Liceo Classico G. Carducci - Viareggio
Inquisitio, -onis
Approfondimento Storico sul Periodo Inquisitorio
de!a classe IBc, a.s. 2010/11
Argomenti:
1. Premessa
2. Storia dell’Inquisizione
3. Inquisizione Spagnola
4. Inquisizione Romana
5. Gli Eretici e le Streghe
6. Episodi: Streghe e Stregoni
7. Episodi: Eretici ed Ebrei
8. Gli Inquisitori
9. Un Manuale Particolare
10. Le Modalità di Interrogatorio
11. Gli Strumenti di Tortura
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Inquisitio,-onis
Premessa
Studiando la storia, i ragazzi di tutto il mondo si sentono spinti da un desiderio particolare:
quello di andare oltre, provare a vedere ogni aspetto di un evento o di un determinato periodo.
C’è chi si concentra sulle immagini, chi invece adora leggere i testi redatti secoli e secoli fa, chi,
una volta arrivato a casa, apre l’enciclopedia e si immerge nella sua lettura.
Nella creazione di queste pagine abbiamo voluto dare a chi ci leggerà la possibilità di mescolare le
vicende storiche fondamentali con episodi particolari e informazioni suggestive.
Accompagnati da una grafica coinvolgente, da alcune animazioni e da una musica di sottofondo,
abbiamo viaggiato per circa tre secoli (1500-1700 ca.) soffermandoci sugli aspetti più interessanti
e sui protagonisti del nostro passato.
Il periodo storico qui preso in considerazione è
q u e l l o d e l l a S a n t a In q u i s i z i o n e , t a s s e l l o
complicato, ma allo stesso tempo
importantissimo, per la costruzione del puzzle
della nostra vita. Parliamo dunque della creazione
di un’ “Istituzione Ecclesiastica” il cui compito
era quello di punire brutalmente chi poteva
facilmente essere considerato “pericoloso”, chi
difendeva le proprie opinioni ostacolando il
messaggio formulato da una Chiesa definita
“corrotta”.
La prima tappa di questo percorso è, quindi, la
storia di questa istituzione.
Storia de!’Inquisizione
L’ Inquisizione è l’istituzione ecclesiastica
fondata dalla Chiesa cattolica per indagare e
punire i sostenitori di teorie considerate
contrarie all’ortodossia cattolica. Storicamente,
l’Inquisizione si può considerare stabilita già
nel Concilio presieduto a Verona nel 1184 da
papa Lucio III e dall’imperatore Federico Barbarossa; fu
successivamente usata per reprimere il movimento cataro, diffuso nella Francia meridionale e
nell’Italia settentrionale, e per controllare i diversi e attivi movimenti spirituali.
Delegando come giudici esperti reclutati per lo più tra gli ordini mendicanti (soprattutto
domenicani), il papa predisponeva un nuovo strumento giuridico che si affiancava alle
competenze tradizionalmente riservate ai vescovi nelle diocesi. Il termine deriva dal fatto che
questi giudici usavano una procedura di tipo “inquisitorio”. Le prime misure inquisitoriali del 1179
legittimavano la scomunica e le crociate contro gli eretici. Papa Lucio III, nel 1184, con il decreto
Ad abolendam stabilì il principio – sconosciuto al diritto romano – che si potesse formulare
un’accusa di eresia contro qualcuno e iniziare un processo a suo carico, anche in assenza di
testimoni attendibili: si poteva, cioè, instaurare un processo sulla base di semplici sospetti o
delazioni. Non solo: chiunque fosse venuto a conoscenza di una possibile eresia doveva
immediatamente denunciare il fatto al più vicino tribunale dell’Inquisizione, altrimenti sarebbe
stato considerato corresponsabile.
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L’ abiura era la ritrattazione delle proprie convinzioni, quasi sempre estorta sotto tortura, che un
eretico scriveva in forma solenne davanti al consiglio dell’Inquisizione. Le abiure a cui era
sottoposto un eretico erano sempre due perché alla prima ne doveva seguire per legge una
seconda di conferma. Normalmente il tempo che intercorreva tra le due era di un anno. L’ eretico
che rifiutava di firmare la seconda abiura, considerato “relapso”, cioè eretico irriducibile, veniva
bruciato vivo. Gli argomenti che maggiormente determinarono le eresie furono la Santissima
Trinità, la verginità della Madonna e la sua attribuzione di madre di Gesù che fu fortemente
contestata poiché le donne venivano considerate così immonde da essere ritenute prive di anima. L’ altro motivo che determinò l’individuazione degli eretici furono le contestazioni rivolte alla
Chiesa per la sua lussuria e la sua ingordigia. Tra gli altri, Arnaldo da Brescia fu bruciato vivo nel
1155 per aver denunciato l’immoralità della Chiesa. Innocenzo III si servì delle milizie di Simone
de Monfort per distruggere città intere perché gli abitanti si erano rifiutati di consegnare i
seguaci di Valdo (Valdesi). Soltanto a Beziers furono massacrati oltre 7.000 abitanti. Le milizie
cattoliche entrarono in queste città e senza curarsi di selezionare gli eretici dai non eretici,
eseguirono le carneficine al grido: “Uccideteli tutti perché Dio saprà poi riconoscere i suoi!”. Tali
crimini rappresentavano pienamente l’ortodossia cattolica, col pieno consenso dei papi e di tutti
gli ordini ecclesiastici. Oggi disponiamo di molti documenti ufficiali, prodotti dalle stesse
autorità ecclesiastiche cattoliche, che forniscono le dettagliatissime prove storiche delle stragi
compiute in nome di Dio. Tali documenti, visti allora come “atto di fede”, oggi sono visti come
spietata repressione delle opinioni altrui. Alcuni studiosi hanno sostenuto l’esistenza di una
“Leggenda nera” dell’Inquisizione: essi affermano che l’idea di Inquisizione oggi diffusa
nell’immaginario collettivo non trovi riscontro nella documentazione storica e sia stata inventata
ad arte dalla stampa protestante prima e anticlericale a partire dal XVI secolo. Dalla stessa
Chiesa Cattolica sono stati santificati alcuni persecutori quali Domenico de Guzman, passato alla
storia come uno dei più sanguinari persecutori di tutti i tempi, e il cardinale Roberto Bellarmino,
torturatore e assassino di Giordano Bruno, fra gli altri.
L’Inquisizione Spagnola
Le Origini
Per Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, profondamente religiosi, la lotta agli infedeli era
una questione di nazionalismo, non un atto di sottomissione alla Santa Sede. Il re non intendeva
la religione se non come uno strumento di controllo sui propri sudditi. Egli voleva eliminare le
religioni islamica ed ebraica dai propri domini: l’Inquisizione era un mezzo adatto a tale scopo.
Molti storici affermano che l’Inquisizione fu istituita con il fine di indebolire l’opposizione
interna a Ferdinando. Alcuni ipotizzano anche ragioni economiche dato che i banchieri ebrei
avevano prestato al padre di Ferdinando molti dei soldi impiegati per stipulare l’alleanza e il
matrimonio tra i Reami spagnoli (e questi debiti si estinsero in gran parte con la condanna dei
creditori).
L’inquisitore d’Aragona più importante, Pietro d’Arbués da Ferdinando, fu ucciso nella cattedrale
di Saragozza dai cristianos nuevos (nuovi cristiani, ovvero convertiti con la forza).
Ferdinando d’Aragona era una persona astuta ed ebbe stretti rapporti con il papato nell’ambito
della sua politica di consolidamento dei due Stati (uniti dal matrimonio con Isabella) in un unico
Regno. Tuttavia, evitò qualsiasi ingerenza papale nell’opera dell’Inquisizione locale, geloso del
proprio potere all’interno dei confini spagnoli.
Sollecitato da Isabella di Castiglia e da Ferdinando d’Aragona, il 1 novembre 1478 papa Sisto IV
(1471-1484), su pressione di Rodrigo Borgia - che diverrà papa con il nome di Alessandro VI -,
istituisce l’Inquisizione in Castiglia, con giurisdizione soltanto sui cristiani battezzati. In seguito,
papa Sisto IV sarà scontento degli eccessi del tribunale e si impegnerà per contenerne gli abusi
(definirà, inoltre, l’organo spagnolo come un cinico mezzo per sottrarre gli averi agli ebrei). In
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realtà nessun ebreo è stato mai condannato perché tale, mentre sono stati condannati quanti si
fingevano cattolici per trarne vantaggi.
L’Organizzazione
Il Consiglio dell’Inquisizione Generale e Suprema dava le istruzioni ai Tribunali, esaminava
i rapporti dei processi, ordinava le ispezioni, rivedeva le cause e agiva come tribunale per i
membri del Inquisizione accusati di reati. Il presidente era Inquisitore Generale. Gli altri membri
erano gli inquisitori provinciali (nominati dal re), prelati e avvocati.
I Tribunali (Tribunales) giudicavano gli accusati. Erano formati da tre inquisitori, per la maggior
parte membri del clero secolare con esperienza giuridica, e altri funzionari come procuratori,
segretari, notai e un difensore dell’accusato, che normalmente si limitava a informare l’accusato di
come si svolgeva il procedimento.
I Familiari (Familiares) erano senza salario fisso.
Incoraggiavano le delazioni, raccoglievano le
testimonianze e catturavano gli accusati.
Nonostante fossero personaggi odiati dalla
popolazione, il loro numero crebbe
notevolmente perché venivano esentati dai
contributi fiscali e potevano girare armati.
Inoltre la familiarità con l’Inquisizione era
considerata prestigiosa e prova di “purezza di
sangue”.
L’Espulsione degli Ebrei
La difesa e la propagazione della fede
costituiscono la preoccupazione principale di
Isabella, che a tale scopo chiede e ottiene dal
pontefice l’istituzione di un tribunale
dell’Inquisizione, ritenuto necessario per
fronteggiare la minaccia rappresentata dalle
false conversioni di ebrei e di musulmani.
Fe r d i n a n d o e Is a b e l l a a f f i d a r o n o
all’inquisitore Tomás de Torquemada nel
1481 il compito di trovare e punire i conversi – sia ebrei sia mori –
che si erano convertiti in modo ufficiale al Cristianesimo, ma continuavano ad officiare in segreto
i riti della propria religione. I loro censori li chiamavano marrani, un termine dispregiativo che
può essere tradotto anche con “maiale”. Nei regni della penisola iberica gli ebrei, molto numerosi, avevano da secoli uno statuto non
scritto di tolleranza e godevano di una protezione particolare da parte dei sovrani. Invece, i
rapporti a livello popolare fra ebrei e cristiani erano più difficili, soprattutto perché era
consentito ai primi non solo di tenere aperte le botteghe in occasione delle numerose festività
religiose, ma anche di effettuare prestiti a interesse, in un’epoca in cui il denaro non veniva ancora
considerato come un mezzo per ottenere ricchezza. La situazione era complicata dalla presenza
di numerosi conversos, cioè di ebrei convertiti al cattolicesimo, che dominavano l’economia e la
cultura, ma che talora mostravano un’adesione puramente formale alla fede cattolica e
celebravano in pubblico riti inequivocabilmente giudaici. 4
Quando Isabella sale al trono la convivenza fra ebrei e cristiani è molto deteriorata e il problema
dei falsi convertiti — secondo l’autorevole storico della Chiesa Ludwig von Pastor (1854-1928) —
era tale da mettere in questione l’esistenza o la non esistenza della Spagna cristiana.
L’Inquisizione cominciò a perseguitare i conversi a Siviglia; furono istituiti tribunali speciali in
rapida successione a Cordova, Jaén, Ciudad Real e, in seguito, nelle regioni di Aragona, Catalogna
e Valencia. Tra il 1486 e il 1492 furono tenuti solamente a Toledo venticinque autodafé (in
portoghese “atto della fede”, ovvero l’ultimo atto di un processo contro eretici secondo cui
l’inquisitore annunciava in pubblico la condanna contro l’imputato e lo consegnava alla giustizia
civile per l’esecuzione) e ne sarebbero stati eseguiti oltre 464 tra il 1492 e il 1826. In totale furono
processati oltre 13.000 conversi, dal 1480 fino al decreto di espulsione di tutti gli ebrei dalla
Spagna del 31 marzo 1492.
Negli anni che seguono l’istituzione dell’Inquisizione è comunque indispensabile procedere
all’allontanamento degli ebrei dalla Castiglia e dall’Aragona. Preoccupati per la crescente
infiltrazione dei falsi convertiti nelle alte cariche civili ed ecclesiastiche e dalle gravi tensioni che
indeboliscono l’unità del paese, Isabella e Ferdinando si vedono costretti a revocare il diritto di
soggiorno agli ebrei non convertiti. I due sovrani, sperando nella conversione della grande
maggioranza degli ebrei e nella loro permanenza sul posto, fanno precedere il provvedimento da
una grande campagna di evangelizzazione. La Spagna musulmana si era rivelata un porto sicuro per gli ebrei, e divenne in breve tempo il
centro della vita intellettuale ebraica. Tuttavia, qualche mese dopo la caduta di Granada, arrivò il
decreto di espulsione di Ferdinando e Isabella, che ordinava agli Ebrei di tutte le età di lasciare il
Paese entro l’ultimo giorno di luglio e che permetteva di portare via tutte le proprietà eccetto
metalli preziosi o denaro. La motivazione del decreto verteva sul pericolo di ricaduta dei conversi
causato dalla vicinanza degli ebrei non convertiti, che li allontanavano dal Cristianesimo e li
facevano tornare ai vecchi riti. Non erano menzionate altre ragioni e non si dubita che quella
religiosa fosse la principale. L’espulsione dalla Spagna portò alla nascita della comunità sefardita;
il ritorno, in Spagna, di un membro della comunità sefardita fu comunque impossibile fino al
1858, anno dell’annullamento dell’editto. Con l’espulsione degli ebrei l’Inquisizione aveva campo
libero, dato che la sua autorità si estendeva per definizione solo sui cristiani e che ora ogni ebreo
presente sul territorio era battezzato. Se questi avessero continuato a praticare i propri riti,
sarebbero stati condannati come peccatori ricaduti (nell’errore).
Curiosità:
Si dice che Don Isaac Abravanel, che aveva in precedenza riscattato 480 ebrei di Málaga dal Re
per 20.000 dobloni, a quel punto offrì loro 600.000 corone per la revoca dell’editto. Si dice
anche che Ferdinando esitò, ma fu preceduto da Torquemada, che lanciò ai piedi del sovrano un
crocifisso chiedendogli se avrebbe tradito Cristo per soldi come Giuda. A prescindere dalla
veridicità del racconto, non ci furono segnali di ripensamento da parte della monarchia e gli ebrei
si prepararono all’esilio. Furono espulsi oltre 200.000 ebrei, che si rifugiarono in Turchia o nel
Nord Africa; in molte migliaia morirono nel viaggio.
L’Inquisizione Romana
La Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione o Sant’Uffizio fu creata nel 1542 da
papa Paolo III con la bolla Licet ab initio. Consisteva di un collegio permanente di cardinali e altri
prelati dipendente direttamente dal papa: il suo compito esplicito era mantenere e difendere
l’integrità della fede, esaminare e proscrivere gli errori e le false dottrine. A questo scopo fu anche
creato l’Indice dei libri proibiti. Il raggio d’azione degli inquisitori romani comprendeva tutta la
Chiesa cattolica, ma la sua concreta attività, fatta eccezione per alcuni casi (come quello del
cardinale inglese Reginald Pole), si restrinse quasi solo all’Italia. In breve tempo questo tribunale
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divenne il più importante all’interno della cristianità, infatti ad esso potevano appellarsi i
condannati da altri tribunali. Inoltre, divenne quasi una sorta di supervisore del lavoro dei
tribunali locali. In specifici casi il Sant’Uffizio si serviva della consulenza di professionisti esterni
(soprattutto teologi ed esperti di diritto canonico, ma anche scienziati come nel caso di Galilei).
Non tutti i processi per eresia, ateismo e altre devianze dalla fede cattolica erano gestiti
dall’Inquisizione. In Francia, per esempio, sotto l’ancien régime, atei e bestemmiatori erano
processati dai tribunali civili.
Tra i nomi celebri inquisiti dal Sant’Uffizio: Francesco Patrizi, Giordano Bruno, Tommaso
Campanella, Gerolamo Cardano, Galileo Galilei. Delle inquisizioni nate a partire dal Medioevo è
l’unica ancora oggi esistente. La caduta dello Stato pontificio con l’Unità d’Italia privò
l’Inquisizione delle funzioni repressive prima delegate al braccio secolare, riducendola ad
apparato puramente censorio, attento soprattutto a vietare la circolazione di prodotti culturali
che l’apparato ecclesiastico considerava contrari alla propria etica. Essa non è stata tuttavia
abolita: la Romana e Universale Inquisizione fu rinominata in Sacra Congregazione del
Sant’Uffizio il 29 giugno 1908 da papa Pio X. Il 7 dicembre 1965 papa Paolo VI ne cambiò il nome
in Congregazione per la dottrina della fede, ridefinendone i compiti. Papa Giovanni Paolo II (che
in un discorso dell’8 marzo 2000 ha chiesto perdono a nome della Chiesa per i peccati dei suoi
appartenenti anche riguardo all’Inquisizione) ne ha ridefinito i compiti – promuovere e tutelare la
dottrina della fede e dei costumi cattolici – ponendovi a capo nel 1981 Joseph Alois Ratzinger,
l’attuale papa Benedetto XVI.
Gli Eretici e le Streghe
Fanatismo e intolleranza di cattolici e protestanti
riaccesero i roghi che avevano funestato le piazze
delle città medievali, ma in misura minore. Le
vittime furono prima di tutto gli esponenti più
illustri delle due religioni che, se le interpretavano
in modo aperto e libero, venivano accusati di
eresia. Due nomi bastano per tutti: il medico e
teologo calvinista spagnolo Michele Serveto,
bruciato a Ginevra come eretico da Calvino, e il
filosofo Giordano Bruno, processato a Roma dal
tribunale dell’Inquisizione e bruciato vivo in
Piazza Campo dei Fiori. Finirono sul rogo anche
alcuni dei cardinali che, durante il Concilio di
Trento, si erano battuti per avvicinare i cattolici
ai protestanti.
In seguito il delirio collettivo si riversò sulle
streghe e sugli stregoni, cioè su donne e uomini
che, secondo la cristianità, stringevano un
patto con Satana e lo adora vano in orge
terrificanti dette sabba, in cui parodiavano la liturgia. Oggi si calcola che i condannati per
stregoneria siano stati tra i 30.000 e i 50.000 nel periodo 1400-1700, di cui solo il 20% costituito
da uomini. La persecuzione fu una delle grandi macchie della cristianità dell’epoca, di cui “le due
Europe” (una cattolica, l’altra luterana) si spartirono in parti pressoché uguali la responsabilità. I
luterani, con particolare ferocia fra il 1560 e il 1570, mandarono a morte i sospetti di stregoneria
nei vari paesi che avevano aderito alla riforma; i cattolici si scatenarono in Francia durante la
guerra contro gli ugonotti e nelle città tedesche durante la Guerra dei Trent’anni. Poche, invece,
furono le streghe finite sul rogo in Spagna, Portogallo e in Italia, dove l’antico Tribunale
dell’Inquisizione agì spesso per controllare e moderare gli eccessi popolari.
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Due inquisitori romani, inviati in Germania da papa Innocenzo VIII per aiutare i loro colleghi
nella caccia alle streghe, approntarono un manuale contenente tutte le informazioni utili per
riconoscere, interrogare e punire streghe e stregoni. Questo libro, intitolato Ma!eus Malificarum,
cui parte del testo è stata inserita in uno dei paragrafi della nostra ricerca, fu pubblicato a
Strasburgo tra il 1486 e il 1487. Le presunte streghe appartenevano per lo più a classi socialmente
inferiori ed erano di solito vedove, prostitute, levatrici ed “herbarie”. Veniva considerata strega
anche chi possedeva gatti neri, chi aveva capelli rossi o un neo nell’iride dell’occhio (il cosiddetto
“segno del diavolo”). Anche se le credenze sulle streghe cambiavano di paese in paese, la pena per
il reato di stregoneria era sempre, dopo atroci torture, il rogo: infatti la donna veniva torturata
finché, quasi morente, confessava di essere una strega.
In Germania le accuse di stregoneria colpivano preferibilmente le donne anziane, spesso sole,
brutte, povere ed emarginate, quindi rese aggressive dall’esasperazione.
In Lorena le più sospette erano invece le donne belle, intelligenti e gentili. In quella regione la
gente era convinta che l’intelligenza non fosse altro che astuzia e che la gentilezza fosse ipocrisia.
In Svezia l’accusa di stregoneria deriva molto spesso dall’adulterio. Succedeva che uomini
anziani, al termine di una prestigiosa carriera in magistratura, o nell’esercito, sposassero donne
povere e giovanissime della comunità puritana. Se la giovane moglie veniva sorpresa da sola con
qualche giovanotto finiva sotto processo e veniva accusata di aver catturato l’amante con
incantesimi.
Bisogna dire però che, accanto ai moltissimi innocenti finiti sul rogo, vi erano anche dei veri e
propri criminali.
In Austria, per esempio, fu scoperta una banda formata da uomini e donne che reclutava
orfanelli e poi li spingeva a ogni genere di delitti schiavizzandoli attraverso pratiche terrificanti e
l’uso di droghe. Gli affiliati che vennero mandati al rogo furono 200; tra loro anche tutti i ragazzi
sopra i 12 anni, considerati anch’essi ormai contaminati.
Streghe e Stregoni
Durante il periodo della Controriforma Cattolica si ebbero persecuzioni e accuse da parte della
Chiesa verso gli ebrei, coloro che venivano considerati eretici, donne e uomini che si credeva
praticassero la stregoneria.
Accuse e condanne per presunte pratiche di stregoneria, diffuse già a partire dal periodo
medievale, si protrassero e furono particolarmente applicate durante la Controriforma.
Di solito, però, le accusate, in maggioranza donne, erano semplicemente “diverse” da ciò che
veniva considerato giusto e rispettabile dalla cristianità dell’epoca. Donne in atteggiamenti
considerati strani venivano accusate e condannate e si pensa che queste fossero particolarmente
colpite perché si credeva che la donna, essendo più vulnerabile e influenzabile, cedesse più
facilmente agli inganni e alle tentazioni di Satana. Ad esempio, se una donna veniva trovata da
sola in compagnia di un giovane ragazzo poteva essere accusata di averlo attratto grazie a
espedienti di magia nera.
Di solito a essere processate erano gruppi di donne; il processo singolo era un fenomeno
abbastanza raro. Si mirava alla confessione delle accusate, che venivano però giudicate colpevoli e
condannate qualunque fosse l’atteggiamento tenuto durante il processo. Molto spesso queste, per
porre fine alle proprie sofferenze o sperando di essere graziate, facevano nomi di altre donne
fornendo agli inquisitori nuovi mezzi per la cattura di nuove presunte streghe.
Matteuccia Di Francesco
Il 20 marzo 1428 viene messa al rogo Matteuccia Di Francesco, strega tuderte, condannata ad
essere arsa viva dal tribunale laico della sua città. Correva l’anno 1428, quando gli abitanti di Todi
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– nel giorno che precede l’equinozio di primavera – venivano scossi dalle strazianti urla di una
donna, legata mani e piedi su di una pira, alla quale il Capitano della città aveva appiccato il
fuoco.
I Verbali del Processo
I verbali del processo di Matteuccia Di Francesco sono arrivati fino a noi. Oggi sono custoditi
nella Biblioteca di Todi e descrivono con dovizia di particolari i motivi per cui la donna venne
condannata, e la sentenza eseguita. Nelle pagine, redatte e messe agli atti dal notaio incaricato,
vengono elencati tutti i capi d’accusa pendenti sulla testa della donna. Si legge di come
Matteuccia ricevesse visite da persone provenienti da ogni luogo dell’Umbria, per chiedere il suo
aiuto in merito a pene d’amore o a problemi di
salute. E sembra che la strega avesse per ognuno
la soluzione giusta. Prescrivendo strani unguenti
a base di erbe, singolari ricette gastronomiche, e
formule magiche che alle nostre orecchie
s u o n a n o n o n p i ù te m i b i l i d i i n n o ce n t i
filastrocche, pare riuscisse a porre rimedio a
ogni sorta di travaglio, sentimentale o fisico.
Matteuccia si era fatta un bel giro d’affari, e i
clienti soddisfatti ritornavano da lei per
ulteriori indicazioni e prescrizioni. I rimedi
descritti nella prima parte del processo
a p p a i o n o d e l t u t to i n n o c u i , a n c h e s e
quantomeno curiosi. A una donna che veniva
quotidianamente percossa e tradita dal
marito, Matteuccia consigliò di conservare
l’acqua che usava per lavarsi i piedi, per poi
darla da bere al fedifrago insieme a una
pietanza a base di rondini condite con lo
zucchero.
Nella seconda parte del processo, però,
vengono descritti riti di natura più macabra.
Matteuccia avrebbe convinto un uomo alle
dipendenze di Braccio da Montone, Signore di Perugia, a
procurargli le carni di un annegato per estrarne un olio che alleviasse i dolori di un malato.
Sarebbe anche stata in grado di trasformarsi in un gatto e di librarsi in aria in groppa ad un capro
per raggiungere il famoso Noce di Benevento, qui per la prima volta indicato come il luogo
prediletto dalle streghe per i loro convegni con il diavolo. Comunque, per tutti questi misfatti e
per altri ancora – giunti all’attenzione della corte giudicante come voci di popolo, e ritenute più
che sufficienti per imbandire in quattro e quattr’otto un bel processo per stregoneria –,
Matteuccia viene condannata, e la condanna eseguita. Legata e montata a cavallo di un asino,
viene condotta fino al luogo dell’esecuzione, e là arsa viva.
Santina Landini
Frate Modesto Scrofeo di Vicenza ci ha lasciato una relazione sul processo per stregoneria contro
Santina Lardini di Sondrio, nel 1523. Santina viene denunciata come strega da altre donne;
arrestata e torturata, confessa di avere avuto rapporti col diavolo; giudicata colpevole, viene
bruciata viva.
Il Testo Originale:
«[...] et procedendo nuy contra Santina moliere de Paulo Lardini, de Sondrio, qui presente et
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costituita a nuyet al ufficio nostro, et infamata et molto sospetta dalla maledetta heresia de
apostasia della Ss. Nostra Fede Cattolica e della abominata setta delle strie, avendo avuto contro
di ley molte informationi, inditj, accuse et confrontationi, per le quali era fatta molto sospetta
delli predetti errori, detta Santina qui presente havemo fatto qui condurre nelle fortine nostre.
[…] Ha confessato che da quel gran signore che era il diavolo ge fu dato un altro diavolo per suo
moroso, el quale si domandava Lionardo. Al quale suo moroso la detta Santina ge toccò la man
sinistra alla roversa, e fu da quello abbrasata, basata, et desonestamente toccata. Et cum quello
poy balò indreto, et con quello commesse el peccato della sodomia. […] con matura deliberatione
elezzemo da proferir questa nostra sententia definitiva, declaremo, sententiamo et judicamo la
sopraddetta Santina essere stata per lo passato, et essere da presente, heretica, apostata, idolatra,
sacrilega, malefica, et della prophana et nefandissima setta delle strie, et impenitente, et come
tale, et de tale abominanda setta, da esser punita et discazata dalla compagnia delle vere et bone
pecorelle de messer Jesù Cristo, come persone infette et amorbate et persone diaboliche, et de
esser data e lassata nelle mani del judice seculare, d’esser punita secondo comandano le sante
decretali lese imperiali». (12 Settembre 1523)
Sabbata da Flambruzzo
Stante la dichiarazione del vicario foraneo Giovanni Lugaro, la fama di Sabbata, abitante di
Flambruzzo, era quella di essere strega e di esercitare arti malefiche. Doveva aver provocato un
certo rumore se giunse all’orecchio del patriarca di Aquileia, il quale, nonostante la località fosse
giurisdizione imperiale, ordinò al vicario foraneo che si recasse a Flambruzzo a fare un’inchiesta.
Il 9 novembre 1599, a Flambruzzo il vicario iniziò gli interrogatori dai quali risultò che Sabbata
era una donna di circa quarant’anni, nubile e brutta, di condizione povera, da tutti conosciuta
come strega «si dice in questa villa che costei è striga, et va di casa in casa prehntando et di villa in
villa, quanto più secretamente che può ciò non si dica striga», non solo, ma che aiutasse «quelli
che vengono fatturati et strigati da persone maligne e dal demonio».
Nessuno si espresse favorevolmente per un suo castigo “perché aiuta i poveri”. Nel processo sono
descritti anche due episodi di infermità che riuscì a guarire; guarì un uomo, che era affetto da una
grande inquietudine e dolore di cuore, guardandolo fìsso per un certo tempo, e un altro che aveva
mangiato dei fichi, gamberi e noci stregate facendosi dare la sua cintura essendo anch’essa
stregata.
Le Streghe nel Canavese
Il 6 luglio 1630 il magnifico Emmanuele dei signori di Passano, capitano di Rapallo, scriveva al
Senato di Genova:
«Hieri mi capitò alla porta una povera donna, che va di continuo cercando limosina e mi fu detto
che essa è una strega. Io per curiosità la feci chiamare, menassandola di farla porre nelle carceri;
allora essa, ancora che non si poteva movere, si pose a fugire, e fu trattenuta. Mi vennero molte
persone a dire che questa tale è reputata per strega comunemente, che mi parse farne qualche
diligenza et ho trovato due che mi hanno detto che le sono stati guasti ad ognuno di loro doi
figliuoli, e che tengono per sicuro che sia stata questa, onde mi parve bene di farla porre in
carcere, acciò ve paresse di farlo penetrare al P. Inquisitore, se no ordinarmi quello doverò fare».
Quella povera mendica che, pur non potendo muoversi, ebbe ancora tanta forza di fuggire, e che
fu presto acciuffata, quella voce pubblica popolare, che insorge ed accusa, quell’accozzaglia di
particolari, , scritti dal capitano di Rapallo, fece impressione nel cervello del Doge e dei
Governatori di Genova, i quali chiesero al mittente di porre in chiaro se la strega aveva fatto
morire i bambini, e di inviare informazioni per essere nel caso consegnata al tribunale
dell’Inquisizione. Ormai il dado era tratto.
Il 13 luglio il Capitano rispondeva al Senato: «Per la strega carcerata se ne prenderà quella
cognizione che si potrà. In questo capitaneato è tenuta per tale in tutti quelli luoghi dove è
conosciuta e, fatto quelle diligenze che intorno a questo si potrà, ne darò subito conto».
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Catherine Deshayes
Catherine Deshayes nacque nel 1640 circa in Francia e sposò Monvoisin, gioielliere in fallimento;
infatti Catherine iniziò a praticare la magia proprio per invocare la fortuna e la ricchezza. Fedeli
aiutanti della donna furono certamente il sacerdote Etienne Guibourg, che celebrava Messe
Nere, e il suo amante, l’indovino Adam Lecouret. Secondo alcune testimonianze essi riuscirono
ad accedere ai registri dell’Inquisizione e, dagli atti dei processi, s’impadronirono delle
conoscenze magiche. Catherine divenne un’abile fattucchiera cartomante, chiromante,
procuratrice di aborti e gli venne attribuito il soprannome di la Voisin (la Vicina). Fra le sue clienti
vi furono sia le donne del popolo che le nobildonne della corte parigina, delle quali divenne la
confidente e che la resero molto ricca.
Fra queste Olympe Mancini, la contessa de
Soissons, che si rivolse alla strega per avvelenare
due nobildonne, la duchessa Louise de La Vallière
e Françoise Athénais, marchesa di Montespan, la
f a v o r i t a d e l r e L u i g i X I V, u n a d o n n a d i
straordinaria bellezza e ambizione che, nella
speranza di divenire la prossima regina di Francia,
chiese alla maga filtri d’amore da somministrare
al Re per allontanarlo dal letto della moglie e non
farlo più avvicinare ad altre donne. Madame
Montespan partecipò anche, offrendo il suo
corpo nudo come altare, alle messe nere che la
Monvoisin, il suo amante e il sacerdote
Guibourg celebravano. Ecco la testimonianza:
«Ho visto mia madre Catherine accompagnare
una donna velata nel padiglione in giardino e
aiutarla a stendersi nuda di fronte all’altare con
le braccia aperte e un cero in ogni mano. Il
prete, Étienne Guilbourg, recitò la messa al
contrario in onore di Satana e depose sul
ventre della donna il calice colmo del sangue
tiepido di un bambino appena sacrificato. Ogni
volta che avrebbe dovuto baciare l’altare, il prete baciava il corpo nudo
che vi era steso davanti, consacrava l’ostia sui genitali e ve ne inseriva un pezzetto. Terminata la
messa, Guilbourg possedette la donna e, dopo essersi bagnato le mani nel calice, lavò il sesso di
entrambi». (Confessione di Marguerite Monvoisin). Nel 1678 alla Voisin venne commissionata una
messa nera per uccidere il Re e qualcuno venendolo a sapere sporse denuncia anonima lasciando
un biglietto in una chiesa secondo l’usanza dell’epoca. Nicholas de La Reynie, luogotenente
generale della polizia del Re arrestò Catherine Monvoisin e altre 360 persone, complici della
fattucchiera e di Guilbourg. Secondo i documenti dell’epoca, nella casa della fattucchiera la
gendarmeria ritrovò resti di ossa umane all’interno di un forno e vari oggetti magici. Sappiamo
che il luogotenente de La Reynie, consultando i registri della fattucchiera, scoprì che molte dame
di corte commissionavano messe nere, si facevano prescrivere filtri d’amore, veleni, unguenti a
base di grasso di neonato per restare giovani. Luigi XVI si adopererà per salvare dallo scandalo la
sua amante, la marchesa Montespan accusata dall’indovina di tentato omicidio nei confronti di
una nobildonna sua rivale, istituendo un tribunale speciale, parallelo all’Inquisizione e segreto,
presieduto da de La Reynie e chiamato la “Camera Ardente” (perché i giudici si radunavano in
una stanza con i muri ricoperti di veli neri e illuminata da grossi ceri).
Durante il processo e sotto tortura, la Voisin confessò di aver organizzato un mercato molto
profittevole basato sui bambini: oltre a quelli abortiti perché prova di adulterio, i piccoli nati non
desiderati, venivano o storpiati appena nati e venduti a mendicanti, oppure allevati per divenire
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gli amanti di qualche nobile e ricco pervertito. Dei processati ne furono condannati più della
metà (alcuni alla deportazione, altri al carcere a vita, altri ancora a morte).
Il prete Guibourg non venne mai processato, ma ritenuto responsabile di decine di omicidi rituali
di bambini, ai quali aveva tagliato la gola per sacrificarli a Satana; venne rinchiuso nelle segrete di
un castello dove rimase, incatenato a una parete, fino alla morte avvenuta quattro anni dopo.
Catherine Monvoisin, detta la Voisin, venne condannata a morte e bruciata sul rogo nel 1681.
Le Streghe di Salem
Uno degli ultimi grandi processi per stregoneria fu quello che ebbe luogo a Salem nel 1692.
Riportiamo parte dell’interrogatorio di Martha Carrier, una delle streghe. «[…] Il magistrato le
disse: “siete capaci di posare gli occhi su costoro senza buttarle a terra?”, ed ella rispose: “se io le
guarderò, quelle fingeranno”. E egli allora riprese: “vedete, adesso voi le guardate, ed esse
cadono”. Allora Martha Carrier sbottò: “è tutto falso. Il diavolo è un mentitore. Da che sono
entrata in aula, non ho guardato altro che voi”. […] Il verbale conclude la descrizione della scena
con queste parole: “le agonie delle tormentate erano così raccapriccianti che non v’era più modo
di sopportarle, così che l’imputata venne fatta uscire, e si ordinò che fossero legati
immediatamente mani e piedi; il reverendo Paris chiude il resoconto dell’interrogatorio con la
seguente nota: “non appena essa fu ben bene legata, ecco che le tormentate risentirono un
immediato e strano sollievo. Mary Walcot disse al magistrato che quella donna le aveva
raccontato che erano quarant’anni che faceva la strega”».
Anna Göldi
Nel 1780 Anna Göldi fu assunta per lavorare presso la famiglia Elmer, nella città svizzera di
Glarona. Durante le visite presso gli amici Steinmüller, Anna portava con sé la piccola Anna
Maria, di soli 7 anni. Il 19 settembre 1781 la bambina, dopo aver mangiato un biscotto offertole da
Anna Göldi, rigurgitò uno spillo. Si pensò allora che il biscotto fosse stato “stregato”, Anna venne
quindi accusata di stregoneria e licenziata. La storia, però, non finì qui. Per molto tempo la
bambina continuò ad avere strane convulsioni e vennero trovati sempre più spilli nel suo cibo. Le
autorità di Glarona iniziarono a cercare la presunta strega, che nel frattempo si era recata dalla
sorella Barbara. Venuta a sapere delle accuse, Anna si nascose a Degersheim dove fu assunta come
cameriera. Dopo pochi giorni fu arrestata e riportata a Glarona. La donna sostenne di poter
curare la bambina. Dopo alcuni massaggi la piccola Anna Maria smise di rigurgitare spilli. Questa
“guarigione” le costò l’accusa di stregoneria e la Göldi fu decapitata il 13 giugno del 1782.
Solo nel 2008 è stata riabilitata dal parlamento cantonale di Glarona.
Emmanouel Hasan
Un po’ più conosciuta è la storia di Emmanouel Hasan, giovane mercante ebreo appartenente ad
una ricca famiglia ma che condivideva con lui un’ampia passione per gli affari e un’elevata fede
nell’allora recente religione protestante. Sembra che in seguito a un affare concluso per lui assai
positivamente, ma svantaggioso per il collega, essi abbiano avuto una discussione comportante
gravi contrasti tra le rispettive famiglie. Un predicatore cattolico imparentato con il secondo
uomo si fa successivamente avanti e in seguito a una seconda discussione, Emmanuel Hasan viene
accusato di aver praticato riti di magia nera e muore sul rogo con estrema gioia da parte del
popolo che esulta convinto di essersi liberato di una pericolosissima minaccia.
Eretici ed Ebrei
Fra Dolcino
Le notizie storicamente accertate sulla figura e l’opera di Dolcino sono incerte. Secondo alcune
fonti, il suo vero nome era Davide Tornielli e la sua città natale era Prato Sesia, anche se si colloca
convenzionalmente il suo luogo di nascita nell’alto novarese.
Alcune ricostruzioni posteriori, probabilmente con l’unico scopo di screditarlo, sostennero che
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Dolcino fosse il frutto dell’unione di una donna del posto con un prete, forse il parroco di Prato
Sesia. Nel 1291 Dolcino entrò a far parte del movimento degli Apostolici, guidato da Gherardo
Segalelli. La definizione di “frate” suscita ancora dei dubbi, perché non si è sicuri che egli abbia
mai pronunciato i voti religiosi: probabilmente si limitò a definirsi “fratello” nell’ambito del
movimento ereticale.
Gli Apostolici, sospettati di eresia e già
condannati al rogo da papa Onorio IV, furono
repressi dalla Chiesa cattolica e il Segalelli fu
arso sul rogo nel 1300.
La predicazione di fra Dolcino si svolse
soprattutto nella zona del lago di Garda. Nel
1303, egli conobbe la giovane Margherita
Boninsegna, nativa di Cimego, la quale divenne
la sua compa gna e lo affiancò nella
predicazione.
Dolcino
si
attirò
immediatamente le ire della Chiesa per i
contenuti della sua predicazione, ostile sia a
Roma che a papa Bonifacio VIII. Egli
continuò la sua predicazione effettuando vari
spostamenti in Italia e venne ospitato fra il
Varcellese e la Valsesia. Qui, a causa delle
severe condizioni di vita dei valligiani, le
promesse di riscatto dei dolciniani furono
a c c o l t e p o s i t i v a m e n t e . Pe r q u e s t o ,
approfittando del sostegno armato offerto
da Matteo Visconti, nel 1304 Dolcino decise
di occupare militarmente la Valsesia e di
farne una sorta di territorio franco dove
realizzare concretamente il tipo di comunità teorizzato nella propria
predicazione. Di qui, il 10 marzo 1306, tutti i seguaci, abbandonati dal Visconti, si concentrarono
sul Monte Rubello sopra Trivero (poco distante dal Bocchetto di Sessera, nel Biellese), nella vana
attesa che le profezie millenaristiche proclamate da Dolcino si realizzassero. Contro di loro fu
schierato l’esercito di una vera e propria Crociata, proclamata da Raniero degli Avogadro, vescovo
di Vercelli, che coinvolse anche truppe del Novarese. I dolciniani resistettero a lungo, ma, alla
fine, provati dall’assedio e dalla mancanza di viveri, che la popolazione locale, divenuta oggetto di
vere razzie, non poteva né voleva più fornire loro, furono sconfitti e catturati nella settimana
santa del 1307. Fra Dolcino fu quindi processato a Vercelli e condannato a morte. L’Anonimo
Fiorentino riferisce che egli rifiutò di pentirsi e proclamò che se lo avessero ucciso sarebbe
resuscitato il terzo giorno. Margherita e Longino Cattaneo, luogotenente di Dolcino, furono arsi
vivi sulle rive del torrente Cervo, corso d’acqua che scorre vicino a Biella (qui secondo la
tradizione esiste un isolotto chiamato “Margherita”). Un cronista riferisce che Dolcino venne
costretto ad assistere al supplizio dell’amata e che egli la consolò “in modo dolcissimo e tenero”.
Inversamente, l’Anonimo Fiorentino afferma che Margherita fu giustiziata dopo di lui. Dolcino fu
condotto su un carro attraverso la città di Vercelli, torturato a più riprese con tenaglie
arroventate e gli furono strappati il naso e il pene. Egli sopportò tutto con molta resistenza, senza
gridare né lamentarsi. Fu issato sul rogo e arso vivo, probabilmente nell’attuale zona del Tribunale
di Vercelli.
Gli Apostolici vennero fondati da Segalelli nel 1260 circa. Coloro che ne facevano parte
conducevano una vita di preghiera e con frequenti digiuni, lavorando o chiedendo la carità, senza
praticare il celibato forzoso. La cerimonia di accettazione dei nuovi seguaci prevedeva che si
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spogliassero pubblicamente nudi, per rappresentare la propria nullità davanti a Dio, come aveva
fatto San Francesco. Predicavano: l’obbedienza alle Scritture, che conduceva alla disobbedienza ai
pontefici; la predicazione ambulante dei laici; l’imminenza del castigo celeste provocato dalla
corruzione dei costumi ecclesiastici; l’osservanza dei precetti evangelici e la povertà assoluta.
Ovviamente quest’ultimo punto in particolare portò l’ostilità della Chiesa di Roma e i dolciniani
furono accusati di depredazioni e accaparramenti maggiori di quelli strettamente necessari a
garantire la loro semplice sopravvivenza.
Dolcino espose la sua dottrina in una serie di lettere indirizzate agli Apostolici: egli riteneva che
la storia della Chiesa si dividesse in quattro epoche, e che fosse imminente l’avvento dell’ultima,
un “tempo finale” in cui si sarebbero ristabiliti l’ordine e la pace dopo le degenerazioni della
Chiesa; annunciò “l’approssimarsi della fine dei tempi e la discesa dello Spirito sugli apostoli”.
Alcuni teologi della Riforma videro in Dolcino un loro antesignano e, nella diffusione della Parola
di Dio legata alla liberazione del Nord Europa dal giogo papale, l’adempimento della sua profezia.
Grifolino d’Arezzo
Grifolino d’Arezzo è un personaggio citato da Dante nell’Inferno (XXIX, 73-120).
Il poeta fiorentino lo colloca nel girone dei fraudolenti, decima bolgia dei falsari, in particolare
tra i falsari di metalli, dove dichiara il suo peccato di alchimia.
Di lui si hanno alcune citazioni in alcuni documenti storici: fu iscritto alla società dei Toschi a
Bologna nel 1258 e venne giustiziato come eretico prima del 1272, probabilmente a Siena.
Dante gli fa raccontare una sorta di novella circa la sua fine, dovuta alla promessa non mantenuta
di far librare in volo il nobile senese Albero, che si infuriò e tramite il vescovo lo fece accusare di
eresia e ardere.
“Allor si ruppe lo comun rincalzo;
e tremando ciascuno a me si volse
con altri che l’udiron di rimbalzo.
Lo buon maestro a me tutto s’accolse,
dicendo: "Dì a lor ciò che tu vuoli";
e io incominciai, poscia ch’ei volse:
"Se la vostra memoria non s’imboli
nel primo mondo da l’umane menti,
ma s’ella viva sotto molti soli,
ditemi chi voi siete e di che genti;
la vostra sconcia e fastidiosa pena
di palesarvi a me non vi spaventi".
"Io fui d’Arezzo, e Albero da Siena",
rispuose l’un, "mi fé mettere al foco;
ma quel per ch’io mori’ qui non mi mena.
Vero è ch’i’ dissi lui, parlando a gioco:
"I’ mi saprei levar per l’aere a volo";
e quei, ch’avea vaghezza e senno poco,
volle ch’i’ li mostrassi l’arte; e solo
perch’io nol feci Dedalo, mi fece
ardere a tal che l’avea per figliuolo.
Ma ne l’ultima bolgia de le diece
me per l’alchìmia che nel mondo usai
dannò Minòs, a cui fallar non lece".
(Inferno, canto XXIX, 97-120)
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Girolamo da Praga
Girolamo da Praga nasce a Praga nel 1370 e muore a Costanza il 30 maggio del 1416 bruciato al
rogo come eretico. Studia all’Università di Praga, ottiene il titolo di baccelliere nel 1398 e nei
successivi tre anni viaggia per l’Europa per completare i suoi studi. Al suo ritorno a Praga nel 1401
porta con sé da Oxford scritti di John Wycliff, di cui è fervido sostenitore, e li fa conoscere a Jan
Hus. L’anno seguente si trova di nuovo a Oxford, dove viene incarcerato per aver propagandato le
tesi di Wycliff. Alla sua liberazione, nel 1403, si reca in Palestina, per poi giungere a Parigi nel
1404, dove consegue una laurea alla Sorbona. Per le sue posizioni è guardato con diffidenza e
perciò, nel 1406, Girolamo da Praga preferisce stabilirsi a Colonia, dove ottiene la laurea in
lettere. Per un discorso da egli pronunciato, nel quale sostiene le tesi di Wycliff e condanna la
corruzione della Chiesa, viene espulso da Colonia e
costretto a ritornare a Praga (1407). Nel 1410 si
appella al re Sigismondo affinché tenti di riformare
la Chiesa: viene nuovamente arrestato, stavolta
dall’arcivescovo di Esztegorm. Si trova a Vienna
dove viene interrogato dall’Inquisizione. Riesce a
fuggire e si reca a Costanza, dove si stava
svolgendo il Concilio, per difendere l’amico Jan
Hus dalle accuse di eresia. Non riesce nel suo
intento perché Hus viene arso sul rogo il 6 luglio
1 4 1 5. A l l o r a Gi r o l a m o f u g g e , m a v i e n e
ricondotto quasi subito a Costanza e tenuto in
carcere quasi un anno. Il 16 maggio 1416, di
fronte ai suoi inquisitori, ritrattò la sua
p r e c e d e n t e a b i u r a . L’ u m a n i s t a Po g g i o
Bracciolini, presente a Costanza, in questa
lettera ci lascia una diretta testimonianza del
processo e della condanna a morte sul rogo di
Girolamo: «Condotto in pubblico e comandato
di rispondere a ciascuna accusa, per lungo
tempo si rifiutò di rispondere, affermando di
voler prima chiarire la sua posizione piuttosto
che rispondere alle accuse specifiche sostenute
dai suoi avversari [...]. Negatagli però questa possibilità, così disse di
seguito: “Che iniquità è questa, che per ben 340 giorni sono stato in un carcere durissimo, in
mille brutture, nella sporcizia, nei ceppi, nella mancanza d’ogni cosa, mentre voi avete sempre
ascoltato i miei accusatori e detrattori, e ora mi volete ascoltare un’ora sola? Avendo dato loro
udienza per tanto tempo, vi hanno persuaso che io sia eretico, nemico della fede e persecutore
della chiesa. Voi avete giudicato nelle vostre menti che io sia un uomo scelleratissimo, prima di
aver potuto sapere quale uomo io sia in realtà. Ma io vi ricordo che voi siete uomini, non dei,
siete mortali, non immortali, potete trascorrere, errare, essere ingannati e sedotti [...]. Ma
essendo stato più volte interrotto dallo strepito e dal rumore di molti, alla fine si decise nel
concilio che Girolamo rispondesse principalmente sugli errori dei quali era accusato, e che poi gli
fosse concessa la facoltà di poter parlare quanto volesse [...]».
Con grande coraggio Girolamo da Praga nega di essere detrattore della Chiesa romana e nemico
della religione cristiana, ma viene insultato meschinamente come “ipocrita, cane e asino”.
L’udienza viene rimandata di tre giorni ed è concesso al condannato di parlare: egli ricorda le sorti
e le condanne di grandi filosofi come Socrate e mentre tutti si attendono che ritratti le sue tesi,
Bracciolini ci narra che «alla fine cominciò a lodare un certo Giovanni Hus, che era stato
condannato al rogo e diceva che era stato un uomo buono, giusto, santo e non degno di quella
morte. Preparato con forte e costante animo a sostenere qualunque sospetto piuttosto che a
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cedere ai suoi nemici, a quei falsi testimoni, i quali non potranno mentire davanti a Dio, quando
dovranno render conto delle cose dette. Il dolore dei circostanti era grande e tutti desideravano
che gli fosse risparmiata la morte, se veramente fosse stato sincero. Girolamo, perseverante nelle
sue convinzioni, lodava quel Giovanni e confermava di non avergli mai sentito dire alcuna cosa
contro lo stato della chiesa di Dio, ma contro le perverse consuetudini dei chierici, contro la
superbia e la pompa dei prelati, anche devastatori dei beni delle chiese. Dal momento che i beni
delle chiese dovevano prima distribuirsi ai poveri, poi ai pellegrini e alla fabbrica delle chiese, non
era cosa degna spenderli con le prostitute, nei banchetti, nei cavalli, nei cani, nella pompa dei
vestiti e in tante altre cose indegne della religione di Cristo».
Gli sono concessi altri due giorni per confessare le sue colpe, ma egli si rifiuta e viene giudicato
eretico dal Concilio e condannato al rogo il 30 Maggio 1416: «Al quale venne con fronte gioconda
e con viso lieto, non spaventato dal fuoco, non dai tormenti, non dalla morte, e non vi fu mai
nessuno stoico che come lui sostenesse la morte con animo così forte e costante. Quando giunse
nel luogo del supplizio, si spogliò da solo dei vestiti e, inginocchiatosi, salutò il palo al quale fu poi
legato con molte funi e fu stretto, nudo, con una catena. Dopo che gli fu posta intorno al petto e
alle reni molta legna, mista a paglia, e fu appiccato il fuoco, Girolamo cominciò a cantare un certo
inno, che fu interrotto dal fumo e dalle fiamme».
Michele Serveto
Verso il 1550 Ginevra si era procurata la fama di città-rifugio per i riformati francesi e italiani
costretti a lasciare il loro paese per sfuggire alle persecuzioni. Questo, però, non voleva dire che la
città di Calvino avesse accettato il principio della tolleranza e fosse disposta ad accogliere
chiunque. Ciò si vide bene al momento in cui esplose il “caso Serveto”. Teologo e medico,
l’umanista spagnolo Michele Serveto (1511-1553) nel trattato Gli errori de!a Trinità (1531) aveva
negato il dogma trinitario, trovandosi ad essere osteggiato come eretico sia dai cattolici che dai
protestanti. Dopo aver girovagato per vent’anni in Europa, nell’estate del 1553 giunse a Ginevra
dove venne arrestato. Avendo rifiutato di ritrattare le sue dottrine antitrinitarie, fu condannato a
morte e messo al rogo il 27 ottobre. Calvino ebbe un ruolo decisivo nel persuadere le autorità
cittadine a infliggere una condanna a morte esemplare, approvata dalle autorità religiose di tutta
Europa.
Prima che le fiamme lo avvolgessero, Serveto disse: «O Gesù, figlio dell’eterno Dio, abbi pietà di
me!». Se invece avesse detto: «Gesù, eterno figlio di Dio» (ammettendo quindi la corisustanzialità
del Figlio con il Padre) si sarebbe potuto salvare. Si trattava di un aggettivo messo al posto
sbagliato (secondo Calvino): ma per Serveto fu fatale.
Questo è il testo della sentenza emessa nel 1553 dai giudici di Ginevra:
«E noi, sindaci, giudici dei casi penali in questa città, avendo presenziato al procedimento
promosso dinnanzi a noi su istanza del nostro luogotenente contro di voi, “Michele Serveto de
Villeneuve” del paese di Aragona in Ispagna e avendo visto le vostre volontarie e ripetute
confessioni e i vostri libri, giudichiamo che voi, Serveto, abbiate per gran tempo propagandato
una dottrina falsa e assolutamente eretica, sprezzante di ogni rimostranza e correzione, e che
abbiate con ostinazione malvagia e perversa divulgato perfino in libri stampati opinioni contro
Dio il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, in una parola, contro i principi fondamentali della
religione cristiana, e che voi abbiate cercato di provocare uno scisma e di turbare la Chiesa di
Dio, per la qualcosa molte anime possono essere state rovinate e perdute, attività orribile,
sconvolgente, scandalosa e contagiosa. E voi non avete avuto né orrore di mettervi contro la
divina Maestà e la Santa Trinità, cercando sempre con ostinazione di infettare il mondo con il
vostro fetido ed eretico veleno. [...] Per queste e altre ragioni, desiderando di purgare la Chiesa di
Dio da tale infezione ed eliminare l’arto marcio, dopo esserci consigliati con i cittadini e invocato
il nome di Dio per emettere un giusto verdetto [...] avendo dinnanzi agli occhi Dio e le Sacre
Scritture, parlando nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, ora per iscritto emettiamo
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la sentenza finale condanniamo voi, Michele Serveto, a essere legato e portato a Champel e là
messo al rogo e bruciato assieme ai vostri libri fin ché non sarete che cenere. E così sarà posto
fine ai vostri giorni e sarà dato un esempio a coloro che intendessero commettere simili reati».
(Abstract tratto da Roland H. Bainton, La lotta per la libertà religiosa, trad. it. F. Medioli Cavara, Il
Mulino, Bologna 1963, pp. 83-84)
Ambrogio Castenario
Correva l’anno 1568 nell’odierno Friuli Venezia
Giulia quando a Udine, nel cupo clima di
fanatismo religioso, sospetto e repressione verso
ogni “diverso”, venne processato dalla Santa
Inquisizione un umile fabbro di origine tedesca,
Ambrogio Castenario, la cui unica colpa era
stata quella di aver aderito alla riforma luterana.
Il processo a Castenario – partito dalla
denuncia di tal Giuseppe Daciano che,
conosciutolo per caso, rimase scosso dalle sue
dichiarazioni – cominciò il 26 luglio. Ecco,
dagli atti del processo, il racconto del loro
primo incontro:
«con tale occasione vene alla casa mia circa
l’hore disdotto, venerdì passato, un povero
mendico Schiavo delli colli, che va con doi
crozole et se doleva de una infermità che
haveva in un zenochio, per quanto esso mi
mostrava ai segni, et mi dimandava che io lo
volesse medicare, ma perché non intendeva
la sua lingua schiava, io li dissi che dovesse
andar con Dio, donde che lui andò et
ritornò da me con la compagnia di questo
Thodesco tolto per interprete, per dimandarmi qualche rimedio alla sua
infirmità, et perché io havea alcuni libri ivi, ch’io studiava un pezzo di Galleno, in foglio grande,
questo tal Thodesco, favro, mi disse subito s’io studiava la Biblia et io dicendoli de no et insieme
interrogandolo se lui la studiava, me rispose de sì et interrogandolo se lui la intende va, rispose de
sì, anci disse che facessimo così noi l’opere che insegnava la Biblia, come esso l’intendeva et
secondo lui operava».
Esso avvenne, come già detto, casualmente ed effettivamente Ambrogio cominciò a parlar con lui
di religione perché gli vide dei libri in casa e lo reputò una persona colta con cui si poteva
discutere tranquillamente; ma in poco tempo tra i due uomini nacque un acceso diverbio di
carattere teologico, poiché questo fabbro cominciò a fare dichiarazioni che certamente un
cattolico mai avrebbe fatto; ad esempio affermò il principio della Sola fide come si evince sempre
dagli atti del processo: «mi respose che non degiunava et che non era obligato».
Inoltre, parlando della Chiesa Cattolica Romana e delle indulgenze, egli espresse la sua opinione
su di esse in modo netto, chiaro e sicuramente inconfondibile: «Che madre, che romana? l’è una
scrova et non madre, la romana. Et mi a questo, dicendoli et replicandoli: Perché?, non è questa il
capo della quale è successore di S. Pietro? Et lui mi respose de no et che S. Pietro non fu mai a
Roma et così non voleva conceder questa voce - Chiesa romana madre nostra –, ma ben
confessava la cattolica […] havendoli fatto mentione delle sante indulgentie, per occasione chel
venne nel raggionamento, mi disse: Che vi pare? saranno che amazarà suo padre et vera poi una
undulgentia et sarà questo tale asolto, vi pare che sia assolto da tal peccato?». Egli infatti, essendo
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protestante, non negava la chiesa universale, ma disprezzava le pretese di superiorità dei papi
romani. Come se non bastasse, egli negava la piena presenza di Cristo nell’eucaristia; poi, di
fronte all’affermazione che, essendo tedesco, doveva obbedire all’imperatore che appoggiava i
cattolici, affermò che anche i re possono sbagliare. La discussione si protrasse per un’altra ora
buona, vertendo sostanzialmente sull’auctoritas della Chiesa nell’interpretazione delle Sacre
Scritture, ma non approdò a nulla: i due uomini rimasero delle loro rispettive opinioni. Ma la
faccenda non finì lì: quel tale, essendo rimasto “scandolezzato”, informò del fatto il locale ufficio
dell’Inquisizione e così si aprì il processo. Proprio durante il processo contro il fabbro vi furono
altre accuse, di un tale Daniel Candoto, tramite il quale si venne a sapere che Castenario non si
comportava neppure da buon cristiano (ovviamente dal punto di vista cattolico): «lui si burla
d’essa messa et dice che la messa non è bona et che quando noi andemo in chiesa, che noi
andemo ad adorar idoli, et mi in specie mai l’ho visto a messa […] della comunione el dice che li
pretti son traditori, perche non dano il ss.mo sacramento si come comandò il nostro Signore nella
cena».
Candoto, ovviamente, non fu l’unico testimone al processo, né queste sono tutte le accuse: infatti
si venne poi a sapere che negava il purgatorio, mangiava carne in “quadragesima” e, infine, che
possedeva un volume in tedesco il cui autore era Martin Luther, il monaco ribelle. Alla fine si
trovarono così tanti capi d’accusa contro di lui che lo si dovette chiamare a giudizio.
Ambrogio non negò nulla e si difese con schiettezza e coraggio. Invitato dagli inquisitori ad
abiurare, si rifiutò nettamente: «la fede mia è in Christo, et in Christo voglio morir […]. Io non
voglio tior l’honor a Dio et darlo al papa […]. Interrogatus, se crede che si debbe honorar le
immagine delli santi et della Vergine, dixit: Noi siamo imagine vive de Cristo […] cum ei
diceretur, che è ostinato, et il demonio tien legata l’anima sua, dixit: Si serà la vostra sententia, ma
Iddio farà per me et per voi giusta sententia […]. Io credo che le opinioni che io ho tenute fin qui
sian state buone et christiane, et quelle sian la pura verità».
Ambrogio, visto che era fermamente convinto delle sue tesi, venne torchiato più volte, ma,
poiché non cedeva e anzi continuava ad esporre le sue idee con ostinata fermezza, venne
condannato a morte. Gli atti del processo, nella loro parte finale, scritti dall’inquisitore di
Aquileia Antonio Dall’Occhio, sono tristemente chiari in proposito. In questi si legge:
«Ambrosius Castenarius faber, Theutonicus de Curebia ditionis Lubiane, haereticus, alios in suas
haereses pertrahere studens, processatur, carceratur, constituitur, pertinax et impenitens
invenitur in suis haeresibus; de nocte in loco carceris strangulatur, eiusque cadaver extra portam
Cussignaci humatur (die 2 novembris 1568)».
Queste parole, tradotte in italiano, ci informano che il povero fabbro, dopo essere stato
processato e incarcerato, venne strangolato in prigione perché non si era pentito delle sue idee il
2 Novembre 1568.
Menocchio
Domenico Scandella, detto Menocchio, era un mugnaio del Friuli, processato e giustiziato per
eresia dall’Inquisizione. Menocchio non era analfabeta, tanto che ricoprì la carica di podestà nel
suo paese, Montereale, e in altri vicini. A causa di una denuncia da parte di un prete del luogo
circa la sua presunta eresia, venne interrogato per la prima volta il 7 febbraio 1584, dopo essere
stato imprigionato a Concordia per ordine del francescano Felice da Montefalco, inquisitore di
Aquileia e Concordia. In questo interrogatorio – e in quelli che seguirono – espose le sue
particolari teorie: sosteneva che all’inizio il mondo era come il latte quando caglia, cioè un gran
caos, da dove nacquero, come i vermi, Dio e i quattro arcangeli (Lucifero, Gabriele, Michele,
Raffaele); Maria non era vergine, ma era chiamata così perché era stata nel tempio delle vergini.
Menocchio si scagliò contro la Chiesa e il clero, contro il monopolio ecclesiastico
dell’interpretazione della Bibbia, contro i sacramenti (tranne l’eucaristia); appoggiò i principi
della Sola fide, della Sola scriptura e fu favorevole al sacerdozio universale dei fedeli. Negò sempre
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di aver appreso le sue teorie da altri, affermando di averle elaborate partendo dai Via&i di Sir
John Mandevi!e, una sorta di “milione”.
Il 17 maggio 1584 fu condannato come eretico ed
eresiarca al carcere a vita. Dopo due anni di
detenzione il figlio, Ziannuto Scandella, presentò
una supplica, che venne accolta a causa della
buona condotta tenuta in carcere da Menocchio,
delle difficoltà della sua famiglia e della sua
ca gionevole salute. Menocchio fu quindi
liberato, con l’obbligo però di restare a
Montereale e di portare l’abitello d’infamia,
ovvero la “divisa degli eretici”, una veste gialla
recante due grandi croci rosse sul petto e sulla
schiena. Menocchio, però, continuò a parlare
delle sue teorie sebbene sapesse che
l’Inquisizione l’avrebbe punito. Egli non
temeva l’Inquisizione e non tentò di fuggire a
Ginevra; diceva di essere vecchio e solo al
mondo (infatti non a veva più un buon
rapporto con i figli e Ziannuto era morto).
L’Inquisizione venne a sapere di ciò e riprese i
procedimenti contro di lui. Venne infine
condannato a morte. Sappiamo anche che
l’esecuzione venne preceduta da tortura,
durante la quale Menocchio continuò a negare di aver appreso le
sue teorie. Un documento notarile del 26 gennaio 1600 definiva Menocchio “defunto”, quindi
l’esecuzione deve essere avvenuta poco prima.
Giordano Bruno
«La qual natura (come devi sapere) non è altro che dio nelle cose».
Il ritorno di Bruno in Italia
Perché mai, nell’autunno del 1591, Giordano Bruno, ricevuto a Francoforte l’invito del nobile
Giovanni Mocenigo di venire a Venezia, abbia accettato di tornare in Italia – dalla quale si era
allontanato nel 1578 per sfuggire a un processo di eresia aperto a Napoli nel 1576 e dopo aver
abiurato il cattolicesimo aderendo al calvinismo – è questione dibattuta che non troverà
soluzione. Esclusa dai più l’ipotesi del Bartholmèssè di un ritorno nostalgico nella terra che gli
diede i natali, ha maggior credito quella dello Spampanato che individua nella relativa liberalità
della Repubblica veneta l’illusione coltivata dal filosofo di poter vivere e insegnare in terra
veneziana senza subire persecuzioni. Un’altra ipotesi ancora pretende che Bruno si proponesse di
diffondere una religione priva di dogmi, che mantenesse solo la funzione politico-sociale del
cristianesimo e che fosse in grado di superare i fossati religiosi e politici che dividevano l’Europa,
in nome di un platonismo erasmiano che formasse la base comune di una concordia universale. A
parte il relativo disinteresse di Bruno verso i problemi strettamente religiosi, resta da capire come
il filosofo potesse realmente credere che una tale operazione messianica avrebbe potuto essere
diffusa senza subire una repressione da parte dell’Inquisizione. Bruno forse credeva di poter
conquistare la gerarchia ecclesiastica romana anche attraverso le tecniche magiche descritte, ad
esempio, nel De vinculis. È certo che Bruno affermò all’inquisitore veneto di essere stato, prima
dell’arresto, in procinto di ripartire per Francoforte per farsi stampare delle opere da presentare,
insieme con altre, «alli piedi de Sua Beatitudine, la qual ho inteso che ama li virtuosi, et esporli il
caso mio, et veder de ottener l’absolutione di excessi et gratia di poter viver in habito clericale
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fuori della religione». Una scelta di vita tranquilla, dopo tante temperie, da dedicare agli studi e
all’insegnamento, dunque, fu la spiegazione data, non si sa con quanta sincerità, dallo stesso
Bruno.
A Venezia si ferma pochi giorni e parte per Padova, dove risiede il suo allievo Girolamo Besler,
tedesco di Norimberga, con il quale avrebbe continuato studi di natura cabalistica, e dove spera
di occupare la cattedra, resasi vacante, di matematica. Alla fine del marzo 1592 torna a Venezia,
ospite del Mocenigo, al quale avrebbe promesso di metterlo a parte delle sue conoscenze sull’arte
della memoria, la mnemotecnica, di gran moda in quello scorcio del Cinquecento, dopo gli
antichi, anticipatori studi del Lullo.
L’ arresto
Mocenigo non era soddisfatto del profitto che ricavava dagli insegnamenti di Bruno, forse perché
pensava che il filosofo non volesse metterlo a parte delle sue conoscenze. Questo si dovrebbe
dedurre dall’insistenza con la quale il nobile cercò di trattenerlo, soprattutto quando il filosofo gli
comunicò la sua intenzione di partire per Francoforte, e dalla violenza che usò, la notte del 22
maggio 1592, facendolo rinchiudere dai suoi servitori in un solaio. Il giorno dopo Mocenigo mise
per iscritto una denuncia contro il Bruno che consegnò subito alla Santa Inquisizione in Venezia
nella persona di Giovan Gabriele di Saluzzo. Vi riportò accuse gravissime: Bruno avrebbe
sostenuto «che è biastemia grande quella de’ cattolici il dire che il pane si transustantii in carne;
che lui è nemico della messa; che niuna religione gli piace; che Christo fu un tristo et che, se
faceva opere triste di sedur popoli, poteva molto ben predire di dover esser impicato; che non vi è
distintione in Dio di persone, et che questo sarebbe imperfetion in Dio; che il mondo è eterno,
et che sono infiniti mondi, et che Dio ne fa infiniti continuamente, perché dice che vuole quanto
che può; che Christo faceva miracoli apparenti et che era un mago, et così gl’appostoli, et che a
lui daria l’animo di far tanto, et più di loro; che Chisto mostrò di morir mal volentieri, et che la
fuggì quanto che puoté; che non vi è punitione de’ peccati, et che le anime create per opera della
natura passano d’un animal in un altro; et che come nascono gli animali brutti di corrutione, così
nascono anco gli huomini, quando doppo i diluvi ritornano a nasser. Ha mostrato dissegnar di
voler farsi autore di nuova setta sotto nome di nuova filosofia; ha detto che la Vergine non può
haver parturito, et che la nostra fede catholica è tutta di bestemie contro la maestà di Dio; che
bisognarebbe levar la disputa e le entrate alli frati, perché imbratano il mondo, che sono tutti
asini, et che le nostre openioni sono dotrine d’asini; che non habbiamo prova che la nostra fede
meriti con Dio; et che il non far ad altri quello che non voressimo che fosse fatto a noi basta per
ben vivere; et che se n’aride di tutti gl’altri peccati; et che si meraviglia come Dio supporti tante
heresie di catholici. Dice di voler attendere all’arte divinatoria, et che si vuole far correre dietro
tutto il mondo; che san Tommaso et tutti li dottori non hanno saputo niente a par di lui, et che
chiariria tutti i primi theologhi del mondo, che non sapriano rispondere [...]». La stessa sera del 23
maggio Giordano Bruno è prelevato dalle guardie dalla casa del Mocenigo e trasferito nelle
carceri del Sant’Uffizio di San Domenico di Castello. In questo carcere, non più esistente e che
sorgeva nell’attuale via Garibaldi, Bruno divide la cella con altri sette detenuti.
Il processo veneziano
Dopo una seconda denuncia di Mocenigo, che non aggiunge nulla di nuovo alle accuse già
formulate, e gli interrogatori del Capo del Consiglio dei Dieci, Matteo d’Avanzo e dei librai
Giovan Battista Ciotti e Giacomo Brictano, il 26 maggio 1592 è la volta di Bruno, che racconta
del litigio col Mocenigo e inizia a narrare la sua vita, ricordando come fosse stato ordinato frate
domenicano e anche di essere stato processato due volte a Napoli dall’Ordine e di aver deposto
l’abito. Il 29 maggio Mocenigo presenta una terza denuncia, il cui elemento nuovo è che a Bruno
«piacevano assai le donne, et che non havea arivato ancora al numero di quelle di Salamone; et
che la Chiesa faceva un gran peccato nel far peccato con quello con che si serve così bene alla
natura». Il 30 maggio, Bruno conclude la narrazione della sua vita, passata in gran parte in
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Svizzera, Inghilterra e Germania, ove tace particolari compromettenti, come la sua conversione al
calvinismo; dopo le tre denunce e i due interrogatori, i capi di accusa a suo carico sono:
- avere opinioni contrarie alla fede cattolica;
- avere opinioni eretiche sulla Trinità, la divinità e l’incarnazione di Cristo;
- avere opinioni eretiche su Cristo;
- avere opinioni eretiche sull’eucaristia e la messa;
- credere nell’esistenza e nell’eternità di più
mondi;
- credere nella metempsicosi;
- praticare la divinazione e la magia;
- non credere nella verginità di Maria;
- essere lussurioso vivere al modo degli eretici
protestanti.
Il 2 giugno, Bruno presenta la lista scritta di
tutte le sue opere, difendendosi dalle diverse
accuse di eresia con il distinguere la sua
attività intellettuale di filosofo, fondata
dall’uso della ragione, dalle opinioni che un
cristiano deve tenere per fede: «La materia de
tutti questi libri, parlando in generale, è
materia filosofica et, secondo l’intitulation de
detti libri, diversa, come si può veder in essi:
nelli quali tutti io sempre ho diffinito
filosoficamente et secondo li principii et
lume naturale, non havendo riguardo
principal a quel che secondo la fede deve
essere tenuto; et credo che in essi non si
ritrova cosa per la quale possa esser giudicato, che de professo più tosto
voglia impugnar la religione che essaltar la filosofia, quantonque molte cose impie fondate nel
lume mio naturale possa haver esplicate».
Gli ultimi anni
Il 27 febbraio 1593 Bruno è rinchiuso nelle carceri romane del Palazzo del Sant’Uffizio. Alla luce
dei nuovi testi del filosofo, l’Inquisizione conferma le accuse e ne aggiunge di nuove.
Giordano Bruno fu probabilmente torturato alla fine di marzo 1597, secondo la decisione della
Congregazione presa il 24 marzo. Giordano Bruno non rinnegò i fondamenti della sua filosofia:
ribadì l’infinità dell’universo, la molteplicità dei mondi, il moto della Terra e la non generazione
delle sostanze («queste non possono essere altro che quel che sono state, né saranno altro che
quel che sono, né alla loro grandezza o sostanza s’aggionge mai, o mancarà ponto alcuno, e
solamente accade separatione, e congiuntione, o compositione, o divisione, o translatione da
questo luogo a quell’altro». A questo proposito spiega che «il modo e la causa del moto della terra
e della immobilità del firmamento sono da me prodotte con le sue raggioni et autorità e non
pregiudicano all’autorità della divina scrittura». All’obiezione dell’inquisitore, che gli contesta
come nella Bibbia sia scritto che la «Terra stat in aeternum» e il sole nasce e tramonta, risponde
che vediamo il sole «nascere e tramontare perché la terra se gira circa il proprio centro»; alla
contestazione che la sua posizione contrasta con «l’autorità dei Santi Padri», risponde che quelli
«sono meno de’ filosofi prattichi e meno attenti alle cose della natura».
Bruno sostiene che la terra è dotata di un’anima, che le stelle hanno natura angelica, che l’anima
non è forma del corpo; come unica concessione, è disposto ad ammettere l’immortalità dell’anima
umana.
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Il 12 gennaio 1599 il filosofo è invitato ad abiurare otto proposizioni eretiche: la sua negazione
della creazione divina; l’immortalità dell’anima; la concezione dell’infinità dell’universo e del
movimento della Terra, dotata anche di anima; la natura angelica degli astri. La sua disponibilità
all’abiura, a condizione che le proposizioni siano riconosciute eretiche non da sempre, ma solo ex
nunc, è respinta dalla Congregazione dei cardinali inquisitori, tra i quali il Bellarmino. Una
successiva applicazione della tortura, proposta dai consultori della Congregazione il 9 settembre
1599, è invece respinta da papa Clemente VIII. Nell’interrogatorio del 10 settembre Bruno si dice
ancora pronto all’abiura, ma il 16 cambia idea. Dopo che il Tribunale ha ricevuto una denuncia
anonima che accusa il filosofo di aver avuto fama di ateo in Inghilterra e di aver scritto il suo
Spaccio de!a bestia trionfante direttamente contro il papa, il 21 dicembre Bruno rifiuta recisamente
ogni abiura, non avendo - dichiara - nulla di cui doversi pentire.
L’ 8 febbraio 1600 è costretto ad ascoltare inginocchiato la sentenza di condanna a morte per
rogo; si alza e ai giudici indirizza la storica frase: «Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis
quam ego accipiam» («Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell’ascoltarla»).
Dopo aver rifiutato i conforti religiosi e il crocefisso, il 17 febbraio, con la lingua in giova - serrata
da una morsa perché non possa parlare - viene condotto in piazza Campo de’ Fiori, denudato,
legato a un palo e arso vivo. Le sue ceneri saranno gettate nel Tevere.
Giovan Domenico Campanella
Il primo processo
La pubblicazione della Philosophia sensibus demonstrata prova scandalo nel convento di San
Domenico: un domenicano che non frequenta il convento e che rifiuta Aristotele e San
Tommaso per Telesio non può essere un buon cattolico. Anche se nessuna affermazione eretica
è contenuta nel libro, in un giorno imprecisato del 1591 Campanella venne arrestato dalle guardie
del Nunzio apostolico con l’accusa di pratiche demoniache. Non si conoscono gli atti del
processo, ma è conservato il testo della sentenza, emessa in San Domenico il 28 agosto 1592,
contro «frater Thomas Campanella de Stilo provinciae Calabriae» dal padre provinciale di Napoli,
fra Erasmo Tizzano e da altri giudici domenicani. L’accusa di praticare con il demonio, e anche
una frase irriverente contro l’uso delle scomuniche, vengono a cadere, ma resta in piedi quella di
essere un telesiano, di non tener conto dell’ortodossia filosofica di Tommaso d’Aquino e di
essersene stato per mesi «in domibus saecolarium extra religionem». Dopo quasi un anno di
carcere già scontato, doveva solo recitare dei salmi e tornare, entro otto giorni, nel suo convento
di Altomonte.
Naturalmente, Campanella si guardò bene dall’ubbidire all’ordine del tribunale, che lo avrebbe
costretto a rinunciare, a soli 24 anni, allo studio, alla cultura e alla divulgazione delle proprie idee.
Così, munito di una lusinghiera lettera di presentazione al Granduca di Toscana, rilasciatagli
dall’amico ed estimatore, il padre provinciale di Calabria fra Giovanni Battista da Polistena, il 5
settembre 1592 Campanella partiva da Napoli alla volta di Firenze, con il suo carico di libri e
manoscritti, contando su di un posto di insegnante a Pisa o a Siena.
La prudente diffidenza di Ferdinando I, che non mancò di chiedere informazioni sul conto di
Campanella al cardinale Del Monte, ottenendo una risposta negativa, spinse il 16 ottobre
Campanella a lasciare Firenze per andare a Bologna, dove l’Inquisizione, che lo sorvegliava, gli
rubò i suoi scritti tramite due falsi frati, per poterli esaminare in cerca di prove a suo danno.
Il secondo e il terzo processo
Ai primi del 1593 Campanella è a Padova, ospite del convento di Sant’Agostino. Qui, tre giorni
dopo il suo arrivo, il Padre generale del convento viene notte tempo sodomizzato da alcuni frati,
senza che egli possa identificarli, e perciò, fra i tanti sospettati del grave abuso, c’è anche
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Campanella. Non si sa se dall’inchiesta si passò a un processo che abbia visto imputato, tra gli
altri frati, anche Campanella: in ogni caso egli ne uscì innocente.
Rimase a Padova, probabilmente con la speranza di trovarvi lavoro; vi incontrò Galileo e
conobbe il medico e filosofo veneziano Andrea Chiocco. Ma il Sant’Uffizio lo teneva ormai
sotto osservazione: alla fine del 1593 o all’inizio del 1594 fu nuovamente arrestato. Fu
accusato di:
- aver scritto l’opuscolo De tribus impostoribus. Mosè, Gesù e Maometto diretto contro le tre
religioni monoteiste, libro a noi sconosciuto che sarebbe stato scritto ben prima della nascita
di Campanella;
- sostenere le opinioni atee di Democrito,
evidentemente un’accusa tratta dall’esame del
suo scritto De sensu rerum et magia, rubatogli a
Bologna;
- essere oppositore della dottrina e
dell’istituzione della Chiesa;
- essere eretico;
- aver disputato su questioni di fede con un
giudaizzante, forse condividendone le tesi, e di
non averlo comunque denunciato;
- aver scritto un sonetto contro Cristo, il cui
autore sarebbe stato però, secondo
Campanella, Pietro Aretino;
- possedere un libro di geomanzia, che in
ef f et t i g l i f u s e q u e s t r a to a l m o m e n to
dell’arresto.
A Padova, in un primo tempo gli furono
contestate solo le ultime tre accuse: per
estorcere le confessioni, Campanella e due
imputati presunti “giudaizzanti”, Ottavio
Longo e Giovanni Battista Clario, furono
sottoposti a tortura. Nel frattempo, dall’esame del
suo De sensu rerum dovettero trarsi nuove imputazioni che richiesero lo spostamento del
processo da Padova a Roma, dove infatti Campanella fu condotto e rinchiuso nel carcere
dell’Inquisizione l’11 ottobre 1594.
Per difendersi dalle nuove accuse di essere oppositore della Chiesa, Campanella scrisse nel
carcere padovano il De monarchia Christianorum, perduto, e il De regimine ecclesiae;
successivamente, nel 1595, per contestare l’accusa di intesa con i protestanti, il Dialogum contra
haereticos nostri temporis et cuisque saeculi e, a difesa dell’ortodossia di Telesio e dei suoi seguaci, la
Defensio Telesianorum ad Sanctum Officium.
La tortura cui fu sottoposto nell’aprile del 1595 segnò la pratica conclusione del processo: il 16
maggio Campanella abiurò nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva e venne confinato nel
convento domenicano di Santa Sabina, sul colle Aventino.
Il quarto processo
Il 31 dicembre 1596 fu liberato dal confino di Santa Sabina e assegnato al convento di Santa
Maria sopra Minerva. Intanto, a Napoli, il concittadino Scipione Prestinace, condannato a
morte per reati comuni, prima di essere giustiziato il 17 febbraio 1597, forse per ritardare
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l’esecuzione, denunciò diversi suoi conterranei – e Campanella in particolare, accusandolo di
essere eretico. Così, il 5 marzo, Campanella fu nuovamente arrestato.
Non si conoscono i precisi contenuti della deposizione di Prestinace, né i dettagli del nuovo
processo che si concluse il 17 dicembre 1597; sappiamo, però, che nella sentenza Campanella fu
assolto dalle imputazioni e diffidato dallo scrivere, liberato «sub cautione iuratoria de se
representando toties quoties» finché, consegnato ai suoi superiori, questi non lo avessero
confinato in qualche convento «senza pericolo e scandalo». In tutto questo periodo di tempo,
comunque, Campanella non rimase inoperoso sotto l’aspetto della produzione speculativa e
letteraria.
Il quinto processo
Nel 1598 Campanella si recò a Napoli, dove insegnò geografia, scrivendo le perdute Cosmographiae
Encyclopaedia facilis. A luglio s’imbarcò per la Calabria dove fu ospite del convento domenicano di
Santa Maria di Gesù.
Qui scrisse il trattato De predestinatione et reprobatione et auxiliis divinae gratiae, nel quale afferma la
dottrina cattolica del libero arbitrio. In un abbozzo dei suoi Articuli prophetales, appare già l’attesa
del nuovo secolo che gli sembra annunciato da fenomeni straordinari: inondazioni del Po e del
Tevere, allagamenti e terremoti in Calabria, profezie e coincidenze astrologiche. Un nuovo
mondo sembra alle porte, a sostituire il vecchio che vedeva «i soprusi dei nobili, la depravazione
del clero, le violenze d’ogni specie. La Santa Sede [...] sanciva i soprusi e proteggeva i prepotenti.
Il clero minore, corrottissimo nei costumi, abusava ogni giorno più delle immunità ecclesiastiche,
e profanava in ogni modo il suo ufficio [...]».
In tale situazione di degrado Campanella progettò la costituzione in Calabria di una repubblica
ideale, comunistica e insieme teocratica. Cominciò a predicare dai primi mesi del 1599
l’imminente ed epocale rivolgimento ma le autorità compresero ben presto il suo tentativo di
insurrezione, assieme ad alcuni congiurati, e in agosto le truppe spagnole rafforzarono i presidi. Il
6 settembre Campanella, dopo esser fuggito, fu consegnato agli spagnoli. Incarcerato a
Castelvetere, firmò una confessione nella quale fece i nomi dei principali congiurati, negando
ogni sua partecipazione all’impresa. Fu però tradito dai compagni. Trasferito a Napoli, fu
rinchiuso in Castel Nuovo. Il Santo Uffizio non ottenne dall’autorità spagnola il trasferimento a
Roma degli imputatati (Campanella e altri sette frati domenicani). Il passaggio sotto la
giurisdizione del Santo Uffizio permise di ritardare una prevedibile condanna a morte. Durante il
processo, sotto tortura, Campanella riconobbe le proprie eresie, poi la sua strategia di difesa fu
quella di fingersi pazzo poiché un eretico insano di mente non sarebbe stato condannato. I
giudici, dubbiosi, lo sottoposero al supplizio della corda per fargli confessare la simulazione.
Resistette e la pazzia fu accettata dai giudici. Trascorse 27 anni in prigione a Napoli.
Tra le sue opere più importanti ricordiamo La città del sole (1602), in cui prendeva in
considerazione l’instaurazione di una felice e pacifica repubblica universale retta su principi di
giustizia naturale. Fu scarcerato nel 1626, portato a Roma presso il Sant’Uffizio e liberato
definitivamente nel 1629. Visse per cinque anni a Roma, dove fu il consigliere di Urbano VIII per
le questioni astrologiche. Nel 1634 però, una nuova cospirazione in Calabria, portata avanti da
uno dei suoi seguaci, gli procurò nuovi problemi. Con l’aiuto del cardinale Barberini e
dell’ambasciatore francese de Noailles fuggì in Francia, dove fu benevolmente ricevuto alla corte
di Luigi XIII. Protetto dal cardinale Richelieu e finanziato dal re, passò il resto dei suoi giorni al
convento parigino di Saint-Honoré. Il suo ultimo lavoro fu un poema che celebrava la nascita del
futuro Luigi XIV , Ecloga in portentosam Delphini nativitatem.
Gli è stato dedicato un asteroide, 4653 Tommaso.
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Gli Inquisitori
Per rispondere al dilagare di fenomeni ereticali e all’emorragia di fedeli la Chiesa cattolica reagì in
due modi:
- appoggiandosi ai movimenti che pur richiamando a un più autentico cristianesimo non si
staccavano da Roma e cioè domenicani e francescani;
- istituendo uno speciale tribunale ecclesiastico che avesse il compito di individuare gli eretici e
di ricondurli alla «vera» fede: l’Inquisizione.
Poiché l’operato dei vescovi risultò mediamente
episodico, anche per mancanza di autentici
strumenti di intervento, senza calcolare la scarsa
collaborazione del clero locale, la vera e propria
Inquisizione si può datare dalla creazione, per
intervento papale, d’un giudice straordinario
con giurisdizione universale, che prese ad
affiancare il prelato locale, con giurisdizione
invece limitata alla sua diocesi (il quale doveva
riconoscere l’ “universitatem causarum” a
differenza dell’Inquisitor cui spettava la
persecuzione dell’“heretica pravitas”). Sarà poi
nei Capitoli del senatore romano Annibaldo
degli Annibaldi (febbraio 1231) che il termine
di Inquisitore, troverà la sua codificazione.
Tali Capitoli, pubblicati a Roma nel 1231, non
furono però altro che la trasposizione
giuridica di una serie di Regole formulate da
Papa Gregorio IX, che, con Innocenzo IV,
fu uno dei pontefici romani maggiormente
impegnati nel dar vigore all’Inquisizione. In
forza dei suoi comandamenti, la normativa
pubblicata era finalmente esaustiva ed avrebbe
presto avuto valore universale per la sua diffusione presso tutti gli arcivescovi
e principi d’Europa. Leggendo i Capitoli redatti dal senatore Annibaldo degli Annibaldi, vi si
riconoscono i dettati di un vero sistema procedurale e giudiziario che comportava, tra l’altro,
l’obbligo per il senatore, ma anche per ogni buon cattolico: di imprigionare gli eretici; di far
eseguire le condanne ad otto giorni dalla sentenza; di comminare la multa di venti lire per chi non
denunciasse un eretico e di duemila marchi (oltre l’interdizione dai pubblici uffizi) per il senatore
inadempiente. Inoltre si codificava il diritto di confiscare i beni dei rei come pure l’obbligo di
radere al suolo, trasformando il sito in un letamaio, la casa che avesse fornito ospitalità a qualsiasi
“blasfemo”.
Papa Gregorio IX nel 1235 concesse l’Inquisizione ai frati domenicani e tale privilegio fu poi
esteso ai francescani verso il 1245. Tra i motivi che avrebbero portato a questo rafforzamento
dell’istituto inquisitoriale ci sarebbe lo scontro esistente tra il papa e l’imperatore Federico II. La
figura dell’inquisitore fu quindi creata al fine di contrapporla ai giudici laici che andavano sempre
più sancendo la supremazia di Federico II a scapito delle antiche prerogative ecclesiastiche.
Alcuni Inquisitori
Bernardo Guy
Nato nel 1260 fu l’autore del Pratica inquisitionis hereticae pravitatis, dove raccoglie la sua
conoscenza sulle eresie e sulla Stregoneria. Bernardo Guy fu un attivo domenicano, insegnante di
teologia e priore di svariate comunità, fu nominato inquisitore dal papa Clemente V. Morì nel
1331.
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Nicolau Eymerich
Frate domenicano nato nel 1320 e vissuto a Roma fino al 1378 quando si schierò al fianco
dell’antipapa Clemente VII. Morì nel 1399. Diventato inquisitore nel ‘57 operò con diligenza
contro i valdesi in particolare e scrisse il Directorium inquisitorum, un manuale poi rivisto e
ampliato da F. de la Pena (ristampato ben cinque volte in trent’anni).
Nicolas Jacquier
Nato nei primi del 1400, fu per la maggior parte della sua vita inquisitore. A differenza di altri,
sostenne con determinazione che gli adepti del male prendevano beneficio di poteri oscuri
tramite un patto reale e non illusorio. Inoltre, tendeva a coinvolgere i sacerdoti nella lotta: con la
pratica evangelica, infatti, era possibile debellare il male che si andava diffondendo. Morì alla fine
del 1400 dopo aver scritto il trattato di demonologia Flage!um haereticorum fascinariorum.
Jean Vineti
Inquisitore per tutta la sua vita, liberò Parigi e Carcassone dal male dell’eresia nello stesso
periodo di Jacquier. Il suo trattato Tractatus contra daemonum invocatores è stranamente privo di
ogni forma di metodi pratici per procedere alla distruzione delle streghe; si tratta, infatti,
principalmente di un’opera teorica che mira a dimostrare teologicamente l’esistenza della
Stregoneria.
Tomàs de Torquemada
Nato nel 1420, ebbe una florida carriera nell’Inquisizione spagnola appoggiato dai regnanti
Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona. Divenne presto inquisitore generale di Spagna e
durante quindici anni operò una media di venti processi giornalieri arrivando ad una stima di
circa 100.000 processi. Fu considerato uno dei più spietati personaggi del suo periodo. Morì nel
1498 compianto da chi affermava che si era voluto creare su di lui una “macabra leggenda”
Bartolomeo Spina
Inquisitore nostrano, nacque nel 1474 e lavorò soprattutto a Modena e Ferrara. Fu un sostenitore
della realtà della Stregoneria anche nelle sue manifestazioni che dichiarò essere concretamente
legate a fenomeni oggettivi. Morì nel 1546.
Jean Bodin
Nato nel 1529, si trovò di fronte a un panorama diverso da quello dei suoi predecessori: all’epoca
la situazione iniziava a raffreddarsi anche grazie alle opere di Johann Weyer (1515-1588) che
affermava l’irrealtà dei fatti descritti dalle streghe. Bodin arrivò ad accusare lo stesso Weyer di
eresia e di essere un adepto di satana, quindi si preoccupò di scrivere il De Magorum Demonomania
che riaccese di molto le persecuzioni.
Eliseo Masini
Vissuto fra la fine del 1500 e l’inizio del 1600, fu inquisitore di Mantova, Ancona e Genova. Fu
autore di un manuale pratico dell’inquisitore, il Sacro Arsenale ovvero pratica de!’ufficio de!a S.
Inquisizione, che ebbe un notevole successo arrivando a dodici pubblicazioni tra il 1621 e il 1730.
Matthew Hopkins
Vissuto nella prima metà del 1600, fu un avvocato che si dedicò alla caccia alle streghe nell’Essex.
Al suo primo processo, convinto che un gruppo di imputate gli avessero mandato un demone per
tentare di ucciderlo, ne condannò oltre una trentina. In tre anni condannò a morte oltre
duecento donne. Non aveva molta considerazione neppure dei preti, come nel caso di J. Lowe, e
amava usare torture non cruente ma estenuanti quali, per esempio, camminare fino alla
confessione senza potersi fermare.
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Un Manuale Particolare
«Perché nel sesso tanto fragile delle donne si trova un numero di streghe tanto maggiore che fra
gli uomini? Vari motivi vengono attribuiti al fatto che si trovino donne più superstiziose degli
uomini. Il primo è che tendono a essere credule, e
siccome il diavolo cerca sopra tutto di corrompere
la fede, le aggredisce di preferenza [...]. Il secondo
motivo è che le donne per natura a causa della
pieghevolezza della loro complessione sono più
facilmente impressionabili [...]. Il terzo motivo è
che hanno una lingua lubrica.
Poiché le donne sono difettose di tutte le forze
tanto dell’anima quanto del corpo, non c’è da
meravigliarsi se operano molte stregonerie dato
che vogliono emulare gli uomini. La ragione
naturale è che la donna è più carnale dell’uomo,
come risulta in molte sporcizie carnali. Si può
notare che c’è come un difetto nella formazione
della prima donna, perché essa è stata fatta con
una costola curva, cioè una costola del petto
ritorta come se fosse contraria all’uomo.
Da questo difetto deriva anche il fatto che, in
quanto animale imperfetto, la donna inganna
sempre [...]. E tutto questo è già dimostrato
dall’etimologia del nome. Infatti, “femmina”
viene da “fede” e “meno”, perché ha sempre
minor fede e la serba meno [...].
Dunque, una donna cattiva per natura, che è più pronta a dubitare
della fede, è altrettanto pronta a rinnegarla, ed è questa la caratteristica fondamentale delle
streghe [...].
Se non esistessero le iniquità delle donne, anche a prescindere dalla stregoneria, a quest’ora il
mondo rimarrebbe libero da innumerevoli pericoli».
(tratto dal manuale Ma!eus Maleficarum, redatto dai Domenicani Sprenger e Institor, 1487)
Le Modalità di Interrogatorio
La procedura, non fissata da alcun testo ufficiale, presentava differenze a seconda del luogo.
L’inquisitore, appena giunto sul luogo designato alla sua azione, doveva esibire la lettera di delega
al signore del luogo, cui era fatto presente l’obbligo che gli apparteneva, sotto pena di scomunica,
di concorrere all’azione del legato fornendo aiuti e accordando la sua protezione. L’inquisitore
nominava quindi la sua corte costituita da un vicario, alcuni commissari, dei “boni viri”, ufficiali
subalterni, guardiani della prigione e dei notai.
A fianco dell’inquisitore, o del suo vicario, sedeva il vescovo o un suo delegato. Prima di
procedere venivano emanati due editti: uno di fede, che imponeva a tutti di denunciare gli eretici
o i loro complici; l’altro di grazia che stabiliva un termine durante il quale l’eretico che si fosse
presentato spontaneamente avrebbe ottenuto il perdono. Il convenuto era invitato
preventivamente a giurare sui vangeli (uno che si rifiutava di giurare sottoscriveva la sua
condanna). Interrogato, il convenuto poteva confessare subito e in tal caso la causa era già stata
istruita. Ma più spesso negava. Poiché la confessione dell’imputato era necessaria, l’inquisitore
dimostrava tutta la sua abilità per ottenerla: in ciò si misurava l’estrema capacità delle sue doti. Il
procedimento poteva essere iniziato anche in seguito a denunce o a deposizioni di testimoni,
potevano anch’essi essere eretici. Comunicategli le testimonianze, l’imputato doveva difendersi,
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ma senza l’assistenza di un avvocato. L’accusato poteva prolungare il procedimento producendo
testimoni a discarico, rifiutando i giudici, appellandosi alla Santa Sede. L’imputato poteva, in
attesa della sentenza, essere lasciato in libertà sotto giuramento di rimanere a disposizione
dell’inquisitore, sotto cauzione o garanzia di persone che rispondevano per lui.
Natura delle Condanne:
Dal 1308 al 1323 l’inquisitore Bernardo di Guido pronunciò 930 sentenze con i seguenti esiti: 139
assoluzioni, 132 imposizioni di croci, 9 pellegrinaggi in Terra Santa, 143 servizi militari in Terra
Santa, 307 imprigionamenti, 17 condanne si viverent (processi contro defunti), 42 consegne al
braccio secolare, 69 esumazioni di cadavere, 40 sentenze di contumacia, 2 degradazioni, 2 esposti
sulla scala, 1 esilio, 22 distruzioni di case. In Spagna, invece, nell’arco di 200 anni (dal 1500 al
1700) ben 44 mila persone vennero processate: di queste, 820 (cioè meno del 2%) furono
condannate alla pena capitale.
Gli Strumenti di Tortura
Dissanguamento
Era una credenza comune che il potere di una strega potesse essere annullato dal dissanguamento
o dalla purificazione tramite fuoco del suo sangue. Le streghe condannate erano “segnate sopra il
soffio” (sfregiate sopra il naso e la bocca) e lasciate a dissanguare fino alla morte.
Il rogo
Una delle forme più antiche di punizione delle streghe era la morte per mezzo di roghi, un
destino riservato anche per gli eretici. Il rogo, spesso, era una grande manifestazione pubblica.
L’esecuzione avveniva solitamente dopo breve tempo dall’emissione della sentenza. In Scozia, il
rogo di una strega era preceduto da giorni di digiuno e di solenni prediche. La strega prima veniva
strangolata e poi il suo corpo (a volte il suo corpo in stato di semi-incoscienza) era, a volte,
scaricato in un barile di catrame prima di venire legato a un palo e messo a fuoco. Se la strega,
nonostante tutto, riusciva a liberarsi e a tirarsi fuori dalle fiamme, la gente la respingeva dentro.
Pulizia dell’anima
Nei paesi cattolici era diffusa la credenza che l’anima di una strega, o di un eretico, fosse corrotta,
sporca e covo di quanto di contrario ci fosse al mondo. Per pulirla prima del giudizio, qualche
volta le vittime erano forzate a ingerire acqua calda, carbone, perfino sapone. La famosa frase
“sciacquare la bocca con il sapone” che si usa oggi, risale proprio a questa tortura.
Immersione dello sgabello
Questa era una punizione usata prevalentemente nei confronti delle streghe. La donna veniva
legata a un sedile che impediva ogni movimento delle braccia. Questo sedile veniva poi immerso
in uno stagno o in un luogo paludoso. Varie donne anziane che subirono questa tortura morirono
per lo shock provocato dall’acqua gelida. L’immersione dello sgabello era usato per le streghe in
America e in Gran Bretagna come punizione per crimini minori, prostitute e recidivi.
La Garròtta
Non è altro che un palo con un anello in ferro collegato. Alla vittima, seduta o in piedi, veniva
fissato questo collare che veniva poi stretto per mezzo di viti o di una fune. Spesso si rompevano
le ossa della colonna vertebrale.
Impalamento
È una delle più rivoltanti e vergognose torture concepite dalla mente umana. Veniva attuata per
mezzo di un palo aguzzo inserito nel retto della presunta strega, forzato a passare lungo il corpo
per fuoriuscire dalla testa o dalla gola. Il palo era poi invertito e piantato nel terreno, così, queste
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miserabili vittime, quando non avevano la fortuna di morire subito, soffrivano per alcuni giorni
prima di spirare. Tutto ciò veniva fatto ed esposto
pubblicamente.
L a f a n c i u l l a d i f e r ro o Ve rg i n e d i
Norimberga
Era una specie di contenitore di metallo con
sembianze umane (di fanciulla, appunto) con
porte pieghevoli. Nella parte interna delle porte
erano inseriti del le lame metal liche. I
prigionieri venivano chiusi dentro in modo che
il loro corpo fosse esposto a queste punte in
tutta la loro lunghezza. Naturalmente questa
macchina era progettata per non dare subito la
morte che sopraggiungeva lentamente fra
atroci dolori.
Annodamento
Questa era una tortura specifica per le
donne. Si attorcigliavano strettamente i
capelli delle streghe a un bastone. Quando
l’inquisitore non riusciva a ottenere una
testimonianza, si serviva di questa tortura:
robusti uomini ruotavano l’attrezzo in
modo veloce provocando un enorme dolore e
in alcuni casi arrivando a togliere lo scalpo e lasciando il cranio scoperto.
Mastectomia
Alcune torture erano elaborate non solo per infliggere dolore fisico, ma anche per sconvolgere la
mente delle vittime. La mastectomia era una di queste. La carne delle donne era lacerata per
mezzo di tenaglie, a volte arroventate. Uno dei più famosi casi che si conosca in cui fu usata
questa tortura fu quello di Anna Pappenheimer. Dopo essere stata torturata, Anna fu spogliata, i
suoi seni strappati e, davanti ai suoi occhi, furono spinti a forza nelle bocche dei suoi figli adulti.
Questa vergogna era più di una tortura fisica: l’esecuzione faceva una parodia sul ruolo di madre e
nutrice della donna, imponendole un’estrema umiliazione.
La Pera
La Pera era un terribile strumento che veniva impiegato per via orale, rettale o vaginale. Il nome è
dovuto alla sua forma chiusa, che assomigliava al frutto della pera. Consisteva in tre o più
segmenti a forma di spicchi, allargabili per mezzo di una vite collegata ad una chiave girevole.
Ogni segmento terminava con una punta acuminata. L’ interno della cavità nella quale era inserita,
veniva orrendamente mutilato; spesso la Pera provocava la morte del condannato. Fu impiegata,
nella maggior parte dei casi, contro le donne accusate di aver avuto rapporti sessuali con il
demonio.
La Cremagliera
Era un modo semplice e popolare per estorcere confessioni. La vittima veniva legata su una
tavola, caviglie e polsi. Rulli erano passati sopra la tavola (e in modo preciso sul corpo) fino a
slogare tutte le articolazioni.
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Tormentum Insomniae
Consisteva nel privare le streghe del sonno. La vittima, legata, era costretta a immersioni nei
fossati anche durante tutta la notte per evitare che si addormentasse.
Il Triangolo
Altro terribile strumento di tortura analogo alla Pera e all’impalamento. L’accusato veniva
spogliato e issato su un palo alla cui estremità era fissato un grosso oggetto piramidale di ferro. La
presunta strega veniva fatta sedere in modo che la punta entrasse nel retto o nella vagina. In
conclusione alla poveretta venivano fissati dei pesi alle mani e ai piedi.
La Culla della Strega
Questa era una tortura a cui venivano sottoposte solamente le streghe. La strega veniva chiusa in
un sacco poi legato a un ramo e veniva fatta continuamente oscillare. Apparentemente non
sembra una tortura, ma il dondolio causava profondo disorientamento e aiutava a indurre a
confessare. Vari soggetti hanno anche sofferto durante questa tortura di profonde allucinazioni.
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La Ricerca è stata curata da
Marco Bertuccelli
Andrea Coltelli
Davide De Luca
Eva Della Santina
Luisa Dini
Elia Faccini
Matteo Gemignani
Caterina Giacomelli
Alice Gugliantini
Alessandro Iannella
Martina Landi
Ambra Lucarini
Greta Pieve
Gilberto Poggi
Claudia Profili
Federico Pugliese
Chiara Taliercio
Andrea Francesca Trovato
con la supervisione del prof. Dario Danti
Fonti Bibliografiche
H. Institor, J. Sprenger, Ma!eus Ma!eficarum, Strasburgo 1486 - 1487
Z. Ciuffoletti, U. Baldocchi, S. Bucciarelli, Dentro la Storia, D’Anna, 2008
M. Craveri, Sante e streghe, Feltrinelli, 1980
I. Vivan, Caccia a!e streghe ne!'America puritana, Rizzoli, 1972
Fonti Sitografiche
Elama
In Rapallo
PBM Storia
Sapere.it
Treccani.it
Torviscosa
Wikipedia
Immagini
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