Pierpaolo Bellucci
COMUNICAZIONE
E MASS MEDIA
PROSPETTIVE
PER OGGI E DOMANI
2008
1.
LA COMUNICAZIONE NELLA STORIA
Nel recupero storico dell’evoluzione tecnologica dei media e del loro impatto antropologico,
è necessario guadagnare una prospettiva: ogni innovazione tecnologica nel mondo
comunicativo non si è mai sottratta alla fatica di ridisegnare le modalità di presenza dei
media già esistenti. In altre parole, l’ultimo arrivato non elimina coloro che popolano la scena da
decenni, ma ne ridisegna la collocazione.
L’epoca dell’oralità
In una cultura ad oralità primaria una conoscenza concettualizzata che non venga ripetuta ad
alta voce, svanisce presto, e le società che su di essa si basano devono investire molta energia
nel ripetere più volte ciò che è stato faticosamente imparato nel corso dei secoli. Tra le
caratteristiche della cultura orale, possiamo annoverare che si tratta di una cultura nella
quale il sensorio predominante è l’orecchio. Nella Bibbia abbiamo un primato dell’uso del
verbo “ascoltare” sul verbo “vedere”. Altro elemento che contraddistingue la cultura orale è
la ripetizione. Si evince che questa cultura tendeva ad essere conservatrice e tradizionalista.
L’epoca della scrittura
Per trovare le prime testimonianze di un sistema di scrittura, dobbiamo risalire al IV
millennio a.C. in Mesopotamia con i Sumeri, e nel 3000 a.C. con gli Egizi. I primi avevano un
sistema detto cuneiforme, e fu il risultato di un procedimento che col tempo enfatizzò
l’elemento fonetico a discapito di quello figurativo. Inizialmente abbiamo il pittogramma,
ovvero un segno per indicare una cosa. Successivamente si sviluppò l’ideogramma, ovvero un
sistema comunicativo basato su simboli in grado di esprimere un concetto. Un esempio
contemporaneo sono i cartelli stradali. Infine abbiamo i fonogrammi, ovvero segni che
rappresentano suoni. Riguardo gli egizi, il loro sistema era basato sui geroglifici, utilizzati
inizialmente per le iscrizioni religiose e monumentali. Si trattava in tutti e tre i casi di sistemi
di scrittura a immagini. Se ci spostiamo nel territorio dei Fenici, l’attuale Siria, abbiamo il
caso del “sillabario senza vocali”, inventato tra il XV e il XIV secolo a.C. Non si assegnava più
un segno ad ogni suono, bensì prendeva piede un sistema stenografico, che raggruppava le
sillabe in serie, ciascuna delle quali aveva un denominatore comune nella consonante di
riferimento. La vera rivoluzione si ha con l’avvento dell’alfabeto greco: i greci sciolsero le
sillabe in componenti fonetiche astratte: consonanti e vocali. La fortuna dell’alfabeto greco
venne data dal fatto che soddisfece tre presupposti teorici:
1. tutti i fonemi devono essere resi nel linguaggio in modo esauriente;
2. il numero dei segni deve essere contenuto entro una cifra oscillante tra i 20 e i 30;
3. i segni non devono essere suscettibili di un doppio o triplo impiego.
L’efficienza fonetica dell’alfabeto greco fu superiore a tutti i sistemi di scrittura allora
esistenti, e questo spiega l’influsso della cultura greca in tutto il bacino europeo. Questo
alfabeto venne introdotto attorno al VII secolo, ma inizialmente veniva utilizzato solo per le
iscrizioni, venendo diffuso solo successivamente. Le caratteristiche della cultura
chirografica (ovvero: scritta) furono una perdita di memoria da parte dell’uomo, che
depositava il suo sapere sui libri, senza affaticarsi nella trasmissione orale. Inoltre, non
essendo più impegnando nella trasmissione della memoria, poteva dedicarsi ad attività
maggiormente creative. E’ proprio del V secolo a.C. la critica di Platone alla scrittura,
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all’interno del “Fedro”, in quanto porta gli uomini all’oblio intellettuale, attingendo alla
cultura non più dal proprio interno ma da una fonte esterna. Con la scrittura si avvia il
processo di ampliamento del lessico dovuto all'ausilio di un archivio di memoria fisico, per
cui si è passati dalle 5.000 parole dei dialetti delle culture orali alle oltre 150.000 parole del
Dizionario della lingua italiana del 1990.
L’epoca della stampa
Sappiamo che l’invenzione della stampa si deve al torchio di Gutenberg. Il metodo di
lavoro per l'invenzione di Gutenberg non richiede, almeno apparentemente, molti
elementi. Erano semplicemente quattro gli elementi necessari: la carta, l'inchiostro, il
torchio a vite e i caratteri mobili. Sviluppo economico, università e fermento culturale della
fine del Medioevo sono gli elementi che predispongono la grande accoglienza della nuova
tecnologia di scrittura. Nel giro di trent'anni l'Europa è un pullulare di tipografie. Con
l'avvento della stampa nascono nuove figure professionali: gli editori, gli stampatori, i
correttori di bozze e i librai. Anche il pubblico cambia: non più solo ecclesiastici e
intellettuali ma anche la classe emergente, la borghesia. Gli editori e gli stampatori si
orientano al pubblico, pongono attenzione ai consumatori. I primi libri stampati, detti
incunaboli, somigliano ai libri manoscritti. Tale fatto è fisiologico rispetto ad ogni nuova
invenzione. Certamente il passaggio dall'epoca chirografica a quella tipografica rappresenta la
maggiore democratizzazione del sapere, anche se è necessario precisare che ciò è vero
relativamente all'epoca degli amanuensi, e non in assoluto. Gli amanuensi sia per la
necessità di velocizzare la ricopiatura dei testi sia, forse, per lasciare tracce di sé nel testo
che obliavano l'autore, procedevano per abbreviazioni ed erano soliti unire le parole.
Tale sottocodice poneva gli amanuensi in una posizione di radicale importanza: era
necessario continuamente rivolgersi a loro sia per leggere che per procedere a ricopiare
senza errori. A volte la lettura di tali libri richiedeva di mettere in uso il sensorio
dell’udito, per meglio distinguere le parole che a vista erano unite. La stampa, separando
le parole ed eliminando le abbreviazioni rende, almeno a livello ideale, il sapere accessibile
a chiunque. Non dimentichiamo che tale democratizzazione del sapere è bene considerarla primariamente come un processo lento e non sempre facile. Non solo perché
inizialmente i libri stampati assomigliavano a quelli degli amanuensi con tutti i problemi
appunto dei loro antenati, ma anche e soprattutto per i costi elevati e l'ancora troppo
iniziale alfabetizzazione delle persone. Con il passare del tempo si giunse alla
qualificazione di alcuni elementi come la grafica sempre più chiara, la precisione nella
composizione ed eventualmente l'errata corrige e soprattutto la distinzione non solo tra
le parole, ma anche un’articolazione con titoli, capoversi ed illustrazioni: elementi che
saranno decisivi nella concorrenza tra editori, che non tarderà a farsi sentire. Altro
elemento importante è la nascita del reato di plagio. I testi non sono più orfani come
nell'epoca chirografica degli amanuensi; ora hanno un padre che difende il proprio figlio
a costo anche di intraprendere una battaglia in tribunale. Vediamo in sintesi alcune
caratteristiche della nuova cultura tipografica. Accanto alla purificazione del latino, la
stampa contribuì allo sviluppo delle lingue nazionali. Infatti gli editori, attenti alla
possibilità di vendita delle proprie opere, privilegiarono la pubblicazione di opere in
lingua nazionale. Così la stampa, a servizio di un pubblico sempre meno d'elite, accentuò
e diede forza alle lingue nazionali e le cristallizzò. Un dato importante è la
normalizzazione ortografica che la stampa provocò. Ciò che non poté la cultura
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manoscritta, lo poté quella tipografica; mentre la prima «non aveva alcun potere di fissare
una lingua o di trasformare un vernacolo in un mezzo di comunicazione di massa per la
realizzazione dell'unità nazionale», la seconda rese meno fluidi i cambiamenti a livello
linguistico, arricchì il lessico e si fece portatrice di vere e proprie unità nazionali.
L'introduzione della scrittura alfabetica aveva portato ad una certa uniformità, continuità,
ripetibilità ed omogeneità. Questi elementi con l'introduzione della stampa si
enfatizzano e se ne aggiungono di nuovi come la sinteticità, l’analiticità, il pensiero astratto.
Anche l'andamento formulaico perde definitivamente terreno e il nuovo sensorio,
l'occhio, diviene capace di uno sguardo di insieme. Importanti cambiamenti furono
introdotti anche relativamente all'autore e al lettore. Nella cultura manoscritta di chi fosse la
paternità letteraria di un manoscritto poco contava. Gli stessi studiosi medioevali non
erano molto interessati a chi fosse l'autore dei libri su cui studiavano e d'altra parte gli
stessi scrittori non avevano attenzione a dichiarare la paternità delle cose prese da altri.
Inoltre è da sottolineare che il testo dell'autore e le note o le glosse del lettore godevano
dello stesso status. La figura dell'editore ha trasformato la parola in una merce, in modo tale
che l'autore percepisse uno stipendio. Si fece strada dunque, seppure lentamente, il
diritto d'autore. La situazione esplose quando i libri stampati divennero molti e
soprattutto quando s’iniziò a stampare le opere dei contemporanei. Ha inizio un
lento cammino passato dapprima dai privilegi regali, successivamente alle prime
disposizioni di legge nel 1709 con il Copyright Act seguito dalla Francia e dalla
Germania. Si dovette attendere però fino al 1886 con la Convezione di Berna, in cui fu stabilita
la reciprocità internazionale dei diritti. Nel frattempo i libri andarono miniaturizzandosi,
rendendosi così facilmente consultabili e leggibili in qualsiasi luogo. L'avvento della
stampa permise di produrre libri con costi assolutamente inferiori rispetto ai costosi libri
che gli amanuensi copiavano. L'accesso al sapere dei libri stampati diede impulso alla
costruzione di biblioteche di privati. L'espandersi del libro offre una grande possibilità al
sapere scientifico: la raccolta dati. Anche all'epoca degli amanuensi esistevano testi
scientifici la cui validità però era sempre sotto tutela, per la facilità delle imprecisioni e degli
errori che nella fase di copiatura potevano avvenire. Ora il libro diviene un bagaglio di dati
corretti, con mappe, disegni e diagrammi che con il tempo andavano assumendo forme
sempre più precise. Questo condusse ad una vera e propria rivoluzione scientifica: gli
uomini di scienza non solo potevano contare su un sapere fissato e verosimilmente corretto,
ma potevano anche avere a disposizioni biblioteche molto ricche e fornite che, per lo
scienziato, diventavano vere e proprie mappature di sapere.
Il via alla stampa del giornale
È questo un ulteriore contributo dovuto all'invenzione di Gutenberg. Come sempre ogni
innovazione tecnologica trasforma qualche cosa che già esisteva. Così nel Trecento
esistevano delle forme di fogli d’informazione tra filiali di grandi compagnie commerciali.
Erano poco più che lettere sulle quali si potevano trovare informazioni circa i prezzi delle
merci, i movimenti delle navi e i principali fatti che erano avvenuti nelle maggiori corti
europee. Si dovette attendere il 1513 per giungere al primo libro di notizie a stampa.
I media elettronici
Tra gli avvenimenti che hanno segnato il ventesimo secolo occupano un posto di rilievo
l'avvento e la rapida e capillare diffusione dei mezzi di comunicazione di massa. La
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nozione di mass media si basa su un’assunzione di fondo, che nasconde sotto di sé un altro
presupposto. L'assunzione è che la società industriale sia una società di massa: il presupposto
è che essa abbia come caratteristica fondamentale la produzione in serie, di merci come
beni informativi o culturali. La produzione in serie genera la massa, la massa caratterizza
tutti i prodotti culturali generati specificamente dalla società industriale, e soprattutto
quelli che non possono vantare una tradizione preindustriale (e quindi esercitare una
resistenza alla democratizzazione). Ecco dunque che i mezzi di comunicazione tecnologica
fondati sulla distribuzione ad un grande pubblico sono mezzi di massa, e come tali, a
partire dalla definizione stessa, confermano con la loro presenza il presupposto della loro
descrizione. I mass media hanno cambiato la modalità di lettura e di scrittura, hanno
cambiato tempi e caratteristiche del divertimento e hanno rimodellato anche il sensorio
oltre che rimodellare in qualche modo i processi educativi. Se molto tempo fu necessario per
introdurre la scrittura e ancora molto ne dovette trascorrere per giungere all'invenzione della
stampa, dalla metà del XV secolo lo sviluppo tecnologico presenta una crescita con intensità
esponenziale: nel giro di 500 anni infatti, siamo passati dal torchio di Gutenberg alla
comunicazione satellitare.
Il telegrafo, la fotografia, il cinema, la radio e la televisione
Possiamo indicare il 1844 come data d’inizio della rivoluzione elettrica ed elettronica. Si tratta
dell'anno in cui Samuel Morse inaugurò un collegamento telegrafico tra Washington e
Baltimora. Ed è con il telegrafo, afferma Marshall McLuhan, che l’uomo “entrò in un mondo
nuovo di zecca fatto di subitaneità”, ovvero capace di far pervenire subito un messaggio in
tempo reale. Se fino a quel momento le notizie camminavano insieme alle gambe dell'uomo,
a cavallo, attraverso i fiumi o con le locomotive e tutti i tentativi precedenti di trasmissione
istantanea fallirono, ora il mondo presentava una possibilità del tutto inedita: la
subitaneità. Soltanto con l'avvento del telegrafo i messaggi poterono viaggiare più in fretta
del messaggero. Il termine comunicazione è stato ampiamente usato con riferimento alle
strade, ai ponti, alle rotte navali prima di trasformarsi, con l'era elettronica, in movimento
di informazione. Così negli anni in cui Morse modificava il modo di trasmettere notizie, in
Francia, Louis-Jacques Daguerre, con la fotografia, andava sviluppando un nuovo modo di
rappresentare e percepire la realtà. Quali, dunque, le conseguenze dell'introduzione
della riproduzione fotografica della realtà? La fotografia influisce anzitutto sulla nostra
percezione di realtà. Lo sguardo della macchina, infatti, si organizza in funzione del punto di
vista, dell’angolazione, dell'inclinazione, compromettendo il rapporto immediato di chi
osserva con l'oggetto della sua osservazione. Anche dal punto di vista informativo poter
contare su un supporto visivo modifica la gestione della notizia stessa che può far leva non
solo sulle parole ma anche sulle immagini. Figlio naturale dell'invenzione della fotografia è
il cinema. Il cinema ha una data ufficiale ben precisa: la sera del 28 dicembre 1895 al Salon
Indien del Café in Boulevard des Capucines a Parigi avvenne la prima proiezione pubblica
con alcune decine di spettatori rigorosamente selezionati. Vennero proiettati sette
cortometraggi che i fratelli Louis e Auguste Lumière avevano girato qualche mese prima:
la reazione del pubblico fu di sorpresa, meraviglia, sbalordimento, perché, per la prima
volta nella storia dell'umanità, si potevano ammirare immagini in movimento di una realtà
oggettivamente rappresentata senza trucchi o artifici. Il cinema dei Lumière non è
un'invenzione casuale o fortuita: al contrario, come abbiamo visto, rientra piuttosto in
un discorso sulla fede ottimistica nel progresso tecnico-scientifico che pervade tutta la
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seconda metà del XIX secolo, quando ricercatori di tutto il mondo tentano di animare la
fotografia inventata cinquant'anni prima da Nièpce e brevettata da Daguerre. Infatti Marey
e Muybridge rispettivamente in Francia e negli Stati Uniti inventarono una sorta di
sequenza fotografica in grado di riprodurre, ancora staticamente, il movimento di una
persona o un animale, preludendo quasi alla fondamentale scoperta dei Lumiere di una
pellicola che mette in sequenza 24 fotogrammi al secondo, riproducendo e dunque
rappresentando il movimento reale del mondo circostante inquadrato da una macchina da
presa (o cinecamera). Con l'avvento del cinema, in breve tempo muteranno sia la cultura sia
l'esperienza dell'uomo moderno, dalla percezione del mondo esterno all'impiego del tempo
libero, dal modo di raccontare le storie al sistema di concepire l'arte e l'estetica. La storia della
radio ha radici molto remote. Possiamo giungere fino al 1535 con il telegrafo simpatico, una
sorta di apparecchio basato sul fenomeno dell'attrazione magnetica destinato alla trasmissione di messaggi. Dopo tre secoli, nella prima metà dell'Ottocento, a Londra Michael
Faraday conclude i suoi lavori circa il fenomeno dell'induzione elettromagnetica. Il passo
decisivo però si compirà in Germania ad opera di Heinrich Rudolph Hertz per mezzo
dell'oscillatore, apparecchio formato da due parti; una che trasmette ed una che riceve le
onde elettromagnetiche. A fine Ottocento le condizioni tecnologiche per una trasmissione
via radio già esistono. Molti sono stati i contributi e le scoperte scientifiche che hanno
condotto alla nascita della radio, ma sarà il bolognese Guglielmo Marconi ad essere eletto
padre della radio, chiamato successivamente da Pio XI a progettare la Radio Vaticana (12
febbraio 1931). In Italia nel 1924 l’URI – Unione Radiofonica Italiana – inaugurava la sua
prima trasmissione con notiziari di borsa, trasmissioni per bambini e inni ufficiali. La
radio, il cui fascino non attese a farsi sentire proprio per la sua capacità di creare una
vicinanza, per il suo utilizzo privato, quasi intimo, ha accompagnato, e anche segnato, le
tappe più importanti della nostra storia, dalla propaganda fascista alla cronaca della
Liberazione su Radio Londra. Con l'avvento della radio per la prima volta il mezzo di comunicazione acquista un'altra dimensione, diviene un oggetto, un elemento di arredo nelle
case, in grado di determinare lo status di una persona e di rappresentare qualcosa di più e di
diverso, rispetto al semplice veicolo d’informazioni. In pratica la radio diviene, al pari di
altri elettrodomestici che seguiranno, uno status symbol, capace di innescare potenti
meccanismi imitativi. La TV fin dall'inizio usa e sfrutta le strutture già esistenti del sistema
radiofonico: pubblico in Europa, privato in America. E anche come linguaggio la TV si
modella sul sistema radiofonico, nel senso che non diventa soltanto un linguaggio di fiction,
come accaduto di fatto per il cinema (salvo rare eccezioni), ma segue, aggiungendo le immagini al sonoro, il linguaggio radiofonico modellato su tre grandi macrogeneri:
informazioni, cultura, spettacolo. A livello di spettacolo la televisione può proporre il cinema
teletrasmesso, ma fin da subito preferisce essa stessa creare nuovi formati specifici; ecco
quindi i telefilm, le soap opera, le telenovela, gli sceneggiati, i teleromanzi, insomma una
narrazione con spazi e tempi televisivi, talvolta lontanissimi come estetica dai codici
filmici e cinematografici in genere. Più che al cinema la TV guarda ad esempio, durante le
proprie origini (epoca della paleotelevisione) al modello teatrale: esiste un teleteatro di
stampo culturale, ma anche il cosiddetto varietà e tutta la programmazione leggera deriva in
fondo dalle forme popolaresche d'arte scenica. Per l'informazione invece la TV preferisce
rifarsi all'immediatezza del linguaggio radiofonico, con una sorta di giornalismo più
attento ad essere sul posto nel minor tempo possibile, piuttosto che a commentare
scrupolosamente i fatti. Anche lo sport (fiore all'occhiello della programmazione
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televisiva) è figlio dell'informazione radiofonica. Ma la televisione può accogliere
davvero di tutto, fino ad inventare veri e propri microgeneri, dai quiz alle tribune politiche, alle
nuove forme di spettacolarizzazione di massa, come ad esempio ciò che gli americani
chiamano infotainement, programmi che stanno appunto a metà tra l'informazione e
l'intrattenimento. Quest'ultimo però è il prodotto di ciò che dagli anni Ottanta viene
chiamato neotelevisione, per distinguere il linguaggio televisivo dal precedente modello più
rigoroso, pedagogizzante, fondato sulla severa ripartizione nei tre grandi macrogeneri
sopraelencati. Con la proliferazione della TV privata in Italia il palinsesto diventa un flusso
indifferenziato, a rischio di compromettere il già precario equilibrio del rapporto tra
emittenza e utenza. In poco più di un secolo l'umanità dà vita ad una nuova forma di
cultura, caratterizzata da una grande quantità di trasmissioni comunicative e dal
sorgere di nuove e importanti questioni riguardo alla stessa percezione della realtà. Si
registrano modalità nuove d’approccio alla realtà da parte dei bambini, grandi
consumatori di televisione.
Dalle nuove tecnologie all'ipertesto
Nel secondo dopoguerra in America l'industria bellica, grazie ad un’accurata ricerca
scientifica, mette a punto sistemi sempre più elaborati di calcolo elettronico: nascono
nuove scienze come la cibernetica (robot, intelligenza artificiale) e soprattutto l'informatica,
destinata a sconvolgere l'assetto comunicativo del secondo Novecento. Dagli anni Sessanta
sentiamo sempre più parlare di computer che nel giro di un trentennio riducono velocemente
le loro dimensioni. Tra gli anni Cinquanta e Settanta si fanno i primi usi pubblici di computer
sia nell’industria, sia nelle redazioni dei giornali. Poi, dagli anni Ottanta vengono
commercializzati i personal computer (Pc) per uso domestico: è quella che viene chiamata
rivoluzione elettronica, che con gli anni Novanta aggiunge un ulteriore tassello alla
comunicazione globale. Rendendo pubblico anche Internet, dalla tastiera di casa nostra
possiamo comunicare con il mondo intero, trasmettere e ricevere miliardi di informazioni.
Tutto questo comporta anche uno sconvolgimento nella tradizionale comunicazione di
massa: siamo immersi in un'alluvione informativa, una sorta di bulimia della
comunicazione che porterà a patologie antropologiche tanto più radicali, quanto
minore sarà la responsabilità nei confronti di una seria riflessione etica. Del resto se si
osserva la penetrazione sulla popolazione di età superiore ai 14 anni dei nuovi media,
non è possibile immaginare che nulla sia cambiato non solo in termini di strumenti
tecnologici quanto piuttosto in termini di costruzioni sociali. Anche la lettura si trasforma,
diventando interattiva.
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2.
BREVE STORIA DEL GIORNALISMO IN ITALIA
I primi passi
Le prime gazzette a stampa, quindicinali o settimanali, compaiono all’inizio del Seicento e
coabitano a lungo con gli avvisi e fogli di notizie manoscritti. Anversa, Augusta e Strasburgo
sono le città nelle quali si compie lo straordinario evento tra il 1605 e il 1609. Nel giro di una
dozzina d’anni seguono Amsterdam, Parigi, Vienna e Londra. In Italia Firenze e Genova
sono le prime ad avere una gazzetta: nel 1636 e nel 1639. Avvisi e fogli di notizie circolano
anche a Venezia e Roma. Il tempo che intercorre tra un evento e la diffusione della notizia è
di una ventina di giorni. Lo spazio è esiguo. Le prime gazzette hanno il formato dei libri
(15x23) ed escono a due o quattro pagine. Le otto pagine e la periodicità settimanale arrivano
nella seconda metà del Seicento. Stabilire durata e diffusione di quei primi giornali è
praticamente impossibile. Quasi tutti durano poco, e la tiratura va dalle 200 alle 1.000 copie.
Il sistema del privilegio, di cui sono impregnati i nascenti Stati nazionali, comporta
sovvenzioni, agevolazioni e il monopolio dell’informazione politica. Il primo quotidiano
della storia esce a Lipsia nel 1660: la testata scelta è tutto un programma: “Notizie fresche degli
affari della guerra e del mondo”. La stampa inglese è la prima che può affrontare abbastanza
liberamente temi politici in una contrapposizione già netta tra conservatori e liberali. In Italia,
a cavallo tra Seicento e Settecento, si amplia la rete delle gazzetta privilegiate. Ne escono a
Torino, Bologna, Mantova, Messina, Parma, Modena e anche in piccoli centri come Rimini.
All’inizio quasi tutte sono prive di titolo e molte anche di numerazione. Tra le gazzette del
Seicento i cui esemplari sono giunti fino a noi meritano di essere menzionate “Il Sincero” di
Genova, “I successi del mondo” di Torino e il “Rimino”, che esce appunto a Rimini.
Quest’ultima è la prova che le gazzette dei piccoli centri sono spesso meno paludate e
conformiste di quelle delle capitali. Alla fine del Seicento e nella prima parte del Settecento si
stringono i lacci della censura o si inventano altri interventi per rendere difficile la vita dei
giornali o per scoraggiare i propositi di farne dei nuovi. Alla fine del Settecento i quotidiani
delle maggiori città italiane viaggiano già sopra le 2.000 copie al giorno.
La Rivoluzione francese e la stampa italiana
La Rivoluzione segna una tappa fondamentale nella storia della stampa e dà al giornalismo
un impulso straordinario. L’articolo XI della Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 dice:
“La libera comunicazione del pensiero e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo: ogni
cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo rispondere dell’abuso di questa
libertà nei casi determinati dalla legge”. Con la nascita del giornalismo politico si forma
l’opinione pubblica. In Italia le notizie che arrivano dalla Francia provocano eccitazione e
curiosità: quasi tutte le gazzette danno conto delle decisioni dell’Assemblea nazionale e della
Costituente e pubblicano i documenti rivoluzionari. Grande fortuna, inoltre, incontrano gli
opuscoli che riassumono le vicende della Rivoluzione, scritti da intraprendenti pubblicisti
italiani o tradotti dal francese. La voce più importante dello schieramento papale è il
“Giornale ecclesiastico di Roma”, che esce dal 1785 al 1798 ed è diffuso in tutta Italia. Per il
suo carattere ideologico e propagandista, l’Austria ne vieta la circolazione nei territorio
controllati. La novità più curiosa è la comparsa dei primi periodici femminili: nel 1791 esce a
Firenze il “Giornale delle dame”, poi “La donna galante ed erudita di Venezia” e il “Giornale
delle nuove mode di Francia ed Inghilterra”, che esce a Milano.
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Arriva la libertà: l’esperienza napoleonica
Napoleone Bonaparte entra a Milano nel maggio 1796: con la sua venuta in Italia, cadono le
restrizioni sulla stampa. Nel triennio giacobino escono a Milano 40 giornali, 20 a Genova e 10 tra
Venezia, Roma e Napoli. Nascono le prime forme di giornalismo politico: temi di discussione
continua sono la libertà di stampa e lo sbocco da dare al movimento patriottico
rivoluzionario. Ben presto, però, anche Napoleone fa un passo indietro, riservandosi di
reprimere i giornali più ardimentosi. Nell’agosto 1799, le truppe francesi sono costrette alla
resa dalle forze austro-russe: le Repubbliche crollano, e con loro tutti i giornali democratici.
Tornato nel 1804, con la proclamazione del Regno d’Italia, il regime napoleonico, ritorna il
pullulare di giornali, anche se non più liberi, ma orientati alla politica francese. Nei territori
aggregati alla Francia le autorità impongono il bilinguismo, e in alcuni casi ordinano
l’edizione di giornali scritti solo in francese. Intanto, i giornali si evolvono anche da un punto
di vista stilistico: quello più in uso nei primi anni dell’Ottocento è il 26x40. In molti casi la
pagina viene suddivisa in tre colonne: è con l’introduzione della macchina a fabbricazione continua
di carta che crescono i formati (più pagine) e aumentano le tirature.
Il giornalismo del Risorgimento
Per tutto il periodo della Restaurazione, fino alla promulgazione degli editti del 1847-48, non
esiste in Italia un giornalismo politico nel senso completo del termine. Le idee nuove
vengono comunque espresse attraverso i fogli letterali e culturali. Nelle capitali e nei
maggiori centri urbani di ogni Stato, i sovrani e i governi fanno uscire un foglio ufficiale, che
quasi sempre si chiama “Gazzetta”. Milano conferma il proprio ruolo di capitale culturale e
giornalistica, sopravanzando definitivamente Venezia, che era stata il suo alter ego al
tramonto del Settecento. La situazione comincia a sbloccarsi in occasione dei moti
rivoluzionari del 1848, ma ancora l’attività censoria, messa in atto soprattutto dalle autorità
papaline (che si preoccupavano di mantenere la calma generale per non peggiorare la già
difficile situazione) non permette una stampa completamente libera. La fioritura di giornali
che si era verificata nelle fasi rivoluzionarie, si ripete in misura molto più ampia e intensa nel
biennio 1848-49: la scena giornalistica diventa tumultuosa per l’importanza degli eventi. Nel
clima della guerra d’indipendenza, compare nel giugno 1848 a Torino un quotidiano, la
“Gazzetta del Popolo”, che si rivelerà una grande novità editoriale. Prezzi popolari,
distribuzione al mattino, molte notizie date con tempestività, linguaggio semplice.
L’operazione riesce, e nel giro di quattro anni raggiunge i 10.000 abbonati. Nel 1858 escono 117
periodici negli Stati sardi, 68 nel Lombardo-Veneto, 27 in Toscana, 16 a Roma e 50 nel Mezzogiorno.
Sono cifre rispettabili, se si tiene conto che la libertà di stampa esiste solo negli Stati di
Vittorio Emanuele II, ed in più si registra un divario abissale tra Nord e Sud della penisola. In
Italia, gli analfabeti superano il 75%, e la popolazione è di circa 25 milioni di anime. Le 10.000
copie della “Gazzetta del Popolo” restano un primato solitario, per il resto la media è sulle
2.000 copie. In Francia, Germania e Inghilterra la tirature stazionano tranquillamente sulle 3040.000 copie. I quotidiani che hanno buone possibilità di durare si contano sulle dita di una mano.
Alcuni hanno il formato grande alla francese, con la pagina suddivisa in quattro colonne anziché in
due. La pubblicità è per ora molto scarsa. In conclusione, il giornalismo italiano del periodo
risorgimentale si è sviluppato con una forte connotazione politica, e manca la spinta
imprenditoriale. La figura del giornalista comincia ad assumere lineamenti peculiari, ma
sono rari i casi nei quali l’impegno politico non abbia il sopravvento su quello professionale.
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Dall’Unità alla svolta di fine secolo
Con l’Unità d’Italia (1860) migliora la situazione socio-culturale del Paese: diminuisce
sensibilmente l’analfabetismo (68% nel 1871, con punte minime in Lombardia e Piemonte al
42-45%). Sulla scena milanese, capofila delle questioni socio-politiche italiane, quattro
quotidiani dominano la scena: il primo è la “Gazzetta di Milano”, che non interrompe le
pubblicazioni neppure per un giorno. Il secondo è “La Lombardia”, il terzo “Il Pungolo” e il
quarto “La Perseveranza”. A livello di tiratura, siamo tra le 15 e le 25.000 copie per i giornali
maggiori. Quando cade il governo della Destra, nel 1876, i giornali ufficiali del Regno sono 65
(28 quotidiani e 37 periodici). La legge prevede il sequestro in caso di attività politica non
conforme agli interessi dello Stato: a farne le spese sono soprattutto i giornali di sinistra, così
come i primi fogli destinati alle classi popolari. Ai giornali amici, governo e prefetti sono
disposti a dare incentivi economici, che cominciano ad arrivare in questi anni anche sotto
forma di sovvenzione statale. Un’altra forma di aiuto, sempre da parte dello Stato, è la fornitura
gratuita di notizie: in sintesi, si tratta di una delle prime forme di ufficio stampa. La scena del
giornalismo politico-artigianale comincia a mutare alla metà degli anni Sessanta, quando
Milano è già una città di 250.000 anime: il patriottismo è spinto ai limiti estremi, e soprattutto
nasce la cronaca cittadina. Avvicinandosi il 1871, l’anno di Roma capitale, il giornalismo comincia a
crescere e formarsi anche nell’Urbe. A muovere l’anima del giornalismo sono sempre le battaglia
politiche: la Sinistra sta cercando di fronteggiare lo strapotere della Destra, cominciando ad
impossessarsi di alcuni mezzi d’informazione, soprattutto a Roma. Questo gli varrà il
governo alle elezioni del 1876. Sempre nel 1876, nasce a Milano il “Corriere della Sera”,
quotidiano del pomeriggio: il progetto del giovane direttore (appena 34enne), Eugenio
Torelli Viollier, è dare alla borghesia un giornale che sia la versione destroide de “Il Secolo”,
fino a quel momento il giornale più avanzato del capoluogo lombardo. L’avvio è molto
stentato: il Corriere stampa poco più di 3.000 copie, il Secolo 40.000. Tra i settimanali, sale alla
ribalta nel 1885 “Le forche caudine”, capace di stampare 150.000 copie, che poco dopo sarà
però costretto a chiudere per volere della magistratura. Nel decennio Ottanta, accanto al
trionfante “Secolo” e al “Corriere della Sera”, mettono radici vari quotidiani che hanno, in
genere, una forte impronta politica ma anche una veste editoriale ed imprenditoriale. I
modelli a cui si guarda sono in prevalenza quelli di stampa francese. Per il Corsera una
svolta decisiva arriva nel 1885 quando il cotoniere Benigno Crespi, convinto che un giornale
possa essere un buon affare, entra in società con Torelli Viollier sborsando 100.000 lire. Nel
1889 la tiratura arriva a 60.000 copie, mentre “Il Secolo” è già sulle 100.000. A Torino, la
“Gazzetta del Popolo” si riassesta dopo gli sbandamenti degli anni Sessanta ed è incalzata
dalla “Gazzetta Piemontese”, che nel 1895 si trasformerà ne “La Stampa”. Nella capitale sta
salendo “Il Messaggero”, lanciato nel 1878. Abbandonata la formula iniziale del “giornale dei
giornali”, perché realizzato con forbici e colla (un fiasco con meno di 3.000 acquirenti), il
giovane direttore Luigi Cesana punta sulla cronaca cittadina, sui resoconto dei processi e sui
romanzi d’appendice. Origini diverse hanno altri due quotidiani destinati a durare, che
escono tra il 1885 e il 1886. Il “Resto del Carlino” di Bologna nasce in piccolo formato (prezzo
due centesimi) come foglio locale di tendenza democratica. Nonostante un successo iniziale
lusinghiero per la piazza bolognese (6.000 copie), i promotori devono presto passare la mano
perché i conti non tornano. Lo rileva l’avvocato Amilcare Zamorani, esponente delle forze
laiche e progressiste della provincia, che gli dà un taglio editoriale migliore, portandolo alle
20.000 copie di tiratura. “Il Secolo XIX” compare a Genova nel 1886 e si colloca come
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sostenitore degli interessi protezionistici, creando un collegamento diretto con le forze
economiche e politiche, ed in particolare con la borghesia industriale ed agraria. In campo
cattolico, le direttive per lo sviluppo della stampa si imperniano sul localismo. Nel Congresso cattolico
italiano del 1887, si raccomanda di aderire alle necessità ed ai gusti delle popolazioni di ogni piccolo
centro, affinché il giornale divenga un elemento indispensabile del buon cattolico, sia esso contadino,
coltivatore diretto o esercente. In quell’anno i quotidiani cattolici sono 26, la maggior parte dei
quali è schierata sulla linea dell’intransigenza. Le tirature sono, in genere, molto basse. I fogli
più influenti sono “L’Osservatore cattolico” di Milano, “L’Avvenire” di Bologna, “Il
Cittadino” di Brescia” e “L’Eco di Bergamo”.
Giornali e giornalisti agli inizi del Novecento
Nel momento in cui, per l’Italia, si aprono prospettive di progresso civile, sociale ed
economico – che saranno realizzate in gran parte sotto il governo di Giolitti – la situazione
dell’editoria giornalistica presenta notevoli disparità ed è, nel complesso, ancora fragile. La
popolazione cresce a ritmo sostenuto (32 milioni nel 1901) e il processo di urbanizzazione si
sta accelerando (Milano 491.000 abitanti, Roma 460.000, Napoli supera il mezzo milione),
anche se il 48,7% degli italiani, nel 1901, è ancora analfabeta. I giornali di impronta liberale
sono usciti dalla battaglia contro il disegno reazionario con un prestigio rafforzato. Ora anche
in Italia c’è chi guarda alla stampa come il “Quarto potere”. All’inizio del secolo, molti
editori affrontano la nuova fase del processo di industrializzazione della stampa, che, come si
è detto, viene vissuta sempre più come un’esigenza. Dal censimento delle pubblicazioni in
circolazione, condotto nel 1905, in Lombardia, Lazio e Piemonte si stampano rispettivamente
544, 421 e 400 tra quotidiani e periodici di varia importanza. Ma la sparizione dei fogli più
deboli è un fenomeno incipiente: si passa dall’11,5% al 4,8% nel giro di dieci anni. Ai costi di
produzione più alti, si devono aggiungere cospicui investimenti per dotare le tipografie dei
nuovi macchinari inventati negli ultimi decenni dell’Ottocento. L’industrializzazione richiede
una maggiore diffusione, per coprire i costi utilizzando appieno i macchinari. La fisionomia e
la struttura del quotidiano cambiano all’inizio del secolo. La tendenza generale è al formato
grande, con la pagina suddivisa in cinque colonne. Nel 1904 la foliazione normale diventa di sei
pagine, ma già nel 1906 i quotidiani più forti, come il Corriere della Sera, cominciano ad uscire con
otto pagine. Si delineano le suddivisioni per argomenti con testatine apposite: la cronaca cittadina,
giudiziaria, le notizie teatrali, le recentissime. La prima non diventa la pagina vetrina che
presenta le informazioni più importanti, ma di ogni genere. I modelli restano il londinese
“Times” e i parigini “Le Matin” e “Temps”, giornali seri ma anche seriosi. In prima pagina
c’è posto soltanto per le informazioni e gli orientamenti politici, per uno spunto culturale e,
quando l’occasione è buona, per la corrispondenza di un inviato. Ma i titoli sono sempre ad
una colonna: i primi titoli di taglio a due colonne compaiono verso la fine del primo decennio
del Novecento, quando le pagine vengono spartite in sei colonne. Nelle redazioni dei maggiori
quotidiani, che ormai sono una decina, procede la razionalizzazione dei compiti e degli orari: solo nei
giornali di provincia i redattori si improvvisano tuttofare. Il settore che conta il maggior numero
di giornalisti è la cronaca cittadina: ci sono i cronisti di bianca e di nera, che si battono tutti i
giorni tra municipio, questura, ospedali, teatri e caffè. I fermenti e le attese che si manifestano
nel paese dopo la svolta di fine secolo, si riflettono nella stampa più propriamente politica in
modi più diretti e acuti che nei giornali d’informazione e d’opinione. La stampa socialista, a
cominciare dall’Avanti, interpreta i contrasti ideologici e politici che si sviluppano all’interno
del partito e del movimento operaio italiano ed europeo. L’Avanti ha un’andatura oscillante
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ed un deficit cronico, con un numero di copie tra le 10 e le 25.000. Col trasferimento da Roma
a Milano e il cambio di società editoriale, l’Avanti riprende quota balzando a 30.000 copie: il
partito socialista si muove anche con giornali minori, come “Il Tempo” e “Il Lavoro”. Sul
fronte cattolico, “Il Momento” e il “Corriere d’Italia” sono giornali che cercano di superare la
formula del “Non expedit”. Questo atteggiamento di moderazione si nota anche in giornali
come “L’Avvenire d’Italia” di Bologna e “L’Osservatore cattolico” di Milano.
La Grande Guerra e l’avvento del fascismo
Con l’avvento della Grande Guerra, i giornali si dividono tra fronte neutralista e fronte
interventista: ne guadagnano gli editori, che vedono crescere i propri guadagni, visto che la
gente, sentendo l’esigenza d’informarsi, fa più riferimento ai quotidiani. La Grande Guerra e
le sue implicazioni politiche, economiche e spirituali incidono profondamente nella stampa:
nei mutamenti e negli assetti proprietari e nelle operazioni di controllo dei giornali,
nell’intonazione dei quotidiani, condizionati dalla censura (in vigore fino al giugno 1919: le
notizie erano filtrate dall’Ufficio stampa del Comando supremo. Tutto ciò per volere di Luigi
Cadorna, che non aveva simpatia per la stampa) e influenzati dall’onda del patriottismo e poi
dalla crisi politica e dal mito della forza. Le tirature dei maggiori erano cresciute nel periodo
infuocato della neutralità, ed erano aumentati gli investimenti pubblicitari. La diffusione era
cresciuta nelle prime fasi belliche, poi era diminuita per il crescere dei costi di produzione e
la crisi economica. Tra il 1920 e il 1922 nascono nuovi giornali di partito, o filo-partitici: ogni
forza politica ne ha almeno uno. Nelle prime settimane del governo Mussolini le prime
pagine dei giornali appaiono politicamente spente oppure danno la sensazione
dell’ufficiosità o della soddisfazione. I giornali socialisti, comunisti e repubblicani tentano la
replica, quelli liberali sperano nella normalizzazione politica: l’intenzione di Mussolini di
giungere ad una concreta limitazione della libertà di stampa era chiara. Il direttore del
Corriere della Sera, Luigi Albertini, dopo numerosi attacchi squadristi è costretto alle
dimissioni. Intanto Mussolini si adopera per restringere la libertà di stampa, che cessa con la
legge del 31 dicembre 1925. I cardini di questa legge sono gli articoli 1 e 7, con i quali si crea
rispettivamente la figura del direttore responsabile e si istituisce l’Ordine dei giornalisti (poi
ci si limiterà all’Albo, gestito dal Sindacato fascista) al quale occorrerà essere iscritti per
esercitare la professione. Le due norme lasciano spiragli molto esigui, perché per essere
iscritti all’Albo si dovrà ottenere dal prefetto un certificato di buona condotta politica, e il
direttore responsabile deve avere anche il riconoscimento del procuratore generale presso le
Corti d’appello. I criteri ispiratori della legge fascistissima sono quel senso di responsabilità
di cui aveva parlato Mussolini alla prima riunione dei giornalisti fascisti, e la prevalenza
della libertà dello Stato su quella del cittadino. Nel corso del 1926 i fogli dell’opposizione
sono continuamente sottoposti ad intimidazioni e sequestri, fino a quando, in seguito ad un
attentato a Mussolini, il ministro dell’Interno Federzoni ordina la sospensione di tutti i
giornali d’opposizione. Comincia il regime mussoliniano, con la fascistizzazione integrale
della stampa e l’irreggimentazione dei giornalisti.
La stampa del regime fascista
Nelle scelte di Mussolini sul problema della stampa due sono gli aspetti preliminari. Il primo
è il modo con cui procede alla fascistizzazione integrale dei maggiori quotidiani appena conquistati
all’obbedienza. Il secondo aspetto è rappresentato dagli strumenti messi in opera per dare ai giornali
un’impronta dottrinaria, ed inserirli nella macchina dell’organizzazione del consenso, senza farne dei
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giornali di Stato. I veri fiduciari di Mussolini diventano i direttori responsabili. Da abile e
appassionato giornalista, il capo del fascismo non vuole disperdere il prestigio e la diffusione
che le testate più importanti hanno accumulato in Italia e all’estero. Non rimane che
asservirli, come fece, d’altra parte, con la monarchia, la Chiesa, la casta militare e la classe
imprenditoriale. Verso la stampa cattolica il regime adotta un particolare tatto, contraddetto
però in alcune città dai ras fascisti. Nel complesso i fogli cattolici assecondano, in diversa
misura, le propensioni della Chiesa ad un dialogo col regime, in virtù della firma dei Patti
Lateranensi del 1929. Le disposizioni ai giornali riguardano fin dall’inizio gli argomenti più
disparati: dalla costruzione del mito del Duce alle questioni politiche, dalla cronaca nera
(pallino di Mussolini) a cose marginali. Il processo di modernizzazione tecnica e giornalistica
dei quotidiani si è ormai esteso anche tra le testate di provincia, mentre il settore dei periodici
s’irrobustisce e si articola maggiormente. Le pagine dei quotidiani, in particolare la prima,
sono più vistose per la presenza delle fotografie e per i titoli più alti e più neri, che lo stesso
Mussolini richiede. La penuria di carta, presentatasi dalla guerra d’Abissinia in poi, induce i
giornali ad uscire ad otto pagine solo due volte a settimana. Nei quotidiani più ricchi, accanto
alle firme dei commentatori più accreditati, spiccano quelle dei giornalisti-letterati impiegati
come inviati speciali, come Orio Vergani e Curzio Malaparte. All’inizio del 1939, la tiratura
globale si aggira sui quattro milioni e mezzo di copie, con punte più alte in occasione delle
frequenti edizioni straordinarie. Nel frattempo era nato il Ministero per la stampa e la
propaganda, poi mutato in Ministero per la cultura popolare, soprannominato Minculpop.
La stampa della Resistenza
Non è sbagliato considerare la stampa del movimento di liberazione come un fenomeno di
proporzioni considerevoli, oltre che di grande valore politico. Due sono i filoni. Il maggiore è
quello della stampa clandestina prodotta dai partiti e da altri gruppi antifascisti, tra il
settembre de 1943 e la fine della guerra. Il secondo filone è quello dei fogli delle formazioni
partigiane, compilati senza i rischi della clandestinità, ma in mezzo a molte altre difficoltà.
Caratteristica comune dell’attività editoriale dei partiti è la presenza di sedi nelle principali
città e la cadenza quindicinale. Inoltre, le forze politiche si sforzano di far uscire fogli diretti a
singole categorie sociali: operai, donne, artigiani. La stampa comunista è la più numerosa e la più
diversificata: l’organo del Pci, “L’Unità”, esce a Roma, Milano, Torino e Genova, con tirature
tra le 10 e le 15.000 copie. “L’Italia libera” è l’organo del Partito d’Azione, esce a Roma e
Milano con una tiratura di 20.000 copie in ciascuna città. I fogli delle formazioni partigiane
vedono la luce a partire dalla primavera-estate del 1944. La loro esistenza è precaria, la
periodicità molto irregolare. All’origine di questa pubblicistica c’è la voglia di raccontare le
proprie esperienze in questa guerra così particolare, aspra ed esaltante, condotta soprattutto
da giovani usciti dal fascismo.
Il dopoguerra: prima fase
Prima della fine della guerra, l’attività della stampa dipende dal controllo del Pwb, un
organo dipendente dal Governo militare alleato, creato sia per la propaganda sia per pilotare
il ritorno della libertà di stampa nei territori via via liberati dai tedeschi. E’ il Pwb che rilascia
le autorizzazioni necessarie per stampare i giornali: i primi fogli escono in Sicilia e in
Calabria subito dopo la ritirata delle truppe tedesche. Sono di piccolo formato, due facciate in
tutto, e sono stampati con mezzi di fortuna. Vanno ugualmente a ruba perché l’attesa della
gente è grandissima. Nei primi mesi, quando l’attività dei partiti è limitata dai veti alleati, i
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giornali sono terreni e strumenti di lotta politica. La questione monarchia o repubblica
domina i dibattiti, e contrappone i partiti del rinnovamento a quelli moderati e ai vecchi
gruppi di potere. Dopo il 25 aprile 1945, le richieste degli Alleati perché compaiano anche i
quotidiani indipendenti sono pressanti: soprattutto a Milano e Torino, città guida della lotta
partigiana e con forti insediamenti operai. Gli italiani, però, sono stanchi di ascoltare richieste
straniere: in effetti, con la fine della guerra, non appare più giustificato condizionare la libertà
con misure speciali. Il 22 maggio 1945 ricomincia ad uscire il Corriere d’Informazione, ovvero il
Corriere della Sera sotto altro nome, per evitare commistioni con la precedente linea fascista del postAlbertini. La linea tenuta dal Corrierone è fedele alle indicazioni del Comitato di liberazione.
Nella seconda metà del 1945 escono molti giornali: un nuovo mutamento della mappa dei
quotidiani avviene con la cessione di alcune testate del Pwb, importanti perché ben radicate
nelle rispettive zone. Si tratta de “Il Resto del Carlino” (che cambierà nome, chiamandosi
“Giornale dell’Emilia”, fino al 1953), “Il Secolo XIX”, “La Nazione”, “Il Messaggero” e il
“Giornale d’Italia”. Circolano, inoltre, con successo due quotidiani sportivi: la “Gazzetta
dello Sport” a Milano e il “Corriere dello Sport” a Roma. Nel settore dei settimanali, Milano
riprende il suo vecchio ruolo di capitale del rotocalco. Rizzoli nel luglio 1945 ottiene
l’autorizzazione di pubblicare “Oggi”, 16 pagine formato tabloid.
Il dopoguerra: la Costituzione e la disciplina sulla stampa
La Costituzione del 1948 tutela la stampa all’articolo 21, che recita: “Tutti hanno diritto di
manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di
diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere
a sequestro soltanto per atto motivato dall’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i
quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme
che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili. Sono vietate le pubblicazioni
a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume”. In
soldoni, la libertà di esprimere il proprio pensiero trova un limite nel rispetto dei diritti
altrui. Il codice penale punisce pertanto l’offesa e la calunnia. In nessun caso la stampa, però,
può essere censurata preventivamente.
Il dopoguerra: seconda fase
A Bologna, il gruppo di imprenditori che aveva rilevato “Il Giornale dell’Emilia” completa
l’acquisto della vecchia azienda che stampa “Il Resto del Carlino”, e dal 1953 l’antica testata
ricompare nelle edicole al posto di quella del dopoguerra. Lo stesso gruppo, un anno prima,
ha comperato “La Nazione”, il tradizionale giornale fiorentino, che era ricomparsa prima del
18 aprile. Sono i quotidiani dominanti in due regioni rosse. Dal canto suo, Confindustria
riesce ad acquistare i due quotidiani economici che escono a Milano, il vecchio “Sole” e “24
Ore”, fondato con criteri più moderni nel 1946 da un operatore finanziario, Piero Colombi.
Dalla metà del 1949 i quotidiani escono a sei pagine più volte alla settimana: le otto-dieci
pagine arrivano dopo la Guerra di Corea del 1950, che determina difficoltà nel commercio
delle materie prime necessarie per fabbricare la carta. Lo stile giornalistico è ancora quello
degli anni Trenta, pur depurato da certe logiche di regime. L’attenzione per il mondo dello
spettacolo è molto scarsa, se si escludono le critiche teatrali e dell’opera lirica. Considerata
l’omogeneità politica, la concorrenza tra i grandi quotidiani continua a basarsi sulle firme
degli inviati, dei corrispondenti e dei collaboratori. I quotidiani di partito accusano una
flessione, fatta eccezione per “L’Unità”: dal 1952 anche il Movimento sociale ha il proprio
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organo d’informazione, “Il Secolo d’Italia”, palese copia de “Il Secolo XIX”, organo
d’informazione del regime fascista. All’immobilismo che caratterizza l’editoria quotidiana, fa
riscontro il crescente dinamismo dei settimanali in rotocalco. Anche per quelli che si
dedicano all’attualità, alla politica e alla cultura, si può parlare, dal 1950 in poi, di vero e
proprio fenomeno. Ecco alcuni dati sul periodo 1959-55:
Domenica del Corriere
600.000-900.000 copie
Oggi
500.000-760.000 copie
Epoca
200.000-500.000 copie
Tempo
150.000-420.000 copie
L’Europeo
100.000-130.000 copie
I rotocalchi soddisfano sia il desiderio di favole moderne, sia l’aspirazione ad un’esistenza di
benessere. Alcuni, come “Oggi”, guadagnano un numero straordinario di copie, con articoli
riguardanti famiglie reali regnanti o spodestate, miliardari e divi del cinema. Anche le
rievocazioni di personaggi del passato, come Mussolini, “fanno leggere”. Oppure si specula
sulla fede, con storie di miracoli e visioni. I rotocalchi, infine, hanno un linguaggio più
immediato rispetto ai quotidiani. “L’Espresso” esce a Roma il 2 ottobre 1955. Benedetti è
rimasto fedele al formato grande. Sedici pagine, 50 lire. Accanto a Benedetti si ritrovano
vecchi e nuovi collaboratori. Il più importante è Scalfari, il quale ha scelto di entrare a tempo
pieno nell’attività editoriale, oltre che nel giornalismo. Così Benedetti riprende il discorso
interrotto con toni più impegnati (in questi anni nasce il Partito Radicale), e lo riprende a
Roma, capitale della politica. Passando ad un altro fronte, le vistose parzialità e omissioni
dell’informazione inducono “Il Mondo” a lanciare un appello per la libertà di stampa: fra i
molti punti dolenti c’è quello della responsabilità penale del direttore. In base all’articolo 57 del
Codice penale la responsabilità del direttore è oggettiva, mentre la Costituzione dice che la
responsabilità è personale. Dopo un dibattito lungo e contrastato si arriva ad un
compromesso: la nuova norma, entrata in vigore il 4 marzo 1958, distingue meglio la
responsabilità del direttore da quella dell’autore di uno scritto, e stabilisce che il primo è
punito solo a titolo di colpa. “Il Giorno” compare a Milano il 21 aprile 1956: tre sono le
circostanze che ne hanno determinato la nascita, vale a dire l’intraprendenza di Gaetano
Baldacci (inviato speciale del Corsera), la necessità che Enrico Mattei, presidente dell’Eni,
sente di poter disporre di un proprio strumento giornalistico, ed il desiderio che anima
l’editore Cino Del Duca, di ritornare in Italia con un’iniziativa di prestigio. Dalla
combinazione di questi fattori nasce un quotidiano di battaglia politica, e con un nuovo
profilo editoriale e giornalistico, che si pone in stretto antagonismo con il Corsera. In politica
“Il Giorno” punta alla collaborazione fra democristiani e socialisti, difende l’intervento
pubblico nell’economia, in contrapposizione al conservatorismo ed allo strapotere di
Confindustria, e sostiene la politica della distensione e le aspirazioni d’indipendenza dei
paesi del Terzo Mondo. Si presenta con un’impaginazione molto vivace, ha una prima pagina
a vetrina, cioè con molti titoli e notizie anche di varietà. Al posto dell’articolo di fondo c’è
una breve “Situazione”, nella quale Baldacci riesce ad esprimere grande talento. La
tradizionale terza pagina è abolita: gli articoli di intrattenimento culturale vanno nell’inserto
in rotocalco, completato da quella che è la novità più ardita per un foglio del mattina: una
pagina di fumetti e giochi. Completa l’ambizioso progetto, oltre al rotocalco settimanale
allegato, anche un’edizione del pomeriggio. Il problema arriva quando è ora di fare i conti: i
costi superano abbondantemente i ricavi, anche perché “Il Giorno” raccoglie poca pubblicità
per la sua dichiarata contrapposizione alla politica dell’industria privata. Inoltre, la tiratura
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arriva complessivamente a 100.000 copie. Già nell’estate del 1956 si deve rinunciare
all’edizione del pomeriggio, e avviene la rottura tra Mattei e Del Duca: il primo prosegue da
solo, riuscendo a restare nell’ombra. Il ruolo di primo piano è nelle mani di Baldacci, che
porta il suo giornale alle 150.000 copie del 1959. Baldacci terminerà alla fine di quell’anno la
sua avventura al Giorno. Contribuisce al favore di questa nuova stampa la crisi dei regimi
comunisti, dovuta alla destalinizzazione a al Rapporto Kruscev del 1956, che affosseranno i
giornali del Pci, primo fra tutti “L’Unità”.
Il dopoguerra: sfida tra giornali e Tv
La radio, per il suo fare formale e bacchettone, non aveva messo in crisi l’industria
giornalistica. Diversamente fece la televisione, arrivata in Italia nel 1954. Al termine di
quell’anno la popolazione che poteva captare il segnale era pari al 48,3%: in un biennio si
realizza l’informazione di massa perché il Tg è la trasmissione più seguita. Gli argomenti
delle prime telecronache sono, in genere, cerimonie ufficiali. Soltanto all’inizio del 1958
comincia una serie di dibattiti su questioni d’attualità, mentre bisogna attendere il 1960 per
veder nascere “Tribuna elettorale”. Quando entra in funzione la seconda rete televisiva, il Tg
resta prerogativa della prima rete, in base a quei criteri di controllo accentrato che hanno da
sempre contraddistinto la gestione dell’informazione radiofonica e televisiva. Significativa
l’esperienza di Enzo Biagi alla guida del Tg1, durata circa un anno, e terminata per l’enorme
serie di condizionamenti (a quei tempi la rete pubblica era controllata dalla Dc) a cui era
sottoposto, tanto che preferì tornare alla carta stampata. L’Italia si popola di antenne. Nel
1963 gli abbonati sono 4.300.000, e si calcola che circa 15 milioni di italiani la sera guardino la
Tv. All’inizio, è molto diffusa la convinzione che la Tv abbia effetti politici immediati, per
esempio sulle scelte elettorali, ma i fatti dimostreranno invece che l’influenza sensibile del
medium elettronico è di lunga durata, perché incide sull’evoluzione della vita sociale, della
mentalità e dei gusti della gente. Inoltre, la televisione popolare produce e sviluppa il germe
dell’informazione-spettacolo e della politica-spettacolo. I quotidiani più forti e ricchi entrano,
tuttavia, in una fase di relativa espansione per due fattori concomitanti: l’aumento del
numero delle pagine e dei servizi e lo svecchiamento della formula da un lato, le tensioni e le
aspettative suscitate dall’evoluzione della situazione politica dall’altro. Dal 1° gennaio “Il
Giorno” è diretto da Italo Pietra: il nuovo direttore imprime alla linea del giornale –
sostenitore deciso del centrosinistra – maggiore coerenza e chiarezza. Inoltre “Il Giorno”
cerca una più consistente affermazione attraverso il miglioramento della qualità, della
ricchezza e della diversificazione dei contenuti. Ai tre inserti settimanali (per ragazzi, lettrici
e il domenicale) se ne aggiungono altri due dedicati alla televisione e ai motori. Infine, si
presenta come un quotidiano in parte di qualità ed in parte popolare. Arriva a 300.000 copie,
ma il deficit è sempre più largo, e questo porterà alla crisi. Si accentua quel processo di
“settimanalizzazione” dei quotidiani che si svilupperà, in varie forme, negli anni Settanta e Ottanta.
Lo svecchiamento del Corriere della Sera porta il maggiore quotidiano italiano a dare più
spazio alle cronache locali e a sport, spettacolo e varietà. Il risultato sarà lo sfondamento del
tetto delle 500.000 copie giornaliere. Accanto alle fusioni di testate quotidiane appartenenti
allo stesso proprietario, si profilano le prime concentrazioni. Una la realizza l’imprenditore
petrolifero e zuccheriere Attilio Monti, acquistando nel 1966 “Il Resto del Carlino”, “La
Nazione”, “Stadio”, il “Giornale d’Italia” e il “Telegrafo” di Livorno. Le prime due testate
hanno una posizione dominante in Emilia-Romagna e Toscana. Inoltre, Carlino e Nazione
hanno un’edizione della sera. Nel complesso i quotidiani della catena Monti hanno una
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tiratura di 600.000 copie. La seconda concentrazione è opera dell’imprenditore chimico Nino
Rovelli, il quale compera nel 1967 “La Nuova Sardegna” e “L’Unione Sarda”. La Federazione
nazionale della stampa (Fnsi) appare preoccupata dalla scomparsa delle testate perché
porterà disoccupazione. Nel frattempo, la categoria giornalistica viene regolata con legge del
3 febbraio 1963, che prospetta la creazione di un ordine corporativo (l’Ordine nazionale dei
giornalisti). Nel campo dei settimanali due sono le novità salienti della fine del decennio:
l’estensione dell’impiego del colore e la trasformazione di Panorama da mensile a settimanale.
Negli anni Sessanta si sviluppa il fenomeno delle agenzie di stampa: anche i media più ricchi
sono compilati in gran parte dalle notizie di queste agenzie. L’Ansa rinsalda il proprio
primato: il suo sviluppo giornalistico e il calo dell’ufficialità coincidono con la prima fase
della lunga direzione di Sergio Lepri, che comincia nel 1961. Nel 1964 nasce Agenzia Italia
(Agi), mentre nel 1968 Adn Kronos.
Gli anni Settanta: un giornalismo d’attacco
Nel biennio 1968-69, la contestazione giovanile, la riscossa dei sindacati, le bombe di Milano,
le passioni suscitate dalla guerra del Vietnam, la nascita e lo sviluppo del movimento
femminista scuotono il mondo dei media. Dal movimento studentesco e dai gruppuscoli
della sinistra extraparlamentare nasce una pubblicistica molto aggressiva. Le parole d’ordine
di questi fogli sono: “abbattere il sistema”, “controinformazione”, e tra questi emergono
nuovi periodici, come “Lotta continua” e “il manifesto”. Dimostrazioni di studenti e di
operai contro la stampa borghese e contro la Rai avvengono in varie città. Le azioni più
decise sono contro il “Corriere della Sera”, considerato l’emblema della manipolazione
capitalistica dell’informazione. La prima e singolare novità è la comparsa dei quotidiani della
sinistra extraparlamentare. Sono fogli di battaglia politica e ideologica, vessilliferi di utopie
rivoluzionarie. Il primogenito è “il manifesto”, esce a Roma nel 1971, con un’impostazione
grafica sobria, quasi austera, che ricalca modelli ottocenteschi. Non pubblica fotografie ed è
volutamente privo di pubblicità. All’inizio le vendite sono brillanti, ma dopo alcuni mesi
scendono a 23.000 copie, cosicché deve rinunciare al prezzo di vendita inferiore (50 lire
anziché 90) e alla pregiudiziale sulla pubblicità. Il secondo quotidiano di questo filone è
“Lotta continua”, un tabloid squillante e aggressivo, con titoli slogan, vignette e fotografie. E’
composto con scritti brevi di taglio giovanile. Nasce nel 1972, e durerà fino al 1981. Il
giornalismo d’inchiesta e di denuncia, che prende di mira anche il malgoverno, gli scandali e
le arretratezze del sistema sociale, diventa vigoroso anche al di fuori del campo
dell’opposizione. L’affermazione definitiva della formula “newsmagazine” avviene nel 1974,
quando “L’Espresso” la adotta e vede quasi triplicare le proprie vendite. Per dare un quadro
delle vendite dei quotidiani dell’epoca, vediamo in testa il Corsera con 500.000 copie, seguito
dalla Stampa con 361.000, l’Unità con 239.400, mentre il Messaggero è a 227.000. Volutamente
lasciamo perdere il fenomeno, tipico di tutta la parabola degli anni Settanta, dei giornalisti
“gambizzati” dalle due sfere brigatiste, in quanto questo elaborato sulla storia del giornalismo
intende focalizzare l’attenzione sull’evoluzione dei mass media cartacei, lasciano perdere
notizie che hanno più a che fare con la cronaca.
Lo scandalo Rizzoli-P2
Andrea Rizzoli aveva ereditato dal padre la voglia di possedere un grande quotidiano: così,
quando l’alleanza Crespi-Agnelli-Moratti va in crisi, si fa avanti e compra tutto il gruppo di
via Solferino (ovvero il Corriere). L’accordo è raggiunto nel luglio 1974, e il factotum è il
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figlio di Andrea, Angelo Rizzoli. I Rizzoli promettono ai sindacati una politica di tutela dei
giornalisti, e stringono accordi con tutti i partiti, compreso il Pci. Il problema vero, fin
dall’inizio, è il bisogno di soldi, perché la situazione del maxigruppo è pesante e la sua
gestione difficile. Rizzoli bussa alle porte dell’Imi e di altri istituti pubblici, preannunciando
alcuni progetti tra i quali il varo di un quotidiano popolare, ma riceve risposte negative.
Direttore del Corsera è ancora Piero Ottone, che era subentrato prima del passaggio del
gruppo nelle mani di Rizzoli. Nel gennaio 1976, Angelo Rizzoli annuncia la politica di
espansione editoriale, acquisendo testate: si tratta di un impero basato sui deficit e gli intrecci
politici. Nel 1977 avviene una svolta, attraverso un’operazione di ricapitalizzazione. Chi ha
fornito i quattrini? Si fa il nome, tra gi altri, di Roberto Calvi, boss del Banco Ambrosiano, e
del finanziere Umberto Ortolani. Non si parla, invece, né di Licio Gelli, capo della Loggia
segreta P2, né dello Ior (Istituto opere di religione), i veri protagonisti dell’affare. Ottone si
dimette improvvisamente nell’ottobre 1977: il nuovo direttore è Franco Di Bella, ex direttore
del Resto del Carlino e cresciuto in via Solferino. Di Bella rende più vivace il foglio milanese,
che si è arricchito con l’inserto settimanale sull’economia, con la corrispondenza da Pechino e
con alcune interviste di Oriana Fallaci. Il Corriere tenta due strade per rimpinguare le proprie
tasse, che accusano, nel 1979, un passivo di 150 miliardi: in entrambe c’è la firma di Maurizio
Costanzo. La prima mossa è la nascita del tabloid “L’Occhio”, sullo stile anglosassone, che
dopo l’entusiasmo iniziale scende sotto le 100.000 copie e poi chiude. La seconda mossa è una
rete televisiva con un telegiornale condotto dallo stesso Costanzo, poi bloccato dalla
magistratura. Gli eventi precipitano, fino all’arresto di Calvi e alla pubblicazione, da parte
del presidente del Consiglio, Arnaldo Forlani, dell’elenco degli iscritti alla P2. Compaiono i
nomi di 28 giornalisti (tutti del gruppo Rizzoli, tra cui Di Bella), quattro editori (uno è Angelo
Rizzoli) e sette dirigenti editoriali, capitanati da Tassan Din. Lo scandalo è enorme. Il
Corriere ne esce screditato e il calo diffusionale si accentua. Si calcola che nel 1980-83 il
maggior quotidiano italiano abbia perduto circa 100.000 copie. Perde inoltre alcune firme:
Biagi, Ronchey e Scardocchia passano alla Repubblica, che sta andando a gonfie vele. Per
sfuggire al baratro vengono chiusi “L’Occhio”, il “Corriere d’Informazione”, i supplementi
settimanali e la rete televisiva; inoltre vengono cedute tre testate locali. Per il salvataggio, il
Tribunale di Milano dispone l’amministrazione controllata dall’ottobre 1982.
Due fenomeni editoriali: il “Giornale” e “la Repubblica”
La nascita di questi due quotidiani va vista nel contesto della crescita di partecipazione
politica e sociale da parte dei lettori. La sfida di Indro Montanelli è creare l’anti-Corriere: con una
linea politica moderata il Giornale si rivolge ai cittadini che non ne possono più degli intrighi
di potere in cui è coinvolto il Corsera, che temono che il Pci prenda il sopravvento attraverso
il compromesso storico. Montanelli si getta nell’impresa con vigore, pur avendo, nel 1974, 65
anni. Il primo numero va in edicola nel giugno 1974: l’impostazione e la veste sono classiche,
e viene dato ampio spazio alle lettere dei lettori. La tiratura nei primi giorni è sulle 280.000
copie, calando poi a 140.000. Le tendenze e gli aspetti del Giornale si rafforzano con la
comparsa de “la Repubblica”, che esce nel gennaio 1976: a questo progetto si associa la casa
editrice Mondadori, e le redini del progetto sono nelle mani di Eugenio Scalfari. La sua idea è
di fare un quotidiano leggero di pagine e molto diverso da quelli in circolazione, diretto a
coloro che seguono la politica, l’economia, cultura e spettacolo, senza cronaca locale e con
pochissimo sport. Nell’insieme, Repubblica appare un Espresso che esce tutti i giorni. Il
primo anno vende 80.000 copie, che salgono a 145.000 nel 1979, grazie all’eco della tragedia
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Moro. Nel 1977, aumenta la dose di settimanalizzazione, varando il primo degli inserti di
varietà che s’intitola “Weekend”, e impianta redazioni locali nelle principali città. Nel 1981,
grazie alla crisi del Corsera, vede aumentare vertiginosamente i propri lettori, cresce la
foliazione a 40 pagine, aumentando lo spazio sportivo. Nel 1985 arriva a quota 373.000 copie.
Il fenomeno Berlusconi
All’inizio degli anni Ottanta nascono le reti televisive commerciali, mentre la legge per
l’editoria salva molti quotidiani e consente di compiere le indispensabili riconversioni
tecnologiche. I primi network sono Canale 5 di Silvio Berlusconi e Prima rete del Gruppo
Rizzoli. Berlusconi ha capito le potenzialità della televisione ed ha intuito che in Italia sta
crescendo il bisogno di pubblicità commerciale. Di essere abile come impresario di spettacoli,
ne aveva dato prova acquistando nel 1979 uno stock di 300 film. Prima rete fa parte di un
gruppo editoriale in difficoltà e con idee poco chiare. Canale 5 parte nel 1980 e attira
rapidamente un buon numero di telespettatori ed inserzionisti. Subito dopo si muove
l’editore Rusconi con Italia 1 e l’anno dopo debutta Retequattro, fondata dalla Mondadori.
Le emittenti che si raggruppano in queste reti, però, non possono usare la diretta, dunque si
devono limitare ai telegiornali locali. Nel 1984 Berlusconi compra Italia 1 e Retequattro,
creando un oligopolio in grado di contrastare la Rai. Berlusconi è favorito anche dalla
mancanza di una legge sulla disciplina dell’attività televisiva.
Il braccio di ferro stampa-tv
Dal 1986 si consolidano i due poli televisivi, il pubblico e il privato, e comincia l’era
dell’audience. I maggiori quotidiani battono la strada del gigantismo (più pagine, contenuti
più variati e maggiore spettacolarizzazione), e quella del marketing. La stampa quotidiana,
superata la barriera dei sei milioni di copie giornaliere, conquista lettori anno dopo anno. Nel
1990 è a quota 6.800.000. Quanto alle scelte di marketing – già coltivate da tempo dai
settimanali con i gadget più disparati – per i quotidiani sono, in un primo tempo, di carattere
editoriale, poi cadono sui giochi a premio. La vicenda di primo piano è la gara ai sorpassi fra
la Repubblica e il Corsera. Il primo sorpasso si verifica nel 1986: 515.000 copie di Scalfari,
contro le 487.000 del foglio milanese. Repubblica rimane in testa fino al 1989, quando il
Corriere, diretto ora da Ugo Stille, lancia una lotteria molto semplice con 10 milioni di premi
al giorno, di nome “Replay”. In questi anni soccombono due testate storiche: la “Gazzetta del
Popolo” e “Roma”. Tra i fogli più noti sono in crisi “Il Giorno”, “Il Tempo” e “Il Lavoro”. In
questi anni, l’Ordine dei giornalisti passa dai 10.000 iscritti del 1985 ai 12.000 del 1990. Sullo
scorcio del decennio Ottanta nasce un secondo gruppo editoriale, dopo la formazione di
quello Rizzoli-Corriere della Sera (Rcs): la Mondadori, controllata da Carlo De Benedetti,
incorpora l’altro 50% della Repubblica e la catena di quotidiani locali “Finegil”, oltre alla
totalità delle azioni de “L’Espresso”. Abbiamo questo quadro: Mondadori vende 1.100.000 copie
di quotidiani, 2.700.000 settimanali e 1.400.000 mensili. Rizzoli 1.200.000 quotidiani, 2.300.000
settimanali e 1.500.000 mensili. Fra gli azionisti di Mondadori c’è anche Berlusconi,
proprietario della Fininvest, de “Il Giornale” e del settimanale “Tv-Sorrisi e Canzoni”, che ha
esteso le sue fortune anche in Francia, Spagna e Germania. Negli anni a cavallo tra Ottanta e
Novanta, diversi eventi politici ed economici hanno conseguenze rilevanti nella vita dei paesi
democratici. Si sviluppa il fenomeno dei giornalisti inviati in guerra, in misura maggiore che
negli anni precedenti. Alcuni perdono la vita, come Ilaria Alpi. L’informazione gridata, le
dosi di cronaca nera e rosa e, sovente, il prendere partito, sono le prime risposte alla
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concorrenza delle Tv e al calo degli introiti pubblicitari. Più preoccupante è la diminuzione dei
lettori, che comincia nel 1992. Gli editori provano a rispondere in vari modi, in primis col
ringiovanimento dei direttori: nel 1990 alla Stampa vediamo Paolo Mieli (poi direttore del
Corsera), affiancato dal vice Ezio Mauro (poi direttore di Repubblica). In grave difficoltà sono
i quotidiani di partito, come “L’Unità”. Si forma una nuova concentrazione per mano
dell’editore Andrea Riffeser, che riunisce Carlino, Nazione e Giorno, quest’ultimo sul punto
di chiudere. Si sviluppa il fenomeno del giornale panino, per la moda d’inserire gadget nei
quotidiani. Si tratta dell’ennesimo tentativo di riguadagnare lettori. Con l’avvento del
satellite, l’andamento delle vendite diventerà ancora più critico, fino ad arrivare alle
previsioni di alcuni sociologi, secondo cui entro i primi 50 anni del XXI secolo, l’informazione
cartacea sparirà.
20
3.
ETICA DELLA COMUNICAZIONE
L'etica è l'indagine sull'agire dell'uomo. Il termine "etica" deriva dal greco "ethos". Indica un
comportamento individuale o collettivo, un costume. Il termine "morale", a sua volta, deriva
dalla traduzione latina di "ethos", che è appunto "mos, moris", costume. Può essere dunque
considerato come un sinonimo di "etica". L'etica non è solo l'indicazione di un
comportamento, individuale o collettivo, ma è la riflessione sui criteri che guidano il nostro
agire, che può essere considerato buono o cattivo, moralmente approvabile o riprovevole.
L'agire morale, è dunque governato da criteri che permettono di orientarci nelle nostre scelte
concrete. Le tre domande fondamentali dell'etica sono: 1. Che cosa sto facendo? 2. Che cosa
debbo fare? 3. Qual è il senso di ciò che sto facendo?
C'è differenza tra etica generale ed etiche applicate: i progressi attuali di scienza e tecnica e
la cancellazione, vera o presunta, dei limiti dell'azione umana, fanno sorgere la necessità di
creare nuove discipline etiche, come la bioetica, l'etica ambientale, l'etica economica, l'etica
sociale e, appunto, l'etica della comunicazione. Per definizione, l'etica applicata si riferisce a
quell'ambito di discipline che affrontano i problemi connessi agli sviluppi della scienza e
della tecnica, e alla loro incidenza sull'agire dell'uomo.
La prima forma dell'etica: la deontologia professionale. Le tre forme della comunicazione
oggi possono essere così sintetizzate: 1. deontologia professionale; 2. l'etica della
comunicazione intesa in senso proprio; 3. l'etica nella comunicazione, vale a dire la messa in
luce dei principi etici che si ritiene siano insiti negli stessi processi comunicativi. L'approccio
deontologico è quello che riguarda le varie categorie professionali di comunicatori. Con
l'emergere dell'aspetto deontologico si delinea l'esigenza di una regolamentazione dei
processi comunicativi. E riconoscere questa esigenza è certamente fondamentale se si vuole
favorire la nascita di un'etica della comunicazione. Possiamo dare la seguente definizione di
deontologia: il complesso dei doveri relativi ad una certa professione o ad una particolare
attività. Essa stabilisce ciò che bisogna o meno fare in un certo ambito, nella misura in cui ciò
risulta prescritto da un'istanza riconosciuta come normativa. L'approccio deontologico,
relativo alle varie categorie professionali di comunicatori o a specifiche loro attività, si
esprime attraverso i codici. Un codice è il luogo in cui viene raccolto, enunciato e perciò reso
pubblico l'insieme dei doveri riguardanti una determinata attività. Di solito esso indica, oltre
che particolari doveri, anche le sanzioni cui va incontro chi trasgredisce quanto stabilito dal
codice. Il codice solitamente indica le regole che sovrintendono al riconoscimento della
trasgressione e all'applicazione delle sanzioni. Il carattere proprio dei codici è quello
dell’autoregolamentazione. Per salvaguardare la libertà di espressione e comunicazione in un
contesto democratico, i codici non possono essere imposti da un'istanza esterna alla categoria
professionale interessata. I codici quindi sono di auto-regolamentazione, che viene compiuta
all'interno degli ambiti professionali coinvolti. In questo modo, dunque, risultano conciliate,
per un verso, la necessità di salvaguardare la libertà di espressione e, per altro verso, la
consapevolezza che non si può dire tutto, facendo in modo, cioè, che quanto si può dire
venga fissato proprio da coloro che lo possono o che lo debbono dire. Il limite dei codici è che
troppo spesso l'applicazione di questi documenti risulta difficile e farraginosa, e le sanzioni
comminate sono spesso di modesta entità. I codici, poi, sono relativi a particolari categorie
professionali. E all'interno di queste organizzazioni di categoria, sovente, controllore e
controllato finiscono per coincidere. I codici sono utili come richiamo alla correttezza di certi
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comportamenti professionali, ma sono pur sempre limitati a certe categorie di professionisti.
Inoltre richiedono di essere assunti con senso di responsabilità.
La seconda forma dell'etica: l'etica della comunicazione. A livello di definizione, possiamo
dire che l'etica della comunicazione propriamente detta è quella disciplina che intende
stabilire che cosa è buono, giusto, virtuoso all'interno di un contesto comunicativo, e che
intende fondare l'opzione che fa adottare un simile comportamento. L'etica della
comunicazione raggiunge i suoi obiettivi in quattro modi, che corrispondono ad altrettanti
modelli:
1. Teoria di Aristotele sul logos, che non significa solo ragione, ma anche parola e discorso.
E’ buono tutto ciò che nell'esercizio della parola e del discorso si rivela conforme a questa
natura comunicativa. Cattivo è invece ciò che la mette in crisi, la mette in discussione, ovvero
utilizza la comunicazione per scopi che sono contrari alla promozione della natura umana.
2. Paradigma dialogico: il dialogo è il modello di un corretto agire comunicativo. Condizioni
di questo dialogo sono la disponibilità di ciascun interlocutore a riconoscere le buone ragioni
dell'altro, l’apertura e la disponibilità a cambiare idea. Il rischio di questo atteggiamento
dialogico è di vedere intaccata, se non addirittura perduta, la propria identità.
3. Modello audience: la tesi della retorica in questo ambito stabilisce che è buono tutto ciò
che salvaguarda l'audience, il pubblico, gli interlocutori, rispettando comunque la verità. Si
parla invece di cattiva retorica quando si scende a compromessi.
4. Paradigma dell'utilitarismo: il riferimento per le proprie scelte comunicative, al criterio
dell'utilità. Stuart Mill afferma che gli uomini sono spinti nelle loro azioni dal perseguimento
di un utile: individuale o egoistico (Bentham), oppure collettivo o sociale (Mill). La tesi
dell'utilitarismo finisce per considerare valori di riferimento, l'efficacia e l'efficienza dei
processi comunicativi, che in questo modo potrebbero essere funzionali ad un utile specifico.
Da questi quattro modelli ricaviamo una particolare definizione di ciò che è buono in ambito
comunicativo (ciò che corrisponde alla natura dell'uomo; ciò che corrisponde al paradigma
dialogico, ciò che va incontro alle esigenze dell'audience; ciò che risponde al criterio
dell'utile). Inoltre ricaviamo anche una giustificazione di ciò che significa "comunicare bene"
(a partire dalla natura dell'uomo, a partire dall'esperienza del dialogo, a partire dal rispetto
dell'interlocutore, a partire dal raggiungimento dell'utile, individuale o collettivo).
La terza forma dell'etica: l’etica comunicativa. L'etica nella comunicazione è un'indagine sul
linguaggio che ritiene di essere in grado di ritrovare, nella comunicazione stessa, particolari
principi etici, che ciascun parlante si troverebbe indotto ad applicare. Questa è la tesi
elaborata da Apel e Habermas. Il loro progetto è caratterizzato dall'intenzione di rinvenire
all'interno dello stesso ambito comunicativo, criteri e principi etici che pretendono di avere
una validità universale. Già nel discorso stesso vi sono aspetti decisivi, implicitamente messi
in opera, che assumono, di fatto, il carattere di obblighi morali. Ecco perché, nella misura in
cui tali obblighi sono riconosciuti da ogni soggetto razionale, diviene possibile ricavare, da
questi elementi insiti nella prassi comunicativa, le condizioni che consentono di elaborare
un'etica generale. Apel enuncia i principi di giustizia, solidarietà e corresponsabilità. Habermas ha
invece elaborato la dottrina dell'approfondimento. Vi è una differenza tra l'agire comunicativo
strategico, il quale mira semplicemente a promuovere l'affermazione di sé e della propria
tesi, rispetto all'agire comunicativo nell'ambito dell'etica del discorso, che si configura per la
sua aspirazione all'intesa e per l'identificazione del linguaggio come luogo in cui una tale
intesa si può realizzare. All'interno dell'etica del discorso si possono enunciare due principi:
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1. Principio di universalizzazione: ogni norma valida deve ottemperare alla condizione che
le conseguenze e gli effetti collaterali possano essere accettati da tutti gli interessati;
2. Formula dell'etica del discorso: ogni norma valida dovrebbe poter trovare il consenso di
tutti gli interessati, purché questi partecipino ad un discorso pratico.
Apel e Habermas mostrano che non si può comunicare senza agire eticamente. Etica qui vuol
dire qualcosa di ben preciso, che ritroviamo in maniera chiara nella concezione di Apel: etica
è sinonimo di giustizia, solidarietà e corresponsabilità.
Le etiche dei mass media
Stampa. I codici dei giornalisti riguardano il trattamento della privacy, delle notizie relative
ai minori (Carta di Treviso), il rapporto tra attività giornalistica e pubblicità, l'utilizzo dei
sondaggi come fonte d'informazione giornalistica. La responsabilità del giornalista riguarda
l'assunzione di quanto prescritto dai codici, e soprattutto, nei confronti dei fatti e delle notizie
di cui scrive.
Tv. Ci sono codici deontologici anche sui programmi televisivi, soprattutto riferiti alla tutela
dei minori. Per questa categoria di utenti si mobilitano anche le associazioni di genitori, delle
famiglie e dei consumatori. Ma c'è un altro discorso, altrettanto importante: si tratta del
rapporto esistente nel panorama televisivo tra realtà e finzione. Tutto in Tv appare vero, e il
giudizio morale implicito in questa reazione è di credere che sia buono, importante e valido
ciò che si vede in televisione. Invece ciò che si vede in Tv è sempre limitato ad una
prospettiva. Il reality show è l'emblema dello slogan “tutto può essere esibito, tutto deve essere
trasmesso”. Questo porta alla confusione tra notizia e spettacolo, tra informazione e
intrattenimento. Sono necessarie risposte etiche a tutto questo: recuperare il rispetto per la
realtà; avere consapevolezza della capacità di coinvolgimento propria del mezzo televisivo;
assumersi la responsabilità delle conseguenze che sono proprie dell'uso della televisione.
Web. Per quanto concerne la rete internet, va posta una precisazione metodologica:
1. Etica di internet: gli atteggiamenti dell'uomo che la Rete favorisce: questione della
libertà; questione dell'ordine e del senso; questione del virtuale e del suo rapporto con la
realtà; questione delle conseguenze e la possibilità di un controllo.
2. Etica in internet: i 10 comandamenti nell'uso del computer:
1. non userai un computer per danneggiare altre persone
2. non interferirai con il lavoro al computer di altre persone
3. non curioserai nei file di altre persone
4. non userai un computer per rubare
5. non userai un computer per portare falsa testimonianza
6. non userai o copierai software che non hai dovutamente pagato
7. non userai le risorse altrui senza autorizzazione
8. non ti approprierai del risultato del lavoro intellettuale altrui
9. penserai alle conseguenze sociali dei programmi che scrivi
10. userai il computer dimostrando considerazione e rispetto
23
4. LA DEONTOLOGIA DEL COMUNICATORE
Le norme che regolano il comportamento del giornalista sono contenute nel Codice della
Privacy (2003), nel codice di deontologia dei giornalisti (1998) e, con riferimento alla cronaca
su minori, nella Carta di Treviso. Sono norme di legge e attengono al rapporto tra il
giornalista e la collettività. La loro violazione può portare alla responsabilità civile e/o penale
del giornalista. Accanto a queste norme ve ne sono altre, che però sono prive di “forza di
legge”. Riguardano l’etica della professione e attengono al rapporto tra il giornalista e la
categoria d’appartenenza. La loro violazione non comporta di per sé una responsabilità civile
o penale del giornalista, ma solo disciplinare, accertata da appositi organi (Consigli regionali
e Consiglio nazionale) e prevede la comminazione di sanzioni disciplinari. Le sanzioni
disciplinari, in ordine crescente di gravità sono: avvertimento, che viene comminata “nei casi
di abusi o mancanze di lieve entità”; censura, applicata “nei casi di abusi o mancanze di grave
entità”; sospensione dall’esercizio della professione da un minimo di due mesi a un massimo
di un anno, quando la condotta del giornalista abbia “compromesso la dignità
professionale”; radiazione, che origina da un comportamento che abbia “gravemente
compromesso la dignità professionale”. Alcune delle norme disciplinari contenute nella
Carta dei Doveri, siglata nel 1993 dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e dalla
Federazione Nazionale Stampa Italiana, sono poi diventate “norme di legge” con
l’emanazione del codice di deontologia del 1998, perché in esso trasfuse: si pensi al divieto di
discriminazione, alla tutela della riservatezza, al divieto di identificare le vittime di reati sessuali, alla
tutela dei minori e dei soggetti deboli. Il dovere più pregnante del giornalista e caposaldo del
diritto di cronaca è il dovere di verità. Gli organi d’informazione sono l'anello di
congiunzione tra il fatto e la collettività. Essi consentono alla collettività l'esercizio di quella
sovranità che secondo l'art. 1 Cost. “appartiene al popolo”. Un'informazione che occulta o
distorce la realtà dei fatti impedisce alla collettività un consapevole esercizio della sovranità. In più
punti la Carta dei Doveri pone l’accento su quelli che, al pari del dovere di verità, vanno
considerati valori etici inderogabili: l’autonomia e la credibilità del giornalista. L’autonomia
del giornalista serve a garantire l’obiettività dell’informazione. L'informazione obiettiva serve
unicamente la collettività, ossia persegue un interesse generale. Il dovere di autonomia vuole
impedire che la funzione giornalistica venga subordinata ad interessi particolari. E’ evidente,
quindi, che particolari rapporti del giornalista con soggetti interessati ad un’informazione
compiacente sono visti come il fumo negli occhi. Tuttavia, non basta qualsiasi tipo di contatto
a gettare un’ombra sulla professionalità del giornalista. Anzi, rapporti con i più disparati
ambienti sono indispensabili per poter acquisire le notizie e garantire un’informazione
dettagliata. La Carta dei Doveri vuole stigmatizzare quegli elementi che indicano uno stato di
sudditanza del giornalista o un interesse in conflitto con il dovere di verità. Insomma, casi il
cui verificarsi ingenera il dubbio sulla reale capacità o volontà del giornalista di dare vita ad
un’informazione obiettiva. Ma la Carta dei Doveri tenta una “tipizzazione” di quelle situazioni
in presenza delle quali si presume che l’autonomia e la credibilità del giornalista vengano
meno. Innanzitutto, stigmatizzando l’adesione del giornalista “ad associazioni segrete o
comunque in contrasto con l’articolo 18 della Costituzione”. Poi, vietandogli di “accettare
privilegi, favori o incarichi che possano condizionare la sua autonomia e la sua credibilità
professionale”, nonché pagamenti, rimborsi spese, vacanze gratuite, regali, inviti a viaggi,
facilitazioni, che provengano “da privati o enti pubblici”. Ciò in quanto l’accettazione di
24
questi vantaggi porterebbe il giornalista a sentirsi in debito nei confronti di chi glieli ha
procurati, mettendo così ad alto rischio di violazione la norma che gli impone di accettare
“indicazioni e direttive soltanto dalle gerarchie redazionali della sua testata”. In generale, la
Carta dei Doveri pone l’accento sulla “responsabilità del giornalista verso i cittadini”, specificando che
tale responsabilità non può dal giornalista essere subordinata “ad interessi di altri e particolarmente a
quelli dell’editore, del Governo o di altri organismi dello Stato”. Collegate all’esigenza di
autonomia e credibilità del giornalista sono quelle norme che lo vogliono estraneo ad
iniziative di carattere pubblicitario. Altra norma di comportamento è quella che vieta al
giornalista di “pubblicare immagini o fotografie raccapriccianti di soggetti coinvolti in fatti di
cronaca, o lesive della dignità della persona”. La Carta dei Doveri ha depurato la norma degli
anacronistici riferimenti al “comune sentimento della morale” e all’“ordine familiare”,
sostituendoli con il parametro della “dignità della persona”. Storicamente la norma ha avuto
un’applicazione pressoché univoca. Ha riguardato qualsiasi immagine scioccante, a
prescindere dall’esigenza informativa che la pubblicazione era destinata a soddisfare. Si
censura un comportamento che può turbare chi apprende la notizia, ma che per il giornalista
costituisce la forma più esemplare di adempimento del dovere di verità, che è il caposaldo
del diritto di cronaca. Per questo sarebbe un errore scartare a priori la legittimità della
pubblicazione dell’immagine raccapricciante. Va quindi privilegiata una soluzione che tenga
conto della sensibilità del lettore medio, ma anche del diritto della collettività a ricevere
un’informazione il più possibile fedele ai fatti. E la soluzione non può che passare attraverso
l’analisi dell’altro requisito del diritto di cronaca: l’interesse pubblico.
Il diritto di cronaca
Il fondamento del diritto di cronaca è nell’art. 21 Cost., in quanto libera manifestazione del
pensiero. La cronaca si manifesta attraverso la narrazione dei fatti, e si rivolge alla collettività
indiscriminata. Essendo la cronaca narrazione di fatti rivolta alla collettività, se ne deduce che
la sua funzione è informare la collettività. Quella collettività il cui ruolo, nella società
democratica, è inequivocabilmente delineato dall’art. 1 Cost., laddove dice che “La sovranità
appartiene al popolo”. La collettività, infatti, delega periodicamente la gestione della “cosa pubblica”
(res publica) ai suoi rappresentanti eletti in Parlamento: deve quindi avere un quadro dettagliato sia di
ciò che accade nel Paese, sia delle persone alle quali delega l’esercizio della sovranità. Ma, non
disponendo di mezzi idonei, ecco che gli organi d’informazione s’incaricano di puntare i
riflettori su quegli aspetti la cui valutazione determina la scelta del delegato. Di qui
l’insostituibile funzione della cronaca: la raccolta d’informazioni e la loro diffusione, in virtù
del rapporto privilegiato che gli organi d’informazione vantano con la realtà, allo scopo di
consentire al popolo un corretto e consapevole esercizio di quella sovranità che l’art. 1 Cost.
gli attribuisce. Tuttavia, vi sono articoli di cronaca riguardanti aspetti che non presentano
punti di contatto con la gestione della cosa pubblica, ma che per vari motivi destano
l’interesse della collettività. Si pensi agli artisti, ai campioni dello sport, agli argomenti
culturali. Anche su questi personaggi e argomenti la collettività va tenuta informata. Qui la
funzione della cronaca è mantenere saldo il legame che unisce la collettività al personaggio,
nonché di agevolarne la crescita intellettuale. Sotto questo aspetto si può dire che la
collettività vanta un vero e proprio diritto all’informazione. Un giornalista non può essere
costretto a pubblicare una notizia, né può essere ritenuto responsabile nei riguardi della
collettività per non averla informata. E’ evidente come la cronaca assuma una posizione di
netto privilegio rispetto alle altre forme di manifestazione del pensiero garantite dall’art. 21
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Cost. Si tratta dunque di scoprire in cosa consiste esattamente questo privilegio. Di norma, i
limiti alla libertà di manifestazione del pensiero sono rappresentati dal rispetto di quei diritti
inviolabili che l’art. 2 Cost., fin dalla sua nascita si è incaricato di garantire: a cominciare da
concetti come onore, decoro, reputazione. Diritti della persona che l’ordinamento tutela
attraverso la previsione di reati come l’ingiuria e la diffamazione. E, nel conflitto tra
manifestazione del pensiero e diritto inviolabile, è sempre quest’ultimo a prevalere. Non così
per il diritto di cronaca. Costituendo al tempo stesso espressione della libertà di pensiero ed
insostituibile strumento d’informazione al servizio esclusivo della collettività, il diritto di
cronaca vanta una tutela rafforzata.
La verità
Il primo requisito che la cronaca deve rispettare nel momento in cui entra in conflitto con un
diritto inviolabile garantito dall’art. 2 Cost., è rappresentato dalla verità dei fatti. Bisogna
prima chiarire in che termini il rispetto della verità dei fatti rappresenta, nella cronaca, un
avanzamento dei limiti tradizionalmente imposti alla libertà di pensiero. E’ utile un esempio.
Se un quotidiano locale scrive che il sindaco è indagato o è stato condannato per truffa, avrà
senz’altro agito nell’ambito del diritto di cronaca se quella notizia è vera. Ma se uno di noi
viene a sapere che per truffa è stato condannato un proprio condomino, non potrà
comunicarlo agli altri condomini affiggendo all’ingresso del palazzo il dispositivo della
sentenza. Insomma, al di fuori di un contesto propriamente informativo, fatti lesivi non
possono essere resi noti nemmeno quando sono veri. Ciò in quanto i reati d’ingiuria e
diffamazione prescindono dalla verità dei fatti. Insomma, chi attribuisce ad una persona fatti
offensivi, in un eventuale giudizio non potrà cavarsela dimostrando che sono veri. Invece, in
un contesto informativo, la prova della verità dei fatti narrati è indispensabile per escludere
la responsabilità. Un avanzamento dei limiti che trova giustificazione nella stessa funzione
della cronaca, fondamentale in un sistema democratico, dove “la sovranità appartiene al
popolo” (art. 1 Cost.). Per ovvi motivi, qualsiasi persona troverebbe grosse difficoltà se
dovesse personalmente apprendere i fatti. Gli organi d’informazione, invece, vantano un
rapporto privilegiato con la realtà. E’ come se possedessero un gigantesco specchio da
orientare di volta in volta dall’alto, consentendo così alla collettività di cogliere fatti la cui
visione diretta le è impedita da ostacoli insormontabili. La cronaca è il tramite tra la
collettività e la realtà. Raccoglie le informazioni, le seleziona e le restituisce alla collettività
sotto forma di notizia. E’ naturale, quindi, che si debba escludere qualsiasi responsabilità, sia civile
che penale, quando i fatti oggetto di cronaca siano veri. Questa è la ragione per cui la cronaca deve
basarsi sulla verità dei fatti. Il sacrificio dei diritti del singolo individuo è giustificato soltanto
dall’esigenza di informare la collettività.
Il diritto alla riservatezza
Il diritto alla riservatezza è una creazione della giurisprudenza, che lo ha collocato tra quei
diritti inviolabili menzionati dall’art. 2 Cost. Ha la funzione di delimitare il concetto di
interesse pubblico alla notizia, escludendo l’esistenza di un diritto della collettività a
penetrare nella sfera privata di un individuo al solo scopo di soddisfare una curiosità
morbosa. In generale, un fatto deve ritenersi privato quando la sua diffusione non ha utilità
sociale. Non possono invocare il diritto alla riservatezza lo stupratore e l’omicida, il truffatore
e il medico abusivo, così come l’anonimo funzionario arrestato per corruzione. Qui il
soggetto è trascinato al centro della scena pubblica unicamente a causa della gravità o
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eccezionalità dell’azione. Tuttavia, non ogni particolare in qualche modo ricollegabile ad un
evento di interesse pubblico va considerato parte integrante di una “notizia”. E’ il cosiddetto
principio di essenzialità dell’informazione, secondo cui “la divulgazione di notizie di
rilevante interesse pubblico o sociale non contrasta con il rispetto della sfera privata quando
l’informazione, anche dettagliata, sia indispensabile in ragione dell’originalità del fatto o
della relativa descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto, nonché della qualificazione
dei protagonisti”.
La cronaca scandalistica
Nel conflitto tra diritto all’informazione e diritto dell'individuo, l’interesse pubblico alla
notizia è dato dall’utilità che la collettività trae dalla sua conoscenza. Quando il fatto
riguarda un personaggio noto, il presupposto dell’interesse pubblico non è più la gravità o
eccezionalità dell’avvenimento, ma la sua capacità di incidere sul rapporto tra il personaggio
stesso e la collettività. Incidenza che può derivare anche da un fatto lieve. Vi è poi un’altra
categoria di “fatto privato”: quella che rientra nell’area del cosiddetto gossip. Riguarda fatti
sempre riferiti a personaggi noti, ma assolutamente insignificanti, privi di un obiettivo
interesse e divulgati al solo scopo di rispondere alle istanze voyeuristiche di un certo
pubblico. Fatti che non possono incidere sul rapporto che lega il protagonista alla collettività;
o perché non hanno attinenza con l’attività pubblica svolta dal personaggio, o perché
riguardano soggetti dalla rilevanza pubblica evanescente, ossia soggetti il cui rapporto con il
pubblico è scarsamente definito, essendo privi di particolari meriti o competenze. L’interesse
pubblico alla conoscenza di quei fatti è pari a zero. I fatti che rientrano in questa categoria
formano l’oggetto della cronaca scandalistica. La cronaca scandalistica si situa all’estrema
periferia del diritto di cronaca. Non soddisfando il requisito dell’interesse pubblico, implica
sempre una violazione del diritto alla riservatezza. Pertanto, è legittima solo se vi è il consenso,
esplicito o implicito, dell’interessato alla divulgazione del fatto privato. Sul consenso esplicito c’è
poco da dire. Una “liberatoria” con la quale il personaggio autorizza una testata a descrivere
fatti privati che lo riguardano gli inibisce qualsiasi futura pretesa di risarcimento basata sulla
lesione del diritto alla riservatezza.
La continenza formale
La continenza formale è il requisito che attiene alle modalità di comunicazione della notizia.
Questa deve riportare il fatto nei suoi elementi oggettivi così come appresi dalla fonte. Il
giornalista non deve essere altro che un tramite tra la fonte e il lettore. Qualsiasi artificio adoperato dal
giornalista che, eccedendo lo scopo informativo, condizioni la genuinità della notizia, viola il requisito
della continenza formale. L’artificio può consistere nell’uso di un linguaggio colorito ed
incauto, nel porre l’accento volutamente su un particolare aspetto del fatto, nell’adoperare
termini tali da comunicare un messaggio sottinteso diverso, nell’accostare l’evento narrato ad
altro evento in modo da attribuire al soggetto un fatto diverso e ulteriore rispetto a quello
originario. Tutto questo può indubbiamente produrre un effetto lesivo. E in qualunque forma
si manifesti, la violazione del requisito della continenza formale va a scapito dell’obiettività della
notizia. La violazione del requisito della continenza formale può avvenire in due modi. La
prima categoria è rappresentata dalla violazione palese. E’ una violazione che si verifica
raramente e che non pone problemi di individuazione. Attiene principalmente al tono
adoperato nella narrazione del fatto. E’ una violazione diretta, che non necessita di uno
sforzo intellettivo per essere individuata. Il tono è scandalizzato e vi è un'eccessiva
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drammatizzazione della vicenda, oppure risulta fuori luogo l’inserimento di aggettivi
estremi e peggiorativi come “impressionante”, “sconcertante”, “incredibile”, “terribile”,
“stranissimo”, “pazzesco”, “vergognoso”, “deplorevole”, etc. E’ una violazione grezza, tipica
del giornalista inesperto ed ingenuo. E’ la meno pericolosa, perché il lettore riesce con
relativa facilità ad isolare il fatto-notizia dal soggettivismo del giornalista. La seconda
categoria è quella caratterizzata da un premeditato difetto di chiarezza. Qui il giornalista, nel
narrare il fatto reale, vuole attribuire al soggetto un fatto diverso o ulteriore. E’ uno
strumento subdolo al quale il giornalista, fermi i suoi cattivi propositi, deve necessariamente
ricorrere perché la rappresentazione chiara, espressa, inequivoca del fatto diverso o ulteriore
lo porterebbe ad una violazione diretta del requisito della verità. A questa categoria
appartiene il cosiddetto sottinteso sapiente. Un classico caso è l’uso delle “virgolette” o degli
eufemismi. Qui il giornalista usa i termini sapendo che il lettore li interpreterà in maniera
contraria o diversa da quanto suggerirebbe il dato formale letterale, stimolando un giudizio
negativo e amplificando così gli effetti lesivi. Altra tecnica riconducibile al premeditato
difetto di chiarezza è quella degli accostamenti suggestionanti. Oltre a narrare il fatto attribuito
al soggetto, il giornalista cita altri fatti che si riferiscono a soggetti diversi e più gravi, creando
un collegamento implicito senza minimamente esteriorizzarlo. E’ il lettore che metterà in
relazione il primo con i secondi. A questa categoria appartengono anche le insinuazioni. Qui il
fatto diverso o ulteriore, ovviamente peggiorativo, viene attribuito al soggetto comunicando
espressamente al lettore che la relativa ipotesi “non è improbabile”, o “non si può escludere”,
o che “si potrebbe azzardare”, o affermando che “quanto appreso fa pensare a”, nella totale
assenza di qualsiasi elemento obiettivo che possa permettere di affermarlo esplicitamente. In
ognuno di questi casi, l’informazione che ne deriva perde la sua originaria obiettività.
Il diritto di critica
Attraverso la tutela del diritto di cronaca, ogni ordinamento democratico garantisce la libertà
di informazione nella sua duplice veste di diritto ad informare e ad essere informati. Con la
tutela del diritto di critica, l’ordinamento garantisce quell’aspetto della libertà di pensiero che
più di ogni altro è funzionale alla dialettica democratica. Diritto di cronaca e diritto di critica
sono entrambi emanazioni dall’art. 21 Cost. Tuttavia, la loro diversità è enorme. La cronaca
riferisce una realtà fenomenica (fatto o comportamento). Essendo informazione, è obiettiva.
La critica, essendo valutazione, è soggettiva. La cronaca nasce con il fatto e lo descrive, la critica
segue la descrizione del fatto e lo valuta. La cronaca esprime l’identità tra una realtà fenomenica
e l’informazione che la veicola, la critica esprime un dissenso verso quella realtà fenomenica.
In realtà, quando si parla di diritto di critica, si vuole legittimare qualcosa che va ben al di là
della mera opinione. Le potenzialità dell’art. 21 Cost. sono ben altre. Sarebbe frustrante per
l’art. 21 Cost. sapersi in grado di tutelare soltanto un generico, umile ed innocuo “secondo
me”. La libertà di opinione permette di esprimere la propria idea su una questione, giusto per
aggiungere una voce alle altre. Il diritto di critica, invece, è dura contrapposizione, è mettere a nudo
l’inadeguatezza, l’inaffidabilità, la falsità, gli errori altrui. E’ voler scuotere, provocare una
reazione. La critica è fondamentalmente un attacco. E’ il giudizio soggettivo a caratterizzare
la critica rispetto alla cronaca. In teoria la critica dovrebbe incontrare gli stessi limiti previsti per il
diritto di cronaca: verità, interesse pubblico, continenza formale. Solo se rispetta tutti e tre i requisiti la
critica è legittima. La verità è riferita al fatto: ossia la critica deve poggiare su basi veritiere.
Deve rivestire un interesse pubblico, che è poi riferito allo stesso fatto: non si potranno,
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quindi, esprimere pubblicamente valutazioni critiche su fatti privati o privi d’interesse per la
collettività. Infine, la critica deve rispettare il requisito della continenza formale.
Il diritto di satira
Saldamente ancorata ad una tradizione millenaria, la satira costituisce la più graffiante delle
manifestazioni artistiche. Basata su sarcasmo, ironia, trasgressione, dissacrazione e
paradosso, verte preferibilmente su temi di attualità, scegliendo come bersaglio privilegiato i
potenti di turno. Anzi, più in alto si colloca il destinatario del messaggio satirico, maggiore è
l’interesse manifestato dal pubblico. Quella politica, infatti, è il tipo di satira che raccoglie
maggiore interesse e consenso presso ogni collettività. Essendo una forma d’arte, il diritto di
satira trova riconoscimento nell’art. 33 Cost., che sancisce la libertà dell’arte. Ma è una forma
d’arte particolare. Il contenuto tipico del messaggio satirico è lo sbeffeggiamento del suo
destinatario, che viene collocato in una dimensione spesso grottesca. La satira mette alla
berlina il personaggio al di sopra di tutti, l’intoccabile per definizione. Esalta i difetti
dell’uomo pubblico ponendolo sullo stesso piano dell’uomo medio. Da questo punto di vista,
la satira è un veicolo di democrazia, perché diventa applicazione del principio di uguaglianza. Non a
caso è tollerata persino nei sistemi autoritari, fortemente motivati a mostrare il volto
“umano” del regime. Ma proprio perché trova la sua ragion d’essere nello sminuimento del
soggetto preso di mira, il messaggio satirico può entrare in conflitto con i diritti costituzionali
all’onore, al decoro, alla reputazione. Dunque anche qui, come per la cronaca e la critica,
occorre procedere ad un bilanciamento degli interessi in conflitto. Il termine “interesse
pubblico” viene qui adoperato al solo scopo di identificare il problema, poiché mal si concilia
con la funzione della satira, che non è quella di fornire “notizie”. La qualità della dimensione
pubblica del personaggio, va vista come un enorme contenitore dal quale l’artista può
liberamente attingere per creare il contenuto dell’opera satirica. In questo contenitore sono
raccolti i frammenti che compongono il personaggio, ossia le informazioni di sé che il
personaggio, volente o nolente, ha visto fornire al pubblico: le sue fattezze fisiche, la sua
mimica facciale, la sua voce, i suoi tic, le sue dichiarazioni, i suoi comportamenti in pubblico,
le sue gaffes, i suoi guai giudiziari; e persino i pettegolezzi sul suo conto, se di dominio
pubblico. Ebbene, la satira restituisce al pubblico quelle informazioni, dopo averle
interpretate, enfatizzate e distorte. In questo modo il contenuto del messaggio satirico è in
coerenza causale con la qualità della dimensione pubblica del personaggio preso di mira. E’
irrilevante che alcune delle informazioni che confluiscono nel contenitore del personaggio
pubblico siano false: la satira non agisce su fatti, ma sulla dimensione pubblica acquisita da
un personaggio, che potrebbe non corrispondere a quella reale.
Giornalismo e democrazia
Alle origini della tradizione occidentale sta la convinzione che la comunicazione tra gli esseri
umani si fonda su ciò che Aristotele chiama logos, un termine greco che si può tradurre
“parola”, ma anche “ragione”. Proprio per questo la politica è capace di esprimere non solo
bisogni soggettivi, ma valori universali, e quindi di accomunare i singoli intorno a questi
valori. Applicato al nostro discorso, questo indica da un lato l’estrema importanza di una
comunicazione pubblica, dall’altro la necessità che questa comunicazione segua le regole
della riflessione razionale, sollevandosi al di sopra del gioco delle reazioni immediate e degli
interessi particolari, per far emergere il giusto e l’ingiusto. Attraverso i mezzi di
comunicazione il giornalista può voler dire qualcosa, oppure soltanto condizionare,
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aggirando i controlli razionali con spregiudicate operazioni di persuasione occulta. Da
quanto detto risulta che sono costitutive dell’agire comunicativo soltanto quelle azioni
linguistiche con le quali il parlante avanza pretese di validità criticabili. Solo chi mette gli
altri in condizione di valutare le proprie affermazioni può fare opera di comunicazione e non
solo di suggestione. Sono qui riassunti i tre profili sotto cui la comunicazione giornalistica
deve essere valutata: la conformità del messaggio alla realtà, la correttezza della scelta di
diffonderlo, le intenzioni del giornalista nel diffonderlo.
Opinione pubblica e giornalismo. Se dal rapporto tra giornalismo e politica si passa a quello
tra giornalismo e democrazia, è indispensabile affrontare il tema dell’opinione pubblica. Un
ruolo fondamentale nel rapporto tra Stato e opinione pubblica lo hanno avuto, storicamente, i
giornali, anche se ormai l’attività giornalistica si esercita anche attraverso altri mezzi di
comunicazione. Quest’attività contribuisce alla formazione dell’opinione pubblica, dandole
ciò di cui essa ha più bisogno, ovvero una corretta informazione. Ma la funzione conoscitiva
del giornalismo non si riduce a quella di informare l’opinione pubblica, contribuendo così a
formarla. Essa è anche quella di farsene portavoce, esprimendo così la ricchezza e la varietà
dei suoi punti di vista e delle sue esigenze, e consentendo loro d’incontrarsi e scontrarsi non
solo privatamente, ma in pubblico. Tra questi due momenti vi è un’incessante circolarità, la
quale fa sì che i messaggi trasmessi dalla stampa, dalla radio e dalla tv non siamo notizie
asettiche, ma vengano elaborati secondo le tendenze di quella stessa opinione pubblica.
Il problema dell’obiettività. Quando si discutono il ruolo e i problemi del giornalismo,
s’insiste abitualmente sul problema dell’obiettività dell’informazione. Indicativa la dura
polemica condotta da un giornalista americano, nei confronti dello stile giornalistico italiano:
“Per il giornalismo italiano i fatti non esistono. In Italia, la realtà viene guardata attraverso le lenti
deformanti dell’ideologia”. In questa prospettiva, l’obiettività del giornalista dovrebbe
manifestarsi nel riportare i fatti omettendo ogni commento. Non si può pretendere che il
giornale o la redazione del notiziario televisivo non abbia opinioni, ma solo che queste non
figurino nei suoi resoconti. Veramente è possibile eliminare da un resoconto
l’interpretazione? Basta guardare a problema più elementare del giornalismo, quello della
scelta delle notizie da pubblicare o trasmettere. Come si fa a scegliere i fatti che è giusto
riferire, senza una griglia interpretativa che ci consenta di stabilire una gerarchia di valori?
La verità è che la varietà delle prospettive può sottrarre l’informazione al rischio
dell’unilateralità, e garantire la sua relativa completezza. Quello che è da rifiutare,
nell’attività del giornalista, non è lo sforzo di interpretare i dati, ma la mancata
considerazione di quelli che possono essere rilevanti ai fini di interpretazioni diverse dalla
propria, e che costituiscono una potenziale smentita, o potenziale difficoltà, alla propria
visione dei fatti. Un simile atteggiamento non implica in alcun modo relativismo. Al
contrario, lasciando che la propria visione delle cose venga interpellata e messa in questione
dagli elementi che non si lasciano integrare in essa, si apre lo spazio della ricerca, in
un’incessante tensione verso la verità, e si evita che la propria convinzione si trasformi in
dogmatismo, l’idea in ideologia, l’impegno in fanatismo.
Pluralismo e libertà. Strettamente legato al problema dell’obiettività dell’informazione,
perché ne costituisce una condizione e una garanzia, è quello di un effettivo pluralismo.
Soltanto là dove si dà una reale pluralità di voci, l’opinione pubblica ha buone probabilità di
disporre della più ampia gamma possibile di interpretazioni dei fatti. Ciò pone la questione
concreta del controllo dei mezzi di comunicazione. Infatti, nella misura in cui questi si
trovano in mano ad un numero troppo limitato di soggetti, privati o pubblici, il
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condizionamento da essi operato appare inevitabile. Il problema esiste per tutti i mezzi di
comunicazione, anche se oggi il dibattito tende a lasciare in secondo piano il mondo della
carta stampata per polarizzarsi sempre più sul mezzo televisivo. I motivi sono diversi. Uno è
che la tv raggiunge un numero maggiore di persone. Non solo: il coinvolgimento dello
spettatore è superiore a quello del lettore, il quale è più in grado di mantenere una distanza
critica dal testo che ha di fronte. Il giornalismo televisivo innesca nei suoi destinatari un
nuovo rapporto con la realtà, molto meno distaccato, ma anche molto meno critico, che
accresce il rischio di una manipolazione. Da qui l’influenza che il mezzo televisivo è in grado
di esercitare anche dal punto di vista politico: a maggior ragione si richiede che il controllo
delle reti televisive sia sottratto ad ogni regime di monopolio e che, al loro interno, viga un
regime di libertà d’informazione che consenta ai giornalisti di essere effettivamente a servizio
della verità, e non del padrone di turno. Da entrambi questi punti di vista il caso italiano è
esemplare in senso negativo. Quando, a metà degli anni ’50, iniziarono le trasmissioni, in
Italia c’era un unico canale televisivo (Rai), dove il telegiornale veniva considerato l’organo
ufficiale del Governo. Quando, in seguito, la Rai acquisì altri due canali, in ossequio al
principio della lottizzazione i tre canali divennero l’organo della Dc, del Psi e del Pci. In Rai, i
giornalisti venivano assunti sulla base delle rispettive tessere partitiche. Per la stragrande
maggioranza dei giornalisti televisivi (come i colleghi della carta stampata), il concetto del
giornalismo come un servizio pubblico era sconosciuto. Né le cose sono andate meglio con
l’avvento, a partire dagli anni ’80, della tv commerciale di Berlusconi. Anzi, al principio
perverso della spartizione partitica è subentrato un ancor più perverso sistema di semimonopolio, che si è consolidato quando il proprietario di Mediaset è entrato in politica.
Prima ancora che politiche, però, le conseguenze della diffusione della tv commerciale sul
giornalismo sono state culturali. Fino a quel momento aveva avuto un ruolo esclusivo la c.d.
“Tv pedagogica”. Gli amministratori cattolici della Rai erano convinti che la tv dovesse avere
una duplice funzione: educare e intrattenere gli italiani. L’avvento della tv commerciale, che
mira ad essere la vetrina luccicante della società consumistica, ha determinato una radicale
trasformazione di questo stile. L’esigenza di acquisire quote sempre maggiori di pubblicità,
ha comportato un’impostazione dei programmi in funzione dell’audience e quindi della loro
capacità di attirare l’attenzione degli spettatori. Purtroppo questo modo di pensare ha
coinvolto anche la Tv di Stato, eliminando così il pluralismo. Si è affermato, così, il c.d.
“giornalismo spettacolo”, che cerca di combinare due concetti che in passato erano ritenuti
alternativi, quello di informazione e quello di invenzione creativa. Ma l’invenzione è una
cosa diversa: il rischio del nuovo tipo di giornalismo è di creare una realtà virtuale, in
funzione dei gusti degli spettatori. In questa maniera, i destinatari non sono più messi in
condizione di valutare criticamente quanto viene loro propinato. Risulta chiaro che il
giornalismo può essere al servizio della democrazia solo se si rispettano alcune condizioni: 1.
si abbia coscienza del ruolo politico dell’opinione pubblica. 2. Si rinunci al successo che
deriva dall’uso della comunicazione strumentale, puntando su quella autentica. Il giornalista
non deve essere un persuasore occulto, bensì informare in modo da mettere i suoi destinatari
in condizione di esercitare un giudizio critico su quanto viene loro comunicato. 3. Nella
nostra società frammentata, il ruolo della comunicazione è ricostituire un mondo comune,
facendone emergere la molteplicità prospettica. E’ questo l’originario significato del termine
logos, che abbiamo visto inscindibilmente connesso con la politica. Alla logica dello scontro e
dell’indifferenza, estranee all’ascolto, potrebbe subentrare uno stile conviviale dove
ricostruire gli spazi del dialogo.
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SOMMARIO
1.
La comunicazione nella storia: passaggio oralità-scrittura-nuove tecnologie
Bibliografia
Jean-Noel Jeanneney, “Storia dei media”, Editori Riuniti, 1996.
2.
Breve storia del giornalismo italiano
Bibliografia
Paolo Murialdi, “Storia del giornalismo italiano”, Il Mulino, 2000.
3.
Etica della comunicazione
Bibliografia
Adriano Fabris, “Etica della comunicazione”, Carocci, 2007.
Adriano Fabris, “Guida alle etiche della comunicazione”, Edizioni Ets, 2004.
Silvia, Costantini, Andrea Scorzoni, Fabio Silvestri, “Verso un’etica dei mass media”,
Edizioni Art, 2007.
4.
La deontologia del comunicatore
Bibliografia
Giuseppe Costa, Angelo Paoluzi, “Giornalismo”, Edizioni Las, 2006.
Anonimo, “E’ la stampa, bellezza! Manuale di sopravvivenza per chi scrive sui giornali e per
chi li legge”, Orme editori, 2007.
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12 Comunicazione e mass media