A Davide e Alessandro
GIOVANNI MAIANI
Paradiso
Ó TUTTI I DIRITTI RISERVATI
Giovanni Maiani – Monfalcone (GO)
Prima edizione: Dicembre 2005
Realizzazione e distribuzione editoriale:
La Mongolfiera LIBRI – Trieste
Tel. 040.314609 – Fax 040.3225577
e-mail. [email protected]
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Presentazione
Dicono che gli antichi non avessero paura della morte, era un
fatto naturale, come la nascita.
Per i moderni è un dramma, un tormento. È la fine di tutto, di
ogni bene. Perciò la morte è male. Ma gli antichi credevano agli dei e
ci credevano anche grazie alla morte.
Già tremila anni fa si credeva agli dei e che con la morte si passasse
ad altra vita. Qualcuno un po’ più tardi, semplificò il mondo degli dei
e ritenne che ce ne fosse uno, l’ebraismo prima, il cristianesimo poi, e
infine l’islam.
In un solo dio crede la stragrande maggioranza degli uomini; su
sette miliardi quasi tutti sette sono credenti.
In occidente, oggi, c’è molta confusione nel rapporto uomo e dio,
c’è crisi nel rapporto fede e ragione, religione e laicità. Perché?
Tremila anni fa c’erano una legge “divina” e una legge “umana”:
questa seconda era soggetta alla prima, o comunque convivevano anche
se la seconda era subalterna alla legge “divina”.
Oggi la legge umana vuole libertà dalla prima. È finita la preistoria.
Nella storia c’è l’uomo, Dio è un optional. Perché?
Quale maggior forza trae l’uomo, la ragione umana nel confliggere
con Dio, con la fede?
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C’è opportunità di crescita, c’è più valore dall’ascolto duale!
Il laico che tiene conto del credente e questi che non limita il primo
con vincoli irragionevoli.
Chi ha detto che la fede non è ragione e che la ragione non è la
grande fede, la forza dell’uomo?
Amare la vita e puntare al cielo non sono peccati. Il libro è una
provocazione: spingere chi crede nella vita in terra a desiderare quella
in cielo! Ma vuole anche dare una mano ai semplici, ai puri di cuore,
alle persone che la fede in Dio non è un minus, come non lo è nemmeno
la ragione dell’uomo.
C’è posto per entrambe.
I tempi sono già difficili e oscuri per se stessi. Deve esserci necessariamente un vincitore e un vinto?
E se ci mettessimo a riflettere?
Gli amici dello stabilimento balneare fanno le prove ogni estate
di come sarà il vero Paradiso…
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IL POETA DIALETTALE
La signora Laura era rimasta sola sullo scoglio. Lo rappresentava bene; era stata da subito una leader, bella e ascoltata. Gli altri
erano volati via tutti come i gabbiani. Lei giungeva e, come sempre,
si dirigeva calma ma decisa verso “il suo posto”. C’era spesso confusione, estranei che non conoscevano nulla della storia di quel
luogo, delle sue priorità.
Andavano dove volevano perché avevano pagato. Le madri
liberavano i loro discoli e li invitavano a correre altrove, lontano, là
verso gli scogli, a giocare, a cercare cappe, sassi.
Lo sapevano bene gli altri gruppi, quello delle carte ad esempio,
accampato perennemente a giocare sotto i pini marittimi.
Chi mai si sarebbe sognato di sostare lì accanto. Era usucapita
la loro posizione!
Come quella della nonna “ragazzina” posta all’incrocio fra la
fila delle cabine, la rete di recinzione e la scogliera che delimitava
un lato dello stabilimento. Là stavano la nonna, i due nipotini che
commerciavano sassi e conchiglie. Là stava la ragazza “fringuello”
perché cantava, mentre parlava; la seguivano uomini e donne perché
era gioiosa e “canterina” e bella, bella come la luce del sole acce-
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cante. Portava il sole in testa perché i suoi capelli erano di un giallo
solare.
Rideva e cantava la ragazza del sole e nuotava come un delfino,
su e giù, dentro e fuori, sopra e sotto. Come nuotava la “canterina”
e quanto si divertiva e che voglia di vivere spandeva tutto attorno!
Poca cosa, si dirà, lo scoglio e la sua spiaggia. Ma lei e la gente
attorno non avevano pretese.
“Giorno dopo giorno, ringraziando Dio.”
O ancora: “Finché dura, prendiamo, ringraziamo e viviamo.”
Spesso, quasi una parola d’ordine, pronunciata soprattutto dopo
una bella nuotata nell’acqua fresca e trasparente o dopo una siesta
sulla branda con l’alitare leggero della brezza all’ombra di un pino.
“È proprio un paradiso quaggiù. Diciamolo sottovoce, non
facciamoci sentire dagli angeli perché potrebbero ingelosirsi.”
Dopo Laura giungeva anche l’uomo più ascoltato, Rino. Un
poeta dialettale.
Pare che amasse però più il denaro che la poesia. Per denaro
smise di scrivere, di portare e dare gioia agli amici.
Si convinse che una vecchia signora, molto ricca e senza eredi,
lo avrebbe nominato unico beneficiario dei suoi beni; ma chiedeva
un badante a tempo pieno, e cioè di giorno e di notte.
E voleva lazzi, battute, barzellette, motti e poesie, poesie e
ancora poesie, tutte dedicate a lei.
La moglie di Rino, avida quanto il marito di soldi, lasciò fare,
attese con pazienza che la “vecchia” morisse o che passasse l’insana
passione del marito.
Si avvide che lui era preso dall’ossessione di conseguire, in
premio del suo poetare, la ricchezza, mentre non sembrava proprio
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intendere che stava impegnando la vita dietro le frivolezze di una
signora rincitrullita, senza voglia alcuna di andarsene da questo
mondo, e con tanta frenesia invece di continuare a giocare con i
soldi e le persone. La moglie lo abbandonò al suo destino.
“La vecchia” era una donna viziata e viziosa, non bella, senza
fascino e senza apparente personalità, frivola, leggera, infantile e
abituata a prendersi gioco di tutto e di tutti. Come si chiamava.
Cinzia? Non si sapeva bene.
Lei sapeva, maliziosamente sapeva, cosa fosse il denaro e quanto piacesse alle persone e lo usava, con parsimonia però; lo centellinava perché se fosse stato troppo avrebbe distolto la sua preda dal
continuare a volerne sempre più.
Perciò lo faceva scivolare lentamente, quanto bastava per condizionare il cervello del suo avido badante.
Oh, quanto era brava lei nel giocare con lui e il denaro, quanto
lo era lui nello scrivere poesie, nel recitargliele per amore del
denaro!
Che strana coppia, l’uno e l’altra intenti in una sfida sottile,
insidiosa, tesa a depauperare l’una del suo patrimonio, l’altro della
sua vis poetica, della sua personalità.
In verità entrambe vittime delle proprie debolezze. L’uomo
mercificava il suo talento e se stesso, la donna appagava la carenza
infantile di affetto e di amore, comprandoli.
Per quelli dello scoglio dello stabilimento balneare era stato
uno choc apprendere che Rino, il poeta, si era consegnato prigioniero per denaro.
Il leader dello scoglio era caduto al suolo. L’uomo che innalzava
terra e mare al cielo e le persone accanto faceva ridere e gioire,
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sospirare e sognare, si era smitizzato. Il botto della caduta fu meno
forte del previsto perché era passato tanto tempo dalla sua fuga
dagli scogli, dall’abbandono della compagnia, per cercare di aprire
un forziere o una cassaforte.
Lo si sapeva affetto da tirchieria acuta; si diceva che fosse uno
degli istriani più taccagni che avesse preso parte all’esilio della
seconda guerra mondiale, che al suo paese se li sarebbero tenuti
tutti gli italiani purché avessero concorso a liberarli da quella zecca
di avaro, da quell’usuraio.
Maldicenze di triestini, di friulani contro il capo clan dello scoglio?
Di certo ne aveva offerti pochini di caffè al bar.
L’acqua minerale se la portava dietro, e scroccava merendine
alle donne giovani e non. Era sempre a chiedere se era buono il
prosciutto, il salame, la mortadella, il formaggio o le pere che vedeva
uscire dalle borse delle donne.
Ma tutto ciò era parte del personaggio!
La donna ricca che lo teneva ostaggio faceva a lui quello che i
suoi genitori avevano fatto a lei.
L’avevano usata come merce di scambio, di compensazione o
di contrasto per le loro beghe.
Lei era sempre tirata in ballo per le loro questioni. Né la madre
né il padre avevano un rapporto diretto con lei.
“Che singolare coppia i miei genitori!” Pensava la bambina fra
sé sin da quando li aveva capiti.
Non era stato difficile vivere con loro, doveva ascoltarli sempre.
Erano sempre fuori casa, quasi sempre assenti: due vite, due
realtà, due mondi, distinti e distanti e fra loro incomunicabili.
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C’era sempre una diga fra quei due e nessuno che capisse che
era d’ostacolo a tutti e tre e si adoperasse per abbatterla.
Ci aveva provato lei, bambina, dando vita a situazioni traumatiche, a fatti scabrosi a casa e a scuola, danneggiando persone e cose,
cercando di richiamare l’attenzione sul proprio dolore e sulla propria
sofferenza. Nessuno capì o volle capire. Alla bambina toccarono
prima asili e poi collegio.
Ma anche senza di lei le cose fra loro non migliorarono.
Se n’andarono presto lontano dagli occhi suoi, per sempre,
lasciandole odio, rancore, dolore e un consistente patrimonio.
Seppure piena di soldi, non riuscì a vincere le sue paure delle
persone, la fobia di essere avvicinata, toccata, amata.
Le si aprì lo scenario della sua vita al bancone di un bar, bevendo
una bibita.
“Perché non fare così anche con le persone? Usare e pagare.
È semplice. Ecco perché i miei mi hanno lasciato dei soldi!”
Il collegio non l’aveva aiutata, aveva solo allargato l’ambiente, era
cioè in una famiglia più grande, ma tra lei e le collegiali e l’altra parte,
le istitutrici e la direttrice, il muro era ancora più alto di quello familiare.
Né con le sue amiche c’era possibilità di un rapporto mediano,
a metà strada cioè fra l’odio e un amore possessivo, malato di
morbosità e di sessualità deviate, contro il proprio istinto naturale.
La donna ricca giocava, continuava a giocare con le persone,
in verità continuava a odiarle, a volere fare loro quel male che aveva
subito nell’infanzia e nell’adolescenza.
Il poeta non comprese, non riusciva a comprendere, accecato
dalla voglia dei soldi che sapeva essere a portata di mano: con una
bella poesia sarebbero stati suoi!
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La donna ricca lo schiavizzò e Rino perse il dono del poetare,
all’improvviso, senza rendersene conto.
Continuava a scrivere poesie, o meglio scriveva ritenendo di
poetare, ma buttava giù battutacce e barzellette sempre al limite
dell’oscenità e della sconvenienza.
Non riusciva più a far ridere la donna, né a farla divertire. Così
lei non gli chiedeva più di scrivere o di recitare, né di narrare fatti
o episodi che un tempo le facevano riempire la casa delle sue grida
e delle sue chiassate per l’allegra agitazione che lui le instillava.
No! Sempre più spesso era invitato a fare, a muoversi, andare
e ritornare, prendere e portare, correre e rientrare in fretta per
rapidamente sbrigare altre mansioni.
Era ridotto a fare il badante, il servo.
Il dono della poesia si era proprio involato.
Aveva detto arrivederci agli amici dello scoglio. Il tempo di
sbrigare una faccenduola e poi si sarebbero ritrovati.
“Non c’era nulla di più appagante del mare, di una nuotata, del
sole e del suo calore che ricarica, che colora la pelle di bronzo, dà
slancio vitale e illude, illude la mente che la giovinezza duri, che il
fascino e la malia continuino, che si possa ancora riscoprire l’amore
e la passione e che il ciclo continui, non si interrompa.
Mio Dio, no, che il ciclo non si interrompa, che l’amore, forse
addormentato nell’inverno e non ridestato in primavera, trasmetta
ancora in estate fluidi di attrazione magica o sia catturato e ammagliato da uno sguardo sfuggente ma allusivo e dia vita alla tresca, e
agiti i sensi e faccia esplodere la passione e il tormento dell’attesa e
l’appagamento dell’amplesso, e l’angoscia disperante per lo spegnersi
del sogno, per la fine dell’idillio. Che la vita continui, mio Dio!”
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Così parlava Rino, il poeta dello scoglio!
E con la fine del mito del poeta, con la sua definitiva lontananza,
sembrò sbriciolarsi il mucchio dello scoglio.
Fu come se un virus avesse diffuso un’epidemia di abbandono.
Qualcuno ricordava che singolarmente il poeta sembrava aver
previsto il fenomeno e ne aveva anche parlato con chi aveva più
confidenza.
Aveva parlato di tarli che andavano lavorando in mezzo al gruppo.
La gelosia, le rivalità, le crisi, gli innamoramenti, i contrasti vecchi e
nuovi, le divergenze crescenti, la fine dell’amore, la voglia di un altro
amore, nuovi affanni, nuovi sospiri, nuovi incantamenti, nuovi aliti
soffiati sul viso da una nuova giovinezza che veniva a togliere la muffa
della così detta maturità e del principio della vecchiezza.
Tutto sarebbe inevitabilmente esploso.
Diceva che sarebbe rimasto solo lui su quello scoglio.
Gli piaceva l’idea che lui, come un poeta d’altri tempi, cinto il
capo d’alloro e armato di penna e block notes, avrebbe cantato al
mare, al sole, al cielo, alla barca a vela che scivolava al tramonto,
come un punto lontano sulla striscia in cui cielo e mare e sole si
uniscono e sembrano un unicum mentre un gabbiano vola lento,
lungo, felpato verso lo scoglio del riposo.
Dicono che in quelle serate ispirate il poeta scrivesse un intero
libro di odi e canti e si facesse enormi risate sull’umana sorte e sulle
sue debolezze e stranezze e desse vita altresì a una commedia che
avrebbe portato in giro per il mondo con il teatro regionale. Era
dedicata agli istriani e al loro esilio ma visto senza drammi né retorica.
Anzi, se prendeva in giro la Jugoslavia e i suoi abitanti comunisti, non risparmiava l’Italia e i fascisti.
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Nel mezzo il popolo eletto istriano che avrebbe conquistato il
mondo e sarebbe ritornato dall’esilio pieno di denaro per comprare
l’Istria, naturalmente pagandola due soldi perché era terra sua non
degli Slavi.
Sbagliò il poeta e dimenticò il proposito.
Ora stava dietro alla vecchia donna, spingeva a fatica la carrozzella su cui sedeva ormai incapace di muovere un passo da sola. Lui
spingeva, portava a spasso il suo forziere perché tutti vedessero che
era suo, che l’aveva conquistato.
Era andato oltre l’avidità, oltre l’ossessione del denaro. Era
impazzito per esso.
Se effettivamente la vecchia gli avesse lasciato ogni suo avere
dopo la morte, egli non l’avrebbe compreso né vissuto come un
lascito. Era da tempo che si credeva padrone del forziere e del
castello di lei. Era tutto di sua proprietà e se ne beava. Era ricco.
Ma che fatica!
Quanto pesava tutta l’attenzione e la cura che doveva mettere
per tenere sotto controllo tutto quel ben di Dio. Temeva che occhi
avidi e mani leste si posassero sulle sue cose.
La sua poesia era diventata la sua roba!
Ora sullo scoglio c’era solo lei, la signora.
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LA COPPIA ISTRIANA
Anni prima, ai tempi del poeta, ai primi anni di vita del clan
dello scoglio molto vicino all’uomo c’era una coppia. Erano istriani
come Rino; lui alto, snello, nero di capelli e di carnagione che
bruciava letteralmente al sole sì da scurirla tanto da essere scambiato
per un negro. Lei sempre a bagnomaria, lui sempre disteso al sole.
Rapporti fra loro cordiali, ma solo formalmente. L’amore non c’era
più da tempo. Ma a lei interessava solo tenerlo, che non glielo
portassero via.
Rino l’aveva avvertito che non c’era più scambio fra loro. Soleva
dire che una persona trae ispirazione da un’altra che ama, sia il
padre, o la madre o un fratello, per non dire dell’innamorato o
dell’amante. L’uno ispirava il pensiero e l’animo dell’altro e lo
indirizzava a vivere.
Erano muti il bello e la sua compagna. Il loro silenzio parlava
più del contrasto della loro pelle.
La donna era un tipo all’antica, tutto casa e famiglia; parlava
solo di cucina, di figli, di impegni domestici. Ma parlava troppo. Per
contrasto lui parlava pochissimo; leggeva spesso, si alzava per andare
a bere un caffè, per sgranchirsi le gambe, per fermarsi qualche
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minuto all’ombra di un albero. In verità correva a telefonare.
Ci sono persone che quando escono di casa cambiano radicalmente comportamento. È forse l’effetto libertà che viene vissuto in
termini opposti, l’uno esplode perché in casa è represso, l’altro si
contiene perché la sua libertà è tutta interiore, non c’entra lo spazio,
il lungo o il largo, più o meno persone attorno. È più se stesso nel
suo ambiente, nel suo rifugio; sa chi ha attorno e come gestirlo, sa
cosa può paventare dalla presenza dell’altro o comunque quello che
gli può capitare di sgradevole o di limitativo di sé o solo opprimente
e fastidioso perché lo distoglie dalla concentrazione dei suoi pensieri.
Al mare, sullo scoglio, non cambiava nulla per la donna; ovunque lei era se stessa, imponeva caparbiamente il suo modo di ragionare e di pensare Chi le stava accanto o subiva la sua oppressione,
o si gettava in acqua per sfuggire al suo assedio, o trovava una scusa
per scappare.
Ma sono tante le persone che nemmeno in uno stabilimento
balneare riescono a sentirsi libere e a proprio agio, tranne che non
si trovino in un gruppo di amici che ama giocare a carte, raccontare
a turno fatti, lazzi, barzellette.
Nel mucchio dello scoglio non c’era questa confidenza collettiva. Stavano tutti assieme perché lo scoglio, più scogli per il vero
ma si usava dire quelli dello scoglio perché nel mezzo ce n’era uno
enorme e bello liscio che dominava gli altri, questo scoglio, appunto,
li unificava e li identificava come facenti parte di una sola entità.
Ecco, stavano assieme, vicini ma non erano uniti da nulla che
non fossero le poche pietre e la vicinanza al mare e, ancora per la
verità, dal fatto che gli scogli erano sollevati di qualche metro rispetto
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al suolo della spiaggia; si aveva perciò la sensazione di stare su una
collinetta e di poter dominare gli altri e il mare; si vedeva il mondo
dall’alto e c’era più vista, più aria e più brezza e anche scendere in
acqua era più agevole; fatti pochi passi da uno scoglio all’altro ci si
calava nell’acqua che era già profonda tanto che giungeva al petto;
non si doveva camminare prima sulla battigia e poi fare alcuni metri
in acqua, no, si scendeva subito in acqua profonda. Siccome quel
tratto di mare che corre da Duino a Trieste e più oltre sino all’Istria
e ancor più oltre sino alla Dalmazia è tutta costa rocciosa e tutti i
frequentatori non avrebbero mai accettato di scambiare il mare di
roccia con quello di sabbia, a maggior ragione nello stabilimento
dello scoglio era un privilegio starvi sopra o attorno, anche quando
andò perduta la persona del poeta che era una delle prerogative di
quel luogo.
La corsa allo scoglio era allora come la ricerca di un buon
parcheggio per la macchina.
Oggi si usano brande e sedie a sdraio, non già solo asciugamani
o materassini come un tempo, anche se non sono caduti in disuso
perché uno stuoino, o un materassino è pratico perché pieghevole
e facilmente arrotolabile e portabile sottobraccio. I bagnanti fissi li
noti subito proprio perché non mollano gli strumenti pratici del loro
svago, specialmente, come avviene quasi sempre, se frequentano
spiagge non a pagamento, mentre in quelle in cui si paga l’ingresso,
come è il caso dello stabilimento dello scoglio, pullulano ormai
sdraio rigide che paiono divani letti e brande pratiche perché pieghevoli, ma soprattutto perché le une e le altre sono adatte a persone
anziane che temono l’umidità e non hanno più l’elasticità di distendersi al suolo e di alzarsi da esso: non sono cose da nulla se ripetute
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con frequenza e non è detto che siano sempre una buona ginnastica!
La donna era forte, decisa, aggressiva e possessiva. Era lei che
gli aveva dato una casa, una famiglia, due figli. Sì, lo sapeva, lui, in
gioventù, le aveva passate tutte le sue amiche, più belle e più femmine di lei. Ma lei aveva fatto di tutto perché i rapporti franassero.
Aveva tramato, contrastato, mentito, teso tranelli.
Lo voleva per sé e lo prese.
Ogni persona usa le armi che conosce. Lei gli si era data e gli
aveva comunicato quasi subito che era incinta. Passò, in vero, un po’
di tempo perché rimanesse effettivamente in stato interessante.
Così lo prese e lo asfissiò di premure. Non c’era nulla che non
fosse già fatto, prima ancora che egli lo pensasse. Faceva sempre
tutto lei. A lui spettava solo badare al suo lavoro, al resto provvedeva
lei.
Curava anche di conservargli documenti, carte, lettere; ogni
questione relativa alla sua attività professionale era documentata e
salvata, così la ricevuta del pagamento del canone della televisione,
quella delle rate del mutuo, delle cambiali della moto che lei gli
aveva regalato perché era un suo desiderio di ragazzo: ogni cosa
aveva la sua specifica cartella di conservazione.
Lui, diceva la moglie, andava seguito, curato. Era sempre stato
un ragazzo solo; i suoi erano morti di là del confine quando c’era la
guerra e lui era ancora piccolo.
Una brutta storia, come tante, di atrocità.
C’era stato il tempo in cui gli italiani avevano stretto i freni
delle libertà degli altri gruppi etnici; molti slavi d’Istria avevano
sopportato, tanti avevano protestato, altri avevano taciuto, ma anche
covato rivalsa.
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E così, dopo la stagione dei misfatti italiani, seguì quella degli
slavi e dei titini.
Il padre del giovane era un militare. Una notte scoppiò un
improvviso e devastante incendio. Si salvò solo lui. I suoi genitori e
la sorella perirono nel rogo. Si seppe che l’incendio era stato doloso,
ma i colpevoli rimasero ignoti.
Durante l’esodo il ragazzo era venuto in Italia con dei parenti.
La ragazza, che lo aveva notato sin dai primi loro anni di vita,
lo aveva sempre seguito. Doveva essere suo.
Proprio mentre il poeta se ne andava, sembrò svegliarsi dal
sonno l’uomo solo, dal colore nero.
All’improvviso, un giorno qualunque senza ragione alcuna,
fuggì via urlando come quella volta che urlava per il terrore del
fuoco, per il terrore di non poter soccorrere nessuno dei suoi e per
il terrore di non riuscire a scappare dalle fiamme.
La tenace donna non si perse d’animo e riuscì a riportarlo a
casa.
Ricomparvero sullo scoglio, lei sempre in acqua, lui sempre più
bruciato dal sole; i capelli meno neri, qualcuno grigio; si alzava dalla
branda per andare a prendere un caffè; uno, solo quello. Non c’era
più ragione alcuna di alzarsi e assentarsi.
Era ritornato nella sua gabbia dorata.
Del resto anche con l’altra non era stato un gran che. Erano
stati migliori gli incontri furtivi, fugaci in azienda. Qualche ora di
straordinario, qualche incarico particolare, qualche rogna in ufficio.
Telefonava che avrebbe fatto più tardi del solito, non molto,
qualche ora. La moglie capiva, chiedeva solo di essere informata per
non restare in pensiero e non fare preoccupare i loro due ragazzi.
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Poi il ménage era diventato abitudinario. Oh, certo, l’amante
era più giovane e più bella, ma se la trovava anche in ufficio.
Peggio della moglie per certi aspetti. Almeno con questa era
più libero e poi cucinava in modo divino.
La collega andava bene a letto e per una passeggiata in città.
Ma anche sul lavoro non era più come prima. Lei approfittava della
modificazione dei loro rapporti personali per prendersi delle libertà
sul campo professionale e questo non gli andava giù, lo irritava.
Come fu che fece ritorno a casa? No, non per queste ragioni, non
c’è mai nulla che vada per il giusto verso, uno si deve accontentare.
No, la nuova relazione in fondo andava bene, lui dava molta
importanza all’intesa fisica che conservava con il nuovo partner e
questo sopperiva bene alle altre contrarietà.
Fino al giorno della visita del figlio, pochi giorni dopo aver
trovato un accordo con la moglie sulla separazione. A lui premeva
solo di vedere regolarmente i ragazzi, in particolare la figlia con la
quale aveva un’intesa totale e che lo aveva ripreso aspramente per
il torto fatto alla madre e gli aveva tenuto a lungo il broncio.
Ora il maschio veniva a riferirgli che la madre aveva un tumore
al seno. I figli ritenevano che dovesse fare ritorno a casa e non
lasciarli soli ad affrontare quella situazione così delicata, dolorosa
e impegnativa.
Egli fece ritorno. La donna fu operata.
Il tempo passò, fecero ritorno al bagno dello scoglio e ripresero
la vita insieme.
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LA SIGNORA LAURA
La signora Laura era convinta che sarebbe vissuta sempre a
Trieste: là c’era il mare.
Ma all’università rincontrò il giovane che aveva conosciuto al
liceo. Lei frequentava lo scientifico, lui il classico. Rivalità e lontananza degli istituti, ma soprattutto il fatto che lui abitava fuori
Trieste, li fecero incontrare saltuariamente, lui doveva sempre correre e tornare a casa.
Treno, lezioni, biblioteca e ancora treno e casa. Gli era piaciuto
quello spilungone, ricordava una giraffa, tanto era alto di statura e
tanto lungo era il suo collo. Era divertente, sembrava avesse i trampoli al posto dei piedi, forse, per effetto della statura, si muoveva
leggero ma un po’ goffo.
A lei piaceva anche per questo, ma la divertiva vedere il collo
snodabile che ruotava e il capo con due fari grandi al posto degli
occhi che scrutavano, cercavano, come laser tra la folla. Lei lo
raggiungeva e per farsi intendere gli tirava la giacca, lo tirava giù,
lo strattonava e allora eccolo chinarsi e sorriderle in quel modo
unico, dolce, tanto dolce e tenero che diceva della mitezza del suo
animo.
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Lei aveva cervello e buon senso e il Padre Eterno, forse, il
destino, di certo, la portò incontro a un gigante, a una torre umana,
tenera e morbida che teneva al suo posto le lunghe braccia e le
grandi mani, che guardava gli occhi di lei e la bocca di lei, che
ascoltava quello che aveva da dire e chiedeva gentile e cortese se
poteva o non poteva fare una cosa, se lei conveniva con quel che
diceva, se era d’accordo o meno, ma soprattutto ascoltava e cercava
di capire e di comprendere.
Cose da gentiluomini! Incredibilmente educato, naturalmente
cortese e naturalmente sincero e spontaneo.
Così la ragazza ne parlava con la madre, senza palesare emozione o stupore per quello che le era capitato e cioè conoscere e
frequentare un uomo un po’ all’antica forse, ma uomo vero, una
persona tutta intera; non esagerava doti e qualità del suo omone,
anche se la madre appariva un po’ incredula, nonostante sapesse
che la sua figliola non era facile agli entusiasmi.
Non ultimò gli studi; stava dietro al suo gigante che invece
riusciva a fare tutto, a laurearsi, a volerla sposare subito, prima
ancora di avere un lavoro.
Si chiamava Giovanni, l’uomo mandato dal Signore.
Sembrava avere proprio tutto, anche l’agiatezza economica e
il consenso dei genitori a disporre di sé come desiderava.
Laura lo seguiva come un cagnolino da passeggio. Sempre con
il capo all’insù, mentre lui procedeva con il capo all’ingiù.
Era diventato un professionista dell’acqua, di fiume, di lago;
poi lo fu anche di quella sotterranea, fogne comprese.
Gli piaceva il lavoro, ma amava stare al suo paese, con i suoi e
la sua giovane compagna.
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Paradiso ——————————————————————
Con l’acqua ci giocava, la faceva correre di più, la faceva bloccare, la faceva trasportare dove ce n’era più bisogno, la faceva
comprimere per farne energia.
E per farla vedere e usare da chi non ne aveva girò il mondo
e gliela fece bere, la fece usare per irrigare i campi, per lavare i
bambini e i vecchi. L’ingegnere dell’acqua amava ciò che faceva
e amava i prodotti dell’acqua, ma non si avvide che ad un tratto
anche la sua compagna fu presa dalla passione dell’acqua, o
meglio ne fu ripresa, perché da piccola, da ragazza e da signorina
preferiva anche lei i giochi dell’acqua ad ogni altra attività o sport
con l’uso di essa.
Amava, la donna, immergersi nell’acqua, sempre soprattutto
d’estate e all’inizio dell’autunno. Aveva rinviato la sua rentrée dopo
aver messo a posto le sue cose di moglie e di madre, proprio come
si fa con tanti hobby, come con la passione delle monete antiche,
dei francobolli o dei libri.
“Farò domani, metterò a posto domani, sì quando andrò in
pensione rivedrò, ultimerò, leggerò.”
E domani venne. E Laura, senza avvertire nessuno, prese la sua
macchina utilitaria, lasciò la casa e la città e si diresse verso la costiera
che porta a Trieste.
Fece la strada così detta del Vallone perché corre fra le colline,
in una valle dolce e romantica.
Era entrata a Gorizia da lì, d’autunno, molti anni prima con il
sommacco rosso e i colori delle colline carsiche dai verdi cangianti,
da quello chiaro a quello più scuro e pieno, dai cespugli che sembravano roveti. Case sparse su un lato prima poi sull’altro e pini
marittimi intervallati da cipressi.
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Paradiso ——————————————————————
La percorreva di buon mattino perché l’aria era più tersa; faceva
ritorno sul tardo pomeriggio o all’iniziare dell’imbrunire e la strada
e il paesaggio si facevano favola e sogno.
Una strada romantica con curve e contro curve, paesi a tratti e
intervalli quasi regolari, tipici del Carso e per lo più abitati da sloveni;
costoro hanno una cura speciale per i campi, i colli, ma anche per i
vini e per i cibi e mettono su in fretta e alla buona un luogo di ristoro,
un locale da vino, una trattoria o un ristorante.
Ritornava all’acqua dopo una vita. E dopo la prima passeggiata
non la fermò più nessuno.
Stava attraversando un momento triste.
Era da poco ritornata con il suo gigante buono da una della
tante trasferte in Africa, come le chiamava lui. Si era stancato di
andarci da solo. Era stata lei a dirglielo.
Le prime volte che era stato chiamato in un paese, la curiosità
aveva potuto spingerla ad accompagnarlo, ma stargli appresso senza
potergli essere utile, senza poterlo aiutare nemmeno sul lavoro e
non potere altresì fare la turista le facevano rimpiangere la casa e i
figli.
La compagnia di lui non le era assicurata nemmeno la sera e
la notte. Poteva succedere sempre di tutto e restava al campo e lei
era ancora più angosciata perché sapeva i rischi cui andava incontro.
Se restava in Italia sentiva la sua mancanza, ma non soffriva
oltre perché non lo vedeva il pericolo.
Già in Egitto, tuttavia, aveva capito che vita faticosa e stressante
conduceva.
Lo faceva con passione, ma l’ambiente, il personale, la lingua,
gli usi, tutto complicava la sua attività.
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Paradiso ——————————————————————
Certo, aveva la sua natura dolce e gentile, il suo collo da giraffa
e la sua presenza da gigante, ma lei prese ad avere paura. Quel
lavoro alla diga era osteggiato. Quel paese era un groviglio etnico
e religioso oltre che politico. Una miscela esplosiva!
Da ultimo era sorta addirittura una contesa fra Russia e America.
Il suo compagno era sempre tranquillo. Se non serviva se ne
sarebbe andato, ma non gli permisero di fare le valigie.
Gli chiesero di restare e di dirigere la costruzione di centraline
elettriche. Erano necessarie per dare energia agli stabilimenti industriali che crescevano come funghi lungo il Nilo.
Il paese era senza infrastrutture e servizi e mancava l’energia
elettrica.
Lei scappò e lui rimase, sino a concludere il lavoro.
Aveva capito l’animo e la cultura del popolo egiziano quando
lui l’aveva portata a visitare una fabbrica di tessuti. Vi lavoravano
oltre cinquemila persone in cinque complessi. Ne fu sconvolta.
Il marito era al seguito di imprenditori italiani che stavano
valutando l’opportunità di rilevare in tutto o in parte l’impresa che
era pubblica.
Le condizioni di lavoro erano sconvolgenti. Sembravano servi
della gleba, schiavi. Tutti eguali, uomini e donne erano ombre
vaganti in un inferno in cui non c’era luce sufficiente, c’era un caldo
sahariano, una umidità che rendeva irrespirabile la permanenza e
odori pesanti e pregnanti, intollerabili.
Fra tanto dolore e fatica aveva visto sguardi buoni, visi gentili,
sorrisi di denti bianchissimi, ossequioso rispetto per l’ospite e tanta
accuratezza, impegno e maestria nel lavoro.
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Paradiso ——————————————————————
Le mani si muovevano sui telai e armeggiavano i colori come
fossero quelle di magistrali pittori d’arte.
Chiese quanto erano pagati e quali le assistenze sociali di cui
godevano.
Fecero finta di non intendere, ma lei comprese che si potevano
dire fortunati rispetto agli altri egiziani senza un lavoro sicuro.
Uscì triste e affascinata da quella singolare contraddizione,
come da quella delle Piramidi e dalla desolazione attorno e dalla
speculazione che se non arrestata portava gli egiziani per il bisogno
di case a costruire tutto attorno ai loro millenari monumenti.
A casa sua avrebbe avuto modo di ricordare e approfondire le
proprie esperienze egiziane con suo marito, le difficoltà e il fascino,
il peso del passato e l’oscurità del futuro, di un popolo prigioniero
di una religione assolutista e di una politica dittatoriale.
Quando faceva ritorno a casa dalla spiaggia, riposata e con la
quiete che la strada romantica le faceva scendere nell’animo, regolarmente le si presentavano i visi rassegnati ma sereni delle persone
della fabbrica di tessuti e la maestosità dei templi dei Faraoni.
Il suo uomo non aveva i suoi scrupoli, non si interrogava in quel
modo, né credeva che fosse corretto vedere le cose in quel modo.
Aveva una capacità di fare depositare pensieri, giudizi, fatti,
esperienze e cercare di coglierne l’essenza, che continuava a stupire
la moglie.
Non era solo alto e dal collo lungo “la sua giraffa”. Aveva tanto
cervello e tanto cuore.
L’avrebbe girata quasi tutta l’Africa, accettava incarichi solo
per essa, e le raccontava sempre di queste grandi contraddizioni.
Era convinto che nel passato lo avessero sempre accompagnato
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Paradiso ——————————————————————
e per il futuro lo avrebbero ancora accompagnato.
La sola differenza fra l’Africa e l’altro mondo era che le contraddizioni erano più evidenti o forse anche esasperate, perché in
Africa la tecnica non era ancora riuscita a prevalere sulla natura e
le persone traevano ancora in prevalenza la loro cultura e la loro
sussistenza proprio dalla natura.
Nel mondo occidentale invece era già avvenuta la separazione
tra natura e uomo. La tecnica, da mezzo e strumento, diventava la
molla del movimento e del vivere umano. Fra non molto sarebbe
stata essa e solo essa ad avere l’influenza decisiva.
L’ingegnere trovava tutto ciò uno sbocco ineludibile.
Per il vero ne era rimasto sorpreso anche lui, non aveva mai
supposto né durante gli studi universitari, né dai primi incarichi
professionali che lo avevano portato fuori dal suo paese, che i rapporti
del vivere e dell’essere stessero cambiando così radicalmente.
La cosa singolare e per molti aspetti sconvolgente sarebbe stata
la mutazione umana, sì la mutazione genetica dell’uomo. Bastava
guardarsi attorno. Il ricorso alla tecnica era inflazionato, ogni aspetto del vivere umano ne era invaso e condizionato. Senza la tecnica
la vita umana non poteva più essere pensata.
Sarebbe stato come ipotizzare una regressione apocalittica.
L’uomo non avrebbe mai consentito.
Né era più in grado di volerlo e forse persino di pensarlo.
L’influenza era decisiva, determinante.
C’era altresì un consenso, una tacita accettazione dell’evoluzione che la tecnica avrebbe causato. Era dunque in atto un processo
senza fine, senza limiti. Sì, la forza della tecnica era inarrestabile e
il suo potere assoluto.
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Paradiso ——————————————————————
L’ingegnere, nonostante le sue sconvolgenti considerazioni,
restava per la moglie l’adorabile creatura che aveva conosciuto
durante gli studi.
La tecnica cambiava il mondo e la persona umana, la sua e
quella di suo marito apparivano ancora integre.
Il suo sentimento per lui era certamente cambiato rispetto al
periodo della fascinazione di gioventù, dell’entusiasmo e dell’attrazione che la sua persona esercitavano.
Ora lei aveva anche consapevolezza del sentimento che avevano
costruito insieme e che li legava.
Certo, quando si accovacciava sulla poltrona per sfiorarle le
labbra con un bacio, la sua tenerezza c’era tutta, la sua dolcezza
caratterizzava il suo viso, gli occhi e quando la prendeva in braccio
e le cercava le orecchie e il collo perché era il segno che la voleva,
lei gli si abbandonava vinta e felice.
Ma c’era di più; non solo erano venuti i figli; era cresciuta una
confidenza fra loro che li aveva confermati nel loro sentimento e li
aveva fortificati.
Perciò quando lui si addormentò accanto a lei e al suo risveglio
continuò a riposare, si spense la luce dentro di lei.
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Paradiso ——————————————————————
LO STABILIMENTO BALNEARE
Secondo la sua compagna era naturale che a lui riuscisse tutto
facilitato, era merito dell’aria più fine che trovava e respirava fra le
nuvole in cui scorazzava la sua testa.
Toccava ora a lei giocare con l’acqua; si vergognava se le veniva
di fare scherzosamente questo accostamento quando il suo pensiero
correva a lui. Gli mancava la sua voce, la serenità e la pacatezza del
suo parlare; era come un cucciolo di cane, non uno spilungone. E
gli mancavano le coccole di quelle enormi e delicate mani, capaci
di piccole tenere carezze.
Dopo la strada del Vallone giungeva a Duino, costeggiava la
pineta che correva accanto al sentiero Rilke.
Da esso un panorama infinito, una distesa di cielo e di mare
senza limite e uno strapiombo angoscioso, come un oscuro abisso
che spesso ingoiava persone distratte o stanche della vita.
Alla fine di esso, la strada faceva una deviazione a destra e
scendeva verso il mare fra curve e tornanti che ricordavano il vertiginoso discendere di una scala a chiocciola.
Si attraversava un bosco di pini, ippocastani, larici così fitto che
non lo trapassava un raggio di sole.
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Paradiso ——————————————————————
Finalmente si entrava nella baia di Sistiana; a destra l’ingresso
alla Caravella con fabbricati cadenti e abbandonati, un tempo stabilimento per forze di polizia e altri dipendenti pubblici; associazioni
nautiche si occupavano di fare conoscere il mare e lo sport della
vela anche ai più piccoli.
In fondo, sotto un costone che ricordava il cammino roccioso
del sentiero Rilke, una scogliera nascondeva il mare, mentre il cielo
era coperto dalle fronde di pini e castagni giganti che con il tempo
avevano incrociato i loro rami.
Alla sinistra, dopo l’incontro con il porto, un grande parcheggio,
con a sinistra un folto bosco e a destra il porto; sempre sulla destra
si entrava nello stabilimento di Castelreggio. La donna entrava,
posteggiava la macchina, si portava alla sua cabina sotto una cascata
di glicini in fiore e una tettoia naturale di verde fitto che copriva da
un lato all’altro lo stabilimento; da una parte sotto i pini c’erano le
cabine bianche a porta blu; poi ciottoli e ghiaia coprivano come un
manto il terreno che si alzava dolcemente per una decina di metri
per poi altrettanto dolcemente discendere sino al mare. Era una
striscia di terra molto più lunga e ampia al tempo della storia dello
scoglio, anni or sono la spiaggia fu letteralmente divisa in due zone,
una a pagamento l’altra libera. Fra esse sorgeva un fabbricato con
servizi di cucina, bar, ristorante e locali igienici.
Al piano superiore alcune stanze per gli ospiti che desideravano
trascorrere qualche giorno di riposo e di svago e, nel retro, una
decina di cabine per i bagnanti.
Dalla parte verso il mare, nel tratto di spiaggia libera, uno
spiazzo era destinato a ristorante all’aperto in cui si servivano piatti
locali a base di pesce.
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Paradiso ——————————————————————
LA RAGAZZA “FRAGOLA”
La compagna della signora di Gorizia era una giovane in rosa
e costume giallo. Giovane splendente, vanitosa. Amava essere osservata, guardata, adulata. Era avida e ambiziosa, peculiarità ricorrenti nelle donne, specialmente se belle.
La “fragola”, come venne subito chiamata sin dalla sua prima
apparizione, colse nel poeta il suo megafono, l’amplificatore del suo
fascino e della sua bellezza.
Attorno allo scoglio fu un brulicare di aspiranti toreri.
Come giunse così scomparve, salvo ricomparire quando tutto
in lei aveva il segno del consunto. La sua freschezza non c’era più.
L’aveva resa logora un uomo che si diceva ricco e che era in
grado di offrirle tutto, di soddisfare ogni desiderio di donna.
In effetti fu così per circa due anni e poi ci fu un’esplosione. Il
pallone d’aria scoppiò. Arrestato per evasione fiscale il suo uomo
finì in galera e si portò dietro anche lei per complicità.
Non poteva non sapere: è un termine da sempre in vigore nella
magistratura. Le prove sarebbero venute poi.
In un attimo perse la libertà e, per il terrore di ciò che sentiva
dire della galera e la silenziosa minaccia che ciò si verificasse e
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Paradiso ——————————————————————
potesse subire le violenze crudeli imperanti in quei luoghi, finì la
sicurezza di se stessa.
Dalla vicenda uscì uno straccio di persona, spaventata a morte.
Non fu più la stessa. Giunse a temere che essere guardata o
guardare un uomo potesse essere giudicato tentativo di adescamento.
La sua bellezza non era mai stata solo avvenenza e fascino, ma
era altresì carica vitale, energia interiore che illuminava l’aspetto
fisico e si trasformava in una miscela di illuminazione estetica e forza
psichica, un mix di bellezza metallica aggressiva e distruttiva.
Con la perdita della forza e della sicurezza interiore sfiorì anche
il suo fresco colore primaverile e si tinse d’autunno.
Il bel giocattolo che aveva costruito di sé fu spezzato.
L’avidità era stata la sua debolezza. L’uomo aveva steso davanti
a lei un tappeto di denaro e di opportunità per appagare il suo
desiderio: avere successo.
Ma l’uomo vendeva moneta falsa e lei non la riconobbe.
Nel periodo iniziale mentre gli uomini, per guardare le donne,
scavavano canali a forza di camminare attorno allo scoglio, lei si
divideva tra il mare e i bagni, il sole che adorava per l’abbronzatura
che le donava; il poeta si faceva bello agli occhi di lei, scriveva e
leggeva versi, scriveva e le dedicava poesie.
No, non intendeva farla sua, portarla a letto, voleva di più,
credeva di affascinarne l’anima, farla spiritualmente innamorare di
sé, del suo spirito letterario.
La giovane sbatteva le palpebre, mandava baci a boccuccia
socchiusa, faceva sorrisini di compiacimento, strusciava talvolta il
fianco su quello di lui, o faceva scivolare la mano a sfiorare le dita
di lui.
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Paradiso ——————————————————————
Bugiardi entrambi giocavano ognuno il proprio gioco.
Molti sussurravano di una tresca fra il vecchio e la ragazzina,
qualche invidioso si atteggiava a moralista e sosteneva che era troppo
assistere alle moine di lei, che era uno scandalo per gli occhi innocenti dei ragazzi, i quali, per il vero, erano i primi a capire e ridere
a crepapelle, e toccarsi il pisello e ostentare il gesto in segno di
scherno.
I più non trovavano nulla di scandaloso nel fare e nel dire dei
due. Si sarebbero dovuti fustigare la metà degli ospiti per atti osceni
se si fosse davvero pensato male del poeta e di “fragola”.
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Paradiso ——————————————————————
LE DUE INGRID
Fra i “soci fondatori” del clan dello scoglio si dovevano certamente annoverare anche le due Ingrid e i rispettivi mariti.
Essi furono il caso più singolare di scambio di coppie che si era
mai visto nello stabilimento e forse nella provincia di Trieste.
La prima Ingrid, quella più giovane e più bella e anche la più
irrequieta, era insegnante di lingue. Bella, litigiosa e incapace di
controllare i suoi nervi, scattava per un nonnulla, si alzava e se ne
andava senza ragione.
Dicevano che era un po’ squilibrata, strana, pazza. Ma dicevano
anche che faceva bene il suo lavoro e i suoi studenti la seguivano e
non piantavano mai casini.
La sua carta vincente era però l’adorazione di cui godeva da
parte del suo preside. Anche questo fatto era notorio, come era però
notorio che lo spasimante era solo uno, il luminare, non la donna.
Lei era innamorata cotta del marito.
A giudicare dalle giornate che passava sulla spiaggia era l’opposto di lei; giungeva ultimo dei quattro, la sua compagna gli aveva
già portato lo sdraio e la borsa.
Lui indossava sempre pantaloncini corti e una camicia ora
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Paradiso ——————————————————————
celeste, ora gialla o verde. Lasciava la villa che abitavano d’estate e
che era a pochi metri dalla scala che scendeva a gradinate di venti
scalini a tratto.
L’uomo sapeva di piacere alle donne, ma molto di più piaceva
a se stesso.
Giungeva e si ungeva tutto d’olio. Era, con quella di buttarsi in
acqua quando aveva troppo caldo, la sola operazione, il solo movimento che avrebbe fatto.
Stava disteso, ruotava la posizione della branda con il sole e si
lasciava abbronzare.
Talvolta tirava fuori lo specchio dal borsellino che conteneva
occhiali da sole, quelli da vista per leggere un giornale, pettine,
specchio, sigarette e accendino.
Per ciò che mancava suppliva la borsa che gli aveva portato la
moglie.
Lui diceva di occuparsi di tessuti all’ingrosso; in verità era un
jeansinaro, uno dei tanti che vivevano e talvolta si arricchivano con
questo commercio di jeans con gli abitanti dell’est, sloveni, croati,
ungheresi, romeni, bulgari.
Conosceva molto bene quella gente e quel mestiere.
Aveva preso da poco la patente e con una Bmw di grossa
cilindrata, il sottofondo del bagagliaio e dei sedili pieni di calze
nailon e jeans, raggiungeva il confine ungherese.
Partiva di sera, viaggiava tutta la notte ed era di ritorno al
mattino.
Un viaggio valeva un mese di paga. Ne faceva molti, al confine
qualcuno aveva concordato quanto pagare ai militi per non vedere
e non chiedere.
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Paradiso ——————————————————————
Aveva pattuito un grosso compenso anche per i molti rischi che
correva.
A volte, infatti, era stato fermato da pattuglie poste qualche
chilometro dopo il confine, quasi un secondo posto di blocco per
evitare che qualche trafficante riuscisse a passare, ma lui era stato
bravo. Aveva preparato pacchi e pacchetti di calze e di soldi. Se lo
fermavano dava loro la possibilità di scelta: tutti prendevano le calze
e il denaro e lasciavano andare.
Il pericolo vero e forse il solo era di incappare in una banda di
delinquenti o rapinatori che gli potevano fare la pelle per portare
via tutto, merce, macchina, documenti e portafoglio.
A compenso gli avevano dato quello che aveva chiesto: un
carretto, un banco ambulante, un armadio con le ruote.
Dentro c’era la merce. Più prezioso era il posto al mercato di
piazza Ponte Rosso; situata nel cuore della città, fra schiere di
palazzi, fra i più belli costruiti a Trieste dalla metà dell’ottocento ai
primi del novecento.
Era divisa in due, da una parte banchi di frutta e verdura,
l’ultima fila riservata ai fiorai. Dall’altra jeans, pelli, calze e camicie.
Si rifornivano tutti al mercato all’ingrosso di Campo Marzio.
Ciò era noto, per cui non era per nulla strano che molte signore
dell’alta borghesia facessero la spesa lì, anzi, quando non si trovava
qualcosa nei negozi tradizionali, si diceva di provare a Ponte Rosso
e si ritornava spesso soddisfatti. Perché lì si trovava di tutto, regolare
e non.
Molte cose si tenevano nascoste, per i pochi fidati e per i
ritardatari, questi ultimi avrebbero ovviamente pagato di più!
In quella piazza vivace e chiassosa il dialetto triestino si incro-
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ciava con il napoletano e più spesso con lo sloveno e il croato e la
lira faceva a pugni con il dinaro mentre soccombeva al dollaro, la
moneta rifugio e garanzia per quelli che provenivano dal profondo
est.
Gioiello esclusivo della piazza, il canale di Ponte Rosso, che
correva fra le vie Bellini e Rossigni che, da un lato, portavano al
mare mentre, nel senso opposto, andavano ad incontrare prima la
splendida chiesa serbo ortodossa e poi la basilica di San Antonio
Taumaturgico.
Alle prime ore del giorno il jeansinaro andava a prelevare dal
magazzino del padrone il bancone e lo spingeva sino alla piazza;
occupava il suo posto, stendeva la merce.
Per anni era stato come mietere il grano. Si guadagnava il cento
per cento e anche di più. Lui doveva pagare le rate dell’acquisto del
posto e del banco e l’affitto per il ricovero.
Ci viveva benissimo, ciò nonostante continuava a fare viaggi
all’estero anche se con minore frequenza, perché voleva mettersi in
proprio e acquistare un negozio con merce per “clientela in”.
Vide per la prima volta Ingrid passare dinanzi al suo banco.
Era vestito tutto di jeans e tirato a lucido quasi dovesse andare a un
ballo. Lei si fermò e rimase senza parole. Nemmeno lui parlò. Dopo
sei mesi erano sposati e lui aveva un vero negozio, fra quattro mura,
in una strada centrale.
Era, tuttavia, in affitto e la merce era sempre quella del suo ex
padrone.
Trovò un socio, il marito dell’altra Ingrid.
Questi, dopo la laurea in chimica, lavorava per una società
farmaceutica. Diceva di voler fare il ricercatore all’università, poi
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propendeva per l’assistente, sempre all’ateneo. Ma non si prendeva
un soldo nell’uno e nell’altro caso e la carriera era lunga e difficile
e senza sicurezza di riuscita. Andare all’estero? Mai e poi mai.
L’America era in Italia.
Insomma non se la sentiva di mettere la sua vita nelle mani di
un professore che lo considerava un servo, che gli ordinava di fare
una ricerca, disponeva che lo sostituisse a lezione, gli imponeva di
fare corsi di recupero per gli studenti e tutto gratis. Lui non faceva
mai nulla, nemmeno per suo padre o per sua madre, se non c’era
un risultato economico.
Così aveva risposto subito all’offerta della prima società farmaceutica che gli aveva proposto un’opportunità di lavoro nella sua
città e nell’ambito della sua regione.
In pratica era un venditore, non molto per un laureato in una
materia scientifica moderna, come si diceva allora, e con un’industria
chimica in Italia all’avanguardia. Il lavoro non era male. Era molto
libero e poteva organizzarsi e prepararsi le visite come voleva lui.
Il suo hobby era la finanza. Borsa, azioni, obbligazioni, titoli.
Anche per i soldi e la loro valorizzazione i medici, tanti di essi, hanno
sempre avuto una peculiare propensione.
Insomma, divenne in breve un professionista molto quotato.
Lo si cercava e gli si chiedeva di tutto. Allargava le conoscenze,
faceva amicizie.
Con la finanza e le speculazioni faceva i soldi.
E aveva anche scoperto un mezzo, da ruba galline, †gli dicevano
la sua Ingrid e il suo migliore amico; faceva la cresta su tutto,
chilometri, diarie, rimborsi spese.
Giunse a farsi dare fatture false dai ristoranti, dai bar e dai
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buffet dei cui titolari era diventato amico! Così ogni mese tirava su
qualche centinaio di migliaia di lire che investiva unitamente alla
metà del suo stipendio e a tutto quello che scroccava ai genitori.
Era un’idrovora di soldi, li raccoglieva dovunque e li investiva
con successo.
Diceva che la migliore medicina, richiesta dai medici e dai loro
assistiti, era il soldo e come farlo lievitare.
Lasciò tutto quando il suo amico jeansinaro gli propose di
acquistare un negozio e mettersi a vendere abiti.
Guardò i conti della gestione dell’amico, chiese conto della
volatilità del mercato estero, appurò la possibilità di acquistare
direttamente la merce dalle aziende produttrici e non da intermediari o dal grossista del suo amico.
E non ci pensò due volte. Lasciò il lavoro e iniziò a vendere per
sé.
Le cose andavano bene; erano in quattro e provvedevano a
tutto loro, non avevano dipendenti, né cassiere né contabili, nessun
costo oltre quello della merce e il loro tempo, tanto che pensarono
di allargarsi e acquistarono un altro negozio.
Ingrid, l’infermiera, si rese disponibile solo mezza giornata,
mentre l’altra decise di porre fine alle chiacchiere scolastiche sul
suo conto, di lasciare che gli studenti e i loro cuori si indirizzassero
verso compagne della loro età.
Fine della maldicenza dunque e inizio di un sorvegliante pressing nei confronti del marito che segnalava ritardi, assenze e che
sembrava orientato ad intensificare le uscite all’estero per guadagnare ancora di più.
No, Ingrid non la beveva! Si diceva un gran bene delle slovene,
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delle croate, delle ungheresi e delle polacche. Tutte belle e brave e
molto disponibili. Troppo brave, secondo Ingrid, con gli uomini e
gli uomini troppo arrendevoli.
Queste straniere avrebbero fatto di tutto per lasciare i luoghi
di miseria in cui vivevano per venire in Occidente.
Non amavano l’italiano, ma la sua cittadinanza. Lui era solo lo
straniero più vicino, e più credulone. Si facevano mettere incinte e
si presentavano a casa del donnaiolo e così mandavano in fumo,
fidanzamenti, matrimoni, famiglie.
Potenza della libertà e della fame!
Sovente usavano altri sistemi, più soft e divertenti.
Ne sapevano qualcosa i vecchi degli ospizi, liberi o vedovi che,
dietro compenso di centomila lire, un giorno di permesso dall’ospizio
e un pranzo luculliano, si ritrovavano sposati a una splendida bionda,
ma non godevano nemmeno dello “ius primae noctis”.
In pochi anni i quattro si arricchirono, ma in pochi anni si
divisero.
La prima Ingrid si trovava bene al negozio. Si divertiva. Conobbe donne e uomini adulti; di alcuni di questi fu sorpresa per la
capacità che avevano di ascoltare e di interessarsi ai problemi di lei
e alla sua persona.
Aveva capito da un po’ che il suo amore era perduto. Era
cambiato: spesso silenzioso, pensieroso, distratto, disattento
Un bel giorno si presentò alla moglie e agli amici e disse: “Me
ne vado. Mi sono stancato di stare qui e vivere così. Me ne vado.”
Mandò una cartolina da un luogo di mare sconosciuto e nessuno
seppe più niente di lui.
Non molto tempo dopo la seconda Ingrid scaricò “l’esperto di
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ogni cosa”, così chiamava da un po’ il suo chimico, e non si fece più
viva.
Lei non amava gli eccessi come il suo uomo. Sapere tutto e
avere tutto. Forse a causa del suo lavoro in corsia d’ospedale si
convinse che a lei non servivano. Sì, erano più le volte in cui era
sfinita e non ne poteva più di tutte le sconfitte di ogni giorno e si
trovava a piangere perché le sembrava di non riuscire a essere utile,
a dare conforto e stendere la mano a qualcuno. Insomma quel lavoro
la terrorizzava, sempre malattie e morte. Non c’era vita.
Ma non era vita neppure il fanatismo con cui i suoi amici
lavoravano. Vendere, e vendere, quanto abbiamo incassato, quanto
abbiamo guadagnato!
Non giudicava nessuno, né del suo ospedale né del suo negozio.
Ma né l’uno né l’altro erano per lei.
Doveva ringraziare gli amici e il marito perché l’avevano aiutata
a capire, a vedere in sé. Era stata rispettata, amata e aiutata, non
poteva rimproverare loro nulla.
Forse aveva bisogno di stare da sola, pensare serenamente a se
stessa e alla sua vita. Liberarsi da condizionamenti di cose, persone
e attività. E così fece.
Un avvocato scrisse dopo qualche tempo per suo conto da
Roma; chiedeva la sua parte di tutto e la ottenne.
E Ingrid e il chimico continuarono a vendere abiti.
Non li si vide più a Castelreggio.
In breve, neppure nei negozi si videro più. Avevano ceduto; ora
si occupavano di diamanti, gioielli e pietre preziose.
Il chimico sempre più avido, Ingrid affascinata, abbagliata dallo
splendore dei suoi nuovi giocattoli.
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Stavano sempre rintanati in una stanza blindata di quattro metri
per quattro destinata a loro negozio, porte blindate, casseforti blindate, vetri antiproiettile, pistole, giubbetto a prova di arma da fuoco,
videocamere, sistema di allarme in collegamento ventiquattro su
ventiquattro con il commissariato di zona e la sezione speciale
antirapine.
Lei, munita di monocolo e lente di ingrandimento era sempre
intenta a guardare gioielli e pietre e sospirare per la loro bellezza;
lui con la calcolatrice elettronica imputava cifre e andava in estasi
nel calcolare guadagni, rese, interessi sugli investimenti.
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STABILIMENTO ADDIO?
Seguirono fatti nuovi e il buon tempo dei bagni al mare sembrava terminato.
Sulla baia di Sistiana era dalla fine della seconda guerra mondiale che tanti avevano messo gli occhi.
La baia era composta da due conche marine circondate da un
verde alto, forte, intenso. Quello che vi era stato costruito se l’era
mangiato il tempo aiutato dalla trascuratezza degli uomini. Era stata
anzitutto sito di scarico dei marmi di Aurisina e del loro carico su
barche che facilmente trovavano un attracco alla terra. Poi divenne
porto. Ora anche il più profano capiva che era un luogo a grande
vocazione turistica che chiamava grandi investimenti.
Gli esperti si esprimevano meglio e dicevano che un posto così
andava valorizzato. La Caravella, il porto, lo stabilimento di Castelreggio e la grande Cava, erano certamente un’area vasta di grande
opportunità.
Non poteva continuare a essere luogo di turismo locale. Tutto
ormai aveva respiro internazionale.
I più attenti alla salvaguardia dell’ambiente si opponevano a
ogni speculazione.
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I frequentatori erano ovviamente per la conservazione e pensavano di poter fare i loro ultimi bagni nella baia e di chiudere gli occhi
portando con sé l’immagine che avevano conosciuto per tutta la vita.
Interessi economici, politici, etnici si erano scontrati ripetutamente sulla baia. Venivano tutti da fuori i contendenti e i compratori.
Ma dopo mezzo secolo la baia era ancora lì, come prima.
Non era detto che fosse un bene, forse era il simbolo del ritardo,
del sonno che per anni aveva caratterizzato la gestione del territorio
e la si era mandata in rovina invece di opportunamente valorizzarla,
ammodernandone i luoghi di accoglienza e i servizi, riqualificandone
l’uso e remunerando così i necessari investimenti.
Lo stabilimento di Castelreggio era stato per cinquant’anni di
proprietà di un personaggio estroso, che amava il suo lavoro e il
luogo in cui lo svolgeva. Amava la pittura e dipingeva quadri su
quadri per immortalare la sua proprietà.
Non c’era arte in lui, solo tanta passione e tanto amore per la baia.
Alla sua morte sembrò che le sorti delle due conche fossero
segnate. Ci fu un acquisto che si dice essere in vita ancora oggi.
Ce n’era stato un altro in precedenza che si era concluso con
un fallimento.
In attesa degli interventi di realizzazione di un piano generale
presentato dal proprietario e approvato dal consiglio comunale di
Duino lo stabilimento di Castelreggio era stato dato in gestione.
Da lì era iniziata la fine dello scoglio. Si era cercato di costruire
una piscina entro lo stabilimento, ma senza successo.
Per la piscina era stato spianato lo scoglio e le grandi pietre
attorno ad esso erano state rimosse e messe a fare da diga di difesa
dell’ingresso della fantomatica piscina.
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La spiaggia forse più bella della costiera triestina era a rischio,
aveva i giorni contati.
Ci sarebbe stata una profonda modificazione. Di fatto sarebbe
finito un ciclo e ne sarebbe iniziato un altro.
Del resto molte generazioni di utenti si erano succedute le une
alle altre.
Il progetto avrebbe previsto, per lo stabilimento balneare, un
prolungamento della scogliera; allo scopo ci sarebbe stato un recupero dal mare di parte del fondo che, presumibilmente, sarebbe
giunto quasi sino all’imboccatura del porto.
In compenso l’area dello stabilimento attuale sarebbe stata
smagrita, avrebbe perduto verde, pini, glicini, parcheggio perché
sarebbero stati destinati alla costruzione dei siti per le associazioni
nautiche.
Il nuovo stabilimento balneare sarebbe risultato una lunga
striscia grigia di sassi e una striscia di terra fra molo portuale e massi
che avrebbero costituito una nuova diga.
Ora, ove era sorto lo scoglio, ha preso posto solo la signora
Laura.
Resta il simbolo di un stagione finita e ne apre un’altra misteriosa e nuova.
È frequentata da vecchi e vecchie; l’età media sfiora i settant’anni. Non è una sorpresa che Trieste e Gorizia siano fra le due
province in cui la popolazione è la più longeva. Uno su tre abitanti
è oltre i sessantacinque anni.
È da una vita che gli affezionati a Castelreggio continuano ad
andare allo stabilimento. Hanno iniziato da giovani. Occupano da
allora le cabine della prima fila e continuano a mantenerle. Sono le
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migliori, situate sotto i pini e rivolte verso il mare. Alcuni si sono
portati con il tempo, data la modesta pensione, in seconda fila:
costano la metà.
Nella spiaggia libera la stragrande maggioranza dei frequentatori è slovena. Ci sono vecchi, giovani e piccoli. Gli sloveni infatti
devono fare figli per non scomparire come minoranza. È un imperativo comprensibile, del resto la spiaggia è sempre stata prevalentemente loro.
Hanno cercato in tutti i modi di difenderne l’etnia. Ora hanno
mollato, non ha infatti molto senso. Gli stati nazionali sono “rétro”.
Un unico contenitore, quello europeo, ci raccoglie e ci unisce.
Dovrebbe essere così e dovrebbe esserci un unico futuro comune
per le regioni confinanti dell’Austria, della Slovenia, della Croazia
e dell’Italia.
Ma l’idea che Sistiana se la prenda e se la goda “lo straniero” non
piace a chi ci ha passato una vita. Per straniero s’intende l’estraneo, e
dunque anzitutto l’italiano, quello che non ci ha mai messo piede e
non la conosce. Sarà una nuova élite che farà sua la baia, un’élite forte
economicamente e solo quella e sicuramente internazionale. Ci sarà
un’espulsione generale di gente che non può, che non potrà comperare
l’appartamento o scendere in un hotel di cinque stelle.
Frattanto austriaci, tedeschi e gente dell’est vengono con sempre maggior frequenza, ma anche i veneti e i lombardi, persino i
romani, amano molto questa terra, questo mare e questa gente.
Giorno dopo giorno, saluto dopo saluto, estate dopo estate,
sullo stabilimento regna ora la signora di Gorizia.
Ha fatto posto accanto a sé a qualche amica, anziana come
lei, e anche a qualche altra donna più giovane.
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Le chiacchiere, le nuotate, il sole, il mare, il tempo, la salute, il
futuro della spiaggia sono ancora i temi di conversazione che aiutano
a conoscersi.
E così stagione dopo stagione, anno dopo anno ci si ritrova e
si allarga la cerchia delle conoscenze.
In prevalenza la popolazione dei bagnanti è ora costituita da
vecchi soli, da vecchie sole, da vecchi con nipoti.
Un tempo era la spiaggia più “in” della costiera triestina, ora
ultimo rifugio balneare di un centinaio di vecchi.
La signora Laura passa da una persona all’altra, da un gruppo
all’altro; leggera e rispettosa si muove fra gli amici, le amiche, dice
e ascolta.
I vecchi temono la calura e l’afa; per essi sono indicate le ore
fresche del mattino, non quelle torride del mezzodì e del pomeriggio.
Laura se ne avvede e del resto anche lei si è portata avanti con
gli anni. Cambia dunque le abitudini della sua giornata. Giunge allo
stabilimento ancor prima delle otto e non si ferma oltre le tredici.
Sino ad allora aveva l’abitudine di giungere verso le undici e di
andarsene alle diciotto.
Comprende subito di avere scelto bene. Sono le ore migliori
del giorno estivo. L’aria è tersa, i colori del mare e del cielo più
nitidi, la temperatura dell’acqua risente ancora della frescura della
notte; solo molto più tardi si riscalda sotto il sole che nella prima
mattina non è cocente né insopportabile.
Si sta bene, sia in acqua che a terra. Si può leggere una rivista,
un libro o conversare. Solo verso sera, con la frescura dell’imbrunire
e l’inizio del calar del sole si ritrova un’atmosfera analoga.
Al mattino è proprio il momento ideale. Anche i bagni e le
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nuotate nell’acqua del mare verde smeraldo sono più tonificanti,
mentre nel pomeriggio il mare si muove, l’acqua si sporca ed è calda,
non invita più, non da ristoro.
Al mattino non c’è solo il mare è tutto il paesaggio che é più
nitido e chiaro.
Il castello di Duino mette in mostra le sue fattezze chiaro scuro;
spingendosi sul mare non più di una ventina di metri dalla spiaggia
si può scorgere anche quello di Miramare, spesso coperto dalla
foschia, ma se la bora aiuta con il suo soffio la nitidezza e il biancore
del castello rifulgono. Anche Grado spesso si fa intravedere, certo
Monfalcone sembra volersi fare accarezzare tanto sembra vicina,
mentre Punta Sottile pare dire di essere l’altra estremità del golfo
di Trieste, anche se si trova ora in territorio sloveno.
Al mattino è bello assistere al nascere della vita balneare nello
stabilimento. La gente che giunge si divide sin dall’ingresso. A
sinistra entrano quelli che si accontentano della spiaggia gratuita,
libera da oneri. Dispongono, del resto, degli stessi servizi di quelli
che entrano pagando un tanto a persona, il posteggio della macchina,
l’ombrellone, la sdraio.
C’è l’assistenza dei bagnini, il servizio di infermeria. Dall’altra
parte hanno le docce e possono accedere come tutti al bar, al buffet
e alla toilette. In verità si lamentano tutti perché i prezzi sono troppo
salati, per non avere gran che in cambio. La pulizia della spiaggia,
certamente, è importante, ma non è sempre al massimo, lascia
talvolta a desiderare.
Ma non sono i servizi a fare la differenza. Forse questa consiste
nella selezione che effettua il pedaggio, nel senso che riduce sensibilmente il numero di persone che entrano nello stabilimento pagando.
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Ed è, per i più, ragione sufficiente.
“Nessuno ti mette i piedi sopra la testa, né i bambini montano
sopra la roba e non c’è chiasso. Si può leggere e riposare senza patire
la vicinanza degli altri.” Si sente dire correntemente.
Insomma la libertà di non sentirsi soffocare dalla ressa, di
muoversi senza temere di cadere sopra a un’altra persona, di andare
in acqua senza fare la fila. Si paga la libertà di essere in pochi!
Coloro che hanno una cabina, che hanno il loro posto da tempo
immemore, sono anche i primi a giungere. Il gruppo dei giocatori
di carte è preceduto da alcune donne che aprono le cabine, tirano
fuori tavoli, ombrelloni, sedie.
Più oltre un gruppo di nonne con nipotine e nipoti sistemano
tavoli con i giochi dei ragazzi.
I bagnini corrono a portare sdraio e ombrelloni. È allegro e
gioioso vedere la spiaggia riempirsi di colori.
Verso le dieci l’afflusso inizia a ridursi per riprendere sul mezzodì e soprattutto nelle ore pomeridiane.
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CREME, RAGAZZI E CHIACCHIERE
Frattanto i mattinieri sono già andati in acqua a bagnarsi anche
più di una volta. Ma prima è interessante assistere all’operazione
creme.
Gli uomini si distinguono anche dall’uso che ne fanno. Gli
anziani, lo si vede, tendono ancora a farlo quasi di nascosto.
I giovani che amano abbronzarsi in fretta, in modo eguale e
omogeneo, passano e ripassano sul corpo soprattutto oli. Le donne
hanno creme per ogni parte del corpo. Le creme sono classificate e
numerate in ragione della loro capacità di protezione dal sole.
Ai primi bagni e alle prime esposizioni al sole usano quelle più
protettive, successivamente, mano a mano che ci si abbronza, quelle
più leggere.
Ci sono poi i fanatici dell’acqua. Non nuotano verso il largo,
ma si tengono sotto costa e se ne vanno per ore o verso Duino sin
oltre il porto di Sistiana o in direzione della spiaggia delle Ginestre
verso Trieste.
Sono rari ormai, del resto l’alta età dei bagnanti trattiene dal
sottoporsi a sforzi eccessivi e pericolosi per la propria salute.
In acqua ci sono i nonni che urlano più dei nipoti; hanno paura
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di tutto mentre i piccoli non hanno paura di nulla. Poveri vecchi
infantilizzati, tiranneggiati dai ragazzi.
Com’è che si dimentica di essere stati ragazzi e genitori? Forse
è l’età che indebolisce ogni senso, la stessa volontà, la capacità di
controllarsi e di ragionare. Si è vittima delle emozioni, di una specie
di ipersensibilità ed emotività che fa saltare i nervi. Forse è in nuce
una malattia neurologica che a tratti si manifesta, da qui le urla, gli
scatti d’ira, l’incapacità a contenersi, l’alzare il tono di voce oltre
misura senza avvedersene.
Eccoli dunque i nonni a minacciare di fare ritorno a casa senza
di loro, di garantire punizioni epocali, di fare sentire i palmi delle
loro mani.
Di contro i nipoti hanno da tempo appurato che si tratta di
reazioni che manifestano debolezza e che non ci saranno provvedimenti concreti e si prendono gioco degli anziani.
Entrano anche le mamme e liberano subito i loro figli.
Hanno da chiacchierare o usare senza tregua il cellulare.
I ragazzi corrono, si inseguono, giocano, scappano, urlano,
piangono, tirano pietre, ritornano piangenti.
Quello che amano di più è cercare fra gli scogli e, in particolare, fra quel che resta del grande scoglio di un tempo. Ad esso
infatti altri scogli giganti sembrano intrecciarsi come i fili di una
collana di perle e scendono, insieme ad altri, verso il mare.
Per i ragazzi, in mezzo a quelle pietre, ci sono pesci pirania,
mostri marini, tesori di pirati. Inventano e sognano ad occhi aperti.
Creano e fantasticano.
Spesso, più realisticamente, si accontentano di pietre e pietruzze dai più svariati colori e sottilissime per essere state levigate dallo
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sfregamento sul fondo o fra loro dai flussi e riflussi dell’alta e bassa
marea. Le forti risacche le hanno fatte rotolare e girare su se stesse
e trascinare a riva, proprio come fa la ghiaia in una betoniera per
impastarsi con la sabbia e farsi cemento.
Più spesso non ci sono tesori né bastano le pietruzze. Il mare,
quasi lo sapesse, fa trovare i suoi reali abitatori o tracce di essi, come
gusci di cozze e di altri molluschi, ma va meglio con i ricci e talvolta
con qualche cavalluccio marino.
Per chi gioca a fare il pescatore, qualche pesciolino, sempre più
di rado, cade nel suo retino e fa una brutta fine, perché succede
spesso che si muoia anche per troppo amore, e, con i ragazzi, ma
non solo con loro, il possesso si fa ossessione feroce e fa male
all’ospite prigioniero e all’involontario predatore.
La caccia, i ragazzi, la danno alle meduse, a quelle grosse, a
quelle giganti dicono i giovani. Invece di essere pacificamente
allontanate verso il largo perché innocue, vengono tirate a riva e
fatte morire. E come sono catturate le meduse emettono le loro
irritanti sostanze che mai avrebbero fatto uscire da sé in tale
quantità, e inquinano l’acqua circostante che irrita, splendida
vendetta della natura per gli stupidi bagnanti, piccoli e grandi.
Ma le mamme, non ci sono, chiacchierano; i nonni non ci sono,
dormono!
Alcune mamme continuano a parlare indifferenti al telefonino
o a chiacchierare con l’amica. Altre sono occupate a leggere.
Sì, ci sono anche quelli che si dedicano alle “letture pesanti”,
di libri di autori americani, molto di moda, dalle seicento alle mille
pagine; sono libri gialli, romanzi infiniti, libri noir o di fantapolitica.
Americanate! Sì, americanate, si diceva così una volta.
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C’è stato un periodo in cui faceva testo e piaceva tutto ciò che
era USA. Durò abbastanza, subito dopo la fine della seconda guerra,
quella mondiale, non quella in Iraq.
Allora c’era una pressione immensa, veniva dalla gioventù universitaria americana, veniva da una voglia di libertà collettiva sprigionata proprio dagli americani, veniva dalla musica, dal canto, dal
ballo, dalla poesia, dalla letteratura, soprattutto dal cinema. Veniva
dalla inquietudine e dalla insoddisfazione giovanile.
Veniva insomma da una voglia di nuova società. Ed era l’America, non la vecchia Europa a tirare la volata. La seconda guerra era
stata vinta, ma non aveva portato grandi cambiamenti, le grandi
promesse non erano state mantenute. La società americana si metteva in movimento e aiutava il mondo a muoversi e a cambiare.
E ora? Ancora americanate?
Crisi di letteratura italiana ed europea, crisi di cinema e di
teatro. Crisi culturale e politica. Fine della guerra fredda? Fine delle
ideologie, dell’ancora del comunismo contro il liberalismo tanto cara
agli intellettuali europei?
Di nuovo l’America prende il comando e tira la volata. Fa quello
che vuole e forma coscienze e cultura. Sono simboli. Solo che con i
media di oggi giunge fino alle radici popolari e le cambia, le influenza
di sé.
E va bene lo stesso, purché il mondo continui a girare. Qualche
pollaio fa chiasso, ma nessuno se ne occupa.
No, sta proprio cambiando di nuovo il mondo. Sembra tutto un
colabrodo di guerre, non sono botti di tappi di champagne, sono
conflitti con morti, tanti morti. Sono risposte gravi a soprusi gravissimi.
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Il “mondo libero” sembra proprio incazzato contro teste calde
che tiranneggiano alla Hitler interi popoli. E la seconda guerra
mondiale perché si era fatta?
Ma proprio quando tutto sembra chiaro qualcuno pensa l’impossibile e lo fa.
Un atto di guerra terroristica all’America!
È la fine del mondo. Reazione! Bisogna fare piazza pulita di
chi porta il terrore.
Sono d’accordo tutti. Poi cammin facendo iniziano i distinguo,
le riserve. La grande America viene lasciata quasi sola. E questa fa
da sola. E vince. Gli altri sperano che si sporchi di cacca. E un po’
se la prende, ma vince e quasi stravince. Gli altri si cagano sotto e
capiscono che senza l’America si muore tutti.
La raccontano così allo stabilimento, tra una briscola e un
tressette.
È stato tutto un gioco. Ma il più bravo vince, il più forte vince.
Che siano tutti rincoglioniti quelli dello stabilimento a pagamento?
Tutti di destra e per questo leggono quei libroni di scrittori
americani?
E i nostri grandi scrittori? Quali? Non ce ne sono più, come
non ci sono registi, attori. Non c’è più niente. C’è proprio declino,
sì ma della cultura sin’ora dominante!
Americanate, americanate.
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“LA FAVOLA CELESTE”
Uno dei gruppi più compatti e solidi e che da anni occupano
forse il posto più strategico e affascinante è quello dei giocatori di
carte, vicini all’ingresso e dunque al bar, vicini alle docce, attaccati
alle cabine centrali di prima fila.
Incominciano a giocare quasi subito.
Prima commentano le ultime notizie del quotidiano locale e
del primo giornale radio; politica, sport, calcio e pallacanestro. Stop!
Incominciano le danze.
Briscola e tressette. Se le donne sono disponibili e abbandonano
le chiacchiere per un giro, si fanno tre incontri a briscola e tre a
tressette, oppure tre giri di solo briscola scoperta o prendi meno.
Di solito, però, le donne preferiscono la scala quaranta, perché
gli uomini sono troppo forti a tressette dal momento che giocano
sempre, e di regola è nel pomeriggio che si fa quel gioco, a meno
che gli scontri fra le coppie non siano tanto tesi e accesi perché tra
vittorie e sconfitte i contendenti sono in parità. Si deve, allora,
trovare un vincitore oppure quello che sta perdendo richiede a tutti
i costi la rivincita.
Gli uomini non vedono che le carte, una sigaretta e un bicchiere
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di vino o una birra, le donne invece si portano a fare un bagno e
continuano a parlare mentre si rinfrescano o nuotano.
Solo l’ora del pranzo interrompe il gioco.
Le mogli prendono le borse e i tavoli da gioco diventano tavoli
da pranzo; si sono divisi i compiti, chi ha portato gli antipasti, chi la
pasta asciutta, chi la carne impanata, chi il formaggio e la frutta;
non è atteso chi ha portato acqua, vino e birra, perché le bevande
sono gia state servite durante il gioco.
Anche chi non ama il gioco delle carte non può non sostare e
dare un’occhiata o non sorridere quando scoppia una polemica o
un forte contrasto fra le coppie. Se ne sentono di tutti i colori.
Sono il pranzo e il pisolotto che seguono a calmare gli animi e
riportare serenità, salvo il riaccendersi dei contrasti nel pomeriggio,
cosa quasi inevitabile, anche per il caldo che fa aumentare l’irritabilità.
In quella che passa per una piscina mancata e che dopo l’ultima
sistemazione è ridotta parte a tinozza e parte a contenitore di ghiaia,
corrono per un po’ i ragazzi e le ragazze.
Lo spazio è così angusto che abbandonano quasi subito la pozza
d’acqua.
Non ce li portano quelli della colonia estiva che per due mesi
vengono allo stabilimento, ed è una buona cosa.
Non si è mai capito come funzioni la loro organizzazione. A
volte sono solo maschi, altre volte solo femminucce, spesso sono
misti.
Hanno maestri più stupidi che tiranni. Lavorano di fischietto
con trilli che stordiscono i bagnanti; i comandi sono sempre urlati,
le voci minacciose.
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Si salva solo una persona fra gli assistenti. È uno di loro, di fatto
il capo. Deve controllare i colleghi, confortare i ragazzi dopo gli
errori dei primi; è un continuo rimediare ad errori di incompetenza
e di impreparazione nel gestire i ragazzi. Non riescono a comprenderli, non li ascoltano e parlano poco con loro. Gli istitutori sembrano sempre preoccupati e a tratti spaventati.
Perciò mandano i ragazzi in acqua per cinque minuti, li tengono
a riva pochi minuti al sole, molto tempo seduti, o accucciati in
silenzio sotto i salici che crescono alla sinistra dopo l’entrata: sembrano sempre in punizione!
All’improvviso perdo la pazienza e vado a dirne quattro a quegli
sprovveduti. Anche se, a volerla dire tutta, non c’è nessuno che sia
esente da critiche in quel luogo.
Si tende da un po’ di tempo a fare ognuno i propri comodi e
fregarsene degli altri.
Intanto la cortesia è in caduta libera. Non ci si saluta più. Eppure
un buon giorno al mattino è pari a una bella doccia ristoratrice; un
sorriso, un capo che si muove per un cenno è indice di rispetto e di
ossequio.
Gli stranieri non sembrano avere perduta questa abitudine.
Eppure, spesso, troppo spesso, persino i signori gestori che vedono
arrivare coloro che gli fanno guadagnare la giornata, senza dare
fastidi o come si dice ora, senza rompere le palle, fanno fatica a
salutare, al più rispondono al saluto.
Sta cambiando con il comportamento, anche il linguaggio: va
bene essere concisi, parlare per frasi fatte, per sigle, come si fa con
i telefonini, ma semplificare al punto di non salutare, di non scambiare due parole, di guardare in faccia una persona che conosci e
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non dirle che è una buona giornata e che altrettanto auguri a lei.
Insomma si parla di solidarietà, di aiutare il prossimo e non si
saluta nemmeno più. Salvo esagerare in smancerie quando si incontra qualcuno, urlare sguaiatamente, sbracciarsi e toccarsi. O nulla o
troppo. Non c’è misura.
Non si capisce più nulla. È il commento ricorrente di uomini e
donne in età.
I ragazzi sanno a stento leggere e scrivere, ma non sanno parlare
gran che, non sanno salutare e dicono parolacce, usano uno slang
che non si può più dire roba da bassifondi, perché è di tutti.
La volgarità è dilagante, sempre più diffusa.
Perciò sono andato a sfidare i fischi per richiedere un po’ più
di gentilezza verso i ragazzi della colonia, dico loro che se vogliono
mandarli in acqua do volentieri una mano, ho esperienza, li so
guardare i ragazzi. Non vengo cacciato in malo modo ma dicono
che non ci sono più tanto con la testa e che devo farmi i fatti miei.
Ma non è così. So cosa manca sempre ai ragazzi collegiali e se non
glielo si dà da giovani gli mancherà tutta la vita: la comprensione.
Sono sempre io a stigmatizzare negativamente questa distrazione collettiva del saluto, della cortesia e ho invitato più d’uno a
pensarci, a riprendere queste usanze gentili, a insistere nel salutare,
meglio un ciao in più che nessun ciao, e dico:
“Com’è possibile che mi sia capitato per ben due volte in una
settimana che una giovane donna, una ragazza si sia girata verso di
me mentre lasciava l’amica con cui stava parlando e mi gettasse in
faccia l’espressione – Ma va a fare in culo – La prima volta sulla
porta d’ingresso di un supermercato. La seconda nel reparto docce
di una piscina. La risposta è stata che non dicevano a me. Ma non
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si sono scusate. Ma c’è bisogno di copiare proprio tutto dai maschietti
per volere essere uno di loro?”
Molti reagiscono ridendo, ma qualche donna prende ad ascoltare con attenzione e ad agire con convinzione.
Un bel giorno appare un cartello sulla bacheca dell’entrata. Dice:
“Buon giorno e complimenti a tutti e grazie al gestore per la
partecipazione.” Il tasso della cortesia è raddoppiato. Quello del
saluto si è alzato del trenta per cento. Non si conosce il tasso iniziale
di valutazione.
Tutti a leggere, a sorridere, a fare cenno di sì con la testa.
Non è vero niente ovviamente. È una mia trovata. Ma ha un
seguito. E la cosa più stupefacente è l’impegno di ragazzi e nonni a
enfatizzare il saluto.
Io, il rompiscatole, è da poco che sono fra quelli dello scoglio.
Nota in quella spiaggia era solo mia moglie, insegnante che,
finita la scuola, correva a prendersi il sole e a fare il bagno. Io ero
sempre occupato altrove. Lei si godeva la libertà di andare dove
voleva. Sarebbe stata mia prigioniera il sabato e la domenica.
Amavo andare solo a Duino, alla Dama Bianca.
Arrivavo e trovavo posto per la macchina vicino a quella del
padrone. Non pagavo ingresso, avevo il mio tavolo e restavo lì sino
a sera. Mia moglie si lamentava perché lì non respirava, era tutto
così stretto e sempre pieno di gente che sentivi l’odore dei corpi che
cresceva con il caldo e con i sudori dei bagnanti. Uno schifo!
Mangiavo, dormivo, facevo un bagno, leggevo i giornali, chiacchieravo con tutti, facevo un altro bagno, la siesta. E così fino a sera.
Una bellezza!
Per chetare le ire di mia moglie ricorsi a un piccolo gommone,
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sufficiente per allontanarci dallo stabilimento, raggiungere la spiaggia del Castello di Duino e fare un bagno più tranquillo e in un’acqua
più pulita.
Ma spesso bisognava restare al largo perché bastavano poche
barche e qualche gommone per riempire la spiaggia. Si doveva
rimanere a bordo e si correva il rischio di farsi venire il mal di mare
per il rollio.
Un modestissimo moto ondoso faceva ballare il gommone e il
moto sconvolgeva lo stomaco.
Con il pensionamento fui trascinato a Castelreggio e dopo un po’
dovetti convenire che mia moglie aveva ragione: c’era verde, c’era
spazio, c’erano cabine, c’era acqua più bella, non c’era ristorante.
Anche questa carenza divenne un fatto positivo; la pensione
non permetteva più di spendere e spandere. Bisognava contenersi.
E dunque era bene che non ci fosse il ristorante.
Bastava un panino, meglio ancora se lo si portava da casa come
facevano ormai quasi tutti.
Fui ancora io a lanciare la proposta. Ne avevo fatto cenno alla
signora Laura.
“Se ne occupa lei signora? Io non ho tempo. Non posso sentirli
tutti, né li conosco a sufficienza per illustrare una simile iniziativa.
Sono qui da meno anni di lei. Sì, non è un gran lavoro. Bisognerebbe
però avvicinarli tutti, averne il consenso preventivo. Forse si dovrebbe dare vita a una associazione ad hoc”.
“Come ha detto, scusi? Che dovremmo inoltrare una proposta
scritta al Padre Eterno? E chiedere cosa? Dovremmo chiedere che
ci sia riservato uno stabilimento come questo, la Castelreggio n.2.”
Si mise a ridere e scappò via.
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Io avevo fatto una boutade, poi la cosa mi sfuggì di mano.
Incominciarono a parlarne, a fantasticarci sopra. Divenne uno degli
argomenti del giorno, come una gaffe di Berlusconi o l’ultima trovata
di Bertinotti. Pensai di farne una favola, di scriverla e lasciarla in
memoria ai ragazzi dello stabilimento. Ma loro a chiedermi: “Il
paradiso? Ma c’è? E dov’è? Ma secondo lei è come quello degli
islamici. E i corpi, i nostri corpi? Perché con questa cremazione, io
non ci capisco più nulla. Non è più la stessa cosa. E la resurrezione
della carne?” Altri invece:
“Ma siate seri. Dopo la morte non c’è più nulla. Si sa, basta
vedere quel che resta dopo dieci anni, polvere!”
Ma scherzando o meno, ne parlavano. Era nato un caso.
E si concluse che qualcuno se ne occupasse, approfondisse e
riferisse.
Male non avrebbe fatto di certo.
E così fui il portatore della “favola celeste”, l’incaricato di
trovare in paradiso un posto simile al nostro.
Gente allegra il cielo l’aiuta, si dice dovunque. E quello fu un
altro dei nostri modi di dire, di salutare, di dire se si era o meno
dell’idea da me lanciata.
Ci sto riflettendo da giorni.
Chiedere di trasferire di là una parte del mondo di qua. Non
mi riferisco alle persone che questo è il loro arrivo ultimo. Ma
potrebbe dirsi fuori posto e fuori luogo chiedere che un bene materiale, una cosa terrena sia trasferita in paradiso. Sembra un atto
di scarsa spiritualità. Niente religiosità. Mancanza di idealismo!
A dire il vero suonava anche stupida. Un giorno la vedevo così,
un altro solo carente di sacro.
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Pensavo, nei giorni di maggior follia, che l’adesione all’associazione e la sottoscrizione della domanda che l’avrebbe accompagnata
con la specificazione del luogo che si desiderava e che si condivideva
con gli altri, fosse un sufficiente atto di fede di una piccola comunità
cristiana, come la nostra.
E aggiungevo che la funzione che “la cosa materiale” era chiamata a svolgere era di grande significato.
E chiarivo: “Chi aderisce alla proposta, sottoscrive la domanda,
indica la cosa terrena, compie un atto di fede perché implicitamente
dice di credere alla morte, alla resurrezione, in un solo Dio, di
rimettersi a Lui per ogni decisione.”
I bagnanti aggiungevano che, a conferma dei loro sani sentimenti, loro avrebbero voluto alzare gli occhi a Lui ogni giorno e
chiuderli elevando a Lui il pensiero ogni sera come, del resto, fanno
abitualmente di qua. Avrebbero gradito molto stare con la gente di
qui anche di là, e di avere di là un posto uguale a quello che amavano
tanto di qua. “Come lo spirito e il corpo di là si ricongiungono anche
lo spirito e la natura è bene che siano compatibili con le opere e la
vita di ognuno.
Noi qui siamo molto amalgamati; ci rispettiamo l’un l’altro e
godiamo fraternamente di un bene comune in serenità e in pace.
Siamo sicuri che qui godiamo già della benevolenza del Signore.
Ebbene vorremmo proprio continuare così. Non sostituirci alla
volontà di Dio, ma continuare di là a fare la sua volontà proprio
come avviene di qua.
Sì, è vero, si è sempre detto che di là si va senza bagaglio. Ma
noi saremmo spogli di ogni cosa. Non chiediamo di portarci dietro
lo stabilimento, ma che di là ce ne sia uno simile.
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Perché questo nostro sogno terreno possa continuare in eterno
in paradiso.
Non vogliamo sostituire con il nostro bene il dono di Dio, il
poco con l’immenso.”
Questo si leggeva nel documento che andavo predisponendo,
secondo la volontà di tutti.
“Ma la diversità sta nella presenza di Dio non fra lo stabilimento
e quello che Dio ci potrebbe offrire di Suo, che è inimmaginabile,
non ipotizzabile. Se Lui è infinito noi sappiamo di sbagliare e di
perderci nel cambio: ma non è un cambio è il nostro unito al Suo,
l’umano e l’ultraterreno insieme, un mix fra un luogo naturalmente
bello e gioioso, umanamente lieto e qualcosa di trascendente, bellissimo, gaudioso, incomparabilmente luminoso.
Insomma, ci sia perdonato il dirlo, è come se volessimo portarci
appresso una moneta ricordo, una medaglietta di mamma o della moglie.
Qualcuno diceva che Dio ha lasciato il paradiso per venire in terra per
amore dell’uomo, potremmo forse noi fare un’imbarcata di uomini e
donne e volare con una scopa e portarci in tasca un po’ di ghiaia della
nostra spiaggia e un pezzo del nostro scoglio, della nostra vita.”
E io continuavo a sviluppare questa riflessione.
Sì, forse, è attaccamento consumistico, forse è proprio così, un
modo di vivere che non si stacca dalla pelle e non lo si cambia perché
si muore, ma è compenetrato nel dna e in ogni nostro pulviscolo.
Noi siamo sicuri che giochiamo a rimetterci, ma mica abbiamo
chiesto i Caraibi o le Maldive, che sono ben alla portata di Nostro
Signore.
Sì, forse il nostro peccato e la nostra poca fede si manifestano
nell’atto di superbia con cui pensiamo di gettare a mare il premio
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Paradiso ——————————————————————
della vita eterna per uno stabilimento balneare?”
Queste poche riflessioni dicevano già della delicatezza della questione, e dei suoi aspetti gravi e che, a parte la buona fede, c’era il
pericolo di fare del male. Ma chi era certo che fosse una buona cosa?
Ne era proprio convinto? Bisognava spiegarsi, parlare. Con chi?
Si doveva trovare la strada giusta per parlare per tempo con
Dio o uno dei Suoi per illustraGli il progetto, perché di là si sapesse.
E si fosse avvertiti che nel frattempo qualcuno dei nostri avrebbe
potuto precederci, e che era in grado di anticipare i nostri desideri
e parlare della nostra associazione. Insomma uno o l’altro di noi
avrebbe potuto illustrare il nostro sogno a qualcuno di là.
“Riepilogando,” dicevo alla signora Laura “bisogna preparare
una lista delle persone che condividevano la cosa; predisporre una
nota di presentazione.
Ma prima ancora, una selezione, una scrematura va fatta.”
C’era stata della gente che a sentire l’idea aveva fatto una faccia
attonita, sorpresa come a chiedere se davamo i numeri; altri avevano
incominciato a ridere e non la finivano più.
Qualcuno aveva detto seriamente di lasciare in pace Dio e la
religione. Con le cose sacre non si scherza mai.
Ma i più avevano aderito, senza commenti.
Forse pensavano che fosse uno dei soliti giochi estivi. L’estate
è la stagione dei giochi e il nostro luogo era quello adatto, per fare
qualcosa di scherzoso, come una lotteria.
“E perché no?” dicevano. “E poi da cosa nasce cosa, chissà che
non si finisca in televisione o non si muova il Vaticano.” Commentavano tra il serio e il faceto.
C’era infine il problema se includere o meno il gestore. Nessuno
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lo voleva, per lo meno in tale veste. Capace di prendere lui in mano
la cosa, farla sua.
E mettersi a trattare con il Padre Eterno come fosse il prezzo
dell’entrata al suo stabilimento o quello dell’acquisto di un cestino
per asporto del suo ristorante. Si agitava per niente e faceva vedere
mirabilia, ma oltre a qualche pianta di fiori, gerani di solito, tutto
finiva lì. Niente di nuovo.
“Stuco e pitura fa bela figura.” Oppure “Basta poco per inzinganar la gente” erano le battute di commento al suo attivismo
sfrenato, ma infruttuoso.
Più d’uno sosteneva che la gente non veniva più al nostro
stabilimento e deviava sempre a sinistra verso quello a entrata libera
non solo perché era evidente il suo fare da “Voio e non poso” di chi
o non vuole spendere, ma anche perché si pagava l’acqua, l’aria e il
suolo. E tutto costava troppo e che non avevano nulla che non
avessero anche quelli che non pagavano l’entrata.
“Paghiamo il maggior spazio che abbiamo rispetto a quelli
dell’altra parte. Paghiamo il lusso che non ci montiamo i piedi l’uno
sull’altro e non siamo pigiati come sardine.
Ma queste non sono sue agevolazioni; sono la conseguenza della
diminuzione degli ingressi.
Altri servizi? Nulla. Da anni è sempre la stessa musica. Ma forse
è meglio che non ci siano novità.
Di recente, infatti, ha messo verde e fiori che regolarmente
muoiono per il troppo caldo; sono posti a ornamento di un’altra
iniziativa, di tavoli ristoro su una piattaforma in cemento, delimitata
da lampioni, siepi e fiori, per serate romantiche sulla spiaggia, balli
notturni in riva al mare.”
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“Un fallimento! Un altro flop. Di fatto, però, ha ridotto ulteriormente il nostro spazio vitale. Tra piscina e pedana danzante un
quinto della spiaggia ci è stato tolto!” Vanno ormai abitualmente
mormorando e lamentando i bagnanti.
È finito il periodo delle grandi intese, quando il gestore aveva
guidato con comunicati stampa e affissi in bacheca la protesta di
tutti i frequentatori di Castelreggio, paganti e non, per la salvezza,
la conservazione dello stabilimento, loro luogo di ritrovo e svago
estivo. E sua sussistenza!
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GIOCO DELLE CARTE E VOGLIA DI PARADISO
Vediamo allora questa lista.
C’è tutto il gruppo dei giocatori di carte. Giocherebbero anche
all’inferno. Ma è tuttavia vero che in primavera avanzata, estate e
primo autunno amano giocare in questo luogo e come si portano
via tavolo e sedie porterebbero con sé un pezzo di quel cielo, di quel
verde, o forse i compagni di gioco e quelli che siedono attorno a
loro per ridere commentare e passare un po’ di tempo senza pensare
a nulla.
Sì, quelli vengono di sicuro e non si vergognano del vizio del
gioco e di bere qualche bicchiere di troppo. No, non si vergognano
nemmeno del fumo. Amano la loro donna, le carte e un po’ di pace.
Credono di poterlo dire tranquillamente al Padre Eterno che
per loro andrebbe bene un patto così fatto, insieme a Lui con dei
tavoli da gioco, Preghiera, Adorazione di Lui e Gioco delle Carte.
Una di loro sembra la loro buona coscienza, la loro saggezza e
l’interprete del loro pensiero. Parla spesso per loro, traduce il loro
pensiero ubriacato dalle carte, dai colori, dalle figure. Lei li sente e
li segue, ma legge riviste e libri.
È la loro intellettuale, esperta di cucina e di cinema. Scrive
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articoli per importanti riviste e quotidiani. Vive più a Milano che
qui.
Ma le estati le trascorre qui in mezzo ai suoi compagni, d’asilo,
di scuola, di liceo e di università. Tutti qui, tutti vivi, ben sistemati
e sempre innamorati delle stesse cose, della vita, del gioco e di una
donna.
Solo lei sa quale grande mistero sia l’anima del giocatore di
carte. No, non è quella di un giocatore qualunque, né quella della
slot machine o dei dadi.
Ci vuole ben altro per giocare a briscola e tressette o a scopa.
“È tutta questione di simbiosi, fra cervello e fisico, fra intellettività e fisicità” dice la donna. Sì perché, per esempio, anche quando
tutto ti dice di giocare una determinata carta, come la logica, gli
scarti degli altri e la tua memoria ti dicono, tu senti di dover giocare
diversamente e compi il miracolo, il colpo della giocata vincente e
sbalordisci tutti, quello che ti urla dietro che è solo culo e che il gioco
non chiamava quella carta e che devi spiegare perché l’hai giocata,
e tu non lo sai, e gli altri capiscono allora che sei grande, che hai
l’istinto, sai leggerle dietro le carte e ne senti il suono, il rumore e
l’odore, di ogni colore e di ogni figura.
Si chiama “estro”.
La donna ora è in pensione. È nonna. Legge. Guarda gli amici
che giocano e li ama. Quanta tenerezza. Ma ora preferisce il gioco
con la nipote e scappa spesso con lei sulla battigia. È come tutte le
nonne. Preoccupata, ansiosa, ma felice.
La chiamano spesso per un parere, per fare da arbitro o da
paciere. Sanno che lei è quella che meno s’intende di gioco, e
appunto per questo la chiamano. È più genuina e immediata. Dice
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di getto quello che pensa, il vero. E a loro sta bene anche se non lo
trovano sempre giusto. Perché è preparata, saggia e autorevole.
Una donna che piace. Si teme il suo giudizio. Incute rispetto.
Piace salutarla e chinare il capo, in segno di omaggio, come si faceva
con l’insegnante delle elementari e quella del liceo. Due grandi
donne.
Ma quanto costava salutarle così, ossequiarle. Di solito allora
nessuno aveva molta considerazione delle donne. Ce lo avevano
insegnato a non avere bisogno di loro, a non tenerne conto. Trovarsele di traverso lungo la strada della vita e doverci fare i conti se
volevi proseguire non è stato facile, ma, dopo quella prova, c’era di
che essere contenti. Stavi meglio, avevi l’impressione di avere trovato
più di un amico. E di essere cresciuto di un po’.
Le donne. Ci hanno sempre fatto paura e le abbiamo sempre
ammirate e amate. Tutte, proprio tutte.
Questa donna è saggia, semplice, gentile. Tenera. Potrebbe fare
la nostra capolista e rappresentarci tutti.
Ma si capisce che aderisce senza convinzione, anzi; si intuisce
che ne avrebbe di cose da dire lei.
Ma per i suoi amici preferisce tacere e raccontarci quello che
scriverà domani su un film, rivisto alla televisione. E tutti ad ascoltarla perché, guarda caso, lo abbiamo visto in molti di noi. E come
ne parla e come descrive scene e fatti e significati sembra proprio
che parli di un altro film. Crediamo di avere dormito. Poi la nipote
la scuote e la richiama e lei sembra destarsi. Sorride e chiede scusa.
Deve andare. Ma prima soggiunge che ci ha inventato qualcosa di
sana pianta, la favola che racconterà questa sera alla nipote. E ci
sorride, così, semplicemente e amichevolmente.
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A noi pare di avere sentito suonare un assolo di violino. Stupendo!
Non è male nemmeno la moglie del mago delle carte. Sì, lui è
proprio un mago delle carte, lo dicono tutti.
Lavora in una società di assicurazioni. Ma non si sa altro.
È sveglio, lo si capisce subito. Lavora con le carte. Sa sempre
come girano e dove andranno a finire. E per questo che è anche
molto fortunato. Se non fosse generoso e socievole, per il fatto che
vince quasi sempre lui, stancherebbe anche un santo.
Se perde è perché il suo compagno non è in giornata, non vede
una briscola durante tutta la partita o non ne azzecca una che sia
una!
Oggi non c’è con la testa. E allora il mago perde, sembra che
abbia perso solo lui, perché gli altri non stanno nella pelle dalla
incredulità e dalla contentezza. Sfottono e ridono, fanno sberleffi e
ridono.
“Si gioca bene in tre contro uno.” E su questo tema tirano avanti
tutta la giornata.
La moglie del mago è lunga e segaligna. Ordinata, nulla mai
fuori posto. Ha un modo di fare da gran signora. Ma non stona fra
quella plebaglia. Se il mago è intelligente, lei è ancora bella e fine.
Ha stile: quello che lui non ha più. Il gioco logora, come ogni cosa
a continua alta tensione. Essere sempre l’uno di fronte all’altro e
giocarsi sempre tutto. Essere o non essere. Vincere o perdere.
Influenza il carattere, incide sulla personalità. E alla lunga fa
perdere la classe, il rispetto. Perché il male emerge e sovrasta nel
senso che lo faresti, pur di vincere, anche se sai che il solo pensarlo
è delittuoso.
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Ma pur di vincere faresti del male all’avversario?
Non oltrepassare mai la linea del corretto e dello scorretto, è
questo il punto d’onore che è facile perdere. Se non lo fai esasperi
te stesso, la tua fibra di resistenza, il tuo sistema nervoso per lo sforzo
cui ti sottoponi; prima o poi cedi e cadi e devi smettere di giocare;
se lo fai, ti sporchi l’animo e le mani e continui a giocare, ti abbruttisci, ti butti all’alcol, alla droga per dimenticare la vergogna di essere
diventato uno senza dignità, un baro. L’hai fatto il male, quando?
Per non dire se smetti di giocare per diletto e inizi a buttare sul
piatto valori pesanti sul piano economico e morale. Ti prepari la
catastrofe, la fine.
Le rughe che solcano il viso e la fronte del mago dicono di un
gioco pesante e di sofferenze gravi sopportati nel passato.
Forse ha giocato troppo forte e ha compromesso la propria
sicurezza economica. O forse in extremis qualcuno lo ha sottratto
da un vortice ubriacante.
Ora pare avere ritrovato quiete e gioca qui al mare, al bar, per
un euro a partita, sotto gli occhi attenti di sua moglie.
Anche la donna manifesta segni di sofferenza, superata ma grave.
A lei la vita aveva dato un uomo amante dell’avventura che si metteva
sempre in discussione, che doveva sempre cimentarsi, che come giocava
i suoi soldi era pronto a giocare se stesso, la sua esistenza.
I giocatori sono personalità stravaganti, estrose, caparbie e
rovinose che amano e cercano il successo, la ricchezza, l’agiatezza,
o hanno smania di misurarsi, di fare in fretta, di bruciare vivendo
ogni meta.
Portano la loro intelligenza su un terreno minato, aleatorio e
rischioso.
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Paradiso ——————————————————————
È come se una grossa calamita li attirasse, resistono convinti di
vincere quel gioco di tiro alla fune, ma l’altra parte attrae a sé sempre
più violentemente.
E rotolano a terra vinti e non capiscono più le regole del gioco,
perché non resistono all’avversario, non lo contrastano più, ma si
agitano febbrili, smaniosi e si avvolgono sempre più nella sua rete.
Il gioco è parte integrante della vita, per loro è la vita. La sfida,
la competizione sono della nostra natura, sono l’essenza di essa.
Ma se si confonde il mezzo con il fine e se si porta ad impegnare
l’intelligenza in un risico sproporzionato e superiore ai propri mezzi,
in una sorta di gioco alla roulette russa per cui chi perde, perde tutto
e chi vince, vince tutto e la vita non vale più di una scommessa, si
sono stravolte le regole e si è superata la linea di salvaguardia del
rispetto di sé e degli altri.
Il mago forse non ha ancora accettato tutto ciò, ma sa che non
può giocare la fiducia di lei, non la vuole perdere. Gli resterebbe
solo il suicidio, per il quale non si sente pronto. È confuso, non per
sé. Ma lei è lì, preziosa, il tutto di lui, quello che ancora conta.
Aspetta per decidere, deve pensarci. E si consola con l’amicizia.
Gioca con gli amici, per svago, come passatempo, come gara di
intelligenza, come una volta che spensierati si servivano delle carte
per misurarsi fra loro e conoscersi e conoscere la vita. Una gara per
vivere!
Ma lui il mistero l’ha violato.
Guarda i suoi amici negli occhi. In nessuno c’è un folle pensiero
lucido e luminoso che va oltre la linea dove finisce il mare. Non c’è
sogno nei loro occhi, non c’è follia vitale. C’è quiete. Volgarità.
Sorriso. Incazzatura. Roba vecchia. Come se la vecchiezza, la stan-
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chezza avessero preso il posto della vitalità e della giovinezza, dell’ardore e della passione che fanno scoccare la molla dell’accettazione
della sfida dell’ignoto, del nulla e del tutto, dell’essere e del morire.
Lui quella soglia dell’esistenza l’ha oltrepassata, s’è smarrito,
confuso ed è tornato.
Gli altri sono uomini. Lui aveva sfiorato la deità, il super io,
l’esperienza fuori dall’umano. Il pensiero di quell’ebbrezza, a volte,
lo agita e lo scuote tutto.
Ora l’amico che gioca con lui sbaglia ancora. Lui sorride. Gli
altri sghignazzano.
La moglie alza lo sguardo dalla rivista. Guarda il marito. Accenna un sorriso e reclina il capo. “Meglio un corpo umano vivo che
un essere delirante che è con te, ma appartiene a un altro, e del
desiderio e dell’ardore dell’altro vive e si alimenta.”
Il gruppo si agita, grida, ride. Qualcuno accenna a litigare. Le
donne si alzano. È il segnale della tregua. È tempo di mangiare,
bere, riposare.
La pennichella. Si riprende, sono le sedici. Un bagno e le carte.
Briscola, tressette? Ramino? Bisogna dare la rivincita?
Sì, questi li portiamo con noi. In Paradiso!
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Paradiso ——————————————————————
I TRIESTINI E I PROFESSORI
Uno a questo punto potrebbe dire che razza di storia sta scrivendo questo? Boh, chi lo sa.
C’è che dopo ricerca e scrematura resterà poco, ma due cose
di sicuro. Che tutti anche i più grandi peccatori e i più dichiarati
menefreghisti un pensiero lo fanno.
E se fosse la volta buona, e se ci riuscissero? Un miracolo? Una
di quelle cose tanto sciocche e assurde che pullulano nel mondo e
non fanno male a nessuno. Oh, sì, forse stridono con l’intelligenza,
con la ragionevolezza e sono più vicine alla follia della pazzia stessa.
E allora? Perché deve avere vita un miliardesimo di granulo di
polvere e non avere credibilità un sogno, una fantasia, una cosa fra
noi e Loro, o l’Altro?
C’è o no un punto d’incontro? Ci può essere?
Insomma l’uomo che gioca a carte forse lo capisce più di tutti,
proprio perché conosce la stranezza, l’assurdità e nel contempo il
rigore, la giustezza e la regolarità dell’andare e venire delle carte,
del loro incontrarsi, incastrarsi e il loro sfuggire, passare a fianco e
allontanarsi e rendere incompiuto il gioco per l’uno e una facile e
felice conclusione per l’altro.
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Paradiso ——————————————————————
Stranezze, stranezze. Stupidità, stupidità. Già, ma si vorrebbe
sapere cosa conduce più vicino alla verità, il rigore intellettivo, la
ragionevolezza, la compostezza mentale, la conformità o il colpo di
follia, di assurdo, l’andare oltre il logico, il corretto e credere nello
stravagante, impossibile, inammissibile, irraggiungibile: provare per
credere, dice un detto. Provare a lasciarsi andare all’idea dell’assurdo e ritrovarsi frastornati, sbigottiti. Perché avete appena scoperto
che l’assurdo, l’impossibile c’è, esiste.
Sì. È vero, oggi i più non credono a niente, corrono dietro a
tutto, si muovono volendo tutto e disdegnando tutto. Il sì sta con il
no con la stessa semplicità, mai gli opposti sono stati così vicini.
Credere o non credere non è importante, è importante quello che
tu pensi in quel momento, nel momento successivo e avanti così.
Questa sì è la strada dell’assurdo e dell’inverosimile, ma se uno
si mette a pensare che la strada del suo pensiero è grande, infinita,
buona e sacra e che può percorrerla, quella lo porterà necessariamente verso l’infinito, verso il buono, il sacro?
Ma tra follia e semplicismo c’è un’altra via, quella del ragionamento, della filosofia, della matematica e tanti altre virtù di pensiero.
Ma ci sono altresì molti altri livelli di conoscenza, diversi strati
e diverse conoscenze.
Quando ero ricoverato in attesa di essere operato ero teso,
pensavo alla vita e alla morte. Sono giunti e sulla barella mi hanno
fatto percorrere fiumi di luce, poi è stato come in un film di Spielberg.
Cose, persone, illuminate e luminose, linguaggi strani, incomprensibili.
All’improvviso non sapevo più se ero io o un altro, somigliavo
a loro, ma non ne comprendevo ancora le parole, erano stranieri.
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Paradiso ——————————————————————
Poi un’altra fase, come di sogno. E aria colorata, e fumi e nebbie
multicolore. L’aurora boreale. Il cielo e la terra erano confusi.
Era tutto indeterminato e indistinto ed io ero sopra loro.
Poi una sensazione di soffocamento, forse mi stavano sgozzando, sentivo che mi stavano tagliando la gola. Non avevo paura, mi
dava fastidio il nodo in gola. L’idea di Isacco. Ero il caprone. Andava
bene ogni cosa, ogni ruolo. Era un sacrificio necessario. Si era più
vicini a Dio.
Infine un risveglio fastidioso. Morire dalla sete? Stavo morendo
di sete e non c’era nessuno. Morire di sete senza alcuno. Meglio
così. Purché finisca questa tortura. Morire assetato che stupida cosa
con tanta acqua che c’è qui da noi.
Alfine mi sveglio e chiedo da bere. Non me ne danno.
Di quelle esperienze non ho contezza piena. Ma non potevo
essere sempre io a viverle tutte. Erano successe tante cose misteriose
e ancora inspiegabili. Ma che siano successe non è né inverosimile,
né falso.
Sì, può essere, ma non spiega ancora il viaggio all’estero, nell’al
di là in massa.
Costituiscono il gruppo dei triestini doc. È quello più numeroso.
Costanti e puntuali sempre. Tra i primi a giungere e tra i primi ad
andarsene.
Spesso, tuttavia, in giornate particolari o canoniche come per
Ferragosto o per San Lorenzo, restano fino a notte alta, a mangiare
e chiacchierare. Quei giorni soprattutto fa piacere stare con loro,
ascoltare le loro chiacchiere. Si raccontano fatti anche familiari,
personali. L’uno conosce tutto dell’altro, per cui non ci sono più
segreti. Ma si raccontano alcuni episodi di vita, li ripetono sovente,
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Paradiso ——————————————————————
anno dopo anno, quei fatti più significativi, decisivi per la vita. I
triestini non sono persone semplici, anzi. È vero, sono molto socievoli ma solitari, amiconi ma individualisti, cordiali e riservati insieme, amanti della vita e lontani da essa, talvolta si rifugiano per
sfuggire alla durezza del vivere in uno stato di sofferenza e disadattamento totale.
Quanto amano la vita e quanta paura ne hanno. Quanto la
conoscono e la cercano e quanto la sfuggono perché imperscrutabile.
Contraddizioni e opposti vivono qui semplicemente, naturalmente, come il mare e il vento, anche se l’uno sferza l’altro, come
la pietra e l’acqua. Come la vita e la morte, e trovi il triestino che
naviga ai confini del mondo, trovi quell’altro sui monti del Perù
isolato quasi attendesse la fine del mondo, quello che fa il pugilato
e diventa campione del mondo e quello che vive in India perché
cerca la pace del mondo, quello che ama gli abissi della terra e va
in cerca di grotte profonde e chi la vita se la toglie perché ama il
buio della notte, e sono troppi quelli che se ne vanno perché hanno
paura di vivere in questo mondo o in un altro mondo, perché hanno
paura di vivere.
Come dappertutto, forse, c’è chi va incontro alla vita e chi
scappa da essa.
Forse il mare infinito, forse il cielo immenso, forse il troppo
bene dato e mitizzato e il troppo male ricevuto per la caduta di un
idolo.
Al chiudersi delle imposte del sole, anche a Trieste, non tutti
sanno calarsi nella notte. Sono solo due modi diversi, ma belli e
profondi entrambi, eppure l’uno ha il terrore della luce e l’altro la
ricerca spasmodicamente; il primo cerca nella notte e nel confon-
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Paradiso ——————————————————————
dersi in essa di trovare equilibrio nel buio, di non ondeggiare più e
di immergere nel tutto la sua sofferenza, l’altro non s’addentra in
ciò che non conosce e che si presenta come insidia.
Forse nel nostro Paradiso avranno una risposta ai loro perché,
al dolore del loro vivere. Sì, portiamoli con noi. Saliamo tutti insieme
in una zattera comune che solca il mare e come un vascello s’alza
verso il cielo.
Ma i triestini non sono così tristi, esasperati e pessimisti. Non
sono creduloni. Ecco, forse non credono proprio, ma qualche sogno
lo fanno.
A sentirli parlare si capisce che del mondo sanno tutto e non
hanno stupore, meraviglia di nulla. E hanno certe espressioni che
segnalano la grande ironia che hanno per l’esistenza; i sofferenti
sono forse figli della psicanalisi e della moda del cosciente e del
subcosciente. Fa tanto romantico l’idea di andare da uno psichiatra
o atteggiarsi a soggetto da psicanalizzare.
I professori sono persone di una volta e a una volta sono rimasti
radicati. Fanno le loro cose e null’altro. Chi l’avrebbe mai detto che
persone abituate a essere più sveglie degli altri, a conoscere, sapere,
valutare e giudicare gli altri, si abbandonino a se stesse. Sembrano
esseri improvvisamente svuotati. Che uno qualunque diventi vecchio
passi, ma che si spenga come una candela uno da cui pendevi, che
era un tuo maestro, che cambiava il corso delle tue giornate e mutava
il tuo umore e te ne diceva di ogni colore. Sembrava un mago.
Oh, come era temuto e considerato, spesso amato, venerato.
Talvolta odiato. Possibile che non avesse capito? Possibile che ti
giudicasse così? Come? Anche lui come tua madre, anche lui incapace di ascoltare? Se fosse stato attento avrebbe capito che avevi
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Paradiso ——————————————————————
studiato, che proprio perché avevi studiato tanto ed eri come paralizzato dall’emozione per capire la domanda e conoscere la risposta
e dalla gioia dentro restavi con la gola secca e non ti usciva niente
dalla bocca come le volte che non sapevi nulla e non potevi dire
nulla.
Ora eccoli lì, non su sedie a sdraio, non va bene per loro. Sedie,
sedie al più un po’ pieghevoli da reclinare un po’. Uno legge il
giornale ad alta voce e gli altri ascoltano e poi commentano. Proprio
come a scuola. Le “proff” hanno il loro ombrellino. Tutti costumi
un po’ démodé. Ma si sa, quando mai i nostri insegnanti sono stati
eleganti. Loro erano quelli che tenevano la testa in ordine, non gli
abiti. Dei miei professori ce n’è uno solo e non si ricorda nemmeno
più di me. Lo sapevo. Che nervoso. Il fatto che fossi al collegio e
che non avessi i genitori che andassero regolarmente il giorno delle
udienze non mi facevano ricordare. Poi io ero tra quelli della zona
grigia, della massa che andava benino, che se la cavava. Solo i migliori
e i peggiori restavano nella memoria dei professori. Proprio come
quella volta che il mio mito di lettere, ormai in pensione, era al bar
con i colleghi e se la raccontavano fra loro come fanno i giovani.
Forse stavano dicendo male di qualcuno, magari un preside, o
raccontavano qualche barzelletta sporca, si sa che i professori passano molto tempo a raccontarsele. Ho aspettato e l’ho disturbato
mentre stava uscendo. Ma nemmeno ricordandogli i migliori suoi
studenti di quei tre anni di liceo e i peggiori aveva avuto memoria
di me. È stato come sentirsi orfano ancora una volta.
Per fortuna che due ne ho incontrati più tardi. Anch’essi di
lettere, marito e moglie. Uno più bravo dell’altro. Anche se io
preferivo l’uomo proprio per le difficoltà che ho sempre avuto con
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Paradiso ——————————————————————
le femmine. Che gioia questa volta e quelle successive ritrovarli tutti
e due come un tempo e ancor più vicini senza il muro di rispetto,
macchè separati, uniti come amici e io a dire, raccontare, fare vedere
quello che avevo fatto e fargliene omaggio e loro a stupirsi positivamente e incoraggiarmi. E anche le volte successive affettuosità e
cordialità.
“Eh, sì, fa piacere ritrovarsi. Ma, come da giovane, continui a
non sapere scrivere e ti incaponisci a farlo. È vero, c’è del buono e
del nuovo in quel che dici e il modo anche. Per il contenuto sufficiente, per la forma insufficiente”. Proprio come a scuola. Mi sembrava di toccare il cielo, sentirli dire, osservare i loro sguardi, sentirli
giudici sereni e sinceri.
I loro colleghi della spiaggia sono rigidi. Forse dopo quarant’anni di contegno, di atteggiamenti da mantenere, di severità
ostentata perché insegnare sì, educare sì ma anche esigere rispetto
ed educazione non per sé ma per loro, per la loro vita.
Eccoli qui, appartati, silenziosi. Non vogliono giocare più a
guardie e ladri, a scoprire quello che uno fa di disdicevole, a interrogare per punire, a richiamare per reprimere. Insomma sono prima
di tutto persone loro e poi hanno un mestiere, come i giudici, come
i notai, come gli avvocati.
“Eh, no, non è proprio così. I giovani volevano tutto, lo pretendevano e la vostra missione, come si direbbe oggi, era quella di
formare compiutamente coscienze e intelletti, non solo persone
bene educate e dalle condotte formali irreprensibili. E poi ci dovevate volere bene. Chi ha detto che non era compreso nel biglietto
del ticket di insegnante. Dovevate volerci bene se volevate veramente insegnarci qualcosa.”
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Paradiso ——————————————————————
Ora i professori non li disturbiamo con il nostro quesito. Loro
sono per lo più laici, se non atei. E poi non gradiranno che gli si
porga un argomento così serio in modo così semplicistico e superficiale.
Lasciamoli stare in pace.
E così scavalchiamo il gruppetto, cinque femmine e un maschio.
Lui si mette la muta e la maschera e va. Quando torna sembra
ringiovanito e racconta alle “ragazze” com’è andata, cosa ha visto.
Le altre sono in realtà in due gruppi. Una va su e giù, dentro e fuori
dall’acqua come una sardella. È sempre a mollo e gioca da sola con
l’acqua. Le altre si tengono a braccetto. Giorno dopo giorno seguo
i loro movimenti e scopro che due reggono quella di mezzo, un po’
più grossa delle altre e che è cieca. Non ci vede e nessuno se ne
avvede se non le punta e non osserva fisso.
Parlano, ridono e giocano anch’esse con l’acqua. Le due sane
stanno vicino alla terza che le sta loro appresso seguendo il suono
delle loro voci. Escono e i gendarmi prendono il prigioniero sottobraccio e ritornano alle loro sedie. Loro non fanno la doccia, la
faranno a casa. Amano sentire il sole che gioca con la loro pelle e
con il sale. Da’ benessere il sale e genera una sorte di prurito.
Un giorno uno dei due gendarmi mi avvicina e mi dice:
“Sappiamo quello che state facendo e ci pare di capire che non
abbiamo passato il turno senza essere stati interrogati. Questo non
sta bene. Anche a noi piace giocare e sognare. E poi chi ve lo ha
detto che noi non si possa credere in qualche cosa che non possiamo
provare che esiste?
Di scommesse come questa ne abbiamo fatte tante nella nostra
vita, una per ogni alunno che ci era affidato.
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Ma a parte le battute, voi nostri ex alunni o no, tutto potete
rimproverarci, ma non di essere stati privi di fantasia e di idealismo,
sarebbe come dire che non eravamo portati e adatti per il mestiere
di insegnanti.
Ma, sapesse lei quanti ci scrivono, ci cercano e ci salutano
ancora con amicizia!”
Il professore non parla, indossa muta, maschera e pinne e
scende in mare. Nuota a dorso e muove le braccia come due mulinelli. Dice che così riposa la schiena e l’osso sacro che soffrono degli
anni a sedere. Sì, artrosi, una malattia professionale. Le pinne gli
consentono di raggiungere mete lontane. Le pinne sostituiscono la
sua lettura, la sua concentrazione, il suo riflettere di un tempo. E
conclude che è meglio “pinnare”.
Fa copia con la donna “sardina”. Il lavoro di insegnante è
tipicamente individualista, anche se insegni le stesse materie, cambia
ogni cosa dal tipo di rapporto che c’è con gli studenti.
Quello che conta è proprio il feeling fra lui e loro.
Loro oggi tendono ad assomigliarsi sempre più quasi dovessero
recuperare il tempo in cui si erano sfilacciati per colpa dei ragazzi.
Loro insieme erano parti distinte, lo sapevano. Per ritrovarsi dopo
un anno scolastico che li intossicava dei fatti dei terzi andavano a
farsi un lungo viaggio e si ritrovavano. A loro piaceva il Nord. Niente
esotismo. Andare sempre più avanti, anticipare, intravedere strade
nuove e creare i collegamenti. Questo sentivano di fare, ma questo
dovevano fare, perché i loro ragazzi li avrebbero raggiunti e superati.
Dovevano essere sempre super allenati e preparati. Se no, non c’era
gara. Anche tra loro era così. Ricaricarsi per essere tra loro due
liberi di essere se stessi e di non perdersi.
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Ora sembrano tanto assenti, ma è diverso solo il mezzo di
rapportarsi all’acqua. Lei ci si abbandona dentro e fa fare ogni cosa
all’acqua.
Nuota poco, si immerge spesso, sta ferma ad ascoltare i suoni
dell’acqua.
Lui nuota, nuota, nuota e ruba metri all’acqua e con ciò pensa
di ripulire se stesso.
Spesso si domandano se il loro sbocco non sarà quello di
confondersi alfine con l’acqua stessa o fondere le loro anime e le
loro persone in una sola, grazie all’acqua?
Ecco di che parlano con gioia gli amanti dell’acqua, del loro
comune amore per essa.
Le altre fanno storia a parte.
Ma anch’esse hanno per l’acqua una sorte di venerazione salvifica. L’acqua le stimola, scivola sul loro corpo come nessun uomo
ha fatto mai, non vede le rughe, la magrezza, i muscoli cadenti.
L’acqua sente l’anima e la sua allegrezza o tristezza. Sente il cervello
che si dona e che gioca con essa come un fanciullo innocente. E
perciò le tre donne pie, quasi tre grazie leggiadre, salgono e scendono, vanno e vengono all’acqua e dall’acqua, dall’acqua alla luce
del sole.
Ottant’anni a testa le due che, quasi angeli custodi, sorreggono
l’amica di mezzo, un po’ soprapeso, incerta e lenta.
Trascina i piedi e li pone irregolarmente innanzi, come fanno
i claudicanti e i non vedenti. Vanno parlando di ciò che le occupava
prima di muoversi, prima che una dicesse: “Il sole scotta, andiamo
in acqua. Siamo solo al secondo bagno del giorno.”
Ed eccole in circolo ancora una volta, con la cieca a portata di
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braccio, nell’ipotesi che qualcosa possa andare storto.
Ma lo sanno tutti che ogni giorno si compie il miracolo. Ogni
giorno un cieco vede con gli occhi degli altri, che lo vogliono con sé,
lo tengono con sé, come un fratello minore da osservare.
L’aiutano a cambiarsi, quando la giornata balneare per loro è
finita, e a caricarla in macchina.
Ancora una volta le migliori sono loro, le insegnanti, “le ragazze
del cuore” le chiamano qui.
Sono così puntuali, precise e regolari nel rito dell’acqua, e così
affettuose nell’aiutare ad immergersi l’amica in difficoltà che devono
aver sorpreso ed attratto anche un ragazzo, che esclama: “Mamma,
guarda, mamma guarda, sembra il battesimo di Gesù del San Giovanni Battista.”
È da allora, da quando il miracolo ha aperto gli occhi a tutti,
che ci salutiamo.
“Dobbiamo vederci anche domani. Lei prepari la strada del
paradiso. Non si fa male a nessuno se si pensa a Dio anche in modo
sbagliato, senza capirlo o averlo compreso. Per noi è un modo per
ringraziarlo ogni giorno del dono dell’acqua.”
Dopo i giocatori di carte, i professori, le cabine e la pineta
corrono per altri trenta metri. Lo stabilimento finisce sulla diga
rocciosa che invece continua a correre sino all’imboccatura del
porto. Dall’altro lato la diga va a risolversi nella grande muraglia di
roccia che scende a picco da oltre sessanta metri sino al fondo del
mare. Essa domina la Caravella con le scuole nautiche e i caseggiati
fatiscenti.
Sopra e a sinistra di essa continua la pineta che si espande come
un polmone verde verso Duino e giunge al castello. Dall’alto della
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muraglia, dovrebbe scivolare giù una funivia che, dalla pineta, perforata la roccia, dovrebbe portare alla Caravella, frattanto trasformata in un giardino artificiale con piscine e alberghi.
A Castelreggio rimarrebbero lo stabilimento, privato della pineta e del parcheggio, le società nautiche e di vela opportunamente
trasferite a ridosso dello stabilimento, mentre alla Cava verrebbe
creato un porticciolo per pescatori e un piccolo villaggio artificiale
tutto destinato a negozi e attività commerciali. Sull’arco della Cava,
forse incavati nella roccia, due grandi alberghi.
Mentre incombe questa sciagura sui bagnanti la loro vita si
svolge ancora regolarmente.
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IL CIRCOLO DI GIOVANNA
Il circolo di Giovanna ruota attorno a un pino; la madre o la
nonna ci mettono i tavoli, primo quello di Giovanna con giocattoli,
libri, colori e album da disegno e un mucchio di carte, cartine e
cartacce, cianfrusaglie buttate là come i resti in un cestino; poi quello
degli ospiti della piccola, infine le sedie a sdraio per gli altri e
soprattutto quella del nonno.
È il solo che può andare dappertutto anche fra le cose di
Giovanna. Anzi, a lei fa piacere se lui ci dà un’occhiata o ci mette
le mani.
Ma lui finge di annusare e arriccia il naso come a dire:
“Ma che fetore, ci vorrebbe una bella spruzzatina di deodorante,” oppure accenna a toccare le cianfrusaglie ma si sottrae subito
con un:
“Attenti, chi tocca muore o, se gli va bene, si prende un’infezione che quanto meno perde una mano per cancrena.”
Lo dice per far ridere Giovanna e ci riesce.
Lui ci riesce quasi sempre anche quando è davvero triste e si
fa fatica a distoglierlo dai suoi cupi pensieri.
“Mio nonno è come una foglia di un albero, leggero e innocuo
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proprio come lei. Ci vuole un buon vento per smuoverla, agitarla e
sentirla. Nemmeno una farfalla è più leggera e fa così piano.
Lui non vuole mai disturbare. La mamma gli assomiglia un po’,
ma è ancora tanto giovane e spesso ha sbalzi di umore; troppo giù
e troppo sù.
Il nonno invece è troppo spesso appartato e silenzioso.
Perciò gli dico di giocare alla foglia che cade prima e che
consiste nello stare zitti, zitti per un minuto intero, (non è vero che
è un tempo breve, è lunghissimo, non sembra finire mai e perciò il
nonno vince), e poi mettersi a sedere senza fare il minimo rumore,
il minimo fruscio, senza sentire volare una mosca come dice il nonno.
Ancora non riesco a stare ferma immobile per un minuto, mi
muovo prima, mentre il nonno è fermo come il mio pupazzo, che
non si muove mai se io non lo sposto.
Il nonno dice che ha imparato dagli indiani, i quali, invece di
perdere la bussola si mettevano a riflettere, a concentrarsi e trovavano la soluzione al problema.
Loro erano molto più saggi: dicevano che era meglio fare come
il bisonte, l’animale più amato e onorato anche se, a volte, dovevano
ucciderlo per mangiare e per vestirsi.
Il bisonte e gli altri animali scappano di fronte al nemico.
Gli indiani per orgoglio e coraggio non scappavano mai, ma
sapevano che non era necessario combattere sempre e fare morti,
feriti e distruzioni. Così invece pensava e faceva l’uomo bianco.
Alla fine hanno vinto gli uomini bianchi perché erano uomini
di guerra e non di pace. Erano molto più numerosi e avevano le
armi da fuoco mentre gli indiani avevano le frecce.
Anche per questo gli indiani dovevano sempre pensare, riflet-
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tere e decidere quando si poteva affrontare il nemico e quando
togliere le tende e andarsene altrove.
Questo mi dice il nonno. Anche nella nostra vita è meglio fare
gli indiani che i bianchi bellicosi.
Lui da giovane ha pensato bene il suo piano di vita.
Cercare una donna che fosse coraggiosa e combattiva. La trovò.
La nonna! Che vuole avere sempre ragione e non molla mai,
né con il nonno, né con mia mamma, né con me.
È meglio arrendersi a lei e stare in pace. Altrimenti la vita è un
tormento.” E quando io gli dicevo che non lo trovavo giusto, lui
aggiungeva:
“Devi distinguere il campo di battaglia. A casa tua non c’è
proprio bisogno di essere in guerra. Se c’è, ed è male, c’è la separazione. Meglio dunque lasciare fare alla nonna. Sul suo terreno non
la batte nessuno.
Fuori casa è tutta un’altra storia. Bisogna usare sempre il
cervello e ragionare. Mai esagerare ed esasperare le situazioni.
Come diciamo noi grandi, meglio gettare acqua sul fuoco che alimentare l’incendio.
La ragionevolezza e l’intelligenza sono virtù rarissime e preziose, non si devono sprecare. Se sai usarle bene vinci sempre, perché
gli altri usano armi improprie, più deboli del ragionamento, come
la rabbia, il nervosismo, le grida, l’emozione, la forza fisica, le
minacce.”
Ma il ragionamento del nonno non era finito qui. Diceva:
“C’è un altro livello in cui né la tenacia, né la caparbietà della
nonna servono, come non servono la ragione e la riflessione e meno
che mai la brutalità; è il campo del sacro, di Dio.
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Qui c’è bisogno di una virtù che io forse conoscevo, ma ho
smarrito, perché mi sono dedicato troppo a quello che riguardava
me e gli altri uomini. Ecco perché a volte o forse spesso mi trovi
distratto o lontano con la mente. Sto cercando, ma mi sembra di
stare al buio.”
A me il nonno non la dava a bere. Se dovevo seguire i suoi
consigli in un campo solo avrei potuto vincere, quello della ragione.
Nel primo vinceva sempre la nonna.
Nel secondo avrei dovuto vincere contro il nonno e la mamma,
per non dire di papà.
Sul terzo perdevano tutti. A scuola e soprattutto in chiesa, al
catechismo, non me l’avevano raccontata così.
Non capivo poi perché, nel primo livello, avrei dovuto essere
furba e tenace, cioè testarda, come la nonna per averla sempre vinta.
Ma cosa voleva dire? Con mamma, nonna e anche con papà non
era mai questione di vincere. Loro sapevano più di me. Solo quando
urlavano capivo che c’era qualcosa che andava storto e allora era
meglio stare buoni e zitti.
Ma non si giocava a vincere o perdere. Con nonna non serviva
nulla, nemmeno i capricci. Meglio battere sempre in ritirata.
Con Dio era un po’ come con nonna, c’era poco da discutere.
Se credevi alla sua legge dovevi seguirla.
Solo che con nonna non c’era la legge, c’era il suo carattere. O
così o pomì.
Ma in fondo era la stessa cosa.
Il terzo punto stonava con gli altri due per tante cose.
Innanzi tutto non era un rapporto tra persone; poi non c’era da
ragionare, mentre con nonna era meglio non litigare, se no era peggio.
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Con gli altri era meno pesante, ma anche lì ragionavano sempre
meglio loro.
Quello che mi faceva riflettere e mi lasciava pensierosa era la
quiete del nonno di fronte a questi dilemmi: alla nonna scorbutica, alla
figlia remissiva come lui e al rapporto con Dio che non riusciva a vivere.
Ma mio nonno, soave e gentile, era stato felice ed era felice ora?
E perché aveva perso il dono di Dio ?
Mio nonno mi piace perché mi dice la verità, sempre. Lo so, lo
sento che mi dice il vero.
Mio nonno mi piace anche perché, in fondo, quella storia del
vincere a lui non ha mai interessato.
Con me non vuole vincere, non gli serve alcuna fatica, per
catturare l’amore di una donna difficile come la nonna non doveva
pensare a vincere, per avere il rispetto e l’affetto di mia madre non
occorreva spremersi la testa per vincere, mamma è come il burro,
anche con papà il nonno non deve vincere perché ha vinto in
partenza. Mio padre lo guarda e gli sorride, lo cerca, vuole stargli
vicino, avere il suo parere e il suo consiglio.
Mio padre rispetta mio nonno, perché è un uomo saggio.
Con Dio mio nonno si sta complicando la vita, credo, o forse
non se la sentiva di darmi istruzioni o pareri o giudizi in un campo
in cui altri hanno cercato di chiarirmi le idee.
E voleva che quella strada la trovassi da sola. Sapeva che ci
sarei riuscita.
No, mio nonno è leggero come una foglia. Leggero di mente e
di animo. Mio nonno è nato buono ed è migliorato in bontà crescendo, perché mio nonno cerca di dare amore a quelli che gli stanno
intorno e a coloro che glielo chiedono.
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Se non riesce ad amarli, li comprende, li ascolta, li aiuta.
Mio nonno non ha avuto bisogno di altro. Diceva che credeva
nella ragione e nel ragionare.
Sì, era vero, ma non era tutto e non era il meglio di lui.
La sua forza di ascoltare, riflettere e fare gli derivava dalla sua
capacità di amare.
Mio nonno amava gli uomini.
Io amo perciò mio nonno e so che lui mi ama, so che lui mi
vuole proteggere, vuole che io sia felice.
Il segreto del gioco della foglia sta proprio nel raccoglimento,
nel concentrarsi e nell’ascoltare il cuore dell’altro.
Lo sto comprendendo ora che lui non c’è più.
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LA STANZA DI LUCIA
Noi anziani dello stabilimento non sogniamo più. Ci basta
vedere le giovani donne mezze nude che si abbronzano al sole. I
figli fanno sempre chiasso, mentre le mamme sono al telefonino.
Loro in acqua con le tavolette; queste un tempo non c’erano. Oggi
vanno di moda, per il resto pinne, maschera, salvagente, bracciali
colorati, con disegni di animali, qualche gommone anch’esso dai
colori vivaci, tanto per fare estate e tirare su l’umore. E i tatuaggi,
piccoli e grandi. Di animali e di guerrieri. Indelebili e solubili. Belli
più delle foto di un calendario.
Altra novità, i bimbi sono colorati, no, non sono solo abbronzati
sono proprio neri, alcuni gialli, altri meticci, ancora bianchi e bianchissimi. Sono quelli dei centri di ricerca, del mondo unito di Duino,
delle scuole internazionali di scienziati e di giovani e dei nuovi
immigrati. Sì, l’umanità di questa spiaggia è mista, un messaggio di
un mondo che sembra avvicinarsi e unirsi.
Non è una novità, ma le donne hanno spesso un seno nuovo; è
ancora di moda ma non solo lui, sovente si accompagna a un intervento plastico più diffuso. È la corsa al ringiovanimento ad ogni
costo. I mezzi tradizionali del movimento, della corsa, della palestra
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non bastano più. Sono intervenute nella vita delle donne la medicina
e la chirurgia.
Dopo il circolo di Giovanna c’è la stanza di Lucia.
È una specie di tenda in cui la ragazza si nasconde. Per lo più
resta là dentro sino all’arrivo della mamma, che è il problema di
Lucia.
Forse sarà lei la mascotte nostra, quella che resterà qui a tenere
i contatti tra qui e là, tra noi domani di là e lei e gli altri che saranno
ancora di qua, in una catena che non deve mai rompersi, in un gioco
alla vita eterna fatta di pensieri che creano una specie di cordone
ombelicale che alimenta e tiene insieme, uniti quelli che stanno di
là e quelli che sono ancora di qua.
Lucia è la più adatta perché lei di fatto è nata qui, nata nell’acqua.
La conoscono tutti.
Pochi giorni dopo il parto era già qui e mamma la faceva giocare
nel verde smeraldo del mare.
Quando sarà giunta l’ora e il giorno allora gli uni e gli altri
saranno in contatto e ci sarà un lungo momento di magico spaesamento perché uno non saprà se è di qua o di là e se sia meglio di
là o di qua, e ci sarà una grande animazione e suoni forse di pinguini
o forse di rondini o di magie astrali con tonalità lunghe, affascinanti
e nuove che diranno dell’eterno movimento di una vita verso l’altra
e di questa verso la prima animate da un’idea presente a tutti e che
nel momento dell’estasi sarà chiara a tutti: credere, credere, credere!
Questo pensiero semplice si farà, nell’estasi, totalizzante.
Allora si crederà davvero tutti nell’uomo e si vedrà l’altro come
se stesso. Una proiezione di sogno, di estasi, di mistero.
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Poi qualcuno di qua si sveglierà e squash, un volo nell’acqua e
tutti a guardare che quello va, corre nell’acqua. Si ferma e grida:
“Sono io, sono il poeta, ho ritrovato il verso, il ritmo, l’ispirazione. Riparlerò di Te, Signore, primo fra gli Uomini.”
La luce si spegne. Lucia si sveglia, tiene la mano nella mano di
sua madre che l’ha raggiunta, ma di già se ne va.
Lucia sa stare con tutti, piccoli, grandi e vecchi.
Un tempo era circondata da persone care. I nonni e soprattutto
il papà. Ora sta con una zia e con la mamma.
Ma la mamma sembra sempre addormentata, spenta. Vaga
come un’ombra come stesse sognando.
A Lucia manca suo padre. Crede che sia uscito piangendo e
disperato. Non ce la faceva più a reggere la mamma che sembrava
senza vita. Prima era calmo, paziente, dolce, poi ha ceduto di colpo.
Forse ha avuto paura ed è scappato.
Con la zia è più difficile stare e vivere. Non si gioca, non si
parla. Si dorme! Tanto papà era “signor sì”, così la zia è “signor no”.
Fa tanto ridere.
Per Lucia anche lei è carica di paura e si difende così, per non
scappare come papà.
La zia controlla e comanda, non sta con le persone, gli altri non
ci sono.
In acqua a fare il bagno zia e nipote vanno da sole. Per Lucia
non è strano. Lei, di fatto, è sempre sola. Anche con papà era così.
Glielo diceva che lui la lasciava sola, che se aveva bisogno lei c’era
e poteva aiutarlo.
Ma lui, il lavoro, il lavoro e ancora il lavoro. Scappava via di
casa. Lucia non è infinitamente bella, ma ha un viso carino, come
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un topino. Sembra dura, cocciuta e testarda, non ascolta nessuno e
vuole avere sempre ragione.
Lucia non è così, ma deve fare così per non piangere.
Lei con la zia ci sta volentieri solo quando si va al mare.
Giù al mare è facile sfuggire al suo controllo. Basta dire: “Zia,
vado qua, vado là, gioco qui, gioco là, sto con questo, sto con quello.”
È tutto a posto. Lei se non legge chiacchiera e se non chiacchiera
dorme. Insiste a dire che sa tutto, vede tutto e controlla tutto! Lucia
non la smentisce, sorride. La ragazza si fa vedere ogni tanto, si fa
notare per essere in regola e poi continua a fare quello che le pare.
Con la zia è più libera, più sola ma più libera.
Talvolta pensa a papà, sempre in silenzio, a leggere o pensare.
In silenzio, assorto, ma sveglio. Forse stava molto male. Lucia l’aveva
capito, ma lui non voleva essere aiutato.
Quando papà l’ha salutata lo ha fatto dolcemente, senza parole:
lei ha capito. Sentiva che lui urlava dentro.
La mamma di Lucia ci sa fare con gli altri. Soprattutto con i
bambini. Dicono che è il suo mestiere. Vengono tutti da lei per
consigli. Lei ascolta e li dà.
“Ma come farà mai, se con me non viene a capo di nulla? Non
ascolta, non ha tempo, dice le cose sbagliate perché è distratta,
disattenta, svogliata.”
La mamma in effetti non sta bene; non è mai stata bene. Ha la
malattia della tristezza.
All’improvviso, proprio quando tutto sta andando per il meglio,
lei va in un’altra stanza. Si siede su una sedia, trema tutta e piange,
in silenzio piange.
Gli altri non se ne avvedono, figuriamoci la zia!
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Lei, Lucia, incomincia a guardarsi attorno, la cerca e se non la
vede va a cercarla; se la vede, le va incontro e le prende la mano e
insieme vanno a sedersi sul letto grande e mamma riprende a piangere.
Non lo sa nemmeno lei il perché, ma piange. Accarezza i lunghi
capelli di Lucia e piange. La piccola aspetta, stringe mani, braccia
e vita della grande compagna della sua vita e tace, stringe forte e
tace, ma il pensiero e il cuore lavorano, sono dentro la mamma e
cercano di fare un po’ di ordine, ma invano.
Lucia farà il dottore da grande. Deve dare un aiuto a vivere
alla mamma perché, lei lo sa, più crescerà e più peggiorerà. Poi
dovrà pensare anche a papà che è ammalato, quasi quanto lei. Non
appena ritornerà.
Un tempo il suo papà era bellissimo. Era sempre adorabile, ma
troppo presto mise su quella gran pancia che lo faceva più vecchio.
Aveva pensato che ci sarebbe voluto un fratello per mettere le
cose a posto. A volte una bambina non basta. Lo aveva sentito dire
da molte persone che venivano in visita dalla mamma.
I suoi erano tristi e ammalati e prendevano sempre delle pastiglie. Non giocavano più tra loro nel lettone, non scherzavano più e
non si rotolavano ridendo e baciandosi.
Lei li scopriva spesso. Era bellissimo vederli giocare come
bambini e fare giochi nuovi che lei non conosceva né aveva mai visto
fare. Loro stavano bene insieme e si stringevano spesso e si baciavano
spesso e talvolta stavano ad urlare come i ragazzini e a ridere come
matti delle loro sciocchezze.
Spesso lei usciva dal suo nascondiglio e batteva le mani e i piedi
per la contentezza. Poi entrava nel lettone anche lei e si prendeva
tante carezze e tante coccole da morire di gioia.
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Ora che capisce di più sa di avere la medicina giusta per loro;
basterebbe poter dare loro un po’ della sua giovinezza.
“Oh se fosse possibile, Signore, io lo farei di cuore, subito,
cederei subito la mia medicina, purché riprendano a rotolarsi sul
letto, sul divano, sul tappeto, e ricomincino a ridere e fare una finta
lotta e altri giochi che ora hanno smesso.”
Ora lo sa anche lei, lo sa.
Ogni tanto entra di soppiatto, ma loro dormono, uno lontano
dall’altro e russano, russano sempre.
Un tempo si sbaciucchiavano, non russavano. Un tempo si
correvano incontro, facevano a chi arrivava prima al centro del letto,
ora fanno a mettersi a lato.
“Forse è la vecchiaia?” Sì diceva lei.
“Sì, perché anche la nonna e il nonno dormivano distaccati e
distanti fra loro e russavano. Russavano anche più forte di mamma
e di papà perché erano più vecchi. Russavano e facevano trombette,
sì, proprio le puzze, le puzze. Che ridere!”
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Paradiso ——————————————————————
IL MARE UNISCE UOMINI E COSE
Talvolta dopo una notte di pioggia, di venti che sembrano fare
a botte fra loro e con tutti gli elementi naturali, l’effetto sul mare è
visibile anche il giorno dopo. Lo scontro titanico fra cielo, terra e
mare è stato violento e i suoi segni ci sono tutti.
Il mare sembra averle prese di santa ragione. È ancora arrabbiato. Lo hanno scombussolato fra ventate impetuose, fulmini e
saette con scariche elettriche a migliaia di volt. I suoi abitanti non
solo non hanno dormito, ma ci sono stati morti, feriti, vecchi presi
da spavento e da infarto.
Tutto ribolle ancora come in un gran pentolone.
Anche la terra, che il mare bacia dolcemente quando è calmo
e con essa gioca a portare le sue cose e a rubare quelle di lei, ha le
sue ferite. L’arena è stata tutta arata, l’immagine della spiaggia è
stata quasi deturpata.
E tuttavia, tutto odora di nuovo, di fresco e di pulito, in poche
ore il mare sembra aver fatto pace e non aver più voglia di tenere
il broncio.
Sovente ci mette tempo a ritornare tranquillo e lo fa vedere
che è ancora agitato e le sue acque vanno su e giù, si fanno bianche
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Paradiso ——————————————————————
e poi nere già lontano, al largo, altre volte a qualche metro da terra
e giungono veloci e rabbiose e si rompono in spuma bianca e
rumorosa e invadono la spiaggia, sin dove, di norma, non hanno la
forza di arrivare.
I bambini non hanno paura. Loro non lo prendono mai sul serio
il mare. Lo trovano un giocattolone, un grande gigante buono che,
più grande è, più è buono e, più può giocare, più lui lo fa.
E così fa le onde di tutte le altezze, perché si sappia che è il
migliore, e le fa rompere a distanza l’una dall’altra regolarmente,
perché si dica che è il più bravo.
I bimbi osservano una volta e imparano subito e ci stanno a
giocare. Lui fa le onde e loro le rompono, ci buttano la testa dentro
o si tuffano tutti interi ma di traverso, qualcuno salta prima e ci
schiaccia il sedere sopra e l’onda fa splash, ma non lo vogliono
offendere.
Altri copiano i grandi, e †vanno dentro il mare nuotando sott’acqua e sotto le onde, a volte ci vanno sopra agitando braccia e piedi.
Crescono le file dei ragazzi, crescono le loro grida. Cresce la loro
allegria, la loro agitazione sana e gioiosa.
Uno prende la maschera, altri il materassino o una piccola
tavoletta come quelle del surf, ma più piccola che non possono salirci
e starci in piedi, ci appoggiano perciò il petto o la pancia e, usando
le braccia come remi, si portano al largo e si lasciano andare al volere
del mare, al gioco delle onde.
Qualcuno giunge trascinando altri ragazzi, forse fatti prigionieri. Si agitano costoro, gridano, urlano. Non si sa se facciano sul serio
o stiano scherzando. Vinti e vincitori tutti insieme in acqua.
E riprendono le sorprese. Già da subito i rapiti sembravano
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Paradiso ——————————————————————
strani, singolarmente rigidi e tesi; troppa resistenza opponevano a
un gioco abituale sulla spiaggia. Era fatto per allargare il divertimento, per conoscersi, per non stare isolati come separati in casa.
Ma gli sconosciuti non avevano reagito bene sin dalla cattura.
In acqua poi si era scatenato il finimondo. Alcuni erano spariti
nel fondo, altri starnazzavano scomposti, uno solo sembrava aver
capito e ululava come un lupo e faceva salti da scimmiotto.
Finalmente il mistero fu svelato. Avevano catturato dei ragazzi
minorati. Un gruppo di sei schizofrenici, scornati dalla natura nella
mente e nel fisico; sembravano alberi che un gelo improvviso aveva
intaccato e rattrappito nel periodo del loro sviluppo, quello cioè più
delicato e decisivo per la loro esistenza. Così quei ragazzi non
avevano un organo a posto. Tutti contorti fuori e dentro.
Non si seppe se il gioco fosse stato fatto di proposito o per
errore. Forse fu voluto, perché i giovani vincono prove incredibili e
compiono miracoli, tanto è la loro innocenza e la loro forza morale.
Sembrano, in queste singolari manifestazioni e iniziative, la
pratica dimostrazione che la fede muove le montagne.
Tutto in mare fu caos che si aggiunse al già movimentato moto
ondoso.
Ma la volontà pura e generosa dei giovani sani contagiò per
qualche minuto la vita dei malati.
Ne scaturì una danza corale di gioco, grida, abbracci. Tenerezza.
Sì, i sani avevano scoperto la via di comunicazione con l’altra
parte.
Avevano destato la loro sensibilità che è fortissima e debolissima insieme e la loro carenza affettiva che è fortissima e debolissima
insieme.
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Li avevano cercati, voluti con loro, per giocare con loro e per
amarli, dire loro che potevano stare insieme. Gli altri erano esplosi.
Usciti dall’acqua e ricondotti al loro posto sembrò che la vita
riuscisse dal loro seno e precipitassero nell’oscurità.
Il miracolo dell’acqua e dell’amore dei ragazzi era cessato.
Qui da noi ci sono solo scogli e pietre. Non c’è sabbia.
Allo spettacolo dei ragazzi che giocano con le onde del mare
se ne aggiunge spesso un altro, quello degli schiaffi che il mare mena
agli scogli. È come quando una bottiglia di champagne viene sbattuta
sulla prua della nave quale augurio di lunga vita sul mare e tutto il
contenuto viene spruzzato fuori e si spande in nuvole bianche.
Lo stesso fa il mare e lo accompagna prima con un rumore
sordo che poi si fa frastuono, boato e botto freddo, freddo e sordo,
mentre il bianco schizza via da ogni parte come i fuochi d’artificio
nelle notti estive.
Quello del mare nei suoi aspetti più vari è forse uno dei pochi
residui spettacoli naturali che l’uomo ancora rispetti. Per il resto
ritiene ormai di poter sopperire lui a tutto!
Difficile, tuttavia, creare il mistero, il fascino, la bellezza, la
forza, il gioco, il divertimento che spande il mare.
E dove mai rinvieni più le sensazioni e le emozioni di queste
rappresentazioni? Prova a ripeterle, imitarle, copiarle!
Prova ad immaginare una giornata estiva al mare, con mare
lungo e calmo, sole e silenzio, una distesa di silenzio palpabile,
immota e misteriosa. E il sole che ti accarezza e senti che ti sta
soffocando di tenerezza e avverti il bisogno dell’acqua.
Due passi ed entri nel mare, lentamente, gradualmente con
crescente benessere fisico e gioiosa sensazione interiore, e ti desti
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Paradiso ——————————————————————
con l’impressione di rinascere, di compiere una mutazione psicofisica, e ti immergi con il capo e ancora, ancora sei preso da un’ebbrezza nuova e viva; e l’acqua continua il suo miracolo, si spande
sul collo e sulla schiena e mentre si immergono le braccia che
spostano l’acqua che si apre e cede dolcemente il passo e concorre
poi a favorire il movimento tuo in essa, sino a che anche i piedi si
agitano sollecitati dalla freschezza del liquido e prendono ritmo e
usano l’acqua per favorire la spinta di un corpo ora in moto univoco
e omogeneo.
Il corpo nell’ambiente si immedesima, lo riconosce come suo
naturale contenitore fin dal suo concepimento.
E, alfine, fra acqua e uomo c’è pace, c’è concordia, c’è immedesimazione, l’uno è compenetrato nell’altro.
Le persone amano lo stile libero perché tutte le mosse del rito
sono simulazione di una voglia di possesso, di vittoria, di superiorità:
in quei momenti, le bracciate, con i movimenti lesti e ritmici dei
piedi, si fanno sincroni e trasmettono forza multipla, agilità e migliore presa d’acqua per consentire una armoniosa fluidità al corpo.
Finalmente questo sembra ballare spostandosi lievemente ora
a destra ora a sinistra e scivolare sempre più veloce insieme ad un
altro corpo, l’acqua.
Molti preferiscono il nuoto a dorso.
Stanno dentro all’acqua e non con una parte fuori come avviene
spesso con lo stile libero; solo le braccia emergono e si immergono
con dolce fermezza.
I piedi sembrano pinne che cercano di amalgamarsi al ritmo
del moto propulsore delle braccia. L’acqua bagna la testa come una
doccia piena, continua. Tocca la zona del cervelletto e delle tempie
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Paradiso ——————————————————————
e la sensazione fresca rilassa, tempera, dà sollievo e permette la
progressione della spinta natatoria.
Il fascino del nuoto dorsale sta nell’ordine e nell’armonia del
movimento perché il moto avvenga quasi in silenzio. Le braccia non
devono fare rumore nell’immersione e nell’emersione, né devono
spostare più acqua del dovuto, né acqua deve giungere al viso, alla
bocca e al naso, né i piedi devono avvertirsi mentre battono sotto
l’acqua il loro ritmo d’accompagnamento.
Si è come un siluro a pelo d’acqua che scivola via verso l’obiettivo. Il silenzio è la sua virtù.
Se i movimenti non sono corretti il mare se ne duole e il
nuotatore non ne ha il massimo beneficio.
In mare si deve essere distesi, rilassati, non agitarsi, fare il
morto, come si dice, per trarre il massimo partito dal suo contatto.
Si può anche giocare, fare chiasso, battere. Non una cosa e l’altra.
Il mare permette tutto, ma non si deve mai esagerare o strafare.
Se non è giornata meglio sedersi su uno scoglio o sulla battigia
e lasciarsi andare, pensare, riflettere, guardare lontano, il mare
giunge, ristora e rilassa. È certo!
No, non c’è un dio del mare o dell’acqua. Ma l’acqua sente, è
buona ed è amica, come ogni cosa in natura.
Bisogna capire il mare, se è arrabbiato non va sfidato, se è
infuriato è meglio stare alla larga da lui. Sfidarlo non è solo imprudente, è temerario.
“Loda il mare, ma tieniti la terra.” Dice un vecchio proverbio
istriano.
La vita nella nostra spiaggia è fatta d’acqua, salata e dolce. Il
corpo immette acqua, esige acqua e la espelle.
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Paradiso ——————————————————————
L’uomo è il solo essere che fa il gioco di riempire e svuotare
d’acqua il suo contenitore umano.
Poi c’è il riposo, all’ombra di un ombrellone o di un pino; il
gioco, la lettura, il sonno. Ci si ripara dal sole che più spesso si cerca
e a cui ci si espone.
Sono le chiacchiere la terza caratteristica della spiaggia dopo
l’acqua e il sole.
Tutti i bagnanti parlano sempre troppo.
Il quarto elemento, forse il più importante, è l’amore.
Gli altri tre, si crede, che servano all’amore.
Ci si vuole più bene su una spiaggia? Si è più gentili, più cordiali,
più disponibili? Non sempre, non necessariamente.
Forse è la complicità degli elementi naturali, la nudità che ci
fa sentire più liberi, gli istinti che sono più sollecitati dalle tette al
vento, dai sederi quasi nudi, dai corpi lucidi e profumati dagli oli e
scuriti dal sole e dalle creme. Ogni persona espande sensazioni di
salute e libertà.
Sarà l’acqua che scivola sul corpo di una bella donna, i capelli
bagnati che cadono sulla pelle e le gocce complici che paiono rugiada
e scivolano giù lentamente e invitano la tua mano ad accompagnarle.
Sarà la sensazione di essere più capaci di ascoltare i nostri istinti
naturali ed esserne presi dopo tanta, ininterrotta aggressione, o forse
che i pensieri razionalizzanti, seriosi, professionali, vengono per un
po’ messi a tacere.
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Paradiso ——————————————————————
ROBERT E PAOLA
Come faccia la signora, che ha il posto vicino al circolo della
Giovanna, a sopportare ancora quel vecchio che sta sorreggendo
con le braccia e trascina alla sedia che ha predisposto lasciandolo
per un attimo appoggiato alla porta della cabina e dopo aver pregato
Giovanna di guardarlo mentre lei corre a preparare e predisporre
il necessario per farlo distendere e riposare.
Lui in piedi, altissimo, magrissimo, scarno in viso, zigomi pronunciati, pizzetto grigio chiaro al mento con un cappellino a pentola
in testa, una camicia chiara a mezze maniche, pantaloni lunghi
leggeri di colore verde tenero e sandali, non cessa di chiamare la
donna, di brontolare, sbottare se tarda un po’.
Mai soddisfatto, di natura autoritaria, è peggiorato con l’età e
i malanni.
I vicini hanno in simpatia la donna, trattata come una serva.
Lui lo vorrebbero morto. Forse perché non pensa che a se stesso.
A casa hanno una badante e alla bisogna un’infermiera. La sua
compagna di spiaggia non sembra perciò molto sfruttata.
Gli è che la vita è ormai a senso unico e restano solo i bisogni
di lui da soddisfare.
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Paradiso ——————————————————————
Le donne solidarizzano perché, dicono, che non è dato vedere
un uomo fare quello che una donna sta facendo. È regola che siano
le donne. Forse perché vivono più a lungo? Le donne rispondono
di no, che da quando incontrano un uomo devono esistere per lui.
Lui viene sempre prima, lei dopo.
Eppure non può essere così semplice.
L’uomo non è in grado ora di comandare, chiede e si lamenta,
brontola e si lamenta. Ma è lei che decide cosa fare, se accorrere o
meno al suo richiamo, se soddisfare il suo desiderio, se lasciare il
bagno che sta facendo per andare a vedere che cos’ha.
Forse se si comportasse diversamente, se lo trascurasse e lo
trattasse bruscamente o gli parlasse in modo duro e rude, essendo
lui la parte più debole, la donna sarebbe oggetto di critiche aspre.
Ma lei è gentile, solerte e affettuosa.
Lui chiama e ripete, ripete la chiamata sino a che lei non lo
raggiunge:
“Paola dov’eri, dove sei stata, Paola? Mi fa male, qui, Paola,
mi fa male là.”
In verità vuole lei, ha bisogno di lei.
E lei è talmente ancora appiccicata a quello straccio: gli mette
in ordine i capelli, lo accarezza, lo sfiora con un bacio e lui, il suo
Robert, il suo americano, si tace, si cheta, si sente salvo.
Aveva temuto, per un attimo, (e ahimè quegli attimi sono
sempre più frequenti, più ravvicinati, vengono e lo assillano e lo
spaventano perché non riesce più a reggerli) che lei non ci fosse più
perché lui aveva smesso di vivere ed era terrorizzato sia all’idea di
essere morto che a quella di andare verso l’ignoto senza di lei, senza
guida, senza un amore grande come quello di lei che lo sorreggesse,
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Paradiso ——————————————————————
gli indicasse la via e confermasse che lo aveva amato per davvero.
Si era appisolato e al risveglio non l’aveva trovata. Terrore. Chiama.
Eccola. Robert vuole sempre tutto come una volta. Un tempo, già.
È passata una vita. Ma vuoi mettere? Lui era un uomo vero, un
uomo affascinante, uno di carattere, passione e impeto. Lui era un
uomo da amare. E amare sapeva. E come ti sentivi protetta, desiderata.
Sì, altri tempi. Ma i ricordi ci devono essere proprio tutti per
avere la forza di sorreggere l’ombra di lui, l’ombra di un uomo di
un tempo che fu.
Oggi i caratteri, le passioni non ci sono più. Gli uomini sono
dolci, teneri, ma sono anche deboli e insicuri. Incostanti e volubili.
Non hanno sicurezze né certezze.
Un tempo gli uomini migliori ricordavano le querce, oggi ricordano piuttosto i pioppi o i teneri salici.
Oggi farebbero di tutto per essere notati e considerati. Dicono
di volere una sola cosa, di fare una sola cosa, farla bene, benissimo,
cantare, recitare, intrattenere, fare ridere e divertire, piangere e
scherzare. E ancora. Giocare da campione in qualunque sport.
Forse meglio scrivere bene di tutto. Essere giornalista, romanziere, poeta no, perché non rende niente.
Meglio ancora diventare un uomo di televisione o di cinema.
Sì. Gli uomini oggi vogliono essere belli, piacevoli. Belli e
famosi, ma senza faticare. Non hanno forza né carattere.
Che paura terribile di non contare, non lasciare un’impronta
di sé. Meglio morire che non essere.
Perché questa dannazione di non reggere un rapporto, una
relazione per più di un giorno?
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Perché tutto così provvisorio? Tutto così incompleto, insoddisfacente, inappagante.
Che dramma divertire e non divertirsi. Amare e non essere
amati. O meglio pensare di divertire senza divertirsi. Di amare e di
non essere amato.
Insomma cos’è questo pensiero ricorrente sull’esistenza per cui
ogni cosa dura poco, non conta nulla, tutto è futile, passeggero e
non dura un giorno.
Tutto è destinato a usurarsi anzitempo, a finire subito.
Perché sono sempre gli altri a deluderci? Perché non pensiamo
che dovremmo essere noi a metterci in discussione? Sì, con il suicidio! O con la droga! Succede tanto spesso!
Siamo generazioni dannate noi. Un rapporto d’amore è bello
se nasce dal nulla, ma finisce per nulla, e finisce nel nulla. È stupido,
osceno, inaccettabile. Ma è così. Non riusciamo a tenere niente
stretto in pugno. Né l’uomo, né Dio.
Tutto è cosa che viene e va, che entra ed esce in te come polvere,
sempre anzitempo, sempre in anticipo, sembra sempre che la fine
segua l’inizio delle cose nostre come un’ombra, e si spengano contemporaneamente il giorno e la notte: noi e loro!
Robert chiama ancora, lui chiede di Paola, lui vuole Paola. Lei
si sta ristorando dal caldo nell’acqua del mare. È ferma e tutto in
lei si distende e, per un attimo, solo un attimo, ha l’illusione di essere
libera e di lasciarsi andare alle carezze del mare, al sollievo che gli
dà.
“Paola, Paola. Ti prego, in nome di Dio, ti prego.”
Lei è lì, accanto a lui. Sospira e ricorda una vita finita. Non lo
regge più. Non ha più forza né vigore. Lui è solo paura e lamento.
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Paradiso ——————————————————————
Lei non ha più pensieri sereni. La vita gliel’ha già rubata più
volte, oggi gliela vuole prendere ancora. Ha ancora paura di morire.
Ma è il suo uomo, il suo scopo. Robert l’ha chiamata alla vita,
l’ha modellata, l’ha onorata e l’ha anche offesa e umiliata.
Oggi Paola ha spesso pensieri di rivalsa, stranamente non per
il passato, ma per il presente vuoto e pesante.
A suo tempo, Robert è stato un uomo duro, amaro, ma bello,
intenso in tutto. Brutalità e passione. Tenerezza e trasporto.
Sì, è stato un uragano, quel fardello dì ossa, quell’essere che
sembra ora pietire un gesto d’attenzione. Ma è sempre autoritario,
il suo respiro, forse estremo, è sempre forte, pesante, imperioso.
Odio, odio e rancore. Ma c’è un che di misterioso e di segreto
che la trattiene e la richiama. Il senso dell’onore, del rispetto di sé
e dell’altro, quel volere che la cosa si compia naturalmente, con
conforto.
Chiudere di forza? No, sarebbe fare violenza a sé e gettare al
vento quell’alone di tenerezza che cinge il loro passato, che a tratti
si fa sorriso amaro, ma sorriso, a volte è sospiro di quel che è fuggito
per entrambi, più spesso è riflessione dolce, lieve su un percorso
comune, difficile, ma condiviso, denso di bagliori e di tenebra.
Come ha potuto quell’americano prenderla e portarla via e
incidere così profondamente su di lei? Cosa aveva di tanto potente
da dominarla?
“Sì, sono qua Robert, sono qua.”
“Sì, vengo, Robert, vengo, stai quieto. Sono qui di fianco a te,
non mi vedi? Non mi senti?”
“Sì, Robert, ero al mare, solo pochi minuti. Hai dormito per
pochi minuti. No, nessuno mi trattiene tranne te.”
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Paradiso ——————————————————————
Lui si calma. Non è geloso. È prepotente.
Non tollera che spenda minuti di vita in altro che non sia lui.
È sempre stato così. Lei glielo deve. Lei deve volere così.
Cos’era? Cosa sarebbe stata senza di lui? Però è stata brava. Una
vera compagna. In tutto.
È lui che si confessa, a tratti, a singhiozzi.
Se lei avesse saputo quanto era costato a lui essere così duro
con lei, quando avrebbe voluto piangere, chiedere aiuto, soccorso!
“Come ora. Come adesso! Ma ora non riesco più a fingere e
simulare. Ora mi perdo, non mi coordino più, il bisogno è più forte,
la mia debolezza, la mia paura di stare male, di essere solo, di finire
qui, ora, così, si fa terrore.
Non controllo più nulla. Dove sei?”
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Paradiso ——————————————————————
LE DUE FIUMANE
Accanto a loro una coppia. Hanno da ridire su tutto. Sono
disturbati, tormentati. Lei è come un motore diesel. Non si ferma
mai. Passa da un problema ad un altro senza concludere nulla.
La donna è nata a Fiume. Non si capacita che la sua città non
sia più italiana.
“È sempre stata nostra. Venire via così, di corsa, in fuga.
Scappare per il terrore da casa propria? Perché? Mia madre è
rimasta vedova che non aveva ancora trent’anni. Io ne avevo dieci.
Lei si era preso come amante un tedesco. Uno scapolo bello come
un Apollo. Se lo portava in casa, incurante delle critiche e dei giudizi
altrui.
A me non dispiaceva. Anzi, quando le cose si misero male per
i tedeschi lui venne da noi e disse a mia madre:
“Prendimi con te. Salvami. Non lascio da solo questo paese, né
posso restare qui. Mi ammazzano prima di raggiungere la Germania.
Voi italiani ci odiate, i croati ci odiano. Tutti qui ci odiano. Non esco
vivo da qui. E se anche raggiungo la Germania che faccio da solo
fra rovine e nemici che occupano la mia patria?”
“Mia madre rispose di no.” Dice la bambina di allora.
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Paradiso ——————————————————————
“Io dicevo di prenderlo, di stare insieme.”
Mia madre piangendo gli rispose:
“Forse da sola me la cavo. Ho la figlia che può salvarmi per
avere fraternizzato con i tedeschi. Per me ci sarà l’accusa di essere
stata l’amante di uno di essi.
Mi puniranno e mi umilieranno. Ma forse mia figlia mi salverà
o, forse, mi getteranno in una foiba con lei. Con te non ho scampo.
Se mi trovano con te sono morta. Non posso abbandonare mia figlia.
Ha bisogno di me. Insieme a te, se ci prendessero, potrebbero usare
lei per ferire me e te, potrebbero vendicarsi abusando di lei.”
E così la donna lasciò la casa e la sua terra. In Italia vagò da
un campo profughi all’altro per fare ritorno al punto di partenza, a
Trieste.
“Io li odio quelli là. Dicevano che eravamo fascisti. Eravamo
solo italiani ed eravamo a casa nostra. Ora ci accusano di essere stati
tutti dei criminali. Io? Mia madre? Non abbiamo torto un capello
a nessuno.”
Il ritornello della coppia erano le malattie che prima avevano
acciaccato lei e poi reso ansioso lui.
“Ma cosa volete che siano mai queste cose. Meglio farne a
meno, certo, ma ormai a noi la vita ce l’hanno tolta, non abbiamo
più nulla da perdere.”
Lui parlava poco. Dormiva o in silenzio andava all’ingresso. Lo
sviava il via vai delle persone che andavano e venivano come formiche.
Della malattia della moglie aveva detto una sola volta e poi non
ne aveva più parlato: “Non so se dopo l’operazione stia meglio. Il
mio parere? Tanto dolore per restare menomati!” E alludeva all’in-
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tervento di asporto dell’utero per una grave forma di tumore.
“Salva, ma mutilata. Lei se ne vergogna ancora. Non è più la
stessa. I medici tagliano, tolgono e non si rendono conto che la
natura è natura e che se uno viene mutilato cambia di personalità.”
Hanno una figlia, ma anni fa ne avevano un’altra, la primogenita.
La prediletta di lui.
Era perfetta. Laureata in Scienze statistiche. Abilitazione in
statistica attuariale. Assunta come funzionario nel settore vita in una
primaria compagnia di assicurazione.
Amava scalare pareti di roccia. Non pensava ad altro, casa,
lavoro, pareti rocciose. Dalla strada litoranea del golfo di Trieste,
nel tratto da Barcola a Miramare, si intravedono le persone che
scalano, come formiche su lastre di vetro.
Vanno su con le mani e con i piedi, con le mani: queste sono
quasi prensili, come gli artigli di un’aquila, cercano e trovano appigli
e altri ne individuano in cui puntarsi con i piedi. Se devono affrontare
per la prima volta una parete, segnano la via con dei chiodi, in modo
di agevolare il lavoro di quelli che verranno. Naturalmente si allenano e non gareggiano. Ma ci sono pendenze di oltre novanta gradi
e cadere al suolo significa morte, come croci e fotografie stanno a
ricordare.
La ragazza viveva bene la sua vita. Frequentava amici e amiche,
le mancava solo il ragazzo fisso.
Finché arrivò anche questo. Era assatanato dalle grotte. Erano
meno pericolose. Si scende e si sale con minor rischio.
Lei continuava ad andare in parete.
Questa sua libertà di andare e venire, di giocare con tanto
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Paradiso ——————————————————————
rischio, di esporsi troppo non piaceva alla madre. Ma lei aveva
piantato chiodi nel cuore di tutti e tre. Il padre soprattutto sembrava
ammutolire con lei. Guardava, sorrideva e annuiva. La sorella la
adorava, era il suo personaggio, la proiezione realizzata, materializzata di quel che era il meglio di sé. La madre faceva la burbera,
iniziava sempre a dire di no, doveva restare a casa con loro, leggere,
sentire musica e dormire: basta con le pareti e con la statistica. Poi
lui diceva di sì e lei cedeva di schianto.
Il compagno era come una calamita. Non chiedeva mai nulla.
Ma senza di lui lei si faceva inquieta, si innervosiva, doveva vederlo,
stare con lui. E così quando lui doveva scendere in grotta lei lasciava
le sue pareti e lo seguiva. Una volta ancora, solo quest’ultima volta.
Giù era bello, misterioso, ma andare a sfidare il cielo era come volare
su un aereo e dominare il mondo.
Ancora questa volta in grotta e poi…
Uno scivolone, il suo corpo che urta la roccia di destra, rimbalza
su quella di sinistra e poi il pianto e la disperazione. Tutti avevano
perduto qualcosa.
Il padre ha sempre l’amaro in bocca.
La madre è ritornata bambina e ricorda la casa, il paese, la
propria mamma, il tedesco, i croati cattivi.
“Se lui avesse detto di no quel giorno! Non bastava andare in
parete, anche in grotta. Buon Dio perché non ha preso me? Un
genitore non può seppellire un figlio, è contro natura, è contro ogni
regola. Perché, perché, Signore?
Guarda la mia seconda figlia ora, Signore. Stenta a vivere perché
il meglio di sé se n’è andato per sempre. Perché non ride più?”
Fortuna che c’è un’amica, anch’essa di Fiume. Angela, un nome
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Paradiso ——————————————————————
che è tutto un programma, ma alla rovescia. È insopportabile.
È un po’ svitata. Non dà mai pace. Parla sempre, e parla sempre
lei. E si muove in continuazione. Un continuo stato motorio, senza
ragione. Forse il suo fascio di nervi si arrotola e si srotola continuamente, senza pause. Perché? Si sa poco di lei. Non ha particolare
interesse alla nostra spiaggia. Viene e va. Quel che per lei conta è
girare, andare a vedere cose, visitare persone. È come se dovesse
correre più veloce del tempo, della vita o che dovesse recuperare
rispetto al tempo perduto. Chissà?
Un giorno gliel’ho chiesto: “Mi fai pensare a una persona
perennemente in fuga. Come se avessi timore di non farcela a
scappare, di essere raggiunta da qualcuno di cui hai paura. Che c’è.
Che mestiere fai?”
“Sono infermiera ospedaliera. Mi è sempre piaciuto occuparmi
degli altri. Come se avessi un senso di colpa per qualcosa da espiare,
per qualcosa di male che avevo fatto. Sono stata in psicanalisi per
capirci qualcosa, ma era tardi. Avrei dovuto andarci subito da
ragazzina. Ma qui non c’erano psicanalisti, al più psichiatri o psicologi. Ma a me serviva proprio uno psicanalista. Perché? Non me lo
ricordo neanche più molto bene, per la verità. Forse sono stata
violentata da qualche parente che frequentava casa mia e anche
dopo da qualche militare. Non so dirti nulla di preciso. So che non
potevo, da un certo momento in poi della mia giovinezza, non potevo
proprio più stare sola. Dovevo avere qualcuno dei miei familiari
vicino, e tremavo come una foglia. Anche durante l’esodo non avevo
pace. Temevo mi portassero via e mi facessero del male.
Queste cose ti entrano dentro, fanno male e si nascondono dove
tu non le cerchi e all’improvviso, proprio quando meno te l’aspetti
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Paradiso ——————————————————————
e non ci pensi, qualcosa fuori di te si muove, un viso, una mano che
ti scorrono accanto, un fruscio d’albero, lo scalpiccio al suolo di uno
scarpone, suoni lontani e rumori reconditi che irrompono all’improvviso nella tua testa e gonfiano d’angoscia il cuore e come due
mani stringono, quasi fossero magli, il collo e ti tolgono il respiro e
perdi i sensi.
Io non ce l’ho con i croati. Non posso criminalizzare loro per
uno che mi ha stuprato né mettere all’indice i miei familiari tutti
per un ladro d’anime e di innocenza giovanili.
No. Io non faccio testo. Il mio caso non c’entra con i croati o
con i militari italiani, fascisti o meno. È la guerra che ha favorito
l’accadere e il ripetersi del mio caso. Quale scenario più adatto ai
peggiori delitti?”
Angela ha un marito che tiene perché ha una discreta pensione.
Lui sta a casa, in cucina a guardare la televisione oppure attraversa
la strada ed entra nel bar di fronte, beve un bicchiere e gioca una
partita a carte o ascolta gli amici: meglio di quella mitragliatrice di
sua moglie. Lei, appena può, scappa a Fiume o dintorni, in qualche
angolo di mare in cui respirare l’aria di casa sua. Spesso trova una
locanda e passa lì qualche giorno.
Spesso si porta dietro l’amica, che però non può stare fuori la
notte, altrimenti il marito la mena di botte o la caccia di casa.
Che vanno a fare a Volosca, a Laurana, a Mattuglie?
Vanno a fare una mangiata di pesce in un ristorante sul mare,
vanno a ricordare di più e meglio i tempi in cui vivevano da quelle
parti, ragazzine vivaci, senza pensieri che non fossero la ricerca di
ragazzini, con cui giocavano a fare le signorine e a fare l’amore come
i grandi.
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La guerra e l’esodo avevano spezzato i loro sogni, troncato ipotesi
di vita, fatto sparire anzi tempo visi amici, ragazzi principi, giovani
corteggiatori, bravissimi e bellissimi amanti, luoghi di paradiso.
Andavano a rimpiangere e ricordare. Sole. Il viaggio di ritorno
accentuava la malinconia e ricordava la vecchiaia. I viaggiatori del
pullman, tutti un po’ allegri, ridevano e scherzavano. Le due amiche
piangevano.
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C’ERA UNA VOLTA UNA NONNA
Una donna, già nonna, faceva da mamma, in modo eccellente,
a due discoli biondi, gemelli, abilissimi nuotatori da subito. Avevano
ricevuto il battesimo del mare a pochi mesi di vita, avevano iniziato
a piangere non quando erano stati immersi, ma al momento in cui
dovevano uscirne.
La mamma lavora. È dirigente d’azienda. Un cervello che un
uomo invidia e teme. Il marito aveva dato forfait. Aveva bisogno di
maggior cervello per affrontare la sua compagna. Pensò bene di
darsi una mossa e cercarlo per il mondo. In verità era un dio di
bellezza, ma un vuoto d’aria felice di piacere e di fare l’amore.
Null’altro. Salvo la consapevolezza di non poter proprio competere
con la moglie, piena di tutto, fascino e comprendonio.
“El xe tanto bel e tanto mona.” (Traduzione: “È tanto bello e
tanto stupido”). La natura aveva protetto i due gemelli. Belli come
lui e intelligenti come la madre.
I nipotini riuscivano a vendere il guscio di un riccio o a spacciare
una pietra, che avevano rinvenuto dopo una risacca, per un fossile,
o un pezzo di vetro per un diamante. Erano in buona fede. Era il
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loro oro che vendevano, frutto delle loro ricerche. Inutile dire che
tutti stavano al gioco.
Passava lì anche gli inverni. Se c’era sole, si cacciava in fondo,
in fondo nel posto più coperto dalla bora, con un libro o della lana
e un ago se doveva fare una maglia e prendeva il sole e ascoltava
parlare il vento e il mare e i gabbiani e aspettava che lo scoiattolo
la raggiungesse e i merli e i pettirossi le si avvicinassero. La nonna
ne era la vera custode materiale e morale. Ne era la memoria, non
c’erano altri che vantassero una frequentazione così lunga e tanta
costanza.
“La cabina della spiaggia mi sarà costata d’affitto metà della
pensione.” Diceva.
“Perché mi ritrovo sola nove mesi all’anno? Sono qui tra la
gente solo durante l’estate quando i ragazzi sono liberi tutto il giorno
e vanno accuditi. Sono io che vado a prenderli a casa e veniamo tutti
e tre qui mentre mamma va al lavoro. Con l’inizio della scuola se li
prende lei. Li porta a scuola, va al lavoro, va a riprenderli e sta con
loro. Ha il part-time.
Io con mio marito ci sto bene, ma ci vivo come se fosse mio
fratello. Perché? Com’è successo e da quando non vivo più la mia
vita di sempre?
Lui non parla mai. È buono, ascolta. Sì, no, buon giorno, buona
notte. Se ne va al circolo, sempre. Io a vado al mare o resto a casa.
Se non chiama mia figlia, vivo leggendo e guardando la televisione.
Poi cambiò argomento. “Come partiremo? Come ci andiamo
in Paradiso? Non penserà all’Arca di Noè? È questo che si sente
dire in giro, non lo sapeva?”
“Sciocchezze. Se mai fosse possibile un viaggio lo organizzerei
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Paradiso ——————————————————————
su un grande vascello che sicuro e lento scivola nel silenzio dell’immenso. E tutti noi a guardare attoniti le meraviglie dello spazio,
delle galassie. Dovrebbe essere così affascinante che forse ci piacerebbe farlo durare più a lungo del dovuto. Mi piace l’idea di una
grande, misteriosa, eterna crociera spaziale.
Ma nessuno ha parlato del viaggio. C’è questa idea, questo
pensiero del Paradiso. Non c’è un progetto. È una boutade, uno
scherzo, un gioco, una presa in giro, una favola.
I ragazzi preferiscono un missile per andare in cielo o una
grande astronave o un vascello pirata.
Ma il viaggio dovrebbe restare quello di sempre, quando e come
Dio chiama.
È il “premio”, il luogo dove stare lassù che dovrebbe cambiare,
perché a noi piacerebbe che fosse come questo qui.
“Sa, qualcuno dice che avremmo dovuto giocare al rialzo, che
è poco chiedere Castelreggio 2.
Mah, ne parlano tutti come un fatto di ordinaria amministrazione!”
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Paradiso ——————————————————————
IL PRIMO MESSAGGERO DI DIO
Frattanto la prima persona estranea dello stabilimento, cui ne
avevo fatto cenno, aveva lasciato questa terra. Quando aveva sentito
di cosa parlavo mi aveva guardato stupita e mi aveva detto che non
le interessava. Doveva lavorare.
Chissà se lei aveva mai creduto in Dio.
Avevamo confidenza per tante cose, ma non avevamo mai
parlato di sacro, chiesa o dell’aldilà.
Era una donna massiccia che si portava appresso un odore
intenso di cucina: sulla pelle, sui capelli, sui vestiti. Quell’odore
depositato di salsa con ragù e cipolla.
La sua era una vita iniziata in modo strano. Era originaria della
montagna. Viveva in una grande e numerosa famiglia contadina.
Rimase misteriosamente incinta e diede al mondo una bambina.
Brutta e cattiva. Figlia della montagna brulla e arida e di un
incesto, perché da quel che si era capito il padre era un cugino che
conviveva insieme a lei in quella famiglia allargata.
Il paese della donna, di sole cento anime, era fatto di pastori
che allevavano capre, contadini che si occupavano della terra e
bovari che curavano le bestie nelle stalle.
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Paradiso ——————————————————————
Lei non aveva mai detto nulla a nessuno, né mentre era incinta,
né dopo aver partorito.
Ma che si fosse trattato di un incesto era palese.
Molti stavano zitti perché lei era grande e forte.
Vero era che tanti pensavano, e ridevano molto su ciò, che era
stata lei a farsi l’uomo.
Sì, doveva essere stata lei a prenderlo nella stalla, spingerlo sul
muro, tirarglielo fuori dai pantaloni e farlo entrare in sé.
Con dolcezza, ma con decisione.
Piacque sia a lei che a lui e lo fecero più volte, proprio fra le
mucche che puzzavano e spesso muggivano perché sentivano l’odore
dell’uomo, e il fumo del letame nuovo e l’odore della paglia.
Dopo la prima volta, quelle successive non si contarono più.
Era lei che arrivava per prima e attendeva ansiosa o era lui che
lasciava il lavoro, correva alla stalla, le saltava addosso e la prendeva
subito, in fretta, senza riguardo o dolcezza.
Solo lei aveva quiete, tatto e calma nel cercarlo.
Quando li scoprirono finirono le loro ansie, le loro voglie e i
loro spasimi. Tutto fu rumore, chiasso, frastuono, risa, urla, pianti,
finché una sera un pugno si abbatté sul tavolo, le donne furono zittite
e allontanate insieme ai bambini.
Poi una pipata, una bestemmia e la sentenza.
“Niente matrimonio. La donna si tiene la figlia. Lui è già stato
promesso. Se vogliono continuare a frequentarsi fino alle nozze di
lui sono liberi di farlo, ma senza fare altro casino e senza rubare un
minuto al lavoro. Io l’ammazzo quello che non fa quello che dico.
Dovrei sbattervi fuori di qui, in strada a calci, tutti e due. Ma lui è
già promesso. È in gioco l’onore mio, della famiglia, della casa.”
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Paradiso ——————————————————————
Quando nacque la figlia per lei non cambiò nulla se non la fine
dell’amore.
Se ne aveva voglia doveva farsi montare da un altro. Con il
cugino non poteva più. La moglie viveva con loro, doveva aver saputo
e teneva gli occhi aperti.
Il nonno padrone l’avrebbe uccisa se ci avesse provato ancora.
Provvide lui a trovarle una sistemazione qualche anno dopo e
liberarsi di lei e della mocciosa.
Gli avevano detto di un uomo che viveva a valle, solo, con una
casa, della campagna e un figlio maschio.
La donna del monte con la bambina fece famiglia con l’uomo
di campagna e il bambino.
Scoprirono di avere un cuore grande. Questo li legò.
Ma la bambina della montagna aveva il vizio di rubare. Ovunque andava le mani cercavano cose altrui e le sottraevano. Non servì
un luogo di clausura.
In paese la sfuggivano peggio di una prostituta o di una drogata.
Rubava ogni cosa dovunque. Rubò persino la bicicletta al carabiniere.
E fu la casa di correzione.
Mentre il figlio maschio si era scoperto amante dell’avventura
e la cercava in tutto il mondo, sempre più lontano e straniero da
casa sua, la figlia fece ritorno a casa.
Se prima era invaghita del denaro e lo toglieva a tutti, grazie a
Dio venne il periodo dei ladri di cuori. Come fosse di nuovo sbocciata, la giovane cambiò, mutò l’aspetto, la condotta, il modo di
vestirsi, il linguaggio. Si fece gentile, silenziosa. Guardava e scrutava
con intensità gli uomini, solo gli uomini; con le donne fingeva di
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Paradiso ——————————————————————
averne riguardo, chinava il capo se erano sposate o maggiori di lei
e ascoltava. Trasmetteva una femminilità intensissima, come fa una
gatta in calore che richiama i gatti di tutto il vicinato. Fece strage di
cuori. Di quelli liberi e perciò non venne tacciata di essere una
puttana perché si innamorava nel fare all’amore ed era furba perché
rispettava gli uomini con famiglia; lei si innamorava di ogni uomo
che le avesse fatto le belle, che non fosse stato brutto e non avesse
puzzato. Sembrava madame primavera che passa di casa in casa, di
cuore in cuore, di giardino in giardino e fa la rivoluzione.
Ma chi scherza col fuoco prima o poi si brucia, dice il proverbio,
e lei, per buona sorte dei genitori che erano disturbati e quasi
infastiditi dal corteggiamento di gruppo di cui era fatta tanto spesso
oggetto, fu chiesta in moglie e dovette sposarsi in fretta perché era
rimasta incinta.
Come sua madre aveva amato l’amore, grazie ad esso la giovane
si sistemò. Fece bene, anche perché la famiglia era cresciuta; si era
aggiunto da un po’ di tempo un maschio che rubava le attenzioni
dei genitori.
Di tutti e due, intensamente. Lei, si era lamentata talvolta,
perché poteva fare affidamento solo sulla madre, il patrigno adorava
i campi e la sua compagna.
“Vanga e sesso” lo chiamavano perché se non era in campagna
stava facendo l’amore con lei. E lui a scusarsi che era lei che lo
prendeva, lo schiacciava contro il muro. Lui, come marito, doveva
fare il suo dovere. Sì, faceva un buon raccolto di patate e pomodoro
ogni anno, e fagiolini e cetrioli, ma nel sesso era più bravo del suo
gallo che iniziava all’alba e finiva a sera e ne aveva di pollastrelle da
soddisfare.
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Paradiso ——————————————————————
Lui ci scherzava sopra quando aveva bevuto un bicchiere di
vino e dava una smanacciata al sederone della moglie e guardava il
suo giovanotto che piano piano aveva vinto la scalata nel suo cuore;
ora, primo veniva lui, poi i campi e solo terza la sua donna.
Diceva troppe cose buone di lei per non segnalare che l’amore,
quello impetuoso che lo aveva da subito fatto prigioniero, andava
cambiando.
Ci metteva più coscienza in tutto e più profondità in ogni atto
o gesto.
Le parlava di più e la accarezzava come aveva fatto solo con il
suo primo figlio, perché era stato una novità, una sorpresa, un
incredibile dono di Dio e della natura e della adorazione di una
donna strana, folle.
Una fata, sì, una fata che da militare aveva trovato alla fiera di
un paese vicino; e tutto era avvenuto in una notte, ma ne era stato
felice, come se lo avessero fatto generale.
Era stata una notte in giostra in cui il mondo si fa tutto allegro,
libero, un girotondo che giocava con gli uomini e le cose e divertiva
e faceva divertire. Loro erano ubriachi di allegrezza, di gioventù, di
libertà e di voglia.
Il giorno dopo, si era presentato a casa di lei per dirle che
l’amava. Il padre lo ascoltò e non lo uccise come aveva promesso a
chiunque avesse approfittato della sua creatura.
Quel ragazzo era buono. Fecero un patto.
Se la ragazza fosse rimasta incinta il bambino lo avrebbe preso
lui e solo lui. Quando nacque andò a prenderlo.
Quel figlio, il loro prediletto, era ormai un uomo, ma da un po’,
dava segni di improvviso cambiamento di umore, si stizziva a volte
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Paradiso ——————————————————————
per un nonnulla e poi si ammutoliva e talvolta piangeva senza
apparente ragione. Poi la fuga da casa, le assenze lunghe e ingiustificate. La notizia: la droga. Poi più nulla sino alla successiva notizia:
il carcere.
Fuga dalla comunità, rapina, spaccio e galera. Glielo avevano
portato via. Glielo avevano rapito e stregato. Una tragedia!
“Il diavolo e l’acqua santa ci sono sempre stati nella mia vita.
Il diavolo l’ho anche visto da giovane e forse gli ho dato l’anima mia
per sopravvivere in quell’inferno di vita che mio nonno mi faceva
vivere.
Poi l’ho cacciato quando ho lasciato il monte e sono scesa a
valle, in paradiso e Dio mi ha dato una famiglia.
Lo so che nella mia anima ci sono sempre stati e forse quando
ho partorito il nostro prediletto il diavolo è uscito con lui e se l’è
preso. Forse è così. Mio marito non li conosce questi miei pensieri.
Crede che siano gli uomini che rovinano gli uomini e non Dio.
Ricorda che siamo liberi se lo vogliamo. Ha fatto una guerra con i
partigiani e con la guerra Dio non c’entrava, non c’è mai entrato.
Sono gli uomini che fanno il bene e il male. Noi due ci siamo voluti
bene e il bene è sbocciato, è continuato.
Guarda mia figlia, che sembrava perduta, si è salvata. Lui, il
nostro fiore santo, era stato buono e bravo per anni, sino al servizio
militare.
È incominciato tutto allora? Che fare?
Dovremo caricarci questa croce e portarla con pazienza e pregare. Non ho tempo, non abbiamo tempo, per pensare al Paradiso.
Ci tocca una fetta d’inferno e dobbiamo consumarla tutta. Dobbiamo stare dietro a nostro figlio.”
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Paradiso ——————————————————————
LA SIGNORA DAL COSTUME GIALLO
Qualcuno interroga:
“Posso portare chi voglio con me? E dove?”
“Non lo so. È un gioco, uno scherzo. Ma forse potrebbe riuscire.
Chissà. Forse resterà solo una foto ricordo da spiaggia, un racconto,
una favola.”
“Ma dovresti sentire i commenti.”
Arrivano a gruppi i bagnanti e dopo essersi spogliati vanno
subito incontro all’acqua e la toccano con la punta delle dita, si
fermano. Il gesto ricorda il nuotatore che deve saltare dal trampolino
e si spinge fino al limite, all’inizio del vuoto, e si appiglia con le dita
dei piedi, quasi diventati artigli, all’estremità e dopo qualche secondo di concentrazione, si lancia e piroetta nel vuoto e si sfila come
uno spago arrotolato ed è tutto uno, dal trampolino alla linea d’acqua
in cui entra, come un sasso che fa un soffio soffocato nello scendere
nel profondo e dà vita a cerchi concentrici, a onde che più si allargano
più scemano sino alla quiete.
Quelli dello stabilimento restano sul bagnasciuga, parlano, ridono, fingono di entrare e di sottrarsi, alfine si gettano con schiamazzo e muovono l’acqua di forza e schizzano da ogni parte e fanno
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Paradiso ——————————————————————
onde e creano nuvole bianche di acqua salsa che rifrange la luce del
sole dando vita a numerosi piccoli arcobaleni.
Le donne più anziane entrano lentamente, con calma, quasi
rispettando un rito, senza smuovere acqua in più del necessario.
Sono delicate e gentili le donne e forti perché ci vanno insieme ed
entrando continuano a parlare, insieme, unite e il loro gioco è pacato,
rilassante, disteso, fecondo.
I ragazzi e le ragazze lo usano di più il mare, perché lavorano
di più di fantasia. I loro gesti e i loro movimenti sono più vari e
numerosi di quelli dei grandi. Sembrano più vitali, più istintivi; quelli
degli altri più ragionati, lenti e stanchi.
Tuffi, finte ricerche, finta pesca, scoperte di pesci, di conchiglie,
di sassi, di ogni residuo di barca o d’uomo, i ragazzi e le ragazze
provano e trovano di tutto.
Si servono del mare per illudere e ingannare, alludere e simulare, secondo il loro istinto.
I giovani, che disdegnano i giochi infantili e i giochi adulti,
giocano con la loro sensuale innocenza e con la loro voglia di nuova
intimità.
Le giovani donne sono più attente e più discrete, quasi conoscessero il gioco; i ragazzi invece impacciati e imbarazzati, non hanno
esperienza.
Si vergognano a mostrarsi così palesemente. Temono di esporsi,
di scoprirsi e di perdersi nella tela che cercano di tessere. Tranne il
solito idiota che scimmiotta e sbraca cercando di fare ridere, ma
stanca tutti presto.
Il bello, quello che piace subito, che ha più fortuna ci è già
passato, è sullo stesso piano della giovane donna. Vanesio e pieno
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di sé. Sicuro. È come una serpe. Ma la donna lo vince. La donna
finge e si allontana; il bello, invece di attendere, la segue. La rincorre,
la chiama. È suo.
Da un po’ si vedono facce nuove allo stabilimento. Sono soprattutto donne sole.
C’è quella che arriva con una andatura da militare. Prende
posto non lontano dal mare; depone il suo sacco, sistema la branda
e si avvicina alla battigia; ha con sé uno stuoino di plastica, lo bagna
tutto e lo fissa con quattro pietre che sistema ai quattro angoli e lo
sistema in modo che l’acqua giunga a coprirlo, fa le prove, si distende
sopra e verifica se il livello dell’acqua è quello desiderato.
Forse pensa di esporsi così al sole ed accelerare l’abbronzatura
e nel contempo restare al fresco.
In attesa di decidersi si avvicina agli scogli, si gira, appoggia la
pianta del piede destro alla parete di pietra, piega il ginocchio e
guarda diritto dinanzi a sé verso Trieste, dalla parte da cui sorge il
sole.
Ha una cuffia alle orecchie. Evidentemente ascolta la radio.
Tutto quello che fa è studiato, o frutto di tensione nervosa.
È concentrata, compresa nei suoi atti e movimenti, pensati
quasi in maniera maniacale. Ha un costume a due pezzi in tinta
gialla.
Indosserà ogni giorno solo e sempre quello.
Non ha più di cinquant’anni, carnagione bianca, chiarissima:
prima esposizione al sole.
È giunta presto, appena dopo le otto. Rimarrà sino alle quattordici. Sarà sempre sola, con la sua radio che toglierà solo quando
si stenderà sullo stuoino a prendere sole e acqua.
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Paradiso ——————————————————————
Rimane ferma appoggiata alla pietra a lungo; sembra che muova le labbra impercettibilmente, ma non è sicuro.
All’improvviso si scuote, appoggia il piede destro a terra e si
guarda attorno; vede una signora un po’ più anziana di lei che è a
terra stesa sul materassino e appoggia la testa alla stessa roccia su
cui lei appoggiava la pianta del piede.
È nera per i giorni trascorsi al sole.
“Scusi signora, mi stringa la mano in segno di pace.”
“Ma perché scusi, che modi, stavo riposando.”
“Mi perdoni e scusi se insisto, ma sto ascoltando la santa messa;
siamo allo – scambiatevi un segno di pace – e io devo farlo con
qualcuno, la prego.”
“Già, oggidì un segno di pace non si nega a nessuno. Ma io non
vado a messa, non vado in chiesa. Sono atea. E sia.” E stende la
mano e la stringe.
Nessuna prosecuzione del dialogo.
Finita la messa va a stendersi sulla branda, ma non trova pace,
non riesce a riposare. Si gira e si rigira senza quiete, poi scatta su e
va a mettersi sullo stuoino che sta navigando sull’acqua.
Forse l’acqua, lo sciacquio, il fresco la calmano, sembra rilassarsi.
È posta di traverso e proprio sulla battigia ed è di ostacolo a
chi vuole entrare in acqua. Lei rimane dov’è e non si cura di nessuno.
Il giorno successivo si ripresenta, ma senza cuffie e radio e senza
ascoltare la messa.
Compie, per il resto, le medesime operazioni. Zaino a terra,
branda distesa, stuoino sulla battigia, quattro sassi per tenerlo fermo.
Rimane sulla branda. Verso mezzogiorno si alza e si porta vicino
allo stuoino, ma non vi si distende sopra.
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Paradiso ——————————————————————
Ha con sé un nailon con tre grosse pesche gialle. Stende il
braccio sinistro con nailon e due pesche, stende quello di destra che
impugna una pesca.
Ritmicamente e rigidamente avvicina la pesca alla bocca e le
dà dei grandi morsi.
Tiene sempre il braccio lontano da sé, forse per non sporcare
il costume, e fa sgocciolare il sugo del frutto nell’acqua. La gente
incomincia ad osservare stupita e incuriosita il movimento della
donna che azzanna e fa sgocciolare.Tranquilla come se non vedesse
le occhiate di costernazione. Lascia cadere il nocciolo in acqua e
non si cura di raccoglierlo.
Dopo la prima pesca è il turno della seconda e della terza. La
donna si china, lava, nell’acqua del mare, il nailon e le mani e anche
la bocca passandovi sopra il cavo del palmo della mano pieno
d’acqua.
Il giorno successivo altra sceneggiata con cuffie, radio, messa,
segno di pace, strette di mano e distensione sullo stuoino mentre
più di qualcuno sta per passarle sopra.
Fu dopo il ripetersi del rito delle pesche e della messa per
qualche giorno che qualcuno fece commenti. Il comportamento
della donna mi aveva ricordato l’espressione di un filosofo cattolico
sul cambiamento avvenuto nel cattolicesimo dalle origini ai tempi
odierni.
Troppa invasione secolare; troppo favore al consumismo. Bisognava ritornare alle origini a pena di una prossima grave crisi. Il
filosofo rispondeva che la follia di Dio gli sembrava comunque
migliore della più grande saggezza degli uomini.
Con ciò non volendo respingere la critica, ma volendo avvalo-
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Paradiso ——————————————————————
rare la forza della conoscenza della fede e dei suoi mezzi per
giungervi, fra essi comprendendovi anche i misteri, le apparizioni, i
segreti, segni forti della sacralità che si erano smarriti con il tempo
per l’affermarsi virulento della ragione che, tuttavia, ribadiva il
filosofo, può conoscere solo l’umano non oltre.
Questo singolare pensiero in breve si cambiò nella voce che
un’invasata fosse fra noi, ma non solo.
Che la donna si comportasse stranamente era pacifico, che fosse
un po’ pazza forse, che avesse portato Dio nello stabilimento era
anche acquisito, ma che fosse indemoniata o esagitata non sembrava
proprio.
Di certo non fu accolta bene, né lei né l’ipotesi che fosse
portatrice di un messaggio dell’aldilà.
Però aveva svelato il poco spazio che aveva la fede e la religione
fra i frequentatori della spiaggia.
Ed era stato forse un errore non approfondire l’ipotesi che la
donna fosse portatrice di un messaggio, o venuta a verificare le
nostre chiacchiere e le nostre dicerie sul paradiso.
Se, come diceva il filosofo, Dio ha anche modi folli per farsi
sentire o riconoscere perché non approfondire le ragioni della venuta della donna in giallo? E quelle della sua frettolosa scomparsa?
Forse ci aveva trasmesso non pochi messaggi.
Il suo modo di fare, disordinato e poco elegante, diceva di una
persona semplice, umile.
O siamo ormai soliti considerare questi rari soggetti alla stregua
dei vagabondi da strada?
Se uno fuoriesce dai nostri canoni o cliché o è matto o è un
contadino fuori dal tempo.
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Fissava il cielo verso est, verso Trieste, verso il sole.
Fissava dunque il cielo e si volgeva al Signore e non è frettoloso
dire un tanto, perché stava seguendo la messa. E ancora, sia l’immobilità sia la fissità del suo guardare e l’intensità della sua concentrazione segnalavano una persona di fede, che non si vergognava di
portare il suo Dio a spasso con sé dovunque, persino in una spiaggia.
È vero, uno che lo fa oggidì non può che apparire strano!
Ma non avremmo potuto comportarci come quei ragazzi che
in un momento di euforia sono andati a prendere gli handicappati
e li hanno portati in acqua con sé e ci hanno giocato e trovato attimi
di vita in comune, di gioia condivisa fra diversi, di possibilità di capirsi
e stare un po’ insieme?
Forse avremmo potuto stendere anche noi la mano senza lo
stimolo della messa.
La donna invitata a scambiare un gesto di pace, si era affrettata
a dire di essere atea, aveva scartato Dio come ragione di pace, e ben
disposta solo dopo aver pensato all’Iraq, al pacifismo, ai no global.
Incredibile come si sia ostili con chi non la pensa come noi e
tanto sdolcinati e disponibili con chi partecipa alle grandi adunate.
Si buttano nel fango gli avversari e si balla il tango con chi
ritiene lecito usare la violenza.
La donna anziana che alla fine diede la propria mano non era
piena di tic e in stato di perenne agitazione come la donna dal
costume giallo.
No, riposava, leggeva e riposava. Riceveva molte telefonate al
cellulare. Si capiva che erano domande di aiuto, di consiglio, di
chiarimento, di sostegno.
Era composta e tranquilla la donna, come quelle persone che
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Paradiso ——————————————————————
conoscono, capiscono e insegnano agli altri, hanno sempre una
risposta, quella buona e quella giusta.
Confesso che avevo apprezzato la sua calma, la sua tranquillità,
la sua educazione, il suo vivere senza fare chiasso e scena.
Se parlava, lo faceva sottovoce per non disturbare; veniva e
salutava, se ne andava e rispondeva al saluto.
Era una di quelle persone che hai voglia di conoscere e di
frequentare.
Tuttavia, dopo aver pensato alle stranezze della pazza, mi
veniva sempre più di pensare a questa, alla sua sregolatezza, al suo
saltellare, sì perché non camminava, si muoveva a balzi, al suo
muoversi con rigidità come un robot.
Insomma appariva più misteriosa e interessante questa rispetto
alla prima.
Tanto era scontata nella sua normalità, compostezza, controllo
la più anziana, tanto incuriosiva la più giovane. Una cavalla da
pascolo e quieta la prima, la saggezza, una puledra scalciante la
seconda, l’irrequietezza e l’impulsività.
Ma v’era qualcosa di più, forse ancora nascosto e non disvelato.
Sembrava che ogni gesto e atteggiamento della seconda dovesse
avere un significato recondito, contenere un messaggio che andava
decifrato, mentre nella prima tutto era già noto, scontato.
Non c’era novità, tutto regolare, tutto conforme.
Nell’altra tutto opinabile e aleatorio. Eppure il fascino era di
questa, o almeno quando se ne andò lasciò qualcosa di incompiuto
e di vuoto, l’altra no. Nessun segno.
Deve avere avvertito il mio furore e sentito le maledizioni e i
fulmini che le ho inviato.
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Paradiso ——————————————————————
E infatti il giorno successivo niente pranzo!
Se avesse ripetuto il rito le avrei tolto di mano il sacchetto e la
pesca e le avrei urlato:
“Vede qualcuno che fa quello che sta facendo lei? Se lei ha
pagato il biglietto sa che questo non lo può fare perché noi abbiamo
acquisito il diritto a essere rispettati e lei il dovere al rispetto e
viceversa. Mica può pensare che perché viene a sentire messa qui,
può mancarci di rispetto o che è il Signore che ce la manda?”
Sto leggendo, mentre ricordo la donna in giallo, del necrologio
di Guevara di un certo Jean Cau:
“Era bello come un Dio che, invece di approfittare della sua
vita, preferisce sacrificarsi sull’altare dell’ideale.”
A proposito di François Mauriac, un amico, un cattolico, un
omosessuale represso, diceva:
“Fa scandalo ovunque chiamando le cose con il loro nome.”
E ancora di un incontro di Mauriac con Sartre. A cena. Mauriac
lo descrive:
“Lui, così cauto, vaccinato contro tutte le malattie dell’epoca,
la mente più libera, meno sottomessa al tic della sua generazione.”
I due si intendevano a menadito, tanto erano imbevuti di spirito
cristiano.
E ciò al contrario dei burloni, che, dopo la morte di Jean
Cocteau, mandano al timorato Mauriac, macerato dalle rinunce
della sua omosessualità segreta, un telegramma dall’aldilà firmato
dallo spregiudicato defunto. Il testo era:
“L’inferno non esiste. Stop. Goditi la vita. Stop. Firmato. Jean”
Tutto ciò in “Una passione per Che Guevara”. A lui Cau dice:
“Da molto tempo tu mi sbarri il passo, Ernesto Che Guevara.
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Paradiso ——————————————————————
Ecco il tuo cadavere, steso sul sentiero su cui cammino.”
Cau alla fine è preso da illuminazione.
Racconta della fine di uno sporco collaborazionista, in attesa
di essere fucilato da un plotone di giovani, incapaci partigiani.
Vedendo che uno dei suoi fucilatori non riesce a sbloccare
l’otturatore si fa strada fra i giovani chini sul fucile e ormai dimentichi
di lui.
Prende l’arma e la sistema.
Poi si rimette in posizione.
Poiché l’ufficiale esita chiede:
“Vuole che ordini io il fuoco, tenente?”
Malgrado la sua sete di trascendenza, Cau apprezza questa
“bellissima morte”. Tutta ironia e eleganza. Rubare la propria morte
a colui che uccide, amiamo questa nobile farsa.”
136 —
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Paradiso ——————————————————————
LA SIGNORA CON IL CANE
Al posto della signora in giallo si è ripresentata la signora
dell’ospedale. Abita poco lontano da qui. Il suo tempo libero lo passa
alla spiaggia o a passeggiare con il suo cane.
Se non viene al mare deve aver avuto la sua solita crisi di nervi.
Diventa sempre più curva come il ramo di felce del mio giardino
che uno dei miei gatti piega come un giunco.
È la malattia nervosa dicono. La schiena si piega ad arco e la
ingobbisce.
Conosce tutti e parla con tutti, ma in poco tempo resta sola.
Prende la parola e sproloquia e parlando cambia il tono e il dire.
Poi si blocca, sfinita e si stende a riposare.
Scende in acqua, fa due bracciate ed esce perché ha freddo.
Dice di avere un amico con cui convive, ma nessuno lo ha mai visto.
Siamo sistematicamente invitati tutti a cena a casa sua, ma sono anni
che attendiamo conferma all’invito e la fissazione del giorno.
Di certo ama molto il suo cane. Lo lascia in macchina, all’ombra.
Lo raggiunge, lo prende in braccio, lo abbraccia forte e lo bacia
dappertutto. Sembra un puffo di peluche, da come lo tiene e lo
tratta, ma è un animale vivo. Con il cane sembra non stancarsi.
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Paradiso ——————————————————————
Non è vero che sia un’umanità malata quella che mi ritrovo
accanto. È vero che ha conosciuto e conosce il dolore.
Forse esagero un po’ i fatti e le presentazioni. No, se questo
appare è perché cerco di evidenziarne i tratti salienti, o forse è vero
che le loro disgrazie o le loro disavventure mi inteneriscono, perché
è la mia gente d’estate da tanti anni.
La vita, a mio parere, sta tutta in queste relazioni. Che rimane
d’altro?
Cos’hanno in comune oltre alla vita e alla morte? Tutto ciò che
lo stabilimento offre oltre al cielo, al mare, al sole.
Ma hanno anche tanta paura che questa loro casa estiva sia
abbattuta.
No, non è la loro una posizione di difesa ambientale. No. Non
è questo, o se lo è, lo è solo in parte.
Essi temono fortemente che colui che ha comperato la baia
ottenga l’autorizzazione e cambi radicalmente i connotati alla spiaggia.
Sì, li tiene uniti la voglia di conservazione del posto al sole!
È da una vita che ci vengono. Mille e un giorno!
Erano bambini quando i genitori hanno insegnato loro a nuotare, proprio qui!
Ci sono ritornati da grandicelli con la prima persona del cuore,
poi con la compagna della vita.
Il cambiamento progettato stravolgerebbe il “bagno” della loro
vita. Non lo vogliono. Vogliono che le cose stiano così.
È certamente così per me. A me cosa porta il cambiamento?
Solo rinunce, solo problemi, solo sofferenze. E non si dica che
è pigrizia, che posso andare altrove e trovare di meglio.
Non è vero. È un meno, è un togliermi ancora qualcosa. È una
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Paradiso ——————————————————————
non vita che mi si offre, o una ipotesi di vita ridotta.
Quello che si perde non lo si sostituisce con nulla e con nessuno.
Falsità e follia altro che ottimismo della vita, di ciò che cambia, deve
comunque cambiare, sempre si muta, sempre si rinnova ogni cosa.
Si muore per rinascere!
Ma chi lo ha detto? Perché gli amici che mi hanno lasciato, che
sono mancati, sono voci mancanti in un coro che era la mia musica.
E chi me lo dà il sostegno, l’appoggio, l’affidabilità di una persona
amata?
Le parole, le voci, le confidenze, le emozioni, le notizie, i
rapporti: dissolti, finiti!
Paura di morire? Certo, perché no? È un cambiamento totale
la morte, la fine di ogni pulsione, di ogni emozione, di contatti fisici
e delle emozioni. È così delittuoso avvertire che il solo pensiero di
perderli ti fa soffrire?
Va bene. Ammettiamo pure che il progetto sia un po’ strampalato. Ragioniamoci su. Un credente lascia perdere. Chi scambierebbe mai uno stabilimento balneare con la Luce Infinita? Ma se
uno è un credente così così, uno che sorride se pensa a quella che
seguiva la messa in spiaggia, quella toccata in testa che si metteva
in posa come la Greta Garbo o come la Gilda della bellissima Rita
Hayworth: te le ricordi quelle due attrici e l’agitare della loro testa
e quel cacciare i capelli, foltissimi e lunghi un’infinità, all’indietro e
mettere in mostra quel lungo collo bianco e quel “sottoviso” che ti
faceva venire la smania di azzannarlo: altro che rapporto sessuale!
Sì, quell’invasata aveva la cuffia in testa al posto dei capelli, ma
la cuffia oggidì ce l’hanno tutti i ragazzini che sentono eternamente
rap o metal, altroché la messa!
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Paradiso ——————————————————————
Forse lei si sentiva Giovanna d’Arco o una martire cristiana
impalata e in attesa di una scarica di frecce che le bucassero tutto
il corpo, alla San Sebastiano.
Quella non verrà con noi. Resterebbe sorpresa e scandalizzata
a sentire una tale proposta oscena. Una bestemmia.
E che sarà per uno come noi, battezzati senza prima essere stati
sentiti o ascoltati, comunicati e cresimati in Chiesa solo per i regali,
il pranzo e la festa?
Il matrimonio in Chiesa! Suvvia solo per i genitori, poveretti
non si rassegnano, c’è già stata una convivenza poliennale, appunto
ora basta scherzare, sposatevi e che sia finito questo vagabondaggio.
Ai tempi nostri il vostro si chiamava concubinato ed era un peccato
gravissimo!
Insomma quelli che vanno in Chiesa a Natale perché fa tanta
tenerezza e bontà, ai matrimoni degli amici per solidarietà, a quelli
dei parenti per dovere di consanguineità, ai funerali dei defunti più
intimi perché a quelli dei conoscenti si va al più in cappella mortuaria
per una doverosa presenza, cioè per farsi vedere e riconoscere dalla
gente (hai visto c’è anche lui, brava persona quella, rispettosa e
rispettata!).
Ecco, ai cattolici così così non pare un peccato né un oltraggio
né una bestemmia ipotizzare di passare ad altra vita e ritrovarsi come
a casa propria.
Ma è come chiedere l’immortalità e nel contempo restare attaccati alla propria vita terrena.
Proprio così. E allora dove sta lo scandalo?
Dio non gradirebbe, no, non gradirebbe una tale proposta. È
oltraggiosa. Preferire una spiaggia e divertimenti terreni all’Illumi-
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nazione Eterna? Ma forse è proprio questa Enormità, questa Grandiosità, questa Assolutezza e questa Straordinarietà che spaventano.
“Troppa roba, Padre Mio. E proprio per me? Ma non lo merito,
davvero, non lo merito. Non riesco a capirlo, è troppo per una
persona indegna.
Mi sembra una cosa così lontana che non riesco ad immaginarmela.”
Invece quello che uno conosce bene, che accetta nel bene e nel
male, nei suoi pregi e nei suoi difetti, che non dà sorprese, quello
sta bene. Nessuna sorpresa, nessun cambiamento.
Già il mutare delle stagioni mette a disagio. Sì, perché il mare
è sempre bello, anche d’inverno, anche quando fa freddo ed è in
tempesta, urla, fischia, si agita, si scuote e ringhia.
Ma la bella stagione dura poco.
Qualcuno riesce a tirarla fino quasi a sei mesi. Anticipa l’estate
e posticipa l’autunno.
Si va al mare a Pasqua e lo si lascia in ottobre. Ma è ben vero
che non è mai sicuro. Basta una giornata fredda prima di Pasqua e
inizi la stagione a maggio, oppure la finisci prima se arriva anzi
tempo una giornata autunnale di pioggia e di freddo.
Eppure andrebbe bene anche così.
Nessuno si è chiesto “E che si fa quando non si può andare al
mare perché fa freddo?”
Uno ha osservato sarcastico che non può esserci una variazione
di stagione in Paradiso.
Insomma non è peccato riconoscere che per i più era implicito
che il bel tempo, l’estate durassero tutto l’anno.
Sì, un’eterna estate in Paradiso nel nostro stabilimento balnea-
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Paradiso ——————————————————————
re. Ci sembrava una richiesta minimale, ma per noi era il massimo.
Insomma non si pensava né si voleva sminuire quello che il vero
Paradiso offrirà, si voleva dire che se di là si sa che si può stare
meglio a noi bastava una cosa come quella che abbiamo qui d’estate.
Non abbiamo molta confidenza fra noi. Ci salutiamo, siamo
lieti di ritrovarci, di essere vivi, come diciamo sinteticamente noi:
“Speriamo che duri!”
“Cos’è che deve durare?” No, non solo il tempo, il bel tempo
e il mare, il bel mare. Sereno in cielo e non mucillagini in mare,
questo si chiede alla natura. Al buon Dio chiediamo di mantenere
lo stato di salute, il benessere che ci ha fatto trovare in questo piccolo
Paradiso.
Ecco, ancora una volta il timore che il male, la morte ci portino
via quello che abbiamo.
Saremmo dunque dei conservatori, oscurantisti, nemici del presente e del futuro, del nuovo che avanza che cambia il mondo di
oggi vecchio e stanco e innova, prepara un nuovo mondo? Sta bene,
non ci pentiamo di ciò!
Siamo gente di poca fede? Sì!
Dice di don Chisciotte Ivan Turgenev in “Amleto e don Chisciotte”
“Che cosa rappresenta don Chisciotte? La fede anzi tutto; la fede
in qualcosa di eterno e incrollabile, la fede nella verità insomma…
Don Chisciotte è totalmente pervaso di fedeltà a un ideale, per
il quale è pronto a sottoporsi a ogni possibile privazione, a immolare
la propria vita, quella vita che apprezza solo in quanto essa può
costituire un mezzo di espressione concreta dell’ideale, di affermazione della verità e della giustizia sulla terra…
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Vivere per se stesso, preoccuparsi di se stesso, per don Chisciotte sarebbe stato vergognoso”.
Ma Miguel Unamuno in “Vita di don Chisciotte e Sancho
Panza” aggiunge alla fede di don Chisciotte quella, non meno profonda, di Sancho, umanissima remissione a ciò che ci è caro perché
nasce dal dubbio del credere perché non vogliamo abbandonare ciò
che una volta fu scelto:
“La fede di Sancho in don Chisciotte non fu una fede morta,
di quelle che si fondano pacificamente sulla ignoranza; fu fede vera
e viva, fede che si alimentava di dubbi!
Poiché solamente coloro che dubitano credono davvero, mentre coloro che non dubitano mai e non sono soggetti a tentazioni
contro la propria fede non credono realmente.
La vera fede si nutre del dubbio…
E se ne alimenta e si conquista momento per momento, proprio
come la vera vita si alimenta della morte e si rinnova.”
Un teologo tedesco afferma:
“Credo perché prego. Il silenzio di Dio è sfida e alimento della
preghiera. Il Dio che tace è il Dio presente. Sta solo ascoltando
silenziosamente, attende che l’uomo smarrito taccia, per poter riprendere la parola, quella parola che all’uomo sembra solo un
silenzio mortale. Il silenzio di Dio può essere scambiato per assenza
o per morte di Dio, se si pensa che solo la parola sia indice di cura
e di esistenza. Ma nel caso di Dio la pienezza di amore, l’attesa che
l’uomo si liberi dalla prigione del finito e degli idoli, si esprime
mediante quel silenzio che non è inesistenza o incomunicabilità,
bensì parola senza parole.”
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Paradiso ——————————————————————
L’ALLEGRIA DI FRANCESCA
Forse il Padre Eterno comincia ad averne piene le scatole che
ogni bagnante abbia il suo melodramma e che egli meriti per questo e
quest’altro, come se non avesse già popoli interi che si lamentano e
altri popoli che si dicono soccorritori e che invece chiacchierano e
chiacchierano e alla fine scaricano sempre su di Lui e sulla Croce Rossa.
Perché c’è anche questo di incredibile e di assurdo nell’era della
conoscenza e della comunicazione, che siamo tutti degli ignoranti, degli
analfabeti e lo sono soprattutto quelli che ne parlano, della fame, delle
malattie, della sete nel mondo. E non sanno proprio niente.
E come quando parlano di guerra e scoperchiano solo quella
che gli fa comodo e delle altre dove si dovrebbe andare e scoperchiare la pace manco sanno dove geograficamente stiano.
Perciò noi dovremmo contenerci un po’ e lasciare operare Il
Padre Eterno come può e sa.
Chissà se Francesca ci lava la faccia e ci toglie un po’ di patina
di personaggi da psicanalizzare, vittime di tutti i mali e dei misfatti
del mondo?
Francesca ti sconvolge subito ogni impostazione di ragionamento o di discorso.
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Paradiso ——————————————————————
Vuole anzi tutto un gran bel funerale, come quelli di una volta
e per non essere fraintesa, precisa che deve essere solenne, maestoso
e allegro. Sì, allegro, vuole banda, musica, canti, suoni e colori.
Per chi non ricorda continua: “Ma sì proprio come usavano e
usano fare ancora quei simpatici matti di neri di New Orleans.
Tutti insieme a ballare l’ultima danza per colui che si era
stancato di ballare; era sfinito, non ce la faceva più. È stato stroncato
proprio mentre, quasi sentisse la fine, si esibiva alla tromba sul blues
della vita. E dunque festa sia, per tutti e anche per lui.”
Francesca diceva di patteggiare con Dio la pena della morte
della vita terrena compensandola con la vita nell’aldilà in uno stabilimento fotocopia del nostro.
Ma voleva anzitutto un grande funerale. Un addio a tutti con
allegria! Un gran pranzo con ogni ben di Dio e un corteo funerario
di una moltitudine di gente allegra come a un carnevale di gran
classe. Ci doveva essere tanta gente, perché un piccolo funerale con
poca gente fa più tristezza che andarsene senza funerale.
Cremazione? Che c’entra. Prima la festa grande, il grande
pranzo, il grande corteo e la grande moltitudine. Poi si cremi pure.
È più igienico. Le ceneri? Non ci aveva pensato. In mare? Troppo
inquinato. Indifferente.
Francesca voleva allegria, non lacrime. Perché era convinta che
era un arrivederci.
Lei amava la vita, come aveva amato il suo uomo, i figli e i
nipoti.
Diceva di aver avuto tutto dalla vita e dai suoi, era stata ricambiata, e molto.
Ma da un po’ di tempo la si vedeva stare da sola o in silenzio
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Paradiso ——————————————————————
con le amiche sulla spiaggia; giocherellava con nulla, e parlava del
nulla.
No, non era svanita. Ma assente. Ricordava con dolcezza la sua
sfolgorante giovinezza e il suo splendore di ragazza.
Era stata una giovane bellissima e una donna bellissima e ora
era una dolce, paffuta, cortese, gioiosa, allegra e giocosa nonnetta.
E che ne pensava del programma?
Naturale, logica richiesta della nostra esperienza in comune
allo stabilimento.
“Siamo stati e stiamo bene qui. Fra amici. Siamo parchi perché
ci accontentiamo di poco. Gaudenti? Vorrei ben vedere che fossimo
tristi. Non è un sanatorio questo.
E chi ha mai detto che Dio è triste e che si arrabbia perché qui
ce la passiamo e perché non ci alletta l’idea della morte. Mica stiamo
peccando. O meglio, sì stiamo a sparlare di tutti, e allora? Che
sarebbero le chiacchiere se non ci fosse la maldicenza?
Dio è molto più serio di noi e di quanto noi crediamo e ride
della nostra domanda, ride dei nostri scrupoli, delle nostre voglie e
dei nostri timori. Perché non siamo credenti, ma bigotti. Se fossimo
stati e fossimo leali con Lui, non ci sarebbero queste remore, queste
riserve, questi timori.
Da quando in qua si fanno transazioni con uno tanto più forte,
tanto più grande? È lecito chiedere. Sì, c’è un po’ di saccenza e falsa
umiltà nel nostro pensiero e nella nostra richiesta.
Perché si è creduto e si crede che si abbia diritto ad ottenere
quello che si chiede?
Provate a mettervi nei panni di Nostro Signore, provate.
Io mi arrabbierei molto e vi caccerei a pedate.
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Perché non c’è franchezza, freschezza, verità e lealtà nel nostro
agire. Bisogna essere umili. E noi non sappiamo cosa significhi
questo termine.
E bisogna avere fede e anche di ciò ce ne ha mai fregato tanto.
E allora, che titolo abbiamo?
Abbiamo dimenticato che questa vita ci è data da Lui?
E allora? Se Dio ci ha consentito di viverla e voleva che la
vivessimo conformemente alla Sua volontà bisognava continuare a
riflettere e concludere che certamente noi avevamo vissuto non in
conformità e che ne avevamo combinato di tutti i colori, ma il peccato
era stato previsto e la remissione pure e prima ancora il pentimento.
Insomma noi non possiamo presentarci a Dio e fargli pagare il
conto della nostra vita, delle nostre azioni e fare finta che sia un
notaio qualunque che guarda, firma, e fa passare.
Ma è pur vero che se questa vita dovevamo vivere e potevamo
farlo a nostro arbitrio, non c’era nulla di straordinario a chiedere di
continuarla nell’aldilà alle condizioni confortevoli di qua.
E come insinuare che una condizione terrena piacevole e sana
non poteva ripetersi quale premio ultraterreno?
La verità è che abbiamo dimenticato troppe cose, ma di certo
una semplice e chiara. Amore è il messaggio di Dio. Lo ha dimostrato
inviando suo figlio. E lo ha reso sacro e nuovo dicendo:
– Ama il prossimo tuo come te stesso.
Ora è vero che come noi andiamo vivendo in questo stabilimento e nelle nostre vite non c’è molta spiritualità, non c’è amore
se non per noi stessi.
Ecco, secondo me, Dio non ha spazio nel nostro progetto, non
c’è proprio; sembra il capo stazione della città d’arrivo di un tragitto
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tutto terreno. E non è forse vero che in fondo noi pensiamo e
progettiamo di vivere nell’aldilà come uomini, non come figli di Dio?
Non abbiamo mai ipotizzato di vivere di là nel Suo spirito e del
Suo spirito, ma abbiamo trasferito di là la nostra vita di qua, aspiriamo a un benessere tutto terreno e fisico che intendiamo perpetuare nell’aldilà.
Una bestemmia!
Ma cosa faremo di là, cosa saremo di là. Un popolo di incantati,
ipnotizzati, innamorati eternamente?
Ma come potrà essere se siamo tanto attaccati a questo bene
terreno della vita? Solo a questo, badate, non ad altro. È stato questo
il nostro attaccamento fedele e costante, che ci unisce e ci amalgama.
Ci è sempre piaciuto e ci piace stare qui.
Il pensiero dell’aldilà non ci è venuto perché si sta avvicinando
la morte, ma perché qui viviamo in una parte di mondo che più si
avvicina al cielo. Qui, in questo angolo del mondo luogo di sangue,
di guerra, di morte per cent’anni, dove tutto ricordava l’inferno e la
vita era nulla, e Dio era bestemmiato, e sembrava attenderci solo
l’eterna perdizione, per grazia di Dio e dell’uomo tutto si è riorientato alla vita, alla salvezza, alla pace.
Forse per questo nostro inglorioso passato, qui c’è meno sacralità e spiritualità esteriore, e più modestia e umiltà interiore.
Si fa meno chiasso, meno scena. L’intimità è personale, riservata, come la privacy civile. Dio c’è in molte lingue, in molte fedi,
in molte religioni, e non ne siamo disturbati, anzi tutto ciò è il nostro
orgoglio, la nostra laicità e la nostra religiosità.
Altrove c’è meno materialismo e tanta troppa esasperazione
della fede. Eccessiva enfatizzazione della spiritualità della vita che
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significa irresponsabilità ed estraniazione dagli obblighi sociali e
civili.
È il rovescio della medaglia che chiede la morte di Dio, la forza
dell’uomo creatore. Follia estrema!
Noi non tifiamo per nessuna delle due. Noi temiamo Dio e lo
amiamo, rispettiamo la nostra organizzazione civile e sociale.
L’Uomo del discorso della Montagna è il nostro sponsor e il
nostro agente di viaggio.
Non partecipiamo alla vita della chiesa e spesso ne siamo critici,
perché interviene troppo nella nostra vita civile e altre volte interviene poco o parla sottovoce.
Il nostro vivere sociale si fonda sul rispetto dell’uomo, anche
se talvolta ce ne dimentichiamo.”
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Paradiso ——————————————————————
VECCHIAIA UGUALE SAGGEZZA?
Il mio medico non condivide. Non ne può proprio più. I suoi
assistiti sono quasi tutti anziani e sono sempre da lui.
Non gli va bene nulla e si lamentano di tutto. E vogliono solo
pillole.
L’altro giorno era fuori di sé.
Sono andato a dirgli che l’operazione era andata bene e gli ho
consegnato alcune carte che lui ha diligentemente immesso nel
computer, in modo da avere aggiornata la situazione sanitaria di
ognuno fino al decesso. Ma ora gli pare che la fine si stia avvicinando
invece di allontanarsi. Urla: “Ma cosa vogliono, cosa pensano.
Cos’hanno? Non li capisco più. Prima la moglie poi il marito vengono
a sciorinare le demenze dell’altro. Ne sono irritati e indispettiti
continuamente. Devo specializzarmi in divorzi. Non ho medicine
per fare capire a queste coppie di anziani che non devono rovinarsi
gli anni dell’esistenza. Non devono uccidersi di cattiverie!”
“Credo che sia tardi, non c’è medicina. E un’epidemia. Forse
bisogna depenalizzare l’uxoricidio. O legalizzare l’eutanasia attiva.”
Mi guarda sorpreso:
“Ma come, anche tu? Per la verità se sono a questo punto è
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Paradiso ——————————————————————
perché anche la mia vita con la mia compagna si sta sfilacciando e
presto si spezzerà. Siamo logori e diventiamo feroci! Sai chi era al
telefono prima? L’avvocato, ma sì sta volando verso i novant’anni,
è intrattabile da sempre perché è sempre stato prepotente e ha
sempre fatto i cazzi suoi con tutti, e si è tolto tutte le voglie del
mondo. Ora sembra che la moglie si possa prendere le sue vendette
e forse lo sa. Ma che lui scarichi sul comportamento di lei tutte le
sue paure, i suoi malanni e le sue farneticazioni è intollerabile. Un
po’ è colpa mia, mi sembrava fosse più ragionevole e invece era più
brutale e cattivo. Sì, questi vecchi diventano sempre più cattivi e si
stanno massacrando.
Ci vorrebbe una soluzione finale, altro che aiutarli a vivere più
a lungo. Sì, quelli veramente ammalati andrebbero curati, gli ammalati immaginari, i sani nevrastenici andrebbero tolti di mezzo!
Presenti esclusi, ovviamente. A parte gli scherzi, il problema esiste;
forse si dovrebbe farli vivere un po’ separati.
Uno da una parte e uno dall’altra; o si abituano e trovano
un’altra dimensione di vita o ritornano a casa mogi, mogi.”
Quando parliamo di queste cose allo stabilimento non andiamo
lontano dal colloquio avuto con il medico.
Fra noi del bagno abbiamo scoperto che riusciamo a non pestarci i piedi e a non aggredirci usando le buone maniere, imponendoci un selfcontrol, aiutati dall’ambiente e dalla possibilità di fuga
o di uscita da situazioni ruvide o scabrose, perché talvolta il troppo
caldo aiuta a uscire di testa.
Ma è proprio vero che fra le quattro mura domestiche si scatenano guerre inaudite. Dicono che è a causa della maggior durata
della vita.
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Paradiso ——————————————————————
I rapporti a due sono sempre più difficili anche perché durano
troppo.
E tutto si logora e si consuma di più. È la logica dei consumi,
dell’usa e getta! Tutto è un oggetto, tutto si consuma, tutto si getta.
Eccessivo? Ma è quello che abbiamo seminato. Figuriamoci quando
due vecchi oggetti inutilizzabili alla logica competitiva dell’esistenza
devono continuare a rimanere insieme, o per necessità economica,
o per esigenza di assistenza, o per la paura di restare soli.
Si sceglie il male minore, o almeno così si crede. Perché spesso,
troppo spesso tutto il bene se n’è andato, l’amore s’è mutato in odio
come il vino in aceto.
Non si riesce ad andare d’accordo con se stessi, figuriamoci con
gli altri, figuriamoci con il partner, quell’essere spia che ti controlla
tutto, che ti conosce meglio di te stesso, che non ti fa passare un errore,
una svista, una bugia veniale. Ti è addosso come un cane rabbioso.
Forse non lo fa apposta, non c’è intenzione, no, non c’è, guai al mondo,
ma di fatto si vendica di tutte le angherie che gli hai fatto quando tu
eri forte e lei sempre sottomessa, sempre la parte più debole.
E sembra diavoleria, impregnata di diavoleria ogni giornata del
tuo vivere. Piano, piano ti toglie ogni libertà, anche se tu non ne
sapresti che fare di essa. Ti fa meno paura saperti prigioniero di
questa guerra senile, che di essere solo.
Se ti lascia libero dove vai? Finisci inevitabilmente al bar ad
ascoltare quelli della Gazzetta dello Sport o a guardare quelli delle
carte Modiano. Non che sia proprio male, anzi ditemi voi che c’è di
meglio, di più serio e di più rilassante. Che altro fare? Di che altro
annebbiarsi il cervello? Almeno fai gruppo, senti parlare, chiacchierare, ridere e scherzare. Si conversa.
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Dici che vorresti almeno mantenere l’illusione di essere un
uomo libero. Ma ti hanno pur dato il cellulare. Ti puoi muovere
come e dove vuoi, ma devi dire dove sei, con chi sei, cosa fai.
No, che dici, è per la tua sicurezza. Ma che controllo, che
spionaggio. Sei nevrotico.
Gli è che sei tu sempre in difesa. Sei costretto a tacere, a subire,
anche perché obiettivamente non ne combini una giusta, non capisci
niente di quel che ti viene detto, o non lo ricordi più dopo un minuto.
Ti si è detto di scriverti quello che ti si dice, ma tu non vuoi
cedere, non vuoi riconoscere che ti è successo qualcosa, che qualcosa
di te se ne sta andando giorno dopo giorno e non riesci a trattenerla,
a capirne la ragione della fuga. Per questo sei ridotto a tacere anche
se ti pare troppo di non avere in tasca neppure i soldi per il caffè o
per il giornale, perché è avvenuto tutto in un modo così semplice e
naturale, consensuale, tu ne eri consapevole e ti pareva giusto e
opportuno, e ora gestisce tutto lei.
Lei fa tutto, e ti prende per il sedere perché non passa giorno
senza che ti dica che è opportuno che tu segua e impari ogni cosa.
La casa è grande e devi sapere dove stanno carte, documenti,
conti bancari; ma anche come si lava e si asciuga e si stira e soprattutto come si cucina. Non devi credere che oggidì con i cibi pronti
tutto sia risolto.
Certo è molto più semplice e più facile anche per gli uomini,
ma farsi una pasta, una bistecca, una pizza, capire ciò che serve in
cucina e fare regolarmente la spesa per non restare senza olio, senza
pane, senza riso o senza ragù è indispensabile.
Perché se, per una dannata ipotesi, tu dovessi restare vedovo e
solo, non sapere fare nulla, come ora, non solo ti creerebbe problemi,
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Paradiso ——————————————————————
ma aprirebbe la tua porta a estranei che ti spoglierebbero di tutto.
Perché tu non la conosci la gente, ti ruba ogni cosa, e se poi ti porti
in casa una donna, che non può venire per i tuoi begli occhi che non
riesci nemmeno ad aprirli da solo, ti toglie quei pochi soldi e tutta
la tua roba e resti nudo. Sì, proprio così, nudo!
Lei sa tutto e fa proprio tutto. Ti scompiglia quel poco di spazio
del tavolo da cucina su cui hai messo le tue cose per leggere il giornale
o prendere appunti di ciò che leggi di un libro o dello stesso quotidiano o scrivere qualcosa su questo residuo di vita amaro e insulso.
Non si sa come sia ma tu non fai mai niente e lei fa sempre
tutto e su questo terreno del tutto e niente scoppia il finimondo. E
dopo che le hai prese di santa ragione, le hai prese ad oggi in senso
metaforico, almeno sino ad oggi, più avanti sarà forse necessario
cambiare metodo…
Rieccola con il ritornello per te più odioso e più doloroso della
memoria, del ricordare o meglio del non ricordare.
Già perché ora è la volta che ti gettano in faccia la tua viltà, perché
se non ricordi lo fai apposta per disimpegnarti o per non farti coinvolgere, perché fa comodo fare lo smemorato, “non si paga mai dazio”.
E così diventa verità che sei sempre più smemorato e rincitrullito, ed è anche vero che sei bugiardo perché fingi di non ricordare
quando ti fa comodo.
Così non ricordi di perdere tempo con quelli del bar, quei
perditempo e arroganti vecchi che credono di poter ancora governare il mondo. Li senti? Li senti? “Ai nostri tempi… Allora sì che
il gioco del calcio. Allora sì che la politica, allora sì che la gente, il
denaro, i figli, i nipoti…”
E ti ritrovi a seguire, passivamente, senza poter assumere alcuna
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Paradiso ——————————————————————
iniziativa, la gestione degli affari di famiglia, coordinato da lei, al
suo seguito.
E dunque, via per supermercati, a sinistra in quelli in cui costano
meno i generi alimentari, a destra in cui si trovano a minor costo gli
oggetti per la cura della persona, dal sapone, al dopobarba, agli
spazzolini da denti, allo shampoo, alle creme, ai profumi. A te non
†frega niente dei prezzi, della qualità e quantità di tutta quell’altra
merce che lei osserva, punta, tocca, controlla, ripone e riprende, per
poi procedere oltre e ripensarci e ritornare indietro, e andiamo pure
al negozio al centro, è specializzato per la biancheria intima e per
l’abbigliamento, almeno si guarda qualcosa, si vedono cose nuove,
qualche calzino o dei copri cuscini ( sic!).
E non è finita. Si deve anche pensare alla qualità specialmente
nell’alimentazione. E dunque al negozio di nicchia. A quello della
frutta e verdura. Caruccio, è vero, più del supermercato, aumenti
generalizzati, ma almeno c’è roba buona e non andante, di bassa
qualità, come l’ultima volta che siamo rimasti senza frutta e non
abbiamo trovato niente di buono.
E continui a seguirla. Senza sapere nulla e capire nulla. Capaci
di trovare un supplizio peggiore prima della fucilazione alla schiena?
Dopo cinquanta volte tutti, tranne te, sanno cosa costa e se
costa di più o di meno nel supermercato di destra o in quello di
sinistra il pacco di caffè, hai perduto la cognizione di te stesso. È
una umiliazione continua, un abbrutimento da ergastolo!
E hai solo una voglia, di dare due spallate a quei lunghi armadi
pieni di merce schifosa, vomitevole e sentire un gran patatrac, un
fracasso da tzunami e finire schiacciato, ridotto in poltiglia come
quella robaccia.
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Paradiso ——————————————————————
E resta un mistero di come sia entrato per comperare una
marmellata alle arance e possa aver vinto alla tombola il rifornimento viveri per quindici giorni perché il tuo carrello tracima da ogni
lato e devi chinarti, di qua e di là e raccogliere e ti riempi di vergogna
perché ti guardano tutti e ride di te persino quel bambino perché la
tua faccia insoddisfatta è come la sua quando non gli prendono il
gelato.
La guerra domestica è quella più dura, più lunga, più defatigante. Dura anche a letto, in ogni stanza, anche al gabinetto.
Poi ci sono novità rivoluzionarie, sintomi del cambiamento, del
mutamento dei costumi: rutti, scoregge, sempre, ad ogni movimento
corporeo.
Da giovane se mi scappava qualcosa me ne vergognavo da
morire. Che maiale, dicevo, ma me lo perdonavano senza commenti
né sorrisini di complicità o compiacimento.
Ora si fanno per stare in salute. Fare aria fa bene, guarda quello
che si fa con i piccini, c’è chi brama che gli piscino o gli caghino
addosso: che esagerazione!
Forse si mangia troppo. Troppo in fretta e si digerisce male,
anche perché non puoi dire che non ti piace quello che ti mettono
sotto i denti, e magari devi mangiare anche se fino a pochi minuti
prima vi siete incavolati a morte e volevate rompere tutte le suppellettili della cucina. Mangi con rabbia, non digerisci, ti resta sullo
stomaco, la liberazione sta nel rutto e nella scoreggia. Li fai, è la tua
vendetta!
Ma non avrei mai pensato che avrei scoreggiato invece di
cacciare un urlo, fare volare il piatto, rompere un bicchiere e dire:
“Basta, non ne posso più, mi hai rotto i coglioni. Vai a fare in culo…”
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Paradiso ——————————————————————
E andarmene fuori a smaltire la rabbia e poi ritornare amareggiato e chiedere scusa e finire a letto per fare pace e dirsi che era
una cosa passeggera, frutto di stress, di troppa tensione sul lavoro,
ecc. ecc.
E ti dicono che oggi dovresti fare sesso. Con chi di grazia?
Siamo alla degradazione morale e fisica, è vero, ma i pensieri
affettuosi, teneri, ci sono, ma non sono quasi mai condivisi. Se sei
tenero tu, lei è dura. Se lei è dolce, tu sei quanto meno incavolato.
Manca armonia, concomitanza affettiva, attrazione fisica. Non c’è
un’unica lunghezza d’onda, come si diceva un tempo, si è sempre
fuori tempo, asincroni.
Armonia? Ma fatemi un favore!
È tutto sottosopra e non è colpa della compagna. Lei ha solo
la colpa di essere sempre la più vicina, e la più frequentata. Troppo,
è inevitabile che ci sia frizione, incomprensione, conflitto, guerra.
Un tempo il lavoro, lo sport ti tenevano lontano, certi sport
proibiti anche troppo.
Ritornavi scaricato, giovanile, pimpante, rilassato.
E magari lei piangeva, era triste, perché avevi promesso e hai
dimenticato, c’era un impegno e l’hai disatteso, ha chiamato e non
eri dove avevi detto, le hanno detto che ti hanno visto dove non
dovevi essere.
Ora sei cambiato troppo, non sei più tu. Ti ricordi dello scrittore
Saramago “Più divento vecchio e più divento saggio e più divento
saggio più divento radicale.” E trasferisci il suo pensiero alla tua
esperienza.
Come la battuta di Ennio Flaiano: “Se non si è di sinistra a
vent’anni e di destra a cinquanta, non si è capito niente della vita.”
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Paradiso ——————————————————————
E anche questo ti piace perché più lontano dalla sinistra non
potresti essere, ma lo sei dalla politica in generale. Ti consola quello
che leggi di un tale di cui non ricordi più il nome che ha detto:
“La politica oggi mi respinge, è sempre più lontana dall’uomo
della strada.”
In verità è una passione spenta, finita, come tante vissute in
gioventù e avverti un interesse crescente, un anelito alla religiosità.
Crisi di identità per una società che manifesta grandi scompensi?
Non so quali e quante siano le cause del degrado cui giunge
l’uomo che precipita nella vecchiaia e non so quali e quante malattie
facciano a gara a manifestarsi e a concorrere nella distruzione del
corpo e dell’anima di un vecchio. Gli cambia il mondo attorno e non
riesce a stargli dietro. Ma se capisco e mi suscita pietà la condizione
della mia vicina di casa che da viva s’è fatta di sale a causa dell’Alzheimer, non capisco il marito di lei che prende regolarmente,
continuamente, sistematicamente, odiosamente in giro la moglie
colpevole di diventare sorda, di non capire più le cose e di non essere
più in grado di ragionarci sopra. E mi irrita a tal punto che a giorni
lo pesterei di botte e lo ammazzerei. Lo odio per questo. Dileggia
la sua donna, il suo amore, la sua stessa vita. Ma che follia è mai
quella di lui, della donna, quella mia? Fuggo da tutto ciò. Non voglio
sapere più di nulla e non voglio occuparmi più di nulla. Tutto fa
male. Meglio ritirarsi.
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Paradiso ——————————————————————
VOGLIA DI DIO O PAURA DELLA MORTE?
Forse è per questo che si fa sempre più vera e forte la ricerca
del sacro?
Sarà per questo che oggi, sì improvvisamente oggi, mi sembra
di aver trovato una via d’uscita dal buio.
Non mi bastano più le idee, le convinzioni, le ragioni della
sinistra. Ora mi suonano vuote, retoriche, demagogiche. No, non
penso più come gli altri, non appartengo più agli altri. Non sono a
priori con nessuno. Non credo in alcuna verità rivelata. Tutto, da
oggi, incomincia da capo. Devo conoscere prima i fatti, capire,
ragionare e valutare, poi scegliere, decidere. Basta con il noi di un
tempo che ti salva, ti protegge, ti garantisce e ti permette di non
pensare. Sei del gruppo, appartieni al gruppo. Vale la logica del
gruppo. Basta con il noi, oggi conto io, solo io. All’improvviso credo
di aver dimenticato cos’era, cos’è stata e cos’è la sinistra, perché la
mia vita ne è scissa, si è allontanata da essa. Né ho mai conosciuto,
né parteggiato per la destra. Né mi sento di destra.
Ora so di essere libero come mi avessero appena partorito.
Sono solo con me stesso e non mi pare vero. L’appartenenza? Ma
cos’è, cosa vuol dire? Un’amica sessantenne mi ha detto che era
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Paradiso ——————————————————————
andata a vedere il film Pinocchio di Benigni per dovere di appartenenza. Ma si può mai essere così rimbecilliti. Ma un giorno fa io ero
lo stesso. Era come mi trovassi nel cavallo di legno di Ulisse che
entra in città per espugnare Troia. Ma io là dentro non vedo, non
sento, e nessuno mi dice che ci faccio e dove devo andare.
Ora sono sollevato, davvero!
È come se il litro d’acqua che ho appena svuotato si sia nuovamente riempito e io posso berlo come e quando voglio.
Mi pare proprio di essere ringiovanito. Non so più nulla e non
mi importa più nulla del mio ieri, non mi trattiene più nulla del mio
passato, non ho rimpianti né lacrime da versare.
Ho fatto un repulisti. Un tempo bevevo tutto e digerivo tutto.
Avevo un’insaziabile avidità. Dovevo bere, sapere, capire, conoscere per partecipare, essere della partita.
Oggi voglio conoscere, non perché mi deve servire, ma perché
mi piace. Mi resta tutto nella mente e mi agita il cuore come al primo
innamoramento.
E mi domando quanto tempo ho perduto, quanto mi resta,
prima di morire.
Capisco che sono stato un gran superficiale. Leggere, vedere,
apprendere in fretta. Mai tempo per approfondire. Bastava poco.
Non era importante capire quanto sapere di cosa si parlava. Ci
pensavano poi gli altri. Tu seguivi obbediente.
Ora non mi basta mai nulla. Avverto di capire di più e che voglio
entrare nelle cose. È questa smania di libertà, questa frenesia di
conoscere che mi rende insaziabile.
Strano, sto morendo e a volte urlo dentro di giovinezza.
Ma come ho speso questa mia vita? Non so proprio nulla di nulla?
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Sono un ignorante assoluto. Devo riprendere tutto da capo.
Guai a sbagliare di nuovo. Ma è difficile, quasi impossibile che
mi succeda perché non lo metto in piazza, non lo metto in vendita
quello che so, serve a me, solo a me. È mio, solo mio. Se lo perdo
non faccio danno ad alcuno.
È inebriante avvertire che finalmente puoi servire a te stesso e
che fai del bene a te stesso, o male se proprio vuoi, va bene lo stesso.
È tutto mio il mondo. L’essere e il non essere è egoisticamente
dipendente da me. O forse anche da Dio. Sì, Dio centra sempre di
più, gira e rigira me lo trovo sempre davanti.
Anche con Dio ho avuto un rapporto del tutto insoddisfacente.
Ci penserò domani, dicevo, come tutti quei buoni libri che rimandavo di leggere al momento di andare in pensione.
Dio mio, come tutti i problemi della mia vita sembrano una
sola questione irrisolta!
Se vogliamo dirla tutta, anche questo stupido gioco di un posto
terreno in Paradiso è stato inventato da me, sì da me, quasi cercassi
un’altra occasione per parlare con Dio e con gli uomini, di Lui e con
Lui, avere un po’ di tempo per conoscerci o ritrovarci.
Quante volte Gli ho sbattuto il muso contro e poi ho girato
l’angolo. Eh, sì, sapevo che era un impegno serio. E ne avevo paura.
Era una rivoluzione per me, lo sentivo. Quello non ama la transazione, gli accomodamenti, i compromessi, come ho cercato di fare
sempre nella mia vita.
Con Dio era proprio l’opposto, lo sentivo e lo temevo. O tutto,
o niente. E come avrei fatto?
Avevo quasi trent’anni e avevo detto sempre signorsì a un capo
padrone; finalmente mi ero liberato, ero indipendente e potevo
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Paradiso ——————————————————————
buttarmi all’aria aperta nel mezzo di una vita che da grigia si faceva
luminescente. Era buio fuori, vista la vita dai luoghi chiusi che avevo
frequentato io. Era invece inebriante stare fuori. Sembrava che tutto
fosse permesso. Basta rigori e regole. Libero di fare, libero di prendere. Un’ubriacatura!
Lui, Dio, significava ritornare nell’ordine, nel precetto, nel
credo e nella fede. Vivere secondo e non vivere come. E allora fuga
generale.
Lui mi si è presentato più e più volte, discreto, tacito e buono.
E questo mi faceva indispettire. Mi sentivo male perché mi sembrava
sempre di averlo non solo abbandonato, ma anche offeso, e comunque ero venuto meno alla parola data.
Sì, mille e più volte devo averlo chiamato e mille e più volte
devo aver promesso.
Non ho mai pagato il biglietto. Non ho mai mantenuto fede
all’impegno preso. Ora non si dovrebbe più scappare via. Basterebbe
fermarsi, guardarsi in faccia e dire la verità. A questa non ho più
scampo, non so più correre né dove correre. Dovrò pagare pegno.
Siamo arrivati al punto che parlo di Lui a persone a me care come
fosse il mio migliore amico.
“Con voi parlo volentieri di Dio.”
E, francamente, di ciò mi vergogno un po’.
Perché è vero ne parlo, ne dico, lo nomino continuamente e
indegnamente. Ma spesso, soprattutto se sono con qualcuno che
soffre, mi riesce difficile dire parole di conforto, mi sento sempre
inadeguato, banale, solo accennando a Lui e dicendo di Lui, tutto
si fa facile e ci si avvicina a chi soffre.
Ed è proprio come se si sciogliesse il ghiaccio, se il muro di
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Paradiso ——————————————————————
incomunicabilità fra l’uno sano e l’altro ammalato, si togliessero di
mezzo. E così fra me e l’altro, grazie a Lui, è un fluire dolce e sereno
di pensieri, riflessioni, parole che leniscono e alleggeriscono.
Si sta bene se si riesce a parlare di Dio tra due amici, tonifica
e unisce.
Però bisognerebbe leggere, studiare, pregare. Cose difficili.
C’è un dialogo lucido e confortevole nel primo film di Susanna
Tamaro: “Nel mio Amore”.
Lei: “Io non credo, credere significa consolarsi.”
Lui: “E se invece fosse andare a fondo del dolore?”
Lei: “Non c’è fondo al mio dolore… E poi perché farlo? ”
Lui: “Per rinascere.”
Leggo dal libro di Gian Antonio Gibotto “Il Principe stanco”,
che contiene una serie di proverbi, di detti e modi di dire, che un
gruppo di buon temponi ne aveva scelto uno fra tantissimi in tutti
campi, dall’amore alle corna, dalla povertà alla ricchezza.
Sembra che essi risalgano addirittura al periodo della Repubblica Veneta. Il vincitore sarebbe stato il seguente:
“I siori ga el paradiso de qua, e quelo de là i se lo compra.”
Non è il caso di quelli dello stabilimento balneare perchè non
sono ricchi e perché lo vogliono gratis.
Questi tuttavia non hanno fatto un passo avanti sul problema.
Per parte mia ho iniziato a fare qualche pulizia in casa; a proposito
mi sono ricordato delle pulizie della rondine in un nido che aveva
fatto di recente. Non c’era apparente ragione che stesse lavorandovi.
Era come facesse delle riparazioni. Mi ero meravigliato che avesse
fatto il nido poco sopra a una finestra; era quella del bagno certamente perché era più piccola delle normali. Ma forse deve essere
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Paradiso ——————————————————————
stata spaventata da una apertura improvvisa, da lavori straordinari.
Insomma la rondine stava lavorando, come volesse chiuderlo
meglio.
Era uno spettacolo nuovo per tante ragioni, vuoi perché oggidì
vedere una rondine è già una cosa rara, ormai i paesi qui attorno,
di agricolo non hanno più nulla. Anche il più cocciuto dei contadini
o degli amanti della campagna aveva ceduto e venduto la terra. Tutte
le case coloniche, le stalle, tutte giù e via le rondini, quasi come la
strage di colombi nelle città.
Da noi i colombi sono stati sostituiti dai gabbiani che non li fa
scappare nessuno e crescono con l’aumentare dei rifiuti e delle
discariche abusive.
Le rondini verranno cacciate e non si vedranno più. Anche le
mie quattro rondini non volano più. Ci sono ancora i pipistrelli. Ma
vuoi mettere?
La rondine riparatrice rinforzava il nido. Deve aver avvertito,
per tempo, il pericolo imminente. Ha fatto freddo, molto freddo per
qualche giorno. Quelle situazioni strane che ormai sono ricorrenti.
Trovare del cibo deve essere stato difficile. Ma lei doveva averci
pensato perché la ritrovai. Ma l’anno successivo non fece ritorno.
Il nostro paese deve essere in declino anche come ospitalità agli
animali.
La rondine ci dice che bisogna prepararsi la vita e non attendere
che qualcuno ti metta la pappa in bocca.
Ora sembra che Gesù si sia sbagliato: “Guardate i fiori e gli
uccelli dei campi…”. No. Pare sia proprio viceversa.
Gli uccelli lavorano e si arrangiano, mentre l’uomo aspetta che
qualcuno lo aiuti, che ci sia la solidarietà.
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Paradiso ——————————————————————
Anche noi dello stabilimento dovremmo darci una mossa.
Come occuparci di questo nostro desiderio. Come proseguire.
Quali contatti e con chi?
Io non ne so niente di Dio. Lo sto cercando. Non ho preparazione, di nessun tipo, non so come avvicinarmi a Lui.
Non ho fede. Da oltre cinquant’anni ho, di fatto, smesso di stare
con Lui, di frequentarlo. Il mio proposito è ora quello di pensare a
Dio, pregare Dio, rivolgermi a Lui nei momenti di gioia e di dolore.
Un tempo avevo una predilezione per la Madonna. Ma non è
la stessa cosa.
Erano tempi quelli in cui senza Dio non combinavi nulla. Non
stavi bene se non eri in pace con Dio. La vita di grandi e di piccini
era organizzata in modo che Dio ci fosse sempre durante una
giornata. Si iniziava il giorno con Dio e lo si finiva con Dio.
Anche in famiglia ci si sedeva a tavola e non si iniziava senza
ringraziare Dio e non ci si coricava senza dire una preghiera. Ora
non è più così. Non si usa più fare così. Forse perché non si pranza
più. Di fatto non c’è più il pranzo, c’è solo la cena, ma non ne sono
più tanto sicuro nemmeno per essa. Ormai si riduce a una pizza o
a sbocconcellare qualcosa davanti alla televisione, e ognuno per
conto proprio.
Si alza il primo e va in cucina, il secondo razzola dopo un po’
in dispensa. Si mangia e si beve sempre, ma senza Dio o la Sua
assistenza, senza un pensiero di ringraziamento per Lui.
Dio sembra decaduto. Non ha più l’importanza di un tempo.
Neppure la domenica a pranzo c’è posto per lui. O si è andati a
messa e allora non servono altri riti. Oppure si pranza fuori, al
ristorante, e lì nessuno si fa più il segno della croce. Mai visto
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Paradiso ——————————————————————
nessuno! Nessuno si segna prima di mangiare. Non so se sia così per
tutti, o per i più e perché siano così cambiati gli usi e le abitudini
della gente.
Molti usano ancora il dì di festa andare a messa, fare due
passi in piazza grande, prendere le paste alla pasticceria centrale
del paese o del rione; chi non va a messa, va al bar, a prendere
l’aperitivo della domenica, a fare una partita a carte, dopo la solita
discussione politica o sportiva. Questi non prendono più le paste
per il pranzo. Anche questa mi pare sia una abitudine quasi scomparsa.
Si mangiano ogni giorno i dolci. Siamo tutti soprappeso o obesi.
Ma si mangia male, fuori casa. Ovunque è palpabile l’assenza di Dio.
Tutto chiama all’uso, al consumo, non allo spirito.
I giovani stanno sempre meno in casa.
O meglio ci vivono sino a quarant’anni, sia che abbiano o meno
un lavoro.
Si mettono da parte i loro soldi e vivono con quelli dei genitori,
i quali si faranno carico altresì di incrementare i loro risparmi per
regalare l’appartamento al ragazzo, quando si dovesse sposare o
andare a convivere con la ragazza.
Ma il fine settimana si esce e si va in giro per il mondo. E così
la famiglia si squaglia come il gelato.
Ho fatto amicizia con uno che va in chiesa regolarmente. Ci
sono andato anch’io. Mi sono detto che lo facevo più per stare in
compagnia e conoscerci meglio che per un serio interesse per la
preghiera e per Dio.
Ho scoperto cose nuove rispetto ai tempi in cui frequentavo la
chiesa.
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Paradiso ——————————————————————
Ci sono giovani e giovanissimi che suonano la chitarra e cantano. Come un tempo che alle messe solenni c’era il coro che accompagnava i passi più salienti e significativi delle musiche gregoriane
e latine. C’era più pathos e solennità. Tutto era maestoso. Ora non
è più così. Tutta la bardatura antica, austera che ti faceva sentire
piccolo, piccolo e tendeva a intimidirti, a schiacciarti, a farti capire
la potenza e la grandezza del Signore rispetto alla tua insignificanza.
Ora non c’è più.
No, tutto è cambiato. Tutto è più semplice, amichevole, livellato, ad altezza d’uomo. Musica e parole sono più scorrevoli. Più
“democratico” il rapporto.
Si incontra un grande Amico, un Compagno di viaggio, non
solo l’Assoluto, l’Uno, l’Altissimo!
Il rito è molto cambiato. Il prete e il suo altare sono rivolti
direttamente verso i fedeli.
Ribaltata l’usanza di un tempo per cui l’altare alto, grande era
lontano e il prete era anche lui lontano e volgeva sempre la schiena
al pubblico.
Sì, l’impressione non è che Dio si sia abbassato, ma la Chiesa sì,
sembra proprio che la Chiesa abbia ora più rispetto del suo popolo.
Scende dal piedistallo e con ciò fa avvicinare Dio “ai suoi
uomini” e questi si sentono ospiti e padroni, invitati nella casa di
Dio, presenti, partecipi, attivi e comproprietari dell’alloggio.
I fedeli pregano e cantano, sono sempre coinvolti.
Tutto è letto e detto in italiano. Il latino non usa più.
Il Vangelo viene letto da diaconi, uomini e donne.
La presenza delle donne è travolgente e stupisce.
Anche l’Eucarestia viene distribuita con l’ausilio di diaconi. Un
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Paradiso ——————————————————————
tempo era impensabile. Sono quasi sempre donne. L’ostia si riceve
nel modo tradizionale ma i più la prendono in mano. Un tempo era
sacrilegio. Mi dicono che si può comunicarsi anche se si ha mangiato
da poco e non è necessario essersi confessati lo stesso giorno o poco
tempo prima della messa. Conta la coscienza.
Sono sbalordito. Sorpreso da tutte le novità.
Ma mi manca qualcosa. Il mistero, il senso del mistero di un
tempo, la sacralità di una volta. Anche l’abbandono del latino e le
musiche ieratiche e soavi, e quelle oscure e a volte cupe accompagnate dai canti gregoriani dei cori a più voci, con i bassi infernali e
le bianche voci angeliche. Manca solennità. Mancano paura ed
esaltazione. Dio era presente, forte, pressante, imperioso. Oggi è
ovattato, lontano, vacuo.
Forse l’autorità è venuta meno, la democrazia è entrata nella
casa della Chiesa. Forse prima c’era più teocrazia. Il prete, il prete
era una potenza. Oggi è solo. Si vede che non ce la fa. È solo mentre
il bisogno degli altri è cresciuto.
Io avevo timore di Dio, rispetto e paura insieme di avvicinarmi
troppo a Lui. Quando la messa era finita avvertivo un senso di
profonda soddisfazione e liberazione. Tutto era andato bene, l’Amore di Dio aveva prevalso, la sua ira era stata placata. Ora mi sorprende
e mi commuove sentire parlare uno come me della sua vita o commentare il vangelo, al posto del prete. Succede di rado, ma avviene.
Mi è rimasta impressa nella mente la vicenda di una donna che
ha raccontato la sua vita.
Tutto la teneva lontana da Dio. Le resistenze non erano sue,
ma dei parenti e dei familiari più stretti.
Nei momenti più difficili, sul piano economico e della salute
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della sua famiglia, gli ostacoli dei parenti tra lei e Dio cedevano e
lei poteva avvicinarsi a Lui.
Come se durante i tempi più duri il male dovesse riposarsi e
lasciare posto al bene, mentre nei periodi più facili il demone volesse
primeggiare.
Lei aveva cercato di vivere con Dio una intera vita. Ora era
lieta di annunciare che aveva vinto la sua battaglia.
Era in Chiesa a testimoniare che solo grazie all’incontro con
Lui aveva potuto assistere molti cari affetti da malattie e portarli
alla fede, e superare difficoltà di ogni genere.
Sembrava essere stata perseguitata dalle malattie e condannata
a seguire tutti i parenti, come essere sottoposta a una continua prova.
Il tono della sua voce era molto convincente. Come ci fosse
qualcuno che modellasse le sue parole perché giungessero più dirette, e chiare.
Avevo a volte l’impressione che parlasse a me e si rivolgesse
solo a me.
Non mi è sufficiente andare in Chiesa. Non so pregare. E non
credo.
La strada per arrivare a Dio non la conosco.
Oggidì non si può parlare con nessuno di Lui. Prova un po’ a
dire qualcosa di Lui al bar. Puoi dire di tutto, ma non di Dio.
Ne accenno talvolta con mia madre. Lei crede e prega. Le piace
che io le dica che Dio è pietoso e dice che mi aiuterà.
Ho anche un’amica che si è messa in testa di condurmi a Dio
e ora cerca di parlarne con me. Mi ascolta e dice di sentire che Dio
è in me e che parla mio tramite. Siamo messi proprio bene. Per
forza, c’è crisi, carenza di fede e assenza di Dio!
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Paradiso ——————————————————————
Lo dico perché io non ho mai le idee chiare, anzi il dubbio, la
confusione sono la mia costante; ho la capacità di offuscare i concetti
più chiari.
Non conosco cose semplici, ma solo quelle complesse. Perciò
complico quelle semplici e incasino quelle complesse. Una mia
specialità. E pensare che faccio ritenere il contrario, tanto che sono
gli altri che mi cercano e si aprono, mi confidano. Ma non serve che
mi sottragga, insistono e fanno apprezzamenti.
Dio m’è testimone che non ho competenza di nulla, in nessun
campo e non potrei mai dare consigli agli altri.
Basterebbe sentire mia moglie. Quella sì che capisce, ascolta e
risolve, senza tanti casini.
È come una che lancia frecce con l’arco, cerca la linea retta e
più semplice, tira e fa centro.
Ciò nonostante io passo per uno che sa capire e ascoltare.
Potessi almeno ascoltare la mia coscienza, i miei pensieri e indirizzare la mia vita in modo giusto!
È vero che la mia condotta può dare origine a qualche equivoco.
Ma non sono io che ricerco l’occasione per generare malintesi.
La gente oggidì se non ha problemi se li inventa e se non ha
malanni se li immagina.
Fobie, timori, curiosità, ossessioni, morbosità esplodono.
Non è più il tempo dei chiacchieroni e di chi vive di maldicenza.
Questi tipi sono superati.
Ci sono i logorroici del calcio, della politica, della televisione,
del tempo, delle disgrazie, del gioco dei cavalli e delle carte, ma
sempre più hanno ascolto gli esperti di malattie, malefici, iettature,
sesso, palestre, ginnastica, viaggi vacanze, droga.
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Paradiso ——————————————————————
Un vero bollettino di guerra. In ogni locale pubblico si trovano
gli esperti di tutte le specialità della vita.
C’è poi il tuttologo, quello che sa un po’ di tutto e ascolta tutto;
gli fa concorrenza il confessore, l’uomo di esperienza che dà parere
e consigli, che sa ascoltare, parlare e consigliare.
Credo che mi abbiano spesso scambiato per uno che ha tempo
per ascoltare e che ha consigli da dare. E poiché cresce ogni giorno
la gente che ha bisogno di parlare, di confidarsi, di piangere con
qualcuno, di mettere a parte qualche altro delle proprie disgrazie,
è facile cadere nella trappola di questi adescatori o hai qualche amico
che vuole togliersi dai piedi un seccatore e ti rifila uno suonato che
ti attacca un bottone e non ti molla più.
Bisogna essere smaliziati e sapersi sottrarre. Gli adescamenti
sono facili e scappare è molto difficile se si è stati catturati una
volta. Una voce dice che si è del giro. E si passa per confessori o
tuttologi.
Ci si salva solo non frequentando più quel locale o prendendosi
una lunga vacanza.
Naturalmente ci sono anche le eccezioni, i casi seri, quelli di
amici che vanno aiutati perché hanno un problema vero.
Ecco, in questi casi, non riesco a dire di no.
Freno la mia voglia di fuga e il mio disagio e ascolto, ascolto.
E dico le quotidiane banalità sulla vita e sulla morte, sulle donne e
sull’amore, sulla malattia e sulla terapia del dolore. E sono disperato,
ma mi dico che devo essere buono e giusto e ciò vuol dire ascoltare
e cercare di dare una mano.
Spesso cedo perché vado pregando che Dio mi si presenti sotto
le spoglie di un amico, di uno bisognoso di aiuto, di uno che cerca
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Paradiso ——————————————————————
attenzione ed ascolto. E quando sono così ispirato ci metto serietà
e impegno e alla fine della confessione il beneficiato sono io.
E questa grande sceneggiata, che ahimè non è isolata ma si
ripete spesso, dipende dal fatto che io non sono in grado di decidere
a convertirmi perché questo implicherebbe cambiare vita.
Cercare Dio e vivere secondo i Suoi comandamenti è una cosa
seria e comporta coerenza e doveri.
E io non me la sento perché le mie piccole e vuote abitudini
mi sono care.
Oggi, domenica, miracolo al bar! Incontro l’amico che non
vedevo da due settimane. L’ho pensato ogni giorno. Ha detto di
avere l’Alzheimer, ha paura che il suo fisico ceda improvvisamente,
ne sta avvertendo i primi sintomi.
Non si regge in piedi. Ha il terrore di perdere la propria identità.
Che dire?
Nessuno lo ascolta, né lo aiuta. Neppure io per la verità. Non
ho pazienza. Non mi va nulla, dovrei telefonare, almeno potrei
distogliere gli occhi dai suoi.
C’è un altro accanto a noi che legge e si incazza, non sta fermo,
finirà per strappare il giornale. Si ferma, commenta. Legge della
strage di bambini in Russia. E si dispera. Quando l’amico si è sfogato
ne sopraggiunge un altro, quello che attendevo. Volevo sfatare un
luogo comune. Volevo parlare di Dio al bar. Perciò, dopo i saluti,
gli chiedo quasi a freddo:
“Ma perché qui parliamo sempre di terrorismo, di politica
nazionale, di sport e non parliamo mai di Dio.
Io da mezzo secolo scappo da Lui e con ciò scappo anche da
me stesso.
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Paradiso ——————————————————————
Oggi sembra che gli uomini possano fare a meno di Lui. Voi
che ne dite?”
Mi ero rivolto al nuovo arrivato e all’ammalato di Alzheimer.
Con mia grande sorpresa i miei due amici hanno di botto
affermato di credere, di avere sempre creduto, ma di non avere
molto frequentato il luogo di Dio. Insomma credenti ma non praticanti. Ma in Dio credevano e dicevano di averlo incontrato spesso
nella loro vita.
“Con il pensiero non è difficile incontrarlo, sentirlo, anzi, è
facile. Devi cercarlo con regolarità, altrimenti lo smarrisci.”
L’altro soggiunge: “Sì, a me è capitato anche recentemente. In
occasione dei miei viaggi all’estero, proprio nei momenti in cui più
forte era la tensione, quello è stato il momento in cui ho avvertito
la presenza di Dio.
L’anno scorso, ad esempio, in Madagascar, alcuni amici e io,
dopo tre ore di cammino abbiamo raggiunto un paese dell’interno.
Non lo sapevamo, ma le persone del luogo ci avevano visto e
ci avevano seguito. C’erano solo dei bambini ad attenderci. Gli
anziani erano quelli che ci avevano seguito e accompagnato da un
bel po’, nascosti ai nostri occhi dal folto verde che costeggiava
entrambi i lati della strada di campagna che portava al villaggio.
Quando giungemmo fummo accolti dal canto dei bambini e
dalle loro danze.
In quell’attimo mi sono commosso fino alle lacrime. Mi sono
inginocchiato e ho ringraziato Dio. Non dimenticherò mai la loro
semplicità e la loro innocenza.
In quei momenti ho visto Dio nei loro occhi, ho sentito Dio
nelle loro persone. Lui era quella gente, Lui era il povero, il bambino.
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Paradiso ——————————————————————
Ma ho avuto altri momenti in cui il mistero, il divino, il sacro,
mi sono venuti incontro.
Una volta in Nabibia, in un canyon di un fiume, stavamo scendendo e andavamo sempre più giù verso l’acqua e l’ombra. All’improvviso ho incominciato ad avvertire un malessere crescente e insieme a
me anche la moglie di un amico. Non era l’effetto gola profonda che
dava angoscia e vertigine o l’improvviso calo di pressione, era come se
una lastra di vetro mi spingesse verso la parete per schiacciarmi. Era
reale o una illusione? Io so che la vedevo e la sentivo.
Sono scappato, subito seguito dalla mia amica che aveva avuto
la stessa visione e sensazione. E il convincimento che fossimo entrati
in un luogo sacro.
Qualcuno mi aveva detto che ci sono luoghi in cui c’è energia
positiva per alcuni uomini, per altri negativa.
Può essere, ma allora il mio pensiero si rivolse a Dio tanto era
il fascino di quel luogo, con acqua sul fondo e quel gioco di luce e
ombra che faceva presagire l’apparizione di una città dell’oro.
Io allora ho avuto la sensazione della presenza di Dio. A che
altro pensare?
Ma l’esperienza più profonda l’ho avuta in un paese a sud di
Avignone, una località con edifici risalenti al medioevo.
Luoghi diroccati, ma ben conservati. Nulla di particolare sino
a quando non sono entrato in una chiesetta. All’improvviso un senso
di spossatezza, di sfinimento. Mi sono inginocchiato. Ero presente
in me, ma senza facoltà reattive. Ero come sotto ipnosi. Sentivo che
lì dentro c’era una forza superiore.
Quando uscii continuai a essere come in trance per lungo
tempo.
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Più tardi uno degli amici che era con me mi disse:”
“Eri anche tu là dentro a colloquio con Dio? Mai sentito tanto
clamore da un silenzio così pieno. Il pensiero di Dio è devastante,
occupa tutto il cervello e il cuore e il corpo ne è paralizzato. Perché
si manifesta in questo modo? Un genere neutro, una forza misteriosa, senza identità. Era luce nel buio.”
“Sì, hai detto bene, era luce nel buio che toglie ogni coscienza
di sé, abbaglia e illumina. Luce e pura spiritualità.”
“Ecco, vi ho detto.” Riprendeva l’amico. “Io so che ho incontrato Dio. È un privilegio, ma credo che potrei incontrarlo anche
qui, basta essere disponibili. Allora, nella piccola chiesa, sapevo e
volevo incontrare Dio.”
“Sì, è questione di fede.” Interloquì l’altro.
“Lui parlava di emozione, di sensazione. Di appartenenza, nel
senso di essere cosa di Lui. Io non ho mai avuto esperienze così.
No, io vago con il pensiero e senza impegno, quasi per caso mi
dirigo verso Dio. So di incontrarlo quando lo penso e lo voglio. Basta
che io lo pensi.
Un attimo, solo un attimo, poi io ci sono. Lui c’è. Noi ci
incontriamo.
Da un po’ di tempo, grazie a mio padre che ho perduto quando
ero un ragazzo, il pensiero è, per così dire, triangolare.
Corro da mio padre e sento che corro anche da Lui e in effetti
ci si incontra tutti e tre. È più facile così, è più gradevole e più gioioso.
Io ho ancora un forte ricordo di mio padre.”
Ci raggiunge al tavolo un altro amico, amante della politica e
manifesta il suo stupore nel sentire di cosa parliamo.
“Che combinazione. Sono reduce da una messa officiata da un
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cappellano militare che vive nel mio paese. Oggi ci ha parlato di San
Paolo e di una sua lettera ai Romani nella quale diceva che per
giungere a Dio ci vuole la conoscenza, la saggezza, l’illuminazione.
Paolo ce l’aveva con i cristiani. Aveva assistito alla lapidazione
di Santo Stefano. Se avesse avuto l’età gli avrebbe lanciato anche
lui qualche sasso. E invece stava lavorando per fare del bene ai ribelli
cristiani!
Ma Dio lo voleva con sé e glielo disse a modo suo. Con la luce,
una luce di sapienza.
A me è sempre piaciuto San Paolo perché l’incontro con Dio
ha cambiato la sua vita.
Preferisco però Sant’Agostino che ha imbrigliato la filosofia
greca nel cristianesimo.
Secondo me il segreto del cristianesimo sta nell’Incarnazione.
L’uomo non
può con la sola ragione spiegare i grandi problemi della vita,
ossia il male e la morte, e quindi non può uscire da solo dalla propria
miseria.
A ciò provvede proprio l’Incarnazione. Non potendo cioè
l’uomo raggiungere Dio, Dio discende fino a Lui. Semplice no?
Geniale, meraviglioso, stupendo, rivoluzionario!
E così che nasce l’universale speranza in Cristo.
L’Incarnazione è lo specifico del Cristianesimo, quello che lo
contraddistingue. Connessa con l’Incarnazione è la fede nella
Resurrezione di Cristo e dell’uomo per il tramite di Cristo.
L’amore è al di sopra della conoscenza.
Per il cristianesimo il problema dell’uomo non è perfezionare
la sua natura, ma evaderne.
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Questo concetto è ancora attualissimo, anche se l’uomo si
incaponisce nel perfezionamento di sé, anche attraverso la manipolazione genetica.
Questo fatto dell’Incarnazione segnerà il superamento dell’influsso ellenistico sul pensiero occidentale.
Agostino ha preso il materiale dal pensiero greco e il metodo
dal pensiero neoplatonico, ha custodito intatta la specificità, la verità
profonda del cristianesimo ponendoli sul piano dell’Incarnazione.
Ieri come oggi la strada maestra per l’uomo è quella di credere
alla Incarnazione di Cristo e alla Sua Resurrezione, credere che Dio
mandò Suo Figlio a farsi uomo e immolarsi per la sua salvezza.
Umiltà, sofferenza, amore. Questi sono gli atti di Cristo. Bisogna sentirli propri e credere nella divinità della figura di Gesù.
Pagate il caffè per la lezione. Buona domenica.”
L’amico del cappellano militare sorride, ringrazia e se ne va.
“Benedetti democristiani, non finiscono mai di sorprenderti.
Una lezione sulle fondamenta del cristianesimo. Ci ha tenuto una
lezione! Chi lo avrebbe mai detto.” Sbotta l’amico che ha l’Alzheimer che aveva seguito con interesse le parole del suo avversario
politico di un tempo.
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UN PONTE TRA TERRA E CIELO
A questo punto dovrei trovare una soluzione.
Ci vuole un illuminato come San Paolo e dunque essere animati
da una grande fede e con essa avere l’umiltà di inoltrare una preghiera
al cielo per soddisfare un’aspirazione umana. Ci vuole faccia tosta!
Lasciare perdere tutto? Abbandonare il campo?
In fondo passare tutta l’esistenza infinita in una spiaggetta
mentre chissà che non capiti di meglio come avere a disposizione
una playstation con ogni gioco possibile, o poter vedere i migliori
film, o andare a conferenze, a teatro, in biblioteca e leggere, imparare dieci lingue e avere una cultura eccezionale in storia, in geografia. E avere sempre a fianco qualcuno che ti insegni a lavorare
con internet e “vivere” il mondo.
Devo recuperare. È tanto che non mi aggiorno.
Le ricerche, i nuovi documenti, internet consentono di conoscere la storia dell’uomo. E sapere finalmente quella giusta sulla
fine dei dinosauri.
E in geografia conoscere quanti sono i nuovi stati e le popolazioni, gli usi, i costumi, le etnie, le culture. E ancora navigare in
internet.
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Serve una persona di fede! Sì, serve un ambasciatore, un messo
credibile. Ci vorrebbe un aiuto, ma un aiuto dal cielo.
Qualcuno, scherzando, dice che ci vorrebbe un angelo e che
uno dalla faccia e dal fare d’angelo ce l’abbiamo.
È il bagnino per eccellenza. È gentile con i ragazzi e servizievole
con le donne. E quindi è a posto. Ma, fra gli uomini, gira la voce
che sia un po’ giù di testa. È complessato, non sa mai quello che
deve fare e quello che è importante fare. Si incasina su ogni cosa.
Gli va male con lo studio, gli va male con la ragazza, gli va male con
questo lavoro stagionale, beh c’è qualcosa che non quadra!
Ma le donne lo appoggiano. Ha tanta buona volontà. La mascolinità degli uomini la conoscono e non gliene frega niente, meglio
un po’ di mix, sì, un uomo femmineo o, come si dice oggi, con il
corpo che parla anche al femminile, perché basta con i muscoli
fasulli, con questa fisicità artificiale, meglio un giovane tenero e
dolce, sì meglio un po’ di tenerezza, che rassicura e compensa dalla
brutalità e dalla volgarità di oggi.
Egli sa che gli uomini non lo considerano, anche se qualcuno
consiglia di abbassare i toni, di mitigare i giudizi, perché è giù di
morale.
E, invece, proprio i giudizi soft e generosi delle donne aumentano la pesantezza di quelli dei maschi.
Gli danno del debole, dell’indeciso e del perdente. Quella del
perdente è l’accusa più banale e di moda.
Tanto che vincono i ragazzi che come al solito sentono tutto e
sfruttano il vantaggio. A loro piace e lo danno a vedere, dicono che
è buono e insistono provocatoriamente. Sanno bene che oggidì dare
del buono a uno è un’offesa. È come sentire una bestemmia. Essere
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buono è commettere il peggiore peccato. O forse nessuno sa più
cosa vuol dire precisamente, cosa significa. Buono è uguale a debole,
arrendevole, pavido, timoroso. Uno che non lotta, non contrasta:
siamo alle solite cioè, un perdente!
Ma i ragazzi sono la vera sorpresa.Tra vincente e buono tengono
per il secondo.
In verità per i più è uno sconosciuto, uno sconosciuto gentile.
Ha fede? Crede? Un buono dovrebbe credere in qualcosa o in
niente, è possibile l’una e l’altra cosa. Un agnostico non è cattivo,
neanche un ateo o un laico. Quanti credenti fanno delle cattiverie
inutili?
Se è vero quello che pensano di lui le donne dovrebbe essere
uno che ha una particolare predilezione per la Madonna. Se invece
prevale il giudizio degli uomini forse ha in San Francesco il suo
protettore. Per i ragazzi il suo referente non può che essere Gesù
Cristo, il primo e il più buono! Deduzione logica.
Ma lasciamolo in pace, è già pieno di problemi e non sa come
affrontare le ragioni dei suoi numerosi fallimenti. Meglio puntare
sul secondo bagnino. Tanto il primo appare sottomesso, remissivo,
così il secondo è estroso ed espansivo. Nel complesso il primo appare
più presentabile, ma questi è socievole, sorride, diverte.
Ama Dio, gli uomini, le donne. Ama tutti. Ama la vita. Ama il
suo partito, che gli ha fatto avere un lavoro ottimamente retribuito,
un po’ pesante e faticoso, ma che gli ha permesso di godere di una
pensione baby.
Ha amici e amiche a iosa. È il classico confidente, fidato e
affidabile.
Quando le donne sono tristi, quando il loro uomo le ha scaricate
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o quello che le fa impazzire non ricambia, chiamano lui e lui c’è
sempre.
Quando un uomo è lasciato da una donna, scaricato dall’amante, spasima inutilmente per un’altra, o peggio, se il suo compagno
di vita lo tradisce, si è innamorato di un altro o ancora una donna
corteggia inutilmente un’altra donna o questa non sa scegliere e si
divide fra entrambe, in ogni situazione scabrosa di amore e di sesso,
di amore e di odio, di disperazione e di gaudio, la persona confidenziale è lui, la persona con cui ridere o piangere è lui.
E lui c’è. Prende il posto dell’uno o dell’una, indifferentemente,
se glielo chiedono, se proprio deve farlo.
Sa tacere. Fa e non dice. Vede e sente e non racconta.
Vederlo all’opera ha dell’assurdo, del torbido e del lascivo.
Il suo aiuto è più richiesto dalle donne.
Le ascolta e le accarezza senza fretta, con distacco, come fosse
un’estetista che stende un olio o una crema, lentamente, dolcemente,
su una coscia, su una gamba, sul bacino. Dove l’amica desidera e
d’istinto sollecita, lasciando fare.
Lui lo sa, lo sente, lo avverte, è un comando sensuale, senza
voce, che passa da pelle a pelle.
Per lui sono tutti amici e amiche. È il suo mondo, il club di
prostituzione potenziale e permanente.
Quando sente che l’esplosione sensuale è prossima corre
all’estero. Non ha pretese. Viaggi brevi, permanenze lunghe, relazioni intense e a basso costo. E ritorna disintossicato. Pronto alla
prostituzione di lusso, sofisticata.
“Non vorrete mica mandare una Maddalena a parlare con
Nostro Signore?
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È ben vero che dinanzi a Dio anche l’uomo più pulito ha la
lebbra, ma sputtanarsi consapevolmente non sta bene, se qualcuno
nasconde qualcosa sono cose sue, ne porta lui le responsabilità. Via
non esageriamo.” È il coro generale su questo bagnino da sexy party.
E perché non indichiamo una donna? Una donna, già, semplicissimo. Qui ce ne sono a iosa. Ma non si deve. La chiesa non lo vuole;
non si è mai visto prima. Un fatto troppo forzato. Ma un fatto proprio
nuovo. E poi ci sono donne beate e sante. Basta farlo!
Però è vero che un messaggero di Dio donna non s’è mai visto
né sentito. Deve essere un sacerdote, nel senso che deve avere tutta
la dignità del magistero divino.
E che vuol dire? Ma non stavamo ragionando di mandare avanti
un bagnino? Una donna non vale un nostro bagnino?
In chiesa poi ci sono ragazze e donne nel coro. Sono state le
prime apparizioni femminili, a parte le suore che fanno storia a sé.
Poi si sono viste e si vedono donne chierichetti, miste a maschietti, ma spesso sono in prevalenza o solo loro. E questo avviene
da tempo. Leggono i vangeli e dirigono le preghiere collettive, il
credo, il gloria, il padre nostro. Da quanto?
Danno la comunione, distribuiscono l’ostia consacrata, da ieri?
Per non parlare di tutta l’attività di catechesi che svolgono.
Se non ci fossero le donne ci sarebbe la paralisi delle parrocchie!
E perché non farle sacerdotesse?
C’è tanto bisogno di ricambio di preti e non si trovano giovani
perché c’è crisi delle vocazioni. Mancano. E ce n’è bisogno subito!
Perché non guardare quello che è avvenuto nell’esercito, oggi
professionale? Le donne non sono più una novità e vanno pure in
guerra, in prima linea.
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È l’ora della donna. Diamo il via a un nuovo rilancio del ruolo
della donna. La donna che salva la chiesa. La donna che sfida le
altre chiese, la donna che dà vita materiale e dà altresì vita spirituale:
fa nascere e fa rinascere.
Che bella lezione di fede e di civiltà alle altre religioni monoteiste arretrate, vecchie e disumane; all’ebraismo saccente, all’Islamismo vecchio.
Altro che donne senza diritti.
Si cambia. Si gira in missile oggi, si va verso Dio, guida la nave
spaziale la prima donna astronauta e sacerdote.
Siamo galvanizzati. Ma dura poco. Qualcuno ci dice che siamo
fuori dalla chiesa, in piena eresia. Possibile? Il discorso è sospeso,
rimandato! Restiamo d’accordo così.
Insomma questo progetto non tiene. E quando si partorisce
qualcosa di nuovo e di buono siamo sabotati. E così si finisce per
banalizzare anche le cose serie, la fede, la religione, il rapporto con
Dio. Però se si pensa a ciò che succede nel mondo, a coloro che per
trasmettere messaggi d’amore e di religione usano bombe, dinamite,
tagliano teste e si fanno saltare in aria, cose che non stanno né in
cielo né in terra, come si diceva giustamente non molto tempo fa,
ora appare quasi blasfemo, a molti di noi, chiedere che ci sia concesso
di poter giocare in Paradiso con l’acqua.
Ci sembra invece, a volte, un modo gioioso, un modo aperto e
sincero, da credenti, di affermare la fede in Dio, la Sua esistenza.
Forse mai si è parlato tanto di Dio in una spiaggia. Ed è
altrettanto singolare che questo gioco non lo si voglia abbandonare.
Sembra che noi si voglia scherzare con i Santi. Quel che resta
di vano, di sciocco, di estivo non è roba da ciarlatani. Incuriosisce e
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sorprende questo pervicace atteggiamento di volere un posto in
Paradiso e un determinato, specifico posto, il nostro pezzo di paradiso.
La forza e la novità del progetto stanno proprio nella tenacia
con cui lo si sostiene.
Questa è fede? Pura fede anche se ricoperta di zucchero filato.
Lasciati cadere i due bagnini, singolarmente simili al diavolo e
all’acqua santa o vicini all’angelo e al demone, che però possono
fare parte della comitiva, sospesa la proposta di una donna. Che
occasione mancata la femmina sacerdote! E se la facessimo anche
sposare? Sarebbe una vera rivoluzione! La fine del mondo! Si diceva
una volta.
Cosa diceva la nonna di Marina, morta centenaria oltre
trent’anni fa? “Sarà la fine del mondo quando il gallo canterà a
mezzogiorno, vale a dire che la natura sarà sconvolta. Sarà la fine
del mondo quando si dirà messa e ci si sposerà nel pomeriggio, vale
a dire che sarà proprio rivoluzionata la vita della chiesa.”
Resta l’esigenza di qualcuno che ci raccomandi a Dio, che
interceda per noi e ci aiuti a definire questo problema.
Perché non si vuole raccomandare un’anima o salvarne una,
ma è una preghiera collettiva che tocca il desiderio di più persone,
l’oggetto dei loro ideali e l’ascensione al cielo di un oggetto terrestre,
un ufo alla rovescia per intenderci e senza voler mancare di rispetto.
La scelta sembra plebiscitaria. Cade su una persona notevole,
conosciuta anche in vita da molti: Padre Pio. È quello che riteniamo
più vicino a noi. Non perché lo si sia conosciuto, ma perché ne ha
viste di tutti colori e gli hanno fatto ogni specie di angheria. È un
frate. Più uomo degli uomini!
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Insomma proprio quelli che egli maggiormente amava lo hanno
osteggiato e addirittura tradito.
La gente continua a chiedergli di tutto. Ora lo hanno fatto santo.
Era e continua a essere umile e semplice e forte come un contadino.
A noi piace molto poter ricordare di lui le virtù dell’umiltà e della
semplicità.
Forse perché noi anziani ricordiamo bene la valenza che avevano ai nostri tempi e purtroppo oggi sono come le stelle alpine,
quasi scomparse e per sopravvivere devono essere protette.
Per fortuna, secondo noi, oltre a Padre Pio, c’è un altro grande
uomo, Giovanni Paolo Secondo, di cui però si ricorda molto lo spirito
universale e il sacrificio di sé e della sua stessa esistenza. Padre Pio
è mite e paziente, conosce l’animo umano e sa che se ascolta, se
attende o se osserva ci trova un piccolo sonar che risponde alla voce,
al richiamo di Dio. Il frate fa scattare la molla, fa da arco voltaico,
fa da ponte.
Povero frate: si fa carico del fardello di altri, lo ripone in sé,
piange e prega e ne soffre.
Quando ha ripulito il sacco e crede sia presentabile lo inoltra
a Dio. Questi deve sempre rimproverare Padre Pio perché non vuole
intendere. Deve lasciar fare alla provvidenza. Deve lasciare che
l’uomo, che si cruccia e che cerca Dio, si faccia parte attiva, preghi,
pianga e chieda perdono, chieda pietà. Lui contesta e contrasta.
Dice che il suo compito di missionario, il suo dovere di prete è quello
di portare le anime e garantire per esse e non spedirgliele così come
lui le trova, come sacchi spenti.
Se veniva raccomandato e non faceva il suo come poteva guadagnare il proprio angolo di Paradiso?
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Eh, sì, c’è stata sempre questa bella gara d’amore fra uomo,
Padre Pio e Dio e fra Dio, Padre Pio e uomo! E se no, come le aveva
le stigmate il frate?
Magari fosse stato possibile disturbare e impegnare Padre Pio.
Conosco un tale che va regolarmente a trovarlo. Va in pellegrinaggio. Dice che dopo ogni visita torna più sereno. Non ha chiesto
nulla e non crede di avere ottenuto nulla. È come andare in visita
da un amico, o al cimitero da un parente o in ospedale da qualcuno
che ti è caro. Si ritorna sollevati, sempre, se ci si va con l’animo ben
disposto. Il mio amico dice che è stata sua madre a raccomandargli
di affidarsi al frate. Lei sapeva che era un santo, molti anni prima
che morisse. Lei era una contadina.
“Sai, noi contadini lo conosciamo bene il male, ma conosciamo
anche il bene. E sappiamo riconoscere un uomo buono da uno
cattivo. Come un raccolto buono da uno cattivo e un uomo Santo
da uno malvagio.
In città si nascondono meglio le persone e i cittadini non
possono riconoscerli i santi e i demoni. È tutto più veloce e tutti
sono in movimento.
In campagna non si può barare. Un uomo viene fuori subito
per quello che è. Sai, credo di avere visto più di qualche santo, anche
Padre Pio ho visto, quando andavo a pulire la stalla. Forse perché
le stalle sono posti di pace, di silenzio. La presenza di Dio e di satana
è a volte palpabile.
Io pregavo sempre. In campagna si lavora e si prega. Non c’è
tempo per altro. E io ho visto e ho chinato il capo, come se non
avessi visto. Perché il male può presentarsi sotto altre vesti e devi
stare attento. Non farti tentare. Devi essere umile e ubbidiente. Dio
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ti viene a trovare se lo sei, perché è spesso stanco di correre dietro
ai cattivi e calmarli. Sono pochi, sono di più i buoni. Ma i cattivi
fanno più danno. Padre Pio da giovane correva veloce e aiutava Dio
a bloccare i cattivi e a rabbonirli.
Satana veniva da noi perché è superbo e ci crede sempre stupidi
e ignoranti noi contadini. Ci dice che con lui le cose ci andrebbero
meglio, che potremmo avere dei soldi senza faticare tanto, che i
raccolti sarebbero migliori. Che lui la natura la conosce meglio e la
ama molto di più di Dio, basta vedere le bestie che obbediscono di
più a lui che a Dio.
Oh, era bravo, ma bugiardo. Noi lo sappiamo che la terra dà
se ci metti le braccia e il cuore. Non ti regala nulla, ci devi mettere
il tuo sacrificio fisico e morale. E con l’aiuto di Dio si riesce a
campare.
Ma no! Un frate, con la barba qui? Uno con le stigmate qui, al
mare? Ma dai! Lasciamolo in pace. Che si occupi d’altro, più importante e più serio della nostra cosa da niente. State esagerando.”
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TROVATO FINALMENTE! UN NAVIGATORE
Questo posto, se lo guardi dall’acqua, non dalla boa lontana
che delimita l’accesso delle imbarcazioni, ma dalla fila delle boe più
vicine che definisce l’area di balneazione, è proprio piccolo, angusto
e non ci stiamo in tanti e noi siamo i privilegiati, quelli che hanno
spazio perché se lo pagano, mentre quelli della spiaggia libera che
sono cinque o sei volte noi quando il tempo è davvero bello, sono
stretti come sardine.
Non è che noi vogliamo portare nell’aldilà solo il nostro pezzetto; ci andrebbe bene se fosse compreso anche il pezzo libero, se
poi comprendesse la diga del porto sino alla Caravella, il porto e la
zona di parcheggio, e il polmone verde e perché no, anche la Cava,
nuda com’è ora, a noi starebbe bene. Non è per avidità, ma se tutta
la baia si trasferisse a noi starebbe bene.
Ci domandiamo tuttavia che ne sarebbe di tutte quelle macchine, e le macchine delle macchine, e la quantità della gente, quella
di molto tempo fa, che era già venuta qui e noi non eravamo ancora
nati, e anche quelle che verranno molto dopo di noi e se gli uni e
gli altri o parte di loro volessero condividere il nostro sogno, come
si combinerebbe tutto questo?
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Ci staremmo tutti, dovremmo fare dei turni?
Non ci avevamo pensato. Idea troppo egoistica, oltre che balzana in sé.
Noi però eravamo in buona fede. Si pensava di mantenere il
suo agli uni e agli altri, quelli del prima e quelli del dopo di noi.
Ogni cosa al proprio posto. L’idea è nostra e vale solo per noi.
Chissà quanti e quali sogni diversi dal nostro hanno avuto nel
cassetto quelli di prima di noi e quali si portano appresso quelli che
sono qui con noi e che non aderiscono e che dire di quelli che
verranno?
Però vorremmo che ci fossero anche i bimbi della colonia e il
gruppo dei disabili con o senza carrozzina. È bello vederli giocare
con l’acqua.
In acqua danno l’idea di sognare di essere liberi, che i lacci che
legano la loro mente si siano sciolti, e che la lampadina della loro
volontà resti finalmente sempre accesa e non giochi a spegnersi e
ad accendersi quando vuole lei, in modo irregolare, per cui loro non
sanno mai quando è giorno e quando è buio e quando ci vedono e
vogliono muoversi ecco che diventano all’improvviso ciechi. E il loro
pianto di dentro si fa ininterrotto, continuo perché non si riconoscono e non sanno chi sono.
Se ci fossero, sarebbe un bene per noi e per loro. Ma è forse
meglio che decida Iddio, anche se secondo noi sarebbe bene che ci
venissero e fossero finalmente sani.
E certamente dovrebbero venire anche quelli delle associazioni
nautiche, in particolare quelle che insegnano lo sport della vela ai
ragazzi. Loro sono meglio di noi: la continuità del rapporto nobile
fra uomo e mare e vento e cielo, e Dio e uomo.
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Oggi è un gran giorno. Credo di aver trovato. Forse ho capito
chi sarà la nostra guida. Chi sarà la nostra vela.
Non un bambino innocente, non una donna nuova, non un uomo
tutto fare, né uno che ne sa troppo. Né sta bene scomodare poeti e
grandi nella storia dell’uomo e in quella di Dio, né santi, né condottieri.
Ci vuole un uomo semplice che sa di mare, che lo ha amato, ha
insegnato la vita e le vicende del mare. Lo ha solcato da giovane e
da vecchio.
Sì, l’ultimo suo cruccio, prima di andarsene, era stato quello di
trovare una barca adatta a suo figlio. Noi pensavamo fosse per lui
anche se egli non lo disse mai esplicitamente. Quella della vita,
l’aveva venduta e rischiava di perdere il posto barca se non si
affrettava ad acquistarne un’altra.
Gliela indicammo noi, i suoi amici, la barca per lui, gli dicemmo
della persona che la possedeva e che la teneva come si tengono i
giocattoli quando si è bambini. Questi in verità teneva tutto con
cura, meno che se stesso.
C’è un destino singolare che a volte si beffa di noi. Se riserviamo
troppa attenzione e cura alle cose e siamo distratti dai problemi dell’anima e del corpo che la contiene, spogliamo o dell’una o dell’altro
l’armoniosa entità della vita. Succede spesso che per eccesso di “reità,”
di cura di ciò che è “mezzo e cosa” il sacco ceda di schianto come
fosse avvisato di essere vuoto, d’improvviso il senso del nulla, del non
essere, si impadronisce e fa impazzire contenuto e contenitore.
La barca era in ordine. Sul prezzo non trovarono un accordo;
e ciò fu debolezza dell’amico che cercava con accanimento e ansia
una barca, forse proprio quella barca. Perciò, forse, si confuse e si
smarrì. E non la ottenne. Non era vecchia, non era datata, era
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stregata, era la proiezione del dinamismo, del moto, del correre e
roteare sull’acqua, com’è quello di un surf.
Se uno non ha più le gambe, l’idea di un mezzo che le sostituisca
e che consenta di rivivere emozioni ed ebbrezze di quando andava
a prua e a poppa, cazzava le vele, virava e superava il mare, si
impadronisce di te e ti toglie il senno.
Sì, tutto ciò quand’era integro. Bisogna averle presenti queste
emozioni, che tu stesso hai vissuto, quando chiedi a un uomo, senza
arti inferiori, di cederti il mezzo che gliele ha donate. Sono incorporate nella barca. Sono la sua anima.
L’amico fece il mercante e non ebbe la barca del suo ultimo
viaggio verso l’orizzonte, là dove cade il sole, là dove scende con lui
solo il marinaio che riesce ad arpionarlo e farsi trascinare nell’oro
della notte.
Ho pensato a lui quando mi sono spinto con l’occhio oltre le
boe e ho visto navi merci ferme in rada, porta container, petroliere
alla fonda.
Vita che scorre sul mare. Vita che scorre, come quegli optimist
intenti a gareggiare continuamente intorno a due boe, a girare,
correre, fare bordo, ora a dritta ora a sinistra, e ancora bordo, e
girare e virare, come se si danzasse sulle onde.
Un gioco, una gara, di abilità e di capacità.
Avevi iniziato così anche tu. Tanto l’hai presa a cuore quella
gara che è stata la tua vita e di giovane militare in marina e di
insegnante navale.
Mare, mare, e vele e ancora vele, e tenacia e passione, e mare,
ancora miglia. E gli studenti, le regole, il rispetto del mare, le regole,
la passione. Che ossessione!
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Anche a terra, bisognava pensare a come armare la barca, come
arredarla, come tenerla sempre in ordine, pulita, lucida, con ogni
strumento, sartie, e drizze e scotte, e vele, soprattutto le vele e il
motore e ancora vele, la randa e il fiocco.
E uscire in mare e rientrare, e provare, gettare l’ancora e leggere
un libro seduto nel pozzetto, solo, tu, la barca, il mare, un maglione,
jeans, un’incerata, un brandy.
L’ultima barca no, quella non sei riuscito ad averla né ad
armarla.
Sei rimasto a terra. Qualcuno ti ha chiamato. Tuo padre? Il mare?
Ricordi? Ti ripetevo “Ama il mare, ma tieniti la terra.”
“Segno della tua codardia. Ammaina la bandiera e vai a cuccia.”
Mi rispondevi. Disprezzavi quel vecchio detto.
Chi ama il mare non può stare a terra o preferirla al primo. Sta
sempre ferma la terra, è sempre in moto il mare.
E l’anima tua, curiosa, preferiva quella strada aperta, larga, distesa, infinita. Volevi percorrerla tutta quella strada, dovevi conoscerla
tutta e leggerla tutta sul tuo pozzetto come un grande libro di storia.
Là, lo sapevamo, avresti visto la tua vita riflessa e realizzata e
forse quella futura.
“A volte i lupi di mare vanno più lontano di quelli di terra, c’è
come un mondo oscuro, misterioso che ti attrae, ne senti l’alitare
profondo, lungo, indefinito. È il sonno di Dio?”
Era stato così da sempre per te. Ma l’occhio tuo si chiuse senza
scorgere il mare. A terra.
Ora ti sento attorno a me. È come se usassimo un alfabeto
Morse e ticchettassimo freneticamente. Perché non il computer?
Già, non è mezzo di mare. Fanatico!
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Paradiso ——————————————————————
Mi dici che non puoi prenderti l’onere di cui ti ho detto. Non
puoi proprio. Là, dove sei tu non si fa così, non si può presentare
una richiesta del genere.
“Nessuno là pensa o partorisce idee così. Non è mai stato, non
può succedere. Non nascono, non esistono. Non nascono perché
inconcepibili, forse perché inutili, essendo niente rispetto al tutto.
I desideri non si esprimono perché non ci sono; i sogni non si
fanno perché, se proprio vuoi, qui non c’è un mezzo per crearli e
non se ne avverte l’esigenza, né alcuno conosce il rimpianto perché
qui è il Fine Ultimo non un luogo, una sosta.
Qui tutto ciò che era terreno si è dissolto e risolto.
Quello di cui mi parli è un pensiero terreno, tuo, di un altro
tempo e di un altro spazio, di un’altra Verità.
Io che, secondo te, non è molto che sono là non ho mai avuto
memoria di ciò che mi apparteneva, di ciò che era umano e cosa
significasse.
Ora è lo stesso. Immagina un filo spezzato, i due pezzi non sono
ricomponibili, l’uno è altro dall’altro, non c’è più continuità. Sono
corpi estranei, fuori da noi.
No, non bestemmiare, ti prego. Cosa c’entra, come fai a mescolare le cose? Gesù Cristo si è fatto uomo. Ma lo ha detto che il
suo regno non era di questo mondo. Certo che è tutto vero quello
che hai detto e che ti ho riconfermato. Non so come spiegarti. Ma
non c’è proprio memoria del nostro passato. Tu mi parli di barche
e io non so cosa siano.
Anche tu che mi parli, mi dici della nostra amicizia, mi dici cose
nuove.
È stranissimo, inspiegabile che io abbia un pensiero tuo, che io
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intenda il tuo dire e la tua preghiera. È singolare. Misterioso.
A noi pare di essere sempre stati là. Il nostro passato? Non ne
abbiamo memoria. Ma abbiamo consapevolezza del mondo che
abbiamo lasciato. Non lo ricordiamo perché è irrilevante, indifferente, ininfluente.
Come ti dicevo prima, come puoi comparare l’estasi con il
sogno. La provvisorietà di questo con la perennità di quella. Ma
nella nostra coscienza di verità ci è noto che eravamo mortali, anche
se è inutile ricordarlo. A che scopo?
La vita terrena c’era in funzione di quella, una volta che un
essere cessa la sua temporalità nel mondo, ha compiuto la preparazione, ha assolto la prova, sarebbe contraddittorio e superfluo mantenere consapevolezza del suo finito rispetto all’infinito che ora vive.
Le vostre preghiere? Che fine fanno ? Ma non c’è un tamtam,
non ci sono postini che vanno e vengono. Non so come e se sappiamo
di voi, dei vostri affanni. A noi non è dato sapere quel che chiedi.
Ecco, prova a immaginare i tuoi antenati di cento e più anni fa.
Che sai più di loro? Chi erano, cosa facevano?
Quel poco che sai è indiretto, tramandato, fermo in uno scritto
o una fotografia.
È così! Non è bene o male. È così. Prova ad immaginare di
vedere tutto in modo così accelerato e scorrevole che la tua pupilla
non riesca a fermarsi e il tuo cervello non ce la faccia a captare né
suoni, né luci, né immagini. Se tutto ciò velocizzi mille e più volte
sarà un battito di ciglia, un baleno, un lampo.
Un pizzico di luce. Ma presto è come nulla, come mai presente!
Le vostre preghiere, che fine fanno? Se noi intercediamo per voi?
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Paradiso ——————————————————————
Devi sforzarti di immaginare come tutto si dissolva, come la
memoria si annulli.
E questo vale per il mondo terreno, per gli uomini, ma anche
per ogni essere, anche per gli esseri moderni, così detti artificiali.
C’è l’usura del tempo, l’energia che scema.
Nel mondo del Tutto i sentimenti che ci contraddistinguevano,
come i legami di sangue, le parentele, le espressioni di affinità
elettiva, affettiva e fisica sono esaurite, finite, cessate perché il tempo
non c’è più, non c’è ieri, oggi, domani.
C’è l’indeterminato, l’eterno presente, c’è un’unità assoluta di
ognuno che partecipa dell’assoluto tutto.
In esso tutti concorrono ad alimentare il flusso vitale, la luce,
l’energia che unifica.
È l’amore di Dio il motore di ogni cosa. In esso ognuno è l’altro
e così via, per tutti. E ognuno raccoglie luce e la trasmette. E come
la tua preghiera giunge, qualcuno la raccoglie e la sostiene e la
immette nella grande fiamma energetica. Mai il dissolversi di tutti
in uno unicum è avvenuto tanto consensualmente e per moto d’amore così grande.
È la sintesi dell’Amore, della bellezza, dell’armonia, della concordia, della luce e della conoscenza.
I miei antenati mi appartengono perché sono confusi con me
nella luce, ma non siamo in concorrenza, non siamo gelosi. I tuoi
antenati si intrecciano con i miei. Le preghiere giungono e le risposte
hanno immediatezza.
Non ti devi rattristare se io non rammento nulla della mia vita,
della nostra amicizia. Ma avrai capito che non ci può essere fra il
mio mondo di ora e quello mio di un tempo alcuna comunicazione,
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Paradiso ——————————————————————
alcun rapporto. È l’essere e il non essere, ma nel senso che se sei in
uno non puoi essere nell’altro e non che l’uno è la parte in luce o
in ombra dell’altro e viceversa. Perché non è vero che l’essere
presuppone il non essere. L’essere è come il credere, l’amare, il non
essere è buio, non contiene nulla, non ha sentimenti, ragioni di vita,
è proprio non vita. Immobile e muta.
Mi sembri sorpreso e deluso da quello che ti ho detto, ma ti ho
detto il vero.
Perché continui a fare l’imbronciato? Sei deluso, ti attendevi
qualcosa d’altro, vero?
Forse gli uomini si immaginano il paradiso come a loro piace.
Forse l’idea che se ne sono fatta è tutta terrena, come cioè se il
paradiso fosse la terra alla ennesima potenza: il piacere al massimo
grado, la gioia immensa, il sentire intensissimo, un amore infinito
ecc. ecc. Tutto molto soft e molto semplice.
Se tu dovessi spiegare a un amico come si possa vivere sulla Luna,
su Marte o su un pianeta di una delle innumerevoli galassie, come la
rappresenteresti questa nuova esistenza rispetto a quella terrena?
È naturale che la nostra esperienza di vita, la sola che conosciamo, e gli strumenti di conoscenza e di sapienza di essa siano
specifici, propri, esclusivi. Se immagini di portarti su un altro piano
in cui i nostri parametri cognitivi e sensoriali non servono ci troveremmo in impensabili difficoltà.
Esistere con i nostri mezzi di vita in un altro ambiente in cui essi
sono inutilizzabili o inutili, sarebbe assurdo. Perché di mezzo c’è la
morte e cioè l’inadeguatezza nostra per un’altra vita, una vita nuova.
In fondo, e continuo a parlarti su un piano logico di puro buon
senso, rifuggendo da ogni astrazione filosofica, conosciamo solo noi
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Paradiso ——————————————————————
stessi e il nostro mondo e il più dell’universo ci è ignoto. E ciò che
è al di là, oltre l’universo, il trascendente, neppure possiamo intuirlo,
né ipotizzarlo. È fuori di noi, non è alla nostra portata, neppure
come semplice intuizione.
Tu replichi che vi è stato detto che questo vostro mondo è stato
creato da Dio, e l’uomo pure, come ogni forma di vita in esso in
atto. Che noi dunque dovremmo essere divini in quanto frutto di
una volontà analoga.
Ma ciò è semplicistico. Vuoi giungere cioè a dire che si giustifica
l’esistenza di un luogo simile a quello in cui voi usate bagnarvi
d’estate? Certo potrebbe già esistere quel luogo, non lo nego. Se
Dio ha potuto creare ogni cosa potrebbe ben avere predisposto che
anche le bizzarrie degli uomini possano essere esaudite. Ma che ci
possa essere è cosa diversa dal chiedere che io me ne debba fare
carico e che la rappresenti a Dio.
Quello che so è che c’è un legame. Saldo e consistente fra voi
e noi, fra Terra e Cielo, fra mondo terreno e mondo divino. È una
specie di cordone ombelicale che ci lega in modo indissolubile a
conferma che voi derivate dall’Alto e siete chiamati a portarvi
domani proprio sull’Alto, a conferma che siamo frutto dello stesso
albero e come rami siamo legati al tronco e ciò in forza di una linfa
unica, comune che è la linfa dell’Amore.
Essa corre lungo questo cordone e s’espande dovunque vi sia
vita che dall’Alto discende.
Se vuoi, a conferma di quest’aura amorosa che tutto cinge ed
avvolge, pensa a un’aurora boreale e alla leggerezza di essa, alla sua
bellezza, ai suoi variopinti colori e alla musica celestiale che vi si
sottende.
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Paradiso ——————————————————————
Sì, stai pensando proprio bene, un pensiero d’amore qui è
un pensiero d’amore di là, perché sono spirituali, immateriali,
celestiali.
Non dobbiamo dunque fare della dialettica e tanto meno della
retorica fra noi. E non voglio confonderti, né confondermi.”
“Scusami, ma in questo momento mi viene alla mente un pensiero nuovo.
Mi sto chiedendo se tutto questo mio giocare non nasconda un
segreto.
Il tuo ricordo che si ravviva perché ti devo incontrare di nuovo,
perché devo morire fra breve. Fra non molto, suppongo, se sto
parlando con te.
Mi viene in mente il giorno in cui ti abbiamo salutato.
Io ho avuto l’impressione che tu fossi già nel mondo da cui mi parli.
Sì, eri già arrivato a destinazione. Ho visto che avevi già la tua
nicchia di luce.
Io non volevo forse lasciarti andare, ho creduto per un attimo
di essere anch’io di là, di percorrere un sentiero di un monte e di
udire la tua voce che mi guidava, quasi ad indicarmi la strada.
Tutto è durato poco e si è interrotto in breve. Non sono più
riuscito a rivivere quei momenti di profonda emozione.
Solo ora ho udito e a lungo la tua voce anche se il mio sguardo
non ha visto che le bianche vele sul mare.
Era solo l’idea improvvisa della morte che mi ha preso e non
quel pensiero strampalato, quella specie di gogliardata.
Il pensiero della morte camuffato da un’istanza istrionica, tu
che ti manifesti per dirmi che non si può giocare con Dio né con la
morte. E dunque? Non mi è chiaro, non mi convince.
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Ho una gran confusione in testa e tanto panico. Non rifletto e
non ragiono.
Fino a ieri pensavo che i credenti avessero un contatto tramite
la preghiera con coloro che sono nel regno dei Cieli. Credevo che
si potesse essere vicini ai propri familiari. Mia madre dice che, per
anni, ha parlato con suo marito e suo figlio.
Visioni, fissazioni, immagini frutto di forti emozioni?
Eh, no. Qui da noi si è sempre creduto che un rapporto fra
Terra e Cielo ci fosse e che i defunti avessero bisogno della nostra
memoria come noi della loro.
Una corrispondenza di preghiera è da sempre un nostro vincolo
sacro.
Gli angeli, gli arcangeli, i beati e i santi, a differenza delle altre
anime dei defunti, secondo le nostre convinzioni e gli insegnamenti
ricevuti, dovevano avere una funzione per così dire “attiva” verso
l’umanità terrena.
Mentre, ad esempio, la nostra messa per i defunti godeva del
favore celeste. Insomma per vivere nella fede e credere in Dio ci
sono ausiliari, uomini e mezzi terreni, preti, suore, la chiesa, le sante
messe, le preghiere.
Ma abbiamo sempre pensato che ci fosse un doppio senso di
circolazione, due strade parallele, una ascendente e una discendente,
e non una sola che da qui giunge là, che dal basso corre verso l’alto.
La preghiera, è vero, è un atto di ossequio, di omaggio, un atto
di sottomissione e di devozione a Dio, ma anche domanda di sostegno, soccorso morale e spirituale.
Insomma ci sono forze spirituali terrene e forze spirituali extraterrene che si sostengono vicendevolmente.
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Paradiso ——————————————————————
Uno scambio, un concorso, una volontà condivisa, una comunità terrena e una comunità celeste che comunicano, scambiano e
trasmettono messaggi di fede, d’amore, di sollievo, di rispetto, di
sostegno, perché l’una e l’altra comunità sono un mondo unico
seppure distinto, come due mezze mele, distinte ma che se unite
formano un frutto unico in Dio. O non è più così?
Ora secondo quello che dici sono troppe le cose che non sai e
che non ti risultano, non dici o non vuoi dire. Misteri inspiegabili,
manco avessimo attentato a un mistero della fede!
È vero, tu non neghi tutto ciò, ma dici di non avere memoria
se non della specifica preghiera che si intende trasmettere a Dio e
tu, sembra altresì, sei stato delegato a verificare la cosa.
Ma a me, per come ti sei presentato e per quello che hai detto,
sembra tutto molto strano, debole, poco chiaro.
Vuoi dire cioè che Dio manda un ispettore a svolgere un’indagine su una questione che conosce di già, forse da prima che venisse
in testa a me.
E di certo, molti di coloro che frequentano la nostra spiaggia,
a sera di un giorno positivo e sereno avranno rivolto il loro pensiero
a Dio o ai loro cari che li hanno preceduti nel regno dei cieli per
ringraziarli tutti e dare loro un arrivederci a presto e augurare la
buona notte. Quanti messaggi sono allora pervenuti a Dio per la
nostra sciocchezza umana di volere uno stabilimento bis?
Dunque anche per questa via Dio era stato informato.
Forse ha trovato amena e spassosa la richiesta di questi singolari
personaggi sempre giocosi, spensierati e che si sanno divertire, e che
sono sempre troppo seri in questioni di scienza e conoscenza, e
troppo fragili e sensibili in questione di esistenza. Gente di frontiera,
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di natura migrante, influenzabili dal dinamismo dell’occidente e
dalla tendenza alla riflessione dell’oriente.
Poco religiosi e poco credenti a volte, spesso preda del nulla e
facili vittime della depressione, del cupo esistenziale. Una faccia in
luce, una al buio e un piano girevole.
Gente curiosa, generosa, buona, gradevole, ma anche triste,
pessimista, che ama la morte più della vita.
Andiamo a vedere che il signor Freud, o il signor Saba o il
signor Svevo non abbiano lasciato irrisolte questioni psicologiche,
romantiche e sofferti strascichi affettivi, dilemmi di vita tra passato
e futuro.
Che vuole dire avere un campo di gioco in cielo tale e quale a
quello in terra? Che sfacciataggine, che cialtroneria, che guasconata.
Come pensare che la pace celeste sia intaccata da godimenti terreni?
E perché, allora, la resurrezione dei corpi? D’accordo, non esclusivamente per giocare al calcio, ma perché no?
Quello che tu dici ignora la resurrezione del corpo di Cristo e
la sua ascensione al cielo così come sembra negare l’ascesa al cielo
della Madonna e la promessa della resurrezione universale.
Quello che dici della vita dell’aldilà è molto bello ma è riduttivo
del messaggio di Cristo e della Chiesa.
Non sarà che tu non sei il mio amico marinaio, né sei l’amico
nostro, quello che dovrebbe illuminarci la strada dell’aldilà.
Come può essere che tu non sappia nulla di ciò che c’è in cielo,
di quel che in esso si pensa e si fa? Che scandalo sarebbe mai che
noi pochi mortali fossimo messi a conoscenza di cos’è la vita di là.
Sai che successo, che propaganda, che scoop! Poter dire che
uomini e donne hanno avuto un contatto con un messaggero di Dio
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Paradiso ——————————————————————
per vedere realizzato un luogo di riposo lassù simile a quello quaggiù.
Non nuocerebbe a nessuno. Anzi un po’ di pubblicità su Dio e sul
Paradiso non farebbe male. Sono tempi molto difficili e duri per la
Chiesa cattolica e per i cristiani. E dire difficili è dire poco. Siamo
proprio nell’occhio del ciclone. Insomma stiamo vivendo una guerra
di religioni. C’è gente che vuole le crociate, ma a ruolo invertito.
Sono tempi di violenza, minaccia, brutalità, barbarie! L’Amore è
tradito. La Pace è dimenticata. La Concordia é delusa. Il Dialogo è
muto. C’è Tenebra, non Luce.
Per cui, in questo clima, dichiarare che abbiamo vissuto due
miracoli, la visita di un angelo di Dio e l’accettazione divina di un
progetto umano da trasferire nell’aldilà, sarebbe una bomba mediatica che, se ben gestita da una campagna di marketing appropriata
farebbe schizzare a mille l’indice di gradimento della nostra Chiesa!
Chissà quanti paesi, e stati e governi farebbero a gara per chiederci
di conoscere com’è successo, come fare per assicurare anche ai loro
cittadini, o ai loro popoli una tale opportunità.
Forse si darebbe vita a una bella gara che porterebbe a riflettere
teste calde e spiriti bollenti bellicosi.
Ma, forse, tu non sei l’amico del cuore che amava il mare, forse
sei colui che è sempre l’opposto della vita, sei colui che si muove
come pensiero negativo in contrapposizione a quello positivo. Sei
l’elemento di disturbo, di equivoco nell’eterna gara tra Bene e Male.
O forse sei il Male stesso, che assume un ruolo subdolo e le sembianze più insidiose per l’uomo per indurlo in errore e ingannarlo.
E dunque tu sei la Morte! Se lo sei e cerchi me, ti dirò che non voglio
morire. Io non sono pronto e non voglio esserlo. Lo so che faccio
fatica, che ho uno spirito sempre più debole e arrendevole.
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Paradiso ——————————————————————
Mi piace ancora il caffè della mattina preso nella mia cucina,
sul tavolo grande, dinanzi al mio giardino, alle pareti bianche delle
case dei miei vicini e il verde della mia siepe e il cielo chiaro e la
gente là, sulla strada, che agita il vento della vita.
Mi prendo i biscotti alla soia, le marmellate senza zucchero di
arancia, di limone, e di ciliegia, a volte anche quella di mirtillo.
Questa mi ha particolarmente sorpreso per il suo sapore di bosco
di montagna. E ho visto i sentieri bianchi di un tempo e le fragole
e i lamponi e le stelle alpine. Frutti e fiori di vita montagna, vita di
Dio, fresca e profumata.
Ma la mia preferita è quella di arancia amara per la buccia
d’arancia che vi profuma dentro. E sempre, ogni giorno, mi ricorda
la Sicilia.
Il signor Antonio che mi porta a spasso per Palermo e tutti
escono a salutare dagli usci di destra e di sinistra o aprono le finestre
e si inchinano a lui e a me. E sono gentili e ringraziano della
protezione che la sua autorità garantisce. E via da Palermo sino a
Catania e sosta in mezzo alla strada deserta e dentro lungo una
cavedagna fra gli aranceti, bassi e pieni d’oro e di verde.
E lui li prende, li stacca e mi porge una borsa da riempire. È
tutta roba sua. E dice che mi ha dato le sue cose più care, l’amicizia
della sua gente e il bacio d’arancia del suo paese.
E ogni giorno guardo il bianco splendore delle due facciate e
mi abbaglia gli occhi il sole di Sicilia e mi ubriaca il palato e la gola
il sapore dell’arancia.
E questo poco è molto, sono i colori, i suoni, i profumi della
mia vita.
Prendo anche le mie pillole, no non sono ammalato, sono il
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Paradiso ——————————————————————
compromesso fra la mia stanchezza psichica e fisica e il terrore di
lasciare questo mondo che adoro.
Certo, ho avuto un crollo. Avevo un po’ di potere e di comando.
Ho perduto tutto questo. Ci sono rimasto male. Non si è mai pronti
a lasciarlo ad altri e ridurti ad essere debole e perciò anche povero.
Né posso consolarmi dicendo che sono pieno di soldi. Non ho
vissuto per essi. Ho vissuto per vivere, perché amavo tutto quello
che scoprivo. E purtroppo ho corso troppo, per gustare tutto, e ora
mi ritrovo senza fiato.
Ma è stata una gran bella vita la mia. Ero adattabile. Questa la
mia forza. Anche quando vivevo pienamente e liberamente.
E così oggi, prendere i giornali e trovare una notizia interessante
e un articolo di un buon giornalista basta per una giornata.
Essere al mare, nuotare. E mentre nuoti avvertire che ti piace,
che è bello, che ti distende. Senti che sei tu, ancora vivo. E allora guardi
la luce del sole e la senti su di te e brucia e ti piace, e l’acqua fresca ti
ristora. E queste piccole, grandi cose le senti tue, sono la tua vita.
E proprio allora pensi alla morte. Ogni giorno, ogni ora che
sono in vita, temo la morte. No, ora no.
Quando dovrà essere? Quando essere al mare non mi piacerà
più o venirci o meno sarà indifferente, quando il sole brucerà troppo
e chiederò l’ombra, quando il caldo mi toglierà il respiro, quando il
vivere diventerà così complicato e grave e stancante e noioso. Quando il libro mi cadrà di mano.
Ma ora no, non ancora.
Dunque sei la morte. Non parli più, non simuli più di essere
l’amico mio.
Perché questa cattiveria? Era proprio necessaria questa sce-
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Paradiso ——————————————————————
neggiata? Il mio amico è stato una brava persona, perché usarlo per
tutta questa volgarità. Io? Che c’entro io? Io mi assolvo, naturale
che mi assolvo. Sono stato leale, sincero, non ho barato come te. Sta
sicuro che se ritorno a nascere non voglio più credere alle fate, ai
sogni, agli angeli. Voglio amare il denaro e farne a mucchi. Non
voglio pensare al prossimo. Alla gente, ai loro problemi. No, si
cambia indirizzo.
Se non hai più il potere hai il mezzo, il denaro, per arrivare
dovunque e comunque. Una vita umana costa oggi mille dollari,
dovunque.
Il denaro per non dover soffrire.
Ora non voglio morire. Voglio vivere.
E allora perché sei ancora qui, perché insisti? Devo proprio
morire?
Non sei la morte? Sei il mio amico?”
“Hai passione e forza, ma sei fuori strada. Non ho mai detto
che le nostre famiglie e i nostri parenti scompaiono. Ho detto che
sono immersi tutti nella luce, nell’immensità divina e ivi si confondono. Non puoi pensare che ci siano miriadi di famiglie, di tribù, di
etnie, di popoli, di lingue e di religioni. Tutto viene rispettato,
salvaguardato, ma anche superato.
C’è il massimo di uguaglianza e di giustizia lassù.
Ci siamo tutti noi nelle nostre diversità, ma amalgamate, risolte
e dissolte in un afflato unitario di somiglianza, di uguaglianza, come
un uomo solo perfetto prototipo di tutti gli altri. Diresti che è la
democrazia perfetta che mai in terra può essere raggiunta, e qui
invece sì perché tutti i contrasti le divergenze sono superate serenamente, cordialmente, amorosamente vinte.
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Paradiso ——————————————————————
E dunque siamo tutti imparentati i primi e gli ultimi, i bianchi
e i neri, i gialli e i rossi, e così l’islamico, l’ebreo e il buddista, e l’ateo
e il nemico di Dio, che si sono ravveduti.
Le preghiere, te l’ho già detto, giungono perché il legame fra
Dio e l’uomo è eterno. E Dio vuole che l’uomo aspiri al cielo e lo
raggiunga con la fede, le opere, il pensiero, la sapienza, la scienza,
la bontà, la misericordia, la conversione, e soprattutto la fratellanza,
la solidarietà e l’amore.
Come posso mai negare ogni minuto d’intesa dell’uomo con il
suo creatore, in qualunque forma esso avvenga?
Dio si è sempre compiaciuto dell’uomo e della sua ubbidienza.
E quando si rese necessario gli diede la più grande dimostrazione
inviando al suo fianco il proprio Figlio e consentendone l’immolazione per il riscatto dell’umanità. Quando mai potrà abbandonare
l’uomo, quando mai è avvenuto?
La terza questione, che è poi il merito del nostro incontro, è
che tu reputi compatibile con il cielo la vostra richiesta.
In proposito ti prego di riflettere. E lo ripeto.
Può essere, perché tutto Dio può fare, che ci sia un luogo in
cielo simile al vostro in terra e che Dio possa metterlo a vostra
disposizione.
Ma ti devi prima chiedere come si possa conciliare questo vostro
pensiero e desiderio con le finalità della vita divina.
Dio non migliora il Paradiso, né lo modifica, né lo adatta. Esso
è. Sarà per sempre, come Dio, suo creatore, è e sarà.
Non si deve sfidare Dio. Bisogna credere, amare, ma altresì
avere molta responsabilità. Anche questa è dote illimitata, senza
fine in cielo.
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Paradiso ——————————————————————
Del resto questo principio, se ci pensi bene, si accompagna
indissolubilmente con ogni attività dell’uomo. Esso è connaturato
al libero arbitrio. Fai come vuoi, ma ne porti la responsabilità.
Credere e amare Dio sembra facile, ma non lo è. È soprattutto
responsabilità. Perché implica fare e non fare. Obbedire e disobbedire. Subire e rifiutare. Tutte le situazioni della vita e i loro opposti
fanno carico all’uomo che crede e alla sua responsabilità”.
“Ho capito. Troppa enfasi non aiuta. Ora vorrei chiederti se
nella nostra domanda hai notato che ci sono implicite, fuse o confuse
non saprei, forse perché frutto più di un eccesso d’istinto che di
meditazione, due questioni oggi molto rilevanti per l’uomo.
Voglio dire cioè se non sembra anche a te che ci sia un gran
sconquasso intorno a noi quaggiù. Da un lato la voglia di modernità,
di innovazione, le nuove tecnologie, la globalizzazione, cariche di
forza economica, finanziaria e tecnica, dall’altra l’uscita dal recinto
di coloro che non reggono la velocità del cambiamento perché sono
poveri, non hanno mezzi per competere o non ci salgono sul ring
della contesa.
E non ti pare altresì che si stia rompendo un ordine naturale
cui l’uomo è da millenni collegato?
Tutto si sfascia, si frantuma.
È dunque ovvio che l’uomo semplice e umile si inquieti e si
smarrisca e cerchi di stare con i piedi per terra e guardi altresì al
cielo. È da sempre così, è la sua storia e la sua voglia di eterno.
Forse è tempo che Dio mandi un Suo arcangelo a dire che il
terrore è finito o forse è ora che si aprano le porte dell’inferno. Mai
il Male è stato così vicino!
Qui sta proprio crollando tutto.
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Paradiso ——————————————————————
Si fa la guerra a Dio e si fa la guerra all’uomo e, dulcis in fundo,
si fa la guerra alla natura.
Dio mio, noi non avevamo nessuna intenzione di aumentare la
confusione, né eravamo animati dalla voglia di novità né in terra né
tanto meno in cielo. Figuriamoci. Alla nostra età media attorno ai
settant’anni non si danno più velleità rivoluzionarie.
Per noi c’è, in effetti, il problema del rapporto vita e morte che
si sta approssimando ogni giorno di più.
È un problema di sempre, per tutti, delicato, insolubile. È molto
complesso ma anche semplicissimo perché non ha soluzione, perché è
in sintonia con se stesso, perché ha ordine in sé, logica e ineludibilità.
Deve essere. La vita e la morte sono come l’anima e il corpo.
L’anima comanda sul corpo di chi avrà dato un senso alla
propria vita.
Io non appartengo a questi. Sono partito e sto arrivando come
dovessi sempre rincorrere una lepre. Eppure le mie vicende da
ragazzo e da giovane avrebbero dovuto indicarmi quale doveva
essere il fine della mia esistenza. Ma rincorrevo una lepre. C’era
sempre una nuova lepre da catturare.
E Dio, che credevo di conoscere e amare, l’ho tolto dal mio
groppone per correre senza intralci, più libero e più veloce. Ora so
che sono alla fine della mia corsa e non mi riconosco più, non so chi
ero, chi sono stato e chi sono. Dio l’ho perduto. Cercavo la conoscenza e la saggezza e mi sono ritrovato a bramare il potere. Cercavo
l’amore e l’amicizia e li ho sacrificati anch’essi al successo. E tutto
per prendere una lepre!
Ciò che sta accadendo oggi è il frutto del grande processo di
trasformazione. Una vera e propria rivoluzione a trecentosessanta
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Paradiso ——————————————————————
gradi e di portata universale. Niente sarà come prima si sente dire
da più parti. Il linguaggio, la scrittura si modificheranno. Le ragioni
sociali saranno rivoluzionate. Ciò sconvolge le anime e le menti.
Ma non è nuovo nella storia dell’uomo. È una caratteristica
della presenza dell’uomo sulla terra che tutto cambi, si trasformi, si
logori e si modifichi, scompaia, si distrugga.
Come vedi, cerco di lenire le mie angosce esistenziali, ma è
anche una ricerca. Sì, la ricerca della libertà e quella della verità.
Forse il termine è troppo forte, intendo dire di disponibilità a
comprendere, cercare di capire.
Tu di certo sei qui per verificare se sono un uomo di fede, se
sono un credente o se continuo a girare come una trottola attorno
a cose futili, come la vanità e l’apparenza, la superbia. Queste oggi
sono lontane da me. No, mi basta stare insieme alla gente, avere
amici, affetti semplici ma sicuri.
Quello che mi angoscia è il male, quello fisico e quello morale,
e la morte, che vedo ancora come punizione, castigo per i miei errori.
Mi piacerebbe che morire fosse non finire, non cessare definitivamente di vivere, che, insomma, avessi, per il solo spirito, un’ipotesi esistenziale ulteriore, cioè la possibilità di riprovare, di aver la
sospensione temporanea dell’applicazione materiale della morte
definitiva e totale.
No, non intendo morire e rinascere. No, per carità lungi da me
ritornare nel mondo sotto altre vesti, reincarnarmi.
Non lo vorrei proprio. Gradirei liberare l’anima e cercare di
migliorarmi, rendermi più presentabile a Dio.
Mi sento così nudo all’idea di presentarmi adesso, subito. Mi
vergogno, perché non mi sento pronto e devo chiedere tempo. Sono
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Paradiso ——————————————————————
sempre stato troppo orgoglioso. E ho troppo di non concluso. Troppe aspirazioni e pochi risultati. Insomma, in questo ultimo mezzo
secolo e in questa mia vita, sempre a correre per vivere ma senza
capire niente e senza soffermarmi su niente, attraversare stagioni
senza essersene toccato, investito.
Mai a dire che succede e marciare con qualcuno o contro
qualcuno.
Come fossi di gomma. Sempre a schivare, rimbalzare e cercare
di non farmi male. E me ne vado senza lasciare un’orma di scarpa,
un respiro buono, un fatto, una parola.
Mi pare che devo morire con l’intestino bloccato, lo stomaco
ingombro. Non ho digerito nulla di quello che ho mangiato.
Se potessi darmi una spolverata, mettermi un po’ in ordine, o
fare un clistere. Liberarmi dalla polvere e dall’ingombro. Presentarmi più leggero, più libero. Rimediare di corsa per arrivare quasi alla
sufficienza.
Se non è possibile recuperare così, chiedere se si può spostare
la data dell’appuntamento per l’ultima visita di abilitazione al trapasso.
Lo so che è fatica vivere. A volte riesce più facile lasciarsi
andare, non è male farsi prendere dalla malia depressiva, come uno
stato di deliquio, quasi un acquario in cui non si nuota, ma si è come
un corpo morto che non sprofonda ancora, deve ingurgitare acqua,
appesantirsi.
È una condizione soporifera, inebriante e malinconica, acquea
appunto.
Ma basta con tutto questo. Vorrei provare a vivere. Non farei
nulla di speciale. Vorrei provare a vivere da buon cristiano. Non
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Paradiso ——————————————————————
vorrei più riempirmi solo la bocca dicendo di essere un credente,
ma non praticante, come dire ho fatto la guerra, ma non ho sparato
un colpo.
Non voglio pensare più che avere a che fare con Dio sia un
minus, un farò domani e preferirlo alla partita a carte, alla lettura
del giornale.
Se mi fosse dato vorrei proprio leggere cose di Dio, fare qualcosa nel nome di Dio. Mi sembra che ci sia proprio bisogno di gente
che si occupi di dire, parlare, fare cose di Dio.
I preti non hanno tempo, sono troppo oberati. Il parroco del
mio rione io non l’ho mai visto e non so chi sia. È vero, stava a me
andare da lui, andare alla chiesa. Ma un tempo a Pasqua e a Natale
venivano per benedire la casa o trovare un ammalato. Oggi non li
si vede mai. Ma non è tanto questo, spesso si ha l’impressione che
la chiesa si occupi di politica estera e non di politica interna. In
chiesa si parla quasi sempre di politica internazionale, di aiuti esteri,
di missioni all’estero, di soccorsi esteri, di conversioni estere, di pace
universale.
Aiuti e soldi qui, aiuti e soldi là. La pace qui e la pace là. Ma
intanto qui è tutto sguarnito, le parrocchie non stanno più in mezzo
alla comunità, alla società e i preti fanno i politicanti.
I giovani sono dappertutto e da nessuna parte. In chiesa vanno
sempre meno e ancor meno sono negli oratori di un tempo.
È crisi di presenza, di partecipazione ovunque nel civile e nel
religioso, nel pubblico e nel privato. Non c’è nulla in Occidente che
non sia in crisi, eppure è la parte del mondo in cui si sta meglio, si
vive meglio, c’è più libertà, più giustizia, più lavoro. Ma c’è più
tristezza e meno voglia di ridere. Perché?
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Paradiso ——————————————————————
Qui c’è benessere, i mali sociali si sentono e si vivono, si gestiscono e fanno male, ma si affrontano. Altri producono e crescono
più di noi perché vengono da lontano, dal buio, dall’inferno. Crescono ma non sanno cos’è la libertà politica, sociale e religiosa e
dove sia la giustizia. Altri ancora sono socialmente organizzati come
le bolgie infernali dantesche.
Mai come oggi sembra riproporsi un clima medioevale di vera
e propria guerra tra bene e male. Li trovi dappertutto, nelle forme
più sottili e subdole, in quelle più ignobili e blasfeme, come anche
in quelle più commoventi e più strazianti. I media ci giocano sopra.
Tutto è sempre in discussione, sacro e profano, senza limiti etici
e di responsabilità.
Il mondo sembra una giostra con i suoi mostri, le sue belve, i
suoi clown. Spesso perde un pezzo, ma continua a girare. Spesso
dimentica Dio. Spesso cerca Dio. Spesso lo oltraggia. Spesso l’uomo
perde la testa e il controllo. Spesso l’uomo fa guerre all’uomo. Spesso
l’amore sfuma. Spesso l’odio tracima e si fa barbarie. Spesso Dio è
usato per scopi meschini o per coprire nefandezze morali e mire
politiche immonde. La morale è la grande assente!
Ma in questo mondo mai così lontano e mai così vicino sappiamo bene che ci sono stati mostri più terribili e orrori più devastanti.
Noi dello stabilimento amiamo la pace, viviamo senza fare
chiasso. Non abbiamo nulla da chiedere né a Dio né al mondo.
La domanda di venire a giocare in cielo con l’acqua nostra,
terrena? Forse dovremmo mutarla in domanda di continuare a
restare ancora qui, a lungo?
Io, che dovrei rappresentarli, non ho nulla che mi trattenga qui,
tranne il desiderio ultimo che ho prima espresso, ma so irrealizzabile.
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Paradiso ——————————————————————
Per spirito di verità dirò, tuttavia, che mi riesce difficile considerare questa terra una valle di lacrime, sì lo è rispetto al regno di
Dio, ma credo che l’uomo sappia governarla ancora e sento che
saprà superare questo periodo buio.
La terra Dio l’ha fatta bene. A me non è mai dispiaciuto viverci
nonostante i guai che nel tempo il potere dell’uomo vi combina e vi
ha combinato. Ma nonostante la sua tirannide non ha del tutto
cambiato i connotati al suo contenitore. No, non ho vincoli o contratti che non possano esser rescissi. C’è la mia testa e c’è il mio
cuore che mi trattengono ancora qui.
E ciò nonostante sia difficile fare i conti con se stesso, accettare
il proprio decadimento, non avere più la potenza vitale di un tempo.
E così, se mi fosse dato, vorrei conoscere un po’ meglio questo
mondo che lascio da forestiero, da sconosciuto.
Ci sono più di duecento stati al mondo e io non ne conosco
nemmeno tutti i nomi e ne avrò visitati forse venti.
È vero c’è il cinema, c’è la televisione, ci sono le videocassette,
ci sono i libri, ci sono i dischi, ci sono soprattutto il computer e
Internet.
Ecco, mi devo correggere.
Questa stagione è la prima e la sola che sto vivendo in piena
coscienza, anche se non ho più l’età per gustarla pienamente.
Mi dà l’idea di infinito, il potenziale di sapere e di conoscenza
in ogni settore dello scibile umano che mette a disposizione la nuova
rete informatica. È presente dappertutto in tempo reale.
In ogni stato, qualunque sia la religione, l’etnia, il colore della
pelle, lo stato sociale, ovunque essa è un mezzo di comunicazione,
di informazione, un mercato di merci e di conoscenza illimitati.
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Paradiso ——————————————————————
Una rivoluzione eccezionale, forse una delle più grandi della
storia dell’umanità, e questa è appena agli inizi. Sconvolgerà ogni
traccia delle culture e delle conoscenze preesistenti.
Farà piazza pulita di ogni incrostazione di ignoranza. La verità
sarà a portata di chi saprà ricercare. Influenzerà ogni settore della
scienza e della tecnica e farà pensare che un nuovo creatore è
presente nell’universo.
Sì, è possibile che una nuova follia di potenza si diffonda come
un virus nella rete informatica e per essa nel mondo.
Come sempre ogni mezzo dell’uomo può essere indirizzato al
bene o al male. Si scatenerà una guerra per il controllo e il dominio
di questo potere illimitato di conoscenza. Si potrebbero plagiare
menti e coscienze. Una lotta epocale fra Bene e Male è di fatto già
in atto. Ma sembra proprio che coloro che volevano tenere nell’ignoranza e nella miseria gran parte dell’umanità siano destinati a una
epocale sconfitta.
Sì, oggi tutto puoi vedere, conoscere e sapere in tempo reale.
Puoi entrare in una città, in un museo, in una biblioteca, in una
cattedrale e sapere e vedere tutto come esserci. Ma esserci resterà
sempre un’altra cosa, una diversa dimensione, davvero umana e non
artificiale. Sedere al tavolo di una piazza storica come Tiennamen o
la Piazza Rossa, guardare masse umane uguali e diverse, uomini e
donne multicolori che vanno con ogni mezzo e si muovono come
mandrie, buffe e misteriose, quasi travolgenti come fossero i bisonti
favolosi della vecchia America. Non c’è, infatti, nulla di più potente
e travolgente di una fiumana umana in movimento. Fanno peggio,
credo, solo le formiche e le cavallette. Queste sono tutte uguali, fanno
tutte la stessa cosa, in modo lineare, monotono, continuo, uguale.
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Paradiso ——————————————————————
La massa umana ha cervello. Cuore, anima, vestito, andatura,
muscoli, altezza, tutto misteriosamente diverso.
È il fascino del singolo uomo, è lo stupore che lascia una legione
di persone in cammino.
Un miracolo di vita, della miglior vita.
Ecco, avrai capito che continuo ad amare l’uomo e la vita e che
questa passione mi trattiene dall’andarmene definitivamente.
Vorrei almeno sapere di più del mistero di questa stagione
tecnologica, vedere quale altro miracolo saprà generare; o forse
vorrei andarmene, quando avrò più pace dentro, più serenità, quando mi sentirò un uomo più degno e avrò fatto qualcosa di buono.
No, non ho l’ambizione di lasciare un ricordo di me, ma di emendarmi dai miei peccati sì, di essere in pace con Dio e con gli uomini
questo sì.
E non l’ho ancora fatto, mi serve tempo, chiedo ancora un po’
di tempo.
E se non è chiedere troppo vorrei proprio potermi occupare
un po’ di arte, di musica e di pittura. Io so di essere particolarmente
ignorante.
Avevo un amico sul lavoro che non aveva molta salute, ma la
musica e la pittura erano campi in cui era molto ferrato. Dischi,
concerti, teatro, mostre, musei, libri, pubblicazioni e illustrazioni
speciali.
Era un uomo tranquillo. Un pantofolaio. E quel che diceva di
conoscere lo conosceva davvero bene. Non era un superficiale.”
“Come hai fatto a seguire con tanta costanza e impegno? Sembra un mare infinito.”
“La malattia, la sofferenza mi hanno permesso di avere tempo,
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Paradiso ——————————————————————
tanto tempo per curare queste passioni, mentre cercavo di curare
la malattia.
È tanto il tempo in cui sei solo e non ti fa bene pensare troppo,
né puoi solo limitarti a leggere romanzi, libri gialli o di evasione. E
così ho trovato amici grandi, esigenti, infiniti, che danno emozioni
forti, che commuovono e fanno stare male, che sono difficili da
capire e da penetrare. La musica e la pittura. Due amiche intime,
profonde, esigenti, pressanti, ma che non ti lasciano mai solo, non
ti abbandonano mai, che non trovano mai scuse, che non domandano
mai perdono per ritardi, impedimenti dell’ultima ora. Loro ci sono
sempre state e ci sono qui.
A fianco, ai piedi del letto, sul copriletto, sul comodino, sotto
il cuscino.
E poi la parola, la voce, il suono, la vastità dell’incanto con
quella macchina che suona sempre più sofisticata, raffinata, perfetta.
E questa stanza, che era simbolo della solitudine e dell’abbandono, si popolava di immagini, di voci, di suoni, di sospiri, di urla.
Il mondo più alto e nobile in questa stanza.
Se avessi saputo che avrei dovuto pagare prezzi d’ingresso così
ridicoli per varcare mille e più volte corridoi di luce e di suoni
immensi, avrei accettato il peso della mia malattia.”
“E il lavoro? Marginale rispetto alle forti emozioni e motivazioni dell’arte, non è vero?”
“Il lavoro,… non so dirti; forse a causa della malattia che, di
fatto, mi toglieva ogni aspirazione realistica ad avanzamenti o promozioni, lo consideravo, da tempo, un mezzo di sostentamento.
A me, in particolare, serviva la rendita degli immobili che mi
aveva lasciato mio padre. Mi ero detto che dovevo trasmettere
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integro ai miei figli il lascito di mio padre. Questo proposito iniziale
mi è servito tanto da diventare la mia scuola di vita.
Sono diventato addirittura uno specialista nella gestione e nella
amministrazione degli immobili. E anche un buon consulente finanziario. Oggi il mio stipendio, che prendo forse immeritatamente,
serve per soddisfare la mia immobilità, che costa molto anche economicamente, e la mia passione artistica.”
Devo dire che l’invidia non è mai stata fra i miei peccati. Ma
al mio amico ho sempre invidiato la sua passione per la musica e la
pittura.
Ma anche migliorando il livello di conoscenza nell’arte non si
rimedia se l’avvio non è stato felice. Certi amori si coltivano da subito
o nascono stanchi. Forse non c’era in me la “vampa”. E se oggi
qualcosa ho recuperato resto sempre a livello delle elementari.
“Scusami, mi sono attardato nel ricordo di un caro amico. E visto
che siamo ormai ai ricordi e alle confidenze vorrei proprio chiederti
un’altra cosa, anche se continui a tacere e mi dai talvolta l’impressione
che tu sia fuggito da me. So che ci sei e che mi ascolti. E che io sto
approfittando di te, come ho sempre fatto. Ebbene volevo dirti della
difficoltà che ho da un po’ di tempo a stare con gli altri, a parlare con
gli altri. Forse ascoltavo poco e parlavo troppo. Se mi appassionava
una questione ero un fiume in piena. Ma oggi sembra proprio che
la notte cali sul dialogo, sulla riflessione, sull’attenzione, sul parlare
e sull’ascoltare. Si urla, si sbraita, c’è aggressività, c’è rissa.”
Ricordo che un tempo mi dicevi:
“Sì, parli molto, talvolta troppo, ma almeno non aggredisci, non
sei violento. Ti sforzi di capire. Sai oggi sono tutti conformisti. Sono
tutti da una parte, sì anche quelli che avevano detto, dichiarato
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Paradiso ——————————————————————
solennemente, no, io mai, io mai. La conversione e il gettare la
tonaca è oggidì un fatto quasi quotidiano. Poiché si parla non alla
gente, ma ai media, basta dire oggi e correggere domani. Nessuno
ci fa caso. E perciò dico che siamo alla babele.”
“Mi sento sempre più solo. Ecco, tu sei uno dei pochi che mi
ascolta. Gli altri non mi sentono per principio, perché sanno che
dirò cose contrarie ai loro convincimenti, alla loro idee. Si scambiano
fra loro fatti e opinioni.
Li trasferiscono, li tramandano a familiari, amici e conoscenti.
E tutti costoro fanno la stessa cosa. Un gioco a piramide discendente.
Quando tu dici qualcosa trovi un muro. La tua riflessione cade nel
vuoto e nessuno ti spiega il perché. Mai mi sono sentito così estraneo
a casa mia. E dovrei spiegare agli altri cos’è la democrazia! Ma noi
la neghiamo continuamente.
Anche in famiglia, politicamente, sono isolato. Mi amano e mi
rispettano, ma per il resto dicono che ho il cervello atrofizzato.
Ecco, proprio di questo volevo parlarti. Pochi giorni fa ho
incontrato tua nuora e il tuo nipotino. Ricordo che quando passavano nei pressi del nostro bar non mancavano di venirti a salutare.
Ti alzavi di buon grado. Senza sbuffare come fanno molti perché un
amico li saluta, un parente passa e devono alzarsi, interrompere le
chiacchiere. Per te il nipote e la nuora venivano prima. Ti alzavi e
ti mettevi a giocare, a parlare sino a che la donna non portava via
il bambino. Non eri tu a sollecitare, era l’altra che aveva fretta di
scappare per fare la spesa. No, tu non eri come molti che inventano
un’istituzione nonno nipote; eccoli con la carrozzina prima, poi in
macchina, o a fare insieme la spesa, oppure al campo sportivo. E si
lamentano che la loro vita è cambiata. Che non sono più liberi e così
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Paradiso ——————————————————————
via. Tu, invece, non avevi modificato la tua vita. L’avevi allargata,
dicevi proprio così, e avevi dovuto farlo ancor di più perché c’erano
stati problemi e divergenze non componibili tra tuo figlio e sua
moglie. Tu avevi pensato che quel bambino non doveva uscire dal
tuo clan ma, con il consenso della madre, doveva restare nel vostro
recinto e, perché no, anche insieme a lei. E così gli inviti a colazione
per entrambi quando tuo figlio era altrove per lavoro. Perciò tua
nuora ebbe a dirmi che tu eri per lei il più bel ricordo della tua
famiglia.
E questo lo avevi capito e voluto e coltivato e ti si vedeva spesso
muoverti per le vie del paese con lei e con lui; c’era una vita parallela
fra la tua famiglia e quella più piccola che tu seguivi. Tuo figlio era
contrario. Non te ne fregava niente. Sentivi che era giusto così e lo
sostenevi con gli altri e contro tutti gli altri. Ma più di qualche
avversione cadde. Vinse l’amore tuo. Vinse il tuo sangue, come
dicevi tu ridendo di tutto ciò.
Davi, tuttavia, l’impressione negli ultimi tempi di accusare la
stanchezza delle contrarietà.” Dicevi:
“È un periodo brutto e non so perché. Va tutto storto. Litigo
continuamente. C’è troppa gente superficiale, presuntuosa e prepotente.”
Però la tua casa c’era, la tua famiglia c’era, unita sempre.
Restava un gran porto di mare la tua casa.
“Come il mio sangue”, sogghignavi. E ricordavi le tue origini
meridionali. Un bene prezioso per la tenuta della famiglia!
Per questo volevo chiederti, ma come è possibile che non ti
manchi tutto ciò. Sembra ieri che te ne sei andato. E i tuoi legami
erano incisi nell’anima, nel profondo.
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Paradiso ——————————————————————
Saprai della fine del nostro gruppo. Dopo che tu te ne sei andato
si è dissolto, come se tu fossi uscito dalla porta senza chiuderla e un
vento freddo, entrato all’improvviso, ci avesse intirizziti tutti. Tutti
a scappare da quel luogo gelido e a non farci più ritorno.
Eppure tu sei ricordato qui. Ho visto e sentito i tuoi. Insomma
il più forte e potente eri tu. Se tu non senti e non aiuti che senso ha
pregare e chiedere di aiutarci, perché siamo veramente in difficoltà,
si spegne la luce del giorno, è troppo presto buio.
Noi abbiamo solo paura. Per questo forse gridiamo, urliamo,
esageriamo anche nelle nostre discussioni. Per questo ci è più semplice pensarla in un modo e chiuderci agli altri. Si sta meglio. Non
vogliamo soffrire di più. Perché è vero, dietro a questo benessere
c’è tanto malessere, c’è tanta sofferenza, c’è tanta paura. Se dobbiamo perdere la vita che ciò non avvenga pensando che lasciamo i
nostri cari davvero in una valle di lacrime, perché l’incomprensione
regna sovrana e c’è odio, odio mortale, come non mai. Nemmeno
in tempo di guerra, per quello che ricordo, c’era un odio così diffuso,
così generalizzato. Se c’era trovavi anche la speranza, l’aiuto, il
conforto. Oggi ci sono solo parole, e non dette da una persona fidata,
ma da una annunciatrice televisiva. E ti pare che basti? Il libro di
questa vita per te è chiuso. Ne stai leggendo un altro sulla bontà,
sull’eternità, sull’amore divino.”
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Paradiso ——————————————————————
IL GABBIANO FERITO
Oggi in spiaggia siamo proprio in quattro gatti. L’acqua del
mare è cheta, liscia, quasi immobile. Forse si riposa in attesa del
cambio ormai prossimo del tempo; le previsioni dicono pioggia e
freddo. Per oggi calma piatta, colore chiaro del cielo e trasparenza
dell’acqua del mare come ai tempi migliori.
Ieri tre gabbiani erano fermi sulla nostra ghiaia, orientati verso
il sole come i bonzi d’oriente che aspettano l’alba. Oggi uno di essi
è ferito a un’ala. Un bel maschio, grande, lascia a fatica il campo a
noi uomini che lo avviciniamo per cercare la fuga. A pochi metri la
femmina, resta in attesa e non si muove. Passano alcuni minuti e si
porta su uno spuntone di roccia, si volge verso il compagno e poi
spicca il volo e si allontana. È presto di ritorno e si cala con un volo
controllato, radente e silente.
Noi facciamo un miracolo. A gara per chiamare l’ente protezione animali che non solo risponde immediatamente, ma giunge in
tempi così rapidi che quasi non mi avvedo del salvataggio.
Mi dicono che lo hanno letteralmente accerchiato e gli hanno
messo a un palmo dal becco una gabbietta con il portello aperto, vi
è entrato subito, quieto e docile. Forse aveva capito che non aveva
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Paradiso ——————————————————————
speranza. Diversamente sarebbe morto dopo qualche giorno o sarebbe stato mangiato dai suoi simili. Forse si sono abituati agli
uomini e qualcosa tra noi e loro deve essere cambiato. Sono dappertutto e noi non li molestiamo.
Ricordo non molti anni fa quando con il mio gommone mi ero
portato sino all’isola dei gabbiani vicina alla foce dell’Isonzo ne ho
visto uno ferito a un’ala e in seria difficoltà. Mi sono avvicinato per
soccorrerlo. Ha fatto perno con il becco sulla sabbia e ha spinto con
forza sulle zampe e sul becco sino a raggiungere l’acqua e abbandonarsi al suo corso.
Bella giornata oggi se si caratterizza con il salvataggio di un
animale. I gestori non avevano niente da fare e non si sono sottratti
alle sollecitazioni dei pochi bagnanti. Hanno chiamato subito.
Io preferisco pensare che sia stato merito della femmina, che
si è alzata in volo, ha chiamato aiuto ed ha fatto ritorno in tempo
per accertare il salvataggio del suo compagno. In effetti, come i
volontari dell’ente protezione animali hanno lasciato la spiaggia con
la gabbia e il gabbiano, l’altra si è allontanata in volo e non ha fatto
più ritorno.
Anche il giornale mi porta una buona notizia. Dice della presentazione di un libro, la storia di un padre e del figlio. Il primo che lavorava
all’estero e fa ritorno al paese, il secondo che viveva a casa, in campagna.
I due si ritrovano e si parlano, l’uno racconta la storia del suo lavoro,
ma soprattutto di casa sua. Li unisce il paese, la sua storia e un cane.
Padre e figlio si frequentano. L’uno trasmette all’altro conoscenza e
saggezza. Il bimbo narra la storia che si fa poesia:
“Ero seduto sul muretto del vicolo di casa e annusavo il vento
che scappava inseguito dal mio cane.”
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Paradiso ——————————————————————
Oppure: “La mattina ripetevo il mio rito scaramantico: mi
svegliavo prima di tutti, andavo al lettone e controllavo che mio
padre fosse ancora lì: a volte gli sfioravo i capelli con le dita, gli
carezzavo la spalla. Mentre lui continuava a dormire, la faccia affondata tra i seni della mamma.”
Sono parole di Carmine Abate tratte dal suo libro “La festa del
ritorno”
Ti racconto queste cose perché so che ti sarebbe piaciuto leggerle insieme a me.
L’estate è finita. Lo stabilimento è chiuso. Il mare tace.Tu hai
tolto ogni contatto. Forse ti hanno richiamato. È inutile perdere
tempo con uno che non sa ancora cosa vuole pur avendo già un
piede nella fossa. Farà tutto all’ultimo momento, un po’ prima di
rendere l’anima. Come ha sempre fatto, in tutte le sue cose. E hai
ragione. Ma non so fare altro, non so condurmi diversamente.
Ho deciso di riprendere daccapo. Sono partito dalla gente
semplice che ho conosciuto alla spiaggia, ho cercato di ricordare
alcuni tratti della loro umanità e della loro religiosità che ho colto
nelle ore che ogni giorno ho trascorso con loro. Per anni. L’attaccamento a loro rimane forte. Sono parte della mia vita. Ho voluto
metterli insieme alla mia voglia di vivere serenamente e grazie a
loro mi sono avvicinato a Dio. Gli uomini portano con sé il mistero,
basta ascoltarli. Il dramma della vita e della morte, quello della
sofferenza, è costante, come quello della conoscenza. Tutto c’è
nell’uomo. Vissuto, talvolta, in modo contraddittorio, tal’altra con
il sostegno decisivo della ragione o con il conforto della fede. Ma
sempre ricerca è, anelito di sapere e di conoscere.
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Paradiso ——————————————————————
L’UOMO DEI TRENI
Mi accorgo che sei ritornato. O forse eri sempre qui e io mi
sono dimenticato di te.
Sono andato a trovare l’uomo dei treni. Sì, il tuo concorrente.
Ti abbiamo ricordato come il signore dei vascelli.
Oggi dicevamo che dovremmo formare un circolo di amici che
si pongano come scopo di seguirsi l’un l’altro. Al bar, al circolo
della scopa, a quello del bel canto ci si va con uno scopo ben definito,
ma non basta.
Insomma una catena morale di sostegno fra amici, un impegno
che si concretizzi nello stare più vicini, più insieme gli uni agli altri.
Non è possibile che uno non si faccia più vedere e lo si lasci perdere.
Può essere in viaggio, ma anche ammalato. Non si fa così.
Non si va lontano se si sta tanto tempo senza domandarsi dove
sia finito il tale e non si prenda il telefono e non lo si chiami.
Si dice che questo modo di fare sia tipico dei giovani. Loro
sanno dove incontrarsi, uno se vuole ci va, se non ci va vuole dire
che è occupato a fare altro.
Ma non mi sembra una risposta soddisfacente. E se sta bene ai
giovani non significa che sia buono per noi.
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Paradiso ——————————————————————
Loro hanno veramente impegni, studio, lavoro, amore e viaggi.
Noi siamo monotoni. A casa e al bar e viceversa. E dovrebbe essere
più semplice, più facile.
Non chiedo di vederci di più, di mettere un regolamento. No,
libertà per tutti di condursi come credono. Ma se uno sparisce non
si può fare finta di nulla. Questa non è amicizia. È indifferenza.
Dico che se uno sta male andrebbe almeno appurato e si
potrebbe spendere un euro per una telefonata.
Mi pare che non sappiamo più nemmeno dare conforto a noi
stessi. Dobbiamo fare tamtam; dire e fare sapere che si è vivi e che
si attendono notizie. Nell’era della comunicazione stare muti e in
silenzio significa amare la morte.
Dico questo perché l’uomo dei treni è in difficoltà. Sta cedendo
e lo avverte. È preoccupato e ha paura.
Quando la morte viene e si avvicina troppo in fretta, preceduta
da malanni che offuscano la mente, la annebbiano o la sconvolgono,
sembra un uragano distruttivo che viene e devasta: non è più morire.
È devastazione e ciò è terribile. Disumano.
L’uomo dei treni era uno considerato per il senso del comando,
per il potere di governare persone e treni.
Era tipico il suo modo di uscire dall’ufficio, in divisa, con il
berretto e la paletta, si metteva quasi sull’attenti, ad attendere il
treno speciale, non tutti i treni, quelli locali no.
Non veniva a farsi notare per lo sbuffare di una locomotiva
vecchia come un ronzino che portava merci o persone da un luogo
vicino ad un altro vicino. Oppure uno che transitava senza sostare
per la sua stazione.
Doveva essere un treno di rispetto, di quelli che venivano dalla
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Paradiso ——————————————————————
capitale dello stato o dalla città capitale della finanza: diceva proprio
così. Arriva il treno della capitale della finanza, oppure arriva il
treno della capitale. E basta. E si sapeva che veniva da Roma.
Direttissimi o rapidi li chiamavano un tempo e il nome diceva da
solo dell’importanza che essi avevano.
Era orgoglioso di essere lui a controllare il via vai di quei mezzi
pesanti e veloci. Quelli erano il simbolo dell’uomo moderno: velocità
e potenza, energia e forza.
Sì, era pienamente compreso nel suo ruolo.
Aveva il modo di incedere di un alto dirigente. Apparentemente
semplice, disinvolto, ma insieme austero; era alto e sembrava esserlo
di più fermo, immobile sul marciapiede accanto al binario su cui fra
breve sarebbe arrivato dopo un lungo fischio, un frastuono assordante e un mulinello di polvere, di carta, di tutto ciò che restava in
quella fossa su cui correvano i binari.
Il suo comando stava tutto nella sua compostezza, eleganza e
fermezza.
Eh, sì, amico dei vascelli, l’uomo dei treni era più raffinato di te.
Ora ha il tuo viso, teso, livido, oscuro. Come il tuo prima di
lasciarci.
Non dice cosa teme. Ma è tutto in disordine, è confuso, scontroso, irrequieto. Forfora sulla maglia o sulla giacca, forfora sui
capelli. Non è proprio più lui. Prima, lo ricordi? Era sempre in
ordine, ora non ci dà bado. È arruffato, trasandato come un barbone.
Nessuno che gli tolga dal capo quella idea di cambiamento di
sé e quel senso di progressivo mutamento della sua identità che sta
subendo contro la sua volontà. Sì, un altro sta nascendo in lui e il
suo sé si sta spegnendo. Non è una prova facile accompagnare se
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Paradiso ——————————————————————
stessi alla fine e nel contempo alimentare un altro di sé che sembra
rubarti il senno, l’identità, la vita.
Gli ho detto che avrei parlato con te del viaggio verso il Paradiso
e della sua disponibilità a farne parte. E anche questo è un segno di
come un uomo fugga da sé e un altro ne prenda il posto.
Non è che l’uomo dei treni mi aiuti a risolvere il mio problema,
è solo un passeggero in più. Ma mi aiuta ad avvicinarmi a Dio che
poi dovrebbe essere anche Colui che ti fa capire il senso del passaggio
da una identità ad un’altra, il senso della fine e del principio, quello
del dissolvimento e della rinascita. Non per me, ma per una parola
giusta all’amico dei treni.
Sono sempre più convinto che più che gli scienziati, i tecnici, i
filosofi, i teologi, i logici, i matematici, sono gli uomini semplici,
quelli di ogni giorno e le loro vite che ti aiutano ad avvertire la
presenza di Dio.
Perché con loro c’è la misericordia di Dio.
La preghiera del misero, del povero, del semplice, del sofferente, la preghiera dell’uomo medio, di quello di ogni giorno, del primo
che incontri per strada, o di quello che guarda una vetrina, ma non
guarda, pensa, crede che solo Dio potrebbe aiutarlo in quel momento.
Il pensiero di quel passante è il valore aggiunto per l’uomo.
Con la preghiera Dio lo incontri.
Ho un amico che sembra frutto di uno scherzo della natura.
È uno sciancato nella mente e nel fisico.
Lo hanno preso a fare l’usciere. Ha fatto casino. Lo hanno
messo a fianco di un altro usciere con l’incarico di guardare e
imparare. Ha fatto casino.
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Paradiso ——————————————————————
E hanno deciso di lasciarlo fare. Poteva fare quello che voleva,
girare dappertutto, andare e venire. Ma non intervenire mai e si è
calmato.
Si innamorava di tutti, uomini e donne. Era innamorato della
loro bravura, della loro gentilezza, del come facevano le cose, del
come parlavano alle persone.
E tutti ricambiarono. Chi prima chi dopo ovviamente. Lo accettarono.
Poi, all’improvviso, qualcosa cambiò. Un incontro sbagliato con
qualcuno. Una sfuriata di quest’ultimo. Il paradiso finì.
Ritornò a fare l’usciere e poiché quel qualcuno non lo voleva
proprio vedere in giro fu messo a fare il telefonista.
Finì la bontà del disabile e si incattivì al punto con gli altri che
tutta la bontà che aveva sparso si trasformò in odio.
E all’improvviso si diffuse una voce cattiva su di lui, che non
rispondeva regolarmente, che faceva intasare le linee, che passava
telefonate non attese o le deviava al capo errato. Nacque un caso.
E quando qualcuno lo scoprì mentre giocava spesso con il
pisello o leggeva giornali porno, e tutto ciò in faccia alla gente, fu
messo in gabbia! Sì, nel gabbiotto del telefonista.
Per quanto riguarda il movimento del pisello non ebbe difficoltà
a confessare che la colpa non era sua, ma di quelle smorfiose tette
e culo che gli passavano davanti trenta e più volte al giorno e lo
provocavano di proposito e stavano ad osservare quando lui, incapace di resistere, si gettava sul pisello e compiva l’opera.
Divenne lo sciancato, l’odioso, il morboso, lo schifoso. Una bestia!
E venne la pensione baby. E fu libero a casa sua.
Per sopravvivere doveva camminare. E lo faceva uscendo con
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Paradiso ——————————————————————
ogni tempo. Lo accompagnava una donna che morì per questo,
spremuta dalla fatica per dedicarsi a lui.
Ora è solo e gira in triciclo. Capelli lunghi. Somiglia a Gesù
Cristo in bicicletta.
Dicono che sia in pace con tutti. Le tentazioni non le ha più.
Prega e pedala ogni giorno.
Corre, corre, vive e prega.
Questo dicono di lui. In chiesa non va. A casa vive solo.
Dicono che l’infermiera che va a trovarlo a domicilio gli faccia
un lavoretto extra settimanale. Questo dicono.
Lo incontro spesso. Ci salutiamo sempre. Mi domanda cassette
usate. Sorride, il viso bruciato dal sole, i capelli lunghi e sciolti, un
po’ di pizzo e baffi. Denti bianchissimi.
Dio, Patria e Famiglia. “Questo è il mio vivere. Parlo a Dio con
l’aiuto della musica, alla mia femmina dono l’amore con la musica;
lei lo sa, lo vede chi sono, ma nessuno oggi ha la mia forza in amore.
Ora non la pago più. Amo la Patria che mi dà le mie pensioni, ne
ho due, d’invalidità e di lavoro. No, è finito il tempo delle seghe e
dei giornali porno. Ora tutto è chiaro. A Dio dono la mia anima,
alla mia donna il mio corpo infaticabile e avido come quello di un
animale selvaggio.”
Non cammina, usa un triciclo perché la bicicletta presuppone
capacità di equilibrio che lui non ha, né sa come ottenere.
Il ritardo mentale persiste. La medicina non ha saputo né
fermarlo né ridurlo.
La morbosità sensuale continua, ha trovato finalmente e casualmente uno sfogo naturale, selvaggio lo chiama lui. Ma non è guarito,
secondo la scienza medica.
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Paradiso ——————————————————————
La novità è la musica e con essa Dio.
Devo dire la verità a tutti, agli amici della stabilimento e a quelli
cui ho rotto le scatole dicendo del mio racconto al solo fine di rubare
un’idea, un suggerimento, un’ispirazione.
E dunque è bene restare attaccati a questo mondo e chattare
con il Paradiso, pregare e corrispondere. Se uno ascolta bene, se
non risponde va bene lo stesso.
Il miracolo della vita sta in questa libertà di essere, di fare e
disfare, riflettere od oziare.
Forse non sarebbe male avere una sola religione. Un Dio,
Amore, e come preghiera il discorso della montagna. Oppure qualcosa di simile in ebraico o in islamico. È sicuro che c’è, anche se non
si usa più perché fa comodo ai politici delle religioni. Dico questo
non perché sarei pronto ad abiurare, anzi, mai come in questo
momento sono felice di essere cristiano e di credere oggi un po’ di
più di ieri, perché ho pregato di più, perché ho pensato un po’ di
più agli altri che a me stesso, o forse perché ho compreso un po’ di
più il messaggio grandioso e radioso: “Ama il prossimo tuo come te
stesso.”
Sai, oggi ho visto tua cognata, sì la madre del tuo nipotino. Era
al nostro solito bar. Con un’amica. Ascoltava e rideva. Non mi ha
notato. Sorrideva, continuava a sorridere. Era bella, era viva. Ho
capito che lei deve vivere, al di là della separazione da tuo figlio, al
di là della tua morte e della perdita di un sostegno, un riparo, un
aiuto come eri tu. Deve vivere. E tu, giustamente, devi occuparti di
altro lassù. Lei è libera di fare rinascere il cuore e viverne tutte le
passioni. Quando gioirà o piangerà si ricorderà di te, della tua
consolazione. Passerà anche quello, con l’aiuto di Dio, passerà anche
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Paradiso ——————————————————————
quel dispiacere o quel nuovo dolore. Si fa sera. Le campane della
chiesa del rione suonano l’Ave Maria. Sono rintocchi, non musica.
Per me sono il mese mariano, il mese di maggio. Il mese dei rosari
in chiesa. Era bello un tempo perché giungeva gente da fuori
nell’area del collegio. Ci si poteva confondere e avvicinarsi alla
ragazza del cuore. Incominciava a complicarsi la vita di uno studente
senza pensieri.
Cammino sorridendo perché i ricordi ci sono tutti, il saluto, la
stretta di mano di nascosto, che non vedano i suoi genitori.
Gli uomini dello stabilimento balneare, alla riapertura, riceveranno in omaggio un opuscolo che raccoglie tutte le sciocchezze sin
qui descritte.
Capiranno e sorrideranno.
Chissà quanti di loro ritorneranno al loro posto di sempre.
Quanti posti resteranno vuoti.
I più fortunati ci saranno. Gli assenti saranno già da tempo a
nuotare e a prendere un nuovo sole, più luminoso, accecante e caldo
di quello dei Caraibi.
Noi dovremo continuare ad accontentarci di un granello di
sabbia, loro avranno il sistema delle galassie.
Vuoi mettere?
Strano, no? Questa storia del nostro bagno in cielo è diventata
un’idea fissa, uno di quei desideri che restano tali per tutta la vita,
e non li realizzi mai, non li raggiungi mai.
Ma il nostro c’è. La strada per andarci c’è. Qualcuno che ci
aspetta c’è.
“Non abbiate paura!” Ha detto Papa Giovanni Paolo Secondo.
“Non avere paura del buio!” Mi diceva mia madre quando
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Paradiso ——————————————————————
l’improvvisa mancanza della luce mi riempiva di terrore e mi mettevo
a piangere, perché sapevo che poi sarebbero seguiti i bombardamenti.
Ti pare che se vai in Paradiso hai voglia di ritornare sulla terra?
Di solito l’età è quella tarda, in cui si è vecchi, stanchi, malati. E
difficilmente si ama muoversi, agitarsi, correre.
Vai a farti un bel bagno ristoratore e riprendi a vivere una vita
nuova. E pensi a scendere?
E chi ti dice che non ti trovi a trastullarti in uno stabilimento
come il nostro. Con altro gestore naturalmente. Per carità. Lassù le
cose cambiano veramente. La gestione non solo è nuova, è diversa.
No, non si paga mai nulla, lassù. Perché? Ma perché c’è un
lasciapassare speciale. La fede. Se credi la fifa di morire non ce l’hai,
perché sai che vai a stare meglio, a stare con chi hai onorato per
tutta la vita e che ti ricompensa con la Sua Vita. Se non credi, lasci
a fatica e con rimpianto ciò che ami e conosci e ti duole di finire nel
nulla, nel grande dimenticatoio della lavanderia e dei rifiuti.
Ma se sei stato giusto sistemano pure te, ma là devi abbassare
un po’ la cresta. La superbia di crederti chissà chi la lasci da parte.
Io, Io, Io diventa Dio, Dio, Dio.
Ci sono anche quelli che si convertono man mano che l’età si
fa critica e l’ora della fine si avvicina. Pare che Dio sia il più
compassionevole, e dunque il Paradiso anche a loro.
Sì, la prova che Dio c’è, che il Paradiso c’è, la diamo noi,
umanità, da sempre. Un altro o altri prima di noi, sopra di noi, ci
sono sempre stati perché il bisogno di eterno è nell’uomo. La sua
aspirazione, il suo spirito chiama l’immortalità, l’eterno, Dio.
A questo punto ci diranno basta, ci pregheranno in ginocchio
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Paradiso ——————————————————————
di fermarci. Già siamo stati tanto banali, potremmo evitare di cadere
nel ridicolo. E ci ricorderebbero quello che un tempo molto lontano
scriveva un teologo inglese. “Persone incolte, appartenenti ai ceti
più umili, le sentite dire che non hanno bisogno di dimostrazioni
dell’esistenza di Dio, perché lo prova a sufficienza ogni filo d’erba.”
Già. Ma i semplici, gli ignoranti hanno sempre avuto il loro modo
immediato di esprimersi e di credere. Da sempre è così. Anche oggi.
Non è tanto strano che in questo scenario sia nato il nostro desiderio
di Paradiso, di vita eterna spesa su una spiaggia stile terreno. Forse
possiamo realizzare il nostro sogno.
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Paradiso ——————————————————————
INDICE
Presentazione
Il poeta dialettale
La coppia istriana
La signora Laura
Lo stabilimento balneare
La ragazza “fragola”
Le due Ingrid
Stabilimento addio
Creme, ragazzi e chiacchiere
“La favola celeste”
Gioco delle carte e voglia di paradiso
I Triestini e i professori
Il circolo di Giovanna
La stanza di Lucia
Il mare unisce uomini e cose
Robert e Paola
Le due fiumane
C’era una volta una nonna
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118
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Paradiso ——————————————————————
Il primo messaggero di Dio
La signora dal costume giallo
La signora con il cane
Vecchiaia uguale saggezza?
Voglia di Dio o paura della morte?
Un ponte tra terra e cielo
Trovato finalmente! Un navigatore
Il gabbiano ferito
L’uomo dei treni
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