1
VENTENNALE DELLA SOCIETA’ TARQUINIENSE D’ARTE E STORIA
Quando nel febbraio del 1917, il prof. Giuseppe Cultrera, direttore del Museo
Nazionale Tarquiniese, insieme ad un ristretto gruppo di cittadini, tra i quali l’avv. Latino
Latini, fondò la “Società Tarquiniense d’Arte e Storia”, certamente non pensava che la vita
di questo sodalizio sarebbe stata così duratura (anche se agitata) e la sua azione così
meritoria nei confronti della sua città.
Era un momento un po' critico, l’Italia era in guerra, ed alcuni obiettarono
sull’opportunità di fondare una associazione culturale in quei frangenti, ma il prof.
Cultrera, nella “famosa” adunanza nella Sala Gialla del Comune (11 febbraio 1917), mise a
tacere tutti dicendo:
<<Se a qualcuno sarà sembrato poco opportuno il momento scelto, il Comitato
provvisorio non è stato di questo avviso.
Non ci è infatti niente di opportuno in tutto ciò che si fa per mantenere nei limiti del
possibile regolare il ritmo della vita civile della Nazione anche in tempo di guerra.
Certo, oggi come oggi, a nessuno verrebbe in testa di promuovere opere che
richiedessero delle forti spese. Ma non è male che sin da ora si cominci a ventilare delle
idee che a poco a poco si andranno selezionando e maturando, perché siano pronte ad
essere tradotte in atto al momento opportuno.
D’altra parte non si deve perdere di vista che ai sodalizi del genere di quello che ora
sta per essere fondato, spetta sempre di svolgere una duplice azione: una positiva intesa a
suscitare idee e iniziative, e un’altra che si suole dire negativa quando tende ad impedire
l’esecuzione di cattivi progetti, ma che nel campo attuale è meglio chiamare correttiva, in
quanto intesa a fornire opportuni suggerimenti perché in determinate opere o allo stato di
progetto o in via di esecuzione, si tenga conto di circostanze che possono essere per
avventura sfuggite ai primi ideatori.
E per lo svolgimento di questa seconda specie di azione, le occasioni potrebbero
presentarsi anche durante la guerra>>.
Il nome dato all’associazione, prima della fondazione ufficiale, fu quello di “Amici
dei Monumenti” e già in esso c’era l’indicazione di quello che ne sarebbe stato il
programma.
E’ stata la prima iniziativa di questo genere nel nostro centro? No, se vogliamo però
trovarle un’antenata, occorre risalire nel tempo, al 1874 quando nella nostra città agiva una
1
2
“Associazione Archeologica Cornetana”, che, come lascia ben capire il nome stesso, avrà
rivolto la sua attenzione particolarmente al patrimonio artistico del periodo etrusco.
All’atto pratico, come avrebbe espletato la sua attività la neonata Società
Tarquniense d’Arte e Storia? In vari modi:
<<1) compiendo opera di vigorosa propaganda acciocché nell’animo dei privati
cittadini che siano proprietari di cose aventi importanza artistica o storica, e in ispecie di
stabili a carattere monumentale, sempre più si infonda la persuasione che il religioso
rispetto per tutte le reliquie che fanno testimonianza di un glorioso passato e della nobiltà
della stirpe, è un altissimo dovere di civismo, il cui adempimento torna ad onore e lustro
dei proprietari medesimi oltre che dell’intera cittadinanza e della Patria;
2) promuovendo di concerto con le competenti autorità governative e comunali,
lavori di consolidamento e di restauro di monumenti antichi o di liberazione degli stessi da
superfetazioni moderne che li deturpano.
3) propugnando una accurata manutenzione delle vie e delle piazze cittadine,
specialmente nelle zone di pretto carattere monumentale, per modo che tutte le adiacenze
degli edifici meritevoli di essere tenuti in evidenza, presentino un aspetto il più possibile
decoroso;
4) invigilando a che la futura attività edilizia della Città, tanto in eventuali
rimaneggiamenti interni, come negli ampliamenti alla periferia, si svolga il più che è
possibile in armonia con le belle caratteristiche della tradizionale architettura locale;
5) cooperando a facilitare l’opera della competente autorità governativa, qualora
questa venga nella determinazione di prendere o di sollecitare provvedimenti intesi a
meglio assicurare la conservazione delle tombe etrusche e a sistemare in modo razionale le
vie di accesso;
6) incoraggiando ogni iniziativa che miri a maggiormente richiamare l’attenzione
degli studiosi e dei viaggiatori sui monumenti e sulle raccolte archeologiche e artistiche
della Città e a promuovervi un sempre maggior concorso di visitatori”.
Sin dall’inizio molto fu l’interesse che suscitò sia tra i cittadini che tra gli Enti privati
e pubblici, e la sua azione non tardò a farsi sentire.
Una delle prime iniziative fu quella relativa al restauro dell’interno di San Pancrazio,
monumento che ha visto più volte, nel corso dei 74 anni di vita della Società, la STAS
impegnata a recuperarne la primitiva bellezza architettonica, sino ad arrivare alla
situazione odierna che lo vede ospitare il più importante e suggestivo Auditorium della
città (speriamo che presto possa essere riaperto e possa quindi riprendere la sua funzione
2
3
di centro culturale cittadino). Poi fu compilato l’elenco degli edifici monumentali della
città, si iniziò una cooperazione con la Direzione del Museo per la raccolta nel Museo
stesso degli antichi stemmi gentilizi, allora esistenti in Corneto, si curò il restauro del
Portico di Fontana Nuova, venne proposta la riapertura al pubblico del piazzale contiguo
alla Chiesa di Santa Maria in Castello ecc. ecc.
In occasione delle manifestazioni per il centenario dantesco (verbale 8 settembre
1921), fu dato un contributo di 500 lire.
Benché il suo inizio sia stato così promettente, nel corso degli anni ci saranno delle
crisi; ci saranno dei periodi in cui sembrerà cessare ogni attività ma, come l’Araba fenice,
riuscirà sempre a risorgere dalle sue ceneri più ricca che mai di entusiasmo e di idee per
proteggere e promuovere iniziative a favore del patrimonio artistico e culturale di
Tarquinia.
La prima crisi è del 1923.
Nel 1930 il prof. Cultrera tentò di far riprendere le attività al sodalizio ma
inutilmente.
Era quindi conclusa la sua vita? No.
Nell’aprile del 1935, nella “Sala degli Eroi” del Palazzo Municipale, la Società viene
rifondata, mantenendo sempre le stesse finalità.
Tra i suoi animatori, oltre all’avv. Latini, il marchese G.B. Sacchetti, il prof.
Romanelli.
Intorno ad essa rinasce interesse e curiosità.
Questa testimonianza indiretta ci fa capire come fosse importante fanne parte. Nel
verbale del 9 maggio 1935, si legge quanto segue:.... “Per quanto riguarda le categorie dei
soci, il consigliere Latini ha presentato la proposta di qualche operaio che, trovandosi nella
quasi impossibilità di sborsare le quote, ha offerto una giornata di lavoro a pagamento
delle dodici rate annuali (si doveva pagare la somma di 12 lire annuali, in dodici rate da 1
lira l’una)”.
Nel 1935 fu vicina al prof. Romanelli (nuovo direttore del Museo), per promuovere
gli scavi della “Civita”. Saranno scavi importanti, infatti, oltre a tratti delle mura della città
etrusca e al basamento di un grande tempio, saranno ritrovati anche i “Cavalli Alati” di
terracotta, diventati poi, dopo un accurato restauro, il simbolo di Tarquinia.
Con grande emozione il prof. Romanelli comunicò ai consiglieri della STAS quanto
si andava trovando nella campagna di scavo, (verbale del 10 dicembre 1935).
3
4
Nel 1952 si ha, forse, il momento più critico per la società che dal 1940/41 di fatto
non esiste più: il trapasso del materiale amministrativo e del fondo cassa alla Pro
Tarquinia <<la più diretta erede per le finalità che si propone>>.
Da questa brutta situazione si risollevò solo nel 1971, quando alcuni vecchi soci
ridettero nuovamente vita all’associazione. Tra questi oltre a Rolando Brunori e mons.
Luigi Di Lazzari, anche il cardinale Sergio Guerri che ne diventerà e resterà Presidente fino
al 1990.
Da quell’anno l’attività della S.T.A.S. è andata sempre crescendo.
Il 3 agosto 1973, con decreto del Presidente della Repubblica n.21493 viene
riconosciuta come “Ente Morale”, riconoscimento che la pone in una particolare posizione
tra le Associazioni di Storia Patria dell’Alto Lazio; fa parte poi del <<Comitato per le
Attività Archeologiche nella Tuscia>> ed è iscritta tra le Società culturali e di Storia Patria
riconosciute dal Ministero dei Beni Culturali. Proprio in questo ultimo anno è stata anche
inserita nell’elenco delle Associazioni Culturali più meritorie della Regione Lazio.
Si può dire che in ogni angolo di Tarquinia si nota l’azione di questo sodalizio il
quale tiene sempre presenti gli scopi statutari: proteggere i monumenti e promuovere idee
ed iniziative per il mantenimento del patrimonio artistico e culturale e la conoscenza della
storia cittadina.
Tra le sue opere più importanti si possono ricordare: il restauro del complesso
architettonico in cui ha la sua sede, che comprende antiche costruzioni medievali e una
parte del Palazzo dei Priori, il restauro del già citato San Pancrazio con la valorizzazione
dell’Auditorium, quello della Chiesa di Santa Maria di Castello (uno dei monumenti più
insigni di Tarquinia che, grazie alla STAS, ha ritrovato la dignità che le era propria in
origine), quello di Porta Nuova, opera del 1580 e delle aree annesse, quello della “Torre di
“Dante” e dell’antica Porta Maddalena, e quello di alcuni quadri nella Chiesa di S. Maria di
Valverde (i “Misteri del Rosario”) e dell’Addolorata, nonché il ritrovamento e relativo
restauro delle Statue del Presepio Settecentesco del Suffragio ecc. ecc.
La S.T.A.S. però ha dato il suo contributo anche nel campo editoriale, infatti,
continuando la raccolta <<Fonti di Storia Cornetana>> iniziata dal prof. Francesco Guerri
con il suo <<Registrum Cleri Cornetani>> e con gli <<Statuti degli Ortolani>>, ha
stampato <<Corneto com’era>> di M. Corteselli e A. Pardi, <<Le Croniche di Corneto>>
di Mutio Polidori (da un manoscritto del XVII sec.), gli <<Statuti della Città di Corneto del
1545>>, ed ogni anno presenta il <<Bollettino>>, diventato un punto di riferimento per
approfondire e conoscere avvenimenti e personaggi inerenti alla storia antica, medievale e
moderna di Tarquinia.
4
5
E’ anche grazie alla sua azione se negli ultimi anni è rinato l’amore per il patrimonio
artistico, culturale e paesaggistico.
Presente e vigile è stata anche nel sorvegliare i restauri in corso nella nostra città, ed
è intervenuta con decisione se non rispondenti al rispetto dell’antico (vedi restauro del
Prospetto principale del Palazzo Comunale).
Estremamente importante la sua opera di recupero e conservazione di alcuni
archivi, quali quello Falzacappa, quello Bruschi-Falgari e quello Quaglia che, altrimenti,
sarebbero andati perduti. Molti sono gli studiosi che vengono a consultare queste antiche
carte che, unitamente a quelle dell’Archivio Storico Comunale, sono preziose
testimonianze di avvenimenti e personaggi del passato oltre che della società dei secoli che
ci hanno preceduto.
Il 1991, che ha visto per iniziativa della STAS, nel mese di ottobre le Celebrazioni in
onore di Giovanni Battista Marzi, si è concluso con la solenne celebrazione religiosa,
celebrata dal Vescovo, mons. Girolamo Grillo, per festeggiare la conclusione della prima
parte dei restauri dei mosaici cosmateschi di Santa Maria in Castello, restauro che ha dato
la possibilità di riportare in piena luce i magnifici colori che gli antichi maestri marmorari
romani avevano profuso per evidenziare gli eleganti motivi geometrici del pavimento
musivo. E’ stato ripulito anche l’altare ed il fonte battesimale ad immersione. In questa sua
ultima fatica la S.T.A.S. è stata affiancata dal locale Lions Club, dall’Associazione Pro
Tarquinia, dal Centro Studi Cardarelliano e da benemeriti cittadini. Di questo restauro,
come del Convegno su Marzi, si parla diffusamente in altra parte del Bollettino. Qui ci
limiteremo a dire che vedere rifiorire quest’opera d’arte è per tutti i soci della Stas motivo
di orgoglio e sprone per cercare di fare sempre meglio e sempre di più per questa Chiesa
che da sola già nobiliterebbe artisticamente Tarquinia.
Ancora sono molti i lavori che devono essere affrontati con spese niente affatto
indifferenti, ma la Società confida che altri enti e associazioni tarquiniesi, che hanno a
cuore i monumenti del passato di cui la nostra città è ricca, le staranno vicino per aiutarla a
raggiungere questo suo intento. E’ di questi giorni poi la notizia che il Comune ha affidato
alla STAS il restauro della Fontana di Piazza e questo è quanto farà la Società nel prossimo
futuro.
In questo ultimissimo periodo poi, nel suo interno, ad opera di soci desiderosi di
fare qualcosa in prima persona, con il proprio contributo manuale, è nato il Gruppo
Operativo, il quale sta portando a termine la ripulitura dell’andito d’armi della Torre di
Dante, durante i weekend.
5
6
La presenza della Società nella vita cittadina è quindi sempre molto attiva ed
indirizzata ad incentivare anche iniziative di altri enti e gruppi culturali. E’ sempre
coerente perciò nel suo modo di agire a quelle che sono le finalità che nel lontano 1917 il
prof. Cultrera presentava nella “Sala gialla” del Palazzo Municipale ad un ristretto numero
di ascoltatori.
Sono stati anni molto densi di attività questi venti anni che sono intercorsi dalla sua
rifondazione e ritengo che l’auspicio migliore che si possa farle, sia quello di trovare
sempre tra i suoi soci, persone pronte ad impegnarsi per proseguire nella strada tracciata
da coloro che hanno fatto di lei un sodalizio così importante per la cultura cittadina.
Lilia Grazia Tiberi
ENEA SILVIO PICCOLOMINI
E UN MONUMENTO DEL QUATTROCENTO
6
7
CORNETANO
L’Estate di Emilio Greco si protende dal margine della strada. Da alcuni mesi
richiama lo sguardo dei passanti: del cittadino forse non ancora del tutto abituato
all’incombere delle sue forme e, più ancora, del turista che segua i contorni del Palazzo
Vitelleschi. Certamente contende al pozzo del Palazzo del Magistrato la centralità
materialmente occupata da oltre mezzo secolo all’interno della risega che separa la mole
quattrocentesca dagli edifici allineati lungo il Corso Vittorio Emanuele.
E la difficoltà a ricomporre unitariamente quello spazio, che provoca un
allontanamento, quasi una ulteriore rimozione del monumento antico, è avvertita ancora
più profondamente da chi si sia avvicinato ed abbia letto, nel riquadro più interno della
vera ottagonale, il monito solenne: OPUS IN PERPETUAM MEMORIAM. I nomi dei
magistrati e le figure dei quattro protettori di Corneto hanno perduto quasi per intero la
nettezza originaria e la lunga esposizione alle intemperie, forse accentuatasi dopo la
rimozione dal piccolo cortile del Palazzo Comunale, ha esalto la scabrosità del nenfro, la
sua naturale opacità che si oppone ai morbidi chiaroscuri dell’opera moderna.
Ma ancora ben si stagliano, allineati sui bracci della croce sovrastata dal triregno e
dalle chiavi di Pietro, le cinque lune crescenti dei Piccolomini così come, a sinistra
dell’iscrizione, nitidamente si allargano sui bracci di un’altra croce latina i rami del
corniolo e, nel riquadro rivolto verso la strada, i due torelli dei Vitelleschi continuano ad
affrontarsi fieramente sotto i sei gigli fiorentini.
Questi tre stemmi, che richiamano rapporti e presenze tanto lontane nella storia
della nostra città, la perentorietà della iscrizione, che data l’opera al 10 agosto 1459, mi
hanno spinto a tentare il recupero della perpetua memoria per cui venne posto l’austero
monumento 1) .
Il 21 gennaio di quell’anno, prima ancora che il sole si levasse, aveva attraversato le
Terme di Diocleziano ed era sceso fino alla porta del Popolo e a ponte Milvio. Lo
1)
La proposta di restaurare e collocare il pozzo “al di sopra di un gradino di travertino, entro una breve area sistemata a
giardino poco a destra di chi guardi il prospetto monumentale del palazzo Vitelleschi”, avanzata dal Soprintendente S.
Aurigemma, venne accolta dal Podestà di Tarquinia nell’ottobre del 1940. Nell’Archivio Storico Comunale si
conservano due lettere dell’Aurigemma che ci informano dettagliatamente della vicenda. Nell’anno seguente,
l’Aurigemma ha anche dedicato al monumento un articolo pubblicato dal Giornale d’Italia del 27 maggio, poi ampliato
e replicato in “Le Arti” V, 1943, fasc. VI, pp. 250-255, che sottolinea l’originalità del puteale e ne fornisce una
completa descrizione. Ecco il testo dell’epigrafe: OPUS IN PERPETUAM MEMORIAM TEMPORE
MAGNIFICORUM DOMINORUM MARCI OCTAVIANI DE VITELLENSIBUS CONFALONIERII PETRI
BARTHOLOMAEI VIVIANI JOHANNIS CONSULUM FRANCISCI NICOLAI (Anno) MCCCCLIX (die) X
AUGUSTI. L’ultimo nome si riferisce evidentemente al detentore della terza magistratura in ordine di importanza di
elezione popolare, quella del Capitano di Cinquecento.
7
8
accompagnavano i cardinali, i personaggi più in vista della città e gran parte della plebe
romana, mentre iniziava il viaggio che doveva portarlo a Mantova.
Con la bolla Vocavit nos Pius del 13 ottobre 1458, all’indomani della elezione al
pontificato, Enea Silvio Piccolomini chiamava a raccolta i principi cristiani nella città di
Virgilio per contrastare l’espansionismo turco che aveva occupato Costantinopoli cinque
anni prima ed era penetrato nei Balcani 2) .
Suggestioni letterarie e progetti politici tornavano a mescolarsi nella mente di Pio II.
Facevano parte del suo seguito cardinali di gran nome come Guglielmo d’Estouteville,
Alano di Coetivy, Filippo Calandrini, Pietro Balbo, Prospero Colonna e Rodrigo Borgia.
Dopo una prima sosta a Campagnano, feudo degli Orsini, il corteo papale si diresse verso i
territori invasi alcuni mesi prima dal condottiero Jacopo Piccinino.
Toccò Nepi e Civitacastellana, passò il Tevere su un ponte di legno fatto costruire nei
pressi di Magliano. “Dovunque passava, le popolazioni riempivano le strade e salutavano il
pontefice; i sacerdoti con le sacre immagini pregavano perché il viaggio fosse felice; i
bambini e le vergini con le tempie incoronate d’alloro e con in mano i ramoscelli d’ulivo
auguravano vita e fortuna al grande presule. Chi riusciva a toccare i lembi della veste si
riteneva beato. Piene dovunque le strade di popolazione e cosparse d’erba verdeggiante, le
piazze dei centri minori e delle città addobbate con stoffe preziose, le case private e le
chiese del gran Dio ornate splendidamente” 3) .
A Narni l’entusiasmo della folla giunse a mettere a repentaglio la vita stessa del
pontefice per il riproporsi dell’usanza italiana di lasciare al popolo il cavallo e il
baldacchino dei personaggi illustri 4) .
Il breve inviato ai Cornetani in data 25 Gennaio 1459 potrebbe suggerirci che tra
coloro che difesero la persona del pontefice in quella pericolosa circostanza ci fosse il miles
2)
L’organizzazione della “santa crociata” contro gli infedeli è uno dei leit motiv del pontificato di Pio II. Tra le
numerosissime testimonianze letterarie segnalo la famosa Epistula in Maumethem perfidum Turchorum regem e il
capitolo dei Commentariirelativo alla scoperta ed alla utilizzazione dell’allume in territorio cornetano. Ma voglio
soprattutto ricordare che la vita di quest’uomo tanto spregiudicato e privo di illusioni si concluse ad Ancona mentre,
ormai vecchio e malato, era in procinto di imbarcarsi alla guida della crociata.
3)
Quacumque iter fecit populi, obviam effusi, Pontificem salutare; sacerdotes sacra ferentes felicem viam eunti
precari; pueri innuptaeque puellae, redimiti tempora lauro et olivarum ramos manu gestantes, vitam et felicitatem
magno praesuli optare. Qui fimbrias vestimentorum contingere possent beatos sese arbitrari. Plena ubique populi
itinera et strata virentibus herbis, oppidorum et urbium plateae pretiosioribus opertae pannis, domus civium templaque
magni Dei praecipius ornata modis. E. S. PICCOLOMINI PAPA PIO II, I Commentarii, a cura di L. Totaro, II,
Milano, 1984, pp. 288 e 290.
4)
L’imperatore Federico III fu vittima di una analoga manifestazione di pericoloso entusiasmo popolare a Viterbo, nel
corso del viaggio alla volta di Roma organizzato dal Piccolomini, allora vescovo di Siena ma ancora segretario
imperiale, nel 1452, per la celebrazione del matrimonio con Eleonora di Portogallo e per l’incoronazione da parte di
Niccolò V (cfr. F. GREGOROVIUS, Storia della città di Roma nel Medioevo, III, n.e. Torino 1973, p. 1891 e C.
PINZI, Storia della città di Viterbo lungo il Medioevo, III, Viterbo, 1913, pp. 83-86).
8
9
Biagio Vittori. Certamente la lettura del documento conservato nell’Archivio Storico di
Tarquinia istituisce una relazione fondamentale con il nostro monumento:
<<Ai diletti figli salute ed Apostolica benedizione.
Poiché stimiamo ed amiamo paternamente il diletto figlio Biagio Vittori cavaliere di
Narni per l’affetto straordinario che ha verso di noi facciamo appello alla vostra fedeltà
affinché vogliate avere maggiori riguardi per il diletto figlio Bartolomeo, attualmente
vostro podestà e parente del detto Biagio, in tutte le cose che concernono la sua carica e il
suo interesse, concedendo a voi e a ciascuno di voi di arringare e fare proposte nel vostro
Consiglio a favore dello stesso Bartolomeo come affermate che altre volte era consuetudine
fare, non opponendosi bolle, brevi ed altri indulti e statuti. Ciò per la considerazione del
suddetto Biagio, ci sarà gradito>> 5) .
La singularis affectio del cavaliere di Narni aveva dunque indotto Enea Silvio
Piccolomini ad abbandonare la dimensione ecumenica del suo viaggio ed a calarsi per un
momento in una modesta questione di amministrazione municipale per rimuovere il suo
precedente divieto di offrire qualsiasi dono al podestà, compreso quello tradizionale dello
stendardo con le insegne del comune. La motivazione del divieto contenuto nella bolla del
17 ottobre 1458 è di carattere finanziario: si vogliono ridurre al massimo le spese
amministrative. Ma nel contempo si interrompe una usanza antica, collegata alla storia
della indipendenza comunale e quindi profondamente sentita dai magistrati e dai
consiglieri, prima ancora che dal podestà destinatario del dono 6) .
E’ certamente per questo motivo che la concessione di Pio II viene accolta con tanta
soddisfazione da essere celebrata con la posa IN PERPETUAM MEMORIAM del puteale in
nenfro che ornava la cisterna del Palazzo Comunale.
Noi non sappiamo se a sostenere la causa del miles narniensis sia intervenuto il
vescovo di Corneto Bartolomeo Vitelleschi allora, e già dal 1455, titolare della Legazione
5)
Dilectis filiis salutem et apostolicam benedictionem. Quia diligimus et paterna caritate complectimur dilectum filium
Blasium Victorij militem Narniensem propter suam erga nos singularem affectionem idcirco hortamur devotiones
vestras ut dilectum filium Bartholomeum presentem potestatem vestrum qui de parentela dicti Blasj existit velitis in
omnibus honorem et commodum suum concernentibus propitius commendatum suscipere. Concedentes vobis et
unicuique vestrum ut pro ipso Bartholomeo in consilio vestro liceat aringare et proponere sicut alias asseritis fieri
consuevisse bullis brevibus et alijs quibuscumque indultis et statutis ceterisque contrarijs non obstantibus
quibuscumque. Quod intuitu prefati Blasij nobis gratum erit. Datum Interamnis Sub anulo piscatoris MCCCCLIX die
XXV Ianuarii Pontificatus nostri Anno Primo. In Arch. Stor. Com. Tarquinia, <<Fondo pergamenaceo>>, 4, 106.
Ringrazio Piera Ceccarini per la consueta cortesia con la quale mi ha agevolato nella consultazione dei documenti.
Ringrazio altresì G. Seghenzi, autore delle fotografie pubblicate a corredo dell’articolo.
6)
Ceterun ut commoda nostre rei publice quoad honeste possumus modis omnibus procuremus vobis sub Centum
similum florenorum pena quam vos si contra feceritis incurrere volumus eo ipso et quam per thesaurarum nostrim in
Provincia Patrimonii pro tempore deputatum exigi volumus illico et cum effectu districtius inhiventes ne cui Potestati
eiusdem Civitatis Vexillum sive Stendardum cum insignis dicte Civitatis ut moris est aut alias dare vel donare quomodo
libet presumatis. In Arch. Stor. Com. Tarquinia, <<Fondo Pergamenaceo>>, 4.103.
9
10
dell’Umbria. Possiamo soltanto immaginare che egli si sia fatto incontro dalla sua sede di
Foligno all’amico pontefice il quale peraltro con queste parole celebra, poco più avanti nel
racconto dei suo Commentarii, la riconquista di Foligno ad opera di Giovanni Vitelleschi
nel 1439:
<<Questa città, durante il pontificato di Eugenio IV, tornò alla chiesa di Roma dalle
mani dei tiranni. Dicono che il tirannello della città chiese un giorno a un sant’uomo dotato
di spirito profetico se mai la sua discendenza sarebbe stata privata del potere assoluto e
quello rispose che ciò sarebbe accaduto quando i tori sarebbero volati intorno alle mura
della città.
Sembrandogli ciò impossibile, il tiranno si convinse che il potere sulla città sarebbe
stato esercitato in eterno da lui e dai suoi discendenti. Ma mentre i suoi nepoti erano al
governo, il patriarca alessandrino Giovanni Vitelleschi, partito con il suo esercito contro
quella città, avendo cominciato ad attaccare, spiegati i vessilli, su cui c’è l’insegna di una
coppia di tori che in qualche modo sembravano volare poiché il vento gonfiava e agitava i
vessilli, infuse un gran terrore nei cittadini. Tutti gli ottimati conoscevano infatti il
vaticinio. Dopo non molti giorni la città si arrese ed è rimasta obbediente ai pontefici
romani fino a oggi. I tiranni sono stati dispersi>> 7) . Il ricordo di quella coppia di tori che
sembravano volare si sarà forse offerto alla mente di Enea Silvio Piccolomini nel momento
in cui gli si chiedeva di rimuovere il divieto di donare lo stendardo cornetano al podestà
Bartolomeo Vittori ed avrà facilmente avuto la meglio sulle modeste preoccupazioni
finanziarie.
Ma anche nella nostra mente, per un’altra via, può insinuarsi la suggestione di quel
ricordo, se riusciamo a distinguere in uno dei riquadri del pozzo del Magistrato i contorni
di un cavaliere che solleva e lascia sventolare lo stendardo con l’insegna del corniolo: è
l’immagine di S. Secondiano, il martire cristiano di Centumcellae divenuto principale
protettore di Corneto agli albori dell’età medievale, di cui proprio nei giorni
immediatamente precedenti quel 10 agosto veniva celebrata solennemente la festa 8) .
E’
7)
Haec civitas, Eugenio quarto sedente, ex manibus tyrannorum ad Romanam Ecclesiam rediit. Ferunt eius urbis
regulum sanctum quendam virum propheticum habentem spiritum olim consuluisse, an regno sua posteritas aliquando
privanda esset; illumque rwspondisse privandam, cum boves circus moenia civitatis evolarent. Quod cum impossibile
videretur, aeternum sibi posterisque imperium urbis tyrannus persuasit. Verum nepotibus regnum tenentibus, Iohannes
Vitellensis, Alexandrinus patriarcha, eo cum copiis profectus, cum obsidere urbem coepisset, explicatis vexillis, in quis
insigne fuit par bovum qui, flante vento et agitante vexilla, volare quodammodo videbantur, magnum civitati terrorem
incussit. Erat enim cunctis optimatibus notum vaticinium. Nec multis post diebus civitas dedita est, quae usque in hanc
diem Romanis pontificibus paret. Tyranni dissipati sunt. PICCOLOMINI, Commentarii cit., II, p. 298.
8)
Oltre alla figura dominante di Secondiano, i santi patroni sono il comes Teofanio, anch’esso legato alla storia della
distrutta Centumcellae, Pantaleimone (comunemente noto come S. Pantaleo) e Lituardo. Sotto il profilo della
iconografia, può essere interessante un raffronto con la pala marmorea che contornava l’immagine miracolosa della
Madonna di Valverde. Se, come propone S. Aurigemma, si accettasse l’identificazione con S. Margherita della figura
10
11
la sua figura, agghindata da magistrato, che materialmente rappresenta la concessione di
Pio II e ne proclama la perpetua memoria.
Quando, alla vigilia della seconda guerra mondiale, si decise di rimuovere il pozzo
dalla sua sede originaria, nella nuova collocazione si mise in particolare rilievo lo stemma
dei Vitelleschi, scolpito nel riquadro opposto a quello della iscrizione e affiancato dalle due
coppie dei santi protettori. C’era forse l’intenzione di offrire una più austera replica della
vera marmorea che campeggia nel cortile del Palazzo Vitelleschi, distante soltanto pochi
metri 9) .
Il riferimento a Marco Ottaviano Vitelleschi, allora gonfaloniere comunale, non
sembra certo sufficiente a giustificare una sottolineatura così solenne. Molto di più conta il
richiamo ad una famiglia che aveva già esercitato (e proprio in quegli anni recuperava
pienamente) un ruolo predominante nella storia di Corneto.
Ma è soprattutto la figura di Bartolomeo Vitelleschi che ci viene incontro, se è vero
che nessuno che conosca la storia del profondo legame di amicizia che unì questo
personaggio ad Enea Silvio Piccolomini può tentare con qualche successo di sottrarsi alle
suggestioni provocate dalla unicità dell’accostamento materiale delle insegne 10) .
La più antica testimonianza di un rapporto diretto tra Bartolomeo ed Enea Silvio è
costituita dalla annotazione che leggiamo negli Atti del Concilio di Basilea sotto la data di
sabato 23 settembre 1442. Nella congregazione di quel giorno incorporatus fuit medio
juramento reverendus pater dominus episcopus Cornetanus ed alla cerimonia che
suggella l’ingresso di Bartolomeo Vitelleschi nel concilio, su cui da tre anni si era abbattuta
la scomunica di Eugenio IV, è presente Enea de Senis, che già dal 1436 aveva ricoperto, in
rapida successione, gli incarichi di abbreviatore apostolico, autore delle lettere e degli
opuscoli sinodali, membro autorevole della cancelleria dell’antipapa Felice V, ed era stato
più volte impiegato in importanti legazioni ufficiali 11) . In particolare, la partecipazione alla
recante la palma del martirio, si istituirebbe un ulteriore collegamento con il vescovo Bartolomeo Vitelleschi che
proprio in quegli anni riprendeva l’edificazione della Cattedrale dedicata alla martire di Antiochia. Sulla particolare
testimonianza storica offerta dalle traslazioni delle reliquie dei martiri di Centocelle, rinvio alla mia relazione La
rappresentazione di Centumcellae nel racconto delle Passioni, in “Atti del Convegno Dal Porto di Traiano alla Città
di Gregorio Magno”, Civitavecchia, 1991, pp. 43-67.
9)
Un più interessante confronto può essere istituito con il coevo pozzo di S. Marco (1453) anch’esso in nenfro ed a
pianta ottagona, da molti anni ormai collocato nei pressi della chiesa di S. Francesco. Le due vere sono della stessa
altezza (circa un metro) ma quella in origine collocata nel convento degli Agostiniani è chiusa, nella parte superiore, da
un elegante margine marmoreo ed è di diametro molto maggiore.
10)
Le due insegne dovevano ben più solennemente appaiarsi nella chiesa cattedrale consacrata il 3 luglio 1463 ed
andata distrutta in seguito all’incendio del 1642.
11)
Concilium Basiliense, VII, Die Protokolle des Concils 1440-1443, a cura di H. Herre, Basel, 1910, pp. 427-428.
11
12
Commissione dei Dodici aveva consentito al Piccolomini di valutare titoli e poteri di
Bartolomeo Vitelleschi prima di accettarne la richiesta di ammissione al Concilio.
L’itinerario che lo aveva condotto a Basilea e che stava per aprirgli le porte della
cancelleria imperiale (di cui lo stesso Piccolomini si propone scintillante cronista nella
parte iniziale dei Commentarii) aveva già conosciuto momenti drammatici e vicende
avventurose nel corso delle quali si sarà certamente offerta ai nostri personaggi qualche
occasione di incontro. Fin dal autunno 1434, quando Eugenio IV si rifugiò a Firenze,
Bartolomeo Vitelleschi soggiornò più volte in quella città al seguito del patriarca
Giovanni 12) . Si può ipotizzare, senza risalire agli anni degli studi senesi e fiorentini, che i
due si siano frequentati nella primavera del 1435, in occasione della permanenza a Firenze
di Enea Silvio, allora segretario del vescovo di Novara Bartolomeo Visconti. Il Piccolomini,
come è noto, rimase coinvolto in un tentativo di rapimento di Eugenio IV e poté salvarsi
soltanto grazie alla ospitalità del cardinale Albergati. A proposito di questo drammatico
frangente, è certamente necessario ricordare, anche per gli sviluppi successivi della nostra
storia, la lunghissima e devota permanenza al servizio dell’Albergati di Tommaso
Parentucelli, il futuro Niccolò V, iniziata dopo un giovanile incarico di precettore in casa di
Rinaldo degli Albizi, grande amico di Giovanni Vitelleschi 13) .
Ben diverse ci appaiono le esperienze compiute da Bartolomeo. L’attribuzione del
feudo della Tolfa Nuova (1435), l’amministrazione della Chiesa cornetana (1437), la
nomina a vescovo della nuova diocesi di Corneto e Montefiascone (1438), la reggenza del
Patrimonio di S. Pietro (1439) sono le tappe di un cursus honorum costruito dalla potente
protezione dello zio pià che dalla affermazione di personali virtù.
Nella ricostruzione del drammatico momento che seguì alla cattura e all’uccisione di
Giovanni Vitelleschi nella primavera del 1440 merita una particolare considerazione
l’annotazione che leggiamo del racconto di un autorevole testimone. Per lo passato dissi la
morte del cardinale di Fiorenza, e come lui rimase un nepote, che aveva già fatto fare
vescovo di Montefiascone e Corneto. Questo vescovo, sentito ch’era preso il zio, fuggì a
Siena con molti denari del detto cardinale con certi suoi seguaci. Onde il papa mandò più
volte a dire a’ Senesi che li mandassero detto vescovo e seguaci, overo li denari che
avevano. Ma li Senesi non ne volsero far niente, anzi dicevano essere liberi, e non aver a
far niente con persona. Per il che il papa li fe’ fare una correria in Valdorcia, e raccolse
12)
Proprio a Firenze Bartolomeo è sorpreso dalla notizia dell’arresto dello zio (cfr. N. DELLA TUCCIA, Cronaca di
Viterbo, in Cronache e Statuti della città di Viterbo, a cura di I. Ciampi, Firenze, 1872, p. 173.)
13)
E’ forse questo il primo collegamento con il pontefice che consentì ai Vitelleschi di recuperare il loro primato nella
città di Corneto.
12
13
gran quantità di bestiame e prigioni nell’entrata d’agosto. Onde per questo li Senesi
disposero stare alle difese, e fero celare detto vescovo, dando nome ch’era fuggito 14) .
Il cronista viterbese Niccolò della Tuccia sottolinea dunque la generosa (e
pericolosa) ospitalità che per un tempo forse non molto breve i Senesi concessero allo
smarrito vescovo cornetano e viene voglia di chiedersi per quale motivo, al di là della
tradizionale e sempre rinnovata contrapposizione a Firenze, dopo aver inviato
ambasciatori presso Eugenio IV per chiedere la liberazione del cardinale Vitelleschi, si
siano tanto impegnati nella difesa di Bartolomeo. Le numerose lettere inviate da Basilea
alla città e a diversi privati cittadini di Siena da parte di Enea Silvio Piccolomini, nel
periodo in cui egli portava dalla cancelleria dell’antipapa Felice V l’attacco più violento
contro Eugenio IV, non avranno sollecitato quel comportamento?
Inoltre la correria in Valdorcia, se fu qualcosa di più che una generica pressione
esercitata sulla repubblica senese, ci fa ricordare un passo della famosa descrizione del
monastero del Monte Oliveto contenuto nel libro decimo dei Commentarii: <<C’è un alto
colle che guarda verso occidente, tutto tufo e creta, lungo circa uno stadio e largo molto
meno. Se vuoi saperne la forma, è simile a una foglia di castagno. Da ogni parte le rupi
scendono a precipizio in profondissimi burroni che suscistano orrore in chi guarda. Dove il
colle si collega con le terre circostanti è stata alzata una torre di mattoni su una altura
modesta che impedisce l’accesso a chi non sia amico, ed è stato scavato un fossato che fa
precipitare le sue acque nei burroni che gli stanno di fianco. Il fossato è collegato con un
ponte, tolto il quale non rimane alcun accesso al convento>> 15) .
Si tratta, forse, di una suggestione letteraria. Eppure, se dovessimo tentare di
individuare il luogo dove i Senesi fero celare detto vescovo nessuno farebbe meglio al caso
nostro. E non soltanto per la vicinanza della Val d’Orcia e per le naturali garanzie di difesa
efficacemente sottolineate dalla descrizione di Pio II. Molto più eloquente è per noi il
legame spirituale che si stabilì tra Bartolomeo Vitelleschi e gli Olivetani, ricordati con le
commosse parole della riconoscenza nel Testamento del 1463 16) .
14)
DELLA TUCCIA, Cronaca, cit., p. 180.
Collis sublimis est ad Occidentem respiciens, thofo cretaque compactus, stadio circiter longus, latitudine multo
minor. Si formam quaeris, castaneae folium imitatur. Unique rupes in baratra pergunt profundissima, in quae horror
sit aspiscere. Qua iungitur reliquae terrae collis, dorso modico turris erecta est lateritia quae omnem prohibet
accessum non amicum et fossa deducta quae in utrunque baratrum emittit aquas. Ea ponte coniungitur; quo sublato,
nulli patet ad coenobium aditus. PICCOLOMINI, Commentarii cit., X, pp. 1944 e 1946. Da questo luogo, situato tra
Asciano e Buonconvento, dove nel 1313 si ritirarono Giovanni Tolomei, Ambrogio Piccolomini e Patrizio Patrizi, ebbe
origine l’ordine degli Olivetani.
16)
G. INSOLERA, I riti della morte nel Testamento di Bartolomeo Vitelleschi, in “Bollettino dell’anno 1984” della
Società Tarquiniense di Arte e Storia, pp. 23-35, al quale faccio riferimento anche per quanto riguarda l’ultima
evoluzione dei rapporti tra Bartolomeo ed Enea Silvio.
15)
13
14
Da Siena, probabilmente lungo lo stesso itinerario percorso da Enea Silvio otto anni
prima, Bartolomeo raggiunse Basilea dopo aver toccato Genova e Milano ed aver valicato le
Alpi attraverso il S. Gottardo.
Gli Atti del Concilio di Basilea ci consentono un piccolo passo indietro nella nostra
ricostruzione, facendoci risalire fino alla data del 4 luglio 1442, sotto la quale annotano
l’incarico attribuito a Niccolò Amici di ricevere, a nome del Concilio, il giuramento di
Bartolomeo Vitelleschi allora ambasciatore in Inghilterra. In questo incarico, che lo poneva
ancora sulle orme dell’amico, Bartolomeo venne sostituito dall’episcopus Vicensis,
probabilmente perché chiamato a rappresentare il concilio alla dieta di Francoforte nella
legazione cui partecipò anche il Piccolomini 17) .
Successivamente la medesima fonte ci attesta l’inserimento del vescovo cornetano
nella deputazione pro reformatorio e la partecipazione a quattro congregazioni generali
nei mesi di novembre e dicembre, oltre alla già ricordata legazione presso l’imperatore
Federico III.
Tre lettere, inviate al Piccolomini tra la fine del 1443 e l’inizio del 1444, oltre a
fornirci ulteriori e significativi elementi di conoscenza sugli anni dell’esilio, ci fanno
entrare in un rapporto diretto con il personaggio, che si rivolge all’amico e presenta la
propria condizione al di fuori di qualsiasi velleità o mistificazione letteraria.
La prima lettera, del dicembre 1443, si apre con gli squillanti ringraziamenti per
l’inserimento tra i consiglieri dell’imperatore. Anche il padre Jacopo ha esercitato le sue
pressioni sulla corte, ma certamente più potenti saranno state le raccomandazioni di Enea,
poeta laureautus dal luglio del ‘42 e da oltre un anno autorevole membro della cancelleria
imperiale 18) .
Ci troviamo di fronte a un documento di grande solidarietà umana. Enea, il più
fortunato, maschera generosamente l’aiuto prestato a Bartolomeo il quale, dal canto suo,
promette di corrispondere alle esortazioni dell’amico e di essere, nel Concilio, un
osservatore fedele agli interessi di Federico III.
17)
Post quamquidem conclusionem dominus Arelatensis recepit iuramentum a domino Nicolao Amici ambassiatore.
Cui domino Nicolao sacra congregacio commisit ut juramentum nomine concilii reciperet a domino episcopo
Cornetano ambassiatore in Britanniam. E’ il 4 luglio 1442. Niccolò Amici è presentato dagli Atti come ambassiator
universitatis Parisiensis. L’8 luglio il vescovo di Vich sostituisce nell’incarico di ambasciatore Bartolomeo Vitelleschi
in procinto di partire per Francoforte (cfr. Concilium cit., p. 472 e p.477). Quanto ai rapporti tra Pio II e l’Inghilterra,
mi riferisco naturalmente ai capitoli 5 e 6 del primo libro dei Commentarii che contengono la narrazione della missione
18)
Jacopo Vitelleschi ci è noto anche quale teste agli atti di donazione di Rainuccio Farnese al fratello Giovanni e, in
successione immediata, di questi alla Comunità di Corneto del palazzo con quattro apothece, sito in contrada S.
Bartolomeo, perché se ne curi la demolizione e si provveda alla costruzione della resecata (cfr. La “Margarita
Cornetana”, Regesto dei Documenti, a cura di P. Supino, Roma, 1969, pp. 396 e 397).
14
15
Colpisce, in particolare, una frase nella quale certamente riaffiora il ricordo
bruciante della fuga e della perdita della diocesi cornetana (<<mi rallegro di queste cose
come se avessi recuperato il mio episcopato>>).
All’inizio della seconda lettera del febbraio 1444, cogliamo il ricordo della legazione
a Francoforte, alla quale i due amici parteciparono insieme nell’estate del ‘42, e della
richiesta avanzata allora direttamente da Bartolomeo di essere assunto ad consiliaratum
Cesaris. Allora, di nuovo, intervenne la separazione ed Enea Piccolomini, con il
conseguimento della corona di poeta caldeggiato dal vescovo di Chiemsee Silvestro
Pflieger, iniziò la carriera presso la cancelleria imperiale. In perfetta consonanza con le
parole dello stesso Piccolomini, la lettera segnala un importante progresso con il
conseguimento della promozione a primo segretario imperiale 19) .
Ma nella lettera troviamo altre interessanti coincidenze con il racconto dei
Commentarii. Nel lamentare che la comunicazione ufficiale della nomina non gli sia
ancora pervenuta, Bartolomeo avanza il sospetto che ciò sia da addebitarsi ad un
Wilhelmus de Constantia che sembra essere il medesimo Wilhelmus, spregiatore degli
italiani ed alto funzionario della cancelleria imperiale, che ostacolò in ogni modo Enea
nella fase iniziale della sua carriera. Prima di professarsi observantissimus et predicator
indefessus del nome dell’imperatore, Bartolomeo fornisce informazioni sui preparativi di
guerra di Firenze e Venezia, sulle missioni diplomatiche di Alfonso d’Aragona e di
Francesco Sforza, che mirava alla nomina di vicario del concilio ed insidiava il possesso
delle Marche ad Eugenio IV, da poco rientrato a Roma.
Il vescovo cornetano dimostra insomma di voler rispettare gli impegni conseguenti
alla nomina non ancora notificata ed informa scrupolosamente su questioni militari e
diplomatiche relative allo scontro decisivo allora in atto in Italia.
Affari di stato e preoccupazioni personali si susseguono così in questa lettera che si
chiude con l’omaggio al grande protettore di Enea Silvio presso l’imperatore, l’episcopus
Chiemensis conosciuto da Bartolomeo alla dieta di Francoforte.
La terza lettera, ancora del febbraio ‘44, a differenza delle precedenti, non è spedita
dalla residenza di Losanna. Bartolomeo è stato costretto ad accettare la lontana diocesi
delle Cevenne e vi si è recato in una prima e faticosa visita pastorale.
Da lì scrive ad
Enea per lamentare la propria miseria e chiedere con forza ulteriori interventi a proprio
favore.
19)
(Aenas) apud Caesarem indiescrescens, ad res magnas et arduas vocatus, in Consilium secretius tandem receptus
est. Commentarii, cit., I, p. 52.
15
16
E’ l’insistenza, quasi la sfrontatezza delle richieste, giustificate dalla affermazione
finale (<<tu sei un secondo me stesso nella cura dei miei affari>>), a denunciare un
legame di amicizia straordinariamente saldo e confidente.
Ma ecco il testo e la traduzione delle tre lettere 20) .
Bartholomeus ep. Corn. Enee Silvio
laureato poeta salutem dicit plurimam
Suscepi hesterno die gratissimas
litteras tuas, mi clarissime, quibus non
modo gratulor ego, sed omnis mea
domus quam vehementius gaudet, cum
in primis sospitatem tuam, que nobis
omnibus extar auro pretiosior, et demum
nostri te memorem intelligamus. nec tu
plurimorum mores servas, qui tanto ad
rem afficiuntur, quanto illam aspiciunt
dataque absentia ad amicitiam se prebent
immemores. sed quidem ab horum opinione
devias, qui, etsi me presens colueris, absens
et me meosque omnes diligis magis et amorem
in me ostentas tuum. et si hec scripserim non
aberro. scribis enim, me ad hosce dies a cesare
inter alteros ejus consiliaros ascriptum esse, quod
ad grandem cepi animi voluptatem et gratitudinem
parem. et tu id existimor vales, si ad gratiam cesserint
cum nec ignores, quanto id studio Francofordie flagitarim
quod autem in presentiarum, me inscio, me non sperante
me denique ad eam rem tunc non habente animum, id
ipsum factum extiterit, magnifico et chooperatorum
probo et laudo amicitiam, quique fuerint. nuntias dominum
Jacobum, patrem meum, ad ream rem dedisse opus nec
a te quidquam scribis, ut qui erga te non habeam gratias
pro munere tanto. facis, rem intelligo et scio, non te
16
17
mutum aut elinguem obvenisse facto nec rei obfuisse
in quoquam. sed quocumque res cesserint, nuntiant
tibi rem adeo gratam habeo gratias et ingentes et eas
pares facies meis verbis domino Jacobo, quem huiusce
rei ducem fuisse denuntias. congratulor equidem ea re,
ac si episcopatum meum nactus essem. ideo ut scribis
itidem facias, ad me consiliaratus litteras quam citius
mittas et ego ad rem cesaris, ut me hortaris, vigil ero
semper et intentior, tuque ad eum cesarem me
commissum facias. rursus te oro et obsecro, si amas
me, et quam crebrius ad me scribas et hanc nostrorum
corporum absentiam crebro vincamus sermone et
absentie huius pondus litterarum nostrarum vicissitudine
et beneficio leniamus. quod equidem servabo tibi, si modo
scribendi facultas assit, supplicantiam pro genito domini
Jacobi. nondum expeditam reppereram Lausanne, quod
non sine mollitione et machina factum fore arbitratus sum.
sed celeri remedio usus fui, ut ex litteris meis ad dominum
Jacobum coniectaberis. vale decus amicitia et me, quemad
modum, semper facis, ama. ex Lausanne, idibus decembris.
Il vescovo di Corneto Bartolomeo saluta affettuosamente Enea Silvio poeta laureato.
Ho ricevuto ieri la tua graditissima lettera, mio illustre amico, per la quale non solo io mi
congratulo,ma tutti i miei familiari sono oltre modo felici nell’apprendere
anzitutto
della tua salute, che è per noi più preziosa dell’oro, e poi che ti ricordi di noi. Non ti
comporti come la maggior parte delle persone, che si prendono cura della cosa soltanto
quanto ce l’hanno davanti agli occhi e, dopo che è intervenuto la lontananza, non si
ricordano più dell’amicizia. E certamente sei lontano dall’opinione di costoro tu che,
avendo curato di me quando eri presente, ora che sei lontano hai riguardi ancora maggiori
per me e per tutti i miei manifesti pienamente il tuo amore verso di me. E non sbaglio a
scrivere queste cose. Scrivi infatti che io in questi giorni sono stato ascritto dall’imperatore
tra i suoi consiglieri, cosa che ho appreso con grande piacere e con pari gratitudine. Anche
tu puoi renderti conto di quanto la cosa mi sia gradita, giacché sai bene con quanta
20)
Le tre lettere sono state pubblicate da R. WOLKAN, Der Briefwechsel des Eneas Silvius Piccolomini, in Fonres
17
18
insistenza ne abbia fatto richiesta a Francoforte. E ora che, senza che io lo sapessi, senza
che lo sperassi, senza che più ci pensassi, proprio questa cosa si è realizzata, io esalto,
plaudo e lodo l’amicizia di quanti mi hanno aiutato, chiunque sia stato. Mi informi che il
signor Jacopo, mio padre, si è molto impegnato in questa impresa e di te non dici niente,
perché non debba esserti riconoscente per un servigio tanto grande. Ammetti, comprendo
perfettamente la cosa, che non sei rimasto muto e senza lingua di fronte all’iniziativa e che
hai dato il tuo nullaosta. Ma, comunque siano andate le cose, a te che annunci un esito
tanto gradito porgo i miei vivi ringraziamenti e ti prego di farne altrettanti a nome mio al
signor Jacopo, che tu presenti come il condottiero dell’impresa. Di ciò io mi compiaccio
come se avessi ottenuto il mio episcopato e dunque fa come scrivi, inviami al più presto la
notifica della nomina ed io, come mi esorti, vigilerò sempre e con grande cura sugli
interessi dell’imperatore, mentre tu comunicherai all’imperatore la mia più completa
disponibilità. Di nuovo ti prego e ti scongiuro di scrivermi più spesso che puoi per vincere
questa lontananza dei nostri corpi con una continua comunicazione e per lenire con lo
scambio delle nostre lettere e con la benevolenza il peso della lontananza. Io ti conserverò,
se ci sarà la possibilità di scriverti, la supplica per il figlio del signor Jacopo. L’ho trovata,
non ancora spedita, a Losanna e ho pensato che la cosa si sarebbe realizzata non senza
qualche espediente, ma ho trovato un rapido rimedio, come potrai congetturare dalla
lettera al signor Jacopo. Ti saluto carissimo amico e ti prego di riservarmi, come sempre, il
tuo affetto.
Da Losanna, 13 dicembre.
B. ep. C. sal. pl. d. E.s., regio protonotario. Jocundissimis litterulis tuis, vir
clarissime, quibus generosi militis Jacobi ac tua opera me assumptum esse ad
consiliataroum cesaris nuntiabas ab duobus mensibus responderam per alias meas
litteras, quas si habueris letor. cognosces enim quantam ex eo mihi jocunditatem
attuleris, vibebis et gratias, quas huiusce rei vobis cooperatoribus offerebam ob hoc
insigne munus, quod nosti quanto ego cum studio flagitarim, dum una essemus in
Germania apud regem; posthac nullis alteris tuis litteris quicquam de te concepi nisi,
quemadmodum enuntiat Peregallus noster, te valere et apud cesarem in dies te pluris
existimari et ad utramque cancellariam in pronotonotarium jussu regio absumptumesse,
quo gratulor cupioque, ut in dies feliciores successus de te sentiam, unde ne hoc meum
desiderium frustra sit stude. precor semper, ut cesaris rebus intentus sis ac illis continuo
Rerum Austriacarum, Vienna, 1909, pp. 247-248, 292-293, 296-297.
18
19
morem geras. quod si effeceriss, crede mihi, melius secundaberis et eos omnes, quos tibi
amicos habes, letos ac perjocundos efficies. Verum, ut ad eam remregrediar, vereor, me
litteras super consiliariatu, quas ex litteris domini Jacobi ad me. nuperrime intelligo
fuisse traditas domino Wilhelmo de Constantia, ut illas aut ad me mitteret aut daret, ob
ipsius amiserim fortasse portatoris infidiam, cum nusquam eas ad me miserit quod et,
me magis excruciat, nec mittet ex causis, quas tu tecum ipse conjectaberis. nam ipse est
apud Constantiensem episcopum et nos abnegavit. intellegis jam quod in ea re actum sit
ut, nisi tu iterum juveris, privabor munere hoc ingenti, quare velim sicque oro te, ut eam
litteram una cum domino Jacobo, cui scribo, renovari facias, quod facile impetrabis, et
eam domum ad me mittas, securiori modo ad manus Onnisboni. quod si efficies, mihi in
ea re quam maxime complacebis nec usquam hoc in gens obsequium obliterabunt
tempora nec etates. nulla ex regionibus Italie altera nova apud nos sunt, que ad te
scribam, nisi Venetos et Florentiam parare maritimas et terrestres copias quam ingentes.
rursus apus pontificem nostrum maximum due pratice sunt serenissimi scilicet regis
Aragonum, pro quo ad mensem hic fuit reverendissimus dominus Vicensis ac comitis
Francisci, a quo missus est dominus Thomas Reatinus, quem noscis et eum vidisti apud
cesarem, quos tractatus et practicas pontifex noster ex animo et corde complecitur et ex
utravis harum, quam bene sperem et quem ad modum res ipsa succedet, ex post
intelliges. rei domini Jacobi non secus quam mee intentus fui, ut ei scribo ubere, a quo
scire valebis omnia aspiciesque ex bullis desuper confectis. scito tamen Peregallum
nostrum pro minuta et grossa prime littere dedisse pecunias. sepius ac sepius me
commendatum facias cesaris et iteratas gratias pro consiliariatu sue majestati reddas
meo nomine, cui era observantissimus et gloriosissimi nominis sui predicator indefessus.
itidem et facias apud reverendissimum patrem dominum meum Chiemensem. et tu vale
ac amorem nostrum et amicitiam observa cordi crebioribusque tuis litteris cum
contingentiis patrie ac regionis illius. vale iterum. ex Laus.
Il vescovo di Corneo Bartolomeo saluta affettuosamente Enea Silvio, primo segretario
imperiale.
Avevo risposto da due mesi con una mia lettera, illustrissimo amico, alla tua breve lettera
quanto mai gradita con la quale annunciavi che io ero stato assunto tra i consiglieri
dell’imperatore grazie all’opera tua e del nobile cavaliere Iacopo e, se l’hai ricevuta, me ne
rallegro. Saprai infatti che grande gioia con questo mi hai dato e vedrai i ringraziamenti
che porgevo a voi che avevate cooperato alla cosa per la prestigiosa carica, dal momento
che tu sai con quanta insistenza io la richiedessi mentre ci trovavamo insieme in Germania
19
20
presso il re. Ma poi non ho più saputo nulla di te da altre due lettere se non, come mi fa
sapere il nostro Peregallo, che tu stai bene, che godi di sempre maggiore stima presso
l’imperatore e sei stato assunto per ordine del re al primo segretariato di entrambe le
cancellerie; di questa cosa io mi congratulo e desidero ascoltare di te sempre maggiori
successi e tu impegnati affinché non sia vano questo mio desiderio. Prego sempre che tu ti
applichi con impegno e dedizione assoluta all’amministrazione imperiale. Se farai cio,
credimi, asseconderai meglio anche tutti noi che ti siamo amici e ci farai veramente felici.
Ma, per tornare a quella cosa, temo di aver perso la notifica della carica di consigliere
imperiale, che dalla lettera del signor Iacopo so che fu quanto prima trasmessa al signor
Guglielmo di Costanza affinché me la facesse pervenire, forse per la slealtà di chi me la
doveva consegnare, poiché non me l’ha inviata affatto e, cosa che mi tormenta di più, non
me la invierà per i motivi che tu potrai comprendere da solo. Infatti egli si trova presso il
vescovo di Costanza e ci si è negato. Ora puoi capire che cosa sia accaduto e se non mi
aiuterai di nuovo sarò privato di questa ingente ricompensa.
Perciò vorrei, e te ne prego, che tu facessi scrivere di nuovo quella lettera insieme
con il signor Iacopo, a cui anche mi rivolgo, cosa che tu facilmente otterrai, e che me la
inviassi a casa in un modo più sicuro per mano di Onnisbono. Se farai ciò mi farai un
grandissimo piacere e né i tempi né le età faranno dimenticare questo grande servigio.
Dalle regioni d’Italia non c’è nessun’altra nuova che possa scriverti se non che Venezia e
Firenze preparino forze marittime e terrestri imponenti. Di nuovo presso il nostro
pontefice massimo ci sono due pratiche e cioè del serenissimo re d’Aragona, per il quale in
questo mese è stato qui il reverendissimo monsignor Vich, e del conte Francesco,
rappresentato dal signor Tommaso di Rieti, che tu conosci e hai visto presso l’imperatore.
Il nostro pontefice tiene molto a cuore queste trattative e pratiche e in seguito capirai
quanto io speri bene di entrambe e come avranno naturalmente un esito positivo. Ho avuto
cura della situazione del signor Iacopo non diveramente che della mia, come gli scrivo
diffusamente, e da lui potrai sapere ogni cosa e potrai controllare dai sigilli apposti. Sappi
tuttavia che il nostro Peregallo ha pagato per la minuta e la stesura definitiva della prima
lettera. Raccomandami sempre di più all’imperatore e ringrazia reiteramente a nome mio
per la nomina a consigliere sua maestà cui sarò obbedientissimo oltre che indefesso
predicatore del suo gloriosissimo nome. Lo stesso ti chiedo di fare presso il reverendissimo
padre monsignor di Chiemsee. E tu sta bene e osserva il nostro amore e la nostra amicizia
con il cuore e con più frequenti lettere che mi diano notizie della patria e di quella regione.
Di nuovo ti saluto.
Da Losanna, febbraio 1444.
20
21
B. e C. S. pl. d. E. S., poetae clarissimo et amico praestanti. Dulce mihi admodum et
suave est, vir clarissime, quod valeas, dummodo recte valeas, quando te apud tuum
cesarem honore primum et commodis non carere existimem sed apud eum in dies te ob
ingentes virtutes tuas et doctrinam magni pendi sciam et intelligam. Scripsissem ad te
crebrius, nisi provolutus visitatione episcopatus Gebennensis, quam ob gravem meam
penuriam ut viverem absumpsi invitus. cum enim ut solent visitatores ipso in esercitio
per eam diocesim cucurrerim hinc inde distolus, non potui nec crebrius nec prius scribere
ad te. scias itaque me valere cum omni famiglia quamquam misere suscepissseque
litteras consiliariatus regii, ad quas tu tantopere laborasti, mihi quidem caras et gratas
et inter res alteras cariores. et ea propter cesari tuo primum, qui tanta in me humanitate
usus est, tibique ac domino Jacobo, qui et initium et incepte rei finem prebuistis, ago
gratias indefessas, non recusans, si modo mossim, vestris honori, et commodo praebere
vires. restat aliud, ut communi rei nostre tractande nunc, admotis calcaribus, totis
viribus te exhibeas in medium, pro veritate neminem extimescens. potes enim nunc, quo
gratulor te, rei nostre apprime favere, et vales apud cesarem et omnes suos. idcirco
tamquam fortis athleta ac certator in medium occurras et ut res successerint, me avises et
si, ut gliscimus, successerit apud regem et suos, rem meam, que tua est, singulari affectu
suscipies, ut sic videam, te me alterum esse in re mea, quemadmodum et in tuis agerem
indefessus. vale et me ama, ut ceperas, licet absentem et insudes gratificari tuo
humanissimo Cesari. ex Gebennis..
Il vescovo di Corneto Bartolomeo saluta affettuosamente Enea Silvio, poeta chiarissimo e
amico insigne. E’ per me un grandissimo piacere, illustre amico, sapere che stai bene,
purché veramente tu stia bene, dal momento che ritengo che presso il tuo imperatore tu
goda anzitutto di ogni onorevole considerazione ma anche perché io so e comprendo che tu
sei stimato sempre di più presso di lui per le tue grandi virtù e per la tua dottrina. Ti avrei
scritto più spesso se non fossi stato distolto dalla visita alla diocesi delle Cevenne, che sono
stato costretto ad accettare per la mia grande indigenza. Avendo infatti corso per il
territorio della diocesi, come sono soliti i visitatori nell’esercizio della loro funzione,
sbattuto di qua e di là, non ho potuto scriverti né più spesso né prima. Sappi dunque che io
con tutti i miei familiari sto bene in salute, anche se in miseria, ed ho ricevuto la lettera
della nomina a consigliere dell’imperatore, per la quale ti sei tanto dato da fare, certamente
a me cara e gradita e più cara delle altre cose. Per questo non mi stanco di rendere grazie
21
22
anzitutto al tuo imperatore, che mi ha dimostrato tanta generosità, poi a te e al signor
Iacopo che avete dato inizio e compimento alla cosa, non recusando, se solo io lo possa, di
offrire le mie forze per il vostro onore e il vostro vantaggio. Ora non rimane, per trattare la
nostra comune situazione, che tu entri in campo a spron battuto con tutte le forze, non
temendo nessuno a vantaggio della verità. Puoi infatti ora, e di ciò ti ringrazio, favorire
potentemente i nostri interessi giacché hai voce in capitolo presso l’imperatore e tutta la
corte. Per questo, come un forte atleta e un combattente, corri in campo e avvisami di
come vanno le cose e se, come desideriamo ardentemente, avranno successo presso
l’imperatore e la corte, sorreggerai con straordinario affetto la nostra situazione così che io
veda che nel trattare di essa tu sia un altro me stesso, come da parte mia instancabilmente
mi comporterei nei tuoi confronti. Sta bene e amami, come il tuo solito, anche da lontano e
impegnati a compiacere il tuo generosissimo imperatore.
Dalle Cevenne, febbraio 1444.
Bartolomeo Vitelleschi attendeva dunque con impazienza che il suo nuovo
protettore scendesse in campo, ne seguiva con affetto - ma anche con un compiacimento
interessato - i crescenti successi, fino alla clamorosa missione a Roma, presso Eugenio IV,
dell’aprile 1445, proprio a dieci anni di distanza dall’ <<incidente>> fiorentino.
E’ ben nota l’accusa di incoerenza, se non di carrierismo, che è stata lanciata contro
il Piccolomini, passato nell’arco di sei anni dalla celebrazione dell’antipapa, di cui era
segretario, alla ritrattazione e all’obbedienza. Nei due anni che separano l’incoronazione di
Felice V dall’ingresso nella cancelleria imperiale, Enea Silvio si rese conto che i conciliaristi
non avevano nessuna seria prospettiva e maturò una graduale revisione delle sue posizioni.
Più corretto sarebbe dunque parlare di realismo e sottolineare la straordinaria abilità
diplomatica del segretario di Federico III. Allora ebbe inizio la stagione della pacificazione
e si posero le premesse per lo storico concordato di Vienna del 1448 che assicurò al papa la
vittoria sul movimento conciliare ed avviò la definitiva trasformazione del Patrimonio di S.
Pietro in Stato della Chiesa. Mi sembra particolarmente significativo che nel racconto di
quella missione il Piccolomini abbia voluto evidenziare il riavvicinamento a Tommaso
Parentucelli, il cui pontificato stava per aprirsi all’insegna della conciliazione e del
temporalismo.
Ricordo come al tornar indietro feci la via di Gienevera che ci era il vescovo di
Corneto mio parente et padrone, che stava con papa Felice duca di Savoia fatto antipapa.
Havea sette cardinali, et in quel tempo fece cardinale il prefato vescovo Vitellesco, ciovè
22
23
messer Bartolomeo: quale poi venne a Roma, morto papa Eugenio, alla creatione di papa
Nicola V, et fece unione fra papa Felice et papa Nicola V, dove io fui presente et
negoziatore di questa buon’opera, et la Santità di papa Nicola ne promise confirmare il
cappello e di novo leggitimamente criar cardinale il prefato messer Bartolomeo vescovo
Vitellesco, et da poi mancò et non lo fece 21) .
Il viterbese Pier Gian Paolo Sacchi, segretario di Giovanni Vitelleschi e, dopo la
liberazione da Castel S. Angelo, compagno di esilio di Bartolomeo, con queste parole ci
apre uno scenario nel quale nuovamente personaggi e avvenimenti della Grande Storia si
mescolano con le vicende della comunità cornetana.
Alla morte di Eugenio IV, i diciotto cardinali presenti a Roma si erano radunati a
conclave nel chiostro di Santa Maria sopra Minerva, la chiesa dove vituperoso fo de notte
portato in iuppetto scalzo e senza brache e dove ancora era sepolto il cadavere di Giovanni
Vitelleschi. Enea Piccolomini era presente come oratore dell’imperatore e da quel
momento affiancò Niccolò V nella attuazione di un progetto di riconciliazione generale. Se
dobbiamo credere al ricordo del Sacchi, Bartolomeo Vitelleschi, ancora una volta sulle
orme di Enea, svolse un ruolo di rilievo nello scioglimento patteggiato del consiglio di
Basilea, certamente non fu soltanto una pedina nelle mani dell’amico, grande artefice degli
accordi di Vienna.
Si trovò un compromesso per ogni situazione e per ogni caso personale: l’antipapa
Felice V depose la tiara e si vide in cambio riconosciuta la dignità cardinalizia con il titolo
di S. Sabina; lo stesso eroe della resistenza ad oltranza a Roma, il D’Aleman, morì vescovo
di Arles; i Colonna, gli antichi nemici dell’autorità di Eugenio IV, ebbero il permesso di
ricostruire Palestrina, che Giovanni Vitelleschi aveva raso al suolo nel ‘37; perfino Lorenzo
Valla, l’inflessibile accusatore del potere temporale dei preti, fu richiamato a Roma.
In questo contesto, per tornare ai nostri personaggi, decolla la carriera ecclesiastica
di Enea Piccolomini e, nell’ambito della nostra storia cittadina, ma non senza qualche
interessante proiezione all’esterno, matura la più completa riabilitazione di Bartolomeo
Vitelleschi: dopo l’obbedienza del ‘47, egli ottiene il recupero della diocesi cornetana nel
‘49, la restituzione del feudo della Tolfa Nuova nel ‘54, il governo della Legazione umbra
nel ‘55, in una progressione che sarebbe stata drammaticamente interrotta soltanto dalla
sconfitta di Nidastore del ‘61.
Tutto sembra svolgersi nell’ambito di un richiamo alla grande figura del Patriarca
Alessandrino ancora assolutamente incombente: il recupero della doppia carica religiosa e
21)
DELLA TUCCIA, Cronaca cit., p. 206.
23
24
politica, il ritorno di un Vitelleschi sui territori che appartennero a Corrado Trinci, la
funzione di comandante militare per tanti anni esercitata dallo zio con straordinari
successi.
Ma proviamo a raccogliere le ultime testimonianze che ci provengono dal pozzo del
Palazzo del Magistrato.
La collocazione dello stemma cardinalizio dei Vitelleschi per onorare l’oscuro
gonfaloniere Marco Ottaviano potrebbe essere avvertita come una patetica ostentazione
d’orgoglio familiare a distanza di quasi venti anni dalla morte del patriarca e quando non
era stata ancora mantenuta la promessa fatta a Bartolomeo nel ‘47, se non ci soccorresse
Muzio Polidori. Alla pagina 65 delle sue Croniche leggiamo infatti questo breve profilo di
Sante e Alessandro Vitelleschi.
Fratelli dell’antedetto Vescovo Bartholomeo, ambi Cavalieri et Conti Palatini,
creati da Federico Terzo Imperatore, conforme dai Privilegi si potrà vedere. Anzi, da
detto Imperatore, non solo ottennero esser creati Cavalieri et Conti Palatini, ma anco
ottennero la confirmatione della propria insegna con l’aggiunta delli sei gigli d’oro nel
modo che cominciò usare il Cardinal Vitelleschi, con l’autorità di detto Imperatore 22) .
Fu dunque per una concessione dell’imperatore Federico III che la famiglia
Vitelleschi tornava a fregiarsi dell’insegna di Giovanni, adorna dei sei gigli e del cappello
cardinalizio che ricordavano la più alta carica guadagnata dal patriarca al servizio di
Eugenio IV.
Ho pensato che quanto già riferito sui rapporti diretti che Bartolomeo e Jacopo
Vitelleschi ebbero con l’imperatore nel periodo dell’esilio fosse di per sufficiente a
giustificare la concessione. Nondimeno mi ha incuriosito la nota apposta a piè di pagina
dalla curatrice della edizione delle Croniche che segnala l’esistenza, nel manoscritto
conservato dalla Società Tarquiniense di Arte e Storia, di due privilegi imperiali sotto la
data 22 marzo 1452.
Il cattivo stato di conservazione del primo documento, che con ogni probabilità non
ne ha consentito la pubblicazione, non impedisce di cogliere per intero il potente richiamo
alla figura di Giovanni Vitelleschi.
Dopo una precisa descrizione della partitura dello scudo, dei gigli e delle figure dei
due vituli che si fronteggiano con le corna erette e con una zampa anteriore alzata come a
mostrare l’imminenza dell’assalto, riusciamo infatti a leggere le parole: <<e di quest’Arme
gli Antenati e i progenitori del defunto Reverendissimo Padre signor Giovanni dei
22)
Croniche di Corneto, a cura di A.R. Moschetti, Tarquinia, 1977.
24
25
Vitelleschi e di Corneto, Cardinale Fiorentino, senza tuttavia i gigli, sempre dall’antichità
usavano. Ed anche lo stesso Cardinale Fiorentino, nel corso della sua vita terrena, ne fece
uso dopo aver aggiunto nella parte superiore i Gigli ad uso dell’Arme>> 23) .
Voglio sottolineare l’inadeguatezza della traduzione dell’inciso che richiama la
figura del Patriarca (dum adhuc ageret in humanis). Ma soprattutto non voglio neppure
tentare di nascondere la grande emozione con la quale, in fondo al privilegio,
immediatamente
prima
della
sottoscrizione
dell’imperatore
Federico,
ho
letto
l’annotazione Enea referente.
Non più il brillante segretario Enea de Senis del ‘42 ma il dominus Eneas episcopus
Senensis aveva dunque istruito la pratica per la concessione imperiale.
Dopo
il
conseguimento di quell’episcopato, Enea Piccolomini aveva infatti conservato la qualifica
di protonotarius imperiale ed era stato il grande regista del matrimonio con Eleonora di
Portogallo e della incoronazione romana di Federico III immediatamente successiva (19
marzo 1452) 24) .
Non si era dunque interrotto - non si sarebbe mai interrotto fino alla morte - quel
rapporto amicale di cui abbiamo percorso l’itinerario fin dalle sue lontane origini.
Esso diede anzi in quei giorni un altro potente segno della sua vitalità: il breve di
Niccolò V che concedeva al vescovo Bartolomeo di trasferire in Corneto il cadavere del suo
zio Cardinale e di sepelirlo nella Cattedrale, nella Cappella maggiore da esso
fabbricata 25) .
Almeno due considerazioni mi spingono infatti a ritenere che l’Enea Piccolomini del
privilegio si fosse adoperato anche per ottenere la traslazione della salma di Giovanni
Vitelleschi.
La prima deriva dalla valutazione del privilegio imperiale come atto di riabilitazione
politica e morale della figura del patriarca, preliminare alla stessa concessione elargita a
Sante ed Alessandro: corre una linea diretta tra gli interventi dei rappresentanti dei due
poteri universali in favore dei Vitelleschi in quella primavera del ‘52 e nessuno più
23)
Quibus Armis Antecessores et progenitores quondam Rmi Patris Dni Ioannis de Vitelleschis et de Corneto,
Cardinalis Florentini absque tame Lilijs, semper antiquitus utebantur. Ipse etiam Cardinalis Florentinus, dum adhuc
ageret in humanis, est usus, per ipsum additis supra Lilijs ad usum Armorum. Ringrazio M. Lidia Perotti per le
preziose indicazioni che anche in occasione di questa ricerca ha voluto fornirmi.
24)
In fondo alla pagina 126 del manoscritto, dopo il locus sigilli imperialis, si legge: De Nto Dni Imperatoris D. Enea
Epo Benev. (?) referente. Non credo che possa sussistere qualche dubbio sulla individuazione di Enea Piccolomini nel
notarius imperiale di nome Enea, provvisto di titolo episcopale, anche perché il vescovo di Benevento in carica nel
1452 era il famigerato Jacopo della Ratta, deposto per indegnità proprio da Pio II nel 1462. Né, in luogo di Benev.,
potrebbe leggersi Bonon,perché il vescovo di Bologna allora in carica era Filippo Calandrini, fratello naturale di
Niccolò V: non rimane pertanto che pensare ad un errore di trascrizione del Polidori, che scrive Benev. o Bonon. in
luogo di Senense.
25)
POLIDORI, Croniche cit., p. 246.
25
26
efficamente del Piccolomini, in procinto di essere elevato, quasi contemporaneamente, al
rango di principe della Chiesa e principe dell’impero, avrebbe potuto farsene promotore.
La seconda considerazione può essere introdotta dal brano dei Commentarii
riportato all’inizio, in cui si celebra in termini di completa esaltazione la riconquista di
Foligno alla Chiesa. In quel passo, così come nei numerosi accenni che si trovano sparsi
negli altri libri dell’opera del pontefice, la figura di Giovanni Vitelleschi viene
costantemente tenuta al riparo dalle roventi accuse che le rivolgevano intellettuali del
calibro di Lorenzo Valla 26) .
Tutto ciò potrebbe certamente spiegarsi come una conseguenza dell’antico vincolo
di amicizia. Ma sarebbe una spiegazione ancora riduttiva, certamente poco rispettosa della
profondità e consequenzialità della elaborazione ideologica che Enea Piccolomini aveva
prodotto fin dagli anni della adesione alle tesi conciliariste. Ed è proprio su questo terreno
che recentemente Paolo Prodi ha riscattato la figura di Enea Piccolomini dalle ingenerose
semplificazioni del passato, facendo emergere le linee di una coerenza di fondo nella
giustificazione della sovranità temporale e dell’intervento diretto dei chierici nel
governo 27) .
A Lorenzo Valla, che dall’interno dell’opuscolo sulla Donatio Constantini lanciava la
tremenda invettica contro Giovanni Vitelleschi (<<E non dico quanto crudele, quanto
prepotente, quanto barbara sia di frequente la dominazione dei preti. Che se prima si
poteva ignorare, ultimamente è stata rivelata da quel mostruoso portento che è stato il
cardinale patriarca Giovanni Vitelleschi, che affaticò nella strage dei cristiani la spada con
cui Pietro tagliò l’orecchio a Malco e di cui egli stesso morì>>), poteva pertanto rispondere
con questi argomenti: <<che se la maggior parte della città sottomesse ai sacerdoti
sembrano in qualche modo ridotte allo sterminio, come non poche ne vedemmo nel
patrimonio della Chiesa, ciò accadde o perché i sudditi furono poco fedeli, abbandonandosi
a rivolte e sedizioni, o perché i Sommi Pontefici, abusando del potere, trasformarono in
tirannide il potere regio>>.
Risulta evidente l’assoluta contrapposizione dei due passi e le parole di Enea
Piccolomini introducono naturalmente il documento più solenne della riabilitazione di
Giovanni Vitelleschi, l’epitaffio apposto in posteritatem dal vescovo Bartolomeo:
QUANDO EGO PRO PATRIA MAIESTATE REPRESSI
PONTIFICIS FURIAS BELLORUM HOSTESQUE SUBIEGI
26)
Come ulteriore, seimbolica prova della riconciliazione perseguita da Niccolò V voglio ricordare che, accanto a Sante
e Alessandro, proprio sul ponte di Castel S. Angelo dove era stato drammaticamente catturato ventidue anni prima
Giovanni Vitelleschi, venne armato cavaliere imperiale anche il grande umanista e accusatore del Cardinale Fiorentino.
26
27
ECCLESIAE NOSTRIS QUAE FLORUIT AUCTA SUB ARMIS
RESTITUI RES EFFLUXAS URBESQUE DECUSQUE
INVIDIT SORS ATRA MIHI MAGIS EMULA VIRTUS
IMMERITAM STATUENS NON AEQUO MUNERE MORTEM 28)
I sei esametri che compongono il solenne discorso del defunto appaiono strutturati
intorno ad un implacabile rapporto di causalità denunciata dall’apertura Quando ego. I
versi 1-4 scandiscono i trionfanti passaggi della restitutio del potere temporale della
Chiesa, esaltano l’opera del pacificatore e dell’avversario implacabile di ogni anarchia
baronale, mentre il distico finale, dopo aver introdotto il topos della Fortuna, fa emergere
la figura del rivale e lancia il grido di protesta contro la morte ingiustamente e
indegnamente subita.
Non è questo il luogo per affrontare l’impegnativa analisi stilistica dell’epitaffio. Qui
devo limitarmi a segnalare che la figura di Giovanni Vitelleschi corrisponde del tutto a
quella che ritroviamo, direttamente o indirettamente, nell’opera di Enea Piccolomini, nella
quale pretendono un particolare richiamo il carme Ad Fridericum III Caesarem e
l’Epitaphium Martini Pape V (il Piccolomini fu anche un geniale autore di epitaffi!), per la
presenza del medesimo motivo dell’eroe che si oppone alla rovina della Chiesa, sgombra il
campo dagli usurpatori e impone una pace sicura.
Tanto basta per convincermi a concludere che nell’epitaffio cornetano, se non
proprio la mano del futuro pontefice, possiamo certamente cogliere quella comune
concezione della storia e della vocazione temporale della Chiesa da cui direttamente
discende la riabilitazione di Giovanni Vitelleschi.
I due monumenti, che nel corso di quegli anni centrali del quindicesimo secolo l’uno
dal Palazzo del Magistrato, l’altro dalla Chiesa Cattedrale tornata saldamente nelle mani di
Bartolomeo Vitelleschi - ambivano a trasmettere la perpetua memoria di episodi e
personaggi per noi tanto lontani, possono dunque apparirci naturalmente collegati nel
nome di Enea Silvio Piccolomini. E non senza una qualche commozione riusciamo a
leggere nel nostro Archivio Storico il breve con cui Pio II ordinava ai Cornetani di
macinare gratuitamente e ridurre a biscotto il grano offerto per la guerra imminente, pro
munitione classis in Turcos armandae et sustentatione eorum qui pro fide pugnabunt 29) .
27)
Il sovrano pontefice, Bologna, 1982, pp. 13-40, dove si leggono anche i passi che produco in traduzione nel testo.
Poiché io per la Patria e la maestà del Pontefice respinsi le furie della guerra e i nemici schiacciai/della Chiesa che
più grande fiorì sotto le nostre armi/ricomposi lo stato smembrato e le città e l’onore/ n’ebbe invidia la nera sorte e
ancor più il rivale valoroso/stabilendo per me con ingiusto compenso una morte senza colpa.
29)
“Fondo pergamenaceo”, 4.130.
28)
27
28
Porta la data dell’11 giugno 1464 e precede soltanto di sei giorni la partenza per
Ancona. In quella città egli avrebbe atteso invano di farsi, per la prima volta, seguace di
Bartolomeo, pellegrino ai Luoghi Santi nell’estate del ‘63. Il quindici di agosto la morte lo
sorprese nell’atteggiamento del soldato di Cristo.
Giovanni Insolera
A PROPOSITO DI UNA CONSERVA D’ACQUA
DISEGNATA DA SANGALLO IL GIOVANE (*)
In questa sede sarà preso in esame un disegno autografo dell’architetto Antonio il
Giovane da Sangallo (Firenze 1484-Roma 1546), conservato nell’Archivio degli Uffizi di
Firenze 1) , e considerato per la prima volta nel Catalogo a stampa dei disegni di architettura
raccolti nella stessa Galleria 2) . Il foglio è stato in seguito ripreso da M. Pallottino nella sua
monografia su Tarquinia etrusca 3) e, di recente, esaminato più dettagliatamente da O.
(*)
Nel presente lavoro abbiamo esaminato in modo preliminare il disegno cinquecentesco di Sangallo il Giovane e
considerato alcune fonti ad esso collegabili, in modo da offrire un primo inquadramento generale sulle problematiche
che ne scaturiscono. Ringrazio il Prof. G. Miarelli Mariani per la gentile disponibilità sempre dimostrata e per aver
fornito alcuni dati utili ai fini della ricerca; particolare interesse nei confronti di questo studio e delle problematiche
annesse è stato sin dall’inizio manifestato da Bruno Blasi, cui va la mia stima. Preziose considerazioni sono state
espresse da Fabio Barilari in merito alle caratteristiche architettoniche della pianta del Sangallo. Ringrazio inoltre per la
collaborazione Marzia Maglio.
1)
Nella raccolta degli Uffizi si conserva una cospicua serie di disegni di Sangallo il Giovane, che documenta gran parte
della sua attività professionale.
2)
Ministero della Pubblica Istruzione, Indici e Cataloghi III, (Nerino Ferri), Disegni di Architettura esistenti nella R.
Galleria degli Uffizi in Firenze, Roma 1885, p. 216.
3)
M. Pallottino, Tarquinia, Monumenti Antichi dei Lincei XXXVI, 1937, col. 92, fig.13.
28
29
Vasori, nell’ambito di una ricerca inerente ad alcuni disegni di antichità etrusche custoditi
agli Uffizi 4) .
L’attenzione rivolta allo schizzo cinquecentesco da parte di G. Miarelli Mariani, ha
contribuito a far sì che alcuni studiosi che operano nel territorio a cui il documento si
riferisce 5) , si interessassero al disegno, in modo seppur non approfondito, comunque tale
da impostare una <<questione>> ancora densa di interrogativi; la presente ricerca
rappresenta un primo sommario tentativo di riordino delle varie testimonianze
concernenti il documento, almeno di quelle che sono oggi a nostra conoscenza.
Il disegno del Sangallo, già ad una prima osservazione, può considerarsi distinto in
due parti: a sinistra, è rappresentata la pianta schematica di una conserva d’acqua situata,
a detta dello scritto posto subito al disopra di essa (<<Conserva daqua, Tarquinia>>),
nell’area ivi denominata <<Tarquinia>>, oggi comunemente identificata con la località
<<La Civita>>, sede dell’antica città etrusca e romana 6) ; a destra, invece, è presente una
topografia approssimativamente delineata, tramite un’unica linea continua, che costituisce
a tutt’oggi l’immagine più antica dell’area urbana della vecchia Tarquinia.
Dal Catalogo manoscritto dell’Archivio degli Uffizi, il disegno in oggetto (n.1222A) è
descritto come <<schizzo topografico della Città e Castello di Tarquinia, con indicazioni, e
pianta rettangolare con portico della conserva d’acqua in Tarquinia>> e le sue dimensioni
sono definite in mm. 151x211 7) .
La scelta di riprodurre una struttura del genere (di età classica o medioevale) rientra
nel quadro delle attività svolte dal Sangallo, soprattutto nella prima fase della sua opera di
architetto. I primi decenni del XVI secolo, che coincidono con un periodo di frequente
presenza nel viterbese 8) , vedono infatti l’artista fiorentino dedicarsi con particolare
interesse allo studio degli antichi monumenti, come d’altronde era d’uso tra gli architetti
del Rinascimento, eseguito attraverso un rilievo di grande obiettività e chiarezza.
4)
O. Vasori, <<Disegni di antichità etrusche agli Uffizi>>, Studi Etruschi XLIII, 1979, p. 139 sgg., fig.7; IDEM, <<I
monumenti antichi in Italia nei disegni degli Uffizi>>, XENIA, Quaderni, n. 1, 1981, pp. 143-144.
5)
In particolare: AA.VV., <<Una monumentale conserva d’acqua presso la Civita>>, Quaderno del IX settore G.A.R.
Tarquinia, 1974, pp.6-7; B. Blasi, <<Il Castello di Corneto e il suo monumento maggiore>>, Bollettino della Società
Tarquiniense di Arte e Storia, 8, 1979, p. 14, tav. II.
6)
L’area ha sempre mantenuto in passato il nome di Tarquinia (Tarquinio, la Tarquinia, tenuta Tarquinia, etc.); nel
medioevo il toponimo fu conservato dalla parrocchia di S. Maria in Tarquinio (vd. con bibliografia: Pallottino, op.cit.,
alla nota 3, col. 19).
7)
Disegno a penna su carta bianca (dal Catalogo manoscritto). Un contributo utile alla datazione del disegno potrebbe
essere il ricorso all’analisi della filigrana cartacea, seppur non sempre attendibile: su un analogo problema di cronologia
v. G. Miarelli Mariani, <<Le mura di Tarquinia in un’inedita planimetria cinquecentesca>>; Bollettino della Soc.
Tarqu. Arte e St., 17, 1988, pp. 119-126).
8)
Numerosi sono gli interventi dell’architetto, più o meno impegnativi, documentati nella Tuscia (Cellere,
Capodimonte, Montefiascone, Caprarola, Castro, Civitavecchia, Nepi, etc.), riferiti a vari periodi della sua attività.
29
30
La pianta della conserva disegnata dal Sangallo presenta una forma rettangolare,
internamente suddivisa in venti ambienti uguali di forma quadrata (campate) separati da
12 grandi pilastri a sezione cruciforme. Le dimensioni della struttura sono indicate da un
appunto situato nella parte interna dell’angolo superiore sinistro, da cui si apprende la
misura del lato di ogni ambiente (<<palmi 16>>) e la dimensione dei pilastri (palmi
<<4>>, indicazione subito a destra della precedente), valida sia per quelli centrali che per
quelli addossati al muro perimetrale: è certo che le misure indicate nel disegno siano
riferite al palmo romano, che equivale a 22,34 cm.
In seguito a semplici calcoli, è quindi possibile risalire alle probabili dimensioni
della conserva, che risultano piuttosto notevoli: il lato maggiore esterno si aggirerebbe,
secondo il disegno, intorno ai 108 palmi (circa 24,12 m.), mentre quello minore intorno
agli 88 palmi (circa 19,65 m.).
Le misure più sicure sono quelle interne, sebbene da considerarsi con cautela, sia
per le approssimazioni di calcolo e sia per le incertezze legate al problema della
ricostruzione della struttura: le singole campate quadrate misurano 16 palmi di lato (3,57
x3,57m.), mentre i pilastri che suddividono tali campate misurano, come già noto, 4 palmi
di lato (0,89 m.). Il lato maggiore interno risulta così lungo 100 palmi (22,34 m., in quanto
va dimezzata la dimensione del pilastro addossato all’angolo), il lato minore, invece, 80
palmi (17,87 m.).
Dall’osservazione degli elementi strutturali raffigurati nella pianta si possono
esprimere alcune considerazioni utili per la formulazione delle ipotesi inerenti alla
ricostruzione architettonica dell’opera, la cui effettiva realizzazione sembra confermata da
fonti letterarie del secolo scorso, che più avanti andremo ad esaminare.
Un primo aspetto che possiamo rilevare riguarda l’ampiezza delle strutture portanti,
che appaiono nel disegno piuttosto massicce, il che può trovare una duplice giustificazione:
da una parte, infatti, i muri perimetrali dovevano probabilmente sostenere le forti spinte
orizzontali provocate dal peso del volume dell’acqua contenuto, e dall’altra, ipotesi forse
avvalorata dalla presenza di una serie di contrafforti tendenti ad irrobustire la struttura,
dovevano contenere la spinta delle eventuali volte degli ambienti perimetrali interni.
Altro elemento interessante è rappresentato dalla grossa sezione cruciforme dei
pilastri interni, che può sembrare eccessiva (circa 1/4 della luce libera della volta) visto che
i pilastri avrebbero dovuto sostenere esclusivamente i carichi della copertura (serie di volta
a crociera?): questo può far presumere la presenza di un prolungamento superiore della
costruzione, il cui ulteriore peso avrebbe giustificato il sovradimensionamento della
30
31
struttura portante ( a un secondo piano della cisterna fanno accenno infatti alcune fonti a
nostra disposizione).
I segni ad arco presenti su tutto il muro perimetrale interno, potrebbero lasciar
pensare in un primo momento al tipo di copertura adottata; in realtà, la presenza di quei
dentelli sul secondo arco in basso a destra e il tratto più marcato (a volte il segno è
ripassato) con cui gli archi sono disegnati, rispetto alle linee continue su cui sono
<<impostati>>, sono due elementi che fanno pensare che l’autore volesse invece evitare
che quei tratti fossero scambiati per una pura proiezione a terra delle volte, ed evidenziare
invece il loro essere elementi architettonico-strutturali della pianta.
D’altra parte questa configurazione architettonica interna potrebbe trovare ragion
d’essere nelle esigenze statiche cui è soggetto il fabbricato: muri così arcuati tra i pilastri,
infatti, avrebbero potuto lavorare come volte a botte che, soggette ad un determinato
carico, vanno a ripartire questo sui due muri portanti su cui sono impostate. Nel caso
specifico, questa particolare conformazione delle pareti faceva, quindi, confluire il peso
dell’acqua in modo più specifico sui pilastri interni, esternamente rinforzati dai
contrafforti.
Per quanto riguarda la copertura interna, si possono ipotizzare diverse soluzioni ma,
tra le più probabili, per la presenza dei pilastri che distinguono l’ambiente in campate,
troviamo i due tipi di volta, a crociera e a vela.
I contrafforti esterni, allineati nel disegno ai pilastri interni in modo regolare su tutti
e quattro i prospetti, e il rilievo netto del profilo perimetrale esterno, fanno supporre che al
momento della realizzazione del disegno da parte del Sangallo, la conserva fosse visibile
almeno parzialmente dall’esterno o comunque, si trovasse in posizione tale da consentire
una sommaria ricostruzione generale della pianta.
Inoltre, l’avere l’artista così dettagliatamente raffigurato il vano interno della
conserva, è elemento certo per affermare che esso fosse raggiungibile, come è d’altronde
attestato fino al secolo scorso 9) .
Nella parte destra del foglio, è invece riportata una planimetria, in evidente
relazione con la conserva già descritta, che sembra assumere valore esplicativo ai fini della
localizzazione del monumento a fianco riprodotto.
Lo schizzo topografico traccia il perimetro naturale del pianoro della Civita, come
chiarito dal termine <<Rip>> (ovvero <<ripa>> calcarea), situato lungo la linea di
9)
E’ presumibile che l’ingresso all’ambiente interno fosse posto in alto, onde evitare che sulle pareti si determinassero
dei punti deboli, in una struttura come quella in oggetto, costantemente sottoposta ad un carico notevole per il peso
dell’acqua; inoltre, un ingresso laterale avrebbe forse fatto sorgere problemi di tenuta stagna.
31
32
delimitazione del rilievo. L’area così delineata, che equivale in superficie a circa 150 ettari,
viene a comprendere gli attuali Piani di Civita e della Regina in basso nel disegno, l’altura
isolata della Castellina in alto (qui denominata <<Castello di Tarquino>>) e il Poggio di
Cretoncini a sinistra.
Sotto la topografia della Civita è una scrittura dello stesso disegnatore, relativa al
posizionamento geografico del luogo sopra rappresentato 10) : <<La città di Tarquinia si è
presso a Corneto uno miglio et mezzo et apresso alla Marta fiume miglio e mezzo, diverso
Roma centunmiglio, in su uno monte che ha le ripe più che 3/4 et uno castello in su uno
monticiello spicato dalla città quale è contrarixonte. Si chiama el castello di Tarquinio e
la città la civita>>.
Sulla stessa planimetria sono riportate alcune precisazioni topografiche come <<La
città>>, che indica l’area perimetrata coincidente con la Tarquinia etrusca, o il <<Castello
di
Tarquino>>,
riferito
all’altura
isolata
oggi
comunemente
denominata
<<la
Castellina>>, sede nel medioevo di un fortilizio appartenuto alla famiglia Vaccari e
distrutto dai cornetani nel 1307.
Ma l’indicazione più evidente, alla quale lo stesso schizzo topografico sembra quasi
finalizzato, compare subito al disotto del <<Castello di Tarquino>>: il disegnatore, infatti,
mediante una forte marcatura, risalta il collegamento esistente tra una propaggine
dell’area della <<città>> (Pian della Regina) e l’antistante poggio, situato a sinistra nella
topografia (Poggio di Cretoncini).
Se confrontiamo il disegno con una moderna carta topografica che raffigura la stessa
zona della Civita, notiamo che questo punto è ancora oggi facilmente individuabile: il
Sangallo, infatti, segnala con chiarezza il passaggio presente lungo la sella che divide le due
parti - il Pian della Regina e il Poggio Cretoncini - che risulta sul disegno stesso essere
raggiunto da una strada, il cui andamento è rappresentato sull’altura di sinistra.
Vicino alla marcatura in questione compaiono due appunti ad essa relativi: il primo,
costituito dal solo termine <<muro>>, è posto subito al di sotto del punto indicato, mentre
il secondo - più articolato - si trova a sinistra dello stesso, sopra l’area di Cretoncini.
Quest’ultima nota fa luce sulle ragioni per le quali il disegnatore evidenzia quel luogo:
<<In questo monte (ossia la Civita) si passava per uno muro con uno ponte>>, il che
testimonia la presenza di un’opera artificiale particolarmente degna di considerazione.
10)
Ringrazio la sig.ra Lidia Perotti per le trascrizioni delle note presenti sul disegno.
32
33
Il Sangallo sembra riferirsi ad una costruzione sopraelevata necessaria al
raggiungimento della città antica, da parte di coloro che, provenendo da nord,
percorrevano la strada che dalla valle del fiume Marta risaliva i versanti fino alla Civita 11) .
Attualmente questo percorso è in parte ricalcato da una carrareccia, riassestata ad
opera del locale Consorzio di Bonifica e denominata <<strada di Poggio Gallinaro>>,
utilizzata dagli agricoltori per raggiungere le varie quote di terreno situate nei suoi pressi;
lo stesso tratto di strada permette di arrivare alla Civita, malgrado il più delle volte si
preferisca per comodità percorrere la parte opposta della stessa carrareccia che si
congiunge alla moderna Aurelia-bis, e che consente l’accesso alla stessa zona da est.
Sopralluoghi condotti dallo scrivente nel punto indicato nel disegno, hanno
verificato la presenza di una possente opera di collegamento tra le due alture, che
attraversa in modo ortogonale la stretta sella che le divide.
Nella visione attuale, la struttura antica si presenta come un viadotto sul quale corre
la <<strada di Poggio Gallinaro>>, e che consente alla stessa di proseguire senza risentire
del forte dislivello presente in quel punto, determinato dall’andamento della sella.
L’opera risulta in buona parte coperta da depositi recenti di terreno, accumulatisi
soprattutto ai lati presumibilmente durante i lavori agricoli praticati nei campi circostanti
e in seguito alla ristrutturazione della strada consorziale; solo lungo il lato settentrionale
del viadotto è possibile vedere, fra la fitta vegetazione di tipo arbustivo, alcuni tratti
sconnessi di una lunga muratura assai imponente, il cui andamento corre parallelamente
alla strada. Il muro in questione nei tratti ove è possibile osservarlo, è realizzato in opera
quadrata, con blocchi regolari di calcare di forma parallelepipeda disposti per tela e per
taglio, in uno schema piuttosto regolare.
Il lato meridionale del viadotto, e quindi il muro che correva lungo questa parte,
risulta invece, in parte forse distrutto, e comunque sepolto da un potente accumulo di
terreno disposto a scarpata.
Nel suo insieme, la struttura assume le forme di una antica costruzione viaria, forse
di epoca etrusca 12) , costruita a sostegno di un importante percorso che, partendo dal
settore settentrionale della città, dove in passato fu individuato un accesso 13) , proprio nelle
11)
Ancora oggi sono visibili, in particolare presso il Casale detto <<della Civita>>, alcuni tratti di questo antico
percorso.
12)
Sulla base dell’opera muraria, spesso identica ad alcuni tratti delle mura urbane etrusche. Il Canina considerava
l’opera di epoca imperiale, in quanto asservente le terme dette <<Tulliane>>.
13)
P. Romanelli, <<Tarquinia - Scavi e ricerche nell’area della città>>; Notizie degli Scavi 1948, in particolare pp. 198199.
33
34
immediate vicinanze del viadotto, si allontanava dalla città dirigendosi verso nord,
oltrepassando la valle del fiume Marta.
Interessante presenza, ai lati della costruzione viaria, quella di alcuni bottini ancora
colmi d’acqua, sicuramente di epoca antica. La notevole quantità di acqua testimoniata in
questo luogo anche dagli affioramenti diretti sul terreno, è tale da far pensare all’esistenza
di un’importante sorgente: non è escluso che proprio in questo punto abbia avuto origine
l’acquedotto che dal medioevo, probabilmente fino al secolo scorso, trasportava le acque
dalla zona della Castellina a Corneto, attraverso una condotta in parte sotterranea ed in
parte costruita 14) .
Il viadotto antico era già noto almeno dal secolo scorso: l’architetto A. Canina,
infatti, nell’ambito di uno studio generale sulla topografia dei principali centri etruschi,
realizzò una mappa della Tarquinia etrusca 15) dove vennero riportate le principali
testimonianze archeologiche fino allora conosciute, che lo stesso autore ebbe modo in
parte di visitare.
Sulla carta egli rappresentò la nota carrareccia e riportò in coincidenza della sella,
nello stesso punto ove si è individuata la costruzione, in corrispondenza del lato
meridionale del passaggio attualmente interrato, la dicitura di <<via sostrutta>>, mentre,
sul lato opposto - quello settentrionale - riportò in senso perpendicolare alla strada la
scritta <<arco>>. Se la prima definizione conferma la presenza di una costruzione diretta a
facilitare il transito, la seconda aggiunge un ulteriore elemento alle caratteristiche
architettoniche della struttura.
Nel capitolo esplicativo relativo alla detta tavola, inerente alla città antica di
Tarquinia, lo stesso autore scrive 16) : <<Tale arco (quello indicato sulla mappa) vedesi
praticato lungo un muro di sostruzione, fatto evidentemente per sostenere una via che
metteva nella parte orientale della città dai colli che esitono verso il lato settentrionale e
che ora sono denominati di S. Spirito. Ed anche sembra che la medesima opera servisse
nello stesso tempo a sostenere la condottura delle acque necessarie all’uso della città
antica, le quali solo si trovano avere le sorgenti verso la medesima parte settentrionale,
come lo dichiara l’uso che tuttora ne viene fatto per la città di Corneto con il mezzo di un
lungo acquedotto che ha principio dallo stesso luogo>>.
14)
Un’ipotesi affascinante relativa ad un acquedotto sotterraneo che trasportava le acque da Poggio della Sorgente al
centro dell’attuale Tarquinia, è stata recentemente formulata in un lavoro realizzato da alunni ed insegnanti della Scuola
Media Statale <<E. Sacconi>> di Tarquinia: M. Gori (a cura), L’acquedotto antico, verifica di un’ipotesi, Tarquinia
1991.
15)
A. Canina, L’antica Rtruria marittima, Roma 1849, tavole del vol. II.
16)
A. Canina, op.cit., alla nota 15, vol. II, pp. 35-36.
34
35
Questo passo rappresenta una ulteriore prova a favore delle precedenti
considerazioni: se da una parte, infatti, esso conferma l’ipotesi della presenza, in questo
settore settentrionale della Civita, di abbondanti sorgenti d’acqua, tali - secondo l’autore da poter costituire una delle principali fonti di approvvigionamento per la città etrusca e la
medioevale Corneto, dall’altra si può ritenere plausibile la tesi del Canina circa la
possibilità che la sostruzione viaria potesse servire anche da sostegno per una condotta
d’acqua.
L’interpretazione del Canina e il modo in cui è riportata l’indicazione dell’arco fanno
presumere che quest’ultimo si trovasse alla base della sostruzione, con l’ipotetico compito
di svolgere funzione fognaria (convogliare a sè le acque di scarico provenienti dalla
soprastante strada) o, diversamente, con finalità di accesso alla condotta cui sottintende il
testo ottocentesco, forse posta all’interno della struttura. D’altronde, quando lo stesso
Sangallo nella nota presente sul disegno definisce <<ponte>> la sostruzione viaria, è
probabile voglia in realtà riferirsi con questo termine al nostro arco, nel caso in cui
quest’ultimo raggiungesse un’ampiezza maggiore di quella precedentemente immaginata e
superasse la parte più bassa della sella in modo da dare alla struttura la parvenza di un
vero e proprio ponte.
Più recentemente P. Romanelli, nell’ambito di una serie di ricerche archeologiche
mirate all’identificazione di alcuni capisaldi topografici della città etrusca, ritornò sulla
sostruzione. Nella relazione sui principali risultati ottenuti durante questa indagine,
l’autore scrive 17) : <<... quivi correva una strada, che teneva più o meno il percorso di una
carrareccia moderna: se ne riconoscono ben chiari i muri di sostegno da una parte e
dall’altra per una lunghezza di circa m.70, costruiti in conci quadrangolari di media
dimensione messi parte di testa parte di fianco a filari abbastanza regolari, ma con
faccia non lisciata. Il Canina, (...), precisa di aver visto qui, in uno di questi muri che egli
pensa potessero sostenere forse, oltre alla via, anche un acquedotto, un arco, di cui dà
anche il disegno 18) : esso deve essere oggi interrato, né, per lo stato del terreno e per altre
considerazioni, ho creduto opportuno rintracciarlo. (...) La larghezza della strada,
misurata fra l’esterno dei muri di sponda, è di m. 9 circa>>.
Sembra chiaro come, ancora alla metà del nostro secolo, i due muri di sostegno della
strada fossero visibili - ricordo che attualmente è possibile osservare solo alcuni tratti di
17)
P. Romanelli, op.cit., alla nota 13, p. 198.
In realtà il disegno dell’arco pubblicato dal Canina, si riferisce ad una struttura situata nei pressi dell’Ara della
Regina e ancora oggi visibile: A. Canina, tav. del vol. II.
18)
35
36
quello settentrionale -, mentre l’arco visto dal Canina risultava già completamente coperto
dal terreno.
Tornando al disegno del Sangallo si osserva che in nessuna nota presente sulla
planimetria della Civita si trovano espliciti riferimenti sull’esatta ubicazione della
conserva; è invece postulabile che le informazioni relative alla posizione geografica della
<<città di Tarquinia>> e la sua raffigurazione grafica, oltre ad un accenno sul tracciato
necessario - almeno all’epoca del disegno - al suo raggiungimento, siano da considerarsi
come generali indicazioni topografiche che l’artista fornisce sull’area nell’ambito della
quale è probabilmente ubicata tale testimonianza.
Questa constatazione solleva spontaneamente un problema legato all’effettiva
localizzazione all’interno della Civita della conserva ritratta dal Sangallo.
Per fare più luce sulla questione, conviene tornare al Canina che, procedendo nella
descrizione della presenze archeologiche relative all’area della Tarquinia etrusca, offre una
testimonianza di indubbio significato ai fini della nostra ricerca 19) .
<<.... nella parte interna della città, oltre alle fabbriche delle terme denominate
Tulliane..., negli scavi impresi a fare nell’anno 1829, si rinvenne pure una grande
conserva di acque a due piani sostenuti da pilastri>>.
La notizia del ritrovamento archeologico ottocentesco trova un immediato
collegamento con la pianta di conserva del Sangallo, in particolare nel chiaro riferimento
del Canina alla dimensione della costruzione rinvenuta e alla presenza dei pilastri: questi
ultimi, d’altronde, già nel suesposto esame architettonico relativo al disegno, avevano dato
adito di pensare alla presenza di un proseguimento in elevato della struttura (il secondo
piano del Canina?) in virtù del loro accentuato spessore.
Il fatto che la scoperta della conserva d’acqua si dati intorno all’anno 1829, può
trovare conferma negli scavi non regolari che furono intrapresi sulla Civita tra il 1829 e il
1831 da parte di due privati, il Manzi ed il Fossati, volti all’identificazione di alcuni edifici
dell’antica città. Le ricerche, le cui relazioni sono state rese note dagli stessi autori sul
Bullettino dell’Instituto di corrispondenza archeologica, si concentrarono sul solo Pian
della Regina, dove più risultavano evidenti gli affioramenti di strutture antiche: in
dettaglio, si riportarono alla luce un grande edificio termale (le cosiddette <<Terme
Tulliane>>, i cui resti attualmente interrati sono situati subito a sud del Casale detto
<<degli Scavi>>, e parte del podio del tempio detto <<Ara della Regina>>.
19)
A. Canina, op. cit. alla nota 15, vol. II, p. 36.
36
37
Nella relazione edita nel 1831 relativa a queste ricerche, vi è un breve ma
significativo riferimento ad una conserva d’acqua 20) , la stessa ricordata dal Canina:
<<Sull’alto della collina (rispetto all’Ara della Regina) ov’è la città a ponente v’è bene il
tufo, ma i sepolcri non pare: scoprimmo ancora una conserva d’acqua a due piani; il
sottoposto è conservatissimo e porta piè diritti (pilastri) assai spessi>>.
Le evidenti analogie fra la pianta della conserva del Sangallo e quelle descritte nei
due passi ottocenteschi, sebbene sia ancora assente un elemento probatorio, possibile a
questo punto soltanto attraverso un’osservazione di verifica diretta del monumento, ci
consentono di ritenere le diverse documentazioni relative alla stessa testimonianza.
Dalle indicazioni che emergono dalla lettura delle due fonti letterarie, comunque
non sufficienti, sembrerebbe che i resti della conserva vadano ricercati in particolar modo,
lungo l’area sommitale del Pian della Regina - nella cui prossimità furono intraprese le
ricerche del Manzi e del Fossati - cioè nel settore più elevato della Civita e quindi
particolarmente idoneo all’ubicazione di un grande deposito d’acqua, come quello da noi
esaminato.
Sopralluoghi preliminari condotti nella zona suddetta non sono ancora valsi
all’identificazione della struttura; è probabile che l’accesso alla conserva sia attualmente
interrato, vista la celerità con cui agiscono sul terreno alcuni elementi o fenomeni naturali
(erosioni o accumuli praticati dai mezzi agricoli o dagli agenti atmosferici), il che
renderebbe piuttosto difficile la localizzazione del monumento. In questo caso, ai fini
dell’identificazione, sarebbe opportuno un intervento programmatico sul terreno mediante
una serie di saggi archeologici, magari sulla base di particolari informazioni fornite da
strumentazioni tecniche già sperimentate in materia, come ad esempio le prospezioni
magnetiche, capaci di individuare eventuali <<vuoti>> presenti nel sottosuolo.
L’analisi del disegno di Sangallo il Giovane pone una serie di interrogativi, viste le
riconosciute capacità dell’artista nel riprodurre fedelmente e con scrupolosità le antiche
testimonianze architettoniche: in primo luogo è infatti da rilevare ocme sia quantomeno
anomalo che un così attento artista, dopo essersi attardato sulla raffigurazione grafica della
conserva, non riporti sulla topografia a lato l’esatta ubicazione del monumento, all’interno
dell’area della città di Tarquinia, centrando invece l’attenzione sull’itinerario utile a
raggiungere la zona. La mancanza di un preciso riferimento sulla planimetria potrebbe
anche giustificarsi considerando la possibilità che il Sangallo avesse ripreso la
20)
Fossati-Manzi, Bull. Inst. 1831, p. 5.
37
38
testimonianza da un precedente disegno, come era d’uso in quel tempo, e quindi si trovasse
nella impossibilità di localizzare ulteriormente la conserva.
Anche il fatto che il Sangallo possa non aver visitato direttamente la conserva non
toglie valore al suo documento, e comunque non inficia l’attendibilità della pianta da lui
disegnata, in virtù della possibilità di accesso al monumento, ancora in buono stato di
conservazione agli inizi del cinquecento; inoltre, dalla lettura dei passi ottocenteschi citati,
fra cui in particolare quello del Manzi e del Fossati, è presumibile che, almeno fino ai primi
decenni del XIX secolo, la struttura si fosse in gran parte conservata (ricordiamo il piano
inferiore <<conservatissimo>> secondo il Manzi) almeno in maniera sufficiente da poter
essere identificata e visitata dalla superficie. Attualmente non sono percepibili sul terreno
tracce significative, tali da poter indurre a pensare all’esistenza di una costruzione del
genere.
Le varie attività agricole svolte in questa zona hanno in parte modificato, nello
spazio di alcuni decenni, il profilo originale del piano: resta certo che, probabilmente a
differenza del secolo scorso, quasi nessuna testimonianza archeologica significativa è
possibile osservare in superficie, al di fuori delle costruzioni liberate dal terreno in seguito
a specifici interventi di scavo.
Fra le poche testimonianze oggi rilevabili sulla parte alta del piano della Regina,
meriterrebero forse maggiore attenzione i resti, ancora non chiaramente indagati, di una
costruzione situata subito a nord dell’Ara della Regina, nel punto più alto della zona, di cui
sono ancora visibili strutture in elevato (due tratti di parete in opera cementizia prive di
cortina esterna).
Della costruzione non conosciamo ancora l’esatta funzionalità: nella parte interna
della struttura si apre un incavo che scende oltre l’attuale piano di campagna, la cui
larghezza iniziale è all’incirca coincidente con il perimetro esterno delle murature
conservate e la cui profondità non è possibile valutare con precisione, a causa della
presenza al suo interno di un consistente accumulo che lo ricolma, costituito in gran parte
da blocchi antichi 21) . Una ricerca più approfondita di questa testimonianza archeologica
consentirebbe di definire la tipologia della costruzione e le sue effettive funzionalità 22) .
***
21)
Tali blocchi, riferibili a strutture antiche, sono probabilmente affiorati in passato sulla superficie del terreno durante
le arature, e successivamente accumulati dagli agricoltori per liberare i campi.
22)
La possibilità che si celi, al disotto degli attuali resti murari, un prolungamento della struttura (un piano sotterraneo?)
può giustificare un intervento mirato all’indagine della parte interrata, magari con un primo asporto dell’accumulo
presente nell’incavo interno alla struttura.
38
39
Sebbene non siano stati ancora rintracciati con precisione i resti della conserva
raffigurata da Sangallo il Giovane, della quale grazie al suo disegno conosciamo la
planimetria, al documento considerato in questa sede va comunque attribuita una certa
importanza di ordine storico; esso rientra infatti in quella serie di riproduzioni grafiche,
realizzate da molti artisti del passato, di opere e monumenti antichi, che assumono
particolare valore al momento della <<perdita>> più o meno definitiva delle stesse
testimonianze raffigurate. E’ comunque indubbio che planimetria di questa conserva, o
qualche suo elemento peculiare, avesse suscitato in un artista come il Sangallo curiosità o
interesse, tanto da indurlo ad eseguire un <<appunto>>, magari durante un soggiorno
dell’architetto a Corneto.
Tuttavia, le notizie forniteci dal Sangallo sono insufficienti ai fini della esatta
localizzazione della conserva e devono essere necessariamente integrate con le fonti più
recenti, come le già menzionate del Manzi-Fossati e del Canina, nelle quali è chiaro come
ancora nel secolo scorso fosse possibile rintracciare la conserva; allo stato attuale, invece,
non è possibile riconoscere alcuna traccia significativa della struttura, il che fa pensare che
qualche circostanza contingente possa essere intervenuta a provocare forse una precoce
scomparsa delle evidenze superficiali residue della costruzione.
Durante questo breve percorso, si è cercato di sottolineare tutti quegli elementi
finora a nostra disposizione, che possano costituire il primo approccio per una ricerca
sistematica finalizzata all’individuazione della conserva, il cui effettivo ritrovamento è da
ritenersi strettamente legato all’intervento archeologico: la questione resta ancora insoluta
e, per chi scrive, costituisce sicuramente elemento di particolare interesse, oltre che a forte
incentivo per una più prossima soluzione.
Alessandro Mandolesi
IL SANTUARIO DELL’<<ARA DELLA REGINA>>
39
40
1.Topografia e prime evidenze archeologiche
Il santuario è situato sul margine sud della zona centrale della città antica e domina
sia la vallata sotto il fosso di San Savino sia il colle occupato dalla Tarquinia etrusca e
romana.
Il tempio venne scavato da Pietro Romanelli nel 1938 e nel 1946 e pubblicato
parzialmente nel 1948; altri scavi furono condotti dal Torelli nel 1969 lungo il lato nord del
tempio.
L’edificio era sorto nel IV secolo a.C. in sostituzione di un tempio arcaico del quale
sono presenti delle tracce evidenti.
Infatti, nell’angolo sud-est del basamento, c’è una struttura rettangolare orientata
quasi perfettamente secondo i punti cardinali e inserita nell’avancorpo della scalea. Questa
struttura è un parallelepipedo di tufo chiaro lungo m. 7,45, largo m.3,95 sporgente dal
basamento, ed è preceduta da una platea (5,60x4,70) con fori per l’inserimento di una
transenna lignea o metallica. Anche le terracotte architettoniche di prima fase, raccolte in
superficie, sono un valido inizio della preesistenza del culto che, nella metà del IV secolo
a.C. assume forma monumentale.
2. Struttura del santuario
Il terreno, prima della costruzione dell’alto basamento, seguiva l’orientamento
generale del rilievo, con una pendenza di circa 6-8 metri in direzione nord-sud, cioè
dall’angolo nord-est del tempio all’estremità sud-ovest del basamento.
La grande pendenza del suolo originario ha costretto i costruttori del IV secolo a
realizzare una imponente costruzione, larga 34 metri e lunga 77 m. contenuta da muri in
blocchi di macco posti in prevalenza di testa.
Il pavimento del tempio, scoperto solo in un breve tratto presso la fontana di
Cossuzio, era costituito da lastre di macco con una crepidine di blocchi squadrati e aveva
una lunghezza di 4,5 m. circa.
Il tempio era rivolto ad est-sud est (108 gradi); il basamento era accessibile da est
tramite due o tre scalee larghe 15 metri, fra avancorpi muniti di sagome e rivestiti di
nenfro.
Aveva un primo ripiano profondo m. 16,50 sul quale dava l’altare e da questo, per
mezzo di due scalinate laterali e un piano centrale inclinato, si arrivava al secondo ed
ultimo ripiano dove si trovava lo stilobate del tempio che sorgeva su un proprio podio di
100x176 piedi, foderato da un paramento di nenfro.
40
41
3. La leggenda della nascita di Tagete
La maggior larghezza del basamento rispetto al tempio sembra motivata dalla
volontà di inglobare due strutture preesistenti, allineate fra loro e quasi perfettamente
orientate, in cui si riconosce l’epicentro religioso del santuario arcaico.
Il nucleo maggiore è stato identificato con l’altare sopra citato; in quello minore,
secondo un’ipotesi moderna, si è voluto riconoscere il luogo mitico della nascita di Tagete,
rivelatore della aruspicina. La leggenda narrava come, tra la città sul colle e la riva del
mare, mentre Tarconte (il mitico fondatore di Tarquinia) arava, dal solco fresco fosse
balzata fuori la strana figura di un giovinetto con i capelli canuti. Tagete, giovane e vecchio
insieme, era considerato simbolo dell’eterna gioventù della terra e della matura saggezza
della divinità. Egli avrebbe dettato a Tarconte le regole della Disciplina religiosa. Un
reperto che testimonia quanto profondamente fosse radicato tra gli Etruschi il ricordo di
quel mitico evento, è uno specchio di bronzo trovato presso Tuscania. Il disegno che vi è
inciso rappresenta un giovinetto interno all’esame del fegato di una pecora sacrificata, che
tiene nella mano sinistra. Il suo abbigliamento lo rivela aruspice; sopra una veste a
maniche corte, egli ne porta un’altra a pieghe, lunga sino alle ginocchia. Sul capo porta il
tipico copricapo sacerdotale etrusco, un cono a punta. Accanto a lui c’è un vecchio con la
barba e indossa lo stesso abbigliamento sacerdotale. Sul bordo dello specchio si trovano
delle iscrizioni incise; sopra il giovane aruspice c’è scritto Pavia Tarchies, formula
onomastica che si riferisce a Tagete; il personaggio alla sua destra è detto Tarchunus,
Tarconte dunque. La scena e il testo dello specchio bronzeo di Tuscania (opera datata al III
secolo a.C.) rivela la stretta connessione di Tarconte, il leggendario fondatore di Tarquinia,
con il mitico fanciullo.
4. Ricostruzione del tempio
Il tempio, secondo la ricostruzione del Romanelli, aveva una pianta ad alae con un
pronao colonnato. I muri di sostegno delle alae hanno uno spessore di 1,60 metri; le mura
della cella, invece, misurano 1,40 m. Sul fondo si aprono tre stanzette; la stanzetta centrale
aveva la larghezza della cella, mentre quelle laterali erano lunghe come le alae; queste tre
stanzette vanno identificate con le favisse del tempio (ricostruzioni ipotetiche).
Le dimensioni del tempio si possono così riassumere:
lunghezza m. 39,95 - larghezza m. 25,35; alae larghe 4,90 m.;
anticamere lunghe m. 6,55 - larghe 9,55 m.; favisse et adyton profondi 5,30 m.
41
42
Ad epoca imprecisabile appartengono le due stanzette sul lato nord, costruite con
materiale di reimpiego, poggianti al basamento e alla sostruzione, comunicanti fra loro e
accessibili tramite una doppia scaletta, dove furono rinvenuti i frammenti degli <<Elogia
degli Spurinna>>:
Un’altra aggiunta è quella della fontana di M. Cossuzio, quattorviro, tarquiniese,
probabilmente della prima età augustea.
Alle spalle delle due stanzette sopra nominate, si trova una struttura in laterizio
intonacata di cocciopesto; tale struttura, datata al I secolo d.C., era la <<fodera>> del
basamento costruita per evitare che l’acqua stagnasse. L’ultima vicenda architettonica
dell’edificio si ha nel V-IV secolo d.C. quando fu trasformato in chiesa.
5. La decorazione architettonica fittile
Il grande edificio dell’ <<Ara della Regina>> fu fornito di un frontone aperto di tipo
tradizionale, nella metà del IV secolo a.C., che venne decorato con un complesso di
terrecotte architettoniche; le terrecotte che erano applicate alle testate dei travi principali
del tetto (columen e mutili) erano plasmate a mano; gli altri elementi minori erano
ottenuti a stampo. Della decorazione frontale restano solamente due lastre frammentarie
ad alto rilievo: al mutulo destro era forse applicata la figura femminile, di cui resta soltanto
parte della veste dipinta, che viene datata alla seconda metà del IV secolo a.C.
Viene ritenuta rivestimento da columen o destinata a coprire la testata del mutulo di
sinistra, la famosissima coppia dei cavalli alati datata anch’essa alla metà del IV secolo a.C.
Interessante è notare che la lastra dei cavalli dà con un taglio obliquo del margine
superiore la pendenza del tetto (22 gradi e 30 primi).
Delle terrecotte architettoniche ottenute a stampo, attribuibili alla decorazione
originale del tempio in base all’analisi dei caratteri stilistici e tecnici, nessun esemplare è
giunto a noi integro o ricostruibile tranne la tegola di gronda.
Della decorazione del tetto sono stati individuati tutti gli elementi come la sima
frontonale con sovrastante cornice traforata.
La sima frontonale (cm. 50x18) presenta un motivo a rilievo con fiori di loto e
palmette che è molto comune; lo ritroviamo infatti anche a Civita Castellana (tempio dei
Sassi Caduti) a Bolsena, a Cosa (tempio di Giove) e a Talamone. La cornice traforata (cm.
49x29,7) presenta una decorazione a rilievo, anch’essa molto comune, con nastro a
serpentina sormontato da palmette.
Delle lastre di rivestimento quella con palmette oblique contrapposte a spirali
doppie era destinata agli spioventi frontonali; la decorazione è realizzata nei due sensi ed
42
43
esiste un frammento dell’esemplare terminale del colmo destro tagliato per adattarlo alla
pendenza del tetto.
Abbiamo altri tipi di lastre di rivestimento: quelle decorate a rilievo con palmette,
spirali e loti, motivo questo molto diffuso che troviamo in quasi tutti i templi (fase di IV-III
secolo). La lastra con kyma lesbico a decorazione a X con fiori a calice e rosette la
ritroviamo molto simile a Volterra e a Orvieto (Belvedere).
Tra le antefisse a noi note ci sono quelle a testa di menade e di sileno che, molto
probabilmente, risalgono alla metà del IV secolo a.C. caratterizzate da un nimbo, di cui
rimangono solo delle tracce, decorato con viticci, fiori e boccioli e anche dalla stessa altezza
di 25-26 cm. Forse un po' più recente (fine IV sec. a.C.) è l’antefissa a testa di menade con
nimbo coronato da palmette, fiori e calici alternati.
Oltre alle caratteristiche antefisse a testa di sileno e di menade sono state trovate
anche delle antefisse a testa maschile con berretto frigio che, dall’esame stilistico, possono
essere datata alla metà del IV sec. a.C. (come il gruppo precedente). Risalgono alla fase di
IV-III secolo le antefisse a figura intera quella disposta orizzontalmente rappresenta una
figura femminile alata sorgente da volute (cm. 37x45); l’altra è sempre raffigurante una
figura femminile alata che però è posta in modo verticale e regge tra le mani un vasetto
(53x31).
6. Influssi stilistici delle terrecotte architettoniche
I coroplasti si ispirarono, per quanto riguarda le terrecotte a stampo, al programma
decorativo creato alla fine del V secolo-inizi III sec. per il tempio di Belvedere a Orvieto con
l’aggiunta di elementi comuni in altre località come la sima frontonale e la cornice
traforata.
Analogamente al complesso frontonale di Belvedere anche negli altorilievi di
Tarquinia c’è un forte interesse per il linguaggio figurativo e decorativo di età classica ma
con modi più evoluti.
I caratteri stilistici della figura femminile con lunga veste fiorita, e della coppia dei
cavalli alati riportano al clima artistico dell’Atene post-fidiaca, che si riflette nella
ceramografia attica alla fine del V sec. a.C. e che è ripreso in ambiente magno-greco e
italico nella prima metà del IV secolo a.C.
7. Parallelismo con gli altri templi e ultime conclusioni
La fase delle terrecotte architettoniche che possiamo studiare in modo più completo
è quella risalente alla metà del IV sec. La decorazione di queste terrecotte, come abbiamo
43
44
visto, è abbastanza comune e ricorre in molti altri santuari, quali il tempio di
Talamonaccio, il tempio di Juppiter a Cosa (Ansedonia), il tempio di Belvedere a Orvieto e,
limitatamente ad alcuni elementi, il tempio dello Scasato a Falerii.
Interessante sarà quindi confrontare le dimensioni degli edifici aventi in comune le
stesse terrecotte per delineare il rapporto tra le proporzioni della pianta e della
trabeazione.
Il tempio dell’ <<Ara della Regina>>, messo a confronto con i dati vitruviani
riguardo al rapporto tra lunghezza e larghezza (6:5), risulta più allungato, specialmente per
quel che riguarda il podio.
Le dimensioni del tempio sono monumentali: largo 34 m. lungo 77 m. con un
imponente terrapieno è il più grande tempio fra quelli dotati delle stesse lastre di
rivestimento, delle stesse sime, etc. Le lastre di rivestimento, sia quelle con palmette a
spirali, sia quelle a decorazione a X, appaiono quindi, rispetto alla monumentalità del
tempio, piuttosto esigue; infatti l’altezza media ricostruibile non supera i 60 centimetri.
Queste misure sono le medesime che ricorrono in edifici più piccoli come il tempio di
Belvedere, quello di Giove o, ancora, il tempio dello Scasato. Riportando alcuni dati, per
esempio, il tempio di Belvedere è lungo 21,9 m. e largo 16,90 (esatta metà dell’Ara della
Regina); i materiali architettonici, pertinenti alla fase più antica della decorazione del
tempio, risalgono agli inizi del V sec. a.C. Di questa fase ci sono giunte lastre di
rivestimento che ritroviamo anche, come già accennato, a Tarquinia.
Il santuario dello Scasato di Civita Castellana, il più recente dei grandi templi di
questa fase conosciuti, è un altro esempio da paragonare al tempio di Tarquinia. Largo 17
m. esibiva un sistema decorativo molto simile per le dimensioni a quello dell’Ara della
Regina.
Il tempio di Talamone, eretto nella metà del IV sec. a.C., aveva delle dimensioni
molto più modeste rispetto al tempio tarquiniese anche se sono accomunati da una
decorazione architettonica molto simile.
Il tempio di Giove a Cosa, specialmente nella sua seconda fase, ha moltissimi
elementi in comune con l’Ara della Regina come l’architrave rivestita da lastre con
decorazione a X e la sima frontonale sormontata dalla cornice traforata. Ma anche le
dimensioni del tempio di Giove sono minori rispetto a quelle di Tarquinia.
Da queste osservazioni possiamo concludere che il tetto dell’Ara della Regina
risultava non molto appesantito dalla decorazione architettonica rispetto agli altri templi
che, pur avendo la stessa decorazione e quindi più o meno lo stesso peso, erano di
dimensioni notevolmente minori. Il tempio tarquiniese era rettangolare oblungo simile a
44
45
quello greco e alla monumentalità della pianta e degli alzati non corrispondeva
un’adeguata trabeazione.
Massi Elena
Bibliografia
A. Andren, Origine e formazione dell’architettura templare etrusco-italica, in
Rend. Pont. Acc. XXXII, Stoccolma 1959-1960.
P. Bergellini, Belvedere, Firenze 1962.
M. Bonghi Jovino, Gli Etruschi di Tarquinia, Modena 1986.
G. Colonna, Santuari d’Etruria, Roma 1985.
A.M. Comella, Deposito votivo presso l’Ara della Regina, Roma 1982.
M. Cristofani, L’arte degli Etruschi, produzione e consumo, Torino 1978.
W. Keller, La civiltà etrusca, Zurigo 1977.
M. Pallottino, Tarquinia, Roma 1948.
M. Pallottino, Etruscologia, Milano 1985.
P. Romanelli, Tarquinia, in Notizie e scavi, Roma 1948.
M. Torelli, Etruria, Roma-Bari 1980.
ACCADDE A CORNETO NEL 1848:
TANTO RUMORE PER UNA CAMBIALE
Io credo che una delle azioni più importanti, che svolge il Bollettino della Stas, sia
quella di far conoscere o di spingere a conoscere meglio alcuni episodi che riguardano la
vita della nostra città. E’ stato infatti leggendo un breve articolo di Cesare De Cesaris,
pubblicato sul Bollettino del 1977 e riguardante un fatto avvenuto a Corneto nel 1848, che è
nata in me la curiosità di conoscere qualcosa di più sull’argomento. Per questo motivo ho
ricercato documenti e qualsiasi altra cosa che avesse potuto farmelo approfondire e
comprendere meglio. Dato che coinvolto in questa vicenda era lo stesso Gonfaloniere della
città, Domenico Boccanera, era più che logico che le mie ricerche si indirizzassero verso
l’Archivio Storico Comunale. Qui, la mia curiosità è stata accontentata. Ora, unendo alla
documentazione presente nell’Archivio della Stas, quella rintracciata nell’Archivio Storico
Comunale, la visione di quello che accadde a Corneto in quel fatidico 30 giugno 1848 e nei
45
46
mesi successivi mi risulta più chiara. Eccomi dunque ad esporre quello che ho potuto
appurare e ricostruire.
Cosa importante è conoscere bene il personaggio di cui si parlerà, in quanto sarà
proprio per proteggere la sua persona da un arresto non giustificato che scoppierà una
sommossa che avrà ripercussioni sull’intera cittadinanza.
Domenico Boccanera, nato nel 1810, apparteneva ad una famiglia che era giunta a
Corneto (almeno da quanto ci dice il manoscritto di P. Falzacappa dedicato alle famiglie
illustri della città, presente nell’Archivio della Stas), nel 1743 proveniente con molta
probabilità dall’Umbria, forse dalla città di Orvieto. Il padre di Domenico, Benedetto,
aveva scelto come moglie una nobile signorina orvietana e così farà anche il figlio il cui
matrimonio è ricordato nella <<Cronaca Cornetana>> (un altro manoscritto del citato
Pietro Falzacappa): << - 25 novembre 1832 - Matrimonio di Domenico Boccanera: il
giovane Domenico figlio di Benedetto Boccanera si è maritato con Marianna Menicucci di
Orvieto. Questa signorina nobile di nascita e con discreta dote dovrà molto fatigare per
rendersi eguale alla sua suocera egualmente orvietana. Essa è piuttosto bella, e da questo
matrimonio ci auguriamo una buona e bella razza di figli>>.
Precisa come annotazione vero?
Comunque <<una buona e bella razza di figli>> si può dire che sia nata da questi
due sposi: infatti ebbero sette figli, quattro maschi e tre femmine.
Ora che si era sposato, Domenico desiderava che la nobiltà della sua famiglia
venisse riconosciuta ufficialmente, con l’iscrizione nell’albo dei Patrizi della città. Era una
cosa molto importante questa perché, come si legge nel Procaccia (giornale dell’Archivio
Storico, n.12) <<anticamente il Consiglio della città di Corneto era composto di soli Patrizi.
Quando si estingueva qualche famiglia o restava per qualche altra causa vacante un posto
nel Consiglio, si proponevano dei cittadini, e il Consiglio, a voti segreti, osservando che i
candidati fossero muniti di condotta morale e politica irreprensibile, che avessero casa
conveniente del proprio in questa città, oltre una possidenza che permettesse loro di vivere
more nobilium, che non avessero mai esercitato, né esercitassero arti o mestieri non
confacenti allo stato nobile, sceglieva i più meritevoli e gli eletti, entrando a far parte del
Consiglio medesimo venivano nel contempo ascritti nel libro aureo del Patriziato con
l’onere di far solennizzare a spese proprie, nel primo anno della loro ammissione, la festa
del Glorioso Martire Sant’Agapito e di fare un donativo a vantaggio pubblico.
I Signori congregati, a termini delle prescrizioni del Motu Propriodella Chiara
Memoria di Leone XII del 27 dicembre 1827, dopo aver esaminato tutti i requisiti del
Signor Boccanera, lo hanno dichiarato, ad unanimità di suffragi, meritevole di essere
46
47
ascritto all’albo dei Patrizi Cornetani, ferme restando le ingiunzioni di fare a proprie spese
la Festa di sant’Agapito ed un donativo. Il verbale del Consiglio, dopo il visto del Delegato
Apostolico, verrà inviato a Sua Beatitudine Gregorio XVI per l’approvazione finale>>.
Così Domenico Boccanera entra ufficialmente tra i Patrizi Cornetani, diventa nobile
cornetano. Sembra che per lui tutto proceda nel migliore dei modi.
Per avere un quadro più completo della situazione è bene tener presente che il 7
agosto 1828 si è celebrato il matrimonio di una sorella di Domenico, Maria, con Agostino
Mastelloni.
Pietro Falzacappa, attento osservatore di quanto accade a Corneto a questo
proposito annota: <<Doppo molto tempo di amore frenetico si è celebrato il matrimonio
fra Agostino di Candido Mastelloni e Maria del fu Benedetto Boccanera. Se questi sposi
avessero pensato alle conseguenze del matrimonio forse oggi non lo avrebbero
contratto>>. Candido Mastelloni ha altri figli oltre ad Agostino, fra i quali Luigi che poi
tanta parte avrà nella nostra storia.
La famiglia Mastelloni non si trova molto bene finanziariamente tanto che la notizia
della morte di Candido il 10 maggio 1830, viene commentata dal solito cronista così.
<<Doppo una lunga e penosa malattia passò al numero dei più Candido del fu Agostino
Mastelloni e fu sepolto in San Marco...... Fu uomo che sempre sdegnò l’imbarazzarsi con
cose pubbliche, ma di scarsi talenti. Per questa ragione e per la sua poca economia, aveva
ereditato un pingue patrimonio, nella breve vita di circa 66 anni, lascia la sua famiglia con
più abbondanza di debiti che di crediti>>.
Passano gli anni, l’unione di Domenico e Marianna viene allietata dalla nascita dei
primi figli: Maria Felicita (1833), Teresa (che muore ad appena un anno di vita nel 1836),
Benedetto (1836), Francesco Maria (1839), Giacomo Maria (1841) e Luigi Maria (1845). La
vita della famiglia va avanti serenamente. Il capofamiglia, possidente, ogni tanto deve
ricorrere a qualche cambiale, che puntualmente onora. E’ stimato e benvoluto dai suoi
concittadini tanto che nel 1848 lo troviamo Gonfaloniere, ossia capo dell’amministrazione
comunale.
Sembra che nulla in questo periodo debba turbare il normale svolgimento della vita
di Corneto, malgrado la tensione politica stia crescendo un po' dappertutto in Italia.
Nel 1846 è stato eletto al soglio pontificio il cardinale Mastai Ferretti, Pio IX, che
con i suoi primi atti aveva acceso le aspettative di tutti coloro che speravano in
cambiamenti radicali ed in una apertura ad un modo di vivere più libero e più rispettoso
dei diritti dei cittadini: amnistia, riforme, libertà di stampa e di riunione, parole di pace e
di progresso..... Ma le cose si erano improvvisamente aggravate quando nel 1848, mentre
47
48
Carlo Alberto stava portando avanti la I Guerra di Indipendenza, il pontefice, dopo aver
permesso che il generale Durando guidasse i volontari romani ad unirsi all’esercito
piemontese, aveva pronunciato la famosa “allocuzione del 29 aprile” con la quale
dichiarava apertamente che non poteva assolutamente dichiarare guerra all’Austria: <<...
ciò si dilunga del tutto dai nostri consigli, poiché Noi, sebbene indegni, facciamo in terra le
veci di Colui che è autore di pace ed amatore di carità, e secondo l’ufficio del supremo
nostro apostolato, proseguiamo ed abbracciamo tutte le genti, popoli e nazioni con pari
studio di paterno amore>>. Se queste parole andavano bene per i reazionari non andavano
altrettanto bene per “i rivoluzionari” che videro in esse la prova del “tradimento” del papa.
Per cercare di calmare l’indignazione popolare, Pio IX aveva nominato allora Ministro
dell’Interno il conte Terenzio Mamiani, quello stesso Mamiani che nel 1831 era stato
esiliato dallo Stato Pontificio per aver preso parte ai moti di Bologna. Il conte Mamiani,
però, resterà al potere per pochi mesi, e saranno proprio quei mesi in cui avviene il fatto
che indigna la popolazione cornetana.
Cosa accadde dunque?
Come si è già accennato, nel 1848, alla carica di Gonfaloniere era stato eletto
Domenico Boccanera, che succedeva così al conte Lorenzo Soderini. Domenico Boccanera
in virtù della sua carica non avrebbe dovuto temere nessuna mancanza di rispetto in
quanto godeva di particolari garanzie a difesa dalla sua persona. Comunque dovrebbe aver
avuto sentore di qualcosa che si stava tramando contro di lui perché nell’Archivio Storico
Comunale è conservata una lettera indirizzata appunto dal Boccanera al Conte Terenzio
Mamiani, Ministro dell’Interno in data 30 giugno 1848, in cui dice che già due volte, il 16 e
il 23 giugno aveva indirizzato “due rispettosissime... onde arrestare il corso alle inique
trame di Luigi Mastelloni... per garantirmi da un affronto che comunque si sarebbe tentato
e per non rendermi responsabile di una sollevazione popolare”. Cosa era successo
dunque?, perché Luigi Mastelloni avrebbe dovuto ordire qualcosa contro il Gonfaloniere?
Questo Mastelloni certamente non era un tipo molto raccomandabile, da come lo descrive
Pietro Falzacappa: <<....cognito all’intera provincia per le sue dissolutezze, modi
disonestissimi nel sedurre, sorprendere e poscia sposare una dotta signorina della nostra
città, ed appartenente alle prime famiglie del Patrimonio * , falsario di cambiali e pagherò
all’ordine>>. Luigi Mastelloni dunque era riuscito a mettere le mani su delle cambiali che
il Boccanera aveva già pagato ma che, ingenuamente, non aveva ritirato, si era però fatto
*
Il Mastelloni, con il Di Nicola, e altri amici per riuscire a far uscire dal Monastero <<l’onesta fanciulla>> si era
travestito da Notaro, e Cancelliere Vicarile, e con un finto mandato aveva sorpreso la <<troppo credula Badessa>>.
Così aveva rapito <<dal Sagro Asilo l’inesperta donzella>>.
48
49
fare una dichiarazione dal suo ex-creditore in cui quest’ultimo affermava “Che a tutto il
presente giorno non ha alcuna cambiale firmata dal sig. Domenico Boccanera né in
portafoglio da girarsi, né fuori già messa in giro, per cui ne faccio fede da servire nel modo
più valido”. Il Mastelloni per portare avanti questo suo intrigo si era servito dell’aiuto di
uomini della sua risma. Seguitiamo a leggere il manoscritto del Falzacappa: Il meschino
spinto da pressanti bisogni, perseguitato da mandati spediti e prossimo ad essere ricercato,
profugo, ramingo, vilipeso, .... si collegò in perfido conciliabolo con un tal Devenux di
nazione francese, fallito, disperato, ed oggi, per vivere, fra i volontari romani con un pasto
al giorno, e pagnottone... ed il troppo noto Tuccimei>>.
Dunque ritorniamo a quanto il diretto interessato, Domenico Boccanera scrive in
merito all’accaduto al Ministro Mamiani. <<... questa mattina circa le dieci antimeridiane
un tal Cursore Sales, con tre carabinieri venuti appositamente da Civitavecchia mi hanno
sulla pubblica piazza, in prossimità della Residenza Municipale, intimato l’arresto
mettendomi anche le mani in dosso per tradurmi a forza nelle pubbliche carceri. In un
baleno è accorso il popolo di ogni classe in numero inestimabile il quale si è maggiormente
inasprito nel conoscere che si voleva arrestare il proprio Rappresentante senza il debito
permesso di cotesto ministero. La docilità di esso però alla mia voce ha fatto sì che non è
trasceso ad alcun atto di violenza, avendo dato luogo ai carabinieri di ritirarsi e al Cursore
di fuggire: peraltro il fermento è grandissimo e qualunque altro tentativo sarebbe
pericoloso. Con apposita spedizione rendo inteso il delegato dell’accaduto, querelandomi
altrimenti contro il Cursore e contro i carabinieri che senza le debite licenze hanno tentato
una tale violenza”. Boccanera non si spiega come ciò sia stato possibile dopo che tanto il
Mamiani che il Ministro di Grazia e Giustizia, De Rossi e gli altri componenti il ministero,
hanno accolto il suo <<formale ricorso>> facendogli capire che la sua persona non sarebbe
stata molestata * . “Se pertanto i cursori - seguita nella sua lettera Boccanera - e la forza
pubblica si permettono simili arbitri susciteranno dei sconcerti tali e tali disordini da
mettere in tumulto la città e perturbare quell’ordine che segnatamente in questi tempi è
tanto necessario.
Mi permetta poi V. Ecc.nza che io le dica francamente che se la legge non pone una
remora a tali arbitri e a quelli dei tribunali eccezionali, se non chiama questi responsabili
*
Occorreva il permesso di una <<superiore autorità... per li antichi privilegi accordati dalla S.C. del Buongoverno alle
magistrature e che mai sono state revocate ma anzi confermati nelli Motu propri di Pio VII del 1816 e Leone XII nel
1827, e neppure contraddetti nelle leggi del 5 luglio 1831 sull’organizzazione dei Comuni. (P. Falzacappa op.cit.).
49
50
dei danni e pregiudizi che ne derivano dalle loro sentenze, come appunto è nel caso mio ** ;
se il Governo... non estirpa prima otto o dieci ladri interni in questa Provincia fra i quali
diversi della nostra città, ed in capo Luigi Mastelloni, le sostanze e la vita dei cittadini
saran sempre compromessi per i fatti di questi iniqui a cui i tribunali tengono mano negli
assassini domestici che essi commettono a man salva e impunemente sotto l’Egida delle
ingiuste sentenze dei tribunali... il poderoso braccio del Governo ci assista e garantisca
soprattutto i rappresentanti del popolo che sopportando il peso di una carica del tutto
onerosa e responsabile non siano poi costretti a subire anche nella propria residenza atti di
violenza e di ingiustizia... Né si creda da V. Ecc.nza forza di un animo commosso
l’espressione che i birbi trovano appoggio negli stessi esecutori della giustizia mentre cosa
di fatto è che l’indegno Luigi Mastelloni ha fuori circa dieci mandati personali e non si
trova chi li eseguisca là dove ad istanza del medesimo si trovano e forza e cursori che
eseguiscono tali atti contro un gonfaloniere che ha mezzi e fondi per soddisfare al preteso
debito... Ripeto ancora una volta che si permetta pure una esecuzione sopra i miei beni di
qualunque specie meno alla mobilia di casa, che sarebbe un eguale sfregio, ma si emani un
ordine che mi garantisca degli affronti, senza il quale io sarò sempre esposto e la
popolazione sempre compromessa”.
Non si può dire che quel 30 Giugno il Gonfaloniere si sia risparmiato nello scrivere,
infatti ha inviato una lettera anche al Delegato Apostolico e al Ministro di Grazia e
Giustizia, avv. Pasquale De Rossi. In tutte è espresso il suo sdegno e il pensiero che la
popolazione non possa più sopportare senza reagire un altro oltraggio simile. Ecco quanto
scrive al delegato Diocesano: <<Eccellenza Rev.ma in questo momento, che sono le dieci
avanti mezzogiorno, il Cursore Sales con tre carabinieri venuti da Civitavecchia hanno
tentato il mio arresto sulla pubblica piazza, presso la residenza Comunale, senza alcuna
facoltà in rapporto alla mia rappresentanza, se non che come si asserisce colla sola verbale
intesa di Vostra Eccellenza Rev.ma.
Questo fatto ha sollevato in un momento il popolo
in modo tale che se non fosse stato docile alla voce di quel capo contro cui voleva
esercitarsi un atto di violenza, la cosa non sarebbe terminata bene... il popolo è corso a
liberare il suo rappresentante dalla tentata infamia in quanto che conosce la vera frode
usata contro lui dal perfido Luigi Mastelloni.... ma si pensa che tenendo una tale via le sue
trame non perverranno all’intento prima che il Tribunale della Rota non abbia revocata
l’ingiusta sentenza del Tribunale Commerciale di Roma e quindi l’esecuzione personale
**
Il Mastelloni era riuscito ad avere una sentenza del Tribunale di Commercio di Roma in cui si intimava al Boccanera
di pagare la cambiale di 1040 scudi (che già aveva pagata), pena l’arresto. Contro questa sentenza Boccanera aveva
ricorso presso il Tribunale della Rota affinché venisse annullata.
50
51
perché da me si paghino i mille scudi che ingoiati in un baleno nello sterminato pozzo delle
sue trufferie non sarebbero da me più affatto recuperabili.
Questi
fatti
sono
noti
all’augusto Pio IX che si degnò rimettere un mio ricorso al Ministro di Grazia e Giustizia,
noti all’intero Consiglio dei Ministri, notissimi al Ministro dell’Interno, il quale
riconoscendo l’aperto furto che mi si vuole fare, si è degnato di farmi assicurare che io nella
mia Residenza, non avrei ricevuto alcun affronto... Io non posso persuadermi che sia per
opera di V. Ecc.naza, come si asserisce e se ciò fosse io non dovrei che dolermene
altamente.... ripeto di non crederlo e ne sono in modo tale persuaso che ricorro a Lei...
perché mi si renda la dovuta soddisfazione e giustizia...>>“
Ed il responsabile della Delegazione Apostolica di Civitavecchia risponde nello
stesso giorno: “Ill.mo Signore, il rapporto che V.S. Ill.ma mi ha fatto trovare per spedizione
intorno al tentato di lei arresto mi ha recato la più grande meraviglia. Ho chiamato subito
il Comandante dei Carabinieri a darmi subito esatto conto dell’operato dei suoi dipendenti
ed inspecie di essermi attribuita a mia insaputa una esecuzione che io avrei... evitata se si
fosse portato a mia conoscenza il fatto che si meditava>>. Poi prosegue specificando che il
Cursore Sales dovrà difendersi sia per la tentata <<esecuzione personale>>, sia <<per aver
ardito di spacciare il mio nome>> e che scriverà subito al Ministro dell’Interno sul
<<dispiacente avvenimento per le ulteriori provvidenze>>.
Come si vede fin dall’inizio si sente che l’episodio difficilmente non avrà
conseguenze spiacevoli.
A dare man forte al Cursore Sales e alla <<forza carabiniera>> però erano
intervenuti anche alcuni cornetani che prontamente erano stati riconosciuti e che secondo
tutti meritavano una punizione. Alcuni di essi facevano parte della Guardia Civica di
Corneto, per questo motivo in data 1 luglio 1848, 64 cittadini, componenti della stessa,
inviano al Capitano Comandante, una precisa richiesta: <<L’infame attentato commesso
nella persona onorevolissima del Gonfaloniere di questa città in cui ebbero parte alcuni che
disgraziatamente trovansi iscritti nei ruoli della Guardia Cittadina, irritò per modo gli
animi tutti della popolazione che fu generale il grido, venissero tosto espulsi dal
rispettabile Corpo Vincenzo Di Nicola, Luigi Simbeni (?), Gio. Batt.a Valletti e tutti coloro a
carico dei quali si avessero prove di avere in qualche maniera cospirato a portare a fine
l’inaudito sopraccennato disegno. Trovato giusto dai Civici sottoscritti l’assennato
desiderio del Popolo e bramosi oltremodo che sia purgato il prelodato Corpo di Guardia
Cittadina da tutti quei che lo disonorano con azioni vituperevoli, si rivolgono a V.S. Ill.ma
perché voglia adoperarsi onde siano cancellati dai ruoli gli individui qui sopra elencati.
Firmato: Crispino Mariani - tenente, Egidio Ruspoli - tenente, Giuseppe Maneschi
51
52
sottotenente, Giuseppe Panzani sottotenente, Evangelista Pasquini sottotenente, Andrea
Mercati sergente, N. Maneschi sergente maggiore, Giuseppe Compagnucci sergente, N.
Maneschi sergente maggiore, Giuseppe Compagnucci sergente, Luigi Maneschi caporale,
Francesco Mastini sergente maggiore, Lorenzo Benedetti caporale, Alessandro Calvigioni
caporale, Pietro Bruschi caporale, Eugenio Lucidi, Mario Calvigioni, Giuseppe Mattioli,
Antonio Scappini, Giuseppe Marzi, Tommaso Simoncelli, Francesco Dasti, Nicola Soderini,
Pietro Marzoli, Benedetto Caltraj sergente foriere, F. Falzacappa, F. Grispini, Mattia
Sacchi, Luigi...., Giuseppe Querciola, Lorenzo Ferri, Lorenzo Crispini caporale, Domenico
Avvolta, Alfonso Grispini,... Falzacappa, Lorenzo Mencarelli sergente, Giuseppe Pandicico,
Salvatore Govi, Bernardino Milizia, Milizia A., Vincenzo Ajelli, Pietro Prosperi, Gio. De
Angeli, Sebastiano Fiorani (?), Vincenzo Viti, Sinibaldo Loreti, Nicola Fidenza, Mario
Massi, Vincenzo Toti, Francesco Campesi, Lorenzo Pigolotti, Giovanni Verzini, Milizia
Giuseppe, Giuseppe Celli caporale, Giovanni Celli civico, Rinaldo Pivitelli, Tripoli (?)
Vincenzo, Gonfaloni Luigi, Mariano Gelli, Francesco Benigni (?), Costantino Pampersi,
Forcella Giuseppe, Giacchetti Antonio, Romualdo Maneschi>>.
I capitani della seconda Compagnia della Guardia Civica Pontificia di Corneto,
Antonio... e Luigi Benedetti, ricevuta questa richiesta la inviano, il 3 luglio, al Governatore
Antonio Adriani, Presidente del consiglio di divisione, pregandolo di convocare il più
presto possibile il Consiglio di Divisione per decidere in merito. A questo riguardo ho
trovato solo la difesa presentata da Gio. Battista Valletti al Consiglio di Revisione della
Guardia Civica. Una difesa portata avanti con abilità, di cui però, almeno per il momento,
non se ne conosce l’esito. Vale la pena leggerla: <<Ill.mi Signori Gio. Battista Valletti, che
contro l’infame attentato commesso nella degna persona del Gonfaloniere prese parte
energica ed attiva insieme agli altri militi della Guardia Cittadina per difendere la primaria
rappresentanza e sostenere il comune decoro, ebbe poi l’alto dispiacere di sentirsi
appellare traditore dagli stessi suoi compagni e venne tradotto come complice nel profosso
del Quartiere Civico. Causa di tutto ciò fu il rinvenimento del Cursore Sales nascosto nella
bottega della famiglia del Valletti, quasi egli stesso ve lo avesse condotto ed occultato.
L’esponente non si querela del trattamento usatogli dai suoi commilitoni, dappoiché egli
stesso avrebbe operato altrettanto contro chiunque fosse stato imputato di una complicità
in azioni così vituperevoli; l’oggetto unico di questa sua rappresentanza è quello di chiarire
la propria innocenza, onde non si mandi ad effetto la minacciata espulsione, e non si copra
d’infamia un individuo senza cognizione di causa.
L’esponente non entra a discutere se i suoi di casa sapessero o no che il Sales erasi
presso loro rifugiato, né a far distinzione fra il prestamano ad un assassinio e dar ricetto a
52
53
chi fugge per salvarsi la vita. Egli prega soltanto a riflettere che in atto dell’avvenimento
trovavasi fuori di casa, che seguì i suoi compagni per tutte le vie e per ogni dove s’indicasse
la fuga del Sales, che sulle voci che il medesimo si fosse nascosto nella indicata bottega,
condusse subito i suoi compagni a perquisirla, che egli stesso salito in casa, guardò nelle
più recondite parti, che persistendo la voce, insisté per più volte che si tornasse ad altra
perquisizione, e che finalmente egli non fu mai in casa fino all’arresto del Sales, meno il
momento che vi entrò con altri a perquisirla. Aggiunge in ultimo non esser vero altrimenti
che il ragazzo che svelò allo stesso esponente ed al sig. Mattia Sacchi dove era nascosto il
Cursore, dicesse al Valletti - Voi lo sapete -, ma bensì in senso dubitativo - E che voi non lo
sapete? - Meravigliato a par di esso ch’Egli fosse in luogo di sua pertinenza senza sua
saputa.
Dopo tuttociò, a cui si potrebbe aggiungere altre molte giustificazioni, che si
lasciano per brevità, spera il Valletti che l’Ecc.mo Consiglio di Revisione sarà per
riconoscere al di lui innocenza, e per non permettere la dimandata espulsione dal Corpo
Civico>>:
Una difesa intelligente, che cerca di capovolgere tutti i capi d’accusa.
Ci sarà riuscita?
Intanto però anche la Congregazione Consigliare di Corneto non sta con le mani in
mano. Il 7 luglio si svolge una riunione i cui <<inviti d’ordine per urgenza>> sono stati
<<trasmessi nella mattinata di questo giorno>>. Vi partecipano anche Antonio Adriani,
governatore, Domenico Boccanera, gonfaloniere, Giuseppe Falzacappa, anziano, Vincenzo
Maneschi, anziano, il canonico Angelo Marzi deputato ecclesiastico, il preposto don
Michele Bruschi, Francesco Bruschi, il conte Casimiro Falzacappa, il conte Lorenzo
Soderini, Benedetto Mariani, Eugenio Lucidi, Francesco Angelo Marzoli, Giuseppe
Ponzani, Federico Petrighi, Giuseppe Latini. In questa occasione Domenico Boccanera
ancora una volta ripete come sia potuto accadere che il Mastelloni potesse giungere a tanto
contro la sua persona con il beneplacito della legge: <<... vi è noto il dispiacevole
avvenimento del 30 giugno, note del pari non saranno a voi tutti le circostanze che lo
precedettero, e le pratiche da me usate per prevenirlo, gioverò che io prima vi spiegni che il
Tribunale di Commercio della Dominante, dopo aver conosciuto fino all’evidenza che per
fatto del famigerato Luigi Mastelloni andava su me a commettersi una truffa di mille e 40
scudi, rilasciò tuttavia a mio carico il mandato reale e personale... A porre in salvo però il
mio interesse e la mia convenienza, dopo aver fatto i necessari passi al Trono Sovrano e al
Ministro di Grazia e Giustizia, reclamai fin dal 16 del predetto giugno al Ministero
dell’Interno, indicando il favore dei privilegi tuttora in osservanza a beneficio della
Magistratura, perché non si permettesse il mio arresto personale. Non essendosi peraltro
53
54
quel Ministero degnato di onorarmi di alcuna risposta... tornai sotto il 23 del mese stesso a
scrivere al Ministero dell’Interno * , osservando che, quantunque io non dubitassi dei miei
privilegi, pur se il Ministro con una speciale disposizione non poteva o non credeva
rendermi giustizia e farmi scudo con il suo potere contrro gli attentati degli empi, io avrei
dimesso spontaneamente la mia qualifica per mettere in sicuro la mia persona; per non
arrossire di una rappresentanza conferita dal Sovrano e resa il dilegio dei birbanti, per non
farmi truffare la indicata somma, e per non rendermi infine responsabile dell’operato della
Popolazione che non avrebbe veduto con indifferenza commettere una violenza qualunque
contro il primario suo rappresentante... Il Ministero... per vie trasversali mi fece intendere
che io non sarei mai stato in Corneto arrestato e che egli curava non solo la mia persona
ma pur’anche il mio interesse. Dopo di ciò pareva impossibile che dovesse succedere
l’avvenimento del 30 giugno. Ma la massiccia parte della popolazione ne fu spettatrice, e
vide con i suoi propri occhi se un malfattore, un reo di stato, uno dei più barbari omicida
venisse mai arrestato con più eclatanza, con maggiore pubblicità. Io non posso
risovvenimmi senza la commozione più viva, la parte che ebbe l’intera città senza
distinzione di sesso e di ceto in quel momento per liberarmi dalle mani di quei manigoldi,
che senza le debite facoltà eseguivano una violenza tenendo mano a miei assassini...
Per tornare però al principio del mio proposito, io debbo dirvi con sommo dolore
che sono nella ferma deliberazione di emettere la mia rinuncia alla qualifica onorevole di
che mi trovo insignito.... se si volesse osservare la legge e le disposizioni contenute
nell’ultima circolare del Ministero approvata da ambo i consigli legislativi, gli autori, gli
esecutori, e i complici del tentato arbitrario arresto avendo agito senza le debite facoltà
dovevano essere immediatamente destituiti dai loro posti... Io non avrei voluto
incomodarvi o Signori, né tediarvi con questo ragionamento, ma il mio core sentiva una
ripugnanza troppo grande nell’emettere una rinuncia all’insaputa di voi che di tanta
benevolenza mi onoraste, che di tanti lumi mi forniste nei pochi mesi della mia
Amministrazione, di voi che io stimo ed amo sopra ogni credere...>>.
Si sente in queste parole del Boccanera la delusione, la rabbia, la tristezza per
quanto gli sta accadendo. Queste dimissioni sono veramente dolorose per lui che sente di
non aver fatto nulla di male.
Il Consiglio però non vuole tali dimissioni e questo è chiaramente espresso nel
verbale della riunione, inviato alla Delegazione Apostolica di Civitavecchia, nel quale si
precisa che: <<Tutti i sig.ri coadunati hanno unanimamente pregato il sig. Gonfaloniere a
*
Il Boccanera non sembra tener conto dei gravi contrasti sorti tra il Papa e Mamiani, contrasti che erano sfociati il 22
54
55
non emettere la sua rinuncia e portato sentimento che invece si spedisca una deputazione a
Roma, perché presso il Ministero dell’Interno, presso quello di Grazia e Giustizia, presso
quello di Polizia, presso i Consigli e al Trono Sovrano se occorre, esponga con gli
antecedenti il fatto che ebbe luogo il 30 giugno, sostenga le ragioni della Città e Popolo e
difenda la persona e la convenienza del lodato sig. Gonfaloniere, e implori una disposizione
e delle misure energiche dal Governo per estirpare e punire gli autori di tali attentati che
con le sostanze pongono a pericolo la vita e la libertà dei buoni. La deputazione è stata di
viva voce acclamata nelle persone del sig. Conte Pietro Falzacappa e sig. Lorenzo
Benedetti, e siccome il sig. Falzacappa non si trova presente all’adunanza è stato pregato il
sig. Francesco Bruschi Falgari ad interporsi presso il medesimo per l’accettazione>>.
Ecco, a questo punto si può ben capire per quale motivo Pietro Falzacappa abbia
lasciato vari scritti in proposito (lo esigeva il compito che gli era stato affidato). E’ del 10
luglio lo scritto inviato al Ministro Galletti in cui viene puntualizzata <<... la pacifica e
subordinata tranquillità che caratterizza gli abitanti>> della città di Corneto, <<intenti
sempre alle occupazioni agrarie che formano l’unica risorsa del loro territorio>> e come
<<... il comandante la tenenza di Civitavecchia mandò il suo maresciallo e due altri
carabinieri nascostamente in Corneto che, sortiti all’improvviso tentarono l’arreso del
Gonfaloniere... esponendo la forza pubblica a quelle conseguenze che potevano venire da
un tumulto popolare se non fosse stato calmato da quel sig. Governatore che ordinò
prudentemente alla forza carabiniera di desistere e di ritirarsi senza che possa lamentarsi
di aver ricevuto il più piccolo oltraggio personale e se non fosse stato l’intervento della
truppa civica che protesse i tre carabinieri e che con la sua influenza poté calmare
l’effervescenza popolare>>.
Tra le carte di Falzacappa si ritrovarono pure le copie delle memorie inviate al
Mamiani (11 luglio) e al Ministro di Grazia e Giustizia, De Rossi (12 luglio) e una
<<Risposta al Sig. Cristoforo Tuccimei sulla pretesa ribellione di Corneto lì 30 giugno
1848>>. E sì perchè nel mese di luglio a Roma (ma poi anche nella Provincie) era apparso
un foglio stampato in cui era possibile leggere un Rapporto inviato alla Camera dei
Deputati di Roma <<Sopra una ribellione di alquanta Civica e Popolo procurata in Corneto
Delegazione di Civitavecchia a pregiudizio dell’interesse privato e della legge>>.
Certamente chi doveva farsi un’idea di quanto era accaduto quel fatidico 30 giugno nella
nostra città, leggendo solo quello che era scritto su quel rapporto avrebbe potuto
veramente credere che ci fosse stata una vera e propria ribellione pericolosa per i tempi.
giugno nelle dimissioni del Mamiani e di tutti gli altri ministri, che resteranno però in carica fino al 6 agosto.
55
56
Decisamente le cose venivano presentate in un modo molto diverso da quanto letto fino
adesso. Esistendo presso l’Archivio della Stas una copia di questo manifesto, se ne possono
rilevare direttamente i punti più esasperati: <<Il Cursore Carlo Sales di Civitavecchia
accompagnato dalla Forza Carabiniera e testimoni della stessa città si recò in Corneto nel
giorno 30 giugno p.p. per ivi procedere alla esecuzione reale e personale di due mandati,
che per la somma di scudi 1040, oltre le spese, questo Eccellentissimo Tribunale di
Commercio ha rilasciato contro Domenico Boccanera, Gonfaloniere in Corneto. All’intimo
ricevuto o del pagamento o dell’arresto, procurò il debitore di schermirsi con addurre una
strana ridicolissima pretesa d’immunità di persona, in opposizione ad ogni buon principio
di libertà e di eguaglianza... A questo fatto trovavasi presente il solo Benedetto Mariani
uomo che per provincia può dirsi ben ricco. Costui senza veste alcuna, a meno di quella
della prepotenza e di una sfrontata fellonia, principiò ad ingiuriare nei modi più turpi
Carabinieri e Cursore, ingiungendo loro o di rilasciare in libertà l’arrestato o diversamente
avrebbe chiamato a sollevazione il Popolo per trucidarli. E così fu, ché gridando ed urlando
alla sollevazione, fece adunare e Popolo e Civica; e questa, che stava nel vicino Quartiere, a
suono di tamburo, imbrandite le armi, che non alla protezione dei delitti, ma a santi fini le
furono consegnate, esimette dal potere del Cursore e carabinieri l’arrestato: sottrasse e rapì
dalle mani del primo anche i mandati del Tribunale, e così astretto lo stesso Cursore ad
una indispensabile fuga per salvarsi la vita, fu dopo poco arrestato, come precedentemente
lo era stato uno dei testimonj gravemente ferito nella testa. Nel frattempo sopraggiunse il
Governatore Locale sig. Antonio Adriani, ed è veramente inverecondo che costui
piuttostoché porsi in mezzo per dissipare o raddolcire il tumulto, s’interessò nel fatto per
maggiormente accenderlo, onde le ordinanze del Tribunale nel Sovrano Nome emanate
piuttostoché rispettate venissero calpestate ed abiette. Con parole minacciose ad alta voce
dirette imprudentemente nel bollor del tumulto ai Carabinieri. Esso animò ed incoraggiò
quella gente baldanzosa a vieppiù infellonire, e così li Carabinieri stessi dovettero ritirarsi
per non essere massacrati, ciocché il Mariani con premeditato consiglio aveva virilmente
procurato... Né qui cessarono le scorrerie... un tal Vincenzo De Nicola, che niuna parte
aveva nella esecuzione, fu aggredito da alcuni graduati Civici, i quali con una quantità di
gente procuratasi nel disordine lo ricercavano da per tutto per trucidarlo; al qual fine
furono anche prese le porte della Città, onde non potesse scampare dalla loro vendetta. Ma
vano riuscito essendo ogni tentativo contro colui, che per esser Padre di numerosa famiglia
dovette prudentemente ritirarsi emigrando dalla patria esule e ramingo, fu da quelli
insorgenti malmenato e preso in ostaggio il di lui figlio di anni 17, recando così desolazione
e scompiglio alla isolata madre e fratelli. E’ però un nulla il fin qui detto in paragone del
56
57
resto. Ammaestrati forseo coloro dagli ultimi recenti fatti di Napoli, sull’esempio dei
Lazzaroni al saccheggio, invasero (ciocché davvero è orrendo) le case di ben onesti e
tranquilli Cittadini non solo, ma pure le Chiese di Monache con la più nera esecrabile
impudenza a mano armata... Dal rapporto dei Carabinieri sembra non esser dubbio che il
Ministero stesso ha già ben fondati punti di appoggio per poter senza ulteriori indagini
procedere speditamente e con tutta energia contro Benedetto Mariani, di cui
maggiormente perché ricco deve assicurarsi come autore originario della sommossa, e
perciò reo responsabile di tutte le conseguenze di Essa...
Giova pertanto di stare in osservanza delle mosse Politico-Ministeriali, anche
rispetto a quella parte di Civica insorta e alla illegalità dei seguiti arresti, nei quali si sappia
che tuttora in segreta si ritiene strettamente il Cursore,.... Si spera poi che il Ministero non
indugerà più oltre a prendere attivissimi temperamenti sia rapporto alle garanzie
necessarie per la restituzione in patria dell’esule De Nicola, che ha diritto ad essere
protetto dalla legge.... sia in rapporto ad una più energica e spedita misura dovuta
sacrosantemente per la esecuzione dei mandati contro il Boccanera, e per l’integrità dei
diritti del creditore, che non devono restare menomamente pregiudicati dalla criminosa
violenza degl’insorgenti...>>.
Sono accuse molto forti che mirano a mettere in cattiva luce non solo il
Gonfaloniere, ma anche il Governatore, la Guardia Civica, Benedetto Mariani e la stessa
Popolazione. Si rischia di far apparire la città di Corneto come una città ribelle all’autorità
costituita, cosa molto pericolosa in quel periodo di confusione politica.
Quando Pietro Falzacappa ha in mano questo scritto sente che è suo dovere
<<contare l’accaduto, acciò in ogni epoca si conosca la verità nel vero suo nudo, affinché in
ogni tempo resti e sia palese l’innocenza del Governatore, del Mariani, del Boccanera,
dell’intero popolo cornetano e sua Civica tutti dipinti con neri colori ed epiteti ingiuriosi
dal Cristofero Tuccimei>>. Ecco quindi la sua <<Risposta>> a questo foglio, nella quale
ribatte punto per punto gli argomenti addotti contro i suoi concittadini. Comincia con il
dire che <<tale scritto avea per oggetto mascherare, o stravisare un fatto accaduto in
Corneto..., fatto che caratterizza la buona indole di quei cittadini a fronte di eccitamenti e
provocazioni; fatto che seguì le vie del retto e del giusto, malgrado le esserzioni del leguleio
sotto; fatto che pone nel suo vero aspetto la mansuetudine e la docilità di quella truppa
Civica, e Popolazione, che ne dica in merito il sedicente interessato Cristoforo Tuccimei.
Egli si studia in sul principio di quel libello esporre il successo senza indicarne i motivi che
dettero luogo alla mossa; quindi o anteponendo o prosponendo a suo capriccio le cose
accadute accusa il più vigile, ma insieme prudente Magistrato sig. Governatore Adriani,
57
58
incolpa di un moto naturale e provocato l’onesto cittadino sig. Benedetto Mariani, accusa
un forte possidente quale sig. Boccanera quasi non potesse pagare la meschina somma di
scudi 1040. Non ci vuole che un inverecondo Tuccimei cognito a tutta Roma non secondo
davvero fra i mozzorecchi della Capitale, Tuccimei ben differente dai suoi illibati fratelli, a
quali fa onta e vergogna, dispiacere e rancore>>.
Passa quindi a delineare la figura di
Luigi Mastelloni nel modo che già abbiamo visto e a precisare come sia stato tessuto
l’inganno contro il Boccanera; <<... Si legò, dissi, il Mastelloni col francese ed il troppo
noto Tuccimei, e questi producendo una delle cambiali, che aveva in buona fede sino da
cinque anni indietro sottoscritto il Boccanera... e facendo di suo carattere una minutissima,
impercettibile girata a favore del disperato Devenux sulla citata cambiale già pagata
dall’accettante Boccanera, e giratario Graziosi, nel momento che spiravano i cinque anni si
presenta con Notari e Testimoni per esigere scudi 1040, prima cambiale, in casa
dell’onesto negoziante Caparozzi, agente del Boccanera.... Il Tribunale... sebbene persuaso
della falsità dell’inchiesta, sebbene gustasse la testimonianza di calligrafi, che deponevano
sulla recente girata.... sentenziò mandato reale e personale contro il Boccanera. Il preteso
debitore si negò al pagamento nella certezza, che agitata la causa in Rota, e vinta...
pagando era sicuro di non poter riscuotere, perché anche cercando il Mastelloni, come
altre volte era successo, poco avrebbe influito sulla sua inonesta e cognitissima condotta,
sopra l’uomo demoralizzato. Fu allora che il Mastelloni con il nome di Devenux, di
nascosto si portò in Viterbo, ove per l’annuale fiera si conduceva il Boccanera, coll’oggetto
di carcerarlo, ma il delicato Curiale Viterbese cui era appoggiata l’impresa e che conosceva
quanto pesava il Mastelloni ed il Boccanera ne avvertì un onesto galantuomo acciò ne
facesse inteso il Boccanera, che si voleva ad ogni costo sagrificare, o per meglio spogliare.
In effetti l’avvertito Boccanera partì nella notte e deluse le spie (era nascosto in Viterbo il
Mastelloni ed il De Nicola spiava ogni andamento del Boccanera), i Carabinieri, il preteso
creditore... Il famelico Mastelloni, il quale altro non mirava che all’incasso di 1040 scudi,
lungi dal fare esecuzione sui tanti beni stabili, sopra un ricco magazzino di grano, su tanto
bestiame di cui è possessore il Boccanera, tentò la sorpresa, volle colmare la tazza
dell’iniquità, commise l’attentato di cui sono a narrare la dolorosa istoria. Il giorno 30
giugno 1848 nascondendo Carabinieri forestieri e Cursore non cittadino, a pochi passi dal
Quartiere Civico, sulla pubblica piazza sorprese il Boccanera, e tentò carcerarlo,
mettendogli le mani addosso, minacciandolo di legarlo a fronte che Egli dicesse sono il
Gonfaloniere, cui i satelliti del Mastelloni rispondevano (cosa falsissima) avere il permesso
dal Delegato. Benedetto Mariani uomo ricco, onesto, tranquillo, ma insieme sensibile alle
ingiurie dell’amico col quale parlava, colla sua naturale voce maschia e sonora, gridava:
58
59
pago io sul momento, faccio sicurtà, che bricconata è questa di legare il primo Magistrato,
Civica accorrete a liberare il nostro Gonfaloniere. I tranquilli cittadini, la truppa Civica
corse in folla a circuire il Cursore inonesto, li Carabinieri forestieri... sopraggiunse il
Governatore, che ad evitare scandali di sommo rilievò intimò al Cursore, ai Carabinieri di
desistere e liberare il già circondato Gonfaloniere e procurò quindi che i nominati
Carabinieri fossero accompagnati dal sig. Eugenio Lucidi fuori la Città, né altro di rilevante
o tristo accadesse. La popolazione allora furiosa si dette alla ricerca delle spie, dei
testimoni, del Cursore. Ma questi sollecito evadendo dalla folla si nascose in Casa Valletti.
Nella ricerca per tutta la città si trovò un solo testimonio, che volendo far forza e fuggire fu
alquanto malmenato, ma non ferito, non contuso, non battuto, perché difeso da vari onesti
cittadini e Civici e solo accompagnato fino al Quartiere con urti, fischi, contumelie. Qui
ricevette tutti i soccorsi, che sa donare una popolazione indignata sì, ma onesta; furibonda
contro il Cursore sì, ma ragionevole nel distinguere il testimonio dall’esecutore. E guai
davvero se in quel momento di effervescenza si fosse trovato il Sales Corsore: ben difficile
momento di effervescenza si fosse trovato il Sales Corsore: ben difficile sarebbe stato
rispondere della sua vita, tanto era l’esaltamento dell’intera Popolazione. Lo sdegno allora
si rivoltò a perseguitare il manutengolo, la spia, il complice di tanti e tanti delitti del
Mastelloni; Vincenzo Di Nicola, riguardato da più anni dai più indifferenti per uomo
cattivo, in odio alla popolazione intera. Egli però prevenne le indagini, si nascose in casa di
un suo amico (che amici!!!) del consigliere del Mastelloni sig. Giovanni Bruschi e nella
carrozza dello stesso Bruschi nella notte fuggì e raggiunse il collegato alle sue iniquità,
Luigi Mastelloni. Ambedue si ripararono in Roma. Mentre in gran parte si era calmato
tanto subuglio il Valletti nella di cui casa si era rifugiato e nascosto il Cursore, ne fece
palese l’asilo, ma fu allora che alquanto sopita l’effervescenza popolare, da vari Civici preso
in mezzo, il poco ravveduto Cursore si consegnò più per sua grazia che per altro nelle
pubbliche carceri, accompagnato solo da una moltitudine con urli, fischi, schiamazzi, ove
dimorò per otto giorni sino a tantoché fu tranquillamente scortato dalla pubblica forza in
Civitavecchia. Non si fece perquisizione ulteriore in alcuni domicili, non s’insultò il figlio
ben grande del De Nicola, come falsamente asserisce lo scritto contrario, ma quel figlio,
che vedea nel pubblico, scappò, accompagnato da un onesto cittadino, e solo fu riportato a
casa con preghiera che non sortisse, e così non compromettesse una tranquilla ma
indignata popolazione.
Falso che si tentassero visite domiciliari, falso che si eccitasse al
tumulto, al saccheggio la troppo morigerata popolazione, falso che i monasteri fossero
aggrediti o semplicemente avvicinati, minacciati come si asserisce nella contraria legenda
dal più che cognito Tuccimei.
59
60
Sono queste favole della sua malvagità....
Che sia irregolare e troppo precipitosa, per non dire ingiusta la sentenza del
Tribunale di Commercio lo prova la sospensione di ogni atto pronunciato dalla S. Rota con
sentenza del 24 giugno 1848 coram Quaglia ed accordante al Boccanera di far deposito di
scudi 1040 dietro idonea sicurtà, lo prova il richiamare a sè tutti gli atti per farne
disposizione e giudizio sul merito nel futuro dicembre o gennaio; lo prova il solo riflesso di
non esigere una cambiale nel luogo corso di anni cinque (caso del tutto nuovo): al che il
diligente Boccanera subito si è prestato per stare in ogni evento dalla parte della ragione ed
a tramite del giusto. Che i Gonfalonieri godino di questa personale esenzione basta leggere
i privilegi notati dal Devecchis fino dal 1724, privilegi che mai sono stati revocati...
Vituperio, infamia a chi ha meditato, in oltraggio della gratitudine, amicizia, compassione
quest’atto illegale, inverecondo da fare epoca nei fasi di Corneto>>.
Ed i fatti, come si può notare, questo <<atto inverecondo>> è rimasto nella storia
minore del tempo.
Comunque mentre a Corneto si vivevano questi giorni così agitati anche nello Stato
della Chiesa la vita non si presentava affatto tranquilla. I contrasti tra il Mamiani e Pio IX
erano diventati sempre più aspri, secondo i fautori del papa perché il Ministro
<<s’accostava più ai demagoghi che al pontefice, il quale, secondo il Mamiani, doveva
astenersi affatto dagli affari temporali perr attendere unicamente a pregare, a benedire e a
perdonare>>. Quindi la situazione giunge ad un punto tale che, il 6 agosto Pio IX, dopo
aver accettato le riconfermate dimissioni del Mamiani, nomima Ministro dell’Interno il
Conte Edoardo Fabbri, un liberale assai moderato.
Il 6 agosto però è anche la data in cui una lettera inviata dal Delegato Apostolico al
Gonfaloniere getta quest’ultimo in una grave agitazione. Infatti il Delegato scriveva:
<<Ill.mo Signore, ritorna costà quel Vincenzo De Nicola implicato nel noto malaugurato
avvenimento di costà. Egli confida di trovarvi la personale sicurezza, né io potrei
aspettarmi il contrario dal buon senso di codesta popolazione; ma siccome il Ministro di
Polizia mi fa speciali premure per vegliare su lui, io non saprei a chi meglio che a V.S.
Ill.ma raccomandarlo, perché colla sua influenza possa all’occasione distogliere chiunque
da inopportuni progetti. Ne scrivo in proposito anche al sig. Governatore e gl’ingiungo di
affidarlo ancora all’onore della Guardia Civica perché rimuova il caso di qualunque
possibile reazione...>>
In sostanza quindi si chiedeva al Boccanera di essere oltremodo generoso, facendolo
addirittura <<difensore>> di uno dei suoi persecutori. Non sembra però dalla risposta del
Gonfaloniere, scritta il 7 agosto, che sia proprio questo il suo stato d’animo. <<Eccellenza
60
61
Reverendissima, resto inteso dal ritorno di Vincenzo Di Nicola. Il timore di quest’uomo
dovrebbe essere posto in quella pessima coscienza che l’indusse a fuggirre senza minacce
senza offese: comunque sia però io non potrei menomamente occuparmi di lui, perché dai
miei stessi buoni uffici si troverebbe argomento in sinistro anche per una occhiata non
confacente a suoi desideri. Inoltre l’E.V.R. ben vede quale influenza potrebbero avere le
parole di un Gonfaloniere che dal Ministro di Polizia non fu onorato di quella tutela che
non si nega a un Vincenzo Di Nicola!! Ormai non è più del mio decoro il rimanere anche
per poco in una carica di tante umiliazioni: la mia causa mi chiama a momenti a Roma; in
questa occasione umilierò ai piedi del Pontefice la mia rinuncia, esporrò nel vero aspetto i
fatti che le hanno imposte per ottenere da lui quella giustizia che tuttora non si rende a una
città e ad un popolo altamente offesi nella persona del loro primario rappresentante...>>
Per tutta risposta dal Segretario Generale della Delegazione Apostolica di
Civitavecchia giunge qualche giorno dopo al Gonfaloniere questa comunicazione del
Delegato: <<Per ordine del Superiore Governo i sigri Raffaele Archiluzzi processante, e
Raffaele Aviani attuario si recano costà all’oggetto di compiere la procedura loro commessa
per li noti avvenimenti nell’accusa del Cursore Sales. Ne prevengo la S.V. Ill.ma perché a
termini delle vigenti disposizioni siano i sigg. Archiluzzi ed Aviani forniti di conveniente
alloggio a spese del Comune per tutto il tempo che si tratterranno in codesta città all’effetto
indicato>>.
Questo ci fa capire che le indagini proseguivano per appurare quanto realmente era
successo. Intanto però chi aveva pagato per primo tra coloro che erano intervenuti a difesa
del <<primario rappresentante>> era stato il Governatore Antonio Adriani che era stato
sospeso dal suo incarico. Le cose poi sembrano non mettersi molto bene per i
<<compromessi>>. Per questo motivo il 10 agosto viene dato un delicato compito al conte
Francesco Soderini, agli avvocati Giuseppe De Sanctis e Federico Galeotti, e al canonico D.
Domenico Sensi. Ecco come viene comunicato l’incarico al conte Soderini da Domenico
Boccanera: <<Non ostante che l’avvenimento del 30 giugno passato sia stato riconosciuto
a carico dei Carabinieri e Cursore come attentato illegale e punibile, non ostante che dal
Ministero dell’Interno si promettesse al sig. Pietro Falzacappa e Lorenzo Benedetti,
deputati di questo Municipio, che la città di Corneto avrebbe ottenuto la debita
soddisfazione per tanta ingiuria commessa contro la persona del suo primo
rappresentante, i fatti dimostrano che la responsabilità va tutta a riversarsi sopra onesti e
pacifici cittadini che seppero in mezzo al tumulto salvare la vita agli Esecutori dell’iniquo
attentato e mantenere mirabilmente nel popolo l’ordine e la moderazione. Difatti l’incarto
processuale prosegue contro tutte le regole in Civitavecchia, là si chiamano tutte le persone
61
62
di cattiva fama interessate o attinenti cogli autori dell’attentato e si procede ad atti punitivi
senza prima sentirne la difesa contro il sig. Governatore che già si trova chiamato in quella
città, sospeso nelle funzioni del proprio ufficio. Queste misure indispongono sempre più
una popolazione comunque d’indole tranquilla... il Municipio in questo giorno stabiliva che
una nuova deputazione di persone probe e colte si rechi ai piedi del Pontefice, ed esposte le
ragioni che militano in favore della stessa città, implori ed ottenga da lui quella giustizia
che con tanta ingiuria fin qui nelle vie ordinarie le si nega. L’unanime voto per una così
importante missione è caduto sulla persona degnissima di Vostra Ecc.nza insieme a quella
del Rev.mo sig. canonico D. Domenico Sensi e sig.ri avvocati De Sanctis e Federico
Galeotti...>>
Da questo momento accanto alle vicende del Boccanera ecco che si inseriscono
quelle riguardanrti la sorte del Governatore Antonio Adriani che certamente non deve
trovarsi molto bene oltre che moralmente anche economicamente, almeno da quanto
scrive da Roma al Gonfaloniere in data 7 ottobre 1848. <<Per mezzo di cotesto sig.
Pasquale Tripolo (?) ho saputo che la S.V. Ill.ma con intelligenza della intera Magistratura
ha fatto trarre a mio pro un ordine di scudi venti. Io ritengo ciò come oggetto di somma sua
generosità non che della sullodata Magistratura, e rendo tanto a Lei che alla medesima
Magistratura azioni di viva grazia. Come saprà si vuole che la nota pendenza sia decisa dal
tribunale di Civitavecchia. Ciò sarebbe poco male se avvenisse sollecitamente ma sembra
voglia protrarsi a lungo. Perciò la prego di interessarsi presso il sig. Presidente affinché la
disbrighi, non potendo io medesimo in questa critica situazione...>>
Ancora il 9 ottobre torna a ripetere come sia importante che la causa si discuta al
più presto e come sia grato <<per la nobile e generosa oblazione fattemi in soccorso dei
presenti miei penosi bisogni...>>. Le risposte del Boccanera sono sempre improntate a
sentimenti di stima e di rispetto per l’Adriani e c’è sempre espressa l’assicurazione che tutti
faranno il possibile per farlo riabilitare. Una cura particolare è anche messa nel rassicurare
il padre dell’Adriani che nulla, in quello che ha fatto il figlio, è da ritenersi disdicevole o
poco onorevole. Intanto, a Roma, va avanti la causa di Domenico Boccanera, sono giorni di
grande perché, anche se tutto lascia prevedere che finalmente sarà fatta giustizia, il dubbio
permane fino alla fine.
Finalmente nel mese di novembre si giunge ad un verdetto
definitivo a favore del Gonfaloniere. Tutti tirano un sospiro di sollievo e addirittura viene
fatta in onore di quest’ultimo una pubblica festa con luminarie, banda ed altro. Boccanera
fa appena in tempo a vedere conclusa la sua causa che a Roma accade un atto ben più grave
di quello al quale era stato sottoposto lui: viene ucciso infatti il 15 novembre il Ministro
Pellegrino Rossi che aveva sostituito nel mese di settembre il conte Fabbri.
62
63
L’uccisione di Rossi aveva determinato una paralisi nell’attività governativa e i
ministri avevano presentato le loro dimissioni al Papa. Certamente in quei frangenti non si
pensava alle cause pendenti, ma a salvare la propria vita dalle dimostrazioni violente
scoppiate nella città dove a detta di alcuni <<tripudiava l’anarchia>>. Il 24 novembre poi il
Pontefice, fuggito da Roma vestito da semplice prete, si era rifugiato a Gaeta.
Una volta tanto in questa ingarbugliata vicenda cornetana, il Boccanera aveva avuto
la fortuna dalla sua parte.
L’Adriani invece per essere inserito nel suo posto dovrà aspettare ancora un anno,
infatti la sua riabilitazione avverrà nel novembre del 1849.
Dopo cinque mesi quindi si chiude questa parentesi burrascosa per la maggior parte
degli interessati. Corneto tira un sospiro di sollievo ma sarà qualcosa di molto breve perché
negli ultimi mesi del 1848 e nel 1849 la sua vita sarà nuovamente sconvolta questa volta da
vicende politiche. Ma questa è un’altra storia.
Lilia Grazia Tiberi
Fonti
Stas -Archivio Falzacappa - 1848 Carte concernenti la pretesa Rivoluzione di
Corneto
Stas -Archivio Falzacappa - P. Falzacappa: “Cronica Cornetana”
Archivio Storico Comunale - Titolo XIV, fac. 10, anno 1848
Archivio Storico Comunale - Titolo IX, fac. 2, anno 1848
Archivio Storico Comunale - Titolo IX, fac. 2, anno 1849
Carlo Castiglioni - Storia dei Papi - U.T.E.T.
David Silvagni - La corte Pontificia e la società romana ed. Biblioteca di Storia Patria
Franco Migliori - Roma nel 1848-49 - Le fonti della Storia ed. La Nuova Italia
63
64
S. FRANCESCO DI TARQUINIA NEL SECOLO XVII
Sarebbe interessante potere sviluppare tutto il materiale di archivio da me rinvenuto
su S. Francesco di Tarquinia e riguardante i secoli passati. Mi limiterò per ora a presentare
quello del secolo XVII, perché quasi sconosciuto e di un certo valore per la chiesa, il nuovo
caratteristico campanile e le relazioni religiose e sociali dei frati del convento. Per questo
mi soffermerò solo su alcuni punti principali: la chiesa, il campanile, il convento, i frati, i
predicatori dell’avvento e della quaresima.
Il convento di S. Francesco in questo periodo è ancora al centro della politica
cittadina, perché come nei secoli immediatamente precedenti vi si conservava il bussolo
per eleggervi i pubblici amministratori della città. Questo avveniva, con un rituale ormai
stereotipato, ogni due mesi per il gonfaloniere, il console ed il capitano.
Essi si recavano
nella chiesa di S. Francesco, ascoltavano la messa e subito dopo il baiulo prendeva la tipica
cassetta e la portava nella sala dei rettori dove venivano estratti gli ufficiali ricordati. Nel
64
65
consiglio di S. Lucia (il 13 dicembre) venivano scelti tutti i consiglieri. Finita la cerimonia,
il P. guardiano di S. Francesco riprendeva in consegna la cassetta 1) .
La chiesa di S. Francesco
La monumentale chiesa di S. Francesco all’inizio di questo secolo si presenta quasi
intatta nel suo stile romanico-gotico del 1300. Essa ha tre navate con volte a crociera
poggianti su pilastri solidi ed eleganti in macco, la tipica pietra locale. Le navate terminano
con absidi proporzionate. Le attraversa un transetto slanciato che forma con esse la croce
latina. Le sue nervature sorreggono il tetto visibile, diviso da travi in legno. Sulla navata
destra si approfondiscono cinque cappelle con relativi altari. In quella sinistra invece ci
sono alcuni altari poggiati alla parete.
Per un motivo che si potrebbe dire occasionale, l’abside centrale veniva spogliata
dell’antico altare e la sua bifora, che la univa al coro retrostante, veniva chiusa. Infatti il
23/3/1587 moriva a Corneto nel palazzo Vitelleschi il cardinale di Rambouillet Carlo
d’Angennes (1530-1587) vescovo di Le Mans e governatore locale. Sorgeva
il
problema
della sua sepoltura nella cattedrale S. Margherita o a S. Marco degli Agostiniani, perché
egli aveva disposto nel suo testamento di volere essere sepolto nella chiesa più vicina.
La questione non era oziosa, perché vi era in gioco un vistoso legato di mille scudi.
In attesa di una decisione definitiva, egli fu sepolto nella chiesa di S. Francesco. Sisto V col
motu proprio <<Romanus Pontifex>> del 18/1/1859 disponeva che il corpo del cardinale
dovesse restare sepolto in S. Francesco ed il legato fosse diviso equamente tra la cattedrale
ed il convento con l’obbligo di celebrare annualmente ciascuno un funerale solenne 2) .
I nipoti del cardinale Cristoforo di Rantigni ed il protonotario apostolico Claudio
Lupi ereditarono 80.000 scudi d’oro e promisero di fargli costruire un monumento e di
rimettere in ordine la cappella con la spesa di 1.000 scudi. Essi ottennero il permesso per
demolire l’antico altare il 25/3/1591, ma non si decidevano mai a realizzare l’opera su
disegno dell’architetto Ottavio Mascarini. Questo causava malcontento tra i religiosi che
vedevano la manomissione della chiesa e se ne lamentavano presso le autorità civili che
intervennero presso gli eredi con i loro agenti, senza concludere nulla fino al 2 dicembre
1597 3) .
1)
Elezione degli ufficiali 20/3/1605, 20/3/1606 Reformationes 1604-1607 ff. 59-59v, 125; Elezione degli ufficiali 20/9
e 19/12/1615 Reformationes 1612-1621 ff. 141 v, 150-150 v ASCT; Gli statuti della città di Corneto a cura di
Massimo Ruspantini (Tarquinia 1982) 79-96.
2)
Annales Minorum a cura di P. Stanislao Melchiorri da Cerreto 22 (Quaracchi 1934) 553-554.
3)
Sono molte le lettere che riguardano l’argomento: A Caludio Lupi 2/10/1951, 5/1/1594, a Teofilo Scauri procuratore
a Roma (senza data, ma non oltre il 9/3/1593), a Nicolò Benigni agente a Roma 5/1 e 10/2/1594, 3/3/1595 e 8/2/1596
65
66
L’abside rimane certamente in disordine fino al 25/10/1599, quando in pubblico
consiglio Muzio Vipereschi propose che fosse restaurata. Probabilmente si deve a questa
trasformazione della cappella principale l’intervento dello scalpellino Pietro Tortora o
Tortola e i frati, per farsi approvare dal comune la spesa o il lavoro il 9/10/1600 e la
consultazione dei periti del comune il muratore Alessandro Bartolani e lo scalpellino
Filippo da Viterbo. Sulle loro stime molto differenti veniva richiesto un terzo stimatore.
Credo che in questo periodo si debba inserire la richiesta di intervento urgante per il
chiostro e la chiesa: <<Il convento di S. Francesco ha gran necessità di riattamento, e
particolarmente il Claustro et la chiesa, quali senza dubbio veranno a terra si non li si
porgerà l’opportuna provisione et agiuto>>.
Il 21/7/1603 il consigliere Vincenzo Panzani propone ai Priori di <<fare vedere dalli
periti la spesa che può andare ritrovare al convento et Chiesa loro, et visa che sara et messo
in conto quello che si doveva espendere che li detti Revdi Padri potranno ottenere licentia
dalli ss. Superiori>>. Anche il coro della chiesa mostra delle deficenze e ne parla in
pubblico consiglio Marco Antonio Vitelleschi il 19/10/1603.
Nel 1603 vi dovette essere un lavoro consistente nella sistemazione dell’enorme
tetto della chiesa, se il cardinale Scipione Borghese il 28 giugno permise di spendere 295
scudi e 44 baiocchi e saldati l’8/5/1609: <<Al risarcimento di incontro scudi
duecentonovantacinque e quaratantaquattro baiocchi per tanti spesi legnami, chiodi,
Fatture di Legnami, fatture di muratori con distintamente si vede nel memoriale fattomi
dalla Comunità sotto il di otto di maggio 1609 che fu saldato con muratori, e falegnami e
con tutti>> 4) .
Nel consiglio del 13/12/1625 vi è certamente un problema di interesse per il
convento e la chiesa perché viene richiesta la consulenza di 4 uomini o questo si riferisce
alla richiesta più chiara dell’anno successivo del P. guardiano Stefano da Sarzana per la
pessima condizione del nuovo campanile e la mancanza di un pulpito nella chiesa, di
particolare interesse per un predicatore come lui. Sia il 24/10/1627 che 12 e 26/3.1628
Registro lettere 1587-1596 ff. 129 v, 166v-167, 189, 189 v, 190, 192v-193, 195v v, 246, 276; Lettera a Nicolò Benigni
agente a Roma 2/12/1597, Lettera a Giuseppe Valente agente a Roma 8/7/1602 Registro lettere 1596-1603 ff. 22 v,
162; Lettera al cardinale di S. Marcello (senza data, ma tra 6/7/1604) Registro lettere 1603-1613 f.29; Decreto per
l’altare maggiore di S. Francesco 25/3/1591 Libri dei decreti 1560-1692 f. 77 ASCT; Epigrafe del monumento al
cardinale di Rabouillet nella chiesa di S. Francesco.
4)
Consiglio 25/10/1599 Reformationes 1599 ff.2-2 v; Consigli 23/7 e 9/10/1600, 21/7 e 19/10/1603 Reformationes
1600-1604 ff. 34v, 35v, 41v, 42v, 233,233v-234,241,241v; Consiglio 23/3/1608 Reformationes 1607-1910 ff.27v,28v;
Lettera al cardinale Borghese 8/6/1608, Lettera a Domenico Chellio agente in Roma 8/6/1608 Registro lettere 16031613 ff. 1254; Speculi 1608-1610 f. 55 ASCT.
66
67
venngono spesi 10 scudi per il riordinamento della chiesa. Così succede il 27/7/1629 5) .
Questo credo che rientrasse nella manutenzione ordinaria. Ma in condizioni straordinarie
dovevano mutare. Come avvenne il 26/10/1636 quando una tromba d’aria aveva recato
gravi danni nella città e particolarmente in S. Francesco che è ubicato nel punto più alto di
essa. Ne parlò in pubblico consiglio Antimo Cesarei 6) .
Pur con tutti questi interventi qualche cosa non funzionò, perché nella seconda metà
del 1600 la chiesa deperì così tanto che crollarono due colonne della navata centrale per lo
stillicidio della pioggia. Esse portarono con sé una buona parte delle antiche crociere della
navata centrale e di quella di destra. Questo è ancora visibile perché i pilastri ricostruiti
mostrano un materiale di recupero molto diverso dagli altri antichi, che furono ricoperti di
malta rendendoli pesanti e barocchi. Le volte invece furono ricostruite a vela, senza la
chiave di volta e senza nervature.
Chi ebbe sentore che qualche cosa di grosso si stava maturando nella chiesa di S.
Francesco fu il P. Giacomo da Pisticci che vi era stato come frate semplice nel 1652, come
vicario nel 1653, come guardiano mel 1666-1667, nel 1674 e 1678. Forse proprio questa
frequenza gli permise di osservare le cose con più acume, anche se egli non riuscì a
prevenire tutti i guai futuri della chiesa. Egli morì in Aracoeli il 21/7/1682. Sull’argomento
il suo pensiero è molto chiaro e lo espose al consiglio comunale nel 1674 così: <<Fra
Giacomo da Pisticci dell’Ordine dei Minori Osservanti et al presente guardiano del
convento S. Francesco di questa città di Corneto e PP.FF. devotissimo oratore delle SS.
Loro illustrissime l’espongo la ruina che minacciano li sei colonne in detta chiesa, che
cascando (quod absit) o resterebbe non si farsi mai, o vero apporterebbe grandissima
spesa, che per rimediare al presente sarà facile, et havendo conosciuto l’animi delle SS.
Loro Illme, e la devozione verso detto convento similmente scoprino le forze deboli non
sendo oggi questa città in quel posto e comodità di prima e per facilitare detta impresa et
animare le loro devotioni e sovvenirli li fanno intendere, che in Roma si trovano scudi 400
di quattro luoghi di monti estratti da sedici anni o diciotto incirca, et anco scudi 10 da
rivestirsi, li supplicano ne vogliano parlare in consiglio, et havere il loro consenso acciò si
possa mandare a Roma in S. Congregazione affinché si degni fare la gratia d’applicarsi a
detta fabbrica>>. Infatti nel 1674 il problema fu portato in consiglio comunale, come si può
rilevare: <<Sopra il memoriale de Padri Minori Osservanti è mio parere che per remediare
alla ruina, che minaccia quella chiesa, per remediare alla ruina che sovrasta che gli si dia
5)
Consigli 13/12/1625 e 12 e 26/3/1628, 27/7/1629 Reformationes 1623-1630 ff. 106 v, 107 v, 128, 174, 175, 211-212;
Memoriale dei frati di S. Francesco 16/4/1626 Registro lettere 1618-1620 f.118; Speculi 1625-1629 ff. 62 v, 82 ASCT.
6)
Consiglio 26/10/1636 Reformationes 1631-1637 ff. 249v, 251-251v.
67
68
ogni assistenza e consenso necessario per esigere gli scudi 400 di quattro luoghi de monti
estratti et applicarvi li scudi 50 che stanno infruttuosi e che si convertino però nell’uso
della riattazione e del riparare della chiesa et a questo effetto il signor Capitano Vittorio
Benenghi e il signor Giovanni Casimiro (?) Scacchia habbiano facoltà di assistere a tutti
quegli atti che saranno necessari in nome del pubblico per detta esigenza et (costruzione?)
e che realmente siano li denari convertiti nell’uso destinato e si cautelino>>. Vi si nota una
completa disposizione alla collaborazione tra i frati ed il comune per gli impegni
fondamentali. Ciò non di meno nel 1691 caddero due pilastri della chiesa con grave danno
della medesima 7) .
In forma velata ne parla il predicatore P. Leopoldo da Mondanio nella sua richiesta
di predicazione della quaresima del 1694. Egli è uno dei testimoni del fatto, come si
esprime: <<et conforme ha procurato servire (lui stesso) mentre è stato qua Predicatore
annuale, benché non habbia potuto effettuare per la disgratia occursa della sua chiesa>>.
Più chiaramente ne parlò il consigliere comunale D. Agapito Bruschi il 13/12/1750:
<<Sopra la domanda fatta dalli Padri Minori Osservanti per una Congrua Elemosina per
risarcire li tetti della Chiesa, ed in specie per riparare lo scolo del tetto maggiore della
navata di mezzo, nel quale contempla di farci una soda restaurazione, mentre io ben mi
ricordo che fin dell’anno 1691 e ne portò grave danno detta Chiesa, che caddero due
colonne per lo stillicidio dell’acqua di detta navata>> 8) .
Certamente tra il 1691 e 1750 la chiesa completò la sua barocchizzazione. Nelle
cappelle invece questo lavoro era avvenuto già prima. Basta osservare quella Falzacappa,
ereditata da Domenica Cardini nata nel 1635 da Arcangelo Cardini e Chiara Parma e sposa
di Francesco Falzacappa. La cappella trasformata in barocco da Arcangelo Cardini (+1642)
di cui porta lo stemma, conserva ancora l’arco acuto originale e la sovrapposizione dell’arco
a tutto sesto con gli stucchi stile rococò. Nelle altre invece si notano soltanto alcuni resti
degli archi acuti.
L’organo
7)
Visita pastorale di Mons. Gaspare Cecchinelli 1652 f.42 AVT; Lettera del P. Giacomo da Pisticci 23/1/1653 Carte
sparse secolo XVII a. 1653; Lettera del P. Giacomo da Pisticci per la chiesa pericolante e consiglio comunale del 1674
Instrumenta, consilia, et iura diversa 1674 ff. 152, 407; Lettera del P. Giacomo da Pisticci per l’uliveto vicino alla
chiesa della Trinità e per la precedenza nella processione di S. Agapito 25/3/1678 Instrumenta, consilia, et iura diversa
1677-1678 ff. 397,398 v; Lettera al Provinciale (23/8/1674?) Registro lettere 1622-1677 (fascicolo allegato); Lettera
del P. Vincenzo da Bassiano 28/4/1683, consiglio 26/5/1683 reformationes 1680-1689 ff. 185,189, 192; Lettera ai
conservatori 22/5/1683 Carte sparse secolo XVIIa. 1683 ASCT; Questione con i Serviti 16/11/1666-29/1/1667 ASFT.
8)
Lettera del P. Giovanni Francesco da Caprarole dicembre 1778 Instrumenta, consilia, et iura diversa 1677-1678 ff.
396,399; Lettera del P. Leopoldo da Mondanio Reformationes 1696-1701 ff. 10, 17; Consiglio 13/12/1750
Reformationes 1745-1755 ff. 135, 136v ASCT.
68
69
Nella parte terminale del transetto, sulla sinistra, vi era un antico organo a canne a
cui si accedeva dal vecchio campanile. Esso aveva un palco per il suonatore ed i cantori. Fu
tolto nei restauri del 1956 ed al suo posto si notano dei residui di antiche pitture. Nei secoli
passati esso dette qualche preoccupazione per i restauri e per l’organista che doveva essere
pagato.
Già nel secolo precedente era stato posto il problema di pagare il frate organista. Si
pose il problema nel consiglio del 3/9/1599 alla presenza del gonfaloniere Rigoglio, del
capitano Rebechini e del console Tiberio Rossi, ma non riuscendo a concludere, fu
rimandato ad altro consiglio per chiedere il permesso alla Congregazione del Buon
Governo. Il testo di difficile lettura, lacunoso e quasi incomprensibile anche dopo il
restauro, fa capire che il problema c’era. Facilmente giunsero a qualche conclusione perché
il 25/7/1600 furono pagati 12 scudi all’organista di S. Francesco Paolo Parmigiano.
Forse i frati desideravano un organista stabile, perciò si rivolsero al comune per
ottenere 30 scudi assegnati dalla Congregazione del Buon Governo, cioè da Roma, il
2/9/1602. Il 5/6/1604 il cardinale di S. Marcello e vescovo di Corneto e Montefiascone
Paolo Emilio Zacchia (1601-1605) dette il suo consenso 9) .
Nel 1605 Marzia Gubernali nel suo testamento, rogato dal notaio capitolino
Ottaviani, lasciava un legato perché fossero pagati 36 scudi all’organista di S. Francesco,
purché suonasse l’organo. Allora il comune decise di devolvere 36 scudi all’organista della
cattedrale S. Margherita che doveva essere un conventuale o agostiniano. L’unico organista
conosciuto è il conventuale P. Ludovico da Bagnoregio 10) .
Per S. Francesco provvedevano gli eredi della signora Gubernali cioè i fratelli
Callimaci che in un primo tempo dovettero essere puntuali a pagare ogni novembre,
successivamente invece qualche volta si fecero desiderare. I Padri guardiani di S.
Francesco lo ricordavano loro ed essi rispondevano ai vari problemi da Roma. Conosciamo
così che i beni della Gubernali venivano affittati dai fratelli Callimaci ed altre persone e dal
ricavato veniva pagato l’organista. Il 22/6/1652 l’affittuario era Pasquale Benedetti, il
guardiano di S. Francesco P. Vincenzo da Napoli ed il debitore era Paolo Callimaci.
9)
Consiglio 9/3/1599 Reformationes 1599 ff. 33,34; Speculi 1600-1601 f. 10 ASCT; Lettera del guardiano di S.
Francesco e risposta della congregazione del buon governo 5/6/1604 ASFT. Interessante è la ricerca e studio di Pietro
Falzacappa sulla donaazione fatta da Marzia Gubernali per l’organo di francesco nel 1605, ma è incompleta ed errata
perché i suoi eredi fecero amministrare i beni ereditati a questo scopo e la quota affidata dal comune all’organista fu
trasferita all’organista agostiniano o conventuale di S. Margherita. Pietro Falzacappa, Memorie di Corneto, S.
Francesco convento dei Minori Osservanti fasc.lO AF Ff. 13 presso STAS.
10)
Consiglio 15/1/1606 Reformationes 1604-1607 ff. 115-115v; Organista agostiniano o conventuale per la cattedrale
S. Margherita 8/5/1613 Reformationes 1612-1621 f.55; Consiglio 27/7/1629 Reformationes 1623-130 ff.221-222
ASCT; Pietro Falzacappa, Memorie di Corneto, S. Francesco, Memorie di Corneto, S. Francesco convento dei Minori
Osservanti fasc.lO AF F13 presso STAS.
69
70
Lo stesso Paolo il 20/5/1654 indicava al P. guardiano l’affittuario Domenico di
Martino Pizzicarolo ed 25/8/1655 Paolo faceva sapere al P. guardiano Giovanni Andrea da
Roma che nei due anni precedenti li aveva un certo Flaminio ed il debitore non era stato
più soddisfatto perché il guardiano precedente non lo aveva richiesto. Il 12/1/1658
l’affittuario era Cesare Benedetti che aveva versato 90 scudi a Consalvo Consalvi. Il
4/2/1660 Giovanni Francesco Gallimaci faceva sapere al P. guardiano di S. Francesco di
essere disposto ad accettare la proposta di Francesco Falgari, procuratore o sindaco
apostolico dei frati, di arrivare a 700 scudi da impiegare in beni immobili come <<la
grande casa>> (non sappiamo quale) ed applicare il fruttato di 20 scudi per l’organista.
Vi si nota una riduzione della quota dovuta forse alla svalutazione che doveva
incidere anche allora. Forse per questo motivo i Frati nel 1726 erano disposti a rinunziare
ai legati onerosi, compreso questo, passandoli al comune attraverso i monti di pietà. Essi
desideravano però che fossero salvaguardate alcune loro necessità: 40 scudi per il vestito,
25 scudi per il medico della loro infermeria di Viterbo, e 15 scudi per l’olio delle lampade.
Benedetto XIII col motu proprio del 4/6/1727 <<Cum sicut accepimus>> riordinò tali
legati.
In S. Francesco dovettero esserci molti organisti nominati dai Frati, altrimenti non
ricevevano la quota. Ci restano tuttavia sconosciuti. Gli unici ricordati sono Paolo
Parmigiano e P. Antonio da Roma ivi presente nel 1698 e morto a Viterbo il 30/10/1720 11) .
Il campanile e le campane
L’antica torre campanaria della chiesa di S. Francesco ricordata dal motu proprio di Pio V
<<Cum Camera Apostolica>> del 21/2/1752 sembrerebbe ubicata tra la chiesa e la
costruzione dei magazzini dell’annona, cioè nella rampata di scale che ora dall’inizio del
convento salgano al piano superiore. Forse essa era un tipico campanile a vela come era in
uso presso gli antichi conventi francescani. Dopo questa data i Frati dovettero provvedersi
di una nuova torre campanaria ubicabile vicino alla cappella del SS. Crocifisso, secondo P.
Romanelli. Questo corrisponde al vero perché vi è una stanza con ingresso dalla rampa di
scale che dalla chiesa salgono al convento. Essa ora è buia e nella volta si notano tre buchi
paralleli che certamente indicano i fori dove passavano le corde delle campane. Fino a
quando vi era l’organo antico vi si accedeva alla cantoria. Nel piano superiore è restata una
finestrella rettangolare verso il chiostro che a prima vista sembrerebbe inutile, invece serve
11)
Lettere al P. guardiano di S. Francesco (alcune sono anonime altre con nome) 22/6/1652, 20/51654, 25/8/1655,
12/1/1658, 4/2/1660, Lettera del P. guardiano al comune (senza data, ma è del 1726), Motu proprio di Benedetto XIII
“Cum sicut accepimus” 14/6/1727 (copia) ASFT; Famiglie 1683-1733 f. 253 v APA.
70
71
a dare luce alla soffitta della chiesa sopra la cappella del Crocifisso. Osservando bene
l’interno ci si accorge che qui era la parte superiore del campanile della fine 1500 inizi
1600. Vi manca solo la parete sopra la cappella del Crocifisso. Doveva essere una torre
campanaria ordinaria, cioè senza troppe pretese, e diciamo rimediata. Questo credo
dovette essere il motivo della sua fatiscenza e del doverla sostituire presto col nuovo
grandioso campanile in stile composito del 1612.
I problemi sorsero proprio all’inizio del secolo perché era necessario fare trapanare
una campana il 23/7/1600 ed accomodare o dare una sistemazione alle altre, il 19/2/1606,
infatti si dice: <<Li Magnifici Priori insieme al signor Commissario li doi Advocati, et doi
sindici vadino al monistero, et vedino et faccino vedere il bisogno che hann dette campane
et la spesa che si può andare da doi periti, et conosciuto necessario, che s’accordino, che la
Comunità debba fare tutta la spesa conveniente con licenza però della sacra Congregazione
de bono regimine>>. Essi fecero esaminare il problema e ne dedussero che occorrevano
<<scudi 105 cioè 70 per li multalizi et 35 per li cippi delle campane, et altro legname>>,
come scrissero il 21/11/1606 al cardinale Scipione Borghese (1576-1633). Si trattò quindi di
un tetto in pieno disordine.
Era guardiano del convento P. Dionisio da Roma che era molto stimato dalla gente
del luogo, tanto che gli amministratori il 28/4/1607 inviarono una lettera al ministro
provinciale P. Bernardino da Modena (1605-1608) dicendo: <<Il P. fra Dionisio in doi anni
et ha governato questo nostro monastero di S. Francesco, diportato tanto bene et ha dato
tanta sodisfatione al publico, et stimato si nella vita assimplare et buoni costumi suoi, et
tutta la famiglia ornata, come anco il culto divino con dire officiarie la chiesa provista di
confessori et accrescendo devotione, che ci siamo mossi con la gratia di tutto ciò fosse fide
et testimonianza a V.P.R. per mezzo di che si bene conosciamo che egli non havere punto
bisogno di havere raccomandationi non di meno per non mancare al debito nostro
raccomando così le sue buone qualità, et obligo che habbiamo alli molti meriti di detto
Padre lo raccomandamo rettamente alla P.V.R. facendola sicura d’ogni fattore si degna
farle sarà collocato in persona grata e miserevole>>. Un discorso così positivo su questo
Padre guardiano è molto bello. Basterebbe confrontarlo con quello salace sul P. Leonardo
da Roma qualche tempo dopo.
Non sappiamo se il P. Provinciale lo abbia riconfermato guardiano del convento S.
Francesco in questo periodo intenso per il rinnovo edilizio del convento, la chiesa ed il
campanile. Egli morì in Roma nel convento di Aracoeli l’8/9/1608 e poco prima era morto
71
72
a Viterbo il vicario del convento di S. Francesco di Corneto P. Raffaele da Roma
(+11/8/1608) 12) .
Nel 1610 era guardiano P. Girolamo da Corneto. Fu un periodo di attività febbrile
per la richiesta dei dovuti permessi per la ricostruzione del nuovo campanile.
Il
5/3/1610 infatti fu presentata al consiglio comunale la richiesta che fu discussa ed
approvata con 29 voti favorevoli e due contrari. L’argomento era interessante e chi lo
espose mise in luce i punti principali dicendo:
<<Sopra il memoriale presentato per parte delli Padri di S. Francesco per la fabrica
del lor campanile esser parere che vedendosi li detti padri per beneficio di detta chiesa
hanno fatta vera preparazione di maceria per la fabrica di detto campanile, per adesso con
beneplacido però della sacra congregazione se gli dia in elemosina fino cento scudi
sumministrandoli dalla Comunità di mano in mano diveranno fabricando>>. Idee simili
sono espresse anche in una lettera forse del 1611 per ottenere un ulteriore finanziamento
dell’opera. Certo qualche cosa cominciò a muoversi perché il cardinale Borghese il
3/7/1610 predispose 50 scudi <<per riattare il campanile>> ed il vescovo della città
Laudivio Zacchia (1605-1637) il 17/10/1610 concesse che fossero pagati 50 scudi <<per
rifare il Campanile di detta chiesa>>. I lavori dovettero proseguire nel 1611 e 1612 come è
possibile intuire da altri interventi.
Così il 20/11/1611 fu concesso ai segatori Arduino
e compagni di tagliare due querce nella bandita S. Pantaneo per due <<travi per attaccare
le campane>>. Il 31/12/1611 il capitano Sisto Vipereschi ed il console Dionisio Gronchi
concessero una verga di ferro di 51 libbre e mezzo per fare la chiave del campanile. Questo
era segno che il lavoro era a buon punto. Il 1/4/1612 Antonio di Domenico preparò 4 travi
dalla Selva di Ancarano. Tutto questo era segno che i lavori proseguivano ed il comune
concorreva alla costruzione 13) .
La struttura architettonica del campanile in stile composito doveva essere terminata
nel 1612, come è intuibile dalla data posta nello stemma francescano sistemato nella
colonna settentrionale della torre campanaria. Vi dovrebbe essere anche il nome del P.
Provinciale Bernardo scritto sul fregio del tiburio, ma oggi non è pio osservabile, perché ci
è stata tolta la ringhiera e perché forse non vi è stato mai, poiché i probabili Padri
12)
Motu proprio di Pio V <<Cum Camera Apostolica>> 21/2/1572 ASFT; Consigli 23/7 e 9/10/1600, 21/7 e
19/10/1603 Reformationes 1600-1604 ff. 34v, 35 v, 41 v, 42v, 233, 233v-234, 241,241v: Consigli 19/2 e 6/8/1606,
Reformationes 1604-1607 ff. 117v, 118v-119, 143 v, 144-144v; Lettera al cardinale Borghese 22/11/1606, Lettera al P.
Provinciale 28/4/1607 Registro lettere 1603-1613 f. 93v, 106 ASCT; Necrologio di Orte ASBO.
13)
Consigli 5/3, 1/4, e 3/6/1610 Reformationes 1607-1610 ff. 164, 164v, 165, 177, 177v, 138, 138 v; Speculi 16081609-1610 f.175v; Speculi 1601-1630 ff. 125,126v, 129 ASCT.
72
73
Provinciali potevano essere o P. Salvatore da Roma (1611-1612) o P. Antonio da Caprarola
(1612-1615) 14) .
Il lavoro tuttavia non doveva essere ancora completo, perché vi dovevano mancare i
piani divisori. Per questo fu concesso ai frati di ricavare 150 tavole e 21 morali per il
campanile dalla tenuta della Roccaccia il 28/12/1614. Questo materiale non dovette essere
di prima qualità o stagionato se il 28/4/1626 il P. guardiano Stefano da Sarzana si
lamentava che le campane erano in continuo pericolo di cadere ed il sagrestano poteva
precipitare dal campanile. Finalmente nel 1641 dovettero essere costruite le volte dei vari
piani. Un ulteriore intervento vi dovette essere nel 1645 perché nel consiglio del 16/7/1645
si dice esplicitamente: <<si conceda per elemosina scudi dieci in riguardo delle spese che
hanno fatto detti Padri nel far porre le Campane nel lor Campanile questa prossima
passata quadragesima>>.
Nel vecchio campanile le campane dovevano essere tre ed in cattive condizioni,
come si è detto. Esse dovettero certamente essere poste in quello nuovo, ma non dovevano
più corrispondere alla mole del campanile. Sorse quindi il problema di fonderne una nuova
più grossa. A questo ci pensò il P. Marcello da Corneto già pratico di questi problemi
perché aveva fatto fondere una campana nel convento di Velletri. Nel 1629 ordinò la nuova
campana grande alla ditta di Norcia di Simone e Prospero De Prosperis che la fusero in
quell’anno.
Il comune cominciò a pagare ratealmente la campana, ma quando nel 1631 fu
portata dal mare in convento, P. Marcello era già morto il 13/12/1630. E’ l’unica campana
antica rimasta nell’attuale campanile.
Infatti la campana media fusa nel 1615, fu rifusa nel 1921 dal P. Tommaso Palliccia
di Cori, e così anche l’altra quasi della stessa grandezza sul lato opposto che dovrebbe
essere l’antica campana detta <<La Palestrina>> portata dal cardinale Giovanni
Vitelleschi, dopo la distruzione della cittadina, rifusa dai piemontesi Giovanni Andrea
Berardi e dal figlio Giacomo Antonio su commissione del guardiano P. Alessio da Roma e
pagata dal sindaco apostolico Gioacchino Falgari il 14/3/1797 15) .
14)
Pietro Falzacappa nelle <<Disertazioni dedicate a S. Agapito>> f. 249 nota (a) dice: <<Questo magnifico campanile
dell’altezza di palmi 272 fu fabbricato nell’anno 1612 in cui era Provinciale un certo P. Bernardo come a caratteri, e
Numeri Romani se ne ha la memoria nello stesso campanile sotto lo stemma dell’ordine Francescano situato nell’ultimo
Fenestrone a Tramontana, e nel Fregio del Tamburo a detto vento, alla spesa del quale colle dovute licenze concorse
ancora la ridetta comunità di Corneto per la somma di scudi 100= consiglio delli 11 marzo 1610 nel libro dei consigli di
detto anno>>: Nel campanile vi era una ringhiera di ferro. AF Fb 12 presso STAS.
15)
Speculi 1601-1630 f.136; Consiglio 31/7/1617 Reformationes 1612-1621 f.245; Consiglio 13/12/1625
Reformationes 1623-1630 ff. 106 v, 107 v, 128; Memoriale per li Frati di S. Francesco 16/4/1626, Lettera ai Priori
nell’offitio presente (senza data, ma dello stesso periodo della precedente) Registro delle lettere 1618-1620 ff. 118,118-
73
74
Quella piccola invece fu fatta fondere dal P. Stefano Padovani nel 1926 per il
centenario della morte di S. Francesco.
Reliquie e feste dei santi
In un clima religioso come quello del 1600, la venerazione delle reliquie aveva un
grande valore, tanto da cercarle affannosamente nelle catacombe. Corneto, che aveva dei
santi ivi venerati da molto tempo, non sfuggì a tale fenomeno.
Quando fu necessario demolire l’antico altare maggiore le reliquie furono murate in
sagrestia per non farsele portare via. Poi fu fatto costruire un deposito sull’altare nuovo e
deposte in 5 cassettine vi vennero traslate in forma solenne con una processione nella festa
di S. Agapito protettore della città il 18 agosto 1602 o 1603 16) .
Il cardinale Francesco Barberini (1597-1679) ottenne dai Cornetani l’11/3/1633
alcune reliquie tra cui alcune della chiesa di S. Francesco: <<In S. Francesco uno stinco e
due pezzi piccolo di S. Abbondio Martire che ne restava grandissima parte nel solito buco
delle sacre reliquie nella solita cassetta nella chiesa di S. Francesco. Due ossa grandette e
due pezzi piccoli del corpo di S. Condiano (Gordiano) Martire restante in buonissima parte
nel solito luogo come sopra. Un pezzo di stinco con due altri pezzetti del corpo di S.
Agapito Martire restando la maggior parte nel solito luogo come sopra>>.
Da Palestrina ogni tanto si riprendevano qualche reliquia del loro protettore S.
Agapito, come era avvenuto già nel 1588 17) .
Una reliquia del braccio di S. Agapito che era conservata nella chiesa di S. Pancrazio
e fu portata nella cattedrale per conservarla meglio. Alla vigilia della festa cioè il 17 agosto
veniva riportata in S. Pancrazio e da lì partiva una processione col capitolo della cattedrale,
gli Agostiniani, i Serviti, i Conventuali e la magistratura e si fermava nella chiesa di S.
Croce dell’ospedale dei Fate Bene Fratelli. Da S. Francesco ne partiva un’altra con la testa
di S. Agapito portata da un frate, seguita dagli altri confratelli e dall’Arte dei calzolai e si
riuniva alla precedente. La festa si faceva con numerose messe in S. Pancrazio e S.
Francesco.
118v, ASCT; Contratto per la fusione della campana <<La Palestrina>> 15/12/1696, Dichiarazione del peso della
campana 14/3/1697, Dichiarazione del pagamento della campana 14/3/1697 ASFT.
16)
Memorie ecclesiastiche appartenenti alla storia, ed al culto di Sant’Agapito Prenestino fasc. 5 AF Fb 12 presso
STAS; Consiglio 14/4/1602 Reformationes 1600-1604 ff. 163-164; Lettera all’agente Giuseppe Valente a Roma
8/7/1602 Registro lettere 1596-1602 f. 162 ASCT.
17)
Brevi di Sisto V <<Cum nos certis>> 7/7/1588 e <<Cum nuper mandavimus>> 18/7/1588 Annales Minorum 22
(Quaracchi 1934) 532, 533; Nota delle reliquie donate al card. Francesco Barberini 11/3/1633 Carte sparse secolo XVII
a. 1633 ASCT.
74
75
Questo modo singolare di devozione e partecipazione alla festa, portò i frati a fare
qualche debituccio come è ricordato il 29/11/1612 al cardinale Scipione Borghese. Si
trattava di 5 scudi spesi in agosto. Un altro P. Guardiano invece richiedeva un contributo
per fornire la chiesa di drappi per ricoprire le colonne senza ricorrere ad altri (la lettera è
senza data). P. Giacomo da Pisticci il 25/3/1678 ricorreva al comune per le spese sostenute
di 10 scudi per il ricorso riguardo alla precedenza dell’Arte dei calzolai nella processione 18) .
In tanta emulazione non mancarono quindi motivi di attrito ed incomprensioni,
dovute alla sovrabbondanza di clero.
Intanto la Congregazione dei Riti il 18/9/1666 concedeva di poter celebrare a
Corneto la messa solenne e l’ufficio di S. Agapito come a Palestrina 19) .
Nel 1680 il P. guardiano di S. Francesco Giacomo da Monte Castello o forse più
giustamente da Montecastrillo voleva fare inserire una cornice nell’altare maggiore ed
incaricò il falegname mastro Giacomo Brunai, ma aperta una piccola fessura sulla destra di
esso o come si diceva allora alla parte dell’epistola, ne uscì un odore particolare: <<si
sentiva una soavità grande - testimoniò il P. Guardiano - quale per molti giorni prima fu
sentita da tutti li Padri del convento>>. Il P. Ludovico da Orvieto vicario del convento
ampliò l’apertura con un palo, entrò dentro l’altare e vide che vi erano delle cassettine di
marmo ed apertane una, si accorse che dentro vi era un’altra di ferro che fece vedere al P.
guardiano. Il P. Ludovico fece la sua deposizione il 3 agosto e non il 3 luglio. Egli
confermava al vicario generale della diocesi Carlo Scacchia il racconto del P. guardiano
aggiungendo qualche particolare interessante: <<e viddi alcune casette di marmo, delle
quali ne aprii una, cioè levai il coperchio che stava sopra detta cassetta, e viddi che dentro
la medema cassa vi era una cassetta più piccola di ferro, e riferitolo a detto P. guardiano,
volendola vedere, gliela mostrai, e così veduta mi ordinò subito che io la riponessi nella
medesima cassa dove stava, conforme feci con ogni puntualità; nella qual cassa di marmo
viddi e sentii che vi erano ceneri, e qualche frammento ancora d’osso, come pure riferiti a
detto guardiano, e fu giudicato allora che fossero Corpi di Santi: onde da comune parere fu
de fatto rimurata la detta apertura per ogni buon fine, acciò si pigliassero quelle provisioni
espedienti, che si ricercano in queste materie>>. Successivamente alla presenza dei testi
Alberto Falgari e Bonaventura Cesarei furono prese le cassette, trasportate in sagrestia
18)
Muzio Polidori, Croniche di Corneto a cura di Anna Rita Moschetti (Tarquinia 1977) 112; Lettera al cardinale
Borghese 29/11/1612 Registro lettere 1612-1616 ff. 6v, 7, Lettera di P. Giacomo da Pisticci alla precedenza nella
processione di S. Agapito 25/3/1678 Instrumenta, consilia, et iura diversa 1677-1678 ff.394, 397, 398 v, ASCT; Lettera
del guardiano di S. Francesco per la festa di S. Agapito (senza data) in Memorie ecclesiastiche appartenenti alla
memoria, ed al culto di S. Agapito Prenestino fasc. 4 AF Fb 12 presso STAS.
19)
Rescritto della Congregazione dei Riti 18/9/1666 (copia) ASFT.
75
76
perché fosse riparato l’altare. Esse furono chiuse a chiave in una stanzetta finché non
furono rimesse nell’altare alla presenza del P. guardiano e del sindaco apostolico Francesco
Falgari. Stilò la relazione il notaio cornetano Egidio Querciola 20) .
La festa di S. Agapito fu tenuta in rilievo fino al secolo scorso. Ora non vi è più
nessuna manifestazione esterna.
Una delle feste ancora in vigore è quella di S. Antonio di Padova. Finché nella
cittadina vi erano stati gli Osservanti o i Conventuali in S. Francesco essa dovette essere
ricordata solo quì. Quando invece si stabilirono in S. Maria in Castello anche i Conventuali,
cominciarono a ricordare la festa di S. Antonio. Naturalmente iniziarono le discussioni tra
le due comunità francescane e quello che si doveva risolvere pacificamente divenne motivo
di contesa. Essi ricorsero alla Congregazione dei Riti che dispose di celebrare la festa
alternativamente con la partecipazione delle due comunità.
Questo durò finché i Conventuali restarono nella città con la soppressione
napoleonica.
Invece riguardo alle reliquie conservate in S. Francesco il 20/7/1655 i frati
richiesero al comune che fosse data loro una chiave e le altre due fossero date al comune o
al cancelliere Mattia Martellacci. Questo fu approvato in consiglio comunale con 17 voti
favorevoli e 6 contrari. In realtà la famiglia Martellacci mantenne quelle affidategli anche
nel secolo seguente. Le reliquie venivano esposte il lunedì di Pasqua, mentre si celebrava
una congregazione generale delle confraternite del Gonfalone e della Santissima Trinità a
cui partecipava fino al 1700 il consiglio comunale <<l’Eccelso Senato>> inviato dai Padri
del convento 21) .
Il convento
Chi osserva il convento oggi resta colpito dal chiostro grandioso e dal convento
esteso con un piano terra ed un primo piano. Esso in origine doveva essere molto modesto
e concentrato nella parte absidale dell’antica chiesa della Trinità. Di esso si conserva
ancora il portichetto duecentesco addossato alla chiesa e quel tratto che unisce alla
palazzina di Giulio II. Ivi dovettero risiedere i frati per gran parte del 1200 ed i guardiani
20)
Atto di rinvenimento di alcune reliquie in S. Francesco del notaio Egidio Querciola 3/7/1680 (meglio agosto) in
Memorie ecclesiastiche che appartenenti alla memoria, ed al culto di S. Agapito Prenestino fasc. 4 AF Fb 12 presso
STAS; Casimiro da Roma, Memorie istoriche delle chiese, e dei conventi dei Frati Minori della Provincia Romana
(Roma 1764) 136-137.
21)
Consiglio 20/7/1655 Reformationes 1657-1666f. 116 ASCT; Diario Cornetano 1778-Feste religiose e profane - Parte
Prima AF Fa 16 presso STAS.
76
77
erano detti della Trinità. Verso la fine del 1200 ed inizi del 1300 quando fu innalzata la
grandiosa chiesa di S. Francesco vi fu certamente unita la sagrestia ed il piano
immediatamente superiore. Contemporaneamente si sviluppò l’ala frontale ad ovest,
comprendente l’antico refettorio ed il piano superiore che fu donato come granaio
dell’annona nel 1572. Vi era qualche casupola di mezzo, tra la chiesa della Trinità ed il
corpo attuale dell’edificio. Il prefetto dell’annona Ludovico Torres vi fece costruire una
scalinata il 25/2/1572 per farvi salire gli asini carichi di frumento e fu tolta dal prefetto
Mons. Nicola Del Giudice perché portava umidità alla chiesa e non vi si potevano celebrare
messe sul lato per <<l’indecenza per il rumore delle bestie e Uomini>> e nel 1712 ne fece
costruire un’altra distanziata dalla chiesa.
Di ambedue le scalinate oggi restano solo le
iscrizioni 22) .
Tra il magazzino dell’annona ed il lato opposto del fabbricato fino al 1937-1938 vi
era solo la chiesa della Trinità e l’antico portico del chiostro del 1200. Il primo piano vi fu
aggiunto dal guardiano P. Angelico Scipioni.
L’antico convento aveva ospitato S. Bernardino da Siena e apparteneva alcune volte
agli Osservanti oltre ai Conventuali.
Nel 1563 vi dovettero essere dei notevoli lavori di ampliamento del convento perché
il Provinciale Stefano Sommariva da Molina (+11/10/1579) scrisse una lettera da Velletri
per alcune misure dei muratori sostenute dai PP. Cristoforo e Giacomo. La lettera molto
lacunosa non chiarisce molto. Forse in questo periodo era stato costruito il nuovo
refettorio ed il piano superiore. Questo può essere tanto più vero in quanto nel 1581 il
convento fu scelto come sede del capitolo provinciale alla presenza del P. Generale
Francesco Gonzaga e vi fu eletto provinciale il P. Sante da Orte (1581-1584). Ciò non
sarebbe stato possibile, se il convento non fosse stato riordinato e capiente. Altri lavori
grandiosi non compaiono nel 1600. Il chiostro quindi è certamente della fine del 1500.
Tanto più è vero che il 15/1/1538 vi era una sola cisterna per la raccolta di acque piovane,
mentre il 13/12/1631 ve ne erano due ed ambedue avevano caratteristiche cinquecentesche
nei plutei di peperino con stemma del comune. La più grande di esse ancora esiste ed è
vicina al porticato più antico, quindi si può presumere che essa sia la prima. L’altra invece
era più vicina alla chiesa attuale e scomparve nel 1931 23) .
22)
Memorie istoriche della città di Corneto estratte dal codice manoscritto Vallesiano esistente nell’archivio di
Campidoglio ff. 290-291 AF Ff4 presso STAS.
23)
Bullarium Franciscanum nova series IV-2 a cura di P. Cesare Cenci, n. 2255, p.810; Lettera del P. Stefano Molina
marzo 1563 ASFT; Consiglio 15/1/1538 Reformationes 1537-1538 ff. 199, 200,201; Consiglio 13/12/1631
Reformationes 1631-1637 ff. 39v, 41v ASCT; Sergio Mecocci Il B. Giovanni da Triora e Tarquinia Bollettino
dell’anno 1988 STAS 153-155; Luigi Sergio Mecocci, Il B. Giovanni Lantrùa da Triora a Tarquinia (Corneto)
77
78
Il 17/3/1602 si trattò di restaurare un camino ed alcuni luoghi del convento.
Nel
1604 era pericolante la prima volta del chiostro unita al magazzino dell’annona. Credo che
sia quella che unisce il porticato duecentesco con tutto l’altro, perché è di struttura
intermedia. penso che a questo lavoro si riferiscano gli eredi di Belardino (Bernardino)
Coltrino quando richiedevano di essere risarciti giustamente del lavoro prestato dal padre.
L’unico lavoro di un certo rilievo nel convento fu fatto dal P. guardiano e architetto
Giorgio Marziale da Fermo nel 1651 quando fece costruire la volta al dormitorio del
convento. Questo era segno che prima vi fosse solo il tetto ed il soffitto. Nel piano sopra il
refettorio si nota ancora questa trasformazione perché il tetto è stato rialzato. Il chiostro
era istoriato con scene della vita di S. Francesc, ma furono ricoperte con calce nel 1931.
Quando la parete è umida vi si notano ancora le figure 24) .
I frati
Abbiamo avuto più volte occasione di ricordare qualche frate. Nel convento all’inizio
del secolo vi doveva essere una comunità abbastanza completa, perché vi compaiono
studenti e lettori cioè professori di teologia. Questo indicava che il convento era luogo di
studio. Certo le notizie non sono complete, ma di fronte alla totale mancanza di notizie è
già importante scoprirne qualcuno e nei momenti più fortunati intere comunità.
Il 18/2/1600 vi morì il P. Ludovico da Orte. Nei momenti di bisogno il comune
forniva i frati del necessario. Così l’11/3/1601 venivano offerti loro 40 scudi per il vino, ma
questo avveniva già dal 1565. Il 3/12/1602 il P. guardiano ottiene 50 scudi in più, perché la
comunità era grande e vi erano anche gli studenti. Nel 1604 il lettore di teologia di S.
Francesco P. Giacomo da Palestrina partecipa alla predicazione in S. Martino, subendo
prima gli esami relativi.
Il 31/12/1608 uno degli studenti cantò la prima messa in S. Francesco e furono
offerti in dono 1 scudo e cinquanta baiocchi. Per lo stesso motivo fu fatto altrettanto per P.
Giovanni Francesco da Bergamo il 21/4/1609 e per P. Francesco da Roma il 23/2/1610.
Questo era segno che gli studenti che finivano il corso teologico vi ricevevano l’ordinazione
sacerdotale. Tra i padri guardiani di questo periodo vi sono il P. Dionisio da Roma 1605-
Documenti inediti (1790-1798) in AFH 82 (1989) 406-424; Attilio De Fazi-Angelo Porchetti, S. Francesco in Corneto
Bollettino dell’anno 1984 STAS 5-22.
24)
Onorato da Casabasciana, Memorie della Provincia Romana f.92 Ms88 APA; Lettere al comune per una volta
pericolante nel chiostro (senza data, ma del 1602-1604) ASFT; Consigli 17/2/1602, 24/6/1604 Reformationes 16001604 ff. 158,159v, 292-292v; Consigli 12/12/1604 e 6/8/1606 Reformationes 1604-1607 ff. 30v, 31v-32,143 v-144,144
v ASCT; Memorie istoriche della città di Corneto estratte dal codice manoscritto Vallesiano....: <<Gode un bellissimo
convento capace di molti religiosi con bellissimo claustro riquadrato tutto dipinto dalla pietà de’Cittadini>> f. 289 AF
Ff4 presso STAS; Lettera dell’avvocato Latino Latini a P. Sebastiano Nanni 13/2/1931 ASFT.
78
79
1607, P. Girolamo Sacco da Corneto 3/6/1610, e P. Francesco da Velletri che pagò 5 scudi
per un quadro di S. Carlo Borromeo al pittore viterbese Pirro Conti il 23/5/1613.
Il 13/5/1618 vi moriva il chierico, cioè lo studente, Fra Giovanni da Caprarola. Segno
questo che il convento era ancora luogo di studio 25) .
Il 13/5/1623 vi fu eletto guardiano P. Bonaventura Vipereschi di origine
tarquiniense, ma forse nato a Roma e per questo detto romano e teologio cioè professore di
teologia oltre che definitore della Provincia Romana.
Il suo successore o vicario nel 1625 fu il P. Angelo e dopo di lui venne il P. Stefano da
Sarzana predicatore che si trovava nel convento del 1626. Il P. Tommaso da Roma nel 1629
portò in porto la transazione dei legati onerosi al comune ed il 13/12/1630 vi morì il P.
Marcello da Corneto che riuscì a fare fondere la nuova campana grande. Nel 1631 era stato
eletto
guardiano
P.
Leonardo
da
Roma,
ma
fu
energicamente
ricusato
dall’amministrazione di Corneto.
Il 15/6/1631 vi morì P. Giacomo delle Fiandre l’11/12/1638 il P. guardiano Bonifacio
da Paleroviso ed il 22/11/1640 P. Sante da Tolfa. Il 21/2/1664 era guardiano del convento
P. Giovanni da Roma. Si doveva tenere il capitolo provinciale a Tivoli il 10/3/1646 ed egli
fu inviato a pagare 15 scudi di contributo per il capitolo da tenersi dal commissario
visitatore cioè dal visitatore generale P. Stefano da Roma. Nel 1648 era guardiano
P.Giovanni Battista da Pistoia che si interessò di partecipare ad una predicazione ed alla
questione dei Serviti che avevano costruito un oratorio troppo vicino a S. Francesco pur
avendo la cura del santuario della Madonna di Valverde fuori le mura della città. Il P.
Giorgio da Fermo vi era guardiano nel 1651 e si interessò di migliorare il convento dal
punto di vista architettonico 26) .
Per trovare una comunità completa bisogna risalire al 1652 con la visita pastorale
del vescovo di Corneto e Montefiascone Gaspare Cecchinelli (1630-1666).
Di essa vi
facevano parte il guardiano P. Vincenzo da Napoli, il vicario P. Pietro Maria Charabelli da
Roma, i Padri Domenico da Tivoli, Pacifico da S. Angelo, Giacomo da Pisticci che avrà più
volte incidenza nella storia del convento, un Padre originario di Maiorca nelle Baleari, gli
oblati Fra Gabriele da Valmontone, uno di Maiorca, e Fra Crisanto da Viterbo. Il P.
Vincenzo da Napoli oltre che guardiano era predicatore, teologo e confessore.
25)
Consiglio 3/12/1602 Reformationes 1600-1604 ff. 191, 192; Consiglio 31/7/1617 Reformationes 1612-1621 ff.245
v,246; Spesso si trovano sovvenzioni del comune per i singoli frati o comunità: Speculi 1601-1630 ff. 125,126c, 129,
136; Speculi 1607-1615 ff.9 v, 11,16,21, 97; Speculi 1608-1610 ff. 34, 43v, 44,55, 97, 106v, 197, 156, 165v, 166,
175v, ASCT; Saldo per il quadro di S. Carlo Borromeo 25/3/1613 ASFT; Necrologio di Orte ASBO.
26)
Onorato da Casabasciana, Memorie della Provincia Romana f. 82 Ms. 88 APA; Consiglio 27/8/1625 Reformationes
1623-1630 f.101; Speculi 1625-1629 f. 44, ASCT; per questo periodo: P.Luigi Sergio Mecocci, P. Bonaventura
Vipereschi da Corneto + 3/2/1639 Bollettino dell’anno 1990 STAS 143-157.
79
80
Lo stesso vescovo compì altre due visite pastorali, cioè quelle del 1656 e del 1662.
Intanto il P. Giacomo da Pisticci nel 1653 era diventato vicario del convento. Tra queste
due visite vi è un totale mutamento di personale del convento di S. Francesco. Si
ripropongono per poterlo osservare.
Nel 1656 era guardiano P. Giovanni Andrea da Roma, vicario P. Dionisio di Corsica.
Vi erano inoltre P. Basilio da Caprarola che vi morirà l’11/9/1657, P. Pietro Paolo
Garfagnino, P. Giuseppe da Anagni, P. Giovanni Battista di Corsica, P. Bernardo da
Bitonto, i fratelli laici Fra Pacifico da Lugnano, Fra Antonio da Osimo, Fra Pietro da
Bassano. I confessori erano P. Giovanni Andrea da Roma, P. Dionisio di Corsica e P.
Basilio da Caprarola.
Nel 1662 il guardiano era P. Francesco Antonio da Tivoli. Gli altri erano P. Antonio
Francesco da Firenze, P. Giuseppe da Cori che era cappellano della confraternita della
Trinità, P. Francesco di Francia, P. Emanuele di Portogallo, i fratelli laici Fra Innocenzo da
Farnese e Fra Giuseppe Antonio da Onano ed il terziario Marco da Toscanella (Tuscania).
Erano comunità numerose con i fratelli in preparazione della vita religiosa come gli
oblati e terziari, ma vi erano assenti i chierici o studenti.
Il 4/1/1655 vi moriva P. Giorgio di Portogallo, mentre era guardiano P. Filippo da
Roma che fu trasferito a Cori con lo stesso incarico e fu sostituito dal P. Giovanni Andrea
da Roma 27) .
Il 21/9/1660 vi morì il guardiano P. Francesco Felice da Roma ed il 1/12/1667 il
chierico o studente Fra Giovanni da Roma. Questo indicava che il convento era di nuovo
casa di studio. Nel 1670 era guardiano P. Giovanni Carlo da Roma. Nel 1671 il P.
Michelangelo da Caprarola comparve davanti al vicario vescovile di Corneto per la
questione dei Serviti. Egli era presidente del convento, cioè era stato eletto superiore fuori
del capitolo provinciale. Il testo è quasi illegibile.
Nel 1673 si presentò come predicatore P. Giovanni Carlo da Roma dichiarando di
essere stato guardiano del convento, ma non precisando la data. Il P. Giacomo Pisticci che
era stato guardiano nel 1666-1667 ed aveva ricorso per la sentenza favorevole ai Serviti, vi
ritornò nel 1674 per il problema della stabilità della chiesa e nel 1678 per la causa della
precedenza nella processione di S. Agapito e la richiesta in affitto di un oliveto vicino alla
27)
Visita pastorale di Mons. Gaspare Cecchinelli 1652 ff. 42, 46; Visita pastorale di Mons. Gaspare Cecchinelli 1656
ff.8,10; Visita pastorale di Mons. Gaspare Cecchinelli 1662 ff. 16,17 AVT; Lettera del P. Giacomo da Pisticci
23/1/1653, Lettera del P. Giovanni Andrea da Roma per la predicazione 17/7/1655 Carte sparse secolo XVII a. 1653,
1655; Consiglio 19/7/1655 Reformationes 1650-1656 ff. 102 v, 103 v ASCT.
80
81
chiesa della Trinità, dove si trova oggi il campetto sportivo del convento. L’1/9/1678 vi
morì il P. Giuseppe da Giuliano 28) .
P. Giovanni Francesco da Caprarola vi fu guardiano nel 1678 nel mese di dicembre e
presentò la sua richiesta di predicazione dell’avvento 1679. Nel 1680 era guardiano del
convento P. Giacomo da Montecastrilli e suo vicario era P. Ludovico da Orvieto, come
abbiamo visto per la scoperta delle reliquie. Il 10/1/1683 era guardiano P. Francesco
Antonio da Caprarola che chiese la predicazione dell’avvento, ma fu trasferito come
guardiano al convento S. Martino di Veroli e da lì richiese la predicazione mettendo in
mostra di avere salito molti pulpiti.
Dopo di lui nello stesso 1683 fu eletto guardiano di Corneto P. Vittorio da Cori e con
lui inizia una serie di frati continua e più specifica fino al 1733. Egli oltre a essere
guardiano era anche confessore. Gli altri frati erano P. Angelo Antonio da Viterbo vicario e
confessore, P. Giuseppe Maria da Roma, P. Giovanni Luca da Toscanella, P. Francesco da
Corleto confessore, i fratelli laici Fra Antonio da Villafranca, Fra Innocenzo da Bergamo e
fra Primo da Garessio che essendo cancellati tutti e tre erano certamente stati inviati
altrove. Vi rimanevano invece Fra Modesto da Roma ed i terziari Domenico da Radicofani
e Andrea da Sezze. Anche Angelo da Napoli vi era cancellato 29) .
Nel 1684 il guardiano era P. Antonio da Lauro o, secondo manoscritti posteriori, da
Cori che vi morì il 31/7/1684. Il vicario era P. Giovanni Battista da Caprarola che diverrà
superiore alla morte del P. guardiano. Gli altri erano il P. Venanzio da Roma predicatore
annuale e confessore che morì a Viterbo il 28/5/1684, P. Giuseppe Maria da Roma, e P.
Francesco da Corleto presenti già nell’anno precedente, i fratelli Fra Alessandro da Rupilio
ed il terziario Domenico da Radicofani.
Per il 1685 il guardiano era P. Gregorio da Venezia. P. Giovanni Battista da
Caprarola divenne di nuovo vicario. Gli altri erano P. Girolamo da Acquapendente che vi
morirà il 20/2/1687 predicatore annuale, P. Giuseppe Maria e P. Andrea da Roma, i fratelli
28)
Lettera del P. Giovanni Cristoforo da Roma per l’avvento 1670 e patente tra il 28 febbraio e 16/3/1670 Instrumenta,
consilia, et iura diversa 1668-1670 f.57; Lettera del P. Giovanni Carlo da Roma del 13/12/1673 per la quaresima 1675
Instrumenta, consilia, et iura diversa 1672-1673 f.185; Lettera del P. Giacomo da Pisticci 23/1/1653 Carte sparse secolo
XVIIa. 1653; Lettera del P. Giacomo da Pisticci sulle 6 colonne pericolanti della chiesa S. Francesco e consiglio
comunale 1674 Instrumenta, consilia, et iura diversa 1674 fff. 152, 164, 407; Lettera del P. Giacomo da Pisticci per un
uliveto vicino la chiesa della Trinità e per la precedenza nella processione di S. Agapito 25/3/1678 Instrumenta,
consilia, et iura diversa 1677-1678 ff. 394,397,398 ASCT; Visita pastorale di Mons. Gaspare Cecchinelli 1652 f. 42
AVT; Questione con i serviti di P. Giacomo da Pisticci 16/11/1666-29/1/1667, Questione con i Serviti di P. Michele
Arcangelo da Caprarola 1671 (detto in documenti successivi Michelangelo) ASFT; Necrologio di Orte ASBO.
29)
Lettera del P. Giovanni Francesco da Caprarola dicembre 1678 Instrumenta consilia, et iura diversa 1677-1678
ff.396,399 v; Consiglio 10/1/1683 Reformationes 1680-1689 f. 141 v ASCT; Memorie ecclesiastiche appartenenti alla
memoria ed al culto di Sant’Agapito Prenestino fasc. 4 AF Fb 12 presso STAS; Famiglie 1683-1733 f. 20 Ms. 63 APA.
81
82
laici Fra Carlo da Bolsena, Fra Giovanni Bartolomeo da Caprarola ed il terziario Lorenzo
da Sarzana.
Nel 1686 era ancora guardiano P. Gregorio da Venezia che dovette affrontare anche
lui la questione con i Serviti (24/7/1686). P. Girolamo da Acquapendente divenne vicario.
P. Bernardino da Città di Castello era predicatore annuale. Vi erano inoltre P. Angelo
Antonio da Viterbo, il fratello laico Fra Vincenzo da Tivoli ed i terziari Domenico da
Bologna, Domenico da Radicofani e Domenico da Gallicano. Vi si nota una triade di
postulanti con lo stesso nome.
Nel 1687 il guardiano era P. Lorenzo da Roma, vicario P. Angelo Antonio da Viterbo.
Vi erano i Padri Bernardino da Caprarola e Francesco da Corleto, i fratelli laici Fra
Modesto e Fra Vitale da Roma, i terziari Domenico da Radicofani e Domenico da Bologna,
e Francesco da Poggio Mirteto.
Nel 1688 il guardiano era P. Giovanni Crisostomo da Varese che nel secolo seguente
fu Provinciale. Con lui erano il concittadino P. Giovanni Pietro vicario, P. Benedetto da
Caprarola, P. Francesco da Corleto ed il fratello laico Fra Vebano da Frascati. Era una delle
più piccole comunità di questo periodo nel convento.
Nel 1689 il P. Costantino da Roma era guardiano e confessore. L’ungherese P.
Virginio era vicario. Vi erano il francese P. Bernardino, P. Giovanni da Rende, P. Pietro
Nicola da Roma predicatore annuale, i fratelli laici Fra Antonio Maria da Milano, Fra Paolo
da Marino, i terziari Domenico da Radicofani e Ludovico da Milano. Il 13/7/1689 vi moriva
affogato nel Mignone Fra Vitale da Roma.
Nel 1690 restava guardiano e predicatore P. Costantino da Roma ed il suo vicario
era P. Francesco da Corleto che vi morì l’8/6/1690. Vi erano inoltre il P. Severino da
Concorizio predicatore annuale, P. Ignazio da Siracusa, P. Bonaventura da Cilezia, i fratelli
laici Fra Paolo da Tricarico, Fra Francesco Antonio da Borgo Sommo ed il solito terziario
Domenico da Radicofani.
Nel 1691 si ebbero due comunità diverse. La prima il 27/4/1691 col P. Costantino da
Roma predicatore e guardiano, P. Anastasio da Bergamo predicatore e vicario, P. Giuseppe
Maria da Napoli predicatore annuale, P. Nicola da Orbetello, P. Anselmo da Roma, P.
Giovanni Maria da Napoli, il chierico studente Fra Pietro da Campagnano, i fratelli laici
Fra Antonio da Celli, Fra Giacomo da Guastalla, Fra Pietro Angelo da Crema ed i terziari
Domenico da Radicofani e Tommaso d’Acquaviva. Vi ricominciano ad essere gli studenti
ed i frati sono molti.
Nella seconda il 21/11/1691 vi erano destinati il P. Fulgenzio da Roma guardiano e
predicatore generale, P. Anastasio da Bergamo predicatore e vicario, P. Giacomo Antonio
82
83
da Monte Silatrano, P. Antonio da Ferentino confessore, P. Francesco da Rotonda
predicatore annuale, i fratelli laici Fra Bonaventura da Farnese, Fra Antonio di Sardegna
ed i terziari Domenico da Radicofani e Stefano da Sanguineto. In poco tempo le mutazioni
furono molte. Anche se il 1694 non è registrato, si sa che vi morì il 6/2/1694 il P. Luca
Antonio da Roma.
Si deve giungere al 1695 per avere un nuovo gruppo di frati. Il guardiano e
predicatore era P. Giovanni Battista da Roma e con lui vi erano il vicario P. Giovanni
Francesco da Roma confessore, P. Bernardo da Città di Castello, P. Francesco Maria da
Vallico, i fratelli laici Fra Antonio da Morazzone e fra Bonaventura da Cassano ed il
terziario Nicola da Rimini.
Nel 1696 vi fu mandato come predicatore e guardiano e teologo P. Vincenzo da
Roma che vi moriva il 28/7/1696. Gli dovette succedere come superiore P. Alessio da
Roma che fece fondere la campana detta <<La Palestrina>> e la pagò 14/3/1697.
Vi
erano invece i lettori di teologia e confessori i Padri Angelo Antonio da Farnese e
Michelangelo da Pitigliano. Il P. Pietro Maria da Bergamo era invece vicario, predicatore e
moderatore del coro, cioè uno dei pochi musicisti dell’epoca ricordati. Vi erano anche i
Padri Giovanni Francesco e Antonio da Vallico e Giuseppe da Roma che vi morì il
21/8/1696. Non si sa perché egli morì. Facilmente avvenne per malaria, allora frequente
nella zona ed è singolare che fu qualche giorno prima del concittadino P. Vincenzo.
Con loro vi erano il P. Albero da Cori, i chierici Fra Pietro da Limano, Fra Giovanni
Ambrogio da Gattinara, Fra Pietro Maria da Valmadera, Fra Carlo Antonio da Massa, i
fratelli laici Fra Pietro Antonio da Cicciana, Fra Angelo da Roma ed i terziari Nicola da
Rimini e Domenico da Bologna. E’ una delle comunità più numerose tra quelle conosciute
con professori di teologia e studenti, con l’imprevisto di ben due morti della stessa città.
Nel 1697 vi ritorna come guardiano e predicatore P. Giovanni Battista da Roma. Il
vicario è P. Luigi da Roma e vi è il P. Antonio da Penna. I lettori e confessori restano il P.
Angelo Antonio da Farnese e P. Michelangelo da Pitigliano. Alcuni
degli
studenti
di
teologia sono già sacerdoti come i compaesani P. Giovanni Pietro, P. Antonio e P.
Bartolomeo da Vallico ed i Padri Alberto da Cori e Francesco Maria da Casorate. Gli
studenti chierici invece sono Fra Andrea da Sabaudia, Fra Giovanni Pietro da Limano che
morirà in concetto di santità a S. Liberata il 7/1/1736, Fra Giovanni Antonio da Casamari,
Fra Antonio da Bassano, vi sono pure i fratelli laici Fra Alessandro da Pontremoli e
Michelangelo da Massa ed i terziari Nicola da Rimini e Romano da Ferrara.
Gli studenti sono veramente molti in questo anno.
83
84
Nel 1698 diventa guardiano P. Teodoro da Roma che è contemporaneamente
predicatore. Il P. Anastasio da Bergamo è vicario e confessore. Vi resta P. Antonio da
Penna e vi si aggiungono P. Giulio Sormani o da Sormanno Lettore e predicatore annuale e
P. Antonio da Roma organista che è l’unico frate ricordato con questo incarico. Vi restano
come lettori di teologia e confessori P. Angelo Antonio da Farnese che morirà il 27/6/1699
in Aracoeli, P. Michelangelo da Pitigliano. Vi sono i sacerdoti studenti P. Giovanni
Francesco, P. Antonio e P. Bartolomeo da Vallico, P. Francesco Maria da Casorate e P.
Isidoro da Farnese, i chierici Fra Sebastiano (Pietro) da Vallico, Fra Francesco Nicola da
Bolsena, Fra Bernardino da Roma, Fra Francesco da Morrone e Fra Cesare Vincenzo da
Lucca I fratelli laici sono Fra Bartolomeo da Caprarola, Fra Giovanni e Arcangelo da Roma
ed il terziario Martino di Sardegna.
Nel 1699 il guardiano è ancora P. Teodoro da Roma che è anche predicatore P.
Anastasio da Bergamo è vicario predicatore e confessore. I lettori di teologia sono tre
perché al P. Michelangelo da Pitigliano si aggiungono il P. Antonio da Tivoli e P.
Alessandro da Orte futuro custode della Provincia Romana. Vi sono P. Felice da Roma
predicatore annuale e i Padri Giovanni Francesco da Vallico e Francesco Maria da Casorate
che da studenti che erano l’anno precedente entrano invece nella comunità come giovani
sacerdoti. Tra i sacerdoti studenti invece ci sono il P. Francesco Nicola da Bolsena, P.
Giovanni Pietro da Pozzo, P. Nicola da Monte Aubiano e P. Paolo da Bassiano. I chierici
sono invece Fra Sigismondo da Vico e Fra Bernardino da Roma. I fratelli laici sono Fra
Arcangelo da Roma e Fra Antonio da Recineto ed il terziario Antonio da Tivoli 30) .
Vi si notano in questo periodo delle comunità numerose che aumentano per gran
parte del 1700 e cominceranno ad essere ridimensionate con le restrizioni delle corti
borboniche, con la rivoluzione francese e con le soppressioni del secolo XIX.
I predicatori
Più volte si è avuta occasione di incontrare nel nostro studio il titolo di predicatore
attribuito ai frati. Era una prerogativa che veniva rilasciata solo a chi subiva degli esami
per questa attività, mostrando di avere le doti necessarie, ed ottenevano il titolo di
predicatore annuale cioè per il solo anno o per il luogo dove risiedevano o di predicatore
generale cioè non approvazione del P. Generale e per qualsiasi luogo sempre col permesso
del Vescovo dove si svolgeva la predicazione. Nelle singole diocesi essi potevano essere
sottomessi a nuovi esami come il 3/12/1603 nella curia vescovile di Corneto per il P.
30)
Famiglie 1683-1733 ff. 37 v, 56,76,94,111 v, 128v, 147,166v, 185,198v-199,214,233v,253v,264 v Ms. 63 APA.
84
85
Marcellino da Siena per la predicazione dell’Avvento nella cattedrale e per P. Giacomo da
Palestrina per quella in S. Martino. Essi furono approvati.
Vi era una prassi standardizzata nella Corneto di allora, come viene notato nel
<<Diario Cornetano 1778 - Feste Religiose e Profane - Parte Prima>>: <<Nel tempo
quaresimale così come in quello dell’avvento predica ogni giorno nella chiesa cattedrale.
L’elezzione (sic) del sagro Direttore per la quaresima appartiene al Ven. Capitolo, ed al
Consiglio delli 13 di decembre cioè essendovi in Corneto quattro Conventi di Frati di questi
Ordini differiti (sic), cioè Agostiniano, Servita, Minore Osservante, e Minore Conventuale,
il conseglio suddetto conceda a questi la Predicazione secondo le loro Antichità in Corneto,
toccando però il primo anno al sopraddetto Capitolo di eleggere con particolare
congregazione, a spese però della Communità un predicatore a piacere essendo il più delle
volte Prete. Il secondo anno degnando il Consiglio uno degli Agostiniani, il terzo uno dei
Servi di Maria, il quarto uno dei Minori Osservanti ed il quinto anno dopo del quale ha
nuovamente principio l’ordine sopraddetto uno dei Minori Conventuali e ad ogni uno degli
Eletti ne Loro Respettivi Anni Congregasi ancora quello del Revmo Capitolo, viene pagata
dalla Comunità sopraddetta la somma di scudi 40.
Quanto poi al predicatore dell’Avvento, è in libertà del suddetto Conseglio esser
questo a piacere, ma delle quattro Religioni, indicate, avvertendosi che tanto i Predicatori
della Quaresima, che dell’Avvento non possano eleggersi per due anni avanti: ed ha il
suddetto Predicatore dell’Avvento da questo Comune la Scarsa mercede di 12 scudi>> 31) .
Vi era molto clero e per il turno della predicazione in genere venivano presentati tre
candidati. Per essere considerati accettati dal consiglio comunale, dovevano ottenere i due
terzi di voti bianchi su quelli neri ed era il predicatore chi ne otteneva di più. Era un
pulpito ricercato dagli oratori che presentavano nelle loro richieste le loro referenze, i
meriti acquisiti nella predicazione in altri pulpiti. Raramente venivano tenute in conto le
domande dei predicatori annuali e si preferivano quelli più noti. Spesso erano accettati
quelli raccomandati da persone influenti od amici conosciuti come erano il P. Bonaventura
Vipereschi o il cardinale Francesco Barberini o il cardinale Giulio Rospigliosi. Tra gli
oratori vi sono personalità che hanno ricoperto uffici importanti nella chiesa e nell’Ordine
Francescano: il cardinale Lorenzo Cozza da S. Lorenzo, i provinciali P. Bernardino
Turamini da Siena, P. Giovanni da Roma, P. Girolamo da Velletri, P. Onorato Finucci da
Casabasciana, P. Antonio Soffianti da Caprarola, i guardiani del convento S. Francesco P.
Girolamo Sacco da Corneto, P. Giovanni Battista da Pistoia, P. Giovanni Carlo da Roma, P.
85
86
Cristoforo da Roma, P. Giovanni Francesco e P. Francesco Antonio da Caprarola, P.
Giovanni Andrea da Roma. Altri presentano le loro specializzazioni teologiche come i
lettori o professori del convento di S. Francesco di Corneto, del Paradiso di Viterbo o di S.
Bartolomeo all’Isola Tiberina di Roma.
I primi predicatori richiesti in questo secolo dai Padri Francescani del convento S.
Francesco appaiono in forma anomima nel 1604 quando dal comune viene richiesto un
predicatore dell’avvento al P. Guardiano, mentre per la quaresima viene desiderato il
Conventuale P. Francesco da Castiglione. Chi in realtà concorse alla predicazione
dell’Avvento fu proprio il P. Marcellino da Siena, già ricordato nell’esame che dovette
sostenere nella curia vescovile col P. Giacomo da Palestrina.
Nel 1609 il predicatore della quaresima era stato P. Celso da Firenze pagato 40 scudi
il 19/4/1609. Il 3/6/1610 il P. guardiano di S. Francesco P. Girolamo Sacco da Corneto
ottenne la completa approvazione per la predicazione dell’avvento perché conosciuto come
<<padre sufficiente di dottrina di bontà et buono esempio>> e nel 1634 si rivolsero al
cardinale Francesco Barberini per averlo come guardiano del luogo, morendo in Aracoeli il
7/1/1647. Questo era un segno di stima verso il proprio concittadino.
Il 7/10/1618 si presentò come predicatore della quaresima P. Bernardino
<<Belardino>> Turamini da Siena, futuro Provinciale della Provincia Romana ed ebbe 28
voti favorevoli e due contro. Il 27/8/1625 invece il P. Angelo guardiano o vicario di S.
Francesco (non viene qualificato) presentò il predicatore Gian Francesco Menghizzi da
Celleno che ottenne 20 voti favorevoli. Non viene precisato per quale predicazione era
destinato, ma con probabilità per l’avvento. Nel 1620 era stato fatto un sollecito ai Padri
Generali dei quattro Ordini esistenti nella città perché facessero provvederli di confessori e
predicatori sufficienti per il servizio religioso ordinario. Altrettanto fecero verso il Papa 32) .
L’avvento del 1626 lo predicò il guardiano di S. Francesco P. Stefano da Sarzana che
fu pagato 12 scudi. Il 29/12/1629 la stessa somma fu pagata al P. Gerolamo da Velletri ed al
suo socio. Questo indicava che chi veniva da fuori città portava con sè un altro frate che lo
accompagnava. Il 3/2/1632 si presentò per l’avvento il P. Ferdinando che ottenne 13 voti
favorevoli e 7 contrari cioè fu rifiutato. Il 19/10/1631 si era presentato il P. Giovanni
31)
Iura ecclesiastica 1580-1584 f. 29 AVT; Diario cornetano 1678 - Feste religiose e profane - Parte prima AF Fa 16
presso STAS.
32)
Consiglio 17/10/1604 Reformationes 1604-1607 ff.20,20 v-21; Speculi 1607-1615 f.16; Speculi 1608-1610 f. 97;
Consiglio 3/6/1610 Reformationes 1607-1610 f.138 v, 139; Consiglio 7/10/1618 Reformationes 1612-1621 ff.272 v,
273 (minuta), 293 v, 294 v (bella copia); Consiglio 20/5/1625 Reformationes 1623-1630 f.101 ASCT (il presentatore
del predicatore P. Angelo di S. Francesco non è indicato con nessuna carica). Lettera ai Padri Generali dei Serviti, degli
Osservanti, dei Conventuali, degli Agostiniani 19/6/1620; Lettera al Papa (senza data, ma dello stesso periodo) Pietro
Falzacappa Cronache di Corneto AF Ff12 presso STAS.
86
87
Francesco da Caprarola per l’avvento in concorrenza col cornetano P. Marco Antonio
Cehtera Conventuale o Servita o Agostiniano che fu preferito con 18 voti a favore e due
contrari.
Per la quaresima del 1635 si presentò il P. Giovanni Antonio da Roma con la
raccomandazione del P. Bonaventura Vipereschi che ebbe l’approvazione completa ed
incoraggiato da questo allo stesso modo desiderava predicare anche l’avvento, ma già era
stato affidato all’agostiniano di Corneto P. Stefano Raffi.
Il 27/4/1636 il P. guardiano di S. Francesco presentò come predicatore dell’avvento
il P. Giovanni Paolo Bonelli che piacque tanto da essere scelto per la quaresima 1640, ma
egli morì l’8/7/1639 ed in suo ossequio la predicazione fu affidata al suo confratello P.
Agostino Caravita il 7/8/1639 33) .
Il 27/4/1642 furono presentate diverse richieste di predicazione tra Conventuali e
Osservanti. Per la quaresima del 1645 il P. Atanasio da Roma si ritirava dall’impegno ed in
sua vece veniva proposto il 27/4/1642 il guardiano di S. Francesco P. Girolamo da Roma
che veniva accettato. A sostenere la candidatura del P. Gerolamo c’era la signora Lucidi
Vipereschi che doveva avere influenza perché apparteneva ad una delle famiglie più in
vista della città. Allo stesso P. Girolamo fu attribuito l’avvento del 1644. Il conventuale P.
Giulio da Acquapendente otteneva di predicare la quaresima del 1646, ma si ritirava e fu
eletto in sua vece il confratello P. Antonio da <<Horti>> (P. Antonio Castra da Orte),
mentre per l’avvento fu scelto P. Clemente Francia dello stesso Ordine 34) .
Il P. guardiano di S. Francesco Giovanni da Pistoia presentò la sua richiesta per
predicare la quaresima del 1650 il 9/8/1648 ed ebbe 20 voti favorevoli e 3 contrari. Il
23/1/1653 egli era nel convento S. Giuseppe di Acquapendente ed il 16/10/1655 moriva
presso S. Casciano come ex definitore.
Nel 1649 il convento era stato designato come luogo del capitolo provinciale ed
erano stati fatti i preparativi, ma il P. Benigno da Genova ex Generale e discreto perpetuo
mandò tutto in fumo con la scusa che era troppo lontano da Roma ed egli era vecchio per
andarci.
Il 21/12/1653 fu discussa la richiesta di predicazione della quaresima del P. Antonio
Soffianti da Caprarola <<lettore generale di sacra scrittura>> in Aracoeli che nel 1671
33)
Speculi 1625-1629 ff. 44, 137v; Consigli 19/10/1631, 2/3/1632, 27/7 e 27/12/1636 Reformationes 1631-1637
ff.27,29v, 57,58,119v, 121,234,237-237v, 257,259; Consiglio 7/8/1639 Reformationes 1638-1644 ff. 39-40,40-40 v;
Lettera a P. Giovanni Antonio da Roma 29/12/1633, Lettere a P. Bonaventura Vipereschi 2/5/1634 e 20/2/1635
Registro lettere 1631-1636 ff. 107-107v, 20-20v, 119v, 32 v, 158, 21 (vi è una doppia numerazione) ASCT.
34)
Consigli 27/4/1642, 21/4 e 21/9/1644 Reformationes 1638-1644 ff. 98 v, 99,99 v, 101, 150, 151 v; Consiglio
22/10/1645 Reformationes 1645-1655 ff. 17-17 v ASCT.
87
88
divenne prima custode della Provincia e poi vicario provinciale. Eppure la sua richiesta
ottenne 11 voti favorevoli e 7 contro 35) .
Il P. Onorato Finucci da Casabasciana detto di Lucca, buon cronista della Provincia
Romana il 19/7/1654 richiese la quaresima del 1655. Con lui concorreva il guardiano di S.
Francesco P. Filippo da Roma. Essi furono votati il 29/7/1654. Il P. Onorato ottenne 14
voti a favore e 4 contro, mentre P. Filippo ne ottenne 12 a favore e 6 contro. Il P. Onorato
era stato Provinciale della Provincia Romana ed era definitore generale, era quindi una
persona di riguardo. P. Filippo il 19/6/1655 fu eletto guardiano di Cori e gli subentrò
nell’ufficio il P. Giovanni Andrea da Roma a cui fu affidata la predica dell’avvento con 14
voti favorevoli e 5 contrari 36) .
Il 17/6/1658 il P. Alessio da Roma lettore di teologia in Aracoeli chiese la predica
della quaresima del 1660 e la ottenne con 18 voti a favore e 2 contro. Egli fu eletto
Provinciale nel 1665 e morì in Aracoeli il 15/1/1666. P. Alberto Vannini da Roma il
15/1/1666. P. Alberto Vannini da Roma il 15/1/1664 richiedeva di predicare la quaresima
del 1665, ma otteneva 10 voti favorevoli e 9 contro. Il 16/3/1664 ci riprovò con l’aiuto del
cardinale Giulio Rospigliosi poi Clemente IX (1600-1669) e ne ottenne 15 in favore e 6
contro. Per il 1670 concorsero per la predicazione della quaresima P. Cristoforo da Roma
lettore, predicatore e guardiano del convento S. Francesco ed il P. Giovanni Girolamo da
Roma predicatore annuale nella chiesa S. Bartolomeo all’Isola di Roma per l’avvento. Le
loro richieste furono votate ed il P. Cristoforo fu accettato tra il 27 febbraio 16 marzo 1670,
mentre il P. Giovanni ottenne 12 voti a favore e 7 contro il 27/7/1670 ed il 12/10 ne ottenne
10 favorevoli e 9 contro cioè non fu accettato.
Prima del 12/3/1673 presentarono le loro richieste per la quaresima 1675 il
P.Giovanni Carlo da Roma <<che alcune volte predicò nella chiesa di S. Francesco quando
fu guardiano di S. Francesco>< (non viene determinato il tempo) e P. Ginepro Damiano
<<teologo, predicatore clarissimo>> cioè predicatore conosciuto in più luoghi 37) .
35)
Consiglio 9/8/1648 Reformationes 1645-1655 ff.95 v, 97 v, Consigli 21/12/1653, 29/7/1654 Reformationes 16511656 ff.49 c, 52v, 72v; Lettera del P. Giovanni Battista da Pistoia (senza data, ma almeno del 9/8/1648), Lettera del P.
Antonio Soffianti da Caprarola (senza data, ma certamente del 21/12/1653) Memorialia 1644-1659 45.768 Lettera del
P. Giacomo da Pisticci 23/1/1653 Carte sparse secolo XVIa. (1648, 1653) 1653 ASCT; Onorato da Casabasciana,
Memorie della Provincia Romana ff. 88-89, 127 Ms 88 APA.
36)
Lettera del P. Onorato da Lucca 19/7/1654, Lettera del P. Giovanni Andrea da Roma 19/7/1655 Carte sparse secolo
XVII a. 1654, 1655; Reformationes 1650-1656 FF. 70v, 102 v, 103 v ASCT.
37)
Consigli 17/3/1658, 27/12/1659, 15/1 e 16/3/1664 Reformationes 1657-1665 ff. 23,24,44 v, 85, 85 v, 87, 89; Lettera
del P. Alessio da Roma 17/3/1658 Carte sparse secolo XVII a. 1658; Lettera del P. Cristoforo da Roma 28/2,
16/3/1670; Lettera del P. Giovanni Girolamo da Roma e votazione 12/10/1670; Lettera del P. Giovanni Carlo da Roma
e P. Ginepro Damiano Instrumenta, consilia, et iura diversa 1668-1670 ff. 57,70,80v, 87; Instrumenta, Consilia, et iura
diversa 1672-1673 ff. 185, 186 ASCT.
88
89
Nel dicembre 1678 presentarono le loro richieste P. Cosma Bernasconi da Roma
<<predicatore generale, lettore giubilato e custode della Provincia Romana>> per la
quaresima 1679 e P. Giovanni Francesco da Caprarola <<predicatore, lettore, et al presente
guardiano di S. Francesco di Corneto>> per l’avvento 1679. Essi con le caratteristiche
presentate erano dei concorrenti insuperabili.
Il P. Francesco Antonio da Caprarola <<guardiano di S. Francesco>> concorse il
10/1/1683 e fu votato col P. Enrico Rainieri il 10/1/1683, ma quest’ultimo ottenne più voti.
Egli allora ripresentò la sua domanda come guardiano di Veroli, dove era stato trasferito,
facendo notare la molteplicità di pulpiti da lui calcati. Guardiano di Corneto intanto era
diventato P. Vittorio da Cori a cui indirizzò una lettera il P. Provinciale P. Vincenzo Marra
da Bassiano detto Junior, minacciando che avrebbe ritirato i frati dal convento, se non
fossero stati provvisti di vino, come era consuetudine dal 1565 38) .
Per la predicazione della quaresima del 1685 si presentarono il custode della
Provincia Romana P. Alessandro da Magliano <<lettore provinciale>> ed <<il lettore e
predicatore>> P. Lorenzo Cozza da S. Lorenzo. Nella votazione per loro del 27/4/1684 il P.
Alessandro ottenne 9 voti a favore e 9 contro, mentre P. Lorenzo ne ottenne 14 a favore e 4
contro attribuendosi la predicazione. Nella nota marginale di quest’ultimo è aggiunto con
una certa soddisfazione: <<Ora cardinale Lorenzo Cozza agli 5 aprile 1729>>. Pur
essendoci l’errore della data perché egli morì nel convento S. Bartolomeo all’Isola di Roma
il 19/1/1729, vi si nota la stima per la sua personalità che la meritava certamente come
uomo di cultura, scrittore, diplomatico ed uomo pratico, essendo stato Custode di Terra
Santa, Provinciale della Provincia Romana, Generale dell’Ordine e Cardinale 39) .
Il 14/12/1687 il P. Giovanni Nicola da Roma viene messo a votazione per l’avvento
1688 col P. Giovanni Meconi dei Serviti ed ottiene 15 voti a favore e 8 contro, mentre il P.
Meconi ne ottiene 16 a favore e 7 contro, vincendo.
Lo stesso P. Giovanni Nicola da Roma si ripresenta per l’avvento 1689 ed il
5/4/1688 viene approvato con 18 voti favorevoli ed uno contro. Nello stesso anno si
presenta per la quaresima del 1690 il P. Cosma o Cosimo Bernasconi da Roma e gli viene
38)
Lettera del P. Cosma da Roma, Lettere del P. Giovanni Francesco da Caprarola guardiano del convento dicembre
1678 Instrumenta, consilia, et iura diversa 1677-1678 ff. 395,396,399 v, 400 v; Lettera del P. Francesco Antonio da
Caprarola guardiano di S. Francesco 10/1/1683, Lettera del P. Francesco Antonio da Caprarola guardiano di Veroli che
ha predicato a <<Roma, Bologna, Ferrara, Venezia, Palermo, Napoli>>, Consigli 10/1/1683, e 16/5/1683 Lettera del P.
Vincenzo da Bassiano 28/4/1683, Lettera del convento al consiglio (senza data, ma di questo periodo), Reformationes
1680-1689 ff. 141 v, 147, 162 v, 185, 189, 192, 192 v; Lettera del vescovo Romano di... ai Conservatori 22/5/1683
Carte sparse secolo XVII a. 1683; Famiglie 1683-1733 f. 20 Ms. 63 APA.
39)
Consiglio 27/4/1684, Lettera del P. Alessandro da Magliano, Lettera del P. Lorenzo da S. Lorenzo Reformationes
1680-1689 ff. 289-189 v, 291,293, 296 v ASCT; Colombo Angeletti, Necrologio della provincia Romana dei SS.
Apostoli Pietro e Paolo (Roma 1969) 66.
89
90
concessa <<per esperienze che si han della sua virtù e scienza mostrata per altra
predicazione>>, ma egli deve poi rinunziarci il 18/9/1689 perché <<impossibilitato dal
Commando rispettoso dei suoi superiori>>. Egli morì ad Orte il 20/4/1691. Furono allora
presentati i Padri Fortunato da Roma <<predicatore clarissimo>> e teologo e P. Callisto da
Siena. Nella votazione del 7/12/1689 il P. Fortunato ottenne 8 voti favorevoli e 13 contrari,
mentre il P. Callisto ne ebbe 17 a favore e 4 contro. Questo indica che si guardava nella
scelta alle qualità del predicatore anziché alle note presentate.
Per la predicazione dell’avvento 1691 si presentarono il P. Severino da Milano ed il
P. Anastasio Certi (o Cerli?) da Bergamo e P. Giovanni Pietro da Roma. Il primo fu
approvato e gli fu mandata la patente l’8/1/1691 per avere ottenuto 19 voti favorevoli
contro 5. Il P. Anastasio ottenne 17 voti a favore e 7 contro, e P. Pietro Giovanni ne aveva
ottenuti 16 favorevoli ed 8 contrari.
Il P. Giuseppe Maria Padovano da Napoli lettore, teologo e predicatore richiedeva la
predicazione dell’avvento 1692 e quella del 1693. Per quest’ultima veniva votato e la
otteneva con 16 voti a favore e 4 contro 40) . Per la quaresima del 1694 si presentava il P.
Leopoldo da Mondanio oggi Mondonio che era stato predicatore annuale in S. Francesco
durante la rovinosa caduta delle due colonne della chiesa nel 1691. Contemporaneamente
ritornava a chiedere la quaresima del 1695 il P. Fortunato da Roma che l’ottenne con 23
voti a favore ed uno contro, mentre P. Leopoldo ottenne 8 voti a favore e 16 contro. Forse
gli giocò un brutto scherzo il ricordo funesto della chiesa di S. Francesco.
Nel 1698 furono numerosi i concorrenti Osservanti per le predicazioni. Il P.
Marcellino da Roma si presentava per l’avvento 1698 e l’ottenne con un buon ascolto, tanto
da essere proposto ed accettato per la predicazione e la quaresima del 1700 in concorrenza
con i Padri Silvestro da Orvieto <<predicatore generale e lettore giubilare>> e Basilio da
Caprarola <<predicatore clarissimo>>. Nella votazione del 14/12/1698 il P. Silvestro
ottenne 13 voti favorevoli e 10 contrari, P. Basilio 10 favorevoli e 13 contrari, P. Marcellino
invece 22 favorevoli e nessuno contro. Evidentemente uno dei votanti era uscito perché i
voti erano 23 per tutti, come risulta dalla votazione degli altri due e del P. Pietro Paolo da
Roma per l’avvento del 1699 come lettore di teologia di Viterbo che ottenne 21 voti
favorevoli e 2 contro.
Gli ultimi di questo periodo che si presentarono come predicatori furono i Padri
Felice da Roma per l’avvento del 1700 e P. Giuseppe Maria da Torino lettore di teologia in
40)
Consigli 14/12/1687, 5/4 e 13/11/1688 Reformationes 1685-1690 ff. 55,55 v, 59, 60, 76; Consiglio 7/12/1689 ff. 7,
16,24 v, 25 v; Reformationes 1689-1695 ff.128,148 v, 159, 161,166 v, 173,178 v ASCT.
90
91
S. Francesco. Il P. Felice ottenne 24 voti favorevoli e 5 contro e P. Giuseppe Maria ne
ottenne 13 a favore e 10 contro 41) .
Questa carrellata di predicatori ci dice che la presenza dei frati in S. Francesco era
utile per far conoscere la cultura religiosa del tempo presso il popolo, poiché la
predicazione era molto seguita. E’ vero che mi sono limitato ai soli Osservanti e con rari
accenni agli altri, lasciando l’opportunità di farlo a chi desidera approfondire l’argomento.
* **
L’interesse della presenza dei frati è dimostrata dalla ricerca che ne faceva la stessa
amministrazione civile per gli impegni di assistenza religiosa verso la popolazione. I frati
infatti avevano cura di aiutare i cittadini nelle confessioni, nella giusta recezione
dell’eucaristia, nella preghiera corale, nel suono e canto religioso, nella preghiera comune.
Essi non mancavano di soccorrere i più bisognosi con la loro carità, non ultima quella
paziente della distribuzione dell’acqua delle cisterne durante l’estate per una popolazione
assetata come quella di Corneto in questo periodo. Per questo essi erano molto apprezzati e
ricercati, nonostante qualche immancabile controversia col clero locale per la festa di S.
Agapito, con i Conventuali per quella di S. Antonio di Padova, con i Serviti per la
costruzione prima di un oratorio troppo vicino al convento S. Francesco e poi di una chiesa
vera e propria S. Maria Addolorata con relativo convento e l’abbandono del santuario di S.
Maria di Valverde. I frati più volte si interessarono presso le autorità competenti della
manutenzione della bella chiesa sia pure con trasformazioni barocche. Ne fecero presenti i
problemi principali: riparazioni di tetti, imminenze di crolli come quello delle colonne
centrali, costruzione del nuovo monumentale campanile. Le amministrazioni cittadine se
ne presero cura nei loro limiti. Tutte queste cose unite alle nuove notizie su un personaggio
o l’altro credo che siano degne di essere conosciute perché anche esse sono alla base della
presenza attuale dei frati nella Tarquinia odierna.
P. Luigi Sergio Mecocci
FONDI ARCHIVISTICI
AF presso STAS
Archivio Falzacappa presso Società Tarquiniense
Arte e Storia
41)
Reformationes 1696-1701 ff,7,10,17, 17v, 88, 95v, 140, 153v, 230,233,234,237,240v, 241,283,294 v ASCT.
91
92
APA
Archivio Provinciale Aracoeli
ASBO
Archivio S. Bernardino Orte
ASCT
Archivio Storico Comunale Tarquinia
ASFT
Archivio S. Francesco Tarquinia
AVT
Archivio Vescovile Tarquinia
BIBLIOGRAFIA
Corteselli Mario-Pardi Antonio, Corneto com’era (Tarquinia 1977).
Corteselli Mario, Un santo venuto da lontano Bollettino dell’anno 1986 STAS 105114.
De Fazi Attilio-Porchetti Angelo, S. Francesco in Corneto, Bollettino dell’anno 1984
STAS 5-22.
Foschi Rossella, La chiesa di S. Maria Addolorata in Tarquinia, Bollettino dell’anno
1980 STAS 115-135.
Gli Statuti della città di Corneto MDXLV a cura di Massimo Ruspantini (Tarquinia
1982)
Mecocci P. Luigi Sergio, P. Bonaventura Vipereschi da Corneto +3/2/1639
Bollettino dell’anno 1990 STAS 143-157.
Polidori Muzio, Croniche di Corneto a cura di Anna Rita Moschetti (Tarquinia 1977)
Romanelli Emanuele, S. Francesco di Tarquinia (Roma 1967)
Sensi Mario, S. Maria di Valverde a Corneto Bollettino dell’anno 1987 STAS 79-113.
Tiziani Giannino, Famiglie e stemmi cornetani dalla schedatura di beni artistici di
Tarquinia Bollettino dell’anno 1985 STAS 147-211.
92
93
RICERCHE
ARCHEOLOGICHE
ALL’EREMO
DELLA
SS.
TRINITA’
DI
ALLUMIERE
Breve premessa
L’Eremo della SS. Trinità di Allumiere, è uno dei più antichi monasteri della
Provincia romana ed esiste, secondo alcuni storici del XIV secolo, fin dai tempi di Gregorio
IV (827/844) (Enrico di Friemar; Giordano di Sassonia).
Ma anche lapidi del XII sec., esistenti fino agli inizi del nostro secolo, sulla facciata
dell’Eremo, e recenti ritrovamenti archeologici, danno concrete possibilità di conferma
all’ipotesi della sua esistenza fin dai tempi di Agostino e del suo soggiorno in zona
Centumcellae (387-388 d.C.).
I ritrovamenti di reperti di epoca romana, colonne, capitelli e mattoni, alcuni dei
quali con bollo di fabbrica dell’imperatore Traiano, fanno ritenere assai probabile che
l’edificazione del Romitorio sia stata realizzata, utilizzando preesistenti strutture e
materiali pertinenti, verosimilmente ad un piccolo tempio dedicato alle ninfe delle acque.
Proprio in quest’area, infatti, si trova uno dei più consistenti bacini idrici, dai quali
furono captate le sorgenti che dovevano rifornire di ottima acqua potabile il costruendo
porto di Traiano a Centumcellae, agli inizi del II sec. d.C.
Anche al fine di poter documentare la possibilità di un soggiorno di S. Agostino in
questo Eremo, è stata intrapresa, in questi ultimi anni, una prima campagna archeologica
da parte della Associazione Archeologica <<A. Klitsche de la Grange>> di Allumiere, in
93
94
stretta collaborazione con la Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale. I
risultati di questa prima campagna archeologica formano l’argomento della presente
comunicazione.
Relazione sulla prima campagna archeologica
Facendo seguito alla iniziativa promossa nel 1975, durante la quale furono
recuperati e posti nel civico museo un capitello corinzio e due antiche campane di bronzo,
il quadro della SS. TRINITA’ ed altri oggetti sacri, l’Associazione Archeologica A.
KLITSCHE DE LA GRANGE, ha intrapreso una serie di ulteriori lavori fin dal maggio del
1987, al fine di sensibilizzare la popolazione locale e gli enti pubblici alla salvaguardia e al
recupero del più antico luogo di culto cristiano del comprensorio.
Il sito si presentava interamente avvolto da rampicanti di vario genere e l’unico
locale ancora con il tetto in discreto stato di conservazione era la CHIESA DELLA
TRINITA’, la quale però, avendo il cancello senza chiusura, era utilizzata come ricovero di
animali, con il pavimento interamente coperto di letame. La situazione si presentava
quindi catastrofica.
Tuttavia la consapevolezza dell’alto valore storico e spirituale del luogo noto alla
tradizione popolare locale come soggiorno di S.AGOSTINO, ci fece superare quel senso di
impotenza di fronte alla mole dei lavori da eseguire e dei fondi necessari per le urgenti
riparazioni.
Per prima cosa si iniziò la ripulitura dell’interno della Chiesa dal letame, poi si
estirparono i rovi dall’accesso Romitorio liberando anche il chiostro; fu utilizzata una
catena con lucchetto per serrare momentaneamente il cancello di ingresso ed evitare così il
ripetersi dell’uso, molto deprecabile, di ricoverare gli animali nel sito.
Ripulendo il pavimento e l’altare della Chiesa, che era stato divelto da ignoti nella
speranza di trovarvi all’interno degli oggetti, abbiamo constatato che il detto altare
inizialmente era più piccolo e che il monolite di copertura vi era stato adattato poiché era
più grande dell’altare iniziale e troppo piccolo per il più recente altare ingrandito (forse si
trattava di un recupero da qualche altra struttura nelle vicinanze).
Tra un lato di altare e il muro di ampliamento vi era rimasto murato anche un ex
voto di rame a forma di cuore e lettere PGR (per grazia ricevuta).
Il 20 giugno 1987 fu organizzata in collaborazione col comune di Allumiere una
Mostra sulla Chiesa della Trinità in occasione del XVI Centenario del Battesimo di S.
Agostino. Contribuirono a questa iniziativa anche altre Associazioni ed Enti coinvolgendo
più largamente possibile la popolazione nel progetto di ricostruzione e recupero.
94
95
La mostra rimase aperta al pubblico tutti i giorni fino al 20 luglio e per l’occasione
venne anche realizzata una video-cassetta ed una pubblicazione-catalogo.
A settembre dello stesso anno furono ripresi i lavori, con la partecipazione di
numerosi soci e volontari sotto la direzione dello scrivente, dell’Ispettore di zona, Dr.
Gianfranco GAZZETTI e l’assistenza del sig. FEDELI.
Vennero dapprima operati degli interventi d’urgenza su alcune strutture pericolanti,
quali il tetto dell’oratorio di S. Maria delle Grazie, (o di S. Agostino), che ormai crollato,
non assolveva più al compito di copertura e protezione anche dell’abside della chiesa della
Trinità sottostante.
Quindi a spese dell’Associazione Archeologica <<A. KLITSCHE de la GRANGE>>si
provvide immediatamente al rifacimento del tetto tamponando contemporaneamente alla
meglio una copertura nell’atrio dello stesso oratorio in imminente pericolo di cedimento,
che avrebbe causato una serie di crolli a catena delle strutture.
I lavori furono effettuati dal 15.9.1988 al 24.9.1988, determinando per la prima
volta, dopo decenni di abbandono spoliazioni e devastazioni, una inversione di tendenza,
che alimentò e rafforzò la volontà di recupero insista in vasti strati della popolazione, la
quale chiamata poco più tardi a dare il suo contributo rispose così generosamente alla
richiesta ed alle iniziative avanzate da apposito Comitato pro-restauro costituito nel
frattempo, che le somme raccolte permisero l’esecuzione di altre opere di salvaguardia.
Contemporaneamente attente osservazioni ed analisi delle strutture murarie e delle
sovrastrutture che con i secoli si erano innestate hanno permesso in molti casi una nuova
lettura del divenire di questo antichissimo Romitorio.
Così l’attuale campanile a vela in mattoni è un evidente struttura sovrapposta ad
una parte dell’antico campanile a pianta quadrata in grossi conci di pietra locale
scalpellinata e verosimilmente terminante in una guglia appuntita, come appare in una
stampa del XVII secolo.
I locali della sottostante sacrestia sono stati ugualmente ricavati in un secondo
tempo (verosimilmente nel contempo della realizzazione del predetto Oratorio),
utilizzando il vano del campanile e ampliandolo dal lato nord verso l’abside della Chiesa
della Trinità ove è ben definita dai conci di tufo agli angoli.
Da rilevare, inoltre, che l’angolo sud-est di questa Chiesa è stato unito all’angolo del
campanile da una evidente muratura di collegamento.
Allo stesso periodo dovrebbe risalire anche la realizzazione della scala di accesso al
predetto Oratorio.
95
96
I gradini estremamente consunti dall’uso sono di nenfro, ma potrebbero trovarsi in
giacitura secondaria in quanto non completano tutta la gradinata ed inoltre sono stati
rilevati, sotto di essi, gradini di mattoni in taglio.
Lo stesso ingresso dell’Oratorio ha subito nel tempo uno spostamento verso il centro
della precedente posizione a destra, come è testimone lo stipite e parte dell’arco murati e
reintonacati a seguito dello spostamento dell’ingresso.
Risulta evidente che la prima posizione dell’ingresso sulla destra era dovuta al fatto
che le campane nel vecchio campanile a pianta quadrata erano posizionate più all’interno
rispetto al campanile a vela e quindi le funi per suonarle passavano più internamente
occupando parte dell’atrio; di conseguenza il passaggio delle persone doveva spostarsi
verso destra.
Una botola ancora visibile sulla volta della sacrestia testimonia questo passaggio più
interno delle funi.
Il tipo di calce più utilizzato e la presenza di una croce templare incisa nell’intonaco
relativo allo stipite in tufo del più antico ingresso dell’Oratorio, fanno supporre la sua
realizzazione o almeno un suo rimaneggiamento, nel XIII-XIV secolo.
Risalirebbero a questo periodo anche le due lapidi incise in caratteri gotici.
Una, <<NE PROPERA SIVE VIATOR...>> viene ricordata da documenti del 1650 in
poi ed era apposta sulla facciata esterna della Chiesa della S.S. Trinità.
Dell’altra, <<VETUSTISSIMUM MONACHORUM...>> si conosce soltanto l’ultima
ubicazione, ossia a destra dell’ingresso al sopracitato Oratorio di S. Maria delle Grazie.
Infatti ancora oggi si può vedere incavata nel muro la nicchia per l’alloggiamento di
tale lapide, che ha permesso di conoscerne le dimensioni: 62x31 cm.
Questa giacitura è sicuramente secondaria in quanto poggiante parte sul vecchio
stipite e parte sul muro accostatogli per lo spostamento dell’ingresso verso il centro, come
abbiamo visto sopra.
L’ubicazione originaria è invece ipotizzabile accanto all’ingresso dell’antico
Romitorio, anche perché ad esso sulla lapide si fa espresso riferimento.
Probabilmente questa lapide deve aver subito più di uno spostamento, se nel 1657
(LANDUCCI, 1657), poi nel 1667 (come riportato da CORTESELLI-PARDI, 1983, 146)
risulta a destra dell’ingresso citato, mentre P. BONASOLI che scrive le memorie nel 1782,
la descrive nel muro divisorio tra le due Chiese (della Trinità e del Soccorso).
Comunque nel corso del XIX secolo, sia il FALZACAPPA (ms. F.F. 24) sia
l’ANNOVAZZI (1853, 162) che il MIGNANTI la ubicano fuori del predetto Oratorio,
dedicato a S. Maria delle Grazie (le due lapidi più non esistono; furono asportate da mons.
96
97
D’ARDIA CARACCIOLO ai primi del nostro secolo, forse destinate al museo di
Civitavecchia (D. KLITSCHE ms.) che subì nel 1945 i bombardamenti alleati.
Fortunatamente ci rimangono le copie disegnate lettera per lettera da Pietro
FALZACAPPA nella I metà del secolo scorso.
Un’altra lapide di contenuto e caratteri analoghi, proveniente dai ruderi di antiche
strutture nell’area del Porto di Bertaldo, (oggi S. Agostino) ed anticamente chiamato Porto
di Giano, fu ritrovata al tempo di Papa Clemente VIII (1583-1605) e trasportata nella
chiesa di S. Marco in Corneto (LANDUCCI -1617). Anche di questa epigrafe ci rimane la
copia trascritta da Pietro Falzacappa.
Un’altra epigrafe proveniente dalla finestrella al lato della Chiesa della Madonna del
Soccorso, con caratteri gotici, è invece conservata presso il locale museo civico.
La Chiesa della Madonna del Soccorso, anche se presenta una tecnica costruttiva
con impiego di conci di tufo nei punti d’angolo, simile a quella utilizzata per la Chiesa della
Trinità, tuttavia la sua costruzione dovrebbe essere di molto posteriore.
D’altronde l’utilizzazione di tufi agli spigoli appare anche in un evidente
ampliamento verso sud-est del Romitorio.
Il muro divisorio tra le due chiese presenta alla base un rinforzo <<a scarpa>>,
tipico della parte esterna di edifici costruiti su terreni in pendio.
Inoltre tra le due chiese si nota un dislivello di circa 50 centimetri, colmato da due
gradini che salgono alla chiesa della Trinità attraverso una porticina, aperta per mettere in
comunicazione le due chiese.
Infine la costruzione di un unico tetto a due pendenze, mantenendo nella chiesa
della Trinità la sua originaria capriata di legno, è una ulteriore dimostrazione della
differenza cronologica tra le due costruzioni.
Ciò permise di ricoprire nuovamente il tetto della Chiesa della Trinità come in
origine, quando nel 1950 dovette crollare il tetto della attigua chiesa della Madonna del
Soccorso.
Nulla ci è finora pervenuto circa l’epoca di costruzione della chiesa dedicata alla
Madonna del Soccorso. La sua prima menzione risalirebbe al 1667, nella relazione della
visita pastorale del Vescovo di Corneto, PALUZZI, (così almeno ci viene detto da PARDI e
CORTESELLI autori di <<CORNETO COM’ERA>> che riportano ampli brani di questa
relazione, nei quali in verità non figura la Chiesa dedicata alla Madonna del Soccorso; ma
potrebbe trattarsi di una lacuna).
Anche un inventario del 1669 redatto dal notaio DE ROSSI in cui sono elencati i
beni esistenti presso l’Eremo della Trinità, si riferirebbe a questa chiesa, ad un antico
97
98
quadro su tavola della Madonna del Soccorso e ad un breviario (MIGNANTI/MORRA
1936).
Purtroppo anche questo secondo documento non si trova più nell’archivio storico di
Tolfa.
Il POLIDORI, che scrisse tra il 1673 e il 1683 e che come segretario del Cardinale
PALUZZI-ALTIERI, forse l’accompagnò nella visita pastorale del 1667, tra l’altro
riferendosi all’Eremo della Trinità, parla di Chiesa primaria e <<Chiesa Maggiore>>,
sottintendendo un’altra chiesa accanto, appunto quella della Madonna del Soccorso.
Comunque quest’ultima chiesa è esplicitamente citata nella descrizione della visita
pastorale effettuata dal Vescovo di Sutri e Nepi nel 1707 e nelle memorie del Padre
BONASOLI redatte nel 1782.
Da una attenta osservazione di una pianta dipinta nel 1609 da Bernabeo LIGUSTRI,
si desume che in quel periodo non era ancora stata costruita la seconda chiesa. Anche nella
lettera del Vescovo Anania del 1660 non si fa cenno alla Chiesa del Soccorso.
Pertanto è da ritenere la costruzione della chiesa del Soccorso in un periodo che va
dal 1609 al 1667, al fiine di dirimere la controversia fra Sutri e Corneto.
Non trattandosi di ampliamento della Chiesa della S.S. Trinità ma di una nuova
Chiesa affiancata all’altra e posta in comunicazione, attraverso un’angusta porticina, il
motivo della sua costruzione va ricercato nella lunga disputa tra le diocesi di Corneto e di
Sutri circa la Giurisdizione sulla Chiesa ed Eremo della Trinità ed annessi privilegi,
proprietà e diritti.
La costruzione quindi di una seconda chiesa da attribuire ad una delle due diocesi
avrebbe dovuto porre fine alla lunga disputa che però sembra si sia protratta per circa
duecento anni, fino al 1845, o 1854 (CORTESELLI-PARDI, 147; MIGNANTI-MORRA).
Dall’esame delle visite pastorali risulterebbe che l’ultima visita effettuata alla Chiesa
ed Eremo della Trinità dal Vescovo di Corneto, PALUZZI fu quella del 1667, mentre in
seguito vennero fatte dai vescovi di Sutri negli anni 1670,1672, 1695, 1697, 1701 e 1707
(CHIRICOZZI 1990, 340).
C’è da supporre quindi che dal 1670 circa la Chiesa della Trinità con l’oratorio di S.
Agostino e l’annesso Convento sia stato assegnato alla diocesi di Sutri, mentre la Chiesa
della Madonna del Soccorso alla diocesi di Corneto.
Sembra però che dal 1710 al 1845 le due diocesi continuassero a scambiarsi minacce
di scomuniche e rivendicazioni della proprietà e delle visite pastorali.
Nel 1794 vi furono posti due confessionali, riservati uno al vescovo di Corneto,
l’altro a quello di Sutri (CORTESELLI PARDI, 147).
98
99
Soltanto nel 1850 con la costruzione della Diocesi di Civitavecchia che comprendeva
anche i comuni di Tolfa ed Allumiere, la competenza passò alla nuova diocesi e nel 1854,
con l’unione delle Diocesi di Civitavecchia e Corneto finirono definitivamente le secolari
controversie.
Ritrovamenti all’interno della Chiesa della Madonna del Soccorso
Durante una ricognizione effettuata con alcuni Soci, nel 1984 lo scrivente ha
recuperato, tra i calcinacci di crollo, parte di un mattone romano bipedale con il bollo
<<PORTTRAI>>, che era stato riutilizzato nell’erezione dell’altare della Chiesa della
Madonna del Soccorso.
Recentemente durante i lavori di sgombero del materiale di crollo, che aveva
raggiunto oltre un metro di altezza, sono stati recuperati altri frammenti di mattoni
romani, sia vicino all’altare, sia nell’area d’ingresso della chiesa.
Sono stati inoltre recuperati durante la ripulitura della Chiesa della Madonna del
Soccorso i seguenti materiali:
una lampada votiva di rame, frammenti di lastra di rame forata per uso di
confessionale, un blocco di pietra con intacca laterale, una doppia carrucola e due ex-voto
d’argento e di rame.
Area Claustrale
Da ulteriori osservazioni delle strutture murarie è emerso che nella parete sud della
chiesa della S.S. Trinità, sono state aperte poi richiuse, due porticine che immettevano nel
chiostro.
Almeno una delle due porticine esisteva nel 1667, in quanto ne fa cenno la
descrizione della visita pastorale.
Il livello dei gradini, costruiti con mattoni rettangolari in taglio come il gradino
dell’ingresso principale, è pertinente alla ultima e attuale pavimentazione della Chiesa.
Lungo la parete esterna della chiesa, ove sono le due porticine, esiste un canale
acciottolato per il deflusso delle acque piovane che vengono convogliate attraverso
apposita canalizzazione al di fuori dell’area claustrale.
Lo sgombero del materiale di crollo del chiostro, come degli altri ambienti, ha
richiesto notevole impegno, per la necessità di selezionare i materiali al fine di una loro
riutilizzazione e per meglio leggere le eventuali stratificazioni.
Nell’area circoscritta dal chiostro è venuta alla luce una gradinata con ampi gradini
formati da ciottoli e frammenti laterizi tenuti da pietre più grandi più o meno squadrate,
99
100
che immetteva nell’atrio del porticato a nove arcate antistante l’ingresso all’area
conventuale.
Detta gradinata, era formata da detriti e materiali di crollo con frammenti ceramici
di epoca rinascimentale e post-rinascimentale.
Nel lato sud a fianco della gradinata fino al muro d’angolo del chiostro, in un
periodo posteriore al 1867, era stato costruito un acciottolato che ha praticamente sigillato
il materiale sottostante di riempitura, alla cui base era stata ricavata una vasca, scavandola
nel terreno vergine reno argilloso impermeabile.
Saggio <<C>> allargato (*)
Sotto questo acciottolato infatti a cm.10 è stata ritrovata una monetina del 1867 di
Vittorio Emanuele II; in uno strato di qualche centimetro sotto, un’altra monetina del 1802
di PIO VII, confermava la disposizione cronologica degli strati, ribadita dalla presenza sul
fondo, a contatto del terreno argilloso della vasca anzidetta, di ceramica rinascimentale.
Saggio <<C2>>
In uno strato nerastro a contatto del terreno vergine ritrovata una pipa nera con
dentellature ed una monetina romana, molto corrosa, attribuibile al II secolo dopo Cristo.
Dalla stessa area C e dalle vasche ad arco provengono altre monetine e frammenti
ceramici post-rinascimentali.
Anche l’acciottolato che costituisce la pavimentazione dell’atrio del chiostro e del
primo ambiente interno (B) del convento è stato realizzato in epoca tarda, forse
contemporaneo alla gradinata antistante.
Saggio <<B>>
Sotto l’acciottolato a cm. 15 circa sono stati infatti ritrovati frammenti ceramici
riferibili al XVI-XVIII sec.; a 30 cm. sono stati notati segni di rimaneggiamenti forse di un
più vecchio lastricato o di un vespaio.
Settore <<G>>
Al fine di accertare la presenza o meno nel chiostro di eventuali antiche strutture, è
stata operata una trincea in senso sud-nord quasi a contatto del terreno vergine, sotto il
piano biancastro renoso di calpestio, formato alla base dello scalino di pietra venuto alla
100
101
luce e pertinente alla suaccennata gradinata di accesso al convento, sono stati ritrovati
frammenti ceramici del XVII-XVIII sec.; un frammento del XV-XVI sec. è emerso a
contatto del vergine.
Ciò potrebbe significare che in questo periodo si è provveduto probabilmente ad una
ripulitura dell’area (forse con lo scopo di costruire una gradinata) fino al terreno vergine,
sul quale si sarebbe depositata la ceramica contemporanea, poi coperta da questo strato
renoso biancastro del XVI-XVIII sec. (ossia a 160 cm. quota rossa). *
Continuando lo scavo della trincea <<G>> ci si è imbattuti a cm. 40 da terra e 160
cm. dalla quota rossa, in una struttura muraria con andamento trasversale, asimmetrico
rispetto a tutte le emergenze murarie esistenti.
Misura cm. 100 di larghezza e costituisce una canalizzazione in pietra legata con
malta, scavata nella roccia friabile e con spondine interne in mattoni rettangolari in taglio
intonacati; nel terreno di contatto della volta, esternamente, è stata ritrovata una monetina
d’argento di INNOCENZO XI (1686).
Questo ritrovamento ha naturalmente determinato un allargamento dell’area del
saggio <<G>> predisponendo una quadrettatura di cm. 200 x200 e accompagnando la
<<G>> con i numeri da 1 a 15 (vedi grafico ANGIONI).
Seguendo la canalizzazione si è riscontrato che in corrispondenza del muro di
chiusura dell’area claustrale, il condotto è stato troncato e deviato demolendo la parte
sinistra onde permettere all’acqua di riversarsi in un passaggio a tal uopo ricavato nel detto
muro con un arco di mattoni.
Detto canale doveva esistere già prima delle sepolture A e B del saggio D/D1 in
quanto lo strato sabbioso ritrovato a quota 280 in quel saggio è probabilmente il risultato
dello scorrimento dell’acqua fuoriuscita dall’arco in mattoni e prima anche di ricavare
l’area antistante tramite riempitura.
E’ probabile che detto canale preesistesse anche alla Chiesa della SS. Trinità in
quanto seguendo il suo andamento obliquo avrebbe dovuto attraversare le fondamenta
dell’angolo sud.
E’ proprio a seguito dell’erezione della Chiesa che forse si rese necessaria la
deviazione del condotto, come abbiamo visto.
(*)
Per l’individuazione dei vari saggi e settori si fa riferimento al grafico ANGIONI che si riporta a pag...
Per quota rossa si intende il livello convenzionalmente corrispondente al piano di calpestio acciottolato nell’atrio del
Romitorio (settore B), che rappresenta appunto la quota 0. Per quota nera si intende invece un livello posto per motivi
di praticità, cm. 35 più in alto della quota rossa.
*
101
102
Lungo la base del condotto, a cm. 180 da quota rossa, ritrovati mattoni rossi
rettangolari, posti in piano, quasi a contatto del vergine; a cm. 200 quota rossa un
frammento ceramico graffito della II metà del XV secolo.
Nel settore <<G8>> è venuta alla luce una sepoltura, orientata est-ovest.
La fossa è in gran parte scavata nel terreno vergine e ricoperta dallo stesso terreno
argillo-renoso senza humus (è probabile che sia stata scavata in una fase di artificioso
livellamento del terreno vergine).
L’inumato, lungo circa cm. 165, ha le braccia incrociate e presenta la parte anteriore
del teschio frantumata e caduta al suo interno.
Le estremità inferiori sono leggermente piegate con una lacuna nell’osso femorale
sinistro, forse per la posa di un palo di legno, come si può vedere anche di altri vicini buchi.
Nel settore <<G1>> a cm. 155 quota rossa ritrovato un frammento ceramico di tazza
blu cobalto e lettera.
Nel settore <<G2>>, in prossimità dell’arco in mattoni, a circa 250 cm. dalla quota
nera, all’altezza dell’imposta d’arco ritrovato un frammento ceramico e ramina con motivi
lanceolati e puntini (XIV secolo).
Settore <<H>>
Ripuliti dal materiale di crollo i gradini della scala e dell’atrio d’ingresso al convento
e ritrovati: parti del <<TORO>> di colonna di marmo verosimilmente spaccato per
utilizzarlo in pezzi nei muri, e numerosi frammenti di mattoni romani di cui uno con bollo
<<PORTTRAI>>.
E’ stato poi eseguito un saggio nel settore <<H>>, a lato della scala che porta
all’oratorio delle Grazie, che risultava coperto da un tavolato spesso ma marcio,
sovrapposto ad un acciottolato leggermente più basso dell’acciottolato anteriore (H1),
posto sullo stesso livello di quello relativo all’atrio del chiostro.
In uno strato che va da 40 a 100 cm. dall’acciottolato, che corrisponde all’incirca alla
quota 0 rossa, ritrovati frammenti ceramici da cucina in biscotto e due grossi frammenti di
tazze con motivi a <<grottesca>>, un frammento di boccale e alcune ossa di animali non
combuste; a cm. 80-100, uno spesso strato carbonioso con ceramica da cucina, vetrini e
carboni.
Allungato il saggio <<H>> in <<HL>>, sotto l’acciottolato trovata una monetina di
Pio VII (1800-1823), che può rappresentare un <<termine post quem>> relativo a
quell’acciottolato; a cm. 100 uno strato renoso biancastro, a cm. 130 uno strato grigio
compatto sul quale poggia il muro delle scale (da notare infatti che l’intonaco del
102
103
campanile in quella faccia, arriva all’incirca proprio a quell’altezza; tra le scale ed il muro
di base all’arcate del chiostro c’è uno strato di riempimento rossastro, resosi necessario per
il livellamento della trincea operata per posare il detto muro.
Tra i due strati tra cm. 120 e 130 rinvenuti frammenti ceramici in ferraccia e blu
cobalto (XV-XVI sec.); a cm. 160, accanto al muro del campanile, frammento ceramico
rinascimentale (I e II metà del XVI sec.).
Nel saggio H-H1 i reperti ritrovati sotto l’acciottolato coprono un periodo che va
dagli inizi del XVI agli inizi del XIX sec., con un termine <<post quem>> per l’acciottolato
di inizio XIX secolo.
Nella ripulitura del settore <<H3>>, ritrovato a contatto dell’acciottolato, forse
proveniente da crolli sovrastanti oppure da caduta di intonaci cui erano serviti da
<<rincoccio>>, un frammento di tazza decorata a <<grottesca>> (XVII secolo), simili a
quelli ritrovati nel saggio <<H>>, un elemento architettonico in nenfro con motivi scolpiti
ad intreccio, un’ansa di boccale con tratteggio in manganese e ramina, un fondo tazza con
motivo ad <<asterisco>> in manganese.
Inoltre sono stati ritrovati colature e globi di fusione di rame ossidato in verde e
frammenti ceramici tardi (XVII-XVIII) forse utilizzati come <<rincoccio>>.
Con la ripulitura del settore <<H3>> si è messa in luce una porta di comunicazione,
in seguito murata, ed una fontana a edicola con vasca di raccolta e cannello in pietra
scanalato.
Sopra il parapetto della vasca era stata murata una lastra di marmo bianco venato
con solco per grappe di unione: evidente riutilizzo.
Nel settore <<H4>> ritrovati, durante la ripulitura, oltre a numerose pianelle e
coppi anche interi, pezzi di intonaco giallognolo con strisce orizzontali rosse, come ancora
si vedono in alcuni ambienti soprastanti del Romitorio, segno che anche in quel settore del
chiostro esistevano degli ambienti sovrastanti.
Rilevante il ritrovamento, tra i crolli, di un lumino da tavola (tavolozza o leggio), in
ferro ed un concio di tufo scalpellinato per imposta d’arco del chiostro.
Al fine di verificare l’esistenza o meno di un condotto per il deflusso dell’acqua dalla
fontanina ad arco, fino alle vasche arcuate sottostanti, è stato effettuato un saggio nel
settore <<H4>> contraddistinto con <<HX>>.
E’ stata scelta quest’area di <<H4>> anche perché in quel punto mancavano dei
mattoni del pavimento; infatti a pochi centimetri dal piano di calpestio ritrovata una
canaletta con muratura in pietrame ricoperta da uno strato di argilla, forse per evitare
infiltrazioni di acqua.
103
104
A cm. 10 dal massetto di rena e calce per l’allettamento del pavimento in mattoni,
sono stati rinvenuti 5 frammenti di ceramica invetriata pertinente ad una ciotola ed un
frammento di forma chiusa in <<righettato ovale>> in blu cobalto (II metà XV, I metà XVI
sec.).
Stratigrafia
______________________
Centimetri
“
3
______________________ mattoni rettangolari;
6
“
_____________________
1
______________________ massetto rena-calce;
cenere e suolo bruciato;
“
10
- - - - - - - - - - - - - - - - - - - argilla o impasto argilloso
renoso cotto rossastrro;
“
30
strato scuro di humus;
_____________________
/////////////////////////////////////
terreno reno-
/////////////////////////////////////
vergine bianco-
/////////////////////////////////////
con striature
argilloso
grigio
rossastre.
Tra lo strato argilloso cotto e quello scuro humico ritrovati fram. ceram. II metà XV
secolo.
A 20/25 cm. dal pavimento sotto lo strato rosso cotto, sono stati ritrovati framm.
ceram. con blu cobalto del XV sec. e ramina-manganese del XIV secolo.
A 30/40 cm. con un’ansa larga in biscotto.
Settore <<H5>>
In questo settore è stata riportata alla luce l’angusta scala con volta a botte che
immetteva in un pianerottolo, dal quale si sarebbe dovuto accedere, forse tramite gradini
in legno, al porticato sottotetto, relativo agli ambienti conventuali del II piano.
104
105
I gradini della scala, sono risultati sconnessi, ed erano formati da mattoni in taglio;
in qualche punto sostituiti da blocchi più o meno squadrati di pietra.
Settore <<B>> (ripulitura)
Ritrovati nella prima metà del settore <<B>>, dei frammenti ceramici relativi alla II
metà del XV sec.
Presentano della malta attaccata, segno del loro riutilizzo come rincocciatura di
intonaco in una delle fasi di costruzione o ricostruzione del Romitorio, quella appunto
documentata, dopo il 1462.
Settore <<B1>> (ripulitura e saggio)
Questo settore occupa la parte posteriore dell’ambiente <<B>>.
A contatto dell’acciottolato ritrovate numerose medagliette ovali fuse in mistura di
rame (bronzo) con doppio appiccagnolo, pertinenti ad una o più corone da rosario, che
forse erano a corredo di una statua lignea raffigurante forse la Madonna dei Sette Dolori.
Infatti su quasi tutte le medagliette è rappresentata al dritto appunto la Madonna
dei Sette Dolori ed al rovescio 7 scene della vita di Gesù; inoltre poco distante a 20 cm.
dall’acciottolato è venuto alla luce un bel diadema di vaghi di ferro e intarsi di rame con
ancora incastonati 5 ovali di ametista dei 7 originari, a simboleggiare anche questo
ornamento del capo i 7 Dolori.
Un chiodino di rame ancora inserito nella parte terminale del diadema, ci ha
convinti della sua appartenenza ad una statua lignea di Madonna.
Ritrovati inoltre, sempre in questa piccola area, un crocefisso di metallo con i
simboli della Passione di Cristo e una perlina celeste forata.
Tra il materiale di crollo, ritrovato anche un cucchiaio, una colata circolare di
piombo ed un calamaio di vetro, integro, con stampigliate le lettere AN.
Al fine di accertare anche in questo settore la consistenza degli strati sottostanti
l’acciottolato, è stato fatto un saggio esplorativo in <<B1>>, dove l’acciottolato sembrava
sconnesso o avvallato; a circa cm. 60 dall’acciottolato ritrovato terreno vergine e argilloso
di colore grigio; sopra di esso un vespaio di pietre arrossate da percolazione di acqua
ferruginosa (che interessa anche tutta l’attigua area <<B2>>) coperto di uno strato di circa
5 cm. in media di massetto di malta rena-calce, su cui poggia l’acciottolato di calpestio. Il
saggio <<B1>> non ha restituito reperti.
Settore <<B2>> (ripulitura e saggio F)
105
106
Tra il materiale di crollo ritrovato un mattone romano triangolare con solcature.
Il piano di calpestio di questo settore è composto da uno spesso massetto di impasto
biancastro composto di rena e calce, situato sopra un vespaio poggiante sul terreno
vergine.
Un apposito saggio <<F>> è stato effettuato per accertare la consistenza di
eventuali stratificazioni in questo settore considerato la parte più antica del complesso
monastico della Trinità.
Il saggio <<F>> non ha restituito reperti.
Stratigrafia saggio <<F>>
- - - - - - - -- - - - - - - - - centimetri 6/8
massetto di rena e calce
biancastro;
“
---------------------------------5/10
vespaio di pietre;
---------------------------------///////////////////////////////////////
terreno argilloso
//////////////////////////////////////
con presenza di
//////////////////////////////////////
silicee.
sterile
vene
(N.B.) Questo massetto gettato in unica soluzione ricopriva sul lato sud-est una
canaletta per l’acqua (ferruginosa), costruita in mattoni rettangolari di buona cottura legati
con malta.
E’ stato inoltre accertato in questo settore <<B2>> che il muro di riempitura, forse a
sostegno degli archi in peperino (la differenza tecnica costruttiva faceva ritenere
quest’ultimi di più antica costruzione, forse alto medievale), risulta poggiante sul plancito
o terreno vergine, al di sotto quindi del massetto bianco di calpestio che invece gli è
sovrapposto.
Ciò fa ritenere che detto massetto è posteriore sia alla esecuzione degli antichi archi
in conci di peperino, sia al posteriore muro di riempitura o di sostegno di quegli archi.
106
107
Sepolture
Durante l’esecuzione dei lavori ed in particolare nel seguire il tracciato di vecchi
fognoli da riutilizzare, previa rimozione di terra e radici, per lo smaltimento delle acque
piovane dell’area del chiostro, sono venute alla luce alcune sepolture cristiane a fossa, prive
di suppellettili (da notare che tra il terreno superficiale sopra il fognolo <<S>> è stato
ritrovato un fermaglio d’argento, forse pertinente ad una sepoltura sconvolta dai lavori di
scavo per il fognolo).
Di quella rinvenuta nel saggio <<G>> abbiamo già parlato, le altre sono state
ritrovate nell’area antistante la Chiesa della Trinità.
Saggio <<E>>
Alcune sepolture, sconvolte <<ab antiquo>> dai lavori per la costruzione del
fognolo di scolo <<S>>, erano poste per lungo tra le fondamenta della Chiesa ed il
suddetto fognolo, ad una profondità di cm. 265 dalla quota nera e cm. 80 dalla quota del
pavimento della Chiesa della Trinità; altri due teschi giacevano a quota 325 cm. ed erano
reclinati di lato in senso contrapposto.
Queste sepolture sono sicuramente posteriori alla costruzione dove sorge ora
l’attuale Chiesa della Trinità, in quanto le ossa di una mano erano appoggiate alle
fondamenta.
C’è da rilevare che la Chiesa della Trinità è stata costruita previo livellamento di un
terreno in pendio, quindi su di un pianoro artificiale e ciò spiega anche il fatto che le sue
fondamenta risultano molto profonde, proprio per la necessità di poggiarle sul masso
compatto del terreno vergine grigio-rossastro, ad una profondità di circa cm. 180
dall’attuale livello di pavimento della chiesa e cm. 365 dalla quota nera.
Anche le mura attualmente interrate risultano intonacate fino a cm. 245 quota nera.
Anche questo indizio avvalora l’ipotesi di un più antico livello di pavimentazione
sottostante l’attuale e di conseguenza un più basso livello di calpestio esterno.
Quindi la piazzetta antistante, costituente il Sagrato, è stata realizzata con terreno di
risulta ed i fognoli hanno in parte sconvolto le preesistenti sepolture.
Nel saggio <<E>>, tra gli 80/100 cm. dall’attuale livello di calpestio, sono stati
ritrovati resti di inumati e due frammenti di ceramica riferibili al XIV secolo.
Circa l’orientamento delle sepolture, non è stato rilevato alcun criterio uniforme;
prevalgono tuttavia le giaciture sud nord.
Saggio <<D-D1>>
107
108
Anche nel saggio D e D1, le due sepolture (A e B) venute alla luce giacevano in
posizione contrapposta su differenti livelli, ma entrambe sottostanti al fognolo <<S1>>.
La prima sepoltura (A), integra, in posizione supina e braccia incrociate sul petto,
aveva le estremità inferiori inglobate in un muro di recinzione dell’area claustrale in pietra
e malta bianca; costruito quindi in epoca posteriore alla sepoltura e forse coevo dei fognoli,
nell’ambito di una generale ristrutturazione del complesso monastico e dell’area claustrale.
Nella pittura su tela raffigurante le tenute della Camera Apostolica di Bernabeo
LIGUSTRI del 1609, si vede chiaramente delineato l’Eremo della Trinità ed il tracciato del
muro di recinzione di cui trattasi, sotto il quale giacevano le ossa delle estremità inferiori
della sepoltura <<A>>.
Il saggio <<D1>> è stato effettuato seguendo un criterio stratigrafico, rilevando i
dati più significativi.
Partendo da una quota <<O>> (nera) posta in quel punto a circa 150 cm.
dall’attuale livello di calpestio, è stata delimitata un’area di cm. 200x150 e quindi sono
stati operati dei tagli orizzontali successivi di circa 10 cm. ciascuno.
-------------cm. 150
quota <<O>> (nera);
livello di calpestio attuale;
-------------------------cm. 180
staterello biancastro con calce;
--------------------------- framm. cer. (ferraccia, manganese, ramina).
cm. 213
corrispondente alla parte superiore esterna del fognolo <<S1>>,
una monetina e framm. ceram. Fondo ciotola motivo a cuore verde ramina. Altro con
tratteggi interni in manganese (XIV sec.), frammento forma chiusa con linee manganese e
tracce ramina (XV) simile ad altro frammento ritrovato a quota 200.
-------------------------da cm. 225 a 250
Ossa umane di sepolture più superficiali sconvolte dai lavori del
fognolo o del muro recinzione.
---------------------------cm. 260
Scheletro integro di cristiano inumato con braccia incrociate sul
petto. A contatto del teschio un framm. ceram. medievale. Accanto al bacino un framm. di
boccale con ramina diluita, manganese e ferraccia, attribuibile al XIII/XV sec.; lunghezza
della sepoltura circa 170 cm.
---------------------------
108
109
cm. 270/280
Dopo la rimozione della sepoltura, nello strato immediatamente
sotto, framm. ceram. d’uso non invetriati e in biscotto grigio, altri invetriati, tra cui la parte
carenata di una tazzina decorata con fasce ramina ed il fondo di boccale invetriato. Tra i
frammenti non invetriati uno è di impasto nero ingubbiato di tipo protostorico.
cm. 280/290
(cioè circa 20/30 cm. sotto lo scheletro) uno strato di circa 10
cm. di fine sabbia, verosimilmente ivi depositata da acque di scorrimento. Ciò fa supporre
che in origine, comunque in un periodo anteriore alla realizzazione della spianata con terra
di riporto per l’erezione della Chiesa, è corsa dell’acqua che trascinava con sè della sabbia
fine che si depositava negli avvallamenti del terreno. Da rilevare che in concomitanza di
questa sepoltura, nel muro di recinzione del chiostro c’è l’arco in mattoni, nel cui livello
all’altezza dell’imposta d’arco, come abbiamo visto trattando del settore <<G>>, è stato
ritrovato un framm. ceram. attribuibile al XIV secolo.
Siccome in antico quell’arco doveva servire per permettere la fuoriuscita dell’acqua,
anche piovana, dall’area del chiostro, è da ritenere che quello strato di sabbia fine di cui si
tratta, sia dovuto appunto a questo scorrimento.
- ---------------cm. 300
trovato terreno vergine grigiastro.
Dalla stessa area del saggio <<D1>>, opportunamente allargata, proviene un’altra
sepoltura (B) deposta in senso contrario all’altra, ossia con la testa a nord e piedi a sud.
Giace in un livello superiore di cm. 15/20 rispetto alla sepoltura <<A>>, cioè a quota 245.
Questa sepoltura, contrariamente a quella <<A>>, che è stata rimossa e trasportata
al Palazzo Camerale per porla nel civico museo, dopo rilievi e foto, è stata ricoperta e
lasciata in sito.
Nella terra di copertura, a contatto con lo scheletro, ritrovato un framm. ceram.
biscotto un bianco con ramina.
Lo strato sottostante la sepoltura <<B>> è composto da terreno rossastro e grigio
più compatto, entro il quale è stata scavata la fossa.
A quota 295 di questo strato, trovati ancora framm. ceram. in biscotto ed un
elemento di ferro.
La sepoltura presentava il cranio fratturato nella parte del setto nasale, forse a causa
della pressione del terreno sottoposto a continuo calpestio e le braccia incrociate;
presentava un dente canino sovrapposto e ciò ha fatto supporre la sua identificazione con il
leggendario <<CIGNALE MINATORE>>, eroe popolare dell’omonima rievocazione storica
109
110
romanzata della seconda metà del XV secolo di Antonietta KLITSCHE de la GRANGE, in
cui si descrive la sepoltura appunto di <<CIGNALE>> e sua madre all’Eremo della Trinità.
All’epoca in cui fu scritto questo romanzo storico (II metà del XIX sec.), poteva
ancora esistere una biblioteca o archivio conventuale, tra i cui documenti o memorie
tramandate potrebbe esservi stato anche quello relativo appunto alle sepolture
sopradescritte.
Una firma di Antonietta KLITSCHE de la GRANGE, ritrovata sopra la parete di un
ambiente superiore del Romitorio e datata 1874 5 febbraio, testimonia la frequentazione
del luogo da parte della scrittrice.
Ennio Brunori
Abbreviazioni bibliografiche
Cat I= Catalogo Mostra Documentaria <<XVI Centenario del Battesimo di S.
Agostino (387-1987)>>.
La Chiesa della SS. Trinità nella tradizione eremitica agostiniana salvaguardia e
recupero, a cura della Ass. Archeologica A. Klitsche de la Grange - Allumiere 1987.
Cat. II= Catalogo II Mostra Documentaria <<Risorge l’Eremo della Trinità>>, a
cura della Ass. Archeologica A. Klitsche de la Grange - Allumiere 1991.
Graf. Ang.= Elaborato grafico a cura di Angioni Sandro
Crusenio=N. Cruesen, Monasticon Autustinanium, Münich 1623.
Giordano di Sassonia=Liber vitasfratrum Ediz. Arbesman 1943 (scritto circa il 1357)
Enrico D. Friemar = Tractatus de origine et progressu ordinis fratrum eremitarum
et de vero ac proprio titulo eiusdem. Ediz. Arbesman 1956 (scritto all’incirca il 1334).
Landucci, 1657 = Ambrogio LANDUCCI, Sacra Leccetana Selva Roma 1657
110
111
Corteselli-Pardi 1983 = Mario Corteselli/Antonio Pardi, Corneto com’era, Tarquinia
1983
Falzacappa= Pietro Falzacappa (1788-1875), Iscrizioni lapidarie di Corneto, Archivio
Ms. F.F.24 - Archivio Soc. Tarquiniense d’Arte e Storia.
Annovazzi 1853= Vincenzo ANNOVAZZI, Storia di Civitavecchia, Roma 1853.
Mignanti, Mignanti/Morra 1936 = Filippo Maria MIGNANTI, Santuario della
Regione di Tolfa-Memorie storiche a cura di Ottorino Morra, Roma 1936
D. Klitsche= Daniela KLITSCHE ANNESI, Pro-memoria, ms. senza data (19601970?)
Polidori= Muzio Polidori, Croniche di Corneto, Tarquinia 1977 (trascrizione dal ms;
1673/1683)
Bonasoli = Tommaso Bonasoli, Notizie della Religione Agostiniana e della Provincia
Romana, ms. 1782 - Archivio Generale Agostiniano
Chiricozzi 1990, Pacifico Chiricozzi. Le Chiese delle Diocesi di Sutri e Nepi nella
Tuscia meridionale, Grotte di Castro 1990
Ant. Klitsche= Antonietta Klitsche de la Grange <<Cignale il minatore>> Ed.
Paoline Vicenza 1965 (II ediz.)
111
112
RESTAURATI I MOSAICI COSMATESCHI
NELLA BASILICA DI S. MARIA IN CASTELLO
E’ nota a tutti, Soci e lettori del Bollettino, l’attenzione rivolta in questi ultimi anni
dal nostro Sodalizio alla chiesa di Santa Maria in Castello, unanimemente dichiarata il
maggior monumento del nostro Centro Storico e della città in generale. E come, per
realizzare questo impegno, siano state spese, grazie anche e soprattutto alla Cassa di
Risparmio di Civitavecchia, notevoli somme di denaro perché la basilica mariana
riprendesse quel ruolo goduto in passato.
La cerimonia pubblica, avvenuta due anni fa, con la presenza del cardinale Sergio
Guerri, del Presidente della Cassa di Risparmio di Civitavecchia, dott. Vittorio Enrico Tito,
e di molte altre autorità, compreso il popolo fedele, è valsa a tener desto l’interesse affinché
di volta in volta si potesse dare all’occhio dei turisti, ma più a quello della nostra gente, la
sensazione che il monumento da salvare e ripristinare non era altro che quello voluto dai
nostri avi che impiegarono quasi cento anni di lavoro per innalzare ai fastigi della storia
una fede e un amore che non hanno avuto l’eguale.
Seguendo perciò questa doverosa attenzione, la Società Tarquiniense d’Arte e Storia
ha inteso voler dare inizio ai lavori di restauro del pavimento di mosaici cosmateschi, che
rappresentano la parte più delicata e costosa di tutta l’opera di risanamento, effondendo
quasi tutte le proprie risorse, con l’aiuto di altri Enti e privati della nostra città, fino a
portare a termine un primo lotto: vale a dire l’altare basilicale, il presbiterio e il transetto
che hanno visto brillare, grazie alla perizia della Ditta Medici Paolo & F. di Roma, lo
splendore cromatico delle antiche pietre e delle antiche decorazioni. Ed è doveroso a
questo punto dare atto alla generosità del Lions Club di Tarquinia, dell’Associazione Pro
Tarquinia, del Centro Studi Cardarelliani, dei Soci signori Asquini Cambon Letizia, Pottino
Guido, Savino Oberdan, Eusepi Bruno, Grispini Galatà Lidia e dell’Impresa edilizia di Luigi
Lenzo.
Non altri.
Né è da tacere il fatto che il nostro Sodalizio ha sollecitato la Soprintendenza alle
Antichità dell’Etruria Meridionale a scandagliare il substrato del tempio alla ricerca di
112
113
testimonianze che accertassero la presenza di quello che veniva chiamato in epoca remota
il Castel di Corneto, probabile insediamento etrusco. E così infatti è stato. Lo scavo
stratigrafico in trincea, avvenuto da personale specializzato, ha dato il risultato previsto:
sotto le basi della chiesa di S. Maria in Castello sono state rinvenute strutture risalenti ad
epoca villanoviana.
Non appena le condizioni stagionali lo permetteranno, lo scavo verrà ripreso in
modo da chiarire la posizione e la funzione di questo castello, ignorato perfino dallo storico
romano Tito Livio che ne ha nominati soltanto due a presidio e difesa dell’antica città di
Tarquinia, la Civita appunto: precisamente i castelli di Cortuosa e Contenebra, volti uno a
nord e l’altro a sud-est del territorio.
Ma al di là di queste testimonianze storiche che avranno bisogno di tempo e di
studio per acclarare tutto un passato ancora sepolto sotto i nostri piedi, la Società
Tarquiniense d’Arte e Storia, avrebbe il desiderio di completare il restauro di tutto il
pavimento cosmatesco della basilica: il che verrà a richiedere notevoli somme di denaro, se
si considera che la parte restaurata, la quale rappresenta una parte di tutta l’opera, è
venuta a costare oltre 56 milioni di lire.
Se ci fosse sostegno da parte di tutti i cittadini e delle pubbliche Amministrazioni
che governano il territorio, e principalmente degli Enti finanziari che amministrano tutta
l’economia della nostra città e con notevoli profitti, si potrebbe nel breve giro di pochi anni,
ancor prima del millennio che ci separa dalla posa della prima pietra, far sì che la basilica
di S. Maria in Castello non solo potrebbe rappresentare un punto fisso nel prestigio
turistico e artistico della nostra città, ma soprattutto un ritorno alla funzionalità di un
edificio sacro che meriterebbe di essere officiato alla alla stregua di tutti i residui templi
che sono sopravvissuti al tempo e alla distruzione.
A conclusione di questa breve nota di cronaca perché resti documentata negli annali
con esatta datazione, vorremmo far notare ai Soci e ai lettori che la ripulitura e il restauro
dei resti dell’altare basilicale (demolito in buona parte dal vescovo di Corneto Cardinale
Paluzzi Altieri per ornare la sua dimora romana) ha rimesso in piena luce un distico latino
che corre su due lati delle architravi e che, a un’attenta lettura, rappresenta un modo di
poetare in versi baciati, con qualche anticipazione su quel modo di poetare, tanto per citare
un esempio, che ebbe in Jacopone da Todi uno dei maggiori esponenti. Basti pensare al
suo <<Stabat Mater>>. Lo si pubblica in versi alternati perché ci si accorga di quanto
detto.
+VIRGINIS ARA PIE
113
114
SIC EST DECORATA MARIE
QUE GENUIT CHISTUM
TANTO SUB TEMPORE SCRIPTUM
ANNO MILLENO CENTENO
SEXTO ET AGENO
OCTO SUPER RURSUS
FUIT ET PRIOR OPTIMUS URSUS
CUI CHRISTUS REGNUM
CONCEDAT HABERE SUPERNUM.
AMEN.
Che tradotto in lingua corrente, vuol tramandare il nome del priore Orso che fece
eseguire l’opera dell’altare basilicale da Guido e Giovanni, marmorari romani.
Esso dice:
<<Così è stato decorato l’altare della pietosa Vergine Maria che generò Cristo. Il
distico venne scritto intorno all’anno 1168, quando fu di nuovo priore Orso, uomo egregio,
a cui Cristo conceda un posto nel regno eterno. Così sia>>.
Oltre a ciò, sono ritornate alla luce altri marmi con scritte latine, dato che tutto il
materiale marmoreo venne sottratto ai cimiteri etruschi e romani, per essere riciclati e
riutilizzati per le opere musive di tutta la nostra basilica che Vincenzo Cardarelli definì, in
una sua accorata poesia, <<la gloriosa basilica/ruinata e superba>>.
A noi cittadini dunque spetta di proteggere dalla rovina e dall’incuria questo sacro
sito anche per ridargli quell’aspetto maestoso che ancora emana dall’alto sperone che lo
sostiene.
Bruno Blasi
CHIESA DI SANTA MARIA IN CASTELLO
IN TARQUINIA
Analisi Storico-Critica. Anno 1983
La Chiesa di Santa Maria in Castello a Tarquinia, fu iniziata nel 1121 e ciò è provato
dalla lapide esistente ancora nell’interno presso la porta maggiore, scritta in caratteri gotici
che tradotta significa: <<Questa chiesa fu incominciata nell’anno millecentoventuno
dell’era di Cristo, regnando Enrico, ed essendo Papa Calisto>>.
Tuttavia
è
molto
probabile che un’altra chiesa di S. Maria preesistette già nel luogo stesso, dove fu fondata
114
115
quella attuale, confermato ciò da un documento citato da numerosi studiosi come il Porter,
il Pardi, il Dasti etc...., nel quale si sottopone alla giurisdizione del Vescovo di Toscanella
<<la chiesa di S. Pietro posta sotto la ripa della chiesa di Santa Maria in Castello di
Corgnito>>.
Ed infatti sia la prima che la seconda Chiesa sorsero sopra un alto dirupo, che
prospetta la valle del Fiume Marta ad ovest. Non ci è giunto il nome dell’architetto, ma
sembra che il disegno dell’edificio, o almeno la direzione di esso, si debba attribuire ad un
prete del luogo, di nome Giorgio, che insieme all’altro, prete Panvino, priore della nuova
Chiesa, dopo Guido, ce ne tramandò la memoria scolpita in marmo in versi rimati leonini.
Infatti la si può leggere sull’architrave del portale principale, che fu splendidamente ornato
nel 1143 dai maestri marmorari romani dei Cosmati.
Tradotti quei versi, dalla costruzione intralciata ed oscura, hanno in sostanza il
seguente significato: <<Questo splendido ornato delle porte dell’almo tempio di Maria
Vergine fu compiuto nel 1143 per cura di Panvino priore della Chiesa. Egli, caro a Dio per le
sue buone azioni, e chiaro per rinomanza di una vita intemerata, curò che la Sua fabbrica si
eseguisse a lode di Cristo, coadiuvato con fatti ed opere dal prete Giorgio, che non esitò a
dare il concetto e il denaro. Si può notare però che le spese della nuova chiesa non furono
soltanto sostenute dal prete Giorgio, che <<diede il concetto della fabbrica e la dote>>, ma
che vennero in parte sostenute pubblicamente, e per contributo della cittadinanza stessa di
Corneto. Una prova di ciò la si può leggere nel disco di mezzo, e nell’ultimo a sinistra
dell’architrave, dove si trova la seguente iscrizione: <<Il Consolato di Corneto, ossia
Andrea, Giovanni, e Pietro Ranieri, ordinò questo adornamento in oro>>. Questa
iscrizione è anche un notevole documento storico dell’innovazione politica che dopo il
1000 si diedero i Comuni in Italia. Un’altra prova si ha in alcune delle 150 epigrafi esistenti
nel pavimento a mosaico della chiesa.
Da quelle piccole epigrafi risulta che furono contributori dell’opera i cornetani
Massarius Donnaincasa, Meldina Angeli, Rainerius Alonis, Tacconus, et Trastollenza: altri
nomi sono probabilmente andati dispersi. La nomenclatura e le forme delle lettere
manifestano chiaramente che l’opera risale all’inizio del secolo XIII.
Il contributo dei Cornetani è provato dalla epigrafe in versi leonini, sullo stipite del
portale maggiore il cui significato è questo: <<O Vergine prega il tuo figliolo che protegga
l’edificio, affinché questo popolo di Corneto felice ed a buon diritto sicuro compia
lungamente il voto: e questo tempio, che esso con sincerità erige in tua lode, si conservi per
lei puro da delitto>>:
115
116
Questa grandiosa chiesa è formata da un rettangolo lungo circa 45 metri, e largo
circa 23 metri, (Dasti Luigi - vedi nota bibl.). Ha tre navate terminate da tre absidi con
dieci archi per lato, e relativi piedritti con colonnine. Ad eccezione delle absidi coperte da
semicupole, e lo spazio centrale delle navate, sormontata precedentemente da una cupola
su pennacchi, (Artur Kingsley Porter, Lombard Architecture) ma ora ricoperta con tetto
di legno, la chiesa è coperta con volte a costoloni innalzate su piani approssimativamente
retti. Il sistema è alternato, così che due campate delle navate laterali corrispondono ad
una singola campata della navata centrale. L’altare unico, isolato su quattro gradini, è
coperto da un ciborio sorretto a sua volta da quattro colonne, ed un fonte battesimale
composto da una vasca ottagonale cui fanno da ornamento marmi rari e svariatissimi. Lo
stile delle cornici, delle decorazioni e delle lastre quadrate di alabastri senza fasce, né
intarsi di tessellato, fa concludere che il battistero sia anteriore al secolo XI e provenga
dalla primitiva chiesa che era sul luogo.
Il pavimento a mosaico, che si conserva attualmente in circa metà dell’originario,
secondo il parere del professor Carlo Boibo deve attribuirsi <<opera tessellata Cosmatesca,
dalla famiglia dei Cosmati, architetti e marmorari mosaicisti romani del XII secolo, che la
fecero fiorire, dopo averla portata ad un alto grado di perfezione, unendo all’opera
tessellata in porfidi e serpentini le luci d’oro, e gli smalti>>. Vi fu anche una cupola ardita e
bellissima nel centro della navata maggiore, ma purtroppo andò distrutta. Secondo Carlo
Promis, è stata la prima cupola ad essere innalzata nell’Italia centrale. Era di forma
leggermente ellittica nella parte inferiore, e traforata da sei archi, fra i quali sorgevano
altrettanti piedritti per reggere una specie di tamburo di poca altezza. E’ esistita fino al 26
Maggio 1819, quando un violento terremoto ondulatorio distrusse in un momento l’opera
durata per secoli. (Agincourt, Storia dell’Arte dimostrata con documenti. Ediz. di Prato
del 1828. Memorie Falzacappa) Sono indicati in più luoghi gli artefici, che lavorarono in
questa chiesa. <<Pietro figlio di Ranucio>> eseguì i lavori della facciata. Nel grande arco
della cornice, che sormonta la porta, è incisa a semicerchio in due linee la seguente
iscrizione ritrovata da Giovanni Battista De Rossi: <<Pietro figlio di Ranucio, marmorario
non ignaro, fece queste mirabili opere>>.
Nella finestra a doppio arco marmoreo retto da una colonnina nel mezzo, è scritto
che il lavoro di opera tessellata cosmatesca di porfidi serpentini e giallo antico qui esistenti,
fu fatto da <<Nicolao di Ranucio maestro romano>>. Il ciborio fu costruito nel 1168 dai
maestri marmorari romani <<Giovanni e Guittone>> come può leggersi nel rovescio
dell’epistilio. E su due lati di questo, l’epoca è determinata dall’altra iscrizione metrica che
dice: <<L’altare della Vergine Maria, che generò Cristo, fu così decorato nell’anno 1168,
116
117
essendo nuovamente priore Orso, uomo egregio, cui Dio conceda godere il regno eterno,
così sia>>:
Le quattro colonne assai comuni e tozze, che reggono ora il ciborio, sono moderne;
quelle che c’erano anticamente, molto più grandi e belle, perché di verde antico, furono
tolte dalla chiesa nel 1672, dal Cardinale Paluzio Albertoni detto Altieri, vescovo di Corneto
(De Novaes, Elementi di Storia dei Sommi Pontefici. Siena, 1803, tomo X) che non
dubitando del consenso almeno tacito del Pontefice Clemente X Altieri, suo parente, fece
trasportare le quattro colonne a Roma, e ne decorò il proprio palazzo (Valesio Cod. Capit.
Memorie Falzacappa). Quaranta anni dopo la costruzione del ciborio fu fatto il pulpito,
ossia l’ambone, che ha data certa e stabilisce con sicurezza l’artefice. <<Nel nome del
Signore, così sia. L’anno 1208ind.XI, nel mese di agosto, in tempo del papa Innocenzo III,
io Angelo priore di questa chiesa feci fare questo lavoro splendido di oro e marmo diversi
per le mani del maestro Giovanni figlio di Guittone cittadino Romano>>. Vi sono poi
all’interno altre interessanti iscrizioni oltre quelle già riportate.
La prima è situata in fondo alla chiesa, a destra entrando, e da essa si rilevano dati
certi della consacrazione avvenuta nel modo più solenne nell’anno 1207.
La cerimonia fu eseguita da dieci Vescovi della Tuscia invitati per questo. L’insegna
di memoria scritta sul marmo ha il seguente significato: <<In nome di Cristo, così sia.
Nell’anno del Signore 1207. Ind. X. Ai tempi del Signore Innocenzo III papa il 20 di maggio
questo tempio fu dedicato alla Beata Maria, nella cui dedicazione X Vescovi furono
presenti personalmente, il Toscanese, l’Ameliese, il Bagnorese, il Castrense, il Soanense,
l’Orvietano, l’Ortano, il Civitonico, il Nepesino, il Sutrino, due che non potevano venire, il
Narnese ed il Grossetano mandarono l’assenso della venia per lettere>>.
Nella parte esterna della porta maggiore, lungo lo stipite destro, esiste un’altra
epigrafe pure in versi leonini, meritevole di attenzione, perché dà l’indizio e la prova che
nella chiesa di Santa Maria di Castello furono portati, non si sa in quale epoca, i corpi di
quattro martiri cristiani: <<Saturnino, Sisinnio, Timoteo, Sinforiano>>. L’epigrafe dice
così: <<Non muoiono costoro, che patirono il nome di Cristo. Ecco che Saturnino, Sisinnio
e Timoteo riposano qui tranquillamente con il diletto Sinforiano>>.
In seguito la chiesa decadde dal suo originale splendore e fu abbandonata, non
appena dopo il Medioevo si spense la egemonia principale. Infatti nel 1435 il Papa Eugenio
IV toglie a Santa Maria di Castello la Collegiata, e la Chiesa comincia a decadere nel 1566; il
Comune, vi chiama i padri carmelitani i quali, per dissensi sorti fra di loro, ben presto
l’abbandonano. (Cronache ms. del Polidori Vol. I). Nel 1569 era già sconsacrata ed
117
118
abbandonata che il Vicario generale di quel tempo, visitandola, ordinò che si
<<chiudessero le sue porte per onore del culto divino>>.
(Relazione della Visita Vescovile del 1569 pag. 24 esistente nella cancelleria del
Vescovato).
Per ciò il Vescovo Bentivoglio nel 1583 procurò che il Comune cedesse la Chiesa ai
padri Conventuali: ciò fu fatto nel 1585. (Epistolario dell’arch. Comunale, memorie
Falzacappa).
Nel giro di circa due secoli dopo i padri conventuali custodirono la Chiesa, ma la
deturparono nella sua parte antica e monumentale con altari posticci nelle navate e nelle
Absidi, con l’aprire e chiudere finestre e porte in perfetta disarmonia col primitivo genere
di architettura.
Dal 1809 fu nuovamente abbandonata per la soppressione dei Padri conventuali
ordinata da Napoleone I.
Il terremoto del 1819 ne fece cadere la cupola.
Per molti anni lasciata aperta al pubblico con le macerie della cupola ammucchiate
nel centro della navata maggiore, fu deturpata da ogni tipo di profanazione.
Più tardi il Vescovo cardinale Velzi, grazie ai sussidi del Comune e dei privati, fece
costruire un tetto nel punto dove esisteva già la cupola e, ripulita la chiesa dalle macerie, ne
restaurò le porte per impedire almeno ulteriori degradazioni, poiché i marmi del mosaico
venivano rubati sempre più. Quindi nel tempo dell’occupazione francese dal 1849 al 1869
la Chiesa, con il consenso dell’autorità ecclesiastica, venne ridotta a Caserma per i soldati
francesi, che avevano il merito di difendere la Santa Sede.. Questi ultimi oltre ad avere
adoperato le loro baionette per scavare e rompere i mosaici, staccarono dall’ambone una
delle quattro colonnine marmoree e la gettarono sotto terra in un punto dove fu ritrovata
per caso un anno dopo. Nel 1857, giunto a Corneto, il Papa Pio IX accolse benevolmente la
proposta dei rappresentanti della città e decretò che la Chiesa fosse restaurata nella sua
forma antica e annoverata tra i monumenti pubblici di antichità.
In seguito a questo decreto furono eseguiti da quel periodo in poi lavori successivi di
riparazione nell’ intento di rimettere la Chiesa nel suo stato originale ed in varie epoche
fino al 1870 il Ministero del Commercio e lavori pubblici del governo del lavoro pontificio
vi impiegò la somma complessiva di L. 10.937.137.
Dopo l’unione d’Italia in un solo regno, il governo con disposizione del 10 Luglio
1875 riconobbe la Chiesa di Santa Maria di Castello come monumento pubblico nazionale e
si dichiarò disposto ad assegnare i fondi occorrenti per il completamento del restauro e per
118
119
la sua conservazione. Nel 1878 fu compiuto il restauro ad opera del governo e del
Municipio.
Attualmente la chiesa è chiusa al culto; le chiavi sono tenute da un custode
comunale che ha l’incarico di aprirla e farla vedere a chiunque desideri visitarla. (DASTI.
Notizie storiche arch. di Tarquinia e Corneto - Roma 1878).
Esaminando la pianta si può notare la quasi perfetta ortogonalità esistente tra fronte
e fianchi, (dal rilievo da noi eseguito risulta che la collaterale destra rispetto al fronte
principale è leggermente inclinata). Buono è l’allineamento dei muri di perimetro e la
regolarità di successione dei contrafforti. Questa precisione nel tracciato non si riscontra
per il piazzamento delle strutture interne; qui forse il costruttore (ma più probabilmente i
costruttori) si trovò nella necessità di adottare gli elementi portanti a dimensioni obbligate
di lunghezza e larghezza e pertanto i pilastri furono allungati od accorciati allo scopo di
ottenere la serie: pilastro cruciforme - arco, pilastro con semicolonna - arco, pilastro
cruciforme ecc. (Pardi - Nuovi rilievi della chiesa di Santa Maria di Castello in Tarquinia
Riv. Palladio anno 1959) la più regolare possibile.
Si può notare ancora l’imperfetto tracciamento dei piloni ad eccezione dei primi
sette di sinistra e dei primi tre di destra a partire dalla facciata. Per ciò che riguarda
l’alzato, anzi meglio la configurazione architettonica, l’interno dell’edificio dà al primo
sguardo l’impressione di essere costituito da una unica navata coperta da volte a crociera.
La visione delle collaterali è del tutto impedita dai grossi pilastri allineati su linee
divergenti verso il centro; si ha così la sensazione che le ultime campate e l’abside siano più
vicine al reale.
La superficie semi cilindrica formata dalla successione delle coperture è conclusa
dal catino absidale.
Le piccole campate delle navate laterali sono tracciate su una serie di rombi. Secono
il Porter che si occupò del monumento, la costruzione deve essere stata terminata sin dal
1150, mentre la consacrazione avvenne soltanto nel 1207.
E’ certo che l’edificio, nei cinquantasette anni intercorrenti tra le due date, subì
rimaneggiamenti in seguito al crollo di buona parte delle strutture, ad eccezione, forse, di
due terzi della navata sinistra oltre alla parte centrale e sinistra della facciata e dei pilastri a
pianta regolare. (Pardi - opera preced. cit.).
Tali differenze, però, non possono invariabilmente essere ascritte a crolli seguiti da
ricostruzione, bensì più convincentemente, al cambiamento di maestranze susseguitosi
nello spazio di 86 anni, fra il 1121 ed il 1207.
(Pardi - nota de la chiesa di S. Maria di Castello Bollet. STAS 1975).
119
120
Che il terreno sia stato interessato da continui fenomeni di cedimento verificatosi in
corrispondenza della collaterale nord est è indicato dai filari di pietra che si inclinano verso
terra se, guardando la facciata, si procede da sinistra verso destra.
Altri indizi di avvenuti crolli seguiti da ricostruzione sono rappresentati dalla
mancanza di omogeneità e di simultaneità costruttiva, tra le pareti della fronte
corrispondenti alle navate centrali e sinistra e la parte sinistra e la parte destra che sembra
aggiunta. E’ da notarsi inoltre la diversa posizione della finestra al di sopra dei due portali
minori: quella di sinistra impostata più in basso dell’altra. (Pardi opera citat. Preced.).
La facciata principale è divisa in tre parti da paraste; originariamente la parte
centrale era più alta delle altre. Era senza dubbio intenzione dei costruttori finire tutti e tre
gli intercolumni con una cornice orizzontale, ma quella dell’intercolumnio centrale non fu
mai eseguita o fu distrutta.
La cornice orizzontale doveva essere sormontata da un muro che seguiva
l’inclinazione dei tetti, come si può vedere nel muro settentrionale della chiesa. Più tardi,
senza dubbio durante il XVII secolo, fu aggiunto il campanile a vela, ad ovest e la parte
sinistra di divisione della facciata divenne così più alta di quella centrale. Nello
stesso
periodo un inutile muro di mascheramento fu eretto sopra la parte destra della facciata.
(A.K. Porter, Lombard Architecture New Haven Vol. II 1916).
La chiesa secondo lo schema attuale, consiste in un organismo di architettura
romanica lombarda offrente volte sostenute da costoloni ricadenti su pilastri cruciformi e
polilobati. I primi esempi di consimili coperture si ritrovano nei seguenti organismi:
a) - S. Pietro di Casalvolone (Novara), chiesa consacrata nel 1118 o 1119.
b) - S. Giulio di Dulzago (Novara), consacrata fra il 1118 e il 1148.
c) - Duomo di Novara consacrato nel 1182 e l’innalzamento delle volte di S.
Ambrogio in Milano nel 1125.
d) - Duomo di Novara consacrato nel 1182 e l’innalzamento delle volte di S.
Ambrogio in Milano nel 1125.
Sulla base di siffatta comparazione credo essere difficilmente sostenibile che, fin dal
tracciamento dell’impianto, si sia inteso esemplare la Chiesa di Santa Maria di Castello
secondo l’attuale composizione. Infatti a mio avviso è necessario lasciare un congruo lasso
di tempo fra l’epoca di innalzamento delle coperture di prime grandi basiliche romanicolombarde e quelle delle volte di Tarquinia. (Pardi - vedi cit. prec.).
Anche Richard Krautheimer ritiene che le volte della suddetta S. Maria siano
posteriori almeno al 1143, anno in cui fu finito il portale principale e nel quale,
conseguentemente, i lavori dovevano riguardare l’ulteriore innalzamento della facciata; ad
120
121
essa in permanente sono appoggiate le colonnine di sostegno delle volte e le volte stesse
insieme ai relativi costoloni a sezione quadrata.
In conclusione, sembra ragionevole distanziare le coperture di Tarquinia di una
ventina di anni rispetto a quello di S. Ambrogio in Milano. La Chiesa di S. Maria però
possiede anche volte sorrette da costoloni a sezione rotonda: siffatto tipo di costolone,
compare in Italia verso il 1136-1132 alla chiesa Cistercense di S. Benedetto di Vallalta.
Quelli di Tarquinia, secondo la Fraccaro ed il Porter, apparterrebbero ad una ricostruzione
del 1190, dovuta alla necessità di procedere ad estese riparazioni dell’edificio.
Si può osservare che in tutti i pilastri della Chiesa le colonnine diagonali sono state
installate senza malta mediante il semplice intaglio delle murature: ciò è deducibile
dall’ampia fessura tra le attuali colonnine e le facce dei pilastri cruciformi. Essi non hanno
mai posseduto simili elementi costruttivi, cioè sono soltanto infate dentro gli angoli interni
dei pilastri stessi. Sembra, pertanto, di dover dedurre che le colonnine in discussione
vennero installate secondo quando si trattò di provvedere la Chiesa di volte a crociera
costolonata che dal Krautheimer è stato indicato come rotante verso il 1143. Secondo
questo ultimo, la Chiesa dal 1121 al 1143, sarebbe stata progettata per essere coperta da una
grande volta a botte; dal 1173 al 1174, l’organismo fu trasformato in senso stilisticamente
lombardo con le attuali volte a crociera costolonata; mentre per il Pardi, non si saprebbe
dove individare la struttura resistente, atta ad assorbire la fortissima spinta esercitata sui
muri laterali da una volta di questo tipo sulla navata centrale. Inoltre, osservando la
posizione dei tetti sopra le navate laterali, si può notare che ciascuna falda taglia le finestre
appartenenti ai muri della navata centrale nonché la parte inferiore del rosone.
Poiché le suddette finestre sono assegnate dal Porter al XVII secolo, secondo Pardi
sembra di poter assumere che l’attuale falda è posteriore all’epoca di costruzione delle
finestre stesse; quindi, qualora si volesse riportare in piena luce rosone e finestre, la falda
del tetto dovrebbe essere abbassata ad una pendenza massima del 14%. Il Porter pensa che
le navate laterali dovessero essere in origine coperte quasi in piano: ma una pendenza
tanto modesta non assicurerebbe il buon deflusso dell’acqua piovana. Tuttavia all’esterno,
circa a metà altezza dei muri delimitanti la navata centrale, vi sono tracce di una serie di
fori disposti fittamente su una linea orizzontale, praticati evidentemente non per sostenere
una impalcatura - perché sarebbero più distanti e più grandi - bensì la piccola orditura di
un tetto.
Si potrebbe pertanto ritenere che i fori rappresentino il margine superiore
dell’antico tetto che ricopriva le navate laterali: ma ricostruendo l’inclinazione partendo
dalla linea di gronda che deve per forza costituire un punto fermo, essendo ornata di
121
122
cornice e di fregio ad arcatelle lombarde, otteniamo una pendenza di circa il 46%, dato dal
tutto inaccettabile quale caratteristica di un tetto appartenente ad un edificio ubicato in
una zona dal clima mite.
Non resta quindi che ritenere che le tracce debbano essere riferite ad un terzo tetto,
a suo tempo imposto al di sopra della piatta copertura delle navate laterali: provando a
disegnare la falda con pendenza parallela alle attuali coperture, si ottiene una sezione
offrente, al di sopra delle navate laterali, due ambienti di altezza interna minima pari a
circa metri 1,70, altezza confacente alla agibilità degli stessi ambienti.
Sembra abbastanza logico a questo punto che l’osservazione ricavata dalla lettura
diretta del monumento configuri l’esistenza di due matronei o gallerie al di sopra delle
navate laterali.
(Pardi opera citat. prec.).
A questa supposizione vi è arrivato anche l’Apollony che nel suo libro
<<Architettura della Tuscia>> ne dà una possibile restituzione grafica. Ulteriori elementi
possono essere chiamati in causa a favore di siffatta raffigurazione. Anzitutto, si può
produrre la scaletta esistente nel muro, circa a metà della navata laterale destra tuttora
adducente a livello delle coperture: essa per i paramenti murari si rileva essere coeva al
monumento medievale e quindi è escluso che possa trattarsi di un inserimento posteriore.
Inoltre, essendo stata ricavata nel muro su cui poggiano i pilastri, colonnine parietali e
volte, deve essere stata costruita o prima insieme al muro stesso e non dopo l’innalzamento
delle volte a crociera pertinenti alle navate laterali.
In conclusione, secondo Pardi, la scaletta fu installata prima del 1143, prima ancora
dell’innalzamento delle volte e, per tale ragion, essa non può essere stata costruita che per
assolvere alla funzione di addurre i fedeli dalle navate al superiore matroneo.
Tuttavia, la presenza di una sola scaletta induce a domandarsi come si potesse
raggiungere la galleria di sinistra: ma esaminando all’esterno la zona absidale, si vede che
la possibilità di un passaggio fra l’una e l’altra navata a livello di un probabile matroneo,
non solo esiste, ma forse si è tentato anche di darle concreta realizzazione. Infatti la parete
di testata della navata centrale è spostata, rispetto alle corrispondenti pareti di testata delle
navate laterali di circa 60 cm. in avanti, cioè verso il fronte; inoltre dalle citate pareti
concludenti la navata laterale, si elevano due muri, con pendenza obbliqua, i quali devono
essere i resti della facciata absidale della chiesa. E’ da escludere, in ogni caso, che detti
muri siano due contrafforti sia perché non sono collegabili, in quanto arretrati, alle pareti
di perimetro della navata centrale sia perché sono anche staccati dalle pareti di perimetro
122
123
stesse, mediante un taglio regolare che sembra indicare la posizione di alcune finestre
probabilmente disposte in serie. Da queste osservazioni ricaviamo le seguenti conclusioni:
a)- i due muri a pendenza obbliqua non sono due contrafforti bensì i resti della
facciata posteriore della chiesa.
b) - I due muri stessi fissano le quote originarie delle falde di copertura.
c) - I tali regolari che li staccano dalle pareti di navata centrale individuano le
finestre illuminanti il percorso collegante la navata laterale sinistra a quella destra.
d) - Il suddetto percorso doveva svolgersi nello stretto spazio pari a circa 60 cm.,
situato tra la faccia posteriore e la parete di testata delle navate centrali: il percorso in
questione scavalcava il semicatino absidale attraverso due rampe, lievemente inclinate
secondo l’estradosso del semicatino stesso.
Ulteriori prove e deduzioni sono riscontrabili sui paramenti murari della navata
centrale in cui si può cogliere circa a metà altezza della Chiesa, un lieve arretramento delle
pareti. Tale arretramento nella metà superiore è visibilissimo in corrispondenza del terzo e
del settimo pilastro di destra, nonché del quinto pilastro di sinistra, rispettivamente presso
il primo filare di pietra corrente al di sopra della semicolonna appartenente al pilastro
debole e presso il terzo filare di pietra, sempre sopra la semicolonna negli altri due casi. Ciò
dimostra che la costruzione subì un arresto nel momento in cui giunse al livello sopra
indicato.
Siffatta sospensione dei lavori non può che essere connessa con un cambiamento di
progetto che va relazionato al momento in cui ci orientò verso la trasformazione
dell’organismo in senso romanico-lombardo, con l’innalzamento delle volte a crociera
fornite di costoloni quadrati o rotondi.
Secondo Peroni la volta a crociera abbisogna di una forma di piante piuttosto
regolare; questa necessità si profila soprattutto nel tracciamento di volte a crociera dalle
grandi dimensioni, onde permettere il regolare congiungimento in chiave dei costoloni
diagonali tracciati a semicerchio: mentre nelle piccole volte il relazionamento degli
elementi costruttivi è più arrangiabile. Diventa evidente, allora che, quando in Tarquinia
vennero abbracciate le forme romanico-lombarde fu necessario correggere il difettoso
allineamento dei pilastri della chiesa, al fine di rendere la pianta delle grandi campate di
navata centrale la più vicina possibile al quadrato: ma siffatte correzioni costituiscono una
ulteriore prova per asserire che la versione romanico-lombarda fu cominciata ad essere
attuata soltanto quando era stata già innalzata la metà inferiore dell’ossatura del
monumento.
123
124
Occorre, inoltre e finalmente, esaminare l’elemento architettonico che rappresenta il
<<clou>> dei numerosi problemi presentati da S. Maria in Castello: la semicolonna
apposta frontalmente al pilastro intermedio o debole.
Il Krautheimer esclude che essa servisse a concorrere alla portata di una volta a sei
costoloni, mentre non sembra convincere l’ipotesi del Porter che essa svolgesse funzioni di
controspinta nei confronti delle volte insistenti sulle navate laterali. Tutto ciò premesso
sembrerebbe di dover intanto osservare che, se nella prima fase di costruzione della chiesa
si previde di realizzare un matroneo in corrispondenza delle navate laterali, sarebbe stato
di conseguenza impossibile installare una volta a botte, munita di sottarchi al di sopra della
navata centrale, dal momento che siffatta copertura avrebbe completamente otturato le
aperture, verso la navata, del matroneo stesso.
Il matroneo pertanto, e nel caso del tempio tarquiniese, è incompatibile con la volta
a botte nonché con i sottarchi sostenenti la volta stessa: si conclude conseguentemente che,
in presenza di due gallerie sulle navate laterali, le semicolonne dei pilastri intermedi o
deboli non potevano assolvere che funzioni decorative. Si ritiene inoltre che le semicolonne
di cui sopra siano frutto di un’addizione effettuata dopo il 1143, non solo perché esse
recano uno sviluppato capitello di stile romanico-lombardo, ma anche perché le soluzioni
architettoniche proposte dalla loro presenza sono troppo legate all’espressione offerta da
più insigni monumenti milanesi e pavesi.
A questo punto sulla base degli argomenti svolti si può fare una ricostruzione della
possibile forma della Chiesa tra il 1121 e il 1143.
Occorre, innanzitutto, espellere dalla fabbrica tutti gli elementi stilisticamente
romanico-lombardi e invece aggiungere sulle navate laterali i due matronei: si ottiene una
chiesa divisa alternatamente da pilastri forti e deboli, i primi a sezione cruciforme e
sviluppati superiormente in archi attraversanti la navata maggiore e sostenenti il tetto, i
secondi invece con sezione a T.
In corrispondenza delle navate laterali figurerebbe un matroneo a solaio ligneo,
sostenuto dalla fitta rete di archi traversali, insistenti sulle navate laterali medesime. Tra il
1143 ed il 1174 vennero aggiunte colonnine diagonali per ricevere la ricaduta dei costoloni
delle volte a crociera nonché le volte a crociera stesse; ai pilastri deboli furono applicate le
semicolonne, da sviluppare superiormente in arcate di inquadratura delle aperture del
matroneo verso la navata centrale; intorno al 1190, si ricostruirono due volte crollate e si
abolì contemporaneamente il matroneo sulle navate laterali probabilmente perché si
reputò di robustire le pareti di perimetro attraverso il tamponamento con pietra da taglio
delle aperture verso la navata centrale del citato matroneo. Inoltre si provvide a costruire
124
125
una serie di forti speroni esterni riconosciuti dal Porter come di aggiunta posteriore,
speroni che in parte restano ed in parte lasciano visibilmente tracce della loro avvenuta
instaurazione in corrispondenza delle pareti della navata centrale.
Infine tra il 1190 e il 1207 fu innalzata la cupola poggiante coi pennacchi su quattro
snelle colonnine apposte presso gli angoli interni dei pilastri nel momento in cui ci si
orientò verso la costruzione della cupola suddetta.
Quest’ultima, è composta da pennacchi sferoidici, da archi a sesto acuto e da quattro
colonnine diagonali le quali hanno un diametro in cm. 26, a differenza delle altre il cui
minomo diametro è di cm. 34; inoltre esse sono sormontate da capitelli di stile gotico e non
romanico.
Il De Angelis D’Ossat, nel suo articolo sulla <<Distrutta cupola>> ha stabilito che la
calotta di Tarquinia appartiene alla stessa famiglia di quelle toscane, peraltro coeve, del
Duomo e della Chiesa di S. Paolo a Ripa d’Arno in Pisa, nonché della Cattedrale di Siena;
anzi egli restringe l’inserimento e addirittura, l’ideazione della calotta stessa tra il 1174 data di un trattato di alleanza tra Tarquinia e Pisa - ed il 1207, data della consacrazione
della Chiesa.
Deve essere conseguentemente escluso che la cupola sia stata progettata sin
dall’inizio dei lavori: al contrario si deve ritenere che - prima del 1174 - al posto della
cupola in questione dovesse essere eretta una volta a crociera provvista di costoloni, uguale
in tutto alle altre insistenti sulle restanti quattro campate dell’edificio (Pardi - <<La
Chiesa di Santa Maria di Castello>> bol. Stas 1975).
Arch. Mario Augusta
Bibliografia
Apollonj-Ghetti Bruno M, Architettura della Tuscia Tip. Poliglotta, Roma 1960.
Dasti L. Notizie Storiche archeologiche di Tarquinia e Corneto. Tip. dell’Opinione,
Roma 1878.
G. De Angelis D’Ossat, La distrutta cupola di Castello, Palladio I-IV 1969.
Pardi R. Nuovi rilievi della chiesa di Santa Maria in Castello in Tarquinia Riv.
Palladio Anno 1959.
Pardi R., La chiesa di Santa Maria in Castello, Bollet. Stas 1975.
Porter A.K., Lombard Architecture, New Haven Yale univ. Press. vol. II 1916.
Raspi Serra J. Tuscia Romana, Electa editrice Milano.
125
126
Seroux D’Agincourt G.B.L.G., Storia dell’arte architettura, ed. di Prato 1828.
Introduzione al Convegno su Giovanni Battista Marzi
Chi è GIOVANNI BATTISTA MARZI? Perché abbiamo voluto ricordarlo e
riproporlo all’attenzione della gente con particolare riferimento a quelli che <<contano>>?
Io credo che i tarquiniesi che sanno chi è, dove e quando è nato, cosa ha dato alla
umanità, dove ha concluso la sua vita terrena, si possono contare sulle dita di una mano.
Non tanti di più ne troveremmo tra gli italiani tutti. Anche e soprattutto perché i nostri
dizionari, compresi quelli di maggior fama e prestigio, riportano dati inesatti. GIOVANNI
BATTISTA MARZI non è nato a Roma nel 1860 ma è nato a CORNETO (oggi TARQUINIA)
il 3 agosto 1857 ed è morto a Roma il 16 giugno 1928 e non nel 1927.
La soddisfazione di poter contribuire a correggere il duplice errore unitamente alla
conferma del riconoscimento di un primato che appartiene al nostro illustre concittadino è questo il motivo che più conta - sono alla base del Convegno che la SOCIETA’
TARQUINIENSE d’ARTE E STORIA, gelosa custode dei valori cittadini in qualsiasi campo
espressi, ha voluto degnamente celebrare. Perché GIOVANNI BATTISTA MARZI è
l’inventore, il creatore, del primo CENTRALINO TELEFONICO AUTOMATICO che sia
stato conosciuto ed applicato nel mondo. Luogo della prima sperimentazione, gli Uffici
della Biblioteca Vaticana. Una testimonianza più religiosa e più indiscutibile non si
potrebbe trovare. S.S. LEONE XIII fu così il primo Pontefice che ne fece uso. Gli altri che si
sono occupati con successo di questa materia, sono arrivati molto più tardi. Infatti,
soltanto tre anni dopo (nel 1889) un americano, ALMON B. STROWGER di Kansas City,
brevettò un apparecchio che somigliava a quello del MARZI ed ancora più tardi, nel 1892,
si ebbe il pratico funzionamento della prima Centrale Automatica (Indiana - Stati Uniti).
Come spesso accade nella vita degli uomini, non sempre chi ha seminato riesce a
raccogliere il frutto delle proprie fatiche.
126
127
Tante invenzioni, nate nel nostro paese grazie all’ingegno della nostra mirabile
gente, sono finite in mani altrui per un insieme di circostanze che non sempre si riesce a
capire. Così è accaduto a GIOVANNI BATTISTA MARZI che non seppe o non volle o non
riuscì o non credette opportuno e necessario far valere il suo indiscutibile primato, quel
primato che costituisce appunto lo scopo fondamentale del Convegno, che la terra dove
nacque tenacemente e fermamente persegue per quel senso di gratitudine e di giustizia che
merita e che gli deve essere riconosciuto.
Ma il genio di GIOVANNI BATTISTA MARZI non si esaurisce con l’invenzione del
Centralino Telefonico Automatico. Va ben oltre! Ed ecco arrivare, uno di seguito all’altro,
la prima trasmittente radio con trasmettitore microfonico a ricambio automatico, il
bersaglio elettromagnetico, il telegoniometro elettrico a base orizzontale ed il telefono
altisonante con relative conseguenti applicazioni, alcune delle quali investono l’intero
settore della Marina Militare. Un’altra virtù si rivelò nel nostro concittadino: la conoscenza
perfetta della lingua latina (si laureò nella Regia Accademia di Amsterdam), che gli
consentì, più tardi, di dettare l’epigrafe della corona di alloro offerta alla salma del Milite
Ignoto nella solenne tumulazione sotto l’altare della Patria il 3 novembre 1921.
Ci troviamo quindi dinanzi ad una delle figure più belle, più nobili, più interessanti
della nostra gente, una delle creature che, col proprio ingegno, col proprio lavoro, spesso
tra difficoltà, incomprensioni e gelosie di ogni genere, seppe onorare, sulla via dell’umano
progresso, non soltanto la terra natia ma l’Italia per la quale nutrì sempre un amore
profondo. La PATRIA! Così era solito chiamarla. Quell’amore, privo ormai del grande
significato dei tempi passati, sta scomparendo nel cuore degli italiani per i quali la PATRIA
e già chiamata PAESE. E noi di Tarquinia dobbiamo essere fieri ed orgogliosi di aver
contribuito con un genio di casa nostra al progresso dell’umanità grazie ad un uomo che
avrebbbe potuto crearsi una invidiabile fortuna e che morì invece povero e dimenticato.
Giuseppe Santiloni
Presidente <<Organizzazione e Servizio Stampa>>
SOCIETA’ TARQUINIENSE D’ARTE E STORIA
TARQUINIA
Per le realizzazioni dei programmi della Società, tendenti a porre nella giusta e
doverosa collocazione quei nostri concittadini che, nel campo delle scienze, dell’arte, della
127
128
letteratura, della religione e della storia, hanno reso onore e gloria alla nostra città, avrà
luogo quest’anno il
CONVEGNO
su
GIOVANNI BATTISTA MARZI
Scienziato e Poeta
nato a Corneto il 3.8.1857 e morto a Roma il 15.6.1928, che prevede le seguenti
manifestazioni:
SABATO 12 Ottobre 1991 nella Residenza Comunale:
ORE 16.00 - Saluto del Sindaco e del Presidente della Società
Tarquiniense d’Arte e Storia.
ORE 17.00 - In Piazza San Giovanni:
Scoprimento della lapide in memoria di Giovanni
Battista Marzi.
DOMENICA 13 Ottobre 1991, nella Sala Sacchetti, Sede Sociale della
S.T.A.S.
ORE 10.00 - Conferenze sul tema:
VITA ed OPERE dell’Elettrotecnico Giovanni Battista
Marzi.
Le Autorità civili, militari e religiose, i Soci del Sodalizio, i cittadini
tutti, sono vivamente pregati di partecipare al Convegno.
TARQUINIA, li 5 ottobre 1991
IL PRESIDENTE
Bruno Blasi
Interverrà la banda G. Setaccioli diretta dal Maestro Bruno Benedetti.
IL SALUTO DEL SINDACO GIOVANNI CHIATTI
Debbo confessare che non conoscevo, prima di questa occasione questo personaggio
così importante per la nostra città: Giovanni Battista Marzi scienziato, poeta e patriota. E
come me anche tanta parte della nostra cittadinanza. E’ un onore ed un piacere quindi, per
me oggi, dare il benvenuto a tutti voi che siete venuti a Tarquinia per partecipare a questo
Convegno, che ha come scopo quello di riproporre e di spiegare l’importanza di questo
128
129
nostro concittadino all’opinione pubblica non solo tarquiniese ma dell’intera Italia.
Tarquinia, ha tra i suoi figli, molte grandi personalità, oggi ufficialmente a queste, si
aggiunge quella di Marzi, un uomo al quale la nostra nazione deve molto per le sue
invenzioni e per le sue intuizioni nel campo scientifico.
INTERVENTO DEL PRESIDENTE DELLA SOCIETA’ TARQUINIENSE D’ARTE
E STORIA
Se dovessi cedere a un principio di orgoglio o a un motivo di personale
soddisfazione, dovrei ascrivere al mio passato di pubblico amministratore un vanto: quello
cioè di avere intestato, nel lontano 1958, allorquando ricoprivo la carica di sindaco della
nostra città, una nuova strada, appena alla periferia, al nome di Giovanni Battista Marzi.
Devo però ammettere allo stesso tempo la mia scarsa conoscenza riguardo alla genialità di
questo nostro concittadino intorno alla sua invenzione del telefono automatico, giacché la
mia cultura nel campo elettronico si era fermata a quella che ci veniva insegnata nella
scuola: che cioè l’invenzione del telefono apparteneva a un italiano, Antonio Meucci, che
dovette ricorrere altrove per affermare quella sua scoperta.
Siccome ebbi poi occasione di leggere su di una rivista l’invenzione di Giovanni
Battista Marzi che aveva messo in opera all’interno della Città del Vaticano un primo
impianto del telefono in maniera automatica, dovendo perciò dedicare nuove vie nel centro
abitato, feci deliberare dal Consiglio Comunale la dedicazione di una via al nome di questo,
almeno per me, illustre sconosciuto, quale era a quel momento il Marzi. Allora non ci
furono cerimonie, né pubbliche, né private, nell’apporre una targa di marmo.
Né avendo senso profetico, potevo minimamente immaginare che a distanza di
quasi un quarantennio, avrei dovuto interessarmi di una manifestazione pubblica, come si
sta facendo oggi, in onore del suo nome, che è passato alla storia, oltre che per la prima
automazione del telefono, anche per l’invenzione di strumenti per la Marina Italiana,
alcuni dei quali godono tuttora del segreto militare; e per la sua attività letteraria e poetica
che gli meritò l’alloro della Reale Accademia di Amsterdam.
Mi sovviene di aver sfruttato in seguito il suo nome allor che, vantandomi della sua
invenzione, convinsi il Presidente della SIP, l’allora onorevole Paganelli, a non sottoporre
ulteriormente la nostra città, che aveva dato i natali all’inventore del telefono automatico,
alle lungaggini di un unico centralino che andava sempre più arricchendosi di numeri. E
129
130
prima che lasciassi, nel 1960, la carica sindacale, ebbi la fortuna e la soddisfazione di veder
realizzata a Tarquinia la prima centrale automatica del telefono.
Ora, dopo le parole commemorative del Sindaco che ha illustrato, per linee generali,
la figura del nostro concittadino, a me non resta che congratularmi con i congiunti e i
parenti per questa loro illustre ascendenza, e ringraziare e salutare tutti i convenuti che
hanno voluto con la personale presenza partecipare a queste commemorazioni che la
Società Tarquiniense d’Arte e Storia, così come fece in passato per altre personalità, quali
Lawrence, Stendhal e Cardarelli, ha voluto promuovere in onore di Giovanni Battista
Marzi. Perché resti nella memoria e negli annali della città di Tarquinia questa data e
questa commemorazione che noi e i famigliari vogliamo fissare, anche se tardivamente,
nella storia e nel marmo che questa sera verrà scoperto sulla sua casa natale.
IL RINGRAZIAMENTO
Dell’Amm. di Div. Orazio Luigi Marzi
Ringraziamento alla STAS ed al Comune di Tarquinia per questa celebrazione.
Compiacimento per la partecipazione dei familiari, giunti da varie città italiane per
godere di questa giornata dedicata ad un rappresentante tanto insigne della loro famiglia.
SALUTO DELL’ISPETTORE GENERALE
Dr. LUCIANO MARZIANO
in rappresentanza del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali - Ufficio
Centrale Beni Librari e Istituti Culturali
Mi è gradito porgere un cordiale saluto mio personale e del prof. Francesco Sicilia,
Direttore Generale dell’Ufficio Centrale per i Beni librari e gli Istituti culturali del
Ministero per i Beni Culturali e Ambientali che avrebbe voluto essere presente a questa
manifestazione ma inderogabili impegni connessi alla sua carica glielo hanno impedito.
La mia presenza in rappresentanza del Ministero per i Beni Culturali e ambientali,
vuole avere il significato di testimonianza dell’attenzione che lo stesso Ministero porta
verso tutto quanto contribuisce alla crescita di quella memoria storica attraverso la quale
viene a configurarsi l’identità e il destino di una comunità.
E’, oramai, ben noto come siano queste ragioni per le quali negli ultimi tempi si è
avuta una modificazione dell’idea del bene culturale che, da semplice <<cosa>>, intesa
questa quale documento visivamente evidente (quadro, statua, architettura, reperto
archeologico, codice, libro ecc.) ha esteso il proprio interesse alla sfera più impropriamente
130
131
concettuale. Ne consegue che la salvaguardia, la tutela, la valorizzazione del bene culturale
vanno intese come interessanti anche le Istituzioni che dedicano la propria attività alla
conservazione del patrimonio storico.
Per questi motivi, il Ministero per i Beni Culturali e ambientali nella corretta
estensività della propria competenza, oltre ai beni artistici (Musei, Gallerie ecc.) ai Beni
librari (Biblioteche) intende tutelare e valorizzare l’immenso patrimonio fisico e morale
costituito dalle varie istituzioni culturali fra le quali grande importanza e sicuro prestigio
riveste la Società Tarquiniense di Arte e Storia, la cui attività, mi sia consentito darne
diretta testimonianza, è molto importante e riscuote apprezzati riconoscimenti a livello di
Amministrazione centrale.
La manifestazione odierna dedicata alla figura di G.B. Marzi, conferma,
ulteriormente la funzione positiva di una Istituzione culturale e si inserisce in quel
programma di valorizzazione della memoria locale. Occorre aggiungere, conclusivamente,
come la personalità del Marzi, superando i confini della città natale, nonché, come
acutamente ha ieri sottolineato il sindaco dr Chiatti, le griglie delle varie discipline, ha
apportato un notevole contributo alla cultura nazionale.
E’ con questi sentimenti che mi è gradito augurare pieno successo all’odierno
convegno.
COMMEMORAZIONE
DELL’ELETTROTECNICO G.B. MARZI
INTERVENTO DELL’AMMIRAGLIO FRANCO PAPILI
Sig. Sindaco di Tarquinia, qui presente anche se temporaneamente assente, sig.
presidente della STAS, prof. Fedi, famiglia Marzi qui presente attraverso varie generazioni,
e in varie forme, un particolare saluto a quei congiunti della famiglia Marzi che durante la
II guerra mondiale (ho visto ora i quadri nel palazzo avito) hanno lasciato la loro vita al
servizio della patria. Erano nomi ovviamente noti dalla lettura di storie e fatti d’arme;
adesso ho potuto vedere le loro sembianze. Amici di Tarquinia e in particolare amici
marinai di Tarquinia che ho appreso con piacere, essere numerosi, e questo d’altronde non
mi meraviglia affatto perché tutte le province italiane hanno contribuito a formare nel
tempo, nei secoli vorrei dire, gli equipaggi della marina militare.
L’attuale sistema di reclutamento taglia una sola provincia, Terni, e i marinai di
Terni numerosissimi per la vicinanza con la famosa fabbrica di corazze e di cannoni di cui
avrò modo di parlare, soffrono moltissimo di questo fatto. Non esitano ogni anno a
131
132
ricorrere a ministri, a deputati o agli alti gradi dello Stato Maggiore nel tentativo di riavere
che il reclutamento dei marinai raggiunga di nuovo la provincia di Terni, che guarda caso,
faceva capo qui alla Capitaneria di Civitavecchia.
Chiudo questa parentesi per delineare la vita di Gian Battista Marzi (1857-1928) e
inquadrerò la sua vita in quella che è stata, a brevissime linee, a colpi di accetta, la vita
della Nazione ed in particolare quella della Marina Militare al servizio di questa Nazione.
Quando Giovanni Battista Marzi vide la luce in quella che allora si chiamava
Corneto, il Regno d’Italia non era ancora formato: c’era il Regno di Sardegna che
combatteva per l’unità d’Italia e quindi quando nel novembre 1861 si formò il Regno
d’Italia che allora comprendeva l’Italia attuale meno il Triveneto ed il Lazio, che allora era
ancora sotto il papato, ovviamente Marzi non era in condizioni né di intendere né di volere
per la tenera età.
Peraltro sono certo che, a partire da Lissa e da Custoza, G.B. Marzi, che nella sua
autobiografia risulta molto attento a quelle che sono le esigenze della nazione in tutti i
campi, nel campo tecnico e scientifico sarà stato ben in grado di capire quella che era
l’evoluzione di questo regno che nasceva già con ambizioni di potenza medio-grande.
Al momento della sua formazione, la politica estera prevedeva che il nemico numero
uno (io parlo storicamente e quindi non ho alcuna reverenza a pronunciare parole come
nemico, guerra, politica, perché questa conferenza va inquadrata nel periodo in cui si
parlava in questi termini e gli stati, i governi, i monarchi ragionavano in questi termini)
poteva essere considerata la Spagna (non è molto noto) perché veniva considerata il
naturale erede del Regno dei Borboni che sì, aveva lasciato piuttosto precipitosamente,
senza una particolare resistenza tutta l’Italia Meridionale e la Sicilia sia prima ai
garibaldini e poi all’armata del Re, però non aveva trascurato di far presente, e lo fece
presente in tutte le maniere allora possibili (la guerriglia, la corruzione, l’elargizione di
fondi) una intensa volontà di rivincita che praticamente venne a mancare solo quando la
giovane regina Sofia di Baviera, che era il <<vero uomo forte>> del regime, lasciò questa
terra nel non troppo lontano 1925.
Quindi ecco che agli inizi del Regno è la Spagna più ancora che il secolare nemico
Austria, che condiziona gli orientamenti militari del momento. Cavour era ben convinto di
quello che aveva detto Napoleone che l’Italia sarebbe stata una potenza, o non sarebbe
stata una potenza, ed eccolo quindi prendere quelle decisioni, a tutti ben note in ambito
Marina, come la suddivisione di quello che allora era il Segretario della Guerra e Marina,
assumendo per sè l’incarico di Stato per la Marina, Ministro cioè della Marina (è stato il
primo ministro per la marina che abbiamo avuto anche se per pochi mesi), l’impostazione
132
133
di un programma ambizioso di navi, l’impostazione di quella costruzione che di lì a nove
anni sarebbe stato l’Arsenale Militare Marittimo di La Spezia, concepito nel 1852, sospeso
per la guerra di Crimea, ripreso dopo la guerra di Crimea e assegnato all’allora cap. Chiodo
perché fosse costruito. Chi di voi ha avuto modo di andare a La Spezia, visitare l’Arsenale e
il contiguo Museo Navale, potrà aver visto l’ampiezza della visione che Cavour aveva delle
necessità della Marina come strumento di una nazione marinara. Ma a parte le navi e
l’Arsenale era però necessario formare gli uomini. Tre o quattro marine confluirono in
quella che fu l’Armata Navale: la Marina sardo-piemontese rigidamente organizzata
secondo gli schemi piemontesi,la Marina borbonica più grande, con un regolamento più
moderno se vogliamo, ma meno addestrata perché il Borbone, oltre tutto non gradiva che i
suoi ufficiali viaggiassero molto in maniera che non venissero in contatto con altre civiltà o
altre nazioni e con le democrazie. E naturalmente se da un punto di vista della concezione
politica la Marina ebbe una nascita, dal punto di vista della formazione degli uomini la
ebbe meno. Quindi sono certo che il giovane Marzi, che allora aveva 8/9 anni, quindi era in
grado di intendere, volere e ricordare, fu certamente in grado di percepire, acuto studioso,
intelligenza, precoce, cultore di studi classici, il dramma allora non solo della Marina ma
anche dell’esercito italiano, drammi che si videro chiaramente a Custoza e a Lissa dove gli
uomini provenienti dal sud non si erano ancora amalgamati con gli uomini provenienti dal
nord. Molti incarichi quindi dovevano essere assegnati per motivi politici. E’ ben noto che
il Persano a Lissa voleva come suo Capo di Stato Maggiore il contrammiraglio Anguissola
che aveva conosciuto all’epoca dei fatti di Palermo (1860) (l’ammiraglio proveniva dalla
Marina delle Due Sicilie, la Marina Garibaldina) mentre per ragioni politiche gli fu imposto
il napoletano Edoardo D’Amico, persona degnissima, grande marinaio, ma con il quale
l’ammiraglio Persano, nato a Vercelli, non si prendeva particolarmente anche perché prima
non si erano mai incontrati. E quindi in questa atmosfera il Marzi segue, vive quelle che
sono i primi passi della nazione.
Ho detto politica da medio-grande potenza. Indubbiamente lo fu anche se la politica
estera italiana a quel tempo fu probabilmente oscillante. E’ stata severamente criticata non
solo oggi ma anche allora, però indubbiamente la nazione cercava un suo spazio di vita, un
suo spazio d’azione ed ecco allora che le navi o provenienti dalla marina borbonica o
provenienti dalla marina del Granduca di Toscana, o provenienti dalla marina sardopiemontese, o alcune addirittura acquisite all’estero, iniziano subito quelle che allora erano
le attività principali di una marina militare, l’attività politico-diplomatica che vedeva le
navi a mostrare bandiera e a rappresentare il governo del Re in tutti i porti del mondo. Può
essere sintomatico pensare che mentre nel luglio del ‘66 aveva luogo l’infausto episodio di
133
134
Lissa, quello che poi fu anche discusso in Italia con un autolesionismo degno di miglior
causa, che dette inizio a quello che poi venne chiamato <<il periodo penitenziale della
Marina>>, una nave di S.M. il Re, la <<Magenta>>, costruita nei cantieri di Livorno e
quindi poi completata sotto l’egida dell’Armata Navale, si trovava nell’agosto del ‘66 a
Tokyo dove il cav. Arminjon comandante della nave, investito dall’incarico di Ministro
plenipotenziario di I classe e ambasciatore straordinario di S.M. il Re, firmava con il
governo giapponese, dopo essere stato ricevuto in udienza, del tutto straordinaria, dal
Mikado (che non riceveva facilmente stranieri) firmava dunque un trattato commerciale e
culturale con il Giappone, il primo stabilito dal neonato Regno d’Italia, e due mesi dopo a
Pechino, dentro la Città Sacra avveniva la stessa cerimonia con l’allora Imperatore della
Cina. Allora erano le navi che portavano non solo la bandiera ma quelli che erano gli
interessi nazionali in tutto il mondo. Oggigiorno si parla alcune volte ingiustamente,
alcune volte con sprezzo <<di politica delle cannoniere>>, di politica delle cannoniere
ormai finita, ultimata che non deve essere continua. Può darsi che oggi la situazione sia
diversa, sta di fatto che allora la classifica direi, la graduatoria delle nazioni veniva dalla
potenza della loro marina militare in grado di difendere gli interessi nazionali in tutte le
parti del mondo. Già il piccolo Regno di Sardegna aveva mandato navi nella Plata, dove
c’erano numerosi italiani (ci sono anche ora) per difendere gli interessi di quelle popolose
colonie. Già il Regno di Sardegna aveva mandato navi nella Plata, dove c’erano numerosi
italiani (ci sono anche ora) per difendere gli interessi di quelle popolose colonie.
Già
il piccolo Regno di Sardegna aveva mandato navi nella Plata, dove c’erano numerosi
italiani (ci sono anche ora) per difendere gli interessi di quelle popolose colonie. Già il
Regno di Sardegna aveva mandato la corvetta Eridano con una macchina della potenza di
150 cavalli giù nel Pacifico fino a Valparaiso e poi fino al Perù perché allora questa era la
politica. Questo era l’ambiente in cui Marzi sviluppò la sua cultura tecnica e la sua cultura
umanistica. Va detto che assieme ad una Marina Militare rinasce subito il problema delle
navi. Non c’è dubbio che Marzi seguì, fu viva parte di quello che allora fu il problema, la
<<questione delle navi>> tra uomini del calibro del Riboty (il ministro della rivincita, della
rinascita, della riscossa della Marina Italiana), Saint Bon il vincitore di Porto San Giorgio a
Lissa e Benedetto Brin, uno dei nostri più noti costruttori navali. Ma non va dimenticato
quanto segue: l’eredità di Persano, l’eredità di Lissa, la raccolse Riboty decorato di
medaglia d’oro a Lissa, comandante del <<Re del Portogallo>>. Fu lui che nel 1871, un
anno critico per la Marina Militare, quando il bilancio per la marina scese a 29,1 milioni di
lire (Quintino Sella diceva: <<se noi vendessimo tutte le navi da battaglia che abbiamo,
saremmo in grado di sanare il bilancio dello Stato>> ma naturalmente il Parlamento, che
134
135
era ben consapevole della necessità per l’Italia di continuare una politica navale malgrado
Lissa, non accettò mai queste sue proposte), nel 1871 dunque, Riboty fece approvare dal
Parlamento la legge che lo autorizzava ad impostare nei cantieri di Castellamare di Stabia e
in quelli di La Spezia le navi da battaglia <<Duilio>> e <<Lepanto>>. Il Duilio è quello più
famoso perché quando scese in mare nel 1876 con i suoi cannoni da 450 mm (aveva per la
prima volta cannoni in torrette asimmetriche binova), la vicina nazione francese cominciò
a pensare seriamente che in quel momento cominciava per lei un periodo di inferiorità e
corse subito ai ripari.
Dicevo dunque a Riboty va attribuito questo merito. Il progetto della <<Duilio>>
era ovviamente di Brin allora giovane Ispettore del Genio Navale. Successivamente Brin
divenne Ministro della Marina e da contraltare gli faceva Saint Bon, altra medaglia d’oro di
Lissa, comandante della <<Formidabile>>, il quale da buon Ufficiale di Stato Maggiore
non si lasciava ingannare dall’aspetto guerriero delle navi o dalla potenza delle macchine,
ma ovviamente aveva a cuore il problema dell’addestramento, il problema del personale, il
problema della logistica e quelli della tattica e dell’impiego.
E’l’epoca in cui anche D’Annunzio, allora poco più che ventenne, entra in campo a
favore di Saint Bon contro Brin, scrivendo quel famoso libretto-opuscolo <<L’armata
navale>> dopo aver passato sette giorni su una nave da guerra che lo aveva salvato in
Adriatico durante una infelice crociera su una barca a vela con un amico. D’Annunzio
chiamava Brin <<il maestro sovrano>>, lo accusava di fare delle navi bellissime e
potentissime sotto tutti i punti di vista, ma una volta che le navi avevano completato le
prove di macchina se ne disinteressava mentre Saint Bon si occupava seriamente di tutto il
resto. Ma allora Saint Bon non aveva i poteri degli attuali Capi di Stato Maggiore, era solo
capo dell’Ufficio di Stato Maggiore che si interessava di pianificazione, attività tattica ed
operativa. Siamo quindi in un momento in cui si sviluppano le navi, si sviluppano le
macchine, le artiglierie ed il Marzi intanto ha ottenuto già i suoi primi successi nel campo
della telefonia. Ovviamente chiamato a fare il servizio militare, siamo nel 1879, viene
rapidamente catturato dal Genio Militare dell’Esercito, provvede di telefoni e collega tra
loro tutte le caserme di Roma e successivamente si dedica a quell’impianto famoso di
telefonia dello Stato della Città del Vaticano di cui oggi sono piene le enciclopedie ed i testi
tecnici. Siamo nel 1880, è un periodo in cui quando alla Camera il 20/2/1880, ministro
Ferdinando Acton, questi informa i deputati che il <<Duilio>> alle prove di macchina ha
superato abbondantemente i 15 nodi previsti dalle specifiche, interviene Crispi che
propone alla Camera un o.d.g. che dice che la Camera dei Deputati prende, con grande
soddisfazione, nota dei risultati ottenuti in prova dalle macchine del <<Duilio>> e auspica
135
136
che questa nave porterà ovunque il tricolore nella difesa dei supremi interessi della
nazione. E successivamente poi il <<Duilio>> entrerà in squadra con il gemello
<<Lepanto>> e poi i vari ministri, che si succederanno, dovranno combattere con la
situazione che in quel momento circondava l’Italia per attuare quella Marina di cui aveva
bisogno il paese.
E’ il periodo in cui Saint Bon, diventato poi ministro dopo Riboty, alternandosi con
Benedetto Brin, pone la questione delle navi. Saint Bon non era insensibile al pericolo
francese. La Francia in quel momento, sfumata la Spagna, era il pericolo numero uno.
C’era il problema della Tunisia, delle migliaia e migliaia di siciliani che vivevano in Tunisia.
Già allora Biserta era considerata una pistola puntata al fianco dell’Italia.
Nel 1864 quando dei tumulti misero in pericolo gli italiani in Tunisia, l’Albini fu
mandato davanti a Tunisi con una squadra, e aveva già a bordo le truppe (altre erano
pronte a Napoli e a Palermo) per, se necessario, invadere la Tunisia. Successivamente
allora la Sinistra criticò aspramente il governo (destra) per non aver occupato la Tunisia.
Successivamente tutti i tentativi furono frustrati quando nel 1881, all’epoca in cui si faceva
la politica <<amici di tutti>> (ossia di nessuno), la Francia con il Trattato del Pardo, si
impossessò della Tunisia.
E’ questo il periodo in cui Marzi si interessava sempre di più dei problemi della
Marina Militare, rimane colpito, nella guerra ispano-americana di lì a pochi anni, dal fatto
che le batterie costiere spagnole sono rapidamente vittime delle navi da guerra americane e
concepisce quel sistema che in definitiva si può spiegare così: se io nascondo le batterie
mentre sulla spiaggia metto due uomini con un qualsiasi sistema che mi indichi la
posizione della nave nemica, dalla congiunzione delle due visuali e tenendo presente la
posizione dei due uomini rispetto alla mia posizione dei cannoni con normali risoluzioni
trigonometriche, è possibile puntare i cannoni nella direzione del nemico. Il
Telegoniometro Marzi venne approvato dalla Marina Militare che lo sperimentò a La
Maddalena, piazzaforte che per essere molto vicina alla Corsica, era allora considerata
anche base di prima linea e quindi potentemente rafforzata, difesa da batterie, sbarramenti
ecc.
Ed è del 1890 una lettera del contrammiraglio Federico Labrano, in cui si elogia
appunto il Marzi per i risultati del telegoniometro che potremo chiamare <<sistema per il
tiro indiretto senza visuale del bersaglio>> e che successivamente viene non solo elogiato
dal Ministero della Marina ed anche dalla Direzione delle Armi e materiale d’Artiglieria
dell’Esercito cioè dal Tenente Generale Matti che a quell’epoca ne era il Direttore. Nel
frattempo aveva anche sperimentato quei bersagli che, sfruttando l’energia del proiettile
136
137
che li colpiva, potevano segnalare il risultato del tiro stesso. Naturalmente credo che si
riferisse a tiri di armi leggere non certamente a tiri con cannone. Tiri su sagome che
riguardano quindi fucili, pistole, roba di grande interesse non solo per l’Esercito ma anche
per la Marina di allora.
Il tempo passa e si sviluppano le artiglierie là dove i potenti cannoni <<Duilio>>
avevano aperto una via! Non più cannoni in batteria ma torri corazzate in coperta mosse da
pompe idrauliche, con due canne a caricamento ad avancarica.
Se c’è qualche artigliere qui può avere un’idea di cosa vuol dire ad avancarica:
sparavano praticamente un colpo ogni 12/15 minuti. Il proiettile pesava 907 chili, la carica
di lancio era di 240 chili e la velocità iniziale del proiettile era 500 e rotti metri al secondo.
Oggigiorno i proiettili di artiglieria, anche i grossi calibri ne fanno 1000/900. Comunque, a
parte questo, perché questo proiettile indubbiamente costoso anche per allora, arrivasse a
destinazione, dove era in grado di perforare una corazza di 65cm, bisognava dirigerlo ossia
bisognava imprimere al cannone una direzione, che noi artiglieri <<cursore e alzo>> come
l’ammiraglio Marzi 1) ben sa. Ebbene tutto questo veniva fatto con quella che veniva
chiamata la <<camera dei cori>> cioè in un punto centrale il Direttore del Tiro calcolava in
una maniera qualsiasi i dati che poi, attraverso i <<portavoce>> degli uomini dai polmoni
robusti venivano ritrasmessi al punto centrale che poi li ritrasmetteva ai cannoni dove
degli uomini introducevano questi dati in una maniera qualsiasi nei congegni di punteria.
Ed ecco che Marzi con il <<telefono altisonante>> risolve questo problema. Adesso
non è nelle mie possibilità tecniche discutere sul come Marzi, che quando seppe che la
marina si approvvigionava all’estero dalla Siemens e da altri, di questi telefoni di cui la
Marina non era soddisfatta, andò a sentire e si accorse che, proprio quando a bordo c’era
silenzio (e a bordo non c’è mai silenzio), questi telefoni altosonanti facevano sentire questi
dati al massimo ad un metro di distanza. Ed allora ecco il suo telefono che sfruttò credo
l’energia meccanica ed è noto che questo sistema messo su varie navi da battaglia di I o II
classe, incrociatori, corazzate etc. attirò anche l’attenzione del Kaiser, il quale durante una
crociera in Adriatico, assistette da 100 metri di distanza ad una sperimentazione del genere
su uno dei suoi incrociatori: questo fatto interessò anche altre Marine straniere, e la notizia
raggiunse anche lo zar che, veleggiando nel mar Baltico, dalle parti dell’allora Reval
(dicono le storie) la Tallin dell’attuale neonata repubblica di Estonia, e volle assistere
anche lui dal suo panfilo ad una manifestazione del genere. Questo è un qualcosa che non
1)
Presente nel Salone Sacchetti della SOCIETA’TARQUINIENSE D’ARTE E STORIA c’è anche l’Amm. Div.
ORAZIO LUIGI MARZI al quale l’oratore si riferirà spesso.
137
138
solo contribuì notevolmente all’efficienza dei servizi artigliereschi, ma in alcuni casi rimase
in servizio fino alla II guerra mondiale. Tra le navi che ebbero istallato questo sistema a
bordo, c’era per esempio l’incrociatore corazzato <<S.Giorgio>>, che forse l’amm. Orazio
Luigi Marzi ha visto. Io non l’ho mai visto, ma come molti ricordano, durante la II guerra
mondiale era a Tobruk e lì salto in aria nel gennaio del ‘41 alla prima occupazione inglese,
non solo ma, e questa credo fu l’ultima opera del Marzi a favore della Marina Militare, a
cavallo degli anni 1910/11 fece istallare sugli esploratori <<Bixio>>, <<Marsala>> e
<<Quarto>> degli speciali telegrafi di macchina. E va detto che l’ultima nave di queste che
lasciò il servizio fu il <<Quarto>> che nel 1939, declassato e radiato dal quadro del naviglio
militare dello stato, rimase in servizio come nave-caserma per alcuni anni, credo nel porto
di La Spezia.
Questo è grosso modo il quadro di quello che fece G.Battista Marzi nel momento che
la Marina Militare sosteneva la vita della nazione. Ancora cinque minuti per approfondire
qualche cosa del periodo in cui Marzi operava. Nel 1911, in ottobre (sono passati pochi
giorni dall’ottantesimo anniversario che non è stato né celebrato né ricordato nemmeno
inter nos), ma non va dimenticato che tra il 29 settembre del 1911 e la prima decade di
ottobre, la Marina italiana operava, in base alle direttive del governo di allora, il primo
Ministro era G. Giolitti, quelle operazioni di sbarco sulla costa libica (ossia Tripolitania e
Cirenaica) dell’impero ottomano (una Libia ancora non c’era) che rese celebri i
<<garibaldini>> del mare, comandante Cagni, marinai delle compagnie da sbarco, sbarcati
a Tripoli, a Bengasi, a Tobruk, a Misurata, a Derna e la Marina teneva quelle piazze e quei
porti fino all’arrivo dell’Esercito. Era una Marina che in quell’epoca teneva alta la bandiera
e all’occasione anche con il fuoco difendeva gli interessi nazionali. Non dimentichiamo per
esempio all’epoca della <<guerra dei nitrati>> dell’1881 (tra Cile, Perù e Bolivia) vinta dal
Cile, al largo delle coste peruviane c’erano tre navi italiane insieme a quelle inglesi,
americane, austriache e germaniche, tutte per la difesa degli interessi delle colonie lì
presenti. La Marina Italiana però era presente con tre navi perché aveva le stazioni navali
di Rio de la Plata, del Sud Pacifico e Valparaiso nel Cile, e della Califormia a San Francisco.
C’era un incrociatore, il <<Colombo>> comandante Morin ecc. ed avevamo poi la stazione
in Cina e la stazione del Levante. All’epoca della guerra di Libia, ci ritorno, non
dimentichiamo che all’occasione la Marina Italiana sequestrò due piroscafi e resistette a
tutte le minacce francesi quando i francesi, da buoni vicini, rifornivano i Turchi di
munizioni, di fucili ecc. Marzi assistette, probabilmente in rapporti non felici con la Marina
Militare, a quella che è stata la I guerra mondiale, come risulta dalle istorie. In effetti in
quel periodo non ci sono prodotti a favore della Marina Militare; dopo i suoi successi con le
138
139
trasmissioni radiofoniche da Bruxelles a Parigi, risulta che si è dedicato soprattutto ad
apparati radiotelefonici che riguardavano gli aerei; gli aerei allora erano dell’esercito e
della Marina, ma mancava ancora una aeronautica militare. Mi risulta che si è dedicato
soprattutto a questi esperimenti. Successivamente, un po' rattristato perché nel suo
stabilimento di Cornigliano Ligure non aveva più quei successi ed anche la stampa parlava
poco di quello che faceva, probabilmente rattristato negli ultimi anni della sua vita
assistette alla naturale riduzione delle Forze Armate di un paese che esce vittorioso da una
guerra. Ma è motivo di soddisfazione per me pensare che se il Marzi, come tutti noi
dobbiamo ritenere, seguiva ancora attentamente le vicende della nazione, prima di
chiudere gli occhi vide andare per mare quelle che erano le prime unità della rinascita, di
quella marina oceanica che nella visione del governo di allora doveva spezzare quella che
era considerata la <<prigionia italiana nel Mediterraneo>> chiusa da Suez e da Gibilterra.
Avrei terminato ma devo solo aggiungere alcuni dettagli di colore. Quando Marzi comincia
ad intendere e volere le navi più grosse, in servizio nella marina erano il vascello <<Re
Galantuomo>>, le fregate da 3000 tonnellate ed avevano da 32 a 50 cannoni. Erano navi
più corte di 100 metri il che parlando di fregate può ancora andare bene perché
l’ammiraglio Orazio Luigi Marzi ha comandato la fregata <<Fasan>> che era lunga 93
metri (negli anni’60) ed io ho comandato dopo, negli anni ‘70, il <<Carabiniere>> che era
lungo 113 metri. Mentre oggi per le fregate <<Maestrale>> che si sono distinte anche nel
Golfo Persico due e nel Persico uno, e che si sono distinte anche nel Libano quando c’ero
io, sono lunghe 123m; però la tecnologia camminava anche allora e quando nel 1892
(quattrocentesimo anniversario della scoperta dell’America) ci fu la parata navale di
Genova la nave più importante italiana era la <<Lepanto>> che era lunga già 122m. aveva
una potenza di macchina di 16000 cavalli, e faceva 18 nodi contro i 15 del <<Duilio>> con
un equipaggio di 600 persone. La vita a bordo era dura, era quasi inumana, a quell’epoca
(1863 primo <<Regolamento per il servizio a bordo delle navi>>), una colazione tra le
8/8,30 del mattino, e un pranzo alle 16. Quindi oggi è cambiato notevolmente l’aspetto
sociale della vita militare della marina. Come l’amm. Marzi sa e lo so anch’io, quando
siamo entrati in Marina i marinai si facevano la branda e ogni mattina riponevano la
branda nelle impavesate e fino a che la sera non veniva dato l’ordine <<giù le
impavesate>> il marinaio non aveva di che riposare, al massimo si sedeva per terra. Oggi,
invece, le cuccette permettono a tutti una vita tranquilla.
Non c’era allora il telefono altosonante Marzi e i segnali venivano dati a bordo delle
navi dal <<centro nave>> in quattro maniere diverse: o con la tromba, o con il fischietto, o
con il fischio (quello dei nostromi) o con il tamburo. Finisco accennando al fatto che Marzi
139
140
non era solo uno scienziato ma un patriota, oltre che uomo di cultura. Mi sia contentito di
leggere in italiano non in latino (Marzi scriveva in latino) una/due strofe di due odi scritte
in occasione di avvenimenti della nostra vita nazionale: <<Mare nostrum>> (scritta a
Cornegliano Ligure il 5 maggio 1915. Nel giorno 4 D’Annunzio con il discorso sullo scoglio
di Quarto, condizionava l’ingresso dell’Italia nella I guerra mondiale. Il Parlamento era
contrario)
Marzi scriveva così: <<Tu batti con onda amica le spiagge liguri/mare
nostro/tu batti con onda amara le spiagge venete/ricantando ognora la flebile canzone / o
mare nostro...>>. E nel 1920, in occasione del trasferimento prima in treno poi su traino a
cavalli del Milite Ignoto da Aquileila al Vittoriano, dove si trova adesso, scriveva un’ode
<<Italico militi>>: <<... Non sei ignoto, o fortunato, fosti già un nome, poi/un numero, di
frale spirto or sei! Vivono i fatti/d’arme, vive de la stirpe il valor! - Te pria
accolse/d’Aquileia il sacro tempio, d’onde trionfal cocchio da/l’idrico vapor sospinto, Te
portò d’Italia attraverso le/terre e le cittadi, finché, da negri destrietri tratto/per le vie de
l’Urbe con innumerevole scorta di popolo e/di guerrieri, al fin riposi nel decretato
Capitolino ostello/pronto sempre a sorgere al cenno de la madre...>>.
Signori vi ringrazio.
Franco Papili
140
141
Lettere del Legato Vitelleschi ai Priori di Viterbo
Il dott. Antonio Pardi, vice-presidente della Società Tarquiniense d’Arte e Storia,
pubblicò sul Bollettino dello scorso anno 1990, precisamente nel numero 19, dalla pagina
223 e seguenti fino al 229, un suo lavoro dal titolo:
<<Lettere del legato Vitelleschi ai Priori di Viterbo>>, sintetizzando lo stile e la
maniera con cui il Cardinale era abituato trattare i viterbesi e spillar denaro per far fronte
alle necessità militari della Chiesa contro i propri nemici.
Incuriosito da questa iniziativa, ho cercato di leggere attentamente tutte le
numerose lettere del cardinale Giovanni Vitelleschi, scritte in lingua corrente del XV
secolo, mentre altre furono redatte in lingua latina.
E poiché i nostri Bollettini hanno lo
scopo di trattare le storie della nostra città, dei suoi personaggi e del nostro territorio, ho
pensato, d’accordo con il Consiglio Direttivo del Sodalizio, di pubblicare integralmente
tutte le lettere inviate ai Priori di Viterbo, facilitando il lettore con la traduzione di quelle
scritte in latino, una lingua che, disgraziatamente per la nostra cultura, non viene più
studiata nemmeno nei seminari religiosi. Si deve però dire che tutte le lettere, con una
perspicace prefazione dello storico Cesare Pinzi, furono pubblicate nel 1908 dalla Società
di Storia Patria e che si riproducono fedelmente così come furono stampate a quel tempo, e
come si fece, anni fa, con gli <<Statuti dell’Arte degli Ortolani>>, tradotti e curati dal
nostro storico Francesco Guerri.
Mi scuso con i lettori di questo scritto, forse un po' troppo lungo, con la certezza
però di aver portato alla lettura e alla conoscenza dei Soci questo ulteriore documento,
riguardante il nostro conterraneo, a cui la sfortuna e l’invidia tagliarono il cammino verso
un avvenire glorioso che l’avrebbe condotto a tenere, in mani abbastanza salde, le chiavi di
San Pietro.
Come pure ringrazio la socia Lidia Perotti per avermi aiutato in questa realizzazione
storica.
N.B. Tutte le lettere sono presenti nella copia del presente bollettino dell’archivio della
S.T.A.S. n.20 (anno 1991)e possono essere fotocopiate (pagg. 228-283).
141
142
TITTA MARINI
<<IL POETA DIMENTICATO>>
Titta Marini, il <<poeta dimenticato>>. Oggi, a distanza di dodici anni dalla sua
scomparsa, solo pochi tarquiniesi lo ricordano, quelli che lo hanno più amato e compreso;
indubbiamente non ha lasciato un segno tangibile, ma chi, tirando le somme, come
tarquiniese ha lasciato un segno a Tarquinia, una città che ha sempre prediletto <<gente
forestiera>>. Giovanni Battista Marini, in arte Titta, nacque a Tarquinia nella Parrocchia
di San Martino il 6 luglio 1902; figlio di agricoltori, non amava la campagna anche se
questa ha lasciato un’impronta sulla sua personalità. Ed è sulla natura che riteniamo
opportuno cominciare l’analisi di questo poeta privo di ogni cultura ma il cui intento di
migliorarsi in ogni momento lo ha portato ad un accettabile livello artistico.
Secondo alcuni ha letto il libro della natura come pochi hanno saputo fare; il
contrasto tra le grandi cose della natura creatrice e delle piccole cose dell’uomo distruttore
è espresso nella poesia <<Villa del silenzio>> considerata da molti la più bella e profonda
anche perché si parla di Tarquinia:
<<O Villa del Silenzio,
lassù, abbracciata dalle antiche mura,
fra il trifoglio e gli ulivi,
pare t’abbia creata la natura!
E la natura, da gran miliardaria,
frulla le stelle in aria,
che grondano sul mare
tra fuochi di lampare.
142
143
La torre che ti fa da sentinella
con un raggio di luna s’incorona
e sembra in lontananza un’altra stella
Ma appena vedo là nella vallata
nelle strade contorte
le luci del baccano e della morte,
sento che più profondo, e guardo in alto
mentre va sempre più precipitando il mondo.
Marini fu costretto a trasferirsi con la famiglia in campagna per lavorare, all’età di
undici anni. Si ritiene che proprio dal suo contatto con la natura siano nate le cosiddette
<<poesie corporali>> che si rifanno essenzialmente ad un linguaggio campagnolo oggi del
tutto scomparso. Sono poesie che risentono del passaggio agreste, delle immense distese di
campi di quel tempo dove non esistevano agi e comodità e dove si andava avanti con
spirito di sacrificio e di adattamento. Tra le più rilevanti di questo genere ricordiamo:
Er cornuto scornato
<<Er vergaro entrò a casa ch’era sera
e sorprese lamoje cor sensale:
- Se la scanno - pensò - vado in galera Riannò in campagna, ar buio intruppò un verro,
e, scivolanno su uno sciacquale,
scocciò, a volo, le corna contro un cerro.
Fortuna che, passanno un pecoraro,
lo caricò
come un par di bisacce sur somaro.
Portato a la capanna
er povero scornato,
siccome che fu tanto rinsaccato
con quer caracollà su la bardella
appena se trovò fra le lenzola,
cor fasse pure fritto e coratella
stroncò le canne de la rapazzola!!!
143
144
Er re avventato
<<Er re quella mattina era avventato:
- Te pij er carbonchio - disse a la reggina
ogni quarvorta vengo a la latrina
trovo occupato!
- Ma cos’hai - fece lei - che cosa vuoli,
non possa entratti la corona in testa Ma el re, ch’era attrippato de facioli,
se ne fregava,
e se sventava strombazzanno a festa.
E la regina con prosopopea
j’arisponneva a strappo de chinea.
Scenetta di campagna
<<Fiottava un fungo:
- sto callo m’ha ridotto floscio floscio:
ardo de sete, e sempre più m’ammoscio Ma a vedé poi ‘na donna,
che je faceva ombrello co’la vesta,
scatennanno ‘na specie de tempesta,
lui fece arzillo: - finalmente bevo...
... e je venne ‘na schicchera de testa!
Titta Marini era allergico a tutto ciò che riguardava la terra; preferiva leggere il
giornale, cosa rara in quei tempi, vagabondare e comunque stare lontano dai campi. La
terra era l’unica risorsa di Tarquinia, dava lavoro a molte persone ma non era per lui che,
di conseguenza, era considerato uno scansafatiche, gravante sulle spalle della famiglia. Si
creò quindi una situazione delicata nei suoi rapporti con gli altri componenti della famiglia
che sfociò nella completa rottura.
Significativa la poesia l’addio ai lettori:
<<L’addio ai lettori>>
<<L’unico sogno della vita mia
144
145
è sempre stato
quello de scappà via
da la trappola boia ndo’ so’nato.
Prima perà vorrebbe salutà
sti quattro disgraziati
de somari castrati,
co’ un cristere sonoro
de nocciole de persico
e vetriolo
Addio.
La lingua con cui Titta Marini ha scritto le sue poesie è senza dubbio la lingua natia
senza forzature. Il prof. Luigi Volpicelli, critico e studioso della poesia del Marini, parla di
<<spontaneità di espressione derivata da una ispirazione immediata e reale dove
difficilmente appariva una struttura e una particolarità dialettale ma dove invece emergeva
una forma letteraria in lingua italiana>>.
Secondo il Volpicelli la poesia del Marini era nata nella sua lingua, una lingua che in
ogni caso era da considerarsi italiana; l’italiano naturalmente parlato dal poeta.
Tutti i vari personaggi nelle sue poesie parlano un loro linguaggio che viene adattato
in base al tema e all’epoca (linguaggio bastardo, dei morti, dei pazzi, degli animali ecc.).
L’Hotel Tarconte di Tarquinia metteva a disposizione del poeta le sue sale tutte le volte in
cui si radunavano professori per frequentare corsi di aggiornamento o congressi; qui il
poeta insegnava i diversi linguaggi da lui creati e fatti conoscere da lui stesso nelle varie
scuole di Tarquinia, Civitavecchia, Viterbo, Roma ecc. Nell’opera <<Storia sì Storia no>>
furono riportate alcune poesie dialettali, pubblicate o inedite, tradotte direttamente in
lingua italiana o perfezionate adattandole al gusto linguistico; nonostante questo non
persero mai la loro efficacia e il loro scopo, a dimostrazione della tesi portata avanti dal
Volpicelli.
Molti sono i linguaggi ravvisabili nelle poesie di Titta Marini e da lui stesso coniati:
il linguaggio butteresco (<<... piove peggio d’un corpo che je pija...>> da Truitume,
espressione poi pubblicata anche da Il Popolo firmata da E. Ravel); il linguaggio butteresco
gigante (<< te pije er carbonchio-disse a la reggina - ogniquarvorta vengo a la latrina...>>);
linguaggio bastardo accademico sul modello del linguaggio di cattedra (Broccoli: <<Iddio
disse ad Eva ed ad Adamo: - Bigna, raggazzi mii, che lavoramo io v’arigalo ir monte, ir
145
146
piano, ir greppo, pe’piantacce li broccoli cor zeppo. - E se Adamo non ebbe più riposo fu
perché li piantò co’ un altro coso>>.
E se Adamo non ebbe più riposo fu perché li piantò co’ un altro coso>>.
Primo pelo; Lettera fra l’emigrato e la moglie: <<Cara Nené, sta pora barca mia va
all’incontré. Er cane è morto; la cavalla l’ha impalata er somaro che, da la gioia, con u <<do
de petto>> ha scoperchiato er tetto, ha fatto cascà er lume, e tutto è diventato poco e
fume...>>; L’Acquacotta;
<<L’Acquacottina est qual zuppa composita da pani e cicoriella et frigida
insalatiella, et da ben altre herbe degne di essere manducate da ruminanti et similia;
Lettera a Cardarelli: <<Titta Marini nato a Corneto nella Parrocchia di San Martino e da
don Carlo Scoponi battezzato, tutt’ora abitante in via della Ficonaccia, co’l’orto sotto
l’ammazzatora, chiede scuda al poeta Cardarelli se in quest’ora de maremmana callaccia
deve esprimersi in modi alquanto bifolcini perché, oltretutto, nato da razza butteresca>>);
linguaggio bastardo trucido (da un po' di tempo in qua, la mia morella...); il linguaggio
bastardo pazzesco (Lettera d’amore:.... il sanguinolento mio cuore appollaiato... come
piccoli suini innocenti vegheranno attrippati...; lettera del pazzo Tapplò: <<... ma, se mi
acciccerò nella tua cuccia, io ti ammandrillerò come l’orango quando si imbertuccia!...); il
linguaggio dei morti (<<... So’ridotto tre volte più fu... da Tritume); il linguaggio delle cose
(Veneto: <<Sussurra il pino al fungo: - Fiacco cadente, ti sollevi dal basso solamente
quand’è scirocco - Quello pronto risponde: - Tu sei forte, ma l’altra settimana ti sei piegato
un po’ alla tramontana. - Invece - fa il Giornale - io c’ho talento m’alzo e m’abbasso con
qualunque vento - Quest’è bella! La pensi come me - sventola la veste lesta della fanciulla
leggermente onesta;); le poesie iperboliche (L’amore de la poje: <<Rosa je disse: Abbasta,
Rocco mio, che se t’ammalerai d’indigestione, m’ammalerò pur’io... Poi tutt’un botto lei ner
vedello gravido, compresso, contorcese e scoppià fra er gnavolà der gatto spaventato, sur
povero decesso sospirò: - Te possinammazzatte, sei crepato - <<Da Tritume>>); l’armonia
imitativa (Solo silenzio: <<S’infila a letto er principe MIGRAGNA co la moje Luisa
Mosemagna, fijia del re Lardo affumicato. Sur quadro un antenato de li sui fiotta: - Che
incrocio, i decessacci tui! - Ma quello nun lo vede e nun lo sente, l’ha presa e non la lassa!
Tutto è silenzio e, silenz’iosamente, se solleva un penzolo e se riabbassa. Da Zitti tutti che
parlo io);
Il linguaggio animalesco è rappresentato dalla poesia <<Poesie e prosa>>
dove chi parla è un porco e un mulo. La figura del maiale è usata molto spesso da Titta
Marini che vi rappresenta l’individuo comune, senza ideali e grosse aspirazioni che si
contrappone al mulo che rappresenta invece l’idealista che vuole emergere dalla modestia
umana:
146
147
<<O mulo - grugnì un porco - vai in montagna?
Resta qua che si mangia, anzi se magna>>
<<Io - disse il mulo - là
fra la finestra gialla
dal fiore che somiglia alla farfalla
mentre sento nel fosso
tutta la banda delle raganelle,
godo dal sottopelle fino all’osso>>
<<Tu m’hai più che commosso fece il re della lonza la tua parola sa
di grugniti trillati in troiainfà
canta, poeta, t’accompagnerò
sgranocchiando il granturco a porchindò>>
Mentre in Trilussa o Esopo gli animali assumono un aspetto umano quelle di Titta
esprimono i loro pensieri restando animali.
Il linguaggio dei pazzi è rappresentato invece dalla poesia <<manicomio>> che
descriveremo più avanti.
Si parla anche di <<teatralità>> come genere di linguaggio del Marini, e considerata
dal Cardarelli come il lato più interessante della sua opera; molti critici erano concordi nel
ritenere che l’originalità della sua poetica avrebbe potuto costituire consiglio al linguaggio
teatrale, offrendo nuove espressioni sceniche. Nel 1968 furono realizzate due opere per il
teatro, <<Maremma>> e <<Nerone all’Inferno>>, quest’ultima messa in scena nella
Pineta <<Villaggio dei Tarquini>> interpretata dal pittore Santucci con musiche di Biagio
Biagiola.
Abbiamo il linguaggio paesano antico butteresco (che adé, che adé, tutto sto’ gran
girà fin capo ar monno ministri e re e perfinete er papa? Tanto la guerra nun potrà schippà
perché la bomba tonica nun capà!) e il linguaggio toscaneggiante con <<Bestie al
Chiarore>>: <<Sberciava un’asinella: - il mio figliolo è molto che studia, e cio ho piacere,
ma non sa fare l’O con un bicchiere. - Abbi tu fede - gli ciarlò un ronzino - che il ciuchino
può sempre diventare sia un beccamorto... che un parlamentare).
A differenza di tanti poeti romaneschi, famosi forse più di lui, che avevano bisogno
di luoghi discorsi per arrivare ad esprimere ciò che volevano, Titta Marini è stato sempre
scarno, preciso, diretto al suo scopo e ciò ha contraddistinto le caratteristiche della sua
147
148
poetica. Una poetica densa di ironia, di un sarcasmo dirompente con cui, si ritiene, abbia
voluto celare una certa amarezza e indifferenza nei confronti delle cose e dell’esistenza
umana che egli avvertiva nella sua inutilità, una delusione derivata dal malcostume, dalla
viltà, dall’ignoranza, dai mali cioè della nostra società e dai personaggi che li
rappresentavano i quali diventavano oggetto delle sue sferzate.
Diceva il Bulicame nel 1962 <<Avete mai visto che succede all’acido solforico all’aria
aperta? Brucia, corrode, distrugge quanto gli capita sotto. Così le poesie di Titta Marini>>.
Considerato un Virgilio meno elegante ma meno simbolico, non descrittivo come
Trilussa, ha cercato di constatare la realtà con una esposizione semplice, tranquilla, serena.
Il Cruciani lo considerava un personaggio uscito da uno degli affreschi tombali di
Tarquinia etrusca con <<un carico di profili delimitati a vuoto, entro i quali costringe
soggetti dei nostri tempi, lasciando che l’effetto plastico sia il lettore a ricercarlo>>. La
poesia del Marini si rifà essenzialmente alle origini classiche dell’epigramma, dove il suo
genio si rivela a volte icastico e dove raggiunge una certa sicurezza di effetti.
L’origine dell’epigramma risale alla più antica letteratura greca e significa iscrizione.
Era infatti un’iscrizione, dapprima destinato ad essere inciso, brevemente, su monumenti o
lapidi sepolcrali, su templi o doni votivi, poi destinato a più argomenti assumendo i
caratteri di breve concetto, arrivando ad esprimere, sempre in forma concisa, pensieri,
riflessioni filosofiche, giudizi su artisti o poeti, sentimenti, giudizi su statue o libri, tratti di
spirito, giochi di parole, spunti satirici e soprattutto dichiarazioni, lamenti e sfoghi
amorosi. Titta Marini lo ha fatto diventare, in un secolo dove non si faceva più uso di
questo genere letterario, un commento a vignette caricaturali.
Ciò che distingue il poeta tarquiniese è l’umore di un uomo sempre vivo, una
concezione della vita dolce e amara ma sempre vitale. La sua poesia ha spaziato, toccando
diversi generi e temi e trattando quasi tutto e tutti con sarcasmo e ironia. Sferzante e
provocatore innanzitutto nei confronti dello Stato e dell’ordine pubblico, della struttura
giuridica e politica con una serie di poesie che vale la pena ricordare:
Filosofia del Buttero
<<Bella troiata la democrazia!
E’ la sorella der totalitario
se porta a strascicone sur binario
un treno caricato a zozzeria.
P’aggiustà tutto, senza confusione
ciarivorrebbe la rivoluzione! (Tritume)
148
149
L’intruio
<<Diceva Marcantogno Squarciavento
- Ciò un traffico co’ tante trucidone
che se concorrerò pe’ er parlamento
arricutino voti cor vagone.
N’arricutino più d’un deputato
che chissà in che troiaio avrà intrujato (Tritume)
Giustizia e verità
<<Quanno la verità
capita tra le mano a la giustizzia
nun se sa più da quale parte sta. (Tritume)
Pensiero di un politicante
<<Bella è la verità, ma, sia che sia,
s’è detta bene, è mejo la bucia. (Tritume)
Manicomio
<<Un pazzo, ner sentisse un doloretto,
cercò un medicinale
Ner codice penale
Appena ciebbe letto:
<<Lavoro>>, <<carità>>...
strillò: - ‘Stà robba qua fa bene o male?
Se me la bevo come finirò?J’arispose un collega - All’ospedale!E lesse ancora: <<Furto>>, <<Tradimento>>...
- S’io bevo questo - urlò - che me faranno.
E l’artro pazzopronto - Er monumento! (Tritume)
Cirilibereranno
<<Diceva un mentecatto a un mattacchione:
- Oggi, benché sia festa
della liberazione,
ti vedo moscio: che te passa in testa? -
149
150
E l’artro: - penso quello che faranno
se...ci...ri...li...be...re...ran...no.. (Tritume)
Finale travolgente
<<Indove guardo, tutto me dimostra
l’eterna marcia de la patria nostra,
Ricca de timbri e tasse, d’inni e sole,
e de bande, bandiere e banderuole. (Tritume)
Cos’è er deputato
<<Er deputato è,
se tu lo cercherai, tempo sprecato.
Ma come c’è puzzetta d’elezzioni,
nun te lo poi staccà da li.... coglio. (Primo Pelo)
Un rimedio c’è
<<Al mondo, anziché tanti parlamenti,
incancreniti fino alla radice,
basterebbe un ometto con la forca,
un tritacarne... e quale affettatrice. (Storia si Storia no)
La libertà
<<Da quando si camuffa
ogni ideale
con un sistema
che fa ormai la muffa,
non si sa se la vera libertà
SIA QUELLA SU
QUELLA GIU’
QUELLA LI’
QUELLA LA’ (Ladri e castroni)
Ar Ministro de stato
<<Er Ministro de Stato,
che qui sott’è incassato,
150
151
per esse troppo bello sverto de mascelle
magna e rimagna ce lasciò la pelle.
Contestazione
<<Na giovinastra urlava: - So’distrutta,
me butta male e me la vedo brutta.
La corpa è der governo ch’è un puzzone,
tocca intostà co’ na rivoluzzione.
- Per me è peggio - fa un vecchio - so’ le nove
e ciò st’orologgio
ch’è fermo a le sei e mezza e nun se move!
Nun c’è più religgione....
bisognerebbe de cambià nazzione. (Zitti tutti)
Ascenzione politica
<<Se a qualunque zuccone
je dai ‘na carichetta
sarà contento come ‘na ciovetta
quanno aggranfa er pormone.
Eppoi se na combriccola
te lo farà apparì ‘na mente rara,
‘sto ber zero gonfiato
salirà sempre più
cor parapapazuzzù de ‘sta fanfara (Zitti tutti)
Curioso questo epitaffio scritto durante il regime di Mussolini:
Io seppellito Antonio, morto in guerra,
aringranzio de core er Patreterno
perché me trovo mejo sotto terra
che sotto ‘sto governo. (Tritume)
Tra le sue poesie di contenuto burlesco contro l’allora attuale sistema politico spicca
per il suo carattere provocatorio <<Ma fateme er piacere>>:
<<Dice: - Qui la baracca butta male
151
152
perché non c’è er governo d’una vorta
co’capocce de fama nazzionale.
Dico: - Però fra tanti,
fra chirurghi e avvocati,
beccamorti e laureati,
volete che nun sanno fa er mestiere?!
.... Ma fateme er piacere.
Dice: - Er ministro dell’Agricoltura,
ch’è medico e, dioguardi, de la destra,
farà finì la terra in seportura.
Dico: - Macché! sta sempre su in finestra
a sgarufà su un vaso de verdura;
ar mi parere
ce vò, pe fa contenti sti maligni,
la supposta e er cristere...
Ma fateme er piacere!!
Dice: - però ce so’ certi ministri,
che, detto interenosse, so’ sinistri,
vecchi tarlati, e cianno
trippa e sfegati guasti
pe li pasti e rimpasti!
Dico: - Per me è er contrario: er Presidente
nun cià malanni e nun je manca un dente;
Sua Eccellenza Mascella
batte ancora la sella;
perfino Don Veleno
giura la serva che lavora in pieno;
in quanto all’Onorevole Ganassa
nun è più un giovinotto,
però sa come daje de grancassa
152
153
e maneggià er pancotto.
D’altronne a commannà chi ce mettemo?
Un facchino de porto, un corazziere?....
ma fateme er piacere!...
Piuttosto, pe’ sta gente che protesta,
ce vo quarcuno forte come un mulo
che spacca li cocomberi a rinculo
e che pija a serciate su la testa
a chiunque: bianco, rosso o giù de lì,
canti la Marsijese o er Miserere
Pure maria, Marì.
... Ma fateme er piacere!
Titta Marini amava il suo paese e lo dimostra il discreto numero di poesie scritte su
questo tema. Una volta disse di Tarquinia: E’ uno strano paese, mentre immobile va in
salita discende contemporaneamente a valle; La gente oscilla tra il Partito Comunista e la
Democrazia Cristiana, critica l’ozio cercando un lavoro a non fa; d’estame insieme ai
vetrallesi e ai viterbesi si trasferisce al lido dove ruzza e sguazzuglia, si rotola e si
spoltracchia sulla sabbia calda assaporando cocomeri e pesce.
Spiccano tra la gente la signorina Rottame, che non parla per non sbagliare,
Pommidoropelato che chiacchiera chiacchiera e non dice niente, Castruccio di Castro, il
commendator Menzogna.
<<Tarquinia>> - secondo Titta - <<affascinava lo studioso e il tombarolo, il burino,
lo straniero e la gente del luogo con le sue torri incornacchiate e il Palazzaccio (Palazzo
Vitelleschi, sede del museo etrusco), sempre austero. Il bello era di sera, quando nelle
bettole affumicate si cantava dopo aver bevuto un bicchiere di vino e quando, nel bagliore
delle luci, il Sindaco e il Consiglio comunale passeggiavano sorridendosi, o quando si
vedevano al piazzale i giovani coi capelli da <<puttano>> o le ancheggianti vergini, mentre
qualche loro mammina arrancava col bidone del pappone per il porco, fra un nuvolo di
mosche e di tafani>>.
Tra le poesie più significative di Titta Marini su Tarquinia ricordiamo, oltre la già
citata e bellissima <<Villa del silenzio>>, <<Chiesa abbandonata>>:
<<Senza campana, senza un rintocco
153
154
muta la chiesa di Santa Maria
Non fiata il gufo, e s’assonna l’allocco.
Il rosone è una bocca di vento,
e dentro è un pantano. San Sinforiano
nel sepolcro bofonchia un lamento: - Tu
cristiano
m’hai ridotto tre volte più... fu!
Gli risponde soltanto l’allocco:
- Uh uh uh,uh,uh, uh, uh, uh, uh!! (1960)
Rilevante anche <<Tarquinia alata>>
Non qui
sotto di voi morrò,
mura cadenti
ove il cipresso nero
a lutto veglia
il vostro cimitero.
Addio, torre
screpolata dal fico.
E te saluto,
cornacchia torraiola,
che un giorno sparirai
dal covo antico.
o queste tre righe:
Paese di Tarquinia, dove spesso,
come pignatta al fuoco quando fuma
bolle e ribolle, in alto va la schiuma!
Ostile nei confronti dei suoi simili, delle cose e dell’esistenza umana e quindi, a
volte, anche nei confronti dei suoi concittadini, Titta cambia umore e genere quando parla
della sola Tarquinia, svuotata e deserta, assume una certa riverenza e rispetto,
rimpicciolendosi di fronte all’austerità del paese che egli ama e da cui non vorrebbe mai
staccarsi. Non c’è più quell’ironia travolgente e provocatrice che lascia il posto ad un tenue
romanticismo così inusuale per questo poeta a dimostrazione di una sensibilità esistente
154
155
ma non espressa. E da buon tarquiniese non volle mancare all’appuntamento con la
processione del Cristo Risorto con una poesia vivace ma profonda:
<<Passa Gesù Cristo>>:
Passa Gesù Risorto: troppo bello
per avello scorpito uno scalpello.
A mano arzate
ce benedice a tutti
pure li farabutti che so tanti
perché qui fu ritrovo de briganti.
tra la folla e parapia,
spari de castagnole
trombe e tromboni strombazzanti ar sole,
Gesù! quante persone che non credono
te se portano a spalla in processione.
Tra gli aneddoti più curiosi su Titta Marini e il suo rapporto con Tarquinia il più
originale senza dubbio è quello della dichiarazione d’amore. Titta era solito scrivere
dichiarazioni galanti su richiesta di giovani tarquiniesi meno colti, soprattutto quando la
ragazza era proprio restia. Scriveva quindi delle lettere romantiche e sentimentali
mischiando parole poetiche che non avevano molto senso ma che riuscivano a confondere
le fanciulle che finalmente aprivano il loro cuore.
Una volta un giovane contadino dopo aver tentato a più riprese di conquistare una
ragazza del posto senza riuscire nel suo scopo, si rivolse al poeta per una lettera d’amore.
La fanciulla non poté resistere alla bellezza della lettera, anche se non capì molto e, su
consiglio della comare più esperta di lei, concesse il suo amore al contadino e in breve
tempo si sposarono. La lettera era di questo tenore: <<Signorina, nel mio funesto pensiero,
e nella similitudine inquieta della mia vita errabonda, sento forte ed impietosa
l’infiltrazione penetrante nell’animo mio: infiltrazione che avvolge e sconvolge l’intrinseco
mio cuore accaparrato, raddoppiato così la capacità che in esso è contenuta.
Nelle gentilizie, incahamuzzate epopee, sento strazio novello che in me si ripercuote,
agglomerandosi come piccole farfallette notturne, fuggenti nelle notti dense e tenebrose.
La bontà sua che certamente vorrà sanzionare positivamente, spero che vagherà,
nella sua cortese risposta, ben gaie ed amene parole, parole che non vorranno disilludere il
sanguinolento mio cuore appollaiato in un astuccio, come uno storione infingardo e
155
156
tracotante. E allora si, quando ci immergeremo nell’affetto reciprocamente desiderato,
allora come piccoli suini innocenti vagheremo fausti e giulivi per il sentiero del mondo,
cosparso di nitrato d’argento e di rose e di gelsomini. Ed io sarò ben lieto di vederla
sgalluzzare di palo in frasca come una palombella inquieta riscaldata dal calduccio del
focolare domestico. Speranziando in una inculcata, soave ed effimera, la bacio con rispetto
la candida mano>>.
I guai cominciarono dopo; i due non si comprendevano perché lei aveva creduto di
trovare nel marito lo spirito del poeta mentre in realtà non era così. Ci furono liti e
discussioni fino a quando non decisero di lasciarsi, secondo alcuni, per colpa del poeta.
Molti aneddoti mi sono stati tramandati dal rag. Giuseppe Santiloni che lo conobbe
abbastanza bene. <<Ricordo - mi dice il Santiloni - che una volta lo incontrai al piazzale
Europa che era appena uscito dall’ospedale dove aveva subito un nuovo intervento
chirurgico ed era molto giù di morale. Mi parlò delle difficoltà superate grazie anche alla
assistenza e alla bravura di coloro che avevano <<lavorato>> sul suo corpo. Poi quasi serio
disse: <<Siamo troppo complicati! Ci vogliono troppi pezzi di ricambio>> una brevissima
pausa poi <<Che poi nun se trovano!>>. Un’altra volta gli dissi: <<Soltanto quando non ci
sarai più, sarai grande>>, mi rispose <<Ma io sono già grande!>>. Posso raccontarne
molte ma forse le storie che più ricordo con simpatia sono quelle del tizio che incontrai alla
stazione Termini di Roma, e quello del bar di Tarquinia.
Incontrai uan volta un tale alla stazione di Roma; dopo aver saputo che ero di
Tarquinia mi disse di portare i suoi saluti al poeta Titta Marini nei confronti del quale
espresse molte lodi. Una sera vidi Titta davanti al museo e gli parlai dell’incontro romano e
delle lodi nei suoi confronti. Colto nella sua superbia mi chiese il nome di questa persona
ma io non riuscii a ricordarlo. Mi sforzai dietro le sue insistenze, mi chiese di descriverlo,
se era alto, basso, castano o biondo, ma niente. Fingendosi incurante mi salutò ma dopo
aver compiuto pochi passi si girò verso di me dicendomi: <<Lo rivedi ancora questo
tizio?>> <<Forse si>> - gli risposi. <<Allora la prossima volta che lo vedi dije de anna a
morì ammazzato>>. soggiunse lui.
Curiosa è la storiella del bar. Questa mi è stata raccontata da un tale di cui non
ricordo il nome. Vedendo uscire Titta dal bar del corso Vittorio Emanuele, dove
attualmente c’è la banca, gli chiese se all’interno c’era gente. <<No, non c’è nessuno>> gli
rispose Titta. Ma entrando e vedendo il bar affollatissimo di persone il tale rivolgendosi
nuovamente a lui gli disse <<A Ti’, m’avevi detto che non c’era gente,>> <<E che la chiami
gente quella?>> concluse lui.
156
157
Ricordo infine la sua risposta alla mia domanda sul perché aveva venduto un pezzo
di terreno che aveva ereditato: <<ma te pare? ce pioveva>> Il giorno prima infatti un
violento temporale lo sorprese su quel terreno e, non avendo ripari, tornò a casa
fradicio>>.
Titta Marini debuttò inizialmente come scultore (la più celebre opera scultorea è
sicuramente <<Ritratto della suocera>> da cui il noto <<Epitaffio a la suocera>>: <<Da
quanno che mi’socera qui giace, lei... nu’ lo so, ma io riposo in pace!>>), abbastanza
apprezzato anche dallo stesso Cardarelli che lo volle conoscere ed instaurare con lui un
rapporto.
Non si può dire nulla di certo circa l’opinione di Cardarelli su Titta e i suoi versi;
secondo alcuni lo stimava come artista e come uomo secondo altri niente di tutto ciò e a
questo proposito è rimasta celebre una battuta dello stesso Cardarelli: a Titta Marini che
volendo iniziare un discorso con lui disse: <<A sor Vincé, io però, nella mia piccola
ignoranza!! Cardarelli rispose: <<Come! come! Nella tua immensa sconfinata ignoranza
vorrai dire!>>.
Certamente non lo considerava un grandissimo personaggio ma il fatto di avergli
dedicato una filastrocca in versi dimostra una tenue considerazione nei confronti del poeta
dialettale cornetano. I due senza dubbio erano buoni amici, Cardarelli nei suoi soggiorni
tarquiniesi era spesso accompagnato dal Marini.
Tra le innumerevoli lettere scritte da Vincenzo Cardarelli, solo due furono
indirizzate a Titta Marini; la prima, datata 19 settembre 1945 si articolava così: <<Caro
Titta, non credere ch’io t’abbia dimenticato. Io ti sono gratitissimo per la compagnia che
m’hai offerto nei tetri giorni cornetani. Saprai che ho scritto su te una poesiola quasi
dialettale. S’intitola <<Ritratto di Cornetano>>, ed è appena uno schizzo, non un ritratto.
Né credere che ci possa essere nulla che rischi di offenderti. La poesia è scherzosa ed
affettuosa, come i miei discorsi che tu sei abituato a tollerare, non essendo né un marrano
né un cretino come tanti altri di nostra conoscenza. Uscirà sulla rivista <<Costume>>.
Spero di rivederti a Roma. Ora sono occupato a curarmi e a cercare di guadagnare.
La vita qui è carissima. Io sono lieto, ad ogni modo, di non vedere più certe facce, di non
sentire certe voci d’inferno. Saluta tutti coloro che si alzano di un pollice sopra lo strame
tarquiniese. Infine ricevi un saluto dal tuo affezionatissimo V. C.>>
La poesia <<Ritratto di Cornetano>> risale al marzo del 1945:
<<Titta Marini, mangiator di nocchie,
dormiglione in compagnia,
157
158
se ne va per la sua via,
né d’altrui cura le spocchie
.......................................................
... e sfaticato,
grazie alla guerra e all’orto è diventato
l’uomo più ricco della Ficonaccia.
Ti scova a fiuto e, lieve come un cane
randagio, ti accompagna e poi si perde,
ché ti vuol bene sì, ma pensa al pane
che può mancargli e all’orto sempreverde...>>
La seconda lettera è datata 13 ottobre 1945: <<Al sommo Titta Marini. Caro Titta, tu
sei partito, al solito insalutato ospite. Ti ricorderai dell’olio? La mia bottiglia sta per finire e
io ti sarei grato se mi facessi la <<finezza>> di mandarmene un’altra bottiglia, giacché di
olio profano e santo, ne ho molto bisogno. Finché il tempo è buono io seguito a lavorare.
Tutta la mia opera è passata a Mondadori, il quale mi verserà, d’ora innanzi, 5000
lire al mese. Non so quale effetto può aver fatto la mia poesia tra i tarquiniesi. A Roma è
piaciuta. Ora uscirà quella sulle mura. Ma la più cattiva, lunghissima, la pubblicherò in una
rivista di Vincenza e nessuno avrà la possibilità di vederla. Saluta tuo fratello del quale ho
nuovamente dimenticato il nome. Saluta Bruno Blasi e spingilo a scrivermi. Ma se non ne
ha voglia, non importa. Non salutarmi nessun altro, fuorché i due Brunori, Pepparone e
Armando. Sta bene e credimi il tuo affezionatissimo V.C.>>
Indubbiamente Marini non era considerato un gran personaggio da Cardarelli e lo
dimostra il fatto che in questa ultima lettera esordisce con la richiesta di una bottiglia di
olio. Nelle lettere a Titta Marini non sono mai presenti dissertazioni critiche tra artisti
come l’usanza vuole. Nonostante tutto Marini comparve positivamente in diverse lettere
che Cardarelli indirizzò ad altre persone. Una, datata 7 maggio 1943, è indirizzata a Bina
Blasi e Cardarelli parla di Titta Marina a proposito di una Nannina che sta dando alla luce
un figlio, figlio <<covato>> nelle veglie d’inverno tra i discorsi dei due poeti cosicché se
nasce maschio c’è l’augurio che diventi un po' estroso e se sarà femmina che possa
ereditare dai due un po' di fantasia musicale.
Un’altra lettera è indirizzata a Nino Calandrini il 2 ottobre 1945 e Cardarelli parla
del suo compaesano come portavoce dei suoi saluti e delle sue condizioni di vita. Del 20
agosto 1945 è una lettera indirizzata a Bruno Blasi nella quale Cardarelli esorta il parente a
salutare Titta Marini ed ancora altre datate settembre 1945 sempre dirette a Bruno Blasi:
158
159
<<Usciranno poesie mie su Città e altre riviste. Ce n’è anche una su Titta Marini, alla
cornetana. Pregalo di non offendersi perché avrà, in tutti i casi, una poesia affettuosa>>.
<<Oggi ho collocato la poesia su Titta Marini (Ritratto di Cornetano). Uscirà su Costume,
la rivistuola che già conosci. Non ci guadagnerò un soldo, ma sarà, una maniera per
sdebitarmi delle tante cortesie che ho ricevute e che ricevo da Mucci e dalla Signora
Dora...>>
In una lettera del 21 ottobre 1945 diretta al Blasi, Cardarelli informa che la poesia su
Titta Marini ha avuto uno strano successo tanto che ne parla anche la rivista Cosmopolita
in uno degli ultimi numeri>>.
Artisti nettamente diversi l’uno dall’altro, Marini e Cardarelli si attiravano proprio
per la loro diversità; là dove il primo poneva accenti sarcastici ed ironici nella descrizione
dei suoi soggetti, l’altro faceva dello scritto un’espressione romantico-sentimentale.
Certamente Titta ha tenuto in considerazione Cardarelli più di quanto avesse fatto
quest’ultimo nei suoi confronti. Nota è la poesia <<Premio Cardarelli>> (visto da un
grassone):
Un grassonaccio a larga intravatura
sta, tutto trippa, in un caffé e fa il chilo
e, ignorante di fronte di profilo,
critica il premio letteratura.
Dice fra l’altro: - Cardarelli è noto,
però è finito povero, per cui
io, essendo ricco, conto più di lui:
non perdo un pasto e rutto a terremoto.
... La penserà così fin quando muore,
finché il grasso gli avrà sommerso il cuore.
Sempre molto ironica e provocatrice è la poesia <<Funerale a Cardarelli>>
Bande e bandiere, che bell’accompagno!
Fin laggiù framezzo a la fiumana,
che se sperdeva da la vista umana,
c’era chi a Cencio, quanno aveva fame,
nun lo guardava manco a la lontana
e mo j’annava appresso come un cane;
c’era gente de fama nazzionale;
cricche che je facevano la corte
159
160
invidiannolo a morte,
venuti p’esse messi sur giornale.
Tutta ‘na zepparella, un tiettelà:
un mare de ceriole e baccalà.
E pure in chiesa fu (‘n’acciaccapisto),
tanto che, in mezzo a quella confusione,
nun vedevamo manco Gesù Cristo!
... Questo p’un morto è ‘na soddisfazione!
Oppure <<davanti alla tomba di Cardarelli>> del 1969:
<<Un sarcofago, e intorno dove guardo non vedo un fiore.
Ti seppelli ‘l dolore
che t’ha lasciato in compagnia del cardo>>.
Altre poesie di Titta Marini su Cardarelli sono <<Omaggio a Vincenzo Cardarelli>>:
Tu dalla quiete del dilà
potresti spiegarci
perché oggi la vita
straripa in tragefia
Io qui, tra tanto mistero
di morti e viventi,
non so se mi vedi
né so se mi senti,
fra tutto un frondeggiar del Cimitero
<<alto su rupe, battuto dai venti>>;
e <<A Vincenzo Cardarelli>>
Hai fatto l’arte per arte,
nulla hai chiesto e tutto hai dato,
povero sei nato e povero sei morto
Tra i poveri hai avuto sepoltura
e con la mano,
che ha fatto con l’inchiostro monumenti,
160
161
oggi insegni Tarquinia da lontano>>.
Artista dalla personalità non molto complessa, Titta Marini si può riassumere in
questi versi: <<Io nacqui in un paese ove, dalla gran fiacca, gli alberi non fanno ombra e la
cicala non canta>>. Ed infatti ciò che lo contraddistinse fu un’innata e perdurante pigrizia,
una profonda ed incurabile svogliatezza che cercò di trasmettere agli altri attraverso le sue
teorie sull’ozio e sul dolce far niente. Considerato il precursore del tempo libero, elaborò
nel 1946 il famoso piano (o pianone) iniziato a Tarquinia presso il Consorzio Agrario
insieme al ragionier Giuseppe Santiloni. Creò il <<fronte dell’ozio>> il cui stemma
raffigurava un granchio con lo slogan <<l’ozio ci unisce e il lavoro ci divide>> e <<la terra
è sempre la peggiore impresa, da vivo è bassa, da defunto pesa>>: Molti giornali si
interessarono al lavoro del Marini; Elio Filippo Accrocca (un giornalista che lo seguì dal
punto di vista critico per moltissimo tempo) in un giornale genovese scriveva: <<... il
discorso era stato tenuto al caffé principale di Tarquinia, davanti al Palazzo Vitelleschi,
sede del museo Etrusco. Il fondatore del <<fronte>> aveva illustrato il piano di lavoro
nelle sue premesse e nei suoi particolari. L’Italia può far vivere sessanta milioni di
individui. Questo proponeva il piano che riteneva sufficienti quaranta giorni lavorativi a
testa se tutti gli italiani avessero lavorato tutti indistintamente dai venticinque ai
cinquant’anni. E poi? Poi passatempi, letture, sport e viaggi; il Fronte dell’ozio si diffuse in
provincia di Viterbo, Roma e in Toscana raccogliendo ovunque consensi.
<<Tarquinia ha il suo poeta stanco - scrive Danilo Telloni nella rivista Rotosei - è
stato amico di Trilussa e del conterraneo Vincenzo Cardarelli, più celebre di lui, ma, in vita,
non certo meno <<stanco>>. <<Il nucleo centrale della sua teoria sull’ozio era il lavoro:
Marini avrebbe diminuito le ore di lavoro di ciascun lavoratore consentendo così a tutti di
poter prestare la loro opera; in una giornata lavorativa di 8 ore il datore di lavoro poteva
avvalersi della prestazione di due dipendenti per quattro ore ciascuno. Si poteva inoltre
strutturare l’organizzazione lavorativa di una azienda di cinque dipendenti facendo
lavorare a turno uno solo dei lavoratori subordinati. Il lavoratore nel suo turno avrebbe
svolto anche il lavoro degli altri che nel frattempo non facevano nulla e venivano retribuiti
ugualmente. Grossa importanza veniva data al progresso tecnologico che avrebbe
impedito, con il tempo, grosse fatiche ai lavoratori i quali lavorando un’ora su otto,
avrebbero di conseguenza lavorato un giorno su otto, un mese su otto mesi e così via. Non
era dunque la negazione assoluta del lavoro al quale peraltro il Marini attribuiva quella
importanza sociale come centro intorno a cui gravita l’esistenza umana; considerava inutile
161
162
lavorare molto quando lavorando poco, ma in modo più razionale, si potevano raggiungere
i medesimi risultati.
Il binomio produzione-riposo trova quindi una completa esaltazione in questa teoria
che rivisitata opportunamente, non è da disprezzare del tutto. Ci sono stati tramandati
numerosi aneddoti che sottolineano questa sua attitudine a lavorare poco o, comunque, a
far lavorare gli altri. Anche il suo aspetto esteriore era sinonimo del suo io: disordinato nel
vestire, le sue tasche sempre piene di fogli, foglietti pieni di versi o ispirazioni alla rinfusa,
trasandato anche nel muoversi.
Tra i suoi primi libri ricordiamo <<Uomini, donne e fazzoletti da naso>> con cui si
fece conoscere guadagnandosi anche la stima di Trilussa (1930), <<Il cadavere>> del 1931,
<<Quanno la sorca gode>> del 1932, <<L’amore in camicia>> del 1946, <<Cose grosse>>
del 1950. Tra il 1968 e il 1970 uscirono Tritume, Primo pelo, Ladri e castroni, Zitti tutti che
parlo io, dove oggetto del suo sarcasmo e della sua ironia erano i tipi saccenti del paese.
Nel 1973 è uscito <<Storia si Storia no>>, che poi in realtà è l’ultima opera pubblicata. Tra
il 1973 e il 1978, data del definitivo ricovero in ospedale, scrisse le poesie che avrebbero
dovuto formare un nuovo libro (TUTTO TITTA), rimasto poi inedito, raccolto in un blocco
notes. Furono scoperte dal prof. Maurizio Brunori nell’abitazione di Marisa Marini e rese
note da quest’ultimo nell’opera <<Poesie inedite>> uscita nel luglio del 1981 quasi
contemporaneamente alla rappresentazione, presso il teatro Etrusco, di una sceneggiata
sulla vita e le opere del poeta dal titolo <<Il Fronte dell’ozio>> messa in scena dalla
Filodrammatica Cornetana. <<Poesie inedite>> può essere definita la raccolta più
completa e matura con le ultime, nuove poesie di una certa intensità e bellezza che
denotano nuovi tratti della sua personalità fino allora sconosciuti. L’autobiografismo che si
comincia ad intravedere in un poeta così sempre restio a parlare si dè, i passaggi da toni
drammatici a quelli più propriamente ironico-sarcastici, da un mondo fantastico-surreale
ad uno più realistico della vita che in quel momento lo stava per lasciare rappresentano la
definitiva consacrazione artistica, la maturazione completa di un personaggio poco
considerato e poco compreso in patria.
Risale tuttavia a qualche anno prima una delle poesie più belle che il Marini tenne
nascosta fino alla morte e che fu pubblicata solo nel 1981: Annuncio mortuario o Avviso
mortuario, secondo il Brunori una specie di testamento scritto in versi, colorito da un tono
provocatorio, beffardo e insolente, una poesia ricca di ironia destinata a lasciare una
traccia per la sua vena scherzosa e scanzonata:
<<Titta Marini s’è impiccato: è morto.
Occhi de fora e lingua a pennollone
162
163
come se cojonasse le persone,
ha fatto rabbia pure al beccamorto,
che da la bile è diventato giallo
tanto che non voleva più incassallo.
O sacrestani, scampanate a festa,
perché ‘sto fregno ce tratto’ da fessi.
Dar camposanto pure li cipressi
se ne so’annati in segno di protesta.
Le sue opere e le sue poesie furono oggetto di numerosi riconoscimenti, tra questi, il
più importante, gli fu conferito nel 1964. Nel corso di una solenne cerimonia alla presenza
di numerose autorità culturali dell’epoca, in occasione del centocinquantatreesimo anno
accademico della Tiberina, istituzione fondata da Giuseppe Gioacchino Belli che contava
tra i suoi membri illustri uomini d’arte (Canova, Quasimodo, Gioberti, Rossini, Croce,
Marconi ecc.), fu insignito del Lauro Tiberino, per i suoi meriti di poeta dialettale in
vernacolo romanesco; unico poeta dialettale a cui fu conferita questa onorificenza dopo
Gioacchino Belli, Marini tenne molto a questo premio. Nel 1966 ottenne per meriti letterari
un premio dell’Azienda autonoma di soggiorno e turismo di Tuscania.
Nel 1968 vinse la poesia <<Cristo in croce>> il primo premio in un concorso
bandito dall’Associazione Culturale per la Gioventù fondata da Nicola Pende e Lucia Poli.
Di questa associazione ci è stata tramandata una lettera scritta dal presidente Romolo
Volpini a Titta che riportiamo: caro e buon amico Titta, i tuoi recenti volumi <<Ladri e
Castroni>> e <<Tritume>>, che ho letto centellinandoli, sono permeati dal pesante odore
della terra maremmana che è un po' anche la mia, e, per tale ragione, vi trovo le vecchie
cose della mia giovinezza, dette con quello spirito furbesco, scanzonato e pieno di calore di
gente che sa discendere da un popolo che aveva già scritto centinaia di volumi della sua
storia quando gli altri popoli ancora non avevano imparato a scrivere. I titoli stessi dei tuoi
volumi sono pesanti, e le immagini degli etruschi, immortalati nell’antica pietra sono
pesanti, ma tu sai ammorbidire tutto e tutti col tuo sorriso genuino, franco, di uomo puro e
sicuro che poeteggia non per dare ad intendere di avere una cultura ermetica, ma per il
bisogno di cantare, in faccia al mondo e alle sue brutture, che se anche s’imbellettano
rimangono sempre brutture perché oltre il <<bello>>, il <<buono>>, e il <<giusto>> non
rimane che che il <<brutto>>, il <<cattivo>> e l’<<ingiusto>>.
Dalle cose insignificanti, giornaliere, alla portata di tutti, ricchi e poveri di spirito,
sai salire senza reticenze per le vie dell’Arte e lo fai con umiltà cosciente perché sei buono,
163
164
generoso e sembri dire ad ogni istante <<perdonatemi se sono poeta!>>. Grazie, caro
amico Titta Marini, per avermi data la possibilità di trascorrere alcune ore non soltanto in
tua compagnia spirituale ma anche avvolto nel profumo inconfondibile della nostra terra di
perfetti menefreghisti! Ti abbraccio con cordialità affettuosa. Romolo Volpini>>.
Nel 1979 il comune e l’Azienda autonoma di soggiorno e turismo di Tarquinia lo
onorarono con una Medaglia d’oro. Nel 1972 vinse il premio <<Roma 72>> per, cito
testualmente, <<le numerose opere stampate e presentate al pubblico in vernacolo e in
lingua italiana; per l’opera di ausilio didattico che svolge in molte scuole elementari e
medie inferiori e superiori; per il profondo senso umano dei suoi contenuti, resi con brevi
tocchi incisivi, con mordente ilare e talvolta sarcastico>>:
Ricco di poesie significative e degne di rilevanza è l’argomento religioso da dove
traspare l’animo sensibile e nobile che il poeta forse non ha mai espresso pienamente nei
suoi versi. Poesie come <<Sermoncino der futuro>>, <<Papa Giovanni>>, <<La mejo
tana>> (1944), <<Crocepugnale>>, <<Ar chiericante>>, <<Se cambia vento>>, <<Il
Cristo in croce>>, <<La tua croce>>, <<Preghiera>>, <<Madonna pellegrina>>, <<La
predica>>, <<Ringrazziamento>>; <<Processione maremmana>> ecc. alcune scritte in
lingua italiana altre in dialetto, mostrano come a volte Titta Marini desiderasse
trasmigrare dalla realtà delle cose e dell’esistenza umana per instaurare un dialogo
soprannaturale con Dio, reso spesso molto vicino a noi nel linguaggio, quasi a volersi
rassicurare della sua esistenza o consolarsi e sfogarsi con qualcuno per le Amarezze terrene
da sopportare insistentemente; ed anche queste poesie possono collocarsi tra quelle che
sono servite a Titta per attaccare indirettamente il male della società ed i personaggi che
per lui lo hanno più o meno rappresentato.
Titta Marini è stato solito dedicare alcune delle sue poesie a pesonaggi generici o
definiti. Soggetti come il Commendator Monnezza, il Ministro de Stato, lo Scapocciato, il
genio, il Monsignore, Trilussa, la socera, l’omo, il cavajere, lo scontento, l’avaro, il
lavoratore, il contadino ecc. danno il titolo ai rispettivi epitaffi.
Vere e proprie dediche furono invece riservate al Barone Enrico di Portanova, a
Giovacchino Rosati, ad Alberto Renzi, a Claudio Breccia, al dottor Antonio Pardi
ch’aringrazziava de core p’aveje sarvato er core, all’avvocato Attilio Bandiera, suo migliore
amico e suo peggior cliente, al pittore tuscanese Renato Morelli, a Piperno a Monte Cenci,
a Viviana ed Ambrogio Camurani, al pittore Amilcare Tomassetti, a Corrado Marini, al
dottor Giampiero Leoni, al dottor Luigi Sereno, al Principe Vittorio Massimo, a Gastone
Venzi, a Giovanni Perone, Andrea Castra, Peppone, Zuccone, magnacane che
<<tribbolarono>> con lui in campagna da giovani, alla pittrice e scultrice Lucia Poli, al
164
165
dottor Corrado Chiatti, ai baroni Renato e Gislero Flesch ed agli amici Vergilio Valentini,
Tommaso Maggi, Stefano Albertini, Manlio e Vittorio Alfieri, Andrea Amici, Gastone
Venzi. Dell’agosto 1969 è una significativa lettera di R. Loverme: Caro poeta, ho letto il suo
volume di poesie romanesche, Tritume, e le confesso che mi ha sorpreso la singolare
originalità del mezzo tecnico-espressivo, il quale si sostanzia di incomparabili espressioni
primordiali ricollegantisi ad una unica matrice: il <<volgare centrale>>.
Al riguardo bene ha precisato uno dei prefatori, Trieste Valdi: <<Occorre innanzi
tutto fare caso alla lingua usata dal Marini, che non è sempre il dialetto parlato in
Maremma né, tantomeno, il romanesco, ma una lingua centrale, espressione di una stirpe
che deriva direttamente dagli etruschi>>.
Ritengo che la icasticità del suo linguaggio, quella efficacia di rappresentazione che i
Greci chiamavano enargia e, soprattutto la peculiare musicalità di talune composizioni, si
debbano proprio al fatto che Lei è rimasto fedele, per sentimento, al linguaggio
primordiale d’un mondo favoloso che ha così viva risonanza nella Sua poesia. E sotto
questo aspetto può considerarsi l’ultimo discendente degli etruschi...
Titta Marini è noto anche per i suoi epitaffi.
L’epitaffio era un insieme di parole scritte sopra una tomba e riferire al defunto
anche se in origine il termine <<epitaffio>> o <<epitatio>> non comporava neppure l’idea
di uno scritto: stava ad indicare invece il discorso pronunciato in lode del defunto nel
momento della sua sepoltura. In seguito, ai tempi della repubblica romana, indicò la scritta
posta sulla tomba e recante l’indicazione del nome e delle cariche ricoperte dal defunto.
Più tardi si diffuse l’usanza di aggiungere a queste brevi indicazioni anche un accenno alle
sue virtù.
E’ fuor di dubbio che Titta Marini usò l’epitaffio solo ed esclusivamente per
finalità ironiche e satiriche, rifacendosi, come già detto all’origine dell’epigramma classico
che aveva anche questi intenti.
Vale la pena ricordare i più famosi:
<<Ar ministro de stato>>: Er ministro de stato, che qui sott’è incassato, per esse
troppo sverto de mascelle e rimagna ce lasciò la pelle; <<Der peccatore>>: Siccome
p’impegnamme ner peccato, mo sto’ ner regno de la scottatura, nun scocciate Chi m’ha
creato, spaternostra no su sta sepportura; <<A la pace>>: la pace, spaventata da la guerra
s’è so’er padrone de me stesso perché sto scantinato è senza ingresso; <<Der contadino>>:
La terra, brutta impresa, da vivo è bassa e da defunto pesa; <<Der pezzentone>>: Qui nun
pago piggione, ciò er giardino in terrazza, e Bella soddisfazione! ma, se rinasco, sai che fo?
Rimoro! <<De l’avaro>>: Io sottoscritto... morto, siccome già lo so che chiunque prega vo’,
avverto tutti che me trovo a corto; perciò nun do’; <<De lavoratore>>: Onesto e laborioso
165
166
qui, finarmente, se fa un sonno... coso; <<De l’abborto>>: Senza nemmanco l’urtimo
conforto, come la libbertà, so’ nato morto; <<A Ava>>: Qui s’ariposa Ava che se vestiva
quanno se spojava; <<All’omo>>: Qui ce sta l’omo da la testa dura, che se creò la doppia
fregatura, perché fabbrico l’armi p’ammazzasse e, pe fà l’armi, nun pagò che tasse; <<Ar
cavajuere>>: Fu fatto pe’ lamoje cavajere, terra e corna je siano leggere; <<A la socera>>:
Da quanno che mi socera qui giace lei... nu’ lo so, ma io riposo in pace!; <<A Trilussa>>:
Visse cantanno, sempre applaudito, tra fama e fame, fin quanno er falegname l’ha
inchiodato nell’urtimo vestito; <<A la pecora>>: Fu ‘na pecora pazza e disgrazziata che, pe
seguì la strada d’un leone, morì scapicollata. poteva sceje quella der montone; <<A lo
scapocciato>>: dato ch’è senza testa, sto signore se non è deputato è... senatore.
E’ molto difficile parlare di Titta Marini, scavare nella sua personalità, sia per la
carenza di fonti documentali (i pochi libri pubblicati sono attualmente nelle mani di pochi
privati e introvabili nelle librerie), sia per le poche persone in grado di poterlo descrivere in
modo esauriente; ritengo inoltre inutile il voler capire da persone tarquiniesi frasi o
spiegazioni sulla sua poetica o sul suo modo di vivere, e questa mia sensazione deriva da
quell’atteggiamento, peraltro involontario, di indifferenza ed incomprensione che
Tarquinia ha sempre avuto nei suoi confronti. L’ho visto solo una volta, da piccolo, quando
in un pomeriggio d’estare regalò uno dei suoi libri a mio padre con una dedica. Titta
Marini è morto il 25 luglio 1980. Sono riuscito a scoprirlo solo ora attraverso i suoi scritti e
forse c’è in me un pizzico di rimpianto per non averlo conosciuto più a fondo di persona; E’
d’uopo chiudere questa trattazione con due sue poesie scritte all’ospedale di Tarquinia
dove era ricoverato, poesie molto profonde che racchiudono tutta la sua vita di
incompreso, fatta di amarezze, solitudine e insofferenza verso qualcuno o qualcosa che sta
al di sopra della vita terrena quasi a volersi finalmente estraneare dal mondo in modo
definitivo; per me possono collocarsi tra le sue poesie supreme per la loro crudezza
estremamente serena.
<<L’ultimo brindisi>>: Sto a letto, stanco, è tanto che cammino, solo, sul filo teso
del destino: ma adesso ci sei tu, spalanca la finestra: ch’entri l’aria, brindiamo insieme, o
Morte solitaria. <<Tu in vita>>: Da te nacqui malato; poi aucchiai dalla tua vita il latte
avaro. Crebbi tra lupi e scrofe, e mai scorderò quando mi dicesti morendo: Come stai?>>
<<Tu nell’aldilà>>: Notte. Sto sempre in ospedale, c’è soltanto il crocefisso che sta peggio
di me. E vedo pure, nel dormiveglia, te, che al dilà dell’azzurro mi vegli nel tormento. E
benché sei lontana ti risento.
Giulio Giannuzzi
166
167
Bibliografia
T. Marini -
Zitti tutti che parlo io - Ediz. Accademia Dell’ozio
T. Marini -
Poesie inedite - Ediz. a cura Comune di Tarquinia
T. Marini -
Tritume - Ediz. Accademia Dell’Ozio
T. Marini -
Storia sì Storia no - Ediz. Accademia Dell’Ozio
T. Marini -
Primo pelo - Ediz. Accademia Dell’Ozio
ATTIVITA’ SVOLTA NELL’ANNO 1991
L’insufficienza del tempo a nostra disposizione (appena sei mesi di impegno) non ci
permise, lo scorso anno, di impostare e portare a compimento ciò che avevamo in animo di
fare. Ma le promesse, fatte allora, di adoperarci di più e meglio per il raggiungimento dei
nostri obiettivi nel proseguimento del nostro mandato, crediano siano state mantenute a
tutto vantaggio e nell’interesse della Società, dei soci, di Tarquinia.
Sono diverse le manifestazioni e le realizzazioni portate avanti e quasi tutte, se non
tutte, in linea con gli scopi sociali che intendiamo perseguire nella maniera più conforme al
nostro Statuto e tutte hanno ottenuto favorevoli consensi entro e fuori i confini della nostra
167
168
città, dando ampia dimostrazione della vitalità della SOCIETA’ TARQUINIENSE d’ARTE E
STORIA e della necessità della sua presenza nel tessuto connettivo di Tarquinia.
Ciò premesso, riportiamo, in sintesi, qui di seguito, quanto è stato fatto nell’anno
1991 da soli o in collaborazione con altre Asssociazioni e gruppi locali:
- partecipazione attiva alla Mostra del Presepio di Tarquinia con la concessione
gratuita del Salone Sacchetti e della organizzazione interna;
- serie di conferenze <<TRA MITO E STORIA>> tenute dal Dr. Filippo Salvati nel
salone suddetto;
- partecipazione attiva ai Concerti dell’A.GI.MUS. con relativa concessione del
salone di cui sopra;
- conferenza del Dr. LUCIANO MARZIANO sul tema <<ORIGINE dell’ARTE
ASTRATTA in ITALIA>>;
- celebrazione della <<FESTA DELLA DONNA>> in collaborazione con
l’Associazione <<La Lestra>> di Tarquinia;
- distribuzione ai soci del BOLLETTINO dell’anno 1990;
- celebrazione del VENTENNALE della nascita della Società (24.04.71) con
l’ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA dei SOCI, pranzo sociale e concerto strumentale
del maestro pianista MAURIZIO MASTRINI;
- presentazione del libro di PIETRO CICERCHIA dal titolo <<TARQUINIA BORGO
MEDIEVALE>> Relatore il prof. Arch. GAETANO MIARELLI MARIANI;
- Mostra Fotografica Collettiva dal titolo <<DIVERSAMENTE TARQUINIA>>;
- quattro Concerti della ASSOCIAZIONE CULTURALE EST. FEST. FESTIVAL con
ingresso gratuito;
- presentazione del libro su GIOVANNI VITELLESCHI dal titolo <<IL CARDINALE
DIABOLICO>> dello scrittore UGO REALE;
- gita turistico-culturale della durata di due giorni ai CASTELLI ROMANTICI
DELLA ROMAGNA, riservata ai soci;
- saggio di fine anno della durata di tre giorni per gli studenti di musica della scuola
media <<Ettore Sacconi>>;
- <<CONCERTI dell’ESTATE>> in collaborazione con l’Associazione MUSICA e
TRADIZIONE di Tarquinia;
- mostra di pittura di RENZO VESPIGNANI nell’Auditorium di San Pancrazio;
- inaugurazione dei lavori di restauro dell’altare e dei mosaici cosmateschi del
presbiterio e del transetto di Santa Maria in Castello con la presenza di Mons. Girolamo
168
169
Grillo Vescovo di Civitavecchia-Tarquinia, con la partecipazione della corale di Magliano in
Toscana;
- video cassetta dal titolo <<TERRA MIA>> di Vincenzo Cardarelli nel Salone
Sacchetti.
Ma i fiori all’occhiello della S.T.A.S. sono rappresentati da:
1) Convegno su GIOVANNI BATTISTA MARZI nato a Tarquinia il 3 agosto 1857 scienziato
e poeta, inventore del primo centralino telefonico automatico nei locali della Biblioteca
Vaticana ed autore della epigrafe dettata per la corona di alloro offerta alla Salma del
MILITE IGNOTO nella solenne tumulazione sotto l’Altare della Patria il 3 novembre 1921.
2) Restauro dei mosaici cosmateschi della basilica di Santa Maria in Castello per l’importo
complessivo di £. 53.100.000 con il contributo di:
LIONS CLUB
con
£. 9.500.000.
ASSOCIAZIONE PRO TARQUINIA
£. 5.600.000.
CENTRO STUDI CARDARELLIANI
£. 3.000.000.
EUSEPI TOMMASO BRUNO
£. 1.300.000.
LENZO LUIGI
£. 1.000.000.
ASQUINI LETIZIA
£. 1.000.000.
POTTINO GUIDO
£. 1.000.000.
SAVINO OBERDAN
£. 500.000.
GRISPINI LIDIA
£. 100.000.
3) nuovo impianto di riscaldamento a metano dei locali della Sede Sociale per il costo
complessivo di £. 32.750.000. Una esigenza
questa la cui soluzione si imponeva per
motivi facilmente comprensibili, onde renderne più facile ed assidua la permanenza. Una
cura particolare è stata dedicata al settore <<SOCI>>. Al 31 dicembre 1989 erano 746 al 31
dicembre 1991 sono 724, alla data della Assemblea odierna 731.
A prima vista sembrerebbe che le adesioni abbiano subito un arresto anche se lieve
ma non è così. Infatti, con l’adesione di nuovi soci (ben 46 soltanto nel 1991), siamo riusciti
a contenere il sensibile calo dovuto non soltanto ai soci deceduti ed ai pochissimi che si
sono dimessi, ma anche e soprattutto alla cancellazione, d’ufficio, di un rilevante numero
di persone residenti lontano da Tarquinia - qualcuno persino oltre i confini d’Italia che si
erano iscritti alla Società per motivi di convenienza dovute a mostre, concerti, conferenze,
convegni ecc. ecc. Con questa azione di aggiornamento oggi possiamo contare su un
quadro soci quasi tutti tarquiniesi, quindi più facili da avvicinare e seguire.
169
170
Con la speranza che il 1992 sia un anno ancor più fecondo, crediamo giusto e
doveroso ringraziare tutti coloro che in un modo o nell’altro hanno offerto la loro
collaborazione per il raggiungimento degli scopi sociali.
Il Consiglio di Amministrazione
APPENDICE AL GLOSSARIO CORNETANO
A
Agnellotto (s.m.)
- Deformazione di agnolotto, tipo di lasagna ripiena
di carne, condita alla maniera della pasta alimentare con salsa e formaggio.
C
Centopelle (s.m.)
- Una delle cavità dello stomaco dei ruminanti, cioè
l’omaso, che viene cucinato e mangiato col nome di trippa o frattaglie vaccine. E’
coperta di sottili
lamelle carnose che danno il nome al tipo delle interiora animali. Il
riferimento va alla difficoltà di
digerire e assimilare determinati alimenti assai pesanti
che stazionano nello stomaco umano, quasi
non
fosse la penultima cavità dei ruminanti, e
riescono ad essere smaltiti. C’è un detto popolare in proposito
che
dice:
<<La
trippa è trippa, ma questo è centopelle>>. Nel senso cioè che il centopelle è la parte meno
ricercata della trippa in genere.
Concasse’ (s.m.)- Macchina per frantumare pietre per costruire
calcestruzzo. Derivazione del francese
strade
e
fare
il
<<concasser>> che significa appunto frantumare
e frangere.
D
Doro (s.m.) - Sta per il nome oro. Usato specie nel linguaggio dei bambini che chiamano
con questa parola la stagnola che avvolge caramelle e cioccolatini e qualsiasi altro
tipo
di dolciume. Il riferimento va alle parole <<dorato>> e <<doratura>>.
170
171
L
Laniccia (s.f.)- Specie di lana che si forma sotto i letti o sotto i
mobili
per
scarsa
pulizia. Derivazione dalla parola <<lana>> usato in senso dispregiativo.
M
Maccarone (s.m.)
- Sta per maccherone. Usato in senso derisorio verso persona buona a
nulla.
Marrone (s.m.)
- E’ il cavallo anziano che si affianca, durante il
periodo
della
doma, al puledro indomo, per non spaventarlo e abituarlo gradatamente a convivere
con
il cavaliere. Etimologia incerta.
Mazzarella (s.f.)
- Bastone lungo e sottile di corniolo o di nespolo selvatico, usato dai
vergari, dai butteri e dai massari.
Derivazione da mazza. C’è un canto popolare che
dice <<E lo mio damo fa lo massaro/ la mazzarella
gli diventi d’oro / d’oro e
d’argento la spiga del grano>>.
Monichella (s.f.) - Vezzeggiativo di monaca. E’ riferito anche alla
mantide religiosa.
P
Palombaccio (s.m.) - Viene spesso usato in forma ironica verso persona di poca astuzia e
di scarsissima personalità. Derivazione dal nome del volatile che è di facile
preda:
il
quale si ammaestra come zimbello per richiamare gli uccelli di passo. Così viene chiamato
il colombo selvatico migratorio.
Panzone (s.m.)- Persona dal ventre o dalla pancia molto
pronunciata. Derivazione da
pancia che in gergo vien detta <<panza>>.
Pecettone (s.m.) - Persona eccessivamente appiccicosa, da non
distaccarsi quasi mai,
come se fosse attaccata con la pece. Da cui deriva questo vocabolo. Sinonimo di
appiccicoso e fastidioso.
Pelare (v.t.) - Siccome le bruciature portano via pelle e pelo,
ecco l’uso che se ne fa per significare appositamente ciò che brucia eccessivamente,
specie se riferito alle pentole o ad altri oggetti da cucina.
Perazzeta (s.f.) - Campo su cui si trovano piantati alberi di pero
selvatico il cui frutto viene chiamato in dialetto perazza.
Puntata (s.f.) - Fitta dolorosa che punge. Dal latino <<punctum>>.
R
171
172
Rimessino (s.m.)- Alto recinto di passoni all’interno del quale si
chiudono cavalli e buoi allo stato brado. Vi si domano i puledri e si marchiano a
fuoco vitelli e cavalli. Derivazione da rimessa.
T
Trippone (s.m.)- Dicesi di persona eccessivamente panciuta. E dato che in gergo la pancia
vien detta anche trippa, eccone la derivazione in forma accrescitiva.
172
173
173
174
174
175
175
176
176
177
177
178
178
Scarica

bollettino completo 1991 - Società Tarquiniese Arte e Storia