in occasione della presentazione
del libro
Non dimentichiamoci di Dio
Libertà di fedi, di culture e politica
di Angelo Scola (Ed. Rizzoli, 2013)
incontro con
Francesco D’Agostino, giurista ed editorialista di Avvenire
Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere della Sera
Giuliano Ferrara, direttore de Il Foglio
Ezio Mauro, direttore di Repubblica
Sua Em. Rev.ma Card. Angelo Scola, Arcivescovo di Milano
coordina
Massimo Bernardini, giornalista e conduttore
del programma di Rai 3 TV Talk
Auditorium in largo Mahler, Milano
Martedì 16 aprile 2013
Via Zebedia, 2 20123 Milano
tel. 0286455162-68 fax 0286455169
www.cmc.milano
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“Non dimentichiamoci di Dio, libertà di fedi, di culture e politica”
MASSIMO BERNARDINI: Benvenuti. Sono Massimo Bernardini, sostituisco indegnamente
Monica Maggioni di Rai su Rai, lei è caduta in malattia e, come sempre succede in Rai, fra colleghi,
quando uno cade, l’altro subentra in soccorso. In realtà purtroppo sono un semplice conduttore per
cui, in mezzo a tutti questi direttori, sono un vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro, ma insomma,
ce la faremo. Non appena mi hanno chiesto questa sostituzione sono corso in libreria, perché
confesso che a questo libro avevo dato un occhio, ma non l’avevo ancora letto e quindi nel giro di
poche ore ho dovuto metterci più attenzione, tra l’altro capendo che è un libro molto intrigante,
molto complesso. Ho dato un’occhiata a questo libro per capire anche come introdurre i nostri ospiti
questa sera e almeno ho agganciato, per quella che è la mia cultura, una citazione che mi ha subito
colpito, che in realtà non è del Cardinale, ma è una citazione di una citazione: è una canzone di
Dilan, degli anni Ottanta, che si intitola Gotta serve somebody, che significa «dovrai comunque
servire qualcuno». «Potrà essere il diavolo, potrà essere Dio, ma dovrai comunque servire
qualcuno». Io faccio finta che la citazione sia voluta dal Cardinale Scola, perché la sua critica alla
presunta neutralità della nostra attuale idea di laicità, io credo sia ben rappresentata da questi versi.
Ma perché un Cardinale di Santa Romana Chiesa, a Milano, in questa nostra Italia, in questo
Occidente apparentemente libero, ripone oggi l’accento sulla libertà religiosa? Faccio presto, come
tutti quelli che leggono un libro all’ultimo momento, vado alla quarta di copertina e leggo ciò che
dice il Cardinale: «Se la libertà religiosa non diventa una libertà realizzata, posta a capo della scala
dei diritti fondamentali, tutta la scala è destinata a crollare». Questo potrebbe essere un giudizio
duro, un giudizio su cui meditare a lungo, e che quasi può guardare al nero del nostro momento
presente. A pagina 104 del libro, in quel bellissimo prefinale che s’intitola L’Odierna società
plurale, in quello stile laico, ma così construens, a cui Scola ci ha abituato, ho trovato un passaggio
che secondo me, stasera, può accomunare tutti i presenti. Ve lo leggo. «È veramente pubblico, e
perciò autenticamente aconfessionale, solo quello spazio che scommette sulla libertà dei cittadini,
credenti e non credenti, e che rende possibile il raccontarsi, cioè l’intraprendere l’opera di esprimere
il significato della propria esperienza, secondo una logica di reciproco, seppur laborioso,
riconoscimento» Ecco io credo che, in un’immagine come questa, laici e credenti si possano
riconoscere e mi sembra un punto di partenza importante stasera. Con questo lancio la palla e la
parola al professor D’Agostino. Abbiamo fatto dei patti sulla durata degli interventi, per poter
sentire anche il Cardinale alla fine.
FRANCESCO D’AGOSTINO: Grazie. Lei ha letto la quarta di copertina, io più semplicemente
vorrei leggere con tutti voi il titolo di questo libro: Non dimentichiamoci di Dio. Apparentemente
potrebbe sembrare un titolo molto soft, molto dolce, quasi un titolo emozionale. In realtà, Non
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“Non dimentichiamoci di Dio, libertà di fedi, di culture e politica”
dimentichiamoci di Dio, è un imperativo. È un imperativo forte: da un certo punto di vista tutto
questo libro serve a spiegare la forza dell’imperativo. Non dimentichiamoci, tutti noi, credenti e non
credenti, laici e cristiani, mettiamoci pure islamici, ebrei, buddisti, nessuno deve dimenticarsi di
Dio. Cosa c’è dietro a questo imperativo? Dietro, questo lo aggiungo io, ma il Cardinale è
sicuramente consapevole di quello che sto dicendo, c’è la consapevolezza che in tutto l’arco della
storia, azzarderei della storia universale, ma sicuramente almeno nella storia occidentale, ci sono
due dinamiche che si intersecano: la dinamica che proibisce la memoria e la dinamica che esalta e
rende obbligatoria la memoria. Sapete che l’amnistia nacque, ci racconta Aristotele, quando, dopo
la caduta dei trenta tiranni, venne emanata una legge che proibiva a chiunque di ricordare la tirannia
dei trenta e le loro malefatte. La prima amnistia, la damnatio memoriae dei romani, e poi la politica
hanno sempre usato la tecnica della dimenticanza coercitiva. Un popolo invade un altro popolo,
occupa territori di un altro popolo, ci si dimentica dei vecchi sovrani, ci sono conversioni forzate, ci
si deve dimenticare delle vecchie divinità, del vecchio dio. È capitato, alla fine della seconda guerra
mondiale; nei trattati che sono stati imposti alla Germania, che sia stato stabilito di dimenticare e di
non usare mai più, come termine politico, la parola “Prussia”. Doveva essere dimenticata. Possiamo
continuare con tanti esempi di questo tipo. Ebbene, la tradizione ebraico-cristiana si fonda invece
sulla memoria, «non ti dimenticare che sei stato schiavo in terra d’Egitto»; e Gesù dice che
«neanche uno iota della legge va lasciato cadere, ricordatevi tutta la legge». Ebbene oggi,
sicuramente per ragioni culturali che conosciamo tutti e che sono complesse ed intricate, c’è questo
tentativo, più o meno consapevole, da parte degli Stati e delle grandi organizzazioni politiche, di
indurre la gente a dimenticarsi di Dio o a ricordarsi di Dio in contesti privati: solo la domenica o
magari soltanto in un contesto fisico, come all’interno dei templi e delle chiese. Non si deve citare
Dio nel discorso pubblico; non si deve citare la tradizione ebraico-cristiana nella Costituzione
europea; la Slovacchia non può coniare una moneta da due euro, in onore di Cirillo e Metodio,
perché sono due santi, hanno l’aureola e tra di loro c’è una croce. Bisogna rimuovere la memoria
della religione, senza sentirsi in colpa per questo, perché la libertà di coscienza viene comunque
garantita, e così anche la libertà religiosa, ma a condizione che questa non sia una libertà che si
radica in una memoria. Le memorie non sono solo costitutive della nostra identità, ma sono fatte per
essere raccontate; è inutile avere dei ricordi se non puoi comunicarli. Comunicare i ricordi agli altri
e ascoltare le memorie degli altri è il principio di ogni comunicazione. Questa per me è la spina
dorsale, il filo rosso del libro del Cardinale Scola: bisogna attivare la comunicazione nelle società
multietniche e multireligiose, che sembrano non avere delle visioni di mondo in comune ma che
invece possono trovarle attraverso un opportuno esercizio di una memoria vivente, perché è
memoria del passato ma allo stesso tempo è memoria come orientamento per il presente e per il
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futuro. È proprio attraverso questa memoria che si può scoprire quel bene umano comune che tiene
insieme tutte le società civili, per quanto possano scricchiolare e sembrare a mal partito. Bisogna
comunicare. La comunicazione è l’unica forma di apertura verso il futuro che oggi appaia credibile.
Ecco perché il Cardinale insiste tanto dicendo che qui non si tratta di tornare indietro, la memoria
non è volta a ripristinare esperienze passate che il più delle volte non solo sentiamo lontane da noi
ma di cui percepiamo tutti i limiti. La memoria è il principio per la costruzione del futuro quando è
una memoria comunicata e condivisa. Da questo punto di vista il cristianesimo fa memoria storica
ogni domenica, ma ogni Messa è allo stesso tempo l’esperienza religiosa, l’esperienza comunitaria
che, proprio perché radicata nel passato, è anche quella tipicamente rivolta al futuro. Questo è un
dono che il cristianesimo può fare senza alcuna pretesa di coercizione - su questo il Cardinale è di
una chiarezza estrema e anche la Chiesa, con il suo magistero, è diventata chiarissima su questo
punto, almeno a partire dal decreto conciliare sulla libertà religiosa - è proprio questa l’offerta che
una comunità cristiana può fare in un mondo globalizzato per attivare in questo dialogo, in questa
reciproca comunicazione, tutte quelle energie che possono forse aiutare a costruire un futuro non
disumano.
M. BERNARDINI: La parola a Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere della sera.
FERRUCCIO DE BORTOLI: Buonasera a tutti. Nello Stato moderno e nelle democrazie
occidentali la libertà religiosa è la più fragile e allo stesso tempo è considerata la più invasiva. È,
per così dire, il manzoniano vaso di coccio dei diritti soggettivi ma è anche considerata, qualche
volta, la minaccia più temibile alla convivenza civile. Dobbiamo chiederci perché, nella nostra
sensibilità laica e illuminista, talvolta siamo più aperti alle religioni di cittadinanza delle altre fedi e
meno alle ragioni dell’essere cattolici, e perché ci scaldiamo giustamente per affermare tutti i diritti
delle minoranze ma, se quelle cristiane vengono perseguitate, spesso rimaniamo indifferenti, come
se dovessero pagare, insieme all’Occidente, una sorta di colpa storica. Il libro di Sua Eminenza ha il
pregio di spiegarci, a partire dall’Editto di Milano del 313 d.C. considerato dall’autore «l’alba della
libertà religiosa ma anche della laicità dello Stato fino al Concilio Vaticano II», che quel diritto è
inscindibile dal riconoscimento della dignità della persona umana. Senza l’affermazione piena della
libertà religiosa non vi è reale cittadinanza né una vera società civile. Non è dunque soltanto una
dimensione personale, spirituale o metafisica, ma una qualità intrinseca del cittadino e la libertà
religiosa, insiste Scola, segnala che la dimensione socio-politica non è l’orizzonte esclusivo della
persona umana che deve essere libera di cercare la sua verità, libera di rispondere alle domande di
senso della propria esistenza ed è, aggiungiamo, la cartina tornasole sulla quale si misura il grado di
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civiltà delle nostre società plurali. Qui emerge un tema controverso che riguarda la memoria, che in
parte è stato già toccato dal professor d’Agostino, e i segni della cristianità, ovvero fino a che punto
la loro esistenza od ostentazione sia una manifestazione di libertà o al contrario un’offesa o un
attentato nei confronti di chi non crede. Una malintesa idea di laicità pensa che la cancellazione dei
segni sia espressione compiuta del pluralismo, che rafforzi i geni civili della società, ma dobbiamo
anche chiederci se questo non produca invece un senso di smarrimento e se il disprezzo del
prossimo non sia la conseguenza anche di questa perdita di memoria e di contatto con le nostre
radici. Possiamo togliere un crocifisso da un’aula, ma non abbiamo la certezza che una parete vuota
ci renda migliori e più liberi. La diffidenza occidentale per la religione, frutto più di un pregiudizio
culturale che di una scelta sociale e giuridica, può portare ad omettere le radici giudaico-cristiane
dell’Europa ma non possiamo, anche qui, non domandarci se il fatto che la costruzione europea sia
sentita così estranea e posticcia da molti non sia anche il risultato di questa scelta, politicamente
corretta, neutrale ma inodore, insapore e spesso del tutto incolore. Lo Stato deve essere giustamente
laico, ma non può finire per essere un semplice contenitore di interessi anziché abbracciare e
comprendere le sue varie radici culturali; è proprio questo, se ci pensate, lo spirito della nostra
Costituzione, che ha come obiettivo il pieno sviluppo della persona umana.
I valori della laicità si completano nel confronto proficuo tra laici e cattolici, fra credenti e non
credenti. Questo confronto fu proficuo e possibile all’epoca in cui si scrisse la nostra Costituzione e
io mi domando se oggi saremmo in grado di scrivere, anche in italiano, un art.7 come quello della
Costituzione di allora. In chiusura cito un piccolo episodio: durante la costituente La Pira propose
che il testo della Costituzione fosse preceduto dalla formula: «In nome di Dio e del popolo italiano
si dà la presente costituzione». La proposta, ovviamente, non passò. Il comunista Concetto
Marchesi disse: «Ho sempre respinto, nella mia coscienza, l’ipotesi atea che Dio sia un’ideologia di
classe. Dio è nel mistero del mondo e delle anime umane. È nella luce della Rivelazione per chi
crede, nell’inconoscibile e nell’ignoto per chi non è stato toccato da questo lume di Grazia».
La qualità del dibattito, ricordata recentemente ad Assisi dall’ex comunista Napolitano, fu superiore
ad una normale menzione e fu la dimostrazione alta dell’esistenza di quell’antropologia di base., e
stiamo parlando del 1947. Non oso pensare a quello che accadrebbe oggi di fronte al compito di
riscrivere una Costituzione. Termino dicendo che l’auspicio finale di Scola è quello della
promozione e, lo ha ricordato prima il nostro moderatore, di una sana laicità, aconfessionalità
effettiva dello Stato. Un onere che pesa anche sulla Chiesa, a volte troppo generosa nell’accreditare
i suoi referenti politici e che spesso è apparsa, e questa è una critica sommessa che le rivolgo
Eminenza, più secolarizzata della società e troppo concentrata sulla difesa dei valori non
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negoziabili, tentata anche chiudendo gli occhi su altri valori molto deboli dei propri referenti
politici, grazie.
M. BERNARDINI: Grazie direttore. Ora passo la parola a Giuliano Ferrara, direttore de Il Foglio.
GIULIANO FERRARA: Grazie a tutti, grazie a Sua Eminenza per questo libro serio, un pamphlet,
un libro polemico anche se, naturalmente, un Cardinale di Santa Romana Chiesa, un Principe della
Chiesa non può che rivestire non di melassa né di ovatta, ma di parole di prudenza e di attenzione
verso l’opinione pubblica le sue idee. Il libro nasce dal discorso in occasione della festa di
Sant’Ambrogio e nel diciassettesimo centenario dell’Editto di Milano, l’atto con cui Costantino
introdusse la libertà religiosa e varò la laicità dello Stato. Diciamo così, semplificando, perché in
realtà è una questione molto complicata. Costantino fu imperatore romano tra i rigurgiti di
repressione della fede cristiana, vista come nemica dell’impero, dei suoi valori e della sua religione,
dei suoi dèi, dell’imperatore stesso, che i cristiani notoriamente non adoravano. - Scola ricorda che
pregavano per lui ma non lo adoravano - . L’Editto di Milano, con questa decisione dell’imperatore
Costantino, pose fine a questa fase delle persecuzioni. Egli affermò: «si è assolutamente liberi di
essere cristiani», e aggiunse «si è liberi di essere ciò che si desidera essere in tema di fede
religiosa». Di qui l’abbinamento tra la nascita della libertà religiosa per i cristiani come nascita della
libertà per tutti. L’Editto fu una petizione di principio, in un contesto anche culturale e linguistico,
ovviamente molto diverso dal nostro. Sono passati diciassette secoli però la sua sostanza resta, una
sostanza forte segnata anche dalla traumatica laicizzazione della vita pubblica dell’impero, della
grande entità politica di cui il sistema degli stati-nazione è erede.
L’altro punto forte di questo opuscolo a sfondo teologico, sottilmente pastorale, dell’Arcivescovo di
Milano, è contenuto in una frase che c’è a metà del libro e che dice che, nell’Europa occidentale,
nei paesi diciamo avanzati di democrazia liberale, il conflitto non è più tra sostenitori di diverse
fedi: ci sono conflitti abbastanza periferici che riguardano l’esercizio della libertà di culto islamico,
ci possono essere conflitti tra la tavola valdese e la Chiesa cattolica su alcuni aspetti, ma i veri
conflitti tra credenti avvengono in India e in Pakistan. I conflitti sono invece tra lo Stato, che vuole
secolarizzare integralmente la società, e i portatori di una fede rivelata. Tra questi, nel nostro paese,
c’è soprattutto la Chiesa cattolica. Il vero conflitto è, quindi, tra lo Stato e il mondo della fede, il
mondo del credere, e qui non si può far finta di niente. Bisogna andare alla radice del problema,
secondo me - che non sono né un fine giurista come D’Agostino, né certamente un teologo come il
Cardinale Scola, quindi parlo in modo un po’ semplificato e mi scuserete per questo -.
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Bisogna andare alla radice della questione. La fede è provocatoria, è adesione a una verità che non è
costruita con le procedure della ragione umana ma è una verità che si può dire con il metodo della
ragione umana, la ragione che argomenta dentro un’ottica di fede. La fede in una verità rivelata è un
appello a una certezza soprannaturale che sfida, si mette in dialettica con la normale e ordinaria
ragione umana. È un modo di educare la ragione e, come diceva Concetto Marchesi appena citato
dal direttore De Bortoli, di mettere la ragione dentro un orizzonte di mistero. Marchesi diceva che
chi crede ha il dono della Grazia, ma chi non crede deve usare la propria ragione in modo da capire
che non è vero che la credenza o la fede siano una superstizione. No, la fede riguarda un mistero
che la ragione di per sé non risolve nonostante i progressi della scienza, nonostante Darwin,
nonostante la fisica teorica, il bosone di Higgs e quanti altri progressi vogliate. Questa questione del
senso e dell’origine del tutto, e la questione teleologica del fine e dello scopo della vita, non sono
risolte dalla sola ragione se resta entro i confini di un mistero che essa stessa riconosce. Per andare
al punto: il mondo liberale è naturalmente in conflitto con la religione, lo è da sempre in tutte le sue
varianti, non solo con la rivoluzione francese che istituì le feste neopagane e inventò il modello
francese di laicità. La ragione è in conflitto con la fede, non c’è niente da fare. È insieme
complementare con la fede ma nella sua motivazione di fondo, cioè la libertà di coscienza che è
citata nel libro più volte e che è il punto da cui parte la Dignitatis Humanae in cui, con la cosciente
adesione di Paolo VI e una votazione ampiamente maggioritaria dell’assemblea dei padri conciliari,
diventa un cardine. Il Cardinale Scola dà l’interpretazione giusta della libertà di coscienza: essa non
è il diritto proclamato dalla Chiesa di credere a qualunque cosa, non è un tuffo della Chiesa nella
cultura del relativismo. Essa non rinuncia a predicare la sua verità di fede - cioè dell’esistenza,
attraverso l’Incarnazione, di una testimonianza diretta e umana di Redenzione del peccato e di
salvezza nella prospettiva della vita eterna -. Il Dio personale che ama gli uomini, e che chiede agli
uomini di avere fede, ovviamente non è disponibile in qualunque versione, questa è una
banalizzazione della Dignitatis Humanae. Essa dice che lo Stato non ha mai il potere coercitivo di
importi una certa visione religiosa, questa è una cosa che viene dal di dentro del cristianesimo che
certamente afferma: «io sì voglio predicare, convertire, attrarre dentro il grande gregge universale di
quella che considero la verità il maggior numero possibile di uomini e di donne. Io voglio fare
questo e voglio, attraverso i Sacramenti, praticare ed espletare questa realtà di conversione dentro il
rito, dentro la liturgia, dentro un linguaggio che è quello della salvezza. Tutto questo lo voglio fare
ma lo voglio fare nel presupposto che la gente aderisca liberamente a questa fede». Anche la Chiesa
conta sulla libertà dell’interlocutore verso il quale è rivolta la sua predicazione e la sua richiesta di
conversione. Ci deve essere la libertà, questo è un punto fondamentale, Atene e Gerusalemme sono
e resteranno sempre in conflitto, lo saranno fino alla fine dei tempi per usare un linguaggio
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escatologico. Come si risolve questo problema? Non si risolve in modo facilone dicendo che
ognuno è libero di fare ciò che gli pare, lo Stato è neutrale, nel senso che è distaccato, secondo la
formulazione di Sua Eminenza, dalle cose religiose, non se ne impiccia e limita qualunque pretesa
di affermare nello spazio pubblico, in modo invadente ed intrusivo, una verità parziale di tipo
religioso. Ognuno fa come gli pare. Questa è una visione facilona, schematica, che non funziona e
che nel suo fondo non è neanche liberale, perché nella sfera pubblica non dà spazio alle diverse
antropologie in gioco: ogni fede, infatti, ha anche una sua antropologia, una sua visione dell’uomo e
del suo destino nel mondo. Non è possibile che lo Stato, attraverso una neutralità solo procedurale,
metta le fedi a confronto tra loro in modo relativistico e le valuti tutte eguali l’una all’altra. Questo
non è assolutamente possibile perché produce conformismo, omologazione e in ultima analisi lo
spegnimento ultra secolarizzatore della sostanza e del vero significato delle religioni. Come ha detto
anche Habermas dialogando con Benedetto XVI, «una società occidentale senza una dimensione di
apertura al sacro, al religioso, si impoverisce». Così, come dice Böckenförde, che Angelo Scola
cita, «lo Stato presume di poter fondare la propria legittimità su delle premesse che non ha, perché
nessuno ti dice qual è la base e la fonte reale del diritto». C’è un’idea, quella dei laicisti, quella di
una prospettiva di rigore, di intransigentismo laicista, che dice che la religione è in un certo senso
estranea e nemica di una dimensione morale e profonda dell’uomo che si conquista con la
sovraragione. Ma è appunto questa prospettiva laicista che entra in profondo conflitto con ciò che la
religione, nella sua sostanza, esprime, che è invece la volontà di convivere con la ragione ma in una
prospettiva che sia realmente libera e di fede, dunque di libertà religiosa. Grazie.
EZIO MAURO: Intanto grazie per questa occasione di dibattito. Non è la prima volta che mi
confronto con il Cardinale, con un testo che lui ha scritto. Sono temi, quello della libertà religiosa e
della laicità, che lo appassionano, che mi interessano molto. Inoltre ero anche molto interessato a
sentire le opinioni dei colleghi, di persone che conosco e che stimo. Con Giuliano c’è su questi temi
un confronto a distanza che dura da molti anni e devo dire che la differenza di posizioni non ha per
me alcuna importanza, quello che conta è comunque interrogarsi su questi temi, cercare di andare
avanti nella conoscenza di qualche centimetro, se è possibile, perché sono temi che interpellano tutti
e nascono, come dice il Cardinale, dalla dignità della persona umana. C’è una coerenza tra il
discorso, sia pure riassunto, che non aveva forma di libro, in Sant’Ambrogio, nell’occasione del
1700° anniversario dell’Editto di Costantino e la teorizzazione che il Cardinale fa passando
attraverso la Dignitatis Humanae. Hanno già detto tutto i colleghi, come capita a chi parla per
ultimo, ma come ha scritto il Cardinale e come hanno ricordato il professore Ferruccio e Giuliano,
nell’Editto di Costantino non si afferma soltanto il diritto alla libertà religiosa; ma c’è anche
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un’anticipazione della modernità, perché per la prima volta si afferma testualmente la concessione
alla volontà e all’intelligenza di ciascuno, due elementi profondamente umani, della libertà di
cercare il divino, di cercare il trascendente, che viene riconosciuto. Immediatamente,
congiuntamente, ci si rende conto che, se si concede questa libertà religiosa ai cristiani, alla cui fede
Costantino ha affidato le sorti sue e dell’Impero, va concessa a tutti gli altri se si basa sulla volontà
e sull’intelletto della ricerca. Immediatamente deve essere concessa a tutti gli altri. Però è una
novità importante non soltanto per le conseguenze di ordine politico, per cui non c’è più
l’identificazione del sovrano, la derivazione dalle figure degli dei protettori quali Ercole e Giove,
come avveniva ancora con Diocleziano. Non c’è più questo aspetto, c’è la rinuncia dello Stato a
decidere cosa è lecito e cosa non è lecito per quanto riguarda la religione, ma c’è soprattutto il
riconoscimento che è dalla persona umana che nasce tutto questo. Non nasce nemmeno dal
riconoscimento, fa notare il Cardinale, della cosa religiosa in sé, ma nasce dal riconoscimento della
persona; non nasce nemmeno dal riconoscimento della necessità di fare spazio al Sacro che scende
dall’alto, va ad illuminare le menti, va a parlare alla comunità nel suo insieme. Non è questo il
punto anche se c’è una parte di instrumentum regni quando nell’Editto si dice che naturalmente
questo comporterà anche la benevolenza degli dei nei confronti dell’azione nostra e di coloro che
noi amministriamo. Ma è un da cui, è una conseguenza. La libertà non viene concessa a questo fine,
per una strumentalizzazione del divino ai fini dell’Impero. Viene riconosciuta perché si appoggia
all’uomo e qui Scola fa immediatamente il legame, che ricordava Giuliano, con la Dignitatis
Umanae, con la dichiarazione del Concilio che viene promulgata nel ’65 da Paolo VI dove si dice
che la libertà religiosa nasce dalla dignità dell’uomo, è un diritto. C’è il passaggio dalla tolleranza al
diritto, che è un rovesciamento fondamentale. E c’è il passaggio dal concetto della verità al concetto
del diritto che è un altro elemento fondamentale. Il Cardinale si interroga poi su quello che accade
oggi – Ferrara ha fatto questo passaggio – e lo fa muovendosi fra due dati. Uno è un dato oggettivo:
dal 2007 ad oggi 123 paesi sono stati ancora denunciati perché praticano la persecuzione religiosa
in forme diverse. E poi la proposizione di Böckenförde e cioè – come diceva Ferrara prima – che lo
stato liberale e secolarizzato vive di premesse metodologiche che da solo non è in grado, in qualche
modo, di garantire. Tra questi due passaggi il Cardinale si chiede qual è la situazione della libertà
religiosa d’oggi e centra un punto che ha che fare con l’antropologia dell’Italia. Fino a qualche anno
fa la legislazione, anche la legislazione laica – lui dice addirittura, in qualche caso, qualche
legislazione anticlericale – poggiava su un’eco di un sentimento cristiano diffuso nell’opinione
pubblica perché l’ethos sociale era composto di elementi propri di un’antropologia cristiana del
nostro paese. Quindi soprattutto nelle questioni – qui sono io che traduco il linguaggio più teologico
del Cardinale – prime e ultime, quelle della vita e della morte, attraverso il passaggio chiave della
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generazione che era concepita attraverso il matrimonio, naturalmente, c’era comunque un
appoggiarsi della legislazione a questa antropologia cristiana che informava la legislazione perché
informava proprio l’ethos sociale, il sentire, il modo di concepire se stessa, da parte della società.
Nel momento in cui questa presenza, questa eco - come la chiama il Cardinale in modo appropriato
- viene messa in discussione, il politico, ma potremmo aggiungere anche il civile, si basa su delle
visioni che non fanno parte di quella che il Cardinale chiama la “visione sostantiva”, cioè la visione
che poggia su un significato, su una ricerca di senso. Penso si possa tradurre così. Qui c’è la critica
alla laicità, a cui è stato un pochino ridotto, nella polemica, il discorso in Sant’Ambrogio, mentre
nel libro si rende più giustizia ad un ragionamento che è su una scala molto più ampia.
La laicità francese viene concepita non come neutralità ma come indifferenza programmatica nei
confronti della religione. Il Cardinale dice che il compito dello Stato è quello di coltivare le
ricchezze della società civile, perché il rapporto tra l’individuo e lo Stato è in realtà un rapporto non
a due ma a tre: c’è la società civile in mezzo, dovunque, comunque. Quindi il rapporto va mutuato
attraverso queste tre entità e lo Stato invece che preoccuparsi di governare dovrebbe valorizzare e
non deprimere le ricchezze che ci sono nella società civile. Qui nasce la critica propria del
Cardinale, di cui c’era già un’eco in altri libri, nel suo libro precedente, ma a Sant’Ambrogio è stata
formulata con un particolare peso ed attenzione. Una critica al neutralismo perché traduce di fatto,
dice il Cardinale, il concetto di laico nel concetto di non religioso e quindi fa sì che lo spazio
pubblico sia, nei fatti, al di là delle intenzioni programmatiche, al di là del concetto astratto di
laicità, aperto, nel concreto, a tutte le opzioni culturali e intellettuali meno che quella religiosa
perché quella religiosa è considerata in qualche modo partigiana. E quindi lo Stato, secondo il
Cardinale, assume lui stesso una visione del mondo di tipo sostantiva cioè – se interpreto la visione
del Cardinale – quasi ideologica in qualche modo, che presume di deprimere e non di valorizzare le
idee forti che ci sono, di ridurre a pensiero debole le altre opinioni che ci sono. Di contro il
Cardinale ritiene che queste opzioni forti, questi pensieri robusti che ci sono, dovrebbero essere
valorizzati proprio perché possono concorrere proprio a quel «bene pratico comune dell’essere
insieme» – così lo chiama – dentro lo spazio pubblico, che è l’unico modo della libertà per abitare
lo spazio pubblico, perché le idee forti si confrontano tra di loro, si sfidano in qualche modo tra
loro, si riconoscono tra loro. C’è una citazione, secondo me molto bella, di Giovanni Paolo II
quando dice che la dimensione socio-politica non può essere l’orizzonte assoluto della persona, ci
sono altre forme di soggettività sociale che sono quelle che Scola viene chiamando fuori in tutto il
suo libro. Poi, sostiene Scola, ed è la parte finale, valorizzare le proprie idee, esprimere le proprie
idee, non lede la libertà di nessuno: prima di tutto perché ti mette a confronto con un’identità solida
e poi perché mette in moto il processo di riconoscimento reciproco e anche del compromesso. E
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finisce dicendo che, se il compromesso, cioè l’accordo tra opzioni diverse, non è possibile, allora
scatta l’obiezione di coscienza. L’obiezione di coscienza ha due vantaggi per chi crede: ha il
vantaggio di permettere di non accedere a delle opzioni che la tua coscienza ti impedisce di
accettare, perché le ripugna; e il secondo è di svolgere un’opera di disvelamento sociale. La società
non è magari attenta a determinati problemi e con il gesto, in qualche modo estremo, di ribellione
della mia libertà di coscienza, glielo sottolineo, gli metto il dito sopra e quindi svolgo un’opera di
testimonianza che, a parere del Cardinale, è sottaciuta in questi ultimi anni. Mi permetterei, dopo
aver riassunto il filo che mi ha colpito nel discorso di Scola, anche in relazione ai suoi saggi
precedenti, di fare qualche osservazione. Una riguarda la cosiddetta antropologia cristiana degli
italiani. Io penso che il divenire, il mutarsi dell’ethos sociale, è parte della vita della società, molto
semplicemente. Noi possiamo, naturalmente, ed in qualche caso dobbiamo, e spesso lo facciamo
tutti, dare un giudizio di valore e di qualità su questo mutare, però dobbiamo prendere atto che
anche l’antropologia cambia, cambia la sensibilità complessiva a se stessi e al nostro modo di stare
insieme, si trasformano, e la legislazione ne tiene conto perché la politica, che dà forma poi allo
strumento legislativo, è informata dalla società quando funziona, quando è qualcosa di vivo. Questo
cozza un po’ contro la visione degli anni ruiniani della Cei – mi scuso se riassumo in modo
certamente non approfondito come è il linguaggio del Cardinale – la visione del cattolicesimo come
una specie di seconda natura degli italiani, perché questa visione comportava il fatto che leggi
contro la religione cattolica potevano essere contravvenute alla radice, contraddette alla radice in
quanto contro natura, cioè il cattolicesimo è una sorta di seconda natura degli italiani. Le leggi che
cozzano contro i principi del cattolicesimo possono essere contraddette e contravvenute perché
sono, molto semplicemente, contro natura. Ora, la questione di fondo, di cui già abbiamo discusso
una volta con il Cardinale, è il rapporto tra la Chiesa e la democrazia ed è una questione che mi
interessa moltissimo, una questione che non ha una risposta sola ed è un cammino che va avanti nel
tempo. Giuliano l’ha declinato per quanto riguarda ragione e fede ma si può declinare anche per
quanto riguarda la fede e la politica, il rapporto tra l’assoluto e il relativo, perché non c’è nessun
dubbio che in democrazia non ci siano delle verità con la “v” maiuscola. Le verità entrano in
Parlamento, e lo uso qui come luogo simbolico, non è che riduco la nostra convivenza al
Parlamento. Il Parlamento è una parte della nostra vita e spesso ci dimentichiamo addirittura che
esista, però è un modo per regolare il nostro vivere comune, sono le garanzie che ci diamo l’un
l’altro mentre preghiamo o decidiamo di non pregare, mentre portiamo a scuola i nostri figli, sono le
forme e le regole che diamo alla nostra vita e alla convivenza. Ora, il Parlamento non contempla
l’assoluto, in democrazia non c’è una riserva di verità estranea al libero gioco democratico; e questo
è un punto che va chiarito. Io sono perfettamente d’accordo sul fatto che il sacro sia un elemento
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“Non dimentichiamoci di Dio, libertà di fedi, di culture e politica”
della struttura della coscienza, e non soltanto della storia della coscienza dell’uomo, da quando
l’uomo si è alzato in piedi e ha contemplato la volta celeste, però va composto con chi questo
sentimento non ce l’ha e che ha uguali diritti come cittadino. Allora il punto è: mentre la Chiesa
accetta di andare in minoranza nei numeri e non se ne fa un problema - e durante il Giubileo ha
teorizzato che anche l’Italia deve ridiventare terra di missione- , la domanda è se accetta in qualche
modo di andare in minoranza nei valori. Qui c’è l’ultimo punto che è quello dell’obiezione di
coscienza: è un momento altissimo su cui dovremmo batterci fino in fondo perché venga rispettato e
garantito a tutti, ed è un momento che va risolto nell’individuo, nell’intimo dell’individuo, nella sua
libertà assoluta, perché deve mettere insieme: i suoi doveri deontologici, se ha una funzione che
chiama in causa una deontologia (pensiamo a un medico); i suoi doveri di cittadino, se deve
contravvenire a una legge perché la sua coscienza gli dice di fare così; i suoi doveri di aderente a
una fede, la fede cattolica in questo caso. È quindi un momento molto alto, ma faccio un esempio su
cui mi interrogo da tempo: quando il Cardinale Poletto, nel caso drammatico di Eluana Englaro,
dove si trattava di scegliere una clinica in Piemonte, ha invitato tutti i medici cattolici in Piemonte a
praticare l’obiezione di coscienza, mi è sembrato quasi un richiamo a una categoria sotto forma
sindacale. In quel momento, delle tre identità: quella di medico, quella di cittadino e quella di
cattolico, ve ne era una che revocava tutte le altre in qualche modo, per una sorta di comando
esterno. Allora la domanda, in questo caso così generalizzato, fuori dalla coscienza individuale e,
immagino, dal suo travaglio – siamo passati un po’ tutti in forme minori e meno tragiche da questo
–è se sia un’obiezione di coscienza o se si tratta di un’obbligazione di appartenenza. In questo caso
la domanda capitale, che riporta al rapporto tra fede e democrazia, sulla quale io non ho una
risposta, è la seguente: il cattolico è un cittadino di serie A, illuminato dalla fede la quale gli
consente quel rapporto con il trascendente che dà un significato ultimo e ulteriore all’attività umana,
alla ricerca di senso in ciò che noi facciamo quotidianamente, a differenza di chi non ha questo
dono della grazia? Quindi è un cittadino di serie A o è un cittadino di serie B perché la sua
cittadinanza può venire messa in moto, o revocata, da un comando esterno, da un’autorità esterna?
Mi pare che siano domande che questo libro fa nascere.
M. BERNARDINI: Insomma, ha gettato il sasso nello stagno evidentemente, però per arrivare
anche alle conclusioni del nostro incontro io aspetterei di coinvolgere, perché credo sia qui presente,
il Cardinale stesso. Invece, siccome abbiamo ancora qualche minuto, perché siete stati tutti bravi perfino Ezio Mauro è stato dentro il tetto massimo concesso- , provo a lanciarvi una provocazione a
cui chiedo però una reazione molto veloce. Parto da una citazione che è in un capitolo fra i finali, il
sesto, Per un cammino comune nella città plurale, che mi ha molto colpito. Ve la giro così come è
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perché a mio parere legge, in maniera inedita, la crisi che stiamo vivendo in questo momento. Il
Cardinale parla di un problema che è anche causa della crisi della relazione comunicativa in cui
versano le società occidentali: «La fine della modernità e delle sue grandi narrazioni ha comportato
fra le altre cose un’incapacità di elaborare un codice universale di intesa. In assenza di questo
codice è naturale che la convivenza di concezioni del mondo diverse e contrastanti rischi di
sembrare sempre più impraticabile. La difficoltà a comunicare è un sintomo che non possiamo
sottovalutare se vogliamo difendere lo spazio politico di una convivenza democratica». Io credo che
noi siamo al centro di un’analisi come questa, in questo momento, anche nel nostro Paese. Chiedo
una reazione rapida per quest’ultimo giro, prima di accogliere il Cardinale.
F. D’AGOSTINO: Credo che lei abbia colto uno dei punti centrali del libro del Cardinale e forse ci
dà l’occasione per riproporre o rifocalizzare la nostra attenzione sull’espressione che leggiamo nella
quarta di copertina: «Se la libertà religiosa non diviene libertà realizzata», perché questo è il cuore
del problema. Non dobbiamo confondere il nobile atteggiamento di tolleranza, il nobile
paternalismo con cui oggi non solo tutte le religioni ma tutte le mode, tutte le visioni ideologiche,
tutti i gusti di gruppo, più o meno di moda, vengono recepiti, con il problema reale della
realizzazione della libertà religiosa. Bisogna fare in modo che le diverse visioni del mondo, che
sono oramai consapevoli della fine delle grandi narrazioni - come dice il Cardinale e come lei ha
ripetuto - entrino in un confronto reale. Se c’è una cosa che a me sembra che in Italia manchi è la
presa in carico, l’attenzione da parte della cultura laicista estrema, delle buone ragioni della visione
cristiana del mondo. Io vedo per esempio, in quel poco che è la mia attività personale, che quanto
più cerco di prendere sul serio gli argomenti che vengono dalla cultura laicista, e soprattutto dalla
cultura laicista più estrema, tanto più le contro-obiezioni vengono sistematicamente messe da parte.
Il direttore Mauro ha fatto l’esempio del caso di Eluana. Io non ho mai trovato nel dibattito su
Eluana una seria riflessione sul problema degli stati vegetativi persistenti. Signori, non c’è stata una
Eluana numero due in Italia, a dimostrazione del fatto che quella vicenda era incredibilmente
particolare e incredibilmente deformata ideologicamente. La cultura, non dico cristiana, ma la
cultura medica di tradizione ippocratica, risalente a 400 anni prima di Cristo, – quando Ippocrate
diceva. «Non farò morire nessuno, neanche colui che mi chiede di aiutarlo a morire» – questa natura
medica di radice ippocratica non è stata dibattuta adeguatamente in quelle settimane durissime della
vicenda di Eluana. Questo significa che la libertà non è realizzata e in particolare quella che
giustamente il Cardinale chiama “libertà religiosa” intendendo con questa espressione – credo di
poterla interpretare così – tutte le grandi visioni del mondo che percepiscono che il senso ultimo e
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radicale della vita non viene dato da una logica funzionale, calcolante e scientificizzante ma viene
data da esperienza comunitarie e di valore.
M. BERNARDINI: Direttore De Bortoli, lei prima ha citato una cosa che mi ha colpito, ha citato la
qualità del dibattito attorno alla Costituzione. Ma questa qualità di dibattito oggi è presente?
F. DE BORTOLI: Io nel mio intervento dicevo che la qualità del dibattito è molto modesta e
purtroppo, in quella società plurale di cui parla sua Eminenza, è fondamentale perché noi dobbiamo
cercare di costruirla non solo nella tolleranza ma nel rispetto e nell’ascolto, e abbiamo parlato poco
dell’ascolto. Allora se c’è veramente questa società plurale, e dobbiamo darci da fare tutti per
costruirla, deve essere una società nella quale la cultura dell’ascolto deve essere valorizzata.
Purtroppo io credo che il tema della libertà religiosa spesse volte venga confinato, anche in molti
ambiti culturali, in un ambito esclusivamente personale, che non deve essere in qualche modo
confuso con il dibattito pubblico, e tollerato nella misura in cui questo ambito rimane personale.
Dobbiamo invece fare tutti lo sforzo - ma lo devono fare anche coloro che stanno sul fronte laico,
anche noi che stiamo sul fronte laico - di far sì che il tema delle domande di senso della nostra
esistenza sia un tema che abbia la piena cittadinanza e non debba poi portare a una classificazione, a
una ghetizzazione, non debba portare in qualche modo a un dibattito che si fa con tesi precostituite.
Allora il grande disagio morale che abbiamo tutti provato di fronte ai casi che sono stati prima
citati, non soltanto quello di Eluana, è anche il fatto che molto spesso non abbiamo delle risposte e
dobbiamo riconoscere di non avere queste risposte. Abbiamo molte domande, siamo privi di
risposte, dobbiamo avere quest’umiltà del conoscere, dell’interrogarci e dobbiamo in qualche modo
rifuggire da una contrapposizione sterile che spesse volte fa emergere solo le voci più estremiste.
Non possiamo permetterci, se vogliamo costruire una società plurale, di dare più spazio alle voci
estremistiche, dobbiamo in qualche modo non dibattere, avendo l’umiltà di dire: «su questo tema
non abbiamo delle risposte, su questo tema ci interroghiamo, ci interroghiamo sul senso, ci
interroghiamo sul Mistero». Allora io credo che le differenze siano molto minime e che sia
semplicemente il fatto che stiamo un po’ più vicini, un po’ più uniti e un po’ più solidali. Forse, se
avessimo tutti l’umiltà di fare questo sforzo, probabilmente anche quella dinamica della società
civile e politica, che abbiamo lasciato fortunatamente fuori da questo Auditorium per pochi minuti,
(ahi noi!), forse riceverebbe un beneficio influsso. Grazie.
M. BERNARDINI: Io non so se Giuliano Ferrara ama l’idea di una società plurale. Credo di sì.
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G. FERRARA: Il termine società plurale? Sì, naturalmente lo amo, certo, anche se amo di più la
definizione della società che ha dato la Tatcher: la società non esiste, definizione che non c’entra
niente con la cultura cattolica ma che fu uno shock, fu un appello alla libertà e alla responsabilità
degli individui in una fase in cui, diciamo, il sociale e la società venivano usati per coprire un
declino politico e civile. Questo però è tutto un altro discorso, molto più complicato. Io volevo
soltanto aggiungere una cosa molto molto breve. Noi qui siamo, si potrebbe dire, todos caballeros,
siamo uomini di mondo, siamo una platea che oggi festeggia l’uscita di un libro scritto, come ho
detto all’inizio, con grande civiltà e, come gli interventi di persone che rappresentano posizioni
molto diverse dimostrano, è un libro che può essere piattaforma, punto di incontro, di intersezione,
di domande. Insomma, non è un libro di risposte cocciute, partigiane, magari fervorose ma severe e
spigolose. No, è un libro sapiente in cui l’intelligenza delle cose è combinata con la prudenza, che è
sempre una buona cosa, soprattutto per un grande uomo di apostolato e di pastorale ecc. E quindi
abbiamo fatto un po’ di naturale slalom intorno ai problemi, io per primo, e i problemi sono un po’
più complicati. La storia della battaglia per la secolarizzazione integrale delle società occidentali,
dei popoli, dei loro costumi, in qualche modo delle loro individualità e dunque anche delle loro
anime, evocata dal Cardinale Arcivescovo nel suo libro, è una storia molto drammatica da un punto
di vista e da una prospettiva vuoi cattolica e vuoi laico-liberale, diciamo, ma non laicista. È una
storia drammatica perché riguarda il diritto di nascere, che è anche per i giuristi anglosassoni, the
clash of absolutes, lo scontro fra assoluti: un assoluto è la libertà riproduttiva e procreativa delle
donne e l’altro assoluto è il diritto alla vita dei frutti concepiti dall’amore. Allora questa questione
qui tra l’avo del problema - che scinde l’elemento unitivo dall’elemento di piacere e di energia
erotica, dall’elemento procreativo- e cioè la pillola, fino alle legislazioni sull’aborto, che sono
sacrosante se vogliono preservare le donne da assurde punizioni nei confronti di comportamenti
ancestrali, che sono sempre esistiti e che non devono vivere in una specie di mercato clandestino, è
drammatica. Ma sono drammatiche queste legislazioni se rendono sordo il mondo al tema
dell’aborto, insomma è una tragedia, non è che sia una questione procedurale di cui si può discutere
come in un club di gentiluomini. E il diritto di morire anche quello! Io ho visto la sensibilità della
platea quando è stata evocata la questione. È un fatto oggettivo, non voglio fare polemica adesso,
retrospettive tanto meno, ma è un fatto oggettivo. Il Cardinale Scola dice che spesso le legislazioni,
diciamo liberalizzanti in tutti questi campi, non nascono da vere esigenze della società civile.
Effettivamente, se io mi metto dal punto di vista della società civile, sento un’esigenza di senso
comune su questa questione del così detto diritto di morire, e cioè che non ci siano accanimenti
impropri e che, nella zona tra la vita e la morte, sia lasciato ai parenti, ai tutori naturali della persona
ammalata, ai medici, un margine di deontologia professionale in un caso, di carità in un altro, di
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decisione e anche di arbitrarietà. Questo non è possibile negarlo se no si arriva a forme assurde di
artificiosità e di accanimento. Questa è una cosa in fondo accettata dalla Chiesa cattolica, fin dai
tempo di Pio XII, tutto sta a normarla, a regolarizzarla. L’altra cosa che la società civile chiede è
che non ci sia l’abbandono terapeutico cioè che la gente venga curata in una prospettiva, finchè è
possibile, di guarigione o di cura palliativa o di alleviamento del dolore. Questo vuole la società
civile. E il suicidio assistito è un romanzo che elites secolarizzatrici che fondano i loro principi, il
loro credo, la loro cultura, spesso in un mondo protestante, (la Svizzera e l’Olanda), predicano: è
una religione secolare che vorrebbe indurci all’idea che, fatta salva la libertà, vorrebbero
organizzare la facoltà libera di sopprimere la propria vita, renderla legge civile. È una cosa diversa,
non mi sembra che sia un’esigenza francamente. Alcuni miei amici materialisti e marxisti quando ci
fu il caso del povero Lucio Magri mi dissero: «sai che sono sconvolto?», chiesi: «perché?» e mi
dissero: «parlavo al telefono con la tal persona – che era un amico del giro – e m’ha detto, è tornato
dalla Svizzera perché è andato a vedere se poteva sopprimersi». Queste persone che non vanno a
Messa la domenica, non sono credenti, erano antropologicamente e culturalmente colpite da questo
modo di considerare la cosa. La stessa cosa riguarda il matrimonio: non credo francamente che ci
sia un fondo intollerante, omofobo, nella pratica, nella cultura, nel modo di essere dei cristiani oggi
nel mondo, non c’è. Secondo me non c’è. La comprensione, l’accettazione, anche schietta, della
realtà di questa variante umana plurisecolare, che è sempre esistita, che si esplica in forme di amore
non convenzionalmente legate alla costruzione di famiglia, prole, educazione, non proiettate sul
futuro… Questa cosa c’è, ma farla diventare matrimonio, sacramentalizzarla, vuol dire colpire
gravemente uno dei contenuti sostantivi - direbbe il Cardinale Scola - della fede, e quindi vuol dire
aprire una ferita. Siccome ormai siamo al livello degli Stati Uniti d’America, e quindi la questione
riguarderà tutto il mondo moderno. Todos Caballeros, però c’è una guerra in corso, speriamo di
poterla normare e regolamentare in modo che non faccia troppi feriti e morti.
M. BERNARDINI: Passo la parola al direttore Mauro, ma lascio proprio due minuti, perché adesso
accogliamo il Cardinale.
E. MAURO: Voglio sentire anch’io il Cardinale quindi dirò pochissimo, ma vorrei aggiungere un
elemento che credo sia ben chiaro a tutti quelli che sono venuti qui, perché sono interessati a questi
temi: la laicità non è un’ideologia. L’ideologia della laicità è una cosa diversa, ma la laicità è uno
spazio pubblico costruito indipendentemente da Dio per gli uomini, ed è qualcosa di profondamente
umano, è l’autonomia dell’umano, è la convinzione che l’uomo è libero e che l’uomo, in quanto
cittadino, è senza peccato originale o comunque il cittadino, in quanto tale, non è riguardato dal
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peccato originale. Quindi l’uomo giudica se stesso man mano che opera, indipendentemente dalle
leggi trascendenti della città di Dio sulle quali la democrazia non ha giurisdizione; però è anche
logico che la democrazia non accetti una giurisdizione che viene da una città in qualche modo altra.
Naturalmente la ricerca della città di Dio è pienamente libera e quando poi viene predicata, viene
testimoniata, può toccare anche la mia coscienza, può toccare anche la coscienza di chi non crede,
purché poi non si pretenda che quelle leggi debbano valere anche per me.
M. BERNARDINI: Direi che queste reazioni e queste osservazioni dicono la vitalità di questo
volume e come ci sta provocando, però io vorrei davvero che sua Eminenza reagisse, seppur
brevemente, a quel che è stato detto.
Benvenuto!
ANGELO SCOLA: Io vi deluderò, perché non posso raccogliere un dibattito così ricco e così
variegato, tanto più che mi hanno detto che tecnicamente questo teatro dovrebbe essere sgombrato
per le otto, quindi questo gioca a mio vantaggio.
M. BERNARDINI: Però non è verissimo.
A.SCOLA: Non è verissimo? Io voglio solo dire grazie a tutti, in particolare agli oratori che, come
sappiamo bene, hanno impegni gravosi sulle spalle ed hanno accettato di leggere, come ho
constatato, e di rubare tempo, anche venendo da Roma, per presentare questo volumetto. Devo dire
grazie all’editore, alla Diocesi di Milano, all’Ufficio comunicazioni sociali, al Centro San Fedele, al
Centro Culturale di Milano che hanno organizzato questo incontro per me stimolante. Devo dire
grazie a tutti voi, perché siete venuti così numerosi, e soprattutto ai tantissimi che sono rimasti
fuori, non sono riusciti ad entrare.
Questa è una cosa che, come diceva il professore De Agostino, va nella direzione della libertà
realizzata: che duemila persone si muovano per presentare un libretto, vuol dir qualcosa circa la
ricchezza della nostra società civile, vuol dire qualcosa a cui dobbiamo deciderci di dare spazio,
perché c’è una bella differenza di qualità tra il muoversi, l’uscir di casa dopo il lavoro, convenire
fisicamente insieme in un posto e guardare il dibattito alla televisione: ci passa ancora una bella
differenza, grazie a Dio. È su questa differenza che dobbiamo lavorare di più, anche per il bene del
nostro paese.
Io ho preso dodici pagine di appunti ascoltandovi, perché sono uso fare così, e poi di solito metto
una stellina vicino ai passaggi su cui voglio ritornare. Quindi mi impegnerò a raccogliere tutti i tagli
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di lettura di questo libretto e anche tutti i punti di domanda che sono stati sollevati, di importanza
capitale per la vita della società e soprattutto delle società nord-occidentale. Io qui faccio una
piccola confidenza che penso non vada contro nulla di ciò cui sono tenuto: da dicembre, dopo
Natale, ho cominciato ad avere una percezione dolorosa della situazione dell’Europa e anche delle
Chiese europee, come una percezione di una grande stanchezza, di una incapacità a reggere il
compito che tocca all’Europa. Io non sono di quelli che pensano che la grande giovinezza delle
chiese latino-americane o delle chiese africane basti; è necessaria ma non basta. C’è una
complessità della realtà, come un po’ anche questo tema dimostra, come abbiamo visto questa sera,
che l’Europa si porta sulle spalle da così tanti secoli che sembra esserne estenuata. Io ho sentito
acutamente questo disagio dopo Natale. Poi sono arrivati questi fatti che per me sono davvero
provvidenziali, guidati dallo Spirito, della scelta della rinuncia di Benedetto XVI e del “gioco”
(permettetemi la parola tra virgolette) dello Spirito che ha come aggirato la situazione con
l’elezione di Papa Benedetto, l’ha proprio aggirata, non l’ha presa frontalmente, ma ha immesso
questo grande fattore di speranza e di novità. La straordinaria e intelligentissima umiltà di Papa
Benedetto e il gioco dello Spirito che mette ora sulla scena la figura di Papa Francesco come
un’attuazione di ciò che nella Spe salvi Benedetto aveva chiamato “la necessità di una speranza
affidabile” a cui ci si possa consegnare. Io credo che questo sia il nostro problema, delle società
europee, delle chiese europee, delle società italiane, delle chiese italiane, è il problema del nostro
popolo, della nostra società civile.
Questo libretto aveva l’intenzione di mostrare che la proposta cristiana, che pretende l’assolutezza
che solo può essere concessa al Figlio di Dio incarnato, a Uno che è vero Dio e vero uomo e che
non intende cedere di un millimetro rispetto a questo dato di fatto (la verità ci cerca, il grande tema
agostiniano, ed è questo che ci rende liberi perché ci cerca lei e noi riusciamo a tentare di cercarla
proprio perché già prima lei ci cerca; questo è ciò che rende immortale Agostino per cui anche oggi
le sue Confessioni sono, dopo la Bibbia, tra i libri più diffusi nel mondo e continuamente rieditato),
il mio intento era mostrare che questa assolutezza, senza rinunciare di un’unghia alla propria
identità è assolutamente compatibile ed è veramente feconda anche dentro le società plurali
europee. Prenderla sul serio, da parte dei cristiani, assumendola nella propria vita e pagando di
persona per il dono straordinario dell’incontro personale con Cristo che ci accompagna ogni dal
risveglio in avanti qualunque siano le circostanze, favorevoli o sfavorevoli, e da parte di tutti gli
abitanti della società plurale è risorsa di straordinaria fecondità per tutti ed è realmente possibilità di
mettere in valore quel bene sociale dell’essere insieme, attraverso quello che ho chiamato principio
di comunicazione, e scegliendolo come bene politico. Ci sono cose bellissime dette da tutti gli
interlocutori ma voglio riprendere, non potendolo fare con tutte, il tema dell’ascolto ripreso alla fine
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dal direttore de Bortoli. È un tema su cui io insisto molto, però ad una condizione: che sia un
ascolto (prendendo in prestito la parola da un certo autore) di fecondazione. Non a caso tanti Padri
della Chiesa dicevano che prima del peccato originale i figli nascevano dall’orecchio. Non è così
banale la questione, ha un suo valore potente. Il punto è che il confronto tra soggetti presenti nella
società plurale (tutti, poco o tanto, hanno la questione del senso, cioè del significato e della
direzione) ha bisogno di questo ascolto di fecondazione, perchè nel tema della libertà religiosa
rientrano, appunto, tutte le visioni sostantive, e se c’è una critica alla laicità di tipo francese, non
solo a quella storicamente situata per la quale questa critica è abbastanza facile, ma anche al clima
culturale che si diffonde, è che in realtà assume inevitabilmente una visione sostantiva, perché è
impossibile non assumerla (questo è un tema aristotelico). È una pretesa irraggiungibile quella di
costruire uno spazio di neutralità assoluta; sarebbe come dire alla persona cui vuoi bene di non
vivere più, perché uno per vivere anche solo per cinque minuti ha bisogno di senso. Questo è
evidente, sia che lo dica sia che non lo dica: ha bisogno di senso.
Io credo che lo sforzo che ho fatto, proseguendo una riflessione che avevo già cominciato negli anni
passati in due momenti precedenti a questo, come il direttore Mauro ha ricordato, è proprio quello
di mostrare che il cristiano può essere integralmente se stesso, un adoratore di Dio nella persona
amabilissima di Gesù, e nella vita della Chiesa, per quanto gli uomini di Chiesa, il personale della
Chiesa come diceva Maritain, possa essere vittima di tanti errori e di tanti peccati, può essere
realmente il luogo dell’incontro, può essere il terzo che sta tra i due, può essere il testimone e la
testimonianza. Concludo con questa bella citazione di Benedetto XVI il mio libro, perché sulla
parola “testimonianza” circolano tanti equivoci. Lui dice che “la testimonianza non è solo cosa del
cuore e della bocca, ma anche dell’intelligenza, deve essere pensata, e così pensata e
intelligentemente concepita e proposta tocca l’altro”. Quindi io ho tentato di dire, anche aprendo i
tanti problemi, le tante questioni aperte che questo tema della libertà di coscienza, di cui la religione
è la punta estrema, lascia in campo, perché lascia in campo tante tematiche, io ho cercato di
enuclearle, che senza affrontare questo non si può risolvere il problema della democrazia. Il mio
problema è: la società civile deve essere il luogo dell’ascolto di fecondazione, in cui tutto il dialogo
tra fede e ragione - non userei la parola conflitto, è un dialogo che giunge fino alla dialettica, mi
rifiuto di abbracciare la tesi per cui la ragione è atea, questo non è vero, e il tema del mistero
evocato prima ci mostra l’inconsistenza di questa affermazione - è decisivo per l’edificazione di una
democrazia sostanziale, cioè una democrazia dalle libertà realizzate. E già il confronto, in vista del
riconoscimento reciproco dentro un ascolto autentico, è l’inizio di una libertà realizzata. La
democrazia ha bisogno di una società civile vivissima. Non esiste in Europa una società civile vitale
come quella italiana ed è per questo che è un po’ doloroso che le istituzioni governative non
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riescano a interpretarla in termini adeguati e siano un po’ incartate. Speriamo che questo si possa
presto superare perché l’Italia - adesso non voglio usare una parola sbagliata - ha una società civile
che può essere interpretata operativamente sul piano della legislazione, del governo, dell’equilibrio
del rapporto politica-finanze-economia in termini molto efficaci, più efficaci di quelli attuali. Una
società plurale in cui ci sia libertà di narrazione. Io sono convinto che una società civile che non dia
al matrimonio il suo vero nome - a una cosa corrisponde un nome, non c’è un nome per più cose, in
ultima analisi -. Io sono convinto che una società civile che non si fondi sul matrimonio tra l’uomo
e la donna, aperto alla vita, teso alla famiglia, è una società meno consistente, meno solida. Devo
avere la possibilità di dire questo, se non dico questo tolgo qualcosa alla società, tolgo qualcosa se
non dico, e qui ringrazio veramente Ferrara - mi sono sentito in colpa - per quello che sta dicendo
sull’aborto, veramente io mi sono sentito in colpa. Non abbiamo detto con chiarezza questa cosa.
Quindi, dirlo, narrare e lasciarsi narrare con tutta la libertà di critica, con tutti i giudizi dati
sull’azione delle nostre chiese, di noi vescovi e delle nostre chiese, quindi con molta franchezza,
tutto questo può essere solo apprezzato dai cristiani. Io credo quindi che questo sia un cammino su
cui noi cristiani dobbiamo ancora avanzare. Parlo si un onere di una traduzione dentro una società
plurale del nostro assoluto, che non vuol dire una relativizzazione: ad esempio, noi eravamo usi dire
che la vita è sacra, ma questo discorso del sacro non è più facilmente comprensibile; bene, diciamo
una cosa da evidenza palmare e da buon senso comune. l’autogenerazione non sarà mai possibile.
Questa è una traduzione perfetta del concetto che la vita è sacra. Supponiamo che tra duecento anni
uno si possa clonare direttamente: quello che ne viene, il clone che ne viene è sempre altro, è
sempre generato da un altro. Quindi, questo onere della traduzione noi cattolici, noi cristiani
l’abbiamo, come ogni fede religiosa. Giustamente dice Habermas “non tocca solo ai cattolici, ma
tocca a tutti cercare questa strada”. In questo senso accolgo volentieri le domande sui principi non
negoziabili, il discorso sull’obbiezione di coscienza, che non è appunto, secondo la mia idea, un
residuato, non è un residuo. Questo carattere di estremo rimedio individuale che gli abbiamo
lasciato limita troppo, bisogna pensarlo nella sua fecondità, nella sua fertilità sociale. Qui c’è un
altro ampio lavoro da fare. E così si potrebbe continuare a lungo. Io credo che ci sia una grande
tradizione del nostro paese. Dirò così: quelli che predicano che le chiese si svuotano normalmente
sono quelli che non vanno in chiesa, perché io che ci vado regolarmente. Quando la domenica vado
in parrocchia, non constato questa cosa. Certo non è la frequenza di 30/35 anni fa, però bisogna
anche interrogarsi sulla qualità della frequenza, non sulla quantità. Ciò che mi accora è una certa
assenza delle generazioni intermedie, perché quando celebro la domenica vedo quasi sempre capelli
bianchi o capelli tinti e questa non è una bella cosa. Qui abbiamo un problema serio da affrontare.
Sono andato ben al di là del limite che mi era stato donato. Ringrazio di nuovo tutti. Mi pare però
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che se uno ha la pazienza di leggere il libretto, anche accettando uno stile che non è da best seller,
mi spiego, può trovare tante vie di risposta alle domande sorte questa sera. Grazie.
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160413 Scola - Centro Culturale di Milano