ISTITUTO
NAZIONALE DI
SOCIOLOGIA
RURALE
REGIONE
LAZIO
Assessorato
all’Agricoltura
Presidenza
ANTOLOGIA DELL’AGRO ROMANO
VOLUME III
DOCUMENTI 1923 – 1963
A cura di
Antonio Parisella e Armando Sinodi
Prefazione di
Daniela Valentini
Quaderni di Informazione socio-economica
ISTITUTO
NAZIONALE DI
SOCIOLOGIA
RURALE
REGIONE
LAZIO
Assessorato
all’Agricoltura
Presidenza
ANTOLOGIA DELL’AGRO ROMANO
VOLUME III
DOCUMENTI 1923 – 1963
A cura di
Antonio Parisella
e Armando Finodi
Prefazione di
Daniela Valentini
Quaderni di Informazione socio-economica
n. 20
2
REGIONE LAZIO
Assessorato all’Agricoltura
Via Rosa Raimondi Garibaldi, 7
00145 Roma
ISTITUTO NAZIONALE DI SOCIOLOGIA RURALE
Via della Stelletta, 20/23
00186 Roma
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“QUADERNI DI INFORMAZIONE SOCIO-ECONOMICA”
Coordinatore editoriale
ANTOLOGIA DELL’AGRO ROMANO – VOLUME III –
DOCUMENTI 1923 – 1963
I curatori ringraziano la dott.ssa Simona Savioli
per la collaborazione resa alla trascrizione dei testi.
3
SOMMARIO
Prefazione di Daniela Valentini
Opera Nazionale per i Combattenti: Isola Sacra nel 1920:
pascoli in abbandono e presenza di una cooperativa di contadini
Maccarese Società Anonima di Bonifiche: Maccarese alla metà degli anni
Venti. Natura dei terreni, clima e conduzione agraria prima della bonifica
Pag.
Pag.
Pag.
Maccarese Società Anonima di Bonifiche:
La necessità di arginare il fiume Arrone
Pag.
L’inaugurazione della ferrovia Roma-Ostia (agosto 1924)
Pag.
Luigi Albertini: La bonifica di Torre in Pietra
Pag.
Ruralismo e bonifica integrale
Pag.
Cerimonie fasciste nell’Agro romano
Pag.
La Città Giardino Aniene
Pag.
Società Anonima Laziale Industrie Agricole: La Tenuta di Campoleone
Pag.
Il “Contratto tipo di conduzione a compartecipazione collettiva per le aziende
cerealicole e zootecniche” nella Tenuta di Maccarese – S. Giorgio
Pag.
Circolare sull’uso obbligatorio di insetticidi contro le zanzare anofeli
Pag.
Avviso imposto alle ditte lavoratrici dalla Società «Maccarese»
Pag.
Ministero dell’Economia Nazionale:
L’Agro Romano nel primo quinquennio fascista
Pag.
Vincenzo Casorri: Le vacche da latte, le “casse rurali” dell’Agro romano
Pag.
4
Canti popolari della Campagna romana
Pag.
Alessandro D’Alessandri: Vocaboli, usi agricoli e consuetudini
della Campagna romana
Pag.
Gioacchino Escalar: Le scuole dell’Agro Romano per la lotta antimalarica
Pag.
Consorzio Laziale Produttori Latte S. A.:
Il latte nell’Agro romano e la Centrale del Latte di Roma
Pag.
Scipione Tadolini: Borgate-orto per operai nella Campagna romana
Pag.
Eligio Maoli: La bonifica graduale
della tenuta «La Cesarina» sulla via Nomentana
Pag.
La tenuta Olgiata sulla via Cassia
Pag.
Enrico Fileni: L’Agro romano nel quadro della più grande Roma:
un piano regolatore regionale
Pag.
Vittorio Ronchi: L’Azienda Maccarese al profilarsi della guerra
Pag.
Alberto Caracciolo: Le agitazioni per le terre dei contadini di Roma
Pag.
Bonifica di Torre in Pietra: Il rilancio della produzione dopo la guerra
Pag.
Riccardo Filiberto Medici: Un confronto tra il catasto di Pio VII (1803)
e il catasto del 1947
Pag.
La riforma fondiaria dell’Ente Maremma: il “Capitolato contenente le
condizioni di assegnazione e vendita dei terreni da parte dell’Ente di
colonizzazione della Maremma tosco-laziale e del territorio del Fucino”
(anni Cinquanta)
Pag.
Antonio Cederna: La città eternit
Pag.
Carlo Della Valle: Maccarese nei primi anni Cinquanta: le coltivazioni,
l’allevamento, gli aspetti commerciali della produzione, il popolamento
Pag.
5
Opera Nazionale per i Combattenti: Isola Sacra e San Cesareo
dagli anni Venti agli anni Cinquanta
Pag.
Maria Rosa Prete – Mario Fondi – Riccardo Toman – Gino Pratelli:
Persistenze e mutamenti nell’architettura rurale
Pag.
Guido Piovene: In viaggio nella Campagna romana negli anni
Cinquanta: il piccolo reame agricolo di Torre in Pietra
Pag.
Da Roma a Ladispoli in una guida del Touring Club Italiano
Pag.
Renato Brocco: Addio, campagna romana...
Pag.
6
Prefazione
Il 1922 – data alla quale terminano i documenti contenuti nei primi due volumi di questa Antologia
dell’Agro romano – non rappresenta soltanto un anno di cesura tra l’Italia a regime parlamentare e
quella della successiva dittatura fascista. Rappresenta anche l’anno in cui nella pubblicistica le note
di colore vengono sopraffatte da regolamenti disciplinari e bilanci economici.
Invano si cercherebbe, in questa nuova serie di documenti, una seppur involontaria legittimazione
dei tombaroli come quella espressa da Chateaubriand nel primo volume. O un folclore come quello
della caccia alla volpe raccontata da Giuseppe De Cupis a suggello del secondo. A caratterizzare
questo terzo volume sono piuttosto il “contratto tipo di conduzione a compartecipazione collettiva
per le aziende cerealicole e zootecniche” nella tenuta di Maccarese - San Giorgio o il “Capitolato
contenente le condizioni di assegnazione e vendita dei terreni da parte dell’ente di colonizzazione
della Maremma tosco-laziale”, che inaugura la riforma fondiaria del 1950.
Rispetto all’Ottocento e persino rispetto ai primi anni del Novecento lo scenario è cambiato.
Nonostante tutte le lungaggini legislative e politiche, il bonificamento dell’Agro è ormai compiuto.
La malaria fa ancora più paura che danno, il latifondo comincia a sgretolarsi, nascono le borgateorto per operai, si parla di un piano regolatore regionale, i contadini si agitano. In questo contesto
così profondamente mutato, il folclore è rappresentato dalla mobilitazione degli studenti per
completare la lotta antimalarica: i bambini vengono invitati a cacciare le anofeli come se fossero i
daiachi di un romanzo di Salgari. Talvolta questi residui della battaglia antimalarica si tingono di
fosco: “I dipendenti che risultassero, a giudizio insindacabile del medico, permanentemente
intolleranti all’uso del chimino, una volta ammalati di malaria, saranno licenziati”, proclama il
Regolamento Sanitario della Società “Maccarese”. E le indicazioni sull’uso del flit, nefasto alle
zanzare, sostituiscono le regole di etichetta dei nobili cavalieri scorrazzanti per l’agro.
Nasce la Centrale del latte di Roma e i corifei dell’epoca proclamano che “la vacca è dunque
un’Istituzione, è uno dei più importanti fattori per il trionfo di quella politica demografica che sta
tanto a cuore a Sua Eccellenza il Capo del Governo Nazionale”.
L’urbanistica tenta alcune trasformazioni radicali: a qualche chilometro da Villa Torlonia nasce,
ben distinta dalla capitale, la “città giardino”, destinata a diventare l’attuale centralissimo quartiere
di Monte Sacro: e già negli anni Cinquanta, dati gli scempi edilizi compiuti, la città eterna riceverà
il bollo di “città eternit”, mentre la riforma fondiaria promossa dall’Ente Maremma e dal suo primo
presidente, Giuseppe Medici, indurrà a riflettere su persistenza e mutamenti nell’architettura rurale.
7
Sotto il profilo produttivo emergono due grandi realtà: la Società “Maccarese”, grande esempio di
capitalismo di stato, e la società di Torre in Pietra, simbolo del capitalismo privato, un esempio che
non poteva sfuggire a Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia.
Torre in Pietra ebbe a protagonista Luigi Albertini, il senatore del Regno che il fascismo estromise
dalla direzione de Il corriere della sera. Singolare destino della storia è che proprio un antifascista
come Albertini sia riuscito a realizzare nel senso più lato quella bonifica integrale che veniva
proclamata dagli adulatori di Mussolini.
Daniela Valentini
Assessore all’Agricoltura della Regione Lazio
8
OPERA NAZIONALE PER I COMBATTENTI
Isola Sacra nel 1920: pascoli in abbandono e presenza di una cooperativa di
contadini
ESTRATTO DA
Opera Nazionale per i Combattenti, Isola Sacra, Roma, Stab. Tipogr. Castaldi,
1928 (pp. 14-15). Il titolo del brano riportato è redazionale.
9
[...] La massima parte della tenuta era incolta e concessa in affitto per pascolo del bestiame
bovino brado.
È superfluo descrivere lo stato di abbandono di tali pascoli, ove no era mai stato eseguito
alcun lavoro di pulizia e di lotta contro la rigogliosa vegetazione delle erbe infestanti. Alcuni
appezzamenti davano l’impressione di una coltura intensiva di asfodeli e di cardi selvatici.
Tutte le bassure poi, costituivano una selva di giunchi, di rovi, di ginestre.
Solo negli ultimi anni, in seguito alle disposizioni legislative emanate in materia, vennero
coltivati a cereali circa un centinaio di ettari di terreno da parte del fittuario.
Le riserve del Casone dei Ponti, per una superficie di oltre 100 ettari, erano state invase, e
dopo, arate e seminate a cereali, da una Cooperativa di contadini.
Faceva eccezione la piccola riserva del Torraccio, della superficie di ettari 5 circa, concessa
e coltivata a mezzadria da un contadino. Una vera oasi, popolata da una cinquantina di alberi da
frutta, tra meli, peri e peschi, circondata da pini marittimi.
Al momento quindi della consegna, i 1227 ettari costituenti la complessiva estensione della
tenuta, erano così divisi:
a prato stabile falciativo e pascolivo ......................................................................... Ha. 58,00
a pascolo puro, cioè non falciativo ............................................................................. » 708,61
ad avena (coltivata dal fittavolo) .................................................................................. » 90,00
a grano (coltivato dalla Cooperativa) ........................................................................... » 65,00
ad avena (coltivata dalla Cooperativa) ......................................................................... » 35,00
a macchia ed arenile .................................................................................................... » 245,00
podere a mezzadria ....................................................................................................... » 11,18
strade, fossi, golene, ecc. .............................................................................................. » 15,00
Totale Ha. 1227,79
Tale lo stato della tenuta, che veniva consegnata all’Opera Nazionale senza dote di scorte,
con parte del terreno e con fabbricati arbitrariamente occupati dalla suindicata Cooperativa.
10
MACCARESE SOCIETÀ ANONIMA DI BONIFICHE
Maccarese alla metà degli anni Venti. Natura dei terreni, clima e conduzione
agraria prima della bonifica
ESTRATTO DA
Maccarese Società Anonima di Bonifiche, Considerazioni intorno alla bonifica
Porto – Maccarese – Pagliete, Roma, La Poligrafica Nazionale, 1925 (pp. 7-13). Il
titolo complessivo dei brani riportati è redazionale.
11
Descrizione.
La regione da bonificare è estesa 9000 ettari circa ed è compresa fra il mare e la ferrovia che
da Civitavecchia arriva a Roma, fra il “Galera” il “Tevere” ed il “Canale di Fiumicino” a Sud, ed il
“fosso dei tre Denari” a Nord.
Ha sul Tirreno una spiaggia di 13 chilometri; la ferrovia Roma-Pisa la percorre per 16
chilometri, ed ha in essa tre stazioni: Ponte Galera, Maccarese, e Palidoro; la ferrovia Ponte Galera
Fiumicino l’attraversa.
Dalla ferrovia al mare la zona è profonda da 3 a 10 chilometri.
Lungo la ferrovia, dal tre Denari al Tevere abbiamo la linea più alta della zona, colle quote
che con buona regolarità vanno da 4 a 10 metri sul livello del mare; da questa linea andando verso
est, si stacca il declivo che porta all’altipiano dell’Agro.
Un cordone di antiche dune che corre, mezzo chilometro entro terra, parallelamente alla
spiaggia ha altitudine abbastanza regolare variabile da 3 a 4 metri.
Il “Tre Denari” il “Tre Cannelle” l’“Arrone” il “Tevere” attraversano la zona e seguono,
colle propri colmate e coi proprii alvei elevati, linee a quote regolari che raccordano la linea
ferroviaria alla cresta delle dune.
La valle fra il mare e l’altipiano, chiusa a mare dalle dune, è stata colmata dalle torbide del
Tevere, dell’Arrone, dei torrentelli minori e in generale dalle terre di dilavamento della fascia
collinare. All’incrocio fra il declivio delle antiche dune e l’altro declivio che scende dalla linea di
raccordo colla regione collinare si ha il “thalweg” le cui quote degradano regolarmente, dai bacini
colmatori al centro, scendono fino a – 0,60.
Le arginature del Tevere, lo scavo del Fiumicino, le arginature dell’Arrone e degli altri
torrentelli, la costruzione stessa della grande linea ferroviaria corressero la situazione idraulica
naturale della regione ma in misura affatto incompleta.
Verso la fine del 19º Secolo lo Stato Italiano iniziò le opere di prosciugamento scavando 94
km. di canali e costruendo uno stabilimento idrovoro, destinati alla zona a mezzogiorno
dell’Arrone.
Questo inizio di opere di prosciugamento non fu completato, nè fu seguito da opere di
trasformazione fondiaria, in guisa che non si corresse completamente il regime delle acque e si
conservò, in gran parte della regione, la vegetazione naturale propria di quella situazione idraulica.
Natura dei terreni.
Troviamo quindi oggi, specialmente nella parte più depressa del comprensorio, terreni
derivanti da torbide argilliformi tutt’ora soggetti ad inondazioni periodiche, tutt’ora coperti dalla
vegetazione naturale, per sei mesi dell’anno impregnati d’acqua, non mai lavorati e, con più limitata
estensione, terre derivanti da sabbie marine e fluviali.
Lo studio di questi terreni ha posto in evidenza che essi si possono dividere nelle seguenti
categorie:
a) terreni sabbiosi delle dune;
b) terreni costituiti da depositi argillosi alluvionali mescolati a sabbie;
c) terreni alluvionali mediamente argillosi;
d) terreni alluvionali estremamente argillosi.
La presenza di notevoli quantità di argille allo stato colloidale è comune a tutti i terreni delle
ultime tre categorie. Nella parte più depressa della regione (Campo salino) si constatano terreni
salsi.
La reazione prevalente è la subalcalina ed una piccola plaga ha reazione leggermente
alcalina. Nella zona dell’Arrone si hanno terreni a reazione neutra ed una piccola plaga subacida.
È di fondamentale importanza rilevare l’estrema tenacia dei terreni delle tre ultime categorie
nel trattenere le acque delle quali vengono ad essere imbevuti e l’estrema difficoltà colla quale
acqua ed aria circolano in essi.
12
D’altra parte si tratta, per quasi tutta la regione, di terreni abbastanza ricchi di elementi
nutritivi per le piante e quindi, da questo punto di vista, atti a sostenere, dopo i necessari
miglioramenti fisici, una buona vegetazione.
Il fondamento della loro trasformazione agraria ed igienica consiste quindi nel porre queste
terre in perfetto regime idraulico che ne assicuri in ogni momento il prosciugamento perfetto e
pronto e garantisca loro (a mezzo della irrigazione con buone acque) quella sana circolazione di
umidità che è necessaria per la vita delle piante, che per molti contribuirà (coll’apporto di nuovi
materiali), a migliorarne la composizione fisico-chimica, e che per alcuni varrà anche a sollecitarne
il dissalamento.
Solamente dopo costituita questa condizione di fondamento diventeranno solleciti gli
ulteriori miglioramenti fisici di questi terreni e quel loro intenso godimento agricolo dal quale
precipuamente dipende la bonifica igienica della plaga.
Le acque del Tevere e dell’Arrone (opportunamente distribuite) per la composizione,
durezza e temperatura sono perfettamente adatte ad essere impiegate nella irrigazione di questi
terreni.
Clima.
Il clima, nelle sue caratteristiche fondamentali, è sommariamente definito nel seguente
specchietto che riferisce le medie di osservazione di un trentennio:
[Tabella]
Il fenomeno della rugiada ha nessuna importanza ristoratrice dell’aridità della regione.
La grandine e le gelate di primavera sono così rare da non assumere alcuna importanza
pratica.
La siccità e l’alta temperatura estiva, l’abbondanza della evaporazione, la brezza marina, la
mitezza della temperatura invernale, la precocità della primavera, l’abbondanza e l’irruenza delle
piogge autunnali e primaverili sono le caratteristiche del clima della regione.
In queste condizioni idrauliche e di clima la malaria non può essere che grave e difatti la
regione nostra è, nell’Agro Romano, una delle più colpite da questa malattia.
Conduzione agraria.
L’impresa agraria nella regione si adatta alle condizioni di ambiente naturale che abbiamo
descritto.
Essa è la classica impresa zootecnica dell’Agro Romano, il cui andamento è ridotto alla
maggiore semplicità e si adatta come meglio, in linea generale, è difficile fare, alle condizioni
d’ambiente.
Poca gente sempre; poca o quasi nulla d’estate; pochissimi capitali fissi investiti.
Essa costituisce un buon sfruttamento delle ricchezze naturali e un buon investimento del
capitale fondiario e di quello agrario.
Dà però una produzione lorda che ai prezzi del 1925 non supera le L. 600 per Ha, e sostiene
una popolazione che nell’annata va da 8 a 2 abitanti per kmq.
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MACCARESE SOCIETÀ ANONIMA DI BONIFICHE
La necessità di arginare il fiume Arrone
ESTRATTO DA
Maccarese Società Anonima di Bonifiche, Progetto esecutivo della bonifica
delle Pagliete, Roma, Istituto Cartotecnico Italiano, 1926 (pp. 55-57). Il titolo del
brani riportato è redazionale.
14
Il fiume Arrone, emissario del lago di Bracciano divide con l’ultima parte del suo corso la
bonifica di Maccarese – Porto e Campo Salino da quella delle Pagliete. Dal punto in cui essa
attraversa la ferrovia Roma-Pisa fino alle dune il suo alveo è arginato ma le arginature esistenti sono
insufficienti a contenere le piene per cui molto spesso le acque le superano o le rompono allagando
ed insabbiando i laterali terreni delle due suddette bonifiche. A rendere più pericolosa , per i terreni
delle due bonifiche, la vicinanza dell’Arrone, contribuiscono principalmente:
1) Le condizioni del suo bacino montano e specialmente quelle del principale suo affluente
denominato Rio Maggiore che in piena trasporta molta sabbia, molta ghiaia e tronchi di alberi che si
trovano sepolti nel suo alveo. Questi materiali vengono poi depositati dall’Arrone nell’ultima parte
del suo corso di pianura provocando notevoli rigurgiti nella parte superiore.
2) Le chiuse della Moletta di Sopra e della Moletta di Sotto che ostruiscono gran parte
dell’alveo e che arrestano nelle piene i tronchi di albero trasportati dalle acque i quali
accumulandosi contro le dighe le chiudono quasi completamente provocando grandissimi rigurgiti
anche se le piene non sono molto forti.
3) La eccessiva viziatura dell’alveo allo sbocci in mare dove esso presenta una piegatura
parallela al lido che ha ormai raggiunto la notevole lunghezza di circa metri 200.
4) La irregolarità delle sagome dell’alveo di pianura presentanti notevoli e quasi continue
corrosioni e caverne alle unghie interne, rese più aspre dalle radici delle piante. Queste corrosioni e
queste caverne oltre ad ostacolare il deflusso delle acque costituiscono tanti covi di zanzare e quindi
risultano dannosissimi nei riguardi igienici.
15
L’inaugurazione della ferrovia Roma-Ostia (agosto 1924)
ESTRATTI RISPETTIVAM. DA
L’inaugurazione della Roma-Ostia. L’intensa attività del Comune, in “Il
Messaggero di Roma”, 7 agosto 1924; La ferrovia Roma-Ostia, in “Il Messaggero di
Roma”, 9 agosto 1924; La Roma-Ostia inaugurata solennemente, alla presenza
dell’on. Mussolini e del Cardinale Vannutelli, in “Il Meridiano”, anno IV, n. 31, 11
agosto 1924. Il titolo complessivo dei brani riportati è redazionale.
16
In 48 giorni – incredibile a dirsi – i valenti tecnici del Comune hanno compiuto, nel
sobborgo marittimo, opera veramente prodigiosa. Sono stati aperti e completamente sistemati ben
150.000 m.l. di strada. I numerosi acquitrini ivi esistenti e che rappresentavano un permanente,
gravissimo pericolo d’infezione malarica, sono stati bonificati e coperti di terra. La famosa pineta,
che era una vera selva selvaggia, dopo essere stata disboscata, posta a livello stradale e resa
completamente praticabile, costituisce ora un gradevole luogo di ristoro per chi ami ivi indugiarsi e
liberamente godere della brezza marina.
A cura dell’Azienda Elettrica Municipale in tutte le strade di Ostia è stato impiantato un
intenso servizio d’illuminazione che, oltre a rispondere ad una inderogabile necessità, dà una
sensazione di agio e di conforto. [...]
*
Gli ultimi preparativi per la inaugurazione della Ferrovia Roma-Ostia e dello Stabilimento
Roma vincitrice, sono quasi completi per la energia ed efficace opera dei dirigenti la «Società
Elettro-Ferroviaria Italiana».
Il programma della cerimonia è il seguente: ore 10 di domenica, partenza da Roma dalla
stazione di S. Paolo, posta nel piazzale e esterno della porta omonima, di fronte alla piramide di
Cajo Cestio.
Alle ore 11 benedizione della Ferrovia alla Stazione di ostia, impartita dal decano del Sacro
Collegio, cardinale Vannutelli.
Alle ore 11.30 posa della prima pietra del palazzo comunale e delle scuole di Ostia per cura
del Comune di Roma.
Ore 12.30 colazione offerta agli invitati dalla Società Elettro-Ferroviaria Italiana nello
Stabilimento balneare.
Per il ritorno sono stati messi a disposizione degli invitati due treni in partenza da Ostia, uno
alle ore 15, e l’altro alle 17.
Si avverte che il servizio pubblico si effettuerà soltanto da lunedì 11 corrente. Per la
inaugurazione della linea, ciascun biglietto, valevole unicamente per la persona alla quale è
intestato, dà diritto anche al viaggio di ritorno, e vale pure per partecipare alla colazione.
Come abbiamo detto nei giorni scorsi, finalmente il sogno della popolazione romana di
ricongiungere la Capitale al mare a traverso ad una rapida linea, sta per avverarsi, e ciò è dovuto
principalmente alla sicura volontà del Presidente del Consiglio, il quale ha imposto alla Società
Elettro-Ferroviaria Italiana di compiere gli importanti lavori entro la prima decade di agosto.
La questione della Ferrovia di Ostia, che aspettava, diremo, dal secolo scorso la sua
soluzione, si trovava sepolta in un cumulo di difficoltà di vario genere che sono andate di anno in
anno aumentando a dismisura, impedendo ai romani la realizzazione della loro più viva aspirazione.
Il Governo nazionale ha posto fine, colla sua energia, a tutti gli indugi, risolvendo le
questioni che intralciavano il compimento di questa nobile impresa. [...]
*
Alle 10.40 il treno giunge alla stazione di Ostia antica, salutato al suo arrivo dalle note della
Marcia reale, dagli applausi degli abitanti, della borgata accorsi in massa, e dagli alalà del manipolo
della milizia nazionale locale comandato dal segretario dal segretario politico Armidio Armuzzi.
17
[...] Cessata la musica e gli applausi Federico Bazzini prende la parola. Egli dice che dopo
quarant’anni di lotte, di delusioni e di ansie indicibili, oggi la meta è stata raggiunta e prosegue
rivolgendo in questo giorno di luminosa vittoria un commosso e riverente pensiero ai pionieri della
colonia ravennate al sacrificio dei quali si deve se Roma non solo ha riveduto ribiondeggiare le
messi dell’antico Agro abbandonato ma avuto di nuovo aperta la via del mare.
18
LUIGI ALBERTINI
La bonifica di Torre in Pietra
ESTRATTO DA
Luigi Albertini, La bonifica del Senatore Albertini, 1926-1945. Storia dei primi
anni della bonifica di Torre in Pietra, Roma, Graffiti, 2001 (pp. 35-43). Luigi
Albertini è il nipote del senatore Luigi Albertini protagonista della bonifica della
prima metà del Novecento. Il titolo è redazionale. Sono state omesse le note.
19
La Bonifica
La vecchia Società tentò di ottenere delle modifiche alla prima edizione del piano di bonifica
emanato all’inizio degli anni venti [...]. Alcune richieste vennero accolte, altre no. I nuovi
proprietari non furono da meno, avendo anch’essi proposto una nutrita serie di varianti.
Il problema era stato affrontato con estrema sollecitudine immediatamente dopo il perfezionamento
dell’acquisto. Infatti il 31 maggio 1926 l’Avvocato Casavola scriveva al Senatore Albertini
riferendo che l’Ing. Secreti:
“[...] aveva tutto quel giorno fatto parte della Commissione per l’Agro Romano, e che quindi aveva
parlato con l’Ispettore Superiore del desiderio di aggiornare l’ingiunzione ministeriale, sanando il
tempo fatto trascorrere senza compiere i lavori richiesti. Ho fatto cenno del cambiamento di
Amministrazione della Società e del programma di lavori che i nuovi proprietari si proponevano.
L’Ispettore mi ha detto di essere disposto a prenderne atto e dare decorrenza da oggi agli obblighi
di bonifica, purché per ora non si parlasse di prolungare oltre l’epoca già fissata: quando le cose
fossero avviate, ed ove fossero opportuni dei cambiamenti ai progetti si potrà vedere magari di
accordare un prolungamento del termine fissato. E l’Ispettore ha chiesto al secreti una domanda
alla quale ha promesso di rispondere senz’altro nel senso richiesto.
Secreti mi ha detto che avrebbe inviata la domanda e me l’avrebbe mandata a far vedere. Egli ora
sta mettendo a posto i progetti in modo di poterli presentare e chiedere il mutuo. Intende
aggiungere per ogni unità la costruzione di silos per foraggi, che dice godrebbe ugualmente della
facilitazione del mutuo, ed importerebbe la spesa di circa 30 mila lire per ognuno [...].
Il 12 luglio 1926 Leonardo scriveva ai genitori di essere assai lieto che il mutuo richiesto fosse stato
quasi completamente accettato sembrandogli questo “un inizio di buon auspicio”. La notizia non era
ancora ufficiale e soltanto a fine settembre sarebbe arrivata la conferma dal Ministero
dell’Economia Nazionale. M ala voce si propagò subito in zona mettendo in allarme i vicini
confinanti. Uno di questi, un certo Ghezzi, fece scrivere dal suo avvocato per chiedere chiarimenti
“in ordine alle opere di bonifica che si intendono eseguire”. Non aveva certo titolo alcuno per
intromettersi nelle intenzioni di terzi e, quel che è peggio, per il tramite di un avvocato.
Probabilmente quegli estranei arrivati dal Nord, notoriamente ostili al Regime e intenzionati ad
effettuare investimenti quanto mai innovativi, turbavano la quiete dei proprietari locali.
La bonifica doveva soddisfare diverse esigenze: il miglioramento fondiario dei terreni, l’aumento
diversificato delle produzioni agricole, lo sviluppo di quelle zootecniche, il risanamento dalla
malaria e il ripopolamento delle campagne su base stabile reso possibile da salari adeguati e da
nuova edilizia rurale.
In merito al soddisfacimento dei primi obiettivi, si ricorda che la giacitura dei terreni della Tenuta
va considerata distinta in due parti: quella di maggiore estensione posta a destra della Via Aurelia
per chi proviene da Roma, essenzialmente collinare ed intercalata da boschi e macchie cedue, e
l’altra pianeggiante (perciò denominata Le Piane), difficilmente coltivabile durante la stagione delle
semine autunnali, perché frequentemente inondata. Lo sgrondo delle acque piovane verso il mare
era infatti contenuto e lento.
20
La bonifica delle colline
Il progetto di bonifica prevedeva che sulla parte collinare della Tenuta in alcuni punti si
procedesse allo scasso del terreno a 70-80 cm. di profondità ed in altri all’aratura profonda da 60
cm.
La prima impresa, L’Anonima Romana Agricola, rifiutò l’incarico perché a suo avviso l’aratura
sarebbe stata “impossibile data la natura del terreno particolarmente accidentato”. La seconda di
Difani Vincenzo accettò, ma limitatamente a 100 – 120 ettari in località Ficoncella e purché ci si
accontentasse di una aratura a 30-40 cm. di profondità.
Si doveva iniziare a tutti i costi, costretti ad accettare l’offerta, salvo poi contestare l’esito del lavoro
con una raccomandata che denunciava le arature come difettose, con “molti gatti” e quindi da
ripassare una seconda volta. Ma questa richiesta non fu accettata, si interruppero i rapporti con il
Difani e si fece ricorso alla Ditta Joseph Klein (ungherese) affinché facesse arare i campi della
Ficoncella con aratri richiamati da macchine a vapore Ustrong.
La bonifica non era impresa da poco e questo incidente dovette affrettare – forse prematuramente –
la decisione di dotarsi di macchinario ad hoc. Si acquistano un trattore Case da 12720 hp e due Case
da 18/32 hp, tutti e tre muniti di ruote ferrate (non gommate) e insieme ad essi, gli aratri. Ma non
c’era in Tenuta chi li potesse condurre (la costruzione degli alloggi era appena iniziata e si era
trovata casa soltanto ad un meccanico, indispensabile per la manutenzione di quelle macchine) per
cui ci si dovette rivolgere al Sig. Difani, passando sopra alle polemiche, affinché mettesse a
disposizione il suo personale da impiegare per le arature su mezzi della Bonifica di Torre in Pietra.
Contemporaneamente, per consentire un primo livellamento dei terreni, si acquistarono oltre 100
metri di binario Decauville, uno scambio e una serie di vagoncini.
Nei mesi e negli anni successivi si ripeterono molti altri acquisti di materiale analogo, compresa una
Fowler.
Gli scassi e le arature beneficiavano di un Premio di incoraggiamento che si aggirava attorno al
16% - 20% del costo incontrato. La richiesta andava corredata da dettagliate informazioni sulla
località, la superficie, la profondità, i mezzi impiegati e – se trattori – la relativa potenza. Quando si
ricorreca alla Fowler, si doveva descrivere anche l’aratro trainato che era solitamente un
monovomere Martinelli.
Al seguito della Fowler e degli aratri procedevano gli attrezzi trainati dai buoi: erpici e aratri
leggeri. Intervenivano contemporaneamente le Compagnie per zappare, per effettuare livellamenti,
scavare i fossi di sgrondo, alzare gli argini, porre in opera tubi di cemento in funzione di ponti e via
dicendo. Eseguivano a amo grandi movimenti di terra che, quando possibile, era ridistribuita dai
vagoncini Decauville. Questi all’inizio erano sospinti a mano e solo quando le dimensioni dei lavori
assunsero proporzioni tali da dovere comporre dei veri e propri convogli, specie durante la bonifica
delle Piane, vennero mossi da piccole locomotive a vapore.
Si incominciò nel 1927 con le riserve della Ficoncella e di Capanna Riccioni per proseguire sino al
1941, un anno dopo l’entrata in guerra. L’ultima zona ad essere interessata fu la Leprignana, la
grande tenuta limitrofa acquistata nel 1935.
21
La bonifica delle Piane
A differenza di quanto ci si poteva attendere dal settore collinare, questa parte del territorio
della Tenuta, una volta risanata, livellata e dotata di fossi di adduzione e di scolo avrebbe avuto
enormi potenzialità produttive. E ciò grazie alla possibilità di renderla irrigua a scorrimento. Il resto
dell’Azienda doveva attendere l’impianto dell’irrigazione a pioggia – introdotto in tempo di guerra
– per potere avvicinare, pur senza mai eguagliare, la produttività delle Piane.
Il Piano di bonifica originale stranamente non aveva previsto la possibilità di realizzare il sistema di
irrigazione semplice e funzionale voluto e posto in opera dalla Bonifica di Torre in Pietra.
L’idea scaturì dall’ipotesi di utilizzare le acque del confinante Rio Palidoro mediante la costruzione
di uno sbarramento a monte delle Piane inteso ad alzare il livello delle acque per permettere di farle
scorrere sino al più alto dei campi della pianura. La diga avrebbe anche formato un bacino di
accumulo di acqua durante la stagione invernale, a sostegno delle esigenze irrigue del periodo
estivo molto secco.
L’impresa non era semplice. Andava innanzi tutto calcolata la funzionalità in considerazione dei
quantitativi di acqua disponibili. Occorreva sviluppare un progetto di ingegneria abbastanza
complesso e rapportato – per costi e dimensioni – più ad una committenza pubblica che privata. In
relazione al progetto si doveva in seguito sviluppare un preventivo di spesa, istruire la domanda ed
ottenere il relativo mutuo. E non si dovevano sottovalutare le difficoltà che avrebbero potuto
sollevare i vicini, primo fra tutti il gestore di un mulino ad acqua posto a valle della diga che
sarebbe stato costretto a cessare l’attività. Un esplicito incoraggiamento veniva dal Consorzio Agro
Romano che nel settembre del 1926 valutava la portata del Rio Palidoro a circa 60 litri al secondo
(senza precisare se si trattasse di un valore medio oppure massimo) e aggiungeva che quell’acqua
“dovrebbe essere usata per irrigare le magnifiche piane a valle della ferrovia”.
L’incarico di progettare l’opera venne affidato all’Ing. Giuseppe Alberti di Milano che subito mise
in evidenza l’opportunità di avere dati più precisi in merito alla portata del Rio.
A gennaio del 1928 l’Ing. Alberti accompagnava sul posto i tecnici del Genio Civile incaricati di
esprimere un parere. La prima parte dell’anno veniva dedicata alla messa a punto del progetto che
coinvolgeva anche il Consorzio Agro Romano preoccupato di controllare i rapporti in quota dei
terreni delle Piane confinanti a sud con il fosso Tre Denari e a nord con il Rio Palidoro. A luglio il
progetto veniva ultimato e a novembre l’Ing. Secreti depositava la domanda di concessione ed il
progetto al Ministero dei Lavori Pubblici. Senza attendere il benestare (che si dava per scontato)
veniva dato incarico alla Ditta Catena Domenico & Figli di Maccarese di spianare il primo lotto
posto a fianco del Rio Palidoro e di iniziare l’apertura delle forme trasversali di scolo.
Gli Ospedali Riuniti di Roma, proprietari dei terreni posti sulla sponda opposta del Rio Palidoro tra
il confine Ovest della Torre in Pietra ed il mare ricevettero una lettera della Bonifica di Torre in
Pietra con la quale si comunicava di essere “stata incaricata dal Consorzio Agro Romano di
sistemare il prolungamento del Fosso Consorziale che dipartendosi dal confine delle Pagliete di
Torre in Pietra, inoltrandosi nella contigua Tenuta di Palidoro, segue il corso del Tre Denari per
confluirvi dopo ca. 570 metri”. L’Ente Pubblico Ospedaliero fece opposizione. La Bonifica di Torre
in Pietra reagì immediatamente sostenendo che l’opera non sarebbe stata in contrasto con la
Bonifica di Palidoro che gli Ospedali Riuniti erano in procinto di realizzare. Avrebbe infatti
consentito di convogliare nel parallelo Rio Tre Denari tutte quelle acque di scolo che diversamente
avrebbero continuato a riversarsi e ad alimentare la palude nella proprietà degli Ospedali Riuniti in
prossimità del mare, plaude che andava a tutti i costi prosciugata per esigenze antimalariche.
22
Questa risposta spiega quale doveva essere il principale “effetto bonifica” delle Piane.
Contrariamente a quanto viene comunemente tramandato, quella porzione del territorio della Tenuta
non era paludosa, ma soltanto fangosa dall’inizio dell’autunno alla primavera avanzata. La palude
cera localizzata nella fascia di territorio compresa tra il confine in direzione del mare e le dune
sabbiose del litorale tirrenico oggi occupate dall’abitato di Passo Oscuro. Della bonifica delle Piane
trassero beneficio anche gli Ospedali Riuniti che per effetto del convogliamento delle acque di
sgrondo delle Piane verso il tratto finale del Rio Tre Denari, recuperarono diverse decine di ettari
emerse dall’antica plaude. In realtà la qualità dei terreni oltre i confini della Bonifica di Torre in
Pietra – molto sabbiosi – non era eccezionale. Ciò tuttavia non impedì di renderli abitabili,
dapprima con la costruzione di un Centro Agricolo dotato di una stalla di vacche da latte e
successivamente, nel dopoguerra, da ben altre costruzioni a carattere residenziale e speculativo,
innalzate abusivamente da privati.
La questione si risolveva ai primi di gennaio del 1929 con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale
del Decreto del Ministero dell’Economia e del Lavoro di autorizzazione all’inizio dei lavori. A
febbraio venivano affidati alla Ditta Bertoni (già impegnata nelle opere di costruzione del primo e
del Secondo Centro) i lavori per il sottopassaggio della Ferrovia e della Via Aurelia destinato a
contenere il canale di derivazione dal Palidoro e, nel mese successivo, per lo sbarramento dello
stesso Rio.
Il 20 marzo si sollecitava l’Ing. Secreti affinché premesse sulla Direzione Strade per
l’autorizzazione al sottopasso, “avendola già ottenuta dalle ferrovie e mancando solo 60 giorni
dall’epoca in cui tutto dovrà essere ultimato”. Come si vede, si lavorava andando contro il tempo e
non senza una notevole tensione. Lo dimostra un richiamo all’Impresa Bertoni già ai primi di
maggio per “il ritardo nell’esecuzione dei lavori della diga che potrebbe compromettere le semine
di mais gigante e del granoturco”. Il Signor Luigi Bertoni replicava giustificando il ritardo come
conseguenza della maggiore profondità degli scavi delle fondazioni imposti dalla qualità del
terreno. E qualche tempo dopo lamentava una situazione disastrosa conseguente al cattivo
funzionamento delle pompe idrovore (che dovevano attingere a monte le acque del Palidoro per
scavarle a valle del cantiere), per cui gli operai erano costretti a lavorare con l’acqua alla cintola.
A fine giugno i lavori ebbero termine e si potè dare inizio all’irrigazione. Le piantagioni di mais si
salvarono.
L’opera venne miracolosamente conclusa nell’arco di quattro mesi e mezzo. Era stata portata vanti
a mano in condizioni ambientali proibitive, senza l’ausilio di qualsivoglia macchina, fatta eccezione
dell’impiego dei Decauville che per pochi tratti sostituivano le carriole. In questo lasso di tempo si
allargò il bacino del Palidoro, si scavò per ospitare le fondazioni dello sbarramento, si allestirono le
casseforme che avrebbero contenuto l’armatura in tondini di ferro, si gettò il cemento e si ottenne
così una diga munita di tre pesanti paratoie comandate da grandi volani accessibili dall’alto di un
ponte.
I nuovi Centri
I primi mattoni vennero forniti da una fornace di Cerveteri che ricevette subito l’incarico di
restaurare quella della Tenuta e di gestirla. Venne allestita molto rapidamente, tanto che seppure a
ritmo ridotto, iniziò a funzionare durante l’estate del 1927. era ubicata sulla nuova strada che
collegava Tre Denari con il Castello, all’altezza di un fontanile rimasto ancora in piedi, proprio nel
punto in cui si dirama il tratto che conduce a Prato Gelsi. Cessata la sua utilità, nel dopoguerra
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venne abbattuta e l’unica traccia rimasta è data da pochi ruderi nascosti in una fitta sterpaglia e dalla
scarpata prodotta dalla cava di argilla, abbastanza visibile, in sua prossimità.
Vi si producevano essenzialmente zoccoli, quadri e coppi.
Durante il mese di maggio del 1927, ottenuto il benestare alle opere edili da realizzare nel quadro
del progetto di bonifica, si affidò l’incarico all’Impresa Bertoni che il 23 giugno sottoscrisse
l’impegno “per opere da realizzare a 2,5 km. dalla stazione ferroviaria”, vale a dire a Tre Denari.
La costruzione ebbe inizio il 3 luglio, 14 mesi dopo l’acquisto della Tenuta. Procedevano a rilento a
causa delle irregolari forniture dei laterizi. Notevoli ritardi subiva la copertura dei fabbricati, forse
anche a causa della cattiva qualità del prodotto. Infatti a febbraio del 1928 diverse partite di tegole e
di coppi venivano contestate e respinte perché poco cotte, tanto che “si rompevano nelle mani”. Nel
frattempo era partito l’ordine alla Young, & Company inglese per 80 poste fisse per vacche, tazze di
abbeveraggio individuali, boxes e rotaia sopraelevata per il vagoncino che dalla corsia centrale della
stalla avrebbe dovuto scaricare il letame sulla concimaia esterna.
Il 13 maggio l’Ing. Secreti riceveva, nella sua veste di direttore dei lavori, una lettera della
Direzione della Bonifica di Torre in Pietra che esprimeva “preoccupazione per i ritardi
nell’ultimazione del Primo Centro” e che proseguiva così: “Il tetto e le finestre in ferro non sono
state ancora dimensionate. Impossibile montare i materiali Young. Occorre sollecitare anche
l’ultimazione dei pavimenti della sala mangimi e della Stalla Allevimi”. Come si è già visto a
proposito dei ritardi lamentati successivamente, durante la costruzione della diga sul Palidoro che
avrebbero potuto pregiudicare le semine di mais, si era con l’acqua alla gola perché le manze
gravide da poco acquistate erano nell’imminenza del parto.
A fine luglio, ultimati i lavori a Tre Denari nel giro di 13 mesi e ricoverato il bestiame da latte, la
Ditta Bertoni – causa di tante preoccupazioni passate e future – ottenne l’incarico di procedere alla
costruzione della stalla per 48 capi a S. Angelo, dove si era già provveduto a raddoppiare l’antico
casale che fungeva da dormitorio per le Compagnie. Nel successivo mese di agosto, la Ditta Bertoni
firmava anche il contratto di appalto per la costruzione del Centro Falconieri e della strada di
collegamento con Tre Denari. Ma già a gennaio del 1929 il Sig. Bertoni, che malgrado tutto
manteneva la fiducia dei suoi committenti, riceveva la consueta lettera di ammonimento e di
sollecito per gli “incredibili ritardi e lentezza nel terminare i lavori a S. Angelo. A differenza di
Maccarese che ... (...ecc. ecc.). e noi, mentre Lei perdeva tempo, abbiamo completato a Torre in
Pietra una copertura di 400 mq. voi avete affidato l’armatura del tetto di S. Angelo ad un solo
carpentiere”. E il costruttore si difendeva sostenendo questa volta che: “Il maltempo impedisce il
trasporto dei materiali che sono giacenti in Stazione”.
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Ruralismo e bonifica integrale
ESTRATTI RISPETTIVAM. DA
“Dobbiamo fare dell’Agro l’orto e il giardino della Capitale”. Il Direttorio
della Federazione dell’Urbe dal Duce, in “Roma fascista”, 12 febbraio 1927;
Confederazione Nazionale Fascista degli Agricoltori, Le leggi sulla bonifica
integrale, Roma, La Romangrafica, 1929 (pp. V-VIII); Arrigo Serpieri, La bonifica
integrale, in “Annali di Economia”, vol. XII, Dieci anni di Economia fascista: 19261935. La formazione dell’Economia corporativa, Padova, CEDAM, 1937 (pp. 12830); Tullio Bulgarelli, Razza e coscienza rurale, in “Roma fascista”, 15 febbraio
1939.
Il titolo complessivo e i titoli dei brani riportati sono redazionali.
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Dobbiamo fare dell’Agro l’orto e il giardino della Capitale
Il Capo del Governo e Duce del Fascismo ha ricevuto al palazzo Viminale – presentati da S.
E. il Segretario Generale del Partito – i componenti il Direttorio della Federazione dell’Urbe. [...]
Il Fascismo di Roma dovrà eccellere ed essere di esempio per tutte le virtù fasciste che sono
state concluse nella parola d’ordine che il Duce ha dato agli altri fasci. Disciplina silenziosa ed
operante.
Il Duce congedando i convenuti ha concluso dicendo che Roma non deve tendere a diventare
una città industriale, ma dovrà essere il centro di una attività agricola fattiva e di un fiorente
artigianato. L’Agro Romano deve diventare l’orto e il giardino della Capitale.
[...] [...]
ROMA DOVRÀ DIVENTARE NON UNA FUMOSA INUTILE CITTÀ INDUSTRIALE
MA UN FIORENTISSIMO CENTRO AGRICOLO E ARTIGIANO
*
Il concetto di bonifica integrale è penetrato in tutta la Nazione
Il concetto di bonifica integrale non è nuovo: la legge sul bonificamento dell’Agro romano
è, sostanzialmente una legge di bonifica integrale [...]. Ma soltanto in questi ultimi tempi, per la
vigile volontà del Duce, il concetto di bonifica integrale è penetrato in tutta la Nazione e ad esso si
vanno adeguando la legislazione, i provvedimenti finanziari ed il credito agrario fondiario. [...]
Gli agricoltori risvegliati a più esatta coscienza del loro valore di uomini positivi e del
compito che loro assegna la Nazione fascista, debbono essi, con il loro accorgimento, con la loro
tenacia e con la loro fede concretare, in pratica, ovunque è possibile, i criteri della Bonifica
integrale.
Per questo, non dimentichino, mai che, grossi o piccoli, Essi costituiscono una classe
dirigente e precisamente una Classe che deve improntare della sua mentalità e della sua profonda
sapienza e della sua alta morale la vita della Nazione.
[Confederazione Nazionale Fascista degli Agricoltori]
*
Dal risanamento idraulico alla bonifica integrale: un’opera di civiltà alla radice della vita e
della potenza della stirpe
Io la definisco: la coordinata attuazione delle opere, di qualunque natura tecnica esse siano –
idrauliche, stradali, edilizie, agricole, forestali –, necessarie per adattare le terre e le acque a una
produzione intensiva, tale da assicurare lavoro e civili forme di convivenza a una densa popolazione
rurale.
L’unità territoriale nella quale si applica la bonifica integrale chiamiamo «comprensorio di
bonifica». Sono oggi classificati, con atto do governo, n. 374 comprensori, per una superficie totale
di oltre 8 milioni di ettari [...].
26
L’esposto concetto di bonifica integrale è nuovo: è proprio del Fascismo.
Intendiamoci: la storia della bonifica integrale, intesa come ho detto, è in Italia storia
millenaria: essa coincide con la conquista della terra alla coltura, a mano a mano che è andata
addensandosi su di essa la popolazione.
Ma a un certo punto, che coincide press’a poco con l’affermarsi nel ‘600 e ‘700 di una
scuola idraulica italiana, bonifica venne ad avere un significato più ristretto: quello di sistemazione
idraulica di terreni di pianura, paludosi o nei quali comunque il regime delle acque non consentisse
agricoltura intensiva. Quando le deficienze idrauliche erano state con adeguate opere eliminate (una
rivoluzione tecnica avvenne in proposito intorno alla metà del XIX secolo, col comparire della
idrovora che consente di sollevare meccanicamente le acque), il territorio si considerava bonificato.
Occorre arrivare al principio del nostro secolo per trovare riconosciuto che al bonificamento
di detti terreni non basta il risanamento idraulico: che, anzi, esso è inutile ove non si accompagni ad
altre categorie di opere – stradali, di approvvigionamento di acqua potabile ed eventualmente
irrigua, edilizie ecc., – le quali consentano il pieno avvaloramento agricolo dei terreni. Si cominciò
allora a parlare, poco prima della guerra mondiale, di bonifica integrale, nel senso che a quella
idraulica doveva seguire l’altra cosiddetta agraria; e che inoltre – poichè quei terreni di pianura
idraulicamente dissestati erano per lo più malarici – entrambe dovevano essere integrate con la
bonifica igienica.
Ma, ancora, si trattava sempre di territori di pianura inizialmente dissestati nel loro regime
idraulico: la bonifica integrale di quei tempi aveva per base – ancora, e sempre – la bonifica
idraulica.
E, appunto, per ciò, era la bonifica prevalentemente propria delle pianure settentrionali e
centrali dell’Italia, dove ormai, attraverso i secoli, già era avvenuta la riduzione di quasi tutte le
terre a forme di agricoltura più o meno intensiva, salvochè in zone relativamente limitate, nelle
quali ciò era stato impedito da un dissesto idraulico, determinato dalla mancanza di regolare scarico
o deflusso delle acque piovane del territorio.
Una svolta decisiva nel concetto di bonifica integrale e nella sua legislazione avviene col
Fascismo, quando, in una legge del 1924, quelle stesse modalità di intervento dello Stato che erano
state fino allora applicate a scopo di risanamento idraulico delle pianure, furono estese ad ogni altro
territorio, nel quale permanessero forme estensive e primitive di uso del suolo, qualunque ne fosse
la causa; anche non idraulica, anche, semplicemente, di carattere economico, sociale, storico.
Allora, è ovvio, la bonifica cessò di essere limitata ai terreni di pianura, paludosi o deficienti
di scolo: divenne quella che ho già definita: attuazione coordinata, integrale, di tutte le opere, di
qualunque natura tecnica, che occorrano per adattare le terre e le acque a una produzione intensiva e
ai bisogni di una densa popolazione rurale. [...]
Venne nel 1928 la legge del Duce a proclamare la bonifica integrale opera di civiltà, «che
riscatta la terra, e con la terra gli uomini e con gli uomini la razza», e ad assicurarle imponenti
finanziamenti. Da allora, ogni italiano sa – almeno approssimativamente – che cosa sia nella
concezione fascista: opera di civiltà, ripeto, che va alla radice della vita e della potenza della stirpe.
[...]
[Arrigo Serpieri]
*
27
La nostra è la razza rurale per eccellenza
Se alla nostra razza si volesse dare un aggettivo comprendente tutte le sue qualità essenziali,
bisognerebbe chiamarla rurale.
Chiamare una razza significa infatti attribuirle tutte quelle doti di sanità fisica e di saldezza
morale, che soltanto la campagna può mantenere e sviluppare: attitudine e resistenza al lavoro, buon
senso, spirito pratico e costruttivo, capacità belliche, attaccamento alla terra, alla famiglia e alla
tradizione – che è quanto dire – alla Patria.
La nostra è la razza rurale per eccellenza. Le forze morali e materiali della campagna
costituiscono la nostra intima potenza; la mentalità rurale la nostra vera saggezza.
Il nostro genio politico – che fu quello di Roma – fatto di equilibrio, di realismo e di tenacia – rivela
una sostanza e una struttura rurale. Il volto italico – duro, volitivo e guerriero – è il volto del
contadino.
Compito precipuo e positivo del razzismo è di sviluppare nella nostra razza le sue “qualità
rurali”, che hanno fatto sempre la nostra potenza e la nostra fortuna; è di estendere ed approfondire
la “coscienza rurale”.
Alla politica della razza spetta perciò di risolvere definitivamente il contrasto cittàcampagna e tutto quel complesso di problemi economico-sociali che vanno sotto il nome di
urbanesimo.
Città e campagna non debbono costituire un dualismo nella coscienza del popolo italiano:
tanto il contadino come il cittadino debbono avere la sensazione di lavorare per la terra e di trarre
dalla terra la loro esistenza e il loro benessere.
La città deve servire alla campagna, non questa a quella; quando la città va oltre i propri
limiti funzionali, diventando ipertrofica, si genere subito uno squilibrio materiale ed una
sperequazione spirituale nella vita della nazione; città e campagna divengono allora gli opposti poli
di due economie, di due etiche, di due forme mentali.
Non vi deve essere invece soluzione di continuità sostanziale e morale tra città e campagna:
le loro diversità formali e organiche debbono rispondere soltanto alle necessità di una stessa
fisiologia.
La città sorge nella campagna e per la campagna: la città deve essere, da noi, la città dei
contadini!
Bisogna, dunque, creare un intimo contatto, una perenne e feconda comunione tra città e
campagna. Per ottenere questo bisogna da una parte migliorare tecnicamente la campagna e
dall’altra dare al cittadino una “educazione morale” un “senso della terra”.
[...]
[Tullio Bulgarelli]
28
Cerimonie fasciste nell’Agro romano
ESTRATTI RISPETTIVAM. DA
Solenne cerimonia fascista a Grottarossa, in “Roma fascista”, 27 febbraio
1926; “Roma fascista”, 30 aprile 1927; Befana fascista. La distribuzione dei doni in
provincia. A San Cesareo, in “Roma fascista”, 12 gennaio 1930, e Ernesto Galdi,
Nell’Associazione Provinciale Fascista del Pubblico Impiego. Befana Fascista, in
“Roma fascista”, 26 gennaio 1930; Gli allievi dei Corsi di preparazione politica al
Campo d’Armi della Bufalotta, in “Roma fascista”, 2 settembre 1937; Il primo
esperimento di migrazione interna. I cooperatori ravennati commemorano il 56º
annuale dell’arrivo a Ostia dei primi eroici bonificatori, in “Agricoltura fascista”, 10
novembre 1940.
Il titolo complessivo e i titoli dei brani riportati sono redazionali.
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La costituzione del Gruppo Balilla a Grottarossa (1926)
A Grottarossa, nell’estesa tenuta di proprietà del comm. Ettore Molinario, ha avuto luogo
domenica una grande cerimonia per la costituzione del Gruppo Balilla e per il battesimo della
fiamma Nazario sauro della Sezione Sportiva del Fascio locale. [...]
Su di un palco addobbato con festoni e sul quale erano schierati i gagliardetti, la funzione si
è svolta con rito solenne. Hanno parlato monsignor Piazza, cameriere segreto di S. S. ed il cav.
Agostini, il quale ha pronunziato un elevato discorso, mettendo specialmente in rilievo di quale
sentimento di vera e pura fede fascista sia animata la intera popolazione di Grotta Rossa, scevra da
ogni idea disgregatrice, ma dedita al lavoro fecondo e disciplinata a volere indiscusso dell’amato
Duce. [...]
La festa non poteva riuscire più grandiosa e solenne, mercè l’opera organizzatrice
dell’illustre comm. Ettore Molinario, coadiuvato dai suoi due figliuoli cav. Vittorio e cav. Gino.
Grottarossa deve tutto il suo impulso di vita a questo insigne benemerito che, nello svolgersi
di un breve periodo di anni, ha saputo trasformare una zona vastissima, brulla e malarica, in un
centro attivissimo, istituendovi il telefono, fondandovi le scuole, la chiesa, vasti dormitori e asili.
Oggi parecchie centinaia di operai, serrati intorno ai loro sacri vessilli, animati da una sola e
pura fede verso il supremo Duce e il Fascismo, vivono la loro vita tranquilla nel dolce e santo
affetto familiare, svolgendo quotidianamente il loro onesto e proficuo lavoro.
*
Il manifesto della “Giornata Agraria” del 1º Maggio 1927
CAMERATI DELLE CAMPAGNE LAZIALI!
All’indomani della celebrazione della Festa del lavoro, noi vi convochiamo ancora una
volta, in vista delle vostre messi verdeggianti e intorno ai nostri gagliardetti per riaffermare
solennemente le direttive del fascismo che nel Lazio laborioso e contadino non possono essere che
spiccatamente e prevalentemente rurali. I rappresentanti dei due grandi Sindacati provinciali che
inquadrano i proprietari di terra e i contadini laziali, ripeteranno il fermo proponimento di tutti
coloro che si volgono con amore e con fede all’agricoltura, di fare della già disperse e contrastanti
forze un blocco concorde di attività e di volontà per la redenzione delle nostre campagne [...].
CAMERATI CONTADINI!
Le voci dell’odio sono spente per sempre! La terra madre chiama gagliardamente a raccolta
tutti gli uomini di buona volontà: non ci sono «padroni usurai» e «servi ringhianti»: ma «italiani»
dappertutto, animati da un unico amore e da un unico fervore: l’amore della Patria immortale e il
fervore del ben operare per farla sempre più grande e felice. Quattrocentomila nuovi nati entrano
ogni anno a far parte della gloriosa famiglia italiana, è impegno d’onore per noi provvedere con le
nostre forze al pane di cui essi abbisognano. [...]
FASCISTI DELLE CAMPAGNE!
L’«A noi» fatidico delle nostre battaglie, ha, nella battaglia alla quale vi invitiamo questo
nobile e preciso significato: la fortuna d’Italia dipende dallo sforzo produttivo del suo popolo di
lavoratori magnifici: Contadini del Lazio, per l’avvenire della Patria e dei nostri figli: Al Lavoro!
Viva il Fascismo!
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LA FEDERAZIONE FASCISTA DELL’URBE
Roma, 1º Maggio 1927 – Anno V.
*
La Befana fascista a San Cesareo e nell’Associazione Fascista del Pubblico Impiego (1930)
La Befana Fascista di quest’anno a San Cesareo ha assunto un’importanza veramente
eccezionale. Superiore ad ogni elogio l’interessamento di un nucleo numeroso di fascisti di San
Cesareo, il contributo finanziario di questi e di altri cittadini, l’interessamento di alcune signore per
la riuscita della solenne consegna dei doni.
Il Comitato [...] si è dato ben da fare per circa venti giorni. [...] Facendo tesoro della somma
raccolta, si sono potuti beneficiare 120 ragazzi con indumenti vari, giocattoli, frutta e nozze
principesche.
La consegna dei doni è avvenuta domenica scorsa alla presenza del Podestà di Zagarolo e di
altre autorità locali.
Prima della distribuzione, perché risultasse questa più solenne ed a sfondo spiccatamente
patriottico, sono stati eseguiti cori e balletti da Piccole Italiane in abito tricolore preparato dalla
signora Lina Melani, un’operetta alla quale hanno partecipato alcuni iscritti alle organizzazioni
giovanili ed infine la bambina Mirella Melani ha recitato una graziosa poesia dal titolo «La sera
della Befana».
Durante la cerimonia è regnato il massimo entusiasmo e dopo... il coro di grida gioiose dei
bimbi ha compensato i laboriosi fascisti di tanta fede adoperata per la bella riuscita della festa.
Duemila bimbi sorrideranno di gioia, auspicio solenne di nuove e più grandi attività
dell’Associazione Fascista del Pubblico Impiego, nella radiosa giornata di domenica 26, quando
saranno distribuiti i doni che allieteranno il loro piccolo cuore.
I «Re Magi» ritornano! Ritornano non curandosi delle tempeste che l’Umanità subisce, delle
Rivoluzioni che Dio impone ai Popoli per la loro continua rinascita!
Ritornano quei potenti «Re» coperti di oro e di gioie, sempre vivi e vegeti con il balocco e
con il libro che farà felice il bimbo e lo spronerà agli studi e a un continuo fervore di opere.
La Befana è sempre la stessa. Eppure Essa che nonostante gli spazi di tempo multicentenari
ha presentato la sua fisonomia sempre identica con un ritornello petulante e nervoso, lasciando alla
sua partenza gioie e sospiri, sembra aver mutato espressione da quando il Fascismo è al Potere.
Il pianto del bimbo povero non contrasta oggi alla contentezza del ricco.
La gioia del bimbo povero e il sorriso amaro del genitore umiliato dalla beneficenza privata,
oggi che lo Stato fascista, attraverso le proprie Associazioni ed Enti provvede direttamente a queste
funzioni di beneficenza che essendo pubblica è la più vera, più sincera, più grande non adombrerà
più di tristezza il focolare domestico del lavoratore.
Quella «vecchietta» ingiusta che non osava penetrare negli ambienti freddi e malsani, che
non riusciva a far sorridere il figlio del lavoratore meno abbiente, oggi ha accettato in pieno questa
sacrosanta trasformazione che lo Stato della Rivoluzione le ha imposto per un più grande benessere
sociale.
Plaudiamo sinceramente alla fattiva organizzazione dell’Associazione Generale fascista del
Pubblico Impiego, cui il «Regime Fascista», tutore di tutte le manifestazioni materiali e spirituali
del popolo ha inteso di dover conferire un particolare significato di gentilezza e di solidarietà
sociale.
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*
Una giornata al Campo d’Armi della Bufalotta (1937)
Gli allievi dei Corsi di preparazione politica hanno trascorso la giornata di venerdì scorso al
Campo d’Armi del Comando Federale di Roma alla Bufalotta. Scopo della visita, assistere ad una
tattica svolta dai giovani campeggisti e partecipare, tra l’alza e l’ammaina bandiera, a tutta una
giornata di vita del campo, sia per rendersi conto di quelli che sono gli elementi fondamentali e le
fasi di addestramento militare dei Giovani fascisti, sia per attuare un più intimo sia pur rapido
accostamento tra i criteri formativi dei futuri dirigenti e lo spirito che anima le nuove generazioni
nel settore della preparazione bellica.
In tre giorni di lavoro effettivo, i campeggisti hanno fatto miracoli. Ordine e precisione di
movimenti sono i fondamenti della preparazione militare svolta durante il campo. Non v’è dubbio
che il miglior materiale umano non avrebbe potuto ottenere i risultati che sono stati ottenuti con
questi ragazzi tolti ieri dalle officine e dai campi di lavoro di tutti i rioni di Roma e dai paesi della
Provincia, senza quello spirito di aderenza perfetta e di entusiastica dedizione che caratterizza ormai
ogni forma di vita nazionale. [...]
[...] Sveglia, riordinamento delle tende, esercitazioni degli specialisti (fanfare e mitraglieri)
preparazione ginnastica, evoluzioni militari, secondo rancio. Ma ciò che si è potuto constatare è
stata la comunità di pensiero e di attività che lega tutti i partecipanti al Campo e i loro capi: lo
spirito comune, sereno, la sicurezza tranquilla dei giovani che ieri ancora forse non conoscevano un
fucile e che oggi si sentono perfettamente, naturalmente a posto nei ranghi di quello che sarà
domani il nostro esercito ma che in realtà lo è già fin da adesso. Si è potuto constatare come la
mentalità guerriera del popolo italiano, non pesante corollario di un mostruoso sogno egemonico,
ma naturale conseguenza della nostra espansione imperiale, mentalità di conquista vasta, spirituale,
creatrice, è ormai la base di quel ritmo entusiastico di lavoro e di combattimento attraverso il quale
si perpetua l’altissima tensione spirituale della Rivoluzione.
[s. v.]
*
Il 56º anniversario dell’inizio della bonifica di Ostia (1940)
Il 6 novembre XIX è stato ricordato ad Ostia quel lontano 6 novembre 1884 nel quale 600
operai e braccianti, prescelti fra i 3000 soci dell’associazione Cooperativa di Ravenna, ponevano
piede su quelle terre di Ostia e Fiumicino alle quali, col lavoro, col sacrificio e con la morte di molti
di loro avrebbero ridonato la fecondità e la vita. [...]
Per l’occasione sono convenuti da Ravenna un centinaio di soci di quelle cooperative che
arditamente presero l’iniziativa e tenacemente la condussero. Con queste cooperative madri, del
resto, anche quando ad Ostia sorsero cooperative autonome, furono mantenuti stretti vincoli di
fraterna solidarietà. I cooperatori ravennati erano accompagnati dai loro dirigenti [...], i quali
riscontrano nell’iniziativa assunta 56 anni fa dai cooperatori e perseguita per tanti anni, la premessa
di un’impresa squisitamente fascista quale è la prima bonifica realizzata dal Regime col ridare, per
volere del Duce, a Roma il suo mare.
Il Presidente dell’Ente Nazionale fascista della Cooperazione, Cons. Naz. Fabbrici, che ha
voluto intervenire alla simpatica riunione assieme al Direttore Console generale Dall’Orto e ad altri
32
dirigenti, funzionari dell’E.N.F.C., ha trattato della storia dei cooperatori ravennati, bonificatori di
Ostia, argomento per esaltare nella cooperazione un efficace strumento, atto a inserire direttamente
il lavoratore nel processo produttore, sia nella fase di bonifica delle terre sia nella fase delle culture
intensive.
Ed è da questa possibilità della cooperazione che nasce un incontro quasi spontaneo fra essa
e il Fascismo. Difatti, al di sopra e all’infuori di precedenti politici che venivano immediatamente
superati e cancellati, fin dal marzo 1923 le cooperative di Ostia e Fiumicino aderivano ai Sindacati
Nazionali organizzati dal partito Fascista e s’inquadravano nell’organizzazione cooperativa creata
dal Regime. D’altro canto il Regime riconosceva e premiava o potenziava la loro opera, dandole il
massimo sviluppo fino agli attuali splendori del Lido di Roma. [...]
Le acclamazioni al Duce, ripetute spontanee e vibranti durante le visite alle più importanti
realizzazioni delle cooperative e nei camerateschi saluti fra i ravennati residenti ad Ostia e di
ravennati venuti dalla città romagnola per incontrarsi con questa importante loro colonia, hanno
detto i comuni propositi di combattere le battaglie del lavoro coll’entusiasmo con cui i soldati della
terra, del mare e del cielo combattono sui diversi fronti ed hanno detto la comune fede nella vittoria
di tutte le battaglie che il Duce indice e conduce.
33
La Città Giardino Aniene
ESTRATTO DA
La Cooperativa Parva Domus Nomentana e la Città Giardino Aniene, in
“Roma fascista”, 1º ottobre 1927. Il titolo del brano riportato è redazionale.
34
Fra le Cooperative Edili, finanziate dallo Stato, la “Parva Domus Nomentana”, è certamente
quella che ne ha dato il maggiore contributo per la realizzazione della Città Giardino Aniene.
La Cooperativa “Parva Domus” con le sue costruzioni occupa oltre due terzi del vasto
quartiere sorto così rapidamente alle porte di Roma.
La critica di inconsapevoli si è accanita contro il nuovo Quartiere dicendone male. [...] Certo
non tutte le opere eseguite soddisfano pienamente, molte cose si sarebbero potute far meglio e
disporre diversamente; ma ciò non toglie che la “Città Giardino” oggi presenti un aspetto simpatico
e nell’insieme attraente. [...]
La Cooperativa “Parva Domus Nomentana” sorse nell’anno 1919 forte di oltre mille soci,
tutti impiegati ferroviari, e dopo numerose vicende, poté ottenere dall’Amministrazione delle
Ferrovie dello Stato un primo mutuo di L. 36.000.000 e dal competente Ministero un contributo per
gli interessi di tale somma ammortizzabile in cinquanta anni.
In breve spazio di tempo la Cooperativa, grazie al felice intuito del suo Presidente, si fece
fautrice dell’idea, già timidamente affacciata, per la costruzione di un nuovo quartiere in quella
zona di terreno che circonda il Monte Sacro ed il Ponte Nomentano, così pieni di suggestivi ricordi
storici. [...]
Nel 1921 la Cooperativa “Parva Domus Nomentana” gettava contemporaneamente le
fondazioni di 130 villini; nell’anno successivo, ottenuto un altro mutuo di sedici milioni e mezzo,
iniziava la costruzione di altri 213 villini.
Parallelamente venivano costruite la enorme rete stradale, le fognature, gl’impianti
dell’acqua potabile, d’energia elettrica ed il prolungamento delle linee tramviarie che ora
permettono di raggiungere il centro di Roma in poco tempo.
La Cooperativa ottenne intanto la concessione per la costruzione di un raccordo ferroviario
con la stazione di Roma Tiburtina, attraversando il fiume Aniene con un ponte di ferro; raccordo
che apportò vantaggi economici non indifferenti durante i lavori, facilitando in maniera efficace gli
onerosi trasporti dei materiali da costruzione. [...]
Le 343 casette costruite dalla Cooperativa “Parva Domus” sono proprietà individuale e ogni
socio ha la sua abitazione isolata in un lotto di terreno di circa 800 mq. e composto in media di sei
stanze, bagno, servizi ed uno scantinato nel quale trovansi le vasche per lavare.
Il costo medio di ogni casetta, compreso il terreno e le recinzioni (queste ultime
particolarmente dispendiose per le forti accidentalità del terreno), impianti di acqua, gas, luce
elettrica anch’essi molto costosi per l’enorme sviluppo della rete stradale, si aggira su una media di
circa 150.000 lire.
E così nella felice illusione di essere un giorno padrone della sua casetta e di poterne lasciare
la proprietà ai figli (dopo avere realizzato l’ammortamento per... 50 anni) il socio coltiva il giardino
e l’orto, abbellisce come può la sua modesta dimora e si affeziona ad essa; bisogna vedere con quale
attenzione e con quale importanza i gravi funzionari come i giovani impiegati si dedicano ai lavori
agricoli ed alla pollicultura, tutti compresi nel loro alto ufficio.
Bisogna frequentare un pochino il nuovo quartiere per vedere quale senso di tranquillità e di
pace esista in quelle dimore, per godere la quiete serena di quelle strade fiancheggiate da giardini
disposti in mille guise secondo i gusti degli abitanti e con quella genialità tutta nostra che da ogni
angolo sa trarre motivi di bellezza.
[...]
35
SOCIETÀ ANONIMA LAZIALE INDUSTRIE AGRICOLE
La Tenuta di Campoleone
ESTRATTO DA
Società Anonima Laziale Industrie Agricole, La Battaglia del Grano. L’Agro
Romano e la Tenuta di Campoleone, Roma, GRAFIA – S.A.I. per le Industrie
Grafiche, 1927 (pp. 10-32). Il titolo del brano riportato è redazionale.
36
Questa società fu costituita tra pochi agricoltori emiliani per l’acquisto e le bonifica di
terreni nell’agro romano. Si costituì una società perchè [...] per simili imprese occorrono mezzi
finanziari e tecnici adeguati, e tutta una attrezzatura che raramente un privato da solo può avere.
Fra le tenute acquistate dalla S.A.L.I.A. ve ne è una di circa 900 ettari denominata
Campoleone. Questa è sita in Comune di Roma a circa 30 km. dalla Capitale ed è ad essa allacciata
da due linee ferroviarie: la direttissima Roma-Napoli che attraversa le tenuta con stazione a
Campoleone e la linea di Cecchina (stazione di Cecchina). La tenuta è costituita da una vasta
superficie di terreno, leggermente ondulato, con qualche piccolo colle ed era completamente
incolta: qua e là cespugli e predominante l’asfodelo (porrazzo). Essa era priva affatto di acqua, ad
eccezione di quella che può scorrervi l’inverno nei tre fossi che attraversano longitudinalmente
l’intera proprietà e che scendono dai Colli Albani. Su questa vasta superficie non una abitazione,
salvo un piccolo e vecchio casale e quà e là, poco lungi dalle marrane, qualche grotta aperta nel
tufo che serviva da ricovero durante l’inverno ai pastori e d’estate causa di malaria per l’acqua che
vi stagnava. Insomma il classico agro romano dove, durante l’inverno, non s’incontra che il
pecoraio troglodita, col suo gregge e che d’estate è completamente abbandonato, sotto la sferza del
sole che gli fa acquistare un colore gialliccio che dà a queste terre un aspetto ancor più desolato.
Non strade e neppure carrareccie; lungo la marrana l’antica via di Ardea, scavata nel tufo. Quasi al
centro della tenuta, a cominciare dal ricordato piccolo casale, affiorava un mammellone di selcio,
testimone di quelle che furono le eruzioni vulcaniche. [...] La natura vulcanica fa sì che quelle terre
siano ricche di potassa e contengano anche acido fosforico, mentre non manca l’azoto per lo stato di
incoltura in cui rimasero per tanti secoli e in conseguenza dell’avervi sempre vissuto le pecore. I
sassi, o meglio il selcio, è limitato ad una superficie di circa un km. di lunghezza e di 150 m. di
larghezza, ed esso rappresenta una notevole ricchezza sia perchè è un materiale utilissimo per la
costruzione delle strade e per la loro manutenzione, e anche perchè alimenta una cava posta sulla
direttissima Roma-Napoli a circa un chilometro dalla stazione di Campoleone.
Campoleone, aveva quindi tutte le condizioni intrinseche per essere bonificato e trasformato,
come oggi è, in un’azienda agraria di prim’ordine. [...]
Bisognava pensare anzitutto a provvedere la tenuta di acqua potabile e per irrigazione. Della
proprietà Campoleone, fanno parte anche circa 5 ettari posti a Fontana di Papa, lungo la via
Nettunese. Là vi sono diverse sorgenti che i precedenti proprietari avevano allacciate e raccolte e
che oggi, da un grande serbatoio, tutto chiuso, con apposita conduttura giungono alla tenuta di
Campoleone nella misura costante di circa 70 once. Quest’acqua, con tubature minori, è portata ai
vari casali ove defluisce in ampi abbeveratoi di cemento. Come si comprende, questo acquedotto
rappresenta una grande risorsa per la tenuta che da asciutta è diventata irrigua e lo sarà ancor di più,
tra non molto, quando saranno completati i serbatoi a corona. [...]
Assicurata l’acqua, bisognava risolvere contemporaneamente il problema delle case e
dell’appoderamento. Campoleone ebbe quindi, in base alla legge dell’agro romano, il mutuo di
bonifica. Con questo mutuo si provvide alle costruzioni. La tenuta venne suddivisa in tanti
appezzamenti e su ciascuno fu costrutta una casa colonica, con stalla e con tutti i fabbricati
accessori. In tal modo ciascuno di questi lotti costituisce un podere a se. Le case sono ampie,
comode, costrutte con tufo e pozzolana della tenuta. Ogni famiglia colonica ha 4 stanze al piano
terra e quattro al primo piano, e una stalla per 18 capi di bestiame. In tutte le case costrutte trovano
comodo alloggio oltre 500 persone e la S.A.L.I.A. sta trasformando i vari poderi creati in
mezzadrie, con agricoltori venuti in gran parte dall’alta Italia. [...]
Di pari passo con i fabbricati si è provveduta alla viabilità. Furono aperti parecchi chilometri
di strada con buone massicciate di pietrisco e tufo e fossi laterali. [...]
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Mentre procedeva tutto questo lavoro abbiamo curato anche di mettere a coltura la terra.
Desiderosi di rispondere all’appello, rivolto dal Governo Nazionale agli agricoltori, per la battaglia
del grano, nell’autunno 1925 riuscimmo a seminare a grano 150 ettari di terreno già incolto e, per
quanto i lavori fossero stati affrettati, i risultati furono soddisfacenti. Le varietà coltivate furono
due: il Gentile Rosso 48 e l’Ardito. Entrambe diedero buone produzioni; meglio la prima della
seconda per quanto anche questa abbia, in alcuni appezzamenti, raggiunti i 24 q.li per ettaro. Il
grano prodotto, date le sue buone qualità, servì da seme.
La Commissione per il concorso del grano, che potè constatare i nostri sforzi, ci assegnò un
cospicuo e lusinghiero premio. [...]
La Società ha dedicato cure speciali alle concimazioni e ha studiato questo importante
problema in rapporto alla natura del terreno. Questo, già si è detto più sopra, è dotato in discreta
quantità dei principali elementi necessari alle piante, manca solo, sotto forma prontamente
utilizzabile, la calce, e perciò se ne curò la somministrazione sia direttamente a mezzo di gesso
agrario, sia con la calciocianamide. Di mano in mano che procedono i lavori profondi, si fanno laute
somministrazioni di letame, utilissime per la fertilizzazione della terra, per il suo miglioramento
fisico e per combattere la siccità. Anche senza l’aiuto di irrigazioni, là dove si son fatti dissodamenti
ad una media di 80 cm. e abbondanti concimazioni con stallatico, le erbe mediche, ad esempio,
resistono bene nei periodi estivi.
Fra i concimi chimici, furono impiegati il perfosfato, la calciocianamide e in primavera il
nitrato di soda o quello ammonico. [...]
Per procedere razionalmente alla messa in efficienza di Campoleone, si dovettero
provvedere ad ogni singola azienda, in cui la tenuta fu suddivisa, le macchine agricole e gli attrezzi
necessari. Furono quindi acquistati per ciascun mezzadro e pure per l’azienda condotta in economia:
aratri, aratri volta orecchi, trimoveri, erpici, frangizolle, rulli, seminatrici, spandiconcimi, falciatrici,
mietitrici legatrici, rastrelli, ecc. Di più si provvidero per il servizio di tutta l’intera tenuta dei
trattori Fordson e Bubba, una grande trebbiatrice con pressa, trinciaforaggi, sgranatrici, svecciatoi,
apparecchi per la preparazione e cottura dei mangimi. [...] La Società ha anche acquistato un grande
apparecchio per dissodamento Superkemna il primo che ha funzionato nell’agro. Purtroppo si
dovette ricorrere per questo all’estero perché in Italia non se ne fabbricano. Questo apparecchio è
composto di due grandi locomotrici di 350 HP, ciascuna, di un monovomere che pesa oltre 75
quintali di un pentavomere, di due carri botte e di una carovana. Con esso, fin dalla scorsa estate, si
sono iniziati i lavori di dissodamento e i risultati sono ottimi. Col monovomere si scende alla
profondità media di 80 cm. ma volendo si può sorpassare anche un metro e il cappellaccio viene
rotto e rovesciato in zolle colossali che ben presto si frantumano e scompaiono, specialmente se si
fanno seguire al dissodamento lavori di erpicatura con grossi erpici di cui pure ci siamo forniti. Se si
usa il monovomere, in media si dissoda da un ettaro a uno e mezzo al giorno, con un consumo di
circa una tonnellata di carbone per ettaro. Col pentavomere si lavora il terreno ad una media di 40
cm. e la produzione giornaliera varia da 3 a 4 ettari. Nelle zone ove esistono piante e ceppaie con le
stesse macchine si procede rapidamente a dicioccare, ed è meraviglioso vedere con quanta facilità si
eseguisce anche questo lavoro. [...]
[...] Nella primavera 1925 noi abbiamo importato a Campoleone oltre 200 manzette bruno
alpine. Preferimmo l’acquisto di bestiame giovane perché si potesse più facilmente acclimatare e
difendersi particolarmente dalla piroplasmosi. Con cure diligenti siamo riusciti a far passare a
queste manzette due periodi estivi senza che si verificasse alcun inconveniente. Da circa cinque
mesi esse hanno cominciato a figliare e fra non molto saremo in completa produzione lattifera. [...]
Oltre al bestiame bovino, nella tenuta di Campoleone, abbiamo anche 25 cavalle da tiro
pesante, tipo ardennese, col relativo stallone. Queste cavalle, almeno per ora, sono necessarie per
molti lavori agricoli, per il trasporto dei materiali, per le costruzioni delle case e delle strade e
danno, oltre al lavoro, un reddito coi puledri. Forse col tempo non necessiteranno più tutte, ma
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certo, data la vastità dell’azienda, anche in avvenire, sia pure in misura ridotta, saranno sempre
indispensabili. [...]
L’acqua della quale abbiamo già dotato Campoleone, ci permetterà di dedicarci in avvenire
anche alle grandi coltivazioni, orticole e potremo così provvedere verdura e frutta a Roma. [...]
Fin dallo scorso anno abbiamo iniziati impianti di vigneti e frutteti e nel prossimo autunno
anche per questo si provvederà su larga scala. [...]
Le coltivazioni orticole, frutticole e viticole faranno aumentare il fabbisogno di mano
d’opera e noi saremo lieti di vedere così sempre più crescere la popolazione di Campoleone e di
richiamare nell’azienda mano d’opera specializzata.
Si è detto a che a Campoleone esiste un mammellone di lava che partendo dal vecchio casale
scende alla linea ferroviaria Roma-Napoli e passa al di là di questa per circa un chilometro
mantenendo una media larghezza di 150 metri. Si tratta di selcio di ottima qualità. Dato il
fabbisogno di questo materiale e perché sollecitati dal Ministero dei Lavori Pubblici abbiamo messa
in efficienza questa cava. Si sgombrò il fronte lungo la ferrovia, che misura oltre 150 metri, si
raggiunse la radice ad una profondità di circa 15 metri, e si istallarono potenti frantoi azionati
dall’energia elettrica per la produzione di pietrisco, mentre al vecchio sistema di perforazione a
mano per preparare i fori per le mine si sostituirono i martelli pneumatici. In questa cava lavorano
circa 100 operai [...]. La cava è allacciata con due binari speciali alla linea Roma-Napoli e i treni
possono entrare in apposito ricovero mentre i pianali vengono caricati direttamente dalle tramoggie
dei frantoi. Questo cantiere così allacciato, dista circa km. 1 dalla stazione di Campoleone. Accanto
alla cava, oltre alla cabina di trasformazione, agli alloggi per i custodi che sono già fatti, si sta
provvedendo alla costruzione di frabbricati che serviranno per abitazione e refettorio degli operai,
perché è intenzione della Società che anche questi lavoratori trovino tutto quanto è necessario al
vivere civile.
In questa cava, oltre ad una produzione annua di circa mc. 50.000 di pietrisco, si possono
preparare selci, paracarri, chiusini, ecc.
[...] L’opera svolta, si è già detto, ha richiesto sacrifici e coraggio, ma è così che si può
raggiungere la meta. È così che attorno a Roma si può far sorgere, dall’agro incolto e malarico,
l’orto e il giardino auspicato dal Capo del Governo. [...]
39
Il “Contratto tipo di conduzione a compartecipazione collettiva per le aziende
cerealicole e zootecniche” nella Tenuta di Maccarese – S. Giorgio
ESTRATTO DA
Giulio Gennari, La colonìa parziaria di gruppo nelle aziende della Tenuta di
Maccarese S. Giorgio, Roma, Tip. P. Angeletti, 1935 (pp. 75-92). Un contratto simile
era previsto per la conduzione a compartecipazione collettiva per le “aziende a
vigneti specializzati”.
40
CONTRATTO TIPO
DI CONDUZIONE A COMPARTECIPAZIONE COLLETTIVA
PER LE AZIENDE CEREALICOLE E ZOOTECNICHE
PREMESSA E SCOPO.
La «Maccarese» Società Anonima di Bonifiche, concede in compartecipazione collettiva ai
lavoratori, rappresentati dai «Primi Uomini» Sigg.:
. . . . . . . . .. . . . . . . . .. . . . . . . . .. . . . . . . . .. . . . . . . . .. . . . . . . . .. .
l’Azienda Agraria a produzione zootecnica e cerealicola, sita nella Tenuta «Maccarese – S.
Giorgio», composta dai Centri N. . . . . . . . . . della superficie totale di Ea . . . . . . . . .
come risulta dall’unita planimetria, che, firmata dalle parti contraenti, forma parte integrante del
presente contratto.
Art. 1.
DURATA E DISDETTA.
Il presente contratto avrà la durata di un anno con inizio il . . . . . . . . . e termina il . . .
. . . . . . dell’anno successivo, e sarà tacitamente prorogato di anno in anno, se la «Maccarese»
Società Anonima di Bonifiche, oppure i «Primi Uomini», per conto dei lavoratori, non avranno dato
regolare disdetta, mediante lettera raccomandata con ricevuta di ritorno, tre mesi prima della
scadenza annuale del contratto.
Art. 2.
ASSUNZIONE DEI LAVORATORI.
L’assunzione dei compartecipanti (capi famiglia) verrà fatta attraverso gli uffici di
collegamento, nei modi di legge. I lavoratori compartecipanti saranno in numero di . . . . . . . . .
unità lavorative, con un minimo di . . . . . . . . . uomini dai 18 ai 65 anni. Le unità lavorative
indicate non potranno essere superate, senza il preventivo consenso della Società e dei «Primi
Uomini».
I compartecipanti assunti con il presente contratto, fanno parte della compartecipazione
(sempre nel limite delle unità lavorative suddette) con tutti i membri della propria famiglia residenti
nell’azienda ed atti al lavoro, esclusione fatta della massaia.
In calce al presente contratto saranno indicati i nominativi dei capi famiglia e loro famigliari
assegnati alla compartecipazione, ed in base all’articolo 12 verrà fissato ad ogni famiglia o singolo
lavoratore, il numero delle unità lavorative riconosciute.
Art. 3.
ABITAZIONE.
Le famiglie di compartecipanti avranno alloggio gratuito nei fabbricati, visitati ed accettati,
all’atto della firma del contratto. La manutenzione straordinaria dei fabbricati e dei manufatti è a
carico della Società.
I lavoratori sono però tenuti a conservare con cura e pulizia la casa, le stalle e loro annessi
(cortili, pollai, porcili). La piccola manutenzione dei fabbricati di abitazione come: impianti
elettrici, serrature, vetri e zanzariere alle porte e finestre, serrature e chiudende ai cortili, orti, porcili
e pollai, è a totale carico delle singole famiglie.
Per la ordinaria imbiancatura, verniciatura o disinfezione dei locali, la Società fornirà la
materia prima, mentre la mano d’opera per l’applicazione delle medesime sarà a carico delle singole
famiglie.
41
Le famiglie dei compartecipanti avranno diritto a 60 mq. Di terreno, per ogni unità
lavorativa impegnata con il presente contratto, da adibire a produzione di ortaggi per il loro
esclusivo uso. Questi orti dovranno essere continuamente e diligentemente coltivati.
I compartecipanti hanno inoltre il diritto di tenere N. 5 galline per ogni unità lavorativa
impegnata come sopra detto.
È fatto divieto ai compartecipanti di dare ricetto sia a persone estranee all’azienda che ad
animali, anche per un breve periodo, senza autorizzazione speciale della Società.
Art. 4.
RAPPORTO FRA LA SOCIETÀ E COMPARTECIPANTI.
Tutti i compartecipanti agiscono in via solidale ed indivisibile tra di loro, rendendosi così
collettivamente garanti e responsabili delle assunte obbligazioni verso la Società.
La Società ed i lavoratori, di comune accordo, hanno scelto fra i compartecipanti i lavoratori
indicati nella premessa che si denomineranno «Primi Uomini».
I «Primi Uomini» rappresentano tutti i compartecipanti nei confronti della Società per la
stipulazione ed applicazione del presente contratto; non saranno però dispensati dal lavoro, né alcun
speciale compenso sarà loro dovuto.
Qualora, per qualsiasi ragione, venisse a mancare alla compartecipazione uno o più «Primi
Uomini», questi verranno immediatamente sostituiti da altri, scelti di comune accordo fra la Società
ed i lavoratori.
Art. 5.
DIREZIONE ED AMMINISTRAZIONE.
La Direzione tecnica ed amministrativa spetta alla Società, la quale è pertanto la sola ed
unica responsabile della buona e razionale conduzione dell’azienda e della esatta sua
amministrazione.
La Società richiederà la collaborazione dei «Primi Uomini» per la migliore conduzione e
disciplina dell’azienda, così da ottenere dai lavoratori il maggior rendimento nel comune interesse.
Tutte le partite di debito e credito inerenti alla conduzione della azienda, ivi comprese le
anticipazioni ai compartecipanti come all’art. 13 dovranno essere registrate, di volta in volta, in due
libretti di contabilità, di cui uno verrà consegnato al «Primo Uomo» più anziano.
Art. 6.
DISCIPLINA.
I lavoratori ed in particolare i «Primi Uomini» dovranno rispetto ed obbedienza ai
rappresentanti della Società.
Allorquando, durante la compartecipazione, uno o più lavoratori si dimostrassero
indisciplinati, non volenterosi od incapaci, saranno immediatamente allontanati dal rappresentante
della Società e sostituiti con altri, nell’interesse stesso degli altri lavoratori.
Ai compartecipanti così allontanati, competerà il solo anticipo, come all’art. 13 e ciò sino al
giorno di effettiva occupazione.
L’eventuale utile finanziario della compartecipazione, a loro attribuito, andrà a favore
esclusivamente degli altri compartecipanti.
Ai compartecipanti che mancassero al lavoro senza giustificato motivo, sarà sospeso
l’anticipo (di cui all’art. 13) per i giorni di assenza.
Qualora l’assenza superasse i sei giorni, la Società procederà all’allontanamento del
lavoratore.
La liquidazione avverrà, anche in questo caso, con le norme indicate nei paragrafi 3 e 4 del
presente articolo.
Gli eventuali danni agli immobili, alle macchine, carreggi ed attrezzi, agli animali ed alle
coltivazioni, imputabili a colpe dei compartecipanti, saranno addebitati ai singoli responsabili, ed il
42
ricavato andrà a favore della Società se per gli immobili, le macchine, carreggi ed attrezzi, e
animali; della Società e dei compartecipanti in ragione della suddivisione dei prodotti, se i danni
riguardano la coltivazione.
Art. 7.
RESCISSIONE ANTICIPATA DEL CONTRATTO.
La Società si riserva il diritto di rescindere il presente contratto, quando i fatti sotto elencati
siano imputabili ad almeno un terzo dei lavoratori:
1) per l’arbitrario abbandono, in tutto od in parte, della regolare coltivazione dei terreni
concessi in compartecipazione;
2) per l’abbandono o maltrattamento del bestiame dato in consegna;
3) per il rifiuto di eseguire le disposizioni impartite dal rappresentante della Società, in
rapporto alle condizioni stabilite nel presente contratto;
4) per violenze o vie di fatto contro il rappresentante della Società;
5) per furti e danneggiamenti alle proprietà;
6) per discordia palese e dannosa alla conduzione dell’azienda, fra i compartecipanti stessi.
Se i predetti fatti sono imputabili a meno di un terzo dei compartecipanti, od ai «Primi
Uomini», i responsabili saranno allontanati immediatamente e per la loro liquidazione si procederà
con le norme indicate nel paragrafo 3 e 4 dell’art. 6.
L’eventuale rescissione anticipata del contratto è demandata al giudizio delle Organizzazioni
Provinciali.
Art. 8.
OBBLIGHI DEI COMPARTECIPANTI.
I compartecipanti dovranno essere forniti di tutti i piccoli attrezzi a mano, di uso comune,
necessari all’azienda. In mancanza, la Società potrà fornirli, se richiesta, a puro prezzo di costo.
Ai compartecipanti competono:
a) la mano d’opera necessaria a tutti indistintamente i lavori e le cure colturali di normale
coltivazione, e come saranno ordinati e prestabiliti dal rappresentante della Società.
Rientrano nei lavori, tutte le operazioni che dall’aratura e preparazione del terreno vanno
alla raccolta dei prodotti, deposito in silos ed eventuale conservazione.
Tra i lavori di normale coltivazione debbono comprendersi (senza che però la specificazione
nuocia alla generalità) la formazione di terricciati; la sistemazione delle capezzagne, la rifilatura
delle testate; la pulizia delle scoline, dei fossi di scolo e dei canali di irrigazione; il trasporto e
spandimento del letame, dei terricciati e concimi; l’ordinaria livellazione dei terreni e specie quelli
irrigui; la custodia delle piantagioni con l’eventuale rimpiazzo delle piante che verranno fornite
gratuitamente dalla Società; e la manutenzione delle stesse dopo il terzo anno dall’impianto;
b) tutta la mano d’opera occorrente per le vaccherie, custodia bestiame da reddito,
allevamento e lavoro; impiego del bestiame da lavoro;
c) la mano d’opera per la manutenzione dei piazzali ed adiacenze dei centri;
e) le spese per il consumo di luce elettrica per uso delle abitazioni.
Qualora i compartecipanti non eseguissero per loro colpa, in tempo utile e con la dovuta
diligenza, in tutto od in parte, i lavori ordinati, la Società avrà il diritto di fare eseguire tali lavori
con mano d’opera avventizia, addebitando la spesa ai compartecipanti.
È fatto divieto assoluto ai compartecipanti di dare a prestito le scorte vive o morte, nonchè di
fare qualsiasi altra prestazione di bestiame e di lavoro personale per conto di terzi.
Art. 9.
SCORTE DI DOTAZIONE.
La Società consegnerà ai compartecipanti, il fondo tutto, dotato per una regolare e razionale
conduzione.
43
Sono perciò ad esclusivo carico della Società le dotazioni:
1) di scorte morte: fieno, paglia e letame;
2) di bestiame: vacche da latte; allevo per la rimonta delle vaccherie; buoi da lavoro, cavalle
fattrici da lavoro; ovini;
3) macchine, carreggi, finimenti ed attrezzi.
Nessun interesse sarà corrisposto dai compartecipanti alla Società per le sopra citate
dotazioni.
All’inizio della compartecipazione, da persona designata dalla Società in unione ai «Primi
Uomini», e nell’interesse delle parti, sarà redatto lo stato di consegna del fondo, che viene firmato
ed allegato al presente atto sotto la lettera A. Nelle operazioni di consegna, i «Primi Uomini»
saranno assistiti da un rappresentante dell’organizzazione sindacale.
Per lo stato di consegna si terranno presenti i seguenti criteri:
a) delle colture e anticipazioni colturali in essere, sarà fatta una minuta descrizione, in modo
da precisare inequivocabilmente la estensione, qualità e stato di produttività dei prati artificiali e
singole colture;
b) le scorte saranno descritte per qualità, quantità e peso. Per le macchine, carreggi ed
attrezzi sarà indicata la quantità e per ciascuno di essi, a titolo indicativo, sarà precisato lo stato di
conservazione ed uso;
c) il bestiame verrà descritto per gruppi, distinti per razza, numero, qualità, età e peso.
Tutte le scorte vive e morte, macchine ed attrezzi, rimangono sempre di esclusiva proprietà
della Società, ed i compartecipanti devono regolare e custodire, con zelo e premura, tutto ciò che
hanno avuto in consegna, cercando di impedire qualsiasi danneggiamento.
Alla scadenza del contratto, i compartecipanti hanno l’obbligo di restituire quanto avuto in
consegna, nella stessa consistenza iniziale, salvo le variazioni, per aumenti e diminuzioni, avvenute
durante la conduzione.
La differenza alla riconsegna: nello stato colturale; nelle rimanenze di scorte morte; nelle
dotazioni di bestiame, verrà accreditato o addebitato nel conto della conduzione e quindi diviso fra
Società e compartecipanti nella proporzione del 30% per i compartecipanti e del 70% per la Società.
Tutti i casi di mortalità che si verificassero nel bestiame per epizozie, saranno ad esclusivo
carico della Società, la quale dovrà provvedere al reintegro del bestiame stesso, in modo che la
stalla sia mantenuta in piena efficienza produttiva.
La differenza in meno alla riconsegna nelle macchine, carreggi ed attrezzi, sarà addebitata
nel conto della conduzione e quindi diviso fra la Società e compartecipanti come sopra.
Spetta alla Società la rinnovazione tempestiva delle macchine, carriaggi ed attrezzi che si
fossero resi inservibili o la cui minorata efficienza fosse tale, da non consentire le lavorazioni a
regola d’arte. Tutte le variazioni che si verificassero durante la conduzione, nelle dotazioni di
bestiame, macchine, attrezzi e carriaggi, saranno regolarmente registrate e riportate negli stati di
consegna.
Le riconsegne avverranno fra la Società ed i «Primi Uomini» assistiti dal rappresentante
della associazione Sindacale.
Qualora fra la persona designata dalla Società ed i «Primi Uomini» assistiti dal
rappresentante dell’Associazione Sindacale, non vi fosse la possibilità di accordarsi in merito alle
riconsegne, queste verranno fatte, per conto delle parti, da periti arbitri nominati, uno dai «Primi
Uomini» e uno dalla Società e presieduti da persona nominata d’accordo tra i due, ed in difetto
dall’Ispettore Agrario Compartimentale di Roma.
I periti arbitri giudicheranno inappellabilmente e senza formalità di procedura.
Art. 10.
RIPARTIZIONE DELLE SPESE DI CONDUZIONE.
Saranno a carico della Società per il 70% ed a carico dei compartecipanti per il 30% le spese
sostenute:
44
a) per l’acquisto per carburanti per trattori, dei concimi chimici, sementi, mangimi
concentrati, fieno e paglia e quanto altro occorre per la normale conduzione dell’azienda;
b) per le cure veterinarie al bestiame e relativi medicinali;
c) per il consumo di luce nelle vaccherie, ed energia per scopi agricoli;
d) per la manutenzione delle macchine e degli attrezzi usati nell’azienda, manutenzione che
sarà eseguita nelle officine della Società;
e) per il trasporto del latte dalle vaccherie alla Centralina di Maccarese;
f) per la filtrazione e refrigerazione del latte nella Centralina di Maccarese;
g) per il trasporto del latte da Maccarese a Roma.
Art. 11.
RIPARTIZIONE DEGLI ONERI FISCALI E DI ASSICURAZIONE.
Gli oneri fiscali:
1) Sono a carico esclusivo della Società:
a) le imposte fondiarie e relative imposte comunali e provinciali;
b) l’imposta di R. M. sul reddito agrario di parte padronale;
c) i contributi per consorzi di bonifica, e consorzi idraulici gravanti il fondo;
d) i premi di assicurazione contro gli incendi dei fabbricati.
2) Sono a carico della Società e dei compartecipanti, in ragione del 70% per la Società e del
30% per i compartecipanti:
a) la tassa bestiame;
b) i premi di assicurazione sui prodotti agricoli contro la grandine e gli incendi, nonchè i
premi per l’assicurazione delle scorte vive e morte contro l’incendio;
c) i contributi per le acque di irrigazione, limitatamente all’uso che di essa acqua si fa
nell’azienda.
3) Sono a carico esclusivo dei compartecipanti: la tassa di famiglia ed in genere gli oneri
fiscali che, ai sensi delle vigenti leggi, riguardano specificamente le famiglie compartecipanti.
4) Gli oneri assicurativi, obbligatori contro l’invalidità, vecchiaia e tubercolosi, saranno
applicati e ripartiti nei modi di legge.
Art. 12.
DIVISIONE DEI PRODOTTI.
La vendita dei prodotti colturali spetta unicamente alla Società,la quale peraltro, di volta in
volta, ne informerà i «Primi Uomini», ed il ricavato sarà registrato nel conto compartecipazione.
Alla società compete il diritto di decidere e provvedere su tutto quanto si riferisce
all’indirizzo zootecnico ed al movimento del bestiame, senza tuttavia che venga mai menomata
l’efficienza produttiva della stalla. Il «Primo Uomo» anziano sarà però sempre messo al corrente
della varie operazioni di compra – vendita ed ha facoltà di presenziare alle contrattazioni.
I puledri e muletti, appena svezzati, saranno ritirati dalla Società ai prezzi di stima
concordati, e l’importo verrà accreditato al conto compartecipazione, per essere diviso per il 30% ai
compartecipanti e per il 70% alla Società.
I vitelli destinati all’allevamento, verranno alla nascita ritirati dalla Società per l’allevamento
artificiale e restituiti all’età di 4 mesi. Il costo di questo allevamento sarà sostenuto da tutte le varie
aziende di compartecipazione e in proporzione dei vitelli allevati.
La produzione del latte verrà tutta consegnata al Consorzio Laziale produttori Latte S. A:,
concessionario della Centrale del Latte.
Gli altri prodotti, man mano che saranno maturati, verranno ritirati dalla Società, per essere
o venduti o passati nei propri magazzini o silos.
Il ricavato della vendita dei prodotti delle stalle e delle colture, verrà diviso in ragione del
70% alla Società e del 30% ai compartecipanti.
45
Ad ogni unità lavorativa, la Società consegnerà inoltre annualmente, in sovrappiù del
salario:
180 litri di vino, 180 di latte e legna per l’uso della famiglia, in ragione di due fascetti mercantili per
settimana e per ogni unità lavorativa.
Per il loro uso famigliare, i compartecipanti potranno ritirare un quantitativo superiore di
latte, previa autorizzazione della Società e relativo pagamento od accredito in conto anticipazioni,
come da art. 13.
I compartecipanti potranno pure depositare gratuitamente, nei silos o magazzini della
Società, i cereali necessari al consumo della famigli.
Su richiesta dei compartecipanti e contro il semplice rimborso delle spese, la Società si
obbliga a restituire detti cereali, regolarmente macinati o trasformati in pane.
Per quanto si riferisce alla suddivisione, fra le varie famiglie e singoli compartecipanti, dei
redditi della gestione, resta inteso che questi saranno suddivisi in ragione delle giornate di effettivo
lavoro prestato da ogni singolo compartecipante ed in proporzione delle unità lavorative assegnate
come da art.2, e determinate secondo la seguente graduatoria:
Maschi dai 18 ai 65 anni ……………............. 1 unità lavorativa
»
»
15 » 18 anni ………...........7/10 »
»
Ragazzi sani e robusti da 12-15 anni .......... 4/10 »
»
Femmine da 16 a 60 anni………….........…6/10 »
»
»
» 12 a 16 » ……………......... 4/10 »
»
Per gli uomini oltre i 65 anni e per le donne oltre i 60 anni, verrà determinata la capacità
lavorativa caso per caso.
Allo scopo di stabilire una equa differenziazione fra le varie categorie di lavoratori
specializzati, prima della suddivisione del reddito complessivo della gestione, verrà prelevato il
10% a favore dei: capi vaccai, vaccai, bifolci, cavallanti, manzolari, trattoristi ed irrigatori.
Questa somma verrà così ripartita:
Il 16% ai capi vaccai;
» il 33% ai vaccai;
» il 2% al manzolaio;
» il 38% ai 10 bifolci o cavallanti;
» il 6% ai 2 trattoristi;
e dette ripartizioni fra i componenti delle indicate categorie, saranno fatte in ragione delle
giornate di effettivo lavoro prestato.
Questa ripartizione deve essere considerata a titolo indicativo, e le Associazioni Sindacali si
riservano, alla fine dell’annata agraria, di modificare le percentuali sopra indicate, anche per il
primo esercizio, al fine di stabilire una ripartizione più rispondente allo scopo prefisso.
L’assegnazione delle unità lavorative a ciascuna famiglia o compartecipante, sarà fatta
annualmente dalla Società, d’accordo con i “Primi Uomini” ed unicamente per il personale
riconosciuto perfettamente valido al lavoro.
Art. 13.
ANTICIPAZIONI.
La Società si impegna di anticipare settimanalmente alle famiglie o singoli compartecipanti,
per ogni unità lavorativa impegnata:
Vaccai …………………………………..…..L 45 settimanali
Bifolci, cavallanti, trattoristi…….....……..…L.40
»
Personale di campagna ………………....…..L 35
»
Tali anticipazioni costruiranno debito, senza interesse, dei compartecipanti e dovranno
essere liquidate alla chiusura annuale dei conti.
Art. 14.
46
BILANCIO DELL’ANNATA.
Alla fine di ogni anno di gestione, si procederà, da parte della Società e dei «Primi Uomini»,
assistiti dal rappresentante dell’Associazione Sindacale, alla chiusura dei conti per la compilazione
dei risultati della gestione.
Una volta fatti ed accettati i conti, che devono essere presentati 20 giorni dopo la chiusura
dell’anno, le risultanze saranno definitive e sarà ammesso reclamo nel solo caso di errore materiale.
Il prezzo dei prodotti venduti sarà quello realizzato nelle vendite. Il prezzo dei prodotti
eventualmente ceduti alla Società, verrà concordato di volta in volta, fra questa ed i «Primi
Uomini».
Art. 15.
ASSICURAZIONI PER INFORTUNI.
L’assicurazione degli infortuni sul lavoro è regolata a norma di legge.
Nel caso di infortunio, il lavoratore infortunato percepirà l’acconto stabilito per la durata di
un mese. Durante tale periodo, il conduttore potrà richiedere la sostituzione provvisoria
dell’infortunato con altro lavoratore, la cui remunerazione sarà a carico della compartecipazione.
Trascorso un mese, l’acconto sarà sospeso, e trascorsi tre mesi, se il lavoratore infortunato
non sarà in grado di riprendere il lavoro, la sostituzione passerà definitiva.
Le stesse norme valgono in caso di malattie dei compartecipanti.
In caso di malattia od infortunio, qualora la sostituzione diventi definitiva, ed anche in caso
di morte, il compartecipante e la sua famiglia godranno dei locali di abitazione sino alla fine
dell’annata agraria; in tali contingenze, il compartecipante e la sua famiglia avranno altresì diritto
all’eventuale utile della compartecipazione, sino al momento in cui fu percepito l’acconto.
Art. 16.
CHIAMATA ALLE ARMI ED ALLA M.V.S.N.
In caso di chiamata alle armi, al compartecipante competono l’acconto e l’eventuale utile
della compartecipazione, sino al momento di effettiva occupazione nell’azienda.
Il compartecipante chiamato in servizio alla M.V.S.N. avrà diritto di percepire l’anticipo
stabilito nell’art.13 per il periodo di richiamo.
Art. 17.
ORDINE FASCISTA NELL’AZIENDA.
Nella convivenza dell’azienda, le manifestazioni, motti fascisti, gesti di disciplina, e quanto
potrà contribuire all’affinamento dello spirito della massa, saranno usati dalla Società e dai
lavoratori.
Art. 18.
ISTITUZIONE DI SPACCI AZIENDALI.
Per diminuire il costo della vita ai lavoratori compartecipanti, vengono istituiti gli spacci
interni aziendali, che saranno gestiti dai lavoratori stessi, assistiti dalla propria Associazione
Sindacale.
Gli spacci non devono avere nessun scopo lucrativo e le consegne di merce ai
compartecipanti debbono essere rigorosamente limitate ai bisogni della famiglia dei
compartecipanti.
Le merci di dotazione degli spacci, su richiesta dei lavoratori, saranno fornite dai magazzini
centrali della Società, al puro prezzo di costo, maggiorato delle spese vive.
Art. 18.
VERTENZE.
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Le vertenze che insorgessero nella interpretazione ed applicazione del presente contratto,
saranno delibate, con ogni sforzo possibile, tra la Società ed i «Primi Uomini».
Nell’impossibilità di accordo, le vertenze saranno demandate alle Associazioni Sindacali
Provinciali per il tentativo di conciliazione, mancando il quale, le parti saranno libere di adire la
Magistratura competente.
Le controversie collettive che insorgessero per l’applicazione od interpretazione del presente
contratto, saranno rimesse, per il tentativo di amichevole componimento, alle Associazioni
Sindacali Provinciali contraenti, ed in caso di mancato accordo, a quelle di grado superiore; dopo di
che, in mancanza di definizione, le parti saranno libere di ricorrere alla magistratura competente.
48
Circolare sull’uso obbligatorio di insetticidi contro le zanzare anofeli
ESTRATTO DA
Giacomo Rossi, Come Maccarese potè bonificarsi integralmente nonostante la
malaria. Confessioni di un malariologo, Portici, Stab. Tip. E. Della Torre, 1935 (pp.
190-91). Il saggio era stato originariamente pubblicato negli “Annali del R. Istituto
superiore agrario di Portici” (s. 3, v. 7, 1935). Il titolo è redazionale.
49
Al Capo Famiglia Sig. ...................................................
Abitante dell’appartamento N. .................... del Centro Colonico N. ....................
MACCARESE
L’Amministrazione della Tenuta Castel. S. Giorgio, nell’interesse di tutti i dipendenti che
abitano appartamenti meccanicamente protetti contro le zanzare apportatrici di malaria, e allo scopo
di facilitare l’uso efficiente delle protezioni stesse, ha deciso di far obbligo, ai predetti dipendenti,
dell’acquisto di una pompa nebulizzatrice di liquidi insetticidi innocui all’uomo e di una piccola
provvista (2 litri mensili) di detti liquidi.
La pompa è ceduta dalla “Maccarese” al prezzo di L. 5.50, di fronte al prezzo di 6,50 del
commercio al minuto.
Come liquido insetticida Ella avrà la scelta fra il Flit della Casa Manetti e Roberts al prezzo
di L. 15 al litro (nel commercio al minuto L. 20) ed il Flot fabbricato dalla “Maccarese” stessa e
non esistente in commercio, al prezzo di L. 3 al litro.
Il prezzo della pompa e del liquido scelto sarà trattenuto sugli assegni dovuti alla S. V. nel
mese successivo all’acquisto.
Ella è perciò pregata di ritirare presso l’Agente da cui Ella dipende, detta pompa e detti
liquidi.
Solo nel caso che la S. V. possedesse già pompa e liquido, sarà esonerato dall’acquisto, ma
però dovrà fare verificare dall’Agente tale suo possesso.
Data del recapito manuale.
D’Ordine del Consigliere Delegato
Il Dirigente Agrario
AVVERTENZE
Per ritirare il liquido l’interessato dovrà portare all’Agenzia, all’atto del ritiro dei liquidi,
uno o più recipienti adatti, in vetro o in latta, che siano muniti di tappo o altra chisura. Sarà
obbligo dell’agente di contrassegnare tali recipienti con appositi cartellini (Flot o Flit).
L’Amministrazione ha sempre a disposizione dei richiedenti maggiori quantità di Flot e Flit
ai prezzi già detti.
Istruzioni per l’uso del FLOT
1) Il Flot, per quanto, se usato convenientemente, uccida qualsiasi insetto casalingo, è
particolarmente destinato all’uccisione degli anofeli (zanzare portatrici della malaria).
2) Non conviene sciupare Flot (e nemmeno Flit) per l’uccisione delle mosche. Inoltre, nelle
case protette come quelle della tenuta Castel S. Giorgio, le mosche non si dovrebbero trovare.
3) Il Flot non macchia, ed è innocuo per gli uomini e gli animali. Non emana soverchio
cattivo odore che, inoltre, subito sparisce.
4) il Flot è fabbricato e messo a disposizione esclusivamente per la lotta contro la malaria
nelle case protette ove sostituisce la cattura manuale delle zanzare.
In dette case gli insetti alati non saranno mai molti: si potrà perciò prenderli di mira colla
pompa con molta facilità, specialmente verso sera, sui vetri o sulle reti, ed ucciderli, spruzzandoli
direttamente ogni volta che se ne scorga qualcheduno.
50
5) Ove, per qualsiasi evenienza o ragione, si veda, o si tema, che molti anofeli si siano
accumulati, allora, si dovrà procedere alla disinfestione di tutto l’ambiente.
A tale scopo, si chiuderanno porte e vetri della stanza da disinfestare e si nebulizzerà colla
pompa tutto l’ambiente, prendendo di mira anzitutto gli angoli oscuri, gli spazi dietro e sotto i
mobili, ove non giunge lo sguardo, e in particolare sotto i letti. Da ultimo si daranno molti colpi
della pompa diretti in alto. In tutto, a seconda della grandezza dell’ambiente, si daranno
ordinariamente dai 100 ai 300 colpi. Si lascerà chiuso l’ambiente, a seconda della sua grandezza,
dai 15 ai 30 minuti.
Dopo di che, se si sarà spruzzato abbastanza liquido ed atteso abbastanza tempo, tutti gli
anofeli saranno morti e si potranno riaprire i vetri e le porte.
6) Il Flot (ed anche il Flit) sono liquidi infiammabili: devono perciò essere tenuti lontani dal
fuoco e dalle fiamme, nè si devono spruzzare direttamente sulle stesse.
51
Avviso imposto alle ditte lavoratrici dalla Società «Maccarese»
ESTRATTO DA
Giacomo Rossi, Come Maccarese potè bonificarsi integralmente nonostante la
malaria. Confessioni di un malariologo, Portici, Stab. Tip. E. Della Torre, 1935 (p.
205). Il titolo è redazionale.
52
AVVISO
Ditta ....................................................
Lavori per la Società “MACCARESE” A. di B.
REGOLAMENTO SANITARIO ANTIMALARICO
da osservarsi dal personale dipendente
ART. 1. – Tutti i dipendenti della Ditta addetti ai lavori della Società Maccarese sono obbligati:
a) A lasciarsi visitare dal medico all’atto dell’assunzione in servizio, soprattutto dal punto di vista
malarico.
b) A praticare la profilassi chininica giornaliera, bisettimanale o d’altro tipo, dal 5 giugno al 15
novembre.
c) A rispettare scrupolosamente le protezioni meccaniche dei dormitoi e a fare uso efficiente delle
stesse dal 15 giugno al 15 novembre.
d) A lasciarsi curare in caso di malaria conclamata ed esclusivamente secondo le prescrizioni del
medico.
e) A lasciarsi isolare, una volta malato di malaria, quando ciò sia necessario su giudizio
insindacabile del medico e colle modalità che esso crederà bene di stabilire; compreso il trasporto
alla infermeria.
f) A pernottare esclusivamente nei dormitoi protetti entrandovi ed uscendone secondo le
prescrizioni quindicinali che saranno affisse.
g) A non riposare durante il giorno all’ombra degli alberi, sotto i ponticelli delle strade, o nella
frescura delle macchie.
ART. 2. – Tutti coloro che non ottempereranno agli obblighi suddetti saranno passibili di multa e di
licenziamento.
ART. 3 – I dipendenti che risultassero, a giudizio insindacabile del medico, permanentemente
intolleranti all’uso del chinino, una volta ammalati di malaria, saranno licenziati.
Roma, 1º giugno 1929 – Anno VII
L’ING. DIRETTORE
53
MINISTERO DELL’ECONOMIA NAZIONALE
L’Agro Romano nel primo quinquennio fascista. Relazione sull’incremento del
bonificamento agrario e della colonizzazione nell’Agro Romano, dal 1º gennaio
1923 (I) al 31 dicembre 1927 (VI)
ESTRATTO DA
Ministero dell’Economia Nazionale, L’Agro Romano nel primo quinquennio
fascista. Relazione sull’incremento del bonificamento agrario e della colonizzazione
nell’Agro Romano, dal 1º gennaio 1923 (I) al 31 dicembre 1927 (VI), Roma, Tip.
Cuggiani, 1928 (pp. 29-30; 45; 49; 53-56; 141-43).
54
L’AGRO ROMANO NEL 1922 E L’AVVENTO DEL FASCISMO. – Le leggi erano
apprestate, la tecnica aveva trovati i mezzi per la sollecita loro attuazione; con le borgate rurali
erano sorti i nuovi centri di vita agricola in molte contrade dell’Agro, la viabilità aveva avuto il suo
sviluppo nelle zone più prossime all’Urbe; ma scarse erano le iniziative dei privati ed inerte e
sfiduciata si mostrava la proprietà terriera. La instabilità delle condizioni politiche del Paese ed i
provvedimenti emanati per la concessione delle terre avevano determinato nei proprietari uno stato
di sfiducia e di grave perplessità che era di ostacolo agli investimenti di capitali per i miglioramenti
fondiari. Tutto era pronto per ingaggiare la santa battaglia per la redenzione dell’Agro; mancava
però la fiducia nell’esercito operante e l’impulso animatore del Capo.
Con l’avvento del fascismo cominciò a risolversi la crisi profonda che aveva cruciata la
Nazione: al turbamento subentrò la tranquillità, allo sconforto la fiducia, all’inerzia infeconda un
nuovo fervore di vita e i proprietari tornarono anch’essi volenterosi e sereni agli investimenti terrieri
ed alle opere di trasformazione fondiaria.
Dato alla Nazione un nuovo clima spirituale e abrogati i provvedimenti che costituivano
intralcio al progresso agricolo del Paese, il Governo fascista impresse subito alla bonifica quel ritmo
celere e deciso che era richiesto dalle necessità della produzione e perfezionò in alcuni punti la
benefica legislazione sul bonificamento dell’Agro, la quale nel suo spirito informatore risponde
pienamente alle caratteristiche proprie dello Stato fascista che domina e sorregge i fenomeni sociali
ed economici al fine della pubblica utilità.
Tutta la campagna romana era ormai sottoposta per legge al vincolo della bonifica
obbligatoria; ma occorreva tradurre in atto questo principio legislativo, che aveva trovato fino allora
applicazione, per quanto inadeguata, solo nella zona di circa 44.000 ettari più prossima alla Capitale
ed in poche altre tenute finitime complessivamente estese circa 9.000 ettari.
[...]
IL PRINCIPALE MEZZO COL QUALE LO STATO SORREGGE L’OPERA DEI
PROPRIETARI. – La più importante provvidenza portata dalla speciale legislazione per l’Agro
romano è costituita, come è noto, dal finanziamento statale a tasso di favore delle opere di bonifica
e cioè dalla possibilità per i proprietari di ottenere, per la esecuzione delle opere di trasformazione
fondiaria prescritte dal Ministero e rese obbligatorie dalla legge, mutui di favore al tasso del 2,50%,
rimborsabili in 45 annualità a cominciare dal quinto anno dopo la concessione del mutuo. [...]
[...]
LE BORGATE RURALI. – Questi piccoli centri di vita collettiva chiamati «borgate rurali»
sono stati le sentinelle avanzate della bonifica agraria dell’Agro romano.
Cominciarono già a sorgere nel 1913, in seguito all’impulso dato con la legge 17 luglio
1910, ad iniziativa di enti e di privati e si son venute man mano ampliando e diffondendo fino a
raggiungere il numero di nove. Tutte furono costruite oltre i 5 chilometri dalla antica cinta daziaria
del Comune di Roma nei luoghi più salubri, ai margini delle strade consolari e di bonifica o intorno
alle stazioni ferroviarie e tranviarie.
Le borgate son formate di casette rurali con non meno di mezzo ettaro per ciascuna e sono
abitate normalmente da coltivatori ed artigiani che si dedicano in prevalenza al lavoro dei campi ed
alle industrie rurali.
Nell’ultimo quinquennio esse si son venute maggiormente sviluppando, anche con una più
intensa attività colturale, e sono state quasi tutte dotate della Chiesa, della Scuola, della Stazione
sanitaria, della Stazione dei Reali carabinieri, dell’Ufficio postale. [...]
[...]
55
I CENTRI DI COLONIZZAZIONE E GLI APPODERAMENTI SPONTANEI. – la
necessità di ricostituire intorno a Roma una nuova cintura di orti e di frutteti in sostituzione
dell’antico suburbio che andava man mano scomparendo con l’estendersi delle nuove costruzioni
edilizie e di dare un novello impulso al bonificamento dell’Agro ha indotto ad autorizzare col Regio
decreto legge 23 gennaio 1921, n. 52 la formazione dei centri di colonizzazione.
I primi quattro centri creati nel 1921, mediante espropriazione per pubblica utilità di alcune
tenute distanti dai 5 ai 10 chilometri dalla Capitale, per una complessiva superficie di ettari 570,
furono formati nel 1923 nelle località «Torre Spaccata», «Lucrezia Romana», «Tor Carbone» e
«Cervara-Tor Sapienza» con 63 poderi della superficie media di dieci ettari ciascuno.
Altri sei centri di colonizzazione furono creati nel 1922, mediante la espropriazione di tenute
per una superficie di ettari 975 nelle località «Marcigliana-Settebagni», «Prima Porta»,
«Quarticciolo», «Cecchina-Aguzzano», «Settecamini» e «Roma Vecchia», con 83 poderi aventi
anch’essi una media estensione di dieci ettari ciascuno.
In complesso fu espropriata una superficie di ettari 1545 circa che ha servito a formare 146
poderi, i quali sono stati concessi direttamente ad agricoltori al prezzo di espropriazione.
Concepiti nel 1921-22 e formati ed attuati nel 1923-24, questi centri di colonizzazione sono
tutti in piena efficienza con strade poderali, case coloniche, stalle, concimaie, forni, abbeveratoi,
porcili, pollai, ecc., opere tutte finanziate con i mutui di favore o con premi.
A seconda della natura dei terreni, i poderi sono adibiti alla coltivazione di prati artificiali di
leguminose e di erbai irrigui o asciutti per l’allevamento razionale di vacche lattifere o alla coltura
ortiva anche irrigua o alla coltura promiscua di piante erbacee e legnose o a frutteto specializzato.
Sono ben noti i brillanti risultati economici e sociali di questi primi esperimenti di
colonizzazione in Agro romano. Essi, oltre ad aver servito di esempio e di impulso per il
frazionamento delle grandi unità in relazione al crescente sviluppo demografico della nazione,
hanno consentito di immettere nell’Agro autentici agricoltori di altre regioni d’Italia agrariamente
più progredite, di importare mano d’opera specializzata e di dare un notevole contributo
all’approvvigionamento annonario della capitale, particolarmente per il latte e le verdure.
Promossi dal Governo fascista, sono attualmente in corso di formazione, alla distanza di 1520 chilometri dalla Città, per opera degli stessi proprietari delle tenute, in seguito a prescrizioni
ministeriali, altri quattro centri di colonizzazione comprendenti 80 poderi della media estensione di
ettari 25 ciascuno per la complessiva superficie di ettari 2.370. Essi sono:
il centro di colonizzazione denominato «Portuense», preso la stazione di Ponte Galera sulla
ferrovia Roma-Pisa;
il centro «Ardeatino», intorno alla stazione di S. Palomba sulla direttissima Roma-Napoli;
il centro «Ostiense», a due chilometri da Borgo Acilio sulla ferrovia elettrica Roma-Ostia;
il centro «Claudio», in vicinanza della stazione ferroviaria della Storta sulla ferrovia RomaViterbo.
Dei terreni che costituiscono i nuovi centri di colonizzazione una parte giacciono in valle ed
in piano e possono per circa un quarto dell’intera estensione essere irrigati con le acque del Tevere e
rendersi in tal modo suscettibili di elevate produzioni foraggere ed orticole; per l’altra parte son
costituiti da terre di altopiano e di collina a dolce pendio che potranno specialmente adibirsi a
colture asciutte alimentari, a frutteti e a vigneti per uva da tavola.
La formazione dei centri di colonizzazione ha determinato numerose iniziative di
appoderamenti da parte di società e di singoli proprietari, largamente favoriti dal Governo fascista.
Molte tenute per un complesso di oltre 11.000 ettari sono state così, anche in seguito a prescrizioni
ministeriali, frazionate in lotti di una media estensione di 10-15 ettari, che sono stati costituiti in
poderi con case coloniche, stalle ed altri fabbricati accessori. In tali poderi vengono praticate le più
svariate colture alimentari, in molte parti anche con pratiche irrigue, e vi si esercitano l’industria
lattifera ed altre minori industrie agrarie come pollicoltura, apicoltura, coniglicoltura, giardinaggio.
56
Tra i più importanti esempi di appoderamento sono da menzionare quelli effettuati nelle
località Monti di S. Paolo, Torricola, S. Andrea Trionfale, Castelluccia della Storta, Cecchignola,
Campoleone, Inviolatella-Acquatraversa, Casa Ferratella, Lucchina, Torrevecchia e Mimmoli,
Porcareccia Montespaccato e Pantan Monastero, Pisana, Acquafredda, Torrenova, Settebagni.
La superficie attualmente appoderata ascende in tal modo complessivamente ad ettari
12.900, senza parlare degli innumeri lotti di piccola estensione con casette coloniche, formatisi
spontaneamente per iniziativa dell’Opera Nazionale dei Combattenti, nelle immediate adiacenze
della Città e per una superficie complessiva di ettari 5.350. Questi ultimi sono tutti intensamente
coltivati ad orti-frutteti e danno ai mercati della Capitale un notevole contributo giornaliero di
ortaggi e frutta di ottima qualità.
Gli splendidi esempi di orticoltura con pratiche irrigue, di frutticoltura e anche floricoltura
che si ammirano in questi poderi, sorti per opera dello Stato e dei privati, stanno a dimostrare come
il terreno dell’Agro romano, adeguatamente coltivato, sia suscettibile delle colture più varie e delle
maggiori intensificazioni colturali.
[...]
I PRINCIPALI SERVIZI PUBBLICI DELL’AGRO. – Come è noto, l’amministrazione
civile è esercitata nell’Agro romano dal Governatorato di Roma a mezzo di 22 delegazioni rurali
affidate a medici ed a maestri.
L’istruzione elementare nell’Agro viene impartita in 72 scuole rurali – erano 53 nel 1922 –
delle quali 29 gestite dal Governatorato di Roma e 43 dall’Associazione «Le Scuole per i contadini
dell’Agro romano e delle paludi pontine» coi contributi dello Stato e del Governatorato. In molte di
queste scuole l’insegnamento è impartito con indirizzo agricolo. Numerosi asili sono sorti ad opera
della predetta Associazione e del Comitato per gli «Asili infantili del dopo guerra», anch’esso
sorretto dal Governo con contributi; con essi si provvede alla prima educazione dei figli dei
contadini, i quali vi trovano assistenza, refezione e ogni altra cura.
All’assistenza sanitaria ed igienica il Governatorato provvede con 45 stazioni sanitarie, delle
quali 13 nel suburbio e 32 nelle altre zone dell’Agro: nel 1922 esse erano rispettivamente 10 e 21.
Inoltre, ai fini della profilassi antimalarica, sono attualmente in attività 16 stazioni ausiliarie e,
presso altrettante stazioni sanitarie, 12 centri diagnostici per la ricerca, l’accertamento e la
sorveglianza dei malarici.
Un notevole sviluppo alla costruzione di linee elettriche nelle zone più prossime all’Urbe è
stato dato dall’Azienda elettrica del Governatorato nonchè da altre imprese di elettricità, e maggiore
incremento la costruzione di tali condutture potrà avere, per l’avvenire, in seguito alla convenzione
recentemente intervenuta fra il Governatorato di Roma, l’Azienda elettrica del Governatorato e la
Società elettricità e gas di Roma con le sue filiali Società imprese elettriche e Società laziale di
elettricità. In base a tale convenzione è stata determinata la zona di azione di ciascuna delle dette
aziende e resa unica la tariffa.
All’approvvigionamento dell’acqua potabile per le varie zone dell’Agro si provvede con
impianti diretti costruiti in ciascun fondo dai proprietari singoli o consorziati, ovvero mediante
pubblici acquedotti (acqua Marcia, Vergine, Paola, Barbuta).
È da prevedere che più intensa sarà per l’avvenire l’opera di integrazione dell’azione statale
che, soprattutto per l’opera del Governatorato, si andrà ad esplicare nei riguardi dei servizi pubblici
per l’Agro romano, tenuto anche conto che il Governo ha provveduto allo stanziamento nel bilancio
del Ministero dell’Economia Nazionale della somma annua di L. 10.000.000 da corrispondersi
all’uopo al Governatorato di Roma.
Anche agli altri bisogni della società civile si è provveduto e si va provvedendo sempre più
abbondantemente.
Con 61 fra Chiese e Cappelle affidate a religiosi per l’Assistenza religiosa, civile e morale
dell’Agro romano si provvede alla cura spirituale delle popolazioni.
57
Nel suburbio e nell’Agro romano funzionano attualmente ben 41 uffici postali tra agenzie
(4), ricevitorie (19) e collettorie (18), ed è notevolmente sviluppato il servizio telefonico.
Alla pubblica sicurezza provvedono 36 stazioni di RR. Carabinieri.
L’opera del Governo diretta alla valorizzazione agraria ed all’assetto demografico della campagna
romana ha trovato adeguata integrazione nell’attività svolta dalla Sezione per l’Agro romano della
Cattedra ambulante di agricoltura per la provincia di Roma, la quale ha notevolmente concorso, sia
con la propaganda, sia con campi sperimentali, al progresso delle condizioni agrarie. [...]
58
VINCENZO CASORRI
Le vacche da latte, le “casse rurali” dell’Agro romano
ESTRATTO DA
Vincenzo Casorri, L’agro romano e le sue “casse rurali”, Roma, Tip.
Centenari, 1928 (pp. 65-66 e 132). Il titolo del brano riportato è redazionale e
riprende la caratteristica espressione dell’Autore.
59
Fra le tante industrie agricole quella su cui son puntati i più roventi strali è l’allevamento
delle vacche da latte, la Cassa Rurale di ogni azienda bonificata o in via di bonifica nell’Agro
Romano, e va particolarmente segnalata all’attenzione del Governo specialmente per il contributo
che essa reca nei riguardi ed in rapporto al credito agricolo.
[...] L’industria della vacca da latte non è, in sé, che scarsamente rimunerativa, ma è tanto
utile, indispensabile in ogni azienda della nostra regione, chè senza di essa il processo di bonifica è
più lento, incostante e d’incerta riuscita.
La vacca da latte è il fedele istituto di credito, la cassa rurale che fornisce il danaro
necessario alla conduzione del fondo, alle anticipazioni colturali, alle necessità giornaliere della
famiglia.
Vicini ad un grande centro di consumo come è Roma, tutto il latte che si produce nelle
nostre campagne viene giornalmente consumato in città e giornalmente ne viene incassato
l’importo.
[...]
L’allevamento della vacca, specialmente nelle località ove il consumo del latte avviene in
natura, più che un’industria, è un Istituto, un ordinamento di bene, economico e sociale.
La vacca è la Cassa Rurale dell’agricoltore, la fertilizzante più prodiga delle nostre terre, un
mezzo di profilassi antimalarico gratuito, l’umile cooperatrice del medico nella cura di tante
malattie, la sostitutrice del chirurgo nei casi d’infermità addominale, ove non è possibile
l’intervento del bisturi, la fida balia di tutte quelle creature che venute al mondo trovano il petto
della madre asciutto e la impossibilità di essa madre a sostituirsi con una mercenaria nutrice.
La vacca è dunque un’Istituzione, è uno dei più importanti fattori per il trionfo di quella
politica demografica che sta tanto a cuore a S. E. il Capo del Governo Nazionale.
Non bisogna ostacolarla.
60
Canti popolari della Campagna romana
ESTRATTO DA
Canti popolari della Campagna romana raccolti e armonizzati da Giorgio
Nataletti e Goffredo Petrassi, Milano, Ricordi & C., 1930 (pp. 71, 85, 89, 115). Sono
stati omessi gli spartiti; le note sono dei Curatori.
61
FIORE D’AJETTO
(STORNELLO)
Fiore d’ajetto
bbella nun pozzo stà se nun t’abbraccio,
patisco de quer vizzio maledetto.
Fiore de more,
tu l’hai rubbate le perle a lo mare,
a l’arberi li frutti, a me lo core.
*
S’È FATTO NOTTE
(CANZONE A BALLO NARRATIVA)
S’è fatto notte e vojo annà cantanno1
e ffino alla calata della luna; (bis)
e la mi’ bella vojo annà cercanno2
o voja o che nun voja la fortuna. (bis)
Faccio l’ammore e nun saccio la casa3
e credo che sia drento d’un castello4 (bis)
davanti all’uscio c’è ‘na pergolata5
è tutta piena d’ua de pizzutello6 (bis).
*
BBELLA FATTE CHIAMÀ
Bbella fatte chiamà, che bbella sei,
tutto lo monno innamorato l’hai;
faressi innamorà puro li dei
pe’ le tu’7 gran bellezze che tu ciai8.
Quanno nascisti tune9, sangue doce10,
1
voglio andare cantando
voglio andare cercando
3
e non so la casa
4
dentro un castello
5
una pergola
6
piena d’una di pizzutello (uva caratteristica delle pergole tiburtine)
7
per le tue
8
che tu hai
9
nascesti tu
2
62
la luna se fermò de camminane11,
le stelle se cambiorno de colore12.
Quanno nascisti tu, nacque lu sole.
*
ALL’ARA, ALL’ARA
(CANTO DELLA TREBBIA)
All’ara, all’ara
che la trita è messa,
la trita è messa.
E chi cià13 la regazza14
se la porta
e se la porta.
10
sangue dolce
di camminare
12
cambiarono di colore
13
ha
14
l’innamorata
11
63
ALESSANDRO D’ALESSANDRI
Vocaboli, usi agricoli e consuetudini della Campagna romana
ESTRATTO DA
Alessandro D’Alessandri, Vocaboli, usi agricoli e consuetudini della
Campagna romana, in “Roma”, 1930 (pp. 4-9). L’articolo venne pubblicato nel 1930
nella rivista “Roma” e poi in estratto, e ancora in volume nel 1938 (Roma, Tip.
Laboremus), in un’edizione leggermente accresciuta.
64
Tutta la campagna della Provincia Romana, escluse le zone a coltura intensiva che
attorniano in maggiore o minore estensione i centri urbani grossi e piccoli, ha vaste estensioni che
costituiscono le cosiddette tenute e vasti territori che nei tempi passati costituivano i feudi.
Lasciando da parte per ora i territori ex feudali dei quali parlerò in seguito, dirò che su
queste tenute vigeva una industria armentizia a tipo pastorale, intercalata da grandi semine di
cereali, creando così una agricoltura a sistema estensivo.Allevamento di bestiame brado cavallino,
vaccino e bufalino, grosse masserie di pecore, grandi estensioni di semine, pochi capi d’azienda
fissi e grande quantità di avventizi, che permanevano in tenuta, male alloggiati nei periodi dei forti
lavori, rimanendo la campagna deserta nei mesi di luglio agosto e settembre.
Seguendo l’andamento di una di queste aziende noi potremo farci un concetto chiaro di
questa agricoltura estensiva, e conoscere tutta le terminologia usata dai campagnoli, sia che trattisi
di lavori agricoli, sia che trattisi degli animali e degli uomini addetti, nonché degli usi e delle
consuetudini vigenti in queste singolari aziende.
L’azienda tipo nelle Tenute dell’Agro Romano risulta divisa in due parti distinte, una per la
semina, l’altra per l’allevamento del bestiame brado, grosso e minuto.
La parte riservata alla semina ordinariamente è divisa in quattro parti pressoché eguali,
stabilendo così un turno a rotazione quadriennale chiamato quarteria su cui ogni anno si effettua il
seguente godimento nei quattro quarti, ed una quinta parte denominata pascolare per il pascolo dei
buoi da lavori.
1. Anno. – Quarto detto della rompitura perché su di esso dopo aver goduto il pascolo dal 1.
ottobre (principio dell’anno agrario) al 15 febbraio s’iniziano i lavori preparatori per la semina, che
si effettua il 1. ottobre successivo.
2. Anno. – Quarto della semina sul maggese che si inizia al primo ottobre proseguendo nei
mesi di Novembre e Dicembre. Su dette semine si fanno i lavori di terra nera, raschiarella,
mondarella e finalmente nel giugno la mietitura, seguente trasporto delle gregne, operazione fatta
con barrozze tirate dai buoi, detta carrucolatura e poi trebbiatura del prodotto con le trebbiatrici, o
trita con le cavalle.
3. Anno. – Quarto detto della semina a colti dove si semina avena, eseguendo un solo lavoro
d’aratro e tutti i lavori eseguiti sul grano nel maggese meno la raschiarella e la mondarella.
4. Anno. – Quarto a riposo ove si pascolano le erbe naturali, s’intensificano gli stabbiati
delle pecore, preparando così la concimazione e, con la sterpatura delle erbe infestanti, la rompitura
e semina negli anni venienti.
L’altra parte della tenuta destinata al pascolo del grosso bestiame è ordinariamente divisa in
riserve o rimesse che hanno sempre, per l’abbeveratura del bestiame, fontanili o fossi d’acqua
perenne. Dette riserve recinte da staccionate o da macerie hanno varia grandezza e forma tenendo
conto della configurazione, altimetria del terreno, nonché dei fossi e dei fontanili. Una fra queste è
ordinariamente adibita al pascolo dei buoi da lavoro, che eseguiscono i lavori della semina, delle
rompiture e dei trasporti e prende il nome di pascolare ed ha una estenzione proporzionata
all’estenzione delle semine eseguite in tenuta.
Tutte le altre riserve sono invece destinate al pascolo dell’intero procoio delle vacche, ed
alla punta delle cavalle matricine fattrici da intercalare nel pascolo con quello della masseria delle
pecore.
Ripartita in questo modo l’azienda, se questa è di grandissima estensione richiedente una
giornaliera sorveglianza del proprietario o affittuario a capo di essa è un ministro. Alle dipendenze
di questi o alla diretta dipendenza del proprietario o dell’affittuario, sono i tre capi d’azienda
necessari. Il fattore che ha la direzione di tutti i lavori di coltura dei terreni, delle manutenzioni
necessarie annuali dei fossi, delle staccionate, delle macerie, dei fabbricati, ponti ecc. e di raccolti e
trasporti di qualunque genere. Per tutti questi lavori egli ha a sua disposizione compagnie di
lavoratori di vario genere ed un sotto fattore, dei fattoretti ed il capoccia dei buoi ed il buttero dei
buoi. Il massaro che ha in consegna ed in custodia tutto il bestiame grosso brado vaccino e
65
cavallino ossia procoio delle vacche, tronco del bestiame vaccino di allevo e di vita, punta delle
cavalle, puledri stacche carosi carose vannini e vannine.
Egli ha alle sue dipendenze tutti i vaccari del procoio ed i cavalcanti necessari alla
sorveglianza del bestiame.
Il vergaro, che avendo alla sua dipendenza pecorari adibiti alle varie faccende, ha in
consegna e custodia la masseria delle pecore.
Dipendenti direttamente dal proprietario o dall’affittuario o dal ministro per la sorveglianza
dell’azienda e dell’intera tenuta, dei confini, dei boschi, delle erbe da pascolo, semine, chiusure,
fontanili è il guardiano o guardiani che sono sempre guardie giurate.
Dei vari dipendenti del fattore evvi il sotto fattore che lo aiuta nella sorveglianza dei vari
lavori e specialmente in tutti i lavori delle semine, nella mietitura e trebbiatura, così i fattoretti, che
a differenza del fattore e sotto fattore che stanno in servizio a cavallo, hanno la cavalcatura nel solo
tempo della mietitura. Alle dipendenze del fattore sono gli aquilani per i lavori dei fossi, strade,
scoli nelle semine, cavatura di tufo o pozzolana; i staccionatari per costruzione e manutenzione
delle staccionate, ponti, i maceranti per costruzione e manutenzione delle macerie; i falciatori e
raccoglitori per la falciatura e raccoglitura del fieno; i fienilanti con a capo lo spongarolo per la
fattura dei fienili a pero; le compagnie dei mietitori per il taglio del grano composte di un numero
sufficente di gavette secondo l’estensione dei seminati; e le compagnie dell’ara per i lavori della
trebbiatura del grano.
Alle dipendenze del fattore è il capoccia dei buoi con il buttero dei buoi ed i bifolchi.
Il massaro ha alle sue dipendenze tutti i cavalcanti che prendono il nome di porta spese se
hanno l’incarico di viaggiare col carretto delle vitelle, di capoccia delle cavalle se hanno in custodia
la punta delle cavalle fattrici, troncari se sorvegliano tutto il bestiame grosso da vita, coradini capi
dei vaccari che mungono le vacche alla rimessa e guarda stalloni se hanno in custodia gli stalloni.
Il vergaro capo della masseria ha alle sue dipendenze il buttero che viaggia col frutto
(abbacchi, cacio, ricotta, lana) mediante carretto a tre muli, dalla campagna al centro prossimo di
vendita, il caciere che fa ricotta e formaggio, i mungitori, i sogliardi e bagaglioni che provvedono
la legna, i carosini in tempo di carosa. Egli inoltre ha in custodia tutte le mule della masseria i
somari e i maiali per l’ingrasso. Questa è la composizione dell’azienda tipo delle nostre tenute ed il
personale fisso mesatario vive su di esse sviluppando la sua attività per lo sfruttamento di queste
vaste terre. Tutte questi mesatari vivono alloggiati in vecchi casali o capannoni a seconda
dell’azienda a cui appartengono.
Nel casale più importante ha la residenza il proprietario o l’affittuario o il ministro, in altro il
massaro e suoi dipendenti, il fattore ed il capoccia, mentre il vergaro abita nella capanna con i suoi
pecorari. Gli aquilani vivono in comune in casette, così pure i maceranti e di staccionatari e
facocchi, mentre le compagnie di arte bassa adibite ai lavori, alloggiano in comune, in stanzoni,
capannoni o grotte asciutte.
Esiste anche un guarda casale il quale oltre al provvedere con la sua famiglia alla custodia
del casale, tiene la dispensa per conto del padrone ed ha la chiave dei magazzini del grano, degli
attrezzi e selleria, ecc.
L’anno agrario ha principio col primo di ottobre di ogni anno e termina col 30 settembre
successivo, epperò la stagione agraria è indicata con due millesimi successivi (1928-1929).
Le erbe dei pascoli prendono vario nome a seconda del quarto e delle epoche dell’anno.
Saranno perciò erbe d’autunno, d’inverno, primavera ed estate e si chiamerà tutt’erba quella
godibile dal 1. ottobre al 30 settembre successivo, erba di rompitura, dal 1 ottobre al 15 febbraio,
epoca in cui s’inizia la rompitura del terreno, erbe di mezzagne quelle parti lasciate sodive nei quarti
di rompitura, erba di ricalata quelle del primo autunno prima della semina, erba netta quella mai
pasciuta dopo il 1. ottobre; pasciticci quelle pasciute e poi riguardate. Nell’usufruimento di tutte le
erbe al principio della stagione e nel corso di essa è regola di buon andamento lo intercalare sui
pascoli le varie specie di animali, giacché in altro modo non verrebbero bene usufruiti, tanto che si
66
usa chiamare pascolo accavallinato quello dove ha sempre pasciuto bestiame cavallino ed
avvaccinato quello dove ha sempre pasciuto bestiame vaccino.
La concimazione unica in uso in queste terre è quella sola dell’arretamento dei branchi di
pecore, arretamento che nelle notti d’inverno è fatto con due notti consecutive nell’istessa rete e con
una sola notte nella primavera. La capanna centro della masseria si usa cambiarla di posto ogni tre
anni scegliendo ben s’intende le zone più sterili.
Altro mezzo di concimazione è il procoio delle vacche, destinando alcune riserve per
affienare il bestiame vaccino, o cavallino. In questo modo rimanendo per vario tempo fisso, tale
bestiame durante l’inverno sopra una riserva, le deiezioni abbondanti di esso e lo spandimento del
seme contenuto nel fieno distribuito, migliorano grandemente il pascolo.
Il bestiame brado sia vaccino che cavallino in queste nostre aziende viene tenuto
costantemente diviso a seconda dell’età e varia destinazione, epperò è bene qui raccogliere le varie
denominazioni ch’esso prende nei vari momenti.
Nell’azienda vaccina quando la vacca avrà superato i quattro anni si chiamerà matricina, e
quando avrà raggiunto i dodici anni e destinata al macello dopo il periodo d’ingrasso, cacciatora.
Vitelli o vitelle si chiameranno sotto un anno d’età, asseccaticce le femmine da uno a due
anni, annutole da due a tre anni, i maschi invece vitelloni, biracchi e poi giovenchi o tori a seconda
se destinati al lavoro od alla riproduzione.
La cavalle matricine debbono avere quattro anni, sono vannini o vannine sotto l’anno, carosi
o carose fra un anno e due, puledri o stacche da due a tre anni.
Nell’azienda delle bufale il massaro è chiamato minorente, e la bufala che ha un anno è
asseccaticcia, di due anni annutola, di tre anni iènice.
Nell’azienda delle pecore o sono sode o figliate; i maschi abbattuti dopo una ventina di
giorni chiamansi abbacchi, se allevati agnelli o agnelle, e dopo queste recchiarelle ed i maschi
montoni, ciavarro o sementino, se castrato serrone.
Sono agnelli vernarecci quelli nati tra il 1º agosto a tutto settembre, sono mezzarecci quelli
nati da ottobre a tutto gennaio, sono cordeschi quelli nati in febbraio, marzo.
Le semine che come si disse sono fatte in quarteria e sono sulla maese preparata da una serie
di lavori eseguiti nell’anno della rompitura, o sui colti se eseguite dopo l’anno di prima semina sul
maggese, o sono biscolti se viene riseminato il colto. Sono dette a rotticcioni le semine eseguite sul
sodo con un solo lavoro di perticara.
I lavori di semina per fare la maggese con l’aratro romano sprovvisto di orecchio sono sei.
rompitura, primo lavoro.
riquotitura, secondo lavoro traversando il solco fatto un poco di trafeso.
rifenditura, terzo lavoro per spaccare il ciglio del solco precedente.
rinquartatura, quarto lavoro traversando il solco fatto.
rinfrescatura, quinto lavoro per spaccare il ciglio precedente.
impressatura, non considerata come aratura, spaccando attraverso i solchi una larghezza di
30 palmi per fare le prese e seminare in modo giusto.
seminagione, sesto lavoro traversando il solco fatto con direzione perfetta o a tramontana o a
ponente o a levante o a mezzogiorno secondo la situazione del paese e del sole.
Dopo la semina vengono eseguiti i seguenti lavori:
ribattitura, fatta dalle compagnie col zappone per rompere le zolle lasciate dall’aratro ed
interrare il grano. Poi segue la raschiarella per togliere le erbe rinate, segue la terra nera,
sarchiatura che dà terra al grano prendendola dai solchi, poi la mondarella estirpando le piante
estranee fra le semine.
Al tempo del raccolto viene fatta la mietitura per tagliare il grano con il sarecchio,
operazione eseguita da compagnie di lavoratori suddivisi in gavette composte ciascuna da un capo
gavetta che taglia il grano e fa il balzo, due mietitori che mettono il grano sul balzo, ed il legarino
che miete anche lui e lega la gregna.
Da altro personale vengono formate le casole o cordelli con le gregne, sul campo seminato.
67
La mietitura deve durare undici giorni e la quantità dei mietitori è accaparrata giusta per un
cottimo di undici giorni, cottimo che consiste in una parte in denaro e la spesa in cibarie.
Incomincia poi il trasporto dei cordelli all’ara con le barrozze e tale lavoro chiamasi
carrucola. All’ara il grano o biada vengono oggi trebbiati con le trebbiatrici; ma prima si faceva la
trita con le cavalle.
Nell’anno in cui il quarto va a rompitura, nei mesi precedenti il 15 gennaio si eseguisce la
sterpatura, operazione che ha per iscopo di togliere tutte le rinascenze legnose esistenti in questa
zona che va a semina, ad una profondità di circa 16 centimetri fra strato inerte e coltivo; tale
sterpatura chiamasi fra le due terre. Nelle riserve nei prati si fa anche la sterpatura a fior di terra
con lo zappone o a botta morta, oppure si eseguisce la cioccatura, lavoro che serve ad estrarre il
ciocco delle radici.
I prati riguardati dal pascolo il 15 marzo sono assoggettati alla sfrustatura, togliendo con
verghe tutto il seccume.
L’estirpazione dei cosidetti porrazzi si fa nelle tenute e chiamasi sporrazzatura asportando
tutti i bulbi di questa pianta.
Giunta l’epoca della falciatura, con compagnie di falciatori si provvede al taglio del fieno
che viene poi raccolto dalle compagnie di raccoglitori che formano le andane riunite poi in mucchi
incrociati da torticchi di fieno.
Si trascinano poi questi mucchi al punto ove dovrà costituirsi il fienile a pero. La compagnia
dei fienilanti, sotto la direzione dello spongarolo e sottospongarolo piantano il giudice e la bilancia
inizieranno la costruzione del fienile, curando il piombo della parte cilindrica e l’assestamento dei
strati circolari sovrapposti del fieno, scartando i ciuffi di fieno bagnato, i zeppi, ecc.,
68
GIOACCHINO ESCALAR
Le scuole dell’Agro Romano per la lotta antimalarica
ESTRATTO DA
Governatorato di Roma – Ufficio d’Igiene e Sanità, Le scuole dell’Agro
Romano per la lotta antimalarica, Roma, Tipografia del Littorio, 1930 (pp. 5-7).
69
[...] La popolazione scolastica dell’Agro di 7.000 fanciulli frequentanti 80 scuole apprende
così esattamente la cura e la insegna ai genitori e la insegna a tutti, sicché essi vanno ripetendo: il
male colpisce chi non sa guardarsi e chi non sa e non vuole applicare le precise norme della lotta
antimalarica. Queste norme apprese in un corso speciale per i maestri rurali istituito dal
Governatorato e tenuto da esperti vengono insegnate praticamente dalla maestra allorché conduce i
suoi scolaretti, anche i più piccini, sui solchi a vedere il grano che è nato e a sarchiare e a far terra
nera perché il grano respiri, perché il grano abbia per sé tutto il nutrimento della terra e cresca
rigoglioso e ardito. Allora i fanciulli si divertono a pescare col piatto nei fossi e riconoscono le larve
a guisa di vermiciattoli, onde poi nascono le zanzare dalle ali macchiate, le cosidette anofele
trasmettitrici della brutta malattia che colpì Tonio e suo padre. Ed allora i cari Balilla si affrettano
ad imbracciare gli strumenti prediletti, il badile, il rastrello, la zappa per regolarizzare il fosso e
pulirlo dalle erbe e colmare il piccolo acquitrino o spargervi su il petrolio o il verde di Parigi che
sanno ben preparare. Se il ristagno d’acqua è grande vi immettono le gambusie pescate nel vivaio
annesso al campicello della scuola.
Anche la piccola pianta acquatica galleggiante verde, la lenticchiola d’acqua è seminata nei
pozzi e nelle piscine, la cui acqua fu riconosciuta infetta, e i fanciulli ritornano periodicamente ogni
10-15 giorni a sorvegliare le acque da cui possono nascere le zanzare.
Allorché poi il caldo arriva e il sole è cocente, vanno gli scolari a riconoscere il grano
maturo nel momento più opportuno perché esso non trapassi e la spiga non si apra e il chicco non si
perda sui campi. In quell’occasione vanno anche a visitare le stalle prossime per dare la caccia alle
anofele e le ricercano altresì e le catturano nei porcili vicini alle acque e alle case e nelle case stesse.
Colui che porta alla maestra il maggior numero di insetti vagabondi è premiato, perché egli bonifica
la sua casa. Spiega infatti la maestra, che la bonifica della casa è la più necessaria delle bonifiche,
ed essa consiste nella spietata caccia alle zanzare che attendono in agguato sui muri il momento
propizio, per poter colpire chi dorme. La casa sudicia è quella prediletta dalla zanzara che sfugge
invece quella pulita. Spiega anche la maestra ai suoi bimbi che la zanzara è intelligente e che perciò
bisogna aguzzare l’ingegno per colpirla, studiare i suoi costumi e le sue abitudini, cercare di
deviarla verso le stalle ove succhia il sangue di animali e non ha bisogno di quello dell’uomo.
La caccia deve essere attiva non solo d’estate, ma anche d’inverno quando essa dorme
rannicchiata negli angoli oscuri e caldi, attendendo la buona stagione per uscire e per procreare
migliaia di figlie e di nepoti. La zanzara è piccola e vola, perciò bisogna abituarsi a riconoscerla da
lontano; la zanzara si riproduce straordinariamente, perciò occorre distruggerne il maggior numero
possibile. Ma per quante se ne distruggano, continua sempre la maestra, ve ne sono ancora molte e
contro questa moltitudine dobbiamo difenderci. Gli alunni si adoperano a vigilare le reticelle
antimalariche della propria casa, le riparano se rotte, provvedono di velo la culla del fratellino
lattante e di zanzariera la propria cuccetta, e predicano a tutti di tener chiuse le reticelle e di non
stare al fresco nella sera d’estate. Consigliano ai trebbiatori di dormire al coperto d’agosto in case
protette, anziché vicino alla macchina sotto capanne di frasche, come è loro costume.
Al tempo dell’aratura, quando i fanciulli vanno ad assicurarsi che il grano sia ben trebbiato e
non sia spaccato dalla macchina, perché possa così servire da seme, distribuiscono ai trebbiatori essi
stessi il chinino a scopo preventivo, perché i lavoratori, che non vogliono dormire alla sera al chiuso
e protetti, possono col chinino preventivo salvarsi dalla malaria.
Così l’insegnamento agrario dei maestri rurali va di pari passo con l’insegnamento della
lotta antimalarica. La malaria colpisce nell’Agro specialmente i lavoratori del grano. Sono essi che
devono lottare contro la nemica, perché la vittoria del grano sia sempre più grande. Gli alunni nelle
varie scuole hanno sostituito le maestranze antimalariche e sono circa 3.000 di questi piccoli Balilla
che eseguono lavori diligenti di piccola bonifica ed efficace propaganda, poiché la maggior parte
delle scuole gestite dal Governatorato restano in funzione in Agro Romano per tutta l’estate, per
tutto il tempo cioè della stagione malarica, epoca nella quale prima tutti fuggivano. Così si insegna
coi fatti che nell’Agro Romano si può restare in salute anche in estate, in quel periodo in cui devono
70
proseguire senza interruzione le lavorazioni agricole il cui abbandono costituisce il maggior
ostacolo alla redenzione della nostra terra.
71
CONSORZIO LAZIALE PRODUTTORI LATTE S. A.
Il latte nell’Agro romano e la Centrale del Latte di Roma
ESTRATTO DA
Consorzio Laziale Produttori Latte S. A. – Concessionaria della Centrale del
Latte – Roma, Il latte nell’Agro romano. La Centrale del Latte di Roma, Milano,
Rizzoli & C., 1934 (pp. 6-16). Il titolo del brano è redazionale ma riprende le due
espressioni del titolo originale. La nota è dell’Autore.
72
IL LATTE
La produzione del latte nell’Agro, che fino a pochi anni addietro era scarsa e del tutto
insufficiente alle necessità alimentari dell’Urbe, ha ricevuto un forte impulso dalla rapidissima
trasformazione agricola.
Nel 1908 esisteva nell’Agro una popolazione di diecimila bovini, quasi tutti di razza
maremmana; razza che, come è noto, è tutt’altro che buona lattifera, avendo solo spiccate attitudini
alla produzione di animali da lavoro e, in seconda linea, da carne.
Il frazionamento del latifondo, la costruzione di stalle moderne e razionali ed il forte
aumento di superficie dei prati artificiali, hanno potentemente agito sul sistema di allevamento ed
hanno permesso la importazione di vacche specializzate nella produzione del latte, quasi tutte di
razza bruna alpina che vive ottimamente nel nuovo ambiente, e di una piccola percentuale di vacche
olandesi.
È dal 1920 in poi che, lentamente prima, rapidamente poi, è avvenuta la sostituzione della
razza maremmana con le razze da latte. Nel 1930 i bovini da latte raggiungevano la cifra di 16.000;
nel febbraio 1934 un accurato censimento eseguito dalla Centrale del latte di Roma ha rivelato una
popolazione di 23.375 vacche, delle quali 500 circa esclusivamente destinate alla produzione di
latte da potersi consumare crudo.
La produzione del latte in un triennio si è quindi quasi raddoppiata; tale considerevole
rapido incremento è stato determinato dall’entrata in produzione di tutte le tenute bonificate, alle
quali le leggi di bonifica imposero la costruzione di moderne stalle per bestiame lattifero.
Ne scaturì la assoluta necessità di provvidenza governative dirette alla tutela degli interessi
dei produttori e tali da permettere ad essi il consolidamento delle posizioni raggiunte, garantendo lo
smaltimento di tutta la loro produzione. Oggi la produzione del latte è, si può dire, uno dei capisaldi
dell’economia delle aziende trasformate, le quali fanno assegnamento sul periodico, sicuro e rapido
ricavo del prodotto.
In conseguenza della insufficienza della produzione ai bisogni della popolazione, fino a
qualche anno fa la città di Roma era costretta ad importare giornalmente dall’alta Italia dai sessanta
agli ottantamila litri di latte condensato o semplicemente pasteurizzato, che quasi sempre aveva un
titolo di grasso ridotto.
Anche il latte di produzione locale lasciava molto a desiderare: il difficile controlla ai mille
rivoli che dalle stalle di produzione fluivano direttamente alle rivendite in città, non poteva
impedire che da parte di produttori e rivenditori poco scrupolosi si ricorresse all’annacquamento in
percentuali spesso elevate, come non poteva impedire che si ricorresse sovente all’aggiunta di
sostanze conservatrici per mantenere il latte allo stato liquido durante il non breve percorso dalle
stalle alle rivendite e durante la lunga sosta in quest’ultime.
Era quindi necessario, da parte delle Autorità, un intervento armonizzatore delle esigenze
della produzione e del consumo.
L’ACCORDO ECONOMICO COLLETTIVO
LA CONVENZIONE PER LA CENTRALE DEL LATTE
Il 3 febbraio 1931, tra la Federazione provinciale Fascista degli Agricoltori e la Federazione
Provinciale fascista del Commercio, veniva stipulato un accordo economico collettivo per la
disciplina della vendita del latte alimentare nella città di Roma che, ratificato dal Consiglio
nazionale delle Corporazioni e pubblicato nella gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia entrava in
pieno vigore il 16 febbraio 1931-IX.
Con questo accordo veniva assicurato il collocamento del latte prodotto nelle Aziende
dell’Agro Romano sottoposte agli obblighi di bonifica come latte alimentare, limitando
l’importazione dalla Provincia di Roma e dalle altre regioni solo nel caso di insufficiente
produzione delle suddette Aziende.
73
Questo primo tentativo, che ha percorso il nuovo Stato Corporativo Italiano, così come è
stato tracciato dal Capo del Governo nel suo discorso del 14 novembre 1933-XII al Consiglio
Nazionale delle Corporazioni, raggiunse pienamente lo scopo di tutelare la produzione dell’Agro, in
continuo aumento in seguito alle già citate imposizioni di bonifica.
Permanendo le condizioni che avevano suggerito la stipulazione del primo accordo
economico collettivo ormai scaduto, le organizzazioni interessate il 31 ottobre 1933 addivenivano
ad un nuovo accordo per la durata di 15 anni, che veniva nuovamente ratificato dal Consiglio
Nazionale delle Corporazioni il 14 novembre 1933-XII, assicurando così per un lungo periodo di
tempo il proseguimento della politica agraria seguita fino ad oggi, tanto necessaria per il
bonificamento integrale dell’Agro Romano.
In ossequio alle disposizioni contenute nel Regolamento sulla Vigilanza igienica del latte
destinato al consumo diretto, approvato con il R. Decreto del 9 maggio 1929 n. 994, ed allo scopo di
rendere praticamente attuabile quanto sancito dalla prima Norma Corporativa, il Governatorato di
Roma, perfezionando precedenti accordi, decretava la trasformazione dello Stabilimento
Governatoriale del Latte già esistente, in “Centrale del Latte” e ne confermava la gestione al
Consorzio Produttori latte S. A. per un periodo di 15 anni.
Nella Convenzione fra il Governatorato di Roma e la società esercente la Centrale del Latte
sono specificati i rapporti che regolano le due parti interessate, e sono minutamente descritti gli
obblighi che si assume la Centrale nei confronti dei consumatori e le sanzioni alle quali essa
andrebbe incontro nel caso di infrazioni alle leggi e alle disposizioni impartite di volta in volta
dall’Ufficio di Igiene e Sanità del Governatorato di Roma, il quale ha il più ampio mandato di
controllo su tutto il lavoro svolto dalla Centrale, dalle stalle di produzione alle rivendite della città.
In tale convenzione sono altresì fissati i margini concessi alla Società concessionaria per
coprire tutte le spese per la gestione della Centrale, dal ricevimento del latte alla distribuzione alle
rivendite.
Così disciplinati la produzione e il consumo, la Società concessionaria della Centrale ha
dovuto far fronte agli obblighi derivanti dalla convenzione nei confronti del Governatorato, dei
produttori e dei consumatori.
Rapidamente essa provvedeva alla costruzione e alla attrezzatura di una moderna e perfetta
Centrale mentre, in ossequio a quanto sancito dalla Norma Corporativa, si assicurava il quantitativo
di latte necessario al consumo, stipulando contratti individuali con tutti i produttori le cui aziende
sono soggette agli obblighi di bonifica e nelle quali risultino eseguite o in avanzata esecuzione le
opere imposte dalle Notificazioni Ministeriali.
Contemporaneamente veniva creato, presso la federazione Provinciale Fascista degli
Agricoltori, l’Ufficio Assistenza Produttori Latte, il quale ha assunto ogni più ampia funzione di
rappresentanza e di tutela sindacale de produttori nei confronti della Società concessionaria della
Centrale.
Nel passato il commercio del latte nella Città di Roma era regolato solamente dalla legge
della domanda e dell’offerta, e la produzione dell’Agro era soggetta alla concorrenza del latte di
importazione che, malgrado le spese di trasporto, per il suo basso costo di produzione e per il suo
ridotto titolo di grasso, poteva essere ceduto a un prezzo inferiore.
In quei tempi gli agricoltori stipulavano accordi diretti con i rivenditori, non ricevendo nella
maggior parte dei casi nessuna garanzia né per il mantenimento dei prezzi, né per il completo
collocamento della produzione.
Con l’organizzazione attuale la situazione è ben diversa: i produttori sono sicuri di collocare
sempre la loro produzione a prezzi remunerativi, in precedenza fissati per il latte alimentare dalla
Convenzione con il Governatorato di Roma, e sono sicuri di poter ricavare prezzi equi anche dai
quantitativi non assorbiti dal consumo diretto, che vengono avviati a un moderno stabilimento per la
trasformazione in prodotti.
74
La Centrale ha saputo far fronte anche ai suoi obblighi verso la cittadinanza romana,
distribuendo un latte pasteurizzato ottimo sotto tutti i rapporti e svolgendo una attiva opera di
propaganda per un maggior consumo: opera che ha già dato ottimi risultati.
Essa ha pure propugnata la necessità che tutto il latte fosse distribuito esclusivamente in
bottiglie sigillate, affinchè i benefici della pasteurizzazione non venissero resi vani da successivi
inquinamenti, provocato dal contatto con agenti esterni al momento della mescita nelle rivendite;
cosicchè oggi il latte di Roma viene distribuito esclusivamente in bottiglie da un quarto, da un
mezzo e da un litro.
RISULTATI
La risoluzione del problema del latte à dato, nel campo della produzione, benefici risultati
sia dal punto di vista quantitativo che da quello qualitativo.
Nel 1931 esistevano nell’Agro 536 aziende agricole aventi una media di 15 bovine, con un
massimo di 1500 ed un minimo di 1; tali aziende possono venire divise nelle seguenti categorie,
secondo la loro importanza produttiva:
1º aziende con oltre 200 lattifere n. 3 = 0,56%
2º aziende da 101 a 200 lattifere n. 6 = 1,12%
3º aziende da 51 a 100 lattifere n. 29 = 5,41%
4º aziende da 11 a 50 lattifere n. 237 = 44,22%
5º aziende da 1 a 10 lattifere n. 261 = 48,69%15
Nel 1934 il numero delle aziende è salito a 681, con una media di 45 bovine ed un massimo
di 2500; seguendo il medesimo criterio di classificazione abbiamo:
1º aziende con oltre 200 lattifere n. 15 = 2,35%
2º aziende da 101 a 200 lattifere n. 37 = 5,44%
3º aziende da 51 a 100 lattifere n. 172 = 25,26%
4º aziende da 11 a 50 lattifere n. 225 = 33,03%
5º aziende da 1 a 10 lattifere n. 231 = 33,92%
Le stalle dell’Agro Romano, quasi tutte di recente costruzione, rispondono oggi alle
maggiori esigenze igieniche e pratiche: aria e luce in abbondanza, mangiatoie in cemento,
pavimenti fatti con materiali impermeabili muniti di chiusini idraulici, pareti intonacate a cemento;
e se in maggioranza esse sono costruite con criteri economici, non ne mancano di quelle nelle quali
l’economia è stata messa in seconda linea, per raggiungere una massima razionalità, che è
specialmente giustificata nelle aziende destinate alla produzione di latte da consumarsi crudo.
L’alimentazione delle lattifere, a base di foraggi verdi o secchi, viene in molte aziende
integrata con l’aggiunta di farine diverse, pannelli e barbabietole. I concentrati vengono
somministrati secondo vari criteri che vanno da una sommaria integrazione della razione foraggera
mediante l’aggiunta di una quota fissa di cereali o pannelli, fino alla determinazione quindicinale
della razione individuale di ogni vacca con gradazioni proporzionate ai quantitativi di latte prodotto
nei successivi stadi di lattazione.
Nei casi di alimentazione razionale individuale, il quantitativo medio di concentrato (avente
un contenuto di proteine digeribili del 15%) si aggira in media sui Kg. 1 per ogni kg. 4 di latte
prodotto.
15
Dott. A. Gadola: «I bovini da latte nel bonificamento dell’Agro Romano».
75
La grande parte che le leguminose ad alto numero minerale (erba medica) hanno nella
produzione foraggera delle aziende lattifere dell’Agro, rappresenta un elemento prezioso per la
preservazione delle lattifere da una carenza nelle sostanze minerali.
La pratica di reintegrare con razioni minerali (farina d’ossa, sale pastorizio) le perdite in
calcio, fosforo ed altri minerali, a cui la lattifera è soggetta, va gradualmente diffondendosi presso i
migliori allevatori.
Di esempio e di insegnamento a tutti i produttori dell’Agro è l’Istituto Sperimentale
Zootecnico, nel quale vengono studiati tutti i problemi riguardanti l’allevamento del bestiame.
I progressi realizzati nell’allevamento si sono fatti risentire beneficamente oltrechè nel rialzo
delle medie di produzione anche sulla composizione del latte.
[...]
Durante il primo esercizio della Centrale del Latte, la produzione ed il consumo hanno
subito un forte aumento, mentre, come conseguenza dell’applicazione sempre più precisa di quanto
dispone la norma corporativa, segnano una notevolissima diminuzione le importazioni di latte dalla
Provincia e da fuori Provincia.
La produzione è salita nel 1932-33 a ben 52.317.168 litri, con un aumento globale rispetto
alla precedente annata agricola, di litri 8.400.958, il che ha elevato la media giornaliera da 120.318
a 143.344 litri, con un aumento di 23.026 litri.
Il consumo è pure notevolmente aumentato; contro i 43.092.371 litri distribuiti in città
nell’anno precedente all’entrata in esercizio della Centrale, con una media giornaliera di litri
118.061, nell’esercizio 1932-33, primo della gestione della Centrale, si è verificato un consumo
globale di litri 46.788.307, con una media giornaliera di litri 128.187 e quindi con un aumento
giornaliero di litri 10.126.
Confrontando globalmente i dati tra i primi sei mesi dell’annata agricola 1931-32,
precedentemente all’accentramento del latte, ed i primi sei mesi dell’annata 1933-34, seconda
dell’esercizio della Centrale, riscontriamo un aumento medio giornaliero di produzione di litri
37.296 ed un aumento medio giornaliero del consumo di litri 15.139.
Tali raffronti dimostrano come l’opera della Centrale per l’incremento del consumo del latte
alimentare abbia già ottenuto brillanti risultati.
Pur tenendo presente che Roma, per la sua ubicazione, per il suo clima e per la varietà e
saporosità degli alimenti di cui dispone, non potrà mai consumare latte in quantità
proporzionalmente eguale a quella assorbita da altre città di paesi settentrionali, si può senz’altro
affermare che non sarà difficile ottenere un ulteriore aumento del consumo nel prossimo avvenire.
76
SCIPIONE TADOLINI
Borgate-orto per operai nella Campagna romana
ESTRATTO DA
Scipione Tadolini, Borgate-orto per operai nella Campagna romana, in “Atti
del III Congresso di Studi Romani”, Istituto di studi Romani – Bologna, 1935 (pp.
13-20).
77
Si crede ancora da molti che il compito principale dell’urbanistica si limiti alla risoluzione
dei vari problemi di traffico e di igiene delle città, studiandone e definendone i piani regolatori, i
regolamenti edilizi, e gli altri provvedimenti del genere.
Poco invece la si conosce sotto l’aspetto sociale, della cui importanza non si ha ancora forse
una ben chiara idea. [...]
Se però fino ad ora l’urbanistica non ha fatto altroché seguire le condizioni e le tendenze
sociali delle varie epoche e dei vari popoli, adesso che la sua importanza è ufficialmente
riconosciuta, è necessario studiare ed operare affinché possa, pur senza contrastare con le necessità
generali, assumere, ove necessario, la funzione di un efficace correttivo per quelle tendenze che per
la vita di oggi si stimano perniciose, e di un aiuto per quelle che vanno incoraggiate.
L’urbanistica moderna non dovrà più seguire gli avvenimenti limitandosi a regolarli, ma
dovrà più seguire gli avvenimenti limitandosi a regolarli, ma dovrà precederli, studiando in anticipo
la via da percorrersi; dovrà così uscire dalle barriere della città estendendosi a tutta la vita del paese
e specialmente all’organizzazione della terra. L’opera romanamente colossale della Bonifica
pontina non è infatti che dell’urbanistica rurale, quella che per noi dovrà essere la più vera e saggia
urbanistica italiana.
La crisi che travaglia ancora il mondo è fondamentalmente dovuta all’eccesso di
inurbamento, al troppo grande numero di esseri che non sono in condizione di forgiarsi direttamente
i mezzi elementari di vita. L’agricoltore che coltiva il proprio campo, per piccolo che sia, non
apparterrà mai alla coorte dei disoccupati, non rischierà mai di far mancare il pane alla propria
famiglia; ma l’operaio, specie il bracciante e il manovale che vive alla giornata, specie se ha una
famiglia da sostentare, avrà sempre una vita agitata e tra vagliata se non si troverà modo di fissarlo,
sia pure limitatamente, alla terra.
Grandi cose si sono fatte finora per l’assistenza. Ormai, grazie alla santa istituzione
dell’Opera della maternità e Infanzia, ogni madre italiana è sicura che sarà affettuosamente assistita
e curata con il suo bimbo per tutto il tempo necessario; gli Istituti per le Case Popolari ed i Comuni
hanno costituito decine di migliaia di vani che sono ceduti a basso prezzo onde anche i più poveri
possano avere un tetto. Si è fatto tutto quello che si è potuto per andare incontro al popolo e per
aiutarlo a migliorare le sue condizioni di vita, ma urbanisticamente si è anche compiuto un errore
sociale concentrando in spazi relativamente ristretti troppi individui i cui mezzi di sussistenza non
sono continuativamente assicurati, e contribuendo a fissare in città anche molti individui che
altrimenti, cessato il lavoro, l’avrebbero lasciata.
Si è andati così al rimorchio della tendenza all’eccessivo incremento urbano senza opporvisi,
anzi studiando attraverso perfezionamenti tecnici, i mezzi più adatti per riunire il maggior numero
di persone nel minimo spazio. E se pure con ciò si è compiuta un’opera altamente benefica nel
risanare i vecchi quartieri portandone gli abitanti a godere i benefici dell’igiene moderna, non si può
dire altrettanto per i milioni di persone che, attirate dalle grandi industrializzazioni negli anni
passati, hanno scambiato la libera e sana campagna con le camerette di un casone di 10 piani.
Occorre ora ricondurre costoro alla terra, rimetterli in contatto con la vita dei campi pur senza far
fare loro un troppo brusco passaggio di condizioni e di abitudini. Negli studi urbanistici moderni
questa necessità di ritorno alla vita dei campi si è sovente affacciata, ma in genere è stata studiata o
da un punto di vista troppo teorico e geometrico, o sulla falsa riga romantico-idilliaca dei popoli
anglo-sassoni. [...]
In tutti questi tipi di espansione extra-urbana, sia in quelli già applicati, sia in quelli ancora
allo stadio di proposte, il concetto principale è puramente e semplicemente igienico. La popolazione
è portata a vivere in agglomerati più radi, ariosi, comodi, ampiamente dotati di verde e di tutto ciò
che occorre ad un sano sviluppo dei bambini; ma manca ancora una direttiva per quella che si
potrebbe chiamare l’igiene sociale. L’uomo della città è sì riportato più presso alla terra, ma non a
contatto intimo con essa; l’operaio reduce dall’officina ha la campagna più vicina per la sua
passeggiata domenicale, ma ciò non è sufficiente a ricondurlo all’amore per la terra. L’uomo
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semplice, il lavoratore, non si affeziona alla terra in generale, ma solo ed in particolare al suo
campo, ai suoi alberi, al suo orto, a quel pezzetto di terra, per piccolo che sia, che egli rende fertile
con il suo lavoro. Occorre perciò, perché si possa iniziare con vera efficacia la tanto richiesta opera
di ruralizzazione della città, far sì che i nuclei creati alla periferia abbiano oltre alla forma
largamente estensiva, un carattere nettamente agrario-ortivo, ottenuto con una razionale
lottizzazione del terreno ed una opportuna distribuzione di acqua.
In tal modo, e questo è di somma importanza sociale, la famiglia dell’operaio può avere non
solo, come adesso, una casa sufficiente ed igienica (ove però quando il capo non lavori, può anche
soffrire la fame), ma in più un mezzo di sussistenza, sia pure limitato, che però le permette di
affrontare con la sicurezza di un minimo certo quei periodi di disoccupazione o di scarso lavoro
inevitabili nell’economia delle famiglie dei lavoratori urbani.
Con questo, che si può chiamare con termine tecnico un volano economico, possono essere
evitati od almeno attenuati gran parte dei mali e delle oscillazioni portate nell’economia nazionale
dall’alternarsi di periodi di maggiore o minore intensità di lavoro. L’operaio disoccupato non avrà
più dinanzi a sé ed alla propria famiglia lo spettro della miseria, ma potrà attendere con relativa
calma una ripresa del lavoro, mentre i ragazzi dai 10 ai 15 anni, che sono troppo giovani per poter
essere disoccupati senza pericolo nelle industrie, potranno utilmente essere adibiti ai lavori di
coltivazione prendendo così amore alla terra e dando senza pericoli per la salute un utile aiuto al
modesto bilancio famigliare.
Tutto ciò richiede un’estensione di terreno assai minore di quanto a prima vista ci si possa
immaginare, e non è da temere che la distribuzione della popolazione in superficie sia troppo rada
per un utile rendimento economico. Purché l’area venga ben utilizzata, basta per ogni famiglia tanto
terreno quanto ne occorre ora per un comune villino, ossia non più di 800-1000 metri quadrati. Ho
potuto constatare in base a prove sperimentali fatte proprio alla periferia di Roma come un orto di
600 mq., dotato di un pozzo con semplice pompa a mano, abbia potuto fornire per tutto l’anno, e
spesso con larga abbondanza, verdure e legumi ad una famiglia di cinque persone tutte grandi, e ciò
senza tener conto delle piccole industrie, dell’allevamento degli animali da cortile.
Per una razionale utilizzazione delle aree e per ridurre al minimo la superficie unitaria delle strade,
è opportuno nella creazione di queste borgate-orto formare lotti stretti e molto allungati normali alle
strade ed aventi i fabbricati in ritiro di qualche metro, e possibilmente, per economia di costruzione,
ad un sol piano e disposti a schiera.
Ciò permette di raccogliere lungo una unica direttrice, i servizi di acqua, luce e fognatura.
Naturalmente, la lottizzazione non deve essere rigida, ma si deve adattare alle condizioni del terreno
e l’area dei lotti deve essere proporzionata al numero delle persone componenti le famiglie destinata
ad occuparli. Ogni nucleo avrà la sua scuola con l’asilo, la chiesa, ed una casa di maternità, avente
lo scopo precipuo di permettere alle madri che debbono per qualche ragione recarsi in città, di
lasciare in luogo sicuro i lattanti quando in casa rimanessero incustoditi.
L’ampiezza di ogni borgata potrà variare in funzione della posizione e della forma del
terreno disponibile, ma sarà opportuno in genere non superare un totale di 200 ettari corrispondente
a circa 1.600 famiglie. Per non intralciare le comunicazioni sulle strade principali e non accrescere
il numero degli incroci, è bene che tali borgate sorgano a breve distanza da queste, ma su di una
strada trasversale di conveniente larghezza che sarà a larghi intervalli intersecata normalmente dalle
strade di lottizzazione.
Vediamo ora l’elemento costo che è quello che a prima vista sembra costituire uno dei
maggiori ostacoli all’attuazione di questi tipi di abitazioni operaie, ma che in realtà non è affatto
maggiore di quello delle comuni case popolari.
Vediamone infatti i singoli elementi.
Terreno. – Nei pressi di Roma, pure senza ricorrere – come si potrebbe in questo caso- ai
prezzi d’imperio di un esproprio, il valore agrario di larghi appezzamenti di terreno nudo oscilla
intorno alle 3.000 l’ettaro, mentre zone già completamente irrigate, come per esempio i piani di
fiume arginati, si possono avere per 10.000 lire. Prendendo questo prezzo massimo per base
79
abbiamo un costo unitario del terreno già pronto ed attrezzato per l’irrigazione e la coltivazione
ortiva, di L. 1 al mq.
Strade. – la divisione in lotti stretti ed allungati permette la riduzione ad una cifra assai bassa
dell’unità strada per kmq.; così, prendendo per base dei lotti aventi 14 m. di fronte su 70 di
lunghezza disposti due a due a contatto sul lato corto, si ha una distanza di m. 140 tra le due strade
parallele, mentre per le trasversali ne basta una ogni 500 m. o anche di più. Ciò porta, con un
calcolo piuttosto largo, ad un totale di km. 8 di strade per kmq il che per strade larghe m. 5,50,
quale può essere una sezione sufficiente avendo i fabbricati in ritiro di 5-6 metri per parte, e per un
costo medio unitario in terreno pianeggiante di L. 100.000 al km., ci dà una spesa totale di L.
800.000 a kmq ossia L. 0,80 a mq di terreno occupato.
Fognature a condottura d’acqua e luce. – Si svolgono lungo le strade longitudinali, ossia
per la lunghezza di km. 7 a mq., oltre alle diramazioni per le singole abitazioni, il cui sviluppo può
essere ridotto alla metà studiando gli edifici a schiera in modo che ogni diramazione ne possa
servire due insieme. Il costo di questi impianti non è possibile fissarlo con precisione dipendendo da
circostanze varie, però con larga approssimazione si può avere un’idea della spesa totale che risulta
per tutti gli impianti di L. 1,80 al mq di terreno occupato ossia, detraendo la superficie delle strade
che risulta circa un ventesimo dell’area totale, di L. 2,00 a mq di terreno utile.
Fabbricati. – Costruendo su larga serie e con sistemi moderni e rapidi, un elemento a schiera
(composto di tinello, tre camere da letto ed accessori, rifinito senza inutili ricercatezze, ma
solidamente come si conviene ad un edificio rurale) può essere prodotto con non più di L. 15.000
cui va aggiunto il solo costo delle recinzioni, che possono essere inizialmente eseguite in modo
semplice e rustico, con paletti di legno e filo spinato, piantandovi poi una siepe viva che col tempo
crescendo verrà a sostituirle. Il costo ne è di L. 8 al ml., il che per ogni lotto sviluppante m. 14 di
fronte e m. 154 di perimetro (che vanno calcolati per la metà) dà un totale di lire 728 che possiamo
anche arrotondare ad 800.
Si ha così, calcolando largamente a 1.000 mq il lotto tipo – che in realtà ne sviluppa 980 –:
Terreno a impianto d’irrigazione…………………L.
1.000
Strade……………………………………………..L.
800
Impianti varî………………………………………L.
2.000
Casa e recinzione…………………………………L.
15.800
Totale L.
19.600 – 20.000
Che è appena il costo di un comune appartamento molto popolare.
La distribuzione di queste borgate-orto intorno a Roma è prevista come nell’annessa cartina,
utilizzando i terreni adatti lungo le linee di comunicazioni ferroviarie esistenti e in zone per lo più
attraversate da acquedotti o fornite di abbondante acqua per irrigazione. Non ho ritenuto opportuno
tener conto delle tramvie dei Castelli perché inadatte nello stato attuale a sopportare un intenso
traffico locale veloce. Anche per la linea di Fiuggi, qualora fossero costruite si di essa le borgate
previste, occorrerebbero notevoli miglioramenti e adattamenti perché il servizio potesse svolgersi
con una sufficiente velocità.
Esaminando dettagliatamente le zone abbiamo:
ZONA NORD: Ottavia: è una fermata sulla Roma-Viterbo a 12 km dalla stazione di
Trastevere. La zona è servita dall’acquedotto Paolo che, correndo lungo il crinale percorso dalla via
Trionfale, si trova più in alto dei terreni circostanti, onde se ne può derivare la quantità di acqua
necessaria per l’irrigazione degli orti. Per quella potabile è necessario un impianto di depurazione,
essendo – com’è noto – l’Acqua Paola in parte proveniente dal lago di Bracciano.
Prima Porta e Castel Giubileo. – Sono tre piane di fiume servite dalle due stazioni
sunnominate delle Roma Nord, rispettivamente a 11 e 10 km dalla Porta del Popolo; il terreno è
fertilissimo e facilmente irrigabile con le acque del Tevere innalzate. Non vi sono ancora argini, ma
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saranno fatti tra poco, e d’altra parte il terreno è assai alto e molto raramente soggetto alle
inondazioni.
ZONA SUD-EST: Salone e Tor Sapienza. – Sono terreni posti presso le due fermate
omonime della Roma-Tivoli a 9 e 12 km dalla stazione di Termini, attraversati dall’acquedotto
Vergine recentemente riordinato ed accresciuto e che può fornire contemporaneamente acqua
potabile e di irrigazione sufficiente. A Tor Sapienza esiste già una borgata sul tipo del Quadraro che
andrebbe modificata.
Torrenova e Pantano. – Sono sulla linea di Fiuggi, a 11 e 16 km da piazza Termini; vi passa
l’acquedotto Felice che convoglia dell’ottima acqua potabile. Nella prima località è già sorta
spontaneamente una borgatella; la seconda, antico fondo dello storico lago Regillo, è nota per essere
la zona più fertile dell’Agro Romano.
ZONA OVEST: Tor di Valle e Dragoncello. – Sono due tenute sulla destra della
Roma.Ostia (per la prima occorre stabilire una fermata apposita,essendo quella della Magliana
troppo distante; l’altra può essere benissimo servita dalla stazione di Acilia). I terreni sono arginati e
vi è già installato un completo impianto di irrigazione per sollevamento dell’acqua del Tevere,
mentre per quella potabile si provvede con l’Acqua Marcia dell’acquedotto di Ostia.
Malafede e Mezzocammino. – Sono località poste sulla sinistra della Roma-Ostia servite
dall’acquedotto Marcio e dalla fermata di Mezzocammino (11 km da S. Paolo); per l’irrigazione
potrà forse usarsi anche l’acqua del fosso di Malafede, se opportunamente raccolta.
Prati della Magliana. – E’ un vasto piano di fiume arginato, servito dalla stazione della Magliana
sulla Roma-Pisa (km. 4 da Trastevere) e dall’acquedotto di Fiumicino; per l’irrigazione si può
anche qui provvedere con l’acqua del Tevere, qualora non risulti più conveniente utilizzare i
sopravanzi dell’acqua potabile.
Le zone qui descritte non sono le sole suscettibili di sviluppo; molte altre ve ne sono ancora
specie lungo le vecchie ferrovie locali che ora sono abbandonate o ridotte ad uno scarsissimo
servizio, e che invece potrebbero con la creazione di nuclei abitati risorgere a nuova attività.
Se quanto ho detto non è necessariamente che uno studio di massima, mi riprometto in
seguito e con ancor più precisi dati, di dimostrare oltre la convenienza sociale anche quella
economica di questo tipo di espressione rurale extra-urbana che tanto bene potrà recare alla salute
fisica e morale del popolo.
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ELIGIO MAOLI
La bonifica graduale della tenuta «La Cesarina» sulla via Nomentana
ESTRATTO DA
Eligio Maoli, Realizzazioni di un agricoltore nella bonifica di una tenuta
dell’Agro romano, in “Atti della R. Accademia dei Georgofili”, aprile-giugno 1937
(pp. 205-10). Il titolo del brano riportato è redazionale.
82
La tenuta [...] non era certo, per la sua natura e conformazione, in condizioni di privilegio.
Dei mille ettari di cui è costituita soltanto una cinquantina sono di piccole vallecole, mentre i
rimanenti formano ridossi ed altopiani, tutti di natura tufacea.
Solo il miracolo verificatosi con lo scasso e l’ardimento di seminare il cereale nello stesso
anno in cui veniva eseguita la lavorazione, hanno reso possibile la riuscita del piano finanziario.
[...] Per corrispondere al piano di bonifica che il Ministero di agricoltura aveva frattanto
imposto per tale tenuta, le principali trasformazioni da compiere dovevano consistere:
1.º) nella riduzione del fondo da uno a quattro centri;
2.º) nel dissodamento di 97 ettari di terreno a cent. 75-80;
3.º) nella costruzione di fabbricati rurali per ricavarvi n. 30 abitazioni per il personale fisso e
n. 2 cameroni per il personale avventizio, nonché di stalle per n. 170 capi grossi;
4.º) nella coltivazione continua avvicendata di 550 ettari di terreno;
5.º) nell’impianto di 5 ettari di frutteto specializzato e nell’alberatura lungo le strade e i corsi
d’acqua perenne.
Questo piano – che ha subito nel corso di esecuzione modifiche e spostamenti di termini, a
causa di varie circostanze e prima di tutto per la guerra mondiale – ha richiesto l’attività di oltre un
ventennio, potendo l’azienda considerarsi solo ora completamente attrezzata e sistemata.
La prima opera compiuta fu il collegamento del vecchio casale con la strada rotabile,
riducendo l’impraticabile carrareccia in una comoda strada rurale. E poiché questa attraversava la
parte valliva del tenimento, a tale costruzione si abbinò il risanamento della valle medesima, a
mezzo di drenaggi e colmate.
Si provvide poi alla ricerca dell’acqua potabile per i centri da costruire e si mise mano allo
scasso dei terreni, che fu preordinato e mediamente svolto nel tempo in ragione di circa 50 ettari
all’anno.
Col sorgere dei nuovi centri abitati – i quali più tardi subirono sensibili ampliamenti – si
iniziarono le colture e la provvista del bestiame. Questo ultimo, nella quasi totalità, è stato allevato
nel fondo migliorandolo con scelti riproduttori.
Non peccherò, spero, di immodestia se dirò che, procedendo nell’opera di miglioramento il
piano di cui sopra è stato notevolmente superato, perché a ciò indussero i risultati incoraggianti che
man mano venivano realizzati e che davano la possibilità di ulteriori impieghi produttivi.
Ed infatti invece di quattro centri se ne sono costruiti cinque, in luogo di 30 abitazioni per
famiglie stabili se ne sono costruite 62. I capi stabulati che dovevano essere 170 sono aumentati a
380, tutti sistemati in comode stalle e vaccherie, provviste di acqua potabile alle mangiatoie.
Molto sviluppo si è dato, più, a tutti i fabbricati di servizio, quali i magazzini: per q.li 5000
di cereali, q.li 100 di lana, q.li 300 di formaggio pecorino, q.li 7000 di foraggi secchi e mq. 500 per
il ricovero di macchinari ed attrezzi; nonché ai silos da foraggio per una capacità di 9000 quintali.
Tutti i cinque centri sono ora collegati tra loro e con le vie pubbliche, mediante strade a
fondo solido; sono forniti di energia elettrica anche per l’azionamento di motori e di macchine
agrarie; sono provvisti di abbondante acqua potabile e dotati di orti famigliari, di forno, porcili,
pollai e concimaie.
L’azienda è anche dotata di due Scuole con abitazioni per le insegnanti, di una Chiesa, di un
molino da grano per i bisogni del personale e di un altro per la preparazione dei mangimi.
Per i bisogni del bestiame esistono, ben distribuiti nel fondo, n. 18 fontanili.
La coltivazione continua avvicendata che, secondo il piano di bonifica, doveva essere di 550
ettari, ha raggiunto – previo il dissodamento meccanico – l’estensione di 772 ettari, giacchè, se si
escludono il bosco, ridotto a ettari 45, e circa 50 ettari di aree indisponibili, restano appena un
centinaio di ettari pascolivi ancora da dissodare.
La rotazione che è stata adottata è la seguente: sarchiate, cereali, prati artificiali, con
l’utilizzazione dell’abbondantissimo e ben conservato letame proveniente dalle stalle e con
l’applicazione dei concimi chimici, principalmente somministrati ai prati artificiali e agli erbai.
83
Solo sui terreni scassati, dopo aver convenientemente sistemato e concimato il terreno, si è
per eccezione aperta la rotazione col frumento.
[...]
Tutta questa trasformazione, che nei riguardi del solo bestiame ha portato ad un incremento
di peso vivo di oltre 15500 quintali, è stata conseguita – e questo a me sembra il più apprezzabile
risultato – senza scapito della industria armentizia, cosicché il gruppo degli ovini – 2500 capi –
quale era prima dell’inizio della trasformazione si è potuto mantenere nella sua piena efficienza. [...]
Quanto ai cereali, e particolarmente al frumento, seguendo le moderne prescrizioni colturali
e con l’impiego di razze elette (Ardito, Edda, Roma, Littorio), che ora si producono in purezza, si è
potuto conseguire un fortissimo aumento di produzione, la quale, nelle stagioni normali, oscilla su
una media di 20-22 quintali per ettaro.
A scopo di produrre frutta, sono stati impiantati, con criteri moderni e seguendo tutti i
dettami della scienza, tre frutteti specializzati ed a carattere industriale di circa 12 ettari.
Tanto i peschi come le viti per uva da tavola risalgono a soggetti delle migliori qualità,
ripartiti in poche varietà, sì da avere una produzione continuativa dal mese di giugno a tutto
settembre.
Al complesso delle lavorazioni che si susseguono ora ininterrottamente, senza più pause
stagionali, provvede pienamente il personale stabile della azienda che per la maggior parte vi si è
trasferito dall’Abruzzo, man mano che sorgevano i centri e si sviluppava il piano di bonifica.
Attualmente, oltre il personale addetto alla custodia del gregge, in numero di trenta pastori,
abitano nell’azienda 32 famiglie stabili, che hanno la necessaria assistenza religiosa, sanitaria e
scolastica, e sono composte di circa 320 persone.
Esse sono associate in compartecipazione nella coltivazione dei cereali e dei frutteti
specializzati.
Dalle famiglie stesse vengono forniti i salariati per la manutenzione e il funzionamento del
macchinario e la custodia del bestiame, nonché i giornalieri per le lavorazioni tutte da eseguirsi
nell’azienda, giacché si ricorre a personale estraneo solo in casi eccezionali.
[...]
non mi è possibile di fare un bilancio economico dell’azienda, posso però dire che la
medesima, oltre che essere in piena efficienza, chiude annualmente la sua gestione con profitto
soddisfacente, come del pari soddisfacente è la condizione del personale, associato – come si è detto
– nell’impresa.
Tale favorevole risultato va nella massima parte attribuito alla prudenza con la quale si è
proceduto nella via della trasformazione, senza fare ricorso in misura eccessiva al credito, anche se
questo si presentava in forma allettante, nonché alla circostanza di aver perseguito la direttiva della
molteplicità dei prodotti.
Il costo della trasformazione può ritenersi che si sia aggirato sulle 5.000 lire ad ettaro, ma si
è preferito di limitare il mutuo di favore a non oltre un quarto della spesa investita, provvedendo
alla differenza direttamente e sopratutto col reddito del fondo, secondo i progressivi benefici che si
ritraevano.
Aggiungasi che nell’esecuzione del vasto complesso di opere di miglioramento fondiario ed
in particolare di quelle edilizie e stradali, non si è ricorso in alcun modo a intermediari, essendosi
eseguiti tutti i lavori in economia, sotto la personale direzione del proprietario.
E poiché detti lavori si sono svolti gradualmente, in un periodo, come si è ricordato, di un
ventennio, non si sono constatati quegli insuccessi che hanno potuto spiacevolmente verificarsi in
altre trasformazioni compiute più rapidamente e con minore intervento diretto da parte della
proprietà.
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La tenuta Olgiata sulla via Cassia
ESTRATTO DA
Edoardo Bassi, Un’azienda sistemata e condotta razionalmente. La tenuta
Olgiata a La Storta di Roma, in “Il Giornale di Agricoltura della Domenica.
L’Agricoltore d’Italia”, 20 febbraio 1938. Il titolo del brano riportato è redazionale.
85
[...] Non mancarono invero anche nell’anteguerra provvidenze volte alla rinascita dell’Agro.
Ma l’attività ebbe il suo vero inizio solo attraverso l’efficace, fattivo intervento e lo stimolo urgente
del fascismo.
Gli effetti di questa intensificata attività non tardarono a manifestarsi e si rendono evidenti a
quanti, nell’attraversare l’Agro, si danno la pena di istituire un confronto mentale tra l’odierno suo
aspetto e quello di una ventina di anni or sono.
Tra coloro che con alta, moderna comprensione degli uffici e della missione della proprietà
terriera si consacrarono a quest’opera di vera redenzione occupa un posto eminente il Marchese
Mario Incisa della Rocchetta che ad Olgiata, a venti chilometri da Roma, sulla via Cassia, si è
accinto con lena e competenza (il marchese Incisa è laureato in agraria) alla trasformazione di quel
vasto latifondo (circa novecento ettari), trasformazione radicale, anzi bonifica integrale nel più
preciso e ampio significato della parola perché abbraccia non solo le cose e gli esseri viventi, ma gli
uomini stessi e l’ambiente psichico in cui si esercita la loro attività.
In questi giorni il proprietario ha avuto l’ambito onore di una visita di S. E. Tassinari,
Sottosegretario di stato all’agricoltura e alle foreste e alla bonifica integrale.
L’azienda nel 1929
Nel 1929, poco prima che il proprietario iniziasse questo vasto lavoro di miglioramento
della sua terra, l’azienda era quasi tutta coperta dal pascolo ovino, salvo qualche raro appezzamento
che a lunghi intervalli si dissodava per seminarvi grano e avena. I fabbricati erano ridotti allo stretto
necessario imposto da un’economia del tipo più arretrato e cioè quattro piccoli centri colonici ed un
ovile. Passare da questo assetto quasi primordiale a quello caratteristico di una azienda moderna
equivaleva a far percorrere all’antico ordine in pochi anni il cammino che generalmente esige lo
sforzo accumulato di parecchie generazioni. Primo scopo da conseguire era il passaggio graduale
dal pascolo millenario o saldo, alla coltura arativa ed eco affacciarsi il primo ostacolo.
Per fare della coltura arativa è mestieri naturalmente disporre di uno strato coltivabile, avere,
in poche parole, il terreno agrario; ma nell’Agro in grandissima parte della sua estensione lo strato
coltivabile presenta uno spessore minimo perché sotto havvi il cosiddetto cappellaccio, o tufo
impervio all’agricoltura, spesso affiorante, che si andò formando lungo il volgere dei secoli da
quando la regione, abbandonata la coltura arativa, venne adibita a pascolo. Bisognava dunque
aggredire questo strato ribelle, disintegrarlo, per ridurlo coltivabile.
Il problema era già stato risolto molti anni prima ricorrendo agli apparecchi di scasso
Fowler, perché in questo unico caso eccezionale lo scasso è proprio indispensabile alla coltura delle
piante erbacee e dico scasso vero e proprio, di 80 cm. e oltre. Ciò è naturale in quanto, ove non
esiste un terreno agrario, bisogna formarlo sia avendo ricorso allo scasso come all’uso degli
esplosivi.
Per il dissodamento il Marchese Incisa si valse di potenti motori Caterpillar, che impiegati
ad economia, riescirono a compiere il lavoro ad un prezzo molto inferiore a quello delle aratrici
Fowler.
La rotazione agraria
A tutt’oggi si sono dissodati cinquecentoventi ettari, i rimanenti 300 sono in corso di
dissodamento. Sui primi è stata già stabilita una regolare rotazione che comprende al primo anno il
grano, seguito al 2º da avena con trifoglio, al 3º anno su metà della superficie viene conservato il
prato di trifoglio, la rimanente metà riceve una pianta sarchiata, al 4º anno si ha il ritorno del grano,
il 5º- 6º-7º-8º anno il terreno è occupato da prato di medica.
Su parte della superficie a grano, mietuto questo, si coltivano erbai misti di veccia, avena,
segale e favino. Tutto il letame disponibile che viene confezionato in concimaie razionali, va a
beneficio della coltura da rinnovo o degli erbai intercalari. Le terre a grano vengono preparate a
regola d’arte usando gli attrezzi più perfezionati. La concimazione comprende sei quintali di
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perfosfato, uno e mezzo di calciocianamide alla semina, ed un quintale di nitrato in copertura e in
più volte nell’inverno. Si usa anche con profitto il fosfato biammonico, un quintale e mezzo ad
ettaro, integrandolo con uno di perfosfato ed uno di nitrato. La semina si fa a righe semplici distanti
20 cm. e non si omettono le sarchiature diligenti.
Come si vede la procedura, anche nei riguardi dell’epoca e della quantità di seme, è
essenzialmente quella che per merito incontestabile di Gibertini è divenuta familiare a tutti gli
agricoltori d’avanguardia. Che i risultati siano lusinghieri lo dimostrano i rendimenti medi i quali
nell’annata calamitosa del 1936 toccarono i 26 quintali, mentre nel decorso anno si spuntarono i 27
quintali con una punta controllata in 10 ettari di quintali 37,64. La media sarebbe stata anche più
cospicua qualora una parte della superficie non fosse stata occupata da grano semitardivo che diede
7 quintali meno del precoce. Quest’anno, però, si è coltivato solo grano precoce rappresentato
dall’impareggiabile Roma dello Strampelli. La azienda ottenne il primo premio nel concorso
provinciale del grano ed un altro primo premio nel concorso zootecnico.
Il medicaio viene formato senza consociazione e si concima con otto quintali di perfosfato
su aratura profonda, usando 50 kg. di seme per ettaro. La concimazione chimica viene ripetuta ogni
anno in primavera incorporando il fertilizzante con una energica erpicatura effettuata con erpice
pesante. [...]
Oltre al dissodamento con scasso si è veduta la necessità di quella sistemazione della
superficie agli effetti dello sgrondo senza la quale è vano attendersi un risultato positivo e costante
da terreni come quelli dell’Agro che mai hanno conosciuto un qualsiasi controllo delle acque. [...]
Il patrimonio zootecnico
[...] In origine non esisteva più di un capo ogni 7-8 ettari [...]. Tra un paio d’anni il carico
sarà portato al classico capo per ettaro, risolto infatti il problema foraggero quello zootecnico segue
quasi automaticamente.
L’azienda ha un centro di allevamento di bovini maremmani in purezza in un nucleo centrale
di 27 capi ed un toro, oltre a cento tra vacche, vitelli e manzi e ventotto buoi da lavoro.
L’allevamento bovino come quello ovino sono sotto il controllo della sezione zootecnica
dell’Ispettorato agrario. Il bestiame da reddito comprende 147 vacche Svitto sulle quali si va
operando la selezione razionale in base al rendimento in latte secondo i dettami più moderni.
L’alimentazione è fatta con razioni bilanciate comprendenti fieno di medica, erba degli erbai,
foraggio di silo e concentrati. I silos in numero di sedici, della capacità complessiva di 6.400
quintali, rispondono egregiamente senza dar luogo a perdite anche minime. La stalla delle vacche da
latte è costruita secondo le norme più razionali e tutti gli accorgimenti che assicurano l’igiene del
bestiame sono scrupolosamente osservati. Ordine, pulizia ed economia nella esecuzione dei lavori
sono assicurati da un personale competente e zelante nell’adempimento dei suoi doveri. Basta uno
sguardo perché il visitatore si convinca del modo inappuntabile con cui procede questo come tutti
gli altri servizi dell’azienda. Il risultato è prova manifesta della sollecitudine con cui il nobile
proprietario tratta tutto il personale esecutivo assicurando ai componenti un’esistenza di modesto
ma dignitoso benessere. Come si vede il lato sociale della bonifica è stato tenuto in considerazione
particolare.
Anche l’allevamento equino riveste un’importanza cospicua. Si allevano cavalli da corsa in
numero di 24, tutti puro sangue di alta genealogia. [...]
Speciale menzione merita l’allevamento ovino che comprende 1700 capi di razza
sopravvissana incrociata con la merinos. Il rendimento è stato portato da una media di 2
chilogrammi di lana di ottima qualità, a quasi tre chilogrammi [...]. Il reddito in latte non è meno
considerevole. Centoventi litri di latte per capo da cui si ricavano oltre 10 kg. di pecorino mentre
alcuni anni or sono si arrivava ad appena sei chilogrammi.
Non sono poi state trascurate le piantagioni arboree a scopo di ottenere quei frangivento di
cui le Aziende dell’Agro sono purtroppo mancanti. Oltre 60.000 piantine tra pioppi del Canadà,
cipressi, conifere, gelsi, quilex e biancospini per siepi sono già a dimora e bene attecchiti.
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I fabbricati rurali
I fabbricati comprendono un centro aziendale e cinque minori opportunamente distribuiti.
Il primo contiene, oltre al castello padronale in cui il proprietario ha eletto costante dimora
dando esempio eccezionale di attaccamento alle cose dell’agricoltura e di interessamento sincero
alle sorti dei propri dipendenti, la direzione tecnica, i magazzini, le stalle, il molino, il negozio di
generi alimentari che si cedono a prezzo di costo al personale, l’officina meccanica, il deposito
macchine, la falegnameria, le tettoie per carri, ecc. tutto disposto con sapiente criterio distributivo e
mantenuto con quella diligenza e ordine inappuntabili che oltre allo scopo utilitario ne conseguono
uno educativo assuefando le maestranze alla disciplina personale ed al rendimento efficiente.
In questo settore hanno anche sede l’Opera Dopolavoro con bagni, sala di ricreazione,
cinematografo, oltre alle scuole, i corsi per le massaie rurali ed all’asilo infantile in cui i bambini
ricevono la refezione scolastica, il tutto a carico dei proprietari e sotto il personale, vigile e
intelligente controllo della nobile proprietaria.
E vi è pure un osservatorio metereologico con termo idrografo, barografo, pluviografo,
anemografo, eliofonometro, psicrometro.
Le abitazioni coloniche in numero di 12 sono tutte nuove, con locali ben arieggiati,
illuminati, spaziosi e, ciò che è degno di rilievo conservati con la massima cura e pulizia. Altro
fattore educativo di primissimo ordine questo della casa accogliente e riposante. A 34 sommano le
famiglie che comprendono 145 conviventi. [...]
88
ENRICO FILENI
L’Agro romano nel quadro della più grande Roma: un piano regolatore regionale
ESTRATTO DA
Enrico Fileni, L’agro romano e i suoi problemi, Roma-Spoleto, Parretto e
Petrelli – Istituto di studi romani, 1939 (pp. 24-28). Il volume riprendeva il testo di
una conferenza tenuta nel marzo 1939 presso i Corsi Superiori di Studi Romani. Il
titolo del brano riportato combina due espressioni utilizzate dall’Autore.
89
Con le opere eseguite e in corso di esecuzione, l’Agro Romano realizza anche un postulato
che fu sempre insito ad un’altra sua funzione di carattere generale: quello di essere non elemento
separatore della vita e dei bisogni dell’Urbe, dalla vita e dai bisogni della città e villaggi che la
circondano; ma elemento di moderna espansione agreste della Capitale, di traffico tra questa e la
sua provincia e le provincie sorelle; di diretto, ridente, animato congiungimento tra Roma e i centri
circostanti, particolarmente con i Castelli, coi laghi, coi boschi e col mare.
Fin dall’iniziale esame legislativo del problema dell’Agro si propose la creazione di centri o
borgate rurali dislocate intorno a Roma, partendosi dal principio che non potevasi vincere la malaria
senza il popolamento della campagna, rievocandosi i pagi di Numa e di Servio Tullio, le
domusculte di San Zaccaria e Adriano primo; le masse e le sale dei Pontefici loro successori, e le
parrocchie agricole del Cacherano. Ma soltanto le leggi del 1910 e del 1919, con vigorosi
incoraggiamenti realizzarono quel voto, onde fra il 1913 e 1l 1922 sorsero nove borgate rurali nelle
quali si stabilirono 417 famiglie.
Nel 1932 ne è sorta un’altra di carattere misto, agricolo-cittadina, Torre Gaja. Le più
prossime, come quelle di Centocelle, della Magliana, di Tor Sapienza e di Santo Onofrio, sono a 6-7
km. dalle porte della città; altre si trovano a 10-15 km.; la più lontana è quella di San Cesareo,
creata per ex Combattenti al 24º km. sulla via Casilina.
Le finalità delle borgate dotate in tutto o in parte di edifici e di servizi pubblici (scuola,
chiesa, dispensa, stazione sanitaria, delegazione governatoriale, stazione dei carabinieri; ed oggi:
sedi del fascio, del dopolavoro, campo sportivo, ecc.), sono e possono essere molteplici, al di là di
quella fondamentale di fugare la malaria e di popolare l’Agro. Così ad esempio:
insediare in campagna nuclei famigliari agricoli o artigiani; i quali disponendo di una
superficie di terreno più o meno estesa (prevista dalle leggi da mezzo ettaro a 30 ettari) possano
trarre da questo in tutto o in parte il loro sostentamento, collaborando così al conseguimento dei fini
autarchici del regime;
costituire con tali primi nuclei altrettanti centri di irradiazione della popolazione nelle zone
ancora poco abitate, mettendo al tempo stesso a disposizione delle proprietà agricole circostanti la
mano d’opera necessaria nei periodi di maggiore richiesta, e che ora viene ingaggiata in lontane
regioni;
determinare nelle zone circostanti una nuova attività bonificatrice e un incremento della
produzione agricola;
dare una confortevole sede agreste a famiglie delle classi medie che amino risiedere in
campagna, sfollando così la città, il che ben si assomma al dovere annunciato dal Duce il 30 marzo
’38 al Senato, di non attendere le ore dodici per cercarsi un rifugio in caso di evenienza bellica;
graduale attuazione del piano regolatore regionale della più grande Roma di un prossimo
domani.
Anche tutti questi scopi sono stati dove più dove meno conseguiti, sia pure attraverso non
poche difficoltà. I primi nuclei famigliari e nuove unità agricole si sono moltiplicate; e attorno ad
esse, le coltivazioni e la popolazione si sono estese sensibilmente. Sicchè la utilità e la funzione di
questi centri di vita variamente organizzati sono talmente evidenti che è da augurarsi che essi si
moltiplichino, specialmente nelle zone più eccentriche e già servite da strade. Del resto risulta che
in vista dell’E. 42 molte iniziative del genere sono in gestazione.
E poichè, a parte questi nuclei agricoli promossi dalle leggi agrarie, il Governatorato di
Roma ne include tanti altri nel suo vastissimo territorio, è pure da augurarsi che un piano regolatore
della più grande Roma, auspicato da quanti si occupano di discipline urbanistiche e in questa stessa
sede di Studi Romani, consideri nel suo programma anche il problema della creazione di nuove
borgate agricole e miste nelle zone riconosciute adatte e la sistemazione di alcuni agglomerati
esistenti, i quali, sia detto con l’animo di quanti amano e vivono in questa superba Roma, non fanno
sempre onore all’ordine, alla decenza, al sano convivere di popolazioni amministrate dall’Urbe.
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D’altra parte l’incremento dato e che ancora vuol dare il Regime alla radicale trasformazione
dell’agricoltura, nonchè le sue fondamentali direttive di disurbanizzazione e di ruralizzazione,
porteranno sicuramente per conseguenza, come in parte hanno portato, anche il sorgere di nuove
case, ville, poderi e orti-frutteti lungo le grandi vie che si irradiano dal capoluogo, specialmente in
direzione dei laghi, dei Castelli e del Mare; il che accentua la necessità del vasto piano regolatore
invocato.
A titolo di esempio si può accennare che le attività che per spontanea iniziativa dei privati o
dello Stato si vanno svolgendo nella immensa campagna circostante a Roma, potrebbero
intensificarsi e con organica visione indirizzarsi alla realizzazione di un tal piano regolatore
regionale. Così:
Le numerose borgate e frazioni esistenti, sorte evidentemente là dove gli interessi economici
hanno convogliato per circostanze locali favorevoli e in nuclei più o meno notevoli le popolazioni,
dovrebbero essere tutte rivedute e integrate, conforme le necessità civili e sociali moderne, secondo
un loro proprio piano regolatore;
nelle zone dove questi nuclei di popolazione non sono ancora sorti spontaneamente mentre
vi sarebbero utili e vi troverebbero sede propizia, promuoverli; miniscoli dapprima, ma tenendo
presente la suscettività di loro ulteriori sviluppi, e studiati in modo da corrispondere a tutte le
necessità che con la loro creazione si intende conseguire;
lungo le principali arterie che si irradiano da Roma, e nelle località più amene, incoraggiare
il sorgere di poderi, di orti, di parchi e di giardini, con la rispettiva casa o villa e annessi, per tutti
coloro che vogliano vivere o disporre di una sede in campagna non lontana dal luogo delle rispettive
quotidiane occupazioni;
lungo i corsi d’acqua o dovunque sia possibile disporre di acqua irrigua a condizioni
economicamente convenienti, estendere e intensificare l’orticoltura o, se del caso, la produzione del
latte;
in due o tre zone riconosciute adatte, attualmente boscose e con qualità di terreni scadenti e
non facilmente trasformabili, organizzare grandi riserve di caccia e pesca, a scopo sportivo e al
tempo stesso di non trascurabile produzione di selvaggina e di pesce;
lungo il litorale tirreno, estendentesi per circa novanta chilometri, piantare, integrare,
migliorare la invocata fascia arborea, specialmente di pini, a scopo di bellezza di paesaggio e di
barriera frangiventi; e così in ogni altra località battuta da forti venti e riconosciuta adatta;
nel resto del territorio accelerare il ritmo dello spezzamento del latifondo; dell’insediamento
nei campi di coltivatori stabili e di bestiame stabulato, armonicamente coordinato con sufficienti
allevamenti ovini; accrescere la già imponente rete stradale con la costruzione delle poche strade di
bonifica ancora da costruire; col rifacimento o miglioramento delle molte strade comunali, vicinali
o consorziali che si trovano in condizioni deplorevoli e con la moltiplicazione delle strade poderali
e interpoderali; il tutto abbellito, ravvivato da numerose piantagioni di boschetti e di alberi in filari
o sparsi, ornamentali o fruttiferi.
Giunta la bonifica a questo punto potranno dirsi appieno soddisfatti i suoi altissimi compiti
igienici e d economici, privati e sociali. Potrà l’Agro ospitare una popolazione due o tre volte più
numerosa di quella attuale; e fornire alla Capitale oltre che tutto il latte, anche buona parte del pane
e tutti gli ortaggi necessari alla popolazione di oggi e di domani. Potrà fornirle assai più copia di
carne e di frutta benchè, con l’incremento che si prevede non lontano, fino a due e poi fino a tre
milioni di abitanti, non potrà soddisfarla interamente. Ma nel frattempo avrà progredito anche
l’agricoltura della sua Provincia che in verità si trova molto arretrata.
Tutto sommato, molto è il cammino fatto per affrontare e risolvere i problemi dell’Agro;
molto ne resta da fare. Il fascismo ha per esso apprestato i mezzi e gli spiriti, onde possiamo
guardare al futuro con piena fiducia.
Roma tornerà quale fu vista nelle remote età, come una gigantesca città adagiata su tutto il
Lazio, la quale, ricordava Guido baccelli, alla pari e meglio delle più grandi e moderne metropoli, i
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suoi sobborghi stendeva come le braccia di Briareo e a perdita d’occhio; onde il vecchio Plinio
poteva dire che le case sparse nei dintorni di Roma le aggiungevano molte città.
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VITTORIO RONCHI
L’Azienda Maccarese al profilarsi della guerra
ESTRATTO DA
Vittorio Ronchi, Guerra e crisi alimentare in Italia (1940 – 1950: ricordi ed
esperienze), Salerno, Scuola Arti Grafiche Istituto Maschile «Umberto I», 1977, pp.
14-21. Il titolo del brano riportato è redazionale, mentre le note sono dell’Autore.
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Anno 1940
Il 10 giugno da Maccarese vengo a Roma di buon mattino, accompagnato dal mio fedele
autista Corrado Moino. E’ annunciata per il pomeriggio una delle famose adunanze in piazza
Venezia per un discorso che pronuncerà Mussolini. Gli eventi stanno precipitando e siamo pieni di
preoccupata curiosità. La spettacolare marcia dei tedeschi in Francia con la evidente disfatta degli
eserciti franco-inglesi, dopo le rapidissime occupazioni della Danimarca e della Norvegia,
trascinano fatalmente anche il nostro Paese verso la fornace bellica. La baldanza fascista non può
essere trattenuta dalla retroguardia delle trionfali invasioni dell’alleato. E tutto deve apparire facile
ai gerarchi e al loro capo se, malgrado i proclamati propositi di neutralità, si decideranno a muovere
le sparse Forze armate schierate dai nostri confini all’Albania, alla Libia, all’Africa Orientale. Le
notizie, per quanto di sempre limitata conoscenza, non sono buone sulle loro condizioni. Militari
venuti dalla Libia mi avevano descritto la povertà delle nostre divisioni, in armamento ed
equipaggiamento. Alcuni richiamati alle armi al tempo di Monaco sul fronte francese, tra i quali il
dr. Becich16, mi avevano riferito che molta parte delle artiglierie proveniva da preda bellica 1918 di
gran lunga inferiore all’armamento moderno delle artiglierie francesi! La nostra industria pesante
aveva di certo molto lavorato per il rinnovamento del materiale; ma con quale esito di
potenziamento delle nostre forze sparse sul vastissimo fronte degli impegni coloniali?
Mi reco con alcuni amici a piazza Venezia affollatissima nel caldo declinare del giorno. Dal
consueto balcone Mussolini pronuncia il noto discorso. L’accoglienza è di tono ridotto, salvo gli
applausi di rito.
Passo dal vicino Consorzio Agrario ove mi incontro col suo Direttore17 il quale appare
preoccupato: pensa ad eventuali incursioni aeree.
Rientro a Maccarese. Dopo cena passeggio a lungo sulla terrazza. Penso ai gravi problemi
che si profilano per l’Azienda, per il Paese. Impegnato giorno e notte in quelli della Maccarese sono
all’oscuro delle maggiori vicende che sovrastano la vita politica ed economica interna ed
internazionale. La vittoriosa impresa etiopica conseguita con l’acquiescenza degli anglo-francesi e
le vistose avanzate dei tedeschi in Europa sembrano fatti non sfavorevoli al nostro Paese appoggiato
da così potente alleato. Nel marzo-aprile, alla notizia dell’invasione dei pacifici Paesi del Nord ero
rimasto inorridito e mi ero domandato: è tutta una civiltà che crolla? Ora, di fronte all’evidente
prova di impotenza dei franco-inglesi rimasti praticamente inattivi mentre Hitler e Stalin si
dividevano la Polonia e di fronte allo sfacelo dei loro eserciti, sembrava possibile che l’Asse
assumesse posizioni decisive per un nuovo ordine in Europa e nel mondo. Pur nella contrarietà di
una partecipazione ad una guerra che certamente non sentivo e non approvavo, la mia mente ignara
di vecchio combattente era portata a ritenere le nostre Forze armate straordinariamente potenti
anche di fronte alla minaccia delle flotte anglo-francesi, costrette a proteggere incommensurabili
costiere insidiate soprattutto dai sottomarini, e mi dicevo che Mussolini doveva di certo aver ben
valutato il pro e il contro se si era gettato in così spettacolare impresa. Comunque, a guerra
dichiarata, penso che a noi incomba il dovere di servire fedelmente il Paese senza limiti come lo
abbiamo servito sul Carso e sul Grappa. Mentre osservo il gran buio, accentuato dall’oscuramento,
concludo che è necessario procedere ad assestare l’Azienda secondo il programma di emergenza già
da qualche mese allo studio, in modo da assicurare il buon andamento anche in caso di mio
richiamo alle armi.
Il mattino dopo, con i miei collaboratori rimasti18, essendo Becich e Dalla Favera19 gia
partiti, si prendono gli accordi per l’emergenza. Molti uomini sono già alle armi; si sta preparando
16
Guido Becich, vicedirettore dell’Azienda Maccarese.
Rag. Giovanni Michieletto. Poi assunto alla direzione della Sepral di Roma ove per parecchi anni rese
importantissimi servigi nell’arduo approvvigionamento della Capitale.
18
Rag. Mario Simonazzi, capo ufficio amministrativo; dr. Amedeo Fiorenzola, veterinario; dr. Attilio Chiaradia,
caposettore.
17
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anche la mobilitazione del battaglione locale della Milizia al quale, dai miei predecessori, sono stati
iscritti moltissimi giovani, tra cui gli impiegati, e penso con raccapriccio ad un eventuale cruento
impiego della battaglione. Le donne, già ben preparate per la mungitura e la conduzione delle
trattrici, sopporteranno la gran fatica di sostituire i partiti.
Tutto è tranquillo ma una seria minaccia si profila subito: la requisizione industriale
indiscriminata degli autocarri modernissimi di cui ho dotato l’Azienda e dei cavalli; in tal senso
arrivano ordini draconiani ed io mi chiedo come potrò difendermi per assicurare all’organizzazione
una sufficiente funzionalità.
Dopo le undici esco in auto per la consueta visita, spingendomi, nella mattinata luminosa,
verso l’estremo Sud; tutto appare promettente, grano in pronta maturazione, mais nato
regolarmente, prati rigogliosi, vigne ed orti fiorenti. Nel gran silenzio mi sento incoraggiato, anche
nella fiducia che la crisi bellica ora aperta possa presto esaurirsi, col ritorno a casa dei nostri e la
ripresa dei programmi di sviluppo.
Verso mezzogiorno, rientrato in ufficio, trovo una chiamata urgente dal Ministero
dell’Agricoltura di presentarmi senza indugi al Ministro Tassinari20. Ancora impolverato filo in auto
e giungo rapidamente al Gabinetto venendo subito introdotto alla presenza del Ministro. Questi mi
dice di aver cercato invano il principe Boncompagni21 e, in difetto, mi comunica che il Consiglio
dei Ministri tenutosi in mattinata mi ha nominato Direttore generale dell’Alimentazione. Mi prega
di scusarlo con Boncompagni e mi invita a prendere pronto contatto col Sottosegretario Nannini22 al
quale ha affidato la materia, e accordarmi col gen. Lorito23 che io dovrò sostituire in tutte le sue
funzioni per le consegne dell’Ufficio Approvvigionamenti. Mi incoraggia dicendomi che fa pieno
affidamento nella mia capacità, energia e spirito patriottico. E aggiunse: «Sarà una breve parentesi,
perché la guerra durerà poco!»
Resto naturalmente con l’animo sospeso ma, quale funzionario del Ministero
dell’Agricoltura, non posso che accettare, da cittadino e soldato; ringrazio per la fiducia e mi reco
da Nannini che è un giovane collega e col quale sono in confidenziali rapporti. Mi saluta
affettuosamente: «La guerra», dice, «durerà qualche mese. Ora prendi le consegne ancora in
giornata dal gen. Lorito e mettiti al lavoro che tutto andrà bene; in autunno potrai riprendere la tua
normale attività a Maccarese».
Mi congedo dicendogli che potrò prendere le consegne solo il mattino seguente ed esco dal
Ministero, angosciato. Dirigere l’Alimentazione del Paese in guerra è compito che fa tremare le
vene e i polsi. So di non avere alcuna preparazione specifica e mi rendo conto della responsabilità
che mi assumo; rammento quando a Venezia, presso l’Ispettorato agrario compartimentale, ospitavo
l’Ufficio del ten. col. Longobardi , ivi distaccato per lo studio dei problemi alimentari, condotto con
criteri a carattere prevalentemente statistici e in rapporti di stretta dipendenza da Roma e dal gen.
Lorito, e sono portato a pensare, a mio conforto, che i militari abbiano creato un’organizzazione
efficiente e che non mi sarà difficile mettere in moto i servizi già in atto secondo le necessità.
Nel pomeriggio mi reco da Boncompagni, che assai male reagisce; mi rimprovera per aver
accettato accusandomi in buona grazia di aver ceduto all’ambizione di carriera e dicendo comunque
di non poter permettere di essere lasciato solo alle prese con la Maccarese. Gli replico che l’incarico
è stato per me una brutta sorpresa; che, come funzionario, non potevo respingere una nomina del
Ministro già avallata dal Consiglio dei Ministri; ma soprattutto non potevo sottrarmi al dovere a
guerra scoppiata. Concludo che, per quanto riguarda Maccarese, sarebbe opportuno che egli
prendesse contatto con lo stesso Ministro ed io avrei ben accolto qualsiasi loro decisione.
19
Dr. Riccardo Dalla Favera, caposettore.
Prof. Giuseppe Tassinari, ordinario di Economia e politica agraria presso l’Università di Bologna; già presidente della
Confederazione generale degli agricoltori; deputato al Parlamento.
21
Francesco Boncompagni Ludovisi, principe di piombino, Presidente della Maccarese S.p.A.
22
Dr. Sergio Nannini, Sottosegretario di Stato all’Agricoltura.
23
Ten. Gen. Lorito, capo dell’Ufficio centrale dei Servizi dell’Alimentazione presso il Ministero dell’Agricoltura.
20
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Il colloquio, per me assai penoso, mi lascia profondamente addolorato perché stimo assai e
voglio bene a Boncompagni.
Nei giorni appresso la situazione si risolverà con un compromesso: continuerò a tenere a
Maccarese oltre alla direzione dell’Alimentazione almeno fino a quando ciò sarà compatibile con le
mie capacità di umana resistenza, nella speranza comunque di una rapida soluzione del conflitto.
Ben inteso che non accumulerò due stipendi: verserò alla Maccarese lo stipendio dello Stato.
Rientro in famiglia a Maccarese a tarda sera e do notizia a Gina di quanto avvenuto.
Accoglie il tutto con la consueta, serena compostezza. Ricevo Simonazzi che informo, prendendo
accordi per l’andamento dell’Azienda; nei lunghi anni seguenti egli porterà il gravoso peso delle
maggiori responsabilità specialmente nei periodi di una mia assenza. Purtroppo sono arrivate le
inconsulte precettazioni militari: ci portano via tutti gli autocarri più moderni e dobbiamo presentare
tutte la cavalle da tiro, oggetto di nostra accurata selezione e naturalmente indispensabili alle
lavorazioni e ai trasporti.
Il giorno dopo, colloquio col gen. Lorito che muove cento difficoltà. Le consegne, secondo
lui, richiederanno parecchi giorni. Mi presenta la schiera degli uffici superiori al suo servizio: tutte
brave ed eccellenti persone alcune delle quali diventeranno poi preziose. Ricordo tra gli altri il gen.
Molgora, il col. Del Duca, il col. Rinaldi. Ma ho la netta impressione che manchi una chiara
direttiva funzionale: lo strumento organizzato è totalmente burocratico, formale, e non ha una
consistente presa di possesso della complessissima materia negli stessi uffici centrali né un valido
collegamento con quelli periferici. Insisto comunque per procedere secondo gli ordini del Ministro e
con difficoltà riesco dopo qualche giorni ad avere le consegne. Trattasi di una abbondante congerie
di statistiche e di piani tipicamente militari. C’è un ufficio di segreteria generale che dirama ordini
scritti agli uffici dipendenti con disposizioni di prendere accordi con gli Enti corporativi perché
provvedano a diramare in periferia ordini più o meno realizzabili…. Mi rendo subito conto che
domina solo la preoccupazione di servire le esigenze delle Forze armate il cui approvvigionamento
è di chiara competenza del Ministero dell’Agricoltura, mentre non vi è nulla di agibile per avviare
la soluzione dei problemi alimentari del Paese. Il gen. Lorito, ottimo e valoroso soldato, non poteva
fare di più. Di certo non per sua colpa ma per l’incredibile superficialità con cui era stato trattato il
problema alimentare.
Un semplice, rapido esame delle carte rinchiuse in cassaforte, che il generale considerava di
carattere riservatissimo, mi scoraggia perché vi è ben poco di efficacemente utilizzabile. La
constatazione più grave è che, malgrado le previsioni di unificare la trattazione dei problemi
alimentari, in realtà i servizi erano rimasti divisi tra sette ministeri diversi: Agricoltura –
Corporazioni – Scambi e Valute – Guerra – Marina – Aeronautica – Interni (con un ufficio in
separata sede in via Valadier, retto da un Prefetto).
Visito numerose persone: il Direttore generale del Commercio dr. Caravale che si occupa di
problemi distributivi insieme col suo collaboratore dr. Dente (che sarà poi nominato Direttore
generale dei Consumi); il gen. Robotti, Direttore dei Servizi Logistici alla Guerra; l’Ammiraglio
competente per la Marina; il Prefetto a capo del particolare ufficio per gli Interni e altri, cercando in
qualche modo di raccapezzarmi in tanta confusione di poteri.
Dalla segreteria militare mi viene recapitato un lungo telegramma diretto agli uffici
periferici col quale si richiedeva uno spettacolare insieme di notizie. Lo mando al Ministero che lo
restituisce firmato ma egli non può non rilevare l’enormità delle richieste. Viene comunque spedito
e naturalmente non avrà mai risposta!
Quel che mi sembra positivo è la presenza in ogni provincia delle Sezioni provinciali
dell’alimentazione (Se. pr. al.), di recente costituzione, le quali di certo, se opportunamente
organizzate e guidate, rappresentano nuclei di seria mobilitazione per tutti i servizi di
approvvigionamento militare e civile. Inoltre la già avanzata costituzione di numerosi Enti
corporativi era senza dubbio un elemento su cui poter contare: per quanto costituiti come strumenti
di categoria e pertanto di natura difensiva e preventiva di parte, era da ritenere che avessero
possibilità ad autorità per adeguatamente servire alle nostre esigenze.
96
ALBERTO CARACCIOLO
Le agitazioni per le terre dei contadini di Roma
ESTRATTO DA
“Rinascita”, n. 4, 1950 (pp. 213-14). Sono state omesse le note. Il titolo è
originale
97
[…] A questo punto, prima di dare un giudizio complessivo sulla situazione esistente e
indicare le linee di azione e le prospettive di alleanza che si aprono per il movimento contadino
nella provincia, è necessario esaminare sia pure di volo la complessità dei rapporti sociali qui
esistenti. La provincia di Roma comprende, come si sa, territori di struttura economico-sociale
abbastanza diversa. Le zone di latifondo, nelle quali prevalgono la grande e grandissima proprietà e
il pascolo brado alternato a colture cerealicole, occupano soprattutto buona parte dell’Agro romano,
del litorale di Civitavecchia, e del Braccianese. Nel solo Agro romano le proprietà superiori a 1.000
ettari coprono il 42% della superficie, e le proprietà superiori ai 100 ettari l’80%. Nel complesso
della provincia le proprietà sopra i 1.000 ettari rappresentano il 39,4%, e quelle sopra i 100 ettari il
68% del totale.
Il latifondo romano è tuttora in mano a poche grandi famiglie principesche, ad Enti
ecclesiastici e Opere pie (5,7% della superficie), e a grossi borghesi, i quali tutti lasciano
generalmente la conduzione della terra ad affittuari speculatori. Su questi latifondi si rovescia la
massa dei contadini poveri dei centri più popolosi dei Castelli, della valle dell’Aniene, della Sabina,
secondo un movimento che da oltre cinquant’anni si ripete con diversa intensità lungo direttrici
ormai tradizionali. Ai contadini della terra si aggiungono i proprietari particellari e i piccoli
enfiteuti, provenienti dai paesi della montagna, nei quali lo spezzettamento della proprietà giunge a
un punto insopportabile: si pensi che nelle zone agrarie dell’alta valle dell’Aniene e dei monti
Lepini, i possessori di meno di 2 ettari rappresentano oltre il 90% del totale, su terreni generalmente
impervi e sassosi.
Una parola a parte a proposito delle poche ma importanti aziende moderne della campagna
romana, come Maccarese, Torrimpietra, Tor Mancina, Granaracci ecc. Queste aziende
rappresentano tuttora un’eccezione rispetto alle predominanti colture estensive e allo scarso
impiego di capitali, ma sono importanti sia per la relativa ricchezza economica e modernità tecnica,
che per il fatto di riunire i nuclei di più tipico proletariato agricolo della regione. Su queste aziende
si sono sviluppate così le maggiori lotte bracciantili, culminate col grande sciopero del maggiogiugno 1949 che riguardava, come si sa, oltre le questioni dell’imponibile, anche tutto il settore del
collocamento e la difesa dei salari, per i quali l’Associazione agricoltori di Roma aveva chiesto una
diminuzione del 23%. Già in quella occasione lo sciopero nelle grandi aziende e negli altri centri di
mano d’opera bracciantile durò compatto per più di tre settimane, richiamando la solidarietà della
classe operaia romana e della cittadinanza democratica: i mezzadri furono anche essi in generale
vicini alla lotta dei braccianti.
A distanza di quasi un anno, i braccianti di Maccarese che avevano appena ottenuto, insieme
a quelli di tutta la provincia, i miglioramenti in materia normativa e salariale promessi alla fine
dello sciopero, hanno dovuto prestare la loro solidarietà ai mezzadri. L’amministrazione
dell’azienda infatti, alla chiusura dei conti colonici, aveva fissato i prezzi delle uve alla metà di
quelli dello scorso anno. Accampando le cattive condizioni finanziarie della società (si ricordi che
la «Maccarese» fa parte del gruppo I.R.I) si tentava così di strappare ai mezzadri qualche cosa come
12 milioni di lire sul frutto del loro lavoro. Contro questo tentativo la mobilitazione è stata vasta e
pronta. Dallo sciopero si è passati al blocco dell’edificio dell’Amministrazione con i muli e i carretti
dei mezzadri. Dietro a queste improvvisate barricate i contadini si sono difesi anche dall’irruzione
della polizia. I braccianti dell’azienda hanno a loro volta rifiutato di presentarsi come crumiri nei
lavori sospesi dai mezzadri. Davanti a questa resistenza straordinariamente energica, l’azienda il 14
marzo, dopo oltre un mese di lotta, ha dovuto capitolare e concedere un aumento del 50% sui prezzi
delle uve.
Certamente questa recente vittoria dei mezzadri di Maccarese non tarderà ad avere
ripercussioni anche in altre zone della provincia dove i contratti a mezzadria ancora piuttosto rari,
cominciano ad essere preferiti rispetto ai contratti colonici. Il «lodo De Gasperi» è spesso ignorato
dagli agrari, ma anche su questo punto si nota una crescente mobilitazione dei mezzadri. Così sulle
98
terre Sforza-Cesarini e Gerini presso Porto, proprio in questi giorni più di cento famiglie mezzadrili
sono scese in agitazione per reclamare il rispetto delle quote loro spettanti.
Occorre inoltre parlare della piccola proprietà, molto diffusa in alcune zone di collina come i
Castelli romani. La crisi che ha colpito questa categoria dopo il relativo benessere del dopoguerra è
giunta a un punto di estrema acutezza. Richiamare i piccoli proprietari alla difesa dei loro interessi,
che si legano in maniera chiara e completa agli interessi produttivi nazionali, è uno dei compiti
immediati che sono davanti alle organizzazioni sindacali della provincia, e che il partito deve curare
da vicino. I recenti convegni comunali di viticultori, culminati nell’assemblea di Marino del 15
aprile scorso, dimostrano che una giusta impostazione dei problemi della piccola proprietà nella
provincia può raccogliere adesioni e consensi attivi superiori a qualunque aspettativa. Migliaia di
coltivatori diretti che si erano finora estraniati da qualunque azione sindacale, e che da un punto di
vista politico sono notevolmente influenzati dalla D. C. e dai repubblicani, si sono pronunciati in
questi convegni per la limitazione degli intermediari nella vendita per una politica governativa di
piena occupazione che aumenti la capacità di acquisto dei lavoratori, per una opposizione decisa
contro l’oppressione fiscale dello Stato. Una giusta politica in questa direzione, la quale riesca a
stabilire ed estendere serie alleanze con gli strati dei coltivatori diretti della nostra provincia,
rappresenta una delle condizioni decisive per la mobilitazione di forze e di consensi necessari alla
realizzazione della riforma agraria.
A conclusione di questo rapido esame delle lotte invernali e primaverili, possiamo dire
senz’altro che il quadro della situazione si presenta oggi notevolmente diverso da quello anche
soltanto di due-tre anni fa. Da un lato, l’acutizzarsi della crisi dei piccoli proprietari e fittavoli,
enfiteuti, compartecipanti crea le condizioni per la mobilitazione di nuovi strati contadini, e pone in
evidenza la giustezza e l’urgenza della riforma dei patti agrari e della difesa conseguente della
piccola proprietà. D’altro lato, la massa dei contadini poveri e senza terra con le cooperative è ormai
orientata verso lotte di tipo nuovo lungo queste due linee: rinnovo a lunga scadenza delle
concessioni, con l’introduzione di migliorie e coltura a più alto rendimento (leguminose, frutteti,
ecc.) e conquista di nuove terre in diretto legame con le lotte per la limitazione della grande
proprietà fondiaria.
Questi obiettivi, andando al di là della spinta elementare alla occupazione di terre incolte,
tendono ormai direttamente a una riforma fondiaria e contrattuale che incida sull’intiero assetto
economico sociale della nostra provincia. La coscienza di queste nuove prospettive sta eliminando
progressivamente quegli elementi di spontaneità che si riscontravano nei movimenti di invasione
dell’immediato dopoguerra. Soltanto tenendo conto questa nuova coscienza si può spiegare
l’ampiezza, la forza, l’insistenza delle ultime lotte per la terra. Se la guida delle organizzazioni
politiche sarà in avvenire sempre più chiara e decisa, se le organizzazioni sindacali sapranno
continuamente far presente al di là degli obiettivi immediati la prospettiva a lunga scadenza di una
profonda riforma agraria, le lotte che sono davanti ai contadini della nostra provincia potranno
riuscire ancora lunghe e dure, ma andranno incontro sicuramente a grandi successi.
99
BONIFICA DI TORRE IN PIETRA
Il rilancio della produzione dopo la guerra
ESTRATTO DA
Bonifica di Torre in Pietra, fascicolo datato “Roma, novembre 1947”, s.i.p. Il
titolo del brano riportato è redazionale.
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BONIFICA DI TORRE IN PIETRA
SOCIETÀ IN NOME COLLETTIVO
ROMA, NOVEMBRE 1947
VIA DELLA CONSULTA, 1
TELEF. 480·873/4
TELEGR. “BONIFICA ROMA”
Egregio Signore,
Se da qualche anno la Bonifica di Torre in Pietra non ha fatto più conoscere i risultati del
suo lavoro di selezione nelle bovine Carnation / Frisone del suo allevamento, ciò non significa che a
quel lavoro non si sia atteso con fervore pari a quello dei primi anni. Evidentemente la guerra ha
fatto sentire i suoi effetti, ma teniamo a dire che questi sul nostro lavoro di selezione sono stati più
apparenti che reali. Abbiamo dovuto nei periodi peggiori di bombardamenti e mitragliamenti aerei
(ai quali la estrema vicinanza ad una grande arteria stradale e ferroviaria ci esponeva in modo
particolare) limitarci a due mungiture giornaliere; la difficoltà di procurarci mangimi concentrati ed
il concomitante susseguirsi di stagioni siccitose, ci hanno costretto per mesi e per anni a lesinare i
panelli ed a limitare financo le razioni di foraggio: queste ed altri gravi difficoltà abbiamo
conosciuto noi come altri allevatori e ci hanno impedito di aggiungere nuovi anelli alla catena di
lattazioni veramente notevoli che avevamo fatto registrare sino al 1940. Avvenne così che non solo
non fummo in grado di segnare nuovi records individuali, ma la produzione media annua pro-capo
che aveva raggiunto i kg. 4643 nel 1939 su 527 capi in stalla e nel 1940 kg. 4632 su 602 capi,
decrebbe anno per anno sino a toccare nel 1945 il minimo di kg. 3577.
Queste evidenti difficoltà ci hanno messo nella impossibilità di far rendere le nostre bovine
il massimo di cui erano capaci, in altre parole, di sfruttare appieno la loro capacità produttiva, ma –
ed è questo che più conta – non ci hanno impedito di proseguire nel lavoro di selezione che
avevamo intrapreso e che è consistito nell’individuare, tra la numerosa discendenza del capostipite
Carnation Producer, quei soggetti che fossero in grado di mantenere e, ove possibile, di migliorare
la prepotente attitudine lattifera dimostrata dai prodotti del primo accoppiamento fra il toro
americano e le vacche frisone. Questo lavoro di selezione, ripetiamo, è continuato senza sosta a
Torre in Pietra durante tutti gli anni di guerra come in quelli successivi.
Oggi, a due anni e mezzo dalla cessazione delle ostilità, siamo ancora lontani dall’essere
tornati ad una situazione normale specie per quanto riguarda la possibilità di impiegare mangimi
concentrati, tuttavia ci sembra giunto il momento di dare qualche cenno sul lavoro ultimamente
compiuto e qualche dato sui risultati ottenuti. Per primi ci rivolgiamo ai nostri Clienti ed agli
Ispettorati Provinciali dell’Agricoltura, che in passato ci sono stati di tanto valido aiuto e col loro
consiglio e coll’introdurci fra gli allevatori di bestiame da latte, fiduciosi che vorranno nuovamente
dimostrarci il loro apprezzamento ed il loro appoggio.
[...]
La produzione media pro capo che, come si è detto sopra, aveva superato i kg. 4600 nel
1939 e nel 1940 sta risalendo dai kg. 3577 a cui era scesa nel 1945. Nello scorso anno eravamo a
kg. 4057 e in questo 1947 dovremmo superare la media di kg. 4450 calcolata su oltre 600 capi. È
questo un dato per noi non solo significativo, ma confortante poichè, tenute presenti le condizioni
nelle quali la produzione oggi si svolge, esso dimostra che la attitudine lattifera dimostrata dal
nostro ceppo non si è affatto affievolita. Ogni cifra deve essere interpretata nel suo valore assoluto e
relativo: e questo ultimo può dire agli intenditori assai più del primo. E poichè proprio a dei
competenti ci stiamo rivolgendo, non aggiungiamo altre considerazioni.
101
Desideriamo solo fare noto, prima di chiudere, che per essere in grado di rispondere alle
richieste giunteci da tante parti, abbiamo posto in allevamento un buon numero di torelli: ve ne sono
attualmente di buona e di ottima genealogia in modo da soddisfare le varie possibilità come le varie
esigenze e noi siamo a disposizione degli ispettorati e degli allevatori per fornire informazioni ed
offerte.
Il miglioramento zootecnico sta alla base di ogni progresso agricolo e mai come ora il nostro
Paese ha avuto la necessità di incrementare tutte le produzioni. Incrementando la produzione del
latte, attraverso l’adozione di una buona razza e l’impiego di riproduttori selezionati, si dà un
sostanziale contributo a quell’opera di ricostruzione alla quale con i nostri sforzi crediamo di
contribuire e per il successo della quale ci è indispensabile la fiducia degli Ispettorati Provinciali
come degli allevatori.
Con i migliori saluti.
BONIFICA DI TORRE IN PIETRA
102
RICCARDO FILIBERTO MEDICI
Un confronto tra il catasto di Pio VII (1803) e il catasto del 1947
ESTRATTO DA
Riccardo Filiberto Medici, L’Agro romano che scompare, Roma-Grosseto, I
Quaderni della Maremma / Documenti, 1953 (pp. 14-16 e 27). Il titolo del brano
riportato è redazionale. Sono state omesse le note bibliografiche.
103
[...] Pio VII incaricò gli agrimensori Ricci e Sardi di redigere, sulla traccia del catasto del
suo predecessore, un catasto estimale, che allora fu chiamato daziale e che portava la stima di ogni
singola tenuta.
I criteri di stima che ispirarono i periti nella loro opera, possono riassumersi dalla seguente
enunciazione: il valore del terreno dee desumersi da quel frutto, che è atto di poter produrre.
Il catasto, nato come fatto di politica agraria, per esigenze fiscali e alimentari, fu un’opera di
notevole importanza che descrisse nei confini e nella superficie l’intero territorio. Furono enumerate
362 tenute con la delimitazione e la descrizione annonaria dei quarti di rompitura e per ognuno di
essi fu indicata la estensione totale in rubbia romane.
Nella descrizione, per consiglio del Pontefice, si identificarono, seguendo il turno della
quarteria e della terzeria, le superfici che dovevano lavorarsi, con le indicazioni dell’anno di
rompitura e dei periodi di riposo. Accanto alla descrizione delle tenute furono riportate precise note
sulla loro dislocazione, sul modo di accedervi attraverso le strade romane e le porte di Roma [...]. Di
ogni tenuta è indicato il nome del proprietario, e dall’esame del catasto possiamo rilevare come la
superficie dell’Agro romano di ettari 205.369, appartenesse a 175 proprietari e precisamente per il
51,48% a 79 case gentilizie, per il 37,72% a 62 enti ecclesiastici, per il 10,8% a 34 famiglie
borghesi.
Nell’attuale catasto la superficie dell’Agro romano risulta di 144.038 ettari con 17.153
proprietari, dei quali, 17.006 posseggono 35.725 ettari e cioè, in media, poco più di 2 ettari a testa
ed i rimanenti 147 hanno in proprietà 108.313 ettari. Dell’attuale superficie il 30,55% è di proprietà
di 886 Enti con 47.149 ettari, fra i quali, 16 posseggono ettari 35.134.
[...]
Il territorio chiamato Agro romano è oggi, secondo io nuovo catasto, di ettari 144.038, non
compreso il nucleo urbano (mura aureliane). La differenza fra la superficie attuale e quella di un
tempo, deve attribuirsi al trasferimento dei vari territori a comuni vicini o a nuovi comuni fondati
con le opere di bonifica.
Per Agro romano quindi oggi intendiamo quello che è il territorio del Comune di Roma.
[Tabella di confronto riportata a p. 15]
104
La riforma fondiaria dell’Ente Maremma: il “Capitolato contenente le condizioni
di assegnazione e vendita dei terreni da parte dell’Ente di colonizzazione della
Maremma tosco-laziale e del territorio del Fucino” (anni Cinquanta)
ESTRATTO DA
AA.VV., Il Parco di Veio. L’identità storica di un territorio, Ente Regionale
Parco di Veio, Campagnano di Roma, 2005, a cura di Marina Caffiero e Armando
Finodi (pp. 170-74).
105
CAPITOLATO CONTENENTE LE CONDIZIONI DI ASSEGNAZIONE E VENDITA
DEI TERRENI DA PARTE DELL’ENTE DI COLONIZZAZIONE
DELLA MAREMMA TOSCO-LAZIALE E DEL TERRITORIO DEL FUCINO
Art. 1
Il presente capitolato pienamente accettato dal Sig. ……………………… è parte integrante
ed essenziale del contratto avente per oggetto la vendita con patto di riservato dominio del fondo ivi
descritto, stipulato in data ……………………… rogito Notar ……………………… fra il predetto
lavoratore manuale della terra e l’Ente, e viene allegato al contratto stesso.
Art. 2
La vendita è fatta a corpo e non a misura, nello stato e condizioni in cui il fondo si trova, con
tutti gli annessi, connessi e diritti, con tutte le servitù attive e passive, apparenti e non apparenti,
continue e discontinue e con ogni altro onere, peso o vincolo, quantunque non denunziati nel
contratto.
Il fondo è venduto nello stato di fatto e diritto in cui l’Ente lo possiede ed ha il diritto di
possederlo; la vendita non può dar luogo ad azione per lesione, né diritto ad aumento o diminuzione
di prezzo per qualunque errore od omissione nella descrizione del fondo, e per qualunque differenza
fra la superficie indicata nel contratto e quella effettiva, ancorché eccedente la misura prevista
dall’articolo 1538 C.C. intendendosi la vendita fatta espressamente senza garanzia a termini dell’art.
1487 C.C.
L’Ente non assume altra garanzia o obbligazione, se non per il caso di evizione, e in tal caso
sarà tenuto solo al rimborso del prezzo pagato, in tutto o in parte proporzionale, secondo che la
evizione sia totale o parziale, escluso qualsiasi altro compenso o indennizzo.
Art. 3
Secondo il disposto dell’art. 18 della Legge 12-5-1950 n. 230, la vendita è sottoposta a
condizione risolutiva espressa, per un periodo di prova di tre anni, a partire dalla data di
stipulazione del contratto. Conseguentemente, il contratto sarà risolto di pieno diritto, qualora
durante detto periodo di anni 3 l’Ente, a suo insindacabile giudizio, ritenga l’assegnatario non
idoneo ad assolvere ai suoi doveri, con speciale riferimento alle capacità tecniche di conduzione del
fondo assegnato, e al completamento delle opere di miglioramento e trasformazione fondiaria
iniziate dall’Ente.
L’assegnatario è tenuto a partecipare agli eventuali Consorzi di miglioramento fondiario
promossi dall’Ente, ed a seguire comunque nei termini e modi prescritti dall’Ente le opere di
miglioramento fondiario e agrario dall’Ente stesso indicate.
L’assegnatario è inoltre obbligato, ai sensi dell’art. 23 della legge citata, per la durata di
venti anni dalla stipulazione del contratto, a far parte delle cooperative e Consorzi che l’Ente avrà
promosso o costituito, ovvero promuoverà e costituirà, per garantire l’assistenza tecnica ed
economico-finanziaria alle nuove piccole proprietà coltivatrici.
La inadempienza di tale obbligo comporta la decadenza dell’assegnazione, che è pronunziata
dall’Ente.
Art. 4
L’acquirente è inoltre tenuto, anche per il periodo successivo al triennio di prova, e fino al
pagamenti integrale del prezzo:
a) a fissare residenza stabile nel fondo se dotato di abitazione;
b) a coltivare il fondo direttamente, con il concorso dei famigliari e con scrupolosa cura e
diligenza, secondo le direttive dell’Ente e le regole e le esigenze della moderna
106
c)
d)
e)
f)
g)
h)
agricoltura. La conduzione del fondo non potrà in nessun modo essere ceduta o
subconcessa a terzi e sarà nullo di pieno diritto ogni atto contrario a tale divieto;
ad attuare, nei modi e nei termini dall’Ente le opere necessarie per completare il piano di
trasformazione e miglioramento predisposto dall’Ente stesso e dai Consorzi operanti sul
territorio;
a mantenere nel fondo il quantitativo necessario di scorte vive e morte, indicato
dall’Ente;
a mantenere le zone boschive secondo le buone norme forestali;
ad avere cura dei fabbricati, opere e manufatti o impianti esistenti nel fondo e a
provvedere alla loro manutenzione ordinaria e straordinaria, in modo che non venga
menomata la loro consistenza ed efficienza;
ad impedire usurpazioni e abusi, in pregiudizio della proprietà, e in ogni caso a portare
subito a conoscenza dell’Ente qualsiasi fatto o evento dannoso, anche se fornito, in
pregiudizio della proprietà, provvedendo, ove occorra, a denunziarlo alle competenti
Autorità;
a stipulare la polizze di assicurazione che l’Ente prescriverà a garanzia degli investimenti
fondiari e della produzione.
Art. 5
Nel servirsi delle strade, canali, fontanili, sorgenti ed altri beni di uso comune, l’acquirente è
obbligato ad osservare le norme e disposizioni dell’Ente e dei Consorzi costituiti o costituendi per
l’esercizio e la manutenzione, e a far parte dei medesimi.
In ogni caso l’acquirente dovrà servirsi dei beni di uso comune secondo la loro destinazione,
in modo che non rechi ad essi danno, e non impedisca eguale uso agli altri aventi diritto.
Art. 6
Fermo il disposto dell’art. 3 la inosservanza degli obblighi indicati negli artt. 4 e 5 da parte
dell’acquirente – protratta dopo formale contestazione e invito ad adempeire comunicato dall’Ente
con lettera raccomandata – a norma dell’art. 1454 C.C. – darà luogo alla risoluzione del contratto.
Art. 7
Il pagamento delle singole rate come altro pagamento dovuto all’Ente in esecuzione o
dipendenza del contratto, dovrà essere effettuato presso l’Istituto di Credito che sarà designato
dall’ente entro giorni otto dalla data di scadenza e non potrà essere sospeso o differito per nessun
motivo, fatto od evento anche imprevisto o imprevedibile, accettandosi dall’acquirente la clausola
«solve et repete».
Le scadenze operano di pieno diritto, senza bisogno di costituzione in mora o di altro atto o
avviso qualsiasi. Il mancato pagamento di due rate consecutive di prezzo darà luogo alla risoluzione
del contratto a danno e spese dell’acquirente.
Tuttavia, qualora il mancato pagamento della rata annuale del prezzo sia imputabile a
condizioni gravi ed eccezionali, particolarmente sfavorevoli alla produzione del fondo, l’Ente potrà
consentire il differimento anche per un intero anno. In tal caso, decorreranno a carico
dell’acquirente gli interessi di mora, nella misura legale, sulle somme dovute e non pagate.
Art. 8
L’acquirente dovrà rimborsare all’Ente l’importo di ogni eventuale imposta, tassa o
contributo pertinente al fondo assegnatogli per il periodo successivo alla data di inizio del
godimento. Tale importo, maggiorato degli interessi al tasso del 3,50%, sarà aggiunto – qualora non
venga rimborsato con separato versamento – alla rata del prezzo immediatamente successiva.
107
L’Ente ha facoltà di riscuotere con le norme, la procedura e i privilegi stabiliti per l’imposta
fondiaria, tutti i contributi comunque dovuti, ai sensi dell’art. 24 della legge 12 maggio 1950, n.
230.
Art. 9
Il fondo, in tutto il suo complesso, è indivisibile.
In caso di decesso dell’acquirente, prima del pagamento integrale del prezzo, gli succedono
nel possesso del fondo, in comunione pro-indiviso, i discendenti in linea diretta, o in mancanza il
coniuge non legalmente separato per sua colpa, semprechè abbiano i requisiti di cui all’art. 16 della
Legge 12-5-1950, n. 230.
In caso contrario, il terreno ritornerà nella disponibilità dell’Ente per nuove assegnazione, e
gli eredi dell’assegnatario avranno diritto ad essere rimborsati delle quote di ammortamento versate
dal loro dante causa, ed ottenere una indennità nella misura dell’aumento di valore conseguito dal
fondo per effetto dei miglioramenti recati dall’assegnatario indipendentemente da quelli compiuti
dall’Ente.
Art. 10
Verificandosi uno dei casi di risoluzione del contratto previsti negli articoli precedenti del
presente capitolato, l’acquirente dovrà rilasciare il fondo a completa e libera disponibilità dell’Ente
a semplice richiesta di quest’ultimo.
All’atto del rilascio verrà redatto verbale di consistenza del fondo in contraddittorio
dell’acquirente, e, ove questi non sia presente, con l’interventi di due testimoni.
Qualsiasi eccezione o contestazione sollevata dall’acquirente non potrà sospendere o
ritardare il rilascio del fondo.
Art. 11
Avvenuta la risoluzione si procederà alla definitiva liquidazione e chiusura dei conti, e la
parte che ne risulterà debitrice dovrà pagare il proprio debito in danaro contante al momento della
chiusura stessa.
In tale liquidazione saranno accreditate all’acquirente le quote capitale comprese nelle rate
annuali di prezzo già pagate, con esclusione degli interessi, ed inoltre una indennità nella misura
dell’aumento di valore conseguito dal fondo per effetto dei miglioramenti da lui recati
indipendentemente da quelli compiuti dall’Ente.
Saranno, d’altra parte, addebitate all’acquirente tutte le somme da lui dovute per rate
arretrate di interessi, per rimborso di imposte, tasse e contributi, per danni e spese, e per ogni altro
eventuale titolo.
Art. 12
Per vigilare sull’adempimento degli obblighi previsti dal contratto e dal presente capitolato,
nonché per eseguire ogni opera o lavoro di competenza dell’Ente, ai fini della attuazione della
riforma fondiaria, funzionari, tecnici ed operai dell’Ente potranno accedere liberamente in ogni
momento al fondo e sue pertinenze, senza bisogno di preavviso, a compiere ogni rilievo, indagine, o
attività che ritengano opportuni, per il conseguimento degli scopi sopraindicati.
Art. 13
Nel caso che l’Ente debba compiere sul fondo delle opere di interesse comune anche ad altri
fondi, l’assegnatario acquirente autorizza fin da ora l’Ente stesso ad occupare, in via diretta e
definitiva, quelle parti del fondo in nessun caso eccedenti nell’insieme il 15% della sua superficie,
che, a giudizio dell’Ente, occorreranno allo scopo.
In tale ipotesi gli sarà corrisposto un congruo indennizzo e sarà modificato il piano di
ammortamento.
108
Art. 14
È riservata all’Ente la più ampia facoltà di farsi sostituire o rappresentare da altri Enti o
Istituti nei diritti, poteri ed obblighi ad esso derivanti dal presente contratto, e nel relativo esercizio.
109
ANTONIO CEDERNA
La città eternit
ESTRATTO DA
“Il Mondo”, 8 dicembre 1953, poi in I vandali in casa, Bari, Laterza, 1956 (pp.
156-62).
110
Nuova e più particolare descrizione della rovina – L’Appia in vendita: illegalità di tutte le costruzioni –
L’Appia antica come campagna e paesaggio: un concetto incomprensibile per i poveri funzionari – Otto proposte
concrete.
La via Appia Antica si avvia a diventare l’insufficiente corridoio di scolo dei vari quartieri
che le stanno sorgendo ai lati. Per riassumere e completare con nuovi dati quanto abbiamo scritto,
oggi la situazione della via Appia Antica è la seguente. Quasi tutta la zona tra il più splendido tratto
delle Mura e la ferrovia Roma-Pisa, dal Bastione del sangallo all’inizio della via C. Colombo, è
invasa da decine di edifici nuovi: tra questi, due palazzine sono state costruite dalla cooperativa «Le
Arti» per abitazione di funzionari delle Belle Arti. Tra le vie Appia Antica e Ardeatina da una parte
e la via C. Colombo dall’altra sta sorgendo un grosso quartiere a villini, palazzine e palazzi, che
strapiomberà sull’Appia Antica, attraversato da larghe strade di traffico che la scavalcheranno
all’altezza del Domine quo vadis?; due palazzine sono già costruite, i vecchi casali già demoliti, i
lavori di sbancamento procedono a ritmo accelerato. La distruzione della campagna a sud di Roma è
completata dalla via C. Colombo, destinata a essere tutta costruita intensivamente e con pretese
«monumentali»: già sono pronti due enormi casamenti (cooperative «Palazzo Madama» e
«Montecitorio»); il nuovo pessimo quartiere, preceduto a valle dell’Ardeatina dall’avanzare delle
borgate Tor Marancia e Sette Chiese, sorge sotto gli auspici del Ministero dei Lavori Pubblici,
Direzione generale edilizia statale e sovvenzionata.
Cento metri oltre la chiesa di S. Sebastiano, sulla destra della via Appia Antica, cinque
villini sono in già in parte abitati. Più avanti, nel tratto più famoso della via, tra la via di Cecilia
Metella e via Erode Attico (cioè per più di due chilometri), nella campagna a sinistra dell’Appia
Antica, si contano già circa venticinque ville: un primo gruppo tra l’Appia Pignatelli, via di Cecilia
Metella e l’Appia Antica, un secondo tra l’Appia Antica e la via Erode Attico; il loro
congiungimento è assicurato da una villa costruita con blocchi antichi e da un cartello che annuncia
la lottizzazione e la vendita di 42.000 metri quadrati di terreno fabbricabile. Nelle ville abitano
produttori e attrici cinematografiche, funzionari del Ministero degli Esteri, istituti religiosi: le nuove
proprietà comunicano con l’Appia Antica con nuove strade, e si affacciano su di essa, per centinaia
di metri, con muretti fatti di pietre antiche, frammenti di iscrizioni e sarcofagi, interrotti da cancelli
e pilastri. Tutte queste nuove costruzioni sono dominate dallo smisurato edificio della Pia Casa
Santa Rosa, per il quale è impossibile trovare l’aggettivo adatto (tav. XVI).
Sulla sinistra della via erode Attico e tra questa e l’Appia Pignatelli si distende una
miserabile nuova borgata; «signorili» tornano invece a essere quattro ville sulla destra della via
Erode Attico, ossia sulla sinistra dell’Appia Antica, tra il quinto e il sesto chilometro. L’invasione
procede intanto anche sulla destra della via: cento metri dopo la via di Cecilia Metella vediamo un
villino rustico; più avanti una nuova strada asfaltata ci conduce a un nuovo, pio edificio per suore
missionarie, bianco, fresco, a tre piani, con la fronte di una sessantina di metri (S. Caterina,
convento abusivo); più avanti sono sorte altre tre ville arancione e gialle, più avanti altre due, più
avanti ancora, sempre sulla destra dell’Appia, eccone altre quattro. La distruzione della campagna
romana a sud di Roma si compie anche su un altro fronte, colla caotica espansione della nuova
borgata di S. Maria Nuova, tra l’Appia Pignatelli e l’Appia Nuova.
La litania non ha fine se accenniamo appena alle prospettive per l’immediato futuro.
Riempimento edilizio (naturalmente con qualche fettuccia di rispetto «assoluto») di tutta la zona ai
piedi delle Mura, dall’inizio della via C. Colombo a Porta s. Sebastiano, e da Porta S. Sebastiano a
Porta Latina, riempimento edilizio (naturalmente con «particolari limitazioni») di tutta la valle della
Caffarella, ossia dell’ultimo lembo di campagna romana alle porte di Roma, già ora ampiamente
sconciato dagli edifici di via Cilicia e dai quartieri Appio e Latino. Lasciando da parte il
completamento del quartiere tra l’Appia Antica e la via C. Colombo, e di quello ai piedi della chiesa
di S. Sebastiano, informiamo che secondo una variante del vecchio piano regolatore si potrà
costruire anche presso la confluenza dell’Appia Pignatelli nell’Appia Antica, nei pressi cioè delle
Catacombe di Pretestato.
111
Quanto al completamento del quartiere lungo due chilometri sulla sinistra dell’Appia Antica,
tra il terzo e il sesto chilometro, informiamo che è prevista una chiesa non lontana dalla piscina di
Silvana Mangano, che esso sarà diviso in una quarantina di lotti, e tagliato da una mezza dozzina di
nuove strade. Informiamo ancora che un altro grosso quartiere (naturalmente con qualche pezzo di
«parco pubblico» qua e là) sarà costruito tra l’Appia Nuova e l’Appia Pignatelli: quanto all’Appia
Pignatelli, la bellissima via solitaria a valle dell’Appia Antica, essa sarà allargata a venti metri,
costruita intensivamente sui lati, trasformata in grande strada di traffico, con negozi, autostazioni
ecc., stroncata e proseguita verso Roma. Per ora vi sono già installati alcuni cantieri di materiale per
costruzioni (tav. XVII).
Non sfugge alla rovina nemmeno l’ultimo tratto della via Appia Antica: nuove costruzioni vi
saranno portate dall’anello stradale dell’ANAS che gira intorno a Roma, e verso le Frattocchie,
dove l’Appia Antica muore nella Nuova, la campagna è tutta invasa da un’ennesima borgata, S.
Maria delle Mole.
Ogni giorno succede qualcosa di nuovo. Di fronte alla Villa dei Quintili, dove l’Immobiliare
voleva costruire un «quartiere di alta classe», un’ampia zona di via Appia Antica è adesso cintata da
nuovi muretti: un principe romano si appresta a costruire la sua bella villa suburbana, il cui progetto
è stato approvato il 27 ottobre scorso dalla Commissione edilizia comunale e non ancora, sembra,
dalla Soprintendenza ai Monumenti. Sempre sull’Appia Antica, in zona imprecisata, si medita di
costruire una piscina pubblica. Un bell’affare hanno fatto quelli che sono venuti ad abitare sulla via
Appia Antica: già oggi, la sera della domenica, cinque o sei vigili si sbracciano per regolare il
traffico sulla via Appia Antica e adiacenze.
Le nuove costruzioni sull’Appia Antica e nella campagna ai suoi lati sono interamente
abusive oppure apparentemente legali. Scoperto un abuso, i funzionari dell’Ispettorato Edilizio
mandano un fonogramma ai vigili, i vigili fanno una contravvenzione al costruttore abusivo, e
questi la paga subito e volentieri, dato che ammonta a lire milleseicentocinquanta. I vigili emettono
anche un’ordinanza di sospensione dei lavori, che però dev’essere firmata da dieci o quindici
persone: passa un giorno, passa l’altro, passa un mese, e quando l’ordinanza arriva al costruttore
abusivo i lavori sono già tanto avanti che sarebbe peccato arrestarne la crescita. Sulle 25.000
contravvenzioni per costruzioni abusive emesse dai vigili nel 1953, qualche migliaio riguarda la via
Appia Antica: non sappiamo quante siano state le ordinanze di sospensione di lavori abusivi, ma, a
giudicare dall’attuale via Appia Antica, certo nessuna è mai stata presa sul serio.
Una parvenza di legalità hanno invece le ville approvate dal Comune e dalla Soprintendenza
ai Monumenti: basta che l’edificio sorga a 150 metri dalla via, che sia «strettamente intonato
all’antico casale romano», che sia dipinto di giallo o di arancione, che sia coperto con tegole usate.
Ma queste costruzioni, sia che rientrino in vecchi piani particolareggiati, sia che siano state
autorizzate a casaccio, sono sostanzialmente illegali: perché anche un cieco (purché sia in buona
fede) si accorge che esse smentiscono clamorosamente l’articolo n. 21 della legge sulla tutela delle
cose d’arte, che tutela la prospettiva, l’ambiente, il decoro ecc. dei monumenti; perché lo stesso
cieco si accorge che esse smentiscono clamorosamente nello spirito e nella lettera tutta quanta la
legge sulla protezione delle bellezze naturali e panoramiche, e relativo regolamento.
Normalmente, quando si parla di via Appia Antica, il grigio cervello dei «competenti» e di
molta altra gente pensa al tracciato della via, ai ruderi e ai pini che sorgono ai suoi lati. Via Appia
Antica vuol dire invece, evidentemente, molto di più: la via Appia Antica per 15 chilometri, da
Porta S. Sebastiano alle Frattocchie, è la spina dorsale di tutta la campagna romana a sud di Roma,
tra l’Appia Nuova e la via Laurentina. Essa è parte di un tutto organico e indivisibile: si salva la via
Appia Antica come meraviglia paesistica, archeologica e storica, solo se si mantiene intatta la
campagna romana circostante. Chi dice Appia Antica dice Mura Aureliane, Appia Pignatelli, via
Ardeatina, via Laurentina: chi dice Appia Antica dice campagna romana vergine e sconfinata, dice
solitudine, invito alla memoria e all’intelligenza, dice silenzio, vuoto, deserto, orizzonte infinito. Se
ciò è ovvio per tutte le persone di normale cultura, riesce incomprensibile alle autorità preposte alla
protezione dell’Italia antica.
112
Il risultato è finalmente questo: oggi sulla via Appia Antica ci sono circa 70 (settanta) nuove
costruzioni, per tre quarti e senza sforzo visibili a chi cammina sulla via. Questa è l’esatta misura
del nostro amore per la nostra arte e la nostra storia, questo l’indice della nostra capacità a
conservare i monumenti della nostra civiltà.
E oggi che 70 ville sorgono sulla Via Appia, due ministri, quello della P. I. e dei lavori
Pubblici, hanno firmato un decreto di tutela della via Appia: un provvedimento imperfetto,
insufficiente e tardivo (preso in seguito alla denuncia, su «Il Mondo», dei «gangsters dell’Appia»)
che proclama «di notevole interesse pubblico» una parte della via Appia, fino al confine col comune
di Marino, e una piccola parte di campagna ai suoi lati. Esso dovrebbe preludere allo studio di un
piano territoriale paesistico.
Il tempo dell’incoscienza deve finire. Tutta la campagna a Sud di Roma, fra l’Appia Nuova
e il Tevere, deve essere definitivamente salvaguardata: tutta l’Appia Antica, per tutti i suoi quindici
chilometri, da Porta S. Sebastiano alle Frattocchie, va definitivamente difesa da ogni ulteriore
manomissione. Ora, affinché questo piano territoriale paesistico possa essere più che una burla,
proponiamo alle autorità: I) Immediata sospensione di tutti i lavori in corso sulla destra e sulla
sinistra della via Appia Antica in tutta la sua lunghezza, e tra di essa la via C. Colombo, sulla via di
Cecilia Metella, sull’Appia Pignatelli, sulla via erode Attico, sulla via di Tor Carbone, ecc. II)
Immediata sospensione di tutte le licenze di costruzione ancora in esame, soppressione di tutte
quelle a venire. III) Demolizione immediata di tutte le costruzioni sorte abusivamente, intervento
immediato contro tutte le altre innumerevoli illegalità (ampliamento di casali, alteramento del
frazionamento dei lotti minimi ecc.). IV) Provvedimenti per la demolizione per la pubblica utilità
delle ville costruite in maniera apparentemente legale, ed esproprio dei relativi terreni. V)
Espropriazione di amplissime zone di campagna ai lati della via, non ancora fabbricate. VI) Elenco
e rilevamento di tutti gli oggetti, ruderi, casali, monumenti in genere, e di tutti i complessi
panoramici e naturali da conservare intatti in senso assoluto e definitivo. VII) Azione penale contro
tutti coloro che, funzionari o no, si sono resi responsabili delle costruzioni abusive. VIII) Nomina di
una commissione per lo studio del piano paesistico.
Questa commissione, di nomina ministeriale, naturalmente non dovrà essere composta,
come sempre succede, di persone di comodo, cioè dei soliti scagnozzi volontari o involontari degli
speculatori: da essa devono essere esclusi gli architetti che hanno già costruito sulla via Appia
Antica e in altre zone monumentali di Roma, da via della Conciliazione a piazza Augusto
Imperatore a Ponte Flaminio ecc.; vanno esclusi i funzionari delle Belle Arti che si sono costruiti la
casa ai piedi delle Mura e quelli comunali che da trent’anni collaborano alla distruzione di Roma;
vanno esclusi gli architetti che lavorano per conto dell’Immobiliare, i romanisti che negli ultimi
quarant’anni abbiano scritto anche un solo articolo su giornali o riviste in lode degli sventramenti,
vanno esclusi archeologi e storici dell’arte di chiara fama per avere fatto sentire la loro voce solo a
favore degli sventramenti e per avere sempre taciuto quando occorreva difendere le bellezze
d’Italia. La commissione va formata in piccola parte da tecnici senza idee, in parte da quegli
architetti e urbanisti che si son sempre dimostrati contrari agli sventramenti e all’«accostamento»
tra l’antico e il moderno, e in gran parte da uomini di cultura, scrittori soprattutto e artisti
(preferibilmente se non insegnano in nessuna accademia). Facciamo queste proposte perché le
persone avvedute che siedono nei Ministeri o in Comune sappiano di essere appoggiati dalla stampa
libera: i responsabili dello scempio di tutta l’Italia antica possono esser certi che non scriviamo a
vanvera.
113
CARLO DELLA VALLE
Maccarese nei primi anni Cinquanta: le coltivazioni, l’allevamento, gli aspetti
commerciali della produzione, il popolamento
ESTRATTO DA
Carlo Della Valle, La bonifica di Maccarese, Napoli, Centro di studi di
geografia economica del Consiglio Nazionale delle Ricerche, 1956 (pp. 61-85).
Lo studio, compiuto tra il 1953 e il ’54, era stato inizialmente pubblicato nelle
“Memorie di geografia economica” (gennaio-giugno 1956). Il titolo del brano
riportato è redazionale. Sono stati omessi le note e i rimandi ai grafici che
sintetizzano i dati riportati dall’Autore.
114
Le superfici e le produzioni delle principali colture.
La superficie seminata a grano ha oscillato, nel quindicennio 1935-53, fra un massimo di
568 ha. (nel 1943), ed un minimo di 310 ha. (ma nel 1938 si era scesi perfino a 220 ha.). Pure le
rese unitarie hanno variato fortemente nello stesso periodo, tra 12,4 q. ad ha. nel 1951 e 33,4 nel
1953 (media del triennio 1951-1953 = 26,4 q.); nel 1953 si è raggiunto il massimo assoluto per
Maccarese, con una produzione di 15.860 q. su poco meno che 450 ha.
Molto minore è stata sempre la superficie seminata a granturco, che da un massimo di oltre
170 ha., nel 1947, nel 1953 è scesa a meno di 60, con una resa unitaria di 52,9 q. (media del triennio
1951-1953 = 44,6 q.); anche per esso la resa del 1953 è stata la maggiore ottenuta fino ad allora a
Maccarese.
Il riso è stato coltivato solo a partire dal 1939, su una superficie aumentata dai 23 ha. del
primo anno ai 154 del 1947, che vide anche la maggior produzione totale con 5500 q. (media
unitaria = 35,8 q. ad ha.). Il riso, nel 1953, ha però raggiunto (come gli altri cereali) un massimo di
resa unitaria con 58,7 q. per ha. (media del triennio 1951-1953 = 56,7 q.).
La semina dell’avena, negli erbai autunno-vernini, nel periodo 1939-1953 ha interessato
superfici oscillanti tra i 170 ha. del primo anno e i 12 del 1947, con rese unitarie parimenti molto
variabili. Nel 1953, su 30,9 ha. la produzione totale è stata di 770 q., con una resa unitaria di 24,9 q.
per ha., che è il valore relativo maggiormente elevato del quindicennio (media del triennio 19511953 = 20,6 q.).
Modesta è stata, nel 1953, la superficie seminata a patate, 24,5 ha. in tutto, con una resa
elevatissima, di 212,3 q. per ha. (media del triennio 1951-1953 = 164,8 q.). Questa coltura, dopo il
1946, anno di massima espansione, con 231 ha. (media unitaria di quell’anno pari a 109 q.), si è
andata sempre più restringendo per ragioni economiche di carattere generale, come è avvenuto per
molte altre coltivazioni, quali quelle dei fagioli, fortemente insidiati da un parassita, il «ragno
rosso», come già accennato.
Sta sempre più estendendosi, invece, la coltivazione dei pomodori, delle barbabietole, dei
broccoli, dei carciofi, dei cocomeri, della fava, ecc.
Ma produzione rilevante più di ogni altra, per quantità e per la fondamentale importanza
nell’economia agricola locale, è quella dei foraggi freschi o secchi ottenuti da prati e dagli erbari; ad
essi è infatti dedicata più della metà della superficie riservata in linea principale alla produzione
zootecnico-cerealicola.
Nell’area delle fattorie a conduzione diretta p. d. la superficie foraggere supera i 790 ha.
(ossia il 50% della corrispondente superficie agraria), mentre in quella delle fattorie a
compartecipazione si estende su 475 ha. (vale a dire il 48% come sopra); modesta è invece (69 ha.)
la coltivazione dei foraggi nell’area a mezzadria (piantata soprattutto a vigneto), per il poco
bestiame da lavoro e da latte dei mezzadri.
La produzione unitaria di fieno da piante foraggere nei prati pluriennali varia naturalmente a
seconda dell’anno di rotazione: si calcola su una resa in erba di 350 q. ad ha. per il primo anno; di
650 q. per il secondo; di 550 q. per il terzo ed infine di 400 q. per il quarto. La resa in fieno è –
grosso modo – pari a 1/5 di quella in erba.
Il foraggio per l’inverno viene insilato o collocato nei fienili, nelle immediate vicinanze dei
fabbricati delle rispettive fattorie, perché gli erbai e i prati di ognuna sono sufficienti al relativo
carico di bestiame.
Essenziale dunque nell’economia, oltre che nell’aspetto della bonifica, la coltivazione dei foraggi,
riferita a tutta la superficie agraria considerata (e non solo alla irrigua) ne copre più di 1/3 (33,6%),
e contribuisce alla differenziazione di questo paesaggio agrario da quello di molte aree vicine, per la
freschezza dei suoi prati irrigui, che nell’ambito colturale – prevalentemente semiarido – dell’Italia
centrale, spiccano in ogni stagione, anche nella più secca, in maniera vivacissima.
115
L’allevamento e i suoi prodotti.
La zootecnia è dunque un elemento fondamentale dell’economia di Maccarese, tanto che, ad
es., partecipa al reddito globale della maggiore azienda per circa il 50% del totale, collegandosi
così, in un certo qual modo, alla base del vecchio ordinamento produttivo in vigore fino al 1925, nel
quadro del paesaggio naturale allora dominante; ma con questi aspetti sostanzialmente diversi da
quelli di allora, sia dal lato qualitativo, sia da quello quantitativo, numerico totale e di resa unitaria.
L’allevamento estensivo, brado, dei bovini e degli equini sui terreni pascolativi asciutti delle
groppe e delle pendici interne del cordone dunoso, su quelli acquitrinosi delle zone più depresse, e
pure nella boscaglia asciutta delle dune e in quella paludosa qua e là, qui un tempo dominanti, è
scomparso; ma c’è tuttora, limitatissima, una forma intermedia di allevamento semi-brado, per le
manze al di sotto dei due anni, che, pur essendo stabulate, vengono tuttavia portate anche sui prati
vecchi destinati ad esser rotti per la rotazione.
Non esiste più pascolo cespuglioso, né pascolo arborato; solo le pecore vengono condotte
sugli argini principali, e anche, a volte, nei prati da rompere, e così negli erbai, per ripulirli, e pure
nelle altre colture prima dell’aratura.
Del bestiame brado originario, dapprima fu conservato quello bovino (bufali compresi) e
quello equino maremmano.
Ma presto, rivelatesi strumento non adatto alla trasformazione in latte della produzione
foraggera, tutte le bufale di Maccarese furono alienate, e rimpiazzate con mucche di razze
particolarmente lattifere, come le bruno-alpine, di razza svizzera della Valtellina e delle valli
bresciane e bergamasche, nonché le olandesi pezzate nere e le danesi rosse.
Alla fine del 1953 le mucche lattifere esistenti a Maccarese erano circa 1850.
Il loro numero è naturalmente variato nel tempo: da poco più di 750 capi nel 1930 si era
saliti al massimo di oltre 2200 nel 1933 (nel 1945 si scese però a soli 927 capi). La produzione
unitaria di latte ha mostrato invece un costante aumento, tranne che negli anni di guerra, quando si
ebbe, soprattutto, carenza di mangimi concentrati, integrativi dei foraggi.
La produzione media annua a capo nel 1953 è stata di quasi 39,6 q. e la media del triennio
1951-1953 è arrivata a 39,9 q. (Nel triennio 1943-1045 non si raggiunsero i 26q.). La produzione
totale a Maccarese si è avvicinata ai 7.300.000 litri di latte, nel 1953, e di essi la maggior parte (6,6
milioni) è stata immessa nel mercato di Roma, dove ha rappresentato all’incirca l’8,50% del totale
consumo annuo cittadino. Al progressivo aumento della resa unitaria di latte contribuiscono la
sempre più razionale alimentazione, e il miglioramento della qualità del bestiame, per gli acquisti di
capi di razze particolarmente pregiate, come le 600 mucche da latte danesi comprate nel 1946.
Ma nella bonifica di Maccarese esiste anche un notevolissimo gruppo di capi da rimonta
(1421, alla fine del 1953), e un numero sensibilmente minore di bovini di altro tipo, quali tori,
manzette, vitelli, ecc. (374 alla data di cui sopra). Ottimi buoi da lavoro derivarono dalla mandria
dei buoi maremmani, che fu conservata al contrario di quella dei bufali.
Quanto al patrimonio equino esso consta di poco meno di 330 capi, ma è continuamente in
diminuzione, per il costante aumento dell’impiego dei mezzi meccanici nei lavori colturali e nei
trasporti.
Il sempre minore impiego del lavoro animale è qui favorito anche dalla natura dei terreni, in
notevole parte sciolti, o, quanto meno, di impasto medio.
Nei primi anni della bonifica fu tentato un allevamento equino di duplice tipo: si cercò di
creare una razza da sella, per le esigenze dell’esercito, e un’altra razza, pesante, sia per le
occorrenze dirette della bonifica sia per le FF. AA. Per la prima ci si avvalse del vecchio ceppo
maremmano trovato in sito e con fattrici scelte ci si accinse a formare la «razza selezionata di
Maccarese», impiegando anche stalloni di puro sangue e derivati inglesi. Per la razza pesante furono
acquistati stalloni bretoni, come anche si comprarono asini stalloni americani, per dar vita ad un
allevamento di muli pesanti.
116
Ma il progressivo diminuire dell’utilizzo degli equini sia nella vita rurale sia nell’ambito
delle FF. AA. ha determinato, fin da prima della seconda guerra mondiale, la scomparsa
dell’allevamento da sella e la riduzione ai semplici (e pur gradatamente decrescenti) impieghi
agricoli locali dell’allevamento pesante. La meccanizzazione del lavoro agricolo è stata spinta
ormai molto avanti a Maccarese, dove nel 1953 si aveva, nell’area della maggiore azienda, un
trattore ogni 100 ha., o poco più, di superficie coltivata, mentre la stessa agricoltura dell’Italia
settentrionale, pur così progredita nella meccanizzazione, aveva un trattore per ogni 150 ha. e più di
terreno lavorato. Ciò è possibile a Maccarese pure per la favorevole conformazione del territorio
pianeggiante, e per la quasi totale assenza di seminativi arborati: anche nel frutteto si è tenuto conto
della necessità di lasciare il passaggio ai trattori minori.
Più vario di quello degli equini è stato il comportamento del gregge ovino e caprino. Molto
numeroso, specie il primo, nell’ordinamento produttivo ante-bonifica, si mantenne tale anche per
alcuni anni dopo la trasformazione del territorio; ancora nel 1934 c’erano più di 2000 pecore. Poi il
loro numero diminuì, sia per la quasi totale riduzione dei pascoli naturali di fronte all’intensificarsi
delle colture, sia per cause di carattere generale, ed al principio del 1945 non esistevano a
Maccarese che pochi esemplari ovini. Ma in seguito il gregge è stato ricostituito, perché la forte
diminuzione degli ovini nella Maremma romana e toscana ha reso molto più redditizia la
conduzione dei superstiti. Alla fine del 1953 esso era di nuovo di quasi 2000 capi (1922,
propriamente); le capre invece sono da tempo completamente scomparse. Gli ovini d’estate
transumano in Abruzzo, fino a qualche anno fa per ferrovia, ora con autotreni appositamente
attrezzati.
La transumanza non si accorda certo facilmente con la bonifica integrale; ma non si può
escludere neppure che si arrivi ad un proficuo allevamento «stabile nei singoli poderi, utilizzando il
pascolo sulle stoppie e il pascolo estivo ed invernale sui prati artificiali e sfruttando residui e
cascami».
Il latte di pecora viene impiegato nella preparazione di ricotta e di formaggio pecorino; ma
non trascurabile è il reddito del gregge per la vendita degli agnelli (il classico «abbacchio»), delle
pelli e della lana.
In conclusione, il settore zootecnico nel territorio della bonifica di Maccarese ha presentato,
nell’ultimo trentennio, questo panorama;
bovini di ogni razza, tipo ed età
equini, idem
ovini
caprini
1925
1934
1953
1810
5518
3645
293
693
329
2638
2120
1922
–
–
435
Tenendo conto solo delle tre specie di bestiame attualmente esistenti, tra il 1925 ed il 1953 si
è avuto un aumento molto rilevante nei bovini (poco meno del 101,5%), un molto modesto
incremento numerico negli equini (quasi il 12,3%), ed una diminuzione del 27% negli ovini, non
elevata se raffrontata con quanto è accaduto in altre aree del Lazio e della Toscana dopo
trasformazioni agrarie anche molto meno radicali che a Maccarese. [...]
117
Quanto alla densità, quella dei bovini nel 1953 era di 97,8 capi per kmq. di superficie agraria
e forestale (al netto di ogni tara per strade, canali, ecc.), quella degli ovini di 51,7 capi, e quella
degli equini non raggiungeva che il valore di 0,8, o poco più. Ma rispetto alle sole superfici
coltivate a foraggio le densità salgono a 280 circa per i bovini, a 148 per gli ovini e a quasi 25 per
gli equini, valori questi veramente rilevanti ed interessanti.
Completamente abbandonato da molti anni, perché risultato non conveniente, è
l’allevamento avicolo (galline livornesi ed anatre corridrici indiane), che era stato iniziato a
Maccarese con criteri industriali e su una superficie di ben 15 ha., di cui ½ ha. coperto da fabbricati
in legno o in muratura; erano uno dei maggiori impianti del genere esistenti per allora in Italia.
Gli aspetti commerciali ed industriali della produzione.
In linea di massima il mercato di Roma assorbe tutto ciò che della produzione locale supera
il fabbisogno della popolazione insediata nel territorio bonificato; e non si tratta di un consumo
troppo esiguo, quello locale, in quanto la popolazione è numerosa, e anzi sempre più esuberante alle
esigenze dell’economia rurale del territorio che la ospita. Comunque, è chiaro, il saldo attivo della
produzione è rilevantissimo, specie per alcuni prodotti, onde la bonifica di Maccarese adempie
veramente alle sue funzioni di rifornimento del mercato alimentare romano.
La popolazione del territorio utilizza innanzitutto, nella massima parte, il ricavo degli orti
famigliari, individuali o collettivi; altri prodotti, del luogo o no, li preleva presso gli spacci
aziendali, oppure presso le rivendite che esistono nel villaggio di Maccarese S. Giorgio e anche in
qualche altra località del territorio bonificato.
La maggior parte del prodotto locale non consumato sul luogo affluisce direttamente a
Roma, e in varia maniera, a seconda della specie. Fra questa aliquota della produzione immessa nel
mercato esterno, alcuni prodotti sono oggetto di semplici atti di commercio, come quegli ortaggi
che vengono acquistati in sito e trasportati alla rinfusa a Roma a cura e a spese dell’acquirente
stesso. (Ciò avviene, ad esempio, per i carciofi, per i cocomeri, per gli asparagi, ecc.). Ma non
manca la produzione che necessita di qualche preliminare manipolazione, che non sia soltanto
quella di semplice raccolta, carico ed inoltro; così l’uva da tavola e la frutta, voci entrambi di forte
rilievo nell’economia commerciale di Maccarese, richiedono una sia pur rudimentale confezione
atta al breve viaggio per Roma, ed effettuata in sito.
Esiste inoltre tutta un’attività a carattere agricolo-industriale, che s’impernia, soprattutto, su
quel villaggio industriale che sorge presso la stazione ferroviaria, alla quale i suoi principali
impianti sono collegati da binari di raccordo.
Così la produzione lattifera ha provocato l’istituzione di una Centrale del latte per la raccolta
e la refrigerazione, con annesso un impianto per la fabbricazione del ghiaccio. Il latte affluisce qui
dalle fattorie in due riprese giornaliere e ne riparte, con apposite autobotti, egualmente in due
riprese, per la Centrale comunale di Roma. L’attrezzatura di Maccarese, completamente automatica,
può trattare 15.000 litri per ogni turno.
Nel villaggio esiste anche un grande stabilimento enologico, dotato di ampi tini di cemento,
e di una buona ed aggiornata attrezzatura tecnica, con una forte capacità lavorativa; esso può
immagazzinare fino a quasi 50.000 ettolitri di vino.
C’è inoltre un silos per cereali, a celle, della capacità di 22.000 mq., munito di macchinari
per selezionare le sementi, e di un impianto molitorio per la produzione delle farine occorrenti al
consumo locale.
Esisteva anche, sempre nel villaggio industriale, prima delle distruzione belliche del 194345, una vasta stalla-esposizione, destinata a manifestazioni commerciali, a vendite di bestiame
bovino ed equino di produzione locale.
Per la manutenzione dei macchinari agricoli e della arie installazioni meccaniche della
bonifica, nonché per i piccoli lavori connessi, fu costruita pure una importante officina meccanica, a
118
metà strada fra la stazione ed il villaggio di Maccarese; su di essa, che opera ormai solo nell’àmbito
attuale dell’azienda «Maccarese», si appoggia il parco centrale di meccanizzazione agricola
dell’azienda stessa.
Il servizio per il trasporto delle merci fa invece capo ad un’ampia autorimessa, sempre nel
villaggio industriale.
Anche se apparentemente modesta, l’attività di queste attrezzature complementari della
produzione agricola impegna tuttavia un’aliquota abbastanza ragguardevole della popolazione di
Maccarese, più di 170 individui, che con le famiglie costituiscono un complesso di oltre 700
persone. Se ad essi si aggiungono i liberi commercianti ed artigiani che risiedono stabilmente nel
territorio, soprattutto nel villaggio Maccarese S. Giorgio, si arriva ad una cifra di addetti
all’industria e al commercio non lontana dai 200 (con i famigliari, sono 850 persone, circa).
[...]
Il popolamento, l’insediamento, la casa rurale.
La popolazione residente nella bonifica di Maccarese (esclusa quindi quella del territorio di
Fregene) alla fine del 1953 ammontava a poco più di 5000 ab., ma aveva però raggiunto, negli anni
precedenti, un valore numerico sensibilmente superiore, quando ne facevano parte elementi senza
alcun legame di lavoro, né diretto né indiretto, con l’ambiente fisico in cui vivevano, ma qui
rifugiati per eventi bellici e che emigrarono poi, poco alla volta, non appena fu loro possibile
sistemarsi altrove. (Ancora alla data del censimento 1951 la popolazione presente ammontava,
infatti, a 5999 unità).
Sul totale da me indicato di 5000 persone, 4875 erano strettamente legate all’attività agricola
della bonifica, nelle aziende agrarie in essa operanti, soprattutto della «Maccarese», che ne ospitava
quasi il 97%, mentre il rimanente 3% viveva nelle fattorie che essa da poco aveva ceduto a terzi.
La parte non propriamente agricola della popolazione è costituita da commercianti e liberi
artigiani, da dipendenti dei Consorzi idraulici interessati, da quelli di varî enti (Comune, Stato, ecc.)
e dalle relative famiglie; poca cosa – comunque – di fronte alla massa agricola.
In complesso, c’erano a Maccarese, nel 1953, poco meno di 1000 famiglie, di cui circa 950
legate all’agricoltura.
Solo trent’anni fa la zona era – sostanzialmente – disabitata, mentre oggi presenta una
elevata densità demografica; appare quindi evidente come uno degli aspetti interessanti del
popolamento sia quello della formazione e, soprattutto, della provenienza della popolazione.
Per la trasformazione e la valorizzazione agraria si era ricorso in notevole misura a mano
d’opera delle regioni nord-orientali d’Italia, specie delle province venete (soprattutto della Venezia
Euganea), di quelle dell’Emilia, e anche di qualche provincia lombarda. E una forte aliquota di
questi settentrionali si è poi fissata definitivamente a Maccarese, formando la base della
popolazione attuale.
Con un’accurata indagine, esaminando i dati anagrafici di ognuno degli appartenenti alla
popolazione agricola (ossia del 97%, circa, della popolazione totale), ho constatato che più del 35%
degli abitanti della bonifica è nato in località venete, mentre più del 44% è nato nel Lazio, e – per il
38% – addirittura nelle terre di Maccarese.
Data l’elevata prolificità delle famiglie agricole, e di quelle mezzadrili in particolare, e dato
che su 155 famiglie di mezzadri ben l’85% è di venete (e la composizione media di ogni famiglia
mezzadrile veneta mi è risultata pari a 9,8 unità) e che, in complesso, più di 440 famiglie agricole
sulle 949 totali risultarono avere il capo-famiglia nato nel Veneto, ne consegue che una fortissima
aliquota dei nati a Maccarese può considerarsi spettante senz’altro a nuclei famigliari veneti, e che
quindi è preponderante l’elemento di quella regione. [...]
119
Tra le province venete sono in prima linea, in questo fenomeno migratorio, quelle di Padova
e di Venezia, ognuna con più di 500 immigrati; seguono quelle di Treviso, Vicenza, Verona, Udine,
Rovigo, ecc.
Notevole anche l’apporto di alcune province lombarde, di Mantova e di Brescia, in
particolar maniera.
In conclusione, tenendo conto solamente del luogo di nascita, e prescindendo quindi dalle
considerazioni fatte prima proposito dei nati a Maccarese, la popolazione agricola della bonifica mi
è risultata costituita per il 48% da elementi nati nell’Italia settentrionale, per il 47% da nati
nell’Italia centrale (Maccarese compresa, ovviamente) e per il 5% da nati nell’Italia meridionale e
insulare, ed all’estero.
Nei confronti del sesso ho accertato una minima prevalenza dell’elemento maschile, che
rappresenta il 51% della popolazione agricola, con uno scarto così poco rilevante da potersi
addirittura trascurare; è questo un fenomeno non molto frequente in territori di recente
popolamento.
Circa la quantità di popolazione agricola attiva, ho constatato che 2124 erano le persone
abitualmente occupate nel lavoro, su un totale di 4875: ne consegue la percentuale molto elevata di
oltre il 43%.
Le ripartizioni essenziali della popolazione agricola appaiono in questo specchio:
Mezzadri
Compartecipanti
Salariati del settore agricolo
Salariati del settore industriale
Impiegati delle aziende agricole
famiglie
componenti le famiglie
unità occupative
155
139
498
103
54
1501
706
1976
480
212
810
303
840
115
56
949
4875
2214
La densità di popolazione nella bonifica di Maccarese risultava alla fine del 1953 di poco
superiore a 108,1 ab. per kmq., il che, rapportato alle condizioni dell’ambiente, rappresenta
senz’altro una elevata densità, ben maggiore di quel “meno di 50 ab. per kmq.”, che è stato spesso
indicato anche recentemente come valore di densità per altre zone bonificate sul litorale tirreno e
che infatti [...] non è stato neppure raggiunto nelle coeva bonifica di Albarese.
L’insediamento a Maccarese è nettamente rurale, con varî aspetti di insediamento sparso e di
insediamento accentrato rurale.
Le case sparse esistono quasi solo nell’area a mezzadria, ma questo insediamento
manifestamente sparso si sta attenuando col tempo, perché l’aumento della popolazione, con il
sorgere di nuove costruzioni, ha spesso provocato un addensamento di esse, per lo più sotto forma
di allineamenti in piccole serie lungo le arterie principali, come ad es. sulla Strada di Porto.
Invece, nelle aree gestite a conduzione diretta a salariati, o a compartecipazione collettiva,
l’insediamento è basato soprattutto su aggregati elementari, di case di abitazione, di stalle, di silos,
di altri fabbricati d servizio, aggregati che corrispondono, all’incirca, al tipico casale italiano, anche
se nella terminologia locale sono stati impropriamente denominati «centri», distinti non da un
nome, ma da un numero progressivo.
Ma ci sono dei veri centri rurali, e di vario ordine, dal villaggio Maccarese S. Giorgio,
raggruppato attorno all’antico castello-casale e presso la non meno antica chiesa parrocchiale (ora
sostituita da una nuova) e dal villaggio industriale, fino a qualche altro centro più modesto, ma non
120
per questo meno nettamente tale, come ad es., quello sorto e sviluppatosi attorno alla nuova chiesa
parrocchiale di S. Antonio, sulla Strada di Porto, verso il limite sudoccidentale della bonifica.
Il villaggio Maccarese S. Giorgio è il più importante abitato di tutta la bonifica, e costituisce
il sito dove si svolge la maggior parte della vita commerciale e associativa degli abitanti dell’intero
territorio, oltre che l’attività direzionale tecnica dell’azienda maggiore di esso. Qui sono i negozi,
gli esercizi pubblici, le botteghe artigiane, la banca, ecc. Il villaggio si è sviluppato in due epoche, la
seconda delle quali posteriormente al 1925, e si divide in due settori, uno a monte e l’altro a valle
della strada che sbocca all’attuale ponte sull’Arrone . La parte più antica è quella a monte, e consta
– essenzialmente – del castello-casale [...], della vecchia chiesa, e di un vasto fabbricato
rettangolare, che prima del 1925 era il completamento funzionale del castello-casale. Vi è poi
qualche altro edificio recente, come, ad es., la palazzina degli uffici della «Maccarese».
La parte nuova del villaggio Maccarese S. Giorgio è il vero centro commerciale ed è
costituita, soprattutto, da edifici disposti attorno ad uno spiazzo quadrato, occupato al centro da un
giardino. Due lunghi corpi di fabbrica, a due piani, si fronteggiano, ospitando gli esercizi
commerciali e le abitazioni corrispondenti. Altri minori corpi di fabbrica, destinati soltanto ad
abitazione, delimitano, a maggior distanza, lo spiazzo sugli altri due lati. All’intorno del nucleo
centrale del villaggio, anche al di là della strada che fiancheggia l’Arrone, altri edifici lo
completano, e sono quelli adibiti a scuola, a stazione sanitaria, a sede di uffici staccati
dell’Amministrazione Comunale di Roma, oltre alla nuova parrocchia, ecc.
Nel villaggio si conta una venticinquina di esercizi commerciali, botteghe artigiane e simili;
e qui risiede un gran parte della popolazione non agricola che vive nella bonifica.
121
OPERA NAZIONALE PER I COMBATTENTI
Isola Sacra e San Cesareo dagli anni Venti agli anni Cinquanta
ESTRATTO DA
36 anni dell’ Opera Nazionale per i Combattenti, 1919-1955, Roma, a cura
dell’Opera Nazionale per i Combattenti, 1955 (pp. 123-26 e 143-47). Il titolo
complessivi dei due brani riportati è redazionale.
122
L’Isola Sacra è compresa fra i due rami della foce del Tevere e il Mar Tirreno. [...]
[...] Nel 1920 l’Opera ne ottenne la attribuzione al suo patrimonio.
Spettò all’Opera il compito di integrare la bonifica [idraulica] mediante la escavazione di
canali terziari e scoline, la colmata delle numerose piscine interne e litoranee, la costruzione di una
rete di strade parte massicciate e parte a fondo naturale, e infine con la costruzione di canali
d’irrigazione.
Le maggiori opere di bonifica idraulica e di irrigazione eseguite dall’Opera Combattenti
possono così riassumersi: prosciugamento di paludi mediante colmazione di piscine ha. 76;
prosciugamento di paludi mediante affossature ha. 45; strade interpoderali km. 30.
Due impianti d’irrigazione con sollevamento di acqua dal canale navigabile di Fiumicino.
A mano a mano che procedeva la bonifica idraulica, l’Opera attuava la trasformazione
fondiaria: dissodando i terreni, costruendo strade poderali a fondo naturale, aprendo scoline e
adacquatrici; mettendo a dimora, lungo le strade, oltre 3.000 pioppi, gelsi, acacie, platani ecc.; e
costituendo orti e poderi, coi relativi fabbricati.
Lungo il tratto inferiore del Canale di Fiumicino si presentavano condizioni particolarmente
adatte alle colture ortofrutticole.
L’esperimento iniziale di tre orti dette ottimi risultati. Ad esso seguì l’impianto di altri 15,
ciascuno dell’estensione media di circa 4 ettari, dotato d’una casetta per l’ortolano, della stalla, di
una tettoia per ricovero attrezzi, forno, pollaio, porcile, abbeveratoio e concimaia.
I 18 orti furono concessi ad altrettanti coltivatori diretti, a favore dei quali fu definita la
vendita nel 1932.
Nelle altre zone furono costituiti 37 poderi – da dieci a trenta ettari, secondo la varia fertilità
del terreno – dotati di comoda casa colonica e di rustici annessi, e in questi ultimi anni 9 ortipodere, dell’estensione dai 3 ai 7 ettari. Sono da aggiungere 4 unità colturali lavorate da
compartecipanti.
Nel centro aziendale, oltre al riattamento dei vecchi fabbricati del «Procoio» per uso uffici e
servizi dell’Azienda, furono costruiti quattro sili da foraggio, una vaccheria per 130 capi, con
annesso fabbricato a due piani, un grande magazzino per cereali, tre tettoie per ricovero attrezzi, con
officina e autorimessa; un fabbricato per la raccolta e refrigerazione del latte, il forno e il lavatoio
per uso del centro del centro stesso; e un ampio edificio scolastico. Recentemente – in aggiunta ad
una cappella esistente nel Procoio – una chiesa consacrata alla Madonna del Grano è stata costruita,
con il contributo dell’Opera, dai coloni dell’Azienda a scioglimento di un voto fatto durante
l’occupazione tedesca.
Nonostante le difficoltà incontrate, e nonostante qualche incertezza di orientamento
verificatasi, nei vari periodi, nell’attuazione della bonifica integrale dell’Isola, i risultati conseguiti
possono dirsi pienamente soddisfacenti: chi oggi, specialmente nei mesi estivi, entra nell’Isola
lasciando dietro di sé la piana di Ostia Antica, o entra dall’abitato di Fiumicino, e ricorda lo stato di
abbandono dell’Isola prima che vi ponesse piede l’Opera Nazionale per i Combattenti, è preso da un
senso di sollievo e di ammirazione nell’osservare il verde dei campi e le belle case coloniche,
circondate da floridi orti, allineate lungo le strade ombrose.
A dare una chiara idea dei risultati conseguiti, più di ogni altra illustrazione vale il raffronto
di alcuni dati che segnano le tappe del cammino percorso, interrotto dagli eventi bellici e ripreso
con maggior lena nell’ultimo decennio. In proposito è opportuno mettere in rilievo i gravi danni
subiti dall’Azienda con l’allagamento – provocato per fini di guerra – di circa 600 ettari, per oltre
sei mesi, dal gennaio al luglio 1944. Danni rilevantissimi alle piantagioni, alle colture, ai fabbricati,
agli impianti, per il cui ripristino fu necessario un lungo e duro lavoro, reso ancor più difficoltoso
dallo sconvolgimento che l’allagamento aveva prodotto nelle opere di sistemazione del terreno.
Da un raffronto fra lo stato colturale dell’Azienda al 1920 e al 1954, si rileva che – su di una
superficie totale di ha. 1225 – i seminativi sono saliti da ha. 108 a ha. 614,16, mentre l’incolto
sterile da ha. 819 a ha 99,11. La produzione granaria, che nel 1922 su ettari 128,78.00, era stata di
123
q.li 2.796,59, con resa q.li 14,90 per ettaro, ha raggiunto nel 1954 quintali 4.573,84 su ha.
238,41.00, con resa 19,19 per ettaro. Costante è stato l’incremento del bestiame, oggetto di
particolari cure dell’Azienda: da 10 bovini e 4 equini nel 1922, a 447 bovini e 59 equini nel 1954.
Grande importanza ha per l’Azienda la produzione del latte, il cui incremento negli ultimi
anni è stato veramente considerevole: da litri 14.078 nel 1944, a litri 389.599 nel 1954.
Ma uno degli indici più persuasivi dei risultati conseguiti è l’incremento della popolazione
verificatosi nell’Azienda Agraria di isola sacra dal 1920 ad oggi:
1920
1954
Famiglie
7
91
Componenti
27
552
Dens. per kmq.
2.20
61
Questi dati riguardano la sola popolazione agricola: giacché la popolazione totale che si è
insediata stabilmente sull’Isola dopo l’intervento dell’Opera ascende, oggi, a circa 3000 abitanti che
nella stagione estiva giungono sino a 3500: ciò senza tener conto, naturalmente, delle migliaia di
bagnanti che nei mesi caldi affollano la spiaggia.
Questo alto incremento demografico in una zona che sino a pochi anni or sono era
considerata una plaga insalubre, sì che era pericoloso recarvisi a diporto anche per una breve gita, è
stato possibile per effetto della bonifica e della trasformazione fondiaria eseguite dall’Opera
Nazionale Combattenti.
Prima di chiudere queste brevi note, è opportuno ricordare pure che nel territorio
dell’Azienda, lungo la strada mediana che da Fiumicino conduce a Ostia, nel 1946-47 fu costruito
uno stabilimento per la lavorazione del pomodoro, per iniziativa dell’O.N.C. e a mezzo della
S.I.L.P.A. (Società Industrie Lavorazioni Prodotti Agricoli) di cui l’Opera è azionista. La gestione
di tale stabilimento è peraltro estranea a quella dell’azienda.
Il 12 febbraio del corrente anno ha avuto luogo la suggestiva cerimonia della consegna, ai
mezzadri dell’Azienda, dei diplomi-contratto che ne qualificano la nuova condizione di proprietari
delle terre sinora condotte a mezzadria.
*
L’Azienda di San Cesareo, a 27 km da Roma, sulla Via Casilina, è situata alle falde dei Colli
Laziali, tra la pittoresca Montecompatri e la millenaria Preneste, ai piedi del Monte Pantaleo.
[...] L’Opera Nazionale Combattenti nel 1920 ne ottenne l’esproprio e l’attribuzione al suo
patrimonio.
La tenuta di san Cesareo era allora costituita dagli altipiani di Campo Gillaro, Colle
Pietrazzino, Vetrice e Marcelli; da catene collinari quasi parallele, volte da nord a sud: Quarticcioli,
Carcolese, Mainello; da piccole vallate e da pochi terreni a pendio superiore al 15%; ed era
concessa in affitto a mercanti di campagna. Il tipo di conduzione a colonia garantiva gli affittuari
una comoda remunerazione, poco dispendio di energie e scarso impiego di capitali; i pascoli
venivano subaffittati e davano un reddito vantaggioso, senza richiedere alcuna forma di attività. Ciò
a tutto pregiudizio della produttività della tenuta, della economia agricola della zona e dagli stessi
coltivatori diretti che ben poco potevano trarre dal sistema di conduzione adottato dai fittuari.
Per di più, su buona parte della tenuta vigeva un uso civico, il quale, dando diritto ai
cittadini di Zagarolo di coltivare con la divisione al quarto «secondo l’ultimo possesso di fatto»,
impedì per molto tempo – e cioè sino al 1935 – la completa colonizzazione della tenuta. Nonostante
questo progresso stato di cose, e nonostante le difficoltà di ordine pubblico incontrate nei primi
anni, l’intervento dell’Opera contribuì notevolmente a modificare, sin dall’inizio, uno stato di fatto
pregiudizievole allo sviluppo economico della tenuta e di tutta la zona.
Entrata in possesso dei terreni, l’Opera provvide immediatamente ad organizzarvi
un’Azienda. A 423 contadini fu concesso, a migliorìa con diritto di acquisto, circa un ettaro di
124
terreno ciascuno, frazionando le riserve Mainello, S. Apollaria, Scossite, Quarticcioli, Colle
Pallone, Carsolese, Ara, Noce, Marcelli, Monte di Cave, Pidocchiosa, per una superficie
complessiva di 338 ettari: è bene precisare che si trattava di terre di alta fertilità, se ben coltivate.
I concessionari, entrati in godimento dei terreni nel 1922 corrispondendo all’Opera il tenue
canone di fitto di circa 100 lire per ettaro, nel termine di quattro anni eseguirono tutti i necessari
lavori di miglioramento, con l’impianto di vigneti associati a olivi e a frutteti. Scaduto tal termine,
furono stipulati i regolari contratti di compravendita, ratizzando il prezzo in un adeguato numero di
annualità.
Successivamente, altri terreni, per la estensione di ettari 356,50.00, furono assegnati, nella
stessa forma dell’affitto a migliorìa con diritto di acquisto, a 250 quotisti. E così, sin dai primi anni,
fu dato modo a circa 700 coltivatori di divenire proprietari di terra dopo un periodo di esperimento
durante il quale avevano dimostrato di saperla ben coltivare e condurre con sani criteri di economia.
Prima che si potesse procedere all’affrancazione degli usi civici, l’Azienda – di ha. 1463 –
era così ripartita: a mezzadria ha. 54; a quarteria (usi civici) ha 470,50; in assegnazione definitiva a
quotisti ha. 694,50; a conduzione diretta ha. 244.
Sotto la guida della Direzione dell’Azienda, le opere di miglioramento compiute, le
rotazioni razionali adottate, l’impiego di concimi chimici e di sementi selezionate, portarono ad un
notevole miglioramento delle produzioni in tutti i terreni della tenuta, compresi quelli a quarteria; la
produzione granaria, ad esempio, da 12 q.li per ettaro nel 1922, sin dal 1934 aveva raggiunto la
media di 17,41 q.li per ettaro.
Mentre si procedeva al graduale miglioramento agrario dei terreni a seminativo, si
provvedeva alla razionale sistemazione delle zone a bosco (ettari 19) e quindi alla costruzione di
un’adeguata rete stradale; al riattamento di due vecchie case coloniche e alla costruzione di una
nuova con rustici annessi; alla restaurazione e ampliamento della «Villetta» sede degli uffici
aziendali, e infine all’approvvigionamento idrico con un impianto di sollevamento d’acqua potabile
per gli usi dell’Azienda e della borgata di cui si dirà in appresso.
Ma il programma di trasformazione integrale del territorio dell’Azienda potè attuarsi sol
quando fu possibile affrancare gli usi civici, ai quali, come si è detto, era soggetto circa un terzo
della Azienda; ciò si verificò nel 1935, cedendo al Comune di Zagarolo, in corrispettivo
dell’affrancazione, 200 ettari di terreno nelle zone di Nobiletto, Quartaccio, Colle Pietrazzino, le
Faveta e Campo Gillaro.
Dopo un periodo di conduzione diretta, i terreni resi disponibili furono concessi in
compartecipazione a cooperative di coltivatori della zona; recentemente, e precisamente nel 1954,
sono stati ceduti in vendita 409 ettari alla Cassa per la formazione della piccola proprietà contadina,
perché fossero assegnati ai coltivatori del luogo con preferenza agli abitanti della borgata, che così
da compartecipanti sono divenuti piccoli proprietari terrieri.
Attualmente la proprietà dell’Opera a San Cesareo è ridotta a : 67 ettari, costituenti cinque
colonie a mezzadria; 2 ettari a parco e adiacenze della «Villetta»; 24 ettari a bosco, e infine 80 ettari
assegnati a quattro cooperative di coltivatori dei paesi limitrofi a San Cesareo, con il sistema della
concessione ventennale, con un canone di affitto di due quintali di grano per ettaro, al prezzo di
ammasso. [...]
Nonostante inizialmente già vivessero sul territorio dell’Azienda numerose famiglie di
«capannari», l’incremento demografico della borgata è stato considerevole; nel 1920 risiedevano in
san Cesareo 152 famiglie con 695 componenti, per la quasi totalità «capannari», oggi la
popolazione della nuova borgata è costituita da oltre 280 famiglie con 2.000 componenti lavoratori
della terra, impiegati, operai artigiani, molti dei quali giornalmente si recano a Roma e negli altri
centri abitati viciniori per il loro abituale lavoro. [...]
125
MARIA ROSA PRETE – MARIO FONDI – RICCARDO TOMAN – GINO
PRATELLI
Persistenze e mutamenti nell’architettura rurale
ESTRATTI RISPETTIVAM. DA
Maria Rosa Prete – Mario Fondi, La casa rurale nel Lazio settentrionale e
nell’Agro romano, Firenze, Olschki, 1957 (pp. 170-76, omettendo i riferimenti alle
tavole e alle figure); Riccardo Toman, La casa rurale nel comprensorio della
Maremma Tosco-Laziale, Roma, Ente Maremma, s.d. (pp. 53-56); Gino Pratelli, La
casa rurale nel Lazio meridionale, Firenze, Olschki, 1957 (pp. 155-56). Il titolo
complessivo e i titoli dei tre brani riportati sono redazionali.
126
MARIA ROSA PRETE – MARIO FONDI
Cambiamenti d’uso nei vecchi casali delle tenute
Il mutamento economico-agrario che si è verificato ha sovente influito sulle caratteristiche
essenziali, che nel passato facevano del vecchio casale il fulcro della popolazione permanente
dell’Agro in un raggio talvolta di qualche miglio. Questo mutamento ha avuto due effetti opposti,
uno positivo, l’altro negativo. Da un lato vi è stata una rapida azione di ricostruzione e di restauro
che ha finalmente posto fine al continuo decadere e andare in rovina di molti antichi e caratteristici
edifici. Dall’altro lato c’è invece, in molti casi, il decadimento del vecchio casale nei riguardi delle
sue funzioni, un tempo di primaria importanza, ospitando esso l’amministrazione e i vari servizi
dell’azienda, ora molto generiche essendo avvenuto spesso un opportuno decentramento sia degli
abitanti stabili, sia dei servizi. Ad ogni modo, numerosi sono gli adattamenti subiti dai casali, e ciò
indipendentemente dal tipo di azienda, dato che essi vengono stabiliti in linea di massima dai
proprietari.
Un primo adattamento da menzionare è la trasformazione in villa o castello padronali;
naturalmente in questo caso l’edificio viene a perdere qualsiasi impronta rurale, pur essendo spesso
mantenuta la sua primitiva struttura esterna. Hanno subìto questa trasformazione i Casali della
Castelluccia, della Spizzichina, della Lucchina, della Porcareccina, della Maglianella, di Monte di
Leva, dei Pazzi, di Sant’Antonio, della Cesarina, di Olèole e della Crescenza.
L’adattamento a villa padronale non è però l’unico caso in cui il casale perde ogni funzione
agricola: l’edificio può essere utilizzato come abitazione per popolazione non rurale, come sede di
scuola pubblica, come spaccio o per altri scopi non attinenti all’agricoltura. Ad esempio, il Casale
Settecamini, situato nell’omonimo centro sulla via Tiburtina che si è sviluppato intorno ad esso,
accoglie nei suoi ambienti le Poste, una trattoria e due botteghe; i casaletti di Finocchio, ex-osteria,
e dell’Acquacetosa sono sedi di due partiti politici; i casali Bernardino del Bufalo e Rebibbia
ospitano famiglie operaie; il Casale di Maccarese, fulcro del moderno Centro di bonifica, è adibito
per metà a villa padronale con parco, per metà a sede di varie botteghe con abitazioni ai piani
superiori; il Casale Capocotta, ospita le tre famiglie dei guardiani della tenuta; il grosso casale
settecentesco di Castel Romano, con un oratorio incorporato, accoglie l’abitazione del parroco, le
scuole elementari e un’osteria; Casal Rotondo, sulla Via Appia Antica, quasi totalmente in rovina,
serve da abitazione a una famiglia di senza-tetto; il Casaletto di Torrenova, è adibito a officina
meccanica di riparazioni moto; il Casale Santa Maria Nuova, disabitato, è in via di rifacimento e di
restauro.
I vecchi casali che sono ancora parte integrante dell’azienda agricola possono avere due
funzioni principali: sede di fattoria e centro dei servizi della tenuta oppure abitazione per i
braccianti o per gli altri addetti agricoli. Più raro è il caso di trasformazione in rustico: il casale
dell’Aranova, adibito a cascina per il fieno e la paglia, che ha però accanto un vecchio casaletto a un
piano ospitante due famiglie di braccianti. Tipico esempio di Casale trasformato in centro di
servizio è Castel di Decima. È situato preso la via Pontina a circa 20 km da Roma ed è al centro di
una tenuta di 800 ha a conduzione diretta da parte di una Società agricola per azioni. Il vecchio
casale (o castello), posto su di un’altura dominante la tenuta, ospita la chiesa con canonica, le
scuole, le abitazioni per fattore, guardiano, contabili dell’amministrazione, magazzinieri, meccanico
e autista, molti magazzini e rimesse e un grosso forno. Un po’ sotto si trovano due case abitate dal
falegname, dal trattorista e da una famiglia di salariati mentre un altro edificio accoglie la stazione
sanitaria. Più in basso ancora, isolate e a una certa distanza l’una dall’altra, ci sono le abitazioni dei
veri e propri addetti all’allevamento e al lavoro dei campi, tutti quanti salariati giornalieri o mensili.
Il più vicino al Castello è un complesso di edifici disposti a corte che accolgono una dispensa con
vendita di generi alimentari, le vaccherie, le abitazioni dei vaccari, l’abitazione degli «erbaroli»
addetti ai foraggi, la scuderia, un grosso essiccatoio per tabacco, un silo per foraggio fresco e un
127
forno. Le molte abitazioni sparse, costruite con la bonifica, hanno la stalla giustapposta ed ospitano
ciascuna due famiglie bracciantili. Nella tenuta c’è pure un’altra grande vaccheria per 150 capi con
quattro silos in lamiera. Castel di Decima è rilevato nell’ultimo censimento come centro abitato con
una popolazione di 76 abitanti, di cui più della metà è raccolta nel grande castello. Tutti gli altri
piccoli centri agricoli di servizio formatisi attorno a un vecchio casale e sedi di amministrazione
della tenuta hanno all’incirca la stessa struttura. Il Casale di Santa Maria in Celsano, ora Santa
Maria di Galeria, ha avuto un differente sviluppo, non rimanendo isolato in mezzo ad altre
costruzioni, ma fornendo il nucleo primitivo a un insieme di edifici giustapposti a doppie corti
chiuse che hanno formato l’attuale insediamento, classificato come centro di 97 abitanti nell’ultimo
censimento. Questo è centro di servizio della tenuta di Galeria, di proprietà del Collegio Germanico,
che è suddivisa in una trentina di poderi a mezzadria di circa 20 ettari l’uno, con cinque grandi
vaccherie a conduzione diretta per l’allevamento specializzato di vacche da latte. La parte più antica
del centro comprende la chiesa, gli uffici dell’amministrazione e del magazziniere, la canonica, i
magazzini, una rimessa per trattori e carri agricoli, un’officina meccanica, due laboratori per fabbro
e falegname e varie abitazioni (fattore, magazziniere, guardiano, autista, capoccia buoi, ecc.). Nella
parte più moderna che prospetta sulla piazza sono uno spaccio alimentari, l’ufficio postale, la
scuola, l’asilo con refettorio, un bar, la stazione sanitaria, un mattatoi, vari magazzini e abitazioni.
Altre sedi di fattoria hanno invece utilizzato il vecchio casale come abitazione per famiglie
di salariati, collocando l’amministrazione e i principali servizi in altri edifici più recenti dotati di
una più razionale distribuzione degli ambienti interni. Questo è il caso più comune sia nei casali
ancora isolati, sia nei nuclei così frequenti nell’Agro Romano, e può esserne un esempio il Casale
Trigoria Alta, nucleo con una popolazione di 61 abitanti. L’edificio più antico, un tempo adibito a
granaio, è ora abitato da otto famiglie, cinque di braccianti e tre di mezzadri ad ha al piano terreno
magazzini e granai. Il nucleo, oltre al vecchio casale, è composto da altri cinque edifici che formano
un’ampia corte con al centro il fontanile: vaccheria per ottanta capi con annesse due abitazioni; casa
del guardiano della tenuta; scuole e abitazione della maestra; casa per tre famiglie di braccianti;
porcareccia. Inoltre abbiamo un casello per la refrigerazione del latte, due silos per foraggi, una
lunga grotta un tempo usata per le bestie e ora adibita a deposito carburanti per i trattori, una grande
concimaia, due capanne una cisterna. Dalla descrizione è evidente la differente funzione che può
essere espletata da un simile nucleo al confronto di quella dei centri di servizio, ben più ampia e
completa.
Altro esempio di casale-nucleo può essere dato dal Casale Testa di Lepre di Sotto,
complesso di massicci edifici ospitanti fattoria, magazzini, stalle e abitazioni per 66 individui, fra
braccianti e altri addetti all’azienda.
Differente posizione può avere il casale quando, pur ospitando famiglie rurali, non si trova
al centro della tenuta, ma a contatto con altre costruzioni non appartenenti all’azienda, con le quali
forma un vero e proprio nucleo di edifici non interdipendenti fra di loro. Questo è il caso del Casale
di san Sisto all’Acquacetosa situato nel nucleo detto «Casale di Acquacetosa» di ben 183 abitanti,
composto anche di casette abitate da operai. Il casale è abitato da dieci famiglie, solo in parte dedite
all’agricoltura e si avvia a perdere i suoi caratteri rurali per la presenza nelle vicinanze di cave che
assorbono una certa mano d’opera e per lo sviluppo non rurale del nucleo.
Più raccolti e limitati nelle loro funzioni, altri casali, benché classificati spesso come nuclei
nell’ultimo censimento, hanno tutte le caratteristiche dell’abitazione isolata, seppur certe volte
grande e massiccia. Il casale Marco Simone, presso la via Palombarese, ad esempio, è formato da
un poderoso edificio turrito che ospita cinque famiglie, tre padronali e due coloniche. È ancora
recinto da un alto muro che forma col casale e gli annessi un’ampia corte; gli annessi sono una
rimessa per carri, un edificio moderno adibito a magazzino e granaio, una stalla per equini e un exoratorio ora usato come rimessa per la paglia. Le abitazioni sono nei piani superiori del casale
mentre a terreno vi sono ampi scantinati. Altre abitazioni e vaccherie appartenenti alla tenuta
sorgono isolate nella campagna. Un esempio ancora più evidente di casale isolato è dato dal casale
di Massa Gallesina, presso la via Aurelia, abitato da una sola famiglia di salariati giornalieri e
128
composto da una sola costruzione di forma unitaria i cui vani sono la cucina e quattro camere.
Questo casale è classificato nel censimento come nucleo di 16 abitanti. Altra costruzione isolata,
ritenuta nucleo (20 ab.), è il casale Belladonna Vecchia, di forma unitaria a due soli piani, abitato da
quattro famiglie di braccianti (due per piano). Esso fa parte di un’azienda padronale assai vasta con
vari altri edifici tutti moderni, da esso distanti. Altri casali isolati sono il Casale Bufalotta abitato da
una famiglia mezzadrile, il Casale Tor Vergata con l’abitazione del padrone e quella del fattore, il
Casale della Bottaccia abitato da molte famiglie, il Casale Buonricovero, il Casale Falcognana di
Sotto, il Casale Malborghetto, il Casale santa Rufina, il Casale Monteroni e il Casal del Fosso. Gli
ultimi due sono di proprietà dell’Ente Maremma e sono abitati da famiglie di braccianti che stanno
per ottenere l’assegnazione della casa e della quota di terreno in seguito alla riforma agraria.
*
RICCARDO TOMAN
I poderi dell’Ente Maremma: case coloniche sparse e borghi di servizio
Se è vero che insediare dei contadini significa dare loro una casa igienica e confortevole,
adatta a più progredite forme di vita, è pur vero che questa, oltre ad un’abitazione, è uno strumento
per la gestione dell’azienda e, come tale, è necessario che essa concorra nel massimo grado ad
aumentare il prodotto ed a ridurre le spese per il conseguimento di maggiori redditi. Pertanto, la
casa, nel suo complesso, deve essere adeguata all’ordinamento produttivo dell’azienda contadina.
Tale intento è stato conseguito, nella maggior parte dei casi, con la costruzione della case sui
fondi assegnati alle singole famiglie, perché l’ambiente e gli uomini su cui si doveva operare
consigliavano la scelta di ordinamenti produttivi tali che la gestione delle future aziende contadine
sarebbe risultata troppo onerosa, ove si fossero costruite case fuori dal fondo.
I poderi creati, appunto a causa della loro estensione relativamente ampia, per poter essere
pienamente utilizzati, richiedono l’impiego di tutto il potenziale lavorativo della famiglia: portando
la casa fuori del fondo, la diminuzione della massa di lavoro effettivamente investita nella
lavorazione della terra sarebbe stata più che proporzionale alla distanza tra questa ultima e la casa
medesima.
I cascami di lavoro forniti dalle cosiddette unità lavorative minori sarebbero andati, il più
delle volte, completamente perduti, mentre parte del tempo e del lavoro delle «unità intere» sarebbe
stato impiegato in percorrenze e nei maggiori trasporti.
Si potrebbe, d’altra parte, supporre che accentrando le case si ottenga sempre un risparmio
sulle opere di trasformazione fondiaria di prima necessità per l’insediamento tale da compensare le
maggiori spese di gestione. In realtà, nella maggior parte dei casi, non è facile ottenerlo: salvo
situazioni particolarmente favorevoli, la rete stradale deve essere ugualmente efficiente per
disimpegnare il notevole traffico che, comunque, ha per punto di arrivo e di partenza la terra. Inoltre
il fatto stesso di raccogliere entro breve spazio una notevole massa di uomini e di animali, richiede,
per rendere possibile la convivenza, opere ed accorgimenti che si risolvono in spese che, a loro
volta, assorbono parte degli eventuali risparmi.
Dal fatto di avere adottato, nella generalità dei casi, l’ordinamento cerealicolo-zootecnico,
imposto dall’ambiente, sia per possibilità colturali che per la necessità di produrre sostanza organica
atta al miglioramento del suolo, deriva la presenza di una quantità di bestiame preponderante
rispetto agli uomini. Ciò avrebbe creato anche seri problemi igienici, oltre che organizzativi ed
economici, qualora non si fosse adottato un criterio tale da permettere una sufficiente diluizione
degli animali nello spazio.
129
È pertanto la necessità di passare dalla economia dell’asino, a quella del bestiame da reddito
che ha fatto prendere l’orientamento esposto; l’accentramento dei fabbricati in borghi che sarebbero
divenuti piuttosto villaggi di animali che di uomini, avrebbe potuto essere causa di perpetuazione di
una economia che deve essere superata.
[...] I Borghi residenziali rappresentano per la Riforma in Maremma una realizzazione del
tutto eccezionale [...]. [...] A corredo degli insediamenti sparsi, sono stati costruiti unicamente
Borghi di servizio, integrati ancora da servizi sparsi.
*
GINO PRATELLI
Altre forme di architetture rurali
Nel territorio che si trova fuori dei comprensori della Bonifica Pontina e dell’Ente
Maremma, le numerose altre nuove costruzioni possono raccogliersi in gruppi corrispondenti a tre
principali tipi di azienda: a) i poderi familiari, che sono in prevalenza numerica, la cui superficie
può ritenersi in media alquanto superiore a quella degli analoghi poderi di cui si è già detto, per
l’ovvia ragione che là aveva prevalso il criterio di assegnare poderi al massimo numero di famiglie,
mentre qui i proprietari hanno interesse a formare aziende mezzadrili di una estensione che consenta
la più elevata produzione, b) le grandi aziende per la coltivazione dei cereali e l’allevamento
zootecnico, che seguono per numero, ma precedono per importanza economica; c) le aziende
armentizie e i centri pastorizi, che con l’avvenuto dissodamento di molti pascoli si sono ritirati nelle
zone meno favorevoli all’agricoltura.
130
GUIDO PIOVENE
In viaggio nella Campagna romana negli anni Cinquanta: il piccolo reame
agricolo di Torre in Pietra
ESTRATTO DA
Guido Piovene, Viaggio in Italia, Milano, Mondadori, 1957 (pp. 631-32).
Il viaggio in Italia di Piovene si svolse tra il 1953 e il 1956. I testi furono scritti
per delle trasmissioni radiofoniche. Il titolo del brano riportato è redazionale, e
riprende un’espressione dell’Autore.
131
[...]. Accanto alla bonifica di Maccarese, si stende la tenuta di Torre in Pietra, tra le più
perfette d’Italia. Il buono raggiunge più spesso l’ottimo dov’è attorniato dal mediocre. E Torre in
Pietra è un piccolo reame agricolo, in cui vorremmo soffermarci.
La storia di Torre in Pietra può riassumersi in breve. Luigi Albertini, costretto a lasciare il
Corriere della Sera perché in conflitto con il fascismo, si volse ad un’opera d’altro genere.
Comperò qui 1415 ettari di terra nuda, cui si aggiunsero altri 900 più tardi; formando un insieme
che poi fu ridotto a 1600 ettari circa. Quella campagna presentava il triste aspetto consueto dei
dintorni di Roma in tempo non lontano. Non prati artificiali, poco grano, pochissime famiglie con
sede stabile, in case sperdute e dirute; greggi, bestiame brado, acquitrini, malaria; nessun
investimento di capitale per trasformare i fondi. Albertini investì un capitale ingente, iniziò la
trasformazione; gli eredi Albertini e Carandini la proseguirono, e la proseguono tuttora.
Torre in Pietra ha una vita complessa, come tutto quello che nasce in queste terre così ricche
di storia. È una grande azienda zootecnica e agricola di tipo lombardo nel cuore del Lazio; ma, a
differenza delle aziende attorno a Lodi e Pavia, butta coi prodotti agricoli materiale preistorico,
etrusco, tardo romano. Una torre della proprietà porta il nome di Pagliaccetto, in memoria di un
giovane di questo nome che si ribellò ai Falconieri, antichi feudatari, istigando i contadini a
sommossa. Una leggenda popolare narra che avesse stretto un patto col diavolo. È curioso che
ancora oggi la sua popolarità non è estinta, tanto che i contadini del luogo dànno il nome di
Pagliaccetto ai bambini; chi non conoscesse la storia, stupirebbe udendo le madri gridare questo
nome strano.
Il bel castello Falconieri, davanti a un colle ricoperto da un’antica selva, sorge nella
proprietà. Una camera in esso ha tutte e quattro le pareti affrescate senza interruzione a paesaggio, e
dà l’illusione di essere sperduti in mezzo alla campagna. Albertini, che vi dormiva, per proteggersi
dalle vacche che potevano uscire dagli sfondi pittorici, fece aggiungere una staccionata pure dipinta.
La trasformazione continua: ho visto nuovi campi appianati e acquisiti all’agricoltura, nuovi
canali irrigatori; serre famose per i pomodori e i carciofi, che qui raggiungono proporzioni
monumentali e divengono quasi oggetti d’arte; officine, macchine agricole di recentissima
invenzione, nuovi villaggi, belle case per meglio fissare sul luogo la popolazione crescente, che da
poche decine di abitanti è già salita a 1400 stabili. Vi sono opere assistenziali, un asilo, una nuova
chiesa che s’intitola a santa Bibiana, perché si ritiene che la martire sia nata qui, da una ricca
famiglia di agricoltori, la gens Bebia. L’azienda agricola sostiene un’azienda zootecnica. Il
bestiame pregiato è subentrato all’originario laziale; 750 mucche e famosi tori, con pedigree come i
cavalli di razza, si allineano nelle stalle; si spiega in quest’atmosfera lattifera la staccionata dipinta
sulle pareti. Latte e yoghurt sono i principali prodotti. La mucca è qui il centro di tutti i pensieri, e al
popolo delle mucche è dedicato quasi tutto un giornale, il notiziario dell’azienda, come ad esseri
umani.
132
Da Roma a Ladispoli in una guida del Touring Club Italiano
ESTRATTO DA
Guida d’Italia del Touring Club Italiano. Lazio (non compresa Roma e
dintorni), Milano, Touring Club Italiano, 1963, III edizione (pp. 87-90). Il titolo del
brano riportato è redazionale.
133
Roma, v. Roma e dintorni del T.C.I. Si esce a O varcando il Tevere sul ponte Principe
Amedeo e percorrendo quindi il traforo omonimo e la via di Porta Cavalleggeri, che al suo termine
sottopassa due viadotti ferroviari. Si continua nella via Gregorio VII che termina a piazza di Villa
Carpegna; da qui si prosegue a d. per un breve tratto nella circonvallazione Aurelia fino alla piazza
S. Giovanni Battista de la Salle, donde a sin. nella via Aurelia. Oltrepassato il complesso degli
edifici del Motel Agip (cam. 132, b. 104, acqua c. f., termosif., tel., ascens., autorim., 3ª cat.), dopo
km 1.8, incrocio di strade in cui, sa sin., sbocca il tratto della via Aurelia antica proveniente da
Porta S. Pancrazio. Si prosegue nella campagna, in direzione SO, fra continui avvallamenti. Rapida
vista retrospettiva di Roma. A km 11.4 si sottopassa il grande anello di raccordo dell’estrema
periferia di Roma, quindi, lasciato a d. il nuovo tracciato della via Aurelia in corso di costruzione, si
attraversa il Fosso la Galeria toccando subito dopo il quadrivio di Malagrotta m 27. Si oltrepassa a
d. l’Hotel Americana di Roma (cam. 80, b. 90, acqua c. f., termosif., ascens., autorim., 1ª cat.), e più
avanti, a sin., la Bottaccia m 75, antico casale incorporante una cappellina [...]. La vista si allarga
sulla campagna mentre, dietro, riappare Roma. Si oltrepassa sulla sin. il centro agrario di Castel di
Guido, quindi, con saliscendi, tra belle collinette folte d’alberi, si va ad attraversare il F. Arrone m
15, l’antico Aro, emissario del L. di Bracciano. Al bivio seguente, km 21.6, diverge a sin. la strada
per Fregene.
CARROZZ. PER FREGENE km 10.3 (autocorriera). La strada si snoda, fiancheggiata da
eucalipti, tra basse alture, varcando tre volte il T. Arrone. Km 4.7 Staz. Maccarese-Fregene, pag.
112, attorno alla quale si estende la borgata di Maccarese Stazione m 9, ab. 508. Scavalcata la
ferrovia Roma-Grosseto si lascia subito a sin. una carrozz. per Ponte Galeria, quindi s’incontra, km
6.9, Maccarese m 3, ab. 6156, borgo rurale sorto, intorno al Cast. Rospigliosi, forse sul luogo della
antica Fregenae, al centro di una delle prime bonifiche del Lazio. Si prosegue per bella campagna
incontrando un bivio ove è l’ingresso alla Pineta di Fregene, profonda quasi 1 km e lunga circa 4,
che si estende parallela alla spiaggia. Con un rettilineo, nel folto degli alberi, si raggiunge, km 10.3,
Fregene.
FREGENE. – ALBERGO *Golden Beach, cam. 35, b. 34, acqua c. f., termosif., tel., ascens., autorim., II
categoria. – PENSIONI. – I categ.: *La Conchiglia, cam. 35, b. 35, acqua c. f., aria condiz., tel., parco; *Villa dei Pini,
cam. 94, b. 94, acqua c. f., termosif., autorim., parco; *Fregenetta, ap. 15 maggio-sett., cam. 29, d. 28, acqua c. f.,
termosif.; *Villa Fiorita, cam. 36, b. 36, acqua c. f., termosif., tel., autorim. – II categ.: *Stefania, cam. 25, b. 7,
autorim.; Cervia, cam. 24, d 10, termosifone. – III categ.: Brasilia, localita Passoscuro, can. 10, b. 4, acqua c. f.,
termosifone. – RISTORANTE La Nave, via Portorese (Fregene Sud). – AUTOCORRIERE per Roma (via Castel di
Guido e via Ponte Galeria) e Campagnano (est.). AUTOSERVIZIO DI GRAN TURISMO (est.) per Roma.
Fregene m 3, ab. 1210, è un noto, elegante centro balneare sorto nel cuore della pineta e composto di villini,
alberghi, pensioni e luoghi di ritrovo; lungo la bella, ampia spiaggia sabbiosa sorgono numerosi stabilimenti balneari.
Dopo Castel Bruciato, bella vista a sin. sulle bonifiche di Porto, di Maccarese e di Pagliete e
sulla pineta di Fregene, che si delinea contro il mare; a d., nel fondo, la pineta di Palidoro e i M.
Sabatini e della Tolfa. Si continua, in vista a d. della Torre di Pagliaccetto che si erge su un basso
sperone roccioso, tra i campi di cereali e i prati della Tenuta di Torrimpietra, modello di azienda
agricola tra le più moderne e progredite dell’agro romano, divisa in vari centri con vasti fabbricati e
stalle razionali; fu creata, la dove era lo squallore e l’abbandono, da Luigi Albertini, noto giornalista
e uomo politico. Si raggiunge, km 27.1, il crocevia (Motel Corsi, cam. 11, b. 5, acqua c. f.,
termosif., autorim., 4ª cat.) donde si stacca a sin. una carrozz. per (km 5.7) la Staz. MaccareseFregene, pag. 112, quindi si varca il Fosso Pagliete sul Ponte Tre Denari m 16. km 28 strada a d.
per (km 2.5) Torrimpietra m 40, ab. 216, grazioso borgo agricolo tra belle collinette boscose,
ordinato intorno al Cast. Falconieri, trasformato nel ‘700 in edificio residenziale, con ambienti
decorati da affreschi di Pier Leone Ghezzi. [...]
La strada corre ora a d. e a breve distanza dalla ferrovia Roma-Civitavecchia. Si lascia a sin.
un tronco che varcata la ferrovia porta (km 4) alle case di Passo Oscuro m 3 (Pens. Brasilia, cam.
10, b. 3, termosif., 3ª cat.), presso il mare, quindi si tocca, km 29.6, Palidoro m. 14, ab. 1769,
134
villaggio agricolo sorto nel luogo della romana statio Baebiana; nella Parrocchiale, *tela di Ant.
Cavallucci. Km 31.7 Casale di Statua m. 17, presso cui sono i pochi ruderi del Castello di Statua
(sec. XII); vicino alla strada è il ponte di Cupino, con resti di un ponte romano. Vi su stacca la
carrozz. che porta al piccolo abitato di Ceri.
[...]
La Statale si avvicina al mare. Si scorgono a d., distanti 1 km c., i caratteristici tumuli dei
Monteroni, tombe etrusche del sec. VII-VI a.C., alte c. 15 m sul piano, appartenenti alla necropoli
di Alsium, pag. 90. A km 36.7, sulla sin., s’incontra la Staz. Palo-Cervéteri, al di là della quale si
stacca la strada per Ladispoli, pag. 90, e dove è l’ingresso del viale che porta, presso il mare, al
grande Cast. Odescalchi, già degli Orsini (per la visita chiedere il permesso alla Amministrazione
Odescalchi, piazza Apostoli 8, Roma), del sec. XV, restaurato, a pianta quadrata e con torri
angolari, entro vasto parco; nei pressi sorge Palo m 5, piccolo borgo marinaro ora abbandonato,
sorto sul luogo dell’etrusca Alsium di cui restano ruderi del porto.
Un breve tronco, correndo tra la ferrovia e il mare, porta (km 2.2) a Ladispoli.
Ladispoli. – ALBERGHI: II categ.: *Villa Margherita, via Duca degli Abruzzi 102, cam.
68, b. 42, acqua c. f., termosif., tel., giardino, roof-garden, vista sul mare. III categ.: *Miramare, ap.
giugno-sett., via Trieste 9, cam. 28, b. 14, termosif., sul mare. – PENSIONI: III categ.: Ariston,
meublè, cam. 14, b. 4; Santa Lucia, cam. 26, b. 10; La Torretta, meublè, cam. 10, b. 3; Villa del
Sole, cam. 11, b. 5. – RISTORANTE Ippocampo, via Regina Elena. – ASSOCIAZIONE
TURISTICA Pro Loco. – AUTOCORRIERE per: Barbarano (stag.), Cervéteri, Civitavecchia,
Magliano Sabino (stag.), Roma.
Ladispoli m 2, ab. 2158, è una frequentata località balneare, dall’abitato geometricamente
disposto, rinomata per la sua spiaggia di sabbia radioattiva e ferrosa color nero, indicata per la cura
dei reumatismi.
Fu fondata verso il 1890 dal principe Ladislao Odescalchi, dal quale ha preso il nome (Ladispoli = città di
Ladislao). – Ogni anno, in aprile, vi si tiene la «Sagra del carciofo», pregiatiss. e prodotto localm. in vaste coltivazioni.
Si continua sulla via Aurelia che corre tra cipressi e pini; a sin. si scorge Ladispoli; in avanti,
i M. della Tolfa sulle cui falde è Cervéteri.
135
RENATO BROCCO
Addio, campagna romana...
Questo breve libretto fu pubblicato nel 1963 (Roma, Tipografia Moderna,
1963), e in seconda edizione l’anno successivo.
136
Non un sospiro desta
La Solitudin folta...
Ah, che silenzio atroce!
A. Graf
Roma, eterno centro di grandezza e di splendore, fin dalla sua origine, per oltre due millenni, fu
contornata dal più romantico, selvaggio e pittoresco territorio che si possa immaginare, sul quale si
diramavano le trionfali vie consolari. Una distesa sterminata, solitaria e ricca di folte boscaglie,
dove, qua e là, brucavano sparute mandrie di buoi e greggi di pecore.
Questa immensa plaga dal fascino inesprimibile, che da Maccarese ed Ostia si prolungava fino
alle Paludi Pontine, costituiva la Campagna Romana (l’antico Agro Romano), sede solenne di
remoti primordiali avvenimenti. Il suo stato di desolazione, rotto dal volo rapace dello sparviero e
dell’alcione, il suo squallido aspetto privo di vita, riempivano l’animi di tristezza pur formando uno
scenario di bellezza unica al mondo. Dovunque silenzio, profondo commovente silenzio, tra lo
spirare dell’aria satura di penetranti odori agresti, sotto un cielo dalle gradazioni del più morbido
azzurro. Rovine e rovine di torri, di colonne, di archi, di templi, di acquedotti si succedevano lungo
l’incolta pianura ricoperta di asfodeli e di fiori campestri, mentre sull’inospite litorale, in dolci
declivi, si profilavano ondulate dune e tumoleti sterposi.
In tale vasta landa, battuta dalla malaria e caratterizzata dal più completo abbandono, regnavano
sovrani i pantani, dalle acque micidiali, ricolmi di giuncaie e di ninfee. Al grosso bestiame che
incautamente si addentrasse negli infidi stagni, accadeva talvolta di non poterne più uscire.
Avveniva, infatti, che interi branchi di bovini, inoltrandosi nelle acque, venivano attirati, succhiati
dalla melma che, sotto il peso, cedeva lentamente – di centimetro in centimetro – fino ad
inghiottirli. Indescrivibile la scena delle povere bestie che, terrorizzate, si contorcevano,
spasimavano e mugghiavano disperatamente, consapevoli della loro tragica fine, mentre vana
riusciva ai mandriani ogni opera di salvataggio.
Eppure, in mezzo a tanto squallore che metteva spavento, viveva, quasi ignorata, una nomade
popolazione di braccianti, sottomessi al duro lavoro della terra e del pascolo, in maggioranza
bifolchi, barrocciai, butteri e guitti. Questi ultimi, sinonimo di miseria errante, di povertà estrema,
abitanti in tenebrose capanne, in ripugnanti rifugi, in putride caverne, erano costretti a guadagnarsi
il pane nelle selve umide ed insidiose, dominate dalla implacabile Dea Febbre che li falciava senza
pietà.
Anche nella magra diaria questi eroici pionieri dell’Agro, i quali molto frequentemente perivano
sull’infida gleba, venivano spesso ricattati dalle persone che procuravano loro lavoro e cibarie. I
loro nomi, le loro generalità si conoscevano soltanto sotto la vaga denominazione di «opere». E due
rudi stecche a forma di croce, piantate sull’erbosa zolla, ne testimoniavano il sacrificio compiuto.
Non si può parlare della Campagna Romana senza rivolgere il pensiero al gemito di affranti
pastori, alle condizioni di questa umile gente attiva, generosa,, mal retribuita, vestita di stracci, che
viveva distaccata dal mondo e priva anche di quel soccorso sanitario di cui avrebbe avuto tanto
bisogno. I mezzi motorizzati non esistevano allora, e la sconfinata sterpaglia sembrava più che mai
un deserto in mezzo al quale si trovavano i loro tetri e malsani ricoveri. Ma anche la più robusta
complessione in tali tuguri, infestati da miriadi di tafani e di anòfele dalle punture letali, era esposta
a tremendi pericoli.
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Povere e sventurate creature, che si nutrivano di polenta e pane di granturco all’ombra degli
ontani e delle canne palustri, tra il gracidare delle rane e lo stridio assordante delle cicale e dei
grilli! Povere sfortunate creature, dai volti diafani, dal colorito terreo e dallo sguardo timoroso in
cui si leggeva – triste e paurosa – l’interna angoscia che le martoriava.
Questo – in sintesi – l’incredibile stato di vita che si svolgeva poco lungi dal fasto della
Dominante. Questa – nelle sue linee – la vetusta, emozionante Campagna Romana, della quale
Anzio era soltanto un angolo minuscolo particolarmente avvincente; questa la mirabile malinconica
pagina della natura, recentemente sparita in seguito alle opere di bonifica e, cioè, col sorgere del
Lido di Roma (1926), di latina (1932), Pontinia (1934), Sabaudia (1934), Aprilia (1937) e Pomezia
(1939).
Ma se il quadro selvaggio e suggestivo della Campagna Romana è scomparso, esso resta tuttora
nel ricordo delle cose che furono.
Non si possono chiudere «pagine» di così penetrante poesia, di così incomparabile storia della
natura, senza far conoscere le impressioni di chi ne intese tutta l’attrattiva ed il mistero.
Su Roma e la Campagna Romana, si espressero infatti con parole elevate tanti sommi
personaggi, fra i quali Carducci, D’Annunzio, Cervesato, Goëthe, Byron, Turgenev, N. Gogol,
Cervantes, Chateaubriand, De Lamartine, Materlink, Mazzini, Nietzsche, Platen, Shelley, Sindici,
Stendhal, Thaine, Tomassetti e Pascoli, definito da D’Annunzio «l’ultimo figlio di Virgilio». Ma tra
le espressioni più significative ci sembra opportuno rilevare le seguenti:
«Non v’è su tutta la terra spettacolo che uguagli in ricchezza di emozioni quello che la
Campagna Romana presenta» (George Byron).
«Un’armonia eterea, dalle ombre chiare e azzurre, fuse nel vapore che tutto avvolge in una
sinfonia di trasparenze lucenti» (Wolfgang Goëthe).
«Quale alto monte, quale oceano infinito, qual somma tenebra vince tanta solitudine?» (Gabriele
D’Annunzio).
«E t’invidiamo, o cacciatore infaticabile, che conosci i segreti dell’Agro... ed hai potuto amar da
vicino per tutta la tua vita la più meditabonda e tragica bellezza terrestre che sia sotto il sole!»
(Gabriele D’Annunzio).
«Una bellezza immortale intorno, e insieme la nullità di tutto ciò che è terreno, e nella nullità la
grandezza, qualche cosa di profondamente triste, ma che concilia, solleva l’anima. Non è possibile
riprodurre questo sentimento. Sono impressioni musicali che meglio di tutto potrebbero essere rese
dalla musica!» (Ivan S. Turgenev).
«Albe incantate, immobili, ove il perenne miracolo del sorgere del sole assumeva sempre la
trasfigurata suggestione di un prodigio: le nebbie si coloravano di luce, sorgevano dall’ombra le
staccionate contorte; lontano, contro il chiarore dell’astro nascente, le mandre delle bufale
fumigavano silenziose. Una atmosfera solenne e primordiale da Génesi, come se il mondo si
liberasse proprio allora dai veli delle nebulose e prendesse forma nei primi palpiti della vita terrena»
(Nino Cantalamessa).
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«Bella era quella muta, deserta campagna romana, sparsa dei ruderi degli antichi templi e,
nell’ineffabile pace diffusa intorno, ardente dell’oro di fiori gialli o accesa dalla bragia rovente dei
papaveri selvatici» (Nikolaj V. Gogol).
«Come Roma, essa è un mondo; e ne serra nei confini, dall’alba delle razze, la storia – che è la
storia dell’uomo, delle sue onte, delle sue glorie» (Arnaldo Cervesato).
Addio, Campagna Romana, soave ricordo della mia giovinezza; addio intricate foreste, sparse
nella palude micidiale, ma dalle voci melodiche piene di malìa! Addio...
Quale contrasto, tra l’assordante orgia di fragore della vita presente ed il silenzio glaciale che
per numerosi secoli ha dominato la tua selvaggia sconfinata pianura!
Addio terra pittoresca ed illustre, ammirata ed esaltata dai poeti, scrittori e pittori più celebri di
ogni tempo! Se, oggi, il fascino della tua silvana aspra bellezza più non rifulge, la tua fama, però,
resterà eterna come la gloria delle vittoriose legioni che ti percorsero.
Addio Campagna, scomparsa insieme ad un’epoca di galanteria, di umanità, di garbo e di
grazia; a te il mio saluto, quale umile superstite dell’indimenticabile bel mondo di ieri.
Non più solitudine e silenzio, umidità e miasmi; oggi, di un’altra veste ti adorni e di immenso
valore: salubrità dell’aria, fertilità dei campi, strade carrozzabili e ferroviarie, dovizia di commerci e
d’industrie, città agricole e balneari di sommo interesse turistico.
Floridezza di vita, di traffico e di operosità che, ora, splende anche sulla bonificata Maremma
toscana dai «cari selvaggi colli» tanto vagheggiati dal grande Poeta. E chi non rammenta, al
riguardo, le mirabili pagine «Vanno in Maremma» di Renato Fucini? Passata alla storia è anch’essa,
che per oltre centocinquanta chilometri dai confini del Lazio si prolungava fino alla foce del
Cecina... lento dileguarsi delle cose nella natura eterna.
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antologia dell`agro romano volume iii documenti 1923