Pubblicazioni
ITALO MANCINI - Bonhoeffer -
Firenze, Vallecchi, 1969.
In ottobre don Mancini mi segnalava l'uscita imminente di un altro volume:
Bultmann. « Così fanno cinque quest'anno. Con tutti e tre i miei amori teologici:
Barth, Bonhoeffer e Bultmann. Ma prima della fine dell'anno uscirà anche un
volume teoretico, Kerygma. Benedetto quest'anno ». (lettera del 1° ottobre 1969).
La collana di titoli del professore urbinate s'è talmente arricchita che non basterebbe il triplo delle pagine di quel suo opuscolo autobiografico, sincero, pubblicato nel 1964. Soprattutto negli ultimi due anni la sua attività « pubblicistica »
è stata notevole. Il 1969, poi, l'anno di Dietrich Bonhoeffer, è stato anche il suo.
Il « Bonhoeffer », segnalato ai premi Viareggio e Isola d'Elba, resterà fondamentale tra gli studiosi del pastore luterano.
Da una recente inchiesta di Panorama (20 novembre 1969) risulta che l'uomo
di oggi pensa a Dio solo nel momento della disgrazia, se ne fa un'idea completamente sbagliata. Qui vien fuori il Dio « tappabuchi » del Bonhoeffer, che non è
affermazione irriguardosa verso la divinità ma verso l'uomo cosiddetto religioso.
Italo Mancini lavora intorno a Bonhoeffer da alcuni anni. Si può dire che
abbia imparato a conoscere lui e la sua « creatura » nello stesso lasso di tempo.
Nelle lunghe giornate estive, in cui veniva al Sud, nel Salento, ad assaporare il
caldo della nostra regione, a verificare la « filosofia del sole » di Bonhoeffer, anche
allora, sugli scogli o su pochi centimetri di sabbia, discorreva di lui, del Kerygma,
della necessità di accettare l'insegnamento più valido della nuova « rotta teologica » Ne ho letto i primi appunti, in un camping; gli ultimi li ho avuti tra le
mani un mese prima dell'uscita del volume.
Nella « Memoria dell'Epoca » del 13 aprile 1969 (Epoca, n. 968) Augusto Guerriero si occupava — è diventata consuetudine negli ultimi scritti — dei « teologi
senza Dio », riferendosi a Bonhoeffer, Bultmann e Tillich. « Ci può essere un
cristianesimo senza Dio? » — si chiedeva. Ma, per Bonhoeffer, può sussistere il
cristianesimo senza religione, senza la religione « costruita » sulla metafisica, come
una qualsiasi istituzione. In nome di Dio va contestato Dio, cioè in nome del
Dio morto sulla croce va contestato il Dio « creato » dalla religione, il Dio lontano
dall'uomo perché nascosto nella metafisica, nei dogmi. La croce, simbolo estremo
d'impotenza, è contrapposta alla comodità di un Dio onnipotente fatto su misura,
da invocare nei momenti difficili, da usare come contrappeso alla nostra debolezza. Questo è il principio più comprensibile e rivoluzionario del pastore tedesco.
Negando la possibilità per il cristianesimo di essere areligioso, il Guerriero concludeva bollando di ateismo il Bonhoeffer e gli altri.
L'interpretazione del Crocifisso come essere-per-gli-altri giustifica molte affermazioni conseguenti. In essa c'è posto per la contestazione del Dio del catechismo, definizione e niente altro; per la costatazione della presenza di un « mondodiventato-adulto » da contrapporgli in posizione attiva, non più amorfa, bisognosa
di protezione. L'essenza del cristianesimo si trasferisce nella « partecipazione a
questo essere di. Dio che viene espresso nel Cristo. La grazia a buon mercato è
dunque l'antitesi pura della concezione bonhoefferiana ». (p. 151). « Se è vero
che, dopo Cristo, non ha più senso un concetto di Dio in sé, è ugualmente vero
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che, dopo Cristo, non ha più senso una relazione alla vita in sé; un preteso Dio
puro come un preteso uomo puro "sono due astrazioni vuote". Dopo Cristo, l'essere dell'uomo esprime una relazione inscindibile con l'essere di Dio; per questo
è un valore, cui ci si può affidare totalmente ». (p. 229) Nelle lettere dal carcere
Bonhoeffer ha ribadito il concetto. « Insomma, io pretendo che Dio non venga
ficcato di contrabbando in qualche estremo e segreto ricettacolo, che si prenda
molto semplicemente atto della maggiore età del mondo e dell'uomo, che non si
« stronchi » l'uomo nella sua mondanità, ma lo si metta a confronto con Dio nelle
sue posizioni più forti, che si rinunci a qualsiasi trucco da preti e non si veda
nella psicoterapia o nella filosofia dell'esistenza la preparazione alle vie del Signore ». (D. Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e appunti dal carcere. Intr. di
Italo Mancini. Milano, Bompiani, 1969 p. 260).
L'ampio, chiaro, saggio di don Italo è un invito allo studio dei problemi sollevati dal pastore protestante, non solleva facili entusiasmi, anche se per certi
tratti è possibile avvicinare Bonhoeffer a Teilhard de Chardin. Mancini non insiste però su questo punto. Suo esclusivo interesse è di presentare nella maniera
più chiara possibile, e completa (biobibliograficamente e criticamente), il pensiero del martire della resistenza tedesca (e dell'apostolato), di farlo rientrare
nel filo conduttore dei suoi « grandi amori teoretico-religiosi » (lettera del 3 febbraio 1969). Il lavoro, monumentale (460 pagine), è diviso in tre parti (anche se
l'impaginazione ne contempla due), al seguito dei momenti bonhoefferiani: la
chiesa, il rapporto d'identificazione di essa con Cristo, il Crocifisso come essereper-gli-altri. Alla fine di ogni capitolo un breve riepilogo e la presentazione del
tema immediatamente successivo e del fatale, sempre presente, epilogo. La parte
più significativa dello studio di Mancini è l'ultima (« Cristianesimo senza religione »): merita un discorso a sé.
Il film che in America si prepara sulla figura di Bonhoeffer, con la consulenza
di Eberhard Bethge, insisterà probabilmente sulla biografia del pastore luterano,
scoprendo nell'ultimo atto della sua vita l'ulteriore messaggio. Per gli studiosi
resterà questo saggio notevole.
GIANFRANCO SCRIMIERI
MARTIN LUTERO - Discorsi a tavola -
Torino, Einaudi,
1969.
Un Lutero confidenziale, spregiudicato, che alterna agli assiomi per se stesso
quelli per gli altri, discorrendo proprio alla maniera dei commensali; a tavola,
alla lettera. E' ovvio che i discorsi non furono pronunciati tutti a tavola, ma in
altre occasioni egualmente propizie. Con una notevole differenza, che si tratta
quasi di riunioni (cui la cena dà motivo) intorno all'oracolo, da cui ci si attendono
i responsi per andare avanti. Carta e penna alla mano, i giovani studenti poveri
accolti nella casa del « maestro » trascrivono fedelmente, annotano, cominciano
un vero e proprio studio sistematico, passandosi l'elaborato.
Alcune « annotazioni » sono attualissime: « Del Vangelo si fa un grandissimo
abuso nel mondo, e in questo momento soprattutto da parte dei nobili. Il Vangelo insegna a non pretendere niente, a dare, a sopportare le afflizioni, ad essere
sottomessi, essi invece, col pretesto del Vangelo, vogliono usurpare, arraffare,
affliggere, dominare ». (gennaio-marzo 1532; p. 44).
Sul problema del celibato ecclesiastico: « Discorso che riguarda me. Non
puoi restare scapolo senza peccare. Il matrimonio poi è un ordine e una creazione
di Dio. Non è adunque un impulso di Satana quando desidera sposarsi con una
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vergine onesta; Satana infatti odia questo genere di vita. Suvvia in nome di Dio,
arrischiati sulla sua benedizione e creazione! » (aprile 1532; p. 50).
E ancora, con violenza, contro il Papa che « astutamente si vanta di essere
signore superiore alla Scrittura e al concilio » (p. 132). Molto inci visi ve alcune
brevi affermazioni: l'astio, a volte, lascia spazio aWironía, alla battuta pesante,
squalificandone talora il contenuto. E' un dialogo tra uomini, più che una predica, anche se di essa assume il tono retorico. « La legge dice: ogni persona è
pubblica o privata. A quella privata la legge dice: "Non uccidere"; a quella pubblica dice: "Uccidi". E' invece peculiare del Vangelo dire: "Se credi, allora piacerai a Dio". Il Vangelo non fa distinzione fra le persone » (autunno 1533; p. 94).
I discorsi son presentati così come raccolti dai trascrittori, fedelissimi della
casa di Lutero. Delio Cantimori illustra, in un saggio di oltre settanta pagine,
la figura del grande riformatore, nell'atmosfera distesa creata dalle recenti iniziative ecumeniche. Il resto, lavoro di traduzione, note e introduzione, è di Leandro
Perini: spiegazione necessaria dell'origine e fortuna dei « discorsi ». A un certo
punto il Perini definisce « politica » (p. C) la teologia rivoluzionaria e spregiudicata
di Lutero. Direi « sociale ».
GIANFRANCO SCRIMIERI
SALVATORE BOLOGNESE -
La tomba messapica di Alezio - Galatina, Editrice Salen-
tina, 1969.
Il geometra Bolognese, ispettore onorario ai monumenti di Alezio, mi ha
inviato un'utile pubblicazione dedicata « agli Aletini perché, amando il loro passato, costruiscano meglio il futuro »: una breve guida illustrata alla « tomba monumentale » di Alezio. « Per le iscrizioni lascio la parola al Prof. O. Parlangeli (...) »:
il ricercatore si mette da parte, ma lo studioso non è più. L'unico, forse, « autorizzato » a svelare l'enigma dei Messapi ha interrotto improvvisamente la sua
attività. Almeno i suoi sforzi, instancabile, siano assunti da qualcuno. Si onori
la sua memoria, contagiati dalla stessa febbrile ansia di studio, di verifica.
La tomba di Alezio fu scoperta l'ottobre del 1965, a meno di un metro e mezzo
di profondità, costruendo — come di solito accade — una nuova abitazione. Volume totale: dieci metri cubi circa; oggetti ritrovati: anfora vinaria, cinque unguentari fusiformi, lucerna, frammenti di ferro ossidati, moneta polverizzata, due
iscrizioni messapiche.
A Salvatore Bolognese mi lega l'interesse alla sistemazione definitiva della
chiesetta di S. Mauro in territorio di Sannicola. Da Bari si avranno presto buone
notizie.
GIANFRANCO SCRIMIERI
IGNAZIO SILONE -
L'avventura di un povero cristiano - Milano, Mondadori, 1968.
5 luglio 1294: il collegio dei cardinali riunito in Perugia, dopo 27 mesi di
conclave, elegge ad unanimità successore di papa Nicolò IV, l'eremita Pietro Angelerio da Morrone, monaco benedettino che conduceva vita solitaria e contemplativa in una grotta alle pendici del Monte Morrone, in Abruzzo. Il neo eletto,
assunto il nome di Celestino V, sale il soglio pontificio in età alquanto avanzata
(oltre 80 anni) e, per giunta, sprovvisto quasi del tutto di cultura teologica, storica e giuridica, oltre che della energia necessaria per reggere la Chiesa in tempi
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particolarmente tempestosi. Dopo pochi mesi dalla sua incoronazione, rinunzia
al pontificato per ritornare alla vita da eremita.
Queste in sintesi le vicende per le quali un povero cristiano, prima sconosciuto, diviene personaggio di primo piano e, certamente, uno dei più discussi e
discutibili del basso medio-evo. L'abbandono del soglio pontificio da parte di un
papa, apriva infatti un capitolo nuovo nella storia della chiesa, ed era più che
naturale che quel gesto, appunto per la sua novità ed ambiguità, offrisse materia
di contrastanti interpretazioni ai contemporanei ed ai posteri, potendosi in esso
riscontrare, secondo i punti di vista, gli indizi di una diserzione e di una fuga
da pesanti responsabilità, oppure i segni di un atto di coraggio verso se stesso
e verso gli altri. Nulla di strano quindi se alcuni — e primo fra questi Dante
Alighieri — attribuirono il comportamento di Celestino V a viltà d'animo, mentre altri furono propensi a giustificarlo ritenendolo dettato da non comune umiltà
e da animo « altissimo e libero che non conosceva imposizioni ». (Petrarca)
Una moderna ed originale ricostruzione dei fatti che condussero Pietro Angelerio all'accettazione e alla successiva rinuncia del pontificato, ci è stata recentemente fornita da Ignazio Silone nel libro « L'Avventura di un povero cristiano »,
dato alle stampe sotto forma di dramma, con ampio saggio introduttivo
ed alcune note storiche in appendice. Nonostante l'apparenza, il libro ha
poco o nulla del genere storico, essendo l'interesse dello scrittore tutto rivolto al presente e l'avventura di Celestino V servendogli da pretesto per aprire
il discorso su una problematica etico-religiosa, particolarmente sentita oggi nel
clima postconciliare, ma che in realtà affonda le sue radici nel passato. Difatti,
secondo Silone, la storia del cristianesimo popolare non combacia con quella
della gerarchia, sicché « la realtà cristiana, hinc et nunc, sembra, nel suo insieme,
bipolare e forse lo resterà ancora per molto tempo: concordataria ed escatologica, storicizzata e profetica ». Appunto per questo, accanto e talvolta contro ]a
chiesa ufficiale, la chiesa cioè della gerarchia e dei simboli, abbiamo assistito
ed assistiamo ancor oggi al sorgere e farsi strada di correnti e movimenti riformistici, vagheggianti un cristianesimo sobrio ed umile, meno esteriore e più
intimo, spoglio insomma di tutte le soprastrutture teologiche, dogmatiche ed
ecclesiastiche che si sono ad esso venute sovrapponendo nel corso dei secoli. La
povera gente ha sempre guardato con simpatia a codesti moti di rinnovamento
mediante i quali, insieme con autentici sentimenti religiosi, hanno trovato sfogo
l'insoddisfazione per determinate condizioni di vita e la conseguente spinta allo
svecchiamento di ingiuste strutture etico-sociali. Di qui il fiorire, in ogni epoca
della storia umana, di miti ed utopie, con i loro profeti e i loro seguaci; miti
ed utopie che, corrispondendo in sostanza ad un bisogno profondamente radicato nell'animo umano, hanno di solito facile presa tra gli uomini semplici. « Vi
è nella coscienza dell'uomo — dice a tale proposito Silone — un'inquietudine che
nessuna riforma e nessun benessere materiale potranno mai placare. La storia
dell'utopia è perciò la storia di una sempre delusa speranza, ma di una speranza
tenace. Nessuna critica razionale può sradicarla, ed è importante saperla riconoscere sotto connotati diversi ».
Considerata da questo angolo visuale, la storia di Pietro da Morrone e dei
suoi fraticelli celestini, non può che apparire come la storia di una grande, nobile
e sublime utopia. E in verità la sua aspirazione, una volta divenuto pontefice, a
riportare la Chiesa alla semplicità delle origini, smantellandone, in pieno medioevo, l'apparato burocratico e gerarchizzato, era in fondo niente altro che il sogno
di un ingenuo visionario, destinato a dissolversi al primo contatto con la realtà.
Difatti, messo alle strette e incapace di dominare il corso degli eventi, al pio
frate non restano che due vie: o adattarsi al rispetto dell'ordine costituito, o ab449
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bandonare il campo e battere in ritirata. Rinunciando al potere, sceglie la seconda
via, la più semplice forse ma la sola che gli consenta di compiere un atto dí
protesta contro la società del suo tempo, unica forma di contestazione allora
possibile.
Silone si astiene dal pronunziare un giudizio netto e deciso sull'operato di
Celestino V, e nulla dice apertis verbis; dal contesto però si capisce fin troppo
scopertamente che egli sta dal la parte del frate rinunziatario ed è ben lungi dal
condannarlo perché ne condivide l'atteggiamento. A questo atteggiamento anzi lo
scrittore vuole attribuire un valore emblematico, assumendolo a simbolo della
più vasta ribellione di tanti spiriti eletti al ricatto che la società vorrebbe imporre
loro in nome di certi valori pseudotradizionali. Possiamo dunque concludere dicendo che « L'Avventura di un povero cristiano » è, senza dubbio, il libro più stimolante e provocatorio di questi ultimi anni. Un libro mediante il quale Ignazio
Silone, in armonia con la natura essenzialmente morale della sua ispirazione di
romanziere e saggista, vuole indirizzare un preciso messaggio a tutti gli uomini
onesti i quali, se hanno veramente l'intenzione di fare spazio alla verità, non
possono scendere a patti e compromessi con la loro coscienza, ma debbono, quando le circostanze lo richiedono, sapere seguire l'esempio di Celestino V e trovare la forza morale di sottrarsi alla « tentazione del potere », per rendersi liberi
e restituirsi a se stessi.
TOMMASO TANAS
Le point de suspension - Ed. Gallimard, 1969, pagg. 240; Une gomme
oubliée - Ed. Julliard, 1969, pagg. 251.
JEAN ANGLADE -
Originalità, fantasia, tenerezza, non disgiunte da una certa dose di semplicità,
di ottimismo e di buon umore, sono gli aspetti che caratterizzano il lato umano
delle vicende terrene di questi due romanzi che hanno visto la luce contemporaneamente quest'estate.
Il loro Autore è già noto per numerose opere, alcune delle quali,
come L'Immeuble Taub (Gallimard, 1956), Le péché d'écarlate (Laffont, 1961), La
foi et la montagne (Laffont 1961) e Les chiens vivants (Julliard, 1967), hanno ottenuto ambiti premi letterari in campo nazionale.
Le point de suspension s'impernia sulle vicende di un povero irlandese, Christy,
il quale, nella speranza di migliorare le sue condizioni di vita, lascia il paese
natio per recarsi negli Stati Uniti, dove, per poter realizzare le proprie aspirazioni, ha bisogno di diventar cittadino americano; come tale, però, è tenuto a
prestar servizio militare e quindi ad esporsi al rischio d'essere inviato a combattere nel Viet-nam. Ed ecco infatti il nostro protagonista nel cielo di Hanoi,
sorretto dal paracadute, mentre il B 52, su cui effettuava un volo di guerra, precipita in fiamme. Tutta la storia del povero Christy viene da lui stesso rievocata
dall'attimo in cui si lancia dall'aereo al momento in cui toccherà terra... Figlio
di un misero pescatore morto in mare, un po' per quello spirito d'avventura
ereditato dal padre, un po' per sfuggire alla povertà, a 19 anni si era allontanato
da casa, per tentare il mestiere di parrucchiere, senz'altro risultato che di lasciarsi
travolgere dalla violenta passione per la provocante moglie di un pastore anglicano, dalla quale si staccherà solo il giorno in cui si deciderà a partire alla scoperta dell'America... Sospeso al suo paracadute, là, in quel punto di cielo lontano,
il nostro Christy ripensa all'entusiasmo con cui aveva sognato di prendere la
cittadinanza americana, mentre, ora, più si avvicina alla terra e meno americano
si sente... Gli avevano detto che l'America si doveva difendere in Asia; ma, egli
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considera, se gli Stati Uniti sono veramente la nazione più forte del mondo e
posseggono armi tali da poter distruggere più volte l'intera popolazione del globo,
che cosa avrebbero da temere anche se tutto il resto del mondo diventasse comunista?
Come si vede, non mancano nel romanzo anche motivi e temi di una attualità
umana e scottante, benché appaiano soltanto accennati, in quanto solo le vicende
di Christy, da lui rievocate quando è sospeso tra cielo e terra, costituiscono il
fulcro dell'opera che in Francia ha riscosso enorme successo.
Con Une pomme oubliée, Anglade, pur non allontanandosi dal campo del realismo, rimane in un certo senso legato al regionalismo a lui caro; non per nulla,
infatti, fu discepolo ed amico di Pourrat, dal quale ha ereditato l'attaccamento
alla terra natia e l'arte singolare di colorire d'humour i costumi dei contadini del
luogo. Si nota inoltre, nel romanzo, un certo interesse, anche se velato, per i problemi sociali, di cui, in altre opere, l'A. si è manifestato profondo specialista.
Tutto il romanzo ha per sfondo il Peyroux, nel Puy-de-Dórne, il cui ambiente
è ritratto con toni che variano dal faceto, al triste, al drammatico. Personaggio
principale dell'opera è una vecchia contadina, Mathilde, unica superstite in un
angolo d'Alvernia da cui gli abitanti, quelli sopravvissuti, si sono allontanati per
cercare in città, con un lavoro meglio retribuito e meno duro, con le ferie pagate e l'assistenza sociale, migliori condizioni di vita. Mathilde è un esempio meraviglioso di bontà, di semplicità, di volontà, di coraggio. Perduto il marito in
guerra e rimasta sola con un figlio, dal quale prima è trascurata ed infine addirittura abbandonata, rifiuta nuove nozze e si assume, come unico scopo della sua
esistenza, il compito di ridar vita al paese di cui ormai si ritiene custode. E in
realtà, a somiglianza di una mela dimenticata sull'albero, è quasi l'angelo custode
del piccolo villaggio, dove nessuno ormai più si ferma se non per qualche ora;
anche gli stessi eredi di quelle umili case passano da lì solo di tanto in tanto
per dare aria alle camere, ed indarno Mathilde si affanna per trattenerli. La
povera donna trascorre i suoi giorni in compagnia dei grilli, delle caprette, di
qualche gallina, con i quali parla mentre sferruzza, non per farsi coraggio, dal
momento che non ha paura né dei ladri né dei briganti, ma unicamente per
crearsi in un certo senso l'illusione di non essere completamente sola. In effetti,
a parte qualche raro salto in città per acquisti, la donna è pressoché isolata dal
resto del mondo, perché non possiede alcun mezzo di locomozione ed è sprovvista
di telefono, di radio, di televisore. Ella è come un fantasma che picchia indarno
alle porte delle case dove non c'è più nessuno, e rievoca con malinconica nostalgia
i tempi in cui la gente era ancora lì... Ma ecco che un giorno, da una delle catapecchie abbandonate, vede alzarsi un filo di fumo; un giovane, figlio di gente del
posto, pare che abbia deciso di tornare a vivere nella casa paterna. Mathilde lo
aiuta e lo invita a trattenersi in paese; il suo cuore si riempie di speranza, non
tanto per la sua solitudine quanto per il Peyroux. Purtroppo però la delusione
non tarda a sopraggiungere. Ed è appunto qui che il dramma ha il suo epilogo:
la vecchia Mathilde infatti, proprio come la mela che, dimenticata sull'albero, è
già marcita e sta per cadere, cadrà con tutte le sue illusioni.
Nel romanzo si respira l'aria salutare delle colline dell'Alvernia di cui Anglade
esalta i costumi e descrive gli usi con il linguaggio caratteristico della gente di
campagna. La veste tipografica, con cui l'opera viene presentata, invita a leggere,
ed una magistrale 'raillerie' contadina, rimessa espressamente in onore, rende
più piacevole il racconto che, proprio per la descrizione di costumi specifici, trova
appassionati lettori anche al di fuori del campo letterario.
GIANFRANCO BASILE
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F. VINCENTI - Una Rolis Royce lolla nera - iii « Prove - Città di Rapallo », 1969.
Fiora Vincenti, nata a Milano, vi esplica la sua attività di giornalista. Fondatrice nel 1956 della rivista « Uomini e libri » di cui è redattrice, ha pubblicato una
raccolta di poesie « Invisibili bruchi » e due romanzi « Malattia » (Premio OggiLacco Ameno) e « La coscienza del diavolo ». Nel '68 ha avuto il secondo premio
« Il ceppo » per il racconto « Dell'infilare cavi » apparso su « Uomini e libri ».
Con « Una ROLLS ROYCE tutta nera » si è nel '69 rivelata vincitrice dell'Ottavo
premio Rapallo-Prove.
Una ragazza moderna rompe i rapporti con la famiglia e l'ambiente per acquistare l'indipendenza, ma soprattutto per sfuggire all'incomprensione dei suoi. Alla
solitudine morale nell'ambito degli affetti familiari, preferisce sostituire quella,
totale, nella dignità della sua libertà. Nel rapporto-dramma che s'instaura con i
suoi, vari sono i fattori. La sorella insensibile, con quella sua ottusità nel comprendere le cose, la fa sentire sola sempre di più. « Non rideva ai funerali, non
piangeva ai battesimi. Non provava amore o ribrezzo, non era capace di odiare.
Né di amore o pietà » così parla della sorella e l'incomprensione la porta ad isolarsi sempre di più nel suo mondo fantastico fatto di sogni, ma anche di incubi,
di sensazioni profonde e d'inavvertite paure.
Per non parlare dei genitori, esasperanti a tal punto da farle pensare con
sollievo che non siano i suoi veri genitori. Fino all'avvilente riunione di famiglia
che decide l'internamento in una casa di cura. Di qui la fuga della ragazza verso
la libertà e allo stesso tempo il mettersi irrimediabile in una situazione senza
via di uscita. Caduta nelle mani d'una banda non precisata, le viene affidata una
lettera che la farà presentare, come colpevole, sul banco degli imputati. Tutto
ciò senza che a noi appaia chiaro fino a che punto c'è l'inconscio con tutte le
sue paure e i suoi timori e fin dove invece c'è la trama di un romanzo o una
inchiesta giudiziaria. Con grande efficacia viene dall'A. riprodotto tutto questo
mondo fantastico, fatto d'immagini grandiose che solo nei sogni più o meno confessati si possono individuare. Potrebbe benissimo essere la trasposizione narrativa d'una seduta psicoanalitica ove senza una apparenza logica si susseguono
immagini, impressioni, sensazioni chiare e inavvertite. Qui è chiara la straordinaria abilità dell'A; che, ben sicura della lezione di Freud, conduce il suo lungo
colloquio senza mai cedere, con una abilità prodigiosa che rivela una tecnica
scaltrita e un linguaggio lineare ed incisivo. Questo mi sembra il punto base del
romanzo: un modo di esprimersi modernissimo che mette a frutto le nuove esperienze, senza peraltro cadere nell'accademismo o nell'artificio. Il libro
appassiona e coinvolge il lettore in quest'avventura dello spirito più che nella
trama che è al limite tra il reale e l'irreale senza avere una sua logicità intrinseca
e tuttavia non scantonante mai nell'assurdo. E' un viaggio nel mondo dell'inconscio
ove ogni persona, cosa, immagine, può stare nella realtà, ma allo stesso tempo è
aldilà della realtà nel momento in cui si presenta come un incubo che ossessiona
la ragazza. La trama infatti è pressocché inesistente, tutto ha la sua funzione
solo in quanto possibile. Gli inseguitori che sono uno o più, i vari personaggi
che la protagonista incontra nella fuga, tutti « forse » appartenenti ad una
banda (ma quale banda, esiste questa?), il Picchio sempre una figura enigmatica,
« forse » quello della sciarpa e con gli occhiali azzurri, incontrato all'inizio della
storia, o « forse » anche qualcun altro, in sostanza tutti questi personaggi appartengono alla realtà e s'inseriscono nel contesto d'una trama o sono le ossessioni
che travagliano questa ragazza e culminano nella frase finale « HO PAURA »?
Questo non sta a noi individuarlo, né ha importanza. L'A. infatti non ha voluto
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porre la storia della fuga da un punto di vista sociale, né ha voluto bollare una
società che coinvolge nei suoi sporchi ingranaggi una ragazza che ha il solo
torto di non riflettere. Quindi non ci sono i grandi temi tradizionali,
non è un romanzo di costume né un romanzo sociale, ma solo un'avventura dell'inconscio con tutti i pregi e al tempo stesso i limiti che una cosa del genere comporta. Con questo raggiunge anche toni di grande poesia come la parte
in cui descrive la sua discesa al fiume. « Poi, tutto intorno, si è levato un gran
vento, il cielo ha cominciato a vorticare sopra di me, un rombo lugubre, spaventoso, un clamore agghiacciante, centinaia d'ali, di zampe lunghe e sottili, di colli
protesi nel grido », così come in molte altre sue immagini specialmente nella
parte che va dall'inizio del romanzo alla fuga. La seconda parte, pur non cadendo
mai di tono, è meno ricca d'immagini ed inferiore alla prima ma non delude, confermando ancora la maestria di Fiora Vincenti.
ADELE ZITO
C. MARABINI - Gli anni Sessanta narrativa e storia -
Milano, Ed. Rizzoli, 1969.
Quella degli Anni Sessanta andrà presso gli storici futuri come una sorta di
mitologia carica di spunti interpretativi, un momento, nell'area della civiltà del
Novecento, diremmo di ricambio, vivace e laborioso, lungo il cui asse certi valori,
di estrazione etico-sociale per fare un caso, vanno fatalmente declinando, fino a
dissolversi del tutto, ed altri, della stessa o di altra estrazione, si vanno proponendo — ed al vaglio della contingenza sistematicamente affermando tra urti e
contrasti d'ogni natura — agli occhi dello spettatore, apparentemente al di fuori
della vicenda, ma, pur da semplice registratore, nella vicenda calato del tutto,
veramente da protagonista affinché quei valori, una volta entrati nel circolo di
larga fruizione, assumano la loro esatta e determinante dimensione umana. Una
mitologia, pertanto, quella degli Anni Sessanta, che si sviluppa lungo una vorticosa spirale, di sollecitazioni negative e positive nel complesso, a seconda dell'intersecarsi e dell'escludersi delle reazioni le più disparate, all'interno della quale,
necessariamente presente, è la Storia, valore universale, concreto nelle sue configurazioni, agente secondo impulsi sulle prime non circoscrivibili, ma valore cui
gli altri tutti si rifanno al fine di autenticare nella misura dell'umano la propria
necessarietà al cospetto dell'epoca che li vede alla ribalta.
Anche nell'area della letteratura narrativa gli Anni Sessanta rappresentano
per una non vasta, ma consapevole della propria disponibilità, categoria di scrittori — quella che maturò spiriti e forme nello speranzoso fervore (ma quanto
presto spento dagli eventi politici e di costume sopravvenuti!) del '45, una data
imprescindibile nel panorama delle lettere italiane del Novecento — un momento
fondamentale, quello della maturità conseguita — ma in qualche caso amaramente
provocata da tutta una somma di perentori approfondimenti — allorquanto s'è
andato verificando, lungo tutto il corso del decennio in sostanza, quel ricambio
di valori cui s'è accennato. Un fermento di proposte, se vogliamo, alcune appena
avanzate e poi lasciate cadere per difetto di consistenza, che è come dire di aderenza alle necessità storiche, altre imposte, ma sorrette dagli eventi che incalzando ne agevolavano l'aderenza, un fermento che, in definitiva, se non ha dato
una nuova narrativa — ed a questo punto il discorso potrebbe assumere altra
direzione — ha dato, però, ed è dato incontestabile, un nuovo aspetto della narrativa corrente fino alla soglia degli Anni Sessanta.
Impegno di un critico militante stricto sensu, seriamente interessato, come
Claudio Marabini è stato appunto di darci in un folto volume — Gli Anni Sessanta
narrativa e storia. Milano, Ed. Rizzoli, 1969 —, degli scrittori che negli Anni Ses453
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santa sotto la spinta di forze varie hanno impresso al loro esercizio una direzione
diversa, una svolta, inclassificabile all'apparenza, ma certo più consona aí tempi,
di questi rilevante riflesso, dei profili nei quali l'esercizio narrativo più 'recente,
visto in una prospettiva di rapporti storicisticamente dimensionati, per quel che
riguarda l'insieme, è esaminato alla luce di certe peculiarità che valide in assoluto nei confini dell'esercizio stesso, si propongono come incisivamente determinanti
nei confini del decennio durante il quale le opere son venute alla luce.
Marabini, da critico militante appunto che attende quotidianamente agli eventi della letteratura nel suo farsi, affronta i suoi autori non avendo di mira una
sistematicità dell'indagine, ma sul piano di preferenze o di contingenti sollecitazioni e riesce, in virtù di un approfondimento critico che tien conto di tutti i possibili addentellati con la realtà storica — quella, se vogliamo, cui gli autori per
un verso o per l'altro intimamente partecipano — a darci degli Anni Sessanta,
nel complesso, una visione non superficiale, ma il più possibile aderente alla
realtà.
Ho scelto gli autori di questi saggi — anticipa il Marabini in una efficace
prefazione — secondo un criterio di generazioni, ma anche per simpatia, per gusto e per lo stimolo di certe opere recenti. E' stato spesso un piacere intimo e
vivo percorrerli nella loro opera, scoprirli in qualche pagina lontana e ignorata... »
e c'è, in questa rapida notazione, il fulcro umano e culturale intorno al quale
l'indagine del Marabini ruota: il criterio di generazioni avvia la ricerca e delimita,
necessariamente, il quadro, ma c'è anche la simpatia, il gusto, lo stimolo; elementi, apparentemente esterni, che al quadro danno la tinta dell'umano, indispensabile in ogni intervento critico che non voglia restare mero e freddo fatto
culturale.
Quali sono gli autori cui Marabini chiede di definire il quadro degli Anni
Sessanta? Berto, Cassola, Moretti, Buzzati, Palazzeschi, Calvino, Landolfi, Pratolini, Tobino, Silone, Bassani: non rientrano nel piano generazionale Moretti e
Palazzeschi che, però, adeguatamente s'inseriscono nella prospettiva critica del
Marabini per certa, evidente facoltà di cogliere le suggestioni dell'epoca e di
trasfonderle in opere dalla pregnante attualità.
Ma possono nove scrittori — escludiamo, di proposito, appunto Moretti e
Palazzeschi per conservare integra la prospettiva generazionale — determinare i
limiti di un momento storico in 'rapporto alle vicende della letteratura narrativa?
La domanda ci appare legittima, ma i saggi del Marabini confermano che i nove
scrittori di una generazione maturata dopo la seconda guerra mondiale, ed anche
gli altri due, esclusi sul piano generazionale, agevolmente danno il tono di un'epoca, ne definiscono i contorni sotto tutti gli aspetti. Tuttavia, qui più che la prospettiva, che imprescindibile resta sempre alla base dell'esercizio critico del Marabini, interessano, dato il tono monografico, i saggi che riflettono i singoli autori.
Fermo restando il comune denominatore storico valido come struttura portante,
i saggi sono quanto di più preciso, per qualche autore particolarmente, sia stato
scritto a tutt'oggi, nei quali la felicità dell'intuizione critica del Marabini ha agio
di compiutamente dispiegarsi e ciò in virtù di quell'esercizio militantistico che
il critico va da anni esercitando e che gli propone tutti gli umori con i quali la
narrativa dei nostri anni si rivela al lettore interessato e scaltrito. Il caso del
saggio su Buzzati, la cui presenza nell'area della tormentata spiritualità del tempo,
un tempo carico di oscuri richiami, il critico mette in evidenza mediante tutta
una serie di acute osservazioni; al saggio su Buzzati si collega quello su Silone,
la cui problematica il critico coglie per notazioni ampie ed ampiamente esplicative
dalle quali lo scrittore emerge distintamente. Uno dei saggi fondamentali è dedicato a Palazzeschi: percorrerne tutta l'attività, metterne in evidenza i rapporti
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con le epoche storiche, avvertirlo nei riflessi con altri scrittori è stato per il Marabini un autentico piacere che si coglie nei momenti in cui la critica diventa
a tal punto adesione allo scrittore esaminato da proporre autentici brani creativi.
A questo punto viene legittimo chieder conto dell'esclusione di scrittori come
Gadda o come Moravia: per Gadda il critico denuncia che « ...la sua recente narrativa avrebbe richiesto un modulo critico ed espositivo diverso da quello che
in queste pagine s'è voluto mantenere il più possibile costante », che è esemplare
professione di modestia, mentre « ...Moravia sembra aver confinato troppo spesso
la sua indiscutibile arte in una sterile esibizione di bravura, fornendo una narrativa in cui sembrano soltanto agitarsi schematizzanti problemi intellettuali... »:
pagine ancora aperte, dunque, cui un critico come Marabini non potrà non tornare.
ENZO PANAREO
L'anarchismo dalla dottrina all'azione - Roma, Samonà e Savelli,
1969, pp. 188, L. 1300.
DANIEL GUERIN -
Molto opportunamente giunge a noi — sebbene con sei anni di ritardo —, in
una perspicua traduzione dal francese, questa operetta di Daniel Guérin.
Libertario che associa ad una prassi rivoluzionaria delle più appassionanti e
conseguenti — le giornate del maggio parigino dello scorso anno lo videro protagonista — una sicura conoscenza dell'anarchismo come elaborazione e sviluppo
di pensiero da Proudhon, attraverso Bakunin Kropotkin e Malatesta, fino ad oggi
Guérin affronta sul piano della sistematicità più serrata i nodi che han fatto
dell'anarchismo, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, una delle dottrine
più controverse e talvolta meno interpretate nell'area dei movimenti politici rivoluzionari. Nell'ambito della suddetta sistematicità lo scrittore esamina con la
sicurezza del teorico i postulati più diffusi dell'anarchismo come l'autogestione,
il sindacalismo, le comuni, il federalismo, l'internazionalismo, la decolonizzazione,
e di tutti dà un profilo, se pur breve, attento ed aperto ad ogni approfondimento.
Evidente è che all'autogestione il Guérin dedica un interesse particolare come all'istituzione che maggiormente propone, in termini di prassi, l'anarchismo in fase di realizzazione. Interessanti, anche se discutibili dal punto di vista della
dottrina filtrata attraverso un secolo di elaborazione teorica, le osservazioni, rapide, del Guérin a proposito dei rapporti tra anarchismo e marxismo osservati in
una prospettiva, molto soggettiva ma non per ciò priva di un certo fondamento
nella misura dell'azione, se non dei punti terminali di questa, di caratteristico
mutualismo destinato, ad un certo momento, a non trovar riscontro nella pratica
dei fatti.
Dopo l'esame dei postulati teorici dell'anarchismo lo scrittore scorre le proposte della pratica anarchica in alcuni momenti particolarmente interessanti il movimento operaio internazionale: l'anarchismo nella rivoluzione russa — notevoli
e non prive di mordente storico le pagine destinate alla repressione dell'anarchismo e quelle destinate alla « Machnovcina » —; nei consigli di fabbrica italiani
e nella rivoluzione spagnola. A proposito dei consigli di fabbrica italiani il Guérin
ne evidenzia la base tipicamente anarchica ed illumina la posizione del periodico
l'Ordine Nuovo nel movimento del tempo.
Interessanti le osservazioni che lo scrittore dedica ai problemi sollevati, in
paesi come la Jugoslavia e l'Algeria, dall'autogestione: in tali paesi l'autogestione,
istituzione tipicamente anarchica, s'è trovata a dover coesistere — con gli inevitabili compromessi e scadimenti della formula — con il dirigismo ed il burocratismo di stato, al di là dei quali l'autogestione si snatura del tutto assumendo
aspetti tipici di ogni formazione capitalista.
ENZO PANAREO
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