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studio del mese
Il ruolo
della
stampa
cattolica
nella storia
d’Italia
Diritti e doveri
dell’informazione
globale
Quale influsso hanno avuto i media cattolici
nell’ultimo periodo? Hanno marciato a fondo
per sopire la coscienza delle trasformazioni
culturali nel cattolicesimo italiano
postconciliare o per svilupparle con l’audacia
necessaria? Hanno dato prova di coraggio
critico e di indipendenza spirituale nel
denunciare quello che si doveva denunciare
quando i diritti della persona umana
sembravano non sufficientemente rispettati?
Ci sono dei buoni lasciti che ci vengono dal
passato, anche se il presente non sempre si è
mostrato all’altezza delle responsabilità
necessarie. La storia del giornalismo cattolico
in Italia è parte integrante della storia della
libertà della Chiesa e nella società, dei suoi
avanzamenti, delle sue contraddizioni.
A questi interrogativi cerca di dare risposta
Giancarlo Zizola, in quello che è divenuto, per
la sua morte improvvisa il 14 settembre
scorso, il suo ultimo scritto. Lo aveva
presentato a maggio al convegno dell’UCSI.
Lo aveva mandato a noi per pubblicarlo
su Il Regno.
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A
ffrontare il tema del ruolo dell’informazione cattolica nella storia d’Italia è un
compito da cui mi sento intimidito per la
sua complessità. Ma al tempo stesso si fa
apprezzare, perché fa emergere una scelta
cognitiva nel processo formativo, una
scelta culturale coraggiosa che porta in
primo piano l’importanza della storia, in
un’ora in cui essa è volentieri messa da parte nel giornalismo, nel web e nella stessa cultura politica del nostro
avventurato paese nel quale alcuni attori pubblici danno
l’impressione di credere che la storia sia nata con loro.
Riabilitare la cultura storica
Come diceva il beato cardinale Newman, una lezione
di storia vale più di una predica per la formazione di coscienze mature. Abbiamo bisogno di imparare dai fatti,
specie come giornalisti, e si ripete che la storia è maestra
di vita. Peccato che abbia pochi allievi.
Non si può, infatti, non costatare che ultimamente si
sono fatti ancora più difficili gli sforzi per gli studiosi di storia di introdurre nel discorso pubblico una considerazione del passato che consenta a chi ha responsabilità di
guida in qualunque campo di dare alla propria parola profondità, imparzialità, sincerità, capacità di convinzione, serietà di riferimenti fondati su puntuali rinvii a informazioni, fonti e documenti valutati secondo le regole di un
corretto metodo critico. I beni culturali non sembrano più
trattati da beni, perché è la cultura che non è ritenuta veramente un bene. Talora si riceve l’impressione che sia
anzi temuta perché latrice di intelligenza critica.
Le ragioni anche qui sono molteplici. Tra queste
non può sfuggire la prevalenza delle regole (ma si direbbe
più precisamente di non regole) del mercato nei mass
media. E anche nel mondo cattolico s’infiltra, parrebbe,
una certa propensione all’apologetica, all’esaltazione
dei successi e all’occultamento dei fatti risentiti come
sgradevoli.
Ciascuno «tira la storia al proprio mulino», selezionando
i fatti all’interno di un processo di opportunismo istituzionale.
O anche riordinando l’intera tessitura fattuale di una storia.
Perfino le nostre commemorazioni del passato sono curvate
talora secondo gobbe condizionate dall’interesse immediato
proprio, e non si teme che la gobba si ritorca a distanza su
chi dimentica che la verità ha una sua inflessibile ostinatezza,
un «carattere dispotico», come notava Hannah Arendt.1
Non abbiamo dovuto aspettare Wikileaks per sapere che la
verità ha la memoria lunga.
Il risultato è di comune esperienza: il rischio che abbiano
libero corso i fanatici del presente, i cronolatri, col loro corteo di manipolazioni ideologiche, di integralismi e di relativismi, non di rado anche di deliri. Si nega oggi ciò che si è
affermato ieri e che si tornerà a dire domani e a negare dopodomani, si fa della verità una merce di scambio, di ricatto,
di violenza e d’intimidazione. E la chiamavano democrazia.
Nei limiti di un testo introduttivo non si potrà che rappresentare in modo iniziale e generalissimo la storia della
stampa cattolica italiana, cui fanno cenno molti fra i numerosi studi sul movimento cattolico, ai quali evidentemente
rinvio. E chiedo subito venia per le immancabili lacune di
questa esposizione, che nulla pretende di definitivo e indiscutibile.2
I deficit originari dell’Ot tocento
Ricordiamo subito che la stampa cattolica, già viva in
Italia fin dalla Restaurazione, segnò un forte sviluppo
dopo il 1848, fino a toccare nel 1872 126 periodici censiti,
di cui 17 quotidiani. La maggior parte di questi aveva però
un influsso limitato, anzi per lo più solo locale, e soltanto
pochi, come L’Armonia e La Civiltà cattolica, ebbero una
tiratura paragonabile a quella della stampa liberale, peraltro essa pure abbastanza limitata. Il gesuita p. Giacomo Martina non esita, anzi, ad affermare che il valore
culturale del giornalismo cattolico italiano dell’epoca, se si
fa eccezione per il quindicinale della Compagnia, «resta
piuttosto modesto».
Le ragioni di questo deficit culturale sono sostanzialmente due.
La prima, che l’accesso dei cattolici alla libertà d’informazione e di opinione era recentissimo, e certamente inibito
ancora da preclusioni gerarchiche a tal punto che appena si
sarebbe potuto parlare forse di tolleranza, non certo di libertà. Era già un evento eccezionale, per il quadro storico
della Chiesa del tempo, che dei cattolici potessero pubblicare
dei giornali e fare i conti con le notizie.
Basti ricordare che un editto del cardinale vicario Placido
Zurlo nel 1825 sottoponeva qualsiasi pubblicazione anche di
stampa periodica a una triplice revisione.
La politica della Chiesa in questo campo era definita dall’enciclica Mirari vos con cui Gregorio XVI, un mite monaco camaldolese di Belluno, si scagliava nel 1832 contro
questo deliramentum che era «la libertà di coscienza e la libertà senza freni delle opinioni (…). A ciò si collega la libertà
di stampa, la libertà più funesta, libertà esecrabile, per la
quale non si avrà mai abbastanza orrore».
Di qui un generale inasprimento della repressione sulla
stampa a Roma. Di qui la produzione di opuscoli o fogli
clandestini o carbonari negli stati della Chiesa, o le «pasquinate» affisse alla mitica statua di Pasquino presso piazza
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Navona, unica fonte di informazioni alternativa in quella fase
di irrigidimento reazionario. L’informazione in casa cattolica si porta dietro nel proprio marchio di fabbrica il sospetto
di essere strumento malefico della sovversione.
L’altra ragione della scarsità di peso culturale del giornalismo cattolico di quel tempo è riconosciuta nella divisione
radicale dei cattolici, a proposito della fine del potere temporale, tra intransigenti e conciliaristi. Una nuova legge
sulla stampa, emanata nel 1847 da Pio IX (nella fase iniziale
del pontificato, quella che aveva fatto sperare in un papa riformista) aveva posto lo Stato pontificio all’avanguardia rispetto agli altri stati italiani. La censura restava, ma si permetteva la trattazione di temi politici e amministrativi. A
ispirare l’intensa propaganda a favore delle riforme su giornali e opuscoli era il leader dei moderati Massimo d’Azeglio,
il quale ne profittava per invocare un ulteriore miglioramento delle leggi sulla stampa, oltre che altre misure di riforma, premendo per una soluzione negoziata del conflitto
sull’unità d’Italia.
Lo Statuto del 1848 deluse invece le speranze, avendo
reintrodotto una pesante censura preventiva. E in una lettera all’arcivescovo di Bruges, card. Dupont, Pio IX rivelava
una ricaduta nel suo umor nero pessimista dichiarando
che «la libertà della tribuna, quella della stampa, di associazione ecc., sono intrinsecamente cattive e sovvertitrici
della religione e dell’ordine pubblico. Come può dunque il
papa ammetterla in coscienza? Ricuso di adottare una
forma di governo che non può fare a meno di concorrere
alla demoralizzazione dei popoli».
Eppure, è quasi paradossale che sia stato un papa così
ostile alla libera informazione all’origine della fondazione de
La Civiltà cattolica nel 1850, sia pure allo scopo «di neutralizzare il veleno ideologico sparso dai nemici della Chiesa
a intossicare le menti, e propagare le sane dottrine». E fu
sempre Pio IX a far nascere nel 1861 L’Osservatore romano
per rispondere all’esigenza di assicurare al papato una voce
propria nel panorama delle contrastanti opinioni che andavano opponendosi sia all’interno della stampa cattolica, sia
tra questa e il fronte anticlericale.
In ogni parte d’Europa si moltiplicavano, sotto la spinta
delle rivoluzioni nazionali e dei movimenti costituzionali, i
primi giornali in senso moderno. Anche a Roma, dopo la
fine del Diario di Roma nel 1848, si succedevano, ispirati alla
linea ufficiale, la Gazzetta di Roma, Il Monitore romano, Il
Giornale di Roma, finché non apparve appunto, per il sostegno finanziario di Pio IX, il giornale vaticano, sorto con
uno statuto di impresa privata, ritenuta più idonea ad assicurare la libertà di polemizzare con i liberali senza invischiare il Soglio nelle dispute contingenti.
Verso la liber tà di stampa
Fu con il pontificato di Leone XIII che, grazie alla sua
enciclica Libertas (1888), fu riconosciuto il principio che
«quando si tratti di cose opinabili lasciate da Dio alla libera
discussione degli uomini, è lecito allora il diritto di sentir
come meglio ne aggrada ed esprimere liberamente il proprio
avviso; perché libertà siffatta non torna mai di pregiudizio
alla verità e giova sovente a farla trionfare».
Fu allora che esplose all’aperto una galassia di settimanali e giornali, i quali non si proponevano unicamente di di-
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battere, pro o contro, la purificazione della funzione petrina
dalla zavorra del potere temporale, e dunque l’accettazione
della conciliazione della Chiesa con il processo dell’unità
d’Italia, sia pure senza privarsi di discuterne a fondo la piattaforma accesamente anticlericale, le cui punte effettivamente spogliatrici erano incontestabili.
In realtà questi fogli, spesso radicati nelle comunità ecclesiali locali, portavano avanti non unicamente le rivendicazioni della libertà e indipendenza del pontefice, ma anche la coscienza dell’importanza dei corpi intermedi fra
l’individuo e lo stato centralizzatore, la preoccupazione di
opporsi a un’installazione verticistica e acritica dell’economia liberale, di sviluppare le linee di una sociologia cattolica attenta alle esigenze della morale e dei diritti della persona umana, la preoccupazione correlativa di non
compromettere agli occhi delle masse lavoratrici la Chiesa
con la borghesia capitalista che, oltre alle leve della ricchezza
materiale, deteneva anche il potere politico. Tali esigenze
erano valorizzate dal pensiero trainante del veneto Giuseppe Toniolo, il primo economista cattolico, prossimo a essere proclamato beato, direttore e animatore della Rivista
internazionale di scienze sociali.
Notevole la lezione che ne possiamo trarre: in un tempo
di convulsioni epocali, i cattolici non si lasciavano disperdere
nelle contestazioni del passato, ma marciavano a fondo sul
percorso della fondazione di una cultura, alla ricerca di
principi anche metodologici adeguati per le mediazioni che
si imponevano tra la loro fede e la realtà politica e sociale in
mutamento.
E così osserviamo pure che intorno alla rivista del Toniolo proliferavano circoli di studi sociali che rapidamente
sorgevano nelle principali città italiane, si istituivano cattedre di economia sociale in alcuni seminari (come a Milano) e si riunivano due congressi sociali di cattolici, a Genova nel 1892 e a Padova nel 1896, per la messa a punto
di un programma democratico dei cattolici, sia pure al fine
di rintuzzare il socialismo montante. Emergeva dunque
chiaramente che le testate cattoliche svolgevano e cercavano un’efficacia non limitata alle torri d’avorio delle élites, intellettuali, ma incisiva nel vivo delle dinamiche storiche della società, in una fase di enormi trasformazioni
religiose e civili.
Il conf lit to fra intransigenti e conciliaristi
Una menzione speciale al riguardo va fatta al pretegiornalista don Davide Albertario, specialmente per la passione con cui riuscì, alla direzione dell’Osservatore cattolico,
a far transitare i cattolici italiani dall’attendismo apocalittico
del tempo di Pio IX all’azione organizzata e a sensibilizzarli
ai problemi delle masse popolari rurali, sulle quali si scaricavano gli effetti micidiali dell’urbanizzazione galoppante e
della modernizzazione della prima fase industriale italiana.
Il ventaglio delle posizioni era molto diversificato. Gli uni,
nella loro opposizione al liberalismo economico e sociale, restavano segnati dall’eredità del tradizionalismo che aveva nutrito l’ideologia dell’intransigenza. Essi esaltavano dunque i
valori della terra e le autonomie locali, continuavano a sviluppare la rete delle società di mutuo soccorso, di cooperative e di casse rurali cattoliche e talora non rinunciavano all’ideale corporativo.
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Gli altri, sollecitati dall’emulazione coi crescenti nuclei socialisti nelle fabbriche, cominciavano a organizzare spazi di
sindacati operai e a seminare nella cultura popolare cattolica i principi della difesa dei diritti dei lavoratori e la necessità di leggi per la loro protezione, fino a preconizzare un tessuto di assicurazioni sociali.
La stampa quotidiana e periodica più intransigente, da
La Civiltà cattolica all’Armonia, all’Unità cattolica, all’Italia
reale, al Diritto cattolico, al Veneto cattolico, continuato poi
dalla Difesa del popolo, proseguendo con altre testate (Voce
della verità, La Riscossa, Liguria del popolo, Armonia della
fede ecc.) subì dolorosamente il processo di costruzione dello
stato unitario, rappresentando i rancori, i sogni, i desideri, le
nostalgie e gli interessi degli ambienti cattolici, ecclesiastici
e laici, più toccati dalla nuova realtà politica, dal conflitto tra
la rappresentazione cattolica dello stato e la rappresentazione
liberale della Chiesa, dai nuovi rapporti tra la società civile
e la società religiosa, dalle nuove condizioni e assetti della
Chiesa, una volta sciolto per forza di fatti il vincolo, che sembrava incorruttibile e divinamente necessario, tra la sua realtà e missione spirituale e il trono per il compimento dei suoi
scopi di educazione e salvezza dell’umanità, di guida e di
orientamento anche nell’ordine temporale.
Sarebbe interessante, ma fuori della portata di questa relazione, verificare i contraccolpi nella stampa cattolica di
quella che fu risentita come la sciagura più grande procurata
al papato e alla Chiesa dalla perdita del potere temporale,
giudicato dal papa del tempo in termini di massimo pervertimento spirituale e politico dell’età moderna.
Si potrebbe accennare, tuttavia, al caso dell’Albertario,
che da campione della più rigorosa intransigenza e implacabile critico nei confronti di conciliaristi, come i monsignori
Bonomelli, Scalabrini, Stoppani e p. Gazzola, tanto da portare il suo Osservatore cattolico non solo al primo posto fra i
giornali cattolici di Milano e d’Italia, ma anche tra i primi
dell’intera stampa italiana dell’epoca, si aprì alla causa della
democrazia dopo che Leone XIII nel 1891 ebbe pubblicata
l’enciclica sociale Rerum novarum. In principio non priva di
contraddizioni, la sua adesione democratica e conciliarista
divenne col tempo così ardente e veemente, insieme alla sua
difesa della causa sociale, che il prete-giornalista fu arrestato
nei giorni incandescenti degli scontri di piazza nel 1898 e
condannato dal Tribunale speciale di Milano a tre anni di
carcere.
Con tutto ciò, nemmeno l’Albertario riuscì a raggiungere
nella storia del giornalismo politico e religioso contemporaneo quell’alto posto al quale avrebbe potuto aspirare, né a
creare una scuola giornalistica cattolica.3
Vero è che aveva fatto del giornalismo un veicolo passionale e unilaterale, che confondeva lo zelo della propria
opinione con la caccia ai cattolici liberali e una visione tutta
negativa del Risorgimento, al punto di brandire, non sempre legittimamente, l’autorità papale per attaccare i giornali
cattolici di diversa convinzione come Il Conciliatore (il cui
programma era sintetizzato nel motto «In politica con il re,
in religione con il papa») e Il Carroccio, entrambi fautori di
Cavour e di Garibaldi, ma insieme critici delle leggi eversive
e delle offese laiciste al papa.
Questo indirizzo conciliante, suscettibile di rappresentare
un punto d’incontro, prevaleva invece nei giornali cattolici
di Genova dopo che la testata Il Cattolico, molto ostile a Mazzini e ai democratici, fu sostituita da Lo Stendardo cattolico
(diretto dall’abate Tomaso Reggio, più tardi vescovo di Genova), e dal 1874 in poi da Il Cittadino, con un chiaro programma cattolico-liberale.
A Torino troviamo L’Armonia, un quotidiano che raggiungeva le 3.000 copie, tiratura elevata per allora, conquistata da contenuti che erano in totale contraddizione con il
nome della testata, tanto erano accaniti nella battaglia contro la laicizzazione, al punto di gettare il direttore Margotti
in tribunale per vari processi e renderlo vittima di un attentato e della sospensione ordinata da Cavour nel 1859.
Lo stesso direttore, trasferitosi a Firenze nel 1863, fondò
L’Unità cattolica, rimasto celebre perché dopo il 20 settembre uscì costantemente listato a lutto, e quando nel
1898 ricevette l’ordine di sopprimere quell’insolita veste tipografica, inserì da allora per lungo tempo nella testata il decreto prefettizio. Fu quella la tribuna da cui più accesamente
fu sostenuta la campagna per l’astensionismo elettorale dei
cattolici.
La repressione sot to Pio X
Nel clima leoniano emerse il programma della democrazia cristiana sviluppato da Romolo Murri, prete marchigiano, direttore della rivista Cultura sociale, fondata nel
1898, che ebbe un’enorme risonanza nel ceto studentesco e
nel giovane clero, malgrado la reticenza della maggior parte
dei vescovi.
Le aspirazioni progressiste dell’ala aperta della Chiesa e
la scalata dei giovani democristiani progressisti all’Opera dei
congressi furono bloccate dall’intervento di Pio X, notoriamente favorevole – come aveva dimostrato a Venezia da patriarca – alla maturazione di condizioni politiche idonee all’instaurarsi di nuovi rapporti tra il mondo cattolico e il ceto
liberale al comando del nuovo stato italiano. Il direttore
dell’Avvenire d’Italia Rocca d’Adria, benché fosse coperto
dal cardinale di Bologna Svampa, non fu risparmiato da una
dura messa in guardia pontificia perché non continuasse a
presumere di poter muoversi liberamente nella gestione del
giornale cattolico.
L’enciclica Il fermo proposito (1905) fu seguita dalla condanna pontificia della Lega democratica nazionale, fondata
da Murri su basi aconfessionali ma orientata politicamente
verso i socialisti di Turati, e dalla soppressione di Cultura sociale, sostituita nel 1906 dalla nuova testata Rivista di cultura.
Veniva così liquidato un focolaio di elaborazione teorica, di
propaganda e di azione democratica e svecchiamento culturale e religioso del clero e del laicato.
Sotto la falce dell’enciclica Pascendi (1907), che sarà ricordata come il «cimitero dell’intelligenza cattolica», fu
stroncato anche il romanzo di Antonio Fogazzaro Il Santo,
sospettato di modernismo. Un monito del cardinale prefetto
della Congregazione dell’indice raggiunse Tommaso Gallarati Scotti e i redattori della rivista milanese Il Rinnovamento, accusati di eccessive inclinazioni al neoriformismo
cattolico europeo.
Si imponeva dunque, a partire dal Vaticano, una cappa
di conformismo, con punte di accentuato integralismo, alla
stampa cattolica in una fase in cui la direzione dalla mano
degli ecclesiastici, più o meno controllati dai vescovi, stava
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transitando a quella di un laicato aperto all’influenza del liberalismo nazionale e portatore di una cultura più sensibile
ai moderni diritti di libertà.
Il progresso tecnologico imponeva del resto una generale
trasformazione delle strutture editoriali dei giornali, facendo
prevalere anche tra i cattolici la tendenza alla sinergia. Nasceva pertanto la Società editrice romana, finanziata dal
Banco di Roma, e guidata da Giovanni Grosoli, già presidente dell’Opera dei congressi. Vi confluirono oltre al romano Corriere d’Italia, l’Avvenire d’Italia di Bologna, Il Momento di Torino, il Corriere di Sicilia di Palermo, e L’Unione
(che diverrà L’Italia) di Milano.
Ma emergeva sempre più nettamente la divaricazione fra
i loro orientamenti, aperti al dialogo con la società democratica, e le posizioni di testate come La Riscossa in Veneto,
diretta dai preti fratelli Scotton di Vicenza, rimaste attardate
alla cultura intransigente e che l’isolamento culturale sembrava rendere più aggressive. Esse sopperivano ai loro ritardi
intellettuali e professionali con un esplicito bivaccare ai piedi
dell’autorità pontificia, spesso per la mediazione del capo
della segreteria particolare di papa Sarto, monsignor Giovanni Bressan, che passava a quei giornali informazioni delicate attinte dal Sodalitium pianum, una potente centrale di
spionaggio capillare gestito dal papa che controllava cardinali, vescovi, docenti nei seminari, parroci, giornali.
Nel 1912 la Santa Sede intervenne sui giornali del trust
Grosoli con una clamorosa sconfessione. Era chiaro che gli
orientamenti liberal-borghesi della stampa cattolica erano
giudicati troppo acritici dalla Santa Sede. Sorsero nuove riviste anti-modernistiche, incoraggiate dal vento reazionario
che soffiava dal Soglio. Il cardinale di Milano, Andrea Carlo
Ferrari, che finì beato sugli altari sotto Wojtyla, come era finito santo il suo persecutore papa Pio X sotto Pio XII, fu costretto moralmente dal papa a stendere la condanna del Rinnovamento e di altre riviste sospettate di modernismo, con
allarmi sovente esorbitanti e risultati oggettivamente immotivati.
Il risultato fu una ulteriore polarizzazione nell’opinione
pubblica cattolica, ma soprattutto un colpo di freno sullo sviluppo culturale del giornalismo cattolico. La sua dipendenza dalle finalità apologetiche e confessionali definite
dalla gerarchia ecclesiastica rendeva scarsamente praticabili
le loro ambizioni di conseguire nuovi strati di lettori in una
società servita da giornali neutrali, portatori di informazioni più numerose e apparentemente aliene da preoccupazioni morali.
La solitudine di Benedet to XV
e il nazionalismo cat tolico
Un fronte particolarmente delicato per il giornalismo cattolico fu la gara a dar mostra di patriottismo nel sostenere la
guerra lanciata da Giolitti contro la Repubblica turca nel
1911 con l’invasione della Tripolitania, quasi che la propaganda cattolica della cristiana impresa contro gli infedeli
fosse strumentalizzata dai cattolici per ostentare il loro avvicinamento all’Italia, e provare l’infondatezza dell’accusa di
essere «nemici della patria». Persino sulle colonne di alcuni
giornali di orientamento intransigente si applaudiva, esaltando governanti e combattenti. Marginali restavano le riserve di alcuni giovani cristiano-sociali.
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La realtà era che il nazionalismo, infiltratosi già a fine Ottocento nella cultura cattolica, scaldava i motori che avrebbero devastato l’Europa con i dieci milioni di vittime della
Prima guerra mondiale: la voce straziata di Benedetto XV
che si alzava per scongiurare «l’inutile strage» non parve sostenuta da un fronte unanime della stampa cattolica, anch’essa succube delle febbri nazionaliste.4
Un’eccezione di spicco fu l’iniziativa de L’Italia di Milano, che il 22 settembre 1917 fece uscire una clamorosa intervista attribuita genericamente a un «prelato romano», ma
ben presto rivelatasi farina del segretario di stato card. Pietro Gasparri: un testo che fece il giro delle cancellerie per le
proposte di rottura che avanzava sul disarmo e sull’abolizione della leva obbligatoria, come garanzia del disarmo
stesso e condizione della futura negoziazione della pace.
Per il resto gli storici non possono che constatare come
la battaglia condotta da Benedetto XV contro la guerra fu
solitaria e che egli fu lasciato solo dagli stessi cattolici, persino dai vecchi intransigenti, accecati dal nazionalismo dietro le proprie bandiere bagnate di sangue. Si era determinato
un clima, infervorato da Union sacrée, poco disposto a condividere l’internazionalismo pontificio, rispetto al quale le antiche fedeltà professate dagli intransigenti filo-papisti dell’Ottocento si dimostrarono per lo meno fredde, se non
convertite in ostili, con l’eccezione forse della Civiltà cattolica. Certo è che la famosa Nota ai capi delle nazioni belligeranti del 1° agosto 1917, ritenuta l’apice del pacifismo di
Della Chiesa, venne pubblicata prima dai giornali inglesi, poi
da quelli di altri paesi, inclusa l’Italia. E tenne le prime pagine sui giornali cattolici italiani soltanto per qualche giorno,
non di più.
È spiacevole ammettere che probabilmente il solo giornale cattolico che fosse riuscito a mantenere stabilmente
una linea rigorosamente imparziale sul conflitto fosse L’Osservatore romano, il quale – come lamentava il segretario di
stato Gasparri – «non era letto se non da preti e frati (e anche fra di essi molti preferivano altri giornali)» per cui il cardinale, se doveva dare qualche intervista, la dava al Corriere
della sera, che invece entrava ovunque.
Ma questo non significava che papa Della Chiesa non
amasse il suo giornale; anzi, il controllo che vi esercitava era
addirittura puntiglioso. Come ha scritto il conte Giuseppe
Dalla Torre, il papa annotava, correggeva, approvava ogni
articolo e alla fine del mese gli mandava una pagellina con
i voti per lui, direttore, e per i redattori.
Le correzioni talora arrivavano subito. Queste mostravano un correttore particolarmente infastidito dal giornalismo creativo: «Una volta il giornale aveva segnalato presente
a una cerimonia a Bologna la signora Augusta Nanni Costa,
aveva assegnato all’America una certa isoletta asiatica, aveva
visto a un’altra cerimonia una nota personalità. E il santo padre: “La signora Nanni Costa non era quel giorno a Bologna. L’isola appartiene all’Asia. La personalità è morta.
Dunque, L’Osservatore romano dona l’ubiquità, trasporta
da un continente all’altro le terre, risuscita i morti”».5
L’antifascismo de L’Osservatore romano
Il valore de L’Osservatore romano rifulse nella lotta incessante affrontata contro la strategia totalitaria del regime
fascista. Il giornale – scrisse Dalla Torre – «si tenne irremo-
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vibile nelle sue posizioni di fronte a tutta la stampa strettamente unita in ogni assalto». Lo stesso direttore venne deferito al Tribunale speciale e una volta fu a un passo dall’essere arrestato da agenti in borghese: fu proprio un passo
oltre il confine della Città del Vaticano che gli permise infatti
di scampare il pericolo. Il numero delle copie andò sempre
aumentando, nonostante ostilità organizzate, pronte a esplodere a ogni edicola. Le tirature si stabilirono su una media
di 60.000 copie, con punte oltre le 100.000.
Era senza dubbio il giornale più inquietante per Mussolini, ma anche quello più cercato dal pubblico. Fu aggredito dai fascisti lo stesso segretario di Ciano che si era recato
a comprare il giornale, mentre il ministro aspettava a pochi
passi. «Raggiungemmo in breve il massimo – raccontava il
direttore – la macchina non si fermava mai. L’Osservatore
partiva da Roma, favorito dalle poste e dalle ferrovie, in numero di copie superiore a quello di tutti gli altri giornali sommati insieme». A causa della sua indipendenza, il giornale
dovette affrontare delle difficoltà da parte del regime, che lo
costrinse a ridurre la tiratura e, dopo l’entrata in guerra dell’Italia, ad astenersi dal pubblicare informazioni sul conflitto.6
Un riflesso di questo atteggiamento antifascista si diffuse
anche ai giornali cattolici italiani attraverso una singolare istituzione, l’Ufficio giornali, dislocato in uno stambugio nei locali della Tipografia poliglotta vaticana, dove un giovane redattore de L’Osservatore, Federico Alessandrini, molto vicino
a Montini attraverso la FUCI, provvedeva a pubblicare per
la Segreteria di stato dei quotidiani bollettini di rassegna
stampa internazionale. Beneficiando di un enorme materiale
informativo attinto da riviste, giornali e documenti provenienti da tutto il mondo, anche dall’URSS, Alessandrini si
improvvisò inviato speciale per i giornali cattolici italiani, con
articoli pubblicati tra il 1933 e il 1939 sotto pseudonimi cangianti, secondo i paesi considerati: da Berlino si firmava
«Renano», da Vienna «Danubiano».
Ottenuta l’approvazione della Segreteria di stato, gli articoli venivano trasmessi all’Avvenire d’Italia di Bologna, che
provvedeva a distribuirli agli altri quotidiani cattolici della
rete per telefono. Pur restando opera di un giovane redattore,
quei pezzi sulla Germania hitleriana o sulla guerra civile spagnola, quelle critiche al Fronte popolare in Francia o alla politica ateistica in URSS, denunciavano le vessazioni ideologiche e politiche dei totalitarismi, in particolare del nazismo.
Secondo Raimondo Manzini, direttore dell’Avvenire d’Italia all’epoca, «l’eco di quegli articoli fu profonda, la loro efficacia fu tale che dalle autorità tedesche si promossero indagini per sapere chi fossero i misteriosi corrispondenti che
da Vienna e da Berlino inviavano all’Italia quelle relazioni.
Era forse l’unica fonte di diffusione di notizie che il Terzo
Reich teneva coperte dalla censura».7
D’altro canto, lo stesso Osservatore romano diede prova
di quanto fossero larghe anche le risorse della sua prudenza
in occasione dell’aggressione fascista dell’Etiopia, conquistata
a colpi di bombe all’iprite sulla popolazione civile nel 1936,
per permettere a Mussolini di proclamare l’Impero il 9
maggio. Aveva reagito Pio XI con un duro discorso di condanna a Castelgandolfo, in cui aveva stigmatizzato la guerra
di conquista e condannato chi voleva provocare il conflitto,
ma il resoconto venne manipolato e addomesticato a tavolino, a tal punto da renderlo oscuro e deliberatamente irri-
conoscibile, per non turbare gli interessi concordatari della
Santa Sede col regime fascista.8
La realtà è che se per il papa era chiaro che quella
guerra era ingiusta, perché l’Italia doveva difendere le sue colonie, ma «difendere significa munire le proprie frontiere –
diceva – non già oltrepassarle per entrare nel territorio altrui», il mondo cattolico italiano, inclusa molta stampa cattolica e non esclusi clero ed episcopato, era galvanizzato dalla
conquista che – diceva il cardinale Schuster celebrando il Te
Deum in duomo a Milano – «reca in trionfo nei campi
d’Etiopia il vessillo d’Italia e la croce di Cristo, spiana la
strada ai missionari del Vangelo». I giornali cattolici, insensibili alle caute posizioni del pontefice, levavano un coro
quasi unanime per esaltare l’impresa che devastava «l’ultimo
impero cristiano».9 E La Civiltà cattolica non esitava a celebrare il trionfo italiano in Africa, che «apre vastissimo
campo di bene» e «progressi della civiltà vera, cioè cristiana
(…) contro le nuove orde selvagge dei comunisti senza
Dio».10
Val la pena di precisare che, in tanta euforia nazionalistica, emergevano anche in periferia delle posizioni più sfumate e indipendenti, come quella del già citato Avvenire
d’Italia, che in effetti fu tra i pochissimi giornali italiani, alla
caduta del regime, a non dover modificare la propria testata
per riprendere le pubblicazioni.
E può essere interessante anche ricordare il caso del
giornale cattolico Il Nuovo Trentino, diretto da Alcide De
Gasperi.
Nella notte tra l’1 e il 2 novembre 1926 il giornale
venne devastato da una banda di 33 fascisti e fu costretto
a chiudere per rinascere nel dicembre successivo come
settimanale, Vita trentina, tuttora vitale. Il redattore di
quella testata, Costante Dalla Brida, era presente pochi
giorni prima in redazione quando ricevette la visita di
Mussolini, il quale operava in Trentino oltre che come
leader socialista anche come giornalista. Lo stette a sentire
mentre gli ingiungeva di chiudere il giornale sotto minaccia di una lezione.
Divenuto mio professore di scienze al liceo Canova di
Possagno, Dalla Brida – che nel frattempo era divenuto
prete – mimò una mattina in classe quella che era stata la sua
risposta: mi chiamò in cattedra, mi afferrò per i risvolti del
cappotto (faceva freddo nelle aule, in quei tempi postbellici),
mi scosse fissandomi sugli occhi e mi scagliò verso la porta,
gridando: «Questo è un giornale, non un tuo servo. Mussolini, fuori di qua!».
Mi trovai con tutti i bottoni del cappotto saltati e una lezione di coraggio politico di fronte alla tirannia, una lezione
imparata per sempre.11
Ambiguità nelle tragedie del Novecento
Sarebbe difficile minimizzare il fatto che anche la stampa
cattolica ha condiviso alcuni aspetti incresciosi della storia del
Novecento cattolico, dalle timidezze delle gerarchie ecclesiastiche di fronte al franchismo, al fascismo, al nazifascismo,
ai forni di Auschwitz. Ma occorre equamente rilevare che la
stampa cattolica non venne meno al compito di richiamare
la responsabilità dell’intelligenza cristiana europea nel risveglio di una corrente di spiritualità capace di attingere alle
più autentiche fonti della tradizione evangelica per scuotere
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le coscienze assopite delle masse, intrappolate dalle mitologie e dalle propagande.
Non occorre dire che i giornali cattolici in Italia furono,
nel secondo dopoguerra, i pilastri portanti del disegno unitario della Chiesa per erigere la muraglia della cristianità
contro il comunismo e sostenere a ogni turno elettorale la
Democrazia cristiana (DC), uscita vittoriosa dalle prime elezioni politiche del 1948.
Bisogna però aggiungere che nella prima grande prova
della direzione politica dell’Italia, dalla Costituente del 1946
al delitto ancora oscuro che tolse di mezzo l’on. Moro nel
1978, il cattolicesimo fece l’esperienza viva, e talora non
priva di asperità, che la libertà politica avrebbe continuato
a essere vitale soltanto a una condizione: non rinunciare in
nessun momento ad abbeverarsi alle fonti spirituali né a intessere infaticabilmente le mediazioni culturali necessarie al
dialogo coi diversamente pensanti e diversamente credenti.
Dopo Hiroshima era ormai necessario ripensare ex novo la
stessa visione dello stato, della coesistenza pacifica, del diritto,
dell’ordine delle nazioni, andando oltre le esigenze dell’antifascismo.
L’aveva intuito Giuseppe Dossetti, all’interno di quel laboratorio di cultura politica che era la rivista Cronache sociali,
che animava i gruppi della sinistra democristiana. E ne era
convinto anche don Luigi Sturzo se, invitato da don Franco
Costa a nome di Pio XII a non scrivere più, perché i suoi articoli sul Giornale d’Italia finivano per disturbare la politica
delle partecipazioni statali di Fanfani e di Enrico Mattei, rispose: «Io obbedisco al papa, come ho sempre obbedito. Ma
dica a chi la manda di non dimenticare che se la Chiesa
perde la libertà, perde la propria anima. Perché solo nella libertà si possono difendere le nostre idee».12
Incombeva ancora sulla cultura cattolica del dopoguerra
il pensiero gattopardesco che i mutamenti della modernità
secolare, lo stesso patto di stabilità fra la Chiesa e l’ordine
della borghesia laica mediato dalla DC, non avrebbero in realtà alterato gli assetti consolidati.
Per cui ecco Pio XII affannarsi per organizzare in Italia
«un giornale cattolico, un grande giornale cattolico – precisava il papa a p. Riccardo Lombardi – ma non di notizie cattoliche». Eccolo approvare la decisione del suo sostituto,
mons. Montini, di devolvere per la nascita del Giornale del
mattino a Firenze un finanziamento di circa otto miliardi di
lire, pervenuto originariamente per la costruzione di nuove
chiese nella stessa città.
Il pat to tra De Gasperi e Mat tioli
Si viveva, come dire, in un’incubatrice, al riparo della potenza della cristianità stabilita, della sua riproduzione sicura. Non ci si accorgeva che il trionfalismo immediato fabbricava un’illusione pericolosa, perché mistificava il rapporto
con la realtà. E a un certo punto le sicurezze politiche erano
tali che i cattolici parvero cessare dal preoccuparsi di pensare,
e forse anche di pregare, troppo indaffarati com’erano di
fare. I loro giornali non potevano permettersi generalmente
di sviluppare un’informazione libera e, pur difendendo
astrattamente i diritti di libertà, rispecchiavano nella loro
pelle le esigenze di una duplice appartenenza, clericale e politica. Questo li portava a stancarsi troppo presto di cercare
il nuovo alle frontiere della storia e dell’intelligenza della fede,
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nella laicità irrinunciabile per l’azione del cristiano nel temporale.
I loro padroni erano i vescovi, che li pagavano, e non i
lettori, pochi, che li leggevano. Forse era piuttosto la stampa
missionaria che introduceva in questo quadro di pigra stabilità e sonnolenza da benessere materiale di beati possidentes, una variabile importante come la cultura terzomondiale, la consapevolezza delle povertà strutturali planetarie
e della responsabilità del ricco Nord del mondo nell’intrattenerle.
Ettore Bernabei, nel suo memoriale, ha raccontato di un
accordo stipulato suibito dopo la fine della guerra fra De Gasperi e Raffaele Mattioli, capo della Banca commerciale italiana, presente un giovane Enrico Cuccia, durante un viaggio a Washington nel 1946. L’accordo stabiliva che «ai
cattolici sarebbe toccata la guida della politica, ai laici il controllo della finanza, dell’industria, dell’informazione e dell’editoria giornalistica».13
L’influenza del patto raccontato da Bernabei ha ricoperto l’intero arco storico del cattolicesimo italiano nei suoi
laboriosi processi di adattamento alle dinamiche moderne
dell’opinione pubblica. E potrebbe fornire anche una buona
chiave di lettura di un fenomeno altrimenti politicamente
stravagante: cioé del fatto che, partito di maggioranza per
alcuni decenni, la DC non si fosse preoccupata di acquisire
un vero e proprio grande giornale, ma si fosse accontentata
di avere una stampa fiancheggiatrice, forse clientelare, e di
scarsa consistenza culturale; e anzi, si fosse affrettata a sbarazzarsi delle testate che aveva, come La Gazzetta del popolo
e Il Gazzettino, subendo, per deliberata remissività, l’egemonia sull’opinione pubblica delle grandi testate laiche
borghesi.
La rot tura del Concilio
La stessa Chiesa, che per impulso dello Spirito si era avventurata con Giovanni XXIII nello strepitoso «balzo innanzi» del concilio ecumenico Vaticano II per l’autoriforma,
doveva subire sull’informazione religiosa l’egemonia di mass
media secolari, laici, talora costretta a misurarsi coi diktat di
guru laici e laicisti, quali Panfilo Gentile e Mario Missiroli,
che assumevano la funzione di interpreti autentici e fermi custodi dell’ortodossia cattolica, se necessario rettificando gli
improvvidi sviluppi della Chiesa conciliare degli anni Sessanta.
Ricordo bene – e l’ho documentato nell’autobiografia –
il pomeriggio del marzo 1968, mentre via del Tritone ribolliva di cortei di manifestanti contro la guerra in Vietnam,
quando Missiroli mi prese sottobraccio nel corridoio del
Messaggero, e dopo avermi lusingato con lodi per la qualità
del mio giornalismo, mi lanciò l’avvertimento sul modo in
cui bisognava gestire le riforme postconciliari della Chiesa:
«Lei non può dimenticare – mi disse – che la Chiesa non
deve muoversi. Perché se si muovesse, noi non sapremmo
dove trovarla». Del resto era toccato a Indro Montanelli nel
1962 attaccare proprio papa Giovanni accusandolo, dal
Corriere della sera e su incarico di esponenti della curia romana, di trascorsi modernistici in gioventù, un errore di cui
non tardò a pentirsi.14
Ma fu a quel punto che all’interno del mondo cattolico
avvennero una serie di rotture di grande importanza, nel
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senso dell’emancipazione. La prima coinvolse i giornali cattolici italiani, che proprio sull’informazione sul Concilio fin
dalla prima sessione si sciolsero con un atto di coraggiosa autocoscienza libertaria dai vincoli del regime del segreto imposto dalla curia romana e cominciarono ad applicare i diritti di libertà di informazione sui dibattiti in aula.
Fu sopratutto il team conciliare costruito da Raniero La
Valle all’Avvenire d’Italia, di cui io stesso facevo parte, a trasformare il Concilio nel grande evento quotidiano per un
giornale cattolico.
Nel 1964, Paolo VI chiuse Il Quotidiano di Luigi Gedda,
che era il giornale cattolico di Roma, molto schierato a destra, e assegnò all’Avvenire d’Italia la sua area di diffusione
a Roma e nel Sud. Era chiaro che Montini, e ce lo disse, puntava alla creazione di un unico, grande giornale cattolico italiano, il sogno di Pio XII. Il quotidiano bolognese divenne
così il quotidiano nazionale dei cattolici. Nello stesso tempo,
papa Montini pagò l’abbonamento al giornale a tutti i padri conciliari durante le tre sessioni rimanenti del Concilio.
«Fu un’esperienza esaltante», ricorda La Valle. «I vescovi
cambiavano la Chiesa, e noi raccontavamo ai fedeli il Concilio che cambiava la Chiesa. Nello stesso tempo raccontavamo ai vescovi il loro stesso Concilio e il modo con cui esso
era percepito nella base ecclesiale, sicché si creò un circuito
virtuoso tra padri conciliari, giornale e opinione pubblica
nella Chiesa».15
Si ottennero da subito due grandi risultati: il primo fu una
risonanza nella grande stampa internazionale, che sostanzialmente usava le informazioni conciliari della rete cattolica
italiana come fonte d’informazione; il secondo, l’avvio di un
processo di innovazione ecclesiale sia all’interno del processo
conciliare, favorendone l’approccio alle acquisizioni sulla
libertà religiosa e ai diritti di opinione anche dentro la
Chiesa; sia dentro il cattolicesimo italiano, con ripercussioni sugli schemi culturali e politici ormai vetusti della DC,
ma anche sugli stereotipi consolidati dei rapporti tra forze
cattoliche e laiche nel complesso dello schieramento politico
italiano.
L’esplosione delle differenze
L’avvio di questo processo non tardò a intaccare la fragile facciata unitaria che teneva insieme gli otto quotidiani
cattolici italiani (che convergevano nella redazione romana
unica del Servizio informazioni romano cattolico).16
La crisi li obbligò a fare i conti con l’esperienza delle loro
reciproche differenze, sia in materia politica (a proposito dell’apertura a sinistra, ad esempio) sia in quella ecclesiale.
Mentre in parallelo la crisi del regime di cristianità e delle sue
strutture (fra cui gli apparati dei giornali cattolici) non lasciava altra opzione che quella di investire nella formazione
di coscienze cristiane per disporre di giornalisti idonei ad assumersi responsabilità all’interno delle testate laiche.
La seconda mossa fu la battaglia per il controllo della televisione, il cui protagonista fu Bernabei, con alcuni successi
e con molte spoglie sul terreno, dopo che l’ala destra dorotea dell’ultima DC decise di vendere ai socialisti e alle lobbies
laiche il monopolio della RAI dando semaforo verde alle televisioni commerciali e aprendo l’autostrada d’oro dell’èra
Berlusconi.
Alla Chiesa, uscita rinvigorita anche se titubante dal Va-
ticano II, non rimaneva che puntare sull’uscita dal compromesso tra la missione religiosa e il potere politico che forgiava il regime di cristianità. Puntare sulla formazione di un
cristianesimo di convinzione.
La questione della libertà del giornalista cattolico si poneva in modo inedito dopo il Concilio. Egli era un po’ più
solo, ma questa solitudine era il salario della sua responsabilità indipendente nel campo delle materie opinabili legittime.
I giornali cattolici si trovarono divisi in almeno quattro
circostanze: la prima, sulle scelte di Moro per l’apertura dei
cattolici ai socialisti al Congresso di Napoli del 1962 (combattute dal capo della Conferenza episcopale card. Siri,
benché fossero state lasciate alla libera e legittima disponibilità dei laici cattolici da Giovanni XXIII).
La seconda, nelle elezioni per il presidente della Repubblica nel 1964, quando la DC proponeva Leone e spuntò la
candidatura di Fanfani, che i giornali cattolici avrebbero dovuto denigrare – su pressione vaticana – come pubblico
peccatore in quanto rompeva l’unità degli eletti. L’Avvenire
d’Italia non accettò di cambiare linea, malgrado la pressione
del Vaticano in tal senso, e alla fine fu eletto Saragat.
La terza difformità fu più grave, perché riguardava la linea dei giornali cattolici sulla guerra americana in Vietnam.
La storia di quella guerra ha già documentato che Paolo VI
era contrario ai bombardamenti sul Vietnam del Nord e sviluppava i suoi passi diplomatici a largo raggio, anche con La
Pira e Fanfani, per l’avvio dei negoziati. Ma la Santa Sede
vegliava perché la stampa cattolica mantenesse una posizione
neutrale, anche per non compromettere le relazioni tra la
DC e gli Stati Uniti. Alcuni giornali cattolici seguirono gli indirizzi impartiti dal Vaticano, altri preferirono seguire una linea «profetica» di pacifismo radicale.
Ancora una volta si trovarono in conflitto la libertà del
giornalista cattolico, nel caso di La Valle, e l’autorità del suo
editore, che aveva la veste bianca. Cosa succede a un giornalista quando l’editore è il papa? La Valle ha raccontato
come andò a finire: l’editore chiuse l’Avvenire d’Italia e
diede vita a un nuovo giornale, l’Avvenire.
La quarta divergenza scoppiò nel 1974, col referendum
sul divorzio, quando si ruppe l’unità politica dei cattolici. I
«cattolici del no», con Scoppola, Carniti, le ACLI, le comunità di base, rifiutarono il consenso all’abrogazione preteso da Fanfani e da Gabrio Lombardi. Vinsero i «no» e il
sistema di potere andò in frantumi, così la stessa conventio
ad excludendum del veterocomunismo ideologico. Alcune
personalità di cultura cattolica accettarono di entrare in
Parlamento nelle liste del PCI come indipendenti.
La discussa restaurazione sot to Wojtyla
Nell’era di papa Wojtyla e del suo vicario, cardinale
Ruini, si preferì un’altra strada: ridefinire ancora i confini dell’identità cattolica per riconquistare al cattolicesimo «un
potere trainante» nella società secolare di massa, anche
dopo il crollo del Muro e la liquefazione della DC. I movimenti identitari erano pronti a fare da supporto al disegno
e a riempire di gregari le piazze e gli stadi.
La potenza dei media cattolici (giornali, settimanali, televisioni, ecc.) era pronta a forgiare la «grande illusione». Il
Progetto culturale di Ruini avrebbe fornito le piste per il ri-
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torno di Dio nelle piazze italiane devastate dalla secolarizzazione. Ma intanto un’alleanza avvelenata dalle larghezze
dei media veniva stipulata e giustificata, con qualche imbarazzo da parte di alcuni cardinali italiani, tra la Chiesa e il
regime di Berlusconi sotto il papa polacco e il suo magnetismo mediatico.
Quale influsso hanno avuto i media cattolici in questa
confusa operazione culturale? Hanno marciato a fondo per
sopire la coscienza delle trasformazioni culturali nel cattolicesimo italiano postconciliare o per svilupparle con l’audacia necessaria? Hanno dato prova di coraggio critico e di indipendenza spirituale nel denunziare quello che si doveva
denunziare quando la dignità e i diritti della persona umana,
ad esempio degli immigrati e dei rom, sembravano non sufficientemente rispettati? O quando delle ideologie razziste
tornavano ad avvelenare il discorso pubblico, magari al coperto della difesa della religione cristiana?
Le annate di Famiglia cristiana negli anni Duemila costituiscono una documentazione soddisfacente che il confine
dei valori sociali non negoziabili restava sorvegliato da alcuni
media cattolici. Ma non da tutti. E che quelli che lo facevano
erano a rischio di ritorsione, come si apprese deplorevolmente quando il direttore di Avvenire Dino Boffo subì l’infamia.
Il seme di senape dell’UCSI
Una prospettiva forse più impegnativa si è aperta per
l’azione dei cattolici grazie alle operazioni di una delle più
piccole tra le loro associazioni, l’Unione cattolica della
stampa italiana (UCSI). Il principio di tutto fu l’aver preso
coscienza che il regime di cristianità stava disfacendosi in
Italia, che nemmeno le riverniciature wojtyliane sarebbero valse a restaurarlo in modo credibile e che erano inutili anche i trucchi astensionistici per salvarsi dal referendum sulla procreazione assistita del 2005. Questo, noi
dell’UCSI, lo avevamo detto lealmente alla Chiesa.
Ma sopratutto noi, i più piccoli, decidemmo di non farci
venire la febbre della massa e del numero (tentazione demoniaca che persino Gesù dovette affrontare quando fu
trasportato sul pinnacolo del Tempio e gli furono mostrati
e promessi i regni della Terra se lui avesse almeno baciato
l’anello di Satana, e preferì gridargli addosso: «Vade retro,
Satana»). Decidemmo di puntare sulla cultura e trasformarci in atelier per l’etica dei media, a beneficio dell’uni1
Cf. H. ARENDT, Verità e politica, Bollati Boringhieri, Torino 1995, 47.
Cf. sul tema G. MARTINA, «Formazione del clero e cultura cattolica
verso la metà dell’Ottocento», in La Chiesa in Italia. Dall’unità ai nostri
giorni, a cura di E. Guerriero, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1996,
194ss. Cf. anche G. ZIZOLA, L’informazione in Vaticano da Pio IX a Giovanni Paolo II, Pazzini Editore, Rimini 2002.
3
C. SNIDER, L’episcopato del cardinale Andrea Carlo Ferrari, vol. I. Gli
ultimi anni dell’Ottocento (1891-1903), Neri Pozza, Vicenza 1981, 204.
4
D. VENERUSO, «I rapporti fra stato e Chiesa durante la guerra nei giudizi dei maggiori organi della stampa italiana», in Benedetto XV, i cattolici e la
Prima guerra mondiale, Atti del Convegno di studio tenuto a Spoleto il 7-8-9
settembre 1962, a cura di G. ROSSINI, Cinque Lune, Roma 1963, 679-737.
5
G. DALLA TORRE, Memorie, Mondadori, Milano 1965, 74.
6
DALLA TORRE, Memorie, 100.
7
M. GUASCO, «L’Ufficio giornali», in La figura e l’opera di Federico
Alessandrini, Atti del Convegno di studi dell’Istituto Luigi Sturzo tenuto
a Recanati il 29-30 ottobre 1989, Ancona 1991, 28-38.
8
C.F. CASULA, Domenico Tardini (1888-1961). L’azione della Santa
Sede nella crisi fra le due guerre, Studium, Roma 1988, 384-385.
2
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verso degli attori della comunicazione: cristiani, poco cristiani, non cristiani.
Era un obiettivo differente da quello che pensavano
fosse buono e decoroso per l’UCSI i suoi fondatori nel
1959. Essi l’avevano pensata come organo della potenza
politica della cristianità, nel satellite carolingio dei giornali
e della televisione, come centrale strategica dell’occupazione del potere da parte dei cattolici e a favore dei cattolici. Noi invece cercavamo solo di lavorare per fare cultura
nei media; non per noi, ma per tutti.
Mi limiterò ad accennare, per concludere, a tre cose che
abbiamo iniziato a fare come UCSI; lo faccio non per stupido narcisismo, ma perché le abbiamo appena cominciate;
esse sono ancora lì, allo stato fluido, e non sappiamo nemmeno se riusciremo a vedere nascere qualcosa da quanto
abbiamo seminato. Vorremmo però che non fossero abbandonate nel dimenticatoio (che è solitamente l’alibi della
cattiva coscienza o dell’invidia o della pigrizia).
La prima, fu la proposta lanciata nel 1996 in un bel convegno promosso dall’UCSI del Lazio all’Università della Tuscia, a Viterbo, con la partecipazione di giuristi, pedagogisti, giornalisti autorevoli di ogni tendenza ed esponenti
dell’Ordine dei giornalisti e della Federazione nazionale
della stampa. L’obiettivo era di mettere in primo piano nell’agenda del giornalismo italiano la questione dell’etica della
comunicazione e dell’informazione, e la proposta d’istituire
in sede di Presidenza della Repubblica – e non di Governo,
secondo un modello già adottato in Germania –, un Comitato nazionale di mediaetica con prerogative analoghe a
quelle attribuite al Comitato nazionale di bioetica.
La proposta fu successivamente portata all’attenzione
del presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, in
un’udienza al Quirinale, e fu onorata di un riferimento incoraggiante da Giovanni Paolo II. Nel messaggio inviato al
presidente Paolo Scandaletti per i 40 anni dell’UCSI, in
data 22 settembre 1999, il papa scrisse testualmente: «Di
fronte allo svilupparsi della cosiddetta cultura mediatica,
l’idea rilanciata anche recentemente di un Comitato di
etica dei media, che vigili sulle possibili manipolazioni dell’informazione, s’inserisce nella tradizione culturale della
dottrina sociale della Chiesa e riafferma il principio secondo il quale, anche nel mondo della comunicazione sociale, non tutto ciò che è tecnicamente possibile è anche
moralmente lecito».
9
P. BORRUSO, L’ultimo impero cristiano. Politica e religione nell’Etiopia contemporanea (1916-1970), Guerini e associati, Milano 2002.
10
La Civiltà cattolica 87(1936) I/2057, 353.
11
G. ZIZOLA, Santità e potere. Dal Concilio a Benedetto XVI: il Vaticano
visto dall’interno, Sperling & Kupfer, Milano 2009, X.
12
Testimonianza resa all’autore da Romolo Pietrobelli, presente alla
missione di don Franco Costa.
13
E. BERNABEI (intervistato da G. Dell’Arti), L’uomo di fiducia, Mondadori, Milano 1999, 31ss.
14
ZIZOLA, Santità e potere, 168.
15
R. LA VALLE, Il mio Novecento, lectio discipularis, Roma, 29 febbraio
2011, pro manuscripto.
16
Si trattava delle seguenti testate quotidiane: Avvenire d’Italia
(Bologna), Italia (Milano), Eco di Bergamo (Bergamo), Ordine (Como),
Nuovo cittadino (Genova), Il Quotidiano (Roma), Il Quotidiano sardo
(Cagliari).
17
«Grande fratello: l’intimità svenduta», documento a cura dell’UCSI Lazio, in L’Osservatore romano 7.11.2000.
18
Il testo è su Regno-att. 22,2009,741s.
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La seconda iniziativa, indimenticabile, dell’UCSI, fu la
sua decisione, adottata in una riunione della sua Giunta nazionale nel 2000, di porre un atto pubblico di contestazione
motivata del «Grande fratello», il programma letale che sarebbe andato in onda in settembre sulle reti commerciali
italiane.
Era un grido di allarme per l’erosione dei valori e delle
finalità portanti dell’ordinamento libertario, in cui la scomparsa dell’interiorità dei soggetti e l’irruzione sulla loro inviolabile sfera personale costituisce il passaggio necessario
dell’abdicazione programmata del primato della coscienza
e del gregarismo collettivo, per assecondare processi di colonizzazione dell’intimità delle persone e facilitare la loro
mercificazione.
«Ci interroghiamo – diceva il documento – sull’avvenire
di una società in cui i soggetti, specie se minori, fossero
esposti senza difese efficaci a manipolazioni tali da attenuare il loro senso critico, fino a ridurli a comparse che giocano la loro anima sulla roulette dell’omologazione collettiva. Se lo spazio dell’interiorità fosse violato cosa resterebbe
a difenderci dall’arbitrio di un tiranno e dal pensiero
unico?». L’UCSI sollevava così la questione dell’incompatibilità sostanziale tra una cultura pubblica permeata dalle
procedure falsamente giocose del «Grande fratello» e un sistema giuridico che avesse cura della protezione della privacy e fornisse normative efficaci per la salvaguardia dei diritti personali dall’invadenza tecnologica del controllo
sociale, anche occulto, e del sistema delle intercettazioni
giudiziarie.17
Terzo cantiere aperto, quello del 2009, in occasione
della celebrazione del cinquantenario. Sotto la presidenza
di Andrea Melodia fu varato un «Manifesto per un’etica
dell’informazione».18 Un’idea che traduceva il postulato
della natura di bene pubblico dell’informazione, a maggior
ragione quando l’analisi della crisi culturale dei media
chiamava in causa la fragilità del riferimento ai valori etici
condivisi e condivisibili nella società di massa in un mondo
che si fa uno.
Era condivisa l’opinione che ormai, nell’esperienza
professionale, la tradizione dei codici deontologici, per
quanto generosi, non fosse più sufficiente ad assicurare
una prospettiva normativa eticamente sostenibile nel
campo dei media globali. Si rendeva necessario il passaggio deciso a un’epoca nuova, al tempo dell’etica dell’informazione universale e globale, una fase storica in cui attori dell’informazione non sono più solo i giornalisti, ma
virtualmente tutti i cittadini che comunicano attraverso uno
strumento come YouTube o navigano su Internet.
I codici deontologici erano l’estremo baluardo di un
modo di informare, di sapere e di produrre organizzato verticalmente e gerarchicamente. Il compito nuovo impone la
ricerca e la definizione dei principi fondamentali di una
«carta costituzionale» dell’informazione in un oceano ove
l’informazione e il sapere si scambiano per reti orizzontali
e fluide.
Il cardine di questo «contratto sociale globale» della comunicazione è l’affermazione decisiva della natura dell’informazione come bene pubblico. Si tratta di definire diritti e doveri dei cittadini, e in particolare degli attori dei
media, di fronte alle gigantesche forme di potere esercitato
sul piano globale dalle forze materiali che gestiscono i media come merci private da giocare sul mercato.
Il convegno promosso a Roma dall’UCSI nel 2008, sul
tema «Internet, informazione e democrazia», ha cominciato l’aratura del terreno giuridico e normativo per definire i principi e le linee guida di una governance democratica di Internet.
Ci sono dunque dei buoni lasciti che ci vengono dal passato. La storia del giornalismo cattolico in Italia è parte integrante della storia della libertà nella Chiesa e nella società, delle sue contraddizioni e dei suoi avanzamenti.
E la libertà è un bene prezioso, un cantiere da tenere
sempre aperto di cui avere premura, ogni giorno, senza dimissioni, per noi e le nuove generazioni.
Giancarlo Zizola *
* Giancarlo Zizola, 75 anni, giornalista, saggista e scrittore, è morto
improvvisamente a Monaco di Baviera il 14 settembre scorso. Poteva a
buon diritto fregiarsi del titolo di «decano» dei giornalisti religionisti italiani (i cosiddetti vaticanisti): aveva cominciato la sua attività negli anni del
concilio Vaticano II e l’aveva proseguita presso Il Giorno, Panorama, Il Sole
24Ore e, da poco tempo, La Repubblica, costellandola in parallelo con la
pubblicazione di decine di volumi (l’ultimo: Santità e potere. Dal Concilio
a Benedetto XVI: il Vaticano visto dall’interno, Sperling & Kupfer, Milano
2009). Amico de Il Regno di lunga data, oltre che collaboratore negli anni
Settanta, ci aveva inviato questa relazione subito dopo averla pronunciata
a Fiuggi, alla Scuola di alta formazione ivi promossa e organizzata dall’Unione cattolica della stampa italiana (UCSI; il sito www.ucsi.it ne riporta
infatti il testo) dal 6 all’8 maggio scorsi, accompagnandola con gradite parole di stima e di incoraggiamento per il nuovo assetto della rivista.
A p. 562: immagine di Valerio Tosi realizzata presso il Museo «Ettore Guatelli» di Ozzano Taro (PR).
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Chiuso in tipografia il 29.9.2011.
Il n. 15 è stato spedito il 20.9.2011;
il n. 14 il 29.7.2011.
In copertina : J. VAN EYCK, Polittico
dell’Agnello mistico (part.), 1426-1432,
Gand, Cattedrale di San Bavone.
IL REGNO -
AT T UA L I T À
16/2011
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