Società si è data nei millenni della sua storia,
non diverso quindi nella sua azione dalla malattia che, insidiando e
scompigliando l’equilibrio fisico, determina uno scompenso nel nostro
corpo.
71
Spesso nella interpretazione della genesi della personalità dissociale, gli Autori invocano la carenza di principi igienici generali e, talora
sostengono il loro prevalere rispetto a quelli di natura psicologica.
I Glueck ad esempio trovano che i ragazzi antisociali presentano
con maggiore frequenza le seguenti condizioni negative: insufficienti
condizioni igieniche, sovraffollamento della casa, scarsa pulizia ed ordine della stessa, dipendenza economica della famiglia.
Il sovraffollamento è rilevato anche da Burt e Chombart de Lauwe,
dalla Merrill, e da Bennett.
L’antisocialità è spesso associata agli strati inferiori della struttura
sociale in quanto si sostiene che nelle classi popolari è più facile la carenza di principi igienici generali.
Ciò, almeno in senso stretto, non appare giustificabile in quanto i
I - AFFOLLAMENTO DELLA CASA
DISADAT TATI
%
NORMALI
%
TOTALI
165
59
90
32,1
255*
Non
sovraffollam.
115
41
190
67,9
305
Totali
280
Sovraffollam.
280
560
*Differenza % 26,9.
Probabilità basate sul X2 = 0,01.
principi igienici non sono peculiarità di una classe. Ben altri devono
esser i fattori determinanti.
Cloward e Ohlin, all’origine delle motivazioni che portano alla antisocialità parlano di una discrepanza fra le aspirazioni indotte nei giovani delle classi popolari e la possibilità di realizzarle con mezzi legittimi. In ciò vediamo implicitamente il confronto che si viene a stabilire fra le condizioni igienicamente disastrose in cui tanti vivono e
gli allettamenti della strada.
Il nostro studio è stato effettuato nell’arco di tempo 1962-1967,
vagliando i casi giunti all’osservazione del Centro di Igiene mentale
della Amministrazione Provinciale di Foggia.
La ricerca riguarda minori dell’età compresa fra i 7 ed i 14 anni,
sia presentatisi accompagnati dai genitori, sia segnalati dal servizio sociale del Tribunale dei Minori, sia reperiti attraverso selezioni scolastiche (estese queste ultime nel 1963 a tutte le scuole elementari della
Provincia e limitate nel 1964-1967 solo a quelle del Capoluogo).
72
Sono stati considerati solo i casi in cui i minori avevano compiuto
furti ripetuti, si erano allontanati da casa per vari giorni senza dare notizie di sé, si erano ripetutamente ribellati all’autorità dei Maestri mostrandosi insofferenti ad ogni forma di disciplina e avevano talvolta
determinato a compagni occasionali, lesioni tali da richiedere
l’intervento della Magistratura.
I casi reperiti sono 280 ed appartengono tutti a categorie del ceto
popolare.
Esso è costituito, almeno in provincia di Foggia, da lavoratori occasionali quali contadini e manovali. Si tratta di soggetti per lo più
privi di mestiere qualificato o di attività specifica. In questa classe
II – PULIZIA E ORDINE DELL’ABITAZIONE
DISADAT TATI
%
NORMALI
%
TOTALI
Casa sporca
220
78,5
90
32,2
310
Casa pulita
60
21,5
190
67,8
250
Totali
280
280
560
Probabilità basate sul X2 = 0,01.
un fortissimo nucleo è costituito da famiglie il cui capo si è recato
all’estero o nelle città del Nord d’Italia in cerca di lavoro. Numerose
anche famiglie in cui i genitori non sono sposati e presenti, anche se in
misura minore di quanto ci si potrebbe attendere, alcoolismo e precedenti penali nei capi famiglia.
Per ogni minore disadattato selezionato abbiamo preso un suo coetaneo della stessa scuola, residente nello stesso quartiere ed avente lo
stesso grado di cultura, scelto a caso.
Naturalmente nelle famiglie dei soggetti-campione abbiamo escluso la presenza di elementi disadattati.
Abbiamo considerato per ogni caso i seguenti fattori:
1) indice di affollamento della casa stabilito dal rapporto abitanti/vano;
2) ordine e pulizia della casa;
3) stato di nutrizione;
4) occupazione del padre;
5) grado di istruzione del padre.
L’affollamento della casa, determinato come si è detto in base al
numero degli abitanti provano è stato valutato tenendo presenti le
73
seguenti caratteristiche indicate dal Puntoni: indice di affollamento
buono se inferiore a 1.4 abitanti vano, cattivo se maggiore di 1.7.
Come scrive il Puntoni, quando l’affollamento supera tali valori
l’abitazione non rappresenta più il focolare domestico ma un semplice
ritrovo notturno. Si vengono a perdere quindi quelli che sono i principi
basilari della famiglia.
Ricorderemo inoltre che in ambienti sovraffollati sono facili gli inquinamenti dell’aria e che, anche una accurata ventilazione non sempre è in grado di eliminare i gas tossici penetrati nei muri. Da ciò consegue, oltre ad uno stato di disagio, una minore resistenza nei soggetti
ed una maggiore tendenza a contrarre malattie.
Come d’altra parte rileva il Saccani, si è ormai concordi nell’assegnare al fattore casa un valore molto importante nel promuovere e
mantenere quello stato di completo benessere fisico, mentale e sociale
che
III – STATO DI NUTRIZIONE
DISADAT TATI
%
NORMALI
%
TOTALI
Mal nutriti
200
71,5
84
30
284
Ben nutriti
80
28,5
196
70
276
Totali
280
280
560
Probabilità basate sul X2 = 0,01.
caratterizza la salute dell’uomo secondo la definizione della Organizzazione Mondiale della Sanità.
La ristrettezza dell’ambiente favorisce le evasioni, la fuga verso la
vita della strada (Halbwachs) in cui l’ambiente è senza dubbio anonimo e molto più meccanizzato ed asociale di quello che si può riscontrare nella famiglia ordinata. Il sovraffollamento determina tensioni
emotive, anche sul piano sessuale per gli inevitabili contrasti che si
accumulano fra gli abitanti.
Per ben intendere l’importanza di questo fattore nella Provincia di
Foggia, occorre considerare che, malgrado i massicci interventi di Enti
quale la Cassa del Mezzogiorno, Istituto Case Popolari etc. in molte
case abbiamo punte che raggiungono o 6-7 abitanti provano e che
moltissime sono sprovviste dei servizi igienici e talune anche dell’acqua.
Solo due anni addietro è stato bonificata a Foggia una Zona, quella
indicata come « Casermette », in cui in una incredibile promiscuità vivevano centinaia di persone prive di ogni sussidio igienico.
74
L’asocialità, in una zona come quella citata (e che per altro sarà
oggetto di un altro tipo di indagine e pertanto non viene qui considerata), raggiunge punte elevatissime.
E’ fuor di dubbio quindi, così come hanno concordemente sottolineato igienisti e psicologi europei, che la casa assume importanza
fondamentale nella socializzazione dell’individuo.
Il secondo dei dati da noi preso in considerazione è quello relativo
alla pulizia ed all’ordine della casa.
Abbiamo definito come casa sporca e disordinata quella in cui sia
le pareti che i pavimenti, in uno al mobilio ed alle suppellettili. presentavano segni evidenti di incuria. E’ indubbiamente più facile reperire
tali dati in case sovraffollate ma essi sono anche presenti in case in cui
l’indice può esser definito come buono.
Abbiamo ritenuto che individui che curano scarsamente la propria
casa, ignorando principi igienici basilari, devono esser considerati al
IV - STABILITA’ LAVORATIVA DEL PADRE
DISADAT TATI
%
NORMALI
%
TOTALI
Padre occupato
100
35,7
210
75
310
Padre non occupato
180
64,3
70
25
250
Totali
280
280
560
Probabilità basate sul X2 = 0,01.
meno in potenza, come nuclei di cristallizzazione di fattori asociali.
Igiene e socialità camminano insieme in ogni tempo ed in ogni luogo.
Anche in questi casi, l’alloggio non viene più sentito come il rifugio della famiglia nel quale si sviluppa la vita domestica. La scarsa igiene della abitazione inoltre favorisce il propagarsi delle malattie infettive ed ingenera negli abitanti un completo disinteresse per ogni
buona norma sociale.
Il terzo fattore considerato riguarda lo stato di nutrizione generale.
Malgrado la generosità del sole, che risplende nelle nostre terre in maniera particolarmente intensa, e la presenza di una economia di tipo
agricolo, che dovrebbe quanto meno assicurare un buon apporto vitaminico, sono frequenti nella nostra provincia malattie carenziali come
il rachitismo e le avitaminosi.
75
A parte questi rilievi è evidente che una scarsa igiene della alimentazione si traduce prima o poi in una fonte di squilibro. In molti famiglie ci è stato riferito che ai bambini bisogna dare il vino perché « fa
sangue », ed in moltissime abbiamo riscontrato una alimentazione basata su di un solo pasto quotidiano, costituito essenzialmente da idrati
di carbonio. Scarso il consumo di latte e di alimenti ricchi di proteine;
per quel che riguarda i grassi in prevalenza si usa olio di oliva o di
semi.
Il quarto fattore riguarda l’occupazione del capo-famiglia.
Date le premesse da noi poste, e che cioè l’indagine si è svolta tra
soggetti appartenenti a classi popolari i cui genitori erano per la maggior parte contadini o manovali, abbiamo considerato come stabilmente oc
V - GRADO DI ISTRUZIONE DEL PADRE
DISADAT TATI
%
NORMALI
%
TOTALI
130
46,5
205
73,2
353
Sottoalfabet ismo
150
53,5
75
26,8
225
Totali
280
Istruzione eleme
tare
280
560
Probabilità basate sul X2 = 0,01.
cupati anche quei capi-famiglia i quali esplicavano attività lavorativa
per almeno 270 giorni all’anno.
I dati, nell’esame di questo fattore, sono stati per lo più ricavati
dall’interrogatorio diretto degli interessati e spesso confortati dal controllo dei libretti di lavoro o della Cassa Mutua Malattie.
Abbiamo voluto dare importanza a questo fattore in quanto riteniamo che una stabile attività lavorativa possa contribuire, a parte le
considerazioni sin troppo ovvie di natura economica, alla socializzazione dell’individuo, stabilendo un contatto interumano, che quindi
possa influire sugli altri elementi da noi considerati. L’uomo che lavora acquista un maggiore rispetto di sé e degli altri ed appare più portato a rispettare quelle regole di buon vivere civile che la società gli richiede.
Ultimo dato è quello relativo al grado di istruzione del capo-famiglia ed anche per questo le considerazioni che si possono porre appaiono ovvie. Abbiamo registrato, come soggetti con istruzione elementare, quelli in possesso della licenza elementare o comunque in
76
grado di leggere, scrivere e far di conto in maniera corrente; come sottoalfabeti quelli invece i cui studi si erano fermati alla II o III elementare e che, al colloquio, ci sono apparsi privi di nozioni acquisite.
Abbiamo raccolto i dati suddividendoli in tabelle 2 x 2, che mo strano la presenza o l’assenza di un carattere specifico nel gruppo dei
disadattati e dei normali. Accanto ad ogni frequenza osservata abbiamo annotata il rispettivo valore in percentuale.
E’ stato anche computato in ciascuna di queste tavole il chi quadrato (x2 ) ed attribuito ad ognuna un indice di probabilità (P) che misura la possibilità che il variare del campione abbia prodotto la differenza tra le percentuali dei disadattati e dei normali, che presentavano quel carattere particolare.
I valori trovati in ciascuna indagine, nelle nostre condizioni di esperimento, hanno messo in luce una differenza altamente significativa fra i due caratteri esaminati, il che ci porta ad affermare che le differenze riscontrate sono reali. In tutti i rilievi abbiamo avuto infatti
probabilità di errore inferiore all’uno per cento.
Dall’esame dei dati che riportiamo in tabella, la differenza percentuale più significativa ci appare esser quella relativa alla pulizia e
ordine della abitazione. Seguono in ordine progressivo, la nutrizione,
la stabilità lavorativa dei padre ed il grado d’istruzione del capo famiglia.
Nell’indagine effettuata dai Glueck il valore percentuale più alto è
invece detenuto dalla stabilità lavorativa del padre cui seguono la pulizia e l’ordine della abitazione, dall’istruzione del padre,
dall’affollamento e, come ultimo, quello relativo allo stato di nutrizione del soggetto. Ma l’indagine dei Glueck è stata effettuata su di una
società, quella nord americana, in cui possono porsi considerazioni alquanto diverse.
All’inizio di questa relazione abbiamo parlato di « nuova frontiera
», attenendoci a quanto il Giovanardi ebbe a sostenere quando scriveva che la profilassi e la prevenzione devono esser incorporati nella
epidemiologia e che l’Igiene doveva intensificare i suoi interventi per
quel che riguardava le malattie in rapporto all’ambiente, alla attività
professionali ed a quelle psico-sociali.
Ebbene, i disadattamenti socio-ambientali possono a buona ragione esser definiti come disturbi generati si da carenze affettive, ma anche da fatti di non trascurabile importanza ai quali, tutta una nazione,
se vuoi essere ritenuta civile deve interessarsi.
Non pretendiamo di certo di aver indicato con la nostra indagine
gli elementi generatori della asocialità. Molto lungo sarebbe a questo
proposito il discorso ed implicherebbe l’esame di tutta una serie di fattori, da quelli antropologici a quelli sociologici a quelli psicologici.
L’alta significatività dei nostri dati deve però indurre a riflessioni.
Molti dei fattori da noi considerati come significativi potranno variare
in meglio con gli interventi sempre più decisi nel campo della edilizia
popolare, della occupazione e della lotta all’analfabetismo ma l’opera
77
più valida sarà senza alcun dubbio frustata se i principi igienici generali non raggiungeranno i cittadini ad ogni livello.
La asocialità non nasce con l’individuo e tanto meno è inevitabile.
Non vi è predestinazione, ma « destinazione », così come scrivono i
Glueck. Alla società tutta, ma all’igiene in prima linea, il compito di
opporsi a questo fenomeno negativo.
A.LONERO - A. MONTEDORO
BIBLIOGRAFIA
GLUECK SH., The problem of delinquency. Boston, Houghton Mifflin 1959.
GLUECK SH. - GLUECK E., 500 criminal careers. New York, Knopf, 1930.
Id., Fisico e delinquenza. Firenze, Barbera, 1965.
Id., Predicting delinquency and crime. Cambridge, Harvard Un., Press, 1959.
MERRILL M. A., Problems of child delinquency. Boston, Houghton-Mifflin, 1947.
BURT C., The young delinquent. London, Univ. London Press, 1957.
CHOMBART DE LAUWE Y. M., Psycopatologie so ciale de l’enfant inadaptè. Paris,
C.N.R.S., 1959.
BENNET I., Delinquent and neurotic children. New York, Basic Books, 1960.
CLOWARD R. A., OHLIN L. E., Delinquency and opportunity. Free Press Glencoe,
1960.
PUNTONI V., Trattato d’Igiene. Roma, Tumminelli.
HALBWACHS M., Psicologia delle classi sociali. Milano, Feltrinelli, 1963.
GIOVANARDI A., La riforma degli studi medici e l’insegnamento dell’Igiene. « Igiene
moderna », 1963.
78
PALAZZO DOGANA
Il piano regionale di sviluppo economico
Dibattito innanzi il Consiglio provinciale
Con i Comitati regionali per la programmazione economica il legislatore ha promosso studi ed indagini — nell’ambito regionale — nei
vari settori dell’economia, che si concludono con la redazione di
schemi regionali di sviluppo economico. Pertanto anche il C.R.P.E., in
base all’art. 1 del D. M. 22 aprile 1964, ha elaborato e compilato un
tale documento per il quinquennio 1966-1970.
Alla redazione dello schema, che costituisce la prima esperienza
pugliese in materia di programmazione, hanno validamente contribuito gli esponenti dauni, chiamati a far parte del C.R.P.E. pugliese, e soprattutto, il vice presidente dell’Amministrazione Provinciale di Foggia, dr. Bios de Majo, cui è stata affidata la presidenza della quinta
Commissione di studio per i settori del turismo e del commercio.
Il Consiglio Provinciale di Capitanata, nelle sedute dei 23 e 31 ottobre 1967 e del 7 novembre successivo, ha discusso lo schema regionale di sviluppo pugliese.
Aperto il dibattito sulla relazione De Majo (pubblicata nel primo
fascicolo 1967 di questa rassegna), ha preso per primo la parola il
consigliere Pistillo (PC.I.) il quale, riportandosi a un documento, che
dice preparato dal suo partito con proposte per lo sviluppo della Regione pugliese, ha affermato che nel settore agricolo, per ottenere dei
risultati positivi in Puglia, occorre andare incontro ai lavoratori (stabilizzazione di almeno 500 mila unità), puntando su due obiettivi:
l’attuazione di tutto il piano di irrigazione nei prossimi dieci anni e il
passaggio della terra in proprietà a chi la lavora. Infatti, uno degli aspetti più negativi dello « schema » redatto dal comitato regionale per
la programmazione, e dello stesso piano Pieraccini, sarebbe
l’impossibilità di realizzare il pieno impiego della manodopera 1 .
« Per procedere ad una programmazione — ha concluso il consigliere Pistillo — bisogna prima di tutto scegliere fra una programmazione democratica, che riformi in maniera sensibile il sistema sul quale agisce, creando nuovi meccanismi di accumulazione e nuovi centri
di potere, e una programmazione, che si ponga come unico obiettivo
la razionalizzazione e il consolidamento del meccanismo e del sistema. Quest’ultima forma però è possibile solo in una società
79
capitalistica avanzata, in cui un meccanismo di riproduzione allargata
del capitale sia funzionante. Ne consegue che in una società come
quella pugliese, nella quale, dai dati a nostra disposizione, il meccanismo in atto non permette neanche la riproduzione semplice (la produzione infatti ha un valore inferiore alla somma dei consumi e degli
ammortamenti), si può programmare solo democraticamente, cioè operando riforme che incidano sui rapporti giuridici e creino un meccanismo produttivo nuovo, valorizzando le forze che sono in grado di fare ciò ».
Secondo oratore è stato il capogruppo della D. C., dr. Galasso.
Dopo aver affermato che il piano di sviluppo regionale costituisce soltanto uno studio schematico delle tendenze e delle prospettive della
regione, egli ha ravvisato nello schema la prima prospettiva economica della regione pugliese, e la volontà politica di andare nel fondo della nostra realtà regionale. L’oratore ha quindi polemizzato a lungo con
l’opposizione di sinistra per alcune accese critiche ai problemi di fondo contenuti nel piano, critiche che, come nel caso del ruolo della proprietà privata vanno trovando un naturale superamento nella stessa economia sovietica. Ga lasso, dopo aver passato in rassegna i punti cardini del documento, ha sostenuto che esso vuol dare l’avvio ad un definitivo disegno di chiarificazione. In questo contesto di variazione
della realtà, deve adeguatamente inserirsi la provincia di Foggia. Affermata la esigenza del coordinamento fra gli enti preposti allo sviluppo del Mezzogiorno, l’oratore ha indicato in due particolari linee direttrici del piano, la società finanziaria e il risparmio contrattuale, i
motivi esaltanti per accelerare il progresso di crescita economica della
regione. Ha di poi rilevato come nel contesto dello sviluppo industriale della provincia, del quale il piano si occupa a proposito dello sfruttamento in loco delle risorse energetiche, particolare importanza assume il quarto centro petrolchimico che a cura dell’ENI, sarà realizzato a Manfredonia.
L’avv. Marinelli (MSI), ha esordito affermando che il Consiglio
non si trova nelle condizioni di poter esprimere un giudizio sullo
schema di programmazione regionale, perché esso non è stato portato
prima a conoscenza del Consiglio. L’unico atto sul quale è possibile
discutere, è la relazione del dott. De Majo, in modo che non resta che
costituire una commissione di studio, per approfondire la conoscenza
del documento programmatico. Egli si è detto perplesso soprattutto
per il problema creditizio, che non si può risolvere con la creazione di
una società finanziaria e col risparmio contrattuale, investendo la formazione di una vera e propria classe imprenditoriale, che possa decisamente dare una svolta al processo di sviluppo produttivo della regione.
« Nello schema — ha detto l’avvocato Marinelli — si parla di agricoltura e di tante altre cose ,come di oleifici ad Orta Nova, Matine,
Torremaggiore. Ebbene, proprio per Torremaggiore non vedo questa
necessità, essendo più che sufficienti gli oleifici già esistenti “in loco"
, mentre sarebbe più opportuno un conservificio.
Sarebbe piuttosto necessario costruire una strada TorremaggioreFoggia, per collegare direttamente la zona col Capoluogo e sarebbe
opportuno progettare la strada Torremaggiore-Casalvecchio di Puglia,
allo scopo di permettere il congiungimento delle Puglie col Molise.
80
Ecco la necessità di far sentire la nostra voce. Ecco la opportunità
delle riunioni dei capigruppo congiuntamente al gruppo studi.
Nello schema si accenna all’idea di Manlio Rossi Doria; io trovo
questa idea veramente interessante, perché, i capitali sarebbero investiti in maniera produttiva e si difenderebbe nel contempo la montagna. Un altro problema da studiare e da rappresentare al Comitato per
la programmazione è quello relativo all’Università a Foggia, tenuto
conto che già nel 1963 avevamo, nella nostra Provincia, una popolazione universitaria di oltre 25.000 studenti e, senza dubbio, oggi è aumentata notevolmente ».
Secondo il consigliere Panico (PCI), lo schema di piano regionale
non ha soddisfatto le attese del mondo del lavoro. Il “piano Pieraccini”, divenuto legge dello Stato, prevede tre obiettivi di fondo: la piena
occupazione, l’eliminazione egli squilibri tra varie zone e l’aumento
del reddito. Purtroppo soltanto di uno di questi obiettivi, l’aumento del
reddito, si trova traccia nel documento programmatico elaborato dal
comitato regionale. Panico ha sostenuto che è da rigettarsi l’impostazione relativa alla società finanziaria e al risparmio contrattuale. L’una
e l’altro, a prescindere dal fatto che il mondo del lavoro regionale non
può sostenere l’onere del risparmio contrattuale, non potrebbero costituire le valvole necessarie per avviare a soluzione il problema dello
sviluppo economico. L’oratore ha concluso che sia a livello regionale
che provinciale si è in ritardo rispetto ai termini applicativi della programmazione nazionale che, a suo dire, non rappresenta l’optimum,
visto che il « piano Pieraccini » costituisce un arretramento rispetto alle posizioni più aderenti alle realtà formulate dall’ex ministro al Bilancio on. Giolitti.
« E’ una pura illusione voler ottenere la piena occupazione con il
solo sviluppo industriale. La fabbrica di Manfredonia, per la produzione di ammoniaca ed urea, costerà 35 miliardi di lire, ma occuperà, a
pieno ritmo, soltanto 500 operai, mentre noi abbiamo bisogno di ben
centomila posti-lavoro.
Nel piano regionale si lascia intendere che il problema della piena
occupazione è rinviato: è facile rimandare un problema, quando esso è
di difficile soluzione. Che cosa programmiamo, dunque? E non è neppure vero che sia mancato il tempo al Comitato Regionale, perché è da
ben due anni che esso si riunisce.
Rendiamoci, dunque, promotori di un Comitato che coordini le
proposte da avanzare in sede regionale, in difesa della nostra Provincia tanto trascurata. C’è il problema del metano, quello
dell’irrigazione, del commercio, della trasformazione agricola e ce ne
sono tanti altri che ciascuno di noi potrà far presente con la propria
esperienza e con la propria provenienza politica ».
Il dr. De Tullio (Dc), ha esaminato alcuni aspetti di fondo dello
schema programmatico: agricoltura e industria. In particolare ha sottolineato l’importanza della commercializzazione dei prodotti agricoli,
sostenendo che tale fase del complesso ciclo economico, va potenziato
nell’interesse soprattutto degli operatori agricoli. Per quanto riguarda
l’assetto industriale, l’oratore ha affrontato il problema alla luce delle
81
risultanze accertate che hanno visto la provincia di Foggia prescelta
per l’insediamento del quarto centro petrolchimico. L’oratore ha quindi puntualizzato la validità dell’azione perseguita dal governo di centro-sinistra che presenta la linea direttrice di una politica volta a superare tradizionali squilibri e situazioni di grave depressione economica.
« Sta per realizzarsi — ha concluso il consigliere dr. De Tullio —
una
grande
aspirazione delle nostre popolazioni, cioè
l’industrializzazione della nostra Provincia che nessuno di noi sperava
di vedere.
Molti avversari avevano affermato che a noi conviene ottenere una
industria capace di dare lavoro a mille operai, piuttosto che andar dietro alla chimera del metano. Noi della D.C. e del P.S.U. non ci facemmo abbagliare, ed eccoci finalmente alla realizzazione della fabbrica di Manfredonia: la fortuna, la provvidenza e la lotta unitaria
hanno voluto che le nostre speranze comincino a realizzarsi. Non si
deve scandalizzare alcuno se Galasso afferma che il merito è della
D.C.: quanto meno essa ha il merito di aver affrettato la realizzazione
dell’opera. La battaglia per il metano, non è finita, nè deve finire.
Che cosa dobbiamo fare? Non disperdere le nostre forze in una inutile polemica; collaborare tutti nell’interesse dei nostri figli e nipoti.
Condivido perfettamente quanto chiesto dall’Avv. Marinelli: i due
tecnici operino per conto loro, ma resti alla Provincia l’iniziativa della
programmazione.
E’ necessario unificare le forze, sommarle per avere risultati soddisfacenti, come quando ci trovammo a lottare per il metano. La Camera
di Commercio è interessata alla programmazione, l’Ente del Turismo
lo è altrettanto, i Sindacati pure, la Provincia anche e soprattutto, come
altresì l’Associazione Industriali e l’Associazione Agricoltori: sia il
Presidente dell’Amministrazione Provinciale — conclude il Dr. De
Tullio — a coordinare le iniziative dei vari Enti interessati alla programmazione, ad una programmazione seria da poter discutere, e, se
sarà il caso, anche imporre alle altre provincie pugliesi ».
In apertura di seduta del 7 novembre 1967, il presidente avv. Tizzani, dopo aver sottolineato la serietà dell’ampio e responsabile dibattito svolto dal Consiglio Provinciale e aver dato atto al vice Presidente
di aver aperto il dibattito stesso con una relazione chiara ed esauriente,
ha aggiunto:
« Non mi sento di condividere le critiche distruttive del gruppo
comunista, che non tengono conto della circostanza che, per la prima
volta nella sua storia, la nostra Regione dispone di uno strumento conoscitivo dei propri problemi, sia pure incompleto ed imperfetto, ma
certamente utile e soprattutto perfezionabile, quando si andrà a proseguire il lavoro già iniziato.
Secondo il consigliere Pistillo lo schema di piano non modifica i
meccanismi fondamentali di produzione e distribuzione della ricchezza: mi sembra che questa sia stata la critica di fondo allo schema, giudicato dal gruppo comunista scarsamente rivoluzionario; come se il
piano modificasse radicalmente le strutture su cui poggia la nostra economia, che è e deve rimanere una economia mista di mercato, fon-
82
data anche sulla libera iniziativa.
Mi sembra evidente che per modificare il nostro attuale schema
economico, si dovrebbe, prima di tutto, modificare la nostra legge
fondamentale, cioè la Costituzione, che prevede, all’art. 41 “che
l’iniziativa economica privata è libera” anche se non può svolgersi in
contrasto con l’utilità sociale ed in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Il limite alla libertà economica è
costituito dalla seconda parte dell’articolo 41 che stabilisce testualmente: “La legge determina i programmi ed i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e
coordinata a fini sociali”. E la Corte Costituzionale, con alcune sentenze, anche recenti, ha stabilito i limiti ed i contenuti dell’intervento
pubblico sull’attività economica privata.
Questo articolo costituisce la chiave giuridica della politica di programmazione economica a tutti i livelli.
La nostra Costituzione non consente, pertanto, la mortificazione
della privata iniziativa nè la collettivizzazione pressoché integrale della vita economica, che sono nei programmi del massimalismo marxista.
Devo aggiungere, d’altra parte, che il consigliere Pistillo ha sottolineato, nel suo intervento, alcuni aspetti del piano che sono veramente
preoccupanti: prendiamo ad esempio il problema dell’occupazione. Mi
pare che nessuno di noi, a qualsiasi parte politica appartenga, possa
accettare, a cuor leggero, l’aumento a breve ed a medio termine, della
disoccupazione.
Non dimentichiamo nella nostra azione quotidiana, che se anche
lavoriamo per una società moderna, sempre più meccanica e tecnica, e
quindi portata ad una valutazione essenzialmente economica degli aspetti singoli e globali dei vari problemi che la riguardano, non si può,
e in ogni caso, non si deve, prescindere dal considerare l’uomo come
centro motore di ogni azione, soggetto e non semplice oggetto di diritto. Una civiltà a misura d’uomo intanto esiste, progredisce ed opera in
quanto non discrimina o differenzia in classi o categorie gli uomini di
fronte agli essenziali problemi della dignità e della libertà, ma anche
di fronte ai problemi della vita, intesa in termini socio-economici.
Lo schema di piano contiene, per quanto riguarda la disoccupazione, semplicemente delle ipotesi, che presentano certamente, delle alternative, sia sul piano tecnico che sul piano politico. E De Majo le ha
anche individuate ed indicate, due di queste alternative, nella realizzazione puntuale delle opere pubbliche e nella formazione professionale
della mano d’opera.
Vi è, poi l’ipotizzato scarso incremento di reddito per l’agricoltura,
che ci deve preoccupare, perché la nostra è, e resterà ancora per molto
tempo, una provincia fondamentalmente agricola. Non condivido però, la sfiducia della opposizione circa la risoluzione, nei tempi tecnici
previsti, del problema dell’irrigazione. Certo si dovranno superare
molte difficoltà, non solo di natura finanziaria, per la puntuale ed inte-
83
grale realizzazione dei programmi già iniziati; bisognerà soprattutto
fare in modo che l’acqua venga utilizzata dalle aziende agricole (ricordo a tale proposito, per amore di obiettività, le perplessità espresse
circa la possibilità degli operatori agricoli di investire, per le trasformazioni culturali, un capitale calcolato in L. 100.000 all’anno per ettaro catastale, che è all’incirca pari all’attuale prodotto netto aziendale
per ettaro).
Ma proprio perché gli obiettivi sono ardui, dobbiamo unire tutte le
nostre forze e non farci sopraffare dal nostro atavico pessimismo per
rompere finalmente la maligna spirale del sottosviluppo e della mis eria.
Per l’agricoltura i problemi da affrontare sono molti e complessi;
ma l’opposizione comunista invece di indicare soluzioni concrete rispolvera, per l’occasione, i frusti e logori slogans tipo “la terra ai contadini", dimenticando che, ormai l’agricoltura, sotto qualsiasi regime
politico, deve tener conto della produttività, della riduzione dei costi
di produzione e di trasporto, della convenienza delle scelte colturali,
della commerciabilità dei prodotti, della dimensione ottimale delle
imprese, della dinamica degli scambi ecc.; esigenze queste che si
stanno facendo strada anche nelle economie dei paesi comunisti più
progrediti e che prima o poi, dovranno affermarsi anche in Cina, per
non ripetere i recenti fallimenti dei piani agricoli e le conseguenti carestie.
Si è detto, anche, che esiste una difformità di valutazione sullo sviluppo ipotizzato del reddito agricolo; è evidente, a mio avviso, che è
una difformità sfuggita al coordinatore, così come credo più vicino alla realtà l’incremento del 4%, perché ho fiducia nell’avvenire della
nostra agricoltura. Concordo pienamente con l’amico De Tullio, il
quale ha sostenuto, nel suo intervento, che non è sufficiente aumentare
la produzione agricola, ma bisogna pensare anche a vendere i prodotti.
I grandi collegamenti in corso di realizzazione ridurranno i tempi ed i
costi dei trasporti fra le nostre zone produttrici ed i mercati di consumo; questo sarà un altro importante fattore “trascinante “, accanto alla
irrigazione, ai fini dell’aumento del reddito agricolo. Ecco perché si ritiene possibile il raggiungimento dell’obiettivo della stabilizzazione
dell’attuale livello della mano d’opera, che è obbiettivo positivo anche
per i comunisti.
Non posso, d’altra parte, non concordare con il consigliere Pistillo
quando egli afferma che il capitolo della pesca va approfondito per
studiare la migliore utilizzazione dei laghi di Lesina e Varano; ma è
necessario che il problema dei laghi sia impostato a livello regionale,
perché sono necessari altri interventi, in aggiunta a quelli che abbiamo
già deciso a livello provinciale con l’acquisto della draga e la istituzione del laboratorio di biologia lagunare.
Per l’industria ho notato con piacere che sta per essere ormai definitivamente superato il vezzo, o meglio il malvezzo, della geometria
applicata all’economia, con i triangoli, i quadrilateri, gli assi, ecc., che
mascheravano il tentativo di escludere la nostra provincia dal processo
di sviluppo industriale pugliese e meridionale.
Il tentativo è stato sventato sopratutto grazie al successo che ha ottenuto l’azione diretta allo sfruttamento in loco del nostro metano.
84
Il Presidente Tizzani, a questo punto, ha affrontato i temi dell’assetto territoriale, del commercio e del turismo, dichiarandosi
d’accordo con l’impostazione data dal relatore.
E’ passato, quindi, a parlare di programmazione provinciale e della
necessità di sollecitarne lo studio.
« Questo studio », egli dice, « è oltre che indispensabile, urgente,
perché c’è l’esigenza di tutelare, in sede regionale, le legittime aspettative della nostra Provincia.
E nella difesa dei nostri interessi provinciali può e deve verificarsi
la più larga convergenza di forze politiche, al di là ed al di sopra delle
divergenze ideologiche; ciò perché, se è vero che non dobbiamo farci
portavoce di istanze campanilistiche, è anche giusto che dobbiamo operare in modo da impedire ad altri di fare il campanilismo ai nostri
danni.
E’ necessario disaggregare ed extrapolare, dallo schema di piano
regionale, la componente provinciale.
E’ ora, per esempio, che si acquisisca, a livello regionale, l’assunto
che il porto di Manfredonia è, ormai, per importanza industriale e per
essere l’unico della Capitanata, il quarto porto della Puglia, subito dopo o insieme a Taranto, Brindisi e Bari; e che i problemi del nostro
porto sono di più urgente soluzione rispetto a quelli dei porti di Barletta, Molfetta, Monopoli, Otranto e Gallipoli.
E’ bene, poi, che sia fatto rilevare che nella nostra Provincia esiste,
già, da oltre cinquant’anni, una vocazione per l’industria aerea, se è
vero che nel nostro territorio fu già impiantata la fabbrica Caproni; così come a Taranto esiste una vocazione per l’industria cantieristica navale. Noi abbiamo, perciò, titoli quanto meno per concorrere con le altre province (è di questi giorni la notizia che a Bari è stata chiesta la
creazione di un istituto aereonautico) per ottenere la localizzazione
dell’AVIO-SUD. Il nostro Tavoliere costituisce una zona strategica di
eccezionale importanza per l’aereonautica militare, e durante la seconda guerra mondiale, abbiamo pagato, con lutti e rovine, questo
singolare privilegio. Non vedo perché le stesse considerazioni non
debbano essere fatte anche per l’aereonautica civile.
Sempre a mero titolo di esemplificazione, desidero far rilevare che
nello schema di piano, e precisamente nella relazione sull’istruzione
redatta dalla Sottocommissione Fantasia, viene riconosciuta la necessità della istituzione in Puglia di un terzo Centro Universitario e la sua
localizzazione a Foggia. E’ detto, inoltre, che l’istituzione di facoltà
nei capoluoghi di Provincia deve avere una relazione con le vocazioni
socio-economiche e storico-ambientali delle singole zone.
Partendo da queste accettabili premesse si arriva, però, alle conclusioni per me inaccettabili, che le facoltà da istituire devono servire solo a decentrare le facoltà sovraffollate dell’Ateneo barese (e cioè quelle ad indirizzo umanistico) e che, sopratutto, il terzo centro universitario dovrebbe essere istituito e gestito a cura di un locale consorzio di
enti pubblici, vale a dire, a spese nostre.
Ritengo, invece, che l’istanza della istituzione del terzo centro Universitario debba diventare una rivendicazione dell’intera regione pugliese verso il Governo Nazionale e come tale debba essere inserita
85
nel documento di programmazione regionale come uno dei fattori trascinanti dello sviluppo della Puglia.
Noi, come Provincia, continueremo, anche in questa direzione, a
fare il nostro dovere nei confronti delle attese e delle aspettative di
tanti.
I nostro compito, infatti, non è solo quello di chiedere l’istituzione
a Foggia dell’università, ma è anche quella di preparare l’ambiente a
ricevere un tale istituto superiore. E la Provincia, ritengo, che lavori
anche per questo, quando decide la costruzione della nuova Biblioteca, quando decide, nel progetto della nuova Maternità, di costruire i
locali per la scuola d’Ostetricia, quando chiede la statizzazione del Liceo Musicale di Foggia, quando chiede, all’unanimità dei consensi, la
trasformazione dell’istituto Agrario di Capitanata, in base all’art. 3
della legge 27.10.1966, n. 10, in istituto scientifico e tecnologico, cioè
in istituto sperimentale per la meccanizzazione agricola e la irrigazione.
E’ necessario, inoltre, che vengano rettificate alcune gravi inesattezze, a nostro danno, contenute nel piano regionale di sviluppo della
scuola ed in quello ospedaliero.
Mi sembra opportuno, a questo punto, puntualizzare brevemente,
fra i tanti problemi trattati dallo schema di piano, la parte relativa al
nostro Subappennino.
Nello studio condotto sull’assetto territoriale, la zona dell’Alto
Fortore viene considerata territorio caratterizzato da particolare depressione.
Per risolvere i problemi di questo comprensorio, che viene ritenuto
il più depresso di tutta la Puglia, « l’azione delle Amministrazioni dello Stato o della Cassa (cito testualmente lo schema) dovrà organicamente coordinarsi in modo da riattivare e potenziare le interrelazioni
fra queste zone ed il territtorio circostante, dando particolare rilievo ai
fattori di stabilizzazioni quali l’orografia, le condizioni fisiche dei terreni, i gradi d’infrastrutture, i valori socio-economici propri delle singole comunità. Dovranno essere valorizzate le possibili risorse interne,
operando
contemporaneamente
per
il
potenziamento
e
l’ammodernamento dei servizi civili ».
Fin qui lo schema di piano.
Personalmente ritengo che è necessario fare molto, molto di più di
una generica impostazione dei problemi.
Bisogna sfruttare le possibilità che esistono di chiedere ed ottenere, nella maggiore misura possibile, l’intervento statale in attuazione
del capitolo 13 (difesa e conservazione del suolo) del programma economico nazionale quinquennale che prevede un investimento sociale
complessivo nel quinquennio, in tale direzione, di ben 200 miliardi.
Riprenderemo ed approfondiremo questo discorso, quando andremo a trattare più specificamente i problemi del Subappennino in sede
di discussione dell’ordine del giorno già presentato dal gruppo Comunista. Posso solo anticipare, in sintesi, la mia personale opinione in
proposito: tutti gli Enti pubblici, a cominciare dallo Stato, debbono fare il loro dovere verso il derelitto Subappennino, intervenendo con
maggiore intensità del passato. Per quanto ci riguarda direttamente,
86
posso dirvi — e ve lo dimostrerò — che la nostra Amministrazione
sta già attuando concretamente questa linea direttrice.
Il Presidente Tizzani, dopo aver espresso l’adesione alla parte dello schema relativa alle « risorse », sottolineando la necessità urgente
della utilizzazione razionale ed appiena di esse, s’è detto convinto che
un discorso politico su tutta la programmazione non può essere disgiunto dalla realizzazione e dalla vita dell’Ente Regione.
Ha, quindi, ringraziato il Vice Presidente per la relazione svolta e
per il lavoro compiuto, soggiungendo:
Le conclusioni del gruppo comunista, espresse dai consigliere Pistillo non ci convincono. Esse esprimono appieno il divario che c’è, ed
è un divario profondo, tra le nostre forze politiche del centro-sinistra e
le forze politiche comuniste. Queste, rigettando tutto il piano, in modo
integrale, e nelle proposte e nelle soluzioni, confermano di non essere
disponibili per un discorso ed un colloquio democratico.
Il nostro metodo è sostanzialmente diverso: dall’interno noi vogliamo colmare le lacune e rettificare gli errori che vi possano essere,
con una critica, come quella fatta prima dal relatore, poi dagli intervenuti dr. Ga lasso e dr. De Tullio e da quella modesta fatta da me, una
critica, dicevo, che è positiva e costruttiva.
Respingiamo, quindi, la « camicia di Nesso » che il gruppo comu nista vuoi mettere alla programmazione regionale per soffocarla ed
ucciderla.
Il nostro metodo è, senza dubbio, più vicino agli interessi della nostra popolazione. La recente decisione del CIPE per l’insediamento
ANIC a Manfredonia, ne è la prova e la conferma più valida.
Agli inviti ed alle sollecitazioni del gruppo comunista che ci invitavano alla « lotta » e che incitavano le popolazioni alla « rivolta »,
abbiamo risposto con la fiducia nel Governo e negli uomini dei Governo: e il tempo ci ha detto che la nostra fiducia era ben risposta.
Ancora oggi confermiamo (e, non certo, per piatto e sterile conformismo ) tale fiducia e nell’opera del Governo democratico e
nell’opera di tutti i dirigenti gli Enti della Provincia e nell’azione di
questo Consiglio Provinciale, e nell’attività degli amici della stampa.
Fiducia, soprattutto, consentitemi, nella sagacia, intelligenza volontà di tutto il nostro popolo di ogni ceto e grado, nella .maturità, responsabilità e consapevolezza dei nostri operatori economici e delle
forze del 1avoro di Capitanata.
L’assessore De Maio, in replica a tutti gli interventi nella discussione, esordisce, affermando che il serio ed approfondito dibattito ha
dato il via ad un’azione, nel campo della programmazione, che quanto
prima vedrà direttamente impegnato il massimo Ente Provinciale.
Dopo aver ringraziato i numerosi Consiglieri per il contributo di
idee e argomentazioni fornito, si sofferma sull’aspetto scorrevole e dinamico del piano che deve essere posto a base delle nostre visioni prospettiche, perché il Mezzogiorno, nella misura in cui muta la sua realtà, deve fissare pietre miliari nel cammino dello sviluppo, nuovi ob-
87
biettivi e nuovi traguardi. Contesta all’opposizione di sinistra la validità delle tesi sostenute nei riguardi del piano: tesi che hanno assunto
aspetto di « discorso di chiusura » e di « affermazioni ciniche » che
l’elaborato, in relazione alla sua validità, non merita. Indi, ribadito il
concetto che il piano di programmazione regionale affonda le sue radici nella realtà economica, sociale e politica nella quale si trova la
Regione Pugliese, afferma che egli, nel corso di una sua recente visita
alla Repubblica Cecoslovacca, interessandosi ai problemi dello sviluppo economico di quella Nazione, ha avuto modo di constatare come in quel Paese, retto da un Governo che annette grande importanza
alla politica pianificata, siano stati mutati i termini fondamentali del
piano perché erano venute a manifestarsi realtà non previste.
L’oratore ha quindi ribadito la validità programmatica del piano di
sviluppo, rilevando come proprio il suo aspetto scorrevole e dinamico
consente di adeguarlo alle realtà che man mano verranno a determinarsi nella Regione. Ha poi passato in rassegna i vari aspetti settoriali
del documento programmatico, rigettando i motivi di critica delle opposizioni. In merito al risparmio contrattuale, egli ha sostenuto che esso va visto nell’ambito dell’utilizzazione delle risorse economiche,
come un inserimento del mondo del lavoro nel ciclo produttivo.
Circa il « progetto Trieste », che, com’è noto, prevede l’accentramento nella città del Nord delle strutture distributive dei prodotti agricoli, l’oratore ha affermato che tale iniziativa è da ritenersi lesiva negli
interessi degli operatori agricoli della Regione Pugliese e, quindi, negativa. A livello locale si impone la necessità di rendere funzionali gli
strumenti operanti nel settore, e prima fra tutti la centale ortofrutticola,
che lavorerebbe molto al di sotto delle sue effettive capacità operative,
non assolvendo, in tal modo alla sua funzione di strumento di tutela
della produzione ortofrutticola.
Sul problema della utilizzazione delle acque e della irrigazione,
l’Assessore De Maio ha auspicato che i competenti organismi, attraverso una organica azione di coordinamento possano chiaramente indicare in che modo e con quali limiti l’acqua potrà essere utilizzata.
L’assessore De Maio ha rilevato che il documento illustrato al
Consiglio e la discussione che su di esso si è sviluppata, costituiscono,
alla luce delle argomentazioni trattate, la proiezione concreta e diretta
del documento elaborato dal Comitato Regionale. Non ci sono perciò
conclusioni da trarre al termine del dibattito; bisogna portare avanti il
discorso con le ulteriori indicazioni che il Consiglio Provinciale darà
in sede di elaborazione del piano programmatico provinciale.
L’oratore ha concluso che la Provincia ha l’ambizione di affermare
che il progresso della Capitanata, proprio in relazione agli orientamenti emersi nello schema approntato dal Comitato Regionale, rappresenta la premessa del progresso e dello sviluppo della Regione Pugliese.
Il Presidente comunica all’Assemblea che è pervenuto il seguente
ordine del giorno, a firma dei Consiglieri Galasso e Moretti:
88
IL CONSIGLIO PROVINCIALE:
ASCOLTATA la relazione del vice presidente De Maio sullo «
Schema di piano di sviluppo della Regione Pugliese », ne approva le
linee generali;
PRENDE atto della indicazione del relatore di considerare detto
piano non chiuso in rigidi schemi ma dinamico nel suo svolgersi attraverso il tempo per tener conto del naturale sviluppo della realtà
umana sociale e politica;
RICONOSCE la necessità di elaborare rapidamente il piano definitivo di sviluppo della nostra regione che dovrà tenere nel debito
conto:
1) la nuova realtà della Provincia di Foggia evidenziatasi con il
rinvenimento delle risorse metanifere e con l’insediamento del IV Petrolchimico;
2) lo sviluppo futuro della nostra Provincia nel settore agricolo
che verrà a determinarsi con la realizzazione dei progetti di irrigazione già in parte iniziata, e che comporterà l’ingigantimento in maniera
pressante del problema della commercializzazione ed industrializzazione dei prodotti;
FA VOTI perché al più presto si porti all’attenzione del Consiglio
Provinciale un piano di sviluppo della Provincia di Foggia che potrà
utilmente contribuire alla impostazione dello stesso piano definitivo
regionale.
Il Presidente informa che a fine dibattito metterà in votazione prima l’ordine del giorno comunista e poi quello a firma dei Consiglieri
Galasso e Moretti, a meno che i Comunisti non ritirino il proprio.
Il consigliere Pistillo informa che l’ordine del giorno comunista
non sarà ritirato.
« Respingiamo — egli dice — la tesi De Maio, secondo la quale la
nostra è stata soltanto una critica distruttiva dello schema di piano regionale. Non può trattarsi di critica soltanto distruttiva perché il Partito al quale appartengo ha anche preparato un proprio documento sul
piano, col quale si sono dati suggerimenti, si sono avanzate proposte e
sono state mosse osservazioni. E’ stato detto anche che noi siamo cinici: la nostra posizione non può essere considerata con la morale, ma
con la politica, alla quale si può aderire o meno. Noi siamo partiti
dall’interno dello schema per criticarlo e non dalla critica preconcetta,
e ciò è nel nostro diritto.
Più di un Consigliere, durante il presente dibattito, si è richiamato
alle conclusioni del Congresso di Napoli della Democrazia Cristiana:
nessuno dei democristiani, però, ha risposto alle nostre osservazioni in
merito. Noi ci siamo limitati a presentare una serie di considerazioni, e
non capisco proprio perché ci si voglia accusare di incostituzionalità.
Gli è che voi dimenticate troppo spesso il processo avvenuto in Italia
dall’epoca del Risorgimento ad oggi e continuate a considerare
l’operaio al servizio delle grandi industrie, mentre noi vogliamo che si
spezzi finalmente questa catena di servitù.
Le osservazioni tecniche da noi mosse — rileva l’oratore per concludere, — sono rimaste senza risposta alcuna: noi non diciamo che lo
89
schema di piano sia da mettere agli atti, come si vuoi far apparire, ma
che esso contiene anche cose buone; soltanto affermiamo che esso può
servire unicamente come base per uno studio successivo sulla programmazione regionale: il nostro è stato un contributo serio che voi
non potete ignorare ».
Il dott. De Tullio è del parere che sia necessario rettificare alcune
delle osservazioni mosse dal Consigliere Pistillo.
« Nell’ordine del giorno comunista, egli sostiene, vi sono dei punti
che il mio gruppo condivide pienamente e che, purtroppo, costituiscono soltanto il risultato delle condizioni in cui per secoli si è trascinata
la nostra Provincia. Non è esatto assolutamente che i dirigenti della
D.C. abbiano dichiarato che per il Mezzogiorno nulla sia stato fatto.
Esiste, è vero, uno squilibrio che occorre eliminare al più presto possibile tra Nord e Sud, ma con ciò possiamo proprio affermare che per il
Sud non sia stato mai fatto niente? Non credo ».
E’ noto che la Capitanata è al quinto posto, sulle 92 Province Italiane, nell’aumento percentuale del reddito, e questo mi pare il miglior
metro per giudicare se sia stata fatta qualcosa. Bisogna riconoscere
che si è lavorato molto per l’agricoltura e per il turismo, mentre per la
industria non è stato fatto alcun passo avanti. Bisogna senz’altro fare
di più — conclude il Dr. De Tullio — ma abbiate l’onestà di dire che
si è fatto molto, anche se tanto resta ancora da fare.
Secondo l’avv. Marinelli, dopo un dibattito di un certo interesse, in
definitiva si è giunti ad una conclusione cui non si doveva arrivare. Se
è vero che il dibattito aveva i suoi limiti — egli afferma — in quanto
si doveva discutere la relazione De Maio e non lo schema di piano,
non si può votare su due ordini del giorno relativi allo schema di piano, perché noi — lo ripeto questa sera — non conosciamo il piano
stesso.
Lasciamo da parte le valutazioni politiche sul piano; formiamo
piuttosto una Commissione di studio costituita da tutti i rappresentanti
dei gruppi politici presenti in Consiglio ed integrata dai tecnici nominati nella seduta del 31luglio scorso e dai componenti il Gruppo Studi
della Provincia, che lavori seriamente e con celerità per puntualizzare
le richieste e gli obiettivi della Provincia di Foggia. Nominiamo questa sera stessa, a conclusione del dibattito, la Commissione, al di sopra
ed al di là delle valutazioni politiche.
Io non voglio assolutamente, come ha fatto qualche altro Consigliere, mettere in evidenza i contrasti tra Galasso e De Majo. Quello
che propongo — conclude l’Avv. Marinelli — é di bandire le discussioni e le polemiche politiche per studiare, insieme al Gruppo Studi
dell’Amministrazione, i problemi che assillano la Capitanata.
Secondo il dr. Galasso, la proposta Marinelli è suggestiva per
quanto riguarda i problemi di Foggia e della Capitanata. Egli rileva
che i due ordini del giorno nella prima parte contengono giudizi e valutazioni politiche sul piano di programmazione regionale. Pertanto, si
dichiara disposto a ritirare il proprio, per la stesura di un nuovo ordine
del giorno concordato, qualora il Gruppo Comunista sia d’accordo.
90
La proposta è accolta all’unanimità e il Presidente sospende brevemente i lavori.
Alla ripresa dei lavori il Presidente informa che, non essendo stato
possibile ottenere un unico ordine del giorno concordato, si procederà
come segue: si voterà prima l’ordine del giorno del Gruppo Comunista
avanti riportato, fino alla lettera e) esclusa; successivamente si metterà
in votazione l’ordine del giorno e firma dei consiglieri Galasso e Moretti per la sola premessa, esclusa la conclusione, e cioè fino alla parola « prodotti »; infine si metteranno in votazione le sole conclusioni,
sotto la lettera c). così concordate:
c) Il Consiglio Provinciale conferma la validità di una programmazione provinciale così come deciso nella delibera del giorno 31 luglio 1967, stabilendo che della Commissione della programmazione,
in modo permanente, facciano parte i rappresentanti dei Gruppi del
Consiglio ».
Procedutosi alla votazione, per alzata e seduta, nei modi suddetti,
la medesima dà i seguenti risultati:
— N. 28 Consiglieri presenti e votanti (assenti: Di Venosa e Vania)
— Ordine del giorno comunista:
voti favorevoli
N. 9
voti contrari
N. 19
— Ordine del giorno Galasso-Moretti:
voti favorevoli
N. 16
voti contrari
N. 12
— Parte conclusiva concordata sotto la lettera c): approvata
all’unanimità.
91
ISTITUTI DI CULTURA
Il Centro servizi culturali del Comprensorio garganico
L’anno passato facemmo relazione di una notevole esperienza comunitaria nell’area socio-educativa della Capitanana (v. Il Centro di
cultura popolare e biblioteca « Antonio Simone » di Manfredonia, p.
I, pp. 96 s.). Le sue esperienze, con i risultati ottenuti nel corso di
quest’anno, sono stati raccolti dalla collana Istituti d’arte e di cultura,
edita dallo S.E.D., in un « quaderno » al quale rimandiamo i nostri lettori (Il Centro di Cultura Popolare « Antonio Simone »).
Questa volta ci tocca registrare un avvenimento, che può segnare
l’inizio di un nuovo corso della politica culturale nella nostra provincia, e particolarmente in quella zona di essa, che più sembra diseredata dallo Stato.
Il 25 maggio a Manfredonia, promosso dal Centro « Simone », col
patrocinio e l’ospitalità del sindaco, prof. Valente, si svolse in quella
Città una conferenza informativa, con l’intervento dell’on. prof. Anna
Matera, consigliere della Cassa per il Mezzogiorno e vice presidente
del suo FORMEZ, e altresì del prof. Mario Melino, direttore generale
della Società Umanitaria di Milano. Causale della riunione un nuovo
intervento della Cassa predetta, con la creazione in tutte le province
meridionali e insulari di Centri di Servizi Culturali, tra essi uno a
Manfredonia, gestito appunto dalla Umanitaria, per un vasto comprensorio del Gargano.
Eccone, per la voce autorevole della sig.ra Matera, la illustrazione
autentica:
«L’art. 20 della legge n. 717, di proroga per un quinquennio
dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, prescrive:” Per favorire il progresso civile delle popolazioni meridionali sono promosse e
finanziate attività di carattere sociale ed educativo. Tali attività possono essere rivolte anche ad assistere, nelle zone di nuovo insediamento, gli emigrati provenienti dai territori meridionali.
All’espletamento di tali compiti provvede la Cassa, tramite il Centro
di Formazione e Studi... sulla base di programmi esecutivi, predisposti in attuazione del piano di coordinamento, approvati dal Ministro
per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno. Per le stesse finalità,
la Cassa può essere autorizzata dal Ministro.., ad utilizzare anche enti
ed istituti specializzati già operanti nel settore
« Il piano di coordinamento, predisposto in attuazione della citata
92
legge, precisa e articola in quattro direttrici le suddette attività sociali
ed educative: a) promozione e animazione culturale, imperniata su un
Centro Comunitario, sede delle iniziative varie (giovanili, di lotta
contro l’analfabetismo, di educazione degli adulti ecc.) e organizzato
intorno a un moderno servizio di biblioteca e alla scuola; b) potenziamento dei servizi sociali fondamentali, in collaborazione con i
quadri locali amministrativi e tecnici, assistenziali, scolastici, medicosanitari ecc.; c) azione sociale legata alla promozione tecnicoprofessionale; d) assistenza agli emigranti
« Risale al 1959 l’inizio dell’intervento straordinario nel settore
sociale ed educativo, quando ci si cominciò a rendere conto che era
assurdo pensare a un tipo di sviluppo indotto dall’esterno su popolazioni sprovvedute e passive, e della necessità di mettere in moto una
componente culturale e tecnico-professionale.
Allora, in virtù della legge n. 555 del 18 luglio 1959, si rese possibile l’avvio di un programma sperimentale, rivolto ai giovani, agli
adulti, agli analfabeti, in convenzione con vari enti; le attività di tale
programma sono successivamente state ampliate e sono proseguite fino al 31 ottobre 1966.
Non si parte quindi da zero; ciò vale per il Comitato dei Ministri,
per la Cassa, per il Centro di Formazione e Studi (ex Formez), per gli
enti specializzati. Si parte però con una dimensione diversa, che non è
quantitativa, ma qualitativa perché ricca di una esperienza già fatta e
di una più approfondita consapevolezza, che ha trovato la sua sintesi
nel disposto legislativo, il quale, per la prima volta, non si limita più a
tagliare una fettina dallo stanziamento per l’intervento straordinario
nel suo complesso, per devolverla all’elevazione culturale e civile delle popolazioni, ma entra nel merito delle attività da svolgere in tale
direzione, ne indica le linee di sviluppo, gli strumenti, i metodi, la collaborazione (scuola, enti locali, associazioni professionali ecc.), e soprattutto ne ridimensiona la componente assistenziale (nel senso che
noi meridionali ben conosciamo) mentre ne accentua fortemente la
componente culturale.
« In fine, stabilisce che il Centro di Formazione e Studi “... assume
una funzione di propulsione e di coordinamento tecnico rispetto
all’intero programma e provvede anche allo aggiornamento e al perfezionamento dei quadri impegnati nell’attività nonché a fornire alle
strutture operative dell’intervento sociale, nel suo insieme, informazioni, documentazioni e servizi tecnici...”.
« E’ questo nient’altro che un giudizio di valore da parte del potere pubblico e una conseguente scelta politica.Il potere pubblico afferma, se non la priorità dello sviluppo culturale su quello economico
(è sempre difficile fissare un prima e un poi), certamente la contestualità dei due; contestualità che non significa che i due aspetti si pongano sullo stesso piano, ma il contrario; dato che è chiaro che, nello sviluppo economico che così faticosamente sta decollando nel Mezzogiorno (e dappertutto), devono essere i valori culturali e politici, cioè
in definitiva i valori della libertà umana, a dirigere, a decidere, a dire
l’ultima parola.
93
« A questo punto c’è un dubbio da fugare: questa cultura a cui il
potere pubblico offre una struttura per la sua promozione e creazione,
che cosa è precisamente? Si vuole forse che sia un certo tipo di cultura, gradito al potere pubblico, meglio, a coloro che oggi lo gestiscono, che in definitiva gli faccia da supporto politico? Tale dubbio è
Sorto nella mente dei dirigenti degli enti specializzati già operanti nel
settore appena il piano di coordinamento è apparso con le sue indicazioni di merito; ha prodotto diffidenza, che non è ancora scomparsa,
che solo nello sviluppo dell’attività potrà scomparire del tutto.
« E certo la frase “diffusione della cultura” può generare delle
preoccupazioni, far pensare a un tipo prestabilito di “merce” da diffondere. Non così le parole “promozione e animazione “, le quali pongono la questione nei suoi termini esatti, che sono i seguenti: il potere
pubblico crea una struttura, un Centro Comunitario, che fa perno sulla scuola da un lato, dall’altro su una biblioteca, intesa non come deposito di libri in attesa che la gente si avvicini ad essi (cosa che molto
raramente accade), ma come raccolta di libri da rendere vivi e mobili,
da avvicinare ai potenziali lettori affinché questi si mutino in lettori
reali; attribuisce compiti tecnici a un istituto preesistente, il CFS, allargandone le competenze; affida la gestione delle strutture ad enti
specializzati (è evidente che al termine dell’intervento straordinario,
la gestione dei Centri passerà ai Comuni) i quali, legandosi a tutte lei
istituzioni “presenti e vive” nella comunità, offriranno ai cittadini
quegli elementi di base che vanno dall’alfabeto all’informazione più
varia, e la sede e le opportunità e le sollecitazioni perché le popolazioni gradatamente si scuotano dalla staticità che caratterizza tanta
parte ancora della società meridionale, superino la fase
dell’accettazione acritica di quanto è loro offerto, principalmente dai
mass-media, e si formino criticamente le proprie idee, facciano autonomamente le proprie scelte culturali. In modo non dissimile, del resto, ogni azione educativa, da chiunque svolta, deve tendere a so ttrarre gli uomini ai pesanti e alienanti condizionamenti esterni e abituarli
a scegliere autonomamente ciascuno la propria via e ad avanzare su
di essa o su un’altra, se e quando a ciascuno piaccia, sulla base della
qualificazione raggiunta.
« Se crediamo nei valori della libertà, e non vogliamo limitarci a
rendere quello che gli inglesi con frase efficace chiamano lip-service,
pur rendendoci conto della difficoltà della meta, non dobbiamo a nessun costo distogliere da essa i nostri occhi.
« Né possiamo, in questa nostra società meridionale così premuta
tra vecchio e nuovo, indulgere a nostalgie per una ben definita civiltà
contadina o roba del genere. Dobbiamo andare avanti, volere il nuovo, ma saperlo dominare.
« Le considerazioni che precedono riguardano particolarmente i
Centri Comunitari; le altre direttrici di intervento hanno anch’esse un
fondamento educativo, ma hanno una sostanza p iù concreta di servizio; anche il punto c), diretto a legare la promozione tecnicoprofessionale alla realtà sociale ed economica circostante, ha un contenuto più concreto ed inequivocabile.
94
« In Puglia, la Cassa assicura nel triennio 1967-69 il finanziamento di Otto centri, dei quali, quelli di S. Severo, Canosa e Brindisi saranno gestiti dal Movimento di Collaborazione Civica; quelli di Manfredonia, Altamura e Massa fra dalla Società Umanitaria; infine,
quelli di Grottaglie e Nardò dall’Unione per la lotta contro
l’analfabetismo. Nel primo programma esecutivo la Cassa provvede,
d’intesa con gli Enti locali territoriali, alla costruzione di quattro b iblioteche precisamente a S. Severo, Manfredonia, Canosa e Nardò.
« E’ da precisare che il Centro Comunitario ha carattere comprensoriale; l’attività che da esso si irradia deve proiettarsi
all’interno di un comprensorio ragionevolmente ampio. Per ogni Centro è prevista una équipe di tre persone, le quali, qualificate ed appassionate, dovranno essere i promotori di una ampia fascia di lavoro
volontario, senza il quale il Centro finirebbe col subire una inarrestabile degradazione burocratica ».
Il Centro Servizi Culturali di Manfredonia, insediato il 10 giugno
presso il Centro di cultura popolare « Simone » e quindi con ufficio
suo proprio in via Riviera n. 85, ha svolto nel secondo semestre
dell’anno una notevole attività, che ci riserviamo di riferire nel successivo fascicolo.
LA RUBRICA « LIBRERIA »
precedentemente impaginata nella prima parte della rassegna, da
questa annata in poi appare nel « Bollettino d’informazioni della Biblioteca provinciale di Foggia », che ne costituisce la seconda parte
con autonoma numerazione (il fascicolo, che lo contiene, esce a breve termine dalla pubblicazione presente).
95
MANIFESTAZIONI NAZIONALI
Le celebrazioni giordaniane
La città, che il 27 agosto 1867 dette i natali al cantore di Chénier,
ha realizzato nel centenario della nascita una serie di manifestazioni,
che non chiameremmo soltanto collaterali a quelle teatrali e concertistiche, perché riteniamo che resteranno a testimoniare come le nuove
generazioni intendano compiutamente e realmente tramandare ai posteri i valori più espressivi di una tradizione artistica.
Parleremo prima di queste manifestazioni e poi di teatro e di concerti giordaniani.
Il comitato per le onoranze, presieduto dall’on. Moro, presidente
del Consiglio dei Ministri, indisse innanzi tutto un concorso nazionale
per il manifesto celebrativo del centenario.
La commissione per la scelta del bozzetto vincente, presieduta dal
sindaco Salvatori, esaminati i ventitré bozzetti presentati, ritenne quello di Silvano Pellegrino il più idoneo ad esprimere, con moderna concezione, il significato celebrativo che si intendeva attribuire al manifesto, decidendo, a maggioranza, di assegnargli il premio costituito
da una targa in oro.
La seconda manifestazione si concretizzò in una mostra di manoscritti e cimeli giordaniani il cui catalogo costituisce un completo
compendio antologico di tutta la produzione giordaniana. La mostra,
allestita presso il civico Museo, si avvalse di « fondi » della biblioteca
del Conservatorio San Pietro a Maiella di Napoli e dell’archivio di
Casa Sonzogno, maggiore editrice del Nostro, e comprese alcune rare
composizioni cameristiche e sinfoniche edite da Ricordi. La mostra fu
inaugurata dall’on. Moro.
Terza manifestazione di rilievo internazionale il premio Giordano
di un milione di lire, bandito dalla città di Foggia per una composizione sinfonica (con o senza solisti vocali o strumentali) in uno o più
tempi, medita e mai eseguita, della durata massima di venti minuti.
Il 22 febbraio 1968 alle ore 10, nella sede del Liceo Musicale
«Umberto Giordano » di Foggia si riunì la commissione giudicatrice
del « Premio », costituita dai maestri Iacopo Napoli, direttore del Conservatorio di Musica di Milano, Terenzio Gargiulo, direttore del Conservatorio di Musica di Napoli, Nino Rota, direttore del Conservatorio
di Musica di Bari, Aladino di Martino, docente di armonia e contrappunto nel Conservatorio di Musica di Napoli e prof. Vincenzo Terenzio, docente di storia ed estetica della musica nel Liceo Musicale di
96
Foggia, oltre il segretario, dott. Franco Chieco della « Gazzetta del
Mezzogiorno » (assenti giustificati i maestri Ottavio Ziino e Pietro
Argento). All’unanimità la commissione decise di premiare il concerto
per violino e orchestra del maestro Raffaele Gervasio, barese domiciliato in Roma, lavoro che si distacca dagli altri perché rivela la mano
solida di un musicista preparato e cosciente e per la intensità liricodrammatica del discorso musicale.
Il concerto sarà incluso nei programmi pubblici della RAI-TV per
la stagione in corso.
Inoltre la giuria ritenne di dover segnalare il lavoro contrassegnato
dal motto « Archicembalo », concerto per pianoforte ottoni e percussione.
Un concerto celebrativo giordaniano fu realizzato dalla RAI-TV il
12 novembre 1967 a Foggia e successivamente trasmesso per radio e
televisione.
Al concerto antologico parteciparono il soprano Antonietta Stella,
il tenore Aldo Bottion, i baritoni Giangiacomo Guelfi e Vinicio Coccaieri ed il mezzo soprano Giuseppina Arista. Orchestra sinfonica della Radio Televisione Italiana diretta da Pietro Argento. Vennero eseguiti il preludio dell’atto secondo della Siberia e notissirni brani della
Fedora e di André Chénier.
All’ETI (Ente Teatrale Italiano), il comitato affidò il compito di
organizzare dal 19 al 20 novembre due eccezionali recite, con repliche, di Siberia e Chénier con Claudia Parada, Angelo Loforese, Salvatore Catania, Walter Monachesi, Marcella De Osma, Gastone Limarilli, Carlo Meliciani, direttore Danilo Berardinelli.
Il 12 febbraio prossimo, nel ventesimo anniversario della morte di
Umberto Giordano, sarà concluso il ciclo commemorativo con una
rappresentazione straordinaria di Fedora, la cui organizzazione è stata
già affidata allo stesso Ente che ha curato i precedenti spettacoli.
A.T.
97
CRONACHE DELLA CULTURA
Bilancio di due stagioni teatrali
Potrebbe riuscire difficile tracciare un bilancio delle manifestazioni svoltesi a Foggia nel Teatro
Giordano dalla sua inaugurazione
dopo il restauro — 29 aprile 66, —
alla chiusura della stagione 67.
Polemiche, inchieste statistiche,
sondaggi d’opinione pubblica, disparatamente pubblicati su locali periodici, hanno, infatti, creato un po’ di
confusione.
Pertanto, si vuole offrire qui la
valutazione dei dati raccolti con rigore estremo, per un quadro chiaro
dell’attività di due stagioni.
Quella 1966 va considerata come
inaugurale e sperimentale, se si pensa che il « Giordano” fu riscattato
dalla biasimevole esperienza di sala
cinematografica e restituito al suo
ruolo in un ambiente che, dal dopoguerra, aveva perso l’abitudine di
andare al teatro.
Ciò premesso, è spiegabile la delusione degli amatori alla chiusura
della stagione 1966, considerando
che i cinque spettacoli presentati
hanno avuto un numero ed una qualità di presenze poco incoraggianti (a
volte il sipario si è alzato dinanzi ad
un teatro quasi vuoto!), mentre altrove, anche nel Mezzogiorno, arridevano insperati successi alle rappresentazioni ivi allestite.
Nella serata inaugurale l’orchestra « Scarlatti », diretta dal Maestro
Massimo Pradella, eseguì magistral-
98
mente musiche di Hajdn, Mendelson
e Scarlatti, suo applauditissimo e fin
troppo noto repertorio; ma il pubblico era costituito interamente da invitati. Nè le successive rappresentazioni dell’Andrea Chénier e della
Boheme suscitarono un significante
entusiasmo.
Lo stesso può dirsi per la presentazione della Fanciulla per il vento
di Andrea Aubey, datane dalla filodrammatica dell’ENAL.
Assenza di spettatori, soprattutto
di quei gruppi di professionisti,
commercianti, impiegati, che, per
reddito e livello di cultura, sono tradizionalmente legati al teatro.
Va precisato che le strutture organizzative sono state improntate alle esigenze di tale pubblico: prezzi a
livelli di consumo delle altre città,
piccola mondanità che ha circondato
gli spettacoli, etc.
Ammirevole la partecipazione
degli studenti: e tuttavia modesta,
perché su 1189 studenti di scuole
medie e superiori, che desiderano
andare al teatro, solo il 6% ne ha avuto la possibilità. Se ne deduce che
nella stagione inaugurale poco si è
fatto per avvicinare al teatro il mo ndo studentesco.
Sono emerse, così, per la nuova
stagione 1967, le seguenti esigenze:
— politica dei prezzi più adeguata
alla disponibilità del pubblico foggiano; — propaganda per il teatro
idonea a stimolare certe istanze culturali, rivolta a tutti gli ambienti ben
predisposti; — cartellone interessante un largo pubblico.
La stagione 1967 è stata senza
dubbio di gran lunga migliore della
precedente, anche se qualche lacuna
non è stata colmata.
Il « Giordano » ha ospitato 19
spettacoli, con 14 compagnie, comprese quella del Piccolo Teatro di
Milano, i migliori nomi degli attori
italiani di prosa: Lupo, Randone,
Magnani, Valeri, Foà, Albertazzi,
Proclemer, Millo, Ricci, Magni, Tedeschi.
Positiva la campagna prezzi:
l’E.T.I., gestore del « comunale », ha
offerto possibilità di consumo, finanche a livello di normale spettacolo cinematografico (vedi prezzi
per Compagnia Valori-Pannelli in
L’alba, il giorno, e la notte e, per Arlecchino servo di due padroni del
Piccolo di Milano).
Si è aperto, così, il « Giordano
»anche ai gruppi culturalmente più
impegnati e meno abbienti: agli operai e, soprattutto, agli studenti universitari e delle scuola medie superiori. Ma è venuta a mancare in questa stagione, una precisa sincronizzazione del cartellone con le
esigenze del pubblico. Di notevole
importanza e di difficile soluzione
infatti, si è dimostrato il problema
del repertorio, basato sul presupposto di sganciare sempre più il teatro da possibili identificazioni con
beni di consumo e svaghi per ristretta élite, con determinate esigenze
economiche e di tempo libero. Questa esperienza impone scelte, la cui
validità non può essere data da moduli fissi, indicanti serie di requisiti a
cui riportarsi; bensì dalla costante
uomo -storia-società-teatro al di fuori
di una sterile ricerca di stili e sollecitando un colloquio
concreto sulla contemporaneità dei
problemi umani.
Il punto negativo del repertorio
del 1967 va riscontrato nella casualità delle rappresentazioni. Continue variazione ha dovuto subire il
cartellone, producendo un disorganico imposto culturale, strettamente legato a impreviste esigenze
di mercato teatrale all’ingrosso. Per
cui, come si legge nel « Bollettino »
del Teatro Club riservato ai soci, del
10 aprile 1967, il pubblico è rimasto
in una curiosità generica.
Vale a dire che, per quanto concerne l’educazione popolare, in questo campo, poco bene si è agito e
poco si è ottenuto. Così, all’inizio
della stagione di prosa (11 nov.
1967) abbiamo dovuto subire una
inattuale riduzione delle Notti bianche di Dostojevski, con la compagnia Vosetti-Lazzarini. Per fortuna, immediatamente dopo, la recita
d’arte varia del « Teatrino dei Gufi
», piovuto inatteso, al posto del RuyBlas di Hugo, ha suscitato interesse
per la primizia e piacevole intrattenimento con numeri di impegno e
valore diverso.
Troppo tuttavia, ad un consuntivo generale, la stagione è stata positiva: venduti 7091 biglietti per un
incasso lordo di L. 7.577.700; media, cioè, di 373 biglietti a spettacolo, con incasso medio di L. 398.000.
Gli abbonamenti hanno dato un apporto di L. 156200 a spettacolo.
Il «gruppo studi e inchieste statistiche »del Teatro Club ha reso noto
ai soci i risultati di alcune indagini
compiute. Riportiamo un campione,
fra i più significativi. Di circa 650
presenti solo il 77% ha frequentato
abitualmente il teatro; il 16% vi si è
recato occasionalmente.
Fra gli abbonati, divisi in due
gruppi — anteriore e posteriore alla
campagna abbonamenti — il primo
99
ha raggiunto un minimo di presenze
del 35% per Notti bianche, e un
massimo del 41% per Leonzio e Lena di Buchner, del CUT Bari! il secondo gruppo, invece, ha fatto registrare un massimo del 68% per Il
piacere dell’onestà di Pirandello ed
un minimo del 50% per La maschera e il volto di Chiarelli. Questi dati,
offerti da un pubblico nuovo, qual’è
stato quello del rinnovato « Giordano », non sono da trascurare, anche
se le lacune sono state molte.
La stagione 1967, inaugurata con
le citate Notti Bianche e il « Teatrino
dei Gufi », si è chiusa il 20-21 maggio con L’alba, il giorno e la notte di
D. Niccodemi. Altri spettacoli sono
stati: Il piacere dell’onestà, La maschera e il volto, C’è speranza nel
sesso? (Bellow), Leonzio e Lena
(Buchner), Il testimone (Foà), Lunga
marcia verso la notte (O’ Neill), Enrico IV (Pirandelo), Arlecchino servo
di due padroni (Goldoni), Il divorzio
(Alfieri), Ti ho sposato per allegria
(Ginzburg), Gli amanti (Rondi).
Vanno aggiunti a questi il « Balletto
Folkloristico » cecoslovacco e il
concerto di Peppino Prencipe, svoltosi in una atmosfera di sagra strapaesana, con coppe e medaglie ad artisti foggiani.
Per concludere, rileviamo l’enorme importanza culturale e il successo
della
rappresentazione
dell’Arlecchino della Compagnia del
Piccolo di Milano. Strehler ha strutturato una rappresentazione mo derna
e autenticamente popolare. Nico Pepe, il capocomico, ha diretto
nell’aula magna del Palazzo degli
studi un notevole dibattito per un
numeroso pubblico.
Luigi Mancino
Il premio letterario Gargano.
L’Ente Provinciale per il Turismo di Foggia, che ha suo commissario il prof. Matteo Vigilante, ha
indetto anche il concorso letterario
rivolto alla individuazione di opere
letterariamente valide e idonee a valorizzare la « Montagna madre ».
La Commissione giudicatrice del
Premio Letterario « Gargano » 1967,
si legge nella relazione di Alfredo
Petrucci, nella seduta conclusiva del
7 luglio di quest’anno, ha dato atto
che alla competizione hanno partecipato alcuni scrittori di rinomanza
nazionale, quali Gino De Santis,
Marcello Venturoli, Silvano Cecche-
100
rini e altri con opere, però, che non
hanno alcuna attinenza col tema del
concorso. Tuttavia, per i suoi pregi
di ordine narrativo e stilistico,
l’opera di un’esordiente, Le stanze
vuote, di Maria Ricci Marcone, è stata ritenuta degna di una segnalazione
a parte.
Hanno partecipato, inoltre, al
concorso alcuni studiosi regionali,
con saggi di argomento più o meno
inerente alla conoscenza e alla divulgazione della storia, dell’arte e
della vita pugliese. La commis sione
ha fermato la sua attenzione specialmente su due di codesti lavori, e
cioè, Lingua e società in Capitanata
di Michele Melillo, e Puglia. La terra e la gente, di Giovanni Bronzini,
che si staccano nettamente da tutti
gli altri, per felicità di spunti e rigore
di trattazione.
L’opera del Melillo è fondata su
un’ampia ricerca linguistica condotta nei centri della Capitanata e
del Gargano, ed è volta a riconoscere ed individuare, attraverso le
diverse caratterizzazioni del linguaggio, gli aspetti del costume, le
strutture e le categorie sociali, le abitudini mentali collettive della popolazione locale, per giungere ad
una felice sintesi interpretativa degli
aspetti più propri della regione dauna, sintesi nella quale si fondono
l’analisi linguistica, quella sociologica e quella storico-urbanistica.
L’opera del Bronzini, abbraccia
nella sua vasta sintesi l’intera Puglia, di cui esamina, dalla Capitanata al Salento, la storia culturale, il
folklore, il paesaggio, l’attività e le
credenze degli uomini in pagine di
alta suggestione, che finiscono per
costituire una ideale guida alla conoscenza dei più pro fondi caratteri
della regione e della sua gente.
La Commissione, perciò, trovandosi nella necessità di dover dividere
il premio d’un milione, lo ha assegnato ex-aequo ai due suddetti lavori.
Il prof. Michele Melillo, nostro autorevole collaboratore, è nato a Volturino di Foggia
il 1915 — come si legge nella presentazione
di Lingua e società, fattane dallo Studio Editoriale Dauno di Foggia, che ha pubblicato in
elegante veste l’originale saggio, accolto dalla
nostra Amministrazione provinciale tra i «
Quaderni di “La Capitanata” » a cura della
sua bibliotecarie’ libero docente di Dialettologia nella Università di Roma, nei limiti consentitigli dalla direzione negli istituti medi
superiori. Proviene dalla scuola glottologica
pisana, ai metodi e ai principi della quale resta
costantemente legato, come conferma uno dei
suoi ultimi saggi (L’eredità di Clemente Merlo, in « Revue de Ling. Rom. », 1966), dove
sostiene la validità dei canoni rigorosamente
grammaticali e razionalizzanti, pur presupponendo una dialettica di ordine generale, che
naturalmente non può risparmiare i fatti della
lingua. La varietà dei suoni e delle voci, della
quale l’A. è sinceramente convinto (cfr. la sua
Relazione su S. Nicandro, nel « Bollettino
dell’Atlante Ling. Ital. », 1962, e il suo intervento a proposito di Atlanti nazionali e Atlanti
regionali, in « L’Italia dialett. », 1967), acquista consistenza reale soltanto quando riusciamo a cogliere la natura della cosa che cambia
e i motivi o le leggi che determinano detto
cambiamento (cfr. Materiali nuovi per una
carta nuova, Messina, 1965). Nel quadro di
questa convinzione metodologica trovano la
loro spiegazione lavori estremamente analitici
e schematizzanti (Atlante fo netico pugliese,
Roma, 1955, e Atlante fonetico lucano, Roma,
1955), in tesi a caratterizzare le parlate centromeridionali interessate; o anche lavori che
consentono di ricostruire attraverso i dati di
una colonia linguistica odierna, le condizioni
dell’intero dominio francoprovenzale nel Medioevo (cfr. Tesoro francoprovenzale ecc., in
« L’Italia dialett., », 1956, e Intorno le probabili sedi originarie delle colonie francoprovenzali ecc., in « Revue de ling. rom. »,
1960; rec. a Testi abruzzesi del Duecento, in «
Arch. Glott. Ital. », 1961; Et eo sence abbengo, in Studi in onore di A. Schiaffino,
1965).Il tutto è confortato dall’uso di un materiale in buona parte di prima mano, raccolto
sotto gli auspici della Recherche Scientifique
del Governo francese nelle Savoie e nelle
Delnate in genere per conto del Centro naz. di
Rilevazione Etnofonica (sulla finalità del quale v. « Orbis », Bull.
101
Intern. de Documentation Ling., 1958), per
conto della Discoteca di Stato (cfr.
L’antologia sonora della Tuscia viterbese, in
« Cultura neol. », 1959), o anche in collaborazione con i gruppi del Consiglio Nazionale
delle Ricerche (cfr. il suo Sussidiario per il
raccoglitore della Carta dei dialetti italiani,
Napoli, 1966), o anche per preparare il suo
Nuovo Atlante pugliese, che ora volge a felice
compimento.
In Lingua e Società l’Autore, premesso
che parole e suoni di un gruppo sociale camminano di pari passo con le altra manifest azioni, che caratterizzano la sua vita, riconosce
la esigenza di accordar ciascun fatto linguistico con la vicenda dei rispettivi parlanti, propone un quadro storico dell’alta Puglia, mai
prima di oggi nemmeno abbozzato. E’ un lavoro che rende accessibile anche al pubblico
argomenti trattati con un metodo rigorosamente scientifico attraverso l’indagine diretta
sui parlanti, accostati nei centri, che caratterizzano le varietà della Capitananta.
Bruno Potenza
102
IN MEMORIA
Umberto Fraccacreta
« Il sole del 2 febbraio 1947 attese
invano alle imposte di Umberto in San
Severo, che gli aveva dato i natali cinquantuno anni prima. Si avverò il pronostico di Manara Valgimigli, suo antico maestro e presentatore: La terra che
tu benedici ed esalti, benedirà ed esalterà te come il suo poeta. E tutti fummo
intorno a lui, nella sua casa e tra il suo
popolo, a pagare il debito comune della
riconoscenza. Poi gli uomini, che se
n’erano distaccati un momento, per comunicarsi con quello Spirito, ritornarono al remo della vita pratica.
Sembrò che il Favonio del Tavoliere
dovesse isterilire la pianta del ricordo,
quando la Società Dauna di Cultura
promosse e organizzò le onoranze « in
memoriam ». Con questa iniziativa, la
vita e l’opera del « Poeta del Tavoliere
», furono proposte a una valutazione
globale, che ha impegnato più di quanto
consentono di registrare i limiti di questa rubrica.
Le onoranze tributate alla memo ria
del Fraccacreta lungo il corso di un sessennio, vale la pena di ricordare, per
l’esame, che un giorno potrà farsene, distaccato e comparativo con altre iniziative provinciali del genere, pur tanto più
pompose e dispendiose.
La Società Dauna di Cultura, con
i mezzi finanziari erogati e amministrati dagli Eredi Fraccacreta, elaborò e svolse con metodo e sobrietà un
complesso programma, incentrato su
un « Premio nazionale di poesia ».
Dotato di mezzo milione, esso fu
attribuito due volte in San Severo: il
1963 a David Maria Turoldo, per la
sua raccolta Udii una voce; il 1957
(in parti uguali) a Gaetano Arcangeli
di Bologna, con Solo se ombra e
Vittore Fiore, di Gallipoli, con Ero
nato sui mari del tonno. Parteciparono alle due giurie: Maria Bellonci, Manara Valgimigli, Antonio
Baldini, Arnaldo Boccelli, Francesco
Piccolo, Pasquale Soccio, Antonio
Casiglio (segretario).
103
A sostegno e integrazione del
« Premio », furono pubblicati due
opuscoli: Carlo Gentile, Poesia di
Umberto Fraccacreta, prefazione,
note e bibliografia di Mario Simone
con inediti e ritratto, (S. Agata di
Puglia, Tip. S. Cuore, 1956. In 16°,
pp. XII-80. « Nuovi scrittori Dauni
», collana della Società Dauna di
Cultura, n. 3); John Gawsworth,
Maggio d’Italia (La Gradogna), trad.
poetica di Umberto Fraccacreta col
testo inglese e fr. (Foggia, 1957. L.
600. In 8°, pp. 72, ritr.n. 2. Collana «
Poesia » n. 1).
Quest’ultimo documenta nel suo
pieno e vario significato l’incontro
con Umberto in San Severo (1944),
sul piano della poesia e della libertà,
di T.I.F. Armstrong, ufficiale della
R.A.F. e celebrato poeta inglese col
pseudonimo di John Gawsworth:
un’amicizia feconda di collaborazione letteraria, che la Società Dauna di
Cultura seppe valorizzare con un «
ponte » culturale tra la nostra provincia e Londra, presente nel 1957
alla manifestazione conclusiva col
dott. Precope. Nella stessa circostanza venne tra noi di Francia il poeta e
dantista A. E. Bojany, inviato
dall’Accademia Provenzale dei Poeti
a rendere omaggio alla memoria del
Mistral italiano.
Per queste numerose e valide testimonianze, i vent’anni trascorsi
dalla morte di Umberto ne hanno
mantenuto vivo il ricordo anche tra
gli estranei al suo mondo. Non più
finanziato, e perciò estintosi, il «
Premio », che a lui s’intitolava; trasformata la casa del suo ultimo sogno, il nome, ormai acquisito alla
storia letteraria di Puglia, sarà dato
in patria a una scuola, mo numento
perenne e monito di una vita e della
Poesia, che la nobilitò.
Sir Joman
La bibliografia del Fraccareta, a cura di
Mario Simone, che propose e diresse le onoranze, curò e lanciò le edizioni, appare nella
seconda parte di questa rassegna, dedicata al
bollettino della Biblioteca Provinciale.
Umberto Onorato
Si rivive in questi righi, il momento
del 14 settembre in cui, sul video, dopo
l’apparizione della immagine di Umberto Onorato — che di solito ben diversamente preparava l’animo — fu la terrificante notizia, che non volle lasciare aperta alcuna via alla speranza: Umberto
non era più del nostro mondo attivo, ed
entrava improvvisamente in quello
dell’ignoto: Egli che pur aveva amato
tanto la vita i cui tratti, negli uomini e
nelle cose più notevoli, aveva riprodotti
per gaudio del momento e per
104
l’arte del domani.
Era nato a Lucera il febbraio
1898, in un ambiente familiare intonato alle tradizionali virtù civiche,
delle quali erano esempio costante i
genitori, educatori perfetti: ivi, sotto
quella impagabile direttiva che, specie nel padre, aveva il maestro di innumerevoli cittadini, prese ad amare
gli studi umanistici.
Le prime ispirazioni, i primi mo delli dell’arte del disegno gli furono
offerti dal suo piccolo mondo pro-
vinciale: tipi caratteristici, pettegolezzi
di cronaca, fatti di grande rilievo, che,
sapeva stupendamente interpretare, sì
che ne veniva fuori un caleidoscopio,
che attraeva, anche se a volte irritava chi
nella caricatura si riconosceva attraverso
le inevitabili deformazioni che l’arte sua
imponeva.
Emigrato a Roma, divenne collaboratore assiduo ed apprezzato di mo lte riviste, del "Travaso" in ispecie, che
gli fu familiare; fin che il mondo del
teatro, i cui principali attori erano fra le
sue.., vittime, non lo attrasse del tutto, e
divenne collaboratore dei più famosi
complessi artistici.
Sempre i suoi lavori ebbero la sua
impronta personale, pur se non firmati
con la solita sigla: ONOR.
Salendo a gradi a gradi la via tracciatagli dal talento creativo, giunse alla
scenografia: arte non profittevole per
chi quel talento non abbia, e non sia
animato dalla fantasia.
Il suo studio nei locali del Teatro
Quirino era una fucina insuperabile
di opere che il pubblico ammirava
nelle sale di esposizione od applaudiva al Teatro: era un coacervo di disegni, di prove e riprove, di bozzetti,
ai quali egli affidava la propria ispirazione: e ne venivan fuori gioielli,
che si affidano sicuri al tempo.
Si è detto che la sua sedia, oramai vuota della sala del Quirino,
immalinconisce coloro che erano abituati a vederlo, a godere della sua
abituale bonomia e dell’immancabile
tratto di spirito, che ne arricchiva la
conversazione. Quanto lo pianga la
sua terra, che egli amava, è facile intuire.
M. P.
105
APPENDICE
La sigaretta
Variazioni di ONORATO ∗
* La sigaretta è quel cartoccino, in forma di rotolino, di foglia di
tabacco, leggero e odoroso, che si fuma come un sigaro.
Da questi cartoccini dipende, il più delle volte, la riuscita o meno
di molte azioni importanti della vita.
Almeno della vita dei fumatori.
* Anche fra le sigarette esiste una differenza di razza e di grado sociale. Ci sono delle sigarette bionde e delle sigarette brune; ci sono arroganti sigarette adagiate su carte d’argento e racchiuse in scatole dorate comodamente allineate come viaggiatori di treni di lusso, ce ne
sono altre che vivono racchiuse in un pacchetto di volgare carta di paglia addossate le une alle altre come la folla che si agglomera sui
tramvai e sugli autobus.
Ci sono sigarette sottili e fini che hanno poco tabacco per giovani
persone sottili e fini che hanno poco danaro e ci sono sigarette grosse
come salsicce, rimpinzate di tabacco, per grossi signori che hanno il
portafoglio congestionato di banconote.
∗
Queste « variazioni » risalgono al 1946, quando Umberto Onorato ne fece dono a
Mario Simone, editore in Bari di « Puglia », che non poté pubblicarle, per la intervenuta
fusione della sua rassegna con un altro periodico non regionale. Siamo lieti di poterle
fare rivivere tra le nostre pagine, in omaggio alla cara memoria del geniale Artista,
scomparso quest’anno.
106
* I fumatori che aprono il pacchetto di sigarette stracciandolo come una busta da lettere, dimostrano, generalmente, il loro carattere indipendente; rivelano invece un temperamento meticoloso e abitudinario coloro i quali ripongono il pacchetto in tasca dopo averlo aperto
con cautela senza troppo sciuparne l’apertura.
Coloro che racchiudono subito le sigarette acquistate in un astuccio di metallo prezioso, sono delle persone ordinate e che hanno una
moglie dalla quale hanno ricevuto un regalo per l’onomastico o per
Capodanno.
* Il prezzo delle sigarette è vario: ce ne sono di care e ce ne sono
di carissime. Sigarette a buon mercato non esistono.
* Una volta acquistate, le sigarette perdono ogni valore. Infatti
nessuno chiederebbe ad un amico,
due o tre volte al giorno, venti o
trenta lire, mentre tutti non si peritano di chiedere continuamente delle sigarette come se non costassero
nulla. C’è il detto (e quel che è
peggio, la consuetudine) che una
sigaretta non si rifiuta mai. Non dicono il vero coloro che dichiarano
di fumare un certo numero di sigarette al giorno: la metà di questo
numero è sottratta dagli amici.
Il diritto di richiesta di una sigaretta è sancito al punto che il richiedente si riserva di rifiutare la
sigaretta offertagli se non è della
marca che preferisce.
* I fumatori.
Ci sono i così detti fumatori « locomotiva » che hanno, tutto il
giorno, fra le labbra una sigaretta nuova appena accesa e ci sono dei
fumatori che potremmo chiamare « cascamisti », i quali hanno continuamente fra le labbra delle cicche: sembra che costoro non abbiano
mai conosciuto una sigaretta intera. C’è chi fuma una sigaretta per riposarsi dal lavoro; c’è chi dichiara di non poter lavorare senza fumare
continuamente. Generalmente questi ultimi sono degli scansafatiche.
C’è il fumatore contemplativo che si compiace di seguire lo svolgersi delle spire del fumo, e si dice che ciò denota bontà d’animo; c’è
il fumatore dinamico che accende diecine di sigarette e, dopo una sola
aspirata,, le depone, dimenticandole, sui mobili, sui libri, nel portacenere, sui davanzali delle finestre e nei luoghi più impensati ed incredibili: ciò denoterebbe sventatezza e superficialità.
107
C’è chi, accesa una sigaretta, soffia invece di aspirare: potete giurare che si tratta di un novellino.
* Le donne che fumano.
Le donne che fumano, fumano male e quelle che fumano bene perdono i tre quarti della loro femminilità.
la Capitanata
Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia
Direttore: dott. Angelo Celuzza, direttore della Biblioteca Provinciale.
Direttore responsabile: m 0 Mario Taronna
Direzione tecnica dello Stadio Editoriale Dauno - Tip. Laurenziana - Napoli
Autorizzazioni del Tribunale di Foggia 6 giugno 1962 e 16 aprile 1963
Registrazione presso la Cancelleria del Tribunale di Foggia al n. 150
108
la Capitanata
Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia
BOLLETTINO D'INFORMAZIONE
della
Biblioteca Provinciale di Foggia
Anno V (1967)
n. 1-3 (genn.-giu.)
Scrittura e cultura
nella Puglia altomedievale
Nei lunghi secoli antecedenti all'invenzione della stampa fu costantemente
presente nelle regioni europee uno stretto rapporto fra scrittura e cultura, cioè fra
caratteristiche e sviluppo dei sistemi grafici adottati nei paesi civili da una parte, e
orientamenti, tendenze, mutamenti della civiltà culturale dall'altra. Ricercare tale
rapporto nei diversi periodi e nei diversi ambienti, scoprire come esso di volta in
volta si stabilisca e perchè ora appaia in piena evidenza, ora invece divenga labile
e quasi irriconoscibile, è compito affascinante, che interessa così il paleografo,
come lo storico della cultura e quello delle forme artistiche.
Qualsiasi forma di scrittura, in realtà, obbedisce al gusto ed alle esigenze di
una determinata civiltà culturale; ma in alcuni periodi e in talune regioni, quando
soprattutto sorge il bisogno di un rinnovamento culturale profondo o di una diversa organizzazione della cultura, allora, inevitabilmente, gli stessi promotori del
rivolgimento provocheranno o proporranno, in un lasso di tempo più o meno
breve, anche l'insorgere di nuove forme grafiche, di nuovi tipi di scrittura, di
nuovi « segni », insomma, espressivi di nuovi contenuti. La conferma di ciò si
trova in alcune grandi rivoluzioni intervenute nel corso della lunga storia della
scrittura latina, che, inquadrate in una cornice più ampia di quella meramente
grafica, si rivelano strettamente legate a momenti o eventi decisivi della civiltà
europea.
1
Basterà ricordare di esse soltanto le più importanti, note anche al profano: l'affermarsi fra VIII e IX secolo della « minuscola carolina », che, divenendo, dopo
secoli di « particolarismo grafico », veicolo di una cultura rinnovata, riuscì ad
imporre in Francia, in Germania, nell'Italia centrosettentrionale e poi anche in
Inghilterra e in Spagna un unico linguaggio grafico; la nascita e il diffondersi
della stilizzazione gotica, sorta in Francia alla fine dell'XI secolo come prodotto
di un gusto locale e in breve tempo propagatasi a tutti i centri culturali europei
attraverso la struttura delle istituzioni universitarie; l'affermazione nel corso del
XV secolo come universale linguaggio grafico degli umanisti europei di quella
minuscola tonda preparata dal Petrarca e dal Salutati e fatta prepotentemente
rinascere a Firenze nel 1402-1403 dal genio di Poggio Bracciolini.
Nell'alto medioevo il rapporto fra scrittura e cultura fu nell'Europa occidentale fenomeno riservato ad una categoria molto ristretta di persone, anzi a
veri e propri gruppi di « tecnici », depositari essi soli, in una società popolata di
analfabeti, del segreto della scrittura: gli amanuensi, per la maggior parte ecclesiastici, scrittori dei libri; i. notai e i cancellieri, laici ed ecclesiastici, scrittori dei
documenti.
La natura astrattamente calligrafica di molte delle scritture altomedievali
europee si spiega proprio con il fatto che esse venivano elaborate, entro ambienti ristretti e poco permeabili ad influenze esterne, da calligrafi attenti più
all'aspetto estetico delle loro creazioni che non alla funzione pubblica dello
scritto, il quale finiva così per perdere quelle caratteristiche di leggibilità e di
chiarezza che dovrebbero essere proprie di ogni scrittura, e soprattutto di quella dei libri.
Una di queste scritture, e precisamente la « beneventana », così detta
perchè nata e diffusasi nell'ambito territoriale del ducato (poi principato) di
Benevento fra il IX e il XIII secolo, fu la scrittura libraria principale dell'Italia
del sud nell'alta medioevo. In questo nostro saggio vedremo come le particolari
condizioni politiche e culturali della Puglia consentirono agli scribi di questa
regione di elaborare, pur partendo dalla « beneventana », un bene individuato
linguaggio grafico, e come tale linguaggio fu infine abbandonato per nuove
forme quando l'autonomia culturale pugliese declinò e finì per esaurirsi nel
XIII secolo 1.
Per il IX e il X secolo non sono stati conservati manoscritti latini sicuramente scritti in Puglia; lo studio della scrittura pugliese in questo periodo dovrà dunque essere limitato ai tipi
In questo nostro saggio ci siamo permessi di riutilizzare largamente (e in
qualche caso anche testualmente) quanto ci è già occorso di dire in un articolo di
qualche anno fa dal titolo Note ed ipotesi sulla origine della scrittura barese, in « Bullettino
dell'Archivio paleografico italiano », n. s., IV-V (1958-1959), pp. 101-14.
1
2
testimoniati dai documenti privati della regione, le cui riproduzioni sono,
purtroppo, scarse e disperse; ciononostante dall'esame di quelle poche che
siamo riusciti a consultare abbiamo potuto trarre alcuni importanti elementi.
Si può infatti affermare che intorno alla metà del X secolo in Bari e
nei centri vicini i rogatari adoperavano una scrittura più o meno corsiva e di
tipo fondamentalmente beneventano; questa scrittura, non canonizzata e
con notevoli diversità fra mano e mano, presenta però alcune sostanziali
caratteristiche comuni, che la differenziano dalle coeve scritture documentarie di area beneventana; esse sono: il tratteggio fluido e privo di spezzature, la fondamentale rotondità delle forme, le aste innalzantisi a forma di
clava, l'ampio tratto curvo verso sinistra che chiude i legamenti con i, il frequente uso della c crestata. Tali caratteristiche appaiono esemplificate in
modo evidente in alcuni documenti di Bari e di Casamassima intorno alla
metà del secolo 2, mentre una carta barese del giugno 952 3 mostra invece
una scrittura calligrafica, posata, di netta derivazione cassinese e di aspetto
librario. L'uso di una scrittura siffatta potrebbe significare che a Bari intorno alla metà del X secolo, la tendenza verso la canonizzazione della scrittura avveniva secondo l'imitazione della libraria beneventana; e ciò, con tutta
probabilità, perchè mancava ancora un tipo locale di libraria.
Particolarmente interessante appare la scrittura, corsiva nel d u c t u s
e rotondeggiante nel tratteggio piuttosto grosso, di un atto barese del giugno 990 4; essa, oltre a mostrare le caratteristiche già viste (cf. ad esempio i
tratti curvi a sinistra delle lettere e dei legamenti che scendono sotto il rigo
e la separazione delle lettere), presenta anche una notevole tendenza ad ingrandire le iniziali (cf. le grandi c non crestate) ; la e iniziale appare identica
alla corrispondente lettera greca ricorrente nella sottoscrizione di ËÝù nello
stesso documento.
La scrittura delle carte di Bari e di altri centri pugliesi presenta dunque
nel X secolo caratteristiche sue proprie che la individuano agevolmente rispetto
al canone beneventano puro, sebbene appaia strettamente affine alle scritture
documentarie del territorio beneventano. Le ragioni e i modi di questa individualizzazione potrebbero ricercarsi soltanto risalendo indietro con l'indagine
paleografica; ma ciò è impossibile per l'assenza quasi totale di testimonianze
utilizzabili dei secoli VIII e IX. Possiamo permetterci di formulare soltanto
qualche ipotesi.
Già lo Schiaparelli rilevò che sia in Puglia sia in tutta
2 Cfr. Note ed ipotesi, cit., tav. I , e Il Clhartularium del monastero di S. Benedetto di Conversano, a cura di D. Morea, Montecassino, 1892, tav. II.
3 Cfr. Le perg amene del Duomo di Bari (952-1268), per G. B. NITTO DE
ROSSI, Bari 1897 (Codice diplomatico barese, I ) , tav. I .
4 Non ne esiste riproduzione: cfr. ed. in Codex diplomaticus Cavensis, I I , Mediolani 1875, n. CCXX, pp. 21-2.
3
l'Italia meridionale tra la fine del secolo VIII e l'inizio del IX la scrittura documentaria era fondamentalmente una corsiva nuova che non presentava ancora
alcuna caratteristica del tipo beneventano 5.
Questa situazione non durò molto a lungo; e ben presto scritture di tipo
beneventano apparvero nei documenti del territorio appartenente al principato
di Benevento per divenire fra IX e X secolo scritture usuali delle cancellerie e
dei notai longobardi.
Non è questo il luogo adatto allo studio di un tale fenomeno dovuto essenzialmente all'imporsi come scrittura nazionale dei Longobardi del sud di una
scrittura nata invece come espressione grafica di una determinata cultura religiosa: quella benedettina. A noi interessa invece rilevare che le nuove scritture
documentarie di tipo beneventano non poterono non diffondersi in Puglia insieme con il diritto e con la colonizzazione etnica longobarda, visto che il principato di Benevento fra VIII e IX secolo si era praticamente annesso i maggiori
centri pugliesi. In Puglia del resto (e questa è forse la considerazione che più
importa fare) la civilizzazione longobarda riuscì a permeare di sè le popolazioni
molto più largamente e profondamente che non il dominio bizantino, anche se
ad un livello diverso, limitato alla sfera della vita quotidiana, ai modi del costume, all'uso del diritto. D'altra parte non pare che l'influenza propriamente benedettina abbia mai acquistato nella Puglia centrale e meridionale una posizione
importante; la mancanza di s c r i p t o r i a benedettini portatori di una tradizione libraria canonizzata ed attiva, spiegherebbe come la scrittura documentaria pugliese abbia potuto, pur rimanendo profondamente influenzata dai modelli grafici importati dai notai beneventani, conservare ed elaborare caratteristiche grafiche proprie, così da mantenere una sua individualità 6.
5 L. SCHIAPARELLI, Influenze straniere nella scrittura italiana dei secoli VIII e IX,
Roma 1927 (« Studi e Testi », 47), pp. 49-50; il documento tarantino dell'809 maggio
cui accenna lo Schiaparelli fu poi edito da A. GALLO, Il più antico documento originale
dell'Archivio di Montecassino, in « Bullettino dell'Istituto storico italiano per il medioevo
e Archivio Muratoriano», 45 (1929), pp. 159-64; cfr. anche T. LECCISOTTI, Scrittorii monastici nelle terre di Puglia, in « Archivio storico pugliese », XI (1958), pp. 8-9.
6 Cfr. per la documentazione e la bibliografia relative, Note ed ipotesi, cit., pp.
104-5; il LEcciSOTT1 invece, Scrittorii monastici, cit., p. 12, pone in rilievo l'esistenza
di centri scrittorii benedettini nella Puglia settentrionale. La diversità fra la scrittura
documentaria di territorio sannitico e quella di territorio pugliese sono state recentemente poste in nuova luce da E. GALASSO, I caratteri paleografici e diplomatici dell'atto privato a Capua e a Benevento prima del secolo XI, in Atti del Convegno nazionale di studi
storici promosso dalla Società di storia patria di Terra di Lavoro, Roma 1967, pp. 296-301,
ove si rivela la presenza di forme grafiche intermedie nelle zone di confine fra le due
diverse are.
4
Questo processo di elaborazione indipendente fu certamente reso più
facile dalla riconquista bizantina. Essa, iniziatasi subito dopo 1'871, data della
liberazione di Bari dalla dominazione araba, contribuì ad allontanare dalla Puglia, per circa un secolo, il peso della diretta influenza longobarda. Il periodo
che seguì, segnò la preminenza in campo civile e religioso della cultura greca
nei maggiori centri pugliesi, destinata ad avere, come vedremo, notevoli conseguenze anche in campo grafico.
Con i primi anni del secolo XI compaiono in Puglia alcuni manoscritti
vergati in un particolare tipo di scrittura definito « tipo di Bari » dal Lowe 7, di
cui il più antico ed illustre esempio è il ben noto Exultet I della Cattedrale
barese 8. Tale scrittura, fino a qualche tempo fa giudicata come una semplice
variante stilistica della beneventana vera e propria, presenta invece, a nostro
avviso, tali caratteristiche di individualità, da apparire come un fenomeno grafico e culturale del tutto autonomo e degno in sè e per sè di attenta considerazione; tanto più che i primi esempi del nuovo tipo mostrano uno stile scrittorio
pienamente maturo, un canone formale già fissato, un complesso di norme e di
proporzioni già in avanzato stato di elaborazione.
Le caratteristiche principali della scrittura « barese » furono indicate con
chiarezza dal Lowe fin dal 1914 9 e possono riassumersi così: forme rotondeggianti, tratteggio uniforme, ridotta quadrilinearità, uso della c crestata, della e
larga con i due occhielli quasi uguali e dalla r finale con asta corta; egli notò
inoltre le legature con i che scendono sotto il rigo con una accentuata curva
verso sinistra e l'uso, come segno abbreviativo, di una linea sormontata da un
punto e della particolare nota tachigrafica per est.
In realtà, chiunque si ponga dinanzi agli occhi un esempio di scrittura
beneventana di Montecassino o di Benevento e un esempio di scrittura « barese
», nota immediatamente le grandi diversità che separano i due sistemi e che
investono la sostanza stessa del linguaggio grafico, e cioè il tratteggio, nell'una
pesante e spezzato, nell'altra sottile e fluido, e l'aspetto generale, nell'una compatto, nell'altra arioso e spaziato; mentre le concordanze appaiono piuttosto
attinenti agli aspetti puramente formali delle due scritture, e cioè al disegno di
determinate lettere o all'uso di particolari legamenti.
E. A. LOEW, The Beneventan Script, Oxford 1914, pp. 56-8, 150-2.
Cf. oltre, p. nota n.
9 The Beneventan Script, cit. p. 150. Sulle particolarità della notazione neumatica
pugliese, cfr. ora R. ARNESE, I codici notati della Biblioteca Nazionale di Napoli, Firenze
1967, pp. 13-4.
7
8
5
La formazione di una scrittura libraria presuppone l'esistenza di un ambiente, in seno al quale nasce ad un certo punto il bisogno di essa; di un ambiente necessariamente colto, in possesso di un proprio gusto estetico e capace
di far agire attivamente questo gusto in campo grafico: capace cioè di scegliere
modelli e di modificare sul loro schema la scrittura usuale per adattarla all'uso
librario; capace infine di creare nuove forme e di imporre una nuova tradizione.
È questo ambiente che noi dovremo individuare nella Puglia del 1000,
per ricostruire la genesi del « tipo di Bari », per riconoscere lo scrittorio nel
quale esso si formò, per rispondere, infine, all'interrogativo già postoci circa le
origini della nuova scrittura.
Non v'è dubbio che questo ambiente vada localizzato nella Bari del
1000. Non solo e non tanto perchè da Bari provengono i primi esempi in nostro possesso di questa scrittura libraria, ma perchè, come abbiamo potuto vedere, baresi erano i notai che nel corso del X secolo avevano elaborato gli esempi più tipici della documentaria pugliese, non rifuggendo, qualche volta, da
tentativi di calligrafizzazione particolarmente interessanti.
Dopo il IX secolo s'era venuta formando in Bari una aristocrazia strettamente legata al governo bizantino e costituita da ricchi commercianti, proprietari, funzionari e giudici insigniti di alte dignità greche, loro largamente
concesse dai governatori imperiali. A questa aristocrazia era intimamente connesso il clero, che da essa emanava e che, riunito intorno al vescovo e altrettanto, se non più, dipendente dal catapano bizantino, godeva nella città di una assoluta posizione di preminenza, non soltanto culturale, ma anche economica 10.
Nella seconda metà del X secolo la diocesi barese comprendeva una
amplissima zona della Puglia centrale, e i suoi legami con Bisanzio erano tanto
stretti (uno dei suoi presuli, Crisostomo, che resse l'arcidiocesi dal 993 al 1006,
era quasi sicuramente greco), da provocare la preoccupazione di Roma. Questi
legami spiegano d'altra parte la protezione che i catapani riservarono all'arcidiocesi stessa 11, mentre la ricchezza che ne derivava alla Chiesa barese giustifica la preminenza goduta dal clero nella vita civile e ancor più in quella culturale
della città. Vale la pena di ricordare a questo proposito che tutti i rogatari di
documenti baresi del X secolo appartenevano al clero cittadino; e la cosa è per
noi particolarmente importante, in quanto furono proprio i notai baresi ad elaborare i più compiuti esempi della documentaria di Puglia. Al clero di Bari apparteneva anche quel Girolamo suddiacono e notaio che alla metà del X secolo
operò, come si è visto, in un primo tentativo di calligrafizzazione
10 Cfr. per questo, F. CARABELLESE, L'Apulia ed il suo Comune nell'alto
medio evo, Bari 1905, pp. 80-5.
11 Per la documentazione relativa, cfr. Note ed ipotesi, p. 106.
6
della scrittura documentaria, sia pure secondo gli schemi della beneventana
libraria. È perciò più che naturale supporre che proprio questo clero, colto e
già in possesso di una scrittura non canonizzata, ma con caratteristiche individuate, abbia costituito l'ambiente propizio alla nascita della nuova scrittura libraria. Ed è bene a questo punto osservare che, naturalmente, questo clero veniva educato nella scuola vescovile e faceva capo all'arcivescovo.
Sorge naturale dunque l'ipotesi che la scrittura « barese » sia nata nell'ambito dell'episcopio di Bari. Il più antico esempio databile del nuovo tipo di
scrittura è il famoso Exsultet I conservato nell'Archivio della Cattedrale di
Bari ed eseguito per la Chiesa barese 12. Esso, come dimostra la miniatura raffigurante gli imperatori Basilio II e Costantino XI, fu composto prima del 1025,
data di morte di Basilio. Ma il fatto che l'Exsultet sia stato scritto per la Chiesa
barese e sia da essa tuttora conservato, non significa necessariamente che esso
sia nato nello scrittorio arcivescovile. Occorre, per ammettere ciò, un'altra conferma. E questa è fornita da alcuni documenti di arcivescovi baresi, anch'essi
della prima metà dell'XI secolo, nei quali è adoperato lo stesso tipo di scrittura,
e in particolare da tre privilegi emanati dall'arcivescovo Nicola, rispettivamente
nel maggio del 1036, nell'ottobre del 1039 e nell'aprile del 1047, attualmente
conservati nell'archivio del monastero della SS.ma Trinità di Cava dei Tirreni 13.
Essi sono opera di uno stesso scriba, Lademario, suddiacono e scriniario della
Chiesa di Bari, e presentano le medesime caratteristiche grafiche dell'Exsultet I.
Tali caratteristiche contraddistinguono anche un privilegio di Giovanni III arcivescovo, dell'aprile 1024 14, e un atto privato barese vergato nel dicembre del
1027 da un diacono Pandone, che presenta al centro una grande e bella miniatura (cf. Tav. I), del tutto corrispondente, nella tecnica del disegno, a quelle che
costellano l'Exsultet il dell'Archivio della Cattedrale di Bari, comunemente (ed
erratamente) attribuito alla fine del secolo XI o ai primi anni del secolo seguente 15. Ciò rivela che tra l'ambiente dei religiosi baresi rogatari di documenti e lo
scrittorio arcivescovile, nell'ambito del quale, dopo il primo, deve essere stato
eseguito anche il secondo Exsultet, correvano rapporti molto stretti, e conferma l'influenza che la scrittura documentaria pugliese può avere avuto sulla
formazione della libraria di Bari.
Ouesta influenza non può comunque bastare a spiegare compiutamente
la nascita di una scrittura quale quella « ba12 Cfr. F. BABUDRI, L'Exultet di Bari del secolo XI, in «Archivio storico pugliese», X (1957), pp. 8-169, con bibl.
14 Cfr. Note ed ipotesi, cit., pp. 108-9.
14 Cfr. Note ed ipotesi, pp. 108-9.
15 Cfr. Note ed ipotesi, cit., p. 109; ripr. dell' E x u l t e t I I i n M. AVERY,
T h e E x u l t e t R o l l s o f s o u t h I t a l y , I I , Princeton 1936, tavv. XXVII-XXXIII.
7
rese », i cui schemi formali furono creati e diffusi in un periodo di tempo estremamente breve, compreso nei primi anni dell'XI secolo; tale costatazione
già ci indusse ad affacciare qualche tempo addietro l'ipotesi della diretta ispirazione degli scribi dell'episcopio barese a un modello diverso, e precisamente a
una scrittura non latina, ma greca: la scrittura, cioè, dei documenti imperiali
emanati dalla cancelleria di Bisanzio, che presenta analoghe caratteristiche generali di rotondità, linearità, uniformità di tratteggio, nonchè l'uso, tipico dell'ambiente greco-bizantino, di un calamo a punta sottile 16. Tale ipotesi non
può apparire strana, ove si consideri il notevole numero di persone che nella
Bari dell'XI secolo sapeva scrivere in greco 17 e il fatto che lo stesso scriba dell'Exsultet I vergò nei medaglioni del rotolo e con lo stesso calamo i nomi dei
santi in eleganti capitali greche. Niente di più facile, dunque, che a Bari, città
profondamente legata, come abbiamo visto, a Bisanzio, esistessero nell'arcivescovado una o più crisobolle imperiali, e che ad esse gli scribi (o lo scriba) della
cancelleria o dello scrittorio della Chiesa barese, dovendo, per incitamento dell'arcivescovo (quale: Crisostomo o Giovanni III?) vergare i privilegi arcivescovili e i codici della cattedrale in forme più degne che non per il passato, volgessero gli occhi e l'attenzione, adottando anche, perchè la concordanza fosse più
completa, il calamo greco che permetteva di tratteggiare forme più leggere e
sottili.
L'assunzione di modelli grafici greci da parte degli scribi dell'episcopio
barese, che fu, se non andiamo errati, alle origini della canonizzazione della
scrittura libraria locale, non deve però far credere ad una prevalenza decisiva
dell'elemento bizantino nella cultura pugliese del tempo, che era, come si è già
detto, al livello degli usi, delle leggi, delle costumanze, profondamente longobarda. È, questo della barese, infatti, uno di quei casi in cui i rapporti fra scrittura e ambiente culturale si rivelano assai complessi, in quanto determinati dall'incontro di disparati e contrastanti elementi, che nel caso specifico possono
riassumersi così: una popolazione latina, longobardizzata nella onomastica e
nelle costumanze, ma per lungo tempo indipendente dal dominio beneventano
e legata invece a quello di Bisanzio; una scrittura documentaria sostanzialmente
di tipo beneventano, ma via via sempre più originale nelle forme; una classe
dirigente che amava imitare nelle forme esteriori della vita (vesti, lusso, titoli, a
volte anche scrittura) gli usi greci, ma che aspirava ad una indipendenza di fatto; e infine un ceto ecclesiastico prevalentemente latino, ma a volte guidato da
presuli greci, che si nutriva di una cultura religiosa ristrettamente tradizionale 18,
ma che nell'elaborazione di una scrittura nuova preferì volgersi ad esempi aulici
provenienti dalla lontana Bi16
17
Cfr. Note ed ipotesi, cit., pp. 111-2 e tav. IX.
Cfr. BABUDRI , l ' E x u l t e t , cit., pp. 40-1 e Note ed ipotesi, cit., p. 112,
n. 4.
8
SCRITTURA E CULTURA IN PUGLIA
Tav. II – Bibl. Apost. Vaticana. Ottob. lat. 296, c. 1v.
sanzio. Ci pare, insomma, che proprio il contrasto di questi elementi diversi finisse per costituire fra X e XII secolo la ragione e il carattere distintivo della cultura pugliese, il cui aspetto più evidente e notevole fu
indubbiamente costituito dalla produzione monumentale; e che nella sintesi di elementi grafici beneventani e di stile calligrafico bizantino, forse
inconsapevolmente tentata nello stesso periodo dagli scribi della Puglia
centrale, si possa legittimamente riconoscere un valore di simbolo di una
cultura provinciale e tradizionale nei contenuti, ma originale nei modi espressivi; ed è appunto questo il valore che la scrittura nata ai primi dell'XI secolo fra le pareti dell'episcopio di Bari finisce per assumere ai nostri
occhi.
I manoscritti vergati in scrittura barese sono abbastanza numerosi:
già nel 1914 il Lowe ne elencò trentuno 19, di cui sette almeno non pugliesi, ma dalmati, in quanto il tipo grafica sorto a Bari ai primi dell'XI secolo
emigrò ben presto, insieme con la beneventana classica, sull'opposta
sponda dell'Adriatico per mezzo degli attivi scambi culturali che collegavano allora i monasteri benedettini di Puglia e di Dalmazia, secondo un
processo che Giuseppe Praga e Viktor Novak hanno ben ricostruito 20, A
quei primi ritrovamenti ne sono seguiti altri 21, per cui oggi si può calcolare a circa quaranta il numero dei manoscritti (o frammenti di manoscritti)
in scrittura barese prodotti in Puglia fra XI e XIII secolo a tutt'oggi rinvenuti.
Non tutti questi codici furono scritti a Bari. L'area di diffusione della scrittura barese, pur volendone escludere in questa sede la Dalmazia, fu
piuttosto vasta, perchè andò almeno da Bari a Monopoli, a Bisceglie,
spingendosi occasionalmente a nord sino a Troia. Purtroppo finora non è
stata sufficientemente studiata l'origine delle singole testimonianze di tale
fenomeno grafico; ci pare però che si possa fin d'ora affermare che la
scrittura barese servì di espressione per circa due secoli alla cultura di una
gran parte della Puglia più propriamente bizantina, giungendo sino a toccare gli estremi limiti della sua area di diffusione geografica, costituiti dalla barriera naturale del fiume Fortore.
18 Per alcuni codici di autori classici, cfr. l'elenco dei codici in scrittura barese fornito dal LOWE, in The Beneve n tan Script, cit., pp. 151-2 e in A new list of
beneventan manuscripts, in Collectanea Vaticana in honorein Anselmi M. Albareda,
Città del Vaticano 1962 (Studi e Testi, 220), pp. 222, 224, 240, e tav. III.
19 The Be neventan Script, cit., pp. 151-2.
20 Cfr. la relativa bibl. in Note ed ipotesi, cit., p. 102, nota n. 2, cui deve aggiungersi del NOVAK almeno il saggio La paleografia latina e i rapporti dell'It alia
meridionale con la Dalmazia, in « Archivio storico pugliese », XIV (1961), pp. 145155.
21 LOWE, A new list, cit., e M. MURJANOFF - R. QUADRI, Zum bene ventanischen Schrifttum und Initialornamentik, in « Italia medioevale e umanistica»,
VIII (1965), pp. 309-21.
9
Le vicende della colonizzazione bizantina della Daunia avvenuta nel secondo decennio del secolo XI sono ben note e non è questa la sede per ripeterle ancora una volta. Basterà qui ricordare che, ritiratisi dopo la battaglia di Stilo
Germanici e Saraceni dall'Italia meridionale, i Bizantini intrapresero una nuova
e decisa avanzata nella Puglia settentrionale, che li portò alla riconquista prima
di Ascoli, fra il 981 e il 983, poi di Lesina. In tal modo il Fortore diveniva un
confine politico effettivo, oltre che un preciso limite geografico, tra il principato beneventano e il Gargano bizantino, e tale sarebbe rimasto sino all'invasione
normanna, per merito della efficace opera di colonizzazione e di fortificazione
compiuta dal Boioannes, che culminò nel 1018 nella fondazione di Troia e creò
o ripopolò altri centri vicini, come Dragonara e Fiorentino 22.
I decenni che corsero fra la fondazione di Troia nel 1018 e la battaglia di
Civitate nel 1053 costituirono il periodo più felice del Gargano bizantino, periodo dominato dalla figura dell'arcivescovo sipontino Leone 23 e dal primo
manifestarsi di una ricca produzione monumentale in diversi centri della zona
24 È probabile che in questo stesso periodo negli stessi centri siano stati prodotti, oltre che opere d'arte, anche codici; ma di tale produzione non ci è rimasta alcuna traccia riconoscibile.
Diversa è la situazione per Troia. In questa città, infatti, fu molto probabilmente scritto qualche tempo prima del 1060 uno dei più bei manoscritti esistenti in scrittura barese, l'Omiliario VI B 2 della Biblioteca Nazionale di Napoli 25. La storia del codice è compendiata nella nota d'acquisto, che il compratore, « Letus abbas », tracciò in fluida « barese » sul recto della prima carta 26. Fra i
personaggi nominati come testimoni all'atto di vendita almeno due risultano
noti anche da altre fonti. Essi sono: Giovanni vescovo della città, che succedette nel 1041 ad Angelo, ucciso in battaglia quell'anno dai Normanni, e che go.
vernò la Chiesa troiana fin verso la fine del sesto decennio del
Cfr. per questo soprattutto W. HOLTZMANN, Der Katepan Boio annes
und die kirchliche Organisation der Capitanata, in « Nachrichten der Akademie der
Wissenschaften in Göttingen », phil.-hist. klasse, 1960, 2, nonchè C. G. MOR, La
difesa militare della Capitanata ed i confini della regione al principio del secolo XI, in «
Papers of the British School at Rorrne », XXIV (1956), pp. 29-36.
23 Cfr. Codice diplomatico del monastero benedettino di S. Maria di Tremit i , a
cura di A. PETRUCCI, II, Roma 1960, p. 25, e Italia pontificia, IX, Samnium Apu lia Lucania, a cura di W. HOLTZMANN, Berolini 1962, p. 235 (con bibl.).
24 Cfr. per questo ALFREDO PETRUCCI, Cattedrali di Puglia, Roma, 2a
ed., 1964, pp. 37-41.
25 Per il quale cfr. M. AVERY, A manuscript from Troia: Naples VI B 2, in
Mediaeval Studies in memory of A. Kingsley Porter, a cura di W. R. W. Koehler, I,
Cambridge 1939, pp. 153-64, con ripr.; cfr. anche ARNESE, I codici, cit., n. 3 pp. 734;
cfr. ibid., pp. 20-1, per altri codici troiani notati.
26 Il testo scritto da Leto è il seguente: « Recordatione facio ego Letus abbas de
ista homelia quod comparavit in civitate Troia ante Hio22
10
secolo 27; e Giovanni « de Ursengario » tumarco, che, ancora privo di questo titolo, compare in un documento troiano del 1040 come garante del
suocero Pietro Natali « tepoteriti » imperiale 28. Se ne può concludere che
il codice fu venduto a Leto dopo il 1041 e prima del 1059, e che perciò fu
sicuramente scritto nei primi anni di vita della nuova città.
Si potrebbe in verità obbiettare che l'Omiliario di Napoli potrebbe
anche essere stato scritto ed ornato lontano da Troia, a Bari stessa, ad esempio, per essere quindi portato nella città dauna e subito dopo venduto.
Ma il fluido disegno delle lettere e l'andamento stesso della scrittura, leggermente più corsivo che non nei primi esempi di Bari (cf. Tav. III), fanno dubitare di un'origine schiettamente barese del codice, mentre i disegni
che lo adornano, stando a quanto ha concluso l'Avery, mostrano influenze
campane ben precise 29. L'ipotesi di un'origine troiana dell'Omiliario di
Napoli trova dunque conforto in tali sia pur lievi deviazioni dal canone
proprio della scrittura barese e nel particolare stile dei disegni, in quanto
Troia, benchè di fondazione tutta bizantina, apparteneva nell'XI secolo ad
un'area culturale ben diversa da quella della Puglia centromeridionale.
La Capitanata e il Gargano, infatti, risentirono costantemente l'attrazione culturale delle vicine aree longobarde, o subirono per un breve
periodo, nel corso dello stesso X secolo, la diretta dominazione dei Longobardi, spintisi nel 965 sino a Lesina e nel 973 giunti a Siponto 30. In tutta la Puglia settentrionale inoltre fu presente e determinante nel X e soprattutto nell'XI secolo l'influenza dei grandi monasteri campani di Montecassino, Cava dei Tirreni, San Vincenzo al Volturno e S. Sofia di Benevento, che vi possedevano beni, diritti e dipendenze 31. Tutto ciò può
spiegare perchè un tipo di scrittura quale quello barese, nato ai primi dell'XI secolo nella maggiore città pugliese e prontamente diffusosi in altri
centri della regione circonvicina e in Dalmazia, non sia riuscito ad affermarsi stabilmente
h(annes) episcopus et Ambrosius archipresbiter et Iohannes de Ursengarii trumarcho da Iohannes sacerdos fi(lius) de Guido et guadia michi dedit et mediatore michi posuit seipsum et boni fratres eius ». L'annotazione è parzialmente ripetuta nella stessa carta da altre due mani, delle quali la prima si limita a riprodurne
in piccola e rotondeggiante beneventana il solo primo rigo, mentre l'altra, più
tarda (XII secolo?) ricopía in beneventana assai pesante quasi tutto il breve testo.
27 Cfr. Italia pontificia IX, cit., p. 203.
28 Cfr. Codice diplomatico dei monastero benedettino di S. Maria di Tremiti, cit.,
II, n. 28, pp. 87-91.
29 Cfr. AVERY, A manuscript, cit., p. 164.
30 Cfr. per questo Codice diplomatico, cit., I, p. XXIII.
31 Sul carattere prevalentemente longobardo della cultura dei grandi monasteri benedettini dell'Italia meridionale, cfr. ora le belle pagine di N. CILENTO, Italia meridionale longobarda, Milano-Napoli 1966, pp. 7-10, e dello stesso
anche Le origini della signoria Capuana nella Longobardia minore, Roma, 1966, pp.
182-8.
11
a nord dell'Ofanto, dopo il raro, se non unico, esempio offerto dall'Omiliario
troiano. Nella stessa Troia, infatti, furono scritti e miniati nell'XI e nel XII secolo ben tre rotoli di Exsultet, il primo e il più antico dei quali mostra una beneventana rotondeggiante e piuttosto fluida, ma sostanzialmente cassinese nel
disegno e nell'aspetto generale 32, mentre decisamente lontana dal canone barese appare la scrittura degli altri due rotoli prodotti nel corso del XII secolo 33.
Nella Biblioteca Nazionale di Napoli, oltre al già citato Omiliario, è conservato un gruppo di codici provenienti dalla collezione di un napoletano, Giacomo Emilio Cavalieri, che fu vescovo di Troia fra il 1694 e il 1726 34. Di essi
soltanto uno, il VI G 34, può vantare un'origine sicuramente troiana ; si tratta
di un Processionale in beneventana cassinese con notazione neumatica, nel
quale è esplicitamente menzionata la « pleps troiana » (c. 113r), databile intorno
alla fine del secolo XII o agli inizi del Duecento, con aggiunte in gotica e in
minuscola cancelleresca. Dei codici più antichi del gruppo, è probabilmente
troiano il VI B 11, contenente il Commentario alle Epistole di S. Paolo attribuito ad Aimone di Halberstadt ; si tratta di un manoscritto della fine dell'XI secolo, la cui prima parte è scritta in una beneventana che nel tratteggio uniforme e
nel disegno non spezzato delle lettere mostra di aver subìto l'influenza barese.
In scrittura schiettamente barese è invece il manoscritto VIII B 6, contenente
un'ampia raccolta di vite di santi; vergato da più mani, ora con tratteggio pesante, ora (cc. 75r-145v) con pieno rispetto del canone della barese, questo codice
rivela nelle iniziali (cf. in particolare le cc. 38r e 134r) una certa somiglianza con
l'ornamentazione del già più volte ricordato Omiliario VI B 2.
L'esiguo numero di manoscritti sicuramente o probabilmente troiani qui
elencati non costituisce prova dell'esistenza a Troia fra XI e XIII secolo di un
vero e proprio centro scrittorio organizzato, anche se appare estremamente
probabile che nella città si scrivessero codici per uso del clero locale. La stessa
biblioteca vescovile veniva però sicuramente accresciuta anche con codici acquistati altrove; e di ciò fanno fede i due ben noti cataloghi dei doni offerti alla
propria chiesa dal vescovo di Troia Guglielmo II fra il 1108 ed il 1137, di cui il
primo si trova in un codice da lui donato, ma certamente non
Cfr. AVERY, The Exultet Rolls, cit., I, p. 37; II, tavv. CLXIV-VII.
Cfr. AVERY, The Exultet Rolls, cit., I, pp. 37-40; II, tavv. CLXXICLXXXV.
34 Cfr. LOEW, The Beneventan Script, cit., p. 77. Per il Cavalieri, cfr. R . RITZLER-P. SEFRIN, Hierarchia catholica, V. Patavii 1952, p. 392; il vescovo troiano morì n el 1726, non, come riporta il Loew, nel 1739.
32
33
12
scritto nella città dauna 35. Dai due elenchi si ricava che in quel periodo Guglielmo II donò alla propria chiesa ben ventisette codici, nessuno dei quali
sembra comunque corrispondere ai manoscritti di provenienza Cavalieri cui
abbiamo più sopra accennato.
In un monastero sito nei pressi di Troia, S. Lorenzo « in Carminiano » 36,
un paziente scriba di nome Ascaro vergava intanto in più di venti anni, fra il
1145 e il 1165, uno splendido codice di grande formato contenente (ed è la
seconda volta che incontriamo in territorio troiano quest'opera) il commentario
paolino attribuito ad Aimone di Halberstadt (Bibl. Naz. Napoli, VI B 3) 37. La
scrittura di Ascaro è una beneventana cassinese dal tratteggio ora più, ora meno
contrastato (cf. Tav. IV); nell'ornamentazione ad elementi cassinesi sembra
accompagnarsi qualche motivo di stile pugliese. In classica scrittura barese (lo si
riferisce soltanto per scrupolo) sono però alcuni frustuli di pergamena tagliati
da un codice probabilmente biblico ed usati per rinforzare il dorso del primo e
dell'ultimo fascicolo del codice; ma nessuno potrà mai dirci quando e dove
quest'opera di rinforzo (che si ripete pure nel manoscritto napoletano VI AA 4,
cc. 207, 214, 260, anch'esso proveniente dalla collezione Cavalieri) sia stata eseguita 37 bis.
La beneventana di tipo cassinese sembra essere stata l'unica scrittura libraria adoperata nel XII secolo in Capitanata e nel Gargano. Oltre che a Troia
e a S. Lorenzo « in Carminiano », essa era usata anche in altri centri religiosi
della zona, e precisamente nel monastero femminile di S. Cecilia presso Foggia
38, in quello di S. Maria delle isole Tremiti 39 e in quello di S. Maria di Gualdo
Mazzocca 40.
35 E precisamente nel ms. VI B 12 della Biblioteca Nazionale di Napoli, del
periodo 817-835, contenente il De vita contemplativa di Pomerio: cf. LOEW, The Beneventan Script, cit., p. 376 (con rinvio alle pp.): e dello stesso Scriptura beneventana, Oxford 1929, I, tav. XIV; per l'edizione dei; due cataloghi, cfr. CARABELLESE, L'Apulia, cit., pp. 528-31.
36 Per il quale cfr. Italia pontificia IX, cit., p. 227.
37 Cfr. LOEW, The Beneventan Script, cit., pp. 59, 322; Id., Scriptura beneventana,
cit.. II, tav. LXXXVII.
37 bis Alla Puglia setentrionale pare che debba essere assegnato anche un Messale in scrittura barese della metà del secolo undecimo, conservato nella Walters Art
Gallery di Baltimora (ms. W 6). Secondo i benedettini di Solesmes (Paléographie
musicale, XV, Tournai 1953, pp. 76 e 176) il codice potrebbe essere stato scritto o nel
santuario di S. Michele sul Gargano, o a Canosa, e questa seconda ipotesi ci sembra
più probabile dell'altra. Per lo stesso codice, cfr. anche: 2000 Years of Calligraphy, Baltimore 1965, p. 35, n. 17, con tav.
38 Cfr. Italia pontificia IX, pp. 224-5, con bibl.
39 Cfr. Codice diplomatico, cit.
40 Cfr. Italia pontificia IX, pp. 107-8, con bibl.
13
Del monastero di S. Cecilia, dipendente da quello garganico di S.
Maria di Pulsano, la Biblioteca Nazionale di Napoli conserva un Martirologio della seconda metà del XII secolo (VIII C l3)41, che alla fine (c. 60v)
reca anche l'inizio della Regola di S. Benedetto. La scrittura di questo codice è una beneventana cassinese di modulo grande e molto accurata; l'ornamentazione è costituita da grandi iniziali a intreccio e motivi zoomorfi
in rosso e verde e da quattro disegni colorati (cc. 3v, 13v, 14r, 27v), uno
dei quali rappresenta lo stesso fondatore del monastero di Pulsano, Giovanni Scalcione (c. 27v). Nei margini del codice compaiono qua e là, vergate da mani diverse del secolo XIII, numerose note obituarie di monache
del convento di S. Cecilia 42, nonchè la menzione di santi particolarmente
venerati in quel monastero.
Il monastero benedettino di S. Maria di Tremiti, oltre al ricco catalogo della biblioteca isolana, databile al 1174-1175 43, ci ha lasciato anche
un manoscritto contenente la copia di un certo numero di documenti
pubblici e privati relativi ai beni di quella comunità monastica dai primi
del Mille al 1163, e attualmente conservato nella Biblioteca Apostolica
Vaticana (Vat. lat. 10657) 44. Opera di cinque scribi diversi operanti nell'isola intorno ai primi anni del Duecento, il Chartularium Tremitense rivela a
prima vista le caratteristiche tipiche di un centro scrittorio in decadenza;
la pergamena di pessima concia, la scrittura rozza ed irregolare di alcuni
degli scribi, le diversità grandi di formato e di allineamento, confermano
questa impressione, con la quale soltanto apparentemente contrastano la
regolarità calligrafica del primo amanuense e la grazia di alcuni minori elementi (cf. Tav. V)45.
Da un'altra zona estrema della Capitanata, sottoposta al contatto diretto
con il territorio beneventano e all'influenza preponderante sia sul piano economico, che su quello culturale del monastero di S. Sofia di Benevento, proviene un secondo cartulario, di poco più tardo di quello tremitense: il Chartularium del priorato benedettino di S. Matteo « de Sculcula » in territorio di Dragonara 46. Questo codice contiene la copia di docu41 Cfr. C. ANGELILLIS, Pulsano e l'ordine monastico pulsanese, in « Arch ivio storico pugliese », VI (1953), pp. 440-1; LOWE, A new list, cit., p. 228; PETRUCCI, Cattedrali, p. 56.
42 Cfr. ad esempio la nota di c. 22 v : « Die veneris vicessimo mensis madii secunde indicionis. Obitus sororis Stephanie neptis fratris Guidonis prioris
Sancte Cecilie, cuius anima vivat in Christo. Amen. Anno millesimo ducentessimo quadragessimo quarto ».
43 Edito in A. PETRUCCI, L'archivio e la biblioteca del monastero benedettino di S. Maria di Tremiti, in « Bullettino dell'Archivio paleografico italiano », n.
s., II-III (1956-57), parte I I , p p . 306-7, e riedito in Codice diplomat i c o , cit., I I , p p .
369-71.
44 Cfr. Codice diplomatico, cit., I, pp. CLV I I I -CLXXVII.
45 Cfr. Codice diplomatico, cit., I, pp. CLXXII-s
46 Per il codice, cf. A new list, cit., p. 227; Italia pontificia IX, cit., p. 108.
14
menti datati dal 1177 al 1238 relativi ai possessi del priorato e a quelli della casa
madre, l'abbazia di S. Maria « de Gualdo », sita nel territorio dell'attuale comune
di Foiano Valfortore, a pochi chilometri dal naturale confine del Sannio con la
Capitanata. Il cartolario di S. Matteo mostra una tarda beneventana di tipo cassinese e molto probabilmente fu scritto nella casa madre e non a « Sculcula ».
Tutti sappiamo, però, che negli argomenti e periodi di cui qui si tratta, è assai
difficile, anzi senz'altro pericoloso, tracciare rigidi confini geografici. Ciò ci valga di scusa per aver voluto inserire in questa rassegna di codici e di scrittorii
pugliesi, non soltanto il cartolario di S. Matteo, ma anche un martirologio proveniente proprio dall'abbazia di S. Maria « de Gualdo », che del resto aveva
possedimenti, benefattori ed interessi soprattutto in Capitanata e, come si è già
detto, distava dal Fortore soltanto pochi chilometri. Il Martirologio gualdese
(oggi Vat. lat. 5949) 47, databile fra il 1197 ed il 1203, è un codice di grande
formato, scritto in pesante beneventana di modulo ampio, un po' rigida nel
tratteggio e artificiosa nelle forme, ma molto calligrafica; esso contiene, oltre a
testi diversi, anche il necrologio della comunità monastica fino al XV secolo.
L'ornamentazione, a base di grossi intrecci vivacemente colorati e, da c. 121r in
poi, di elementi zoomorfi ed umani fantasiosamente combinati, è di stile puramente cassinese ; più incerte nel disegno vi appaiono talune iniziali nelle quali il
miniatore ha voluto raffigurare brevi scene di vita monastica (cf. cc. 128v, 161r,
170r). Molto probabilmente alla mano dello scriba va invece attribuito il bel
disegno posto in testa alla carta 231r, che raffigura un amanuense al suo banco,
dinanzi al quale si trova, in piedi, l'abate del monastero: un autoritratto, dunque, del quale non può essere negata la forte suggestione (cf. Tav. VI).
Con l'inizio del XIII secolo la beneventana era ormai giunta in Puglia al
termine della sua parabola, e gli scribi che in ogni luogo si sostituivano ai vecchi monaci benedettini preferivano adoperare i nuovi tivi grafici importati dall'esterno: la minuscola di tipo carolino o addirittura la gotica. Dalla beneventana alla gotica si passò di colpo anche nelle isole Tremiti con il 1237, quando
cioè ai benedettini furono sostituiti i cistercensi di S. Maria di Casanova degli
Abruzzi 48; ma già lo stesso Chartularium rivela nella mano di un correttore coevo l'uso di una minuscola di tipo carolino, mentre gli archivisti isolani introducevano nella loro tarda beneventana sempre più numerosi elementi minuscoli
49.
47 Cfr. A. CASAMASSA, Per una nota marginale del Cod. Vat. lat. 5949, in «
Antonianum », XX (1945), pp. 201-26.
48 Cfr. Codice diplomatico, cit., I, pp. CLXXXIV.
49 Per l'uso in Tremiti di scritture diverse dalla beneventana, cf. A. PETRUCCI,
Postille alla questione « beneventana » e non « beneventana » nei documenti dell'Italia
meridionale, in « Archivio storico per le province napoletane », 3 a serie. I (1961), p p .
169-74.
15
Un identico processo è in atto fra XII e XIII secolo anche in altri centri
scrittorii della Puglia settentrionale: a Troia i testi aggiunti nel XII secolo al già
ricordato codice di Pomerio (Napol. VI B 12) mostrano con grande evidenza
un graduale passaggio dalla beneventana alla minuscola di tipo carolino ; nel
monastero di S. Cecilia le note del XIII secolo aggiunte al testo in beneventana
del ricordato Martirologio sono tutte in scritture di diverso genere; nel necrologio del monastero di S. Maria di Gualdo Mazzocca, infine, alle molte mani che
ancora ai primi del secolo XIII adoperano la beneventana se ne sostituiscono
intorno al 1240 altre che scrivono in minuscola cancelleresca o in gotica libraria.
Nella Puglia centromeridionale, intanto, la scrittura « barese », già espressione per due secoli di una cultura e di un gusto grafico particolari, veniva
gradualmente perdendo le proprie caratteristiche e la propria eleganza. Forme
più piccole, a volte addirittura minute, tratteggio più pesante, incertezza nell'esecuzione e nel gusto, non le fecero perdere però per tutto il XII e anche nel
XIII secolo la sua individualità: l'individualità di una scrittura già vecchia e superata dopo appena due secoli di vita, che alcuni amanuensi, ignari degli eventi
che, alle soglie dell'età sveva, ormai maturavano, continuavano a tracciare ostinatamente sui loro fogli di pergamena, insieme a fantastiche figure di animali,
di mostri, di uomini, irrimediabilmente brutte a fianco dell'ellenistico angelo
dell'Evangeliario Ottoboniano ormai per sempre dimenticato 50.
In campo documentario i rogatari pugliesi avevano in tutta la regione
abbandonato, molti anni prima degli scrittori di codici, le tradizionali scritture
di tipo beneventano. Nella zona di Bari la documentaria pugliese subì già fra la
seconda metà dell'XI secolo e il secolo seguente una rapida evoluzione caratterizzata da un progressivo infittirsi delle aste, da un tratteggio sempre più angoloso, da forme via via più minute, per poi scomparire di fronte alla minuscola
diplomatica di tipo carolino importata ed imposta nell'uso documentario dai
Normanni 51 . Si osserva, dunque, dopo un breve periodo di concorde sviluppo,
un sempre più accentuato divario fra uso librario e uso documentario. Il fenomeno è, da un certo punto di vista, naturale, in quanto le scritture canonizzate come sono quelle librarie - rimangono sempre meno sensibili a tendenze innovatrici di quanto non possano esserlo le documentarie non cancelleresche, libere da tradizione, largamente diffuse e perciò spesso soggette ad influenze di
ogni genere.
50
51
R i p r . i n Note ed ipotesi, cit., tav. V.
Note ed ipotesi cit., p. 113.
16
SCRITTURA E CULTURA IN PUGLIA
Tav. III – Bibl. Naz. di Napoli. VI B 2, c. 137r
D'altra parte ci sembra che nella Puglia centrale questa diversità di
sviluppo nasconda un significato diverso e più particolare. La documentaria
pugliese era all'inizio dell'XI secolo la scrittura dei religiosi che, in Bari e nei
centri circonvicini, rogavano documenti per i privati, era cioè la scrittura
normale di una categoria che faceva capo all'episcopato barese; e quando
nello scrittorio arcivescovile alcuni amanuensi (anch'essi religiosi) crearono
la libraria, questa fu una scrittura che della documentaria aveva canonizzato
le fondamentali tendenze e caratteristiche.
Nessuno potrà dirci con esattezza quali e quanti sconvolgimenti abbia apportato nella Bari e nella Puglia centrale, fino ad allora bizantine, la
conquista normanna del 1071. Ma certo in Bari la potenza del clero filogreco fu spezzata, così come fu rovesciata la vecchia classe dirigente dei pr oprietari insigniti di dignità bizantine e legati ai catapani. L'assunzione di Elia
all'arcivescovado significò nel 1089 un rovesciamento della situazione precedente anche in campo religioso.
Egli, benedettino, portò un indirizzo filoromano nella politica dell'arcidiocesi e si legò ai nuovi ceti mercantili e marinari della città, già da tempo
insofferenti della dominazione greca. Ciò é noto, ed è stato già ampiamente
espresso e documentato da altri 52 . Ma come credere che sconvolgimenti
così gravi in campo politico e religioso non abbiano avuto i loro riflessi anche in campo culturale? Negli ultimi decenni dell'XI secolo cominciarono
ad operare in Bari rogatari laici; d'altra parte i Normanni diffusero la minuscola cancelleresca di tipo carolino adoperata dai loro scribi nelle cancellerie
ducali e comitali di Puglia, inducendo sia i notai baresi, sia i rogatari degli
altri centri pugliesi ad abbandonare le vecchie forme, legate a tradizioni ormai rinnegate, per adottare la scrittura nuova, la scrittura dei conquistatori
53
.
Più a nord, nelle maggiori città della Capitanata, già prima del 1050
vivevano ed operavano numerosi notai laici, che venivano gradatamente
sostituendosi ai diaconi e ai chierici attivi come rogatari nella prima metà
del secolo: così avveniva a Troia, così a Luc era 54 . In ciò il notariato di Capitanata non faceva che seguire un processo di mutamento in corso anche
nelle vicine zone del Molise e del Sannio 55 ; tale processo fu nel Gargano,
invece, assai più lento ed incerto, in quanto la
52
C f r . CARABELLESE, L'Apulia, cit., pp. 324-37.
Per la documentazione del processo cui qui si accenna, cfr. Note ed ipote si, cit., p. 114, note nn. 2 e 4.
54
Cfr. per questo A. PETRUCCI, Note di diplomatica normanna. II. Enrico
conte di Montesantangelo ed i suoi documenti, in « Bullettino dell'Istituto storico italiano per il medio evo ed Archivio muratoriano », 72 (1961), p. 143.
55
Cfr. Codice diplomatico, cit., I, pp. CXCVI-CXCIX.
53
17
documentazione vi rimase per tutto il secolo XI monopolizzata da suddiaconi,
diaconi, presbiteri, con poche eccezioni 56 .
Questa diversità non influì nè sul formulario dei documenti, nè sulla loro
scrittura, in quanto i primi rogatari laici dell'XI secolo rimasero fedeli, nella
Puglia, settentrionale, alle forme tradizionali loro trasmesse dai predecessori
ecclesiastici 57 , anche quando dovettero passare al servizio dei primi signori
normanni.
Un caso veramente singolare è a questo proposito rappresentato dai documenti di Enrico conte normanno prima di Lucera, poi di Montesantangelo,
noto fra il 1078 e il 1101, e signore per lunghi anni di parte della Capitanata e
dell'intero Gargano 58 . Quattro di essi, redatti a Monte fra il 1086 e il 1101 da
un « clericus et notarius » locale di nome Giovanni, presentano un particolare
tipo di scrittura, fondamentalmente beneventano, ma reso più elegante e solenne dall'uso di artifici cancellereschi, quali l'allungamento delle aste alte, le
abnormi proporzioni dei segni di compendio, l'uso di particolari lettere maiuscole per le sottoscrizioni non autografe dei testimoni 59. Un solo documento
di Enrico, redatto nel 1098 da un « protonotarius » Guglielmo, presenta la tipica scrittura delle cancellerie normanne: una minuscola, cioè, di tipo carolino,
con le aste alte aperte a forcella in cima 60 ; ma quest'esperimento rimase nella
regione isolato, poichè fino ai primi decenni del XII secolo, i notai di Capitanata e del Gargano continuarono ancora concordemente ad adottare una scrittura
di tipo beneventano con spezzature nette nel tratteggio e andamento corsivo 61.
Soltanto con la metà del secolo XII (ma in campo librario, è bene rammentarlo, la beneventana regnava ancora sovrana) la minuscola diplomatica di
tipo carolino si introdusse stabilmente nei documenti privati pugliesi. Per il
Gargano un bell'esempio è fornito dallo splendido documento rogato a Tremiti
nel 1152 da un notaio Roberto « Borscelli » in una elegantissima scrittura cancelleresca che sembrerebbe uscita dalla curia regia di Palermo 62 . Meno di un
decennio appresso si affacciava anche in Puglia l'uso documentario della gotica
primitiva di tipo librario, con gli atti rogati a Salpi da un « Homodei », « regius
Salpine civitatis protonotarius », calligrafo di rara abilità 63 . Di un analogo tipo
di scrittura si serviva a Bari nel 1201 il protonotario
56 Cfr.
57
PETRUCCI, Note di diplomatica, cit., p. 145.
C f r . PETRUCCI, Note di diplomatica, cit., pp. 144-5.
58
C f r . PETRUCCI, Note di diplomatica, cit., pp. 135-43.
59
C f r . PETRUCCI, Note di diplomatica, cit. pp., 158-60.
60
Cfr. PETRUCCI, Note di diplomatica, cit., p. 160.
61
Cfr. PETRUCCI, Note di diplomatica, cit., pp. 160-1.
62
Cfr. Codice diplomatico, cit., III, n. 106, pp. 294-7, tav. VI.
63
E d . e ripr. in Le pergamene di Barletta. Archivio capitolare., a cura di F.
Nitti di Vito, Bari 1914 (« Codice diplomatico barese », V1II), pp. 128-9, tav.
VI; A. PETRUCCI, Notarii. Documenti per la storia del notariato, italiano, Milano
1958, n. 22, pp. 75-6, tav. 22.
18
Lupone, che nella ricca ornamentazione del documento ostinatamente si richiamava ai pavoni, ai cani, agli intrecci propri della miniatura pugliese di uno e
due secoli addietro 64 .
Nel campo della scrittura dei documenti la Puglia con la seconda metà
del XII secolo mostra insomma di avere ormai perduto per sempre le originali
forme stilistiche, elaborate autonomamente dai rogatari locali già alla fine del X
secolo e durate nell'uso per duecento anni.
Si è già visto più sopra come con i primi decenni del XIII secolo nei
centri scrittorii della Puglia settentrionale alla scrittura beneventana si venne
sostituendo quella gotica, in alcuni casi gradualmente, in altri, come a Tremiti,
di colpo. Tale sostituzione non può considerarsi soltanto un fenomeno esclusivamente grafico, bensì anche il sintomo di un vero e proprio rivolgimento cu lturale, della sostituzione di una cultura nuova, d'intonazione scolastica e di ambito europeo, ad un'altra, ormai tradizionale, radicata da secoli nei monasteri e
nelle scuole vescovili meridionali. La cultura nuova, insieme con la scrittura
gotica che ne fu mezzo di espressione e di diffusione, giunse quasi dovunque in
Puglia con i Cistercensi, l'ordine monastico che in molti dei monasteri già benedettini venne a sostituirsi nella prima metà del Duecento ai monaci bianchi
65
. Di tale rivolgimento culturale e grafico insieme, si ha una simbolica testimonianza nell'opera di un abate dell'abbazia di Montesacro nel Gargano, Gregorio, che resse la sua comunità dal 1220 al 1248 66.
Gregorio era un tipico esponente di quella che abbiamo definito la «
nuova » cultura; aveva infatti studiato teologia a Roma e a Parigi, capitale della
Scolastica; e a Montesacro, fra il 1227 e il 1241, scrisse un lungo poema in esametri sulla creazione del mondo e dell'uomo, intitolato D e h o m i n u m d e i f i c a t i o n e . Come rilevò il Silvagni nel lontano 1901 67 , il poema di Gregorio è in
realtà un trattato scolastico di carattere enciclopedico, redatto non con intenti
letterari, ma a fini meramente didascalici. Esso è tramandato da due codici coevi, ambedue attualmente conservati nella Biblioteca Apostolica Vaticana: il Vat.
lat. 5977 e il Barb. lat. 2089. I due manoscritti sono assai simili nel formato,
nell'uso delle iniziali rosse e turchine e delle rubriche, nella disposizione del
testo in colonna nella pagina, e infine nella scrittura (pur di mani diverse), che è
la tipica go64
Ed. e ripr. in Le pergamene del Duomo di Bari, cit., p. 37, tav. VIII; P E T R U C C I , Notarii, cit., n. 29, pp. 83-4 e tav. 29,
65
Cfr. per questo Codice diplomatico, cit., I, pp. LXVI-LXVII.
66
Cfr. S. PRENCIPE, L'abbazia benedettina di Monte Sacro nel Garg a n o , S.
Maria Capua Vetere 1953, pp. 69-73.
67
A. SILVAGNI, Un ignoto poema latino del secolo XIII sulla creazio ne, in
Scritti vari di filologia a Ernesto Monaci, R o m a 1901, pp. 413-27.
19
tichetta scolastica del primo Duecento, chiara, ordinata e ravvivata da
qualche elemento corsivo, come la g con ampia ansa della minuscola cancelleresca coeva. Fra i due codici ci pare corra una relazione molto stretta,
anche per quanto riguarda la trasmissione del testo; sia perchè alcune ampie correzioni apportate nel Barberiniano appaiono inserite al loro posto
nel Vaticano; sia perchè il commento che nel Barberiniano accompagna il
testo, ritorna anche nel Vaticano, ma con ampliamenti cospicui; si aggiunga a queste considerazioni il fatto che il Barberiniano ha tutto l'aspetto,
trascurato e tormentato, di un originale rivisto dall'autore (del quale riporta in fine anche altri componimenti), mentre il Vaticano può essere considerato senza alcun dubbio un esemplare definitivo.
Il logico ragionamento finora svolto (e con esso la ragione stessa
dell'inserimento dei due codici del D e h o m i n u m d e i f i c a t i o n e in questa
rassegna) potrebbe rivelarsi vano, se non fosse possibile provare l'origine
da Montesacro stesso di uno almeno dei due codici; ma tale prova è fortunatamente offerta da una annotazione apposta a c. 4v del codice Vaticano, dalla quale risulta che nel 1365 quel manoscritto era ancora in possesso dell'allora abate di Montesacro, Luca 68 .
Si può dunque concludere affermando con sufficiente sicurezza che nell'interno stesso del Gargano, prima della metà del Duecento, venivano già prodotti codici che nell'aspetto, nel formato, nell'ornamentazione, nella scrittura
infine non avevano più un determinato carattere regionale e forse neppure uno
spiccato carattere italiano: chiarissimo segno, questo, della prepotente affermazione e dell'uniforme diffusione europea della cultura universitaria e scolastica
e della sua propria scrittura la gotica.
ARMANDO PETRUCCI
68
Cfr. P R E N C I P E , L'abbazia, cit., p p . 9 3 - 6 . L'annotazione è del
tenore seguente: « Die iovis duodecimo marcii in die sancti Gregorii in civitate
Taranti venerabilis pater dominus Luas abbas monasterii Montis Sacri
[com]mendavit michi R[ ... ]o de Ur[.... ] palatio comiti hunc librum restituendum per me sibi ad omnem eius requisicionem. Anno Domini MCCCLXVI
quarte indictionis, tempore domini Urbani pape V».
20
Il “ Servizio nazionale di lettura „
in Capitanata
In questi ultimi tempi, fervore di opere, discussioni e notizie di stampa
hanno portato all'ordine del giorno il problema della diffusione della cultura
nella nostra provincia. Qui, nonostante quello che finora dal punto di vista culturale è stato fatto, il problema non era stato mai affrontato con visione unitaria, nel suo complesso e in maniera così concreta.
La scuola d'obbligo ha avvicinato la massa dei giovani al libro, sia pure
attraverso il lavoro di ricerca che, nato per essere lavoro di gruppo, si risolve, il
più delle volte, in una frettolosa copiatura da questo o quel librone. Ma l'incontro dei più piccoli con il libro - in una libera palestra di democrazia, qual'è la
biblioteca pubblica - è un fatto di grande importanza e sta a noi far sì che questo incontro avvenga nelle migliori condizioni perchè il bambino di oggi sia
l'attento e assiduo lettore di domani.
I pilastri sui quali dovrebbe poggiare questa nuova opera di rinnovamento e di incentivazione culturale sono costituiti da 3 leggi fondamentali: 1) la n.
685 del 27 luglio 1967, che approva il piano quinquennale di sviluppo nazionale; 2) la n. 717 del 26 giugno 1965, che proroga per un quinquennio l'intervento
straordinario dello Stato nel Mezzogiorno; 3) la legge 31 ottobre 1966, n. 942
che agli articoli 24 e 25 promuove il finanziamento nel settore delle biblioteche
pubbliche.
L'articolo 104 della legge n. 685 così dice, tra l'altro: « Un importante
contributo alla promozione e alla diffusione della cultura sarà dato da un sistema capillare di biblioteche, facente capo ad una biblioteca autonoma per ogni
capoluogo di provincia, in grado di soddisfare le esigenze di tutti gli abitanti dei
comuni, attraverso un'apposita rete di diffusione ». Nel quinquennio, oltre al
rafforzamento delle 84 biblioteche di capoluoghi di provincia di proprietà degli
Enti Locali, saranno create 200 biblioteche in centri minori.
L'art. 20 della legge 717 prescrive che per favorire il pro21
gresso civile delle popolazioni meridionali sono promosse e finanziate attività a
carattere sociale ed educativo. Tali attività possono essere rivolte anche ad assistere, nelle zone di nuovo insediamento, gli emigrati provenienti dai territori
meridionali. All'espletamento di tali compiti provvede la Cassa, tramite il Centro di Formazione e Studi sulla base di programmi esecutivi predisposti in attuazione del piano di coordinamento, approvati dal Ministro per gli interventi
nel Mezzogiorno. In tale piano quattro sono le direttrici indicate in ordine al
conseguimento delle indicate finalità sociali ed educative
1) promozione e animazione culturale imperniata su un Centro comunitario,
sede delle iniziative varie (lotta contro l'analfabetismo, educazione degli adulti,
organizzato intorno a un moderno servizio di biblioteca e alla scuola);
2) potenziamento dei servizi sociali locali, in collaborazione con i quadri locali
amministrativi e tecnici, assistenzali e scolastici, medico-sanitari etc.;
3) azione sociale legata alla promozione tecnico-professionale;
4) assistenza agli emigrati.
Al potere pubblico non è sfuggito, pertanto, l'importanza primaria della
elevazione culturale e civile delle popolazioni in ordine al tanto sospirato sviluppo economico e sociale delle popolazioni, anzi, si è riconosciuta l'importanza del fattore cultura proprio perchè si vuole che siano i valori della libertà dell'uomo a dirigere e a conseguire quel progresso civile (sociale e culturale) che
noi già preavvertiamo pur nel suo faticoso divenire. Insomma è pur sempre
l'uomo la misura di tutte le cose.
Nel campo della organizzazione bibliotecaria il distacco che ci separa
dalle altre nazioni più progredite è enorme. Noi non possiamo accettare le solite querimoniose giustificazioni (che non giustificano un bel niente) sul perchè
di questo ritardo. Però dobbiamo anche onestamente affermare che se lo Stato
ha trascurato in maniera così grossolana le biblioteche, ciò è potuto succedere
perchè il problema non era sentito, non era compreso, interamente e integralmente, dal cittadino italiano. In breve: ogni comunità ha la biblioteca che si
merita!
Oggi finalmente, in mezzo a una ridda di miliardi da spendere nell'ambito del programma di sviluppo nazionale, alcuni fondi sono stati messi a disposizione della Direzione Generale delle Accademie e Biblioteche e per la diffusione della cultura. Poichè tali fondi non sono molti (45 miliardi in cinque anni), l'uomo della strada si potrà chiedere come mai proprio la Capitanata abbia
avuto la fortuna di essere compresa nel numero delle provincie che beneficieranno delle provvidenze governative. Bisognerà in proposito ricordare che nell'anno 1963, quando il Ministero a titolo di esperimento decise di attuare il cosidetto « PIANO L » (L da libro e lettura), Foggia fu tra le poche provincie a
mettere a punto in pochi mesi tutta l'organizzazione
22
necessaria. Alcuni comuni, per l'esattezza 14, ricevettero scaffalature e schedari.
Poi il cambio della guardia alla Direzione Generale portò alla esclusione di
Foggia dal Piano, che invece fu realizzato nelle più fortunate provincie di Gorizia, Cremona, La Spezia, Rieti e Lecce.
Altre componenti in favore della scelta della nostra provincia sono: il riconoscimento del Gargano quale « polo » ; gli annunciati importanti insediamenti industriali e la trasformazione del nucleo industriale in area di sviluppo
industriale.
Tali esigenze particolari si inseriscono nel piano generale di sviluppo civile del Mezzogiorno e dell'intera nazione, essendo ormai acquisito che, in seguito alla ristrutturazione in senso veramente democratico della società italiana,
lo Stato deve porre l'individuo in grado di partecipare, direttamente e indirettamente, al governo della cosa pubblica; e ciò può avvenire soltanto attraverso
l'aggiornamento, l'educazione e la rieducazione degli adulti, in una parola, attraverso la cultura. La Direzione Generale delle Accademie e Biblioteche, intende
perciò attuare il « servizio nazionale di lettura », articolato in sistemi provinciali
facenti capo a una biblioteca di capoluogo di provincia che sarà il Centro RETE. Il traguardo è quello di dotare tutti i comuni di una biblioteca fornita di
un fondo fisso costituito da opere di carattere generale e di consultazione (enciclopedie, dizionari, atlanti, codici, collane di classici italiani e stranieri, storie
letterarie dei vari paesi etc.). Tale fondo sarà incrementato mensilmente attraverso il Centro Rete o - come nel caso della nostra Provincia, considerata la sua
ampiezza e la particolare situazione orografica e stradale - da due sub Centri o
Bacini di alimentazione (Manfredonia e S. Severo) che forniranno, a richiesta,
opere di narrativa, di studio, di critica, di attualità, opere per ragazzi etc.
Ai comuni, poichè ogni spesa di gestione e di impianto è a carico dello
Stato, si richiederà: la delibera di istituzione della Biblioteca pubblica; la messa a
disposizione di uno o più locali, a seconda del numero degli abitanti, e l'assunzione delle spese generali di illuminazione, riscaldamento e pulizia.
Per il personale assunto dal Comune il Ministero interviene con un contributo di L. 20.000 mensili. E qui, il fatto nuovo, rispetto al precedente Piano:
l'Amministrazione Provinciale a sua volta contribuirà con una somma, da fissare per ogni comune, a sollievo delle spese per il personale cui l'ente andrà incontro.
Le spese di impianto sia delle biblioteche comunali che del Centro Rete
saranno a completo carico dello Stato. E ciò sarà possibile con i fondi previsti
della citata legge di finanziamento del piano di sviluppo della scuola per il
quinquennio 1966-70 (legge 31 ottobre 1966, n. 942), che agli articoli 24 e 25
prevede il finanziamento del settore delle biblioteche pubbliche.
23
Possiamo assicurare che l'Amministrazione Provinciale di Foggia contribuirà in maniera concreta e determinante all'attuazione del piano in Capitanata.
L'organizzazione, affidata al direttore della Biblioteca del Capoluogo, è già a
buon punto. Hanno finora aderito, con riserva di inviare i relativi provvedimenti deliberativi, i seguenti comuni: Deliceto, Orsara di Puglia, Serracapriola,
Carpino, Casalnuovo Monterotaro, Rodi Garganico, Carlantino, Apricena, Castelnuovo della Daunia, Motta Montecorvino, Candela, Rocchetta S. Antonio,
Vieste, Alberona, Casalvecchio di Puglia, Rignano Garganico, Volturino, Margherita di Savoia, S. Ferdinando di Puglia.
La Prefettura ha assicurato il suo completo appoggio.
Però, insistiamo, queste biblioteche debbono essere moderne, vive, non
limitate al compito della pura conservazione o sclerotizzate in attesa dell'ipotetico lettore. Dovranno i responsabili essere uomini dotati, oltre che di entusiasmo e di idee chiare, di buona cultura e capaci di sapersi avvalere di tutti i mezzi moderni per richiamare il pubblico in biblioteca: dagli impianti di audizione
da tavolo e a cuffie, a tutti gli altri sussidi audiovisivi oggi a nostra disposizione.
Dovrà cogliere l'occasione di un avvenimento importante della vita della comunità per mettere a disposizione dei lettori libri che consentano una conoscenza approfondita del problema o dell'avvenimento. Gli potrà soccorrere,
nella sua opera - che è soprattutto opera profondamente educativa - la teoria
pedagogica dell'Herbart sui « centri di interesse ».
Lo squallore di tante biblioteche, anche di recente istituzione, ci ha profondamente addolorato. Non è possibile che con tanti ottimi libri e con tanti
periodici che si pubblicano oggi - e non c'è che l'imbarazzo della scelta - il bibliotecario non possa trovare il modo per richiamare in biblioteca un certo
numero di persone tra bambini, studenti, operai e professionisti. La visione del
bibliotecario con papalina in testa e mantellina sulle spalle, che preferisce vivere
in un atmosfera umbratile, avvolto in un polveroso, anche se per lui eloquente
silenzio, utile soprattutto a se stesso, è superatissima. Oggi, ripeto, il bibliotecario deve vivere in mezzo alla comunità, preavvertirne bisogni e necessità, e
quindi porsi, con intelletto di amore, al suo servizio.
Per un formativo impiego del tempo libero bisognerà tener presente, inoltre, che le strade del futuro si trovano nello svago interiore, in quella vacatio
animae in cui l'essere umano, lottando contro gli automatismi e le sollecitazioni
esterne, mantiene libera la propria estrinsecazione. Noi possiamo aiutare il nostro prossimo a recuperare la propria intimità, favorendo l'incontro del lettore
con il libro e, quindi offrendogli la possibilità di elevare la sua cultura al limite
massimo consentito dalla direzione dei suoi interessi (interesse - in senso herbartiano - è quella maniera di attività spirituale per cui si tende ad allargare e ad ap24
profondire continuamente la sfera delle proprie cognizioni) - e qui la nostra
opera si affianca strettamente a quella preziosissima della scuola - facendo sì
che ogni nuova serie di cognizioni si innesti organicamente sulle vecchie cognizioni, in quanto il frammentario e l'inorganico uccidono l'interesse.
E qui si innesta l'opera dei Centri di Servizi Culturali, istituiti dalla Cassa:
circa cinquanta nelle provincie continentali e insulari, dei quali due in Capitanata, a San Severo e Manfredonia. Qui, e nel vasto Comprensorio garganico che
ricade nella sua giurisdizione, mi risulta che l'intervento straordinario è a buon
punto, avvalendosi della consulenza di Mario Simone e della collaborazione di
giovani preparati ed entusiasti, ai quali egli è riuscito a trasfondere la fede nella
cultura e la tecnica moderna della sua organizzazione.
Anche se dai competenti organi centrali non ci sono pervenuti consigli e
disposizioni per una concorde e armonica attuazione delle sue iniziative, io mi
auguro che ciò possa realizzarsi in periferia ugualmente, per volontà di uomini,
pensosi e preoccupati dell'avvenire e del progresso delle nostre città. Quando
l'Italia avrà alla pari con le democrazie moderne più progredite una rete di biblioteche minori, collegate o alimentate, estese come le scuole in tutti i comuni,
allora il compito di diffusione della cultura e quello della formazione sociale e
professionale dei cittadini, assunti di necessità dalle biblioteche maggiori, diverranno ovviamente compiti principali delle biblioteche pubbliche minori, restando alle maggiori il compito della ricerca e dell'attività scientifica. Il sistema
di collegamento dì queste biblioteche minori, con una biblioteca centrale (Centro Rete) o con altre biblioteche (centro di bacino di alimentazione), impedirà
che le piccole biblioteche cadano nel più squallido abbandono, e, collegate,
sapranno mantenersi a un livello dignitoso e offrire, anche attraverso il prestito,
collegate come saranno con tutte le biblioteche pubbliche italiane e straniere,
un servizio pubblico di grande utilità.
Gli standards raccomandati per ogni mille abitanti, sono questi: superficie della biblioteca mq. 35; voll. 1350; posti a sedere 5 ; area per il prestito adulti mq. 10; volumi destinati al prestito per adulti 600-800; consultazione: area sezione consultazione mq. 8; voll. destinati alla consultazione 175-200; posti a
sedere 2; ragazzi: area mq. 6; volumi sezione ragazzi 200; posti a sedere 2; altri
servizi: area destinata ad altri servizi, libri meno usati, fuori uso mq. 11; volumi
non accessibili direttamente 150-200.
Inoltre nelle biblioteche di media grandezza, che abbiano a disposizione
una sala di lettura e una piccola sala di consultazione, il materiale librario messo
a disposizione in scaffali aperti, sarà così ripartito: prestito adulti 6%; consultazione e lettura 20'% ; sala ragazzi 20 %.
25
Se si terranno presenti questi dati fondamentali, frutto della esperienza
di un grande bibliotecario, quale il Thompson, con le correzioni e le varianti
che la locale situazione consiglierà (sviluppo culturale della zona, scuole esistenti, industrializzazione etc.), le nostre nuove biblioteche saranno indispensabili strumenti di progresso civile delle comunità.
E se, per richiamare molti lettori e favorire l'incontro, soprattutto degli
adulti, con il libro, non potremo imitare Luigi XVIII, il quale pare abbia regalato alla signora Du Cayla un bellissimo libro, con intercalati fogli di banca di
grosso taglio, dobbiamo essere cautamente ottimisti e fiduciosi nel successo
delle iniziative alle quali, conversando con gli amici di Manfredonia, abbiamo
accennato *.
ANGELO CELUZZA
* Questa relazione del direttore della « Provinciale » dauna trae l'occasione dall'intervento straordinario della Cassa per il Mezzogiorno, volto alla promozione culturale del Sud,
con la istituzione dei Centri di Servizi Culturali: tra essi, quello di Manfredonia, che tutti gli
altri ha preceduto, tesaurizzando le esperienze del Centro di Cultura Popolare e Biblioteca «
Antonio Simone » (v. in « la Capitanata » 1967, parte I, fase. 1-3, pag. 92 seg.). La notificata
decisione di quell'ente di costituire nella Città sveva una grande e moderna biblioteca co mprensoriale, ha stimolato lo svolgimento dei temi posti nella Conferenza informativa, tenutasi il 25 maggio (v. 1. c.); pertanto il 29 novembre il Centro « Simone » dedicò uno dei suoi
« Incontri » al Problema delle pubbliche biblioteche nei programmi del Ministero della P. I., della
Cassa per il Mezzogiorno e dell'Amministrazione Provinciale ». Alla relazione del prof. Celuzza
seguì un ampio dibattito, presenti il sindaco, prof. Valente, e il presidente della « Provincia »,
avv. Tizzani.
26
SCRITTURA E CULTURA IN PUGLIA
Tav. IV - Bibl. Naz. di Napoli. VI B 3, c. 1r.
(Si notino i frustuli membranacei di rinforzo al dorso
del foglio, provenienti da altro codice in scrittura «barese»).
SCRITTURA E CULTURA IN PUGLIA
Tav. V – Bibl. Apost. Vaticana. Vat. lat. 10657, c. 7v.
SCRITTURA E CULTURA IN PUGLIA
Tav. VI – Bibl. Apost. Vaticana. Vat. lat. 5949, c. 231r.
la Capitanata
Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia
BOLLETTINO D'INFORMAZIONE
della
Biblioteca Provinciale di Foggia
Anno V (1967)
n. 4-6 (lu.-dic.)
«DEMONI DEL TEMPO NOSTRO»
Informazione e Cultura
Quello dell'informazione, della pubblicità appartiene ormai di
diritto ai « demoni » dell'era contemporanea, alla ricca e variegata
mitologia della società odierna. Ed in realtà esso è un derivato diretto
della civiltà attuale, soprattutto per due ordini di considerazioni: in
primo luogo, perchè la rapidità di conoscenze e di spostamenti,
consentita dagli sviluppi della tecnica di oggi, impone la necessità di
informazioni sempre più veloci, compiute, sintetiche ed esaurienti al
tempo stesso; in secondo luogo, perchè l'elevato grado di perfezio ne
cui sono giunti l'industria editoriale e i settori ad essa collegati
mettono in grado l'uomo contemporaneo di attingere a una massa
sempre più vasta di informazioni attraverso la carta stampata.
Ovviamente ancora oggi esiste la notizia, il dato informativo
nella sua struttura e concezione tradizionali. Ma appare ogni giorno
sempre più evidente che essi sono superati nello stesso interesse del
pubblico da stili nuovi di presentazione - dal parlato al filmato - da
formule diverse di commento, da valutazioni anti-convenzionali che
finiscono per farne appunto un fatto culturale, sia pure inteso entro
determinati limiti. Naturalmente, questo orientamento nuovo - e, se
voglia67
mo, a modo suo rivoluzionario - ha portato e porta con sè tutto un complesso
di responsabilità morali e di organizzazione pratica nonchè la necessità di
conoscere l'ampiezza e la intensità dei mezzi di comunicazione di cui oggi
l'individuo e la collettività possono disporre. In fatto di responsabilità morale,
emerge fin troppo chiaro che la stessa vastità e facilità dell'informazione
odierna rappresentano un'arma a doppio taglio, che può incidere sia in senso
positivo come negativo. Per cui la stessa interpretazione del concetto di
censura oggi ha assunto aspetti, contenuti e forme diverse da quelle di un
tempo.
In fatto di conoscenza dei mezzi di informazione, abbiamo già osservato
che oggi essi sono tanti e tendono costantemente a crescere. A quelli
tradizionali, addirittura antichi, se ne aggiungono di nuovi, originali, adeguati a
esigenze che si vanno prospettando, potremmo quasi dire, di giorno in giorno.
E, tra le varie classificazioni che di questi nuovi mezzi si fanno, non va certo
trascurata una delle più importanti anche se delle meno avvertite dai più: e cioè
mezzi di informazione e di pubblicità palesi da un lato e mezzi occulti dall'altro,
quei mezzi, cioè, che agiscono su quella sottile sfera dell'inconscio che gli
americani hanno denominato « subliminale ».
La sostanza di quanto detto è dunque che prima di tutto è necessario
informare sull'informazione. Ed è appunto questo il significato del volume
apparso per i tipi di Rizzoli e dovuto alla penna di Giuseppe Padellaro, il quale,
per la sua carica di direttore generale per le « Informazioni e la Proprietà
Letteraria, Artistica e Scientifica » della Presidenza del Consiglio dei Ministri, e
per la sua vasta competenza nel relativo campo, appare quanto mai qualificato
nel trattare i problemi della « Informazione e Cultura » (tale il titolo dell'opera).
Il prof. Giacomo Devoto, che ha dettato la prefazione della opera, tenta
una sintetica classificazione degli strumenti più evidenti e più potenti
dell'informazione: il quotidiano, il periodico, il mezzo audiovisivo, l'editoria.
Il quotidiano è ormai un mezzo relativamente antico di informazione,
che ha subito le più svariate vicissitudini nella sua storia secolare e che ha posto
ed imposto di volta in volta gravi problemi e sollevato delicate questioni. Ma,
nonostante la sua anzianità e il suo glorioso stato di servizio, il quotidiano an68
cora resiste validamente sul campo e riesce a rintuzzare con energia la
concorrenza che gli muovono i mezzi più moderni di comunicazione
sociale e di massa.
Purtroppo, però, la tendenza odierna della stampa quotidiana è verso
il concentramento, cosa questa che da alcuni viene auspicata ma da altri
paventata per il timore, sia pure un pò paradossale, di arrivare addirittura al
giornale unico!
Anche il periodico appartiene alla vecchia guardia della informazione,
ma per esso il problema appare - sempre ad avviso di alcuni - inverso a
quello del quotidiano. Nel senso cioè che la concentrazione della stampa
periodica, specialmente quella di alto livello culturale, appare proficua,
perchè consente strumenti di consultazione e di aggiornamento rapidi,
sicuri, qualificati.
Il libro può appartenere indifferentemente alla sfera della cultura
come a quella dell'informazione. Inutile rammentare la perfetta attualità del
libro come veicolo di cultura. Dal punto di vista della informazione,
secondo il Devoto, esso può esercitare un'utile funzione sotto un duplice
aspetto: sia come libro scolastico che come mezzo di penetrazione in Paesi
culturalmente poveri e bisognosi di lettura.
Tra i mezzi macroscopici di informazione resta infine da citare quelli che
si suole definire audiovisivi, cioè la radio, il cinema e la televisione. Sono questi
i frutti della civiltà recente e recentissima posta al servizio della comunicazione
di massa. Sono un tramite di enorme presa suggestiva e quindi anche
suscettibili di influenzare in maniera più o meno positiva la psicologia
individuale e collettiva nonchè la sua struttura culturale ed umana.
Tuttavia, la civiltà o l'originalità inventiva ci mettono oggi a
disposizione altri mezzi per la comunicazione di massa, dalle pubblicazioni
a dispense facilmente reperibili in tutte le edicole ai dischi, che possono
impartire lezioni di lingua come di storia della letteratura, di musica, di
recitazione, ecc. ecc.
L'esemplificazione sarebbe lunga e la precisa documentazione di
un'opera come quella di Giuseppe Padellaro ne fa ampiamente fede.
Tuttavia, alla base del problema, come al solito, si pone innanzitutto una
questione, o meglio, un'esigenza etica
69
e morale, cioè, far sì che questi potenti mezzi di informazione che la civiltà ci
ha via via offerti non si trasformino in mezzi di diseducazione, di
prevaricazione, di soffocamento dell'individuo nelle sue libertà spirituali ed
intellettuali. In definitiva è, ancora una volta il postulato della libertà delle
coscienze quello che è destinato a condizionare i freddi strumenti tecnici creati
per rendere agevole lo scambio delle idee, dei sentimenti, delle innovazioni e
delle scoperte.
G. D. M.
La I Mostra bibliografica del Gargano
Un migliaio di libri documentano il vigoroso movimento culturale
garganico e rivelano un umanesimo autenticamente locale, in cui si scorge
un ritratto vivente della garganica gente, col suo acume e intelligenza, con la
sua mistica spiritualità e calda umanità. Non è perciò una fredda rassegna
culturale o una fuga di libri muti e sorpassati, ma una mostra sostanziata
dallo spirito e dal fatto del suo popolo, col volto del passato rifatto
presente e attuale. Essa mentre stimola agli identici valori culturali e umani
fa anche sentire il fascino e la magia d'una terra originariamente selvaggia.
La rassegna dal tema singolare « Il Gargano », programmata da un
comitato di studiosi, istituito per i festeggiamenti del XIV centenario della
gloriosa Abbazia di S. Matteo, presieduto dall'insigne scrittore prof.
Pasquale Soccio e composta dal M.R.P. Provinciale di Puglia P. Angelo
Marracino e da altri illustri professori, è stata organizzata dalla Biblioteca
Provinciale di Foggia, con il patrocinio dell'Amministrazione Provinciale di
Capitanata.
L'allestimento, condotto secondo un filo cronologico delle vicende, è
stato realizzato con organicità didattica e intelligente dal dott. Angelo
Celuzza, direttore della predetta Biblioteca, e dal prof. Tommaso Nardella,
che ha curato con affetto filiale la Sezione « S. Matteo e S. Marco in Lamis »
considerati una simbiosi di vita e di storia perennemente complementari.
La mostra all'ingresso ci saluta con due pensieri o immagini di Orazio
e del Pascoli sul Gargano. La prima: « Al vento ti sembra che ululi il
Gargano », l'altra, scritta ad un allievo pugliese con oraziana memoria: «
Salutami il Gargano e i suoi boschi ». Vero è che in omaggio ai poeti
venosino e romagnolo, attualmente il convento di S. Matteo ha la ventura
di varchi aperti verso folti e rumorosi boschi, in un impressionante
incontro dell'antico e del nuovo dopo due millenni.
A guisa della perenne accresciuta vitalità di questi boschi, oltre alla
coincidenza presunta del quattordicesimo centenario, il convento è avviato
decisamente a un ripristino periodo di splendore, da ricordare quello
iniziale benedettino, subito dopo il mille con l'Abate Alessandro (1007),
come è giustificato dalla fervida opera iniziata fin dal lontano settembre
1940 con un congresso di studi pedagogici e didattici
71
promosso dal compianto mons. Castrillo, continuata dai successivi
Superiori, promotori dell'attuale ripresa culturale.
Il visitatore riceve una emozione estetica intensa anche per la grandiosa
mole della costruzione e il lavoro immane di restauro, condotto nei primi due
piani, cioè quelli del periodo longobardo e benedettino. A tale opera di
costruzione materiale ed artistica corrisponde una accresciuta ripresa di attività
culturale che riscuote un interesse non solo locale e regionale, ma anche di
sicura risonanza nazionale, come è attestato dai numerosi visitatori, provenienti
da Bari, Firenze, Roma...
La rassegna bibliografica non è quindi di scrittori locali o garganici
tanto da sollecitare la vanità di scrittori oscuri, vivi o morti che siano, ma
una mostra di quanto è stato scritto sul Gargano in ogni tempo. Così il
visitatore ha modo di scorgere nei numerosi libri ed opuscoli, il lungo
cammino di queste popolazioni attraverso vicende difficili e drammatiche.
La lunga storia garganica emerge, con suasiva scientifica
documentazione dai numerosi studi sulla preistoria, geologia e archeologia,
mentre rare monografie, quali preziose gemme, illustrano la vita religiosa, civile
e politica dei diversi Comuni locali. Né mancano opere fondamentali, che
coadiuvate da scrupolosa documentazione archivistica, restano fonti
insostituibili per una sicura indagine storica.
Seguono in un reparto distinto le numerose monografie che
illustrano la storia della secolare Abbazia di S. Giovanni in Lamis (S.
Matteo), e gli studi più importanti sui Santuari garganici e sugli antichi
oracoli locali.
Tutta la felice e triste storia del Gargano dal Risorgimento alla Unità
d'Italia, insieme ai sanguinosi episodi del brigantaggio, che tanto afflissero
queste contrade, è documentata con esaurienti ed obiettive relazioni.
E' un continuo riscontrare nel presente, in modo intellegibile, l'intero
incorrotto apporto del passato, tanto che l'odierno progresso culturale,
sociale ed economico risulta necessariamente condizionato a quello.
Non meno curata e sistematicamente documentata con opere
pregevoli e valide è il reparto concernente la geografia, la geologia, l'arte e i
monumenti garganici, come anche le sezioni riguardanti gli usi, costumi,
lingua e tradizioni popolari, il turismo e lo sviluppo socio-economico.
Impreziosiscono la rassegna gli scritti di Pietro Giannone, il più illustre
garganico, particolarmente « La professione di Fede »; manoscritti del Vocino e
principalmente la Bolla pergamenacea del papa Gregorio XII del 14 febbraio
1578, con cui il Monastero di S. Giovanni in Lamis passò dai Cistercensi ai
Frati Minori Osservanti della Provincia di Sant'Angelo in Puglia.
Finalmente si annoverano opere dei più noti scrittori gargani e,
72
quale Giuseppe Cassieri di Rodi, romanziere della « vis narrativa
prorompente », come ha affermato il Corriere della Sera. Questi,
all'inaugurazione della Mostra - dopo il saluto porto dall'avvocato
Berardino Tizzani, presidente dell'Amministrazione Provinciale di Foggia,
ai numerosi convenuti tra i quali i vescovi mons. Lenotti e mons. De Santis,
il Prefetto di Foggia, onorevoli e altre illustri personalità - veniva presentato
con commosse parole, in quanto ex-allievo, dal preside Soccio e svolgeva
con ampia e acuta disamina il tema del disagio su l'uomo contemporaneo,
dal titolo « Il margine di sicurezza ».
Vi è esposta anche una interessante tesi del giovane G. Manduzio. In
essa l'autore, sotto la guida del prof. Armando Petrucci dell'Università di
Roma, conduce uno studio particolareggiato sul periodo benedettino
dell'antica Badia di S. Giovanni in Lamis dei sec. X-XIV, riportando in luce
documenti riguardanti l'Abbazia dal fondo Chigi della Biblioteca Vaticana.
La mostra è resa ancora più plastica nelle sue coordinate di pensiero
e di vita che si profilano da una sala all'altra, dalle numerose illustrazioni
grafiche del prof. G. Zaccheria, il quale ha così inteso riproporre al vivo la
forza recondita di quegli scritti, fonte dell'odierno progresso religioso
politico e sociale delle nuove generazioni garganiche.
Così questa prima rassegna bibliografica sul « Gargano » appare un
vero dono per gli uomini di oggi che nella cultura sono chiamati ad un
avvenire sicuro e più ricco di valori. Questi libri non restano muti, essi
stanno a dirci che il duro cammino percorso è stato lungo e fattivo, e che
tuttavia ne rimane molto e più promettente. Molti problemi appaiono
superati, ma tanti altri ancora restano insoluti. Perciò una voce prorompe di
continuo dai numerosi scritti esposti, richiamandoci a nuovi impegni e a più
larghi orizzonti dai quali l'umanità potrà trarre immenso bene.
Resti dunque questo incontro col libro garganico una spinta efficace,
un ammonimento più cosciente per le giovani generazioni a proseguire con
fiducia sulla via della cultura nella quale l'uomo si imbatte con Dio e con se
stesso per un destino e una storia integralmente migliori.
LINO MONTANARO
(L'Osservatore Romano del 10-11-1967, pag. 8)
73
AMMINISTRAZIONE PROVINCIALE DI CAPITANATA
EDIZIONI
«Atti dell'Amministrazione Pro-
« Documenti e monografie della
vinciale di Capitanata » (voll. 12).
Biblioteca Provinciale » (voll. 2).
«Quaderni
dell'Amministrazione
« La Capitanata eretta a provincia
Pro-vinciale di Capitanata » (nn.
dello Stato Italiano - Nel primo
5).
centenario ( 1861-1961 ) ».
« La Biblioteca Provinciale di Fog-
« La Biblioteca Provinciale di Fog-
gia», bollettino d'informazioni bi-
gia ».
bliografiche ( 1962).
« Realtà, esigenze, prospettive della
« La Capitanata », rassegna di vita
Biblioteca Provinciale di Foggia ».
e di studi della provincia di
Foggia, contenente il « Bollettino
Miscellanea per il XIV Centenario
della Biblioteca Provinciale » (dal
del Convento di S. Matteo sul
1963).
Gargano (nn. 2).
« Quaderni di La Capitanata »
(numeri 8).
BIBLIOTECA PROVINCIALE
Piazza X settembre - Pal. Dogana
FOGGIA
Presentazione della Rassegna
La 1a Mostra bibliografica garganica, voluta dal Comitato, costituitosi per le
celebrazioni del XIV centenario dell'Abbazia di S. Matteo, è stata organizzata dalla
Biblioteca Provinciale di Foggia con il patrocinio dell'Amministrazione Provinciale di
Capitanata.
La Mostra ha avuto per tema, unico e suggestivo, « II Gargano » che noi abbiamo
voluto presentare nella realtà del suo passato, nelle ansie del presente e nelle prospettive
del futuro. Si tratta pertanto di una mostra speciale, importante non solo per lo studio e la
valorizzazione delle tradizioni locali di pensiero, ma anche perchè, con le mostre dei
monumenti bibliografici del passato, si può dare il senso del cammino percorso.
Perchè la rassegna fosse il più possibile rappresentativa abbiamo chiesto la
collaborazione di quattordici biblioteche e di alcuni noti studiosi garganici.
Hanno risposto al nostro invito soltanto tre biblioteche pubbliche (Lucera, San
Severo e Manfredonia). Il Gargano, tema di grande attualità, è ormai all'ordine del giorno
dell'intera nazione. Noi che assistiamo con trepida ansia - per l'amore che portiamo a
questa terra - al faticoso inserimento in atto nello sviluppo economico e sociale del nostro
paese, quali responsabili della direzione del più importante istituto culturale della
Capitanata, abbiamo aderito con entusiasmo all'invito del Comitato organizzatore, consci
delle responsabilità e del difficile lavoro di ricerca e di scelta che ci si chiedeva.
Nonostante la ristrettezza del tempo a nostra disposizione - due mesi, per una
mole di lavoro così impegnativa - crediamo di aver esaudita l'attesa dei promotori e dei
visitatori.
Nello scorrere i vari libri e opuscoli presentati nelle teche, è stato così possibile
rendersi conto come alle speranze del futuro si sia giunti attraverso vicende spesso
drammatiche e angosciose. Infatti, il più ampio spazio è stato riservato alla vita della
nostra Montagna, iniziando molto lontano il filo cronologico della vicenda umana,
attraverso le ricerche scientifiche sulla preistoria, sulla geologia, e sulla archeologia, in
corso tuttoggi.
Sulla storia religiosa civile e politica dei singoli comuni sono esposte le monografie
più rappresentative e i documenti più probanti; e non mancano le opere fondamentali
che, insieme con la documentazione archivistica, costituiscono per ogni seria indagine
storica le fonti insostituibili.
Le vicende storiche della gloriosa Abbazia di San Giovanni in Lamis, della quale
stiamo celebrando il XIV centenario, sono documentate in un'apposita ed elegante
vetrina.
Mentre in una teca della prima sala, con la indicazione «Gargano Mistico» si
possono seguire gli studi più importanti sui Santuari e sugli antichi oracoli del Gargano.
Gli avvenimenti tristi e lieti, spesso turbinosi, dal Risorgimento all'Unità d'Italia e
alla successiva reazione, e i sanguinosi episodi del brigantaggio, che proprio in questi
comuni ha scritto pagine di sangue, sono documentati con puntuale rilievo.
Molti aspetti del nostro presente sono già « in nuce » intellegibili e spiegabili
attraverso lo studio di questo nostro non certo remoto passato.
75
La seconda sezione riguarda l'arte i monumenti la geografia e la geologia del
Gargano.
Ampio rilievo è stato dato alle sezioni « usi, costumi, lingua e tradizioni popolari »
e « Turismo e sviluppo socio-economico ».
Chiude la rassegna la « Sezione locale » che, a cura del prof. Tommaso Nardella, è
stata allestita in fondo alla seconda sala.
Siamo partiti, nell'allestimento e nella sistemazione, anche topografica, delle varie
sezioni della Mostra, forti di un nostro intimo e profondo convincimento: dal
convincimento, cioè, che il progresso economico e sociale del Gargano non possa
prescindere dallo sviluppo civile e culturale nel quale non è difficile individuare il carattere
di una condizionante ambivalenza di causa e di effetto.
Riteniamo inoltre che questa Mostra non sarà avara di ammonimenti per tutti i
visitatori più attenti. Essi potranno rendersi conto che troppi problemi, ancora oggi
insoluti, e che tuttora frenano e angustiano le operose popolazioni garganiche, sono i
problemi di sempre: da quello dei porti a quello della pescosità dei laghi;
dall'insabbiamento delle foci a quello della ferrovia; dalle strade all'acquedotto: su tutti
questi problemi presentiamo una ricca e significativa documentazione.
Questo crediamo sia il contributo più apprezzabile - sotto il profilo di un impegno
morale e civile - che il nostro istituto culturale, cui tanta attenzione dedicano i nostri
amministratori, ha inteso offrire alla pensosa meditazione di tutti. Dei garganici prima di
tutti, cui non nuocerebbero un più cristiano spirito di fratellanza e una più operosa unità
d'intenti.
Come bibliotecario, infine, è per me motivo di grande soddisfazione l'aver
favorito, su un tema così suggestivo, l'incontro del libro, sempre in ansiosa aspettazione
di venir letto, con un più vasto pubblico.
Un illustre bibliotecario, il Jones - e mi piace citare le sue parole - dice, in
proposito, che « i libri esistono solo nei momenti in cui qualcuno li legge; per il rimanente
del tempo, sono oggetti inerti, che richiedono spazio e attenzione. La somma di quei
momenti di contatto tra libri e lettori è ciò che giustifica l'esistenza di una biblioteca
pubblica ».
II libro, cioè, si anima e si fa « trasparente » solo se investito dalla luce
dell'intelligenza.
Con questi propositi e con queste speranze noi affidiamo alla vostra cortese
attenzione il frutto del nostro lavoro.
Doverosi alcuni ringraziamenti. Prima di tutti al Padre Angelo, chiamato in
questi giorni per le sue doti elette di mente e di cuore, a maggiori e più pesanti
responsabilità. A lui siamo grati per la cortese ospitalità e per le affettuose attenzioni
avute per noi. AI Presidente e al Vice Presidente dell'Amministrazione Provinciale di
Capitanata, per le agevolazioni e i mezzi messi a nostra ampia disposizione. Al prof.
Soccio e agli amici componenti il Comitato, per i consigli e i suggerimenti da essi
ricevuti; al professore Giuseppe Zaccheria, artista sensibile e amico carissimo, che ha
tradotto in realtà - attraverso la progettazione delle teche e delle vetrine e la
illustrazione grafica dei vari aspetti della Mostra, le nostre idee e i nostri intendimenti;
all'ing. Missori per i libri e le carte gentilmente prestatici; ai collaboratori della
Biblioteca Provinciale, per tutto quanto hanno fatto per la migliore realizzazione di
questo importante avvenimento culturale; e infine - e perchè no? - anche a quegli amici,
bibliotecari e non, dimostratisi tanto insensibili al nostro pressante appello, da lasciarci
quasi soli nell'ordinare questa prima mostra generale degli studi garganici.
ANGELO CELUZZA
76
la Capitanata
Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia
* Hanno collaborato a questo fascicolo: dott. ANGELO CELUZZA,
direttore della Biblioteca prov.le di Foggia; p. lettore LINO
MONTANARO (O.F.M.).
SOMMARIO
G.D.M.: « Demoni del tempo nostro » - Informazione e cultura
67
LINO MONTANARO: La prima Mostra bibliografica del Gargano
71
ANGELO CELUZZA: Presentazione della Rassegna
75
SCHEDARIO - I a Mostra bibliografica del Gargano (continua)
77
Scarica

Numero completo 1967 (file pdf - Kb. 6681)