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DANIEL MARGUERAT
Gli Atti
degli apostoli.1
(112)
2011
quindicinale di attualità e documenti
13
Documenti
«TESTI E COMMENTI»
pp. 512 - € 46,00
385 Benedetto XVI in Croazia
Il papa è a Zagabria per la Giornata delle famiglie cattoliche, mentre escono
le catechesi preparatorie al prossimo Incontro mondiale delle famiglie (2012).
395 I ghiacciai nell’Antropocene
Convocato dalla Pontificia accademia delle scienze, un gruppo di scienziati
discute delle conseguenze del riscaldamento globale sugli attuali ecosistemi.
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NELLA STESSA COLLANA 419 Laici dopo il Concilio
In una relazione del prof. Canobbio, i modelli di teologia del laicato presenti
«nella mente e nelle pratiche» della vita ecclesiale e quelli ancora possibili.
443 Voi dunque pregate così
Il Gruppo ecumenico di Dombes per la conversione delle Chiese: uno studio
sul Padre nostro che pubblichiamo in tre parti a partire da questo numero.
YVES SIMOENS Apocalisse di Giovanni Apocalisse di Gesù Cristo
pp. 312 - € 29,00
Una traduzione e un’interpretazione
www.dehoniane.it
EDB
Edizioni
Dehoniane
Bologna
Via Nosadella 6 - 40123 Bologna
Tel. 051 4290011 - Fax 051 4290099
Anno LVI - N. 1104 - 1 luglio 2011 - IL REGNO - Via Nosadella 6 - 40123 Bologna - Tel. 051/3392611 - ISSN 0034-3498 - Il mittente chiede la restituzione
e s’impegna a pagare la tassa dovuta - Tariffa ROC: “Poste Italiane spa - Sped. in A.P. - DL 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Bologna”
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DANIEL MARGUERAT
Gli Atti
degli apostoli.1
(112)
2011
quindicinale di attualità e documenti
13
Documenti
«TESTI E COMMENTI»
pp. 512 - € 46,00
385 Benedetto XVI in Croazia
Il papa è a Zagabria per la Giornata delle famiglie cattoliche, mentre escono
le catechesi preparatorie al prossimo Incontro mondiale delle famiglie (2012).
395 I ghiacciai nell’Antropocene
Convocato dalla Pontificia accademia delle scienze, un gruppo di scienziati
discute delle conseguenze del riscaldamento globale sugli attuali ecosistemi.
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NELLA STESSA COLLANA 419 Laici dopo il Concilio
In una relazione del prof. Canobbio, i modelli di teologia del laicato presenti
«nella mente e nelle pratiche» della vita ecclesiale e quelli ancora possibili.
443 Voi dunque pregate così
Il Gruppo ecumenico di Dombes per la conversione delle Chiese: uno studio
sul Padre nostro che pubblichiamo in tre parti a partire da questo numero.
YVES SIMOENS Apocalisse di Giovanni Apocalisse di Gesù Cristo
pp. 312 - € 29,00
Una traduzione e un’interpretazione
www.dehoniane.it
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Dehoniane
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Via Nosadella 6 - 40123 Bologna
Tel. 051 4290011 - Fax 051 4290099
Anno LVI - N. 1104 - 1 luglio 2011 - IL REGNO - Via Nosadella 6 - 40123 Bologna - Tel. 051/3392611 - ISSN 0034-3498 - Il mittente chiede la restituzione
e s’impegna a pagare la tassa dovuta - Tariffa ROC: “Poste Italiane spa - Sped. in A.P. - DL 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Bologna”
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quindicinale di attualità e documenti
D
GABRIELE MARIA ALLEGRA
ocumenti
Scintille dantesche
1.7.2011 - n. 13 (1104)
Caro lettore,
anche quest’anno offriamo ai lettori
non abbonati, in coincidenza con il
tempo del riposo estivo, la possibilità
di consultare gratuitamente la rivista e
il suo archivio online, all’indirizzo
www.ilregno.it. È la promozione Il
Regno d’estate, riguarda i numeri dal
12 al 15 e durerà per i mesi di
luglio, agosto e settembre.
Agli abbonati chiediamo di aiutarci
ad ampliare il novero degli amici
della rivista segnalando questa
opportunità, legata ai mesi estivi, a
quanti potrebbero essere interessati: o
direttamente, o suggerendo alla nostra
segreteria ([email protected]) gli
eventuali nominativi.
R
Benedetto XVI
385
Un popolo di antica
tradizione cristiana
{ Viaggio apostolico in Croazia
(4-5 giugno 2011) }
La coscienza, punto critico
(Ai rappresentanti della società
civile e delle comunità religiose)
Testimoni esemplari (Omelia
alle famiglie cattoliche croate)
Sessant’anni di sacerdozio:
un momento di memoria
(Benedetto XVI)
Santa Sede
390
Il segreto di Nazaret
{ Dalle catechesi preparatorie
al VII Incontro mondiale
delle famiglie (Milano 2012) }
La famiglia: il lavoro e la festa
(G. Mocellin)
393
Agostino Tommaselli
Spiriti maligni
Chi è il diavolo, qual è il suo potere,
come si combatte
Presentazione di don Gabriele Amorth
G
li spiriti maligni esistono e hanno
potere di influire sulle loro vittime, sul piano spirituale, fisico e
psichico. Fatture, magie, malocchi,
maledizioni, riti satanici, sedute spiritiche, evocazioni di defunti sono i
canali che privilegiano per insinuarsi
nella vita delle persone. Il volume
informa sulla demonologia costituendo anche un manuale di autodifesa: lo scopo non è suscitare inutili
paure, ma aiutare a usare le ‘armi’ che
la Chiesa mette a disposizione.
«Fede e vita»
Consacrazioni episcopali senza
mandato pontificio
{ Il Pontificio consiglio per i testi
legislativi sulla retta applicazione
del can. 1382 }
395
Il destino dei ghiacciai di
montagna nell’Antropocene
{ Rapporto del gruppo di lavoro
incaricato dalla Pontificia
accademia delle scienze }
In una terra ospitale, educhiamo
all’accoglienza (Commissione
episcopale per i problemi sociali
e il lavoro, la giustizia e la pace;
Commissione episcopale per
l’ecumenismo e il dialogo)
Antologia dai diari
402
Conosco le mie pecore
{ Prima lettera pastorale di
mons. Domenico D’Ambrosio
all’arcidiocesi di Lecce }
a cura di Anna Maria Chiavacci Leonardi e Francesco Santi
Studi e commenti
419
Laici dopo il Vaticano II
{ Relazione di Giacomo
Canobbio alla Pontificia
università della Santa croce
(Roma, 7-8.4.2011) }
Laici al vertice? (America)
Lettera al laico
(I sognatori di Firenze 2011)
428
Il turismo religioso
{ Mons. Carlo Mazza,
vescovo di Fidenza }
Ecumenismo
433
Sulla via della pace giusta
{ CEC - Convocazione
ecumenica internazionale
sulla pace
(Kingston, 17-25 maggio 2011) }
Appello ecumenico
Preghiera per la pace
Messaggio finale
443
«Voi dunque pregate così»
{ Il Gruppo di Dombes
sul Padre nostro (prima parte) }
«OGGI E DOMANI»
pp. 400 - € 25,00
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pp. 136 - € 10,00
EDB
Edizioni
Dehoniane
Bologna
Via Nosadella, 6
40123 - Bologna
Tel. 051.4290011
Fax 051.4290099
www.dehoniane.it
EDB
Edizioni
Dehoniane
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Tel. 051 4290011 - Fax 051 4290099
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enedetto XVI
Un popolo di
antica tradizione
cristiana
La coscienza,
punto critico
Viaggio apostolico in Croazia
(4-5 giugno 2011)
Ai rappresentanti della società civile
e delle comunità religiose
È un popolo che, «con la sua millenaria
storia cattolica… sta nel centro dell’Europa, della sua storia e della sua
cultura». In questa prospettiva, enunciata durante il volo Roma-Zagabria,
Benedetto XVI ha visitato, per la prima
volta da papa, la Croazia, in occasione
della Giornata nazionale delle famiglie
cattoliche croate e in continuità con le
tre visite compiute in soli nove anni
(1994, 1998 e 2003) da Giovanni Paolo
II. Quattro i momenti pubblici principali nei due giorni: l’incontro con i rappresentanti della società civile (politici,
intellettuali, imprenditori, leader religiosi; riportiamo il discorso del papa),
la veglia con i giovani, la messa conclusiva della Giornata delle famiglie
(pubblichiamo l’omelia), e i vespri con
i vescovi, i sacerdoti e i religiosi sulla
tomba del beato card. Stepinac. «La
qualità della vita sociale e civile, la qualità della democrazia dipendono in
buona parte da questo punto “critico”
che è la coscienza», ha ricordato il papa
nel discorso del 4 giugno, insistendo,
durante l’omelia del 5, sulla centralità
della famiglia come risorsa per la
Chiesa e come modello di fronte a una
società sempre più secolarizzata.
Stampa (28.6.2011) da sito web www.vatican.va. Sottotitoli redazionali.
IL REGNO -
DOCUMENTI
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Signor presidente, signori cardinali, venerati fratelli, illustri signori e signore, cari fratelli e sorelle!
Sono molto lieto di entrare nel vivo della mia visita
incontrando voi, che rappresentate ambiti qualificati
della società croata e il corpo diplomatico. Il mio saluto
cordiale va a ciascuno personalmente e anche alle realtà
vitali a cui appartenete: alle comunità religiose, alle istituzioni politiche, scientifiche e culturali, ai settori artistico, economico, sportivo. Ringrazio sentitamente mons.
Puljić e il prof. Zurak per le cortesi parole che mi hanno
rivolto, come pure i musicisti che mi hanno accolto con
il linguaggio universale della musica. La dimensione
dell’universalità, distintiva dell’arte e della cultura, è
particolarmente congeniale al cristianesimo e alla Chiesa
cattolica. Cristo è pienamente uomo, e tutto ciò che è
umano trova in lui e nella sua Parola pienezza di vita e
di significato.
Questo splendido teatro è un luogo simbolico, che
esprime la vostra identità nazionale e culturale. Potervi incontrare qui, riuniti insieme, è un motivo ulteriore di gioia
dello spirito, perché la Chiesa è un mistero di comunione
e gioisce sempre della comunione, nella ricchezza delle diversità. La partecipazione dei rappresentanti delle altre
Chiese e comunità cristiane, come pure delle religioni
ebraica e musulmana, contribuisce a ricordare che la religione non è una realtà a parte rispetto alla società: è invece una sua componente connaturale, che costantemente
richiama la dimensione verticale, l’ascolto di Dio come
condizione per la ricerca del bene comune, della giustizia
e della riconciliazione nella verità. La religione mette
l’uomo in relazione con Dio, creatore e padre di tutti, e
deve quindi essere una forza di pace. Le religioni devono
sempre purificarsi secondo questa loro vera essenza per
corrispondere alla loro genuina missione.
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enedetto XVI
E qui vorrei introdurre il tema centrale della mia
breve riflessione: quello della coscienza. Esso è trasversale rispetto ai differenti campi che vi vedono impegnati
ed è fondamentale per una società libera e giusta, sia a livello nazionale che sovranazionale. Penso, naturalmente,
all’Europa, di cui la Croazia è da sempre parte sul piano
storico-culturale, mentre sta per entrarvi su quello politico-istituzionale. Ebbene, le grandi conquiste dell’età
moderna, cioè il riconoscimento e la garanzia della libertà di coscienza, dei diritti umani, della libertà della
scienza e, quindi, di una società libera, sono da confermare e da sviluppare mantenendo però aperte la razionalità e la libertà al loro fondamento trascendente, per
evitare che tali conquiste si auto-cancellino, come purtroppo dobbiamo constatare in non pochi casi.
Padre Bošković ,
un modello tra fede e cultura
La qualità della vita sociale e civile, la qualità della
democrazia dipendono in buona parte da questo punto
«critico» che è la coscienza, da come la si intende e da
quanto si investe sulla sua formazione. Se la coscienza,
secondo il prevalente pensiero moderno, viene ridotta all’ambito del soggettivo, in cui si relegano la religione e la
morale, la crisi dell’Occidente non ha rimedio e l’Europa
è destinata all’involuzione. Se invece la coscienza viene
riscoperta quale luogo dell’ascolto della verità e del bene,
luogo della responsabilità davanti a Dio e ai fratelli in
umanità – che è la forza contro ogni dittatura – allora c’è
speranza per il futuro.
Sono grato al prof. Zurak perché ha ricordato le radici cristiane di numerose istituzioni culturali e scientifiche di questo paese, come del resto è avvenuto in tutto il
continente europeo. Ricordare queste origini è necessario, anche per la verità storica, ed è importante saper leggere in profondità tali radici, perché possano animare
anche l’oggi. Decisivo, cioè, è cogliere il dinamismo che
sta dentro l’avvenimento – per esempio – della nascita
di un’università, o di un movimento artistico, o di un
ospedale. Occorre comprendere il perché e il come ciò sia
avvenuto, per valorizzare nell’oggi tale dinamismo, che
è una realtà spirituale che diventa culturale e quindi sociale. Alla base di tutto ci sono uomini e donne, ci sono
delle persone, delle coscienze, mosse dalla forza della verità e del bene. Ne sono stati citati alcuni, tra i figli illustri di questa terra.
Vorrei soffermarmi su padre Ruer Josip Bošković,
gesuita, che nacque a Dubrovnik 300 anni or sono, il 18
maggio 1711. Egli impersona molto bene il felice connubio tra la fede e la scienza, che si stimolano a vicenda
per una ricerca al tempo stesso aperta, diversificata e capace di sintesi. La sua opera maggiore, la Theoria philosophiae naturalis, pubblicata a Vienna e poi a Venezia
a metà del Settecento, porta un sottotitolo molto significativo: redacta ad unicam legem virium in natura existentium, cioè «secondo l’unica legge delle forze esistenti
in natura». In Bošković c’è l’analisi, c’è lo studio di molteplici rami del sapere, ma c’è anche la passione per
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IL REGNO -
DOCUMENTI
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l’unità. E questo è tipico della cultura cattolica. Per questo è segno di speranza la fondazione di un’Università
cattolica in Croazia. Auspico che essa contribuisca a fare
unità tra i diversi ambiti della cultura contemporanea, i
valori e l’identità del vostro popolo, dando continuità al
fecondo apporto ecclesiale alla storia della nobile nazione croata.
Una polis accogliente ma non neutra
Ritornando a padre Bošković, gli esperti dicono che
la sua teoria della «continuità», valida sia nelle scienze
naturali sia nella geometria, si accorda in modo eccellente con alcune delle grandi scoperte della fisica contemporanea. Che dire? Rendiamo omaggio all’illustre
croato, ma anche all’autentico gesuita; rendiamo
omaggio al cultore della verità che sa bene quanto essa
lo superi, ma che sa anche, alla luce della verità, impegnare fino in fondo le risorse della ragione che Dio
stesso gli ha dato.
Oltre all’omaggio, però, occorre far tesoro del metodo, dell’apertura mentale di questi grandi uomini. Ritorniamo dunque alla coscienza come chiave di volta per
l’elaborazione culturale e per la costruzione del bene comune. È nella formazione delle coscienze che la Chiesa
offre alla società il suo contributo più proprio e prezioso.
Un contributo che comincia nella famiglia e che trova un
importante rinforzo nella parrocchia, dove i bambini e
i ragazzi, e poi i giovani imparano ad approfondire le sacre Scritture, che sono il «grande codice» della cultura
europea; e al tempo stesso imparano il senso della comunità fondata sul dono, non sull’interesse economico o
sull’ideologia, ma sull’amore, che è «la principale forza
propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera» (Caritas in veritate, n. 1; Regno-doc.
15,2009,457). Questa logica della gratuità, appresa nell’infanzia e nell’adolescenza, si vive poi in ogni ambito,
nel gioco e nello sport, nelle relazioni interpersonali, nell’arte, nel servizio volontario ai poveri e ai sofferenti, e
una volta assimilata la si può declinare nei più complessi
ambiti della politica e dell’economia, collaborando per
una polis che sia accogliente e ospitale e al tempo stesso
non vuota, non falsamente neutra, ma ricca di contenuti
umani, con un forte spessore etico. È qui che i Christifideles laici sono chiamati a spendere generosamente la
loro formazione, guidati dai principi della dottrina sociale della Chiesa, per un’autentica laicità, per la giustizia sociale, per la difesa della vita e della famiglia, per la
libertà religiosa e di educazione.
Illustri amici, la vostra presenza e la tradizione culturale croata mi hanno suggerito queste brevi riflessioni.
Ve le lascio quale segno della mia stima e soprattutto
della volontà della Chiesa di camminare con la luce del
Vangelo in mezzo a questo popolo. Vi ringrazio per la
vostra attenzione e di cuore benedico tutti voi, i vostri
cari e le vostre attività.
Zagabria, Teatro nazionale croato, 4 giugno 2011.
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Giorgio Campanini
Testimoni esemplari
La spiritualità familiare
nell’Italia del ’900
Omelia alle famiglie cattoliche croate
Cari fratelli e sorelle!
Percorsi profili prospettive
In questa santa messa che ho la gioia di presiedere,
concelebrando con numerosi fratelli nell’episcopato e
con un gran numero di sacerdoti, ringrazio il Signore
per tutte le amate famiglie qui riunite, e per tante altre
che sono collegate con noi attraverso la radio e la televisione. Un particolare ringraziamento al card. Josip
Bozanić, arcivescovo di Zagabria, per le sentite parole all’inizio della santa messa. A tutti rivolgo il mio
saluto ed esprimo il mio grande affetto con un abbraccio di pace!
Abbiamo da poco celebrato l’Ascensione del Signore e ci prepariamo a ricevere il grande dono dello
Spirito Santo. Nella prima lettura, abbiamo visto
come la comunità apostolica era riunita in preghiera
nel Cenacolo con Maria, la madre di Gesù (cf. At
1,12-14). È questo un ritratto della Chiesa che affonda le sue radici nell’evento pasquale: il Cenacolo,
infatti, è il luogo in cui Gesù istituì l’eucaristia e il sacerdozio, nell’Ultima cena, e dove, risorto dai morti,
effuse lo Spirito Santo sugli apostoli la sera di Pasqua
(cf. Gv 20,19-23). Ai suoi discepoli, il Signore aveva
ordinato di «non allontanarsi da Gerusalemme, ma
di attendere l’adempimento della promessa del
Padre» (At 1,4); aveva chiesto cioè che restassero insieme per prepararsi a ricevere il dono dello Spirito
Santo. Ed essi si riunirono in preghiera con Maria nel
Cenacolo in attesa dell’evento promesso (cf. At 1,14).
Restare insieme fu la condizione posta da Gesù per
accogliere la venuta del Paraclito, e la prolungata preghiera fu il presupposto della loro concordia. Troviamo qui una formidabile lezione per ogni comunità
cristiana. Talora si pensa che l’efficacia missionaria
dipenda principalmente da un’attenta programmazione e dalla sua intelligente messa in opera mediante
un impegno concreto. Certo, il Signore chiede la nostra collaborazione, ma prima di qualsiasi nostra risposta è necessaria la sua iniziativa: è il suo Spirito il
vero protagonista della Chiesa, da invocare e accogliere.
Nel Vangelo, abbiamo ascoltato la prima parte
della cosiddetta «preghiera sacerdotale» di Gesù (cf.
Gv 17,1-11a) – a conclusione dei discorsi di addio –
piena di confidenza, di dolcezza e di amore. Viene
chiamata «preghiera sacerdotale», perché in essa
Gesù si presenta in atteggiamento di sacerdote che intercede per i suoi, nel momento in cui sta per lasciare
questo mondo. Il brano è dominato dal duplice tema
dell’ora e della gloria. Si tratta dell’ora della morte (cf.
Gv 2,4; 7,30; 8,20), l’ora nella quale il Cristo deve
passare da questo mondo al Padre (13,1). Ma essa è,
allo stesso tempo, anche l’ora della sua glorificazione
che si compie attraverso la croce, chiamata dall’evangelista Giovanni «esaltazione», cioè innalzamento,
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DOCUMENTI
13/2011
L
a ricerca traccia la storia del movimento di spiritualità familiare in
Italia nel secondo ’900: uno degli aspetti più interessanti e innovativi del postconcilio italiano. A conferma di una
tendenza caratteristica della teologia
italiana, la riflessione sul tema è stata
stimolata anche dai mutamenti culturali in atto, dalle domande concrete
della comunità credente e dall’ascolto
del contesto di vita.
«Teologia viva»
pp. 232 - € 20,00
EDB
Edizioni
Dehoniane
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Tel. 051 4290011 - Fax 051 4290099
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Primo Mazzolari
Il Samaritano
Elevazioni per gli uomini del nostro tempo
Edizione critica a cura di Bruno Bignami
D
on Mazzolari dà alla luce Il Samaritano nel 1937. Si tratta di un testo
impegnativo, che sa coniugare analisi
psicologica dei personaggi e rivisitazione dell’ambiente scenico. Agli occhi del
parroco di Bozzolo, la parabola evangelica del Samaritano è una sintesi
della vita stessa. Il Samaritano diventa
così storia di salvezza, e ogni vicenda
di redenzione si trova rappresentata nei
gesti del racconto.
«Primo Mazzolari»
pp. 264 - € 19,50
Dello stesso autore:
Scritti politici
Edizione critica a cura di Matteo Truffelli
387
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pp. 832 - € 58,00
Edizioni
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enedetto XVI
elevazione alla gloria: l’ora della morte di Gesù, l’ora
dell’amore supremo, è l’ora della sua gloria più alta.
Anche per la Chiesa, per ogni cristiano, la gloria più
alta è quella croce, è vivere la carità, dono totale a
Dio e agli altri.
Le famiglie, risorsa della Chiesa
Cari fratelli e sorelle! Ho accolto molto volentieri
l’invito rivoltomi dai vescovi della Croazia a visitare
questo paese in occasione del primo Incontro nazionale delle famiglie cattoliche croate. Desidero esprimere il mio vivo apprezzamento per l’attenzione e
l’impegno verso la famiglia, non solo perché questa
fondamentale realtà umana oggi, nel vostro paese
come altrove, deve affrontare difficoltà e minacce, e
quindi ha particolare bisogno di essere evangelizzata
e sostenuta, ma anche perché le famiglie cristiane
sono una risorsa decisiva per l’educazione alla fede,
per l’edificazione della Chiesa come comunione e per
la sua presenza missionaria nelle più diverse situazioni
di vita. Conosco la generosità e la dedizione con cui
voi, cari pastori, servite il Signore e la Chiesa. Il vostro lavoro quotidiano per la formazione alla fede
delle nuove generazioni, come anche per la preparazione al matrimonio e per l’accompagnamento delle
famiglie, è la strada fondamentale per rigenerare sempre di nuovo la Chiesa e anche per vivificare il tessuto
a cura di Carla Busato Barbaglio - Alfio Filippi
Immagini dell’uomo
immagini di Dio
sociale del paese. Continuate con disponibilità questo
vostro prezioso impegno pastorale!
È ben noto a ciascuno come la famiglia cristiana
sia segno speciale della presenza e dell’amore di Cristo e come essa sia chiamata a dare un contributo specifico e insostituibile all’evangelizzazione. Il beato
Giovanni Paolo II, che per ben tre volte visitò questo
nobile paese, affermava che «la famiglia cristiana è
chiamata a prendere parte viva e responsabile alla
missione della Chiesa in modo proprio e originale, ponendo cioè al servizio della Chiesa e della società se
stessa nel suo essere e agire, in quanto intima comunità di vita e d’amore» (Familiaris consortio, n. 50; EV
7/1681). La famiglia cristiana è sempre stata la prima
via di trasmissione della fede e anche oggi conserva
grandi possibilità per l’evangelizzazione in molteplici
ambiti.
Cari genitori, impegnatevi sempre a insegnare ai
vostri figli a pregare, e pregate con essi; avvicinateli ai
sacramenti, specie all’eucaristia – quest’anno celebrate i seicento anni del «miracolo eucaristico di Ludbreg» –; introduceteli nella vita della Chiesa;
nell’intimità domestica non abbiate paura di leggere
la sacra Scrittura, illuminando la vita familiare con
la luce della fede e lodando Dio come Padre. Siate
quasi un piccolo cenacolo, come quello di Maria e
dei discepoli, in cui si vive l’unità, la comunione, la
preghiera!
Oggi, grazie a Dio, molte famiglie cristiane acquistano sempre più la consapevolezza della loro vocazione missionaria, e si impegnano seriamente nella
testimonianza a Cristo Signore. Il beato Giovanni
Paolo II ebbe a dire: «Un’autentica famiglia, fondata
sul matrimonio, è in se stessa una buona notizia per il
mondo». E aggiunse: «Nel nostro tempo sono sempre
più numerose le famiglie che collaborano attivamente
all’evangelizzazione… È maturata nella Chiesa l’ora
della famiglia, che è anche l’ora della famiglia missionaria» (Angelus, 21.10.2001).
Siate coraggiose!
Nella società odierna è più che mai necessaria e urgente la presenza di famiglie cristiane esemplari. Purtroppo dobbiamo constatare, specialmente in Europa,
il diffondersi di una secolarizzazione che porta all’emarginazione di Dio dalla vita e a una crescente disgregazione della famiglia. Si assolutizza una libertà
senza impegno per la verità, e si coltiva come ideale il
benessere individuale attraverso il consumo di beni
materiali ed esperienze effimere, trascurando la qualità delle relazioni con le persone e i valori umani più
profondi; si riduce l’amore a emozione sentimentale e
a soddisfazione di pulsioni istintive, senza impegnarsi
a costruire legami duraturi di appartenenza reciproca
e senza apertura alla vita. Siamo chiamati a contrastare tale mentalità! Accanto alla parola della Chiesa,
è molto importante la testimonianza e l’impegno delle
famiglie cristiane, la vostra testimonianza concreta,
C
hi è l’uomo con cui abbiamo a che
fare oggi? Quale Dio insegue, se ne
cerca uno? Di quale Dio ha bisogno? E
che cosa propone oggi la narrazione
biblica, fatta da uomini di un determinato tempo? Il testo offre i risultati del
terzo convegno di studi in memoria del
biblista G. Barbaglio, chiudendo la trilogia inaugurata dai volumi I mille volti di
Gesù (2009) e L’attualità del pensare di
Paolo (2010).
«Biblica - sez. Scritti di Giuseppe Barbaglio»
pp. 160 - € 14,00
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Sessant’anni di sacerdozio: un momento di memoria
I
l 1° luglio scorso, nella Sala ducale del Palazzo apostolico, Benedetto XVI ha pranzato con i membri del Collegio cardinalizio, in occasione del 60° anniversario della sua ordinazione
sacerdotale. Durante il convivio si è rivolto ai presenti con le parole che seguono (www.vatican.va).
Cari confratelli,
Ecce quam bonum et quam iucundum habitare fratres in unum
(Sal 133,1): queste parole del Salmo sono per me in questo momento
realtà vissuta. Vediamo com’è bello che i fratelli sono insieme e vivono insieme la gioia del sacerdozio, dell’esser chiamati nella vigna del
Signore. Vorrei dire grazie di tutto cuore a lei, cardinale decano, per le
sue belle, commoventi e confortanti parole e soprattutto anche per
il dono che mi ha fatto, perché così il nostro «essere insieme» si allarga ai poveri di Roma. Non siamo solo noi a mangiare, qui con noi ci
sono quei poveri che hanno bisogno del nostro aiuto e della nostra assistenza, del nostro amore, che si realizza concretamente nella possibilità di mangiare, di vivere bene, in quanto possiamo, vogliamo
operare in questo senso e questo è un segno importante per me, che
in questa ora solenne non siamo soli, noi; con noi ci sono i poveri di
Roma, che sono particolarmente amati dal Signore.
Fratres in unum: l’esperienza della fraternità è una realtà interna al sacerdozio, perché uno non viene mai ordinato da solo ma
è inserito in un presbiterio, o da vescovi nel collegio episcopale,
così il «noi» della Chiesa si accompagna e si esprime in questa ora.
Quest’ora è un’ora di gratitudine per la guida del Signore, per tutto
quello che mi ha donato e perdonato in questi anni, ma anche un
momento di memoria.
Nel 1951 il mondo era totalmente diverso: non c’era televisione, non c’era Internet, non c’era computer, non c’era cellulare.
specie per affermare l’intangibilità della vita umana
dal concepimento fino al suo termine naturale, il valore unico e insostituibile della famiglia fondata sul
matrimonio e la necessità di provvedimenti legislativi
che sostengano le famiglie nel compito di generare ed
educare i figli.
Care famiglie, siate coraggiose! Non cedete a
quella mentalità secolarizzata che propone la convivenza come preparatoria, o addirittura sostitutiva del
matrimonio! Mostrate con la vostra testimonianza di
vita che è possibile amare, come Cristo, senza riserve,
che non bisogna aver timore di impegnarsi per un’altra persona! Care famiglie, gioite per la paternità e la
maternità! L’apertura alla vita è segno di apertura al
futuro, di fiducia nel futuro, così come il rispetto della
morale naturale libera la persona, anziché mortificarla! Il bene della famiglia è anche il bene della
Chiesa. Vorrei ribadire quanto ho affermato in passato: «L’edificazione di ogni singola famiglia cristiana
si colloca nel contesto della più grande famiglia della
Chiesa, che la sostiene e la porta con sé … E recipro-
Sembra realmente un mondo preistorico quello dal quale noi veniamo; e, soprattutto, le nostre città erano distrutte, l’economia
distrutta, una grande povertà materiale e spirituale, ma anche una
forte energia e volontà di ricostruire questo paese e di rinnovare,
nella Comunità europea soprattutto, sul fondamento della nostra fede, questo paese, e inserirsi nella grande Chiesa di Cristo,
che è il popolo di Dio e ci guida verso il mondo di Dio. Così abbiamo cominciato con grande entusiasmo e con gioia in quel momento.
È venuto poi il momento del concilio Vaticano II dove tutte
queste speranze che avevamo avuto sembravano realizzarsi; poi il
momento della rivoluzione culturale nel Sessantotto, anni difficili
in cui la barca del Signore sembrava piena di acqua, quasi nel momento di affondare; e tuttavia il Signore che sembrava, al momento, dormire era presente e ci ha guidati avanti. Erano gli anni in
cui ho lavorato accanto al beato papa Giovanni Paolo II: indimenticabili! E poi infine l’ora totalmente inaspettata del 19 aprile del
2005, quando il Signore mi ha chiamato a un nuovo impegno e,
solo in fiducia alla sua forza, lasciandomi a lui, potei dire il «sì» di
questo momento.
In questi sessant’anni quasi tutto è cambiato, ma è rimasta la
fedeltà del Signore. Lui è lo stesso ieri, oggi e sempre: e questa è la
nostra certezza, che ci dà la strada al futuro. Il momento della memoria, il momento della gratitudine è anche il momento della speranza: In te Domine speravi, non confundar in aeternum.
Grazie al Signore in questo momento per la sua guida. Grazie
a voi tutti per la compagnia fraterna, il Signore ci benedica tutti. E
grazie per il dono e per tutta la collaborazione. Con l’aiuto del Signore andiamo avanti.
BENEDETTO XVI
camente, la Chiesa viene edificata dalle famiglie, “piccole chiese domestiche”» (Discorso di apertura del Convegno ecclesiale diocesano di Roma, 6.6.2005, in
Insegnamenti di Benedetto XVI, I, 2005, 205; Regnodoc. 13,2005,331). Preghiamo il Signore affinché le famiglie siano sempre più piccole Chiese e le comunità
ecclesiali siano sempre più famiglia!
Care famiglie croate, vivendo la comunione di fede
e di carità, siate testimoni in modo sempre più trasparente della promessa che il Signore asceso al cielo fa a
ciascuno di noi: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla
fine del mondo» (Mt 28,20). Cari cristiani croati, sentitevi chiamati a evangelizzare con tutta la vostra vita;
sentite con forza la parola del Signore: «Andate e fate
discepoli tutti i popoli» (Mt 28,19). La Vergine Maria,
Regina dei croati, accompagni sempre questo vostro
cammino. Amen! Siano lodati Gesù e Maria!
Zagabria, Ippodromo, 5 giugno 2011.
BENEDETTO XVI
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Il segreto
di Nazaret
Dalle catechesi preparatorie
al VII Incontro mondiale
delle famiglie (Milano 2012)
Let tura della Parola di Dio
«Quali sono i nuovi stili di vita per la
famiglia di oggi tra lavoro e festa?
Quali scelte e quali criteri guidano
la nostra vita quotidiana? Quali difficoltà comunicative e sociali si devono affrontare per fare della famiglia un luogo di crescita umana e
cristiana? Quali sono le difficoltà culturali che s’incontrano nel trasmettere le forme della vita buona e della
fede?». Con queste impegnative domande si conclude il «proprio», qui
pubblicato, de «Il segreto di Nazaret», la prima delle dieci catechesi
preparatorie al VII Incontro mondiale delle famiglie (Milano 2012). Il
documento che le contiene, La famiglia: il lavoro e la festa, è pubblicato
in sette lingue dalla Libreria editrice
vaticana ed è stato presentato lo
scorso 24 maggio (cf. riquadro a p.
392). I due riferimenti biblici su cui
questa, che è la catechesi introduttiva, è imperniata chiedono alla famiglia «uno stile capace di accogliere
e generare» e dicono che una famiglia così caratterizzata è il luogo «per
crescere in sapienza e grazia di Dio»,
ma anche quello in cui è forgiata la
nostra umanità, «con le sue ricchezze
e le sue povertà».
Opuscolo, stampa (5.6.2011) da sito web
www.family2010.com, pp. 3-7.
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«Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti
però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di
Dio: a quelli che credono nel suo nome» (Gv 1,11-12).
«Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza,
e la grazia di Dio era su di lui. I suoi genitori si recavano
ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando
egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine
della festa. (...) Scese dunque con loro e venne a Nazaret e
stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste
cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,40-41.51-52).
Catechesi biblica
1. Venne fra i suoi
Perché la famiglia deve scegliere uno stile di vita? Quali
sono i nuovi stili di vita per la famiglia di oggi circa il lavoro
e la festa? Due passi biblici descrivono il modo con cui il Signore Gesù è venuto tra noi (Gv 1,11-12), famiglia umana
(Lc 2,40-41.51-52). Il primo testo ci presenta Gesù che abita
in mezzo alla sua gente: «Venne fra i suoi, ma i suoi non lo
hanno accolto. A quanti, però, lo hanno accolto ha dato il
potere di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel
suo nome». La Parola eterna parte dal seno del Padre,
viene tra la sua gente ed entra in una famiglia umana. Il
popolo di Dio, che avrebbe dovuto essere il grembo accogliente del Verbo, si rivela sterile. I suoi non lo accolgono,
anzi lo tolgono di mezzo. Il mistero del rifiuto di Gesù di
Nazaret si colloca nel cuore della sua venuta tra noi. A coloro che lo accolgono, però, «ha dato il potere di diventare
figli di Dio». Sotto la croce Giovanni vede realizzato ciò
che proclama all’inizio del suo Vangelo. Gesù, «vedendo la
madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava» (Gv
19,26), consegna alla madre il nuovo figlio e affida al discepolo amato la madre. L’evangelista commenta: «E da
quell’ora il discepolo la accolse con sé» (19,27). Ecco lo
«stile» che Gesù ci chiede per venire tra noi: uno stile capace di accogliere e generare. Gesù domanda che la famiglia sia luogo che accoglie e genera la vita in pienezza. Essa
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non dona solo la vita fisica, ma apre alla promessa e alla
gioia. La famiglia diventa capace di «accogliere» se sa preservare la propria intimità, la storia di ciascuno, le tradizioni familiari, la fiducia nella vita, la speranza nel Signore.
La famiglia diventa capace di «generare» quando fa circolare i doni ricevuti, quando custodisce il ritmo dell’esistenza quotidiana tra lavoro e festa, tra affetto e carità, tra
impegno e gratuità. Questo è il dono che si riceve in famiglia: custodire e trasmettere la vita, nella coppia e ai figli.
La famiglia ha il suo ritmo, come il battito del cuore; è
luogo di riposo e di slancio, di arrivo e di partenza, di pace
e di sogno, di tenerezza e di responsabilità. La coppia deve
costruire l’atmosfera prima dell’arrivo dei figli. Il lavoro
non può rendere deserta la casa, ma la famiglia dovrà imparare a vivere e a coniugare i tempi del lavoro con quelli
della festa. Spesso dovrà confrontarsi con pressioni esterne
che non consentono di scegliere l’ideale, ma i discepoli del
Signore sono quelli che, vivendo nella concretezza delle situazioni, sanno dare sapore a ogni cosa, anche a quello
che non si riesce a cambiare: sono il sale della terra. In particolare, la domenica deve essere tempo di fiducia, di libertà, d’incontro, di riposo, di condivisione. La domenica è
il momento dell’incontro tra uomo e donna. Soprattutto è
il giorno del Signore, il tempo della preghiera, della parola
di Dio, dell’eucaristia, dell’apertura alla comunità e alla
carità. E così anche i giorni della settimana riceveranno
luce dalla domenica e dalla festa: ci sarà meno dispersione
e più incontro, meno fretta e più dialogo, meno cose e più
presenza. Un primo passo in questa direzione è vedere
come abitiamo la casa, cosa facciamo nel nostro focolare.
Bisogna osservare com’è la nostra dimora e considerare lo
stile del nostro abitare, le scelte che vi abbiamo fatto, i sogni
che abbiamo coltivato, le sofferenze che viviamo, le lotte che
sosteniamo, le speranze che nutriamo.
cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, età (maturità) e grazia davanti a Dio e agli uomini». Ecco il mistero
profondo di Nazaret: Gesù, la parola di Dio in persona, si
è immerso nella nostra umanità per trent’anni. Le parole degli uomini, le relazioni familiari, l’esperienza dell’amicizia
e della conflittualità, della salute e della malattia, della gioia
e del dolore sono diventate linguaggi che Gesù impara per
dire la parola di Dio. Donde vengono, se non dalla famiglia
e dall’ambiente di Nazaret, le parole di Gesù, le sue immagini, la sua capacità di guardare i campi, il contadino che semina, la messe che biondeggia, la donna che impasta la farina, il pastore che ha perso la pecora, il padre con i suoi due
figli. Dove ha imparato Gesù la sua sorprendente capacità
di raccontare, immaginare, paragonare, pregare nella e
con la vita? Non vengono forse dall’immersione di Gesù
nella vita di Nazaret? Per questo diciamo che Nazaret è il
luogo dell’umiltà e del nascondimento. La parola si nasconde,
il seme scende nel grembo della terra e muore per portare
come dono l’amore stesso di Dio, anzi il volto paterno di
Dio. Questo è il mistero di Nazaret.
3. I legami familiari
Gesù vive in una famiglia segnata dalla spiritualità giudaica e dalla fedeltà alla legge: «I suoi genitori si recavano
ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando
egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine
della festa». La famiglia e la legge sono il contesto dove
Gesù cresce in sapienza e grazia. La famiglia ebraica e la
religiosità giudaica, una famiglia patriarcale e una religione
Velasio De Paolis
2. Il segreto di Nazaret
In questo villaggio della Galilea, Gesù vive il periodo
più lungo della sua vita. Gesù diventa uomo: con il trascorrere degli anni attraversa molte delle esperienze umane
per salvarle tutte: si fa uno di noi, entra in una famiglia
umana, vive trent’anni di assoluto silenzio che diventano
rivelazione del mistero dell’umiltà di Nazaret.
Il ritornello che apre il brano delinea con pochi tratti il
«segreto di Nazaret». È il luogo per crescere in sapienza e grazia di Dio, nel contesto di una famiglia che accoglie e genera. «Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di
sapienza, e la grazia di Dio era su di lui». Il mistero di Nazaret ci dice in modo semplice che Gesù, la Parola che viene
dall’alto, il Figlio del Padre, si fa bambino, assume la nostra umanità, cresce come un ragazzo in una famiglia, vive
l’esperienza della religiosità e della legge, la vita quotidiana
scandita dai giorni di lavoro e dal riposo del sabato, il calendario delle feste. Il «figlio dell’Altissimo» veste i panni
della fragilità e della povertà, è accompagnato dai pastori e
da persone che esprimono la speranza d’Israele.
Il mistero di Nazaret, però, è molto di più: è il segreto
che ha affascinato grandi santi, come Teresa di Lisieux e
Charles de Foucault. Infatti, il ritornello di chiusura dell’episodio dice che Gesù «scese con loro e venne a Nazaret
e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste
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I beni temporali
della Chiesa
Nuova edizione aggiornata e integrata
A cura di Alberto Perlasca
I
l volume costituisce un commento
al libro V del Codice di diritto canonico, dedicato ai beni temporali della
Chiesa. L’esposizione si volge attorno
a due grandi temi: quello biblico e
quello della tradizione e del magistero
della Chiesa. La nuova edizione è stata aggiornata e aumentata.
«Il Codice del Vaticano II»
pp. 336 - € 29,50
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Edizioni
Dehoniane
Bologna
Via Nosadella 6 - 40123 Bologna
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www.dehoniane.it
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La famiglia: il lavoro e la festa
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n vista del VII Incontro mondiale delle famiglie, che si svolgerà
a Milano dal 30 maggio al 2 giugno 2012, il Pontificio consiglio
per la famiglia e l’arcidiocesi di Milano, rispettivamente rappresentati dai cardd. Antonelli e Tettamanzi, hanno presentato il 24
maggio scorso, in Vaticano, il documento La famiglia: il lavoro e
la festa.
Contiene dieci catechesi preparatorie al raduno redatte da un
gruppo di lavoro coordinato dal vescovo ausiliare di Milano mons.
F.G. Brambilla, le quali, ha spiegato lo stesso Brambilla, «formano
un trinomio che parte dalla famiglia per aprirla al mondo: il lavoro
e la festa sono modi con cui la famiglia abita lo “spazio” sociale e
vive il “tempo” umano» (VISnews 110524, 24.5.2011). «Il tema – si
spiega poi nel documento, a p. 2 – mette in rapporto la coppia di
uomo e donna con i suoi stili di vita: il modo di vivere le relazioni
(famiglia), di abitare il mondo (lavoro) e di umanizzare il tempo
(festa). Le catechesi sono articolate in tre gruppi, riguardanti in sequenza la famiglia, il lavoro e la festa e introdotte da una catechesi
domestica, con le sue feste annuali, con il senso del sabato,
con la preghiera e il lavoro quotidiano, con lo stile di un
amore di coppia puro e tenero, fanno comprendere come
Gesù abbia vissuto a fondo la sua famiglia. Anche noi cresciamo in una famiglia umana, dentro legami di accoglienza che ci fanno crescere e rispondere alla vita e a Dio.
Anche noi diventiamo ciò che abbiamo ricevuto. Il mistero
di Nazaret è l’insieme di tutti questi legami: la famiglia e la
religiosità, le nostre radici e la nostra gente, la vita quotidiana e i sogni per il domani. L’avventura della vita umana
parte da ciò che abbiamo ricevuto: la vita, la casa, l’affetto,
la lingua, la fede. La nostra umanità è forgiata da una famiglia, con le sue ricchezze e le sue povertà.
Ascolto del magistero
La vita di famiglia porta con sé uno stile singolare,
nuovo, creativo, da vivere e gustare nella coppia e da trasmettere ai figli affinché trasformi il mondo. Lo stile evangelico della vita familiare influisce dentro e oltre la cerchia
ecclesiale, facendo rifulgere il carisma del matrimonio, il comandamento nuovo dell’amore verso Dio e verso il prossimo.
Suggestivamente, Familiaris consortio, n. 64, ci esorta a riscoprire un volto più familiare di Chiesa¸ con l’adozione di
«uno stile più umano e fraterno di rapporti».
Stile evangelico della vita in famiglia
«Animata e sostenuta dal comandamento nuovo dell’amore, la famiglia cristiana vive l’accoglienza, il rispetto,
il servizio verso ogni uomo, considerato sempre nella sua
dignità di persona e di figlio di Dio. Ciò deve avvenire, anzitutto, all’interno e a favore della coppia e della famiglia,
mediante il quotidiano impegno a promuovere un’autentica comunità di persone, fondata e alimentata dall’interiore comunione di amore. Ciò deve poi svilupparsi entro
la più vasta cerchia della comunità ecclesiale, entro cui la
famiglia cristiana è inserita: grazie alla carità della famiglia, la Chiesa può e deve assumere una dimensione più
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sullo stile della vita familiare. Esse vogliono illuminare l’intreccio tra
l’esperienza della famiglia e la vita quotidiana nella società e nel
mondo».
Ciascuna catechesi è strutturata in nove momenti: «ordinari» i
primi due («Canto e saluto iniziale» e «Invocazione dello Spirito
Santo») e gli ultimi tre («Un impegno per la vita familiare e sociale»,
«Preghiere spontanee. Padre Nostro» e «Canto finale»); «propri» i quattro centrali. Riportiamo in queste pagine i testi «propri» della prima
catechesi, quella introduttiva sullo stile della vita familiare (cf. sopra).
Congedandosi il 28 giugno scorso dall’arcidiocesi ambrosiana a
seguito della nomina al suo posto del patriarca di Venezia card. A.
Scola, il card. Tettamanzi ha indicato l’avvio della preparazione al VII
Incontro mondiale delle famiglie tra i motivi di ringraziamento al
papa per avergli consentito di prolungare il suo episcopato fino ai
77 anni di età.
G. Mc.
domestica, cioè più familiare, adottando uno stile più
umano e fraterno di rapporti. La carità va oltre i propri
fratelli di fede, perché “ogni uomo è mio fratello”; in ciascuno, soprattutto se povero, debole, sofferente e ingiustamente trattato, la carità sa scoprire il volto di Cristo e un
fratello da amare e da servire. Perché il servizio dell’uomo
sia vissuto dalla famiglia secondo lo stile evangelico, occorrerà attuare con premura quanto scrive il concilio Vaticano II: “Affinché tale esercizio di carità possa essere al di
sopra di ogni sospetto e manifestarsi tale, si consideri nel
prossimo l’immagine di Dio secondo cui è stato creato, e
Cristo Signore al quale veramente è donato quanto si dà al
bisognoso” (Apostolicam actuositatem, n. 8; EV 1/946)»
(GIOVANNI PAOLO II, esort. ap. Familiaris consortio sui
compiti della famiglia cristiana nel mondo contemporaneo, 22.11.1981, n. 64; EV 7/1719s).
Domande per il dialogo di coppia e in gruppo
Domande per la coppia
1. La nostra famiglia è luogo che accoglie e genera la
vita in pienezza nelle varie dimensioni umane e cristiane?
2. Quali scelte facciamo perché la famiglia sia spazio
per crescere in sapienza e grazia di Dio?
3. Che tipo di legami familiari, affettivi, religiosi nutrono la crescita della coppia e dei figli?
Domande per il gruppo familiare e la comunità
1. Quali sono i nuovi stili di vita per la famiglia di oggi
tra lavoro e festa?
2. Quali scelte e quali criteri guidano la nostra vita quotidiana?
3. Quali difficoltà comunicative e sociali si devono affrontare per fare della famiglia un luogo di crescita umana
e cristiana?
4. Quali sono le difficoltà culturali che s’incontrano nel
trasmettere le forme della vita buona e della fede?
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Consacrazioni
episcopali
senza mandato
pontificio
1.
Il Pontificio consiglio
per i testi legislativi
sulla retta applicazione del can. 1382
Le consacrazioni episcopali senza
mandato pontificio che hanno avuto
luogo in diversi paesi (più recentemente in Cina) negli ultimi decenni
«rompono la comunione con il romano
pontefice» e violano la disciplina ecclesiastica «in maniera grave», al punto
da essere sanzionate con la scomunica
latae sententiae tanto dei consacranti
come dei consacrati. La questione pertanto è «importante e delicata», scrive
il Pontificio consiglio per i testi legislativi in un corsivo premesso alla pubblicazione, lo scorso 10 giugno, della
Dichiarazione sulla retta applicazione
del canone 1382 del Codice di diritto canonico. Per questo la Santa Sede si è
sempre adoperata «in tutti i modi per
impedire che avvengano consacrazioni
episcopali illegittime». Va collocato in
questo contesto di «grande attenzione»
della sede apostolica lo «studio approfondito della problematica connessa
con la retta applicazione del can. 1382»,
compiuto dal Pontificio consiglio per i
testi legislativi «con particolare riferimento alle responsabilità canoniche dei
soggetti coinvolti in una consacrazione
episcopale senza il necessario mandato
apostolico», e che è sfociato nella presente Dichiarazione.
Stampa (27.6.2011) da sito web www.vatican.va.
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Il Pontificio consiglio per i testi legislativi è stato
sollecitato a chiarire alcuni particolari riguardanti la retta applicazione del can. 1382 del Codex iuris canonici (CIC), in rapporto soprattutto
con le responsabilità canoniche dei soggetti coinvolti in una consacrazione episcopale senza il necessario
mandato apostolico.
La questione, in quanto tale, non solleva dubbi di diritto propriamente tali, ma richiede soltanto talune delucidazioni utili all’adeguata conoscenza dei punti più
salienti della norma penale e al modo in cui essa debba ritenersi applicabile ai casi concreti, tenendo conto delle
circostanze personali dei soggetti che prendono parte alla
commissione del delitto.
2. Come è noto, il can. 1321 definisce il delitto come
la violazione esterna di una legge o di un precetto, gravemente imputabile per dolo o per colpa. Il canone aggiunge che, posta la violazione esterna, si presume l’imputabilità, salvo che non appaia altrimenti (can. 1321 § 3).
Perché esista il reato è sufficiente che il reo sappia che sta
violando una legge canonica; non è necessario che sappia
che alla legge canonica è annessa una pena.
Il can. 1382 CIC punisce con scomunica latae sententiae
riservata alla sede apostolica il vescovo che senza mandato
apostolico consacra qualcuno vescovo e anche quanti in
questo modo ricevono l’ordinazione episcopale. Tale delitto
viola la dottrina cattolica confermata, tra l’altro, dalla cost.
dogm. Lumen gentium, nn. 22 e 24 e dal decr. Christus Dominus, n. 20, e accolta nel can. 377 § 1 CIC: «Il sommo pontefice nomina liberamente i vescovi, oppure conferma quelli
che sono stati legittimamente eletti», e nel can. 1013 CIC: «A
nessun vescovo è lecito consacrare un altro vescovo se prima
non consta del mandato apostolico».
Il can. 1382 CIC è, anzitutto, una norma disciplinare
della Chiesa che, come segnala il can. 11 CIC, vale unicamente per i battezzati nella Chiesa cattolica o per quanti in
essa sono stati già accolti. Inoltre, corrisponde col reato tipizzato dal Codex canonum Ecclesiarum orientalium (CCEO)
nel can. 1459 § 2, anche se nella tradizione penale di quelle
Chiese non esistono pene latae sententiae, per cui la stessa
pena viene inflitta ferendae sententiae.
3. Il delitto sancito dal can. 1382 CIC è commesso sia dal
vescovo che consacra sia dal chierico che è consacrato. Inoltre, essendo quello della consacrazione episcopale un rito in
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cui è solita la partecipazione di più ministri, coloro che assumono detto compito di co-consacranti, e cioè impongono
le mani e recitano la preghiera consacratoria nell’ordinazione (cf. Caeremoniale Episcoporum, nn. 582 e 584), risultano
coautori del reato e quindi ugualmente sottoposti alla sanzione penale. Tale interpretazione risulta anche confermata
dalla tradizione della Chiesa e dalla sua recente prassi.
4. Per quanto riguarda, invece, la punizione del delitto, la pena di scomunica prevista dal can. 1382 CIC è
sottoposta alle comuni condizioni richieste dalla legge canonica perché si incorra in una sanzione latae sententiae
effettivamente e con certezza. Com’è risaputo, oltre alle
comuni sanzioni penali ferendae sententiae inflitte dall’autorità legittima per mezzo di una sentenza o di un decreto a conclusione delle corrispondenti procedure
penali, nell’ordinamento canonico vi sono anche le cosiddette pene latae sententiae, che non dipendono da un
giudice esterno che le imponga, ma solo dal compimento
del delitto, fatto salvo quanto è prescritto dal can. 1324 §
3. Quest’ultimo esime dalla specifica pena latae sententiae se si verificano circostanze che, a norma del § 1 dello
stesso canone, pur non escludendo la pena in quanto tale,
la mitigano. Il can. 1324 § 3, infatti, specifica che il reo
non incorre nella pena latae sententiae se esiste una delle
circostanze elencate nel can. 1324 § 1.
Pertanto ciascun soggetto, nel caso di una consacrazione episcopale senza mandato apostolico, va considerato
singolarmente e secondo le proprie circostanze personali
per quanto attiene all’incorrere nella pena di scomunica
latae sententiae riservata alla Santa Sede. Dette circostanze personali possono essere molto diverse e, in taluni
casi, possono costituire circostanze attenuanti previste
dalla legge. Al riguardo, il can. 1324 § 1 CIC segnala che
l’impeto passionale, la minore età, il timore grave, anche
soltanto relativamente tale, la necessità, l’ingiusta provocazione, o l’ignoranza della pena canonica, per esempio,
sono circostanze attenuanti che escludono la pena latae
sententiae nelle forme indicate dalla legge.
Poche di queste circostanze possono essere configurabili nel reato di consacrazione senza mandato. C’è, però,
un insieme di attenuanti delineate dal can. 1324 § 1, 5°
CIC che la storia ha dimostrato compatibili con delitti di
questa natura: quando la persona, che commette il delitto come ordinante o come ordinato, è «costretta da timore grave, anche se soltanto relativamente tale, o per
necessità o per grave incomodo». Nel concreto caso di
una consacrazione episcopale senza mandato, l’attenuante del timore grave o del grave incomodo (o l’esimente della violenza fisica) va, dunque, verificata in
merito a ciascuno dei soggetti che intervengono nel rito:
i ministri consacranti e i chierici consacrati. Ciascuno di
loro conosce in cuor suo il grado del personale coinvolgimento e la retta coscienza indicherà a ognuno se è incorso in una pena latae sententiae.
5. In merito alle responsabilità canoniche dei soggetti
coinvolti in una consacrazione episcopale senza il necessario mandato apostolico va comunque aggiunto quanto
segue.
Porre esternamente un atto punito dal can. 1382 CIC
provoca spontaneamente nei fedeli delle reazioni, anche
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di scandalo e di confusione, che in nessun modo possono
essere sottovalutate e che postulano – nei vescovi coinvolti – la necessità di ricuperare autorevolezza mediante
segni di comunione e di penitenza, che possano essere apprezzati da tutti e senza i quali il governo pastorale del
vescovo «difficilmente potrebbe essere recepito dal popolo di Dio come manifestazione della presenza operante
di Cristo nella sua Chiesa» (Pastores gregis, n. 43). Essi,
infatti, come insegna il concilio Vaticano II, reggono le
Chiese particolari loro affidate «con il consiglio, la persuasione, l’esempio» (Lumen gentium, n. 27; EV 1/351; cf.
can. 387 CIC).
Inoltre, si ricorda che il can. 1331 § 1 CIC segnala che,
allo scomunicato, è proibito: 1) prendere parte come ministro alla celebrazione dell’eucaristia o di qualunque
altra cerimonia di culto pubblico; 2) celebrare sacramenti
e sacramentali e ricevere qualunque sacramento; 3) esercitare funzioni ministeriali ecclesiastiche e porre atti di
governo. Queste proibizioni scattano ipso iure dal momento stesso in cui si incorre in una pena latae sententiae.
Non occorre perciò che intervenga alcuna autorità che
imponga al soggetto dette proibizioni: la consapevolezza
del proprio delitto è sufficiente perché chi è incorso nella
sanzione sia tenuto davanti a Dio ad astenersi da tali atti,
pena la commissione di un atto moralmente illecito e pertanto sacrilego. Tuttavia, anche gli atti derivanti dalla potestà di ordine e realizzati nelle succitate circostanze di
sacrilegio sarebbero validi.
6. Com’è ovvio, tutto quanto precede non esclude che,
nei casi di ordinazione episcopale senza mandato pontificio, la Santa Sede possa trovarsi nella necessità d’infliggere direttamente al soggetto delle censure, per esempio,
qualora dalla sua condotta successiva o dalla sua riluttanza a fornire le necessarie spiegazioni circa il proprio
grado di partecipazione al delitto emergesse un atteggiamento non compatibile con le esigenze della comunione.
Inoltre, sopraggiunte nuove e certe informazioni, la stessa
Santa Sede potrebbe addirittura trovarsi nella necessità di
dichiarare la scomunica latae sententiae, o d’imporre altre sanzioni o penitenze, se ciò si rendesse necessario per
riparare lo scandalo, per dissipare la confusione dei fedeli
e, più in generale, per salvaguardare la disciplina ecclesiastica (cfr. can. 1341).
La pena della scomunica latae sententiae stabilita
dal can. 1382 CIC è una censura riservata alla Santa
Sede. In quanto censura, è una pena detta «medicinale», perché ha per finalità muovere il reo al pentimento: una volta che ha dimostrato di essersi
sinceramente pentito, questi acquista il diritto di essere
assolto dalla scomunica. Inoltre, essendo riservata alla
Santa Sede, solo a essa può rivolgersi il reo pentito per
ottenere l’assoluzione dalla scomunica, riconciliandosi
con la Chiesa.
Dal Vaticano, 6 giugno 2011.
FRANCESCO COCCOPALMERIO,
presidente
JUAN IGNACIO ARRIETA,
segretario
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Il destino
dei ghiacciai
di montagna
nell’Antropocene
Rapporto del gruppo di lavoro
incaricato dalla
Pontificia accademia delle scienze
«L’umanità ha creato l’era dell’Antropocene e con essa deve ora convivere.
Questo richiede però una nuova consapevolezza dei rischi che le azioni dell’uomo stanno avendo sulla Terra e sui
suoi sistemi, inclusi i ghiacciai». Un
gruppo di scienziati, convocato dalla
Pontificia accademia delle scienze, si è
riunito in Vaticano dal 2 al 4 aprile 2011
«per discutere del destino dei ghiacciai
(…) e per considerare gli interventi necessari a stabilizzare il cambiamento
climatico che li sta influenzando». La
dichiarazione ufficiale al termine dei
lavori «è un avvertimento all’umanità e
una richiesta di intervento immediato –
per mitigare il riscaldamento globale,
per proteggere i ghiacciai e altri ecosistemi vulnerabili, per valutare i rischi
climatici globali e locali», ma anche
«per prepararsi e adattarsi a quegli impatti climatici che non possono essere
mitigati». Tra i fenomeni cui occorrerà
prepararsi, quello dei cosiddetti «rifugiati ambientali», ovvero di coloro che
saranno «costretti ad abbandonare la
loro terra d’origine per motivi legati (…)
al degrado dell’ambiente», è uno dei
temi centrali del messaggio pubblicato
dalla CEI (12.6.2011) in vista della VI
Giornata per la salvaguardia del creato
(cf. riquadro alle pp. 398-399).
Stampa (13.6.2011) da sito web www.vatican.va.
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D
ichiarazione del gruppo di lavoro
Noi invitiamo tutti i popoli e le nazioni a una nuova
consapevolezza degli impatti, gravi e potenzialmente irreversibili, del riscaldamento globale causato dall’emissione di gas serra e di altri inquinanti da parte dell’uomo
e dai cambiamenti nell’uso del territorio. Invitiamo tutte
le nazioni a sviluppare e a implementare, senza ritardi,
politiche efficienti ed eque per ridurre le cause e gli impatti del cambiamento climatico sulle comunità e sugli
ecosistemi, compresi i ghiacciai di montagna e i loro bacini, consapevoli che viviamo tutti in una stessa casa.
Agendo subito, nello spirito di una responsabilità comune ma diversificata, accettiamo il nostro dovere verso
il prossimo e verso la custodia di un pianeta benedetto
dal dono della vita. Siamo tenuti ad assicurare che tutti
gli abitanti del pianeta abbiano accesso al loro pane
quotidiano, ad aria pulita da respirare e acqua pulita da
bere, essendo noi consapevoli che, se vogliamo giustizia
e pace, dobbiamo proteggere l’habitat che ci sostiene. I
credenti fra noi chiedono a Dio di esaudire questo nostro auspicio.
I.
Sintesi
Antropocene: l’uso indiscriminato dei combustibili
fossili e di altre risorse naturali ha causato l’inquinamento
dell’aria che respiriamo, dell’acqua che beviamo e della
terra sulla quale abitiamo. Per fare un esempio, all’incirca
1.000 miliardi di tonnellate di biossido di carbonio e altri
gas serra climaticamente importanti sono stati immessi
nell’atmosfera dall’uomo, con il risultato che la concentrazione di biossido di carbonio in atmosfera è attualmente la più elevata rispetto agli ultimi 800.000 anni. Si
ritiene che gli impatti climatici ed ecologici di questa interferenza umana sul sistema Terra si protrarranno per
molti millenni, tanto da far coniare un nuovo nome, Antropocene, per la nuova era geologica altamente influenzata dall’attività umana nella quale viviamo.
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Regresso dei ghiacciai: il volume dei ghiacciai si
sta riducendo su tutto il pianeta, con velocità più elevate
alle quote più basse. La grande perdita di massa dei ghiacciai nelle regioni tropicali, temperate e polari è una delle
conseguenze più chiare di un cambiamento in atto nel sistema climatico, molto rapido ed esteso su scala globale.
Lunghe serie temporali di misure indicano che la velocità di scioglimento dei ghiacciai è più che raddoppiata
dall’inizio del secolo. Lo scioglimento delle nevi e dei
ghiacciai montani ha poi contribuito significativamente all’innalzamento del livello del mare osservato nell’ultimo
secolo. Il regresso dei ghiacciai nelle Alpi è stato osservato
dalla fine della «piccola era glaciale» (prima parte del XIX
secolo), ma la sua velocità è aumentata notevolmente dagli anni Ottanta e i ghiacciai alpini hanno già perso più
del 50% della loro massa. Migliaia di piccoli ghiacciai
nella regione dell’Hindukush-Himalaya-Tibet continuano
a disgregarsi e costituiscono un pericolo per le comunità
locali e per il numero ancora maggiore di coloro che dipendono dalle risorse idriche della montagna. Proiezioni
attendibili indicano chiaramente che molte catene montuose in tutto il mondo potrebbero perdere frazioni rilevanti dei loro ghiacciai entro i prossimi decenni.
I cambiamenti recenti osservati nelle caratteristiche
dei ghiacciai sono dovuti a una complessa serie di fattori
causali che includono il forcing dovuto ai gas serra, insieme alle emissioni su larga scala di particelle carboniose
(il black carbon) e polveri che formano le cosiddette brown
clouds, e ai cambiamenti associati del contenuto di energia e umidità dell’atmosfera su scala regionale, che determinano un significativo riscaldamento ad altitudini
elevate, non da ultimo sull’Himalaya.
Retrospettiva sui cambiamenti passati: in risposta all’affermazione che «avendo la Terra sperimentato nel passato un alternarsi di periodi freddi (glaciali) e
caldi (interglaciali), gli attuali cambiamenti climatici e
della copertura dei ghiacci sono eventi naturali», affermiamo: le cause principali dei periodi glaciali e interglaciali sono i cambiamenti ben noti dei parametri astronomici
che riguardano il movimento del nostro pianeta all’interno
del sistema solare, unitamente a processi di retroazione nel
sistema climatico. La scala temporale di tali fenomeni è dell’ordine di 10.000 anni o più. Al contrario, i cambiamenti
indotti dall’uomo nella concentrazione di biossido di carbonio, altri gas serra e particelle carboniose, stanno avvenendo su una scala temporale di 10-100 anni – quindi per
lo meno un centinaio di volte più velocemente. È particolarmente preoccupante che l’emissione dei suddetti agenti
riscaldanti stia avvenendo durante un periodo interglaciale, quando la Terra si trova già a un massimo naturale
di temperatura.
Tre raccomandazioni: i cambiamenti causati dall’uomo nella composizione dell’atmosfera e nella qualità
dell’aria causano a livello globale più di due milioni di
morti premature ogni anno e mettono in pericolo le risorse di acqua e cibo – specialmente fra i tre miliardi di
persone troppo povere per avvalersi della protezione offerta dalla tecnologia e dall’uso di combustibili fossili.
Dato che non è possibile un futuro sostenibile basato
sull’uso di carbone, petrolio e gas naturale, sia per l’esau-
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rimento delle risorse che per i connessi danni ambientali
(come quello causato, ad esempio, dall’innalzamento del
livello del mare), esortiamo la società a:
I. Ridurre senza ulteriori indugi le emissioni
di biossido di carbonio, usando tutti i mezzi possibili per conseguire gli ambiziosi obiettivi internazionali sui livelli tollerabili di aumento
della temperatura globale e per assicurare la
stabilità del sistema climatico nel lungo periodo.
Tutte le nazioni debbono impegnarsi su una rapida transizione alle fonti di energia rinnovabili e su altre strategie
per ridurre le emissioni di CO2. Ogni nazione dovrebbe
anche favorire l’assorbimento naturale del carbonio fermando la deforestazione e riforestando i terreni degradati. Ogni nazione deve inoltre impegnarsi a sviluppare
tecnologie che possano rimuovere l’eccesso di biossido di
carbonio dall’atmosfera. Tutto questo deve avvenire nello
spazio di pochi decenni.
II. Ridurre per lo meno del 50% la concentrazione di inquinanti atmosferici che contribuiscono al riscaldamento globale (particelle
carboniose, metano, ozono troposferico e idrofluorocarburi), allo scopo di rallentare il riscaldamento
climatico nel corso del secolo attuale, prevenendo in questo modo anche milioni di morti premature causate da
malattie respiratorie e milioni di tonnellate di perdite nei
raccolti ogni anno.
III. Prepararsi ad adattarsi ai cambiamenti
climatici, sia graduali sia improvvisi, che la società non sarà in grado di mitigare. In particolare
invochiamo un’iniziativa globale di rafforzamento delle
capacità di valutare gli impatti naturali e sociali dei cambiamenti climatici sui sistemi montani e sui relativi bacini.
Il costo di questi tre interventi raccomandati è irrisorio
in confronto al prezzo che il mondo dovrà pagare se non
agiamo subito.
II.
Risultati specifici
e raccomandazioni
Antropocene: una nuova era geologica
Gli ultimi due secoli hanno visto una crescita della
popolazione umana e uno sfruttamento delle risorse
della Terra senza precedenti. Questo sfruttamento ha
causato impatti sempre più negativi su molti componenti
del sistema Terra – sull’aria che respiriamo, sull’acqua
che beviamo e sul suolo sul quale abitiamo. L’uomo sta
cambiando il sistema climatico con l’emissione di gas
serra e di particolato in grado di assorbire calore. La concentrazione attuale di biossido di carbonio, il principale
gas serra, è di gran lunga superiore ai livelli osservati
negli ultimi 800.000 anni. Anche trasformazioni a larga
scala della superficie terrestre, tra cui la scomparsa di foreste, praterie, zone umide e altri ecosistemi, sono causa
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del cambiamento climatico. Riconoscendo che le attività
umane stanno profondamente modificando i componenti del sistema Terra, il premio Nobel Paul Crutzen
ha coniato il nome di Antropocene per la nuova era geologica che noi stessi abbiamo creato.
Un gruppo di scienziati si è riunito sotto gli auspici
della Pontificia accademia delle scienze presso la Casina
Pio IV in Vaticano, dal 2 al 4 aprile 2011, per discutere
del destino dei ghiacciai di montagna nell’Antropocene
e per considerare gli interventi necessari a stabilizzare il
cambiamento climatico che li sta influenzando. La dichiarazione ufficiale di consenso di questo gruppo di
scienziati è un avvertimento all’umanità e una richiesta
di intervento immediato – per mitigare il riscaldamento
globale e regionale, per proteggere i ghiacciai e altri ecosistemi vulnerabili, per valutare i rischi climatici globali
e locali e per prepararsi e adattarsi a quegli impatti climatici che non possono essere mitigati. Il gruppo nota
inoltre che un ulteriore rischio di origine antropica per il
sistema climatico può derivare dal pericolo di una guerra
nucleare, pericolo che può essere attenuato con una rapida e consistente riduzione degli arsenali nucleari mondiali.
La Terra si sta riscaldando e gli impat ti
del cambiamento climatico stanno aumentando
Il riscaldamento della Terra è inequivocabile. La
maggior parte dell’aumento osservato della temperatura media globale dalla metà del XX secolo è «molto
probabilmente» – il che significa con una probabilità
maggiore del 90% – il risultato dell’aumento rilevato
nella concentrazione di gas serra di origine antropica. Il
riscaldamento sta avvenendo nonostante l’effetto concomitante di raffreddamento del particolato atmosferico
– in gran parte emesso dagli stessi processi responsabili
dell’emissione di CO2.
Alcuni degli effetti dei cambiamenti climatici attuali e
previsti per il futuro includono la perdita di barriere coralline, foreste, aree umide e altri ecosistemi; un tasso di
estinzione per diverse specie molte volte più alto della
media storica; carenza di cibo e acqua per molte popolazioni vulnerabili. L’aumento del livello del mare ed eventi
meteorologici estremi mettono in pericolo ecosistemi e
popolazioni, specialmente quelli delle isole e delle nazioni
costiere. La perdita di ghiacciai di montagna qui discussa
mette in pericolo le popolazioni a valle, specialmente durante la stagione secca quando il flusso di acqua dai
ghiacciai è maggiormente necessario.
I ghiacciai terrestri stanno regredendo:
cause e conseguenze
La perdita diffusa di ghiaccio e neve sulle montagne
del pianeta è una delle evidenze più chiare che abbiamo
dei cambiamenti globali nel sistema climatico. Le attuali
perdite di ghiacciai montani causano un innalzamento
del livello del mare maggiore di 1 mm l’anno, circa un
terzo del tasso globale d’innalzamento osservato. Nella
parte più recente dell’Antropocene, molta parte della riduzione in massa ed estensione dei ghiacciai in regioni
tropicali, temperate e polari è il risultato dell’aumento
osservato nella concentrazione dei gas serra e delle particelle in grado di assorbire la radiazione solare, come le
particelle carboniose derivanti da processi di combustione inefficiente e le polveri originate dai cambiamenti
nell’uso dei suoli.
Come riportato nel rapporto del 2007dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC, l’istituzione delle
Nazioni Unite incaricata di monitorare i cambiamenti climatici – ndr; cf. Regno-att. 20,2099,674), estrapolazioni da
studi sul cambiamento di massa realizzati su circa 400
ghiacciai selezionati globalmente indicano una diminuzione di spessore medio annuo di circa 0,7 m equivalenti
di acqua. La linea di equilibrio tra area di accumulo e area
di ablazione dei ghiacciai si è spostata verso l’alto di diverse centinaia di metri in molte catene montuose rispetto
alla metà degli anni Settanta. Per molti ghiacciai nelle catene montuose meno elevate, il piano nivale alla fine dell’estate si trova a un’altezza superiore a quella massima
delle montagne, rendendo così questi ghiacciai fortemente
vulnerabili al cambiamento climatico in atto. In molte
zone, inoltre, si sta verificando la frammentazione di questi ultimi, che lascia ghiacciai di più piccole dimensioni più
soggetti a sparire definitivamente.
Le osservazioni a oggi disponibili ci dicono che
l’estensione dei ghiacciai è in diminuzione a livello globale, con i tassi più elevati alle quote minori. I ghiacciai
più grandi perdono le loro lingue, lasciandosi dietro morene instabili e laghi dagli argini fragili, come il lago
Imja in Nepal. Questi argini fragili sono soggetti a cedimenti improvvisi che causano allagamenti catastrofici
che devastano le già fragili infrastrutture delle comunità
a valle.
In America del Nord, l’intervento umano sta aumentando l’emissione di polveri minerali dai deserti dell’altopiano del Colorado e del Great Basin, che rendono più
scura la neve accorciando quindi la stagione di innevamento delle Montagne Rocciose del Colorado di 4-7 settimane. Le polveri minerali contribuiscono anche a
riscaldare l’atmosfera assorbendo la radiazione solare. Altrove, le diffuse brown clouds formate da particelle carboniose originate da processi di combustione inefficiente
possono avere un impatto importante su regioni quali
l’Himalaya. Abbiamo pochissimi studi – in alcuni casi
nessuno – del bilancio di massa e di energia che quantifichino gli effetti del black carbon sulla neve e sui ghiacci
di molte regioni montuose remote. Gli impatti che comprendiamo grazie a misure dettagliate effettuate in America del Nord forniscono comunque un quadro della
risposta dei ghiacciai in altre regioni similmente influenzate.
L’ammontare e la velocità della perdita di massa dei
ghiacciai differiscono nelle diverse regioni del pianeta,
così come gli impatti associati alla disponibilità stagionale
d’acqua nelle valli e nelle pianure sottostanti. In regioni
con una stagione secca e una umida, come l’Asia centrale, le montagne, i ghiacciai e le nevi invernali sono
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In una terra ospitale, educhiamo all’accoglienza
L
a Conferenza episcopale italiana (Commissione episcopale
per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace e Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo) ha pubblicato, lo scorso 12 giugno, il messaggio in occasione della VI
Giornata per la salvaguardia del creato, che la Chiesa italiana celebrerà il 1° settembre 2011. Lo riportiamo di seguito (www.chiesacattolica.it).
Il tema della VI Giornata per la salvaguardia del creato è assai
significativo nel contesto del dibattito ecclesiale e culturale
odierno. Esso si articola in quattro punti, in continuità con l’argomento trattato l’anno passato, Custodire il creato, per coltivare la
pace (cf. Regno-doc. 15,2010,518), nella linea degli Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio corrente: «La comunità cristiana offre il suo contributo e sollecita quello di tutti
perché la società diventi sempre più terreno favorevole all’educazione. Favorendo condizioni e stili di vita sani e rispettosi dei valori,
è possibile promuovere lo sviluppo integrale della persona, educare all’accoglienza dell’altro e al discernimento della verità, alla solidarietà e al senso della festa, alla sobrietà e alla custodia del
creato, alla mondialità e alla pace, alla legalità, alla responsabilità
etica nell’economia e all’uso saggio delle tecnologie» (EPISCOPATO
ITALIANO, Educare alla vita buona del Vangelo, 28.10.2010, n. 50;
Regno-doc. 19,2010,619).
La Giornata diventa così occasione di un’ulteriore immersione
nella storia, per ritrovare le radici della solidarietà, partendo da Dio,
che creò l’uomo a sua immagine e somiglianza, con il mandato di
fare della terra un giardino accogliente, che rispecchi il cielo e prolunghi l’opera della creazione (cf. Gen 2,8-15).
1. L’uomo, creatura responsabile e ospitale
La sacra Scrittura, infatti, narra che l’uomo venne posto da Dio
nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. Affidandogli la terra, Dio gli consegnò, in qualche modo, tutta la sua gratuità. L’uomo diventa così la creatura chiamata a realizzare il
disegno divino di governare il mondo nello stile della gratuità, con
santità e giustizia (cf. Sap 9,2-3), fino a giungere alla meta di riconoscersi, per grazia, figlio adottivo in Gesù Cristo (cf. Ef 1,5).
Accogliendo l’intero creato come dono gratuito di Dio e
agendo in esso nello stile della gratuità, l’uomo diviene egli stesso
autentico spazio di ospitalità: finalmente idoneo e capace di accogliere ogni altro essere umano come un fratello, perché l’amore
come «serbatoi» che raccolgono acqua potabile per milioni di persone. La perdita di massa del ghiacciaio può
generare un iniziale aumento del flusso a valle dovuto ad
acqua immagazzinata molto tempo prima, come è stato
osservato in diversi bacini; ma il flusso d’acqua inevitabilmente si riduce quando il ghiacciaio regredisce ulteriormente.
I ghiacciai montani svolgono un’altra funzione molto
importante conservando informazioni dettagliate sul
clima del passato e sulla capacità dei ghiacciai stessi di rispondere alle diverse variabili climatiche. Questo rende i
ghiacciai preziosi strumenti per comprendere le dinamiche climatiche passate e presenti. L’elevato potenziale dei
ghiacciai montani come strumenti d’indagine per la ri-
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di Dio effuso dallo Spirito nel suo cuore lo rende capace di amore e di
perdono, di rinuncia a se stesso, «di accoglienza del prossimo, di giustizia e di pace» (BENEDETTO XVI, lett. enc. Caritas in veritate sullo sviluppo umano integrale, 29.6.2009, n. 79; Regno-doc. 15,2009,490).
È il cuore dell’uomo, infatti, che deve essere formato all’accoglienza, anzitutto della vita in se stessa, fino all’incontro e all’accoglienza
di ogni esistenza concreta, senza mai respingere qualcuno dei propri
fratelli. Il Santo Padre ci ricorda che: «Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme
di accoglienza utili alla vita sociale s’inaridiscono. L’accoglienza della
vita tempra le energie morali e rende capaci di aiuto reciproco» (ivi, n.
28; Regno-doc. 15,2009,468).
L’ospitalità diventa così, in un certo senso, la misura concreta dello
sviluppo umano, la virtù che getta il seme della solidarietà nel tessuto
della società, il parametro interiore ed esteriore del disegno dell’amore
che rivela il volto di Dio Padre. Diventando ospitale, l’uomo riconosce
con i fatti a ogni persona il diritto a sentirsi di casa nel cuore stesso di
Dio.
2. Il problema dei rifugiati ambientali
In questa delicata stagione del mondo il tema dell’ospitalità richiama con drammatica urgenza le dinamiche delle migrazioni internazionali, nel loro legame con la questione ambientale. Sono sempre più
numerosi, oggi, gli uomini e le donne costretti ad abbandonare la loro
terra d’origine per motivi legati, più o meno direttamente, al degrado
dell’ambiente. È la terra stessa, infatti, che – divenuta inospitale a motivo del mancato accesso all’acqua, al cibo, alle foreste e all’energia,
come pure dell’inquinamento e dei disastri naturali – genera i cosiddetti «rifugiati ambientali». Si tratta di un fenomeno che può avere una
dimensione nazionale, laddove gli spostamenti avvengano all’interno
di un paese o di una regione; ma che si caratterizza sempre più spesso
per la portata globale, con migrazioni che interessano talvolta popoli interi, sospinti dagli eventi a spostarsi in terre lontane.
In questo processo gioca un ruolo non trascurabile il mutamento
del clima, che attraverso la variazione repentina e non sempre prevedibile delle sue fasce, rischia d’intaccare l’abitabilità di intere aree del
pianeta e d’incrementare, di conseguenza, i flussi migratori.
Per quanto sia possibile prevedere, non si è lontani dal vero immaginando che entro la metà di questo secolo il numero dei profughi ambientali potrà raggiungere i duecento milioni.
Si comprende bene, allora, il senso dell’accorato richiamo del papa
nel Messaggio per la giornata della pace dell’anno 2010: «Come rima-
cerca climatica sta solo ora iniziando a essere compreso.
Nuove ricerche necessarie a ridurre le incertezze, a delineare i processi e a quantificare gli impatti regionali possono portare a importanti risultati. È tempo di prestare
maggiore attenzione ai ghiacciai montani prima che i loro
archivi vadano persi per sempre.
Per evitare «pericolose inter ferenze
antropiche» sono necessari
obiet tivi climatici chiari e vincolanti
L’obiettivo delle politiche sul clima è quello di stabilizzare le emissioni di gas serra a un livello che pre-
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nere indifferenti di fronte alle problematiche che derivano da fenomeni quali i cambiamenti climatici, la desertificazione, il degrado e la
perdita di produttività di vaste aree agricole, l’inquinamento dei fiumi
e delle falde acquifere, la perdita della biodiversità, l’aumento di eventi
naturali estremi, il disboscamento delle aree equatoriali e tropicali?
Come trascurare il crescente fenomeno dei cosiddetti “profughi ambientali”: persone che, a causa del degrado dell’ambiente in cui vivono,
lo devono lasciare – spesso insieme ai loro beni – per affrontare i pericoli e le incognite di uno spostamento forzato?» (BENEDETTO XVI, mess.
Coltivare la pace, custodire il creato, n. 4; Regno-doc. 1,2010,2).
3. Educare all’accoglienza
È questo lo scenario cosmico e umano dentro il quale la Chiesa è
chiamata oggi a rendere presente il mistero della presenza di Cristo,
via, verità e vita, riproponendone con forza il messaggio di solidarietà
e di pace. Attraverso la sua opera educativa, «la Chiesa intende essere
testimone dell’amore di Dio nell’offerta di se stessa; nell’accoglienza
del povero e del bisognoso; nell’impegno per un mondo più giusto, pacifico e solidale; nella difesa coraggiosa e profetica della vita e dei diritti di ogni donna e di ogni uomo, in particolare di chi è straniero,
immigrato ed emarginato; nella custodia di tutte le creature e nella salvaguardia del creato» (EPISCOPATO ITALIANO, Educare alla vita buona del
Vangelo, n. 24; Regno-doc. 19,2010,610).
Ecco perché educare all’accoglienza a partire dalla custodia del
creato significa condurre gli uomini lungo un triplice sentiero: quello,
anzitutto, di coltivare un atteggiamento di gratitudine a Dio per il dono
del creato; quello, poi, di vivere personalmente la responsabilità di rendere sempre più bella la creazione; quello, infine, di essere, sull’esempio di Cristo, testimoni autentici di gratuità e di servizio nei confronti
di ogni persona umana. È così che la custodia del creato, autentica
scuola dell’accoglienza, permette l’incontro tra le diverse culture, fra i
diversi popoli e perfino, nel rispetto dell’identità di ciascuno, fra le diverse religioni, e conduce tutti a crescere nella reciproca conoscenza,
nel dialogo fraterno, nella collaborazione più piena.
Ciò può realizzarsi senza mai dimenticare la necessità che la Chiesa,
con il coraggio della parola e l’umiltà della testimonianza, continui a
proclamare che è proprio Gesù Cristo, il Verbo di Dio fatto carne, la
presenza profonda che permette il disvelarsi del disegno di Dio sull’uomo e sul cosmo, perché «tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza
di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste» (Gv 1,3). È in Cristo che la solidarietà diventa reciprocità, esercizio di amore fraterno, gara nella stima
vicendevole, custodia dell’identità e della dignità di ciascuno, stimolo
al cambiamento nel vivere sociale.
È consolante rilevare come, sull’insieme di questi temi, le diverse
Chiese e comunità cristiane abbiano raggiunto una significativa sinto-
venga «pericolose interferenze antropiche sul sistema
climatico» e «permetta agli ecosistemi di adattarsi naturalmente al cambiamento climatico, assicuri che la
produzione di cibo non sia messa a rischio e permetta
allo sviluppo economico di procedere in modo sostenibile», così come espresso nell’articolo 2 della United
Nations Framework Convention on Climate Change
(UNFCCC, convenzione quadro adottata dopo la
Conferenza ONU su ambiente e sviluppo, tenutasi a
Rio de Janeiro nel 1992, attualmente sottoscritta da
192 paesi; ndr).
Il limite di temperatura attualmente proposto per evitare «pericolose interferenze antropiche» è un aumento di
2°C (rispetto ai livelli preindustriali), sebbene molti scien-
nia: il mondo ortodosso, a partire dal Patriarcato ecumenico, ha
dedicato al problema della salvaguardia responsabile del creato documenti, momenti di riflessione ed iniziative; le diverse denominazioni evangeliche condividono la preoccupazione per l’uso equo
e solidale delle risorse della terra, in un impegno concreto e fattivo.
Tutte convergono nella sollecitudine verso i più poveri, verso
le vittime delle guerre, dei disastri ambientali e della ingiusta distribuzione dei frutti della terra.
La Giornata per la salvaguardia del creato si conferma, così,
anche una felice occasione d’incontro ecumenico, che mostra
come il dialogo fra i credenti in Cristo salvatore non si limiti al confronto teologico, ma tocchi il comune impegno per le sorti dell’umanità.
Tutti siamo chiamati a cooperare perché le risorse ambientali
siano preservate dallo spreco, dall’inquinamento, dalla mercificazione e dall’appropriazione da parte di pochi. Il fatto che, in questo sforzo condiviso, le Chiese riescano a parlare con una voce sola,
rappresenta una grande testimonianza cristiana, che rende di sicuro più credibile l’annuncio del Vangelo nel mondo di oggi.
4. I miti, eredi di questo mondo
«Beati i miti, perché avranno in eredità la terra» (Mt 5,5). Sentirsi custodi gli uni degli altri è l’effetto dinamico dell’essere dono
nell’accoglienza. Sappiamo, però, che la mitezza coincide con la
purezza del cuore: è uno stile di vita e di relazioni a cui il cristiano
aspira, perché in esso arde la pienezza dell’umiltà contro la prevaricazione e l’egoismo. Sono i miti i veri difensori del creato, perché
amano quanto il Padre ha creato per la loro sussistenza e la loro
felicità.
Dio infatti «ha creato il mondo per manifestare e per comunicare la sua gloria, in modo che le sue creature abbiano parte alla sua
verità, alla sua bontà, alla sua bellezza: ecco la gloria per la quale Dio
le ha create» (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 319).
Tutti abbiamo bisogno di Dio: riconoscendoci opera delle sue
mani, sue creature, siamo invitati a custodire il mondo che ci ha affidato, perché, condividendo le risorse della terra, esse si moltiplichino, consentendo a ogni persona di condurre un’esistenza
dignitosa.
Roma, 12 giugno 2011, solennità di Pentecoste.
LA COMMISSIONE EPISCOPALE PER I PROBLEMI SOCIALI E IL LAVORO,
LA GIUSTIZIA E LA PACE
LA COMMISSIONE EPISCOPALE PER L’ECUMENISMO E IL DIALOGO
ziati sostengano, e molte nazioni siano d’accordo, che
1,5°C sarebbe un limite superiore più sicuro. Considerazioni scientifiche, politiche ed economiche hanno contribuito all’identificazione di questa soglia, che è stata
adottata nei negoziati internazionali sul clima.
La Terra si è già riscaldata di 0,75°C dal 1900 e potrebbe raggiungere i 2°C entro l’anno 2100, anche se le
odierne emissioni di gas serra non aumentassero ulteriormente e l’inquinamento atmosferico fosse limitato per
evitare danni alla salute dell’uomo. C’è però il rischio che
il riscaldamento superi abbondantemente i 3°C se le
emissioni di gas serra continueranno a crescere con i tassi
attuali. Quindi superare l’obiettivo dei 2°C è una possibilità seria e reale.
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S
anta Sede
Una rapida azione di mitigazione è necessaria
se si vogliono limitare il riscaldamento climatico
e i relativi impatti
La comprensione delle cause dei cambiamenti climatici, così come degli impatti presenti e futuri, dà alla società l’opportunità di evitare gli impatti non gestibili
attraverso le azioni di mitigazione e di gestire gli impatti
inevitabili attraverso le azioni di adattamento. Questo è il
momento di agire se la società vuole avere una ragionevole possibilità che la temperatura media globale rimanga
al di sotto del limite di sicurezza di 2°C.
Possibili azioni di mitigazione tramite la riduzione delle emissioni di biossido di carbonio e
aumento dell’assorbimento del carbonio: la CO2
è il principale responsabile dell’effetto serra. Mentre più
della metà della CO2 emessa è assorbita dagli oceani e dal
suolo nello spazio di un secolo, circa il 20% rimane in atmosfera e causa riscaldamento per millenni. Debbono essere fatti tutti gli sforzi possibili per ridurre l’emissione
diretta di CO2 dovuta all’uso dei combustibili fossili e per
ridurre l’emissione indiretta limitando la deforestazione
ed espandendo le foreste in altre aree, il più velocemente
possibile per evitare il riscaldamento a lungo termine provocato dalla CO2 e gli impatti a esso collegati.
Possibile mitigazione tramite la riduzione
dell’emissione di agenti climatici a vita breve diversi dalla CO2: la seconda parte di una strategia di
mitigazione integrata è la riduzione degli agenti climatici
a vita breve. Questi comprendono il black carbon, l’ozono
troposferico e il metano, suo precursore, e gli idrofluorocarburi (HFC). Il black carbon e l’ozono troposferico
hanno un impatto importante sul riscaldamento regionale e globale. Riducendo gli agenti climatici a vita breve
usando le tecnologie esistenti si può ridurre il tasso di riscaldamento globale significativamente dalla seconda
metà del presente secolo e il tasso di riscaldamento dell’Artico di due terzi, a patto che anche la CO2 sia contestualmente ridotta.
Ridurre gli inquinanti atmosferici può inoltre contribuire a evitare la perdita di circa due milioni di vite ogni
anno, incrementare la produzione agricola e ristabilire la
capacità della vegetazione di sequestrare il carbonio. La
riduzione delle particelle carboniose dovrebbe essere
parte di una strategia integrata di riduzione delle emissioni di particolato, per essere certi che il riscaldamento
causato dalle particelle carboniose sia limitato più velocemente del raffreddamento dovuto agli altri tipi di particolato.
In molte regioni in via di sviluppo vi è un elevato potenziale di riduzione del black carbon e del carico di polveri che accelerano lo scioglimento dei ghiacciai
attraverso la riduzione delle emissioni provocate dai sistemi tradizionali di cottura del cibo, che possono essere
sostituiti con fornelli energeticamente efficienti e meno
inquinanti. Occorre inoltre abbattere con opportuni filtri
le particelle emesse dai motori diesel e stabilizzare superfici desertiche e altri suoli per ridurre le emissioni di polveri minerali.
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Gli HFC sono gas sintetici e costituiscono le emissioni
di specie climaticamente rilevanti in maggior crescita in
molti paesi. La produzione e l’uso degli HFC possono essere gradualmente ridotti nell’ambito del Protocollo di
Montreal sulle specie che distruggono lo strato di ozono
stratosferico, regolando poi le emissioni residue nell’ambito nel Protocollo di Kyoto. Questo darebbe luogo a una
mitigazione pari all’equivalente di 100 miliardi di tonnellate di CO2 entro il 2050. Il Protocollo di Montreal è
unanimemente considerato il miglior trattato ambientale
al mondo; ha già eliminato il 98% delle emissioni di quasi
100 composti simili agli HFC, con un effetto di mitigazione climatica netta di 135 miliardi di tonnellate tra il
1990 e il 2010.
In breve, l’inquinamento atmosferico e il cambiamento climatico sono ancora trattati come se fossero due
problematiche separate, quando in realtà sono due aspetti
dello stesso problema. Le sorgenti di emissione degli inquinanti atmosferici e dei gas serra coincidono, e una politica strategica integrata riduce i costi nel contrastare
entrambe queste minacce per la salute umana e per il benessere della società. Tali strategie di mitigazione devono
essere perseguite simultaneamente e con l’intensità che le
valutazioni scientifiche richiedono. Esse hanno il potenziale di «mettere in sicurezza» il sistema climatico e di ridurre «l’ingiustizia climatica». Ma è rimasto poco tempo.
Il riscaldamento climatico e i suoi effetti sul sistema Terra
causati dalle emissioni di CO2, che rimane in atmosfera
per millenni, potrebbero presto divenire ingestibili.
L’adat tamento deve iniziare adesso
A causa del tempo di ritardo tra le azioni di mitigazione e la risposta del sistema climatico, le popolazioni e
gli ecosistemi vulnerabili dovranno affrontare impatti climatici importanti e rischi perfino troppo alti anche in presenza di azioni di mitigazione efficaci. Perciò, insieme alle
importanti azioni di mitigazione, anche le azioni di adattamento debbono iniziare subito ed essere perseguite con
decisione.
Non possiamo ovviamente adattarci a cambiamenti
che non comprendiamo. L’adattamento inizia necessariamente con una corretta valutazione degli impatti;
un’iniziativa internazionale volta a osservare e modellizzare i sistemi montani e i loro bacini con un’alta risoluzione spaziale, una topografia realistica e processi
appropriati per le alte quote è un prerequisito per rafforzare le capacità regionali e locali di valutare gli impatti
fisici e sociali del cambiamento climatico.
Le osservazioni sui ghiacciai necessitano
di essere estese e migliorate
È necessario caratterizzare i forcing radiativi e climatici sui ghiacciai e le loro risposte, non ancora sufficientemente conosciute. Ad esempio, è necessario migliorare
la comprensione delle differenti risposte dei ghiacciai
nelle diverse regioni del pianeta in termini di cambia-
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menti regionali del clima e di assorbimento dei contaminanti. Anche le osservazioni del volume dei ghiacciai,
delle precipitazioni e dei cambiamenti nei bacini idrografici montani sono molto scarse. Questo limita la nostra
capacità di creare scenari attendibili dei flussi d’acqua dai
ghiacciai per il futuro.
I modelli climatici non possiedono la necessaria risoluzione nelle regioni montuose e di conseguenza hanno
serie limitazioni nel simulare le precipitazioni e le variazioni di temperatura e nel riprodurre le concentrazioni
di particolato atmosferico. Allo stesso modo, la modellizzazione e il monitoraggio delle relazioni tra i cambiamenti nei bacini glaciali e le risorse idriche, alla scala
spaziale del singolo bacino, sono oggi a uno stadio iniziale.
La difficoltà e pericolosità di accesso alle quote superiori ai 6.000 m è una delle ragioni per cui abbiamo
poche misure dettagliate, a parte lunghezza ed estensione
dei ghiacciai, in sistemi montuosi come l’Himalaya e le
Ande. Le attuali tecnologie di remote sensing possono rilevare le variazioni nell’estensione dei ghiacciai e della
copertura nevosa, ma non possono quantificare i forcing
relativi e non forniscono importanti proprietà di neve e
ghiaccio, come la granulometria, la presenza d’impurità,
e il contenuto di acqua liquida in superficie.
Tuttavia, si stima che nuovi sistemi d’analisi multispettrale aerotrasportati e montati su satelliti permetteranno nell’immediato futuro di ottenere misure
spazialmente dettagliate di queste proprietà superficiali. Con l’ausilio di misure più approfondite derivanti
da campagne su larga scala, e da misure di bilancio di
energia e di massa in situ, l’analisi multispettrale consentirà la messa a punto e la validazione di una nuova
generazione di modelli di bilancio di massa dei ghiacciai con elevata risoluzione. Le osservazioni quantitative sono infatti la chiave per la comprensione di questi
fenomeni.
Geoingegneria: sono necessarie ulteriori ricerche
e una valutazione internazionale
La geoingegneria, l’applicazione cioè di tecniche artificiali d’intervento umano sull’ambiente fisico, non sostituisce la mitigazione del cambiamento climatico. Vi
sono ancora molte domande senza risposta circa la potenziale irreversibilità di questi interventi, e sugli impatti
che possono essere molto diversi da regione a regione,
prima che la geoingegneria possa essere responsabilmente considerata.
Non esiste a tutt’oggi una valutazione concorde sulla
geoingegneria a livello internazionale. È invece necessaria una valutazione effettuata secondo gli standard più
elevati da parte dei molteplici soggetti interessati basata,
per esempio, sul modello dell’IPCC. Le basi di questa valutazione devono però essere rese più solide mediante
studi scientifici più approfonditi di quanto sia stato finora
possibile.
Sarà prudente prendere in considerazione la geoingegneria solo nel caso in cui eventuali impatti climatici
catastrofici e irreversibili non possano essere gestiti con
la mitigazione e l’adattamento. Debbono inoltre essere
creati gli strumenti organizzativi per valutare rischi e benefici della geoingegneria e un processo decisionale trasparente e ampiamente partecipativo per decidere quali
rischi sono accettabili, prima che una qualsiasi azione in
questo senso possa essere intrapresa.
I popoli e le nazioni hanno il dovere
di agire immediatamente
L’umanità ha creato l’era dell’Antropocene e con essa
deve ora convivere. Questo richiede però una nuova consapevolezza dei rischi che le azioni dell’uomo stanno
avendo sulla Terra e sui suoi sistemi, inclusi i ghiacciai
che sono qui discussi.
Ciò impone a tutti il dovere di ridurre questi rischi.
Il possibile fallimento delle azioni volte a mitigare il
cambiamento climatico rappresenterebbe il venir meno
agli obblighi che tutti noi abbiamo, particolarmente nei
confronti dei popoli che sono più vulnerabili, ad esempio coloro che dipendono dall’acqua dei ghiacciai montani e coloro la cui vita è messa in pericolo dall’innalzamento del livello del mare o da eventi meteorologici
estremi. Il nostro dovere include anche l’aiuto alle comunità più vulnerabili ad adattarsi ai cambiamenti che
non possono essere mitigati. Tutte le nazioni devono assicurare che le loro azioni siano efficaci e tempestive per
affrontare gli impatti e i rischi crescenti del cambiamento climatico e per evitare conseguenze catastrofiche
irreversibili.
Noi invitiamo tutti i popoli e le nazioni a una nuova
consapevolezza degli impatti, gravi e potenzialmente irreversibili, del riscaldamento globale causato dall’emissione di gas serra e di altri inquinanti da parte dell’uomo
e dai cambiamenti nell’uso del territorio. Invitiamo tutte
le nazioni a sviluppare e a implementare, senza ritardi,
politiche efficienti ed eque per ridurre le cause e gli impatti del cambiamento climatico sulle comunità e sugli
ecosistemi, compresi i ghiacciai e i loro bacini, consapevoli che viviamo tutti in una stessa casa.
Agendo subito, nello spirito di una responsabilità comune ma diversificata, accettiamo il nostro dovere verso
il prossimo e verso la custodia di un pianeta benedetto
dal dono della vita. Siamo tenuti ad assicurare che tutti gli
abitanti del pianeta abbiano accesso al loro pane quotidiano, ad aria pulita da respirare e acqua pulita da bere,
essendo noi consapevoli che, se vogliamo giustizia e pace,
dobbiamo proteggere l’habitat che ci sostiene.
Città del Vaticano, 11 maggio 2011.
SEGUONO LE FIRME*
* Ajai, L. Bengtsson (co-organizzatore), D. Breashears, P.J.
Crutzen (co-organizzatore), S. Fuzzi, W. Haeberli, W.W. Immerzeel,
G. Kaser, C. Kennel, A. Kulkarni, R. Pachauri, T.H. Painter, J.
Rabassa, V. Ramanathan (co-organizzatore), A. Robock, C. Rubbia,
L. Russell, M. Sánchez Sorondo, H.J. Schellnhuber, S. Sorooshian,
T.F. Stocker, L.G. Thompson, O.B. Toon, D. Zaelke.
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Conosco
le mie pecore
I
Prima lettera pastorale
d i m o n s . D o m e n i c o D ’A m b r o s i o
a l l ’a rc i d i o ce s i d i L e cce
«È Cristo la porta per cui io entro in voi;
entro per Cristo, e volentieri voi ascoltate Cristo in me». Prendendo in prestito le parole di sant’Agostino l’arcivescovo di Lecce, mons. Domenico
D’Ambrosio, introduce la prima lettera
pastorale alla sua nuova diocesi
(21.4.2011). Scritta in occasione della
prossima visita pastorale – prevista nel
triennio 2011-2014 e definita «autentico
tempo di grazia e momento speciale (…)
in ordine all’incontro e al dialogo dei fedeli col vescovo» –, la lettera è posta
sotto l’icona biblica del buon pastore e
strutturata su due temi forti. Da un
lato, la figura e il ruolo del pastore nella
comunità, una riflessione suggerita dall’occasione: «L’anima della visita è la
carità pastorale con la quale il vescovo
mostra ed evidenzia i tratti tipici del
buon pastore». Dall’altro, in sintonia
coi recenti orientamenti pastorali della
CEI (cf. Regno-doc. 19,2010,601), la
questione educativa, con un’attenzione
speciale alla declinazione pastorale degli interventi riguardanti la famiglia e le
giovani generazioni. «Mi faccio precedere da questa lettera – conclude mons.
D’Ambrosio – che sottolinea la fedeltà e
l’amore che vi devo e il mandato ricevuto da Cristo di essere per voi educatore e padre nella fede».
Stampa (25.6.2011) da sito web www.diocesilecce.org
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1. Nel direttorio pastorale dei vescovi Ecclesiae
imago della Congregazione per i vescovi del 22 gennaio 1973, leggiamo una meditata e filigranata descrizione della visita pastorale: è Cristo pastore che si
riflette nel vescovo che visita il popolo a lui affidato e
consegnato: «La visita pastorale è un’azione apostolica,
è un evento di grazia che riflette in qualche modo l’immagine di quella singolarissima e del tutto meravigliosa
visita, per mezzo della quale “il pastore sommo” (1Pt
5,4), il vescovo delle anime nostre (cf. 1Pt 2,25) Gesù
Cristo ha visitato e redento il suo popolo (cf. Lc 1,68)»
(n. 166; EV 4/2212).
«Autentico tempo di grazia e momento speciale,
anzi unico, in ordine all’incontro e al dialogo del vescovo con i fedeli. (…) Quasi anima episcopalis regiminis (…) come un’espansione della presenza spirituale
del vescovo tra i suoi fedeli». Così definisce la visita pastorale Giovanni Paolo II nell’Esortazione apostolica
Pastores gregis (n. 46; EV 22/844).
Nel nuovo direttorio sul ministero dei vescovi pubblicato dalla Congregazione per i vescovi del 2004 Apostolorum successores leggiamo: «La visita pastorale è
una delle forme, collaudate dall’esperienza dei secoli,
con cui il vescovo mantiene contatti personali con il
clero e gli altri membri del popolo di Dio. (…) È
un’azione apostolica che il vescovo deve compiere animato da carità pastorale che lo manifesta concretamente quale principio e fondamento visibile dell’unità
nella Chiesa particolare» (n. 220; EV 22/2118).
2. Da diciotto mesi sono in mezzo a voi a rappresentare e ripresentare Cristo Gesù «pastore e custode
delle vostre anime» (1Pt 2,25). Sono venuto a voi ancor
più consapevole di limiti e fragilità che talvolta immiseriscono e condizionano il gioioso e profetico annunzio del Vangelo che sono chiamato ad annunziare e
ancor più a testimoniare per dare forza e solidità alla
vostra fede, memore della parola di Gesù a Pietro nel
momento della maggiore debolezza dell’apostolo: «E
tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli» (Lc
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22,32). Conoscete già la mia sofferta ma piena e totale
obbedienza nel venire tra voi per essere a immagine
sua «buon pastore».
Non vi ho confessato ancora, lo faccio ora, le mie
paure, nel momento in cui mi è stata chiesta questa obbedienza. Molti interrogativi: sarò in grado di ricominciare a mettere mano all’aratro alla mia età? Sarò
capace di essere pastore generoso, sapiente, discreto,
attento, accogliente? Riuscirò a portare avanti il
grande e ricco cammino di fede della Chiesa di Lecce?
Venuto a voi nel nome del Signore Gesù, l’unico e
vero «buon pastore», ho trovato cuori grandi e braccia
aperte ad accogliermi. Le paure si sono ridimensionate, l’obbedienza da sofferta si è trasformata in serena
libertà per servire il Regno, nostalgie e rimpianti hanno
ceduto il posto alla gioia di poter ancora amare, accogliere e disegnare sul palmo delle mie mani i vostri volti
ora ben noti e presenti alla mia preghiera e al mio
cuore.
Ora posso dirvi che vivo la fatica e le difficoltà del
servizio, dei problemi. Mordo il freno nel vedere ritardi
e lentezze, innanzitutto le mie, ma anche quelle di una
comunità che accoglie le diversità dei singoli che talvolta pesano eccessivamente perché non sanno o non
vogliono dare il proprio contributo perché al primo
posto sia il bene comune, la crescita della comunità.
Mi rendo conto ancor più della fatica a me richiesta di esercitare con amorevole e saggia competenza il
ministero della sintesi che mi è stato affidato.
Ho trovato, e di questo rendo grazie al Signore, una
Chiesa viva, ricca di fede e di opere, capace di leggere,
interpretare e talvolta decodificare i «segni dei tempi»
in essa presenti, non appesantita da ricchezze materiali
ma piuttosto o forse con qualche problema di troppo
nel verso contrario, impegnata a far fronte a un necessario adeguamento dell’edilizia di culto (nuovi complessi parrocchiali, seminario…) o a restauri delle
grandi opere d’arte che la fede dei nostri padri e la munificenza di pastori illuminati hanno donato alla nostra Chiesa che narrava nel ricamo della pietra la
bellezza della fede professata.
3. Rendo particolarmente grazie al Signore per la
grande famiglia del presbiterio che mi ha benevolmente e affettuosamente accolto, bruciando i tempi
dello studio e dell’osservazione del nuovo arrivato,
pronto a continuare il cammino e il servizio generoso
e intelligente per il Regno a servizio dei fratelli.
Non posso non rinnovare stima e fiducia al numeroso collegio dei diaconi, chiamati a vivere nella specifica sottolineatura del servizio al Vangelo e alla carità
della nostra Chiesa, la loro partecipazione al sacramento dell’ordine. Sono ben convinto che il maggiore
impegno per una loro formazione permanente farà
emergere ancor più la ricchezza di questo singolare
dono per la nostra Chiesa.
Ai religiosi e alle religiose una parola di particolare
e convinta gratitudine per il molto che sanno donare
nella specificità del carisma che i santi fondatori hanno
saputo impreziosire e diversificare a vantaggio della
Chiesa tutta. Nella gratitudine l’invito ad allargare gli
spazi e i tempi del dialogo, che eviterà percorsi e scelte
non sempre rispondenti all’organica azione pastorale
che ha nel vescovo il punto di sintesi e il garante della
bontà e dell’autenticità delle scelte.
Sono debitore di un grazie particolarissimo a voi
tutti, fratelli e sorelle. Fin dal primo giorno del mio arrivo tra voi, mi avete confuso e circondato di affetto
sincero, un affetto e un legame che fanno sentire tutta
la loro forza e il loro sostegno.
Al mio arrivo in questa Chiesa, molti di voi lo ricorderanno, ho usato un’espressione: finalmente a casa.
Mi sento tra voi, a casa. Niente e nessuno mi è estraneo.
Siano rese grazie al Signore che mi ha donato questa
grande famiglia alla quale posso assicurare tutto il mio
bene e il mio amore.
Non posso non aggiungere un saluto grato alle varie realtà e aggregazioni laicali, gruppi, movimenti,
associazioni ecclesiali che testimoniano e vivono il Vangelo, coinvolti e presenti a pieno titolo nella società e
nella storia. Dovremo ancor più privilegiare spazi e luoghi che aumentano le ragioni del dialogo e sanno creare
il reciproco riconoscimento, il comune impegno per
l’unità, evitando e mettendo all’angolo pretese superiorità o speciali patenti di fedeltà.
C’è spazio per tutti in questa nostra Chiesa. Ma è
indispensabile il riferimento al vescovo che nella
Chiesa, per volontà di Cristo Gesù, ha ricevuto il mandato di guidarla «col consiglio, la persuasione, l’esempio, ma anche con l’autorità e la sacra potestà».1
In ogni Chiesa è di somma importanza l’apostolato
laicale, sia quello di antica e consolidata tradizione,
come ad esempio l’Azione cattolica, che per la sua ispirazione e il suo statuto gode di un singolare rapporto
con la gerarchia, dunque con il vescovo, sia quello costituito dai nuovi e sempre più numerosi movimenti ecclesiali. «Tutte queste realtà aggregative arricchiscono
la Chiesa, ma hanno sempre bisogno del servizio di discernimento che è proprio del vescovo, alla cui missione pastorale spetta di favorire la complementarietà
tra movimenti di ispirazione diversificata, vegliando sul
loro sviluppo, sulla formazione teologica e spirituale
degli animatori, sull’inserimento delle nuove realtà
nella comunità diocesana e nelle parrocchie da cui non
debbono separarsi».2
Ho voluto inserire queste affermazioni dell’esortazione apostolica post-sinodale sul «vescovo servitore di Gesù Cristo per la speranza del mondo», per
riaffermare e chiarire a fronte di alcune difficoltà che
si sono create e possono crearsi, che è compito del vescovo discernere, garantire della bontà e della fedeltà,
e del momento opportuno per la presenza in loco
delle varie realtà aggregative ecclesiali. Ma tutto que-
1
CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, cost. dogm. Lumen gentium
(LG) sulla Chiesa, n. 27; EV 1/351.
2
GIOVANNI PAOLO II, esort. ap. postsinodale Pastores gregis sul ve-
scovo servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo,
16.10.2003, n. 51; EV 22/862.
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sto lavoro non è portato avanti e gestito in solitario.
Come amo spesso ricordare e secondo uno stile che
privilegio, il vescovo ha l’ultima parola che ne presuppone molte altre, dette e ascoltate. È la parola autorevole che fa la sintesi e ne attesta la sicura e piena
fedeltà.
Con la compagnia e il sostegno della comunità in
tutte le sue espressioni, mi accingo dunque a visitarvi.
Ora, accompagnato dalla certa intercessione della
Vergine santa, titolare della Chiesa cattedrale e di altre
37 parrocchie su 78, di sant’Oronzo, dei santi patroni
di tutte le nostre comunità, di san Carlo Borromeo, di
san Giovanni Maria Vianney, di san Filippo Smaldone,
verrò a voi nel nome dell’unico buon pastore, Cristo
Gesù, perché devo «fermarmi nelle vostre case».
Istanze della visita pastorale
Ricordi «pastorali»
4. Per la terza volta nel mio ormai lungo servizio
episcopale, con l’aiuto del Signore, mi accingo a vivere
la provvidenziale esperienza e uno dei momenti più
belli nella vita e nel ministero di un vescovo: la visita
pastorale.
Non posso non ricordare la mia prima visita pastorale nella diocesi di Termoli-Larino, primizia del mio
servizio episcopale. Il 19 luglio 1991, 26° anniversario
della mia ordinazione presbiterale, in preparazione alla
suddetta visita, consegnai al popolo santo di Dio la mia
prima lettera pastorale dal titolo Oggi devo fermarmi a
casa tua. Per due anni ho visitato le 51 parrocchie della
diocesi disseminate in 34 piccoli comuni adagiati sulle
rive del mare Adriatico e sui pendii e colline del Molise
meridionale.
Trasferito come arcivescovo di Foggia-Bovino ebbi
solo il tempo di indire e aprire la visita pastorale, rimandandola, essendo stato nominato amministratore
apostolico sede plena dell’arcidiocesi di ManfredoniaVieste che il 2 dicembre dello stesso anno, con decreto
della Congregazione per i vescovi cambiò il nome in
arcidiocesi di Manfredonia-Vieste-San Giovanni Rotondo. Nominato l’8 marzo 2003 arcivescovo della
stessa diocesi e delegato della Santa Sede per il santuario e le opere di S. Pio da Pietrelcina, la visita aperta
fu chiusa.
Il Signore mi riservava la gioia della mia seconda
visita pastorale nella diocesi delle mie origini e del mio
sacerdozio. Una visita un po’ diversa e inedita rispetto
alla norme codificate nella legislazione canonica.
Un lungo e maturo lavoro di preparazione portò a
una visita visitata dalla vergine Maria. Ricorrendo i
cinquant’anni dell’incoronazione dell’icona della Madonna di Siponto (28.8.2005) a opera dell’allora patriarca di Venezia, il card. Angelo Giuseppe Roncalli,
oggi beato Giovanni XXIII, si pensò a una missione
diocesana con la visita-peregrinatio dell’icona della Vergine di Siponto che doveva concludersi con la visita pastorale. Fu una peregrinatio-missione-visita intensa e
feconda. Per oltre due anni (2005-2007) ho potuto percorrere le strade del mio Gargano, accompagnato e accompagnando con circa 300 missionari (sacerdoti,
religiosi/e, laici, seminaristi) la vergine Maria nei 13
comuni della diocesi.
Con occhi nuovi e con cuore di figlio, ho ringraziato e benedetto il Signore per la terra che ha motivato e arricchito il mio ministero sacerdotale e il mio
servizio episcopale.
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5. Nel citato direttorio pastorale dei vescovi Ecclesiae imago (1973) e in quello successivo Apostolorum
successores (2004), scopriamo un’aggiornata e rinnovata
visione della visita pastorale, frutto della visione ecclesiologica del concilio Vaticano II.
L’anima della visita, nelle parole dei documenti della
Chiesa, segnatamente nei due citati direttori è la carità
pastorale con la quale il vescovo mostra ed evidenzia i
tratti caratteristici del «buon Pastore» e a sua immagine
conosce, guida, ama, dona la vita per il gregge a lui affidato.
In modo sintetico presento alcune motivazioni di
fondo della visita pastorale:
– approfondire la conoscenza del popolo di Dio affidato alle mie cure pastorali per guidarlo lungo i sentieri della speranza in un rinnovato e concreto cammino di fede;
– incontrare ciascuno di voi non con lo sguardo alle
lancette dell’orologio che scorrono inarrestabili, fugit
ruina tempus, ma con i miei occhi fissi sopra di voi per
leggere ansie, dubbi, domande, paure, desiderio forte
di comunione. Non andrò via senza aver tentato di decifrare e offrirvi le risposte che il cuore di un padre, fratello e amico vi saprà dare.3
– Valutare guidato non dall’efficientismo del burocrate ma dalla carità pastorale, i vari aspetti della vita
di fede delle nostre comunità. «Non vi chiederò statistiche rigorosamente fedeli ai canoni delle moderne indagini sociologiche (anche se un doveroso tributo a
questa scienza vi sarà richiesto!) ma la possibilità di una
comune verifica che, privilegiando la dimensione spirituale delle nostre comunità, non escluda gli aspetti
concreti che la incarnano nella storia».4
– La visita pastorale vivrà il suo lungo cammino
(2011-2014) con la Chiesa italiana impegnata negli
Orientamenti pastorali Educare alla vita buona del
Vangelo. Lo specifico di questa mio venire a voi sarà la
proposta di un «metterci» – secondo le parole del citato
documento – tutti «a servizio del Vangelo per l’educazione integrale di quanti vorranno accogliere il dono
che abbiamo ricevuto e che offriamo a tutti».5
– C’è infine in me un vivo desiderio di presentarvi
e far crescere ancor più una convinta, corale e personale partecipazione alla vita della comunità che nel comune impegno e servizio dovrà portarci a una vera e
profonda comunione alla quale questa nostra Chiesa è
stata educata dal lungo cammino del sinodo diocesano
voluto e portato avanti dall’arcivescovo Cosmo Francesco Ruppi.
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6. Chi viene a visitarci è Cristo Gesù. Mi riempiono
di timore, mi fanno sentire il peso di una responsabilità
che giudica tanti miei atteggiamenti, ma mi danno anche
forza e serenità nel venire a voi, alcune parole di sant’Agostino che commenta il brano del Vangelo di Giovanni (Gv 10,11-18), che ho scelto come icona di questa
santa visita: «È Cristo la porta per cui io entro in voi;
entro per Cristo non nelle vostre pareti domestiche, ma
nei vostri cuori: entro per Cristo, e volentieri voi ascoltate Cristo in me. Perché ascoltate volentieri Cristo in me?
Perché siete sue pecore, perché siete stati redenti col suo
sangue: voi riconoscete il prezzo della vostra redenzione,
che non ho dato io, ma che per mezzo mio vi viene annunziato. Egli vi ha redenti, egli che ha versato il suo sangue prezioso».6
Al centro del capitolo 10 di Giovanni, segnatamente
nei vv. 1-10; 11-18, c’è la luminosa figura del pastore delle
pecore che gli appartengono e hanno fiducia in lui.
Nell’antico Oriente il simbolismo della figura del pastore ha grande importanza. Molto spesso il sovrano
viene paragonato al pastore e il popolo al suo gregge.
È uno dei temi preferiti della predicazione profetica
nell’AT (Sal 23; Is 4,10-11). La metafora del pastore che
guida il gregge esprime due aspetti, apparentemente contrari e talvolta separati: il pastore è ad un tempo un capo
e un compagno. È un uomo forte, in grado di proteggere
e difendere il suo gregge, ma è anche delicato verso le pecore che porta tra le sue braccia (Is 40,11), amando l’una
e l’altra come figlia (2 Sam 12,3). Ci sono le guide infedeli
che si sono rivoltate contro JHWH, non si sono occupate
del gregge, pascendo se stesse (Ger 23,1ss; Ez 34,1-10).
Mosè è il pastore del gregge di Dio (cf. Is 63,11) e deve
mettere a capo del popolo di Dio «un uomo (…) perché
la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore»
(Nm 27,17). Davide è tolto da Dio dalle sue pecore «per
farne il pastore di Giacobbe, suo popolo, d’Israele, sua
eredità» (Sal 70,71). Dio è il «pastore d’Israele» (Sal 80,2)
e Israele è «il popolo del suo pascolo» (Sal 95,7).
Nel NT è diversa l’immagine del pastore, è sinonimo di Gesù. Gesù è «il pastore grande delle pecore»
(Eb 13,20), il capo dei pastori (cf. 1Pt 5,4), «il pastore
e custode delle vostre anime» (1Pt 2,25). Nell’Apocalisse, Cristo, «l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà
il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della
vita» (Ap 7,17).
7. Gesù pronuncia il discorso del capitolo 10 durante
la festa dei tabernacoli e ancora una volta si rivolge ai farisei e intende, in questo discorso, precisare chi è il vero
e il falso pastore, il vero e il falso gregge... c’è il pastore e
il ladro, il pastore conosciuto e l’estraneo, il buon pastore
che dà la vita e il mercenario.
L’affermazione principe di tutto il discorso è l’affermazione cristologica: «Io sono il buon pastore». È il Messia-pastore che viene a liberare gli uomini da coloro che
li asserviscono. È una missione che raccoglie tutti: giudei
e pagani. Tutti dovranno ritrovarsi in un solo gregge attorno a un unico pastore... Non ci sono altre vie di accesso alla conoscenza di Dio. Gesù è l’unica porta. Nella
descrizione del pastore e del suo rapporto con le pecore,
il Signore indica la reciproca conoscenza fra lui e le sue
pecore. Il verbo «conoscere», in Giovanni in particolare,
indica una conoscenza non tanto teorica o astratta,
quanto esistenziale. Si tratta di un rapporto personale fra
le pecore e il pastore sul tipo di quello esistente fra Gesù
e il Padre. Gesù chiama per nome. «Chiamare per nome»
significa conoscere. Il nome è un suono, ma quando parte
da un labbro e arriva a un cuore si fa carico di un significato che soltanto chi lo pronuncia e chi lo riceve sanno
capire.
– «Io sono il buon pastore: il buon pastore offre la vita
per le pecore» (v. 11)
Gesù si identifica con il «buono-bello» (kalos). Pastore
è il termine che descrive l’attività di Gesù con coloro che
il Padre gli ha dato. Gesù è il pastore, quello vero, e la caratteristica del pastore è dare la vita per i suoi. «Il buon
pastore offre la vita per le pecore». Non è un’esagerazione:
il pastore israelita rischiava davvero la vita per le pecore.
Gesù dà realmente la sua vita per le pecore. Egli è il
«buon» Pastore perché depone la sua vita per le pecore. In
Giovanni questo verbo dice l’estrema libertà del Cristo
nel sacrificare la sua vita in favore del gregge.
Gesù è il vero, buon pastore perché conosce intimamente ed è conosciuto dalle pecore. Questa conoscenza
reciproca è un’estensione della mutua conoscenza che c’è
tra il Padre e il Figlio.
– «Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore
non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un
mercenario e non gli importa delle pecore» (vv. 12-13).
Il mercenario è il pastore prezzolato. Qui il pericolo
3
Cf. D. D’AMBROSIO, Oggi devo fermarmi a casa tua, Termoli
1991, 15.
4
Ivi, 16.
5
EPISCOPATO ITALIANO, Educare alla vita buona del Vangelo.
Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020, 28.10.2010, n. 6;
Regno-doc. 19,2010,604.
6
AGOSTINO D’IPPONA, Commento al Vangelo e alla prima epistola
di s. Giovanni, Roma 1985, 931.933.
Io sono il buon pastore
«Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria
vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al
quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde;
perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io
sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore
conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il
Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che
non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo
gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché
io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno
me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il
potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho
ricevuto dal Padre mio» (Gv 10,11-18).
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viene dal lupo, non dal mercenario. Il lavoro del mercenario è dello stesso tipo di quello del pastore ma di qualità inferiore. È un pastore a cui «le pecore non
appartengono» in proprio; vede il lupo, abbandona le
pecore e si mette in salvo. Questo comportamento anomalo mette in risalto invece l’interesse e l’amore profondo del buon pastore per il suo gregge.
– «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie
pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre e do la mia vita per le pecore» (vv. 14-15).
Questi due versetti riprendono i due temi enunciati al
v. 11. La conoscenza di cui parla Gesù in questo passo
non è una conoscenza puramente intellettuale, ma fatta
di premura e amore, dà la vita, guida, chiama, precede.
Deve essere intesa come uno scambio di amore profondo.
Si tratta della conoscenza che porta all’unione personale;
Gesù conosce i suoi e i discepoli, a loro volta, conoscono
Gesù e questa conoscenza implica la comunione con Cristo e, grazie a lui, con il Padre. Questa conoscenza della
voce di Cristo non me la dà lo studio ma la preghiera,
questa capacità di entrare in comunione contemplante
con il Signore.
Niente e nessun chiasso o cicaleccio esterno può soffocare questa voce misteriosa in chi è pronto ad ascoltarla. È una conoscenza reciproca. Ci sentiamo al sicuro
perché Cristo legge dentro, conosce le mie attese, non gli
è nascosto il desiderio di comunione con lui che cerchiamo e domandiamo.
La conoscenza-amore di Gesù per i suoi e per il Padre
lo conduce a dare la vita per le pecore. «In questo versetto si tratta dell’atteggiamento permanente di Gesù:
lungo tutta la sua missione egli è nella disposizione di affrontare la morte per le sue pecore».7
Al v. 15 la conoscenza tra Gesù e i suoi è in rapporto
diretto con la conoscenza reciproca del Padre e del Figlio.
Il buon pastore conosce così intimamente le sue pecore, le ama in modo tanto intenso da deporre la sua
anima a favore di esse, sacrifica la sua vita con estrema libertà per la salvezza del suo gregge; ai suoi amici offre
questa suprema prova di amore. Ora il discepolo deve
prendere esempio da questo modello divino nel dono di
sé ai fratelli.
– «E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia
voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore» (v. 16).
Accanto alle pecore che provengono dal «recinto» (dal
giudaismo), il pastore ne ha altre. I due gruppi sono chiamati a costituire un unico gregge. L’ascolto della voce del
buon pastore indica l’adesione di fede; il non ascolto il rifiuto di credere. Con la conversione dei pagani al Vangelo si rompono gli steccati tra i due recinti (giudaico e
gentili), per formare un solo gregge sotto un solo pastore.
In Giovanni uno degli effetti della morte di Cristo è
l’unità dei dispersi, l’unità dei credenti.
Tutte le pecore del pastore, quelle che appartenevano
al giudaismo e quelle che provengono da fuori, sono chiamate a formare un unico gregge. È finito il privilegio del
popolo eletto. L’unità di tutti si verificherà attraverso la
convergenza nell’unico pastore, Gesù.
Anders Nygren
Eros e agape
La nozione cristiana dell’amore
e le sue trasformazioni
U
scita in due volumi nel 1930 e 1936, l’opera
individua il fulcro del cristianesimo nell’agape neotestamentaria, l’infinito amore di Dio
Padre per gli uomini peccatori fino a sacrificare
il suo Figlio Gesù. L’autore indaga la storia della
difficile dialettica con l’eros, l’amore ascensionale
dell’uomo verso Dio. Nel dualismo di eros e agape
il volume ripropone il problema della natura cristiana dell’amore. Un classico della letteratura teologica contemporanea.
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– «Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita
per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la
do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal
Padre mio» (vv. 17-18).
È il punto culminante di tutto il discorso. Se il Padre
ama il Figlio, è per via della grande opera che compie
come pastore delle pecore, deponendo la sua vita per
esse e riunendole in un unico gregge. Giovanni però aggiunge un’altra ragione: se il Padre ama il Figlio, è perché depone la sua vita per poi riprenderla (con la risurrezione, portando così a termine tutta l’opera della
salvezza).
Mi preme al temine della lettura del brano di aggiungere due sintetiche riflessioni che torneranno in
qualche modo in seguito e che riguardano il legame e il
rapporto unico con Cristo che è il vero e completo modello per chi è chiamato nella Chiesa a essere pastore a
sua immagine:
– la comunità dei credenti, la Chiesa, non è un recinto chiuso, protetto e ben difeso: non è un ovile! Il
gregge di Cristo Gesù è protetto non da staccionate o
da muri ma dalla forza vigilante del suo unico pastore.
Cristo Gesù è il fondamento sicuro e stabile dell’unità
del gregge.
– L’unico pastore della Chiesa è Cristo Gesù. Le pecore, il gregge gli appartengono: è questa una sua caratteristica essenziale. Coloro che il Signore ha posto
come capi e guide più che chiamarli non del tutto propriamente pastori, sono episkopoi. Sono coloro che osservano, sor-vegliano, visitano, in qualche modo proteggono; sono le sentinelle.
Applicazioni pastorali
8. a) Il primato dell’ascolto della Parola
Gesù, descrivendo il rapporto esistente tra il vero pastore e il suo gregge, ricorda che le pecore ascoltano la
sua voce, perché la conoscono, mentre non conoscono la
voce degli estranei. Le vere pecore non ascoltano i ladri
e i briganti, anzi fuggono gli estranei. L’ascolto della voce
del buon Pastore implica docilità e sottomissione al Signore e alla sua rivelazione.
Chi ascolta la voce di Gesù lo segue. Dunque il frutto
naturale dell’ascolto è la sequela di Cristo. Seguire questa guida significa percorrere tutto il tragitto da lui compiuto per giungere al Calvario. Il buon Pastore conduce
il suo gregge ai pascoli della vita eterna, attraverso il cammino della croce e della rinuncia. Perciò la sequela di Cristo è molto esigente: non esclude neanche la rinuncia alla
vita per il Signore e per il Vangelo.
b) Cristo mediatore della salvezza
Per avere la vita in abbondanza e gustare la vera li7
X. LEON-DUFOUR, Lettura dell’Evangelo secondo Giovanni, vol.
II, Cinisello Balsamo (MI) 1992, 463.
8
LG 27; EV 1/353.
9
VATICANO II, decr. Christus dominus sull’ufficio pastorale dei vescovi nella Chiesa, 28.10.1965, n. 11; EV 1/595.
bertà, bisogna entrare per la porta che è Cristo. Chi cerca
vita e felicità altrove, lontano dal Cristo, si illude: troverà
solo amarezza e rovina. Chi si allontana dalla fonte d’acqua viva, si scava cisterne screpolate, incapaci di contenere acqua. Chi vuole conseguire la salvezza, servendosi
di altri mediatori, giungerà alla perdizione. L’unico mediatore tra Dio e gli uomini è Gesù Cristo. È il sigillo dell’amore del Padre per il mondo.
c) Sotto la guida del buon Pastore
Mentre il mercenario non rischia la sua incolumità
per salvare le pecore dal pericolo, il buon Pastore depone
la sua vita per il gregge. Il pastore vero ama le sue pecore
a differenza del mercenario. Il vero distintivo del pastore
è l’amore.
Questo segno distintivo, caratterizzante il vero pastore, è valido anche per coloro che nella Chiesa esercitano una funzione pastorale.
Il vescovo che non nutre un amore vivo per quanti
sono affidati alle sue cure pastorali e che non è disposto
a sacrificare la sua vita per il gregge che gli è stato affidato, non è un vero pastore, è un mercenario.
Nella costituzione Lumen gentium si legge: «Il vescovo, mandato dal Padre di famiglia a governare la sua
famiglia, tenga innanzi agli occhi l’esempio del buon pastore, che è venuto non per essere servito, ma per servire
(cf. Mt 20,28; Mc 10,45) e dare la sua vita per le pecore
(cf. Gv 10,11). Preso di mezzo agli uomini e soggetto a
debolezze, egli può compatire a quelli che sono nell’ignoranza o nell’errore (cf. Eb 5,1-2)».8
I pastori del gregge di Cristo devono esercitare il loro
ministero a immagine del sommo ed eterno sacerdote,
pastore e vescovo delle nostre anime. Le guide del popolo
di Dio devono, nel loro ministero, avere davanti l’esempio
del buon Pastore che va in cerca della pecora perduta:
– «I vescovi devono compiere il loro dovere apostolico come testimoni di Cristo davanti a tutti gli uomini,
interessandosi non solo di coloro che già seguono il Principe dei pastori, ma dedicandosi anche con tutta l’anima
a coloro che in qualsiasi maniera si sono allontanati
dalla via della verità, oppure ignorano ancora il Vangelo di Cristo e la sua salvifica misericordia».9
– I presbiteri «sono tenuti a conoscere bene (come
buoni pastori) le proprie pecorelle e a cercare di ricondurre anche quelle che non sono di questo ovile, affinché
anch’esse sentano la voce di Cristo e ci sia un solo ovile e
un solo pastore».10 Essi «devono aver cura di quanti
hanno abbandonato la frequenza dei sacramenti o forse
addirittura la fede e, come buoni pastori, non devono tralasciare di andare alla loro ricerca».11
d) La mutua conoscenza tra il pastore e le pecore
Il buon pastore conosce le sue pecore e le pecore conoscono il loro pastore, come si conoscono il Padre e il
Figlio (Gv 10, 14s). Tra Gesù e il suo gregge esiste un rapporto di amore e di comunione profonda. Per il suo
10
VATICANO II, decr. Presbyterorum ordinis sul ministero e la vita
dei presbiteri, 7.12.1965, n. 3; EV 1/1249.
11
Ivi, n. 9; EV 1/1273. Cf. anche ivi, n. 13; EV 1/1288.
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gregge, la Chiesa, Gesù ha donato tutto se stesso. Siamo
chiamati a esaminarci e a chiederci se conosciamo realmente il buon Pastore, se viviamo in comunione vitale
con lui, se nella fede facciamo l’esperienza del suo amore.
Il segno distintivo delle pecore è questa conoscenza profonda ed esistenziale del buon Pastore. Se la nostra esistenza non è caratterizzata da questa comunione vitale e
profonda con il Cristo, non siamo del suo popolo.
Per conoscere il Verbo incarnato è molto importante
avere una buona iniziazione ai Vangeli, studiare con passione la Bibbia. Ma non è sufficiente questo lavoro speculativo. È necessaria la vita di comunione con la persona
divina del Cristo.
e) La missione universale
Nell’ultima parte di questa pericope Gesù spinge lo
sguardo ai «recinti lontani» dove vivono «le altre pecore»
del suo gregge. Possiamo dire che è trasparente l’allusione
ai lontani. Ci sono altri ovili diversi da quelli del giudaismo che un giorno formeranno un solo gregge sotto un
solo pastore, Gesù. Il traguardo a cui tendere è quello di
una sola grande famiglia. È il grande sogno dell’unità
delle Chiese. Sappiamo che le nostre divisioni sono un
autentico scandalo.
f) Cristo, fondamento dell’unità della Chiesa
Il discorso sul buon Pastore suggerisce con chiarezza
che l’unico fondamento dell’unità della Chiesa è Gesù:
solo il Cristo infatti può condurre nel suo ovile le pecore
di altri recinti e può impedire gli sbandamenti e le fughe,
le divisioni e gli scismi. Ci sarà un solo ovile e un solo pastore, solo se Gesù sarà il centro vitale e il polo catalizzatore di quanti credono nella sua persona divina. Il Verbo
incarnato infatti è l’unico fondamento dell’unità della
Chiesa.
Secondo alcuni esegeti il Sitz im Leben della comunità
dell’evangelista che ha provocato il kerygma del discorso
sul buon Pastore è stato indubbiamente la mancanza di
unità e di concordia. È Gesù a chiamare ciascuno nel
gregge e a custodire l’unione di tutti. Si tratta di un vincolo personale, creato da una conoscenza intima. L’atto
unificante di Gesù con cui si perfeziona questa conoscenza è il sacrificio della sua croce.12
A noi il compito di conoscere e approfondire questa
unione al Cristo pastore imparando sempre più ad ascoltarlo e avendo fiducia nella sua guida e nella sua difesa e
protezione contro ogni pericolo. È lui che può aprirci le
porte della salvezza e della libertà.
Mi piace concludere la lectio di questa pericope del
buon Pastore con alcune osservazioni di K. Barth: «Andiamo subito al contenuto essenziale di questo passo.
Ascoltandolo non abbiamo inteso uno che ci ha parlato
del buon pastore, ma abbiamo inteso dire di se stesso,
definirsi da sé: “Io sono il buon pastore” (…). Colui nel
quale qui e adesso ci imbattiamo, è il Signore. Colui che
– lo sappiamo o no – è nel mezzo della nostra vita come
il Signore, come ci fu detto nel battesimo che abbiamo
ricevuto, e come resterà definitivamente vero. Ancora
una volta in mezzo agli sconvolgimenti e alle catastrofi
della storia, Gesù è il Signore in mezzo ai popoli e
chiama, raduna, dirige, illumina e consola la sua santa
Chiesa».13
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II.
Il buon pastore «a sua immagine»
9. Ho voluto leggere per voi ma anche in qualche
modo con voi il brano del Vangelo di Giovanni sul
buon pastore perché insieme nella grande avventura
della visita pastorale viviamo questo evento di grazia
per la nostra Chiesa che «il pastore e custode delle vostre
anime» (1Pt 2,25) compie attraverso la mia persona e il
mio ministero.
Il termine pastore nell’AT e nel NT appartiene soltanto a Dio e al Cristo. Dio solo è il pastore supremo e
il suo volto risplende e si riflette nel Cristo buon pastore che è la sua vera immagine. Leggiamo nella costituzione Lumen gentium: «La Chiesa è il gregge, di
cui Dio stesso ha preannunziato che sarebbe il pastore
(cf. Is 40,11; Ez 34,11), e le cui pecore, anche se governate da pastori umani, sono però incessantemente
condotte al pascolo e nutrite dallo stesso Cristo, il pastore buono e il principe dei pastori (cf. Gv 10,11; 1Pt
5,4)».14
C’è una chiara analogia che in qualche modo stabilisce il ruolo dei pastori nella Chiesa (papa, vescovi,
sacerdoti). Noi non siamo pastori per conto nostro.
Non siamo i sostituti di un pastore dimissionario, assente. Siamo sacramenti del buon pastore e nello stesso
tempo siamo i ministri della sua azione di grazia per il
bene di tutti.
10. Per quale compito e per quale finalità siamo
nella Chiesa sacramenti del Cristo pastore?
– Perché siamo una cosa sola
«Ascolteranno la mia voce, e diventeranno un solo
gregge, un solo pastore» (Gv 10,16). Solo Dio è il pastore che fa di popoli dispersi e divisi, un solo popolo.
Tutto questo il Signore lo compie attraverso la Chiesa,
sacramento dell’incontro dell’uomo con Dio. Dire che
i vescovi sono pastori è innanzitutto ricordare che a
loro è stato affidato dal Pastore buono il compito di fare
l’unità non intorno a sé, ma nel Cristo di cui sono
segno visibile e servi.
– Come essere servi dell’unità? Con la totalità della
vita e del ministero.
Il primo compito del pastore (sacerdote, vescovo) è
quello di annunciare la parola di Dio. «Il popolo di Dio
viene adunato innanzitutto per mezzo della parola del
Dio vivente, che tutti hanno il diritto di cercare sulle
labbra dei sacerdoti».15 Il pastore parla alle pecore, esse
ascoltano la sua voce. Parla non a titolo personale,
parla in nome di Dio. È consolante ma anche fonte di
timore sapere che devo «insegnarvi» a riconoscere la
voce del buon pastore per aderire con più forza a lui.
Vengo a voi per annunziarvi la Parola, quella che
non passa, la sola che salva, che dona il dinamismo e
la profezia della speranza anche agli sfiduciati e agli
smarriti di cuore, che sa muovere la forza dell’amore
che accoglie e risana.
Nei sacramenti si realizza il mistero di salvezza che
la Parola annunzia. Sappiamo che nella celebrazione
dei sacramenti, in particolare dell’eucaristia, il vescovo
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e i sacerdoti operano in persona Christi. In questi segni
santi più che mai siamo sacramenti del buon pastore
che annunzia e proclama la salvezza che i sacramenti
fanno vivere.
Nella comunità, in particolare il vescovo e con lui i
presbiteri, dobbiamo incarnare l’immagine vivente del
buon pastore che raduna e guida le pecore nell’amore.
«Esercitando la funzione di Cristo capo e pastore
per la parte di autorità che spetta loro, i presbiteri, in
nome del vescovo, riuniscono la famiglia di Dio come
fraternità animata nell’unità, e la conducono al Padre
per mezzo di Cristo nello Spirito Santo».16
Anche attraverso il ministero di guida siamo chiamati a fare in modo che nessuno si perda e che al singolo sia data la possibilità di poter camminare
all’interno della comunità con i propri doni e carismi
per far crescere l’unità dell’insieme.
11. Il concilio Vaticano II ricorda a me, vescovo, la
responsabilità solidale per la Chiesa tutta: «In quanto
membri del collegio episcopale e legittimi successori
degli apostoli, i singoli vescovi sono tenuti, per istituzione e precetto di Cristo, ad avere per tutta la Chiesa
una sollecitudine».17 Sono dunque chiamato a portare
con il papa e i vescovi tutti la sollicitudo omnium ecclesiarum. I sacerdoti vivono la loro missione non da soli
ma uniti al vescovo e agli altri presbiteri.
Deve essere evidente e testimoniante un’autentica
fraternità sacerdotale. Non possiamo annunziare e parlare di comunione, se viviamo la nostra vita in modo
individualistico. Significative per noi queste parole di
mons. H. Camara: «Non condannarci, Signore, a essere soli stando insieme. Permettici di essere insieme
stando soli».
12. Singolari affermazioni che obbligano a cambiamenti radicali del nostro modo di essere al servizio
del gregge, nella fedeltà e nell’imitazione dell’immagine del buon Pastore.
L’individualismo, se non il solipsismo, ha ancora
tanta parte nella guida e nel servizio alle nostre comunità. Questo chiama in causa soprattutto noi sacerdoti
e vescovi a un deciso cambio di rotta. Siamo a servizio
della comunità, della Chiesa, corpo di Cristo e suo
gregge. Bisogna che con decisione, convinzione, conversione torniamo ad attingere alla coscienza dell’unità
della missione, alla comunione affettiva ed effettiva
nelle relazioni vescovo-presbiteri, presbiteri-presbiteri,
alla corresponsabilità nel sentirci a servizio della
Chiesa tutta e non dei nostri orticelli ben recintati e
protetti, senza mortificare o livellare i doni e i carismi
presenti in noi e nei fratelli a cui siamo mandati.
Vanno perseguiti luoghi e spazi di vita comune.
Tornino a essere abitate le nostre case canoniche, magari con esperienze di vita fraterna. Siano aperte ad
accogliere coloro che hanno bisogno di essere ascoltati,
12
Cf. O. KIEFER, «Il Pastore e il gregge. Gesù e i suoi», in La
Parola per l’assemblea festiva, n. 22, Queriniana, Brescia 1970, 5556.
13
K. BARTH, Le culte raisonnable, Paris 1934, 205ss.
14
LG 6; EV 1/292.
15
VATICANO II, Presbyterorum ordinis, n. 4; EV 1/1250.
guidati, consigliati. Non ci sia fretta nell’abbandonare
i luoghi che dicono la nostra scelta di abitare laddove
vivono i nostri fratelli. Le nostre comunità, i nostri
compagni di viaggio devono poter sentire la nostra presenza. Una presenza ricca della presenza dell’Altro
presso cui stazioniamo quotidianamente per essere sostanziati e arricchiti dei suoi doni, che devono rendere
riconoscibile il proprium della nostra vita.
Siamo nel mondo, ci ricorda la lettera A Diogneto,
ma non siamo del mondo. I nostri fratelli che vivono
nel mondo ci vogliono contrassegnati e caratterizzati
dallo stampo del divino. Il modello unico per noi presbiteri è Cristo Gesù. Simili a lui, per quanto ci è possibile, non simili al mondo e alle cose del mondo.
Non restringiamo il tempo del nostro essere in attesa dei fratelli che vogliono vedere Dio nelle nostre
fragilità. Guidati in questo non dalle lancette dell’orologio e dall’ufficialità del nostro servizio liturgico; ma
dalla logica dell’amore che sa aspettare, fermarsi e donarsi. Gli orari dunque alle porte delle nostre chiese e
dei locali pastorali non siano di ufficio, ma di disponibilità paziente e accogliente.
Riscopriamo e rimettiamo tra le nostre priorità pastorali il tempo dell’ascolto, della guida spirituale, del
nostro essere chiamati a sostenere il difficile cammino
della fede o il desiderio di poterla riscoprire con chi sa
mettersi al fianco degli incerti, dei dubbiosi, dei tanti
cercatori anonimi di Dio. Perciò non trasformiamo la
casa del pastore e padre in uffici con tempi al risparmio
e centellinati.
13. C’è una seconda riflessione che può aiutare in
modo particolare nel rapporto vescovo-presbiteri a
comprendere il senso pieno e vero della corresponsabilità che deve arricchire e dare motivazioni profonde
al nostro servizio e al nostro amore alla Chiesa.
Anche in questo c’è bisogno di una reale conversione per passare da un’obbedienza individuale, passiva e non scevra da critica collettiva, a una fattiva
collaborazione che faccia scoprire e vivere ai presbiteri
il loro essere «necessari collaboratori e consiglieri nel
ministero e nella funzione di istruire, santificare e governare il popolo di Dio».18 Con maggiore chiarezza
la Pastores dabo vobis afferma: «Il ministero dei presbiteri è innanzitutto comunione e collaborazione responsabile e necessaria al ministero del vescovo, nella
sollecitudine per la Chiesa universale e per le singole
Chiese particolari, a servizio delle quali essi costituiscono con il vescovo un unico presbiterio».19
Non è la ricerca di una democrazia parlamentare.
La Chiesa non è democrazia: è comunione. È compito
del vescovo promuovere e far crescere l’esercizio comunitario della responsabilità pastorale.
14. L’unico gregge che siamo chiamati a riunire nel
nome di e in Cristo non vive in un recinto ai margini
16
Ivi, n. 6; EV 1/1257.
LG 23; EV 1/339.
VATICANO II, Presbyterorum ordinis, n. 7; EV 1/1264.
19
GIOVANNI PAOLO II, esort. ap. postsinodale Pastores dabo vobis
circa la formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali, 25.3.1992, n.
17; EV 13/1239.
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della storia e della vita degli uomini: l’ovile che accoglie
il gregge non è un ghetto. La Chiesa vive tra gli uomini.
È una Chiesa cordiale, non fredda o staccata, aperta, non arroccata nelle sue sicurezze, materna, non
scontrosa, lieta nella convinzione dei suoi limiti e delle
sue fragilità, non piagnona e triste; non si affida ai calcoli e ai diagrammi delle indagini sociologiche, ma sa
essere audace e profetica nella speranza che ha disegnati i suoi tratti nel volto del suo Signore, crocifisso e
risorto.
È una Chiesa che non dimentica di essere al servizio di Dio, che non ha disdegnato di farsi uno di noi
entrando e riconciliando la storia.
È una «Chiesa che riesce a essere esperienza viva
di comunione, intrecciando sapientemente paternità e
fraternità, senza distanze gerarchiche improprie, senza
ammiccanti livellamenti egualitari».20
Sono alcune priorità e attenzioni che nell’esercizio
del nostro ministero a mo’ di «pastori» vogliamo vivere
tra voi coltivando interesse non tattico ma reale per voi,
fratelli e sorelle, per la vostra vita personale e comunitaria, perché diventiamo insieme sempre più gregge
dell’unico buon pastore.
Più che mai avvertiamo il dovere di sentirci non
come una casta separata e intoccabile, ma «tenuti a vivere in questo secolo in mezzo agli uomini, a conoscere
bene – come buoni pastori – le proprie pecorelle e a
cercare di ricondurre anche quelle che non sono di
quest’ovile, affinché anch’esse sentano la voce di Cristo
e ci sia un solo ovile e un solo pastore».21
15. Quali i tratti e le caratteristiche del «pastore»
per il suo popolo?
S. Pietro ce ne offre una sintesi mirabile nella sua
prima lettera: «Pascete il gregge di Dio che vi è affidato,
sorvegliandolo non perché costretti ma volentieri, come
piace a Dio, non per vergognoso interesse, ma con animo
generoso, non come padroni delle persone a voi affidate,
ma facendovi modelli del gregge. E quando apparirà il
Pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non
appassisce» (1Pt 5,2-4).
Chiamati innanzitutto a essere modelli del gregge e
per il gregge. Nella Chiesa non siamo al di fuori, al di
sopra o estranei al gregge. Non siamo dispensati dalla
vita della comunità. Quanto più passano gli anni del
mio servizio pastorale, tanto più avverto la chiamata a
vivere più in profondità la vita della comunità alla
quale il Signore mi ha inviato.
Vescovo e presbiteri, sentiamo che, a imitazione del
buon pastore, dobbiamo sentirci responsabili di tutti e
di ciascuno facendoci carico delle miserie e dei peccati
dei fratelli, delle attese e delle speranze, come anche
delle gioie e delle consolazioni.
Non possiamo non avvertire che, a imitazione di
Cristo servo, siamo chiamati alla presidenza del servizio, alla presidenza dell’unità nella carità. Servire nella
disponibilità, nella dedizione, nella fedeltà alla Parola
da annunziare. Servizio che non è debolezza, meno
che mai asservimento. Una falsa idea di servizio è la
perdita o la deformazione di quell’autorità spirituale
Brunetto Salvarani
Il dialogo è finito?
Ripensare la Chiesa
nel tempo del pluralismo
e del cristianesimo globale
O
biettivo del volume è rendere ragione delle
attuali fatiche del dialogo ecumenico e interreligioso, ma anche rintracciare piste che aiutino
a uscire dallo stallo. E questo, in un momento
ricco di anniversari: i 25 anni dallo storico incontro interreligioso di Assisi (27.10.1986), e i 10
anni dalla proclamazione della Charta Oecumenica
delle Chiese europee (Strasburgo, 22.4.2001). Un
tempo in cui, più che da festeggiare, c’è molto da
riflettere.
«Oggi e domani»
pp. 200 - € 17,50
Dello stesso autore:
Vocabolario minimo
del dialogo interreligioso
Per un’educazione all’incontro tra le fedi
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Dehoniane
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che è legata all’esercizio del nostro essere pastori, da
cui deriva l’autorità per proclamare la Parola, per celebrare i misteri santi e presiedere l’eucaristia.
È compito importante e da non disattendere quello
di spogliare questa autorità da ogni arroganza, da ogni
umano interesse, dalla ricerca di personali tornaconti.
Da ultimo siamo chiamati per essere «a immagine» di
Cristo, buon pastore, santi come lui è santo. E l’apostolo
Pietro ce lo ricorda: «Come il Santo che vi ha chiamati,
diventate santi anche voi in tutta la vostra condotta. Poiché sta scritto: Sarete santi, perché io sono santo» (1Pt 1,1516).
Uno dei grandi crucci, da considerare come una sconfitta, così l’avverto per la mia persona, è il dover constatare la distanza ancora incolmabile tra questa chiamata
alla santità che viene a me dal battesimo, e ancor più
dalla ricchezza di grazia del ministero episcopale che è
stato di perfezione, e l’arrancare in una fedeltà altalenante e incostante. Come risultano vere le parole di Bernanos laddove parla di «nostalgia della santità», o del
grande convertito L. Bloy: «C’è una sola tristezza al
mondo: quella di non essere santi!».
III.
«Educare alla vita buona
del Vangelo»
16. La visita pastorale è un evento di grazia,
un’azione apostolica, un ravvivare le energie degli operai
evangelici, un’espansione della presenza spirituale del
vescovo tra i suoi fedeli. Sono alcune definizioni che incontriamo negli ultimi documenti magisteriali della
Chiesa e che descrivono la ricchezza di questo momento per la vita di una Chiesa particolare.
Non possiamo non situare la visita pastorale nel suo
momento storico. C’è un quando che ci fa cogliere il
kairos, il tempo buono e favorevole della stessa, aiutandoci a leggere le coordinate storiche ed esistenziali
del suo svolgersi.
La nostra Chiesa viene dalla grande esperienza del
sinodo diocesano che l’ha vista entusiasticamente impegnata e attenta al suo essere segno di speranza, nell’ultimo decennio del secolo scorso. Il momento
centrale di quell’evento è stata la visita del venerabile
Giovanni Paolo II il 17-18 settembre 1994. In questi
anni stiamo vivendo i frutti di quella grande stagione
ecclesiale.
17. La Chiesa italiana, dopo e come frutto della corale riflessione del IV Convegno ecclesiale di Verona
celebrato nell’ottobre 2006, ha scelto di dedicare una
specifica attenzione all’arte delicata e sublime dell’educazione con gli Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020: Educare alla vita buona del Vangelo.
20
L. ALICI, F. LAMBIASI, Ho qualcosa da dirti. Due lettere a un prete
e a un laico, Roma 2007, 31.
21
VATICANO II, Presbyterorum ordinis, n. 3; EV 1/1249.
22
EPISCOPATO ITALIANO, Educare alla vita buona del Vangelo, n. 3;
Regno-doc. 19,2010,603.
Su questo tema la nostra Chiesa si è confrontata
nel primo Convegno pastorale diocesano da me presieduto nel mese di settembre dello scorso anno 2010.
Non possiamo disperdere, trascurare, accantonare la
grande ricchezza di intuizioni, riflessioni, contributi
che mi avete consegnato. Abbiamo scelto di camminare con la Chiesa italiana convinti di quanto affermano i vescovi nel citato documento: «È proprio
l’educazione la sfida che ci attende nei prossimi
anni».22
La scelta dei vescovi italiani è frutto di una profonda convinzione ma risponde anche a un’urgenza
che gli stessi così presentano: «Solo un’educazione
che aiuti a penetrare il senso della realtà, valorizzandone tutte le dimensioni, consente di immettervi
germi di risurrezione capaci di rendere buona la vita,
di superare il ripiegamento su di sé, la frammentazione e il vuoto di senso che affliggono la nostra società».23
Ripeto a tutti voi le parole del citato documento
che sarà, insieme alle conclusioni del nostro convegno diocesano, come il fondamento solido, ricco di
contenuti e di proposte anche profetiche della visita
pastorale e del cammino della nostra Chiesa nei prossimi anni: «Con umiltà e con vivo senso dei nostri limiti, ma pure con evangelica parresia e confidenza
nel tesoro che il Signore ha posto nelle nostre mani,
ci esortiamo a vicenda a metterci a servizio del Vangelo per l’educazione integrale di quanti vorranno
accogliere il dono che abbiamo ricevuto e che offriamo a tutti».24
Benedetto XVI, nel discorso ai vescovi italiani riuniti in assemblea il 27 maggio dello scorso anno, diceva che lo scopo dell’educazione è quello di
«formare le nuove generazioni, perché sappiano entrare in rapporto con il mondo, forti di una memoria
significativa che non è solo occasionale, ma accresciuta dal linguaggio di Dio che troviamo nella natura
e nella Rivelazione, di un patrimonio interiore condiviso, della vera sapienza che, mentre riconosce il
fine trascendente della vita, orienta il pensiero, gli affetti e il giudizio».25
18. Nel secondo capitolo del citato documento,
siamo invitati a metterci alla scuola di Gesù per sciogliere i nodi che connotano e disegnano l’odierna
sfida educativa. Troviamo nella relazione di mons.
Franco G. Brambilla al nostro citato convegno una felice espressione laddove afferma che «il capitolo centrale degli Orientamenti disegna quasi un canovaccio
a disposizione delle comunità cristiane, degli educatori e di tutte le persone di buona volontà, perché si
realizzi nel processo educativo il sorprendente scambio con cui il mistero di Cristo fa percorrere a tutti il
cammino filiale e spirituale».
23
24
25
Ivi, n. 6; Regno-doc. 19,2010,604.
Ivi.
BENEDETTO XVI citato Ivi, n. 13; Regno-doc. 19,2010,606.
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Sappiamo bene che in questo cammino siamo al
seguito di Cristo Gesù, «la via che conduce ciascuno
alla piena realizzazione di sé secondo il disegno di
Dio. È la verità, che rivela l’uomo a se stesso e ne
guida il cammino di crescita nella libertà. È la vita,
perché in lui ogni uomo trova il senso ultimo del suo
esistere e del suo operare: la piena comunione di
amore con Dio nell’eternità».26
Essere al seguito di Cristo Gesù significa ascolto
assiduo della parola di Dio, che ci impegna a testimoniare la fede in letizia e semplicità.
L’educatore, «maestro di vita – secondo una lucida
sottolineatura di mons. Brambilla nella citata relazione – non può mai smettere di essere un “testimone” della vita e alla vita. L’educatore allora non
attira su di sé, non egemonizza, ma diventa un testimone (…). Egli non deve temere di dare le proprie
convinzioni, di attestare i propri valori, di offrire le
proprie ragioni, perché egli sa che potrà trasmetterli
solo se susciterà la cordiale comprensione e l’adesione
da parte dell’altro».
Questo compito non sempre lucidamente compreso, proposto e vissuto, è un momento importante
e necessario dell’evangelizzazione. La sua compiuta
attuazione non si affida alle parole, attraversa la vita
della comunità in tutte le sue espressioni, che sente
ineludibile la sua testimonianza per «educare alla vita
buona del Vangelo».
19. I vescovi ci dicono: «L’educazione, costruita essenzialmente sul rapporto tra educatore ed educando,
non è priva di rischi e può sperimentare crisi e fallimenti: richiede quindi il coraggio della perseveranza.
Entrambi sono chiamati a mettersi in gioco, a correggere e a lasciarsi correggere, a modificare e a rivedere le proprie scelte, a vincere la tentazione di dominare l’altro».27 Quanti tra noi, a vario titolo, siano
coinvolti nelle dinamiche dell’educazione, avvertono
fallimenti, crisi, fragilità.
La fragilità dell’ambiente educativo, caratterizzato
da velocità (nel fare, nell’accedere alla realtà) e da superficialità e fugacità che mettono in secondo piano la
bellezza della ricerca, della progettualità e del desiderio.
La fragilità dell’educatore, caratterizzata da insicurezza, dubbio e incoerenza.
La fragilità dell’educando, caratterizzata da altrettanta insicurezza nelle scelte fondamentali, nella capacità di rimanere nella fedeltà e nel lungo tempo,
nell’attesa della realizzazione di un desiderio.
Questo spazio di vulnerabilità, di fragilità, di gracilità, diviene l’occasione per la comunità cristiana di
dire una parola e di proporre delle azioni che lo vivifichino.
Alla fragilità dell’ambiente educativo occorre promuovere luoghi in cui lo spazio e il tempo diventano
quelli di un incontro al pozzo che fa sorprendentemente dire «venite a vedere un uomo che mi ha detto
tutto quello che ho fatto» (Gv 4,29). Un «detto» in un
modo diverso, toccando le profondità dell’altro.
Alla fragilità dell’ambiente educativo di facile e
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immediato accesso occorre dire parole che facilitano
un recupero del valore del desiderio.
Icona di un ambiente educativo in questo senso è,
suo malgrado, il giovane ricco, che pur avendo molti
beni (cf. Mt 19,22) desiderava ancora, coltivando dentro di sé la possibilità di avvertire uno spazio da riempire, una tensione ancora presente, quel disagio sano
che fa sentire la propria vita non realizzata e che
spinge almeno a muoversi per andare ad incontrare
Qualcuno che possa dare una risposta a questa esigenza vitale.
Alla fragilità dell’educatore la Parola narrata dalla
Chiesa deve essere in grado di stimolare il senso di responsabilità e di impegno dell’agire educativo.
Alla fragilità dell’educando c’è una Parola che, sull’esempio degli incontri, tanti, narrati dal Vangelo,
propone modalità alternative di vivere la storia personale e la storia con gli altri.
Chissà, forse non è un’utopia pensare e sperare
che il giovane ricco, triste perché possedeva molte ricchezze (Mt 19,26), non abbia perso né l’anelito né il
desiderio verso forme di vita più piene.
Nelle nostre comunità la fragilità dovrebbe entrare
come peso e uscire come risorsa.
«Hai detto bene» (Gv 4,17), è la risposta attraverso
la quale Gesù accoglie la consapevolezza della fragilità della donna samaritana. Hai detto bene diventa il
momento in cui è accolta la fragilità in una forma
nuova. Hai detto bene è per il giovane che racconta la
storia del suo disagio, per la coppia angosciata per la
rottura, per il ragazzo che sperimenta percorsi errati.
È la risposta che fa sentire accolto, empatizzato, condiviso un bisogno, una sofferenza, un disagio.
Abbiamo da apprendere molto dall’«educatore»
Gesù che in ogni incontro cercato o provocato, prima
di contenere la soluzione, punta dritto al cuore dei significati personali:
– prima del «va’ e d’ora in poi non peccare più»
(Gv 8,11) c’è un «dove sono?» (Gv 8,10) che offre all’adultera l’opportunità di accedere a un modo nuovo
d’intendere la relazione con gli altri;
– prima del «va’, vendi quello che hai» (Mc 10,21)
c’è uno sguardo d’amore: «Fissò lo sguardo su di lui,
lo amò» (Mc 10,21) e «una cosa sola ti manca» (Mc
10,21) a conferma del giusto valore dato al percorso
storico ed esistenziale dell’individuo incontrato;
– prima di «alzati, prendi la tua barella» (Gv 5,8)
c’è un «vuoi guarire?» (Gv 5,6) che apprezza la disponibilità, la motivazione, la tensione al cambiamento e non dà per scontato che semplicemente il
tempo trascorso nel disagio – «vedendolo giacere e
sapendo che da molto tempo era così» (Gv 5,6) – basti
a mettere chiunque nella disponibilità e nella responsabilità del cambiamento.
Sono degli atteggiamenti che fanno dei tanti tra
noi che sono chiamati ad accompagnare e a educare,
degli educatori diversi a immagine dell’unico Educatore.
20. Quali le istanze emerse dal nostro convegno diocesano e quali priorità, in piena unità d’intenti con la
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Chiesa italiana, nella gioiosa fatica del camminare insieme, intendo privilegiare e proporre, nella responsabilità del mio essere per voi e con voi «a immagine
di Cristo, buon pastore»?
Nell’esortazione Pastores gregis è scritto che «i vescovi nell’esercizio del loro ministero di padri e pastori in mezzo ai loro fedeli debbono comportarsi
come “coloro che servono”, avendo sempre sotto gli
occhi l’esempio del buon pastore, che è venuto non
per essere servito, ma per servire e dare la sua vita per
le pecore (cf. Mt 20,28; Mc 10,45; Lc 22,26-27; Gv
10,11)».28 Mi accompagna nell’esercizio della missione di guida la serena convinzione che nel sacramento dell’ordine mi è stato fatto dono della carità
pastorale di Cristo in vista della comunione che sono
chiamato a suscitare e accompagnare.
Sento particolarmente grave il monito della citata
esortazione apostolica: «Prima di tradurre quest’amore-comunione in linee d’azione il vescovo deve
impegnarsi a renderlo presente nel proprio cuore e
nel cuore della Chiesa attraverso una vita autenticamente spirituale».29
Ringrazio il Signore perché man mano che vado
avanti nella stesura della lettera pastorale, emerge e
si specifica, in una dimensione che non immaginavo,
l’itinerario pastorale dei prossimi anni.
Con amore vero e in spirito di autentico servizio
mi inchino davanti a questa nostra santa Chiesa e accolgo, per donarle a voi, le suggestioni e lo sguardo
attento con cui, nel nostro recente convegno diocesano, avete sottolineato l’amore alla nostra Chiesa, il
desiderio e l’impegno per vederla sempre più inserita
in questo nostro mondo, aperta al dialogo propositivo
e all’incontro con i molti anonimi cercatori di Dio
presenti tra noi, pronti a motivare la forza e le ragioni
della speranza che anima la nostra vita e la qualità
del nostro essere abitatori della città terrestre, immagine talvolta sfocata ma vera della città di Dio.
La Chiesa comunità educante
21. Il titolo del IV capitolo degli Orientamenti pastorali sottolinea la responsabilità e la chiamata di ogni battezzato per l’edificazione e la crescita della comunità.
Poiché siamo «un solo corpo e un solo spirito, come una
sola è la speranza» (Ef 4,4), siamo chiamati a vivere il
dono dell’unità nelle varie realtà, nei vari ambiti per testimoniare la novità che Cristo ha generato nella nostra
vita.
L’azione educativa sarà tanto più efficace quanto più
i soggetti in essa coinvolti si impegneranno a operare concordemente e armonicamente. Questo spirito di comunione e di unità è essenziale e qualificante per la nostra
testimonianza. Da questo saremo riconosciuti come i di-
26
27
28
Ivi, n. 19; Regno-doc. 19,2010,609.
Ivi, n. 28; Regno-doc. 19,2010,612.
GIOVANNI PAOLO II, Pastores gregis, n. 42; EV 22/824.
scepoli di colui che è venuto ad abbattere il muro di separazione.
Alcune osservazioni
– L’emergenza educativa è un nervo scoperto della
nostra convivenza sociale ed ecclesiale. È sempre più
difficile educare, formare persone che sappiano dare
un senso all’esistenza e siano in grado di creare e vivere stili di comunione e di collaborazione.
– L’avventura educativa non riguarda uno sparuto
gruppo di esperti o di addetti ai lavori; tocca il nostro
stesso diventare uomini e coinvolge tutte le età della
vita, interessando ogni rapporto umano che può avere
una «qualità educativa» solo se favorisce la crescita integrale della persona. La difficoltà nell’educare, nel trasmettere valide ragioni di vita e di speranza, ci
accomuna ai tanti che hanno a cuore il processo educativo. Diventa chiara una sottolineatura di Benedetto
XVI riportata negli Orientamenti pastorali: «La complessità dell’azione educativa sollecita i cristiani ad adoperarsi in ogni modo affinché si realizzi “un’alleanza
educativa tra tutti coloro che hanno responsabilità in
questo delicato ambito della vita sociale ed ecclesiale”».30
– Queste stesse difficoltà segnano in modo particolare la generazione più giovane. Talvolta si ha l’impressione che i giovani soffrano di una sorta di
radiazione nucleare che li rende quasi stanchi e demotivati, come immersi in una sorta di lungo torpore.
Da dove ripar tire?
22. È importante riscoprire nell’esperienza la vera
natura dell’educazione, che non consiste nell’impartire
nuove regole o nel proporre valori. Si tratta di camminare insieme verso ciò che vale, di coinvolgersi personalmente con la vita dell’altro per sostenere il suo
bisogno di crescere e di scoprire la realtà.
Tutto questo può accadere se ci sono, è l’osservazione che in molti tra noi fanno, luoghi, comunità,
compagnie, contesti dai quali è possibile apprendere,
imparare. Non genera se non chi è continuamente generato. Solo chi è discepolo e figlio può essere maestro
e padre.
In questo noi cristiani siamo fortunati perché possiamo attingere continuamente all’esperienza e alla vita
della Chiesa, madre e maestra non solo nelle sue realtà
più significative, o nelle persone che godono di una
particolare autorevolezza per la loro missione e il loro
ruolo all’interno della comunità, ma anche in quelle
piccole realtà, ad esempio le parrocchie, per certi versi
più prossime e vicine alla quotidiana esperienza. Sono
29
Ivi, n. 44; EV 22/840.
EPISCOPATO ITALIANO, Educare alla vita buona del Vangelo, n.
35; Regno-doc. 19,2010,615.
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Giuseppe Sovernigo
le nostre piccole, vivaci e impegnate comunità, le numerose, capillari realtà (gruppi, movimenti, associazioni) che hanno come scolpiti nella loro proposta e nei
loro itinerari i vari percorsi educativi.
Làsciati riconciliare
Esercizi per un laboratorio di formazione spirituale integrata
1. Riconciliàti per riconciliare
2. Gli ostacoli alla riconciliazione
IV.
23. «Educare in famiglia è oggi un’arte davvero
difficile. Molti genitori soffrono, infatti, un senso di
solitudine, di inadeguatezza e, addirittura, d’impotenza (…). Padri e madri faticano a proporre con passione ragioni profonde per vivere e, soprattutto, a dire
dei “no” con l’autorevolezza necessaria».31
Sono veramente grato a quanto il nostro convegno
diocesano ha saputo offrirmi, analizzando e interrogandosi sulla crisi in atto anche nelle nostre famiglie,
con osservazioni puntuali e scevre da tentativi di facili
assoluzioni. Emerge un quadro che non può lasciarci
indifferenti e che deve stimolare una rinnovata e intelligente passione e attenzione per porre la famiglia
al centro delle nostre preoccupazioni pastorali. È una
sfida da raccogliere, è un impegno da privilegiare, è
una profezia di amore che va ripresentata nella sua
integra bellezza e attualizzata con immediate e puntuali proposte operative.
I segnali di sofferenza della famiglia emergono
dalla mancanza di stabilità della coppia, che evidenzia
la difficoltà di relazioni tra i coniugi e, di conseguenza,
tra genitori e figli. Da questo scaturiscono quelle tensioni generazionali che taluni pensano di risolvere proponendosi come «amici» dei figli, un’espressione che,
dietro l’apparente apertura al dialogo, rivela di fatto
una deresponsabilizzazione e una rinuncia al ruolo di
genitore come punto di riferimento sicuro, delegando
alle altre cosiddette «agenzie» un compito naturale e
irrinunciabile. Da qui vengono fuori generazioni senza
dialogo, senza memoria del passato, senza eredità di
valori, con rapporti deboli e superficiali.
Anche poche o molte famiglie cristiane spesso si
sono svuotate di identità perché, essendosi allontanate
dalla «pedagogia divina», hanno smarrito il progetto
di Dio sull’uomo.
Può sembrare un’analisi con eccessive zone d’ombra, non rispondente alla realtà dei fatti. Purtroppo
la crisi dell’istituto familiare è sotto i nostri occhi. La
famiglia, a un tempo, è forte e fragile. Poiché «nell’orizzonte della comunità cristiana, la famiglia resta
la prima e indispensabile comunità educante»,32 si
comprende il perché essa diventa una delle scelte
prioritarie della nostra pastorale per i prossimi anni.
«Educare in famiglia è oggi un’arte davvero difficile. Molti genitori soffrono infatti un senso di solitudine, di inadeguatezza e, addirittura, d’impotenza. Si
tratta di un isolamento anzitutto sociale, perché la società privilegia gli individui e non considera la famiglia come sua cellula fondamentale».33 Si aggiungono
altri fattori interni, quali la fragilità della coppia, nella
quale talvolta la fa da padrone l’intensità emozionale,
n che cosa consiste il processo di riconciliazione? Che cosa
Ipercorso,
lo facilita? Quali sono le fratture ricorrenti che lo bloccano? Il
in 4 volumi, offre esercizi per un laboratorio di crescita personale e di gruppo.
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internazionale per lo studio della
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27-29.9.2010) ha inteso ampliare i
confini del proprio ambito specifico,
comprendendo non solo il campo biblico, ma anche quelli delle altre letterature semitiche, contemporanee,
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per sua natura episodica, mentre passa in secondo
piano il significato essenziale, o la continuità della storia familiare, o la mancanza di un lavoro di cura e
d’impegno nella relazione.
Non è da sottovalutare l’incertezza nella relazione
genitori-figli. Prevale in molti casi una visione di educazione incerta e confusa. Talvolta è evidente l’impreparazione dei genitori a gestire il ruolo educativo,
soprattutto nell’età evolutiva. Non sono rari i casi nei
quali il genitore preferisce essere visto più come amico
nel timore di perdere l’affetto dei figli. Si cerca di seducere, ovvero di attirare a sé, e non di e-ducere, conducendo fuori le potenzialità, il progetto del figlio.
Molti sono i fattori esterni all’origine della sempre
più fragile capacità educativa della famiglia, quali: il
conciliare il lavoro con la vita familiare, le condizioni
abitative, il quadro economico, fiscale e sociale che
scoraggia il desiderio di nuove maternità, l’aumento
delle convivenze, delle coppie divorziate o separate,
dei nuclei monogenitoriali formati dalle madri e dai
loro figli. «Non si possono trascurare, tra i fattori destabilizzanti, il diffondersi di stili di vita che rifuggono
dalla creazione di legami affettivi stabili e i tentativi di
equiparare alla famiglia forme di convivenza tra persone dello stesso sesso».34
24. Quale la nostra risposta e quali proposte per
far fronte a questo evidente stato di crisi della famiglia
cristiana?
La famiglia è soggetto e protagonista dell’azione
pastorale nella e nelle nostre comunità?
«La nostra diocesi è consapevole che la famiglia,
comunità di persone, fondata sul matrimonio tra
l’uomo e la donna, (…) è una grande risorsa, capace
di aprire prospettive di speranza per l’uomo, per la
Chiesa e per la società»?35
Quale la cura, l’attenzione, lo spazio e il coinvolgimento dell’istituto familiare nella nostra pastorale,
nei suoi progetti, nei suoi programmi?
Interrogativi che chiamano in causa la nostra
Chiesa che Cristo costituisce come sacramento di speranza e garanzia e sostegno per il difficile cammino
della Chiesa domestica, aiutando i coniugi cristiani
perché accolgano e vivano il dono del sacramento, secondo le parole del nuovo rito del matrimonio, come
«nuova via della loro santificazione».
Dobbiamo aiutare la famiglia a essere «protagonista attiva dell’educazione non solo per i figli, ma per
l’intera comunità».36 «Ogni famiglia è soggetto di
educazione e di testimonianza umana e cristiana e
come tale va valorizzata, all’interno della capacità di
generare alla fede propria della Chiesa».37
25. Non possiamo sottrarci all’organizzazione di
una pastorale familiare globale che deve farsi carico:
– delle famiglie in proiezione: i giovani da guidare
per scoprire la propria tensione vocazionale aiutandoli innanzitutto a conoscere sé stessi;
– delle famiglie in fieri: le coppie che accedono al
corso per nubendi;
– delle famiglie in atto già esistenti, con o senza
prole, non trascurando anche quelle che presentano
situazioni di vedovanza;
– delle situazioni «irregolari» (convivenze di fatto,
separazioni, divorzi). Questa particolare attenzione ci
viene chiesta anche dal nostro sinodo diocesano laddove afferma che «la nostra carità deve manifestarsi
verso le coppie i crisi o in situazioni irregolari, riconoscendo in esse la dignità di figli di Dio e la condizione di membri della comunità».38
Il Concilio e la liturgia ci parlano della famiglia
come «Chiesa domestica», «piccola Chiesa». C’è un
compito che appartiene ai genitori e non è delegabile:
«Appartiene all’autentica paternità e maternità la comunicazione e la testimonianza del senso della vita in
Cristo: attraverso la fedeltà e l’unità della vita di famiglia gli sposi sono davanti ai propri figli i primi annunciatori della parola di Dio».39
La visita pastorale vorrà aiutare le famiglie a riscoprire, riaffermare e ribadire questo compito genitoriale con proposte, sussidi, celebrazioni che richiamano la peculiare responsabilità di educazione alla
fede dell’intera famiglia.
C’è da accogliere il particolare invito alle famiglie
che Benedetto XVI rivolge nell’esortazione Verbum
Domini: «Che ogni casa abbia la sua Bibbia e la custodisca in modo dignitoso, così da poterla leggere e utilizzare per la preghiera» con «la formazione di piccole
comunità tra famiglie in cui coltivare la preghiera e
la meditazione in comune di brani adatti delle Scritture».40 Inoltre, ecco la delicatezza dell’invito del papa
che, citando un brano della Familiaris consortio di
Giovanni Paolo II, aggiunge: «Gli sposi, poi, ricordino che “la parola di Dio è un prezioso sostegno
anche nelle difficoltà della vita coniugale e familiare”».41
«La preparazione al matrimonio deve assumere i
tratti di un itinerario di riscoperta della fede e di inserimento nella vita della comunità ecclesiale».42
Accanto alle tradizionali forme di preparazione al
matrimonio (accompagnamento fidanzati, corsi per
nubendi), accogliendo la sollecitazione poc’anzi
espressa dai vescovi italiani nel più volte citato documento, laddove parla di «itinerari di riscoperta della
31
38
32
n. 95.
Ivi, n. 36; Regno-doc. 19,2010,615.
Ivi.
33
Ivi.
34
Ivi.
35
ARCIDIOCESI DI LECCE, Documento dell’XI Sinodo diocesano,
Lecce 2000, n. 90.
36
EPISCOPATO ITALIANO, Educare alla vita buona del Vangelo, n.
38; Regno-doc. 19,2010,616.
37
Ivi, n. 37; Regno-doc. 19,2010,615.
ARCIDIOCESI DI LECCE, Documento dell’XI Sinodo diocesano,
39
BENEDETTO XVI, esort. ap. postsinodale Verbum Domini sulla
parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, 30.9.2010, n. 85;
Regno-doc. 21,2010,680.
40
Ivi.
41
Ivi.
42
EPISCOPATO ITALIANO, Educare alla vita buona del Vangelo, n.
37; Regno-doc. 19,2010,616.
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fede», la nostra Chiesa si impegnerà a proporre una
sorta di veri e propri itinerari catecumenali. Itinerari
come proposta di maggior respiro per superare i fatidici corsi, in fondo utili ma non completi, per chi voglia vivere sul serio la ricchezza e i conseguenti
impegni della grazia del sacramento, ormai sguarnito
su diversi fronti e impari a combattere la sua facile disgregazione e gli attacchi di una cultura e mentalità
che fanno del provvisorio e del non definito una facile merce di «scambio» per nuove esperienze.
Una parola conclusiva che constata con sofferenza
un dato di fatto. Purtroppo molte volte si ha l’impressione che il nostro sia un tempo di passioni intense ma leggere, nel quale si aborriscono i vincoli. In
questa realtà dai tratti crepuscolari, gli sposi cristiani
sono chiamati ad annunziare e testimoniare il Vangelo della famiglia vissuto nell’amore e nella fedeltà.
V.
Educare le nuove generazioni
26. Voglio introdurre questo ultimo capitolo della
lettera pastorale con tre, diversi contributi:
– una lunga citazione di un discorso tenuto da Benedetto XVI ai vescovi italiani laddove afferma che:
«Educare è formare le nuove generazioni, perché sappiano entrare in rapporto con il mondo, forti di una
memoria significativa che non è solo occasionale, ma
accresciuta dal linguaggio di Dio che troviamo nella
natura e nella rivelazione, di un patrimonio interiore
condiviso, della vera sapienza che, mentre riconosce
il fine trascendente della vita, orienta il pensiero, gli
affetti e il giudizio. I giovani portano una sete nel loro
cuore, e questa sete è una domanda di significato e di
rapporti umani autentici, che aiutino a non sentirsi
soli davanti alle sfide della vita».43
– Il nostro sinodo diocesano: «La Chiesa nutre nei
confronti dei giovani l’amore di una madre verso i figli
che ha generato. Per questo guarda con particolare attenzione alle giovani generazioni, nella consapevolezza
che sono esse protagoniste della nuova evangelizzazione e testimoni di Cristo nel terzo millennio. Per tale
motivo la Chiesa di Lecce deve essere sempre più comunità accogliente e ospitale verso tutti i giovani sparsi
(…) offrendosi loro come segno riconoscibile dell’amore misericordioso di Dio e assumendo nei loro
confronti un atteggiamento di ascolto attento e umile,
di confronto, di dialogo e di condivisione».44 «La prospettiva della pastorale giovanile dev’essere decisamente vocazionale, allo scopo di aiutare i giovani a
maturare una propria scelta di vita».45
– Il terzo contributo che offro alla riflessione di
tutti voi è una lunga, meditata e, a tratti, sofferta lettera che poche settimane fa mi ha inviato uno dei
tanti giovani incontrati nel mio peregrinare di vescovo
e di catechista nelle varie giornate mondiali della gioventù. Ecco alcuni stralci significativi che svelano la
profondità di un disagio e di una ricerca di senso: «Il
disagio avvertito comunemente da noi giovani gene-
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razioni è rappresentato da quella incapacità di cogliere la propria identità, di capire “chi sei”. Questo
disagio ci porta spesso a indossare una maschera, e a
nascondere forse cosa c’è di veramente bello e buono
in noi (…). In aggiunta a questa difficoltà prettamente
dovuta alla giovane età, resta il fatto che per le giovani generazioni (me compreso!) il futuro diventa
sempre più incerto e precario (…). Accade allora che
si inseguono stili, modelli, mode che distraggono purtroppo la maggioranza di noi, portandoci poi a indossare chissà quali maschere per insicurezza e paura
(a non essere veramente sé stessi)».
È fuori discussione l’impegno forte della comunità
cristiana a porre ancora più al centro dell’attenzione,
del servizio, dell’accoglienza, dell’ascolto doveroso
delle loro domande i giovani. Non mancano anche tra
noi analisi approfondite e interpretazioni che a volte
risultano anche suggestive. Nonostante questo conclamato impegno, i giovani sono la fascia più assente
dalla vita delle nostre comunità e dalla Chiesa. Ci
sono dati che non possono non preoccuparci.
Dal 2004 al 2010 più di un milione e centomila
giovani italiani hanno dichiarato di non appartenere
più alla Chiesa cattolica. Nonostante questo dato è indubbio l’accresciuto interesse del mondo giovanile per
il «trascendente», per la spiritualità, per proposte esigenti.
Il brano della lunga lettera di un giovane che poc’anzi ho riportato nella sua parte centrale, in fondo,
è una richiesta di aiuto a capire il perché della sua
«fame di senso», della sua richiesta di giustizia rispetto
a un lavoro, a un’occupazione e alla possibilità di
poter progettare il suo futuro.
Non è facile, non è scontato per noi adulti e per
noi chiamati a essere guide e annunziatori di speranza, far percepire ai giovani questa dimensione che
è piuttosto latitante nella loro esperienza.
Essi chiedono, a volte con modi e forme un po’
fuori dalle etichette e dallo stile delle regole recepite
nel nostro galateo delle buone maniere, accoglienza
serena, amicale e scevra da giudizi o pregiudizi, libera
da atteggiamenti paternalistici. Domandano coerenza
di vita e passione, accompagnate dalla testimonianza
di una vita bella e gioiosa.
27. Chi sono questi giovani che vogliamo raggiungere? Quale la loro tipologia?
L’arco cronologico della fascia «giovane» si è anticipato, ma anche, allungato: da 16-18 a 35 anni.
Sono diversi e di sicuro stanno meglio delle generazioni precedenti: hanno un po’ di denaro in più, ma
non per risorse derivanti da un loro lavoro, bensì perché
a monte c’è la disponibilità della famiglia d’origine.
Buona parte del tempo di molti di loro è assorbito e talvolta espropriato dal mondo digitale. Qualcuno ha definito nativi digitali l’ultimissima generazione giovane.
Rimane difficile definire per loro il confine tra virtuale e reale. Ma non possono essere accusati di superficialità o privi di mancanza di ideali. Sanno
sognare, amano la verità e la cercano. Non sono refrattari all’impegno e al dono.
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Di casa tra noi?
28. Uno sguardo alla vita delle nostre comunità,
delle nostre realtà associative, delle nostre assemblee
liturgiche, non può non accorgersi della verità, per
quanto attiene alla presenza giovanile, dell’immagine
di virgiliana memoria: rari nantes in gurgite vasto.
Sono veramente pochi i giovani in mezzo a noi.
Non possiamo non interrogarci: cosa rende difficile, problematica, episodica, saltuaria, quasi asfittica
la presenza dei giovani tra noi? Per caso la nostra fede
è invecchiata? Il nostro linguaggio è diverso, lontano,
incomprensibile, estraneo al loro modo di comunicare? Forse si è ridotto lo spazio del dialogo, dell’ascolto? C’è un moralismo di troppo? Preferiamo la
trasmissione ovattata della Parola, per paura di trasmettere messaggi veri che, per amore e per il servizio
alla verità, non possono non essere forti e radicali?
«Le nostre comunità devono strutturarsi diversamente, come luoghi in cui, pur senza sconti e compromessi, si offre innanzitutto accompagnamento,
chiarezza coraggiosa, percorsi di verità nella consapevolezza di andare controcorrente, ricerca di motivazioni anche razionali, proposta di testimonianze
quotidiane e di vita santa, e la profezia di una grande
misericordia. Case dalle porte sempre aperte, non per
“farli entrare”, ma per uscire, per vivere in mezzo a
loro e così capirne la ragioni, condividerne le sofferenze e captarne le speranze».46
Ci è chiesto, soprattutto a livello delle tante figure
educative presenti nelle nostre comunità, di saper accogliere i giovani, fugando la tentazione del trattenerli
bloccandoli all’interno dei progetti pensati per loro
ma senza di loro, non sono da fermare ma da inviare,
memori e fedeli a un comando: «Andate in tutto il
mondo». Forse è da cambiare una logica per troppo
tempo valida e attuale in una società cristianizzata,
che in tanti rimpiangono, dimentichi che, al di là di
ogni potere umano, che può proteggere o distruggere,
i fili della storia non sono nelle mani degli uomini, ma
in quelle di un Dio Padre che ama, sostiene, protegge
e provvede ai suoi figli. Non abbiamo da piangere, da
recriminare o da rimanere fermi al palo della storia.
Dunque non i giovani in chiesa, ma la Chiesa che va
ai giovani.
Accoglienza e dialogo
29. «Solo una comunità accogliente e dialogante può
trovare le vie per instaurare rapporti di amicizia e offrire
43
BENEDETTO XVI, Discorso alla LXI Assemblea generale della
CEI, 27.5.2010.
44
ARCIDIOCESI DI LECCE, Documento dell’XI Sinodo diocesano,
n. 96.
45
Ivi, n. 97.
46
D. PIRRI, «I giovani oggi», in Settimana n. 6, 6.3.2011.
47
EPISCOPATO ITALIANO, Educare alla vita buona del Vangelo, n.
41; Regno-doc. 19,2010,617.
risposte alla sete di Dio che è presente nel cuore di ogni
uomo».47
L’accoglienza necessita di alcune caratteristiche che
fugano ogni resistenza e ogni paura: pazienza e competenza, amore e misericordia, gratuità e generosità.
La scelta di obiettivi, metodi e mete della pastorale
che si fa incontro ai giovani deve saper fare a meno con
chiarezza di modelli superati e obsoleti, con linguaggi
vecchi e proposte che non riescono a parlare ai moderni
fruitori del mordi e fuggi; né può pensare di mutuare modelli in voga nella società dei consumi.
Bisogna operare una vera conversione nella pastorale
giovanile tenendo anche presente una lucida e provocatoria, come è nel suo stile, osservazione di mons. Sigalini,
assistente generale dell’Azione cattolica: «I giovani purtroppo crescono intellettualmente, ma lasciano la fede a
livelli di conoscenza e di esperienza da infanzia, mentre
nelle altre scienze si specializzano e si fanno sicuri».48
Non è da sottovalutare un aspetto proprio dei nostri
giovani:
– confidano e si fidano più delle persone che delle iniziative;
– non si lasciano condizionare dai numeri o dalle percentuali che in questo ambito sono tendenzialmente
basse, ma dalle idee a cui legarsi e appassionarsi;
– scelgono un linguaggio in grado di comunicare con
lo stile l’accoglienza, con la comprensione, con la fiducia;
– i giovani «non sono un problema ma una risorsa,
soggetti e non oggetti di itinerari formativi, partner a
pieno titolo di una crescita che riguarda tutte le generazioni»;49
– non bisogna disdegnare, anzi sono da cercare, possibili alleanze e sinergie con quanti sono impegnati e
hanno a cuore la vita dei giovani. Purtroppo c’è uno scollamento tra le varie realtà educative che soffrono di una
crisi profonda di comunicazione. «È necessario che i vari
soggetti coinvolti nel campo educativo si parlino e si incontrino su una piattaforma comune di indirizzi e di valori condivisi»;50
– devono emergere all’interno delle nostre comunità
figure di adulti, capaci di affiancarsi ai giovani come educatori e testimoni in grado di offrire valori alti e modelli
significativi di comportamento; «i giovani hanno bisogno
di testimoni credibili con cui confrontarsi per trovare la
propria strada nel mondo, hanno bisogno di adulti che
sappiano “compromettersi” nella relazione educativa,
che sappiano aprire le porte del futuro con la ricchezza
della loro esperienza».51
30. Queste piccole sottolineature, che fanno emergere
la complessità del «mondo giovani», ci inducono a rivedere le categorie che da sempre accompagnano la proposta religiosa nella vita delle giovani generazioni.
48
D. SIGALINI, «Educare insieme», in P. TRIANI (a cura di), Educare, impegno di tutti, Roma 2010, 125.
49
D. D’AMBROSIO, Giovani e famiglia in missione. Progetto pastorale diocesano 2007-2010, Manfredonia 2007, 43.
50
C. NOSIGLIA, «Introduzione», in EPISCOPATO ITALIANO, Educare alla vita buona del Vangelo, Leumann (TO) 2010, 22.
51
Ivi, 42-43.
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Giovanni Paolo II nella citata esortazione apostolica
Pastores gregis ricorda a me vescovo: «Il vescovo, pastore
e padre della comunità cristiana, avrà una cura particolare per l’evangelizzazione e l’accompagnamento spirituale dei giovani. Un ministero di speranza non può fare
a meno di costruire il futuro insieme con coloro – i giovani, appunto – ai quali è affidato l’avvenire. Come “sentinelle del mattino”, i giovani attendono l’aurora di un
mondo nuovo».52
Al termine di questo veloce attraversamento del «pianeta giovani», mi preme aggiungere due ultime indicazioni che richiamano l’urgenza di una sfida, quella dei
giovani, da affrontare e correre con l’apporto di tutta la
comunità. So di poter contare sull’impegno di molti, in
particolare sull’attesa dei nostri giovani, perché si creino
quegli spazi di ascolto, di dialogo dove l’esperienza degli
adulti si aprirà alla speranza scalpitante delle nuove generazioni.
Amo guardare in avanti con fiducia perché il mio è
un «ministero di speranza», ma mi piace anche sognare.
Il sogno è sapere che la nostra Chiesa vorrà coinvolgersi
tutta per offrire ai giovani una forte e aperta identità cristiana che, nel bailamme di varie e contrastanti ideologie,
doni loro l’apertura al dialogo con tutti senza venir meno,
in una sorta di facili e adattabili compromessi, al loro
compito di testimoni del Risorto, e all’altro non meno importante «dare ragione della speranza che è in loro».
Nel corso della visita pastorale, all’incontro con i giovani, vorrò dedicare larghi e ampi spazi di tempo per
ascoltarli soprattutto, per saper cogliere le loro domande,
intuire il loro bisogno di Dio, dare risposte alle loro attese, e con loro iniziare a progettare la primavera della
nostra Chiesa, che confluirà, se il Signore ci illuminerà
con la luce del suo Spirito, nel sinodo dei giovani della
Chiesa di Lecce.
C
onclusioni
In cammino
Questa lunga lettera la consegno a voi in un giorno
significativo e ricco di emozioni e di immensa gratitudine
per la Chiesa tutta: Giovedì santo, «nella memoria della
Cena del Signore», con la ricchezza dei gesti che Gesù, il
Maestro e Signore compie per noi:
«Si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano
e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino
e cominciò a lavare i piedi dei discepoli» (Gv 13,4-5).
«Poi, prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro
dicendo: “Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me”. E, dopo aver cenato, fece lo stesso con
il calice dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio
sangue, che è versato per voi”» (Lc 22,19-20).
Parte dal cenacolo e dal suo «memoriale» la straordinaria avventura della comunità dei discepoli che attraversa la storia fino alla fine.
In questa avventura oggi siamo coinvolti noi, Chiesa
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viva che benedice, celebra e testimonia il Signore crocifisso e risorto.
Avvertiamo la responsabilità di un compito che deve
garantire novità nella continuità al Vangelo di Cristo
Gesù che non può, per nostre omissioni, fragilità e debolezze, perdere la sua potestà salvatrice.
Questa lettera che consegno a tutti voi è il ricordare la
priorità di questo compito: il Vangelo da portare e annunziare. Verrò a visitarvi per ricordare ancora e ripresentare l’unum necessarium, la buona e bella notizia.
Mi faccio precedere da questa lettera che sottolinea
la fedeltà e l’amore che vi devo e il mandato ricevuto da
Cristo Signore di essere per voi educatore e padre nella
fede.
Non posso omettere di dire una parola di gratitudine
ai molti tra voi che mi hanno offerto nelle conclusioni del
convegno diocesano dello scorso mese di settembre indicazioni, attese, suggerimenti.
Nella stesura del testo della lettera, altri si sono resi
disponibili per sottolineare con la loro specifica competenza il primato e l’urgenza dell’«arte delicata e sublime
dell’educazione» (card. Bagnasco).
Prendo in prestito a mo’ di conclusione un pensiero da
Educare alla vita buona del Vangelo: «Con umiltà e con
vivo senso dei nostri limiti, ma pure con evangelica parresia e confidenza nel tesoro che il Signore ha posto nelle
nostre mani, ci esortiamo a vicenda a metterci a servizio
del Vangelo per l’educazione integrale di quanti vorranno
accogliere il dono che abbiamo ricevuto e che offriamo a
tutti».53
Interceda per tutti noi il Cristo Signore, crocifisso e
risorto.
Preghiera per la visita pastorale
Buon Pastore Gesù,
visita il tuo gregge!
Ti attende per conoscerti, amarti, seguirti,
essere guidato sui sentieri di giustizia.
Mostraci i percorsi della speranza
in una storia segnata da timori e paure.
Educa noi tuoi servi alla vita buona del Vangelo.
La sapienza, dono del tuo Spirito,
muova i nostri passi e guidi le nostre scelte,
per rendere credibile la Parola a noi consegnata.
Chiamati e mandati per essere tua presenza,
liberaci dalla tentazione del recinto sicuro e protetto.
Ti preghiamo: sia forte e duratura
l’impronta del tuo passaggio tra noi.
Lecce, 21 aprile 2011, Giovedì santo.
DOMENICO D’AMBROSIO,
arcivescovo di Lecce
52
GIOVANNI PAOLO II, Pastores gregis, n. 53; EV 22/866.
EPISCOPATO ITALIANO, Educare alla vita buona del Vangelo, n. 6;
Regno-doc. 19,2010,604.
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tudi e commenti
Laici dopo
il Vaticano II
Relazione di Giacomo Canobbio
alla Pontificia università
della Santa croce (Roma, 7-8.4.2011)
È dal «superamento dell’atteggiamento critico (…) del mondo moderno
da parte dell’autorità ecclesiale» che
la «riflessione teologica sui laici»
muove i primi passi. Apre così l’intervento del teologo Giacomo Canobbio su «La riflessione teologica sui
laici dal Concilio a oggi», che qui anticipiamo in attesa della pubblicazione degli atti, al convegno organizzato dalla Facoltà di diritto canonico
della Pontificia università della Santa
Croce su «Il fedele laico: realtà e prospettive», il 7-8.4.2011. Cinque sono
storicamente i modelli che «continuano a permanere nella mente e nelle
pratiche» della vita ecclesiale: dal
primo, che intende «la Chiesa come
gerarchia, il mondo come terreno di
conquista, i laici come longa manus
della gerarchia», fino al quinto, che
afferma «non più laici ma cristiani»,
ma rischia tuttavia un livellamento di
tutti i fedeli, sminuendo «la presenza
della Chiesa nei luoghi di costruzione
della vita civile». Per questo è necessario un sesto modello che affidi ai
laici il «volto simbolico della Chiesa
estroversa», lasciando il compito della
«memoria dell’origine» ai ministri ordinati e quello dell’«anticipo dell’eschaton» ai religiosi.
Stampa da file in nostro possesso.
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Premesse
1. Nella riflessione si procede frequentemente con la
supposizione che i modelli di comprensione si succedano
e quindi i più recenti superino i più antichi. Si tratta di
uno schematismo che non trova riscontro né nell’elaborazione teorica né nelle pratiche: i modelli che alcuni ritengono superati continuano a permanere nella mente e
nelle pratiche di altri fino a prevalere e rendere obsoleti
quelli che si supponeva con troppa facilità fossero ormai
acquisiti da tutti. Il prevalere di modelli dipende dalla recezione degli stessi e questa, a sua volta, dipende dall’autorità/autorevolezza di chi li propone (non solo mediante
affermazioni, bensì e soprattutto attraverso comportamenti) e dalla consapevolezza critica dei recettori nei confronti di tale autorità/autorevolezza.
La premessa giustifica la prospettiva prevalentemente
storica che qui si assume in coerenza con il titolo assegnato. La scelta deriva altresì da una constatazione: la riflessione recente sui laici sembra riproporre modelli che
hanno segnato la ricerca teologico-pastorale del secolo
scorso.1 Riprendere criticamente quei modelli serve pertanto a comprendere ciò che effettivamente è acquisito e
ciò che resta ancora alquanto fluido. Nella rassegna non
ci si riferisce tanto all’insegnamento magisteriale, che si
può dire abbia assunto e consacrato in genere le acquisizioni di una teologia riflesso critico di esperienze. Non ci
si vuole neppure attenere alla «teologia di scuola», che
dopo il Sinodo del 1987 e l’esortazione apostolica Christifideles laici (30.12.1988) sembra avere pressoché abbandonato il tema dei laici e, là dove lo riprende, sembra
riproporre visioni comunemente diffuse negli ultimi decenni del secolo XX.
Tale constatazione potrebbe condurre a ritenere che
non ci sia possibilità di andare oltre quelle acquisizioni e
quindi si sia condannati a ripeterle, anche perché le pratiche ecclesiali in atto rivelerebbero – lo si riconosca oppure no – modelli di comprensione, spesso lontani sia dai
pronunciamenti magisteriali sia dalla riflessione teologica
recenti, ma vicini all’insegnamento magisteriale e alla teologia dei decenni precedenti al Vaticano II.2
Le ragioni del fenomeno richiamato andrebbero in-
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tudi e commenti
Laici al vertice?
I
n un editoriale di qualche mese fa la rivista dei gesuiti statunitensi America ha affrontato in termini originali il tema del
rapporto tra laici e gerarchie ecclesiastiche. Rivolta ai cattolici
che pensano e a chi vuol sapere che cosa pensano i cattolici («for
the thinking Catholics and those who want to know what the
Catholic people are thinking»), sul numero 5 del 2011, datato 21
febbraio, ha avanzato la proposta d’inserire in forma permanente i laici negli organismi di governo della Chiesa. In particolare, l’editoriale configura l’istituzione di un consiglio
internazionale di laici che lavori insieme al Collegio cardinalizio
per la gestione degli affari ecclesiastici e per l’elezione del papa
(nostra revisione della traduzione italiana pubblicata da www.finesettimana.org).
Mentre il pontificato di papa Benedetto XVI ha certamente
registrato importanti successi, quali la visita dello scorso autunno
in Gran Bretagna per la beatificazione del card. Newman, le crisi
che hanno condotto allo svuotamento dei banchi delle chiese parrocchiali cattoliche in Inghilterra, Europa e Stati Uniti, non accennano a diminuire.
La critica principale che viene rivolta alla Chiesa gerarchica è
d’essere un’istituzione clericale tutta maschile che non lascia spazio ad altre voci. Non c’è bisogno d’elencare il numero di recenti
decisioni strategiche, da Roma fino alle sedi locali, che sarebbero
state più prudenti se solo anche qualche laico fosse stato consultato.
Gesù ha detto ai suoi discepoli d’essere dei servitori, di nutrire
gli affamati e condividere i propri averi con i poveri, di mostrare
l’amore vicendevole mettendo la propria vita a servizio del prossimo.
Qualcuno ai vertici della Chiesa si è comportato esattamente
all’opposto, dando vita a una cultura clericale che troppo spesso
ha privilegiato la fedeltà più che la responsabilità. A partire da
queste circostanze un progetto di riforma appare essenziale per
ringiovanire la leadership della Chiesa e dare maggior voce all’intera Chiesa. Come ha scritto papa Giovanni Paolo II nella Novo
millennio ineunte, citando san Paolino da Nola: «Pendiamo dalla
bocca di tutti i fedeli, perché in ogni fedele soffia lo Spirito di
Dio» (n. 45; EV 20/89).
Da dove cominciare? Nessuno intende preconizzare cambiamenti circa l’attuale disciplina che regola il celibato o circa il magistero in merito all’ordinazione delle donne, ma esistono altri modi
per riformare le strutture della Chiesa e permettere alle donne e
agli uomini sposati di partecipare al governo della Chiesa.
Una proposta sarebbe semplicemente quella di cambiare il diritto canonico per ammettere dei laici all’interno del Collegio cardinalizio. La Chiesa potrebbe così mantenere un sacerdozio tutto
maschile, e tuttavia trasformare questa sorta di «club per soli uomini» in una Chiesa che abbia un volto che assomigli di più a quel
popolo di Dio che viene delineato nei documenti del concilio Vaticano II.
Una proposta più realistica, però, richiederebbe due fasi: innanzitutto una riorganizzazione degli uffici diocesani in modo tale
che i laici vengano a costituire almeno la metà dei principali consiglieri del vescovo (già oggi è in crescendo il numero dei laici che
vengono assunti negli uffici di curia delle diocesi americane).
In secondo luogo dar vita a un nuovo organismo, una sorta di
Consiglio internazionale di laici che condivida le funzioni del Col-
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legio cardinalizio. Con la riduzione progressiva del numero dei cardinali, ciascuno dei due organismi potrebbe essere costituito alla
fine da un centinaio di membri. I membri laici dovrebbero essere
cattolici che amano la Chiesa e che vengono unanimemente riconosciuti come dei buoni cristiani. Dovrebbero appartenere a diverse aree occupazionali: scuola, sanità, vita religiosa, diritto, arti,
economia, scienze, governo e lavoro.
La leadership della Chiesa non dovrebbe essere appannaggio
di persone anziane, ma dovrebbe includere uomini e donne, sposati e non, persone d’ogni età. Dopo tutto la saggezza può provenire da molteplici fonti, come riconosceva anche san Benedetto
quando esortava l’abate di un monastero ad ascoltare il parere del
membro più giovane della sua comunità: «Su suggerimento del Signore, spesso accade che sia la persona più giovane a sapere che
cosa sia meglio».
Alcuni membri di questo consiglio potrebbero dirigere dicasteri vaticani, altri recarsi a Roma per consultazioni periodiche. Il
loro numero e provenienza dovrebbe essere proporzionale alla popolazione cattolica nel mondo, scelti per un periodo di tempo determinato su indicazione di assemblee rappresentative di clero e
laici. La combinazione di collegio e consiglio dovrebbe condividere
tre finalità: amministrare gli uffici vaticani, consigliare il papa e scegliere il suo successore.
Questi laici potrebbero fornire quel punto di vista tanto necessario relativo all’impatto degli insegnamenti e delle prassi all’interno della Chiesa, comprese, ad esempio, tutte quelle materie
controverse come la contraccezione, il ruolo delle donne nella
Chiesa, il trattamento delle persone omosessuali, fino al fallimento
della gerarchia nel rispondere rapidamente e con rigore agli scandali riguardo agli abusi sui minori da parte dei membri del clero.
Queste persone potrebbero individuare altre carenze pastorali,
come la negazione dell’eucaristia a personalità pubbliche a motivo
delle loro posizioni politiche, una troppo modesta agenda sulla
pace e sulla giustizia, liturgie poco esaltanti con omelie improvvisate e scarsa sensibilità dei celebranti.
Qualcuno potrebbe obiettare che questa iniziativa potrebbe
essere poco più che un pio desiderio che l’attuale gerarchia ecclesiastica non accetterà mai. Forse.
Eppure la realizzazione di questa ipotesi specifica come un
consiglio di laici non dovrebbe costituire necessariamente una minaccia per l’attuale leadership. Infatti, l’autorità all’interno della
Chiesa, «si esercita nel servizio della verità e della carità» (Ut unum
sint, n. 3; EV 14/2672). E un consiglio di laici non minerebbe in alcun
modo neppure l’autorità papale. Come ha scritto Giovanni Paolo II
riguardo al papato: «L’autorità propria di questo ministero è tutta
per il servizio del disegno misericordioso di Dio e va sempre vista
in questa prospettiva» (n. 92; EV 14/2861).
Il discernimento di questo disegno è un compito che i cattolici dovrebbero assumersi tutti insieme.
Seguendo l’esempio indicato da Giovanni Paolo II, incoraggiamo i nostri lettori, preti e laici, a valutare questa proposta e suggerire eventualmente altre riforme che consentano il raggiungimento dei medesimi obiettivi.
La Chiesa è sopravvissuta per duemila anni perché nei momenti
cruciali è stata capace di scegliere la strada del rinnovamento. Forse
è giunto un altro di questi momenti.
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dagate attraverso una ricerca che presti attenzione sia
alle dinamiche psicologiche delle persone sia alla normativa canonica sia agli influssi dei processi in atto nella
società sulla vita ecclesiale. Tra le ragioni pare si possa rilevare la paura che laici troppo liberi siano un pericolo
per una ordinata vita ecclesiale. Sullo sfondo, nonostante
le affermazioni in senso contrario, sembra stare ancora
un’ecclesiologia sbilanciata sul compito dei pastori, che
va sicuramente riconosciuto e affermato, ma che in alcune situazioni pare interpretato nel senso di sequestro
della responsabilità nella Chiesa. Con ciò si vuole dire
che nel delineare i modelli si farà riferimento anche alle
pratiche.
L’attenzione alle pratiche è fondamentale nel nostro
tema per due ragioni: 1. la «teologia del laicato» è nata e
si è sviluppata a partire dalle pratiche; 2. nelle pratiche si
verifica la pertinenza della riflessione teologica e si evidenzia un’ecclesiologia implicita.
Non si può dimenticare il nesso tra ecclesiologia e vita
ecclesiale: è solo all’interno di tale nesso che trova spazio
la riflessione sui laici; vita ecclesiale, che è anzitutto una
pratica, ed ecclesiologia si richiamano e costituiscono la
cornice entro la quale si può costruire un’eventuale teologia del laicato.3 Al riguardo appare sintomatico il fatto
che in Italia una delle più discusse riflessioni sui laici in
prossimità del Sinodo del 1987 proponeva di destituire di
valore teologico la «teologia del laicato» e quindi di collocare la questione dei laici nell’ambito della «teologia
pratica».
2. Nell’individuazione dei modelli dominanti, tre elementi entrano necessariamente4 in gioco: Chiesa, mondo,
regno di Dio.5 Questi sono interconnessi e la comprensione di uno implica la comprensione degli altri. L’individuazione dei tre elementi non è precostituita; emerge
piuttosto da un’osservazione dei luoghi costitutivi della riflessione teologica sui laici. Pur tenendo conto dell’interconnessione fra i tre elementi, l’accento cadrà soprattutto
sull’autocomprensione della Chiesa, la quale non può ovviamente avvenire senza il riferimento agli altri due elementi. In forma generale si può dire che la comprensione
dei laici è avvenuta e avviene nel contesto del rapporto
della Chiesa con il mondo e con il Regno: basterebbe ricordare Lumen gentium, n. 31, dove si dice che i laici
compiono «per la parte che li riguarda» (EV 1/362) la
missione propria di tutto il popolo di Dio e poi si specifica
il loro compito con le parole: per loro vocazione «è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio» (EV 1/363).
In via preliminare si può osservare che il superamento
dell’identificazione tra Chiesa e regno di Dio (o di Cristo) ha supposto e portato con sé una nuova comprensione del mondo, grazie alla mediazione di una
ricomprensione del regno di Dio. Ciò ha comportato una
ricomprensione della missione della Chiesa, e in essa del
compito dei laici.
Va peraltro notato che nel linguaggio teologico-pastorale vulgato i tre termini vengono spesso utilizzati
senza la preoccupazione di precisarne il contenuto. L’osservazione vale soprattutto per «mondo» e per «Regno»,
termini che potrebbero essere considerati come le cifre
più rilevanti del nominalismo dei linguaggi ecclesiali,
quando questi hanno voluto abbandonare i termini e i
concetti troppo precisi della teologia di scuola. Avviene
frequentemente che l’accordo si realizzi su termini divenuti luoghi comuni che restano indefiniti e in quanto tali
non appellano a una trasformazione delle pratiche.6
3. Dato che si chiede una rassegna di carattere storico e si delimita il periodo che va dal Vaticano II a oggi,
necessariamente si procede proponendo linee schematiche che colgono le tendenze dominanti e quindi semplificano percorsi un po’ più tortuosi. È lo scotto da pagare
in qualsiasi ricerca quando non si voglia pretendere di
dire tutto. Prendere avvio dal Vaticano II significa leggere questo come un ideale punto di svolta: a esso si continua a fare riferimento anche quando si tratti di delineare
la figura del laico cristiano, sicché la riflessione teologica
sui laici nei decenni successivi al Concilio potrebbe essere
letta come un capitolo dell’ermeneutica del medesimo
Concilio.
Senza entrare nella querelle sul significato del Vaticano
II rispetto al periodo precedente,7 appare indubitabile che
sul nostro tema il Concilio ha costituito la consacrazione
di tendenze che si erano preparate nei decenni precedenti. In particolare, tenendo conto della trilogia prima
richiamata, si può dire che un fattore determinante è
stato il superamento dell’atteggiamento critico, quando
non di condanna, del mondo moderno, da parte dell’autorità ecclesiale.
1
Qui si procede per modelli per non ripetere quanto già scritto in
G. CANOBBIO, Laici o cristiani? Elementi storico-sistematici per una descrizione del cristiano laico, Morcelliana, Brescia 21997, 213-276. Un
modo diverso, più sistematico e più aggiornato (benché non si vedano
novità di rilievo) di procedere si ha in H.C. ANAMEJE, «Contemporary
Theological Reflection on the Laity. Towards a More Active Participation in the Mission of the Church», in Ephemerides Theologicae Lovanienses 83(2007) 4, 445-470.
2
Sintomatica al riguardo la lettura che nella Christifideles laici si
fa del Sinodo sui laici (1987): «La sfida che i padri sinodali hanno accolto è stata quella di individuare le strade concrete perché la splendida
“teoria” sul laicato espressa dal Concilio possa diventare un’autentica
“prassi” ecclesiale» (n. 2; EV 11/1613).
3
Si può ricordare che in quasi tutte le pubblicazioni sui laici dopo
il concilio Vaticano II si cita l’affermazione di Y.M. Congar secondo cui
la teologia dei laici richiede una ecclesiologia globale: cf. ID., Jalons
pour une theologie du laicat , CERF, Paris 1953; trad. it. Per una teologia del laicato, Morcelliana, Brescia 1966, 12-13.
4
L’avverbio non vuole asserire una necessità assoluta, bensì ricordare che di fatto e di diritto i tre elementi entrano a costituire i parametri di riferimento per una comprensione dell’identità dei laici
cristiani.
5
L’opera preconciliare più significativa sulla teologia del laicato,
quella di Y.M. Congar, Per una teologia del laicato, è tutta impostata su
questo trinomio.
6
Non ci si può nascondere che «regno di Dio» è una metafora e
quindi passibile di libero utilizzo. Non si sfugge però all’impressione
che, soprattutto nella letteratura di divulgazione, il contenuto della metafora divenga evanescente.
7
Il problema è stato ampiamente dibattuto nell’ultimo decennio,
soprattutto dopo il discorso di Benedetto XVI alla Curia romana il
22.12.2005: cf. J.A. KOMONCHAK, «Benedetto XVI e l’interpretazione
del Vaticano II», in A. MELLONI, G. RUGGIERI (a cura di), Chi ha paura
del Vaticano II?, Carocci, Roma 2009, 69-84. Sulle diverse linee di interpretazione del Concilio dà conto CH. THEOBALD, La réception du
concile Vatican II. I. Accéder à la source, Cerf, Paris 2009, 545-654.
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tudi e commenti
Lettera al laico
S
ul tema «Educarsi alla corresponsabilità. I battezzati nel
mondo alla prova della vita quotidiana», si è tenuta a Firenze dal 20 al 23 giugno la LXI Settimana nazionale d’aggiornamento pastorale, organizzata dal Centro di orientamento
pastorale (COP) sotto la guida del vescovo di Palestrina mons.
Domenico Sigalini (che è anche presidente della Commissione
episcopale per il laicato e assistente ecclesiastico generale dell’Azione cattolica). Al termine, come è consuetudine (cf. Regnodoc. 13,2010,425), gli organizzatori – che si firmano «I sognatori
di Firenze 2011» – hanno sintetizzato il lavoro svolto in una lettera indirizzata ai laici. In essa si sottolinea la missione dell’annuncio del Vangelo che deve oggi assumere forme di «matura
corresponsabilità» tra clero e laici nella casa comune che è la
Chiesa (stampa da file in nostro possesso).
Caro laico,
mentre ti scrivo davanti a me ho il volto e la storia di uomini e
donne, giovani, sposi, sacerdoti, vescovi, persone in carne e ossa
che sono e siamo il popolo di Dio. Nel corso della storia della
Chiesa, si è sempre cercato di ridefinire spazi, identità, ruoli reciproci. Se volessimo paragonare la Chiesa a una casa, potremmo dire
così: preti e laici vivono tutti all’interno, non in piani diversi e tanto
meno preoccupati d’apporre la targhetta di rivendicazione all’esterno delle nostre camere.
La vita vera e genuina la sperimentiamo quando ci incontriamo
in cucina, in sala da pranzo, ovvero nelle relazioni senza filtri, immediate, quando siamo capaci gli uni e gli altri di riconoscerci e testimoniarci di essere popolo amato e convocato da Dio, umili e
onesti nell’uscire al di fuori di noi stessi per servire gli uomini in
modo vero.
Ti si chiede di fare, d’esserci, di dare una mano, di garantire servizi ecclesiali, d’irrobustire la catechesi, animare la liturgia, servire
nella carità. Servizi quasi tutti rivolti all’interno della parrocchia,
della diocesi, ma tu ci fai presente quale laico, che devi pensarti e
A tale superamento ha contribuito certamente la cosiddetta «teologia delle realtà terrestri» della fine degli
anni Quaranta, inizio anni Cinquanta, del secolo scorso,
ma non si possono dimenticare le esperienze di tanti laici
e religiosi/ecclesiastici che hanno mostrato fattivamente
la vicinanza della Chiesa al mondo, anche solo per alleviarne la miseria.
Questo aspetto non può essere dimenticato quando si
voglia valutare il rapporto della Chiesa con la società e
quindi la parte dei laici nella missione della Chiesa: fermarsi semplicemente ai pronunciamenti magisteriali vorrebbe dire non tener conto di una presenza fattivamente
sanante di molti laici cristiani. Certo, l’interpretazione
negativa della situazione del mondo soggiacente alle varie
iniziative potrebbe essere valutata come eccessivamente
pessimistica, ma non andrebbe dimenticato che tale interpretazione era largamente diffusa anche in settori culturali antireligiosi (basterebbe pensare a Marx e ai suoi
epigoni).
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vederti come Chiesa in mezzo agli uomini e alle donne che sono
tentati di sostituire Dio con altro, come se fosse lo sfondo di un desktop dell’Ipad di fine tecnologia digitale.
Vuoi essere attivo nelle scienze, negli studi di ricerca medica,
nelle istituzioni amministrative di paesi e città, in delicati ambiti
della vita, nella quotidianità della tua stessa famiglia. Ti vedo vivere
in questi luoghi che, come la famiglia, costituiscono la nostra stessa
unica casa che è la Chiesa; devo credere che la corresponsabilità si
fa strada per vie e sentieri che non necessariamente partono e nascono dalla comunità cristiana e che in nome di essa ti senti responsabile, perdendoci spesso anche la faccia.
Preti e laici, tutti siamo chiamati alla santità e ad annunciarla
con la vita, con scelte concrete nel fare il prete, nel matrimonio,
nella vita consacrata. Abbiamo una missione comune: annunciare il
Vangelo.
Le relazioni che sono il perno della vita di una comunità cristiana, le dobbiamo sviluppare nella direzione di una matura corresponsabilità. Una Chiesa tutta ministeriale non è una Chiesa
clericalizzata ma popolata anche di laici autentici ed evangelizzatori. E anche in riferimento allo stesso sacerdote, non si tratta di togliergli la responsabilità di governo, ma di favorire il lavoro comune,
ciascuno con il suo livello di responsabilità.
La sfida della corresponsabilità la affrontiamo anche nel campo
dell’educazione per dare vita a progetti, esperienze, iniziative in
grado di raccogliere le sfide del tempo, con esperienze popolari
disseminate sul territorio, capaci di fare opinione e di generare un
tessuto ecclesiale e culturale vivo.
La corresponsabilità che viviamo è più ricca di una rivendicazione, è più viva di un dovere, è più aperta di un impegno, è più
concreta di un sogno, è più vera di un’illusione: è una vocazione
esigente cui Dio chiama tutti i battezzati, preti e laici, nessuno
escluso.
I SOGNATORI DI FIRENZE 2011
Le iniziative richiamate stanno a dire che il fossato tra
la Chiesa e la società era già valicato prima che se ne teorizzasse la necessità. Questa era apparsa nel progetto di
Leone XIII. Il pontificato di papa Pecci si proponeva, infatti, come un grande progetto di riconquista del terreno
perduto, sia sul versante culturale (enciclica Aeterni patris, 1879) sia sul versante sociale (Rerum novarum, 1891).
Se sul primo versante il compito era naturalmente affidato al clero, detentore della vera dottrina, il secondo toccava ai laici, intesi però come esecutori di direttive
elaborate dal magistero.
L’esito del progetto era stato diverso: fallimentare sul
primo versante, efficace sul secondo. Comunque anche
con Leone XIII la visione del mondo (questo non inteso
come creazione di Dio, bensì come ambiente umano, che
implica quindi le scelte peccaminose soprattutto dei responsabili civili e culturali) restava negativa e la salvezza
della società veniva pensata come riconduzione di esso
alla Chiesa, o almeno al «perfezionamento religioso e
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morale» e alla consapevolezza degli errori correnti e delle
seduzioni corruttrici (Rerum novarum n. 42; EE 3/932).
La Chiesa si ergeva come baluardo di difesa contro le minacce e le illusioni che i sistemi di pensiero usciti dall’Illuminismo, e i governi o le forze sociali che da questi si
lasciavano ispirare, costituivano per l’umanità.
La visione qui rapsodicamente richiamata resterà
come sottofondo per tutto il periodo successivo, fin dentro il Vaticano II e oltre. Né potrebbe essere diversamente, stante il fatto che la Chiesa mantiene un’eccedenza
rispetto al mondo e ha nei confronti di questo una missione sanante.
Alcuni modelli prevalenti
Trattandosi di modelli non si pretende di rinchiudere
in essi tutto il percorso della riflessione: il modello ha sempre funzione euristica e indica solo linee di tendenza.
Nella presentazione dei modelli, come già sopra si diceva,
si tengono presenti dottrina e pratiche, che sono strettamente congiunte, benché in alcuni casi la dottrina ecceda
le pratiche e l’enunciazione di una dottrina dia in alcune
circostanze l’impressione che vi corrispondano le pratiche.
Nell’illustrazione dei modelli si segue poi un percorso
cronologico, pur nella consapevolezza che i diversi modelli convivono e a volte si contrappongono: si danno perfino casi di pratiche che fanno riferimento a modelli
dottrinali ormai superati anche da parte del magistero.
Se nella rassegna si richiamano anche modelli appartenenti al periodo precedente al Vaticano II è perché
l’ombra lunga degli stessi continua a essere presente ancora oggi, soprattutto nelle pratiche: la realtà della Chiesa
è variegata e non ci si può limitare a mettere in evidenza
solo quanto «ufficialmente» si propone. Peraltro anche
l’ufficialità non appare uniforme.
Chiesa, tutto il male nel mondo, visto come nemico che
pretendeva di fare a meno della Chiesa o di combatterla).8
Coerentemente, i laici cristiani erano (sono, ancora
oggi, in alcuni orientamenti) intesi come semplici esecutori di direttive, perché solo la gerarchia ha il compito,
avendone l’autorità, di custodire e proclamare la verità. A
questo riguardo appare emblematica l’enciclica di Pio X
Vehementer nos (11.02.1906), secondo cui la «moltitudine»
deve solo lasciarsi guidare.9
Obbedire alle direttive significava difendere la Chiesa
dallo stato moderno che con le sue pretese d’occupare lo
spazio ecclesiastico continuava a essere ritenuto nemico,
soprattutto in Italia dove aveva defraudato la Chiesa del
suo potere temporale.10 Di conseguenza, quando i laici
non obbediscono, le loro iniziative devono essere interrotte (si dovrebbe ricordare la vicenda italiana dell’Opera
dei congressi sciolta nel 1904, dopo che un gruppo di giovani mostrerà di voler mantenere una maggiore autonomia rispetto alle direttive della Santa Sede).11
Questo modello, che i testi di teologia e di storia volentieri relegano lontano anni luce dal Vaticano II, sembra riaffacciarsi non tanto ai livelli alti della vita ecclesiale,
quanto ai livelli bassi, dove le pratiche sono, non poche
volte, ispirate più ai gusti e agli umori del clero che non
ai principi teologici autorevolmente sanciti dal magistero.
Si riaffaccia altresì nel linguaggio comune, soprattutto nei
media, che facilmente identificano la Chiesa con l’autorità
della stessa. Va riconosciuto che tale identificazione non
è assente neppure dal linguaggio ecclesiastico.
Si potrà forse obiettare che nel caso delle pratiche e
ancora meno nella lettura di esse da parte dei media non
si tratta di teologia, ma appare innegabile che nelle pratiche e nelle letture di esse si suppone una teologia, che in
verità potrebbe essere considerata ideologia.
2. La Chiesa al clero, il mondo ai laici
Va notato che, nonostante la pretesa della Chiesa di
autocomprendersi in forma sempre identica, erano state
le circostanze storiche a modellare le forme di comprensione della Chiesa e del mondo (la Riforma e la pretesa del
mondo moderno d’emanciparsi da ogni autorità erano
state lette come smarrimenti che stavano davanti agli
occhi di tutti). Nella comprensione post-tridentina si riscontra un’accentuazione della funzione della gerarchia e
una visione manichea della realtà (tutto il bene nella
La consapevolezza che stare al di fuori della vita civile non avrebbe giovato alla Chiesa, portava gradualmente a riconoscere la plausibilità e la necessità di una
presenza dei cristiani nella costruzione della vita civile, in
particolare nella politica. Si profilava gradualmente il
progetto di una «nuova cristianità»: l’espressione entra
nel linguaggio comune del tempo grazie alla riflessione
di J. Maritain, il quale in Umanesimo integrale, l’opera
che raccoglieva alcune lezioni tenute nell’agosto 1934 all’università di Santander, distingueva l’attività dei cristiani
su tre piani: spirituale, temporale e misto; il primo riservato alla Chiesa intesa come gerarchia, il secondo ai
laici.12
A ridosso di questo programma nasceva la «teologia
8
Per avere un’illustrazione di quanto asserito basterebbe rileggere
le encicliche del secolo XIX o il Sillabo, che, com’è noto, costituisce la
base sulla quale si sarebbe dovuto preparare il programma del concilio Vaticano I.
9
L’enciclica aveva come scopo la stigmatizzazione della legge
francese sulla separazione tra stato e Chiesa (11.12.1905), ma nel delineare la struttura gerarchica della Chiesa, che è una società «ineguale» perché costituita da pastori e gregge, giungeva ad affermare:
«Solo nel corpo pastorale risiede il diritto e l’autorità necessari per promuovere e indirizzare tutti i membri verso le finalità sociali; e la moltitudine non ha altro dovere che lasciarsi guidare e seguire docilmente
le direttive dei pastori» (in Enchiridion delle encicliche, EDB, Bologna
1998, 4/142).
10
Non molto diversa era la percezione che si aveva in Germania
(si pensi agli esiti del Kulturkampf) e in Francia (la legge sulla laicità
del 1905).
11
Cf. A. GAMBASIN, Il movimento sociale nell’Opera dei congressi (1874-1904). Contributo per la storia del cattolicesimo sociale
in Italia, Apud Aedes Universitatis Gregorianae, Roma 1958,
544-558.
12
Cf. G. CAMPANINI, L’utopia della nuova cristianità. Introduzione
al pensiero di J. Maritain, Morcelliana, Brescia 1975.
1. La Chiesa identificata con la gerarchia,
il mondo come terreno di conquista,
i laici come longa manus della gerarchia
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delle realtà terrene» che cercava di superare la rigida separazione tra ordine naturale e soprannaturale e quindi
di recuperare il valore teologico delle realtà mondane13 e
apriva quindi alla possibilità di un impegno dei cristiani
per la graduale «spiritualizzazione» del mondo.
L’impegno si concretizzava anche nel tentativo di recuperare le masse operaie scristianizzate,14 compito già
affidato da Pio XI agli operai, industriali e commercianti cattolici (Quadragesimo anno, 1931) e ispirato
allo slogan coniato da Mons. Cardijn, fondatore della
Jeunesse ouvrière chrétienne (JOC): Entre eux, par eux,
pour eux. Le circostanze e i bisogni della missione stavano quindi all’origine della valorizzazione del laicato.
All’interno di esso un posto particolare spettava all’Azione cattolica tendenzialmente pensata come la
longa manus della gerarchia, ma nello stesso tempo
luogo d’efficace maturazione di una coscienza ecclesiale dei laici. Va ricordato che il legame particolare di
questa associazione con l’apostolato gerarchico aveva
posto il problema se i laici a essa appartenenti potessero essere ancora ritenuti tali.15
Lo scenario teologico nel quale matura un’attenzione
particolare alla funzione dei laici nei confronti del mondo
è costituito dal dibattito sul modo d’attuare la missione,
che supponeva più generalmente una concezione del rapporto tra cristianesimo e storia e vedeva contrapporsi due
visioni, schematicamente passate nella storiografia teologica con i termini «incarnazionista» ed «escatologista».16
Le due visioni implicavano anche una concezione del mo-
dello di vita spirituale (il monaco?) e, connessa, una diversa lettura del mondo (luogo da fuggire o da abitare?),
nonché una diversa comprensione del regno di Dio, e
quindi anche una comprensione diversa del compito dei
laici.17
Questo modello, che si ritiene che il Vaticano II abbia
superato, si riscontra ancor oggi in alcune rivendicazioni
sia da parte del clero sia da parte dei laici: il primo, ritenendo che l’ambito ecclesiale sia di sua pertinenza; i secondi, rivendicando un’autonomia d’azione negli ambiti
della vita civile, come se in quella valesse semplicemente
la competenza – chiamata spesso laicità,18 perché sarebbe
priva di riferimenti etici religiosi e/o confessionali –19 e
questa sarebbe propria di chi opera in prima persona
nelle realtà mondane.20
Questo modello si evidenzia altresì nell’interpretazione di vita spirituale come vita interiore o di pietà modellata su quella dei monaci e/o nella rivendicazione di
una «spiritualità» (anche qui intesa come vita di pietà) dei
laici.21 Come si evidenzia, infine, nel linguaggio abituale
che differenzia «pastorale» e «missione», intendendo con
il primo termine il compito proprio dei «pastori», frequentemente inteso in senso intraecclesiale, e con il secondo l’estroversione della Chiesa alla quale danno, «per
la parte che li riguarda», il loro contributo anche/soprattutto i laici. Va da sé che in questa prospettiva si richiederebbe precisare che cosa s’intenda per «missione»
della Chiesa nel mondo, la qual cosa implica una descrizione della Chiesa e una concezione di mondo.
3. Il mondo come creazione di Dio,
incamminato con la Chiesa verso il regno di Dio,
luogo teologico della vita cristiana dei laici
Renzo Lavatori
Il già allusivamente richiamato superamento della
dottrina dei due ordini portava a rimarcare l’unità del
«piano di Dio», che consiste nel portare il mondo al suo
compimento. Con ciò non si poteva però dimenticare che
Chiesa e mondo non possono identificarsi, perché su di
essi la regalità di Cristo si esercita in modo diverso (al riguardo si deve tenere conto dell’immagine dei due cerchi
concentrici proposta da Congar in Jalons pour une théologie du laïcat); 22 la Chiesa ha quindi un compito nei confronti del mondo in base al suo sacerdozio, magistero e
giurisdizione; essa attua nei confronti del mondo una duplice mediazione: quella del «potere» e quella della forma
di vita; la prima è realizzata dalla gerarchia per la costituzione di un popolo di fedeli;23 la seconda da tutto il
corpo in rapporto al mondo. Si profila una nuova visione
del laico cristiano, spostata sul versante dell’ambiente nel
quale egli vive: il laico è il cristiano per il quale le cose
esistono; coerentemente, il luogo di vita è da intendere
come luogo di santificazione.
Questo modello, non più presente nella forma in cui
era stato pensato, si rintraccia dove alcuni movimenti ecclesiali ritengono d’essere, grazie alla loro fedeltà al Vangelo, la forza motrice del cammino della realtà mondana
verso il suo compimento nel regno di Dio. Si tratta di movimenti24 che facilmente soccombono alla tentazione
d’identificare sé stessi con la Chiesa e la loro opzione,
anche politica, come l’unica coerente con il Vangelo e
Lo Spirito Santo:
persona e missione
C
hi è e che cosa fa lo Spirito Santo?
Con impianto chiaro ed essenziale,
il testo delinea alcuni sprazzi luminosi
della dottrina sulla terza Persona della
Santissima Trinità. I vari aspetti teologici e pastorali sono raccolti attorno a
due nuclei fondamentali: l’identità personale del Paraclito, e la sua azione
nella vita della Chiesa e dei cristiani.
«Bibbia e catechesi»
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Dello stesso autore:
Gesù visto da vicino
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Dehoniane
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avente l’obiettivo di trasformare la società secondo i parametri di questo. Sullo sfondo s’intravede una concezione di Chiesa come altra dal mondo, alla conquista di
esso mediante le attività che sono tipiche del mondo, ma
che, assunte dalla Chiesa/movimento, avrebbero un surplus di valore.
I modelli fin qui brevemente considerati preparano il
concilio Vaticano II, nel quale per la prima volta si presta ampia attenzione all’identità e al compito dei laici cristiani sia nella Chiesa sia nel mondo. Lo sfondo sul quale
si delineano identità e missione non può che essere quello
generale della concezione della Chiesa e del mondo, l’una
e l’altra sull’orizzonte del regno di Dio.
Si riconosce in genere all’ultimo Concilio d’aver abbandonato la contrapposizione tra la Chiesa e il mondo;
basti al riguardo ricordare un’icastica affermazione di
Gaudium et spes, n. 40: «La Chiesa cammina con l’umanità tutta e sperimenta assieme al mondo la medesima
sorte terrena» (EV 1/1443). Ciò significa che la Chiesa
non è considerata a parte rispetto all’umanità, ma cointessuta con essa.
A partire da qui la missione è descritta non solo come
annuncio del Vangelo, con la densità di significato di tale
espressione, ma pure come assunzione, purificazione ed
elevazione di quanto è già presente nei popoli (cf. Lumen
gentium, n. 13; EV 1/319). Lo stile di missione coerente
con tale concezione è il dialogo. Al riguardo va però precisato che questo non suppone equiparazione tra la
Chiesa e i diversi popoli, culture, istituzioni: il dialogo è
colloquium salutis, come richiamerà con insistenza Paolo
VI nella sua enciclica programmatica, Ecclesiam suam
(1964); si tratta di un dialogo che nasce da un grande
amore per il mondo bisognoso di salvezza. La missione
della Chiesa è unica, ma è attuata secondo le diverse vocazioni, che sono tutte stabilite dal Signore Gesù: Lumen
gentium, n. 33 non teme d’affermare che all’apostolato
tutti sono deputati dal Signore per mezzo del battesimo
e della confermazione. Ai laici si riconosce come propria,
benché non esclusiva, l’indole secolare (cf. Lumen gentium, n. 31 § 2; EV 1/363).
L’attribuzione dell’indole secolare ai laici verrà ripresa
dall’esortazione apostolica Christifideles laici, che concludeva il Sinodo del 1987 su «Vocazione e missione dei
laici nella Chiesa e nel mondo».26 La ragione della ripresa
va vista nella discussione teologica degli anni Ottanta del
secolo scorso, che era giunta a mettere in discussione, o
almeno a relativizzare, l’affermazione di Lumen gentium,
n. 31. Il fatto che nel n. 15 si ribadisca l’indole secolare
come propria dei laici appare perciò sintomo di una per-
13
Cf. G. THILS, Théologie des réalités terrestres. I. Préludes, Desclée
de Brower, Paris 1946.
14
È d’obbligo al riguardo il riferimento a Y. DANIEL, H. GODIN,
La France pays de mission?, Ed. de l’Abeille, Paris 1943: cf. M. GUASCO,
«Y. Daniel: contributo per una biografia», in A. MELLONI (a cura di),
Tutto è grazia. In omaggio a Giuseppe Ruggieri, Jaca Book, Milano
2010, 95-114.
15
Aveva suscitato dibattito al riguardo l’articolo di K. RAHNER,
«L’apostolat des laïcs» apparso in Nouvelle revue théologique 78(1956),
3-32, nel quale il gesuita tedesco sosteneva che chi assume per incarico stabile un ufficio tipico della gerarchia non può più essere ritenuto
laico.
16
La ricostruzione divenuta ormai classica è quella di B. BESRET,
Incarnation ou eschatologie? Contribution à l’histoire du vocabulaire religieux contemporain 1935-1955, Cerf, Paris 1964.
17
Cf. G. CARACCIOLO, Spiritualità e laicato nel Vaticano II e nella
teologia del tempo, Glossa, Milano 2008, 200-258.
18
Il dibattito sulla laicità ha occupato buona parte della riflessione
sui laici negli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso e, almeno in Italia, viene riproposto anche in tempi recenti: cf. G. CAMPANINI, Testimoni nel mondo. Per una spiritualità della politica, Studium, Roma
2010, che pone la laicità al primo posto delle «virtù» del cristiano impegnato in politica (71-72). Le circostanze che portano oggi a discutere sulla laicità rispecchiano più i rapporti tra religione e vita civile
che non il compito e l’autonomia dei laici cristiani.
19
A questo riguardo si dovrebbe richiamare il sottofondo del modello nella distinzione, quando non separazione, tra naturale e soprannaturale, che sembra ritornare oggi soprattutto nel dibattito sui
temi etici, e più in generale sul rapporto tra ragione e fede o religione
e politica. Sullo sfondo s’intravede l’idea del duplice fine dell’uomo, la
quale ha come risvolto l’idea che ai laici toccherebbe il fine «naturale»,
surrettiziamente identificato con il fine storico-terreno, mentre ai pastori toccherebbe il fine «soprannaturale» identificato con la salvezza
escatologica.
20
Si profila qui il tema della nativa, cioè non concessa dai pastori,
libertà dei laici nelle realtà temporali affermata anche dal CIC, can.
227: sul tema, cf. S. MAZZOTTI, La libertà dei fedeli laici nelle realtà
temporali (CIC, can. 227), Pontificia università gregoriana, Roma
2007; cf. anche CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Nota
dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno dei cattolici nella
vita politica, 24.11.2002 in Regno-doc. 3,2003,71-75, che si preoccupa
di precisare cosa si debba intendere con «laicità»: «Indica in primo
luogo l’atteggiamento di chi rispetta le verità che scaturiscono dalla conoscenza naturale sull’uomo che vive in società, anche se tali verità
siano nello stesso tempo insegnate da una religione specifica, poiché la
verità è una. Sarebbe un errore confondere la giusta autonomia che i
cattolici in politica debbono assumere con la rivendicazione di un principio che prescinde dall’insegnamento morale e sociale della Chiesa»
(n. 6, 73s).
21
Nel linguaggio corrente si continua a usare «spiritualità» o «vita
spirituale» come se si trattasse della vita interiore o della pietà, dimenticando che con tali termini si vuole piuttosto indicare la vita secondo
lo Spirito. Il termine «spiritualità» sta diventando, poi, indicativo d’ogni
sensazione, percezione, sentimento che abbiano a che fare con l’interiorità delle persone, ed è associato spesso alla cosiddetta «riscoperta
del sacro». Pur senza cadere nella vaghezza della «spiritualità» si apre
la questione se vi possa essere una spiritualità laicale, stante il fatto che
tutti i discepoli di Gesù sono abitati e condotti dallo Spirito; si è così rimandati all’identificazione dei discepoli «laici». Sulla questione, cf. i
già citati CARACCIOLO, Spiritualità e laicato; e ANAMEJE, Contemporary
Theological Reflection, 445-446.
22
Sulla riflessione di Congar, cf. R. PELLITERO, La teología del laicado en la obra de Y.M. Congar, Navarra grafica ediciones, Pamplona
1996; CARACCIOLO, Spiritualità e laicato, 259-291.
23
Permane in Congar lo schema delle «cause» nel pensare la costituzione della Chiesa.
24
Il tema dei movimenti ecclesiali pone il problema della visione
della Chiesa, che potrebbe essere confrontata con quella proposta dal
Vaticano II. È indubitabile che i movimenti abbiano contribuito a sviluppare un protagonismo dei laici cristiani. Resterebbe da verificare se
e in quale misura dentro la prospettiva conciliare.
25
Come già si diceva, il Vaticano II è riconosciuto come un punto
di svolta della riflessione teologica sui laici. Tra la sovrabbondante letteratura cf. E. BRAUNBECK, Der Weltcharakter des Laien. Eine theologisch-rechtliche Untersuchung im Licht des II. Vatikanischen Konzils,
Verlag Friedrich Pustet, Regensburg 1993, 21-141; G. ROUTHIER, «I
laici nel Vaticano II: un tema complesso», in ID., Il concilio Vaticano II.
Recezione ed ermeneutica, Vita e Pensiero, Milano 2007, 165-184.
26
Non si può dimenticare che il Sinodo vuole porsi in continuità
con il Vaticano II, «il cui insegnamento sul laicato, a distanza di vent’anni, è apparso di sorprendente attualità e talvolta di portata profetica: tale insegnamento è capace d’illuminare e di guidare le risposte
che oggi devono essere date ai nuovi problemi» (Christifideles laici, n.
2; EV 11/1613).
4. La Chiesa aperta al mondo,
germe del regno di Dio (il Vaticano II) 25
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cezione di rischio: che si perda la specificità di un compito
in rapporto al mondo.27
In questo modello diventa pertanto determinante la
questione della «secolarità»: è propria solo dei cristiani
laici o è di tutta la Chiesa?28 La risposta alla domanda
suppone una riflessione anche sul rapporto tra «sacro» e
«profano», che rimanda alla radice stessa del termine
«laico» nel linguaggio cristiano, e, più ampiamente, rimanda al rapporto tra la Chiesa e il mondo in riferimento
all’opera di Cristo che avrebbe abbattuto la barriera tra
«sacro» e «profano» morendo «fuori dalle mura».29
Si tratta del modello corrente dei documenti magisteriali e quindi quello che ecclesialmente sembra il maggiormente recepito, almeno nelle sue linee fondamentali.
In verità appare in recessione, a causa della difficoltà a
instaurare il dialogo con la cultura e le istituzioni laiche e
della fatica di mantenere l’identità cristiana quando ci si
apra al mondo. Questo torna a essere interpretato come
nemico (almeno potenziale).
Sarebbe interessante a questo riguardo leggere in parallelo Gaudium et spes e testi, anche magisteriali, recenti,
in particolare quelli che richiamano la necessità di una
nuova evangelizzazione, per accorgersi di un clima cambiato:30 benché dal versante magisteriale, soprattutto sulla
scorta di Evangelii nuntiandi, l’evangelizzazione venga
radicata nella natura stessa della Chiesa, in alcune accentuazioni e nella recezione sembra che si voglia riconquistare il terreno perduto, anche attraverso i fedeli laici,
il cui compito tende a essere pensato nell’ambito della difesa dei cosiddetti «valori non negoziabili». In alcune pratiche sembra che i laici tornino a essere pensati secondo
il primo modello proposto.
5. Non più laici, ma cristiani:
tutta la Chiesa è per il mondo e per il Regno
Il Vaticano II, soprattutto nella costituzione dogmatica
sulla Chiesa aveva affermato l’identità fondamentale di tutti
i cristiani in forza del battesimo e della comune chiamata
alla santità e alla missione, che è unica per tutti. Sulla scorta
di questa acquisizione, agli inizi degli anni Settanta era nata
la cosiddetta «teologia dei ministeri».31 Questa teologia
dava giustificazione teologica all’effettiva responsabilità dei
laici nell’edificazione della comunità, soprattutto nelle
Chiese povere di clero: gli animatori di comunità cominciavano a essere visti non più come sostituti del clero, ma
come cristiani ai quali lo Spirito donava carismi riconosciuti
dall’autorità ecclesiastica utili alla vita ecclesiale.
In tale teologia si abbandonava lo schema discendente
che poneva la gerarchia tra Cristo e il popolo cristiano, e
si assumeva lo schema ascendente: lo Spirito di Cristo suscita nella comunità molteplici ministeri; quindi si dovrebbe dare priorità alla comunità, che è luogo nel quale
i ministeri nascono, rispetto alla gerarchia.32 Se questa
teologia produceva una vivacità notevole nelle comunità
cristiane, esponeva anche al rischio di perdere la specificità dei laici, anche perché portava con sé una critica alla
teologia del laicato come fosse tipica di una stagione teologica ormai superata,33 e sembrava quindi affermare un
livellamento di tutti i cristiani, con la conseguenza di mettere in discussione la particolarità della vocazione laicale
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e con essa di sminuire la presenza della Chiesa nei luoghi
di costruzione della vita civile (in Italia ha fatto scuola la
denuncia di Giuseppe Lazzati).34
Questo modello ha fatto notevolmente discutere alla
vigilia del Sinodo del 1987, ma ora sembra essere relegato
nelle rassegne, peraltro piuttosto ripetitive, relative alla riflessione postconciliare sull’identità dei laici cristiani.35 Le
sue tracce si trovano nelle teologie che tendono a superare
la ripartizione dei cristiani in stati di vita.36
I modelli fin qui recensiti sembrano confermare la
convinzione secondo la quale «l’uso dei termini laico e
laicità appare segnato da una soverchiante polivalenza
semantica, così che il rispettivo impiego linguistico è viziato da un elevato margine di ambiguità».37 Per questo
sembra opportuno proporre un ulteriore modello, che
forse può aiutare a uscire dall’indeterminatezza denunciata.
6. I laici cristiani come volto simbolico
della Chiesa estroversa
La Chiesa, globalmente intesa, comporta una dimensione di memoria dell’origine, di prospezione del futuro e
di presenza alla storia. Le tre dimensioni sono connaturate nella sua identità e nella sua missione, nonché nella
condizione di ogni christifidelis. Le diverse vocazioni evidenziano l’una o l’altra dimensione. Le vocazioni dei laici
cristiani hanno in comune il compito di richiamare e attuare simbolicamente l’estroversione nativa della Chiesa
(la Chiesa infatti vive per il mondo sul modello e su mandato di Gesù, che introduce il regno di Dio).
La ragione non è semplicemente sociologica, bensì
teologica: ogni vocazione cristiana si configura nella sua
concretezza mediante le congiunture storiche nelle quali
entra in gioco la libertà della persona. Il modellamento
della Chiesa da parte dello Spirito si attua mediante il
gioco delle libertà, così che la sua missione si realizza attraverso il concreto configurarsi delle storie personali. La
Chiesa non è per sé, bensì per il mondo affinché questo
realizzi il suo destino, che consiste nel compimento della
realtà tutta in Cristo.
Il rapporto tra memoria dell’origine (ministero ordinato), presenza alla storia (laici) e anticipo dell’eschaton
(vita consacrata) storicamente è stato articolato dando prevalenza all’uno o all’altro, molte volte in dipendenza dalle
congiunture storiche e dal modello cristologico che si assumeva (a titolo esemplificativo si potrebbe richiamare la
discussione medievale sulla perfezione della vita cristiana,
che sembra superata dal cap. V di Lumen gentium con la
sottolineatura della comune chiamata alla santità, che consiste nella perfezione della carità). Nessuna di esse può
mancare, pena l’incompiutezza della missione ecclesiale.
Si può, pare, in questo modo recuperare l’unità della missione nella differenziazione delle funzioni.38
Conclusione
I modelli segnano un percorso che, in alcuni momenti,
ha visto le pratiche precedere le teorizzazioni e i pronunciamenti magisteriali; sono poi frutto di congiunture par-
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ticolari e alla luce della storia non si può fissare un modello definitivo. Quel che sembra importante è: a) che la
Chiesa mantenga la consapevolezza della sua missione:
essere segno e strumento del regno di Dio, cui anche il
mondo è destinato; b) che attinga il contenuto della missione dal suo riferimento a Gesù; c) che si lasci provocare
dalle situazioni nelle quali vive; d) che non ritenga d’essere l’unico luogo dell’azione dello Spirito di Dio e quindi
di presenza del regno di Dio; e) che entri in dialogo con
tutti coloro che hanno a cuore le sorti dell’umanità; f) che
sia il luogo della corresponsabilità; g) che eserciti il suo
compito sullo stile di Gesù (cf. Lumen gentium, n. 8; EV
1/306); h) che non ritenga si debba identificare missione
con organizzazione, se non vuole che l’apostolato sia solo
dei forti e degli efficienti.
Secondo quest’ultima prospettiva trova senso ecclesiale ogni azione di carità. È questa in ultima analisi che
edifica la Chiesa (cf. 1Cor 13). Ed è questa che sta al principio d’ogni azione anche secolare, che non va intesa semplicemente come attività programmata, bensì come
vivere nel quotidiano nello Spirito di Gesù.
Va da sé che le azioni secolari, pur appartenendo alla
missione della Chiesa (si pensi al vivace dibattito sviluppatosi negli anni Settanta del secolo scorso, soprattutto
in connessione con l’emergere della teologia della liberazione, che ha trovato eco anche nel Sinodo del 1974
e poi nell’Evangelii nuntiandi, sul rapporto tra evangelizzazione e promozione umana/liberazione), si pongono a un livello diverso rispetto all’annuncio della
Parola e alla celebrazione dei sacramenti: se questi sono
costitutivi della Chiesa,39 le azioni secolari sono l’espressione di una Chiesa già costituita, benché contribuiscano anche a modellarla storicamente; appartengono
cioè alla missione non alla costituzione della Chiesa,
sebbene non si possa pensare a una separazione tra costituzione e missione.
In questa prospettiva mantiene una certa pertinenza
la diversificazione dei ministeri, tra i quali quelli ordinati
rappresentano la costituzione della Chiesa a fronte degli
altri che ne rappresentano la missione.
27
Sulla scorta di una citazione di Paolo VI – Discorso ai membri
degli Istituti secolari, 2.2.1972 – in Christifideles laici s’afferma che tutti
i membri della Chiesa partecipano alla sua dimensione secolare, mentre è propria dei laici l’indole secolare (EV 11/1655s). La sottile distinzione non sempre è tenuta presente nella riflessione teologica che usa
il termine generico «secolarità»: cf. ANAMEJE, Contemporary Theological Reflection, 459-463. In verità la distinzione di Christifideles laici
sembra più dettata dalla preoccupazione di mantenersi fedele a Lumen
gentium che non dal desiderio d’introdurre una precisazione teologica.
In verità la Proposizione 4 approvata al termine del Sinodo non distingueva «dimensione» secolare da «indole» secolare: affermava che
la dimensione secolare di tutta la Chiesa appartiene in forma particolare ai laici. L’attribuzione della «dimensione» secolare alla Chiesa
viene fondata nel suo vivere nel mondo e nell’essere mandata a continuare l’opera redentrice di Cristo (cf. n. 15; EV 11/1654); più avanti (n.
36) si specifica la missione evangelizzatrice nel servizio all’uomo, il cui
contenuto è delineato con un riferimento al n. 14 dell’enciclica Redemptor hominis. Globalmente si coglie questa visione: «Tutta la Chiesa
ha il compito di … Ai laici questo compito spetta in modo speciale
sulla base della loro secolarità» (BRAUNBECK, Der Weltcharakter des
Laien, 175).
28
Per un’illustrazione del problema, cf. J.L. ILLANES, Sacerdocio y
laicato, EUNSA, Pamplona 2001, 117-137.
29
Cf. S. DIANICH, «Laici e laicità nella Chiesa», in ID. (a cura di),
Dossier sui laici, Queriniana, Brescia 1987, 103-151, che lavora sulla
scorta della ricomprensione neotestamentaria del sacerdozio che si realizza non tanto nel culto quanto nella vita e quindi nel mondo.
30
Non mancano in effetti interpretazioni sospette di Gaudium et
spes: sarebbe frutto dello spirito dei golden sixties più che dell’ottimismo
cristologicamente fondato.
31
È abituale a questo riguardo il riferimento alla raccolta di saggi
di Y.M. CONGAR, Ministeri e comunione ecclesiale, EDB, Bologna 1973.
Il tema dei ministeri aveva fatto il suo ingresso anche sulla scorta del
motu proprio di PAOLO VI, Ministeria quaedam, 15.8.1972: cf. EV
4/1749-1770, con il quale si destituivano di valore clericale alcuni ministeri (lettorato e accolitato), che tradizionalmente appartenevano al
cursus in preparazione al presbiterato; trattandosi di ministeri liturgici
erano però riservati ai maschi.
32
La questione provocò una molteplicità di studi soprattutto esegetici. Di essi almeno uno va ricordato: J. DELORME (a cura di), Ministere et les ministeres selon le Nouveau Testament. Dossier exegetique et
reflexion theologique, Editions du Seuil, Parigi 1974; trad it. Il ministero
e i ministeri secondo il Nuovo Testamento. Documentazione esegetica e riflessione teologica, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1977.
33
Nei confronti di tale teologia si eccepiva che sarebbe segnata da
una particolare precomprensione del rapporto tra fede e ragione. Forse
nessuno come Giuseppe Colombo ha dato voce a questa visione: «La
precomprensione della ragione come alternativa alla fede, della storia
come alternativa al cristianesimo, della natura come alternativa alla
soprannatura è falsa per il pensiero cristiano. Tuttavia è pure falsa la
precomprensione in termini di separazione, così che separate, la ragione
possa aggiungersi alla fede e portarle qualcosa, la storia possa aggiungersi al cristianesimo e portargli qualcosa, la natura possa aggiungersi
alla soprannatura e portarle qualcosa; questo qualcosa che in ipotesi sarebbe il valore laicità, non esiste e non può esistere, perché la ragione
non è separata dalla fede, la storia non è separata dal cristianesimo, la
natura non è separata dalla soprannatura. Coerentemente, se la laicità
è un valore, è intrinseco alla fede, al cristianesimo, al soprannaturale
cristiano; e quindi è intrinseco al popolo di Dio, è intrinseco a ogni credente. Emerge, sotto questo profilo, che la laicità non può aggiungere
nulla al credente; non lo impegna in qualcosa di ulteriore rispetto all’impegno della fede, né gli chiede una fedeltà diversa da quella della
fede. In una parola, il laico cristiano non è qualcosa di più né qualcosa
di diverso del cristiano» («La “teologia del laicato”: bilancio di una vicenda storica», in AA. VV., I laici nella Chiesa, Elledici, Leumann [TO]
1986, 24).
34
In effetti non si può negare che la teologia dei ministeri abbia
prodotto un’eterogenesi dei fini: voleva difendere l’effettiva nativa partecipazione di tutti i cristiani all’edificazione della Chiesa e ha provocato un ricentramento intraecclesiale.
35
Per tutte cf. BRAUNBECK, Der Weltcharakter des Laien, 142-301.
Il limite di questo modello sta nel fatto che «non offre (…) il proprium
dei laici in quanto diverso da ciò che è proprium dei chierici e di quello
che è caratteristico dei religiosi» (M. DE SALIS, «Laicato», in G. CALABRESE, PH. GOYRET, O.F. PIAZZA [a cura di], Dizionario di ecclesiologia, Città Nuova, Roma 2010, 796). In effetti, pur convenendo che
non si possa delineare a priori chi siano i laici, di fatto questi esistono
e, attraverso un metodo «induttivo-storico», si dovrà poter dire in che
cosa consista il termine che si usa per designarli. Quand’anche questa
sia da ritenere una questione di teologia pratica (cf. G. Colombo e M.
Vergottini), resta una questione anche teologica, se la teologia pratica
è da considerarsi teologia.
36
Si apre qui la questione della pertinenza della distinzione/divisione degli stati di vita. Cf. CANOBBIO, Laici o cristiani?, 307-329. In
quest’ambito, soprattutto in seguito all’esortazione apostolica postsinodale Vita consecrata (25.03.1996), si è posta la questione della pertinenza della superiorità della vita consacrata rispetto alle altre forme di
vita cristiana: cf. G. CANOBBIO, «La vita consacrata nell’ecclesiologia
delle esortazioni postsinodali. Dalla Christifideles laici a oggi», in
CISM, Chiesa locale, vita consacrata e territorio: un dialogo aperto, Il
Calamo, Roma 2004, 43-60.
37
M. VERGOTTINI, «Laico», in G. BARBAGLIO, G. BOF, S. DIANICH
(a cura di), Teologia, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2002, 776.
38
Cf. ILLANES, Sacerdocio y laicado, 132-135.
39
Si dovrebbe qui richiamare la discussione sul rapporto tra Parola – sacramenti – Chiesa: a chi dare priorità?
GIACOMO CANOBBIO
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Il turismo
religioso
Premessa
Mons. Carlo Mazza,
vescovo di Fidenza
Organizzato dal corso di laurea in
Scienze del turismo e delle comunità
locali della Facoltà di sociologia dell’Università di Milano-Bicocca, il
convegno «Turismo e religioni. Memoria, percorsi ed emozioni» dello
scorso 16 maggio è stato aperto dalla
relazione introduttiva di mons. C.
Mazza, vescovo di Fidenza, su «Turismo religioso nella società e nella
Chiesa contemporanea». Il testo riconosce la necessità d’operare una
distinzione tra il viaggio inteso come
caratteristica prevalente dell’homo
viator contemporaneo, inquieto anche dal punto di vista spirituale, e il
viaggio dell’homo peregrinus, consapevole d’essere «straniero e pellegrino» sulla terra in vista di una
meta ulteriore. Di conseguenza si potrà pensare a configurare un turismo in grado di far «riscoprire
l’identità complessa e il senso religioso di cui è depositario» il luogo
sacro: non come mero oggetto di curiosità intellettuale ma come occasione per attingere «a quei segni di
speranza di cui si ha bisogno nel
cammino attuale della vita».
Stampa da file in nostro possesso.
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Il fenomeno del cosiddetto turismo religioso manifesta il
caso di un accentuato polimorfismo religioso e culturale,
espressione di una condizione anomala rispetto al tradizionale pellegrinaggio e allo schema che soggiace al turismo riguardo alle motivazioni, alle scelte, alle mete del
viaggiare. Per questo l’esercizio ermeneutico si presenta
con un elevato tasso di opinabilità e con esiti di complessa
decifrazione per le varianti eterogenee con cui si manifesta
e si attua.
Se l’uomo, com’è noto, è definito dall’antropologia sociologica come «homo viator», per la sua accezione religiosa
si connota come «homo peregrinus», richiamando un codice interpretativo ancora più articolato e complesso e la
cui episteme non appare immediatamente conoscibile e
convincente.
Val bene anche annotare, a modo di riferimento introduttivo, che nel libro degli Atti degli apostoli, i cristiani
sono riconosciuti come quelli che stanno sulla via, persone
le cui radici non recano uno statuto di stabilità (cf. At 9,2;
22,4). Ed è curiosa la definizione di quelli che seguono
Gesù, soprannominati nella letteratura delle comunità
apostoliche come «stranieri e pellegrini» (1Pt 2,11). Si direbbe che più che l’idea di uomini credenti, è la loro esperienza a definirli, o meglio la loro destinazione ultima.
Perciò i verbi camminare, viaggiare, pellegrinare che determinano il turismo religioso occidentale tendono a esprimere un modo di essere, una metafora della vita, una
particolare condizione esistenziale che svela, a partire dal
sentire culturale, una tensione simbolica verso una trascendenza ancorché delineata in ambito cristiano.
Ciò avviene in concreto attraverso il necessitante rimando a una meta, cioè a dei luoghi sacri dove si ritiene che
Dio abbia lasciato segni e si sia manifestato con eventi
prodigiosi nelle forme e nei modi decifrabili dall’uomo.
Camminando su questi percorsi e sostando in questi luoghi
segnati da una divina rivelazione, l’uomo contemporaneo
adegua la sua domanda esistenziale alla manifestazione di
una verità più grande e a lui superiore.
Ma qual è il contesto vitale, lo scenario socio-culturale in cui collocare le motivazioni sorgive del turismo re-
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ligioso? Ci sembrano utili alcune semplici considerazioni
atte a comprendere le radici, il terreno di coltura di questo particolare viaggiare sacro.
L’uomo alla ricerca di se stesso
S’osserva anzitutto un dato quasi banale: all’uomo,
stante con i piedi per terra, conviene anche disporsi con gli
occhi rivolti in alto. Questo stato di cose consente alcune
considerazioni ineludibili: che l’uomo è posto come
ponte/antenna tra la dimensione terrena e il suo destino
metastorico, che è sospinto a corrispondere all’anelito
verso l’alto e l’oltre, che non può non discernere da dove
viene a dove va e, ultimamente, che è chiamato a tentare
di comprendere il mistero, l’enigma che lo concerne rispetto al senso totale della vita.
Di qui prende forma dinamica l’attitudine a distendere
la propria esistenza nell’itineranza e a trasformarsi in un itinerante dello spirito, afferrato da un’inquietudine cui non
sa far fronte se non mettendosi in cammino alla ricerca di
se stesso, fuori da se stesso. E viene bene ricordare l’attualità del celebre asserto agostiniano: «Inquietum est cor nostrum…» (SANT’AGOSTINO, Confessioni, 1,1).
Da questa prospettiva, la realtà dell’uomo contemporaneo si delinea compiutamente in una condizione di crisi
che interroga la sua stessa percezione identitaria. Tanto
più è presente l’interrogativo quanto più l’uomo avverte
d’essere immerso in una società sottoposta a un radicale
cambiamento, del tutto visibile nelle culture del quotidiano, che riguarda la visione della vita, i valori personali, l’identità soggettiva, i legami affettivi, le relazioni di
solidarietà, il destino ultimo.
Tale indebolimento dei parametri essenziali della vita
si costata nell’esperienza quotidiana dove ci si rende
conto di una graduale erosione valoriale dell’uomo a partire dal suo interno, fino a lambire i dintorni intimi dell’anima. Così il nucleo del suo io più profondo rischia di
diventare, come diceva Aristotele (MET. 1006a, 14-15),
«omoios phyto», simile a un tronco.
Con tutta evidenza questa crisi diffusa si presenta secondo una modalità di tipo entropico, nella quale il sistema
di valori viene collassando lentamente per implosione,
producendo una condizione di vita anomala, surreale. In
termini etici si direbbe che ci siamo assuefatti a sopravvivere in una sospensione del giudizio (epoché) o in un deserto le cui caratteristiche riscontrabili sono sovente l’apatia, la pigrizia, l’accidia, l’indifferenza, per giungere in
estremo all’insignificanza dell’«uomo senza qualità» (Robert Musil).
D’altra parte la sapienza e l’esperienza della vita ci
avvertono che questo accade quando la società, o la coscienza collettiva, nel vortice della mutazione, smarrisce
il senso unificante del tutto, inteso sia come direzione di
marcia e sia come significato del proprio agire e del proprio essere in una visione sintetica in prospettiva di futuro.
Riscontrata la debolezza di riferimenti certi per il presente, lo sguardo insoddisfatto si volge al passato nella
speranza di riscoprire la novità rivoluzionaria dei valori
antichi. Di questi il pellegrinaggio, la religione tradizionale, la civiltà della memoria acquistano valenze rivelatrici di un passato rassicurante che può essere raggiunto
o ricostruito attraverso percorsi inediti e mete alternative,
accentuando la disponibilità soggettiva all’autonomia del
giudizio.
In realtà nel privilegiare un certo passato emerge il
bisogno più profondo di un valore di comunità dove le
persone condividono il senso della vita e possono soddisfare a una funzione utile e a una responsabilità. Si
brama anche il valore delle relazioni, per liberarsi dalle
solitudini oppressive e realizzarsi con l’alterità, senza la
quale s’inselvatichisce e viene a sterilizzarsi l’orizzonte
dello spirito.
Proprio con esse, comunità e relazioni, in un intreccio
denso di calore, si ritiene di rinvenire sia ciò che manca e
sia ciò che si è, reso possibile da un disposto sistema
aperto, capace di produrre una vera e significativa esperienza vitale, all’interno della quale gli individui – con le
proprie identità, complessità e attese – si possono muovere liberamente in un circuito virtuoso e securizzante. È
esattamente il vissuto ricercato e goduto nell’esperienza
del turismo religioso.
Di fatto viene a strutturarsi un desiderio inconfessato,
quello di poter vivere e accasarsi in un mondo diverso, sperimentando un’umanità nelle cui vibrazioni e sensazioni
l’uomo singolo senta e percepisca di vivere in un movimento rigeneratore, riscoprendo i suoi presunti valori e la
propria etica. E non appare un caso che si ricominci a
gustare il valore della trascendenza mediante la quale attingere certezze e verità ultime e penultime, con la consapevolezza d’acquisire una soddisfacente felicità.
Sicché la realtà del turismo religioso empiricamente
acquisita suppone dunque un retroterra antropologico,
psicologico e culturale che rivela e conferma, sotto diversi
profili, la frammentazione della soggettività e della società, già ravvisate in altri ambiti della vita, e con il quale,
d’altra parte, prende corpo il tentativo di ricomporre
un’unità interiore attraverso un’esperienza di compimento di sé, di ritrovamento esistenziale.
Dal visibile all’invisibile
Ricercare sé stessi e unificare in sé la molteplicità del
sentire e del sapere costringe a muoversi fuori dal proprio
universo di vita usuale. Ciò si realizza nell’uscire dalla propria dimora e nell’affrontare altri mondi, nel provare la
propria duttilità spirituale e culturale e nell’avventurarsi
in ambiti territoriali sconosciuti.
Così nei grandi e faticosi percorsi come nei brevi tratti
di strada, si esperimenta in particolare ciò che produce
lo specifico camminare a piedi e lentamente verso una
meta. Mentre il ritmo imposto dal passo si riflette nel
corpo e si dilata nello spirito, si viene a bilanciare la stanchezza fisica con l’alleggerimento dell’anima, procurando
sensazioni inedite di misura di sé e di scoperta di un oltre
se stesso, percepibile e riscontrabile, nel senso che oltre la
percezione del corpo, nella sua fisicità, si connette la percezione dell’anima, nella sua spiritualità.
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Perciò si può ben dire che nell’esperienza del camminare-viaggiare si attua un fenomeno di particolare evidenza e di originale peculiarità: avviene che ciò che si vive
nella sfera del sensibile passa nella sfera dello spirituale,
acquistando con il corpo la dimensione dell’anima, come
in un alleggerimento di sé. E ugualmente avviene il passaggio, ritenuto consequenziale e necessario, tra il visibile
e l’invisibile come urgenza di superamento del limite quotidiano.
Sicché nel camminare appare come cielo e terra s’incontrano, così dialogano il corpo e l’anima, si condensano
la materia e lo spirito, quasi ad assaporare, con vigore fisico-spirituale, il trascendimento di una staticità, avvertita come soffocamento, quasi come oppressione. Essendo
l’uomo eccentrico, per indole e per costituzione, il principio gravitazionale si rivela oscillante nella forma dialettica tra corporeità e spiritualità.
Da questa suggestiva apertura, meglio se sostenuta da
un bagaglio culturale adeguato, si sviluppa la volontà di
camminare, di viaggiare, d’inoltrarsi su strade inedite,
eppure sognate, verso mete carismatiche e sacre, ricche di
fascino antico e insieme nuovo. Questi percorsi, che si è
convenuto chiamare di turismo religioso, miscelano elementi di viaggio, di compagnia e di spiritualità che figurerebbero disgiunti rispetto a un coerente progetto d’itinerario, eppure diventano omogenei da un’intenzione
originaria che li orienta a un fine unitario in funzione dell’itinerante.
In realtà qui la ricerca del religioso non appare dettata
da una logicità intrinseca e riconosciuta, ma soprattutto
sboccia da un desiderio incontenibile e non esplicito di
dare risposta alla perdita di un centro significativo di sé e
per sé stessi, che sia fonte di verità e di senso adeguato
alla vita.
Così il turismo religioso guadagna un ulteriore profitto,
in quanto gli è dato di verificare in modo tangibile un’inedita qualità della vita nella quale si opera una sintesi spirituale tra l’io viaggiante e il luogo sacro per ottenere un
riposo, sia pure temporaneo ma saporoso, idoneo ad acquisire nuove emozioni, a depositare nella coscienza
nuovi pensieri e nuovi significati, ad allargare gli orizzonti
della verità e della libertà tanto compressi nella società
postmoderna.
Luogo sacro, meta dell’anima
Dunque l’idea del viaggio religioso scatta da una congerie interiore, ma origina dalla semplice costatazione che
all’uomo, i cui occhi sono fissi in un orizzonte alto, s’impone, come desiderio e come volontà, il suo essere esploratore in continuo movimento verso un mondo altro che si
vuol conoscere mediante la necessitante condizione di nomadi in cerca di significati orientativi della vita.
Nel qual caso, l’opportunità d’acquisire orientamenti
viene a esaudirsi nel mentre si cammina verso una meta,
portando tutto sé stessi. Perché è la meta che produce senso
al viaggio, è la fine che spiega e dà senso all’inizio. Di fatto
non si cammina a vuoto o astraendosi o estraniandosi dal
contesto e dalla fine, ma guardando, con gli occhi della
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mente e del cuore, alla meta in un luogo ricco di carisma
e di storia sacra.
D’altra parte se l’uomo non può ridursi a essere un girovago o un vagabondo a vita, apprezza invece il suo essere
un viandante, un pellegrino. Così cammina tra gli uomini
penetrando nella loro storia, immergendosi nelle diverse
civiltà e tradizioni, con un’intenzione, quella di scoprire
l’altra faccia di sé, ciò di cui è privo e di cui ha bisogno.
L’altro, il diverso, affascina, come anche incute paura e suscita minaccia. Ma l’altro permane sempre l’amico che mi
manca, nel senso della necessaria dialettica tra alterità e
reciprocità.
In tale prospettiva il luogo sacro, luogo di un evento fondativo «tremendum et fascinosum», diventa segno dell’epifania della divinità e generatore d’umanità, un luogo
dell’amicizia dell’uomo con Dio e dell’uomo con l’uomo,
e dunque luogo ideale di una vera meta. Inoltre si presenta
con un’offerta di religiosità e di storia del tutto gratuita, godibile e inesauribile, in un tempo illimitato che favorisce la
conoscenza di sé e del proprio passato, e lenisce i disagi del
presente.
Riguardato secondo un’ottica spirituale, questo luogo
sacro segnala di possedere la dignità e l’attrattiva di una
meta. Infatti l’originalità e la motivazione della proposta di
sostare qui, si fondano sull’evidenza che in questo luogo
l’evento fondativo di carattere trascendente promana ancora significati fruibili perché ha lasciato tracce sensibili e
visibili. E qui, ancora oggi, si fa percepibile il genius loci
vissuto dal pellegrino come mediatore del divino. Dunque
può soddisfare l’idea salvifica di un ritorno alle origini,
anche se non definitiva in quanto ne è solo figura di una realtà più grande e generatrice di salvezza finale.
Dire dunque turismo verso un luogo sacro è dire un necessario tramite e transfert per immergersi in una ierofania
rigenerante. Come è noto, nel tempo presente cresce la curiosità e aumenta l’attrattiva del sacro. Si moltiplicano iniziative per promuovere mete religiose, per sistemare
ospitalità, per segnalare nuovi percorsi, per accogliere i pellegrini al fine di invogliare i cosiddetti turisti di coscienza ad
avventurarsi su vie nuove e luoghi sacri alternativi.
Questo movimento rivela un rinnovato interesse riconducibile a probabili istanze socio-cultural-religiose di diversa radice ideale e anche di complessa valutazione
teoretica. Ci si domanda: che cosa muove il pellegrino ad
avventurarsi sulle vie sacre? Che cosa si aspetta di trovare
nei luoghi sacri? E come organizzare e le une e gli altri?
Il fatto è che l’uomo sembra ritrovarsi proprio mentre
cammina in un contesto ricco di suggestioni e di significati. Si è soliti definire questo fenomeno «esperienza itinerante del sacro», nella quale s’intrecciano istanze e
motivazioni le più diverse: dalla riscoperta dell’ambiente e
della natura, alla rivalutazione dell’anima e della cultura
localistica, all’incontro con il divino.
Così la riscoperta dell’ambiente appare causata dal bisogno d’autenticità di vita, da una sottile nostalgia dello
stato primigenio, da un auspicato ritorno al pre-moderno,
generato dal rifiuto del consumo del territorio (urbanesimo
d’assalto). E la stessa visione della natura tende ad essere
proclamata come forma di vita, come una specie di rivitalizzazione dell’uomo dal basso, nel tentativo di un’immer-
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sione totale nella natura, senza soluzione di continuità,
come di una nuova religiosità naturale attraverso una sorta
di fusione uomo-natura.
Infine si rileva anche una certa rivincita dell’anima,
come di una rinascita. Essa tende a far sì che l’uomo ricominci a guardarsi dentro, nel fondo della coscienza.
Tale tendenza si manifesta come desiderio di solitudine, di
silenzio, di trascendenza. Camminando ci si ritrova con sé
stessi e si comprende il grado di un’estraneazione – tipica
deriva della civiltà di massa, dell’industrialismo e del nichilismo – che ha desertificato lo spirito, lo ha materializzato.
Tali attitudini si presentano molto diffuse e rivelano,
come una spia accesa, uno stato d’animo, il bisogno di un
ritrovamento dell’uomo interiore. Perciò insorge l’urgenza
d’uscire da una finzione strutturata da passivi stili di vita,
di ricercare un’autenticità diretta e profonda. Non raramente questa tendenza sfocia in un’inattesa ricerca di Dio,
quale «luce che illumina le tenebre dell’uomo», perché la verità dell’uomo sta nella sua origine, in chi l’ha creato.
Percorsi tra il «sacro» e il «profano»
Sulla scorta di questi profili che soggiacciono al recupero
del camminare religioso, si squarcia una visione antropologica in cui l’uomo appare da una parte in disfacimento, tipica condizione che allude alla fine di un’epoca, e dall’altra emerge anche un uomo in ricostruzione, preludio di
un’epoca nuova, sospinto a sperimentare un nuovo equilibrio tra materialità e spiritualità, una nuova sintesi tra il «sacro» e il «profano».
In tale prospettiva si può comprendere come la realtà
dei luoghi sacri sia percepita come spazio di rigenerazione perché racchiude e custodisce il fascino del mistero.
Ne deriva un’attrattiva verso una spiritualità che non
s’identifica con i caratteri istituzionali, ma la si riconosce per intuito, come un’effervescenza da un mito lontano eppure attuale. Il pellegrino della postmodernità
ama inoltrarsi là dove aleggia lo spirito, in modo che da
una parte annota l’identità cristiana perduta – che tuttavia tende a emergere come pesante senso di colpa di un
abbandono – e dall’altra propone la composizione dialettica tra il sacro e il profano, che per altro accompagna
l’uomo in ogni epoca.
Nell’esperienza del turismo religioso il luogo sacro diventa magnete e fattore espressivo di un universo umano e
insieme di un universo divino che s’integrano a tal punto
da generare un equilibrio tra trascendenza e immanenza,
tra religiosità e laicità, tra soggettività individuale e dilatazione comunitaria. Tale soluzione sembra rispettare la storia personale e favorire la ricerca d’identità, in quanto il
mondo sacrale è accogliente di ogni diversità e non è sottoposto ai pregiudizi tradizionali.
Nel contesto di queste riflessioni non marginale si presenta la sfida di una nuova creatività progettuale di itinerari, di percorsi, di mete. Per questo val bene aver superato
un tipico cliché di una certa pubblicistica, a volte tanto deleteria e confusiva, ancorché superficiale, che tende a escludere gli aspetti più riflessivi e spirituali, privilegiando quelli,
piuttosto ibridi, nella fattispecie di un turismo verde, ecocompatibile, sostenibile, riflessivo.
A tal riguardo viene bene riflettere su tre proposte
pratiche.
La prima attiene alla prospettiva di un percorso integrale che privilegia la capacità d’esprimere una totalità
d’accostamento, d’immersione, d’interiorizzazione dei
luoghi sacri, atta a produrre gradimento intellettuale, stupore spirituale, trasalimento estetico, godimento fisico
già nel mentre si cammina sul percorso e poi nel tempo
vissuto nell’ambito sacrale.
Per la seconda va osservato che per godere la suggestività totale dei luoghi sacri è necessario impostare i contenuti
del medesimo nel modo che risultino rispettosi della realtà
religioso-carismatica, della realtà socio-culturale in cui
sono innestati, dell’ispirazione che li ha costituiti in modo
che risultino idonei alle attese del turista religioso, all’approfondimento della conoscenza di sé, alla socializzazione
comunitaria.
In tal modo si tende ad attuare, a beneficio del pellegrino, una magica interrelazione tra la complessa e articolata realtà sacrale e la figura identitaria dell’essere-pellegrino. Gradualmente il visitatore viene a essere posto in
mezzo al luogo sacro visitato, contemplato e goduto. La connessione richiede necessariamente, come disposizione dello
spirito, il senso e la cultura del silenzio, la disponibilità delle persone locali a entrare in sintonia accogliente con l’ospite
pellegrino.
In terzo luogo va rispettato lo statuto costitutivo del turismo religioso, che si fonda sul rapporto che intercorre tra
fede, storia, cultura e paesaggio. Infatti camminando verso
il luogo sacro, il pellegrino della postmodernità, assillato
dalla secolarizzazione, compulsato dalla sua soggettività,
insofferente di predicazioni istituzionali, non intende tradire se stesso ma seguire una sua libertà interiore, per così
dire una sua filosofia della vita, nella quale include necessariamente la dimensione spirituale riscoperta come costitutiva e non aleatoria.
In tale prospettiva la questione degli itinerari si dilata
nella creazione di un nuovo umanesimo, mediante il quale
il visitatore-pellegrino, attraverso le forme del sacro, interconnesse con quelle paesaggistiche, rivisitate con una
nuova sensibilità, viene messo in grado d’apprezzare le genialità tipiche dell’antropizzazione cristiana, il patrimonio
storico-artistico-culturale, i segni alti della fede e lo stile
denso di un’accoglienza adeguata.
Per così dire, questo viaggiare-camminare-pellegrinare
fa sintesi del desiderio di sfogliare il libro scintillante della
natura, del bisogno di suscitare slanci estetici, della voglia
di cercare significati inattesi d’ordine spirituale.
L’immagine di una Chiesa «in itinere»
Nel divenire della religiosità popolare, nella quale il
pellegrinaggio emerge come figura originale, il fenomeno
del turismo religioso si pone non raramente in termini distraenti per il grado d’ambivalenza che la sua natura evasiva connota. Così, se intercetta la pastorale della comunità cristiana, ne rivela la fatica di elaborare una cultura
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adeguata e di saper orientare le coscienze affinché il turismo religioso sia strumento fecondo d’evangelizzazione.
Di fatto il turismo religioso possiede una rilevante potenzialità rispetto al rapporto fede-cultura, a patto che sia
competentemente promosso e guidato al fine spirituale, inculturato nelle complesse tessiture delle società secolarizzate.
D’altra parte è noto come la Chiesa abbia da sempre
privilegiato il pellegrinaggio, nella sua accezione più pura
e organica, funzionale alla sua natura e alle sue finalità pastorali. In tale senso è proprio del pellegrinaggio orientare
alla conversione e al ritrovamento delle fonti sacramentali
della salvezza, e dunque facilmente si verifica un intrinseco legame tra i programmi ecclesiali e la finalità del pellegrinaggio, come un sostanziale cammino penitenziale
capace di ricostruire un autentico rapporto con Dio.
Di qui risulta comprensibile la velata cautela esperita
da parte della Chiesa nei confronti del turismo religioso,
proprio in riferimento alle ambivalenze connesse. Di fatto
la realtà di un viaggiare tra il sacro e il profano propone
alla Chiesa un approccio più critico e un po’ più sofisticato sotto il profilo teologico e pastorale e dunque più impegnativo per gli eventuali promotori.
Le ragioni appaiono molteplici e provengono da diversi
fronti: da un sospetto di eccedenza commerciale e mondana, con le conseguenze del caso; da una valutazione di
strategia ecclesiastica che ravvisa nel turismo religioso una
presa di distanza dall’istituzionalità ecclesiastica e il pericolo di una religione-fai-da-te; da uno sbilanciamento dei
fedeli sul santuario piuttosto che sulla parrocchia; da un’ef-
Davide D’Alessio
Una comunità
di uomini liberi
Sui passi del Vangelo di Giovanni
I
l quarto Vangelo, a differenza dei
sinottici, si concentra su alcuni
momenti della vita di Gesù, ricostruendoli con molti dettagli. Quei
momenti hanno infatti aperto gli occhi a Giovanni sulla verità del Figlio
di Dio. Seguendo il metodo della lectio divina, le riflessioni del volume
declinano quattro passaggi successivi: ascoltare la Parola, farsi discepoli, conoscere la verità e diventare
uomini liberi.
EDB
Conclusione
Dalle nostre personali riflessioni si evince che per
l’odierno fruitore del turismo religioso, fatto o no pellegrino,
e più o meno sospinto dal disincanto del mondo, stare nell’ambito vitale del luogo sacro significa poter riscoprire la
sua identità complessa e il senso religioso di cui è depositario, attraverso ciò che lo precede nel tempo e ciò che lo
supera, purché giovi al presente della vita.
Nella fatica della ricerca di sé, fare esperienza di un’immersione di spiritualità in un ambiente accogliente ed eloquente dal punto di vista del sacro può diventare funzionale al superamento delle presenti condizioni di crisi.
Riposando in su un passato ricco di rivelazione divina, si
viene a guadagnare un fondamento sicuro per l’oggi vissuto
come incertezza e vuoto.
Dal fatto che le sensibilità mutano al mutare dei tempi,
emergono sempre nuove esigenze che chiedono di essere
soddisfatte. In tale senso i luoghi sacri costituiscono un’attrattiva affascinante di primario interesse in quanto corrispondono a un’opportunità capace di promuovere un
vissuto autentico e certo rispetto a una postmodernità liquida, senza spirito di memoria e senza verità sicure.
Così ai pellegrini e ai viaggiatori della postmodernità,
sperimentando un incontro alto in luoghi sacri, sembrerà
d’entrare in sintonia non solo con gli eventi della storia passata, ma altresì con il profondo di sé stessi mediante una salutare rigenerazione nelle contemporanee «cliniche dello
spirito» (Paolo VI), attingendo a quei segni di speranza di
cui si ha bisogno nel cammino attuale della vita.
Milano, 16 maggio 2011.
«Lettura pastorale della Bibbia - sez. Bibbia e spiritualità»
pp. 176 - € 16,00
Edizioni
Dehoniane
Bologna
fettiva difficoltà gestionale del movimento e della sua organizzazione in un’accoglienza idonea; da un ritardo d’elaborazione dei contenuti-motivazioni di un turismo così eterogeneo e, infine, da una percezione di un sotterraneo
relativismo religioso e d’eclettismo spirituale.
La Chiesa certamente non ostacola il turismo religioso. Se mai intende proporlo nella distinzione rispetto
al pellegrinaggio, consapevole dei rischi connessi. Nella
fattispecie s’avverte oggi uno sforzo d’aggiornamento soprattutto nel disporre l’accoglienza nei luoghi sacri e nel
vigilare perché questi fenomeni non degenerino in sincretismi illusori e in esperienze spiccatamente emotive.
Nelle recenti tendenze si nota come il turismo religioso
si assesti lentamente nei luoghi dei santuari più noti e cresca invece con più evidente incremento nei luoghi sacri minori. Così si evidenzia la tendenza a spalmarsi sui territori
per un effetto di un localismo religioso di ritorno. Di qui
si profila un futuro del turismo religioso che riguarderà le
modalità di soluzione dell’assetto antropologico e dipenderà dagli esiti della ricerca del religioso oltre la pressione
della soggettività, per un incontro più oggettivo con il divino, non necessariamente vincolato alle dinamiche emotive e alle esigenze di mera autocomprensione spirituale.
CARLO MAZZA,
vescovo di Fidenza
Via Nosadella 6 - 40123 Bologna
Tel. 051 4290011 - Fax 051 4290099
www.dehoniane.it
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cumenismo
Sulla via
della pace giusta
CEC - Convocazione ecumenica
internazionale sulla pace
(Kingston, 17-25 maggio 2011)
Appello ecumenico
A conclusione del Decennio per sconfiggere la violenza, avviato dal Consiglio ecumenico delle Chiese (CEC) nel
2001, nella Convocazione ecumenica
internazionale sulla pace svoltasi a
Kingston (Giamaica, 17-25.5) il movimento ecumenico – che porta nel DNA
la preoccupazione per la giustizia e la
pace – ha compiuto un passo in avanti
nell’accordo tra le Chiese cristiane sul
significato della pace, fondendo i due
temi nel nuovo concetto di «pace giusta», e nella elaborazione di una nuova
etica sull’uso legittimo della forza. I
rappresentanti delle diverse denominazioni cristiane aderenti al CEC
hanno fatto proprio l’Appello ecumenico per una pace giusta. «Dirigi i nostri passi sulla via della pace» (Lc 1,79),
elaborato attraverso un processo conciliare da una commissione guidata
dall’ex segretario generale del CEC
Konrad Raiser e approvato dal Comitato centrale dell’organismo stesso in
febbraio, e hanno concluso la Convocazione con un messaggio finale dal titolo Gloria a Dio e pace sulla terra
(25.5.2011).
Stampa (6.6.2011) da sito web www.overcomingviolence.org e nostra traduzione dall’inglese per
l’Appello ecumenico per una pace giusta; da sito
web www.cipax-roma.it e nostra revisione sull’originale inglese per il messaggio. Cf. Regnoatt. 12,2011,377; Regno-doc. 9,2010,299.
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Preambolo. Quest’appello è una voce cristiana concordata rivolta anzitutto alla comunità cristiana a livello mondiale. Ispirato dall’esempio di Gesù di Nazaret, esso invita i cristiani a impegnarsi sulla via della
pace giusta. Consapevole del fatto che la promessa
della pace è un valore centrale di tutte le religioni, esso
vuole raggiungere tutti coloro che cercano la pace in
base alle loro tradizioni e impegni religiosi. L’appello
è stato ricevuto dal Comitato centrale del Consiglio
ecumenico delle Chiese (CEC) e raccomandato per lo
studio, la riflessione, la collaborazione e l’azione comune. Viene pubblicato in risposta alla raccomandazione dell’Assemblea del CEC a Porto Alegre (Brasile)
del 2006 ed è basato sulle idee ed esperienze accumulate durante il «Decennio per sconfiggere la violenza, 2001-2010: le Chiese alla ricerca di riconciliazione e pace».
La pace giusta comprende un cambiamento fondamentale nella pratica etica. Implica una diversa
struttura di analisi e criteri per l’azione. Quest’appello
segnala il cambiamento e indica alcune implicazioni
per la vita e la testimonianza delle Chiese. Il sussidio
Manuale della pace giusta (Just peace companion), collegato all’appello, contiene considerazioni bibliche,
teologiche ed etiche più sviluppate, proposte per approfondire l’esplorazione del tema ed esempi di buone
pratiche in materia. Si spera che questi materiali, insieme con gli impegni scaturiti dalla Convocazione
ecumenica internazionale sulla pace a Kingston (Giamaica) nel maggio del 2011 con il tema «Gloria a Dio
e pace sulla Terra», aiutino la prossima assemblea del
CEC a raggiungere un nuovo consenso ecumenico su
giustizia e pace.
1. Giustizia che bacia la pace. Senza pace può esservi giustizia? Senza giustizia può esservi pace?
Troppo spesso perseguiamo la giustizia a scapito della
pace e la pace a scapito della giustizia. Concepire la
pace separatamente dalla giustizia è compromettere
la speranza che «giustizia e pace si baceranno» (Sal
85,10). Se giustizia e pace mancano, o vengono con-
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cumenismo
Preghiera per la pace
D
io della pace, a cui nulla è impossibile, creatore, redentore, vivificatore: ancora una volta veniamo a te per implorare la tua
misericordia e il tuo perdono. Dacci di poter ricominciare di nuovo
e aiutaci a dare un’opportunità alla pace in questo mondo. Sì, vogliamo dare alla pace una possibilità, perché abbiamo mancato
tante occasioni, abbiamo impedito tante iniziative e siamo stati a
guardare, quando il bene veniva sopraffatto, invece di vincere il
male con il bene. Perdonaci, Signore.
Dona nobis pacem. Ti preghiamo, donaci la pace.
Mentre chiediamo il tuo perdono, vorremmo che questo
stesso istante diventasse un tempo di pace, in cui rinnovare il nostro impegno di artigiani di pace e di giustizia. Ti rendiamo grazie
per il Decennio per sconfiggere la violenza, per il lavoro svolto per
accrescere la nostra coscienza e il nostro desiderio di pace. Al
tempo stesso confessiamo che c’è molto di più da fare se vogliamo
davvero dare alla pace una possibilità.
Dona nobis pacem. Ti preghiamo, donaci la pace.
Attraverso il tuo Spirito, ti chiediamo di consacrare alla pace
i nostri cuori e le nostre menti e di far sì che le nostre vite stesse
trapposte, dobbiamo cambiare i nostri comportamenti. Alziamoci dunque e lavoriamo insieme per la
pace e la giustizia.
2. Lasciamo parlare i popoli. Si possono raccontare molte storie: storie sature di violenza, violazione
della dignità umana e distruzione del creato. Se tutti
gli orecchi ascoltassero le grida, non vi sarebbe alcun
luogo veramente silenzioso. Molti continuano a soffrire a causa delle guerre e delle loro conseguenze;
l’ostilità etnica e religiosa, la discriminazione basata
sulla razza e sulla casta deturpano il volto delle nazioni e lasciano brutte cicatrici. Migliaia di persone
sono morte, sfollate, senza casa, rifugiate nella loro
stesso patria. Spesso donne e bambini portano il maggior peso dei conflitti: molte donne sono violentate,
vendute, uccise; molti bambini sono separati dai loro
genitori, resi orfani, reclutati come soldati, vittime di
violenze sessuali. In alcuni paesi i cittadini subiscono
la violenza delle forze di occupazione, delle organizzazioni paramilitari, della guerriglia, dei cartelli criminali o delle forze governative. I cittadini di molti
paesi soffrono a causa di governi ossessionati dalla sicurezza nazionale e dalla potenza militare; tuttavia
questi ultimi non riescono a garantire una vera sicurezza, anno dopo anno. Migliaia di bambini muoiono
ogni giorno a causa di un’alimentazione insufficiente,
mentre i detentori del potere continuano a prendere
decisioni economiche e politiche che favoriscono un
numero molto ristretto di persone.
3. Lasciamo parlare le Scritture. La Bibbia presenta
la giustizia come l’inseparabile compagna della pace
(cf. Is 32,17; Gc 3,18). Entrambe mirano a relazioni
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siano il punto di partenza della pace, qui e ora. Aiutaci a cooperare con te, dando alla pace una possibilità, creando un mondo in
cui la pace sia il nostro ethos e la nostra essenza. Donaci la pace,
ti preghiamo. Donaci saggezza e coraggio: saggezza per discernere ciò che porta alla pace, e coraggio per essere fedeli e obbedienti a te.
Dona nobis pacem. Ti preghiamo, donaci la pace.
Dio della pace, a cui nulla è impossibile, facci strumenti della
tua pace alla Convocazione internazionale ecumenica sulla pace e
in ogni luogo, così che possiamo compiere la tua volontà, e dare
così alla pace una possibilità. Nel nome del Principe della pace,
Gesù Cristo, nostro Signore e salvatore. Amen.*
* Preghiera dai Caraibi per la Convocazione ecumenica internazionale sulla pace. La domenica 22 maggio tutte le Chiese del
mondo erano invitate a celebrare il dono divino della pace unendosi nella preghiera. A tal fine è stato distribuito il presente testo,
scritto dalle Chiese dei Caraibi, che ospitavano la Convocazione di
Kingston, e tradotto in molte lingue.
vere e sostenibili nella società umana, alla vitalità dei
nostri legami con la Terra, al «benessere» e all’integrità del creato. La pace è il dono di Dio a un mondo
rovinato, ma amato, oggi come durante la vita terrena
di Gesù Cristo: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace»
(Gv 14,27). Attraverso la vita e gli insegnamenti, la
morte e la risurrezione di Gesù Cristo, noi percepiamo la pace come promessa e dono al tempo stesso:
una speranza per il futuro e un dono qui e ora.
4. Gesù ci ha insegnato ad amare i nostri nemici,
a pregare per i nostri persecutori, a non usare armi
letali. La sua pace è espressa dallo spirito della beatitudini (Mt 5,3-11). Nonostante la persecuzione, egli
rimane saldo nella sua non violenza attiva, fino alla
morte. La sua vita di impegno per la giustizia termina
su una croce, strumento di tortura e di morte. Risuscitando Gesù, Dio conferma che quell’amore incrollabile, quell’obbedienza, quella fiducia, conduce alla
vita. Questo vale anche per noi.
5. Dove c’è perdono, rispetto della dignità umana,
generosità, cura per i deboli nella vita comune dell’umanità, noi vediamo un barlume – per quanto
tenue possa essere – del dono della pace. Ne consegue quindi che la pace è perduta quando l’ingiustizia,
la povertà e la malattia – come il conflitto armato, la
violenza e la guerra – feriscono i corpi e le anime di
esseri umani, la società e la Terra.
6. Tuttavia alcuni testi biblici associano la violenza con la volontà di Dio. Basandosi su questi testi,
alcune parti della nostra famiglia cristiana hanno legittimato, e continuano a legittimare, l’uso della violenza da parte loro e da parte di altri. Non possiamo
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continuare a leggere questi testi senza attirare l’attenzione sulla mancata risposta umana all’appello divino alla pace. Oggi dobbiamo interrogare i testi che
parlano di violenza, odio e pregiudizio o chiedono a
Dio di dare libero sfogo alla sua ira e distruggere altre
persone o popoli. Dobbiamo permettere a questi testi
di insegnarci a discernere se, come nel caso delle persone e del popolo nella Bibbia, i nostri obiettivi, i nostri programmi, le nostre ostilità, passioni e abitudini
riflettono i nostri desideri piuttosto che la volontà di
Dio.
7. Lasciamo parlare la Chiesa. Come corpo di Cristo, la Chiesa è chiamata a essere un luogo di promozione della pace. In molti modi, specialmente nella
celebrazione dell’eucaristia, le nostre tradizioni liturgiche mostrano che la pace di Dio ci chiama a condividere la pace con gli uomini e con il mondo. Tuttavia molto spesso le Chiese non vivono in base alla
loro vocazione. La mancanza di unione fra i cristiani,
che mina in molti modi la credibilità delle Chiese in
materia di promozione della pace, ci invita a una
continua conversione dei cuori e delle menti. Solo
quando sono radicate nella pace di Dio, le comunità
di fede possono essere «operatori di riconciliazione e
pace con giustizia nelle famiglie, nelle Chiese e nelle
società, nonché nelle strutture politiche, sociali ed
economiche a livello mondiale» (CEC, Assemblea generale, 1998). La Chiesa che vive la pace che proclama è quella che Gesù chiamò una città che sta sopra un monte ed è quindi vista da tutti (cf. Mt 5,14).
I credenti che esercitano il ministero della riconciliazione affidato loro da Dio in Cristo rinviano, al di là
delle Chiese, a ciò che Dio sta facendo nel mondo (cf.
2Cor 5,18).
domani». I nostri figli meritano di ereditare un
mondo più giusto e pacifico.
9. La resistenza non violenta è fondamentale per
la via della pace giusta. La resistenza ben organizzata
e pacifica è attiva, tenace ed efficace, nei confronti sia
dell’oppressione e degli abusi dei governi sia delle pratiche imprenditoriali e commerciali che sfruttano le
comunità vulnerabili e il creato. Riconoscendo che la
forza dei potenti dipende dall’obbedienza e dall’acquiescenza dei cittadini, dei militari e, sempre più, dei
consumatori, le strategie non violente possono comprendere atti di disobbedienza civile e non acquiescenza.
10. Sulla via della pace giusta le giustificazioni del
conflitto armato e della guerra diventano sempre
meno plausibili e più inaccettabili. Per decenni le
Chiese hanno lottato con il loro disaccordo sulla questione; ma ora la via della pace giusta ci costringe ad
avanzare. Tuttavia non basta condannare la guerra;
dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per
promuovere la giustizia e una pacifica cooperazione
fra i popoli e le nazioni. La via della pace giusta è fondamentalmente diversa dal concetto di «guerra giusta» ed è molto più di un insieme di criteri per
proteggere le persone dall’uso ingiusto della forza;
oltre a far tacere le armi, essa comprende la giustizia
sociale, lo stato di diritto, il rispetto dei diritti umani
e la sicurezza umana condivisa.
11. Nei limiti imposti dal linguaggio e dall’intelletto, proponiamo di comprendere la pace giusta come
un processo collettivo e dinamico, tuttavia motivato, per
liberare gli esseri umani dalla paura e dal bisogno, superare l’inimicizia, la discriminazione e l’oppressione e
stabilire le condizioni per giuste relazioni che privilegiano l’esperienza delle persone più vulnerabili e rispettano l’integrità del creato.
La via della pace giusta
8. Vi sono molti modi di rispondere alla violenza,
molti modi di praticare la pace. Come membri della
comunità che proclama Cristo come l’incarnazione
della pace, noi rispondiamo all’appello a portare il
dono divino della pace nei contesti contemporanei di
violenza e conflitto. Perciò imbocchiamo insieme la
via della pace giusta, che richiede sia avanzamento
verso l’obiettivo sia impegno a camminare. Invitiamo
tutti, quale che sia la visione del mondo o la tradizione religiosa di cui sono portatori, a considerare
l’obiettivo e condividere il loro cammino. La pace giusta invita tutti noi a essere testimoni con la nostra vita.
Per perseguire la pace dobbiamo prevenire ed eliminare la violenza personale, strutturale e dei media,
compresa la violenza contro le persone a causa della
razza, della casta, del genere, dell’orientamento sessuale, della cultura o della religione. Dobbiamo essere
responsabili nei confronti di coloro che ci hanno preceduto, vivendo in un modo che onori la saggezza dei
nostri antenati e la testimonianza dei santi in Cristo.
Abbiamo una responsabilità anche nei confronti di
coloro che sono il futuro: i nostri figli, «il popolo di
Vivere il viaggio
12. La pace giusta è un viaggio nel disegno di Dio
per l’umanità e per tutto il creato, confidando nel
fatto che Dio «dirigerà i nostri passi sulla via della
pace» (Lc 1,79).
13. Il viaggio è difficile. Riconosciamo di dover
guardare in faccia la verità durante il cammino. Scopriamo che spesso inganniamo noi stessi e siamo complici della violenza. Impariamo a rinunciare a cercare
delle giustificazioni per ciò che abbiamo fatto e ci
esercitiamo nella pratica della giustizia. Questo significa confessare le nostre malefatte, concedere e ricevere il perdono e imparare a riconciliarci fra di noi.
14. I peccati della violenza e della guerra dividono
profondamente le comunità. Coloro che hanno caricaturato e demonizzato i loro avversari avranno bisogno di un sostegno e un accompagnamento a lungo
termine per elaborare la loro situazione e guarire. La
riconciliazione con i nemici e il ristabilimento di relazioni spezzate è un processo lungo e un obiettivo necessario al tempo stesso. In un processo di riconcilia-
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zione non esistono più potenti e meno potenti, superiori e inferiori, grandi e piccoli. Esso trasforma allo
stesso modo vittime e aguzzini.
15. Spesso gli accordi di pace sono fragili, temporanei e inadeguati. I luoghi in cui è stata dichiarata la
pace possono essere ancora saturi di odio. La riparazione dei danni della guerra e della violenza può richiedere molto più tempo del conflitto che li ha
causati. Ma le tracce di pace che restano lungo il cammino, per quanto imperfette, sono una promessa di
cose più grandi per il futuro.
16. Camminiamo insieme. La Chiesa divisa sul
tema della pace e le Chiese lacerate dai conflitti hanno
ben poca credibilità come testimoni od operatrici di
pace. Il potere delle Chiese di lavorare per la pace e
di testimoniare la pace dipende dall’individuazione di
un obiettivo comune al servizio della pace nonostante
le differenze a livello di identità etnica e nazionale e
anche di dottrina e costituzione di una determinata
Chiesa.
17. Camminiamo come una comunità che condivide un’etica e una pratica della pace comprendente
il perdono e l’amore dei nemici, la non violenza attiva e il rispetto degli altri, la dolcezza e la misericordia. Cerchiamo di spendere la nostra vita nella
solidarietà con gli altri e per il bene comune. Perseguiamo la pace nella preghiera, chiedendo a Dio il discernimento nel cammino e i doni dello Spirito lungo
la via.
18. Nelle comunità di fede che amano e camminano insieme vi sono molte mani per liberare dai loro
fardelli le persone affaticate. Uno può testimoniare la
speranza davanti a una situazione disperata; un altro
un amore generoso per le persone bisognose. Le persone che hanno molto sofferto trovano il coraggio di
continuare a vivere nonostante le tragedie e le perdite
subite. La forza del Vangelo permette loro di liberarsi
anche dei fardelli inimmaginabili del peccato personale e collettivo, della collera, dell’amarezza e dell’odio, che sono il retaggio della violenza e della
guerra. Il perdono non cancella il passato; ma, guardando indietro, possiamo vedere che i ricordi sono
guariti, i pesi deposti e i traumi condivisi con gli altri
e con Dio. Siamo in grado di proseguire il cammino.
19. Il cammino è invitante. Con il passare del
tempo e la dedizione alla causa, un numero sempre
maggiore di persone ascolta la chiamata a promuovere la pace. Sono persone appartenenti a grandi movimenti in seno alla Chiesa, ad altre comunità di fede
e alla società. Lavorano per il superamento delle divisioni di razza e religione, nazione e classe; imparano
a condividere la vita delle persone povere e sfruttate;
o accettano di esercitare il difficile ministero della riconciliazione. Molti scoprono che non si può promuovere la pace senza prendersi cura del creato e
amare e proteggere la meravigliosa opera delle mani
di Dio.
20. Condividendo la strada con i nostri vicini, impariamo a passare dalla difesa di ciò che è nostro a
uno stile di vita generoso, aperto. Scopriamo i nostri
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piedi di operatori di pace. Scopriamo persone di diverse professioni e condizioni sociali. Acquistiamo
forza lavorando con loro, perché riconosciamo la nostra reciproca vulnerabilità e affermiamo la nostra comune umanità. L’altro non è più un estraneo o un
avversario, ma un nostro simile, con il quale condividiamo la strada e il cammino.
Car telli indicatori sulla via della pace giusta
21. Pace giusta e trasformazione del conflitto. La
trasformazione dei conflitti è una componente essenziale della promozione della pace. Il processo di trasformazione comincia con lo smascherare la violenza
e scoprire il conflitto nascosto, per permettere alle vittime e alle comunità di vederne le conseguenze. La
trasformazione del conflitto mira a sfidare gli avversari a indirizzare nuovamente i loro interessi conflittuali verso il bene comune. Può essere necessario fare
azione di disturbo rispetto a una pace artificiale, mettere a nudo la violenza strutturale o trovare delle
strade per ristabilire relazioni senza punizione. La vocazione delle Chiese e delle comunità religiose è
quella di accompagnare le vittime della violenza e
prendere le loro difese. Essa comprende anche il rafforzamento dei meccanismi civili per la gestione dei
conflitti e la denuncia della responsabilità delle autorità civili e degli altri autori di abusi, compresi quelli
in seno alle comunità ecclesiali. Lo «stato di diritto»
è una cornice fondamentale per tutti questi sforzi.
22. Pace giusta e uso della forza armata. Tuttavia
vi sono tempi nei quali il nostro impegno per la pace
giusta viene messo alla prova, perché si persegue la
pace in un contesto di violenza e sotto la minaccia di
un conflitto violento. Vi sono situazioni estreme nelle
quali, come ultimo ricorso e minor danno, può diventare necessario l’uso legale della forza armata per
proteggere gruppi vulnerabili di persone esposte a imminenti minacce di morte. Ma anche allora noi riconosciamo che l’uso della forza armata in situazioni di
conflitto è sia un grave segno di fallimento sia un
nuovo ostacolo sulla via della pace giusta.
23. Pur riconoscendo l’autorità delle Nazioni
Unite di rispondere, nel quadro del diritto internazionale, alle minacce alla pace mondiale in base allo
spirito e alla lettera della loro Carta, compreso l’uso
della forza militare nei limiti del diritto internazionale, come cristiani sentiamo il dovere di andare oltre:
sfidare qualsiasi giustificazione teologica o di altra natura dell’uso della forza militare e considerare obsoleta la fiducia nel concetto di una «guerra giusta» e
nel suo uso abituale.
24. Riconosciamo il dilemma morale insito in queste affermazioni. Il dilemma è risolto almeno in parte
se i criteri elaborati nella tradizione della guerra giusta possono ancora servire come cornice per un’etica
dell’uso legittimo della forza. Una tale etica consentirebbe, ad esempio, di prendere in considerazione
«operazioni di polizia giuste», la nascita di una nuova
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normativa nel diritto internazionale incentrata sulla
«responsabilità di proteggere» e sull’uso in buona fede
di meccanismi di promozione della pace inseriti nella
Carta delle Nazioni Unite. Si dovrebbe riconoscere
come un diritto umano l’obiezione di coscienza al
servizio nelle forze armate. E si devono categoricamente e definitivamente rifiutare molte altre cose che
sono contrarie alla pace e allo stato di diritto internazionale, a cominciare dal possesso o uso di tutte le
armi di distruzione di massa. La nostra vita comune
richiede una convergenza sul piano delle idee, delle
azioni e del diritto per la promozione e la costruzione
della pace. Perciò come cristiani noi ci impegniamo a
favore di un nuovo e diverso discorso etico, che guidi
la comunità nella pratica della trasformazione non
violenta dei conflitti e nella promozione delle condizioni che favoriscono il cammino verso la pace.
25. Pace giusta e dignità umana. Le nostre Scritture ci insegnano che l’umanità è creata a immagine
e somiglianza di Dio ed è dotata di dignità e diritti. Il
riconoscimento di questa dignità e di questi diritti è
fondamentale per la nostra comprensione della pace
giusta. Affermiamo che i diritti umani universali sono
lo strumento legale internazionale indispensabile per
la protezione della dignità umana. Perciò riteniamo
che gli stati abbiano la responsabilità di assicurare lo
stato di diritto e garantire i diritti civili e politici, nonché economici, sociali e culturali. Tuttavia notiamo
che la violazione dei diritti umani è dilagante in molte
società, in tempo di guerra e di pace, e che coloro che
dovrebbero essere ritenuti responsabili beneficiano
dell’impunità. In risposta a questa situazione, dobbiamo estendere la nostra amicizia e collaborazione a
tutti i partner della società civile, comprese le persone
di altre religioni, che cercano di difendere i diritti
umani e di rafforzare lo stato di diritto internazionale.
26. Pace giusta e cura del creato. Dio ha fatto buone tutte le cose e ha affidato all’umanità la responsabilità della cura del creato (cf. Gen 2,4b-9). Lo sfruttamento del mondo naturale e il cattivo uso delle sue
risorse finite rivelano una forma di violenza che
spesso avvantaggia pochi a spese di molti. Sappiamo
che tutta la creazione geme e soffre aspettando la sua
liberazione, non da ultimo dalle aggressioni degli esseri umani (cf. Rm 8,22). Come persone di fede, riconosciamo la nostra colpa per il danno che abbiamo
arrecato al creato e a tutti gli esseri viventi, con le nostre azioni e le nostre omissioni. La visione della pace
giusta è ben più del semplice ripristino di relazioni
corrette in seno alla comunità; essa spinge gli esseri
umani a prendersi cura anche della Terra che è la nostra casa. Dobbiamo confidare nella promessa di Dio
e perseguire un’equa e giusta condivisione delle risorse della Terra.
27. Costruire culture di pace. Siamo impegnati a
costruire culture di pace collaborando con persone di
altre tradizioni religiose, convinzioni e visioni del
mondo. Attraverso questo impegno cerchiamo di rispondere agli imperativi evangelici dell’amore del nostro prossimo, del rifiuto della violenza e della ricerca
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L’identità
dei credenti in Cristo
secondo Paolo
F
rutto della ricerca pluriennale dell’autore, il volume interviene con
originalità nel dibattito sulla teologia
paolina della salvezza, attorno alla
quale non si è pervenuti sinora a una
comprensione minimamente condivisa. Fra i vari cerchi concentrici generati dalla soteriologia di Paolo,
vengono presi in esame gli sviluppi
relativi alla questione dell’identità. La
disamina, affrontata a livello di teologia biblica, rivela un quadro di forte
coerenza interna, con sicuri motivi di
fascino e di attualità anche per un
lettore non specialista.
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iuseppe Angelini è uno dei più noti
rappresentati della «scuola» teologica milanese. Il testo raccoglie i frutti
della sua più che trentennale attività di
studio e di insegnamento della disciplina. I due saggi di apertura tentano
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progetto teologico e una sua valutazione
critica. La seconda parte del volume
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della giustizia per il povero, il diseredato e l’oppresso
(cf. Mt 5,1-12; Lc 4,18). Lo sforzo collettivo si basa sui
doni di uomini e donne, giovani e anziani, dirigenti e
lavoratori. Riconosciamo e apprezziamo i doni delle
donne per la costruzione della pace. Riconosciamo il
ruolo unico dei capi religiosi, la loro influenza nelle società e la forza potenzialmente liberatrice della saggezza e visione religiosa per la promozione della pace
e della dignità umana. Al tempo stesso, deploriamo i
casi in cui capi religiosi hanno abusato del loro potere
per scopi egoistici o quelli in cui modelli culturali e religiosi hanno favorito la violenza e l’oppressione. Ci
preoccupa in modo particolare il linguaggio e insegnamento aggressivo che viene diffuso sotto la maschera della religione e amplificato dal potere dei media. Mentre riconosciamo con profonda umiltà la
complicità cristiana – passata e presente – nella manifestazione del pregiudizio e di altri atteggiamenti che
alimentano l’odio, ci impegniamo a costruire comunità caratterizzate da riconciliazione, accoglienza e
amore.
28. Educazione alla pace. L’educazione ispirata
dalla visione della pace è ben più di una semplice
istruzione sulle strategie del lavoro per la pace. È una
formazione profondamente spirituale del carattere,
che comprende la famiglia, la Chiesa e la società.
L’educazione alla pace ci insegna ad alimentare lo spirito di pace, istillare il rispetto per i diritti umani, immaginare e adottare alternative alla violenza. L’educazione alla pace promuove la non violenza attiva
come un’incomparabile forza di cambiamento praticata e valorizzata in diverse tradizioni e culture. L’educazione del carattere e della coscienza abilita la persona a cercare la pace e perseguirla.
Cercare e perseguire insieme la pace giusta
29. Il pellegrinaggio cristiano verso la pace offre
molte opportunità per la costruzione di comunità visibili ed efficaci per la promozione della pace. Una
Chiesa che prega per la pace, serve la sua comunità,
usa in modo etico il danaro, si prende cura dell’ambiente e coltiva buone relazioni con gli altri può diventare uno strumento di pace. Inoltre, quando le
Chiese lavorano insieme per la pace, la loro testimonianza diventa più credibile (cf. Gv 17,21).
Per la pace nella comunità
perché tutti possano vivere liberi dalla paura (cf. Mi 4,4)
«Ciò che il Signore richiede da te: praticare la giustizia, amare la bontà…». «Ama il prossimo tuo come
te stesso». «Pregate per quelli che vi perseguitano» (Mi
6,8; Lc 10,27; Mt 5,44).
30. Sfide globali. Troppe comunità sono divise da
classe sociale, razza, colore e casta, religione e genere.
Le famiglie e le scuole sono afflitte da violenza e
abusi. Le donne e i bambini sono vittime di violenze
fisiche, psicologiche e pratiche culturali. L’abuso di
droghe e alcol e i suicidi sono forme di autodistru-
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zione su larga scala. I luoghi di lavoro e di culto sono
sfigurati da conflitti in seno alla comunità. Il pregiudizio e il razzismo negano la dignità umana. I lavoratori sono sfruttati e le industrie inquinano
l’ambiente. Le cure sanitarie sono inaccessibili a molti
e sostenibili solo per pochi. Cresce il divario fra ricchi
e poveri. Le tradizioni che tengono insieme le comunità sono indebolite da influenze commerciali e stili
di vita importati. I media, i giochi e il divertimento
che promuovono la violenza, la guerra e la pornografia deformano i valori della comunità e invitano a
comportamenti distruttivi. Quando scoppia la violenza, in genere i giovani maschi ne sono al tempo
stesso gli autori e le vittime e le donne e i bambini corrono i maggiori rischi.
31. Direzioni principali. Le Chiese diventano costruttrici di una cultura di pace se si impegnano, collaborano e imparano le une dalle altre. Saranno così
coinvolti i membri, le famiglie, le parrocchie e le comunità. Ecco una serie di compiti: imparare a prevenire i conflitti e a trasformarli; proteggere e rafforzare
coloro che sono emarginati; affermare il ruolo delle
donne nella soluzione dei conflitti e nella costruzione
della pace e includerle in tutte queste iniziative; sostenere e partecipare ai movimenti non violenti impegnati nella promozione della giustizia e dei diritti
umani; accordare all’educazione alla pace il suo giusto posto nelle Chiese e nelle scuole. Una cultura di
pace richiede che le Chiese e altri gruppi di fede e vita
comunitaria sfidino la violenza ovunque compare:
questo riguarda la violenza strutturale e abituale, nonché la violenza che permea i media di intrattenimento, i giochi e la musica. Si realizzano culture di
pace quando tutti, specialmente donne e bambini,
sono al riparo dalla violenza sessuale e dai conflitti armati, quando le armi letali sono bandite e allontanate
dalle comunità, quando si affronta e si blocca la violenza domestica.
32. Affinché le Chiese siano operatrici di pace bisogna che i cristiani perseguano anzitutto l’unità nell’azione per la pace. Le comunità cristiane devono
unirsi per spezzare la cultura del silenzio sulla violenza nella vita della Chiesa e unirsi per superare
l’abituale mancanza di unione di fronte alla violenza
in seno alle nostre comunità.
Per la pace con la Terra
in modo da sostenere la vita
Dio creò il mondo e lo fece integro, offrendo all’umanità vita in pienezza. Ma il peccato spezza le relazioni fra le persone e con l’ordine creato da Dio. La
creazione desidera ardentemente che i figli di Dio siano
amministratori di vita, giustizia e amore (cf. Gen 2,13; Gv 10,10; Rm 8,20-22).
33. Sfide globali. Gli esseri umani devono rispettare e proteggere il creato. Ma l’avidità a molti livelli,
l’egoismo e la fiducia in una crescita illimitata hanno
causato sfruttamento e distruzione della Terra e delle
sue creature. Alle grida dei poveri e dei vulnerabili
fanno eco i gemiti della Terra. L’eccessivo consumo
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di combustibili fossili e di altre risorse limitate fa violenza alle persone e al pianeta. I cambiamenti climatici come conseguenza degli stili di vita delle persone
rappresentano una minaccia mondiale alla pace giusta. Il riscaldamento globale, l’innalzamento dei livelli
del mare e la crescente frequenza e intensità delle siccità e delle inondazioni colpiscono specialmente le
popolazioni più vulnerabili del mondo. I popoli indigeni sono modelli di vita sostenibile e, insieme con gli
abitanti degli atolli corallini e delle comunità costiere
impoverite, sono fra coloro che contribuiscono di
meno al riscaldamento globale. Eppure sono coloro
che ne patiranno maggiormente le conseguenze.
34. Direzioni principali. La cura del prezioso dono
divino del creato e l’impegno per la giustizia ecologica
sono principi chiave della pace giusta. Per i cristiani
sono anche un’espressione dell’appello evangelico a
pentirsi per lo spreco delle risorse naturali e a convertirsi ogni giorno. Le Chiese e i loro membri devono
essere prudenti nell’uso delle risorse della Terra, specialmente dell’acqua. Dobbiamo proteggere le popolazioni maggiormente esposte alle conseguenze dei
cambiamenti climatici e aiutarle a far rispettare i loro
diritti.
35. I membri della Chiesa e le parrocchie in tutto
il mondo devono valutare criticamente il loro impatto
ambientale. Individualmente e comunitariamente, i
cristiani devono imparare a vivere in modo da permettere a tutta la Terra di prosperare. Occorrono a livello locale più «congregazioni ecologiche» e Chiese
«verdi». Occorre a livello mondiale un maggiore impegno ecumenico per ottenere dai governi e dagli
operatori industriali e commerciali il rispetto degli accordi e protocolli internazionali per assicurare una
Terra più abitabile non solo per noi, ma anche per
tutti gli esseri viventi e per le future generazioni.
domande sulla capacità delle politiche di liberalizzazione economica orientata al mercato di sradicare la
povertà e sfidare il perseguimento della crescita come
obiettivo dominante di ogni società. Super-consumo
e mancanza del necessario sono forme di violenza. Le
spese militari mondiali – ora maggiori di quelle del
tempo della guerra fredda – servono poco a migliorare la pace e la sicurezza internazionale e molto a
danneggiarla; le armi non affrontano le principali minacce all’umanità, ma usano molte risorse che potrebbero essere consacrate a questo scopo. Queste
disparità costituiscono delle sfide fondamentali per la
giustizia, la coesione sociale e il bene pubblico in
quella che è diventata una comunità umana globale.
37. Direzioni principali. La pace nel mercato è alimentata dalla creazione di «economie di vita». I loro
fondamenti essenziali sono: relazioni socio-economiche eque; rispetto dei diritti dei lavoratori; giusta condivisione e uso sostenibile delle risorse; alimentazione
sana e possibile per tutti; ampia partecipazione alla
presa di decisioni in campo economico.
38. Le Chiese e i loro partner nella società devono
chiedere la traduzione in pratica e il rispetto dei diritti
economici, sociali e culturali. Le Chiese devono promuovere politiche economiche alternative, basate su:
produzione e consumo sostenibili; crescita ridistributiva;
tassazione giusta; commercio equo; assicurazione a tutti
di acqua potabile, aria pulita e altri beni comuni. Le
strutture e politiche di regolamentazione devono ricol-
Roberto Palazzo
La figura di Pietro
nella narrazione
degli Atti degli apostoli
Per la pace nel mercato
in modo che tutti possano vivere con dignità
Creando meravigliosamente un mondo con ricchezze
naturali più che sufficienti per sostenere innumerevoli
generazioni di esseri umani e altri esseri viventi, Dio
mostra una visione, nella quale tutti possono vivere in
pienezza di vita e in dignità, indipendentemente da
classe, genere religione, razza o appartenenza etnica (cf.
Sal 24,1; Sal 145,15; Is 65,17-23).
36. Sfide globali. Mentre pochissime persone a livello mondiale accumulano ricchezze inimmaginabili,
oltre un miliardo e quattrocento milioni di esseri
umani vivono in condizioni di estrema povertà. C’è
qualcosa di profondamente sbagliato nel fatto che la
ricchezza delle tre persone più ricche del mondo superi il prodotto interno lordo dei 48 paesi più poveri
del mondo. Inefficace regolazione, strumenti finanziari innovativi ma immorali, strutture di retribuzione
distorte e altri fattori sistemici aggravati dall’avidità
innescano crisi finanziarie mondiali che spazzano via
milioni di posti di lavoro e impoveriscono decine di
milioni di persone. Il crescente divario socio-economico all’interno degli stati e fra di loro solleva serie
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egli anni recenti e non, gli studi
su Pietro sono stati numerosissimi e si possono raccogliere attorno a
tre centri d’interesse: esegetico-dottrinale, ecumenico, esegetico-teologico.
All’interno di quest’ultimo campo, lo
studio verifica con l’ausilio dell’analisi
narrativa com’è caratterizzato il personaggio di Simon Pietro negli Atti
degli apostoli, prendendo in considerazione sia i singoli passi e brani,
sia il libro nel suo complesso.
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legare la finanza non solo alla produzione economica,
ma anche ai bisogni umani e alla sostenibilità ecologica.
Si dovrebbero operare profondi tagli nelle spese militari
per finanziare programmi che promuovono alimentazione sufficiente, alloggio, istruzione e salute per tutti e
offrano rimedio ai cambiamenti climatici. La sicurezza
umana ed ecologica deve diventare una priorità economica maggiore della sicurezza nazionale.
Per la pace fra i popoli
in modo che la vita umana sia protetta
Siamo fatti a immagine del Datore di vita, con il divieto di togliere la vita e il comando di amare persino i
nemici. Giudicate con equità da un Dio giusto, le nazioni sono chiamate ad abbracciare la verità nei luoghi
pubblici, a trasformare le armi in strumenti agricoli e a
non imparare più l’arte della guerra (cf. Es 20,17; Is
2,1-4; Mt 5,44).
39. Sfide globali. La storia umana è illuminata
dalle coraggiose ricerche della pace e della trasformazione dei conflitti, miglioramenti dello stato di diritto, nuove norme e trattati che governano l’uso della
forza e ora dal ricorso in giudizio contro gli abusi di
potere che coinvolgono persino capi di stato. Ma la
storia è macchiata da comportamenti morali e politici
contrari a queste realtà: xenofobia; violenza fra le comunità; crimini dettati dall’odio; crimini di guerra;
schiavitù, genocidio e altro ancora. Benché lo spirito
e la logica della violenza siano profondamente radicati
nella storia umana, in tempi recenti le conseguenze di
questi peccati sono cresciute in modo esponenziale,
amplificati dalle applicazioni violente della scienza,
della tecnologia e della ricchezza.
40. Oggi una nuova agenda ecumenica per la pace
è ancor più urgente a causa della natura e dell’ampiezza di questi pericoli. Siamo testimoni di prodigiosi
incrementi della capacità umana di distruggere la vita
e i suoi fondamenti. L’ampiezza della minaccia, la responsabilità umana collettiva che la sottende e la necessità di una risposta mondiale concordata sono senza
precedenti. Due minacce di quest’ampiezza – olocausto nucleare e cambiamento del clima – potrebbero distruggere molta vita e ogni prospettiva di pace giusta.
Sono entrambi usi scorretti dell’energia insita nel
creato. Una catastrofe deriva dalla proliferazione delle
armi, specialmente armi di distruzione di massa; l’altra minaccia può essere considerata la proliferazione
di stili di vita di estinzione di massa. La comunità internazionale lotta, finora con poco successo, per acquisire il controllo di queste due minacce.
41. Direzioni principali. Per rispettare la santità
della vita e costruire la pace fra i popoli, le Chiese devono lavorare per il rafforzamento della legislazione
internazionale in materia di diritti umani, nonché di
trattati e strumenti di mutua responsabilità e risoluzione dei conflitti. Per prevenire conflitti mortali e
stragi, bisogna bloccare la proliferazione delle armi leggere e delle armi da guerra. Le Chiese devono promuovere la fiducia, collaborare con le altre comunità di
fede e persone con visioni del mondo diverse per ri-
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durre la capacità di una nazione di fare la guerra, eliminare le armi che costituiscono un rischio senza precedenti per l’umanità e per il pianeta e delegittimare
universalmente l’istituto della guerra.
42. Persone nate per desiderare. La nostra casa non
è quella che potrebbe essere e sarà. La vita nelle mani
di Dio è incomprimibile, ma non regna ancora la pace.
I principati e le potestà, pur non sovrani, riportano ancora le loro vittorie e noi saremo inquieti e lacerati finché non prevarrà la pace. Perciò la nostra costruzione
della pace dovrà necessariamente sia da un lato criticare, denunciare, perorare e resistere sia dall’altro proclamare, rafforzare, consolare, riconciliare e guarire. Gli
operatori di pace parleranno contro e parleranno a favore, demoliranno e costruiranno, faranno il lamento
e la festa, il lutto e i canti di gioia. Finché il nostro anelito non si congiungerà con la realtà cui apparteniamo
nel coronamento di tutte le cose in Dio, il lavoro per la
pace continuerà come bagliore di grazia sicura.
Messaggio finale
«A Dio chiedo di usare verso di voi la sua gloriosa e
immensa potenza, e di farvi diventare spiritualmente
forti con la forza del suo Spirito; di far abitare Cristo
nei vostri cuori, per mezzo della fede. A Dio chiedo che
siate radicati e stabilmente fondati nell’amore» (Ef
3,16-17).
Intendiamo la pace e la costruzione della pace
come una parte indispensabile della nostra fede comune. La pace è indissolubilmente legata all’amore,
alla giustizia e alla libertà che Dio ha accordato a tutti
gli esseri umani attraverso Cristo e l’opera dello Spirito Santo come dono e vocazione. Essa costituisce un
modello di vita che riflette la partecipazione umana
all’amore di Dio per il mondo. La natura dinamica
della pace come dono e vocazione non nega l’esistenza delle tensioni che sono un elemento intrinseco
delle relazioni umane, ma può attenuarne la forza distruttiva apportandovi giustizia e riconciliazione.
Dio benedice i costruttori di pace. Le Chiese membro del Consiglio ecumenico delle Chiese (CEC) e altri cristiani sono uniti, come mai prima, nella ricerca
dei mezzi con cui affrontare la violenza e rifiutare la
guerra a favore della «pace giusta», ossia dell’instaurazione della pace con giustizia attraverso una risposta comune alla chiamata di Dio. La pace giusta ci invita a unirci in un viaggio comune e a impegnarci a
costruire una cultura di pace.
Noi, circa mille partecipanti da più di cento nazioni, convocati dal CEC, abbiamo condiviso l’esperienza della Convocazione ecumenica internazionale
sulla pace (IEPC), incontro di Chiese cristiane e di credenti di altre religioni impegnati a costruire pace nella
comunità, pace con la Terra, pace nel mercato e pace
tra i popoli. Ci siamo riuniti nel campus dell’Univer-
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sity of the West Indies a Mona presso Kingston, in
Giamaica, dal 17 al 25 maggio 2011. Siamo profondamente grati a chi ci ha ospitato in Giamaica e nell’intera regione caraibica offrendoci generosamente
una ricca e ampia opportunità per fare comunità tra
noi e crescere nella grazia di Dio. Per il fatto stesso che
ci siamo riuniti nel luogo di un’antica piantagione di
canna da zucchero, si è imposto il ricordo dell’ingiustizia e della violenza della schiavitù, del colonialismo
e di altre forme di schiavitù che ancora oggi affliggono
il mondo. Sapevamo bene delle sfide dure della violenza in questo contesto ma pure del coraggioso impegno delle Chiese nell’affrontare tali sfide.
Abbiamo portato in Giamaica le preoccupazioni
delle nostre Chiese e delle nostre aree geografiche.
Qui abbiamo parlato l’uno con l’altro. Ora abbiamo
una parola da condividere con le Chiese e con il
mondo. Ci siamo incontrati attraverso lo studio biblico, l’arricchimento spirituale della preghiera comune, la creatività artistica, le visite a realtà di Chiese
locali e di servizio sociale, assemblee plenarie, seminari, workshop, eventi culturali, relazioni, decisioni
impegnative, conversazioni profondamente commoventi con persone che hanno fatto esperienza di violenza, ingiustizia e di guerra. Abbiamo celebrato la
conclusione del Decennio ecumenico per sconfiggere
la violenza (2001-2010). Il nostro impegno ci spinge a
dire che superare la violenza è possibile. Il Decennio
per il sconfiggere la violenza ha dato vita a numerosi
esempi di cristiani che hanno fatto la differenza.
Mentre eravamo riuniti in Giamaica eravamo appassionatamente consapevoli degli eventi del mondo
attorno a noi. I racconti dalle nostre Chiese ci hanno
ricordato le responsabilità locali, pastorali e sociali
verso le persone che devono quotidianamente affrontare i temi che abbiamo discusso.
Le conseguenze del terremoto e dello tsunami in
Giappone hanno suscitato urgenti interrogativi sull’energia nucleare e le minacce che incombono sulla
natura e sull’umanità. Le istituzioni governative e finanziarie sono di fronte alla necessità di prendere la
propria responsabilità per il fallimento delle loro politiche e per il conseguente impatto devastante sulle
persone vulnerabili.
Noi osserviamo con inquietudine e compassione
la lotta dei popoli per la libertà, la giustizia e i diritti
umani in molti paesi arabi e in altri contesti nei quali
persone coraggiose lottano, senza che nel mondo si
dia loro sufficiente attenzione. Il nostro amore per i
popoli di Israele e Palestina ci convince che il prolungarsi dell’occupazione li danneggia entrambi. Rinnoviamo la nostra solidarietà con i popoli di paesi divisi
come la penisola coreana e Cipro, e con i popoli che
aspirano alla pace e alla fine della sofferenza in nazioni come la Colombia, l’Iraq, l’Afghanistan e la regione dei Grandi laghi in Africa.
Siamo consapevoli che i cristiani sono stati spesso
complici di sistemi di violenza, ingiustizia, militarismo, razzismo, separazioni di casta, intolleranza e discriminazione. Chiediamo a Dio di perdonare i nostri
peccati e di trasformarci in operatori di giustizia e
promotori di pace giusta. Chiediamo ai governi e ad
altre entità di smettere di usare la religione come pretesto per giustificare la violenza.
Con partner di altre fedi abbiamo riconosciuto che
la pace è un valore fondamentale in tutte le religioni,
e che la promessa della pace si estende a tutti e tutte
senza distinzione di tradizione e di appartenenze. Intensificando il dialogo interreligioso cerchiamo una
base comune con tutte le religioni del mondo.
Ci unisce un desiderio comune: che la guerra diventi illegale. Lottando per la pace sulla Terra ci confrontiamo con i nostri diversi contesti e con le nostre
diverse storie. Constatiamo che differenti Chiese e religioni portano differenti prospettive sul cammino che
conduce verso la pace. Tra noi alcuni prendono come
punto di partenza la conversione e l’etica personale,
l’accoglienza della pace di Dio nel proprio cuore
come fondamento per costruire pace nella famiglia,
nella comunità, nell’economia, come pure su tutta la
Terra e nel mondo delle nazioni. Alcuni sottolineano
la necessità di concentrarsi prima di tutto sul mutuo
sostegno e sulla correzione reciproca nel corpo di Cristo se si vuole che la pace sia realizzata. Altri incoraggiano le Chiese a impegnarsi nei vasti movimenti
sociali e nella testimonianza pubblica. Ogni approccio
ha il suo valore: non si escludono l’uno con l’altro. Di
fatto si collegano inseparabilmente l’uno all’altro.
Anche nelle nostre diversità possiamo parlare con una
sola voce.
Pace nella comunità
Le Chiese apprendono tutta la complessità della
pace giusta nella misura in cui noi veniamo a conoscere l’interrelazione che esiste tra le molteplici ingiustizie e oppressioni che sono simultaneamente all’opera nella vita di molti. Membri di una famiglia o
comunità possono essere oppressi e allo stesso tempo
oppressori di altri. Le Chiese devono aiutare a individuare le scelte quotidiane che possono porre fine agli
abusi e promuovere i diritti umani, la giustizia di genere, la giustizia climatica, la giustizia economica,
l’unità e la pace. Le Chiese devono continuare a combattere razzismo e separazioni di casta come realtà disumanizzanti nel mondo odierno. Allo stesso modo,
bisogna chiaramente chiamare peccato la violenza
contro le donne e i bambini. Sforzi coscienti sono richiesti per la piena integrazione delle persone diversamente abili.
I temi della sessualità dividono le Chiese, e per questo chiediamo al CEC di creare spazi accoglienti nei
quali affrontare i temi controversi della sessualità
umana. Le Chiese giocano un ruolo a vari livelli nel
promuovere e difendere il diritto all’obiezione di coscienza, nel garantire asilo a coloro che si oppongono
e resistono al militarismo e ai conflitti armati. Le
Chiese devono alzare la loro voce comune per proteggere dall’intolleranza religiosa le nostre sorelle e fratelli
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cristiani e tutti coloro che sono vittime di discriminazione e di persecuzione per motivi di intolleranza religiosa. L’educazione alla pace deve essere posta al
centro di ogni curriculum nelle scuole, nei seminari e
nelle università. Noi riconosciamo la capacità dei giovani nel costruire la pace e ci rivolgiamo alle Chiese
perché sviluppino e rafforzino reti di «ministri» di pace
giusta. La Chiesa è chiamata ad alzare in pubblico la
sua voce riguardo a questi problemi, dicendo la verità
al di fuori delle mura dei propri santuari.
Pace con la Terra
La crisi ambientale è al fondo una crisi etica e spirituale dell’umanità. Ben consapevoli del danno che
l’attività umana ha fatto alla Terra, riaffermiamo il nostro impegno per la salvaguardia del creato e per uno
stile di vita quotidiana conseguente. La nostra preoccupazione per la Terra e quella per l’umanità vanno
insieme inseparabilmente. Le risorse naturali e i beni
comuni, come l’acqua, devono essere condivisi in
modo giusto e sostenibile. Ci uniamo alla società civile
di tutto il mondo per far pressione sui governi affinché
diano basi radicalmente diverse a tutte le attività economiche per raggiungere l’obiettivo di un’economia
ecologicamente sostenibile. Bisogna ridurre urgentemente l’uso estensivo dei combustibili fossili e le emissioni di CO2 a un livello che mantenga limitato il
cambiamento climatico. Quando si negoziano le quote
di emissione di CO2 e i costi di adeguamento bisogna
considerare il debito ecologico dei paesi industrializzati responsabili del cambiamento climatico. La catastrofe nucleare di Fukushima ha dimostrato ancora
una volta che non bisogna più fare affidamento sul nucleare come fonte di energia. Noi rifiutiamo strategie
quali un aumento della produzione dei biocarburanti
che colpiscono i poveri creando concorrenza alla produzione alimentare.
Pace nel mercato
L’economia globale offre spesso esempi di violenza
strutturale che fa vittime non tanto attraverso l’uso diretto delle armi o della violenza fisica quanto attraverso l’accettazione passiva di una diffusa povertà, di
disparità contrattuali e di disuguaglianze tra le classi
e le nazioni. In contrasto con la sregolata crescita economica che il sistema neoliberale promuove, la Bibbia
indica la visione di una vita in abbondanza per tutti e
tutte. Le Chiese devono imparare ad appoggiare in
modo più efficace la piena realizzazione dei diritti
economici, sociali e culturali come fondamento per
«economie di vita».
È uno scandalo che si spendano enormi somme di
denaro per i bilanci militari e per il sostegno militare
degli alleati e nel commercio delle armi mentre c’è urgente bisogno di questo denaro per sradicare la povertà nel mondo e mettere a disposizione i fondi per
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un ri-orientamento ecologicamente e socialmente responsabile dell’economia mondiale. Sollecitiamo tutti
i governi ad agire immediatamente per re-indirizzare
le risorse finanziarie in programmi che sviluppino la
vita piuttosto che la morte. Incoraggiamo le Chiese affinché adottino strategie comuni in favore di trasformazioni economiche. Le Chiese devono affrontare
più concretamente le concentrazioni irresponsabili di
potere e di ricchezza così come la piaga della corruzione. Passi verso economie giuste e sostenibili includono regole più efficaci per i mercati finanziari, l’introduzione di tasse per le transazioni finanziarie e
giusti rapporti commerciali.
Pace fra i popoli
La storia, specialmente attraverso la testimonianza
delle Chiese storicamente pacifiste, ci ricorda che la
violenza è contraria al volere di Dio e non può mai
risolvere i conflitti. È per questa ragione che superiamo la dottrina della guerra giusta andando verso
un impegno per la pace giusta. E ciò comporta abbandonare i concetti esclusivisti della sicurezza nazionale e passare a una sicurezza per tutti. E ciò
comprende una responsabilità quotidiana per prevenire e quindi evitare la violenza alla sua radice. Molti
aspetti pratici del concetto di pace giusta richiedono
discussione, discernimento ed elaborazione. Continuiamo a dibattere su come le persone innocenti possano essere protette dall’ingiustizia, dalla guerra e
dalla violenza; sul concetto della «responsabilità di
proteggere» e sul suo possibile abuso. Richiediamo
con urgenza che il CEC e gli organismi collegati chiarifichino ulteriormente le loro posizioni riguardo a
questa politica.
Noi sosteniamo il totale disarmo nucleare. Sosteniamo anche il controllo della proliferazione delle
armi leggere.
Se solo osassimo, come Chiese siamo nella posizione di indicare la non violenza ai potenti. Infatti
siamo seguaci di uno che è venuto come un bambino
indifeso, è morto sulla croce, ci ha detto di deporre le
nostre spade, ci ha insegnato ad amare i nostri nemici
ed è risuscitato dalla morte.
Nel nostro cammino verso la pace giusta c’è urgente bisogno di una nuova agenda internazionale
poiché siamo di fronte all’immensità dei pericoli che
ci circondano.
Chiediamo all’intero movimento ecumenico e in
particolare a coloro che stanno preparando l’Assemblea del CEC del 2013 a Busan, in Corea del Sud, sul
tema «Dio della vita, guidaci verso la giustizia e la
pace», di fare della pace giusta in tutte le sue dimensioni la priorità fondamentale. Documenti come l’Appello ecumenico per una pace giusta e il Manuale della
pace giusta possono sostenere il cammino verso Busan.
Siano rese grazie e lodi a te, divina Trinità. Gloria
a te e pace al tuo popolo sulla Terra. Dio della vita,
guidaci alla giustizia e alla pace. Amen
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«Voi dunque
pregate così»
Presentazione
Gruppo di Dombes
Dalle lacerazioni del Cinquecento, la
preghiera che ci ha insegnato Gesù è
stata pregata e meditata separatamente
dalle diverse confessioni cristiane, e di
qui la tentazione per ciascuna di appropriarsi del Padre nostro e il costituirsi di
un ricco patrimonio spirituale, spesso
ignorato dalle altre tradizioni cristiane.
Vicino ormai ai 75 anni di vita, il
Gruppo ecumenico di Dombes affronta
ora questa parte fondamentale dell’insegnamento del Signore con il volume
«Voi dunque pregate così». Il Padre nostro, itinerario per la conversione delle
Chiese, per «rischiare una lettura che
sia davvero ecclesiale», sempre alla luce
del tratto interpretativo caratteristico
del Gruppo, ossia l’idea di «conversione». «Mentre i nostri documenti precedenti partivano dalle divergenze tra le
nostre Chiese per prospettare le conversioni necessarie in vista dell’unità, questa volta partiamo invece da un forte
punto di convergenza per discernere le
conversioni che esso implica».
Gruppo di Dombes, Vous donc, priez ainsi (Mt
6,9). Le Notre Père, itinéraire pour la conversion
des Églises, Bayard, Montrouge 2011; nostra traduzione dal francese (cf. Regno-att. 10,2011,304).
Pubblichiamo qui la presentazione e il c. I del documento; seguiranno sui prossimi numeri di Regnodoc. le parti successive. L’edizione italiana in volume apparirà in autunno per i tipi delle Edizioni
Dehoniane Bologna.
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Il Gruppo di Dombes, noto per essersi confrontato su
questioni che separano i cristiani delle diverse confessioni,
desidera ora proporre una meditazione su ciò che li accomuna: la preghiera del Padre nostro. «Voi dunque pregate
così»: nei Vangeli secondo Matteo e Luca, Gesù dona a
quanti lo seguono la possibilità di dire, insieme, «Padre nostro». Da qualche decennio i progressi del movimento ecumenico vissuto dalle Chiese hanno consentito ai loro membri
di poter ancora pregare insieme, con la stessa traduzione, la
preghiera del Signore. Noi rendiamo grazie per il dono ricevuto, non dimenticando che adesso dobbiamo affrontare gli
impegni cui sono chiamati i beneficiari di questo dono.
Non sarebbe infatti sufficiente pregare insieme, nemmeno con le parole stesse ricevute dal Signore, e potrebbe
diventare perfino un tradimento, se l’essere giunti a questa
tappa decisiva ci immobilizzasse, soddisfatti del cammino
percorso.
La preghiera cristiana non lascia indenni coloro che pregano nella verità. Pregando il Padre, per il Figlio, nello Spirito Santo, essi non soltanto esprimono la loro condizione
filiale, ma anche la rafforzano, accettando per sé quanto è
gratuitamente donato, ricevendolo e, in certo qual modo, incarnandolo. Questo vale anche nei confronti della relazione
di quanti sono, per mezzo del battesimo e in una sola fede,
figli dello stesso Padre, dunque fratelli e sorelle in Cristo, il Figlio primogenito. «Padre nostro»: quello che i cristiani già
rappresentano gli uni per gli altri, lo devono diventare sempre di più.
Ma la preghiera del Padre nostro manifesta che la chiamata alla conversione, anche in prospettiva ecumenica, non
mira anzitutto alla relazione con l’altro, fratello o sorella in
Cristo col quale preghiamo il Padre nostro, ma riguarda anzitutto la relazione col Padre. Il cammino ecumenico, come
la vita cristiana, dev’essere centrato in Dio; dal momento poi
che questo Dio, centro e fonte, è pregato come «Padre nostro», diventa chiaro che proprio da una relazione sempre
meglio «adattata» a un Dio che è Padre di coloro che lo pregano dipende la relazione col fratello. Per non essere menzognera, la vera relazione con il Padre deve quindi dilatarsi
nella relazione con il fratello e rinnovarla. I cristiani delle di-
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verse confessioni che, da oltre quarant’anni, pregano insieme
il Padre nostro hanno fatto questa esperienza e ne rendono
grazie.
Quanti pregano come il Signore ha chiesto di fare sono
dunque chiamati a percorrere un cammino, un itinerario.
Secondo Tertulliano o Agostino, il «sigillo» del Padre nostro, ciò che lo completa, è il bacio di pace che, nella liturgia del Nordafrica, veniva scambiato immediatamente
dopo la sua recita, prima della comunione. I cristiani ancora separati hanno imparato a dire insieme il Padre nostro; sono arrivati fino a scambiarsi il bacio della pace tipico
di coloro che si riconoscono figli dello stesso Padre, e dunque pienamente fratelli e sorelle in Cristo: un abbraccio sincero non ha riserve. Ma questi figli non arrivano ancora a
sedersi alla stessa Tavola. Come accontentarci di una tappa,
mentre tutto il dinamismo esige che il movimento intrapreso arrivi al suo traguardo? Pregare insieme il Padre nostro non può essere un alibi per non andare oltre. Nasce da
una logica che troverà compimento soltanto nella comunione a uno stesso corpo eucaristico, nella riconosciuta appartenenza a uno stesso corpo ecclesiale, corpi entrambi
che costituiscono l’espressione tangibile dell’unico corpo
del Signore risorto.
Valutare meglio, insieme, le esigenze di una stessa preghiera; tracciare insieme un itinerario che le nostre Chiese
sono chiamate a percorrere: tutto ciò non può prescindere da
quella che il Gruppo di Dombes chiama una conversione.
«Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono
figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito di schiavi
per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che
rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abbà!
Padre!» (Rm 8,14-15). Forse a trattenere le nostre Chiese da
un impegno più deciso sul cammino dell’ecumenismo, e
dunque di maggiore comunione, è una certa paura, il timore
che vengano intaccati patrimoni spirituali e istituzionali, il timore dell’ignoto, mentre, in un tempo percepito come difficile, ci sentiamo più sicuri ribadendo delle (pur legittime)
convinzioni. È dunque mediante una comune invocazione
nello stesso Spirito che quanti si riconoscono figli osano gridare «Padre», nell’attesa che la riscoperta di una stessa paternità accresca la presa di coscienza delle esigenze fraterne
che essa implica.
Se c’è dunque un terreno sul quale il dire e il fare devono
armonizzarsi, sia pure, ahimè, con lacune e imperfezioni, è
proprio quello della preghiera. Il Padre nostro non sfugge a
questa esigenza, poiché questa preghiera ci viene da Cristo
e ognuna delle sue sette domande ci impegna insieme, concretamente, nel nostro tempo e nella nostra società.
Siamo veramente coscienti dell’attualità del Padre nostro,
del cammino di conversione che esso implica, dal momento
che i cristiani, individualmente o nelle loro celebrazioni,
hanno preso l’abitudine di recitarlo con superficialità, per non
dire meccanicamente?
Come mai ci sono voluti secoli perché i cristiani di tutte
le confessioni potessero dire insieme questa preghiera donata
loro dal Signore e che, prima della sua traduzione ecumenica, conosceva versioni diverse? Se il Padre nostro è stato
troppo spesso costretto nell’orizzonte delle appartenenze
confessionali, tocca ora ai cristiani delle diverse confessioni rischiare una lettura che sia davvero ecclesiale.
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– Il primo capitolo del documento presenta allora la problematica e il contesto di questa preghiera nell’oggi della vita
delle nostre Chiese e della nostra società.
– Il secondo capitolo propone una «diagnosi storica» sull’uso e la comprensione del Padre nostro lungo i secoli. È la
parte più lunga: un itinerario di conversione deve passare per
una lettura riconciliata di tradizioni che presentano contemporaneamente interpretazioni «confessionalizzanti», e quindi
parziali, e veri tesori spirituali, da cui possiamo trarre profitto.
– Terminato questo lavoro di «anamnesi», il terzo capitolo,
biblico, mostra il radicamento ebraico della preghiera, indica varie difficoltà e fornisce chiavi di interpretazione comune del testo evangelico di Matteo e di Luca.
– Il quarto capitolo approfondisce alcune dimensioni fondamentali del Padre nostro per farne emergere le note armoniche antropologiche, teologiche e spirituali nella prospettiva
dell’unità delle Chiese.
– Il documento si conclude con una meditazione ecumenica
che sviluppa le formule del Padre nostro, e una preghiera più
breve, che può essere utilizzata per celebrazioni comuni.
A prescindere dalle eventuali lacune dell’attuale traduzione ecumenica, il Gruppo di Dombes non ha la pretesa di
fare un commento di questa preghiera né di proporne una
nuova traduzione. Se una delle nostre Chiese ne proponesse
una nuova traduzione, sarebbe molto importante che un accordo le garantisse il suo carattere ecumenico, che venisse
proposta anche ai nostri fratelli e sorelle ortodossi; inoltre le
acquisizioni di oltre quarant’anni di preghiera comune devono essere salvaguardate a ogni costo. L’intenzione del
Gruppo nei riguardi di un pubblico vasto o più consapevole
mira ad affermare quanto la preghiera del Signore coinvolga
concretamente i cristiani e le Chiese in un cammino di conversione, e chiami sempre più le Chiese a impegnarsi sulla
strada della comunione, in un medesimo desiderio di unità
e mediante una preghiera condivisa.
Il Gruppo di Dombes confida che quanti leggeranno o
utilizzeranno questo documento sperimentino almeno in
parte quanto i suoi membri hanno vissuto redigendolo: un
inizio di conversione. Esporsi alla parola di Dio, pregare insieme partendo dalle scoperte fatte e ricevute tutti insieme
dalla preghiera del Signore è infatti un bell’itinerario!
p. JEAN-FRANÇOIS CHIRON
pastore JEAN TARTIER
I.
Problematica: il Padre nostro
in una dinamica di conversione
1. Oggi la preghiera del Padre nostro raduna numerose
Chiese, ma suscita anche questioni inedite. Il mondo attuale
è infatti travagliato da grandi mutamenti: economici, sociali,
politici, ecologici, culturali e religiosi. Il fenomeno che chiamiamo globalizzazione rende tutti gli esseri umani interdipendenti a motivo della circolazione accelerata dei beni e
delle persone, delle idee e delle informazioni. Tale fenomeno
ci rende più coscienti della pluralità delle culture e delle religioni, senza che sia sempre possibile discernere quanto si
muove nel senso di una maggiore solidarietà o, al contrario,
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di una esclusione che rinfocola violenti conflitti. Tutti questi
profondi cambiamenti segnano anche le Chiese e la loro ricerca di unità. In seno a questo mondo sbriciolato, può la
preghiera del Padre nostro essere un fermento di unità e a
quali condizioni?
2. In un tempo in cui l’ecumenismo si sta ricomponendo,
il Gruppo di Dombes ha voluto prendere atto del cammino
già percorso e prospettarsi l’avvenire. Questo testo vuole
anche giocare un ruolo a favore dell’unità della Chiesa. In
questa prospettiva abbiamo scelto di riflettere con rinnovata
attenzione sul Padre nostro, preghiera fondamentale dei discepoli di Cristo. Non si tratta di proporre un ulteriore commento, ma di cercare come questa preghiera ci impegna a
dar vita a un nuovo slancio ecumenico. Meditare e pregare
insieme il Padre nostro ci rivela la nostra comune identità
cristiana e contemporaneamente le conversioni alle quali le
nostre Chiese e noi personalmente siamo chiamati.
Questo documento ha dunque fatto un’opzione specifica:
mentre i nostri documenti precedenti partivano dalle divergenze tra le nostre Chiese per prospettare le conversioni necessarie in vista dell’unità, questa volta partiamo invece da un
forte punto di convergenza per discernere le conversioni che
esso implica.
3. L’elaborazione del documento è stata sostenuta da due
assi di pensiero. Da una parte riteniamo sia essenziale per le
Chiese e la loro stessa identità convertirsi in vista della piena
comunione. D’altra parte, questa dinamica di conversione,
come pure l’attuale situazione culturale, ci hanno indotto a
interrogarci sul Padre nostro, preghiera cristiana comune per
eccellenza, che tuttavia, nel corso della storia, è stata a volte
confiscata, utilizzata dalle confessioni cristiane, che si sono
schierate le une contro le altre, come vedremo più avanti nel
documento.
In questo primo capitolo, una breve presentazione dell’attuale contesto ecumenico e un richiamo al nostro documento Per la conversione delle Chiese1 costituiranno il primo
asse di riflessione. Per definire il secondo, tratteggeremo le
difficoltà culturali che il Padre nostro presenta e la posta in
gioco ecumenica di cui è portatore.
I. Identità e conversione
Contesto ecumenico
4. Generalmente i primi passi del movimento ecumenico
moderno, la sua presa di coscienza missionaria e la sua preoccupazione universalistica vengono datati verso la fine del
XIX secolo. Pensiamo in modo particolare alla Conferenza
missionaria mondiale di Edimburgo del 1910.
Lo shock delle due guerre mondiali («nazioni cristiane» si
fanno la guerra con rara violenza!) e l’immigrazione di cristiani orientali in Occidente completano la presa di coscienza
dell’urgenza ecumenica e impegnano le Chiese ad adoperarsi per creare delle convergenze su quanto attiene al loro
impegno missionario, alla loro dottrina, all’impegno sociale,
alla liturgia e alla preghiera. La creazione del Consiglio ecumenico delle Chiese (1948) ne dà testimonianza istituzionale.
Il concilio Vaticano II (1962-1965) fa entrare agevolmente la Chiesa cattolica in questa dinamica e produce l’entusiasmo di un gran passo avanti. Il rinnovamento biblico,
patristico, teologico e liturgico, come pure le sfide della società moderna, hanno incoraggiato le Chiese a riscoprire le
rispettive ricchezze e a impegnarsi insieme: numerosi pregiudizi cadono, la speranza dell’unità di tutti i cristiani sembra a portata di mano.
5. Nei decenni che seguono, gli sconvolgimenti imprevisti sono innumerevoli. La fine degli anni Ottanta (la caduta
del muro di Berlino, nel 1989, diventa una data emblematica)
scuote il mondo in una fase di cambiamenti su scala mondiale, perfino nella sua dimensione religiosa.
Il declino delle grandi ideologie, l’incertezza sull’efficacia delle grandi istituzioni, l’affermarsi del consumismo, il
crescente divario Nord-Sud, le crisi economiche, le nuove
povertà, ma anche nuove forme di solidarietà e di mutuo
aiuto, il ripresentarsi di violenze interetniche e culturali oppure al contrario il mescolarsi di razze e di culture, la presa
di coscienza ecologica, l’affermarsi di estremismi religiosi e di
un relativismo basato sulla soggettività individuale come
primo criterio di verità, ma anche, correlativamente, un impegno religioso più personale… tutto ciò immerge le Chiese
in una nuova situazione: esse stesse sono attraversate da mutamenti che modificano il comportamento dei loro membri
e dei loro dirigenti.
6. Eccole dunque strattonate, perfino esplose in diverse
correnti difficilmente compatibili; la loro unità interna ne
soffre. All’interno di ogni gruppo confessionale si ripropone
la questione della loro identità (e della sua «leggibilità») e dell’autorità (chi parla in nome di chi? su quale base?). Eppure,
dopo circa un secolo di ecumenismo, si sono operati ravvicinamenti inediti e sono state firmate dichiarazioni di mutuo
riconoscimento. Abitudini di collaborazione si rivelano ben
fondate. Benché incompleta, la comunione si approfondisce.
Negli ultimi decenni il cristianesimo si è molto diversificato. Oggi gli scambi ecumenici si espandono e raggiungono
nuovi partner. Il mondo evangelico e pentecostale, cioè un
quarto del cristianesimo mondiale, finora appartato ed esso
stesso istituzionalmente molto sbriciolato, entra in dialogo.
Le Chiese ortodosse, spesso ridotte al silenzio, ritrovano la libertà di parola e di influenza; c’è una riscoperta delle eredità spirituali delle Chiese orientali. Il panorama religioso ed
ecumenico si è fatto dunque più complesso.
7. Nasce infine un nuovo tipo di ecumenismo, più «esperienziale», che funziona per mezzo di eventi e reti trasversali
alle Chiese. Potrebbe trattarsi della punta dell’iceberg di un
cristianesimo «postmoderno» dal pluralismo condiscendente,
nel quale l’indebolimento delle istituzioni e dei loro discorsi
permette la circolazione fluida delle persone in base allo stato
d’animo: un ecumenismo dove ciascuno «fa il proprio itinerario», passando a volte da una Chiesa all’altra, trattenendo
ciò che lo ha maggiormente toccato. È anche il fenomeno
che viene chiamato delle «Chiese emergenti» o «post-confessionali».
8. Questa nuova situazione non cambia solo l’estensione,
ma anche la natura stessa dell’ecumenismo. Il mondo cri-
1
GRUPPO DI DOMBES, Per la conversione delle Chiese. Identità e
cambiamento nella dinamica di comunione, 1990, in EO 4/968-1250.
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stiano si ritrova in piena riconfigurazione. Il numero di denominazioni si è moltiplicato in modo esponenziale e l’individuazione dei grandi insiemi si è ingarbugliata a livello sia
geografico sia teologico.
Il centro di gravità del cristianesimo è scivolato nell’emisfero Sud del pianeta e nel passaggio ha cambiato le priorità
e il modo di apprendere la teologia. Ma, a causa delle migrazioni, tutte le espressioni religiose si ritrovano dovunque
e, se danno origine a un maggior numero di scambi e di scoperte, provocano pure più numerosi attriti e concorrenze,
vale a dire indurimenti identitari fino all’interno di ogni tradizione.
Gli habitué del dialogo, che ormai a forza di radunarsi
hanno finito per somigliarsi, sono anch’essi interpellati dall’indebolimento dell’esigenza ecumenica e l’assenza di prospettiva mobilitante.
Bisogna dunque tornare ai «fondamentali» del rapporto
e del dibattito ecumenico, valutando bene come i nuovi dati
culturali ed ecclesiali indichino dei nuovi punti di attenzione
rispetto alle forme di conversione e al modo di praticare
l’ecumenismo.
Per la conversione delle Chiese
9. Nel documento Per la conversione delle Chiese, il
Gruppo di Dombes ha già riflettuto su un punto fondamentale, il rapporto tra identità e conversione. Abbiamo distinto
tre identità (cristiana, ecclesiale, confessionale), inseparabili in
quanto si compenetrano,2 e tre correlative conversioni. La
conversione è infatti «costitutiva di un’identità che vuole restare viva e del tutto fedele a se stessa».3
Le identità cristiana, ecclesiale e confessionale
10. L’identità cristiana e l’identità ecclesiale riguardano
la stessa realtà concreta, ma lo fanno sotto angolature diverse.
Con identità cristiana intendiamo la confessione di fede esistenziale in Cristo, inscritta nella confessione di fede trinitaria professata nella Chiesa al momento del battesimo. Se
partiamo dall’insieme della dottrina sviluppatasi per formulare la fede ecclesiale, si presenta subito il problema ecumenico, dal momento che le varie denominazioni cristiane non
hanno la stessa concezione di quanto appartenga alla piena
identità cristiana. Sul piano esistenziale, l’identità cristiana è
una realtà dinamica: un futuro aperto a un aldilà escatologico, un’apertura radicale agli altri, oltre ogni muro di separazione; essa è non solo relazione, ma anche servizio e kenosi,
ossia spogliamento di sé.
Nella coscienza di alcuni nostri contemporanei c’è una
tensione tra l’«io» cristiano e il «noi» ecclesiale. Oggi la singola persona può riconoscere in sé un’identità cristiana, ma
fatica a inscriverla in un’identità ecclesiale con la sua dimensione collettiva e istituzionale, che implica storia e tradizione.
11. Pur senza separarle, il documento distingue quindi
identità cristiana e identità ecclesiale. Per la Chiesa, la coscienza della sua identità è di essere qui e ora, in mezzo al
mondo, nelle sue comunità locali, la Chiesa fondata da e su
Gesù Cristo morto e risorto, grazie al dono irreversibile e indefettibile dello Spirito. Ogni Chiesa è abitata da questa convinzione, anche se essa è ancora oggetto di dibattito
ecumenico e se nessuna Chiesa confessionale può, di fatto,
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identificarsi puramente e semplicemente con la Chiesa di
Cristo. L’identità ecclesiale è infatti anch’essa un dono escatologico, da invocare continuamente. Inoltre ogni Chiesa
deve diventare sempre più «cattolica» nel senso pieno del termine, sforzandosi di dispiegare l’identità cristiana in ogni cultura, tanto più che esiste una certa distanza tra l’identità
ecclesiale vissuta e l’identità cristiana proclamata. L’identità
ecclesiale deve dunque convertirsi mettendosi sempre a servizio dell’identità cristiana.
12. Spontaneamente, le diverse Chiese pretendono che
la loro identità confessionale coincida con l’identità ecclesiale.
Di fatto, l’identità confessionale risiede in una modalità parziale di pensare e di vivere l’identità ecclesiale e l’identità cristiana, modalità situata storicamente, culturalmente, dottrinalmente, spiritualmente e liturgicamente. Per diventare
cristianamente autentica, un’identità confessionale deve ininterrottamente convertirsi alla pienezza e all’universalità della
fede. La nascita di identità confessionali ha infatti veicolato
atteggiamenti di rifiuto del modo in cui altri cristiani vivevano
la loro identità cristiana ed ecclesiale, rifiuto che appariva
spesso più decisivo che non gli aspetti propriamente evangelici. Va dunque fatta una distinzione tra «confessionalità» (appartenenza a una specifica Chiesa storica) e «confessionalismo» (indurimento dell’identità confessionale). Anche nel
dialogo ecumenico, ognuno è come minimo tentato di preservare gelosamente la sua identità mostrandosi poco aperto
alla parte di verità che si trova nel suo vicino. L’identità confessionale appare dunque più ambigua dell’identità ecclesiale
e può rimanere fedele alla sua verità soltanto nella misura in
cui si converte continuamente al Vangelo, accogliendo in particolare gli aspetti che di esso ci riportano alla memoria le altre Chiese.
Le conversioni cristiana, ecclesiale e confessionale
13. Alle tre identità corrispondono dialetticamente tre
conversioni.
La conversione cristiana è fondante e in questo mondo
non è mai compiuta: «Il regno di Dio è vicino; convertitevi
e credete nel Vangelo» (Mc 1,15). Questa conversione al
Vangelo si celebra nel battesimo, come pure nella proclamazione della Parola, nell’atto sacramentale della riconciliazione e nel sacramento dell’eucaristia.4 È un’interminabile
lotta condotta con la grazia di Dio contro ogni forma di peccato, cioè di rifiuto del dono di Dio.
14. La conversione ecclesiale, che ha lo stesso contenuto
della conversione cristiana, riguarda i membri della Chiesa a
titolo collettivo e istituzionale, in quanto membri della stessa
comunione di fede, nello sforzo comune che fanno per meglio
accogliere il Vangelo e darne testimonianza, pur sapendo di
condividere atteggiamenti di peccato. Passo dopo passo, la
conversione ecclesiale, che è costitutiva dell’identità ecclesiale,
sarà compiuta in maniera universale e completa quando ogni
gruppo confessionale, oggi ancora separato, sarà Chiesa nel
pieno riconoscimento dell’ecclesialità degli altri.5
15. La conversione confessionale è allora un’esigenza
della conversione ecclesiale, dal momento che implica gli
sforzi propriamente ecumenici che le Chiese devono compiere per ritrovare la piena comunione. Le nostre identità
confessionali sono infatti un’eredità in seno alla quale dobbiamo operare un discernimento evangelico: da un lato ri-
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18. Un primo elemento da sottolineare riguarda la distanza tra il linguaggio religioso del tempo di Gesù e la cultura attuale. Anche gli autori credenti riconoscono il carat-
tere «inattuale» del testo, che esige sempre di essere commentato, perfino riformulato.9 Ancor più, altri fanno capire
l’inefficacia delle sue formule: il regno di Dio… non è ancora
mai venuto!10 Un sintomo di un’altra desuetudine: le domande in seconda persona della prima parte non suscitano
alcun interesse, eccetto che nei commenti dell’intero testo.11
Le domande della seconda parte attirano maggiormente
l’attenzione.12
19. Ma è senza dubbio la figura di Dio Padre a suscitare
gli interrogativi più radicali. Gli autori che la comprendono
positivamente sono rari.13 Numerose parodie della preghiera
del Signore sostituiscono la figura divina con quella di un
monarca disprezzato.14 Per altri, al contrario, essa ha perduto ogni consistenza. I «cieli» diventano uno spazio molto
enigmatico.15
20. Dunque, secondo la cultura occidentale contemporanea, il Padre nostro appare spesso come una preghiera
«impossibile» da pronunciare tanto da un punto di vista sociale che psicologico: di fronte all’enormità del male, come
credere in un Dio Padre? Davanti al cambiamento e alla fragilizzazione della figura paterna o davanti a certe esperienze
negative, opprimenti, del padre, cosa può voler dire un Dio
Padre? Una certa volgarizzazione psicanalitica non fa forse
pesare il sospetto sulla figura paterna e di conseguenza sul
Dio Padre presentato come proiezione del padre umano?
Nel contesto della cultura moderna, emergono nuovi rapporti sociali riguardanti la composizione delle famiglie e la relazione uomo-donna. Nel seno stesso del cristianesimo, il Dio
Padre biblico è percepito da teologie femministe come patriarcale, garante di un sistema che emargina le donne nella
Chiesa. Ne deriva che alcune traduzioni del Padre nostro utilizzano il «linguaggio inclusivo», parlando inseparabilmente
di «Padre-Madre».
21. Preghiera «impossibile»? Non per questo il Padre nostro cessa di essere il modello stesso della preghiera cristiana.
Lo è in quanto è stato insegnato da Gesù stesso ai suoi discepoli come la preghiera vera: «Voi dunque pregate così…»
(Mt 6,9); è la preghiera che va all’essenziale, diversamente
dalle semplici tiritere (Mt 6,7).
2
Precisiamo che, parlando di tre identità, noi abbiamo davanti tre
dimensioni di una stessa identità.
3
GRUPPO DI DOMBES, Per la conversione delle Chiese, n. 14; cf. più
diffusamente i nn. 10-55, in EO 4/1022.1016-1063.
4
Cf. GRUPPO DI DOMBES, Lo Spirito Santo, la Chiesa e i sacramenti,
1979, n. 32, in EO 2/899.
5
Cf. GRUPPO DI DOMBES, Per la conversione delle Chiese, n. 43, in
EO 4/1051.
6
GRUPPO DI DOMBES, Per la conversione delle Chiese, n. 51, in EO
4/1059.
7
Per questa sezione, cf. D. CERBELAUD, «Le Notre Père dans la littérature française contemporaine», in Revue des sciences philosophiques
et théologiques 94(2010), 61-95.
8
H. BAZIN, in Plumons l’oiseau; R. DESNOS, in L’aumônyme; R. DE
OBALDIA, «Midi».
9
P. EMMANUEL, «Notre Père» in Jacob, Seuil, Paris 1970.
10
Cf. C. PÉGUY, Le mystère de la charité de Jeanne d’Arc (1910); trad.
it. Il mistero della carità di Giovanna d’Arco, Jaca Book, Milano 1992.
11
Cf. R.-G. CADOU, «Après Dieu le déluge», in L’héritage fabuleux
(1949); P. EMMANUEL, «Notre Père», Parlando a nome dei miserabili del
suo tempo, J. RICTUS le riformula arditamente… al «noi»: «Sia santificato il Nostro sforzo / Venga il Nostro Regno / Per Noi Poveri così a
lungo oppressi!» («Le revenant», in Les soliloques du pauvre, 1895, 21897;
ed. critica 2009).
12
Se J. LAFORGUE si rifiuta di dover mendicare il «pane» («Dacci oggi
il nostro pane quotidiano… – Oh! piuttosto / Lasciaci sedere un po’ alla
Tua Tavola!…»: «Petite prière sans prétentions», in Des fleurs de bonne volonté), questa domanda viene facilmente trattata in modo burlesco (A.
JARRY, Ubu roi, Atto IV, scena 6; E. IONESCO, La soif et la faim, episodio
4). J. RICTUS da parte sua modifica la quinta domanda, che concerne allora non più il male compiuto, ma il male subìto («Perdonaci le offese /
Che ci son fatte e che lasciamo fare»). Anche M. JACOB ne modifica l’enunciato: si tratta di chiedere perdono a quanti egli avrebbe potuto offendere
(La défense de Tartufe, in fine, Gallimard, Paris 1919; trad. it. La difesa di
Tartufo). E se J. COCTEAU ne rispetta la lettera, lo fa soltanto per sottolinearne la difficoltà (Bacchus, Atto I, scena 7, Gallimard, Paris 1952).
13
Il padre umano ideale secondo P. CLAUDEL («Pater noster», in La
Messe là-bas, 1919; trad. it. La Messa laggiù, Borla, Torino 1964), un
padre che ha i tratti di una madre secondo C. PÉGUY (Le mystère des
saints innocents, 1912; trad. it. Il mistero dei santi innocenti, Jaca Book,
Milano 1979).
14
L’esempio di Luigi XIV citato da F. CHANDERNAGOR, L’allée du
roi, Juillard, Paris 1981.
15
Nostalgico in P. BOURGET («Notre père qui étiez aux cieux»:
Étude sur Henri-Frédéric Amiel), dubitativo in J. RICTUS («Notre dâb
qu’on dit aux cieux») come pure nel cantante G. BRASSENS («Notre Père
/ Qui j’espère / Êtes aux cieux»: «La Marguerite»), il tono si fa più aggressivo in J. PRÉVERT («Notre Père qui êtes aux cieux / Restez-y»:
«Pater noster» in Paroles) e più ancora in E. IONESCO e in S. BECKETT
(Fin de partie).
conoscerne i valori al servizio della ricca pluriformità della
Chiesa; dall’altro rinunciare alle loro carenze e alla loro dimensione di peccato. La conversione confessionale, costitutiva dell’autentica identità ecclesiale, invita ogni identità
confessionale a lasciarsi interrogare e trasformare dai valori
di cui le altre sono portatrici. «La conversione confessionale
è anzitutto conversione al Dio di Gesù Cristo e, di conseguenza, riconciliazione fraterna tra le Chiese in cerca della
comunione piena e del pieno riconoscimento ecclesiale reciproco».6
II. Padre nostro, cultura at tuale
e ricerca di unità
16. Il nostro convincimento sulla dialettica tra identità e
conversione, oggi particolarmente urgente per permettere
alla ricerca ecumenica di muovere nuovi passi decisivi, ha
portato il Gruppo di Dombes a riflettere sul Padre nostro,
preghiera insegnata da Gesù ai suoi discepoli e da venti secoli costantemente ripresa dai cristiani, una preghiera che
non si adatta tranquillamente nell’attuale cultura occidentale e che, pur appartenendo a tutte, nel corso della storia
non ha impedito divisioni durature tra le confessioni cristiane.
Cultura attuale…
17. Il Padre nostro resta un elemento della più elementare cultura religiosa, come ben testimonia la letteratura del
XX secolo.7 Rimanendo nell’ambito della letteratura francese, un certo numero di romanzi, poemi e drammi teatrali
contengono infatti riferimenti alla preghiera del Signore,
anche in autori inattesi.8 Ciò non significa tuttavia che questo testo sia oggi «accolto» facilmente. È vero che suscita invece molte domande, perfino contestazioni.
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Per lo stesso motivo, è ugualmente la preghiera tipo della
Chiesa, comunità dei discepoli di Gesù. Al di là della loro
pietà individuale, ha un posto privilegiato e un ruolo strutturale nelle celebrazioni liturgiche e sacramentali (ad esempio alla fine della celebrazione del battesimo e prima della
comunione eucaristica) come preghiera comune dei figli e
delle figlie adottivi di Dio nel Figlio unico: «Obbedienti alla
parola del Salvatore e formati al suo divino insegnamento,
osiamo dire…». «Uniti nello stesso Spirito, possiamo dire
con fiducia la preghiera che abbiamo ricevuto dal Salvatore…».
… e ricerca di unità
22. Questa preghiera, che dovrebbe essere il luogo per
eccellenza di consenso e di unanimità tra le Chiese, pur restando una preghiera fondamentale per ogni Chiesa confessionale, lungo il corso della storia non ha impedito divisioni
separatrici. Paradossalmente, è stata messa al servizio di interessi «confessionalisti» ristretti e separatori contro le altre
Chiese cristiane, in netta contrapposizione con il significato
profondo di questa preghiera: Padre nostro. Più avanti forniremo degli esempi.
23. Il modo di riferirsi al Padre nostro suscita infatti ogni
volta un modo diverso di vivere e di concepire la Chiesa. A seconda che i termini «nostro» o «noi» siano «esclusivi» o «inclusivi», la Chiesa sarà vista e sperimentata in modo diverso.
Questo vale per la Chiesa confessionale che, se vuole pura-
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di Bologna N. 2237 del 24.10.1957.
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In copertina:
G. SEGANTINI, La vita, Trittico della
natura (part.), 1898-1899, Segantini
Museum, St. Moritz.
mente e semplicemente identificarsi con la Chiesa di Cristo,
riserva esclusivamente ai suoi membri il pieno discepolato del
Figlio unico, la figliolanza del Padre celeste, e perdona gli altri
a condizione che abbandonino l’errore per ristabilire l’unico
ovile ecclesiale. Vale pure per un altro tipo di Chiesa confessionale che, considerando che la Chiesa di Cristo è presente
in essa, ma non in modo esclusivo, crede che ogni battezzato,
in quanto figlio dello stesso Padre, fa parte della Chiesa di
Cristo, è discepolo di colui che ci ha insegnato a pregare, e che
il perdono è reciproco, in quanto ricevuto da un Altro per essere fraternamente, umilmente condiviso.
Ora il Padre nostro è anzitutto un’esperienza comune,
ecclesiale, una buona e gioiosa notizia: ci autorizza a poter insieme chiamare Dio «Padre», a lodarlo, a chiedere il cibo
quotidiano con la filiale fiducia di essere esauditi, a sperimentare fin d’ora la gioia di essere perdonati, sostenuti nella
prova e infine liberati dal male.
24. La relazione di fiducia espressa e vissuta nel Padre nostro è tuttavia il luogo stesso di una tensione. Il Padre nostro
è sentito al tempo stesso come una preghiera già esaudita e
una preghiera «impossibile». Osare dire «Padre nostro» significa affermare una realtà nella fede, nella speranza e nella
carità, ma è anche manifestare l’enorme mancanza della sua
realizzazione nel nostro mondo e nella nostra storia. Osiamo
sperare che il suo nome sia santificato, che venga il suo regno,
che sia fatta la sua volontà, e tuttavia acconsentiamo a molteplici gradazioni di male, compreso quello della divisione tra
discepoli di Cristo! Osiamo chiedergli di perdonarci come anche noi perdoniamo, e tuttavia, tra figli dello stesso Padre, fatichiamo a ricevere e a donare il perdono in modo autentico,
dal profondo del cuore! Osiamo chiedere di essere liberati dal
male, e tuttavia abbiamo la nostra parte di responsabilità per
la sua onnipresenza, nelle più svariate forme! Preghiera già
esaudita eppure sempre contraddetta nelle esperienze quotidiane, tanto la nostra fraternità è fragile e continuamente
minacciata.
25. La tensione tra il «già» e il «non ancora» dell’avvento
del regno di Dio sta al centro del Padre nostro, delle nostre
vite cristiane e delle nostre identità ecclesiali. Certamente
essa significa l’attesa di una pienezza, ma rivela anche tutte
le insufficienze esistenziali e le nostre deviazioni ecclesiali in
rapporto alle richieste di questa preghiera. La sua recita apre
un indispensabile cammino di pentimento. Di fronte alle parole pronunciate, come non fare penitenza per la nostra
mancanza di spirito filiale, di fraternità, di speranza, di misericordia, di obbedienza alla Parola? Cogliere il carattere
«penitenziale» del Padre nostro significa impegnarsi a pregarlo e a viverlo in modo più autentico in una prospettiva di
unità cristiana. Questa esigenza non riguarda solo i singoli fedeli, ma anche il loro insieme, le loro istituzioni, le Chiese in
quanto tali.
26. In conclusione, l’ordine delle identità (cristiana, ecclesiale, confessionale), come si è strutturato nella storia delle
nostre Chiese, dev’essere rovesciato: proprio in questo consiste la conversione delle identità. Il Padre nostro impegna
così le Chiese in quanto tali in una dinamica di conversione
delle loro identità confessionali. Dove queste ultime si considerano un assoluto, le Chiese devono essere in grado di ridare priorità all’identità cristiana su quella confessionale,
perché si arrivi all’unità tra di loro!
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