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Sociologia e Ricerca Sociale
Mensile del Corso di Laurea in Sociologia e Ricerca Sociale, Aprile 2004. Anno 1. Numero 4. Direttore Mario Cardano. Redazione Mario Cardano, Michele Manocchi
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Alla redazione di questo numero hanno contribuito con articoli o segnalazioni:
Arianna Radin, Eva Lorenzoni, Donatella Simon, Rosalba Altopiedi
Michele Manocchi e Mario Cardano.
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numero della Newsletter di Sociologia e Ricerca Sociale.
Dillo anche ai tuoi amici, perché la Newsletter è dedicata a voi
ed è grazie a voi che può crescere e migliorare.
Sommario
Àgora: iscriviti al prossimo focus group di maggio
2
Àgora: i vostri messaggi e le vostre impressioni sul focus group di marzo
2
Ricerca Sociale: intervista a Mario Cardano sul Progetto Alphaville
6
Ricerca Sociale: intervista a Chiara Saraceno sul CIRSDe
9
Professione Studente: presentazione del Forum permanente sulle tesine triennali
11
Professione Sociologo. Intervista a Paola Torrioni sulla sua tesi di dottorato:
Omosessualità al maschile e al femminile: teorie e ricerche sociologiche
12
Professione Sociologo. Intervista a Giovanni Chiabotto, uno dei primi triennali
15
La Facoltà dà i numeri
17
Professione Sociologo: presentazione dei lavori dell’Osservatorio del Nord Ovest
Professione Sociologo. Convegno: Violenze Urbane.
18
La città di Torino contro la violenza alle donne – CIRSDe e Città di Torino
19
Professione Sociologo. I Seminari del Dipartimento
20
Sociologie: L’Europa torna in missione, di Zygmunt Bauman
21
Sociologie: Il trionfo dell’individuo, di Alain Touraine
22
Sociologie: il progetto editoriale della rivista trimestrale on-line m @ g m @
24
Sociologie: Prime Teatro, a cura di Rosalba Altopiedi e Eva Lorenzoni
25
Sociologie: Prime Cinema, a cura di Ar ianna Radin e Eva Lorenzoni
25
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Àgora
2
Àgora
Le cose finalmente si (s)muovono!
Siete ormai diversi a mandarci messaggi e a interagire con noi, e questo ci fa un
gran piacere. Certo, se fossimo di più, potremmo anche divertirci di più, ma
come inizio non c’è male.
Ecco i messaggi giunti in redazione. Aspettiamo commenti e impressioni da
parte di tutti.
Inoltre, è sempre valido l’invito: se avete piacere di collaborare con noi in
maniera più intensa, mandateci i vostri pezzi o inviateci le vostre idee e saremo
felici di farvi partecipi della redazione.
Buona lettura a tutti.
Prossimo focus group:
giovedì 6 oppure venerdì 7 maggio.
Iscrivetevi numerosi mandandoci una E-Mail e specificando il vostro nome, un
recapito telefonico o di posta elettronica e il giorno che preferite tra i due!!
Salve, frequento Sociologia e Ric. Sociale.
Oggi mi sono recata in Dipartimento per la conferenza del
prof. Gershuny (Le indagini longitudinali per lo studio dei
mutamenti sociali) in quanto la ritenevo molto interessante MA ho scoperto solo pochi minuti prima che era tutta in
INGLESE!
Nemmeno in dipartimento dove avevo chiesto sapevano di questo particolare tra l'altro..
Naturalmente non ho potuto capire nulla in quanto per seguire una conferenza di questo tipo occorre un
livello
linguistico piuttosto elevato e "professionale" e inoltre ho perso un intero pomeriggio in quanto abito fuori.
Non mi sembra assolutamente giusto che un'iniziativa così utile e interessante possa essere fruita da un numero
ristretto di persone (soprattutto docenti) e che gli
studenti SIANO TAGLIATI FUORI.
Penso comunque che le conferenze e gli incontri culturali siano un ottimo supporto per integrare lo studio e
soprattutto un'occasione per conoscere le ricerche più attuali e sentire la voce dei ricercatori, quindi secondo me
bisognerebbe anche
incrementarne l'offerta.
Vi ringrazio per l'attenzione e spero riuscirete a dar voce al mio
commento sul prossimo newsletter. Cordiali saluti
Alessia
ciao Alessia, sono Michele
la tua mail avrà la massima visibilità sul prossimo numero.
Questo della lingua è un problema sentito anche dai docenti, nel senso che si rendono perfettamente conto che così
facendo solo uno stretto numero di persone può seguire la cosa.
Purtroppo, però, ci sono
due aspetti: da una parte l'inglese è la lingua dominante nelle scienze sociali,
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per cui tutti gli studenti dovrebbero essere spinti a conoscere questa lingua; dall'altra, i costi di una traduzione
simultanea sono molto elevati, e i dipartimenti difficilmente hanno queste risorse.
Comunque ti chiedo scusa per l’inconveniente, nel preparare l’annuncio ci siamo dimenticati di assumere che la
conferenza si sarebbe tenuta in inglese.
ciao e a presto
Michele Ciao, grazie per la risposta sui seminari del dipartimento, sono d'accordo che l'inglese sia una lingua
fondamentale oggigiorno (io pensa che l'inglese non l'avevo mai studiato ma ho dovuto impararlo da sola in
quanto a gennaio ho dovuto sostenere un esame in facoltà, non tra i più facili, ma sono contenta di averlo
superato!) comunque la preparazione che può avere uno studente di medio livello non è sufficiente per seguire
una conferenza in lingua credo. Anche se può essere un buon esercizio… Magari anziché un traduttore potrebbe
essere un professore a fare dei
brevi riassunti ogni tanto o fornire materiale in italiano perché rimanga da
consultare (visto che non è facilissimo prendere appunti in un'altra lingua). Vi ringrazio per l'ascolto e colgo
l'occasione per farvi i complimenti per la newsletter!
Cordiali saluti
Alessia
Ciao sono
Sonia e vi scrivo dopo aver letto l'ultimo numero della newsletter.
Volevo suggerire a tutti quelli che, come me, hanno
À g o r a
qualche lacuna in
Statistica un sito della facoltà di scienze
della formazione dove si possono trovare spiegazioni a mio avviso abbastanza chiare e test di autovalutazione.
Eccovi il link:
www.cisi.unito.it/ progetti/leda /present.htm#corsi
Complimenti a tutta la redazione perché il nostro CdL aveva proprio bisogno di visibilità!
Ah! Un'ultima cosa: perché nei prossimi numeri non ci date qualche
informazione sulla prova finale?
Ci sono così poche notizie in giro!
Un saluto a voi tutte/i.
Sono Marco,
ho 28 anni e sono iscritto al secondo anno del Corso di Laurea in SRS; attualmente sono uno
studente-
lavoratore, tuttavia ho la possibilità di frequentare quasi la totalità delle ore di lezione.
Desidero innanzitutto complimentarmi e ringraziare quante/i collaborano alla stesura della newsletter, uno
strumento di comunicazione ed informazione davvero valido, necessario: ho dunque accolto con grande
soddisfazione la sua comparsa!
Avete sollecitato impressioni sul focus group, seguono le mie.
Concordo sugli aspetti positivi (diffusa disponibilità dei docenti e sulla didattica) e
negativi (burocratici ed
organizzativi, in particolare sono da perfezionare la circolazione delle informazioni e l’articolazione dei corsi tra
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le varie sedi); apprezzerei l’introduzione di
attività collaterali (come l’espansione dei Laboratori di ricerca;
luoghi e momenti di incontro tra docenti e studenti, durante i quali concordare temi da affrontare in cicli di
conferenze - numerosi spunti sono offerti dai corsi istituzionali: argomenti, anche d’attualità, accennati e poi
sacrificati per mancanza di tempo -) e di iniziative simili alla newsletter, finalizzate a stimolare, diffondere e
soddisfare la curiosità, ed utili a contribuire alla formazione, di quante/i hanno scelto questo corso di studi.
Infine suggerisco anch’io l’introduzione di un
corso di storia della sociologia, lamento cioè la
“dispersione” dei maestri della disciplina (credo però che questo possa dipendere anche dalle scelte dei singoli
docenti del corso base di Sociologia: non tutti infatti includono i classici nel programma).
Sono disponibile a
partecipare al prossimo focus group di maggio, preferibilmente il venerdì.
Mi permetto qualche ulteriore osservazione.
Ho seguito il corso di
Statistica della prof.ssa Carota: i manuali da lei adottati, comuni a quelli scelti dagli altri
docenti, sono effettivamente carenti di esercizi; inoltre credo che sarebbero ben accolti i testi delle prove
d’esame passate con le relative soluzioni. Da ultimo, fino ad ora a me è risultato utile assistere alle prove orali
(ovviamente questo è un suggerimento valido per ogni corso).
Concludo
citando il dottorando Lorenzo Todesco: “..la Sociologia è la disciplina delle persone curiose..”;
ho sentito ripetere più volte dai docenti questa affermazione, unitamente alla necessità di porsi grandi
interrogativi.
Personalmente, sto affrontando questo percorso di studi con la
À g o r a
disposizione ad imparare a gestire la mia curiosità, individuare
gli interessi prevalenti, analizzare le questioni in profondità; sento, nel fare ciò, il bisogno,
desiderio di
confrontarmi. In questo senso, sottolineo ancora l’importanza della newsletter e accoglierò con piacere
eventuali iniziative future.
Marco
Bella la newsletter...
Tanto per la cronaca, persone che l'anno scorso non hanno preso voti di statistica bassini ce ne sono: ci siamo
sentiti tutti
punti sul vivo, dato l'impegno che c'abbiamo
messo. A presto e vi prego, fate qualcosa per farci capire
che ne sarà di noi dopo la triennale: tra i corridoi
di via Plana, non si parla che di questo!
Arianna
Sono contento che ti piaccia.
La
mini polemica
quelli
su statistica serve proprio a spronare gli studenti. Comunque io mi sono riferito solo a
dell'ultima sessione d'esami. Scusami con i tuoi amici.
Sulla Specialistica… stiamo lavorando per voi.
ciao e a presto. Michele
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È molto interessante la Newsletter. Complimenti!
Mi chiamo Barbara, lavoro e sono iscritta al corso triennale dell'Amministrazione e dell'Organizzazione.
Sarei interessata a partecipare al
focus group per studenti lavoratori, che si terrà un sabato mattina. Il
tema sarà sempre quello del corso di laurea?
Sarei inoltre molto interessata a partecipare attivamente a dei
progetti di ricerca condotti dall'università. È
possibile avere quale notizia in merito?
Grazie
Barbara
Cara Barbara
la Newsletter è pensata per gli studenti di Sociologia e Ricerca Sociale, per cui, purtroppo, il focus group sarà
incentrato su questo corso di laurea e non su altri, per i quali non possiamo certo esprimere nostri giudizi.
Mi fa molto piacere che tu trovi la Newsletter interessante e stimolante, e certamente riceverai anche tutti gli
altri numeri, però il focus group non credo che riesca a catturare la tua attenzione, non riguardando il tuo corso
di studi.
Per quanto riguarda le
attività di ricerca dell'università, il discorso non è così lineare. Le attività di
ricerca vengono svolte per lo più a livello di Dipartimenti. Quando l'università vuole fare una ricerca, si affida a
ricercatori e docenti dell'università stessa, i quali hanno le loro "squadre di lavoro", o ad altri organismi
À g o r a
pubblici o privati che fanno ricerche per professione.
Praticamente tutti i docenti universitari svolgono attività di
ricerca, ma queste non sono direttamente collegate alla vita dell'università alla quale appartengono.
Una cosa che puoi fare è parlare di questi tuoi interessi con i docenti dei
corsi che ti sono piaciuti di più,
o, se sei già in procinto, con il docente che ti segue per la tesi.
In ogni caso, ti può aiutare, nel presentarti come potenziale ricercatrice, avere sempre un
curriculum
aggiornato a disposizione e capire un po' meglio quali ambiti ti interessano, per poter dire ad un
docente verso quali temi ti senti più portata.
Infine, fai un giro sul sito dell'università www.unito.it, ci sono delle cose interessanti anche in termini di
concorsi ai quali si può partecipare.
Per ora non so dirti altro. In bocca al lupo per tutto.
Continua a leggerci e a scriverci ogni volta che vuoi: se possiamo essere utili...
Grazie ancora e a presto, Michele
Grazie mille per l'aiuto.
Ho trovato il sito del dipartimento di sociologia http://www.dss.unito.it/index.htm, dove sono elencate le
ricerche in corso.
Mi sembra
utilissimo.
Grazie ancora per l'attenzione. Barbara
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Ricerca Sociale
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Intervista a Mario Cardano
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un’attività lavorativa e 25 pazienti che invece non ce
l’hanno che magari la stanno
cercando. I due gruppi, occupati
Mario Cardano insegna Metodologia
e disocupati, sono resi il più posdelle Scienze Sociali A presso il nostro
sibile simili per quanto attiene il
corso di laurea, Disegno della ricerca e
genere, l’età e il profilo psichiaMetodi e tecniche dello studio di caso
trico, la gravità della patologia
presso il corso di laurea specialistica
con la quale devono convivere.
interfacoltà di Sociologia.
Il confronto fra occupati e disocQui ci racconta della ricerca che sta
cupati fornirà alcune indicazioni
conducendo, con il gruppo «Alphaville»
sui fattori che facilitano o ostasu lavoro e disagio psichico.
colano la partecipazione di queste persone al mercato del lavoro.
D: Professor Cardano, potrebbe
illustrarci i suoi attuali ambiti
di ricerca?
R: Il mio lavoro di ricerca, in questo
periodo, si muove su due terreni.
Il primo, che frequento ormai da
alcuni anni, è di tipo metodologico
ed è quello della ricerca etnografica. Si tratta prevalentemente di
un lavoro di ricerca teorico-metodologica che conduco partecipando
all’attività di un gruppo di colleghi,
di studiosi, che si riunisce quattro, cinque volte l’anno,
per discutere i problemi metodologici ed epistemologici
della ricerca etnografica.
Sull’altro terreno trova collocazione una ricerca che ho
avviato da poco più di un anno sulla malattia mentale e
in particolare sulla conciliazione tra il disagio psichico e
lavoro.
La ricerca è condotta dall’Università di Torino, attraverso la mia persona e altri colleghi, insieme ad un cartello composto da ASL, Dipartimenti di Salute Mentale,
cooperative sociali, associazioni che si occupano della
cura delle malattie mentali e che sono raccolte all’interno del progetto Alphaville. Questa ricerca è stata promossa potendo contare su un finanziamento europeo.
È una ricerca qualitativa, perché è questo l’ambito di
ricerca su cui sto lavorando ultimamente e si articola in
diverse fasi.
D: Come avete individuato i pazienti da
intervistare?
R: I pazienti sono stati selezionati dai Dipartimenti di
Salute Mentale, dapprima in modo anonimo. Le persone
disponibili sono state scelte considerando la coerenza
con le nostre richieste, ovvero con le caratteristiche che
volevamo fossero presenti nelle persone da intervistare.
Nei Dipartimenti di Salute Mentale hanno scartabellato
negli archivi e hanno individuato i casi che avevano i
requisiti appropriati e tra questi hanno individuato quelli
per i quali un’intervista non poteva essere ragione di
pregiudizio per la loro salute.
D: C’è stato quindi un primo filtro…
R: Sì, esatto. Sono quindi state escluse persone che
magari, chiamate a raccontare la loro storia, avrebbero
avuto disagi di varia natura. I soggetti che abbiamo
interpellato sono tutti pazienti seguiti dai Dipartimenti di
Salute Mentale (d’ora in poi DSM), per cui dal punto di
vista del profilo del campione, ovvero per come è stato
costruito, non possiamo dire nulla circa gli orientamenti
e le caratteristiche dei “pazienti” cosiddetti ribelli, di
coloro cioè che non riconoscono alle istituzioni sanitarie
alcuna capacità, competenza nel gestire il loro problema
di salute, e quindi non si rivolgono a questi servizi.
Abbiamo ascoltato alcune voci ribelli ma non così tante
come avremmo potuto fare usando un’altra strategia di
campionamento.
D: Torniamo alle fasi della ricerca.
R: Una prima fase, già conclusa, ci ha visto impegnati
nella conduzione di 50 interviste a pazienti psichiatrici,
seguiti dai DSM dell’area torinese. Si tratta di un campione a scelta ragionata, ispirato al disegno casocontrollo. Per cui ci sono 25 pazienti che hanno
D: Quali tecniche di ricerca sono state adottate?
R: Questa indagine è stata condotta utilizzando la tecnica
delle interviste ripetute. Le interviste le ho condotte io
insieme a un gruppo di altri 8-9 intervistatori. Dapprima
abbiamo effettuato una prima intervista biografica in cui
abbiamo chiesto a queste persone di raccontarci la storia
della loro vita e in queste storie, ovviamente, ci sono narrazioni di malattia. Il tema che spesso viene affrontato è
il passaggio drammatico, la transizione, dalla condizione
di salute a quella di malattia con l’esordio di queste
patologie che in alcuni casi è veramente drammatico.
Concluso il ciclo delle prime 50 interviste, abbiamo analizzato i materiali raccolti e abbiamo individuato un insieme
di temi che meritavano di essere approfonditi e li abbiamo ordinati in una traccia. Armati di questa traccia, di
questa griglia, abbiamo ripetuto le interviste, approfondendo caso per caso i temi che non erano emersi nel
primo colloquio e che meritavano ulteriori sviluppi.
Quindi, nella seconda intervista, abbiamo affrontato in
alcuni casi in modo più specifico il tema del lavoro, in altri
casi quello del rapporto con i servizi di cura, in altri ancora le relazioni con i familiari, in modo da ricostruire un
quadro completo.
D: Quindi quello che veniva fuori dalla prima
intervista, ma anche il non detto…
R: Diciamo che la prima intervista è stata analizzata per
capire come le persone raccontavano la loro esperienza.
Poi, a partire dalla lettura di queste prime interviste, sono
emersi ulteriori spunti, elementi, che sono stati affronta ti
con il secondo colloquio.
Un altro aspetto interessante, almeno dal mio punto di
vista, di questa prima fase del lavoro riguarda il coinvolgimento, nella fase di conduzione delle interviste, di
pazienti psichiatrici.
D: In che modo sono stati coinvolti?
R: Si tratta tecnicamente di interviste condotte in tandem, dove, accanto a un intervistatore professionista, il
ricercatore sociale, contribuiva alla conduzione dell’intervista una persona che aveva o che aveva avuto seri problemi di salute mentale, la quale porgeva alcune domande e in alcuni casi svolgeva un ruolo di mediatore. Questo
anche su un piano affettivo-relazionale, sostenendo ad
esempio i nostri interlocutori nei passaggi particolarmente
drammatici del loro racconto, come l’esordio, il primo
ricovero, la consapevolezza del proprio disagio. Allora, in
questi casi il collaboratore entrava nella discussione raccontando la propria esperienza, creando una situazione di
condivisione. Questo è stato fatto sia per la prima intervista sia per la seconda intervista e a questi intervistatori
aggiuntivi abbiamo chiesto di redigere un
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diario delle loro esperienze di intervista, senza nessun
mandato particolare, e quindi di raccontare la loro esperienza utilizzando, questo è quello che spesso è accaduto, il racconto della persone che avevamo intervistato come specchio, come stimolo per ripercorrere la
propria personale esperienza.
Chiusa questa fase di interviste, il passo successivo è
stato la conduzione di due focus group sempre con
questi pazienti, in cui i medesimi temi, quelli del lavoro
e della salute mentale, sono stati discussi facendo sedere attorno a un tavolo sette, otto dei nostri interlocutori
che hanno continuato questo confronto, questa discussione non più solo con gli intervistatori ma anche tra di
loro, facendo emergere temi, anche in questo caso, di
estremo interesse.
D: Come sono stati selezionati questi sette, otto?
Sono stati selezionati in base alla loro disponibilità,
perché non tutti erano disponibili, e poi abbiamo considerato le caratteristiche delle storie, la capacità di offrire alla discussione un contributo interessante. Di nuovo
un campionamento a scelta ragionata, disponendo di
molti elementi per scegliere le persone perché le abbiamo tutte quante ascolta te un paio di volte con interviste
che duravano anche un paio d’ore ciascuna.
D: In cosa è consistita la seconda fase?
R: La seconda fase ha riguardato lo studio dei familiari
dei pazienti psichiatrici. Anche in questo caso, per
ragioni di delicatezza del tema, certamente sensibile,
abbiamo chiesto ai pazienti la loro autorizzazione a metterci in contatto con i familiari, per discutere dell’esperienza che loro avevano vissuto, ascoltando un’altra
campana, confrontandoci con un altro punto di vista. In
questo caso abbiamo interpellato 20 familiari, cercando
di nuovo di riprodurre questa struttura del campione per
cui familiari di pazienti uomini e donne, familiari di pazienti giovani e maturi, familiari di pazienti occupati e
non occupati, cercando di far quadrare il cerchio per
quanto possibile.
D: Su cosa verteva questa intervista?
R: Ai familiari abbiamo chiesto di raccontarci la loro
esperienza di convivenza con un paziente psichiatrico, il
loro rapporto con i servizi e, visto che il tema del lavoro
era rilevante, le loro aspettative e aspirazioni nei confronti del loro caro. In modo analogo a quanto fatto per
i pazienti, all’interno dei familiari abbiamo selezionato
due gruppi di persone che sono stati coinvolti in altrettanti focus group nei quali, di nuovo, i temi affrontati
nelle interviste individuali sono stati oggetto di una discussione collettiva. E con questo si è conclusa la seconda fase.
D: E poi la terza fase…
R: Sì. La terza fase era pensata per affrontare le esperienze di lavoro per coloro che hanno o hanno avuto una
collocazione nel mercato del lavoro. Di nuovo, anche in
questo caso, abbiamo chiesto dapprima l’autorizzazione
ai nostri interlocutori per prendere contatto con le
aziende presso le quali lavoravano o avevano lavorato.
Da questo punto di vista i consensi ottenuti sono stati
estremamente limitati, solo un paio di persone ci hanno
autorizzato a prendere contatti con le aziende. Allora
abbiamo deciso di cambiare strategia, come spesso
accade nella ricerca qualitativa, dove li disegno deve
adattarsi all’evolvere della ricerca. Abbiamo ricostruito,
con la collaborazione degli enti che a Torino si occupano
dell’inserimento lavorativo dei pazienti psichiatrici, una
piccola banca dati di aziende che avevano al proprio
interno lavoratori disabili, con una disabilità psichica,
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inseriti ai sensi della legge 68 del 1999 che stabilisce
per le aziende che hanno una dimensione uguale o
superiore ai 15 dipendenti l’obbligo di assumere un
disabile. A noi interessava il caso dei disabili psichici,
con problemi di salute mentale, e quindi abbiamo condotto una quindicina di studi di caso. In questo caso
abbiamo condotto interviste con aziende e con cooperative sociali di tipo B che sono le cooperative che si
occupano dell’inserimento lavorativo di lavoratori svantaggiati, tra i quali rientrano anche i pazienti psichiatrici.
In ciascuno dei casi studiati, aziende o cooperative,
abbiamo interpellato il responsabile del personale, ovvero la persona che si è occupata della selezione e dell’inserimento lavorativo; il caporeparto, ovvero la persona
immediatamente sovraordinata al lavoratore assunto; e
poi un collega. In tutti questi casi abbiamo condotto le
interviste tutelando l’anonimato delle persone. I pazienti
assunti non sono stati in alcun modo contattati e abbiamo condotto anche studi di caso riferiti alle aziende o
cooperative presso le quali avevano lavorato quei due
pazienti che ci avevano dato la loro autorizzazione.
D: Cosa è emerso?
R: Nel caso delle cooperative sociali ci siamo soprattutto
concentrati sui casi di insuccesso, proprio perché le cooperative sociali sono aziende che hanno come obiettivo
quello di inserire pazienti psichiatrici e quindi, almeno
sulla carta, quello dovrebbe essere il contesto nel quale
l’inserimento lavorativo è più facile. Allora, in questo
contesto, abbiamo cercato di esaminare gli insuccessi
per imparare, perché un aspetto rilevante di questa
ricerca riguarda il suo orientamento pratico, pragmatico.
Accanto all’impegno alla ricostruzione dell’esperienza
dei pazienti psichiatrici e delle modalità nelle quali
riescono a conciliare il lavoro con il disagio mentale, c’è
anche l’esigenza di definire linee guida di buona pratica,
utili a chi si occupa di questi temi, come ad esempio i
DSM o i Centri per l’Impiego.
D: Ora a che punto siete?
R: Conclusa questa fase, ci stiamo ora apprestando a
concludere l’ultima parte del lavoro che ha come obiettivo quello di ricostruire dapprima la rete delle agenzie e
degli attori che nel contesto torinese si occupano di
promuovere la partecipazione al mercato del lavoro dei
pazienti psichiatrici, e in questo caso i nostri interlocutori saranno gli operatori dei DSM, gli operatori dei
Centri per l’Impiego, la Commissione Medico-integrata,
che è la commissione che si occupa di riconoscere, laddove è legittimo, l’invalidità ai pazienti psichiatrici, invalidità in forza della quale diventa possibile chiedere il
collocamento obbligatorio.
D: Come procederete?
R: Contiamo, anche in questo caso, di fare interviste e
poi di condurre alcune consensous conference, gruppi di
discussione nei quali gli interlocutori verranno chiamati
a discutere delle politiche di conciliazione di lavoro e
disagio mentale avendo in mente due situazioni: la
prima, quella più standard, è quella dell’inserimento
lavorativo di pazienti psichiatrici e più in generale di
conciliazione tra lavoro e malattia mentale per le
persone che sono utenti dei DSM; l’altro gruppo di
discussione invece avrà come obiettivo quello di
studiare i casi di insorgenza di seri problemi di salute
mentale all’interno delle aziende, cioè di persone che,
assunte come sane e abili, nel corso della loro esperienza lavorativa vedono compromettersi seriamente il
loro stato di salute e devono convivere con questo disagio in una situazione che è diversa da quella dei pazienti
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seguiti dai DSM, perché in alcuni casi i problemi sono,
come si dice, sub-clinici, ovvero non sono ancora stati
diagnosticati, o magari le persone rifiutano di conoiderare il loro come un problema di salute mentale e quindi
non si rivolgono ai DSM o altrove per avere le atte nzioni
necessarie. Questo tema è emerso in maniera rilevante
nel corso delle interviste condotte alle aziende, in
specifico un’intervista che ho condotto io in un’azienda
torinese, grande, oltre 5000 dipendenti, dove ci hanno
detto che per loro il vero problema è questo, il burnout, cioè il fatto che alcune persone a un certo punto
vanno seriamente in crisi e si tratta di gestire questo
tipo di pro-blemi. Questa sarà la parte conclusiva della
ricerca.
D: Si è prima accennato alle aspettative delle
famiglie circa l’inserimento in strutture aziendali…
R: Sì. Questa ricerca nasce con obiettivi sia cognitivi sia
operativi, favorire cioè gli inserimenti lavorativi. Purtroppo la ricerca è stata progettata e poi realizzata in un
periodo in cui la città di Torino è entrata in una grave
crisi occupazionale e, se nella definizione originaria del
progetto - alla quale peraltro io non ho partecipato - si
pensava di associare alla conduzione della ricerca la
realizzazione di alcuni stage per l’inserimento lavorativo
di pazienti psichiatrici in vista di una loro eventuale
assunzione, la crisi, le difficoltà dell’economia torinese,
hanno sensibilmente ridimensionato questa parte del
progetto per cui verranno forse fatti alcuni tirocini senza
tuttavia poter garantire, contrariamente a quanto
progettato, uno sbocco occupazionale alle persone
coinvolte.
D: Immagino, sentendo i suoi racconti, che sia
stata un’esperienza provante ascoltare queste
storie, ricostruire i momenti drammatici. Da
questo punto di vista, come si è trovato, cosa ha
appreso?
R: Io mi sono occupato con una psichiatra, Barbara
Martini, di gestire la progettazione e la realizzazione
della ricerca, e mi sono posto come vincolo quello di non
fare semplicemente il responsabile della ricerca che decide il piano di campionamento, che addestra gli intervistatori, che li recluta e li sorveglia, ma di contribuire in
maniera rilevante a tutte le fasi della ricerca. Quindi io
ho condotto tutti i focus group e ho condotto diverse
interviste con i pazienti e alcune interviste con i familiari
e con le aziende. Dal punto di vista dell’esperienza personale, l’incontro con la malattia mentale, con le narrazioni di queste persone è stato effettivamente un’esperienza molto toccante, con alcuni momenti drammatici,
di condivisione della loro sofferenza, ma anche rilevante
perché le persone con le quali ho condotto l’intervista,
molte volte mi hanno sorpreso per la loro lucidità.
D: Perché sorpreso?
R: Perché forse muovevo da un pregiudizio nei confronti
della malattia mentale, che fa pensare a queste persone
come disturbate, in difficoltà nell’organizzazione di un
discorso, difficoltà di autoanalisi, invece le persone che
io ho interpellato, e non mi sono limitato alle persone
con patologie meno gravi, ma ho intervistato persone
con problemi molto seri, quelli che nella classificazione
diagnostica sono i più seri problemi di salute mentale,
mi hanno profondamente sorpreso per la loro capacità
di analisi, per la consapevolezza, per il senso critico che
hanno mostrato nel raccontare la loro vita, nel raccontare la loro esperienza e trarre alcune conclusioni su
come, più in generale, va il mondo. E poi mi ha colpito il
fatto di raccogliere io stesso e attraverso gli altri inter-
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vistatori, perché io comunque poi ho letto tutte le
interviste fatte, vedere come, per i casi che abbiamo
considerato, molto spesso la malattia mentale si innesta
all’interno di storie di disagio, di estrema povertà, storie
di immigrazione drammatica, insomma, insieme anche a
storie, questo va detto, in cui la malattia mentale sorge
come qualcosa di inatteso all’interno di un milieu sociale
caratterizzato da benessere, da agio, nella maniera più
ampia possibile. Quindi raccogliere queste narrazioni è
stata sicuramente un’esperienza dal punto di vista emotivo molto profonda ma non onerosa, non è stata una
cosa che mi ha fatto soffrire, che mi ha messo alla prova, anzi sono state un modo per entrare in un mondo …
il paziente psichiatrico è, insieme ad altre figure, l’espressione di una forma radicale di alterità.
D: Cosa intende dire?
Le persone che hanno una malattia mentale hanno un
modo di vivere e di rappresentarsi il mondo che in
alcuni momenti è assolutamente altro, quindi confrontarsi con questa alterità così profonda è qualcosa che ti
invita a riflettere, e pensare a quelle che sono invece le
caratteristiche che contraddistinguono la cosiddetta normalità. A proposito del lavoro, la cosa che emerge chiara nei discorsi che fanno queste persone, soprattutto
quelle che lavorano, è il fatto che noi tutti si vive in una
società in cui il valore della competizione, il valore del
rendimento professionale ad altissimo livello, la gara a
essere in cima, è la prima è più importante regola del
gioco e loro di fatto, vuoi per le terapie che devono
assumere vuoi per le difficoltà che hanno, non possono
partecipare a questa corsa con gli stessi strumenti. Le
loro difficoltà mettono in luce in maniera chiara le
caratteristiche del gioco, un gioco in cui c’è un elemento
quasi darwiniano, di selezione, che è estremamente
drammatico e dal punto di vista etico profondamente
discutibile, io credo: se non sei un fuoriclasse, se hai
delle difficoltà, ecco che non c’è più spazio per te, non
c’è più spazio per ascoltare o per accettare una persona
che ha un rendimento lavorativo più basso degli altri.
Un altro aspetto che così, in maniera disordinata, mi
viene da segnalare. Durante un’intervista ad un caporeparto, ho scoperto una cosa di estremo interesse.
Questa persona mi ha raccontato come lui, nella sua
piccola azienda riusciva a contrastare questa tendenza a
escludere le persone che hanno minori capacità in
questa gara competitiva perché lui diceva, con estrema
lucidità, che ci sono tanti modi di fare volontariato e ci
sono persone che decidono di fare il volontariato fuori
dal contesto nel quale lavorano, fuori dal loro ambiente
di vita quotidiana; lui invece aveva scelto di disporsi con
un atteggiamento etico simile a quello del volontariato,
nel luogo di lavoro, quindi considerando il sostegno che
lui dava a queste persone in difficoltà non come qualcosa che potesse configurarsi come uno sfruttamento da
parte del disabile nei suoi confronti, o come un carico
aggiuntivo: «arriva questa persona, non sa fare bene il
suo lavoro, e a me tocca fare un pezzo del suo»; ma
dicendo io faccio questo perché questo è il modo in cui
io aiuto nella mia quotidianità, senza dovermi iscrivere a
una qualche associazione di volontariato, ma esprimo il
mio impegno civile accettando una persona che ha delle
difficoltà, aiutandola a fare questo lavoro, in questo
modo. E questo mi ha fatto pensare al fatto che ci siano
risorse di solidarietà anche all’interno dell’ambiente
aziendale inattese che forse andrebbero incoraggiate.
D: Grazie, tutto questo fa pensare a quanto possa
essere bello, umanamente interessante fare
ricerca….
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9
Intervista a Chiara Saraceno
CIRSDe in quanto tale,
Nasce come Centro Interdiconvegni e seminari in cui ci
partimentale di Ricerche e
Il CIRSDe (Centro Interdisciplinare di Ricerche e
si confronta con i dibattiti
Studi delle Donne. Da Giugno Studi delle Donne) è stato costituito nella
scientifici che su questi temi
2002, con un passaggio
primavera del 1991, su proposta di un gruppo di
si sviluppano a livello
fortemente voluto
docenti e ricercatrici dell'Università di Torino,
nazionale e internazionale.
dall’attuale Rettore, diventa
come struttura di riferimento per iniziative di
Centro di interesse d’ateneo, ricerca, di didattica avanzata e sperimentale, di
D: Quali altri obiettivi si
consolidando quindi la sua
formazione e di incontro culturale tra le
vogliono raggiungere?
presenza istituzionale nelstudiose e gli studiosi che, nella ricerca
R: Valorizzare le compel’Università .
scientifica e nel lavoro didattico, adottano la
tenze intellettuali e profesQuesto è stato il primo
differenza di genere come questione e come
sionali delle donne, innanzicentro universitario in Italia
punto di vista.
tutto nel campo della ricerca
di questo tipo. E, rispetto
scientifica.
agli altri che sono sorti
Abbiamo intervistato la prof.ssa Saraceno.
Esistono a questo proposito
successivamente in altre
degli spassosissimi esperiuniversità, mantiene una
menti condotti da gruppi di
forte specificità interdisciplinare, che riguarda non
ricerca, prevalentemente statunitensi, che hanno
solo le scienze umane, storiche, sociali e giuridiindagato la discriminazione di genere nel valutare i
che, ma anche le scienze mediche e biologiche.
prodotti di ricerca. Si è rilevato che i valutatori
Il Centro fa parte dell' Associazione europea
reagivano diversamente a seconda del sesso “imputato”
AOIFE e aderisce alla banca dati "Lilith".
agli autori dei prodotti. Ed è ahimè noto che donne e
Ma andiamo con ordine.
uomini hanno diverse possibilità di carriera scientifica,
D: Professoressa Saraceno, quali sono gli scopi
che il CIRSDe si prefigge?
R: Innanzitutto quello di sviluppare ricerche, studi,
percorsi formativi avanzati attorno all’analisi della
esperienza, pratiche sociali e culturali, saperi, sviluppati
dalle donne, all’analisi delle relazioni tra i generi, ai
modi di definire il maschile e il femminile nelle diverse
culture, ma anche nelle pratiche istituzionali e nel
mercato del lavoro. I campi in cui mettere a fuoco le
dimensioni di genere e le specifiche esperienze maschili
e femminili produce un arricchimento della conoscenza
sono potenzialmente molti: dalla storia alla sociologia
alla economia alla letteratura alla scienza politica fino
alla medicina. Esiste ormai una letteratura ampia e
consolidata che ne può offrire testimonianza e,
soprattutto al di fuori dell’Italia, l’adozione di una
prospettiva di genere è ormai ritenuta se non
indispensabile certamente auspicabile per mettere a
punto strategie di ricerca e modelli esplicativi efficaci.
Ciò è avvenuto più facilmente nelle scienze storicosociali, economiche e umanistiche. Più recentemente se
ne è iniziata a cogliere l’importanza anche nel campo
della ricerca medica: non vi sono solo malattie che
colpiscono diversamente uomini e donne – per motivi
che hanno a che fare con la fisiologia, ma anche con gli
stili di vita. I corpi maschili e femminili sembra
reagiscano diversamente ai dosaggi standard dei
farmaci, laddove viceversa spesso si assume la “media
maschile” come standard di riferimento.
Mettere a tema le differenze, ma anche le
disuguaglianze, tra uomini e donne da un lato consente
di sollevare il velo dell’ovvio, del dato per scontato –
una premessa indispensabile per ogni intrapresa
intellettuale e di ricerca scientifica. Dall’altro lato,
proprio per questo, consente di arricchire la conoscenza
scientifica stessa.
Scopo del Centro è appunto mantenere aperto e
sviluppare questo terreno di riflessione e gli interrogativi
da cui nasce, mettendo anche in comunicazione tra loro
i diversi approcci disciplinari. Lo strumento sono, oltre
ad attività di ricerca vera e propria effettuate dal
indipendentemente dal loro valore. È un fenomeno
particolarmente evidente in Italia, nell’Università ma
anche negli istituti di ricerca extrauniversitari. Questi
temi, per altro, sono oggetto di particolare attenzione a
livello di Unione Europea, ove esiste una linea di
intervento definita Women and Science e dove si è
creato un gruppo di consultazione detto il gruppo di
Helsinki che ha prodotto documenti interessanti in
argomento.
D: Tra le vostre attività, presentate sul sito
dell’università si parla anche di formazione.
R: Sì, il Centro si occupa anche di offrire percorsi
formativi nel campo degli studi di genere. Certo, non
essendo una facoltà, non abbiamo la possibilità di
organizzare attività formative in nostre strutture
facendo vere e proprie lezioni, ma abbiamo creato
un’offerta formativa trasversale alle varie facoltà
dell’Ateneo torinese. In particolare da un lato forniamo
sostegno materiale e visibilità alla formazione di una
sensibilità e competenza per questa prospettiva
all’interno delle varie facoltà e corsi di laurea, dall’altro
lato offriamo iniziative che possono essere utilizzate da
più corsi.
D: In cosa consiste?
R: Pubblichiamo ormai da anni una Guida degli studenti
e delle studentesse che riporta i corsi, sempre a livello
di tutto l’Ateneo, nei quali vengono trattati temi che
possono interessare chi si dedica agli studi di genere. È
una guida che è nata anni fa dalla volontà e dal lavoro
di un gruppo di studentesse “150 ore”, le quali hanno
raccolto informazioni sui corsi, hanno parlato coi docenti
e hanno prodotto questo opuscolo. Ora è divenuta una
attività istituzionale del CIRSDe. Come lei sa, col nuovo
ordinamento e il sistema dei crediti, per gli studenti è
possibile
accumulare
crediti
formativi
anche
partecipando a seminari, parti di corso e moduli vari, e
questo favorisce il nostro lavoro, perché ci consente di
indirizzare studenti e studentesse interessati verso quei
corsi che prevedono parti inerenti con lo studio di
genere e che possono essere utilizzate per accumulare
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Ricordiamo a tutte le studentesse e a tutti gli studenti interessati, che il CIRSDe ha
un suo sito Internet all’interno di quello dell’Università torinese.
L’indirizzo è: http://hal9000.cisi.unito.it/wf/CENTRI_E_L/CIRSDe/index.htm.
crediti formativi. Quest’anno poi, all’interno del progetto
UNIGENERE che è finanziato dal Fondo Sociale
Regionale proprio sull’asse delle pari opportunità, il
CIRSDe ha finanziato tutor d’aula dedicati che hanno
coadiuvato le/i docenti di vari corsi e di diverse facoltà
in attività seminariali ed esercitazioni specificamente
sulle tematiche di genere.
D: Parlavamo prima anche di seminari tematici…
R: Sì, organizziamo seminari interdisciplinari di
approfondimento, all’interno dei quali affrontiamo la
letteratura specifica, oppure temi che vengono proposti
dagli stessi docenti. Quest’anno l’offerta è stata molto
ricca, date le possibilità finanziarie offerte dal progetto
UNIGENERE, ed ha permesso di ampliare l’offerta
formativa dei vari corsi interessati. L’obiettivo è quello
di mettere insieme studenti e studentesse che arrivano
da percorsi di studi diversi, da facoltà diverse, e
affrontare con loro i temi legati alle dimensioni di
genere. Gli studenti e le studentesse hanno così la
possibilità di confrontarsi sia con docenti che con
studenti provenienti da alte esperienze, di altre facoltà e
corsi, approfondendo temi che altrimenti potrebbero
non incontrare in altro modo all’interno della propria
formazione.
D: Immagino che Internet sia per voi uno
strumento importante…
R: Sul sito del Centro è attivo, infatti, il corso on-line,
anche questo modulare e interdisciplinare. Il corso si
rivolge a studenti di vari livelli, da quelli all’inizio del
proprio percorso fino ai laureandi, che possono trovare
in questo corso bibliografie aggiornate, dati, spunti di
ricerca, e strumenti utili pensati proprio per soddisfare
le richieste provenienti da diversi percorsi di studio.
Il sito è anche una importante fonte di informazione sia
sulle attività del CIRSDe sia sulle attività e iniziative di
altri centri, anche a livello europeo. Tra l’altro ogni anno
noi finanziamo studenti che vanno a summer schools o
convegni su temi di genere.
D: Il Centro si occupa anche di fare ricerca. Quali
temi in specifico trattate?
R: Negli ultimi anni c’è stato un incremento delle
ricerche eseguite su commissione, sia per aziende
pubbliche che private sui temi dei bisogni di
conciliazione tra attività lavorativa e responsabilità
familiari e su progetti di azioni positive. Sono temi
entrati nella agenda pubblica europea e italiana. E vi
sono fondi dedicati all’interno del Fondo Sociale o
all’interno di alcune leggi specifiche, ad esempio la
legge 125 sulle pari opportunità, o la legge 53/200 sui
congedi genitoriali. Anche noi abbiamo visto un
incremento delle nostre attività in questo settore, sia
con una domanda di formazione sia con l’esecuzione di
ricerche. Ad esempio abbiamo collaborato con ENAIP
(con il coordinamento della prof.ssa Piccardo, una
psicologa) e CSEA (con il coordinamento della prof.ssa
Naldini, una sociologa) e stiamo concludendo una
ricerca-azione (coordinata dalla prof.ssa Adriana
Luciano), insieme a Poliedra tesa alla definizione di un
percorso di formazione on line teso all’empowerment di
giovani donne che si mettono in una prospettiva di
carriera, con particolare attenzione per le condizioni di
lavoro atipiche. Con il Comune di Torino, all’interno di
un progetto URBAN, è stata effettuata una ricerca-
10
azione sul tema della violenza contro le donne,
coordinata dalla prof.ssa Balsamo.
Altre ricerche che abbiamo effettuato hanno riguardato
la rappresentazione delle donne nei media, o la
presenza delle donne nello sport. Quest’ultima è stata
una ricerca commissionata dalla provincia di Torino, in
vista delle Olimpiadi.
Non va infine dimenticato che entro il CIRSDe vi è una
tradizione di studi e ricerche-azione sui temi dello
sviluppo, in collaborazione con la facoltà di agraria
(prof.sse Donini e Calvo). In questo ambito negli anni
passati alcune studentesse hanno avuto l’opportunità di
recarsi in Mali per lavorare sul campo.
D: Sono in previsione ulteriori sviluppi?
R: Pensiamo di consolidare e mettere ulteriormente a
punto le linee di lavoro che abbiamo sviluppato negli
ultimi anni ed in particolare nell’ultimo, con il progetto
UNIGENERE. Credo che l’esperienza di collaborazione
con i corsi ufficiali, in diverse facoltà, sia stata
importante e veramente nell’ottica del mainstreaming
che è la parola d’ordine a livello europeo: formare in
modo diffuso all’utilizzo della prospettiva di genere,
perché sia utile e spendibile in diverse attività
professionali.
Anche il rafforzamento delle attività on-line è un nostro
obiettivo, con l’ampliamento dei moduli, l’inserimento di
un tutor in linea e il potenziamento del già presente
forum dedicato agli studenti, dove è possibile inviare
domande e richieste di approfondimento, interagendo
con docenti e ricercatrici.
Contiamo infine di continuare e rafforzare la
pubblicazione di estratti di tesi di laurea particolarmente
significative sui temi di pertinenza del CIRSDe. Qui
occorre che sia i docenti sia le/i laureate/i facciano più
proposte e soprattutto vi diano seguito una volta che
sono approvate.
Insomma, stiamo facendo molte belle cose, delle quali
vado fiera, anche se il lavoro da fare è sempre molto.
Diamo anche lavoro a molte persone, per la gestione del
sito, per il reperimento dei materiali, per le attività di
insegnamento; a tanti giovani che grazie al Centro
possono cimentarsi con esperienze di insegnamento,
geste ndo ad esempio un seminario; a laureati che
hanno determinate competenze e che pur non avendo
avuto contatti precedenti col CIRSDe vengono reclutati
proprio grazie alle competenze che hanno acquisito.
Pensi che a volte abbiamo più richieste di quante siamo
in grado di soddisfare, per cui il lavoro non manca,
specie per i sociologi/e.
D: Quindi gli studi di genere stanno avendo un
forte sviluppo?
R: Sì, anche se questa attenzione, questa ampia
disponibilità di fondi, porta con sé il pericolo di un
abbassamento della qualità dei lavori con l’obiettivo di
raccogliere quanti più soldi possibile. Sarà nostro
compito vigilare su questo rischio e mantenere alto il
livello qualitativo delle offerte che produrremo.
D: La ringrazio per questa intervista.
R: Anche io ringrazio la Newsletter e colgo l’occasione
per ricordare a tutti che è possibile iscriversi alla mailing
list del CIRSDe, per avere regolarmente informazioni sia
sulle attività che sui bandi per borse di studio o per
incarichi di lavoro. Naturalmente è anche possibile
utilizzare il corso on-line: basta chiedere la password.
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Professione Student e
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11
PRESENTAZIONE DEL FORUM PERMANENTE SULLE TESINE DI LAUREA
Cari lettori,
in queste ultime settimane sono molti quelli di voi che ci
hanno segnalato dubbi e perplessità circa il tema delle
cosiddette tesine. Come sanno molto bene quelli tra di
voi che stanno per finire gli esami e quindi si stanno
avvicinando alla laurea, per concludere
il percorso di studi triennale occorre
produrre una tesi di circa 50 pagine,
su un argomento a scelta, condordato con un docente che, in questo
caso, ricopre la funzione di relatore.
Gli aspetti interessanti che emergono dai vostri messaggi sono molti.
Pare non ci sia molta informazione
su quello che l’università e, più in
particolare, i docenti, possono attendersi dalla tesina. Gli studenti lamentano la scarsità di informazioni reperibili in merito e sottolineano le difficoltà
nella scelta del tema. Inoltre, dicono che
non è molto chiaro quale sia l’impegno
richiesto, soprattutto in termini di quantità
di lavoro da produrre e testi da leggere e
analizzare.
Abbiamo cominciato a parlarne, a margine delle nostre
interviste in altre occasioni informali, con alcuni docenti
che hanno avuto esperienze sia di vecchie tesi
quadriennali, sia delle nuove tesine triennali. E anche in
questo caso emergono interessanti spunti. In effetti, le
differenze con le vecchie tesi hanno portato i docenti a
interrogarsi su quale possa essere il ruolo della tesina
nell’economia delle lauree triennali. Non è più prevista
la figura del contro-relatore, di colui cioè che aveva il
compito nelle lauree quadriennali di fare “l’avvocato del
diavolo”, ovvero di analizzare le tesi dei candidati da un
punto di vista diverso da quello del relatore, e proporre
in sede di laurea le sue osservazioni, più o meno
critiche, dando vita a un confronto che consentiva al
candidato, il più delle volte, di approfondire
ulteriormente il suo discorso e la presentazione del suo
lavoro. L’eliminazione di questa figura ha portato ad una
considerevole riduzione dei tempi.
Inoltre, le tesine si devono attestare su circa 50 pagine
finali, mentre le vecchie tesi raramente scendevano
sotto le 100-150 pagine. Questo cambiamento comporta
che non solo gli studenti devono condensare in queste
pagine il loro lavoro, ma anche che i docenti devono
aiutare gli studenti in questo, ad esempio con la scelta
di argomenti trattabili in 50 pagine. Se è vero che
alcune delle vecchie tesi venivano forse eccessivamente
dilatate per raggiungere gli standard di lunghezza
richiesti, è altrettanto probabile che attuali lavori di
studenti triennali debbano subire forti tagli per
mantenersi nelle pagine assegnate.
Insomma: come uscirne?
Aggiungiamo che il peso dato dalla riforma alla tesina,
ovvero 5 crediti formativi, costituisce un ulteriore
elemento di incertezza. Da una parte, il lavoro richiesto
per 5 cfu dovrebbe essere contenuto, e comunque,
anche se in linea teorica, dovrebbe impegnare uno
studente circa la metà del tempo che questi ha investito
nella preparazione di un esame da 10 cfu. Quindi, se ci
mettessimo a fare i calcoli matematici delle ore a
disposizione per la tesina, ne risulterebbe che tra lettura
dei testi, loro analisi e scrittura, il tempo per trattare un
qualsivoglia argomento sarebbe ben
poco. Certo, concludere il triennio
con una tesina di questo tipo aiuta
gli studenti a rimanere nei tempi,
cosa molto difficile per le vecchie
quadriennali, perché un lavoro così
ipotizzato potrebbe essere condotto durante l’ultima sessione
di esami e quindi portare alla
laurea nel mese di luglio.
Tuttavia, sono molti gli studenti
a cui piacerebbe condurre una
tesi di ricerca, che necessariamente comporta un maggior
investimento di tempo e di
energie.
È vero che per dire cose interessanti non occorrono 150 pagine, e
forse 50 sono più che sufficienti. È vero
anche, però, che la tesi, fino a qualche
tempo fa, era vista come una delle ultime occasioni per
produrre un lavoro scritto di un certo rilievo scientifico e
formale, che fosse il risultato di letture, indagini, analisi,
ricerche vicine agli interessi dello studente: certo questa
è una provocazione, ma forse, con 5 cfu e 50 pagine
finali, potrebbe nascere un po’ di demotivazione e voglia
di fare qualcosa di sbrigativo, tanto poi, se si continua,
ci sarà la tesi della Specialistica.
Come vedete, gli argomenti trattabili sono molti, e non
solo gli studenti ma anche i docenti sentono la necessità
di affrontarli in modo più sistematico.
È per queste ragioni che la Newsletter ha deciso di
proporsi come forum sempre aperto, dove i lettori
possono inviare i propri commenti, le proprie idee e i
propri suggerimenti. Da parte nostra, intervisteremo
vari docenti su questi temi, e mensilmente daremo un
resoconto dello stato della discussione. Faremo lo stesso
con voi studenti: vi chiediamo infatti da subito di
rispondere a questo progetto, mandandoci le vostre
impressioni, domande e curiosità.
Daremo vita, quindi a un ciclo di attività, interviste,
sondaggi i cui risultati verranno riportati sulla Newsletter. Ci auguriamo,
in questo modo, di venire incontro
alle vostre richieste ed esigenze,
ma anche di costituire un mezzo
grazie al quale docenti e studenti
possano confrontarsi su questo
tema.
Grazie a tutti per i contributi
Che arriveranno, siamo convinti,
numerosi.
A presto.
La redazione.
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12
Intervista a Paola Torrioni
D: La prima confidenza verso chi
D: Ciao Paola. Puoi parlarci
viene rivolta?
Paola Torrioni ha concluso da
della tua tesi di dottorato?
R: In genere verso un amico etero
poco
il
triennio
di
dottorato
di
Su quale tema hai lavorato?
(60%), o omosessuale (35%) poi a
ricerca presso il Dipartimento di
R: Ciao. Mi sono dedicata al tema
genitori, fratelli, e una piccola
Scienze Sociali dell’Università di
dell’omosessualità con una tesi dal
percentuale si rivolge ad altri, come
Torino, e continua a collaborare
titolo, Omosessualità al maschile e
medici o ministri della chiesa. Io non
al femminile: teorie e ricerche sociocon il Dipartimento per varie
mi sono soffermata sulla specificità
logiche. Ha come oggetto di studio
attività di ricerca.
dell’interlocutore, perché su questo
l’omosessualità e nello specifico un
tema c’è già molta letteratura. Quello
aspetto in particolare che è il moL’abbiamo intervistata sulla sua che a me interessata era evidenziare
mento in cui uomini e donne arrile tappe del percorso: a che età si
tesi di dottorato.
vano a dichiararsi omosessuali,
scoprono i primi desideri omoerotici?
quindi si identificano in un modello di identità omoQuando vi è la prima sperimentazione sessuale e con
sessuale.
chi? Persone dello stesso sesso oppure no? Chi ha
Ho cercato di mettere in luce questo processo andando
rapporti sessuali con persone dello stesso sesso ma
a individuare quali sono le tappe salienti dell’esperienza
anche dell’altro sesso, ha percorsi diversi rispetto a chi
omosessuale, che è caratterizzata dal fatto che avviene
è, diciamo, sessualmente stabile?
molto spesso in silenzio, in segreto, in un ambiente,
Quest’ultima domanda sembrerebbe portare ad un altro
potremmo dire, ostile, in quanto non c’è socializzazione
elemento di distinzione, nel senso che persone, sia
all’essere omosessuali, anzi i modelli con i quali i ragazzi
uomini che donne, che hanno un percorso sessuale più
si devono confrontare oggi sono modelli di una sessastabile, quindi con partner dello stesso sesso, arrivano
lità essenzialmente ed esclusivamente etero, in cui tutte
al coming-out prima, dal punto di vista anagrafico,
le altre forme di sessualità sono sbagliate, devianti e
rispetto a chi invece è più fluido e quindi ha rapporti sia
problematiche.
con lo stesso che con l’altro sesso.
Ho cercato di individuare le tappe e di metterle in
Oltre a questi due elementi, ho cercato anche di situare
relazione con le fasi della vita, perché quello che in
il momento della confidenza, il momento dell’autoletteratura molto spesso si riscontra è che, più nel
definizione che si connota in modo diverso per uomini e
passato che oggi, si arrivava ad una piena consapevodonne.
lezza e ad una più o meno completa accettazione della
propria omosessualità molto spesso in età adulta:
D: Ecco, hai detto prima che hai fatto attenzione a
questo comportava il rivivere tutte le proprie esperienze
mantenere le differenze di genere…
sessuali e affettive secondo una nuova logica e quindi
R: Sì, la prospettiva di genere è presente in tutti i
secondo una nuova ottica sessuale e anche di identità,
capitoli della mia tesi. Io ho lavorato su due campioni:
ma significava anche scontrarsi con delle difficoltà
uno nazionale, che ho avuto grazie alla gentilezza del
maggiori nel poter modificare alcuni aspetti della propria
professor Barbagli e di Asher Colombo, i quali hanno
identità, già decisamente formata. Oggi è forse un po’
lavorato dal 1995 al 2000 ad una survey nazionale con
più ‘semplice’ per i ragazzi e le ragazze, anche se non
questionario, che ha consentito di ottenere più di 3000
dico certo che sia facile o un cammino senza ostacoli,
questionari, ma non equamente suddivisi tra uomini e
raggiungere la consapevolezza di provare desideri
donne, in quanto il 75% del loro campione era costituito
omoerotici. Quindi, ho cercato di capire come coorti
da uomini; nel 2001 a Torino è stata effettuata un’altra
diverse e come uomini e donne – perché la mia tesi è
indagine, coordinata da Chiara Saraceno e Alessandro
molto attenta alle differenze tra i generi – hanno
Casiccia, per indagare l’esperienza omosessuale di gay
affrontato le stesse tappe, come le hanno vissute, e
e lesbiche torinesi grazie alla quale si è ottenuto un
come sono arrivati a definirsi omosessuali.
campione di più di 500 casi, equamente suddiviso tra
D: Quindi, ti sei concentrata proprio sul momento
in cui le persone si palesano omosessuali, avendo
però già un percorso di esperienze omosessuali
alle spalle.
R: Sì, la maggior parte del campione era arrivata al
coming-out (momento dello svelamento) con famiglie e
amici dopo un certo percorso. Io ho analizzato una
parte peculiare del coming-out, ovvero il momento della
prima confidenza, che sicuramente non esaurisce in toto
il momento del coming-out perché è solo una delle
prime fasi di questo percorso di svelamento, ma che
risulta proficuo da un punto di vista analitico. Ad
esempio, da come avviene la prima confidenza, si
tratteggiano ampie differenze tra gay e lesbiche: i gay
la vivono come una prima e vera presentazione; le
lesbiche invece come una confidenza, e quindi un primo
palesare dei dubbi.
uomini e donne; sottolineo equamente, perché molto
spesso
la
letteratura
propone
un’esperienza
prettamente maschile dell’omosessualità, e come si
vede, invece, confermato dagli studi nord-europei e
come ritorna anche nel nostro caso, l’omosessualità
vissuta dalle donne è diversa. È diverso il concetto di
sessualità, è diverso il modo di identificarsi nell’identità,
appunto, gay o lesbica: questo mi ha portato a utilizzare
la differenza di genere come uno strumento di
differenziazione, utilizzando invece come strumenti
analitici, teorici, il concetto di identità sessuale e il
concetto di carriera morale, che consente di recuperare
il senso di continuità che esiste nelle vicende biografiche
e introduce la possibilità di allargare la prospettiva e
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quindi di indagare quali significati assumono per le
persone
omosessuali,
nei
diversi
processi
di
ricostruzione del sé, la presenza (o l’assenza) di
determinati eventi: come ad esempio il coming-out, il
rapporto eterosessuale o la convivenza con il/la partner
dello stesso sesso. Quindi, in che modo gay e lesbiche
modificano il loro pensare a se stessi come esseri
sessuati nel mondo in base alle tappe che raggiungono,
o non raggiungono, di questa ipotetica carriera, che io
ho standardizzato in tappe per ragioni legate alla
confrontabilità dei casi, ma che ovviamente è variegata
e con specificità proprie dei singoli casi.
D: Sei ricorsa anche ad altri strumenti di analisi?
R: Sì, oltre a questa parte più quantitativa, costituita
dall’analisi dei dati raccolti con le survey, ho utilizzato
anche una trentina di interviste in profondità, che sono
sempre il frutto del lavoro fatto qui a Torino tra il 2000
e il 2001 e che aveva dato vita anche a un convegno
specifico su questi temi e sulla transessualità. Io ho
utilizzato questi dati per aprire una nuova prospettiva,
guardando a determinate fasi in un’ottica di carriera,
dando quindi un po’ di dinamicità ai dati.
D: Potresti indicarci alcuni dei risultati più
interessanti ai quali sei giunta?
R: Beh, un primo risultato importante è legato a come
gay e lesbiche percepiscono la propria identità sessuale:
se non ricordo male, circa il 70-75% (dipende da quale
campione consideriamo) dei gay si definisce esclusivamente omosessuale; la percentuale cala drasticamente tra le donne: se consideriamo il campione nazionale sono il 60% quelle che si dichiarano esclusivamente omosessuali , mentre nel campione torinese la
percentuale scende ancora di più assestandosi al 35%.
In più in entrambi i campioni femminili circa il 20% delle
donne si dichiara tendenzialmente bisessuale.
Questo può significare che nell’universo femminile una
certa fluidità sessuale è più contemplata, possibile, è più
diffusa, a discapito di una identificazione esclusivamente
omosessuale, pur in donne che vivono con compagne e
che si sentono lesbiche omosessuali. Mentre, la stessa
cosa in ottica maschile, il fatto cioè di considerarsi
bisessuali, è vista da alcuni intervistati come una
patetica cortina di fumo, una scusa per non affrontare le
difficoltà che nel cammino di svelamento ovviamente ci
sono, un modo per tenere il piede in due staffe:
insomma, un elemento estremamente negativo.
Un altro elemento sicuramente interessante è la
struttura delle carriere, in cui notiamo, ad esempio, che
negli uomini c’è una fase abbastanza immediata di
sperimentazione sessuale dai 14 ai 17 anni, anche della
sessualità con persone dello stesso sesso; mentre nelle
donne la sperimentazione sessuale con altre donne è
posticipata intorno ai 20 anni, quindi c’è una prima fase
di esperienze eterosessuali e solo dopo omosessuali.
Solo un 15-20% delle donne non ha avuto rapporti
etero, mentre ben il 40% dei maschi non ha avuto
rapporti eterosessuali, quindi anche qui notiamo una
forte componente di genere. Inoltre, si nota nelle
carriere maschili in cui non vi sono state esperienze
sessuali con donne la propensione a raggiungere
l’autodefinizione come gay subito dopo le prime
esperienze omosessuali, verso i 17 anni, quasi come se
il fatto di provare sentimenti e attrazione, sperimentare
fisicamente questa attrazione, fosse una specie di
propulsore per arrivare a dichiararsi più facilmente
omosessuali. Chi invece, sempre tra i maschi, ha un
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percorso più fluido in cui vi sono sia esperienze etero
che esperienze omosessuali, raggiunge verso i 19 anni il
momento dell’auto -identificazione.
Un’altra interessante differenza di genere riguarda il
fatto che il momento “conclusivo”, (tra virgolette perché
in una prospettiva di carriera non esiste un vero e
proprio momento conclusivo), per gli uomini sia il
coming-out, mentre per le donne è l’auto-definizione.
Quindi per le donne arrivare a definirsi lesbiche richiede
un processo un po’ più lungo di quello intrapreso dagli
uomini.
Dicevo che non si tratta del momento conclusivo, anche
perché io ho cercato di inserire nella ricerca un rapporto
tra i momento della conoscenza del partner e il
momento della nascita della coppia, perché sono altri
elementi che aiutano a completare il quadro di questa
carriera affettivo-relazionale. In questo, uomini e donne
si differenziano un po’ meno, rispetto alle altre tappe.
Quello che comunque è interessante è che tra il
momento della confidenza, il coming-out per gli uomini,
l’auto-definizione per le donne, e il momento del
raggiungimento di una relazione stabile, passano molti
anni, circa otto. Quindi c’è tutto un periodo di limbo, se
vogliamo, di altra sperimentazione su se stessi, sulla
propria vita, che ritarda, rispetto alle coppie etero, il
momento della convivenza e del rapporto di coppia.
D: Immagino che dal momento del coming-out,
inizi un altro periodo della vita, dove ci si vede nel
mondo in modo diverso, cambiano i rapporti con
gli altri, intraprendendo, credo, nuovi percorsi di
socializzazione ed entrando in modo diverso nei
contesti abituali.
R: È interessante notare come il rapporto di coppia
abbia effetti diversi su uomini e donne, nel senso che
nel momento in cui gli uomini hanno un compagno
tendono a entrare nella comunità, ancora di più; le
donne invece usano il rapporto di coppia come se
potessero finalmente entrare appieno nella loro sfera
privata, e quindi la comunità da mezzo per conoscere la
propria compagna, diventa marginale e loro tendono a
viversi il rapporto in modo più intimo, rispetto ai gay
che invece tendono ad essere più coinvolti.
D: Quindi per i gay la coppia tende a diventare un
volano di socializzazione, mentre per le lesbiche è
il contrario.
R: Sì esatto, per le donne ha un altro tipo di funzione.
Del resto lesbiche e donne etero sono molto più simili
tra di loro di quanto lo siano le donne e gli uomini etero.
Le donne, in generale, e anche in letteratura si riscontra
questo, sono molto più attente alla relazione, la vivono
coinvolgendosi completamente, per cui è come se
questa relazione diventasse il riferimento centrale del
loro mondo. Anche le donne lesbiche vivono in questo
modo il rapporto di coppia.
Una parte che ho cercato di sviluppare nell’ultimo
capitolo della tesi riguarda proprio il ruolo della
comunità
all’interno
dell’esperienza
omosessuale.
L’identità sessuale è socialmente costruita, e anche
quella omosessuale risente di questi processi sociali. Ho
cercato di vedere se uomini e donne sono coinvolti
all’interno delle diverse comunità e se c’è qualche
legame con la visibilità esterna della propria
omosessualità. Qui tornano le differenze di genere:
come dicevamo prima, gli uomini tendono ad essere più
coinvolti, quindi a frequentare di più, a essere più iscritti
alle associazioni omosessuali. In questo incide anche il
fatto che le associazioni omosessuali maschili sono
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storicamente più radicate, anche nella realtà torinese,
per cui hanno una visibilità più diffusa, riconosciuta e
sono maggiormente integrate.
Nell’immaginario femminile, invece, c’è più la visione di
luoghi chiusi, ghettizzanti, e quindi non così
frequentabili, se non in situazioni particolari in cui si
desideri stare in luoghi protetti e uscire da una logica
etero che implica la negazione di una qualsiasi altra
forma di sessualità e quindi la negazione della propria
vita affettiva e interiore.
C’è un ulteriore tema, che è quello della visibilità, del
farsi vedere e lasciarsi identificare come gay o lesbiche.
Per queste ultime è più “semplice” essere visibili,
perché, se vogliamo, sulla sessualità femminile c’è una
sorta di indifferenza o di maggior accettazione di
comportamenti affettuosi in pubblico, che ovviamente
non è estesa all’omosessualità maschile. C’è anche una
diversa percezione sociale dell’omosessualità femminile,
che probabilmente è vista come meno “pericolosa” di
quanto lo possa essere l’omosessualità maschile; questo
a causa di tutti i retaggi e i pregiudizi legati proprio al
rapporto sessuale tra due uomini, che molto spesso
finisce per toccare terreni assolutamente impropri come
la pedofilia o le violenze. Cosa potrà mai succedere tra
due donne? Nulla, non hanno armi, non possiedono
organi per penetrarsi… di conseguenza sono percepite
come inoffensive, con giudizi di valore screditanti.
Questo potrebbe essere uno dei motivi per i quali le
donne lesbiche possono permettersi di essere più
visibili, però i percorsi non sono così lineari e si vedono
degli intrecci tra coinvolgimento nelle comunità sessuali
e visibilità che richiedono necessariamente degli
approfondimenti, così come andrebbe sviluppato
l’approccio attraverso le carriere, per vedere, ad
esempio come a seconda del cambiamento della
carriera omosessuale ci sono dei cambiamenti nelle altre
carriere: lavorativa, professionale, amicale, abitativa.
Spesso viene fuori dalle storie di vita che al momento
del coming-out si va a vivere da soli o comunque si va
fuori dalla famiglia di origine.
Così come un proficuo terreno di indagine è quello
legato alle prime scoperte della propria omosessualità,
che
spesso
avvengono
nella
delicata
età
dell’adolescenza, e che quindi si sovrappongono a tutte
le problematiche tipiche dell’età.
D: Una cosa interessante sarebbe indagare a quali
discriminazioni sociali sono andati incontro gay e
lesbiche.
R: Dalle interviste in profondità, (che poi io chiamo
storie di vita, perché una delle cose che ho scoperto
durante la ricerca è il fatto che gli intervistati e le
intervistate tendono ad ancorare con precisione le tappe
della loro carriera omosessuale a determinati periodi
della loro vita, dando alla fine un quadro storico delle
loro esperienze, all’interno del quale sentono l’esigenza
di collocarsi) emerge, proprio in relazione alla scoperta
della loro attrazione per o
l stesso sesso, come molti
uomini e donne si definiscano “non previsti”, degli
adolescenti non previsti dalla famiglia, dalla società…
D: In che senso “non previsti”?
R: Nel senso che loro sono portatori di una sessualità
non prevista, e non sanno neanche dare un nome a
questa cosa che provano, perché magari hanno dei
modelli di omosessualità, soprattutto maschile, che non
si confanno a quello che loro sentono. Nella logica
sociale dell’omosessualità, che si porta dietro tutta una
serie di pregiudizi e stereotipi, l’omosessuale maschile è
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un effeminato, che ha atteggiamenti da donna, che
parla e si muove in certi modi, che ha una grande e
incontrollata fame sessuale, per cui potrebbe tranquillamente abusare di qualsiasi uomo che incontra… È ovvio
che un ragazzo che invece si sente assolutamente
uomo, quindi non nega la sua identità di genere, non si
sente diverso nella sua identità di genere ma è diverso
nella sua identità sessuale per cui non prova attrazione
per le donne ma per gli uomini, assolutamente non si
ritrova nel modello ste reotipato di omosessualità che
oggi circola nella nostra società.
I ragazzi di adesso hanno uno strumento in più dalla
loro parte, che è Internet: in modo anonimo è possibile
rintracciare notizie, confrontarsi con altri, avere
spiegazioni da esperti che possono interpretare la
situazione. Per uomini che adesso hanno 50-70 anni e
che quindi non hanno avuto questo supporto ulteriore,
si riproponeva in modo ancora più amplificato il fatto di
vivere emozioni che erano incomprensibili, non avevano
alcun modello di riferimento, il tutto in un momento di
crescita particolare, dove esperienze negative possono
avere ripercussioni nella formazione della propria
identità, che poi si protraggono negli anni, interiorizzando quei giudizi negativi e stereotipati che la società
rimanda.
Il momento della scuola è molto delicato, perché senza
una famiglia in grado di supportare e accompagnare
percorsi di svelamento della propria identità sessuale,
senza insegnanti di riferimento, o senza una forte rete
amicale in grado di contenere le tensioni tipiche dell’età,
diventa difficile affrontare bene la situazione.
D: Cosa ti ha dato questa ricerca?
R: È stata un’esperienza arricchente perché mi ha fatto
scoprire quanto sia socialmente costruita una parte di
noi che consideriamo biologicamente determinata.
Quanto noi, come uomini e come donne, etero o
omosessuali, siamo poi il frutto di determinazioni sociali,
in cui se si cambia cultura, modello, paio di occhiali,
quello che prima non era permesso lo diventa, quello
che prima non era concepitolo lo diventa, e viceversa. E
questo mi ha aiutato a capire molto di più gli
eterosessuali di quanto mi aspettassi potesse accadere
da un lavoro fatto su una condizione che è, appunto,
considerata deviante.
Poi è stato un lavoro molto impegnativo, molto lungo,
che mi ha anche fatto capire quanta umiltà… quanto sia
necessaria la passione per portare a termine una
ricerca: è un continuo scavare, un continuo mettersi alla
prova, anche su quello che si dava per assodato, per
acquisito. Mi sono dovuta confrontare con concetti molto
impalpabili, come l’identità sessuale, ad esempio, e
confrontarmi con diverse discipline: la sociologia, la
psicologia, l’antropologia. Ti trovi a confrontarti con dei
concetti enormi, che difficilmente si possono rendere
operativi, e quindi, insomma, tocchi diversi tuoi limiti.
Ma allo stesso tempo mi ha arricchito perché questo
continuo confronto dà grandi prospettive, ti aiuta a
entrare in modo più specifico all’interno di concetti che
in apparenza possono sembrare semplici ma che in
realtà non lo sono. Io vengo da un background di
stampo più quantitativo, e mi sono appassionata
tantissimo delle interviste in profondità, delle storie di
vita: mi sono resa conto di quanto questo materiale così
ricco sia difficilmente comprimibile all’interno di un
lavoro di tesi. Era quasi un peccato dover selezionare
dei temi, perché emergevano così tanti spunti che era
difficile lasciar cadere delle idee di analisi e di ricerca in
favore di altre.
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Professione Sociologo
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Intervista a Giovanni Chiabotto
Infine ho preso un articolo di un
autore americano, il quale ha
seguito per un anno una squadra
di hockey professionistico.
D: Dunque, tu ti sei laureato
Quindi un’osservazione pienadopo aver fatto il passaggio
mente partecipante…
dalla vecchia quadriennale
Sì. Tra l’altro una cosa
alla triennale in Scienze Sociali
interessante è proprio il suo
Comparate: come mai questo
Lo abbiamo intervistato per farci
racconto del percorso che ha
cambio?
raccontare come sono andati questi
intrapreso in questo anno, dove
R: Sì, sono uno dei primissimi
all’inizio era guardato con
quasi due anni, cosa fa adesso nella
della triennale. I motivi sono
sospetto dai giocatori, mentre
vita
e
quali
progetti
futuri
vuole
vari: mi interessava perché c’era
alla fine si era talmente integrato
mettere in campo.
la possibilità di fare la specialistica
da sentirsi lui stesso un membro
in Sociologia, e visto che già a
della squadra. Non mancano
Scienze Politiche avevo intrapreso il percorso Sociale e
anche gli episodi divertenti: dopo qualche tempo,
la sociologia mi interessava molto, ho optato per questo
quando i giocatori hanno iniziato a fidarsi di lui, durante
cambio. Inoltre, ho potuto laurearmi prima, perché
le trasferte si recavano nella sua stanza d’albergo per
avevo già registrato molti crediti frequentando il vecchio
fare uso di sostanze stupefacenti, in quanto le loro
corso di studi quadriennale. E poi credo che, nel mondo
stanze erano tutte sorvegliate.
del lavoro, ormai una laurea quadriennale non abbia
molto valore in più rispetto alle nuove lauree triennali.
D: Questo lavoro, quanto te mpo ti ha preso?
D: Ciao Giovanni.
R: Ciao.
Giovanni si è laureato nel 2002 in
quello che allora era denominato
Corso di Laurea in Scienze Sociali
Comparate, oggi Sociologia e
Ricerca Sociale.
D: Con che tesi si sei laureato?
R: Con una tesi sull’etnografia dello sport. Ho analizzato
tre volumi e un paper in inglese, comparando le ricerche
in essi riportate e proponendo un quadro integrativo.
Devo dire che una delle prime sensazioni che ho provato
appena conclusa la stesura della tesi è stata la voglia di
ricominciare da capo, perché approfondendo i temi sei
portato ad un livello di maturazione che non ti aspettavi
all’inizio del lavoro e ti piacerebbe poter riprendere il
tutto alla luce delle conoscenze che sei andato
acquisendo.
D: Guardando questi tesi, vedo che ti sei concentrato su football, fitness e hockey.
R: Sì, sono partito analizzando Sociologia dello sport, a
cura di Roversi e Triani, Edizioni Scientifiche Italiane. Da
qui ho tratto alcune indicazioni sulla storia della
sociologia dello sport e ho preso spunto per delineare in
maniera più specifica l’oggetto della mia tesi, che era
l’etnografia dello sport. Ho quindi analizzato di
Alessandro Dal Lago, Descrizione di una battaglia. I
rituali del calcio, Edizione Il Mulino, che è un testo che
riporta le esperienze etnografiche dell’autore, il quale si
è mischiato a gruppi di ultras di varie squadre di calcio
professionistico, cercando poi, nei comportamenti e
nelle interazioni sociali osservate, alcune linee guida con
le quali affrontare il tema del tifo calcistico. Poi ho
studiato Anatomia della palestra. Cultura commerciale e
disciplina del corpo, di Roberta Sassatelli, Il Mulino: la
ricercatrice ha studiato due palestre differenti dal punto
di vista dell’immagine che queste volevano dare di sé,
dove la prima può considerarsi una palestra à la page,
diciamo alla moda, con frequentatori di ceti sociali
elevati; l’altra è una palestra “di borgata”, con una
frequentazione diciamo più alla buona. L’intento della
Sassatelli è quello di analizzare due mondi che
apparentemente sono molto distanti l’uno dall’altro e
rintracciarvi, invece, tutti gli elementi comuni, le
caratteristiche che consentono una continuità tra le due
palestre.
R: È difficile rispondere in modo preciso. Sai, magari ci
sono delle settimane in cui riesci a lavorare molto e
altre dove hai un po’ meno tempo, oppure dove il lavoro
necessariamente va’ a rilento. C’è anche da considerare
che il professore deve avere il tempo di leggere il
materiale che si produce per la tesi, correggerlo e
commentarlo col candidato. Comunque, volendo fare
una stima, diciamo che ho impiegato un mese di lavoro
intenso, anche se i testi ho iniziato a leggerli e studiarli
prima. C’è anche da considerare che la tesina richiede
una cinquantina di pagine finali, per cui non c’è molto
spazio per allargare il discorso e di conseguenza la mole
di lavoro da affrontare diminuisce. È stato intenso, ma
non faticoso, anche perché ero molto interessato
all’argomento.
D: E dopo la tesi, cosa è successo?
R: Io mi sono laureato a luglio, per cui il mese
successivo non ho fatto granché. Poi, da settembre, ho
iniziato a inviare curricula e domande a molte aziende,
pubbliche e private, e devo essere sincero l’ho fatto un
po’ alla cieca, perché volevo capire quale riscontro
potesse avere la mia laurea e quindi quale fosse la sua
spendibilità sul mercato del lavoro. Sempre a settembre
ho incominciato anche ad allenare una squadra di
pallacanestro, visto che comunque avevo del tempo e
che questa poteva diventare una prima ma non certo
esaustiva fonte di guadagno.
Devo dire che non ho avuto molti riscontri positivi, in
realtà mi hanno risposto in pochi e ho fatto qualche
colloquio nel settore assicurativo, ma non ho intrapreso
quella strada perché non mi interessava.
Ho guardato anche ai concorsi pubblici, ma in quel
momento non c’erano molte offerte per la mia laurea.
Poi, attraverso un amico, ho conosciuto un grossista di
abbigliamento sportivo che cercava agenti ai quali
affidare parti della sua clientela, e ho iniziato a
collaborare con lui. Questa è un’attività che svolgo
tuttora.
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Seguo in particolare due marchi nel settore sportswear,
e faccio fronte ad un impegno che vede periodi di
intensa attività alternati a periodi più tranquilli. L’attività
si intensifica quando escono le nuove collezioni, che
seguono l’andamento della moda, presentando prodotti
nuovi ad ogni stagione, primavera-estate e autunnoinverno. Oggi l’abbigliamento sportivo è entrato a far
parte del corredo di tutti, al di là di un utilizzo specifico
per le attività sportive. Per cui si può parlare di vera e
propria moda sportiva.
D: Quando ti sei laureato?
R: Nel 2002. questo lavoro l’ho iniziato effettivamente
dal gennaio del 2003. Ho comunque continuato a
cercare altro, ma non ho trovato qualcosa che mi
attirasse così tanto da lasciare questa occupazione.
Sinceramente non guadagno molto, però occorre anche
considerare che ho molto tempo libero, perché, come
dicevo, il lavoro è concentrato nel tempo e legato alle
campagne stagionali.
In realtà sono sempre alla ricerca di un lavoro che
rientri in un ambito di carattere più umanistico, perché
sarebbe più vicino alle mie aspirazioni.
D: Cosa ti piacerebbe fare?
R: Guarda, sto pensando di frequentare un corso per
diventare counselor, solo che è della durata di tre anni,
quindi sono un po’ in dubbio, anche perché un conto è
farlo a 22 anni e un conto alla mia età: io finirei il corso
a 31 anni, per cui vorrei capire se ci possono essere dei
P r o f e s s i o n e
cerchi in qualche modo di conquistare la sua fiducia e di
aprirti un varco attraverso il quale conquistarla come
cliente. Insomma, ti fa maturare, anche se è dura,
perché a volte prendi delle grandi facciate, soprattutto i
primi tempi. Certo, con l’esperienza le cose cambiano. Il
mio capo ha il suo giro, è rispettato, ha venduto cose
negli anni grazie alle quali i negozianti hanno
rimpinguato le casse, per cui è visto anche come colui
che ha saputo vendere prodotti efficaci. Quando parti,
invece, è più difficile, magari hai prodotti nuovi che non
hanno una solida base di clienti, alcuni di questi che non
vogliono più il marchio diventato prestigioso perché
fanno fatica a pagarlo, eccetera.
Diciamo che è un’esperienza formativa, questo
sicuramente, anche se io nella vendita non trovo
moltissime soddisfazioni. Ci sono venditori che amano
fare questo lavoro, contrattare con il cliente per
piazzare un nuovo prodotto, conquistare nuove nicchie
di mercato, riuscire a chiudere un ordine un po’ più
grande di quello che voleva all’inizio il cliente: sono cose
attraverso le quali queste persone si esaltano e che non
abbandonerebbero per nessun altro lavoro al mondo.
D: L’idea del counselor come ti è venuta in mente?
R: Negli anni, dopo l’università, mi sono tenuto in
contatto con un ragazzo che lavora nel campo della
formazione e quindi conosce meglio queste figure, di
origine anglosassone, molto simili a quelle del tutor, e
che da noi stanno arrivando adesso. Conoscendomi, mi
ha suggerito di indirizzarmi verso questa
professione, perché secondo lui ho le
caratteristiche per intraprenderla.
Inoltre, il mercato è in espansione, per cui ci sono molte
possibilità di impiego. Quindi sto seriamente pensando
di fare il corso, anche perché, a differenza di molti altri
corsi per laureati, alla fine di questo si acquisisce una
vera e propria qualifica professionale, quella di
counselor, appunto, che ha una sua precisa spendibilità
nel mondo del lavoro. Avere una qualifica significa
anche poterti proporre in modo diverso e intraprendere
sia la strada del lavoro dipendente, in strutture
pubbliche come in quelle private, sia fare qualcosa per
conto tuo, mettere insieme un progetto e lavorare
autonomamente. Certo è una scommessa, perché nel
corso dei tre anni possono cambiare molte cose, per cui
potrei cambiare prospettive.
S o c i o l o g o
concreti sbocchi professionali in questo settore.
Poi mi piacerebbe non abbandonare la pallacanestro.
Sto tentando di costruire dei progetti, anche se è
impossibile che diventi un lavoro vero e proprio, perché
non ci sono abbastanza risorse. Poi sai, un conto è
avere una copertura familiare pressoché totale, per cui
ti puoi buttare in un progetto e, anche se va male, a 35
anni puoi sempre permetterti di tornare indietro, ma
questo non è il mio caso e comunque sarebbe alquanto
azzardato investire tutto nella pallacanestro, dove di
soldi non ne girano molti.
Il mio ideale sarebbe trovare un lavoro in ambito
sociale, anche senza grosse pretese economiche, e poi
affiancarvi la pallacanestro, come attività part-time,
divertente e compensativa a livello economico.
D: Quindi punti a trovare un’occupazione
gratificazione dal punto di vista dei contenuti, e
cerchi di tornare alla tua passione per la
sociologia…
R: Sì, soprattutto ho capito, grazie all’attuale lavoro che
svolgo, che vorrei cambiare settore. Faccio una
puntualizzazione. Il lavoro del venditore mi è servito
moltissimo e sono convinto che sia una grande palestra
innanzitutto di vita, che aiuterebbe in maniera
significativa ogni studente appena laureato. Ti
“sgrossa”, ti rende più malleabile alla vita, ti insegna ad
avere a che fare con la gente, cosa che io ritengo molto
importante. Ad esempio, prendere il telefono, chiamare
una persona che non hai mai conosciuto e che sai
benissimo che ti risponderà con dei no le prime volte
che lo andrai a trovare… eppure ci vai, perché fa parte
del tuo lavoro, ti presenti,
D: Tu Giovanni hai già avuto diverse esperienze
nel mondo del lavoro, e hai progetti che nascono
da una maturazione avvenuta dopo e al di là del
tuo percorso di studi. Noi ci rivolgiamo soprattutto
agli studenti, quindi a persone che, nella maggior
parte dei casi, hanno un’età tra i 19 e i 23 anni,
molti dei quali non hanno ancora avuto esperienze
lavorative continuative e/o significative. Quali
sono, secondo il tuo parere, le competenze sulle
quali gli studenti e le studentesse dovrebbero
investire di più per proporsi in modo competitivo
una volta laureati/e?
R: Ce ne sono di banali, come la conoscenza di lingue
straniere, prima fra tutte l’inglese, e una buona
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conoscenza nell’utilizzo del computer e dei più diffusi
programmi.
Banali ma fondamentali, quindi da non prendere
sottogamba…
Questo è sicuro. Diciamo che sono considerate
competenze basilari per un laureato, verso le quali non
ci si pone neanche il problema di domandarle, salvo poi
il verificarle nella pratica quotidiana. Per questo è
davvero necessario farle proprie.
Un consiglio che mi sento di dare è quello di arrivare il
prima possibile alla laurea, e comunque rimanere nei
tempi, perché poi ci si pente del tempo perso. Arrivare
per secondi sul mercato del lavoro, a parità di
competenze e di età anagrafica, significa trovare sulla
propria strada tutti quelli che si sono laureati prima di
noi, e questo significa anche minori opportunità di
lavoro.
Mi sembra che la riforma delle lauree triennali voglia
andare in questa direzione, e credo che l’opportunità di
laurearsi in tre anni sia da cogliere. Con le vecchie
quadriennali, era difficile rimanere nei tempi: molti
esami erano eccessivamente impegnativi, mentre credo
P r o f e s s i o n e
andare a lavorare per uno o due anni, così poi si hanno
molti più elementi, e molto più concreti, per scegliere
quale Master si adatta di più alle proprie caratteristiche
e aspirazioni. L’università ti porta molto lontano dal
mondo del lavoro, dai ritmi, dalle esigenze che esistono
sul mercato. Non so se questo sia giusto oppure no,
però è così, e un laureato, nei primi tempi, e facile che
si trovi in difficoltà. Iniziare un’attività lavorativa, che
magri può anche non essere vicina ai propri interessi,
fornisce senz’altro la possibilità di conoscersi meglio e di
capire con più cognizione di causa cosa ci piacerebbe
“fare da grandi”.
Se oggi dovessi decidere di intraprendere un Master,
avrei già criteri di scelta molto più concreti di quelli che
avevo a disposizione appena laureato.
Al corso di counselor, per esempio, avevo già pensato
qualche tempo fa, ma poi ho trovato il lavoro
nell’abbigliamento e mi sono detto che potevo provare a
vedere come andava, disinteressandomi di fatto del
corso. Oggi so che andrò a frequentare il corso, pur
avendo alcuni dubbi, perché so che costituirà
certamente un’ulteriore risorsa spendibile, oltre che una
arricchente esperienza personale.
L’ambiente di lavoro serio, intendendo con
questo escludere i lavoretti che tutti noi
abbiamo fatto durante l’università, ti
insegna molto e ti fa pensare alla tua vita e a quello che
desideri in modo più completo.
S o c i o l o g o
che ora i programmi siano stati asciugati, e la tesi finale
poteva portarti via anche molto tempo. Oggi è più
semplice stare nei tempi, per cui occorre rispettarli.
E poi lanciarsi subito alla ricerca di lavori. Uso il plurale
perché credo che sia importate fare varie esperienze di
lavoro, non essere troppo esigenti all’inizio, anche
perché questo ha una ricaduta positiva sulla propria
esperienza personale ed è di sicuro aiuto nello scegliere
ed affrontare poi lavori più impegnativi o ai quali si tiene
in maggior misura. Ad esempio, diciamo che mi laureo a
23 anni: prima di iniziare un Master consiglierei di
D: Grazie Giovanni: credo che gli spunti di
riflessione per i nostri lettori siano molti.
R: Me lo auguro, e grazie a voi.
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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO
DIPARTIMENTO DI SCIENZE SOCIALI
Incontro
Mercoledì 21 aprile 2004 – ore 11.00
Salone d’Onore della Fondazione CRT,
via XX Settembre, 31
Abbiamo il piacere di invitarla alla presentazione del quarto rapporto focalizzato realizzato
dall’Osservatorio del Nord Ovest nei mesi di gennaio febbraio 2004 e promosso dalla Fondazione
CRT, su “L’immagine della transizione torinese e piemontese”, previsto il 21 aprile p.v. alle ore
11,00 presso il Salone d'Onore della Fondazione CRT, in via XX Settembre 31, Torino.
L’Osservatorio del Nord Ovest, avviato nell’autunno del 2002 con il sostegno di Regione Piemonte,
Provincia di Torino, Comune di Torino, Fondazione CRT, Compagnia di San Paolo e Camera di
Commercio ha lo scopo di raccogliere con regolarità – ogni quadrimestre – informazioni sugli
atteggiamenti e i comportamenti della popolazione in alcune aree tematiche quali Demografia,
Politica, Economia, Cultura, Sistema sociale, Religione e secolarizzazione. L’ampiezza del campione
dell’Osservatorio, un panel di circa 4500 individui, rende possibili – oltre ai confronti nel tempo –
varie comparazioni fra i comportamenti e gli atteggiamenti delle popolazioni residenti in nove aree
principali: Comune di Torino, Area Metropolitana di Torino, Provincia di Torino, Regione Piemonte,
Nord Ovest (Piemonte, Liguria, Valle d’Aosta), Triangolo industriale (Nord Ovest + Lombardia),
Nord, Italia, e infine le grandi città italiane (esclusa Torino).
Oltre a garantire, attraverso la realizzazione di tre indagini l’anno, la redazione di un “Rapporto
annuo sul mutamento sociale”, l’Osservatorio del Nord Ovest si configura come uno strumento
conoscitivo a disposizione del sistema locale per la realizzazione di indagini mirate su temi di
interesse settoriale.
Le prime indagini del 2003 e i relativi rapporti focalizzati hanno riguardato “La crisi Fiat”, “Senso di
sicurezza e propensione al lavoro autonomo” e “G li Italiani, l'Europa e il Semestre Europeo”.
A partire dal 21 aprile le nuove informazioni saranno disponibili sul sito Internet
www.nordovest.org. Il sito permette di accedere sia al testo delle domande rivolte agli intervistati
nelle varie indagini, sia alle distribuzioni delle risposte (tanto a livello locale quanto a livello
nazionale).
Certi del Suo interesse verso il progetto, e in attesa di incontrarLa alla presentazione dell’iniziativa,
Le inviamo i nostri più cordiali saluti.
Luca Ricolfi
Responsabile Osservatorio del Nord Ovest
Giuseppe Bonazzi
Direttore del Dipartimento di Scienze Sociali
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CIRSDe, Centro Interdisciplinare di
Ricerche e Studi delle Donne
19
Città di Torino
Presentano
Violenze Urban e
La città di Torino contro la violenza alle donne
Ricerca azione nell’area Urban di Torino
26 e 27 aprile 2004
presso Torino Incontra
via Nino Costa, 8
Per informazioni:
CIRSDe 011.670.31.29 – [email protected]
Polie dra 011.347.37.74 int. 264 – [email protected]
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20
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO
DIPARTIMENTO DI SCIENZE SOCIALI
Seminari di Dipartimento
Gennaio – Giugno 2004
Giovedì 29 Gennaio
Giuseppe Bonazzi: “Teorie dell’impresa e ricerca
sociologica: prospettive e problemi di un incontro”,
discussants M. Vaira, F. Barbera.
Giovedì 12 Febbraio
Dario Melossi: “Stato, controllo sociale e devianza”,
discussants A. Cottino, F. Prina.
Giovedì 1 Aprile
Luca Ricolfi – Diego Gambetta: “Spiegare le missioni
suicide”,
discussants M. Buttino, M. Ferrero.
Giovedì 20 Maggio
Davide Barrera: “La fiducia: un’analisi sperimentale”,
discussants G. Ortona, M. Follis.
Giovedì 17 Giugno
Sonia Bertolini: “Strumenti concettuali per l’analisi del
lavoro atipico: riflessioni ed esperienze di ricerca”¸
discussants N. Negri, A. Luciano.
Aula seminari del Dipartimento, Via S. Ottavio 50, Torino
ore 14,30
Copie dei testi presentati saranno disponibili in Dipartimento qualche giorno prima della
data di discussione, rivolgendosi al Sig. Fabio Pallavicino (011.670.2606)
Tutti i seminari sono in italiano.
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Sociologie
Articolo segnalato da
Donatella Simon
Tratto da “Avvenire”, del 19 marzo 2004
L’Europa torna in missione
Un polemico intervento del filosofo di origine polacca
rilancia il ruolo del Vecchio Continente nel processo di
«giustizia globale»
di Zygmunt Bauman
A proposito della risposta spagnola agli attentati
terroristici di Madrid, il segretario di Stato alla difesa
americano ha fatto ricorso all’apologo dei vicini di casa
chiamati a decidere se unirsi o no nella caccia ai
criminali che rappresentano una minaccia mortale per
tutti loro. Il tacito presupposto era che l’attacco
all’Afghanistan e all’Iraq guidato dagli americani e, a
priori, attacchi simili che in futuro potrebbero essere
guidati dagli americani, rappresentano l’unica e
autentica risposta appropriata. Di conseguenza, coloro
che
–
ritenendo
simili
iniziative
illegittime,
controproducenti e fuori bersaglio – cercano altri e più
efficaci modi di lotta, si starebbero in realtà tirando
indietro nella guerra contro il terrorismo. Ma l’apologo di
Rumsfeld, e il presupposto che si cerca di presentare
come evidente in se stesso, rappresentano soltanto
l’ulteriore sintomo di un programma pericolosamente
contorto. Contrariamente a quanto suggerisce l’apologo,
il vero argomento del contendere non sta nel chiedersi
se lo sforzo per vincere il terrorismo sia un dovere per
l’Europa così come lo è per gli Stati Uniti, ma se la
«guerra al terrorismo», alla quale l’America vuole che
l’Europa si unisca, sia la forma giusta per dare
realizzazione a un simile progetto. La vera alternativa,
invece, consiste nel mantenere le condizioni che fanno
del pianeta una terra di frontiere priva di regole, oppure
nell’intraprendere una riforma planetaria che impedisca
ai semi del terrorismo di mettere radici e di
germogliare. La vera «guerra al terrorismo» sarebbe
dunque uno sforzo concentrato per rendere la Terra un
luogo ospitale per l’umanità e inospitale per i suoi
nemici. Una «guerra» di questo tipo, tuttavia,
richiederebbe molto di più che non inviare aerei a
bombardare l’Iraq, l’Afghanistan o qualunque altro
obiettivo. E non è affatto certo, inoltre, che l’invio di
aerei sarebbe considerato una scelta adeguata da quanti
detengono potere decisionale in termini di strategia. A
giudicare dagli effetti sinora ottenuti, si può anzi
fondatamente sospettare che la strategia di Rumsfeld ci
distolga dall’obiettivo dichiarato di «guerra contro il
terrorismo» più ancora di quanto ci avvicini all’obiettivo
di una pace mondiale.
Se davvero lo scopo di al-Qaeda consisteva nel far
vivere l’Occidente nella paura, indebolendone la
capacità di mantenere gli standard di libertà,
democrazie e dignità umana (valori che i leader e i
seguaci di al-Qaeda sono stati ripetutamente e
giustamente accusati di voler distruggere), si può dire
che il raggiungimento di tale scopo sia oggi molto più
prossimo di quanto la stessa al-Qaeda avrebbe potuto
sperare facendo affidamento soltanto sulle proprie
forze.
Sociologie
21
Il pungente commento sulla guerriglia fatto da Robert
Taber (l’americano che combatté a fianco di Castro a
Playa Giron) ha trovato una sinistra conferma nell’attuale
ondata di violenza terroristica. Per Taber, la guerriglia (o
il terrorismo) combatte come una pulce e il suo nemico,
l’apparato militare, soffre gli stessi svantaggi del cane: un
campo troppo vasto da difendere, un nemico troppo
piccolo e onnipresente, troppo agile per essere catturato…
Una volta portata a termine, la «guerra al terrorismo»
stile Rumsfeld non lascia agli apparati militari
dell’antiterrorismo altro compito se non quello di
verificare un’altra pungente osservazione, quella del
grande storico romano Cornelio Tacito: fanno un deserto
e lo chiamano pace. È questo deserto a rendere remota a
sfuggente la prospettiva della pace. Madeleine Bunting,
giornalista straordinariamente acuta del «Guardian»,
ringrazia la Spagna per «averci dato la possibilità di
scegliere», opinione che mi trova completamente
d’accordo. Scegliere tra i politici (che sano a malapena
promettere alla gente spaventata e confusa un’«indignata
vendetta» con altro sangue da spargere) e la «donna
spagnola che diceva di non provare odio, ma soltanto
tristezza». I politici, suggerisce la Bunting, «farebbero
bene ad ascoltare, mostrando la propria civiltà, piuttosto
che ricorrere alla squallida e vuota metafora di una
guerra contro il terrore»… Non si sconfigge il fuoco con il
fuoco, era questo il messaggio implicito lanciato dalle folle
silenziose nelle strade delle città spagnole.
La scelta sta fra il trasformare le nostre città in luoghi di
terrore, «dove lo sconosciuto è da temere e tenere in
sospetto», e l’accogliere l’eredità di una civiltà condivisa
dai cittadini e di una «solidarietà fra stranieri», una
solidarietà rafforzata dall’uscire vittoriosi dalla più dura
delle prove.
La logica della responsabilità e delle aspirazioni globali, se
adottata e anteposta alla logica del trincerarsi a livello
locale, potrebbe aiutare l’Europa a prepararsi per la sua
prossima avventura, che forse sarà più grande di tutti le
precedenti. Nonostante l’enorme mole di avversità, tutto
questo potrebbe ancora una volta rilanciare il ruolo
dell’Europa come creatrice di tendenze globali, potrebbe
darle la possibilità di impegnare i valori e l’esperienza
etico-politica
acquisita
mediante
l’autogoverno
democratico, in modo da contribuire all’affermazione di
una comunità umana universale e accogliente, che sappia
sostituire le attuali entità trincerate, impegnate in un
mero gioco di sopravvivenza. Soltanto se riusciremo a
creare una comunità del genere, la missione dell’Europa
potrà dirsi compiuta. Soltanto all’interno di una simile
comunità i valori che illuminano le ambizioni e gli obiettivi
dell’Europa potranno dirsi davvero al sicuro.
Il futuro che ci attende è stato espresso in modo profetico
da Franz Kafka, come in una premonizione, un
avvertimento, un incoraggiamento: «Se non trovi niente
nei corridoi, apri le porte; se non trovi niente dietro le
porte, ci sono altri piani; se non trovi niente lassù, non ti
preoccupare, sali semplicemente al prossimo piano.
Finché non smetti di salire, le scale non finiranno e sotto i
tuoi piedi che salgono continueranno a crescere verso
l’alto».
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Sociologie
Sociologie
22
Articolo segnalato da
Donatella Simon
Tratto da “La Repubblica”
Il trionfo dell’individuo
I valori nell’età dei consumi
Pubblichiamo l’intervento che il sociologo francese Alain
Touraine ha letto alla Terza Università di Roma.
Traduzione di Anna Bissanti
Per parecchi secoli, senza andare ad un passato ancor
più remoto, abbiamo utilizzato nella vita sociale
categorie di rappresentazione e di azione che non erano
di mera natura sociale quanto politica. Si tratta di una
constatazione elementare, diventata uno dei pilastri
delle scienze sociali. Il dissolversi di una concezione
religiosa del mondo ha determinato la ricerca di un
principio unitario dell’esperienza individuale e collettiva,
e l’inizio stesso della modernità è contrassegnato
dall’affermazione secondo cui questo principio di unità e
di integrazione della vita sociale è la politica,
considerata come la creazione stessa della società. Nel
periodo compreso tra il XV e il XVIII secolo… le realtà
più
incontrovertibili,
identificate
come
le
più
determinanti in assoluto, sono state espresse in termini
politici: la nascita dello Stato moderno, della burocrazia
in senso weberiano, delle monarchie assolute e dei
dispotismi illuminati, e in seguito le rivoluzioni
democratiche, antimonarchiche o antiaristocratiche che
sconvolsero l’Olanda e l’Inghilterra prima di diventare la
Rivoluzione all’origine dell’Indipendenza americana e
infine la Rivoluzione francese…, sono altrettanti
elementi costitutivi della storia di più secoli, costituitisi
in maniera del tutto coerente in termini di potere.
Come la filosofia politica aveva interpretato la prima
tappa della nostra modernità, la sociologia si è costituita
come interpretazione di questa visione «sociale» della
società. L’apporto principale della sociologia definibile
classica non è stato quello di considerare il concetto di
società, tanto da un punto di vista descrittivo quanto
normativo, in quanto noi abbiamo parlato di utilità
sociale, di funzioni e disfunzioni e siamo arrivati al
punto di denominare socializzazione l’educazione, per
dimostrare che tutti glia spetti della vita personale e
sociale dovevano essere analizzati in termini di
interesse collettivo…
È pur vero che questa sociologia classica non si è mai
imposta veramente…, ciò nonostante per lungo tempo
essa è stata sorretta dall’apporto di un pensiero postmarxista, che ha assunto forme estreme in molti paesi
per un lungo periodo, e che affermava che occorreva
prendere in considerazione tutti gli aspetti della vita
sociale, ivi compresa la funzione che questi rivestivano
nell’instaurare e mantenere un potere sociale, fosse
quello di una classe dirigente, della superiorità maschile
oppure dei paesi dominanti. Siamo talmente abituati a
queste categorie tradizionali, persino quanti tra voi le
hanno pervicacemente combattute, che ci sembra
estremamente difficile compiere oggi la medesima
operazione che fecero Marx e altri in pieno XIX secolo,
ovvero sostituire con un altro il contesto di riferimento, di
analisi e di azione.
È pur tuttavia questo l‘interrogativo che dobbiamo porci:
non siamo forse pervenuti all’epilogo, all’esaurimento del
modello di rappresentazione e di azione che considerava
la vita sociale come se fosse interamente costituita da
categorie e da relazioni di natura propriamente sociale?
Se abbiamo tanto parlato di classi, di gerarchie, di
autorità, di gestione dell’evoluzione, di trasmissione delle
conoscenze e delle convenzioni e di tanti altri temi di ogni
tipo, non sarà che credevano all’esistenza di una società
le cui esigenze ci consentono di definire il bene e il male?
Ed il bene non è forse, in questa visione classica, tutto ciò
che consolida la vita collettiva e fortifica l’interesse
generale, mentre il male è tutto ciò che minaccia l’ordine,
la pace e la capacità di evoluzione delle nostre istituzioni,
delle nostre mentalità e della natura delle nostre
decisioni?
Ebbene… come non constatare che il declino, o la
dissoluzione, di queste forme di pensiero e di azione è
divenuto ovunque quanto mai palese? … Siamo entrati –
dicono gli studiosi – in una società di produzione, di
consumo e di comunicazione di massa; molti di loro
parlano altresì di globalizzazione e tutto ciò, al di là di una
connotazione quasi geografica, sottintende il concetto ben
più importante di una perdita di controllo di tutti i centri
decisionali e dunque di tutti gli obiettivi, i valori, i possibili
criteri relativi alle varie forme di produzione, di consumo
e di comunicazione che ci impongono la loro propria
logica, che è quella del mercato, e meno fortemente e ciò
nonostante già fin troppo, la ricerca del massimo profitto
possibile.
Tutti
questi
sconvolgimenti
sono
generalmente
riassumibili in una parola: le nostre società che contavano
su forme di organizzazione collettiva, stanno diventando
sempre più individualiste. Nell’accezione migliore e
peggiore che il termine include. Le categorie di
appartenenza si indeboliscono, che si tratti della famiglia,
del vicinato o anche solo della classe d’età cui si
appartiene, e noi siamo quanto mai sempre più
influenzati dai programmi televisivi o da altro, il cui
successo si deve al fatto stesso di aver sempre meno
riferimenti sociali reali…
Ritroviamo qui il problema più tipico delle riflessioni sulla
modernità. Il passaggio dal religioso al politico, dal
politico al sociale e da quest’ultimo ad un individualismo
orientato al consumo, tutto ciò può essere considerato
come la nuova espressione – di poco differente dalle
precedenti – dell’impressionante dislocazione verso la
strumentalità e il piacere, dunque all’empirismo di un
universo comportamentale da cui si sono a poco a poco
allontanati tutti i principi di trascendenza, tutto ciò che io
ho definito le garanzie metasociali dell’ordine sociale. È
difficile, però, recepire una spiegazione così semplice, così
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terra, terra. Perché, in fin dei conti, che fine fanno
questi inviti a trovare un significato, che sia più o meno
al di sopra dell’interesse e del piacere individuali?
Questa coscienza politica, che ha stimolato così tante
nazioni per molti secoli è semplicemente scomparsa,
una volta portata a termine la sua funzione, che
sarebbe stata solo quella di essere una tappa nel
processo di secolarizzazione e di trionfo della razionalità
strumentale che deve necessariamente fare il suo corso
fino in fondo? E parimenti, quando parliamo di una
visione «sociale» della realtà sociale, che cosa vogliamo
dire esattamente? In un caso come nell’altro è
necessario riconoscere che nelle parole che abbiamo
impegnato, noi così come tanti altri prima di noi, sono
mescolate almeno due realtà. Quando parliamo di
modello politico della realtà sociale, in effetti vogliamo
dire che per un lungo periodo la priorità fu data alla
formazione dello Stato, di un sistema giuridico di organi
deputati al mantenimento dell’ordine e alla repressione
della devianza, ma – e l’abbiamo già detto – vediamo
P r o f e s s i o n e
come autocostituitasi, come principio di definizione del
bene e del male e del giudizio morale, siamo già molto
più lontani dall’ambito in cui si evolvono le lotte di classe,
la trasformazione delle istituzioni, l’azione collettiva a
favore dell’eguaglianza e della giustizia. Perché dunque
non pensare che allorché entriamo in una rappresentazione individualista della vita sociale, assistiamo ad un
distacco ancor più considerevole, estremo forse, tra il
mondo del consumo, dell’interesse e del piacere e
dall’altra parte il richiamo non più ad una società ideale,
ad un ordine o a dei valori come la giustizia, bensì a
quello che è il senso più profondo dell’individualismo,
ovvero affermare il soggetto come fine a se stesso e fare
di lui, invece della società, il principio di definizione del
bene e del male?
Tra l’individuo soggetto e l’individuo consumatore, la
distanza è abissale, immensa. Tanto l’individualismo
consumatore conteneva in sé l’inappagata rivendicazione
a nuovi legami sociali, di modo che – come ho già detto –
l’autostima e lo spirito di comunità si presentavano come
complementari al fine di conseguire quel
grandioso obiettivo che è la ricostruzione
dei legami sociali, tanto il soggetto che si
analizza e si riconosce in se stesso fine
della propria azione non può che schierarsi contro ciò che
non è nemmeno più un ordine sociale, quanto piuttosto
un campo di interessi in competizione gli uni contro gli
altri, in antagonismo tra loro. Quanto più la vita sociale è
manovrata da movimenti impersonali, incontrollabili come
quelli del mercato o degli scontri armati, tanto più,
dall’altra parte, l’individuo si impadronisce direttamente
di se stesso, nella sua soggettività potremmo dire, senza
doversi incarnare nelle istituzioni politiche e tanto meno
in movimenti sociali.
S o c i o l o g o
anche affacciarsi in quello stesso periodo il problema
della legittimità del potere, e soprattutto il costituirsi di
un attore collettivo, di un insieme di movimenti sociali
che, attraverso svariati tipi di rivoluzione, diede origine
a ciò che ancor oggi noi chiamiamo la nazione, il popolo,
la repubblica, che non sono modalità di ordine sociale
bensì… dei movimenti di liberazione… Ora possiamo
dunque considerare in una maniera del tutto nuova il
passaggio da una rappresentazione della vita sociale ad
un’altra. Ciò che accade… è in effetti un dilatarsi
crescente
delle
due
facce
della
medesima
rappresentazione. Quando noi parliamo di creazione
dello Stato e di quella della nazione, che nella
maggioranza dei casi è o vuole essere uno Statonazione, la distanza tra questi due orientamenti è
esigua. Quando invece noi parliamo della visione
sociologica della vita sociale, della concezione di società
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24
Vi presentiamo una interessante rivista on-line. Si intitola Magma, è dedicata alle Scienze Umane e
Sociale ed è stata fondata dal sociologo Orazio Maria Valastro.
Sul sito Internet http://www.analisiqualitativa.com/magma/index.htm, sono reperibili tutte le
informazioni, e anche l’articolo di cui riportiamo un abstract. Buona lettura.
IL PROGETTO EDITORIALE
m @ g m @, rivista elettronica trimestrale di Scienze
Umane
e
Sociali,
è
il
progetto
editoriale
dell'Osservatorio dei Processi Comunicativi, fondata e
diretta dal Sociologo Orazio Maria Valastro nel luglio del
2002. La rivista è pubblicata e diffusa su Internet e si
propone di promuovere la collaborazione e la
partecipazione di esperti e cultori delle metodologie e
degli approcci qualitativi, in vari ambiti delle scienze
umane e sociali, contribuendo alla produzione di un
insieme complessivo di conoscenze e di pratiche,
caratterizzandosi
inoltre
come
uno
strumento
d'approfondimento e perfezionamento.
UNO SPAZIO INTERDISCIPLINARE
DI COMUNICAZIONE E COLLABORAZIONE
I contenuti della rivista trattano essenzialmente di
tematiche e problematiche connesse alla teoria ed alla
metodologia dell'analisi qualitativa applicata nelle scienze
umane e sociali, facilitando un confronto ed uno scambio
d'esperienze e di conoscenze per suscitare e sviluppare
delle connessioni nei diversi settori in cui trovano
applicazione le metodologie qualitative, dal campo della
ricerca a quello della formazione, favorendo inoltre un
aggiornamento professionale ed una formazione continua
rispetto ai metodi dell'analisi empirica applicati in
differenti ambiti professionali e contesti sociali.
La rivista, specializzata nelle metodologie e negli
approcci qualitativi nelle scienze umane e sociali,
pubblica dal 2002, con una periodicità trimestrale, delle
rubriche permanenti e delle rubriche tematiche i cui
contenuti sono disponibili integralmente sul sito web di
m @ g m @. La rivista è navigabile in modalità on-line,
le pagine web ad accesso libero permettono la lettura
full text degli articoli pubblicati che sono diffusi in
formato .html e in formato .pdf, facilitandone il loro
download e al tempo stesso permettendone la loro
archiviazione e lettura off-line.
Si vuole privilegiare essenzialmente l'approccio qualitativo
nelle scienze umane e sociali, caratterizzato da diverse
modalità e metodologie, per realizzare un confronto ed
uno scambio d'esperienze e di conoscenze; suscitare e
sviluppare delle connessioni nei diversi settori in cui
trovano
applicazione
le
metodologie
qualitative,
dall'ambito della ricerca a quello della formazione, dallo
studio delle problematiche sociali a quello dell'intervento
professionale nei contesti sociali.
LA LOGICA DI / DEL M @ G M @.
Il m @ g m @ simboleggia un insieme caotico e
indistinto, una realtà in continuo movimento, e
rappresenta similarmente la complessità sociale
caratterizzata da processi culturali che si modellano
nella temporalità delle nostre società contemporanee,
dove questi stessi processi fluiscono come occorrenze e
forme emergenti, determinando la necessità di
comprendere ed integrare degli approcci adeguati in
grado di considerare l'intersoggettività e l'esperienza
intima degli individui e dei gruppi sociali.
La rivista m @ g m @ vuole quindi rappresentare
questo particolare interesse verso gli approcci e le
metodologie qualitative, adeguate per accedere
all'esperienza sociale e comprenderla recuperando
proprio quelle dimensioni sociali, mitiche, reali e
storiche del pensare e dell'agire, che richiedono proprio
questa pluralità delle prospettive e degli orientamenti
che si cerca di valorizzare con la rivista.
m @ g m @ è una rivista che intende promuovere
essenzialmente il ruolo sempre più pregnante degli
approcci e delle metodologie qualitative in un'ottica
multi-referenziale e multi-disciplinare, i contributi
pubblicati sostengono questa trasversalità proponendo
delle analisi, delle riflessioni e degli studi che
interessano molteplici settori e discipline delle scienze
umane e sociali. Si cerca inoltre di coniugare teoria e
pratica, approcci teorici e analisi empirica, concependo
l'intervento professionale, dalla ricerca sociale agli
interventi formativi, dall'analisi all'intervento nei
contesti sociali e culturali, come osservazione,
interpretazione critica e cambiamento partecipato della
vita quotidiana.
[m@gm@- FORUM]
Approcci qualitativi e applicazioni nell'intervento
professionale
Il ruolo dei professionisti orientati verso il qualitativo:
partecipate alla sezione del forum di discussione dedicata
alla rubrica tematica diretta da Lucio Luison.
Lucio Luison: Responsabile Relazioni Pubbliche ASL n.2;
Esperto in Metodi e Tecniche della Ricerca Sociale;
Presidente dell'AsEU, Associazione di Sociologi dell'Unione
Europea; Presidente di Mediatores, Associazione Italiana
per la Mediazione Sociale; Presidente dell'Associazione
Italiana di Sociologia Professionale.
Abstract: "In questo quadro, a nostro avviso, l'approccio
qualitativo può mostrare tutte le potenzialità conoscitive
della propria strategia e tutta la rilevanza dei suoi metodi,
a partire dal porre l'unicità e la peculiarità dei casi a
fondamento del proprio agire conoscitivo. Se, come
abbiamo accennato sopra, ciò che soprattutto sembra
avere importanza è dare un senso - complessivo o
sintetico che sia - alle conoscenze di cui disponiamo il
ruolo che i professionisti orientati al qualitativo possono
svolgere dovrebbe risultare più che evidente. Nelle pagine
che seguono autori diversi per ambiti di interesse e per
modalità di approccio svolgeranno una serie di riflessioni
che ben esemplificano queste potenzialità."
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25
Prime Teatro
Anime schiave
Testo di Beppe Rosso e Filippo Tarocco
Con Beppe Rosso, Olga Makovska, Franco Barbaro
Teatro Gobetti, marzo 2004
Recensione a cura di Rosalba Altopiedi e Eva Lorenzoni
Lo spettacolo, liberamente ispirato all’omonimo libro-inchiesta del giornalista Marco Neirotti e al romanzo Sole bruciato
di Elvira Dones, si cimenta con un argomento difficile da esplorare e rappresentare senza cadere in atteggiamenti pietosi
e/o moralisti: la prostituzione. È la storia, narrata attraverso un diario, di una giovane ragazza albanese attirata in Italia
con l’inganno e costretta a battersi sulle nostre strade. Il vero protagonista è una figura maschile, Richard (lo stesso
Beppe Rosso), un presentatore che guida gli spettatori nel mondo dei night notturni e dei club privati. A lui si alternano
sul palcoscenico Franco Barbaro, cantante e musicista, e due giovani ragazze dell’est, molto brave nel mostrare i
retroscena di questo universo semi-sommerso, fino a mettere in scena un languido strip-tease, che avrà forse turbato il
pubblico benpensante (sicuramente ha scosso le tre anziane signore sedute davanti a noi!).
Con questo lavoro, Beppe Rosso, come già nella precedente stagione con Seppellitemi in piedi, è riuscito a dare vita ad
uno spettacolo coraggioso, per nulla moralista, capace di far sorridere ma anche di far riflettere su storie di ordinario
sfruttamento ed emarginazione.
Prime Cinema
A/R – Andata e ritorno
Regia di Marco Ponti
Recensione a cura di Arianna Radin
Che Torino sia una città grigia, almeno nella mente dei più, non c’è dubbio. Che stia diventando sempre più multietnica,
forse qualcuno se lo immagina. Che sia la casa di personaggi tanto grotteschi, nessuno se lo aspettava.
Marco Ponti nel suo secondo film dopo “Santa Maradona” (diventato subito vero cult movie giovanile) porta in scena vite
strampalate che tentano di andarsene da Torino, ma che non ci riescono mai. Così ognuno di loro sfrutta al meglio le
occasioni che la città propone. Il viaggio turistico nella città non è scontato : i magazzini del museo Egizio, il complesso
alberghiero del Lingotto, via Roma vista dai tetti, il centro storico radical chic. La storia è piccola piccola, molto simile a
“I soliti ignoti”, ma questa volta il colpo gobbo (che va oltre ogni aspettativa) è un puro pretesto per sentirsi meno soli,
per solidarizzare ed anche per innamorarsi. Ottimo il cast: Libero De Rienzo, Vanessa Incontrada (che dimostra di essere
un’attrice anche senza occhiali scuri e doppiaggio), Kabir Bedi, Remo Girone…e poi,ovviamente, gli storici attori della
realtà torinese, quelli che vedi protagonisti in teatro o nei “corti” dei registi emergenti. Insomma, questo film ti regala un
pezzo di Torino, quella silenziosa, che aspetta muta in sala l’arrivo degli imprevedibili titoli di coda. Sapendo
perfettamente che nella vita le cose capitano quando meno te le aspetti.
Coffee & Cigarettes
Regia di Jim Jarmusch
Al cinema dal 12 marzo 2004
Recensione a cura di Eva Lorenzoni
Coffee & Cigarettes è un film politicamente scorrettissimo, in cui tutti fumano una sigaretta dietro l’altra, alla faccia di
tutte le misure che sempre più spesso i ministri della salute europei ed americani adottano per ghettizzare coloro che
non riescono, o non vogliono, rinunciare al vizio.
Il film è una raccolta di 11 cortometraggi, i cui protagonisti, seduti ad un tavolo, fumano e bevono dal primo all’ultimo
fotogramma, discorrendo degli argomenti più disparati, dai ghiaccioli al caffè ai complotti sulla morte di Elvis Presley,
dall’uso della nicotina come insetticida alle invenzioni di Nikola Tesla. Ad interpretare i personaggi, un cast eterogeneo di
attori e cantanti, da Roberto Benigni a Tom Waits e Iggy Pop, da Cate Blanchet a Bill Murray, dai White Stripes a Steve
Buscemi. Sebbene indipendenti l’uno dall’altro, i singoli episodi sono legati da un comune filo conduttore visivo: riprese
in bianco e nero (i colori di sigarette e caffè) e scenografie semplici e minimaliste. Il risultato è un piccolo film destinato
a rimanere al di fuori del circuito commerciale, godibilissimo e con episodi di puro divertimento (davvero irresistibili
quelli con Alfred Molina e Bill Murray) …ma in certi momenti, davvero non si vede l’ora che finisca per potersi finalmente
accendere una sigaretta!
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Numero 4 - Newsletter di Sociologia