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Prologo.
Come non partire da qui
da quel che di recente è successo
e da quanto ancora deve succedere
dall’urlo soffocato dall’orrore
dal pianto che ora non smette?
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Il ricordo.
Ricordo. Ogni momento ricordo
quel che son stato pur sapendo
che di quello molto è sfuggito
acqua raccolta con mano
e portata alla bocca, sete
smorzata dal poco, dalla coscienza
che di più non è dato, acqua raccolta
di nuovo, nervosismo,
impazienza, fretta che sia
ciò che si vuole. Tanto da fare.
Subito. Solo. Correre a valle
prima che tutto sparisca
nel buio che dalla collina
s’avanza, man mano che il sole
solo luce diventa e poi più,
niente, più niente, solo
notte fra i campi.
Ricordo e ciò che ricordo sembra
esser ciò che io sono
io tocco, io consolo, io stringo
tua moglie che piange
la squadra sparita giù dal sentiero
una voce che chiama il ruscello
correre a valle prima che tutto sparisca
anch’esso
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e la mancanza di luce trasformi
la scala in confusione di pietre.
Corro. Volo. Giù dalle scale.
Dietro la svolta. Dietro al cespuglio
i compagni seduti in attesa
ritrovo, saluto, rido, tocco, sono.
Questo è importante? questo sono io?
Mi definisce, scolpisce, tradisce,
lascia passare la luce, non filtra,
non nasconde, ma scopre me a me stesso,
specchio che specchia
immagine persa, profilo
che il sole salendo
pian piano rivela?
Non credo. Solo un ricordo.
Niente. Niente.
Solo ricordo. Soltanto un ricordo.
Come altri. Come altri ricordi. Tanti. Solo non
tutti. Non tutti. Lo so.
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Non tutti presenti, all’appello,
piazzale, piazzale d’inverno,
alza bandiera, inutilità
evidente, rito del ricordo,
risate d’assenza la sera.
Solo non tutti. Non tutti.
Ricordo
correre giù dalla collina,
giù, ancora giù,
dalla collina scoscesa,
strada che scoda,
la chiesa e la curva del conte
e, infine, giù, in fondo, alberi,
alberi pieni, capelli ridenti,
ragazze di fuori,
ombre d’estate,
corso Genova,
casa.
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Anita.
E di là sono qua, in un battibaleno,
senza muovermi, solo nel muover la testa,
son qua a stringer la mano
e cullarti cercando di ridare
al tuo fiato ritmo costante
onda che piano si calma
al cessare del vento, scollina,
scavalla, vede la valle, orizzonte,
piano, si calma, contro la spalla,
contro di me, contro la mia spalla,
tra le mie braccia,
coperta calda dopo il disastro,
latte la nonna la sera
preghiera notturna silente
nessuna scelta davvero
solo calmarci
nella centrifuga inavvertita
della rotazione terrestre
calmarci
giro di balle, urlo, bestemmia,
calmarci
alla fine lascia lo straccio
bagnato per terra.
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Ti calmi e mi guardi spaurita.
Alberi cadono tutto d’intorno
e il loro rumore assordante
copre i nostri passi leggeri.
Usciamo.
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Il presente.
Passeggiare sulla spiaggia d’inverno
godendo d’un sole che i foresti
non sanno, prima che la pioggia d’aprile
raffreddi la sabbia ed imponga di nuovo
maglie dismesse.
Passeggiare e non pensare
quando il pranzo finisce
e il ritmo leggero dei passi
ritrova la forza per posare la tela
e generare giardini
che ancora non so.
Dimenticare e ricordare
è un tutt’uno di rossi e di bruni
salire e scendere,
sfregio del tempo.
Il presente, il nostro presente è la somiglianza
con Dio, ciò che di lui più intimamente godiamo,
ciò che a lui ed in lui ci rende figli, fratelli,
sodali, unica Sua qualità che possiamo imparare.
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Leivi.
Il presente? Qui? Ora?
Questo sono io? Adesso?
Swann geloso che torna, Pierre che discute,
Anna che piange, Zeno, Zeno che entra in casa
Malfenti e senza sapere (o sapendo) dà ragione
a Leone che serioso ci insegna cos’è la felicità
domestica?
Questo sono io? Adesso?
Io che appaio di sopra alle scale ed invito te,
Diego, a salire?
Di sopra Leivi c’appare terra e terra, colline e
colline, bianche case nascoste, strada di sopra,
strada di sotto, nascosta, nascoste, lassù, negli
ulivi che ora scendono a valle, grigio nel grigio,
foglie alle foglie, dio vero da dio vero, argento
schiaffeggiato dal vento.
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Diego.
Diego, Diego, Diego,
non verrò al tuo funerale,
non verrò a vederti morto
non verrò a piangere un corpo
Non verrò.
Rimarrò a casa quel giorno, quando sarà.
Rimarrò a casa a cercarti e trovarti ovunque
nella memoria e sopra, sotto, davanti, dietro,
davanti ad ogni cosa, ad ogni cosa, studi,
risate, donne, cazzate, calcio, figli, amici,
parenti, libri, dischi, film, feste, viaggi,
macchine, case, mobili, telefoni, lavoro, soldi,
funerali, matrimoni, fidanzamenti, perché,
perché quando tu sei nato, io sono nato, tu con
me ed io con te, prima che tu fossi, io non ero,
insieme siamo nati e cresciuti, diventati dei fra
gli dei, uomini fra gli uomini, amici fra amici.
Non verrò. Non verrò.
Che senso avrebbe accompagnarti dove non
posso venire?
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.
Che senso avrebbe piangere insieme ad altri
quando posso farlo da solo?
Che senso avrebbe riempire di urla un silenzio
destinato a durare nel tempo, prima, un attimo
prima che tu te ne andassi e dopo, durante,
sempre?
Non ha senso, non lo avrebbe. Non verrò.
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Pregare.
Morti per ora non siamo e’l dirlo è paradosso
cristiano, noi peccatori,
noi lontani da Dio
noi ch’ogni notte invochiamo
quella parola che se detta (quando? come?)
(un urlo? uno schianto?) poi salva
salverebbe
sono certo
ed ogni notte chiediamo cosa costi
una parola, una sola parola,
un soffio, un pensiero che sciolga
la sabbia del cancro e sleghi la corda
che inciampa, che tiene.
Cosa costa una parola? Cosa?
Nulla.
a noi.
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Le parole di Dio.
Ma le parole
di Dio sono pesanti
se dette sono dette,
una volta, per sempre,
sono sempre presenti
eco infinito
suono e significato perenne,
che in noi trova l’ostacolo
per continuare il rimbalzo.
Noi siamo ciò che rifrange l’onda di Dio,
siamo la spiaggia su cui scivola lento
ritraendo e sporgendo il capo
come adulto che gioca col bimbo
che sempre sorride al Suo breve mostrarsi.
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Il sussurro di Dio.
Oppure lui tutto sussurra
ogni giorno
ogni notte
e nella litania che ripete
in ogni momento
sta il nostro respiro
cosicché la morte
non è che un colpo di tosse
un breve improvviso
sospiro che interrompe
l’anello dei nomi?
Immagino il sussurro di Dio, quello in cui tutti
noi siamo, sentirne il continuo ripetersi, fino alla
piccola pausa, inavvertita spesso, che è la
morte degli altri, che è il nostro silenzio.
Foto di vecchie sedute in cucina, indiane, mia
bisnonna, l’indiana, con i capelli legati,
snocciolando piselli o svolgendo la lana
muovon le labbra, fanno un rumore, lontano,
come motore di frigo.
Eppure Lui tutto sussurra ascoltare.
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Il futuro.
Del futuro non parlo.
Non esiste un futuro.
E quando il cane ti morde
l’avverti, lo sai, lo tocchi,
quanto questo sia vero,
quanto il futuro sia un gioco
inventato per farci giocare
per non farci pensare
a ciò che accade davvero
a questo presente
in cui solo viviamo
a quanto il male s’avanzi
e il buio sia sopra di noi.
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Stasera.
Esiste solo il presente
e la certezza di ciò che accadrà
non rende il presente meno
fascinoso e stanco.
Prima o dopo? Prima o dopo?
Il presente siamo noi
che stasera parliamo
siamo noi che ancora insieme
si parla, ricordando, sapendo
in ogni momento
quel che accadrà.
Silenzio.
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La notte.
D’improvviso reclini la testa, stanco, e la bocca
con gli occhi si chiude.
E’ notte, è tardi.
Abbiamo resistito fin qui al sonno. Ora ci vince.
Vederti che dormi, vedere il tuo sonno, le
occhiaie, il colore sbagliato di terra seccata, le
gambe magre, vederti fermo, immobile, stanco,
rende d’un tratto il futuro presente, mi
abbraccia, mi tocca, mi palpa, m’alita in faccia,
caldo, schifoso, da vecchio ubriaco, violento,
stupido, rozzo e il dubbio diventa certezza e il
terrore ritorna.
Mi alzo. Ti guardo. Ti svegli. Sorridi. Stanco.
Lento. Con fatica. Anche il sorriso. Stentato. Gli
occhi a metà.
Ti saluto e me ne vado. Casa. Mia. Nell’uscire
dico “a domani” e sono certo di quello che dico.
Domani.
A casa, poi, non accendo la luce.
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Diego