LE CATTEDRALI
Macerata Tolentino Recanati Cingoli Treia
a cura di
Gabriele Barucca
In copertina:
San Nicola di Bari,
cappella del Santissimo Crocifisso.
Cingoli, concattedrale
LE CATTEDRALI
Macerata Tolentino Recanati Cingoli Treia
a cura di
Gabriele Barucca
saggi di
Gabriele Barucca, Silvia Blasio, Simona Breccia, Stefano D’Amico,
Laura Mocchegiani, Elisa Mori, Egidio Pietrella
Con il patrocinio della Soprintendenza per i Beni
Storici Artistici ed Etnoantropologici delle Marche - Urbino
Direzione progetto editoriale
Renzo Borroni
Proposta editoriale
Don Gianluca Merlini
Progetto scientifico
Gabriele Barucca
Testi
Gabriele Barucca
Silvia Blasio
Simona Breccia
Stefano D’Amico
Laura Mocchegiani
Elisa Mori
Egidio Pietrella
Referenze fotografiche
Foto CMR - Massimo Zanconi, Macerata
Franco Mosconi, Tolentino
Pierluigi Siena, Roma
Foto ISCR - Angelo Rubino
Foto SBSAE delle Marche-Urbino,
Marco Fanelli e Claudio Maggini
Amministrazione e distribuzione
Raffaella Cinque
Progetto grafico
Memphiscom - Mirta Cuccurugnani
www.memphiscom.it
Stampa
Tecnostampa, Loreto (AN)
© 2010 Carima Arte Srl
Via Crescimbeni, 30-32
62100 Macerata
[email protected]
Tutti i diritti riservati
ISBN 9788887651362
Sulla scia di precedenti ed apprezzati volumi, quali Ori e argenti. Capolavori di oreficeria sacra nella
provincia di Macerata e Lo spazio del sacro. Chiese barocche tra ‘600 e ‘700 nella provincia di Macerata,
gli edifici di culto tornano ad essere protagonisti di una pubblicazione della Fondazione Carima.
L’opera Le Cattedrali infatti, curata dal prof. Gabriele Barucca, approfondisce ed illustra le caratteristiche delle cattedrali di un’importante diocesi del nostro territorio.
San Giuliano a Macerata, San Catervo a Tolentino, San Flaviano a Recanati, Santa Maria Assunta a
Cingoli e la Santissima Annunziata a Treia sono cinque chiese che, oltre a custodire le reliquie dei santi
patroni, hanno rappresentato in passato e rappresentano tuttora, il fulcro intorno al quale ruota sia la
vita religiosa che quella civile delle rispettive città e dunque di un’area di riferimento importante per
il nostro ente.
A tale proposito è stato compiuto uno studio che mira ad analizzare i singoli edifici sacri nel loro
complesso: sotto il profilo architettonico, storico-artistico e del patrimonio di arredi, paramenti e
suppellettili ecclesiastiche.
I saggi, i numerosi documenti di archivio consultati e trascritti, come pure l’imponente e pregevole
apparato iconografico in esso contenuti ne fanno un testo di alto valore scientifico, che siamo certi
incontrerà non solo l’interesse degli addetti ai lavori ma altresì il favore di un pubblico più ampio.
Anche l’anno corrente, quindi, segna per la Fondazione Carima il conseguimento di un altro significativo traguardo in relazione al suo impegno nell’editoria.
I progetti editoriali, infatti, caratterizzano da sempre l’attività del nostro ente nell’ambito del settore
culturale, rappresentandone un’indubbia eccellenza, peraltro confermata dall’incremento nel tempo
della tiratura e della diffusione delle pubblicazioni.
Ogni testo, attraverso ricerche, studi specialistici ed approfondimenti, costituisce un nuovo tassello
che va di volta in volta ad aggiungersi ai molti già noti, favorendo la conservazione, la divulgazione e
la promozione del grande patrimonio storico, artistico ed architettonico maceratese.
Nell’esprimere gratitudine al prof. Barucca ed a tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di
questo volume, mi preme ringraziare ed esprimere le più vive congratulazioni a sua eccellenza monsignor Claudio Giuliodori e a don Gianluca Merlini per aver intuito, segnalato e sostenuto la rilevanza
documentale e la valenza scientifica della nostra nuova proposta editoriale.
Franco Gazzani
Presidente della Fondazione
Cassa di risparmio della
provincia di Macerata
Tabula gratulatoria
Stefano Baldassarri, Claudia Bernardini,
Patrizia Bizzarro, Maria Claudia Caldari,
Vittoria Carloni, Andrea Carnevali,
Pio Cartechini, Rosaria Cicarilli,
Mons. Lauro Cingolani, Daniele Diotallevi,
Marco Fanelli, Don Attilio Feroci,
Vittoria Garibaldi, Emanuela Gostoli,
Maria Chiara Leonori, Maria Giannatiempo,
Alberto Maccioni, Claudio Maggini,
Alessandro Marchi, don Gianluca Merlini,
Benedetta Montevecchi, Maria Rita Paccagnani,
Renato Pagliari, Ivano Palmucci,
Francesca Pappagallo, Giuliana Pascucci,
Luca Pernici, Osvaldo Pieramici,
Anna Pieroni, Alba Pucci, Daila Radeglia,
Gianfranco Ruffini, Monica Ruffini,
Orlando Ruffini, don Frediano Salvucci,
Giuliano Sanseverinati, Giovanni Sbergamo,
Alessandra Sfrappini, Simone Sgalla,
Denise Tanoni, Goffredo Teodori,
Maria Rosaria Valazzi, Agnese Vastano,
Luisanna Verdoni.
Il curatore e gli autori tengono infine a
ringraziare in modo particolare i parroci
della cattedrale e delle quattro concattedrali
per la loro grande e costante disponibilità e
cortesia: don Enzo Buschi, don Gianni Carraro,
mons. Pietro Spernanzoni, don Sergio Salvucci,
don Vittorio Fratini.
La Cattedra di Pietro e le Cattedrali
Quando si entra in una Cattedrale si respira sempre un’aria solenne e misteriosa. Durante le celebrazioni presiedute dal Vescovo ci si sente subito avvolti dall’abbraccio del successore degli apostoli che
guida la Chiesa particolare. Lo manifestano la mitra, il bastone pastorale e, soprattutto, la cattedra. Da
quella sede il vescovo conduce, quale maestro e buon pastore, il cammino di santificazione dei fedeli,
nella fede, nella speranza e nella carità. I successori degli apostoli esercitano il loro ministero nella
collegialità episcopale e in comunione con il Successore di Pietro che li ha nominati e inviati. Quindi
c’è un particolare legame tra ciascuna Cattedrale e la Cattedra del Successore di Pietro da cui viene la
garanzia della comunione fraterna e della fedeltà all’insegnamento evangelico.
Per capire quindi il valore della Cattedrale bisogna risalire al suo profondo legame con Pietro e alle
parole che Gesù gli rivolge dopo la solenne professione di fede: “E io a te dico: tu sei Pietro e su questa
pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi
del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla
terra sarà sciolto nei cieli” (Mt 16, 18-19). Da questo straordinario potere spirituale deriva anche la
responsabilità di essere il segno visibile dell’unità di tutta la Chiesa e di sostenere gli altri apostoli
nell’esercizio del loro ministero. È il compito svolto da tutti i Papi fino ai nostri giorni.
Dalla Cattedra di Pietro si estende a tutte le Cattedrali il paterno affetto e il fraterno incoraggiamento
ad annunciare il Vangelo. Esse sono quindi il segno della continuità e della comunione apostolica
“cum Petro et sub Petro” di ogni vescovo chiamato ad edificare il corpo di Cristo. La Chiesa edificata su
Pietro è fatta di pietre vive che con la loro fede e il loro impegno hanno modellato le pietre delle Cattedrali scrivendo così la storia spirituale di una comunità, che in ultima analisi è storia dell’incontro
con Cristo, pietra angolare posta a fondamento.
“Il Signore Gesù è la pietra che sostiene il peso del mondo - ricordava Benedetto XVI a Barcellona
consacrando la Sagrada Familia -, che mantiene la coesione della Chiesa […] L’unico Cristo fonda
l’unica Chiesa; Egli è la roccia sulla quale si fonda la nostra fede. Basati su questa fede, cerchiamo
insieme di mostrare al mondo il volto di Dio, che è amore ed è l’unico che può rispondere all’anelito
di pienezza dell’uomo. Questo è il grande compito, mostrare a tutti che Dio è Dio di pace e non di
violenza, di libertà e non di costrizione, di concordia e non di discordia” (Omelia, 7 novembre 2010).
Con questo volume che presenta la Cattedrale di Macerata e le quattro Concattedrali di Tolentino,
Recanati, Cingoli e Treia, la Diocesi riscopre le sue radici, rafforza i legami di comunione con il successore di Pietro e offre a tutti la possibilità di conoscerne la storia e lo splendore artistico. Guardando
l’impressionante patrimonio di arte e di cultura presente nelle Cattedrali, si resta affascinati per la
bellezza e per la quantità delle opere poste ad ornamento del luogo sacro con la finalità di esplicitare i
misteri della fede attraverso linee architettoniche, immagini e sculture.
Sentiamo particolarmente vere e riferite a tutte le cattedrali le parole pronunciate da Benedetto XVI
a Bressanone durante un dialogo con i sacerdoti: “se contempliamo le bellezze create dalla fede, ecco,
sono semplicemente la prova vivente della fede. Se guardo questa bella cattedrale: è un annuncio
vivente! Essa stessa ci parla, e partendo dalla bellezza della cattedrale riusciamo ad annunciare visivamente Dio, Cristo e tutti i suoi misteri: qui essi hanno preso forma e ci guardano. Tutte le grandi
opere d’arte, le cattedrali – le cattedrali gotiche e le splendide chiese barocche – tutte sono un segno
luminoso di Dio e quindi veramente una manifestazione, un’epifania di Dio” (Cattedrale di Bressanone, dialogo con i sacerdoti, 6 agosto 2008).
La Cattedrale di Macerata e le Concattedrali di Tolentino, Recanati, Cingoli e Treia continuino ad
essere centro di unità e luogo di incontro e di abbraccio con il Mistero di Dio, che in Gesù si è fatto
vicino a tutti noi.
Card. Angelo Comastri
Vicario Generale di Sua Santità
per la Città del Vaticano
Presidente della Fabbrica di
San Pietro
Le Cattedrali, fari del territorio
Con questo volume ricco di documentazione storica e di immagini affascinanti viene data piena visibilità ad uno dei patrimoni più rilevanti del territorio maceratese e in modo particolare della diocesi
di Macerata - Tolentino - Recanati - Cingoli - Treia. Le cinque cattedrali di queste antiche realtà
ecclesiali, ora unite in un’unica Diocesi, sono libri aperti che narrano le vicende religiose, sociali e
artistiche della nostra terra. Non sono semplici contenitori religiosi ma spazi armonici e policromi, di
incantevole bellezza, che racchiudono secoli di storia, nei quali si riassume il vissuto di intere comunità, dove si respira la dimensione spirituale e trascendente dell’esistenza.
Ma che cosa rappresenta una Cattedrale? Dal nome comprendiamo subito il legame inscindibile con
la Cattedra del Vescovo. Fin dai primi tempi del cristianesimo il punto di riferimento, secondo il mandato di Gesù, sono stati gli Apostoli e i loro successori, i vescovi. Dalla “Cattedra” il vescovo esercita
il compito di guidare, istruire e santificare il popolo a lui affidato. Il luogo quindi riflette ed esplicita
la funzione del vescovo. Per questo da sempre nella storia della Chiesa le Cattedrali costituiscono il
centro visibile dell’unità della comunità ecclesiale attorno al Vescovo.
Nella Cattedrale si svolgono le attività più significative della comunità ecclesiale presiedute dal vescovo, in modo particolare le celebrazioni liturgiche più importanti dell’anno o altri eventi di grande
rilevanza ecclesiale. Normalmente nella Cattedrale sono conservate le reliquie del patrono e sono
ben visibili i segni dell’autorità e della missione del vescovo, a partire dalla sede episcopale. Le nostre
cinque cattedrali raccontano, quindi, la storia delle comunità ecclesiali riunite attorno al vescovo. Le
figure dei vescovi che si sono succeduti nel tempo sono ben visibili negli stemmi, nelle opere d’arte,
negli interventi architettonici, nei paramenti, nelle suppellettili e negli arredi liturgici.
Le cattedrali, proprio perché sono il centro visibile dell’unità della fede e luogo dove si custodisce la
fedeltà alla verità rivelata, sono anche spazi dove risplende il mistero del sacro. La Cattedrale di San
Giuliano in Macerata e le altre Concattedrali di Tolentino, Recanati, Cingoli e Treia sono veri e propri
scrigni di bellezza. Sono luoghi dove in modo tutto particolare “il Dio invisibile si fa visibile” come
ha detto il Santo Padre consacrando la basilica della Sagrada Familia a Barcellona. Lo stupore che si
prova entrando in una Cattedrale deriva dall’essere avvolti dalla bellezza perché “la bellezza è la grande
necessità dell’uomo - afferma ancora Benedetto XVI -; è la radice dalla quale sorgono il tronco della
nostra pace e i frutti della nostra speranza. La bellezza è anche rivelatrice di Dio perché, come Lui,
l’opera bella è pura gratuità, invita alla libertà e strappa dall’egoismo” (Omelia del 7 novembre 2010).
Nel prendere in mano questo volume sento la necessità di esprimere la più sentita riconoscenza agli
autori e alla Fondazione Carima per un’opera così bella che ci permette di entrare, attraverso l’accuratezza degli studi e la qualità dell’apparato iconografico, nel cuore vivo e pulsante delle nostre Cattedrali. Esse sono un vanto del passato, un imprescindibile riferimento per il presente della vita sociale
e religiosa, ma anche un importante messaggio di fede, cultura e civiltà da consegnare alle nuove
generazioni perché anche loro possano incontrare attraverso al bellezza il mistero di Dio. È questa in
fondo la ragion d’essere delle Cattedrali che, come sottolineava Benedetto XVI in una catechesi su
questo tema, “ci rammentano che la via pulchritudinis, la via della bellezza, è un percorso privilegiato
e affascinante per avvicinarsi al Mistero di Dio. Che cos’è la bellezza, che scrittori, poeti, musicisti,
artisti contemplano e traducono nel loro linguaggio, se non il riflesso dello splendore del Verbo eterno
fatto carne?” (Catechesi del 18 novembre 2009).
X Claudio Giuliodori
Vescovo di Macerata - Tolentino
Recanati - Cingoli - Treia
INDICE
15 Una storia comune
Gabriele Barucca
19 La Diocesi di Macerata - Tolentino - Recanati - Cingoli - Treia:
breve storia religiosa di un territorio
Egidio Pietrella
LE CATTEDRALI
29
MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO
31 La storia religiosa della cattedrale di San Giuliano di Macerata
Egidio Pietrella
41 L’espressione del sacro alla fine del XVIII secolo: la cattedrale di San Giuliano
a Macerata di Cosimo Morelli
Stefano D’Amico
55 Cattedrale di San Giuliano a Macerata: la pinacoteca sacra
Silvia Blasio
71 I dipinti di Ciro Pavisa nella cattedrale di Macerata
Simona Breccia
75 Il tesoro della cattedrale di San Giuliano di Macerata
Gabriele Barucca
85
87
99
111
121
131
137
143
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
La storia religiosa della concattedrale di Tolentino
Egidio Pietrella
Dal panteum cum tricoro alla facciata neoclassica di Filippo Spada:
la chiesa di San Catervo a Tolentino
Stefano D’Amico
Le testimonianze medievali nella chiesa di San Catervo a Tolentino
Gabriele Barucca
La decorazione della cappella di San Catervo
Silvia Blasio
Le pale d’altare nella chiesa di San Catervo a Tolentino
Silvia Blasio
Francesco Ferranti e l’apparato decorativo di San Catervo a Tolentino
Elisa Mori
Il tesoro di San Catervo a Tolentino
Gabriele Barucca
151RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO
153 La storia religiosa della concattedrale di San Flaviano di Recanati
Egidio Pietrella
163 Carlo Orazio Leopardi e la trasformazione barocca della chiesa di San Flaviano a Recanati
Stefano D’Amico
173 Il mecenatismo dei vescovi nella cattedrale di Recanati
Silvia Blasio
187 ‘Arti rare’ nel tesoro della chiesa di San Flaviano a Recanati
Gabriele Barucca
203
205
213
223
237
241
CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA
La storia religiosa della concattedrale di Santa Maria Assunta di Cingoli
Egidio Pietrella
Una chiesa della Controriforma a Cingoli: Santa Maria Assunta
Stefano D’Amico
Le cappelle gentilizie della chiesa di Santa Maria Assunta a Cingoli: dipinti, stucchi e intaglio ligneo
Silvia Blasio
Donatello Stefanucci e la chiesa di Santa Maria Assunta di Cingoli
Elisa Mori
Il tesoro della concattedrale di Cingoli e i doni di Pio VIII
Gabriele Barucca
253TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA
255 La storia religiosa della concattedrale di Treia
Egidio Pietrella
265 Tra spazio longitudinale e spazio centrale: la chiesa della Santissima Annunziata di Treia di Andrea Vici
Stefano D’Amico
275 Dipinti e sculture nella chiesa della Santissima Annunziata di Treia
Silvia Blasio
291 Il tesoro della Santissima Annunziata di Treia
Gabriele Barucca
APPARATI
305 La storia delle cattedrali dallo studio dei documenti. Saggio documetario
Laura Mocchegiani
326 Cronotassi dei vescovi della Diocesi di Macerata - Tolentino - Recanati - Cingoli - Treia
Egidio Pietrella
335Bibliografia
15
UNA STORIA COMUNE
Gabriele Barucca
Le Cattedrali è il titolo di questo volume che intende dar conto degli studi intrapresi sulla cattedrale
di San Giuliano a Macerata e sulle quattro concattedrali dell’attuale diocesi: vale a dire, San Catervo a
Tolentino, San Flaviano a Recanati, Santa Maria Assunta a Cingoli e la Santissima Annunziata a Treia.
Queste cinque chiese costituiscono da secoli il fulcro della vita religiosa e della storia delle rispettive
città e diocesi preesistenti e autonome, che solo dal 1986 sono state ‘unificate’ sotto il titolo di “Diocesi di Macerata - Tolentino - Recanati - Cingoli -Treia”, affidata alla cura pastorale di un solo vescovo.
A guardar bene, la “piena unione” delle cinque diocesi, stabilita dalla Congregazione dei Vescovi con
decreto del 30 settembre 1986, è l’ultimo atto di un lungo percorso iniziato nel Medioevo, che ha
registrato mutate pertinenze territoriali delle diverse diocesi e divisioni nella giurisdizione ecclesiastica
di questo vasto territorio, che coincide all’incirca con la metà dell’attuale provincia di Macerata e che
peraltro è connotato da una marcata identità culturale.
Queste cinque chiese, che accolgono le reliquie dei santi patroni - ora venerati come compatroni
dell’intera diocesi posta sotto l’alto patronato della Madonna della Misericordia – si arricchirono nel
corso dei secoli di memorie sacre e devozionali illustrate da innumerevoli e pregevoli lavori di pittura,
scultura e di arti suntuarie. Nel corso del tempo su questi stessi edifici monumentali si intervenne ripetutamente, rinnovandoli e parzialmente trasformandoli; questo riflette in modo rivelatore non solo
la necessità di adattarli al gusto moderno connesso al mutare delle forme e del repertorio decorativo,
ma anche la volontà di arricchirli continuamente. Questa volontà di rinnovamento ha il più delle
volte prevalso sulla spinta altrettanto forte a conservare e mantenere, che si è spesso concretizzata nel
riuso di gran parte degli apparati decorativi mobili, come le pale d’altare, gli arredi e, naturalmente,
le suppellettili sacre d’uso. Questo processo duplice illustra a meraviglia il valore di queste cattedrali,
ed è senza dubbio da leggere in rapporto con la loro funzione pubblica e con l’importanza che esse,
più delle altre chiese e santuari, rivestirono per le comunità, di cui rappresentavano il segno dell’unità
e della loro stessa identità. Esse sono il riflesso di un’intensa vita religiosa, che, intrecciata alle vicende
politico-amministrative e sociali, anche di lotte intestine e calamità naturali, ha costruito una identità
cattolica di riconosciuta evidenza e peculiarità. Questa tradizione è significativamente attestata nel
corso dei secoli da un ragguardevole numero di personaggi, provenienti dall’ambito della diocesi di
recente ‘unificata’, trasferitisi nella capitale per entrare nella prelatura e in molti casi elevati alla suprema dignità della sacra porpora, nonché splendidamente illuminata da santi, come Vincenzo Maria
Strambi, vescovo di Macerata e Tolentino dal 1801 al 1824, e da un pontefice, Pio VIII, il cingolano
Francesco Saverio Castiglioni che agli inizi del suo cursus honorum che lo portò a ricoprire le più eminenti cariche ecclesiastiche fu Proposto del Capitolo della cattedrale di Cingoli dal 1795 al 1800.
Figure tutte che non mancarono di lasciare memoria della loro munificenza e devozione, nonché di
affermare il prestigio del proprio ruolo attraverso splendide committenze artistiche e preziosi doni,
tuttora in parte conservati nelle diverse chiese.
Il volume intende dunque presentare queste cattedrali per la prima volta come capisaldi di una ‘storia
comune’ di un unico organismo attraverso contributi di studio specialistici e immagini inedite.
Arte umbra, Natività,
vetro dorato e graffito.
Recanati. Museo Diocesano
(particolare)
17
Nel corso dell’indagine si sono comunque toccati momenti più larghi della storia culturale e religiosa
del territorio. Sono emersi dalle ricerche i vari momenti di un percorso culturale, politico e religioso
comune che tuttavia non ha comportato l’omologazione dei caratteri delle cinque chiese, ognuna
ricca di peculiarità molteplici legate di volta in volta a diversi fenomeni: l’affacciarsi di alcuni protagonisti di spicco nell’ambito della gerarchia ecclesiastica come papi e cardinali, attenti e munifici nei
confronti delle singole realtà da cui provenivano, oppure il forte impegno dei vescovi diocesani nel
campo del mecenatismo artistico o ancora l’energica partecipazione delle famiglie del patriziato cittadino riguardo all’acquisizione dei giuspatronati e alle commissioni artistiche, spesso indirizzate verso
artefici di primo piano, ma cui corrispose anche la vivace reazione delle maestranze locali.
Peraltro i limiti anche di spazio lasciano ancora tanti aspetti e problemi aperti, ma questa è la sorte
che spesso tocca alla ricerca. L’ambizione è comunque quella di suscitare non soltanto in ambito
locale l’interesse di un pubblico vasto e per quel che riguarda gli specialisti nei vari settori di ricerca
di aver elaborato una sorta di fonte primaria per i necessari futuri riscontri e gli opportuni approfondimenti degli studi finora intrapresi, soprattutto nell’ambito della storia istituzionale e di quella
socio-religiosa.
Il proposito di voler illustrare questi edifici e ciò che ancora conservano, di trascrivere le carte d’archivio inedite, di definire in modo preciso le coordinate spazio-temporali delle opere d’arte ha come
intento non secondario quello di rammentare perentoriamente a tutti, ciascuno nelle proprie competenze, la sempre più urgente necessità di tutelare questi beni culturali, considerati come insiemi di
straordinario valore storico e simbolico. La tutela va riaffermata come esigenza culturale, ideale e pratica primaria, attraverso cui garantire la conservazione del patrimonio, della cui valorizzazione sociale
e anche economica si potrà parlare solo in un momento successivo.
Il volume si apre con un saggio di inquadramento storico ecclesiastico, che dà conto delle complesse
vicende che hanno portato alla definizione dell’attuale diocesi. A corredo di questo capitolo si pubblica in appendice la cronotassi degli ordinari delle diverse sedi episcopali preesistenti sulla base della
Hierarchia Catholica Medii et Recentioris Aevi.
Seguono cinque ampie sezioni riservate ciascuna alle singole chiese, secondo uno schema che prevede per ogni edificio sacro l’analisi storica della fondazione, la descrizione della forma e struttura
architettonica, lo studio delle vicende artistiche con particolare riguardo agli aspetti della decorazione
pittorica e scultorea, nonché l’illustrazione degli arredi, dei paramenti e dei tesori di suppellettili ecclesiastiche. A corredo del volume sono infine pubblicati i documenti più significativi riguardo alle
vicende storiche e di vita religiosa di ogni cattedrale.
A conclusione di questa breve presentazione, è opportuno ricordare che i saggi qui raccolti sono stati
redatti da specialisti nei vari settori di ricerca. La campagna fotografica è stata in gran parte condotta
da Massimo Zanconi. Il progetto grafico e l’impaginazione dei testi è di Mirta Cuccurugnani.
Nella revisione delle bozze e della bibliografia un prezioso aiuto mi è stato dato da Stefano D’Amico.
L’impegno da parte di tutti è stato costante e premuroso, a tutti va la mia profonda gratitudine.
A monsignor Claudio Giuliodori, vescovo di Macerata-Tolentino-Recanati-Cingoli-Treia, che ha sostenuto l’idea di questo volume, e a Franco Gazzani e Renzo Borroni, rispettivamente presidente e
segretario generale della Fondazione Cassa di risparmio della provincia di Macerata, che con particolare generosità hanno voluto ospitarlo nella loro prestigiosa collana di libri strenna, vanno i miei
ringraziamenti più vivi.
Giovan Battista Foschi (?),
Fuga in Egitto. Treia,
concattedrale (particolare)
19
LA DIOCESI DI
MACERATA - TOLENTINO - RECANATI - CINGOLI - TREIA:
BREVE STORIA RELIGIOSA DI UN TERRITORIO
Egidio Pietrella
La diocesi di Macerata - Tolentino - Recanati - Cingoli - Treia conta circa centoquarantamila abitanti
e comprende tredici Comuni tutti della Provincia di Macerata: Appignano, Cingoli, Colmurano,
Macerata, Montecassiano, Montefano, Montelupone, Pollenza, Porto Recanati, Recanati, Tolentino,
Treia, Urbisaglia. L’attuale diocesi, “unificata” con il decreto della Congregazione dei Vescovi del 30
settembre 1986, reso esecutivo il 30 gennaio 1987, è il risultato dell’unione di cinque diocesi precedentemente autonome che hanno avuto una determinata serie di vescovi e una storia religiosa e civile
propria. Con il presente saggio si vuole presentare una breve ricostruzione storica di una diocesi così
molteplice, seguendone cronologicamente l’implantatio evangelica e l’aedificatio ecclesiae nelle varie
comunità di tutto l’attuale territorio diocesano.
Nel secolo III il Piceno conosce certamente il cristianesimo, portatogli da Roma e dall’Oriente.1 Nella
seconda metà del V secolo, restando nell’ambito dei tredici Comuni dell’attuale diocesi unificata e del
territorio limitrofo, sono sicure sedi vescovili: Cingulum, Potentia, Pausulae, Urbs Salvia, Tolentinum,
Camerinum, Firmum e, molto probabilmente, Trea.2
Un vero “terremoto” sul piano politico-sociale e religioso provocò l’invasione dei Longobardi (573):
molti vescovi fuggirono in altre città, alcune diocesi scomparvero per sempre, altre si ricostruirono
dopo molti anni.3 Nel nostro territorio scomparvero quelle di Cingoli, Tolentino, Urbisaglia, Potenza, Treia e per qualche tempo di Osimo. Fermo, che aveva subito immense rovine con i Longobardi,
neppure un secolo dopo incorporava i territori delle diocesi di Pausulae, Potentia e altre dell’attuale
provincia di Ascoli Piceno.4 Nei secoli IX-XIV nel nostro territorio diocesano esistono due grandi circoscrizioni ecclesiastiche: Camerino e Fermo; tre circoscrizioni minori: Numana, Osimo e Recanati,
la quale ultima è costituita sede vescovile nel 1240 con la bolla Recte considerationis e con l’erezione a
cattedrale della chiesa di San Flaviano, per soppressione momentanea (1240-1264) della sede di Osimo, che aveva aderito all’imperatore Federico II costringendo alla fuga il vescovo locale Rinaldo.
Varia fu la storia della diocesi di Recanati.5 Alleatasi con re Manfredi, dal 1263 fino al1289 fu privata
della sede vescovile e sottoposta a Numana; tornata sede vescovile nel 1289, i ghibellini nel 1320 costrinsero il vescovo Federico Nicolò di Giovanni (Sanguigni) a rifugiarsi a Macerata, che fu così elevata
a città e diocesi dal papa Giovanni XXII. Restituita a Recanati la sede vescovile con il vescovo Nicolò
di San Martino nel 1357, da allora fino al 1586 la diocesi di Recanati restò unita aeque principaliter
con quella di Macerata e il suo vescovo era denominato “vescovo di Recanati e Macerata”. Con la
riforma delle diocesi operata da Sisto V nel 1586, Recanati fu annessa a Loreto fino al 1592, quando,
riottenuta la sede vescovile, i suoi furono indicati sempre come “vescovi di Recanati e Loreto” fino al
1934, quando il papa Pio XI con la bolla Lauretanae Basilicae del 5 settembre soppresse la cattedra
vescovile di Loreto e pose il Santuario sotto la diretta autorità della Santa Sede, esercitata in suo nome
da un amministratore pontificio a cui fu concessa la giurisdizione sul territorio di Loreto con le facoltà
dei vescovi residenziali per la cura spirituale dei fedeli. Recanati restò diocesi, continuando ad avere
sotto la sua giurisdizione i Comuni di Porto Recanati, Castelfidardo, Montecassiano, Montelupone e
vescovi propri fino al 1968, quando la diocesi fu retta, in qualità di amministratori apostolici (19701976), dai vescovi di Macerata: Ersilio Tonini e Vittorio Cecchi (amministratori apostolici) e successi-
Cristoforo Unterperger,
San Giuliano invoca per
Macerata la protezione della
Vergine. Macerata, cattedrale
di San Giuliano (particolare)
20
vamente da mons. Francesco Tarcisio Carboni come vescovo ordinario unico di tutte e cinque le diocesi ancora autonome (1976-1986). Sul piano religioso e civile sono da ricordare due fatti importanti:
la “venuta” a Loreto, secondo la tradizione, della Santa Casa di Nazareth nel 1294; l’episcopato di Angelo Correr, che, eletto papa a Roma nel 1406, rinunciò al pontificato per contribuire alla soluzione
dello scisma d’Occidente, riservandosi l’amministrazione della diocesi di Recanati e Macerata; morto
a Recanati nel 1417, fu sepolto nell’attuale concattedrale di San Flaviano. Le chiese degne di essere
ricordate entro le mura urbane sono: San Flaviano (identificato con il vescovo di Costantinopoli,
martire, protettore della diocesi, la festa del quale si celebra il 24 novembre) che fu costruita nell’alto
medioevo, in altro luogo extra moenia, successivamente intra oppidum ed elevata a ruolo di cattedrale;
San Vito (protettore della città di Recanati, la cui festa cade il 15 giugno), pieve medievale, che officiarono successivamente i Carmelitani (1458-1524), i Gesuiti (1577-1773) con annesso collegio; Santa
Maria in Montemorello, antica pieve e collegiata; San Domenico, costruita dai Domenicani alla fine
del ‘200, dove si venera il simulacro della Madonna del Rosario (o della “Vittoria”, ottenuta dai cristiani nel 1571 a Lepanto), per la quale Lorenzo Lotto dipinse il celebre polittico e l’immagine di San
Vincenzo Ferrer; Sant’Agostino edificata dagli Agostiniani ai primi del Trecento e lasciata nel 1986;
San Filippo, costruita dai padri Filippini con annesso oratorio nella seconda metà del ‘600. In periferia
Santa Maria in Castelnuovo, officiata in origine dai Camaldolesi di Fonte Avellana e successivamente
retta da un “proposto” del luogo; San Francesco costruita dai Francescani Conventuali con annesso
convento, vivente ancora il santo di Assisi; la chiesa di Santa Maria di Varano, già nota dal 1249 e poi
dei Minori Osservanti, con annesso convento; la chiesa di Chiarino, già dei frati Clareni, con annesso
il loro convento; nel comune di Montelupone l’abbazia di San Firmano, anteriore al sec. X.
Degli antichi Ordini religiosi residenti un tempo in gran numero a Recanati (Camaldolesi Avellaniti
in Castelnuovo; Agostiniani, Domenicani, Francescani Conventuali, Carmelitani, Francescani Minori, Gesuiti, Filippini; Apostolini, Francescani Cappuccini in città) non resta più nessuno; ora vi hanno
sede solo i Padri Passionisti, che nel 1783 costruirono il loro “Ritiro”, tuttora attivo come loro sede
provincializia e annessa chiesa con funzione di parrocchia (Santa Maria della Pietà). A Porto Recanati
operano i Salesiani (S. D. B.) nella Parrocchia del Preziosissimo Sangue con annesso oratorio giovanile; i Missionari della Fede, che reggono l’antica parrocchia di San Giovanni Battista. A Montefano i
Frati Servi di Maria dirigono un centro di studi biblici. Le Comunità femminili (tutte di fondazione
più recente) presenti sono: in Recanati le Figlie di S. Maria della Divina Provvidenza (fondate da don
Guanella); a Porto Recanati le Suore adoratrici del Sangue di Cristo (con scuola materna); a Montelupone le Ancelle del Sacro Cuore di Gesù agonizzante (con scuola materna). La vicaria di Recanati,
dopo il riordino e l’unificazione delle antiche diocesi, comprende cinque Comuni (Montecassiano,
Montefano, Montelupone, Porto Recanati, Recanati) ed è suddivisa in tre zone pastorali, per un totale
di diciotto parrocchie.6
Seguendo l’ordine cronologico dopo il sec. XIII, Macerata7 fu la seconda - tra le cinque diocesi ora
unificate - ad essere creata diocesi con la bolla Sicut ex debito di Giovanni XXII data in Avignone il 18
novembre 1320, in cui la città- già libero Comune dal 29 agosto del 1138 affrancatasi dai vescovi di
Fermo- è definita insignis, populosa et apta e i Maceratesi riconosciuti ecclesiae devoti filii et fideles. La
diocesi - sorta, come si è detto, a spese di quella di Recanati ghibellina - si estendeva all’inizio fino al
mare e comprendeva con Recanati anche il territorio di Loreto. Macerata progressivamente incominciò ad acquisire un’importanza sempre maggiore, in quanto agli inizi del XIV sec. veniva scelta come
sede preferita dai Rettori e dai Vicari della Marca, e come città della Tesoreria e della Curia Generale;
ebbe il privilegio di battere moneta fin dal 1392 e circa un secolo prima vi era stato fondato uno studio
21
di giurisprudenza (1290) per opera di Giulioso di Montegranaro. Restituita la diocesi a Recanati dal
papa Innocenzo VI nel 1357, ad essa fu unita quella di Macerata e il vescovo da allora fino al 1586 fu
chiamato “vescovo di Recanati e Macerata”. Non ebbe risultato positivo - per le forti opposizioni dei
vescovi di Camerino e di Fermo - il proposito di Urbano V (1370) di allargare i confini della diocesi
di Recanati e Macerata, con l’annettere ad esse i comuni di Treia, Montemilone (Pollenza), Montecassiano, Montolmo (Corridonia), Monte Santo (Potenza Picena), Montelupone, Civitanova e altri
centri minori.
Il papa marchigiano Sisto V il 17 marzo 1586 separò definitivamente la diocesi di Macerata da quella
di Recanati e con la bolla Super universas del 10 settembre dello stesso anno unì ad essa la restituita
diocesi di Tolentino con la clausola che “il vescovo di Macerata sia il vescovo di ambedue le diocesi e
sebbene si chiami vescovo di Macerata, tuttavia nelle lettere e negli atti riguardanti la città e la diocesi di
Tolentino debba ordinariamente sottoscriversi: vescovo di Macerata e Tolentino”. Giuridicamente le due
erano diocesi autonome, unite aeque principaliter ad personam unius episcopi e tali resteranno fino alla
piena unione del 30 settembre 1986, usufruendo di uniformità nella guida pastorale ad opera dello
stesso vescovo e vivendo un buon clima di collaborazione e una certa affinità di storia religiosa.
Prima di questa data Tolentino8 ebbe una lunga ed attiva vicenda civile-religiosa. Colonia e poi municipio romano, Tolentino (forse dall’etrusco Tul, confine) ricevette il cristianesimo in data molto antica,
probabilmente ancor prima che vi arrivasse nella seconda metà del IV secolo Flavio Giulio Catervo,
“battezzato e cresimato dal vescovo Probiano”, che ivi quievit in pace e fu sepolto, insieme alla moglie
Settimia Severina e al figlio Basso, nel sarcofago della fine del IV secolo collocato, fino al 1820, in un
solenne Pantheum cum tricoro, di cui recentemente (10 e 30 dicembre1992) è stata eseguita la quinta
ricognizione canonica. Venerato come martire e scelto come protettore anche dal libero Comune (formatosi nel 1099), presso il suo mausoleo nei secoli VII-VIII si costituì un insediamento benedettino
(cella Sanctae Mariae, Sancti Catervi, Sancti Salvatoris) con chiesa, ricostruita nel 1256 in stile romanico e rimasta in piedi fino al 1820, rinnovata in stile neoclassico e terza sede di cattedrale (attuale
concattedrale di S. Catervo), officiata, dopo la partenza dei Benedettini, dai Canonici Regolari Lateranensi (1509- fine sec. XVIII) cui subentrò il clero diocesano. Con l’invasione dei Longobardi anche
Tolentino restò privata della sede vescovile (dopo Probiano è ricordato il vescovo Basilio che partecipò
ai concili romani del 487, 489, 502) e passò sotto la giurisdizione della diocesi di Camerino che ne
riorganizzò la vita pastorale, istituendovi nell’alto medioevo la pieve di Sant’Andrea, nel contado a sud
della città, e la pieve di Santa Maria nel centro urbano, chiesa matrice, con altre chiese soggette, unica
ad avere il battistero e la cura animarum, retta da un collegio di canonici (collegiata) a capo dei quali
era l’arciprete. Elevata a cattedrale da Sisto V, tale restò fino al 1653, quando la cattedrale passò nella
chiesa di San Francesco (fino al 1810), lasciata dai francescani Conventuali che l’avevano costruita nel
1250. Ricostruita ex novo (nel 1746) a pianta centrale, la chiesa di Santa Maria Nuova (come da allora
fu chiamata e dove si incominciò a venerare la trecentesca statua della Vergine col Bambino sotto il
titolo di “Madonna della Tempesta”), divenne tempio mariano della città, successivamente parrocchia
(1926-1966), e in seguito tempio ed ora (dal 1 settembre 2002) santuario mariano.
Fin dal Duecento numerosa e significativa a Tolentino fu la presenza degli Ordini religiosi sorti nel
medioevo. Un gruppo di eremiti agostiniani dalla campagna a sud di Tolentino verso il 1250 entrarono in città nella chiesa di Sant’Agostino (chiamata dal 1456 di San Nicola dal nome del santo che
qui a lungo santamente visse e morì); ampliata e arricchita di pregevoli opere d’arte, nonostante le
soppressioni degli Ordini religiosi da parte di Napoleone e del nuovo Stato italiano, sopravvisse con
il suo convento ed, elevata a santuario-basilica, divenne sempre più un grande centro di spiritualità,
22
arte, cultura fino ad oggi. Nella campagna di Rosciano si insediò il primo gruppo di francescani
Conventuali, che poi trasferitisi in città, costruirono la chiesa di San Francesco con annesso convento.
I Clareni dal 1370 vissero in un romitorio nella boscaglia ad ovest di Tolentino presso la chiesa di
Santa Maria del Cesolone, dove poi si insediarono i Minori Osservanti (dedicando la chiesa al santo
francescano Diego d’Alcalà), per passare nel 1607 in città nella chiesa di Santa Maria di Loreto che
ricostruirono insieme al convento. Per la legge del regio commissario Valerio il tutto fu requisito dallo
Stato italiano nel 1866 e trasformato in ospedale. I Cappuccini insediatisi dapprima in campagna
(collina di S. Pietro) entrarono in Santa Maria Costantinopolitana ove restarono fino alla soppressione
governativa del 1866. Creata parrocchia con il titolo di “SS. Crocifisso”, la chiesa fu officiata prima dal
clero diocesano, poi affidata ai religiosi Salesiani che vi crearono l’oratorio, per tornare al clero secolare
da cui ora è retta. Furono presenti altri Ordini religiosi (Terzordine francescano, Girolamini, Silvestrini) e monasteri femminili: di Sant’Agnese (con regola francescana), di Santa Maria della Misericordia
(con regola benedettina), delle Cistercensi. Ora resta solo il monastero delle Carmelitane (dal 1779)
e le suore “Maestre Pie Venerini”, di più recente istituzione, che gestiscono una scuola materna. Nella
relatio ad limina del 1609 il neo vescovo Morone elenca tre chiese con cura animarum: la cattedrale di
Santa Maria, la collegiata di San Giacomo, la chiesa di San Catervo. Due erano le chiese extraurbane
con cura animarum: la pieve di Sant’Andrea e di Santa Maria Maddalena di Paterno. In Colmurano,
soggetta giuridicamente alla diocesi di Tolentino, esistevano due chiese parrocchiali: San Donato,
Santa Maria Annunziata. Nel 1653 fu aperto il seminario che, trasferito (1850) poi in un edificio annesso alla cattedrale di San Catervo, restò aperto, salvo brevi interruzioni, fino al 1975. Degli antichi
Ordini religiosi (Benedettini, Francescani: Conventuali, Minori, Terzordine regolare, Cappuccini;
Silvestrini, Girolamini) trasferitisi o soppressi dal nuovo Stato italiano, restano solo gli Agostiniani.
Tolentino è ricordata nella storia anche per il trattato di pace tra Napoleone e i legati del papa Pio VI
(17 febbraio 1797). I santi protettori della diocesi e città di Tolentino sono: san Catervo martire (17
ottobre); san Nicola da Tolentino (10 settembre); San Tommaso da Tolentino, francescano conventuale, martire in India nel 1321 (24 ottobre); San Donato vescovo e martire del IV secolo patrono di
Colmurano (7 agosto); la “Madonna della Tempesta” (17 maggio). Dopo la riorganizzazione del 1986,
la vicaria di Tolentino comprende otto parrocchie (Colmurano fa parte della vicaria di Macerata).9
Ritornando alla diocesi di Macerata, che con Tolentino ha avuto legami più stretti per quattrocento
anni, c’è da ricordare che ad essa - limitata territorialmente alla città e al piccolo contado all’intorno
- solo nel 1588 furono assegnati i comuni di Pollenza e di Urbisaglia (già sotto giurisdizione camerte)
sempre dallo stesso Sisto V, il quale il 24 maggio del 1586, innalzata a metropolitana la sede vescovile
di Fermo, ad essa aggregò come suffraganee Macerata, Tolentino, Ripatransone, Montalto e S. Severino. Per compensare i maceratesi della perduta dipendenza dalla Santa Sede, il pontefice marchigiano
istituì in quello stesso anno a Macerata il tribunale della Sacra Rota, a cui sottopose lo stesso arcivescovo di Fermo. Tra i vescovi di Macerata si venerano un beato (beato Pietro Mulucci, dei Francescani
Conventuali) e un santo (San Vincenzo Maria Strambi, della Congregazione dei Passionisti, la cui
memoria ricorre il 25 settembre). I santi protettori sono San Giuliano (31 agosto) e la Madonna della
Misericordia (1 settembre), alla quale è dedicato il piccolo santuario diocesano adiacente alla cattedrale, ricco di opere d’arte (a cominciare dalla preziosa tela cinquecentesca della Mater Misericordiae),
gioiello d’arte vanvitelliana (1730-1742), centro vivo, oltre che di fede e devozione, di memorie antiche e recenti, che fanno tutt’uno con la storia civile e religiosa della diocesi e della città. Altre chiese
da segnalare sono la cattedrale, dedicata al patrono San Giuliano, sorta prima del Mille come pieve sul
podium Sancti Juliani, ricostruita nel 1422, di cui resta la torre, e nel 1771-1790, l’attuale, che con-
23
serva tra le altre cose pregevoli, l’urna d’argento con il braccio di S. Giuliano e il Corporale macchiato
del Sangue miracolosamente sgorgato da un’ostia consacrata.
In città sono degne di nota: la chiesa inferiore dell’attuale Santa Maria della Porta, esistente fin dal IX
secolo e dedicata a Maria Assunta, formata da due navate, divisa da tre colonne in laterizio; su quella
primitiva fu costruita un’altra nuova chiesa verso la metà del Trecento, con lo splendido portale in
cotto; la chiesa di San Giorgio, esistente già nel XIV secolo, dove si venera l’immagine della Madonna
della Salute, attribuita al Sassoferrato; la chiesa di San Giovanni, costruita nel 1625 e officiata fino
al 1773 dai Gesuiti che avevano attiguo il collegio, ora biblioteca comunale; San Filippo, costruita
dai Padri Filippini nel 1624 e ampliata più volte e arricchita di ornamenti e opere d’arte secondo lo
stile dell’Ordine. Nei dintorni, della metà del Cinquecento è la monumentale chiesa a croce greca di
Santa Maria delle Vergini, ricca d’opere d’arte e di decorazioni, tra cui spicca l’Adorazione dei Magi
di Domenico Tintoretto. Nel comune di Pollenza si trova l’Abbazia di Rambona dell’VIII secolo; nel
comune di Tolentino è l’Abbazia di Fiastra dedicata alla Vergine Annunziata, costruita nel 1142 dai
monaci Cistercensi, che dopo lunga assenza vi sono tornati nel 1985.
Numerosi furono gli Ordini religiosi che in vari momenti s’insediarono a Macerata: Agostiniani eremitani; Agostiniani Scalzi; agostiniani della Congregazione lombarda; Barnabiti, Benedettini, Camaldolesi; Cistercensi; Somaschi, Gesuiti, Domenicani; Francescani Conventuali, Minori Osservanti,
Cappuccini; Filippini, Signori della Missione: alcuni se ne andarono di loro iniziativa, altri furono
soppressi dalle leggi eversive napoleoniche o dello Stato italiano e i loro beni e conventi incamerati
(Domenicani, Minori Osservanti, Conventuali, Cappuccini, Agostiniani di Lombardia, Barnabiti,
Signori della Missione, Monastero delle Clarisse). I Cappuccini sono tornati nel 1890, i Minori nel
1957; I Monaci Cistercensi sono tornati (1985) nella loro abbazia di Chiaravalle di Fiastra; i Padri
Carmelitani reggono la parrocchia di Santa Maria delle Vergini; i Salesiani (S.D.B.) dirigono (dal
1890) il loro Istituto con scuola media, liceo scientifico e liceo linguistico europeo. Nella vicaria di
Macerata sono presenti attualmente due monasteri femminili: delle Domenicane del “Corpus Domini” (a Macerata), delle Clarisse (Pollenza); inoltre tre comunità religiose femminili di più recente
istituzione: a Macerata sono le Suore di S. Giuseppe di Torino con Istituto scolastico di scuola materna ed elementare; le Figlie dell’Addolorata con scuola materna; le Suore di Gesù Redentore (a Villa
Potenza di Macerata). Il Seminario, aperto nel 1615, ebbe varie sedi, le cui ultime due furono: l’ex
convento degli Agostiniani (1830) nell’attuale piazza Strambi (ora sede universitaria) e in via Cincinelli dal 1954 al 1980.
Degni di ricordo sono, tra gli altri, due eventi storici del XX secolo: la proclamazione di Macerata
Civitas Mariae avvenuta per volontà del popolo nel 1952; la visita del papa Giovanni Paolo II il 19
giugno del 1993, quando benedisse la prima pietra del seminario diocesano missionario Redemptoris
Mater ora attivo e operante. Attualmente la vicaria di Macerata comprende quattro zone pastorali per
un totale di venticinque parrocchie (Colmurano, Urbisaglia, Pollenza incluse).10
Cingoli,11 oppidum romano, ampliato e fortificato da Tito Labieno luogotenente di Cesare, accolse
fin dai primi secoli il cristianesimo: sicura è l’esistenza del vescovo Giuliano (VI sec.). Con l’invasione
dei Longobardi perde anch’essa la sede vescovile e il suo territorio risulta sotto la guida del vescovo di
Osimo fino al 1725 e in minima parte, quella montana, sotto Camerino. Nell’alto medioevo presso le
mura della rocca romana fu edificata la pieve di Santa Maria, su cui più tardi fu costruita la chiesa di
Santa Maria Assunta, che divenne collegiata e che nel sec. XVII fu ceduta alla Congregazione dei Filippini (e chiamata tuttora San Filippo), quando il popolo e il Comune (che ne è proprietario) fecero
ricostruire la chiesa sul luogo attuale, assumendo essa il ruolo di parrocchia e il titolo di Santa Maria
24
Assunta: è l’attuale concattedrale di proprietà del Comune.
Lungo il corso dei secoli Cingoli ha espresso la propria religiosità con numerosi altri luoghi di culto:
la chiesa di San Esuperanzio, sorta su una preesistente costruzione nel 1278, che conserva le reliquie
del santo, protettore della città (costituitasi Comune nel 1150), la cui festa si celebra il 24 gennaio; di
Santa Sperandia, parente di Sant’Ubaldo di Gubbio, che si fece benedettina a Cingoli, divenendo badessa e morendovi nel 1276: è venerata come compatrona della città con festa liturgica l’11 settembre;
di San Domenico che conservava la tela della Madonna del Rosario di Lorenzo Lotto; di San Francesco,
di San Giacomo apostolo, Santa Croce (dei Padri Cappuccini), di San Girolamo, di San Benedetto,
di Santa Caterina e altre ancora tutte nel centro storico o nelle immediate vicinanze. Nel territorio
circostante sorsero il monastero dei Santi Quattro Coronati, l’Abbazia di San Vittore, San Flaviano,
Sant’Anastasio; Sant’Elena di Avenale che originariamente fu pieve; San Giovanni Evangelista (Villa
Strada) è nominata nel X secolo; Troviggiano fu collegiata con chiese dipendenti; altre chiese antiche,
risalenti fin dal X secolo - sebbene ricostruite nel corso del tempo - sono San Michele Arcangelo (Castel S. Angelo), San Nicolò da Bari (Moscosi).
Nel 1725, con bolla del 19 agosto del papa Benedetto XIII, Cingoli ottenne di nuovo la diocesi con
il vescovo Agostino Pipia cardinale e già ministro generale dell’Ordine dei Predicatori; fu unita aeque
principaliter con Osimo e il suo vescovo fu chiamato vescovo di Osimo e di Cingoli e tale organizzazione durò fino al 1964. Seguì poi la fase degli amministratori apostolici dei vescovi di Macerata:
Cassulo (1964-1968), Sabattani (arcivescovo e prelato di Loreto, allora amministratore apostolico
di Macerata sede vacante) (1968- 69), Tonini (1969-1975), Cecchi (vescovo ausiliare di Macerata)
(1975-76). Subentrò poi mons. Carboni quale vescovo delle 5 diocesi autonome (1976-1986), prima
della “piena unione”.
Tra i cittadini più illustri, oltre il luogotenente di Cesare Tito Labieno, Cingoli ricorda il papa Pio
VIII (1829-1830), Francesco Saverio Castiglioni. Dei numerosi Ordini religiosi presenti un tempo (Avellaniti, Agostiniani, Francescani Minori Osservanti e Conventuali, Domenicani, Filippini,
Silvestrini, Monache Cistercensi), restano ora le Monache Benedettine e le Francescane della Beata
Angelina. Con il riordinamento della “piena unione” del 30 settembre 1986, la vicaria di Cingoli ha
recuperato alcune parrocchie, denominate “Ville montane”, che pur facendo parte del Comune di
Cingoli, appartenevano alla diocesi di Camerino. Attualmente la vicaria di Cingoli comprende nove
parrocchie.12
Treia13 fondata probabilmente dai Sabini, fu municipio romano (Trea o Trajana) che sorgeva a due
chilometri dal colle dove è situata oggi la città, nella contrada attuale del Santissimo Crocifisso. Analogamente ad altre antiche città romane vicine, ricevette ben presto il cristianesimo e molto probabilmente fu sede vescovile, anche se non ci sono rimasti nomi di vescovi né riferimenti espliciti. Le
invasioni barbariche, specialmente dei Longobardi, ne sconvolsero l’assetto civile e religioso e Treia,
come altre città del Piceno, rimase privata della sede vescovile e il suo territorio, presumibilmente alla
fine del VI secolo, passò sotto la guida spirituale della superstite diocesi di Camerino e vi restò fino al
1816. Più volte nel corso dei tempi i Treiesi richiesero (a Sisto V, a Pio VI) la sede vescovile. Finalmente Pio VII il 1 settembre 1816 restituì a Treia la diocesi immediatamente soggetta alla Sede Apostolica,
sotto l’amministrazione dei vescovi di Camerino. Nel frattempo nel nuovo centro urbano collinare di
Montecchio che si formò nel basso Medioevo, sul luogo dell’antica chiesa di San Giovanni Battista
risalente al XII secolo, nel 1814 era stata ultimato con grande entusiasmo della comunità un nuovo
tempio, consacrato il 29 settembre da San Vincenzo Maria Strambi, vescovo di Macerata e Tolentino,
destinato ad essere cattedrale (attuale concattedrale), che divenne la chiesa principale della città e del
25
territorio, che fu dotata progressivamente di pregiate opere d’arte, tra cui: la tela dell’Annunciazione,
(copia dell’Annunciazione di Guido Reni) a cui fu dedicata la cattedrale. Con il primo amministratore
apostolico furono istituiti il seminario (1837) e la nuova parrocchia di Passo di Treia (1828) dedicata
a Sant’Ubaldo.
Il 4 novembre 1914 Treia subì una nuova organizzazione ecclesiastica: passò sotto l’amministrazione apostolica di San Severino Marche e vi rimase fino al 1966, quando ebbe come amministratori
apostolici i vescovi di Macerata Cassulo (1966-1968); Sabattani, prelato di Loreto e amministratore
apostolico di Macerata (1968-69), Tonini (1969-1975), Cecchi (1975-76); dal 1976 al 1986 la resse
come vescovo ordinario mons. Carboni fino alla “piena unione” del 30 settembre 1986.
I numerosi luoghi di culto disseminati nel territorio testimoniano l’intensa e costante vita religiosa
vissuta dalla comunità nel corso del tempo. Sull’antico tempio pagano sorse la pieve di Santa Maria in
tempi molto remoti, nell’alto medioevo; sull’antico castello dell’ Onglavina (dal nome di una principessa longobarda) fu costruita una chiesa dedicata a San Michele: ricostruita nel 1357 in stile romanico e dopo vari altri restauri si è conservata fino a noi, svolgendo anche la funzione di parrocchia. I
francescani Conventuali, alloggiati tra il 1240 e 1250 presso la chiesetta di Santa Margherita (vicino a
porta Vallesacco), costruirono dentro Montecchio nel Trecento la chiesa di San Francesco, restaurata
nella prima metà del ‘700, arricchita di opere d’arte, lasciata nel 1966. La presenza dei Francescani fu
contrassegnata anche dalla venuta dei Clareni (rigidi osservanti della povertà) nella mistica solitudine
di Valcerasa, dove visse anche il beato Pietro di Treia (morto nel 1304). Oggi dei Francescani restano i
Minori Osservanti chiamati qui nel 1671 come custodi del santuario dedicato al Santissimo Crocifisso, che ai primi del ‘400 aveva sostituito l’antica pieve trasferita nel nuovo centro urbano organizzatosi
sulla vicina collina. L’attuale complesso del SS. Crocifisso è composto dalla chiesa restaurata nel XX
secolo e dal convento dei secoli XVII-XVIII. La congregazione dell’ Oratorio di San Filippo Neri
venne eretta nel 1631 e sul luogo dove esisteva la chiesa di Sant’Antonio Abate (demolita nel 1366) fu
costruito nella seconda metà del ‘700 il tempio di S. Filippo, con attiguo convento per i Filippini.
Fuori del centro urbano sono da ricordare: la pieve di San Lorenzo (attestata dal XIII secolo); Santa
Maria in Selva (cosiddetta per la presenza di boschi): edificata sulle rovine di una chiesetta fatta costruire fin dal 1042 dai signori del castello di Ajano (ora non più esistente), fu aggregata nel 1096
all’Abbazia di Rambona da papa Urbano II, già monaco benedettino. Nel 1151 l’abate di Rambona
donò tutte le proprietà di Santa Maria in Selva all’abbazia di Santa Maria di Chiaravalle di Fiastra,
legandola alle sue vicende per molti secoli e facendone un punto di riferimento importante per lo sviluppo religioso e culturale della zona. Dal 1581 la tenuta di Santa Maria in Selva di molto ampliata,
vide le sue vicende legarsi prima a quelle della Compagnia di Gesù (il cui collegio romano divenne
proprietario dell’Abbazia di Fiastra) e dal 1773 a quelle della nobile famiglia dei Bandini di Camerino,
a cui passarono gli averi dell’Abbazia di Fiastra mediante enfiteusi (affrancata nel 1802). Vicaria curata
nel 1920, la chiesa fu eretta a parrocchia nel 1945 per donazione del principe Carlo Giustiniani Bandini. Nel comune di Appignano (già della diocesi di Osimo e ora facente parte della Vicaria di Treia)
sono da ricordare: la chiesa di San Giovanni Battista, costruita dai Monaci Cistercensi dell’Abbazia
di Chiaravalle di Fiastra nel sec. XIII in stile romanico, trasformata radicalmente nel Settecento; il
convento francescano di Forano, nel cui edificio originario avrebbe soggiornato san Francesco.
Degli Ordini religiosi del passato a Treia ora restano solo i Minori Osservanti e le Monache (di clausura) della Visitazione che subentrarono nell’Ottocento nella chiesa di Santa Chiara e nel Monastero
delle Clarisse; più recente è la presenza delle Suore Serve di Maria di Galeazza presso la chiesa di San
Michele la quale non ha più la funzione di parrocchia; la Congregazione di San Giovanni Battista,
26
Opera culturale-religiosa (a Passo di Treia). L’attuale vicaria di Treia comprende sette parrocchie con
Appignano.14
Questo lungo e vario percorso storico ebbe il suo “punto d’arrivo” il 30 settembre 1986 quando la
Congregazione dei Vescovi emanò il decreto che dice testualmente: “Vi criterii generalis, quo statuitur
ut in unum coalescant circumscriptiones ecclesiasticae usque adhuc pastorali curae unius Episcopi commissae, etiam pro dioecesibus unitis Maceratensi, Tolentina, Ricinetensi, Cingulana et Treiensi Congregatio pro
Episcopis praesenti Decreto plenam earum unionen decernit”. Il suddetto Decreto specifica poi le conseguenze pratiche della “piena unione” delle cinque diocesi: la Diocesi dotata di questa nuova struttura
avrà sede nella città di Macerata, dove l’attuale chiesa cattedrale conserva questo suo proprio titolo
(mentre le altre già cattedrali saranno chiamate concattedrali) e sarà suffraganea della Chiesa metropolitana di Fermo; la denominazione della diocesi sarà “Diocesi di Macerata - Tolentino - Recanati
- Cingoli - Treia”; essa avrà un unico Capitolo cattedrale (quello della cattedrale della sede vescovile,
cioè di Macerata); una sola Curia vescovile, un solo Tribunale ecclesiastico, un solo Seminario, un
solo Collegio di Consultori, un solo Consiglio Presbiterale e Pastorale e uno solo di tutti gli altri organismi diocesani; i santi patroni delle singole diocesi prima autonome saranno venerati come patroni
della nuova diocesi; i sacerdoti e i diaconi finora incardinati nelle singole diocesi saranno considerati
incardinati nella nuova diocesi sorta dall’unione delle cinque precedenti; la nuova circoscrizione ecclesiastica comprenderà i territori, le parrocchie e le istituzioni ecclesiastiche con i loro beni e diritti
appartenenti a ciascuna precedente diocesi.
A tale decreto diede esecuzione il vescovo Francesco Tarcisio Carboni in data 30 gennaio 1987.15
NOTE
1
Gentili, Adversi 1987, pp. 3-4. Sul problema cfr. anche: Lanzoni 1927, pp. 381-399; I Santi delle Marche 1967, pp.13-15;
Tassi 2006, pp. 24-36; Santarelli 2007, pp. 24-56, passim.
2
Lanzoni 1927, pp. 381-399; Bartoccetti 1937-1941; I Santi
delle Marche 1967, pp. 36.38.
3
Gordini 1976, p. 537.
4
Gentili, Adversi 1987, p. 5.
5
Calcagni 1711; Vogel 1859; Bettini 1990; Fini 1990; Castellani 2001, pp. 63-64.
6
IDSCM, Statistica anno 2010.
7
Gentili 1967 ; Gentili, Adversi 1987, pp. 1-106; inoltre Paci
1987, pp. 122-265; Paci 1975, pp. 288 ss; Paci 1978, pp. 33 ss.;
Paci 1987, pp. 42 ss.
8
Santini 1789; A. Pace, Cenni biografici sulla istituzione di tutti i
luoghi pii, conventi, chiese, canonicati e benefici della città e diocesi
di Tolentino compilati da me Alessandro Pace cancelliere di questa
Curia Vescovile, ms. 1853 in ASDT; Cecchi 1975; Semmoloni
2000; Pietrella 2001, pp. 57-62.
9
IDSCM, Statistica anno 2010.
10
IDSCM, Statistica anno 2010.
11
Avicenna 1644; Cingoli dalle origini 1986; Chiesa cattedrale
di Santa Maria Assunta 1994; Pennacchioni 1994, pp. 14-18;
75-78; Spernanzoni 2001, pp. 65-66; Santarelli 2007, pp. 218224.
12
IDSCM, Statistica anno 2010.
13
Turchi 1762; De Mathia 1901; Meriggi 1978; Fabrini 1990,
pp. 107-175; Treia 1998.
14
IDSCM, Statistica anno 2010.
15
ASDM, Pos. Unione delle diocesi. Per una prima visione sommaria della nuova diocesi unificata cfr. Pietrella 2005.
LE CATTEDRALI
Macerata
Pagine precedenti:
Ciro Pavisa, Arrivo di
san Giuliano al fiume Potenza
MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO
31
LA STORIA RELIGIOSA DELLA CATTEDRALE
DI SAN GIULIANO DI MACERATA
Egidio Pietrella
Le prime due cattedrali
Sul lato orientale del colle dove ora sorge
Macerata, fin dall’VIII secolo esisteva la
“pieve di San Giuliano”, sotto la giurisdizione dell’Arcivescovo di Fermo. Ne
è verosimile testimonianza un capitello
arcaico di marmo, rinvenuto nel 1931,
incassato come architrave in una volta
del sotterraneo dell’attuale cattedrale, riconducibile a prima del mille.1 In verità
la prima notizia registrata dell’esistenza della pieve di S. Giuliano sul luogo
suddetto risale al 1022.2 Si può semplicemente supporre che l’edificio sacro,
secondo il periodo storico, fosse di stile
preromanico, a tre navate secondo la forma basilicale, a croce latina, fornito di
campanile.
Costituitosi nel 1138 il libero Comune di Macerata dall’unione del Podium
Sancti Juliani, su cui sorgeva la pieve, e
il castrum Maceratae, posto un po’ più a
nord-ovest, sotto la giurisdizione del vescovo di Camerino, i Maceratesi nel 1188
si arruolarono per la crociata inalberando
il vessillo del santo patrono Giuliano. È
documentato, inoltre, che nel 1223 essi,
distrutto il castello di San Claudio, collocarono la statua del santo sottratta ai
vinti castellani sulla facciata della pieve.
Questa doveva avere una notevole grandezza, dal momento che in essa si riuniva
(come nel 1267 e 1268) il Consiglio generale del Comune composto di 700 cittadini. Nel 1287 la chiesa fu restaurata.
Il 18 novembre del 1320 il papa Giovanni XXII con la bolla Sicut ex debito elevò
Macerata a città, erigendola in contempo
Capitello preromanico della pieve di San Giuliano. Macerata, Museo della Basilica della Misericordia
sede di diocesi, dove si trasferirono il vescovo di Recanati (cui fu tolta la diocesi,
per aver parteggiato per i Ghibellini) Federico di Nicolò Sanguigni e il Capitolo
della cattedrale, costituito da sedici canonici e da due “dignità”, cioè l’arciprete
e l’arcidiacono. Ma nel 1357, restituita
la sede vescovile a Recanati, metà dei
canonici con l’arciprete tornarono nella
primitiva sede, mentre gli altri otto restarono a Macerata con l’arcidiacono.
In conseguenza di questo cambiamento
i vescovi reggenti aeque principaliter Recanati e Macerata furono indicati come
vescovi di Recanati e Macerata, fino alla
riforma del papa marchigiano Sisto V
che nel 1586 separò Recanati (unita a
Loreto, eretta diocesi) da Macerata, unita questa con Tolentino. La cattedrale fu
consacrata nel 1369 in onore di Maria
Santissima Assunta in cielo e del patrono San Giuliano dal vescovo Oliviero da
Verona (1369-1374). Il 6 gennaio 1442,
essendo vescovo Nicolò Delle Aste, avvenne l’inventio brachii Sancti Juliani,
su indicazione del vegliardo Filippo Di
Nicola, uomo autorevole e stimato, che
suggerì di eseguire uno scavo tra le due
colonne antistanti l’altare maggiore. Successivamente, nel 1447, la prima cattedrale, ormai fatiscente, fu abbattuta, per
costruirne una nuova secondo le deliberazioni del Comune risalenti al 1422.3
La seconda cattedrale ebbe la durata di
trecentoventitre anni. Iniziata per volontà dello zelante vescovo Niccolò Dalle
Aste nel 1447, la costruzione, affidata al
capomastro Giacomo Petruzzi, fu portata a termine solo nel 1464, a dieci anni
di distanza dalla morte del vescovo promotore e suo munifico benefattore, che
lasciò i suoi ricchi paramenti alla nuova
chiesa. L’abside, non ancora eseguita, fu
costruita nel 1470 con l’eredità lasciata a
questo scopo dall’arcidiacono maceratese
Venanzo di Antonio. Nel 1478, infine, il
32
Comune – come attesta la lapide ancora esistente – fece edificare a sue spese la
torre campanaria, che è quella attuale, sia
pure privata della cuspide, delle bifore e
di eleganti ornamenti.4
Successivamente la cattedrale nel 1559 fu
dotata dal Capitolo di un organo e, negli
anni 1563-1576, del coro di pregiata fattura ad intarsio, i cui artefici sono ignoti.
Alla fine del secolo XVI il vescovo Galeazzo Morone la restaurò, arricchendola
di splendidi arredi sacri, compreso un
suo pastorale d’argento.
Nel suo interno erano disposte tredici
cappelle, ciascuna di giuspatronato di
nobili famiglie maceratesi. La maggiore,
sul cui altare erano collocati sei preziosi
candelieri d’argento, aveva da una parte
l’organo e dall’altra l’armadio delle reliquie. Le altre cappelle erano dedicate a
San Bernardino, alla Concezione di Maria Santissima (dove si conservavano il
Braccio di San Giuliano e il Sacro Corporale); a San Gerolamo (poi a San Carlo Borromeo); a San Andrea; a San Giovanni Battista (poi dalla metà del secolo
XVIII a San Giuliano); all’Annunziata
(o all’Angelo Custode); a San Claudio;
a San Pietro; a Santa Maria in Valverde;
al Crocifisso; alla Visitazione. La confraternita del Santissimo Sacramento eresse
una cappella in onore della Santissima
Eucaristia.
Il vescovo cardinal Felice Centini (16131641) si interessò molto e con generosità
della cattedrale: ottenne dal papa Paolo
V le stesse indulgenze che si lucravano
nella visita ai sette altari di San Pietro in
Roma, come ricorda una lapide posta in
fondo alla chiesa, a destra dell’ingresso;
restaurò a sue spese la chiesa, la torre e
l’organo. Altri munifici interventi per
migliorare la cattedrale furono compiuti
dal vescovo Papirio Silvestri (1642-1659)
che rinnovò il fonte battesimale e iniziò
la costruzione dell’orologio sulla torre
(portato a termine dal vescovo succes-
Egidio Pietrella
Misericordia, di cui è tuttora custode e
proprietaria.
Lapide della concessione di indulgenze di Paolo V, 1616
sore Francesco Cini di Osimo). Fabrizio
Paolucci (1685-1698) rifece a sue spese
il pavimento della chiesa e recinse il presbiterio con una balaustra di colonnine di
marmo e donò tutti i suoi pregevoli arredi
sacri alla sagrestia.
Da ricordare, infine, che la seconda cattedrale fu sede di due grandi celebrazioni:
la solenne incoronazione dell’Immagine
della Madonna della Misericordia compiuta dal canonico Francesco Bussi del
Capitolo di San Pietro in Vaticano (25
agosto 1721); l’incoronazione della Madonna della Salute (opera del Sassoferrato), venerata nell’antica chiesa di San
Giorgio (11 maggio 1749).
La chiesa inferiore era dedicata alla Santissima Trinità; fu ceduta nel 1574 dal
Capitolo della cattedrale alla confraternita di Santa Maria delle Grazie (che officiava l’omonima chiesetta presso la porta di Santa Maria Maddalena), che qui
mutò il nome in quello della Santissima
Trinità e che prese a officiare la quarta
chiesetta in onore della Madonna della
La cattedrale attuale
La cattedrale quattrocentesca, ormai fatiscente, andava riedificata. Ma la decisione e i preparativi per costruirne una nuova incontrarono difficoltà e lungaggini.
Già il 12 febbraio del 1729 l’Arcidiacono
espose al Capitolo della cattedrale lo stato precario dell’edificio sacro con il pericolo per la popolazione e preoccupazione
dell’intera città. Il vescovo Ignazio Stelluti (1735-1756) dispose perizia e restauri,
ma questi non furono risolutivi. Durante
la sede vacante il Magistrato della città
presentò supplica al papa Benedetto XIV
(1740-1758), che, anche per l’interessamento del cardinale maceratese Mario
Compagnoni Marefoschi, con un suo
chirografo dispose la ricostruzione della
chiesa, ma in un luogo diverso dal precedente e precisamente nella sede dov’era
la collegiata di San Salvatore, presso
Porta Romana, devolvendo a questo
scopo i fondi del Monte di pietà Ulissi.
Ma queste decisioni non soddisfecero il
Consiglio di Credenza che, tra l’altro, riteneva – a torto o a ragione – che questo
impiego del monte di pietà “Ulissi” era
contro il bene dei poveri. Il Consiglio,
pertanto, chiese al nuovo papa Clemente
XIII (1758-1769), ottenendola, la revoca
del chirografo emesso dal predecessore.
Al nuovo papa Clemente XIV (17691774) furono presentate nuove istanze,
soprattutto da parte del Capitolo per
l’iterazione del chirografo di Benedetto
XIV, ad eccezione del cambiamento del
luogo per la nuova costruzione. Dietro i
buoni uffici dei cardinali maceratesi Mario Compagnoni Marefoschi e Simone
Buonaccorsi, il papa accolse la domanda
del Capitolo con rescritto del 13 giugno
1771.5 Il vescovo Carlo Augusto Peruzzini
(1756-1777) con grande solennità pose la
prima pietra della nuova fabbrica il 1° no-
MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO
vembre 1771, facendo coniare per l’occasione una medaglia commemorativa.
I lavori, soprattutto per mancanza di
fondi, che con difficoltà si riuscirono alla
fine a reperire, durarono 19 anni (17711790). Il Capitolo fu costretto ad officiare
successivamente la chiesa della Madonna
della Misericordia, poi di Sant’Agostino
degli eremitani, poi di San Giovanni (lasciata libera dai Gesuiti a causa della loro
soppressione del 1773) dove furono trasferiti provvisoriamente anche il Braccio
di San Giuliano, il miracoloso Corporale
eucaristico e le reliquie più insigni. Architetto della nuova costruzione fu Cosimo Morelli di Imola, uno dei più stimati
dell’epoca, progettista anche delle cattedrali di Imola, Fermo e Fossombrone. La
consacrazione da parte del vescovo Domenico Spinucci avvenne il 24 maggio
1790, seconda festa di Pentecoste. Le
feste durarono cinque giorni.
La nuova cattedrale aveva nove altari che
sono gli stessi di oggi, anche se qualcuno
di essi nel corso del tempo ha mutato dedica e, in parte, forma. L’altare maggiore
di marmo, collocato in alto come su di
una tribuna, cui si accede mediante una
scalinata, dono del vescovo Peruzzini, era
rivolto verso l’abside; ora, in seguito alla
riforma liturgica del Concilio Vaticano
secondo, è stato trasportato a metà, circa, del presbiterio e rivolto verso il popolo. Sotto l’altare si conservava entro una
preziosa urna d’argento la reliquia del
Braccio di San Giuliano, che, trafugata
in tempi recenti, ora è stata reintegrata
ed è custodita in luogo sicuro. Lungo
ciascuna delle pareti del presbiterio sono
collocate due serie di seggi lignei per i
canonici, i “mansionari” e i chierici inservienti. Un maestoso coro ligneo è al
fondo dell’abside.
Nel 1835 in alcuni armadi a muro della
cappella di Sant’Andrea furono collocate
più di ventimila reliquie di santi, raccolte
dal canonico Amico Amici, per cui l’al-
33
Lapide commemorativa del vescovo Domenico Spinucci, 1790
tare porta in alto la scritta Reliquiae Sanctorum. Recentemente la cappella di San
Pietro è stata chiamata della “tomba dei
Vescovi”, perché sotto l’altare, in un vano
sotterraneo, cui si accede dall’esterno,
sono collocate le tombe dei vescovi della
diocesi ricordati in un elenco preceduto
dalla scritta Quos Spiritus Sanctus/posuit
Episcopos/Maceratensem Ecclesiam regere.6
Nella navata di sinistra, a partire dal
transetto si apre ora l’ampia cappella del
Santissimo Sacramento, inaugurata nel
1932 in occasione del Congresso Eucaristico Regionale e affrescata da Ciro
Pavisa. Il 31 dicembre 1993 l’altare della
Concezione fu dedicato dal vescovo Carboni a San Vincenzo Maria Strambi, nella ricorrenza del 250° anniversario della
nascita, con l’installazione di un quadro
del santo (successivamente rimosso) e di
una reliquia.7 In seguito al terremoto del
1997-1998, che rese inagibile la chiesa
di San Filippo Neri, il corpo del santo
vescovo venerato dal 1959 nel suddetto
oratorio filippino custodito in un’urna
preziosa, fu trasferito ai piedi di questo
altare, dove si trova tuttora.
La sagrestia è costituita da due ampi locali, nel primo dei quali, di forma rettangolare, in appositi armadi si conservano
vesti liturgiche e oggetti sacri; segue poi a
destra la sala del Capitolo dei canonici. In
un’altra più ampia sala, di forma ellittica,
è la sagrestia vera e propria con armadi
di noce (sia pure privi della parte superiore) e con un’antica cassa lignea dove
sono custoditi arredi e vesti sacre, anche
preziose. Nella piccola sala adiacente, un
tempo dei mansionari, ora sono sistemate vesti e arredi per il servizio liturgico.
La cripta, costruita su quella della chiesa
precedente, a cui si accede per due ampie
scalinate, si presenta con una caratteristica architettura a colonne binate e tre altari. Il maggiore è dedicato al Santissimo
Crocifisso, la cui immagine fu trasferita
qui il 17 luglio 1811 dalla demolita chiesa dei Cincinelli (nei pressi dell’attuale
stazione ferrovia). L’altare di destra, già
dedicato a Santa Maria Maddalena, fu
ornato di un’immagine della Madonna
Addolorata ed ora della Madonna della
Misericordia. L’altare di sinistra è dedicato alla Madonna di Loreto. Ai lati di esso
34
Egidio Pietrella
nel 1857 furono costruiti gli stalli dei canonici che vi recitavano l’Ufficio divino
nel periodo invernale, fino al 1970, circa,
quando nella chiesa superiore fu installato il sistema di riscaldamento. Nella nicchia a destra si conservava la statua lignea
di San Giuliano a cavallo, ora rifatta ex
novo e sistemata nella seconda cappella
della navata destra della chiesa superiore.
Lungo la navata della chiesa vi sono le
tombe gentilizie delle famiglie Compagnoni, Ciccolini, Aurispa, Amici.8
Tre lapidi poste alla fine della navata
centrale e delle altre due laterali documentano l’avvenuta realizzazione dell’imponente costruzione, ricordando rispettivamente la consacrazione della nuova
chiesa (1790), il papa Clemente XIV,
munifico benefattore della fabbrica, il
vescovo mons. Peruzzini promotore della
costruzione. A distanza di 16 anni il vescovo Strambi la descrive “templum cathedrale novum…satis amplum et elegans”.9
Fonte battesimale
Istituzioni e organismi
Il Capitolo
Il Capitolo della cattedrale fu istituito
con l’elevazione di Macerata al ruolo di
diocesi avvenuta il 18 novembre 1320
e mediante il trasferimento di quello
di Recanati (cui fu soppressa nella stessa data la sede vescovile) unitamente al
vescovo Federico di Nicolò Sanguigni
che divenne vescovo di Macerata. Esso
era composto di sedici canonici, più le
due “dignità” di arcidiacono e di arciprete. Restituita nel 1357 da Innocenzo
VI la diocesi a Recanati, in questa città
tornarono otto canonici con l’arciprete,
mentre gli altri otto con l’arcidiacono restarono nella cattedrale di Macerata. Successivamente, in data imprecisata, a questi ultimi se ne aggiunsero altri quattro
canonici e un quinto con la fondazione
della cappellania di Santa Maria di Loreto istituita nel 1494 da Maringiacomo
Succhianappi. Nel 1546 furono affidate
al Capitolo della Cattedrale dal cardinale
Giovanni Domenico De Cupis, già vescovo di Macerata e allora amministratore dei benefici della diocesi, le chiese di
San Biagio, di Santa Maria in Torresana,
di San Paolo, di San Tommaso e di San
Michele. Inoltre il 20 luglio del 1626 il
vescovo cardinale Centini unì alla mensa
capitolare la chiesa della Madonna della
Consolazione. Il 30 aprile del 1592 fu
eretta in seno al Capitolo, in base alle disposizioni del concilio di Trento, la prebenda teologale.10
Per accrescere il decoro e il servizio delle
sacre funzioni, il 23 febbraio 1601 Bernardino Pellicani eresse quattro benefici minori, detti “ mansionariati” con
annesso obbligo di cantare la messa e
i vespri. A sua volta il 14 giugno dello
stesso anno il Capitolo istituì un quinto
beneficio mansionariale di suo patrona-
to, chiamato “corista”, con funzione di
maestro di cappella. Nel 1662 il Capitolo decise di trasformare due benefici
temporanei in perpetui attribuiti a due
sacerdoti che da tempo ne beneficiavano,
assegnando loro l’ufficio di suddiacono e
di diacono e chiamati “chierici di Coro”.
Precedentemente il 5 aprile 1655 furono
eretti dal nobile Lelio Piissimi quattro
nuovi canonicati (chiamati dal nome del
fondatore “piissimi”), sicché i canonici
raggiunsero il numero di diciotto unità,
cui si aggiunse, con i beni lasciati da Settimio Mareotti, un diciannovesimo il 3
giugno 1737. Infine il vescovo Peruzzini il 7 ottobre 1769 trasferì in cattedrale
quattro benefici di grado maggiore e due
di grado minore fondati nell’arcipretura
di San Giorgio da Saverio Malerbi; ed
inoltre successivamente ad essi si aggiunsero altri tre alla morte dell’ultima erede
dei Malerbi, Teresa Gregoretti. In totale i
benefici “Malerbi “ furono nove.
Dunque, il Capitolo della cattedrale di
Macerata con i successivi ampliamenti
raggiunse il massimo della sua struttura e
composizione, contando diciannove canonici, quattro mansionari, nove “beneficiati” Malerbi e due “chierici di Coro”;
con la dignità dell’arcidiacono, cui si aggiunse in tempo recente (9 giugno 1962)
anche la seconda dignità di “arcipretura” concessa da parte del papa Giovanni
XXIII; con le varie funzioni di canonico
teologo, penitenziere, prefetto del Coro,
Prefetto di Cappella, commissione di
fabbriceria, vicario curato. Tra i privilegi
accordati dalla Santa Sede si ricordano:
l’uso della cappa di ermellino bianco con
coda secondo l’uso dei canonici della basilica vaticana; l’uso del canone e della
bugia nelle messe solenni; dei fiocchi rossi sul cappello; della croce pettorale sulla
cappa di ermellino e di una piccola croce
sulla veste ordinaria; il privilegio del collare violaceo sulla veste ordinaria.
Con le leggi eversive del nuovo regno
MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO
d’Italia, il 15 agosto 1867 i canonici furono ridotti a dodici, i mansionari soppressi, i beneficiati ridotti a sei. Dopo il
Concilio Vaticano II, introdotti nuovi
organismi diocesani che assistono il vescovo nel governo della diocesi, cioè il
Collegio dei Consultori e il Consiglio
presbiterale diocesano, e in seguito alla
unificazione delle cinque diocesi preesistenti (30 settembre 1986) che avevano
ciascuno il proprio Capitolo, sono state
emanate nuove Costituzioni secondo cui
fanno parte dell’unico Capitolo della Cattedrale di Macerata tutti quelli che erano
già canonici nei rispettivi Capitoli cattedrali preesistenti. Pur non essendovi più
l’obbligo della recita quotidiana e corale
dell’Ufficio divino, è prevista la partecipazione dei canonici alle liturgie solenni
presiedute dal vescovo nelle feste dei Santi Patroni delle attuali cinque vicarie, un
tempo sedi di diocesi autonome.11
Legata al servizio liturgico del Capitolo
e alle funzioni solenni del vescovo era la
cappella musicale della cattedrale,12 le cui
origini risalgono all’erezione della diocesi
di Macerata. L’antico archivio del Capitolo conteneva documenti (esclusivamente libri liturgici di canto gregoriano)
ora dispersi, che attestavano l’esistenza
di un corpo corale stabile. Negli anni
1473-1483 il maestro Giovanni “teotonico”, fabbricante di organi, residente a
Macerata, costruì un organo per la cattedrale. Sviluppi maggiori si ebbero negli
anni successivi: nel 1530 fu istituito il
ruolo del “corista”, incaricato di eseguire
il canto; nel 1559 fu costruito un nuovo organo dai maestri Benedetto e Luca
da Borgo San Sepolcro, che il vescovo
Galeazzo Morone fece restaurare nel
1574, desiderando per tale strumento un
“sonator famoso”. Falliti i due tentativi
compiuti dal Capitolo (1576) e dal canonico Gasparrini (1582) di costituire un
corpo di sei beneficiati cantori, il nobile
maceratese Bernardino Pellicani fondò
35
Organo di Gaetano Callido
(1599) quattro “mansioniariati coristi”.
Nel ‘600 continuarono l’organizzazione
e l’esecuzione di “buona musica”, ammirata anche da Cristina di Svezia di passaggio a Macerata nel 1655. Il vescovo
Morone fondò (1607) ufficialmente il
“mansioniarato corista” con compiti di
direzione del coro; i vescovi cardinale
Centini (1625) e Silvestri (1649) fecero restaurare e ampliare l’organo. Nella
metà del secolo l’arte musicale sacra fu
portata ad alti livelli dall’organista Vincenzo De Grandis, che fu titolare di sedi
prestigiose in Italia e all’estero. La buona
tradizione continuò nel ’700. Nel 1790,
ricostruita la terza cattedrale, il Capitolo
decise di costruire anche l’organo e ne affidò l’incarico al celebre organaro Gaetano Callido, che lo sistemò nella cantoria
di destra, dove si trova ora. La caratteristica di tale strumento è che l’autore al
primo organo affiancò l’organo-eco: introdusse anche la “cornetta” e due ancie:
i tromboncini e i violoncelli. La costruzione di questo nuovo organo indusse i
canonici a costituire una vera e propria
cappella musicale di valenti cantanti e di
buoni maestri, che all’inizio fu chiamato a dirigere il maestro Francesco Basili.
Subentrò così una vera cappella musicale
di “laici”, sostituendo il “mansioniariato corista” legato agli ecclesiastici. Nell’
‘800 la cappella musicale del duomo raggiunse il suo apogeo per i valenti maestri
e organisti che la diressero: tra gli altri si
ricordano Basilio Basili, Domenico Concordia, Angelo Triccoli, Giuseppe Antonioli e Oreste Liviabella (1893-1930).
Con quest’ultimo, nel 1930, ebbe termine, per mancanza di fondi, la cappella
musicale del duomo sostituita nel canto
liturgico dalla Schola cantorum del seminario vescovile, alla direzione della quale
dopo il canonico Agostino Natali (1934
- 1955) subentrò il valente maestro e organista Luigi Calistri, il quale, chiusa la
“Schola cantorum” del Seminario, istituì
(1972) e diresse fino al 1985 l’associazione Chorus angelicus di soli voci bianche,
ampliato poi con voci virili, di cui prese la guida per breve periodo il Maestro
don Fernando Morresi e dal 1993 fino
ad oggi il maestro Carlo Paniccià. L’attuale cappella musicale della cattedrale
36
Egidio Pietrella
di voci femminili e maschili, è composta da 25 elementi; svolge in cattedrale
il servizio liturgico domenicale e festivo;
promuove seminari e incontri di musica
sacra, partecipa a concerti ed esecuzioni
di argomento liturgico e religioso.
La parrocchia di San Giuliano
L’antica “pieve di San Giuliano”, chiesa “matrice”, unica ad essere fornita del
battistero, dalla quale dipendevano altre
chiese o cappelle, esercitava la cura animarum. Eretta cattedrale nel 1320, la
chiesa “madre” continuò a svolgere l’assistenza spirituale dei fedeli e quindi ebbe
funzione di parrocchia con tutti i diritti
e i doveri. La cura animarum “abituale”
e “attuale” (cioè esercitata de facto) restò affidata al Capitolo che la “attuava”
mediante due canonici, i quali avevano
anche l’ufficio di sacristi. Nel 1472 il Comune discusse l’unione dei beni dell’antica pieve con quelli del Capitolo e nel
1473 fu redatto un primo inventario degli arredi.13
Nei secoli XIV-XV la cattedrale assorbì
la cura spirituale e materiale di alcune
parrocchie di campagna rimasta disabitata (Santa Maria in Torresana, San Biagio, Santa Maria della Misericordia extra
moenia) e successivamente (nel 1511)
accorpò anche il territorio della parrocchia di San Venanzo sita al centro della
città (presso l’attuale palazzo delle poste). Quindi la popolazione a cui doveva
provvedere la parrocchia della cattedrale
aumentò considerevolmente, comprendendovi praticamente anche tutto il territorio della campagna, mentre in città
esistevano contemporaneamente solo
altre tre parrocchie: Santa Maria della
Porta, San Giorgio, San Salvatore.
Nel 1573 il vescovo Morone apportò una
prima modifica dei confini delle parrocchie, per cui restarono a quella della cattedrale quasi i 3/5 della città. Successivamente, nel 1603, il medesimo vescovo
Corporale eucaristico. Altare del Santissimo Sacramento
eresse la prima parrocchia rurale di Santo
Stefano, presso l’antica chiesa dei Padri
Cappuccini, assegnando ad essa un vasto
territorio fino al fiume Potenza.14 Sempre
il vescovo Morone nel 1607, tenute presenti le necessità spirituali dei fedeli della
cattedrale aumentati di numero, eresse
due “vicarie curate” perpetue con l’obbligo dell’ufficiatura anche della chiesa
di Santa Maria della Consolazione (sita
nell’attuale piazza Mazzini).15
Altri provvedimenti migliorativi ai fini
dell’assistenza spirituale dei fedeli si verificarono nel ‘600 e nel ‘700. Il vescovo
cardinale Centini nel 1622, in adempimento del testamento di Vincenzo Berardi, aggiunse ai due vicari curati un altro
sacerdote, detto il “confessore di campagna”, col compito di recarsi in campagna per le confessioni degli infermi. Nel
1782 fu istituita un’altra cappellania curata, con nomina vescovile. Infine Pio VI
nel 1787 aggiunse alle “vicarie” esistenti
altre due vicarie ausiliarie. La popolazione della cattedrale ammontava a circa
novemila anime.
Un’altra grande modifica sotto l’aspetto
territoriale e quindi anche demografico
fu apportata durante il governo napoleonico sotto l’episcopato del vescovo Alessandro Alessandretti. Furono erette sette
nuove parrocchie16 e i confini delle parrocchie cittadine furono ridotti a quelli
che durarono fino alla seconda metà del
‘900. Così la parrocchia della cattedrale
restò con soli tremila abitanti e continuò
con l’ordinamento dei due “vicari curati”
fino all’8 luglio 1818, quando Pio VII,
su proposta del vescovo Strambi, tolse al
Capitolo della Cattedrale la cura “attuale” della parrocchia per affidarla ad un
canonico con il titolo di “vicario curato”,
di nomina vescovile, coadiuvato da due
cappellani “curati” nominati dal Capitolo, per uno dei quali, in seguito il vescovo
Zangari nel 1854, riservò per sé il diritto
di nomina.17
Giungendo ai tempi recenti, c’è da segnalare che dalla visita pastorale del 6/7
ottobre 1951 compiuta nel secondo
dopoguerra dal vescovo Silvio Cassulo
risulta che la parrocchia della cattedrale
contava ottocentocinquanta famiglie e
tremilacinquecento abitanti; nel 1973
gli abitanti erano scesi a milleottocento;
nel 1985 a millecinquecento; nel 2000
a millecinquanta; nel 2004 gli abitanti
della cattedrale sono mille e venti e dopo
che essa ha accorpato la parrocchia soppressa (15.5.1968) di Santa Maria della
Porta; mentre quella di San Giovanni
intra moenia, solo giuridicamente ancora
esistente, ma pastoralmente dipendente
dalla stessa cattedrale, conta cinquecentocinquanta anime.18 Tutto questo si
spiega con la diminuzione demografica
MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO
del centro storico della città di Macerata,
la cui popolazione ha preferito trasferirsi
nei quartieri nuovi, sorti nella seconda
metà del ‘900 attorno alla città o, addirittura, nei borghi notevolmente aumentati
demograficamente e commercialmente
di Piediripa, Villa Potenza, Sforzacosta.
La confraternita del Santissimo
Sacramento
Questa confraternita fu istituita nella cattedrale il giorno 1 giugno 1494 e il 1 gennaio 1496 furono presentati i suoi Statuti
al Consiglio di Credenza. Probabilmente
fu una delle prime erette nel mondo in
onore della Santissima Eucaristia.19 Essa
ottenne una duplice aggregazione all’Arciconfraternita di Roma, rispettivamente
il 22 maggio 1575 e il 22 marzo 1611.
Ebbe due scopi fondamentali: il culto
eucaristico e la beneficenza. Infatti, dopo
l’estinzione della Confraternita dei Flagellanti (attiva tra il 1370 e la fine del
‘400), prese a dirigere l’ospedale cittadino, mantenendolo a sue spese, amministrandone i beni, fino all’annessione delle
Marche al Regno d’Italia (1860), che ne
indemaniò i beni, passandoli alla Congregazione della Carità e impadronendosi
anche dell’intero archivio. Tra gli altri privilegi, ottenne anche quello di chiedere e
ottenere nel venerdì santo – ex antiqua et
inveterata consuetudine – la liberazione di
più condannati a morte, privilegio che il
papa Paolo V nel 1614 ridusse a favore di
uno solo: questa prerogativa fu mantenuta fino al 1860.
Il governo napoleonico, pur indemaniando i beni di tutte le corporazioni
religiose, risparmiò la confraternita del
Santissimo Sacramento, assegnandone
una parte dei beni all’ospedale e l’altra
alla confraternita, per le spese di culto.
Caduto il governo napoleonico, il papa
Pio VII restituì alla Confraternita l’amministrazione dell’ospedale, disponendo,
però, una amministrazione separata dei
beni, finché l’ospedale con tutti i beni
non passò alla Congregazione della Carità (1860). Circa la sede della confraternita, c’è da precisare che pur essendo
eretta in cattedrale, essa officiò dalle origini fino al 1548 la chiesa di San Paolo;
successivamente quella di Santa Maria
della Porta, presso cui poi costruì un
suo proprio oratorio; in seguito acquistò
la chiesa di San Rocco, nei pressi della
suddetta chiesa, dove rimase fin verso
la fine del ‘700. In quest’ultima chiesa
la confraternita curava la processione
del sabato santo con la statua del Cristo
Risorto che rimaneva esposta fuori della
chiesa per tutta l’ottava di Pasqua. Dopo
il 1860 la confraternita, fino al 1970, circa (quando praticamente si estinse) curò
nella cattedrale l’esposizione solenne del
Santissimo Sacramento durante il carnevale e l’inizio della Settimana Santa.20
Eventi principali
Il miracolo eucaristico
Il 25 aprile dell’anno 1356 un sacerdote, verosimilmente nella chiesa di Santa
Maria in Torresana (demolita alla fine
dell’800) sita a circa un chilometro dalla città, lungo l’attuale ferrovia per Fabriano, mentre celebrava la messa fu
preso dal dubbio sulla presenza reale di
Cristo nelle specie eucaristiche. L’ostia
consacrata cominciò a stillare vivo sangue, che a causa del tremolio delle mani
del celebrante, cadde oltre che nel calice
anche sul sottoposto lino liturgico, erroneamente chiamato poi “corporale”. Alla
notizia dell’accaduto, il vescovo Nicolò
di San Martino ordinò che il prezioso
“corporale” fosse portato in processione
in cattedrale. Di tale fatto non si sono
conservati documenti storici contemporanei, perché i libri delle Riformanze del
Comune di Macerata hanno una grande
lacuna dal 1298 al 1372. Il primo documento della curia vescovile che si riferisce
37
alla sacra reliquia risale al 1647, quando
il 10 agosto il canonico Orazio Longhi,
già gentiluomo del cardinale Centini vescovo di Macerata, donò alla cattedrale
una piccola urna, ornata d’argento e di
cristalli, per riporvi la reliquia. Tuttavia,
fino alla metà del ‘600 dovevano esistere
alcuni documenti in proposito, perché lo
storico Ignazio Compagnoni nel 1650,
nel IV tomo dei suoi manoscritti conservati nella Biblioteca Comunale MozziBorgetti di Macerata, riferendosi al fatto
suddetto e ai successivi provvedimenti,
afferma: “Acta ecclesiae Maceratensis hoc
testantur”. Evidentemente anche questi
documenti sono andati perduti. Tuttavia
dal 1584 (in cui nell’elenco delle reliquie
conservate nella cattedrale, la cassetta
contenente il “corporale” è nominata al
primo posto) fino ai nostri giorni esistono nella curia vescovile documenti
attestanti il culto; così pure interventi
del Comune a favore della sacra reliquia.
Molti vescovi hanno firmato una “testimoniale” della reliquia (Alessandretti
nel 1797; Zangari nel 1861; Galeati nel
1885). Ogni anno, nella prima domenica dopo Pentecoste, il “corporale” veniva
portato solennemente in processione per
le vie della città, come risulta dall’editto
del vescovo Papirio Silvestri del 14 luglio
1649, da cui si evince oltretutto che tale
processione si celebrava da molto tempo con il concorso del clero e di molto
popolo. La processione con il “corporale” ebbe luogo fino al 1807, quando
da Napoleone furono soppresse tutte le
confraternite e proibite tutte le processioni. Successivamente il culto verso il
sacro “corporale” si affievolì e la reliquia
giacque quasi dimenticata in un armadio
della cattedrale fino al 1932, quando l’arcidiacono Piero Scarponi la espose nuovamente alla venerazione dei fedeli e la
collocò sotto l’altare della nuova cappella
del Santissimo Sacramento.
Nel febbraio del 1951, in prossimità del
38
seicentesimo anniversario dell’evento miracoloso, il vescovo Silvio Cassulo, per
dare un fondamento storico-critico alla
tradizione e nuovo impulso alla venerazione del “corporale”, incaricò Andrea
Lazzarini, redattore de “L’Osservatore
Romano”, che aveva già compiuto uno
studio simile sul miracolo di Bolsena, di
esaminare i documenti restanti (la tela
e la forma del “corporale”; la pergamena cucita nel medesimo corporale, nella
quale sono scritte in caratteri gotici le seguenti parole “Heic fuit aspersio sanguinis
D.N.I.C. de calice die XXV mensis aprilis
anno Domini MCCCLVI”) per appurarne
la verità; alla fine egli riconobbe l’autenticità del corporale e dell’iscrizione della
pergamena come risalenti al periodo a cui
la tradizione attribuisce il miracolo.21
Il Congresso Eucaristico Regionale
(6-10 settembre 1933)
Questo solenne raduno di popolo da
tutte le Marche fu tenacemente voluto
e preparato dall’arcidiacono Piero Scarponi, che promosse con impegno anche
la decorazione interna del duomo e il
rifacimento della cappella del Santissimo Sacramento, decorata da Ciro Pavisa
(1932). Vi parteciparono come Legato
Pontificio il cardinale Luigi Capotosti,
tutto l’episcopato marchigiano e gran
numero di sacerdoti e fedeli. Uno dei
prelati al seguito del cardinale legato fu
Giambattista Montini, addetto alla Segreteria di Stato, che poi fu eletto pontefice con il nome di Paolo VI.22
Visite dei Sommi Pontefici
La cattedrale fu visitata da numerosi
pontefici. Ecco l’elenco: Pio II nel luglio
1464. Giulio II dal 3 al 6 settembre 1510
e in seguito il 13 giugno 1511. Clemente VII nel marzo 1533. Paolo II il 24-26
settembre 1539; nell’ottobre 1541 e nel
luglio 1543. Clemente VIII il 20-23 aprile 1598 e il 13-14 dicembre 1598. Pio
Egidio Pietrella
Ritratto del cardinale Mario Compagnoni Marefoschi,
secolo XVIII. Macerata. Pinacoteca Comunale
VI il 2 marzo 1782 e il 9 giugno 1782.
Pio VII il 26 maggio 1800 e il 16 maggio 1814. Gregorio XVI il 9-11 settembre 1841. Pio IX il 13-15 maggio 1857.
Giovanni Paolo II il 19 giugno 1993:
incoraggiò e benedisse i lavori del Sinodo diocesano in svolgimento; ricordò la
figura del grande missionario maceratese
Padre Matteo Ricci; benedisse la prima
pietra del costruendo seminario missionario-diocesano “Redemptoris Mater” del
cammino neocatecumenale con carisma
missionario e destinazione prevalente in
Cina sulle orme di Padre Matteo Ricci.23
Sinodi Diocesani
Furono celebrati in totale venti sinodi
diocesani a cominciare dal primo indetto
dal vescovo Galeazzo Morone il 27 giugno 1583. Nell’attuale cattedrale si tennero i seguenti tre:
- 8-10 agosto 1830 dal vescovo Ansaldo Teloni, originario di Treia, di cui si legge una
lapide encomiastica (soprattutto per la sua
mitezza e carità) sulla parete destra antistante
la cappella del Santissimo Sacramento;
- 21-23 ottobre 1900 indetto, celebrato
dal vescovo Giambattista Ricci;
- 8 settembre1988 - 4 giugno 1995: indetto, celebrato e chiuso (in cattedrale)
dal vescovo Francesco Tarcisio Carboni;
promulgato (in cattedrale) dal vescovo
Luigi Conti l’11 maggio 2000, durante
lo svolgimento del congresso eucaristico
della diocesi unificata (6-14 maggio),
in concomitanza con la celebrazione
dell’anno santo giubilare del 2000, a
chiusura del quale il vescovo programmò
un decennio di nuova evangelizzazione
nel grato ricordo e nel nome del gesuita
maceratese P. Matteo Ricci, missionario
in Cina, in preparazione alla celebrazione
del quattrocentesimo anniversario della
morte che ora, nel 2010, si sta solennizzando con numerose cerimonie religiose,
culturali, artistiche nella cattedrale della
città, in Italia, in Europa e in Cina.24
Santi e Patroni.
San Giuliano ospitaliere è il patrono
di Macerata. A Giuliano, probabilmente martire nel 302 insieme alla moglie
Basilissa in Antiochia (o Antinoe?), fu
dedicata a Macerata l’antica pieve (VIIIIX secolo), dove ora sorge la cattedrale.
Il giorno 6 gennaio del 1442 avvenne il
prodigioso ritrovamento delle reliquie del
santo braccio in cattedrale da parte del
vescovo Nicolò Dalle Aste. La reliquia fu
da allora conservata in una preziosa urna
d’argento. Alla figura originaria del santo
martire si sovrappose, prendendone il sopravvento, quella di San Giuliano “ospitaliere”, nota in Francia dalla fine del secolo XII. Originario del Belgio (o della
Spagna), cacciatore, Giuliano avrebbe
ucciso involontariamente i genitori, per
espiare la quale colpa si sarebbe fatto pellegrino in molti luoghi, giungendo infine
presso le rive del fiume Potenza nei pressi
di Macerata, qui accogliendo e traghettando poveri e pellegrini. La festa con
molta solennità e manifestazioni varie si
MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO
celebra il 31 agosto.25
Maria Santissima Madre di Misericordia è attualmente la patrona della città e
dell’intera diocesi di Macerata – Tolentino – Recanati – Cingoli – Treia. È veneratissima specialmente a Macerata fin dal
1447 quando alla Mater Misericordiae
fu dedicata come voto una ecclesiola costruita una die per implorare la fine di
una terribile peste che mieteva vittime
in città. La primitiva chiesetta agli inizi
del ‘500 fu ampliata e arricchita di una
pregevole tela, di anonimo, con la tipica
icona della Madonna della Misericordia
che allarga il suo manto per proteggere,
insieme ai santi che la circondano, i fedeli che la implorano. Invocata nelle varie
calamità (epidemie, terremoti, tempeste,
siccità, alluvioni, guerre) la Madonna
della Misericordia ebbe una devozione
sempre crescente, soprattutto dal ‘600.
Nell’agosto del 1721, il Capitolo Vaticano incoronò la venerata immagine
con serto aureo. Nel 1946, in preparazione del V° centenario della costruzione del tempietto la Sacra Immagine fu
traslata per le parrocchie della diocesi
con una peregrinatio Mariae che fu la
prima svoltasi in Italia. Il 16 novembre
1952 in riconoscimento della sua plurisecolare devozione mariana, Macerata fu
proclamata ufficialmente Civitas Mariae.
La festa si celebra il 1° settembre; per la
domenica successiva è stato concesso dai
sommi Pontefici il privilegio dell’indulgenza plenaria e si svolge, tra devozione
e folclore popolare, la processione delle
“canestrelle” per offrire doni alla Vergine
secondo l’antichissima tradizione.26
San Vincenzo Maria Strambi è compatrono della diocesi. Egli nacque a Civitavecchia il 1° gennaio 1745; entrò nella Congregazione dei Padri Passionisti
da giovane sacerdote. Con gli scritti e
la predicazione della Passione di Gesù
promosse la vita cristiana tra il popolo.
Eletto vescovo di Macerata e Tolentino
Memoria di san Vincenzo Maria Strambi
(1801) si dedicò intensamente all’attività pastorale, curando la disciplina ecclesiastica, la catechesi, la vita cristiana dei
fedeli, con una particolare predilezione
per i poveri. Fedelissimo al Papa, preferì l’esilio (1808-1814) al giuramento di
fedeltà al regno d’Italia napoleonico. Devotissimo alla Eucaristia e alla Madonna
della Misericordia, salvò Macerata dal
saccheggio del generale Bianchi vincitore
su Giacchino Murat nella battaglia della
Rancia (Tolentino 1815). Nel 1823 Leone XII lo chiamò a Roma nel palazzo del
Quirinale per averlo come suo consigliere personale; ivi morì il 1° gennaio 1824,
offertosi a Dio in sostituzione del Papa
gravemente ammalato. Le sue reliquie
sono venerate nella cattedrale di Macerata. Fu canonizzato l’11 giugno 1950. La
festa si celebra il 25 settembre.27
Personaggi illustri28
Tra gli ecclesiastici illustri Macerata conta nove cardinali: Buonaccorso
Buonaccorsi (1668-1678); Gabriele Filippucci (1706); Prospero Marefoschi
39
(1724-1732); Simone Bonaccorsi (17631776); Mario Compagnoni - Marefoschi
(1770-1780); Guglielmo Pallotta (17771795); Giuseppe Ugolini (1838-1868);
Fernando Cento (1958-1973); Umberto
Mozzoni(1973-1983); ventiquattro vescovi: Beato Pietro Mulucci, vescovo di
Macerata (1323-1347); Fortunato Pellicani vescovo di Sarsina (1451-1474); Pietro Francesco Ferri, vescovo di Barletta e
arcivescovo di Nazareth (1520); Lorenzo
Lenzi vescovo di Fermo (1547-1571); Lelio Pio Rotelli vescovo di Sarsina (15301556); Leandro Rotelli vescovo titolare
di Argolico e di Sarsina in cui successe al
fratello (1556-1581); Cesare Costa arcivescovo di Capua (1572-1602); Cornelio
Firmani vescovo di Osimo (1574-1588);
Pietro Francesco Ferri “junior” vescovo
di Polignano (Puglia) (1576); Giulio
Rossini arcivescovo di Amalfi (15761616); Amico Panici vescovo di Sarsina
(1632-1635) e di Recanati (1535-1661);
Gaspare Buggi vescovo di Atri e Penne
(1657-1661); Claudio Ciccolini vescovo di Forlì (1659-1681); Giulio Troili
vescovo di Foligno (1690-1712); Francesco De Vico vescovo titolare di Eleusa
(1722); Pompeo Compagnoni vescovo
di Osimo e Cingoli (1740-1774); Giulio Cesare Compagnoni vescovo di San
Severino (1752-1759); Pellegrino Consalvi vescovo di Fano (1776-1786); Filippo Mornatti vescovo di Sutri e Nepi
(1754-1785); Giovanni Francesco Compagnoni Marefoschi arcivescovo titolare
di Damiata e nunzio apostolico a Rio de
Janeiro (1816-1820); Ignazio Ranaldi
vescovo di Montalto (1818), arcivescovo di Urbino(1819), Nunzio apostolico
in Sardegna (1825-27); Raniero Sarnari
vescovo di Ripatransone (1900), di Macerata (1902-1916); Vincenzo Migliorelli vescovo di Norcia (1916), poi di San
Severino dove non potè fare ingresso per
l’opposizione del regime politico; Vittorio Cecchi vescovo di Fossombrone
40
(1961), Amministratore delle due diocesi
di Cagli e Pergola (1966), Ausiliare delle
diocesi di Macerata-Tolentino-RecanatiCingoli Treia.
Tra i missionari si ricorda soprattutto
Padre Matteo Ricci (Macerata 1552- Pe-
chino 1610), della Compagnia di Gesù,
grande evangelizzatore della Cina, dove
operò per ventisette anni e dove è sepolto (onore unico per uno straniero) nella
capitale Pechino. Inoltre Padre Cassiano
Beligatti (Macerata 1708-1791), che ve-
stì l’abito dei Francescani Cappuccini
e fu missionario nel Tibet dal 1739 al
1754, ottenendo numerose conversioni
e componendo preziosi scritti sugli usi e
sulla lingua di quel popolo.
NOTE
Cattedrale di Macerata 1932, p. 10; Gentili 1967, p. 97.
Pacini 1966, pp. 6. 47.
3
Cattedrale di Macerata 1932, pp. 11-12; Gentili 1967, pp. 97-99.
4
Il testo della lapide è il seguente: DIVO JULIANO PATRONO POPULUS
MACERAT(ENSIS) AERE PUBLICO NOVAM A FUNDAMENTIS EREXIT CONSTRUXITQUE ANNO SAL(UTIS) 1478, SEDENTE XISTO IV PONT(IFICE)
MAX(IMO)].
5
ASDM, Fabbrica Nuova Cattedrale II; Cattedrale di Macerata 1932, pp. 15-17; Gentili 1967, pp. 104-105.
6
Bartolomeo Zambrosi, Teseo de Cupis, Galeazzo Morone, Felice cardinale Centini,
Papirio Silvestri, Francesco Cini, Ignazio Stelluti, Ansaldo Teloni, Amadio Zangari,
Raniero Sarnari, Romolo Molaroni, Domenico Pasi, Luigi Ferretti, Domenico Argnani, Silvio Cassulo, Francesco Tarcisio Carboni, Vittorio Cecchi; e di due prelati maceratesi: il cardinale Umberto Mozzoni, già nunzio apostolico in Bolivia e in Argentina, e
il canonico Filippo Piccinini, fondatore dell’Opera Mater Misericordiae, tuttora attiva
e diffusa in varie Nazioni (Italia, Giappone, Sud America).
7
APCM, E. Buschi, Cronaca parrocchiale, ms.
8
Bibliografia sulla planimetria della chiesa con integrazioni e aggiornamenti: Gentili
1967, pp.105-114; Macerata. Guida storico-artistica 1978, pp. 60-62; Macerata. Guida
storico-artistica 1997, pp. 62-67; APCM, E. Buschi, Cronaca parrocchiale ms.
9
ASDM, Relationes ad limina, Strambi 1806.
10
ASDM, Bollario 1600-1610, c. 15.
11
ASCCM, Costituzioni; Costituzioni del Capitolo della Cattedrale, approvate dal vescovo Luigi Ferretti, Macerata 1929; Gentili 1967, pp. 118-121; per il nuovo Statuto
approvato dal vescovo L. Conti con Decreto del 6.1.1998, cfr. APCM.
12
Per questo argomento cfr. Paci 1989, pp. 233-343, passim, con elenco dei Coristi,
1
2
Organisti, Maestri di Cappella. Per l’organo di G. Callido cfr. Breccia, Paniccià, Quarchioni 2008.
13
APM, Ref. n. 40, c. 200; BCM, Inventari della Cattedrale, Libro I, c. 175 t, ms.
14
Cattedrale di Macerata 1932, p. 25; Gentili 1967, p. 29.
15
Gentili 1967, p. 122.
16
San Michele, San Giovanni Battista decollato (in Borgo Cairoli), Santa Maria del
Monte (in campagna a nord-est), Santissimo Crocifisso ai Cincinelli (nei pressi dell’attuale stazione ferroviaria), titolo trasferito nel 1835 a Villa Potenza; L’Immacolata (a
Rotacupa, trasferita nel 1802 a Santa Croce); a Corneto (nella campagna a sud); a Morica (nella campagna ad est), successivamente trasferita a Santa Maria delle Vergini.
17
Cattedrale di Macerata 1932, p. 25; Gentili 1967, p. 123.
18
ASDM, Visite Pastorali, Cassulo 1951; Annuario Interdiocesano Macerata 1973; Annuario Diocesano 1985; Annuario diocesano 2000; Annuario Diocesano A.D. 2004.
19
Tacchi Venturi 1930, I, pp. 219-220.
20
ASDM, dove si conserva una ricca documentazione in 6 faldoni; Cattedrale di Macerata 1932, pp. 29-30; Gentili 1967, pp. 298-301; 386-387.
21
Su tutto l’argomento cfr. ASDM, Macerata eucaristica. Documenti relativi al culto del
Sacro Corporale; Gentili 1967, pp. 383-386; Pietrella 2005, pp. 209-212.
22
Cattedrale di Macerata Ricordo 1932, pp. 35-36; Gentili 1967, pp. 388-389.
23
Gentili 1967, pp. 393-395 con integrazioni.
24
Libro del Sinodo 2001; Conti 2001, pp. 329-340; Pietrella 2005, pp. 237-240.
25
Su San Giuliano cfr. Gentili 1967, pp. 34-49.
26
Sub tuum praesidium 2008.
27
Per la vita e l’opera del vescovo Strambi cfr. Stanislao dell’Addolorata 1949; Giorgini
1997.
28
Gentili 1967, pp. 343-349, 354-356, 373-381.
CRONOLOGIA
VIII sec. Esistenza della “pieve di S. Giuliano” sul podium S. Juliani.
1138 Macerata diventa libero Comune.
1320 (20 novembre) Macerata è elevata al ruolo di città e di diocesi; la “pieve di S. Giuliano” è cattedrale.
1447-1464 Costruzione, su iniziativa del vescovo Nicolò Dalle Aste, della seconda cattedrale sul medesimo luogo della prima: con una sola navata; travatura scoperta; stile
“composito” (romanico-rinascimentale”).
1478 Costruzione della torre a spese del Comune; è l’attuale, sebbene priva di cuspide.
1771-1790 Costruzione della terza cattedrale sul medesimo sito: disegno di Cosimo Morelli.
1790 (24 maggio) Consacrazione solenne della nuova chiesa ad opera del vescovo Domenico Spinucci.
1924-1937 Decorazione pittorica di Ciro Pavisa: del catino dell’abside e della volta del presbiterio (1924-1926); della nuova cappella del SS. Sacramento (1932); delle tre storie
di S. Giuliano sulla volta centrale della chiesa e affresco dell’annunciazione nella controfacciata (1936-37); tempere nei pennacchi del catino della cupola di Silvio Galimberti;
ornamenti di Crucianelli.
1933 (6-10 settembre) Congresso eucaristico regionale.
1970 (circa) Modifica- secondo la riforma liturgica del Concilio Vaticano II- del presbiterio: altare rivolto verso il popolo; nuova disposizione della sede del vescovo e del seggio
dei celebranti; installazione dell’ambone per il lettore.
19 giugno 1993 Visita del Papa Giovanni Paolo II e benedizione della prima pietra per l’erigendo seminario “Redemptoris Mater” del Cammino Neocatecumenale.
1992-2008 Restauri molteplici: del tetto (1992-1993); della torre campanaria (1994); dell’abside, del presbiterio e dei finestroni (2000-2001) danneggiati dal terremoto del
1997/98; dell’impianto (parziale) dell’illuminazione; dell’organo di Gaetano Callido (2001-2008).
MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO
L’ESPRESSIONE DEL SACRO ALLA FINE DEL
XVIII SECOLO: LA CATTEDRALE DI SAN
GIULIANO A MACERATA DI COSIMO MORELLI
Stefano D’Amico
Studi sistematici sulla cattedrale di Macerata non sono mai stati pubblicati. Tra
i vari testi che, più o meno diffusamente,
ne trattano, ricordiamo un opuscolo pubblicato nel 1932 in occasione dell’inaugurazione della cappella del Santissimo
Sacramento1 e una Macerata sacra, pubblicata nel 1947 e aggiornata venti anno
dopo,2 che Otello Gentili (1918-1988)
ha tratto dal riordino degli archivi della
Curia vescovile. Notizie sparse, ma ben
documentate, sono contenute nei cinque
volumi della Storia di Macerata, riedita
tra il 1986 e il 1993, soprattutto nei capitoli dedicati all’arte e alla religione di
Libero Paci3 che ha attinto a documenti
d’archivio e a manoscritti che saranno
man mano citati.
La prima cattedrale
La prima notizia certa dell’esistenza di
una pieve dipendente dal vescovo di Fermo e dedicata a San Giuliano risale al
10224 e si trova in un atto di donazione a
favore della chiesa di Santa Maria Assunta di quella città.
Di questo edificio rimane solo un capitello rinvenuto, nel 1931, dall’arcidiacono
Piero Scarponi murato come architrave
nei sotterranei dell’attuale cattedrale. Di
forma trapezoidale, con collarino e smussature angolari, ha incisi, in forma molto
stilizzata, una specie di vaso e una figuretta umana e fu datato “al secolo VIII
e non mai dopo il secolo X”, basandosi
sulla testimonianza del barnabita Luigi
Fabiani che nel XIX secolo, analizzando
la struttura ed i sotterranei della vecchia
Facciata incompiuta con campanile del XV secolo
41
42
Stefano D’Amico
Disegno della facciata Quattrocentesca in BCM ms. 531/VI, XVII secolo
cattedrale, indicava una datazione “anteriore al secolo X”.5
Di questa chiesa abbiamo solo notizie
sparse e a volte contraddittorie. Secondo
lo storico locale Raffaele Foglietti (18461911) la chiesa doveva essere ampia e
dignitosa perché nel 1267 e nel 1268 vi
fu riunito il Consiglio Generale della città che contava circa 700 persone.6 Sulla
facciata vi era una statua di San Claudio
“con panneggiamenti alla gotica” - di cui
si persero le tracce alla fine del Settecento
- forse proveniente dall’omonimo castello presso il Chienti distrutto dai maceratesi nel 1222.7
Lavori di ristrutturazione furono realizzati nel 1287 da Bartolomeo di Bonfiglio
da Forlì, che a Macerata in quel periodo stava costruendo il Palazzo della Ragione - attuale Palazzo del Governo - al
quale forse si deve un portale ad anelli
poi inglobato nella facciata dell’edificio
quattrocentesco.8 Nel 1320 l’antica pieve
fu elevata a cattedrale della nuova dio-
cesi di Macerata e il vescovo Oliviero di
Verona (1369-74) la consacrò nel 1369
a Maria Santissima Assunta in Cielo e a
San Giuliano avviando nuovi lavori di ristrutturazione.9
La seconda cattedrale
Nel frattempo, cadute le Signorie dei
Mulucci e dei Da Varano, Macerata tornava, nel 1415, sotto l’autorità del governo pontificio, e si avviava a diventare un
importante capoluogo della Marca, cen-
MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO
tro del potere amministrativo, giuridico
e culturale. Fu in questo frangente che
il Comune avvertì l’esigenza di una nuova cattedrale, simbolo dei tempi nuovi,
e dopo aver finanziato altri restauri, nel
1422, deliberò la sua ricostruzione.10 I
lavori, tuttavia, non iniziarono, probabilmente a causa della conquista sforzesca
della città e delle ingenti spese sostenute per l’ampliamento delle mura urbane
voluto dallo Sforza. Ristabilita l’autorità
pontificia nella Marca, Macerata poteva
iniziare quell’irresistibile ascesa politicoamministrativa che sarebbe terminata
solo nella seconda metà del XIX secolo
con l’Unità d’Italia.11 Artefice di questa
svolta fu il vescovo di Recanati e Macerata Nicolò delle Aste (1440-1469) che nel
145912 avviò la ricostruzione della cattedrale interessando anche l’episcopio. Un
documento del 1° marzo 1464, con il
quale il vescovo approva gli atti compiuti
dall’amministratore della fabbrica, ci ha
tramandato il nome del capomastro, un
certo Frater Ludovicus Lombardus.13 In
quello stesso anno fu aperta al pubblico, ma i lavori continueranno, almeno
nelle sue parti essenziali, fino al 1470
con la costruzione del coro ad opera degli ebanisti Battista da Monte Vidone e
Giovanni di Stefano da Mont’Elparo14 e
di un portico antistante la facciata. Una
lapide posta sopra al portale del campanile, oggi purtroppo mutila, c’informa15
dell’ultimo atto di questa fase: la costruzione della torre campanaria, iniziata nel
1467 per volere e a spese del Comune,
ornata con tre bifore, archetti pensili e
cuspide, alla quale lavorarono fino al
1478 Antonio Lombardo e un certo Don
Ludovico di Cristoforo, forse lo stesso
Frater Ludovicus Lombardus che lavorò
alla cattedrale.16
Il campanile è da sempre un elemento
fondamentale dell’architettura cristiana.
Le campane sostituirono nella liturgia
occidentale l’uso delle raganelle e delle si-
43
Disegno del Banco de Lettori in BCM ms. 531/VI, XVII secolo
mandre usate dai monaci orientali quale
“strumento musicale che canta la gloria
di Dio e il regno di Cristo”17 e fin dal V
secolo furono costruite torri annesse alle
basiliche per contenerle, diventando nello stesso tempo segnale di convocazione
per l’assemblea del popolo ed elemento
per scandire il tempo – mattino, mezzogiorno e sera – delle comunità cristiane.
Della cattedrale quattrocentesca esistono molte testimonianze iconografiche
desunte dalle incisioni seicentesche di
vedute della città di Macerata, purtroppo non sempre fedeli e a volta contraddittorie.18 Dalle vedute del 1618 e del
1642 è possibile dedurre che la chiesa
avesse tre navate absidate, la copertura a
capanna, il prospetto principale ‘a vento’
con timpano, il fianco laterale scandito
da lesene, il portico e il campanile cuspidato di cui si è detto. La veduta del
1661 presenta invece un profilo trasversale ‘a salienti’ – che non compare nella
veduta del 1663 – e il già noto portico
sul davanti, confermato anche nel disegno successivo dove, invece, sembra sia
presente un transetto leggermente agget-
tante. Poi abbiamo le testimonianze documentarie desunte da relazioni e verbali
di Sacre visite dalle quali Otello Gentili
ha dedotto che la nuova cattedrale fosse
più grande della precedente, avesse una
navata unica19 con travi di legno a vista,
tredici cappelle laterali molto profonde,
una cripta, un prospetto con fregi marmorei e un rosone nel mezzo e il portico
che ricorrerà molto spesso nelle cronache
del XVIII secolo perché pericolante e
sempre bisognoso di restauri.20 Resti di
capitelli e colonne erano ancora visibili
nel 1932 nell’orto del palazzo vescovile
e potrebbero essere quelli attualmente
conservati presso il Museo della Madonna della Misericordia.
Ma la documentazione grafica più preziosa della cattedrale quattrocentesca è
contenuta nel manoscritto di Ignazio e
Pompeo Compagnoni21 conservato nella
Biblioteca di Macerata dove è riportato
lo schizzo del prospetto principale come
si presentava nel XVII secolo. Il disegno,
a differenza delle già ricordate vedute,
presenta una “facciata a coronamento
retto”, una tipologia architettonica di
44
origine romanica molto diffusa in Umbria e in Abruzzo e abbastanza rara nelle
Marche. Fabio Mariano22 ne individua
due ad Ascoli Piceno (la chiesa dei Santi
Vincenzo e Anastasio e la chiesa di San
Pietro in Castello) e una a Visso (la chiesa di San Francesco), alle quali si possono almeno aggiungere la demolita chiesa
parrocchiale di Bolognola e la chiesa di
Santa Maria in Castellana a Ussita, zone
non a caso limitrofe ad Umbria e Abruzzo. Il portico è a tre luci con archi a sesto
acuto su pilastri poligonali che inquadrano altrettanti portali, due dei quali sono
strombati ad anelli concentrici, evidente
risultato di un adattamento della facciata
duecentesca nella chiesa quattrocentesca,
mentre il terzo portale è voltato a tutto
sesto con una semplice cornice e fu rifatto in epoca successiva. Il secondo ordine
della facciata, delimitato da due lesene
d’angolo, si eleva sopra una cornice marcapiano decorata a motivi floreali e presenta nella parte centrale un rosone con
due finestre rettangolari ai lati. Pienamente romanica è infine la decorazione
del cornicione con una serie di archetti
pensili intrecciati su colonnine.
Nel disegno sono ben evidenziati i cinque stemmi collocati nelle lunette dei
portali: a sinistra quello con le insegne
della città, a destra quello con il santo
protettore Giuliano e nella lunetta di
mezzo gli stemmi di Urbano VIII Barberini (1623-1644), di un altro membro
della sua famiglia non identificato e del
vescovo Felice Centini che all’inizio del
XVII secolo fece fare lavori di restauro
nella cattedrale.
Il mecenatismo dell’aristocrazia maceratese (ad opera delle famiglie Pellicani,
Berardi, Compagnoni “delle lune”, Rossini, Giardini, Carboni, Ciccolini, Ferri,
Aurispa, Compagnoni “delle stelle”) arricchirà nel corso dei secoli la cattedrale
con decorazioni e pitture, alcune delle
quali giunte fino a noi, di cui ci danno
Stefano D’Amico
Cosimo Morelli, sezioni trasversali, 1771 ca., in ASDM
conto Otello Gentili, Libero Paci23 e il
saggio di Silvia Blasio nel presente volume. Anche il Comune ebbe sempre cura
della cattedrale e i documenti d’archivio
parlano di restauri effettuati con il con-
tributo pubblico tra il 1536-1558 e di un
intervento nella cappella dei Cacciatori
realizzato nel 1582 dall’architetto Lattanzio Ventura, a quel tempo impegnato
a Loreto nel cantiere della Santa Casa.24
MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO
45
Testimonianza di questa continua azione
di patronato sono anche il coro ad intarsio realizzato nel 1565 dal fiorentino Bastiano Brunori,25 e un non meglio specificato “Banco de Lettori” il cui schizzo si
trova sempre nel manoscritto dei Compagnoni. Intorno al 1620, il già ricordato
cardinale Felice Centini fece restaurare a
sue spese la torre campanaria rimuovendo le bifore trilobate - tracce delle quali sono rimaste nei finestroni laterali - e
aprendo una grande porta rettangolare
alla base ed infine il vescovo Papiro Silvestri (1642-1659)26 fece rinnovare il
fonte battesimale che si trovava sotto la
torre e iniziò la costruzione dell’orologio
terminata nel 1667. A ricordo dei lavori
il Capitolo della cattedrale fece porre sul
prospetto principale lo stemma cardinalizio del Centini – poi rimosso – e una
lapide con iscrizione.27
La cattedrale di Cosimo Morelli
Il Settecento si apri con il rifacimento del
pavimento e della balaustra del presbiterio,28 voluti nel 1707 dal cardinale Fabrizio Paolucci, già vescovo di Macerata,
e con una serie di lavori di restauro che
continueranno fino agli anni Quaranta,
segno che la cattedrale non era in buono
stato di conservazione ed infatti continuarono a distaccarsi stucchi nel coro e
“tavolette dalla travatura” tanto da indurre il Capitolo della cattedrale, nella seduta del 12 febbraio 1729, a “nominare due
deputati per pregare S. E. Mons. Vescovo
di degnarsi di riparare la minacciata ruina della fabbrica”. Le riparazioni, tuttavia, o non furono realizzate o non furono
risolutive, e nel 1736 il capomastro Francesco Vici, impegnato nella ristrutturazione della vicina chiesa della Madonna
della Misericordia, presentò una perizia
per nuovi lavori di restauro con un preventivo di spesa di circa mille scudi.29 Gli
ultimi lavori furono eseguiti su progetto
dell’architetto maceratese Giuseppe Mat-
Salvatore Innocenzi (?), prospetto, 1826 ca, in ASDM
tei, che tra il 1741 e il 1743 ristrutturò la
cappella di San Giuliano.30
I maceratesi, oramai decisi a ricostruire la cattedrale, appena morì il vescovo
Ignazio Stelluti (1735-1756) presentarono una supplica in tal senso a Benedetto
XIV (1740-58), che l’accolse immedia-
tamente nominando vescovo di Macerata il barnabita Carlo Augusto Peruzzini
(1756-77) con il mandato primario di
costruire la nuova cattedrale nella parte opposta della città, in una zona pianeggiante vicino Porta Romana (attuale
piazza Annessione) dove era la Collegiata
46
di San Salvatore,31 e concesse l’utilizzo di
una parte del lascito del canonico Antonio Ulissi, originariamente destinato per
un Monte di Pietà.
La demolizione e ricostruzione degli
antichi edifici di culto, o la loro radicale trasformazione, era una pratica molto diffusa in tutto lo Stato pontificio (a
Roma, tanto per fare un esempio, si stava
ristrutturando la basilica costantiniana di
San Giovanni in Laterano) e in genere
queste decisioni non provocavano grandi
critiche e opposizioni, salvo rare eccezioni, come per esempio a Fermo dove le
proteste dei fedeli riuscirono a salvare la
facciata medievale del duomo, mentre
tutto il resto fu demolito e ricostruito.
A livello teorico sia Clemente XI (17001721) che Benedetto XIV (1740-1758)
si erano già pronunciati sulla necessità
di salvaguardare le antiche fabbriche,32
ma sugli edifici gotici e romanici pesava ancora il drastico giudizio negativo
del Vasari che nell’introduzione a Le
Vite (1550) li aveva definiti “mostruosi
e barbari (…) che hanno ammorbato il
mondo (…) difformi alla bellezza” e in
loro aiuto non poteva neanche la trattatistica contemporanea, tutta tesa al recupero della classicità. Anche i maceratesi,
a dire il vero, si opposero, ma non tanto
alla demolizione della cattedrale, quanto
al suo spostamento e all’utilizzo dell’eredità Ulissi, riuscendo ad ottenere dal
nuovo pontefice Clemente XIII (175869) la revoca dell’autorizzazione. Seguirono nuove perizie e nuove stime dalle
quali emergeva una situazione sempre
più compromessa: “il portico, il tetto, il
sotterraneo si dichiaravano pericolanti
(…) il pavimento ricostruito da appena
50 anni, era impregnato di umidità ed
in più punti rigonfio (…) qualche tomba
minacciava rovina” e sembra che “pochi
anni prima una donna in tempo di sacre
funzioni restò seppellita sotto una parte
di tetto caduto”.33
Stefano D’Amico
Salvatore Innocenzi (?), pianta della piazza 1826 ca., in ASDM
Difficile dire se lo stato di conservazione della cattedrale fosse così “ignobile e
sconveniente”, come dicono i documenti
dell’epoca, certo è che Macerata – come
d’altra parte anche le altre città della
provincia sede di diocesi – nel corso del
secolo aveva cambiato volto: municipio,
nobili e ordini religiosi fin dall’inizio del
secolo avevano rinnovato o riedificato i
loro edifici (il teatro comunale; i palazzi
Buonaccorsi, Compagnoni, Marefoschi,
Torri, Costa, Lauri, Ugolini; le chiese e
i conventi dei filippini, delle clarisse, dei
francescani e dei domenicani) o gli edifici di patronato (come la chiesa della Madonna della Misericordia) avvalendosi di
architetti di spicco come Giovan Battista
Contini o Luigi Vanvitelli. La cattedrale
non poteva fare eccezione e il Capitolo,
tramite i cardinali Mario Marefoschi e
Simone Buonaccorsi, rivolse una nuova
istanza a Clemente XIV (1769-74) che finalmente, il 13 giugno 1771, nominò tre
deputati – un rappresentante del vescovo, uno del Capitolo e uno del Comune
– con il compito di provvedere alla ricostruzione, nello stesso luogo, della cattedrale secondo “il modello o disegno” del
suo architetto di fiducia, l’imolese Cosimo Morelli. Fu approntata una fornace
di mattoni nel terreno del “Sig. cavaliere
Ciccolini”, che lo concesse gratis, e il 1°
novembre 1771 il vescovo Peruzzini poteva procedere alla posa della prima pietra della nuova cattedrale.34 Le pendici
del colle furono rafforzate con poderose
MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO
Cesare Tucci(ani), restauro dell’altare maggiore, fine XIX secolo, in ASDM
fondazioni e la chiesa fu completamente
riedificata in laterizio, un materiale povero ma molto economico che nello Stato
pontificio, attanagliato da una grave crisi economica, aveva sostituito da diversi
anni il più costoso marmo. E proprio un
mattone, con incisa la data 1773, fu murato all’esterno dell’abside, all’altezza della
copertura della cripta ad indicare lo stato
d’avanzamento dei lavori.
Il finanziamento del cantiere fu l’assillo continuo dei committenti e quando,
per esempio, il 28 aprile 1775 il Morelli
presentò una perizia di 7000 scudi romani per il completamento dell’opera, il
Peruzzini gli rispose pregandolo di “informarsi intorno a quella pietra di nuova
invenzione, cioè della qualità, prezzo ed
uso che per la nostra chiesa se ne potrebbe fare, se non con risparmio, almeno
con poca maggiore spesa, ma migliore
veduta”.35 Una nuova perizia sarà predi-
sposta il 6 settembre 1776 dagli architetti Francesco Maria Ciaraffoni di Ancona
e Luigi Paglialunga di Fermo insieme al
capomastro Domenico Spadoni.36
Dalla corrispondenza tra Macerata e
Roma emerge poi la questione dell’ampliamento della piazza davanti alla cattedrale “affinché si potesse vedere la facciata con le due torri”. Cosimo Morelli
ne parlò in una relazione del 1778 affermando che occorrevano “500 scudi per
tagliare parte del Seminario vecchio” (attuale palazzo Strambi) e contenere nella
sua interezza l’imponente facciata.
Ritornò sull’argomento il fratello Luigi,
direttore del cantiere e impresario della fabbrica, che in una nota senza data
indicava, tra le operazioni e le spese da
farsi per terminare la nuova cattedrale, il
taglio di una porzione di seminario affinché si vedesse il prospetto della nuova
facciata con le due torri “secondo il dise-
47
gno del sig. Morelli”.37
Il cardinale Marefoschi, da Roma, continuava a tenere i contatti con il pontefice e
nell’udienza dell’8 aprile 1777 si decise di
accelerare i lavori rinunciando alla cupola (sostituita da un semplice catino fatto
“con la maggior polizia e minore spesa”),
alle decorazioni in stucco (simulate con
la pittura) e agli altari (fatti provvisoriamente in stucco per essere poi completati
in marmo dai privati) per dare precedenza assoluta al completamento della facciata e del campanile. Non si rinunciava
invece alle sacrestie, all’altare patriarcale,
alle cantorie con l’organo, al battistero,
a sei candelabri “con la croce secondo
il disegno di Giulio Romano o secondo
la misura dell’architetto”, alle predelle,
al concessionario, al pulpito e a tutte le
porte, finestre, ramate, tendine e gronde,
stabilendo che “se poi si avranno i quattrini si faranno tutte le altre cose che si
propongono, cioè cupola, stucchi dorati,
altra cappella in confronto di quella del
Santissimo, pavimento di marmo, altari
di marmo e molte altre cose che in avvenire si potranno fare”.38
I lavori invece procedettero molto lentamente e si prolungarono per altri tredici
anni39 con periodiche sospensioni per
mancanza di fondi e qualche dubbio sulla stabilità della fabbrica, subito fugato
dalla perizia di un non meglio identificato architetto romano, e mentre i lavori
erano ancora in corso, la Confraternita
del Sacramento iniziò la tanto auspicata
decorazione affidando, intorno al 1780,
all’architetto Giuseppe Mattei il progetto della cappella omonima.40
Il 14 maggio 1790, visto il collaudo del
11 ottobre 1787 dell’architetto fiorentino Luigi Sgrilli,41 (vedere allegato nella
sezione di Laura Mocchegiani) il vescovo
Domenico Spinucci (1777-1796) poteva
finalmente consacrare la nuova cattedrale
senza la prevista facciata con i due campanili. Rispetto alla precedente, la nuova
48
Stefano D’Amico
cattedrale risultò più lunga di circa quattro-cinque metri sul davanti, inglobando
circa un terzo del vecchio campanile, e
di circa due metri sul retro, con un costo di 50.000 scudi che diventeranno
57.000 nel 1803, quando i lavori, con la
costruzione del pulpito, potranno dirsi
conclusi.42
Una veduta di Macerata, attribuita a
Francesco Foschi e databile al 1780,
presenta una curiosa versione della cattedrale con una cupola a vista su un alto
tamburo cilindrico, come quella della
chiesa di San Giovanni, e un campanile con cupolino. Ammesso che il pittore abbia voluto anticipare l’imminente
nuovo profilo della città, è poco chiaro
perché abbia scelto di mettere una cupola estradossata, che il Morelli sembra non
abbia mai prospettato, e non il secondo
campanile, che invece a quel tempo era
dato per certo.
La questione della facciata
I disegni del progetto di Cosimo Morelli
sono stati tutti dispersi ad eccezione di
una sezione trasversale sulla tribuna e sulla navata che si conserva presso l’Archivio della diocesi di Macerata. Il prospetto
principale “con le due torri” si perse nel
1802 quando il vescovo San Vincenzo
Maria Strambi (1801-1824), volendo
rifare e ampliare il Seminario (attuale palazzo Sarnari), lo mandò a Roma per farlo
giudicare ed eventualmente modificare,
senza che tornasse indietro. La successiva conquista napoleonica dell’Italia e di
Macerata, con l’esilio forzato di papa Pio
VII e del vescovo Strambi (28 settembre
1808), distolsero l’attenzione dal progetto di completamento della facciata fino
al 1826, quando si ripropose la questione
del taglio di una parte del Seminario.
Il nuovo vescovo Ansaldo Teloni (18241846) incaricò l’architetto comunale
Salvatore Innocenzi di fare un nuovo disegno della facciata con le due torri già
L. Belli, sezione cappella del SS. Sacramento, 1878, in ASDM
MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO
previste dal Morelli, conservando però il
vecchio campanile rivestito con un paramento in laterizio per assecondare il volere del Capitolo che chiedeva di contenere
i costi.43 Il progetto fu nuovamente inviato a Roma per l’approvazione di rito,
probabilmente insieme alla planimetria
della piazza nella quale si proponeva di
tagliare cinque metri del Caseggiato del
Seminario vecchio – evidentemente non
volendo demolire il Caseggiato del Seminario nuovo da poco costruito, ma fu
respinto. L’architetto Giuseppe Valadier,
che con Luigi Poletti faceva parte della
commissione, pur concordando nella
scelta di conservare la torre quattrocentesca tornava a parlare dell’arretramento
di tutto il seminario di dodici metri per
dare alla chiesa una piazza “conveniente e comoda” che permettesse di vedere
la seconda torre, simmetrica alla prima,
alla quale evidentemente non intendeva rinunciare.44 Il vescovo, non sapendo
cosa fare, chiese all’architetto Bertolini
della Legazione pontificia di apportare le
modifiche richieste mediando tra le varie proposte, ma la grave crisi economica
di quegli anni impedì di procedere con i
lavori.45
L’ultimo tentativo per dare un prospetto
alla cattedrale si ebbe nel 1857: nel mese
di maggio Pio IX visitò Macerata e il Capitolo colse l’occasione per chiedere di
poter disporre per dodici anni di alcune
rendite vacanti, asserendo che la spesa
per il completamento sarebbe stata di
soli 3.000 scudi, mille in meno di quelli
necessari nel 1777. Il papa concesse i sussidi e i sondaggi eseguiti per vedere se ci
fossero le fondazioni della seconda torre
diedero “l’effetto sperato”. Il Seminario
ora poteva non essere più un problema
essendo stato ricostruito venti anni prima nell’area dell’ex convento degli agostiniani (attuale palazzo della Facoltà di
Scienze politiche),46 proprio davanti alla
facciata della cattedrale, ma anche questo
Giuseppe Rossi, sezione cappella del SS. Sacramento, 1907, in ASDM
49
50
Stefano D’Amico
Navata centrale, particolare arcate
tentativo non andò a buon fine e i fondi
non poterono più essere utilizzati perché,
nel 1861 lo Stato italiano li incamerò.
Negli anni successivi si procedette a piccoli interventi di miglioramento, quali
la sistemazione dell’altare maggiore47 e
il rifacimento del pavimento,48 e iniziò
il progressivo oscuramento dell’interno
– così come stava avvenendo nella vicina
basilica vanvitelliana della Madonna della Misericordia – con la chiusura dei lunettoni del transetto (1868),49 la posa in
opera di vetrate in alabastro ai finestroni
dell’abside e l’oscuramento dei vetri delle
finestre delle navate.
La cappella del Santissimo Sacramento
di Giuseppe Rossi
Il desiderio dei maceratesi di dare una
facciata alla loro cattedrale, malgrado
fosse passato quasi un secolo e mezzo,
era ancora vivo e l’anonimo cronista del
1932, dopo aver ricordato che “nel corso
degli anni, altri architetti presentarono
disegni senza che potessero essere attuati”, ricordava che ultimamente anche “S.
E. l’architetto Bazzani dell’Accademia
d’Italia” aveva presentato un disegno e
auspicava l’intervento del Comune al
quale era “affidato il mantenimento delle
chiese parrocchiali”.50
L’ultimo intervento architettonico, voluto dall’arcidiacono Piero Scarponi,
fu la ristrutturazione della Cappella del
Santissimo Sacramento che ebbe un iter
progettuale lungo e complesso. Il vano a
croce greca con gli angoli smussati e un
semplice “volto” coperto a tetto era quello già impostato dal Mattei nel 1780 e
probabilmente non aveva un grande apparato decorativo. I primi “abbozzi della
pianta e spaccati” risalgono al 11 marzo
1878 e sono firmati da un non meglio
identificato L. Belli51 che mantenne la
pianta aggiungendo due colonne composite ai lati delle smussature, quattro archi
a tutto sesto impostati direttamente sulle
colonne, una trabeazione di raccordo e
la cupola estradossata, leggermente rialzata e conclusa con una breve lanterna
coperta a vetro.52 Il progetto richiamava
il presbiterio vanvitellino della vicina Basilica della Misericordia, o la cappella del
Sacramento di Recanati, ed era molto co-
stoso, motivo per il quale probabilmente
non venne realizzato. Se ne riparlò solo
nel 1907, quando l’architetto fermano,
ma residente a Macerata, Giuseppe Rossi53 ridusse i costi sostituendo le colonne
con più economiche paraste e la cupola
a vista con una cupola intradossata e un
tetto a piramide con lanternino. Tuttavia passeranno altri venti anni prima di
iniziare i lavori e concluderli nel 1932.
Dell’antica cappella, “eccessivamente
bassa, meschina, non rispondente alla
dignità del luogo e del Divino Ministero
che in esso si adora”, si salvarono i due
angeli in stucco, poi dorati e posti ai lati
dell’affresco centrale, e l’altare in legno
ornato con rilievi e le statue dei dodici
apostoli, riadattato e restaurato di cui ci
parla Silvia Blasio nel presente volume.54
Cosimo Morelli (Imola 8 ottobre 1732 26 febbraio 1812) fu un architetto molto
apprezzato dai pontefici Clemente XIV
e Pio VI, entrambi romagnoli come lui,
e da loro ebbe titoli, onori e importanti
incarichi, soprattutto tra la Romagna e le
Marche. Uguale stima non godette invece tra i suoi colleghi romani e l’Accademia di San Luca gli fu sempre ostile forse
per una sua certa spregiudicatezza professionale messa in luce nella monografia
a lui dedicata da Anna Maria Matteucci
e Deanna Lenzi.55
Praticò vari ambiti dell’architettura distinguendosi nella progettazione di teatri a conferma della bontà della scuola
emiliano-romagnola che in tale settore
si affermò in tutta Italia. Il catalogo delle opere del Morelli è molto ampio, ma
non sempre supportato da documenti
d’archivio. Nelle Marche, tra il 1770 e
il 1798, ebbe incarichi prestigiosi progettando le cattedrali di Fossombrone e
di Fermo e i teatri di Osimo, Iesi e Fermo, mentre gli sono attribuite la chiesa
di San Francesco a Pollenza, la chiesa
parrocchiale di Montegrimano, la chiesa degli agostiniani di Fossombrone e un
MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO
51
Navata centrale
disegno per ricavare un teatro all’interno
della chiesa di San Francesco sempre a
Fossombrone. A Macerata progettò, oltre alla cattedrale, il teatro comunale e
la facciata di Palazzo Silvestri (già Banca
d’Italia), diede alcuni disegni, mai rea-
lizzati, per Palazzo Ciccolini e gli sono
attribuiti il dossale per l’altare maggiore
della chiesa di San Giovanni e il progetto
per la chiesa di San Giorgio.56
Dalla Romagna arrivò a Roma, per la
prima volta nel 1759, e qui farà propri
gli orientamenti stilistici della cultura ufficiale classicista che, abolita la fantasia
della recente tradizione barocca, sperimentava ora linguaggi volti al recupero
rigoroso dell’antico che nell’architettura
sacra significa ripresa dei modelli solenni
52
Stefano D’Amico
Volta del presbiterio
e pacati del Cinquecento romano, i più
idonei a trasmettere quella forza rassicurante, quel senso monumentale del grandioso, quella severa maestosità dell’ordine e della simmetria utili a rappresentare
la certezza della fede e dell’autorità della
Chiesa minacciata dall’avanzare incal-
zante delle idee illuministe. I volumi che
si stagliano netti e compatti nel profilo
urbano, con la poderosa ‘torre’ semicilindrica dell’abside, contribuiscono ad
esprimere tali concetti a Macerata come
nella vicina Treia dove, in quegli stessi
anni, si stava elevando la cattedrale su di-
segno di Andrea Vici. Come i grandi architetti del XVI secolo, che seppero “prefigurare una capitale cristiana in grado
di surclassare la Roma imperiale pagana”
attraverso il recupero degli antichi motivi architettonici, cosi il Morelli tentò di
fare nella seconda metà del XVIII secolo
MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO
con le sue architetture sacre, anche se la
storia stava andando in un’altra direzione. Tutto il repertorio classico romano
(colonne su piedistalli, archi a tutto sesto, ordini architettonici, volte a botte e
cupole cassettonate) è piegato ed utilizzato per esprimere il senso della grandezza. Cosimo si attiene alla tradizione anche nell’impostazione planimetrica con
un’immensa navata centrale scandita da
colonne ioniche binate, con piedistallo
e breve trabeazione, che sorreggono tre
ampie arcate a tutto sesto. Un gigantesco ordine architettonico, composto da
due coppie di paraste corinzie giganti e
una profonda trabeazione, inquadra le
tre campate e funge da solida base per
l’altrettanto grandiosa volta a botte a tutto sesto lunettata. Conforme alla tradizione è anche l’innesto della navata con
il transetto sottolineato da una cupola
intradossata classicamente scandita, nel
disegno originario, da cassettoni esagonali e conclusa da uno snello lanternino.
Anche il catino absidale, che si apre dopo
un profondo e ampio presbiterio, degna
sede per la manifestazione del divino,
era previsto con cassettoni quadrati che,
come i primi, non furono mai realizzati
preferendosi, un secolo e mezzo dopo,
una decorazione pittorica.
Lo storico e critico d’arte maceratese Amico Ricci (1794-1862) nel 1834 espresse un giudizio negativo, sia sull’opera
complessiva del Morelli, affermando che
“operò molto, ma in nessuno de’ suoi
lavori toccò la meta, cui dovevasi mirare
per ricondurre nuovamente l’architettura
ai modi abbandonati da più di un secolo.
Al semplice ed al purgato stile non seppe ben uniformarsi, e perciò non superò
d’un passo i contemporanei”, sia sulla cattedrale di Macerata, perché “nei Capitelli
imitò quelli che si vogliono inventati da
Michelangelo, in luogo dei Scamoziani, a
cui sembra doversi la preferenza, perché
i più naturali, i più vaghi, ed i più convenienti. Le cornici appajono soverchiamente ornate, e non corrispondenti al carattere medio, che distingue quest’ordine.
Pel rimanente non può certo lodarsi l’uso
praticatovi delle colonne binate, le quali
in vece di sostenere il solo architrave sono
usate a sostenimento degli archi; lo stesso
53
dicasi di una proporzione troppo angusta
nelle navate, che non corrisponde all’ampiezza della tribuna”.57 Più pacato il giudizio di Carlo Astolfi nel 1907, secondo
il quale “il tempio non è andato esente
da qualche giusta critica, però si addice
ad esso la sobria decorazione dal purgato
stile neoclassico”.58 La rivalutazione architettonica della cattedrale di Macerata
iniziò nel 1926 con Guido Gambetti, che
la riteneva “di belle proporzioni” e un
buon esempio della tendenza del Morelli
“a cercare il grandioso come espressione
del sentimento religioso”,59 e proseguì
nel 1959 con Giuseppe Marchini che vi
ravvisò una “vaga ispirazione algardiana,
ma in una nuova unità spaziale a giorno
per vera luce che fiotta all’interno senza
respiro d’ombre”.60 Anna Maria Matteucci e Deanna Lenzi, pur esprimendo nel
complesso un giudizio positivo, notano
che “purtroppo le posteriori decorazioni
pittoriche compromettono in parte l’effetto di sobria eleganza dell’interno”61 e
su questo inciso potremmo concordare
pienamente.
NOTE
Cattedrale di Macerata 1932.
Gentili 1967.
3
Storia di Macerata 1986-93. Gentili, Adversi 1987. Paci 1987. Paci 1989.
4
Gentili 1967 p. 97 a Pacini 1963 p. 62. Storia della cattedrale 1932 p. 10.
5
Paci 1989 p. 9 rimanda al manoscritto di Luigi Fabiani Memorie della città di
Macerata, “conservato in varie copie nell’Archivio della Curia Vescovile e nella
Biblioteca Comunale di Macerata (ms. n. 847)”, che non è stato possibile reperire. Secondo Storia della cattedrale 1932 p. 10 l’opera del Fabiani sarebbe della
seconda metà del XVIII secolo. Compagnoni 1661 p. 146 si limita a dire che, ai
suoi tempi, la cripta della vecchia chiesa appariva “molto antica”.
6
Foglietti 1885, pp. 242-243.
7
Compagnoni 1661 p. 185. Ragionamento della origine 1780 p. XIII. Gentili
1967 p. 97. Paci 1989 p. 13.
8
Astolfi 1907 p. 43. Paci 1989 p. 10. Nel 1278, dovendosi acquistare delle travi
di legno per il palazzo Comunale, si disse che fossero lunghe e grosse quanto
quelle comprate per la chiesa di San Giuliano.
9
Gentili 1967 p. 98. Paci 1989 p. 12. Secondo Storia della Cattedrale 1932 p.
11 la chiesa fu consacrata dal vescovo di Macerata Beato Pietro Mulucci (13271347) nel 1330.
10
Gentili 1967 p. 99.
1
2
A Macerata risiedevano i cardinali Legati, i Rettori e i Vicari della Marca; vi
erano la Tesoreria, la Curia generale e un importante Studio di legge. Successivamente si avranno la Zecca e il Tribunale della Rota.
12
Paci 1989 p. 18. Gentili 1967 p. 99. Secondo Storia della Cattedrale 1932 p. 12
i lavori iniziarono nel 1447.
13
Paci 1989 p. 18.
14
Ricci 1834 p. 139. Paci 1989 p. 26. Una lapide in pietra all’ingresso del coro
recava la seguente iscrizione: “In Dei nomine amen./ Hoc opus fabricaverent
magister Johannes Stephani/ de Monte Elparo et magister Baptista de Monte
Vidone/ Huius chori fabricae socius de bonis et ereditate/ venerabilis viri Domini Venantii Antonimi de Macerata archidiaconi/ maceratensis per eiusdem fidei
commissarios testamenti sub annis Domini MCCCCLXX de mense aprilis”. Il
coro fu rimosso nel 1563 per essere sostituito da uno nuovo, e andò disperso.
Nel 1871 due tavole con la figura intarsiata di San Giuliano (Pallotta 1885 pp.
60 e ss.) furono rinvenute da Filippo Raffaelli nella bottega del falegname Miche
Capuano che le disse provenienti da palazzo Lazzaroni (Raffaelli 1877 p. 25).
Trasportate nella Biblioteca comunale, scomparvero già prima del 1892. Astolfi
1907 p. 44 rimanda al Vogel.
15
Per il testo vedere il saggio di Egidio Pietrella in questo volume
16
Paci 1989 p. 18.
11
54
Jounel 1984 p. 787.
Fusari-Torresi 2009.
19
Gentili 1967 p. 100. Secondo Storia della Cattedrale 1932 p. 12 “è certo che
era a tre navate, chiuse in fondo da tre absidi”, confermando quindi le vedute del
1618 e del 1642.
20
Storia della Cattedrale 1932 p. 12.
21
BCM, ms. n. 531/VI, t. II, cc. 440-431.
22
Mariano 1995 p. 66.
23
Gentili 1967 pp. 100-103. Paci 1989 pp. 61, 62.
24
Paci 1989 p. 38.
25
Paci 1989 p. 68.
26
Gentili 1967 p. 103.
27
FELIC CENTINO CARA SC/ HVIS ECCL.IA ERO OMNI PASTO/ RALIVM VIRTVT GENERE C(?)/ LATISSIMO RELIGIONIS INDEX/ DILECTIO NISIN HOMINES PIETA/ TIS IN PAVPERES BENEFICENTHAE/ IN
CVNCTOS EXIMIAE/ CAPITVLUM COTESTA EA VOLV/ IT POSIERITATI MEMORIA.
28
Storia della Cattedrale 1932 p. 14. Gentili 1967 p. 103 rimanda ad un manoscritto sulla cattedrale di Antonio Norsini conservato nella Biblioteca comunale
che non è stato possibile consultare. Paci 1989 p. 113. La lapide sepolcrale del
Tesoriere della Marca, il vescovo Angelo Marsicano, fu rimossa dai piedi degli
scalini e collocata in mezzo alla chiesa. Attualmente è murata nei locali dell’archivio diocesano.
29
Paci 1989 p. 86.
30
Paci 1989 p. 92 rimanda a BCM, ms. n. 968.
31
Matteucci, Lenzi 1977 p. 220.
32
Matteucci 2000 pp. 245, 249.
33
Storia della Cattedrale 1932 p. 16.
34
Storia della Cattedrale 1932 p. 17. Matteucci, Lenzi 1977 p. 164. Furono coniate alcune monete in oro e bronzo nelle quali si legge: D.O.M. IN HON B.V.M.
ET S. IVLIAN (recto), PR. LAP. IMPOS./ KAL NOV. AN. D.NI MDCCLXXI
(centro del verso) e CLEMENTE XIV P. M. CARD. AVG. PERUZINIVS EPISC. ET S.P.Q.MACERAT. PRINC. TEMPL. VET. DIRUTO REFECER AERE
COLL. (bordo del verso).
35
Matteucci, Lenzi 1977 p. 220. ASDM, Fabbrica della cattedrale, lettera di Cosimo Morelli del 28 aprile 1775 e lettera di Carlo Augusto Peruzzini del 22 dicembre 1775.
36
ASDM, Fabbrica della cattedrale, perizia del 6 settembre 1776.
37
Matteucci, Lenzi 1977 p. 220. ASDM, Fabbrica della cattedrale, “Nota esatta
di tutte le operazioni e spese da farsi per terminare la nuova cattedrale” di Luigi
Morelli, s. d.
38
Storia della Cattedrale 1932 p. 19. Matteucci, Lenzi 1977 p. 220.
39
La complessità dei lavori emerge chiaramente dal resoconto del viaggio, da
Roma a Macerata, del mosaico rappresentante San Michele Arcangelo posto
sull’altare sud del transetto. Eseguito nel 1628 per la Basilica di San Pietro, il
cardinale Mario Compagnoni Marefoschi riuscì ad averlo per la cattedrale di Macerata e lo spedì a Civitavecchia. Il 17 dicembre 1771 fu imbarcato per Ancona
dove arrivò intorno al 13 gennaio 1772. Il trasporto fino a Macerata fu affidato al
“custode degli attrezzi del Santuario di Loreto” che, con un carro trainato da otto
paia di buoi, partì dal capoluogo alle ore 13,30 del 29 maggio e “dopo parecchie
tappe giunse felicemente a destinazione”. Storia della Cattedrale 1932 p. 21.
40
Paci 1989 p. 93. Giuseppe Mattei il 28 agosto 1790 fu pagato per il disegno del
Bancone di noce del Magistrato realizzato da Pasquale Prosperi, a sua volta pagato
il 30 settembre. Astolfi 1907 p. 65.
41
ASDM, Fabbrica della cattedrale, perizia di Luigi Sgrilli del 11 ottobre 1787
42
Astolfi 1907 p. 65.
17
18
Paci 1989 p. 141. Matteucci, Lenzi 1977 p. 220. ASDM, Fabbrica della cattedrale, Facciata Cattedrale, promemoria, s. d.
44
Matteucci, Lenzi 1977 p. 220. ASDM, Fabbrica della cattedrale, perizia di Giuseppe Valadier del 22 agosto 1826.
45
Storia della Cattedrale 1932 p. 22.
46
Mateucci, Lenzi 1977 p. 220. ASDM, Fabbrica della cattedrale, lettera di Giovanni Teloni del 7 agosto 1857.
47
ASDM, Fabbrica della cattedrale, “Progetto di Ristauro dell’Altare del duomo di Macerata” di Cesare Tucci(ani), s.d. Astolfi 1907 p. 64. Gentili 1967 pp.
108,109. Paci 1989 p. 97. L’altare era stato consacrato il 24 maggio 1790, anno al
quale risale un pagamento di 200 scudi allo scultore maceratese Antonio Piani per
due putti e lo stemma del committente, il vescovo Peruzzini, che l’ornavano. Il
progetto di restauro, su disegno di Cesare Tucci(ani), fu necessario probabilmente
per riparare i danni causati dal terremoto del 1873, ma non fu mai realizzato
perché nel 1907 era ancora rivestito in legno. Il restauro si fece nel 1910 su commissione del vescovo Raniero Sarnari (1902-1916): furono modificate le parti
laterali, probabilmente togliendo i putti del Piani, ora conservati in sacrestia, e si
aggiunse lo stemma del Sarnari.
48
Storia della Cattedrale 1932 p. 22. Realizzato nel 1892 dal cementista Roberto
di Marino di Montalto delle Marche con mattonelle di “cemento Portland di
prima scelta” a tre colori.
49
ACM, Fabbrica della cattedrale, “Perizia di mastro Pasquale Pietrosi” del 26
giugno 1868.
50
Storia della Cattedrale 1932, p. 22. Paci 1989 p. 165. Cesare Bazzani presentò il
progetto, insieme a quelli per le facciate delle chiese di San Paolo e di San Filippo,
alla Mostra provinciale d’arte del 1922.
51
Escluso che possa trattarsi dello scultore torinese Luigi Belli (1844-1919) e
considerato che la Stima approssimativa dei lavori da eseguirsi è datata Macerata
11 Marzo 1878, potrebbe trattarsi di un membro della omonima famiglia di
capomastri-architetti attiva in città dalla fine del XIX secolo, della quale sono
documentati Pietro Belli (notizia nel 1789) e Biagio Belli (notizie tra il 1830 e
il 1854).
52
ACM, Fabbrica della cattedrale, “Abbozzi della pianta e spaccati per la costruzione della cupola e restauro generale della Cappella del SS. Sacramento nel Duomo
di Macerata” di L. Belli del 11 marzo 1878. Nel fascicolo sono contenuti altri
tre disegni (una pianta e due sezioni, di cui una a matita) con una versione più
slanciata della cappella conclusa con una cupola a tutto sesto.
53
Bonci 1932 p. 23. Paci 1989 p. 146.
54
Bonci 1932 p. 23. Le opere murarie furono realizzate dall’impresa di Giuseppe Scodanibbio con l’assistenza del geometra Romeo Cicconi, il coro e le due
porte laterali sono di Umberto Fossi di Prato, la vetrata è opera di Giulio Cesori
Giuliani di Roma, Mario Bedini di Ostra dipinse gli arazzi sulle pareti, la Ditta
Fratelli Tecchi di Fano realizzò il pavimento in marmo, la decorazione pittorica
è di Ciro Pavisa.
55
Mateucci, Lenzi 1977.
56
Paci 1989 p. 91. Gentili 1967 p. 174 per la chiesa di San Giorgio non indica le
fonti. Matteucci, Lenzi 1977 pp. 220, 268.
57
Ricci 1834 p. 390.
58
Astolfi 1907 p. 64.
59
Gambetti 1926 p. 36. Alle pp. 96-97 riporta il giudizio favorevole di Albert
E. Brinckmann espresso in un’opera pubblicata a Berlino nel 1917, e credo mai
tradotta in italiano (Die Baukunst des 17. und 18. Jahrhunderts in den romanischen
Lander).
60
Marchini 1965 p. 424.
61
Mateucci, Lenzi 1977 p. 220.
43
MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO
55
CATTEDRALE DI SAN GIULIANO A MACERATA:
LA PINACOTECA SACRA
Silvia Blasio
Quasi niente rimane a testimonianza
degli arredi dell’antica pieve di San Giuliano, elevata a cattedrale nel 1320, se
non un capitello marmoreo preromanico
con una decorazione incisa che nel 1931
monsignor Pietro Scarponi ritrovò incassato come architrave in una volta dei sotterranei della chiesa attuale.1 Su questa
primitiva chiesa sorse poi, a partire dal
1447 e per iniziativa del vescovo Niccolò
delle Aste, la cosiddetta “seconda cattedrale”, consacrata nel 1464 e interessata
da varie e rinnovate decorazioni tanto
che, all’inizio del Seicento, padre Francesco Orazio Civalli poté definirla “bella,
con molte cappelle stuccate, dorate, e con
quadri e pitture di bella mano”.2 I dipinti
che tra Cinque e Seicento arricchirono
progressivamente questa chiesa quattrocentesca dotata di tredici cappelle, stando alla testimonianza delle Sacre Visite
del 16613 e del 1685, in parte vennero
riadattati agli spazi delle cappelle laterali
della terza cattedrale edificata a partire
dal 1771, in parte furono ricoverati in
sacrestia e in parte andarono dispersi.
Un inventario settecentesco fotografa la
situazione degli arredi immediatamente
prima della demolizione della vecchia
chiesa, registrando anche la provvisoria destinazione di oggetti e dipinti, –
di solito le abitazioni dei detentori dei
giuspatronati o altri edifici di culto4 –,
in attesa di poterli riportare nella nuova
cattedrale. L’importanza storico-artistica
di alcuni dei dipinti presenti in chiesa evidenzia l’aggiornamento culturale
dei committenti maceratesi soprattutto
Giovanni Baglione, Consegna delle chiavi a san Pietro
56
Silvia Blasio
Andrea Boscoli, Martirio di sant’Andrea, disegno.
Ubicazione ignota
Andrea Boscoli, Martirio di san Sebastiano, disegno.
Brema, Kunsthalle
nel primo Seicento, i loro legami con
il mondo artistico romano, l’attenzione
per pittori forestieri attivi in quegli anni
nel territorio della Marca e per gli artisti
marchigiani più in voga. Inoltre preziosi doni come quelli del cardinale Mario
Compagnoni Marefoschi, oppure acquisizioni ottocentesche come il trittico di
Allegretto Nuzi, hanno in qualche modo
compensato quelle perdite spesso inevitabili nell’avvicendarsi delle fasi architettoniche di un edificio religioso, trasformandone il patrimonio di dipinti in una
vera e propria pinacoteca sacra.
Dal formato di alcune delle tele che ornavano la seconda chiesa, o dalle testimonianze antiche che le riguardano si
può dedurre che le cappelle erano molto
profonde e consentivano un allestimento
decorativo basato sulla presenza di tre dipinti, uno sull’altare di formato verticale
e due laterali disposti orizzontalmente,
mentre la profondità esigua delle cappelle della chiesa settecentesca ha comportato il riutilizzo della sola pala d’altare e
l’eliminazione dei laterali. Tale situazio-
Giovanni Baglione, Martirio di san Pietro
Giovanni Baglione, Resurrezione di Tabita
ne si riscontra infatti nella prima cappella della navata destra entrando, dedicata
a san Pietro;5 essa era sotto il giuspatronato della famiglia nobile dei Ferri, che
commissionarono a Giovanni Baglione
tre tele con Storie di san Pietro, la Consegna delle chiavi sull’altare e nelle pareti
laterali la Crocifissione di san Pietro e la
Resurrezione di Tabita. Le due tele laterali a sviluppo marcatamente orizzontale
che non trovarono spazio nella cappella
dopo la ricostruzione settecentesca sono
state collocate nella sacrestia. L’attribuzione dei dipinti a Giovanni Baglione
MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO
risale a un manoscritto di Amico Ricci,6
ma essi figurano nella letteratura sul pittore romano solo a partire dall’articolo
di Roberto Longhi7 che nel 1930 definì un primo catalogo delle sue opere. Il
percorso artistico di Giovanni Baglione
(Roma 1566-1644) attraversa le più diverse esperienze, dall’esordio nel contesto fantastico ed elegante dell’ultimo manierismo romano, alla partecipazione ai
cantieri sistini accanto a Giovanni Guerra e Cesare Nebbia, fino al drammatico
confronto con la pittura di Caravaggio,
di cui fu il seguace più precoce, conclusosi come è noto con il processo del 1603
e la denuncia per diffamazione nei confronti del Merisi. Aspetti del naturalismo
caravaggesco continuarono tuttavia ad
affiorare anche più avanti nella sua carriera, segnata da moltissime commissioni importanti a Roma e dalla nomina a
principe dell’accademia di San Luca, alternandosi a ritorni manieristici e temporanee adesioni alle istanze classiciste.8
La cronologia dei tre dipinti maceratesi
non datati, in mancanza di documentazione, è stata ipoteticamente riferita
all’inizio del secondo decennio del Seicento,9 anche tenuto conto dell’ostacolo
dei vari e disordinati mutamenti di rotta
attuati dal Baglione, del resto riscontrabili anche tra una tela e l’altra del ciclo: la
pala d’altare d’impianto arcaizzante, nella composizione ordinatamente affollata
rispecchia la concezione classicista del
tema che risale addietro fino al Perugino,
presentando una chiara partizione degli
astanti in due gruppi per lasciar visibile,
nello spazio vuoto al centro, un’architettura coperta da cupola con un portico ad
arcate. Assai diversi i due laterali: nella
Resurrezione di Tabita vi è quella “mescolanza un po’ aspra tra le parti di maniera
e quelle ‘dal naturale’”,10 mentre la Crocifissione di san Pietro, audace nell’impaginazione e drammatica nel chiaroscuro,
teatralmente costruita per diagonali, ri-
Andrea Boscoli, Madonna col Bambino e i santi Andrea e Sebastiano
57
58
Silvia Blasio
Vincenzo Martini, San Carlo Borromeo in preghiera
echeggia inevitabilmente, ma in modo
retorico e con opulenta corporeità, il
precedente caravaggesco di Santa Maria
del Popolo insieme alle grandi figure di
proscenio del Martirio di san Matteo.
Sull’altare della seconda cappella del lato
destro, dedicata a Sant’Andrea, vi è la
pala di Andrea Boscoli (Firenze 1564Roma 1608) raffigurante la Madonna col
Bambino e i santi Andrea e Sebastiano,11
commissionatagli insieme ai due laterali
perduti con il Martirio di sant’ Andrea e
il Martirio di san Sebastiano, dal nobile
prelato maceratese monsignor Giulio
Rossini, arcivescovo di Amalfi, cui il 19
luglio 1600 fu concesso il giuspatronato della cappella “ut possit construere,
reedificare et adaptare”.12 Con quest’importante lavoro Andrea Boscoli esordì
con successo a Macerata, dopo aver già
eseguito varie opere per Fabriano,13 conquistando un immediato consenso nella
città testimoniato da Amico Ricci: ” […]
presto mostrò quanto valeva in una tela,
che dipinse pel Duomo nella cappella dei
Rossini, ove figurò in alto la Vergine col
Andrea Sacchi, Miracolo di san Gregorio Magno
Putto atteggiato graziosamente, al basso
un Sant’Andrea, che dimostra la di lui
abilità nel ben disporre, e piegare de’panni, e San Sebastiano nel lato opposto, che
lo dichiara intelligentissimo nel nudo.”14
La pala dovette essere compiuta entro il
22 dicembre 1602 quando, con solenne
processione, nella cappella vennero col-
locate le sacre reliquie donate alla chiesa
dal vescovo Rossini.15 I due dipinti laterali perduti, ricordati in un manoscritto di
Amico Ricci,16 sono menzionati nell’Inventario di quadri redatto subito prima
dell’edificazione della nuova cattedrale
con le misure (“tutte due di palmi sette e
mezzo di lunghezza e di larghezza palmi
MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO
dieci e dita sei in circa”)17 che attestano
il loro sviluppo in orizzontale, documentato anche dalla struttura formale e dalle
dimensioni dei due disegni preparatori.18
I fogli con i due Martiri mostrano composizioni mosse e attraversate da linee
diagonali che dovevano convergere nei
quadri verso la pala d’altare, creando un
effetto teatrale inedito nella pittura del
Boscoli.
L’insieme così ricomposto della cappella
Rossini, che doveva essere anche ornata
di stucchi,19 presentava un assetto molto simile a quello della cappella Ferri di
Giovanni Baglione: due laterali a sviluppo orizzontale e un quadro d’altare di
formato verticale e dalla composizione
arcaizzante. Infatti la Madonna col Bambino e i santi Andrea e Sebastiano, in cui
Boscoli mostra di riattingere alle fonti
venete cinque-seicentesche visibili nelle
Marche per il denso impasto materico e
la sensibilità per il colore, evidenzia una
più tradizionale disposizione piramidale delle figure, per quanto attraversata
da direttrici oblique in armonia coi due
Martiri. Non possono sfuggire nemmeno le analogie compositive tra il disegno
boscoliano con il Martirio di sant’Andrea
e il Martirio di san Pietro di Giovanni Baglione, entrambi impostati su assi diagonali incrociati e introdotti sulla destra da
una manieristica figura di spalle à repoussoir, tanto da far supporre che il pittore
romano abbia visto e assunto come modello il precedente fiorentino già sicuramente presente nel duomo di Macerata.
La cappella successiva è dedicata a San
Carlo Borromeo e San Girolamo, nella
seconda cattedrale già della Societas Venatorum e poi, in seguito ad un lungo periodo di abbandono, della famiglia Compagnoni. La presenza di un altare dedicato
all’arcivescovo di Milano è attestata dal
resoconto della visita pastorale del 1685
condotta dal vescovo Fabrizio Paolucci:
“visitavit altare S. Hieronimi seu Caroli
59
Giovan Battista Calandra dal Cavalier d’Arpino, San Michele Arcangelo, mosaico
in quo mandavit provideri de tela cerata
super petram, reaptari picturam S. Carolis et gradus altaris”.20 Vi era dunque
anche un quadro raffigurante il santo che
prima della demolizione settecentesca fu
portato in casa Compagnoni.21 L’altare
fu dedicato in occasione della visita compiuta nel dicembre del 1576 da Carlo
Borromeo a Macerata22 al tempo del vescovo Galeazzo Morone, suo nipote, che
negli ultimi anni del Cinquecento aveva
intrapreso una capillare azione di riforma
religiosa nella diocesi. Egli fece rinnovare
molti arredi sacri della cattedrale, donandole anche un pastorale d’argento.23 Nella chiesa odierna l’altare è decorato da un
60
dipinto raffigurante San Carlo Borromeo
in preghiera, eseguito nel 1790, anno della consacrazione del nuovo edificio sacro,
dal pittore maceratese Vincenzo Martini.
Procedendo verso il presbiterio, l’ultimo
altare è dedicato a San Michele ove è
collocato un grande mosaico raffigurante San Michele Arcangelo che sconfigge il
demonio eseguito nel 1628 dal miglior
mosaicista di quegli anni, Giovan Battista Calandra, da un cartone di Giuseppe
Cesari, il cavalier d’Arpino (Frosinone
1568 – Roma 1640), il più autorevole
esponente del tardo manierismo romano. Il cartone da tradurre in mosaico fu
ordinato al cavalier d’Arpino da Urbano
VIII, come ricordano le fonti sei-settecentesche da Baglione, a Passeri, a Lione
Pascoli, come primo esperimento per ovviare al problema dell’umidità che aggrediva i dipinti nella basilica di San Pietro,
e che prese avvio con le pale di minori dimensioni. Tale esigenza di ordine pratico
si conciliava tuttavia anche con la volontà
di garantire eternità alle immagini sacre e
alla brillantezza dei loro colori, attraverso
una tecnica che idealmente si ricollegava
all’era dei primi cristiani. L’opera rimase fino al 1758 sull’altare di san Michele
nella cappella di Santa Petronilla, ma fu
poi sostituito da una copia del san Michele di Guido Reni che si trova nella
chiesa di Santa Maria della Concezione
a Roma.24 Si trattò dunque di un avvicendamento dovuto al mutamento del
gusto, che all’epoca privilegiava l’ideale
classico reniano rispetto all’elegante manierismo del Cesari; eppure quest’ultimo
per la sua composizione, si era ispirato
al modello classico per eccellenza, il San
Michele eseguito per Francesco I da Raffaello (Parigi, Louvre).
Il mosaico giunse a Macerata grazie alla
munificenza del cardinal Mario Compagnoni Marefoschi, Segretario di Stato,
che lo ottenne per la cattedrale dallo stesso pontefice Clemente XIV.25 La storia
Silvia Blasio
Allegretto Nuzi, Madonna col Bambino e i santi Antonio Abate e Giuliano
dell’arrivo del mosaico è doviziosamente
documentata: “ Da Roma venne spedito
a Civitavecchia ed in quel porto fu collocato sulla nave denominata l’Unità […]
il 17 Decembre 1771 e diretto al nostro
Vescovo Mons. Peruzzini: era chiuso
in un cassone, con incerata inchiodata
all’intorno e venne assicurato sulla coperta non potendo entrare nel Boccaporto di
essa. L’Em.o cardinale scrisse all’Architetto Marchionna di Ancona incaricandolo
di curare lo scarico del quadro e d’inviarlo a Macerata. Sembra che arrivasse in
Ancona il 13 gennaio 1772. Il canonico
Riccardini di quella città, pregato dal nostro Vescovo, pensò di commettere il trasporto al Signor Triverelli, custode degli
attrezzi del Santuario di Loreto, perché
con un carro fornito di tutto punto lo
portasse a Macerata. Fatti tutti i preparativi il carro partì da Ancona il 29 maggio
alle ore 13,30, trainato da otto paia di
buoi e dopo parecchie tappe giunse felicemente a destinazione”.26 L’impresa, tra
restauro, trasporto, imballaggio, noleggio della nave, sbarco e trasporto a Macerata costò in totale la somma ingente
di più di cinquecentocinquantuno scudi e il mosaico fu collocato sull’altare in
marmo spettante al Monte di Pietà Ulissi
che lo fece costruire a proprie spese, dove
ancora oggi si trova.
Un altro magnifico dono elargito dal
cardinal Mario Compagnoni Marefoschi
alla cattedrale è l’inedito modello per il
dipinto raffigurante il Miracolo di San
Gregorio Magno, opera capitale di Andrea
Sacchi (Nettuno 1599-Roma 1661) per
San Pietro, la cui commissione egli ottenne incredibilmente a vent’anni grazie
alla protezione del cardinal Del Monte.27
Dipingere per la basilica di San Pietro era
MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO
infatti l’incarico più prestigioso cui un
pittore potesse aspirare in Roma, capace
di determinare la fortuna o la sfortuna
di un’intera carriera artistica e la pala “la
quale egli non eseguì allora, ma fu maturata lo spazio di sei anni”,28 ultimata nel
1626, suscitò l’entusiastica ammirazione
di Giovan Pietro Bellori: “Il colore di
questo quadro è il più armonioso temperamento che possa dare il pennello di
chiunque fa professione di gran coloritore con unione molto intelligente tra la
forza e la soavità d’ombreggiamenti e di
lumi”.29 Nel modello maceratese, di qualità elevatissima, vi è già in ogni dettaglio l’audace e unitaria composizione del
dipinto definitivo, la profondità emotiva
di origine baroccesca, il richiamo classico
al prototipo romano del Seneca morente30
nella testa di san Gregorio; ma il raffinato disegno delle stoffe è rapidamente
abbozzato con pennellate fluide e colore neoveneto più corposo, soprattutto
nella dalmatica del personaggio a destra
di spalle. Il quadro trae il suo tema dalla Legenda aurea e mostra san Gregorio
sull’altare mentre tagliando con una lama
il brandeum, un panno di lino che aveva
precedentemente avvolto le reliquie di
alcuni martiri, ne provocò il miracoloso
sanguinamento.
La limpida struttura neoclassica dell’ampio presbiterio scandito da lesene corinzie
è ornata da molti manufatti e dipinti legati alla storia della cattedrale, ma attraverso
la lettura di fonti e documenti in questi
spazi architettonici rivive parzialmente la
memoria di ciò che un tempo era nella
vecchia cappella maggiore, dedicata a San
Giuliano patrono della città e sotto il giuspatronato della famiglia Pellicani. Qui,
per esempio, fu collocato nel 1470 l’antico coro ligneo intarsiato andato disperso,
iniziato nel 1469, che un’iscrizione trascritta da Amico Ricci31 attribuiva ai due
celebri maestri Battista da Montevidone e
Giovanni di Stefano da Montelparo, atti-
61
Lorenzo de Carolis detto il Giuda, Madonna col Bambino in gloria e i santi Giuliano e Antonio da Padova
vi anche a Fermo e Perugia.
Una sequenza di opere che si snoda attraverso i secoli, insieme ad alcune notizie documentarie su quelle perdute,
costruisce nella cattedrale di Macerata
una sorta di storia iconografica di san
Giuliano dalla seconda metà del Trecento fino alla fine del Settecento. All’epoca
più antica appartiene il trittico di Al-
legretto Nuzi del 1369, raffigurante la
Madonna in trono col Bambino, angeli e
quattro santi nello scomparto centrale, e
nei laterali a sinistra sant’Antonio abate e
a destra san Giuliano, l’unico dipinto che
non proviene dal duomo ma dalla chiesa di Sant’Antonio Abate per la quale
fu commissionato da frate Giovanni da
Tolentino.32 Dopo che questa chiesa fu
62
Silvia Blasio
Cristoforo Unterperger, San Giuliano invoca per
Macerata la protezione della Vergine
soppressa il canonico Francesco Compagnoni Floriani fece trasferire il trittico
nella cattedrale.33 Qui san Giuliano che
regge il vessillo con lo stemma di Macerata e la palma del martirio, un attributo
iconografico destinato a scomparire, si
mostra solennemente immobile, araldicamente sigillato entro i contorni netti
che delimitano la preziosa superficie della sua veste, fittamente ornata da motivi
decorativi tratti dal repertorio delle sete
lucchesi. Questo maestro viaggiò infatti
in Toscana alla metà del Trecento e a Firenze si conquistò un posto di prestigio
trasportando poi la cultura figurativa dei
giotteschi nei vari centri delle Marche in
cui fu attivo al suo ritorno. Anche due
specchiature intarsiate del coro ligneo
quattrocentesco recavano l’immagine di
san Giuliano; esse furono ritrovate da
Filippo Raffaelli nella bottega di un falegname, ma finirono poi di nuovo per
disperdersi.34
Francesco Mancini, San Giuliano visitato dall’angelo
MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO
63
Antonio Piani, Arme del vescovo Carlo Augusto
Peruzzini, altare maggiore
San Giuliano compare ancora nella tavola che rappresenta la Vergine col Bambino in gloria e i santi Giuliano e Antonio
da Padova di Lorenzo de Carolis detto il
Giuda, pittore di Matelica attivo a Macerata e Recanati tra il 1492 e il 1553. Un
dipinto con un soggetto corrispondente
era menzionato nel resoconto della Sacra
Visita del 166135 nella cappella dei Santi
Carlo e Gerolamo; essa apparteneva in
origine alla Societas Venatorum, formata
da cittadini di rango per onorare il santo
patrono che la Legenda aurea diceva cacciatore e che secondo l’iconografia tradizionale è talvolta raffigurato anche con i
simboli di tale attività.36 Benché riccamente decorata da stucchi di Lattanzio
Ventura, la cappella, come si è detto, era
stata lasciata in stato di progressivo abbandono, e il giuspatronato passò in seguito ai Compagnoni. La tavola nel 1600
risulta essere in sacrestia37 ma poi fu posta
nella cappella di San Carlo, da dove fu di
nuovo prelevata e portata in Seminario
subito prima della demolizione della vecchia chiesa.38 Precedentemente attribuita
a Vincenzo Pagani, con il quale effettiva-
Antonio Piani, Angelo
Antonio Piani, Acquasantiera
mente presenta delle affinità, quest’opera
in cui si fondono modernità e arcaismo
e di una qualità esecutiva singolarmente
alta per questo maestro, mostra il santo
patrono nella sua veste ufficiale, abbigliato secondo la moda del tempo e invocato
da un gruppo di devoti variopinti che
sciamano in primo piano attraverso un
arco nel parapetto decorato all’antica, a
grottesche gialle su fondo nero.39
Il 13 aprile del 1627 il pittore anconetano Giovan Battista Foschi,40 che due
anni prima aveva eseguito tre opere nella
volta della basilica di San Giovanni, ricevette dal cardinal Felice Centini, vescovo
di Macerata, l’incarico di dipingere a fresco sei Storie di san Giuliano nell’abside,
opere perdute con le demolizioni iniziate
nel 177141 insieme agli stucchi di Giovan
Maria Bacarelli che completavano la decorazione.42
Nel 1738 Francesco Mancini (Sant’Angelo in Vado 1679 - Roma 1758), nella
tela centinata raffigurante San Giuliano
visitato dall’angelo, elaborò per il santo
patrono un’iconografia non comune,
resa pittoricamente con moti leggiadri
e delicati accordi di colori: nella scena
impaginata come una “annunciazione”,
un angelo appare al santo inginocchiato
davanti al proprio letto e accompagnato
dal cervo che durante la caccia gli aveva predetto il tragico errore che avrebbe
compiuto.43 Il quadro ora in sacrestia,
si trovava sull’altare della cappella di
San Giuliano44 e fu commissionato dal
canonico Callisto Frontoni;45 per Mancini giungeva al termine di una lunga
serie di incarichi maceratesi iniziata più
di vent’anni prima al tempo della decorazione della Sala dell’Eneide di Palazzo
Buonaccorsi, attraverso la quale è possibile seguire lo sviluppo coerente dello
stile del pittore vadese, da una stretta
adesione ai modelli bolognesi del maestro Carlo Cignani, fino all’elaborazione
di un linguaggio elegante e soave, venato
di sottile malinconia che ebbe risonanza
64
Silvia Blasio
Filippo Bellini, Ultima Cena
Filippo Bellini, Pietà
europea. La cornice rococò del dipinto
è opera dell’intagliatore romano Rocco
di Stefano, già attivo nel Santuario della
Misericordia, che la realizzò nel 1743.46
San Giuliano è infine ancora nella pala
attualmente sul muro di fondo dell’abside raffigurante, secondo un’invenzione
ancora diversa, San Giuliano che invoca
per Macerata la protezione della Vergine,
commissionato dal marchese Valerio Ciccolini-Silenzi nel 1786 a Cristoforo Unterperger (Cavalese 1732 - Roma 1798).
Unterperger fu artista di rilevanza internazionale inseritosi a Roma nel giro di
personaggi influenti come Mengs e Winckelmann che stavano allora gettando le
basi della cultura neoclassica, e dai quali
fu introdotto nel prestigioso e redditizio
entourage della committenza vaticana.47
Nella pala del duomo, dai colori nitidi e brillanti, la composizione segue un
percorso sinuoso tra la terra e il cielo attraverso le nuvole che esalta il ruolo di
intermediario di san Giuliano: questi indica con una mano la città di Macerata,
e con l’altra i devoti immaginati davanti
al quadro, ma il suo sguardo è diretto
in alto verso la Vergine col Bambino a
implorare la sua protezione. La contrapposizione tra il bene assicurato dalla protezione della Vergine e il male di qualche
oscura minaccia per la città (il terremoto? Il colera?), è efficacemente visualizzata attraverso lo squarcio di cielo azzurro
che si sta aprendo sulla città ingrigita e il
corvo nero appollaiato in primo piano,
sul profilo della collina.
Al centro del presbiterio l’altar maggiore
in marmi policromi era forse opera dei
fratelli Benedetto e Giovanni Rodoloni
di Fossombrone,48 celebri marmorari,
e fu consacrato dal vescovo Domenico
Spinucci il 24 maggio del 1790, anno in
cui allo scultore e argentiere maceratese
Antonio Piani (Macerata 1747-1825)
vennero pagati duecento scudi per due
putti in marmo e due stemmi del vescovo Carlo Augusto Peruzzini, che lo
aveva commissionato, ancora visibili
nel lato verso la navata. L’altare odierno
tuttavia, completamente modificato, è
una semplice struttura a mensa risultato
del restauro intrapreso nel 1910 a molti
anni di distanza dal terremoto del 1873
che lo aveva fortemente danneggiato; in
quell’occasione i putti del Piani che stavano alle due estremità vennero tolti e
portati in sacrestia e furono aggiunti, nel
lato verso l’abside, gli stemmi del vescovo
Raniero Sarnari che ne aveva promosso il
restauro.49 Sono di Antonio Piani anche
le eleganti acquasantiere molto rovinate
e in parte mutile che fiancheggiano l’ingresso della cappella del Santissimo Sacramento e quella di un delicato gusto
rocaille posta nell’andito che dalla sacrestia conduce all’abside.50
Infine sempre nella zona absidale, nella
cantoria di destra, vi è l’organo realizzato nel 1790 da Gaetano Callido, costato settecentocinquanta scudi, cui seguì
l’istituzione di una cappella musicale.51
L’odierna cappella del Sacramento, adorna degli affreschi novecenteschi di Ciro
Pavisa, costituiva il fulcro religioso ma
MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO
Filippo Bellini, Cena in Emmaus
anche l’insieme decorativo più ricco ed
elaborato della vecchia cattedrale. Per
l’esecuzione delle opere la Confraternita del Sacramento si rivolse in un primo
momento al pittore eugubino Felice Damiani, ma il contratto fu poi sottoscritto
nel 1599 da Filippo Bellini di Urbino.52
Affreschi, stucchi, dipinti a olio su tela,
concorrevano ad esaltare visivamente il
Sacramento dell’Eucarestia, secondo un
elaborato programma iconografico dettagliatamente descritto nell’Ordine osservato nel fabbricare et ornare la Cappella del
S.mo Sacramento, nella Chiesa Cattedrale
di Macerata stampato nel 1604.53 Ne è
autore un anonimo accademico catenato, l’”Incolto”; viene il sospetto, vista la
dottrina profusa nella descrizione, che
sotto questo ironico pseudonimo si celi
l‘inventore del complesso soggetto.
Secondo l’accademico Incolto, le storie
dipinte si dividevano in tre fasce: la prima “ch’è quella della volta distinta e partita da dodici Quadri di Pittura lavorati
a calce fresca con somma diligenza, ma
però di grandezza ineguali […] ne’ quali
sono dipinte varie Historie del Vecchio
65
Immacolata, secolo XIX
Testamento […]Nella parte di mezo, ch’è
quella dell’Altare, con gli due lati, destro
e sinistro, vi sono tre quadri assai grandi;
lavorati tutti a olio, quali ci rappresentano il Figurato Christo, con alcune attioni
fatte da lui in Vita, in Morte, e doppo
Morte intorno all’istituzione Sacramentale, mediante il Corpo, e Sangue suo
preciosissimo […]Nella terza e ultima
parte, ch’è quella de’ Basamenti, vicino à
terra, si vedono quattro Historie, dipinte
medemamente a olio, nelle quali è dipinto il descenso dell’Anima di Christo nel
Limbo e l’Apparitioni, che fece doppo
la sua Santissima Resurrezione, finte di
Bronzo, per mostrar più sodezza, servendo per fondamento delle parti superiori,
non però senza misterio”.
Nei tre quadri descritti nella “parte di
mezo” si riconoscono i tre dipinti di
Filippo Bellini ancora conservati nella
cattedrale:54 una tela in verticale rappresentante la Pietà, oggi nella sacrestia, già
collocata su un altare con timpano spezzato con le figure in stucco di due Sibille,
e altre due orizzontali raffiguranti l’Ultima cena a destra e la Cena in Emmaus a
sinistra, entrambe sostenute da “due figure grandi di scoltura”, secondo la consueta sintassi che nel duomo vecchio fu
seguita anche nella cappella Ferri e nella
cappella Rossini. Vi sono differenze stilistiche tra i dipinti, la Pietà è un’austera
pala controriformata che risente della
robusta retorica di Cristoforo Roncalli,
mentre i laterali per il taglio diagonale
in profondità che sfoga su paesaggetti a
monocromo e per l’intenso cromatismo
evidenziano una netta impronta venetotintorettesca. Completavano la decorazione cartelle con iscrizioni a lettere dorate; l’iscrizione SVREXIT AQVILO si
legge in basso a sinistra nella Pietà e l’accademico “Incolto” ne dà la spiegazione
tratta dal Cantico dei Cantici (cap. 4):
“per il Vento Aquilone è intesa la volontà perversa della Sinagoga Hebrea, come
quella, che del continuo […] cospirò
contro la persona di Cristo per farlo
morire”, ma ad esso “tanto nocivo”segue
l’Austro “che sempre spira con dolcezza”,
e infatti la scritta nella cartella sopra il
quadro recitava in risposta PERFLAVIT
AVSTER, IAM FLVUENT AROMATA,
66
Silvia Blasio
Gioacchino Varlè, Angeli
cioè i soavissimi effluvi sacramentali. Nei
sottarchi e nei pilastri erano dipinte otto
figure di angeli con i simboli della Passione. All’esterno della cappella infine, vi erano due nicchie con le figure dipinte di san
Rocco a destra e di sant’Alessio a sinistra con
due cartelle in cui era scritto FILIPPVS
BELLINVS DVM FACIEBAT OBIIT e
PALAZZINVS FIDELIS, INTERMISSA EXPLEBAT, cioè Palazzino Fedeli,
allievo di Filippo Bellini, terminò l’opera
interrotta,55 perché il Bellini infatti morì
prematuramente nel luglio del 1603. Sopra l’arco vi era poi scolpito lo stemma
della Confraternita del Sacramento.
Nel 1685 il vescovo Francesco Cini acquistò a Roma una grande costruzione
in legno di cipresso rappresentante una
copia del progetto di Michelangelo per
la basilica di San Pietro che, ornata nel
coronamento da dodici statuette di Apostoli rubate nel 1979, fu collocata nella
cappella del Santissimo Sacramento della
vecchia cattedrale. Smontato con la demolizione, il grande tabernacolo fu poi
ricomposto nella nuova chiesa inaugurata nel 1790 e affiancato da due bellissimi Angeli in stucco che imita il bronzo
eseguiti nel 1790 da Gioacchino Varlè,56
ancora visibili nella cappella attuale. Il
tabernacolo fu invece in seguito di nuovo
smembrato e solo una porzione di esso
sopravvive nella cattedrale, dove la cupola e parte della facciata sono stati reimpiegati nella prima cappella a sinistra
entrando per realizzare il nuovo fonte
battesimale.57 Il Varlè (Roma 1734-Ancona 1806), allievo a Roma di Camillo
Rusconi, fu uno dei migliori scultori attivi nelle Marche nella seconda metà del
Settecento, trasferitosi ad Ancona pare
su sollecitazione di Luigi Vanvitelli che
lo volle come collaboratore nei suoi progetti per la città. Gli angeli del duomo
evidenziano parecchi dati formali tipici
MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO
67
Pietro Tedeschi, Trinità e santi
del suo stile, dall’elegante modulo delle
figure affusolate, alla dolcezza espressiva,
alle linee nervose che percorrono i panneggi frastagliati e mossi, confrontabili
con opere anconetane precedenti come
gli angeli nelle Glorie nelle chiese di San
Biagio o di san Bartolomeo. I due angeli
poggiano su nuvole argentate e reggono
grappoli d’uva e fasci di spighe, simboli
del mistero eucaristico.
Continuando il percorso della navata
sinistra dall’abside, dopo la cappella del
Santissimo Sacramento si incontrano la
cappella della Concezione, di patronato
Seri-Molini, che ha sull’altare un dipinto
ottocentesco di autore ignoto con l’Immacolata che denota un neoclassicismo
edulcorato e la cappella dei Santi Bernardino da Siena e Francesco di Sales,
titolo già presente nella vecchia chiesa
con il giuspatronato della famiglia Pellicani. In essa vi è una tela rappresentante
la Trinità e i santi Bernardino da Siena e
Francesco di Sales di Pietro Tedeschi (Pe-
Corrado Giaquinto, Santa Margherita da Cortona
saro 1750? – Roma post 1808), allievo di
Giovanni Andrea Lazzarini con il quale
giunse a Macerata nel 1775 per decorare
le sale di palazzo Compagnoni Marefoschi. Dal 1777 si trasferì a Roma, dove
secondo Amico Ricci aprì una scuola di
pittura,58 continuando tuttavia a lavorare
per la regione da cui proveniva e inserendosi nella schiera dei pittori marchigiani
“portatori di una linea di educato classicismo”,59 espressa anche in questo dipinto, che nel secondo Settecento godette
68
Silvia Blasio
Gaspare Gasparini, Madonna e santi
Giovanni Battista Brughi, Annunciazione
nell’Urbe di una certa fortuna. Nel 1887
la Pia Unione del Sacro Cuore fece restaurare la cappella curandone la decorazione
con due statue in stucco di sant’Alfonso e
san Bernardo nelle nicchie laterali e con il
dipinto raffigurante il Sacro Cuore.
La sacrestia, interamente tappezzata di
dipinti come la sala di un’antica quadreria, ospita una pala raffigurante la Madonna in gloria e i santi Giacomo maggiore, Giovanni Battista e Sebastiano che
nella vecchia cattedrale stava sull’altare
della cappella dedicata a san Giovanni
Battista, che infatti appare al centro della
composizione. Questo dipinto, improntato apertamente al manierismo toscoromano, fu eseguito nel 1574 dall’artista
maceratese Gaspare Gasparini, allievo
a Roma di Girolamo Siciolante, per la
nobildonna Guglielmina Giardini, la
cui famiglia deteneva il patronato della
cappella.60 Vi sono inoltre la Santa Margherita da Cortona di Corrado Giaquinto, proveniente dalla chiesa extra moenia
di Santa Croce, dipinto creduto perduto
con l’incendio che distrusse la chiesa e
che ora, nell’edificio ricostruito è sostituito da una derivazione eseguita nel 1804
da Pietro Tedeschi61 e un’Annunciazione
opera firmata del pittore genovese Giovan Battista Brughi, proveniente dalla
cappella dell’Annuziata o dell’Angelo custode62 di proprietà della famiglia Ulissi. Il Brughi, nato a Genova intorno al
1660,63 allievo del Gaulli a Roma, è ricordato così dal Soprani-Ratti: “Giovan
Battista Brughi, detto l’abate Brughi per
cagion dell’abito clericale che portava.
Costui, se non fu un raro pittore, disegnò davvero assai bene, ed ebbe in ciò per
maestro il Gaulli. Questo Brughi diedesi
a lavorar di musaico; e vi acquistò grande stima. Morì il Brughi assai vecchio, e
credo in Roma, circa l’anno 1730, e in S.
Martino ebbe sepoltura”.64
Vi sono poi due quadri, un San Francesco
e una Natività di Maria del cavalier Sforza Compagnoni, accademico catenato
(Macerata 1584-1640) allievo a Bologna
di Guido Reni o di Francesco Albani65
che dipinse alcuni stemmi di questa istituzione maceratese. Della Natività di
Maria non si hanno notizie antiche, ma
il San Francesco sembra essere quello citato a conclusione dell’inventario redatto alla vigilia della smobilitazione degli
arredi del vecchio duomo: “Il quadro di
S. Francesco d’Assisi che stava nella cappellina della saletta lo ha ripreso mons.
Vescovo”.66
NOTE
Cattedrale di Macerata 1932, p. 10. Il capitello è ora conservato nel Museo della
basilica della Misericordia.
2
Giudizio ripreso alla lettera da Ignazio Compagnoni [Note storiche e bibliografiche sulle Marche e su Macerata in particolare], sec. XVIII, in BCM, ms 539, c.
30v; Gentili 1947, p. 81.
3
La segnatura ADM, B, V, 7 e l’esistenza degli atti della visita pastorale del 1661
1
sono segnalati da Gentili 1947, p. 81, ma nella busta Sacre Visite la relazione
risulta stralciata e la visita si ferma a Urbisaglia. Pertanto le informazioni date da
Gentili sulla base di questo documento sono solo in parte verificabili, per mezzo
di altre fonti.
4
ASDM, Fabbrica della cattedrale, b.1: “[1] Nella cappella di S. Carlo un quadro
con S. Giuliano, S. Diego, la Madonna in mezzo, dipinto in tavola, antico della
MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO
ven. sagrestia portato in Seminario; due altri quadri lunghi senza cornici uno vi
è S. Agata, l’altro S. Girolamo senza cornici. Un altro quadro largo con la sagra
Famiglia con cornice marmorata portati in Seminario di palmi sei di lunghezza e
di larghezza 12 circa. Il quadro di S. Carlo di altezza palmi 12 circa e di larghezza
palmi otto circa, carteglorie, candelieri, paliotto, predella, candele di legno, tutto
portato in casa Compagnoni/
[2r.] Nella cappella di S. Andrea due quadri laterali rappresentante in uno di essi il
martirio del medesimo santo, nell’altro il martirio di S. Sebastiano con cornicette
indorate tutte e due di palmi dieci e dita sei in circa. Una Madonna che sta in
sedia che cuzzina [allatta] il bambino con due angeli laterali con ornato indorato
presi dal sig. Giuseppe Mornati ed una credenza quale tiene in deposito Luigi
Rossi. Il quadro grande di S. Andrea di palmi [spazio bianco] di altezza e di larghezza di palmi [spazio bianco] circa con cornice indorata presa dal suddetto sig.
Giuseppe Mornati. E più scalinata, paliotto, candelieri e croce parimente prese
dal sig. Giuseppe Mornati con la ferrata e finestra di pietra avanti l’altare, vetrata,
di più la cassettiera del braccio di S. Vito, il reliquiario d’argento e capelli di Maria
ss.ma ed il braccio di S. Maccario, trasportata a S. Carlo con poliza esistente in
cancelleria vescovile./
[3r.] Nella cappella di S. Giuliano: un quadro di S. Emidio con cornice indorata
di palmi [spazio bianco] e suo ornato di palmi [spazio bianco]. Un altro quadro de
santi Giovanni Battista e Giacomo di lunghezza palmi 12 circa portata in Seminario. Il cancello indorato con lo stemma della città e il cartello che vi è “Hic est
qui multum orat pro populo” portata a S. Pietro del’Ospidale. Il quadro grande di
s. giuliano con cornice intagliata ed indorata trasferito nella chiesa delle rr. Mm.
Cappuccine cioè a S. Vincendo ed anche li due ornati, li è stata consegnata una
lampada di rame inargentato con la custodia di cartone./
[4r.] Nella cappella dell’angelo custode: un quadro con cornice intagliata indorata
con la Vergine di Loreto. Altro quadro con cornice grande indorata e di figura
larga di palmi 12 circa rappresentante la ss.ma Annunziata lunghezza palmi 9
in circa. Una Madonna di legno che tiene il bambino che stava sopra ad una
credenza. Altare di legno con il quadro dell’angelo custode, scalinate, candelieri,
carteglorie, paliotto tutto indorato et predella. Un altro ornamento indorato piccolo da una parte laterale con vetrata e ramata che cuopre una Madonna dipinta
in un muro ed un crocefisso grande tutto portato nel Monte Ulisse. E più S. Elena
e S. Biagio protettore con suo ornato indorato e color perla con vetrata portata in
Seminario. Un paliotto con la Madonna ni mezzo che ricopre il paliotto indorato
portato tutto nel Monte Ulisse./
[5r.] Nella cappella di S. Pietro: il quadro grande di palmi 13 di lunghezza e di
larghezza palmi 9 con cornice indorata, altri due quadri laterali della larghezza
di palmi tredici e di lunghezza di palmi noce circa consimili nel quadro grande
il Signore che consegna le chiavi a S. Pietro, in uno de’ laterali il martirio di S.
Pietro e nell’altro rappresenta quando l’ombra del Santo risanava l’infermi, fatti
prendere dai sig. Ferri. La scalinata dipinta turchina e filettata d’oro buono con li
otto candelieri compagni, carteglorie, paliotto di legno dipinto co la figura di S.
Pietro e predella di legno./
[6r.] Nella cappella del SS.mo Vecchio: due quadri latrali in uno rappresentante
la Cena e nell’altro l’andata del Signore in Emmaus, una Madonna in sedia ed un
angelo in atto di annunziare indorati e due credenze portati dal fattore dell’ospidale, li quadri laterali l’altezza di palmi otto circa, larghezza di palmi 11 circa, una
credenza l’ha consegnata a Don Giuseppe Ganasini che la trasportò nella Madona
della Misericordia. Il quadro dell’altare rappresentante la medesima della Pietà
parimente portato all’ospidale dal fattore Filati quale è di palme [spazio bianco] di
lunghezza e di larghezza palmi [spazio bianco]/
[7r.] Nella cappella de’ Sette Dolori: il quadro grande della Madonna ss.ma con la
corona d’argento indorata portata in Seminario. S. Cosmo protettore de’ signori
barbiericon piedestallo e quadro avanti, lo prese in deposito sig. Giovan Battista
Micheli. S. Claudio protettore de muratori con piedestallo e ornato con vetrata ed
iscrizione. S. Claudio lo ha auto in deposito Francesco Romagnoli muratore con
la credenza, altra credenza latrale quale tiene in deposito Francesco Federici. Due
quadri in uno rappresenta S. Liborio ed in un altro S. Niccolò da Bari consimili
portato in Seminario./
69
[8r.] Nella cappella del Crocifisso Piccolo: u quadro grande col crocifisso, altro
quadro laterale con la Madonna ed altro con S. Giovanni, altro quadro grande
consimile ma non rilevato rappresentante in aria la Madonna, da una parte una
santa Vergine e da un’altra una santa martire, di sotto un santo vescovo s. Bartolomeo e sia o s. Diego o S. Antonio, due stelle grandi laterali in una vi è un santo
martire tirato da quattro cavalli, nell’altra Santa margherita col drago; un cartello
sopra la cornice del crocifisso con l’iscrizzione, altro quadretto sopra la finestra ed
un albereto in cornu epistole significante lo stemma Aurispa portato a S. Antonio
abbate nel mercato, una tela dipinta con nuvoli ed aria di lontananza della luce,
del quadro e del crocifisso./
[9r.] Nell’altare della ss.ma Concezione: un quadro laterale rappresentante S.
Giuseppe col bambino con la croce in mano, ed un pomo ed un angelo da parte
che tiene la sega di palme dieci di lunghezza in circa e cinque di larghezza in circa
con cornice piccola indorata, lampada, candelieri e carteglorie e tutto che si teneva di argenti, paliotti e tutto è stato portato in casa della sig. priora Angelucci,
fiori, bandinella della finestra e vetrata, vasetti candelieri, carteglorie e fiori feriali.
Tutto in casa Angelucci la ferrata di ferro e ramata in sagrestia grande./
[10r.] Nella cappella del santissimo: la ricopertura della custodia cioè quattro cartoni ricoperti di ganzo auti dalla sig. marchesa Anna Ricci ed uno di essi cartoni
quale serviva per celo con una stella, la bandinella di broccato d’oro e gallonato
di merletto buono d’oro con anellett e ferretto , la ricopertura dello sportello di
lama trinato con fettuccia d’oro buono lo sportellino con cornice indorata e vi
è la figura ella Madonna col bambino quale sta nel credenzone della biancheria
in seminario./ Il quadro di S. Francesco d’Assisi che stava nella cappellina della
saletta lo ha ripreso mons. Vescovo./”. L’inventario è citato, ma non trascritto in
Paci 1989, p. 62.
5
Vedi c. 5r dell’inventario settecentesco trascritto a nota 4.
6
BCM, Amico Ricci Petrocchini, Guida per le chiese di Macerata ex. da un ms. del
1780 del Sig. Amici di Macerata in Miscellanea di belle arti ms 275, c.139: “Nella
Cappella dei Sig.ri Ferri = N. S.re che dà le chiavi a S. Pietro - del Baglioni”, ma
Ricci non parla nelle Memorie del 1934 né di questi dipinti, né del loro autore.
7
Longhi 1930, ed. 1968, p. 148, in cui la Resurrezione di Tabita è indicata come
Battesimo di santa Prisca. Nella stessa sede Longhi attribuisce al Baglione anche la
Visitazione della chiesa di Santa Maria delle Vergini già ritenuta di Ludovico Trasi.
8
Spear 1985, pp. 90-93; Papi 1989, II, p. 621.
9
Möller 1991, p. 120, schede nn. 46-48 propende per una datazione intorno al
1615 mentre Smith O’Neil 2002, p. 216, scheda n. 54 la anticipa al 1610, sempre
sulla base di confronti stilistici con altre opere; Brink 2008, pp. 83-85, scheda n.
9, che colloca Macerata in Umbria, pubblica il disegno preparatorio a gessetto
nero con lumeggiature a gessetto bianco, su carta marrocina quadrettata per la figura inginocchiata del San Pietro nella pala d’altare (Düsseldorf, Kunstakademie,
inv. 1934, già inventariato come “Salimbene”).
10
Longhi 1930, ed. 1968, p. 147.
11
Il disegno preparatorio per il dipinto è nella Biblioteca Reale di Torino segnalato da Forlani 1963, p. 164, n. 311 e pubblicato da Brooks 1999, p. 170, fig.35.
12
ASDM, Bullarium 1600-1610, c. 10, in Paci 1989, p. 62, Bastogi 2008, p. 173.
13
Boscoli è documentato a Macerata nel maggio del 1600, quando il Consiglio cittadino deliberava l’allestimento degli archi trionfali effimeri per accogliere
Margherita Aldobrandini, nipote di Clemente VIII, che andava in sposa al duca
di Parma Ranuccio Farnese, al quale egli partecipò eseguendo numerose pitture.
L’apparato era stato voluto fortemente dal cardinale Ottavio Bandini, fiorentino,
governatore di Fermo dal 1586, arcivescovo di Fermo dal 1595 al 1606 e dal
1596 legato pontificio della Marca, che sicuramente protesse il pittore durante i
cinque anni della sua attività nelle Marche (Ricci 1834, II, p. 238; Paci 1989, p.
62; Blasio 2007, pp. 199-200, fig. 19; Bastogi 2008, p. 164). A Fabriano aveva
però incontrato Fabio Cafaggi, orafo e scultore fiorentino cui Boscoli era legato
da stretti vincoli di amicizia, che poté introdurlo nel giro della committenza fabrianese (Blasio 2007, pp. 193-194; Bastogi 2008, p. 164).
14
Ricci 1834, II, p. 238.
15
Forlani 1963, p. 130, n. 15; (BCM, Ignazio e Pompeo Compagnoni, mss riguardanti la città di Macerata, sec. XVIII, t. X, c. 45t).
70
16
BCM, Amico Ricci Petrocchini Guida per le chiese di Macerata ex. da un ms. del
1780 del Sig. Amici di Macerata in Miscellanea di belle arti, ms 275, c.139v: “Nella
cappella di Messer Rossini i SS. Andrea Apostolo e Sebastiano d’Andrea Boscoli. I
due laterali sono del medesimo autore”. Il Sant’Andrea esiste ancora mentre i laterali andarono persi nella ricostruzione del Duomo del 1790”. Ricci nelle Memorie
alla nota 14 a p. 248 afferma che “Prima che si riedificasse il nuovo Duomo eravi
anche dipinta dal Boscoli una intiera, e spaziosa cappella”, ma evidentemente si
parla sempre della cappella Rossini.
17
Portati in casa Mornatti, eredi dei Rossini. Vedi c. 2r dell’inventario trascritto a
nota 4; Paci 1989, p. 62, Bastogi 2008, p. 174, nota 52.
18
Brook 1999, p. 169, figg. 33-34. Del Martirio di sant’Andrea è sconosciuta
l’ubicazione attuale, mentre il Martirio di san Sebastiano è conservato a Brema,
Kunsthalle.
19
Gentili 1947, p. 82.
20
ASDM, Visite pastorali, n. 4.
21
Vedi c.1r dell’inventario trascritto a nota 4.
22
Paci 1971, p. 97.
23
Paci 1971, p. 80.
24
Il Cesari ha trattato più volte questo soggetto: in una piccola tela in collezione
Almagià a Roma e nella pala sull’altar maggiore della chiesa di san Michele Arcangelo ad Arpino, eseguita nel 1620. H. Röttgen 1973, pp. 129-132, schede nn.
49-51; Röttgen 2002, pp. 419-429, schede nn. 179-180, e in particolare p. 451,
scheda n. 26 (sul mosaico di Macerata).
25
Hautecour 1910, pp. 1-12.
26
Cattedrale di Macerata 1932, p. 21; Paci 1989, p. 116.
27
Rimase in San Pietro fino alla metà del Settecento, poi fu sostituito da una
copia in mosaico, mentre l’originale fu requisito da Napoleone e portato a Parigi.
Tornato a Roma fu collocato nella Pinacoteca Vaticana e poi nella Sala Capitolare
attigua alla sacrestia, Sutherland Harris 1977, p. 52, scheda n. 9.
28
Bellori 1672, ed. 1976, p. 541.
29
Bellori 1672, ed. 1976, p. 542; Sutherland Harris 1977, pp. 3-4, 52, scheda n.
9; Barbiellini Amidei 2000, p. 35.
30
Derivazione individuata da Barbiellini Amidei 2000, p. 35 per la figura del san
Gregorio nel quadro definitivo. L’originale della statua romana fu restaurato nello
studio del cardinal Del Monte dallo scultore Nicolas Cordier.
31
Ricci 1834, I, p. 139, nota 27: “In Dei nomine Amen hoc opus fabricaverunt
Magister Joannes Stephani de Monte Elparo, et Magister Baptista de Monte Guidon huius chori fabricae sotius de bonis, et hereditate venerabilis viri domini
Venantii Antonii de Macerata Archidiaconi maceratensis per ejusdem fidei commissarius testamenti sub annis domini MCCCCLXX. De mense aprilis”; Paci
1989, p. 26.
32
Come si apprende dalle iscrizioni sul gradino del trono “ISTAM TABULAM
FECIT FIERI FR/TER JOHANNES CLERICUS PRAECEPTOR TOLENTINI ANNO DNI MCCCLXVIIII” e lungo il bordo inferiore della tavola centrale
“ALEGRITTUS DE FABRIANO ME PINXIT MCCCLXVIIII”, trascritte con
qualche imprecisione da Amico Ricci (1834, I, p. 110, nota 53). Intorno al 1354,
insieme al fiorentino Puccio di Simone che lo aveva seguito nelle Marche, Allegretto aveva dipinto a Fabriano per lo stesso committente un trittico oggi nella
National Gallery di Washington di cui l’opera di Macerata è una replica con
alcune varianti. Vedi anche Marcelli 2004, p. 37.
Ricci 1834, I, pp. 89-90.
Raffaelli 1877a, p. 25; Paci 1989, p. 26, nota 132.
35
Gentili 1947 segna ADM, B, V, 7, ma vedi nota 3.
36
F. Scattolini 1989, pp. 565-566. Ogni anno, fin dal suo costituirsi, la Società
dei cacciatori doveva far eseguite una statua di San Giuliano, nel genere di quella a
cavallo conservata nella cattedrale, copia di una scultura settecentesca trafugata.
37
M. Ceriana in Pinacoteca di Brera 1992, pp. 153-156, scheda n. 63; secondo
Paci 1979, p. 229, una Madonna tra i santi Giuliano e Antonio da Padova stava
in origine sull’altare di Sant’Antonio da Padova, concesso nel 1600 al vescovo
Rossini che lo ridedicò a Sant’Andrea.
38
Vedi c.1r dell’inventario trascritto a nota 4.
39
Per notizie sul Giuda Paci 1989, pp. 46,47, M. Ceriana in Pinacoteca di Brera
1992, pp. 153-156, scheda n. 63.
40
Vedi il mio saggio su Treia in questo volume alle pp. 277-292.
41
ASDM, Atti Curia 1625-1631, cc.103v-105v. Gentili 1947, p. 83; Paci 1989,
p. 100. Nel contratto il Foschi viene detto “pittore anconitano abitante in Macerata”
42
ASDM, Atti Curia 1625-1631, c. 103.
43
Blasio 2008, p. 163.
44
Vedi c.3r dell’inventario trascritto a nota 4.
45
Paci 1989, p. 112, nota 847 riferisce di aver trovato la quietanza di pagamento di duecentocinquanta scudi in BCM, Miscellanea di Belle Arti, ms. 958/1,
Registro Frontoni, c.10, ma alla verifica odierna il documento non risulta più
reperibile.
46
Paci 1989, p. 131.
47
Felicetti 1998, pp. 9-13; Debenedetti 1998, pp. 27-34 e per la pala di Macerata, C. Felicetti in Cristoforo Unterperger 1998, pp. 208-209.
48
Paci 1989, p. 136.
49
Gentili 1947, p. 89; Paci 1989, p. 97
50
Buccolini 1978, pp. 152-153.
51
Paci 1989, p. 263-264.
52
ACSSM, Libro Congregazioni, 1592-1618, c. 99. Paci 1989, p. 62.
53
Ordine osservato 1604. Un esemplare si trova in BCM.
54
Vedi c.6r dell’inventario trascritto a nota 4.
55
Su Filippo Bellini, da ultimo Montevecchi 2005, pp. 175-185.
56
ACSSM, Libro dei conti dal 1771; Paci 1989, p. 135, nota 1022. Per Varlè,
Ricci 1834, II, pp. 409-410; Zampetti 1993, pp. 444-445; Polverari 1999, pp.
41,46; Toccare gli angeli 2009.
57
Paci 1989, p. 129
58
Ricci 1834, II, p. 413.
59
M. R. Valazzi in I sensi e le virtù 2000, p. 134, scheda n. 87.
60
Gentili 1947, p. 82; Paci 1989, p. 54. per un profilo del Gasparini, Giannatiempo López 1992, pp. 312-321.
61
Arcangeli 1983, pp. 79-82.
62
Prima della demolizione del vecchio duomo fu portato insieme agli altri arredi
della cappella al Monte di Pietà Ulissi, c.4r dell’inventario trascritto a nota 4.
63
Voss 1911, p. 490; Damigella 1972, pp. 490-491.
64
Soprani, Ratti 1769, pp. 89-90.
65
Simi 2008.
66
Vedi c.10r dell’inventario trascritto a nota 4.
33
34
MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO
71
I DIPINTI DI CIRO PAVISA
NELLA CATTEDRALE DI MACERATA
Simona Breccia
Quando nel 1924, trentaquattrenne,
Ciro Pavisa da Mombaroccio viene chiamato a lavorare nella Cattedrale di Macerata già vantava un discreto curriculum
tra lavori di produzione propria e commissioni a carattere religioso. Era ormai
un docente affermato e stimato, un artista che stava sviluppando sempre di più
una sua dialettica personale nella produzione di opere da cavalletto e un decoratore religioso apprezzato e richiesto nelle
Marche, tanto da trovarsi in procinto di
ottenere un incarico di grande prestigio
proprio nella città di Macerata.1
La prima comparsa del Pavisa a Macerata risale al 1918, quando giovanissimo è chiamato da don Eliseo Ruffini ad
affrescare l’abside della Chiesa del Sacro
Cuore, situata in quello che una volta era
chiamato Borgo Cairoli, con tre grandi
quadri: a sinistra la Natività, al centro il
Sacro Cuore e a destra la Crocifissione, il
tutto sormontato da un cielo blu stellato campito nel catino absidale nel quale
campeggia una croce.
Ma è il secondo, importantissimo, incarico alla Cattedrale che conferma il prestigio del pittore a Macerata. A partire
dagli inizi degli anni Venti, sotto la guida, il sostegno e l’infaticabile impegno
dell’Arcidiacono del Capitolo della Cattedrale, monsignor Piero Scarponi, si dà
inizio ad una campagna di lavori che si
protrarranno per tutto il Ventennio. Tra
le molteplici maestranze che concorsero
a dare al Duomo l’aspetto che ancora
oggi conserva – pittori, scultori, decoratori, stuccatori, intagliatori – fu chiama-
Ciro Pavisa, Assunta
to proprio Ciro Pavisa a compiere i lavori
di decorazione più importanti. D’altronde il pittore, pur essendo giovane, aveva dato prova delle sue grandi capacità
artistiche e tecniche: le opere del Sacro
Cuore erano state un ottimo biglietto da
visita nonché un trampolino di lancio di
peso rilevante.
La storia della decorazione della Cattedrale è ricostruibile attraverso i molti documenti conservati presso l’archivio della
Curia Vescovile di Macerata che consentono di tracciare un percorso completo delle fasi di realizzazione che videro
Pavisa coinvolto: dal 1924 al 1926, la
decorazione del catino absidale e della
volta del presbiterio, rispettivamente con
l’Assunzione della Vergine e Il ritrovamento del braccio di San Giuliano; nel 1932,
la Cappella del Santissimo Sacramento
con l’Empireo nella cupola e la Chiesa
adorante, la Chiesa militante e la Chiesa
purgante nella parete di fondo; dal 1936
al 1937, la navata centrale con le Storie
di San Giuliano l’Ospitaliere nella volta
e l’Annunciazione nella controfacciata.
In realtà, per la prima fase non esistono
documenti d’archivio ma bisogna fare
riferimento alla pur puntuale pubblicazione risalente al 1932, edita in occasione dell’inaugurazione della Cappella del
Santissimo Sacramento; la seconda fase è
72
Simona Breccia
Ciro Pavisa, Ritrovamento del Braccio di san Giuliano
ben documentata, ma la mole più consistente riguarda la terza tranche dei lavori
che possiamo dire sia documentata passo
passo.
La prima commissione nella Cattedrale
per Ciro Pavisa è nel 1924 ed è la decorazione del catino absidale con l’Assunzione della Vergine. Per dipingerla l’artista
si è sicuramente ispirato al testo apocrifo
“Transitus Mariae” in cui si narra la scena
dell’Assunzione ambientata nella valle di
Giosafat, luogo adibito a cimitero, dove
gli Apostoli dopo la morte della Vergine
portarono il suo feretro e lo deposero in
un sepolcro. Pavisa dipinge una larga vallata con una composizione molto ordinata, dall’ aspetto scenografico e solenne.
Al centro è dipinto un sepolcro bianco
reso di scorcio sul quale è accasciato a sinistra un angelo che dà le spalle all’osservatore; si innalza così una scala di angeli
osannanti, pacifici nella loro bellezza di-
vina, che aprono le loro splendide ali per
sollevare Maria verso il Paradiso.
Ai lati del sepolcro si aprono due ali di
personaggi concitati che gesticolano animatamente, stupefatti da quanto sta avvenendo davanti ai loro occhi. La folla è
composta da uomini e donne di diversa
età, molto ben caratterizzati dal punto di
vista fisiognomico. Abilissimo ritrattista,
è ormai certo anche grazie alla viva testimonianza orale di chi lo ricorda in prima
persona, che Pavisa facesse ricorso a persone del luogo per dare forma e vita alle
sue figure. La cromia dell’opera è varia,
per le creature terrene l’artista ha usato
pigmenti dai toni caldi, per le entità angeliche ha preferito utilizzare tinte più
fredde, quasi opalescenti.
Nello stesso anno, Pavisa dipinge nella
volta del presbiterio l’episodio del Ritrovamento del Braccio di San Giuliano, in
corrispondenza del luogo dove, secondo
la tradizione, esso venne ritrovato, cioè
fra due colonne davanti l’altare maggiore
della vecchia cattedrale. Un ulteriore saggio di bravura di Pavisa questo quadro,
caratterizzato da un taglio “fotografico”,
sia per il personaggio di spalle inginocchiato verso il vescovo, in primo piano
nell’angolo in basso a destra, sia per i
bordi della scena che tagliano fuori le figure più esterne. Osservando il dipinto,
il riguardante si trova all’interno del racconto e viene come catapultato sul presbiterio della vecchia Cattedrale durante
la celebrazione pontificale dell’Epifania
del 1442, quando la sacra reliquia, da
parecchi anni dispersa, venne ritrovata.
Il taglio è molto ardito, è come se Pavisa
fosse anch’egli sul presbiterio e riprendesse la scena guardando verso il transetto alla destra dell’altare e avendo l’altare
stesso alla sua destra; lì in piedi, l’allora
Vescovo di Macerata Nicolò dell’Aste
MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO
73
Ciro Pavisa, Storie di san Giuliano
mostra alla cittadinanza maceratese la reliquia del patrono con fare solenne.
Ai lati delle due finestre che illuminano
il quadro del Ritrovamento del braccio di
san Giuliano, l’artista pesarese ha ritratto
i quattro compatroni di Macerata. A sinistra san Claudio Abate, nella sua lunga
veste nera davanti alla Basilica a lui dedicata; gli è accanto il quadro con il beato
Pietro da Macerata dipinto con abiti vescovili. A destra san Marone, il Predicatore della Marca, è raffigurato con la palma del martirio e il libro; accanto a lui il
quadro con san Vincenzo Maria Strambi,
anch’egli in abiti vescovili, è appoggiato al pastorale e sembra benedire con il
crocifisso che tiene in mano. I personaggi sono disposti a chiasmo: san Claudio
davanti a san Vincenzo Maria Strambi
e il Beato Pietro davanti a san Marone;
tutti e quattro sembrano affacciarsi e
uscire davvero dalle loro cornici, come a
sorvegliare le celebrazioni che si svolgono
ormai da decenni sotto i loro occhi.
Nel 1932 Pavisa è chiamato di nuovo a
lavorare nella cattedrale per decorare la
ricostruita Cappella del Santissimo Sacramento. Dai documenti deduciamo
che l’articolazione della decorazione è
stata progettata da Pavisa insieme a Giuseppe Rossi, architetto che ha curato i
lavori di ristrutturazione, sotto lo stretto
controllo di monsignor Scarponi. Così
Pavisa dipinge l’Empireo nella cupola, le
figure degli Evangelisti nei quattro archi
di pennacchi e affresca la parete di fondo
con la Chiesa adorante, la Chiesa militante
e la Chiesa purgante. La cupola, realizzata
a tempera è animata da un Empireo non
a caso definito “dantesco” già dai commentatori dell’epoca. L’artista infatti si è
indubbiamente ispirato ai canti del Paradiso. Nell’opuscolo realizzato in occasione dell’inaugurazione della Cappella, il
canonico Silvio Ubaldi descriveva dettagliatamente tutte le figure che avanzano
tra le nuvole riportando i versi della Divina Commedia nei quali vengono citati i
personaggi raffigurati. Profeti, patriarchi,
santi e sante martiri, le grandi personalità dell’Antico e del Nuovo Testamento,
tutte le legioni angeliche rivolgono lo
sguardo verso la Trinità, fulcro compositivo e concettuale dell’opera. Dio Padre,
Gesù e la Colomba dello Spirito Santo
assistono all’incoronazione della Vergine che si sta svolgendo sotto i loro occhi. Gli archi di pennacchi incorniciano
le figure dei quattro Evangelisti assisi su
gonfie nuvole.
Nella parete di fondo Pavisa affresca il Sacro Cuore di Gesù. Nell’opuscolo già citato la puntuale descrizione di quest’opera
è affidata ad un altro storico maceratese,
Carlo Carletti. In un verdeggiante giardino circondato da alte montagne che
74
si rincorrono verso il fondo, Cristo è in
piedi sopra una roccia dalla quale sgorga
acqua limpida. Egli è affiancato dai santi
che più hanno promosso la devozione al
Santissimo Sacramento. Alla sinistra san
Tommaso d’Aquino, san Pasquale Bajlon, san Tarcisio e la beata Imelda; sulla destra santa Giuliana da Liegi, santa
Margherita Alacoque, il santo Papa Urbano IV, e un’altra figura di santa rimasta
ancora non identificata.
La sorgente di acqua che sgorga dalla roccia sotto i piedi di Cristo si riversa, nella
parte bassa del dipinto, sulle anime purganti che stanno scontando le loro colpe
nelle alte fiamme del fuoco purificatore.
Sulla sinistra si alzano in volo le anime
ormai salve, candidamente vestite; fluttuando nell’aria esse ascendono in cielo
dirigendosi verso la porta del Paradiso,
dipinta sulla sommità dell’affresco e affiancata da schiere di angeli.
Gli ultimi lavori in Cattedrale, datati
1937, sono la decorazione della volta
a botte della navata centrale con scene
della vita di san Giuliano l’Ospitaliere e
l’Annunciazione in controfacciata.
Nella volta, senza un ordine cronologico, Pavisa dipinge tre quadri dedicati a
san Giuliano l’Ospitaliere. La tradizione agiografica li ricorda con i titoli: San
Giuliano traghettatore, di formato rettangolare, in cui il santo accoglie due pellegrini appena arrivati sulle rive del fiume
Potenza, e indica loro la strada per raggiungere la casa ospizio; l’Arrivo di San
Giuliano al fiume Potenza, di formato
ovale, che mostra il santo con il vessillo
di Macerata su un cavallo bianco rampante, sullo sfondo di un vasto panorama
e la Morte di San Giuliano, di nuovo di
formato rettangolare che è in realtà l’episodio in cui un angelo annuncia al santo
il perdono divino e la sua morte in santità insieme alla moglie, scena ambientata
nella sua stanza da letto. Si ritrovano anche qui le caratteristiche, ormai costanti, della produzione artistica del Pavisa,
come le composizioni molto equilibrate,
la grande capacità tecnica supportata dal
preciso disegno, le figure monumentali e
la luce iperreale diffusa nelle ambientazioni facilmente riconducibili ai paesaggi
marchigiani.
L’Annunciazione nella controfacciata,
anch’essa firmata e datata “Pavisa 1937”,
per quanto sia tradizionale nella composizione, è resa speciale dal luogo ove
è inserita e dall’ambiente in cui si svolge
l’episodio raccontato nel Vangelo di Luca,
l’unico dei canonici a narrare l’evento, e
nel protoevangelo di Giacomo ripreso
poi da Jacopo da Varagine nella “Legenda
Aurea”. Il finestrone in facciata, come un
antico rosone, illumina la navata centrale
e l’edificio tutto, dividendo la scena in
due come nella tradizione. A sinistra un
diafano Arcangelo Gabriele sorretto da
una solida nuvola irrompe nell’intimità
della vita della Vergine, dipinta a destra,
flette le gambe per poi inginocchiarsi di
fronte al mistero dell’Incarnazione. Ciò
avviene in un ipotetico grande terrazzo
fuori della cattedrale, al quale si accede da un porticato di gusto neoclassico
scandito da colonne, che comprende la
grande finestra centrale, “porta” simbolica come Maria è Janua Coeli. Lo sfondo
si apre su un paesaggio primaverile, ma
lo scenario rappresentato da Pavisa non
ha nulla delle caratteristiche della Galilea
e di Nazareth bensì è ispirato alle dolci
colline marchigiane con i piccoli paesi sparsi e arrampicati sulle sommità, la
varietà delle vegetazioni e dei campi coltivati. Una luce paradisiaca si irradia su
tutta la scena.
L’arte sacra di Ciro Pavisa è il risultato
di una felice confluenza tra tradizione
e modernità, tra accademismo sfruttato
in un momento in cui lo si voleva eliminare dalla ricerca artistica, e calibrati
innesti con soluzioni formali e tecniche
più innovative, quali le raffinatezza e le
eleganze della linea liberty sposate alle
cromie simboliste. Le composizioni tecnicamente ineccepibili sono preservate
dalla pesante monumentalità dell’arte
dell’epoca, i cui echi risuonano in ogni
caso nelle sue opere.
NOTE
Ciro Pavisa (1890 – 1972) nasce al Beato Sante di Mombaroccio, convento
santuario incastonato sulle colline tra Fano e Pesaro. Artista, artigiano, Pavisa ha
avuto un’intensa produzione artistica sia sacra che profana. Tra gli anni Venti e
Trenta partecipa a numerose esposizioni d’arte, fra cui l’Esposizione Provinciale
d’Arte del 1922 a Macerata. Ottimo decoratore religioso, fine ritrattista, ha
saputo immortalare le colline marchigiane e le vedute marine unendo la formazione accademica ad una ricerca di stile personale contemporaneo. Consapevole
delle proprie capacità e con la forza della sua completezza artistica contribuì,
con l’intensa attività di insegnante che esercitò fino al 1960, anno del pensio-
1
namento, a formare artisti come il pittore Bruno Bruni e lo scultore Terenzio
Pedini. Numerosi sono i lavori che Pavisa ha realizzato nelle Marche, a partire
dal 1908 e dal suo paese natale. Molto prolifica poi è la produzione di opere,
sia di piccole che di grandi dimensioni, nella città di Macerata e nella provincia:
viene chiamato in diverse città come Petriolo, Urbisaglia, Montecosaro, Penna
San Giovanni e Potenza Picena. Altri importanti commissioni verranno dalle
province di Pesaro Urbino e Ascoli Piceno; l’artista infatti ha operato anche nelle
città di Fossombrone, Fano e Sant’Elpidio a Mare.
MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO
75
IL TESORO DELLA CATTEDRALE
DI SAN GIULIANO DI MACERATA
Gabriele Barucca
Calici, pissidi, ostensori, croci, turiboli,
navicelle, reliquiari e paramenti liturgici sono solo alcuni dei preziosi oggetti
che costituiscono il tesoro di una chiesa.
Queste raccolte di suppellettili sacre, destinate a decorarla (l’ornamentum) o utilizzate nella celebrazione dei riti religiosi
(il ministerium), ci raccontano la storia di
un’istituzione, ci parlano degli oblatori,
solitamente papi, cardinali, vescovi, canonici, confraternite e illustri visitatori,
del loro gusto e degli artefici a cui si sono
rivolti. Questi committenti spesso fanno
apporre il proprio nome o lo stemma
di famiglia, intendendo così legare alle
preziose suppellettili la memoria della
propria devozione e affermando altresì il
prestigio del proprio ruolo.
Spesso il confronto tra il numero degli
oggetti elencati negli antichi inventari
delle chiese e la consistenza attuale delle raccolte rivela purtroppo perdite ingentissime, dovute in parte alla natura
preziosa di tali beni, ai quali si attingeva
in caso di necessità economica, ma più
spesso al fatto che fossero oggetto di furti, che ancora si verificano, e soprattutto
di requisizioni forzate nei momenti di
turbolenza della vita politica e sociale e,
conseguentemente, dispersi o distrutti.
Questa evenienza si riscontra puntualmente analizzando il tesoro della cattedrale di Macerata e delle altre concattedrali della diocesi. La loro consistenza è
stata drasticamente ridotta, specie durante il periodo napoleonico. Tuttavia gli
oggetti superstiti, insieme alla rilevante
documentazione archivistica emersa,
consentono tuttora di segnare i momenti
salienti della lunga storia di queste cattedrali, una storia in cui accanto agli artefici e al pubblico, compaiono volta per
volta direttamente i committenti.
Passando all’esame del tesoro della cattedrale di San Giuliano, quasi a compensare della quasi totale mancanza di
pezzi antichi, disponiamo di una serie di
inventari quattro e cinquecenteschi che
danno conto di un numero ingentissimo
di suppellettili sacre, paramenti e libri
liturgici.1 Ad accrescere la consistenza
del tesoro della cattedrale maceratese
nel corso del Sei e Settecento, attestata
anche dalle relazioni delle Sacre Visite,
contribuì il progressivo e notevole miglioramento delle capacità economiche,
in generale di tutta la Marca d’Ancona,
antica e strategica provincia dello Stato
della Chiesa, e in particolare di Macerata. Sede del governo generale della Marca
e di molte altre magistrature aventi giurisdizione su tutta o gran parte della provincia, Macerata è al centro di un ampio
territorio in cui il consolidarsi del capitale
fondiario e l’aumento dei ricavi prodotti da un’agricoltura sempre più fiorente
favorirono lo straordinario incremento
patrimoniale di alcune famiglie del patriziato civico, da cui peraltro provenivano
personaggi destinati ad essere elevati alla
dignità cardinalizia. Questi illustri prelati spesso manifestarono proprio con munifici doni di preziose suppellettili sacre
alla cattedrale il prestigio e l’orgoglio del
proprio ruolo.
Purtroppo la gran parte di questo pa-
trimonio di suppellettili – che come s’è
detto doveva essere strabiliante sia per la
quantità dei pezzi che per lo splendore
della loro qualità artistica e materica, secondo quanto risulta dagli inventari di
sacrestia della cattedrale e dai resoconti
delle Sacre Visite – è andata distrutta a
partire dalla fine del Settecento per cause di diversa natura. In particolare è il
caso di ricordare almeno sinteticamente
i principali avvenimenti susseguitisi negli anni delle invasioni napoleoniche nel
cosiddetto “triennio giacobino” (17961799), che determinarono la distruzione
quasi totale del tesoro della cattedrale di
Macerata, come della maggior parte delle
chiese dello Stato pontificio.2
Le prime requisizioni degli argenti nelle
Marche presero avvio subito dopo l’armistizio di Bologna (23 giugno 1796)
ad opera delle stesse autorità pontificie.
Tra luglio e settembre venne effettuata
una rapida indagine per valutare la consistenza dei manufatti preziosi; in seguito vennero radunati gli oggetti in metalli
nobili nelle diverse chiese per inviarli a
Roma, tramite il tesoriere della Marca,
per far fronte al pagamento delle onerose contribuzioni di guerra imposte dai
Francesi. La raccolta, iniziata dal vescovo di Macerata e Tolentino monsignor
Domenico Spinucci e proseguita dal 2
luglio dal successore monsignor Alessandro Alessandretti fu stimata, complessivamente nelle due diocesi, di 553 libre,
4 once e 12 ottave d’argento, costituita
da ogni sorta di suppellettili sacre, senza probabilmente tener in alcun conto
76
l’antichità dei pezzi o la loro bellezza e
qualità artistica, ma solo considerando
il peso dell’argento con cui erano realizzati. In quei giorni concitati giunse agli
ordinari una lettera a firma del cardinale
Francesco Xaverio de Zelada del 13 luglio 1796 con la quale si asseriva che “per
salvar Roma, e lo Stato da un’imminente
ruina e distruzione totale, che gli sovrasta, occorre riunire ingenti somme di denaro in oro, ed argento per il pagamento
della contribuzione”. Si chiedeva quindi
di radunare ori e argenti ad esclusione di
quelli “puramente necessari al decoro del
Divin Culto, ed all’esercizio de’ comuni
atti di Religione, e che non possono essere formati di altra materia” e di inviarli al
tesoriere a cui competeva il “farne seguire
in zecca lo squaglio, e la riduzione in verghe, o in moneta per sodisfare all’annunciato pagamento”. Il successivo 20 luglio
lo stesso cardinale de Zelada emanava un
editto in cui si ordinava “la coattiva riquisizione”. A questa prima requisizione di
argenti voluta dallo stesso Pio VI ne seguì
un’altra subito dopo la firma del trattato
di Tolentino. In questo caso, nonostante
si fosse sancita formalmente la pace tra il
papa e Napoleone, l’amministratore delle finanze e delle contribuzioni dell’Armata francese, generale Haller, inviava il
25 febbraio 1797 una circolare risalente
al 17, vale a dire due giorni prima della
firma del trattato, in cui si chiedeva l’immediata “presa dell’argenteria delle chiese
Gabriele Barucca
Arte renana, altare portatile, verso e recto
di Macerata e di tutta la provincia”. Erano come al solito fatti salvi i pezzi d’argento “lasciati per il culto”. Nonostante
le proteste lo stesso 25 febbraio venivano consegnate ai commissari francesi le
“assegne”, ovvero le denunce giurate dei
responsabili delle varie chiese relative agli
oggetti d’argento posseduti. Nel febbraio
del 1798 poco dopo l’annessione delle
Marche alla Repubblica romana venne
ordinata una nuova inventariazione degli argenti. Alla redazione degli inventari
fece seguito l’ordine di requisizione del
27 marzo 1798 da parte dell’agente delle
finanze per il dipartimento del Musone,
Rosingana. Questi il 31 marzo ribadiva
con una nuova ordinanza che in nessuna
chiesa dovesse rimanere niente più che
“l’infimo degli ostensori, un calice per
ogni due altari, e li reliquiari”, ordinava
di portare tutto il materiale a Macerata
entro il lunedì successivo e concedeva la
possibilità ai responsabili delle varie chiese di poter eventualmente riscattare “pagandone il peso in pezzi duri” tutto ciò
che “potesse piacere alli differenti capi sia
laici che religiosi di dette chiese”.3 Tutti i
vari pezzi sequestrati nei paesi del Dipartimento del Musone furono raccolti in
Ancona per essere saggiati da un orefice
e poi venduti.
Non conosciamo con esattezza ciò che
effettivamente nella cattedrale di Macerata sia stato sottratto, arbitrariamente
rubato dai soldati francesi, venduto o
eventualmente riscattato, se non occultato dopo i diversi ordini di requisizione,
ma c’è certezza che in questi anni drammatici la consistenza del tesoro è stata
drasticamente ridotta.
Passiamo dunque all’illustrazione dei
pezzi superstiti. Il più antico è un altare portatile4 costituito di una lastra
di marmo serpentino, spesso usato per
questo genere di manufatti, montata in
una struttura lignea sulla quale è fissata
una lamina d’argento, dorata e niellata, ribattuta sullo spessore e inchiodata
sul retro.5 Lungo uno dei lati corti, la
lamina ripiegata ha graffite delle lettere
di difficile interpretazione. La fascia che
ricopre gli spessori è incisa con un motivo geometrico a meandri intrecciati che
sostituisce un più naturalistico decoro a
MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO
girali, simile a quello del piano superiore, di cui resta solo un accenno. La faccia
posteriore è rivestita con un frammento
di tessuto serico a fondo bianco, con medaglioni includenti forse un leone e motivi fitomorfi, realizzati in verde e rosso.
Si tratta di un raro frammento tessile di
origine orientale, verosimilmente coevo
al resto del manufatto. L’altarolo poggia
su quattro piedini in rame dorato, a forma di artigli di rapace.
La cornice che definisce il piano dell’altare presenta una decorazione di grande
interesse in cui, tra motivi fitomorfi stilizzati e figure simboliche, caratteristiche
del lessico decorativo romanico, è incisa
una lunga iscrizione, con i nomi dei santi le cui reliquie sono custodite all’interno. L’iscrizione6 è niellata e corre senza
soluzione di continuità, lungo la fascia
d’argento disposta al centro della cornice
rettangolare dorata che definisce la lastra
di serpentino, decorata con sintetici ramages, lungo il perimetro esterno, e con
irregolari motivi a “C”, lungo il perimetro interno. La scritta è interrotta, al centro di ognuno dei lati, da quattro clipei
raffiguranti l’Agnus Dei, la Dextera Dei,
la Madonna, individuata dalle iniziali
S(ancta) M(aria), e la colomba dello Spirito Santo. Le figure, incise, sono dorate
e risaltano sul fondo d’argento. L’iscrizione, forse realizzata in un momento
successivo, denuncia nell’irregolarità del
modulo e dell’allineamento la poca esperienza e perizia dell’incisore. Quanto alla
datazione e all’analisi stilistica, Bendetta
Montevecchi,7 sulla base anche dei suggerimenti paleografici di Giuseppe Avarucci, assegna l’altare portatile al X-XI
secolo, riferendolo a manifatture renane.
La studiosa propone peraltro convincenti raffronti con un manufatto analogo
conservato a Feltre e con altre oreficerie
sacre, come il celebre calice ottoniano
della cattedrale di Cividale, la croce astile
di Casola (Parma) e il reliquiario di San
77
Orafo marchigiano, calice
Orafo romano, pisside
Giacomo del duomo di Zara, dove compare un’iscrizione molto simile a quella
dell’altarolo di Macerata.
Non si hanno notizie circa la provenienza originaria di questo oggetto, ma
la sua stessa funzione di altare portatile
rende probabile il suo arrivo come dono
di qualche ecclesiastico tedesco in visita
a Macerata. Sembra invece sicura la sua
origine oltremontana. Del resto in ambito tedesco questo tipo di arredi sacri era
particolarmente diffuso e, infatti, se ne
conservano ancora numerosi esemplari.8
Un’ulteriore conferma di questa provenienza è inoltre data dall’iscrizione dove
compaiono nomi tipicamente nordici e
centro-europei come Valpurga e Venceslao, santo patrono della Boemia, la cui
venerazione si diffonde proprio intorno
all’XI secolo.
Tra i calici superstiti dalle requisizioni
dell’età napoleonica il più antico è un
esemplare che dall’analisi dell’impianto strutturale, così come del repertorio
decorativo risulta databile tra la fine del
Cinque e l’inizio del Seicento.9 Il momento in cui, abbandonate le forme tardogotiche, si afferma la nuova tipologia
del calice, caratterizzata da nodo ovoidale
e base circolare, in questo caso ospitante
tra volute e girali fitomorfi, due cherubini e, al centro, una raffigurazione della
Pietà. Nel nodo ovoidale sono sbalzate e
cesellate tre testine di cherubino alternate a cartelle ornate da fiori di cardo in
rilievo su fondo puntinato, mentre il sottocoppa è sbalzato a baccellature profilate da listelli lisci a bulino. Questa tipologia a partire dal momento successivo alla
Controriforma caratterizzò la storia del
78
Gabriele Barucca
Bartolomeo Boroni, calice
Vincenzo Belli, calice
Giuseppe Grazioli, calice
calice italiano per tutta l’età barocca. Nel
pezzo in questione l’accurata esecuzione
dello sbalzo e la resa raffinata dei motivi
decorativi tratti dal repertorio classico
rivelano le notevoli qualità tecniche e
inventive dell’argentiere, forse attivo in
una delle numerose botteghe maceratesi, attestate dai documenti d’archivio. È
databile allo stesso periodo una splendida pisside tonda lavorata10 che, come nel
caso del calice, rivela l’adozione in età
controriformata della nuova tipologia di
questo genere di vaso sacro, caratterizzata
soprattutto dall’adozione di moduli architettonici e dalla preferenza per motivi
decorativi del repertorio classico. Il disegno della pisside è elegante e l’esecuzione
piuttosto raffinata. In particolare l’oggetto è caratterizzato dal nodo principale del
fusto, a forma di vaso appena allungato,
decorato da baccellature a sbalzo alternativamente chiare e brunite. La grande
coppa è racchiusa entro un sottocoppa
lavorato a traforo con orlo scandito da
motivi gigliati, ornato da quattro festoni
e da altrettante teste di cherubini ad ali
spiegate alternate a gigli araldici. Il coperchio, assai elaborato, si imposta su una
cornice a baccellature profilate da listelli
incisi, seguita da un’ampia fascia svasata
con una raffinata decorazione a sbalzo su
fondo uniformemente puntinato costituita da cherubini alternati a palmette e
volute. Al di sopra è un cupolino embricato, pausato da quattro lesene su cui si
impostano archetti a voluta tangenti la
lanterna culminante in una crocetta trilobata su monte di tre colli.
Anche nel tesoro della cattedrale di Macerata, come in quelli delle principali
chiese delle Marche, è ancora conservato, nonostante le ingentissime perdite, un buon numero di argenterie settecentesche di qualità assai elevata e di
notevole rilevanza per la storia dell’arte
orafa. Si tratta di pezzi per la maggior
parte provenienti da Roma a dimostrazione dell’esistenza fin dal Seicento, ma
soprattutto nel corso del Settecento, di
un rapporto diretto e continuativo tra i
committenti della Marca e le botteghe
orafe romane.11
In ossequio alle ordinanze emanate in età
napoleonica che consentivano di lasciare
nelle chiese almeno “un calice per ogni
due altari”, nella cattedrale di Macerata
furono preservati fortunatamente dallo
‘squaglio’ e dalla vendita alcuni splendidi
calici settecenteschi, sui quali la presenza
dei bolli ha consentito l’individuazione
dei loro autori. Si tratta di alcuni degli
argentieri più prestigiosi attivi a Roma
nell’arco del XVIII secolo. Questi calici
sia nella struttura, sia nel repertorio decorativo rivelano l’affermarsi e il lungo
persistere nel corso del secolo del gusto
rocaille. Elementi naturalistici, come teste di cherubini, volute fitomorfe e approssimazioni astratte del motivo a conchiglia, insieme a una proliferazione di
volute, cartelle e perline costituiscono il
repertorio decorativo di questi argenti di
grande effetto, ulteriormente arricchiti
dalla diversa lavorazione della superficie
argentea e dal contrasto cromatico con
MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO
Lorenzo Petroncelli, calice
le parti dorate. Questo comune repertorio viene declinato con accenti personali dai diversi argentieri, che comunque
dal punto di vista esecutivo dimostrano
l’altissimo livello qualitativo raggiunto
dall’arte orafa romana nel Settecento.
Sono superstiti un calice col marchio
della bottega diretta da Giuseppe Nepoti (Rocca Contrada, ora Arcevia, 1677
– Roma, 1753; pat. maestro 1702), in
seguito passata sotto la direzione di Domenico Gabriele Mariani (Ronciglione, 1697 – Roma, 1756; pat. maestro
1753), un altro12 bollato da Bartolomeo
Boroni (Vicenza, 1703 – Roma, 1787;
pat. maestro 1730), celebre argentiere a
lungo impiegato da Guarniero Marefoschi per le suppellettili del santuario della Madonna della Misericordia. È datato
1770 uno splendido calice13 marcato da
Vincenzo Belli (Torino, 1710 – Roma,
1787; pat. maestro 1741), donato alla
cattedrale dall’arcidiacono Pietro Cagnaroni, di cui è inciso sotto il piede lo
stemma e la scritta dedicatoria.14 Un ele-
Lorenzo Petroncelli, calice d’oro
gante calice interamente dorato presenta
un bollo non perfettamente leggibile ma
probabilmente corrispondente a quello usato da Giuseppe Grazioli (Fermo
1717 – Roma 1792; pat. 1749).15 Del
resto la qualità dell’esecuzione dell’arredo sacro, la sobrietà della composizione
che non trascende nella leziosità talvolta
esagerata del repertorio rococò, nonché
il confronto con altri pezzi sicuramente
del Grazioli confermano la sua paternità per il pezzo in questione. Il calice,
come risulta da un’iscrizione sotto il piede, venne poi donato al Capitolo della
cattedrale nel 1859 dal canonico Cesare
Blasi.16 Altri splendidi pezzi segnano nel
79
tesoro l’ultimo quarto del XVIII secolo,
in particolare gli oggetti donati dal cardinale Mario Compagnoni Marefoschi.17
L’illustre presule commissionò due calici con le rispettive patene, destinati alla
cattedrale maceratese dove era stato battezzato. La scelta cadde su Lorenzo Petroncelli, romano, patentato maestro nel
1758 e dal 1767 titolare della bottega
all’insegna del Vascello. Questo artefice
doveva essere ben conosciuto nella Marca, come dimostra un buon numero di
oggetti di bella qualità emersi in recenti
ricognizioni.18Il cardinale maceratese gli
commissionò un magnifico calice d’oro,
costato ben settecentosessantadue scudi
e consegnato nel maggio del 1779,19 e un
altro d’argento pagato cinquantacinque
scudi e mezzo il 13 febbraio 1780,20 a
pochi mesi dalla morte del Compagnoni
Marefoschi. Quest’ultimo, elegantissimo
nella struttura e nell’esuberante apparato decorativo, è punzonato con le lettere
R C A (Reverenda Camera Apostolica)
e col bollo attestante il titolo inferiore
di 95 bajocchi, pari a 851 centesimi di
carlino. Ben più prezioso è l’altro calice
donato alla cattedrale di San Giuliano realizzato in oro e recante sotto il piede lo
stemma dello stesso cardinale, alla banda
accompagnata in capo da tre stelle di sei
raggi poste in banda e in punta da un
delfino natante sopra un mare ondato.
La base del calice presenta le tre statuette
delle Virtù teologali, realizzate sugli stessi modelli che erano stati usati in precedenza da Antonio Arrighi e di nuovo da
Mattia Venturesi. Come rileva Jennifer
Montagu in una acuta analisi dell’oggetto che riporto “Qui esse sono separate da cartelle contenenti i simboli della
Passione (titolo, tre chiodi, spugna e lancia) affiancate da tralci di vite. Sopra le
cartelle vi sono tre figure di putti a tutto
tondo che sostengono un globo sul quale
le acque che separano i continenti sono
più in evidenza della terra, forse in rife-
80
Gabriele Barucca
Pianeta del cardinale Mario Compagnoni Marefoschi
Pianeta del cardinale Simone Buonaccorsi
Pianeta di papa Pio VI
rimento al nome e allo stemma dei Marefoschi. Il nodo racchiude tre immagini
ad altorilievo di Mosè, Aronne e di una
figura maschile che tiene un agnello (forse san Giovanni Battista) entro una ricca
incorniciatura e il sottocoppa è ornato da
cartelle contenenti bassorilievi con scene
della Passione di Cristo (l’Ultima Cena,
l’Orazione nell’orto e la Crocifissione) tra
teste di cherubini, grappoli e spighe di
grano.
Questo capolavoro in miniatura può
essere considerato anche come “paragone” per dimostrare la maestria dell’orafo
nell’architettura per l’elaborazione della
struttura del fusto, nella scultura a tutto
tondo e in altorilievo e nell’emulazione della pittura per mezzo delle scene a
bassorilievo. Iconograficamente il calice
rappresenta il mondo sostenuto da Fede,
Speranza e Carità e santificato dal sacrificio del Salvatore, come era stato predetto
nel Vecchio Testamento.”21 Il cardinale
Compagnoni Marefoschi a queste sontuose oreficerie da lui commissionate
aggiunse come dono alla cattedrale ma-
ceratese alcuni spettacolari paramenti
liturgici. Purtroppo è stata di recente trafugata una pianeta in taffetas laminato
bianco, ricamata in oro; si conserva invece un’altra pianeta in taffetas laminato
viola, ricamata in oro filato a rigogliosi
girali con fiori e siglata con il suo stemma, timbrato con il cappello e le nappe
esprimenti la dignità cardinalizia, applicato nella parte inferiore della colonna
centrale.
Un’altra magnifica pianeta in taffetas laminato bianco ricamato in oro e argento
filato, lamellare e riccio, reca applicata
nella parte inferiore della colonna centrale un’arma ricamata e timbrata dalle
insegne cardinalizie. Lo stemma è quello
della famiglia Buonaccorsi di Macerata,
che aveva annoverato tra i suoi membri
due cardinali, Buonaccorso morto nel
1678 e Simone morto nel 1776. Il disegno del ricamo d’oro, con infiorescenze e
volute simmetriche che definiscono due
grandi cartelle mistilinee, una delle quali
è riempita da rete, è estremamente ricco e
ripropone il repertorio decorativo baroc-
chetto misto ad apporti orientali, come
ad esempio la palmetta persiana. Questa
tipologia decorativa è assai diffusa intorno alla metà del Settecento, consentendo
di ipotizzare che la pianeta sia stata donata alla cattedrale maceratese da Simone
Buonaccorsi, creato cardinale il 18 luglio
1763 da Clemente XIII. Tra i numerosi paramenti sacri ancora conservati nel
tesoro della cattedrale maceratese merita
almeno citare una pianeta in damasco di
seta viola, su fondo ocra, recante lo stemma ricamato in oro di monsignor Ignazio
Stelluti, vescovo di Macerata dal 1735 al
1756 e, infine, la splendida pianeta donata da Pio VI in occasione di uno dei
suoi passaggi a Macerata, avvenuti il 2
marzo e il 9 giugno 1782. La pianeta è
in raso rosso siglata con il suo stemma,22
cimato dalle insegne papali e applicato in
basso alla colonna, e presenta ricami “a
mezzo risalto” in argento e oro filato, con
sottili e sinuosi girali vegetali a sviluppo
simmetrico impreziositi da fiori di cardo,
fiordalisi e piccoli fiori a grappolo.
Accanto a questi vasi e paramenti sacri
MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO
81
Domenico Piani, tronetto
Antonio Piani, croce di confraternita
Antonio Piani, ostensorio raggiato
realizzati da argentieri, tessitori, “passamanteri”, battiloro e ricamatori operanti
a Roma, esiste nel tesoro della cattedrale
di Macerata un nucleo di pezzi recanti
i marchi di Domenico Piani, capostipite della più illustre dinastia di argentieri
maceratesi tra Sette e Ottocento, e di suo
figlio Antonio. Purtroppo la consistenza
di questo nucleo è stata ridotta da un
furto avvenuto tra il 13 e il 14 dicembre 1984 che, secondo quanto si legge
nel Libro dei Verbali del Capitolo della
cattedrale, causò la perdita di “sei calici,
una pisside, quattro turiboli in argento,
lavori dei fratelli Piani”.
Le prime notizie che riguardano Domenico Piani risalgono al 1744 e concernono la sua presenza a Roma, dove è registrato come lavorante negli stati d’anime
della parrocchia di Santo Stefano in Pi-
scinula. Prima del 1761 è documentato il
suo ritorno nella Marca: a Matelica, impegnato in importanti commissioni del
Comune, di casa Piersanti e della badessa
del monastero di Santa Maria Maddalena e in seguito a Macerata dove apre una
fiorente bottega assai operosa, passata nel
1799, anno della sua morte, sotto la direzione del figlio Antonio. Nato a Macerata nel 1747, Antonio completò la sua
formazione artistica, iniziata nella bottega paterna, a Roma presso Luigi Valadier.
Ma già nel 1787 è nuovamente nella città
natale, come attestano numerose argenterie datate in quell’anno e bollate col merco personale. La straordinaria operosità
di Antonio Piani, interrotta dalla morte
avvenuta nel 1825, non si limita ai lavori
in argento ma comprende un’interessantissima produzione scultorea e plastica in
marmo, terracotta, bronzo e stucco.23
L’unico pezzo superstite con il bollo di
Domenico Piani è un monumentale tronetto per l’esposizione eucaristica.24 Si
tratta di una sorta di edicola, in legno
rivestito di velluto cremisi, adorno di
placchette d’argento sbalzato e cesellato,
che segnano la struttura dello zoccolo
di base, del postergale e del baldacchino
apicale con la sequenza di lambrecchini.
Questa tipologia di arredo sacro venne
introdotta con l’Istruzione Clementina
per le Quarantore, devozione il cui titolo
deriva dal periodo di permanenza di Cristo nel Sepolcro, promulgata da Clemente XI nel 1705.
Il marchio di Antonio Piani, insieme a
quello di un artefice non identificato,25
è impresso sulle lamine della grande
croce processionale della Confraternita
82
Gabriele Barucca
Antonio Piani, calice
Luigi Sciolet, calice
Argentiere romano, pisside
del Santissimo Sacramento, che deteneva l’omonima cappella in cattedrale.26
La struttura lignea dell’oggetto è ricoperta di velluto marrone e profilata da
una cornice a ovoli in lamina d’argento.
Lungo i bracci della croce sono applicate
lamine d’argento traforato con il solito
repertorio di motivi simbolici e insieme decorativi, comprendenti grappoli
d’uva, spighe di grano, cartelle racchiudenti angioletti in volo, conchiglie e
foglie d’acanto. All’incrocio dei bracci
è applicata una lamina argentea raffigurante il calice con l’ostia raggiata entro
un nuvolario. Alla base del montante, sul
recto, è incisa un’iscrizione con la data e
i nomi dei committenti: “AN. D. 1769/
NICOLAO JLLUMINATO/ET/JOSEPHO COMPAGNONIO/PRAEF. SACRARII ECCL. CATH.” Se il bollo di
Antonio Piani non è stato apposto solo
in occasione di un restauro della croce,
siamo di fronte ad una delle prime opere marcate dal giovane Antonio, che nel
1769 aveva appena ventidue anni ed era
impegnato ad apprendere l’arte orafa nella bottega del padre Domenico. Gli altri
pezzi di Antonio Piani degni di attenzione sono un leggio, la cui struttura lignea
è rivestita di velluto rosso impreziosito da
applicazioni in lamina d’argento con volute e festoni vegetali, un calice, donato
alla cattedrale di San Giuliano dal canonico Pietro Compagnoni nel 180227 e un
ostensorio raggiato, molto simile a un altro esemplare conservato nella collegiata
di Santa Maria di Montecassiano, a conferma di una produzione quasi seriale di
questo genere di suppellettili liturgiche
nella prolifica bottega di Antonio Piani.
Nel corso dell’Ottocento il tesoro si arricchirà di altri pezzi importanti. Purtroppo
è stato rubato il calice donato alla cattedrale nel 1857 da Pio IX, quando visitò
Macerata nel corso del viaggio attraverso
lo Stato Pontificio, intrapreso il 4 maggio e chiuso il 5 settembre. Questo calice
d’argento dorato era ornato di smalti e
pietre preziose ed era stato realizzato tra
il 1781 e il 1783 da Gaspar Saverio Stippeldey, orafo di Augsburg.28 Sono invece superstiti un bel calice,29 donato nel
1832 dal canonico Francesco Narducci,
firmato e bollato da Luigi Sciolet (nato
a Roma nel 1797 e patentato maestro
nel 1818), discendente di una dinastia di
argentieri di origine francese operante a
Roma dagli anni sessanta del Settecento,
e una pisside con un bollo illeggibile, donata nel 1844 da monsignor Francesco
Ansaldo Teloni, vescovo di Macerata e
Tolentino dal 1824 al 1846.30
MACERATA. CATTEDRALE DI SAN GIULIANO
83
NOTE
Questi inventari della sagrestia della cattedrale, stilati negli anni 1473, 1487,
1517, 1525, 1559, insieme a un elenco di doni offerti alla stessa sacrestia dal
cardinale Girolamo Basso-Della Rovere redatto il 13 aprile 1496, sono contenuti
in un volume cartaceo custodito nella biblioteca Mozzi-Borgetti di Macerata (catalogato col n. 852), a cui è stata applicata nel Settecento da Ignazio Compagnoni
un’etichetta ove scrisse “Libro I° degli Strumenti, inventari ecc. del Duomo di
Macerata”. Il manoscritto, con rilegatura cinquecentesca in cuoio, contiene atti
dal 1467 al 1570. Libero Paci, a cui si deve il rinvenimento del manoscritto, ha
pubblicato la serie di inventari della sagrestia sopra citati. Vedi Paci 1979, pp.
193-236.
2
Barucca 2007, pp. 38-43, con bibliografia precedente. Per l’ambito territoriale
che qui particolarmente interessa è fondamentale Mocchegiani 1998, pp. 185197, da cui traggo le notizie nel testo di seguito riportate.
3
Le notizie e le citazioni di documenti fin qui riportate sono tratte da Mocchegiani 1998, pp. 185-197.
4
“L’altare portatile è un arredo liturgico molto diffuso nel Medioevo, utilizzato
per celebrare la messa durante i viaggi o dove non era possibile disporre di altari
consacrati. Poteva essere costituito della sola “pietra sacra”, come in questo caso,
cioè fatto di una pietra naturale intatta, ampia tanto da potervi posare l’ostia e il
calice, fornita, sul rovescio, di un loculus in cui collocare le reliquie (cfr. l’altarolo
della cattedrale di Gorizia), oppure, nella versione più elaborata, la piccola mensa
era posata sopra una cassetta lignea, rivestita di lamine metalliche decorate con
smalti o figurazioni incise o sbalzate (cfr. gli altaroli delle cattedrali di Modena
e di Feltre).” Questa definizione è tratta da B. Montevecchi, scheda 1, in Ori e
argenti 2001, p. 76. Alla stessa scheda, a cui si fa costante riferimento nel testo per
l’illustrazione dell’oggetto, si rimanda anche per la bibliografia precedente.
5
Altare portatile in marmo serpentino, argento inciso, niellato e dorato su anima
di legno. 4,5 x 14 x 22 cm.
6
Intorno alla cornice si legge: DE VEST(IMENTIS) MARIE. RE(LIQUIE)
AP(OSTO)LOR(UM). PHILI/PPI. (ET) IACOBI. LAUR(ENTII). CRISOG(ONI).
COSME (ET) DAMIANI MARTIRU(M) / MAXIMI. EP(ISCOP)I IERONIMI.
/ CONFESSOR(IS). VENEZLAI CON(FESSORIS) VVALPVRGE. V(IRGINIS)
(ET) EUTROPIE.
7
B. Montevecchi, scheda 1, in Ori e argenti 2001, p. 76.
8
Vedi Ornamenta Ecclesiae, I, 1985, pp. 453 sgg.
9
Calice in argento e argento dorato, altezza 22,8 cm, diametro del piede 11,4
cm, diametro dell’orlo della coppa 9 cm. G. Barucca, scheda 60, in Ori e argenti
2001, p. 156.
10
Pisside in argento, altezza 34,5 cm, diametro del piede 10,5 cm, diametro dell’orlo della coppa 13,5 cm. G. Barucca, scheda 62, in Ori e argenti 2001, p. 157.
11
Barucca 2007, pp. 23-47.
12
Calice in argento e argento dorato, altezza 26 cm, diametro del piede 15,2 cm,
diametro dell’orlo della coppa 9,4 cm.
13
Calice in argento e argento dorato, altezza 30 cm, diametro del piede 17 cm,
diametro dell’orlo della coppa 9,5 cm. G. Barucca, scheda 130, in Ori e argenti
2001, p. 233.
14
Al di sotto del piede è inciso lo stemma dell’arcidiacono Pietro Cagnaroni e
l’iscrizione: “DIVO JULIANO ARCH. CAGNARONI USU DEDIT 14 GENNARO 1770”. Compare inoltre sul bordo esterno la scritta: “Calice l(ibbre)3
o(nce) 3 d(enari) 15 Patena o(nce) 5 d(enari) 14”.
15
Calice in argento dorato, altezza 26,8 cm, diametro del piede 15,2 cm, diametro dell’orlo della coppa 9 cm. Paci attribuisce questo calice a Giovanni Gagliardi.
Evidentemente confonde il nome con Giuseppe Gagliardi, celebre argentiere ro1
mano, che dal 1745 lavora per la cappella di San Giovanni Battista nella chiesa
di San Rocco a Lisbona. Dall’esame del bollo sul calice, pur non perfettamente
impresso, sembra comunque di poter escludere la paternità del Gagliardi. Vedi
Paci 1989, p. 126.
16
Al di sotto del piede è inciso lo stemma del canonico Cesare Blasi e l’iscrizione:
“Em(enintissim)o Capitulo ecclesiae Cathed Maceratae Caesar Can(oni)cus Blasi
Ad MDCCCLIX”.
17
Nato a Macerata nel 1714, Mario Compagnoni Marefoschi si avviò alla carriera
ecclesiastica nel corso della quale fu chiamato a ricoprire le più eminenti cariche
nonché i più prestigiosi uffici nella curia romana. Fu referendario delle due segnature, segretario della Congregazione del Buon Governo, segretario della Congregazione dei Riti, membro della Congregazione della Visita Apostolica, di quella
dell’Indice e di quella dell’Esame dei Vescovi quale esaminatore dei Sacri Canoni.
Nel 1759 fu nominato segretario della Sacra Congregazione de Propaganda Fide.
Ottenne la porpora cardinalizia da Clemente XIII nel 1770. L’anno seguente fu
nominato prefetto dei Riti. Morì il 23 dicembre 1780 e fu sepolto nella chiesa
titolare di Sant’Agostino in Roma.
18
Barucca 2007, pp. 31-38, e schede 70-74, 95-98.
19
AMCPP, Conti del Cardinale Mario: ricevute di Camillo de’ Rossi, ricevuta
n.1802, carta s.n.
20
AMCPP, ivi, ricevuta n. 1801, carta s.n.
21
J. Montagu, scheda 74, in Ori e argenti 2007, p. 239.
22
Stemma di Pio VI Braschi: scudo di rosso, alla pianta di giglio fiorita e fogliata al naturale, piantata su di una pianura di verde, curvata dal soffio d’argento
del vento Borea di carnagione e movente dal cantone destro del capo; col capo
d’argento caricato di tre stelle d’oro a otto punte. Questo scudo è posto su di un
inquartato: nel primo e nel quarto d’oro, all’aquila bicipite di nero spiegata, coronata dello stesso; nel secondo e nel terzo d’azzurro, alla fascia d’argento caricata
di tre stelle a sei punte e accompagnata da due gigli d’argento.
23
Barucca 2006, pp. 242-243, con bibliografia precedente.
24
Paci 1989, p. 127.
25
Si tratta del bollo n° 1766 in Bulgari Calissoni 2003, p.236. Questo bollo è
stato rilevato su altri oggetti marcati da Antonio Piani e potrebbe essere di uno
dei tanti artefici non patentati che lavoravano privatamente per le botteghe più
importanti.
26
Croce processionale in argento sbalzato, cesellato, inciso e traforato su anima
lignea, ricoperta di velluto; 342 x 167 cm.
27
Calice in argento e argento dorato, altezza 28,5 cm, diametro del piede 15 cm,
diametro dell’orlo della coppa 9,4 cm. Sotto il piede è incisa la scritta dedicatoria:
“Can(onicu)s Petrus Compagnoni Calicem Hunc dono dedit Cathed(ral)i Maceratae A. D. MDCCCII” e lo stemma comitale dei Compagnoni.
28
Paci 1989, p. 127.
29
Calice in argento e argento dorato, altezza 30,8 cm, diametro del piede 13,4
cm, diametro dell’orlo della coppa 8,5 cm. Sotto il piede è incisa la firma dell’argentiere: “Luigi Sciolette in Roma” la scritta dedicatoria del canonico Francesco
Narducci datata 1832.
30
Pisside in argento e argento dorato, altezza 35 cm, diametro del piede 13,5 cm,
diametro dell’orlo della coppa 14,5 cm. Sulla cornice esterna del piede è incisa a
lettere capitali la scritta: “FRANCISCVS ANSALDVS TELONI EPISCOPOS
MACERATEN ET TOLENTINEN DONO DEDIT ANNO 1844”. Il punzone apposto sulla pisside non è ben leggibile ma potrebbe corrispondere a quello
usato da Domenico Balestra o, più probabilmente, a quello usato dall’argentiere
romano Domenico Masotti, attivo tra il 1815 e il 1859.
Tolentino
Pagine precedenti:
Sarcofago di Flavio Giulio Catervio
(particolare del retro)
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
87
LA STORIA RELIGIOSA DELLA
CONCATTEDRALE DI TOLENTINO
Egidio Pietrella
Tolentino nel corso dei secoli ha avuto tre
chiese cattedrali successive, site in luoghi
diversi; e in più, una cattedrale “provvisoria” nella basilica di San Nicola, in
un momento travagliato della sua storia
(1810-1817). Le due prime cattedrali “ufficiali” furono quelle istituite nella “pieve
di Santa Maria” (1586) e nella chiesa di
San Francesco (1653), già dei Francescani Conventuali costruita nel centro della
città a partire dal 1270, circa.
Tolentino, municipio romano dalla metà
del primo secolo a. C., collocata lungo
un diverticulum di un’importante strada
romana, fu certamente favorita da queste
circostanze nel ricevere presto il messaggio cristiano. Il mausoleo di San Catervo, di Settimia Severina, sua moglie e
del loro figlio Basso, è la testimonianza
più antica e più eloquente dell’esistenza
di una famiglia cristiana nella Tolentino
della seconda metà del secolo IV. Il ricordo poetico redatto nella struttura metrica dell’esametro, la quale attesta che i
due coniugi furono battezzati e cresimati
dal vescovo Probiano e uniti in matrimonio “paribus meritis”, ne è la prova più
sicura.1
Tolentino fu sede episcopale, il cui vescovo fu probabilmente Probiano nominato
nel sarcofago e certamente Basilio Tolentinas che partecipò al sinodo romano
del 487 sotto il papa Felice III; lo stesso,
forse, prese parte al sinodo del 495 sotto
papa Gelasio; e indubbiamente il medesimo fu nel successivo sinodo romano
del 499 convocato da papa Simmaco; e,
con ogni probabilità, intervenne ancora
Sarcofago di Flavio Giulio Catervio (particolare della fronte)
nel sinodo romano del 502. Sull’identità della primitiva cattedrale disputant
auctores, ritenendola alcuni essere stata
la chiesa, dedicata in origine alla Vergine e al Salvatore e solo più tardi a San
Catervo, annessa a un monastero benedettino (ne sarebbe conferma il fatto che
la porta urbana confinante con la chiesa
Salvatoris et Sancti Catervi era chiamata
tradizionalmente “porta del vescovado”);
altri, invece, la identificano con l’antica alto medievale - “pieve di Santa Maria”,
costruita su un tempio romano, che nel
1586 Sisto V, elevando nuovamente Tolentino al ruolo di diocesi, eresse come
cattedrale.2
L’invasione dei Longobardi sconvolse come altrove - l’assetto sociale, politico
e religioso di Tolentino, per cui la sede
vescovile venne meno e la cura spirituale
dei cristiani fu affidata al vescovo della
superstite diocesi di Camerino, sotto la cui
giurisdizione Tolentino restò fino al 1586.
La prima cattedrale nella “pieve” urbana
di Santa Maria (1586-1653)
La pieve urbana di Santa Maria, che secondo il Santini risalirebbe al VII secolo,3
è attestata in molti documenti espliciti a
partire dal 1060.4 Nella visita pretridentina compiuta nel 1378 dal vescovo di
Camerino Benedetto Chiavelli risultano
presenti nella pieve il pievano e quattro
canonici. La chiesa ha quattro altari:
maggiore, della Maestà, di San Biagio,
di Santa Caterina. L’importante visita
apostolica, compiuta il 9 maggio 1573,
per mandato della Santa Sede, dal vescovo Giambattista Maremonti, titolare di
Utica, ci informa più dettagliatamente:
88
Egidio Pietrella
la chiesa ora possiede undici altari, compreso l’altare maggiore; il battistero è di
marmo e fatto recentemente ex novo; la
cura animarum è svolta da un cappellano
deputato dal Capitolo dei canonici, che
sono obbligati ad abitare nella casa canonicale, eccetto quelli responsabili di chiese che sono fuori la “terra” i quali debbono risiedere nella propria chiesa. Essendo
la pieve di Santa Maria satis insignis, vi si
deve tenere nei giorni festivi aliqua sacra
lectio. Nella visita pastorale del vescovo
di Camerino Girolamo Vitale de’ Buoi, è
pievano Gian Matteo Fiduzio (che deve
risiedere in sede, e non a Roma, dove è
canonico lateranense) e vi sono sei canonici. “Ecclesia ipsa est antiqua in eaque
deservitur per plebanum et canonicos singulis diebus et horis”. La chiesa ha undici
altari: quello maggiore ha una bellissima
“cona” con l’immagine della Vergine e
santi; conta duecentocinquanta famiglie
con milleottocento fedeli comunicabili;
vi si tiene il catechismo per i ragazzi. La
visita pastorale del 1585 compiuta dallo
stesso vescovo annota che “dicta collegiata fuit erecta antiquitus et non adest memoria erectionis”. Le famiglie sono circa
trecento e quattro i confessori approvati.
L’edificio non è in buono stato.
È del 10 dicembre del 1586 la Bolla Super universas del papa marchigiano Sisto
V (già cardinale “protettore” di Camerino e Tolentino) con la quale Tolentino fu
elevata alla qualifica di città e alla dignità
di (ristabilita) diocesi autonoma, staccata da Camerino: “In perpetuo erigiamo
e costituiamo l’oppidum di Tolentino in
città di Tolentino e la collegiata di Santa Maria in cattedrale con il titolo della
stessa Santa Maria e in essa la dignità, la
sede e la mensa vescovile per un vescovo da chiamarsi vescovo di Tolentino…
(Erigiamo e costituiamo) la pievania di
Tolentino in arcidiaconato, che rappresenti la maggiore dignità, dopo quella
vescovile e sottoponiamo immediata-
mente alla sede apostolica la stessa chiesa
eretta in cattedrale e l’accogliamo sotto
la protezione dei beati apostoli Pietro e
Paolo”. Il vescovo di Tolentino estende
la sua giurisdizone anche su Colmurano.
Ovviamente si cercò di abbellire la neocattedrale di santa Maria con nuova e necessaria suppellettile per assolvere alla sua
acquisita maggiorata funzione; si decise
di approntare un’abitazione conveniente
al neo vescovo contigua alla cattedrale.
Anche il Capitolo dei canonici acquistò
un ruolo maggiore, non solo in relazione
al culto liturgico da prestare in una chiesa
cattedrale, ma anche come “senato” del
vescovo e consiglio diocesano, e di supplenza in caso di sede vacante. Il pievano
divenne arcidiacono; gli altri sei prebendati divennero canonici veri e propri
della cattedrale con uffici e incombenze
varie (di cura d’anime, di culto, di servizi
amministrativi). Le sette prebende della
originaria pieve collegiata costituirono
i primi sette benefici canonicali, i quali
furono appunto chiamati “antiquiori”,
ai quali nei settantasette anni in cui la
pieve di Santa Maria fu cattedrale se ne
aggiunsero altri tre, fino ad arrivare a un
totale di dieci.
Tre anni dopo l’erezione di Santa Maria
in cattedrale, il 10 gennaio 1589 il vescovo Galeazzo Morone vi compì la prima
visita e non la trovò ancora molto ordinata, sia dal punto di vista di forniture
di suppellettile sacra che di adempimenti
giuridici; il pavimento stesso della chiesa era sconnesso; della sacrestia mancava
l’inventario. Le tre visite vescovili successive (1603, 1608, 1613) attestano l’avvenuto miglioramento; e già la relatio ad
limina del 1609 dichiara positivamente
che nella chiesa cattedrale officiano l’arcidiacono e otto canonici, il “curato”
(per la cura animarum) e il sacrista. Nella
chiesa sono sei cappelle e due altari, oltre l’altare maggiore; il fonte battesimale,
l’organo, il campanile con quattro cam-
pane, la sagrestia. Vi si predica sempre
nel tempo di avvento e in quaresima con
la scelta del predicatore da parte del vescovo e della Comunità.
La funzione di cattedrale dell’antica
“pieve” cessò nel 1653, come si vedrà. La
chiesa di Santa Maria, dopo un periodo
di decadenza fu ricostruita secondo l’attuale sistemazione architettonica negli
anni 1740-46 e, riconsacrata dal vescovo
Peruzzini nel 1766, prese il nome di Santa Maria Nuova e divenne tempio mariano della città e in parte succursale della
cattedrale. Ebbe la funzione di parrocchia
dal 1926 al 1966, per finire cappellania
e rettoria dipendente dalla collegiata di
S. Francesco. Restaurata con molteplici
interventi dopo il terremoto del 199798, fu inaugurata il 16 giugno 2002 ed
elevata a “santuario” mariano dal vescovo
Luigi Conti.
La seconda cattedrale nella chiesa di
San Francesco (1653-1810)
Il 15 ottobre del 1652 la bolla pontificia
Instaurandae del papa Innocenzo X ordinò la chiusura dei conventi con scarso
numero di religiosi, data l’impossibilità
da parte loro di assolvere pienamente
alla Regola. In seguito a tale disposizione a Tolentino anche il Convento di San
Francesco dei Frati Conventuali fu chiuso. Approfittando di questa circostanza
il vescovo diocesano Papirio Silvestri e
il Capitolo della cattedrale chiesero alla
Congregazione dei Vescovi e dei Regolari
la centralissima chiesa di San Francesco
lasciata dai Francescani Conventuali per
trasferirvi la cattedrale, perché quella
di Santa Maria era troppo fuori mano,
“scomoda al popolo, incapace, in cattivo sito e humida sopra modo”, mentre la
chiesa di San Francesco richiesta era “più
ragguardevole e più capace di farveli con
maggiore zelo et edificatione di tutto il
popolo il servitio di Dio”. Accolta positivamente dalla Congregazione la doman-
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
da, il vescovo diocesano in data 14 luglio
1653 adunò il Capitolo e con l’arcidiacono e gli altri nove canonici deliberò che
la Vergine Assunta, titolare fino allora
della cattedrale, lo sarebbe stata anche
della nuova cattedrale, pur conservandosi in questa il nome di chiesa di San
Francesco. La traslazione della cattedrale
avvenne con grande solennità il 15 luglio
1653. Le rendite del soppresso convento
dei Padri Conventuali furono utilizzate per l’erezione del seminario che ebbe
sede nell’abitazione del vescovo annessa
alla chiesa ex-cattedrale di Santa Maria; il
convento dei Conventuali contiguo alla
nuova cattedrale diventò residenza vescovile e sede della Curia che vi restarono
praticamente fino al 1950.
La chiesa e il convento francescano annesso furono edificati a partire dal 1270
nel luogo ove era già una casa situata nella piazza del Comune e donata ai frati
nel 1247. Di questa prima costruzione,
che probabilmente ripeteva lo schema
tipico delle chiese francescane con unica
navata e tetto in legno, resta ora l’abside
poligonale affiancata da due cappelle originariamente aperte verso la chiesa, poi
richiuse e divenute, la sinistra, base del
campanile e la destra, retrosagrestia. Il
campanile ricavato dalla sopraelevazione
della cappella di sinistra è stato innalzato probabilmente a più riprese, forse a
partire dal 1314, quando i francescani
vendettero alla Comunità il primitivo
campanile, allora staccato dalla chiesa,
che diventerà la torre civica nell’angolo del Palazzo Comunale. Attualmente
misura trentotto metri ed è noto come
“Torre degli Orologi”. Eretta in forme
romanico-gotiche nel secolo XIII, la
chiesa di San Francesco fu trasformata
a più riprese e specialmente intorno al
1765 e al 1875 (a seguito del terremoto
del 12 marzo 1873, che provocò danni
ingenti e il crollo della volta). L’attuale
aspetto è, quindi, principalmente frutto
89
di questi due ultimi interventi, anche se
le strutture barocche si sono sovrapposte
alle preesistenze medievali senza cancellarle del tutto. Il molteplice corredo degli
affreschi e delle tele datano dal XIV al
XVII secolo.5
In questa seconda chiesa cattedrale - stando alla documentazione esistente nella
archivio diocesano di Tolentino - furono
celebrati sei sinodi diocesani (nel 1663
e nel 1673 dal vescovo Francesco Cini;
nel 1690, dal vescovo Fabrizio Paolucci;
nel 1728 dal vescovo Alessandro Varano;
nel 1763 dal vescovo Carlo Augusto Peruzzini; nel 1784 dal vescovo Domenico
Spinucci). Sempre attestate dall’archivio
diocesano di Tolentino sono otto visite
pastorali compiute nella cattedrale dal
1686 al 1778.6
La terza cattedrale di Tolentino nella
chiesa di San Catervo (1817-1986)
La terza cattedrale di Tolentino fu eretta nel 1817 nella chiesa di San Catervo,
già chiesa abbaziale e parrocchia.7 Per
conoscere questa travagliata soluzione è
necessario richiamare il contesto storicopolitico di quegli anni.
La città e diocesi di Tolentino, dove il
vescovo Vincenzo Maria Strambi il 4
ottobre fece il suo ingresso, nell’anno
1802 - data a cui si riferisce la nostra documentazione - contavano complessivamente 8962 anime e 1737 famiglie. In
città tre erano le parrocchie: la cattedrale
(chiesa di San Francesco, dal 1653) con
4857 abitanti (2561 in città; 2296 in
campagna) per complessive 966 famiglie;
la collegiata (fin dal 1420) in San Giacomo con 517 abitanti (327 in città; 190
in campagna) e 121 famiglie; la chiesa
abbaziale di San Catervo (dal 1508) con
1085 anime (490 in città e 595 in campagna) e 195 famiglie.8
Dal 2 aprile 1808 il territorio delle delegazioni pontificie delle Marche fu
annesso al regno italico napoleonico e
Ritratto di san Vincenzo Maria Strambi, secolo XIX
ovviamente la stessa sorte toccò a Tolentino. Il vescovo di Macerata e Tolentino,
Vincenzo Maria Strambi, non aderendo
alla richiesta di giuramento di fedeltà al
nuovo regno napoleonico, il 28 settembre del 1808 fu arrestato e deportato
prima a Novara e poi a Milano. Dal governo francese fu decisa e attuata anche
a Tolentino la soppressione degli ordini
religiosi maschili (Agostiniani, Minori Osservanti, Cappuccini) e femminili
(Santa Teresa e Santa Caterina). Rimasta priva di religiosi nel 1810, la chiesa
di S. Nicola era richiesta da un gruppo
di canonici che volevano farne sede del
Capitolo e della cattedrale. Di fatto con
l’appoggio del podestà vi si insediarono,
trasferendovi mobili e archivio dalla sede
precedente di San Francesco. Il vescovo
Strambi dall’esilio fece intendere che il
santuario di San Nicola fosse da considerarsi sede “provvisoria” della cattedrale
e del Capitolo, che dovevano ritornare
nella chiesa di San Francesco. Ma questa situazione di contrasti e di incertezza
90
Egidio Pietrella
durò fino alla metà del 1817, quindi oltre il tempo in cui gli Agostiniani erano
rientrati, nel 1816, in possesso del loro
convento e della chiesa e i loro tre rami
dei Conventuali, Eremitani e Agostiniani della Congregazione Lombarda si erano unificati.
Il vescovo Strambi, rientrato nel maggio
del 1814 dall’esilio, nel dicembre del
1815 comunicò al Capitolo della cattedrale il decreto della Sacra Congregazione dei Vescovi e dei Regolari secondo cui
si intimava di riconsegnare il santuario
di San Nicola agli Agostiniani, aggiungendo essere desiderio del papa (ed era
il progetto dello stesso vescovo) che la
cattedrale si trasferisse nella chiesa di San
Catervo. Il Capitolo avanzò delle condizioni per ottemperare a tale ordine. Ma
il vescovo Strambi, non considerandole
ragionevoli, perseguendo il suo progetto
per San Catervo come nuova sede della
cattedrale, nel febbraio del 1816 disponeva il trasferimento del titolo di Collegiata dalla chiesa di San Giacomo a quella di San Francesco che come parrocchia,
ampliata territorialmente e demograficamente continua fino ad ora la sua funzione della cura animarum.9 Alla fine, i
canonici dopo due sentenze della Sacra
Rota dovettero lasciare la basilica di San
Nicola e sistemarsi alla meglio (28 giugno 1817) nella chiesa di San Catervo.
Questa chiesa era stata ricostruita, a partire dal 1256, in stile romanico (di cui
restano tuttora il possente campanile e
la porta d’accesso laterale che dà sull’attuale via Garibaldi) su una preesistente
chiesa eretta nell’alto medioevo, ed era
stata officiata, sine cura animarum, fino
al 1490 dai Benedettini qui insediatisi
verso il VI-VII secolo. Passati il convento
e la chiesa in commenda a Giovanni Battista Rutiloni, fu da lui riconsegnata nel
1507 al papa Giulio II che concesse chiesa, convento e beni ai Canonici Regolari
Lateranensi, erigendovi (1509) la prepo-
situra e la parrocchia. Questi abbandonarono tutto alla fine del secolo XVIII,
lasciando numerosi debiti. La necessaria
ricostruzione di questa terza chiesa fu
affidata in un primo tempo al pittore e
architetto tolentinate Giuseppe Lucatelli
e successivamente all’architetto e pittore
maceratese Filippo Spada. Quest’ultimo
modificò il progetto primitivo e nell’assetto architettonico neoclassico cambiò
l’orientamento dell’edificio, ponendo l’ingresso dov’era il presbiterio della chiesa
monastica del 1256, abbattendo quasi
completamente il panteum cum tricoro,
contenente il sarcofago dei corpi di San
Catervo, Settimia e Basso e trasportando
la stessa arca nella cappella della Santissima Trinità (o di Santa Maria della Pace),
dove attualmente ancora si trova.10
La cattedrale vi fu trasferita in maniera
definitiva nel 1819. I lavori della ricostruzione durarono dal 1820 al 1828.
Durante questo periodo i canonici volevano ritornare (26 agosto 1819) nella
chiesa di San Francesco, ma il vescovo
Strambi non lo concesse, “perché erano
state rese officiabili ad uso di chiesa le
camere contigue alla sagrestia di San Catervo […], dando a quelle l’ingresso dalla
parte delle logge”.11
Organizzazione ecclesiastica della neoeretta
cattedrale di San Catervo
Nella chiesa di San Catervo già esisteva
la parrocchia, per cui sorse il problema di
conciliare le due parrocchie preesistenti
(della cattedrale, già in San Francesco e
di San Catervo). Il Capitolo nella sessione del 28 marzo 1818 sollecitò una soluzione appropriata e il 7 dicembre del
1819 un decreto della Congregazione dei
Vescovi e Regolari impose la fusione delle due parrocchie in una sola, riservando
al Capitolo la nomina del “vicario curato” che attendesse alla cura animarum
parrocchiale, alla cui funzione lo stesso
Capitolo nominò il 7 gennaio 1820 don
Domenico Migliorelli. Il vescovo Strambi il 25 marzo 1820 emise il decreto di
perpetua unione delle due parrocchie e
vi aggiunse anche due coadiutori del “vicario curato”.12
L’istituzione del Capitolo della cattedrale
risaliva nella sua più antica origine al collegium presbiterale esistente già nell’antica pieve di Santa Maria, le cui sette
prebende costituirono i primi benefici
canonicali (detti per questo “antiquiori”)
della ricostituita (1586) diocesi e cattedrale di Tolentino. Nel corso del tempo
il Capitolo si accrebbe di altri benefici
e relativi canonicati fino a raggiungere
il numero di diciotto, quanti erano nel
tempo preso in esame. Esso aveva due
“dignità: l’arcidiacono, che nella ricostituzione della diocesi e della cattedrale
venne a usufruire della prebenda della collegiata di Santa Maria goduta dal
pievano, il quale nel 1586 fu promosso
arcidiacono; l’arciprete, di giuspatronato
Nardi (15 dicembre 1739), che costituiva la seconda dignità. Tra gli altri sedici
canonici ricoprivano particolari incarichi
il canonico “teologo” - incaricato di tenere nelle domeniche le lezioni di Sacra
Scrittura - che il vescovo Paolucci istituì nel 1692, elevando a tale compito il
preesistente canonicato di Santa Maria
delle Grazie eretto dal vescovo Morone
il 12 febbraio 1590; e il canonico “penitenziere” istituito nel 1693 dal vescovo
Paolucci con l’obbligo di attendere alle
confessioni (anche nel tempo della recita
dell’ufficio divino). Il Capitolo della cattedrale aveva ancora tre mansionari, cioè
beneficiati minori, con obblighi precisi
(recita del coro, celebrazioni, servizi liturgici) stabiliti dall’atto della loro istituzione; inoltre alcuni “officiali”, detentori
di incarichi e di servizi vari: il sacrestano
maggiore, eletto tra i canonici, coadiuvato da un sacrestano “minore” sacerdote; il
camerlengo, eletto tra i canonici, che amministrava le rendite destinate all’intero
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
91
Concattedrale di san Catervo, facciata
mantenimento della chiesa e alla “massa
comune”; un canonico “segretario”, che
tra l’altro custodiva l’archivio (riordinato, dopo i vari trasferimenti subiti, nel
1821, anche con un nuovo indice delle
materie). L’arcidiacono era soggetto alla
Regola della Cancelleria apostolica. I canonici avevano il diritto di indossare la
cappa magna ad instar S. Petri in Urbe,
accordato dal pontefice Benedetto XIV
con bolla del 6 dicembre 1740. Tutti
avevano l’obbligo dell’officiatura corale.
Il sigillo del Capitolo rappresentava l’immagine di Maria Vergine Assunta. Rifacendoci più direttamente al nostro periodo, c’è da segnalare che risale al 1821-22
la nuova elaborazione delle “Costituzioni
del Rev.mo Capitolo della cattedrale di
Tolentino” emendate e poi approvate dal
vescovo Strambi con decreto del 3 luglio
1822.13 Nel 1862 per il decreto del commissario generale Lorenzo Valerio i canonici furono ridotti a dodici; ridimensionato fu pure il numero dei mansionari.
Nel 1973, oltre l’arcidiacono, il Capitolo
della cattedrale di San Catervo contava dodici canonici attuali, un onorario;
cinque mansionari. Le funzioni del Capitolo della cattedrale, oltre che liturgiche (recita corale quotidiana dell’Ufficio
divino, celebrazioni nelle domeniche e
nelle feste solenni) erano anche di natura
giuridico-istituzionale. Stando al Codice
di Diritto Canonico emanato nel 1917,
spettavano ad essi il titolo e la funzione
di “Senato” e di “Consiglio” del vescovo;
il compito di eleggere sede vacante il Vicario Capitolare; il governo stesso della
diocesi fino all’elezione del detto vicario
(cann. 391,§ 1; 429, §.3; 431, §. 1; 432,
§. 1). Con il Concilio Vaticano II queste
importanti funzioni sono state affidate
al Consiglio presbiterale diocesano e al
Consiglio dei consultori.14 Inoltre, con il
decreto della Congregazione dei Vescovi del 30 settembre 1986 che stabilì la
“piena unione” delle cinque diocesi preesistenti, si istituì - con nuove costituzioni
approvate dal vescovo Conti il 6 gennaio
1998 - un unico Capitolo di canonici
presso la cattedrale di Macerata, formato dai canonici delle diocesi autonome e
da altri nominati dal vescovo stesso, che
debbono prendere parte al servizio litur-
92
Egidio Pietrella
Francesco Ferranti, iscrizione in memoria della consacrazione della nuova cattedrale
gico nelle annuali feste dei santi patroni
delle precedenti diocesi e nelle celebrazioni più solenni dell’anno liturgico.15
Ricognizione canonica dei corpi di san
Catervo, Settimia e Basso (3 agosto 1822)
Il 3 agosto 1822, tra gli atti di sacra visita pastorale del vescovo Vincenzo Maria
Strambi, fu compiuta la ricognizione dei
corpi di San Catervo martire, protettore principale della città, di Settimia e di
Basso, contenuti nel sarcofago.16
La ricognizione fu eseguita da “don Giuseppe Bonelli canonico della collegiata
di Tolentino e pro-vicario nelle cose spirituali, per delega speciale del vescovo
dei Tolentinati Vincenzo Maria di San
Paolo”. Il canonico Bonelli, aperta l’urna, visionò e identificò i corpi di San
Catervo martire, principale Patrono di
Tolentino, di Settimia vergine [sic!], moglie dello stesso e di Basso, ugualmente
martire. Successivamente l’arca, chiusa e
appostivi i sigilli vescovili, fu trasportata
dal sacello dove era situata antecedentemente in un altro luogo più in alto dove
ora si trova.
La cattedrale e la parrocchia di
San Catervo nella visita pastorale
del vescovo Teloni (1825)
Dalla “Risposta ai 42 quesiti proposti
da sua Signoria ill.ma e rev.ma Francesco Ansaldo Teloni vescovo di Macerata e Tolentino in atto di sacra visita” a
don Nicola Pallotta vicario perpetuo (dal
1823) della chiesa cattedrale di Tolentino il 9 settembre 182517 si deducono lo
stato materiale, l’organizzazione ecclesiastica e l’attività pastorale della cattedrale
e della parrocchia recentemente unite. La
parrocchia non ha confini stabiliti, non
essendo limitata ad un quartiere proprio.
Essa è costituita da famiglie che vivono
in città e nella campagna del territorio.
Le famiglie sono 1228 e le anime 6479. Il
“vicario curato” perpetuo viene eletto dal
Capitolo della Cattedrale e approvato dal
vescovo dopo regolare concorso. I canonici della cattedrale sono diciotto, le cui
“dignità” sono: l’arcidiacono; l’arciprete;
vi sono poi il canonico penitenziere; il
canonico teologo (che era “beneficiario”
della chiesa di Santa Maria delle Grazie) ;
due “mansionari” (“beneficiati” minori);
il sacrista; due “curati adiutori”.
La parrocchia ha il fonte battesimale, sito
all’ingresso del corridoio che fa parte della chiesa provvisoria; possiede i registri
dei battesimi (dal 1556), dei matrimoni
(dal 1564), dei defunti (dal 1656), dello
stato d’anime, uno per gli abitanti in città
e uno per quelli di campagna. Nell’ambito della parrocchia si trova l’Oratorio
Notturno (istituito dal vescovo Strambi), in Santa Maria Nuova che è diretto,
per disposizione del vescovo, dal vicario
curato della cattedrale; inoltre, vi è un
orfanotrofio. Nel territorio della parrocchia cinque sono le famiglie che hanno
l’oratorio privato per indulto apostolico.
Complessivamente l’organizzazione della
vita liturgica, catechistica, è regolare ed
efficiente; la vita religiosa e morale della
parrocchia è buona.
La consacrazione della nuova cattedrale
(1829) e il sinodo diocesano (1830)
La grandiosa opera di rifacimento della
chiesa, la durata dei lavori, la sua dedicazione e consacrazione sono testimoniate da tre lapidi poste sulla facciata e
da un’altra nella parete interna dell’ingresso secondario dalla piazza Strambi. Quella centrale esterna, tradotta dal
latino attesta che il tempio è “sacro alla
Vergine Madre di Dio Assunta in cielo
e al martire Catervo patrono salvatore”.
Lungo l’architrave della facciata si legge
questa invocazione, già inserita nelle antiche insegne del Comune di Tolentino:
“San Catervo, difendi il popolo di Tolentino”. La scritta posta a sinistra della
facciata esterna traccia una breve storia
della chiesa: “Il tempio, glorioso e degno
di ammirazione per la sua antichità, nel
quale i monaci dell’Ordine di San Benedetto e poi i canonici Lateranensi cantarono le lodi del Signore, elevato alla
dignità di chiesa cattedrale, fu ricostruito nell’attuale forma e struttura per la
cura dei vescovi il beato Vincenzo Ma-
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
ria Strambi e Francesco Ansaldo Teloni
negli anni 1820-1828”. La scritta che si
legge all’ingresso retrostante della chiesa
da piazza Strambi attesta che “il tempio
portato a termine per lo zelo del canonico teologo Gabriele Bezzi e di Domenico
Pace preposti alla raccolta delle offerte e alla direzione dell’opera, Francesco
Ansaldo Teloni, vescovo di Macerata e
Tolentino consacrò il 6 settembre 1829
con rito solenne, consacrazione che ogni
anno si deve commemorare nell’ultima
domenica di agosto”.
Sulle feste dei santi Patroni che si celebravano nella cattedrale di Tolentino siamo informati dai vari calendari liturgici
editi dai vescovi Strambi (1821), Teloni
(1828.1833); dagli Addenda al messale
romano pubblicato nel 1835 e dall’opuscolo Officia propria sanctorum quae recitantur in ecclesiis cathedrali et collegiata
huius civitatis Tolentini del vescovo Zangari (1854), tutti custoditi nell’Archivio
diocesano. La solennità di Maria Santissima Assunta in cielo, prima titolare
della cattedrale, si celebrava (e si celebra
tuttora) il 15 agosto secondo il calendario liturgico universale, di cui si seguono
i testi eucologici e le letture. La festa di
San Catervo martire si celebrava il 17
ottobre con particolare solennità: alla vigilia, il 16, erano prescritti il digiuno e
la celebrazione dei primi vespri solenni;
Il 17 ottobre, solennizzato con numerose celebrazioni eucaristiche e la messa
pontificale del vescovo, si concludeva
nel pomeriggio con devota processione
cittadina con la reliquia di San Catervo
contenuta in un reliquiario d’argento.
La festa di San Tommaso di Tolentino
francescano missionario e martire, ucciso per la fede cristiana dai musulmani a
Tana in India nel 1321, patrono principale minore di Tolentino (la cui reliquia
si venerava - e si venera - nella cattedrale
dal 1824, quando vi fu trasferita dalla
chiesa di San Francesco), era fissata nella
prima domenica di giugno; successivamente, come ai nostri giorni, si celebra
l’ultima domenica di ottobre. Tra i santi
particolarmente venerati a Tolentino è
San Nicola. Nato A Sant’Angelo in Pontano, entrò ben presto nell’Ordine degli
Eremitani di Sant’ Agostino in Tolentino, dove rimase per più di trent’anni
fino alla morte avvenuta il 19 settembre
1305. Umile e semplice, si distinse per
la sua carità verso i confratelli, i malati
e i poveri che visitava con sollecitudine.
Attese con zelo al ministero della predicazione e alla direzione spirituale delle
anime che edificava con il suo spirito di
preghiera, di penitenza e di carità. Fu
particolarmente devoto alle Anime Sante
del Purgatorio. Tante, secondo la tradizione, furono le grazie straordinarie e i
miracoli che lo accompagnarono in vita
e in morte, che fu ben presto avviato il
processo di beatificazione condotto a termine nel 1447 dal papa Eugenio IV. Il
suo corpo si conserva a Tolentino nella
monumentale basilica che porta il suo
nome e racchiude ricchi tesori d’arte e di
fede ed è mèta di numerosi pellegrini. La
festa liturgica che cade il 10 settembre, si
celebra per una settimana intera e termina nella domenica successiva con l’indulgenza plenaria del “Perdono”.
Questo ordinamento liturgico continuò
nel corso del tempo e lo ritroviamo ancora nell’ultimo calendario liturgico proprio dei santi tolentinati e approvato il 2
febbraio 1962 dalla Sacra Congregazione dei Riti. Attualmente, nell’anno 2010
con decreto del vescovo diocesano Mons.
Claudio Giuliodori è stato pubblicato,
dopo la riforma liturgica introdotta dal
Concilio Vaticano II (1963) e l’unificazione delle cinque diocesi preesistenti, il
“santorale” di tutta la diocesi, aggiornato
nei testi e nelle letture.
Continuando la storia, il vescovo Teloni
celebrò un sinodo diocesano nei giorni
23-25 agosto 1830 nella cattedrale di
93
Tolentino.18 Esso fu il primo dopo la restaurazione pontificia, tenuto a distanza
di quarantasei anni da quello dello Spinucci. Dopo tutti questi fatti, inaugurato
il nuovo edificio sacro, indicati gli orientamenti spirituali, definiti e prescritti i
riti liturgici, la vita religiosa della cattedrale e della parrocchia di San Catervo
procedette con regolarità ed efficienza.
Nell’interno la nuova cattedrale aveva
dieci altari, come al presente; con il passare del tempo qualcuno di essi ha mutato titolo e decorazioni. Nell’Ottocento
furono eseguiti alcuni interventi di riparazione dell’edificio sacro: nella facciata
(1841-43) e per la costruzione della gradinata esterna (1882-1883). Nel 1884
l’architetto Luigi Fontana realizzò il vano
(con cupola, statue dei 4 Santi Padri della Chiesa latina, dei santi marchigiani;
tele di San Severino, Sant’ Emidio e San
Benedetto) che collega l’altare della cappella di San Catervo con la chiesa.19
Dipendenti dalla cattedrale, sia perché
benefici di canonicati, sia perché proprietà della chiesa, i cui membri vi svolgevano il servizio religioso, erano alcune
chiese extraurbane: Santa Maria delle
Grazie (beneficio del canonico teologo),
la chiesa della Vergine Maria dei sette
dolori (detta comunemente dell’Addolorata), di San Pietro, della Pace, di San
Rocco, della Stelluccia, tutte ugualmente
controllate nelle varie visite pastorali dei
vescovi.
Pie unioni e confraternite
Nel 1850 fu istituita la Pia Unione del
“Santissimo Crocifisso e della Beata Vergine Desolata” con lo scopo di promuovere sempre più il culto del SS. Crocifisso
e della Beata Vergine Desolata.20
L’attività di questa pia istituzione che da
oltre centocinquanta anni svolge fino ad
oggi il servizio religioso e conta al presente circa quattrocento soci è lodevole.
Il 19 giugno 1856 fu incaricato il tolenti-
94
nate professor Pallotta di sistemare, come
è oggi, la cappella della Pia Unione, riunendo in un unico altare le due statue del
Cristo morto e della Vergine Desolata.
Nel dicembre del 1856 si stabilì che la
divisa dei confratelli su veste nera doveva
essere ornata di mostre e fasce di colore amaranto. Il 28 gennaio 1866, dietro
richiesta esplicita del Capitolo, la Pia
unione ricevette l’incarico di organizzare la funzione del Venerdì Santo, comprendente la predicazione delle tre ore
di agonia e la processione con il Cristo
morto. Fu necessario nominare allo scopo un deputato e tre assistenti, procurare
tutta l’apparatura richiesta e di tempo
in tempo sostituirla a causa dell’usura;
provvedere ogni anno alla nomina del
“Triorista” (predicatore delle tre ore), approntare ex novo il feretro, che è opera
di Allevi (1873), dotarsi di un servizio
di musica vocale e strumentale per le tre
ore di agonia (1874), acquistare un locale - che è quello attuale - per riporvi gli
oggetti sacri (1875).
In tempi recenti, entro il 1996, sono stati
effettuati i restauri delle statue del Cristo
e della Vergine e degli oggetti e suppellettile sacra e dei locali.
Intorno alla metà dell’800 sorse la “Pia
Unione del Sacro Cuor di Maria” già venerata nel 1707 sotto il titolo della “Stella” in una chiesa suburbana, dal nome
della “Visitazione” (di Maria) che apparteneva alla cattedrale o al Capitolo, dove
pie persone praticavano pubblici atti di
devozione mariana e di edificante pietà.
Col passare del tempo, crescendo il numero e il fervore dei devoti, questi nel
1842 costituirono un sodalizio, chiedendo all’autorità ecclesiastica il riconoscimento e l’aggregazione, ottenendoli con
diploma del 4 ottobre 1843, alla Primaria Congregazione del “Cuore Santissimo
di Maria”, eretta a Roma nella collegiata
dei SS. Eustachio e compagni martiri.
Nel 1859 il vescovo diocesano Amadio
Egidio Pietrella
collegiata di San Giacomo. Presso l’altare
della BeataVergine del Carmine svolgeva
le sue pratiche di pietà la “Confraternita
del Carmine” eretta in San Catervo, ancora chiesa abbaziale, il 31 luglio 1726.
Infine la Confraternita di San Giuseppe
aveva il suo altare dedicato al santo, nella
seconda cappella a destra per chi entra in
chiesa lungo la navata laterale destra.21
Alcide Allevi o Girolamo Capoferri, Sacro Cuore
Zangari con un suo decreto fece trasferire la sacra Immagine in cattedrale, nella
cappella attigua a quella del Santissimo
Crocifisso, abbellita e ornata con pitture
a cura della stessa Unione, che qui proseguì le devote pratiche in onore del “Sacro
Cuore di Maria”. Il Regolamento stabiliva la finalità nel promuovere la devozione mariana, celebrando con particolare
solennità le feste della Vergine e il mese
di maggio a lei dedicato.
Altre Pie Unioni elencate nella Visita
pastorale del vescovo Sebastiano Galeati
compiuta nel 1883 erano: la “Pia Unione
delle Figlie di Maria” eretta dal vescovo
Franceschini nella Cappella di San Catervo; la “Pia Unione del Sacro Cuore di
Gesù” nell’altare di San Biagio, di cui ora
si mantiene solo un ricordo con il quadro del Sacro Cuore, che si trova al centro dell’altare della cappella del Carmine; la “Pia Unione dell’Apostolato della
preghiera”, istituita nella parrocchia dal
1873.
Delle Confraternite, quella del Sacramento (e della Carità), risulta aggregata alla
cattedrale, pur avendo la sua sede nella
Storia dall’Unità d’Italia alla prima
divisione della parrocchia di San Catervo
(1870-1926)
Gli eventi storici che si verificarono dal
18 settembre 1860 (battaglia di Castelfidardo e annessione delle Marche al futuro Regno d’Italia) al 20 settembre 1870
(presa di Roma) cambiarono completamente l’assetto politico e amministrativo
vigente da tempo nel nostro territorio.
L’organizzazione civile ed ecclesiastica
e la stessa vita religiosa delle nostre città furono profondamente toccate dal
nuovo stato di cose. A Tolentino furono
soppressi (1866) gli Ordini religiosi degli Agostiniani, dei Francescani Minori,
il cui convento venne adibito a ospedale, dei Cappuccini, la cui casa fu trasformata successivamente a ricovero dei
vecchi. Altre disposizioni riguardavano
la riduzione del numero dei canonici e
mansionari e la previa concessione del
regio placet nella nomina dei vescovi, la
cui mancanza o ritardo allungò talvolta il
periodo di sede vacante. Il breve episcopato di mons. Giambattista Ricci (18951902) si distinse per una visita pastorale
e la celebrazione, dopo settant’anni da
mons. Teloni, di un importante sinodo
diocesano. La visita fu eseguita a Tolentino negli anni 1897-1898;22 aperta
nella cattedrale l’8 settembre 1897 post
horas vespertinas, fu molto scrupolosa e
analitica circa la suppellettile, gli oggetti,
la regolarità dei registri parrocchiali. Il
Sinodo diocesano, penultimo nelle due
diocesi affidate ad un unico vescovo, fu
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
celebrato nella cattedrale di Tolentino nei
giorni 28-30 dello stesso mese ed anno.23
Più lungo e molto attivo fu l’episcopato
del maceratese Raniero Sarnari. Fu speso
soprattutto nella diffusione capillare dei
due nuovi testi del catechismo di San Pio
X (1905; 1913). Il vescovo, inoltre, costituì in ogni parrocchia la “Confraternita della Dottrina Cristiana”. Devotissimo
della SS. Eucaristia (su cui scrisse tre lettere pastorali il 1910, 1912, 1913) e della Beata Vergine Maria, favorì l’Azione
Cattolica, curò i seminari di Macerata e
Tolentino, e il movimento cattolico. Tolse il non expedit nelle elezioni del marzo
1909 imponendo ai cattolici di votare a
Macerata Vittorio Bianchini e a Tolentino Anselmo Ciappi. Infine, svolse un’intensa attività anche in campo culturale,
per contrastare la cultura laicista e antireligiosa soprattutto il socialismo e il modernismo. Dalla “Relazione intorno alla
vicaria curata della cattedrale di Tolentino” fatta in occasione della Visita Pastorale di mons. Raniero Sarnari, si ricavano
nuove informazioni sull’organizzazione e
la vita della parrocchia di San Catervo.
Essa è retta per la cura animarum, oltre
che dal vicario curato perpetuo, canonico ed eletto dal Capitolo, da due curati
coadiutori, l’uno dei quali è mansionario, perpetui anch’essi e nominati dal
vescovo. La parrocchia risulta divisa “per
convenzione” e per accordi informali in
tre parti o quartieri, sia nella città che
nella campagna, nei quali ciascun curato
amministra gli ultimi sacramenti e assicura l’assistenza agli infermi. Nel territorio della parrocchia sono costituite sette
cappellanie.
La prima divisione della parrocchia
di San Catervo (1926)
Il 23 giugno 1926 il vescovo Luigi Feretti emise il decreto della divisione della
parrocchia della cattedrale di Tolentino
in tre parrocchie distinte ed autonome.
95
visione pastorale (non giuridica, perché
la parrocchia rimaneva unica, quella di
San Catervo) in tre parti assegnandone il
servizio religioso ai due curati coadiutori
della cattedrale, ai quali imponeva precisi
doveri, con sedi rispettive nella chiesa di
Santa Maria Nuova (da tempo succursale
della cattedrale) e di Santa Maria Costantinopolitana (già dei Cappuccini). Dopo
sedici anni (26 giugno 1926) fu emesso
l’atto giuridico del vescovo Ferretti che
divise definitivamente la parrocchia di S.
Catervo, erigendo canonicamente le altre
due parrocchie autonome.24
Braccio reliquiario di san Vincenzo Maria Strambi
Questa decisione fu il risultato naturale
di una situazione richiesta dall’aumento
della popolazione e dalle esigenze pastorali. Le premesse di questa soluzione
risalgono all’inizio del 1900 e con la prima visita pastorale del vescovo Sarnari
(1904). Per l’incremento demografico e
la maggiore estensione territoriale si venne amichevolmente e de facto alla divisione del servizio religioso per la parrocchia
di San Catervo in tre zone o quartieri tra
il vicario curato perpetuo e i due curati
coadiutori. Già il 5 maggio 1910 il vescovo Sarnari con il totale assenso del
Capitolo, procedeva con autorità alla di-
Gli ultimi sessanta anni (1949-2010)
Terminata la seconda guerra mondiale
che nel passaggio del fronte sul Chienti
causò nella cattredrale danni sul tetto,
presto riparati, si avviò lentamente l’opera di ricostruzione materiale e religiosa.
Tolentino accolse festosamente il 29 agosto il nuovo vescovo mons. Silvio Cassulo
nella sua cattedrale; egli riaprì nel 1949
il seminario minore nel palazzo adiacente la chiesa; promosse la peregrinatio
Mariae nelle parrocchie della diocesi (12
marzo-5 giugno) con la statua della Madonna della Tempesta, pellegrinaggio che
si concluse solennemente nella cattedrale
il 5 giugno 1949.
Nel 1950, anno santo, il vescovo guidò
numeroso popolo di diocesani, ricevuto
in udienza particolare da Pio XII il 10
giugno 1950, in occasione della canonizzazione di San Vincenzo Maria Strambi,
la cui urna contenente il corpo del santo
fu riportata tra i suoi fedeli in una sorta di peregrinatio che sostò dal 17 al 24
settembre nella cattedrale di Tolentino.
Quattro anni dopo, la cattedrale e la città
vissero giorni solenni nel periodo 13-19
settembre 1954, quando fu celebrato il
congresso eucaristico diocesano. In occasione di questo evento straordinario la
cattedrale ebbe una nuova sistemazione.
I lavori iniziati un anno prima con lo sco-
96
Egidio Pietrella
Luigi Galli La Forest, Ultima Cena
po principale di eliminare l’umidità che
deteriorava i preziosi affreschi cinquecenteschi della cappella di San Catervo,
assunsero progressivamente un carattere
ben più compleso e risolutivo rispondente alle nuove esigenze. Il presbiterio
fu arretrato e portato ad un livello più
basso; fu data la luce a due arcate, sopraelevando le volte laterali, che permisero
l’apertura di un finestrone per una più
adeguata iluminazione. Ne risultarono,
dunque, il prolungamento della navata
centrale e delle due laterali e a destra lo
scoprimento dell’antica torre.25 Furono
modificati il coro dei canonici e il trono del vescovo, degnamente sistemato
al centro dello stesso coro. Le due volte,
in corrispondenza delle due nuove arcate, con le rispettive pareti, furono dipinte
con arte dal pittore Cesare Angeletti che
riprese, nello stile, la decorazione del Ferranti. Infine, per il nuovo altare del Santissimo Sacramento lo scultore Luigi Galli
La Forest realizzò il nuovo paliotto dell’altare rappresentante l’Ultima Cena e scene
della Passione ai lati del tabernacolo.
Nel 1960 la popolazione della cattedrale
raggiunse il numero di tremilanovecento
abitanti, con evidente accrescimento che
preludeva ad una nuova necessaria divisione per un migliore servizio pastorale,
provvedimento che fu deciso agli ini-
zi degli anni ’70 con la creazione della
Zona Pastorale “Giovanni XXIII” ad est
della città dove si era creato un nuovo insediamento urbanistico, che ampliatosi
ancora, determinò la costruzione di un
nuovo ampio edificio sacro terminato nel
1986 e divenuto parrocchia con il titolo
dello “Spirito Santo” (18 maggio 1986).
Da allora, fino al presente, la popolazione della parrocchia di San Catervo si è
attestata sulle quattromila unità.
Dal 1986 per effetto del decreto della
Congregazione dei Vescovi che stabilì “la
piena unione delle (cinque) diocesi nella
chiesa di San Catervo, divenuta “concattedrale”, pur restando attiva la parrocchia
con la cura animarum retta dal parroco
precedentemente nominato, cessò l’esistenza del Capitolo della cattedrale. Il vescovo Francesco Tarcisio Carboni compì
tre intense visite pastorali alla parrocchia
e cattedrale di San Catervo, per conoscerne analiticamente situazione e necessità sul piano religioso, ma anche sociale
e culturale, e indicando orientamenti
pastorali adeguati ai tempi mutati. Con
questo stesso intento fu celebrato il sinodo diocesano (1988-1995) a cui presero
parte attiva i fedeli laici della cattedrale,
con una sorta di vera mobilitazione.
Negli anni 1990-1993 fu condotta una
campagna di scavi da parte della Catte-
dra di Archeologia Cristiana dell’Università degli Studi di Macerata, sotto la
guida del prof. Aldo Nestori, nel Mausoleo ( denominato panteum cum tricoro) dov’era custodito il sarcofago di San
Catervo. Come è stato ricordato, il mausoleo fu abbattuto negli anni 1822-25
per far posto al presbiterio della nuova
(attuale) chiesa neoclassica.
Nei giorni 10 e 30 dicembre 1992 fu
compiuta la ricognizione canonica dello
stesso sarcofago di San Catervo su disposizione del vescovo Carboni. Questa fu la
quinta tra quelle compiute nel corso dei
secoli e successiva all’ultima fatta eseguire
nel 1822 dal vescovo Strambi. L’apertura
del sarcofago consentì la verifica dell’esistenza dei corpi di San Catervo, Settimia
sua moglie e Basso loro figlio come testimonia la tabula inscriptionis e tramanda
la tradizione. Gli scheletri dei tre corpi
furono ricomposti nelle varie parti dal
prof. Giulio Marinozzi titolare della II
cattedra di Anatomia Umana dell’Università “La Sapienza” di Roma. Nel periodo 17 ottobre 1992 - 25 aprile 1995
nella stessa cattedrale iniziò e terminò
l’attività del tribunale ecclesiastico diocesano istituito per il processo di canonizzazione del tolentinate Luigi Rocchi
(1932-1979), vissuto quarantasette anni
di cui ventotto passati a letto a causa del-
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
la distrofia muscolare progressiva.
Il grave sisma del 26 settembre 1997, con
le sue ripetute e forti scosse che continuarono fino all’anno successivo (soprattutto
nel marzo 1998) lesionò la concattedrale
di San Catervo in più punti, soprattutto
là dove la struttura era stata indebolita da
infiltrazioni d’acqua. La Soprintendenza
ai Beni Ambientali e Architettonici delle Marche di Ancona, intraprese l’intervento di consolidamento strutturale e di
restauro inserito nel vasto programma di
riparazione dei danni subiti da molti edifici monumentali della Regione. I lavori
commissionati alla ditta “Cingoli Nicola
& Figlio” di Teramo procedettero a rilento e con pause e per mancanza di fondi
e per la imprevista necessaria revisione
dei lavori effettuati. Le offerte generose
dei fedeli (riuniti in un “Comitato Pro
San Catervo”), l’accensione di un mutuo e l’ipoteca su un podere stipulata
con la Banca delle Marche riuscirono a
far terminare questo recupero nel 2004.
Ma si procedette anche ad una revisione
totale degli impianti dell’amplificazione,
dell’illuminazione (ditta “Bettucci &
Salvatori”), dell’elettrificazione (a cura
dell’organaro Angelo Carbonetti di Foligno) del grande organo a canne della
ditta Zanin. Furono restaurate dalla ditta
Osvaldo Pieramici di Urbino con il contributo della Fondazione della Cassa di
Risparmio della Provincia di Macerata,
le decorazioni e le pitture dell’interno
della chiesa, della cappella delle “Carceri”. Nel periodo aprile-giugno 2006
l’impresa edile Frapiccini di Recanati
eseguì un impegnativo lavoro sulla romanica torre campanaria (cambiamento
dell’intelaiatura delle campane, rinnovo
del sistema elettrico e dei motori, collocazione di reti sulle apertura e chiusura
di tutti i fori per impedire l’annidamento
dei volatili ecc.). I complessi e molteplici
lavori furono inaugurati solennemente il
15 ottobre 2006 con la partecipazione di
97
Veduta del presbiterio con il paliotto d’argento dell’altare di Adeo Occhibianchi, 1958
autorità civili, della rappresentanza della
Soprintenza ai Beni Storici e Artistici di
Urbino, di mons. Cleto Bellucci, Delegato per i Beni Ecclesiastici delle Marche, e
di numeroso popolo. A questi interventi
si aggiunse nel 2008, grazie alla provvidenziale donazione di una generosa benefattrice e contributi del Rotary Club di
Tolentino, il restauro della cappella, antistante quella di San Catervo, realizzata
da Luigi Fontana: la ditta Osvaldo Pieramici, con l’assistenza dell’ingegner Gianfranco Ruffini, restaurò le decorazioni e
le pitture, le dodici statue dei santi; rifece
le dorature mancanti, rinnovò totalmente le finestre circolari della cupola. La
nuova illuminazione, sullo stesso stile di
quella della chiesa, fu eseguita dalla ditta
“Bettucci & Salvatori”. L’inaugurazione
avvenne il 16 novembre 2008 da parte del
vescovo diocesano Claudio Giuliodori.
Fu il punto finale di una enorme fatica:
quella del completo restauro della concattedrale (così ora è chiamata dal punto
di vista giuridico) e dell’intero complesso, durata ben otto anni.26
98
NOTE
Sul sarcofago di S. Catervo esiste numerosa e aggiornata bibliografia, per la
quale si rinvia a Il mausoleo e il sarcofago 1996.
2
Santarelli 2007, pp. 242-244.
3
Santini 1789, p. 154.
4
Per la storia della “pieve di Santa Maria” di Tolentino cfr. Pietrella 2002, pp.
107-192.
5
Per questa sintetica descrizione dell’architettura e dell’arte della chiesa di San
Francesco cfr. Tolentino. Guida all’arte 2000, pp. 98-102.
6
L. Mocchegiani, Archivio diocesano di Tolentino. Inventario, pro manuscripto, Tolentino 2003, Sinodi Diocesani 3/1-3/7; Visite Pastorali 4/1.3-4/2.2.
7
Si segue, sintetizzando, Pietrella 2007, pp. 147-209.
8
ASDT 42/1.1: “Ristretto dello Stato d’anime dell’anno corrente 1802 della città e
diocesi di Tolentino”
9
Costituzioni del Capitolo della cattedrale di Tolentino 1932, p. 16; cfr. ASDT
00011/18, Verbale del Capitolo della collegiata di S. Giacomo (22 febbraio 1816):
Proposta di traslazione della Collegiata da S. Giacomo a S. Francesco.
10
ASCCT, precatalogazione dattiloscritta di L. Mocchegiani, Tolentino 2002:
01019, “Fabbrica della chiesa di S. Catervo” (1818-1829); ASCCT, 01204/08:
“Facciata della cattedrale Gentiloni-Silveri 1828, n. 2 disegni; ASDT 00011/17:
“Fabbrica della chiesa cattedrale: relazione dell’ing. Spada al pro-vicario generale
G. Bonelli sui lavori necessari (27 nov. 1822); A. Pace, Cenni biografici sulla istituzione di tutti i luoghi pii, conventi, chiese, canonicati e benefici della città e diocesi
di Tolentino compilati da me Alessandro Pace cancelliere di questa Curia Vescovile,
manoscritto in ASDT 1853, p. 38 r/v; pp.138 r/v; Costituzioni del Capitolo della
Cattedrale di Tolentino, 1932, pp.11-20; I santi delle Marche 1967, pp.18-25
passim; Cecchi 1975, pp.326-341, passim; Semmoloni 2002, pp.66-67; per la
lite tra agostiniani e canonici: cfr. Mocchegiani 2001, 34/9.
11
Costituzioni Capitolari, Tolentino 1932, p. 20.
12
ASCCT, 0127/705 Traslazione della cattedrale in S. Catervo; ASCTT 01207/7,
Vescovo Strambi, Decreto di annessione della parrocchia di S. Catervo; ASDT,
00041/22 Acta Unionis et incorporationis; institutio Dominici Migliorelli ad vica1
riam curatam N.S. 11/11/22.
ASCCT 00725, Costituzioni capitolo della cattedrale…1821-1822; ASDT
42/1.10: “Risposta del Capitolo della Cattedrale ai quesiti fatti dall’ ill.mo e rev. mo
Teloni nella S. Visita aperta il giorno 20 settembre 1829. Per la storia del capitolo
della cattedrale di Tolentino vedi Costituzioni del Capitolo della Cattedrale di
Tolentino 1932, pp. 20-34 passim.
14
Chiappetta 1996, vol. I, pp. 636-637.
15
APCM, Costituzioni del Capitolo della cattedrale, vescovo L. Conti,
06.01.1998.
16
Nestori 1996c, pp. 119-126.
17
ASDT 42/1: Risposta ai 42 quesiti proposti da sua signoria ill.ma e rev.ma mons.
Ansaldo Teloni in atto di sacra visita a me Niccola Pallotta vicario curato perpetuo
della chiesa cattedrale di Tolentino il dì 9 settembre 1825, cc.10 n.nn.
18
ASDT, Sinodi Diocesani, 3/7, Teloni.
19
Per i lavori compiuti dalla metà dell’800 cfr. ASDT 42/1-10.
20
Archivio della Pia Unione del Cristo morto, Tolentino [1996 ?].
21
Pietrella 2007, pp. 160-162.
22
ASDT, Visite pastorali, 4/3.10, Ricci.
23
ASDT, Sinodi diocesani 3/8, 1901 Ricci.
24
Pietrella 2002, pp. 185-186.
25
Una lapide, posta all’ingresso della cappella antistante l’altare di San Catervo
attesta: “Nell’anno della Redenzione millenovecentocinquantaquattro / nel
centenario della definizione dell’Immacolata Concezione dellaVergine Madre di
Dio / anno quindicesimo del sacro pontificato di Pio XII Pontefice Massimo,
/ l’abside di questo tempio e la cappella dedicata a San Catervo / con opera e
ornamento più splendido / rifatto il pavimento di marmo e resa visibile la sacra
torre / unendo la funzionalità e il decoro / Silvio Cassulo vescovo di Tolentino /
e il Capitolo dei canonici /in occasione del primo congresso eucaristico diocesano / fecero restaurare”.
26
APCT, anni 2000-2008.
13
CRONOLOGIA
VII sec. (?) Esistenza della “pieve di Santa Maria”.
1378 La pieve di Santa Maria risulta “collegiata”.
1586 (10 dicembre) - Tolentino riottiene la diocesi; la pieve-collegiata di Santa Maria diventa cattedrale.
1653 (15 luglio) La sede della cattedrale viene trasferita nella chiesa di San Francesco già dei Francescani Conventuali.
1810-1817 La Basilica di San Nicola è sede “provvisoria” della cattedrale.
1817 (28 luglio) La chiesa di San Catervo diventa la sede della terza cattedrale di Tolentino.
1818-1829 Fabbrica della cattedrale nella chiesa di San Catervo su progetto di F. Spada.
1829 (6 settembre) Consacrazione della nuova cattedrale nella chiesa di San Catervo.
1926 (26 maggio) Prima divisione della parrocchia della cattedrale con la costituzione di due nuove parrocchie.
1950-1954 Restauri e nuova parziale sistemazione strutturale della cattedrale.
1954 Congresso eucaristico diocesano.
1970 Creazione della zona pastorale “Giovanni XXIII” nell’ambito della parrocchia della cattedrale.
1986 (18 maggio) Nuova divisione della parrocchia della cattedrale con l’istituzione della nuova parrocchia dello Spirito Santo.
1986 (30 settembre) La cattedrale in San Catervo assume il ruolo di concattedrale.
1990-1993 Campagna di scavi a cura della cattedra di Archeologia dell’Università degli Studi di Macerata nell’area dove era situato il mausoleo di San Catervo.
1992 Va ricognizione canonica del sarcofago di San Catervo da parte del vescovo Francesco Tarcisio Carboni.
2000-2008 Lavori di consolidamento della chiesa concattedrale danneggiata dal sisma del 1997-1998.
1997-1998 Restauro generale delle pitture, decorazioni; della cappella antistante il sarcofago di San Catervo; rifacimento di impianti elettrico, amplificazione, organo,
struttura campanaria.
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
99
DAL PANTEUM CUM TRICORO ALLA FACCIATA
NEOCLASSICA DI FILIPPO SPADA:
LA CHIESA DI SAN CATERVO A TOLENTINO
Stefano D’Amico
Il panteum cum tricoro
La cattedrale di San Catervo sorge ai
margini dell’antica città romana di Tolentinum in una zona che a quel tempo era
a destinazione funeraria.1 Qui alla fine
del IV secolo, Settimia Severina, moglie
dell’ ex prefetto del pretorio Flavius Iulius Catervius, fece seppellire il marito in
un sarcofago collocato all’interno di un
panteum cum tricoro – un edificio cupolato a pianta circolare con tre absidi - che
probabilmente lo stesso Catervo aveva
fatto costruire come mausoleo di famiglia.2 La tradizione, non supportata da
fonti attendibili, ritenendo che il santo
fosse vissuto nel I secolo, lo indicò come
colui che portò per primo il cristianesimo a Tolentino. Gli storici sono invece
concordi nel posticipare di tre secoli le
vicende dell’ex prefetto romano, quando il cristianesimo probabilmente era
già arrivato a Tolentino ed è attestata la
presenza di un vescovo di nome Basilio
(487 e il 502).3 La diocesi di Tolentinum
– come quella di Cingulum e di altri centri del Piceno – scomparve con le guerre gotiche e le invasioni longobarde e il
suo territorio fu annesso alla diocesi di
Camerino. Nel 1586 Tolentino riavrà il
titolo di diocesi, seppure unita a quella
di Macerata, e la pieve di Santa Maria –
oggi chiesa di Santa Maria Nuova – sarà
elevata a cattedrale.4
Dell’antico panteum cum tricoro ricordato nell’iscrizione del sarcofago restano
solo poche fonti documentarie e alcuni
tratti di muro conservati tra la base del
campanile e il locale detto carcere di San
Pianta del panteum, fine XIX secolo, in Gabrielli 1961
Catervo. Le prime sommarie e indirette
notizie dell’edificio sono contenute in
una passio S. Catervi, stilata da un anonimo redattore non prima del XIII,5 nel
verbale della ricognizione del sarcofago
del 17 ottobre 15676 e nella Storia di
Camerino di Camillo Lilii7 del 1649. Le
informazioni più dettagliate sul mausoleo le abbiamo invece da un manoscritto
del 1727 e da un Inventario del 10 giugno 1729, redatti, rispettivamente, dal
canonico della cattedrale don Nicola
Gualtieri8 e dall’abate don Giovanni Battista Loreto9 che lo videro ancora sostan-
zialmente integro seppur circondato da
un monastero e da una chiesa di origine
benedettina che nel tempo si erano notevolmente ampliati. Dai manoscritti si
deduce che era formato da una “Cappella grande” rotonda, detta “Panteone” o
“Cappellone”, coperta con una volta originariamente rivestita di mosaici, e da tre
“Cappellette”, una di faccia all’entrata,
una “a man destra” e l’altra “a man sinistra”. L’arca di San Catervo era collocata
al centro dell’aula, sollevata su quattro
leoni in pietra, probabili resti del protiro
della chiesa medioevale, affinché “dalli
100
Stefano D’Amico
Sezione del panteum ricostruita dopo gli scavi del 1989-1993, in Il mausoleo e il sarcofago1996
Devoti si potesse passare sotto quella per
liberarsi dalli mali et infermità loro”. Nel
nicchione nord vi era l’altare dedicato al
santo e qui si conservavano un reliquiario in argento con la testa del santo e una
teca d’argento e cristallo a forma di calice
con il sangue del martire. Il mausoleo comunicava a nord con un ambiente posto
tra le absidi nord ed ovest, denominato
carcere (foto nn. …) dove, secondo la tradizione, il santo avrebbe subito il martirio10, ma che in realtà è una costruzione
di epoca posteriore, edificata sopra una
tomba preesistente in un periodo non
facile da determinare e comunque prima
della metà del XIV secolo quando assunse la funzione di sacrestia o comunque
di luogo legato al culto del vicino mausoleo.11
Gli ultimi a vederlo e a descriverlo furono
i membri della commissione istituita dal
vescovo Vincenzo Maria Strambi (18011823) che il 3 agosto 1822 eseguirono
una nuova ricognizione dell’interno del
sarcofago, prima di trasferirlo nell’attuale cappella di San Catervo e dare inizio
ai lavori di ristrutturazione della chiesa
con la perdita quasi totale del panteum.
Si salvò, infatti, solo una parte dell’abside nord che, sebbene “alquanto modificata per uso di Battistero”, era ancora
visibile nel 1882 quando fu descritta da
don Nicola Nerpiti, mansionario della
cattedrale.12 Nel 1954, improvvidi lavori
per mettere in comunicazione l’ingresso
posteriore della chiesa con gli uffici parrocchiali, cancellarono la parete di fondo
di questa struttura lasciando solo i due
muri laterali dove di recente sono venuti
alla luce i resti di un affresco con Le Vergini sagge.13
Non fu, quindi, l’ingiuria del tempo o
l’incuria dell’uomo la causa della distruzione di questa preziosa testimonianza,
quanto invece, per uno strano paradosso della storia, propria la fama di santità che circondò sempre la tomba di San
Catervo e le necessità legate al culto che
richiedevano l’adeguamento continuo
degli spazi.
Non sono giunti fino a noi rilievi o disegni del panteum, neanche quelli che fece
l’architetto Filippo Spada nel 1822 prima di iniziare i lavori di ristrutturazione
della chiesa, o la pianta che, tra il 1885
e la fine del secolo, fu redatta probabilmente dal Nerpiti traendola dall’originale dello Spada o, viste le imprecisioni che
contiene, rifatta ‘a memoria’. Fortunatamente quest’ultima fu più volte copiata e
pubblicata a partire dal 1958,14 ma solo
al termine della campagna di scavi condotta dal 1989 al 1993, Aldo Nestori ha
potuto ricostruire con più precisione la
pianta e la sezione del mausoleo confermandone l’eccezionalità architettonica.
Con il suo naos circolare coperto con una
cupola si rifaceva direttamente al Pantheon di Agrippa a Roma, l’edificio forse più
significativo della classicità romana, anche se è impossibile dire se avesse, come
quest’ultimo, un pronao e l’oculo in
sommità.15 Il diametro e l’altezza esterna dell’aula erano di 10,65 metri con un
diametro interno di 8,90 metri; la larghezza da nord a sud era di 17,30 metri,
mentre la profondità esterna da ovest ad
est era di 15,90 metri e basti considerare,
tanto per avere un termine di paragone,
che la chiesa di San Giusto a San Maroto
di Pievebovigliana, databile tra l’XI-XII
secolo e chiaramente ispirata al panteum
di Tolentino, è leggermente più piccola.
La chiesa e il convento di Santa Maria
La fama di santità di Catervo “avrebbe richiamato intorno alla sua tomba le tombe di altri cristiani”16 e Arnaldo Manlio
Osmani ha ipotizzato che nei pressi del
mausoleo “i cristiani del IV-V secolo erigessero una prima Edicola”17 intono alla
quale i benedettini, giunti a Tolentino
nell’VIII-IX secolo costruirono una cella
“attratti dai simboli cristiani apposti nei
sarcofagi e ben determinati ad individuare in essi non soltanto il segnale di una
precoce cristianizzazione di quelle contrade quanto piuttosto la prova di un’origine miracolosa di tale evangelizzazione
il cui strumento non poteva che essere
un santo”.18 Nei documenti dell’XI seco-
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
Base del campanile inglobata nella navata laterale destra
lo la cella e denominata di S. Salvatore in
vocabulo S. Mariae in quanto dipendente
dall’Abbazia di San Salvatore Maggiore
presso Longone Sabino in provincia di
Rieti,19 ma già alla fine del XII secolo il
monastero e la chiesa saranno dedicati a
Santa Maria e a San Catervo finché, nel
secolo successivo, resterà solo il secondo
titolo segnando il definitivo distacco dai
benedettini di Longone che nel 1166
avevano ceduto i diritti sul monastero ai
Marchesi della Marca anconitana.20 Di
questa chiesa, come già detto, restano
solo alcuni elementi del protiro: la lu-
101
netta a rilievo con Cristo tra gli arcangeli
Michele e Gabriele e i santi Pietro e Paolo,
ora conservata nel corridoio dell’ingresso
posteriore,e i quattro leoni stilofori che
sorreggono l’arca di San Catervo.21 Loretta Mozzoni ritiene che, già dal 1099,
intorno a questo primitivo insediamento
monastico cominciasse a sorgere una fortificazione, della quale resterebbe traccia
nel campanile “la cui struttura di base
risale proprio a quel periodo, chiamata a
forse a due diverse funzioni: campanaria
e di avvistamento”.22 (foto n. …)
Nel 1256 i monaci chiesero ad Alessandro IV “l’autorizzazione a raccogliere offerte in varie città della Marca per potere
restaurare la loro chiesa ormai cadente
perché molto antica”. I lavori iniziarono
intorno al 127023 e portarono ad un organismo forse a navata unica, correttamente orientato con l’abside ad est, ma senza la tradizionale facciata principale sul
fronte opposto alla quale si rinunciò per
salvaguardare il panteum che venne a trovarsi in asse con la navata, tra la cappella
della Madonna della Pace - poi dedicata
alla SS. Trinità e oggi a San Catervo - e
la torre campanaria. L’ingresso principale, segnato con un portale strombato ad
anelli, (foto n. …) fu aperto sul lato sud
e sulla base in pietra dell’antica torre fu
innalzato un campanile in muratura con
marcapiani a dentelli mentre la navata e
la cappella della Madonna probabilmente erano coperte con travi di legno.24 Nei
secoli successivi la chiesa fu dotata di un
coro ligneo, rimosso e smembrato nel
1825, parzialmente intagliato e intarsiato da Giovanni di Dravia nel 147225 e nel
1433 vi fu sepolto il duca di Camerino
Bernardo Varano la cui pietra tombale è
stata rinvenuta durante i lavori di ristrutturazione del 1953-54.
I benedettini restarono a San Catervo
fino al 1490, poi il monastero e la chiesa
passarono in commenda a Giovanni Battista Rutiloni che “rinovò quasi tutta la
102
Stefano D’Amico
Pianta della chiesa quattrocentesca, fine XIX secolo, in Arte medievale benedettina ante 1990
Portale laterale, XIII secolo
Chiesa (…) e li fece la volta reale di mattoni doppij e la ridusse alla forma di tre
Navate”,26 mentre, su commissione della
Confraternita di San Catervo, il pittore
Marchisiano di Giorgio da Tolentino nel
1502 affrescò la cappella della Madonna
della Pace anch’essa ricostruita, insieme a
quella del battistero, ed entrambe coperte con una crociera costolonata.27 Il complesso fu poi consegnato a papa Giulio II
che nel 1507 lo cedette, insieme a tutti
i beni, ai Canonici Regolari Lateranensi
erigendovi nel 1509 la prepositura e la
parrocchia.28
Gli inventari e le descrizioni di cui abbiamo detto ci danno altre indicazioni
sui lavori effettuati e sullo stato di fatto
all’inizio del XVIII secolo: in particolare
sappiamo che nell’anno giubilare 1700
l’abate Ascanio Benadduci fece sistemare la cupola del panteum, illuminandola
“con finestre a proporzione” e decorandola con stucchi e una Gloria celeste affrescata da Pasqualino Marini da Recanati;29 spostò il sarcofago nell’abside ovest;
commissionò una Santa Maria Maddale-
si risolvesse il problema dell’umidità di
tutta la struttura.30 Tale esigenza, insieme
a quella ben più rilevante di avere una
sede episcopale “maestosa e decorata”31,
decretò la fine dell’antico complesso romanico e del mausoleo paleocristiano. Il
28 giugno 1817 i canonici si sistemarono
“alla meglio” nella chiesa di San Catervo
e i lavori di bonifica iniziarono - secondo quanto attestano le lapidi poste sul
prospetto principale e sopra l’ingresso secondario32 - nel 1820, anche se l’incarico
all’architetto-pittore Giuseppe Lucatelli
(1751-1828) sembra sia stato affidato
solamente nel 1821. Non avendo a disposizione disegni e/o dettagliate relazioni è difficile dire quale fosse la sua idea.
Secondo l’Osmani33 lo “scempio” che ne
seguì con la demolizione del panteum
non è imputabile al Lucatelli perché “il
suo progetto, che nel complesso sarebbe
stato grandioso e degno di una grande
città, fu guastato per economia e ridotto dal maceratese conte Filippo Spada” e
continua affermando che “lo scempio fu
completo perché si spostò la cripta (in-
na per la cappella del Santissimo Crocifisso e fece ornare con stucchi la cappella
di San Biagio. La lunetta altomedievale
con il bassorilievo di cui si è detto sopra e una lapide con l’iscrizione Anno
ab Incarnazione Dni MCCLXX Tempore
Reverendi Iacobi Praepositi erano poste
all’esterno, sopra il portale principale.
Tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX
secolo anche i canonici lateranensi, “oberati di passività”, lasciarono Tolentino e
per il complesso di San Catervo, già in
grave stato di conservazione, iniziava una
nuova fase.
La cattedrale di San Catervo
Dopo la parentesi napoleonica (aprile
1808 - luglio 1815), ripristinato il governo pontificio anche a Tolentino, il vescovo Vincenzo Maria Strambi decise di trasferire la sede vescovile dalla chiesa di San
Francesco a quella di San Catervo, ma il
Capitolo della cattedrale, prima di accettare il trasferimento, documentò con certificato medico “l’insalubrità dell’edificio,
causa di danni per la salute” e chiese che
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
103
Cappella del battistero
Veduta da ovest
tende l’abside n.d.a.) che anteriormente
era là dove è ora la tozza facciata”. Filippo Spada (1769-1852), preferito anche
ad Ireneo Aleandri (1795-1885),34 subentrò nell’incarico nel mese di aprile del
1822,35 forse “a causa di macchinazioni
e intrighi”36 che gettarono il Lucatelli in
un grave stato di prostazione, e il 20 del
mese successivo presentò il Piano di esecuzione e un disegno in cui espresse “con
la diversità di colori l’eseguito Fabbricato
e ciò che da me si prospettava”.37 Il disegno è disperso, ma fu certamente lui ad
elevare l’imponente e scenografica faccia-
ta rivolta verso la nuova strada di accesso
alla città che ora arrivava direttamente
davanti alla cattedrale. La demolizione
del panteum, per far spazio al presbiterio,
pensato dallo Spada altrettanto imponente ed esteso fino alla quinta campata,
a questo punto era inevitabile, mentre si
mantennero le due absidi laterali, probabilmente impostate dal Lucatelli, utilizzate come una specie di transetto.
I lavori furono appaltati il 16 maggio
1825 - quando “la Cappella del Santo”
era già stata demolita - al capomastro
Patrizio De Mattia, “del fu Francesco”
(colui che aveva già costruito il duomo
di Treia), il quale si impegnò a seguire “in tutto e per tutto” il “disegno già
approntato dal Sig.r Conte Spada”.38 Il
progetto originario prevedeva l’uso del
più economico ordine dorico, ma – scrive l’architetto maceratese – “la Cong.ne
ed i Cittadini di Tolentino desiderevoli,
per lustro della loro patria, mi invitarono
a produrre altro progetto, che fu da me
esibito, fregiato, ed ornato col grandioso
ordine Composito”, il quale, essendo più
104
Stefano D’Amico
Abside laterale
snello dell’altro, rese “necessario elevare
i muri della maggior navata a quell’altezza che richiedeva il suindicato ordine”.39 Questa variazione sarà causa di un
contenzioso con Filippo De Mattia, erede di Patrizio, che ritarderà il collaudo
dell’opera, ma non la fine dei lavori che
anzi furono ultimati con un certo anticipo sul previsto, e il 6 settembre 1829
il vescovo Francesco Ansaldo Teloni
(1824-1846) poteva consacrare la nuova
cattedrale priva di tutta la decorazione
interna. Poco dopo la fine dei lavori, a
causa lo spessore troppo sottile delle murature, si manifestarono alcune lesioni
a livello del timpano e del cornicione
della facciata e i deputati della fabbrica
chiesero all’architetto Ireneo Aleandri un
parere su un progetto di restauro che prevedeva una nuova facciata. L’Aleandri, il
10 marzo 1841, sconsigliò, saggiamente,
l’intervento e “sommessamente” propose
di “conservare identicamente il Disegno
dell’attuale facciata” e di procedere alla
ricostruzione del cornicione e del timpano con “proporzionata grossezza”.40
Alla cattedrale di Tolentino mancava tuttavia una cappella cupolata, già realizzata
a Recanati e a Treia e solo progettata a
Macerata, che doveva collegare la nuova chiesa con la preesistente cappella di
San Catervo. Il progetto fu affidato nel
1884 al pittore-architetto Luigi Fontana
(1827–1908) che su una classica pianta
quadrata, impostò un tiburio ottagonale
con quattro oculi coperto con una cupola intradossata a padiglione. I lavori
comportarono lo spostamento verso est e
l’arretramento del portale romanico e la
creazione di un’intercapedine per eliminare lo sfalsamento del muro perimetrale tra il corpo di fabbrica superstite e la
nuova chiesa. I lavori interessarono anche
il chiostro cinquecentesco del convento
che fu tagliato con un corridoio per collegare l’ala nord con la base della torre
campanaria, mettendo in comunicazione
diretta la chiesa con la sacrestia e salvando, per il momento, gli ultimi resti del
mausoleo. Anche i disegni del Fontana
sono dispersi e nell’Archivio diocesano
di Tolentino si conservano solo cinque
tavole, di cui una firmata dall’architetto
Antonio Massi, relative alla costruzione
del Seminario vescovile (1889).41
Nel frattempo si mise mano alla decorazione interna della chiesa impegnando
per decenni vari artisti locali come lo
stuccatore e scagliolista Villibaldo Natali di Montelupone, il pittore-ornatista
Antonio Morettini, i doratori Giambattista Savorelli di Fermo e Canzio Canzi
di Foligno, i pittori Girolamo Capoferri
e Alessandro Pagliari di Tolentino, l’ornatista Nicola Achillini e l’intagliatore
Alessandro Callisti di Montegiorgio.42
Gli ultimi interventi
Il XX secolo si aprì con l’indizione
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
dell’Anno Santo, un’occasione favorevole per completare i lavori iniziati circa un
secolo prima, con un pavimento in marmo, l’abbellimento di due cappelle con
mosaici e marmi, il restauro dell’arco del
presbiterio e delle scale esterne, il rivestimento delle pareti in finto marmo per
opera di Mario Adami di Roma e soprattutto la decorazione pittorica dell’aula,
affidata al tolentinate Francesco Ferranti (1873-1951) e realizzata nel biennio
1914-1916.43
Gli ultimi interventi risalgono al 1953-54
quando, in occasione del Congresso eucaristico diocesano del 13-19 settembre
1954, si cercò di risolvere l’annoso problema dell’umidità che, tra l’altro, stava
interessando anche gli affreschi quattrocenteschi della cappella di San Catervo.
I lavori finirono per interessare nuovamente l’impianto planimetrico della
chiesa con l’arretramento del presbiterio
attraverso l’apertura delle arcate laterali
della quinta campata, l’abbassamento del
livello del presbiterio, l’apertura degli archi di fondo delle navate laterali – che
permise di scoprire la base della torre
campanaria - la sopraelevazione delle due
volte laterali, l’apertura di un finestrone
ed infine la realizzazione di un nuovo
corridoio per mettere in comunicazione
l’ingresso con i locali parrocchiali senza
passare dalla chiesa, il quale, girando tra
il carcere e la torre campanaria, distrusse
per sempre la parete di fondo dell’unica
cappella superstite del panteum.
Le vicende del mausoleo paleocristiano
e della chiesa romanica di San Catervo
– ma anche della collegiata duecentesca di Treia o delle cattedrali gotiche di
Macerata e di Recanati – pongono una
questione fondamentale nella storia
dell’architettura obbligandoci a domandarci come sia stato possibile, nei secoli
passati, e per certi versi ancora fino alla
prima metà del XX secolo, demolire
edifici che oggi conserveremmo con la
105
Navata centrale
massima cura in quanto testimonianza
non solo artistica ma anche e soprattutto
storico-documentaria. La sostituzione di
‘vecchi’ edifici con strutture più moderne è stata sempre una pratica considerata
normale in tutte le culture, ma questa
attività sembro quasi ‘programmatica’
nella Chiesa cattolica a partire dal XV
secolo. Il precedente più illustre, e che
per certi versi legittimò i successivi, fu la
demolizione, all’inizio del Cinquecento,
della basilica costantiniana di San Pietro
che avvenne non per mano di ‘barbari’
invasori, ma per consapevole e ponderata
decisione di colti e raffinati umanisti al
vertice delle istituzioni politiche e culturali del tempo, quale papa Giulio II della
Rovere e Donato Bramante. Fra le tante
possibili motivazioni, vorrei qui riprendere quella formulata fin dal 1965 dallo
storico inglese Peter Murray, secondo il
quale la demolizione di San Pietro sa-
106
rebbe da inserire nel contesto più sacro
della cosiddetta instauratio, un termine
che “designava tecnicamente l’obbligo
che l’officiante ripetesse dall’inizio un
sacrificio non condotto correttamente”,
quindi la necessità non tanto di distruggere, ma di “ricreare da capo la basilica di
San Pietro” che, per vari motivi, non era
‘riuscita bene’. Questa idea del rinnovo e
della rinascita era anche “il simbolo del
primato di Pietro e dell’antichità della
Chiesa Romana”44 che il papato, dopo
l’esilio avignonese, voleva riaffermare
riallacciandosi direttamente all’autorità
dell’antica Roma di cui si sentiva erede
legittimo. Poste queste premesse, per
l’architettura ne derivava l’obbligo di
esprimere tale “ricreazione” nelle forme
del più puro e monumentale classicismo
romano, riprendendo dal vero, direttamente dalle rovine degli antichi edifici, i
modelli da utilizzare: archi a tutto sesto,
ordini architettonici, volte a botte cassettonate e cupole estradossate che da quel
momento saranno il bagaglio formale
degli architetti e in particolare di quelli
della seconda metà del XVIII secolo.
Su questa linea si muovono ancora gli
architetti impegnati a Tolentino nella ricostruzione di San Catervo all’inizio del XIX secolo: Giuseppe Lucatelli,
Filippo Spada e Luigi Fontana sono in
fondo gli eredi diretti del neocinquecentista Cosimo Morelli e del più classico Andrea Vici, che furono punti di
riferimento della cultura architettonica
marchigiana tra la fine del Settecento e
l’inizio dell’Ottocento. La loro produzione, certamente inferiore per importanza
e qualità a quella del coetaneo Giuseppe
Valadier (1762-1839) o del più giovane Ireneo Aleandri, fu l’ultima stagione
del classicismo di origine rinascimentale
prima della nuova era dell’eclettismo di
matrice storicista e romantica. Giuseppe
Lucatelli,45 un pittore formato nella bottega di Tommasoconca, allievo ed amico
Stefano D’Amico
Cupola all’intersezione della navata centrale con il transetto, Filippo Spada, 1822
Cupola della cappella di San Catervo, Luigi Fontana, 1884
di Anton Raphael Mengs, il padre del neoclassicismo, anche in ambito architettonico si muoverà tra la grande tradizione
rinascimentale – toccando il vertice nel
progetto di Villa Collio a San Severino
Marche (1812-1825) disegnata sui moduli palladiani della Rotonda di Vicenza
– e le forme austere e lineari, epurate da
ogni eccesso decorativo, del più aggiornato Purismo come nel prospetto del
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
107
Facciata principale, Filippo Spada, 1822
teatro di Tolentino (1788-1795). Il suo
intervento nella chiesa di San Catervo
sembra limitato alla scelta delle due absidi laterali, troppo poco per esprimere
un giudizio. Filippo Spada46 invece nella facciata di San Catervo, elevata come
un grande pronao tetrastilo in versione
tuscanica a colonne binate su un piedistallo, sembra fatalmente attratto dai
modelli del neoclassicismo internazionale che guardava al mondo greco, più
che a quello romano, riproponendone
gli stili senza mediazioni, quali modelli
ideali e astratti, incapaci di comunicare
emozioni e sentimenti. Più riuscito sem-
bra invece l’interno della cattedrale perché, non distaccandosi dalla tradizione,
riuscì ad ottenere, malgrado la successiva
sovrapposizione di una decorazione di
gusto eclettico, una pacata e armoniosa
solennità, espressione – direbbe Fabio
Mariano – di “conoscenza ordinatrice e
di certezza edificatoria” tipica del rinascimento. Diverso è lo spirito con il quale
Luigi Fontana,47 quasi alla fine del secolo, affronta il tema della cappella. Già
allievo del pittore Tommaso Minardi,
massimo esponente della corrente purista, il Fontana si allontanerà dallo stile
del maestro “preferendo la verità all’idea-
lizzazione”48 con innesti di tipo eclettico
e nella cappella della cattedrale di San
Catervo sembra già approdato a quella
fase finale che Marisa Calisti ha definito
neobarocca. Un fastoso apparato decorativo, esaltato dalla luce che cala copiosa
dall’alto e realizzato sfruttando al meglio
tutte le tecniche e i materiali artistici, riveste le superfici della cappella, mentre
nicchie con statue in gesso ricavate nei
pilastri d’angolo, nei pennacchi di raccordo tra la pianta e il tamburo e nelle
pareti angolari del tamburo, contribuiscono alla fusione, sempre ricercata dagli
artisti barocchi, delle tre arti.
108
Cappella di San Catervo, Luigi Fontana, 1884
Stefano D’Amico
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
109
NOTE
Per la storia di Tolentino vedere i testi di Santini e Colucci, pubblicati tra il 1789
e il 1793; una serie di articoli di Osmani ne L’informatore cittadino edito a Tolentino dal 1951 al 1965; la Storia di Tolentino di Cecchi del 1975 e soprattutto gli
studi di Diotallevi, Semmoloni e Nestori che via via saranno indicati.
2
Casadidio 1967. Nestori 1996a. Semmoloni 2007a.
3
Nestori 1996a p. 1.
4
Per la storia della diocesi vedere il saggio di Egidio Pietrella in questo volume.
5
Delehaye 1943 p. 26. Casadidio 1967 p. 19. Nestori 1996a p. 3.
6
Nestori 1996c pp. 101-113.
7
Lilii 1649 p. 85.
8
Semmoloni 1990 pp. 153-154, 162-163. Manoscritto C di Nicola Gualtieri, capitoli: Vita e Martirio di S. Catervo Martire, Protettore di Tolentino e Altre memorie
notabili nella Chiesa di S. Catervo in Tolentino. Vedere anche Nestori 1996a pp.
9-16 e Semmoloni 2007a pp. 37-38.
9
Nestori 1996a p. 5 e Semmoloni 2007a pp. 37-38. Giovanni Battista Loreto era
abate del monastero di San Catervo. Il manoscritto, già conservato nell’Archivio
diocesano, non è più reperibile.
10
Più specificatamente sulla pietra che funge da mensa dell’altare.
11
Nestori 1996b p. 75. Simoni 2007 p. 92. Il terminus ad quem e fissato dalle tracce di affreschi presenti sulle pareti e collocabili “nella produzione locale
trecentesca gravitante attorno al cantiere di San Nicola”. Secondo Semmoloni
2007a p. 66 il locale sarebbe stato un tutt’uno con il cosiddetto “anticarcere” che
successivamente fu diviso in due vani non comunicanti e poi di nuovo collegati
con l’apertura di un varco.
12
ASDT, Commentario dei Santi Beati, e Venerabili che illustrano la Città di Tolentino e la Chiesa Cattolica con la spiegazione dè monumenti un cenno del culto e
varie preghiere ai principali di essi a S. Catervo Protettore S. Basso e S. Settimia suoi
compagni a S. Nicola e S. Tommaso Compatrioti che si venerano in detta città, 1882.
Il Nerpiti, a pochi anni di distanza, ora condanna la “deplorevole” devastazione
del “Panteo”. Nestori 1996a p. 9. Semmoloni 2007a p. 39.
13
Casadidio 1995 p. 18. Semmoloni 2007a, p. 38.
14
Testini 1958 p. 89. Gabrielli 1961 fig. 51. Casadidio 1967 p. 21. Mozzoni,
Montironi s.d. ante1990 p. 130. La prima copia, di autore ignoto, è del 1926; la
seconda è datata 1934 e si deve al canonico della cattedrale E. Pierangeli; la terza,
su carta lucida, è più recente. Paoloni 1996a p. 24.
15
Il Pantheon romano non ha absidi laterali, ma ambienti centralizzati absidati
costituiscono una tipologia specifica dell’architettura curvilinea romana.
16
Semmoloni 2007a p. 44. Due furono rinvenute nel 1953-54 nel locale detto
“anticarceri”. Altre sepolture vennero alla luce durante gli scavi del 1988-93 nel
locale detto “carceri”.
17
Osmani 1954, p. 4.
18
Mozzoni, Montironi s.d. ante 1990 pp. 131-132. Altri autori, senza riscontri
documentari, anticipano l’arrivo dei benedettini al 599.
19
Alcuni autori fanno giustamente notare che se i benedettini si insediarono presso la tomba del santo vuol dire che il suo culto era già consolidato a Tolentino.
20
Santini 1789 p. 94, Cecchi 1975 pp. 63-64,77-79, Tolentino. Guida all’arte
1988 p. 62 Mocchegiani 2007 p. 221. I riferimenti sono contenuti in pergamene
dell’XI secolo dell’archivio monastico di San Catervo, conservato in San Pietro
in Vincoli a Roma. Nel 1255 papa Onorio III conferma tutti i beni goduti dal
monastero di San Catervo senza citare più la chiesa madre.
21
Osmani 1953 p. 5 dice che “durante i lavori di sistemazione del nostro Duomo
sono stati rinvenuti nel sottosuolo i resti di un altare in pietra comprendenti
molte colonnine, basi e capitelli che possono ascriversi al X-XI secolo” che furono
riutilizzate per l’altare della cappella di San Catervo.
22
Mozzoni, Montironi s.d. ante 1990 p. 132.
23
Tolentino. Guida all’arte 1988 p. 62, Semmoloni 1990 p. 164. All’inizio del
XVIII secolo, a sinistra del portale principale sulla facciata sud, era visibile una lapide a ricordo dei lavori che Nicola Gualtieri fece in tempo a ricopiare prima che
1
venisse rimossa. Il Consiglio comunale del 9 giugno 1272 non si tenne, come al
solito, nella chiesa di San Catervo, ma in quella di San Giacomo, probabilmente
perché inagibile causa i lavori di ristrutturazione-costruzione. Casadidio 2007 p.
143, Mocchegiani 2007 p. 225.
24
Il non allineamento della torre ai muri della chiesa confermerebbe la sua preesistenza.
25
Servanzi Collio 1850 p. 11, Semmoloni 1990 p. 164. L’iscrizione era uguale a
quella contenuta in alcuni sigilli comunali “Alme Tolentinum Populum difende
Caterve” poi seguiva la firma e la data: “Joannes Oravia finivit 1427”. Quando nel
1825 fu rimosso e smembrato, il conte Severino Servanzi Collio di San Severino
ne acquistò alcune tavole, mentre di altre fece dei disegni.
26
Semmoloni 1990 p. 164. Stemmi in pietra con le lettere I.B.R. (Ioannes Baptista Rutilonus) – dice Nicola Gualtieri - furono posti “sopra la Volta grande e sopra
le Cappelle nella Navata”. Le colonne in laterizio sono attualmente inglobate nei
pilastri. Durante i lavori del 1953-54 fu scoperta una colonna circolare la cui foto
è pubblicata in semmoloni 2007b p. 101. La pianta del 1934, copiata da un originale di fine Ottocento, indicava una successione di pilastri circolari, esagonali,
ottagonali e criciformi. Mozzoni, Montironi s.d. ante 1990 p. 130.
27
Semmoloni 2007b pp. 108-109.
28
Pietrella 2007 p. 149.
29
Semmoloni 1990 pp. 153, 163. Frammenti della Gloria, che recava una “memoria” dell’abbate, sono ancora visibili in un ripostiglio del primo piano dell’episcopio.
30
Pietrella 2007 p. 149.
31
ASDT, Chiesa cattedrale, busta 42, Lettera di Filippo Spada del 7 giugno 1843.
32
La prima iscrizione dice: TEMPLUM ANTIQUITATIS GLORIA SPECTANDUM UBI / SODALES ORD. S. BENEDICTI AC DEIN CANONICI LATER. / DEI LAUDES CECINERE – AD DIGNITATEM ECCLESIAE
/ CATHEDRALIS EVECTUM – IN PRAES. STRUCTURAE / FORMAM
RESTITUTUM EST – CURA EPP. B. VINCENTII / MARIAE STRAMBI
ET FRANCISCI ANSALDO TELONI/ MDCCCXX – MDCCCXXVIII. La
seconda dice: TEMPLUM / GABRIELIS BEZZI CANONICI THEOLOGI
/ ET / DOMINICI PACE / TAM COLLIGENDIS/ QUAM OPERI DIRIGENDO PRAEFECTORUM / SOLLICITUDINE PERFECTUM / FRANCISCUS ANSALDUS TELONI / EPISCOPUS MACERATAE ET TOLENTINI / POSTRIDIE NONAS SEPTEMBRIS ANN. MDCCCXXIX / ULTIMA
DOMINICA AUGUSTI / QUOTANNIS RECOLENDO / SOLEMNI RITU
DEDICAVIT.
33
OSMANI 1953 p. 5.
34
Cristini 2004 p. 171. Una lettera del canonico Bezzi del 30 settembre 1839 si
conserva in BCM, Archivio Aleandri, ms. LII, c.16.
35
ASDT, Chiesa cattedrale, busta 42, Lettera di Filippo Spada del 7 giugno
1843.
36
Settembri 2001 p. 15.
37
Nestori 1996a p. 7.
38
ASDT, Chiesa cattedrale, busta 42, contratto di appalto del 16 maggio 1825.
39
ASDT, Chiesa cattedrale, busta 42, lettera di Filippo Spada del 7 giugno 1843.
40
ASDT, Chiesa cattedrale, busta 42, relazione di Ireneo Aleandri del 10 marzo
1841.
41
Semmoloni 2007a pp. 60-63.
42
Casadidio 2007 pp. 138-140.
43
Pietrella 2007 pp. 156, 184, 213, 216 e le lapidi sulle pareti di fondo. Casadidio
2007 pp. 131-137.
44
Murray 1971 p. 154. Il Rinascimento fu supportato letterariamente da numerose descriptio urbis Romae che, rievocando nostalgicamente la gloria di un tempo
passato con la speranza di rinnovare quella grandezza, diffondevano l’ideale della
romanitas e del senso della continuità ininterrotta tra la Roma antica e quella
cristiana.
110
Settembri 2001. Giuseppe Lucatelli 1929. Mariano 2004a pp. 23,31. Quando
concluse gli studi a Roma si stabilì a Tolentino, la città paterna, iniziando un’intensa attività di pittore, architetto e docente nelle scuole locali. Progettò edifici a
Fermo (ristrutturazione del teatro dell’Aquila, 1795-1797), a Treia (collaborò con
Carlo Rusca, al quale poi subentrò, nei lavori per il teatro Condominiale, 17921811), a San Severino Marche (cappella di palazzo Collio, 1808; chiesa di Santa
Chiara, 1815 c.; Monte di Pietà, 1817 e probabilmente il primo disegno per la
chiesa di San Michele) a Mogliano (chiesa del SS. Crocifisso, 1811); a Colmurano (chiesa di San Donato, 1815-1821), a Porto San Giorgio (facciata del teatro
Comunale, 1811-1817) e a Tolentino (teatro Nicola Vaccaj, 1788-1795; chiesa di
San Nicolò, 1786; chiesa di Santa Croce e Porta marina, 1812). Morì a Tolentino
il 4 settembre 1828 e i suoi resti furono trasferiti nella cattedrale nel 1951.
46
Mozzoni 1984 pp. 217-218. Paci 1989 pp. 152, 153. Mariano 2004b p. 185.
Montironi 2009 p. 226. Alla fine del XVIII secolo si trasferì a Macerata dove
insegnò disegno nel regio Liceo avendo come allievo, nell’anno scolastico 18131814, il giovane Ireneo Aleandri. Pittore, musicista, collezionista, accademico
clementino e georgico, subentrò a Carlo Rusca e a Giuseppe nei lavori del teatro
Condominiale di Treia, progettandone l’atrio e probabilmente la facciata A Macerata presentò un disegno per Porta Mercato (1815) impostato con un ordine
gigante di colonne tuscaniche che ritroveremo a Tolentino; invitato a presentare
un progetto per lo Sferisterio, risultò il meno criticato dalle commissioni giudicatrici; un suo disegno per casa Carnevali in via Crescimbeni (1825) sarà modificato
in fase esecutiva. È sepolto nella chiesa dei Cappuccini (ora dell’Ospedale civile)
e sulla lapide si legge: FILIPPO DEI CONTI SPADA / RELIGIOSO INTEGRO LIMOSINIERO / IN SEVERA GRAVITA’ DI COSTVMI / SOAVISSIMO D’INDOLE DI ASPETTO DI MODI / CVLTORE DELLA MVSICA /
NELLA PITTVRA E ARCHITETTURA / OPERATORE ASSIDVO / E NEL
45
PVBB. ATENEO E NEL PRIV. STVDIO / PRECETTORE LODATISSIMO
/ QVI PRESSO ALLA IMMAGINE / DI NOSTRA SIGNORA / CONSOLATRICE DEGLI AFFLITTI / DA LVI STESSO DIPINTA E DONATA /
VOLLE ESSERE SEPOLTO / MANCO’ AL DESIDERIO DEI BVONI / E
ALL’AMORE / DELLA VED. COSTANZA CONVENTATI / DELLE FIGLIVOLE DOLENTISSIME / ARTEMISIA GVLIA MARIA-AVGVSTA / E DEI
GENERI QVASI FIGLI / CELESTINO SALVATORI GIOVANNI VRBANI /
FRANCESCO MARCVCCI / IL DI X. FEBBR. MDCCCLII./FVRONO GLI
ANNI SVOI OTTANTATRE / LE SVE VIRTV’ SENZA NUMERO.
47
Cicconi 1928. Papetti 2004a p. 13. Luigi Fontana 2004. Calisti 2004b p. 52.
Erede di una famiglia di architetti-muratori di origine svizzera venuta nelle Marche alla fine del XVIII secolo. Agli studi di architettura preferì quelli di pittura,
frequentò l’Accademia di San Luca e lo studio del pittore Tommaso Minardi.
Accademico di San Luca e socio della Pontificia Congregazione dei Virtuosi al
Pantheon fu essenzialmente un pittore e uno scultore, un protagonista assoluto
della pittura marchigiana, e non solo, della seconda metà del secolo, ma non
rifiutò incarichi di architettura come la ristrutturazione e il restauro delle chiesa
di San Domenico a Fermo (1846), della cappella Colonna nella basilica dei Santi
Apostoli a Roma (1877), delle cattedrali di Sutri (1882), Montefiascone (1889)
e Montalto delle Marche (1894), della chiesa del Rosario a Grottazzolina (1894);
il progetto di palazzo Sacconi a Montalto, del nuovo atrio – mai realizzato - del
teatro Apollo di Mogliano (1881) ed infine a Tolentino progetto il Cimitero comunale (1878), la villa del conte Giuseppe Carradori (1878-1883) e il restauro
della cappella di palazzo Morici Morrone (1883). Morì a Monte San Pietrangeli
il 27 dicembre 1908 dopo esserne stato sindaco nel 1900.
48
Papetti 2004a p. 13. Calisti 2004a pp. 25, 52, 58. Calisti 2004b p. 149.
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
111
LE TESTIMONIANZE MEDIEVALI NELLA CHIESA
DI SAN CATERVO A TOLENTINO
Gabriele Barucca
In occasione del rifacimento della cattedrale, iniziato nel 1820 e portato a termine nel 1828, venne malauguratamente distrutto il mausoleo paleocristiano
di Flavius Iulius Catervius, costruito per
contenere il suo maestoso sarcofago.1 Il
monumento funerario, costruito alla
fine del IV o ai primi anni del V secolo a
forma di pantheon circolare sul cui perimetro si aprivano tre nicchioni absidati,
aveva superato indenne le successive fasi
costruttive della chiesa. Queste si concentrarono in almeno due momenti fondamentali: un primo ampliamento risale
forse al VII o VIII secolo, quando si addossò al mausoleo una cella monastica,
elemento iniziale di un insediamento benedettino con conseguente costruzione
di una chiesa con annesso monastero.2
A questa fase seguì un completo rifacimento del complesso monastico intorno
al 1256, quando i benedettini di San
Catervo per la riedificazione della loro
chiesa ormai cadente ottennero dal papa
Alessandro IV il consenso a raccogliere
offerte in varie città della Marca.3
Nonostante la demolizione ottocentesca,
insieme ai pesanti restauri condotti nel
1954, abbia cancellato quasi per intero le
tracce delle precedenti costruzioni,4 esistono alcuni elementi che ne conservano ancora la memoria e vanno pertanto ricordati.
Per iniziare commentiamo il frammento
di affresco nascosto alla vista da superfetazioni murarie venute nel corso del
tempo e riportato alla luce grazie a una
importante campagna di scavo, diretta
da Aldo Nestori tra il 1989 e il 1993, che
Le Vergini prudenti
112
Gabriele Barucca
Cristo benedicente tra gli arcangeli Michele e Gabriele e i santi Pietro e Paolo, rilievo
ha consentito il rinvenimento dei resti
del mausoleo di Catervio inglobati nella
costruzione ottocentesca. Si tratta della
decorazione frammentaria dell’absidiola
del nicchione nord del panteum cum tricoro. Sopravvivono della composizione
originaria due figure femminili sontuosamente abbigliate, e il frammento di
una terza, che volgono a destra verso il
centro dell’abside, tenendo in una mano
la torcia accesa e nell’altra un vasetto
monoansato dell’olio. Come ricorda la
scritta sottostante a lettere capitali (“(P)
RUDENTES VIRGIN(ES)”), si tratta
dei resti di una teoria di vergini prudenti, scandite da colonne intercalate, di cui
una ancora si intravede alla destra del
lacerto. In origine forse le figure femminili erano cinque conformemente al
racconto evangelico, secondo il quale le
vergini erano nel complesso dieci, cinque
prudenti e cinque stolte. Sopra le figure
corre una fascia con un’altra scritta di cui
si leggono solo alcune lettere (“E CUN-
CTI”). Nella parte superiore sopravvive
una porzione della decorazione del catino absidale dove si intuisce la raffigurazione dell’inizio di un albero che affonda
le radici nel terreno reso con un tracciato
di linee ricurve come la sequenza di piccole onde. Questo misero resto ha fatto
pensare, cercando di interpretare il soggetto della decorazione dell’abside, ad
una croce fra due alberi o, forse con più
probabilità, ad un Cristo in trono fra alberi, in ragione del nesso tra le Vergini e
lo Sposo, vale a dire Cristo.
Quanto alla datazione dell’affresco tornato alla luce si rileva tra quanti se ne sono
occupati una notevole discordanza di
giudizio, motivata dalla difficoltà oggettiva di inserire il frammento superstite in
un panorama ormai irrimediabilmente e
gravemente lacunoso come quello della
pittura murale nelle Marche altomedievali. Aldo Nestori, che ha scoperto e più
volte pubblicato l’affresco,5 lo confronta
con quelli conservati nella cripta, o sacel-
lo ipogeo, dell’abbazia dei Santi Rufino
e Vitale ad Amandola e ipotizza “che nel
mausoleo di Catervio ci si trovi di fronte ad una pittura di età carolingia, IX-X
sec., o al massimo ottoniana, XI sec.”6 Di
diverso avviso è Serena Romano che propone una “datazione ben all’interno della
civiltà romanica”7 tra la fine dell’XI e il
XII secolo. La studiosa propone confronti con un affresco a Santa Maria di Piazza
ad Ancona, per la tendenza alla composizione di tessuti lineari o addirittura graficizzanti, nonché per un’affine rozzezza
dei particolari anatomici. Non trovando
in ambito marchigiano ulteriori confronti soddisfacenti, la Romano propone
un accostamento con i resti di affreschi
della torre campanaria di Farfa, per “la
somma di colori semplici e fortemente
sottolineati da linee nere”8 e inoltre con
certa pittura della Francia meridionale, o
della Catalogna, zone a cui il riferimento
si estende anche per la “particolare iconografia del frammento, di cui non conosco
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
Leone che ghermisce un martire con la croce
molti casi nella pittura romanica italiana”9. Infine Daniela Simoni ha di recente evidenziato un rapporto con l’arte del
Nord Italia, in particolare rilevando “che
il tema delle vergini sagge e delle vergini
folli, non molto testimoniato nell’arte
medievale italiana, trova particolare diffusione in Friuli, un’area fortemente intrisa di cultura longobarda”10. La breve
rassegna critica dà conto dunque delle
difficoltà di inserire gli affreschi riportati
alla luce in un contesto ben definito, sia
cronologico sia stilistico; pertanto occorre ancora una certa cautela nel giudizio
in attesa che la segnalazione di nuove testimonianze rendano possibile l’avvio di
più articolate prospettive d’indagine.
Le stesse difficoltà motivate dalla mancanza di utili confronti si hanno nel commentare un’altra testimonianza superstite
dell’originaria chiesa benedettina, precedente alla ristrutturazione del 1256.
Si tratta di una lunetta a bassorilievo in
pietra con Cristo benedicente, tra gli ar-
113
cangeli Michele e Gabriele e i santi Pietro e
Paolo poggiata su due frammenti ricomposti di un architrave decorato a rilievo
da un motivo raffigurante alle estremità
due serpenti attorcigliati dalla cui bocca
partono due nastri che si intrecciano con
elementi fitomorfi. L’insieme è posto in
alto sulla parete del breve corridoio di accesso alla chiesa, a destra del presbiterio e
in prossimità dell’absidiola del nicchione
nord del panteum cum tricoro con i resti
di affresco di cui s’è appena detto.
Nella lunetta è raffigurato al centro Cristo benedicente in posa rigidamente
frontale recante nella mano sinistra un
piccolo codice con legatura decorata da
quattro borchie. Mostrano il libro anche
gli altri quattro personaggi raffigurati sulla lunetta: a sinistra l’arcangelo Michele e
a destra l’arcangelo Gabriele, individuati come Cristo dalla scritta coi rispettivi
nomi incisa sul fondo in epoca successiva,11 e alle estremità san Pietro, a sinistra,
e san Paolo a destra. Questi ultimi sono
rappresentati in scala ridotta rispetto al
gruppo centrale, sia per adattarsi allo
spazio interno della lunetta, sia per manifestare simbolicamente una distinzione
gerarchica tra i protagonisti della scena;
non compaiono in questo caso le scritte
coi nomi, ma la presenza in particolare
evidenza dei rispettivi attributi, le chiavi
e la spada, non genera dubbi sull’identificazione dei santi. I due arcangeli indossano una lunga tunica diaconale decorata
da una grande croce e con la mano destra
agitano un turibolo rivolto verso Cristo.
Sul verso della lunetta compare un’iscrizione romana: IMP. CAES. / LICINIO
GALLIENO / PIO FELICI AUG. /
PONTIFICI MAXIMO. Il riferimento a
Licinio Gallieno, imperatore romano tra
il 253 e il 268 d.C., conferma l’uso consueto nell’alto medioevo di riutilizzare
materiali di recupero per eseguire nuove
opere. Quanto alla datazione della lunetta risultano opinioni non concordi nella
114
critica. Serra12 la colloca alla fine del XII
secolo; Casadidio13 seguito da Bittarelli14
al IX secolo; Semmoloni15 e la Simoni16
ipotizzano una datazione tra il IX e il X
secolo; Zampetti17 ne pubblica una foto
con l’indicazione dubitativa al X secolo
nella didascalia. Anche in questo caso
dunque la difficoltà di datare con ragionevole certezza l’opera appare evidente
e si motiva col fatto che siamo nuovamente di fronte a un unicum di difficile
confronto con altri pezzi superstiti nel
territorio.
Sono probabilmente databili al XII secolo
i quattro leoni in pietra18 di diversa fattura e dimensione su cui poggia il sarcofago
di Flavius Iulius Catervius. “Questa Santa Arca fu levata dal mezo della Cappella
grande e rotonda, chiamata Panteone; alzata di peso, fu riposta nella Cappelletta
in faccia, nel modo e forma come stava
prima sopra gl’istessi quattro Leoni di
pietra bianca anticamente, con lasciarli
alto lo spatio da terra, come stava prima,
acciò dalli Devoti si potesse passare sotto
quella per liberarsi dalli mali et infermità loro.” Così Nicola Gualtieri,19 erudito
tolentinate vissuto tra Sei e Settecento,
attesta la presenza ab antiquo dei leoni
sotto il sarcofago e il loro trasferimento
contestuale dal centro del panteum cum
tricoro al nicchione di fronte, avvenuto
il 2 luglio 1700. Lo stesso Gualtieri si
sofferma poi sui significati della presenza
dei leoni che abbracciano “la fede, che
è una Donna con la Croce in mano.”20
In realtà i due leoni anteriori, più grandi, ghermiscono un martire agonizzante
con la croce in mano; quelli posteriori
sono più piccoli e hanno atteggiamenti
diversi tra loro: uno afferra con gli artigli
un martire, mentre l’altro accucciato e
mansueto regge con la zampa una croce
verticale con accanto una figura in piedi. I leoni alla base del sarcofago sono
dunque presentati, come spesso accadeva nell’iconografia sacra, con significati
Gabriele Barucca
“Le carceri”
ambivalenti: come simbolo del diavolo,
che “come leone ruggente va in giro cercando che divorare” (prima lettera di san
Pietro 5,8) e come immagine cristologica
ad esaltazione della Fede.
Possiamo ora passare all’illustrazione delle pitture murali che decorano un piccolo
ambiente a pianta grosso modo a tau irregolare, chiamato “le carceri”, addossato alla muratura esterna del panteum cum
tricoro. Non è stato chiarito il periodo
preciso di costruzione di questo locale,
comunque certamente successivo rispetto al mausoleo, e, nonostante gli sforzi,
la sua destinazione originaria.21 Di fatto
la pietà popolare aveva associato a questo
spazio angusto la memoria della prigionia e del martirio di Catervio. Fu proprio
per questa ragione che venne preservato
dalla distruzione in occasione della ricostruzione ottocentesca della chiesa, che
non risparmiò neppure il mausoleo. Da
una porticina, che si apre a sinistra sul
corridoio che da piazza Strambi immette
nella chiesa, si accede al braccio rettilineo
dell’ambiente con volta ogivale piuttosto
irregolare dove è addossato sulla parete di
fondo un altare composto da una mensa
di pietra che la tradizione indica essere,
secondo quanto riporta un’iscrizione dipinta a fianco, il piano sul quale Catervio
venne decapitato, sostenuta da un rocchio di colonna con base e capitello probabilmente romanici. Le pareti di questo
vano presentano tre affreschi frammentari, riferibili ad altrettanti pittori attivi nel
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
Santa Caterina d’Alessandria
San Giovanni Evangelista (?)
Madonna in trono col Bambino
corso del Trecento. Il più antico sembra
essere quello con santa Caterina d’Alessandria, raffigurata al di sopra della porta d’ingresso, la cui apertura ha peraltro
provocato la perdita della fascia inferiore
dell’affresco. La santa in posa rigidamente frontale è identificata dal nome scritto
in lettere gotiche sulla fascia che delimita la parte superiore del riquadro, ed è
115
inoltre caratterizzata dai suoi attributi:
la corona, allusiva al rango principesco,
che regge in ciascuna mano, e la ruota,
ricordo del suo martirio, che compare lateralmente sulle due porzioni triangolari
che completano il lunettone. Nella parete sinistra in un primo riquadro è dipinto a figura intera un giovane santo con
una penna in mano che probabilmente
può essere identificato con san Giovanni
Evangelista. L’intonaco dipinto di questo
riquadro va in parte a sovrapporsi con
la cornice del dipinto successivo, che
dunque lo precede cronologicamente.
Si tratta della raffigurazione di una Madonna in trono col Bambino, il quale con
la manina sinistra alzata trattiene l’ala di
un uccellino in atto di volare via mentre
con l’altra stringe un lembo del mantello
della Madre. Questo riquadro affrescato è stato tagliato nell’angolo inferiore
destro per aprire la nicchia ovest che ha
sostituito una porta per passare nell’annesso monastero benedettino. Questi tre
affreschi superstiti, insieme alla decorazione che corre lungo la fascia inferiore
delle pareti, raffigurante un tendaggio a
bande verticali di differenti colori, sono
giunti ai nostri giorni purtroppo molto
danneggiati, tanto da indurre a una certa
prudenza nel giudizio stilistico, falsato
viepiù dalle integrazioni apportate dal
moderno restauro. In ogni caso gli affreschi spettano a mani distinte e almeno i
due sulla parete sinistra sono cronologicamente situabili nella seconda metà del
Trecento, quando a Tolentino artefici più
116
Gabriele Barucca
Cassapanca dipinta nella nicchia destra delle ”carceri”
o meno dotati dipingevano ancora suggestionati dal modello del Cappellone di
san Nicola o dalla forte personalità del
Maestro di Campodonico.
Il braccio orizzontale del tau è costituito
da due nicchie: quella a sinistra, di modestissime dimensioni, è stata ricavata in
un secondo tempo, visto che l’apertura
ha distrutto, come s’è visto, una porzione
del soprastante affresco con la Vergine col
Bambino, mentre quella a destra è a pianta trapezoidale ed è coperta con volta a
botte. Questa nicchia, profilata sulla parete esterna da una cornice cosmatesca,
era in origine completamente decorata
da pitture murali; ora a sinistra restano
brani di preparazione della parete da
affrescare col tipico motivo a graticcio
romboidale inciso per far aderire l’intonaco dipinto e, sulla parete destra, una
buona porzione di decorazione. Il fondo
blu scuro è scompartito in due riquadri
sovrapposti e delimitati da una fascia tricolore, ocra-bianco-ocra. Nel riquadro
superiore è dipinto un attaccapanni costituito da un bastone cilindrico da cui
pendono tre drappi o paramenti di lino
bianco bordati con motivi lineari rispettivamente blu, rosso e verde e rifiniti sui
lati corti con una sottile frangia termi-
nante con dei nodini. Nella fascia inferiore è raffigurata una cassapanca, definita con incerta prospettiva, su cui poggia
un codice chiuso con la legatura rossa. La
decorazione richiede un difficile esercizio
per comprenderne i significati, che non è
qui il caso di tentare, ma è apprezzabile
anche per il carattere di vero e proprio
trompe-l’oeil, in cui il pittore rivela doti
di qualche conto nella resa naturalistica
degli oggetti rappresentati. Quanto alla
datazione di questa parte della decorazione, Aldo Nestori la ritiene coeva al
lacerto con le Vergini prudenti e dunque,
secondo la sua opinione, tra il IX e l’XI
secolo;22 giustamente Daniela Simoni la
avanza alla prima metà del Trecento, rilevando strette analogie stilistiche tra i due
riquadri e gli affreschi del Cappellone di
san Nicola.23
Risale agli anni 1992-1994 il restauro
che ha consentito il recupero di un testo
importante della scultura lignea medievale, vale a dire il Deposto ora collocato
sull’altare dell’esedra della navata destra
della chiesa,24 unico pezzo superstite da
un gruppo ligneo di Deposizione.25 Il restauro ha provveduto a restituire al Cristo la posizione con le braccia abbassate
da Deposto e a recuperare e reintegrare
Cristo Deposto
la cromia antica, che, tuttavia, non può
ritenersi quella originale. Le istanze devozionali della locale Confraternita del
Cristo Morto avevano determinato agli
inizi del Novecento il taglio delle braccia, con l’asportazione parziale dell’omero e la lacerazione dell’incamottatura,
e il loro collegamento mobile al corpo
tramite fasce di cuoio inchiodate alle
spalle per consentire la variazione della
funzione da “Deposto” a “Crocifisso” e,
successivamente, a “Cristo morto”. Nel
restauro le braccia sono state fissate nella
originaria posizione, rivolte verso il basso, integrando le parti mancanti con listelli dello stesso legno.26
Non rimane memoria delle figure che
dovevano completare il gruppo della
Deposizione tolentinate, vale a dire la
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
Vergine, san Giovanni Evangelista, san
Giuseppe d’Arimatea, Nicodemo e due
angioletti che sorreggevano simboli della
Passione.27 Sono questi generalmente i
protagonisti della riproposizione plastica del dramma della Depositio Christi,
basato sulla testimonianza evangelica di
Giovanni (Gv. 19,38-42) integrata dalle
riletture apocrife, che fin dalla sua prima
comparsa nell’arte bizantina fra il IX e
il X secolo divenne uno dei soggetti più
coinvolgenti e diffusi dell’iconografia
cristiana. Peraltro, quasi in contrapposizione con le tradizionali immagini degli
ieratici Crocifissi nella versione di Christus Triumphans, lo schema compositivo
incentrato sul corpo esangue del Cristo
rispondeva appieno alle esigenze crescenti, stimolate dalle intensissime correnti
di rinnovata spiritualità che attraversavano il mondo basso medievale, di nuovi
modi di partecipazione alla vita religiosa
della Chiesa, di nuovi riti collettivi. Ciò
si espresse in special modo nel corso del
Duecento con la messa in opera proprio
di questi grandi gruppi lignei,28 che, scenicamente disposti, assumevano un ruolo centrale durante la liturgia del Venerdì
santo ed erano spesso usati in funzione
drammatica nel corso delle ‘sacre rappresentazioni’ della Passione sia all’interno
sia, più di frequente, all’esterno delle
chiese. E’ inoltre documentato l’uso di
un noto lamentum Virginis come canto
processionale nella liturgia in particolare
dei benedettini, che lo facevano eseguire
durante la processione per la depositio del
Venerdì santo.29 Dobbiamo far rivivere
nell’immaginazione il potente coinvolgimento emozionale suscitato, nel corso
di queste liturgie drammatizzate, dalle
esposizioni delle statue lignee della Deposizione accompagnate da canti polifonici tematicamente affini, soprattutto in
contesto benedettino. Del resto proprio
da fondazioni benedettine provengono
con certezza la maggior parte delle De-
117
Vesperbild
posizioni lignee superstiti. È dunque lecito supporre che il Deposto di Tolentino
sia stato custodito ab origine nella chiesa
di San Catervo. Infatti l’attuale chiesa,
come s’è detto, è un rifacimento ottocentesco dell’antica abbazia benedettina
sorta nel 1256 sul mausoleo di Flavio
Giulio Catervio, presso il quale già prima del Mille esisteva un insediamento
monastico. E’ dunque probabile che a
dotazione della nuova chiesa si sia provveduto a promuovere la realizzazione del
gruppo ligneo della Deposizione, stilisticamente databile proprio intorno a quegli anni. Il Deposto di Tolentino costituisce un esempio delle possibili derivazioni
dall’archetipo di straordinaria rilevanza
artistica quale la Deposizione di Tivoli,
databile all’incirca tra il 1210 e il 1220.
Sulla scia figurativa e tecnica del cosiddetto atelier di Tivoli, attivo probabilmente
sino alla metà del secolo nell’ambito di
un’aggiornata realtà culturale, sono stati
infatti inseriti gradualmente gran parte
dei gruppi dell’Italia centrale. Peraltro il
persistere di un ductus che accomuna i
pezzi superstiti non ha impedito di rilevarne sottili varianti di carattere formale
e tecnico, nonché differenze qualitative
sia nell’esecuzione dell’intaglio sia nella
resa della policromia. Questi elementi
sono serviti a definire ulteriori raggruppamenti della produzione. Pertanto il
Deposto di Tolentino, databile entro il
terzo quarto del Duecento, è stato inserito insieme agli esemplari di Barcellona (Collezione Thyssen-Bornemisza nel
Museo Monastero de Pedralbes), di Iesi
(Museo Diocesano) e di Capriolo (Monastero di Santa Maria degli Angeli) in
una delle diverse derivazioni dal prototipo tiburtino che “incarna un modello
ormai più snello e di diversa espressività, soprattutto nel volto emaciato e nella
posa assai ribassata delle braccia quasi
parallele ai fianchi.”30
118
Crocifisso ligneo
È esposta sul lato della torre-campanile,
verso la navata, ai piedi di una croce lignea su un basamento fissato alla muratura, una piccola Pietà, scolpita in pietra
arenaria policromata31. Queste immagini
scolpite della Pietà vengono definite col
termine tedesco di Vesperbild, che allude alla consuetudine di meditare all’ora
del vespro del Venerdì santo sulle piaghe
del Cristo morto giacente sulle ginocchia della madre. Il tragico tema, nato e
sviluppato in quei centri del misticismo
che furono i monasteri della Germania
sud-occidentale, ottenne a partire dal
Trecento straordinaria popolarità e fortuna. Era una immagine plastica che suscitava al pari di una ‘rappresentazione
sacra’ l’emozione del fedele e lo induceva
a immedesimarsi nel dolore della Vergine: un atteggiamento che era stimolato
dalla “devozione moderna” che faceva
appello a sentimenti del singolo, dell’individuo. Ben presto l’iconografia del Vesperbild dall’area germanica d’origine si
Gabriele Barucca
diffuse ampiamente ed ebbe favorevole
accoglienza anche in Italia, soprattutto
in quelle zone in cui era più incisiva la
presenza degli ordini mendicanti e dove
esistevano comunità di cittadini di lingua tedesca. In particolare la diffusione
interessò i territori sul crinale verticale
che dalle zone alpine orientali scendevano per il Veneto, la Romagna, le Marche,
l’Umbria, l’Abruzzo fino alla Basilicata.32
In questa vasta area territoriale si conservano ancora innumerevoli esemplari
di Vesperbild, molti dei quali realizzati
da artefici tedeschi itineranti specializzati in questo genere di manufatti, che
solitamente richiedevano l’uso di materiali e procedure tecniche di lavorazione
gelosamente custodite quali segreti di
bottega.33 Naturalmente nelle varie zone
e nel tempo furono elaborate tipologie
diverse che vanno da una composizione
più verticale ad una che accentua piuttosto l’orizzontalità, come nel pezzo di
Tolentino. Qui il corpo sottile del Cristo
è sostenuto alle spalle dalla mano destra
della Madonna, che rivolge il suo sguardo doloroso verso i fedeli mostrando le
gote solcate dalle lacrime, mentre con
l’altra mano stringe un lembo del proprio velo per tergere le lacrime che le
sgorgano dagli occhi. Il viso del Cristo
è rivolto verso gli osservatori: una lunga
ciocca di capelli attorcigliati è posata sul
petto, la bocca è semi aperta, mentre gli
occhi sono socchiusi. I preziosismi grafici e decorativi del panneggio del manto
e del velo della Vergine, aderenti al dettato gotico ‘cortese’ e sottolineati da una
naturalistica policromia, tornata leggibile dopo il restauro, hanno giustamente
suggerito rapporti stilistici con alcune
sculture presenti nell’antica contea dei
Montefeltro, riferibili ad artefici di origine boemo-germanica, e soprattutto con
la Pietà del Museo Civico di Spello, tanto da far pensare a uno stesso autore e a
una datazione abbastanza avanzata tra il
quarto e il quinto decennio del Quattrocento.34
Sono attualmente collocati in San Catevo
alcuni manufatti lignei provenienti dalla
chiesa di San Francesco di Tolentino.
Una foto degli anni settanta del secolo
scorso testimonia la presenza nella chiesa
francescana di un Crocifisso ligneo policromo, ora fissato ad una croce moderna
posta a lato del secondo altare a sinistra
della concattedrale.35 Il Crocifisso è caratterizzato da una resa anatomica espressionistica di gusto oltremontano, con le
braccia sottili segnate dalle vene rilevate
e con lo sterno e l’addome incavato in
singolare evidenza. Com’è noto, una certa ricerca per la rappresentazione realistica dei particolari e per l’espressione dei
sentimenti più drammatici connota una
numerosa serie di Crocifissi gotici dolorosi
trecenteschi, di comune origine tedesca,
tuttora visibili in diverse chiese italiane.
Comunque, è stato giustamente notato,
che nell’esemplare di Tolentino “le forme
tese e drammatiche si allentano in parte
a favore di un linguaggio più ricco e decorativo, ormai in piena temperie goticointernazionale”,36 suggerendo una datazione in anni ormai prossimi alla fine del
secolo se non all’inizio del Quattrocento
e rendendo incerti quanto alla paternità
tra uno scultore locale influenzato dalla
cultura transalpina o un maestro tedesco
italianizzante.
Vanno infine ricordati alcuni stalli e rilievi lignei intagliati, riadattati intorno al
1950 sulle pareti laterali dell’anticappella
progettata da Luigi Fontana per raccordare la nuova chiesa ottocentesca con la
cappella della Madonna della Pace. Essi
costituiscono le parti superstiti dell’antico coro della chiesa di San Francesco,
realizzato in anni di poco successivi alla
metà del Quattrocento e smontato dopo
il terremoto del 1873, quando in un primo tempo fu trasferito nella chiesa francescana di Santa Maria di Loreto.37
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
119
NOTE
Cfr. il saggio di Silvia Blasio in questo volume.
I benedettini hanno officiato la chiesa dalla sua fondazione, della quale non si
hanno sicuri riferimenti cronologici, fino al 1490; da questo anno fino alla fine
del 1507 fu assegnata in commenda al chierico Giovanni Battista Rutiloni che
assunse il titolo di prevosto e dal 1508 alla fine del Settecento passò ai Canonici
Regolari Lateranensi ai quali subentrò il clero secolare; cfr. Mozzoni s. d. (ante
1990), p.132.
3
Per le varie fasi della costruzione della chiesa cfr. il saggio di Stefano D’Amico
in questo volume.
4
Il rifacimento ottocentesco ha fortunatamente preservato integra la sola cappella
della Madonna della Pace, meglio nota come cappella di san Catervo, con gli
affreschi di Marchisiano di Giorgio, dove è custodito il pregevole sarcofago paleocristiano di Fl. Iulius Catervius e dei suoi famigliari. A proposito cfr. il saggio di
Silvia Blasio in questo volume.
5
Cfr. Nestori 1996b, pp. 64-73, con l’indicazione in bibliografia dei suoi precedenti contributi.
6
Nestori 1996b, p. 72.
7
Romano 1994, p. 201.
8
Romano 1994, p. 201.
9
Romano 1994, p. 201.
10
Simoni 2007, p. 100.
11
Le tre iscrizioni sono incise a caratteri gotici: “Angelus Michael”, “IhVs X” ossia
“Jesus Christus” e “Ange/lus Gabri/el”.
12
Cfr. Serra 1929a, p. 148.
13
Cfr. Casadidio 1967, p. 11.
14
Cfr. Bittarelli 1986, p. 28.
15
Cfr. Semmoloni 1988, p. 76.
16
Cfr. Simoni 2007, pp. 95-97.
17
Cfr. Zampetti 1993, pp. 12-13.
18
La datazione dubitativa al XII secolo viene indicata nella didascalia della foto
di uno dei leoni da Zampetti 1993, pp. 14-15. Nel corso del restauro effettuato
all’inizio degli anni novanta del secolo scorso sono state trovate tracce evidenti di
policromia su tutti i leoni. Cfr Mazzoleni 1996, pp. 158-159.
19
I manoscritti settecenteschi di Nicola Gualtieri sulla storia di Tolentino sono
stati pubblicati a cura di Giorgio Semmoloni. Cfr. Semmoloni 1990, p. 153.
20
Cfr. Semmoloni 1990, p. 159.
21
Riguardo alle possibili destinazioni d’uso dell’ambiente cfr. Semmoloni 2007a,
pp. 42-59.
22
Cfr. Nestori 1996a, pp. 10-13.
23
Cfr. Simoni 2007, pp. 90-94.
24
Il Deposto della concattedrale di San Catervo di Tolentino è realizzato in legno
di pioppo o salice; altezza 175 cm, larghezza 89 cm, spessore 50 cm. Il restauro
è stato condotto negli anni 1992-1994 da Nino Pieri di Urbino con la direzione
di Maria Giannatiempo LÒpez della Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici e
Etnoantropologici della Marche-Urbino.
1
2
La coppia di Dolenti che affianca attualmente il Deposto sull’altare dell’esedra
della navata destra, costruita su disegno del Lucatelli, è opera di Enrico Pallorito,
scultore tolentinate attivo intorno alla metà del Novecento. Le due sculture lignee
policrome, databili alla fine degli anni cinquanta del secolo scorso, rivelano le
qualità di questo artista autodidatta, che ha saputo dare alle due figure, rese con
una severa sintesi formale, una forte carica psicologica in sintonia con la concezione espressiva del Deposto.
26
Le notizie sul restauro sono tratte da M. Giannatiempo LÒpez, scheda 13, in
La Deposizione lignea in Europa 2004, pp.219-220, e da B. Bruni, Scheda tecnica,
in La Deposizione lignea in Europa 2004, pp.220-221.
27
Ciò non deve sorprendere, infatti, tra le immagini sacre, al genere Deposizione
lignea non è toccata una lunga fortuna. Sin dal Trecento il mutare dei generi iconografici e delle ritualità liturgico-processionali determinò la inarrestabile scomposizione dei gruppi e la progressiva eliminazione delle immagini di corredo degli
stessi. Solo la figura del Cristo, spesso riadattata nella postura delle braccia, come
nel caso tolentinate, ha resistito più a lungo nel tempo, giungendo fino ai nostri
giorni in un numero assai maggiore di esemplari.
28
Cfr. Mor 2004, p. 637.
29
Cfr. Sapori, Toscano 2004, pp. 26-27.
30
Mor 2004, p. 659.
31
La scultura misura 68 x 70 x 30 cm. Cfr. M. Giannatiempo LÒpez, scheda 10,
in I pittori del Rinascimento a Sanseverino 2006, pp. 112-113, con bibliografia
precedente.
32
Cfr. Castri 2002, pp. 170-185, con bibliografia precedente. In particolare per
gli esemplari marchigiani cfr. S. Castri, scheda n. 2, in Il Quattrocento a Camerino
2002, pp. 151-152.
33
Molti esemplari di Vesperbild sono realizzati in Steinguβ, una sorta di stucco
duro ottenuto da un impasto dove prevale il gesso mischiato al coccio pesto.
Questo materiale artificiale veniva colato in controforme e in seguito rifinito a
mano elemento per elemento e infine policromato. La composizione di questa
‘pietra colata’ e le procedure tecniche della sua lavorazione erano del tutto ignote
alla pratica dei plasticatori italiani e di esclusivo appannaggio di artefici di origine
boemo-tedesca, operanti nel corso del Trecento e fino alla metà del secolo seguente. Cfr. Perusini, Spadea, Casadio 1995, pp. 73-92.
34
M. Giannatiempo LÒpez, scheda 10, in I pittori del Rinascimento a Sanseverino
2006, p. 112.
35
La foto (GRI, N.6911.H88, Marche, Tolentino, San Francesco, n. 42) è stata
scattata intorno al 1970 da Max Hutzel quando l’opera si trovava ancora in San
Francesco e mostra il Crocifisso inchiodato a una croce, forse originaria e ora perduta, ornata con un motivo di tralcio spinoso, allusione simbolica al concetto di
redenzione e di rigenerazione dell’umanità seguite al Sacrificio di Cristo, arbor
vitae.
36
Casciaro 2002, pp. 41-42, fig. 6 a p. 51.
37
Cfr. Semmoloni 2007b, pp. 101, 103, e in particolare n. 2 a pp. 126-127, con
bibliografia precedente.
25
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
LA DECORAZIONE DELLA CAPPELLA
DI SAN CATERVO
Silvia Blasio
Gli ambienti che si trovano sul lato sinistro guardando il presbiterio e che costituiscono la cappella di San Catervo
rappresentano un’epitome delle varie
fasi storiche, costruttive e decorative che
hanno dato vita alla cattedrale tolentinate: dalle origini del culto di San Catervo,
magnificamente rappresentato dal suo
sarcofago marmoreo, all’epoca altomedievale, cui afferiscono alcuni manufatti
come i quattro leoni che sostengono la
cassa del sarcofago stesso, alla fase cinquecentesca degli affreschi di Marchisiano di Giorgio, fino all’insieme di stucchi,
pitture e vetri ideato da Luigi Fontana
per l’atrio che segna l’ultima tappa, tra
il 1883 e il 1884, dell’allestimento architettonico e decorativo di questa zona
della chiesa.
In seguito all’abbattimento dell’antica
grande abbazia benedettina preesistente,
cui si dette inizio nel 1822, la Cappella
della Madonna della Pace, comunemente detta cappella di San Catervo, salvatasi dalla distruzione, venne a trovarsi sul
lato sinistro dell’abside a causa dell’inversione dell’orientamento attuato nella
nuova cattedrale.1 Essa si trovava in origine a destra dell’ingresso principale e fu
costruita presumibilmente sullo scorcio
del Quattrocento come corpo aggiunto
alla fabbrica duecentesca. Come è noto
la chiesa benedettina era stata edificata
sul luogo ove sorgeva un antico sacello
paleocristiano, il “panteum cum tricoro”,2 costruito nel IV secolo da Settimia
Severina come mausoleo per sé, per il
proprio marito, il prefetto del pretorio
Cappella di San Catervo
121
122
Silvia Blasio
Marchisiano di Giorgio, I quattro Evangelisti
Flavio Giulio Catervio e per il figlio Basso.3 Secondo la tradizione4 Catervio fu
martirizzato per aver introdotto a Tolentino la religione cristiana e pertanto nei
secoli seguenti fu oggetto di una sempre
più vasta e profonda venerazione, cresciuta intorno al magnifico sarcofago
marmoreo voluto dalla moglie in cui fu
deposto e che preservò il panteum dalla
distruzione cui furono invece condannati già in epoca medievale altri edifici
paleocristiani, sorti nei luoghi vicini e a
loro volta dedicati a San Catervo. L’antico mausoleo fu comunque demolito
all’inizio dell’Ottocento e il sarcofago fu
trasportato nella collocazione attuale, al
centro del secondo ambiente della cappella di San Catervo.5 Quando la chiesa
nel 1817 fu elevata a cattedrale,6 San Ca-
tervo fu proclamato defensor, cioè patrono, del popolo di Tolentino.
Le pareti e la volta della cappella di San
Catervo sono ricoperte da un ciclo di affreschi di Marchisiano di Giorgio, pittore
di origine slava residente a Tolentino di
cui si hanno notizie tra il 1493 e il 1543.
Fanno eccezione i finti drappi fittamente
decorati, visibili nelle vecchie fotografie
che ornavano lo zoccolo che corre lungo
le pareti, eseguiti nel 1914 da Francesco
Ferranti, responsabile delle pitture murali delle navate della chiesa, o da un suo
collaboratore.7
L’avventura storiografica di Marchisiano si brucia tutta nel giro di pochi, recentissimi anni, e come spesso avviene,
la sua identificazione e il profilo storico
della sua personalità sono stati preceduti
dalla costruzione di un corpus di dipinti che ha preso avvio con la recensione
di Federico Zeri alla mostra di Lorenzo
Lotto del 1981: “Sarebbe stato interessante rivedere qui la grande pala della
pinacoteca di Sarnano con la “Vergine
che appare a San Francesco”…non sarà il
caso, come credo, di ravvisare in questo
singolare dipinto la stessa mano di quegli
affreschi di San Catervo a Tolentino…?
Se così, avremmo nella tavola di Sarnano il pezzo più antico di una personalità
abitualmente identificata con Francesco da Tolentino.”8 A questo pittore, da
Berenson in poi erano stati infatti riferiti gli affreschi tolentinati, prima di lui
definiti negli atti della visita pastorale
del 1883 pitture “pregiatissime, ma assai danneggiate” che ”si attribuiscono al
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
123
Marchisiano di Giorgio, Adorazione dei Magi
Pinturicchio o alla sua scuola.”9 Il passo
successivo fu il raggruppamento intorno
alla pala di Sarnano e agli affreschi tolentinati di altre opere ad essi legate da
incontrovertibili affinità stilistiche, tra
cui la lunetta con la Deposizione di Cristo
e Annunciazione del Museo della basilica
di san Nicola, di nuovo col riferimento
dubitativo a Francesco da Tolentino.10
Le ricerche d’archivio davano nel frattempo una consistenza sempre più solida alla figura di Marchisiano di Giorgio,
‘nome senza opere’ talvolta menzionato
nelle fonti tolentinati, fino alla pubblicazione dei “capituli et pacti” stipulati
il 6 maggio 1518 per l’esecuzione della
“cona de Sancto Nicola” tra Marchisiano
e il suo socio, Catervo di Piermarino, e
il rappresentante dei frati agostiniani del
convento di San Nicola11 e finalmente
del contratto col solo Marchisiano per la
decorazione ad affresco della cappella di
san Catervo, in data 16 agosto 1502.12
Seguiva poi il riconoscimento della tavola centrale della pala di San Nicola nella
Madonna con Bambino in trono e i santi
Agostino, Caterina d’Alessandria, Nicola
da Tolentino e Apollonia dei depositi della
Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Barberini a Roma.13
Grazie al rincorrersi di studi e ricerche
avvicendatisi di mese in mese e culminati con una monografia,14 Marchisiano,
abile manipolatore di spunti altrui che
si lasciò lambire con apparente candore
dagli eventi che tra Quattro e Cinquecento cambiarono la storia dell’arte italiana, si è trovato al centro di una delle
più dibattute querelles del ‘rinascimento’
marchigiano;15 risarcito di una ventina di
opere almeno e di molti documenti che
restituiscono sia aspetti interessanti della
sua attività professionale e dei suoi rapporti con i committenti, sia il ritratto di
un uomo irrequieto e violento, colpevole
di due omicidi, il pittore ha riacquistato
oggi il posto che gli compete entro un
contesto artistico ove gli sono compagni
Vincenzo Pagani, con cui ebbe probabilmente contatti personali, Pietro Paolo
Agabiti, Giulio Vergari, Bernardino di
Mariotto, Nobile da Lucca, Venanzio
da Camerino e Piergentile da Matelica,
ognuno interprete di un linguaggio comune nato sotto la costellazione degli
illustri nomi di Crivelli, Perugino, Pinturicchio, Signorelli fino a Raffaello e a
124
Silvia Blasio
Marchisiano di Giorgio, Crocifissione
Lorenzo Lotto, di volta in volta chiamati
in causa per spiegare questa o quella inflessione della loro parlata.16
Gli affreschi della cappella di San Catervo, obbedendo quasi alla lettera alle prescrizioni del contratto del 1502, coprono
interamente le pareti e la volta del vano
e rappresentano, nella parete di fondo, la
Madonna in trono col Bambino con san
Catervo e san Sebastiano, nella parete destra la Crocifissione, nella parete sinistra
l’Adorazione dei Magi. Le tre scene sembrano apparire col medesimo effetto illusionistico, al di là di una cortina di stoffa
damascata raccolta lungo l’arco di ogni
lunetta e fermata da lacci posti a distanza
regolare l’uno dall’altro. Nelle vele della volta a crociera sono dipinti i Quattro
Evangelisti e nei pennacchi otto Sibille.17
Rispetto al programma decorativo descritto nel contratto vi sono tuttavia
alcune varianti: si rinunciò infatti a raffigurare i due uomini abbracciati che
dovevano esprimere visivamente, secondo i committenti, la dedicazione della cappella a Santa Maria della “Pace”,
un’iconografia peregrina che difficilmente sarebbe stata compresa e non compare nemmeno la figura di Dio Padre che
avrebbe dovuto essere dipinta al centro
della volta. Al contrario sono state dipinte otto Sibille non previste dagli accordi
contrattuali, il cui carattere di aggiunta
quasi come riempitivo è denunciato sia
dallo sgraziato sovrapporsi delle loro teste alle nubi che sostengono in alto gli
Evangelisti, segno di un certo disagio
del pittore nell’adattare la composizione
allo spazio delle vele, sia dalla singolarità
iconografica della presenza delle Sibille
da sole. Nel contratto non si fa inoltre
menzione dell’Adorazione dei Magi, tema
che fu scelto in un secondo momento da
Giovan Battista Rutiloni, prevosto della
chiesa di San Catervo.
Il commento sullo stile delle pitture
espresso ormai molti anni fa da Rodolfo Battistini18 e poi da Pietro Zampetti,
quando ancora si credevano eseguite da
Francesco da Tolentino, è tuttora valido,
e dimostra come il pittore tolentinate si
sia servito di prestiti evidenti soprattutto
da Perugino, Pinturicchio e Signorelli –
dalla volta della sagrestia di San Giovanni a Loreto egli derivò per esempio gli
Evangelisti nelle vele – forse anche per
accelerare i tempi di un lavoro impegna-
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
Sarcofago di Flavio Giulio Catervio e il particolare del Buon Pastore
tivo che avrebbe dovuto consegnare nel
termine molto stretto di un anno, con il
compenso piuttosto modesto di sessanta
fiorini: “Su una sostanziale educazione
umbra – ma con qualche rimembranza
veneta, che ha fatto pensare al Berenson
ad un rapporto con l’Agabiti – l’artista
da vero eclettico innesta le più varie esperienze, dove trova il suo posto la stessa
arte del Crivelli (ma la Madonna col
Bambino dell’Adorazione dei Magi è di
ascendenza lottesco-belliniana), dimostrandosi abile nel comporre, specie nella
scena della Crocifissione, senza tuttavia
portare un contributo di evidenti, personali esperienze.”19
Il vertice qualitativo di questi affreschi
è certamente nella Madonna in trono col
Bambino con san Catervo e san Sebastiano
della parete di fondo. Si tratta della scena
125
più importante, quella immediatamente
visibile, anche da lontano, appena si entra nella cappella. Per quanto danneggiata dall’umidità, questa lunetta ha meno
subito l’ingiuria delle pesanti ridipinture
che hanno invece compromesso altre zone
della decorazione. La cortina damascata
che la inquadra illusionisticamente forma pieghe più rigonfie e ha cadenze più
naturali, che mostrano la fodera rossa del
rovescio, mentre due angeli biondi graziosamente la sorreggono; la composizione simmetrica è limpidamente spaziata e
la Madonna siede su un’ampia struttura
a specchiature marmoree sulla quale cala
dall’alto un drappo alla veneta ad ammorbidire un così rigido schienale. I due
santi incedono con passo leggero recando alla Vergine le loro offerte e sfoggiando i loro abiti più sontuosi. Ma la mano
del pittore è particolarmente felice nelle
stupende grottesche in punta di pennello
126
Silvia Blasio
Luigi Fontana, Santa Veronica de Julianis
Luigi Fontana, San Serafino da Montegranaro
che formano la ringhiera a coronamento
del trono, nelle nubi che scorrazzano arricciandosi per il cielo, nel bel paesaggio
punteggiato di alberi e formazioni rocciose e aperto sul lato destro fino a scoprire aguzze montagne, rese azzurre dalla
distanza. Il paesaggio, di evidente derivazione peruginesca e pinturicchiesca, desta
nel pittore lo stesso interesse delle figure,
e corrisponde con precisione e sensibilità
a quanto avviene in primo piano, talvolta assumendo, come nello sfondo fatto
di morbide alture in prossimità del mare
dell’Adorazione di Magi, le caratteristiche
tipiche dell’orografia marchigiana. Nella
grandiosa e affollata Crocifissione, ricca di
episodi e personaggi in cui Marchisiano
esibisce la sua pungente capacità di ritrattista, il paesaggio si amplia e sembra
assumere significati simbolici: la veduta
di Tolentino-Gerusalemme20 si apre al
centro e mentre sul lato del buon ladrone già spirato un sentiero che può ben
raffigurare l’ascesa della sua anima al cielo serpeggia attraverso una verdeggiante
collina, dalla parte del cattivo ladrone che
ancora si contorce sulla croce, inaccessibili anfratti rocciosi amplificano il dramma
dell’uomo dannato che non si pente.
Fedele per sempre alla sua formula protoclassica, Marchisiano affronterà con gli
stessi strumenti – disegno preciso, colorito vivace, “semplici simmetrie di ritmi costantemente bilaterali”21 – e con gli stessi
modelli di riferimento, la grande pala per
San Nicola dipinta quasi vent’anni più
tardi, nel cui fondale lo sguardo si allarga
all’orizzonte fino a comprendere la calma
distesa delle acque dell’Adriatico, tema
caro a questo pittore senza radici.
Al centro del vano affrescato da Marchisiano di Giorgio, come si è accennato
all’inizio, dal 1822 si erge il sarcofago
di Flavio Giulio Catervio. Trasportatovi
in previsione della demolizione del panteum, l’imponente monumento marmoreo fu mantenuto sopraelevato sui quattro leoni che ghermiscono prede nelle
zampe che già lo sorreggevano nell’antico mausoleo.22
L’importanza del sarcofago di Catervio e
il suo ruolo nell’ambito della civiltà figurativa tardo-antica è stato già ampiamente discusso in vari interventi di specialisti,23 cui qui si può solo fare riferimento.
Il manufatto, databile verso la fine del IV
secolo, rientra nella tipologia “a porte di
città”, un genere eclettico scaturito dalla
fusione di motivi orientali e occidentali la
cui produzione sembra prevalentemente
localizzata a Roma e particolarmente destinata alla sepoltura di personaggi d’alto rango, come nel caso di Catervio che
in vita aveva ricoperto ruoli prestigiosi
nell’ambito dell’amministrazione imperiale.24 L’iscrizione incisa sulla tabula al
centro della fronte del sarcofago informa
infatti che Flavio Giulio Catervio di nobile famiglia senatoria, era stato prefetto
del Pretorio, che era morto all’età di cinquantasei anni e che la moglie aveva fatto
costruire il monumento come sepoltura
per entrambi.25
In modo piuttosto inusuale il sarcofago
tolentinate riunisce tre diverse tipologie:
la fronte della cassa presenta un rilievo centrale e due alle estremità separati
da strigili, una composizione in cinque
scomparti mutuata dai sarcofaghi pagani,26 i fianchi rientrano nella tipologia “a
porte di città”, mentre la parte posteriore
riprende la tipologia romana con l’imago
clipeata con i due coniugi che si stringono la mano destra, affiancata da strigili
come sulla fronte.
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
Luigi Fontana, atrio della cappella di San Catervo, parete sinistra
127
128
Silvia Blasio
I temi cristiani rappresentati sulla fronte
sono il Buon Pastore, visibile al centro,
originariamente personificazione pagana
della nozione filosofica della “Filantropia”, divenuto allegoria di Cristo, qui
affiancato da una vite e da un olivo, e ai
lati san Pietro e san Paolo. Nei due lati,
le porti di città fanno da sfondo a due diversi episodi, quello biblico dei Tre Giudei davanti a Nabucodonosor, a destra e
l’Adorazione dei Magi a sinistra, ove spicca la bella immagine della Vergine seduta
sul faldistorio. Nel tergo il clipeo con i
coniugi è iscritto in una cornice quadrata ai cui angoli sono, in alto due croci
monogrammatiche con l’alfa e l’omega,
e in basso due colombe. Il coperchio a
due spioventi presenta lateralmente la
croce con due agnelli e il monogramma
entro un serto con due colombe e quattro acroteri: i due anteriori con i ritratti
di Settimia e Catervio, i due posteriori, a
due facce, con motivi a palmetta.
Un certo divario stilistico caratterizza i
vari rilievi, più espressivi e dinamici nelle
storie ai lati, più rigidi e appiattiti, soprattutto nei panneggi, nell’immagine
frontale dei due coniugi, e ciò ha dato
spazio a varie ipotesi, tra le quali prevale
quella di una esecuzione da parte di artefici diversi, o forse anche dell’adozione
di diversi modelli di riferimento indicati
dalla stessa committente.
Le profonde modifiche architettoniche
subite dalla chiesa con la ricostruzione
ottocentesca, e il diverso orientamento
della pianta ebbero come conseguenza il
completo isolamento dell’antica cappella
affrescata da Marchisiano; per metterla
in comunicazione con la navata sinistra
l’architetto Luigi Fontana costruì un
locale di raccordo, una sorta di atrio a
pianta rettangolare coperto da una cupola ottagona impostata su quattro arconi,
curandone anche la decorazione pittorica e plastica.
Dopo una prima formazione avvenuta a
Macerata e poi a Fermo presso il pittore di Grottammare Gaetano Palmaroli,
Luigi Fontana (Monte San Pietrangeli
1827-1908) ebbe in seguito un lunghissimo discepolato a Roma presso Tommaso Minardi, teorizzatore della linea purista e di un recupero di Raffaello fino alla
Stanza della Segnatura e non oltre.27 Pur
essendo rimasto presso Minardi fino al
1896, data del suo rientro nelle Marche,
Fontana, nelle sue opere prevalentemente religiose sempre sostenute da un’altissima tenuta formale, seppe tuttavia
esprimersi secondo una linea autonoma
rispetto all’ortodossia raffaellesca del maestro. Coltivò infatti anche un profondo
interesse per il colorismo veneto, da cui
le tonalità sempre brillanti della sua tavolozza, per il Correggio e per la pittura romana del Cinque e Seicento, creando un
linguaggio “neo-barocco”, che decretò il
suo successo e il moltiplicarsi degli incarichi, a Roma, nel Lazio e nelle Marche.28
Ciò fu dovuto probabilmente anche al
fatto che, dotato di straordinaria facilità
esecutiva, Fontana aveva avuto un lungo
tirocinio come architetto, pittore, scultore e stuccatore ed era quindi in grado
di affrontare personalmente ogni singolo
aspetto di un apparato decorativo, fino
agli arredi e alle argenterie sacre.
Il progetto per la cappella di San Catervo
venne a cadere in un momento denso di
impegni per l’artista, tra i quali si annoverano il ciclo di pitture e stucchi della
Vergine del Rosario di Grottazzolina, il
restauro architettonico e la decorazione pittorica della cattedrale di Sutri e
la decorazione del Teatro Vaccai e della
cappella maggiore del Santuario di San
Nicola a Tolentino. Il 15 marzo del 1883
il sindaco di Tolentino Giovanni Benadduci invitò Fontana a spedire il progetto
per la cappella di San Catervo, mentre
il 9 gennaio del 1884 Alberto Catinelli scrisse all’artista che i disegni inviati
“hanno suscitato entusiasmo e consensi
in quanti li hanno visti”. Fontana eseguirà i lavori nella primavera inoltrata dello
stesso anno.
La decorazione dell’atrio si compone di
tre registri sovrapposti: la zona inferiore
definita da quattro arconi che sostengono la cupola è interamente rivestita di
marmi a fasce policrome sulla quale si
aprono quattro nicchie contenenti statue
in stucco di santi: le prime due, oltrepassato l’ingresso, raffigurano a sinistra san
Serafino da Montegranaro e santa Veronica
de Julianis, le altre san Venanzio da Camerino e san Tommaso di Tolentino martire.
Nel registro superiore, entro i pennacchi
al di sotto del tamburo vi sono le figure
sedute dei dottori della Chiesa, san Girolamo, sant’Ambrogio, san Gregorio Magno,
sant’Agostino, mentre nella fascia più alta
alla base della cupola, alternandosi alle finestre circolari, altre quattro statue entro
nicchie rappresentano santi marchigiani,
san Giacomo della Marca, san Marone
martire, san Nicola da Tolentino e la beata
Camilla Battista da Varano.
Tutti questi stucchi evidenziano la notevole perizia tecnica raggiunta dal Fontana nella lavorazione di questo materiale,
plasmato dall’artista in modo da raggiungere una certa varietà di accenti: mentre
i dottori della chiesa appaiono magniloquenti e intensamente espressivi, saldamente costruiti entro le ampie falde dei
loro panneggi, le altre statue appaiono
più semplici nella struttura e più accostanti nel registro espressivo, forse a voler
interpretare una devozione più affettuosa, legata certamente alla loro origine e al
culto locale. Il realismo mimetico di certi
dettagli e l’umanità profonda di alcune
di queste figure, tra le quali spiccano il
san Serafino da Montegranaro, umile e ripiegato, e il san Girolamo intenso e meditativo, possono essere indicati come esiti
della diretta conoscenza della scultura
verista di Giovanni Dupré, per la quale
Luigi Fontana aveva compiuto apposita-
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
mente un viaggio a Firenze nel 1857.
Altre immagini completano il programma iconografico di questi ambienti. Sul
lato verso l’interno della chiesa, a destra
entrando, un finto trittico presenta le
immagini di san Severino, sant’Emidio e
san Benedetto, mentre a sinistra, in una
struttura speculare, tre vetrate offrono le
immagini di santa Settimia, san Catervio
e san Basso. Queste vetrate prendono
luce grazie alle finestre di un’intercapedine costruita per allineare il profilo esterno della cappella con il nuovo perimetro
della chiesa. Le fasce decorative a motivi
floreali che segnano il profilo degli arconi sono un motivo ricorrente nell’opera
129
del Fontana e probabilmente si devono
alla collaborazione della bottega. Infine,
lungo il cornicione ottagonale alla base
della cupola, su uno sfondo a finto mosaico dorato corre la seguente iscrizione
in grandi lettere capitali: “Sacra Tolentinum docuit te lingua Catervi et verum
ostendit quem sequerere deum”.
NOTE
Per le vicende architettoniche degli ambienti in questione vedi da ultimo Semmoloni 2007b, pp. 101-107 e, in questo volume, il capitolo sull’architettura di
Stefano D’Amico.
2
Tale denominazione del mausoleo si legge sulla tabula inscriptionis al centro
della fronte del sarcofago, vedi nota 24. Sul sacello paleocristiano vedi Casadidio
1967, pp. 18-25 (estratto pp. 7-14); Il mausoleo e il sarcofago 1996; Semmoloni
2007a, pp. 35-37.
3
Per il culto di San Catervo a Tolentino vedi Santini 1789, pp. 44-59; Casadidio
1967, pp. 18-25 (estratto pp. 7-14).
4
Si veda la testimonianza di Nicola Gualtieri, erudito tolentinate vissuto tra il
Sei e il Settecento. dei tre manoscritti conservati presso la Biblioteca Egidiana di
Tolentino due sono stati pubblicati in Semmoloni 1990.
5
Vedi da ultimo le osservazioni di Semmoloni 2007a, pp. 35-37.
6
Vedi Pietrella 2007, in particolare le pp. 147-151.
7
Semmoloni 2007b, p. 105. Oggi queste pitture non sono più visibili, ma coperte da una zoccolatura a lastre di marmo grigio.
8
Zeri, 1982, ed. 2000, p. 268.
9
Pietrella 2007, p. 172.
10
Scotucci, Pierangelini 1994, pp. 208-209.
11
Semmoloni 1996; Semmoloni 1997, pp. 12-13, già implicitamente proponeva
di accostare il nome di Marchisiano, emerso dalle sue ricerche archivistiche, agli
affreschi di Tolentino.
12
Semmoloni 2002.
13
Pierangelini, Scotucci 2002
14
Pierangelini, Scotucci, Semmoloni 2002, cui si rimanda per la bibliografia precedente e la fortuna critica degli affreschi e del loro autore.
15
Per un riesame della questione vedi Coltrinari 2006, pp. 25-51.
16
L’individuazione dei riferimenti culturali di Marchisiano è definita, anche se
ancora col riferimento a Francesco da Tolentino da Serra, 1934, pp. 364-366;
Battistini 1981, pp. 82-86; Zampetti 1989, p. 359. Sul pittore vedi da ultimo
M. Mazzalupi in I pittori del Rinascimento 2006, pp. 146-151, schede nn. 24-25;
Semmoloni 2007b.
17
Per l’esame dei soggetti e il raffronto tra il contratto e gli affreschi eseguiti, oltre
che per le modalità di pagamento vedi la bibliografia citata alle note precedenti.
18
Battistini 1981, pp. 84-86, scheda n. 5.
19
Zampetti 1989, p. 359.
20
Testi devozionali quattrocenteschi, come ha indicato Michael Baxandall, (1972,
ed. 1978, p. 56) consigliavano di visualizzare la storia sacra ambientandola sullo
sfondo di luoghi consueti e riconoscibili, per esempio le città. Così è frequente
che nello sfondo di soggetti sacri e in particolare delle Crocifissioni la rappresentazione di Gerusalemme si identifichi con l’immagine di città esistenti.
21
Longhi 1927. Longhi usò questa espressione nella monografia su Piero della
1
Franccesca, mentre prendeva forma il concetto di “classicismo prematuro” definito per la prima volta nell’Officina Ferrarese 1934.
22
Grazie alla testimonianza coeva di Nicola Gualtieri si viene a sapere che il sarcofago aveva già subito uno spostamento nell’anno 1700 in occasione del Giubileo
per volontà dell’abate Ascanio Benadduci. In quell’occasione esso fu tolto dal
centro del mausoleo e collocato nella cappella situata a nord ovest, poi chiusa
da una cancellata in ferro, sempre mantenendo i quattro leoni di marmo che lo
sostenevano. Nello stesso anno Benadduci fece anche aprire nuove finestre nel
monumento e ne fece ridecorare la cupola con stucchi e pitture da Pasquale Marini da Recanati – di cui restano solo alcuni frammenti – raffiguranti una “Gloria
celeste”, distruggendo gli antichi mosaici. Vedi Semmoloni 1990, pp.153-154,
162 e 2007, p. 37.
23
Sul sarcofago tolentinate vedi Gabrielli 1961, pp.115-135; Joli 1971, pp. 6971; Nestori 1990; Barsanti 1993, pp. 63-64; Paoloni 1996b, pp. 77-98; Luni
2004, p. 395.
24
Barsanti 1993, p. 63.
25
Sul sarcofago si leggono tre iscrizioni: la prima e più antica è sulla tabula iscriptionis al centro del versante anteriore del coperchio, trascritta da Teodoro Mommsen nel Corpus Inscriptionum Latinarum: FL.IVL.CATERVIVS V. C. EX PRAEF.
PRAETORIO QVI / VIXIT CVM SEPTIMIA SEVERINA C.F. DVLCISSIMA
/ CONIUGE ANNIS XVI MINUS D.XIII QVIEVIT IN PACE / ANNORVM LVI DIERVM XVIII XVI KAL.NOB. DEPO /SITUS EST IIII KAL. DCB
SEPTIMIA SEVERINA C.F. / MARITO DVLCISSIMO AC SIBI SARCOFAGVM / ET PANTEUM CUM TRICORO DISPOSVIT / ET PERFECIT;
la seconda, dedicata alla morte prematura di Basso è lungo il bordo anteriore
del coperchio: FLENDE IACES IN BASSO ITERUM DEFUNCTE CATERVI
/ OCCIDIT ORE GENUS NOMINE POSTERITAS / TU MEDIUS GEMMA ET GERMANIS CLAUSA METALLIS / MORTE TUA FRACTUM EST
BASSE MONILE PIUM / OCTAVUS DECIMUS VIX TE SUSCEPERAT
ANNUS / OCIUS ERIPITUR QUOD PLACET ESSE DEI; la terza, di nuovo
dedicata ai due coniugi si è incisa lungo il margine del versante posteriore del coperchio: QVOS PARIBVS MERITIS IVNXIT MATRIMONIO DVLCI OMNIPOTENS DOMINVS TVMVLVS CVSTODIT IN AEVUM / CATERVI
SEVERINA TIBI CONIVNCTA LAETATVR / SVRGATIS PARITER CRISTO PRAESTANTE BEATI / QVOS DEI SACERDOS PROBIANVS LAVIT
ET VNXIT. Le ricognizioni avvenute in varie epoche storiche hanno confermato
la presenza di tre corpi, quello dei due coniugi e quello del loro figlio Basso, premorto alla madre. Vedi Nestori 1996c, pp. 99-149.
26
Grabar 1966 ed. it 1967, p.127.
27
Bon Valsassina, 1991, I, p. 431.
28
Per la fecondissima attività di Luigi Fontana vedi Luigi Fontana 2004.
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
131
LE PALE D’ALTARE NELLA CHIESA
DI SAN CATERVO A TOLENTINO
Silvia Blasio
La situazione attuale degli altari del presbiterio e della navata, e dei dipinti che li
ornano, riflette con poche varianti quella riscontrata nel corso della sacra visita
del 1883 svolta da monsignor Sebastiano
Galeati1 e nella testimonianza coeva del
Commentario di Nicola Nerpiti, mansionario della cattedrale morto nel 1900.2
Si tratta per lo più di opere eseguite da
artisti attivi negli anni centrali dell’Ottocento, marchigiani di nascita ma di
educazione romana, che proseguirono
quindi ben addentro nel loro secolo la
tradizionale osmosi artistica tra le Marche e Roma che aveva caratterizzato il Sei
e il Settecento. L’orientamento stilistico
dominante, volto a soddisfare le esigenze
di una committenza soprattutto religiosa
e rispecchiato anche dai quadri di San
Catervo, è quello purista sostenuto da
Tommaso Minardi, consulente ufficiale
di Pio IX in materia di restauri e di acquisizioni e maestro di più di un centinaio di allievi, tra cui il prediletto sembra
essere stato proprio Luigi Fontana.
Dall’ingresso, la prima cappella a destra
è dedicata a Sant’Emidio e il dipinto
sull’altare, raffigurante il santo, è opera di
Emidio Pallotta (Tolentino 1803-1868),
allievo di Giuseppe Lucatelli e formatosi
a Roma presso l’Accademia di Belle Arti
grazie a un contributo del Comune di
Tolentino. Rientrato nel 1834, si dedicò prevalentemente all’insegnamento
ed eseguì varie opere per la sua città, tra
le quali si segnalano, nel 1850, quattro
tele raffiguranti ritratti di pontefici per i
pennacchi della cupola del secondo vano
Emidio Pallotta, Sant’Emidio
della cappella delle Sante Braccia nel
Santuario di San Nicola. La sua pittura,
come mostra anche il Sant’Emidio della
cattedrale, è fedele ad una linea di severo
classicismo e si fonda su correttezza del
disegno e equilibrio compositivo di tradizione accademica, unito però ad una
particolare predilezione per una gamma
cromatica delicata e tenue e per i graduali trapassi chiaroscurali. In questo dipinto lo scenario di rovine architettoniche
e gli oggetti rovesciati al suolo vanno
interpretati come riferimento al santo
dotato del potere miracoloso di placare i
terremoti ma anche, in un senso più ampio, come trionfo della fede cristiana sul
paganesimo, rappresentato dalla statua a
destra su un alto basamento sbrecciato,
la cui testa, simile a quella di un Giove, è
rotolata sul pavimento.
La seconda cappella del lato destro è dedicata a San Giuseppe, e la tela sull’altare
raffigura il Transito di san Giuseppe dipinto da Alcide Allevi di Offida (Offida
1831-1893)3. L’Allevi fa parte della schiera degli scolari marchigiani di Tommaso
Minardi, presso il quale studiò a Roma
all’Accademia di San Luca, collaborando
col maestro in vari lavori e intrattenendo
proficui rapporti anche con Domenico
Morelli, che poté stimolare in lui l’interesse per i temi del romanticismo storico.
Il Transito di San Giuseppe è un quadro
dalla sobria ambientazione di gusto ancora neoclassico, caratterizzato da colori
brillanti e definiti, composizione e disegno semplificati, controllo delle emozioni, secondo gli insegnamenti puristi del
Minardi. La gran parte dell’attività di
Alcide Allevi si svolse a Offida (teatro del
Serpente Aureo, Palazzo Alessandrini,
Collegiata), e a Tolentino a partire dagli
anni Ottanta.
Proseguendo sullo stesso lato attraverso
una porta si accede alla cappella del Battistero caratterizzata da un’elegante vasca
battesimale in porfido, da un altare seicentesco in legno intagliato e dorato con
il Battesimo di Cristo, tela seicentesca di
qualità mediocre, ispirata a prototipi veneti. Riprendendo il percorso nella navata si incontra la terza cappella del lato
destro, dedicata a San Vincenzo Maria
Strambi (1745-1824) vescovo di Macerata e Tolentino che nel 1822 fece dare
132
Silvia Blasio
Battesimo di Cristo, secolo XVII
Alcide Allevi da Offida, Transito di san Giuseppe
inizio ai lavori di ricostruzione della cattedrale, il cui ritratto è visibile sull’altare.
Prima dell’allestimento attuale, posteriore alla canonizzazione sotto papa Pio XII
nel 1950, questa cappella recava la dedicazione alla Madonna della Stella e
sull’altare vi era un’immagine seicentesca
della Vergine col Bambino dormiente che a
giudizio di Luigi Fontana era opera della
bottega di Carlo Dolci, stando a quanto
viene riportato nel resoconto della visita
pastorale del 18834 e nel Commentario
del Nerpiti. Quest’ultimo la descrive come
una tela in cattivo stato di conservazione
lacerata e forata per appendervi gli ex
voto, essendo molto venerata dal popolo
tolentinate, e pertanto restaurata nel 1857
da Emidio Pallotta e di nuovo nel 1860 da
un suo collaboratore.5
L’esedra progettata da Giuseppe Lucatelli – cui in un primo momento era stato
affidato l’incarico di ricostruire la chiesa
– specularmente alla cappella del Santissimo Sacramento di uguale forma nella
navata sinistra costituisce la cappella del
Cristo morto, ove sull’altare è collocato il
duecentesco Deposto in legno.6
Giunti al presbiterio, dove nel coro ligneo moderno hanno trovato sistemazione alcune formelle dell’antico coro
monastico,7 sull’altar maggiore dedicato
all’Assunta vi è una grande pala eseguita
dal conte maceratese Filippo Spada, autore del nuovo progetto architettonico
della chiesa,8 firmata e datata “Philippus
Spada pinxit 1827”. Essa raffigura l’Assunta e angeli e i santi Nicola da Tolentino,
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
133
Gaetano Giorgini, I santi Biagio, Lucia e Apollonia
Filippo Spada, Assunta con angeli e santi
Settimia, Catervo, Tommaso da Tolentino
e Nicola di Mira un’opera neosecentesca
rigida e impacciata, impostata secondo la
tradizionale distinzione in due piani sovrapposti, quello celeste e quello terreno
e incentrata sulla figura magniloquente e
retorica del San Catervo, al centro della
composizione. La scarsa familiarità dello
Spada con la pittura evidente in questa
pala dalle dimensioni considerevoli è
riscattata solo dall’amena veduta di Tolentino nello sfondo, al quale le figure si
sovrappongono senza ambientarvisi, in
cui si riconosce la chiesa di san Catervo
nelle sua forma neoclassica.9
All’inizio della navata sinistra, l’esedra
del Lucatelli, dedicata come si è detto al
Santissimo Sacramento, è la prima cappella su questo lato, ed è decorata da un
paliotto a rilievo in bronzo con l’Ultima
Cena, da Scene della Passione e da un Cristo benedicente opera di Luigi Galli eseguiti nel 1954 a ricordo del Congresso
Eucaristico Diocesano.
La seconda cappella è dedicata al Carmine e vi sono raffigurati, ad opera di
134
Silvia Blasio
Francesco Ferranti, i santi carmelitani
san Giovanni della Croce e santa Teresa
d’Avila, e la terza, già dedicata a san Biagio, è oggi la Cappella del Sacro Cuore.
L’immagine del Sacro Cuore sull’altare è
una tela generalmente attribuita ad Alcide Allevi, ma secondo il Nerpiti è opera del suo allievo Girolamo Capoferri
(1850-1913ca.), un pittore che trascorse
quasi l’intera sua vita a Roma,10 su com-
missione del canonico Seri nel 1889. La
tela è adorna di una ricchissima cornice
settecentesca in legno intagliato dipinto
e dorato che sempre secondo il Nerpiti si
trovava nella cappella già prima dell’esecuzione del quadro. L’ultima cappella del
lato sinistro, già di San Girolamo Emiliani è oggi dedicata a San Biagio e sull’altare vi è una tela mediocre di Gaetano
Giorgini dipinta nel 1829 e raffigurante
i santi Biagio, Lucia e Apollonia.11 Credo
sia utile infine, per valutare quale fosse
all’inizio del Novecento l’entità del patrimonio di pitture posseduto dalla cattedrale e dislocato nei suoi vari ambienti
annessi, la trascrizione in nota del paragrafo intitolato “Quadri” dell’Inventario
degli oggetti mobili della Chiesa Cattedrale
di Tolentino 1902”.12
NOTE
Pietrella 2007, p. 171.
ASDT, N. Nerpiti, Commentario dei Santi Beati, e Venerabili che illustrano la Città di Tolentino e la Chiesa Cattolica con la spiegazione de’ monumenti un cenno del
culto e varie preghiere ai principali di essi a S. Catervo Protettore S. Basso S. Settimia
suoi compagni a s. Nicola e S. Tommaso Compatroni che si venerano in detta città.
Piacenza. Tipografia Solari, Strada Diritta n. 187-189, 1882, busta IV, consultato
da Nestori 1996a, pp. 8-9. Vedi anche Casadidio 2007, pp. 138-140. Il Nestori
aveva già individuato lo stampatore, ma il manoscritto non fu mai pubblicato.
3
Sull’Allevi vedi Rossi 2003, II, p. 663.
4
Pietrella 2007, p. 171.
5
La tela proveniva dalla piccola chiesa della Stelluccia, dove è tornata nel 1952.
Casadidio 2007, p. 144, nota 8.
6
Vedi il paragrafo di Gabriele Barucca sulle opere medievali in questo volume.
7
Secondo Nicola Gualtieri “Ha questa Chiesa un bellissimo Choro per salmeggiare; è stimato assai per l’intagli e intarsiature di Noce e di Legno bianco, dove,
nell’Imagine di S. Catervo, si legge: Alme Tolentinum Populum difende Caterve. Joannes de Dravia finivit anno 1472”, in Semmoloni 1990, p. 164. L’iscrizione, ora
perduta, fino a Semmoloni 2000, p. 70 è sempre stata interpretata come riferita a
“Giovanni Oravia”, mentre vi si deve leggere il nome di Giovanni schiavo, originario di Dvar (Dravia) che i documenti tolentinati indicano come colui che diresse i lavori di costruzione del coro ligneo tra il 1469 e il 1470. Vedi F. Coltrinari in
Rinascimento scolpito 2006, p. 128, scheda n. 11. Alcune delle formelle rimontate
nella struttura moderna sono di Domenico Indivini, intervenuto nel 1489.
8
Per Filippo Spada vedi il saggio sull’architettura di Stefano d’Amico in questo
volume e Dizionario biografico dei maceratesi 2000, p. 44.
9
Vedi D. Di Nucci in San Nicola da Tolentino 1999, pp. 198-199, scheda n. 189.
10
Casadidio 2007, p. 143, nota 2.
11
“Faceva pure rinnovare l’Altare già di S. Girolamo Miani (sic), al cui quadro, trasferito nel coretto, sostituivasi quello di S. Biagio”; vedi Casadidio 2007, p.140.
12
ASDT, 41/3.1. Capo VIII Quadri
Paragrafo 1 Con pittura
1)Principali
I) All’Altare Maggiore: Tela rappresentante l’Assunta con i Santi Protettori insieme a S. Nicola e S. Settimia
II) Alla Cappella del Sacro Cuore di Gesù: Tela di medesimo S. Cuore con bellissima cornice a rococò argentata e a velatura
III) Alla Cappella detta di San Biagio: Gruppo in tela rappresentante S. Biagio,
S. Lucia, S. Apollonia
IV) Alla Cappella di S. Emidio: Tela di questo Santo
V) Alla Cappella di S. Giuseppe: Tela del Transito di questo Santo Patriarca
coll’assistenza di Gesù e di Maria
1
2
VI) Alla Cappella della Stella: Piccola tela con tendina della B. V. reggente il
Bambino.
VII) Alla Cappella del Cristo Morto: Quadretto a pastello del Lucatelli con tendina, rappresentante la Vergine Desolata e S. Giovanni.
2) Sottoquadri:
I) Alla Cappella di S. Biagio: L’Immacolata con ai piedi S. Agnese ed alcune pie
giovanette in oleografia (della P. U. delle figlie di Maria) su cornice dorata con
fregi in intaglio e zoccolatura
II) Alla Cappella di S. Giuseppe: la s. Famiglia (oleografia) su cornice semplice
dorata e zoccolatura.
III) All’Altare del vecchio coretto: La B. V. Addolorata in tela su cornice semplice
dorata e zoccolatura di ceraso.
3) Via Crucis
I) Grandi con immagini di carta impresse a colori su cornici dorate, alle due
navate laterali della Chiesa.
II) Piccole al vecchio coretto con immagini di carta impresse in nero su cornici
dipinte color ceraso.
4) Quadri vari
I) Al coretto vecchio:
Ai lati dell’Altare con cornici di legno dipinte a guazzo due tele rappresentanti S.
Matteo e S. Luca.
Una tela grande con cornice biancastra doppiamente filettata d’oro rappresentante S. Girolamo Emiliani.
Una tela del Vescovo S. Ubaldo (cornice di legno dipinta a guazzo)
Una tela rappresentante S. Bernardo (cornice idem)
Una tela col Bambino (cornice idem).
II) Alla Sagrestia:
Tela grande senza cornice che rappresenta S. Giorgio
Tela di S. Andrea Avellino su cornice nera listata d’oro ai due bordi.
Un’olografia delle Figlie di Maria (Quadretto su cornice di commercio dorata
con base)
Quattro ritratti in tela con cornici dorate di Pio VI e dei Vescovi Peruzzini. Stelluti e Spinucci
III) All’Anticanonica
Tela rappresentante S. Nicola su cornice di legno dipinta a guazzo
Tela di S. Camillo De Lellis su cornice dorata
IV) Alla Canonica: Tela rappresentante S. Giambattista De Rossi su cornice dorata (Dono del Rev.mo Can.co Sig. Don Felice Marinelli)
Due cartoni su cornici nese con doppio filetto dorato rappresentanti: Uno la B.
V. Assunta con i tre Santi Protettori; l’altro il Crocifisso e i Santi S. Tommaso da
Tolentino, S. Nicola, S. Basso, S. Settimia e S. Catervo (Dono del fu Mans.rio
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
Nerpiti Sess: Cap. 4 maggio 1901)
V) Al Corridoio laterale della Cappella di S. Catervo: due tele con listina di legno
dorata rappresentanti la Vittoria di Lepanto e la Predicazione di S. Catervo.
VI) Nella sede parrocchiale: Tela rappresentante la Samaritana su cornice dipinta
a guazzo.
Due quadri in tela: uno della Vergine e un altro del Redentore su cornice idem
Una tela dell’Addolorata senza cornice
Quattro quadretti con immagini di carta
VII) Al Battisterio: Quadro in tela rappresentante il Battesimo di S. Giovanni
VIII) Nei corridoi che mettono accesso alla Sagrestia:
Piccola tela con cornice rappresentante il Nazzareno
Una tela senza cornice rappresentante S, Giovanni Battista
Una tela senza cornice rappresentante l’Arcangelo S. Raffaele e Tobia
Una tela senza cornice rappresentante il Presepio
Una tela senza cornice rappresentante S. Carlo Borromeo
Due quadri in tela rappresentanti dei portici con cornice
Due quadri in tela rappresentanti paesaggi con cornice
Uno in carta rappresentante itinerari di viaggio
IX) Nella camera detta degl’imbrogli
135
Una piccola tela di Gesù Nazzareno senza cornice.
Risulta purtroppo disperso, e sarebbe stato di enorme utilità per conoscere la
situazione dei beni mobili della vecchia chiesa, prima della distruzione e del rifacimento ottocentesco, l’ ”Inventario Di tutti Li Beni mobili, e Stabili Fatto per Ordine della Santità di nostro Signore Benedetto terzo decimo à tenore del Concilio
Romano, e respettivamente Provinciale dal Priore Don Giovanni Battista Loreto
Abbate in Capite del Monastero et Chiesa di S. Catervo di Tolentino de’ Canonici Regolari Lateranensi, et consegnato alla Cancelleria Episcopale della detta
Città di Tolentino Adì 10 giugno 1729”. Questo inventario del 1729, di cui già
Semmoloni 2007, p. 80, nota 80 lamentava la scomparsa indicandone la seguente
collocazione “Archivio Curia Vescovile, Busta non segnata ‘Monasteri e conventi’,
è stato parzialmente trascritto in Nestori 1996a, p. 5, nota 24, per le parti relative
al panteum cum tricorno e agli oggetti ivi conservati. L’inventario fu redatto a pochi anni di distanza dal rinnovamento delle pale d’altare voluto dall’abate Ascanio
Benadduci nel 1700 (“rinovò gl’altari di novi quadri”), in occasione del Giubileo.
Vedi Semmoloni 1990, p. 154 e infra nota 22. Altri importanti documenti, oggi
non più consultabili e visti da Vittorio Aleandri all’inizio del Novecento, segnalavano il pagamento nel 1453 per una pala di Paolo da Visso per l’altar maggiore
(Aleandri 1905, p. 105).
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
137
FRANCESCO FERRANTI E L’APPARATO
DECORATIVO DI SAN CATERVO A TOLENTINO
Elisa Mori
La Crocefissione, ingresso principale
Al 1909 risale il pregevole bozzetto che
documenta l’imponente apparato decorativo, realizzato da Francesco Ferranti tra il
1914 e il 1919, data del completamento
delle decorazioni delle cappelle laterali,
nella chiesa di San Catervo a Tolentino.1
Sono anni in cui l’artista è impegnato anche a Macerata, dove dipinge l’Assunzione della Vergine nel catino absidale della
chiesa di Santa Maria della Porta e La civiltà latina e il progresso nel soffitto della
Sala dei Concerti della Filarmonica.
A testimoniare l’operosità di Ferranti,
sempre a Tolentino, nel corso degli anni
restano le vaste decorazioni realizzate nel-
la basilica di San Nicola (1904 – 1905 e
1935), nella chiesa di Santa Maria Nuova
(1911), nella Cassa di risparmio (1900) e
nel Palazzo Comunale (1930).
Fondamentali per la sua formazione sono
gli anni romani della fine dell’Ottocento
nei quali frequenta prima l’Accademia
di Belle Arti e poi la Scuola Libera del
Nudo, diretta in quel periodo dal pittore
Cesare Mariani. Sempre al periodo romano risale l’incontro, e la conseguente
conoscenza, degli artisti Cesare Maccari
e Ludovico Seitz, impegnati in quegli
anni nella grande fabbrica della Basilica
della Santa Casa di Loreto.
Lo studioso Mario Rivosecchi svela nel
1952, un anno dopo la morte dell’artista, il segreto dello stile di Ferranti che
“si è iniziato all’arte godendo dell’opera
del Seitz e del Maccari: oggi questi maestri, ammirati nella giovinezza, ritornano
nell’opera sua matura, la quale sa ridonarci alcuni preziosi toni della tavolozza
del Maccari e certe finezze di decorazione
mistica che si credevano perdute con il
Seitz, senza mai servi’ e [sic!] imitazione,
bensì con la capacità di fondere i pregi di
due artisti così diversi”.2
Alla natia Tolentino, come già anticipato
in apertura al testo, è legato il nome di
138
Elisa Mori
Francesco Ferranti, Spaccato del Duomo di Tolentino (1909), acquerello su carta, cm 100 x 52, Collezione privata (foto Giorgio Semmoloni)
Francesco Ferranti, ed in particolare alla
concattedrale di San Catervo, nella quale
realizza, su un impianto architettonico
neoclassico, gran parte dell’apparato decorativo. Da segnalare, sopra l’ingresso
principale, la raffigurazione della Crocefissione, lungo la volta della navata centrale le tre Virtù teologali, le quattro Virtù cardinali e S. Catervo in abito militare
romano, patrono della città tolentinate.
In corrispondenza della crociera, infine,
circondata da uno stuolo di angeli, l’artista riproduce l’Incoronazione della Vergi-
ne da parte della Ss. Trinità.3
Ferranti, che tra i suoi più validi collaboratori vanta anche il pittore Donatello
Stefanucci, artefice del ciclo decorativo
della Chiesa di Santa Maria Assunta di
Cingoli, inizia ad operare nella Chiesa di
San Catervo intorno al 1914, quando già
numerosi interventi di restauro avevano
interessato l’edificio sin dal 1904, come
attesta la Relazione tecnica sullo stato della
Chiesa Cattedrale di S. Catervo in Tolentino, constatazione e stima dei lavori urgenti
in essa eseguiti, computo e stima dei lavori
ancora necessari per ridurla in stato di ordinaria manutenzione, decente ed igienità, redatta dal perito Antonio Massi il 9
settembre del 1907 e conservata presso
l’Archivio Diocesano di Tolentino.4
Gran parte dell’impianto decorativo risulta terminato dall’artista già nel 1916,
com’è chiaramente indicato in un rendiconto redatto nello stesso anno dal perito incaricato dei lavori Antonio Massi.
In esso vengono menzionate, tra le altre,
anche le “decorazioni eseguite dal pittore
Sig. Francesco Ferranti nell’interno della
139
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
chiesa per un complessivo contrattuale
di £ 15000,00”.5
L’opera del pittore all’interno della chiesa, tuttavia, termina definitivamente solo
nel 1919, quando vedranno la loro conclusione i lavori delle cappelle laterali. A
tale proposito si riporta integralmente il
contratto siglato il 15 giugno del 1918
tra Ferranti e il Vicario Generale Monsignor Pietro Tacci, nonché Presidente della commissione per i restauri del Duomo, nel quale vengono descritte le varie
fasi dei lavori con i relativi importi.
“Al Rev/mo PRESIDENTE della Rev/ma COMMISSIONE PER I RESTAURI DEL DUOMO DI
TOLENTINO
Mi si presenta l’occasione di avere a mia disposizione del personale atto ad eseguire la decorazione
delle restanti cappelle del nostro Duomo. Iniziatesi ora la buona stagione e terminate le funzioni della
settimana Santa e di Pasqua urge un’intesa comune per poter dar principio ai lavori, perchè il detto
personale, di cui qualcheduno è profugo, si trova senza lavoro, e conseguentemente nella necessità di
procurarselo.
Domando venia per questo mio sollecitare, perché non vorrei farmi sfuggire la suaccennata combinazione dati i tempi e le difficoltà che attraversiamo e a cui andiamo incontro.
Animato dal desiderio che ho di vedere completata anche nelle altre parti quest’opera mia, presento
un progetto, che nei limiti della massima economia compatibile col decoro, permetta di eseguire la decorazione delle altre cappelle in intonazione e fusione col resto del Tempio.
1° - CAPPELLA DEL SS. SACRAMENTO. - La decorazione di questa Cappella dovrà essere eguale
per ricchezza di decorazione all’altra di fronte dedicata al SS. Crocefisso, escludendo la parte figurata
supplendola con decorazione musiva. Il Baldacchino e la scalinata andranno dorati e a marmo come
attualmente si trovano.
£ 700.00
Le invetriate come al lato opposto, ma con decorazione allusiva, all’Eucarestia. Le vecchie finestre di
ritorno.
£ 300.00
2° - CAPPELLA DI S. GIUSEPPE. – Soffitto e pareti come all’arco della Cappella del Cristo Morto,
ma con decorazione che si riferisca al Santo. L’Altare sarà fatto a marmi con decorazioni a mosaico. Nel
centro si dovrà fare una nicchia per porvi il Santo. (Prezzo da convenirsi con l’oblatore).
3° - CAPPELLA DI S. EMIDIO. – Secondo il contratto 1911 io avrei dovuto restaurare le pitture esistenti in questa Cappella, e vi avrei dovuto trasportare il fonte battesimale. Io propongo invece ora una
piccola aggiunta di £ 250, si potrebbe così avere una cappella corrispondente alla vicina di S. Giuseppe,
in modo da non farla essere una cosa estranea al resto della Chiesa, come verrebbe se vi effettuasse il 1°
progetto
RIPORTO
£ 1000.00
Riguardo poi al trasporto in essa del fonte battesimale, questo mi fu impossibile eseguirlo,
perché assolutamente non è possibile trovarvi un posto a meno che non si voglia fare una cosa
antiestetica
£ 250.00
4° - CAPPELLA DEI SS. LUCIA – BIAGIO – APOLLONIA eguale a quella di S. Emidio
£ 450.00
L’invetriata, della medesima eguale a quello del Carmelo
£ 250.00
5° - Per eseguire il cancello di chiusura del presbiterio e per avere un cancello solido sono necessarie lire
300, dato l’enorme aumento del ferro e carbone, e della mano d’opera £ 300.00
Faccio noto alla Reverendissima Commissione che, non pratico in materia, ho già speso molto di più
delle 400 lire pattuite per fare eseguire e mettere a posto la balaustra come ora si vede. A richiesta tengo
sempre a disposizione della Reverendissima Commissione le pezze giustificative. Intendendo sempre di
mettere l’idea dei candelabri sopra i balaustri non essendo più possibile dato l’enorme prezzo delle materie prime.
6° - Mio avere per la medesima balaustra
£ 400.00
7° - Mio avere secondo il contratto del 1911
£ 3000.00
£ 5650.00
8° - Il sistema di pagamento di tutta la somma di L. cinquemilaseicentocinquanta
Sarà fatto ininterrottamente a rate settimanali di L. 150 previo ordine di pagamento della S. V. Rev/ma
firmato, o dalla S. V. Rev/ma direttamente pagato sino alla totale estinzione della somma suddetta.
9° - I lavori iniziati non dovranno essere interrotti. Il restauro degli intonachi sarà a carico del pittore.
10° - La S. V. Rev/ma potrà rifiutarsi di emettere l’ordine di pagamento in quella settimana in cui il lavoro venisse sospeso. Il pittore si obbliga di compiere i detti lavori entro 37 settimane.
11° - Si accettano da ambo le parti i patti sopra descritti e si sottofirmano.
Tolentino, 15 giugno 1918
IL PRESIDENTE
DELLA COMMISSIONE PER I RESTAURI
DEL DUOMO
Arcip. Pietro Tacci Vicario Generale
Canonico Fausto Verdinelli Fabbriciere”.6
IL PITTORE
Ferranti Francesco
140
Elisa Mori
L’Incoronazione della Vergine da parte della Ss. Trinità
Numerose le ricevute che documentano i
pagamenti percepiti dall’artista tra il
1918 e il 1919 per il ciclo decorativo delle cappelle laterali.
Grandi riconoscimenti per il lavoro svolto nell’edificio sono testimoniati anche
dalla lettera, datata 26 ottobre 1919, redatta dal Canonico Giacinto Rascioni,
membro del Capitolo, al Vicario Generale Pietro Tacci, nella quale sollecita tutti i colleghi della seduta capitolare a rivolgere “un vivo elogio e un cordiale
ringraziamento al Sig. Francesco Ferranti,
che, con raro disinteresse, con egregio valore d’artista, ha voluta compiere un’ope-
ra d’arte veramente ammirevole e rispondente, non a quanto gli si è potuto offrire,
ma solo ai suoi nobilissimi sentimenti di
cristiano e di concittadino. A lui dobbiamo quella ricca profusione di figure e di
motivi ornamentali svariatissimi che abbelliscono la nostra Chiesa, e che col
profondo pensiero religioso e col caro
simbolismo dell’antichità cristiana elevano l’animo alle contemplazioni celesti, per
le quali è fatto il Tempio di Dio”.7
A San Catervo, dunque, al pari di altri
apparati decorativi, Ferranti dà prova di
tutta la sua abilità di decoratore, nei
grandi spazi riesce ad “esprimere la sua
sensibilità pronta ad intendere e ad eseguire composizioni profane e liturgiche,
dense di pensiero ed originali nella concezione, considerando sempre che l’abbellimento di una costruzione architettonica non deve essere commerciale e
causale ma coscienzioso, studiato, logico
catechistico”.8
Padronanza tecnica, accompagnata da
una grande originalità e dalla potenza del
colore, contribuiscono a fare di Francesco Ferranti uno degli interpreti più autorevoli tanto del territorio tolentinate
quanto di quello marchigiano.
NOTE
Casadidio 2007, pp. 132-133.
Rivosecchi 1952, pp. 3-4.
3
Tolentino. Guida all’arte 2000, pp. 70, 72.
4
ASDT, Cattedrale, 42/1.10. Relazione tecnica sullo stato della Chiesa Cattedrale
di S. Catervo in Tolentino, constatazione e stima dei lavori..., 9 settembre 1907.
ASDT, Chiesa Cattedrale di S. Catervo - Restauri, 31 ottobre 1916.
ASDT, Contratto per i lavori delle cappelle laterali..., 15 giugno 1918.
7
ASDT, Lettera del Canonico Giacinto Rascioni al Vicario Generale Pietro Tacci,
26 ottobre 1919.
8
Maranesi 1952, p. 2.
1
5
2
6
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
Navata centrale
141
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
143
IL TESORO DI SAN CATERVO A TOLENTINO
Gabriele Barucca
“Nell’Altare delle Reliquie esistente in
detta Cappella grande verso man destra
con la sua cancellata di ferro indorata
dentro si conserva la testa di esso S. Catervo martire in Tabernacolo di Argento
con li cristalli, item un’Ampolla o Bicchiero pieno di sangue del medesimo
Santo diventato polvere rossa, raccolto
nella di lui decollazione, con molte altre
Reliquie de Santi”, così Nicola Gualtieri,1 erudito tolentinate vissuto tra Sei e
Settecento, descrive le reliquie più insigni della chiesa di San Catervo.
Non sappiamo se il “Tabernacolo di Argento con li cristalli” contenente il capo
di san Catervo, citato dal Gualtieri, sia
ancora quello realizzato fra il 1453 e il
1456 dall’orafo tolentinate Jacopo Marini
insieme al collega Battista di Francesco,2
oppure quello nuovo commissionato nel
1705 da Nicolò Benadduci, abate mitrato del monastero di S. Catervo, nato nel
1677 e morto nel 1742. Quest’ultimo
reliquiario è tuttora conservato sebbene
privo della reliquia e con il ricettacolo
malamente manomesso. Le parti originarie di questo grande reliquiario architettonico sono quelle del fusto piriforme
e del piede circolare bombato dove si
alternano, sul fondo finemente decorato
da esuberanti fogliami sbalzati e cesellati,
due scudi con lo stemma del Comune di
Tolentino e due cartelle ovali con la scritta incisa: “Abb. Benadduci 1705”. C’è
notizia indiretta che Nicolò Benadduci
pagò il nuovo reliquiario ben quaranta
scudi, come risulta da un Inventario redatto nel 1729,3 peraltro contenente una
Reliquiario di san Catervo
dettagliata descrizione del tesoro di reliquie che vale la pena di citare per intero: “In questo Cappellone subbito che si
entra à mano destra vi è una Cappelletta
con l’Altare del Glorioso S. Catervo Martire protettore P(rincipa)le della Città di
Tol(enti)no con un Reliquiario d’Argento di valore scudi 40 incirca, ove si conserva la di lui S(an)ta Testa et una Crocetta d’Argento appesa al s(opr)ad(dett)
o con sua copertina di Brocchato Rosso.
Dentro la med(esim)a Nicchia, che si descriverà sotto, vi è un altro Reliquiario
d’Argento con suo piede di legno dentro
il quale vi è il Sangue di S. Catervo. Un
Reliquiario indorato nel quale vi è il legno della S. Croce con sua Autentica. Un
altro Reliquiario di cristallo con reliquie
di S. Catervo e Compagni. Quattro Reliquiarij indorati, uno di S. Lucia, uno
di S. Biaggio, uno di S. Ubaldo, e l’altro
di SS.ti Catervo, e Bonifatio MM. Un
altro Reliquiario indorato con la reliquia
di S. Paolo Ap(osto)lo e sua Autentica.
Una scattoletta indorata dentro la quale
vi è un Berettino di S. Ubaldo, una mitra
di Velluto Rosso e Falzone d’oro con suo
cristallo ove stà chiusa la Mitra, e Berettino di Broccato toccati nel corpo di S.
Ubaldo con sua Autentica”.
L’elencazione accurata di questi preziosi involucri con i loro reperti sacri, così
lontana dalla nostra sensibilità, ci consente di misurare il posto tenuto allora
dai reliquiari e dai pii ricordi nella vita
delle popolazioni. Offerte alla pietà e il
più delle volte apportatrici di indulgenze
queste insigni reliquie fondavano la fama
e il prestigio stesso delle chiese e dei santuari che le detenevano.
In una successiva descrizione redatta nel
1882 da un certo don Nicola Nerpiti,
mansionario della cattedrale morto nel
1900, viene illustrato il nuovo assetto
della chiesa dopo i lavori degli anni venti
dell’Ottocento e si attesta che: “Finalmente, rimodernato dal detto Lucatelli
il vestibolo della Cappella Meridionale
già della SS. Trinità, essa cappella rimane ancora e convertita in Santuario, vi
riposano i corpi del Patrono e congiunti
con le insigni reliquie del Compatrono S.
144
Gabriele Barucca
Dionisio Boemer, reliquiario a busto
di san Tommaso da Tolentino
Tommaso da Tolentino.” Ancora oggi,
custodito nell’altare della cappella della
Madonna della Pace, si conserva il reliquiario a busto d’argento contenente
la testa di san Tommaso da Tolentino
dell’Ordine dei Minori.5 Il personaggio
sacro ha un volto reso in termini fortemente individualizzati mentre il busto
vestito con l’umile saio francescano, che
sul petto lascia spazio ad una grande teca
ovale, chiusa da un vetro per consentire
la visione della venerata reliquia in essa
racchiusa, è modellato nella lamina d’argento con geometrica staticità che tende
a circoscrivere l’immagine in un blocco
compatto, rigidamente frontale. Tale
linguaggio fortemente arcaizzante non
sorprende per questo genere di arredi
liturgici realizzati normalmente riproducendo gli stessi modelli a distanza anche
di diversi secoli; ciò si riscontra tanto più
quando a produrli quasi in serie sono ar4
tefici non particolarmente dotati di inventiva artistica. Nel caso in questione
l’autore è Dionisio Boemer, argentiere
peraltro di un certo interesse che imprime il suo bollo personale sul busto.
Boemer, nato a Münster, giunse in Italia ai primi del Settecento con le truppe
tedesche dirette a Napoli. Abbandonate
le armi, nel 1702 si stabilì a Macerata,
dove aprì bottega a partire almeno dal
1711. Dieci anni dopo fu aggregato al
patriziato cittadino. Della sua cospicua
produzione, sia di destinazione profana
che religiosa, realizzata su ordinazione
dei nobili e degli ecclesiastici di Macerata e delle cittadine vicine, si conservano
ancora innumerevoli pezzi, soprattutto
sacri, di buona qualità.6
Quanto alla datazione del reliquiario
a busto di San Tommaso da Tolentino
esiste la possibilità di fissare un sicuro
termine post quem esaminando tre lettere, conservate nell’Archivio Diocesano
di Tolentino in una busta segnata con
la scritta “Cattedrale di Tolentino”, che
attestano la corrispondenza in merito
all’oggetto sacro intercorsa tra il Vescovo
di Macerata-Tolentino, il Provveditore
della S. Congregazione del Buon Governo e un certo Decio Antonio Odorisij,
rappresentante del Consiglio Generale
della Città di Tolentino. Nella prima di
queste lettere, datata “Roma, 4 dicembre
1723” il Provveditore chiede al Vescovo“… se veramente sussista il bisogno,
che li Pubblici Rappresentanti di cotesta
Città suppongono vi sia d’ingrandire il
Reliquiario, ove conservasi il Capo di S.
Tommaso Martire, per erogarvi li scudi
25 soliti spendersi nella compra del Pallio per la Corsa de’ Barbari per la festa
di San Catervo”. Nella seconda lettera,
datata “Tolentino, 26 dicembre 1723”, il
rappresentante del Comune di Tolentino
informa il Provveditore della Congregazione del Buon Governo che “al Reliquiario di S. Tomaso Martire ancora non li è
Dionisio Boemer, reliquiario di sant’Apollonia
stato dato principio, per ché li destinati
scudi cinquanta, dall’Artefice non sono
stati riconosciuti sufficienti per l’intiero
compimento dell’Opera sul giuditio del
quale, assistito ancora dal pietoso zelo
di questo Generale, che mi si dice tenga
adunata del ...per detto preciso … altra
somma di scudi 25; Il Generale Consiglio si è mosso ad applicarvi parimente li
altri scudi 25 acciò l’opera riesca più decorosa, e magnifica à maggiore Gloria et
honore del Santo; che doveano spendersi
per la solita corsa del Pallio de Barbari
nella prossima … festa di S. Catervo,
per lo che detta soluzione si crede a tutta
giustizia applausibile, e ben fondata, per
trattarsi di un ornamento troppo necessario, si per che in Gloria di un Santo
oriundo e Comprotettore del Luogo à
contemplatione di cui la stessa Città oltre alle Gioie, che per sua Intercessione
spiritualmente ne riceve dalla Divina
Onnipotenza nei continui bisogni, a lui
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
ricorre ne gode ancora de Temporali per
Indulto de Sommi Pontefici quali sono
le fiere e franchigie in tutti li Lunedì di
Giugno in honore e solennità maggiore
della di lui festa indispensabilmente ogni
Anno”. Infine nell’ultima lettera, datata
31 dicembre 1723, il Confaloniere e i
Consiglieri della Città di Tolentino riaffermano in modo deciso agli “Eminentissimi e Reverendissimi Signori”, vale a
dire il Provveditore e il Vescovo, che “è
veramente necessario il Reliquiario, che li
Pubblici Rappresentanti di Tolentino intendono fare per conservare col debbito
decoro il Capo di S. Tommaso martire,
oriundo e Comprotettore di questa Città, mentre ora si trova rinchiuso in una
scatola di latta, la quale non corrisponde
punto alla preziosità e nobiltà della reliquia, mà più non riesce di ammirazione
à fedeli, nell’esporsi alla pubblica venerazione; non essendo però sufficienti li scudi 50 già destinati col beneplacito dell’Ill.
ma S. V., per l’essecuzione dell’opera è
applausibile la risoluzione di quel Conseglio di applicarvi li scudi 25 che dovevano erogarsi nel Pallio solito corrersi nella
festa di S. Catervo.” Per ora non è emersa
altra corrispondenza al riguardo, ma è
logico supporre che di lì a qualche mese
il Comune abbia ottenuto il nulla osta
ad incaricare l’argentiere dell’esecuzione
dell’oggetto sacro. In ogni caso la commissione ebbe buon esito come dimostra
lo scudo d’argento recante lo stemma coronato della Città di Tolentino, applicato
in bella evidenza sulla faccia anteriore del
basamento a sezione quadrata in bronzo
dorato su cui poggia il reliquiario a busto
di san Tommaso da Tolentino.
Il marchio del Boemer compare anche
su un piccolo reliquiario di sant’Apollonia,7 costituito da una lamina d’argento sbalzata e fissata sopra un’anima di
legno, raffigurante la figura intera della
santa che tiene nelle mani una palma e
una tenaglia, rispettivamente simbolo e
Mattia Venturesi, calice
strumento del suo martirio, mentre in
una teca sul petto è custodito uno dei sui
denti, che secondo la leggenda le furono
ferocemente estratti.
A questi oggetti realizzati da Dionisio
Boemer, argentiere attivo localmente,
nel corso del Settecento si aggiunsero
ad arricchire il tesoro della chiesa di San
Catervo numerose suppellettili sacre di
cui spesso non si conoscono gli oblatori
e le circostanze della donazione. Si tratta
di oggetti di qualità più o meno elevata,
quasi esclusivamente provenienti da botteghe orafe romane.
E’ opportuno segnalare brevemente questi pezzi, sui quali la presenza dei bolli
ha consentito l’individuazione dei loro
autori. Si tratta di alcuni degli argentieri
145
più reputati attivi a Roma nell’arco del
XVIII secolo.
Ad aprire la serie è un calice8 caratterizzato da una struttura molto semplice con
piede tondo e fusto con nodo piriforme,
e da un apparato decorativo affidato a
naturalistici cespi di foglie d’acanto che
cingono nodo e sottocoppa. Questa tipologia affermatasi nella seconda metà
del Seicento fu destinata a un enorme
successo e venne replicata serialmente
fin oltre la metà del secolo successivo.
Infatti il calice di Tolentino reca incisa
sotto il piede la data 1759 e l’indicazione del peso (Libbra 1 oncie 4 denari
4) nonché impresso il bollo del maestro
Matteo Chiocca (Roma, 1702 – 1758;
pat. 1734), capostipite di una dinastia
di argentieri attivi a Roma fino alla metà
dell’Ottocento. Peraltro, visto che l’oggetto risulta datato all’anno successivo
alla morte di Matteo, è probabile che sia
stato eseguito dal figlio Giuseppe, che
solo alla fine del 1759 ottenne la conferma della patente paterna, proseguendo
così la conduzione della bottega di famiglia con l’uso di un nuovo merco personale.9 E’ opera di Giuseppe Bartolotti o
di suo figlio Carlo un calice10 d’argento
privo di elementi ornamentali naturalistici: non ci sono teste di cherubino né
elementi vegetali, ma solo una proliferazione di volute, cartelle, motivi desunti
dal lessico decorativo architettonico. Se
l’identificazione del bollo camerale è corretta, si tratterebbe di un oggetto databile nel biennio 1775-1777, dunque nel
periodo in cui avvenne il passaggio di
consegne nella bottega dei Bartolotti in
seguito alla morte di Giuseppe, avvenuta
il 12 dicembre 1775.11 Passiamo ora ad
illustrare uno splendido calice12 marcato
da Mattia Venturesi (Forlì 1710 – Roma
1776), argentiere di origine forlivese trasferitosi a Roma dove entrò nella bottega
degli Arrighi, celebre dinastia di argentieri romani, che gli affidarono la direzio-
146
Gabriele Barucca
Matteo Chiocca, calice
Giuseppe Pagamici, pisside
Domenico Balestra, pisside
ne della loro bottega nel 1762, quando
Mattia ottenne la patente di maestro e la
possibilità di apporre un proprio merco
personale sugli oggetti, dapprima sotto il
controllo di Antonio Arrighi e in seguito
dal 1766 sotto la sua diretta ed esclusiva responsabilità, anche se ciascuna delle
parti aveva il diritto di rescindere il contratto.13 Il calice di Tolentino presenta
una decorazione insolitamente ricca,
non solo di motivi ornamentali astratti
desunti dal consueto repertorio settecentesco ma anche di altorilievi figurativi
fusi, come i tre angioletti che si inseguono gioiosi sulla base, le coppie di teste
di cherubini collocate entro tre cartelle
che si susseguono sul nodo di elaborato
rilievo plastico. Le volute, le cartelle architettoniche, i motivi vegetali che sono
tipici del repertorio rococò e che caratterizzano molte delle opere di Venturesi,
sono qui organizzati non con la sua consueta rigida simmetria ma in modo più
libero conferendo all’oggetto una sorta
di dinamismo, secondo un’interpretazione di questo stile più oltremontana che
italiana. Un altro calice settecentesco di
notevole eleganza,14 con piede circolare
sagomato, nodo a lampione e sottocoppa
a margine libero, decorato da testine di
cherubini aggettanti, volute e cartelle coi
simboli della Passione, presenta un bollo
molto abraso ma ascrivibile con qualche
incertezza a Giuseppe Grazioli (Fermo
1717 – Roma 1792; pat. 1749). Del resto la qualità dell’esecuzione dell’arredo
sacro, la sobrietà della composizione che
non trascende nella leziosità talvolta esagerata del repertorio rococò, nonché il
confronto con altri pezzi15 sicuramente
del Grazioli confermano la sua paternità per il calice in questione. Va segnalato
poi un piccolo ed elegante reliquiario ad
ostensorio,16 appartenente a una tipologia molto diffusa nel Settecento, con
la teca incastonata in esuberanti corni-
ci formate da variati intrecci di volute,
cartelle e motivi fitomorfi. L’oggetto presenta il merco personale dell’argentiere
Pietro Moretti, nato a Roma nel 1722,
patentato maestro nel 1746 e attivo fino
al 1766.17 Per concludere il commento
dei pezzi settecenteschi ancora conservati nel tesoro di San Catervo bisogna almeno accennare ad un grande ostensorio
raggiato, purtroppo manomesso da un
improprio e pesante restauro nel 1942,
che riargentando il pezzo ha tra l’altro
cancellato la probabile presenza del bollo
dell’argentiere e di quello camerale.
Riprende la struttura e il repertorio decorativo tardo seicentesco una grande
pisside18 marcata dal maceratese Giuseppe Pagamici, la cui attività di maestro argentiere è documentata dal 1811
quando deposita il suo bollo.19 L’arredo
sacro, che ripropone i consueti cespi di
foglie d’acanto a cingere il nodo, la coppa e a ricoprire completamente il coper-
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
chio lievemente rialzato su fascia bombata, si riscatta per la raffinata esecuzione
che rivela le notevoli capacità tecniche
dell’argentiere maceratese. Venne donata
alla cattedrale di San Catervo dal vescovo
Francesco Ansaldo Teloni20 nel 1845, un
anno prima di morire, una grande pisside21 recante un merco non perfettamente impresso ma che forse è quello usato
da Domenico Balestra, argentiere nato a
Marino nel 1779 e patentato maestro a
Roma nel 1822. La pisside presenta un
piede circolare, impostato su un alto gradino liscio con incisa la scritta dedicatoria,22 che si raccorda tramite una cornice
a palmette al corpo su cui sono applicati
festoncini vegetali dorati intercalati da
testine di cherubini. Lo stesso motivo
dorato decora il nodo ad anfora del fusto, mentre la coppa e il coperchio presentano cespi di foglie d’acanto, cornici
definite da serti di alloro, e, sulla calotta
del coperchio, una finissima decorazione
incisa e appena sbalzata a palmette e girali su fondo punzonato a buccia d’arancia.
Questa descrizione serve a illustrare le caratteristiche dell’oreficeria sacra romana
intorno alla metà dell’Ottocento, quando
si affermò un gusto segnato dalle ibridazioni dell’eclettismo, che determinarono
curiose associazioni di forme e stili.
Nell’ultimo quarto dell’Ottocento il tesoro di suppellettili sacre della cattedrale
di San Catervo si arricchì di alcuni calici,
aderenti ai canoni formali dell’oreficeria
gotica d’oltralpe, a dimostrazione della
fortuna che nella seconda metà del XIX
secolo ebbe il recupero di forme e decori
codificati fra Tre e Quattrocento. Il primo pezzo23 è contenuto in un bauletto
di pelle viola con impresso in oro sul coperchio lo stemma di papa Pio IX . Sotto il piede dell’oggetto è incisa la scritta:
“Offert a sa Sainteté le Pape Pie IX le 21
mai 1877 par plusieurs catholiques de
Paris” e “Comité de Paris”. Il calice reca
impressi il bollo di garanzia di Parigi e
Pastorale del cardinale Giovanni Tacci
147
148
Gabriele Barucca
quello della manifattura Thiéry. Peraltro
dentro il bauletto è fissata una targhetta
metallica con la seguente scritta: “Thiéry/
Manufacture d’orfèurerie/et de bronzes
d’église/6 rue du Vieux-Colombier/a Paris”.24 L’oggetto fa parte dell’innumerevole serie di suppellettili donate a Pio IX
in occasione del suo Giubileo episcopale
dalle diocesi di ogni parte d’Europa e in
particolare da quelle francesi e tedesche.
Questi doni alla morte del papa, avvenuta il 7 febbraio 1878, vennero a loro volta
regalati a molte chiese, in particolare delle Marche, terra d’origine di papa Mastai
Ferretti.25 Probabilmente questa ridistribuzione è stata gestita da fra Francesco
Marinelli, che in qualità di sacrista del
Palazzo Apostolico - incarico conferito a
partire dalla fine del XV secolo a un monaco dell’Ordine Eremitano di sant’Agostino, e al quale dal 1645 si associava il
titolo vescovile di Porfireone26 - era di
fatto il custode degli arredi della sacrestia
papale. Allo stesso monsignor Marinelli,
che fu sacrista dal 1856 al 1887, si deve
il dono di un altro calice27 che reca inciso
sulla coppa conica il suo stemma vescovile. Riguardo alle ragioni che indussero
fra Francesco Marinelli a donare questi
oggetti al duomo di Tolentino non abbiamo notizie certe, ma è forse dovuto
al legame forte e speciale che gli Agostiniani hanno sempre avuto con Tolentino
dove sorge il santuario di San Nicola.
Va infine menzionato un altro calice
neogotico di esibita ricchezza suntuaria
ornato da numerose gemme colorate che
reca incisa sotto il piede la scritta: “Capit
Cath. Tolen. Ep. Galeati. D. 1882”.28
Delle acquisizioni novecentesche sono
da ricordare in particolare gli oggetti
legati alla figura del cardinale Giovanni
Tacci Porcelli,29 che in gioventù, seppure
fosse originario di Mogliano in diocesi di
Fermo, frequentò il seminario di Tolentino. Il porporato lasciò alla cattedrale di
San Catervo il suo pastorale dorato. Lo
splendido riccio del pastorale, percorso da un tralcio di edera e punteggiato
da ametiste tagliate a losanga, ospita al
centro le statuette a fusione di san Pietro
inginocchiato ai piedi del Buon Pastore
che gli indica due pecore. Fu regalato nel
1908 al Tacci Porcelli, allora nunzio apostolico in Belgio (1907-1911), un elegante calice completamente dorato punzonato dall’argentiere Billaux-Crosse di
Bruxelles.30 Dopo la morte del cardinale,
avvenuta il 30 giugno 1928, suo fratello l’arcidiacono monsignor Pietro Tacci
donò il calice al Capitolo della cattedrale
di San Catervo,31 in memoria dell’illustre congiunto, che proprio a Tolentino
aveva iniziato la sua prestigiosa carriera
ecclesiastica.
Manifattura Thiéry, calice
Calice donato da mons. Marinelli
Manifattura Billaux-Crosse, calice
TOLENTINO. CONCATTEDRALE DI SAN CATERVO
149
NOTE
I manoscritti settecenteschi di Nicola Gualtieri sulla storia di Tolentino sono
stati pubblicati a cura di Giorgio Semmoloni. Cfr. Semmoloni 1990, p. 162.
2
I pagamenti ai due orafi tolentinati per il reliquiario cefalico di san Catervo,
predisposto ad hoc quando fu autorizzata nel 1455 l’apertura del sarcofago per
estrarre il capo di Catervo, sono stati pubblicati da Aleandri 1905, pp. 150-152.
Cfr. anche Coltrinari 2004, pp. 35-36.
3
L’inventario della chiesa, redatto per ordine di Benedetto XIII a tenore del Concilio romano dal P. Giovan Battista Loreto, Abate del Monastero e chiesa di San
Catervo e consegnato alla Cancelleria Episcopale della Città di Tolentino il 10
giugno 1729, era conservato nell’Archivio della Curia Vescovile, Busta non segnata “Monasteri e Conventi”. Purtroppo infatti del manoscritto originale se ne sono
perse le tracce e le uniche testimonianze dell’Inventario sono contenute in studi
che ne hanno riportato testualmente alcuni passi.
4
Il manoscritto del Nerpiti è intitolato “Commentario dei SS. Beati e Venerabili che
illustrano la Città di Tolentino e la Chiesa cattolica con la spiegazione de’ monumenti
un cenno del culto e varie preghiere ai principali di essi a S. Catervo Protettore S.
Basso e S. Settimia suoi compagni a S. Nicola e S. Tommaso Compatroni che si venerano in detta città. Piacenza. Tipografia Solari. Strada diritta n. 187-189. 1882”.
A riguardo di questa indicazione, il Nerpiti aveva già preventivato luogo e data di
edizione, ma il manoscritto non venne mai edito. Traggo queste informazioni da
Nestori 1996a, pp. 7-9. Lo studioso ricorda anche che il manoscritto è conservato
“nell’Archivio del Duomo in una busta con l’indicazione IV”. Non riuscendo a
rintracciare il manoscritto ho tratto la citazione da Semmoloni 2007a, p. 39.
5
Nell’altare della Madonna della Pace si conserva, oltre al reliquiario a busto di
San Tommaso da Tolentino, un altro di argento contenente il capo di San Catervo, realizzato in anni recenti. Il reliquiario a busto di San Tommaso da Tolentino
di proprietà comunale, era in origine conservato nella chiesa di San Francesco
fino al 1810 sede della cattedrale. Vedi Mocchegiani 1998, p.189.
6
Cfr. Barucca 2008, p. 201, con bibliografia precedente.
7
Il reliquiario in lamina d’argento sbalzata su supporto ligneo è alto 32,5 cm (col
basamento in legno dorato), 24,7 cm (la figura in lamina d’argento).
8
Calice in argento e argento dorato, altezza 23 cm, diametro del piede 11,1 cm,
diametro dell’orlo della coppa 8,8 cm.
9
Cfr. Bulgari Calissoni 1987, pp. 144-145.
10
Calice in argento e argento dorato, altezza 23,8 cm, diametro del piede 13,5
cm, diametro dell’orlo della coppa 9 cm.
11
Cfr. Bulgari Calissoni 1987, p. 85.
12
Calice in argento e argento dorato, altezza 28,5 cm, diametro del piede 15 cm,
diametro dell’orlo della coppa 9 cm.
13
Su Mattia Venturesi e sulla bottega degli Arrighi cfr. Montagu 2007, in particolare pp. 13-21; Eadem 2009.
14
Calice in argento e argento dorato, altezza 26,3 cm, diametro del piede 13,1
cm, diametro dell’orlo della coppa 13,1 cm.
15
Vedi in particolare la pisside in collezione privata pubblicata da G. Barucca, in
Ori e argenti 2007, p. 235, fig. 62 a p. 146.
16
Il reliquiario a ostensorio in lamina d’argento sbalzata su supporto ligneo è alta
29,5 cm (col basamento ligneo), 26 cm (la lamina argentea).
17
Cfr. Bulgari Calissoni 1987, p. 311.
1
Pisside in argento e argento dorato, altezza 27,5 cm, diametro del piede 13,2
cm, diametro dell’orlo della coppa 14 cm.
19
Cfr. Bulgari Calissoni 2003, p. 227.
20
Nato a Treia l’8 ottobre 1760, Francesco Ansaldo Teloni fu vescovo di Macerata
e Tolentino dal 1824 al 1846, quando morì il 31 gennaio a Macerata. In gioventù
era stato precettore di Giovanni Maria Mastai Ferretti, futuro papa Pio IX.
21
Pisside in argento e argento dorato, altezza 36 cm, diametro del piede 13,4,
diametro dell’orlo della coppa 16 cm.
22
Sulla fascia esterna del piede della pisside corre la seguente iscrizione: “Franciscus Ansaldus Teloni Ep(iscop)us Maceratae et Tolentini 1845”.
23
Calice in argento e argento dorato, altezza 22,7 cm, diametro del piede 13,1,
diametro dell’orlo della coppa 9,2 cm. In un Inventario degli oggetti mobili della Chiesa Cattedrale di Tolentino 1902, conservato manoscritto nell’ADT, busta
41/3.1, l’oggetto viene così descritto: “I) Uno con custodia di pelle nera a cassetta
dorato, di stile bizantino con pietre, donato da Pio IX.”
24
All’interno del bauletto si conserva un cartoncino prestampato con lo stemma
di Pio IX e recante la scritta: “Diocesi di Parigi OFFERTA della Commissione
dell’Opera del Denaro di San Pietro di Parigi 1877”.
25
A tal proposito cfr. Munera i doni di Pio IX 2000.
26
Sulla figura e le funzioni del sacrista del Palazzo Apostolico cfr. Orsini 2000,
pp. 27-30.
27
Calice in argento e argento dorato, altezza 23,8 cm, diametro del piede 15,5
cm, diametro dell’orlo della coppa 9,8 cm. Nel citato Inventario del 1902, l’oggetto viene così descritto: “II) Uno con custodia di tela, paonazza di stile bizantino
dorato con medaglione a croce in smalto al piede, dono del fu Mons. Marinelli, Sagrista dello stesso Pontefice.”
28
Calice in argento e argento dorato, altezza 24 cm, diametro del piede 13,2 cm,
diametro dell’orlo della coppa 9,2 cm.
29
Giovanni Tacci Porcelli (Mogliano, 12 novembre 1863 - 30 giugno 1928) frequentò il seminario della diocesi di Tolentino. Ordinato prete nel 1886 per la
diocesi di Roma, in giovanissima età venne consacrato vescovo di Città della Pieve
(1895-1910). Fu delegato apostolico a Costantinopoli e patriarca vicario per i
cattolici di rito latino (1904-1907), nunzio apostolico in Belgio (1907-1911),
internunzio nei Paesi Bassi (1911-1916). Dal 1916 fu prefetto della Casa Pontificia e dal 1918 prefetto dei Sacri Palazzi. Dal 1922 al 1927 fu segretario della
Congregazione per le chiese orientali. Infine il 13 giugno 1921 fu nominato da
papa Benedetto XV, cardinale con il titolo di Santa Maria in Trastevere.
30
Calice in argento e argento dorato, altezza 24,8 cm, diametro del piede 16,5
cm, diametro dell’orlo della coppa 11,4 cm. Sotto il piede è incisa la scritta:
“SOUVENIR RECONNAISSANT DE M(onsieu)R ET MADAME EDGAR
de POTTER d’INDOYE A’ SON EXCELLENCE LE NONCE APOSTOLIQUE 9 JUIN 1908”. Intorno alla coppa conica del calice è corre una scritta in
lettere gotiche: “Calicem salutaris accipiam et Nomen Domini invocabo”
31
Queste notizie sono scritte su una targhetta metallica applicata all’interno del
bauletto in cuoio nero che contiene il calice con la sua patena: “L’Arcidiacono
Monsignor D Pietro Tacci / donò al Capitolo Cattedrale il 15 Agosto 1928 / in
memoria del / Cardinale Giovanni Tacci / m. il 30 giugno 1928.”
18
Recanati
Pagine precedenti:
Giovanni Antonio Carosio,
Angelo e stucchi, 1650 ca.
(particolare della decorazione dell’abside)
RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO
153
LA STORIA RELIGIOSA DELLA CONCATTEDRALE
DI SAN FLAVIANO DI RECANATI
Egidio Pietrella
Diffusione del cristianesimo
nel territorio di Recanati
Non si hanno precise notizie sulla diffusione e primitiva organizzazione della
religione cristiana nel territorio di Recanati. Sono state avanzate solo alcune ipotesi, non sufficientemente suffragate da
documenti. Una riguarda l’esistenza di
un Flaviano vescovo di Helvia Ricina, vissuto nel III secolo e morto martire, il cui
culto sarebbe stato introdotto in Recanati da san Claudio, altro vescovo di Ricina
del IV secolo, che ne istituì la festa il 24
novembre; le reliquie del santo sarebbero
state portate anche in un oratorio dove
più tardi sorse (VIII-IX secolo) il monastero di Rambona, e lì ancora sarebbero
conservate nella cripta dell’abbazia, dalla
quale deriva il dittico d’avorio del IX secolo – ora conservato nei Musei Vaticani – in cui sarebbe rappresentato un san
Flaviano in abiti pontificali.1 Sembra,
invece, non inverosimile ritenere che almeno una parte dell’attuale territorio di
Recanati fosse stato sotto l’influsso della
città romana di Potentia, di cui sono attestati due vescovi: Faustinus episcopus Potentinae Provinciae Italiae Piceni” inviato
dal papa ad un concilio africano negli
anni 418-422; e un anonimo Pontifex
Potentiae urbis del quale papa Gelasio,
negli anni 494-495, incaricò Geronzio
vescovo di Valva di interessarsi per una
questione che lo riguardava.2
Secondo il Vogel, dopo le devastazioni
dei Goti e dei Longobardi, il territorio
di Recanati, per circa sette secoli, fu affidato nella cura spirituale, parte alla
Disegno con il Castello degli antichi Vulpiani, da originale di Benedetto Fucili
superstite diocesi di Numana e parte a
quella di Osimo. Nel Piceno la Chiesa di
Roma possedeva i patrimoni in Osimo,
Ancona, Numana all’epoca di Pelagio II
(579-590), amministrati dal vescovo di
Cingoli Giuliano. La maggior parte del
patrimonio di Numana sarebbe stato nel
territorio di Recanati. In una Bolla di
Urbano IV del 24 maggio 1264 la mensa del vescovo di Recanati è detta essere stata donata dalla Chiesa di Roma; e
Nicolò IV nella Bolla del dicembre 1289
chiama Recanati “speciale ecclesiae Romanae peculium”.3 Sotto la giurisdizione del
vescovo di Numana risulta elencata, tra
le altre chiese, anche quella di San Flaviano, in Castelnuovo, sita presso Porta
d’Osimo, che era del patrimonio di San
Pietro.4 All’inizio del XII secolo l’altura
dell’attuale Recanati era occupata da tre
monti o vici, probabilmente dotati di un
castello ciascuno: monte di Vulpio, monte San Vito e monte Morello. Dalla loro
unione si formò il Comune di Recanati
nel 1160, circa.
Recanati elevata al grado di città
e di sede vescovile
Il 22 dicembre del 1240 Recanati fu elevata al grado di città e la chiesa di San
Flaviano alla dignità di cattedrale. Questi
onori, sottratti alla vicina Osimo perché
parteggiava per Federico II, scomunicato
dal papa (pasqua 1239), furono trasferi-
154
Egidio Pietrella
Ritratto di Gregorio XII, sagrestia
Sarcofago del vescovo Angelo Cino da Bevagna
ti a Recanati, per la sua fedeltà alla sede
apostolica, come afferma la Bolla “Recte
considerationis” del papa Gregorio IX:
“Eapropter, dilecti in Domino filii, prout
convenit, attendentes, quod in devotione
Ecclesiae illam studuistis observare constantiam, quod nec damna rerum vobis per
Federicum dictum imperatorem, Dei et Ecclesiae inimicum illata nec pericula corporum vos a fidelitate Sedis Apostolicae avertere potuerunt, et congruum aestimantes ut
castrum Recanatense, quod de caetero esse
Civitatem statuimus, grata honorificentia
extollamus, de communi Fratrum nostrorum consensu et assensu Terrae vestrae,
quam a jurisdictione Ecclesiae Humanatae
eximimus, episcopalem concedimus dignitatem”.5 Il primo vescovo di Recanati fu
Rinaldo, il quale lo era stato già di Osimo; ne seguirono altri quattro fino al
1263, anno in cui Recanati alleatasi con
il re Manfredi contro il papa Urbano IV,
fu privata del titolo di città e della sede
vescovile e sottoposta nuovamente alla
Chiesa di Numana. Ma la sede episcopale
fu restituita da Nicolò IV nel 1289. Nel
corso del tempo seguirono ancora altre
fasi alterne nell’organizzazione ecclesiastica di Recanati, come si può desumere
dalla cronotassi sinottica dei vescovi delle
cinque diocesi riunite presente in questa
pubblicazione, cui si rimanda.6
Ritornando più direttamente alla chiesa
elevata nel 1240 al ruolo di cattedrale, va
precisato che essa fu quella di San Flaviano dell’inizio del secolo XIII, costruita
intra oppidum, nel periodo in cui Recanati si era costituita ormai in libero Comune. Come accennato sopra, dedicata
allo stesso San Flaviano, a Castelnuovo
esisteva anticamente (dal VI-VII secolo,
forse) una chiesa non lontano dalla via
che conduceva ad Osimo; essa era la più
antica delle altre chiese (Santa Maria di
Montemorello, San Vito) e antichissimo
patrimonio di San Pietro. Distrutta verso la fine del secolo XII, rimanendo in
quel luogo il toponimo di San Flaviano
vecchio, se ne costruì una nuova dedicata
allo stesso San Flaviano, che data l’antichità del titolo e per il fatto che era già
patrimonio di San Pietro, meritò la di-
gnità di cattedrale. In onore del titolare
san Flaviano, patrono della cattedrale e
della diocesi (mentre san Vito fu ed è
tuttora quello della città) si celebravano
annualmente due feste: una con minore
fasto il 18 febbraio, secondo un’usanza
introdotta nel 1611; ed un’altra il 24 novembre, con maggiore solennità. Sembra
che quest’ultima data sia stata la sola in
cui anticamente si festeggiava il santo a
Recanati, nel Piceno e in Abruzzo. Secondo Vogel, il santo Flaviano celebrato
a Recanati è stato qui sempre ritenuto
martire, come risulta da alcuni documenti del 1249, 1291, 1310, 1334. Un
antico calendario, l’iconografia e i sigilli
dei vescovi lo ritraggono come vescovo
e martire. Che san Flaviano patrono di
Recanati sia stato il vescovo patriarca di
Costantinopoli del V secolo, è un’opinione piuttosto recente, non essendoci
in proposito un documento più antico
di quello costituito dagli Atti della Visita
Pastorale del 1587.7
La storia della cattedrale di San Flaviano
La storia della struttura materiale e di
quella religiosa della cattedrale consente
di seguirne le fasi di sviluppo, la vita di
fede e i personaggi che si adoperarono
per il suo decoro artistico e la vita spirituale. La prima cattedrale, ormai angu-
RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO
155
Sarcofago di Gregorio XII
sta e fatiscente, fu ricostruita negli anni
1384-1402 dal vescovo Angelo di Bevagna (1383-1412), mediante lasciti testamentari di benefattori. Nel 1411 fu portato a termine anche il campanile. Resti
di muri e tracce di affreschi anteriori al
secolo XIV, capitelli in pietra della prima
chiesa sono ancora visibili nella cripta.8
Memoria monumentale di un fatto unico
nella storia della Chiesa è tramandata dal
sarcofago di Gregorio XII. Angelo Correr, veneziano, eletto papa il 30 novembre 1406, dopo aver abdicato dal pontificato il 4 luglio del 1415 per favorire
la soluzione dello scisma d’occidente, fu
nominato legato perpetuo a latere della
Marca d’Ancona, con il diritto riconosciutogli del primo posto dopo il papa,
e perpetuo amministratore delle diocesi
di Recanati e Macerata. Morì a Recanati
il 18 ottobre 1417 e fu sepolto nella cattedrale, in un monumento funebre (ora
collocato nel sacello antistante il luogo
detto Sancta Sanctorum delle reliquie) su
cui si legge una epigrafe, scritta in latino
in caratteri gotici.9
A vantaggio della cattedrale molto contribuì anche l’opera attiva del vescovo
Niccolò Dalle Aste (1440-1469). Considerato “ordinatore e riformatore della
diocesi di Recanati”, giudicato “pastore
di cui nessuno fu migliore”, ornò la cattedrale con la sede episcopale, il trono e
il coro, eseguito con lavori di intarsio di
fattura pregevole e di grande eleganza artistica, sostituiti poi nei successivi restauri. Per il Capitolo emanò le Costituzioni,
per il collegio degli Altaristi decreti; stabilì la recita quotidiana delle Ore canoniche; istituì nel Capitolo l’Arcidiaconato, lasciò ricchi legati agli Altaristi e alla
sagrestia della cattedrale. La sua attività
benefica e il suo interessamento generoso
furono rivolti a tutta la città e a Loreto
dove diede inizio alla costruzione del
tempio monumentale, e al “tesoro” di cui
Lapide dedicatoria di Paolo V, 1618
fu munifico donatore. Un’urna collocata
nel sacello antistante la sala del reliquie
ricorda il Dalle Aste con un’epigrafe.10
Grandi e innovativi interventi furono
eseguiti soprattutto nel 1600 e 1700 che
resero la chiesa praticamente come si
trova nello stato attuale. Spendendo del
suo, il vescovo cardinale Agostino Galamini (1613-1620) ricostruì gli archi della navata centrale, fece eseguire il soffitto
ligneo a cassettoni ottagonali a croce greca, con al centro, in rilievo, san Flaviano.
Gli ottagonali riportano gli stemmi di
Paolo V, dei cardinali Borghese e Gala-
156
Egidio Pietrella
Sarcofago del vescovo Niccolò delle Aste
mini. Furono modificate le finestre per
dare luce a tutto l’interno.11 Il vescovo
cardinale Giulio Roma (1621-1634) aggiunse ulteriori abbellimenti e l’organo
pneumatico della ditta Bossi (1633); istituì nel Capitolo le funzioni del canonico
penitenziere e del canonico teologo.12
Il vescovo Amico Panici (1634-1661)
fece stuccare l’abside e affrescare con il
martirio di san Flaviano e di san Vito, la
Natività di Maria, l’Annunciazione e la
Traslazione della Santa Casa di Nazareth
a Loreto. Da parte sua il Comune nel
1621 contribuì con denaro per il nuovo
battistero di pietra abbronzata, ornato
di statue e targhe bronzee del recanatese Pier Paolo Jacometti.13 Con il vescovo
Lorenzo Gherardi (1693-1727) la cattedrale di San Flaviano fu dotata di oggetti
ornamentali, venne fornita di sagrestia e
di leggi per la disciplina del Coro, per gli
obblighi degli altaristi e i canonici ebbero
il privilegio di vesti eminenti.14 L’ultima
trasformazione della chiesa fu dovuta al
vescovo Giovanni Antonio Bacchettoni
(1749-1767) che fece abolire gli archi
acuti e aggiungere le colonne ai pilastri;
sostituire i finestroni gotici con quelli
attuali per dare spazio agli altari laterali. Fu costruita anche la nuova cappella
del Santissimo Sacramento.15 Il 17 agosto del 1804 con Bolla pontificia di Pio
VII (1800-1823), per interessamento del
vescovo Felice Paoli (1800-1806), la cattedrale fu elevata all’onore di basilica minore. Nel 1827 fu modificato l’ingresso
della cattedrale: chiusa la porta laterale,
fu aperta quella in fondo alla chiesa.16
Dopo circa centocinquanta anni, lavori necessari di riparazione furono fatti
eseguire dal vescovo Emilio Baroncelli
(1955-1968): vennero ricostruiti il pavimento di marmo e il tetto; fu decorato
l’interno ed installato un moderno impianto di illuminazione. Nel 1957, terminati i lavori, la cattedrale fu riaperta al
pubblico con solenni cerimonie.17 Negli
ultimi dieci anni, dopo i danni provocati dal terremoto del 1997-98 sono stati
eseguiti lunghi lavori di consolidamento
della struttura, di rifacimento del tetto,
del pavimento e di restauro delle pitture
e delle decorazioni
La chiesa è a tre navate. Il presbiterio
comprende l’altare maggiore “papale” e il
coro ligneo. Lungo la navata di destra si
succedono dal presbiterio gli altari di San
Carlo Borromeo, di San Filippo Neri,
della Madonna e santi, di San Liborio.
Lungo la navata di sinistra, a partire dal
fondo della chiesa, si trova il battistero; di
seguito sono le cappelle della Madonna
Addolorata e del Santissimo Sacramento fornito di coro ligneo. Al lato sinistro
del presbiterio si trova il sacello con le tre
urne dei vescovi Angelo di Bevagna, Nicolò Dalle Aste e del pontefice Gregorio
XII; contigua è la cappella delle Reliquie,
tra cui da segnalare sono quelle della
Santa Croce e il reliquiario con osso del
braccio di San Flaviano donati dal papa
Gregorio XII. Nella cripta si conservano resti della prima cattedrale, tracce di
affreschi (la Vergine Addolorata ai piedi
della Croce; San Sebastiano) e capitelli in
pietra posti alla base delle colonne in cotto (provenienti, forse, dalla chiesa di San
Flaviano vecchio). Nelle due urne sepolcrali sono sepolti il cardinale Tommaso
Antici morto nel 1812 e il vescovo Luigi
Cossio deceduto il 3 gennaio 1957. Sulle
pareti del pronao si leggono varie epigrafi
dedicate a vescovi e personaggi illustri e
l’elenco dei vescovi della diocesi.
Il Capitolo della cattedrale
di San Flaviano
È indubbio che all’erezione della chiesa
di San Flaviano come cattedra vescovile
(1240) si accompagnò l’istituzione del
Capitolo della cattedrale, dato il suo triplice ruolo di essere esso il “senato” del
vescovo (unico organo consultivo e in
alcuni casi importanti, anche deliberativo); di svolgere il servizio liturgico con
recita collettiva delle ore canoniche nella
chiesa episcopale; di assolvere il compi-
RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO
to della cura animarun della parrocchia
principale. Mancano fonti documentarie, almeno degli inizi, circa la sua costituzione e il numero dei membri. Ma già
nel 1256 si parla del priore del Capitolo
e di San Vito; nel 1290 dell’arcidiacono.
Nel 1320, quando fu soppressa la diocesi di Recanati e istituita a Macerata, in
questa città si trasferirono sedici canonici
e le due “dignità” di prevosto e di arcidiacono. Ristabilita la diocesi di Recanati
nel 1357, in essa tornarono otto canonici
con il prevosto, mentre gli altri otto restarono a Macerata con l’arcidiacono.
Ma, nonostante la promessa dei Recanatesi (esposta nella richiesta di un vescovo per la propria diocesi) di costruire le
case dei canonici presso la cattedrale di
San Flaviano, il Capitolo, per mancanza di sedi non realizzate in quel luogo,
officiavano ancora la chiesa di San Vito,
recandosi nella cattedrale solo in occasione delle funzioni celebrate dal vescovo,
e, in tempo di sede vacante, per eleggere
il vicario capitolare e per altre decisioni
importanti che interessavano il Capitolo o la diocesi stessa. Ai precedenti otto
canonici, talvolta assenti o ammalati, nel
1441 il vescovo Nicolò Dalle Aste ne aggiunse altri quattro; inoltre, nel 1464 egli
ripristinò la “dignità” dell’Arcidiaconato.
Frattanto, dopo la ricostruzione della
cattedrale (1384) si incominciò a formare in essa un collegio di “altaristi”, cioè
di sacerdoti “beneficiati” (fruitori di lasciti, beni, legati, offerti dai fedeli) che
officiavano la cattedrale di San Flaviano: essi formavano una sorta di secondo
“Capitolo” concorrente con quello della
cattedrale officiante ancora in San Vito.
Erano divisi, secondo l’anzianità e gli
anni di servizio, in due categorie: dodici erano detti di prima erezione; quattro
di seconda erezione. Trasferitosi definitivamente il Capitolo nella cattedrale
di San Flaviano con la bolla di Gregorio
XIII dell’11 luglio 1577, gli altaristi co-
157
Lapide commemorativa del vescovo
Giovanni Battista Campagnoli, 1751
Lapide commemorativa del vescovo
Benedetto Bussi, 1728
adiuvavano i canonici nelle funzioni religiose, nel servizio corale e, soprattutto,
nel canto, essendo riservato agli altaristi
l’ufficio di primo cantore o solista. Tra i
due gruppi di presbiteri non mancarono
dissensi, che i vescovi riuscirono poco a
poco a far superare.
La breve soppressione della diocesi di
Recanati (1586), stabilita da Sisto V
a favore di quella di Loreto, costrinse i
canonici a trasferirsi, con i loro benefici,
nella città lauretana. Ma nel 1592 ricostituitasi per opera di Clemente VIII la
diocesi recanatese, anche il Capitolo vi
fece ritorno.
Una generale riorganizzazione, con l’aggiunta del canonico teologo (1629) e del
canonico penitenziere (1630), si ebbe
con il vescovo cardinale Agostino Galamini (1613-1620) e il vescovo cardinale Giulio Roma (1621-1634). Per tutto
il 1700 si segnalano nel servizio corale
e negli incarichi un ordinato funzionamento e un perfetto accordo fra cano-
nici, mansionari, altaristi. Tra i privilegi
concessi da Benedetto XIII nel 1726 i canonici ottennero l’uso della cappa d’ermellino d’inverno e la mozzetta d’estate
e gli altaristi la cappa di pelle cenerina.
Del Capitolo all’inizio dell’Ottocento
risulta questa composizione: “Dignità”
n. 4: Preposto (istituzione: anno 1360);
Arcidiacono (istituito nuovamente nel
1457); Arciprete (istituzione nel 1522);
Decano (istituzione nel 1527); 12 canonici; 10 altaristi di I^ erezione; 4 altaristi
di II^ erezione. Come altrove, per le leggi
eversive del nuovo Stato italiano, dopo il
1860 tutti i beni capitolari furono indemaniati e i canonici ricevettero in compenso una “congrua”, provvedimento superato, sia pure dopo oltre un secolo, con
il nuovo Concordato tra la Santa Sede e
il Governo italiano del 18 febbraio 1986
mediante l’istituzione del l’Istituto Diocesano di Sostentamento per il Clero.
Nel 1973, oltre il prevosto, il Capitolo
contava quattordici canonici e due alta-
158
Lapide dedicatoria di Pio VI
risti (mansionari). Il Nuovo Codice di
Diritto Canonico del 25 gennaio 1983
e la Costituzione apostolica “Sacrae disciplinae leges” di Giovanni Paolo II hanno
ridimensionato la funzione e la struttura
dei Capitoli cattedrali, riducendo la loro
attività al solo ruolo “liturgico” per le celebrazioni più solenni della cattedrale. Il
nuovo statuto della Diocesi unificata di
Macerata – Tolentino – Recanati – Cingoli – Treia approvato dal vescovo Luigi Conti il 6 gennaio 1998 ha stabilito
nell’unica cattedrale di Macerata un solo
Capitolo, i cui canonici prendono parte
alle celebrazioni liturgiche più solenni
nella cattedrale di Macerata e nelle quattro concattedrali di Tolentino, Recanati,
Cingoli, Treia in occasione delle feste
principali, specialmente dei santi patroni
locali.18
Per la cattedrale di Recanati è necessario
ricordare ancora la lunga e prestigiosa attività in essa svolta dalla Cappella Musicale. La “Cantoria” fu istituita nel 1461 dal
vescovo Nicolò Dalle Aste (1440-1469)
ed era diretta dal primo degli “altaristi”,
detto “cantore”, di nomina episcopale e
canonicale. Il beneficio assai cospicuo
Egidio Pietrella
allora permetteva che si chiamassero musicisti di vaglia; poi vescovi ammiratori e
protettori di quest’arte dotarono la cappella musicale di organi egregi e di buone
voci. Tre furono, in successione di tempo,
gli organi di cui fu dotata la cattedrale. Il
più antico, opera del rinomato Corrado
di Colonia, fu donato nel 1528 dal vescovo cardinale Giovanni Domenico De
Cuppis. Nel 1633 il vescovo cardinale
Giulio Roma fece dono del grande organo pneumatico eseguito dall’organaro
Bossi; infine, il vescovo Amico Panici di
Macerata, che “molto promosse la musica, tenendo per le funzioni ecclesiastiche
musici di stima”,19 dotò la cattedrale di
un terzo organo, fatto colorire a guisa di
pietra mischia, toccata d’oro, con l’arme
della sua famiglia.
I registri dell’Archivio Capitolare riportano ventisei nomi dei “cantori” e organisti
succedutisi nella direzione della “Cantoria” di Recanati, molti recanatesi, ma
anche provenienti da città delle Marche e
dell’Italia; alcuni furono anche eccellenti
compositori prevalentemente di musica
sacra, per lo più inedita. Per venire più
vicini a noi nel tempo, degno di particolare ricordo è il direttore recanatese
mons. Giuseppe Guzzini, letterato e profondo conoscitore di musica, che attuò
nella cattedrale la riforma della musica
sacra promossa dal papa San Pio X. Alla
sua scuola si formò il tenore Beniamino
Gigli, che con la sua arte e voce potente
e delicata fu e resta una gloria luminosissima di Recanati. Ora la schola cantorum
del Duomo, dal titolo di Virgo Lauretana, è composta di cinquanta elementi e si
produce ancora con un ricco repertorio
di musica sacra classica e moderna.20
La parrocchia della cattedrale
di San Flaviano
La chiesa di San Flaviano eretta cattedrale (1240) esercitava ovviamente la cura
animarum. Anzi, essendo la chiesa epi-
scopale, era la parrocchia principale della
città, rispetto a quelle anche più antiche,
quali la pieve di San Vito, la parrocchia di
Santa Lucia. Quest’ultima, sita nell’ambito di San Flaviano, nel 1669 fu unita
a quella della cattedrale. Altre chiese urbane con funzione di parrocchie, erano
quelle di San Domenico (dal 1290), di
Sant’Angelo (poi detta di Sant’Anna) dal
1500; Santa Maria di Montemorello (dal
1582), di Sant’Agostino (dal 1586).
La parrocchia della cattedrale ebbe definiti i confini nel novembre del 1609: essi
giungevano fino al ponte del fiume Musone; comprendevano parte della città
(dall’attuale piazza Leopardi all’inizio del
rione di Castelnuovo); vaste zone della
contrada di San Francesco, Duomo, quasi l’intero rione delle Grazie e la contrada
dell’Addolorata. L’archivio parrocchiale
conserva fin dal 1564 i registri dello stato
d’anime, dei battesimi, dei matrimoni e
dei morti. L’elenco dei parroci dal 1564
fino ai giorni nostri enumera trentatre
titolari.21 Nel 1769 la parrocchia contava tremila abitanti; nel 1897, duemisettecentocinquanta22 Successivamente,
furono erette dentro il suo ampio territorio nuove parrocchie (dell’Addolorata,
1864; di Cristo Redentore, 1970; di Santa Maria della Pietà, 1973; di San Francesco, 1974). Nel 1973 contava ancora
tremilacento abitanti; nel 1985 millecentosettantotto; dal 2000 conta circa milletrecento abitanti e ha nel suo territorio le
seguenti chiese: San Filippo Neri, Santa
Maria Sopramercanti; la chiesa del Beato Placido, di Sant’Anna, del Santissimo
Crocifisso, di Santa Maria dei mercanti.
La festa principale, oltre quella del titolare san Flaviano, è costituita dalle solenni
Quarantore di Adorazione Eucaristica
che si svolgono in maniera solenne dalla domenica delle Palme fino al martedì
santo. La confraternita del Santissimo
Sacramento – di cui resta una ricca documentazione nell’Archivio diocesano dal
RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO
1562 e che è rimasta attiva fino all’ultimo ventennio del Novecento – curava il
culto eucaristico, coadiuvando i parroci,
specialmente nelle solenni quarantore.23
Eventi principali
Il papa Pio VI compì una duplice visita
a Recanati nell’anno 1782: il 2 marzo,
provenendo da Tolentino e sostando anche a Loreto, mentre era diretto a Vienna; e il 9 giugno di ritorno, dopo una
prolungata visita nel santuario lauretano,
si fermò nuovamente a Recanati, dove
da un trono allestito davanti alla chiesa
di Santa Maria della Piazza benedisse il
popolo e proseguì per Roma. Il fatto è
ricordato da una lapide posta nell’atrio
della cattedrale. I Sinodi diocesani celebrati a Recanati sono stati quattordici.24
Sono da ricordare due congressi eucaristici diocesani: del 1919 (promosso dal
vescovo Alfonso Maria Andreoli); del
1948 sotto l’episcopato di mons. Luigi
Cossio, con la partecipazione del cardinale legato Giuseppe Bruno, Prefetto
della Congregazione del Concilio.25
Da segnalare, ancora, la solenne peregrinatio Mariae con l’immagine della Beata
Vergine Lauretana per tutte le parrocchie
della diocesi, durata sette mesi, dal settembre 1949 al maggio 1950.26 La devozione mariana dei Recanatesi fu rivolta
da sempre soprattutto alla Madonna di
Loreto, per ovvie ragioni storiche. Nel
territorio di Recanati, a pochi chilometri,
nel 1294 ebbe inizio la tradizione della
Traslazione della Santa Casa di Nazareth.
I vescovi di Recanati prima, di Recanati e
Loreto successivamente curarono in ogni
tempo questa devozione sorta nell’ambito della loro diocesi, con la costruzione
del tempio, la dotazione di benefici e di
donativi.27 Il 25 marzo del 1498 la città
compì uno storico pellegrinaggio al Santuario di Loreto, in adempimento di un
voto alla Vergine che con la sua protezione l’aveva liberata dalla peste.28
Il calendario liturgico diocesano pub-
La “Madonna dei Coppetti”
blicato nel 1611 su ordine del vescovo
Benzoni stabiliva solenni celebrazioni in
onore della Vergine lauretana nel giorno 10 dicembre anniversario della Traslazione della Santa Casa di Nazareth.
La prima manifestazione era costituita
da un pellegrinaggio di cento fanciulle
al santuario mariano per offrire ceri a
nome del Comune; la seconda prevedeva
la celebrazione riservata al clero secolare e regolare e si svolgeva intra urbem;
la terza era una celebrazione “nocturna”
che coinvolgeva il vescovo, il clero, nobili, popolo con processione di candele
e suono di musica. Sulla pubblica piazza,
dopo il canto delle litanie, al suono della campana, si ripeteva tre volte il saluto
angelico. Le cerimonie riprendevano nei
tre giorni antecedenti la domenica successiva, con triduo solenne e predicazione di valente oratore.29 Nel 1613 nella
chiesa urbana di Sant’Anna si costruì
una “replica” della Santa Casa di Loreto; in essa si recavano fedeli e devoti che
non potevano compiere, per ragioni di
salute e di età, il pellegrinaggio a Loreto.
159
Quando il papa Sisto V nel 1586 separò
Loreto da Recanati, conferendo a Loreto
il grado di città e di diocesi, i Recanatesi
si sentirono ancor più legati alla chiesetta
di Sant’Anna, curandola, abbellendola,
facendone il loro piccolo santuario lauretano. Questa sentita tradizione si è mantenuta fino ai giorni nostri. Nel 2010,
restaurata la chiesa di Sant’Anna dove si
conserva la “copia” della Santa Casa di
Loreto, sono state inaugurate anche le
porte bronzee della chiesa, ultima opera
dello scultore Sesto Americo Luchetti di
Montecassiano, narranti nei vari pannelli
la storia della Santa Casa di Nazareth e
la devozione dei Recanatesi alla Vergine
Lauretana. Se Recanati fu definita “justissima civitas”, per il suo codice di giuste
leggi emanate nel 1405, prese a modello
da altri Comuni della Marca e dell’Italia;
e “città della poesia” (per il suo poeta Giacomo Leopardi); “città della musica” (per
il suo concittadino, celebre cantore lirico
Beniamino Gigli) e ancora “città d’arte
(per le numerose opere che vi si conservano, soprattutto di Lorenzo Lotto),
a maggior ragione essa merita anche il
titolo di “città lauretana” per la sua spiccata e secolare devozione alla Madonna
di Loreto. Immagini (statue, pitture,
altari, copie del sacello di Loreto) della
Vergine Lauretana presenti in chiese, in
case private, nel museo diocesano, se ne
contano una ventina, circa, a Recanati.
Tra di esse si segnalano per l’arte quelle
dipinte da Giovanni Antonio Carosio
(1638, concattedrale di San Flaviano) e
quella attribuita a Vincenzo Pagani (sec.
XVI, Pinacoteca civica); la scultura in
bronzo della Traslazione della Santa Casa
di Pier Paolo Jacometti (1627-1633),
trasferita, dalla facciata dell’antico palazzo civico abbattuto, sulla torre civica
dove ora si ammira; e la recente (2008)
porta bronzea della chiesa di Sant’Anna
con le scene della devozione lauretana dei
Recanatesi.30
160
Egidio Pietrella
Santi e personaggi illustri
San Flaviano, vescovo e martire, protettore della cattedrale e della diocesi,
fu identificato fin dal 1587, secondo il
Vogel, con Flaviano vescovo di Costantinopoli (390-449) che dovette combattere l’eresia monofisita tra difficoltà d’ogni
genere. Alla relazione che egli inviò al
papa Leone I dell’operato del Sinodo che
aveva condannato e deposto l’eresiarca
Eutiche, il Pontefice rispose con la celebre Epistula ad Flavianum del 13 giugno
449. Uno pseudo concilio – il cosiddetto Latrocinium Ephesinum – convocato
dall’imperatore Teodosio II, depose il
santo patriarca e lo condannò all’esilio.
Malmenato violentemente, egli morì
dopo appena tre giorni, avendo potuto
inviare in extremis a San Leone I un pressante appello. Fu riabilitato dai Padri del
Concilio di Calcedonia (451) e annoverato tra i santi come martire.
San Vito martire (288-303) è commemorato nel martirologio Geronimiano
(sec. V) che ne colloca le origini del culto
in Lucania. Pare sia stato vittima, appena
quindicenne, della persecuzione di Diocleziano. Fin dal V secolo furono dedicati alla sua memoria chiese e monasteri
in Roma, Sicilia, Sardegna. Il suo culto
ebbe grande sviluppo nel medioevo, specialmente tra i Tedeschi e gli Slavi. Le sue
reliquie, dopo varie traslazioni, sono ora
venerate nella Cattedrale di Praga. A lui
in Recanati, fu dedicata la “pieve” di San
Vito, costruita, forse, fin dal mille sulla
cresta più alta dell’allungata collina recanatese dove si stava costituendo il Comune. È il patrono della città di Recanati
che ne celebra la festa il 15 giugno.
Il Beato Placido di Recanati ha la memoria liturgica il 5 giugno. Bartolomeo
da Fermo, o Placido da Recanati, come
viene comunemente chiamato, nacque a
Fermo all’inizio del secolo XV ed entrò
tra gli “Apostolini” della Congregazione
di San Barnaba. Dal 1432 la sua presen-
za risulta a Recanati nella chiesa di San
Giovanni in Pertica in una comunità di
“Apostolini” di cui fu vicario o padre spirituale. Fu un religioso di grande santità.
Morì nel 1473. Presso il suo sepolcro, come
si tramanda, avvennero molti miracoli.
Il beato Girolamo Ghirarducci di Recanati sacerdote (-1335), entrato nell’ordine agostiniano, visse santamente la sua
vita religiosa nel convento di Sant’Agostino di Recanati. Esercitò un intenso
apostolato tra la gente marchigiana,
predicando e facendo soprattutto opera
di pace tra famiglie e città. Il papa Pio
VII ne confermò il culto nel 1804. Le
sue spoglie si venerano nella chiesa di
Sant’Agostino. La memoria liturgica ricorre il 12 marzo.
Tra i personaggi recanatesi illustri, limitandoci agli esponenti ecclesiastici e religiosi, si ricordano ventitre vescovi, di cui
tre cardinali: Anselmini Rocco, vescovo
di Nocera Umbra (+1910); Antici Giovanni Battista (1630-1690), nominato
vescovo di Amelia nel 1685; Antici Pietro, vescovo di S. Agata dei Goti e successivamente di Giovinazzo (+ 1472);
Antici Ruggero (1811-1883) nominato
da Pio IX patriarca di Costantinopoli
e cardinale; Antici Tommaso (17311812) nunzio pontificio in Germania,
Polonia, nel ducato di Parma; cardinale
Bongiovanni Anton Giacomo (secolo
XVI) vescovo di Camerino; Bongiovanni Berardo senior (secolo XV) vescovo
di Venosa; Bongiovanni Berardo junior
(secolo XVI) vescovo di Camerino; Bongiovanni Muzio (secolo XVI) arcivescovo di Sorrento e Nunzio in Portogallo;
Colombella Antonio, dotto agostiniano,
vescovo di Senigallia (1438); Condulmari Filippo (1635-1688) arcivescovo di
Nazareth; Federico di Niccolò Sanguigni
vescovo di Recanati (1300-1320) e poi
di Macerata (1320-1323); Ferrini Giovanni (1779-1850) vescovo di Bagnorea;
Leonini Francesco (1774-1822) nunzio
pontificio in Portogallo, vescovo di Urbania e S. Angelo in Vado; Leopardi Monalduzio (1884-1943) vescovo di Osimo
e Cingoli;
Massucci Francesco (1610-1656) vescovo di Atri e Penne; Melchiorri Girolamo vescovo di Macerata (1553) e delle
diocesi di Macerata e Recanati (1571);
Melchiorri Niccolò vescovo di Nardò;
Riccabella Filippo (secolo XVI) vescovo
di Macerata e poi di Recanati. Partecipò
al Concilio di Trento in qualità di giudice; Roberti Anton Francesco (16291701) vicario generale dell’Abbadia di
Nonantola e vescovo di Urbino; Venieri
Anton Giacomo (1421-1479) vescovo di
Siracusa, poi di Leo e Conca (Spagna),
cardinale; Venieri Giovanni arcivescovo
di Ragusa (1447).
Meritevoli di memoria per la loro attività
di storici della vita religiosa di Recanati
sono: Angelita Giovan Francesco autore
della storia Origine della città di Recanati
e la sua storia e descrizione, Venezia 1601;
Angelita Girolamo, Storia della Santa Casa di Loreto (1531); Benedettucci
Clemente (1850-1949), oratoriano dei
Filippini, autore di studi su Leopardi e
ricercatore di memorie storiche e religiose di Recanati; Calcagni Diego (secolo
XVIII), dotto gesuita compose Memorie
Istoriche della città di Recanati, Messina
1711; Vogel Giuseppe Antonio, sacerdote nato in Alsazia nel 1756, esiliato tra i
preti “refrattari” al giuramento di fedeltà a Napoleone, esule prima in Svizzera
poi a Fermo, a Matelica e a Cingoli da
dove il vescovo cingolano Paoli lo portò
in Recanati, e qui eletto canonico. Morì
nel 1817, lasciando preziosi manoscritti
di storia religiosa locale tra cui il prezioso
De ecclesiis Recanatensi et Lauretana commentarius historicus, pubblicato postumo
nel 1859.31
RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO
161
NOTE
Benedettucci 1939, pp. 9-63: tale ricostruzione è respinta da Stiernon 1991, pp.
914, per mancanza di documenti attestanti l’esistenza della diocesi di Ricina e del
supposto vescovo “ricinese” San Claudio.
2
Santarelli 2007, p. 233.
3
Vogel 1859, I, pp. 27-28, passim.
4
Vogel 1859, I, p. 38.
5
Calcagni 1711, p. 123; Vogel 1859, II, p. 26.
6
Pietrella, Cronotassi dei vescovi delle cinque diocesi unite, in questo volume.
7
Per tutto questo argomento, cfr. Vogel 1859, I pp.72-77, passim.
8
Vogel 1859, I, pp. 155-156; Fini 1990, pp. 31-32.
9
Vogel 1859, I, pp. 155-156. “Quest’urna racchiude il supremo Principe e sommo monarca della Chiesa Gregorio dodicesimo. Questi dato per volere divino per
il bene della pace, arse sempre di zelo di unire nel miglior modo i ribelli ai buoni.
Ma prevalso per due volte lo scisma funesto (tanta follia si operò in Pisa), egli
pietoso lo rimuove. La Marca conoscendo il pastore per la sua doppia investitura,
lo accolse da vivo in Recanati, Flaviano (lo accolse) da morto nel suo tempio
nell’anno del Signore 1417”.
10
Calcagni 1711, pp. 136-137; Vogel 1859, I, pp. 199-224, passim; Fini 1990,
pp. 38-39. Ecco la traduzione in italiano dell’epigrafe latina: “Al Rev.mo e degno
di memoria Nicolò Dalle Aste di Forlì, ottimo vescovo di Recanati e Macerata,
insigne per beni, pietà e generosità, che i nostri antenati stabilivano di suffragare
e celebrare negli anniversari con preghiere e orazioni, il Capitolo ordinò di porre
questo grato e amorevole ricordo e di perpetuare ai posteri il suo elogio nell’ingresso del sacello, anno 1793”. La data si riferisce al trasferimento dell’urna da
altra sede della cattedrale.
11
Calcagni 1711, pp. 142-143; Vogel 1859, I, p. 380; Fini 1990, p. 34.
12
Vogel 1859, I, p. 384.
13
Calcagni 1711, p. 145; Vogel 1859, I, p. 391; Fini 1990, pp. 34-35.
14
Calcagni 1711, p.156; Vogel 1859, I, pp. 401-402.
15
Vogel 1859, I, p. 416; Fini 1990, p. 35.
1
Fini 1990, p. 35.
Fini 1990, p. 35.
18
Vogel 1859, I, pp. 78-82, passim a proposito dei vescovi Niccolò Dalle Aste,
Galeazzo Morone, Agostino Galamini, Giulio Roma; Fini, pp. 50-64; Cartechini,
Cingolani 2003, pp. 1551-1152. Per la situazione attuale cfr. Annuario diocesano
A.D. 2004.
19
Calcagni 1711, p.145; Vogel 1859, I, p. 391.
20
Cingolani 1990, pp. 69-75.
21
Fini 1990, pp. 64 - 68.
22
Pietrella 2005, pp. 127; 174.
23
Annuario diocesano A.D. 2004, p. 93. Per la Confraternita del Santissimo Sacramento cfr. ADR, Elenco sommario del materiale contenuto nell’Archivio Diocesano,
sezione di Recanati, dattiloscritto, s.v. Confraternita del Santissimo Sacramento in
cattedrale, p. 9.
24
Fini 1990, pp. 256-262; Pietrella 2005, pp. 102-126, passim; p.127, passim. I
sinodi furono indetti e celebrati dai seguenti vescovi negli anni indicati: Riccabella: 1566 (?); 1571; Melchiorri: 1572; Morone: 1583; Benzoni: 1588; 1592; 1609;
Galamini: 1614; Roma: 1623; 1632; Vecchioni: 1781; Gallucci: 1874; 1884.
Negli anni 1988-1995 fu celebrato il sinodo diocesano indetto dall’unico vescovo
della diocesi “unificata” mons. Francesco Tarcisio Carboni; la sua promulgazione
ebbe luogo nella cattedrale di Macerata, durante l’anno giubilare, l’11 maggio
2000, per opera del vescovo successore Luigi Conti.
25
Fini 1990, pp. 183-184.
26
Fini 1990, p. 184.
27
Niccolò Dalle Aste cfr. Vogel 1859, I, pp. 208-211; 219; 335-440, passim.
28
Vogel 1859, I, pp. 243-244.
29
Vogel 1859, I, p. 374.
30
Cfr. La Madonna di Loreto nelle Marche 1998, pp. 206-214; Luchetti 2009,
pp. 54-60.
31
Bettini 1990, pp. 223-244, passim.
16
17
CRONOLOGIA
Secc. V-XIV Il territorio di Recanati è sotto la guida spirituale in parte dei vescovi di Potentia, in parte di quelli di Numana e in parte di Osimo.
1160 circa Recanati è costituita libero Comune.
1240 (22 dicembre) Recanati è elevata al grado di città e diocesi; la chiesa di S. Flaviano intra oppidum alla funzione di cattedrale.
1384-1402 Ricostruzione della cattedrale per opera del vescovo Angelo di Bevagna.
1415-1417 Il Papa Gregorio XII, lasciato il pontificato, amministra fino alla morte la diocesi di Recanati nella cui cattedrale è sepolto.
1440-1469 Ornamenti vari della cattedrale ad opera del vescovo Nicolò Dalle Aste; Costituzioni per il Capitolo dei Canonici e Decreti per gli “altaristi”.
1461 Fondazione della “Cantoria” della cattedrale ad opera del vescovo Nicolò Dalle Aste.
1557 Il Capitolo della cattedrale si trasferisce definitivamente dalla chiesa di S. Vito alla cattedrale di S. Flaviano.
1613-1620 Il vescovo cardinale Agostino Galamini fa eseguire grandi interventi migliorativi nella struttura e nell’arte; archi della navata centrale della chiesa: soffitto
ligneo a cassettoni ottagonali; modifica delle finestre.
1749-1767 Ultima grande trasformazione della chiesa ad opera del vescovo Giovanni Antonio Bacchettoni.
1782 Pio VI visita due volte Recanati.
1804 (17 agosto) La cattedrale è elevata all’onore di Basilica minore da parte di Pio VII.
1919 Congresso Eucaristico diocesano.
1948 Congresso eucaristico diocesano.
1949-1950 Peregrinatio Mariae in tutta la diocesi con la statua della Madonna di Loreto
1955-1968 Restauro della cattedrale per iniziativa del vescovo Emilio Baroncelli.
1986 (30 settembre) La cattedrale di S. Flaviano diventa concattedrale.
2000-2010 Lavori di consolidamento strutturale dopo il sisma del 1997-1998; restauri delle pitture e delle decorazioni.
RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO
163
CARLO ORAZIO LEOPARDI E LA
TRASFORMAZIONE BAROCCA DELLA
CHIESA DI SAN FLAVIANO A RECANATI
Stefano D’Amico
San Flaviano vecchio
La storiografia locale1 è concorde nel sostenere che all’inizio del XII secolo esisteva, sul crinale della collina tra i fiumi
Musone e Potenza, il castello di Monte
Volpino con un piccolo borgo appena
fuori le mura, detto di Castelnuovo, dove
vi era la chiesa di San Flaviano, appartenente al Patrimonio pontificio e ricordata nei documenti almeno fin dal 1151.
Di questo edificio, localizzato vicino alla
Porta d’Osimo, si è conservato solo il toponimo nel vicolo a lato della chiesa di
San Ubaldo, ma i ruderi – o forse anche
qualcosa di più – erano ancora visibili
nel 1415, quando in un documento si
cita una fossa per grano nel quartiere di
Santa Maria avanti la chiesa di “S. Flaviano vecchio”.2
Lo storico padre Clemente Benedettucci
(1850-1949),3 convinto che il culto di
San Flaviano provenisse dalla città romana di Ricina, di cui il santo sarebbe stato
vescovo nel III secolo, datava la chiesa
al VI-VII secolo basando la sua ipotesi
su un’iscrizione incisa su una lamina di
piombo, scoperta nel 1793 alla base della
statua di San Flaviano attualmente conservata nel museo diocesano, e che, prima
di essere dispersa, fu descritta dal canonico Giuseppe Antonio Vogel (17561817). L’iscrizione, incisa nel 1619, ricordava il restauro della statua effettuato
dopo la rimozione dalla facciata della
cattedrale e nel testo si faceva riferimento
ad “un’antichissima base” – anch’essa poi
dispersa - posta sotto la statua nella quale
era incisa una memoria dedicationis “fat-
Veduta da est
ta mille e più anni indietro.”4 Purtroppo
l’iscrizione non riportava il testo della
memoria e non diceva se la base fosse
murata insieme alla statua sulla cattedrale o se i due reperti erano stati ricomposti
in epoca successiva. Il Benedettucci, consapevole di tali difficoltà, ipotizzava tuttavia che la memoria provenisse da una
chiesa di Ricina, portata dagli abitanti
in fuga dopo la distruzione della città e
murata in una primitiva chiesa rurale,
posta “non lungi dalla via che conduce
in Osimo”, successivamente ricostruita
all’interno di Castelnuovo. Lo storico
recanatese, tra l’altro, interpretava a suo
favore anche una notizia sull’esistenza di
una chiesa di San Fabiano de Racanato
in Numanaten, che pagava un censo di
dodici danari alla Chiesa romana sotto
il pontificato dei papi San Gregorio III
(731) e San Paolo I (754), ritenendo che
si trattasse di uno scambio di nomi tra
Fabiano e Flaviano.5
La prima cattedrale
Tra il 1151 e il 1179 Monte Volpino si
costituiva Comune innescando anche
nel territorio recanatese quei processi
d’incastellamento tipici dell’epoca: unione dei castelli contigui e attrazione al suo
interno degli abitanti del contado con
importazione dei toponimi di origine
e del culto dei santi protettori ai quali, molto spesso, venivano ricostruite le
chiese. Ciò avvenne anche per gli abitanti di Castelnuovo quando, abbandonata
e forse demolita la primitiva chiesa di
San Flaviano, la ricostruirono tra la fine
164
Stefano D’Amico
Il soffitto a cassettoni seicentesco della navata centrale e la crociera gotica della navata laterale
del XII e l’inizio del XIII secolo, all’interno del Castrum Rachanati. Secondo
Luigi Rosino Varinelli la chiesa fu ricostruita su un insediamento preesistente,
utilizzando materiali provenienti dalla
vecchia chiesa6 e a conclusione dei lavori
fu collocata sulla facciata una statua in
pietra di epoca romana riadattata a rappresentare il santo protettore Flaviano, di
cui si è detto.
A Recanati vi erano chiese più antiche e
più importanti, come per esempio quella
di Santa Maria di Castelnuovo o quella di
San Vito, che già svolgeva la funzione di
Pieve, ma quando, il 22 dicembre 1240,
papa Gregorio IX toglieva ad Osimo il
titolo di città e la sede vescovile per assegnarli a Recanati, la chiesa di San Flaviano
fu scelta quale sede della cattedra vescovile.
Lo stato di conservazione della chiesa non
doveva essere molto buono perché i recanatesi, mentre s’impegnavano a costruire
il palazzo vescovile e le case per i canonici
del capitolo, offrirono “cinquemila libbre
di moneta ravennate” per arricchirla e
renderla degna nel nuovo titolo.7
L’Episcopio vecchio
L’obbligo dei recanatesi di costruire il
palazzo vescovile fu subito onorato e le
sue vicende incideranno notevolmente
sull’architettura della cattedrale fino a
privarla della facciata. L’episcopio, che
risultava già edificato nel 1256, si elevò
a nord della chiesa e i vescovi vi risiedettero, in modo più o meno stabile, fino al
13208 quando, nel più vasto movimento
di lotta tra guelfi e ghibellini, la città fu
conquistata dai sostenitori dell’impero
che lo incendiarono e danneggiarono
gravemente, costringendo il vescovo
Federico di Niccolò di Giovanni (13001323) a rifugiarsi a Macerata, elevata ora
a sede vescovile a discapito di Recanati.
Nel 1357 il cardinale Egidio Albornoz
ristabiliva l’autorità pontificia nelle Marche e la città poteva riavere la sede vescovile – seppur unita a Macerata – con
l’obbligo per il vescovo Niccolò da San
Martino (1349-1357) di risiedere a Recanati. L’umile e austero domenicano si
adattò, momentaneamente, in un palazzo che una relazione pontificia dell’epoca
registrava “deditis in ruinam” e i lavori
RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO
165
di restauro iniziarono solo nel 1369 lasciando inalterato il disegno originario
della facciata nord. L’edificio subì altri
due incendi - nel 1399 e nel 1422 - e
fu nuovamente restaurato nel 1433 ad
opera del vescovo Giovanni Vitelleschi
(1431-1435) che colse l’occasione per
ampliarlo ad est con la costruzione delle
cosiddette Carceri pontificie.
La seconda cattedrale
Le alterne vicende della sede vescovile di
Recanati, sempre in bilico tra Numana
e Macerata, avevano dissuaso i recanatesi
dall’intraprendere costosi lavori di adeguamento formale e strutturale dell’antica cattedrale, ma il ritorno sotto l’autorità pontificia e la presenza stabile dei
vescovi in città spinsero ora verso questa decisione. D’altra parte, da qualche
anno, a pochi chilometri dalla città, in
località Loreto, si stava sviluppando un
importante movimento religioso destinato a sviluppare l’economia, la cultura e
l’arte dell’intera regione e di Recanati, in
particolare, imponendo, si potrebbe dire,
il rinnovo architettonico della cattedrale.
Parliamo ovviamente della miracolosa
traslazione della Santa Casa di Nazareth,
avvenuta – secondo la tradizione – nel
1294 su una collinetta a nord-est della
città e quindi sotto la giurisdizione civile ed ecclesiale di Recanati. La presenza
della Santa Casa fece affluire masse di
pellegrini che attirarono nel territorio di
Recanati mercanti provenienti da tutte le
parti d’Europa, e alcuni anche dall’Asia,9
dando vita ad una delle più importanti
fiere d’Italia, fonte di ricchezza e prosperità. Per non dire degli effetti che “l’infinito cantiere”, allestito sotto il patronato
dei pontefici, ebbe sull’attività artistica,
richiamando in zona i migliori artisti e
le migliori maestranze dell’epoca. Altro
fatto rilevante, che inciderà sul rinnovo
architettonico della cattedrale fu, senza
dubbio, l’inclusione di Recanati tra le
La soluzione di Carlo Orazio Leopardi per la navata centrale, metà XVIII secolo
civitas magnae10 dello Stato pontificio
avvenuta nel 1357 con la promulgazione
delle Costitutiones Aegidiane attirando in
loco le sedi d’importanti magistrature e
uffici pubblici che favorirono lo sviluppo
di una nuova classe sociale di funzionari
e professionisti, laici e religiosi, che a loro
volta diventeranno colti e raffinati committenti di opere d’arte e architetture,
pubbliche e private, che cambieranno l’im-
166
Stefano D’Amico
La soluzione di Carlo Orazio Leopardi per la parete di fondo della navata laterale, metà XVIII secolo
pianto urbano e il volto stesso della città.
Fu quindi in questo nuovo contesto sociale e culturale che il vescovo Angelo
Cino da Bevagna (1383-1412) si fece
promotore, con il contributo ancora una
volta del Comune, della ricostruzione
della cattedrale oramai “troppo angusta
e, per la sua antichità, prossima a cadere
in rovina”.11 Il 13 gennaio 1384, con i
lasciti di tre testamenti, fece acquistare
“centomila mattoni e mille some di calce
per 1180 libbre di moneta ravennate” e
il 27 aprile poteva stipulare un contratto
cum muratoribus per la trasformazione
dell’antico organismo romanico in una
più moderna struttura gotica.
I documenti parlano della costruzione
del “Corpus Ecclesiae” e di lavori “pro fabbrica et conservazione”, facendo supporre
che si conservassero alcune parti della
vecchia chiesa – probabilmente l’abside
e tratti di muratura perimetrale – mentre otto basi di colonne in laterizio furono sepolte sotto il pavimento, da dove
riemergeranno nel 1956-1957 durante
lavori di ristrutturazione, segno che le
navate furono completamente ricostruite
e ampliate.12 Difficile dire quanto durassero i lavori: il Vogel dice che la chiesa
fu consacrata “intorno al 1390”,13 che
il vescovo Cino, con testamento del 9
maggio 1402, lasciò beni mobili e immobili alle Confraternite dei Mercanti e
di Santa Lucia con l’obbligo di abbellire
la chiesa14 e che il campanile fu ultimato
nel 1411-1412 con la posa in opera di
tre campane, mentre nel 1433 fu spostato l’ingresso della chiesa a mezzogiorno
ponendo sugli architravi lo stemma episcopale del Vitelleschi.
L’edificio aveva i caratteri dell’architettura lombardo-padana, ampiamente
documentata nelle Marche, con il tipico
impianto basilicale a tre navate, probabilmente absidate, divise da colonne in
laterizio collegate con archi a sesto acuto
e coperte con crociere costolonate. La sezione trasversale era a salienti con beccatelli esterni nella parte alta della navata
centrale e finestroni trilobati con ghiere a
tutto sesto a motivi geometrici nei muri
perimetrali delle navate laterali. Gli interventi sei-settecenteschi modificheranno sensibilmente tali caratteri con demolizioni, ricostruzioni e tamponature, e si
conserverà solo l’abside centrale poligonale parzialmente inglobata negli edifici
circostanti, i beccatelli del cornicione,
porzioni di alcuni finestroni e i locali ai
lati del presbiterio tuttora coperti con le
crociere originarie delle navate laterali.
Nel XV secolo tre illustri vescovi della
diocesi di Recanati-Macerata furono se-
RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO
167
La cupola della cappella del Santissimo Sacramento di Carlo Orazio Leopardi, metà XVIII secolo
polti nella cattedrale di San Flaviano in
altrettante urne sepolcrali di cui si parla
in un’altra sezione del volume.
Gli interventi sei-settecenteschi
Lo stile nuovo, che dall’inizio del XV
secolo da Firenze si stava diffondendo
in tutta Italia, giunse anche a Recanati,
naturalmente attratto - potremmo dire
- dal cantiere laureano, sempre al centro
delle attenzioni dei pontefici i quali, da
poco definitivamente rientrati a Roma,
avevano fatto del nuovo stile il manifesto per la rinascita, in chiave cristiana,
dell’antico splendore romano. Come
oramai ampiamente documentato dalla
critica il Rinascimento arrivò a Recanati
nel 1473 - quando la cattedrale era già
stata ultimata - con Giuliano da Majano,
chiamato dal cardinale Jacopo Antonio
Venieri per la ricostruzione del palazzo di
famiglia, e nello stesso periodo il vescovo Girolamo Basso della Rovere (14761507), mentre procedeva all’ennesimo
restauro del palazzo vescovile (1492)
pensava di “risarcire e ridurre a migliore e
più elegante forma” la cattedrale: espressione generica che giustamente il Benedettucci interpretava come intenzione di
trasformare la chiesa gotica in una chiesa
rinascimentale. Cercò quindi di acquistare certe case che erano attigue all’ab-
side, probabilmente per isolarla o per
ingrandirla, ovvero per rovesciare l’orientamento della chiesa, aprendo l’ingresso
ad est, su una spaziosa piazza rivolta verso il centro cittadino, ma i proprietari si
opposero alla vendita e la cattedrale di
San Flaviano non fu mai rinascimentale,
passando direttamente dallo stile gotico
a quello barocco.15
Si riuscì a realizzare solo una piazza davanti
alla chiesa demolendo alcune case, livellando il terreno e realizzando una scalinata
per superare il dislivello che si era creato. Il
Comune, il 9 settembre 1591, donò ancora una volta 200 scudi, 16 tuttavia non sappiamo se e come il progetto fu realizzato
168
Stefano D’Amico
Ingresso dell’Episcopio nuovo
L’ingresso posteriore, 1827
perché tutto scomparve con la successiva
costruzione dell’Episcopio nuovo.
Il passaggio a forme manieriste e barocche fu graduale e chiaramente non programmato. Iniziò il vescovo Rutilio Benzoni (1592-1613) che fece ricostruire le
volte pericolanti della navata e disporre
“in forma più adatta e più elegante gli altari, le porte e le finestre”,17 ma probabilmente i lavori non furono ben eseguiti, o
non furono sufficienti, e la volta, o parte
di essa, crollò nel 1619. Più radicale fu
quindi l’intervento del nuovo vescovo, il
domenicano Agostino Galamini (16131620), che decise di sostituire le crociere
della navata centrale con un soffitto piano a lacunari e uno scenografico baldacchino aereo in legno e stucco.18 I lavori
proseguirono sotto l’episcopato del milanese Giulio Roma (1621-1634) che
ricostruì il coro dotandolo di un organo
pneumatico19 e del maceratese Amico
Panici (1634-1661) che fece decorare
con stucchi e affreschi il catino absidale,
aggiunse un secondo organo e completò il battistero.20 La costruzione del coro
comportò la chiusura della finestra cen-
trale dell’abside e l’apertura delle due laterali con la perdita di un ciclo di affreschi
di cui si aveva notizia fin dalla metà del
XV secolo.21 La ricostruzione del campanile, avvenuta intorno al 1641, concluse
probabilmente questa fase, mentre erano
stati portati avanti e terminati anche i
lavori di costruzione del Nuovo episcopio, iniziati con il Benzoni, occupando
tutta la piazza davanti la chiesa che da
quel momento non avrebbe avuto più
una facciata.22 Le opere realizzate nella
cattedrale di Recanati sono l’espressione
del sentire estetico e funzionale diffuso
nella Chiesa cattolica con il pontificato
di Urbano VIII (1623-1644), quando “il
trattamento antiestetico dell’arte, comune nel periodo della Controriforma militante, fu sostituito da un apprezzamento
estetico della qualità artistica”23 che portò
al superamento delle austere direttive del
Concilio di Trento sostituite da un gusto
più sfarzoso e sensuale, segno del consolidamento della dottrina e dell’autorità
dopo la restaurazione cattolica. L’arte
continuerà ad istruire e a catechizzare, ma
ora dovrà anche divertire, colpire i sensi,
meravigliare, persuadere i fedeli della costante presenza del divino nell’umano. In
San Flaviano, l’epilogo di questo processo si avrà solo a metà del Settecento, un
secolo nel quale Recanati non ebbe a soffrire eccessivamente della crisi generale
che investì lo Stato pontificio: la grande
fiera aveva certamente risentito del crollo
dei traffici lungo l’Adriatico dopo la caduta di Costantinopoli e la scoperta delle
rotte atlantiche, ma la riconversione delle risorse nella produzione agricola e la
concessione del porto franco ad Ancona,
diedero fiato alle attività commerciali
permettendo alla vecchia e nuova aristocrazia di affiancare l’autorità pubblica nell’opera di ristrutturazione edilizia
ed urbana. Nelle Marche, nel corso del
secolo, arriveranno dalla capitale i più
importanti architetti camerali, scelti in
genere tra i migliori professionisti in attività (come Luigi Vanvitelli, Andrea Vici o
Cosimo Morelli), ma per il rinnovo della
cattedrale di Recanati il vescovo Giovanni Antonio Bacchettoni (1749-1767) si
avvalse dell’opera di un colto architetto
locale ‘dilettante’, il canonico Carlo Orazio Leopardi, un prozio di Monaldo - padre del più illustre poeta Giacomo24 - che
inglobò le antiche colonne in pilastri rettangolari, segnati da paraste composite,
affiancati da colonne ioniche libere che
sorreggono archi ribassati sopra ai quali
aprì ovali ciechi con fastose cornici che
si protendono sull’archivolto sottostante
che a sua volta gira a formare una geometrica specchiatura. Ai lati del presbiterio,
in fondo alle navate laterali, ricavò due
scenografiche loggette con un leggerissimo profilo ondulato - più evidente nella
trabeazione - e due volute che raccordano i pilastrini del portale sottostante con
i piedistalli della balaustra, unica, riuscitissima, vera concessione ad uno dei capisaldi del barocco: la contrapposizione
di concavo-convesso. Rivestì le pareti
delle navate laterali con una sottile trama
RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO
169
di semipilastri, trabeazione e specchiature lineari che proseguono sulle vele delle
crociere originarie a sottolinearne la funzione strutturale. All’esterno chiuse i finestroni trilobati gotici e aprì, sopra questi,
finestre rettangolari con semplici cornici
in stucco. Nella cappella del Santissimo
Sacramento il Leopardi, meno influenzato dalle preesistenze, impostò una classica
pianta quadrata sormontata da una cupola con otto ampi costoloni raccordati alla
base da archetti ribassati con ovali. Pilastri
smussati con colonne angolari addossate
introducono a brevi bracci allusivi ad una
croce greca e una fitta trama di stucchi
dorati a motivi floreali si svolge sui pennacchi e sulle vele della cupola senza che
venga mai meno la chiarezza delle proporzioni dell’ampia struttura di evidente
derivazione rinascimentale.
Gli interventi otto-novecenteschi
Monaldo Leopardi nel capitolo III della
sua Serie dei Vescovi, dedicato alla cattedrale, riporta una notizia quasi in presa
diretta dicendo che “in questo 1827 in
cui scrivo le presenti memorie la sua Porta principale che stava in un lato, è stata
aperta al fondo della Chiesa”.25 Questo
intervento, completato con l’orologio e il
campaniletto a vela soprastante, fu l’ultimo tentativo di realizzare l’antico sogno
di collegare la cattedrale al centro della
città attraverso la realizzazione di una
piazza sulla quale affacciare, se non un
prospetto, almeno qualcosa che lo evocasse o, in alternativa, l’abside nella sua
interezza. Ci avevano già provato, senza
successo, nel 1492 e ci riprova ora il vescovo Stefano Bellini (1806-1831) che
intorno al 1830, approfittando dei lavori
per l’apertura della piaggia che scende a
Castelnuovo e della sistemazione di palazzo Politi, acquistò e fece demolire le
casette adiacenti l’abside. Ma al loro posto saranno ricostruite le Camere capitolari e si rinuncerà per sempre all’idea di
La soluzione di Carlo Orazio Leopardi per il paramento della navata laterale, metà XVIII secolo
isolare l’abside e creare una piazza rivolta
verso la città. 26 A questo scorcio di secolo
potrebbe infine risalire la sopraelevazione
del campanile con una cella campanaria
architravata coronata con quattro frontoni e un lanternino cupolato.
Nel corso del XX secolo abbiamo notizie
solo di restauri e prima dell’ultimo grande intervento conseguente al terremoto
del 1997 i più importanti furono realizzati per interessamento del canonico
Attilio Moroni tra il 1956 e il 1957 con
il rinvenimento degli importanti reperti
medievali di cui si è detto.27
Di Carlo Orazio Leopardi sappiamo dal
nipote Monaldo28 che nacque a Recanati
il 13 novembre 1714 e che frequentò il
Collegio Montalto a Bologna29 dove si
laureò nel 1737 in diritto canonico e civile, pur avendo una fortissima passione
per l’architettura. Nel capoluogo emiliano non risulta iscritto all’Accademia
Clementina, l’unica nello Stato pontificio, con quella romana di San Luca, che
laureava in architettura, ma è “presumibile che partecipasse al clima culturale
vivace e aggiornatissimo” di quella città
che da anni condizionava fortemente la
cultura artistica delle Marche. Che non
abbia frequentato regolari studi di architettura si evince anche dall’autobiografia
del pronipote quando afferma che “si
170
Stefano D’Amico
dilettava di architettura”, ma, come ogni
buon cultore dell’arte di quel periodo,
ebbe modo di completare la sua formazione estetica soggiornando a Roma e a
Napoli.30 Tornato a Recanati intraprese
la carriera ecclesiastica diventando canonico della cattedrale senza mai abbandonare l’architettura, “unico suo sollievo”
di una vita per altri versi “agitatissima
dagli scrupoli che lo tormentavano compassionevolmente”. Monaldo, basandosi su una memoria dello zio ritenuta
autografa, affermava – forse esagerando
– che “sino all’ultima vecchiaia tutte le
fabbriche di Recanati vennero dirette da
lui” e quando il conte Roberti, dovendo
realizzare lo scalone del proprio palazzo,
lo preferì “ad uno straniero” – probabilmente Francesco Galli Bibiena – se ne
dispiacque molto.31
Il catalogo delle sue opere presenta qualche difficoltà per mancanza di documentazione e difficoltà ad identificare vecchi
edifici demoliti o trasformati32 e il primo
giudizio critico sul suo intervento in San
Flaviano lo diede proprio Monaldo nella
sua Autobiografia, scritta nel 1824 e pubblicata postuma nel 1883, affermando
che lo zio “ridusse la cattedrale da un
brutto gotico alla attuale sufficiente decenza”.33 Facendo intendere con questo
di non apprezzare né l’architettura medievale né quella barocca, giudizio probabilmente condizionato dall’imperante
neoclassicismo dell’epoca. Più benevolo
fu il giudizio del Vogel, che parlava di
“forma più legante”, e pienamente positivo quello di Vincenzo Spezioli che,
alla fine del secolo, in un contesto culturale completamente diverso, affermava
di non credere “che quel gotico sia stato brutto ed è certo che a’ giorni nostri
tali innovazioni sarebbero giudicate irriverenti”.34 Per quanto riguarda invece i
modelli ispiratori di Carlo Orazio, Cesare Fini li identificava nelle opere di Luigi Vanvitelli e del suo assistente Pietro
Bernasconi, molto attivi a Loreto e a Recanti dove, tra il 1746-1749, ricostruivano la facciata della chiesa di San Vito.35
Più recentemente, Gabriele Barucca li
ha individuati nelle grandi opere degli
architetti bolognesi (i Bibiena, Giuseppe
Antonio Torri, Alfonso Torregiani e Gaetano Stegani), romani (Giovan Battista
Piranesi, Robert Adams e Hubert Robert) e napoletani (Ferdinando Sanfelici,
Domenico Antonio Vaccaio, Francesco
Solimena, Ferdinando Fuga e Luigi Vanvitelli), che Carlo Orazio “ebbe modo
di osservare e meditare” nei suoi viaggi
di studio, sapendo far convivere queste
diverse componenti senza approdare ad
un deteriore eclettismo, ma piuttosto “ad
una complessa e rigorosa sintesi, propria
di una generale tendenza classicista nella
quale si fondono elementi della tradizione antica e di quella rinascimentale e
barocca”.36 Anche Gian Carlo Càpici ha
riconosciuto a Carlo Orazio un grande
rigore nel saper coniugare il tardo stilismo barocco e le nuove istanze neoclassiche ed ha individuato le fonti della sua
riflessione nelle opere dei grandi trattatisti rinascimentali presenti nella biblioteca di famiglia – l’Alberti, il Vasari, il
Vignola, il Sansovino e il Bibbiena.37
L’architetto recanatese nelle opere più
tarde, verosimilmente realizzate nella
seconda metà del secolo, sembra propendere per soluzioni più pacate e rigorose, iscrivibili nell’indirizzo classico,
ma nel progetto per il rifacimento della
cattedrale, dovendosi confrontare con i
precedenti interventi seicenteschi tardomanieristi, annunciatori dell’incipiente
gusto barocco, e obbligato dalla spazialità gotica preesistenze, propende per un
elegante e misurato intervento decorativo risolto tutto in superficie, conforme al
gusto baroccheggiante ancora in auge nel
panorama architettonico dello Stato pontificio che solo negli anni ’60 s’indirizzerà
verso modelli neo-cinquecenteschi come
a vedremo a Macerata con Cosimo Morelli.38 Solo una puntuale ricostruzione
storico-critica dell’attività di Carlo Orazio potrà aggiungere nuovi elementi e
farci apprezzare in pieno il talento di un
protagonista dell’architettura settecentesca recanatese che in vita “si lamentava
perché, dovendo combinare per lo più il
vecchio col nuovo, non poteva dilatare il
suo genio e doveva tollerare che molti difetti deturpassero i suoi lavori”.39
NOTE
Angelita 1601. Calcagni 1711. Vogel 1859. Leopardi 1828. Spezioli 1898. Benedettucci 1939. Leopardi 1945. Questi autori hanno potuto consultare i documenti degli archivi comunali, diocesani e capitolari e a loro dobbiamo la maggior
parte delle notizie sulla chiesa di San Flaviano cui hanno attinto gli storici del
XX secolo: Calamanti 1961, Varinelli 1958, Bettini 1990, Fini 1989. Circa mille
buste dell’Archivio diocesano di Recanati dal XVI al XIX secolo sono depositate
senza inventario presso l’Archivio di Stato di Macerata, così come non inventariato è l’Archivio del Capitolo della cattedrale.
2
Vogel 2008, pp. 55-56.
1
Benedettucci 1939, pp. 10-20.
Vogel 2008, p. 56, L’iscrizione diceva: “Frater Augustinus S.R.E. Presbyter Cardinalis de Aracoeli Recinetensis et Lauret. Antistes vetus simulacrum S. Flaviani
atque eius Dedicationis Memoriam ante M et amplius annos in antiqua basi incisam contra temporis iniuriam restaurari et in hac plumbei lamina renovari fecit
Anno Domini 1619”.
5
Benedettucci 1939, p. 13. Secondo l’autore questo scambio di nomi sarebbe
stato usuale a quei tempi e si ebbe – per esempio – in un documento del 22 aprile
1357 dove la cattedrale di Recanati era detta Ecclesia Sancti Fabiani. Il Benedet3
4
RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO
tucci affermava anche di aver visto altre volte scriversi Flabiani.
6
Varinelli 1958, p. 20. Le colonne della cripta risalirebbero “certamente nella loro
fattura al mille e furono qui importate forse da S. Flaviano Vecchio”, mentre il
pozzo antico trovato sotto il pavimento del Duomo, durante i lavori di restauro
del 1956 e posto “poco distante dai resti della chiesa primitiva, può far pensare
che sulla cima di questo stesso colle vi fosse la rocca di difesa di Monte Volpino o
il palazzo di un signorotto”.
7
Vogel 2008, pp. 35-56. Bravi 1878, p. 63. Bettini 1961, p. 40. Sembra che la
scelta cadesse su San Flaviano perché nel quartiere prevalevano le famiglie guelfe, mentre i ghibellini erano in maggioranza nel quartiere di San Vito. Varinelli
1958, pp. 19-20.
8
Recanati fu nuovamente soggetta al vescovo di Numana dal 1263 al 1289.
9
Grimaldi 2001. Bartoli 2008. Già nel 1229 Federico II aveva concesso alla zona
litoranea, dall’Aspio al Potenza, franchigie commerciali poi sempre confermate
dai successivi pontefici.
10
Grimaldi 2001. Bartoli 2008.
11
Vogel 2008, p. 109.
12
Varinelli 1973, p. 152.
13
Vogel 2008, p. 110.
14
Queste opere di abbellimento potrebbero identificarsi con gli affreschi venuti
alla luce nel 1989 nel vestibolo che precede la sacrestia sulla parete dove fu appoggiato il sarcofago di Nicolò delle Aste e con il lavabo in stile rinascimentale,
attribuito al Sansovino, ora conservato nel museo diocesano, che si trovava nella
sacrestia.
15
Vogel 2008, p. 204. “In questo luogo pensava di costruire la porta maggiore
della Chiesa, in modo che l’entrata fosse più comoda e molto più elegante”. Il
rovesciamento dell’orientamento di una chiesa, con la costruzione di una nuova
facciata al posto della vecchia abside, riuscirà solo tre secoli dopo a Tolentino.
16
Leopardi 1828, p. 29. Benedettucci 1939, p. 54.
17
Vogel 2008 p. 316.
18
Vogel 2008 p. 320.
19
Vogel 2008 p. 325.
20
Vogel 2008, p. 327. Spezioli 1968, p. 144. Fini 1985, p. 111. Varinelli 1958,
p. 51. Risale a questo periodo il pavimento in cotto e pietra, sostituito nel 1961
con un altro in granito.
21
Spezioli 1968, pp. 144-145.
22
Il vescovo Alessandro Crescenzi (1676-1682) fece costruire lo scalone, poi fatto
rifare, insieme alla cappella, dal vescovo Stefano Bellini all’inizio del XIX secolo.
A questo periodo è attribuibile anche l’atrio della chiesa che, con il suo severo
ordine dorico di colonne binate trabeate che lo divide in tre navatelle, è già pienamente neoclassico. Vedere la lapide posta nell’atrio. Mariano 1998, p. 48 ritiene,
dubitativamente, che l’atrio possa essere di Carlo Orazio Leopardi. Il vescovo
Raimondo Ferretti (1690-92) fece invece costruire un oratorio all’interno delle
carceri. Queste saranno chiuse nel 1866 e dopo un secolo d’abbandono, nel 1957,
saranno trasformate, insieme all’Episcopio vecchio, in sede del museo diocesano.
Vogel 2008 pp. 332, 335. Leopardi 1828, p. 220. Fini 1985 pp. 431-432. Varinelli 1958 p. 50-52.
23
Wittkower 1993, p. 121.
171
Vogel 2008, p. 351. Il Vogel fece una storia dei vescovi e raramente indugia
sulle opere artistiche. Anche in questo caso non nomina il Leopardi annotando
solo che il vescovo “ dette forma più elegante alla Cattedrale e fece fabbricare
interamente una ricchissima Cappella per custodirvi la SS. Eucaristia”.
25
Leopardi 1828, p. 29.
26
Benedettucci 1939, p. 53. Mariano 1998, p. 46 ritiene, dubitativamente, che il
palazzo possa essere attribuito a Carlo Orazio Leopardi.
27
Vedere la lapide murata nell’atrio a ricordo dei lavori realizzati durante l’episcopato di Emilio Baroncelli (1955-1958).
28
Il suo primo nome era Francesco Saverio, ma usò sempre il secondo nome.
29
Il collegio, fondato da papa Sisto V nel 1586, ospitava cinquanta scolari provenienti dalle Marche, terra d’origine di quel pontefice. Gli studenti dovevano avere
già svolto gli studi secondari ed avere un’età tra 15 e 18 anni.
30
Fini 1986, p. 79. Secondo l’autore si laureò in architettura, ma non aggiunge
altri particolari, né indica la fonte.
31
Barucca 2004.
32
Recanatesi illustri 1872, p. 45. Leopardi 1997, pp. 162-163. Alcuni antenati
1890, p. 145. Moroni 1987. Mariano 1998, p. 44. Moroni 2004b, pp. 707-708.
Barucca 2004. Nella memoria autografa Orazio si auto-attribuisce: la chiesa delle
Anime del Purgatorio - o del Suffragio o di San Michele in Ponticello - (1785); la
facciata, l’atrio e lo scalone di palazzo Massucci; il braccio nuovo del monastero
delle Clarisse - già di San Benedetto - (1762); la chiesa della Confraternita sopra
Mercanti (1772); la chiesa di San Pietro - o di San Pietrino di Montemorello (1785); la chiesa di San Carlo - identificabile con l’oratorio di San Carlo Borromeo presso palazzo Mazzagalli - (1772); la cappella di Santa Maria di Loreto nella
chiesa di Sant’Anna; lo scalone e l’entrata di un palazzo non meglio identificato
che – secondo Fabio Mariano – potrebbe essere quello in via Falleroni che ha un
portale con i caratteri dell’atrio di villa Colloredo; lo scalone di palazzo Antici;
lo scalone nel vecchio palazzo Podaliri; la chiesa di Sant’Antonio a piè di Piazza
- probabilmente quella poi inglobata nel Seminario diocesano - (1771) e il parlatorio nuovo del monastero di Santo Stefano (1760 circa). Poi ci sono le opere
attribuite unanimamente: la ristrutturazione della cattedrale e la costruzione della
cappella del Santissimo Sacramento annessa, il prospetto e lo scalone del palazzo
di famiglia (1754 ca), “la riduzione in miglior forma del collegio dei Gesuiti”
(1760-61). Ed infine le attribuzioni dubbie, come la facciata e lo scalone di villa
Colloredo. Fini 1986, pp. 82-83 ne sembra certo, mentre per Mariano 1998,
p. 48 esisterebbero “maggiori incertezze”. La ricognizione dell’archivio di Casa
Leopardi potrà gettare nuova luce su questo architetto.
33
Leopardi 1997, p. 163. Per l’atrio e lo scalone dell’episcopio, realizzati negli
anni Venti dell’Ottocento, userà espressioni come “splendidamente” e “assai nobilmente” (Leopardi 1828 p. 220).
34
Spezioli 1898 (ed. 1968 p. 145).
35
Fini 1986, pp. 90-91.
36
Barucca 2004.
37
Capici 2008b, p. 67.
38
Spezioli 1898 (ed. 1968, p. 145) dice che “il Canonico aveva già trovato il
barocco nell’abside ed egli volle armonizzare anche il resto”.
39
Barucca 2004.
24
RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO
173
IL MECENATISMO DEI VESCOVI
NELLA CATTEDRALE DI RECANATI
Silvia Blasio
L’esame sistematico degli arredi della cattedrale di San Flaviano a Recanati, nella
situazione odierna, risulta condizionato
dal perdurare dei lavori di restauro che ne
stanno interessando la struttura architettonica. Le pale d’altare, anch’esse in corso di restauro, non si trovano nelle loro
originarie sedi, molti oggetti sono stati
provvisoriamente riuniti in sacrestia, in
attesa di essere ricollocati al loro posto e
la zona absidale è coperta dalle impalcature. Nonostante l’accessibilità limitata è
possibile tuttavia rendere un’idea chiara
e quanto più possibile precisa della consistenza del patrimonio artistico mobile
di questa chiesa che è “grande, e magnifica, e mostra la ricchezza, e grandezza di
coloro, che la fabricorono”,1 con l’ausilio
delle fonti e dei documenti, in particolare le Memorie istoriche di Diego Calcagni, stampate nel 1711 e la Descrizione
e inventario della chiesa cattedrale del
1733, appoggiata nelle sue linee generali all’analisi del Calcagni, ma arricchita
di alcune ulteriori informazioni che servono a comprendere meglio le opere di
pertinenza dell’edificio sacro.
Il mecenatismo dei vescovi e la presenza
di alti prelati ebbe un ruolo di primaria
importanza per le arti nel duomo di Recanati: il severo sarcofago in marmo a due
specchiature lisce sulla fronte con iscrizione in lettere gotiche2 e con al centro
lo stemma di Angelo Cino di Bevagna,
vescovo di Recanati dal 1383 e morto nel
1402, ricorda il cardinale che alla fine del
Trecento dette avvio alla costruzione della
cattedrale ed è scoperta recente3 l’aspetto
Giacomo di Nicola da Recanati, Madonna dell’Umiltà
seicentesco della tomba a parete del veneziano Gregorio XII Correr che, dopo
la rinuncia al papato nel 1415 si ritirò a
Recanati divenendo vicario generale della Marca e amministratore perpetuo della
diocesi di Recanati e Macerata, morendo
nel 1417. Questo sepolcro era in origine
contenuto entro un’imponente struttura
ad arcosolio con alto basamento, colonne ioniche e frontone con lo stemma del
defunto, come si vede in un incisione del
Ciacconio del 1677,4 e ciò lascia supporre
che anche gli altri monumenti sistemati
in forma ridotta in questa zona secondaria della chiesa dopo varie peregrinazioni
iniziate con la ristrutturazione seicentesca, fossero contenuti in strutture simili
andate distrutte. Anche del monumento
di questo illustre e singolare personaggio
che dotò la cattedrale di molti doni di
altissimo valore simbolico e religioso resta solamente il sarcofago, situato come
il precedente in un vestibolo che dalla
sacrestia immette in cattedrale. La fronte
della cassa marmorea è divisa in tre specchiature con cornici lisce, quella al centro
con l’iscrizione in lettere minuscole gotiche5 e sul coperchio è scolpita la figura
giacente del defunto. Sopra il sarcofago,
entro l’arcosolio, come mostra l’incisione
del Ciacconio, era collocata una tavola
raffigurante san Pietro in cattedra ieraticamente frontale. La tavola nel 1733 era
ancora nella sacrestia della cattedrale –
“S. Pietro dipinto in tavola con diverse
indorature”6 –, ma nel 1783 fu descritta
molto dettagliatamente da Luigi Lanzi in
un suo taccuino, che la vide nella bottega
di un “rivenditore” a Recanati: “una [tavola] bellissima S. Pietro vestito da pontefice con triregno e con un piviale tutto
fregiato di animali d’oro e di fiori con
anella in ogni dito della man destra e della sinistra eccetto l’indice; ciascuno con
gemma di color disparato. Intorno vari
angeli di stile piuttosto secco. Il santo
ha un volto pieno di verità bella sfilatura
buon rilievo le mani son fatte di rilievo
di legno: così la testa e il triregno pittura
delle più belle che vedessi in questo stile.
Vi è scritto (ma non potei leggerlo per
un armadio che lo copriva) “Petrus Montanus pinxit, autore che dicesi nominato
174
Silvia Blasio
Andrea Costa intagliatore, Antonio Rizzo pittore, Tommaso Gattucci e Giacomo Zappetta doratori, soffitto ligneo
nella stessa data 1419”.7 La tavola è stata
identificata come opera di Pietro di Domenico da Montepulciano,8 ricordato da
Amico Ricci9 come “Pietro da Recanati”
a sottolineare il suo ruolo di gloria locale, nonostante non si sia potuto ancora
chiarire se il pittore, attivo tra il secondo
e il terzo decennio del Quattrocento ed
esponente della scuola di Ancona, città in
cui risiedeva, sia nato a Montepulciano in
Toscana, oppure davvero a Recanati.
Nuove opere adornarono la cattedrale al
tempo del vescovo Niccolò delle Aste, di
Forlì, che governò la sede vescovile per
trent’anni, dal 1440 al 1469, anno della
sua morte. Prelato coltissimo e di famiglia nobile molto facoltosa, lasciò al clero
recanatese una rendita di ottomila scudi, e si distinse per iniziative esemplari
al fine di promuovere il culto della Santa
Casa di Loreto, dando inizio alla fabbrica
della basilica lauretana e istituendone il
tesoro.10 La confraternita di Santa Lucia,
erede universale dei suoi beni, fece realizzare il suo sepolcro nel 1470, anch’esso
visibile nel vestibolo che dalla sacrestia
immette in cattedrale: si tratta di una
semplice cassa marmorea con tracce di
pittura sorretta da tre mensole, le due
laterali a testa di leone, quella centrale
con una voluta vegetale con cornice a
tortiglione nella base aggettante e coperchio scolpito che raffigura il defunto
giacente; la fronte, ornata superiormente da un motivo a dentelli è divisa in tre
specchiature, quella al centro con cornice
a motivi fogliacei è rettangolare e riporta l’iscrizione in lettere capitali,11 le due
laterali sono quadrate e presentano due
rilievi, a destra santa Lucia a sinistra san
Sebastiano.
Nel 1443 il vescovo delle Aste fece eseguire per l’altar maggiore il polittico di Giacomo di Nicola di Recanati di cui oggi
solo lo scomparto centrale con la Madonna dell’umiltà resta nel Museo Diocesano
della città, la cui iscrizione informa del
nome del committente e dell’anno di
esecuzione.12 La grande macchina d’altare fu infatti smembrata probabilmente al
tempo dei rifacimenti seicenteschi della
cattedrale voluti dal cardinal Roma ed è
possibile riconoscerla, smontata e inutilizzata, tra gli oggetti descritti nel 1733
in sacrestia: “Vi sono alcuni quadri con
diverse pitture, […] come ancho vi sono
tutte l’imagini che sono molte, con gli
ornamenti indorati dell’altar maggiore
anticho di essa chiesa che era situato ove
in oggi sta il fenestrone del choro”.13 Si
trattava di un polittico a più ordini ricostruito finora solamente nel suo registro
principale,14 che a fianco della Madonna
dell’umiltà mostrava quattro laterali attualmente sparsi in varie ubicazioni: san
Flaviano (collezione privata), san Giovanni, san Girolamo (Bologna, Pinacoteca
Nazionale), san Vito (ubicazione ignota);
vi sono poi la Crocifissione della cimasa
RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO
(Pesaro, Fondazione Cassa di Risparmio
di Pesaro) e due scomparti di predella
con la Consacrazione episcopale e il Martirio di san Flaviano. Ma nella visita del
1 dicembre 1621 (ASDR, Visite pastorali
b.1, c.10v) dello stesso cardinal Roma il
polittico risulta spostato sull’altare di san
Rocco ed è citato come “icona lignea antiqua / deaurata / cum immaginibus depictis sanctissimi Chrucifixi, beate virgi
/ nis sanctorum Petri et Pauli nec non
sancti Flaviani et Viti et aliorum”.
Giacomo di Nicola prese a modello per
il polittico del duomo quello di Pietro di Domenico eseguito nel 1422 per
la chiesa recanatese di san Vito, nel segno di una continuità tra i pittori della
“scuola di Ancona” nella fase iniziale di
accostamento del maestro che si presume
più anziano al linguaggio di Gentile da
Fabriano.
Un frammento di affresco con la Madonna col Bambino da una composizione
più grande, salvato dalla devozione entro
un riquadro e situato in cima alla scala
d’accesso alla chiesa, è stato ultimamente
riferito a Giacomo di Nicola da Recanti
nella sua fase più tarda, intorno al 14551460 circa, per affinità con le due immagini di san Sebastiano affrescate nella
chiesa di Sant’Agostino.15
L’anno successivo all’esecuzione del polittico di Giacomo di Nicola, il vescovo Niccolò
delle Aste provvide anche al coro, anch’esso
perduto quando il cardinal Roma nel 1633
fece costruire quello nuovo ancora presente
nell’abside; un’iscrizione riportata dal Vogel ne indicava la data, il giugno del 1444,
e il committente.16
Un altro polittico quattrocentesco originariamente nella vecchia chiesa gotica, di
cui però non si conosce il committente,
fu tolto dalla sua sede e smembrato: di
quest’opera, dipinta intorno al 1480 da
Ludovico Urbani di San Severino,17 sopravvivono nel Museo Diocesano due
175
degli scomparti laterali raffiguranti san
Francesco e san Ludovico di Tolosa18 ma
essi sono da ricollegare alla tavola centrale con la Madonna col Bambino e angeli in coro al Musée du Petit Palais di
Avignone.19 I due estremi della cultura
figurativa marchigiana del Quattrocento erano in questo modo rappresentati
nelle opere della cattedrale: da una parte
la tenera grazia e la fantasia decorativa di
Pietro di Domenico e Giacomo di Nicola, sotto l’influsso di Gentile, dall’altro
l’espressionismo dell’Urbani spinto talvolta fino al grottesco dall’impulso degli
esempi crivelleschi e di Niccolò Alunno.
Per “la smania di tutto rinnovare che fu carattere de’ due secoli anteriori al nostro”,20
al principio del Seicento prese avvio per la
cattedrale di Recanati un’era di radicali trasformazioni. Da questo momento in poi
alti prelati con sede cardinalizia a Roma
orientarono le proprie scelte artistiche
verso l’Urbe, divenuta ormai riferimen-
176
Ludovico Urbani, San Francesco
to privilegiato per la civiltà artistica delle
Marche. La più imponente tra le iniziative intraprese in questa fase fu senza dubbio la costruzione del magnifico
soffitto ligneo che si estende per l’intera
lunghezza della navata, per quarantacinque metri e per una larghezza di otto. La
precedente volta in mattoni fin dal 1597
Silvia Blasio
Ludovico Urbani, San Ludovico di Tolosa
minacciava di crollare così che il vescovo
Rutilio Benzoni, che resse la diocesi dal
1586 al 1613 stipulò una convenzione
con il maestro Tullio Simonetto da Osimo per la manutenzione.21 Per alleggerire
la struttura si optò per un soffitto a cassettoni lignei la cui realizzazione avvenne
all’epoca dell’episcopato del cardinale
d’Aracoeli Agostino Galamini che ne
sostenne personalmente le spese (16131620). Il lavoro costò al Galamini mille e duecento scudi corrisposti “de suo”
all’intagliatore bolognese Andrea Costa,
il 22 maggio del 1619,22 altrimenti ignoto se non per aver eseguito gli armadi
della cappella del Tesoro nella Basilica di
RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO
Loreto tra il 1608 e il 1615,23 coadiuvato per le pitture a tempera su tavola da
Antonio Rizzo, residente a Fabriano ma
di origine veneziana e dai doratori Tommaso Gattucci e Giacomo Zappetta, residenti entrambi a Macerata. Verso l’atrio
una scritta ricorda che i lavori nel 162024
erano terminati ma, vista la sua entità, è
probabile che l’impresa fosse iniziata alcuni anni prima del 1619, data del pagamento. La struttura del soffitto è formata
da una fascia centrale con una sequenza
di sei lacunari a croce greca con al centro rosoni e cinque ottagonali a fondo
rosso e blu; negli ottagoni sono scolpite,
al centro la figura del vescovo e martire
Flaviano, patrono della città e ai lati gli
stemmi con bellissimi e mossi cartigli, di
Paolo V Borghese, del cardinale Borghese e del committente, il vescovo Galamini, cardinale d’Aracoeli. Negli spazi dei
lacunari e tra i lacunari e le cornici laterali Antonio Rizzo dipinse santi martiri,
i dottori della chiesa, le Virtù Teologali e
Cardinali, gli apostoli, putti e angeli, secondo una precisa scansione che riserva
a ciascuna figura il suo proprio spazio. Il
rigore geometrico del disegno, l’eleganza
delle partizioni e degli ornati di impronta classica e l’aggetto delle cornici richiamano esempi romani come il soffitto di
Santa Maria in Trastevere e nelle Marche
quello del Battistero di Osimo, commissionato dallo stesso Galamini.
Al governo del vescovo Giulio Roma
(1621-1634), di origine milanese, subentrato allorché il cardinale Aracoeli
rinunciò alla sede di Recanati per passare
a quella di Osimo, si devono altri significativi interventi: nel 1621, in occasione
della visita pastorale del primo dicembre,25 ordinò che fosse rifatto un nuovo
fonte battesimale e l’incarico fu conferito
dai deputati al lavoro Fabrizio Lepretti e
Flaviano Costantini a Pietro Paolo Jacometti (Recanati 1580-1658), fratello
di Tarquinio (Recanati1570-1638) che
177
Pietro Paolo Jacometti, fonte battesimale e particolare
ricevette in pagamento dal Comune
centocinquanta scudi.26 Lo stesso Pietro
Paolo nel suo libro di Memorie consultato da Giovanni Pauri dichiara “E più ho
fatto per la medesima città [Recanati] il
Battesimo del Duomo con l’ornamento
e figurine di bronzo per prezzo di scudi
150 in circha come costa per rogito del
Cancelliero”.27
Definito dal Calcagni “tutto di marmo
fino con alcune statue opera rara di Pietro Paolo Jacometti”28 l’oggetto è ricordato anche nell’inventario della cattedrale del 1733: “Da piedi la chiesa sta il
battisterio o fonte battesimale circondato da una bella cancellata di ferro ornata
con sei rami d’ottone, essa fonte è tutta
di marmo biancho adornata con più statue di bronzo rappresentanti Gesù Cristo
che riceve il battesimo da San Giovanni,
altri angeli e cherubini, adornato ancho
con colonne di mattoni bianchi, stucchi
e pitture con nobil baldacchino di sopra
di legno in più luoghi indorato come
pure in detta fonte battesimale vi sono
due arme una del cardinal Roma e l’altra
della città”.29 Dalla descrizione si evince
che il fonte era originariamente contenuto entro un ambiente riccamente decorato di cui non resta traccia.
I due fratelli Jacometti portarono avanti
nel Seicento l’eredità della scuola recanatese di scultura in bronzo dopo la morte
dello zio, Antonio Calcagni, avvenuta nel 1593,30 ma il più giovane Pietro
Paolo, come riporta Filippo Baldinucci
che dedicò due brevi biografie31 a questi
bronzisti, apprese dal Pomarancio a Loreto anche l’arte della pittura.32 I caratteri espressivi e stilistici delle loro opere si
178
Silvia Blasio
Giovanni Antonio Carosio, Speranza
Giovanni Antonio Carosio, Carità e girotondo di angeli
richiamano ancora ai modelli tardocinquecenteschi ma la loro abilità tecnica fu
altissima e riconosciuta da tutte le fonti
antiche. Il fonte battesimale si presenta
attualmente con una ridipintura color
bronzo piuttosto sorda, che copre interamente l’originario bianco messo in
evidenza dalle descrizioni settecentesche
come elemento di determinante valore
estetico, anche se Calcagni scambia per
“marmo fino” quella che è in realtà pietra
d’Istria; il materiale viene invece correttamente individuato nella relazione della
Sacra Visita effettuata il 23 ottobre 1640
dal vescovo Amico Panici in cui il fonte è
detto “e marmore illirico constructus est
aliquibus aeneis figuris ornatus”;33 una
maggiore approssimazione al colore chiaro originario si percepisce in due vecchie
fotografie pubblicate da Pauri nel 1915
che però, come avverte l’autore, mostrano l’oggetto “con poco accorgimento
verniciato di bianco”.34 La successiva e
recente riverniciatura a finto bronzo, oltre ad ottundere le linee architettoniche
della struttura portante del fonte, annulla
il contrasto tra le candide superfici della
pietra e le applicazioni in metallo.
La struttura a forma di ciborio è composta da una vasca poligonale sorretta da
un fusto modanato e da una copertura
RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO
179
Giovanni Antonio Carosio, Nascita della Vergine
Giovanni Antonio Carosio, Madonna di Loreto
a specchiature con due sportelli in legno
intagliato e dorato in quelle anteriori,
terminante con una cupola a campana.
Su questa struttura sono applicate le
sculture di bronzo: il Battista è posto alla
sommità del cupolino e guardando verso
il basso somministra il battesimo a Gesù
che è collocato inferiormente sul bordo
della vasca in atto di chinare la testa per
ricevere il Sacramento, sottomettendosi
alla volontà divina. Questa efficace soluzione che allinea i personaggi sacri in
verticale invece di collocarli sullo stesso
piano secondo l’iconografia tradizionale,
denota l’originale inventiva e lo spirito
innovatore propri del bronzista, del resto
già espressi al massimo grado nei bizzar-
ri ornamenti della fontana nella piazza
antistante la basilica lauretana, eseguita
in collaborazione con Tarquinio, tra il
1619 e il 1620. I due bronzi del Battesimo di Cristo si strutturano secondo un
lieve chiasmo e sono uniti l’uno all’altro
attraverso sottili corrispondenze di movimenti di gusto ancora tardo- manierista;
entrambi sono così prossimi alle statuarie
figure dipinte dal Pomarancio nella volta
della cappella del Tesoro, per esempio le
due Allegorie che affiancano il riquadro
col Giudizio di Salomone, da confermare anche per via stilistica che Pier Paolo
Jacometti ne sia l’autore, avendo collaborato col Roncalli negli affreschi di Loreto. È da notare inoltre come le figure
in bronzo mantengano la loro patina
arancio-dorata originaria, caratteristica
della scuola recanatese di scultura.35 Alla
base del fusto è applicato lo stemma della
città di Recanati, ma manca l’arme del
cardinal Roma citata sia nella relazione della Sacra Visita del 1640, sia nella
descrizione del 1733, e già perduta nel
1915.36 Ulteriori fusioni in bronzo sono
state rubate: nella fotografia pubblicata
dal Pauri si vedono chiaramente i due
angioletti a braccia conserte nell’atto di
inginocchiarsi fissati lateralmente sul bordo della coppa, di cui oggi ne resta uno
solo e si intravedono altre applicazioni in
bronzo sotto di essi, probabilmente altre
due arpie simili all’unica rimasta, posta
frontalmente nella gola sotto il bordo
della vasca.
Secondo un’iconografia riscontrabile talvolta anche negli oggetti di oreficeria, le
arpie, creature demoniache, sono situate
nella parte inferiore della struttura, al di
sotto dei piedi del Redentore, mentre gli
elementi celesti come le teste di cherubini,
occupano in alto le facce del cupolino.37
Il cardinal Roma fece inoltre rifare l’ab-
180
Silvia Blasio
Giovanni Antonio Carosio, Madonna e i santi Rocco e Filippo Neri
side “anticamente ottagonata e [che] fin
dal tempo del vescovo Niccolò delle Aste
portava dipinte alcune storie di san Girolamo” e fece costruire da Agostilio Vangelisti di Ripatransone nel 1633 il coro
nuovo costato mille scudi,38 tuttora presente, in sostituzione di quello quattrocentesco. Nell’inventario del 1733 esso è
così descritto: “[…] il bello e magnifico
choro fatto come si è detto dal fu eminentissimo Roma, diviso in due ordini
fabbricato di legno di noce ove spicca
Giovanni Antonio Carosio, Madonna col Bambino e santi
un nobil disegno dove fra gl’altri intagli
si vedono dodici statue rappresentanti i
dodici apostoli tramezzate con gigli che
sembrano alludersi allo stemma del medesimo cardinale”39 Anche il pulpito di
legno di noce e le cantorie furono eseguite per volere dello stesso cardinale.
Nella cattedrale di Recanati al tempo del
vescovo Amico Panici di Macerata, che
resse la diocesi tra il 1634 e il 1661, operò un pittore di origine genovese, Giovanni Antonio Carosio. Sono scarsissime
le notizie su questo artista prima della sua
apparizione recanatese, né sappiamo per
quali vie egli si sia portato a Recanati. La
sua attività nella cattedrale, per quanto
assai cospicua, è completamente inedita,
poiché finora il pittore era noto solo per
la sua presenza a Roma. Nato a Genova
intorno al 160640 si trasferì a Roma probabilmente giovanissimo, perché il suo
nome è ricordato in una querela sporta
contro di lui dal pittore Nicolò Bizesi
nel 1628,41 anno in cui risulta già iscritto
RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO
181
Saverio Moretti, Martirio di santa Paolina
Giovanni Antonio Carosio e Pier Simone Fanelli, I santi Carlo Borromeo e Liborio
all’accademia di San Luca; nel 1631 un
documento attesta la sua partecipazione a lavori nelle grotte vaticane, diretti
da Gian Lorenzo Bernini, che ricevette
seicentoventi scudi da ripartire tra i suoi
collaboratori. Non si sa esattamente che
cosa Carosio abbia dipinto, ma percepì
un compenso di sessanta scudi.42 Dal
1630 in poi risulta partecipare alle sedute
e alle attività dell’Accademia e nel 1640
il suo nome fu proposto per l’elezione a
principe, ma non venne eletto.43 Intorno
al 1632 aveva sposato la genovese Gerolama e nello stato di famiglia del 1656
è ricordato come povero, abitante in via
Condotti con nove figli dai ventidue ai
due anni. Dettò il proprio testamento il
1 febbraio 1667 e dovette morire poco
dopo questa data.
Il pittore era finora noto per una sola
opera, la decorazione a fresco della cupola e dei pennacchi della cappella delle
Grazie nella chiesa di san Rocco all’Augusteo a Roma. Questi affreschi che rappresentano l’Assunzione della Vergine e
nei pennacchi Profeti e Sibille erano tradizionalmente attribuiti da Filippo Titi
in poi a un figlio del pittore, fino a che
con il restauro sono riapparse la firma e
la data “Gio. Ant. Carosio fecit 1657”.
Essi denotano come Carosio abbia messo a frutto la sua lunga frequentazione
accademica, ispirandosi palesemente ai
modelli del classicismo emiliano e soprattutto di Guido Reni. Filippo Titi gli
182
Crocifissione, secolo XVII
attribuisce anche un dipinto raffigurante
la Morte di San Giuseppe nella cappella
omonima del Pantheon.44
L’esame degli affreschi recanatesi può
essere al momento solo parziale perché a causa dei restauri in corso alcuni
dipinti non sono visibili; il ciclo comprende nell’ordine inferiore due scene di
martirio, il Martirio di san Flaviano e il
Martirio di san Vito tra i quali al centro
è la Santa Casa di Loreto trasportata dagli
angeli e nell’ordine superiore due storie
della Vergine, la Nascita della Vergine e
Silvia Blasio
Giovanni Antonio Scaramuccia, Madonna col Bambino e santi
Annunciazione con al centro Dio Padre
affiancato da due tondi con due angeli
inginocchiati in preghiera. Alla sommità del catino absidale la decorazione si
conclude con “uno scherzo di angeli”,45
ossia un girotondo di angioletti in volo.
Nel sottarco sono rappresentate le Virtù
Teologali, un angelo inginocchiato e una
figura allegorica non identificata: è una
donna che tiene due cani sotto il piede,
regge uno scettro ed è coronata d’alloro.
Tutte queste raffigurazioni sono racchiuse entro una ricca ornamentazione in
stucco che presenta il consueto repertorio manierista di cornici a ovoli e fusarole, sequenze di foglie e altri elementi
vegetali che delimitano le singole scene,
ma le zone tra una cornice e l’altra sono
riempite da figure panneggiate, angeli,
telamoni, putti muscolosi quasi a tutto
tondo, mascheroni e rigogliosi festoni di
fiori e frutta; al centro, davanti alla Madonna di Loreto, due angeli semisdraiati
sui due lati di un timpano spezzato sorreggono lo stemma del committente, il
cardinale Amico Panici. Verso la navata,
RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO
Antonio Maria Garbi, Trinità e particolare
una fascia a bassorilievo mostra figure
allegoriche racchiuse da coppie di volute affrontate a formare medaglioni ovali, molto simili a quelli che delimitano
il perimetro dei due battenti della porta
meridionale della basilica di Loreto di
Antonio Calcagni, da cui prendono ispirazione. La decorazione del sottarco, in-
183
vece, mostra motivi circolari con rosoni
al centro in forte rilievo, con maschere,
volute e cespi di frutta che si alternano
alle cartelle con le Virtù affrescate, motivi di gusto classicheggiante più simili
a quelli del soffitto ligneo. Non sappiamo chi siano gli abilissimi stuccatori che
hanno affiancato Carosio nell’ornamentazione dell’abside, né vi sono elementi
per precisare meglio gli anni di esecuzione di questi lavori. Amico Panici governò
a lungo la diocesi, per ventisette anni, e
l’inizio e la fine di questo vescovado sono
gli unici riferimenti cronologici di cui al
momento si dispone per circoscrivere la
datazione. Qualche osservazione si può
fare riguardo allo stile del pittore, che
non è dissimile da quello degli affreschi
in San Rocco a Roma: entrambi i cicli
decorativi denotano un classicismo semplificato ed essenzialità compositiva di
derivazione reniana, ma soprattutto l’assenza di effetti di illusionismo spaziale e
prospettico, o di movimento, in dispregio dei principi del barocco. Le pitture
184
Giovanni Gallucci, San Flaviano
in San Rocco risalgono al 1557, ed è
probabile che l’incarico per l’abside del
Duomo, che presuppone un soggiorno
di qualche tempo a Recanati, non si discosti troppo da quella data. Per le scene
di martirio dei due santi patroni esistono
anche due modelli su tela, conservati nel
Museo Diocesano.
L’attività di Carosio a Recanati riguardò
anche l’esecuzione di alcune pale d’altare, nessuna delle quali è datata. Al pittore genovese spettano il quadro con la
Madonna e i santi Rocco e Filippo Neri,
nell’altare dedicato a san Rocco che recava l’arme dello stesso cardinal Panici;
l’opera è menzionata nell’inventario del
1733 come “diviso […] in due parti e
perché si apre si vede dentro il commodo per ponervi le reliquie della chiesa
come dicesi voler fare mons. Panici, ma
perché dubitò che non fossero ben difese
dall’humido non ve le fece riponere”,46
ma all’esame diretto questa possibilità
di apertura non è stata riscontrata. I caratteri stilistici e il colorito acceso e con-
Silvia Blasio
trastato sono simili a quelli degli affreschi. Del Carosio è anche la pala con la
Vergine col Bambino e i santi Antonio da
Padova e Michele, che sarebbe una bella
composizione dall’impianto nitido e colori squillanti, se non fosse stata deturpata dall’aggiunta di un san Francesco di
Paola per motivi di devozione. L’altare su
cui questo dipinto si trovava in origine
era dedicato a Sant’Antonio e recava alla
base delle colonne lo stemma della famiglia Galamini. Il terzo dipinto del Carosio rappresenta san Carlo in preghiera, cui
Pier Simone Fanelli,47 che in quel tempo
mandava avanti la sue fiorente bottega
e accademia di pittura di Recanati, aggiunse un san Liborio a quadro terminato; la spiegazione di tale intrusione è che
“non sapendosi da divoti di S. Liborio in
che altare far mettere la sua immagine
alla fine la fecero mettere in questo quadro dalla mano di Pietro Simone Fanelli,
pare ora che S. Carlo avanti S. Liborio
stia genuflesso”.48 È probabile che una
motivazione analoga abbia giustificato
anche l’aggiunta del san Francesco di Paola nel quadro precedente.
Perduto è il dipinto in cui Pietro Andrea
Briotti, recanatese raffigurò san Gaetano
Thiene, ricavando la composizione da
una stampa di Giovan Francesco Romanelli, mentre sono ancora in chiesa una
seicentesca Crocifissione di autore ignoto49 di cui il Museo Diocesano conserva
il modelletto preparatorio, il Martirio di
santa Paolina del pittore Saverio Moretti
di Recanati e, sull’altar maggiore, il san
Flaviano di Giovanni Gallucci (Ancona 1815 – Malta ?) fratello del vescovo
Tommaso.
Il dipinto di Giovanni Antonio Scaramuccia (Perugia 1570/80 – 1633) rappresenta come si è detto la Madonna col
Bambino e i Santi Francesco d’Assisi, Tommaso d’Aquino, Luigi di Francia, Ubaldo,
Nicola da Tolentino e Onofrio, e si trova
sull’altare “di rilievo fatto di pietra scu-
ra” che sui basamenti delle colonne reca
un’iscrizione a ricordo della dedicazione
ai santi presenti nel quadro. Il mantenimento dell’altare spettava alla famiglia di
Matteo Gonfalonieri, che risiedeva secondo il Calcagni vicino alla cattedrale,50
che probabilmente commissionò il quadro. Scaramuccia, formatosi nell’ambito
dei barocceschi umbri, aggiornò la sua
cultura recandosi a Roma dove dapprima
si orientò verso Annibale Carracci, in seguito divenne allievo di Cristoforo Roncalli. La pala del duomo, prossima per la
grandiosità della composizione rotante
attraversata da bagliori luminosi alla Madonna col Bambino tra i santi Francesco,
Agostino, Domenico, Costanzo, Ercolano
e Fiorenzo della cattedrale di Perugia del
1610, si dovrebbe datare nel medesimo
momento ed è probabile che l’introduzione dello Scaramuccia a Recanati sia
stata favorita dallo stesso Roncalli, attivo
nella vicina Loreto.51
Sull’altare della cappella del Santissimo
Sacramento è infine un dipinto raffigurante la Trinità e tre angeli; nel corso del
recente restauro sul turibolo dell’angelo
a destra è tornata a leggersi la firma “Ant.
Ma. Garbi F.”. Antonio Maria Garbi
(Tuoro 1718 – Perugia 1797) è un pittore umbro formatosi a Roma presso la
bottega del marattesco Placido Costanzi,
durante il regno di Clemente XII. Poiché
la cappella del Santissimo Sacramento fu
costruita sotto il vescovo Giovanni Antonio Bacchettoni che guidò la diocesi
tra il 1749 e il 1767, si può presumere
che il dipinto sia stato eseguito in anni
non lontani da quel periodo; esso mostra
infatti richiami alla pittura di Sebastiano Conca nei colori e nelle abbondanti
panneggiature con fitte pieghe che sono
caratteristici delle opere del Garbi datate
tra il 1770 e il 1775.52
RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO
185
NOTE
Calcagni 1711, p. 288.
“RMS D.A.CAD./ RACANATI OBIIT XXI JU / NIY A.D. MCCCCII / CS
AIA SIT I. PACE”. Pesarini 1933, p. 61, n. 14; p. 62 - 64, n. 15.
3
Mazzalupi 2007; pp. 117-118; Mazzalupi 2008a, pp. 115-116.
4
Ciaconius, Vitae, et res gestae pontificum romanorum, Mazzalupi 2008a, p. 116, fig. 4.
5
“MAXIM. EC. PRINCEPS SUMQ. MONARCHA / ORDINE GREGORI.
BISSENO CLAUDIT. ARCHA / HIC PR. PACE DATUS CELESTI NUME
SEMPER / FERBUIT ETHNEOS SUPERIS UNIR.DECENTE / AST BIS
SCISM. MALU FCA HEC DEMTIA PISIS / IPE PI. RELEVAT PURA E
CONSTATIA TESTIS / CARDINE BIS SACRO PASTORIS COSCIA TED./
MACHIA SUSCEPIT RACANAT FLAVI EDE / SUB ANNO DNI MCCCCXVII”; Raffaelli 1877; Pesarini 1933 pp. 62-64, n. 15, con bibliografia precedente per la trascrizione e interpretazione dell’iscrizione.
6
Mocchegiani, doc. in appendice, c.68.
7
Lanzi 1782-1794, c. 16r in Mazzalupi 2008a, p. 115.
8
A Parigi, presso l’antiquario Giovanni Sarti; De Marchi 2006, p. 42, fig. 100,
pp. 44-45; Mazzalupi 2008a, p. 115, fig. 2, pp. 134-135, scheda n. 12.
9
Ricci 1834, I, p. 184; Mazzalupi 2008a, p. 114.
10
Calcagni 1711, pp. 136-138; ASDR Accenni sull’Origine della Città e del Vescovato di Recanati e sulle persone che sino ad oggi hanno tenuto ed occupato la Nostra Sedia
Vescovile e di Loreto, Recanati 1902, ms. s.c., XX, cc. 165-169, Niccolò d’Aste.
11
“SEPULCRU.OLI.REVEREM. DNI / NICOLAI EPI RAC. ET MAC. QD / FIERI FECIT FRAT.AS S. LUCIE / MCCCCLXX” Pesarini 1933, pp. 72-73, n. 26.
12
“1443 TPE. D. NICOLAI DE ASTIS D RLIO, EPI. RACAN ET MACERAT. JACOB RECAN.PIX”. Pesarini 1933, p. 64; Mazzalupi 2008b, p.160,
scheda n. 10.
13
Moccheggiani, doc. in appendice, c. 68.
14
Bisogni 1973, p. 50 e F. Bisogni in Fioritura tardogotica, pp. 284-287, schede
nn. 111-112; Mazzalupi 2008b, pp. 160-164, schede nn. 10-15.
15
Mazzalupi 2008b, p. 167, scheda n. 18.
16
“A.D. M.CCCC.XLIIII. HOC OPUS / FECIT FIERI REVERENDISSIMUS
IN /CHRISTO PATER ET DOMINUS DOMINUS / NICOLAUS DE ASTIS
DE FOROLIVIO / EPISCOPUS RECANATENSIS ET MACERATENSIS /
DE MENSE JUNII”. Pesarini 1933, p. 65, n. 18.
17
Riferite dubitativamente all’Urbani da Venturi 1915, p. 203; P. Dal Poggetto in
I pittori del Rinascimento a Sanseverino, pp. 94-95, scheda n. 3.
18
Potrebbero essere le due tavole che Spezioli 1898, p. 154 segnala nell’Archivio
della cattedrale, essendo facile confondere san Flaviano con san Ludovico di Tolosa, entrambi vescovi di solito rappresentati con splendidi piviali.
19
Riunite da Zeri 1948b, ed. 2000, pp. 123-127.
20
Spezioli 1898, ed. 1968, p. 143.
21
Fini 1990, p. 34.
22
Raffaelli 1877, pp. 13.16.
Trionfi Honorati 1992, pp. 212-213.
“ANNO DNI MDCXX / BIS CECIDIT MLE FULTA PRIVS LATERITIA
MOLES / EN NOVA PRO VETERI FORNICE TECTA DOMVS / SQVALLVIT IN TENEBRIS LOCVS: EN SPECVLARIA PVROS / QVAE SPARGANT
RADIOS LVMINE PLENA SVOS / ALME PATER FLAVIANE PIVM CAPE
MVNVS AMORIS/ SI QVA OPERI MERCES TOTA SIT IPSE DEVS / FR.
AVGVST / CARDIN. ARAE COELI EPS. REC ET LAVRET DED POS DIC”.
25
Vedi Mocchegiani in appendice; Pauri 1915, p. 88.
26
Lo riferisce Pauri 1915, p. 88, nota 3 sulla base di una copia del documento di
allogagione allora posseduto dal conte Marzio Politi Flamini di Recanati. Leopardi 1945, p. 312, art. 3, 1620 dice invece che “il Comune concorse a quest’opera
somministrando 250 scudi”.
27
Il Libro di memorie di Pietro Paolo Jacometti era allora, secondo Pauri 1915, p.
86, nota 1, “in casa dei Sigg. Podaliri di Recanati”.
28
Calcagni 1711, p. 288.
29
Mocchegiani, doc. in appendice, cc. 66-67.
30
Sugli Jacometti, Massinelli 1992b, pp. 255-259; Arcangeli 1993, pp. 378-379.
31
Baldinucci 1681-1728, ed. 1846, III, pp. 598-599, IV, p.325.
32
Pauri 1915, p. 86, nota 1 riporta, traendolo dal Libro di memorie di Pietro Paolo
Jacometti citato qui alla nota 27, l’elenco delle opere di pittura dello stesso Pier
Paolo, eseguite per vari committenti di Recanati e Loreto e Osimo.
33
ASDR, Visite pastorali, b. 1, c. 18v, visita del 23 ottobre 1640.
34
Pauri 1915
35
Radcliffe 1984, p. 25.
36
Pauri 1915, p. 89, nota 1.
37
J. Montagu in Ori e argenti 2007, p. 222, scheda n. 20.
38
Calcagni 1711, p. 288; Spezioli 1898, ed. 1968 p. 144; Fini 1990, p.34.
39
Moccheggiani, doc. in appendice, c. 59r.
40
Narducci 1870, p. 125
41
Bertolotti 1877, ed. 1884, p. 184
42
Pampalone 1977, pp. 554-555
43
Pampalone 1977, pp. 554-555
44
Titi 1674, ed. 1987, p. 191.
45
Descrizione e Inventario del 1733, Mocchegiani in appendice, c. 60.
46
Descrizione e Inventario del 1733, Mocchegiani in appendice, c. 62.
47
Per le notizie sull’artista vedi il mio saggio su Cingoli in questo volume.
48
Descrizione e Inventario del 1733, Mocchegiani in appendice, c. 66.
49
Lo Spezioli 1898 ed. 1968, p. 146 la definisce “di buona mano ma d’ignoto
autore”.
50
Calcagni 1711, p. 288.
51
Barroero, Casale, Falcidia, Pansecchi, Toscano 1980, pp. 94-95; Mancini 1981,
p. 371; Barroero 1989, p. 882.
52
Delogu 2005-2006, pp. 195-207.
1
23
2
24
RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO
187
‘ARTI RARE’ NEL TESORO DELLA CHIESA
DI SAN FLAVIANO A RECANATI
Gabriele Barucca
“Abbiamo pianto abbastanza. Il Castigo
del Signore è stato terribile. Esso ha incominciato dalla stessa sua Casa. Sarà di
una eterna memoria ai nostri nipoti lo
squallore delle nostre Chiese, nel quale
leggeranno il successivo del giorno 20
Febbraio, in cui restarono forzatamente
spogliate non che delle divote Immagini,
ma ancora dei vasi sagri perché d’argento. Speriamo, che sia finalmente placato
questo Dio terribile. Se non lo fosse ancora che sarebbe mai di noi, non restandoci che poco più dell’esistenza. Non è
egli vero. Il Clero ha quasi perduta ogni
sua influenza. Nel giorno 29 dello stesso
mese di Marzo 1798 si presenta in Sagrestia dopo Compieta il Signor Carlo Gigli, il quale per ordine dell’Agente Francese del Dipartimento del Musone fece il
seguente inventario degli Argenti rimasti
alla nostra Cattedrale.
Per Altari n° 12. Calice di Argento dorato n° 1; Calici di mistura dorata e
inargentata con coppe simili n° 3. Un
Ostensorio di rame dorato con Angeli, e
nuvole d’Argento con alcune pietre false
colorate. Una Pisside con la sola coppa
d’Argento. Un incensiere; una caldarola
con aspersorio di mistura inargentata.
Tale nota, ed inventario, fù sottoscritto
da Monsignor Proposto Mazzagalli il
quale attestò come siegue
Al Nome di Dio Amen. Recanati questo dì 29 Marzo 1798. Io sottoscritto
Proposto della Cattedrale di questa città
di Recanati richiesto della quantità degli Argenti che esistono nella medesima
Chiesa Cattedrale, assicuro non esservi
né tampoco l’occorrente, riconosciuto
per tale dall’Agente Francese del Dipartimento del Musone, giacché dallo Spoglio
fatto nell’Anno scorso le Sagre Particole
per mancanza del vaso opportuno in cui
collocarle, si tengono in un Corporale,
dentro il Ciborio, e per dodici Altari non
vi sono che quattro Calici.
Settimio Professo Mazzagalli mano propria
Li predetti pochi pezzi di Argento sono
il miserabile avanzo dello spoglio fatto
dalli Commissarj Francesi nel giorno 20
Febbraio dell’Anno… 1797 di tutti gli
Argenti, Altare, Espositorio, Semibusti,
Reliquiari, Vasi Sagri, Croce Capitolare,
Candelieri, Incensiere, Pastorale, Catini… Caldarola… tutti alla nostra Chiesa
Cattedrale nella vistosa quantità di libbre
368.
Li tre Calici poi di mistura dorata ed
inargentata, l’incensiere, la caldarola,
e l’aspersorio similmente di mistura
inargentata sono gli utensili e vasi sagri
provveduti insieme con un piattino, e
due campanelli consimili per servire immediatamente al bisogno con la spesa di
scudi 70 circa
Così è Filippo Fontini Canonico Sagrista”.1
Così si legge nel verbale della seduta
dell’Assemblea Capitolare della cattedrale di Recanati tenutasi il 4 aprile 1797
subito dopo i tragici sviluppi della discesa napoleonica nello Stato della Chiesa.
Pochi decenni prima nella Descrizione e
inventario della chiesa cattedrale2 recanatese del 1733 sono comprese liste lunghissime d’ogni sorta di suppellettile ecclesiastica. Si rimane impressionati dalla
ricchezza del tesoro di reliquie, dalla
consistenza dei pezzi d’argento, dal corredo di libri liturgici e, soprattutto, dalla
straordinaria quantità de’ Pluviali, Pianete, Tonicelle, Stole, Manipoli, Borse e Veli
bianchi, rossi, verdi, violacei e di colori
diversi. Come già attestato dal sagrista il
patrimonio di argenterie è solo “il miserabile avanzo dello spoglio fatto dalli
Commissarj Francesi” nel 1797,3 mentre
la collezione delle reliquie è ancora in
gran parte superstite, custodita nel Sancta sanctorum.4 Questo fenomeno si giustifica considerando la pietà di cui erano
oggetto le reliquie custodite gelosamente
nei “sacri astucci” e mostrate solo in determinate date del calendario liturgico.
Nella vita, nella cultura e nell’arte fino
a pochi decenni fa le reliquie avevano
acquistato un’importanza straordinaria
che difficilmente noi possiamo ora immaginare. La promozione del culto delle
reliquie con intenti essenzialmente didascalici, regolato da norme dettate volta
a volta dai sinodi locali spiega lo straordinario successo dei reliquiari, peraltro
esclusi dalle rigide prescrizioni canoniche
circa la forma e i materiali. Del resto questo successo venne alimentato dalla quasi
inesauribile disponibilità di reperti sacri
frutto delle indagini e delle riscoperte
di ‘corpi santi’ nelle catacombe romane.
Il connesso traffico di ‘reliquie’, la loro
circolazione e distribuzione da Roma,
determinò fenomeni vistosi di collezionismo e di ostentazione quantitativa, a
cui appunto conseguì lo sviluppo di una
enorme produzione di contenitori in le-
188
Gabriele Barucca
Sancta sanctorum
gno scolpito, intagliato, dipinto e dorato
o argentato, che per motivi di economicità venne progressivamente a sostituire
o integrare la realizzazione dei ben più
preziosi reliquiari in metalli nobili. Nella cattedrale recanatese i reliquiari per lo
più lignei, ma anche in lamina d’argento sono riposti dentro gli armadi e sulle
scansie che rivestono completamente le
pareti del Sancta sanctorum, un piccolo
sacello coperto da una volta a ombrello,
realizzato su disegno del canonico Matteo Prosperi e posto tra il presbiterio e
gli ambienti della sagrestia nei pressi del
vestibolo dove nel 1793 furono definitivamente sistemate le tombe a parete di
Angelo Cini da Bevagna, Gregorio XII
e Niccolò delle Aste.5 Nel sacello, voluto fortemente dai canonici Alessandro
e Matteo Prosperi, che nel 1793 “mossi
dal zelo e dalla pietà” convinsero il preposto Settimio Mazzagalli a trasformare
la sacrestia del duomo in cappella delle
reliquie, trovarono degna collocazione i
corpi santi “che da trecento anni scorsi
stava nascosti nella chiesa catedrale al
Duomo”, lì lasciati da papa Gregorio XII
“fugitivo da Roma” e morto a Recanati il
17 novembre 1417, dopo aver rinunciato al papato e aver accettato l’amministrazione delle diocesi di Recanati e Macerata.6 Dalla sua solenne inaugurazione,
avvenuta il mercoledì santo del 1794,
“nel Sancta Sanctorum al Duomo ogni
festa de Santi Martiri in quel giorno che
accade il Reverendo capitolo fa sonare le
campane al doppio, e la sera con li tocchi della campana grossa invita le divote genti a bagiare la reliquia, e con varie
orationi e preci dà la Santa Beneditione
del Santo che corre la festa”.7
Il nucleo di arredi lignei ancora conservato nel Sancta sanctorum è piuttosto
consistente ed è costituito da varie tipologie di reliquiari: a ostensorio, a tabella,
a urna, a cassetta, antropomorfi a braccio e, soprattutto, a busto. La datazione
di questi pezzi, di qualità mediamente
piuttosto alta, va dai primi del Seicento
all’Ottocento attestando una tradizione
consolidata e continuativa nel tempo di
RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO
Lorenzo Petroncelli, reliquiario di san Flaviano
Museo Diocesano, sala II
botteghe locali dotate di capacità artistico-artigianali fondate sulle competenze
collegate di abili intagliatori e di esperti doratori. Accanto a questi manufatti
lignei si conservano ancora una grande
stauroteca argentea ottocentesca collocata nell’armadio, rivestito all’interno di
damasco rosso e posto dietro l’altarolo,
sollevato su due gradini e al centro della
parete di fondo del Sancta sanctorum, e
alcuni reliquiari a ostensorio in lamina
d’argento fissata a un supporto ligneo.
Tra questi merita segnalare quello contenente un osso di san Flaviano che reca
impresso un punzone quasi illeggibile,
ma forse corrispondente a quello dell’argentiere romano Lorenzo Petroncelli
(Roma, 1724-1801, pat. maestro 1758).
Il resto del tesoro della cattedrale di Recanati, comprendente i vasi eucaristici e
le altre suppellettili sacre superstiti, nonché i paramenti liturgici più preziosi, è
conservato dalla metà del secolo scorso
nel Museo Diocesano.
È opportuno a questo punto raccontare brevemente le vicende costitutive del
Museo Diocesano di Recanati, primo
nel suo genere nelle Marche. Venne infatti aperto al pubblico il 24 novembre
1958, dopo alcuni anni di preparazione
necessari per completare il restauro del
vecchio Episcopio trecentesco e procedere all’allestimento dello spazio espositivo,
in un primo tempo limitato al grande salone del piano superiore dell’edificio con
la bella copertura a capriate. Si dava in
tal modo compimento all’iniziativa del
vescovo Aluigi Cossio (1924-1955) che
iniziò il recupero dell’antica residenza vescovile prescelta come sede adeguata ad
ospitare la raccolta di oggetti sacri. Ma il
principale artefice della costituzione del
Museo Diocesano di Recanati fu monsignor Attilio Moroni (Porto Recanati,
1909 – 1968), prevosto del Capitolo della cattedrale, il quale riuscì a realizzarlo
con il consenso e l’incoraggiamento del
vescovo Emilio Baroncelli (1955-1968)
189
e con l’aiuto e i consigli tecnici di Luigi
Benedettucci, Rodolfo Ceccaroni, Clara
Niutta Donati e Arturo Politi. Il nucleo
fondamentale del museo era costituito
da opere appartenenti appunto alla cattedrale di San Flaviano con l’aggiunta di
una scelta selezione di pezzi provenienti
da altre chiese di Recanati e da donazioni
di privati. Intorno al 2003-2004 la necessità di una completa riorganizzazione
dell’allestimento originario del Museo
Diocesano, affascinante ma ormai datato
e inadeguato a presentare e valorizzare gli
oggetti che vi erano stati riuniti, nonché
l’obbligo di tenere conto delle moderne esigenze di adeguamento normativo,
sicurezza, accessibilità e fruizione delle
sedi museali hanno reso necessario lo
spostamento del museo dagli ambienti
dell’antico Episcopio alle sale del piano
nobile del nuovo Palazzo Episcopale.8 Il
progetto del nuovo allestimento9 ha preso avvio con un ampio programma di restauri mirato alle decorazioni delle volte
190
Gabriele Barucca
Arte paleologa, reliquiario a dittico
delle varie sale e alla maggior parte delle
opere da esporre.10 Queste sono state riunite nelle singole sale a seconda dei temi
affrontati, come la devozione alla Beata
Vergine di Loreto, e dei criteri diversi: per
classe, per tipologia, per cronologia. La
definizione del nuovo percorso espositivo
ha comunque tenuto conto del carattere
specificamente ecclesiologico del museo
diocesano, che è insieme storico, teologico e liturgico con finalità pastorali.
Questi oggetti, belli e preziosi, continuano pertanto ad avere una funzione
pastorale e insieme raccontano la lunga
storia religiosa e devozionale della comunità cristiana di Recanati, ci parlano dei
donatori, papi, vescovi, canonici, illustri
visitatori, del loro gusto e degli artefici
cui si erano rivolti.
Tra gli oggetti più preziosi e rari appar-
tenenti al tesoro della cattedrale e ora
nel Museo Diocesano è certamente un
piccolo reliquiario a dittico in legno e
pastiglia dorata con al centro della specchiatura di entrambe le valve due placche rettangolari di steatite con tracce di
policromatura e doratura raffiguranti
la Natività e la Presentazione al tempio,
circondate da cornici in argento dorato
incise con un motivo a tralcio e decorate
con perline e gemme colorate incastonate. Intorno è ricavata una fascia che su
ciascun lato presenta ricettacoli protetti
da vetrini con i filatteri in pergamena recanti le indicazioni della reliquia, e agli
spigoli altre placchette rettangolari pure
di steatite raffiguranti busti di santi. Nella valva destra mancano le due placchette
superiori. Una fascia in argento dorato
impreziosita da castoni con gemme colo-
rate definisce esternamente entrambe le
specchiature delle due valve incernierate
tra loro. La lavorazione della steatite, un
minerale dal colore verde pallido, è tipica dell’arte bizantina, dove veniva impiegata soprattutto per realizzare icone
portatili.11 Le splendide e preziose placchette che ornano il reliquiario a dittico
recanatese presentano caratteri stilistici
riferibili all’arte paleologa del XIV secolo e furono realizzate probabilmente in
una raffinata officina di Costantinopoli
o di Tessalonica, dove operavano, com’è
noto, artefici attivi anche nella capitale
e per la medesima ristretta élite di committenti. La presenza di questo prezioso
oggetto bizantino nella cattedrale di Recanati non è così sorprendente: inventari
e documenti scritti attestano infatti che
queste tavolette insieme alle icone a mi-
RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO
191
Arte umbra, dittico con Natività e Crocifissione
cromosaico facevano parte, sebbene in
un numero limitato di esemplari, delle più importanti collezioni italiane del
Quattrocento, come, per fare un solo
esempio, quella del cardinale veneziano
Pietro Barbo, papa col nome di Paolo II
dal 1464 al 1471.
Un altro nucleo di oggetti di grande interesse e fascino è costituito da alcuni vetri
dorati e graffiti di elevata qualità, il cui recente restauro, condotto magistralmente
nei laboratori dell’Istituto Superiore per
la Conservazione ed il Restauro,12 ha consentito di esaminarne approfonditamente
la tecnica esecutiva nonché di rimuoverli
dalle teche lignee di gusto neogotico non
pertinenti che li racchiudevano, quando
erano ancora esposti nel Sancta sanctorum. Si tratta di un dittico raffigurante
nelle due valve la Natività e la Crocefissione,13 sormontate dall’Annunciazione nelle
192
cuspidi, di cui si conserva solo il vetro
con la Vergine, una tabella rettangolare
con la Crocefissione e due mezze figure di santi e un tondo con la Natività.
Ecco di seguito la descrizione dei pezzi
e la loro fortuna critica redatte da Daila
Radeglia:14 “La valva sinistra del dittico
raffigura in un pannello rettangolare la
Natività, comprendente l’annuncio ai pastori, racchiusa entro un’elegante incorniciatura trilobata con fitta decorazione
a elementi geometrici e foglie, descritta
con vivacità con una narrazione spigliata
che mostra gli elementi consueti e variamente declinati di un gruppo nutrito di
vetri umbro-marchigiani:15 l’iconografia
della Madonna seduta con il bambino
strettamente fasciato, la mangiatoia a colonne, il pastore che si ripara la vista e le
pecore. In particolare il motivo dei capri
affrontati compare anche in un vetro del
Victoria and Albert Museum di Londra.
Insolito invece è il letto con cuscino sul
quale siede Maria. Nella Crocefissione
della valva destra l’apparato decorativo
dell’incorniciatura triloba varia nella foggia dei capitelli, che poggiano su colonnine tortili, e nella decorazione a foglie.
Al Cristo si affiancano le figure degli angeli piangenti (quello a sinistra si straccia
le vesti), al di sotto sono le figure della
Madonna e di S. Giovanni.
La tabella rettangolare16 presenta la Crocefisione cuspidata, e nei triangoli superiori entro medaglioni circolari a sinistra
una figura di martire che, per gli attributi
della bandiera, palma del martirio e veste foderata di vaio potrebbe identificarsi
con S. Orsola,17 a destra S. Pietro con
chiave e libro, mentre la campitura del
fondo è rossa con larghe foglie a oro che
occupano tutto lo spazio. Analogo senso
di horror vacui è nella scena principale,
il cui fondo scuro è decorato da una serie di fiori a otto petali. Al di sopra del
braccio verticale della croce un fiore e ai
lati le figurazioni del sole e della luna. Ai
Gabriele Barucca
Arte umbra, Crocifissione
piedi del Cristo a sinistra la scena dello
svenimento di Maria sorretta da tre donne, a destra la disperazione di S. Giovanni, che con gesto drammatico si torce le
mani. I piedi del Cristo sono trafitti da
un unico chiodo, e ad accentuare il patetismo della raffigurazione il sangue che
sgorga dalle ferite e inonda il terreno è
dipinto in rosso.
Non sembrerebbe pertinente alla tabel-
la con la Crocefissione, alla quale era sovrapposto, il tondo con la Natività entro
un medaglione d’argento,18 eseguito con
grande finezza. La Madonna distesa allatta il bambino, avvolto nel suo stesso
mantello, con un gesto di infinita tenerezza. Nello sfondo la mangiatoia con
la tipica foggia architettonica, alla quale
si affacciano come di consueto le teste
del bue e dell’asino, un angelo in cielo
RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO
reca un cartiglio con iscrizione. Purtroppo una lacuna interessa la testa di San
Giuseppe, del quale si conserva la figura drappeggiata. Il piccolo spazio appare
stipato, l’artista non manca di inserire
nel cielo una grande stella e sotto la figura della Madonna un arbusto decorativo,
il che contribuisce a conferire al tondo
l’aspetto di un medaglione inciso nel
quale prevale la preziosità dell’oro delicatamente modulato”.
I vetri recanatesi, dopo essere stati pubblicati da Serra19 con una datazione verso
la metà del Trecento per il dittico, di alcuni decenni posteriore per la tabella con
la Crocefissione, e citati brevemente dalla Pettenati20 in relazione ad altre opere
ascritte agli ultimi decenni del XIV secolo o all’inizio del XV, sono stati pubblicati da Liana Castelfranchi,21 che li connette con sicurezza al cantiere assisiate,
attribuendo il dittico a un artista umbro
“non scarso … all’opera entro una data
abbastanza precoce del Trecento”,22 e gli
altri vetri forse addirittura ai maestri che
si muovono intorno alla basilica inferiore
di S. Francesco nel primo ventennio del
secolo.
La presenza ab antiquo di questi vetri a
foglia d’oro graffita trecenteschi nel tesoro della cattedrale di San Flaviano attesta
la fortuna e l’ampio raggio di diffusione di questi oggetti la cui produzione
presenta strette relazioni con i conventi
francescani umbri, dove nel corso del
XIV secolo ne venivano realizzati in notevole numero per essere impiegati in
“anconette o vero in adornamento di orliquie”, come dice Cennino Cennini (fine
del sec. XIV), per lo più destinate alla
devozione privata.
Tra i pezzi più antichi e preziosi del tesoro sono senz’altro alcuni ricami di grande
qualità, databili tra la fine del Trecento e
il primo Quattrocento, realizzati su cartoni riconducibili a pittori veneziani.23 Il
disegno delle figure e delle composizio-
193
Arte umbra, Natività
ni dei ricami applicati sulla pianeta appartenuta secondo la tradizione al beato
Girolamo Gherarducci,24 un eremitano
vissuto nel convento agostiniano di Recanati e morto prima del 1369, è riconducibile a modelli prossimi al Maestro
del polittico di Torre di Palme della fine
del Trecento. Può essere invece “ascritto allo stretto ambito di Zanino di Pietro, riflettendo il suo linguaggio ormai
post-gentiliano”25 il cartone utilizzato
dai ricamatori che realizzarono le applicazioni figurative del cosiddetto piviale
di Gregorio XII. Di questi ricami ne sopravvivono solo nove frammenti, raffiguranti l’Incoronazione della Vergine, san
Girolamo, san Bartolomeo, san Giacomo
maggiore, altri tre apostoli, tutti inquadrati sotto edicole con archi mistilinei.
Verosimilmente nel corso dell’Ottocento questi riquadri ricamati in oro e sete
policrome, di diverse dimensioni, furono
applicati su un frammento di velluto da
cui sono stati separati in occasione di un
recente restauro. Così è ora possibile apprezzare appieno anche la straordinaria
qualità del frammento di velluto rosso
cremisi a due altezze di pelo e di vedere
compiutamente il motivo tessile broccato
d’oro bouclé, su fondo di teletta d’oro.26
Questo motivo riprende uno degli schemi compositivi fondamentali della produzione tessile quattrocentesca, definito
generalmente con il termine “a griccia”
e destinato a uno straordinario successo sia in Italia, che nel resto d’Europa.
L’elemento caratterizzante della tipologia
a “griccia”, o con termini più moderni
194
Gabriele Barucca
Arte veneta, ricami della cosiddetta pianeta
del beato Gherarducci
Arte veneta, ricamo del cosiddetto piviale di Gregorio XII
a “tronco” o “ramo serpentinato”, è il
“motivo a melagrana”, che definisce nella terminologia corrente le forme simili
alla melagrana, alla pigna, alla palmetta
o al fiore di loto o di cardo. Nel frammento di Recanati l’intreccio vegetale
mosso e articolato, impreziosito da tutti i
motivi fitomorfi usati nel Quattrocento,
crea un effetto d’insieme naturalistico e
prezioso e consente di datare il velluto
probabilmente alla seconda metà del secolo, quando cioè lo schema semplice a
serpentina, con unico sviluppo in verticale, viene arricchito da un più elaborato
disegno. Anche per questo velluto risulta
problematica l’attribuzione, in quanto
presenta un impianto modulare e caratteristiche decorative ampiamente diffuse
e proposte da tutti i più importanti centri manifatturieri italiani in una infinità
di varianti. Comunque la splendida qualità del frammento parrebbe indirizzare
verso la pregiata produzione dei maestri
veluderi di Venezia o, più probabilmente,
di Firenze dove, secondo quanto ricorda
Benedetto Dei nella sua Cronaca scritta
nel 1472, tra le cose più belle che vi si
producevano c’erano i “brochati d’oro,
d’argento, e damaschini, e velluti”. Peraltro sia la produzione veneziana che quella fiorentina erano largamente esportate
e vendute nei mercati e nelle fiere di tutta Europa. E’ documentato, per fare un
esempio, che il setaiolo fiorentino Andrea Banchi già prima del 1454 aveva incaricato Simone di Niccolò della Tosa di
partecipare quale suo rappresentante alle
fiere di Lanciano, Pesaro e per l’appunto
Recanati per vendere tessuti, vesti liturgiche, nastri e cinture. Non è possibile
stabilire la provenienza e l’utilizzo d’origine del frammento recanatese. Questo
tipo di velluto con il motivo della melagrana era impiegato sia per vesti sacre e
profane sia per rivestire pareti di grandi
dimensioni e per realizzare tendaggi e
drappi; comunque questi preziosi manufatti, che per la loro particolare qualità
ebbero grande fortuna e ampio utilizzo,
furono ricercati da un pubblico di alto
livello sociale e divennero emblematici di
lusso, potere, sacralità.
Nella Cappella dell’ex episcopio nuovo,
ampliata nel 1822 per volere di monsignor Stefano Bellini, vescovo di Recanati
e Loreto dal 1807 al 1831, e dotata di
una pala d’altare raffigurante l’Immacolata commissionata al pittore Giovanni
Gallucci (Ancona 1815 – Malta ?)da suo
fratello monsignor Tommaso Gallucci,
vescovo di Recanati e Loreto dal 1867 al
1897, è esposta una selezione delle più
importanti oreficerie superstiti del tesoro
della cattedrale di San Flaviano.
Tra i pezzi più antichi della raccolta recanatese sono due croci astili, databili
rispettivamente alla seconda metà del
Quattrocento e all’inizio del Cinquecento, che costituiscono gli ultimi esiti
dell’influsso veneto nella produzione
orafa marchigiana. La prima croce,27 in
rame fuso, sbalzato, cesellato e dorato, è
RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO
195
Manifattura fiorentina o veneziana, frammento di velluto, secolo XV
ricordata nel 1883 da Severino Servanzi
Collio28 tra le poche opere d’arte antiche
ai suoi tempi ancora conservate presso
il duomo di Recanati. Lo studioso ne fa
una descrizione accurata, comprendente
un elaborato nodo, di fattura cinquecentesca, oggi non più esistente. La croce
presenta un profilo mosso, con bracci a
estremità espanse, potenziamento all’incrocio e terminazioni mistilinee. Qui
sono applicati sul recto dei rilievi raffiguranti, ai lati della statuina del Crocifisso,
i Dolenti mentre in alto è l’Eterno e in
basso la Maddalena: sono microsculture sbalzate con le figure a mezzo busto,
definite entro una tipica forma ovoidale,
secondo una soluzione tipica dell’oreficeria marchigiana del XV secolo. Il verso
con i simboli degli evangelisti sbalzati
sulle quattro terminazioni è caratterizzato dalla presenza all’incontro dei bracci
di san Rocco, raffigurato a figura intera,
secondo la tradizionale iconografia, in
abito da pellegrino e in atto di mostrare
la piaga sulla coscia sinistra. La presenza
del santo depulsor pestilentiae sulla croce
suggerisce la sua originaria appartenenza
al corredo di suppellettili spettanti all’altare dedicato a san Rocco nella cattedrale
recanatese.
La presenza della figura intera di un
santo sul verso delle croci astili non è
inconsueta e si ritrova anche nell’altra
croce del Museo Diocesano di Recanati.
La forma di quest’ultima29 propone una
struttura tipicamente veneta e di origine
tardo-trecentesca, ma il gusto delle decorazioni a grottesche e dei sottili ramages
dei bracci, così come il modellato delle
figure sbalzate nelle terminazioni, rivelano un’esecuzione ormai cinquecentesca.
In questo caso la figura sbalzata all’incrocio dei bracci sul verso è probabilmente
identificabile con san Domenico per la
tipologia dell’abito con manto e cappuccio a suggerire l’originaria provenienza
della croce dalla chiesa di San Domenico
di Recanati.
Anche la raccolta di suppellettili sacre
della cattedrale recanatese conserva alcuni magnifici esemplari della produzione
orafa romana del Settecento. Sono sedute sulla base di uno splendido calice
settecentesco le statuine a fusione di san
Giovanni Battista con l’agnello e la croce,
della Vergine Immacolata a mani giunte
che schiaccia il serpente avvinghiato alla
falce di luna e di san Giuseppe con la
verga fiorita.30 Questo calice, come testimonia la scritta incisa nella lamina aggiunta e avvitata sotto la base, fu donato
il 13 febbraio 1887 dal clero recanatese
a monsignor Tommaso Gallucci, vescovo di Loreto e Recanati, in occasione del
suo giubileo sacerdotale. Naturalmente
di tratta di un’opera la cui data di esecuzione risulta ben più antica, a giudicare
dall’analisi stilistica e dall’individuazione
dei due bolli che vi sono impressi. In realtà il bollo camerale assai abraso appare di
lettura piuttosto incerta, mentre quello
personale dell’artefice è senza dubbi attri-
196
Gabriele Barucca
Arte veneto-marchigiana, croce astile, recto e verso
buibile a Giuseppe Achen, argentiere di
origine tedesca, nato a Recanati nel 1687
ma attivo a Roma, dove è documentato a
partire dal 1730. Giuseppe Achen ottenne la patente di maestro nel 1737 e morì
nel 1741. Pertanto la datazione del calice
di Recanati va sicuramente inserita nei
soli quattro anni di attività ufficiale del
maestro. Maestro di indiscutibile talento
che rivela nell’insistita ricerca di un effetto marcatamente scultoreo una notevole
bravura di fonditore e di sbalzatore.
Come abbiamo visto nelle altre cattedrali
prese in esame, nel corso del Settecento
si segnalano nello sforzo di arricchimento degli arredi sacri e degli apparati cerimoniali soprattutto i vescovi, che si
susseguirono alla guida della diocesi, e i
canonici.
Alcuni pezzi molto belli sono per fortuna superstiti. Iniziamo da due calici che
presentano i bolli rispettivamente degli
argentieri Girolamo Maltraversi (Roma
1676 – 1740; patentato maestro nel
1698) e Nicola Francois (nato a Roma
ca. 1675, patentato maestro nel 1699,
attivo fino al 1756). Quest’ultimo pezzo
venne donato dal vescovo Lorenzo Gherardi, come attesta il suo stemma inciso
sotto la base. A questo vescovo, che resse
la Chiesa di Recanati e Loreto dal 1693
fino al 1727, anno della sua morte, si
deve anche la commissione intorno al
1702 di un nuovo reliquiario d’argento
per custodire i sandali di giunco intessuti
da santa Chiara per san Francesco, una
delle reliquie più insigni donate da Gregorio XII alla cattedrale recanatese.31 At-
tualmente il reliquiario è stato smontato
e nel Museo Diocesano si conserva la
grande cornice argentea che ne costituiva il prospetto. Questa cornice è definita
dal susseguirsi simmetrico di rigogliosi
girali che alla base inquadrano lo stemma papale di Gregorio XII e alla sommità una tabella con sbalzata la scena delle
stimmate di san Francesco. Esiste un’altra
cornice identica che si distingue per recare sbalzato in basso lo stemma vescovile
del Gherardi e nella cartella superiore la
figura di san Lorenzo con la graticola.
Quest’ultima cornice doveva circoscrivere una teca con le reliquie del santo diacono, omonimo e patrono del vescovo
Lorenzo Gherardi. Sulle due cornici non
sono stati rilevati i bolli personali dell’argentiere che comunque riprende con una
RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO
197
Giuseppe Achen, calice
Lorenzo Petroncelli, calice
Lapide commemorativa del vescovo Ciriaco Vecchioni.
certa abilità esecutiva il consueto repertorio decorativo di ispirazione botanica
che ebbe straordinaria fortuna nell’arte
orafa dell’età barocca fino ai primi del
Settecento.
Splendidi sono gli oggetti acquistati o
commissionati dal munifico monsignor
Ciriaco Vecchioni, vescovo di Recanati e
Loreto dal 1767 fino al 1787, anno della sua morte, tutti segnati dalla presenza
delle sue insegne sbalzate sulle lamine
d’argento delle suppellettili liturgiche,
impresse in oro sulle legature in cuoio
dei messali e ricamate sui suoi paramenti
sacri. Uno dei primi doni che monsignor
Vecchioni fece alla cattedrale recanatese
appena eletto vescovo è un ricchissimo
calice in argento interamente dorato
con inciso sotto il piede il suo stemma
vescovile.32 Sull’oggetto è infatti impresso il bollo camerale in uso nel biennio
1767-1769 accompagnato da quello personale dell’argentiere romano Lorenzo
Petroncelli. Il calice di preziosa fattura
corrisponde a un modello diffuso, con
diverse varianti, nella produzione secondo i dettami dello stile rocaille in voga a
Roma nella seconda metà del Settecento.
L’armonia strutturale dell’insieme nonché la sontuosità raffinata e leggera della
decorazione rivelano le qualità di sbalzatore e fonditore del Petroncelli, uno
degli argentieri preferiti dalle più illustri
casate del patriziato marchigiano e dai
più eminenti prelati, come per esempio
il cardinal Mario Compagnoni Marefoschi. Insieme al calice monsignor Ciriaco Vecchioni donò anche una coperta
di messale in lamina d’argento sbalzata,
traforata, cesellata e incisa, applicata
sul velluto rosso che ricopre l’anima lignea della legatura.33 Su ciascun piatto
della coperta festoni di fiori circondano
una grande cartella centrale profilata
da palme e recante rispettivamente san
Flaviano in abiti episcopali e una scena
del suo martirio. Alla base della cartella compare sbalzato lo stemma vescovile
del Vecchioni. Sulla decorazione argentea della coperta di messale compare il
bollo camerale in uso nel biennio 17671769 accompagnato da quello personale
dell’argentiere Vincenzo Belli. La squisita fattura della decorazione argentea, che
con soluzione estremamente raffinata
inserisce accanto al consueto repertorio
rocaille le simboliche palme alludenti al
198
Gabriele Barucca
Vincenzo Belli, coperta di messale, recto e verso
martirio di san Flaviano, titolare della
cattedrale nonché compatrono di Recanati, conferma la grande reputazione goduta presso i contemporanei da Vincenzo Belli, fornitore tra l’altro della corte
portoghese di Giovanni V. Dalla avviatissima bottega diretta dal Belli, proviene
anche un altro dono del Vecchioni, vale
a dire uno scultoreo ostensorio raggiato
particolarmente d’effetto per le tre Virtù teologali, fuse a tutto tondo e sedute
sulla base, e per la profusione di gemme
colorate intorno alla teca. Non sappiamo
invece a quale argentiere romano si sia rivolto monsignor Ciriaco Vecchioni per la
sua commissione più importante e onerosa. Scrive Nicola Tempesta il 3 giugno
1787, “per la Cattedrale ha fatto molte
e assai cose sagre et ha adobbato l’altare
del coro di scalinata d’argento buono, e
il davanti l’altare de argento, e poi si dice
che fa il tabernacolo ancora d’argento”; si
tratta di un tabernacolo “bello ma bello
lavorato a Roma con il costo di passa duemila scudi” che verrà collocato sull’altare
soltanto nel 1791, quattro anni dopo la
morte del vescovo.34 Monaldo Leopardi
aggiunge che l’altare d’argento donato
dal vescovo Vecchioni “era per ricchezza
e per lavoro la meraviglia di chiunque lo
vedeva. Il solo espositorio alto 17 palmi
costava seimila scudi. Tutto perì nella
prima invasione francese del 1797.”35
Alle opere che i vescovi commissionarono direttamente alle botteghe degli argentieri romani si aggiungono nel corso
della prima metà dell’Ottocento alcuni
pezzi realizzati da argentieri operanti in
loco, ma che solitamente ripetono i prototipi romani. In particolare alla straordinaria operosità di Antonio Piani (1747
– 1825), argentiere maceratese formatosi
dapprima nella bottega del padre Domenico e in seguito a Roma presso Luigi
Valadier, si devono una pace a tavoletta
raffigurante sbalzata la Pietà con decori
di gusto ancora rocaille e un calice donato alla cattedrale nel 1806 dal canonico
Tommaso Ramponio, che nella struttura e nel repertorio decorativo denota
la piena adesione al lessico neoclassico.
Una pisside e un calice datati 1822 sono
opera dell’argentiere recanatese Paolo
Bonessi. Un piccolo nucleo di opere do-
RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO
199
pontefice, avvenuta pochi mesi dopo,
furono distribuiti a numerose chiese, soprattutto delle Marche, terra d’origine di
Pio IX. Resta infine da ricordare la selezione di indumenti liturgici provenienti
dal tesoro della cattedrale e ora esposta in
una sala del Museo Diocesano. Si tratta
soprattutto del settore delle sopravvesti:
piviali con relativa mitra, pianete corredate dalle insegne liturgiche della stola e
del manipolo e da parati accessori come
la borsa, la palla e il velo da calice. La materia tessile impiegata per questi parati è
generalmente la seta policroma, i ricchi
motivi ornamentali sono invece realizzati
a ricamo in oro e argento lamellare, filato
e riccio, con applicazioni di altre materie
preziose (paillettes piatte, borchie dorate,
perle). Quanto ai colori delle stoffe, essi
furono impiegati in un primo momento senza particolari intenti semantici,
Antonio Piani, calice e pace
cumenta l’attività di un altro recanatese,
Giacomo Braccialarghe (1829-1922), di
certo uno dei migliori orafi e argentieri
attivi nelle Marche tra la seconda metà
dell’Ottocento e i primi anni del secolo
successivo. La sua produzione riprende
modelli quasi serializzati e improntati
all’eclettismo in voga in quegli anni, ma
con una grande perizia esecutiva. Realizza oggetti sovraccarichi di simboli e di
figure a fusione, come quelle sedute sul
piede dei due calici della cattedrale. In
uno di questi esemplari compare la scenografica soluzione del fusto costituito
da un tempietto circolare cinto da colonne e sormontato da una cupola, all’interno del quale vi è la statuina della Vergine.
É inoltre da ricordare la presenza di due
servizi di ampolline in metallo dorato,
realizzate da botteghe orafe tedesche. Si
tratta di due dei numerosi doni fatti nel
1877 a Pio IX dalla diocesi di Monaco
di Baviera in occasione del suo Giubileo
episcopale. Doni che dopo la morte del
Museo Diocesano, sala VIII
200
Gabriele Barucca
come avveniva per il vestiario comune.
In seguito il canone stabilì un uso secondo il principio della corrispondenza tra
il carattere psicologico attribuito ai vari
colori (gioia per il bianco, tristezza per il
viola, lutto per il nero e così via) e il tono
spirituale delle diverse festività e tempi
del calendario liturgico.
Questi preziosi paramenti liturgici furono donati per lo più tra la fine del Seicento e la prima metà dell’Ottocento dai
vescovi che si avvicendarono in quel periodo a governare la diocesi di Recanati e
Loreto. Spesso i loro stemmi, cimati dal
cappello vescovile con le prescritte nappe
di seta verde, sono applicati a decorare i
lati inferiori dello stolone dei piviali, le
infulae delle mitre e la colonna posteriore delle pianete. Peraltro gli stessi stemmi
vescovili si ritrovano impressi in oro sulle
legature in cuoio degli innumerevoli libri
liturgici ancora conservati nella cattedrale di San Flaviano.
San Flaviano, secolo XIV. Museo Diocesano, dalla facciata della cattedrale.
RECANATI. CONCATTEDRALE DI SAN FLAVIANO
201
NOTE
ASCCR, Atti Capitolari dal 1 luglio al 22 gennaio 1800. Capitolo Generale del
4 aprile 1797, cc.n.nn.
2
Vedi la trascrizione del documento in appendice.
3
Così Filippo Raffaelli in un raro opuscolo racconta la vicenda delle distruzioni
degli argenti in età napoleonica: “Dei ricchi utensili d’argento disgraziatamente
oggi non ne rimane alcuno, poiché se di essi nella requisizione degli argenti fatta
dalla S. Sede nel 1796 molti furono rilasciati per rispetto all’antichità, ed al meito
artistico, dal commissario Francese li 20 Febraio 1797 furono tutti sottratti e
distrutti. Dai processi originali di quel tempo rileviamo, che il Francese Commissario dalla Cattedrale Basilica di Recanati prendesse libre romane 368 di argenti
lavorati. Che alcuni di questi poi, tra quali un Turribolo e Navetta fossero di
assoluto merito artistico, oltre alla loro antichità, lo impariamo dalle sopracitate
sacre Visite dei Vescovi Cardinali Araceli, Roma, non che da quella che nel 1637
fece il Vescovo Mons. Amico Panici. Invenit, si legge negli atti di Visita del primo, invenit turibulum argenteum valde antiquum et pretiosum, et quod est nimis
onerosum, idea mandavit illud reduci in meliorem formam. Il non mai abbastanza
encomiato Canonico Bartolomei Cartocci suppone che il decretato restauro sia
stato eseguito a cura dello stesso Cardinale Araceli, e che per quest’atto di liberalità fosse stato aggiunto nel Turribolo lo stemma gentilizio di lui – Nella Visita del
Cardinale Roma si ricorda un Turribolo di argento con la figura di S. Flaviano,
l’arme di Papa Gregorio XII, e l’arme del Card. Araceli; la Nvicella d’argento con
lo stemma dello stesso Pontefice, ed il Cucchiarino – In quella finalmente del Vescovo Panici – Vidit turibulum argenteum valde pretiosum quod in se habet figuram
S. Flaviani, et insignia Papae Gregorii XII, et bo. me. Card. De Aracaeli una cum
sua navicella cum insigni bus ejusdem Pontificis, una cum suo cobleario.” Raffaelli
1877b, pp. 22-23.
4
Diego Calcagni così descrive il tesoro di reliquie della cattedrale di San Flaviano:
“Si conservano nella Sagrestia di questa Chiesa dentro un Armario molte Reliquie
insigni. Due pezzi della Ss. Croce di N. S. in uno di essi si scuopre una vena, che
mostra un cuore trafitto con 3. chiodi. Una spina della Corona di N. S. Un pezzetto della veste inconsutibile, & alcuni Capelli della Beatissima Vergine. Queste
Reliquie sono chiuse in una Croce d’argento di grãdezza di 4. palmi. Un pezzo
d’osso del Braccio di S. Flaviano chiuso in un Reliquiario d’argento. Le Scarpe di
S. Francesco fatte per le mano di S. Chiara, e si vedono alcune stille di Sangue del
Santo, ornate con bel Reliquiario d’argento. Un Piede d’uno de’ Santi Innocenti.
La Testa di S. Margarita dentro un busto di rame dorato con la Testa d’argento.
Sonovi altre Reliquie, che si tralasciano per brevità. Le più riguardevoli sono state
dono di Gregorio XII. sepolto in questa Chiesa.” Calcagni 1711, p. 289.
5
Raffaelli 1877b, pp. 17-19.
6
Traggo queste notizie da Moroni 2004a, pp. 444-446, a cui rimando anche per
le citazioni riportate.
7
N. Falcioni, Memorie patrie (1771-1794), 25 maggio 1794. Ms. conservato
presso ASDR, Fondo Capitolo dei canonici, Confraternite, b. 2.
8
Il nuovo Museo Diocesano di Recanati è stato inaugurato il 23 maggio 2006.
9
Il progetto scientifico e museologico del nuovo Museo Diocesano di Recanati è stato realizzato da Gabriele Barucca; il progetto di allestimento è opera del
Centro Ricerche e Sviluppo Poltrona Frau, di Gabriele Barucca e di Gianfranco
Ruffini. A quest’ultimo si deve anche il progetto degli impianti di sicurezza e di
illuminazione.
10
L’allestimento museale e il restauro delle opere sono stati eseguiti con il finanziamento del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e diretti da Gabriele
1
Barucca della Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici e Etnoantropologici
delle Marche-Urbino.
11
Kalavrezou-Maxeiner 1985; Nikolajević 1992; Effenberger 2004, pp. 212214.
12
Radeglia, Huber, Artioli, Santopadre, Sidoti, Verità 2006, pp. 73-91. In particolare vedi la descrizione e l’analisi critica di Daila Radeglia (pp. 73-77), a cui si
fa continuo riferimento nel testo.
13
Le dimensioni delle lastre sono 14,5 x 9,6 cm circa, mentre le dimensioni delle
cuspidi sono 7,5 x 5 cm.
14
Radeglia 2006, pp. 74-76.
15
Un primo elenco di alcuni di questi dittici di ambiente umbro è stato stilato da
Swarzenski 1940, III, pp. 55-68.
16
Le dimensioni della lastra sono circa 15 x 20 cm.
17
Identificazione dubitativamente avanzata da Serra 1929, p. 320.
18
Il diametro della lastra è circa 6,5 cm.
19
Serra 1929, pp. 320-321.
20
Pettenati 1978, pp. XXX-XXXII.
21
Castelfranchi 1998, pp. 36 ss.
22
Castelfranchi 1998, p. 37.
23
De Marchi 2008, p. 55.
24
I ricami raffigurano la Natività, la Presentazione al Tempio, la Disputa di Cristo
fra i dottori, le Nozze di Cana, il Battesimo, l’Ultima Cena, l’Orazione nell’orto, la
Cattura, la Flagellazione, la Derisione e la Crocefissione. Vedi Serra 1934, pp. 512514, con un riferimento alla fine del Quattrocento.
25
De Marchi 2008, p. 55.
26
Frammento di tessuto composto di dieci pezzi, cm 81 x 149. Vedi G. Barucca,
scheda 37, in Il Rinascimento a Urbino 2005, pp. 154-155.
27
Croce astile in rame fuso, sbalzato, cesellato, inciso e dorato, su supporto ligneo;
46 x 31 cm. Vedi B. Montevecchi, scheda 34, in Ori e argenti 2001, p. 124.
28
Servanzi Collio 1883, pp. 26-30.
29
Croce astile in rame fuso, stampato, sbalzato, cesellato, dorato e argentato, su
supporto ligneo; 62 x 36 cm. Vedi B. Montevecchi, scheda 52, in Ori e argenti
2001, pp. 145, 148.
30
Calice in argento e argento dorato, altezza 28,5 cm, diametro del piede 16
cm, diametro dell’orlo della coppa 10 cm. In una lamina avvitata sotto la base
è la seguente iscrizione: “THOMAE GALLUCCI EPISCOPO SUO ANNO L
SACERDOTII EXACTO FELICITER KLERUS RECINETENSIS OFFERT
XIII. KAL FEBR. A. MDCCCLXXXVII”. Vedi G. Barucca, scheda 53, in Ori e
argenti 2007, p. 232.
31
Raffaelli 1877b, pp. 19-20. Raffaelli trascrive anche un passo del resoconto della Sacra Visita condotta da monsignor Gherardi il 13 maggio 1703 in cui si parla
anche della realizzazione del reliquiario che “fuit constructum partens ex pretio
retracto ex venditione aliquor. corallorum et margaritarum…”.
32
Calice in argento dorato, altezza 28 cm, diametro del piede 16 cm, diametro dell’orlo della coppa 9 cm. Vedi G. Barucca, scheda 71, in Ori e argenti 2007, p. 238.
33
Coperta di messale in lamina d’argento sbalzata, traforata, cesellata e incisa
applicata su velluto rosso, legno, coperta e dorso 38 x 25 cm. Vedi G. Barucca,
scheda 58, in Ori e argenti 2007, pp. 233-234.
34
I passi tratti dalle Memorie del muratore recanatese Nicola Tempesta sono tratti
da Moroni 2004a, pp. 429-430.
35
Leopardi 1828, pp. 215-216.
Cingoli
Pagine precedenti:
Intagliatore marchigiano,
paliotto con l’Assunta e quattro santi
CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA
205
LA STORIA RELIGIOSA DELLA CONCATTEDRALE
DI SANTA MARIA ASSUNTA DI CINGOLI
Egidio Pietrella
La pieve antica successivamente
collegiata di Santa Maria
Cingulum “quod oppidum Labienus constituerat suaque pecunia exaedificaverat”1
era situato sul ripiano dell’attuale Borgo
San Lorenzo a nord est del centro abitato odierno. L’insediamento romano
risaliva alla metà del III° secolo a.C.,
sorto in seguito alla conquista del Piceno da parte di Roma. Il cristianesimo,
pur in mancanza di notizie specifiche in
merito, vi dovette giungere assai presto,
come avvenne in genere in altri centri
romani. Cingoli fu sede vescovile, di cui
esiste documentato con certezza il vescovo Giuliano, che prese parte con papa
Vigilio nel 553 al secondo Concilio di
Costantinopoli e che fu successivamente
destinatario di due lettere di papa Pelagio
I negli anni 556-561. Molto dubbia l’esistenza di altri vescovi che una certa tradizione poco attendibile, nomina, quali
Teodosio, Formario. Anche sulla figura
di Sant’Esuperanzio, venerato come vescovo e patrono di Cingoli, esiste tuttora
la vexata quaestio circa la veridicità della
Vita sancti Exuperantii del secolo XIV,
negata già nel secolo XVIII dal Fanciulli e non accettata dalla critica recente di
Serafino Prete e di Giuseppe Avarucci,2
mentre, sempre nel ‘700 altri storici,
quali F. M. Raffaelli e H. Cristianopulo,
e nel secolo XX Adriano Pennacchioni
l’hanno ritenuta autentica e veritiera.3
La critica storica più recente o ipotizza la
provenienza del culto di S. Esuperanzio
dall’Umbria, da dove sarebbe stato por-
Portale del Santo Salvatore
tato dai monaci avellaniti tra il secolo
XII e XIII nella loro chiesa priorale la
quale assunse il nome di Sant’Esuperanzio4 o individua in Sant’Esuperanzio vescovo e patrono di Cingoli, un vescovo
di Ravenna di tal nome e santo, la cui
memoria liturgica si celebrava il 29 giugno, come fino al 1495 in quella stessa
data Cingoli venerava Sant’Esuperanzio
suo patrono.5 Cadrebbe anche la tesi che
la primitiva cattedrale di Cingoli sia sorta presso il sepolcro di Sant’Esuperanzio,
risalente addirittura al III secolo d. C.
(Avicenna), o al VI secolo (Raffaelli), o al
VII o XI secolo.6
Dati certi sono che Cingoli, perduta,
con l’invasione dei Longobardi, la sede
vescovile – della cui esistenza testimonia,
come detto, la figura storica del vescovo Giuliano – ha avuto il suo territorio
diviso dalla linea di confine tra la Pentapoli ravennate e il Ducato di Spoleto
longobardo, e annesso ecclesiasticamente
alla diocesi di Osimo quello più esteso
verso la pianura, e alla giurisdizione del
vescovo di Camerino quello montano, di
estensione minore.7
Fuori della cinta muraria sorse, in età a
noi ignota, la pieve di “Santa Maria”. Di
essa si hanno notizie solo dall’inizio del
secolo XIII, ma se ne può ragionevolmente ipotizzare un’origine ben anteriore, come per altre pievi. Nel 1273 vi fu
ordinato sacerdote San Nicola di Tolentino, dal vescovo, francescano e futuro
santo, Benvenuto da Osimo.8 Nel 1461
il vescovo di Osimo la dichiarò prepositura e collegiata, ma non validamente,
mancando l’autorizzazione del papa. Nel
frattempo, verso la fine del secolo XV
(1481-1495) per iniziativa del pievano
Giovanni Giacomo Castellani di Parma
e di suo fratello Andrea e con contributi
finanziari del Comune, la chiesa fu sottoposta a ristrutturazioni e alla ricostruzione del campanile, di cui resta solo la base
addossata all’abside. Successivamente
la bolla pontificia Idibus Junii MDXXX
apud S. Petrum di Clemente VII del 13
giugno 1530 la elevò formalmente a
prepositura e collegiata, costituendovi il
Capitolo composto dal Prevosto, che fu
la prima “Dignità” (assegnata al pievano
206
Benedetto De Santi) e da dieci canonici,
prebendati con rendite della pieve e della
parrocchia di San Giovanni di Villa Strada, unita e incorporata alla pieve stessa.
I membri del collegium avevano l’obbligo
del servizio quotidiano del Coro (Ufficio
divino) e della cura animarum (affidata ad
uno dei canonici o ad un prete secolare,
e ciò rimase in vigore fino al 1735) delle
due parrocchie, cioè della pieve e di San
Giovanni di Villa Strada, le cui due chiese
dipendenti ricevevano la nomina di rettori dallo stesso Capitolo della collegiata.
Col passare del tempo, fin dal 19 marzo
1564, la chiesa collegiata si rivelò troppo angusta per la popolazione che vi
affluiva, soprattutto per la predicazione
quaresimale, e inadeguata per tenervi
solenni funzioni e quindi si avvertì l’esigenza di un edificio più ampio. Solo nel
1615 l’Autorità pubblica decise di farne costruire uno nuovo a proprie spese
sulla piazza maggiore davanti al palazzo
comunale, ottenendo conferma dal papa
Paolo V il 19 agosto 1618. Se ne iniziò
la costruzione il 7 luglio 1619 su disegno
dell’architetto Ascanio Passari di Pergola.
I lavori procedettero lentamente e per
mancanza di fondi e per il crollo del tetto e della cupola abbattuti dai forti venti
occidentali. Finalmente essa fu ultimata
e benedetta insieme all’altare dal vicario
generale di Osimo il 27 ottobre del 1654;
vi si celebrò la messa e cominciò ad essere
officiata dal prevosto e dai canonici. Fu
consacrata, infine, dal vescovo di Osimo
cardinale Opizio Pallavicini. Il 10 maggio
1660 l’Autorità pubblica concesse ufficialmente la nuova chiesa al Capitolo per
il semplice e mero uso dell’ufficiatura e
con l’obbligo, come atto di gratitudine,
dell’offerta annuale di vari mazzetti di
fiori di seta, da donarsi la mattina della
festa di Maria Assunta al Magistrato pro
tempore con tre libbre di cera bianca che
poi si restituivano dall’Autorità pubblica al Capitolo in elemosina per la festa
Egidio Pietrella
Ritratto del cardinale Agostino Pipia, secolo XVIII.
Cingoli, Museo civico
Ritratto del cardinale Giacomo Lanfredini, secolo XVIII.
Cingoli, Museo civico
(1 marzo) di San Candido, “riserbandosi
nel resto la Comunità donatrice di avere
sempre in detta chiesa una perfetta e assoluta padronanza… in maniera che mai
per alcun tempo il prevosto, l’arciprete e
i canonici possano acquistare ragione sul
diretto dominio della medesima, eccetto
che nell’usufrutto e nei luoghi che loro si
devono per recitare i divini uffizi e sentire le prediche”.9
Dopo tali realizzazioni la precedente
chiesa collegiata nel 1664 passò ai Padri
dell’Oratorio di San Filippo Neri. Essa
nell’interno fu totalmente modificata su
disegno dell’architetto romano Giambattista Contini. Furono conservate solo
alcune strutture esterne romaniche (parte inferiore della facciata e parete destra)
e rinascimentali (base del campanile, che
fu pure modificato). Venne consacrata
dal vescovo osimano Opizio Pallavicini
nel 1694 e assunse il titolo di San Filippo Neri. Recentemente (1994-1998)
restaurata, questa chiesa si presenta ricca
di arte e di ornamenti tipici delle chiese
filippine.10
La cattedrale di Santa Maria Assunta
Dopo reiterate istanze presentate ai sommi pontefici, il papa Benedetto XIII il
20 agosto 1725 con la bolla Romana ecclesia reintegrò la sede vescovile in Cingoli, unita aeque principaliter con quella
di Osimo, per cui la nuova collegiata di
Santa Maria Assunta, dopo circa 70 anni
dalla sua costruzione, divenne cattedrale,
di cui prese possesso il giorno 8 giugno
1726 il vescovo di Osimo e Cingoli, il
cardinale Agostino Pipia, dopo il preventivo accordo con i deputati della Comunità circa l’obbligo ad essa spettante del
mantenimento materiale e formale della
cattedrale in perpetuo, come è stato osservato fino ad oggi. E da allora vi si svolsero anche numerosi Sinodi diocesani.11
La forma della chiesa, nella sua struttura, è quella che si osserva ora. “Ha un
impianto ad aula unica, in cui si innesta
una sorta di capocroce trilobato costituito da tre absidi a perimetro poligonale”.12
È dedicata a Santa Maria Assunta e ha
otto altari, in origine tutti di privati cittadini cui spettava l’obbligo del completo
CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA
mantenimento. La planimetria dell’interno riportata nelle visite pastorali del
Settecento, a partire da quella del 1726172713 (la prima e più vicina all’elevazione della chiesa al ruolo di cattedrale),
corrisponde fondamentalmente a quella
odierna, anche se nel corso del tempo
sono sopravvenuti dei cambiamenti e
innovazioni non tanto nella struttura,
ma nei titoli delle cappelle o degli altari
e aggiunte varie, soprattutto di lapidi e
monumenti. Una sintetica presentazione
degli altari è utile per cogliere l’aspetto
religioso del culto e delle devozioni praticate. L’altare maggiore, ampio e solenne era – per concessione della Comunità
risalente al 25 novembre 1655 – della
Confraternita del Santissimo Sacramento, che vi costruì l’altare di marmo con
contributi del vescovo Compagnoni, il
quale lo consacrò il 30 agosto 1758.
La Confraternita era tenuta ad una sua
completa manutenzione. La terza domenica d’ogni mese il Capitolo vi doveva cantare la santa messa e svolgere la
processione col Santissimo Sacramento
e impartire la benedizione. Dietro l’altare c’è il coro di noce, dove officiavano
il prevosto e i canonici. Nei due coretti
laterali a sinistra vi era l’organo, poi sostituito (1773) con quello di Gaetano
Callido, recentemente (2004) restaurato. Nella cappella o abside di sinistra era
collocato il trono del vescovo (costruito a
spese del Comune), ora non più esistente; in mezzo è l’altare con la tela del Santissimo Salvatore, in ricordo della chiesa
del Santo Salvatore di proprietà della
nobile famiglia Simonetti, demolita per
ricavarne lo spazio per la nuova chiesa.
La cappella è ricca di ben 6 epigrafi: sul
restauro dell’altare del Santissimo Salvatore (1535), sul giuspatronato Simonetti
(1626), in onore del cardinale Raniero
Simonetti (1750), in memoria di Luigi
Simonetti (1790), in onore di Pio VIII
(1830), in ricordo della visita delle reli-
207
Lapide in memoria del cardinale Raniero Simonetti
Monumento a Pio VIII
quie di San Nicola da Tolentino (1968).
Indubbiamente meritano una particolare
attenzione il monumento al papa cingolano Pio VIII e il testo dell’epigrafe.14
Nella navata di destra la grande cappella o abside era del marchese Silvestri. In
essa si leggono quattro lapidi: sulla ricostruzione dell’altare maggiore (1758);
sull’abbellimento della chiesa ad opera
di Stefanucci (1939); sul 12° reggimento
Cavalleria di Podolia (Polonia) (1946);
sulla costruzione della nuova vetrata della facciata (1983). Alla sagrestia si accede
dall’abside (o cappella) di sinistra: essa
era detta cappella interna, dove officiavano i canonici nel periodo invernale;
ora è utilizzata per le celebrazioni liturgiche nei giorni feriali. Annessa era una
seconda sagrestia usata come luogo di
preparazione al servizio liturgico e deposito di arredi sacri. Da essa si passa nel
piano superiore alle stanze del predicatore quaresimale, del curato e degli ospiti.
Nella sala capitolare ora si custodisce il
“tesoro” del chiesa. Il 31 luglio del 1769
la cattedrale fu aggregata alla basilica vaticana con concessione da parte del papa
Clemente XIV di numerose indulgenze
(plenarie, stagionali, di 100 giorni ecc.).
Nel corso del tempo essa è stata soggetta
a vari interventi di ricostruzioni, come si
legge in un elenco della visita pastorale
del 1827.15 Risalgono al 1939 i lavori
di abbellimento della chiesa, come testimonia l’epigrafe situata nell’abside di
destra.16
Ne furono artefici il pittore cingolano
Donatello Stefanucci, i maestri decoratori Luchetti e Natalini di San Severino,
l’architetto Cesare Emidio Bernardi cingolano e Giulio Cesare Giuliani vetraio
romano autore delle vetrate.
In epoca più recente nella storia religiosa
della cattedrale di Cingoli sono da ricordare i due congressi eucaristici diocesani che come sede centrale vi si tennero
negli anni 1932 e nel 1968. In quest’ultima data, la diocesi di Cingoli, dopo
la morte del vescovo Domenico Brizi
(11.2.1964), era passata sotto la giuri-
208
Egidio Pietrella
Coperta di libro liturgico con l’arme di Pio VIII
Lapide col legato di Francesco Cima, 1671
sdizione dell’Amministratore apostolico,
“sicut episcopus sede plena”, divisa dalla
diocesi di Osimo, Silvio Cassulo, vescovo di Macerata e Tolentino. In occasione
del congresso eucaristico del 1968 venne
trasferito in venerazione nella Cattedrale
di Cingoli il “Sacro Corporale del miracolo eucaristico” avvenuto a Macerata il
25 aprile 1356 e che si conserva nell’altare del Santissimo Sacramento della Cattedrale di S. Giuliano. Si effettuò anche
la peregrinatio del corpo di San Nicola
da Tolentino, che fu ordinato sacerdote
nell’antica pieve cingolana di Santa Maria. Una lapide posta nell’abside di sinistra ne ricorda l’evento.17
Il giorno 11 febbraio del 1976 la diocesi
di Cingoli ha di nuovo il suo vescovo nella persona di Francesco Tarcisio Carboni
che è eletto unico pastore delle cinque
diocesi autonome di Macerata, Tolentino,
Recanati, Cingoli, Treia. La riforma completa delle cinque circoscrizioni avvenne
con il decreto della Congregazione dei
Vescovi del 30 settembre 1986 che stabilì
la loro “piena unione” sotto la giurisdizione del solo vescovo Carboni, decreto
reso esecutivo dallo stesso il 30 gennaio
1987.18 Anche quella di Cingoli divenne
concattedrale e fu una delle chiese della
diocesi unificata dove si potè lucrare l’indulgenza giubilare dell’anno duemila.
Il Capitolo e la Parrocchia
Il Capitolo della cattedrale nella sua prima istituzione risale al tempo della elevazione dell’antica pieve di Santa Maria al
titolo di collegiata, con la ricordata Bolla Idibus Junii MDXXX apud S. Petrum
del 1530, che costituì anche il Capitolo
composto da una “Dignità”, cioè il prevosto e da dieci canonici. Per il necessario sostentamento il papa unì alla nuova
collegiata i benefici esistenti nelle chiese
di San Girolamo entro le mura, di San
Biagio e di San Vitale nel contado; al canonico teologo furono assegnati i benefici di San Paterniano e di Santo Stefano.
Il preposto veniva eletto dalla Sede Apostolica ed era per autorità secondo dopo
il vescovo, ma ricopriva un ruolo importante anche nella vita civile, come vari
fatti della storia socio-politica di Cingoli
testimoniano. Nel 1543 fu eretta la se-
conda “Dignità” col nome di “Arciprete”.
Il 15 dicembre del 1752 con Bolla del
papa Benedetto XIV furono istituiti altri
tre canonicati, in base al testamento di
Nicola Simoncelli (1748-1749). Una terza “Dignità”, quella dell’“Arcidiacono”,
fu eretta il 18 maggio 1754, istituita per
testamento del canonico Alessandro Antonio e di sua sorella. Un Rescritto della
Sacra Congregazione del Concilio negli
anni 1735-36 stabilì quattro mansionarie perpetue, tre delle quali di giuspatronato della Compagnia di Santa Maria del
Gonfalone e un’altra della Compagnia di
Sant’Antonio abate.
Nel 1735 il vescovo cardinale Lanfredini eresse col consenso del Capitolo e
approvazione della Congregazione del
Concilio una “vicaria curata” perpetua
con l’obbligo della residenza ed esercizio della cura animarum, consentendo al
Capitolo il diritto di nominare il vicario
perpetuo in tempo di sede vacante. Alla
suddetta “vicaria perpetua” fu aggiunto
un cappellano curato per coadiuvare il
parroco nella cura animarum. In complesso il Capitolo era composto da tre
CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA
dignità: prevosto, arciprete, arcidiacono,
e tredici canonici, compresi quelli detti
“Simoncelli” dal nome del fondatore.
La serie dei prevosti nel corso del tempo
registra n. 26 titolari, a cominciare dal
primo, Benedetto Santi (eletto il 13 giugno 1530); il 12° fu Francesco Saverio di
Carlo Castiglioni (1795-1800), futuro
papa Pio VIII; e il 26° (ultimo) don Enzo
Buschi (1985-1987).
Nel 1973 il Capitolo, oltre il prevosto,
contava 10 canonici e 4 mansionari. Con
la unificazione delle cinque diocesi il nuovo statuto approvato dal vescovo Conti (6
gennaio 1998) costituì – come già detto per le altre diocesi – un solo Capitolo
nella Cattedrale di Macerata, di cui fanno
parte i canonici dei precedenti Capitoli
cattedrali con l’ufficio di presenza nelle
varie solennità liturgiche e nelle feste dei
patroni delle cinque vicarie.19
La primitiva pieve di Santa Maria, come
chiesa unica, matrice di tutte le altre
chiese o cappelle, esercitava già la cura
animarum nell’ambito del suo territorio.
Costituita collegiata nel 1530, al servizio
della quale era il Capitolo di 10 canonici
e il prevosto, continuò e organizzò ancor
più la guida spirituale dei fedeli. Al Capitolo fu dato il privilegio di eleggere i
“vicari curati” addetti esplicitamente alla
cura animarum della nuova collegiata e
della parrocchia di San Giovanni di Strada e delle sue rispettive chiese dipendenti. Essa era l’unica parrocchia della città
e comprendeva anche una parte del contado. Secondo lo stato d’anime dell’anno
1817, a distanza di circa un secolo dalla erezione della cattedrale (1725), essa
comprendeva i sette quartieri della città
(Duomo, San Domenico, San Sebastiano, San Francesco, San Girolamo, San
Giuliano, San Niccolò) per complessive
1747 anime; inoltre, assisteva gli abitanti
del Borgo (di 128 abitanti) e della campagna (324 abitanti): dunque aveva un
totale di 2199 anime.20 Si è visto come
209
di 10.000 abitanti. Nel suo territorio si
contano ben 20 luoghi di culto, tra cui la
chiesa di Santa Sperandia delle monache
benedettine, dove si conserva il corpo
della santa compatrona di Cingoli; e altre chiese che erano già di ordini religiosi
espulsi dalle leggi civili del 1866 e non
più ritornati o che hanno chiuso di loro
iniziativa le rispettive sedi. Il monumento religioso più importante, sul piano
artistico e spirituale, è indubbiamente
la chiesa di Sant’Esuperanzio, un tempo
parrocchia recentemente annessa a quella
della cattedrale.
Tommaso Martelli, disegno del frontespizio
di libro col ritratto di Pio VIII
nel 1735 in atto di visita pastorale il cardinale Lanfredini, vescovo di Osimo e di
Cingoli, eresse nella cattedrale con il consenso del Capitolo e l’approvazione della
Congregazione del Concilio una “vicaria
curata perpetua” con l’obbligo della residenza ed esercizio della cura d’anime,
per il cui sostentamento fu stabilita una
quota annua di venticinque scudi, con
l’aggiunta di tutti gli emolumenti certi ed incerti provenienti dal servizio ed
esercizio di cura delle anime. Inoltre, alla
suddetta vicaria curata nel 1769 fu aggiunto per decreto dalla Congregazione
del Concilio un cappellano curato amovibile ad nutum Capituli, per coadiuvare il parroco nell’amministrazione dei
sacramenti e in tutto ciò che riguarda
l’esercizio della cura delle anime.21 Nel
1973 la parrocchia contava 2.800 abitanti; nel 1985, 3000; nel 2000, 3600
abitanti, con accorpamento della parrocchia di Sant’Esuperanzio (1986); e tale
resta il numero delle anime su una popolazione totale del Comune di poco più
Eventi principali e personaggi illustri
Nella cattedrale si tennero vari sinodi
diocesani. Ricordiamo tra gli altri quelli
che si svolsero con maggiore frequenza in
prossimità della ricostituzione della diocesi: il 17 agosto 1725; il 20 luglio 1726;
il 6 agosto 1736; il 24 settembre 1737
e 1738; 1741; 30 agosto 1788. L’ultimo
fu compiuto, con la partecipazione attiva
della parrocchia della cattedrale e dell’intera comunità di Cingoli, unitamente
a tutta la diocesi “unificata”, negli anni
1988-1995 e promulgato solennemente
il giorno 11 maggio 2000, nel corso del
Giubileo nella cattedrale di Macerata.
Nel 1765 fu istituito in prossimità della
cattedrale, il seminario vescovile, che restò aperto fino al 1964. Altri fatti importanti sono ricordati dalle epigrafi esistenti
nella chiesa: la cessione da parte della nobile famiglia Simonetti dello spazio per
la costruenda chiesa di Santa Maria Assunta (1626); la ricostruzione in marmo
dell’altare maggiore ad opera dei confratelli del Santissimo Sacramento, realizzata anche con l’apporto di generosi sussidi
finanziari del vescovo Pompeo Compagnoni (1758); la collocazione nell’abside
destra dell’immagine della Madonna di
Ostra Brama (Polonia) da parte del 12°
Reggimento Lancieri di Podolia di stanza
a Cingoli nel passaggio del fronte bellico
210
Egidio Pietrella
Custodia degli oli santi, sacrestia
della seconda guerra mondiale, come si
legge nella scritta: “In questo tempio ha
pregato il 12° Reggimento Lancieri di Podolia durante il suo soggiorno negli anni
1945-46 in Cingoli nella sua marcia verso la Polonia”; il rifacimento della vetrata
del finestrone della facciata eseguito durante l’episcopato di Francesco Tarcisio
Carboni (1983). Dopo il sisma degli anni
1997-1998, gli interventi di restauro fu-
rono eseguiti con i contributi statali.
Tra i personaggi ecclesiastici illustri di
Cingoli si ricorda in ordine di tempo il
cardinale Raniero Simonetti, che vissuto tra il 1675 e il 1749 ricoprì numerosi
e prestigiosi incarichi per la Santa Sede:
nominato dal papa Clemente XI uditore
di nunziatura a Parigi e a Napoli, fu internunzio a Torino e governatore di Masserano in Piemonte. Creato canonico di
San Pietro in Roma e votante di Segnatura, fu consacrato arcivescovo di Nicosia
nel 1728 da papa Benedetto XIII e ammesso tra i consultori del Sant’Ufficio.
Altre tappe del suo curriculum furono la
nunziatura a Napoli, il Governatorato a
Roma, il Cardinalato (10 aprile 1747).
Morì il 20 agosto 1749 a Viterbo dove
era stato nominato vescovo.22
Il secolo XIX fornì a Cingoli quattro
vescovi e un papa. Filippo Appignanesi
(Villa Torre di Cingoli 1781- Ripatransone 1837), già canonico teologo della
cattedrale e rettore del seminario di Cingoli; pro vicario generale e vicario capitolare della diocesi; vicario generale del
cardinale Giovanni Antonio Benvenuti,
fu eletto vescovo di Ripatransone, dove
curò particolarmente la formazione dei
seminaristi e dei sacerdoti, nonché la vita
spirituale dei fedeli. Felice Paoli (Cingoli
1738-Loreto 1806), Priore di Sant’Esuperanzio, pro vicario generale, vicario
capitolare della diocesi, fu nominato nel
1779 vescovo di Fossombrone e membro
della commissione dei vescovi esaminatrice del sinodo giansenista promosso dal
vescovo di Pistoia Scipione de’Ricci; fu
incaricato dalla Congregazione dei Riti
di esaminare la vita e gli atti del servo di
Dio Fra Benedetto Passionei; dal papa
Pio VI inviato a comporre le discordie
tra Ebrei e gli altri cittadini di Ancona.
Fu trasferito, infine, alla diocesi di Recanati-Loreto. Domenico Cavallini Spadoni (Cingoli 1804-1879) fu nominato
arcivescovo di Spoleto, dove favorì, promosse e approvò la società dei “Missionari della Sacra Famiglia”, dedita soprattutto alle missioni al popolo e agli esercizi
spirituali per il clero. Luigi Bruschetti
(Villa Strada di Cingoli 1826-1881) fu
diplomatico (a servizio della Nunziatura
in Brasile, a Vienna; reggente di nunziatura in Brasile) e pastore (vescovo titolare di Abido, vicario apostolico di San
José in Costarica). Dedicò molta cura al
CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA
Collegio Pio Latino-Americano eretto in
Roma. Morì nel 1881, dopo 33 anni di
sacerdozio, 31 di diplomazia e 5 di vescovado; dispose dei suoi beni a favore dei
poveri, del Papa, del seminario vescovile
di Cingoli, del seminario pio latino-americano. A Cingoli l’ente morale “Opera
Pia Bruschetti” è tuttora amministrata
dal Municipio.23
La gloria più fulgida di Cingoli fu certamente Francesco Saverio Castiglioni,
eletto papa con il nome di Pio VIII.24
Nacque a Cingoli da nobile famiglia di
lontane origini lombarde il 20 novembre
1761. Fu educato a Osimo e successivamente studiò diritto canonico a Bologna
e a Roma. Divenuto esperto in materia
giuridica, fu segretario della commissione incaricata di svolgere indagini sul
sinodo giansenista di Pistoia (1786); in
seguito ebbe la carica di vicario generale
di alcuni vescovi. Divenuto prevosto di
Cingoli (1795-1800), fu successivamente
nominato vescovo di Montalto e mentre
ricopriva questa ufficio fu imprigionato
dal 1808 al 1814 per aver rifiutato di
giurare fedeltà al regime napoleonico in
Italia. Pio VII lo creò cardinale e vescovo
di Cesena nel 1816 e nel 1821 lo chiamò
a Roma, conferendogli la sede vescovile
di Frascati e nominandolo penitenziere
maggiore. Il papa, che lo stimava molto,
sperava che egli sarebbe stato il suo successore: infatti, poco mancò che venisse
eletto pontefice nel 1823. Nel conclave
del 1829, egli, candidato dei moderati e
appoggiato dalla Francia e dall’Austria,
fu eletto pontefice, malgrado il suo grave
stato di salute. Volendo egli continuare
la tradizione di Pio VII, ne adottò anche
il nome. Non molto interessato alla politica, si preoccupò ben più vivamente dei
problemi dottrinali e pastorali. Nella sua
unica enciclica (Traditi humilitati nostrae,
del 24 maggio 1829) fece risalire il crollo della religione, oltre che dell’ordine
sociale e politico, all’indifferentismo in
materia di fede, all’attività delle società
bibliche protestanti, ai nefasti interventi
delle società segrete, ai minacciosi e subdoli tentativi di dissacrare il matrimonio
e, infine, agli attacchi aperti ai dogmi
della Chiesa. In un Breve del marzo 1830
condannò sia l’influenza della massoneria sull’educazione, sia l’eccessiva libertà
morale della nuova generazione. Ma pur
sostenendo inflessibilmente le posizioni
tradizionali, Pio VIII era talvolta accomodante. Così mitigò il regime di polizia instaurato da Leone XII nello Stato
Pontificio e introdusse un certo numero
di intelligenti cambiamenti in campo
economico e sociale. Restò sempre molto legato a Cingoli, di cui fu munifico
benefattore, come dimostra soprattutto
il dono, eccezionalmente concesso, alla
chiesa cattedrale e al Capitolo della sua
città di origine, della Rosa d’oro, fatta da
lui recapitare dal vescovo di Ripatransone, il cingolano Filippo Appignanesi.25
Morì a Roma il 30 novembre 1830 e fu
sepolto nella basilica di San Pietro sotto il
monumento funebre, di stile neoclassico,
progettato da Pietro Tenerani nel 1857.
Santi e Patroni
Oltre il patrono Sant’Esuperanzio, la cui
festa si celebra il 24 gennaio, Cingoli
venera la compatrona Santa Sperandia.
Originaria di Gubbio, dopo vita eremitica in vari luoghi, entrò nel monastero di San Michele a Cingoli dove vestì
l’abito benedettino e fu eletta badessa.
Favorita da visioni celesti e dedita alla
vita di preghiera e di ascesi fu di esempio di perfezione per la comunità monastica e la città. Morì l’11 settembre del
1276. Nel 1325 gli abitanti di Cingoli
la elessero loro compatrona. Il suo corpo incorrotto si venera nel santuario che
porta il suo nome e che è meta di devoti
pellegrinaggi e centro di spiritualità e di
preghiera. Se ne celebra la festa il giorno
11 settembre. Compatrono di Cingoli
211
Stallo del coro del canonico Francesco Saverio Castiglioni
è anche San Bonfilio, vescovo e monaco. Nato in Osimo, visse tra il 1050 e il
1115. Fu abate di Santa Maria di Storaco
(Osimo) e vescovo di Foligno. Dopo una
lunga esperienza in Terra Santa, dove si
era recato al seguito della crociata, desideroso di condurre vita eremitica, rinunziò all’episcopato e visse solitario nella
località di Santa Maria della Fara, presso
Cingoli. San Silvestro gli dedicò il monastero da lui ivi fondato e ne scrisse la vita.
La festa si celebra il 28 settembre. Infine
si ricorda il 22 marzo San Benvenuto, vescovo. Nato in Ancona nel 1188, Benvenuto Scotivoli studiò diritto a Bologna;
fu cappellano pontificio, arcidiacono
d’Ancona, Governatore della Marca e vescovo di Osimo (1264), la cui circoscrizione comprendeva Cingoli. Appartenne
al primo Ordine dei Frati Minori. Uomo
di governo, di riforma e autentico pastore, a Cingoli nel 1274 ordinò sacerdote
San Nicola da Tolentino. Morì nel 1282.
Il suo corpo si conserva nel mausoleo
della cattedrale di Osimo.26
212
NOTE
Cesare, De bello civili I, XV, 2.
Fanciulli 1762; Prete 1983, pp. 177-183; Avarucci 1986, pp. 201-212, passim.
3
Raffaelli 1762; Christianopulus 1771; Pennacchioni 1978.
4
Prete 1983, pp. 183-185.
5
Avarucci 1986, pp. 212-216.
6
Santarelli 2007, p. 223. Anche l’ipotesi formulata da Pennacchioni circa
la presenza di un tratto di muro romano nella parete destra della chiesa di
Sant’Esuperanzio appare non accettabile, perché il materiale lì osservato sembra
essere materiale di spoglio riportato e utilizzato in quel luogo.
7
Cfr. Chiesa Cattedrale di Santa Maria 1994, p. 57.
8
Raponi 2002, vol. II, p. 1489.
9
ASCC, vol. 55 (1617-1622); ASCC, vol. 65 (1654-1); Sacre visite 1726-1858
1979, p. 166. Le notizie relative alla costruzione della nuova chiesa sono desunte
da questo volume che contiene gli atti delle visite pastorali.
10
Grimaldi 2002.
11
Sacre visite 1726-1858, 1979, pp. 166-167.
12
Cruciani 2009, p. 48.
13
Sacre visite 1726-1858, 1979.
14
Si fornisce il testo dell’epigrafe nella traduzione italiana: “A Pio VIII Pontefice
Massimo / illustre cittadino protettore emerito / per la cui cura il collegio dei
canonici / ha acquistato nuovo prestigio, / la cattedrale è stata dotata di numerosi
doni sacri, / l’eredità della famiglia Cima arricchita di redditi, / ogni cosa, infine,
innalzata alla somma dignità, / il Capitolo dei Canonici / nobilitato e accresciuto
per la sua benevolenza e liberalità / al padre comune benignissimo / che per più
anni ha onorato / come suo prevosto / per aver egli recato per la prima volta in
patria / il lustro della sacra potestà, / per i molti altri onori ricevuti, / perché
all’uomo famoso dovunque / non mancasse l’onore nella sua patria / dedicò
questa memoria dopo la morte.”
15
Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1827, pp. 332-333.
16
“Nell’anno millenovecento trentanovesimo dopo la nascita di Cristo, /
diciassettesimo della rivoluzione fascista, / questa chiesa cattedrale per tanti secoli
1
2
disadorna / ora risplende con arte di dipinti, decorazioni e vetrate, / auspici il
vescovo Monalduzio dei conti Leopardi e il prevosto Gaetano Costantini / uniti
nel cuore e nelle spese con il collegio dei canonici, / con gli amministratori
comunali e con i concittadini. / Quest’opera insigne dedicata alla Patrona di
Cingoli / nel giorno consacrato alla Madre di Dio Assunta in cielo, / è affidata
all’animo grato dei posteri.”
17
“A Dio Ottimo Massimo. / Rendiamo grazie a San Nicola da Tolentino / che
ritornò a Cingoli dove fu ordinato sacerdote e qui rimase dal 17 al 27 aprile
1968 / ed ebbe tutta la diocesi pronta ad apprendere dalle parole di Dio / ciò
che con spirito e virtù ammirabili / i missionari della “Pro civitate Christiana”
/ predicarono prima del secondo congresso eucaristico diocesano / nel XX anno
dell’episcopato dell’eccellentissimo Silvio Cassulo / Amministratore apostolico
della Diocesi di Cingoli.”
18
Per il decreto della Congregazione dei vescovi cfr. Archivio Storico della
Cancelleria Vescovile di Macerata: Nuova Diocesi, documenti 1986. Congregatio
pro episcopis Maceratensis, Tolentinae, Recinetensis, Cingulanae et Treiensis de plena
dioecesium unione decretum. Per il decreto esecutivo del vescovo Carboni, cfr.
Archivio Storico della Cancelleria Vescovile di Macerata: Unione delle Diocesi,
Decreto di unione delle diocesi, 30 gennaio 1987.
19
Sacre visite 1726-1858, 1979, pp. 175-177; Pennacchioni 1994, p. 75-77;
Annuario Interdiocesano 1973.
20
Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1827, p. 335.
21
Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1777, pp. 175-176.
22
Alfei, Gozzoli 2007, p. 38.
23
Fusi Pecci 2005.
24
Le brevi note che seguono sono desunte da Kelly 1995, pp. 511-512. Cfr.
gli ampi studi di storici locali: Fusi Pecci 1965; Pennacchioni 1994; e più
recentemente Marozzi 2000, pp. 305-308, con ampia e aggiornata bibliografia.
25
Pennacchioni 1994, pp. 235-245.
26
Per queste brevi biografie cfr. I Santi delle Marche 1967, pp. 43-44; 94-95; 91;
127-128; cfr. anche Cartechini 2001, pp. 269-314.
CRONOLOGIA
553-561 Cingoli è sede vescovile con la presenza del vescovo Giuliano.
Alto Medioevo (?) La “pieve di Santa Maria” è costruita fuori dalla cinta muraria.
1538 (13 giugno) La pieve di Santa Maria è elevata a prepositura e collegiata da Clemente VII.
1619-1654 Costruzione a spese del Comune di una nuova chiesa sulla piazza maggiore su disegno di A. Passari di Pergola.
1664 La collegiata di Santa Maria passa ai Padri dell’Oratorio di San Filippo Neri (attuale chiesa di San Filippo recentemente restaurata).
1725 (20 agosto) Cingoli riottiene la sede vescovile è unita aeque principaliter con Osimo; la Collegiata è elevata a cattedrale,
restando sempre proprietà del Comune.
1769 La cattedrale è aggregata alla Basilica di S. Pietro in Vaticano con la concessione di molte indulgenze da parte del papa Clemente XIV.
1795-1800 Il canonico Francesco Saverio Castiglioni (futuro Pio VIII) è prevosto del Capitolo della cattedrale.
1932 Congresso eucaristico diocesano.
1939 Abbellimento della cattedrale ad opera del pittore cingolano Donatello Stefanucci e dei sanseverinati Olivio Luchetti e Umberto Catalini.
1964-1975 La diocesi di Cingoli, separata da quella di Osimo, è retta dai vescovi di Macerata e Tolentino Silvio Cassulo ed Ersilio Tonini,
quali Amministratori Apostolici.
1968 Congresso eucaristico diocesano.
1976 Cingoli ritorna diocesi autonoma con il vescovo Francesco Tarcisio Carboni.
1986 (30 settembre) Cingoli è unita insieme alle altre quattro diocesi limitrofe per formare un’unica diocesi;
la cattedrale assume il titolo e ruolo di concattedrale.
CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA
213
UNA CHIESA DELLA CONTRORIFORMA
A CINGOLI: SANTA MARIA ASSUNTA
Stefano D’Amico
La pieve di Santa Maria
L’esistenza della diocesi di Cingoli è documentata fin dal VI secolo,1 ma della
primitiva cattedrale, che probabilmente
sorgeva all’interno della città romana di
Cingulum sita sul pianoro di Borgo San
Lorenzo a sud della città, non abbiamo
notizie.2 Nel secolo successivo, durante
le invasioni longobarde, la città progressivamente decadde e venne abbandonata
perdendo la sede vescovile a favore delle
diocesi di Osimo e Camerino. Il castrum
vetus, ricostruito in posizione più elevata
intorno all’attuale piazza Vittorio Emanuele II, ebbe al suo interno una pieve
con il titolo di Santa Maria di cui si ha
notizia fin dal 1230 e i cui resti – parte
della struttura muraria esterna, il portale
e frammenti di affreschi – sono attualmente inglobati nella chiesa di San Filippo. Era la chiesa più importante della
città e il 1° settembre 1461 il vescovo Gaspare Zacchi, con lo scopo di rendere più
solenne il culto divino, la elevò a Collegiata minore aggregandovi un Capitolo
composto da sei canonici.3 Il 13 agosto
1530, per volere di papa Clemente VII,
i canonici diventeranno dieci più due
‘dignità’ e la Collegiata sarà dichiarata
insigne.4 A partire dal 1481 la chiesa fu
ristrutturata e dotata di un nuovo campanile, di cui resta la base addossata all’abside, ma con il passare del tempo, “per
l’accresciuta popolazione, poiché molte
famiglie dei castelli cingolati si erano
trasferite in città, era addivenuta troppo
piccola in modo speciale nel tempo della
predicazione quaresimale, ed era comune
Pianta della città di Cingoli con l’antica Cingolum
desiderio che se ne erigesse un’altra nella
piazza maggiore, luogo molto centrale e
comodo per la popolazione”.5
L’occasione che dette l’avvio alla costruzione della nuova chiesa fu il quaresimale
tenuto in città nel 1564 da fra Giovanni
Maria Rustichelli di Firenze seppe trovare
le parole giuste tanto da indurre il Consiglio di Credenza del Comune di Cingoli,
nella seduta del 19 marzo, a nominare una
commissione per la scelta del luogo più
idoneo e dell’architetto cui affidare il progetto. Fu scelta l’area più rappresentativa
della città, la zona sud della piazza pub-
blica, proprio davanti al quattrocentesco
Palazzo comunale e alla trecentesca torre
civica, occupata da alcune case e una piccola chiesa dedicata al Santo Salvatore di
proprietà del consigliere comunale Raffaele Simonetti che pubblicamente dichiarò
di accontentarsi, quale compenso per la
cessione, “delle perizie che si fossero state fatte”.6 I lavori tuttavia non iniziarono
per il sopraggiungere di altre più urgenti
necessità – di cui ci dà conto il canonico
Guglielmo Malazampa – obbligando la
Comunità cingolata a differire il progetto
di circa mezzo secolo.
214
Stefano D’Amico
Facciata principale, 1654
La cattedrale di Santa Maria
Il Consiglio Generale di Cingoli tornò
sull’argomento il 1° maggio 1615 quando ripropose all’ordine del giorno la costruzione di una “nuova chiesa d’onesta
grandezza e magnificenza nella piazza ove
oggi è San Salvatore”. Di questa piccola
chiesa, forse un oratorio della famiglia
Simonetti, non conosciamo l’origine, ma
sappiamo che era stata restaurata nel 1535
con inserti rinascimentali in facciata: un
portale rettangolare in pietra, una nicchia con il busto in marmo del Salvatore
e lo stemma gentilizio dei Simonetti.7 Fu
immediatamente costituita una “commissione di autorevoli cittadini” che aprì
una pubblica sottoscrizione, quantunque
il Comune di Cingoli, che volle la chiesa,
la finanziò continuamente con assunzione di mutui, cessione di terreni incolti a
privati e la vendita di una casa a Loreto
che era a disposizione dei cittadini che si
Lato est, facciata della chiesa del Santo Salvatore,
restauro 1535
recavano in pellegrinaggio al Santuario.8
Il progetto della chiesa fu affidato all’architetto – o forse, più correttamente, al
capomastro – Ascanio Passeri di Pergola,
presumibilmente al suo primo incarico
di una certa rilevanza. Demolite le preesistenze, ad eccezione della facciata della
chiesa che sarà inglobata in una parete
dell’abside orientale della nuova fabbrica,9 il 7 luglio 1619, monsignor Rutilio
Matuzio, vicario generale del vescovo di
Osimo, poteva presenziare la cerimonia
della posa della prima pietra della nuova
chiesa.10
Problemi di ordine economico incisero
probabilmente sulla qualità strutturale
dell’edificio e ne rallentarono la costruzione, ma il peggio doveva ancora venire,
ed infatti, ultimata la cupola e la copertura del tetto, quando i lavori erano praticamente conclusi, un rovinoso crollo,
dovuto a “non meglio specificate scelte
eccessivamente ardite del progettista”,
costrinse i cingolani a ricominciare da
capo. Non è possibile stabilire quali siano state queste “scelte ardite”, il Malazampa dice che probabilmente si trattò
di un incidente annunciato “perché anche i periti dell’arte ne avevano parlato
prima che avvenisse la rovina della chiesa” e comunque ne scaturì una causa tra
il Comune e l’architetto Ascanio Passeri,
ritenuto responsabile del crollo, intentata davanti alla Sacra Congregazione di
Roma di cui non conosciamo l’esito.11 Il
Malazampa ci informa anche dello “spostamento del muro perimetrale nel lato
ovest” che causò la perdita di “una cuppola di pianta esagonale con nervature
simili a quelle che sono nelle volte delle
vicine Cappelle del SS. Sacramento del
Redentore e del presbiterio” e continua
dicendo che “probabilmente per togliere
la spinta esercitata verso la parte perico-
CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA
215
Veduta di Cingoli, in Avicenna 1644
lante, essa venne abbattuta lasciandosene
però quasi intatta la struttura inferiore
la quale presenta traccie di stucchi”.12 Il
crollo probabilmente si verificò prima
del 1634 perché da questa data, e fino al
1644, Ascanio Passeri sarà impegnato nel
cantiere per la ricostruzione della chiesa di San Medardo ad Arcevia e poiché
sembra poco probabile che abbia potuto
seguire contemporaneamente due fabbriche di tale impegno, così come sembra
poco plausibile che sia potuto tornare
dopo il 1644, possiamo dedurne che fu
esautorato dalla comunità di Cingoli. La
parte strutturale dei lavori furono conclusi, dopo trentacinque anni di lavoro,
nel 1654 e il 27 ottobre il vicario del vescovo di Osimo, con una solenne messa celebrata nell’altare maggiore aprì la
chiesa al pubblico pur mancando il coro,
la decorazione degli altari e il previsto rivestimento in pietra della facciata.13
Non abbiamo i disegni dell’epoca – che
forse giacciono nell’archivio della diocesi
di Osimo – ma l’edificio è già registrato
nella Pianta topografica di Cingoli pub-
blicata nel 1644 da Orazio Avicenna in
Memorie della Città di Cingoli14 dove con
il numero 17 – su 104 edifici o luoghi
segnalati – è identificata “S. Maria chiesa
Matrice, ò Domo nuovamente edificato”.
Il 3 agosto 1659 la chiesa fu concessa in
uso perpetuo ai canonici di Santa Maria
della Pieve che, dopo lunghe trattative
con il Comune, vi si trasferirono alla fine
di maggio del 1660. Il 30 agosto 1693 il
cardinale Opizzo Pallavicini, vescovo di
Osimo, la consacrò ufficiale ed infine, il
20 agosto 1725, papa Benedetto XIII la
216
Stefano D’Amico
elevò a cattedrale della reintegrata Diocesi di Cingoli e a ricordo dell’evento fu
posta sopra al portale principale una cartella in pietra con iscrizione.15
La decorazione barocca
Dalla vecchia collegiata furono trasportate nella nuova le pale degli altari di San
Carlo, di San Albertino e della Madonna,
i vecchi sedili del coro, la reliquia di San
Candido e le suppellettili, ma il Comune di Cingoli, che restava proprietario
dell’edificio, per completare la decorazione della chiesa emanò avvisi pubblici
invitando i cittadini a ornare le cappelle
in cambio del giuspatronato sulle stesse.16
Fu così che, tra la fine del XVII secolo e
per tutto il successivo, le cappelle furono completamente rivestite da sontuosi
apparati decoratavi di gusto barocco con
ampio uso di legno intagliato e soprattutto di stucco, materiali poveri, preferiti ai più costosi marmi, che nelle chiese
di Cingoli avrebbero dato risultati di
sorprendente bellezza.17 All’appello risposero le famiglie più importanti della
nobiltà cingolata – Raffaelli (cappella di
San Gaetano, 1662), Silvestri (cappella
delle Reliquie, 1665), Silvestri, Puccetti e
Crescioni (cappella di S. Liborio, 1666),
Cima (cappella del Santissimo Crocifisso,
1669) – e la Confraternita del Santissimo
Sacramento che nella cappella omonima
pose la pala d’altare con Santa Caterina
d’Alessandria proviene dalla Pieve di Santa Maria.18 L’apparato decorativo barocco
fu completato con due scenografici altari
sulle pareti di fondo del transetto, con statue ed esuberanti fastigi in stucco, e un
dossale in legno intagliato e dorato sopra
l’altare maggiore databile al 1758 con la
statua della Madonna di Loreto e sei scene
della Vita della Vergine.19
Altro elemento interessante della cattedrale sono i monumenti funebri che,
in assenza delle navate laterali, dove in
genere restavano più ‘nascosti’, sono stati
Portale principale con cartella del 1725
Navata, particolare dello stemma della famiglia Raffaelli
costruiti sui pilastri tra le cappelle, contribuendo a ‘muovere’ l’austera spazialità
manierista dell’impianto architettonico
esprimendo in modo esemplare uno dei
punti programmatici dell’estetica barocca: l’unione delle tre arti maggiori nella
definizione degli spazi architettonici. Per
la pittura si dovrà attendere il XX secolo, mentre la scultura entrò in gioco fin
dalla seconda metà XVIII secolo, con il
suo festoso apparato di materiali diversi
e forme svolazzanti, cornici mistilinee,
volute, festoni, mensole, stemmi e statue. Particolarmente interessanti sono i
monumenti in onore di Francesco Cima
delle Stelle (terzo pilastro a sinistra, 1746)
e del gesuita Luigi Simonetti (parete sinistra dell’abside orientale, 1790) ai quali
corrispondono, simmetricamente, quello del conte Ugolino Francesco Benvenuti (1760) e quello del cardinale Raniero Simonetti (1750). L’ultimo ad essere
realizzato, e con un iter che si prolungò
dal 1830 al 1838,20 fu il monumento in
CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA
217
onore di papa Pio VIII Castiglioni (31
marzo 1829 - 30 novembre 1830) posto
sull’ultimo pilastro a sinistra.
Veduta della cappella del Santissimo Crocifisso
Gli ultimi interventi
Con l’elezione al soglio pontificio del Castiglioni si pose mano al completamento
del rivestimento esterno della facciata. I
lavori iniziarono immediatamente, ma
la morte prematura del papa comportò
la definitiva sospensione dei lavori.21 Da
quel momento non si hanno più notizie
della cattedrale fino al 1937-1939 quando il Capitolo decise di completare e rinnovare l’interno con la costruzione della
balaustra del presbiterio, del pavimento,
delle vetrate e soprattutto con la decorazione pittorica affidata ai decoratori Olivio Luchetti e Umberto Natalini di San
Severino Marche e al pittore Donatello
Stefanucci di Cingoli.22 Ai primi spettarono la dignitosa decorazione in monocromo, vagamente baroccheggiante, delle
volte dell’aula e del transetto con specchi
mistilinei, cartelle, festoni e gli stemmi
di Pio XI e del vescovo Monalduzio Leopardi sulla controfacciata; al secondo le
deboli pitture del catino absidale.
La figura e l’opera di Ascanio Passeri è
ancora tutta da studiare, l’esigua bibliografia che lo riguarda lo indica quasi
sempre come capomastro-imprenditore
e direttore dei lavori. E proprio in questa veste, tra il 1634 e il 1644, dopo
l’infelice prova data a Cingoli, è impegnato nella ricostruzione della Collegiata
di San Medardo ad Arcevia, progettata
dall’architetto Michele Buti, per la quale
nel 1636 diede dei disegni – una pianta, una sezione e un prospetto – segno
che le sue competenze erano superiori
a quelle di un semplice muratore.23 Nel
1649 lo troviamo a Modena nel cantiere per la costruzione della cupola della
chiesa teatina di San Vincenzo, progettata da Bartolomeo Avanzino (1608-1658)
e con la direzione dei lavori affidata al
218
Stefano D’Amico
Monumento funerario di Luigi Simonetti, 1790
giovanissimo architetto modenese Guarino Guarini (1624-1683) al suo primo
importante incarico. Nel 1651 Ascanio
fece un esposto al duca Francesi I d’Este
esprimendo seri dubbi sulla stabilità della struttura e anche in questa occasione
propose un suo disegno che “fu accettato
dai Padri et anco approvato dal Avanzini”, ma per disaccordi sul compenso, i
lavori furono sospesi e il capomastro,
volendo il saldo delle opere realizzate e
sicuro che il disegno dato era “bonissimo”, chiamava a testimone lo stesso “Padre Guerrini”.24 Nel mese di maggio del
1671 “Ascanio Passeri e nipoti, ingegneri” – il nostro doveva avere quasi ottanta
anni – furono chiamati ad Urbino nella
fabbrica del duomo per “esaminare i fondamenti della facciata e fare il disegno”,
ma il progetto non ebbe seguito perchè
nel mese di agosto risultano pagamenti
ad un architetto riminese.25
Sembra che il Passeri sia intervenuto
Veduta della navata verso il presbiterio
anche nella ristrutturazione del palazzo
Pubblico di Castel Colonna in provincia
di Ancona,26 ma non è dato sapere altro.
La cattedrale di Cingoli è una esemplare chiesa della controriforma cattolica
che fonde lo spazio longitudinale della
grande aula unica con tre cappelle per
lato, con lo spazio centrale della crociera
cupolata a pianta quadrata che si dilata
nel transetto e nell’abside. Il modello di
questa tipologia, che successivamente
sarà sviluppato da Pietro Berrettini da
Cortona, è unanimemente riconosciuto
nella chiesa dei gesuiti del Gesù a Roma
progettata da Giacomo Barozzi da Vignola nel 1568. Ascanio Passeri, quando
progetta la cattedrale di Cingoli, è certamente al corrente di tali ricerche – d’altra
parte era passato quasi mezzo secolo – ma
sembra voglia risalire fino all’origine del
CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA
Veduta delle arcate delle cappelle laterali
rinascimento e recuperare uno schema
sperimentato già alla fine del XIII secolo
da Arnolfo di Cambio, e poi ampliato da
Francesco Talenti a metà del secolo successivo, nella chiesa fiorentina di Santa
Maria del Fiore. L’architetto senese, staccandosi da tutte le precedenti esperienze
medievali, e ispirandosi al Battistero di
San Giovanni che probabilmente riteneva di epoca tardo-antica, aggiungeva alle
classiche tre navate della tradizione cristiana una immensa cupola a pianta ottagonale dilatata in tre nicchioni-absidi
a profilo semiottagonale sporgenti dal
perimetro, tipica dell’antica architettura
romana. Nelle Marche l’unico modello a
disposizione di Ascanio poteva essere la
Basilica della Santa Casa di Loreto impostata fin dal 1470, con la non irrilevante
differenza che le absidi lauretane, come
219
quelle della chiesa di San Francesco ad
Ascoli, sono trilobate e quindi sostanzialmente ancora gotiche. A Cingoli,
Ascanio, media l’impianto arnolfiano
con i più ortodossi schemi vignoleschi e
bramateschi, copre la navata unica con
una volta a botte a tutto sesto, imposta la
crociera a pianta quadrata e la copre con
una volta a vela, molto simile alla classica cupola, copre le absidi con catini ed
infine scandisce le pareti con un filologico ordine architettonico dorico addossato a poderosi pilastri in muratura che
inquadrano gli archi a tutto sesto delle
cappelle. Anche il fregio dell’imponente
trabeazione, correttamente alternato con
metope e triglifi, richiama la grandezza,
la solidità e l’austerità delle architetture
romane, ora simbolo non dei Cesari, ma
del primato di Pietro e della Chiesa, ed è
funzionale al programma estetico e teologico del manierismo accademico dei papi
della controriforma – almeno fino a Gregorio XV (1621-1623) – che consideravano l’arte un indispensabile strumento
per la restaurazione cattolica dopo il periodo di crisi connesso alla Riforma protestante. La grande navata unica accoglie
quanti più fedeli possibili e permettere
loro si sentire e vedere comodamente la
catechesi e la manifestazione del divino,
l’imponente macchina dell’altare maggiore in fondo all’abside ha la funzione di
creare una cornice di gloria per la celebrazione, mentre le cappelle laterali, ognuna
dedicata ad un santo, sono luoghi propizi alla celebrazione delle messe private e
alla preghiera. Il gusto barocco, più gaio
e sensuale, espressione di una chiesa oramai sicura di se e che tradizionalmente
inizia a diffondersi con il pontificato di
Urbano VIII (1623-1644), si affermerà
nella cattedrale di Cingoli solo nelle sei
cappelle e nei due altari del transetto con
abbondanza di angeli svolazzanti, colonne tortili, cartocci fluenti, nastri sinuosi
e arabeschi fiammeggianti.
220
Veduta della crociera
Stefano D’Amico
CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA
221
NOTE
Avicenna 1644. Zaccaria 1764. Christianopulus 1771. Compagnoni 1782.
Osservazioni critiche 1796. Cappelletti 1848.
2
Beni archeologici 2004 pp. 81-82. Materiale romano di reimpiego è riconoscibile nelle pareti nord e sud dell’antica Chiesa di San Lorenzo che ha dato il
nome al borgo, ma non è possibile dire altro.
3
Il termine pieve (da plebs, plebis = plebe) indicava una chiesa con battistero
(detta anche chiesa matrice o plebana) posta a capo di una circoscrizione territoriale civile e religiosa alla quale erano sottoposte altre chiese e cappelle prive di
battistero. Le pievi si diffusero nel V secolo, soprattutto nelle aree di campagna,
ma il fenomeno interessò anche centri abitati di una certa importanza lontani
dalla sede vescovile, per venire incontra al popolo che lì poteva ricevere tutti i
sacramenti più importanti, a partire dal battesimo, cosa che in origine ciò era
possibile solo nella cattedrale.
Il termine capitolo indicava la riunione giornaliera dei monaci nella Sala capitolare dove si leggeva un “capitolo” della regola dell’ordine e si discuteva dei
problemi della comunità. In seguito passò ad indicare un gruppo di sacerdoti
del clero diocesano al servizio della cattedrale che si dava una regola comune
allo scopo di rendere più dignitoso e solenne il culto divino. I membri di un
capitolo si chiamavano canonici (dal greco kanón, “regola”) e tra i vari obblighi
che avevano vi era quello di recitare insieme la liturgia delle ore, o per lo meno
alcune delle sue parti, secondo quanto stabilito dai propri statuti. Per estensione
il termine indicava anche la riunione ufficiale dei canonici.
La collegiata era una chiesa di una certa importanza, diversa dalla cattedrale e
in genere in città prive di sede vescovile, nella quale era istituito un Collegio o
Capitolo di canonici, sempre allo scopo di rendere più solenne il culto a Dio. I
canonici avevano diritto alle insegne, allo scranno in coro e ad alcuni privilegi
tra i quali una rendita (beneficio) individuale. Molto spesso le famiglie nobili
erigevano un canonicato destinando una parte delle loro proprietà alla rendita
ecclesiastica, riservandosi il diritto di patronato, ossia la possibilità di scegliere a
chi spettava il beneficio (molto spesso un membro della famiglia stessa).
4
Pennacchioni 1978 p. 75.
5
Malazampa 1929 p. 5.
6
ASCC 1325-1808, Riformanze, vol. 38 1563-1565. Malazampa 1939 p. 6.
Un’iscrizione, datata 1626 e murata sulla parete destra dell’abside orientale,
ricorda la cessione dell’area. D.O.M./ AEDE S.MI SALVATORIS/ AD DEIPARAE TEMPLVM CONSTRUENDVM/ A SIMONETTIS PATRONIS/
VNIVERSITATI PATRIAE CONCESSA/ SACELLVM HOC IN EIVS
AEDIS LOCVM/ SVBSTITVI ET ANTIQVVM IVS PATRONATVM/
TRANSFERRI/ ABB. ANNIBAL SIMONETTVS RECTOR/ IO. PETRI
1
FVNDATORIS EX FRATRE/ TRINEPOS/ CAVIT CVRAVITQ/ ANNO D.
MDCXXVI.
7
Malazampa 1929 p. 9 lo attribuisce, con dubbio, a Girolamo Lombardo. L’architrave reca l’iscrizione SALVATOR. MVNDI. SALVA. NOS.
8
Malazampa 1929 p. 10.
9
Malazampa 1929 pp. 8, 9. Perrone/ Vignati 1979 p. 92. Maran 1979 p. 165.
10
ASCC 1325-1808, Riformanze, vol. 55 1617-1622. Malazampa 1929 p. 9.
11
Malazampa 1939 p. 12 dice: “Quale esito abbiano avuto le indagini, quali
fossero i responsabili non ci è dato conoscere poiché, né le Riformanze, né i
verbali del Capitolo, né altri documenti ne parlano”. Tuttavia nuove ricerche
presso l’Archivio Diocesano di Osimo e l’Archivio Segreto Vaticano potrebbero
colmare questa lacuna.
12
Malazampa 1939 pp. 17,18.
13
ASCC 1325-1808, Riformanze, vol. 655, anni 1651-1655. Malazampa 1929
p. 12. Maran 1979 p. 166. Stessa sorte toccherà, nel secolo successivo, alla cattedrale di Macerata.
14
Avicenna 1644.
15
Malazampa 1929 pp. 12-16. L’iscrizione dice: BENEDICTO XIII/ B. CINGVLANA (illeggibile)/ DIGNITATI (illeggibile) ISSIME RESTI (illeggibile) /
S.P.Q.C. AN. (illeggibile) MDCCXXV/ P. P.
16
Malazampa 1939 pp. 16,17.
17
Ricordiamo la straordinaria ristrutturazione interna della chiesa di San Filippo ad opera di Gianbattista Contini, e i coretti a balconcino, la cantoria e gli
altari delle chiese di Santa Caterina e di Santo Spirito.
18
Malazmpa 1929 pp. 16, 17.
19
Vedere iscrizione sul pilastro a destra dell’arco trionfale che immette nel presbiterio.
20
Pennacchioni 1994 p. 108.
21
Pennacchioni/ Corbella 1979 p. 378.
22
ACC, busta 74, fasc. Restauri della Cattedrale 1938. Malazampa 1929 p. 18.
Pennacchioni/ Corbella 1979 p. 378. Vedere la lapide nell’abside occidentale. Le vetrate furono realizzate dal romano Giulio Cesare Giuliani su disegno
dall’architetto cingolano, ma residente a Roma, Cesare Emidio Bernardi.
23
Costanzi 1997 pp. 7-8. Montevecchi 1997 p. 141. Santini 2005 pp. 207,
211. I disegni sono conservati nell’Archivio storico comunale di Arcevia in un
manoscritto del 1636.
24
Carboneri 1970 pp. 51-52.
25
Negroni 1993 p. 120.
26
Cruciani 2009 p. 48.
CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA
LE CAPPELLE GENTILIZIE DELLA CHIESA
DI SANTA MARIA ASSUNTA A CINGOLI:
DIPINTI, STUCCHI E INTAGLIO LIGNEO
Silvia Blasio
Per la decorazione della nuova chiesa di
Santa Maria Assunta, eretta con l’autorizzazione concessa il 19 agosto del 1619 da
papa Paolo V Borghese1 nel luogo in cui
sorgevano l’antica pieve di Santa Maria
Assunta e la chiesetta di San Salvatore,
e terminata nel 1654, il contributo delle
nobili famiglie cingolane fu determinante: il Consiglio Comunale infatti, su proposta di Francesco Simonetti deliberò la
pubblicazione di avvisi che invitassero i
cittadini a far decorare le cappelle della
chiesa, di cui avrebbero ottenuto il giuspatronato.2 Cinque delle otto cappelle
vennero assegnate tra il 1662 e il 1669
durante le sedute del Consiglio Comunale verbalizzate nelle Riformanze.3 Per
le botteghe artistiche locali, spesso di ottima pratica e particolarmente attive fin
dalla metà del Cinquecento specialmente nell’ambito dello stucco e dell’intaglio
ligneo, si trattò di una nuova e stimolante occasione per dimostrare la qualità artistica dei propri manufatti, molti
dei quali, in parte anche documentati,
sono ancora presenti nella cattedrale.
Essi attestano nell’orientamento stilistico
sostanzialmente classicista degli artefici
cingolani la predilezione per un barocco moderato, ancora condizionato dalla
maniera tardocinquecentesca, che filtra
gli esempi romani da cui spesso dipende
con la stessa sobrietà che caratterizza le
linee severe dell’architettura di Ascanio
Passari di Pergola, autore del progetto
della chiesa. Secondo una tendenza condivisa anche dagli artefici di altre aree
geografiche della regione, le maestranze
Sant’Albertino e una devota, secolo XVII; Giuseppe Antonio Mogliani, cornice in stucco
223
224
cingolane attive nella cattedrale sfuggono al principio tipicamente barocco
dell’unità delle arti visive, pur nella profusione di scagliole e marmi colorati nei
monumenti a parete e negli altari, disciplinando l’esuberanza decorativa della
scultura in stucco con schemi simmetrici
spesso stilizzati ed evitando il suo prevalere sulle linee architettoniche.
La topografia dei giuspatronati, a
trent’anni di distanza dalla consacrazione della nuova chiesa seicentesca, è efficacemente sintetizzata nel Tomo degli alberi genealogici delle Famiglie Cingolane4
di Francesco Maria Raffaelli in cui, alla
data 1683, gli otto altari della chiesa di
Santa Maria Assunta e i nomi delle famiglie cui essi spettavano sono elencati
a partire dalla cappella maggiore, e poi
nelle due navate, in cornu evangelii e in
cornu epistolae, talvolta menzionando
sinteticamente alcuni dei loro arredi, o
eccezionalmente, anche il nome di un
artista, in questi casi con brevi aggiunte
successive o note a margine: “Altar Maggiore Compagnia dei nobili del SS. Sacramento due quadri moderni later[ali] /
Vang. San Salvatore famiglia Simonetti /
SS. Crocifisso Cima di Strada Maggiore
/ S. Liborio Silvestri e Crescioni / Pist.
Assunta Marchesi Silvestri / Madonnina
Cima S. Spirito /S. Gaetano Rafaelli del
Fanelli / S. Albertino Comune di Cingoli / In Sagrestia S. Tommaso d’Aquino Campelli del Fanelli”. La cappella di
Sant’Albertino è l’unica sotto il patronato pubblico della comunità di Cingoli,
mentre non viene menzionata la cappella
del Battesimo, spettante al Capitolo della
Cattedrale. Per il resto la situazione del
1683 si rispecchia abbastanza fedelmente
nella chiesa attuale e nei suoi arredi, che
rispetto alla seconda metà del Seicento
hanno subito cambiamenti non radicali
e spesso documentabili anche con l’aiuto
dei resoconti delle visite pastorali.
Partendo dall’ingresso la prima cappella
Silvia Blasio
Pier Simone Fanelli, Morte di san Gaetano
sulla destra è appunto quella dedicata a
Sant’Albertino abate, appartenente alla
comunità di Cingoli; la tela sull’altare
forse fu tra le prime a decorare la nuova
chiesa subito dopo la consacrazione, es-
sendovi stata trasportata nel 1659 dalla
chiesa di San Filippo insieme ad altre opere.5 Poiché Albertino, priore dell’abbazia
di Fonte Avellana morto nel 1294 era
considerato protettore contro le malattie
CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA
225
Santa Rosalia, stucco, secolo XVII
epatiche e le ernie inguinali e ombelicali,
è probabile che il quadro, come una sorta
di grande ex voto, rappresenti una devota
che invocando il santo, canonizzato però
solo nel 1782, avesse ottenuto una miracolosa guarigione per il figlio. L’elegante
figura serpentinata della donna, l’incisiva
angolarità dei panneggi modellati dalla
luce nel candido abito camaldolese di
Albertino e la raffinata gamma di tinte
fredde lasciano intravedere una componente emiliano-parmense nella cultura
di questo anonimo artista seicentesco.
Solamente nel 1719 tuttavia il dipinto fu
ornato della magnifica cornice in stucco
costituita da un rigoglioso doppio tralcio
vegetale a foglie d’acanto dallo sviluppo
simmetrico abitato da tre putti, opera di
Giuseppe Antonio Mogliani, uno scultore noto fin dal 1687 anche per lavori
d’intaglio ligneo.6
Giacomo Barteloni, pulpito, 1743; intagliatori cingolani, bancone per il magistrato, secolo XVII
La seconda cappella entrando in cornu
epistolae è dedicata a San Gaetano e fu
concessa nella seduta consiliare del 14
marzo 1662 a Nicola Antonino Raffaelli,
il quale in cambio si impegnava a spen-
dervi cento scudi in tre anni e a farvi dipingere un quadro raffigurante il santo.7
Sull’altare rivestito di marmi colorati tra
due colonne corinzie vi è infatti una tela
di Pier Simone Fanelli con la Morte di
226
san Gaetano, la Vergine col Bambino, san
Giuseppe, san Pietro, san Paolo e angeli.
Il Fanelli (Ancona 1641-Recanati 1703)
anconetano di nascita e di formazione,
essendo allievo di Domenico Peruzzini, si
trasferì presto a Recanati dove visse fino
alla morte e dove secondo Diego Calcagni “aprì l’Accademia del disegno nella
città per mantenere in essa il buon gusto
di sì nobil arte”.8 Di fatto Fanelli fu attivissimo soprattutto nel basso maceratese,
dove la sua pittura capace di coniugare
originalmente influssi romani ed emiliani fu particolarmente apprezzata dai
committenti locali. L’attività a Cingoli
ruota intorno all’importante incarico degli affreschi e di una tela nella chiesa di
San Filippo, lavori condotti tra il 1691
e il 1694 e a questi anni, o al decennio
precedente, risalgono anche le altre opere
del Fanelli nelle chiese cingolane. Nella
ricerca di “risoluzione, e grandiosità di
comporre, e di disegnare”9 ma facendo
resistenza al dinamismo barocco, Fanelli
nella Morte di san Gaetano definisce plasticamente le figure dai nitidi contorni e
le affastella in uno spazio angusto senza che il movimento trascorra dall’una
all’altra. È molto difficile datare questa
opera su basi stilistiche, visto che lo sviluppo della carriera artistica del pittore è
ancora tutto da ricostruire, soprattutto ai
suoi esordi; qualche affinità si nota con il
San Filippo nelle catacombe in San Filippo a Recanati, anteriore al 166610 e questa cronologia avvicinerebbe il dipinto al
1662, anno della concessione del giuspatronato ai Raffaelli, ponendolo tra i più
antichi finora noti. Tuttavia, poiché Fanelli a quel tempo aveva solo ventun’anni
e iniziava allora la sua attività autonoma
a Recanati, mentre i suoi rapporti con
Cingoli si situano in anni più avanzati,
è opportuno al momento ritenere questa
data solo un termine post quem per l’esecuzione del quadro.
La cattedrale di Cingoli è ricca di monu-
Silvia Blasio
Stuccatori cingolani, altare del Santo Salvatore, 1721
menti e lapidi a parete dedicati ai personaggi più illustri della città, nei quali si
esprime la fantasia decorativa dei maestri
specializzati nella lavorazione del marmo
e della scagliola. Il primo lo si incontra
tra la seconda e la terza cappella della na-
vata destra ed è una lapide in memoria
del conte cingolano Ugolino Francesco
Benvenuti datata 1760, una lastra in
marmo bianco profilata di grigio su cui
è l’iscrizione,11 con cornice mistilinea in
marmo giallo e coppie di volute che for-
CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA
mano in alto un fastigio con al centro lo
stemma gentilizio.
La terza e ultima cappella della navata
destra, sotto il giuspatronato Cima di
Santo Spirito è così descritta nel resoconto della Visita del 1726: “Nella navata Cornu Epistolae vi è una Cappella
ben lavorata di stucco con diverse statue
coll’altare, in cui vi è l’Immagine della
SS.ma Vergine dipinta nel muro detta la
Madonnina, con ornamento d’intaglio
di Legno dorato d’avanti, ed è del Sig.
Gaetano Cima”.12 Sull’altare in scagliola
sovrastato da un nuvolario in stucco con
cherubini e con al centro la colomba dello Spirito Santo, vi è un’immagine della
Madonna addolorata in una ricca cornice in legno intagliato e dorato, con due
piedi a zampa di leone poggianti sulla
mensa, e nelle nicchie laterali dall’elegante disegno tardo manierista ornate da
conchiglie, due statue in stucco raffiguranti santa Rosalia (?) a sinistra e santa
Margherita d’Antiochia a destra, opera di
maestranze locali. La nuova immagine
della Madonna addolorata fu collocata
nella cappella nel 1857: essendo ormai
l’antico dipinto sul muro molto rovinato e quasi invisibile “nella Quaresima del
1856, predicando D. Domenico can.co
Cavallini Spadoni gli Esercizi al popolo,
pose in d.o altare un quadro dell’Addolorata in terra la cornice fu fatta eseguire
in S. Severino e dorare a Macerata. Fu
consegnato in dono e collocato il 31 gennaio 1857”.13
Al termine della navata, addossato alla
parete, vi è il pulpito ligneo, la cui esecuzione ad opera di artefici locali è documentata dai pagamenti. I documenti
d’archivio, particolarmente riguardo
all’intaglio ligneo, hanno infatti restituito per Cingoli il quadro di un’attività
molto fervida, purtroppo solo in parte
comprovata da manufatti tuttora conservati, e sostenuta sia dal mecenatismo
delle famiglie nobili, sia come in questo
227
Memoria di Luigi Simonetti, 1790 (particolare)
caso, dalle commissioni delle autorità comunali. Il pulpito in noce dal parapetto
mosso e definito da semplici specchiature
a profilo mistilineo, sorretto da due ampie volute, fu costruito nel 1743 dietro il
pagamento di trenta scudi, da Giacomo
Barteloni, capostipite di una famiglia di
maestri lignari attivi per tutta la seconda metà del secolo. Allo stesso maestro
potrebbero spettare anche i due confessionali con timpano spezzato situati nel
braccio sinistro del transetto, forse identificabili con quelli citati nei pagamenti
emessi nel 1789 in favore degli eredi del
Barteloni.14 Risalgono invece alla seconda metà del Seicento il bancone per il
magistrato collocato sotto il pulpito e
il coro ligneo, forse realizzati da Giulio
Antonucci o da Marino e Giovan Battista Ceteroni, attivi in quegli anni per
il Comune. Opera certa di Nicola Gigli
falegname sono invece un altro bancone
a sei stalli per i salariati del pubblico diviso in due parti – attualmente disposte
sui due lati del pilastro angolare verso il
cappellone sinistro – eseguito nel 1752,
e infine due canterani per conservare i
pontificali in Sacrestia, pagati ventinove
scudi nel 1744.15
Nel braccio destro del capocroce, detto
anche cappellone, vi è l’altare dell’Assunta, sotto il giuspatronato della famiglia
Silvestri, ottenuto dal marchese Federico il 21 settembre 1665,16 una grandiosa struttura architettonica in stucco con
profilature dorate costituita da due coppie di colonne corinzie, tra le quali si affacciano due statue di profeti; le colonne
sorreggono un architrave mistilineo su
cui siedono due angioletti, al centro del
quale, sullo sfondo di un nuvolario, due
angeli ad ali spiegate reggono una corona e un medaglione affiancato in alto da
altri due angioletti, entro cui a rilievo
sono raffigurati Dio Padre e Gesù; sopra
il medaglione, a completare la Trinità,
vi è una raggiera dorata con la colomba
dello Spirito Santo. La fastosa ornamentazione plastica doveva dunque in origine integrare iconograficamente il tema
228
della pala d’altare raffigurante l’Assunta,
oggi sostituita dal dipinto novecentesco
di Donatello Stefanucci con il Discorso
della montagna. Il paliotto d’altare è una
copia in marmo dell’originario paliotto
ligneo, oggi conservato in sacrestia, che
esaminerò più oltre.
Sulle pareti del cappellone in cornu epistolae, l’una di fronte all’altra, vi sono due
edicole in stucco costituite da un drappo
a frange dorate ricadente ai lati in ampie
pieghe piatte, la cui descrizione appare
per la prima volta nel resoconto della Sacra Visita del 1734: “A Cornu Evangelij
di d.o Cappellone vi è l’Immagine della
S:ma Vergine, con il Bambino in braccio sotto l’Invocazione della Misericordia
ornato all’intorno di stucchi di parti posti in oro, e parte di marmo pareo [sic]
bruniti […] A Cornu Epistolae vi è un
altro consimile ornamento, con nicchia
con fondo rosso, ornamento consimile parimente con oro come al descritto:
dentro la detta nicchia vi si conserva il
Corpo di San Candido Martire collocato
in Urna ricoperta di velluto cremise con
galloni all’intorno e cristalli avanti e negl’angoli, qual nicchia viene custodita da
tre chiavi esistenti una presso il Capitolo,
e l’altra presso il Publico, e la terza presso
detto Sig.r Marchese Silvestri, e detto ornamento l’ha fatto fare il sig.r Marchese
Raimondo Silvestri di proprie spese”.17
L’immagine della Madonna della Misericordia, nel primo dei due “ornamenti”
riprende un’iconografia molto diffusa in
tutto il territorio marchigiano il cui prototipo è un dipinto del fiorentino Carlo
Dolci.18
Al centro del braccio sinistro del capocroce vi è l’altare con il giuspatronato
della famiglia Simonetti, sul lato ove
sorgeva l’antica chiesetta di San Salvatore quasi interamente demolita per fare
spazio alla nuova collegiata. L’altare in
stucco bianco con paliotto in scagliola
sotto il quale corre la scritta RAIJNERI-
Silvia Blasio
Ancona lignea con la Vergine di Loreto
VS SIMONETTVS F.F. MDCCXXI è
una bella struttura architettonica con colonne dal fusto riccamente decorato con
motivi fogliacei, grottesche e maschere
che sorreggono un mosso architrave e un
fastigio formato da una tabella al centro
col monogramma IHS, circondata da tre
vivacissimi putti reggenti festoni. La pala
d’altare, menzionata nella relazione della Sacra Visita del 1726 come “tela con
l’Immagine del S. Salvatore”,19 in realtà
rappresenta la Trinità con la figura del
Salvatore in particolare evidenza circondato da un coro di angeli; sullo sfondo
appare un sintetico paesaggio al tramon-
to, – forse una veduta idealizzata del panorama marchigiano su cui si spazia da
Cingoli – opera seicentesca di un certo
effetto, che riecheggia il potente naturalismo di Giovanni Lanfranco.
Sulle pareti del cappellone vi sono due
memorie in marmi colorati: a destra,
l’iscrizione in onore del cardinale Raniero Simonetti, del 1750, è una semplice
targa di marmo nero incorniciata di giallo, con finti drappi e volute ai lati, con
in cima lo stemma cardinalizio, mentre a
sinistra il monumento in onore di Luigi
Simonetti, del 1790, ha un disegno più
elaborato e una ricca ornamentazione al-
CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA
legorica e araldica: tra due lesene in marmi policromi vi è la cartella con l’iscrizione dedicatoria che sta sopra allo scudo
accartocciato in marmo con lo stemma
gentilizio fiancheggiato da due teschi alati in stucco; sopra la cartella, al centro,
una complessa composizione in stucco
formata da un triregno, un galero cardinalizio e una mitra, con una clessidra
alata e un teschio, il tutto sormontato da
vasi fiammati con ghirlande che si riuniscono al centro intorno al ritratto del defunto in ovato.20 Alla base il monumento
è sostenuto da due mensole in forma di
bellissime teste di leone in stucco, figura
araldica della famiglia Simonetti.
La cappella maggiore, assegnata il 25
novembre del 1665 alla Compagnia dei
nobili del Santissimo Sacramento, che
si impegnava a decorarla con una spesa di 50 scudi21 ha conservato in parte
il suo arredo seicentesco, per esempio
il coro in legno di noce e, all’entrata, le
due grandi statue di legno dipinte a finto
bronzo raffiguranti san Pietro e san Paolo, modelli per le sculture che dovevano
essere collocate nelle nicchie della facciata non finita. Per quanto riguarda l’altar
maggiore, fino alla Sacra Visita del 1734
risulta ancora in loco il vecchio altare ligneo, descritto dettagliatamente: “L’altare Maggiore è della V:e Compagnia del
S:mo Sacram:o in detta Chiesa, et in detto Altare situato in mezzo al Cappellone
vi è una Scalinata a due gradi di legno
con intagli messi in oro, e fondo giallo,
a Cornu Evangelij, et Epistole vi sono
due festoni per parte d’intaglio messi à
oro con un Medaglione rappresentante
il Simbolo del S:mo Sagram:o parimen:e
messi à oro, sopra d:a Scalinata vi sono
tre candelieri per parte di legno dorato,
et in mezzo vi è la Croce consimile, quale
posa sopra un piedestallo consimile alla
Scalinata; dietro al pred:o Altar Maggiore vi è posto sopra un piccolo Tavolino
un Tabernacolo grande fatto uniforme
Assunta, secolo XVIII, deposito
alla Scalinata coperto di tela turchina,
dalla quale si cuopre ancora la Scalinata, vi sono due scaletti per commodo
d’accendere le candele […]”.22 Nel 1777
troviamo invece già descritto l’altare attuale in marmi policromi: “A spese poi
della med:a Compagnia [del Santissimo
Sacramento], che ha il mantenimento
totale, fu costruito il moderno Altare di
marmo, in cui restano appesi nè due Lati
della Mensa due piccioli Stemmi Gentilizi della bo:me: di Mons:r Compagnoni,
che somministrò per d.a costruzione la
somma di scudi cencinquanta in sussidio
di ciò, che mancava alla Compagnia, e
che sotto li 30. Agosto 1758. consecrò
solennem:te […].23 Tuttavia i due scudi
accartocciati in marmo bianco su cui è
applicato un ostensorio raggiato in rame
229
dorato, visibili ai due lati della parte inferiore dell’altare, sono sicuramente gli
emblemi della Compagnia del Santissimo Sacramento.
Sempre i resoconti delle Sacre Visite permettono di seguire nel tempo la decorazione del muro dell’abside. Nel 1726 “in
mezzo del prospetto di esso Cappellone
vi è un Quadro al muro coll’Immagine
della SS.ma Concezione”, ma nel 1734
viene invece descritta al suo posto “una
cona di legno tutta messa à oro con nicchia in mezzo, dentro cui posa una Statua di legno messa à oro rappresentante
la S:ma Vergine di Loreto” e nel 1777 si
aggiunge che la nicchia “vien chiusa da
un quadro coll’Imagine di Maria SS:ma
Assunta in Cielo”.24 La grande ancona
in legno dorato fu dunque realizzata tra
il 1726 e il 1734, prendendo a modello
il prospetto ovest del rivestimento marmoreo della Santa Casa nella Basilica di
Loreto. È costituita da un alto zoccolo
con decoro neomanierista a cartelle e
volute su cui si elevano quattro colonne
corinzie scanalate sulle quali fino a un
terzo dell’altezza si avvolge un tralcio di
vite, motivo ricorrente negli altari lignei
marchigiani sei settecenteschi; al centro
si apre la nicchia dipinta di azzurro e
punteggiata di stelle d’oro con la statua
lignea della Vergine di Loreto, rivestita
della dalmatica rituale e montata su un
basamento processionale con quattro
candelieri a un braccio, mentre ai lati vi
sono sei dipinti raffiguranti Storie della
Vergine25 e in basso a destra, un pontefice; la trabeazione è percorsa da un tralcio
classicheggiante a girali d’acanto con al
centro una testa di putto e il timpano
spezzato è fiancheggiato da due volute e
da due vasi su alti basamenti. La statua
seicentesca della Vergine, proveniente
dalla chiesa di Sant’Antonio abate, demolita intorno alla metà del Settecento,
è paragonabile ad altri esemplari molto
simili presenti sul territorio marchigia-
230
Silvia Blasio
Pittore napoletano, I santi Michele arcangelo, Bonfilio e Francesco Borgia
no e potrebbe forse essere identificata in
quella di cui si dispone l’esecuzione in un
documento del 1657.26
Ai lati dell’ancona con la Vergine lauretana vi sono due tele segnalate nel
manoscritto jesino del Raffaelli come
“due quadri moderni lat[erali]”,27 opere
descritte con precisione nella relazione della sacra Visita del 1734: “à cornu
Evangelij di detta Cona vi è un quadro
con ferro, e tendina di tela gialla con
cornice dorate in tela ove sono dipinte
l’Immagini dell’Assunta, de Santi Esuperanzio, e Sperandia Padroni della Città
fatto in Roma dà un Pittore Napoletano, à Cornu Epistole un altro quadro
consimile con tela come so:a ove sono
Pittore napoletano, Assunta e i santi Sperandia ed Esuperanzio
dipinti S. Michele Arcangelo, S. Bonfiglio Protettori, e S. Francesco Borgia con
alcuni Angioli fatta parimen:e dal med:o
Pittore”.28 Sarà necessario approfondire
le ricerche su questi due dipinti di qualità elevata e verificarne l’attribuzione più
che plausibile ad un pittore napoletano
attivo a Roma nel secondo Seicento, palesemente di cultura marattesca.
Riprendendo il percorso nella navata a sinistra entrando, la prima cappella è quella
del Battistero, spettante al Capitolo della
Cattedrale. Menzionata nel resoconto
della Sacra Visita del 1726 e più accuratamente descritta in quella del 1777,29 la
decorazione consiste in un finto drappo
in stucco con frange d’oro appeso al col-
mo dell’arco alla sommità della parete di
fondo, che ricadendo ai lati con ampie
pieghe piatte si apre come un sipario a
scoprire l’enorme raggiera dello Spirito
Santo e più sotto, il Battesimo di Cristo
e il fonte battesimale dissimulato entro
finte rocce.
La seconda cappella, sullo stesso lato, è
dedicata a San Liborio, con il giuspatronato di Eurialo Silvestri, Giuseppe Puccetti e Taddeo Crescioni che lo ottennero
dal Consiglio di Credenza l’8 agosto del
1666, in cambio dell’obbligo a provvedere alla decorazione e a porvi il quadro
raffigurante san Liborio descritto al suo
posto nei resoconti delle visite pastorali
a partire dal 1726.30 La tela seicentesca
CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA
231
Cappella del Battistero
sull’altare raffigura infatti l’anziano vescovo francese nella consueta iconografia, cioè accompagnato da un angelo che
regge un piatto con piccole pietre, essendo San Liborio protettore dei malati di
calcoli renali. Il santo indossa un piviale
rosso e oro con un’ampia bordura ricamata in cui si riconoscono le immagini
di san Pietro, san Paolo e sant’Andrea.
La cappella, chiusa da una balaustra in
marmo, è rivestita di marmi policromi e
il dipinto, entro un’elegante incorniciatura mistilinea in stucco dorato, viene
presentato ai fedeli da due grandi angeli,
riprendendo un fortunato motivo di origine berniniana; l’insieme decorativo è
dunque caratterizzato da elementi barocchi uniti a residui di cultura manierista,
come le doppie volute che affiancano la
cornice e il vivace putto seduto al centro del fastigio. Nelle nicchie laterali sovrastate da cartelle vi sono due statue in
stucco raffiguranti san Carlo Borromeo e
san Luigi Gonzaga.
Nel pilastro tra la seconda e la terza cappella nella navata sinistra vi è il monu-
Cappella di San Liborio
mento in onore di Francesco Cima delle
Stelle, morto nel 1746, lavoro in scagliola del plasticatore Ampelio Mazzanti, autore anche di una serie di busti di santi
modellati in stucco:31 l’iscrizione è racchiusa in una doppia cornice dal profilo
superiore mistilineo sorretta da mensole
dalle quali parte un doppio festone vegetale raccordato al centro ad una protome femminile; sopra di essa si erge una
piramide coronata da un serto di alloro
e sostenuta da due sfere, entro la quale,
232
Silvia Blasio
Ampelio Mazzanti, monumento Cima
su un drappo giallo bordato di nero, un
putto tiene sulle spalle un clipeo con il
busto del Cima.32
La terza cappella del lato sinistro è intitolata al Crocifisso, con “l’Immagine del
SS.mo Crocifisso fatto di stucco, ed è ornato di bellissimi stucchi con diverse statue e con Balaustri avanti detta Cappella”.33 La ricca decorazione plastica della
cappella dovette essere compiuta tra il 14
marzo 1669 quando Ubaldo Cima, cui
veniva concesso il giuspatronato, si impegnava a farla portare a termine nel giro
di tre anni con una spesa di 200 scudi34
e il 1726, quando è citata nella relazione
della Sacra Visita. Il Crocifisso è circondato da una cornice mossa e sinuosa che
in alto si allarga per comprendere la raggiera con Dio Padre; all’esterno della cornice vi sono due grandi angeli adoranti,
quello di destra semi-inginocchiato e ai
lati le belle statue pienamente barocche
di san Nicola di Bari a destra e san Pietro a sinistra, ampiamente panneggiate
Cappella del Santissimo Crocifisso
e fortemente aggettanti dal profilo delle
nicchie che dovrebbero contenerle.
Sul pilastro angolare verso la navata sinistra vi è il monumento in onore di Pio
VIII Castiglioni, del 1830: la parte inferiore è costituita da un basamento con
un elegante motivo a doppia voluta con
palmetta centrale inciso su marmo bianco al di sopra del quale vi è l’iscrizione
dedicatoria in lettere d’oro su una lastra
di marmo grigio;35 nella parte centrale
si apre un clipeo circondato da volute e
palmette angolari incise, con il busto del
pontefice in marmo bianco, opera di Pietro Tenerani.36 Il monumento è coronato
dallo stemma del papa Castiglioni.
L’arredo della sacrestia, alla quale si accede dal cappellone sinistro del capocroce,
si richiama alla funzione svolta da questo
ambiente a partire dal 1694. Infatti “Attesa poi l’ampiezza della […] chiesa Cattedrale posta in luogo più eminente della
città; e per conseguenza soggetto a maggior rigidezza dell’incostanza dell’aria in
tempo d’inverno, in cui non senza qualche pregiudizio di salute poteasi ufficiare
il Coro Maggiore, fu supplicata la Sagra
Cong:ne del Concilio per l’Indulto di
poter recitare i Divini Uffizi ne’giorni
feriali nella sagristia di essa Cattedrale,
CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA
in cui fu costruito a tal effetto l’altro
Coro di noce lateralm:te all’altare, come
in appresso si dirà, e ne fu ottenuto l’Intento con favorevol Rescritto fin dai 13
novembre 1694”.37 Dopo questa data fu
dunque costruito il secondo coro di noce,
collocato a sinistra dell’ingresso e l’altare
della parete di fondo, sul quale, stando
a tutte le descrizioni nelle relazioni delle Sacre Visite, si trovava il quadro raffigurante san Tommaso d’Aquino di Pier
Simone Fanelli, ora sulla parete sinistra.
Il dipinto rappresenta un episodio di cui
san Tommaso fu protagonista nel 1273,
nella cappella di San Nicola in San Domenico a Napoli: mentre pregava davanti al Crocifisso, il Santo fu visto elevarsi
in estasi e si udì il Cristo approvare la sua
dottrina con le parole “Bene scripsisti de
me Thoma”. Il Fanelli tuttavia modifica
semplificandola, l’iconografia di questo
evento miracoloso e rappresenta il Santo mentre scrive, e non in preghiera e in
elevazione, e affida all’angioletto un filatterio con le parole pronunciate da Cristo
crocifisso. La composizione incentrata
sulla figura del Santo raggiunge così una
più severa essenzialità e chiarezza didascalica, eliminando altri aspetti narrativi
di solito presenti nei dipinti con questo
soggetto, come i frati domenicani testimoni dell’avvenimento. L’altare, in origine spettante al Capitolo, fu da questo
donato alla famiglia nobile dei Datti “al
presente dimorante in Roma” il 3 marzo
del 1726.38 Sul dipinto però, si vede in
basso a destra lo stemma della famiglia
Campelli, la stessa indicata dal Raffaelli nel Tomo jesino39 come detentrice del
giuspatronato dell’altare, con l’iscrizione
A.C. D.D.D. abbreviazione di “Antonio
Campelli Dat Donat Dedicat”. Questo
personaggio fu aggregato alla nobiltà
cingolana e fu nominato gonfaloniere
nel 1688 ed è probabile che l’opera su
cui fece apporre lo stemma sia stata eseguita in prossimità di quella data e poi
233
Pier Simone Fanelli, San Tommaso d’Aquino
donata alla chiesa quando l’altare apparteneva ancora al Capitolo.
Come già accennato, in sacrestia si conserva anche il paliotto in legno intagliato e dorato dell’altare dell’Assunta, nel
cappellone sinistro, sostituito in chiesa
da una copia moderna in marmo. Il paliotto, la cui realizzazione si colloca dopo
il 21 settembre del 1665, anno in cui il
marchese Federico Silvestri ottenne dal
234
Silvia Blasio
Giovanni Antonio da Pesaro, Madonna col Bambino e santi
Consiglio di Credenza il giuspatronato
dell’altare impegnandosi a curarne la decorazione e il mantenimento,40 presenta
un pannello centrale rettangolare in cui
tra simmetrici rami di rose dorate, disposti in forma di girali, due putti sostengono un medaglione circolare con una
cornice a perline dorate, foglie e rosette
con la rappresentazione dell’Assunta con
i santi vescovi Esuperanzio e Bonfiglio che
presentano il modellino di Cingoli, santa Sperandia e san Francesco Borgia (?);
affiancano il pannello rettangolare sei
lesene figurate, tre per lato, quella centrale con un putto a cariatide che poggia
i piedi su un mascherone e sorregge un
capitello a doppia voluta e le due laterali
con teste di cherubini su volute e motivi
vegetali; lo zoccolo inferiore è sagomato
e girali dorati corrono lungo la trabeazione. I confronti istituiti con altri manufatti identici per soluzioni tecnico-esecutive, vigore dell’intaglio ed esuberante
fantasia decorativa e compositiva come il
paliotto della chiesa di San Francesco a
Matelica e di Santa Croce a Sassoferrato,
dai quali il paliotto di Cingoli differisce
solo per l’iconografia, hanno permesso di
raggruppare un piccolo nucleo di opere
ascrivibile con certezza ad un medesimo
artefice attivo nella seconda metà del Seicento;41 nonostante generiche somiglianze, lo stile vigoroso e robusto di questo
intagliatore ancora anonimo, si distingue
decisamente dall’eleganza nervosa delle
figure di Leonardo Scaglia cui spesso i tre
paliotti sono stati avvicinati.
Nel “quadro antico dipinto in Tavola
con diverse Immagini”, ricordato nel
1726 nella “seconda sacrestia”,42 si deve
senz’altro riconoscere il polittico di Giovanni Antonio da Pesaro raffigurante la
Madonna in trono col Bambino e un donatore inginocchiato e, negli scomparti
laterali i santi Caterina d’Alessandria, Pie-
CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA
tro, Esuperanzio vescovo e Bonfilio vescovo; nelle cuspidi, i quattro Dottori della
Chiesa e al centro la Crocifissione. Non
si hanno documenti sulla provenienza
antica del polittico, ma vista la presenza
della figura di santa Caterina è probabile
che esso si trovasse su un altare dedicato alla santa nella vecchia pieve di Santa
Maria Assunta,43 demolita per far posto
alla nuova fabbrica. Il nome di Giovanni
Antonio da Pesaro (Pesaro 1415 ca.- ante
1478) fu pronunciato per quest’opera da
Federico Zeri che nel 194844 diede forma
alla personalità dell’artista, discendente
da una famiglia di pittori originari di
Parma, i Bellinzoni separandola da quella di Antonio da Fabriano, cui anche il
polittico del duomo di Cingoli era stato
precedentemente riferito da Berenson.45
Si tratta di un pittore ripetitivo e arcaizzante, attivo per le città della costa e del
primo entroterra adriatico, che tende a
replicare anche a distanza di anni le formule apprese nel corso della sua prima
educazione tardo-gotica in Emilia e i
modelli gotico-internazionali di Nicolò
di Pietro, Jacobello del Fiore e Michele
Giambono, a cui si aggiungono gli influssi dagli artisti operosi nelle Marche
nel pieno Quattrocento, dai pittori camerinesi a Bartolomeo di Tommaso da
Foligno. L’attività di Giovanni Antonio
da Pesaro ruota intorno a pochissime
opere datate46 e le caratteristiche del suo
stile privo di evoluzione consentono di
definirne una cronologia solo congetturale. Anche le ripetitive figure di Cingoli appaiono caratterizzate da rigidezza
e frontalità ieratica, gestualità debole e
inespressiva, ma si distinguono per una
solidissima tecnica esecutiva e un’abile
manipolazione delle superfici decorate,
come si vede nel sontuoso piviale del san
Bonfilio la cui stoffa presenta il motivo
della melagrana in argento e blu, e nel
pur rovinatissimo manto della Vergine.
In sacrestia si conserva anche un tritti-
235
Zanino di Pietro, I santi Nicola di Bari, Andrea e Lucia
co di Zanino di Pietro, pittore di origine francese attivo a Venezia e Bologna
almeno fino a tutto il quarto decennio
del Quattrocento, raffigurante i santi Nicola di Bari, Andrea e Lucia, proveniente
da Valcarecce, nell’alta valle del Musone.
Esso costituisce la parte superstite di un
polittico a due registri il cui pannello
centrale è probabilmente una Madonna
col Bambino della Pinacoteca Nazionale
di Ferrara.47 I tre scomparti, che denotano la diretta conoscenza del polittico
di Valle Romita di Gentile da Fabriano,
sono stati completati da un frontoncino
e da una predella posticci, per farli assomigliare ad un dipinto così compiuto.48
236
NOTE
La pergamena è in ASCC, Pergamene, n. 158. Vedi L’archivio storico 1995, p.
38, n. 77.
2
Malazampa 1939, p. 16. Il mecenatismo artistico del patriziato cingolano emerge nei diciotto volumi di Memorie compilati dal conte Niccolò Vannucci tra il
1675 e il 1715, conservati in BCR, Fondo Benedettucci, 5BI-1 / 5BI-5 e 5BI-7
/ 5BI-18.
3
Malazampa 1939, pp. 16-17.
4
BCPJ, Filippo Maria Raffaelli, Tomo degli alberi genealogici delle Famiglie Cingolane, 1683, ms. 11, p. 174.
5
Malazampa 1939, p. 16; Fava 1999, p. 143, nota 3, che indica la fonte della
notizia in ASCC, Riformanze, vol. 68, cc. 117r, 120r.
6
Fava 1999, pp. 137, 143, nota 2: “Offerendosi il signor Giuseppe Antonio Mogliani di fare per soli scudi quindici a tutte sue spese l’ornamento di stucco nella
cappella di S. Albertino nella nostra chiesa collegiata, nella guisa appunto del
disegno, che fa vedere al presente consiglio, come anche vi è persona che riattarà
il quadro di detto santo per soli giulij quindici, però quid. Per dare esecuzione à
riveriti ordini dell’eminentissimo signor cardinale Spada nostro degnissimo vescovo, direi che si prendesse il partito, che si fa dal Signor Giuseppe Antonio
Mogliani, rispetto all’ornamento di stucco da farsi nell’altare di S. Albertino, si
anche l’altro di riattare il quadro di detto santo”, ASCC, Riformanze, vol 79, cc.
129r, 130r.
7
Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1777, p. 171 per la data e il nome
del beneficiario della concessione, ma l’attribuzione al Fanelli è segnalata solo nella Sacra Visita del 1734 (p. 95); Malazampa 1939, p. 17. Le relazioni delle Sacre
Visite citate in questa nota e nelle successive, tutte pubblicate dal Maran, sono in
ASDC, buste conservate presso la chiesa di Sant’Esuperanzio.
8
Calcagni 1711, p. 258.
9
Ricci 1834, p. 274. Secondo Ricci Pier Simone Fanelli eseguì anche “con maggiore correzione ed eleganza una tavoletta per uno della famiglia Raffaelli, figurandovi la Vergine, che riceve da Cristo medesimo l’Eucarestia”, donato nel
1701al Santuario lauretano da Pietro Paolo Raffaelli. L’opera è tuttora conservata
nell’Archivio della Santa Casa di Loreto. Molti dei dipinti donati da Pietro Paolo
Raffaelli alla santa Casa di Loreto sono esposti nell’anticamera della cappella del
Tesoro e le loro magnifiche cornici barocche in legno intagliato e dorato con
rigogliosi girali fogliacei simmetricamente spartiti sono probabilmente da riferirsi
a maestri di legname cingolani (Blasio 2007, pp. 219-221). Nella busta denominata Cingoli. Dipinti e oreficerie esistenti nelle chiese di Cingoli (BCR, Fondo
Benedettucci, Carte recanatesi, busta 173, c. nn.) sono citati molti altri dipinti
eseguiti dal pittore anconetano per i Raffaelli a Cingoli e per altre chiese della
città. Delle opere per Cingoli parla estesamente anche Ferretti 1883, pp. 46-50,
grazie alle informazioni fornitegli dal marchese Filippo Raffaelli.
10
La data si ricava da Calcagni 1711, p. 345.
11
Trascritta in Alfei, Gozzoli 2007, p. 35.
12
Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1726, p. 2.
13
Maran 2000, p. 39.
14
Fava 1999, p. 140.
15
Fava 1997, pp. 34-35.
16
Malazampa 1939, p. 16.
17
Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1734, p.95.
18
Vedi nota 9 del mio saggio sulla con cattedrale di Treia.
19
Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1726, p. 2.
20
Le iscrizioni dei due monumenti sono trascritte in Alfei, Gozzoli 2007, rispettivamente p. 37 e p. 38.
21
Malazampa 1939, p. 16.
22
Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1734, p.95.
1
Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1777, p. 167.
Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1726, p. 2; sacra visita del 1734,
p. 94; sacra visita del 1777, p. 168. Si tratta di un dipinto settecentesco di autore
ignoto attualmente in un deposito della cattedrale.
25
Le storie occupano gli spazi tra le colonne ai due lati della nicchia: in alto, in
formato quadrato a sinistra Vergine annunciata e a destra Angelo annunciante; al
centro, in forma centinata a sinistra Natività della Vergine, a destra Assunzione, in
basso a sinistra, di nuovo in formato quadrato Fuga in Egitto.
26
Fava 1997, p. 40, doc. 35. La statua di Cingoli è schedata in La Madonna di
Loreto 1998, p. 178. Per confronti stilistici, S. Papetti in L’iconografia della Vergine
di Loreto 1995, p. 188.
27
Vedi nota 4. L’annotazione è stata aggiunta a margine.
28
Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1734, p. 94.
29
Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1726, p. 2 e sacra visita del 1777,
p. 170: “Presso a detta Pila trovasi costruito il fonte battesimale contornato di
stucchi colle statue rappresentanti S. Gio: Batt:a in atto di battezzare, e Gesù
Cristo in atto di ricevere dal medesimo il Battesimo”.
30
Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1726, p. 2 “vi è anche la cappella con l’Altare di s. Liborio dipinto in Tela, che parim.te è ornata di bellissimi
stucchi”.
31
Tali busti sono attualmente in un deposito in attesa di essere restaurati e appartengono alla cattedrale; si conservano, pur danneggiati, i busti di san Pietro, santa
Sperandia, san Giovanni Battista, san Bonfiglio, san Benvenuto vescovo. Presentano tutti una base quadrangolare con l’iscrizione che identifica il santo rappresentato e sono plasmati in stucco bianco levigato, ad imitazione del marmo.
32
L’iscrizione è trascritta in Alfei, Gozzoli 2007, p. 39.
33
Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1726, p. 2.
34
Malazampa 1939, p. 17.
35
L’iscrizione dedicatoria è trascritta in Alfei, Gozzoli 2007, p. 39.
36
Lo scultore carrarese eseguì nel 1866 il monumento funebre di papa Pio VIII
nella navata sinistra della basilica di San Pietro. Per Tenerani vedi nota 20 al mio
saggio sulla concattedrale di Treia.
37
Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1777, p. 173.
38
Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1726, p. 174.
39
Vedi nota 4. L’annotazione riguardante l’altare della sacrestia fu aggiunta
dopo la data 1683 che compare nell’intestazione della pagina, infatti si inserisce
nell’elenco sovrapponendosi alla riga sottostante.
40
Raffaelli 1762a, p. 284; Malazampa 1939, p. 16.
41
G. Barucca in La cultura lignea 1999, pp. 148-149, scheda n. 89.
42
Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1726, p. 3.
43
Berardi 1988, p. 101.
44
Zeri 1948, pp. 164-167, dove il soggetto è indicato come “Maddalena e quattro
santi”; id. 1976, pp. 59-62.
45
Berenson 1932.
46
Da ultimo Marchi 2009, pp. 29-59.
47
De Marchi, Franco 2000, p.72, fig. 24.
48
Nella sala Capitolare si trovavano due dipinti, ora in un deposito della cattedrale, raffiguranti il Martirio di san Sebastiano e il Martirio di san Bartolomeo; nel
retro di quest’ultimo un cartellino antico incollato sulla tela riporta la scritta “J.
M. J. Dello Spagnoletto Pittore eccellente, e di sua propria mano gli ha lavorati
tutti due cioè S. Bartolomeo e S. Sebastiano stimati da periti dieci zecchini l’uno
senza le cornici, quali ci feci fare io Don Carlo Bartolomeo Frosi; e ciò per memoria”. L’attribuzione allo Spagnoletto, di cui le due tele riflettono debolmente la
maniera, ripresa anche dal Malazampa (1939, pp. 21,22) è tuttavia assolutamente
infondata.
23
24
CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA
237
DONATELLO STEFANUCCI E LA CHIESA
DI SANTA MARIA ASSUNTA DI CINGOLI
Elisa Mori
Donatello Stefanucci nel suo studio, Cingoli,
Pinacoteca Comunale Donatello Stefanucci
Epigono del tolentinate Francesco Ferranti, nonché pittore largamente apprezzato, Donatello Stefanucci al pari del
suo maestro frequenta negli anni della
formazione l’Accademia di Belle Arti di
Roma, conseguendo l’abilitazione all’insegnamento del disegno sotto la guida
del celebre ritrattista Cesare Tallone.
Negli anni Venti, accanto ai più noti
Giorgio de Chirico, Carlo Carrà, Filippo
Tommaso Marinetti, Gherardo Dottori
e ai marchigiani Anselmo Bucci, Adolfo
De Carolis, Napoleone Parisani, Dante Ricci e Biagio Biagetti, partecipa alle
maggiori esposizioni della Capitale, quali
la Biennale d’Arte Romana e le rassegne
annuali della Società Amatori e Cultori
di Belle Arti.
Ben presto emergono le sue qualità di
fine paesaggista e ritrattista, oltre che
di raffinato frescante di soggetti religio-
Modello in scala del catino absidale della Chiesa di Santa Maria Assunta raffigurante l’Assunzione al cielo
di Maria (1939 c.), Cingoli, Pinacoteca Comunale Donatello Stefanucci
si, come testimonia ampiamente il ciclo
decorativo che campeggia all’interno del
Duomo di Cingoli e concattedrale della
Diocesi di Macerata – Tolentino – Recanati – Cingoli – Treia.
Il ciclo pittorico, commissionatogli dal
Capitolo del Duomo, fu realizzato da
Stefanucci in concomitanza con i lavori
di abbellimento che hanno interessato
la chiesa nel 1939, a testimonianza dei
quali è stata giustapposta, nell’abside a
destra dell’altare, un’iscrizione in latino
che riporta il seguente testo: “Nell’anno
Millenovencentotrentanovesimo dalla nascita di Cristo, diciassettesimo dell’era fascista, questa chiesa cattedrale, per tanti
secoli disadorna, ora è abbellita con arte
da dipinti, da decorazioni e da vetrate,
auspici il Vescovo Monalduzio dei conti
Leopardi e il preposto Gaetano Costantini uniti nel cuore e nelle spese con il collegio dei canonici, con gli amministratori
comunali e con i concittadini nel giorno
consacrato alla madre di Dio assunta in
cielo, patrona di Cingoli. Questa opera,
dedicata all’animo grato dei posteri, è ad
esso affidata. Ne furono artefici il concittadino Donatello Stefanucci illustre
pittore dell’abside, i signori Luchetti e
Natalini di San Severino decoratori, l’architetto Cesare Emidio Bernardi di origine cingolana e Giulio Cesare Giuliani
vetraio romano, autori delle vetrate”.1
Le decorazioni dell’artista cingolano interessano principalmente il catino absidale e l’abside destro dell’edificio. Nel
primo, suddiviso in cinque spicchi intervallati da leggiadri costoloni in cui si
238
Elisa Mori
L’Assunzione al cielo di Maria nel catino absidale che sormonta l’altare maggiore
intravede la fisionomia dello stesso pittore, vi è raffigurata l’Assunzione al cielo di
Maria accompagnata dai Ss. Esuperanzio
e Sperandia, entrambi patroni della città, seguiti dai dodici del Ss. Sacramento,
confraternita della cattedrale, che tengono lampioni e indossano sacco bianco e
rocchetto rosso, mentre nel secondo è
raffigurato il Discorso della montagna.
Nella vela centrale, dunque, che sovrasta
l’altare maggiore, campeggia in “un cielo
di agosto di un’azzurrità intensa, pieno
di calura chiude in anello solare la Vergine «umile ed alta più che creatura».
Da un cespo di gigli, simbolo dell’avello
fiorito, Ella sale luminosa, quasi «Auro-
ra consurgens», in atto di accogliere la
preghiera dei Protettori S. Esuperanzio
e S. Sperandia i quali la guardano col
pensiero che, Custode amorosa, vigilerà
dall’alto”.2
Dell’abside si conserva, nella pinacoteca
comunale intitolata all’artista, un modellino in scala ridotta nel quale il pittore
CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA
239
Discorso della montagna, altare del Sacramento
già delinea con grande chiarezza e abilità
tecnica quelli che saranno i personaggi
riprodotti nella volta che sormonta l’altare principale.
Lo studioso Mario Valentini, riferendosi
ai lavori della Cattedrale eseguiti dal pittore cingolano, lo ricorda “nel suo studio, intento tra modelli e costruzioni in
miniatura, creare quel gioiello che, più
tardi inaugurato, costituì un vanto per
la nostra città. Maestro insigne guidò e
consigliò una maestranza di decoratori
regionali accentrando tutte le sue capacità nella creazione di un motivo pittorico
che, come diadema, splenderà nel catino
dell’abside”.3
A testimonianza del lavoro svolto da
Stefanucci per la Cattedrale nel 1939 vi
sono due documenti, rintracciati presso
l’Archivio Storico del Capitolo di Cingoli, che attestano il pagamento di £ 4.000
per il “dipinto-abside” e il montaggio
dell’armatura “necessaria per il restauro
e la decorazione di tutto l’interno della
240
Cattedrale nella maniera richiesta dal
Prof. Donatello Stefanucci”.4
L’artista dimostra un particolare interesse
anche per gli aspetti prettamente tecnici
della sua pittura utilizzando la “tempera
d’uovo, studiata a fondo per la saldezza
dell’intonaco nei rapporti di sabbia silicea e calce. Il disegno vi fu eseguito e
[sic!] sanguigna e il colore disteso non
a tutto corpo, ma con semplici velature. L’intensità tonale della tempera e la
trasparenza dipendono dalla buona acquosità delle tinte e dal sobrio uso della
biacca. Ma la tavolozza fu quasi l’identica di quella per l’affresco e cioè composta
in prevalenza di colori naturali e ossidi
di ferro, con qualche sulfuro di Cadmio,
alluminato e stampato cobalto”.5
Non meno significativa dell’apparato de-
NOTE
Alfei, Gozzoli 2007, p. 36.
Malazampa 1939, p. 22.
3
Valentini 1961, p. 137.
4
ASCCC, Busta 0074, Capitolo Cattedrale. Curia.
Documenti vari (1892-1960), Restauri della Cattedrale
(1938) (fogli sciolti): Conto... 1939; Privata scrittura...
5
Strinati 1940, p. 4.
6
Valentini 1961, p. 138.
7
Topa 2002, p. 259.
1
2
corativo riprodotto nel catino absidale è
la grande tela del Discorso della montagna che si staglia nell’abside destro della chiesa, meglio noto come l’altare del
Sacramento, nella quale è effigiata l’imponente figura del Cristo dalle bianche
vesti nell’atto di accogliere un manipolo
di persone in adorazione.6 Di questo dipinto esiste una copia, in formato ridotto
e con qualche piccola variazione nel personaggio femminile sulla destra, forse un
primo bozzetto dello stesso, della quale
non si conosce l’ubicazione ma ne è documentata l’esistenza da una riproduzione fotografica conservata nella biblioteca
comunale di Cingoli.
La stessa fisionomia del Cristo, in questo caso benedicente e accompagnato dai
simboli dei quattro evangelisti, la ritro-
viamo anche nella grande decorazione
parietale realizzata da Stefanucci per la
cappella funeraria della nobile famiglia
Mattioli Pasqualini sita nel cimitero
cittadino nelle vicinanze della chiesa di
Sant’Esuperanzio.7
Parimenti al Discorso della montagna, il
protagonista manifesta una grande spiritualità unita a una forte componente di
umanità e realismo, favorendo un intimo
dialogo tra l’osservatore e l’argomento
narrato.
I temi sacri di Stefanucci, dunque, al pari
della più nota produzione di paesaggi e
ritratti, non mancano di testimoniare il
suo grande talento e la sua singolare capacità espressiva, senza tuttavia manifestare eccessi o sbavature.
CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA
241
IL TESORO DELLA CONCATTEDRALE
DI CINGOLI E I DONI DI PIO VIII
Gabriele Barucca
Nella relazione della Sacra Visita compiuta il 7 novembre 1726,1 il tesoro di
suppellettili sacre “spettanti alla suddetta
Chiesa Catedrale” non risulta particolarmente consistente: sono elencati solo
tre calici d’argento, un servizio per incensazione, uno per aspersione, qualche
ostensorio; seguono poi altre suppellettili
meno pregiate in rame e in ottone. Quasi nessuno di questi oggetti risulta superstite. È invece certamente riconoscibile
“una croce con anima di legno, e ferro
ricoperta di lastra di argento dorata, col
Cristo di getto parimente di argento col
piedestallo di Rame dorato, e Palla con
fascie di argento di peso libre trè, e once
otto”,2 che ancora si conserva seppur
priva del supporto e del nodo sferico di
raccordo.3 La croce è appunto rivestita di
lamine d’argento dorato, cesellato e inciso con rigogliosi girali vegetali lisci su
fondo satinato. Le terminazioni quadrilobate dei bracci sono prive di doratura
e presentano figurazioni incise. Sul recto,
al centro, è la statuetta del Crocifisso, realizzata a fusione in argento, con i capelli
e il perizoma dorati. Nella terminazione
superiore è incisa la figura della Madonna assunta in cielo, circondata da tre testine angeliche, che risalta su un fondo
lavorato a minuto reticolo. Questa presenza conferma che la croce era destinata
ab origine all’antica pieve dedicata appunto a Santa Maria Assunta, in seguito demolita insieme alla chiesetta di San
Salvatore per far posto all’odierna cattedrale, che ha mantenuto la stessa intitolazione. Sulle due terminazioni laterali
Arte orafa umbro-marchigiana, croce astile
Disegno della croce, 1770. Cingoli, archivio diocesano
sono incise le figure dell’Annunciazione,
mentre in quella inferiore compare un
santo vescovo, forse da identificarsi con
sant’Esuperanzio, patrono della città. Il
verso della croce ripropone un’identica
scelta decorativa, con le placchette quadrilobate delle terminazioni raffiguranti i
simboli degli evangelisti che risaltano sul
fondo a reticolo. La cornice dello spessore è costituita da un nastro d’argento
inciso a stampo con un motivo fitomorfo costituito da un’inflorescenza che si
diparte da un’anfora ripetendosi senza
soluzione di continuità. Le tre terminazioni superiori sono ornate ciascuna da
tre sferette di argento dorato. L’apparato
decorativo della croce non ha previsto
dunque l’inserimento di microsculture,
tranne quella del Crocifisso, realizzato
a fusione, ma è affidato alla lavorazione
a cesello e bulino, impreziosita solo dal
contrasto cromatico tra la doratura dei
bracci e l’argento delle terminazioni.
Queste presentano figurazioni condotte
con un segno rapido ed elegante, evidente in particolare nelle due formelle
componenti la vivace scena dell’Annunciazione, che riecheggia modelli pittorici
centro italiani di primo Cinquecento.
Questo dato stilistico unito all’accurato
trattamento grafico delle figurazioni rifinite a niello suggeriscono di avvicinare la
croce alla produzione orafa umbra della
prima metà del XVI secolo. Nell’Archivio diocesano di Cingoli esiste un foglio
che sul recto presenta il disegno acque-
242
Gabriele Barucca
Giovanni Francesco Arrighi, riccio di pastorale
Bottega degli Arrighi, calice
Antonio Arrighi, ostensorio raggiato
rellato della faccia anteriore della croce e
sul verso la dichiarazione di copia conforme all’originale attestata dal notaio Gian
Francesco Torretani di Cingoli in data
24 agosto 1770.4 Non sappiamo perché
sia stato fatto il disegno della croce e soprattutto sfugge per ora il senso di questa
dichiarazione di conformità dello stesso
alla croce originale.
Un nucleo importante di suppellettili sacre della cattedrale di Cingoli proviene
da una bottega di argentieri romani, gli
Arrighi, la cui ampia produzione è stata
recentemente studiata da Jennifer Montagu,5 che anche grazie al riemergere di
una cospicua documentazione d’archivio
ha ricostruito l’organizzazione di questa
importante bottega attiva a Roma dalla
seconda metà del Seicento fino alla fine
del secolo successivo, per una clientela
in massima parte costituita dai ranghi
inferiori del clero e dalla nobiltà minore o provinciale. A Cingoli sono presenti
opere dei principali esponenti di questa
‘dinastia’. È utile dunque riportare il breve riassunto che consente di conoscere i
loro nomi e la successione nella direzione
della bottega. “Giovan Francesco Arrighi
nacque nel 1646. Dal 1665-1666 lavorò come “fattore” nella bottega di Bartolomeo Colleoni e ottenne la patente
nel 1683. Alla sua morte, il 5 settembre
1730, il figlio maggiore Agostino (16721762) assunse la direzione della bottega insieme alla madre, ma il 14 maggio
1733 cedette il diritto di ereditare la patente paterna al fratello più giovane Antonio (1687-1776) che, superata la prova
nello stesso giorno, ricevette la patente il
19 giugno. Alla morte di Agostino, Antonio, pur riservandosi il controllo finale
dei lavori, passò la direzione della bottega a Mattia Venturesi (1710-1776) e solo
nel 1776 rinunciò a questa supervisione,
cedendogli gli interi profitti (o perdite)
dell’impresa, anche se ciascuna delle parti aveva il diritto di rescindere il contratto. Alla sua morte, sei mesi dopo quella
di Antonio, Venturesi lasciò la bottega a
Girolamo Francescoli (1739?-1802).”6
Dei pezzi conservati nella cattedrale di
Cingoli il primo è un riccio di pastora-
le che reca impresso il bollo di Giovanni Francesco Arrighi.7 Una nota del 6
maggio 1726 nei libri di bottega degli
Arrighi pare riferirsi a quest’oggetto:
“E più deve dare per aver fatto fare di
novo un Pastoralle il Sig.re Pier Lorenzo Datti tutto lavorato sopra in cima di
fiori di un dentro laltro, che girano, con
il suo vasetto, e cordone tutto lavorato
dove à il suo nascimento, e quatro canne per il bastone con sue cornice dove
incastrano, una canna con laltra, e giu
da basso la sua punta, con viera, e vitte
e madre vitte tutte tornite, che pesano
lb. 5. o.7. che alla ragione di s.16 per
ogni libra cioe arg.to e fatura inporta
s.89:35
Per lasta [? cambiato] del bastone, che
sta per di dentra che serve per anima
di tutto il Pastoralle, e tutto agiustatto, che incasino adoso le canne d’arg.to
s.-:50.”8
La descrizione sembra dunque corrispondere con ragionevole sicurezza al
riccio esistente, che purtroppo ha perduto il suo bastone originario. Nel riccio di
CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA
243
Bottega orafa romana, ostensorio raggiato, 1752
Mattia Venturesi, braccio reliquiario di sant’Emidio
Bottega orafa romana, calice, 1794
Arrighi il girale di foglie d’acanto che lo
costituisce è rigoglioso e mosso secondo
l’interpretazione barocca, di gusto ancora tardo seicentesco.
La famiglia Datti di Cingoli ordinò argenterie sia a Giovanni Francesco, sia
ad Antonio Arrighi, fino al momento in
cui Mattia Venturesi assunse la direzione della bottega. Pier Lorenzo risiedeva
a Roma e richiese agli Arrighi argenti sacri e profani. Nello stesso periodo in cui
commissionò il pastorale, ordinò anche
“una bugia da vescovo”, “una Lanpana di
arg.to lavorata al usansa con li spichi, e
Angioli, e le tre catene…un Piatino centinato liscio per le anpoline della Messa”,9
oggetti purtroppo perduti. Queste prime
donazioni di argenti furono certamente
effettuate in occasione della concessione
ai Datti del giuspatronato dell’Altare con
“Quadro dipinto in Tela rappresentante
S. Tommaso di Aquino con ornamenti
di Stucco” nella sagrestia della cattedrale. Come risulta nei resoconti della Sacra
Visita del 1777 effettuata dal cardinale
Calcagnini: “Detto Altare spetta alla No-
bil Famiglia Datti, al presente dimorante
in Roma in virtù di Donazione fattale
dal Capitolo li 3 Marzo 1726”.10
In realtà questi arredi sacri non sono i
primi ad essere citati nei libri di bottega
degli Arrighi come commissionati dalla
famiglia Datti; in precedenza il 20 aprile
1723 viene annotato che Pier Lorenzo
diede dell’argento e prese un calice con la
patena.11 Esiste la possibilità che questo
sia identificabile con un calice inedito,
rinvenuto nella sagrestia della cattedrale
cingolana.12 Questo calice, purtroppo integrato malamente in corrispondenza del
nodo centrale del fusto, reca un punzone
purtroppo non perfettamente impresso
tanto da rendere incerta la corrispondenza con quello di Giovanni Francesco
Arrighi o del figlio Antonio. Di fatto il
calice è identico a quello che Antonio
Arrighi realizzò per un ecclesiastico della
famiglia urbinate dei Riviera intorno al
1737-1738, ora nel Museo Diocesano
di Urbino.13 L’unica differenza tra i due
pezzi consiste nel fatto che l’esemplare
urbinate è completamente dorato e di
fattura più accurata. Considerando però
che per questo genere di oggetti erano a
disposizione nelle botteghe degli argentieri dei modelli che, in base alle richieste
della clientela, venivano replicati anche a
distanza di decenni, non possiamo escludere che il calice di Cingoli corrisponda
a quello ricordato nella nota del 1723,
quando la bottega era ancora diretta da
Giovanni Francesco.
Fu invece certamente realizzato sotto
la direzione di Antonio il terzo pezzo
cingolano degli Arrighi, vale a dire un
ostensorio raggiato con impresso un
bollo camerale, di difficile decifrazione,
che dovrebbe comunque risultare quello in vigore tra il 1736 e il 1738.14 Nel
resoconto di una visita pastorale si legge: “Un ostensorio d’Argento con sua
Lunetta d’argento dorato, e donato dal
Signor Datti. Altro Ostensorio d’argento
con un Angelo, Raggio dorato e Lunetta
d’argento”.15 Manca la lunetta d’argento
sull’ostensorio in questione, tuttavia l’assenza di raggiera dorata attesta la commissione da parte di un esponente della
244
Bottega orafa romana, navicella, 1776
famiglia Datti non individuato però col
nome di battesimo. Sempre alla cattedrale lo stesso Datti, insieme al conte
Petroni, regalò una muta di tre lampade
d’argento.
I Datti apparteneva alla nobiltà minore
di Cingoli. Nel 1735 un loro membro,
Alessio, divenne gonfaloniere. Suo padre
Pier Lorenzo, di cui s’è detto, era stato
cliente di Giovanni Francesco Arrighi fin
dal 171516 e suo zio Raimondo almeno
dal 1718.17 Alessio e suo fratello Egidio
continuarono a comprare dagli Arrighi
numerose argenterie, sia sacre che secolari, fino al 1767.18
Nel 1739 Egidio pagò 79.20 scudi per
un “Estensorio d’arg.to con metalli riportatti di forma triangolatto, con delle testte di Cherubini et altre lavori con
della fatura asai che peso d’arg.to efetivo
libre lb. 3 o.8 d.2 bolatto con il bollo del
Tre Regnio”,19 più 20 scudi per la doratura e 2 per il bronzo; inoltre Antonio
Arrighi incastonò sedici pietre “intorno
alla luce”. Si trattava di un pezzo evidentemente diverso, ma sembra comunque
che Egidio sia l’esponente della famiglia
Datti che con maggiore probabilità aggiunse l’ostensorio ancora conservato al
corredo di suppellettili sacre dell’altare di
giuspatronato famigliare nella sagrestia
Gabriele Barucca
Roberto Tombesi, vaso per la purificazione e vassoio
della cattedrale. È stato giustamente rilevato che “per quanto appaia gradevole,
l’oggetto non mostra grande fantasia nel
disegno e non è particolarmente raffinato
nell’esecuzione. Le teste di cherubini sulla base sono di qualità più alta: sono fuse
probabilmente da modelli di una mano
più esperta, già presenti nella bottega. I
raggi che circondano l’ostia, di un tipo
che l’argentiere definisce “alla Bernina”,
sono poco numerosi, pur ammettendo
che alcuni di essi si siano spezzati.”20
L’ultimo pezzo proveniente dalla bottega romana degli Arrighi, nel frattempo
passata sotto la direzione di Mattia Venturesi, non risulta invece essere legato
alla committenza di qualche esponente
della famiglia Datti. Si tratta del braccio
reliquiario di sant’Emidio, che presenta impresso il bollo personale di Mattia
Venturesi e quello camerale usato nel
biennio 1765-1767.21 A conferma della
corretta identificazione di questo bollo,
è stato giustamente ipotizzato che la realizzazione dell’oggetto sia da mettere in
relazione con i fenomeni sismici che colpirono la zona di Cingoli nel corso del
1766: com’è noto infatti a sant’Emidio si
chiedeva protezione contro i terremoti.22
La valenza essenzialmente devozionale
dell’oggetto sacro e la sua appartenenza a
una tipologia quasi seriale ne spiegano la
qualità piuttosto ordinaria.
Prima di passare all’illustrazione del nucleo principale del tesoro della cattedrale
cingolana, costituito da oggetti legati alla
memoria del papa Pio VIII Castiglioni, occorre almeno menzionare alcuni
altri pezzi che nel corso del Settecento
ne hanno accresciuto la consistenza. In
particolare sono tre oggetti liturgici con
impressi marchi illeggibili di argentieri romani, recanti comunque iscrizioni
che ne tramandano la data e i nomi degli
oblatori. Il primo oggetto in ordine di
tempo è un ostensorio raggiato donato
nel 1752 da Teresa Castiglioni, esponente di una delle famiglie eminenti della
nobiltà locale.23 In esso una successione
di cornici architettoniche e volute a forte aggetto incurvate verso l’alto e verso il
basso si strutturano a dar forma alla base
a sezione triangolare, che quasi senza soluzione di continuità si raccorda al fusto
su cui è innestato il ricettacolo raggiato.
La decorazione è affidata a una profusione di teste di cherubini ben modellate sul
piede, sul fusto e nel nuvolario intorno
alla teca. Il secondo oggetto è una navicella in argento di fattura piuttosto ordinaria.24 Essa presenta la base rigonfia
scompartita da membrature decorate da
CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA
Bottega orafa romana, mazza cerimoniale
conchiglie di fantasia, la coppa coperta
interamente da sbaccellature nascenti da un motivo a volute e il coperchio
decorato su entrambe le valve da scudi
sbalzati. Sui bordi della valva fissa è incisa un’iscrizione che ricorda la donazione
dell’arredo sacro nel 1776 da parte del
Capitolo della cattedrale. Infine resta da
ricordare un calice caratterizzato da una
decorazione particolarmente ricca, in
cui si affastellano tutti i motivi del consueto repertorio rococò: volute, conchiglie, motivi vegetali e teste di cherubini.
Come risulta da un’iscrizione il calice
venne donato alla cattedrale cingolana
nel 1794 dal cardinale Guido Calcagni-
245
Pianeta del cardinale Francesco Saverio Castiglioni
Pietro Paolo Spagna, pisside
ni, vescovo di Osimo e Cingoli.25
Di ben più alta e raffinata qualità sono
i doni che fece alla cattedrale cingolana Francesco Saverio Castiglioni, sia da
cardinale sia, soprattutto, da pontefice
nell’arco del suo breve regno che va dal
31 marzo 1829, quando venne eletto
papa col nome di Pio VIII, al 30 novembre 1830, giorno della sua morte. Vanno
inoltre ricordati altri oggetti appartenuti
a Pio VIII che dopo la sua morte furono
“generosamente donati al Rev.mo Capitolo dagli Eredi del Marchese Filippo
Avv. Castiglioni, sigg. Guido, Ottavio,
Giulia, Stefanina.”26
Le biografie di Francesco Saverio Castiglioni lo tratteggiano come una figura
austera, impegnato nella coraggiosa resistenza alla dominazione francese, poco
incline alle manifestazioni di fasto, che
caratterizzavano spesso lo stile di vita
dei suoi colleghi del Sacro Collegio, e da
papa avverso al nepotismo famigliare. Ma
in realtà sarebbe un errore credere Castiglioni un personaggio disinteressato alle
vicende della sua famiglia e della sua città
natale, che anzi gratificò di una costante
e autorevole attenzione, testimoniata anche dall’invio di preziosi doni alla chiesa
di Sant’Esuperanzio e in particolare alla
cattedrale, dove aveva peraltro ricevuto
il battesimo il 21 novembre 1761 dallo
zio, l’arcidiacono Francesco Castiglioni,
ed era stato Proposto del Capitolo dal
1795 al 1800.
Al periodo del cardinalato, che va dal
1816, quando venne nominato da Pio
VII col titolo di Santa Maria Traspontina, al 1829, quando Castiglioni fu eletto
papa, risale la donazione di una sontuosa pianeta bianca ricamata in oro siglata
con il suo stemma (di rosso al leone d’argento sorreggente con le branche anteriori una torre d’oro, merlata alla guelfa,
chiusa e finestrata di nero), timbrato con
il cappello e le nappe esprimenti la dignità cardinalizia. È questo forse il primo di
una serie di doni di paramenti liturgici
che in seguito Pio VIII inviò a Cingoli e
che comprende due zucchetti, un camice ornato di merletti a fuselli del Settecento, una veste talare con mantellina in
246
Gabriele Barucca
Lorem ipsum dolor sit amet, consectetuer
Pietro Paolo Spagna, servizio per aspersione
damasco bianco, un paio di guanti e due
paia di scarpe pontificali, ancora custoditi in cattedrale, nonché uno splendido
parato in raso bianco con ricami in oro
composto da una pianeta, due tonacelle,
stole e manipoli fregiati con lo stemma
pontificio, fatto recapitare alla chiesa di
Sant’Esuperanzio.27
Sono databili agli anni in cui Castiglioni
era cardinale anche alcuni pezzi che, secondo quanto afferma Malazampa, pervennero nel tesoro della cattedrale per
lascito della famiglia, dopo la morte del
pontefice. Il primo e più spettacolare di
questi oggetti è una monumentale mazza
cerimoniale, che doveva probabilmente
servire per essere portata da un mazziere
al seguito del cardinale in occasione delle
processioni solenni. Malazampa afferma
che la mazza fu donata al Castiglioni da
Giuseppe Andrea Albani, potente cardinale che peraltro ebbe un ruolo decisivo
per l’elezione di papa Castiglioni, che a
sua volta lo ricompensò con la nomina a
Segretario di Stato. La struttura dell’oggetto è in lamina sbalzata d’argento di
titolo inferiore, mentre le decorazioni
sono in bronzo fuso e dorato. Alla sommità siede su un basamento circolare un
putto alato, recante uno scudo con lo
Bottega orafa degli Spagna, fornimento di sei candelieri con la croce d’altare
stemma di papa Pio VII. Al di sotto si
sviluppa un elemento a forma di vaso a
balaustro di gusto neoclassico scompartito al centro da una fascia decorata da
scanalature, che definisce un gradino su
cui siedono le tre figure dorate a tutto
tondo delle Virtù teologali. La pancia del
grande vaso è decorata da applicazioni
bronzee costituite da festoni vegetali e
nastri che scandiscono tre scudi con lo
stemma cardinalizio del Castiglioni. Cespi di foglie d’acanto, collarini fitomorfi
e nastri pendenti da testine di cherubini
completano la decorazione del vaso e del
sottostante fusto, che funge da impugnatura della mazza. La presenza sull’oggetto degli stemmi di Castiglioni, timbrato
con le insegne cardinalizie di cui si poteva fregiare a partire dal 1816, e di papa
Chiaramonti, morto nel 1823, segna gli
estremi cronologici entro i quali va datata la mazza processionale.
Appartennero certamente al cardinale
Castiglioni, seppur prive delle sue insegne, altre suppellettili sacre di grande
qualità che probabilmente furono do-
CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA
247
Pietro Paolo Spagna, servizio per pontificale
nate alla cattedrale dopo la sua morte.
Il primo pezzo è un piccolo vaso per
la purificazione in argento dorato, che
serviva al sacerdote per detergere le dita
ogniqualvolta toccava extra missam le
particole eucaristiche.28 Il contenitore,
chiuso da un coperchio e poggiante su
un vassoio, è alzato su una base circolare
e ha due manici costituiti da una foglia
ricurva nascente dalla base della coppa;
il coperchio è rialzato, con scanalature
sulla fascia montante, ed ha per pomolo un putto alato in piedi su una placca
a fusione con un delizioso prato fiorito.
Un cespo di foglie lanceolate cinge alla
base la coppa, mentre lungo il ciglio e
sulla modanatura del piede gira un serto di alloro. Il vassoietto circolare si orna
di una cornice a losanghe lungo il ciglio
e presenta volute fitomorfe a segnare il
cavetto per alloggiare il piede del contenitore. Quest’opera, di eccelsa fattura, ha
impresso il bollo corrispondente a quello
assegnato nel 1815 a Roberto Tombesi,
che lo usò fino al 1822, anno della sua
morte. Questo argentiere, nato a Mon-
tepulciano nel 1765, ottenne la patente
di maestro a Roma nel 1801 e prima di
aprire una bottega in proprio era stato
dal 1785 al 1792 capo-lavorante nella celeberrima bottega di Giuseppe Valadier.
È legato al Valadier, essendone cognato,
anche Giuseppe Spagna, a capo della
bottega orafa a cui andarono certamente
le preferenze dello stesso Castiglioni, che
ne divenne il più prestigioso e affezionato cliente. Gli Spagna erano un vera
e propria dinastia, che aveva profonde
radici nella storia dell’oreficeria romana.
248
Pietro Paolo Spagna, calice
In quegli anni era protagonista Giuseppe (III) che nel 1791 aveva ereditata dal
padre Paolo la patente di maestro. Di lui
si sa che all’inizio della carriera era subentrato nella bottega paterna in via del
Pellegrino, e in seguito si era trasferito in
via del Corso dove rimase ad abitare fino
al 1811. L’anno seguente passò a dirigere
proprio la bottega del cognato Giuseppe Valadier in via del Babuino. Bottega
che insieme al figlio Pietro Paolo rilevò
ufficialmente nel 1817. In quello stesso
anno rinunziò alla patente in favore del
figlio pur restando attivo fino alla mor-
Gabriele Barucca
te, avvenuta nel 1839, e lasciando che
le opere fossero bollate col marchio di
Pietro Paolo. Questo naturalmente rende estremamente difficile distinguere le
opere di padre e figlio. Sono punzonati
appunto col marchio corrispondente a
quello di Pietro Paolo Spagna altri due
pezzi inediti che credo siano giunti nel
tesoro del duomo cingolano o come
dono del Castiglioni quando era ancora
cardinale o come lascito della famiglia
dopo la sua morte. Si tratta di una pisside29 e di un servizio per aspersione,30
entrambi in argento dorato e privi dello stemma papale, a suggerire appunto
che la donazione sia avvenuta negli anni
precedenti l’ascesa al soglio pontificio.
In ogni caso sono oggetti di squisita
raffinatezza che confermano l’elegante
eclettismo della produzione della bottega
diretta da Pietro Paolo Spagna. La struttura estremamente controllata sia della
pisside sia del secchiello è impreziosita
dal repertorio ornamentale che accosta
alle foglie lanceolate e ai serti di alloro
ancora di sapore neoclassico, naturalistici
cespi di foglie d’acanto e cornici percorse
da rigogliosi girali, motivi eseguiti con
straordinaria perizia tecnica a conferma
della fama e del prestigio goduti da questa bottega orafa romana.
Il 31 marzo 1829, Francesco Saverio Castiglioni, venne eletto papa e assunse il
nome di Pio VIII. Nello stesso giorno
scrisse una lettera ai fratelli Bernardo
Arcidiacono, Alessandro e Filippo con la
quale comunicava che “L’immensa Misericordia e Bontà di Dio ci ha oggi scelti
a sedere sulla Cattedra di S. Pietro” ma
contestualmente si preoccupò anche di
far pervenire attraverso monsignor Paolo
Polidori, segretario del Conclave, la notizia della sua elevazione al pontificato sia
al Gonfaloniere e Anziani di Cingoli sia
al Capitolo e Canonici della Cattedrale
di Cingoli, segno della sua costante attenzione verso la città d’origine.31
Il 10 giugno 1829, dopo nemmeno quattro mesi dall’elezione, è documentato il
primo dono di papa Castiglioni alla cattedrale cingolana. Si trattava di un fornimento di sei candelieri con la croce in
bronzo dorato, destinati all’altare maggiore. Gli arredi mostrano un basamento
alzato su piedini a zampa leonina, con
facce trapezoidali dove compaiono, profilati da una perlinatura, lo stemma papale,
l’immagine della Vergine Assunta in cielo, quella di sant’Esuperanzio e l’iscrizione dedicatoria: “PIVS. VIII.P.M./TEMP.
PRIN.CINGVL./PIGNVS.AMORIS./
PONT.AN.I”. Il fusto, scandito da un
nodo centrale decorato da testine angeliche da cui si dipartono festoni fitomorfi,
presenta una struttura e un repertorio
ornamentale tipico della produzione orafa di quegli anni in cui foglie di alloro
e di ulivo, perlinature, rosette segnano i
punti di innesto dei nodi e i profili della base, costituendo un insieme che pur
denotando un’attenzione al lessico neoclassico non rinuncia a una profusione
decorativa di gusto ancora tardo barocco. Il fornimento d’altare cingolano ha
un prototipo in quello eseguito per la
chiesa di Santa Maria Maggiore a Roma
nel 1825, che a sua volta replicava con
i dovuti aggiornamenti neoclassici, la
muta d’altare secentesca con lo stemma
di casa Borghese, conservato nella stessa
Basilica romana. Dati i confronti stringenti, sia per l’identità delle misure sia
per la stessa qualità esecutiva, tra il fornimento cingolano e quello del 1825,
documentato come opera di Giuseppe
(III) Spagna, è stata giustamente avanzata l’ipotesi che si tratti dell’opera della
stessa bottega orafa.32 È certamente opera
degli Spagna il calice dorato, recante impresso il marchio di Pietro Paolo Spagna
e lo stemma papale inciso sotto la base,
che Pio VIII inviò alla cattedrale cingolana contestualmente alla muta d’altare
o poco dopo.33 Nel calice la raffinatissi-
CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA
Bottega orafa degli Spagna, Rosa d’oro e particolare
ma qualità dell’esecuzione esalta le forme
improntate al gusto tutto romano degli
anni della Restaurazione per un classicismo già venato da inflessioni neorinascimentali e neobarocche. Questo modello
di calice con figure a tutto tondo sulla
base – siano queste le allegorie delle Virtù teologali, i profeti, i padri della Chiesa
o, come nel calice di Pio VIII, gli angeli
con i simboli della Passione –, inventato dagli Spagna e replicato con varianti
nella loro bottega in numerosi esemplari,
trovò larghissimo seguito fra gli argentieri romani e poi di tutta Italia nel secondo
quarto dell’Ottocento, caratterizzando
una precisa corrente di gusto.
A questi pezzi appositamente commissionati per la cattedrale cingolana dopo
l’ascesa al soglio pontificio Pio VIII volle
aggiungere un dono che doveva esser-
249
gli particolarmente caro. Si tratta di un
magnifico servizio per pontificale non
omogeneo composto da un calice con la
patena, due ampolline col relativo vassoietto, un campanello, una palmatoria
e un porta ostie. Tranne quest’ultimo
pezzo, che reca impresso il bollo usato
dall’argentiere romano Matteo Chiocca
nel suo primo periodo di attività fino
all’incirca al 1808, gli altri oggetti del
servizio sono marchiati da Pietro Paolo
Spagna. Sono molto eleganti le ampolline di forme squisitamente neoclassiche,
mentre è spettacolare il calice che svilup-
250
Gabriele Barucca
pa il tema della Passione di Cristo nelle
scene lavorate con straordinaria maestria
nei dischetti applicati nel nodo e nel sottocoppa e nei grandi medaglioni ovali,
uniti da un festone e fissati quasi in perpendicolare sulla base. Peraltro un’iscrizione incisa al di sotto del piede del calice consente di datarlo e di conoscere
la circostanza della sua realizzazione. Si
legge infatti: “PIVS. VIII. D.D. AEDI
BAPTISMATIS. SVI CALICEM QVO.
CARDINALIS CONSECRANS. XX
EPISCOPOS. FECIT. DEO”. Era dunque il suo calice personale, realizzato nella bottega degli Spagna intorno al 1820
in occasione del ventesimo anniversario
della sua nomina a vescovo, avvenuta nel
1800 quando all’età di soli trentotto anni
Pio VII lo assegnò alla cattedra di Montalto. Intendendo far recapitare il calice e
gli altri pezzi del servizio per pontificale
alla chiesa dove era stato battezzato, Pio
VIII fece realizzare un apposito bauletto,
dove ancora si conservano, rivestito in
pelle marrone con le insegne papali impresse in oro sul coperchio. Ma il dono
più prestigioso che il papa cingolano fece
al Capitolo della sua città natale è certamente la rosa d’oro. Questa preziosa
onorificenza il 21 marzo 1830, IV domenica di Quaresima, fu solennemente
consegnata alla cattedrale di Cingoli da
monsignor Filippo Appignanesi, su incarico dello stesso Pio VIII, che accompagnò il dono con una sua lettera in cui
spiegava il significato che intendeva dare
a questo oggetto “Simbolo di Cristo Re
dei Re, e Signore dei dominanti” espresso
dalla purezza dell’oro e dal crisma della
consacrazione. Il papa fece inoltre allegare un fascicolo, datato 15 aprile 1830, in
cui erano contenute le indicazioni precise riguardo alla cerimonia da svolgersi a
Cingoli in occasione della consegna della
rosa d’oro, che su suo suggerimento doveva poi essere custodita nel monastero
di Santa Caterina.34 Lo splendido og-
getto35 è costituito da una cespo di rose,
montato su un vaso, foggiato ad anfora,
e su un basamento a sezione triangolare.
Il tutto poggia, mediante tre piedini a disco, su un gradino liscio, che funge da
supporto al basamento. Questo elemento in bronzo dorato presenta tre zampe
leonine desinenti a voluta fogliacea alla
base, spigoli smussati percorsi da festoni,
e le raffigurazioni delle Virtù teologali,
Fede, Speranza e Carità sulle tre facce.
Dal bordo superiore del basamento, caratterizzato negli smussi angolari da tre
teste di caprone, si diparte poi un ulteriore piedistallo su cui poggia un vaso,
finemente decorato nella parte inferiore
da un cespo di foglie d’acanto e, nel corpo centrale, da una cornice a girali e da
festoni fogliacei pendenti da due protomi leonine. Dalla bocca del vaso, adorna
tutt’intorno di palmette stilizzate, esce
il cespo di rose. I fiori sono imitati con
perfetta verosimiglianza, tutti in oro laminato sottile, con le foglie assai fitte. Le
rose sono tredici: quella alla sommità ha
una teca interna chiusa da un piccolo coperchio bucherellato che serviva per sprigionare profumi, le altre dodici, uguali,
sono più piccole. Pare volessero significare Cristo e gli apostoli. Sulle foglie del cespo di rose si rilevano due bolli a garanzia
della bontà superiore dell’oro a ventidue
carati. La presenza di questi bolli non è
usuale, visto che di regola non venivano
mai bollate le oreficerie di provenienza
papale. Quanto all’autore del raffinatissimo oggetto, data la mancanza di marchi
personali, non è possibile avere certezze.
Andrà comunque ricercato nell’ambito
degli orafi ufficiali della corte pontificia,
a cui venivano tradizionalmente affidati
gli incarichi per l’esecuzione di queste
particolarissime onorificenze. Comunque è logico supporre che anche questo
spettacolare oggetto sia stato realizzato
nella bottega orafa di Giuseppe e Pietro
Paolo Spagna, a cui Pio VIII, come s’è
Bottega orafa romana, calice
visto, era solito rivolgersi per commissionare le preziose suppellettili sacre.
Nel corso dell’Ottocento il tesoro si arricchirà poi di altri arredi sacri però di una
qualità non paragonabile a quella degli
oggetti finora descritti. L’unico pezzo
che merita di essere citato è un bel calice
d’argento con angeli a tutto tondo seduti
sulla base e in piedi sul nodo centrale del
fusto, recanti i simboli della Passione.36
Il calice venne lasciato per testamento da
monsignor Luigi Bruschetti, morto nel
1881. Nato nel 1826 a Villa Strada, nel
Comune di Cingoli, Bruschetti ebbe prestigiosi incarichi diplomatici per la curia
romana, fino ad essere elevato a vescovo
titolare di Abido nel 1876.37
CINGOLI. CONCATTEDRALE DI SANTA MARIA ASSUNTA
251
NOTE
Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1726, pp. 1-5.
Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1726, pp. 3-4.
3
B. Montevecchi, scheda 54, in Ori e argenti 2001, pp. 148-149, con bibliografia
precedente.
4
ASDC, busta 997. Sul verso del foglio si legge: “Nel nome di Dio. Amen. Questa
è una pubblica, ed autentica copia della parte anteriore/della Croce Stazionale, di
cui fassi uso nelle pubbliche Processioni dal R(everendissi)mo Capitolo, e/clero
della Cattedrale di Cingoli, la qual Croce e tutta ricoperta di lastra di Argento,/e
le figure che in essa si vedono sono impresse col Bolino, e questa Copia confron=/
ta diligentemente, e nelle più minute parti è uniforme col suo Originale, siccome
à/ciaschuno è visibile. In Fede di che ne hò fatta la presente dichiarazione inscrita/
col mio publico segno di notaio. Cingoli questo dì 24. Agosto 1770./Così a Gian
Francesco Torretani notaro publico Collegiale di Cingoli rogato.”
5
Montagu 2009.
6
Montagu 2007, p. 13.
7
Riccio di pastorale in argento, altezza 32 cm.
8
J. Montagu, scheda 4, in Ori e argento 2007, p. 218, con il riferimento archivistico. Montagu 2009, pp. 402-403.
9
Montagu 2009, p. 402.
10
Sacre visite 1726-1858, 1979, sacra visita del 1777, p. 174.
11
Montagu 2009, p. 385.
12
Calice in argento, altezza 27 cm, diametro del piede 14,2 cm, diametro dell’orlo della coppa 9,3 cm.
13
J. Montagu, scheda 8, in Ori e argento 2007, p. 219; Montagu 2009, pp. 107109.
14
Ostensorio raggiato in argento, altezza 66 cm.
15
S. Bini, J. Montagu, scheda 9, in Ori e argento 2007, p. 219, con il riferimento
archivistico.
16
Montagu 2009, p. 381.
17
Montagu 2009, p. 369.
18
Montagu 2009, p. 407.
19
Montagu 2009, p. 266.
20
S. Bini, J. Montagu, scheda 9, in Ori e argento 2007, p. 219.
21
Braccio reliquiario in argento con anima in legno, altezza 51 cm. Vedi G. Barucca, scheda 126, in Ori e argenti 2001, p. 229.
1
2
S. Bini, scheda 17, in Ori e argento 2007, pp. 221-222, con bibliografia precedente.
23
Ostensorio raggiato in argento. Altezza 73,5 cm. In una cartella della base è incisa la seguente iscrizione: “Ob Immunitatem officiorum sibi indultam D. Anna
Teresia Castiglioni dono dedit ann 1752”.
24
Navicella in argento. Altezza 16,6 cm, diametro del piede 9,2 cm. Intorno alla
valva fissa del coperchio è incisa la scritta: “Ecclesiae Cingulanae anno MDCCLXXVI Capitulum Cathedralis”.
25
Calice d’argento, altezza 27 cm, diametro dell’orlo della coppa 9 cm, diametro
della base 15cm. Iscrizione:”G S R E Praes Card Calcagnini Episc Auxim MDCCXCIV”.
26
Malazampa 1939, pp. 24-25.
27
Peri 1992, s.p.
28
Guglielmo Malazampa inserendo questo servizio da purificazione tra gli oggetti
donati alla cattedrale cingolana dalla famiglia Castiglioni dopo la morte di Pio
VIII, lo definisce: “Tazza con piattino e coperchio di argento, sormontato da un
angelo di metallo dorato”. Malazampa 1939, p. 25.
29
Pisside in argento dorato, altezza 24 cm, diametro del piede 8,5 cm, diametro
dell’orlo della coppa 8,5 cm.
30
Servizio per aspersione composto da aspersorio e secchiello per l’acqua benedetta in argento dorato. Secchiello, altezza 13,5 cm, diametro del piede 8 cm,
diametro dell’orlo della coppa 15 cm.
31
Pennacchioni 1994, pp. 189-192.
32
Nardinocchi 1992, s. p.
33
Calice in argento dorato, altezza 31 cm, diametro del piede 13 cm, diametro
dell’orlo della coppa 8 cm. Vedi G. Barucca, scheda 145, in Ori e argenti 2001, p.
249, con bibliografia precedente.
34
Pennacchioni 1994, pp. 234-245.
35
Rosa d’oro, altezza 102 cm. Vedi G. Barucca, scheda 146, in Ori e argenti 2001,
p. 252, con bibliografia precedente.
36
Calice in argento, altezza 32 cm, diametro del piede 14 cm, diametro dell’orlo
della coppa 9 cm. Al di sotto del piede è incisa la seguente iscrizione: “Ex-Legato
Aloisii Bruschetti episcopi Abidensis qui decessit sexto Kal nov: MDCCCXXXI”
37
Malazampa 1925, pp. 18-19.
22
Treia
Pagine precedenti:
Gloria di angeli, stucco,
trabeazione del presbiterio
TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA
255
LA STORIA RELIGIOSA DELLA
CONCATTEDRALE DI TREIA
Egidio Pietrella
Dalla antica “pieve di S. Maria de Trea”
alla “collegiata” di Montecchio
La romana Trea (uno dei distretti prefettizi dell’agro piceno costituiti con la
conquista romana del 268 a.C. e dalla metà del 1° secolo a. C. municipio a
costituzione duovirale, ascritto alla tribù
“Velina”), era ubicata sul pianoro dell’attuale contrada del Santissimo Crocifisso.
Anche se non possediamo una documentazione esplicita, ratione analogiae con gli
altri centri romani raggiunti presto dalla
predicazione evangelica, Trea pure ricevette ben presto il cristianesimo e si può
supporre che sia stata anche sede vescovile. Fu distrutta da Alarico nel 404; seguirono poi la guerra greco-gotica e il grave
dominio bisecolare dei Longobardi. Tutti questi sconvolgimenti provocarono,
come in altri centri limitrofi del Piceno,
distruzioni e inesorabile decadenza che,
per la nostra città, raggiunse il culmine
verso la fine del sec. VII - inizio sec. VIII.
I centri cristiani che avevano perduto la
sede vescovile furono affidati alla guida
dei vescovadi superstiti: Trea fu sotto la
giurisdizione dei vescovi di Camerino.
Successivamente Saraceni e Ungari ne
accentuarono il declino. Con l’arrivo dei
Franchi, in seguito alle ripetute donazione effettuate a favore del patrimonio
di San Pietro, Trea passò sotto il potere
temporale dei Papi.1
Tra le rovine dell’antica Trea sorse nell’alto medioevo (VII-VIII sec.) la “pieve”,
che, secondo il Turchi2 sarebbe stata la
prima cattedrale, ma certamente elemento principale di aggregazione, conti-
Lapide dedicatoria del vescovo Cosimo Torelli, in ricordo del Sinodo del 1726
nuità e frequentazione dell’antico luogo
romano e a cui gli storici locali3 dànno il
titolo di “Santa Maria”, mentre più recentemente Fabrini la chiama “Ecclesia
Sancti Johannis plebis de Trea”, fondandosi su una pergamena del 1157, dove,
tra l’altro, riapparirebbe per la prima volta in epoca post- romana il nome antico
di Trea. La medesima studiosa sostiene
- in base a documenti da lei citati - che
negli anni 1268-1275 coesistono la pieve
di San Giovanni a Trea e la pieve di Santa
Maria in Montecchio, nome della nuova Trea, costituitasi sul vicino “piccolo
monte”; ma sul finire del sec. XIII e per
tutto il sec. XIV ed oltre, la pieve di Santa Maria di Montecchio, con pievano e
canonici, documentati sin dal 1272 (che
sarebbe la più antica data che testimonia
l’esistenza della pieve di Montecchio)
si afferma sempre più come la chiesa
urbana principale, ovvero “collegiata”;
mentre quella di “S. Giovanni de Trea”
va incontro ad una più o meno graduale
irreversibile decadenza.4
Tradizionalmente si sostiene, in base alla
citata iscrizione, secondo cui nel “1460
fu costruita la domus dedicata a San Gio-
256
Egidio Pietrella
restauri: nel 1304; 1545; 1732. L’importanza che essa aveva acquisito si deduce
dal fatto che fu sede nei giorni 2-3-4
giugno 1726 di un sinodo della diocesi
di Camerino, come risulta da un’epigrafe fatta scolpire dal collegio dei canonici:5 “D. O. M. / Cosmo Torelli Episcopo Meritiss./Ob Dioeces. Sinodum / In
hac insigni Collegiata / Trid. ante Non.
Jun. celebr. / A. MDCCXXVI/Archip. et
Can. M. PP.”
L’edificio sacro, rivolto verso occidente,
aveva tre navate, la maggiore delle quali
terminava con l’altare maggiore e il coro
composto di quattordici seggi. Conteneva sette cappelle: due ai lati del coro; tre
nella navata in cornu evangelii (dedicate
all’Immacolata; alla Vergine del Rosario; a San Rocco); due in cornu epistolae
(Cristo deposto dalla croce; S. Anna e
sua figlia Maria). I titoli cui erano dedicate informano ovviamente sul culto e
le devozioni allora praticate in essa. Era
dotata di sagrestia, di fonte battesimale
e di torre campanaria costruita nel 1459,
sotto la reggenza del pievano Giacomo
de Nigris, che è quella tuttora esistente.
In questa chiesa tenne sacra predicazione
il celebre San Leonardo da Porto Maurizio, che, secondo la tradizione, parlando
al popolo nella piazza maggiore, rimase a
lungo elevato in alto.6
Luigi Romagnoli, Annunciazione, da Guido Reni
vanni, il quale battezzò Cristo, e il dottore e superiore De Nigris di Montecchio
diede il fonte battesimale”, che solo in
quell’anno sia stato trasferito il battistero
nella chiesa “collegiata” di Montecchio.
Nonostante le diverse interpretazioni sul
titolo, la chiesa urbana di Montecchio
era ormai emergente e soppiantava la
pieve antica dell’ex area romana; era de
facto una “collegiata”, costituita cioè nei
suoi membri da un “collegio” di presbiteri che conducevano una vita comune,
presieduto da un superiore (canonico).
Tale collegiata ebbe vari ampliamenti e
Dalla collegiata alla cattedrale della
Santissima Vergine Annunziata
(1782-1814)
Nella metà del Settecento era giunto il
tempo di dare alla chiesa collegiata una
struttura migliore e più ampia. Con il
consenso del papa Pio VI (che fu generoso di sussidi materiali per l’erigenda
nuova chiesa), la prima pietra fu posta il
29 marzo 1782 e ne fu architetto Andrea
Vici, di Arcevia, discepolo di Vanvitelli.
Tutto il popolo contribuì generosamente con offerte alla sua costruzione, e lo
stesso san Benedetto Giuseppe Labre, nei
TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA
suoi frequenti passaggi nella città di Treia
durante i pellegrinaggi a Loreto, trasportò di persona i mattoni per la su edificazione. Ma i tempi si fecero lunghi per la
sua definitiva costruzione.
Nel frattempo un fatto veramente notevole riguardò Treia. Infatti, il 2 luglio
1790 con la bolla Enixum animi nostri
studium il papa Pio VI conferì a Montecchio il titolo di città, restituendo ad
essa l’antico nome di Treia. Varie e ripetute richieste i Treiesi avevano avanzato
ai papi a questo fine. Nel 1785 essi eressero nella piazza maggiore della città un
tempietto destinato a contenere un busto
di bronzo di Pio VI, modellato dal romano Tommaso Righi e fuso in bronzo
dal treiese Antonio Calamanti. All’inaugurazione si accompagnarono tre giorni
di festeggiamenti. La bolla dell’erezione
a titolo di città sintetizzava la storia di
Treia: dall’antica sede romana - vi si legge
- gli abitanti fuggirono sul vicino colle di
Montecchio, che progressivamente giunse a tale rinomanza da essere annoverata
tra le più importanti città della Provincia
Picena. Gli abitanti ammontano ora a
7000 unità; numerosi edifici pubblici e
privati l’adornano, e vi si trovano molte nobili famiglie; il territorio è vasto, il
clima è clemente. La Bolla così continua: “Accresce particolarmente il decoro
del Castello [di Montecchio] l’insigne
chiesa collegiata, dedicata all’Annunciazione della Beata Vergine Maria e a San
Giovanni Battista, prima del XII secolo dell’era volgare, istituita nello stesso
tempo come si tramanda; in essa si tenne anche il Sinodo Diocesano nell’anno
1726, e oltre la Dignità di un arciprete
attendono assiduamente al culto divino quattordici canonici, ornati di mozzetta violacea e di rocchetto, fra i quali
uno adempie ai doveri di penitenziere e
un altro di teologo e alcuni mansionari
addetti al tempio. Tre sono le parrocchie
nel Castello [e verosimilmente: la colle-
257
Romano Miccinelli, Madonna della Misericordia
giata dell’Annunziata, la Prepositura di
San Michele Arcangelo, la Curia Priorale
di San Giacomo e di Sant’ Egidio, unite
insieme] e i Rettori di esse si occupano
della cura delle anime; nella campagna
sono quattro le chiese parrocchiali. In
esso si contano quattro case di religiosi
regolari [e cioè i Minori Conventuali, i
Minori Osservanti Riformati, i Cappuccini, Agostiniani] e un’altra dei Presbiteri
della Congregazione dell’Oratorio di S.
Filippo Neri e due monasteri femminili
[delle monache Benedettine e delle Clarisse]. Inoltre, sono stati istituiti ospedali
258
Egidio Pietrella
Pietro Tenerani, busto di Pio VII
La sacrestia
per i malati, i derelitti, i pellegrini e la pia
casa del Monte di Pietà e le altre dei Monti Frumentari per il sollievo dei poveri e
ultimamente una Casa di Correzione per
i giovani. Non mancano svariati sodalizi
di laici per svolgere opere pie, istituiti in
forma regolare…non da molto tempo
sono stati aperti a tutti pubblici ginnasi
letterari e quattro cattedre dalle quali si
insegnano le scienze superiori…sono in
vigore anche università delle arti e fabbriche di tele di lino e di cotone erette da
noi per mezzo delle Lettere Apostoliche
del 15 settembre 1781.”7 Come si legge,
Il testo presenta un importante quadro
generale della situazione religiosa, culturale e sociale della città.
Finalmente, dopo circa trenta anni, la
nuova chiesa fu portata a termine nel
1814; fu benedetta l’11 aprile, domenica
delle Palme e solennemente consacrata il
29 settembre 1814 da Vincenzo Maria
Strambi vescovo di Macerata e Tolentino.
Una lapide in stile solenne ne tramanda
debita memoria:“Ciò che i pubblici voti
auspicavano / Treia / perché restasse memoria visibile/della sua pietà e venerazione / verso Maria Santissima Madre di
Dio, / rimossa l’antica chiesa consacrata
al medesimo Nome, / dedicò un secondo tempio/elevato con un meraviglioso e
ampio sopraelevato piano dell’abside / e
riedificato dal suolo, / alla Vergine grande Madre / il tre aprile 1814 / nella domenica della Settimana santa”.
La chiesa è dedicata alla Vergine Annunziata, la cui immagine, copia dell’originale dipinto di Guido Reni in Roma
(Quirinale), sovrasta ora l’altare maggiore. L’edificio ha un’ampia cubatura e
una notevole capienza. Esso, oltre l’altare
maggiore aveva (ed ha) cinque cappelle,
con gli stessi titolari (di allora), salve alcune modifiche anche nella struttura e
nei monumenti aggiunti. A partire dal
fondo della navata destra, la prima cappella è dedicata alla Madonna del Rosario con i misteri raffigurati all’intorno.
Proseguendo si incontra la cappella della
Madonna della Misericordia, dipinta da
Romano Miccinelli, che fu incoronata
dal papa Pio VII di ritorno dall’esilio napoleonico nel santuario di San Nicola di
Tolentino il 17 maggio del 1814. Presso
l’altare si ammira il busto del pontefice,
opera di Pietro Tenerani, scultore neoclassico allievo del Canova. Dell’evento
la seguente epigrafe, tradotta in italiano
dice: “A Pio VII Pontefice Massimo,/protettore, difensore invitto e martire della
fede cristiana,/nel suo ritorno a Roma
dalla prigionia al trionfo,/che sostando
a Tolentino il 17 maggio 1814/incoronò con serto aureo la sublime immagine della Vergine Madre di Dio,/venerata
in questo tempio principale con il titolo
della Misericordia/ed accrebbe verso di
Lei il culto perenne/i canonici, l’autorità
e il popolo di Treia/posero”.
La devozione e la riconoscenza dei Treiesi
al papa Pio VII furono motivate soprattutto dalla concessione tanto attesa della
diocesi e della conseguente elevazione
della collegiata a cattedrale, provvedimento che fu stabilito mediante la bolla
TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA
Il coro ligneo
Cappella del Preziosissimo Sangue
Pervetustam locorum originem dell’8 febbraio del 1816; che la unì aeque principaliter a Camerino, e non a San Severino
come si desiderava.
Una epigrafe voluta dal cardinale Grimaldi attesta il fatto tanto atteso: “A Pio
VII Pontefice Massimo/che ha ristabilito
la sede episcopale di Treia/Il cardinale
Nicola Grimaldi pose/nell’anno 1834”.
Presso l’altare si conserva anche il busto
del papa marchigiano Sisto V che aveva
avuto intenzione di restituire a Treia la
diocesi, ma vanamente per le discordie
degli stessi abitanti. Una lapide fatta apporre dal cardinale Grimaldi ricorda la
benevolenza del papa marchigiano con
queste parole tradotte in italiano: “A
Sisto V Pontefice Massimo/per i grandissimi meriti verso la città e i cittadini/
Nicola Grimaldi di Treia/Governatore di
Roma e Camerlengo della santa Chiesa
di Roma/dedicò nell’anno 1833”.
Il terzo altare proseguendo sempre nella
navata di destra è dedicato ora al Sacro
Cuore (il cui culto si intensificò soprat-
tutto nell’800 e quindi fu introdotto successivamente), mentre allora era dedicato
a Sant’ Anna, madre della Madonna. In
fondo alla navata si entra nella sagrestia,
vero scrigno di tesori d’arte.
Dalla sagrestia si accede al Coro dell’emiciclo absidale, opera come anche i dieci
portoni dell’edificio, di pregiata falegnameria locale realizzata nel 1813. Gli inginocchiatoi ai lati dell’altare maggiore
provengono dal vecchio convento dei
padri Agostiniani. La balaustra in ferro
battuto e i pomelli di ottone delimitanti il presbiterio furono eseguiti all’inizio dell’ ‘800. In alto, sulla parete nord
del presbiterio era collocato l’organo di
Gaetano Callido del secolo XVIII. Dal
coro si passa a sinistra alla cappella del
Preziosissimo Sangue, dove nell’arca sottostante l’altare si conserva il simulacro
del Cristo Morto, donato alla cattedrale
il 15 marzo 1884 da Pietro Testa, utilizzato nella liturgia del venerdì santo.
Avanzando nella navata di sinistra, si incontra la cappella della Madonna della
259
Colonna, già dell’antica collegiata (sec.
XV). Le statue di San Pietro e San Paolo,
di marmo statuario, opera dello scultore
Andrea Bregno (1418-1506), provenienti dall’antica basilica costaniniana di San
Pietro in Roma, fiancheggiano il monumento in onore del cardinale treiese Niccolò Grimaldi (1768-1845), personaggio
illustre e munifico benefattore di Treia e
della sua cattedrale. Egli ebbe prestigiosi
incarichi da Pio VII, Leone XII, Pio VIII
e Gregorio XVI, che lo nominò Governatore di Forlì. Una lunga iscrizione ne
numera le benemerenze con queste parole tradotte dal latino: “A Nicola Grimaldi uomo eccellentissimo/Governatore di Forlì/poiché/il tempio episcopale
della Chiesa di Treia,/la cui realizzazione
dell’opera fin dall’inizio della sua costruzione/quando ancora viveva in patria da
privato cittadino,/(e) nella carica pubblica di Governatore/sosteneva e spronava;/
scelto tra i vescovi della città di Roma,/
sebbene dedito attivamente ad impegni
importantissimi/a lui affidati dai Sommi Pontefici Pio VII Leone XII Pio VIII
Gregorio XVI,/tuttavia mai dimenticò/e
ornò con pietoso zelo di munificenza
mediante pregevoli statue di Sisto V e di
Pio VII/ultimamente poi con la statua
argentea di San Patrizio vescovo Patrono
Celeste/i canonici di Treia/in memoria di
così grandi benefici/dedicarono al grandissimo cittadino/nell’anno 1838”.
Proseguendo verso l’uscita, si incontra
l’altare del Santissimo Sacramento, opera
del sec.XVII, acquistata dai Padri Agostiniani di Sant’ Angelo in Pontano e,
restaurata, collocata qui il 17 dicembre
1840.
L’ultima cappella era (ed è) dedicata a
san Rocco, la cui statua e il quadro sono
stati nel frattempo trasferiti altrove per
custodire nella cappella la statua di san
Patrizio patrono della città.
Come si può osservare, pochi sono stati
i mutamenti verificatisi nella planime-
260
Egidio Pietrella
Cenotafio del cardinale Nicolò Grimaldi
Lapide in onore del cardinale Nicolò Grimaldi, 1838
Monumento funebre di Grimaldo Grimaldi
tria e nella titolazione delle cappelle; essi
sono stati introdotti in base allo sviluppo
delle devozioni e al verificarsi di eventi
e dell’opera dei personaggi successivi alla
originaria costruzione.
L’edificio sacro è fornito anche di una
ampia cripta alta circa sei metri, con una
superficie pari alla metà della chiesa superiore.8
Il restauro della chiesa per iniziativa del
Capitolo della cattedrale fu eseguito nel
1875, come si legge in un’epigrafe tradotta dal latino: “Questo tempio/della
Madre di Dio Annunziata/costruito dalle
fondamenta dall’architetto Andrea Vici /
sul finire del secolo XVIII/e consacrato
con rito solenne/da S. Vincenzo Maria
Strambi vescovo di Macerata/nell’anno
della Redenzione 1814/il Capitolo dei
Canonici/restaurò nel 1875”.
Nel 1959, su iniziativa del vescovo Ferdinando Longinotti che in quell’anno celebrava il 25° del suo episcopato, il pittore
e restauratore professore Turoldo Conconi di Como portò a termine il restauro
e la decorazione della chiesa, come testimonia la seguente lapide:“Ferdinando
Longinotti/Vescovo di S. Severino/
Amministratore perpetuo della Diocesi di Treia/Nel 25° anno del suo ufficio
episcopale/A 100 anni dall’apparizione a
Lourdes/della Vergine Immacolata,/alla
fine del pontificato di Pio XII/e all’inizio di quello di Giovanni XXIII/fece restaurare egregiamente questo tempio/per
opera di Turoldo Conconi di Como./Il
Capitolo dei canonici/pose a ricordo perpetuo dell’evento./Anno 1959.”
Più recentemente, in seguito al sisma del
1997-98, furono eseguiti lavori di consolidamento e di restauro portati a termine
il 22 maggio 2001.
zio della cura animarum, e, quindi, con
la guida pastorale della parrocchia.
Riguardo al Capitolo (della Collegiata e
poi Cattedrale) di Montecchio non esistono documenti anteriori al secolo XVI.
Si ritiene, tuttavia, che i primordi della
sua origine e organizzazione risalgano già
all’antica pieve di Trea.9 Nel costituirsi
successivamente del nuovo centro collinare di Montecchio, l’originario collegium di presbiteri si trasferì intra moenia,
avendo come sede una “canonica” sita in
prossimità di una chiesa (chiamata appunto “collegiata”) derivante, come sembra, da due chiese preesistenti, dedicate
a San Giovanni Battista e a San Nicola
da Bari.10 Da alcuni documenti esistenti
nell’Archivio Capitolare e risalenti agli
anni 1516-1578; e 1530-1630, e dalla
“Scrittura fatta a vantaggio del Capitolo vecchio nell’anno 1810 sull’atto della
soppressione del Capitolo nel 1810” da
parte del governo napoleonico, redatta
da Fortunato Benigni; e dalla “Risposta
ai 25 quesiti” proposti dal Benigni al se-
Il Capitolo e la parrocchia
Alla cattedrale sono connesse la presenza e l’attività liturgica del Capitolo dei
Canonici, nella sua triplice funzione di
“senato del vescovo”, nella celebrazione
quotidiana in maniera corale del culto
divino, e con lo svolgimento dell’eserci-
TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA
261
Lapide con memoria del restauro della chiesa nel 1959
Lapide con memoria del restauro della chiesa nel 1875
gretario del Capitolo dell’epoca Milone
Meloni, “si ricava la fisionomia di un
Collegio, costituito già anteriormente
alla prima decade del secolo XVI e composto in quest’epoca da sette canonici,
compreso il pievano, riuniti intorno alla
chiesa detta appunto “collegiata”, tutti
con cura d’anime, percettori di decime
dai parrocchiani a ciascuno assegnate, con vita, casa e patrimonio comune
- presumibilmente di pertinenza della
chiesa- certamente fino al 1564, cioè fino
al decreto della riforma generale attuata
dal Concilio di Trento, che tra l’altro, assicurava ai Capitoli la pienezza di potere
nell’amministrazione dei beni propri”.11
Il Capitolo aveva una “Dignità”, prima
chiamata “pievano”, poi “arciprete”; dei
sei canonici uno nel 1734 ebbe l’ufficio
di “penitenziere” e un altro, nel 1754, di
“teologo”.
Nel corso del tempo, dal 1600 fino al
1800, il numero dei canonici si accrebbe
fino a contare quindici membri, e in più
un’altra “Dignità”, l’Arcidiacono, istituita nel 1859.12 Il Capitolo fu progressivamente dotato di quattro mansionari;
arricchito di benefici e legati pii. Il beneficio di “Sagrestia”, dapprima quale organo del Capitolo, amministrava la “Massa
Comune”; poi finì per gestire – tramite
un prefetto scelto e gremio Capituli – il
complesso dei diritti e doveri dei canonici. Nel 1867 il nuovo Stato Italiano
incamerò i beni del Capitolo e soppresse
tre canonicati.
Statuti, Costituzioni e Decreti relativi al Capitolo sono documentati in un
atto notarile del 1543; in un decreto del
cardinale Franzoni visitatore apostolico (1670); in un testo manoscritto del
1740; in un altro del 1822; del 1844;
del 1905. Altre Costituzioni risalgono al
1930 in un opuscolo a stampa. Secondo l’annuario interdiocesano del 1973,
il Capitolo della Cattedrale di Treia era
costituito dall’Arcidiacono e da otto canonici e due mansionari.
In seguito alla unificazione delle cinque
diocesi autonome, nel 1998 il Vescovo
Luigi Conti approvò (6.01.1998) un
nuovo Statuto. L’unico Capitolo della Cattedrale di Macerata costituito dai
canonici provenienti dalle precedenti
cattedrali autonome ha un compito prettamente liturgico con l’impegno di partecipare alle solenni liturgie del vescovo e
alle feste dei Patroni delle cinque Vicarie.
Il ruolo di affiancare il Vescovo nel governo della diocesi è passato al Collegio
dei Consultori e al Consiglio Presbiterale
diocesano.
Al Capitolo spettava anche la cura animarum del territorio, che non si limitava
al solo ambito urbano (dove esistevano
un tempo l’altra parrocchia della Prepositura di San Michele Arcangelo, e la
Prepositura di San Martino vescovo, ben
presto annessa alla pieve di Santa Maria,
il cui rettore o plebano, era chiamato
anche prevosto; quest’ultima chiesa fu
abbattuta all’inizio del secolo XIX), ma
si estendeva anche nell’ampia campagna
circostante. Per questo la parrocchia della
Santissima Annunziata della Cattedrale
nel secolo XIX subì vari smembramen-
262
Egidio Pietrella
Pergamena con la Tabella degli obblighi dell’insigne collegiata di Treia, Archivio Capitolare di Treia
ti. Nel 1828 nel borgo di Passo di Treia
fu istituita la parrocchia di Sant’ Ubaldo; nella metà dell’800 nella zona detta
“Le Breccie” fu creata la parrocchia dei
Santi Vito martire e di Patrizio vescovo;
nel 1882 fu eretta la parrocchia di Santa Lucia nella zona di Camporota. Il De
Mathia nel 1900 elenca sei parrocchie
rurali esistenti nel territorio treiese costituenti tre “Curie Foranee”: quella di San
Lorenzo, con la parrocchia omonima e
quelle dei Santi Angelo e Carlo; di Santa
Maria di Paterno; l’altra Curia foranea di
Chiesanuova comprendeva la parrocchia
dei Santi Vito e Patrizio, di Santa Lucia
(Camporota), la cappellania (quasi parrocchia) di Santa Maria in Selva; la terza vicaria foranea era costituita soltanto
dalla parrocchia di Sant’ Ubaldo, del medesimo borgo.13 Nel 1973 la parrocchia
contava 3200 abitanti; nel 1985, 3.028;
nel 2000, 3.953 anime per accorpamento (1986) delle parrocchie di San Michele e di Santa Maria di Paterno.
Confraternite
Nel corso del tempo la collegiata e poi
cattedrale di Treia ha avuto sette confraternite.
La Confraternita del Santissimo Sacramento fu eretta all’inizio del secolo XVI,
per promuovere il culto all’Eucaristia;
nel 1537 fu aggregata all’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento di S. Maria
sopra Minerva. Gestiva anche un monte
di pietà.
La Confraternita del Santo Rosario fu
eretta nel 1594.
La Confraternita di San Giuseppe fu istituita – su richiesta dei falegnami – nel
1639. Dalla Collegiata fu trasferita successivamente in altra sede.
La Confraternita del Preziosissimo Sangue di nostro Signore Gesù Cristo fu
eretta in cattedrale alla fine del sec. XVIII
per promuovere nei fedeli la venerazione
verso la Passione e la morte del Redentore; fu aggregata all’Arciconfraternita
della Basilica di San Nicola in Roma.
Nella cattedrale aveva la sua cappella con
il giuspatronato il Capitolo, con un canonico Priore.
La Confraternita della Beata Vergine
Maria della Misericordia fu eretta nel
1728 ed è legata alla venerazione dell’
immagine della Madonna della Misericordia, insigne per fama di miracoli e per
frequenza di popolo. E’ invocata anche
per ottenere una buona morte. La sacra
immagine fu incoronata dal papa Pio VII
il 17 maggio 1814 in Tolentino nella Basilica di San Nicola; ed ebbe la Messa e
l’ufficio propri nell’anniversario dell’Incoronazione. La confraternita fu associata a quella degli Agonizzanti fruendo di
numerose indulgenze.
La confraternita della Beata Vergine del
Suffragio eretta nel 1696, aggregata nel
1718 alla Congregazione della Santissima Trinità per la redenzione degli schiavi, in un primo tempo ebbe la sede nella
collegiata; poi fu trasferita altrove.
La confraternita di Sant’ Antonio di Padova fu eretta nel secolo XIX.
Nel 1798 sotto il periodo napoleonico
furono abolite le confraternite di Sant’
Antonio di Padova; di Santa Maria Maggiore, di Santa Maria della Misericordia,
di Santa Maria del Suffragio, di Santa
Maria Assunta in cielo, di Santa Maria
del Buon Consiglio.14
Attualmente sono attive cinque Confraternite: del Preziosissimo Sangue; del
TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA
Santissimo Sacramento; del Santissimo
Crocifisso; della Misericordia; della Madonna del Buon Consiglio.15
Personaggi ed eventi principali
Treia vanta personaggi illustri: tra i tanti si ricordano, non solo Carlo Didimi
(1798-1877) di nobile famiglia, grande
campione nel gioco del bracciale (cantato da Giacomo Leopardi nell’ode Ad un
vincitore nel gioco del pallone) ed anche
esponente convinto e attivo del Risorgimento secondo l’ispirazione mazziniana);
ma soprattutto il padre Ilario Altobelli
(1560-1637) dei Francescani Conventuali, religioso dotto e pio, dedito all’arte
oratoria, allo studio delle lingue e delle
scienze matematiche e fisiche; il gesuita
Luigi Lanzi, nato a Treia nel 1732 ed ivi
vissuto fino a dodici anni, archeologo,
filologo, storico dell’arte; Bartolomeo
Vignati, fondatore dell’Accademia letteraria-umanistica dei “Sollevati” e vescovo
di Senigallia (1431); Francesco Ansaldo
Teloni vescovo di Macerata e Tolentino
(1824-1846) definito “specchio dei Vescovi. Teologo, giurista, letterato, prosatore e poeta affettuoso; eruditissimo; per
affabilità e filantropia e per tutte le virtù
ricordevole, di cui Macerata si dà vanto
ancora e sente desiderio non perituro”.
A lui una lunga lapide elogiativa si legge a destra della cappella del Santissimo
Sacramento nella cattedrale di Macerata.
Da non passare sotto silenzio è la prestigiosa “Accademia Georgica”, che segnò
ripresa e sviluppo (dal 1778) sul piano
dell’agricoltura e dell’industria di quella dei “Sollevati”, rifondata dai fratelli
Callisto e Fortunato Benigni e dall’abate
Luigi Riccomanni. L’importante istituto
culturale-scientifico ha tuttora una sede
propria in un elegante edificio, opera
dell’architetto Giuseppe Valadier, e giuridicamente è Ente Morale costituito
con Decreto Presidenziale n. 1230 del
16 ottobre 1954. Esso conserva tutto il
Domenico Ciaramponi, Visione del beato Pietro da Treia
patrimonio librario e documentario del
Comune, compreso quello delle case religiose, con millecentonovantasei pergamene, incunaboli e una ricca biblioteca
di oltre quindicimila volumi.
Sul piano ecclesiastico si ricordano i sinodi diocesani del 1837 indetto dal vescovo
Nicola Mattei; del 1901 dal vescovo Celestino Del Frate.
Soggiornarono nel territorio di Treia i
papi Nicolò V nel 1449, sostando presso
il monastero di Valcerasa già dei “Fraticelli”, dalla cui eresia esortò i Treiesi a
guardarsi; e il papa Pio II, essendo diretto ad Ancona per intraprendere la spedizione contro i Musulmani e riprendere
i territori da loro occupati, si fermò a
Valcerasa il 13 e il 14 luglio del 1464,
accolto calorosamente dai Treiesi.
Sempre sul piano più strettamente religioso non minori sono i meriti di Treia.
Essa ha come patrono della città e diocesi
san Patrizio vescovo, apostolo e patrono
dell’Irlanda (385-461). Fu scelto dai Treiesi come loro patrono alla fine del secolo
XV o all’inizio del secolo seguente. Infat-
263
ti, nel 1482 la Patrona principale di Treia
era ancora la Beata Vergine Maria Madre
di Dio. Nel corso del tempo, la sua festa
ha cambiato più volte data. Ora si celebra secondo il calendario universale il 17
marzo.
Compatrona di Treia è la Vergine Lauretana. Immagini della Madonna di Loreto
si trovano nella cripta della concattedrale
(olio su tela, seconda metà del sec.XVIII);
nella chiesa dell’ospedale (plastico del sacello lauretano, XIX secolo); nel monastero delle Visitandone di S. Chiara; sulla
facciata del palazzo comunale.16
Tra i santi oriundi o vissuti a Treia si ricordano: il beato Pietro Marchionni, più
comunemente detto “beato Pietro da
Treia”, di cui si conserva la statua, opera
della ditta Collini di Faenza (4 settembre 1904), uno tra i primi seguaci di san
Francesco d’Assisi, facente parte del gruppo degli “zelanti” Clareni, rigidi osservanti della povertà francescana, che ebbero
sede in Valcerasa. Il corpo del beato si
venera a Sirolo (AN), dove il santo morì.
Nel 2005, V centenario della morte, si è
svolta nella città di Treia e nelle parrocchie della vicaria una peregrinatio con le
venerate spoglie del santo francescano.
Inoltre, santa Veronica Giuliani, canonizzata nel 1830: era nata ex antiqua
Julianorum Trejensi familia, Tipherni
Monialis cappuccina. Obiit anno MCCCXXVII. Meno ricordato, perché nato
a Siena, ma detto da Montecchio, fu il
beato Antonio, dell’Ordine Agostiniano,
per la lunga permanenza in questa città,
dove morì il 13 agosto 1495 a 72 anni.
Sotto l’aspetto religioso non si può dimenticare di Treia il santuario del Santissimo Crocifisso, sito sul luogo della Trea
romana, e dell’antica pieve cristiana che
ne continua, in certo modo, la tradizione
storica e religiosa. I documenti più antichi della chiesa risalgono al XII secolo e si conservano nell’archivio dell’Accademia Georgica. Nell’ex area romana
264
prese crescente vigore la venerazione al
Santissimo Crocifisso, raffigurato, dal
volto molto espressivo, in una scultura
di legno policromo, del secolo XV. In un
primo tempo (1519) furono chiamati a
reggere la chiesa i Padri della Congregazione Fiesolana di San Girolamo. Sciolta
tale congregazione dal papa Clemente
IX, subentrarono nel 1671 i Francescani
Minori Riformati. Dopo la loro espulsione nell’epoca napoleonica (1810) e del
nuovo Regno d’Italia (1867), vi ritornarono e vi reggono tuttora il santuario e
il convento. Il complesso architettonico
è costituito da due costruzioni di epoca
diversa: a sinistra la chiesa è del secolo
XX su disegno di Cesare Bazzani; a destra il convento è del secolo XVII-XVIII.
Il santuario è ancora oggi molto frequentato; in esso si svolgono numerose cerimonie e feste liturgiche.17
NOTE
Fabrini 2004a, pp. 69-71.
Turchi 1762, cap. IV, apud De Mathia 1901, p. 183.
3
Turchi 1762, p. 46; De Mathia 1901, p. 73; Meriggi 1978a, p. 49.
4
Fabrini 1990, pp. 140-141. Per la Fabrini la costruita domus sacrata Joanni di
cui parla un’antica epigrafe non sarebbe la chiesa dedicata a S. Giovanni Battista
esistente in Montecchio, restaurata o ricostruita, come gli altri storici intendono,
ma la casa del collegium dei canonici: da qui deriva la divergenza sul titolo della
“pieve” dell’antica Trea, ivi, passim.
5
De Mathia 1901, pp. 174.185. Traduzione: “A Dio Ottimo Massimo. A Cosmo
Torelli molto benemerito / per il Sinodo celebrato / in questa insigne collegiata / nei
tre giorni 2-3-4 giugno1726 /. L’arciprete e i canonici in memoria posero”.
6
De Mathia 1901, pp. 174-176.
7
Meriggi 1978a, p. 245; da questa pubblicazione si è attinto per tutto l’argomen1
2
to della erezione di Treia a città (pp. 239- 248, passim).
Per la planimetria Cfr. De Mathia 1901, pp. 177-181; 187-10; Treia 2000, pp.
28-33.
9
De Mathia 1901, pp. 125-126.
10
ASCCTr, dattiloscritto di R. Cervigni, 2000?
11
ASCCTr, dattiloscritto di R. Cervigni, 2000? pp. 2-3; De Mathia 1901, pp.
126-127.
12
De Mathia 1901, pp.127-128; ASCCTr, dattiloscritto di R. Cervigni, 2000? p. 3.
13
De Mathia 1901, p. 102.
14
De Mathia 1901, pp. 273-291.
15
Annuario Diocesano 2004, p. 116.
16
Cfr. La Madonna di Loreto nelle Marche 1998, pp.38; 230-231.
17
De Mathia 1901, pp. 236-240; Concetti 1998; Treia 2000, pp. 48-53.
8
CRONOLOGIA
VII-VIII sec. Fondazione della “pieve di S. Maria” nell’area dell’antica Trea romana.
1272 Esistenza sul nuovo nucleo urbano collinare di Montecchio di una collegiata dedicata alla Vergine Maria Annunziata e a S. Giovanni Battista.
1304.1545.1732 Ampliamenti e restauri della collegiata di Montecchio.
1790 (2 luglio) Montecchio riceve dal papa Pio VI il titolo di città e il nome antico di Treia.
1814 (29 settembre) La nuova chiesa costruita (1782-1814) su progetto di Andrea Vici di Arcevia viene consacrata dal vescovo di Macerata e Tolentino Vincenzo
Maria Strambi.
1816 (8 febbraio) Treia (ri)diventa diocesi sotto l’amministrazione apostolica dell’arcivescovo di Camerino e la collegiata è elevata al ruolo di cattedrale.
1914 La diocesi di Treia passa sotto l’amministrazione apostolica del vescovo di S. Severino.
1959 Completamento dei lavori della decorazione dell’interno della chiesa ad opera del pittore Turoldo Conconi.
1968-1975 La diocesi di Treia è retta dagli amministratori apostolici Silvio Cassulo ed Ersilio Tonini vescovi di Macerata e Tolentino.
1975 La diocesi di Treia diventa autonoma sotto la reggenza del vescovo Francesco Tarcisio Carboni.
1986 (30 settembre) Treia è unita all’unica diocesi unificata di Macerata-Tolentino-Recanati-Cingoli, per il decreto della Congregazione dei vescovi. La cattedrale
assume il titolo e il ruolo di concattedrale.
2001 Completamento dei lavori di restauro dopo il terremoto 1997/98.
TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA
265
TRA SPAZIO LONGITUDINALE E SPAZIO
CENTRALE: LA CHIESA DELLA SANTISSIMA
ANNUNZIATA DI TREIA DI ANDREA VICI
Stefano D’Amico
La Pieve di Trea
Gli storici locali del XVIII e del XIX secolo,1 purtroppo senza il conforto di fonti documentali attendibili, disputarono a
lungo sulla presenza di una sede vescovile nel municipio romano di Trea che
si estendeva sul pianoro a ridosso dell’attuale convento del Santissimo Crocifisso.2 Tuttavia, nel corso dei secoli, forti
di una consolidata tradizione popolare, i
treiesi aspirarono sempre a vedersi ‘riconosciuto’ l’antico titolo di diocesi, che in
effetti, papa Sisto V (1585-1590) stava
per concedere se alcune questioni legate
ai benefici e la morte precoce del pontefice non avessero fatto sfumare l’accordo.3
Senza entrare nel merito della questione, notiamo solo che il sostenitore più
convinto dell’esistenza della Diocesi di
Trea, “il censore per le Arti nella Società
Georgica”, Nicola Acquaticci, nel 1890
concludeva un suo ponderoso studio dicendo: “con quanto abbiamo esposto se
non si è evidentemente provata l’esistenza dell’antica Chiesa Treiese, confidiamo
almeno aver sollevato nella mente del lettore un dubbio che inclini a risolversi in
una ragionevole probabilità”.4 Di sicuro
sappiamo solo che sui resti di un edificio dell’antica città romana fu eretta una
chiesa che, nell’alto medioevo, aveva il
titolo di pieve ed era dotata di ricchi benefici e di un fonte battesimale ricavato
in un antico capitello corinzio. La pieve,
continuamente restaurata e ingrandita,
nel 1519 fu concessa ai Padri Girolimini
ai quali subentrarono, nel 1671, i Frati
Minori – che ancora la detengono – per
Veduta da sud
essere infine ricostruita ex-novo su progetto dell’architetto Cesare Bazzani dopo
l’incendio del 26 giugno 1902.5
Anche il titolo della pieve fu oggetto di
una controversia perché nei documenti del XIII secolo coesistono due pievi,
quella di Trea e quella di Monticulo - poi
Montecchio, la città sorta sulla collina
dopo l’abbandono della città romana – e
un solo pievano - tale Jordanus – creando
una certa confusione. Gli storici antichi
erano propensi ad attribuire alla pieve di
Trea il titolo di Santa Maria e a quella
di Monticulo il titolo di San Giovanni,
ma Giovanna Maria Fabrini, in un suo
recente studio, ha rovesciato tale conclusione.6
La Collegiata di Montecchio
L’abate Giuseppe Colucci (1752-1809)
sosteneva che quella attuale fosse la terza
chiesa: la prima sarebbe stata annessa ad
un edificio, sede di un Capitolo di canonici, e basava la sua ipotesi dall’analisi
“della materiale struttura della casa Canonicale annessa alla Chiesa, che tuttora
conservasi nella stessa forma, in cui credo, che fosse fatta nella sua origine (secolo undecimo, n.d.a.) prescindendo da
qualche variazione (…) ha essa la forma
di un chiostro col suo porticato, e cortile.
Ha le sue stanze, che bastar poteano ai
rispettivi Canonici, ed ha la sala di competente grandezza (…) anche il Vescovo
aveva la stanza sua, di cui forse faceva
266
uso, quando colà si portava per qualche
causa”.7 Questa chiesa, secondo quanto
attestava un’iscrizione che il Colucci vide
murata in un angolo del campanile, fu
ricostruita tra la metà del XIII e l’inizio
del XIV secolo. L’iscrizione infatti diceva:
In Dei nomine amen. Anno MCCCIIII.
Indictione II. tempore Domini Bonifacii
Papae VIII. peractum fuit dictum opus sub
dict. Indictione tempore Potestatis, et nobilis viri Domini Antonii… onorabilis Potestatis Monticuli8 e se dunque il campanile
fu ultimato nel 1304 – dice il Colucci - è
presumibile che la chiesa sia stata edificata a partire almeno dalla metà del secolo precedente. Vi era poi una seconda
iscrizione, murata all’interno della vecchia chiesa, che diceva: Virginis a partu
sacrae labentibus annis/ Mille quadrigentis
sex deciesque simul/ Dum constructa fuit
domus haec sacrata Joanni/ Qui Christum
lavit fluminis ante vadum/ Doctor et Antistes de Nigris Monticulanus/ Edidit hanc
Jacobus et lavacrumque dedit e, secondo
l’abate, ricordava il pievano Giacomo de
Nigris che nel 1416, dopo avere riedificato “in più magnifica forma la Chiesa”
vi trasportò il fonte battesimale che era
ancora nella Pieve di Trea.9
Nicola Acquatici, viceversa, era convinto
che un collegio di canonici già esisteva
nella chiesa di Santa Maria di Trea, riedificata “dopo la prima rovina patita da
Treia circa il 405” in sostituzione di una
basilica più antica, ed eretta cattedrale della diocesi. Nell’VIII secolo, persa
la sede vescovile, la chiesa divenne una
pieve mantenendo il collegio di canonici
(quello ricordato nei documenti del XIII
secolo). Nel 1304, all’interno della città
murata – secondo l’Acquaticci - sarebbe invece stata ultimata la chiesa di San
Giovanni dove, nel 1416, si trasferirono i
canonici di Santa Maria con il fonte battesimale.10
Più attendibile ci sembra la ricostruzione della Fabrini, secondo la quale il
Stefano D’Amico
Cristo pantocratore, campanile, lato sud
Angelo con turibolo, campanile, lato sud
fonte battesimale era presente nella pieve
di Montecchio fin dal XIII secolo e nel
1416 fu costruita solamente “una domus
(del Capitolo) dedicata a San Giovanni
(Battista), ad opera del Pievano Giacomo de Nigris, che provvide altresì ad assegnare un (nuovo) fonte battesimale”.11
Di tutta questa antica storia resta, unico
testimone inglobato nel nuovo edificio,
il campanile romanico che ha conservato, a differenza di quello della cattedrale
di Macerata, la cuspide conica e due bassorilievi, murati sul fronte sud a livello
della cella campanaria e rappresentanti
un Cristo pantocratore e un Angelo con turibolo. I caratteri stilistici dei due bassorilievi sono riferibili ad età alto medievale,
e potrebbero effettivamente provenire da
una struttura preesistente – confermando in tal caso l’ipotesi del Colucci - o da
un altro edificio non individuato.12
scientifico13 che culminò nel 1778 con
la fondazione dell’Accademia Georgica, geniale espressione dell’aristocrazia
terriera locale che seppe radunare un
gruppo d’intellettuali i quali, consapevoli dell’arretratezza dell’agricoltura nello
Stato pontificio e convinti assertori delle
correnti progressiste europee, sostenevano il rinnovamento delle colture e delle
tecniche di produzione agricole. Questo
spirito nuovo, ben visto anche in alcuni settori della curia romana, candidò
Montecchio quale sede di un importante
progetto di sviluppo sociale ed economico, sostenuto dal governo centrale e
inserito in un più vasto programma di
riforme avviato già all’inizio del Settecento.14 Si trattava delle cosiddette Case
di lavoro e correzione, una via di mezzo
tra il carcere e la manifattura di tessuti
che, mentre dava lavoro a masse di bisognosi utilizzando nuove materie prime,
come cotone e lino, prodotte in loco, toglieva dalla strada, attraverso il ricovero
coatto, mendicanti e piccoli delinquenti.
Il Settecento a Montecchio
Il XVII e il XVIII furono secoli caratterizzati da un forte impulso culturale e
TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA
267
Veduta di Treia nel XVIII secolo, in Colucci 1780
La richiesta per avere queste innovative
strutture sociali fu accolta da Pio VI nel
1781 e già l’anno successivo l’architetto
camerale Andrea Vici era a Montecchio
con il progetto di una Casa di lavoro –
attuale edifico ASUR – e una Casa di
correzione – poi demolito.15 I risultati a
medio termine non furono esaltanti, ma
il favore del papa e il finanziamento ottenuto indussero i montecchiesi ad elevare
al pontefice un monumento sulla piazza
pubblica (1782-85), su progetto del Vici,
con la speranza, neanche tanto segreta, di
ottenere finalmente l’agognato titolo di
città e la restituzione dell’antico nome
di Treia. Titoli che puntualmente arriveranno il 2 luglio 1790 in considerazione
non solo del fervore imprenditoriale che
animava la città, ma anche e soprattutto
del clima culturale, con gli accademici
georgici impegnati nel campo degli studi
storici, scientifici e archeologici che porteranno alle prime campagne di scavi nel
sito dell’antica Trea.16
A conclusione di questo felice secolo
mancava solo la (ri)concessione della
sede vescovile che Pio VI non fece in
tempo ad accordare, ma che, passata la
bufera napoleonica, il 1° settembre 1816
fu “restituita” dal nuovo pontefice Pio
VII (1800-23) “per vetustam locorum originem”.17
La Cattedrale In questo nuovo contesto, la vecchia collegiata non poteva più rispondere alle
esigenze rappresentative di una comunità
che aspirava ad un ruolo di primo piano,
sia in Italia che in Europa, ed era chiaro a
tutti che occorreva costruirne una nuova.
D’altra parte, in quello scorcio di secolo,
Macerata e Recanati avevano già preso la
stessa decisione e Tolentino lo avrebbe
fatto poco dopo.18 A sfavore della vecchia pieve c’era anche la questione dello
stile: un’architettura romanico-gotica, in
una comunità di eruditi impegnati attivamente nella riscoperta dell’antico, era
percepita ancora più “barbara” e lontana
da quella mitica classicità che stava affa-
scinando i centri più importanti e vitali
d’Italia e d’Europa. Fu così che nel 1775,
dopo che il vescovo di Camerino Luigi
Amici aveva promesso di concedere alcuni benefici, “incominciossi a parlare
d’intraprendere la fabbrica di questa
Insigne Collegiata di Montecchio”19 e
l’anno successivo “fu risoluto di tentare
l’impresa”.20
All’inizio del 1782 Andrea Vici21 fornì
il progetto definitivo, molto apprezzato
dagli accademici georgici che elogiarono
l’architetto romano con espressioni di
questo tipo: “l’eleganza e sodezza del Disegno, riuscito di comune soddisfazione
specialmente degl’intendenti di architettura mostrano il buon gusto, e perizia del
suo Autore”.22 Purtroppo i disegni con la
pianta e la sezione della chiesa inferiore, la sezione longitudinale della chiesa
superiore e le due soluzioni dell’uscita
dell’interno, pubblicati da Andrea Busiri
Vici nel 197423 e in parte riproposti da
Angela Montironi e Loretta Mozzoni nel
2009,24 non sono più reperibili, mentre
268
Stefano D’Amico
Disegno allegato alla perizia per la sopraelevazione di
casa Meloni, Andrea Vici, 1797, in ASCCTr
Pianta di progetto, Andrea Vici, 1782, in ASCCTr
il disegno con la pianta della chiesa superiore e uno di minore importanza, allegato ad una Risposta al quesito se l’Ill.mo
Sig. Meloni possa alzare la sua Casa a ridosso dell’insigne Collegiata di Treia datata
8 luglio 1797,25 sono ancora conservati
nell’Archivio del Capitolo della Catte-
drale. Il 27 aprile 1782 si pose la prima
pietra della fabbrica e i lavori iniziarono
sotto la direzione dall’architetto Carlo
Rusca che dal 1798 sarà impegnato nella progettazione del teatro condominiale
della città.26 Anche per lui ci furono parole d’encomio per “l’esatta esecuzione
della fabbrica condotta a questo punto
(dopo più riprese per i tenui assegnamenti di essa) colla maggior solidità e fermezza, che dà una ben giusta lode al Sig.
Carlo Rusca che con assidua attenzione
ha diretto i Capomastri e lavoranti anche
nelle cose più minute (…) e si è acquistato questo soggetto ottimo credito, sì per
la pratica e conoscimento nelle materie
d’Architettura che per la sperimentata
sua abilità e diligenza”.27 I deputati scelti
per seguire i lavori della fabbrica chiesero
immediatamente di contenere i costi di
quella che si preannunciava una fabbrica raddoppiata rispetto a quella esistente, prevedendosi anche una chiesa inferiore.28 Dalle Memorie raccolte dal Sig.
Giuseppe e Federico Castellani, un manoscritto conservato nell’archivio dell’Accademia Georgica, e dai vari documenti
dell’archivio del Capitolo, sappiamo che
i lavori furono affidati all’impresa dei capimastri De Mattia29 e procedevano con
lentezza e lunghe interruzioni a causa
del gravoso onere finanziario. Nel 1801,
a quasi venti anni dall’inizio dei lavori,
TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA
mentre era ancora in corso la demolizione di parte della chiesa, “si fece il piantato dei piloni per tutta l’estensione”30 e
nuovo impulso si ebbe nel 1804, quando
l’architetto Alessandro Vassalli e il capomastro Patrizio De Mattia firmarono
una perizia per “osservare, riconoscere e
precisare la spesa occorrente per il compimento detta Chiesa dietro il Disegno
formato dall’architetto Andrea Vici”.31
A questo punto, per dare una svolta ai
lavori, i deputati della fabbrica chiesero
ai concittadini di sottoscrivere un atto
pubblico con il quale si impegnavano ad
offrire giornate di lavoro, o il corrispettivo in moneta, per un certo numero di
anni32 e nel giro di tre anni il rustico della
chiesa sarebbe stato completato. Il 15 ottobre 1807 fu terminata la parte muraria
della chiesa e il 4 dicembre, “col suono
delle campane a festa si compì di coprirla coi coppi”. Il 9 aprile 1809 l’orologio
posto in opera sul campanile da Pietro
e Antonio Petrini (o Pietrini) di Treia,
“sonò la prima volta l’ora tredici”,33 ma il
completamento del “lavoro sottile” (decorazione, pittura e finiture)34 richiederà
altri sei lunghi anni di impegno e solo il
3 aprile 1814, Domenica delle Palme,35
la chiesa fu aperta al pubblico, mentre la
cerimonia della consacrazione ufficiale fu
rinviata al 29 settembre.
Nel progetto del Vici non compare la
cappella del Santissimo Sacramento
perché l’area era occupata dalla vecchia
canonica-episcopio e solo quando la
città sarà elevata a diocesi, rendendosi
necessario un nuovo palazzo vescovile,
si deciderà di costruirla sul lato sinistro.
Nel 1818 il vescovo di Camerino chiese
una perizia preventiva della spesa per il
nuovo episcopio all’ingegnere Domenico Biaschelli di Camerino che presentò
anche alcuni disegni, ma nel 1821 il progetto passò all’architetto Giuseppe Marini, inviato da Roma dal cardinale Nicola Grimaldi, che elaborò altri disegni.
269
Pianta di progetto dell’episcopio, Giuseppe Marini (?) 1821 (?), in AGT
I lavori di costruzione furono appaltati
nel 1827 a Vincenzo Prenna di Treia, e in
corso d’opera furono apportate “diverse
e importanti variazioni, la maggior parte
delle quali necessarie a correggere i difetti
del Disegno ed assegnare una più esatta ed adatta distribuzione dei vani”.36 Il
Marini, ritenuto responsabile dei difetti
fu esautorato e il cantiere passò al “Sig.
Francesco Dionisi”, deputato della fabbrica e direttore dei lavori, che il cronista
delle Memorie del Capitolo treiese definisce anche “autore del disegno”. Le stesse
Memorie c’informano che la cappella del
Santissimo Sacramento fu “spiccata” il 6
agosto 1827 e inaugurata il 18 giugno
1829, festa del Corpus Domini.37
L’attività dell’architetto Andrea Vici è
stata ampiamente ricostruita in numerosi studi, soprattutto con la pubblicazione
dell’Atlante delle opere in occasione della recente mostra a lui dedicata, che ha
permesso alla critica di chiarire il valore
teorico e pratico del suo pensiero e delle
sue opere.38 Nacque il 9 novembre 1743
in località Palazzo di Roccacontrada –
attuale Arcevia in provincia di Ancona
– da una famiglia di capomastri e architetti da lungo tempo attiva nelle Marche.
Nel 1760 era a Roma per completare la
sua formazione di pittore e qui, frequentando lo studio di Carlo Murena e Luigi
Vanvitelli (1700-1773) - di cui diventerà
collaboratore e amico - incontrò invece
l’architettura. Nella sua lunga carriera si
occuperà di idraulica, di ingegneria e di
architettura; sarà a capo di importanti
uffici pubblici a Loreto e a Roma che gli
procureranno numerosi incarichi privati; sarà membro di prestigiose istituzioni culturali, tra cui l’Accademia di San
Luca, della quale fu presidente e professore di architettura, e diventerà “a Roma
uno dei grandi maitre a penser, un vero
intellettuale eclettico, noto alla gran parte degli studiosi, stimato, riverito e ossequiato”.39 Morì a Roma il 10 settembre
1817 e fu sepolto nella chiesa di Santa
Maria in Vallicella, vicino a Luigi Vanvitelli.
In provincia di Macerata operò dal 1773,
quando il cardinale Mario Compagnoni
270
Stefano D’Amico
Raccordo tra la facciata e il muro laterale
Marefoschi gli affidò il progetto della biblioteca davanti al palazzo di famiglia appena completato nel capoluogo: l’opera
non sarà mai realizzata, ma il suo nome
uscì dalla cerchia ristretta di Arcevia-Offagna e da quel momento sarà uno degli
architetti più attivi e ricercati tra Marche,
Umbria e Lazio.40
La critica è concorde nel definirlo un
epigono del maestro Luigi Vanvitelli, un
architetto che seppe operare la perfetta
mediazione tra la recente esperienza barocca di Bernini e Borromini, la grande
tradizione italiana del manierismo cinquecentesco e il linguaggio nuovo del
razionalismo neoclassico che stentava ad
entrare nell’ambiente romano dell’epoca.
Andrea Busiri Vici41 - un suo discendente che fin dagli anni ’50 del secolo scorso
lo ha fatto conoscere – a proposito della
cattedrale di Treia notava che “nella metrica (…) e per il michelangiolesco ritmo
delle colonne sorreggenti architravature
lineari” richiama la chiesa vanvitelliana
del Gesù di Ancona. Più recentemente
Veduta verso il presbiterio
TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA
271
Veduta della volta della campata centrale
Jorg Garms,42 esperto studioso del Vanvitelli, ha individuato con precisione gli
elementi stilistici che il Vici deve al suo
maestro e che ricorrono anche nella cattedrale di Treia: la tendenza a trasformare uno spazio quadrato o rettangolare in
uno ottagonale, circolare o curvilineo; il
vano centrale coperto a vela con costoloni che accentuano le diagonali; le colonne libere inserite nelle campate tra la
navata principale e le navate laterali o tra
navata e abside e poste a sorreggere la trabeazione continua; l’accentuazione della
decorazione dei costoloni, dei sottarchi e
delle fasce intrecciate delle volte con cornici e lacunari di varia figura; gli altari
classicheggianti; le glorie nelle absidi che
si sovrappongono all’architettura ed infi-
ne le facciate concave.
La chiesa inferiore della cattedrale di
Treia, con due absidi semicircolari e le
ampie cappelle laterali polilobate delineate dal susseguirsi di pareti rettilinee e
curvilinee, denota una chiara ispirazione
barocca, la stessa che ritroviamo anche
nella facciata principale con le due ali
laterali concave che permettono di dare
‘visibilità’ ad un prospetto che altrimenti
non ne avrebbe, affacciandosi su una via
lunga e stretta. Nella chiesa superiore il
Vici riesce invece a fondere lo spazio centrale con quello longitudinale – tipico del
barocco - inserendo una croce greca, con
quattro cappelle angolari, in un impianto complessivamente rettangolare. Ciò è
ottenuto attraverso piccoli accorgimenti
che denotano un perfetto controllo della
composizione architettonica: man mano
che procede dall’ingresso verso il coro dilata la pianta con leggeri aggetti laterali;43
riduce gli spazi quadrati a spazi ottagonali delimitando il vano centrale della croce
greca e delle cappelle angolari con quattro pilastri smussati, accentuandoli con
volte a vela e a padiglione costolonate
chiuse da un cerchio o da un’ellisse; prosegue la navata centrale con un profondo
presbiterio separato dall’abside con due
colonne libere sopra le quali corre, ininterrotta, la trabeazione sormontata da
una imponente gloria in stucco. L’influsso neoclassicismo è evidente nel regolare
contrapporsi di linee verticali (paraste accentuate da finte scanalature e colonne)
272
Stefano D’Amico
e linee orizzontali (trabeazione che corre
ininterrotta nell’aula centrale e nel transetto); nelle specchiature geometriche
che segnano le volte della copertura o nei
finti cassettoni con rosette dei sottarchi;
nella rigorosissima facciata ‘tipo palazzo’
segnata da lesene angolari e da paraste giganti che sorreggono un timpano appena
accennato. Questa perfetta unione, quasi
illusionistica, di due concezioni spaziali
completamente diverse ha fatto dire a
Fabio Mariano che la cattedrale di Treia è
“l’ultima importante chiesa tardobarocca
in clima di Neoclassicismo avanzato”.44
La cappella del Santissimo Sacramento è
un elemento architettonico che nell’evoluzione tipologica della chiesa compare
relativamente tardi. Nelle basiliche paleocristiane l’Eucaristia era conservata
in sacrestia e solo a partire dal XII-XIII
secolo acquistarono importanza le custodie eucaristiche, in genere nicchie scavate nel muro e chiuse da una porticina. Il
tabernacolo fisso su un altare, in genere
quello maggiore, comparirà solo nel XVI
secolo, ma occorrerà attendere il Concilio di Trento per vedere comparire questo
nuovo ambiente, separato e nello stesso
tempo in diretta comunicazione con la
chiesa. Il concilio tridentino, infatti, sviluppò una forte “teologia dell’Eucarestia”
invitando i fedeli alla comunione frequente e all’adorazione eucaristica, due
pratiche45 per le quali viene istituita una
Veduta della volta della cappella angolare
apposita cappella, fastosa e solenne per
accentuarne l’importanza, ma anche raccolta e silenziosa per la meditazione personale. Si impostarono quindi organismi
centralizzati, in genere quadrati con una
nicchia sul fondo o a croce greca, coperti
da una cupola, con o senza tamburo e
lanterna, più o meno imponente. In questo senso la cappella del Santissimo Sacramento nella cattedrale di Treia, con la
sua semplice volta a padiglione, è meno
imponente, ma gli angoli stondati delimitati da due paraste sui quali si aprono
quattro nicchie con statue e una sobria
decorazione di gusto classico le conferiscono una riuscita unità compositiva.
TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA
Veduta della campata tra navata centrale e navata laterale
273
274
NOTE
Turchi 1762. Colucci 1790. Acquaticci 1890.
Turchi 1762 p. 46 a proposito della chiesa francescana dice “esser fama che vi fosse
l’antica cattedrale di Treia”. La diocesi sarebbe stata eretta a metà del IV secolo per decadere tra la fine del VI secolo (Colucci e Acquatici) e la metà del VII secolo (Turchi).
Il nome di Trea non compare nell’elenco delle sedi vescovili in Lanzoni 1927. Fabrini
1990 p. 123.
3
Nella cappella della Madonna della Misericordia esiste un busto del pontefice con la
seguente iscrizione: SIXTO V PONT. MAX/ DE. PATRIA. DE. CIVIBVS. OPTIME. MERITO/ NICOLAVS. GRIMALDI, TREJENSIS/ URBIS. PRAEFECTUS.
ET. S.R.E. VICE. CAMERARIVS/ DEDICAVIT. ANNO. 1833
4
Acquaticci 1890 p. 245. Meriggi 1978 p. 52. Fratini 2001 p. 67.
5
Concetti 1998.
6
Fabrini 1990 pp. 133-143.
7
Colucci 1790 p. 189.
8
Colucci 1780 pp. 188, 189, 191, 195. Cita comunque un documento del 1379.
9
Colucci 1790 pp. 194-195.
10
Acquaticci pp. 235-244. “D’altronde – aggiunge l’Acquaticci – non si saprebbe concepire l’esistenza più remota di un capitolo collegiato in Montecchio col suo Pievano,
(quello istituito secondo il Colucci nell’XI secolo, n.d.a.) e per tre secoli privo del Fonte Battesimale (…) che sarebbe così rimasto abbandonato nella vecchia chiesa quasi
per tre secoli”.
11
Fabrini 1990 p. 141.
12
Il campanile è tutto in laterizio, ma il prospetto sud, a livello della cella campanaria,
presenta numerosi inserti in pietra che potrebbero confermare le ipotesi del Colucci.
13
Ricordiamo l’astronomo e matematico padre Ilario Altobelli (1560-1637) e il filosofo, matematico e letterato Giulio Acquatici (1603-1688).
14
La cosiddetta “politica del buon governo”, messa in campo dai pontefici di fine Seicento, fu fatta propria da papa Clemente XI (1700-21) che incentivò il rinnovamento
dell’agricoltura, lo sviluppo dell’industria manifatturiera e l’assistenza ai poveri con la
costruzione di granai, magazzini, fabbriche, ospedali, collegi ecc. Anche i pontificati di
Clemente XIII (1758-69) e di Pio VI (1775-99) saranno caratterizzati da progetti di
riforma di ispirazione fisiocratica che si integreranno perfettamente con l’obiettivo di
promuovere le arti recuperando la memoria dell’antico. Per gli aspetti generali: Curcio
2000, Kieven 2000, Rossi Pinelli 2000. Per gli aspetti locali: Meriggi 1978, Moscatelli
1978, Paci 1978, Navazio 1978.
15
Navazio 1978. Mozzoni 2009b pp. 204-207
16
Treia diede i natali all’abate Luigi Lanzi (1732-1810), il padre della moderna storiografia artistica italiana, anche se la sua formazione e la sua attività avvennero fuori
dalla terra d’origine.
17
Nella cappella della Madonna della Misericordia esiste un busto del pontefice con
la seguente iscrizione: PIO. VII. PONT. MAXIMO/ RESTITVTORI. EPISCOPATVS.
TREJENSIS/ NICLAUS. CARD. GRIMALDVS. POSVIT/ ANNO. MDCCCXXXIV.
18
Moroni 1856 p. 242. L’autore del monumentale Dizionario di eruduzione storico-ecclesiastica, 109 volumi ancora oggi fonte irrinunciabile di notizie, dice che la collegiata
non era “sufficiente alla numerosa popolazione smisuratamente accresciuta”
19
AGT, Archivio degli accademici, Zibaldone di memorie raccolte sulla Chiesa di S. Maria della Pieve o sia Collegiata, sull’antica Canonica e membri del Capitolo e sulle antiche
Chiese di S. Nicolò e S. Giovanni annesse e incorporate alla Pieve medesima colle notizie
della riedificazione della odierna magnifica Collegiata, busta 25, fasc. 1
20
ASCCTr, busta 420.
21
Mozzoni 2009a, pp. 198-203. La proficua collaborazione del Vici con Treia proseguirà con gli incarichi privati per la Casa di Fortunato Benigni (1806) e la Villa Votalarca per il marchese Niccola Luzi (1815). Montironi 2009b pp. 208-211 e Mozzoni
2009c pp. 256-259
22
ASCCTr, busta 404, fascicolo 6.1.
23
Busiri Vici 1974 pp. 591-593.
24
Montironi, Mozzoni 2009 p. 200.
25
ASCCTr, busta 422, fascicolo 02.
26
ASCCTr, busta 420, fascicolo 01. Il suo nome ricorre spesso negli Esiti della fabbrica
1
2
dell’Insigne Collegiata di Treja 1797 fino al 1805.
27
ASCCTr, busta 404, fasc. 6.1.
28
Mozzoni 2009, p. 198. Il perimetro della vecchia collegiata è delineato con una linea
rossa e la lettera V nella pianta del progetto.
29
Nelle note di spesa e pagamento ricorrono i nomi di Francesco, Patrizio, Filippo e
Luigi De Mattia. Patrizio e il figlio Filippo dal 1825 saranno impegnati a Tolentino
nella ristrutturazione della cattedrale di San Catervo.
30
ASCCTr, busta 404, fascicolo 6.1.
31
ASCCTr, busta 422, fascicolo 2, perizia del 17 agosto 1804.
32
ASCCTr, busta 422, documento del 17 marzo 1804: “Noi qui sottoscritti e sottosegnati artieri della città di Treia per concorrere quanto giova alla ultimazione della
fabbrica della Collegiata per nostra divozione e buon desiderio ci obblighiamo alle seguenti gratuite o somministarzioni o ripsettive prestazioni di nostre arti annualmente
e cioè:” segue elenco con impegni del tipo “pagare baiocchi dieci l’anno per tre anni” o
“dare giornate sei per anni dieci”.
33
ASCCTr, busta 403, Memorie del Capitolo treiese, c. 25v. ASCCTr, busta 422, pagamenti.
34
ASCCTr, busta 403, Memorie del Capitolo treiese, c. 54; ASCCTr, busta 438, fascicolo 25. Tra i nomi ricordiamo quello dello stuccatore Giuseppe Mazzanti che firma ricevute di pagamento tra il 1810-1811 e il pittore Giorgio Pampilj di Fermo che decorò
il catino. Federico Domizi di Macerata nel 1884 realizzò la balaustra del presbiterio; il
pittore Nicola Didimi e il doratore Paolo Paoloni opereranno nel 1893.
35
ASCCTr, busta 404, fasc. 6.1. La seguente iscrizione sarà posta nel 1825 sulla controfacciata: TEMPLUM HOC/ DEIPARAE AB ANGELO SALUTATAE/ ANDREA VICIO ARCHITECTO/ LABENTE SAECULO XVIII/ A FUNDAMENTIS EXTRUI
COEPTUM/ ET A VEN. VINCENTIO MARIA STRAMBIO/ EPISCOPO MACERATENS ET TOLENT./ ANNO R.S. MDCCCXIV/ SOLENNI RITU DEDICATUM/ COLLEGIUM CANONICORUM/ INSTAURAVIT/ ANN. MCCCLXXV.
36
AGT, busta 39, Palazzo Vescovile, pratica di ricostruzione, Collaudo del 1 agosto
1838. Del Biaschelli si conservano tre piante e un prospetto; del Marini quattro piante,
un prospetto e una sezione. Anche Patrizio De Mattia, ad un certo punto, fornì tre
piante, un prospetto e una sezione. Uno studio più approfondito potrà gettare nuova
luce su questa fase.
37
ASCCTr, busta 403, Memorie del Capitolo treiese, c. 31 r. e v.. “A dì 18 giugno 1829
giorno di Giovedì festa del Corpus D.ni sulle ore undici della mattina il R.mo Sig.
Can.co Conte Broglio pro Vicario G.le di questa nostra Città benedì la nuova Cappella
del S.mo Sagramento coll’assistenza di vari canonici e del Deputato Can.co Meloni,
fatta apparare solennemente dal sud.to Can.co, ci disse per il primo la Santa Messa e
così fu aperta con gran magnificenza e siccome il Sig. Francesco Dionisi fu l’autore del
disegno, e fu ancora l’esecutore di esso e che la sud.ta Cappella lavorata dai Prenna
treiesi sotto la sua direzioe riuscì felicemente come al presente si vede, e così fu il primo
a ricevere la SS.a Comunione nella sud.ta Cappella e nella sud.ta messa. Il Sig. Can.co
Broglio donò dieci scudi per uso della Cappella sud.ta.”.
38
Busiri Vici 1956. Busiri Vici 1974. Boccanera 1975. Montironi 1978. Andrea Vici
Architetto 2009.
39
Busiri Vici, Paoluzzi 2009 p. 47.
40
In provincia di Macerata ricordiamo la ristrutturazione della Cappella della Madonna della Quercia nel convento dei Passionisti a Morrovalle (1788), il coro e forse
la ristrutturazione dell’aula della chiesa di Santa Chiara a Montelupone (1789), la
cattedrale di Camerino (1800).
41
Busiri Vici 1974 p. 591.
42
Garms 2009 pp. 31,32.
43
L’atrio, che ha a destra il vecchio campanile e a sinistra il battistero, è raccordato con
due ali concave alla prima campata della chiesa. Un secondo aggetto permette di contenere la testa delle cappelle della seconda campata (che sono anche il braccio trasversale
della croce greca), mentre un nuovo aggetto racchiude i vani delle scale e i corridoi che
portano alle sacrestie poste ai lati del presbiterio.
44
Mariano 1995, pp. 396-402.
45
In quel periodo l’Eucaristia non si distribuiva durante la messa e i fedeli dovevano
recarsi presso la cappella apposita.
TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA
275
DIPINTI E SCULTURE NELLA CHIESA
DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA
Silvia Blasio
“Questa chiesa Collegiata fabbricata nel
piano et in sito elevato in cima di una
piccola piazza riguarda da una parte il
mezzo dì, e dall’altra il settentrione. A’
tre porte, la principale volge al mezzo dì
avanti la suddetta piazza, la men principale all’occidente, l’inferiore al settentrione. E’ composta di tre navi tutte coperte
a volta e sostenute da sei colonne le quali
prima erano alla gotica di figure diverse,
ridotte poi alla moderna quadrate con
nuovi capitelli e piedestalli. La nave di
mezzo che ha in cima il presbiterio l’altare maggiore e dietro il coro ….fabbricato
e composto di quattordici stalli canonicali resta illuminata da un gran fenestrone
da piedi, da un’ampia finestra sopra l’arco dell’altare maggiore, et il coro da un
occhio nel muro anteriore e due finestre
alla gotica ne muri laterali tutta fatta di
vetri congiuntamente. Le altre due navi
laterali restano illuminate da due finestre
una posta per nave poste in cima d’ogni
nave fatte parimente co’ vetri.
Costa di sette cappelle, due laterali al
coro, tre nella nave a cornu Evangelii e
due nella nave a cornu Epistole”1
Circa cinquant’anni prima che Andrea
Vici progettasse il maestoso tempio a
croce greca la cui prima pietra fu posta
nel 1782, l’edificio sacro si presentava
ancora sotto le forme gotiche vividamente descritte nella relazione fatta dai
deputati del Capitolo in occasione della
Visita pastorale il 20 maggio del 1737
del vescovo Ippolito de’ Rossi; attraverso
queste carte la storia della vecchia pieve
demolita riemerge e si intreccia con quel-
Madonna del Rosario, secolo XVI
la della nuova cattedrale. Solo immaginando l’interno dell’antica chiesa di San
Giovanni Battista, poi della Santissima
Annunziata,2 forse fondata nel 1303, o
anche prima3 si possono idealmente ri-
collocare molte delle opere d’arte che
hanno trovato una nuova ambientazione
negli ampi e solenni spazi neoclassici della fabbrica del Vici.
Nella situazione attuale, la prima cappella
276
a destra entrando dall’ingresso principale
è dedicata al Santissimo Rosario, mantenendo l’antico titolo presente anche nella vecchia chiesa nella seconda cappella
della navata “a cornu Evangelii”: “La seconda cappella dentro la nave suddetta
è sotto il titolo del Ss.mo Rosario, alla
compagnia del quale appartiene di essa
il mantenimento, vi è l’altare col quadro,
dove in cima è dipinto il Padre Eterno
con un coro di angeli, più sotto l’Immagine della Madonna del Rosario in atto
di stendere il rosario a S. Domenico dipinto alquanto più basso a mano destra e
vicino ai santi Tommaso d’Aquino e Catarina da Siena, siccome a mano sinistra
coll’ordine suddetto si veggono dipinte
le immagini dei santi Niccolò da Bari,
Francesco d’Assisi e Girolamo e infine
Angeli che spargono rose. Nell’ornamento di esso altare di petra bianca si veggono, da capo e dai lati dipinti li quindici
misteri di esso SS.mo Rosario, e da piedi
nel medesimo ornamento la iscrizione
seguente: Rosaria coloris faciendum curavit Anno…4
Il quadro è una copia con varianti della
grande pala con la Madonna del Rosario
di Lorenzo Lotto per l’altar maggiore
della chiesa di S. Domenico a Cingoli.
Il pittore della tela di Treia ne riprende
alla lettera la figura della Vergine - con
la veste rossa e non blu - che porge il
rosario a san Domenico e di san Tommaso d’Aquino, sostituendo a destra la
Maddalena lottesca con Santa Caterina
da Siena. Il gruppo di figure sulla destra
però, è cambiato radicalmente: qui, in
luogo di Sant’Esuperanzio, santa Caterina da Siena e san Pietro martire troviamo
san Girolamo inginocchiato in primo
piano, san Nicola di Bari e san Francesco. I putti che spargono petali di rosa si
riducono da tre a due. Inoltre nella parte
superiore l’imponente roseto lottesco da
cui fioriscono i quindici medaglioni circolari con i misteri del rosario diviene un
Silvia Blasio
Annunciazione, da Federico Barocci, secolo XVII
più modesto cespuglio che lascia spazio
nel cielo all’apparizione dell’eterno circondato da angeli, uno dei quali, a destra, reca in mano il modellino di Treia.
I misteri, che secondo la descrizione settecentesca incorniciavano la pala anche
lungo il margine superiore, nella nuova
sistemazione si dispongono lungo due
file verticali ai lati di essa. È da notare
che il quadretto con il mistero gaudioso
dell’Annunciazione è una copia in piccolo dell’Annunciazione di Federico Barocci per la cappella dei duchi Della Rovere
a Loreto.5
Riguardo alla datazione di questa interessante variazione sul tema dell’illustre
prototipo lottesco, all’anno 1594 nello
Zibaldone di memorie si annota che “adì 4
ottobre fu emanata la Bolla pontificia per
la erezione della confraternita del SS.mo
Rosario in collegiata […]. La Cappella del
Rosario può credersi fabbricata tra il 1596
e il 1601 poiché in essa si vedeva scolpito
lo stemma di monsignor Gentile Delfini,
che secondo il parere del Turchi fu vescovo dal 18 dicembre del ’96 sino al 1601.6
Seguitando sul lato destro della chiesa vi
è l’altare della Madonna della Misericordia, un’immagine veneratissima che nella
vecchia chiesa si trovava in una cappella
dedicata a San Giovanni Battista, comunicante nella navata in cornu epistolae
con la cappella della Madonna della Colonna di cui si parlerà più oltre. La storia dell’edificazione della cappella di San
Giovanni e della sua successiva intitolazione alla Madonna della Misericordia è
dettagliatamente narrata nella Relazione
del 1737:7
“Alla deferita Cappella unita (cioè appunto alla cappella della Madonna della
Colonna), e che insieme mediante uno
piccolo porticello communicano, vi è
l’altra cappella detta cioè di San Giovanni
che fabbricata molto rozzamente fu poi
rimodernata col ritratto de’ cementi e altro della chiesa di S. Pietro demolita colle debite licenze, come dalla Bolla della
f.m. di mons. Bellucci vescovo di Camerino coll’oracolo della S. Congregazione
e coll’entrate della detta Cappella della
Colonna come nella suddetta Bolla spedita lì 30 marzo 1708 et esistente nell’archivio di questa collegiata. E perché nella
suddetta chiesa di S. Pietro vi era fondato
un Benefizio sotto titolo di tal nome di cui
erano rettori i Padri Cappellani perpetui
Confessori delle monache del monastero
di S. Caterina di Caldarola, perciò […]
fu il Benefizio trasferito nella suddetta
cappella di San Giovanni col consenso
del Capitolo celebrato il 4 luglio 1706,
con gli infrascritti patti concordati […]
cioè che i padri cappellani donassero per
la riformazione della suddetta cappella
il ritratto dal sito e cementi come anco
tutte le sacre suppellettili e di più si obbligassero di pagare ogni anno al Capitolo di questa Collegiata baii cinquanta, il
qual Capitolo all’incontro si obbligherà
di mantenere tanto nel formale quanto
nel materiale la suddetta cappella […].
Oggi però mutato titolo col consenso
de’ medesimi Cappellani si chiama detta
TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA
cappella con quello della Madonna della Misericordia. V’è in essa l’altare con
quadro della Madonna di tal nome, fatto
dipingere in Roma, e collocato dentro
d’un vago ornamento d’intaglio e posto a
oro con proporzionato cristallo davanti.
Il detto ornamento colla detta immagine
sta situato dentro d’una nicchia e l’altare
parimente è di legno con doppie colonne
poste ad oro co’ suoi capitelli et piedistalli a proporzione, tutto fatto et provveduto colle elemosine di persone diverse. A’
detta cappella si hanno quattro finestre
di vetro, due verso l’oriente, due verso la
suddetta cappella della Colonna. In essa
Cappella vi è l’obbligo perpetuo di una
messa nel giorno di San Pietro fatta celebrare dalli suddetti Cappellani perpetui
di Caldarola”.
Il quadro opera di un certo Romano
Miccinelli, portato a Treia da Roma dal
padre gesuita Giovan Battista Scaramelli
nel 1715,8 è ancora adorno della sontuosa cornice in legno intagliato e dorato descritta nella Relazione: è costituita da una
raggiera con nuvole, teste di cherubini e
cinque angioletti, uno dei quali in alto al
centro, al di sopra della corona, regge il
cartiglio con l’iscrizione Mater Misericordiae. Iconograficamente questa immagine della Madonna a mezza figura, seduta
e rivolta verso sinistra, che sostiene con
entrambe le mani il Bambino in piedi
sulle sue ginocchia in atto di benedire, è
molto diffusa nelle chiese delle Marche e
risale ad un importante prototipo del pittore fiorentino Carlo Dolci, noto in varie
redazioni, ma probabilmente dipinto per
la prima volta dal maestro tra il terzo e il
quarto decennio del Seicento.9
La venerazione tributata dal popolo treiese all’immagine della Madonna della
Misericordia, ancora oggi adorna della
ricchissima cornice in legno dorato e
intagliato menzionata nella relazione,
culminò nella solenne incoronazione avvenuta il 17 maggio del 1814: “Adì 17
277
Bastiano Torrigiani o Taddeo Landini, Busto di Sisto V
Maggio 1814 Il Santo Padre Pio Settimo
nel ritorno che fece dalla Francia dove
stette rilegato per lo spazio di quattro
anni per Roma, nel passare per Tolentino nella Basilica di San Nicola con solenne visita, vestito in Pontificale incoronò
l’Immagine miracolosissima della Madonna della Misericordia, che si venera
in questa nostra Chiesa Collegiata.”10
Sulla parete destra di questa cappella, posto in alto su una mensola, vi è il busto
di bronzo di Papa Sisto V. Quest’opera,
insieme al busto marmoreo di Pio VII
di Pietro Tenerani nella stessa cappella
sulla parete sinistra e a due statue raffiguranti i santi Pietro e Paolo montate sul
monumento Grimaldi nel lato opposto
della chiesa non figurano nei documenti
278
riguardanti l’antica collegiata in quanto
sono doni del cardinale treiese Nicolò
Grimaldi alla cattedrale della sua città
di origine. Il cardinale Nicolò Grimaldi
(Treia 1768-Roma 1845), appartenente
ad una nobile famiglia, dopo lunghi studi presso il Seminario di Frascati e l’accademia pontificia de’ nobili ecclesiastici
in Roma, intraprese una lunga carriera
costantemente in ascesa, favorita dalla
stima goduta presso i papi Pio VII, Leone XII, Pio VIII e Gregorio XVI. Dai
pontefici egli ottenne numerosi incarichi
prestigiosi nei quali profuse le sue estese
e profonde conoscenze nell’ambito della
giurisprudenza. Nel 1832 fu nominato
Governatore di Roma e nel 1834 divenne cardinale con la diaconia della chiesa
di San Nicola in Carcere e legato apostolico di Forlì, esercitandovi la propria
autorità con le doti di saggezza, prudenza
ingegno e fermezza universalmente riconosciutegli. Fu sepolto nella chiesa della
nazione marchigiana di San Salvatore in
Lauro nel 1845, ma volle che il suo cuore
fosse trasportato a Treia, città per la quale ebbe sempre particolare affezione. Si
interessò infatti alla riedificazione della
cattedrale, fu protettore dell’ospedale e
lasciò per testamento una cospicua somma di denaro all’orfanatrofio della città,
mentre e i paramenti sacri e nobili di
sua proprietà volle che fossero divisi tra
le sacrestie della cattedrale di Treia, di S.
Nicola in Carcere, della cattedrale e della
chiesa di San Mercuriale a Forlì e infine
della chiesa di Valcerasa.11
I vari doni offerti alla cattedrale in diversi momenti della sua vita si iscrivono
nell’ambito della costante e attiva presenza del cardinal Grimaldi nella città natale,
ma anche del suo amore per le opere d’arte
e gli oggetti preziosi di cui fu collezionista. Il magnifico busto in bronzo di Sisto
V, ritratto con un sontuoso piviale con
rifiniture dorate fermato al centro da una
fibbia a volute e decorato da due cartelle
Silvia Blasio
Andrea Bregno, San Pietro e San Paolo
con figure allegoriche, fu donato alla cattedrale nel 1833, come ricorda l’iscrizione sottostante, quando Grimaldi non era
ancora stato nominato cardinale.12 Costituisce il prototipo del fortunato filone
iconografico della ritrattistica sistina, che
annovera vari busti del pontefice e dopo
una alterna vicenda attributiva nel corso
della quale sono stati proposti i nomi di
Giambologna, Vincenzo Danti, Antonio
Calcagni, Tiburzio Vergelli e Bastiano
Torrigiani13 è stato più recentemente riferito a quest’ultimo sulla base di fonti
e documenti.14 Ne danno infatti notizia
Giovanni Baglione che lo ricorda tra le
opere del Torrigiani “ne la bellissima vigna de gli eccellentissimi Peretti, dentro
il Casino verso Termine”15 e gli inventari
e le guide del palazzo che lo menzionano
collocato sopra uno sgabellone di noce
almeno fino al 1784, quando fu venduto
insieme ad altri arredi. Fu in seguito forse
requisito da Napoleone, ma dovette tor-
nare a Roma nel 1815, perché nel 1836
il conte Camillo Massimo lo ricorda di
nuovo nella villa: “questo celebre lavoro
di Bastiano Torrigiani, detto il Bologna,
essendo stato venduto (1784) insieme
con altre rarità della Villa fondata da
quel Pontefice, dopo essere passato in più
mani, pervenne in quelle dell’Eminentissimo Cardinal Grimaldi […] ma questo
degno porporato, dopo averlo conservato qualche tempo presso di sé, ed aver
permesso a Monsignor Massimo di farne
cavar delle copie in gesso colorito a bronzo […] generosamente si privò dello stesso busto di bronzo […] per farne dono
nello stesso 1835, alla cattedrale di Treja
sua patria, in memoria dell’intenzione
che ebbe Sisto V di erigere quella città
in vescovato, e che fu posta in esecuzione
da Pio VII.”16 Come si deduce dall’iscrizione tuttavia, il busto non giunse a Treia
nel 1835, ma nel 1833.
La testimonianza non sembra lasciare
TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA
279
Iscrizione dalle catacombe di San Callisto
dubbi e tuttavia è importante rilevare
che nel manoscritto delle Memorie del
Capitolo trejese, in cui si conferma la provenienza del busto di bronzo dalla villa di
Termini, esso è riferito ad un altro allievo
del Giambologna, lo scultore fiorentino
Taddeo Landini:17 “Il busto in bronzo
rappresentante SistoV esisteva nella villa
fatta costruire da questo Pont. a Termini è lavoro di Taddeo Landini scultore
fiorentino, e celebre fonditore di bronzi,
quale fece tra le altre sue opere la statua
colossale in bronzo rappresentante Sisto
V nella sala dei Conservatori di Roma.
L’altro busto in marmo rappresenta Pio
VII, che ripristinò la cattedra Vescovile
in Treja.”18
Il busto in marmo situato oggi in alto
sulla parete sinistra della cappella della Misericordia rappresenta Pio VII e,
come ricorda l’iscrizione, fu donato alla
cattedrale nel 1834, anno in cui Niccolò
Grimaldi fu eletto cardinale.19 Scultore carrarese allievo a Roma di Canova e
di Thorvaldsen, il Tenerani (Torrano di
Carrara 1789-Roma 1869),20 proseguì
bene addentro nell’Ottocento e in direzione purista, lo stile neoclassico appreso
dai suoi maestri soprattutto nelle opere
a soggetto mitologico, ma dimostrando
nei migliori tra i suoi busti-ritratto una
penetrante capacità di approfondimento
fisiognomico e psicologico. Il busto di Pio
VII, tuttavia, non è esente da una certa
freddezza dovuta alla semplificazione dei
tratti del volto impassibile e alla resa meccanica dei capelli ai lati della testa.
Secondo il manoscritto delle Memorie del
Capitolo trejese “le due statue in marmo
rappresentanti i SS. Apostoli Pietro e Paolo spettavano al sepolcro di Ottone II
esistente nella vecchia basilica di S. Pietro ad Portam Paradisi”,21 cioè il sepolcro
dell’imperatore Ottone II, morto a Roma
nel 983, che era collocato in origine nel
portico dell’antica basilica costantiniana
di San Pietro e che fu smontato con la
demolizione della parte anteriore di essa
all’inizio del Seicento per la realizzazione
del progetto della facciata dell’architetto Carlo Maderno. Tale provenienza è
ripetuta dal Moroni, che la riprende da
quanto afferma lo stesso prelato nel suo
testamento.22 Pervenute in possesso di
Niccolò Grimaldi, di cui attestano ulteriormente il raffinato gusto collezionistico, le due sculture, giunte a Treia, furono
montate ai lati di un’urna in porfido su
Fonte battesimale
un alto basamento in marmo bianco, un
monumento di gusto neoclassico eretto
alla morte del cardinale per contenere il
suo cuore, secondo le sue stesse volontà, e situato in fondo alla navata sinistra,
nella cappella di giuspatronato della famiglia Grimaldi.
Le due statue sono state riconosciute da
Luigi Serra allo scultore lombardo Andrea Bregno (Osteno 1418-Roma 1503),
che escludendo la loro provenienza dal
sepolcro di Ottone II, ne ha proposto
l’originaria collocazione in uno degli altari eretti dal Bregno per Guglielmo de
Pereviis sempre nelle Grotte Vaticane.23
Giunto a Roma probabilmente intorno
ai primi anni sessanta del Quattrocento,
Bregno divenne ben presto il più richie-
280
sto e stimato maestro di marmo della
città, come evidenzia la lunghissima sequenza di monumenti funebri realizzati
per committenti illustri, talvolta in collaborazione con altri scultori come Giovanni Dalmata e Mino da Fiesole. Il san
Pietro e il san Paolo di Treia nel percorso
stilistico del Bregno si situano in quello stadio di acquisita padronanza della
norma classicheggiante romana che egli
raggiunse intorno alla fine dell’ottavo decennio, e si possono confrontare con gli
stessi santi nelle nicchie del primo ordine
dell’ancona del cardinale Rodrigo Borgia
ora nella sacrestia della chiesa di Santa
Maria del Popolo.24
Proseguendo il percorso, si incontra la
terza e ultima cappella sul lato destro,
dedicata a Sant’Anna. Nella vecchia
chiesa, la cappella dedicata a sant’Anna
si trovava lateralmente al coro, in cima
alla navata in cornu Epistolae: “Nell’altra
a cornu Epistole vi è l’Altare col quadro
in tavola che rappresenta S. Anna colla
Bambina in mano contornato parimente
con colonne di stucco come sopra. V’è
una piccola statua di Sant’Antonio da
Padova: sopra lo stemma della famiglia
Virgilii et in cima l’occhio co’ vetri. In
esso altare sono fondati più benefizi […].
Il pavimento è di mattoni interi.”25 Oggi
sull’altare vi è una statua moderna del
Redentore e murata nella parete a sinistra
vi è un’ epigrafe cristiana in lingua latina scritta con caratteri greci proveniente
dalle catacombe romane di san Callisto,26
mentre non si hanno più notizie del dipinto con Sant’Anna e Maria bambina,
ancora in loco all’inizio dell’Ottocento.
A sinistra dell’ingresso, prima di percorrere la navata sinistra c’è il fonte
battesimale così descritto nel 1737: “In
fondo di questa chiesa Collegiata, et a
mano sinistra entrando dalla porta, che
guarda l’Occidente, vi è il Battisterio, in
una nicchia dipinta a guazzo con figure
rappresentanti la Natività di Nostro Si-
Silvia Blasio
Scultore marchigiano, San Rocco
gnore chiusa da un rastrello di legno: il
piedistallo e la vasca di esso è di pietra;
l’archetto dove si conservano i vasetti degli ogli sagri e che copre la detta vasca
è di legno scorniciato, e si apre con due
porticelle. L’archetto suddetto di dentro
è coperto di carta turca […].27Il Benigni,
nell’Estratto rielaborato sulla Relazione
del 1737 precisa che “La tazza del Battisterio è incavata in una Colonn’antica
[…] era chiusa dentro un’arca di legno,
dove si serbavano i vasetti d’argento degli
oli sacri e le custodie di argento delle tre
borse destinate a portare il Viatico agl’In-
fermi […]28 e poi nelle Memorie del 1815
che “E’ degno di rimarcarsi che il bacino
del Battisterio della nostra Pieve di figura concava emisferica è incavato con
sommo artificio nell’abaco, a campana,
di un antico capitello di marmo bianco
di ordine corinzio a foglie di quercia alto
palmi tre ed once sei […].29 La copertura
di legno intagliato, databile tra la fine del
Cinque e l’inizio del Seicento,30 presenta sei specchiature, due delle quali nella
parte anteriore sono gli sportelli apribili decorati al centro dalla raggiera dello
Spirito Santo, mentre le altre quattro
sono lisce; le specchiature sono separate
da lesene, di cui solo due sono decorate da un fregio a volute e motivi vegetali
che si ripete anche in alto lungo il margine superiore. Il capolino che chiude in
alto la struttura, dall’intaglio corsivo, è
sicuramente un’aggiunta posteriore.
Passando alla navata a sinistra entrando,
la prima cappella che si incontra è quella
di San Rocco, di giuspatronato della famiglia Broglio Massucci, oggi di San Patrizio. Anche l’intitolazione a San Rocco
era già presente nella collegiata vecchia
e la storia e l’arredo della cappella sono
ben descritti nei documenti treiesi. Nello
Zibaldone di memorie, all’anno 1533 si
legge: “Dalle carte dell’Archivio Segreto
rilevasi che in detto anno era già diruta
la piccola chiesa di S. Niccolò annessa
alla Collegiata e in luogo della Cappella
di detto Santo fu dagli eredi di Giovanni di Pietro Brogli costrutta la Cappella
di S. Rocco col diritto di giuspatronato
ottenuto dal Vescovo Anton Giacomo di
Camerino sotto il dì 3 marzo 1533.”31
L’aspetto della cappella originaria e il suo
arredo si apprendono invece dalla Relazione del 1737: “Infine nella medesima
nave sta la cappella di S. Rocco, con un
altare, et in esso la nicchia colla statua di
legno di esso Santo. La suddetta Cappella, illuminata da un fenestrone co’
vetri, appartiene alle famiglie de’ Brogli,
TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA
descendenti dal quondam Latino, dalle
quali calcinante fu ristaurata con un pilastro fatto nella pubblica strada e in riparo
di essa cappella, la quale anco al presente
si trova in parte diruta, e quindi resta l’altare da più anni sospeso, in [?] del decreto ed occasione di Sacra Visita dalla f.m.
di mons Torelli. In esso altare vi è fondato il Benefizio sotto il titolo di Santa
Lucia, goduto presentemente dal S. Can.
Giovanni Maria Fantoni da Urbino, con
obbligo di una messa il mese.”32
La data di edificazione della cappella fornisce il terminus post quem per l’esecuzione della statua che si trova attualmente
nella chiesa di San Filippo a Treia, e risulta perfettamente coerente con il suo
aspetto stilistico e con l’abito indossato
dal Santo, coi calzoni alla tedesca trinciati verticalmente e introdotti in Italia dai
lanzichenecchi. Una foggia molto simile
si vede nei costumi dei soldati in uno degli affreschi di Raffaellino del Colle nella
Villa Imperiale di Pesaro, dipinti intorno
al 1530. L’attrattività del San Rocco risiede soprattutto nel brillante rivestimento
policromo che lo rende realistico e concreto oggetto di devozione e nell’imponenza del suo solido impianto, pur con
qualche sproporzione, che si apprezza
281
Tabernacolo ligneo, secolo XVII
particolarmente nella visione frontale.33
Sempre sullo stesso lato si apre la cappella del Sacramento, un ampio vano non
previsto dall’originario progetto del Vici,
e costruito più tardi nell’Ottocento,34
“sacellum, ornamentis, statuis, ac praesertim tabernaculo elegantissimum.”35
Infatti al centro della cappella, ornata
agli angoli da statue in stucco rappresentanti i Quattro Evangelisti eseguiti da Pietro Martini da Pausola, dal 17 dicembre
del 1840 vi è un maestoso tabernacolo in
legno intagliato e dorato che il capitolo
della cattedrale acquistò dagli eremitani
del cenobio di Sant’Agostino in Sant’An-
gelo in Pontano. Nelle Memorie del Capitolo trejese, infatti, alla data suddetta si
legge: “Fu eretto il magnifico ed elegante
tabernacolo nella Cappella del SS.mo Sacramento. Questo è un vario lavoro del
mille e cinquecento, come può notarsi
dallo stile, ed in doratura. Detto tabernacolo fu comprato dagli agostiniani di
Sant’Angelo in Pontano, che da qualche
tempo l’avevano tolto dalla lor chiesa e
dismesso, quasi abbandonato, perché era
di tal maniera deteriorato e maggiormente in tempo di soppressione da non potersi ristaurare senza una fortissima spesa.
Il Canonico d. Pacifico Demattia anima-
282
to in prima dal Sig. Marchese Tommaso
Castellani, e dal R.mo Capitolo ne fece
acquisto e quindi fattolo ristaurare, indorare in una gran parte ec. dopo un anno
dalla compra oggi è stato posto sull’altare
appositamente avolto di nuovo. L’Altare,
il Tabernacolo, e la Balaustra di ferro non
è costato di meno di scudi duecento e
quattro. Tale spesa a carico del Capitolo
scudi cento trenta: pel resto contribuirono alcuni canonici complessivamente al
d Canonico dematia [sic].”36 Nella chiesa
di San Nicola da Tolentino a Sant’Angelo in Pontano da cui fu sgomberato
per le cattive condizioni in cui versava,
il tabernacolo si trovava originariamente
nella cappella Colucci, affrescata all’inizio del Seicento da Domenico Malpiedi.
Fu probabilmente realizzato tra il 1617
e il 1619, anni in cui il padre generale
dell’ordine degli Agostiniani Nicola Giovanetti curò l’arredo della chiesa.37
Il tabernacolo è costituito da una struttura architettonica piramidale a tre ordini, sostenuta ai quattro angoli della base
da quattro angeli; il primo ordine sulla
fronte e sul lato posteriore, è scandito da
colonne corinzie scanalate che affiancano quattro nicchie contenenti statuette
di santi, e al centro sostengono un timpano, sopra la porticina del ciborio, con
la scritta “panis angelorum”; nei due lati
sono dipinti i due santi vescovi “S. Tomasso” e “S. Hilarius”; nello sportello sul
retro è invece dipinto sant’Agostino, indizio della chiesa d’origine; il secondo ordine, definito da colonne binate a fusto
liscio e da due nicchie con statuette per
lato, termina con un attico con balaustra
su cui si erge il tempietto a cupola che
funge da coronamento.
La scenografica struttura lignea della
cappella del Sacramento, in cui le statue
di angeli sono da intendersi come trasposizione figurata di sostegni architettonici, ha un posto di rilievo nell’ambito
del processo di trasmissione iconografica
Silvia Blasio
Madonna della Colonna, secolo XV
avviato nell’età della Controriforma dal
tabernacolo di Pirro Ligorio, donato da
Pio IV e posto nel 1564 sull’altar maggiore del duomo di Milano, costituito da
un ciborio a cupola sorretto agli angoli da
quattro angeli inginocchiati, uno schema
che poco dopo si ritrova nel grandioso
ciborio a forma di tempietto in bronzo
dorato sostenuto da quattro angeli nella
Cappella Sistina di Santa Maria Maggiore a Roma, opera di Ludovico Scalzo, del
1586-88 circa; ma già prima del Concilio di Trento, il vescovo di Verona Matteo Giberti progettava di far sorreggere
il tabernacolo della cattedrale da quattro
angeli di bronzo.38 Sulla scorta di tali precedenti formali milanesi e romani, anche
il tabernacolo ligneo di Treia partecipa
dell’intenso movimento promosso dalla
chiesa nella seconda metà del Cinquecento allo scopo di restituire la massima
evidenza e centralità all’altare e al Sacramento dell’Eucarestia, come evidenziano
sia le Instructiones di Carlo Borromeo, sia
uno specifico trattato sulla forma e struttura dei tabernacoli pubblicato nel 1628
da Giovanni Battista Montano.39
La cappella seguente, dedicata al Beato
Pietro da Treia e sotto il giuspatronato
della famiglia Grimaldi, ospita a sinistra
il cenotafio marmoreo di Grimaldo Grimaldi, morto nel 1853 e a destra, come
si è detto, il monumento di Niccolò Grimaldi con le statue del Bregno. Sull’altare al centro vi è un dipinto su tavola rappresentante l’Assunta che dona la cintola
a san Tommaso e i santi Pietro, Girolamo,
Giovanni Battista, Patrizio vescovo (?),
Biagio vescovo e Caterina d’Alessandria.
Di questa bella pala cinquecentesca non
vi sono notizie nei documenti; si trovava
nella cripta fino a quando non fu ritirata
per il restauro, per essere poi ricollocata
in chiesa dove oggi si vede.40 Un indizio
che tuttavia potrebbe forse indicarne la
collocazione originaria nella stessa antica
collegiata, già dedicata a San Giovanni
Battista,41 è la posizione preminente del
Precursore inginocchiato in primissimo
piano. Il santo vescovo in secondo piano,
di cui è visibile solo la testa e il bellissimo
pastorale con il riccio d’oro, si può tentativamente identificare con San Patrizio,
protettore della città, anche se è impossibile esserne certi perché il santo non reca
alcun attributo iconografico.
Per quanto concerne l’autore della tavola, non vi è dubbio sull’attribuzione ad
Antonio da Faenza, di cui richiama inequivocabilmente impianto compositivo,
fisionomie, gesti ed espressioni, colorito
morbido e pesanti panneggi, fino al bel
paesaggio di sfondo che per l’ acutezza
grafica degli alberetti nervosi e delle rocce zoomorfe afferisce al Lotto e ai modelli nordici circolanti in Italia al principio
del Cinquecento. La paternità42 si evince
facilmente dal confronto con le altre pale
d’altare lasciate dal pittore nel territorio marchigiano dove fu attivo per circa
quindici anni, come quelle per Loreto,
Polverigi, Montelupone, Cingoli, e per
la stessa Treia, dove in San Michele è uno
Sposalizio di Santa Caterina.43 Da tutte
TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA
Antonio da Faenza, Assunta che dona la cintola a san Tommaso e santi
283
284
Giovan Battista Foschi (?), Annunciazione
queste opere che costituiscono il nucleo
più consistente di attività del faentino,
la poco nota pala di Treia si differenzia tuttavia nettamente per essere priva
dell’inquadramento architettonico, altrimenti motivo ricorrente nelle sue pitture, al quale è costretto qui a rinunciare
per poter dipingere Maria sulle nuvole
circondata da angeli musicanti nell’atto
di porgere la cintola a san Tommaso. La
perizia prospettica altrove ampiamente
dispiegata, qui si esercita solo nel perfetto scorcio del sepolcro marmoreo.
Anche Antonio da Faenza, come Vincenzo Pagani cui la pala di Treia era stata in
passato attribuita,44 fa parte della schiera
Silvia Blasio
Giovan Battista Foschi (?), Visitazione
dei proto-classicisti attardati che tennero
fede, ancora nel nuovo secolo inoltrato,
ai principi compositivi di equilibrio e
simmetria compositiva, di pacata e dolce religiosità elaborati nell’Italia centrale
sullo scorcio del Quattrocento e che il
ricorso a spunti raffaelleschi e lotteschi
o da artisti più moderni come Girolamo
Genga riesce solo superficialmente a rinnovare. Per le affinità con la pala d’altare
con la Madonna e santi della collegiata
dei Santi Apostoli Pietro e Paolo di Montelupone, del 1525, alla tavola treiese si
addice una datazione nella seconda metà
del terzo decennio.
Dietro la tavola di Antonio da Faenza
e quindi non visibile attualmente, è un
piccolo dipinto murale raffigurante la cosiddetta Madonna della Colonna, un’immagine trecentesca raffigurante la Madonna col Bambino benedicente, che nella
chiesa antica dava il nome alla cappella
omonima situata nella navata in cornu
Epistolae e comunicante con quella contigua della Madonna della Misericordia:
“Nella nave a cornu Epistole seguitando
il giro della Chiesa verso la Sacrestia vi
è la Cappella della Madonna della Colonna, illuminata da due finestre, una
laterale verso ponente, l’altra sopra l’altare, sopra del quale vi è la cupola con
altre due finestre, et in cima il cupolino
TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA
Giovan Battista Foschi (?), Natività
con finestrini. La Cappella suddetta fu
fabbricata in tempo dell’eminentissimo
Franzoni coll’elemosina contribuita dal
popolo. A’ presentemente le sue entrate,
le sue suppellettili anco preziose, e ne tiene l’amministrazione il Can.co Lorenzo
Didimi. L’altare ha l’ornamento di legno
dorato con due nicchie, dove sta disposta
l’immagine di essa Vergine, detta della Colonna, parte segata dalla Colonna
dove oggi vi appoggia il pulpito. In essa
è fondato il benefizio sotto il titolo de’
Ss. Fabiano e Sebastiano goduto presentemente dal Canonico Girolamo Brogli
coll’obbligo di due messe ogni mese.”45
La cappella era sotto il giuspatronato
285
Giovan Battista Foschi (?), Fuga in Egitto
della famiglia Bonomi. Sopra le quattro
porte angolari della chiesa sono collocati
quattro dipinti seicenteschi su tela raffiguranti Storie della Vergine. In essi si possono con certezza riconoscere le tele che
ornavano la cappella della Concezione,
o del Sacramento, con il giuspatronato
della famiglia Santamariabella Posci nella
vecchia pieve: “Dentro la nave a cornu
Evangelii scendendo dal deferito altare
a cornu Evangelii verso al Battistero vi è
la Cappella della Santissima Concezione
ereditaria della famiglia SantaMaria Bella
Posci, vi è l’altare col quadro che rappresenta la medesima Immacolata Concezione, ovato di stucchi a disegno corinto,
come anco i laterali della Cappella con
quattro quadri di ottimo pennello, due
cioè a cornu epistole, uno rappresentante
l’Annunziata, l’altro la Visita di S. Elisabetta et in mezzo un finestrone co’ vetri,
a cornu Evangeli due altri, uno cioè rappresentante la Natività di N. S., l’altro la
Fuga in Egitto […] Nei lati dell’altare vi
sono due statue di stucco una di S. Fran.
co di Assisi, l’altra di S. Antonio da Padova. Il volto tutto fregiato di stucco e
dipinto a guazzo. Il pavimento è di mattoni ed in cima dell’arco lo stemma della
suddetta famiglia Posci. […].46 Il dipinto
sull’altare con l’ Immacolata Concezione
e le due statue in stucco raffiguranti san
286
Silvia Blasio
Giovanni di Corraduccio, Visione del beato Corrado da Offida
Francesco e sant’Antonio da Padova sono
andati perduti, ma i quattro quadri che
ornavano le pareti della cappella sono
stati riutilizzati per l’arredo della nuova
cattedrale. Ciascuno di essi presenta in
basso a destra uno stemma comitale partito: nella parte destra si può riconoscere l’arme della famiglia Santamariabella
Posci,47 mentre la destra non è per ora
possibile identificarla.
In margine alla descrizione della cappella nell’Estratto del Benigni, in grafia diversa, si legge la seguente annotazione:
“Si credono di Simon Cantarino. Il Sig.
Maggiori di Fermo ha delle notizie su
tal proposito, e dell’epoca precisa in cui
furono dipinti.”48 Se il nome di Simone
Cantarini si può serenamente escludere,
i quadri appaiono veramente “di ottimo
pennello” come dicono i documenti,
tanto da aver attirato l’attenzione di un
raffinato collezionista e studioso come
Alessandro Maggiori. I dipinti tutti certamente della stessa mano, rappresentano l’Annunciazione, la Visitazione, la
Natività e la Fuga in Egitto e evidenziano
una cultura figurativa composita e interessante, in cui le varie tendenze seicentesche, dal naturalismo, al classicismo di
impronta reniana, fino all’enfasi barocca
si mescolano o prevalgono l’una sull’altra
nelle singole scene: la Fuga in Egitto, ambientata sullo sfondo di un denso bosco,
minaccioso e protettivo insieme, mostra
come pienamente assimilata la lezione
del paesaggismo seicentesco, soprattutto
per lo stretto rapporto emotivo tra figure
e ambiente naturale ma denota una capacità notevole di approfondimento su
brani di verità, come nello straordinario
muso dell’asino e negli arbusti che delimitano il proscenio. Il volto preoccupato
della Vergine, cui il Bambino si aggrappa cercando al contempo lo sguardo di
Giuseppe che si volge indietro, indica la
ripresa di un modello di Guido Reni e
questo evidente richiamo bolognese potrebbe allora facilmente spiegare l’antica
ipotesi del riferimento a Simone Cantarini. L’Annunciazione appare invece una
sorta di esperimento barocco non perfettamente riuscito che si limita ad un agitarsi di panni spiegazzati
- come nel manto di Zaccaria nella Visitazione - intorno al corpo dell’Arcangelo
dal volo impacciato. Brani di profondo
naturalismo tornano anche nella Natività, nel cestino in primo piano e nella
paglia che sfuggita dalla mangiatoia si
sparge al suolo.
Il modulo allungato delle figure dalle
teste piccole, i volti squadrati degli angioletti, gli effetti di penombra sui colori brillanti e l’illuminazione radente,
la sobrietà compositiva nonché alcune
evidenti carenze nel disegno potrebbero
suggerire il nome dell’anconitano Giovan Battista Foschi,49 formatosi probabilmente presso il Pomarancio e aggiornato
sulla cultura romana, specialmente Caravaggio e Lanfranco. La proposta ha solo
il valore di un’ ipotesi di lavoro, visto che
del pittore non si conoscono gli estremi
biografici e che le sue poche opere note
sono tutte comprese entro gli anni Venti.
Per la stessa ragione non si deve nemmeno escludere che i dipinti trejesi possano
rappresentarne la fase matura, segnata
da esperienze più moderne e barocche, e
che quindi la sua attività si sia protratta
sino agli anni Quaranta inoltrati. Infatti
“questa Cappella fu fatta con consenso
del Capitolo e beneplacito di Monsignor
Altieri […] li 13 aprile 1647 edificare dal
fu Giuliano Posci nel sito ove anticamente era la Sagrestia vecchia.”50
Alcune notizie tratte dalle Memorie del
Capitolo Trejese riguardano l’allestimento decorativo del presbiterio della nuova
cattedrale. “Adì 14 aprile 1810 si stabilì
il contratto per pitturare il sud.o catino
TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA
287
Vincenzo Pagani, Deposizione di Cristo
al Sig. Giorgio Panfilj di Fermo per il
prezzo di scudi 22.”51 […] “Adì 13 gen
1813 furono collocati i banconi nel Presbiterio, avuti in dono dal Sig. Luigi Angelini, che comprò dal demanio essendo
del Refettorio degli ex Padri Agostiniani di Treia Raffaele Sparapani, e Nicola
Bartoloni falegnami della nostra chiesa
li collocano in detto luogo […]”52 1881
30 settembre. In questo giorno venne
collocato nell’altare Maggiore il novello
Quadro della Vergine Annunziata, copia
squisitamente eseguita, sullo impareggiabile Originale di Guido Reni, dal Pittore
Romano Luigi Romagnoli. Argeo Can.
co De Mathia Reggente.”53 Nel 1893 il
pittore Nicola Didimi e lo stuccatore Paolo Paoloni furono incaricati di eseguire
decorazioni nell’abside;54 nel 1959 la ditta Conconi di Como ha ridipinto l’intera
chiesa, affrescando le volte.
Tra i dipinti della sagrestia, una piccola
pinacoteca sacra, si segnalano la Visione
del Beato Corrado da Offida, sulla parete d’ingresso a sinistra, proveniente dal
convento francescano osservante della
Santissima Annunziata di Forano, la cosiddetta “Porziuncola delle Marche” e
donata al capitolo della cattedrale di Treia nel 1812 dalla famiglia Grimaldi, che
l’aveva acquistata dai frati al tempo delle
soppressioni napoleoniche. Pochi anni
prima di questo evento, il 5 marzo 1792,
la tavola, ancora nella sua collocazione
originaria fu sottoposta al giudizio dei
due pittori Giuseppe Lucatelli di Tolentino e Giacomo Falconi di Recanati, alla
presenza di Romolo Grimaldi e Patrizio
Castellani come testimoni, che nella lunghissima perizia ne descrivono con precisione le caratteristiche tecniche, morfologiche e materiali, il complesso soggetto
e ne trascrivono le numerose iscrizioni
indicandola come “Quadro che al presente si conserva in fondo al corridore
che conduce alla chiesa nel convento di
Santa Maria di Forano de’ Padri Minori
Osservanti Riformati, e che anticamente
stava collocato nell’Oratorio, detto del
Beato Corrado d’Offida posto nel più folto della Macchia di detto Convento”.55
Si tratta di una tavola gravemente lacu-
nosa dalla singolare morfologia a centina ribassata, a lungo riferita a Giacomo
di Nicola di Recanati ma oggi ritenuta
concordemente opera del pittore folignate Giovanni di Corraduccio, insieme
alla tavola gemella della Pinacoteca Civica di Macerata raffigurante la Madonna
col Bambino e i santi Pietro, Paolo, Giovanni Evangelista, Giovanni Battista e
Francesco. Il programma iconografico è
strettamente legato al sito di Forano: al
centro la Madonna porge il Bambino al
Beato Corrado da Offida, secondo la visione che egli ebbe nella selva di Forano,
narrata nel capitolo XLIII dei Fioretti di
San Francesco, a sinistra appare il beato
Pietro da Treia che assistette di nascosto
alla visione. Vi sono poi i santi Giovanni
Evangelista e Francesco che apparvero al
beato Pietro da Treia mentre questi nella
meditazione si domandava chi nella Passione di Cristo avesse sofferto di più. Infine, inginocchiato davanti al beato Pietro
è il beato Giovanni da Monte di Santa
Maria, anch’egli vissuto a Forano. Alle
due estremità della tavola vi sono due
288
personaggi più piccoli: a destra un laico e
a sinistra un frate, probabilmente il guardiano del convento che commissionò il
dipinto; il suo nome era forse Lorenzo,
visto che si è fatto rappresentare davanti
a questo martire. La tavola potrebbe essere stata eseguita nel 1403.56
Sulla stessa parete, a destra, è visibile
l’Estasi del beato Pietro da Treia, del pittore treiese Domenico Ciaramponi (Treia, 1734-1792), canonico della cattedrale
e allievo di Gaetano Lapis di Cagli,57 da
cui trasse il senso di perfezione formale
che in questo dipinto si unisce a richiami
barocceschi nelle figure di proscenio. In
basso a destra si legge: “Beatus Petrus a
Treia obiit Siroli 1304.” Infine sulla parete destra vi è la lunetta con la Deposizione di Cristo nel Sepolcro, considerata
uno dei capolavori di Vincenzo Pagani,
databile nel secondo decennio del Cinquecento.58 La grande tavola, concepita
probabilmente come cimasa di una pala
d’altare, si può forse riconoscere nella
descrizione della cappella della Pietà nella vecchia chiesa, sotto il giuspatronato
della famiglia Carinelli: “Nelle due Cappelle laterali al Coro, in quella a cornu
Evangelii vi è l’Altare col quadro che rappresenta un Cristo deposto dalla Croce
con le quattro Marie, un busto di S. Ant.
Abate ed un altro di S. Fran.co d’Assisi,
contornato con colonne di stucco ad uso
Corinto e collo stemma sopra della famiglia Carinelli.”59
Particolare attenzione fu dedicata, nel
corso dei secoli all’organo della chiesa. Nelle Riformanze del 1609 “[…] fu
decretato di accordare scudi 60 in tre
rate, cioè in principio, nel mezzo a fine
dell’opera per la costruzione dell’organo fatto sempre di Paolo V Borghese,
che aveva per arme un drago e un’aquila
apposta in detto organo.”60 Ancora, nel
1737 si annota che nella chiesa vecchia
“v’è l’organo et è de’ migliori che sono
nella Provincia sta situato in mezzo della
Silvia Blasio
Organo di Gaetano Callido
nave a cornu Evangelij. Vi è il maestro di
Cappella e musici”61 e più tardi: “Maggio
1813 I Sig. deputati della Fabbrica tanto
il Sig. Canco Conte Broglio Massucci,
che il can.co Meloni, e i Fabbricieri Sig.
Luigi Grimaldi e Lattanzio (?), fecero
istanza al Demanio in Macerata per avere un organo per la loro chiesa Matrice,
giacché il vecchio organo non era in stato
di potersi collocare nella nuova chiesa in
luogo preparato. Il demanio notificò per
mezzo d’una sua lettera che v’era un organo alla Rocca Contrada del Monastero
di Santa Lucia soppresso, ma che prima
fosse fatto visitare se potesse esser buono
per la nuova chiesa. Il Sig. Lattanzio si
trasferì in detto luogo e conobbe che sebbene era piccolo pure essendo autore di
detto organo Callido veneziano, lo comprò per il prezzo di scudi 200.”62 Infine
“Adì 31 luglio 1813 giunse a Treja l’organo già riferito verso mezza ora di giorno
portato da tre carretti, due de’ quali diede il Sig. Luigi Angelini e l’altro fu trovato gratis, come gratis furono i due primi.
Il sud. Sig. Luigi Angelini diede anche
le vitture gratis per il Sig. Lattanzio e
l’organaro, che doveva venire per ricomporlo, ma attesi varij lavori non potette
venire unitam. con il sig. Lattanzio, ma
bensì il giorno 3 di agosto di detto anno
fu spedito a prendere Vici organaro, che
venne li 4 detto, e per li 11 di detto mese
fu compito il lavoro sull’ora di terza. Riesce molto bene, ed è buono assai.”63
TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA
289
NOTE
ASCCTr, Copia di relazione per la S. Visita 1737, 405/1.6-7.
Della nuova dedicazione della chiesa dà conto anche la visita del 1737: “L’insigne nostra Collegiata ne’ tempi antichi era dedicata al glorioso Precursore S. Gio.
Battista. Tanto si deduce specialmente da una lapide antichissima posta in cima
del Portone che dal chiostro conduce alle abitazioni unite alla chiesa” e più oltre
“Oggi però vien detta sotto il nome della Santiss.ma Annunziata, e se ne celebra
nel suo giorno la festa co’ vespri e messa solenni in musica del nostro maestro di
Cappella […]. ASCCTr, Copia di relazione per la S. Visita 1737, 405/1.3.
3
“Se ne ignora la prima erezione e sul fondamento della Lapide del 1303 […] si
dice ampliata in detto anno. […]; ma l’altra lapide più antica scoperta nella demolizione di detta chiesa per la costruzione della odierna fa rimontare la fabbrica
al 1227”. AGTr, AA, Estratto del Libro del R.mo Capitolo intitolato “Memorie”
(Fortunato Benigni), 1815ca. busta 25, fasc. 1, cc. nn.
4
ASCCTr, Copia di relazione per la S. Visita 1737, 405/1.9. Nella descrizione della pala risultano invertite tra destra e sinistra le posizioni dei due gruppi di figure.
5
Roma, Pinacoteca Vaticana.
6
AGTr, AA, Zibaldone di memorie raccolte sulla Chiesa di S. Maria della Pieve o
sia Collegiata, sull’antica Canonica e membri del Capitolo e sulle antiche Chiese di
S. Nicolò e S. Giovanni annesse e incorporate alla Pieve medesima colle notizie della
riedificazione della odierna magnifica Collegiata, busta 25.
7
ASCCTr, Copia di relazione per la S. Visita 1737, 405/1.11-12. Le stesse notizie
sono anche in AGTr, AA, Estratto del Libro del R.mo Capitolo intitolato “Memorie”
(Fortunato Benigni), 1815ca. busta 25, fasc. 1, cc. nn.
8
Per la storia della devozione treiese a questa sacra immagine vedi Meloni 1914.
9
Vedi Baldassari 1995, pp. pp. 45-48,schede nn. 15-18.
10
ASDTr, Incoronazione della Sacra Immagine della Madonna della Misericordia,
405/1.2. Vedi anche Meloni 1914, pp. 8-13
11
Per le notizie sul cardinal Grimaldi vedi Moroni, XXXIII, 1845, pp. 32-35.
12
Al di sotto della mensola in marmo si legge la seguente iscrizione:
“SIXTO.V.PONT.MAX / DE.PATRIA.DE.CIVIBUS.OPTIME.MERITO /
NICOLAUS.GRIMALDI.TREJENSIS / URBIS.PRAEFECTUS.ET.S.R.E.
VICE.CAMERARIUS.DEDICAVIT.ANNO.1833
13
Scultore bolognese attivo a Roma a partire dal 1573 e morto nel 1596, rilevò la
bottega romana di Guglielmo Della Porta e divenne responsabile della Fonderia
della Camera Apostolica, introducendo secondo Baglione 1642, p. 324 importanti innovazioni nella tecnica della fusione in bronzo.
14
Massinelli 1992, pp. 37-39.
15
Baglione 1642, p. 324.
16
Massimo 1836, p. 64; Massinelli 1992, p. 39. Tra i due scultori, Torrigiani e
Landini, oscilla l’attribuzione di un altro busto in bronzo di Sisto V oggi nella
Skulpturensammlung im Bode-Museum di Berlino, che differisce da quello di
Treia per la base in marmo, tuttavia con un similissimo motivo a ghirlanda, per
la diversa soluzione del piviale e perché la testa è fusa a parte e poi fissata al collo,
mentre il busto di Treia è fuso in un solo pezzo.
17
Taddeo Landini, nato a Firenze intorno al 1550 e morto a Roma nel 1596,
fuse il monumento di Sisto V in Campidoglio, ora perduto. Gl è stato attribuito
anche un busto di papa Gregorio XIII in bronzo nel Musei di Berlino, in coppia
con quello di Sisto V citato alla nota precedente.
18
ASDTr, Memorie del Capitolo trejese, busta 403, c. 40, Memoria de’ Semibusti
dati in dono dall’Em.o signor Cardinale Grimaldi alla nostra chiesa.
19
“PIO.VII.PONT.MAXIMO / RESTITVTORI .EPISCOPATVS.TREJENSIS
/ NICOLAVS.CARD.GRIMALDVS.POSVIT / ANNO.MDCCCXXXIV.
Sempre in ADTr, Memorie del Capitolo trejese, busta 403, c. 35 si legge che i due
busti “vennero collocati in alto per ordine del medesimo (il cardinale Grimaldi),
nell’Atrio della Chiesa, cioè sopra la porta il primo, che conduce alla torre, ed il
secondo dirimpetto al primo, sopra quella che introduce al Battisterio.
20
Sullo scultore vedi Raggi 1880; Scultura a Carrara 1993.
21
ASDTr, Memorie del Capitolo trejese, busta 403, c. 40, Memoria de’ Semibusti
dati in dono dall’Em.o signor Cardinale Grimaldi alla nostra chiesa.
1
2
Moroni 1845, vol. XXXIII, p. 35: Ciò che resta della sepoltura di Ottone II,
una gigantesca urna ovoidale, è oggi nelle Grotte vaticane vecchie, all’inizio della
navata sinistra. Sulle antiche sepolture nella basilica di San Pietro vedi Caglioti
2000, III, pp. 359-365.
23
Misurano rispettivamente cm 84 e cm 90. Serra le menziona dapprima senza autore come “Arte dell’Italia centrale f.sec. XIV-pr.XV:statuine in pietra di S.
Pietro e S. Paolo” (Serra 1925, p. 67), in seguito le pubblicherà come opere di
Andrea Bregno provenienti da san Pietro (Serra 1929b, pp. 224-228; Serra 1935,
pp. 391-393).
24
Per il percorso di Andrea Bregno vedi da ultimo Caglioti 2005, pp. 386-481;
Gallavotti Cavallero 2008, pp. 203-207.
25
ASCCTr, Copia di relazione per la S. Visita 1737, 405/1.7.
26
Vi si legge MATRONA / FILIAE SUAE / MATRONE.
27
ASCCTr, Copia di relazione per la S. Visita 1737, 405/1.12.
28
AGTr, AA, Estratto del Libro del R.mo Capitolo intitolato “Memorie” (Fortunato
Benigni), 1815ca. busta 25, fasc. 1, cc. nn.
29
AGTr, AA, Memoria sull’antichità e pregi della Insigne Collegiata di Treja con
suo sommario di Fortunato Benigni trejese, Dottor di Leggi e Socio Corrispondente
dell’Accademia Archeologica Romana, e Reale agraria di Torino e Storiografo della
Patria 1815, busta 16, fasc. 3/2.
30
Vedi R. Vitali in La cultura lignea 1999, pp. 155-156, scheda n. 95.
31
AGTr, AA, Zibaldone di memorie raccolte sulla Chiesa di S. Maria della Pieve o
sia Collegiata, sull’antica Canonica e membri del Capitolo e sulle antiche Chiese di
S. Nicolò e S. Giovanni annesse e incorporate alla Pieve medesima colle notizie della
riedificazione della odierna magnifica Collegiata, busta 25, cc. nn.
32
ASCCTr, Copia di relazione per la S. Visita 1737, 405/1.10. Le stesse notizie
più dettagliatamente, sono anche AGTr, AA, Estratto del Libro del R.mo Capitolo
intitolato “Memorie” (Fortunato Benigni), 1815ca. busta 25, fasc. 1, cc. nn.
33
Per alcuni dati tecnici sulla scultura e ulteriori notizie vedi S. Blasio in La
cultura lignea 1999, pp. 85-87, scheda n. 46. La nicchia in cui si trovava il san
Rocco era chiusa anteriormente da una tela scorrevole con lo stesso soggetto. Attualmente il dipinto è in un deposito della cattedrale, in attesa di essere restaurato
(comunicazione del parroco, don Vittorio Fratini). Per la statua lignea vedi anche
De Mathia 1901, p. 176.
34
Vedi il saggio sull’architettura di Stefano D’Amico in questo volume.
35
De Mathia 1901, p. 177.
36
ASDTr, Memorie del Capitolo trejese, busta 403, c. 36v.
37
K. Del Baldo, in Cultura lignea 1999, p, 158, scheda n. 98.
38
Per questo filone iconografico, in cui si inseriscono anche altri manufatti lignei
marchigiani vedi Blasio 2002, pp. 147-159, anche per la bibliografia relativa ai
tabernacoli milanesi e romani qui citati.
39
Montano 1628.
40
Il restauro curato dalla Soprintendenza di Urbino fu eseguito nel 1986 da Giuliano Rettori; il dipinto fu ricollocato in chiesa nel 1996.
41
Vedi infra, nota 2. Si deve inoltre ricordare anche che la cappella della Madonna
della Misericordia era intitolata a San Giovanni e che fu restaurata con materiali
provenienti dalla demolita chiesetta di San Pietro di cui acquisì anche tutte le
suppellettili. Nell’Inventario di tutti gli Oggetti, Sagri Arredi, che sono di pertinenza
della chiesa Cattedrale di Treja fatto il 31 maggio 1839 e rinnovato il dì 1 marzo
1846, nel paragrafo Quadri si menziona “Una tavola rappresentante Maria Vergine assunta in cielo destinata pel maggiore altare della chisa sotterranea” (ADTr,
busta 420, 24/1.1.
42
Correttamente indicata in Treia 1998, p. 34, in cui la pala viene datata 1529.
43
Su Antonio da Faenza cioè Antonio Liberi, detto anche Antonio Domenichi o
di Mazzone (Faenza 1456/ 57- [?] 1534-35, documentato a Loreto e Montelupone
1513-1525) vedi Battistini 1981, pp. 143-147, scheda n. 25, 243-244, schede nn.
51-52; Colombi Ferretti 1988, II, p. 627; Gelli 2005, pp. 45-47; A. Marchi in Vincenzo Pagani 2008, p. 228, scheda n. 46. In nessuna di questa voci bibliografiche si
fa tuttavia menzione della pala di Antonio da Faenza nella cattedrale di Treia.
22
290
Espunta dalle opere del Pagani da Scotucci Pierangelini 1994, p. 212, che
riferiscono di una diversa attribuzione (“viene attualmente spostata nel catalogo
di Francesco di Mazzone da Faenza”) e riprodotta in corso di restauro, la tavola
era stata precedentemente riferita al pittore di Monterubbiano da Serra 1925, p.
67; Serra 1932, pp. 137-139; Serra 1934 e Berenson 1932.
45
ASCCTr, Copia di relazione per la S. Visita 1737, 405/1.10.
46
ASCCTr, Copia di relazione per la S. Visita 1737, 405/1.8. Vedi anche De Mathia 1901, p. 175.
47
Meriggi 1978a, p. 217.
48
AGTr, AA, Estratto del Libro del R.mo Capitolo intitolato “Memorie” (Fortunato
Benigni), 1815ca. busta 25, fasc. 1, cc. nn.
49
Per Giovanbattista Foschi vedi Blasio 2007, pp. 205-213.
50
AGTr, AA, Estratto del Libro del R.mo Capitolo intitolato “Memorie” (Fortunato
Benigni), 1815ca. busta 25, fasc. 1, cc. nn. Su questo punto la relazione del 1737
è confusa e riporta la data 1748.
51
ASDTr, Memorie del Capitolo trejese, busta 403, c. 25r.
52
ASDTr, Memorie del Capitolo trejese, busta 403, c. 25v.
53
ASDTr, Memorie del Capitolo trejese, busta 403, c. 93. L’originale di Guido Reni
44
è la pala d’altare della Cappella dell’Annunciata nel Palazzo del Quirinale.
54
I contratti sono in ADTr, busta 438/03.
55
Grimaldi 1794, pp. 79-81.
56
Mazzalupi 2008, pp. 146-150.
57
Sul Ciaramponi, Toni 1978, pp. 130-131.
58
Da ultimo W. Scotucci, P. Pierangelini in Vincenzo Pagani 2008, p. 138, scheda
n. 10.
59
ASCCTr, Copia di relazione per la S. Visita 1737, 405/1.7. Vedi anche De Mathia, 1901, p. 175. Nell’ Inventario del 1839 (vedi nota 41) si cita “altra tavola che
rappresenta il Sepolcro di N. S. esistente in Sagristia”
60
AGTr, AA, Zibaldone di memorie raccolte sulla Chiesa di S. Maria della Pieve o
sia Collegiata, sull’antica Canonica e membri del Capitolo e sulle antiche Chiese di
S. Nicolò e S. Giovanni annesse e incorporate alla Pieve medesima colle notizie della
riedificazione della odierna magnifica Collegiata, busta 25, cc. Nn.
61
ASCCTr, Copia di relazione per la S. Visita 1737, 405/1.16
62
ASDTr, Memorie del Capitolo trejese, busta 403/1, c. 25.
63
ASDTr, Memorie del Capitolo trejese, busta 403/1, c. 25.
TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA
291
IL TESORO DELLA SANTISSIMA
ANNUNZIATA DI TREIA
Gabriele Barucca
Arte veneta, croce reliquiario astile
Nell’Archivio storico della concattedrale
di Treia esiste un Inventario di tutti gli oggetti, e Sagri Arredi, che sono di pertinenza
della Chiesa Cattedrale di Treia fatto il dì
31 Maggio 1839, e rinnovato il dì 1 Marzo 18461 in cui sono elencati, distinti secondo le diverse categorie, innumerevoli
oggetti, che fortunatamente in gran parte
ancora si conservano. Si tratta di suppellettili ecclesiastiche e soprattutto di parati liturgici che arricchirono in maniera
davvero notevole il tesoro della chiesa
di Santa Maria in particolare dopo che
la vecchia pieve lasciò spazio alla nuova
chiesa elevata nel 1815 al rango di cattedrale. Ciò risulta evidente dal confronto
con un Inventario di tutte le robbe mobili,
paramenti, et Argenti della Sacrestia della
chiesa di S. Maria detta Pieve di Montecchio2, stilato il 14 novembre 1666 e assai
Turibolo e navicella, fine del XVI – inizio del XVII secolo
meno consistente di quello ottocentesco.
Peraltro alcuni pezzi citati nel vecchio inventario risultano ancora superstiti. È il
caso di “una croce piccola di Argento con
coralli attorno”, senz’altro da identificare
con la croce-reliquiario3 tuttora esistente e descritta con precisione ai primi
dell’Ottocento in un foglio che ne reca
anche uno schizzo, nell’Archivio dell’Ac-
cademia Georgica di Treia: “L’altra Croce
Stazionale della nostra Cattedrale certamente più antica di quella già descritta
a tergo della lunghezza di palmi uno ed
once cinque, e della larghezza di palmi
uno ed once due è formata di legno coperto interamente anche nelle fiancate
con lastre di rame indorato senza alcune
immagine di Crocefisso ne altra qualsiasi
292
Gabriele Barucca
Filippo Tofani, ostensorio raggiato
Matteo Chiocca, calice
Ludovico Barchi, reliquiario a ostensorio
figura di rilievo ma tutta impestata intorno intorno, nel mezzo, e per fino nella
grossezza del legno sì nella parte anteriore, che posteriore di ambre, coralli, ametisti, e grossi pezzi di cristallo ovato con
cinque circhi incavati nella profondità
del legno, come nella sopraposta figura
munito di cristallo, e contenenti altrettante sacre reliquie distinte ognuna interiormente col suo cartellino in minuti
caratteri longobardi. Il rovescio è in tutto
simile alla parte anteriore si nell’ornato,
che negli incavi, e la Croce è del genere delle Immisse.”4 E’ stato giustamente
rilevato che la croce presenta caratteri
tipologici e stilistici veneziani, evidenti
nell’espansione gigliata delle terminazioni e nella profusione decorativa. Va forse
rivista la datazione proposta al secolo XV
e anticipata alla fine del Trecento, in ra-
gione di un rapporto molto stretto con
un’analoga croce trecentesca conservata
nel monastero di San Marco di Offida,
riconosciuta come prototipo da cui far
derivare una “serie di croci quattrocentesche, tipologicamente affini, ma assai
meno preziose e di fattura quasi seriale,
opere forse d’importazione, anche se non
è da escludere una produzione locale su
influsso veneziano”5.
Tra gli oggetti sacri più antichi, appartenuti alla vecchia pieve di Santa Maria e
ancora conservati, merita segnalare inoltre un servizio per incensazione omogeneo, costituito da turibolo e navicella6,
databile stilisticamente tra la fine del
Cinquecento e il primo quarto del Seicento. Sono infatti riferibili al repertorio
ornamentale di quel periodo le baccellature e i piccoli festoni fitomorfi sbalzati
sulle rispettive coppe, mentre il disegno
del coperchio del turibolo, traforato a
giorno, esemplifica col susseguirsi di trifore e pinnacoli, il persistere di modelli
tradizionali e codificati, tipico di questo
genere di suppellettili liturgiche. Al di là
del rilievo artistico, “è da notarsi”, come
scrive il canonico Giuseppe Meloni “che
il nostro Turibolo d’argento richiesto dal
Capitolo della Cattedrale di Recanati
fù adoprato dal sommo Pontefice Pio
Settimo nell’incensazione al Santissimo
Sagramento allorquando fece ritorno da
Francia in Roma che seguì il sudetto 16
maggio 1814”7 La richiesta dei canonici
recanatesi non deve sorprendere, riflette
infatti la situazione verificatasi a causa
delle requisizioni napoleoniche nonché
della complessa e dolorosa operazione di
confisca degli argenti ordinata dallo stes-
TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA
so governo pontificio per far fronte alle
onerose contribuzioni di guerra imposte
dai Francesi. I corredi liturgici delle chiese vennero così quasi per intero distrutti e spesso, come nel caso del duomo di
Recanati, non rimase neanche lo stretto
necessario per la celebrazione dei riti.
Nel caso di Treia, si riuscì evidentemente a sottrarre alla requisizione qualche
oggetto in più che ancora si conserva.
Seguendo l’ordine del citato Inventario
del 1839 il primo pezzo della lista degli
argenti è ”un ostensorio lavorato a cisello con raggi di getto dorati, e con vari
rabeschi egualmente dorati”. L’oggetto8
ha impresso un bollo identificabile con
qualche dubbio con quello usato dall’argentiere romano Filippo Tofani da circa
il 1753 alla morte avvenuta nel 1764,
anni entro cui si data dunque l’oggetto.
Il secondo pezzo elencato e tuttora esistente è “un calice di getto offerto fin dal
1700 dal Signor Carlo Carinelli”. Sotto
il piede del calice d’argento fuso corre
infatti l’iscrizione: “D. CAROLUS CARINELLVS DONAVIT ECCLESIAE
COLLEGIATAE ANNO IVBIL’ 1700”.
Sono poi presenti altri due calici settecenteschi. Il primo9 è caratterizzato da
una struttura molto semplice con piede
tondo e fusto con nodo piriforme, e da
un apparato decorativo affidato a naturalistici cespi di foglie d’acanto che cingono nodo e sottocoppa. Questa tipologia
affermatasi nella seconda metà del Seicento fu destinata a un enorme successo
e venne replicata serialmente fin oltre la
metà del secolo successivo. Infatti il calice di Treia reca incisa sotto il piede la
data 1747 nonché impresso il bollo del
maestro Matteo Chiocca (Roma, 1702
– 1758; pat. 1734), capostipite di una
dinastia di argentieri attivi a Roma fino
alla metà dell’Ottocento10. Il secondo11
con bollo illeggibile presenta il consueto repertorio di decorazioni di gusto rocaille con teste di cherubini, conchiglie,
cartelle architettoniche entro cui sono
sbalzati i simboli della Passione. Se la
qualità della lavorazione associa questo
calice ad una produzione quasi seriale è
invece un autentico capolavoro dell’arte
orafa romana del Settecento il magnifico
reliquiario a ostensorio12, costituito da
lamine d’argento sbalzate, cesellate e incise, applicate su un’anima lignea, che ha
impresso il marchio dell’argentiere Ludovico Barchi13. Nato a Modena intorno al
1678 ma già alla fine del Seicento documentato a Roma, dove nel 1713 ottenne
la patente di maestro, Ludovico Barchi
operò fino al 1731, quando si suicidò.
La presenza del bollo camerale in uso a
Roma nel biennio 1725-1727 consente
di circoscrivere con certezza la datazione
dell’oggetto. L’opera, ispirata nella concezione dell’insieme alle ridondanze del
barocco architettonico romano, è realizzata con straordinaria perizia tecnica, a
conferma dell’abilità di Ludovico Barchi,
argentiere assai reputato nella Roma del
primo quarto del Settecento, legato a
prestigiosi committenti, come ad esempio la famiglia Pallavicini.
Agli oggetti provenienti direttamente da
botteghe orafe romane si aggiungono nel
tesoro della cattedrale di Treia alcuni pezzi realizzati da argentieri attivi localmente. È opera di Sebastiano Perugini una
293
Sebastiano Perugini, croce processionale di
confraternita e particolare
grande croce processionale che, come indica la scritta incisa alla base del montante, fu realizzata nel 1702 su commissione
di Muzio Castellani e Simon Giovanni
Pancotti, deputati della confraternita di
Santa Maria Maggiore di Treia.14 Il bollo con le iniziali GP, che si rileva sulla
lamine d’argento della croce, attesta che
Sebastiano Perugini continuò a usare il
merco del padre Giuseppe con cui certamente condivise dagli ultimi anni del
Seicento la conduzione della bottega di
famiglia. Bottega, la cui attività è attestata nel corso del XVII secolo fino al primo
quarto del Settecento. La “bellissima croce processionale” di Treia, come la definisce il Bulgari15, conferma la buona reputazione che Sebastiano deve aver goduto
presso i committenti dell’epoca e che gli
294
Gabriele Barucca
Dionisio Boemer, reliquiario a ostensorio
Dionisio Boemer, reliquiario a ostensorio
Antonio Piani, calice
procurò la nomina nell’agosto del 1695
a “orefice e argentiere della Santa Casa di
Loreto”: carica di prestigio, riconfermata
nel luglio del 1701, e ricoperta probabilmente fino al 170616.
Tra i reliquiari, del tipo a ostensorio, presenti in gran quantità e in svariati modelli nel tesoro di Treia, si segnalano due
pezzi che si distinguono dagli altri piuttosto corsivi per l’originalità del disegno
e la resa esecutiva. Entrambi sono marcati da Dionisio Boemer, argentiere nato
a Münster, giunto in Italia ai primi del
Settecento con le truppe tedesche dirette
a Napoli e in seguito stabilitosi a Macerata, dove aprì bottega a partire almeno
dal 171117. Della sua cospicua produzione, di cui si sono rintracciati nelle chiese
del maceratese innumerevoli pezzi, i due
reliquiari di Treia costituiscono un’in-
teressante aggiunta. Il primo è definito
dal susseguirsi di volute fogliacee, fiori e
festoncini di frutti di gusto ancora tardo
seicentesco sbalzati sulla lamina d’argento, che dà forma al piede, al fusto e alla
mostra con la teca ovale contenente le
reliquie18. Nella lastra d’argento, fissata
all’anima lignea, che costituisce il secondo reliquiario prevalgono invece motivi
afferenti a forme architettoniche e, in
ossequio alla reliquia della vera Croce
contenuta nella teca centrale, la mostra è
definita da una croce con intorno una fitta raggiera a dardi uniti, tipica della produzione del Boemer, e il campo centrale
del piede presenta sbalzati a bassissimo
rilievo i simboli della Passione19. Reca il
bollo personale di Antonio Piani, quello
della bottega di famiglia (la Torre) e quello di garanzia del distretto di Macerata,
usato dal 1785 al 1790 circa, il bel calice con sbalzato sotto il piede un cuore
fiammato, simbolo dei Filippini ad indicare nella chiesa treiese di San Filippo la
sua originaria destinazione20. Se è giusta
la lettura del bollo di garanzia il calice
di Treia, che presenta caratteristiche formali e decorative tipiche del Settecento
ormai inoltrato, è da ritenersi un’opera
della produzione giovanile di Antonio
Piani, esponente della più nobile e famosa dinastia di argentieri maceratesi, la cui
prolifica attività arriva fino al 1825, anno
della morte.
Fino a qui sono stati illustrati gli oggetti sacri preesistenti alla costruzione della nuova chiesa collegiata, iniziata nel
1782, consacrata il 29 settembre 1814
e un anno dopo “esaltata alla cattedra
vescovile”21. Proprio per le necessità li-
TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA
295
Pianeta del cardinale Nicolò Grimaldi
Antonio Cappelletti, reliquiario a busto di san Patrizio
Bottega romana, reliquiario architettonico, secolo XIX
turgiche legate al nuovo status di cattedrale il corredo di suppellettili sacre
si accrebbe in modo cospicuo nel corso
dell’Ottocento grazie alle donazioni di
munifici oblatori. Tra questi la figura più
prestigiosa e generosa è senz’altro quella di monsignor Nicolò Grimaldi (Treia
1768-Roma 1845), discendente da una
antica famiglia del luogo che, come tanti
altri esponenti della nobiltà delle piccole città marchigiane, percorse nella Curia romana un cursus honorum brillante
e illuminato nel 1834 dall’ingresso nel
Sacro Collegio cardinalizio.22L’illustre
porporato mostrò un costante interesse
per la sua città d’origine, considerando strettamente doveroso e legato al
proprio ruolo gratificarla di autorevole
attenzione. Questo si manifestò in particolare nella fase di ricostruzione della
cattedrale, alla quale in seguito destinò
munifici doni. Nel “1838. Grimaldi Sua
Eminenza, e Legato in Forlì nel giorno
10 Giugno, dedicato alla Solennità della Santissima Trinità, colla mediazione
del Reverendissimo Signor Canonico D.
Domenico Ciaramponi, fece trovare improvvisamente nella Sagristia della nostra
Chiesa Cattedrale esposto un magnifico
semibusto di argento, rappresentante il
Glorioso nostro Protettore S. Patrizio
Vescovo, la di cui Mitra è tempestata di
preziose Gemme, e dorata a perfezione,
ed il Piedistallo in egual maniera dorato, e dinanzi al medesimo una sua lettera diretta a questo nostro Capitolo, che
aperta alla presenza di più Canonici, con
somma sorpresa fu letto, essere questo
semibusto un pegno dell’attaccamento,
che S. Eminenza conserva al Capitolo
Trejese, a cui lo donava interamente ed
in assoluta proprietà, nonché un effetto
della sua divozione verso il Protettore
della sua Patria.”23 Così leggiamo nelle
Memorie del Capitolo Trejese dove più oltre si attesta che “Il Semibusto in argento rappresentante S. Patrizio Protettore
della nostra Città è lavoro del celebre argentiere Borgognoni romano.”24A guardar bene però quest’ultima notizia non
risulta confermata dall’analisi del punzone dell’artefice impresso sulla lamina
d’argento del reliquiario a busto.25 Infatti
sull’opera compare accanto al bollo camerale quello assegnato nel 1815, per effetto del riordino di tutto il sistema della
bollatura, all’argentiere Antonio Cappelletti. Originario di Caserta dove nacque
nel 1772, Cappelletti ottenne a Roma la
patente di maestro nel 1804 e in seguito
operò fino al 1838, anno della sua morte. Il reliquiario a busto di san Patrizio
di Armagh è dunque un’opera della fase
estrema di attività dell’argentiere che pur
sostenuto da una tecnica esecutiva assai
296
Gabriele Barucca
Bottega orafa romana, calice
Paolo Bonessi, croce processionale di confraternita
Carlo Montini (?), calice
raffinata non si discosta nell’elaborazione
del busto da uno schema ormai convenzionale e raggelato.
L’uso consueto di apporre a questi oggetti
devozionali lo stemma del committente in questo caso inciso su uno scudo argenteo, applicato sulla fronte del basamento
in bronzo dorato del busto - consente di
individuare senza dubbio altri doni del
Grimaldi alla cattedrale. In particolare
merita citare un reliquiario architettonico ad edicola (altezza 56,5 cm) impiallacciato d’ebano e decorato da pietre
dure, gemme colorate, cristallo di rocca
e filettature d’argento. Il sacro arredo si
presenta come un piccolo altare alzato su
un basamento a carattere architettonico,
al centro del quale è applicata tra ovali di
agata una placca d’argento con l’arma del
cardinale. L’edicola superiore include nel-
la specchiatura centrale, fiancheggiata da
due colonne d’agata, una teca cruciforme
contenente un frammento del legno della Santa Croce e uno della colonna della
Flagellazione. Alla sommità è un timpano con un’edicola centrale includente
un ovale di corniola. Di severa struttura architettonica vivacizzata dagli inserti
colorati delle pietre dure e delle gemme,
nonché impreziosita dalle filettature
d’argento, parzialmente perdute, questo
arredo sacro costituisce la riproposizione
ottocentesca di un genere di oggetti che
ebbe straordinaria fortuna nell’ambiente artistico romano a partire dal primo
Seicento, quando ebanisti e orafi, per
lo più nordici, insieme a esperti lapicidi realizzarono innumerevoli reliquiari,
studioli, casse di orologi notturni e pendole. Questa produzione che connotò il
gusto dell’epoca barocca, evidentemente
si protrasse fino all’Ottocento, replicando un repertorio superato ma gradito alla
committenza con esiti formali meno eleganti e con una resa esecutiva meno raffinata. Lo stemma del cardinale Grimaldi
(troncato: nel primo di rosso all’aquila
di argento con ali spiegate, e posata sulla
partizione; nel secondo scaccato di rosso
e di argento), timbrato con il cappello e
le nappe esprimenti la dignità cardinalizia, è ricamato e applicato su “una ricca pianeta di lana d’oro di colore rosso
del prezzo di scudi 70”, che nel “1844.
Sua Eminenza reverendissima il Signor
Cardinale Niccola Grimaldi sempre generoso colla nostra chiesa ai 12 ottobre
portò in dono”.26 La pianeta Grimaldi in
taffetas rosso laminato è solo uno dei numerosissimi paramenti sacri di ogni for-
TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA
297
Bottega orafa romana, servizio da lavabo, secolo XIX
Bottega orafa romana, ostensorio raggiato, secolo XIX
ma e colore liturgico, che, puntualmente
elencati negli inventari della cattedrale,
ancora fortunatamente si conservano
nelle cassettiere e negli armadi della sala
capitolare, sebbene dismessi quasi del
tutto dall’uso liturgico.
Risale agli anni immediatamente successivi alla consacrazione della nuova chiesa
la realizzazione della grande croce processionale della Confraternita del Corpus
Domini che presenta su un fondo rivestito di seta gialla una decorazione in lamina d’argento traforata con tralci di vite e
all’incrocio dei bracci il calice con l’ostia.
Il punzone impresso sulla croce corrisponde a quello usato a partire dal 1817
dall’argentiere Paolo Bonessi, la cui attività è documentata a Recanati dal 5 aprile
1809 al 19 febbraio 1819. Pertanto la croce della Confraternita è databile alla fine
del secondo decennio dell’Ottocento.
Inoltrandosi nel corso del secolo si aggiunsero al patrimonio di suppellettili
sacre della cattedrale altri due monumentali calici. Il “10 settembre 1844.
Il Illustrissimo Canonico don Giovanni
de’ Conti Broglio Massucci i nostri vantaggi fatti alla nostra chiesa vi aggiunse
anche quello di donare in dono un calice
di bronzo d’orato di sopraffino lavoro. Il
Sommo Pont. Gregorio XVI d’un simile
Calice si serve a dir Messa ogni giorno
nella sua privata Cappella”.27 Il calice28
dorato a sezione circolare presenta una
base a gradino con doppia cornice perlinata e cesellata a foglie, su cui siedono tre
putti fusi a tutto tondo, recanti i simboli
della Passione. Il motivo a foglie d’acanto e a festoncini di fiori alternati a medaglioni coi simboli della Passione che
ricopre il nodo centrale a vaso e il sottocoppa rappresenta un’evoluzione ottocentesca della sintassi decorativa neoclassica. Il calice ripropone uno dei modelli
più fortunati dell’oreficeria sacra romana
dell’Ottocento, che si ispira ai prototipi
degli Spagna, gli argentieri più prestigiosi dell’epoca. Il bollo apposto sul calice
non è leggibile pertanto è impossibile conoscere l’identità dell’autore. Non è perfettamente impresso neanche il marchio
Bottega orafa romana, calice, secolo XIX
sul secondo calice, ma con ogni probabilità corrisponde a quello usato da Carlo
Montini, maestro orefice e argentiere di
Macerata, la cui attività è documentata dal 1818 al 1863. Il piede a sezione
circolare presenta un alto gradino su cui
siedono le statuette a tutto tondo delle
tre Virtù teologali; al centro sul plinto di
colonna sono figurati simboli della Passione entro corone di alloro. Il nodo a
vaso del fusto è decorato da erme femminili a forte aggetto. Nel sottocoppa è
un girotondo di putti alati che reggono
tralci intercalati da medaglioni con i simboli della Passione. Il calice riprende sia
nella decorazione che nell’impostazione
architettonica, un modello assai diffuso
nell’argenteria romana del XIX secolo,
che com’è noto influenza anche la produzione degli argentieri operanti in loco.
298
Gabriele Barucca
Sala Capitolare
Negli ultimi anni dell’Ottocento sono
annotate nelle Memorie del Capitolo Trejese altre donazioni di oggetti tuttora esistenti. Si inizia con un servizio da lavabo
in argento decorato da una profusione di
motivi fitomorfi sbalzati e incisi. La nota
di riferimento recita: “21 nov. 1894. In
questo giorno il Signor Marino Rainaldi
fece dono alla Cattedrale di un boccale
con piatto di argento di squisito lavoro
per uso dei Pontificali”.29 Sui due pezzi di
cui si compone il servizio non compare
il marchio dell’argentiere, mentre sul cavetto del bacile è inciso lo stemma della
famiglia Rainaldi. Nel “luglio 1896. Il
can. D. Giuseppe Tomassoni fece dono
a questa Sagrestia di un piccolo ma bello
ostensorio di argento, sostenuto da un
angelo, che appartenne già alla Monache
di S. Chiara di questa città”.30 L’ostensorio raggiato31 presenta un bollo malamente impresso non identificabile, ma in
ogni caso il suo modello è assai diffuso
nell’oreficeria romana della prima metà
del XIX secolo e si basa su un prototipo
di Vincenzo II Belli ultimo esponente
della celebre dinastia di argentieri romani. L’oggetto è caratterizzato dal piede a
sezione circolare, dal fusto costituito dalla statuetta di un angelo paludato all’an-
tica, poggiante sul globo e con le braccia
levate a indicare la soprastante raggiera a
dardi irregolari. Infine l’anno seguente si
annota: “9 marzo 1897. In questo giorno
verso la mezzanotte passò agli eterni riposi munito dei conforti ultimi della Religione il Canonico D. Niccola Bordoni
nella grave età di anni 78 compiuti. Egli
tenne il canonicato Raccamadori, che
dopo le attuali vicende politiche fu soppresso. Morendo fece dono alla Sagrestia
di un pregevole calice d’argento.”32
Il patrimonio di suppellettili sacre del
tesoro della concattedrale di Treia comprende, oltre ai pezzi in metalli nobili
TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA
Ambito degli Scoccianti, completo di cartegloria
sopra illustrati, un ricchissimo corredo
di oggetti in legno intagliato, dorato e
policromato, riposti dentro e sopra gli
armadi della bellissima sala del Capitolo. Si tratta di fornimenti di candelieri,
di completi di cartegloria, come quello bellissimo riferibile all’ambito degli
Scoccianti databile tra la fine del Sei e il
principio del Settecento,33 e soprattutto
di reliquiari nelle più svariate tipologie.
La questione delle reliquie e l’importanza nella vita delle popolazioni dei culti
instaurati attorno alla presentazione dei
reliquiari e dei pii ricordi sono argomenti
oggetto di approfonditi e numerosi studi
di antropologia religiosa. La promozione
del culto delle reliquie con intenti essenzialmente didascalici, regolato da prescrizioni dettate volta a volta dai sinodi locali
spiega lo straordinario successo di questo
genere di suppellettili ecclesiastiche. Peraltro questo successo venne alimentato
dalla quasi inesauribile disponibilità di
reperti sacri frutto delle indagini e delle
riscoperte di ‘corpi santi’ nelle catacombe romane. Il connesso traffico di ‘reliquie’, la loro circolazione e distribuzione
da Roma, determinò fenomeni vistosi di
collezionismo e di ostentazione quantitativa, a cui appunto conseguì lo sviluppo
di una enorme produzione di contenitori in legno intagliato, dipinto e dorato o
argentato, che per motivi di economicità
venne progressivamente a sostituire o integrare la realizzazione dei ben più preziosi reliquiari in argento.
Per quanto riguarda il caso specifico di
Treia sono stati rintracciati documen-
299
ti negli archivi della concattedrale e
dell’Accademia Georgica34 che consentono di seguire il costituirsi della cospicua
raccolta di reliquie. Dal Libro delle Riformanze risulta infatti che nel 1611 monsignor Alfonso Bianchi donò alla pieve
di Santa Maria numerose particole sacre
per la cui degna collocazione la comunità
promosse una raccolta pubblica di denaro. Nel 1630 il Comune infatti si fa carico della doratura delle custodie eseguite.
È proprio a questo periodo che risalgono
il maggior numero di reliquiari a urna e
a tabella tuttora presenti nel tesoro. Si
tratta di oggetti esemplificati su modelli
ancora tardo cinquecenteschi realizzati
con una buona qualità artistico-artigianale fondata su competenze collegate di
abili intagliatori e di esperti doratori. Nei
decenni successivi sono documentati ulteriori interventi per abbellire la cappella
delle Reliquie in collegiata: in particolare, nel 1682, il Comune promosse la realizzazione di un nuovo gradino d’altare,
di candelieri e tabernacolo, apponendovi
lo stemma del cardinal Franzoni, arcivescovo di Camerino. Nel 1755 venne costruito l’altare in marmo e nel 1775, il
3 ottobre, monsignor Cosimo Macolani,
vescovo di Terni, consacrò l’altare maggiore dedicato a san Patrizio, ponendovi
le reliquie di san Giusto e san Quirino.
Nel 1778, per lascito testamentario dei
marchesi Carlo e Giuseppe Castellani,
giunsero nella collegiata i resti di santa Giustina, mentre il braccio di santa
Chiara martire fu inviato nel 1806 da
Nicolò Grimaldi. Infine nella nuova cattedrale furono trasferite nel 1818 dalla
soppressa chiesa di Sant’Agostino le ossa
di san Orso, portate a Treia nel 1661 da
Giovanni Teloni.
Tra le varie tipologie di reliquiari un ruolo assolutamente unico lo rivestirono fin
dal tardo medioevo quelli a busto. Di
questa tipologia se ne conservano ancora
numerosi esemplari lignei nella concat-
300
Gabriele Barucca
Bottega marchigiana, reliquiario a tabella, secolo XVII
Bottega marchigiana, reliquiario a tabella, secolo XVII
Bottega marchigiana, reliquiario a ostensorio, secolo XVII
Bottega marchigiana, reliquiario a urna, secolo XVII
Bottega marchigiana, reliquiario a tabella, secolo XVII
TREIA. CONCATTEDRALE DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA
tedrale di Treia. Il pezzo più interessante
della raccolta è quello di san Fabiano papa
e martire. 35 Si tratta di un oggetto realizzato intorno alla fine del XVII secolo con
grande maestria tecnica in cui è evidente
l’intenzione dell’artefice di emulare i manufatti metallici nel contrasto cromatico
della doratura, riservata al piviale decorato con raffinati motivi vegetali punzonati o in pastiglia, con l’argentatura della
veste e del volto del santo. La stessa in-
tenzione mimetica traspare nella resa del
triregno in cui risaltano sulla doratura
gli inserti colorati a suggerire le gemme
incastonate. Sul retro della base trapezoidale del reliquiario a busto si legge:
“GREGORIVS / ACCVRSIVS / DE /
MONTE MILONO” a indicare il nome
del probabile committente, figura non
altrimenti nota, ma appartenente a una
delle più antiche e potenti famiglie della
vicina Monte Milone, oggi Pollenza.
Scultore marchigiano, reliquiario a busto
di San Fabiano, secolo XVII
NOTE
ASCCTr, Inventario di tutti gli oggetti, e Sagri Arredi, che sono di pertinenza della
Chiesa Cattedrale di Treia fatto il dì 31 Maggio 1839, e rinnovato il dì 1 Marzo
1846, busta 420, fasc. 24/1.
2
ASCCTr, Archivio Capitolare di Treia, Inventario di tutte le robbe mobili, paramenti, et Argenti della Sacrestia della chiesa di S. Maria detta Pieve di Montecchio,
busta 404, fasc. 1, cc. 1-4. In questo inventario risultano poche suppellettili in
argento, qualche pezzo in ottone, ma una innumerevole serie di parati sacri di
ogni tipo.
3
Croce in rame punzonato e dorato su supporto ligneo, corallo, cristallo di rocca
e gemme colorate. 31 (45,5 con l’innesto) x 25,5 cm. Vedi B. Montevecchi, scheda 32, in Ori e argenti 2001, p. 121.
4
AGTr, AA, busta 25, fasc. 3/03.
5
Montevecchi 2006, p. 40.
6
Argento; altezza del turibolo 31 cm; altezza della navicella 16,5 cm.
7
ASCCTr, busta 404, fasc. 4, c. 50.
8
Ostensorio raggiato in argento e argento dorato, altezza 64 cm.
9
Calice in argento e argento dorato, altezza 22,5 cm, diametro del piede 10,7 cm,
diametro dell’orlo della coppa 8,6 cm.
10
Bulgari Calissoni 1987, pp. 144-145.
11
Calice in argento e argento dorato, altezza 25,6 cm, diametro del piede 14,5
cm, diametro dell’orlo della coppa 8,7 cm.
12
Il reliquiario a ostensorio è in lamina d’argento sbalzato, cesellato, inciso, con
anima e base in legno parzialmente dorato, altezza 62 cm, base 27,5 cm, larghezza
della mostra 26,5 cm.
13
G. Barucca, scheda 41, in Ori e argenti 2007, pp. 228-229, con bibliografia
precedente.
14
La grande croce processionale di Confraternita della Madonna Addolorata (279
x 137 cm; barra 10 x 4,8 cm) è in argento sbalzato, cesellato e inciso; la struttura in legno è rivestita di velluto azzurro. Sul recto, alla base del montante è la
seguente iscrizione: AERE EXUBERAT/SEN. SOCIET./S. MARIAE MAIOR
TREIEN/EX DECRET. D. D. CONFRAT./D. D. MVTIVS CASTELLANI.
SIMON IO:PANCOTTI. DEP(vta)TI/M.DCCII. SEBAST. PERUG. ARGENTAR. MACER.
Cfr. G. Barucca, scheda 83, in Ori e argenti 2001, pp. 181, 183-184, con bibliografia precedente.
15
Bulgari 1969, p. 151.
1
301
Grimaldi 1977, p. 14.
Cfr. Barucca 2008, p. 201, con bibliografia precedente.
18
Reliquiario a ostensorio in lamina d’argento sbalzata e cesellata, fissata su supporto ligneo. Altezza totale 48 cm.
19
Reliquiario a ostensorio in lamina d’argento sbalzata e cesellata, fissata su supporto ligneo. Altezza totale 54 cm.
20
Calice in argento e argento dorato, altezza 26,8 cm, diametro del piede 14 cm,
diametro dell’orlo della coppa 8 cm.
21
“Adì 25 settembre 1815 si seppe la nuova, che la nostra Chiesa Collegiata fù
esaltata alla Cattedra Vescovile”. ASCT, Archivio Capitolare di Treia, busta 403,
Memorie del Capitolo Trejese, c. 26r.
22
Sulla figura del cardinale Nicolò Grimaldi vedi il saggio di Silvia Blasio in
questo volume.
23
ASCCTr, busta 403, Memorie del Capitolo Trejese, cc. 35r e v.
24
ASCCTr, busta 403, Memorie del Capitolo Trejese, c. 40.
25
Reliquiario a busto in argento sbalzato, cesellato, inciso, fuso e parzialmente dorato; gemme colorate sfaccettate; anima in legno. Altezza: 116 cm; base:
25x25. Vedi G. Barucca, scheda 147, in Ori e argenti 2001, pp. 252-253.
26
ASCCTr, busta 403, Memorie del Capitolo Trejese, c. 37v.
27
ASCCTr, busta 403, Memorie del Capitolo Trejese, c. 38r.
28
Calice in argento dorato, altezza 28,6 cm, diametro del piede 13,2 cm, diametro dell’orlo della coppa 8,6 cm. Sotto il piede è la seguente iscrizione: ECCLESIAE CATTH. TREJEN/IOAN. CAN. BROGLIO MASSUCCI/P.VIC.
GLIS/1844/D. D.
29
ASCCTr, busta 403, Memorie del Capitolo Trejese, c. 109.
30
ASCCTr, busta 403, Memorie del Capitolo Trejese, c. 111.
31
Argento, argento dorato e gemme colorate. Altezza 53 cm.
32
ASCCTr, busta 403, Memorie del Capitolo Trejese, c. 111.
33
Vedi P. Fava, scheda 114, in La cultura lignea 1999, p. 178.
34
Le ricerche archivistiche furono condotte da Debora Roccetti in occasione della
preparazione della mostra La cultura lignea nelle alte valli del Potenza e dell’Esino
(1999) e sono state rese note da E. Nardinocchi, scheda 113, in La cultura lignea
1999, pp. 176-178.
35
Il busto reliquiario in legno intagliato, dipinto e dorato è alto 87 cm. Cfr. S.
Blasio, scheda 58, in La cultura lignea 1999, pp. 96-97.
16
17
APPARATI
305
LA STORIA DELLE CATTEDRALI DALLO STUDIO DEI DOCUMENTI.
SAGGIO DOCUMETARIO
Laura Mocchegiani
Si è ritenuto importante pubblicare un saggio di edizione di alcune delle fonti documentarie, alcune delle quali utilizzate negli
studi qui pubblicati, per illustrare uno dei principali strumenti su cui è basata la ricerca storica. Sono stati trascritti testi conservati
presso gli archivi diocesani e capitolari, e, per quanto riguarda Tolentino, presso l’archivio storico comunale dove si trova la bolla
con cui Sisto V istituisce la diocesi. Gli archivi diocesani e capitolari sono fondamentali per la conoscenza delle strutture della
chiesa secolare e dell’assetto ecclestiatico di un intero territorio: pievi, parrocchie, cappelle, abbazie, ospedali, conventi e confraternite. Anche se ciascuno di questi enti fu infatti, produttore e conservatore di scritture, è solo attraverso la tradizione vescovile
che si può avere una visione sintetica delle istituzioni e dell’andamento ecclesiastico. Le visite pastorali con il loro articolato itinerario, i registri dei benefici, le elencazioni in funzione di decime, censi, collette e tasse diverse, i nudi elenchi di chiese e cappelle
compilati periodicamente, le registrazioni di entrata e uscita, le lettere e i bollari, gli istrumenti concernenti trasferimenti, usi o
diritti dei beni fondiari come donazioni, compravendite, permute, locazioni, ci forniscono una ricca e variegata trama incrociata
di informazioni dalle quali emerge la fisionomia storica di una struttura o di un territorio. Con le disposizioni del Concilio di
Trento questa funzione normativa conferita al vescovo diviene ancora più pressante e sistematica tramite i concili diocesani e
provinciali, le inquisizioni episcopali e le visite pastorali non più episodiche ma sistematiche e regolari.
Per ben comprendere la tipologia degli archivi ecclesiastici e la ricchezza delle serie documentarie che vi confluiscono un essenziale punto di riferimento è costituito dal Codice di Diritto canonico con l’elenco dei vari archivi che ricadono sotto la giurisdizione
del vescovo; se si considera che il Codice del 1929 è ancora fortemente intriso dello spirito tridentino e dell’opera riformatrice
di Benedetto XIII, la tipologia è sostanzialmente quella tradizionale che è poi in definitiva collegata agli enti ecclesiastici che
costituiscono la struttura istituzionale della chiesa. La costante è che comunque l’archivio viene considerato sempre strettamente
inserito entro un ente ecclesiastico che ha il suo centro in un edificio di culto.
Gli archivi ecclesiastici legati alle chiese cattedrali sono:
I Archivio diocesano
Nell’archivio diocesano confluiscono atti, documenti e istrumenti strettamente collegati all’espletamento dei compiti giurisdizionali della Chiesa locale. Tenuto conto che il carisma episcopale si esplica in triplice forma: il governo, o munus regendi, l’amministrazione dei sacramenti, o munus sanctificandi e il magistero, o munus praedicandi, si comprende come gli atti contenuti
nell’archivio diocesano riguardino questa vasta gamma di funzioni. L’ordinamento delle serie dei documenti non è assolutamente
uniforme anzia varia da diocesi a diocesi in rapporto alla tradizione, alla estensione territoriale, e alla pluralità delle situazioni
personali e patrimoniali degli enti e del clero. In ogni caso vi sono alcune serie nelle quali si riscontra una certa uniformità tra i
documenti conservati negli archivi diocesani, come quelli riguardanti i sinodi, le visite pastorali, gli atti relativi ai rapporti con la
sede apostolica, le ordinazioni sacre, i monasteri femminili, la mensa vescovile, i benefici e i legati. Solo per la serie di documenti
conservati nell’Archivio segreto vengono dettate norme di segretezza, cautela e custodia; questa serie riguarda documenti di natura
personale e carte processuali in materia morum che devono essere bruciate o in seguito alla morte del condannato o in caso di
sentenza assolutoria.
II. Archivio della chiesa cattedrale
Si tratta di un’istituzione di origine medievale legata all’introduzione dei collegi canonicali deputati all’espletamento degli uffici
liturgici nella Matrix Ecclesia della diocesi. Il consolidarsi delle prerogative dei Capitoli cattedrali che assunsero le funzioni di
Senato del Vescovo il quale per alcuni atti doveva adire Capitulum, l’acquisizione di un notevole patrimonio proveniente da
donazioni e legati, l’introduzione del sistema delle prebende e dei benefici portarono questi Collegi ad assumere la personalità
306
giuridica e a disporre di una propria “mensa” distinta da quella del vescovo. Questa pluralità di funzioni è rispecchiata dalla serie
di documenti confluiti nell’archivio della chiesa cattedrale: i titoli di proprietà dei beni, i verbali delle sedute dei Capitoli, gli atti
della Mensa capitolare, quelli del sistema beneficiario, ecc.
III Archivio delle Chiese collegiate.
Le chiese collegiate sono quelle officiate da un collegio di canonici che espleta le medesime funzioni liturgiche dei Capitoli delle
cattedrali. Anche in questo caso le serie documentarie sono strettamente collegate alla natura di queste istituzioni che sono prevalentemente quelle connesse al culto, al sistema beneficiario, agli affari economici, alla vita e organizzazione interna.
L’edizioni di fonti qui riportata non ha pretesa di compiutezza rispetto al lavoro svolto dai ricercatori: si è scelto tra le tante carte
utilizzate, un campione ritenuto significativo per la particolare solennità del documento, per la ricchezza di informazioni storicoartistiche riportate o per la curiosità e particolarità della sua redazione. Tra le tante serie documentarie sono state privilegiati,
quando presenti e ben esaurienti, i verbali delle visite pastorali per la completezza delle informazioni fornite; tra queste sono state
trascritte le visite del 1685 per Macerata, del 1694 per Cingoli e del 1621 per Recanati. Altra ricchissima fonte di informazione
è costituita dagli inventari, sia quelli redatti per volontà di Benedetto XIII nella prima metà del XVIII secolo, sia quelli stesi per
contingenze temporanee come, ad esempio, il trasloco dei beni mobili per la ristrutturazione della chiesa. Tra questi sono presenti
gli inventari della cattedrale di Cingoli del 1726, di Recanati del 1733, e l’inventario dei quadri e degli oggetti presenti nella
vecchia cattedrale di Macerata redatto nella seconda metà del XVIII secolo, al momento del loro trasferimento per la costruzione
della nuova chiesa. Per quanto riguarda Macerata si è scelto di riportare anche la documentazione inerente i lavori di rifacimento
della cattedrale come la Relazione e perizia della chiesa metropolitana della città di Macerata dell’architetto fiorentino Luigi Sgrilli
del 1787, il Mastro della nuova fabbrica della cattedrale del duomo di Macerata dal 1772 al 1838 interessante perché compaiono i
nomi di tutti coloro che vi hanno lavorato, e un parere inviato da Giuseppe Valadier nel 1826. Relativamente a Treia si è scelto
la cronaca degli avvenimento dal 1810 al 1829 molto interessante perché emerge un quadro di vita cittadina tutta intenta alla
costruzione della cattedrale: da chi si prestava a fare i facchini per la fabbrica, comprese le donne di cui vengono riportati anche i
nomi, a chi si offriva per formare il cordone per il trasporto dei mattoni che venivano trasportati di mano in mano, a chi andava
a prendere il legname a Porto Recanati a chi cucinava per i lavoranti. Il documento costituisce una preziosa e rara testimonianza
di una comunità rappresentata in tuti i suoi ceti sociali unita e solidale nel perseguimento del comune obiettivo di avere una
propria cattedrale.
Sempre per Treia è stata riportata anche altra documentazione relativa alla costruzione della chiesa con le perizie relative alla
fabbrica e lettere di chi inviava doni. Per Tolentino si è scelto di riportare la bolla con cui Sisto V erige in cattedrale la collegiata
di S. Maria interessante non solo per il valore giuridico ma anche perché vengono illustrati tanti particolari della città, come la
posizione geografica, i personaggi in essa nati o vissuti, la descrizione della cinta muraria e delle chiese e comunità religiose in essa
esistenti. La bolla rappresenta l’unico esemplare di documento non conservato presso gli archivi diocesani ma presso l’Archivio
storico del comune di Tolentino.
Per una migliore comprensione del testo delle visite pastorali si ritiene opportuno precisare che erano sempre predisposte dall’ordinario e che potevano poi essere compiute o dal vescovo stesso o dal suo vicario o anche, a volte, da più delegati. Il vescovo
preparava un libellus di questioni da sottoporre in prima istanza ai parroci, da integrare successivamente con quesiti o richieste di
testimonianza ai laici. Le visite, minuziosamente regolate da normative e trattati, erano incentrate sulla richiesta di informazioni
relative alla formazione e condotta del clero, alla consistenza patrimoniale delle chiese, alla situazione degli edifici, paramenti,
arredi e suppellettili e al modus vivendi della comunità. Essendo estrapolate dai registri dei verbali, le visite qui trascritte dagli
originali sono incomplete per quanto concerne gli elementi atti a produrre effetti giuridici come le sottoscrizioni dei testimoni e
del cancelliere vescovile.
Per quel che concerne i criteri di trascrizione, pur essendo i testi riportati al di fuori della tradizione paleografica latina per la loro
tarda collocazione cronologica, si è scelto di seguire la normativa scientifica della scienza diplomatica in modo da poter fornire
una lettura quanto più possibile rigorosa e fedelmente aderente alla matrice originaria.
308
MACERATA
L’Archivio Diocesano di Macerata è conservato presso la curia vescovile in Piazza Strambi. Il fondo ha subito ha subito alterne vicende con gravi conseguenze sulla
documentazione da esso conservata. E’ stato recentemente schedato ed è in fase di inventariazione. L’Archivio funge anche da soggetto conservatore dei seguenti fondi
qui depositati:
- Archivio del Capitolo della cattedrale
- Archivio della parrocchia della cattedrale
- Archivio della parrocchia di S. Maria della Porta
- Archivio della parrocchia di S. Giovanni
- Archivio della parrocchia di S. Stefano
- Archivio della chiesa di Rambona
Visita della cattedrale 2 settembre 1685
In Dei nomine amen. Die dominice secunda septembris 1685 de mane. Hec sunt acta visitationis facte ab illustrissimo et reverendissimo Fabritio Paulutio Dei et
apostolice sedis gratia episcopo Macerate et Tolentini de ecclesia cathedrali civitatis Macerate. [...] Reverendus Fabritius Paulutius episcopus maceratensis et tolentinensis [...] accessit ad ecclesiam cathedralem et ad cappellam nuncupatam visitationis Beate Marie Virginis juris familie de Compagnonis de Stella, in qua asservatur
sanctissimum eucaristie sacramentum in pixide argentea intus deaurata et invenit esse bene et diligenter reteantur, [...] pixides ista adest coperta cum conopeo serico
albi coloris [...] invenit tabernaculum ipsum ligneum ordine corintio elaboratum, dictum tabernaculum fuit asportatum in dicta ecclesia cathedrale de ordine felicis
memorie illustrissimi et reverendissimi Cini episcopi predecessoris collocatum in dicta cappella que est in ordine prima navate a cornu evangelii altaris maioris. In
summitate cappelle adest stegma familie de Compagnonis de Stellis cum inscriptione: Patronatus familie Compagnoni. Cappella ista in parte interiori ornata est variis
et diversis figuris ut dicitur di stucco. In parietibus lateralibus adest in marmore sculptura eminentissimi et reverendissimi cardinalis Centini et similiter in marmore
sculptura illustrissimi et reverendissimi domini Papirii et Silvestris olim episcopis Macerate. In pariete a cornu evangelii prope altare adest cellula seu fenestrula in
muro que clauditur janua lignea cum serra cuius clavis retinetur a reverendo archiepiscopo in qua asservatur reliquiarium argenteum cum cruce in summitate et cum
vistris seu cristallis in circuitu ad effectum inspiciendi reliquia una ex spinis sanctis corone Domini nostri Jesu Christi, et cum aliis reliquis. Et alterum reliquiarum
argenteum cum vitro seu christallo ante in cuius summitate adest statua argentea angeli, intus reliquiarium sunt reliquie. Retinetur etiam bracchium ligneum deauratuum in quo asservatur reliquia sancti Justini martiris. Cappella ista habet ante cancellum ligneum depictum. Visitavis baptisterium quod est ante forum ecclesie. In
cellula constructa eleganter elaborata stucchis cum diversis immaginis circumcirca S. Johannis Baptiste baptizantis Christum. Fons baptisimalis sculptus in petra cum
suo tabernaculo de ligno elaborato et depicto ad formam lapidis et in summitate adest crux adest etiam intus tabernaculum fons cum aqua benedicta. Pro abluenda
aqua retentur conchilia argentea intus deaurata. Mandavit fieri armarium in pariete dextera cum sua janua et serra et ornatum interiori et exteriori ad effectum in eo
conservandi sacra olea. Mandavit fieri umbellam et lanternam novam. Visitavit confessionalia in eadem ecclesia et mandavit in illo purificationis restaurari scabellum.
Visitavit sacras reliquias existentes in altare beate Conceptionis et mandavit apponi cristallum amovibile in capsula argentea in qua asservatur reliquia S. Christophori. Mandavit armarium in quo servantur reliquie depingi et cellulam reaptari. Visitavit sacras reliquias: S. Bartholomei, S. Lucie, S. Felicite, S. Sixti, S. Clementis,
S. Catarine et mandavit apponi capsulam. Visitavit altare maius in quo mandavit depingi et fieri crucem in altaris prospectu. Visitavit altare S. Bernardini in quo
mandavit auferri tabulam ligneam supra altare et mensa, provideri de novo pallio. Visitavit altare seu capella Immaculatissime conceptionis et mandavit apponi immaginem crucifixi in cruce; provideri de tela cerata super altare, coloris picturis decrustatas in cappella repuliri. Visitavit cappellam Visitationis et mandavit apponi
telam ceratam super petra, reaptari fenestras vitreas. Visitavit altare sanctissimi Crucifixi et mandavit renovari petram sacratam, provideri de candelabris et cruce cum
imagine sanctissimi crucifixi. Visitavit altare [-] Maris Vallis Viridis et mandavit complanari mensas altaris, apponi novam tabulam ligneam et in eius medio collocari
petram sacratam. Visitavit altare seu cappella Societatis sanctissimi Corporis christi et mandavit amoveri arcam sacram, removeri crucem super tabernaculo et apponi
crucifixum ex auricalco cum suo pedestallo, fieri pedem calicis tabernaculi, reaptari seu fieri ex argenteo clavis hostiole et iterum depingi imagines in angulo altaris a
cornu evangelii fieri diligentias ad effectum inveniendi documenta S. Rocchi. Visitavit cappellam S. Petri de jurepatronatus Caroli de Ferris in qua mandavit apponi
imaginem sanctissimi crucifixi in cruce et candelabra depingi ad formam crucis. Visitavit altare et cappellam sanctissimi crucifixi magni seu S. Claudi in qua mandavit
januam depingi figuratam. Visitavis cappellam S. Angeli custodis nuncupatam Annunciationis et mandavit provideri de tabella secreta. Visitavit cappellam et altare S.
Johannis Baptiste et mandavit quamprimam amoveri aram sacratam et provideri de tela cerata ad illam, mandavit apponi immaginem sanctissimi crucifixi in cruce, reaptari scabellum et gradus altaris. Visitavit cappellam et altare S. Andree Apostoli in quo mandavit amoveri petram sacratam, fieri pallium ligneum omnibus coloribus
depictum. Visitavit altare S. Hieronimi seu Caroli in quo mandavit provideri de tela cerata super petram, reaptari picturam S. Caroli et gradus altaris. […]
(ASDM, Visite pastorali, n. 4)
Relazione e perizia della chiesa cattedrale dell’architetto Luigi Sgrilli, 1787 ottobre 11
Relazione e perizia della chiesa metropolitana della città di Macerata diretta ai nobili uomini signori cap. Nuzio Ilari e Giovan Battista Nelli
[1r.] Nobili uomini sig. cap. Nuzio Ilari e Giovan Battista Nelli deputati dal Magistrato della città di Macerata per la visita della nuova Fabbrica del Duomo.
In ordine alla commissione partecipatami dalle sig. ill.me di visitare la fabbrica della nuova cattedrale di Macerata con riferire l’occorrente per ciò che riguarda la sicurezza e la nobiltà della medesima. A tale effetto però ho diligentemente visitata ed esaminata la fabbrica della catedrale suddetta che fu cominciata a costruirsi intorno a
sedici anni fa e che è ridotta nello stato in cui si trova fino da dieci anni avendo esaminato i fondamenti, mura, volta, tettoia ed essendo pure intervenuti nei rispettivi
giorni della visita le sig.rie loro ill.me che oltre all’aver dato tutti gli schiarimenti possibili sono stati sempre assidui e presenti ed hanno dimostrato il loro vero zelo per
adempire la commissione ingiuntali dalla città. La chiesa suddetta è costruita a tre navate con archi, e intercoloni, volta sotto ed altra chiesa sotterranea fabbricata in
oltre in un suolo che ha una pendenza un poco risentita, ma avendo principalmente esaminato la posizione della
[1v.] fabbrica al di sotto della tribuna dell’altar maggiore vi esistono più e diverse fabbriche in oltre le mura castellane che stabiliscono e rendono fermo il terreno su
cui è fabbricata la chiesa che è il principale riquisito che si richiede per la stabilità e sicurezza delle fabbriche.
Ho osservati primariamente i fondamenti delle mura maestre degli intercoloni che sono legati con archi che formano le navate delle pilastrate della tribuna e della tribuna
medesima, come pure ho esaminato i fondamenti delle colonne che sostengono la volta della chiesa sotterranea e l’intiera costruzione, l’ho ritrovata della maggiore stabilità
si per le dimensioni su di cui sono stati fabbricati quanto ancora per la qualità del materiale che è stato impiegato avendo fatto ancora dei saggi ove ho creduto.
309
Ne ho tralasciato di esaminare alcuni squarci o peli, che si osservano nella muraglia principale verso la parte di mezzo giorno e nelle mura della tribuna potrei qui dire
che nelle fabbriche più rispettabili e le più antiche e che per più secoli hanno risistito al tempo e che
[2r.] sono state costruite dai più celebri architetti, si osservano ma esaminando questi peli o squarci per mezzo della ragione e della regola dell’arte soggiungerò che non
v’ha dubbio alcuno che tali squarci non siano provenuti o perché abbia un poco ceduto il suolo su cui sono fabbricati i fondamenti o perché abbia in qualche parte
ceduto il fondamento medesimo attesa la costruzione e la mano di opera che vi è stato impiegata ma questi cedimenti non solo sono da trascurarsi quando si sono
stabiliti i fondamenti medesimi, ma osservo di più che la resistenza delle muraglie è tale da contare per un niente per così dire questo piccolo cedimento talché con le
regole dell’arte posso asserire che suddetta chiesa è ben fondata. Ho esaminato la volta grande del sotterraneo che ho ritrovata della miglior costruzione, la volta fra le
quattro pilastrate che formano la croce che è impostata in tante pietre che for/
[2v] mano un architrave piano fra le colonne ed ancor essa ho riconosciuto sicura. Ho esaminato in oltre il restante della volta della chiesa sotterranea che è sostenuta
da colonne con archi fra loro contrastati pinte e intercoloni con architravi piani di legno di cerro o quercia che resistono senza veruna eccezione. Che nell’atto di
diramargli allorché furono costruiti ve ne sono alcuni dei divisi ma avendo combinato la forza dell’arco distirbuita nelle differenti lunghezze dell’architrave la gravità
che vi è sopra i medesimi sono di sentimento e posso asserire essere sicurissimi. Sopra detta volta vi è un’altra volta ove vi è il coro, il presbiterio per l’altar maggiore. Le
mura esteriori della detta chiesa essendo state da me esaminate l’ho trovate costruite tutte in piombo e di grossezza anche maggiore talché formano la fabbrica anche
in questa parte della maggiore stabilità.
[3r] Ho inoltre esaminato i quattro intercoloni delle colonne con architravi piani di pietra e cornice architravate su di cui sono impostati gli archi che formano le navate
e sopra i quali sono stabilite il restante delle mura della navata maggiore e la volta della navata suddetta e sono impostate ancora nelle suddette cornice architravate le
volte delle cappelle delle navate minori. Primieramente ho esaminato la costruzione delle suddette colonne composte di pietre la gravità che vi è della fabbrica sopra le
medesime, ho notato inoltre il ringrosso del muro lavorato a arco per l’impostatura della volta ed ho osservato che sopra ciascuno intercolonio vi sono due catene di
ferro in piano con altre due catene di legno che sono internate al livello della sommità degli archi delle navate, un’altra catena di legno inclinata ed altra catena pure di
legno in piano, una tal difesa diversifica di poco
[3v] nei quattro intercoloni suddetti. La maggior forza che vi è in questa parte di costruzione di fabbrica è la gravità e il peso superiore e l’unione degli archi interni
delle navate che non sono aggravati, mentre la resistenza di esse è tale che secondo l’esperienza di più anni non vi si scorgono quei mancamenti allorché le colonne
non sono sufficienti per sostenere il peso superiore, quelle catene poi non solo giovano per la gravità della fabbrica ma ancora giovano per gli archi delle navate. Gli
architravi di pietra degli intercoloni sopra di cui vi sono le cornici architravate sono alcuni divisi ma atteso la gravità e l’equilibrio del peso superiore sono stabili e sicuri.
Ho trovato inoltre che sono pelati nel suo maggior rigoglio gli archi interni delle navate minori e questo è accaduto per essere un poco cedute le colonne nell’atto di
essere disarmata la fabbrica, ma ciò non gli fa un pregiudizio
[4r] per la stabilità che si richiede considerata la grossezza delle colonne medesime e la difesa delle catene apposte superiormente. In alcuno di detti intercoloni non ho
trovato bisogno di lavoro e gli ho ritrovati sicuri talché combinata la costruzione della fabbrica suddetta nella parte degli intercoloni la giudico sicura e stabile avvalorata
ancora dal tempo. Ho visitato l’arco della tribuna dell’altar maggiore che è sul mezzo cerchio sopra al quale sono stati custroiti altri archi ed inoltre un sesto acuto sopra
cui vien sostenuto il tetto, ed ho riconosciuto che nel maggior rigoglio dell’arco del mezzo cerchio se ne è staccata una parte per la lunghezza di palmi quattordici ed è
pelato il restante. Si rende necessario di riparare prontamente con armare ed assicurare il detto arco, ed in oltre per non demolire il muro che vien sostenuto propongo
di costruire sopra un arco a rottura fatto sul punto fermo e ripigliarlo in quella
[4v] parte ove ha ceduto e si è staccato con apporvi alcuni tiranti di ferro per sostegno assicurati al nuovo arco a rottura che toglierà la forza attuale dei due rami del
sesto acuto essendo un lavoro che richiede la maggior abilità dell’esecuzione per assicurarlo e risestarlo tanto più che oltre alla necessaria sicurezza forma anche una
delle parti migliori della fabbrica. Ho esaminato in oltre il secondo arco della tribuna medesima sopra del quale vi è stato custroito un muro per sostenere la tettoia
ed ho riconosciuta la sua costruzione tale da poter resistere senza veruna eccezione ne il peso del muro superiore gli apporta pregiudizio perciò in questa parte sono di
sentimento che sia sicuro e stabile. Ho visitato pure il terzo arco della tribuna sopra di cui vi è costruito il solito muro per sostenere la tettoia ed ho trovato non esservi
verun cedimento, adunque considerata non tanto la
[5r] strottura dei suddetti archi considerato inoltre che sopra archi sul mezzo cerchio e sul punto fermo si assicurano e si alzano delle fabbriche di riguardevoli altezze
quando vi è una spinta proporzionata ai loro diametri mentre nei suddivisati archi sono a contrasto di due grandi sproni che sono fondati sopra due sesti acuti, perciò
i muri soprapposti non sono di alcun pregiudizio e resta sicura e stabile anche in questa parte la fabbrica. Ho esaminata inoltre la tettoia della tribuna che è sostenuta
da tanti saettili il di cui tratto viene interrotto da tre monachi che posano sopra una trave ove nei due laterali vi sono due sproni ed al di sotto nel tratto intermedio
vi è una contrasticciola anche in questa parte ho riconosciuta sicura la detta tettoia ma per maggior sicurezza propongo di apporvi una contro asticciola di maggior
grossezza di quella che vi è con alcune fasciature di ferro. Ho esaminato in oltre il primo arco della navata
[5v] della chiesa ed ho ritrovato che ancor esso nella maggior curvatura ha ceduto e si è allentato e che nel restante vi sono delle pelature ho veduto che al di sopra vi
sono stati costruiti due altri archi ed un terzo arco sesto acuto che imposta sulle curvature dell’arco medesimo similmente propongo di assicurare sopra un arco a rottura
bene impostato nei due laterali, ed in oltre con apporvi alcuni tiranti di ferro. Ho visitato il secondo arco della navata sopra di cui vi è stato costruito un pilastro per
sostenere la tettoia ed ancor esso ho ritrovato e riconosciuto in buon grado come pure nell’arco secondo dalla parte della facciata della chiesa vi è costruito un arco per
sostegno della tettoia ed un peso tale non gli aha apportato verun danno anzi di più gli archi che non sono stati caricati dimostrano di esser pe/
[6r] lati nel rigoglio della superficie loro esterna, mentre negl’archi che sono stati caricati non vi si scorge verun pelo. Ho riconosciuto ben costruita la volta della chiesa
come pure in buon grado e di buona costruzione la tettoia. Ho esaminato in oltre i quattro coretti che formano quattro intercoloni nei quattro angoli della croce
della chiesa che essendo costruiti di legname con travi ricoperte di stoia sono ancor’essi sicuri in quella parte che riguarda il pavimento o il solaro dei medesimi. Ma
nel coretto di contro all’ingresso della sagristia ho ritrovato che l’arco piano della sua luce, che è composto di mattoni, è slentato e diviso perciò è necessario che sia
ricostruito similmente è da rivedersi l’altro architrave della luce del medesimo dalla parte opposta. Nel mezzo della croce della chiesa potrà ricostruirsi la tettoia con
adattarvi al di sotto una
[6v] vela di stoia bene armata con quattro peducci nei quattro angoli delle pilastrate tutti composti di stoia per renderla anche in questa parte completa. Dalla descrizione di tutte le parti che compongono la nuova fabbrica della chiesa del duomo di Macerata consideratone la strottura in tutte le sue parti è sottoposta all’esame
più scrupoloso ed inoltre allorché sarà ridotta al suo termine resulta la sicurezza di una tal fabbrica avvalorata ancora dall’esperienza del tempo di diece anni dalla sua
costruzione che posso asserire a forma della mia perizia mentre con il più profondo ossequio ho l’onore di confermarmi delle signorie loro illustrissime.
Macerata li 11 ottobre 1787
Devotissimo obbligatissimo servidore Luigi Sgrilli architetto fiorentino.
310
Io Pietro Tartuferi fui testimone manu propria
Io Giovan Francesco Bartocci fui testimone manu propria
(ASDM, Fabbrica della cattedrale, 1)
Contabilità dei lavori per la fabbrica della cattedrale, 1772 - 1838
“Mastro della nuova fabbrica della cattedrale del duomo di Macerata dal 1772 al 1838 compilato dal ragioniere Gaudenzio Stramazzi sulla scorta dei giornali e libri al
medesimo consegnati e relazione e sentenza sindicatoria del contabile suddetto”
Parte passiva
I Architetti
1772 novembre 2 Al sig. Luigi Morelli con ordine diretto a Giovan Battista Mareotti, lire 30
1772 novembre 20 Al suddetto come sopra, lire 35
1790 dicembre 31 all’architetto venuto da Firenze per riconoscere lo stato della fabbrica nuova lire 163,14
1825 agosto 18 a Innocenzi pel disegno e perizia fatta dell’atrio da farsi nella nuova cattedrale, lire 4
1826 agosto 16 Al suddetto pel prezzo convenuto del disegno, pianta e perizia dell’atrio e facciata della cattedrale, lire 25
Totale pagato lire 257,14 [...]
III Provista di materiali ed ornamenti
1775 giugno 8, bonificati a mons. Vescovo per la provvista di n. 12 colonne di travertino, lire 756
1776 settembre 6, passati in entrata a credito di mons. Vescovo per spese di calce, mattoni ed altro, lire 105,80
1790 dicembre 31, spesi da Mareotti per provista di gesso, lire 372,19
Simile dal suddetto per mattoni, pianelloni, pianelle e coppi, lire 420,05
Simile per quadri rotatura e tagliatura, lire 247,73
Simile per legname comprato, lire 113,54
Simile per canna, lire 12,92
Simile per sabbione, lire 46,93
Simile per fare ricolare la campana, lire 76,25
Simile per la balaustra e cancelli di ferro, lire 496,67
Simile per i due putti di marmo al Piani, lire 200
Simile per la calce, lire 93,60
Simile per la tela, tintura e fattura delle tendine, lire 167,58
Simile per l’organo, lire 750
Simile per porlo in opera, lire 66,24
1791 dicembre 20, Pianelloni arrotatura e tagliatura, lire 92,50
1795 agosto 31 Chiodetti nelle colonne per li parati ferri nella scala per i medesimi, legname
ed opera di muratore, lire 10, 75
1802 novembre 17 a mastro Domenico Zaccheo per sbassare il pulpito della chiesa, lire 4,99
1802 dicembre 13, al sig. canonico Pietro Mornatti per la costruzione del pulpito della fabbrica
della cattedrale, lire 67
1802 dicembre 16 al suddetto pagati all’organaro in fine di decembre 1802, lire 25
1802 dicembre 17 a Luigi Giorgetti per il pulpito, lire 2,60
1803 settembre 5, a Pietro Cervini pel bussolone, lire 100
1803 dicembre 16 a Callido organaro, lire 30
1804 gennaro 28, per una corda per il telone dell’organo, 0,14
1804 gennaro 31, ottone filato grosso palmi 3,5 per un contrabbasso, 0,16
1804 febbraro 4 A Pietro Cervini a conto del bussolone lire 50
1804 marzo 5, A Zaccheo per lavori fatti per la nuova bussola, lire 3,05
1804 marzo 6 a A Ferrari ottnaro per due ragnole di metallo per la bussola lire 2,5
1804 marzo 6 a Zacchini per trasporto ed aiuto nel porre le bussole lire 0,20
1804 marzo 17 a Petrucci vetraro per vetroni messi nella medesima 1,32
1804 marzo 17 a Ferrari per quattro pomi di ottone per la medesima 0,80
1804 aprile 7, a Cervini per tintura di panno verde e giallo per il telone della bussola, lire 5
1804 aprile 7 a Giorgetti ferraro per conto lavori della medesima 15
1804 giugno 25 a Fioravanti per lavori fatti per le due portiere della nuova bussola 8,40
1804 luglio 5 a Giorgetti ferraro a saldo lavori per la bussola 20
1804 agosto 4 a Fioravanti per disegno, direzione e lavori fatti per la bussola 50
1804 ottobre 24 Vetroni 13 pel nuovo bussolone 5,45
1804 novembre 28 a Cervini per la controbussola nella porta della chiesa 11
1804 novembre 29 a Baglioni per vernice nella controbussola 5
1804 dicembre 30 a Giorgetti per lavori da ferraro 10,22
1805 gennaro 10 a saldi per una molla d’acciaio per la bussola 0,40
1805 gennaro 14 ad Ambrosini fattura di due storoni 1,30
1808 novembre 10 a Moretti per due porticine nuove per il bussolone 19,91
311
1810 luglio 15 a Baglioni in saldo pittura a olio del bussolone Lire 157,20
1811 agosttto 20 due tendine ai finestroni che conducono al sotterraneo 39,10
1827 luglio 24 al sig. Felice Cruciani per tanti improntati per il prezzo della terza campana
comprata dalla cattedrale di Tolentino lire 150
a Pennesi muratore per lavori fatti per collocare la nuova campana ed in chiesa 8,70
a Giorgetti ferraro per lavori fatti pel servizio della chiesa e nuova campana 5,80
a Cervini falegname per diverse opere da lui eseguite 1,70
al sig. Felice Cruciani per rinfranco di trasporto della campana da Tolentino a
Macerata 1,35
1828 aprile 1 al canonico Roberti in rimborso di spese fatte per le 4 nuove tendine nel coro 29
1828 aprile 4 per prezzo di cardini comprati per le suddette tendine e manualità per collocarle 2
1828 maggio n10 al sig. Saverio Caterbini agente di mons. Vescovo per terza parte di spesa occorsa
per una nuova cisterna scavata nell’interno dell’orto del palazzo vescovile a comodo di mons. Vescovo e della cattedrale 68,66
1828 agosto 12 a Mignardi per una verga di ferro per cavare l’acqua dalla cisterna del palazzo
vescovile per uso della cattedrale 2,95
1830 luglio 5 al canonico Roberti per tanti spesi per la rifusione della terza nuova campana, spese
per la benedizione, opera de’ muratori e manuali per collocarla sulla torre
1830 dicembre 18 a Santini per la nuova portiera alla Porta Maggiore e ristauri delle due interne
8,87
1832 giugno 27 Per braccia 120 panno di canapa per la nuova tenda al portone di mezzo a Zampi
Nicola 10,80
1832 agosto 2 al suddetto spese residuali per il tendone suddetto e porta della sagrestia 9,60
1834 novembre 14 al Santini sellaro prezzo di due portiere fatte nuove nel bussolone della
cattedrale compresa la robba 10,50
1836 aprile 4 a Pelatelli per spese occorse per le tendine rifatte di nuovo nei finestroni delle scale
della chiesa di sopra e nella porta prinicpale della chiesa di sotto 11,95
1837 gennaro 8 A Santini sellaro spesa e fattura di due portiere nell’interno del bussolone 10,70
1837 aprile 5 Al canonico Capanna per braccia 58 panno a scacchi per ricoprire la portiera grande nella porta maggiore e per le altre due interne al bussolone 9,57
1838 gennaro 15 A Santini sellaro per manifattura della nuova portiera della porta maggiore e per le altre due interne 8,45
IV Artieri
1790 decembre 31 Per opera di scalpallino, lire 350,92
Simile per il falegname, 388,64
Simile per il ferraro, 484,12
Simile per il vetraro 154,76
Simile per fattura delle maniglie delle porte, ornamento nell’altare di marmo e doratura di essi, 59
Simile per l’imbianchini, 89,33
Simile per lo stuccatore 297,75
Simile per l’ottonaro 35,70
Simile per le vernici 106,90
1791 febbraro 21 a mastro Alessandro Cervini in conto de’ suoi lavori 182
Dicembre 20 al ferraro Pantaleoni per lavori fatti, 11,75
1792 agosto 31 a mastro Pietro Fontana per opere de muratura del sotterraneo, 390,29
Al ferraro Domenico Salvi , 30,99
Al ferraro Pantaleoni, 2,50
Al vetraro Petrucci 16,42
Al falegname Venturi, 7,50
Al verniciaro Baldelli 5,40
A mastro Pietro Fontana per opera de scalpellino, 7,41
1796 agosto 23 Al pittore Antonio Giacomini per tre iscritioni lapidarie sopra la porta della chiesa 81,84
(ACM, Libro mastro)
Inventario degli oggetti presenti nella vecchia cattedrale trasportati altrove per i lavori seconda metà sec. XVIII.
Nella cappella di S. Carlo un quadro con S. Giuliano, S. Diego, la Madonna in mezzo, dipinto in tavola, antico della ven. sagrestia portato in Seminario; due altri
quadri lunghi senza cornici uno vi è S. Agata, l’altro S. Girolamo senza cornici. Un altro quadro largo con la sagra Famiglia con cornice marmorata portati in Seminario
di palmi sei di lunghezza e di larghezza 12 circa. Il quadro di S. Carlo di altezza palmi 12 circa e di larghezza palmi otto circa, carteglorie, candelieri, paliotto, predella,
candele di legno, tutto portato in casa Compagnoni/
Nella cappella di S. Andrea due quadri laterali rappresentante in uno di essi il martirio del medesimo santo, nell’altro il martirio di S. Sebastiano con cornicette indorate
tutte e due di palmi dieci e dita sei in circa. Una Madonna che sta in sedia che cuzzina il bambino con due angeli laterali con ornato indorato presi dal sig. Giuseppe
Mornati ed una credenza quale tiene in deposito Luigi Rossi. Il quadro grande di S. Andrea di palmi [spazio bianco] di altezza e di larghezza di palmi [spazio bianco]
circa con cornice indorata presa dal suddetto sig. Giuseppe Mornati. E più scalinata, paliotto, candelieri e croce parimente prese dal sig. Giuseppe Mornati con la
ferrata e finestra di pietra avanti l’altare, vetrata, di più la cassettiera del braccio di S. Vito, il reliquiario d’argento e capelli di Maria ss.ma ed il braccio di S. Maccario
312
trasportata a S. Carlo con poliza esistente in cancelleria vescovile./
Nella cappella di S. Giuliano: un quadro di S. Emidio con cornice indorata di palmi [spazio bianco] e suo ornato di palmi [spazio bianco]. Un altro quadro de santi
Giovanni Battista e Giacomo di lunghezza palmi 12 circa portata in Seminario. Il cancello indorato con lo stemma della città e il cartello che vi è “Hic est qui multum
orat pro populo” portata a S. Pietro del’Ospidale. Il quadro grande di s. Giuliano con cornice intagliata ed indorata trasferito nella chiesa delle rr. monache Cappuccine
cioè a S. Vincenzo ed anche li due ornati, li è stata consegnata una lampada di rame inargentato con la custodia di cartone.
Nella cappella dell’angelo custode: un quadro con cornice intagliata indorata con la Vergine di Loreto. Altro quadro con cornice grande indorata e di figura larga di
palmi 12 circa rappresentante la ss.ma Annunziata lunghezza palmi 9 in circa. Una Madonna di legno che tiene il bambino che stava sopra ad una credenza. Altare
di legno con il quadro dell’angelo custode, scalinate, candelieri, carteglorie, paliotto tutto indorato et predella. Un altro ornamento indorato piccolo da una parte
laterale con vetrata e ramata che cuopre una Madonna dipinta in un muro ed un crocefisso grande tutto portato nel Monte Ulisse. E più S. Elena e S. Biagio protettore con suo ornato indorato e color perla con vetrata portata in Seminario. Un paliotto con la Madonna in mezzo che ricopre il paliotto indorato portato tutto nel
Monte Ulisse./
Nella cappella di S. Pietro: il quadro grande di palmi 13 di lunghezza e di larghezza palmi 9 con cornice indorata, altri due quadri laterali della larghezza di palmi
tredici e di lunghezza di palmi noce circa consimili nel quadro grande il Signore che consegna le chiavi a S. Pietro, in uno de’ laterali il martirio di S. Pietro e nell’altro
rappresenta quando l’ombra del Santo risanava l’infermi, fatti prendere dai sig. Ferri. La scalinata dipinta turchina e filettata d’oro buono con li otto candelieri compagni, carteglorie, paliotto di legno dipinto co la figura di S. Pietro e predella di legno./ Nella cappella del SS.mo vecchio: due quadri laterali in uno rappresentante la
Cena e nell’altro l’andata del Signore in Emmaus, una Madonna in sedia ed un angelo in atto di annunziare indorati e due credenze portati dal fattore dell’ospidale,
li quadri laterali l’altezza di palmi otto circa, larghezza di palmi 11 circa, una credenza l’ha consegnata a Don Giuseppe Ganasini che la trasportò nella Madona della
Misericordia. Il quadro dell’altare rappresentante la medesima della Pietà parimente portato all’ospidale dal fattore Filati quale è di palme [spazio bianco] di lunghezza
e di larghezza palmi [spazio bianco]/ Nella cappella de’ Sette Dolori: il quadro grande della Madonna ss.ma con la corona d’argento indorata portata in Seminario. S.
Cosmo protettore de’ signori barbieri con piedestallo e quadro avanti, lo prese in deposito sig. Giovan Battista Micheli.
S. Claudio protettore de muratori con piedestallo e ornato con vetrata ed iscrizione. S. Claudio lo ha auto in deposito Francesco Romagnoli muratore con la credenza,
altra credenza laterale quale tiene in deposito Francesco Federici. Due quadri in uno rappresenta S. Liborio ed in un altro S. Niccolò da Bari consimili portato in
Seminario./ Nella cappella del Crocifisso Piccolo: un quadro grande col crocifisso, altro quadro laterale con la Madonna ed altro con S. Giovanni, altro quadro grande
consimile ma non rilevato rappresentante in aria la Madonna, da una parte una santa Vergine e da un’altra una santa martire, di sotto un santo vescovo s. Bartolomeo
e sia o s. Diego o S. Antonio, due stelle grandi laterali in una vi è un santo martire tirato da quattro cavalli, nell’altra Santa Margherita col drago; un cartello sopra la
cornice del crocifisso con l’iscrizzione, altro quadretto sopra la finestra ed un albereto in cornu epistole significante lo stemma Aurispa portato a S. Antonio abbate nel
mercato, una tela dipinta con nuvoli ed aria di lontananza della luce, del quadro e del crocifisso./ Nell’altare della ss.ma Concezione: un quadro laterale rappresentante
S. Giuseppe col bambino con la croce in mano, ed un pomo ed un angelo da parte che tiene la sega di palme dieci di lunghezza in circa e cinque di larghezza in circa
con cornice piccola indorata, lampada, candelieri e carteglorie e tutto che si teneva di argenti, paliotti e tutto è stato portato in casa della sig. priora Angelucci, fiori,
bandinella della finestra e vetrata, vasetti candelieri, carteglorie e fiori feriali. Tutto in casa Angelucci la ferrata di ferro e ramata in sagrestia grande./
Nella cappella del santissimo: la ricopertura della custodia cioè quattro cartoni ricoperti di ganzo auti dalla sig. marchesa Anna Ricci ed uno di essi cartoni quale serviva
per celo con una stella, la bandinella di broccato d’oro e gallonato di merletto buono d’oro con anelletti e ferretto, la ricopertura dello sportello di lama trinato con
fettuccia d’oro buono lo sportellino con cornice indorata e vi è la figura ella Madonna col bambino quale sta nel credenzone della biancheria in seminario./ Il quadro
di S. Francesco d’Assisi che stava nella cappellina della saletta lo ha ripreso mons. Vescovo./
ASDM, Fabbrica della cattedrale, 1.
Lettera di Giuseppe Valadier al vescovo Teloni, Roma 22 agosto 1826
Quantunque per massima non ami di censurare le altrui produzioni, pur è, perché vennero senza limiti i comandi di V. S. illustrissima, e debolmente mi adatterò a
derogare a questo mio pacifico sistema e dirò il mio parere che valuterà anche sul nuovo progetto della facciata della cattedrale di Macerata del quale V. S. illustrissima
e reverendissima ha voluto onorarmi d’interrogarmi. Non posso primieramente abbastanza io dare lo zelo di quel rev. Capitolo il quale sembra che abbia penzato e
voluto immaginare per adornare a gloria di Dio il principale tempio della loro città, ed altrettanto lodevole trovo la premura che si dà d’avere un’opera per quanto sia
possibile degna della città e dell’arte pur troppo crollanti, onde trovo ben giusto che dandosi una si cara occasione, sia veramente necessario come seriamente procurano di non aumentare cattivi esempi in architettura ma procurare d’avere in fine un’opera del gusto più puro e ragionato come magistralmente venne insegnatoci da
tanti celebri monumenti antichi e maestri del secolo XV. Intanto debolmente dirò quello che ne penzo del progetto inviatomi tanto in generale quanto in specie. A
me sembra che prima di fare un’opera si dignitosa dovrebbe darglisi uno spazio proporzionato e comodo alla popolazione, perché intervenendo ancora alle sacre funzioni avrebbe quel largo che è necessario e che la facciata del primario tempio non restasse così trascurata in un angolo di una medesima piazza; onde la demolizione
proposta in pianta della piccola porzione di caseggiato del Seminario vecchio non farebbe che una spesa senza il minimo vantaggio poiché la nuova torre si prossima
venendo alla principal strada che tende alla Piazza, non si vederebbe se non quando si fosse quasi al primo gradino della nuova gradinata e però troppo sotto e da
vicino e tutta la facciata sarebbe sacrificata per mancanza di punto di veduta. Questa parte che la giudico per la principale, mi sembra che per non sacrificare tutto
dovrebbe tagliarsi una porzione del fabbricato del Seminario, detto nuovo, di una cinquantina di palmi circa fino al filo del fabbricato di S. Agostino in modo che la
strada che viene dalla piazza restasse in qualche relazione simmetrica dell’area della piazza del duomo. A taluno sembrerà un accessorio inutile alla cosa generale ma
in pratica, e ben ragionando, si riconoscerà per la principale e per la operazione la più necessaria e dignitosa per quale a me sembra che dovrebbe unirsi la città e tutti
quelli che o direttamente, o indirettamente vi hanno parte, e la spesa qualunque fosse a poco all’anno combinarla in modo praticabile senza ammetterla. Seguendo ora
le osservazioni particolari sulla pianta e prospetto della nuova facciata seguirò debolmente a pronunciarle. Trovo lodevole il volere del Capitolo di voler conservare la
torre attuale perché ben collocata e che ornata opportunamente coll’altra nuova da farsi nell’altr’angolo della facciata potrebbe fare una massa imponente, ragionata ed
utile. Non trovo però quel carattere nel prospetto si necessario a mantenersi nel tutto e in ogni parte, poiché a parte inferiore con porte, pilastri, rifalti, finestre d’ogni
specie piuttosto gentili, nulla hanno che fare colla parte sovrapposta ben pesante e molto meno col resto delle due torri con pesantissimi finali, rapporto alli miserabili
architetti, sopra alli quali ornati solo con due festoncini senza un ragionato e consecutivo rapporto.
Lo sporto del portico addosso ad uno degli angoli delli detti campanili farebbe un odiosissimo effetto ricoprendo il nascimento delli medesimi e sembrerebbe una cosa
addossata all’altra senza ragione, ciò venne fatto per avere un inutile portico un poco più grande di quello sarebbe stato se la facciata si fosse tenuta a filo di quelli,
ovvero lo sporto maggiore avesse rivestito i campanili da ogni parte, cosa che non permetteva l’arca verso il vicolo del Duomo. Le due piccole porte laterali messe
313
proprio nell’angolo del portico medesimo non è immaginazione lodevole e riesce incomodo alla sortita ed entrata del portico; peggio ancora sono quei corridori che
dal portico passano alle porte delle navatelle del tempio con finestre che non restano nel mezzo delle porte medesime cose riescono odiose all’occhio d’ogn’uno. Nelle
parti e modini trovo una monotonia che riesce opera miserabile come lo è il fenestrone che nota solo nel gran spazio liscio fra le due torri. Ecco debolmente le mie
osservazioni provenienti da giusti principi e che se forse la mia insufficienza non avrà saputo adattare alla circostanza sarò meritevole del suo comportamento sarà
peraltro sempre di somma lode e necessario allontanare da un opera si interessante questi ed altri difetti e per quanto sarà possibile cercare il meglio pur non gettare
danaro, onore e diligenza da quelli che ne hanno l’incarico.
Roma 22 agosto 1826
Giuseppe Valadier architetto
(ASDM, Fabbrica della cattedrale, 1)
TOLENTINO
L’Archivio vescovile di Tolentino è coservato nell’ex Palazzo vescovile in piazza Strambi. E’ ben conservato ed è stato recentemente riordinato ed inventariato.
L’Archivio funge anche da soggetto conservatore dei seguenti fondi qui depositati:
- archivio del Capitolo della Cattedrale,
- archivio della confraternita della Carità,
- archivio di S. Maria Nuova
- archivi delle parrocchie di S. Angelo, Regnano e Paterno
- archivio del seminario
- parte dell’archivio della congregazione di Carità
Sisto V, eleva Tolentino alla dignità di città e diocesi unita a Macerata e conferire alla chiesa di S. Maria della Pieve la dignità di chiesa cattedrale, 1586 dicembre 10
Sixtus episcopus, servus servorum Dei, ad perpetuam memoriam. Super universas orbis ecclesias, eo disponente qui cunctis imperat, et cui omnia obediunt, quamquam
sine Nostris meritis constituti, levamus in circuitu agri Dominici oculos Nostrae mentis/ more pervigiliis pastoris inspectoris quid provinciarum et locorum quorumlibet statui congruat ac desuper disponi debeat: unde divino fulti praesidio, dignum quin potiusdebitum/ arbitramur in irriguo militantis Ecclesiae agro novas
episcopales sedes et ecclesias plantare, ut per huiusmodi novas plantationes popolaris augeatur devotio, divinus cultus floreat/ et animarum salus subsequatur, loca insignia, praesertim quorum incolae benedicente Domino multiplicari noscuntur, dignioribus titulis et condignis favoribus illustrentur, ispisque/ incolae, honoratorum
praesulum adsistentia, regimine et doctrina suffulti, in via Domini magis magisque in die proficiant. Sane attendentes oppidum Tolentini, Camerinesis diocesis,/ in
agro Piceno et territorio fructifero ac loco satis ameno et pervio situm, admodum celebre ac muris firmiter cinctum plurium aedificiorum ornatu decorum nec non
copioso/ incolarum numero habitatum, ac mille ad minus, ultra castra Colmurani sibi suppositi, focularia sive domus continere, ac in eo unam S. Mariae , cum campanilis, campanis,/ organo, choro, sacristia, plebano ac canonicis et aliis ad carhedralem ecclesiam requisitis, ac alteram ecclesiam collegiatam sancti Jacobi cum priore
et canonicis, praeterea sancti/ Catervii et sanctae Septimiae ac sancti Bassi corpora reperiuntur, necnon sancti Nicolai de Tolentino/ nuncupati, Fratrum Eremitarum
eiusdem sancti Augustini, in qua existit unum brachium Innocentium et corpus eiusdem sancti Nicolai, qui ob vitae sanctimoniam et in vita/ et post eius obitum
miraculis coruscans numero sanctorum meruit adscribi, cuius etiam festum nuperrime in toto stato ecclesiastico celebrari et custodiri mandavimus, ad haec/ Francisci
Fratrum Minorum Conventualium et sanctae Mariae Cisoloni Fratrum Minorum de Observantia ac sancti Petri Fratrum Minorum Cappuccinorum nuncupatorum
necnon sancti/ Hieronimi Fratrum eiusdem sancti Hieronimi, ac sanctae Agnetis monialium, sanctae Clarae Ordinum monasteria et regulares domos ac quamplures
alias ecclesias, ac duo hospitalia/ pro pauperibus et infirmis recipiendis satis commode extructa adesse, et ex eo cardinales, episcopos, referendarios, et strenuos milites,
capitaneos et duces generales Status Ecclesiastici,/ aliosque illustres et egregios ac religione et doctrina praeclaros viros prodiisse. Nos cupientes oppidum Tolentini
praefatum, cuius dum cardinalatus honore fungeremur protectores/ et fautores fuimus, cuiusque dilectos filios, communitatem et homines singulari dilectione prosequimur, necnon collegiatam ecclesiam sanctae Mariae huiusmodi dignioribus/ titulis ac nominibus decorari. Nos habita super his cum Fratribus nostris deliberatione
matura, de illorum consilio et assensu ac de Apostolicae potestatis plenitudine, ad omnipotentis Dei/ laudem et gloriam ac eiusdem beatae Mariae virginis honorem et
Christi fidelium devotionis augmentum, oppidum et castrum huiusmodi ac villa comitatus Tolentini eorumque/ territoria a dicta diocesi, cui in spiritualibus subiecta
sunt, Apostolica auctoritate tenore praesentium perpetuo separamus, ac illorum incolas,/ habitatores, ecclesiarum rectores, beneficiatos, priores et alios inibi beneficia
ecclesiastica obtinentes, monasteria, domos regulares aliaque pia loca omnia ab omni iurisdictione episcopi Camerinesis/ necnon solutione decimarum eidem Episcopo, et per eos debitarum de caetero facienda, auctoritate et tenore praedictis etiam perpetuo eximimus et liberamus. Insuper oppidum Tolentini in civitatem/ Tolentini,
et collegiatam ecclesiam sanctae Mariae huiusmodi in cathedralem sub invocatione eiusdem sanctae Mariae, ac in ea dignitatem, sedem, et mensam Episcopalem pro
uno Episcopo Tolentino/ nuncupando, qui eidem Ecclesiae Tolentinae praesit ac iurisdictionem episcopalem habeat et exerceat, cum omnibuss privilegiis, honoribus,
iuribus et insignibus debitis et consuetis, ac quibus/ alii episcopi de iure vel consuetudine, aut alias quomodolibet in spiritualibus utuntur, potiuntur et gaudent ac
uti, potiri et gaudere quomodolibet poterunt in futurum, necnon plebaniam/ illius in archidiaconatum, qui perpetuo erigimus et instituimus, ipsamque ecclesiam in
cathedralem erectam Sedi Apostolicae immediate subiicimus ac sub protectione beati Petri et Pauli apostolorum suscipimus. Praetera canonicis eiusdem ecclesiae sic
in cathedralem erecte ut almutis pe[-]/ canonicos aliarum cathedralium ecclesiarum deferri solitas deferre libere et licite valeant auctoritate et tenore predictis erigimus
et instituimus ipsam ecclesiam sic in cathedralem/ cum ecclesia Maceratense unimus, ita ut pro tempore existens Episcopus maceratensis sit ambarum ecclesiarum
unitarum huiusmodi Episcopus et licet vocetur Episcopus maceratensis tamen in litteris[-]/ pertinentibus ad civitatem et diocesim Tolentini ordinarie se subscribere.
Debeat Episcopus Maceratae et Tolentini teneanturque retinere unum vicarium in dicta civitate Tolentini qui no[n recognos]/cat superiorem nec ab eo habeantur
recursus ad vicarium dicte civitatis Macerate sed tantum ad ipsum Episcopum eidem ecclesie Tolentinensi sic in cathedralem erecte pro illius mense episcopalis/ dote,
redditum quadrigentorum scutorum monetae Marchiae per episcopum Tolentinensem propria auctoritate percipiendum de semestri in semestre, et in fine cuiuslibet
semestris vel in fine/ cuiuslibet mensis pro rata, arbitrio ispisu episcopi quem praefata communitas Tolentini eidem ecclesiae sic in cathedralem erectae super redditibus
molendini ipsius communitatis quousque tot predicta/ Communitas emat, et eidem ecclesiae sic in cathedralem erectae consignet, quorum fructus ad dictam summam
quadrigentorum scutorum ascendat, constituerunt et assignarunt, ac/ domum contiguam dictae ecclesiae Tolentinensi pro usu et habitatione ipsius Episcopi Tolentini
applicamus, ac ipsi ecclesiae sic in cathedralem erectae Civitatem Tolentini eiusque incolas et habitatores/ pro civitate et in civibus, necnon terras, villas et castrum
Colmurani praefata eorumque territoria pro eius Diocesi ac etiam clerum et populum civitatis et diocesis Tolentinensis pro clero et populo,/ auctoritate et tenore
314
paredictis, etiam perpetuo assignamus. […] Datum Romae apud Sanctum Petrum, anno incarnatione Dominicae MDLXXXVI, quarto Idus decembres, pontificatus
Nostri anno secundo.
(ASCT, Pergamene, Bolle e Brevi, 73)
RECANATI
L’Archivio Diocesano di Recanati è coservato nell’ex Palazzo vescovile nel Piazzale del Duomo. Il fondo ha subito ha subito alterne vicende con gravi conseguenze
sulla documentazione da esso conservata; attualmente una parte è conservata presso l’Archivio di Stato di Macerata. L’archivio è stato recentemente schedato ed è in
fase di inventariazione. L’Archivio funge anche da soggetto conservatore dei seguenti fondi qui depositati:
- archivio del Capitolo della cattedrale
- archivio della confraternita di S. Giacomo
- archivi parrocchiali
- parte dell’archivio della Curia vescovile di Loreto
- parte dell’archivio della Delegazione apostolica di Loreto
Visita pastorale, 1621 dicembre 1
In Dei nomine amen. Anno ab eiusdem domini circumcisione millesimo/ sexcentesimo vigesimo primo, indictione quarta tempore sanctissimi/ in Christo patris et
domini nostri domini Gregorii divina providentia pape XV/ die vero prima decemris./ Illustrissimus rev. Dominus Julius sancte romane ecclesie presbiter cardinalis episcopus recanatnsis et lauretanus volens ad laudem et gloriam om/nipotentis Dei sanctissimeque trinitatis ac gloriosissime Marie/ semper virginis visitationis
initum dare iuxta tenore [...] ad cathedralem dicte civitatis [Recanatensis] ecclesiam/ sub titulo sancti Flaviani sitam prope antiquum palatium episcopatus/ a parte
septemtrionali a parte vero meridionali aliud palatium dicti/ episcopatus in quo ad presens residet dominatio s. illustrissima et reverendissima/ (eiusdemque) dictam
ecclesiam ingressus fuerit [...]
[9r.] die veneris tertia mensis decembris 1621 de mane ill.mus et rev.mus/ cardinalis Roma episcopus episcopus recanatensis et lauretanus prosequendo/ visitationem ab
eo iam centam iterum accessit ad eamdem ecclesiam/ cathedralem sub titulo Flaviani positam et lateratam ut/ supra eamquem ingressus accepto [...] et progrediendo
ante altare maius genuflexus/
[9v.] sanctissimum eucaristie sacramentum adoravit et aliquanto/ oravit postea una cum predictis consumpsit presnte clero in/cepit visitationem altarium eiusdem
ecclesie/ Et primo predicti altaris maioris existentis in capite dicte ecclesie/ versus orientem in quo retinetur sanctissimum eucaris/tie sacramentum die prima decembris visitatum dictumque altare/ adinvenit cum [-] ut dicitur de [-] absque ulla pictura/ sed solummodo cum quadam tabella dipicta cum immagine con/ceptionis
beatissime semper virginis et a manu dextera fe/nestram vitream et ante dictum altare pallium albi coloris/ telute inargentate cum trinis aureis et sericis cum tribus/
tobaleis seu (mappis) cruce et candelabris sese crucis seu ex auri/calco nec non duobus angelis ex ligneo deauratis gectantibus/ in eorum manibus cero foraria unum a
dexteris et alerum a sinis/stris supra dictum tabernaculum. Item de supra dictum altare umbellam/ rubri coloris panni sericei ante vero habet suam planitiam bradel/
lam ligneam et firmam et quinque gradus per quoas ascendit et quia/ nonnulli ex clero asseruerunt totum lapidem marmoeram/ existentem desuper dictu altare esse
totam conservatam prout et tota/ dicta ecclesia ill.mus dominus domandavit capi summarias informatio/nes per dominum archidiaconum super conservationem dicte
ecclesie/ mandavit prepterea conopeia, pallia, mapas, pulvinaria/
[10r.] et alia ad ornatum dicti altaris spectantia (ispici) dmi et vocari/ mulieres nuncupate priorisse deputate a confraternitate sanctissimi/ Corporis Christi curam
habentes predictarum rerum ad dictum altare/ spectantium ad effectum ordinandi necessaria. Interim ero mandavit/ fieri tela seu choriu ponendum supra dictu atare
ad ad ascendam/ pulveram item fieri duo ceroforaria maiora ad privata sacrificia/ que tamen ammoveantur quoties solemniter celebrabitur a/ d. illustrissimo./ Cumque
audiverit alteram ex tribus lampadibus que retinentur ante dictum/ altare accensis in honore sanctissimi Sacramenti spectare et ardere debent/ sumptibus beneficiatorum ecclesie sub titulo sancti Petri alias vero/ duas sumptibus fraternitatis corporis Christi in dicta cathedralis exci/ta illmus mandavit ut curetur a sacrista pro tempore
quod sin/gulo quoque mense primo anni contribuatur leum ab iis ad quos/ spectat et si non fuerit contributum centioretur dominus ill.mus alias sumptibus/ ipsiusmet
sacriste provideatur quod tres ampades continuo/ ardeant/ Postea accessit ad altare erectum in eadem ecclesia ex parte dextera dicti/ altaris maioris confectum seu
constructum sumptibus ut asseritur/ (q. excelens) d. Thome de Recaneto cum columnis et lapidibus Beate/ Marie Virginis sanctorum Ubaldi episcopi Ludovici regis
Gallie/ Nicolai de Tolentino, Thome Acquinatis, Francisci et Honofrii/
[10v.] ornatumque pallio chorii aurati satis decenti cum insignis de/ confaloneriis ivenit pariter in dicto altari crucem et duo can/delabra ex auri calco tabellam continentem secreta missae mappas/ iussit moneri excellentem dominum Petrum Politum curatorem domini/ Nicole confalonerii in camera ad ostendendum juspatronatus
dicti/ minoris super dicti altaris et interi provideri de alis sex mappis/ ad prescriptum dictorum executorum visite et confici nova allia ex ma/teria eisdem executoribus
bene visa et cum pulvinaria reperta/ in dicto altari sint ecclesie provideri salte de duobus ac de uno/ missale et demum de tela seu corio ad ascendum pulveram super
dictum/ altare. Item latere epistole dicti altaris mandavit/ fieri fenestellam cum portam lineam sera et clave ad conservandas/ ampullas vitreas, campanulam et baccilem
et hec omnia fieri per/ quos de iure et ita/ Accessit postea ad aliud altare prope sopradictum in quo adest imago sancte Marie de/ Laureto intus quoddam ornamentum
ligneum depictum et quia illustrissimus/ mandavit annotari visitationem alias factam ab illustrissimo et rev.mo domino/ cardinali de Araceli ideo visitationis facta verba
describuntur videlicett quod/ crux lignea cum crucifixo et duobus candelabris et auricalco in/ dicto altari reperto sunt ipsius ecclesie ex quo dictum altare non est/
dotatum sed tantum illius gubernium ad devotionem fuisse susceptum/ per dominum Bernardinum canonicum et Joannem Hyeronimum/ [11r.] Meolum eiusdem
ecclesie altaristam cumque in dicto altari diver/sa titula beneficiorum inesse audierit decrevit reservavit cognitionem/ ipsorum titulorum ad visitationem particulariter
faciendam benefi/ciorum dicte ecclesie et interim dictum altare adequari cum illo de/ confaloneriis et in eo etiam fieri fenestellam similem a parte/ epistole cause de
qua supra/ Deinde accessit ad aliud altare prope visitatum quod invenit gubernio fraternitatis sancti Rocchi in quo est icona lignea antiqua/ deaurata\cum immagnibus
depictis sanctissimi Chrucifixi, beate virgi/nis sanctorum Petri et Pauli nec non sancti Flaviani et Viti et aliorum/ prout in ea desuper duo candelabris ex auricalco cum
cruce, tabella/ in qua continentur secreta misse duo pulvinaria et ante dictum/ altare palliu panni serici albi coloris cum imagine sancti/ Rocci i medio. Invenit etiam
supra dictum altare statuam sancti Rocci/ ex ligneo portatilem depictam cum pallio velluti rubri./ Quod altare mandavit pariter sominus illustrissima adequari cum
alio altari de/ confaloneriis et ornamentum lapideum in eo fieri simile ad esiudem/ latitudinis et altitudinis cum icona sancti Rocci et pictura ad arbitri/um confraternitatis cum participatione tamen dictorum deputatorum/ executorum visite/ Et interim moneri prout monita fuit dicta confraternitas in camera dominus / llustrissime
ad docendum de jure a dicta confraternitate pretenso et de aliis/ ad dictum altare spectantibus et ita./
315
[11 v.] Postmodum acessit ad aliud altare prope januam ecclesie versus meridiem/ in quo invenit immaginem Beate Marie Virginis cum filio et sancti Josephi/ in quodam ornamento ligneo deaurato et circumcirca chorio pariter deaurato et quia super jure patronatus dicti altaris et controversia mandavit/ moneri in camera dominos
de Anticiis et dominum Antonium Jacobum/ Lunarium ad docendum et ad effectum providendi necessaria./ Deinde accessit ad aliud altare prope supradictum quod
adinvenit ut dicitur/ stuccatum cum icona depicta et immaginibus Pietatis et sancte Cathe/rine virginis et martiris in quo adinvenit candelabra et crucem/ ex auri calco
i parte devastata et propterea mandavit provide/ri de aliis candelabris et cruce aliisque omnibus [-] et intima/ri dominos de Faminiis assertis patronis et ita./ Accessit
postea ad altare sancti Caroli prope predictum in quo invenit im/maginem eiusdem sancti depictam in tela et quia habet candelabra/ non decentia mandavit renovari
seu provideri de aliis et moneri dominum/ Valerianum Jacobellum pro certa die ad effectum ut docet de suo jure/ et interim paru parietem ex parte epistole admoveri
et demoliri et in uno quoque altari deusper visitatio fieri fenestellam/ ut supra ac de omnibus aliis provideri./ Accessit ad alterum altare juxta preditctum visitatum in
quo invenit quod/dam ornamentum ut dicitur stuccatum cum imaginem sancti Andree apostoli ex eadem materia formatum et deauratum ex parte cumque i dicto
al/tari desint plura necessaria et precipue lapis sacratus sit/
[12r.] nimis paruus mandavit provideri de alio decenti et interim in eo/ nullo modo celebrari. Mandavit preterea per eos ad quos spectat de jure/ provideri de omnibus necessariis iuxta decreta desuper facta i vi/sitatione aliorum aliorum altarium cumque prope dictum atare sit nonnulla monu/menta in parte eminenti ecclesie
erecta. Mandavit in executione scri/ concilii tridentini eadem monumenta demoliri./ Postea visitando tribunam ecclesie eam adinvenit bene dispositam forni/catam et
dealbatam in parte adest chorus et ante cum altare/ maius iam visitatum in cuius latere dextero posita est sedes ponti/ficalis lignea ornata ex raso rubei et albi coloris
cum baldachino/ seu umbella ex eademmet materia cum insigniis ill.mi et rev.mi d./ cardinalis de Araceli ad quam quinque gradus viridi panno/ coopertas ascenditur a lateribus vero iisdem sedis sunt duo/ scanna depicta rubei cloris cu predictis insignis. Habet/ et suam planitiam post prefatos quinque gradus i qua com/mode
debitum ossequium prestari potest parietes quoque eius/dem tribune ornate sunt ex choris ante dictu altare positum in/ quo invenit decem et octo sedes ex ligneo
nucis constructas/ valde antiqua positas hinc et hinc cilicet novem pro qualibet/ parte./ Servatur in sedendo a dignitatibus et canonicis ordo dignitates/ primo postea
canonici deinde altariste eorum promotionem/
[12v.] ac dignitatem sedent servantur preterea debite cerimonie in divi/niis officiis standi sedendi genuflectendi capita tegendi et detegendi/ a choro discedendi et
redeundi./ Suscipens postea visitavit tctum ipsius ecclesie quod invenit supra chorum et totam mediam ecclesiam sive mediam navatam/ habere (lagnearium) nuper
constructum smptibus ill.mi et rev. Domini/ cardinalis de Araceli eiscopi predecesoris pulcherrim auro variis co/loribus ornatum et depictum cum insignis ligneis
deauratis felicis/ recordationis predicti cardinalis de Araceli et n medio ispisus (laqueariis) cum ima/gine integra et stante sancti Flaviani episcpi et martiris eiusdem/
ecclesie patroni./ Vidit preterea organum collocatum in medio ecclesie ex parte dextera/ quod cum sit valde antiquum et egeat ultis in partis restauratio/nemandavit
restaurari et ad locum commodiore transferri/ cum ad presens d. Nicolas Melatus de Tolentino preest qui ultra/ beneficium annexum dicto organo habet pro sua
mercede scuta sese/decim quolibet ano et tenetur singulis diebus festivis ecclesie/ inservire./ Ex latere sinistro et sic ex parte epistole in medio ecclesie et contra/ dictu
organum vidit adesse (supestum) in loco conspicuo/ cu immagine sanctissimi Chrucifixi apte/ e bene accomodate atque desuper habet (laqueare) seu baldacchinum/
[13r.] illius ligneum./ Vidit preterea fontes aque benedicte unius prope januam maiorem/ alterum vero prope minorem a latere dextro utriusque janue/ invenit esse
marmoreos expolitos et decentes cum sua acqua/ munda que singulis sabbati diebus lavatur per sacristam/ Visitavit et confessionaria que habent suas grates cum
aliis necessariis , pavimentum ecclesie et sepulcra quia egent in multis restauratione/ restaurari mandavit./ Fenestras eiusdem ecclesie pariter vidit bene confectas in
suis vi/treatis ab ill.mo carinali de Araceli seu sumptibus ipsius construc/tas./ Demum portas eiusdem ecclesie visitando quia illa que est versus/ oriente eget bussula
i parte intus ecclesiam mandavit eam fieri quamprimum et ita./ Die martis septima mensis decembris 1621 de mane./ ill.mus et rev.mus dominus cardinalis Roma
associatus a predictissumptis et a clero/ ecclesie cathedralis Recanatensis contulit se ad sacristiam ipsius/ ecclesie que sita est prope altaremaius ex cornu dextero versus/
septemptrionem latreatam ab una parte a palatio epicopali et ab altera/ ab abitatione psius sacriste i qua invenit tres fenestras/ quarum due impannatis ligneis cu telis
int concluse. Habet/ portam versus dictam ecclesiam et facta prius per dictum cardinalem oratione/
[13v.] more solito accensis intortitiis mandavit aperiri ocum in quo re/liquie sanctorum reconduntur situm in dicta sacristia in ingressu ip/sius ad manum dexteram
in quadam arca seu credentia in muro/ posita ex ligneis […]
(ASDR, Visite Pastorali, 1)
Inventario della cattedrale 1733
[59r.]
Descendosi ora alla descrittione di essa cattedrale dedicata già a S. Flaviano patriarcha di Costantinopoli eletto protettore del clero recanatese da cui se ne celebra
solenne festa li 24 novembre li 17 febraio se ne fa l’offitio del martitio. Fu questa chiesa honorata del titolo di cathedrale l’anno 1240 da Gregorio IX et da altri sommi
pontefici, sotto diversi vescovi ristabilita, la di cui consecratione si dice seguisse la seconda festa di Pentecoste ma perché una sollennità era di qualche impedimento
all’altra fu transportata la festa alli 20 di ottobre nel qual giorno in oggi se ne fa la festa e se ne recita l’offitio si da secolari che da regolari col doppio di prima classe.
Qual chiesa si vede posta in fine della città appresso la porta romana da piedi; ha il palazzo del vescovo che la cinge ancho da un lato, dall’altro la strada pubblica et
da capo una piccola piazza. Dentro è grande et magnifica et dimostra gran ricchezza di chi l’ha fabbricata è divisa in tre navi con architettura gotica con cinque archi
per parte, chiusi però l’ultimi due, che formano il presbiterio; nelle due navi laterali vi sono per soffitto le volte reali ed in quella di mezzo v’è un bellissmo soffitto
intagliato con varii lavori quasi tutto messo a oro con belle pitture di mano di eccellente pittore, dicesi venetiano, in mezzo del quale si vede in rilievo la statua di S.
Flaviano, sotto e sopra di essa l’arma di Paolo V e del cardinal Araceli che fece fare si nobile ornamento alla sua cathedrale. Nella nave poi laterale dalla parte del vangelo
dell’altare chorale a piedi della medesma v’è la cappella de ss.mo quale descriveremo in appresso che lascia libero il presbiterio
[60] nelle sue funtioni. Ascendendosi poi dal piano della chiesa per cinque gradini al presbiterio si vede al capo di questo il bello e magnifico choro fatto come si è detto
dal fu eminentissimo Roma diviso in due ordini fabricato di legno di noce ove spicca un nobil disegno dove fra gl’altri intagli si vedono dodici statue rappresentanti i
dodici apostoli tramezzate con gigli che sembrano alludersi allo stemma del medesimo cardinale come pure si vede la tribuna di questo tutta adornata con nobili stucchi
e vaghe pitture, come nel lato destro il martirio di S. Flaviano e l’annuntiatione della beatissima Vergine, nel lato sinistro il martirio di S. Vito e la natività della ss.ma
Vergine e sopra il fenestrone la suddetta casa di Loreto, più sopra il padre eterno ed un scherzo di angeli con diverse altre pitture fatte tutte, come si dice, dal pennello
del Carosio; in mezzo di detto presbiterio vi è l’infrascritto altare de choro ne lati di detto altare, alquanto verso la chiesa grande, vi sono due belli organi di sette
registri per ciascheduno, lavorati col colore di pietra mischiandosi a oro, l’ornamento de’ quali fu fatto da mons. Panici, già vescovo, benché l’organi uno fosse fatto
dall’eminentissimo Roma e l’altro dicesi preso nella chiesa di Castel Nuovo; come pure subito salito i gradini di detto presbiterio a cornu evangelii di detto altare v’è il
trono per il vescovo, dall’altro lato un bel sedile di noce per il celebrante e finalmente in mezzo l’infrascritto altare. L’Altare del choro proveduto d’una bella scalinata
d’un sol gradino con suoi bracciuoli da capo e piedi con cornice dorate di sei candelieri d’ottone alta quasi quattro palme con la sua /
316
[61] croce fatti dall’eminentissimo Roma il di cui stemma si vede in detti candelieri e proveduto di carteglorie con cornice intagliata et indorata, d’altri sei candelieri
con carteglorie di lastra d’argento e due statuette parimenti d’argento come meglio si dirà nella nota degl’argenti, di due statuette di legno indorato rappresentanti S.
Pietro e S. Paolo, di altri sei vasetti con dodici rame di fiori, sei delle quali sono a mazzetto, proveduto di tovaglie e paliotti. In detto altare si fanno le sacre funtioni
prescritte da sacri riti alle cathedrali [...] Nella nave laterale di essa chiesa a cornu evangelii dell’altare del choro vi sono l’infrascritti altari: L’Altare del santissimo a piedi
di essa nave ove si vede un bello e gran tabernaculo tutto messo a oro che si copre con un padiglione di tela guarnito di francie nel qual tabernaculo si tiene di continuo
il venerabile; l’altare è biancho di rilievo, con mattoni circondato da una bella balaustrata di noce e proveduto di
[62] due mute di carteglorie delle quali una è biancha con cornice dorata, l’altra negra con franciotte ornamento d’argento bono. Vi sono in detto altare sei candelieri
d’ottone, alti due palmi incirca, dissuguali, con la sua croce parimenti in ottone, sei altri candelieri indorati, con dodici vasetti parimenti indorati di legno, dodici
rame di fiori delle quali sei sono mazzi di tolipani di tela di vari colori e l’altri sei di seta garofoli et altri fiori; altre quattro rame di fiori ordinarie, altri sei vasetti parimenti ordinari, vi sono la tela per coprire l’altare, o altarino, dicesi tutto fatto dalla q. sig. Margherita Flammini già priora e benefattrice della congregazione del ss.mo
Sacramento. Sopra detto altare v’è il suo baldacchino ed è proveduto esso altare di paliotti. Vi sono ancora due candelieri di legno da tenersi ne’ lati di esso altare con
l’arma della confraternita del ss.mo Sagramento la qual confraternita ha il suo jus in detto altare, come pure vi sono tre lampade d’ottone che continuamente ardono
avanti il venerabile il giorno e la notte ne ardono altre due sole, sono sostenute da un bell’intaglio di legno dorato nel quale si vede lo stemma della bona memoria di
mons. Gherardi.
L’altare dedicato a S. Rocco nel quadro vi sono l’imagini di S. Rocco, S. Filippo Neri e della beatissima Vergine col putto, ed è diviso il quadro in due parti e perché
si apre si vede dentro il commodo per ponervi le reliquie della chiesa come dicesi volere fare mons. Panici, ma perché dubitò che non fossero ben difese dall’humido
non ve le fece riponere. La
[63] pittura del quadro si dice del Carosio copia del Lotto. Il detto altare è biancho di rilievo con mattoni, nelle basi delle colonne si vede l’arma di mons. Panici, la
scalinata è di mattoni col prospetto di tavola colorita, è proveduto di carteglorie la prima con cornici torchine venata in oro, per ogni giorno, la seconda indorata per
le feste, di quattro candelieri torchini indorati et altri sei tutti indorati di sei rame di fiori ordinarie, quattro vasetti torchini indorati e sei di miglior qualità indorati
con una croce tutta d’ottone. Sopra la scalinata vi è una statuetta mobile di rilievo rappresentante la vergine di Loreto. [seguono messe che vi vengono officiate] L’altare
dedicato a S. Antonio di Padova nel di cui quadro vi sono l’imagini di S. Antonio, S. Michele, della vergine col
[64] bambino e vi sono molti putti, la pittura è di Giovanni Antonio Carosio genovese, il detto altare è biancho di rilievo con mattoni, in oggi è proveduto dalla
famiglia Galamini, il di cui stemma si vede alle basi delle colonne, vi sono dodici candelieri indorati, sei vasetti parimenti indorati, una bella croce negra col crocifisso d’ottone, v’è la scalinata di matoni bianchi dodici rame di fiori di bona qualitàe quattro ordinarie per ogni giorno, due carteglorie una delle quali è con cornice
torchina e dorata, l’altra con cornice indorata; vi sono due cartelline con voti d’argento, v’è la sua lampada avanti. L’altare dedicato a vari santi mentre nel quadro vi
sono l’imagini di S. Luigi re di Francia, di S. Ubaldo, S. Nicolò di Tolentino, di S. Honofrio, S. Tomasso d’Aquino e di S. Francesco d’Assisi, opera del Scaramuccia
Perugino, allievo del Pomarancio conforme si dice, l’altare è di rilievo fatto di pietra scura ha una muta di quattro candelieri con croce inargentati, la scalinata è d’un
sol gradino, vi sono le carteglorie di bona qualità con cornici negre ornate con franciotte quale d’argento bono e quale d’ottone indorato è mantenuto dalla famiglia di
Matteo Confalonieri; vi sono altri quattro candelieri con sei vasetti inargentati quattro rame di fiori di bona qualità e altri quattro ordinarie, una lampada.
Nell’altra nave di essa chiesa dalla parte dell’epistola dell’altare chorale vi sono gl’altari infrascritti:
L’altare da piedi di essa nave dedicato a S. Giuseppe vi sono due quadri con cornici dorate in uno de’ quali v’è l’imagine della vergine santissima col bambino e l’imagine
di S. Giuseppe, delle quali imagini/
[65] non se ne vedono altro che i volti essendo coperti da una veste; nell’altro quadro v’è l’imagine di S. Francesco di Paola. L’altare è di stucco biancho fatto con
mattoni ed è proveduto d’una bella scalinata a tre gradini con cornicette dorate, dipinta color di pietre alla musaica, di sei candelieri indorati con una croce nigra e
Cristo d’ottone indorato, sei vasetti con quattordici rame di fiori ordinarie. Vi sono e cartaglorie con cornici negre nelle quali cornici vi sono franciotte a ornamento
d’argento bono e tovaglie e paliotti. V’è la sua lampada d’ottone e campanella nel muro appesa. Vi è stata poi controversia se quest’altare spettava alla famiglia Lunatii
o Antici ed in oggi è libero della chiesa.
L’altare dedicato alla Madonna della Pietà nel quadro si vede la vergine ss.ma Addolorata col Christo morto avanti e vi si vede ancho un semibusto di S. Catherina
d’Alessandria. La pittura è lodata da periti ma non si sa l’autore di essa. L’altare è biancho di rilievo fatto con mattoni ed è della famiglia Flammini essendoci anco il
suo stemma è proveduto d’una scalinata a due gradini, di carteglorie con cornici intagliate e sei candelieri con la sua croce, il tutto inargentato; di tovaglie e paliotti.
D’avanti v’una bella e grossa lampada d’ottone e v’è la campanella al muro [seguono messe officiate]
L’altare dedicato a S. Carlo nel quadro v’è dipinto S. Carlo che fa oratione avanti un crocfisso, pittura del Carosio, ma/
[66] non sapendosi da divoti di S. Liborio in che altare far mettere la sua imagine alla fine la fecero mettere in questo quadro dalla mano di Pietro Simone Fanelli, pare
ora che S. Carlo avanti S. Liborio stia genuflesso. L’altare è di rilievo di legno quasi tutto indorato, è proveduto di quattro candelieri con sua croce, torchini et indorai,
avanti la sua lampada, di tovaglie e paliotti. V’è la sua campanella a muro.
L’altare sotto la volta nell’ingresso della chiesa è dedicato a S. Gaetano. Tieni come nel quadro si vede l’immagine di esso santo e di Gesù Christo, d’alcuni angioli, la
pittura si dice esser di Pietro Andrea Briotti presa da una stampa del Romanelli. L’altare non è gran tempo che fu fatto con l’elemosina di varie persone divote ed è proveduto d’una bella scalinata di tre gradini dipinta color di pietra alla musaica, di cartegloria indorate, di dodici candelieri indorati con croci negre e Christo d’ottone,
di sedici rame di fiori delle quali sei sono di seta sei di tea, l’altre quattro ordinarie, di tovaglie e paliotti; v’è la sua lampada e campanella al muro.
Da piedi la chiesa sta il battisterio o fonte battesimale circondato da una bella cancellata di ferro ornata con sei rami d’ottone, essa fonte è tutta di marmo biancho
adornata con più statue di bronzo rappresentanti Gesù Christo che/
[67] riceve il battesimo da S. Giovanni, altri angeli e cherubini adornato ancho con colonne di mattoni bianchi, stucchi e pitture con nobil baldacchino di sopra di
legno in più luoghi indorato come pure in detta fonte battesimale vi sono due arme una del cardinal Roma e l’altra della città. Vi sono sei para di candelieri d’ottone
alti quasi un palmo e mezzo con dieci coppie di boccagli per le candele parimenti d’ottone. In ciascheduno altare v’è il suo suppedaneo di legno e legivo da tenere il
messale; per l’altare del choro oltre il legivo ordinario ve n’è un altro co alcuni intagli indorati e stemma di mons. Gherardi.
Nel pilastro poi verso l’altare di S. Carlo v’è il pulpito con il suo baldacchino il tutto di legno di noce con nobil disegno e stemma dell’eminentissmo Roma con un
crocifisso assai miracoloso al quale i divoti spesso fanno ardere le candele e la lampada appresso al quale vi sono due cartelline piene di voti d’argento.
Come pura in detta chiesa v’è un grande e nobil credenzone ove si conservano i paramenti più nobili, un altro ove si ripongono i paliotti degl’altari, un altro più piccolo
ove si ripone il tabernacolo portatile, un altro ove si ripongono i paliotti dell’altare del ss.mo et altro della compagnia del Sagramento. Un cassone d’abete vecchio ove
si pone la robba del bancho del magistrato, una credenza nova ove si ripongono i candelieri e rame di fiori fatte per uso dell’altare di S. Antonio et alcune credenze per
317
commodo dell’altari e loro utensili.
A cornu evangelii dell’altare di S. Rocco v’è la statua di S Rocco di cui ne tiene cura la confraternita del medesimo, a cornu evangelii/
[68] dell’altare di S. Carlo v’è un semibusto di sotto la volta verso la sagrestia nel muro vi sono tre depositi sepolcrali nel primo v’ il corpo di S. Niccolò d’Asti, già
vescovo, nel secondo di Gregorio XII e nel terzo di [spazio bianco] Nel lato destro di essa chiesa nel’ingresso alla sagrestia v’è il campanile fabricato a botte con il suo
cartozzo nel quale vi sono tre campane, una grossa una mezzana e l’altra piccola.
Passato il campanile s’entra nella sagrestia in mezzo alla quale v’è una colonna in mattoni che sostiene la volta di sopra e detta sagrestia ha altra volta di sotto. Vi sono
le credenzette tutte uguali per le dignità e canonici e cassette parimente uguali per gl’altaristi, credenzoni per gl’utensili della chiesa. Vi sono alcuni quadri con diverse
pitture cioè di S. Carlo, della Pietà, del ritratto di mons. Niccolò d’Asti, di S. Pietro dipinto in tavola con diverse indorature come ancho vi sono tutte l’imagini che
sono molte, con gl’ornamenti indorati dell’altare maggiore anticho di essa chiesa che era situato ove in oggi sta il fenestrone del choro come pure v’è un cassone di noce
del quale si servono i canonici per l’archivio. Sopra la sagrestia v’è altrettanto vano diviso in tre stanze/
[69] con molti involti di cartoni dipinti per li sepolcri che si mettono la settimana santa con 34 corncopii del sagrestano
Nota de’ paliotti
Uno per l’altare del choro, un di lametta d’argento novo con trina e francia d’oro della bona memoria di mons. Gherardi; uno di damascho biancho con guarnimento
doro con stemma della città; un altro damascho biancho con trina d’oro, uno rosso di lametta d’oro guarnito con trina e francia d’argento novo cl stemma del suddetto
Gherardi; uno di ganzo d’oro e velluto rosso figurato con riccami e francia d’oro fatto con un pluviale d Gregorio XII; uno di damaschetto rosso con francia d’oro e
seta; due di damascone antico rossi con fondo giallo e francia di seta in uno v’è lo stemma del fu emintenitssim Roma; uno di damasco verde con trina e francia d’oro
con lo stemma del suddetto card. Roma; uno di damaschetto violaceo con trina e francia d’oro con stemma ne’ due lati dell’eminentissimo Araceli ed in mezzo un
riccamo con l’imagine di S. Flaviano; un altro di damasco violaceo co’ una francia di sopra di seta e con guarnimento d’argento, uno giallo verde con velluto color oro
con francia di seta anticho. Un altro di due facce da una negro di lametta d’oro ornato con trine d’oro bono ed è robba nova, dall’altra parte è di damasco antico color
d’or con francia di seta verde e color oro con stemma, robba antica; un paliotto di damasco biancho guarnito con trine d’oro bono novo;
[70] un altro rosso di seta o taffetano guarnito con trina d’argento di bona qualità.
Per l’altare del ss.mo Sacramento un paliotto biancho di raso ricoperto di riccami rappresentanti varii fiori con diversi colori novo, con piccolo stemma della famiglia
di Marco Confalonieri; un altro di damasco biancho vecchio, con trina d’oro; un altro vecchio di cordellone biancho con trina d’oro; un atro di damasco rosso con
merletto d’oro; un altro di broccatone rosso con francia, ordinario; un altro di damasco verde con guarnimento d’oro ed in mezzo l’insegna della confraternita del ss.mo
Sagramento; un altro violaceo di broccato co fiorettini e guarnimento d’oro.
Per il tavolino di detto altare: uno biancho di damaschetto guarnito con trina d’oro; un altro che accompagna in tutto simile al suddetto paliotto.
Per li sei altari che stanno sotto le navi laterali vi sono l’infrascirtti paliotti, cioè sei paliotti bianchi ne’ quali v’è framezzato un poco di color ceruleo con guarnimento
d’argento, sei altri rossi di buona qualità guarniti con
[71] trina e francia gialla; sei altri verdi con fascia di sopra violacea e guarnimento d’oro con l’immagine di S. Flaviano in mezzo e stemma della città, vecchi.
Per l’altare di S. Giuseppe oltre li suddetti vi sono l’infrascritti: un paliotto con fiori verdi e rossi guarnito d’oro falso; un altro senza guarnimenti, un altro dipinto con
fiori diversi.
Per l’altare di S. Gaetano vi sono l’infrascritti: uno biancho con fiori di diversi colorie trina d’oro; un altro di bavellino rosso guarnito con trina d’argento; un altro di
due facciate, in una delle quali vi è il bavellino di diversi colori e trinetta d’oro falso, l’altra facciata è di fondo rosso e fior bianchi con un quadro in mezzo con fiori
bianchi e fondo torchino co trina d’oro falso.
Per l’altare di s. Liborio oltre li soprascritti, essendo uno dei sei citati altari, vi sono l’infrascritti: uno con fondo biancho, fiorato rosso, ordinario.
Per l’altare di S. Antonio oltre li soprascritti, essendo uno dei sei citati altari, vi sono l’infrascritti: uno di damascho biancho con francia d’oro fatto con l’elemosine,
novo; e più per il tavolino dell’altare del choro oltre li sopraddetti ve n’è uno di corame rosso e fascia color d’oro con fondo biancho, ordinario, per ogni giorno. In
ogni altare poi v’è una cornice di legno di noce per uso de palliotti./
[72] Nota della biancheria
Tovaglie d’altare di tela e di bona qualità numero sette, nella settima v’è un merletto d’oro buono; Tovaglie ordinarie n. 33; quattro altre tovaglie per l’altare d S. Gaetano, altre due tovaglie per l’altare di S. Antonio; tovaglia una per l’altare di S. Giuseppe di tela fatta con elemosina; una tovaglia stretta per dietro la scalinata dell’altare
del choro; una tovaglia per l’altare della cappella.
Camisci di tela di bona qualità con merletti diversi n. 19; camisci ricciati della felice memoria di mons. Gherardi n. 2 uno de’ quali è col merletto girato; ammitti boni
n. 40, ammitti di tela n. 5 uno de’ quali è ricciato, di Gherardi; cordoni n. 3 di seta novi, de’ quali uno è biancho, uno è rosso e verde della felice memoria di mons.
Bussi; cordoni n. 2 de’ quali uno di seta bianco con filetti d’oro e fiocchetti di seta rossa, l’altro di filo biancho; cordone uno violaceo di seta con fili d’oro; cordoni due
di seta con fili d’oro ne’ fiocchi; cordoni due rossi di seta con fili d’oro ne’ fiocchi; cordoni due verdi di seta con fil d’oro ne’ fiocchi;/
[73] cordoni n. 14 bianchi ordinari; corporali di bona qualità n. 37; corporali due con merletti di mons. Gherardi; purificatori n. 110, palle di tela n. 25; palle riccamate n. 3 una delle quali è violacea con tavoletta e rovescio in biancho riccamata tutta con oro ed in mezzo vi è l’imagine della vergine santissima col putto e l’altre
usuali, della bona memoria di mons. Gherardi; tovaglioli di panno n. 4, uno di tela; asciuttamani di bona qualità n. 14 e due ordinari; asciuttamani di tela n. 6 ricciati
parte con merletti e parte senza del suddetto mons. Gherardi; fazzoletti per le messe boni n. 14; fazzoletti ricciati con merletti n. 4 del detto Gherardi; una tovaglia per
l’altarino o credenza che era del Gherardi e molt’altri ammitti, fazzoletti e purificatori laceri.
Nota de’ Libri”
Antiphonarium romanum de tempore et sanctis di bona qualità.
Graduale romanum de tempore et sanctis di bona qualità.
Psalterium romanum di bona qualità.
Psalterium romanum come sopra di miglior qualità.
Psalterium romanum come sopra usato./
[74] Manuale chorale ad formam quasi novo.
Manuale chorale ad formam come sopra quasi novo.
Manuale chorale ad formam come sopra usato.
Breviarum romanum decreto sacrosanti concilii Tridentini di bona qualità.
318
Breviarum romanum come sopra. Tutti li suddetti libri sono coperti di corame.
Un pontificale romano diviso in tre tomi coperti di corame rosso indorati di fettuccie rosse e con stemma della bona memoria di mons. Bussi.
Un pontificale coperto con corame rosso indorato e con segnali rossi del suddetto Bussi.
Tre pontificaletti uno de’ quali è coperto di pelle e l’altri due con coperta pergamena della bona memoria di mons. Gherardi.
Un pontificaletto con coperta di corame scuro.
Tre pontificali con coperte di corame usati.
Un canone con coperta di corame rosso indorato con segnali rossi e stemma di mons. Bussi.
Un canone con coperte rosse indorate, fettucce rosse e stemma di mons. Gherardi.
Un altro canone del suddetto Gherardi.
Quattro canoni con coperte di corame indorati due de’ quali con lo stemma di mons. Cordella, il terzo con lo stemma di mons. Guarnieri et il quarto di mons. Panici.
Un messale novo con coperte piene di riccame oro con stanghetta ne’ segnali d’argento e stemma in riccame d’oro di prefato mons. Bussi.
Un messale con coperte di corame roso indorato con segnali/
[75] e stemma di mons. Busi.
Un messale indorato con coperte di corame rosso indorato con fettuccie rosse per segnali.
Un altro messale di mons. Ghepardi.
Sei messali con coperte di corame indorate.
Quattro altri messali sospesi.
Un altro con coperte di corame rosso del detto Bussi, quasi novo.
Un messaletto de’ morti con coperte di corame mezzo indorate e con segnali ne’ quali vi sono certi godetti d’argento
Otto mesaletti de’ morti 4 de’ quali sono con coperte di corame rosso e l’altri 4 di cartoncino giallo.
Un altro messale de’ morti sospeso.
Un cerimoniale episcopale con coperte di corame rosso indorate.
Tre martirologi romani uno de’ quali è bono ad operar, un altro è usato il terzo è vecchio.
Nota delle reliquie e degl’argenti
Una croce di lastra d’argento alta palme tre e mezzo e larga ne’ bracci due palma incirca e nel mezzo della quale si vede una spina della corona di Nostro Signore, ne’
bracci due belli pezzi di legno della santa croce; sepolto in questa chiesa da piedi essa croce v’è un pezzo della veste inconsuntile e sponga da capo una crocettina d
legno della S. Croce dicesi lasciata da S. Pietro martire,/
[76] due reliquiarii uguali con prospettiva di lastra d’argento d’altezza palmi tre e mezzo, larghe un palmo e mezzo in circa, in una delle quali si vede l’arma di Gregorio
XII e vi sono racchiuse le sandale di S. Francesco con le quali prendé le stimmate tessute di gioncho marino dicesi da S. Chiara; nell’altro si vede lo stemma del fu
mons. Gherardi e v’è racchiuso un osso d’un braccio con un pezzo di cranio di S. Giustina martire. Due reliquiari uguali d’argento con piede rotondo come di calice,
ciascuno due palma alto, uno largo incirca, in uno de’ quali sotto il piede si vede lo stemma del card. Crescenzio già vescovo, v’è racchiuso un osso d’un braccio di S.
Flaviano martire, titolare, e un pezzo di bastone col quale fu martirizzato, nell’altro sotto il piede si vede lo stemma del fu mons. Gherardi è v’è racchiusa una coscietta
e gamba d’uno de’ santi Innocenti, quali reliquiari hanno anche un piede stallo di legno indorato. Due reliquiari uguali con facciata di lastra d’argento, d’altezza un
palmo e mezzo incirca, in uno de’ quali è racchiuso un reliquiario d’argento dorato con scrittura gotica dietro che dicessi la portasse in petto Gregorio XII con del
capo di S. Thommaso apostolo, del capo di S. Lorenzo, del capo di S. Ursola; del capo di S. Appliano del braccio di S. Macchario, del corpo di S. Giulio; nell’altro v’è
la reliquia di S. Rocco e del pluviale di S. Gaetano, questo fu dato dall’arcidiacono Galamini. Un reliquiario con facciata d’argento alto più d’un palmo nel quale v’è
racchiusa la reliquia di S. Liborio data al card. Massucci.
[77r] Un semibusto di rame dorato la testa e il collo del quale è di lastra d’argento v’è racchiusa la testa di S. Margherita vergine e martire. Una coperta di damasco
forgiata di galloni d’oro ornata dentro di vari fiori con cristallo davanti e ne’ lati dentro la quale si vede la testa di S Colomba martire, un osso di gamba di S. Vittoria
martire, un osso di gamba di S. Placido martire, un osso di gamba di S. Innocentia martire. Quattro reliquiari uguali di legno dorato ed intagliato rappresentanti un
angolo per ciascuno che sostiene il reliquiario nel primo si racchiude la reliquia di S. Lucia vergine e martire,nel secondo la reliquia di S. Biagio, nel terzo la reliquia
di S. Ignazio di Laiola, nel quarto di S. Christina vergine e martire. Due reliquiarii uguali di legno dorato in uno si vede lo stemma nella base del fu mons. Rutilio
Benzoni con le reliquie di S. Sebastiano martire, di S. Catherina vergine e martire de santi Cosmo e Damiano, di S. Lorenzo, di S. Giorgio dell’undecimila vergini, di
S. Niccolò et altre. Nell’altro vi sono le reliquie di S. Filippo apostolo, di S. Giacomo, di S. Cornelio, di S. Paolo primo eremita, di S. Agnese, di S. Gregorio. Tutte le
sopraddette reliquie si espongono. Tre reliquiaretti da collocarsi d’argento ne’ quali vi sono le reliquie di S. Antonio da Padova e di S. Franceso di Paola, donate quella
di S. Francesco dal preposto Centofiorini e l’altre due dall’arcidiacono Galamini/
[78] In una testa di legno dorata et inargentata il ricordo di S. Filippo Neri. Vi sono ancho in un cassone di noce posto in sagrestia tre scattoloni differenti nella
grandezza pieni di varie reliquie involte con charta sopra delle quali ed in ciascheduna di esse vi è scritto il nome sempre, per il passato conservate sotto diverse chiavi
tenute da diversi preti di essa chiesa, delle quali reliquie non se ne ritrova l’autenthica tutto che nelle dette scattole vi siano sigilli e segni di cordelle che denotano per
l’antichità essersi tolte. Queste pure tuttora si conservano con l’istessa diligenza se bene non si espongono in pubblico per mancanza d’autenthica et ornamento. Le
suddette reliquie che si espongono co i tre suddetti reliquialetti da collocarsi, si conservano in un armadio in sagrestia chiuso con tre chiavi una delle quali la tiene il
preposto la seconda il canonico Condulmati e la terza Filippo Giorni altarista e maestro di cerimonie. Una croce d’argento per le processioni, che ha da una parte il
crocifisso ed altre figure dall’altra parte la concezione ed altre figure con l’asta vestita di cinque canneli d’argento che formano l’altezza di otto palmi e mezzo incirca
col pomo da capo l’asta parimente d’argento e si vede vicino al pomo la figura di S. Flaviano. Un pastorale di quattro cannelli d’argento che formano l’altezza di sei
palma e mezzo in circa con la ciambella da capo ritorta d’argento indorato con figure et ornamenti/
[79] sei candelieri d’argento alti quattro palma con la sua croce dorati dalla bona memoria di mons. Gherardi.
Due statuette d’argento di getto, alte due palme incirca rappresentanti S. Pietro e S. Paolo, le chiavi che porta S. Pietro sono indorate et in dette statue v’è lo stemma
del suddetto Gherardi. Una muta di cartaglorie di lastra d’argento quelle di mezzo alte due palme e mezzo in circa e larga tre palma parimenti incirca, fatte dal detto
Gherardi. Due candelieri d’argento per li capoferrri d’altezza di due palme e mezzo ne quali in un lato v’è l’imagine d S. Flaviano in un altro lato il medesimo nel
terzo la descrittione come appartengono alla dignità e canonici. Una lampada d’argento alta tre palma e mezzo larga a proportione con lo stemma di mons. Gherardi
la immagine di S. Flaviano e l’inscritione infrascritta: “in honore S. Flamini episcopi Gherardi et charitatis flamma fulget et ardet”. Un ostensorio grande d’argento
319
d’altezza tre palma incirca con la lunetta indorata con lo stemma di mons. Guarnirei et insegna della confraternita del ss.mo Sarmento. Una pisside grande d’argento
Un’altra pisside più piccola parimenti d’argento col piede di rame indorato.
Un calice grande con putti e fiorami d’argento con/
[80] coppa indoata entro e fuori, con stemma sotto il piede di mons. Cordella con sua patena d’argento dietro la quale è indorata e vi si vede la cena del Signore foderata di tela biancha e cassata. Un calice con sua patena d’argento con fiorami e stemma di mons. Guarnieri incassato. Un calice con sua patena d’argento con fiorami e
stemma di mons. Gherardi coperto con un fazzoletto e con cassa. Un calice molto pesante con fiorami con sua patena d’argento e stemma di [spazio bianco]. Un altro
calice con fiorami con sua patena d’argento. Un calice e patena d’argento, il calice è liscio. Due altri calici uguali lisci d’argento e loro patene fatti con guasti. Due calici
con coppe d’argento e piedi d’ottone indorato uno più grande dell’altro, nel grande v’è la patena d’argento, nel piccolo di rame indorato. Due turiboli uno più bello e
più grande dell’altro, nel più grande v’è l’imagine di S. Flaviano, lo stemma di Gregorio XII e lo stemma del card. Araceli; nell’altro niente.
Due navicelle d’accompagno de’ suddetti turiboli in una delle quali vi è in due luoghi lo stemma di Gregorio XIII e cocchiarini. Una caldarola per l’acqua santa col
suo d’argento nel quale aspersorio v’è lo stemma del fu mons. Benzoni e si legge certa descrittione si nella caldarola che nell’aspersorio./
[81] Un piattino d’argento bislungo per l’impuline con stemma di mons. Guareri. Una Pace o sia istromento di Pace d’argento con l’imagine di Gesù Cristo che porta
la croce. Una lampada piccola d’argento donata da una divota per il crocifisso del pulpito. Una bugia con lo stemma di mons. Gherardi. Una campanella d’argento
con l’imagine di S. Flaviano dicesi fatta con i quarti.
Alcuni piccoli rottami d’argento de’ candelieri.
Nota de’ Pluviali, Pianete, Tonicelle, Stole, Manipoli, Borse e Veli color bianco
Un pluviale di lametta d’argento con trine d’oro attorno e nel cappuccio con stemma della felice memoria di mons. Gherardi. Quattro pluviali di damasco con trine
d’oro d’avanti e nel cappuccio con stemma del suddetto Gherardi. Un pluviale di damasco guarniti con trine d’oro bono fatto con i quarti. Una pianeta di lametta
d’argento ricamata in mezzo con oro con merletto d’oro attorno e con lo stemma del card. Crescenzi, con manipolo e stola./
[82] Una pianeta con suoi galloni d’oro e d’argento di veletta biancha di broccato d’oro foderata di taffetano con lo stemma di mons. Gherardi di riccami d’oro, co
stola e manipolo. Una pianeta di lama d’argento ricamata tutta d’oro con manipolo e stola e stemma del suddetto Gherardi. Due pianete di lametta d’argento con
trina d’oro nel mezzo ed attorno piccol merlettino d’oro con manipoli e stole e stemma di mons. Cordella.
Una pianeta di lametta d’oro guarnita con trine d’oro con manipolo e stola di mons. Panici.
Tre pianete di damasco uguali con trina in mezzo d’oro bono e trenette attorno con manipoli e stole.
Una pianeta di amoer ondato trina d’oro i mezzo e attorno [-] oro con stemma di mons. Guarnierei con manipolo e stola. Tre pianete bianche d’amoer una delle quali
è guarnita in mezzo ed attorno con trine d’oro l’altre due i mezzo solamente, con manipoli e stole. Una pianeta di tabino biancho ondato con galloncini d’oro con
manipolo e stola ne quali vi sono ancho francie d’oro ed il cordone con fioccho d’oro nel manipolo di mons. Bussi. Due tonicelle di lametta d’argento con manipoli e
stole e guarnito di trona d’oro col stemma di mons. Gherardi, di bona qualità. Due tonicelle di damasco con manipoli e stole e parimente/
[83] di trina d’oro, con stemma di mons. Gherardi. Due altre tonicelle di damasco con manipoli e stole guarnite con trine d’oro e con cordoni di seta et oro. Due
tonicelle d’amoer con manipoli e stole guarnite con trine d’oro, fatte con i quarti. Due borse uguali di lama d’argento guarnite con galoni d’oro con fiocchi bianchi
fatte dalla bona memoria di Gherardi. Una borsa tutta ricamata con trine e fiocchi e la Madonna in mezzo, usata. Un’altra borsa ricamata parimenti con oro e seta.
Una borsa vecchia di lametta guarnita d’oro. Sei borse di damasco uguali, quattro delle quali sono ancho uguali nel guarnimento di trine d’oro bono e l’altre due
con merletto parimente d’oro. Due borse d’amoer una delle quali è nova con trina d’oro bono e fiocchi bianchi, l’alra con trina d’oro, usata. Una borsa di tabino
con galloni d’oro e fiocchi di seta d’accompagno alla sopra descritta pianeta di mons. Bussi. Un velo di fondo biancho tutto ricamato con oro e seta finto con diversi
colori con l’Assunta in mezzo in riccame e trina d’oro intorno con federa biancha. Una velo di fondo biancho quasi tutto ricamato con oro e seta fiorato con croce
in mezzo in riccame e attorno una trenetta d’oro con fodera biancha./
[84] Un velo con fondo biancho di raso ricamato d’oro attorno e ne’ spicoli con oro e seta di diversi colori e con il bon Gesù in mezzo foderato di taffetano color d’oro.
Un altro velo di raso biancho con fodera di taffetano color d’oro ricamato intorno fatto con i quarti. Sei veli di damasco uguali con francie attorno di seta e fili d’oro.
Quattr’altri di taffetano uguali con con francie d’oro attorno
Colore rosso
Un pluviale di lametta d’oro guarnito con trine e francie d’argento con stemma d’argento di mons. Gherardi. Un pluviale di lametta d’oro guarnito con trine d’oro
con stemma di mons. Panici, di bona qualità. Un pluviale di lametta d’oro ondato con sue trine d’oro. Quattro pluviali di broccatone antico guarniti con trina di seta
color d’oro con stemma del card. Roma. Un pluviale di damaschetto guarnito con trenette d’oro bono e francie d’oro e seta. Una pianeta di lametta d’oro col fondo
rosso, ricamata d’argento e ne lati, con manipolo e stola e stemma fatto con filo d’argento di mons. Gherardi./
[85] Una pianeta di lametta d’oro con manipolo e stola con guarnimenti d’oro e stemma di mons. Panici.
Una pianeta di broccati d’oro con manipolo e stola e guarnimenti d’oro fatta con i quarti. Una pianeta di damasco con manipolo e stola e guarnimento d’oro fatte con
i quarti. Due pianete di damasco con manipoli e stole e guarnimento d’oro ancho di francia d’oro nel manipolo e stola e stemma di mons. D’Asti. Una pianeta di damasco con manipoli e stole e guarnimento d’oro fatta con i quarti. Una pianeta d’amoer con manipolo e stola e guarnimento d’oro ancho di francia d’oro nel manipolo
e stemma di mons. Cordella. Una pianeta di damasco con manipolo e stola e guarnimento d’oro falzo, ancho nel di francia nel manipolo e stola e guarnimento d’oro.
Una pianeta d’ormiscino con manipolo e stola e guarnimento e nel manipolo e stola vi sono francie diseta e sono guaste. Una pianeta di tabino e vermisce ondato con
manipolo e stola e guarnimento di galloncini d’oro e con codone di seta e fiocco d’oro nel manipolo della bona memoria di mons. Bussi. Due tonicelle di lama d’oro
con manipoli e stole e e guarnimento d’oro fatte dal prefato Gherardi, quale accompagnano la suddetta pianeta fatta dal medesimo. Due tonacelle di broccatino d’oro
con manipoli e stole e/
[86] guarnimento d’argento quale accompagnano la suddetta pianeta di broccatino fatta parimente con i quarti. Due tonicelle d’amoer con manipoli e stole e guarnimento d’argento fatte con i quarti.
Due tonicelle con manipoli e stole e guarnimento d’oro. Una tonacella sola di seta col suo manipolo e stola e guarnimento d’oro. Una borsa di lama d’oro quasi tutta
ricamata con argento con croce del medesimo ricamo e fiocchi rossi, acompagna la pianeta del suddetto Gherardi. Una borsa di lametta d’oro con guarnimento d’oro.
Una borsa da una parte rossa quasi tutta ricamata in oro ed in mezzo l’agnello pasquale formato con perline bone, d’altra parte biancha con Gesù Cristo in mezzo che
resuscita in riccame d’oro co fiocchi rossi. Una borsa di tabino con galloncini d’oro e fiocchi di seta d’accompagno della suddetta pianeta di mons. Bussi. Una borsa
d’amoer ondato guarnita con trina d’argento d’ambo le parte è fatta d’amoer. Due altre d’amoer con trine d’argento bono, d’ambo le parte fatta d’amoer. Due altre di damasco con trina d’oro bono. Due altre d’amoer con trine d’argento bono d’amoer d’ambo le parte, le trine d’una parte sola. Una borsa di damasco con trina d’oro, usata./
320
[87] Una altra borsa di damasco usata guarnita d’oro ed ha da una parte certi guarnimenti antichi e merletti d’oro. Una altra borsa di seta usata con merlettino e
splendori d’oro. Un velo col rovescio di taffetano tosso tutto ornato con fila d’oro. Quattro veli rossi di damaschetto uguali tre de’ quali guarniti con francie di seta, il
quarto con merlettino d’oro. Un velo di taffetano rosso o sia doppio con guarnitione d’oro attorno e con una croce fatta di filo d’oro che va da uno spicolo all’altro.
Tre veli di taffetano rosso, il primo liscio, il secondo con merlettino d’oro, il terzo con trenetta d’oro.
Colore verde
Tre pluviali, uno de’ quali è di damasco co’ guarnimento d’oro bono e stemma del card. Roma, l’altri due sembrano fiorati guarniti co trina di seta verde co stemma
del suddetto cardinale. Una pianeta di lametta d’oro con fondo ondato verde con manipolo e stola e guarnimento d’oro ancho di francia d’oro nella stola e manipolo
e con stemma del card. Cordella. Una pianeta di lametta d’oro con manipolo e stola e guarnimento d’oro./
[88] Una pianeta di tabino verde ondata con manipolo e stola e galloncini d’oro, nel manipolo e stola vi sono altre francie d’oro e cordone di seta co fioccho d’oro nel
manipolo della bona memoria di mons. Bussi. Una pianeta di damasco con manipolo e stola e suo guarnimento col stemma dell’emintenitssimo Roma. Una pianeta
di damasco con manipolo e stola e guarnimento di trina e francia di seta verde col stemma del card. Della Rovera. Una pianeta di damasco con manipolo e stola e
guarnimento d’oro col stemma del fu mons. Benzoni. Una pianeta ondata con manipolo e stola e guarnimento d’oro e stemma del fu mons. Cardella. Quattro pianete
uguali con manipoli e stole e guarnimenti di seta ordinarie. Due tonicelle con manipoli e stola di damasco con guarnimento d’oro e con settam dell’eminentissimo
Roma. Due tonicelle di damasco con manipoli e stole guarnite con trine, francie e fiocchi di seta verde col stemma del suddetto card. Della Rovera.
Due tonicelle di seta con manipolo e stola e guarnimento d’oro. Una borsa di tabino con galloncini d’oro e fiocchi di seta d’accompagno della suddetta pianeta di Bussi./
[89] Una borsa di lametta d’argento con merlettino d’oro bono con splendori e tre fiocconi. Due borse uguali con trine d’oro e fiocchi. Tre borse uguali guarnite con
trine d’argento e oro con fiocchi di seta verde ed oro. Un velo di taffetano riforzato foderato quasi tutto guarnito con fila d’oro co un merlettino attorno d’oro, in mezzo
il bon Gesù, il tutto d’oro bono. Tre altri di taffetano uguali con francie attorno d’oro et argento. Due altri di seta.
Color violaceo
Un pluviale di lama d’oro guarnito con trine e francie d’argento col stemma di Gherardi. Un pluviale di broccato d’avanti figurato. Un pluviale di damasco con guarnimento d’oro e stemma del fu emintenitssimo Araceli. Un pluviale di seta guranito con trine di seta e oro con lo stemma di mons. Benzoni. Una pianeta di lama
d’oro con manipolo e stola tuta ricamata d’argento con lo stemma di mons. Gherardi. Una pianeta di lametta d’oro con manipolo e stola e guarnimento d’oro con lo
stemma del fu card. [spazio bianco] Una pianeta di lametta d’argento con manipolo e stola e guar/
[90] nimento d’oro. Una pianeta di damasco con manipolo e stola e guarnimento d’oro con lo stemma del suddetto Araceli. Una pianeta di damasco con manipolo e
stola e guarnimento d’oro falzo con lo stemma di mons. Guarnieri. Una pianeta di damasco nova con manipolo e stola e guarnimento d’oro con lo stemma della città.
Due pianete di damaschetto uguali con manipoli e stole e guarnimenti di seta gialla. Una pianeta d’amoer con manipolo e stola e guarnimento d’oro con lo stemma
di mons. Caldarola. Due pianete d’amoer in mozzetto con manipolo, stola e stolone.
Tre altre pianete uguali di [spazio bianco] con guarnimento di seta gialla e arancione, manipoli e stole. Una pianeta di tabino ondato senza manipolo e stola e con
guarnimento di galloncini d’oro di mons. Bussi, novi. Due pianete uguali con guarnimento di seta foderate bianche senza manipoli e stole, Una pianeta di boccaiano
con manipolo e stola e trina di seta. Un’altra di boccaiano con trina biancha e manipolo, la stola non si trova. Un’altra parimente di boccaiano con trina di seta bianche
violacea il cui manipolo e la stola non si trova. Due tonacelle di damasco con manipoli e stole e guarnimento d’oro./
[91] ancho di cordoni a fiocchi mischi con oro quale tonacelle sono d’accompagno della sopraddetta pianeta fatte dal card. Araceli. Una stola sola di damasco con la
croce di gallone d’oro della bona memoria di mons. Gherardi. Una borsa con facciata di lametta d’argento con trina e splendori nella croce d’oro e fiocchi violacei. Una
borsa di tabino violacea con galloncini d’oro e fiocchi di seta d’accompagno della suddetta pianeta di mons. Bussi, nova. Una borsa di broccato fiorato guarnita con trina d’oro e con fiocchi bianchi e rossi, in una partita manca la trina. Una borsa di damasco con trina d’oro e fiocchi. Un’altra di damasco guarnita con trina d’oro buono
e con fiocchi d’oro e con seta torchina. Due altre uguali di damaschetto con trina di seta gialla. Una borsa di damasco con trina e splendori d’oro. Un velo di damasco
foderato di tela rossa guarnito con trina d’oro bono attorno, novo. Due altri di damasco uguali con merlettino attorno d’argento. Due altri veli di damasco uguali con
francie attorno di seta d’argento. Un altro di seta foderato di taffetano quasi tutto guarnito con trina di seta color d’oro. Un altro velo che si dice il sospeso./
[92] Color negro
Un pluviale di damasco con guarnimento d’argento fatto con i quarti. Un pluviale di stamigna con guarnimento di seta di diversi colori. Una pianeta di damasco
con manipolo e stola e guarnimento d’argento fatta con i quarti. Quattro pianete di boccaiano con manipoli e stole delle quali una è guarnita con oro falzo, un’altra
con oro et argento parimente falzo, la terza con trina di seta biancha e la quarta con trina di seta biancha e violacea. Tre pianete uguali di cataluffo con manipoli e
stole e guarnimento d’argento. Due altre pianete di robba uguale con manipoli e stole una delle quali una è guarnita con oro falzo, e l’altra con trina di seta biancha.
Una pianeta di stamigna con manipolo e stola e guarnimento di seta biancha. Due tonicelle di damasco con manipoli e stole e guarnimento d’argento Due tonicelle
di boccaiano con manipoli e stole e guarnimento d’argento.
[93] Una borsa di lametta d’oro con trina e fiocchi d’argento. Due borse di damasco guarnite d’argento falzo usate. Un’altra di seta usata con trenetta d’oro e fiocchi.
Tre borse uguali ordinarie di ta ffetano negro con trina d’argento e fiocchi. Una borsa di boccaiano guarnita d’oro e fiocchi gialli, nova. Un velo di damasco negro
guarnito con trina d’argento. Tre altri di taffetano con francie attorno d’argento. Un altro di taffetano liscio. Due altri di taffetano uguali guarniti di seta biancha. Due
altri di taffetano lisci.
Colori diversi
Quattro pluviali di bavellino col fondo rosso e foderati bianchi con guarnimento d’argento fatti con i quarti. Due pluviali con fondo violaceo foderati con guarnimento di trine di seta color violaceo col stemma del fu emintentissimo Roma. Cinque pianete di bavellino verde e rigate di più colori tutte d’argento in mezzo, in
due delle quali v’è attorno francie d’argento, manipoli e stole con l’istesse guarnitioni. Tre pianete bianche di diversi colori con manipoli e stole e guarnimento d’oro
falzo. Tre altre pianete guarnite con trine/
[94] di seta e francie. Una pianeta con manipolo e stola e guarnimento d’oro falzo. Una pianeta d’amoer foderata con taffetano verde con galloni d’oro et argento et
stemma con riccame d’oro con manipolo e stola di mons. Gherardi. Una pianeta con manipolo e stola con trina falza. Una pianeta di diversi colori della bona memoria
del card. Aguini. Otto pianete ordinarie con guarnimento d’oro et argento falzo. Due stole sole delle quali rossa e verde di seta l’altra di bavellino con fioretti e merletto d’argento falzo. Una borsa di diversi colori con trina attorno d’oro e merlettino croce e fiocchi. Un’altra con con trina e fiocchi di seta gialla. Tre borse con fondo
biancho con fiorami di diversi colori guarnite d’oro, uguali e con fiocchi, usate. Diecinove borse sospese. Un velo di vari colori di taffetano con frangetta di seta gialla.
Un velo di diversi fiorami con trenetta d’oro foderato.
Tre veli si dicono sospesi./
321
[95] Nota de’ troni o sogli per il vescovo
Un soglio di seta fiorato biancho e rosso con francie di seta biancha e rossa con guarnimento di seta e faldistorio con francie e stemma e con cugini per il faldistorio
novo. Un altro fiorato rosso e fondo giallo con francie di seta gialla e rossa con sedia e faldistorio con cugini con stemma del fu mons. Guarnieri. Un altro di raso
color violaceo con tutt’altro come sopra usato con stemma del fu card. Roma. Un altro di raso di seta violacea con tutt’altro come sopra lacero con stemma del fu
mons. Guarnieri in questo non vi sono cugini e faldistorio.Un altro rosso di seta piccolo con francie rosse e tutt’altro come sopra fatto dalla felice memoria di mons.
Gherardi fatto per mettersi entro la cappella del Santissimo./
[96] Nota de’ paramenti entro la chiesa
Sedici pezzi di broccatone di Venezia rosso gremisce novo […]
[97] Quattordici pezzi di taffetano rinforzato novo venuto da Bologna […]
[98] Quattro pezzi di freggi o fascie di damasco ben condizionato foderati per il presbiterio co’ francia rossa e gialla […]
Tutti li sopraddetti paramenti sono stati fatti della bona memoria di mons. Gherardi. Quattro pezzi di serini rossi e gialli per la cappella del Santissimo […] Due
panni o strati per l’altare del Santissimo rossi uno de’ quali è novo, largo tre braccia e tre quarti lungo sei
[99] fatti dalla sig. Laura Flamini per elemosina de’ quali la medesima uno ne tiene in casa e l’altro nell’altare. Un tappeto per l’altare del choro. Un panno verde per il
medesimo altare di robba fatta in casa onato dal canonico Mazzoni. Un altro piccolo dell’istessa robba del suddetto donato dal medesimo per il soppedaneo del sedile
del celebrante. Un panno rosso nuovo per il trono del vescovo. Due panni verdi con francie per li canonici quando stanno fuori del choro. Più pezzi di panno rosso
per coprire il pavimento del presbiterio dell’altare del choro fino a gradini.
Nota degl’utensili per la persona del vescovo ne’ pontificali
Una mitra biancha di lama d’argento d’ambo le parti ricamata con oro e seta di diversi colori con gallone d’oro attorno galloncini e francia d’oro con lo stemma della felice memoria di mons. Gherardi. Una mitra biancha di lama d’argento con trinetta d’oro attorno e nelle calate trine e francie e stemma del suddetto Gherardi.
Un’altra mitra di lama d’argento tutta ricoperta d’ambo le parti/
[100] di riccame d’oro con trina e francia d’oro della felice memoria di mons. Panici. Un’altra mitra di lama d’oro con trina d’oro attorno e francie d’oro. Due dalmatiche di taffetano bianche guarnite con trina d’oro fatte fare dalla felice memoria di mons. Gherardi. Due dalmatiche di taffetano bianche. Due altre di taffetano
guarnite con trina d’argento fatte dal suddetto Gherardi. Due dalmatiche di taffetano rosso. Due dalmatiche verdi di taffetano guarnite con i galloncini d’oro della
felice memoria di mons. Bussi. Due altre dalmatiche di taffetano verde. Due dalmatiche di taffetano violaceo. Due altre di taffetano violaceo color oro. Un paro di
sandali bianchi di lametta d’argento con trina d’oro da capo della felice memoria di mons. Bussi. Un paro di sandali bianchi di damasco della felice memoria di mons.
Gherardi. Un altro paro di taffetano biancho. Due altre para di damasco biancho. Un paro di sandali rossi di damasco con trina d’oro da capo del suddetto mons.
Bussi. Un altro paro di color violaceo di damasco del suddetto Gherardi. Un altro paro di taffetano violaceo./
[101] Un altro paro verdi di taffetano con trina d’oro del predetto Bussi. Un altro paro di damaschetto rosso. Un paro di scarpe coperte di lama d’argento guarnite
con trina d’oro del predetto Bussi che accompagnano li suddetti sandali. Un altro paro di damasco biancho con trinettina d’oro del predetto monsignore. Un altro
paro di scarpe coperte di damasco biancho lacere. Un paro di scarpe coperte con damasco rosso ed ornate con trina d’oro del suddetto mons. Bussi. Un altro paro di
scarpe parimente coperte con damasco rosso.
Un altro paro coperte verdi con galloncini d’oro del suddetto mons. Bussi che accompagnano i suddetti sandali del medemo e dalmatiche. Un paro di scarpe coperte
con damasco violaceo del suddetto mons. Gherardi che accompagnano i sandali del medemo. Un paro di guanti di seta biancha tramezzata con fili d’oro del Bussi.
Un paro di guanti di seta biancha tramezzata con oro col bon Gesù del suddetto Gherardi. Un paro di guanti di seta cremisce tramezzata come sopra del suddetto
Bussi. Un paro di guanti rossi con oro tramezzato col bon Gesù con merlettino da piedi e cordoncini.
[102] Un paro di guanti verdi con oro tramezzato come sopra del precitato Bussi. Un altro paro violacei con oro come sopra e bon Gesù. Due para di guanti uno
violaceo e l’altro biancho con fili d’oro. Un tovagliolo biancho di taffetano doppio con merlettino da capo e da piedi d’oro, d’argento et altro merlettino ne’ lati. Un
tovagliolo rosso di seta ondato con merlettini come sopra. Un tovagliolo e velo biancho per sopra l’altare di taffetano rinforzato e trina d’oro attorno. Un velo di lamettina con merlettino attorno color d’oro per chi tiene la mitra. Quattro veli humettati per li sudiaconi di taffetano de quali uno è biancho uno rosso, uno verde et uno
violaceo, nel verde vi sono le francie d’oro, negl’altri merletti d’oro. Un gremiale foderato rosso fiorato con francie di seta et oro. Una gioia pettorale per il pluviale di
rame indorato consistente in pietre falze della firma di mons. Bussi con sua cassetta per riporla. Un’altra gioia pettorale come sopra anticha. Tre mantili di seta di diversi
colori cioè bianco, rosso e violaceo con merletti d’oro. Due copritori di messale uno de’ quali è di raso rosso riccamato d’argento, con lo stemma di mons. Gherardi
foderato di taffetano torchino e l’altro di fondo biancho foderato rosso fiorato con seta et oro antico./
[103] Robbe diverse
Un tabernacolo portatile. Un crocifisso con croce e base negra il Christo è d’ottone indorato della felice memoria di Gherardi. Un baldacchino di damasco bianco con
francie di seta e foderata di tela color d’oro con quattro aste bianche et indorate dato alla compagnia del Santissmo sacramento. Un umbella di damasco rosso con
fodera e francie di seta che è fatta per le communioni. Una cassa per riporre i paramenti boni, coperta di vacchetta brocchiettta con bollettin d’ottone con vetrature e
chiave. Cinque scattole da tener hostie una delle quali è di teletta d’oro biancha, una violacea con alcune granatine due altre di seta. Due para d’impolline di cristallo
con suoi piattini. Due pezzi di robba per due copritori di calice. Due braccia incirca di damasco biancho, da una parte tagliato
Una scattola per tener mitrie. Le suddette robbe, eccetto il tabernacolo sono della felice memoria di mons. Gherardi. Due scattole da tener hostie una delle quali è
d’ottone l’altra di filo d’argento./
[104] Un ostenzorio di rame indorato. Un istromento di pace d’ottone indorato con l’impronta della Pietà. Un legivo per tenere il messale al diacono nelle messe cantate ricoperto di velluto rosso et ornato con bollettine d’ottone con lo stemma di [spazio bianco]. Tre para di ferri da far hostie che sono della Sagrestia. Due torcietti di
ferro per li funerali. Un torcietto di tavole di noce. Un focone grande di rame con piede e padella parimente di rame dato al capitolo dal s. archidiacono Galamini.
Due vestatelle rosse per li chierici di sagrestia di bona qualità e due lacere.
(ASCR, Registri)
322
CINGOLI
L’Archivio Diocesano di Cingoli, oggi denominato “Archivio ecclesiastico di Cingoli”, è conservato presso la Collegiata di S. Esuperazio. E’ ben conservato ed è stato
recentemente schedato. L’Archivio funge anche da soggetto conservatore dei seguenti fondi qui depositati:
- Archivio del Capitolo della Cattedrale
- Archivio della Parrocchia di S. Maria Assunta
- Archivio della Parrocchia della Collegiata di S. Esuperanzio
- Archivio della Parrocchia pievanale di S. Elena in Avenale
- Archivio della Parrocchia priorale di S. Maria Assunta in Troviggiano
- Archivio della Parrocchia di S. Pietro Apostolo in villa Torre
- Archivio della Parrocchia di S. Giovanni Apostolo in villa Strada
- Archivio della Parrocchia pievanale di S. Nicolò in Moscosi
- Archivio della Parrocchia di S. Michele Arcangelo
- Archivio della Parrocchia di S. Giorgio in Castreccioni
- Archivio della Parrocchia di S. Maria Candelora
- Archivio della Parrocchia di S. Maria del Rosario in Cervidone
- Archivio della Parrocchia di S. Stefano
- Archivio della Pontificia Opera Assistenzsa e ONARMO
Inventario della chiesa cattedrale, 1726 novembre 7
In nomine Domini Jesu Christi amen. Questo è l’inventario di tutti li beni mobili, stabili, semoventi, frutti, rendite, ragioni, azioni e pesi di qualsivoglia sorte, spettanti
alla chiesa cattedrale e capitolo della città di Cingoli colla cura di anime fatto il di 15 dicembre da noi infrascritti canonici Alessandrus Antonius Fortini e Giuseppe
Antonio Crescioni deputati. Dì 7 novembre 1726. Primieramente la nostra chiesa cattedrale è fatta in forma di croce greca ed è sotto l’invocazione della ss.ma Assunta
Maria sempre Vergine la quale sta situata nella piazza grande di detta città a capo di essa ed è d’intorno circondata da strade pubbliche benché abbia annessa a cornu
evengelii una casa che parte serve per il predicatore della quaresima e parte per il curato ed ha la communicazone in detta chiesa, la qual chiesa fu fatta edificare a spese
del pubblico di Cingoli essendo per prima il capitolo, cioè il prevosto e dieci canonici nella chiesa, ove presentemente si ritrova la congregatione dell’oratorio de’ padri
di S. Filippo Neri li quali danno ogn’anno al capitolo mezza libra di cera bianca per il diretto dominio di detta chiesa come per istromento di Ottavio Floriani 29
maggio 1664 nell’atto di concessione di essa fatta dal detto Capitolo alli medesimi padri dell’oratorio e nell’anno 1654 fu principiata ad officiare dalli detti prevosti e
canonici essendone poi stato fatto dal detto pubblico istromento rogato dal q. Giambattista Parenti li 10 maggio 1660 nel quale si obbliga al mantenimento materiale
di essa chiesa la quale fu consacrata l’anno 1693 li 30 agosto dall’eminentissimo Pallavicini già vescovo d’Osimo. La detta chiesa fu nuovamente eretta in collegiata
dalla santa memoria di Clemente VII coll’unione della chiesa parrocchiale di s. Giovanni della Villa di Strada, distretto di Cingoli, come per sua bolla in data 13 giugno
1530 e sempre il capitolo ha hauto et ha il jus di nominare e presentare al vescovo il vicario curato pro tempore perpetuo per detta chiesa parrocchiale di S. Giovanni
e li rettori parimente perpetui per le due chiese filiali di S. Maria della Villa di S. Flaviano e della chiesa del ss.mo Crocifisso. Fu poi la detta nostra chiesa ultimamente
reintegrata et quatenus opus sit eretta in cattedrale da n.s. papa Benedetto XIII felicemente regnante, eque principaliter, colla chiesa cattedrale di Osimo/
[1v.] come per bolla spedita in Roma l’anno 1725 die 20 agosto e nell’istromento celebrato in Osimo tra detto nostro vescovo e li deputati a tale effetto mandati da
questa comunità rogato dalli sig. Felice Andrea Bonifazi notaro cingolano, e Brandimarte Antonio Bianconi, notaro vescovile di Osimo li 5 febraro 1726. Li detti
deputati obbligarono la medesima comunità al mantenimento materiale e formale di essa chiesa cattedrale come si legge nel capitol quarto di detto istromento che
dice “Il sommo pontefice commenda e vuole che li padroni della chiesa e rispettivamente degli altari siano obligati al mantenimento materiale e formale dell’una e
degl’altari. Nella medesima chiesa sono altari n. 8 tutti de’ particolari che hanno l’obligo del mantenimento di essi. L’altare maggiore è della venerabile compagnia del
ss.mo Sacramento eretta in detta chiesa, che deve mantenere in tutto, ed ha ancora l’obbligo di mantenere il tabernacolo e pisciale per conservare il Santissimo che
sempre è stato conservato in detto altare ed adesso è stato trasportato in altro per rendere libero il medesimo altare maggiore si nelle cappelle pontificali che che nelle
altre fonzioni sacre e deve detta compagnia dare ogn’anno metri tre d’oglio per la lampada del Santissimo, due e due libre d’incenzo, ed il capitolo deve cantare ogni
terza domenica di ciascun mese la messa e fare la processone del ss.mo e dare la benedizzione […] è detto altare situato in mezzo al cappellone principale e dietro di esso
vi è un bellissimo coro di noce dove officiano li detti prevosti e canonici ed in mezzo del prospetto di esso cappellone vi è un quadro al muro col’immagine della ss.ma
Concezzione. In detto cappellone vi sono due coretti di noce in quello cornu evangelii vi è l’organo e nell’altro cornu epistole vi è un quadro senza cornice coll’effigie
di s. Carlo Borromeo e negli angoli di detto cappellone vi sono due statue di legno color di bronzo rappresentanti li ss. Apostoli Pietro e Paolo. Nel cappellone, cornu
evangelii vicno alla statua di S. Pietro vi è il trono episcopale fatto a spese del pubblico vi è poi in mezzo di esso l’altare col quadro dipinto in tela coll’immagine di S.
Salvatore. La detta cappella ornata di bellissimi stucchi ed è delli sig. Simonetti a quali spetta/
[2r.] in tutto il mantenimento di detto altare. Tanto da una parte che dall’altra di detto cappellone vi sono due confessionarii. Nella navata poi della chiesa, cornu evangelii, vi è una cappella coll’altare e nel medesimo vi è l’imagine del ss.mo Crocifisso fatto di stucco ed è ornato di bellissimi stucchi con diverse statue e con balaustre
avanti detta cappella ed è delli sig. Cima, a quali spetta in tutto il mantenimento di essa. V’è anche la cappella coll’altare di S. Liborio dipinto in tela che parimente è
ornato di bellissimi stucchi ed è de’ sig. Silvestri, Crescioni e Puccetti a quali spetta in tutto il mantenimento di esso ed ha parimente li balaustri di pietra d’avanti. In
altra cappella vi è il fonte battesimale lavorato di stucco spettante al capitolo. Nel cappellone, cornu epistole, vi è l’altare col quadro dipinto in tela coll’immagine della
ss.ma Assunta ed altre immagini di santi. Il detto quadro è ornato con bellissimi stucchi e con diverse statue parimenti di stucco. Presentemente vi è il tabernacolo ove
si conserva il ss.mo Sacramento; detto altare è delli sig. Silvestri ai quali spetta il mantenimento di esso in tutto. Vi sono due confessionari; nella facciata verso il cappellone maggiore vi è un quadro con cornice dorata coll’immagine di S. Francesco Saverio. Nella navata cornu epistole vi è una cappella ben lavorata di stucco con due
statue in cui vi è l’immagine della ss.ma Vergine dipinta nel muro, detta la Madonnina, con ornamento d’intaglio di legno dorato d’avanti ed è del sig. Gaetano Cima
a cui spetta in tutto il mantenimento di esso;e vi è la balaustra di pietra d’avanti. Vi è doppo la cappella con altare e quadro dipinto in tela coll’effigie di S. Gaetano,
S. Giuseppe ed altre figure colla balaustrata d’avanti di pietra ed è del sig. Filippo Antonio Raffaelli a cui spetta in tutto il mantenimento del medesimo. Vi è anche
la cappella coll’altare e quadro dipinto in tela coll’effigie di S. Albertino abbate. Il detto altare è ornato di stucco ed è del pubblico di Cingoli al quale spetta in tutto
il mantenimento di esso. Nella detta cappella vi è la porta per andare nella torre del campanile ove sono due campane una di libre mille in circa sana e l’altra di libre
323
seicento in circa, rotta. Nella seconda colonna della navata cornu evangelii tra l’altare del ss.mo Crocifisso e quello di S. Liborio vi è il pulpito/
[2v.] di legno co diversi intagli con concessionario di sotto con banchi parimente di legno in tutte le altre colonnate e bancone di noce ben lavorato per il magistrato.
Nella detta chiesa vi sono tre porte una da piede in mezzo alla navata, con sua bussola, […] et un’altra porta per ciascun cappellone laterale parimente con sue bossole
di legno. Nel cappellone cornu evangelii dirimpetto alla porta della chiesa vi è la porta della sagrestia o cappella interiore ove officiano li detti prevosti e canonici col
rescritto della sacra congregatione in data li 13 novembre 1694 dal giorno dopo la commemorazione de’ morti fino al sabbato avanti la domenica delle palme. Vi è in
faccia l’altare col quadro dipinto in tela coll’effigie di S. Tommaso di Aquino ed è ornato di stucco e detto altare è del capitolo e di qua e di là a detto altare vi sono due
credenzoni fatti fare dal pubblico, per conservare li pontificali; ne’ muri laterali vi sono li sedili , da piedi vi sono due credenzoni per conservare le suppellettili sacre
spettanti al capitolo. Vi è ancora un cassone di quercia in cui si conserva l’argenteria serrato a tre chiavi. Vi sono alcuni quadri nelle pareti ordinarii, nella facciata di
detta sacristia ove si apparano li cappellani et altri che hanno obblighi di messe particolari. Vi è in essa la porta che corrisponde nel coro della chiesa, un’altra che
conduce al coretto dell’organo et un’altra che risponde nelle stanze del predicatore e curato che per il primo sono stanze tre e per il secondo sono stanze due tutte nel
secondo piano di detta casa […] Vi è poi in detta seconda sacristia un bancone ove si apparano li detti sacerdoti con sopra un quadro antico dipinto in tavola con
diverse imaghi, una credenza di legno che serve per archivio ove si conservano libri e le scritture del Capitolo, vi sono due inginocchiatori di noce co’ sopra due preparazioni in cornice dorate per la s. messa; sopra di esse vi sono due quadretti con conice dorati coll’effige dell’ecce homo, in mezzo a dette preparazioni nella facciata
vi è un quadro dipinto in tela co la ss.ma Assunta co’ cornice dorata, in altra facciata vi è un crocifisso grande di cartapesta in una croce di legno co’ sei altri quadretti
nelle pareti. Vi è anche un lavamano di marmo ben lavorato. In mezzo poi di detta sacristia vi è un focone di rame co’ piede di ferro per l’inverno. Li mobili, suppellettil iet altro spettanti alla suddetta chiesa cattedrale sono li seguenti cioè: una calice novo di argento co’ sua patena di oncie 22,85; altro calice di argento co’ sua patena di peso libre 2 oncie una ottavi uno, altro calice parimente d’argento co’ sua patena di peso oncie 15 e mezza; un aspersorio di argento di peso oncie 4 un turibolo di argento di peso libre 3 et oncie 7, una navicella con suo cucchiaro d’argento di peso oncie 14 et ottavi 5, una croce con anima di legno e ferro ricoperta di lastra
di argeno dorato col Cristo di getto parimente d’argento col pidestallo di rame dorato e palla con fascie d’argento di peso libre 3 e oncie 8. Un’asta di rame argentato
a fuoco per detta croce, un ostensorio col raggio d’argento e lunetta di argento dorata con un angelo di getto d’argento che sostiene detto raggio co ale di rame dorato
e piedestallo di rame dorato di peso libre 8 e oncie 4, il detto ostensorio fu fatto fare dalla ven. compagnia del ss.mo Sacramento e la nostra chiesa contribuì per la
spesa del nuovo ostensorio, l’ostensorio vecchio della chiesa e sempre il nuovo ostensorio è stato in mano del capitolo come anche sta presentemente e si conserva
colli sopraddetti argenti come anche sta presentemente e si conserva dal nostro sacrestano che ne ha la consegna come di tutto quello si dirà in appresso. Un ostensorio
di rame dorato con alcuni serafini d’argento d’intorno con il calicetto e scattulino d’argento entro del mdesimo ostensorio che serve per portare la ss.ma comunione
agl’infermi. Tre calici d’ottone co sue patene dorati e coppe d’argento uno de’ quali è sospeso. Una chiavetta d’argento fatta fare dal capitolo per il tabernacolo, un
piattino di rame et un campanello di ottone argentati a fuoco; una caldarella di rame per cavare acqua, un brocchetto con suo coperchio di rame, una pace di rame
argentata a fuoco, quattro piattini di stagno per l’ampolline con quattro campanelli d’ottoe; un piattino di cristallo con sue ampolline; una caldarella d’ottone per tenere l’acqua benedetta; un paro di ferri per fare l’ostie; due scattole di filigrana per tenere l’ostie con due coperchini per l’ampolline della stessa materia; cinque messali per le messe de santi; otto per quelle di requiem; un pluviale con pianeta ,due tunnicelle con loro stuole e manipoli di lama d’oro tutti foderati di seta;una mitra, un
paio di scarpe; due zandali; una borza tutti di lama oro il tutto guarnito con liste di oro e galloni con l’mpronta della ss.ma Assunta. Un velo da calice; due dalmatiche
di taffetano doppio di color oro, il tutto mandato in dono a questo capitolo dal sig Pierlorenzo da Cingoli abitante in Roma il primo marzo 1726. Un piviale di raso
ricamato con oro e seta con sua stuola, borsa e velo da calice; due piviali di seta di color bianco con liste d’oro; tre piviali di seta di color rosso con liste d’oro; un piviale di seta di color violaceo co’ guarnigione di seta; un piviale nero con guarnigione di seta; due tonicelle di damasco bianco con stuola e manipoli guarnite con
galloni di oro; due tonacelle di color rosso guarnite con gallone di oro di metà con stuola e manipoli; due tonicelle di color violaceo di robba ordinaria con stuola e
manipoli con guarnigione di seta; due pianete bianche di broccato con stuole, manipoli, borse e veli guarnite di oro; due pianete broccaglione bianche con stuole e
manipoli; una pianeta di seta fiorata di più colori co’ stuola, manipolo e borsa guarnita con lista d’oro falsa; sette pianete di color rosso con stuole, manipoli, veli e
borse; cioè 4 di seta con guarnigione di oro falso e 3 ordinarie; 4 pianete di color violaceo co’ stuole e manipoli cioè due di seta e due di baccagliano con veli e borse
guarnite con liste di seta e di filo; 6 pianete di color verde cioè 3 di seta e 3 ordinarie guarnite di lista di seta ; 6 pianete negre cioè due di seta e 4 di baccagliano le
prime guarnite di oro et argento falso, l’altre di lista di filo di più colori;una pianeta di seta di più colori che serve per li sacerdoti defunti, due stuole et un manipolo
di damasco rosso senza guarnigione; 4 borse di diversi colori; tre stuole e due manipoli di damasco violaceo guarnite di seta per canatre il passio; nu velo umerale di
taffetano bianco con pizzetti d’oro nell’estremità;un velo rosso parimenti umerale con pizzetti d’oro; un velo umerale di taffetano violaceo; tre libri per il coro cioè
salterio, antifonario e graduale; camici di tela n. 8; camici ordinari n. 23; amitti n. 30; purificatori n. 55; cordoni n. 20, fazzoletti n. 30; asciugamani n. 14, corporali
23, palle 60; un panno verde per ricoprire il sedile che serve per le messe e vespri solenni; due cuscini di damaschetto rosso; 3 cuscini di velluto verde, un altarino
portatile di legno con suo baldacchino e candelieri dorati con 4 vasette di legno parmenti dorati con quattro rame di fiori; borsa di velluto cremisci e tovaglie che
servono per posare il ss.mo Sacramento nella stanza degl’infermi quando gli si porta la commonione; due tovaglie e due sottotovaglie per l’altare di s. Tommaso situato in sacristia dove si officia solo l’inverno. La nostra sacristia non ha avuto mai assegnamento alcuno […] Ha anche la nostra sacristia due parati di broccato guarniti
d’oro cioè uno bianco donato al capitolo dalla chiara memoria dell’em. Bichi e l’altro di color rosso donato dalli sig. Simonetti. Nella detta sacrestia nel credenzone
dorato appiedi di essa vi sono le reliquie cioè due semibusti di legno dorati in uno vi è le reliquie di S. Tommaso apostolo, nell’altro vi è le reliquie di S. Luca evangelista vi è ancora un ostensorio di ottone dorato con dentro il pane moltiplicato da N. S. e vi sono due gugliette di legno dorate in una dele quali vi è la reliquia di s.
Pancrazio nel’altra di S. Concordia vi è ancora una cassettina ricoperta di velluto cremisci dentro di cui vi è il corpo di S. Candido martire quali reliquie si espongono
in tempo proprio alla venerazione de’ fedeli.
[Segue l’elenco dei beni immobili posseduti]
(ASDC, S. Visite 1, Diocesis Cingulanae status patrmonialis et spiritualis pape Benedicti XIII jussu 1726-1727)
324
TREIA
L’Archivio Diocesano, di modesta consistenza, è conservato nell’ufficio dell’ex vicario generale della Diocesi, oggi delegato vescovile per la vicaria di Treia, in Piazza
Marconi. Si presenta ben conservato ed è stato schedato in anni recenti. Nella sala del Capitolo, sempre nello stesso Palazzo, è conservato in apposito armadio l’archivio
del Capitolo della cattedrale.
Relazione sulla fabbrica della cattedrale del canonico Meloni, prima metà sec. XIV
Istruzione su tutto l’operato della fabbrica della chiesa in oggi cattedrale fatta dal canonico Giuseppe Meloni. Il disegno della suddetta chiesa fu fatto dal sig. Andrea
Vici romano, i deputati, due ecclesiastici e due secolari dettero esecuzione a tale disegno. Li deputati ecclesiastici furono eletti dal capitolo in persona del canonico
Meloni adì 22 aprile 1795 e depositario eletto li 3 giugno 1797. L’altro deputato ecclesiastico eletto egualmente dal capitolo in persona del sig. canonico Govanni
Broglio Massucci nel 1806. I deputati eletti dalla comune furono i sig. Francesco Dionisi e Luigi Didimi. Il lavoro era ben ordinato e sotto l’impegno di questi quattro soggetti riuscì felicemente e tutto il pagamento si faceva cogl’ordini dei due deputati. Il suddetto disegno fu eseguito dal capo mastro sig. Carlo Vusca milanese
ma stazionato in Treia. Prima della sua morte furono piantati tutti i fondamenti di essa e dopo la sua morte fu affidata l’opera al capo mastro Patrizio Demattia il
quale continuò con impegno e terminò l’edificio con somma maestria e lode comune. Il suddetto capo mastro lavorò come muratore e aveva in ogni giorni baiocchi
35. Due suoi figli, Filipp e Nicola, seguendo l’arte del padre lavoravano in detta fabbrica con ancora un altro parente per nome Luigi De Mattia ed Arcangelo di
Maria Franco. Tutti questi eran fissi quotidianamente a lavoro e in caso che l’uno o l’altro escisse dalla fabbrica subentrarono altri muratori […] Facchini addetti
alla fabbrica: Giuseppe Noè giovane robusto ed abile a qualunque fatica esso preparava il materiale e lo trasportava al lavoro. Esso era addetto al rotare per alzare
due grandi cassette pel trasporto dei materiali alle alte murature. Francsco Bacci altro facchino addetto a far la calce quotidiana, altri contadini dati in aiuto dai sig.
cittadin giornalmente. Donne facchine per trasportare mattoni, calce, ciucaglia, acqua ed altro bisognevole. Due erano le più robuste per nome Maria e Valentina e
trasportavano barili di acqua in luogo dei brocchi, alle armature ed anche per fare la calce e per tutti gli usi convenevoli. Una facchina per nome Loreta Braccù era
mantenuta continuamente durante la fabbrica dalla famiglia Grimaldi. Antonio Sileoni e Luigi Tiberiolo ed altri questi lavoravano annualmente le fornaci durante
la fabbrica nel campo della fiera ceduto dalla comune per quest’oggetto e confermato da Pio VII sommo pontefice, durante la fabbrica. […] Qui è da notarsi che venuto a predicare il padre Severino riformato da San Severino esso si prestò a far trasportare da tutta la popolazione tanto le pietre che i mattoni col fare le processioni
ed animare tutti a compire si bel lavoro e così senza dispendio si trovava preparato il materiale al lavoro. Guinta la fabbrica al punto di esser coperta si provvedette
tutto il legname al porto di Recanati avuto da Crispino Crispiiani come dalle ricevute qui accluse. Seguito lo stabilimento del tetto si incominciò il lavoro della volta
e del catino il quale fu fatto pitturare da un pittore per nome [spazio bianco] da Fermo per il prezzo di scudi 18. Giunto il lavoro dello stabilimento al cornicione fu
chiamato il sig. Giuseppe Mozzanti il quale lavorò quasi tutto il cornicione facendo pagar un paolo per rosa e modiglione. I fascioni poi 18 paoli , i capitelli delle
colonne 6 scudi l’uno e i pilastri 15 paoli l’uno e lavorò ancora il nome di Maria ss.ma della Misericodia per il prezzo di scudi 18. Fece ancora l’altare della famiglia
Grimaldi per il prezzo di scudi 12. le basi delle colonne furono lavorate dal muratore Filippo di Mattia come ancora due altari uno della famiglia Broglio Massucci e
l’altro delle Pie Case di Lavoro. In questo tempo si rotavano i quadri per il piancito di tutta la chiesa in numero di 14.000 da Francesco Bacci suddetto e Francesco
Raballini per il prezzo di baiocchi 28 al centinaio. Nell’estate di nottte tempo dai suddetti muratori si tagliarono gratuitamente tutti i sudetti quadri e fu incominciato il piancito. Lo stabilmento del piancito del coro lo lavorò gratis il capomastro Patrizio Di Mattia, il resto della chiesa a conto della fabbrica. Il gesso veniva proveduto da un certo Zura sanseverinese ed altri e qui è da notarsi che in un anno di gran secca nell’estate per smorzare cento some di calce per mancanza dell’acqua si
prestassero tutte le donne di ogni quartiere e co’ brocchi dalle fonti vicine alle città trasportavano le acque in copia abbondante per detto effetto. I falegnami addetti
al lavoro della fabbrica erano Giuseppe e figli Sparapani per nome Antonio e Raffaele ed ancora Nicola Bartoloni i quali fecero tutti i lavori e del coro dei finestroni
e porte e portone principale. Qui è da notarsi che la sig. Angelna Fraticelli diede scudi 30 per lavorare il portone principale. Il ferraro era Mattia Agostani il quale
colla sua famiglia faceva tutti i lavori appartenenti alla suddetta fabbrica escluse le serrature delle porte interne ed esterne che furono fatte lavorare dal sig. Antonio
Nuzi di Macerata per il prezzo discretissimo di scudi 4. Lo scalpellino era un certo mastro Piero Pascucci da Cingoli i quale fece tutti i lavori di pietra facendo pagare
due paoli al palmo i gradini degl’altari. […] Si deve notare il zelo e premura di tutta la popolazione anche in affare di lavori donneschi perché le tre tendine di tela
furono fatt gratis in lavoro quella della sagristia dalla sig. Nicola Tochinati le due del coro una della famiglia Grezzi e l’altra della famiglia Sala. Le altre tendine dei
finestroni sopra al cornicione si ebbero gratis da ogni famiglia nobile treiese. Il tendone poi della porta principale si diede a filare le canape a tutte le artigiane gratis e
fu tessuto ancora gratis dalle due sorelle Anna ed Angela Santanatoglia dette Mozzacoda. Giuseppe canonico Meloni.
(ASCT, Memorie sulla fabbrica della chiesa cattedrale ed altri documenti)
Lettera inviata dal card. Grimaldi, Forlì 1838 giugno 1
il dono che io faccio di un semibusto di argento rappresentante il nostro protettore san Patrizio vescovo a cotesta cattedrale intendo che sia un attestato della devozione
mia verso il santo non solo ma una nuova prova del mio attaccamento verace verso di Lei. Iddio si degni di spogliare questa offerta di ciò che può sentire di umano e
cotesto reverendissimo Capitolo preghi per me. Con ossequiosa stima mi ripeto Forlì 1 giugno 1838
Car. Grimaldi
(ASCT, Memorie sulla fabbrica della chiesa cattedrale ed altri documenti)
Cronaca della costruzione della cattedrale del canonico Meloni, 1807 - 1829
Notizie riguardanti la fabbrica della nostra chiesa cattedrale.
Nel mese di giugno 1807 al giorno 11 furono spediti al Porto di Recanti 24 carri per trasportare i legnami comprati da Crispino Valentini per il tetto della chiesa
matrice e collegiata di Treia. La famiglia Tomassoni diede una soma di vino gratis a cavallo per spedirlo coi coloni rispettivi dei carri per riporto al viaggio. I sig. Pietro
Pancioni vicario curato della nostra chiesa si assunse il carico di andare ancor lui in persona per presiedere ad una operazione si grande tanto per avere buoni legnami
e caricarli bene e tutto riuscì felicemente. Per il ritorno poi di tanta gente dal detto viaggio fu fatto preparare il pranzo per 50 persone che erano andate coi birocchi e
in sussidio dei carichi fatti acciò tutto riuscisse bene. Pietro Petrini treiese cucinò nella casa Crescioni più vicina alla chiesa suddetta e dove furono soddisfatti.
15 ottobre 1807 verso l’ora di terza fu terminata la fabbrica della suddetta chiesa in quanto risguarda al solo muratore a rustico e nel dì poi 4dicembre di questo istesso anno si compì il lavoro appartenente al tetto verso un’ora di giorno e col suono delle campane a festa si pubblicò il compimento di un’opera si grande. Giuseppe
canonico Meloni./
325
Adì 12 aprile 1810 fu compito il lavoro a rustico del catino della nostra chiesa. Per formare i centini appartenenti all’armario del suddetto lavoro del catino, giacché è
stato fatto a mattoni vi vollero 230 tavole di bidollo e 120 libre di caviglie e 50 libre di chiodi e 40 bidolli in piedi avuti tutti gratis. Il suddetto armario fu formato dal
capo mastro Patrizio Demattia con somma attenzione e premura. Il primo centino doveva sostenere tutti gli altri fu lavorato nella piazza principale giacche era molto
grande non essendovi luogo capace in altra parte di Treia.
Adì 14 aprile 1810 si stabilì il contratto per pitturare il suddetto catino col sig. Giorgio Panfili di Fermo per il prezzo di scudi 22.
Adì 17 marzo 1811 Il sig. Antonio Saluti di Montolmo predicatore per la quaresima dal suddetto anno in questa città, per questo 17 marzo giorno di domenica e
terza domenica di quaresima ricorrendo la predica delle anime del purgatorio per dar luogo alla gran gente che suole concorrere per suffragare colle elemosine le anime
purganti, volle predicare nella nuova chiesa non essendo capace a contenere tanto popolo la chiesa dei padri filippini dove era trasferita l’ufficiatura e fece di questua
scudi 38. Dopo la predica vi fu l’ultima messa in questa istessa chiesa detta dal Padre abbate d. Sisto Benigni, nostro cittadino, con molta soddisfazione di tutta la
popolazione treiese. Similmente il dì ultimo di Pasqua 14 aprile vi fu la predica in detta chiesa nuova e l’elemosina fu ceduta alla fabbrica di scudi 7,50. La predica fu
in lode di Maria santissima e fu collocata l’immagine di Maria santissima della Misericordia nell’altare maggiore. L’ultima messa fu detta dal sig. curato d. Giuseppe
Pancioni per ordine ed assistenza di mons. Niccolò Grimaldi. Nell’anno 1812 il padre Vassalli ex religioso agostiniano di S. Giusto,/
nel dì 31 marzo ultimo giorno di Pasqua predicò nella nuova chiesa e raccomandò con tanto impegno l’elemosina a vantaggio della fabbrica che fu trovato dodici scudi..
Adì 13 gennaro 1813 furono collocati i banconi nel presbiterio, avuti in dono dal sig. Luigi Angelici di Treia. Raffaele Sparapani e Nicola Bartoloni, falegnami della
nostra chiesa, li collocarono in detto luogo. Adì 19 genaro 1813 fu cominciato lo scialbo della cappella.
Adì 8 marzo 1813 fu incominciato il lavoro delle porte interne della chiesa e delle due cantorie. Le suddette porte in numero di diece a scudi sei l’una fu improntato
scudi 60 per la sola fattura. Cantone in numero di due a dodici scudi l’una , scudi 24 per la sola fattura.
Al primo aprile 1813 fu incominciata l’armatura della volta della cappella di S. Rocco delle due famiglie conti Broglio Massucci e d’Ajano.
1813 maggio i sig. deputati ecclesiastici tanto il sig. conte Broglio Massucci e il canonico Meloni e i fabbricieri sig. Luigi Grimaldi fecero istanza al demanio di Macerata per avere un organo per la loro chiesa matrice, giacché il vecchio organo non era in stato di potersi collocare nella nuova chiesa e luogo preparato. Il demanio
notificò per mezzo di una sua lettera che v’era un organo alla Roccacontrada del monastero di S. Lucia soppresso ma che prima fosse fatto visitare se potersi servire per
la nuova chiesa. Il sig. Lattanzio si trasferì in detto luogo e conobbe che, sebbene era piccolo, pur essendo autore di detto organo Callido Veneziano, lo comprò per il
prezzo di scudi 200./
Adì 17 luglio 1813. Il suddetto sig. Lattanzio si portò alla Roccacontrada per smontar l’organo suddetto e trasportarlo in Treia.
Adì 13 luglio 1813 giunto a Treia l’organo verso mezz’ora di giorno portato da tre carretti due de quali dette il sig. Luigi Angelini gratis, come ancora fu trovato gratis
anche il terzo. Il sig. Luigi Angelini diede anche le vitture gratis per il sig. Lattanzio e l’organaro che doveva venire per ricomporlo, ma attesi vari lavori non potette
venire unitamente con il sig. Lattanzio ma bensì il giorno 3 di agosto di detto anno fu spedito a prendere il sig. Vici organaro, che venne li 4 detto e per li 11 di detto
mese di agosto fu compito il lavoro sul’ora di terza. Ora riesce molto bene ed è buono assai.
Adì 26 maggio 1813 furono poste al loro posto due porte interne. La prima che conduce alla fabbrica sotterranea verso il ss.mo Sacramento, la seconda verso il palazzo
del vescovo. Nei giorni seguenti anche le altre furono collocate nei loro posti. Il primo giugno di detto anno fu posta collo stipite nella sagristia.
Adì 26 giugno di detto anno fu compito il lavoro delle porte. È da rimarcarsi che il nostro torribolo d’argento richiesto dal capitolo della cattedrale di Recanati fu
adoprato dal sommo pontefice Pio VII all’incensazione al ss.mo Sagramento allorquando fece ritorno da Francia in Roma che seguì il dì 16 maggio 1814. Giuseppe
canonico Meloni deputato/
Adì 29 settembre 1819 fu consacrata la nuova chiesa da monsignor Strambi vescovo di Macerata. L’istromento di detta consacrazione rimane in archivio capitolare
entro una cassetta bollata. Si diede in dono al suddetto monsignore una bucia d’argento del valore di scudi 25.
Giuseppe canonico Meloni deputato/
1827 adì 6 agosto fu spiccata la nuova cappella del ss.mo Sacramento lavorata dai capomastri Prenna, treiesi.
Adì 18 giugno 1829 giorno di giovedì, festa del Corpus Domini fu aperta la suddetta nuova cappella del ss.mo Sacramento si legga nel libro intitolato “Libro in cui si
trascrivono i nomi dei padri cappuccini coll’aggiunta di varie notizie” fatto da me canonico Meloni./
Si nota in scritto tutto ciò che si è fatto in uso della chiesa cattedrale dopo l’apertura di essa, che seguì li 3 aprile 1814: prolungazione del presbiterio con gradini laterali
di pietra; trono rispetto a legno e fattura e damasco per ricoprire il trono; due coperte verdi per i banconi sotto le cantorie; strali per l’altare maggiore e trono e vi furono
impiegate pezze due di panno rosso avuto da Matelica; altri strati di panno rosso di minor spesa; altri strati verdi di panno uguale; damaschi con trono per i pilastri
della chiesa; quattro banchi di noce per assistere alla predica in uso ai sopraddetti canonici; Due nuovi stalli nel coro; due paliotti dorati ad oro buono; riattare l’ornato
in Sagristia e pittura; stabilimento della cappella del preziosissimo sangue colla sua finestra e due porte di noce e due altre di legno bianco; stabilimento del corridore
unito a detta cappella con volto e piangito e due nuove finestre e due altre porte e camino; riattamento del volto macchiato dall’acqua della cappella della colonna; due
finestroni nuovi sulla navata di mezzo che guardano Ponente; del battesimo con sua finestra; stabilimento e volta della stanza superiore al battesimo con sua finestra;
ornati ai due quadri dei Pontefici sopra la porta del battesimo e campanile; nuova bandinella e croce collocata sulla torre; riattamento del campanile e torre; riattamento
del quadro di Maria ss.ma Annunziata; pittura dell’altare maggiore; piancito nuovo nel corridore che conduce alla sagristia; scala di pietra per calare nel piano di sotto
o sia sagristia canonicale; stabilimento di altre stanze per uso della sagristia e sue finestre; riattamento di tetto mille volte; una nuova finestra nel coro a tramontana.
Apertura della nuova chiesa Adì 3 aprile 1814. Finalmente dopo una lunga serie di anni si è potuto adempiere al voto generale di tutto il popolo di Treia, di vedere cioè
riaperta la chiesa matrice dell’insigne collegiata, sin oggi cattedrale. Sotto la deputazione ecclesiastica i signori canonici Giuseppe Meloni, e Giovanni conte Broglio
e secolare i signori Francesco Dionisi e Luigi Didimi, la cui nuova edificazione era stata incominciata da anni trenta quattro indietro circa. Altrettanto più gradita è
riuscita la riapertura perché ognuno disperava quasi di vedere il compimento per la deficienza degli assegni necessari; mercé però la pietà di molti benefattori che con
pie ed incessanti largizioni hanno concorso quasi a gara, chi più chi meno, all’occorrente necessaria spesa si è accelerata la ricostruzione e con comune applausi e gioia
universale si è veduto questo tempio magnificamente adornato e con concorso dei limitrofi paesi, non meno che dell’intera popolazione treiese si è trasportato l’augustissimo Sacramento circa le ore 22 italiane, oggi domenica delle palme, preceduto da tutti i sacerdoti in solenne pompa vestiti di pianete ed i canonici con pluviali
con l’intervento dell’autorità pubbliche si amministrati che giudiziali, seguito da immenso popolo in mezzo allo sbarco di mortali, della banda musicale ed esposto alla
pubblica adorazione dove resterà per lo spazio di 40 ore alla vista dei fedeli e al canto dell’inno ambrosiano. Sarebbe qui da notarsi che in mezzo a tanta gioia doveva
vedersi una luttuosa circostanza ed è che la campana più grande nel sonare a festa espolse il martello e per divina provvidenza se non voglia attribuirsi a miracolo cadde
nell’interno del campanile tanto che se fosse caduto al di fuori sarebbe stata la disgrazia di quei individui sopra i quali fosse piombato./ […]
(ASCT, Memorie sulla fabbrica della chiesa cattedrale ed altri documenti)
326
CRONOTASSI DEI VESCOVI DELLA DIOCESI DI
MACERATA - TOLENTINO - RECANATI - CINGOLI - TREIA
Egidio Pietrella
L’intento di questa cronotassi è di ricostruire diacronicamente l’organizzazione ecclesiastica delle diocesi e di compilare, dalle
origini del cristianesimo fino alla situazione attuale, l’elenco dei vescovi succedutisi nel territorio dell’odierna diocesi unificata
(30 settembre 1986), sulla base di fonti storiche, le quali purtroppo per il periodo delle origini del cristianesimo e per l’alto
medioevo sono scarse e incerte. Ci si attiene, comunque, per quanto possibile, alla documentazione esistente negli archivi e agli
studi storici più recenti e attendibili che trattano questa materia. Si premette una sintesi, quasi “chiave di lettura”, utile, si spera,
per comprendere meglio il successivo prospetto sinottico elaborato.
Scomparse nei secoli VI-VII le sedi vescovili esistenti nelle città romane di Tolentino, Urbisaglia, Potenza, Cingoli e, verosimilmente, di Treia, i cristiani di questi territori nell’alto medioevo furono sotto la guida spirituale delle vicine sedi vescovili superstiti: Camerino, Fermo, Numana, Osimo. Con il procedere del tempo, nel Basso Medioevo in questi luoghi furono costituite
nuove sedi vescovili: a Recanati nel 1240 e a Macerata nel 1320; e più avanti furono ristabilite le antiche sedi di Tolentino (1586),
Cingoli (1725), Treia (1816).
In ordine di tempo, la prima sede vescovile ad essere eretta ex novo fu quella di Recanati (22 dicembre 1240), il cui territorio precedentemente era stata sotto la giurisdizione dei vescovi di Numana (e anticamente forse anche di Potenza): la nuova istituzione
avvenne per soppressione della sede di Osimo che parteggiava per l’imperatore Federico II. Ma Recanati a sua volta fu soppressa
e sottoposta nuovamente a Numana (1263-1289) per la stessa ragione di Osimo; riebbe nel 1289 la sede vescovile, ma essa fu
trasferita trenta anni dopo a Macerata (18 novembre 1320) eretta città e diocesi; la riottenne poi nuovamente nel 1357, quando
le due sedi di Recanati e Macerata furono unite aeque principaliter sotto l’autorità di un unico “vescovo di Recanati e Macerata”.
Nel 1516 le due diocesi di Recanati e Macerata furono staccate, anche se la separazione era fondamentalmente nominale, più che
reale, in quanto per il patto del cosiddetto “accesso e regresso” il vescovo di una delle due diocesi, al trasferimento o alla morte
del vescovo dell’altra sede, assumeva il governo anche di questa: ciò durò fino al 1573.
Nel 1586 con la riforma del papa marchigiano Sisto V fu creata la diocesi di Loreto e soppressa quella di Recanati, che la riebbe
nuovamente nel 1592 unita a Loreto ad essa aeque principaliter su cui Recanati ebbe il diritto di precedenza. Tale nuovo ordinamento rimase in vigore fino al 1934, quando Loreto fu divisa nuovamente da Recanati, restando con quest’ultima i Comuni
di Porto Recanati, Castelfidardo, Montecassiano, Montelupone. Alla rinuncia del vescovo Emilio Baroncelli (1968), e dopo la
guida del Vicario Capitolare mons. Alessandro Donini (1968-1970), la diocesi di Recanati ebbe come amministratori apostolici
Ersilio Tonini, vescovo di Macerata e Tolentino (1970-1975) e Vittorio Cecchi vescovo ausiliare di Macerata (1975-76); e come
vescovo residenziale Francesco Tarcisio Carboni dal 1976 al 1986, quando fu emanato il decreto della Congregazione dei Vescovi
sulla “piena unione” delle cinque diocesi autonome (30 settembre 1986).
In conclusione, fino alla “piena unione”, Recanati ha avuto ventidue vescovi (documentati) di Numana, sette vescovi residenziali
propri; venti vescovi di “Recanati e Macerata”; ventiquattro vescovi di “Recanati e Loreto”. In totale settantatre vescovi; in più,
eventualmente, due vescovi attestati dell’antica Potenza, che poterono essere stati alla guida di una parte del suo futuro territorio.
L’organizzazione ecclesiastica di Macerata non fu così varia e complessa. Fino al 1320 il territorio della futura diocesi fu retto, in
parte, dai vescovi di Camerino e in parte, dai vescovi di Fermo. Creata diocesi ed elevata a grado di città il 18 dicembre 1320, essa
ebbe dapprima quattro vescovi residenziali propri (1320-1357); poi diciannove “vescovi di Recanati e Macerata”, sia pure con la
formale e non sostanziale divisione dovuta al cosiddetto patto di “accesso e regresso”(1516-1573); successivamente venticinque
“vescovi di Macerata e Tolentino (1586- 1976), cui seguì ancora un vescovo proprio (mons. Tarcisio Francesco Carboni, 19761986) fino alla “piena unione” delle diocesi. In totale: quarantanove vescovi, da sommare con quelli di Camerino e di Fermo che
guidarono spiritualmente parte del territorio futuro.
Tolentino, dopo i due (?) vescovi dei secoli IV-V, passata sotto la giurisdizione di quarantanove vescovi di Camerino, il 10 dicem-
327
bre 1586 riottenne la diocesi unita aeque principaliter con Macerata ed ebbe venticinque “vescovi di Macerata e Tolentino”, cui
seguì come vescovo proprio mons. Tarcisio Francesco Carboni (1976-1986) fino alla “piena unione” delle diocesi. In complesso
n. 78 vescovi (compresi i primi due delle origini).
Cingoli, dopo il vescovo Giuliano sicuramente esistito nel VI secolo, essendo stato sottoposto il suo territorio ai cinquantadue
vescovi di Osimo dal VII secolo fino al 1725 (salvo rare interruzioni sotto tre vescovi di Recanati, 1240-1250; e, in spiritualibus,
sotto tre priori di S. Esuperanzio, 1250-1264), riottenne la diocesi nel 1725 unita aeque principaliter a quella di Osimo con ventuno “vescovi di Osimo e Cingoli”, cui seguirono mons. Tarcisio Carboni come vescovo proprio (1976-1986) e la “piena unione”
delle diocesi. In totale settantanove vescovi, compreso il vescovo Giuliano del VI secolo.
Treia, probabile sede vescovile (IV-VI secolo), ebbe il suo territorio soggetto alla cura pastorale di sessantacinque vescovi di Camerino (secolo VI-1816); (ri)diventò diocesi nel 1816 sotto l’amministrazione apostolica di Camerino fino al 1913 con sei vescovi;
poi dal 1913 al 1966 sotto l’amministrazione apostolica di S. Severino con quattro vescovi; fu retta infine, da mons. Tarcisio
Carboni come vescovo proprio dal 1976 al 1986, fino alla “piena unione” delle diocesi: totale settantasei vescovi.
Da notare ancora che Cingoli dal 1964 al 1976; Treia dal 1966 al 1976; Recanati dal 1970 al 1976 passarono attraverso un periodo di “transizione” con una serie di amministratori apostolici. Infine il 30 settembre 1986 la Congregazione dei vescovi emanò
il Decreto della “piena unione” delle cinque diocesi precedentemente autonome. Da allora la diocesi “unificata” di Macerata
-Tolentino - Recanati - Cingoli - Treia ha avuto finora tre vescovi: mons. Francesco Tarcisio Carboni (1986-1995); mons. Luigi
Conti (1986-2006); e attualmente, dal 30 marzo 2007 mons. Claudio Giuliodori.
328
CRONOTASSI SINOTTICA DEI VESCOVI DELLE CINQUE DIOCESI UNITE
Cingoli Recanati Potenza Macerata UrbisagliaTolentino
Treia
IV sec.
Territorio
Territorio
Probabile sede
sotto Numana
sotto le diocesi
vescovile fino
e Osimo
di Camerino
al 600 circa;
e Fermo
mancano nomi
di Vescovi
e riferimenti
espliciti
380(?) Probiano
V sec.Territorio
sotto la diocesi
di Camerino
467 – 487
418 – ?
Filippo
Faustino
494 – ?
494 – ?
CostantinoAnonimo
465 – ?
Geronzio
499 – ?
Lampadio
487 – 502
Basilio
VI sec.
parte sotto
Territori sotto la giurisdizione della diocesi
Camerino
di Camerino
parte sotto
Fermo
548 – 549
551 – ?
580 – ?
Giuliano
Romolo
Fabio
553 – ?
598 – ?
QuodvultdeusPassivo
595 – ?
Grazioso
VII sec.Territorio
sotto Osimo
501 – ? Bonifacio
560 – ? Severo
Territorio
sotto Fermo
?
649 – ?
Lacuna
649 – ? Glorioso
LeopardoGermano
di 265 anni
681 – ? Felice
649 – ?
680 – ?
circa
Fortunato
Adriano
Lacuna di 130 anni circa
680 – ?
Giovanni
Interruzione
per circa
un secolo
329
Cingoli
Recanati
Territorio sotto Osimo
Territorio sotto Numana
e Osimo
Macerata
Urbisaglia, Tolentino,
Territorio sotto CamerinoTreia
Territorio sotto Fermo
Territorio sotto Camerino
VIII sec.
743 – ?
Vitaliano
IX sec.
826 – 835 – 853 – 887 – ?
?
?
?
Germano
Leone
Andrea
Pietro I
826 – 853 – 861 – 887 – ?
?
?
?
Cosimo
879 – 887 Edoisio
Sergio
Giuliano
Lacuna di 110 anni circa
Roberto
811 – ?
844 – ?
850 – 868
Arvinus
Fratello
Santo Ansovino
X sec.
?
Attingo
970 – ?
Benedetto
960 – 995 Gaidolfo
996 – ?
Cloroaldo
986 – 1044 Uberto
944 – ?
Eudo
963 – 967 Pietro I
967 – 1027
Romualdo
XI sec.
1022 – 1057 Ghislerio
1038 – ?
Giovanni
1066 – 1096 Lotario
1044 – ?
Guido
1051 – 1069 Guglielmo
Interruzione
1056 – 1057
1057 – 1074
1074 – 1075
1076 – 1079
1083 – 1089
1089 – 1119
Ermanno
Ulderico
Pietro I
Gualfarango
Ugo di Candido
Azzone
1029 – ?
Azo
1049 – ?
Atto I
1058 – 1094 Ugo I
1122 – ?
1126 – 1127
1128 – 1145
1145 – 1167
1174 – 1178
1179 – 1183
1184 – 1202
Grimoaldo
Alessandro II
Liberto
Bolognano
Alberico
Pietro II
Presbitero
1103 – 1119
1122 – 1135
1135 – 1146
1146 – 1166
1171 – 1186
1192 – 1223
XII sec.
1118 – ?
Guarniero
1126 – 1146 Ugo
1151 – 1157 Grimaldo
1179 – 1197 Giordano
1157 – 1205 Gentile
1199 – 1235 Sanguineo
Lorenzo
Terramondo
Ugo II
Todino
Accettabile
Atto II
330
Cingoli
Recanati
Territorio sotto Osimo
Territorio sotto Numana
e Osimo
Macerata
Urbisaglia, Tolentino,
Territorio sotto CamerinoTreia
Territorio sotto Fermo
Territorio sotto Camerino
XIII sec.
1208 – ?
Lotario
1235 – 1240 Jacopo
1205 – 1213
1211 – ?
Anonimo
1214 – 1216
1218 – 1239 baldo
1216 – 1223
1223 – 1227
1240 – 1264
1240 – 1264 1229 – 1250
Osimo aggregata
Recanati sede vescovile
a Recanati
e diocesi
1250 – 1272
1240 – 1244 Rinaldo
1272 – 1300
1244 – 1249 Pietro
1249 – 1250 Matteo
1250 – 1264 3 Priori di
s.Esuperanzio in Spiritualibus
1264 Osimo sede vescovile
1264 – 1282 Benvenuto
Scotivoli
1283 – 1288 Berardo Berardi
1289 – 1292 Monaldo
1295 – 1320 Uguccione di
Giovanni
Atenolfo
1124 – 1226
Ugo II
1226 – 1230
Pietro III
1230 – 1246
Rinaldo
1247 – 1251
Filippo di
1251 – 1259
Monte dell’Olmo 1259 – 1274
Gerardo
1275 – 1306
Filippo III
Rinaldo
Pietro II
Filippo
Giovanni
Guglielmo
Guido
Rambotto
Vicomanni
1263 – 1289 Recanati
sottoposta a Numana
1254 – 1267 fra Arnolfo
1280 – 1285 Bernardo
1285 – ?
fra Gerardino
1289 Recanati ritorna
sede vescovile
1289 – 1300 Salvo
XIV sec.
1320 – ?
Berardo di
1300 – 1320 Federico
1301 – 1315 Alberico Visconti
Uguccione
1318 – 1325 Francesco da
1326 – 1342 Sinibaldo II
Mogliano
O.F.M.
1342 – 1347 Alberto Bosoni 1320 Sede vescovile
1320 Macerata sede
O.P.
trasferita a Macerata
vescovile e diocesi
1347 – 1356 Luca Mannelli
1320 – 1323 Federico
O.P.
1323 – ?
Beato Pietro
1356 – 1381 Pietro II
Mulucci
1381 – ?
Pietro III
1342 – 1348 Guido da Riparia
1382 – 1400 Giovanni
1357 – 1369 Diocesi
1349 – 1369 Nicolò da
Rousselli O.P.
restituita con Nicolò S. Martino
da S. Martino Vescovo
di Recanati e Macerata
Recanati e Macerata
1369 – 1374 Oliviero da Verona
1374 – 1383 Bartolomeo Zambrosi
1383 – 1412 Angelo Cino da Bevagna
1307 – 1310 Andrea
1310 – 1327 Berardo Varano
1328 – 1355 Francesco Monaldi
1355 – 1360
Gioioso Chiavelli
1360 – 1374 Marco Ardinghelli
1374 – 1387 Benedetto Chiavelli
1390 – 1407 Nuzio Salimbeni
331
Cingoli
Recanati e Macerata
XV sec.
Territorio sotto Osimo
Urbisaglia, Tolentino,
Treia
Territorio sotto Camerino
1400 – 1419 Giovanni
1415 – 1417 Angelo Correr, card. (Papa Gregorio XII)
1407 – 1432 Giovanni
Grimaldeschi
1417 – 1429 Marino di Tocco
1432 – 1437 Pandolfo Conradi
1419 – 1422 Pietro IV Laio
1429 – 1429 Benedetto Guidalotti
1437 – 1445 Alberto
O.F.M.
1431 – 1435 Giovanni Vitelleschi
degli Alberti
1422 – 1434 Nicola Bianchi
1435 – 1440 Tomaso Tomassini
1445 – 1449 Battista Enrici
O.S.B.
1440 – 1469 Nicolò dall’Aste
1449 – 1460 Malatesta Cattani
1434 – 1454 Andrea
1471 – 1476 Andrea de’Pili
1460 – 1463 Alessandro Oliva
da Montecchio 1477 – 1507 Girolamo Basso della Rovere
1463 – 1464 Agapito Rustici
1454 – 1460 Giovanni
1464 – 1478 Andrea Veroli
De Prefectis
1478 – 1479
Raffaele Riario
1460 – 1474 Gaspare Zacchi
1479 – 1481 Silvestro de Labro
O.S.B.
1482 – 1508
Fabrizio Varano
1474 – 1484 Luca Carducci
1484 – 1498 Paride Ghirardelli
1498 – 1515 Antonio Ugolini
Sinibaldi
XVI sec.
RecanatiMacerata
Accesso - Regresso
con Macerata
Accesso - Regresso
con Recanati
1515 – 1547 Giovan Battista 1507 – 1516 Teseo de Cuppis 1507 – 1519 Teseo de Cuppis 1508 – 1509 Francesco
Sinibaldi
1516 – 1520 Luigi Tasso
1519 – 1520 Luigi Tasso
della Rovere
1547 – 1551 Cipriano Senili
1520 – 1548 Giovanni
1520 – 1535 Giovanni
1509 – 1535 Antongiacomo
1551 – 1574
BernardinoDomenicoDomenicoBongiovanni
de Cuppis
de Cuppis
de Cuppis
1535 – 1537 Giandomenico
1574 – 1588 Cornelio
1548 – 1552 Paolo de Cuppis 1535 – 1546 Giovanni Leclerc
de Cuppis
Fermani
1553 – 1553 Giovanni
1546 – 1553 Filippo
1537 – 1574 Berardo
1588 – 1591
TeodosioDomenicoRiccabellaBongiovanni
Fiorenzi
de Cuppis
1553 – 1573 Gerolamo
1574 – 1580 Alfonso Binarini
1591 – 1620 Antonio M.
1553 – 1571 Filippo
Melchiorri
Gallo card.
Riccabella
1573 – 1586 Galeazzo Morone
1571 – 1573 Gerolamo
Melchiorri
1573 – 1586 Galeazzo
Morone
332
XVI sec.
Cingoli
Territorio sotto Osimo
Recanati
Macerata e Tolentino
1586 – Territori e Diocesi interessate dalla riforma di Sisto V
Treia
Territorio sotto Camerino
1586
Loreto costituita diocesi,
Recanati soppressa
1586 – ?
Francesco
Cantucci
(vescovo di
Loreto)
1586 – 1592 Rutilio Benzoni
(vescovo di
Loreto)
1586
1580 – 1596 Girolamo Vitale
Tolentino città e diocesi
De’ Buoi
unita aeque principaliter
1596 – 1601 Gentile Delfini
a Macerata con unico
vescovo, giurisdizione
su Colmurano
1586 – 1613 Galeazzo Morone
1588
Macerata ottiene Pollenza e
Urbisaglia già di Camerino
XVII sec. 1592
Recanati riottiene la diocesi
con diritto di precedenza
su Loreto
1592 – 1613 Rutilio Benzoni
Recanati e Loreto
1620 – 1639 Agostino
1613 – 1620 Agostino
1613 – 1641 Felice Centini,
1601 – 1606 Innocenzo Del
Galamini O.P.,Galamini O.P.,card.Bufalo Cancellieri
card.
card.
1642 – 1656 Papirio Silvestri 1606 – 1622 Giovanni
1642 – 1652 Girolamo Verospi, 1621 – 1634 Roma Giulio,
1659 – 1684 Francesco Cini
Giovannini
card.card. 1685 – 1698
FabrizioSeverini
1652 – 1655 Lodovico Betti
1634 – 1661 Amico Panici
Paolucci
1622 – 1623 Cesare Gherardi
1656 – 1691 Antonio Bichi,
1666 – 1675 Giacinto
1698 – 1734 Alessandro
1624 – 1627 Giovanni Battista
card. di PrenesteCordellaVaranoAltieri
1691 – 1700 Opizzo
1676 – 1682 Alessandro
1627 – 1666 Emilio Altieri
Pallavicini, card.Crescenzi(papa Clemente X)
1682 – 1689 Guarniero
1666 – 1697 Giacomo Franzoni
Guarnieri
1697 – 1702
Francesco Giusti
1690 – 1692 Raimondo
Ferretti
1693 – 1727 Lorenzo
Gherardi
333
Cingoli
Recanati e Loreto
Macerata e Tolentino
XVIII sec. Territorio sotto Osimo
Treia
Territorio sotto Camerino
1702 – 1712 Michele Conti,
1727 – 1728 Benedetto Bussi 1735 – 1756 Ignazio Stelluti
1702 – 1719 Bernardino
card. (papa
1728 – 1746 Vincenzo
1756 – 1777 Carlo Augusto
Bellucci
Innocenzo XIII)Antonio MariaPeruzzini
1719 – 1736
Cosma Torelli
1714 – 1724 Orazio Filippo
Muscettola
1777 – 1796 Domenico
1736 – 1746 Ippolito Rossi
Spada
1746 – 1749 Giovan Battista
Spinucci
1746 – 1768 Francesco Vivani
1724 – 1725 Agostinio Pipia,
Campagnoli
1796 – 1800 Alessandro
1769 – 1795 Luigi Amici
O.P. card.
1749 – 1767 Giovan Antonio
Alessandretti
1796 – 1816 Angelico
BacchettoniBenincasa
1725
1767 – 1787 Ciriaco
Cingoli ritorna diocesi,
Vecchioni
unita a Osimo
1787 – 1796 Domenico
1725 – 1727 Agostino Pipia
Spinucci, vescovo
1728 – 1729 Pietro Radicati
di Macerata,
1729 – 1734 Ferdinando A.
Vicario
Bernabei, O.P.Apostolico
1734 – 1740 Giacomo
Lanfredini, card. 1796 – 1800 sede vacante
1740 – 1774 Pompeo
per invasione francese
Compagnoni
1776 – 1807 Guido Calcagnini,
card.
XIX sec.
1808 – 1815 Giovanni
1800 – 1806 Felice Paoli
1801 – 1823 San Vincenzo
1816
Castiglioni, card. 1806 – 1831 Stefano Bellini
Maria Strambi
Treia (ri)diventa diocesi,
1815 – 1822 Carlo Andrea
1831 – 1846 Alessandro
1824 – 1846 Francesco
amministrazione apostolica
Pelagallo, card.BernettiAnsaldo Teloni
di Camerino
1823 – 1824 Ercole Dandini, 1846 – 1855 Gian Francesco 1846 – 1851 Luigi Clementi
1816 – 1842 Nicola Mattei
card.
Colonna
1851 – 1864 Amadio Zangari 1842 – 1845 Gaetano Baluffi
1824 – 1827 Gregorio Zelli,
1855 – 1861 Gian Francesco 1867 – 1881 Gaetano
1845 – 1847 Stanislao Vincenzo
O.S.B.MagnaniFranceschiniTomba
1827 – 1828 Timoteo M.
1867 – 1897 Tommaso
1881 – 1888 Sebastiano
1847 – 1893 Felicissimo Salvini
Ascenzi,GallucciGaleati
1894 – 1908
Celestino
O. Carm.
1898 – 1903 Guglielmo
1888 – 1895 Roberto Papiri
Del Frate
1828 – 1838 Giovanni A.
Giustini
1895 – 1902 Giambattista
Benvenuti, card.Ricci
1829 – 1856 Giovanni Soglia
Ceroni, card.
1856 – 1861 Giovanni
Brunelli, card.
1863 – 1871 Salvatore Nobili
Vitelleschi
1781 – 1888 Michele Seri
Molini
1888 – 1893 Egidio Mauri,
O.P.
1894 – 1916 Giovan Battista
Scotti
334
XX sec.
Cingoli
Recanati e Loreto
Macerata e Tolentino
Osimo e Cingoli
Treia
Diocesi amm. di Camerino
1917 – 1924 Pacifico Fiorani 1903 – 1911 Vittorio Amedeo 1902 – 1916 Raniero Sarnari 1909 – 1913 Pietro Paolo
1927 – 1944 Monalduzio
Ranuzzi
1916 – 1919 Romolo Molaroni
Moreschini
Leopardi
1911 – 1923 Alfonso Maria
1919 – 1919 Augusto Curi,
1945 – 1964 Domenico Brizi
Andreoli
amministratore
1913 – 1966
1923 – 1924 Monalduzio
apostolico
Treia Amministrazione
Leopardi,
1919 – 1923 Domenico Pasi Apostolica di San Severino
amministratore
1924 – 1934 Luigi Ferretti
1913 – 1926 Adamo Borghini
apostolico
1935 – 1947 Domenico
1927 – 1930 Vincenzo
1924 – 1934
Aluigi CossioArgnaniMigliorelli
1948 – 1968 Silvio Cassulo
1932 – 1934 Pietro Tagliapietra
1934 –1986
1968 – 1969 Aurelio
1934 – 1966 Ferdinando
Recanati diocesi senza Loreto
Sabattani,
Longinotti
1934 – 1955 A. Cossio
amministratore
1956 – 1968 Emilio Baroncelli
apostolico
1969 – 1975 Ersilio Tonini
1975 – 1976 Vittorio Cecchi,
amministratore
apostolico
Amministratori Apostolici (fino al 1976)
Cingoli
Recanati
1964 – 1968 Silvio Cassulo*
1970 – 1975 Ersilio Tonini*
1968 – 1969 Aurelio
1975 – 1976 Vittorio Cecchi***
Sabattani**
1969 – 1975 Ersilio Tonini*
1975 – 1976 Vittorio Cecchi***
Amministratori Apostolici (fino al 1976)
Treia
1964 – 1968
1968 – 1969
1969 – 1975
1975 – 1976
Silvio Cassulo*
Aurelio Sabattani**
Ersilio Tonini*
Vittorio Cecchi***
Vescovo unico per le cinque Diocesi autonome di Macerata, Tolentino, Recanati, Cingoli, Treia
1976 – 1986 Francesco Tarcisio Carboni
30 settembre 1986 – Unificazione delle cinque Diocesi di Macerata – Tolentino – Recanati – Cingoli – Treia
1986 – 1995 Francesco Tarcisio Carboni
1996 – 2006 Luigi Conti
2007 –
Claudio Giuliodori
* vescovo di Macerata e Tolentino ** vescovo di Loreto
*** amm. apostolico di Macerata e Tolentino
335
BIBLIOGRAFIA
ABBREVIAZIONI
OPERE A STAMPA
ACSSM per Archivio Confraternita
SS. Sacramento Macerata
AGTr per Accademia Georgica Treia
AMCPP per Archivio Marefoschi
Compagnoni Potenza Picena
ANM per Archivio Notarile Macerata
ANR per Archivio Notarile Recanati
APCM per Archivio Parrocchiale
Cattedrale Macerata
APCT per Archivio Parrocchiale
Cattedrale Tolentino
ASDR per Archivio Storico
Diocesano Recanati
ASDTr per Archivio Storico
Diocesano Treia
ASDC per Archivio Storico
Diocesano Cingoli
ASDT per Archivio Storico
Diocesano Tolentino
ASCCM per Archivio Storico
del Capitolo Cattedrale Macerata
ASCCR per Archivio Storico
del Capitolo Cattedrale Recanati
ASCCTr per Archivio Storico
del Capitolo Cattedrale Treia
ASCCC per Archivio Storico
del Capitolo Cattedrale Cingoli
ASCCT per Archivio Storico
del Capitolo Cattedrale Tolentino
APM per Archivio Priorale Macerata
ACSNT per Archivio Storico del
convento di S. Nicola Tolentino
ASCT per Archivio Storico
del Comune Tolentino
ASCC per Archivio Storico
del Comune Cingoli
ASCTr per Archivio Storico
del Comune Treia
ASCR per Archivio Storico
del Comune Recanati
BCM per Biblioteca Comunale Macerata
BCPJ per Biblioteca Comunale
Planettiana Jesi
BCR per Biblioteca Comunale Recanati
IDSCMc per Istituto Diocesano
Sostentamento Clero Macerata
Acquaticci 1890
N. Acquaticci, Il mio paese, compendio della
storia di Treja. Parte prima. Treia Antica,
Tolentino 1890 Acquaticci 1897
N. Acquaticci, Carità e beneficienza,
Macerata 1897
Acquaticci 1905
N. Acquaticci, Religione ed arte: Treia,
24 settembre 1905, Treia 1905
Alcuni Antenati 1890
Alcuni antenati di Monaldo Leopardi, illustri
per cristiana pietà, Città di Castello 1890
Aleandri 1905
V. Aleandri, Documenti per la storia dell’arte
nelle Marche (sec. XV), in “Rassegna
bibliografica dell’Arte italiana”, n. 8-10,
1905, pp. 150-152
Alfei, Gozzoli 2007
P. G. Alfei, F. Gozzoli, Quattro passi alla
scoperta di Cingoli. Il “Balcone delle Marche”.
Guida alle bellezze architettoniche, storicheartistiche e naturali, Cingoli 2007
Andrea Sacchi 2000
Andrea Sacchi (1599-1661), catalogo della
mostra (Nettuno 1999-2000) a cura di R.
Barbiellini Amidei, L. Carloni, C. Tempesta,
Roma 2000
Andrea Vici Architetto 2009
Andrea Vici. Architetto e ingegnere idraulico.
Atlante delle opere, a cura di M. L. Polichetti,
Cinisello Balsamo 2009
Angelita 1601
G. F. Angelita, Origine della città di Ricanati
e la sua historia e discretione, Venezia 1601
(ed. anast. Sala Bolognese 1981)
Annuario interdiocesano 1973
Annuario interdiocesano della Diocesi di
Macerata, Macerata 1973
Annuario diocesano 1985
Annuario diocesano della Diocesi di
Macerata, Macerat
Scarica

LE CATTEDRALI - Il turismo culturale in provincia di Macerata