la Capitanata
Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia
BOLLETTINO D'INFORMAZIONE
della
Biblioteca Provinciale di Foggia
Anno - XXIV
Gennaio - Giugno '87 - Parte I
LA STORIOGRAFIA SIPONTINA
Matteo Spinelli da Manfredonia
I secoli XVII e XVIII segnano i momenti più rilevanti della Storiografia
sipontina; e ciò per merito del Sarnelli e dello Spinelli. Ma mentre sul primo, di
recente, abbiamo avuto dei notevoli studi per evidenziarne l'erudizione, il pensiero religioso e la lingua usata1, sul secondo, finora, è stato scritto poco o
niente. Preliminarmente, quindi, necessita una sua opportuna conoscenza per
quanto è possibile rilevare e dai suoi stessi scritti e dai documenti giunti sino a
noi.
Matteo Spinelli nasce a Manfredonia, il 30 agosto 17312, da Michele e
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1 - Sul Sarnelli sono apparsi i saggi di: TATEO, Francesco, Pompeo Sarnelli fra
storiografia ed erudizione, Archivio Storico Pugliese, XXV, gen.-dic. 1977, pp. 203/227;
PINTO, Giovanni, Il pensiero religioso di Pompeo Sarnelli, ibidem, pp. 229/253; VALENTE, Vincenzo, La lingua napoletana di Pompeo Sarnelli, ibidem, pp. 255/265.
2 - Libro dei Battezzati della chiesa di S. Lorenzo di Manfredonia, Libro n. 15, fol.
37: "Li 2 settembre 1731, il Primicerio Sig(no)re D. Nicolò De Benedictis Primicerio
Sipontino ha battezzato il figlio dei coniugi Michele Spinelli Sipontino, e di Antonia
Ruggiero della Terra di Carpino, nato il 30 agosto giorno di giovedì ad hore 2 della
notte, l'ha imposto il nome Matteo Paolo Nicolò; Il Compadre è stato Egidio Bonfiglio
della Terra di S. Gio(vanni) Rotondo figlio di Gaetano, e di /.../ Vita e /.../ esso Pro curatorio nomina Nicolò Lepore Sipontino e con /.../ Teresa Fusillo Sipontina figlia
delli /.../ Giovanni di Monte S. Angelo, e Grazia dello Bianco di Carpino, la Mammana
la vipera Antonia Nardillo Sipontina /.../ Onde in fede /.../ Manfredonia /.../ v.
Can(oni)co Palma vicario Curato sipontino.
1
da Antonia Ruggiero; l'abitazione di Matteo, così come appare dallo Stato delle
anime del 1780, è posta nel quartiere Moschillo e, in particolare, nel palazzo
Delli Santi 3.
La famiglia Spinelli di Manfredonia è originaria da Giovinazzo, da dove,
nel 1690, un Lorenzo, a seguito di un duello, vi emigra. Da Lorenzo nasce Michele e da questi Lorenzo e Matteo 4.
Matteo, verosimilmente, deve compiere i primi studi a Manfredonia,
presso il locale Seminario (tenuto dagli Scolopi) o presso qualche dotto sacerdote sipontino, considerata la buona conoscenza che egli ha dei costumi ecclesiastici. Devono seguire, poi, i corsi universitari e la frequenza di Studi forensi a
Napoli, dove si laurea in legge e dove si forma alla lezione lasciatavi dal Giannone.
Deve esercitare l'avvocatura a Manfredonia, con frequenti viaggi a Lucera e nella città partenopea, non disdegnando, come pure egli sottolinea, di fare
sortite, per motivi di studio, a Roma e in altri centri culturali italiani5.
A Manfredonia lo Spinelli si impegna anche nella vita amministrativa
della città, coprendo, in diversi periodi, la funzione di Eletto (Consigliere comunale) 6.
La formazione giovanile e l'attività forense e pubblica lo portano, naturalmente, ad interessarsi delle questioni e della storia sipontina che egli ha
modo di scrivere in 4 Tomi, ancora inediti. Trattasi, in vero, delle Memorie storiche dell'Antica e Moderna Siponto, Ordinatamente disposte
____________
3 - L'estensore dello stesso Stato delle anime, d. Andrea Pomella, vicario sipontino, gli accredita, erroneamente, 41 anni e lo fa sposato con la signora Geremia
Mirabella di Barletta, di anni 34, figlia di Domenico e di Angela Izzi di Cerignola.
4 - Contrariamente a Matteo, che non lascia figli, Lorenzo ne ha molti; tra gli
altri si ha quel Michele che continuerà l'opera dello zio. Michele, a quanto è dato sapere
dallo stesso, viene nominato Cavaliere dell'ordine Militare di S. Giorgio e si distingue
nelle campagne napoleoniche tanto da meritare da Napoleone Bonaparte l'imperiale
medaglia di S. Elena nella sua qualità di Ufficiale delle antiche guardie reali.
5 - Nel 1775 è a Roma, dove rileva l'iscrizione dell'arcivescovo Ginnasio, nel
1777 dimora a Venezia e qui rileva le iscrizioni delle famiglie sipontine: De Fortia e
Carrara. E' probabile che da Venezia si sia recato anche a Padova.
6 - Cfr. Conclusioni Decurionali, nell'archivio comunale di Manfredonia, anni
1768, 1772, 1773, 1786 e 1797; mancano le Conclusioni dal 1736 al 1768.
2
in Forma d'Annali Colle notizie delle convivine Regioni e dell'Istoria chiesastica, e Profana7 .
La scrittura dei tomi è di facile lettura, lo stile risente ancora degli influssi
tardo secenteschi, appesantito all'inizio, ma vivace e sanguigno verso la fine.
Lo Spinelli, anche se non si dichiara giacobino, pur tuttavia manifesta le
sue letture giannoniane, specie quando inveisce contro il clero e, in particolare,
contro l'arcivescovo sipontino Tommaso Francone (1777-1799). Egli, in definitiva, appare come un legittimista e condanna le varie forme di monopolio e le
spoliazioni perpetrate ai danni del Patrimonio universale cittadino (demanio) da
parte di alcuni componenti le famiglie più notevoli di Manfredonia, interessate
pure all'amministrazione della cosa pubblica locale (Università), per pretesi debiti non soddisfatti da questa.
E le pagine più belle e più sincere sono proprio quelle nelle quali il suo
stile si fa più passionale e quando gli avvenimenti sono più recenti; come dire:
la perdita del feudo Ramatola, le conseguenze del sacco turchesco, il duello
nella piazza della Maddalena e l'uccisione del Governatore della città, la ribellione
delle panificatrici a seguito della mancata rielezione del sindaco Andrea da Urruttia.
La documentazione storica spinelliana è più degna di attenzione, quindi,
quando l'autore esamina gli avvenimenti che gli sono coevi, anche se non disdegna di fare riferimenti bibliografici per altri periodi storici.
Le Memorie dello Spinelli, così, segnano, come si è detto, un punto fondamentale nella storiografia locale, distaccandosi dal vecchio filone clericoagiografico, per inserirsi nella concezione laica e illuministica, sullo schema del
Giannone, appunto, anche se non esenti da manchevolezze e da alcuni luoghi
comuni, tipici dell'epoca.
Oltre a questi meriti, le Memorie, con i relativi richiami bibliografici, ci
consentono di dare, anche, uno sguardo, se pure sommario, sulla storiografia
sipontina a tutto il ‘700.
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7 - datata dal 1783 (primo tomo) al 1785 (secondo, terzo e quarto tomo). Il
tempo speso, però, dallo Spinelli per redigere e rifinire la sua opera va al di là di quei
tre anni. La Mappa Sipontina, infatti, facente parte del 4° tomo e commissionatagli
dal Consiglio comunale di Manfredonia, reca la data del 1787; tutti e quattro i tonti,
poi, contengono note, aggiunte e postille senz'altro posteriori al 1785 e, infine, sempre nel 4° tomo, sono inserite delle opere a stampa, una delle quali porta la data del
1793, con annotazioni manoscritte dello stesso Spinelli.
3
Frontespizio del 1° tomo di M. Spinelli (Civiche Biblioteche di Manfredonia – Foto di
Giuseppe Furio)
4
La “cornucopia” di N. Perrotto (Civiche Biblioteche di Manfredonia) – Foto di
Giuseppe Furio.
5
E il problema della storiografia sipontina è un tema che in questi ultimi
anni si va facendo sempre più vivace ed interessante, qui da noi, per cui essa è
meritevole di una opportuna e particolare analisi.
Dal IX al XVII secolo
Entrando, pertanto, nell'ordine di questa analisi, va detto che già dal IX
secolo è attiva a Siponto una Scuola di studi rabbinici; ma non sappiano se la
stessa abbia o meno prodotto studi storici, e giudaici e sipontini. Al IX e all'XI
secolo vengono datate, poi, le due Vite di S. Lorenzo, curate dal Beatillo, e
pubblicate, nel 1658, negli Acta Sanctorum dei Bollandisti8.
Sappiamo pure che, nel XII secolo, è attivo a Montecassino un Sipontinus
monacus, autore di un Codice miniato in caratteri longobardi beneventani; ma è
proprio Matteo Spinelli che ci dà notizie più abbondanti sulle opere redatte a
Siponto. Egli, infatti, accenna ad un Libro Magno (o Registro della Chiesa Sipontina), manoscritto di cui si son perse le tracce, così come per il Breviarium o Kalendarium.
All'arcivescovo sipontino Ugone (1195-1216), originario di Troia in Capitanata, viene attribuito il Memoriale Sipontino, andato pur esso perduto; e nessuna traccia si ha delle Miscellanea. Memorie Antiche Sipontine di Niccolò Perrotto,
anche lui arcivescovo sipontino (1458-1480)9. A sua volta, poi, il Perrotto,
dotto umanista, discepolo del Bessarione10 , cita un Chronicon Episcoporum Ecclesiae Sipontina che il Bellucci non sa se considerare un'opera a sé, oppure da co nfondersi con il Libro Magno o con il Memoriale 11.
Per suo conto, lo stesso Bellucci ha modo di scrivere che: "...Fra le carte
del marchese Tontoli di Manfredonia era un manoscritto con questo titolo:
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8- BOLLANDUS JOANNES, HENSCHENLUS GODEFRIDUS, Acta
Sanctorum. De S. Laurentio Episcopo Sipontino in Apulia, Venezia, Meursium, 1658, Tomo
II, pp. 56/63.
9 - Dalle quali lo Spinelli riporta, specie nel l ° tomo, frequentemente dei brani.
Del Perrotto si conserva, però, presso le Civiche Biblioteche di Manfredonia, l'opera:
Cornucopiae. Sive linguae latinae contentarij, diligentissime recogniti atq. ex archilypo emendati,
Venezia, Aldi ed Andreae Asulani, 1527.
10 - Illustre umanista, pure arcivescovo sipontino dal 1447 al 1449.
11 - BELLUCCI MICHELE, Siponto, Rassegna Pugliese, XII, 1905, p. 192.
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Notizie dell'antica Siponto trascritte dagli Annali Sipontini e scritte da Don Metro Rugitino, prete sacerdote della medesima Città, l'anno del Salvatore 1127”12.
Altre memorie, soprattutto epigrafiche, continua il Bellucci, vengono raccolte da padre Giammaria Pellanegro, dell’ordine teutonico di S. Leonardo di
Siponto, dal titolo: Raccolta degli antichi monumenti di Siponto13.
A Troia, città di origine del Pellanegro, opera il notaio sipontino Pietrantonio Rosso, autore del Ristretto dell'Istoria della Città di Troja e sua Diocesi dall'origine delle medesime al 154814, recante, tra l’altro, un intero capitolo sugli avvenimenti disastrosi legati all’assedio di Manfredonia da parte dei soldati del Lautrec.
Altra opera di cui si son pure perse le tracce, e che il Bellucci, contrariamente allo Spinelli che dichiara di averla vista edita15, la fa solo
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12 - Ibidem. Il B. aggiunge: “Subì la sorte dei precedenti (cioè, è andato perduto,
n.d.r.): ho i miei dubbi su la data e sul nome del compilatore...”
13 - Ibidem. Sul Pellanegro si conosce poco, salvo quanto dettato sempre dallo
Spinelli; SPINELLI M. op.cit. tomo 1°, p. 60: “L’opera da lui scritta si intitola: Antiche
Memorie di Siponto e suo distretto” edito nel 1640”. Secondo lo stesso Spinelli le ragioni di
questa opera vengono illustrate dal Pellanegro nel modo seguente: “Ho desiderato vedere
l’antica Cività di Siponto nell’antico stato, la quale, secondo la Memoria fatta dal mio concivitatino Ugone Cardinale Arcivescovo Sipontino”.
14 - Pubblicata dal 1904 al 1907 sulla Rassegna Pugliese, a cura di Nicola Beccia; da
poco riedita, in forma anastatica, dal Comune di Troia.
15 - Sull’Anciulli lo Spinelli così scrive: “F. Tommaso Anciulli, Bacelliere
dell’ordine Domenicano (scrisse) L'Istoria dell'antica e moderna Siponto (edita nel 1643) per
incubenza dell’arciv. Antonio Marulli. Il frontespizio dell’opera è il seguente:
F. Thome Anciulli
Ordinis Praedicatorum
Cognitiorum Praesciptio.
Que incipit ab Anno conditae Romae.
Usque adderam nostrac salutis 1643
Ex jussu Ill.mi et R.nti D.ni
Archiepi Sipontini
Ad futuram Sipontinorum memor.
Constructa
Anno D.ni 1643”
Lo Spinelli aggiunge che l’Anciulli, nel 1635, fu Priore nel convento dei Domenicani di Manfredonia e, sulla scorta dello stesso Anciulli, cita pure l'Antico Registro della chiesa
Sipontina che il padre domenicano avrebbe transunto dal Memoriale della Famiglia Vischi.
Altro autore citato dallo Spinelli è il Pergamo che, pare, abbia riportato le iscrizioni della Sala
dell’antico Senato Sipontino, ove erano scolpiti, appunto, i simulacri dei duci sipontini,
imperatori, regnanti in Roma e in Napoli. In merito cfr. SPINELLI M., op. cit., Tomo 1°,
p. 136.
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manoscritta, è quella curata, nel 1643, dal padre domenicano Tommaso Maria
Anciulli, dal titolo: Annales Sipontini.
Per quanto attiene, infine, gli antichi manoscritti sipontini ci pare utile aggiungere alcune note del D’Aloe in merito al primo vescovo sipontino S. Giustino. Il D’Aloe, parlando del martirologio romano compilato da Filippo Ferrari, generale de' Serviti, dichiara che questi, nelle note, aggiunge: “Justini ep. ex tabulis Ecclesiae Manfredoniensis quae Sipontinae successit. Queste tavole e dittici della Chiesa di Manfredonia non più esistono, ma dobbiamo supporli esistenti al tempo
del Ferrari, che certamente dovrebbe averne la notizia avanti l’anno 1620”16.
Edite, invece, e giunte sino a noi sono le opere di Celestino Telera, di
Gabriele Tontoli, di Pompeo Sarnelli e di Marcello Cavaglieri.
Al Telera, in vero, si devono due opere a stampa sulla storia dei Celestini, in cui si fa cenno anche del concittadino Pietro Santucci17.
Al Tontoli si devono le Memoriae diversae Metropolitanae Ecclesiae Sypontinae
et Collegiatae Ecclesiae Terrae Montis S. Angeli Sypontinae Diocesis e la Collectio iurium
Ecclesiae Garganicae, contra Sypontinam18.
Il Sarnelli è l’autore della Cronologia de' Vescovi ed Arcivescovi Sipontini, edita a
Manfredonia presso la Stamperia arcivescovile, nel 168019.
La Cronologia è l’opera più conosciuta della storiografia locale e, per molti
aspetti, ancora oggi essenziale per la conoscenza delle vicende del
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16 - D’ALOE STANISLAO, Storia profana e sacra dell'antica Siponto e della metropolia
di Manfredonia, Napoli, Tornese, 1877, p. 111.
17 - Trattasi del S. Petri Celestini PP.v. opuscola omnia, ab eodem Sanctissimo Patre e Divinis Scripturis Sacris Canonibus SS. Patrum, Sapientumque sententiis collecta, et elaborata dum in
Sancta Eremo vitam transigent: nunc primum ad chirografica exempiaria restitata et in lucem edita per
O.R.P.D. Coelestinum Teleram Sipontinum S.T.D.). et Abbatem Coelestium. Neapoli, ex typis
Octarii Beltrani, 1640, e delle Historie Sagre degli Uomini illustri per santità della Congregatione
de Celestini. Dell'Ordine di S. Benedetto. Raccolte e descritte da D. Celestino Telera da Manfredonia
già Abbate Deffinitore e poi Abbate Generale della medesima Congregatione, Bologna, Giacomo
Monti, 1648.
18 - Edite entrambe in Roma, da Nicola Angelo Tinassio, rispettivamente, nel
1654 e nel 1655.
19 - L’opera è stata riedita, in forma anastatica, nel 1986, a cura del Centro Documentazione Storica di Manfredonia.
8
nostro vescovado, anche se, come scrive il Bellucci, non esente da gonfiature e
da svarioni.
Il Pellegrino al Gargano è l’opera, in due tomi, del Cavaglieri (1649-1705)20,
con peculiari caratteristiche agiografiche e di erudizione sul culto Michaelico.
Sia il Sarnelli che il Cavaglieri sono presenti giovanissimi a Manfredonia,
al seguito del cardinale arcivescovo Orsini (1675-1680), al quale si deve
l’impulso determinante per la conservazione delle memorie e la ripresa degli
studi storici locali, dando alle stampe egli stesso molti suoi atti21 e ristampando,
nel 1679, gli atti del Sinodo provinciale sipontino tenuto dall’altro cardinale arcivescovo, Tolomeo Gallio (1562-1573)22.
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20 - I titoli per intero sono: Il Pellegrino al Gargano. Ragguagliato dalla possanza beneficante di San Michele Nella sua Celeste Basilica Dal Padre Fra’ Marcello Cavaglieri da Bergamo
Dell’Ordine de' Predicatori; il 1° tomo è edito a Macerata, nel 1680, per i tipi di Giuseppe
Piccini; il 2° tomo è edito a Napoli, nel 1690, per i tipi di Carlo Porsile. Nel 2° tomo vi è:
“Con l’aggiunta del Primo Sermone Pastorale dell’Autore, fatto poi: vescovo di Gravina”.
Ambedue i tomi sono stati riediti, a cura di Michele Melillo, nel 1986 e nel 1987, e apparsi
in Lingua e Storia in Puglia, in volumi doppi, recanti i numeri 29-30 e 31-32. Lo stesso
Melillo sta per dare alle stampe uno studio critico sul Cavaglieri, accentuandone
l’erudizione e le fonti bibliografiche.
21 - Methodus Sinodi Diocesanae rite ac. recte peregendae sub Emin.mo Domino Fr. Vincentio M. Orsino. Archiep. Sipontino A. 1678, Trani, ex tipogr. Haeredum Valerii, 1678;
- Acta Sinodi diocesanae S. Ecclesiae Sipontinae a Fr. Vincentio M. Orsino, Archiep. Sipontino celebrate diebus 20,31 maii et prima jiunii 1678, Maceratae, ex tipogr. Ios. Piccini, 1678;
- Appendix Sinodi S. Ecclesiae Sipontinae a Fr. Vincentio M. Ursino... celebrate 1678, Maceratae, ex tipogr. Jos. Piccini, 1679;
- Catalogo Universale degli obblighi perpetui di Messe in tutta la diocesi Sipontina, Trani,
Valerij, 1678;
- Catalogus omnium sacrarum Reliquiarum quae conservantur in Metropolitana Ecclesiae Sipontina decurtius depositae ab Emin.mo et Rev. Dom. Card. Ursino Archiep. Sipont. sub die 7 jianuari 1680, Siponti, ex Archiepiscopali Tipographia, MDCLXXX;
- Epistola di avvertimenti pastorali al clero e popolo della Città e Diocesi di Siponto, lasciati
dal Cardinale Fr. Vincenzo Maria Orsini Romano, loro arcivescovo in occasione della traslazione e
partenza sua dalla Chiesa Sipontina alla Cesenatense, Manfredonia, nella Stamperia Arcivescovile, 1680.
Queste due ultime opere, con la Cronologia del Sarnelli, sono le uniche, finora conosciute, edite dalla Stamperia Arcivescovile di Manfredonia.
22 - Constitutiones et decreta Provincialis Synodi Sipontinae, edite a Venezia, da Juncta,
nel 1564; l’edizione dell’Orsini è datata Macerata, per i tipi di Giuseppe Piccini, 1679.
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Nel ‘700 e nella prima metà dell’’800
La storiografia del ‘700 è molto scarna, così come quella della prima
metà dell’’800; nel XVIII secolo, oltre alla presenza fondamentale di Matteo
Spinelli, dobbiamo registrare: l’Italia Sacra dell’Ughelli (emendata dal Coleti), del
1721, nella quale si tratta pure della Chiesa sipontina 23; Luca Brencola, sipontino, economista della Dogana delle pecore di Foggia, con un saggio sulla stessa
dogana 24; Francesco Rivera, arcivescovo sipontino (1742-1777), al quale si deve
il riaffidamento dell’insegnamento nel Seminario ai padri Scolopi, autore di un
Officium S. Laurenti 25 e di un Officium S. Michaelis Archangeli 26; Tommaso Maria
Francone, che indice e pubblica gli atti di un Sinodo, poco noto, del 178427.
Nella prima metà dell’’800 si hanno le riassunzioni di Michele Spinelli delle
opere dello zio e, in particolare, le aggiunte ed il commento critico alla Cronologia
del Sarnelli, pure esse inedite28.
Non sono degni di rilievo, per quanto qui ci interessa, i contributi di
Gian Tommaso Giordani e di Francesco Paolo Bozzelli, il cui romanzo storico,
La strega di Siponto, pare sia andato irrimediabilmente perduto.
Mette conto aggiungere che in questo periodo opera come arcivescovo
sipontino Vitangelo Salvemini (1832-1854), autore di una Lettera pastorale, del
1832, e delle Officia Sanctorum in metropolitana Ecclesiae Sipontina eiusque diocesi 29.
____________
23 - UGHELLI FERDINANDO, Italia sacra, Venezia, Coleti, 1725, tomo 7°, pp.
810/865.
24 - BRENCOLA LUCA, De jurisditione regiae Dohanae menae pecudum Apuliae opus,
usque nunc a nemine elaboratum, et nunc primum in lucem editum opprime omnibus necessariun, iudicibus, advocatis, et procuratoribus, necnon Baronibus, eorumque officialibus, et aliis, ... Napoli (?),
Minoun, 1727.
25 - RIVERA FRANCESCO, Officium S. Laurenti, Napoli, de Bonis e Terres,
1746.
26 - RIVERA FRANCESCO, Offlicium S. Michaelis Archangeli, Napoli, Migliaccio,
1749.
27 - Synodus Sipontina habita die XI et XII mensis maii anni MDCCXXXIV ab
excellentiss. et reverendiss. Domino D. Thoma M. Francone patricio neapolitano el sipontinae ecclesiae
archiepiscopo, Neapoli, apud Josephum de Bisogno, 1785. in: DE NADRO SILVINO,
Sinodi Diocesani Italiani. Catalogo bibliografico degli atti a stampa 1534-1878, Città del Vaticano,
Biblioteca Apostolica Vaticana, 1960, p. 442, 1602.
28 - Manoscritti, come quelli di Matteo Spinelli, depositati nelle Civiche Biblioteche
di Manfredonia.
29 - Napoli, Tipografia Simoniana, 1842.
10
Le Officia contengono pure le antifone e la vita metrica dell’Officio di S. Lorenzo.
Nel tormentato clima del ’48 l’arcivescovo Salvemini vi rimane coinvolto; e datano, appunto, a questi anni un libello contro di lui, la sua smentita, una
lettera di alcuni canonici sipontini e la conseguente autodifesa del presule30.
La seconda metà dell’’800
Giungiamo, così, alla seconda metà del sec. XIX per vedere edito, nel
1851, a Napoli, nella Stamperia Reale, a cura di Agostino Gervasio: Una nuova
iscrizione altomedievale da Siponto; subito dopo, nel 1857, ancora a Napoli, nella
Stamperia del Vaglio, Daniele Maria Zigarelli pubblica il Cenno storico della chiesa
Metropolitana di Manfredonia, ma che nulla aggiunge a quanto già conosciuto.
Intanto, nel 1856, Francesco Prudenzano, sempre a Napoli, per i tipi di
Rondinella, dà alla luce un romanzo storico, ambientato nel ‘600: Viscardo da
Manfredonia, sullo stilema narrativo dei tardo romantici italiani.
Nel 1866 il Cappelletti, su Chiese d'Italia 31 scrive il saggio: Siponto, oggidì
Manfredonia Chiesa Arcivescovile con l’Amministrazione di Viesti; e, nel 1877, poi, Stanislao D’Aloe pubblica la Storia profana e sacra dell’antica Siponto e della Metropolia di
Manfredonia, opera incompleta,
____________
30 - A. S. Santità Pio IX P.M., a Sua Maestà, al Ministero, alle Camere ed a tutte le Potestà provinciali del Regno di Napoli, S.n.t. (ma 1849);
La falsità confutata con la verità, S.n.t. (ma 1849);
PRENCIPE ANTONIO, FRATTAROLO GIACINTO, CATANESE VINCENZO: A Sua Santità Pio IX, a Sua Maestà Ferdinando II, re del Regno delle Due Sicilie
P.F.A., agli eccel. Ministeri degli affari ecclesiastici e di polizia, agli eminen. sig. Cardinali prefetto
della Congregazione del Concilio e dei Vescovi e Regolari. Al signor Intendente della Provincia di Capitanata, e a tutte le Potestà eccl., civili e militari del Regno, S.I., Tip. Banzoni, s.d. (ma 1849);
SALVEMINI VITANGELO, Esame di un libello contro l’Arcivescovo di Manfredonia
indirizzato a Sua Eccellenza il Ministro Segretario di Stato degli affari ecclesiastici, S.I., Tip. Società Filomatica, s.d. (ma 1849).
Per quanto sopra riportato cfr. SIMONE MARIO, Bibliografia del 1848 Dauno, Archivio Storico Pugliese, I, 1948, fasc. II, pp. 8 e segg.
31 - In Chiese d'Italia XX, Venezia, 1866.
11
ma che ha il merito di aver dato un buon contributo e sulla conoscenza delle
antichità sipontine e, vieppiù, per alcune indicazioni sulla nascita di Manfredonia.
Per il D’Aloe la fondazione della città è da ricondursi al 1263, come da datum Orte, documento, del resto, già noto e trascritto dallo Spinelli nelle sue Memorie.
Scarsa importanza hanno le Reminiscenze ed appunti storici. Siponto e Manfredonia del Cattabeni32 e l’Escursione scientifica al Gargano. Bozzetti e profili storici del
Moretti33; quest’ultimo lavoro altro non è che una succinta descrizione, per
motivi didattici, del territorio sipontino.
La serie delle pubblicazioni continua; nel 1893, a cura di Ambrogio
Amelli, si rilevano gli Acta Synodi Sipontinae e, nel 1898, Vincenzo Moscati dà alle
stampe, per la tipografia Tiberina di Roma, la monografia: Francesco Rivera. Arcivescovo di Manfredonia.
Ed in tema di presuli sipontini va pur detto che, nello scorcio di questi
50 anni, si hanno lettere pastorali, statuti ed atti degli arcivescovi Vincenzo Taglialatela (1854-1879)34; Beniamino Feuli (1880-1884)35 e Ferdinando Pizza (18841897)36.
I primi decenni del ‘900 e la documentazione storica sipontina
All’inizio del nuovo secolo, nel 1900, il Padalino pubblica, per la Tipografia Economica di Foggia, Siponto-Manfredonia, una sorta di itinerario nelle
nostre contrade, ma più sognante che storico.
Ora, se il XIX secolo si presenta un pò scarno di apporti storiografici i
primi decenni del ‘900 ci danno, invece, un primo e notevole contributo
____________
32 - Edite ad Ancona, nel 1885, per lo Stabilimento tipografico Sarzani.
33 - Edita a Foggia, nel 1893, da Pistocchi.
34 - Lettera pastorale del 1854 e gli Statuti della Pia Unione del SS. ed Immac. Cuore di
Maria SS., editi a Napoli, nel 1874.
35 - Per il Feuli ricordiamo: Lettera Pastorale, Roma, Tipografia Poliglotta De Propaganda Fide, 1880; Metodo per le conferenze dei casi morali e liturgici, Benevento, De Martini,
1880; Istruzioni per la sacra visita pastorale, Benevento, De Martini, 188l; Circolare pei confessori
con la tabella dei casi riservati, Benevento, De Martini, 1881; Il Seminario Sipontino, Roma,
Tipografia della S.C. de Propaganda Fide, 1882.
36 - Lettera pastorale, Foggia, Tipogr. Dell’Unione, 1891.
12
documentaristico per la compilazione storiografica su Siponto, su Manfredonia
e sul loro vescovado.
E proprio nel 1903 si ha il Quaternus de excadenciis fredericiano 37 (databile
al 1249), contenente anche una cospicua documentazione sulla Siponto tardo
sveva.
Il 1905 il Bellucci pubblica sulla Rassegna Pugliese un articolo su Siponto,
con indicazioni sulle origini della città, sul suo nome e, come già detto, sulla sua
bibliografia storica.
In questo stesso periodo di tempo, sulla Rassegna Italiana, appare pure il
saggio di Annibale de la Grennelais jr. su Luigi De La Grennelais martire del 1799
38 . Si tratta del figlio del castellano di Manfredonia, giustiziato il 1800, perché al
seguito dell’ammiragio Caracciolo e attivo partecipante ai moti partenopei di
fine ‘700.
Ed è con il Marchianò e con il Camobreco che la storiografia sipontina
si arricchisce ancor più di validi supporti documentaristici.
Michele Marchianò, su commissione del sindaco Capparelli, trascrive e
pubblica una raccolta di privilegi concessi da Carlo V alla nostra città; essi fanno
seguito ad esplicite richieste municipali, per cui e le richieste e gli stessi privilegi
illustrano efficacemente la situazione venutasi a creare a Manfredonia, nella prima metà del ‘500, a seguito dell’invasione delle armate amiche spagnole per
fronteggiare l’assedio di quelle del Lautrec39.
Francesco Camobreco, a sua volta, per l’Istituto ltalo-Prussiano, cura la
trascrizione di buona parte dei documenti della badia di S. Leonardo di Siponto (dal XII sec. a tutto il 1499)40. L’opera, nel passato, è stata poco utilizzata
e solo di recente è oggetto di studi sistematici, specie a livello universitario (tesi
di laurea). Il complesso dei documenti editi, infatti, costituisce una fonte insostituibile per qualsivoglia ricerca, e non solo storica, su Siponto, su Manfredonia, sulla omonima badia, sul Gargano e sulla Capitanata.
____________
37 - AMELLI AMBROGIO (a cura di), Quaternus de Excadenciis el Revocatis Capitanatae de mandato Imperialis maiestatis Frederici secundi, Montecassino, 1903.
38 - Rassegna Italiana, Napoli, IX, 1901, fasc. 7-8, pp. 1/7.
39 - MARCHIANÒ MICHELE (a cura di), Per la storia di Manfredonia, Vecchi, Trani, 1903.
40 - CAMOBRECO FRANCESCO (a cura di), Regesto di S. Leonardo di Siponto,
Leoscher, 1913.
13
Michele Bellucci e Luigi Pascale
Continua, ancora, l’attività di Michele Bellucci, vera cariatide della moderna storiografia locale, con saggi ed articoli su varie riviste, a carattere provinciale e regionale. La sua azione, però, meglio si compendia nella redazione di
schede, molte delle quali pubblicate postume o inedite.
La produzione del Bellucci è così vasta da meritarne una trattazione particolareggiata; cosa, in vero, parzialmente effettuata dai figli, specie con la monografia, dedicatagli nel 1961, La vita e le opere di Michele Bellucci 41, alla quale si
rimanda per gli opportuni approfondimenti. Qui va detto che nella stessa monografia vi sono alcuni saggi dell’illustre storico e musicista, riguardante la locale
epigrafia, la vita di S. Lorenzo Maiorano, gli Statuti Municipali di Manfredonia,
ecc.
E si giunge a Luigi Pascale che dà alle stampe L'antica e la nuova Siponto,
prima nel 1912, con la Tipografia Moretti di Torino, e poi, nel 1932, con Conti-Rifredi di Firenze. La seconda edizione, più ampliata, contiene anche altri
saggi del Pascale e, pertanto, più interessante. Assume ancora ora importanza e
riferimento la catalogazione di molto materiale archeologico e numismatico, dal
Pascale amorevolmente raccolto, e che doveva costituire il fondo iniziale per
l’allora costituendo Museo Civico.
Va ammesso che, dal punto di visa storiografico, l’opera del Pascale risente della lettura spinelliana, anche se non esente da contributi originali, specie
per quanto attiene alcuni illustri uomini locali, come il Santucci ed il Telera42, od
anche Vettor Pisani (l’ammiraglio veneziano morto nelle acque del golfo sipontino), al quale viene dedicato un saggio in collaborazione con Antonio Radogna 43.
All’opera del Pascale, comunque, va ascritto il merito di essere stata la
prima pubblicazione divulgativa, a scopo popolare, di una certa consistenza;
sulla stessa si sono esercitate, poi, nel tempo, le letture di chiunque ha voluto
interessarsi della nostra storia locale.
____________
41 - Edita in Roma, S.n.t.
42 - Pascale Luigi, I due abbati celestini Pietro Santucci e Celestino Telera di Manfredonia,
Campobasso, Colitti, 1923.
43 - RADOGNA ANTONIO, PASCALE LUIGI, L'Ammiraglio Vittore Pisani in
Manfredonia. Anni 1324-1380, Manfredonia, Bilancia, 1929.
14
Al Radogna vanno assegnati anche alcuni opuscoli sulle vicende del l°
conflitto mondiale a Manfredonia44.
All’attività episcopale dell’arcivescovo Pasquale Gagliardi (1887-1929)
vanno accreditati numerosi atti a stampa, per i quali, così come per i suoi successori (Cesarano e Vailati), andrebbe dedicata una opportuna e doverosa analisi particolareggiata; qui appresso ci limiteremo a citare solo quelli di non squisito carattere ecclesiale.
Mario Simone
Inizia, intanto, la sua attività di pubblicista Mario Simone (Marius Sipontinus) che ha modo di curare: Manfredonia e il Gargano. Pagine di storia regionale e d'arte 45, uno zibaldone sulla storia e sull’arte a Manfredonia, a Monte S. Angelo e a
Pulsano, con la fattiva collaborazione di Giovanni Tancredi e di Nicola Quitadamo.
L’attività del Simone è continua ed infaticabile, fino alla morte, con la ricerca e la catalogazione di tutto il materiale bibliografico e documentaristico
che possa essere utile non solo per la storiografia, ma, e soprattutto, per la sua
vocazione di raffinato editore.
Così come per il Bellucci, anche per il Simone il materiale inedito, depositato presso la Biblioteca Provinciale di Foggia, abbisogna di una accurata sistemazione e di essere recepito in loco, per poi essere doverosamente pubblicato.
____________
44 - RADOGNA ANTONIO, Manfredonia nell'ora che volge, “Il Gargano e la guerra, Maggio 1915 - Maggio 1916”; numero unico illustrato a beneficio della C.R.I., Lucera,
Pesce, 1916, pp. 28/33;
RADOGNA ANTONIO, Il primato di Manfredonia nella grande guerra di redenzione
italica, Foggia, Cardone, s.d. (ma 1923);
RADOGNA ANTONIO, La celebrazione della Vittoria a Manfredonia, Manfredonia,
Bilancia, 1927.
45 - Manfredonia, Bilancia, 1925. Nell’opuscolo vi figurano: SIMONE MARIO:
Dalle rovine del passato alla luce dell'avvenire; BELLUCCI MICHELE, Manfredonia; SIMONE
MARIO, I monumenti dell'antica e della nuova Siponto; BARBONI MATTEO, Manfredonia
dell'avvenire; QUITADAMO NICOLA, Cenni dell'antichissima badia di Pulsano; TANCREDI
GIOVANNI, il castello e la Signoria dell'Onore di Monte S. Angelo.
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Un grosso contributo storiografico del Simone, ad esempio, riguarda il
Risorgimento, con la raccolta del materiale con il quale ha dato corpo, nel 1948,
alla Mostra storica del 1848 in Capitanata - Catalogo, seguito dalla Bibliografia del
1848 dauno46. Il Catalogo e la Bibliografia contengono Schede ed utili riferimenti per
lo studio della Carboneria a Manfredonia.
Altri esempi di saggi del Simone sono: La Capitanata eretta a Provincia dello
Stato Italiano (nel Centenario 1861-1961)47; Il Consiglio Provinciale del 186148, 19211971. Repubblicanesimo di Manfredonia49.
Non sono mancati, anche nel Simone, interessi di carattere letterari, come
il romanzo storico: Odio e olivo. Storia pugliese del 1820 50, ambientato a Manfredonia e sul Gargano.
Gli insigni monumenti di Siponto e di Manfredonia
Data al 1928 l’altra divulgazione popolare, dal titolo: Manfredonia e l'antica
Siponto, curata da Giusppe Rasi per la Sonzogno di Milano, nella collana Le cento
città d'Italia.
Ma un discorso a parte meritano, per il primo cinquantennio del ‘900, i
contributi dati per la conoscenza storica, iconografica e cultuale di S. Maria di
Siponto e di altri monumenti cittadini; si hanno, così: Il Tempio di S. Maria Maggiore di Siponto, di Carmine Capuano 51; La Madonna dagli occhi sbarrati, di Alfredo
Petrucci52 , argomento poi ampliato ed inserito nell’opera più generale e di più
ampio respiro letterario ed artistico, Cattedrali di Puglia, edito dalla Bestetti di
Roma, nel 1962; ed, infine, La Madonna di Siponto, di Raffaele Di Sabato 53 che
cura, pure, il saggio La basilica di S. Maria Maggiore di Siponto 54. Per questo autore va aggiunto
____________
46 - Archivio Storico Pugliese, I, 1948, op.cit.
47 - Foggia, S.E.D., 1961.
48 - Foggia, S.E.D., 1967.
49 - Napoli-Foggia-Bari, C.E.S.P., 1972.
50 - Foggia, S.E.D., 1936.
51 - Trani, Vecchi, 1909.
52 - Foggia, Pilone, 1925.
53 - Foggia, Ediz. de “Il Rinnovamento”, 1935.
54 - Le Vie d’Italia, 1939.
16
che la sua attività di pubblicista l’ha portato ad interessarsi anche di alcuni aspetti
della Siponto antica.
L’azione divulgativa svolta dal Capuano, dal Patrucci e dal Di Sabato
trova il suo sostrato essenziale nelle pubblicazioni curate dal Bertaux55 e dal
Bernich56, nel 1899, e dall’Avena 57, nel 1902, ai quali si devono ampi studi critici
sull’insigne monumento preromanico sipontino.
Un interessante, ma poco conosciuto, contributo sugli scavi di Siponto
proviene da Rosario Labadessa58 che li ha curati in occasione delle opere di
bonifica delle paludi sipontine.
Altro particolare elemento di interesse storico-artistico-documentaristico
è il castello, sul quale è notevole il contributo dato dall’Abatino, con Il Castello di
Manfredonia59 e, soprattutto, dallo Sthamer60 e dall’Haseloff61. Semplicemente
divulgativo è, invece, il contributo dato dalla Tammeo, con Il Castello di Manfredonia62.
Gli ultimi decenni della prima metà del '900
Ritornando ai temi della storiografia locale, vera e propria, vanno sottolineati, in materia di vescovi sipontini, il contributo monografico di Giovanni
Mercati: Per la cronologia della vita e degli scritti di Niccolò Perrotti. Arcivescovo di Siponto63, e in materia di eventi bellici, la pubblicazione del La Cava in merito al sacco turchesco del 162064, con lo studio
____________
55 - BERTAUX EMILE, L’Italie inconnue (voyages dans l’ancine royaume de
Naples), in Le Tour du Monde, Parigi, 1888-89, III, p. 176.
56 - BERNICH E. La cattedrale di Siponto, in L'uovo di Colombo, Bari, 1899, II, n. 25.
57 - AVENA ADOLFO, Monumenti dell'Italia meridionale, Roma, Officina Poligrafica Romana, 1902, pp. 109 e segg.
58 - LABADESSA ROSARIO, Gli scavi di Siponto, Japigia, IX, 1938.
59 - Trani, Vecchi, 1902.
60 - STHAMER EDUARD, Die Bauten der Hohenstaufen in Unteritalien, Leipzig,
1912, pp. 1331/168.
61 - HASELOFF ARTHUR, Die Baulen der Hohenstaufen in Unteritalien, Leipzig,
1921, pp. 387/ 407.
62 - TAMMEO CARMELA, Il castello di Manfredonia, Bari, Pensini, 1931.
63 - Roma, Biblioteca Vaticana, 1925.
64 - LA CAVA ALFONSO, il sacco turchesco di Manfredonia del 1620, Archivio Storico per le Province Napoletane, LXV, pp. 66/104.
17
delle due relazioni anonime sullo stesso sacco, conservate nella Biblioteca
dell’Archivio Storico per le Province Napoletane di Napoli.
Queste due relazioni (attribuite ai canonici sipontini dell’epoca) furono
riprese e trascritte dal Simone ne La ‘presa di Manfredonia dai Turchi nell’anno 1620’
65 .
Il saggio di Alfonso La Cava si dimostra ben sviluppato, ricco di riferimenti bibliografici, con utili indicazioni sul periodo storico prima e dopo il sacco. Ed anche questo altro lavoro ci pare fondamentale per tessere un discorso
più completo su quell’avvenimento che, ancor oggi, continua ad interessare studiosi locali e non.
Non vanno trascurate altre felici pubblicazioni che accrescono, vieppiù,
la già ponderosa Biblioteca Storica Sipontina; ci riferiamo a Giovanni Antonucci,
con L'Arcivescovato di Siponto, apparso su Samnium, nel 1937; a Francesco Giordani, con Francesco Paolo Bozzelli, edito dalla S.E.D. di Simone, nel 1940; a
Tommaso Leccisotti, con Due monaci cassinesi arcivescovi di Siponto, in Japigia, del
1944.
Questi due ultimi lavori illustrano efficacemente la personalità del filosofo-politico sipontino e la figura del vescovo Gerardo, attivo nell’XI secolo, e
sul quale, in definitiva, si impernia la riproposizione della Civitas Christiana Sipontina.
Silvestro Mastrobuoni
E chiudiamo lo scorcio di tempo a cavallo delle due metà di secolo con
i contributi di Silvestro Mastrobuoni.
Egli inizia a scrivere prima sul Bollettino dell’Archidiocesi di Manfredonia, Vita Cattolica, e poi con monografie, come: Ai margini della Storia sipontina66;
Il culto della Madonna di Siponto67; Cronotassi e Blasonario dei vescovi ed arcivescovi sipontini68; La Chiesa sipontina e i suoi rapporti con le altre Chiese della regione AppuloSannita69; S.
____________
65 - La Capitanata, IX, 3-4 mag.-ag. 1971, pp. 161/171.
66 - Manfredonia, Tipografia Sipontina, 1938.
67 - Manfredonia, Bilancia, 1941.
68 - Benevento, Fallarino, 1943.
69 - Benevento, Fallarino, 1943.
18
Leonardo di Siponto70 e Manfredonia e la sua patrona nella storia, nel culto, nella pietà 71,
oltre ad opuscoli varii, sugli stessi argomenti, a scopo didattico.
L’opera del Mastrobuoni conclude un periodo quanto mai importante
per la nostra storiografia, che è poi quello fondamentale, sul quale, va pur detto, le nuove generazioni si sono formate e hanno tratto gli spunti e le motivazioni per ricerche più particolareggiate e settoriali.
Al Mastrobuoni va dato il grande merito di essere stato il promotore
della ripresa degli scavi archeologici a Siponto, della cui testimonianza ha compilato l’opuscolo: Antichità Sipontine, del 1955, completando e dando maggiore
corpo a quanto già edito dal Labadessa.
L’opera storica del Mastrobuoni sulla Chiesa sipontina, anche se in parte
risente delle letture sarnelliane e spinelliane, ha il merito di averne proseguita la
Cronologia, con il corredo di opportuni rimandi bibliografici. E proprio quel
corredo, unitamente allo studio del Regesto, all’esame e all’analisi delle iscrizioni
della badia di S. Leonardo hanno consentito al Mastrobuoni, prima con articoli
su fogli locali, e poi con la monografia su S. Leonardo di Siponto, appunto, di
scrivere l’opera sua migliore, per rigore metodologico e per capacità di sintesi.
I “Quaderni” dell'A.A.S.T. di Manfredonia, Nicola De Feudis e Antonio Ferrara
Alla collaborazione, alla lezione e all’incentivo dei Maestri del primo ‘900,
come il Bellucci, il Pascale, il Mastrobuoni e il Simone, si deve l’attuale produzione storiografica sulla nostra città, che sta raggiungendo mete ragguardevoli, e
per quantità e per contributi.
E, proprio in collaborazione con il Mastrobuoni, Nicola De Feudis
pubblica, per l’E.P.T. di Foggia, il quaderno: Manfredonia (Siponto-S. Leonardo),
del 1957; a questo esordio seguono alcuni articoli su foglietti locali (in merito al
castello e alle consuetudini municipali) e il saggio, del
____________
70 - Foggia, S.E.D., 1960.
71 -Foggia, S.E.D., 1967.
19
Bibl. Apost. Vaticana. Vat. lat. 5949, c. 2312.
20
1967, S. Domenico e la cappella de “La Maddalena”72. Ma dove l’opera di questo
storico, puntuale e documentato, fine conoscitore dell’arte, e artista della fotografia egli stesso, meglio si realizza, è nei Quaderni dell’A.A.S.T. di Manfredonia;
si tratta, in vero, di: Manfredonia. Tra ‘700-‘800. La Città 73; Manfredonia. Tra ‘700’800. Il territorio74 e.. Andar per masserie75.
I due Quaderni, ricchi di corredo fotografico dell’autore (che ha raccolto
una corposa fototeca), sono delle pregevolezze e per forma e per sintesi storica; l’ultimo lavoro, poi, è lo spaccato del ricco patrimonio artistico, monumentale ed ambientale della plaga sipontina, un invito suadente a fare delle cavalcate per le nostre contrade, in riva al mare, nel Tavoliere e sulla montagna.
Ogni masseria viene opportunamente visualizzata, con la trascrizione di una
scheda e di un itinerario circa la sua ubicazione, la sua superficie, la proprietà,
l’utilizzo e quanto altro necessario per farne un utile uso agro-turistico.
E visto ch abbiamo accennato ai Quaderni della locale Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo, ci preme sottolineare la felice stagione della loro
produzione.
I Quaderni sono 10, di cui il 6° e il 10° del De Feudis (già citati), il 2° di
Ferri-Nava76, il 3° di Vailati-Della Malva, il 7° di Di Turo, il 5° e l’8° di Ferrara,
il 1°, il 4° e il 9° di Serricchio, dei quali appresso diremo.
La collana ha riscosso successo e plauso, in particolare per
l’impostazione editoriale e divulgativa, riuscendo a sviluppare un discorso corale su tutta la problematica storiografica locale.
E’ chiaro che l’iniziativa non poteva esaurirsi solo in quei quaderni; ma
ancora una volta, la mancanza degli opportuni finanziamenti ha anchilosato un
conato culturale qualificante e di vasto respiro.
Con Antonio Ferrara, anche egli attivo collaboratore del Mastrobuoni, ci
troviamo di fronte ad un caso che, a prima vista, sa di eccezionale se non sapessimo che egli ha coltivato sin dalla verde età gli studi storici.
____________
72 - La Capitanata, V, 4-6, lu.-dic. 1967.
73 - Quaderno n. 6 dell’AAST Manfredonia, Foggia, Leone, s.d..
74 - Quaderno n. 10 dell’AAST Manfredonia, Foggia, Grafsud, 1978.
75 - Milano, Edizioni E.T., 1980.
76 - FERRI SILVIO, NAVA MARIA LUISA, Stele daunie, Foggia, Leone, s.d.
21
Inizia, infatti, giovanissimo, come pubblicista, ma solo a tarda età dà alle
stampe la sua vasta produzione. L’esordio, come saggista, avviene nel 1930,
con: Il cardinale Orsini Benedetto XIII nella vita e nelle opere del suo arcivescovado sipontino77; molto tempo dopo si ha l’altro saggio su S. Leonardo di Siponto e Don Mastrobuoni78. Ottantenne, poi, dà il meglio di sé, con ampia spazialità di argomenti, come: Il Duomo di Manfredonia e il campanile dell'Orsini79; Il castello e la cinta della
piazza di Manfredonia80; Manfredonia. 8 chiese e l'Episcopio fra gotico e barocco81; Gli
Svevi e Manfredi fondatore di Manfredonia82; Manfredonia. Notabili e palazzi tra vita e
arte83 (per questo lavoro utilizza molte schede del Bellucci); Siponto. L'antica chiesa,
le mura, la città sepolta84.
Giuseppe Antonio Gentile, Michele Magno, Berardino Tizzani e Vincenzo Gennaro Valente.
Con impostazione dichiaratamente didattica, Giuseppe Antonio Gentile
dà alle stampe: Manfredonia. Testimonianze vecchie e nuove, la prima edizione nel
197085 e la seconda, ampliata e con un corredo folclorico, nel 197986, e la Storia
dell'antica Siponto (1200 a.C.-1255 d.C.)87. Le due opere, munite di buoni spunti
bibliografici, possono essere utilizzate anche per specifci riferimenti monografici e costituiscono una continuità ideale con quelle dello Spinelli e del Pascale.
Anche Michele Magno pare giunto alla storiografia solo in età avanzata,
ma così non è, in quanto si conoscono molti suoi interventi sin dagli anni
____________
77 - Manfredonia, Bilancia, 1930.
78 - La Capitanata, VIII, 3-4, mag-ag. 1968.
79 - Quaderno n. 5 dell’AAST Manfredonia, Foggia, Leone, s.d. (ma 1975).
80 - Quaderno n. 8 dell’AAST Manfredonia, Foggia, Grafsud, 1978.
81 - Foggia, Atlantica, 1979.
82 - Foggia, Atlantica, 1979.
83 - Foggia, Atlantica, 1980.
84 - Foggia, Atlantica, 1980.
85 - Trento, Litografia Velox, 1970.
86 - Tipografia dell’Abbazia di Casamari (Frosinone), 1979.
87 - Tipografia dell’Abbazia di Casamari (Frosinone), 1974.
22
‘50. In questo autore va apprezzato il sincretismo tra impegno politico e capacità di documentazione dialettica; e proprio questa documentazione l’ha portato, a parer nostro, agli studi storici.
Le opere del Magno hanno la capacità di illustrare un particolare periodo storico della nostra città, ma anche della Capitanata e della Puglia, il ‘900,
con una chiave di lettura convincente e coerente, impostata sotto l’aspetto politico e laico. Le lotte del proletariato sipontino e pugliese sono un ulteriore contributo alla storiografia meridionale moderna, che non può più vedere come
protagonisti solo le classi abbienti, ma anche quelle soccobenti; classi, queste,
che il Magno fa assurgere a dignità di soggetti di storia.
Copiosi i suoi interventi parlamentari88, che andrebbero raccolti in appositi volumi; a noi qui preme ricordare: Lotte sociali e politiche a Manfredonia (fino al
Fascismo)89; La Capitanata dalla pastorizia al capitalismo agrario (1400-1900)90; Non
bastano le risorse senza programmazione91; Galantuomini e proletari in Puglia. Dagli albori
del Socialismo alla caduta del Fascismo92; Vent'anni di vita Manfredoniana93; la Puglia tra
lotte e repressioni (1944/1963)94 e, infine, Michele Lanzetta95.
Al Magno ci piace accostare, per impegno politico e per attività di pubblicista, Berardino Tizzani, teso a dibattere problematiche locali e provinciali,
specie su La Capitanata. Cultore di studi socio-politici, ha avuto modo di raccogliere un’imponente biblioteca sul movimento popolare cattolico; il Tizzani si
è dimostrato, pure, storico dell’arcivescovo Cesarano e, pare, appena possibile,
che darà alle stampe una monografia sull’altro arcivescovo sipontino, Gagliardi,
e sui suoi rapporti con Padre Pio.
____________
88 - MAGNO MICHELE, La miniera di bauxite del Gargano, 1950; Tutti uniti per la
rinascita del Gargano, 1952; Il problema stradale, 1956; Per la difesa e la rinascita dell'agricoltura
pugliese, 1956; La lotta dei braccianti dei Mezzogiorno per l'imponibile e il progresso agricolo, 1959.
89 - Napoli-Foggia-Bari, C.E.S.P., 1973.
90 - Roma, C.R.S., 1975. Ristampato, a cura di Area, nel 1988.
9 - Nuovapuglia, III, 23 maggio 1975.
92 - Foggia, Bastogi, 1984.
93 - Roma, Salemi, 1897.
94 - Bari, Levante editori, 1988.
95 - Manfredonia, Prencipe, 1988.
23
Del Tizzani citiamo: La pesca e i suoi problemi nel compartimento di Manfredonia96; Testimonianze sipontine per mons. Cesarano97; A dieci anni dalla scomparsa. Ricordo
di mons. Cesarano98.
Sull’arcivescovo Cesarano non ci dispiace segnalare pure i contributi di
Giosué Fini: Andrea Cesarano (1880-1969)99 e Nel X Anniversario dell'incoronazione
della B. Vergine di Siponto. Ricordo di Giovanni XXIII100.
Altro esempio di longeva capacità di pubblicista ci proviene da Vincenzo
Gennaro Valente (così come il Ferrara e come lui scomparso da poco). Egli, se
pure attivo a Roma, ha conservato indissolubile il contatto con la sua città
d’origine. Di questo autore abbiamo apprezzato, tra l’altro, la cura nella ricerca
bibliografica e folclorica, specie nelle opere: La leggenda garganica, del 1977, L'antica Siponto, del 1979, Manfredonia. Storia della città di Manfredi (prima edizione del
1980 e seconda edizione del 1986); tutte le opere sono state edite in Roma per i
tipi di Manzella.
Cristanziano Serricchio, Matteo Di Turo ed una concezione tomistica della storia sipontina
Per Cristanziano Serricchio il discorso è molto più complesso; questo
delicato ed affermato poeta, sipontino per adozione, ha dato alle stampe, da
circa trent’anni, numerosi saggi e monografie, anche di natura specificatamente
storica, epigrafica ed archeologica. Le sue tesi ed i suoi contributi vengono apprezzati dai maggiori storici meridionali contemporanei e lo vedono occupare,
a giusta ragione, uno spazio di prestigio nell’ambito dell’Archivio Storico Pugliese.
L’analisi settoriale delle singole problematiche affrontate dal Serracchio
sottende un discorso di tendenza globale; egli punta a mettere in luce
____________
96 - Foggia, S.E.D., 1966.
97 - Napoli, Tipografia Laurenziana, 1971.
98 - Dimensioni Sud, I, 2 dic. 1979.
99 - Roma, Edizioni Oikoumenikon, s.d.
100 - Vita Cattolica (n.s.), II, 4 lug.-ag. 1965.
24
aspetti controversi, o poco noti, o semplicemente abbozzati, dai nostri cronisti
del ‘600 e del ‘700.
E qui va fatta una digressione; con il materiale bibliografico e documentaristico che già oggi abbiamo a disposizione non è più pensabile stilare in un
solo volume la storia di una città, come quella sipontina, che presenta, e ancor
più prospetta, vastità temporale e spaziale per le molteplici implicazioni che le
sono insite (archeologiche, epigrafiche, monumentali, economiche, amministrative, sociali, religiose, letterarie, ecologiche e paesaggistiche, ecc.), per cui sono
maturi i tempi per un progetto, a più mani, per una pubblicazione tomistica della
stessa. Esempio ne abbiamo avuto con i Quaderni dell’AAST di Manfredonia. E
una bozza di tale progetto può essere individuata nella coraggiosa iniziativa posta in atto dalle Edizioni del Golfo, nel 1988, con Il Gargano. Storia-Arte-Natura.
Ed ecco alcuni esempi della copiosa produzione del Serricchio: G.T.
Giordani e il liberalismo dauno nel 1820101; sullo stesso tema si ha pure: L'impegno
politico e letterario-sociale di Gian Tommaso Giordani nella “Biografia ” di P. Antonio da
Rignano102; Siponto, un'antica città da scoprire e valorizzare, del 1969; Manfredi e la fondazione di Manfredonia103; Note sulle origini del Cristianesimo a Siponto104; Note su Siponto antica105; Una nuova iscrizione sipontina, del 1976; Iscrizioni romane, paleocristiane e
medievali di Siponto106; Due nuove iscrizioni altomedievali di Siponto, del 1978; La cattedrale di S. Maria di Siponto in base alla documentazione epigrafica e letteraria107; Manfredonia tra nuovo e antico. La porta del sole, del 1985; Il sacco turco di Manfredonia nel
1620 in una relazione inedita108; La cattedrale di S. Maria Maggiore di Siponto e la sua
icona109; riedito nell’Archivio Storico Pugliese110.
____________
101 - Napoli-Foggia-Bari, C.E.S.P., 1961.
102 - Archivio Storico Pugliese, XVII, 1974, pp. 583/600.
103 - Archivio Storico Pugliese, XXV, 1972, fasc. III-IV, pp. 483/509; riedito poi,
come Quaderno n. 1 dell’AAST di Manfredonia, Foggia, Leone, s.d.
104 - Rassegna di Studi Dauni, 1, 1, ott.-dic. 1974, pp. 51/58.
105 - Quaderno n. 4 dell’AAST di Manfredonia, Foggia, Leone, 1976.
106 - Quaderno n. 9 dell’AAST di Manfredonia, Foggia, Grafsud, 1978.
107 - Vita Diocesana, XX, 4 ott.-dic. 1983.
108 - Archivio Storico Pugliese, XL, 1987, pp. 196/255.
109 - Manfredonia, Prencipe, 1987.
110 - Archivio Storico Pugliese, XLI, 1986, pp. 69/100.
25
Matteo Di Turo, proficuo fondatore e direttore di fogli e periodici locali, si è segnalato con due eccellenti monografie: Il triduo della mezzaluna nella Manfredonia del seicento111 e Il ministro Bozzelli112. Sia la prima che la seconda opera
sono state precedute da saggi su alcuni quotidiani e mensili, per essere riprese e
ancor meglio sviluppate; la prima per approfondire la figura della Beccarini e di
suo figlio Ottomano, la seconda, con uno studio critico, per puntualizzare il
pensiero del nostro filosofo sensista.
Le stesse monografie sono pregevoli per l’agilità dello stile e per le accorate riflessioni, esposte dal Di Turo; per il Bozzelli, in particolare, c’è il tentativo,
riuscito, di rivalutarne l’azione politica, proprio nel contesto del ’48 e risorgimentale, allorquando il clima di spietata inquisizione pseudo patriottarda ha
portato anche al linciaggio morale ed economico; linciaggio che lo fa assurgere
a dignità di eroe del meridionalismo e del malgoverno sabaudo.
Solo da poco, in effetti, la storiografia sul liberalismo meridionale e sui
Borboni sta rivedendo le sue posizioni; e il Di Turo, appunto, fa tesoro di questa rilettura.
Anche il Di Turo si è cimentato con la narrativa storica e ha dato alle
stampe un racconto didattico sul figlio di Giacometta Beccarini: Osman. Il frate
che non fu sultano113.
Mons. Valentino Vailati e la tradizione culturale della Chiesa sipontina.
Con monsignor Valentino Vailati continua la tradizione culturale e storica
dei presuli sipontini, per cui egli ben si colloca nella schiera di quanti benemeriti
l’hanno preceduto.
Il Vailati, oltre alla pubblicazione, in collaborazione con il Della Malva114,
in merito alla cronologia dei vescovi sipontini e vestani (sullo
____________
111 - Quaderno n. 7 dell’AAST di Manfredonia, Foggia, Leone, 1977.
112 - Manfredonia, Prencipe, 1986.
113 - Manfredonia, Edizioni del Golfo, 1989.
114 - VAILATI VALENTINO, DELLA MALVA MARCO, L’Archidiocesi di
Manfredonia e la Diocesi di Vieste. Guida Storica Anno Santo 1975, Quaderno n. 3 dell’AAST
di Manfredonia, Foggia, Leone, 1975.
26
stilema sarnelliano), ha saputo dare una nuova impronta al bollettino, Vita Diocesana; lo stesso bollettino si dimostra, ora, non come un asettico inventario
dell’attività curiale, bensì come una rivista essa stessa storica; e questa caratteristica le proviene per i contenuti prettamente diocesani, per la corrispondenza e la
pubblicazione degli Atti dei Pontefici, per le Lettere pastoriali, che vi hanno totale
spazio e, soprattutto, per i contributi di ricerca bibliografica e storica, alla quale
lo stesso presule non si sottrae. E qui di seguito citiamo alcuni esempi della sua
vasta produzione: Relazione sullo svolgimento delle indagini previe alla causa di beatificazione di P. Pio da Pietralcina, sacerdote professo dell’ordine F.M. Cappuccini115; A ricordo
del terzo cenetenario dell’ingresso in Manfredonia dell’arcivescovo card. Vincenzo M. Orsini
poi papa Benedetto XIII116; Discorso per la chiusura dell'anno centenario della conversione di
S. Camillo de Lellis in Manfredonia117; Nota storica sull'arcivescovo sipontino card. Vincenzo M. Orsini (Benedetto XIII)118; Storia civile del tempo in cui visse il vescovo di Siponto S.
Lorenzo119; Lettera per l'indizione del Sinodo Diocesano di Manfredonia e Vieste120;
L'Episcopato di mons. Feuli (1880-1884)121.
Contributi di più squisita fattura bibliografica sono, poi: L'Archivio storico
arcivescovile122; Raccolta di Sinodi conservati nella Biblioteca Arcivescovile di Manfredonia123; Sussidio d'Archivio per la storia dell'episcopato di mons. Pasquale Gagliardi124;
L'Archivio Storico Arcivescovile di Manfredonia. Fondo dei Celestini di Monte S. Angelo
125 ; L'archivio Storico Arcivescovile126 .
Vasta, dunque, l’attività del Vailati che, oltre ad una pastorale impegnata
(sta curando atti di grande portata storica: la causa di beatificazione di
____________
115 - Vita Diocesana, X, 1, gen-mar. 1973, pp. 12/14.
116 - Ibidem, XII, 2, apr.-giu. 1975, pp. 3/10.
117 - Ibidem, XIII, 1, gen.-mar. 1976, pp. 7/10.
118 - Ibidem, XIII, 2, apr.-giu. 1976, pp. 30/32.
119 - Ibidem, XVI, 1, gen.-mar. 1979, pp. 38/39.
120 - Ibidem, XXII, 4, ott.-dic., 1985, pp. 9/20.
121 - Ibidem, XXVI, 1 gen-mar. 1989, pp. 52/53.
122 - Ibidem, XV, 3, lu.-sett. 1978, pp. 40/44.
123 - Ibidem, XXIV, 1, gen.-mar. 1987, pp. 45/46.
124 - Ibidem XXIV, 3, lu.-sett. 1987, pp. 41/43.
125 - Ibidem, XXIV, 4, ott.-dic. 1987, pp. 54/56.
126 - Ibidem, XXV, 3, lu.-sett. 1988, pp. 39/44.
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P. Pio e il Sinodo Diocesano), lo ha visto ricostruire e la Biblioteca e l’Archivio
arcivescovile; egli vi lavora di persona per sistemare carte e per catalogare libri.
Sulla “Fondazione” di Manfredonia
A fianco della pubblicistica di studiosi locali fa pure riscontro un notevole contributo di eminenti storici meridionali, per cui la storiografia sipontina
si vede, oggi, arricchita di un patrimonio veramente consistente; patrimonio sul
quale si può già ritessere una nuova analisi od anche sviluppare, opportunamente, discorsi particolari e generali. A ciò va aggiunto che l’analisi a livello locale sta utilizzando opportuni sussidi documentaristici, così che la ricerca, oltre
ad avere il suo naturale supporto di certezza sorica, non si indirizza più come
fenomeno isolato, fine a se stesso, ma si incanala in un contesto più ampio, sia a
livello comprensoriale che regionale e meridionale.
Come contributo di storici professionisti, specie sulla fondazione di Manfredonia, ci pare opportuno dare la precedenza a quanto edito da Pier Fausto
Palumbo che, proprio agli inizi di questa seconda metà di secolo, ha curato: La
fondazione di Manfredonia127; Per la fondazione di Manfredonia128; Nascita di una città:
Manfredonia (un centenario 1263-1963)129.
Il contributo di conoscenza dato dal Palumbo, sulla mai estinta discussione della nascita di Manfredonia, merita attenta riflessione, specie quando egli
afferma che il disegno manfredino viene ripreso e sviluppato, vieppiù, dagli
Angioini, riproponendo la vera vocazione socio-politico-commerciale della
nostra città, quale frutto di una insospettata politica
____________
127 - Archivio Storico Pugliese, VI, 1953, pp. 371/407.
128 - Archivio Storico Pugliese, IX, 1956, pp. 173/174.
129 - Studi Meridionali (2.a serie), IV, I, 1963, pp. 367/371. Su questo argomento
buoni sussidi bibliografici si possono rilevare da Matteo Spinelli da Giovinazzo, da Rico rdano Malispini, da Giovanni Villani e da fra’ Salimbene da Parma. Qui ne citiamo qualche
edizione: SPINELLI MATTEO (da Giovinazzo), Annali (o Notamenti), Napoli, Dura,
1872; MALISPINI RICORDANO, Storia fiorentina, Livorno, Masi, 1830; VILLANI
GIOVANNI, MATTEO E FILIPPO, Croniche, Milano; SALIMBENE DE ADAM, Cronica, Bari, Laterza, 1966.
28
lungimirante di Carlo I d’Angiò; politica che proprio nello sviluppo di Manfredonia accentua la sua diversificazione comportamentale in Puglia e nel Regno di
Napoli.
Anche Francesco Giunta pone alle stampe un importante saggio su
Manfredi e Manfredonia130, ricalcando sempre il ruolo vocazionale della nuova
città.
Al Magli si deve, poi, una esauriente trattazione sull’attività di Manfredi in
materia di monetazione, gettando altra luce su quelle vocazioni, con Manfredi e la
zecca di Manfredonia131.
Abbastanza originale e, pertanto, oggetto di doverosa riflessione, è la tesi
sostenuta da Giuseppe De Troia nel volume: Dalla distruzione di Siponto alla fortificazione di Manfredonia132.
Il De Troia, in definitiva, argomenta sulla possibilità di individuare già un
primo nucleo abitativo nell’attuale Manfredonia, sin dal XII secolo; del resto, su
questa eventuale possibilità alcuni studiosi locali (per tutti il Serricchio) non si
sono fatti cogliere di sorpresa. Alcuni di questi studiosi nutrono, in effetti, delle
perplessità su come finora è stato interpretato il datum Orte. Il discorso è quanto
mai interessante ed altre ricerche o altre analisi, con diversa angolazione, potrebbero riservare anche delle sorprese.
Il contributo degli storici accademici
Abbiamo accennato ad alcuni scritti di storici accademici, come il Palumbo, qui ne specifichiamo ancor più il relativo contributo.
Un’accentuazione particolare sull’attività dei vescovi e della Chiesa sipontina viene dato da: Benedetto Cignitti, con Lorenzo vescovo di Siponto133; Michelangelo Cagiano da Azevedo, con Le due “Vite” del vescovo Lorenzo e il mosaico delle
“città” di Siponto134; Nuove note su
____________
146/7.
130 - Annali della facoltà di Magistero (1963-1966), Palermo, IV-VII, pp. 3/29.
131 - Archivio Storico Pugliese, V, 1953, pp. 68/120.
132 - Foggia, Schena, 1987.
133 - Biblioteca Sanctorum, Istit. Giovanni XXIII, P.U.L, Roma, 1967, Vol. 8° pp.
134 - Vetera Christianorum, XI, 1974, fasc. I, pp. 141/151.
29
Santa Maria di Siponto135; Puglia e Adriatico in età tardo antica136; Francesco Tateo,
con L’umanista Niccolò Perrotti, vescovo di Siponto137; Mario Parisano, con La Chiesa
di Siponto nei secoli XI e XIII138; Giovanni Corsi, con Giovanni Alfonso Puccinelli,
Patrizio Lucchese. Arcivescovo di Manfredonia (1652-1658)139.
Per la Siponto antica e medievale non vanno sottaciuti i contributi di:
Michele Fuiano, con La città di Siponto nei secoli XI e XII140; Adolfo Chieffo con
Siponto141; Marina Mazzei, con Siponto antica 1142; Gaetano Lavermicocca, con
Siponto antica 2143; Emilio Benvenuto, con Siponto dauna dai primordi al dominio
romano144; Letizia Pani Ermini, con Il sarcofago altomedievale di Siponto145.
E né mancano altri temi, alcuni già sviluppati, altri nuovi; si hanno così:
Giovanni Mongiello, con Il castello e le mura di Manfredonia146; Ugo Iarussi, con
La torre del Fico di Manfredonia147; Doroteo Forte, con Motivi francescani nella storia
di Manfredonia148; I primi insediamenti Francescani nell’archidiocesi sipontina149; Ultimi
restauri a S. Maria in Manfredonia150 Teresa Olivari Binaghi, con La Madonna dagli
occhi sbarrati in S. Maria di Siponto151; Arnaldo Venditti, con La chiesa di S. Maria
di
____________
135 - Vetera Christianorum, XV, 1978, fasc. I, pp. 85/93.
136 - Puglia Paleocristiana, II, Bari, Edipuglia, 1979, pp. 71 e segg.
137 - Foggia, Quaderno dell’Amministrazione Provinciale, 1975.
138 - Nicolaus, Bari. IV, fasc. I, pp. 249/254.
139 - Atti dell’Accademia Lucchese di Scienze Lettere ed Arti, Nuova II serie, Tomo XIII (1980), pp. 49/115.
140 - Nuova Rivista Storica, L., fasc. I-II, 1966.
141 - Quaderno dell’E.P.T. di Foggia.
142 - Foggia, Leone, s.d. (ma 1986).
143 - Foggia, Leone, s.d. (ma 1986).
144 - Foggia, Centro Culturale Francescano “Immacolata”, 1967.
145 - Vetera Christianorum, XI, 1974, fasc. 2, pp. 359 e segg.
146 - Castellum, Riv. dell’istit. dei castelli, Roma, Castel S. Angelo, 1957, la serie, n.
5, pp. 49/60.
147 - Foggia, Amministrazione Provinciale, 1972.
148 - Bari-Roma, Favia, 1963.
149 - Vita Diocesana, XVI, 2, apr.-giu. 1979, pp. 34/40; XVI, 3, lu-sett. 1979, pp.
26/35.
150 - Foggia, Remegraf, 1985.
151 - Annali dell’Università di Lecce, Facoltà di Lettere e Filosofia, IV, 1967-68-69,
pp. 123/125.
30
Siponto152; Architettura a cupola in Puglia. II. La chiesa di S. Leonardo di Siponto153;
Umberto Caldora, con L’introduzione della stampa in Calabria. Ottaviano Salomone di
Manfredonia e la prototipografia di Cosenza154; Michele Vocino, con Il porto della Puglia Dauna155; Giuseppe Coniglio, con Ebrei e cristiani novelli a Manfredonia nel
1534156.
Negli studi di quest’ultimo autore, e in particolare sul ‘500, si riscontrano
molte implicazioni politico-commerciali che riguardano Manfredonia e che
meritano opportuna lettura157.
I nuovi contributi documentaristici
E la disamina continua con altre puntualizzazioni sul tema del sacco turchesco, come Vincenzo Saletta: Il saccheggio di Manfredonia (16-18 agosto 1620)158;
o come la pubblicazione del manoscritto di Antonio Nicastro del ‘600, ovvero;
Relazione della presa di Manfredonia da’ Turchi, curata da Mario Giorgio per
“Sintesi” del marzo 1987.
Questa relazione è stata pure studiata dal Serricchio che la confronta con
le altre due anonime (di cui si è detto); come si vede, il tema è lontano
dall’esaurirsi.
Registriamo, poi, i contributi di Osvaldo Sartori, con “Veneciani” e
“Zenovesi” a Manfredonia159 (trattasi di un conflitto tra Veneziani e
____________
152 - Napoli Nobilissima, Napoli, mag.-giu. 1966, pp. 105/125.
153 - Napoli Nobilissima, Napoli, VI, sett-dic. 1967, pp. 191/202.
154 - Calabria Nobilissima, Cosenza, IX, 8, 1953, pp. 172/193. Sempre su Salomone si ha un saggio pure di Michele Bellucci: Stampatori dauni dell‘400. Salomone e Minuziano, Comune di Foggia, Bollettino mensile di statistica, giugno, 1939.
155 - La Capitanata, IX, 3-4 mag.-ag. 1971, Parte I, pp. 150 e segg.
156 - Archivio Storico Pugliese, XXI, 1968, pp. 63/69,
157 - Qui vanno ricordati: CONIGLIO GIUSEPPE, Il regno di Napoli al tempo di
Carlo V, Napoli, Ediz. Scient. ital., 1951; Il Viceregno di Napoli nel sec. XVII, Roma, ediz. di
Storia Letter., 1955; Visitatori del viceregno di Napoli, Documenti e Monografie, vol. 38°,
Bari, Tipogr. del Sud, 1978; Documenti d’interesse meridionale nella Biblioteca della Accademia de
la historia di Madrid, Studi Storici Meridionali, II, ge.-dic. 1982,
158 - Studi Meridionali, VI, fasc. II-III, 1973, pp. 37/45.
159 - La Capitanata, IX, 3-4 mag.-ag. 1971, Parte I, pp. 156 e segg.
31
Genovesi svoltosi, a fine ‘300, nel porto di Manfredonia); di Aldo Pecora, con
Manfredonia e il suo territorio160 (un profilo socio-geografico della città); di Antonio Gambacorta, con Per la storia dell’arte a Manfredonia161 (visualizzazione di alcune tele site nella chiesa dei Cappuccini di Manfredonia); di Ermanno Bellucci,
con Michele Bellucci nel ventennale della sua morte162; con Mario Bellucci, con Lira
musicale di Manfredonia163. L’opera di Mario Bellucci, unica nel suo genere per
Manfredonia, è una completa analisi della tradizione musicale sipontina che
vanta, pure, quel Francesco Mazza, autore de Il secondo libro de’ madrigali a cinque
voci, edito a Venezia, nel 1584164.
Una grossa possibilità di documentazione e di riferimenti storici ci viene
offerta dalle due grandi iniziative degli Archivisti napoletani, con le collezioni: I
Registri della Cancelleria Angioina e le Fonti Aragonesi. Per queste ultime, e in particolarenel 6° volume, Catello Salvati ha avuto modo di pubblicare dei documenti che riguardano direttamente Manfredonia; si tratta di: Copia quaterni Bernardi de Anghono Mag. Actorum penes Mag. portulanum Apulie de tractis extractis... a
portibus civit. Manfridonia, Baroli, etc. A. V. Ind. (1486-1487) e Conto della fabbrica e
fosso di Manfredonia (1487-1491). Da questi documenti si può conoscere la consistenza ed il numero dei mercanti, degli armatori e delle navi, nonché i prezzi
delle mercanzie che vengono negoziate od estratte da Manfredonia, oltre alla
relativa attività artigianale, in un delicato ed importante periodo storico della
vita socio-commerciale sipontina.
Nel Codice Diplomatico del Monastero benedettino di S. Maria di Tremiti (10551237), curato da Armando Petrucci,165 sono molti i documenti che si riferiscono alla attività socio-religiosa del vescovado sipontino nell’XI e nel XII secolo.
____________
160 - Rivista Geografica Italiana, LXVII, fasc. 8, sett. 1960. In merito alle indagini
geografiche sul territorio sipontino vanno ricordati i contributi del Bissanti, ai quali si rimanda per il particolare contenuto scientifico degli stessi.
161 - Lingua e Storia in Puglia, 4, 1976, pp. 139/142.
162 - Albano Laziale, Centro Studi “Michele Bellucci”, s.d. (ma 1964).
163 - Frascati, Tipogr. Laziale, s.d. A questo autore vanno accreditati altri saggi sui
musicisti e sulle tradizioni folcloristiche sipontine, pubblicati nel 1937 e 1938.
164 - Anche per quest’altra forma di espressione artistica sipontina andrebbe redatta un’apposita bibliografia, utilizzando, tra l’altro, anche le Schede del Bellucci.
165 - Roma, 1960.
32
Antonio Ventura, poi, riportando alla luce un manoscritto depositato
presso la Biblioteca Provinciale di Foggia, ha pubblicato: Il paesaggio agrario in
Capitanata in una visita pastorale a S. Leonardo di Siponto del 1693166 e Il patrimonio
dell’abbazia di S. Leonardo di Siponto167a. Un’altra visita pastorale (fine ‘600) alla
stessa abbazia è stata trascritta ed edita a cura del Nardella167b.
Gli Indici bibliografici
L’opera del Ventura, che va assumendo sempre più tonalità documentaristiche di buon livello, supportata da rigorosa ricerca bibliografica, dà un ulteriore contributo per la conoscenza, e religiosa e economica, della badia di S.
Leonardo.
E sempre al Ventura si devono molti Indici bibliografici che riguardano
pure autori sipontini.
E in materia di bibliografia vanno segnalati: Maria Altobella Galasso, con
l’Itinerario bibliografico per le tradizioni popolari di Capitanata-Testi della Biblioteca Provinciale di Foggia168; Pasquale Caratù e Pasquale Piemontese, con Saggio di bibliografia
per la Puglia169. In ambedue questi lavori ampio spazio è riservata alla produzione locale sipontina.
Si hanno pure: Luigi Mancino, con Bibliografia come provocazione. Il Risorgimento a Manfredonia170; Michele Melillo, con Rassegna di bibliografia sipontina171; Mario Simone, con Daunia Bibliografica172; Pasquale Vescera, con Bibliografia del can.
don Silvestro Mastrobuoni 173.
Da tutti questi contributi, e da altri di più vasto respiro regionale, molto
si può attingere per un’ipotesi di Bibliografia sipontina.
____________
166 - Rassegna di Studi Dauni, III, 1-4, 1977, pp. 31/44.
167a - Foggia, Amministrazione Provinciale, 1978.
167b - Nardella Tommaso, La Capitanata in una relazione per visita canonica di fine seicento, Rassegna di Studi Dauni, III, 1-2, 1976, pp. 81 e segg.
168 - La Capitanata, XX, lu-dic. 1983, Parte II
169 - Lingua e Storia in Puglia, 10, 1980.
170 - La Capitanata, X, 1-3 gen-giu. 1972, Parte II.
171 - Lingua e Storia in Puglia, 27, 1985.
172 - La Biblioteca Provinciale di Foggia, I, 2, mag.-giu. 1962.
173 - Vita Diocesana, XXI, 1 gen.-mar. 1984, pp. 58/60.
33
E prima di chiudere questo argomento ci piace ritornare sul Melillo, per
i suoi meriti in materia di studio e di catalogazione del nostro dialetto 174, e accennare ad Angelo Celuzza che ha curato il pregevole volume: Mario Simone, una
vita per la cultura175, nel quale viene svolto oltre che la bibliografia, anche un
primo stralcio delle schede inedite dello stesso Simone.
La nuova storiografia sipontina
E arriviamo, così, alla nuova chiocciolata dei pubblicisti storici sipontini;
l’indirizzo che la ricerca oggi va prendendo, qui da noi (e lo ribadiamo), è eminentemente documentaristico. E, in questo senso, è veramente lodevole
l’iniziativa presa dal Comune di Manfredonia, nel 1974, su istanza
dell’instancabile Simone, di pubblicare il Libro Rosso dell'Università di Manfredonia,
a cura di Pasquale Di Cicco. Questi, opportunamente, e nella presentazione e
nelle note, correda la pubblicazione con rimandi e con l’esposizione di molti
altri documenti, coevi, tratti dall’Archivio di Stato di Foggia.
E su questa scia si hanno le recenti adduzioni di Pasquale Caratù, con il
Libro d'Apprezzo delli territori e vigne di Manfredonia (1741)176 e di Tommaso Prencipe, con L’Onciario di Manfredonia (1749)177. E per conoscere più da vicino la
vita amministrativa sipontina non mancano opuscoli dei vari Sindaci e Commissari straordinari (specie della prima metà del secolo) che si sono avvicendati
su Palazzo S. Domenico (sede municipale), tanto da costituire un vero e proprio corpus che andrebbe opportunamente visionato e catalogato.
Per suo conto, Pasquale Vescera ha avuto modo di dare prova proficua
del suo soggiorno a Manfredonia con il primo saggio su: Il fondo del
____________
174 - MELILLO MICHELE: La collocazione di una parlata (di quella di Manfredonia ad
esempio) nel sistema linguistico italiano, Lingua e Storia in Puglia, 23, 1984; Toponomastica ed
onomastica nell'area sipontina (e dintorni), Lingua e Storia in Puglia, 26, 1984.
175 - Foggia, Amministrazione Provinciale, 1977.
176 - Foggia, Atlantica, 1984.
177 - Foggia, Atlantica, 1985.
34
monastero di S. Pietro Celestino della città di Manfredonia178.
Antonio Angellilis, poi, ha curato la trascrizione e la pubblicazione della
Statistica elementare di Puglia (24 agosto 1814)179, riguardante, ovviamente, Manfredonia. Lo stesso Angelillis sta per dare alle stampe un lavoro di demografia
storica su Manfredonia, rielaborando la sua pregevole tesi di laurea.
Ed anche per le tesi di laurea, riguardandi i vari aspetti della realtà storico-culturale di Manfredonia, andrebbe operata un’accurata silloge a livello di
Istituzione pubblica.
A Nunzio Tomaiuoli vanno assegnati, specie in materia storico-artistica,
degli ottimi saggi ed interventi sul castello e sui monasteri cittadini: Il castello e la
cinta muraria di Manfredonia nei documenti del XVIII sec.180; Il monastero dei Celestini di
Manfredonia. Il monastero di S. Benedetto delle monache celestine di Manfredonia181; Castello. Museo nazionale (in collaborazione con la Mazzei)182.
Ad Enzo D’Onofrio va riconosciuta un’intensa pubblicistica tesa alla
valorizzazione turistica del nostro territorio e del nostro patrimonio artistico ed
archeologico, non priva di essenzialità storica, come: I problemi del nostro turismo183; Manfredonia. Turismo e Cultura184; Manfredonia e la sede di APT185.
In fine, e per completezza bibliografica, non possiamo tacere dei contributi dati da chi qui scrive; ovvero: L'Arcivescovo Gerardo a Siponto186;
____________
178 - Lingua e Storia in Puglia, 13, 1981. Al Vescera vanno pure assegnate le noti:
Inaugurazione della Mostra Documentaria-fotografica nel 50° di fondazione del Seminario arcivescovile di Manfredonia, Vita Diocesana, XX, 1, 1983, pp. 43/47; L'icone della cappella del Seminario
di Manfredonia, Vita Diocesana, XX, 3, 1989, pp. 39/43; Seminario Arcivescovile della Santa
Chiesa di Manfredonia e Vieste, Manfredonia, Centro Apostolico Tecnico, 1983; Il Crocifisso di
S. Leonardo, Foggia, Cappetta, s.d. (ma 1985).
179 - Manfredonia, Edizioni del Golfo, 1989,
180 - Foggia, Atlantica, 1984.
181 - Insediamenti Benedettini in Puglia, vol. 2°, Galatina, Congedo, pp. 143/160.
182 - Foggia, Grafiche Gercap, 1987.
183 - Gargano Studi, III, 1980, pp. 3/7.
184 - Documenti/1, a cura dell’AAST Manfredonia, Milano, Edizioni ET. 1982.
185 - Documenti/3 a cura dell’AAST Manfredonia, Milano, Edizioni ET, 1987.
186 - Rivista Storica dei Comuni, II, 7-8, 1981, pp. 35/39.
35
Guglielmo da Siponto187; Andrea de Urruttia nel 1774. I moti popolari a Manfredonia188;
La cappella della Maddalena189; L'Arcivescovo Ugone190; Giornali, giornalisti e pubblicisti
a Manfredonia191; Gli Ebrei a Manfredonia192; Contributo alla conoscenza della società
sipontina nell'alto medioevo193; Il porto di Siponto e di Manfredonia194; Sui primi insediamenti ebraici a Siponto195; Il vescovado sipontino ai tempi di S. Gregorio Magno196; Il carnevale sipontino197; Manfredonta tra mito e realtà198.
Pasquale Ognissanti
____________
187 - Rivista Storica dei Comuni, III, 1, 1982, pp. 7/14.
188 - Rivista Storica dei Comuni, III, 2, 1982, pp. 3/22.
189 - Rivista Storica dei Comuni, III, 4, 1982, pp. 23/30.
190 - Vita Diocesana, XXI, 3, lu-sett. 1984, pp. 32/36.
191 - La Capitanata, XVII-XVIII-XIX, 1980-1982, Parte II, pp. 70/80.
192 - Ibidem, pp. 81/94.
193 - La Capitanata, XXI-XXII, 1984-1985, Parte I, pp. 63/74; riedito, poi, in Accademia e Biblioteche d’Italia (di Renzo Frattarolo), LVI, 1, gen.-mar. 1988, pp. 32/42.
194 - La Capitanata, XXI-XXII, 1984-1985, Parte II, pp. 9/51.
Sul tema del porto di Manfredonia sono interessanti i contributi di:
GRASSI GIUSEPPE, Pel Porto di Manfredonia, Foggia, De Nido, 1905;
Pro Porto di Manfredonia, voti del Consiglio Comunale al Parlamento Nazionale e al Governo del Re, Lucera, Frattarolo, 1906;
Per la sistemazione del Porto di Manfredonia, C.C.I. di Foggia, Foggia, De Nido, 1919;
Per l'esclusione dei porti della Capitanata (Manfredonia, Rodi, Vieste, Varano) dal disegno di
legge proposto da S.E. il Ministro dei LL.PP., Foggia, De Nido, 1919;
OCCHIONERO RAFFAELE, Rinascita di Manfredonia marittima, Manfredonia,
Bilancia, 1953.
195 - La Capitanata, XXIII, 1985-1986, Parte I, pp. 93/102.
196 - Ibidem, pp. 109/134.
197 - Documenti/2, a cura dell’AAST Manfredonia, Milano, Edizioni ET, 1983.
198- Il Gargano. Storia-Arte -Natura, Manfredonia, Edizioni del Golfo, 1988, pp.
29/44. Nello stesso volume vi sono pure i contributi di:
MAZZEI MARINA, Aspetti di Archeologia del territorio Sipontino, pp. 20/28.
TOMAIUOLI NUNZIO, I monumenti, pp. 45/66.
MAGNO MICHELE, Manfredonia, ieri e oggi, pp. 67/73;
DE FEUDIS NICOLA, Le masserie, pp. 73/74.
36
UNA GIURISDIZIONE SPECIALE NEL REGNO
DI NAPOLI: IL TRIBUNALE DELLA DOGANA
DELLE PECORE DI PUGLIA (SECC. XV-XIX)
A Ugo Jarussi
Del plurisecolare e ben noto istituto della Dogana della mena delle
pecore di Puglia pare opportuno in questa sede rammentare, a mero scopo
introduttivo, gli aspetti fondamentali, rinviando per maggiori ragguagli oltre che
alla nutrita bibliografia in argomento e alle tante allegazioni forensi, manoscritte
e a stampa rinvenibili in varie sedi di conservazione, innanzitutto alla copiosa
documentazione originale che è nell’Archivio di Stato di Foggia1.
____________
1 - Gli studi più completi sulla istituzione doganale furono elaborati nei secoli
XVII e XVIII da uomini di legge: MARCANTONIO CODA, Breve discorso del principio,
privilegi et instruttioni della Regia dohana della mena delle pecore in Puglia, Napoli 1666 e Trani
1698; STEFANO DI STEFANO, La ragion pastorale, over comento su la Prammatico LXXIX
de officio Procuratoris Caesaris, voll. 2, Napoli 173l; FRANCESCO NICOLA DE
DOMINICIS, Lo stato politico ed economico della Dogana della mena delle pecore di Puglia esposto
alla Maestà di re Ferdinando IV, voll. 3, Napoli 178l; ANDREA GAUDIANI, Notizie per il
buon governo della Regia Dogana della mena delle pecore di Puglia, a cura di P. di Cicco, Foggia,
1981. Ad essi si rifanno proficuamente tutti gli autori di epoca successiva, fra i quali vanno
ricordati ANGELO CARUSO, Fonti per la storia della provincia di Salerno. L’archivio della
Dohana menae pecudum, in Rassegna storica salernitana, 13 (1952); DORA MUSTO, La Regia
Dogana della mena delle pecore di Puglia, in Quaderni della Rassegna degli Archivi di Stato n. 28,
Roma 1964; RAFFAELE COLAPIETRA, La Dogana di Foggia. Storia di un problema
economico, Bari S. Spirito 1972 e JOHN A. MARINO, Pastoral Economics in the Kingdom of
Naples, Baltimora 1988.
Al Di Stefano, prima avvocato della Generalità dei locati poi governatore doganale
(1735-1737), si devono anche molte allegazioni, parecchie delle quali si conservano presso
la Biblioteca Nazionale di Bari, qualcuna nell’Archivio di Stato di Foggia. Sull’archivio
doganale, impoverito ormai della sua più antica documentazione ma di entità ancora
cospicua (oltre 175.000 pezzi relativi agli anni 1536-1806), cfr., il mio Fonti per la storia della
Dogana delle pecore nell'Archivio di Stato di Foggia, in Mélanges de l'Ecole Francaise de Rome,
Moyen Age-Temps modernes, t. 100, 1988, 2 (La transumance dans les pays méditerranées du XV^
au XIX siécle), pp. 937-946.
37
Conquistato il regno di Napoli, dopo la lunga guerra con Renato
d’Angiò (1435-1442) che aveva avuto Abruzzo e Puglia per teatro principale,
Alfonso I d’Aragona volle riorganizzare su basi più solide la dohana pecudum,
l’istituzione di grande rilievo fiscale che amministrava i pascoli del Tavoliere e
che, sovrintendendo alla transumanza annuale delle greggi dall’Abruzzo, dal
Molise e da altre province, regolava la più antica industria meridionale2. Il
primo ed il più fedele esecutore della politica economica alfonsina relativa ai
pascoli pugliesi ed al loro utilizzo, dopo la crisi per le guerre ed i disordini, fu il
catalano Francesco Montluber, cui il privilegio sovrano del 1 agosto 1447, da
Tivoli, attribuì ampi poteri3.
Questi negli anni in cui esercitò la carica di doganiere (1447-1459)
delineò una struttura organizzativa del restaurato istituto che in buona sostanza
era destinata a conservare vivace funzionalità sino ai primi anni del XIX secolo,
vale a dire sino alla estrema fase crepuscolare della Dogana.
____________
2 - Nella sua essenza la Dogana delle pecore è istituzione molto remota, le cui
tracce più sicure ed antiche possono trovarsi già nel IV secolo a.C. e le vicende seguirsi in
una lunga e secolare successione: cfr. VITTORIO CIANFARANI, Culture adriatiche d’Italia.
Antichità tra Piceno e Sannio prima dei Romani, Roma, 1970; e specialmente: Di STEFANO,
cit., I, pp. 3-28, 31; DE DOMINICIS, cit., I, pp. 48-55; I.L.A. HUILLARD
BREHOLLES, Historia diplomatica Friderici II, Paris 1852-1858, VI, pp. 157-59 (per le due
costituzioni, attribuite con incertezza, “Pervenit ad aures nostri culminis” e “Cum per
partes Apuliae”); NICOLA VIVENZIO, Considerazioni sul Tavoliere di Puglia, Napoli 1796,
pp. 52-58 (per la lettera della regina Giovanna II d’Angiò del 18 settembre 1429 a Nucio
de Fonte di Aquila e a Giovanni Onofrio Amici di Sulmona, preposti alla mena delle
pecore di Puglia); MARINELLA PASQUINUCCI, La transumanza nell'Italia romana, in E.
GABBA, M. PASQUINUCCI, Strutture agrarie e allevamento transumante nell'Italia romana
(III-I a.C.), Pisa 1979; EMILIO GABBA, La transumanza nell'Italia romana. Evidenza e
problemi. Qualche prospettiva per l'età altomedioevale, in Settimane di studio del Centro Italiano di
studio sull'Alto Medio Evo, XXX (L'uomo di fronte al mondo animale nell'Alto Medio Evo), 7-13
aprile 1985.
3 - Il Montluber, familiare del primo sovrano aragonese di Napoli, commissario
della Dogana già nel 1444, ne viene nominato doganiere a vita nel 1447. Il privilegio
alfonsino non ci è pervenuto in originale. La sua prima trascrizione è offerta dal Coda, cit.,
pp. 4-9, ed è riportata integralmente da vari altri autori doganali (LUCA BRENCOLA, De
iurisdicione Regiae Dohanae Menae pecudum Apuliae, Neapoli 1727; DE DOMINICIS, cit., I,
pp. 26-30; MANFREDI PALUMBO, Tavoliere e sua viabilità. Documenti an. 1440-1875,
Napoli 1923, pp. 68-72; NICOLA DE MEIS, Nel Tavoliere, Napoli 1923, pp. 26-30.
38
Per potersene annualmente distribuire i pascoli, tutto il Tavoliere fiscale
venne ripartito in vari settori, detti comunemente locazioni, differenti fra loro
per grandezza e per bontà di erbaggi. Ognuna delle locazioni, sulla base della
sua stima, poteva accogliere un certo numero di pecore appartenenti ai pastori
(locati) originari di una determinata contrada (nazione)4, e si divideva a sua volta
in parti di diversa estensione, chiamate poste, per il pascolo ed il ricovero degli
animali e per le varie attività dell’industria pastorale5.
Dando al Tavoliere questo nuovo assetto il Montluber non tralasciò di
riserbare una parte di territorio stabilmente alla semina, pur condizionandola
con certi vincoli a favore della pastorizia.
Già nel XV secolo, essendo cresciuto il concorso delle greggi e con esso
la richiesta di pascoli, fu necessario aggregare altri terreni alle antiche locazioni.
Da allora la pastorizia transumante poté esercitarsi su un complesso di fondi
eterogenei (locazioni, erbaggi straordinari soliti, erbaggi straordinari
____________
4 - Originariamente le locazioni erano 43, alcune delle quali, in numero di 23, si
dicevano “ordinarie, generali o dei poveri”, le altre “aggiunte, particolari o dei ricchi”.
Distinte sino alla metà del Cinquecento, furono riunite fra loro nel 1588 e nella prima
metà del Settecento si ridussero a 21. Cfr. COLAPIETRA, cit., pp. 25-26; PALUMBO, cit.,
p. 3.
Sul numero di animali che potevano pascolare nelle singole locazioni,
sull’estensione e qualità di queste e sulle pensioni pagate dalla R. Corte agli antichi
proprietari dei territori: ANNIBALE MOLES, Decisiones Supremi Tribunalis Regiae Camerae
Summariae Regni Neapolis, Neapoli 1718, pp. 108-110; PALUMBO, cit., p. 103. V. anche il
mio La Dogana delle pecore di Foggia. Elementi per una pianta generale del Tavoliere, in Quaderni di
Foggia a cura del Comune, 5, Foggia 197 1, pp. 13 - 20.
5 - Secondo il Di Stefano (cit., II, p. 30) le poste temporanee e stabili del Tavoliere
erano 352, ma per Agatangelo della Croce, agrimensore di Vastogirardi e compilatore nel
XVIII secolo di un atlante dei territori doganali (Archivio di Stato di Foggia – d’ora in poi
ASFg - Dogana delle pecore di Puglia, s. I, 21), esse arrimontavano ad oltre 500.
Alcuni locati, feudatari o enti ecclesiastici, si videro riconoscere il diritto di disporre
ogni anno sempre dei medesirni pascoli (poste fisse), contro l’ordine della R. Camera della
Sommaria del 31 luglio 1579. Per l’origine di tali poste, per un loro elenco e loro
possessori; cfr. SALVATORE GRANA, lstituzioni delle leggi della Regia Dogana di Foggia,
Napoli 1770, pp. 139-153; DE DOMINICIS, cit., III, pp. 31-41.
39
insoliti, ed altri tipi ancora), che in parte erano di completa spettanza fiscale (le
terre di Regia Corte), in parte di dominio diretto di feudatari, di università, di
cleri6.
Il Tavoliere a pascolo, con una continenza discontinua di circa 9000
carra, era ritenuto capace di offrire alimento sufficiente per sei mesi d’inverno a
circa 1.200.000 pecore (il possedibile)7 che vi si portavano percorrendo vie
particolari ed apposite, i tratturi, le quali nei tempi antichissimi furono semplici
piste battute, prive di ogni delimitazione, poi ebbero un’ampiezza determinata e
fissata in perpetuo (almeno 60 trapassi=metri 111).
Fra i molti tratturi che, come una grande raggiera, confluivano a Foggia,
i più importanti per lunghezza e densità di traffico erano tre che, prendendo
nome dai paesi terminali allacciati, si dissero: Aquila-Foggia, Celano-Foggia,
Pescasseroli-Candela.
Spesso oggetto di illegittime occupazioni, con seminati ed anche con
manufatti edilizi che rendevano difficoltoso o addirittura impedivano il
passaggio delle morre transumanti, al ripristino del loro status quo le autorità
doganali provvedevano con periodiche operazioni di verifiche, di misurazioni e
di apposizione di nuovi titoli confinari (le c.d. reintegre) che potevano
interessare l’intera rete o solo porzione di essa, e multando pesantemente gli
usurpatori, in genere i frontisti8.
____________
6 - Sui terreni concessi in uso perpetuo alla R. Corte per i bisogni della pastorizia, il
proprietario titolare del dominio diretto continuava ad esercitare il c.d. diritto di statonica,
ossia la facoltà di utilizzo dell’erbaggio estivo dal 9 maggio al 29 settembre, mentre i
pastori avevano l’uso dell’erbaggio invernale (vernotica). Altra cosa era invece la
statonichetta, e cioè il diritto abusivamente introdotto dai subalterni della Dogana di
fittare i regi pascoli dal 29 settembre al tempo della ripartizione generale.
Cfr. NUNZIO FEDERICO FARAGLIA, Relazione a S.E. il Ministro dell'Interno
intorno all'Archivio della Dogana delle pecore e del Tavoliere di Puglia in Foggia, Napoli, 1903, p.
16; DI STEFANO, cit., I, p. 263.
7 - DI STEFANO, cit., I, p. 26.
8 - Il DI STEFANO (I, pp. 119-121) distingue i tratturi in prinicipali, propri e fissi
(così i tre menzionati nel testo) e casuali ed amovibili e li annovera fra le regalie del
Principe, per cui non perdevano la loro natura di strade regie anche quando attraversavano
territori baronali.
40
Lungo i tratturi esistevano i riposi laterali, costituiti da pascoli che la
Regia Corte forniva ai pastori per la breve sosta.
Altra cosa erano invece i riposi generali, dove gli animali transumanti si
fermavano in attesa del permesso di entrata nelle locazioni: il Saccione, dal
fiume Fortore al fiume Sangro, le Murge e la Montagna dell’Angelo, stabilito
da Ferrante I d’Aragona con i demani da Apricena a Vieste9.
I pastori corrispondevano per l’uso degli erbaggi, ma anche quale
corrispettivo dei privilegi, delle comodità ed agevolazioni concessi dalla
Dogana al loro ceto, una fida di 132 ducati per ogni 1000 pecore. E sino alla
seconda metà del XVI secolo l’esazione della fida dipese realmente dalla conta
degli animali, eseguita nei riposi generali da apposite squadre di numeratori.
Ma nel 1553 tale sistema fu abolito, venendo permesso ai pastori,
desiderosi di avere pascoli maggiori di quelli spettanti per il numero dei capi
posseduto, di aumentare idealmente questo numero, accollandosi in
corrispondenza l’onere del maggiore esborso. Il nuovo criterio, vantaggioso
anche per la Regia Corte, fu detto professazione volontaria10.
____________
Sui tratturi del Tavoliere e loro antiche reintegre, temi di rinnovato interesse di
studio in questi ultirni tempi; L'Archivio del Tavoliere diPuglia, a cura di P. di Cicco e D.
Musto, IV, Roma 1984, pp. 5-24 e il mio La transumanza egli antichi tratturi del Tavoliere,
inRegione Puglia, Ass. alla P.I. e Cultura, Profili della Daunia antica (Quaderni del Centro
Distr. FG/33, 11), Foggia 1986, pp. 205-217.
9 - Nei riposi generali (il più vasto di essi era il Saccione e tutti avevano erbaggi
scadenti) si effettuava le numerazione (conta) degli animali, fase indispensabile per la
determinazione della fida da addebitarsi ai singoli locati, e la cui entità, tranne casi
eccezionali, non subiva scomputi, anche se le greggi nel corso dell’inverno venivano
decimate da morie o assottigliate dai rigori del tempo o dalla caduta delle nevi. Per l’uso
dei riposi, sia generali sia laterali, la Dogana non percepiva alcun diritto. Cfr. DI
STEFANO, cit., I, p. 142; DE DOMINICIS, cit., I, pp. 221-248; GRANA, cit., p. 14; DE
MEIS, cit., pp. 74-75.
10 - Sulla professazione che si faceva a Foggia e che si basava anche sulle pecore
ideali e finte (o in erba o in alia) e non solo su quelle reali ed esistenti: DI STEFANO, cit.,
I, pp. 229-25l; DE DOMINICIS, cit., I, pp. 113, 385-386; GAUDIANI, cit., pp. 225-235;
JOHN A. MARINO, Professazione voluntaria e pecore in aerea. Ragione economica e meccanismi di
mercato nella Dogana di Foggia del secolo sedicesimo, in Rivista storica italiana, a. XCIV (1982),
pp. 5-43. Una sua chiara definizione è in GRANA, cit., p. 85. Cfr. anche DOMENICO
MARIA CIMAGLIA, Ragionamento
41
La complessa gestione del Tavoliere a pascolo ed a coltura esigeva
l’impegno e le fatiche di parecchi pubblici ufficiali, alla testa dei quali era il
doganiere o governatore che il Brencola, patrizio sipontino, autore di una
monografia sulla giurisdizione doganale, definisce il regolo della Dogana. Egli,
fin dal XV secolo, assieme all’uditore ed al credenziere, formerà il tribunale
speciale dei locati e dei massari di campo, presso il quale sarà attivo anche
l’avvocato dei poveri fin dai tempi più antichi11.
L’uditore, giudice ordinario delle cause doganali che non toccavano i
diretti interessi fiscali, era di nomina regia e durava in carica per un triennio; il
credenziere, avvocato e procuratore del fisco, aveva anche notevoli attribuzioni
in tema di distribuzione ed assegnazione di pascoli e di esazione di fida.
Funzionari minori dell’organizzazione doganale erano il cassiere o
percettore che incassava i versamenti fatti dai pastori; il libro maggiore che
formava il registro di esazione, in cui si annotavano i pagamenti avvenuti, e che
rilasciava ai pastori il bollettino in cui si segnavano l’origine e la quantità del
debito eventuale; il mastrodatti con funzioni varie, fra cui preminente
____________
dell'avvocato dei poveri D.M.C. sull'economia che la Regia Dogana di Foggia usa co’ possessori
armentari e con gli agricoltori che profittano de' di lei campi, Napoli 1783, pp. 28-31;
FARAGLIA, cit., pp. 34-35.
11 - Dopo le direttive generali contenute nel diploma del 1447, il doganiere ebbe
altre particolari istruzioni che tendevano a precisare le attribuzioni del suo ufficio, come nel
1470 e nel 1480, con privilegi di Ferrante I d’Aragona.
Il doganiere, residente a Lucera sino al 1468 e poi a Foggia, ebbe anche poteri
amministrativi molto estesi che, con il passare degli anni, divennero sempre più ampi. Dal
1583 il suo ufficio cominciò ad essere venale, e tale rimase sino alla prima metà del 600.
Dopo il Montluber, per circa un quarantennio il doganiere rimase unico giudice del
tribunale della Dogana: nel 1483 ebbe un collaboratore nella persona dell’uditore, che era
un giudice ordinario.
A partire dal 1536, per le impegnative incombenze connesse alla carica di
credenziere, si ebbe, uno sdoppiarnento e da allora funzionarono in Dogana due
credenzieri, uno per la parte econornica, l’altro per quella giuridica.
Sull’avvocato dei poveri: DI STFFANO, cit., II, pp. 487-488; DE DOMINICIS,
cit., III, p. 341.
42
quella di conservatore dell’archivio doganale; i cavallari, addetti all’assistenza dei
pastori durante la calata dai monti ai piani del Tavoliere e durante il loro
ritorno in patria, e con compiti anche giudiziari.
Svolgevano un’attività strettamente congiunta alla Dogana, pur restando
al di fuori dell’organismo, i pesatori di lana delle tre paranze di Aquila, Sulmona
e Casteldisangro, addetti alle importanti operazioni dell’infondicatura e
sfondicatura delle lane nei magazzini di Foggia, ed i compassatori o regi
agrimensori, che erano tecnici di fiducia della Dogana ed i soli abilitati alla
misurazione dei pascoli, delle terre a coltura, dei tratturi del Tavoliere.
Una posizione a se stante nell’organizzazione doganale ebbe il
luogotenente della Doganella d’Abruzzo, creato nel 500 per la gestione dei
pascoli demaniali fra i fiumi Tronto e Pescara e tra il Sangro ed il Trigno, in cui,
per deroga al divieto del pascolo fuori del Tavoliere, ebbero facoltà di pascere
alcune greggi abruzzesi e marchigiane12.
Tutta l’organizzazione, sinora accennata per linee molto generali, traeva
origine direttamente o meno dal privilegio alfonsino del 1447 che apportò
radicali innovazioni nel mondo della transumanza meridionale.
Esso imponeva ai pastori del regno l’obbligo di calare ogni anno con le
loro greggi ai pascoli del Tavoliere, offrendo in cambio l’impegno della Regia
Corte, e quindi della Dogana, circa la fornitura di erbaggi adeguati al bisogno,
la protezione durante il viaggio da e per i luoghi di provenienza, i percorsi
____________
12 - Sulla Doganella, oltre ciò che ne scrivono gli autori doganali “classici”, cfr.
PAOLA PIERUCCI, L'attività pastorizia dell'Abruzzo citra al tempo di Margherita d'Austria, in
Margherita d'Austria e l'Abruzzo, Atti del Convegno di studi storici, Ortona, Palazzo
Farnese, 20-21 febbr. 1982 (Ortona, Associaz. archeol. frentana, 1983) pp. 47-52; IDEM,
Le Doganelle d'Abruzzo: struttura ed evoluzione di un sistema pastorale periferico, in Mélanges de
l’Ecole Francaise de Rome, Moyen age-temps modernes, cit., pp. 893-908.
43
riservati e sgombri da ogni impedimento, l’esenzione da dazi, gabelle, diritti di
passi e di ponti, regi, baronali o universali, le facilitazioni di pagamento della
fida, la garanzia di vendita delle lane, il sale per gli animali a prezzo ridotto, la
detenzione di armi. E, infine, elemento importantissimo, prometteva loro un
foro privilegiato, con l’esenzione da ogni altro giudice che non fosse quello
doganale.
Al di là delle interessate e contrastanti interpretazioni che spesso se ne
fecero nel corso di più secoli, la lettera della norma sovrana era chiara in
propostito:
“...et quia inter conductores dictae menae, pastores, gregarios, et
patronos dictarum pecudum et aliorum animaliorum solent rixae, et
controversiae diversarum causarum saepius evenire, de quibus rixis,
controversiis et causis nos tantum cognoscere volumus, propterea vos
praedictum Franciscum iudicem, gubernatorem et capitaneum super dictis
conductoribus, pastoribus, gregariis et patronis, et super eorum rixis et
controversiis statuimus, ac etiam ordinamus cum plena iurisdictione civili et
criminali, mero et mixto imperio, ac gladii potestate...”.
Queste parole fissavano risolutamente il principio della derogatio fori,
facendo del Montluber e, dopo di lui, degli altri doganieri il solo titolare del
pieno ed effettivo potere giurisdizionale sui locati, l’unico competente giudice
delle cause pastorali in maniera esclusiva e generale, cum plena iurisdictione civili et
criminali, mero et mixto imperio, ac gladii potestate, con il potere cioè di infliggere
anche le più gravi pene corporali.
Nel tempo qualche nuova norma, ma in particolare la dottrina e la
giurisprudenza precisarono i caratteri e la portata del privilegio del 1447 a
favore dei pastori, e quindi anche l’ambito d’azione del Tribunale doganale.
Al doganiere di Foggia si attribuiva in effetti una giurisdizione tutta
speciale, non ristretta alla sola Puglia, i cui caposaldi
44
consistevano nel non avere limiti territoriali, riguardando certum genus personarum,
per cui in qualunque parte del regno stessero sudditi di Dogana, colà arrivava la
giurisdizione della Dogana; nella competenza su ogni tipo di controversia in cui
era coinvolto il locato, e quindi non solo su quelle per materia doganale;
nell’essere stata concessa con clausola privativa ed abdicativa, per cui si faceva
inammissibile la competenza di altro giudice; ed infine nella possibilità di
esercizio non secondo il rito comune ed ordinario, ma con rito tutto
sommario 13.
Inoltre essa non si configurava come una graziosa concessione sovrana,
ma come una precisa componente del contratto oneroso ed obbligatorio
instaurato del primo re aragonese con i pastori.
Il foro speciale con sede a Foggia, che nei primi tempi si chiamò Regia
Audientia Menae pecudum, venne subito a rappresentare un forte elemento di
disturbo nel mondo giuridico di allora, già ricco di giurisdizioni ordinarie e
speciali, dalla precaria e contrastata convivenza, e nella società, in cui molto
diffuso era il privilegio.
Si aggiungeva infatti al Sacro Regio Consiglio, istituito di recente, alla
Gran Corte della Vicaria, ed alla Regia Camera
____________
13 - A parte la citata monografia del Brencola dedicata al viceré Cardinale d’Althann,
pagine fondamentali sulla giurisdizione della Dogana sono nelle opere già più volte
segnalate del Di Stefano, (II pp. 249-456), De Dominicis (III, pp. 283-358) e Gaudiani
(pp. 285-311); di grande interesse risultano la risoluzione sovrana del 28 giugno 1760
(ASFg., Dogana delle pecore, s. I, vol. 8, e. 167 r.), già edita dal De Dominicis (III, pp. 323324), e la memoria inviata due mesi dopo dal fiscale della Dogana all’avvocato del Real
Patrimonio (riportata in Appendice).
Della derogatio fori usufruiva non solo il locato, ma ogni suo dipendente, come
pure chiunque altro conduceva un’attività collegata in qualche modo all’industria pastorale.
Difatti, al n. 14 dei Banni, ordini e comandamenti fatti dal doganiere Fabrizio di Sangro il
7 febbraio 1574 si legge che il doganiere era il giudice esclusivo per i “patronali di pecore, et
altri bestiami di Dogana, Gargari, Pastori, Buttari, Giomentari, Baccari, et altri ministri che
servono alle masserie di detti bestiami, bassettieri, calzolari, pastori, Panettieri, Bardari,
Tavernari, Vetturini, et altri traficanti, che seguitano detta Dogana, al calare et al salire”.
Il Di Stefano (II, pp. 380-400) menziona tutti quelli che direttamente o
indirettamente erano da considerarsi doganati, e quindi sudditi del foro speciale.
45
della Sommaria, che erano i più elevati organi giudiziari del regno, alle Regie
Udienze operanti in ogni provincia quali tribunali di primo e di secondo grado,
ed alla miriade di corti baronali e di giudicati regi.
Rimaneva soggetto alla sola Sommaria, che aveva poteri d’intervento nei
confronti del giudicato doganale solo in casi di gravame per motivi di
legittimità, mai per motivi di merito, e con l’ampiezza delle sue attribuzioni
faceva ombra ad ogni altro tribunale ordinario e speciale, diminuendone
l’autorità14.
Il Doganiere era tenuto a difendere ex officio il privilegio dei locati contro
ogni altro giudice: sui conflitti di competenza decideva il Collaterale. A questo
Consiglio, per cedola di Filippo II del 1596, essendo viceré l’Olivares, la
Sommaria doveva rapportare ogni venerdì del mese sullo stato della Dogana 15.
Il doganiere inoltre rivedeva in seconda istanza le sentenze del
luogotenente d’Abruzzo, finché la Doganella non divenne autonoma, e del
luogotenente di Basilicata, e riceveva i ricorsi contro i giudicati dei cavallari e
degli ufficiali di residenza16.
I baroni, che esercitavano giurisdizione in grandissima parte delle città,
terre e casali, si sentivano in particolare danneggiati non solo nel potere, ma
anche nelle entrate e proventi17.
____________
14- Sull’organizzazione giudiziaria del Regno di Napoli, le magistrature citate nel
testo, loro composizioni ed attribuzioni: GIUSEPPE MARIA GALANTI, Della descizione
geografica e politica delle Sicilie, a cura di F. Assante e D. Demarco, voll. 2, Napoli 1969, I, pp.
147-166; RAFFAELE PESCIONE, Corti di giustizia nell'Italia meridionale (dal periodo
normanno a l'epoca moderna), Napoli 1924; RAFFAELE AJELLO, Il problema della riforma
giudiziaria e legislativa nel Regno di Napoli durante la prima metà del secolo XVIII, Napoli 1968;
VITTOR IVO COMPARATO, Uffici e società a Napoli (1600-1647). Aspetti dell'ideologia del
magistrato nell'età moderna, Firenze, 1974.
15 - DI STEFANO, cit., I, p. 86; II, pp. 266-276.
16 - DI STEFANO, cit., II, pp. 312, 355; PESCIONE, cit., p. 525.
17 - Nel parlamento convocato prima a Benevento poi a Napoli in febbraio 1443,
Alfonso d’Aragona, in cambio dei riconoscimento per proprio successore del figlio
naturale Ferdinando e di una forte somma a titolo di sovvenzione, estese a tutti i baroni il
privilegio, prima concesso
46
Di qui i continui attacchi contro il tribunale della Dogana e i rapporti
frequentemente tesi fra questo e le altre magistrature giudiziarie.
I contrasti si conclusero quasi sempre con la vittoria delle tesi sostenute
dalla Dogana, verso cui il potere regio assunse generalmente una posizione
favorevole18.
Invero troppi interessi fiscali erano connessi all’istituzione foggiana
perché se ne potesse volere una crisi della potestà giurisdizionale; e molti
convenivano che l’esercizio di tale potestà rappresentava la base fondamentale
della Dogana, e che era necessario che i locati potessero attendere con
tranquillità alla propria industria, senza rischio di essere tratti davanti ad altri
giudici.
Già nel 1470, su richiesta del ceto interessato, re Ferrante concesse la
conferma del privilegio alfonsino, stabilendo “che niuno Officiale possa
procedere contro pecorari, et homini di Dohana salvo che ipso Dohanero, o
vero soi Officiali” 19.
Dopo il crollo del dominio aragonese e quando venne a Napoli Carlo
V, all’imperatore i locati chiesero di essere giudicati solo dal tribunale doganale
e in appello dalla Camera della Sommaria, con esclusione di ogni altro giudice.
Chiesero
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solo ad alcuni di essi, di amministrare giustizia entro i confini del proprio feudo, anche
con i poteri consentiti dalle quattro lettere arbitrali promulgate da Roberto d’Angiò.
Per questa e per altre notizie sulla giurisdizione baronale: PESCIONE, cit., pp.
349-354.
Secondo il Pescione è appunto al malgoverno fatto dai baroni che si connette la
fondazione del tribunale della Dogana e dei tribunali della seta e della lana (cit., pp. 44).
Con la concessione ai baroni delle I e delle II cause si rovinò la Gran Corte della Vicaria e,
secondo alcuni giureconsulti, il re Alfonso I meritò l’inferno. Ma i sovrani successori
accrebbero addirittura le concessioni (DI STEFANO, cit. II, p. 284).
18 - Può dirsi che in una sola circostanza le posizioni sostenute dalla Dogana in
campo giurisdizionale non riscossero pieno successo, e fu in relazione alla competenza
sulle lettere di cambio, a lungo dibattuta tra la magistratura foggiana e il Consiglio
Collaterale. Cfr. in proposito il mio La Suddelegazione dei cambi presso la Dogana di Foggia, in
Quaderni di “La Capitanata” 10, Foggia 1970.
19 - Per il testo dei privilegi di re Ferrante del 5 dicembre 1470 e del 17 dicembre
1480: CODA, cit., pp. 16-18, 20-22; DE DOMINICIS, cit., I, pp. 76- 83.
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inoltre che, quando ci fossero state indebitamente intromissioni di altri giudici,
questi venissero obbligati a trasmettere alla Dogana tutti gli atti processuali, e
gratis. Il placet imperiale fu accordato da Castelnuovo con privilegio del 11
febbraio 153620. Ed in quello stesso periodo si ristabiliva in Dogana l’ufficio di
uditore, che era rimasto scoperto per più anni21.
Ma l’opposizione al foro privilegiato non cessava e corti regie e baronali
non sempre rispettavano l’obbligo di rimettere alla Dogana i processi già
avviati oppure disconoscevano la competenza di questa, ora per ragione di
materia, ora di luogo, ora di persona.
Per cui il 30 settembre 1550 il viceré Toledo dovette ribadire che “sopra
gl’officiali et huomini di ... Dohana ... nessuno altro officiale puote né deve
conoscere, eccetto esso magnifico dohaniero”22.
Le diatribe, mai del tutto spente, sul foro dei pastori ricevettero nuovo
alimento dal cap. 28 della prammatica (detta appunto dei 28 capitoli) emanata il
30 luglio 1574 dal viceré cardinale di Granvela, a seguito dell’esame che dello
stato della Dogana l’anno precedente aveva fatto il doganiere Fabrizio di
Sangro con Francesco Revertera e Annibale Moles, l’uno luogotenente, l’altro
presidente della Sommaria23.
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20 - De Dominicis, cit., III, p. 284; Coda, cit., p. 27 (Capitoli, Gratie et confirmationi
di gratie, che si dimandano alla Cesarea Maestà per parte della Dohana della mena delle pecore di
Puglia, e delli huomini di essa. Cap. 1).
21 - Vacando il posto e tardando la nuova nomina, era invalsa spesso l’abitudine
di surrogare l’uditore con altro funzionario, come il r. governatore di Foggia. Ma i pastori
non gradirono la novità e protestarono, lamentando la confusione della giurisdizione che
ne derivava, e così, regnando Carlo V, fu rinnovato l’ordine di eleggere il giudice particolare
delle controversie dei pastori e stabilito che egli restava in carica per un biennio.
Nel 1593, su ricorso del doganiere marchese di Padula, la Sommaria proibì
tassativamente al governatore di Foggia di ingerirsi negli affari di Dogana ed all’uditore di
fare deleghe (DE DOMINICIS, cit., III, p. 336).
22 - GAUDIANI, cit., p. 289.
23 - Il cap. 28 della prammatica, che era stata stesa dal Revertera e dal Moles e poi
firmata anche dai reggenti Salernitano e Salazar, recitava testualmente: “che nessun’ officiale
maggiore
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Difatti, il capitolo in questione, mentre riconfermava la giurisdizione del
doganiere, nel contempo la limitava sensibilmente.
Il tribunale foggiano restava giudice competente per ogni tipo di causa
dei locati e questi, se rei e convenuti, continuavano a trarre innanzi ad esso
anche gli estranei e non sudditi. Ma tale competenza aveva la durata del solo
anno pastorale che andava, come si soleva dire, dall’uno all’altro Angelo (cioè
dal 29 settembre al 8 maggio), cessando invece nei tempi seguenti.
D’estate, quando i locati si trovavano nei paesi di origine, potevano citare
in forza del loro privilegio avanti al proprio tribunale gli estranei solo per
questioni riguardanti esclusivamente l’esercizio pecorino, per dirla con un autore
doganale del Seicento.
Era questa una vittoria per i baroni e, secondo voce, essi dovevano
andare grati principalmente al Revertera che allora
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o minore, regio o baronale, s’abbia in modo alcuno ad intromettere directe val indirecte
nella giurisdizione di esso magnifico Doganiere, il quale assolutamente ha da conoscere gli
uomini d’essa Dogana per qualsivoglia causa civile, criminale o mista, per qualsivoglia
delitto per enorme che sia, in modo tale che non solo non possano essere chiamati, né
convenuti avanti d’altro Tribunale che del detto magnifico Doganiero per nessuna sorte di
cause, come sopra s’è detto, ma anco che essi e ciascuno di loro possano, e possa per
qualsivoglia causa civile, criminale e mista traere avanti di detto magnifico Doganiere, e suo
Luogotenente, ed officiale tutte e qualsivoglia persone, quantumvis privilegiate che siano,
durante il tempo, da che detta Dogana si muove dalle montagne di Abruzzo sinché
ritorna in esse, e quelli ancora tutti, che restassero in Puglia per servizio, o negozio
pertinenti a Dogana; però l’estate, ritornati che saranno in Abruzzo, detti di Dogana
debbiano godere l’istessi privilegi, quanto a non esserno tratti per le cause, come di sopra;
verum circa il trahere non lo possano, se non in cose tantum toccanti a Dogana; ben vero
in assenza di detti oficiali di Dogana, l’altri oficiali delle Terre, e luoghi demaniali di Baroni,
in la giurisdizione de’ quali essi di Dogana delinquissero, possano procedere
all’inquisizione, ed etiam, bisognando, e ricercandolo il caso, alla cattura, con avvisarne
però subito detto magnifico Doganiero, e suoi Luogotenenti, ed oficiali più propinqui,
che si troveranno, acciò possino mandare per essi e detti oficiali ce li debbiano
incontanente rimettere, e consegnare una cogli atti, e processi originali a semplice richiesta
di esso magnifico Doganiere, o del suo Luogotenente, con fede dell’uno e l’altro, insieme
ancora con loro armi, animali e robe che li fussero state tolte; per la qual remissione non si
abbia da pagare cos’alcuna, né per via di portello, né per altra qualsivoglia causa, conforme
alli bandi regi, detti da noi , etiam che spontaneamente volessero pagare; il che volemo, ed
ordinamo, che cosi inviolabilmente si debba osservare” (DI STEFANO, cit., II, p. 258).
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era divenuto anch’egli un grande feudatario, avendo comprato la terra di
Salandra e vari feudi in Basilicata24.
La Dogana si mosse in difesa delle sue prerogative ed ottenne una
decisione del Collaterale che le riconosceva la completa potestà giurisdizionale,
mentre il molto discusso capitolo vicereale nessuna osservanza riceveva e, anzi,
secondo il Moles, s’estingueva con la morte del Revertera25.
Logico era, d’altronde, che la questione si risolvesse in tal maniera, una
volta che a livello politico veniva accettato il principio ispiratore del foro
speciale, cioè l’intento di sottrarre il locato a rischi che potevano avere incidenza
negativa sulla sua attività, interessante per il fisco, rischi che erano ben
prevedibili se egli fosse stato soggetto ad un giudice in inverno, ad un altro in
estate.
Il locato esercitava la sua attività in tutte le stagioni, sia quando svernava
con il proprio gregge nel Tavoliere sia quando era nel luogo originario e poi,
nel suo caso, estate ed inverno erano termini alquanto elastici26.
Né maggiore soddisfazione e miglior esito ebbe qualche anno più tardi il
tentativo dei baroni per ottenere che restassero esclusi dalla giurisdizione del
doganiere i cosiddetti locati fittizi, cioè coloro che non possedevano realmente
pecore ma che pagavano ugualmente una fida per avvalersi del privilegio
alfonsino e non essere giudicati da corti feudali.
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24 - “...i baroni, sostenuti dal Reggente Revertera, sorpresero la diligenza del Vicerè
Cardinale di Granvela per farlo limitare, colla nuova sofistica distinzione del tempo...”
(DE DOMINICIS, cit., III, p. 284). V. anche DI STEFANO, cit., p. 260.
25 - Il capitolo 28 non venne mai osservato, sia per difetto di potestà del Granvela
(il viceré non poteva modificare quanto il sovrano aveva convenuto con contratto
oneroso), sia per sospetto del compilatore (il Revertera divenuto feudatario). Esso fu
comuque revocato dalla prammatica LXXIX del 1688, il cui cap. 38. richiama il cap. XIV
dei bandi di Fabrizio di Sangro (DI STEFANO, cit., II, pp. 259-60, 266);
26 - DI STEFANO, cit., II, p. 289. Anche agli affidati della Dogana del Patrimonio
di San Pietro il privilegio del foro era concesso sia d’estate che d’inverno (p. 303).
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Il Consiglio Collaterale, infatti, respinse anche questo tentativo dannoso
per le entrate doganali con decisione del 8 agosto 1579.
Perseguendo un’analoga politica, venti anni dopo, nel 1599 la Sommaria
stabiliva che nessun valore potevano avere le rinunce alla giurisdizione propria,
imposte ai locati dagli ufficiali baronali all’atto della stipula di istrumenti27.
La magistratura foggiana e la Generalità dei locati rimasero sempre
molto vigili, attente ed attive nel fronteggiare ogni attacco portato contro il
foro privilegiato voluto da re Alfonso, sempre memori delle parole di Fabrizio
di Sangro al viceré Montejar che “... la mena delle pecore di Puglia dopo l’erba,
niun’altra cosa la mantiene e conserva, se non la giurisdizione ed il giusto
favore” 28.
Dal 1615 al 1661 i pascoli del Tavoliere furono regolati non con la
professazione volontaria, ma con la transazione o vivere per situazione, nuovo
sistema ideato e fatto attuare per la prima volta dal luogotenente della R.
Camera Berardino di Montalvo, marchese di San Giuliano 29.
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27 - ASFg, Dogana delle pecore, s. I, vol. 3, c 13.
28 - DI STEFANO, cit., II, p. 251.
29 - Dopo la grande moria del 1611-12, che falcidiò le masserie armentizie di quasi
tutte le locazioni (si sottrassero solo Candelaro e Cave, le cui pecore erano nel riposo di
Monte Santangelo), la professazione divenne relativamente volontaria e non più tale da
soddisfare i bisogni erariali. Di qui la riforma progettata dal Montalvo, il cui scopo
principale era quello di garantire alle casse erariali una somma annua determinata, rivestita
di tutti i caratteri della sicurezza, che non ricevesse pregiudizio da qualsiasi fatto dei locati o
situazione della pastorizia negli anni futuri. Accettando la proposta, il ceto dei locati, in
cambio della cessione di tutti gli erbaggi (locazioni e ristori), si impegnò a dare alla R.
Corte annualmente ducati 182.000 per un numero di 2.000.000 di pecore e riconobbe a
beneficio esclusivo della stessa l’affitto di terre a coltura limitatamente a 833 carra.
L’accordo, per la durata di 5 anni, venne preso con pubblico istrumento per mano
del notaio Scipione Petreo di Foggia il 25 novembre 1615. Nella circostanza la Generalità
dei locati stabilì anche un donativo annuo di 10.000 ducati per S.M., per tutto il
quinquennio.
DI STEFANO, cit., I, pp. 233,488; DE DOMINICIS, cit., II, pp. 3-45. V. anche:
ASFg, Dogana delle pecore, s. I, vol. 2, cc. 174t-178r.
51
Nei patti previsti dal nuovo sistema i locati fecero sempre inserire una
clausola che significava la conferma del privilegio del foro30.
Questo poi, secondo la Sommaria partecipava alla R. Udienza di Lucera
in giugno 1616, si intendeva esteso anche ai figli, ai servi e alla famiglia in
generale del locato 31.
Negli anni seguenti altre provvisioni della Sommaria, provocate da casi
concreti di contestazione della competenza del tribunale foggiano, decidevano a
favore di questo e precisavano ulteriormente l’ambito della sua speciale
giurisdizione.
Veniva così a stabilirsi che il privilegio dei locati derogava e superava
quello concesso dall’imperatore Costantino a vedove, pupilli e persone
miserabili, quelli a favore dei Capuani, Cosentini, delle Arti della seta e della lana
e, sia pure nel dissenso di parte della dottrina giuridica, persino il privilegio della
regina Giovanna II concesso ai Napoletani nel 1420, per il quale i cittadini della
capitale traevano e non potevano essere tratti, come si diceva32.
Si affermava il principio che gli altri giudici erano incompetenti nei
confronti dei locati, come i giudici secolari lo erano nei confronti dei chierici e
si riconosceva al tribunale doganale la
____________
30 - Altre transazioni fraistituto doganale e locati si ebbero nel 1618, 1626, 1636 e
1642 (DI STEFANO, cit., II, pp. 233-234).
Nella transazione rinnovata nel 1626 si domandò per gli ufficiali di Dogana la
facoltà, già altra volta concessa, di procedere alla carcerazione degli ufficiali regi e baronali
che non obbedivano alle ortatorie del tribunale e venne ancora accordata (DE
DOMINICIS, cit., III, p. 286).
Già nel 1601 la Sommaria aveva ordinato che, in caso di inosservanza delle sue
ortatorie, il governatore doganale scassinasse le carceri altrui. In effetti le lettere della
Dogana e della Sommaria ai tribunali pari, per quanto chiamate ortatorie, se trattavano di
locati, avevano forze di inibitorie (DI STEFANO, cit., II, pp. 273, 275).
31 - ASFg, Dogana delle pecore, s. I, vol. 2, c. 164.
Restavano escluse dal privilegio le figlie sposate, lo mantenevano invece le vedove
dei locati, finché serbavano lo stato vedovile (DI STEFANO, cit., II, pp. 381, 384, 402).
32 - GAUDIANI, cit., pp. 293-294.
52
potestà di procedere, come ogni altro tribunale regio, anche contro i rei di
delitti di campagna, se commessi da doganati33.
Scriverà il Di Stefano che il privilegio sul foro dei pastori faceva tanto
strepito nelle scuole e nei tribunali da essere assomigliato alla cerva di Cesare34.
Alle ortatorie doganali, cioè alle lettere di richiesta ad altro giudice,
superiore o uguale, di citare o di rimettere un suo suddito al magistrato
richiedente, mai il Sacro Regio Consiglio e la Gran Corte della Vicaria avevano
fatto opposizione. Riluttanze invece continuavano ad aversi da parte delle Regie
Udienze, prima fra tutte quella di Capitanata con sede in Lucera.
E il Collaterale nel 1614, e il duca d’Alba nel 1625 imposero il rispetto di
dette ortatorie, ma poi fu necessario che anche nel 1638, il viceré del tempo,
duca di Medina de la Torre, ribadisse questo punto 35.
Nel settembre 1657 un arresto del reggente de Marinis, presidente della
Sommaria, per viam legis condendae stabiliva che R. Dohanam menae pecudum Apuliae
in prima instantia cum subditis suis active et passive cognitionem habere omnium causarum
civilium criminalium et mixtarum, privative quoad omnes alios iudices, tam inferiores quam
superiores, etiam cum derogatione legis unicae: in sostanza, il privilegio del foro dei
locati escludeva nel primo grado la stessa giurisdizione della Sommaria.36.
Ed appena un mese prima si era definitivamente stabilito che per godersi
la protezione di quel privilegio fosse necessario
____________
33 - DI STEFANO, cit., II, p. 279; DE DOMINICIS, cit., III, 287.
34 - DI STEFANO, cit., II, p. 252.
35 - GAUDIANI, cit., pp. 295-298, in cui fra l’altro si ricordano episodi di
applicazione di questo principio, relativi agli anni 1690 e 1692.
36 - DI STFFANO, cit., II, p. 262; GAUDIANI, cit., p. 291.
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dichiarare in Dogana anche soltanto 20 pecore vere ed effettive37.
La pubblicazione postuma (1665) dell’opera di Costantino Cafaro, con
la sua questio XV rinverdisce la discussione sulla validità del privilegio alfonsino
per l’intero anno.
Questo autore ed i suoi seguaci (Altimati, Mucci, Ageta, di Costanzo,
Giannelli, Iorio, Riccio Pepoli sono quelli che si fanno “a guisa di pecore trarre
nel pecoreccio del mentovato Cafaro”, verrà rilevato con scherno dal Di
Stefano) sostengono che solo in inverno i locati godono del pieno privilegio del
foro, e in estate solo nelle cause che procedono dalla pastorizia.
La polemica resta a livello dottrinario e ancora una volta il controverso
capitolo 28 del Granvela riceve nuove interpretazioni, favorevoli o contrarie al
foro doganale o alla giurisdizione baronale. In particolare la tesi del Cafaro
viene confutata con due lavori da Francesco Giuseppe de Angelis di Scanno,
più volte deputato della Generalità dei locati38.
Ma nella realtà quotidiana il magistrato foggiano non ammette alcuna
limitazione giurisdizionale e continua ad affidare ai suoi cavallari, ordinari e
straordinari, indagini e pratiche processuali e ad inviare in ogni terra e luogo di
dimora dei locati i suoi commissari, o il suo ufficiale di residenza per le cause
che possono avvenire in tempo d’estate e che, essendo di poco conto, non
conviene rimettere a Foggia39.
Si giungeva così all’anno 1688, in cui sotto la data del 22 dicembre, il
viceré Pietrantonio d’Aragona emanò la famosa prammatica LXXIX de officio
Procuratoris Caesaris, detta dei
____________
37 - DI STEFANO, cit., II, p. 255. Lo stesso autore informa che nei tempi
precedenti, per l’arresto 684 del reggente de Marinis, potevano godere il privilegio del foro
solo coloro che professavano in Dogana non meno di 400 pecore di relazione, senza
corpo, senso, moto, figurate in aria, pagando 3 ducati a centinaio. Nello Stato della Chiesa
erano richiesti 30 animali minuti e 10 grossi, muli e cavalli esclusi.
38 - DI STFFANO, cit., II, p. 268.
39 - GAUDIANI, cit., p. 303.
54
49 capitoli, la quale, secondo Di Stefano, che poi ne sarà il più dotto
commentatore, fu pubblicata apposta per far argine alla scuola del Cafaro40.
Il capitolo 38 di questa prammatica, dedicato al foro dei locati e, per
estensione, anche dei massari di campo e degli affittatori di terre salde, ne
riconosceva la giurisdizione privilegiata ed incondizionata, senza limiti per
materia, tempo e luogo, con richiamo espresso al capitolo XIV dei bandi del
doganiere Fabrizio di Sangro41.
I principi sostenuti per tanti anni dalla Dogana, da molti subìti e non
accettati, trovavano la piena affermazione.
Da allora in poi questa prammatica, assieme al privilegio di Alfonso,
rappresenterà il punto di riferimento normativo nelle cause trattate dal tribunale
speciale e nell’opposizione agli altri tentativi che ancora nel XVIII secolo si
avranno per restringerne le attribuzioni.
____________
40 - La Generalità dei locati, vedendo non pienamente osservato il privilegio del
suo foro ed allarmata dalla pubblicazione del libro del Cafaro, aveva fatto ricorso al
sovrano in Spagna. A seguito di real carta, il viceré dapprima inviò a Foggia il luogotenente
della Sommaria, marchese Giovanni di Centellas, per porre rimedio ai vari abusi che si
avevano in Dogana, e poi pubblicò la prammatica, di cui furono estensori i reggenti
Capece Galeota, Carrillo, de Navarra, Capobianco e Ortiz-Cortes (DI STEFANO, cit., II,
p. 266; Nuova collezione delle prammatiche del regno di Napoli, a cura di Lorenzo Giustiniani, t.
X, Napoli 1804, pp. 419-430).
41 - “Perché da Sua Maestà, che Iddio guardi, ne viene incaricata l’osservanza della
prerogativa del foro a locati, sudditi, ed altri uomini, soggetti alla Regia Dogana, nel che
intendiamo, che non vi sia stata tutta l’attenzione che si richiede e che, nonostante nel Cap.
14 de’ bandi fatti in tempo del Doganiere Fabrizio di Sangro si ordina che non si possono
chiamare in giudizio i fidati di Dogana da qualsivoglia Tribunale, eccetto che da detta Regia
Dogana e ch’essendo pigliata informazione da altri officiali contro di essi, debbano quelle
trasmettere gratis; poiché non hanno lasciato d’ingerirsi nelle cause di detti fidati, diversi
Tribunali del Regno, senza riguardo che sia solamente la Dogana, o la Regia Camera loro
giudici competenti. E convenendo in ciò dare opportuno rimedio, ordiniamo a tutti e
singoli officiali di questo Regno, così Regi come Baronali, e particolarmente al Sacro
Consiglio, G. Conte della Vicaria, e Regie Udienze Provinciali che nell’avvenire non
s’ingeriscano nelle cause de’ locati, tanto criminali, come civili e miste, ma lascino che in
quelle proceda la R. Dogana, e suoi Ministri respective, e che osservino puntualmente
l’ortatorie, che loro saranno spedite per la remissione di dette cause, rimettendo gratis
l’informazioni, che forse avessero pigliato nella forma, che sta ordinato di sopra” (Cap.
38). (DI STEFANO, cit., II, pp. 249 e 266).
55
Anche questi tentativi, così come i precedenti, saranno tutti destinati al
fallimento, e la competenza doganale sarà affermata nei confronti del foro
militare e dei particolari giudici delegati che nel Settecento si moltiplicarono nel
regno per la più facile risoluzione delle vertenze (Governatore
dell’arrendamento del sale, Delegati della Nazione veneziana, della Religione di
Malta, dell’arrendamento delle carte da gioco)42.
L’osservanza della prammatica LXXIX viene ribadita al tempo del
viceregno austriaco, con cedole reali di Carlo VI da Vienna nel 1722 e 1724; al
tempo del regno indipendente un dispaccio generale in data 9 maggio 1743 di
Carlo III conferma la privativa giurisdizione nella sua forma più ampia e
Ferdinando IV con determinazione del 15 giugno 1769, essendosi verificato
qualche caso di inosservanza, prescrive l’esatta esecuzione degli ordini del
genitore43.
In effetti, il tribunale dei locati eserciterà le sue attribuzioni con pienezza
di poteri sino all’ultimo momento di vita della Dogana stessa, fino al 1806,
quando la nota legge del 21 maggio, decretando la fine dell’istituzione foggiana,
trasferirà la sua speciale giurisdizione alla magistratura ordinaria.
Pasquale di Cicco
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42 - DE DOMINICIS, cit., III, pp. 294-295.
43 - Il regio governatore di Bisceglie, mostratosi riluttantead obbedire alle ortatorie
doganali, viene rimosso dall’impiego (DE DOMINICIS, cit., III, p. 291).
56
Appendice
Signor mio padrone obligatissimo.
Informata La Maestà del Re N.S. della competenza sorta tra questa Regia Doana, e l’Udienza dell’Aquila per la causa delle violenze fatte ad alcuni cittadini di Lecce da alcuni cittadini di Gioia de quali alcuni erano locati, ed altri
non locati, si benignò prevenire questo Tribunale con sua real carta della data
delli otto del passato mese di maggio di questo corrente anno, spedita (per) la
sua Real Secretaria di Stato ed Azienda, aver sovranamente risoluto che la Camera di S. Chiara inteso il Fisco del Real Patrimonio e della G. C. informata
l’avesse col suo parere, secondo le leggi e l’osservanza.
Con altra real carta dell’istessa Secretaria d’Azienda de 28 giugno prossimo passato si degnò fare inteso quest’istesso Tribunale, che dopo d’avere inteso il dettame della Camera di S. Chiara, toccante la cennata competenza giurisdizionale, avea risoluto che tanto in questa, quanto in ogni altra causa, questa
Regia Doana come giudice competente delli soli locati, dovesse procedere e far
giustizia contro quelli rei, che erano suoi locati, e che l’Udienza dell’Aquila proceduto avesse contro quelli rei, che non erano locati di questa Doana, alla quale
ciò fusse stato di regola e governo.
Non dubito punto, anzi che son troppo sicuro, che V.S. avrà sostenuto
col solito suo valore le raggioni di questo Fisco doanale non che della Generalità de locati, e quindi altro non rimane, se non se venerare, ed eseguire le sovrane reali determinazioni non ostanteché essendo la legge generalissima viene a
distruggersi da fondamenti il privilegio de locati, con notabilissimo interesse del
Regio Erario. Ma comeché per potersi ciecamente eseguire i veneratissimi reali
ordini, si presentano a questo Tribunale alcune difficultà, che han di bisogno di
dilucidazione, affinché tanto nell’espressata causa, quanto in ogni altra simile
abbia in avvenire la norma come debba procedere in esecuzione de sovrani
ordini, che però sostenendo io debolissimamente, e per sola real clemenza di
S.M., e sua sovrana munificenza, le parti di avvocato fiscale di questa Regia
Doana, ho stimato atto indispensabile di mia precisa obligazione farle a V.S.
presente per riceverne suo saviissimo sentimento per mio regolamento.
Pria però di passare alla sua intelligenza le difficultà, che s’incontrano
nell’esecuzione della sovrana determinazione, non voglio mancare per
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disimpegno della mia carica accennare a V.S. le chiare raggioni, che assistono a
questo Fisco doanale, ed il notabilissimo interesse che ne addiviene al Regio
Erario come interessato al servizio del Re N.S..
E sebbene ciò a prima vista sembra io presuma interpretare i sovrani
oracoli, che devo solamente venerare e ciecamente eseguire, pur tutta volta non
credo affatto d’incorrere in una simile taccia, a motivo che non essendo la regia
legge emanata di moto proprio di S.M., onde non converrebbe affatto interpretarla, ma precedente il dettame della Real Camera di S. Chiara che dovea
informare la M.S. secondo le leggi e l’osservanza, e quantunque credo bene che
quei sapientissimi ministri che la compongono abbiano avuto presenti e le leggi
e l’osservanza, nulla di manco non avendo avuto presenti le Istruzioni doanali,
dalle quali a chiare note si rileva e le leggi sulle quali è fondata questa Regia Doana e l’inconcussa osservanza sempre favorevole alla medesima anche precedente consulta dell’istessa Real Camera in termini terminanti, e sopra
l’istessisimo articulo, perciò mi prendo la libertà di rappresentare a V.S. colla
mia debolezza, affinché se mai li venisse l’apertura di farle nuovamente presenti
a quel Supremo Tribunale della Camera di S. Chiara, poss’aver sotto l’occhio
senza molto suo incomodo le raggioni di questo Fisco doanale, così per legge,
come per l’osservanza, giusta gli ordini di S.M..
Prima però d’entrare alla dissamina delle pretenzioni dell’Udienza
dell’Aquila, dedotte per l’espressata causa tra i cittadini di Gioia notorii locati di
questa Regia Doana, e quelli di Lecce, è di bene per non mancare al mio officio, ch’è di procurare sempre l’accrescimento di questo Real Patrimonio, farli
presente che la base fondamentale su di cui s’appoggia questa Doana, ella è il
privilegio del foro, il quale, siccome rappresentò nell’anno 1576 Fabrizio di
Sangro, allora Doaniero al Marchese di Montesciar Viceré di quel tempo, assolutamente si mantiene colla sola prerogativa del foro, avvengache la maggior
parte de locati, e specialmente quei di Montepeloso, ed i padroni delle pecore,
che rimangono nelle quattro Provincie, senza ricevere né erba, né sale, né altro,
e molti affittatori di terre salde senza coltivare le terre della Regia Corte, pagano
in beneficio del Real Erario molte migliaia e migliaia di ducati per godere semplicemente il privilegio di questo foro.
Ed affinché si conosca maggiormente questa verità, basta solo riguardarsi l’origine di tal privilegio fin dal tempo de re Alfonso primo d’Aragona, il
quale volendo introdurre, o in miglior forma situare questo Real Patrimonio,
invitò a calare nella Puglia i padroni degli animali, con determinato
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pagamento, promettendoli il privilegio del foro, per cui fossero esenti da tutte
le altre giurisdizioni, e che solamente la Regia Doana, colle clausole privative, ed
abdicative avesse conosciute le loro cause attive, passive, e miste, tantoché
avendo i locati adempito dalla loro parte, anzi essendo obbligati di calare nel
Tavoliere della Puglia, il privilegio è passato in contratto ultro, citroque obligatorio, siccome per appunto lo dichiarò sollennemente la Maestà del Re Carlo
N.S. gloriosissimo Monarca delle Spagne, con sua real carta della data de 9
maggio 1743, registrata nel sesto tomo delle Istruzzioni doanali a c. 379 diretta
alla Regia Udienza di Lucera, ivi: Teniendo muy presente el Rey quanto importa a su
Real Servicio, que se mantenga en su devido vigor, y sistema el privilegio del Fuero que en
establecimiento, y erecion de la Aduana de Foxa, se concedio a sus locados, fiados, y subditos,
el qual despues ha sido confermado por varias leyes, istruciones, ordenes reales, y pragmaticas
por aver sido Fuero que se les concedio en virtud de contracto, por las obligaciones a que se
sugetaron. L’unico motivo di concedersi una tal prerogativa di foro dal re Alfonso, egli si fu il considerarsi esser questa la base ed il fondamento del suo Real
Patrimonio, poiché richiedendo la vita de locati, e la di loro industria, quiete et
tranquillità d’animo, in niun conto avrebbero potuto conseguirla coll’esser soggetti a diversi giudici, e magistrati, per cui distratti dalla di loro industria certamente l’avrebbero abbandonata con notabile diminuzione della sua corona,
mentre all’opposto collo stabilimento di quella oltre del giovamento che ha
recato e tuttavia reca al publico coll’ubertà dell’annona di questo Regno, venne
a situarsi la maggiore, la più considerevole, e la più esplicita rendita del Regio
Erario.
A questo sol fine stimò quel sapientissimo re concedere il privilegio del
foro non solamente a’ locati, ma a tutte le persone attinenti alla Regia Doana,
alla gente del loro servizio, come gargari, conduttori, pastori, mercanti, fattori,
ed a chiunque altro così in genere che in specie, conduce o fa condurre a fidare
li suoi animali, o sia regnicolo, o forastiere, siccome a chiare note si legge dal
privilegio diretto a Francesco Montluber primo Doaniere dell’anno 1447 trascritto da Coda, tenendosi sempre la mira da quel prudentissimo Re che se mai
la prerogativa del foro venisse a rallentarsi dall’antica osservanza col soggiacere i
locati e la gente del loro servizio alle molestie de giudici ordinarii, poco bonaffetti per lo più di tutti quei che ne sono esenti, distraendosi dalla loro industria,
sarebbe indubitatamente seguita la rovina di detto suo Real Patrimonio, siccome infatti l’esperienza ha dimostrato ne’ tempi passati, che quante volte o per
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ingiuria, o per poca prattica delle cose doanali, o per altro fine si è tenuto a vile
questo privilegio, cadendo immediatamente in precipizio l’industria, ha dovuto
ricorrersi col pronto rimedio. Così per appunto accadde nell’anno 1575, onde
il Doaniero di quel tempo D. Fabrizio di Sangro, precedente ordine del Viceré
e dell’abolito Collateral Conseglio, fu obbligato publicar banni ed istruzioni, e
nel cap. 14 inculcò l’osservanza del privilegio del foro con doversi trasmettere
gli atti gratis da tutt’i Tribunali.
Sortì l’istessa sciaura nell’anno 1657, in cui videsi quasi annichilita questa
industria, per essersi posto in controversia dalla sottigliezza de Dottori se il privilegio conceduto a’ locati fosse derogativo ad ogni altro, e precisamente a
quello che si trova in corpore iuris concesso alle vedove, pupilli, ed altre persone
miserabili, nella Leg. unica Cod. quan. Imp. etc. Trattandosi questo punto nella Regia Camera sinodalmente con generale arresto fu deciso a 12 settembre 1657
che la Regia Doana nelle prime istanze con i suoi sudditi active et passive avesse
la cognizione di tutte le loro cause privative ad ogni altro giudice, così superiore, che inferiore, anche colla derogazione alla Leg. unica, siccome vien rapportato dal regente de Marinis nell’arresto 699 e nella decisione 526 del regente
Revertera.
Finalmente essendo cresciuti gli abusi contro la forma ed osservanza di
tal privilegio, e per conseguenza i gravi pregiudizi del Real Patrimonio per darvisi il convenevole riparo, precedente real carta del 1668 fu emanata la regia
prammatica, ch’è la 79 de offic. Proc. Caes., e nel cap. 38 fu espressamente dichiarato, che per non esservi stata tutta l’osservanza nella prerogativa del foro conceduta alli locati, ed altri uomini soggetti alla Doana, per darsi opportuno rimedio si ordinò l’osservanza di detto privilegio, e che né il Sacro Consiglio, né
la G.C. della Vicaria, né le Regie Udienze si dovessero inserire nelle loro cause,
ma che dovessero puntualmente osservare le ortatorie della Doana, con trasmettere gli atti gratis, e sebbene dalli Baroni del Regno si fusse tentato recar
pregiudizio a quanto veniva disposto in questa prammatica con tre cedole del
governo passato, due dirette al Viceré Principe di Sulmona in data 22 maggio, e
la terza al Viceré Cardinal d’Althan de 4 luglio dell’anno 1722, pure ciò non
ostante ne fu ordinata l’inviolabile osservanza ed esecuzione.
Da quanto finora ho debolmente raccolto, notissimo peraltro a V.S.,
comprende ad evidenza con quanta cura i Re predecessori, i Viceré, ed i Supremi Tribunali di questo Regno abbiano cercato mantenere nel suo vigore la
prerogativa di questo foro, come unico fondamento e legame di
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questo Real Patrimonio, senza di cui andarebbe certamente in rovina la più bella
e considerevole rendita, che abbia il Regio Erario, e l’annona di questo Regno.
Ciò posto entro nella dissamina dell’articolo, se i locati abbiano il privilegio di
trarre i non sudditi a questo foro doanale, così per legge come per l’osservanza,
giusta gli ordini distribuiti da S.M. alla Camera di S. Chiara.
La legge fondamentale della prerogativa del foro conceduta alli locati fu
sollennemente stabilita ex certa scientia dal Re Alfonso primo nel privilegio conceduto a medesimi, che consignò al primo Doaniero Francesco Montluber
sotto la data dal primo agosto 1447.
Conobbe quel sapientissimo Re la necessità indispensabile di concederli
tal prerogativa, o fussero attori o fussero rei, tanto per l’aumento del suo Real
Erario, quanto per l’utile e vantaggio di tutto il Regno e perciò volle costituirsi
egli stesso giudice de locati con quelle parole de quibus rixis, controversiis, et causis
Nos tantum cognoscere volumus, e quindi delegò l’esercizio al solo Doaniero di poter
conoscere tutte le cause, civili, criminali, e miste colla clausola privative, et abdicative, col mero e misto imperio, et gladij potestate di poter condannare all’ultimo
supplicio i rei.
Ed eccone le precise parole: Et quia inter Conductores dicte mene Pastores,
Gargarios, et Patronos dictarum pecudum, et aliorum animalium solent rixe et controversie
diversarum causarum saepius evenire, de quibus rixis, et controversiis, et causis Nos tantum
cognoscere volumus propterea vos prefatum Franciscum Iudicem, Gubernatorem, et Capitaneum super dictis Conductoribus, Gargariis, et Patronis, et super eorum rixis, et controversiis
statuimus, ac etiam ordinamus cum plena iurisdictione civili, et criminali, mero et mixto imperio, et gladii potestate, et que emolumenta, et proventus exinde esecutura vobis acquirantur,
itaquod nullus preter Vos de dictis hominibus et Dohana, et casibus quibusvis emergentibus
inter eos se modo aliquo intromictat, etiam si per aliquos ausu temerario inductos, dicta Dohana fuerit depredata, seu damnificata, possitis, et valeatis depredantes, et malefacientes punire,
et castigare in personis, rebus, et bonis, eosque affligere, et suspendere, et ultimo supplicio condemnare, de quo vobis plenam auctoritatem super hoc licentiam tribuimus, quibuscumque cedulis, seu scripturis licteris factis per Nos de dicto officio mene pecudum, quibuscumque hominibus
et personis forte contrariis, nullatenus obstitutis, quae si forte reperiuntur nullius esse volumus
roboris, et momenti. Mandantes de nostra certa scientia, sub poenis supra contentis etc.
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Qualora volessi avvalermi di cognetture, appoggiate però all’autorità de
Dottori, potrei far conoscere la costante risoluzione del legislatore, di volere la
giurisdizione della Doana nelle cause de locati privativa ed abdicativa, per la
parola tassativa espressata dal privilegio tantum, anzi che per essere stata conceduta ad un particular Magistrato sopra certo genere di persone, è comunque
sentimento de Dottori, siccome V.S. mi ave ammaestrato, d’intendersi sempre
giurisdizione privativa, ed abdicativa, e molto più nel caso nostro per l’utilità,
che ne risulta al Regio Erario, ed all’annona di questo Regno, che i locati, e massari di campo in tutte le loro cause siano conosciuti da un solo giudice, per non
essere distratti dalla loro industria.
Oltreache per quelle parole espressate nel privilegio: quibuscumque cedulis,
seu scripturis factis per Nos de dicto officio mene pecudum, quibuscumque hominibus, et personis forte contrariis, nullatenus obstitutis, quae si forte reperiuntur nullius esse volumus roboris,
et momenti, chiaramente si desume esser stata conceduta la giurisdizione alla Doana colla clausola privativa, e per conseguenza tutti gli altri giudici sono incompetenti con li sudditi di Doana; e ciò si conferma dall’altre parole del privilegio:
Nos tantum cognoscere volumus, e poco dopo: itaquod nullus preter Vos, escludendo
ogni altro colla tassata parola tantum, e con la parola universale nullus. Siccome
per appunto fu ordinato dalla Regia pram. 79 de offic. Proc. Caes. nel § 38, ove si
leggono le seguenti parole: Poiché non hanno lasciato d'inserirsi nelle cause di detti fidati
diversi Tribunali del Regno, senza riguardo che sia solamente la Doana, e la Regia Camera
loro giudici competenti... ordiniamo a tutti, e singoli officiali di questo Regno così regii, come
baronali, e particularmente al S.C., G.C. della Vicaria, e Regie Udienze Provinciali, che
nell'avvenire non s'inseriscano nelle cause de locati; quindi la parola solamente espressata
nella prammatica porta seco essere la giurisdizione della Doana privativa ed
abdicativa.
È sì potente ed amplo il privilegio del foro doanale, che in prima istanza
non solo procede privatamente quoad omnes alios iudices, ma ben anche a riguardo
della suprema autorità della Regia Camera, siccome fu disposto dal Cardinal de
Granvela nel cap. 18 de Capitoli decreti et ordini, e fu dalla medesima Regia
Camera deciso a’ 12 settembre 1657, ove espressamente si ordinò non doversi
ammettere contro la Doana elezzione di foro, anche se si facesse da essa Regia
Camera, con la seguente decretazione: Regiam Dohanam mene pecudum Apuleae in
prima instantia cum subditis suis
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active, et passive cognitionem habere omnium causarum, civilium, criminalium, et mixtarum,
privative quoad omnes alios iudices, tam inferiores, quam superiores, etiam cum derogatione
Legis unice Cod. quan. Imp. pup., et vid. etc., della quale derogatoria si è fatta nel
principio da me menzione. Tal decreto fu emanato sollennemente dalla Regia
Camera per dare una certa ed indubitata legge da osservarsi da allora innanzi in
seguela delle moltissime giudicature fatte dalla stessa Regia Camera sull’istessa
pendenza di elezzione di foro, che per brevità tralascio.
Senza però servirci di argumenti, e senza investigare le regole da Dottori
prescritte note a V.S., si conosce la giurisdizione della Dohana essere privativa
ed abdicativa a troppo chiare note perché tale la dichiarò espressamente
l’istesso legislatore, il re Alfonso.
Egli dice: Nullus preter Vos de dictis hominibus etc., per la forza delle quali
parole rimanendo ogni altro giudice affatto incompetente, né per consenso, né
per voluntà dell’istessi sudditi può estendersi o prorogarsi ad altri, a guisa del
foro de chierici, a cui questo privilegio vien paragonato, siccome dopo Capece
nella dec. 122 fondò de Franchis nella dec. 417 n. 8, ed il consigliero Fabbio
d’Anna cons. 107 n. 6 ed Antonio Bar. controv. 19, quindi siccome i chierici
non possono rinunciare al di loro foro, così i locati non possono in verun
modo rinunciarlo, siccome fu disposto nel cap. 38 della menzionata pram. 79,
anzi che qualora non vogliono servirsene, come rei e non osservanti delle leggi
sogliono esser castigati; così per appunto dal Reg. D. Sebastiano de Cotes Governatore della Doana fu pratticato facendo sotto li 15 di decembre 1686 publicar banno, con cui ordinò che accudendo qualche locato fuori della Regia
Doana ed innanzi ad altro giudice, s’intendesse subito incorso nella pena di ducati 300 giusta le regie istruzioni, ed altre pene arbitrarie, oltre della nullità degli
atti, siccome si legge nel terzo tomo delle Istruzzioni doanali a c. 282.
Il ius che hanno i locati di traere i non sudditi non solamente si deduce
dalle geminate clausole privative di cui ha voluto servirsi il Principe, per dare a
questo Tribunale solamente la cognizione di tutte le cause de locati, tra le quali
vengono per la forza delle parole comprese, così per le passive, come l’attive,
ma ben anche sta fondato sulla raggione e sulla causa finale della legge, cioè di
non abbandonare i locati la loro industria, dalla quale molto più verrebbero a
distrarsi, siccome attori, seguitando il foro dei rei, se dovessere in più luoghi
accudire a diversi magistrati.
Ma a che andare rintracciando cognetture ed argumenti, quandoché
l’istesso re Alfonso ha voluto espressamente determinare questo articulo
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colle parole espressisime che è forza ripetere: Etiamsi per aliquos ausu temerario
inductos, dicta Doana fuerit depredata seu damnificata, possitis, et valeatis depredantes, et
malefacientes punire et castigare; colle quali parole ordinandosi dal legislatore che
questa Doana non solo sia privativamente giudice dei suoi suditi, quando sono
rei, ma parimenti se fussero attori o querelanti contro quei che li rubassero, depredassero, o dannificassero, si conosce a chiare note la volontà del Principe di
concedere a locati il ius di traere al proprio foro anche i non sudditi.
L’istesso chiaramente volle spiegare il Tribunale della Regia Camera
nell’anno 1657 con generale arresto, riferito dal reggente de Marinis
nell’osservazione alla decisione 526 di Revertera, ordinando che i sudditi di questa Regia Doana in tutte le loro cause attive e passive, civili, criminali, e miste,
privativamente ad ogni altro giudice, così inferiore, che superiore, fossero conosciuti da questo Tribunale, anche colla derogazione della legge siccome di
sopra abbiamo espressato.
Si considerò verosimilmente da quel supremo Senato, che uniformandosi il privilegio de locati alla disposizione del ius comune nella Leg. si quis Codic. ubi
caus. Fisc. leg. cum aliquid cod. eod. tit., da cui si ha che nelle cause de conduttori del
Fisco il solo procuratore di Cesare sia giudice competente, ed essendo stato
conceduto il privilegio dal Principe de certa scientia, per causa onerosa e con potestà di trarre anche i non sudditi, con sì rigorose clausole privative in riguardo
di una industria (utile) al Regio Erario ed al publico, affinché i locati col soggiacere a diversi magistrati non l’abandonassero, giustamente a qualunque altro
dovea preferirsi il loro privilegio.
Questo privilegio de locati di potere traere anche i non locati a questa
Regia Doana, giammai per lo passato è stato posto in contesa, né prima, né
dopo la publicazione della Regia pram. 79, né dopo il decreto generale della
Regia Camera, anche a riguardo delli non sudditi privilegiati, siccome l’attesta
de Angelis de delict. et pen, nella par. 2 cap. 8 n. 80 et seq.; solamente è rimasto a
disputarsi l’articulo rispetto alli cittadini napoletani, i quali tanto in vigore de rito
301, quanto degli amplissimi loro privilegi, e moltiplicate grazie conceduteli dal
serenissimo Re della Casa d’Aragona hanno il ius di traere.
E pure da gravissimi Autori non si é dubitato di affermare che il privilegio de locati debba esser preferito a quello de Napoletani, siccome tra questi
affermò Danza de pugn. doct. tom. 2 ver. de elect. For. cap. 5 n. 1 et seq., ed il reg.
de Marinis nell’osservazione 526 del reg. Revertera il
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quale, dopo aver fondato che qualora si concede il privilegio ad un certo genere di persone, nelle di cui cause possa un sol giudice, e non altri procedere, allora s’intende tolta la giurisdizione che ad altri era conceduta, ed appunto adduce
in esempio quelli della Doana colle seguenti parole: Prout est iurisdictio concessa
Dohanerio Regiae Dohanae menae Apuleae, huic enim cum in certum genus personarum concessa est iurisdictio espressis verbis, fuit dictum, ut non aliter nisi ipse solus possit subditos suos
cognoscere, et non solum passive, nimirum ut subditus Dohanae, sed etiam active, et sic quando
subditi agunt, cum illis enim limitatur regula, ut actor teneatur sequi forum rei, nam ad eorum iudicem, et sic ad Regiam Dohanam trahunt quamlibet personam, etsi alterius fori, et
quantumvis privilegiatam, etiam Neapolitanos.
E l’istesso afferma il citato de Angelis ubi supra, conchiudendo: Locati
trahunt, et non trahuntur omni tempore, et pro omnibus causis Regia Dohana cognoscit... Et
qui secus defendere procurant, disputant cum Anaxagora de albedine nivis.'
E così parimente vien confirmato da Giambattista Toro nel Compendio
delle decisioni tom. 1 lit. N., ove afferma: Neapolitani qui sunt exempti ab omnibus Regni Tribunalibus vigore suorum privilegiorum, quia trahunt et non trahuntur, an idem ius
militet in Regia Dohana Menae pecudum, cuius Dohanerius merum, et mixtum imperium
habet a Rege, fuit iudicatum contra Neapolitanos.
Secondo questa dottrina è stata l’inveterata prattica che i locati abbiano
tratti al di loro foro doanale i Napoletani, quantunque privilegiatissimi; e vagliami per mille esempii, che potrei adducere, la sovrana real decisione di S.M.
emanata a 5 maggio 1751 con real carta, che si conserva nel sesto tomo
dell’Istruzzioni doanali a c. 494.
Pretese il Principe di S. Severo che in tutte le cause appartenti alla sua Casa, ed alli suoi interessi avesse proceduto il Tribunale della Camera della Summaria, e dalla M.S. fu ordinato che in tutte le cause patrimoniali della Doana di
Foggia, come sono tutte quelle che riguardano al Tavoliere della Puglia, il giudice privative, quoad alios, fusse l’istesso Tribunale di Doana, con dar solamente
luogo all’appellazione alla Regia Camera: Aunque sean Cavalleros Napolitanos abitantes en esta Capital, por ser esta la practica, que siembre se ha observado, y que presentemente se observa, de cuya practica non conviene retrocederse; siendo lo mismo, que contravenir a
las leyes fondamentales de la Regia Dohana de Foxa, y el gravissimo danno, que redundaria a
las Reales rentas, pero quando se trata de causas
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no patrimoniales de la Aduana, pero de causas entre privados, como son cavalleros, u otros
Napolitanos, y locados, pues toda via esta indeciso qual privilegio sea mayor si el de locados, o
el de Napolitanos, segun se practica en las dichas causas, que proceda tambien en la primera
instancia la Regia Camera.
E sebbene siasi questo articulo deciso dalla Maestà del Re Cattolico (che
Iddio sempre feliciti e conservi) allorché felicemente governava questi Regni
con real carta spedita per la Real Segretaria di Stato, ed Azienda della data de
13 dicembre dell’anno 1758, nella quale sovranamente dispose che alli veri locati di locazioni effettive e coltivatori di terre della Regia Corte se li mantenessero senza la minor novità salvi ed illesi i di loro privilegii per tutto il Regno, e che
fussero solamente soggetti alla Doana di Foggia ed al Tribunale della Camera
in tutte e qualsivogliano cause (si notino di grazia queste ultime espressioni), e
così parimenti dispose, che per non inferirsi pregiudizio al privilegio delli Napoletani di uscire fuori del di loro domicilio a litigare, che la Camera fusse suo
Tribunale competente, e nella medesima si trattassero le di loro cause, col dippiù che in quello viene ordinato, e ciò in conseguenza dell’esposto fatto
dall’istessa Regia Camera con sua rappresentanza del 31 maggio dell’istesso anno, e della consulta della Real Camera de 27 novembre antecedente; ed ecco
provato ad evidenza il privilegio del foro doanale, e che i locati trahunt, et non
trahuntur neppure dai privilegiati, anche Napoletani, atteso ha delegato per le
cause di questi non già il di loro giudice ordinario, come sarebbe la G.C. della
Vicaria, ma bensì la Regia Camera giudice anche competente di essi locati, sebbene in seconda istanza, e ciò fu solamente risoluto per mantenere anche illeso il
privilegio de Napoletani e senza pregiudicarsi quello de locati.
Se dunque il privilegio del foro de locati è di tanta forza ed efficacia, che
traggono al proprio foro i privilegiati stessi, come sono i Napoletani, le vedove, li pupilli, e le persone miserabili, come si può mettere in dubbio che possano traere i non sudditi, che non sono privilegiati?
Il privilegio della prerogativa del foro conceduta ampiamene a locati dal
re Alfonso primo fu con altro privilegio della gloriosa memoria dell’imperator
Carlo quinto confirmato sotto la data del 6 febraio 1536, nel quale si ravvisa la
seguente decretazione nel cap. 1: Placet Cesareae Maestati, quod causae civiles et criminales officialium et hominum ipsius Dohanae tractentur coram iudicibus, qui de illis actenus
cognoscere consueverint, iuxta privilegia et consuetudines dictae Dohanae, et quod in hoc nulla
innovatio fiat.
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Ambedue questi privilegi furono a 6 giugno dell’anno 1577 dalla felice
memoria del re Filippo secondo sollennemente confirmati con altro privilegio
registrato in Napoli in Privil. 30 fol. 50, ove dopo avere inserito de verbo ad verbum i cennati privilegi del re Alfonso, dell’imperator Carlo quinto così soggiugne: Tenore igitur presentium de certa scientia, regia auctoritate nostra deliberata et consulto
motu proprio, ac Sacri Nostri Supremi Consilii accedente deliberatione, prefata et praeinserta
privilegia, gratias, immunitates, exemptiones, ac omnia, et singula alia in eis contenta per
praedictos Retroreges predecessores nostros praedictis hominibus concessa, quatenus iam fuerint,
et sunt in eorum possessione a prima eius linea usque ad ultimam, in omnibus suis punctis et
articulis laudamus, approbamus, ratificamus, et confirmamus nostraeque huiusmodi laudationis, ratificationis, et confirmationis praesidio roboramus, et validamus, e poco dopo: Nullumque in judiciio, aut extra sentiat impugnationis obiectum, incomodum, aut detrimentum,
sed in suo robore et firmitate perseveret.
Alla perfine tutt’i cennati reali privileggi furono dalla real munificenza
della Maestà del Re Cattolico N.S. confirmati senz’alcuna eccezione o riserba,
ed autentica col real decreto de 10 maggio 1747 rubricato di sua propria real
mano nel cap. 21, ivi: quiero, mando y es mi firme, y determinada voluntad, que se mantengan, y puntualmente se observen todos los privilegios, franquizias, y immunidades conzedidas
a los locados expressados en las pragmaticas, y concessiones que les han hecho los passados
sennores Reyes mis antecessores, y yo he tenido por bien de confirmarlos, y ahora con este mi
Real decreto les ratifico.
L’osservanza di queste leggi, o sia l’esecuzione de cennati privileggi, è
stata sempre sin dal suo nascere ferma, costante, ed inconcussa a favore de locati, e non ammette esitazione alcuna, tanto vero che nell’anno 1550 essendo
viceré D. Pietro di Toledo, precedente ordine del Re, furono spedite provisioni
dall’abolito Collateral Consiglio, ordinantino che in vigore de cennati privilegi,
provisioni dell’istesso Collaterale, e della Regia Camera della Summaria, niuno
s’intromettesse nelle cause così civili, che criminali de locati, coll’espressa condizione che si dovessero rimettere al Doaniero, ad ogni sua richiesta incontinente,
con li processi ed atti senz’aspettare altro ordine seu consulta di S.M. (sono le
precise parole), stante la Doana è giudice loro competente.
Siccome parimenti fu ordinato da S.M. Cattolica a 9 maggio 1743 con
real carta per la Secretaria di Stato ed Azienda, diretta alla Regia Udienza
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di Lucera, che avesse puntualmente ubedito alle ortatorie cosi della Regia Doana, come de suoi luogotenenti e nel caso non li sembrasse non essere debitamente spedite, lo rappresentasse a S.M., o al Tribunale della Regia Camera, per
ricevere li ulteriori ordini, rimettendo intratanto gli atti, senza impedire
l’esecuzione delle ortatorie, e cosí avesse fatto anco osservare dalli governadori
delle Corte regie e baronali, affinché in questa forma si osservasse, e mantenesse
inviolabilmente l’enunciato foro doanale, che sta conceduto per causa onerosa,
dal che ne ridonda tanto utile alla Reale Azienda.
E così ancora con appuntamento della Regia Camera nel giorno 17 decembre 1755 fu stabilito ed ordinato a D. Francesco Mastellone, allora Avvocato Fiscale dell’Udienza di Chieti per l’omicidio accaduto in persona di Donato Cedra della terra di Casteldelmonte, locato ordinario di questa Regia Doana, e non solo che avesse subito trasmesso gli atti con il carcerato, e che in avvenire si astenesse d’ingerirsi in cause dove vi era interesse de locati, ma benanche in qualunque caso che occorreva in avvenire, qualora avesse ricevuto ordini
dal Presidente Governatore, subito l’avesse ubedito, e poi avesse riferito alla
Regia Camera li motivi che forsi aveva in contrario, ma che fra tanto non avesse ritardato l’esecuzione degli ordini del Tribunale di Doana, del quale appuntamento ne fu partecipato il Presidente Governatore con carta del sig. Marchese Luogotenente de 20 del suddetto mese ed anno, che si conserva nel 7° tomo
delle Istruzioni a c. 12.
Dal Cardinale di Granvela viceré di questo Regno, zelantissimo del governo della Doana, per il governo della medesima, nelli suoi Capitoli, ordini, e
decreti fatti sotto la data del 30 luglio 1574, dimostra nel cap. 28 di quanta necessità sia l’osservanza della giurisdizione di essa Doana, con queste espressioni:
Item perché con difficultà si potranno osservare i privilegi, ed ordini delle immunità, e prerogative predette concesse ad essi fidati, ed all'istessa Doana per ben governarsi, quando non se li
conservi, ed osservi ancora la giurisdizione concessa per li retro Re di questo Regno al detto
magnifico Doaniero ed ad essa Doana, confirmate poi continuamente; e quindi espressamente
ordina, e comanda che niuno si debba in modo alcuno intromettere directe, vel indirecte nella
giurisdizione di esso magnifico Doaniero, il quale assolutamente dovea conoscerli per qualsivoglia causa, civile, criminale, o mista, e per qualsivoglia delitto per enorme, che fusse.
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Tanto è ciò vero, che la Regia Doana deve procedere per qualunque
enorme delitto, che dal cardinale Zapatta viceré di questo Regno sotto la data
delli 27 maggio 1622 con suo dispaccio registrato nel secondo tomo delle
Istruzzioni doanali ordinò che la Regia Doana per i delitti di campagna avesse
proceduto anche ad modum belli; e quantunque dal Conte di Lemos nell’anno
1600 si era ordinato che dalla Doana non si poteva procedere per li delitti di
campagna anche che fossero sudditi di Doana, pure con provisioni del Collaterale della data de 20 ottobre di detto anno fu rivocato, ed espressamente comandato che non ostante detto ordine potesse e dovesse procedere contro i
delinguenti inquisiti di delitti di campagna, in tempo che si regge Doana, conforme tutti gli altri Tribunali di questo Regno.
Ed il Duca d’Alcalà in conformità di altro dispaccio del Duca d’Alva
sotto la data de 13 aprile 1630 incaricò l’istesso alla Doana con queste parole:
Aviendo paresido conveniente guardar a esta Regia Aduana todas las prerogativas, y preeminentias, que les stan dadas, tengo por bien, que en conformidad de las ordenes del Duque
d'Alva, proceda de justicia este Tribunal contro los delinguentes de campagna, conossiendo
todos los que toccaren a su jurisdicion, y a V.S. lo encargo, que en esta conformidad lo agais;
ed in seguela di ciò nel medesimo anno l’istesso Viceré concesse la delegazione
all’Uditore della Doana, per alcuni banniti carcerati che avevano rubato i locati,
ove espressa ch’essendo giusto che si fossero castigati con tutto vigore, perciò
ne delegava il conoscimento alla Doana, che avesse proceduto di giustizia sino
alla sentenza, ma che pria d’eseguirla l’avessero rappresentato i motivi, per ordinarsi il dippiù che conveniva, concedendoli anche la facoltà della breviazione
del termine d’un mese alla forgiudica contro gl’inquisiti assenti, dispensando alla
costituzione del Regno.
E sebbene possa oppormisi che con dispaccio del 14 novembre 1720
dal Viceré di quel tempo Cardinale de Schrattembach si fusse tolta la delegazione, che pria si osservava per i delitti commessi con armi di fuoco, non
ostante le rappresentanze fatte dall’olim Credenzieri della Doana nell’anno antecedente, per le opposizioni che si fecero dall’Uditore di essa stessa Doana D.
Giuseppe Correale, sul motivo che dalle regie prammatiche era stata conceduta
tal delegazione solamente alla G.C. della Vicaria, ed alle Regie Udienze Provinciali, pure dall’istesso dispaccio si osserva a chiare note che il motivo si fu per
non pregiudicarsi al privilegio de locati, con privarli dell’appellazione al Tribunale della Camera e ne seguiva anche
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l’interesse, che potea risultare al Real Patrimonio, qualora li locati si vedevano
spogliati de loro privilegii, dovendo essere riconosciuti dalla Regia Camera privativamente in grado d’appellazione.
Ed eccone le precise parole, che giova registrarle: y tambien porque ademas
del peryuhjzio, que se haria a los locados, de pribarlos de la appellacion al Tribunal de la
Camera, se seguiria el agravio del interes que podria resultar al R. Patrimonio, quando los
dichios locados se viesen despoxados de sus privileghios, para ser reconoscidos de esta regia Camera privativamente en grado de appellacion de decretos o sentencias de esa Regia Aduana de
Foxa; che però dall’esser stata privata questa Doana della delegazione per i delitti commessi con armi di fuoco, viene a corroborarsi l’amplissimo privilegio
de locati, affinché non venissero privi del privilegio dell’appellazione, siccome
ne sarebbero stati privi, qualora da questa regia Doana si fosse proceduto ex
delegatione, omni appellatione remota.
Si pretese benanche ne tempi passati da alcune Udienze del Regno, ed in
particulare da quella di Capitanata, che qualora questa Doana volea pretendere
remissioni di cause, avesse dovuto comparire in forma giudiziaria con presentar
procura e privilegi, onde dalla Generalità de locati se n’ebbe ricorso dalla Regia
Camera nell’anno 1583, dalla quale furono spedite provisioni, che giova riferir
le precise parole dell’ordinativo: Volendo debitamente provedere sopra di ciò, atteso come
ben sapete, e vi dovete ricordare per più altre provisioni ed ordini di questa Regia Camera, con
lamentazione ancora di detto spettabile Doaniero data a S.E. con memoriali che furono rimessi a questa Regia Camera, sta previsto ed a voi ordinato di dover rimettere le cause di doanati,
e sudditi di quella a detto Regio Doaniero, il quale vi dichiaramo che non è obligato aver da
voi rimesse a lui le cause de doanati, e sudditi di detta Regia Doana, con aver da comparire
per procuratore avanti di voi a domandare la remissione, ma basta l’ortatoria di esso spettabile Doaniero, e che dica e faccia fede che li carcerati e persone o cause, che dice che se li rimettono, sono di doanati, ed officiali di Doana, e di persone suddite di essa Doana la quale tiene
anche autorità di traere, e procedere ad istanza de doanati, e sudditi di quella contro altri non
doanati, e voi dovete ubedire gli ordini di questa Regia Camera; che però vi dicemo, ed ordinamo etc..
Dalli enunciati ordini della Regia Camera a chiare note apparisce la facoltà che ha questa Doana di traere i non doanati, siccome fu anche confirmato, precedente ordine del Duca d’Alva viceré di questo Regno
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diretto all’istessa Regia Camera con altre provisioni spedite a 18 dell’istesso mese ed anno coll’inserta forma dell’enunciate provisioni del 1583, registrate in
Reg. Par. 42, f. 117, e nelle Istruzzioni doanali fol. 135. E finalmente con termini più espressivi e massime più sode, fu ordinato nel 1721 dal viceré di quel
tempo il Principe di Sulmona con suo dispaccio diretto alla Doana colla data
de 21 novembre registrato nel 4° tomo dell’Istruzioni.
Egli il Viceré con altro dispaccio de 18 dell’istesso mese ed anno avea
ordinato che nella causa contro Antonio Iella, ed altri della terra di Capracotta
per la rissa accaduta con li custodi dell’agente del Duca di Vastogirardi avesse
proceduto la Doana solamente contro i suoi sudditi, e l’Udienza di Lucera
contro i non sudditi, ma avendo con riflessione (sono le proprie parole del dispaccio) considerato quanto individualmente la Doana l’avea fatto presente con
sua relazione, ordinò che cedesse a questa Doana il procedimento contro li non
sudditi, e ne adduce la raggione; Por ser inseparable el yuhizio de tal causa, y toccar a
esa Aduana de ella aun contra los que no son sus subditos, en virtud de Reales privileghios,
despacos de mis antecessores, provisiones del Cons. Collat. del Tribunale de la Camera, y
Istruciones Aduanales; pues en caso de gravamen, tienen l’appellacion al Tribunal de la Camera segun por lo passado se ha practicado inconcussamente, para que no sigua con la division
de las causas, en che yntervienen locados, y dependientes del Fuero de la Aduana de Foxa,
peryuhizio minimo al Ces. R. Patrimonio de S.M.C.C., e ne dà il motivo: Siendo de nuestra comun obligazion la observancia de los Reales privilegios, y Fuero, que produce tantos
beneficios al R. Patrimonio, y su manutencion, y aumento en quanto fuere possibile, con el mas
attento zelo, y desvelo, por lo que en ello se interesa el servicio de S.M.C.C., e quindi conclude che avesse proceduto il Tribunale di Doana: Contra los subditos, y no subditos
de esa Aduana, preveniendose a la Audiencia de Lucera, que se contenga, y se modere en opponerse a las causas, en que intervengan subditos contra no subditos de la Aduana, para evitar toda contencion en lo venidero.
Ma a che fine intrattenerci a trascrivere ordini, e dispacci del Viceré,
quandoché hanno i locati a favore loro la troppo gloriosa cedola dell’imperator
Carlo VI fatta in Vienna di motu proprio a 4 luglio 1722, diretta al viceré Cardinal
d’Althan?
Li deputati de Capitoli, e privilegii di questo Regno per mezzo del viceré
Principe di Sulmona ebbero ricorso a quella Imperial Maestà, domandando
71
la confirma del cap. 28 delle Istruzzioni della Regia Doana spedite nell’anno
1574 toccante alla distinzione delli tempi, e casi nelli quali la Regia Doana, e li
Baroni del Regno dovendo procedere al conoscimento delle cause de locati; e
con dispaccio de 22 maggio dell’anno 1721 fu prevenuto quel Viceré ed ordinato che si continuasse l’inviolabile osservanza della pram. 79 de of. pro. Caes.
pubblicata a favore, e per l’indennità del privilegio del foro conceduto alli locati, che si dovesse osservare indifettibilmente; ed avendo l’istessa Cesarea Maestà
presentito che dal baronaggio se l’intendea fare nuova rappresentanza delli pregiudizi che supponea ricevere dai suoi vassalli, con esimersi dalla sua giurisdizione, facendosi locati della Regia Doana; e comeché qualunque novità contraria all’antichi privilegii di essa Doana potea partorire grandissimi inconvenienti,
consistendo la sussistenza della medesima nel privilegio del foro, ed altri conceduti per li Re predecessori, di sortaché quante volte cessasse, o si coartasse il
suddetto privilegio del foro, cessarebbe certamente questo membro de locati
considerevole alla reale Azienda, e ne assegna la raggione: Respecto a que muchios
sin recivir yerbas, ni sapar el ganado professan voluntariamente por gozar del privilegio y eximerse de las gravissimas extursiones, que padecen de los barones, pagando a la Aduana por
cada mil pecoras cien ducados, y aun ciento, y trienta y dos, lo que prattican no solo los seclares, si no tambien las iglesias, ecclesiasticos, y monasterios, que por el mismo motivo se han
hecho subditos de ella, por tener algun reparo contra las violencias, que segun se tiene entendido
por cierto executan los dichos barones, y abusando de la jurisdicion, que le fue concedida, affinque fuessen defensores de sus vassallos, y como tutores los mantuiessen en paz y iusticia etc.. E
dopo d’aver reassunto tutte le pretenzioni del baronaggio, conchiude, es querer
prohivir a mi Suprema Sovrania la concession de privilegios, majormente siendo el de la
Aduana tan antiquo, y anterior a la iurisdicion concedida a los barones, que tacitamente obtuvieron sus Feudos de vaso de esta ley.
E finalmente avendo ordinato al Viceré, che unitamente al Conseglio
Collaterale attendessero seriamente al più efficace e pronto rimedio de mali e
grav’inconvenienti, che per parte de baroni si procurava causare in detrimento
della Regia Doana, facessero osservare inviolabilinente il foro, ed il privilegio di
quella, nella conformità che col cennato imperial dispaccio de 22 maggio avea
ordinato e prescritto, qual cedola vien registrata nel tomo 4 delle Istruzioni doanali a c. 123.
Intralasciando dunque di tessere un lunghissimo catalogo di cento, e mille
provisioni dell’abolito Collateral Consiglio e della Regia Camera e
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di ordini de Viceré pro tempore di questo Regno, che confirmano ad evidenza la
giurisdizione privativa ed abdicafiva di questa Doana, e di traere a se anche i
non sudditi, mentre mi renderei troppo prolisso e stucchevole, e mi abusarei
della sufferenza di V.S.; che però trasandando gli antichi ordini, e prammatiche
mi restringerò solamente a quelle de tempi nostri, dal principio del felicissimo
governo di questi Regni dell’invittissimo Re Cattolico sin’oggi, per corroborare
l’assunto della prerogativa del foro doanale, così per legge, come per
l’osservanza.
Mi si permetta però di adducere solamente due sinodali decisioni fatte
non molto lontano da tempi nostri, cioè nel 1690 e 1692, che casualmente ho
ritrovato nell’archivio di questa Regia Doana i processi originali, perché sono
troppo valevoli al caso nostro, e dalle medesime si ravvisa quanto è potente la
prerogativa del foro di questa Regia Doana.
Nell’anno 1690 la Regia Udienza di Lucera carcerò un guardiano della
Casa d’Orta, patentato di Doana, e dopo d’essere stato condannato da
quell’Udienza in galera, ed ivi rimesso, fu restituito alla Doana, che allora veniva
governata per la seconda volta da D. Adriano Ulloa Reggente di Cancelleria.
Nell’anno 1692 ritrovavasi inquisito nella Regia Udienza dell’Aquila Giuseppe Iannessa di Bugnara ordinario locato di Doana, per causa di protezzione
de banniti, e di partecipazione di furti da medesimi commessi, e procedendo la
medesima Udienza come special delegata del Viceré Conte di S. Stefano, fu
condannato alli 13 settembre del 1692 in galea per anni sette, ed in seguela degli
ordini del Viceré fu rappresentata la suddetta condanna al medesimo con relazione de 19 dell’istesso mese, ed anno. E comeché dal cennato Vicerè con suo
dispaccio de 17 dell’istesso mese ed anno si era ordinato che non ostanti gli
antecedenti suoi ordini di dover procedere con special delegazione in detta causa avesse rimesso i carcerati e gli atti alla Doana, perciò replicò l’Udienza che
nell’espressata causa avea proceduto ad modum belli, ed avea già condannato il
Iannessa in galea e liberati altri rei ed altri rimessi alla Corte locale di Bugnara.
Ciò non ostante da quel zelantissimo Viceré per non recar pregiudizio alcuno al
privilegio doanale, ordinò con dispaccio de 9 ottobre di detto anno, que sin embargo de aver condannato Ioseph Ianesa lo estregue a la Aduana de Foxa con el proceso,
practicandose la forma, que se vuole en tales caso. Rimesso il carcerato Iannessa cogli
atti, si procedé dalla Doana nuovamente al costituto del carcerato Iannessa, alle
difese, ed a quanto si conveniva per la spedizione della causa, per essere stati
fatti gli atti e condannato il
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Iannessa da giudice incompetente, fu finalmente sotto li 12 del mese di ottobre
dell’anno 1693 liberato in forrna il Iannessa, novis supervenientibus indiciis, ed a 27
ottobre dell’istesso anno fu escarcerato.
Passo adunque a riferire le decisioni de tempi nostri.
Nell’anno 1737 a 29 ottobre fu risolto dalla prefata Maestà del Re Cattolico con sua real carta spedita per la Secretaria di Stato ed Azienda, che ne
giudizi ne quali s’ha da convenire qualche debitore, soggetto per raggione
d’officio, impiego o servizio a diverse giurisdizioni, fra le quali vi sia la militare,
debba esser questa sempre preferita, onde la causa abbia ad agitarsi avanti il
giudice competente per raggione di milizia, con procedere l’Uditor Generale
dell’Esercito.
Stimò questo Tribunale di Doana rappresentare alla M.S. non solo i pregiudizi che si recavano all’amplissimi privilegi de locati, ma benanche
l’inconvenienti che ne nascevano, qualora avessero dovuto convenire i loro debitori nel foro militare; ed in vista di tale rappresentanza fu con altra real carta
de 16 novembre dell’istesso anno rivocata la cennata legge, ordinando espressamente che questo Tribunale mantenesse le sue esenzioni, foro, e preeminenza
senz’alcuna diminuzione o interruzione, nella maniera appunto che sino allora si
era praticato ed eseguito, senza far uso del real ordine antecedente ne casi, che
in quello si esprimevano, come apparisce dal 5 tomo delle Istruzzioni a c. 45 ad
51.
Nel 1738 con altra real carta spedita per l’istessa Secretaria, che si conserva nel medesimo quinto tomo a c. 123 ad 130, tra l’altre cose fu ordinato che
rispetto alla controvenzione dei banni proibitivi di non potersi metter fuoco alle
restoppie se non dopo i 15 d’agosto, questa Regia Doana avesse proceduto
contro ciascheduno controveniente locato, o non locato, appartenendo privativamente alla medesima il conoscimento, giusta il disposto della prammatica 79
de offic. Proc. Caes. al § 31.
Nell’istesso anno avendo la Real Camera di S. Chiara alli 5 del mese di
luglio, ad istanza dell’Università della terra di Cercello, ordinato che i baglivi
della terra suddetta si fossero serviti di loro raggione rispetto all’esecuzione
reale tantum per li danni commessi dalli locati con i di loro animali, così per la
pena, come per il danno, stimò questa Regia Doana sospendere l’esecuzione di
tal decreto e farne relazione alla M.S., ed in vista della medesima con real carta
de 8 ottobre dell’istesso anno, per la medesima real Secretaria d’Azienda fu
ordinato che questa Regia Doana non avesse data esecuzione ad altri ordini, se
non che a quelli del Re e della Camera della Summaria, e facesse osservare
esattamente le reali Istruzzio74
ni per il buon regolamento dell’istessa Doana, con avere benanche ordinato alla
Camera di S. Chiara che in tutte le dipendenze de locati lasciasse procedere il
Tribunale di Doana, e che da allora in avanti non portasse a spedir provisioni,
né ad intromettersi in tutto ciò, che apparteneva alla Doana, suoi locati, e sudditi, senza dar prima conto alla prefata Maestà.
Nel 1739 ritrovavasi carcerato Bartolomeo di Silvestro, scrivano
estraordinario della Regia Doana, nell’Udienza di Montefusco per l’omicidio
accaduto nell’anno 1733 in persona di Sabato Calvano, e per l’informazione
presane alla Doana, non solo non risultava reo il suddetto scrivano, ma bensì
offeso, ed essendosi spedita ortatoria a quella Udienza per la trasmissione del
carcerato e degli atti, non volle ubedire, e ne fece rappresentanza a S.M., in vista
della quale fu ordinato a 21 novembre del detto anno 1739 che l’Udienza di
Montefusco senza il minor ritardo avesse data esecuzione all’ortatoria della Doana, con rimetterli il carcerato e gli atti, soggiungnendo in essa real carta: y que
por lo venidero no cometa tales atentados contra los subditos de esa Aduana, y de siempre
prompta execucion a las demas ortatorias, que por otras causas, y motivos se le dirigieron por
ella, che si conserva nell’istesso tomo 5 a c. 335.
Interrompo la cronologia de tempi, per riportare nella fine di questa mia
rappresentanza la solenne decisione fatta dalla prefata Maestà in termini terminanti nell’anno 1739, per avvalermene pro coronide, perché dat gladium ad radicem, e
passo all’anno 1740.
Fu ordinato a 25 febraio del suddetto anno per l’istessa Real Secretaria a
supplica di Giovan Federico Kelner suddito della regia Doana, e debitore di un
suddito della nazione olandese e di un’altro della nazion veneta che pretendevano molestarlo avanti alli rispettivi delegati delle di loro nazioni, fu ordinato che
avesse proceduto questo Tribunale, non ostante di essere i creditori forastieri,
siccome si ravvisa dalla real carta, che si conserva nel detto tomo 5 a c. 297.
A 29 maggio dell’istesso anno 1740 fu benanche ordinato all’Udienza di
Lucera che subito avesse rimesso a questa Regia Doana il carcerato notar Giovanni de Filippo, inquisito di mandato nell’omicidio in persona di Michele
Martelli, assieme con tutti gli atti, e che per l’avvenire avesse puntualmente osservato le ortatorie della Doana, senza perturbar con pretesti la giurisdizione
della medesima, qual real carta si ravvisa nello stesso tomo 5 a c. 317.
Convenne a notizia di S.M., che dalla Regia Doana era stato restituito il
riferito carcerato notar Giovanni de Filippo all’istessa Udienza di Lucera
75
a semplice istanza della medesima, e senza precedente altra formalità; ne domandò conto all’istessa Doana con real carta de 12 agosto dell’istesso anno, ed
ordinò che subbito avesse riferito con qual ordine avea restituito il carcerato alla
predetta Udienza, con rimetterli anche copia dell’ordini, per passarlo alla reale
intelligenza. Riferì questo Tribunale, che dal Caporota di quell’Udienza fu prevenuto l’Uditore di questa regia Doana, che dalla prefata Maestà con real carta
de 16 del mese di luglio per la real Secretaria di Stato, e di Giustizia era stato
ordinato ad essa Udienza che, attenta la special delegazione con cui stava procedendo nella causa del mentovato de Filippo, avesse continuato a procedere,
non ostanti qualsivogliano ordini avuti in contrario, per il di cui effetto fu restituito, e rimesso il carcerato suddetto all’Udienza di Lucera. In vista della quale
rappresentanza fu con altra real carta de 25 agosto per l’istessa Secretaria
d’Azienda ordinato a questa Doana, che per l’avvenire in simiglianti casi avesse
dovuto attendere gli ordini di S.M. per il canale della Secretaria di Stato, ed
Azienda.
E fattosi nuovamente presente a S.M. quanto occorreva su tal pendenza
intorno al carcerato suddetto de Filippo, ordinò con real carta de 29 settembre
dell’istesso anno che in tal causa proceduto avesse l’Udienza di Lucera, ma che
ciò s’intendeva per special delegazione, che per quella sol volta li concedeva la
M. S., sin que sirva de exemplar para otras causas de locados, y sin que se entienda en nadaperiudicado el Fuero Aduanal pues quiere y es su real voluntad, se mantenga en su fuerza,
vigor, y observancia, y que la mencionada Audiencia execute en lo venidero las ortatorias que
le expediere ese Tribunal a favor del Fuero de sus subditos, siccome apparisce nell’istesso
5 tomo a c. 337 ad 339, et 351.
Nell’istesso anno 1740 accadde un furto in questa Città nel fondaco di
Lonardo Mazza e Francesco Filiasi sudditi di questa Doana, ed essendosi carcerati alcuni rei da un subalterno della medesima che ne stava accapando
l’informazione, furono i rei suddetti dal Preside di Lucera violentemente fatti
consignare dal subalterno; quindi interato S.M. del successo, ordinò che questo
Tribunale di Doana avesse proceduto, con ordine espresso all’Udienza di rimettere absolutamente y sin retardo, ni replica los authos y los presos, y que en lo venidero no
se intrometa la expressada Audiencia ex semesantes dependencias, majormente donde hai resoluciones de S.M., como es la que resulto' de la causa de D. Francisco Musto (che da me si
rapportarà nell’ultimo, siccome di sopra ho accennato). E rispetto al punto
della violenza usata allo scrivano di questa Doana, ordinò alla medesima
76
che avesse liquidato con documenti la condotta del Preside e del Caporota,
togliendo i rei dalle mani del subalterno, e darne conto alla M.S., affinché avesse
potuto pretendere altri provvedimenti.
Nell’istesso anno 1740 accadde in S. Marco in Lamis un tumulto, e
diversi omicidii per una protesta che vollero fare quei cittadini contro D.
Francesco Freda, per causa della prelazione dell’affitto di quelle rendite abadiali.
Ne prese l’informazione tanto l’Uditore di questa Doana, quanto il Caporota
dell’Udienza di Lucera; ed essendosi spedite dalla Doana le lettere ortatoriali
alla suddetta Udienza, affinché si fosse astenuta di procedere ed avesse rimessi
gli atti, non volle ubedire, ed essendosi fatta rappresentanza a S.M., così dalla
Doana, come dal Tribunale di Lucera, fu ordinato dalla M.S., in vista dell’una e
dell’altra rappresentanza, che tanto nella causa del tumulto, quanto per gli
omicidii avesse proceduto il Tribunale di questa Doana, e rimesso li rei con gli
atti, che avea formati, come dal dispaccio originale a c. 329 ad 331 di tomo 5.
Nel 1742 ad istanza dell’Università della terra di Colledimezzo fu spedita
dal S.C. un’ortatoria alla Regia Doana, pretendendo procedere per gli eccessi
commessi dalli naturali di detta terra contro il barone Francischelli e Nicola
Ferraro suo guardiano, sul motivo di ritrovarsi introdotta in esso S.C. la causa
de confini de territorii tra Montazzoli e Colledimezzo; fu ordinato dalla prefata
Maestà a 28 settembre di detto anno con real carta spedita per la Real
Secretaria d’Azienda, che si conserva in detto 5 tomo a c. 488, che rispetto alla
causa de confini proceduto avesse il S.C., e rispetto alla causa degli eccessi
commessi contro il suddetto Barone e suo guardiano avesse proceduto la Regia
Doana, e ne fu rimesso ordine corrispondente allo stesso Sacro Consiglio.
Nell’anno 1744 essendo accaduto un omicidio in persona di Vito
Ricciardi nella Città di Monteverde, ed accapatasi l’informazione dall’Udienza di
Montefusco, vennero in quella rubricati molti rei, onde pretese l’Udienza che
per l’omicidio suddetto avesse dovuto procedere questa Doana contro il
suddito della medesima, e rispetto agli altri rei non sudditi essa Udienza, e
perciò non volle ubedire all’ortatoria della Regia Doana. Se ne fece
rappresentanza così da essa Doana, come dall’Udienza al signor Luogotenente
generale del Regno in quel tempo, e dal medesimo con carta de 15 aprile di
detto anno ordinò che l’Udienza di Montefusco avesse rimesso a questo
Tribunale di Doana la causa di tutt’i delinguenti, per appartenerne alla
medesima la cognizione, siccome apparisce dal dispaccio sistente nel sesto
tomo delle Istruzioni a c. 32.
77
Così parimenti dall’istesso signor Luogotente generale fu ordinato con
carta del 27 marzo dell’istesso anno che per il furto accaduto in casa di
Giambattista Properzio avesse proceduto la Regia Doana, e che l’Udienza
dell’Aquila avesse ubedito senza la minor replica ed intermissione di tempo
all’ortatoria che spedita l’avea per detta causa, registrata a c. 41 ad 43 dicti
thomi 6.
Nell’anno 1745 pretese l’istessa Udienza dell’Aquila, che presa avea
l’informazione contro D. Nicola Trasmundo locato della Regia Doana, che
contro il suddetto Trasmundo avesse dovuto procedere la Doana, e quella
Udienza contro gli altri rei non locati; ordinò S.M. con real carta de 29 giugno
che l’espressata Udienza avesse rimesso gli atti originali al Tribunale di Doana,
para que el mismo proceda en esta causa contra todos los reos, dicti thomi 6 Istructionum
a c. 60.
Nel 1746 agitandosi litigio tra D. Giuseppe Giordano della Città di
Lucera con D. Francesco suo figlio per l’assegnazione di 60 salme di territorio
fatta a beneficio del detto D. Francesco contemplatione matrimonii, si pretendeva
dall’Udienza di Lucera come giudice privativo delle cause de territorii che si
distribuiscono tra i cittadini di Lucera di dover procedere nella causa suddetta,
non ostante che il D. Giuseppe Giordano fusse locato della Doana; pur tutta
volta fu con real carta de 31 agosto di detto anno ordinato che avesse
proceduto la Doana, alla quale stava soggetto il D. Giuseppe come locato, e
che l’Udienza di Lucera, nel caso che si dovesse fare esecuzione sopra li
suddetti territorii, interponesse il suo braccio, allorché sarebbe stato giudicato
dalla Doana, dicti thomi 6 Istructionum a c. 123.
Questa sovrana real determinazione fu confirmata nell’anno 1747 a 12
aprile con altra real carta registrata nell’istesso tomo a c. 197.
Agitavasi litigio tra D. Pasquale e D. Francesco Paolo de Nicastro
ambedue locati della Regia Doana, per lo fitto di un carro di mezzana, ed
avendo declinato il foro il D. Francesco Paolo nella regia Udienza di Lucera,
pretendeva la medesima di procedere come giudice privativo de sudetti
territorii, ed essendosene fatta rappresentanza così dall’Udienza come dalla
Doana, fu ordinato che si osservasse puntualmente la real determinazione de 31
agosto del 1746, pocanzi riferita, ed in conseguenza proceduto avesse la Regia
Doana, colla prevenzione di essersi spedito il corrispondente all’Udienza, e
passato l’avviso necessario alla Secretaria di Stato, Giustizia, e Grazia, ed alla
Camera Reale di S. Chiara.
E’ così potente il privilegio del foro doanale, che sebbene nelle cause
indrotte ne rispettivi tribunali de locati o sudditi di questa Doana, pria di
78
farsi locati o sudditi della medesima, ne appartenga la cognizione alli stessi
rispettivi tribunali, pur tutta volta qualora si tratta di esecuzione personale
contro tali locati e sudditi di Doana, devono domandare il braccio ad essa
Doana, siccome fu ordinato dalla M.S. con real carta de 14 settembre di detto
anno 1746 per l’istessa Real Secretaria d’Azienda.
Nell’istesso anno con altra real carta de 12 ottobre fu ordinato al
Governatore di Serra Capriola, il quale procedeva con ordine di S.M. spedito
per Secretaria di Stato, Giustizia, e Grazia contro il razionale ed altre persone
applicate al servizio del monistero di S. Maria in Valle, notorio locato di questa
Doana, che rimettesse tutti gli atti alla medesima, affinché avesse proceduto
nelle riferite cause, e ne adduce il motivo: Cuyo Fuero non puede variarse por sus
privilegios, los quales se ha dignado confirmar SM. en el ultimo Plan, que mandò formar, y
por consecuencia en negocios, que partenencen a los locados, y sus dependientes, deven
distribuirse las ordenes por esta Secretaria de Estado, y de despacho de Hazienda de mi
cargo, reg. a c. 178 dicti thomi 6.
Pretese il canonico D. Michele Politi esser sodisfatto intieramente d’alcuni
erbaggi venduti a D. Antonio Santomasi ed al canonico D. Ferdinando suo
fratello, locati della Regia Doana; ne ricorse nella R. Nunziatura contro detto
canonico D. Ferdinando Santomasi, ed avendone avuto ricorso da S.M. il D.
Antonio fratello del detto canonico Santomasi, fu ordinato con real carta de 20
aprile 1746, reg. a c. 218 dicti thomi 6, che la Regia Doana avesse proceduto
nell’espressata causa, e che insinuasse al canonico Politi che, sotto pena del
sfratto dal Regno e della reale indignazione, si astenesse di molestare il riferito
canonico Santomasi nel Tribunale della Nunziatura, e che dovesse deducere le
sue raggioni nella Doana, che era il giudice competente.
Nel 1747 l’Udienza di Matera, precedente ortatoria di questa Regia
Doana, rimise l’informazione che si era accapata da un suo subalterno contro
Nicola e Girardo Garzilli della terra di Forenza, sudditi di essa Doana, per il
furto considerevole fatto al sacerdote D. Nicola de Iasi, ed essendo stati
dichiarati innocenti li suddetti Garzilli da essa Doana, quindi pretese l’Udienza
di Matera la restituzione degli atti per poter procedere contro gli altri rei
rubricati non sudditi di Doana; ed essendosi rappresentato a S.M., tra gli altri
motivi, che quando nelle cause vi sono sudditi di Doana e non sudditi, ne spetta
la cognizione quoad omnes all’istessa Doana, siccome dichiarato avea la M.S. nella
causa d’omicidio di Vito Ricciardi e del Marchese Trasmundi sudditi di Doana,
ed altri che non
79
erano sudditi, siccome pocanzi ho anche riferito, fu ordinato con real carta del
primo gennaio di detto anno che questo Tribunale di Doana avesse seguitato a
procedere e l’Udienza di Matera non si fosse ingerita, non ostante che veniva
nell’informazione rubricato il subalterno dell’istessa Udienza, che preso ne avea
l’informazione, come dal detto tomo 6 a c. 186 ad 188.
Nell’anno 1748 procedendo il signor Consigliero Marchese Fragianni,
come delegato della Religione di Malta nella causa d’alcuni sudditi di Doana,
per lo fitto d’alcune terre del baliaggio di Venosa appartenente all’istessa
Religione, ordinò S.M., che privativamente apparteneva a questo Tribunale, e
quindi il suddetto Delegato non avesse proceduto e trasmessi gli atti all’istessa
Doana, come apparisce dalla real carta de 31 di gennaio di detto anno, che si
conserva nel sesto tomo fol. 314.
E di vantaggio quantunque fusse terminata la suddetta lite, e si fusse
stipulato istrumento del fitto di dette terre a beneficio di Pietro Durante ed
altri, onde pretendeva il Delegato della Religione Gerosolimitana procedere al
fitto delle massarie di campo del baliaggio suddetto, pur tutta volta con altra
real carta de 16 maggio dell’istesso anno 1748, che si conserva nell’istesso tomo
a c. 335, fu ordinato che il Tribunale di Doana avesse seguitato a procedere in
tal causa, con dar luogo alli gravami della Regia Camera.
Nell’istesso anno 1748 pretese la Corte della Città di Molfetta voler
procedere nella causa del furto fatto da Giovanni Majorani di Terlizzi contro i
correi non sudditi di Doana; fu con ordine della Regia Camera de 18 maggio
di detto anno, che si conserva a c. 334 thomi 6, stabilito che la Doana avesse
proceduto anche contro i correi non sudditi.
Nel 1749 con real carta de 8 gennaio fu ordinato al signor Marchese
Danza, delegato dell’arrendamento delle carte, ed al suddelegato del medesimo,
l’Avvocato Fiscale dell’Udienza di Montefusco, che non avesse proceduto nella
causa vertente tra alcuni commissarii dell’istesso arrendamento con alcuni locati
di questa Doana, e che avessero rimesso gli atti alla medesima, affinché avesse
proceduto e fatto giustizia.
Nel mese di dicembre dell’anno 1748, intesa S.M. del scandaloso
attentato commesso nella Città di Lucera da alcuni naturali di quella, coll’aver
procurato di sforzare e violentare la porta della casa d’un’onesta donna maritata
per insultarla nell’onore, si degnò comandare che questo Tribunale di Doana
avesse proceduto contro coloro che erano soggetti al foro doanale, e l’Udienza
di Lucera contro gli altri soggetti alla giurisdi80
zione ordinaria, comunicandosi vicendevolmente gli atti, ed indi dar conto della
decisione.
Si rappresentò da questa Doana alla M.S., che in virtù degli amplissimi
privilegi de locati avea questo Tribunale di Doana la privativa giurisdizionale di
conoscere e procedere anche contro i non sudditi, qualora vi fusse un solo
suddito inquisito; quindi la M.S. con real carta de 15 gennaio dell’anno 1749,
che si conserva nell’istesso tomo a c. 373, risolvé sovranamente ed ordinò che si
mantenessero ed osservassero alli locati puntualmente i privilegi, e che per
conseguenza questa Doana avesse proceduto in tutta l’enunciata causa così
contro i suoi sudditi, come contro coloro che non erano sudditi, senza dividersi
il conoscimento della medesima, e per la Real Secretaria d’Azienda furono
spediti gli ordini corrispondenti così alla Secretaria di Stato, e Giustizia, come
all’Udienza di Lucera.
Nell’istesso anno 1749 si pretese dall’Udienza dell’Aquila dover
procedere contro alcuni locati inquisiti nella medesima d’indebito arresto, ed
altro seguito nelle persone del Governatore, e Sindaco, intempoché per colà
passava un regimento svizzero, ed i rubricati locati si ritrovavano
amministratori dell’Università di Roccaraso loro padria, sul motivo che i rei
avendo delenguito intuitu officii dovevano essere solamente riconosciuti dalla
medesima Udienza loro giudice competente, e soprattutto perché essa Udienza
procedeva in tal causa precedente dispaccio di S.M. per la Real Secretaria di
Stato, Guerra, e Marina in data de 27 settembre 1747, e con altra real carta a
ricorso del detto Governatore di Pesco Costanzo in data de 2 del mese di
febraio per l’istessa Secretaria era stato ordinato alla medesima Udienza che
avesse riferito lo stato della causa suddetta. Ed essendosi tutto ciò distintamente
rappresentato alla M.S. da questa Doana, fu ordinato con real carta de 9 aprile
di detto anno per la sua Real Secretaria di Stato e di Azienda che la Doana
procedesse in questa causa, e che l’Udienza dell’Aquila non s’inserisse affatto in
essa, e senza ulterior dilazione rimettesse gli atti alla medesima, dicti thomi 6 a c.
385 ad 389.
Similmente nel detto anno 1749 pretese l’Udienza di Matera dover
procedere nella causa del tumulto accaduto nella Città di Pesticci, e tra gli altri
motivi, perché procedeva come special delegata di S.M., in virtù di real
dispaccio della Secretaria di Stato, Giustizia, e Grazia, ma ciononostante fu dalla
M.S. ordinato con real carta de 6 aprile di detto anno che la Doana avesse
proceduto, e se ne passarono gli ordini corrispondenti alla Secretaria di
Giustizia con altra real carta dell’istessa data, nella quale
81
viene espressato: queriendo el Rey absolutamente, que se observen inviolablemente los
amplissimos privilegios onerosos, que estan concedidos, y gosan los subditos, y locados de la
Aduana de Foxa; ha resuelto ecc. in dicto 6 thomo a c. 391.
Nel medesimo anno 1749 pretese l’Udienza di Montefusco voler
procedere nella causa dell’omicidio in persona di Pietro Messere, commesso da
Alesandro Savinetti suddito della Doana, e Domenico Carpentiero non suddito
di essa Doana, che ritrovavasi carcerato in quel Tribunale, tra perché il Savinetti
come fratello di Nicola Savinetti affittatore di terre salde, non dovea godere la
prerogativa del foro doanale, come altresì perché il Carpentiero per essersi
fatto affittatore di terre salde dopo commesso l’omicidio, ma dalla M.S. fu
ordinato che, costando che il suddetto Savinetti coabitava e viveva in
communità col Nicola suo fratello, avesse proceduto la Doana, anche rispetto
al carcerato Carpentiere, per il motivo (sono le parole del dispaccio) y los
Subditos de esa Aduana tienen la prerogativa de tirar a si los demas complices, aunque no
sean subditos de la misma, e perciò l’Udienza avesse rimesso gli atti col carcerato, a
c. 418 dicti thomi 6.
Per l’istesso motivo nell’anno 1750 pretese l’Udienza dell’Aquila
procedere contro Giuseppe Minutolo e Marc’ Antonio de Biase, sudditi della
Doana, per alcuni maltrattamenti fatti unitamente con Francesco de Vita
suddito della medesima, in persona di Donato Musillo, e dalla prefata Maestà
con real carta de 4 marzo di detto anno sovranamente (si) ordinò che la Doana
avesse proceduto, e l’Udienza a tenore dell’ortatoria speditali avesse rimesso gli
atti, a c. 437 dicti thomi 6.
Ritrovandosi nella Città di Corigliano di Calabria Citra molti sudditi di
Doana, ebbe ricorso il Duca nell’Udienza di Cosenza, esponendo voler essere
inteso qualora i naturali di Corigliano avessero presentato ortatoria della Regia
Doana, e così dall’Udienza fu ordinato; ma uniformandosi S.M. al dettame
della Doana dissapprovò la suddetta decretazione dell’Udienza, come
pregiudiziale alli privilegi doanali, ed ordinò all’Udienza che per l’avvenire dasse
la dovuta osservanza alle inibitorie della Doana, ed incontrandovi qualche
riparo l’avesse dovuto partecipare al Presidente Governatore, per darsi dal
medesimo la providenza conveniente, como practican todas las demas Audiencias del
Regno, y como siempre se ha accostumbrado, come apparisce dalla real carta de 26
Agosto di detto anno, a c. 460 dicti thomi 6.
La prerogativa del foro doanale è stata così inviolabile, che anche
qualora S.M.C. avesse stimato per giusti motivi che avesse proceduto
82
qualche tribunale superiore contro de locati, ha ordinato che dall’istessa Doana
si spedisse la delegazione in persona di altro ministro, siccome per appunto
nell’anno 1751 a 3 di settembre fu ordinato che nella causa dei fratelli Iaziolla
locati col Marchese di Torrecuso, in considerazione delle particulari circostanze
che concorrevano in quel caso avesse proceduto il consigliero de Gennaro, e
che la Doana avesse spedita la delegazione in persona del riferito consigliero, e
nell’istessa causa fu ordinato a 23 ottobre dell’istesso anno che la delegazione si
fosse spedita dal Tribunale di Doana colla clausola di darsi luogo appellazione
alla Camera della Summaria dispensando S.M. per esta vez, y sin que sirva de
exemplar a la formalidad de darse la appellacion en esa misma Aduana, quali reali carte
sono inserite nel detto 6 tomo a c. 506 ad 509.
E così parimenti fu ordinato nell’anno 1751 che la Doana avesse spedita
la delegazione all’Udienza di Salerno, acciò avesse proceduto contro alcuni di
Lauria rei della devastazione del bosco di Pruno, con dar luogo all’appellazione
della stessa Doana, ut a c. 493 dicti thomi 6.
E finalmente con altra real carta de 28 settembre 1754, spedita per la
Real Secretaria di Stato, Grazia, e Giustizia, reg. a c. 558 dicti thomi 6, fu
similmente ordinato alla Doana che avesse spedita la delegazione al Preside di
Trani acciò intendendosela con quel Vescovo, avesse procurato di togliere i
scandali che commettevano alcuni individui della terra di Fasano, tra quali vi
erano anche locati che tenevano scandalose prattiche.
E finalmente per il tumulto nella terra di Pescasseroli con omicidi e ferite
tra i naturali della suddetta terra non sudditi di Doana ed i locati di quella di
Gioia nell’anno 1759, fu delegato specialmente al Fiscale dell’Udienza
dell’Aquila che avesse presa l’informazione ed avesse date le provvidenze
convenienti e dopo avessero rimesso gli atti alla Doana, acciò avesse proceduto
e fatto giustizia, siccome fu eseguito, ed attualmente si trova procedendo la
medesima non solo contro tutt’i rei non locati, ma benanche contro i militari di
diversi regimenti, che si trovavano di guarnizione nel castello dell’Aquila, ed
accompagnavano le pecore de locati di Gioia, che calavano al Tavoliere della
Puglia, e passavano per il territorio di Pescasseroli con ordine della Doana,
motivo per il quale ne accadde il tumulto, la resistenza, gli omicidii e le ferite,
siccome si riscontra dal processo sistente in Doana.
Sebbene in virtù di regia prammatica emanata dalla Maestà Cattolica si
fusse ordinato che per le cause d’usuraria pravità avessero proceduto le
rispettive Udienze come delegate speciali della M.S., ed indi con altra
83
prammatica avesse ordinato che le medesime Udienze avessero proceduto
come suddelegate della Gran Corte della Vicaria, pur tutta volta con real carta
de 5 settembre 1753, reg. a c. 642 dicti thomi 6, ordinò che nelle cause de
locati, aunque sean de usura, deve proceder la misma Aduana.
Nel 1754 essendo stati maltrattati i subaffittatori del jus prohibendi del
tabacco da alcuni naturali di Caggiano sudditi della Doana, nell’atto che
visitavano il convento de P.P. Riformati di quella terra per controbanni e per la
numerazione delle piante dell’erba santa, fu ordinato con real carta de 22
settembre al Preside di Salerno che non avesse proceduto nell’espressata causa e
che osservasse le lettere ortatoriali della Doana, reg. a c. 559 dicti thomi 6.
Quantunque dalla Maestà Cattolica fussero stati stabiliti due
Luogotententi generali nella Doanella d’Apruzzo, e due Ministri, uno
dell’Udienza dell’Aquila e l’altro di quella di Chieti, per tutti l’interessi e cause
delle Doanelle, pur tutta volta con due reali carte dell’istessa data de 26 luglio
1758 ordinò S.M., che concorrendo in un’istessa causa locati della Regia Doana
di Foggia ed altri soggetti alla Doanella, dovea esser preferita la Doana di
Foggia alla Doanella d’Apruzzo, e che queste doveano rimettere gli atti alla
stessa Doana, affinché avesse proceduto e fatto giustizia, a c. 95 ad 98 thomi 7.
Finalmente qui mi cade in acconcio riferire la sinodale decisione fatta
dalla prefata Maestà Cattolica alli 4 settembre dell’anno 1739, in virtù di reali
carte che si conservano nel quinto tomo delle Istruzioni Doanali a c. 186 ad
220.
Pretese l’Udienza di Lucera spettare a quel tribunale la cognizione della
causa dell’inquisiti d’intelligenza, istigazione, e mano avuto nel colpo
d’archibuggiata tirato dal laico fra Giuseppe di S. Marco a D. Francesco Mosti,
e quantunque dalla Regia Doana se li fussero spedite le lettere ortatoriali ad
istanza di Giuseppe e Nicolo Lombardo conduttori di terre salde della Regia
Corte, in osservanza delle medesime fu rimessa la copia del processo, ma non
già l’originale informazione, sul motivo che dovea procedere contro gli altri rei
presenti ed assenti non sudditi della Regia Doana. Dal che ebbe motivo la
Doana di rappresentarlo a S.M., e così parimenti ne fu fatta rappresentanza
dall’istessa Udienza, la quale si raggirava a tre capi, il primo, che il privilegio
dovea godersi da soli locati descritti ne libri di questo Patrimonio, e non già
dalle mogli ed altri della di loro famiglia; il secondo, che il locato non abbia il
privilegio di traere i non sudditi; ed il terzo, che potea procedere l’Udienza in
contumaciam
84
contro il locato inquisito, il quale volendo domandare la remissione della causa
dovea presentarsi carcerato.
Stimò la santa mente della Maestà Cattolica con sua real carta spedita per
la Real Secretaria di Stato ed Azienda della data de 4 aprile sovranamente
risolvere che si sentisse questo Tribunale di Doana acciò avesse rappresentato
quel che l’occorreva sopra l’assunto, per indi passarsi unitamente colla relazione
di Lucera alla Real Camera di S. Chiara, affinché in vista di ambedue relazioni
l’avesse informato col suo parere.
In seguela di tal real ordine fu da ministri, che degnamente presedevano
in questo Tribunale, rappresentato diffusamente quant’occorreva intorno alle
prerogative del foro doanale, evacuando ad evidenza i motivi addotti
dall’Udienza di Lucera, ed essendosi trasmesse le cennate relazioni alla Real
Camera di S. Chiara, avendo inteso il dettame della medesima, ed avendo
avuto benanche presente la M.S. gli ordini che avea distribuiti la Regia Camera
della Summaria sopra le rappresentanze del Tribunale della Doana e
dell’Udienza di Lucera per la competenza di procedere nell’espressata causa e
sopra le istanze fatte dalli Deputati dei locati per la conservazione ed osservanza
del foro doanale, e la consulta fatta dall’istessa Camera della Summaria alli 10
luglio, con li motivi per i quali dovea procedere la Doana, fu dalla prefata
Maestà ordinato che il Tribunale di Doana avesse proceduto e fatto giustizia ad
istanza dell’espressato D. Francesco Mosti contro tutti gl’inquisiti e carcerati,
come altresì contro li rei d’intelligenza, istigazione, e cooperazione del delitto
dell’archibuggiata tirata dal laico francescano al suddetto Mosti, e che l’Udienza
di Lucera avesse rimesso gli atti originali alla medesima.
Dalla suddetta sovrana real determinazione emanata precedente consulta
della Real Camera di S. Chiara e della Regia Camera della Summaria è venuto a
confirmarsi il privilegio del foro doanale, che non solo debba godersi dalli soli
locati descritti ne libri di questo Patrimonio, ma benanche dalle mogli ed altri
della loro famiglia; che i locati abbiano il privilegio di traere i non locati; e che
non sia punto necessario che il locato inquisito e contumace per domandare la
remissione della causa debba presentarsi carcerato, ma colle sole lettere
ortatoriali della Doana debbasi rimettere, a riserva però dell’inquisiti d’omicidio,
che non possono domandare la remissione se non saranno costituiti nelle
carceri formali, o dell’Udienza, o dell’istessa Doana, tanto in seguela della regia
prammatica del Cardinal d’Althan, quanto in virtù di real carta spedita per la
Real Secretaria di Stato, Grazia, e Giustizia nel 1741 all’Udienza di Montefusco
diretta.
85
Ed ecco, se l’avviso non m’inganna, provato ad evidenza che tanto per
legge, quanto per l’inconcussa osservanza, dall’elezzione della regia Doana
fin’oggi, non solo deve la medesima procedere contro i non locati nella causa
delle violenze commesse contro alcuni cittadini di Lecce da alcuni di quella di
Gioia, de quali alcuni sono locati, ed altri non locati, ma benanche in ogni altra
causa simile, purché sia del real aggrado di S.M., alla quale s’appartiene l’assoluta
e plenaria potestà e regalia di concedere i privilegi ed esenzioni, ampliarli,
restringerli, o pure affatto abolirli.
Il motivo principale, che ho avuto in incomodare V.S., egli è stato per
essere illuminato nelle difficoltà che possono occorrere nell’esecuzione de
veneratissimi sovrani ordini, così nell’espressata causa de’ cittadini della terra di
Lecce con quelli di Gioia, come in ogni altra simile.
Che però si compiacerà prendersi l’incomodo di darmi i suoi savii
ammaestramenti, vale a dire, se la generale determinazione sovranamente
stabilita da S.M. non solo nelle cause criminali, qualora vi siano locati e non
locati, o benanche nelle cause civili abbia d’aver luogo, giacché concorrono li
stessi motivi che han mosso la santa mente della M.S. a così ordinare tanto nelle
une, quanto nelle altre, e se ricorrendo per causa civile, o querelando un locato i
non sudditi ci dobbiamo astenere di spedire ortatorie, ed ordinare
informazioni, o pure procedere sintantoché ci costi che i querelati non siano
sudditi, o pure debbano opponere la declinatoria del foro avanti alli giudici
competenti.
Inoltre dovendosi da questa Regia Doana procedere solamente contro i
locati così nell’espressata causa, come in altre simili, debba spedire le ortatoriali
per la trasmissione degli atti originali, o della copia di essi, ed in questo caso per
potersi procedere a quanto conviene di giustizia, sa V.S. molto bene che vi
sarebbe di bisogno di special dispensa di S.M. per abilitare la Doana a
procedere colla copia degli atti.
Finalmente se qualora accaderanno consimili cause tra locati e non locati,
debbansi accapare due informazioni, cioè una da questo Tribunale di Doana
per quello riguarda a suoi sudditi, e l’altra dalle rispettive Udienze rispetto alli
non sudditi di Doana, o pure debbasi ricevere l’informazione da un solo
Tribunale, e se sia preferito questo di Doana a quello dell’Udienza, o pure si dia
luogo alla prevenzione, ed indi rimettersi all’altro la copia, qualora ne farà la
premura di procedere, affinché non accada disordine di accaparsi due diverse
informazioni, e forsi tra loro contrarie, dal che ne potrebbe addivenire che ne
seguissero anche difformi le giudicature, motivo per il quale non si permette
dalle leggi di dividersi la continenza
86
delle cause, per li testi a V.S. ben noti in Leg. nulli prorsus 10 Cod. de Iud., e nella L.
l. e 2 § de quibus rebus ad eundem Iudicem eatur, e ne assegna il motivo Dionisio
Gothofredo nella suddetta L. 1 Lit. N §, quibus rebus etc. quia dissonum esset rem
apud diversos Iudices agitari, ne diversae oriantur sententiae, et unus Iudex condemnaret, alter
absolveret, et contrariae sententiae ferrentur in una eademque causa; e sebbene siasi
fortamente contravertito da Dottori, se gli espressati testi abbiano luogo nelle
cause criminali, e più tosto sia stata abbracciata la sentenza contraria, siccome
apparisce dalla decis. 426 del presidente de Franchis, nulla però di meno una tal
controversia non ha luogo nella Gran Corte della Vicaria, la quale per le
amplissime preeminenze che ella tiene, non divide le cause, quantunque
criminali, siccome rapporta deciso Capece nella dec. 122 in fin. ove sebbene
parli della Gran Corte di Palermo, pur tutta volta non v’è dubbio alcuno che la
nostra Gran Corte gode le stesse preeminenze, come ponderò il reggente S.
Felice nella decisione 358 n. 42, il che credo che maggiormente dovrebbe aver
luogo in questa Regia Doana, e per li suoi amplissimi privilegi, e per le
giudicature da tempo emanate, e per le replicate sovrane reali determinazioni di
sopra riferite.
Che però attendendo i suoi savii ammaestramenti per mia condotta, che
debolmente ho l’onore di difendere le raggioni fiscali e di questo Real
Patrimonio, desideroso sempre de suoi riveriti comandamenti, con perfetta
stima mi raffermo immutabilmente.
Di V.S. devotissimo obligatissimo servitore vero.
Carlo Maria Valletta
Foggia, lì 31 agosto 1760
Sig. marchese D. Carlo Mauri Avvocato fiscale del Real Patrimonio.
(ASFg, Dogana delle pecore, s. I, vol. 8, cc. 178 r. - 196 r.).
87
IL MOVIMENTO COOPERATIVO IN CAPITANATA
(1875-1915): NASCITA E SVILUPPO
DELLA COOPERAZIONE
IN UN'AREA DEL MEZZOGIORNO
1 - INTRODUZIONE
Che cos’è la cooperazione?
La domanda a prima vista può sembrare di facile risposta ma invece
rappresenta il punto di partenza per penetrare dentro una realtà di difficile approccio metodologico ed interpretativo.
Di fronte, infatti, non abbiamo solo il tentativo, storicamente iniziatosi in
Italia a partire dalla seconda metà dell’800, «di correggere e/o contrastare il
tipo di sviluppo impresso alla società del capitalismo per porre proprie finalità
alla soluzione del rapporto fra le diverse classi e allo sviluppo economico, per
renderli meno ingiusti socialmente [ ... ]»1, ma anche uno dei modelli organizzativi
possibili dei rapporti di produzione.
La cooperazione - cioé - non può essere fatta rientrare, se non a rischio
di stravolgenti e forzature, nella nozione classica di impresa in una società capitalistica, né tantomeno in quella di istituto preparatorio o complementare ad
una economica socialista2.
____________
1 - S. NARDI, Per la conoscenza storico-sistematica della cooperazione in F. FABBRI (a
cura di), Il movimento cooperativo nella storia d'Italia 1854-1975, Milano, Fertrinelli, 1979, pp.
693-708, p. 695.
2 - «La coopererazione è dunque individualista o socialista?
Essa è di fatto universalista e vuole riuscire a produrre e a scambiare i beni economici nella migliore delle condizioni e col minimo di attriti in qualunque regime e in qualsiasi mercato avendo per fine l’uomo e i suoi bisogni»: cfr. “Introduzione” di B. RIGUZZI a B. RIGUZZI-R. PORCARI, La cooperazione operaia in Italia, seconda ed. riveduta
ed ampliata, Milano “La Fiaccola”, 1946, p. 9
89
E questo perché esistono delle serie difficoltà «nell’affrontare una problematica tutt’affatto particolare, nella quale si compenetra e si realizza il momento politico - ideologico con l’esercizio economico in quanto impresa», ma
anche «dubbi, ognora insorgenti, sulla collocazione della storia del movimento
cooperativo in bilico tra l’economica, la sociale e la politica»3.
Un problema questo che per le sue caratteristiche rimanda, se si vuole
giustamente comprendee il movimento cooperativo in Italia, al sistema di rapporti che sono intercorsi (e che ancora intercorrono) tra le ideologie e la cooperazione e al modo in cui questi due momenti sono entrati in relazione nel corso
dello sviluppo dell’associazionismo nel nostro paese.
Ora, nella cooperazione si è sempre vista proprio «quella istituzione in
grado di correggere o addirittura di sostituire le strutture della società borghese-capitalistica [ ... ]»: ne è venuta fuori, anziché una interpretazione dei meccanismi interni e dei modi di sviluppo della società cooperativa, un vero e proprio
«modello di comportamento morale»4.
Tra i diversi problemi che si sono creati, uno dei più importanti è sicuramente quello della mancanza di analisi storiografiche in grado di restituire
piena autonomia all’argomento. Non mancano certo ottimi lavori e ricerche
importanti5, ma si vuole soffermare l’attenzione sul fatto che la storiografia ha
studiato il movimento cooperativo in maniera derivata, nel senso di non vedere
nella cooperazione una realtà autonoma nell’ambito dello sviluppo della società,
ma solo un aspetto di problematiche più generali, che di volta in volta sono
state lo sviluppo del movimento operaio, la questione contadina, e così via.
Questo non significa che sia un tipo di approccio metodologico sbagliato. Infatti ormai «è generalmente ammesso che la nascita della cooperazione
italiana rappresenta, nella storia del movimento operaio, l’anello di congiunzione che segna il trapasso dalle organizzazioni corporative e di mutuo soccorso a
quelle di resistenza e sindacali»6. Però ciò comporta non solo una subalternità
rispetto ad un processo di ben maggior peso, ma
____________
3 - S. NARDI, op. cit., p. 695.
4 - Cfr. Ibid, p. 696: il corsivo è mio.
5 - Si veda, tra tutti, il già citato volume a cura di Fabio Fabbri, la cui pubblicazione
è legata a motivi celebrativi (i 90 anni della Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue) ma
che è riuscito a dare una visione d’insieme del fenomeno cooperativo attraverso un taglio
storiografico tanto settoriale quanto geografico.
6 - S. NARDI, op. cit., p. 698.
90
soprattutto l’appiattimento su modelli interpretativi incapaci di pervenire ad una
conoscenza del tutto esauriente di un fenomeno per sua natura “diffidente”
verso approcci di tipo totalizzante7.
Resta però sempre da chiarire il perché la produzione scientifica esistente
non è riuscita, al di là dei reali meriti di sintesi storica, a raggiungere dei risultati
stimolanti dal punto di vista di una generale ricostruzione del fenomeno cooperativo. L’analisi sommaria di alcune delle tendenze interpretative che si possono
riscontrare nella storiografia del movimento cooperativo in Italia, può sicuramente portare nuova luce sulla questione8.
L’indirizzo che forse ha meno valenza sul piano storiografico, a causa del
suo carattere di “ovvietà”, è sicuramente quello che fa leva sulle specificità della
realtà nazionale in un dato momento storico. Questo però, non significa altro
che affermare l’esistenza di peculiarità nello sviluppo della società borghesecapitalistica in Italia in rapporto ad esperienze di altri paesi: il pericolo è di non
comprendere un movimento che, nato in una particolare situazione economica
e politica, è passato attraverso diverse condizioni tanto politico-istituzionali
quanto economico-sociali.
Esiste poi un indirizzo che, partendo dal concetto di cooperazione nella
sua accezione più largha, vede le origini del movimento cooperativo nelle comunità rurali e di villaggio. Vi è quindi un tentativo di creare una continuità nelle
realtà associative più diverse, dalle prime comunità, passando per le corporazioni, fino alle moderne forme mutualistiche e cooperative9. Il pericolo, in questo caso, è rappresentato proprio dal non
____________
7 - Bisogna sempre considerare che, essendo il movimento socialista e il movimento cattolico le forze popolari a cui la cooperazione ha fatto più spesso riferimento, è inevitabile che l’associazionismo sia studiato in funzione della storia di queste due grandi realtà
di massa dell’Italia post-unitaria. Ma è altrettanto inevitabile che le carenze della storiografia lasciando, «sostanzialmente nell’ombra le strutture base - tra cui quelle cooperativistiche
- sulle quali i due movimenti sono cresciuti, non hanno certo favorito lo sviluppo degli
studi sulla cooperazione»: Z. CIUFFOLETTI, Dirigenti e ideologie del movimento cooperativo in
G. SAPELLI (a cura di), Il movimento cooperativo in Italia. Storia e problemi, Torino, Einaudi,
1981, pp. 89-189, p. 89.
8 - Si seguiranno le considerazioni svolte da S. NARDI, op. cit., pp. 697-699 (a cui
si rimanda per la bibliografia generale), l’autore che più di ogni altro ha inquadrato la questione nei giusti termini, dando, nel suo saggio, un contributo decisivo allo sviluppo di
una storiografia che vuole aspirare all’esatta comprensione della cooperazione.
9 - Ad interpretazioni di questo tipo sono ricorsi anche due autori inglesi: l’origine
della cooperativa è rintracciata nelle “corporazioni religiose e nelle gilde artigiane”; le società
di mutuo soccorso rappresenterebbero “i legami intermedi” tra le istituzioni medievali e le
moderne società cooperative: cfr. E. TOPHAM E J.A. HOUGH, Il movimento cooperativo in
Gran Bretagna, trad. it. Roma, edizioni de “La Rivista della Cooperazione”, 1949, pp. 1416.
91
considerare che la cooperazione è nata in un particolare periodo, quello
della formazione di una moderna società capitalistica e come tale risente di tutte
le problematiche inerenti ad essa, non ultima quella del rapporto con l’allora
nascente movimento operaio organizzato.
Veniamo ai due ultimi indirizzi, che sono quelli che più di tutti hanno influenzato e influenzano tuttora la storiografia. Innanzitutto quello che analizza le
problematiche della cooperazione entro l’ambito della storia del movimento
operaio. A parte le considerazioni generali già espresse sulla non autonomia
degli studi sulla cooperazione in un ambito di questo tipo, resta il fatto che lo
sviluppo dell’associazionismo in Italia è frutto anche degli sforzi di settori economico-sociali che non possono essere fatti rientrare nella definizione di movimento operaio (vedi le cooperative di produzione artigiana e le cooperative
di categorie come gli impiegati statali), ed è stato influenzato da ideologie che
spesso erano in netto contrasto con il movimento socialista, come quella liberale e quella cattolica.
Infine, l’ultimo indirizzo prevalente è quello che si concentra sull’aspetto
tecnico-aziendale della cooperazione. In questo modo però viene messo da
parte proprio l’aspetto più significativo e di maggior importanza storica, quello
di un movimento che racchiude al suo interno degli ideali di dignità umana e
coscienza sociale e che, soprattutto, ricerca una “redenzione” sociale e politica,
prima che economica. Inoltre bisogna tenere presente le difficoltà esistenti in
Italia per studiare la cooperazione sul versante economico-finanziario perché
«per far questo occorrerebbero vaste risorse documentarie che, allo stato attuale, non sono disponibili o, quando lo sono, non consentono di operare la
scelta di un campione abbastanza significativo per evincere dagli studi particolari un modello esplicativo che si fondi su un processo di generalizzazione non
arbitrario»10.
Riassumendo, «si può dire che gli elementi che storicamente confluiscono
e specificano la cooperazione italiana sono dati dalla tipicità della problematica
relativa alla formazione della società borghese-capitalistica italiana, cioè il tempo
e il luogo specifico dell’accadere del fatto cooperativo, delle ideologie e degli
aspetti economici, in quanto la cooperazione come idea o ideologia più esistere
solo se esiste come impresa»11. Nell’aver
____________
10 - G. SAPELLI, La cooperazione come impresa: mercati economici e mercato politico in
G. SAPELLI (a cura di), op. cit., pp. 253 - 349, p. 253.
11 - S. NARDI, op. cit., p. 699.
92
considerato o privilegiato uno solo di questi elementi risiede l’errore degli indirizzi sopra citati e la causa maggiore della situazione in cui versa la storiografia
sulla cooperazione oggi in Italia.
Ad una non completamente chiara scelta metodologica fa da contrappunto l’enorme difficoltà nella fissazione di un quadro di riferimento statistico
quantitativamente e (soprattutto) qualitativamente idoneo ad un campo di ricerca così ricco e stimolante.
Il problema è essenzialmente di natura “ideologica”, nel senso di una
cooperazione che ha dovuto subire, fin dalle sue origini, continui attacchi (verbali ma anche, come nel periodo fascista, “fisici”) e tentativi di cooptazione da
parte di quei settori della classe dominante desiderosi di esorcizzare a tutti i costi una realtà che vedevano diversa e scasamente inquadrabile all’interno
dell’ideologia borghese-capitalistica.
Il perché di questo “modello culturale” che cercava di “diluire” la specificità e l’atipicità cooperativa annullandole nella impresa tout court era già stato
chiaramente individuato, un secolo fa, da uno dei masismi conoscitori e propugnatori della cooperazione nell’Italia liberale: Ugo Rabbeno. Secondo lo studioso, le società cooperative di produzione
«accennavano a voler esercitare l’industria in modo
diverso da quello che prevaleva e che era creduto
ottimo; annunciavano l’idea di voler sopprimere il
salario e di porre la direzione [ ... ] dell’industria in
mano a degli operai. Ora tutto questo turbava maledettamente gli economisti [ ... ]. Quando in Francia si
cominciò a parlare di associazioni produttive [ ... ]
era l’ora delle “armonie” di Bastiat. E questo
“ordinamento armonico” lo si credeva e lo si valutava assoluto, immutabile; e guai a chi osasse toccarlo!»12.
E uno dei mezzi usati per “esorcizzare” l’atipicità cooperativa può essere
considerato proprio il non aver studiato la cooperazione dal punto di vista
“sociale”: in tutte le statistiche ufficiali consultate per il periodo considerato, non
esiste alcun tipo di classificazione delle società per categorie di soci, ne’ l’analisi
del peso economico da loro esercitato all’interno delle singole società13.
____________
12 - U. RABBENO, Le società cooperative di produzione. Contributo allo studio della questione operaia, Milano, Dumolard, 1889, p. 445.
13 - La conferma si può trovare nel fatto che solo le statistiche riguardanti le banche
popolari contengono questo tipo di analisi: le società cardini del tentativo, caro alle classi
dominanti liberali, di controllare le spinte “popolari” del movimento cooperativo (cfr.
infra), le società meno cooperative di tutte, sono le uniche studiate e classificate come tali!
93
Ancora oggi questo modello culturale fa sentire il priprio peso ed è sicuramente tra le cause della mancanza di informazioni e rilevazioni unitarie della
realtà associativa attuale14. Una mancanza che «raggiunge aspetti grotteschi»15,
come la scomparsa della voce “soci” dalle statistiche ufficiali (indice evidente
della “confusione” tra società ordinarie, cioè società di capitali e, cooperative,
società di persone) o la non completa conoscenza di tutte le cooperative esistenti in Italia16.
Ma inevitabilmente, tutti questi problemi metodologici e statistici, calati
nell’ambito di una ricerca a livello locale, possono non solo assumere aspetti
diversi, ma accentuarsi in rapporto a specifiche difficoltà. E questo è il caso
della Capitanata. Si cercherà, perciò, di analizzare brevemente gli ostacoli ni contrati nel tentativo di delineare la storia del movimento cooperativo nella
provincia.
Un primo ordine di problemi riguarda la periodizzazione.
Se il 1875 è l’anno della fondazione della prima cooperativa della Capitanata17 (tenendo presente che con la “prima” si vuole intendere quella la cui
esistenza è stata rintracciata per prima da fonti ufficiali)18, la scelta
____________
14 - Questo è un fatto che viene riscontrato anche a livello d’indagine ufficiale: un
«elemento significativo [ ... ] è quello concernente l’estremo scoordinamento dei dati reperibili nel nostro paese in tema di cooperazione»: REGIONE PUGLIA. ASSESSORATO
AL LAVORO E COOPERAZIONE, Indagine conoscitiva sullo stato della cooperazione in
Puglia, Palo del Colle, Liantonio Editrice, 1985, p. 7.
15 - R. STEFANELLI, L'agricoltura nella crisi italiana, Roma, Editrice Sindacale Italiana 1974, p. 75.
16 - Si vedano, in proposito, le due statistiche ufficiali compilate a cura della Direzione Generale della Cooperazione presso il Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale: Il movimento cooperativo in Italia. Dati statistici relativi alla consistenza, alle iscrizioni e cancellazioni delle società cooperative nei registri prefettizi dall'anno 1951 al 1959, Roma, “La Rivista
della Cooperazione”, 1960 e Il movimento cooperativo in Italia. Dati statistici relativi alla consistenza, alle iscrizioni e cancellazioni delle società cooperative nei registri prefettizi dall'anno 1965 al
1969, Roma, “La Rivista della Cooperazione”, 1970.
17 - Si tratta della Banca dell'Associazione Operaia di Cerignola: cfr. F. VIGANO’, Resoconto di 160 banche popolari italiane e movimento cooperativo in Italia e all'estero del 1875, 1876 e
1877, Milano, Battezzati, 1878, pp. 26-27. Sebbene delle società non si ha più notizia, in
questo caso (cfr. nota seguente) Viganò risulta essere una fonte attendibile: la Banca di
Cerignola era tra le “Banche notate nel Bollettino delle Banche di Credito Ordinario”.
18 - Viganò riportava una non meglio identificata società di Foggia nel suo elenco
di cooperative esistenti in Italia nel 1865, ma di quella società non esistono altre notizie:
l’elenco, pubblicato in F. VIGANO’, Banques Populaires, Milano, 1865, è ora riportato in
W. Briganti (a cura di), Il movimento cooperativo in Italia 1854-1925, Roma-Bologna, Editrice
Cooperativa-Edizioni A.P.E., 1976, pp. 40-44.
94
di far concludere l’ambito cronologico della ricerca allo scoppio della I Guerra
Mondiale è stato dettato tanto da considerazioni generali, quali la particolare
situazione creata dagli eventi bellici con tutto quello che essa ha comportato
all’interno del movimento cooperativo nazionale19, quanto (e soprattutto) da
esigenze legate alla realtà locale.
Nel 1915 esistevano nella provincia 92 cooperative. La mancanza di statistiche post-belliche per alcuni settori costringe a prendere in considerazione
solo le banche popolari e le cooperative di produzione e lavoro per le quali si
hanno a disposizione dati quantitativi, sebbene riferiti agli inizi del periodo fascista20. Ora, su 63 cooperative facenti parte dei due settori considerati esistenti nel
1915, solo 23 (cioè il 36,5%) risultavano ancora in attività nel dopoguerra.
Questo alto indice di “mortalità” (il 63,5%) la dice lunga sull’azione di
“cesura” cronologica svolta dalla I Guerra Mondiale: non a caso, nel primo
studio ufficiale dedicato alla cooperazione nel dopoguerra, la provincia di Foggia non risulta mai menzionata21.
____________
19 - Generalmente parlando, da una parte ci fu una sempre maggiore integrazione
del movimento cooperativo con le strutture dello Stato, cosa che lo portò, in ultima analisi, a dipendere dalle sue scelte di politica economica; dall’altra, la completa ristrutturazione
verticale della Lega Nazionale della Cooperative, attraverso la creazione delle federazioni
nazionali di categoria: cfr. M.S. ONOFRI, La Lega negli anni della Prima Guerra Mondiale in
F. FABBRI (a cura di), op. cit., pp. 223-248.
20 - Cfr. ASSOCIAZIONE TRA LE BANCHE POPOLARI COOPERATIVE
IN ITALIA, Cenni statistici sugli istituii di credito legalmente costituiti con la forma di società
anonima esistenti nel regno al 1° gennaio 1922, Roma, 1923 e ISTITUTO NAZIONALE DI
CREDITO PER LA COOPERAZIONE, Annuario della cooperazione di produzione e lavoro
1919-1923, Roma, 1925: i due settori rappresentavano, però, complessivamente, il 67,9%
di tutte le cooperative censite nella provincia di Foggia nell’arco cronologico studiato (108
su 159).
21 - Cfr. LEGA NAZIONALE DELLE COOPERATIVE. UFFICIO STATISTICO, Il movimento cooperativo in Italia, Como, 1920. Delle altre 29 cooperative esistenti nel
1915 di sicuro si può dire che 3 (2 cooperative di consumo e una distilleria cooperativa) si
sciolsero per decorrenza di durata nel corso della guerra, mentre dei 9 consorzi agrari 6
erano sicuramente esistenti nel periodo post-bellico: cfr. FFDERAZIONE ITALIANA
DEI CONSORZI AGRARI, Convegno dei consorzi agrari ed enti affini dell'Italia meridionale,
Napoli, 4 ottobre 1926, pp. 7-8, p. 10.
L’uso di una fonte così “lontana” è dipeso dalla impossibilità di consultare la statistica stilata dalla Federazione nel 1921 (FEDERAZIONE ITALIANA DEI CONSORZI
AGRARI, I consorzi agrari italiani e le società affini. Note statistiche, 1919-1920 Roma, 1921): il
volume, infatti, non risulta nel catalogo delle due biblioteche nazionali di Firenze e Roma
ed è “scomparso” dalla biblioteca del Ministero di Agricoltura e Foreste. Considerando
anche i consorzi, le società in attività dopo la I Guerra Mondiale salgono a 29, cioè il 40,3%
delle 72 esistenti nel 1915.
95
Il secondo, e più importante, ordine di problemi riguarda le fonti. E’ quì
che alle difficoltà di poter disporre, a livello nazionale, di studi statistici adeguati
alla realtà cooperativa in quanto realtà sociale ed economica “diversa”, si sommano gli enormi problemi legati alla possibilità di integrare le insufficienti fonti
nazionali con dati reperiti a livello locale.
Se centrale nell’analisi storica deve essere «la consistenza del movimento
cooperativo sia come soci e imprese nei diversi settori, sia come entità economiche prodotte in rapporto alle disposizioni territoriali, al mercato e alle classi
sociali»22, la disponibilità di fonti alternative ed integrative diventa, a questo
proposito, indispensabile alla reale conoscenza del fenomeno cooperativo nella
sua integrità, del “meccanismo sociale della cooperazione”.
Da non molto tempo, gli studiosi del movimento cooperativo hanno
iniziato ad usare sistematicamente il Bollettino Ufficiale delle Società per Azioni. Cooperative (d’ora in avanti designato con la sigla BUSA) pubblicato a partire dal
1883 dal Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio (MAIC) e, successivamente, da altri ministeri23. Sul BUSA sono riportati integralmente gli atti costitutivi (fino al 1935), i verbali o gli estratti dei verbali delle assemblee (generali
e straordinarie), oltre ai bilanci di esercizio delle singole cooperative (secondo il
Codice di Commercio del 1882 infatti, le società coopertive erano soggette alle
stesse norme riguardanti la pubblicazione degli atti a cui erano soggette le società ordinarie).
E’ questa l’unica fonte a stampa disponibile in Italia per conoscere la
struttura interna delle cooperative, cioè la composizione sociale, e la vera natura
della loro attività, spesso non chiaramente individuabile dalla denominazione
ufficiale, cioè, in ultima analisi, la collocazione all’interno dell’economia e della
società.
C’è, poi, il tentativo di recuperare il patrimonio archivistico statale.
All’Archivio Centrale di Stato e a quelli provinciali e comunali, si sono affiancati
gli archivi dei Tribunali, prinicipalmente il “Registro delle Imprese” tenuto presso la Cancelleria Commerciale, gli archivi delle
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22 - S. NARDI, op. cit., p. 708.
23 - Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio (1883-1920), Ministero
dell’Economia Nazionale (1925-1929), Ministero delle Corporazioni (1929-1943), Ministero dell’Industria, del Commercio e del Lavoro (1944-1946) e Ministero del Lavoro e della
Previdenza Sociale (1947-).
Il BUSA presenta due lacune: 1921-1924 e 1943-1944.
96
Camere di Commercio e gli archivi del Ministero del Lavoro, principalmente
lo “Schedario Generale della Cooperazione” presso l’Ufficio Provinciale del
Lavoro e della Massima Occupazione - Sezione Cooperative.
La possibilità di disporre di tutte le fonti citate rappresenta l’unico modo
per arrivare ad avere un quadro abbastanza completo delle singole cooperative
e del loro rapporto con le diverse realtà interne ed esterne, anche se spesso questo quadro risulta statico come, ad esempio, la distribuzione dei soci per categorie, conosciuta solo all’atto costitutivo e non durante tutto l’arco di vita della
società.
Si comprende così quali tipi di problemi possono sorgere quando qualcuna di queste fonti viene a mancare. E’ questo il caso della provincia di Foggia.
Il censimento del movimento cooperativo in Capitanata è stato effettuato pressoché interamente con i dati desunti dal BUSA. Non è stato possibile, infatti,
consultare, tra le fonti integrative più importanti, né lo “Schedario Generale
della Cooperazione”, né il “Registro delle Imprese” 24, mentre una parte rilevante del “Fondo Prefettura” dell’Archivio di Stato di Foggia (d’ora in avanti
designato con la sigla ASF) è andata persa a causa degli avvenimenti bellici.
Questo ha comportato l’impossibilità, da una parte, di verificare o integrare
alcune lacune nei dati del BUSA e di conoscere, per la maggior parte delle cooperative, la data esatta di cessazione dell’attività (non sempre facilmente individuabile, neanche per mezzo del BUSA), dall’altra di ricostruire il tipo di rapporto che le società avevano instaurato con i pubblici poteri, ricostruzione che
per le cooperative di produzione e lavoro sarebbe stato possibile effettuare
partendo dalla consultazione del Registro Prefettizio, al quale la legge li obbligava ad iscriversi per poter partecipare agli appalti pubblici.
Con lo sfoglio di alcuni giornali locali e con i pochi dati reperiti presso
ASF si è cercato di sopperire ad alcune di queste mancanze. Quello che ne viene fuori è, nonostante tutto, un quadro che permette di valutare con una qualche “tranquillità” il peso e il ruolo che il movimento cooperativo ha avuto
all’interno della realtà locale.
____________
24 - Chi scrive ha fatto numerosi tentativi, diretti o indiretti, presso gli uffici co mpetenti per cercare di avere visione delle fonti suddette e, per un motivo o per l’altro, ne ha
ricevuto sempre risposta negativa.
97
2. LA COOPERAZIONE IN CAPITANATA (1875-1915): ANALISI
DELLE STRUTTURE ASSOCIAZIONISTICHE
Sin dalla nascita, il movimento cooperativo in provincia di Foggia si è
contraddistinto per il suo carattere di “atipicità”, rispetto non solo alla relatà
nazionale ma anche a quella regionale. Infatti, se furono cooperative di consumo le prime società ad essere costituite tanto in Italia (il Magazzino di Previdenza
dell’Associazione Generale degli Operai di Torino è del 1854) quanto in provincia di Bari25 e di Lecce26, in Capitanata la cooperazione prese subito la forma di credito popolare e cooperativo.
Questo non rappresenta solo un fatto simbolico. La conferma si ha analizzando la Cronologia delle Società cooperative esistenti in Capitanata secondo l'anno di
fondazione: 1875-191527: sui 34 comuni interessati alla nascita di una realtà cooperativa, in ben 24, cioè nel 70,6% dei casi, la pirma società a sorgere fu una banca popolare, una percentuale che sale al 76,5% considerando le 2 casse rurali e,
quindi, il settore del credito popolare e cooperativo nel suo complesso.
Si può parlare, perciò, di una vera e propria “polarizzazione” del movimento cooperativo foggiano intorno al settore del credito, una polarizzazione
che risulta sorpattutto nel periodo delle origini e in rapporto ad altre realtà regionali:
____________
25 - «Già nell’ottobre del 1861 era sorta a Bari, per iniziativa dell’Associazione Filantropica degli operai baresi, società promossa dai mazziniani, un magazzino di consumo annesso ai locali della stessa associazione»: E. MAZZOCCOLI, Appunti sul processo di
formazione del movimento cooperativo nel Barese (1861-1908) in “Movimento Cooperativo”,
Anno VIII, n. 3-4, maggio-giugno-luglio-agosto 1962, pp. 306-330, p. 307.
26 - La prima società di cui si ha notizia, nel 1870, è un magazzino cooperativo a
Brindisi: cfr. C.G. DONNO, Mutualità e cooperazione in Terra d’Otranto (1870-1915), Lecce,
Milella, 1982 (d’ora in avanti DONNO), pp. 62-63.
27 - Cfr. APPENDICE II
98
Ma se tecnicamente le banche popolari erano cooperative (ammettevano, infatti, il “voto per testa” e non per azioni), esse hanno rappresentato, nella
storia del movimento cooperativo italiano, una “rottura” rispetto alle esigenze
che spingevano generalmente gli strati più deboli e più poveri della società ad
associarsi tra loro. Vero e proprio coagulo delle iniziative portate avanti dalla
borghesia liberale per incanalare le istanze presenti nel movimento cooperativo
in un disegno di equilibrio socio-politico generale, il credito popolare andò
sempre più specificando il proprio come un ruolo di “rastrellamento” delle
risorse che potessero servire a consolidare una borghesia in ascesa29.
Perciò, si è preferito analizzare i due settori più strettamente popolari, i
quali permettono di mettere in evidenza la peculiarità di un movimento cooperativo poco sviluppato e, in ultima analisi, arretrato.
____________
28 - Fonte: BUSA per FOGGIA e DONNO, p. 65 per Lecce. Si tenga presente che
il termine iniziale per Foggia è il 1875, mentre per Lecce è il 1885.
Per la distribuzione geografica nella provincia di Foggia, cfr. APPENDICE III.
29 - Secondo Rabbeno, lo sviluppo delle banche popolari aveva rappresentato un
fattore ostacolante o ritardante (seppure indirettamente) della nascita delle cooperative di
consumo: cfr. U. RABBENO, La cooperazione in Italia. Saggio di sociologia economica, Milano,
Dumolard, 1886, pp. 23-25.
99
LA COOPERAZIONE DI CONSUMO
Prima di tutto, bisogna sottolineare il ritardo del suo apparire nella provincia30. E’ in questo caso, più che in ogni altro, si può trovare conferma
all’ipotesi di uno stretto rapporto tra strutturare associazionistiche precedenti e
nascita del movimento cooperativo.
Dal Magazzino di Previdenza di Torino, la cooperativa di consumo è stata
spesso diretta emanazione delle Società di Mutuo Soccorso 31 che cercarono,
anche attraverso essa, di costruire le prime “reti protettive” in un periodo in cui,
soprattutto in alcune zone dell’Italia settentrionale, l’incipiente sviluppo capitalistico iniziava a far sentire le sue contraddizioni.
Ma, proprio un tessuto mutualistico ed associativo “forte” mancava in
Capitanata, anche se quello esistente era abbastanza diffuso geograficamente32.
La conferma si ha soprattutto dall’analisi delle singole SMS fatta da Franco
Mercurio: in nessuna società da lui studiata, i dati a disposizione riferiscono di
tentativi di impiantare magazzini di previdenza o di consumo33.
Comunque, le prime statistiche ufficiali sulle società cooperative di consumo in Italia fotografavano, per la Puglia, una situazione di scarca consistenza
numerica:
____________
30 - La prima cooperativa di consumo in Capitanata fu la Società Cooperativa di Consumo sorta a Vico del Gargano nel 1892: cfr. BUSA.
31 - D’ora in avanti denominate con la sigla SMS
32 - Al 1885, già 44 comuni (su 53, l’83%) avevano visto sorgere una SMS: cfr. F.
MERCURIO, Le organizzazioni proletarie di Capitanata. Dalle Società di Mutuo Soccorso ai Fasci
Operai in “La Capitanata”, n. 1-6, gennaio-dicembre 1978-1979, parte prima, pp. 139-200,
Tav. 1, p. 145.
33 - Cfr. ibid: questo poi non vuol dire che non vi furono cooperative di consumo
create da SMS, ma vuole solo essere l’indicazione di una tendenza generale.
100
NOTE:
(a) Per le società di Foggia, cfr. BUSA.
(b) Un società aveva cessato l’attività per delibera dei soci, mentre un’altra, fondata nel 1893, aveva funzionato solo per pochi mesi.
(c) La società di Gallipoli, fondata nel 1889, aveva cessato l’attività per aver
esaurito il capitale in imprese arrischiate.
(d) al 31/12/1893.
(e) 2 erano agricole.
La provincia di Foggia era quella in cui la cooperazione di consumo non
solo era meno sviluppata, ma anche dal punto di vista economico partiva in
ritardo.
Nonostante la forzatura metodologica, è sembrato utile mettera a confronto due bilanci d’esercizio delle uniche società di consumo legalmente riconosciute in Puglia: da una parte quello al 31/12/1888 della Società dei Magazzini
Cooperativi di Gallipoli (Lecce) e, dall’altra, quello al 31/12 1892 della Società Cooperativa di Consumo di Vico del Gargano:
____________
34 - Elaborazione su dati tratti da MAIC. DIREZIONE GENERALE DELLA
STATISTICA, Sulle associazioni cooperative in Italia. Saggio statistico, Roma, 1890 e IDEM,
Società cooperative di consumo al 31 dicembre 1895, Roma, 1897.
Nel 1895 esistevano, in tutt’Italia, 1013 cooperative di consumo: ibid.
101
La debolezza economica della cooperativa di Vico era evidente: le
279,50 lire versate rappresentavano solo il 18,3% dell’intero capitale sottoscritto, che ammontava a L. 1522.50. Ma è il bilancio successivo a svelare la debolezza della società: se da un lato il versato rappresentava ancora una quota minima di quello sottoscritto (291 lire su di un totale di L. 1450), dall’altra la cooperativa aveva già accumulato un disavanzo di 238,47 lire. Non solo, ma dal
bilancio risulta una somma molto elevata, per le condizioni economiche della
società, da avere da debitori per merci a credito (1786,55 lire)36: non può meravigliare, perciò, che l’Assemblea straordinaria del giugno 1897 votò
all’unanimità lo scioglimento anticipato della società, a causa della perdita di
oltre la metà del capitale sottoscritto 37.
L’analisi delle 22 cooperative di consumo per le quali si dispone dello
statuto (sulle 23 censite)38 permette di evidenziare quella che può essere
____________
35 - FONTI: per Gallipoli, cfr. MAIC. Sulle associazioni. cit.: per Vico cfr. BUSA,
Anno XI (1893), fasc. XI, pp. 299-300: per la compilazione della tabella si è utilizzato lo
schema del MAIC.
36 - Cfr. BUSA, Anno XIII (1895), fasc. XII, p. 238.
37 - Cfr. BUSA, Anno XV (1897), fasc. XXXV, pp. 55-57: stranamente, però, la
cooperativa risultava ancora censita in LEGA NAZIONALE DELLE COOPERATIVE
ITALIANE [LNCI], Statistica delle società cooperative esistenti nel 1902, Milano, 1903, pp.
120-121.
38 - La Società Cooperativa di Consumo di Margherita di Savoia risulta solo nell’elenco
delle cooperative esistenti nel 1915 in LNCI, Annuario statistico 1916 delle società cooperative
102
considerata la caratteristica maggiore della cooperazione di consumo in Capitanata: l’estrema varietà dei sistema di vendita applicati dalle diverse società.
Per una cooperativa di consumo il tipo di sistema usato è un dato assolutamente rilevante. L’adozione di uno o dell’altro, può essere una chiave interpretativa della reale natura della società, della sua forza e della sua debolezza.
Ecco come effettuavano la vendita le cooperative di consumo della Capitanata:
____________
esistenti in Italia escluse quelle che hanno per scopo prinicipale l'esercizio del credito, Como, 1917
[d’ora in avanti LNCI, Annuario 1916].
39 - Manca la Società di Previdenza con Magazzino Cooperativo di S. Severo, la quale era
più specificatamente una cooperativa mista di consumo.
103
Bisogna sottolineare essenzialmente due caratteristiche: da una parte una
sola cooperativa, i Magazzini Cooperativi di Consumo di Monte S. Angelo, utilizzava
per intero il “sistema rochdale” 40; dall’altra la bassa percentuale (il 33,3%) di
cooperative che applicava il ristorno, cioè la distribuzione degli utili in ragione
degli acquisti effettuati, uno dei mezzi più importanti per rafforzare tanto i legami tra i soci e la cooperativa, quanto la stabilità della base sociale.
Analizzando la cooperazione di consumo in Capitanata, tanto il sistema
rochdale quanto il ristorno sono stati usati come “indici di modernità” delle
singole società e del settore nel suo insieme. Ora, questo è totalmente vero solo
in teoria, nella pratica applicazione un pò meno. Ma, in generale, se il ristorno
era (ed è) uno dei criteri alla base della diversità della società cooperativa rispetto quella ordinaria in quanto consente ai soci di realizzare «un vantaggio
economico in ragione essenzialmente del volume di “occasioni di incremento”
rispettivamente fornito all’impresa [ ... ]»41, quello rochdale era un sistema che
aveva bisogno di essere verificato caso per caso, in base alle singole realtà locali.
O, per dire meglio, il sistema rochdale da solo non garantiva una maggiore
stabilità della base sociale o un legame più stretto tra i soci e la cooperativa.
Il caso dei Magazzini Cooperativi di Consumo di Monte S. Angelo è, a questo
proposito, illuminante.
Istituita nel 1900 dalla Società Mista di Mutuo Soccorso “Principessa Elena” la
società era, in effetti, una via di mezzo tra la cooperativa di consumo di tipo
“piemontese” 42 e la cooperativa rochdaliana. Se da una parte, infatti, ammetteva come soci effettivi solo quelli della SMS, stabiliva che il presidente di questa
doveva essere anche presidente della
____________
40 - Dal nome della cittadina inglese dove, nel 1844, nacque la prima cooperativa di
consumo, il sistema prevedeva le vendite a prezzi correnti ed aperte a tutti, mentre gli utili
erano divisi in due parti, l’una a pagare gli interessi agli azionisti, l’altra distribuiva agli
acquirenti in proporzione degli acquisiti fatti.
41 - P. VERRUCOLI, La società cooperativa, Milano, Giuffrè, 1958, p. 64.
Bisogna considerare che sebbene non realizzi una perfetta giustizia retributiva, il ristorno non attua nessun tipo di criterio capitalistico: proprio per questo motivo,
l’impronta più o meno “capitalistica” della cooperazione può derivare da sistemi legislativi
in cui sia o non contemplato: cfr. ibid. pp. 75 e ss.
42 - Le sue caratteristiche maggiori erano la vendita a prezzo di costo e ai soli soci,
la devoluzione degli utili alla società operaia madre e una forte presenza di soci onorari.
104
cooperativa e assegnava il 5% degli utili alla società madre, dall’altra una parte
degli utili, seppur minima (solo il 10%), veniva distribuita in ragione degli acquisti43.
Ma, analizzando meglio la struttura della società ed il suo corpo sociale,
si scopre che essa aveva poco del magazzino di consumo creato per difendere
le deboli economie di ceti popolari minacciate dal carovita e dagli speculatori.
Tra i 41 soci che si costituirono, tutti “gentiluomini, possidenti ed artigiani”, vi
erano alcuni esponenti della ricca borghesia cittadina (5 professionisti, 2 possidenti e un sacerdote), una borghesia strettamente collegata con le autorità locali44. Il capitale della società, formato da 371 azioni sottoscritte, era praticamente
tutto nelle mani di poci soci: basti pensare che 9 persone possedevano 255
azioni, il 68,7% dell’intero capitale, mentre 25 soci avevano sottoscritto meno di
10 azioni.
Il dato è molto significativo soprattutto perché lo statuto, da una parte,
assegnava al capitale un dividendo molto alto, il 60% (come alto era il numero
massimo di azioni, 200), dall’altra stabiliva la non eleggibilità di tutti quei soci
che avessero sottoscritto meno di 25 azioni. Considerando che solo 9 soci godevano delle caratteristiche previste dallo statuto, si comprende bene come la
“teoricamente” più moderna cooperativa di consumo della Capitanata fosse in
realtà una società nata per gli interessi di un ristretto nucleo di ricca borghesia45.
Ma il dato sicuramente più interessante che emerge dallo studio della cooperazione di consumo in Capitanata è quello che riguarda la concentrazione,
non tanto quantitativa quanto piuttosto qualitativa, di due nuclei di società con
caratteristiche di classe in due zone opposte (geograficamente ed economicamente) della provincia, l’analisi dei quali fornisce uno spaccato molto significativo del movimento cooperativo foggiano.
____________
43 - Cfr. Atto costitutivo in BUSA. Anno XIX (1901), fasc. XII, pp. 149-157.
Per le notizie che seguono, cfr. Statuto ibid, pp. 151-157.
44 - «Ieri sera coll’intervento delle autorità cittadine e gran numero di soci ebbe
luogo l’inaugurazione della nuova sede della Società di Mutuo Soccorso “ReginaElena”»:
“Il Foglietto”, Anno III - n. 167, 1 marzo 1897.
45 - La cooperativa ebbe vita breve. L’ultima rilevazione statistica che la dava per
esistente era quella della Lega del 1902 (LNCI, Statistica... cit... pp. 120-121): non comparendo nella statistica MAIC del 1906, si può dedurre che la società si sia sciolta tra il 1904 e
il 1906, dato che nell’Archivio Comunale di Monte S. Angelo sono contenute alcune
“notizie sulla Cooperativa di Consumo” riportanti la data del 1904. Purtroppo la loro
visione non è stata possibile: il pessimo stato degli archivi comunali di alcuni tra i maggiori centri della provincia di Foggia ha rappresentato, un ulteriore ostacolo ad una conoscenza più completa del movimento cooperativo in Capitanata.
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La zona dove la cooperazione di consumo attecchì maggiormente fu il
Subappennino. Sono qui, infatti, gli unici 4 comuni della Capitanata (Carlantino,
Celenza Valfortore, S. Marco La Catola e Volturara Appula) in cui la prima
cooperativa a sorgere fu una società di consumo, una percentuale dell’11,8 rispetto ai 34 comuni interessati alla nascita di una cooperativa e che rappresenta
l’unica nota di diversità nella cronologia di un movimento cooperativo nettamente dominata dalle banche popolari (cfr. APPENDICE II). Non solo, ma in
questi 4 comuni le società di consumo rappresentarono anche l’unica realtà cooperativa a sorgere.
Costituite tra il 1902 e il 1913, le 6 cooperative del Subappennino (alle 4
citate nella Cronologia bisogna aggiungere la cooperativa di Deliceto e un’altra
società sorta a Celenza Valfortore nel 1911) furono la conseguenza diretta di
una situazione economico-sociale molto particolare, ben fotografata da Presutti
nell’Inchiesta del 1909. Proprio qui
«Quantunque, per il fatto che domina il piccolo affitto e che si estende sempre più la piccola priprietà
coltivatrice, non vi sia un terreno propizio alle Leghe
di resistenza, il contadino tende più che in passato ad associarsi»
Non può meravigliare, perciò, se
«Principalmente nei paesi di emigrazione […] in provincia di Foggia [...] si sono sviluppate [...] cooperative di consumo tra contadini»46
La loro caratteristica maggiore era quella di essere promosse dalle leghe
o dai circoli socialisti locali, unico esempio (con le cooperative di S. Giovanni
Rotondo, che rappresenta l’altra zona da analizzare: cfr. infra) di società di consumo con una certa fisionomia di classe, anche se a volte delineata più a livello
di composizione sociale che di strutturazione della società.
Soprattutto 2 sono le cooperative su cui è opportuno soffermarsi brevemente.
Una è la Cooperativa di Consumo Sempre Avanti, sorta a Deliceto nel 1904 e
promossa dalla locale Lega dei contadini e dal Circolo Socialista47.
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46 - Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle provincie meridionali e nella Sicilia, Vol. III, Le Puglie, Tomo I, Relazione del Delegato Tecnico Prof. Errico Presutti,
Roma, 1911 [d’ora in avanti PRESUTTI], p. 545: il corsivo è mio. Carlantino (1851 abitanti), Celenza Valfortore (3491 abitanti), S. Marco La Catola (4229 abitanti) e Volturara
Appula (2649 abitanti) avevano una percentuale di emigrazione nel 1907 che era, rispettivamente, del 7.18 del 4.07, del 4.21 e del 7.78, tra le più alte della provincia (Carlantino e
Volturara rappresentavano i due comuni con maggiore emigrazione): cfr. ibid., pp. 650 e
ss.
47 - Cfr. Atto costitutivo in BUSA, Anno XXII (1904), fasc. XLIX, pp. 149-162.
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La società aveva caratteristiche di classe molto accentuate e dovette nascere soprattutto come strumento ausiliario dell’attività della Lega. I 144 contadini che
si costituirono, infatti, si erano dati uno statuto in cui soci della cooperativa potevano essere solo gli iscritti alla Lega e al Circolo, ben il 15% degli utili erano
riservati alla “propaganda e peraltro miglioramento del proletariato” e in cui
una norma contemplava l’espulsione di quei soci che avessero acquistato più di
una volta merci per persone estranee alla cooperativa48.
L’altra è la Società Anonima Cooperativa di Consumo di S. Marco La Catola,
l’unica per la quale si conosce la “spinta” alla nascita: secondo Presutti, infatti, la
cooperativa fu costituita dai contadini per rompere la coalizione dei venditori
comunali che mantenevano alti i prezzi49. Lo statuto non presentava particolarità, ma il fatto di essere l’unica cooperativa di consumo del Subappennino ad
essere federata alla Lega Nazionale delle Cooperative, le conferisce uno status
particolare50.
Ma, soprattutto a S. Giovanni Rotondo la cooperazione di consumo
ebbe la capacità di mobilitare i ceti popolari intorno a società con caratteristiche
di classe molto accentuate.
Nel comune del Tavoliere, su 4 cooperative costituite, ben 3 erano cooperative di consumo, la cui caratteristica comune era la filiazione diretta dalla
Lega o dal Circolo Operaio e la composizione sociale assolutamente popolare.
Basti pensare che sui 166 soci complessivi che si costituirono nelle tre società tra
il 1904 e il 1908, ben 148 (l’89,1%) appartenevano alla classe lavoratrice: 87 erano i lavoratori rurali (83 contadini 1 piccolo agricoltore 1 bracciante e 2 pastori), mentre 61 erano lavoratori urbani51
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48 - Cfr. Statuto ibid, pp. 152-160.
49 - Cfr. PRESUTTI, p. 545. Secondo l’atto costitutivo, su 90 soci i lavoratori agricoli erano 74, di cui 71 coloni, 2 contadini (tira cui una donna) e 1 bracciante: cfr. BUSA,
Anno XX (1902), fasc. XL, pp. 3-11.
50 - Cfr. APPENDICE V.
51 - Cfr. Atti costitutivi in BUSA: Cooperativa di Consumo (1904), Anno XXII
(1905) fasc. VII, pp. 3-9; Cooperativa di Consumo e Previdenza (1906), Anno XXIV (1906)
fasc. XXXVI, pp. 196-206; Unione Cooperativa fra Operai e Contadini (1908), Anno XXVI
(1908), fasc. XLIV, pp. 58-70. A questa cifra vanno aggiunti i 9 piccoli negozianti (fornai,
macellai), mentre i rimanenti 5 soci erano così distribuiti: 2 guardiani, 2 orefici, 1 sacerdote.
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Come si può vedere, l’elemento borghese era del tutto assente nelle cooperative di S. Giovanni Rotondo, dato che le rendeva le più schiettamente
popolari dell’intero settore di consumo della Capitanata. Gli statuti sancivano
chiaramente questo carattere, e vale la pena analizzarli (brevemente) uno per
uno.
La Cooperativa di Consumo fu la prima ad essere costituita. Nata nel 1904
presso la Lega di resistenza dei contadini, ammetteva come soci solo contadini ed
operai, aveva un taglio azionario bassissimo (L. 3) e non ammetteva la delega
per le assemblee. La vendita era fatta ai soli soci e a scopo di beneficenza per
poter usufruire delle disposizioni legislative che esentavano dal dazio consumo
le cooperative con scopi simili, mentre il ristorno era applicato ai 2/3 degli utili.
La società, alla scadenza dei 10 anni previsti, si ricostituì nel maggio 1914,
con uno statuto che presentava due novità di rilievo: da una parte la base sociale veniva allargata anche alle “altre classi povere”, dall’altra scompariva il ristorno, sostituito da una completa destinazione degli utili alla riserva52.
La Cooperativa di Consumo e Previdenza del 1906 era quella che aveva sottoscritto il programma più ambizioso. Costituita da 28 lavoratori urbani presso il
Circolo Operaio, aveva come scopo principale la “mutua beneficienza” ma
contemplava anche sussidi giornalieri per i soci ammalati (riconosciuti bisognosi
dal Consiglio d’Amministrazione e alla condizione di essere abituali consumatori dei magazzini sociali) e la formazione di fondi di previdenza e di pubblica
utilità. Il corpo sociale era circoscritto ai soli abitanti del comune purché «ritraggono dal proprio lavoro il loro sostentamento» e, per garantire una maggiore
partecipazione alla vita sociale, non era ammessa la delega per le assemblee. A
completare la fisionomia, per così dire, “difensivistica” della società, si erano le
disposizioni che assegnavano l’80% degli utili al “Fondo Previdenza”, un fondo
che, al principio previsto solo per i soci bisognosi o ammalati, sarebbe diventato godibile da parte di tutti i soci una volta rafforzata economicamente la
società53.
Ma l’ambizioso progetto non deve essere stato attuato. Costituitasi con
un capitale sottoscritto di L. 840 di cui il versato ammontava a sole L. 140, la
cooperativa ancora nel 1910 aveva L 516 di capitale versato, mentre
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52 - Cfr. BUSA, Anno XXXII (1914), fasc. XLIV, pp. 112-114.
53 - Cfr. Statuto in Atto costitutivo cit., pp. 197-205.
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risultava l’unica delle 6 Cooperative censite nella provincia di Foggia per la
quale non si disponeva dei dati delle vendite durante l’anno 54 .
L’ultima in ordine di costituzione fu la Unione Cooperativa fra Operai e Contadini, costituita da 102 soci nel 1908 presso la Lega Popolare di Miglioramento.
Nessuna disposizione statuaria era prevista per delimitare il corpo sociale, anche
se tutto andava in quella direzione: la presenza di azioni di piccolo taglio (L. 2),
il visto del Presidente della Lega per essere ammesso come socio, la preferenza
data ai piccoli sottoscrittori (i grandi avrebbero potuto sottoscrivere azioni solo
dopo l’esaurimento della potenzialità economica degli azionisti minori). Il collegamento con la Lega, era sancito a livello ufficiale con la norma che ammetteva
di diritto a far parte della cooperativa il Presidente e il segretario della Lega
stessa55.
Il carattere popolare della cooperazione di consumo di S. Giovanni
Rotondo è un dato acquisito. Resta da verificare poi, quanto realmente queste
società incidessero sulla realtà economica locale, così come sarebbe molto interessante poter analizzare il ruolo economico avuto dalle cooperative di consumo nell’area subappenninica in presenza di una realtà sociale particolare. I dati a
disposizione non lo consentono. Si può solo sottolineare, a conferma della
scelta fatta, che le 5 società per le quali disponiamo di dati al 1905 appartengono tutte alle 2 zone analizzate56.
Quello che, invece, i dati consentono di affermare è tanto una scarsa
consistenza numerica quanto (e soprattutto) una “debolezza” economica della
cooperazione di consumo in Capitanata, come emerge dall’analisi della situazione regionale:
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54 - Cfr. MAIC. ISPETTORATO GENERALE DEL CREDITO E DELLA
PREVIDENZA, Elenco delle società cooperative legalmente costituite esisenti nel Regno al 31 dicembre 1902 escluse quelle che hanno per oggetto principale l'esercizio delle assicurazioni e del credito,
Roma, 1904, p. 64.
55 - Cfr. Statuto in Atto costitutivo cit., pp. 61-69.
56 - Cfr. LNCI, Annuario 1916, pp. 786-787. Le società esistenti erano: L’Avvenire di
Carlantino, la Fratellanza di Celenza Valfortore, la Società Anonima Cooperativa di Consumo di
S. Marco La Catola e due di S. Giovanni Rotondo, l'Unione Cooperativa fra operai e contadini e
la Cooperativa di Consumo.
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Ma non basta. Solo cinque anni dopo, caso unico in tutta la regione, la situazione
economico-finanzi aria era peggiorata:
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57 - MAIC. DIREZIONE GENERALE DEL CREDITO E DELLA PREVIDENZA, DELLA COOPERAZIONE E DELLE ASSICURAZIONI SOCIALI, Società
cooperative legalmente riconosciute esistenti nel Regno al 31 dicembre 1910 escluse quelle che hanno per
scopo principale l’esercizio del credito, Roma, 1911, pp. CIV-CV.
58 - Cfr. LNCI, Annuario 1916, p. 1317.
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LA COOPERAZIONE DI PRODUZIONE E LAVORO
I dati sulla costituzione delle cooperative di produzione e lavoro in Capitanata confermano chiaramente la tendenza generale generalmente riscontrata
a livello nazionale: nato tardi rispetto agli altri tentativi cooperativi delle classi
popolari, il settore si sviluppò enormemente a partire dall’inizio del periodo
giolittiano, periodo in cui le condizioni politico-economiche generali erano
molto favorevoli allo sviluppo della cooperazione59. Non solo, ma l’azione
normativa di Giolitti, che si esplicò nei riguardi della cooperazione soprattutto
con le importantissime leggi del 1909 e del 191160, creò nuove condizioni di
crescita dando nuova spinta al settore.
Per la Capitanata tutto questo sembra essere ancora più vero, soprattutto
considerando che la debolezza delle strutture associazionistiche cooperative
esistenti rendeva spesso necessari intenventi “esterni” a favorirne la crescita. Si
consideri la distribuzione delle cooperative di produzione e lavoro nella provincia secondo l’anno di costituzione:
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59 - Cfr. A. PEPE, La cooperazione in età giolittiana (1900-1914) in F. FABBRI (a cura di), op cit., pp. 119-222.
60 - La legge 25 giugno 1909, n. 422 sanciva la possibilità per le cooperative di produzione e lavoro di riunirsi in consorzi (ai quali era riconosciuta la personalità giuridica)
per l’assunzione di appalti sino a 2 milioni di lire.
Il R.D. 12 febbraio 1911, n. 278 rappresentava il nuovo regolamento delle cooperative e dei consorzi. Tra le norme più importanti, l’introduzione di uno dei principi cardine
del cooperativismo, quello della “porta aperta”, ossia la garanzia e la tutela offerta a terzi,
che avessero i requisiti per entrare a far parte della società, di poter partecipare alla società
stessa.
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La tabella non ha bisogno di spiegazioni, con il 80,9% di tutte le cooperative della provincia che si costituirono dopo 1908. Ma il dato più significativo, a conferma della spinta data dalle disposizioni legislative giolittiane, è quello
che considera le cooperative costituitesi dopo il 1911: ben 36 società (l’88,6%
delle 44 costituite dopo il 1909), infatti, vennero fondate tra il 1912 e il 1915,
con una percentuale sul totale delle cooperative di produzione e lavoro censite
nell’arco cronologico considerato del 52,9%62.
Sarebbe necessaria, perciò, l’esatta conoscenza dei “rapporti pubblici” instaurati dalle cooperative di produzione e lavoro. Ma, a questo proposito, la
disponibilità dei dati è veramente sconfortante: per l’intero settore della provincia di Foggia (68 società) è stato possibile rintracciare notizie solo
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61 - Fonte: BUSA.
Per le categorie, cfr. APPENDICE I.
62 - Per la distribuzione geografica Cfr. APPENDICE IV. Anche nel leccese è il periodo 1908-1914 quella di maggior sviluppo: Cfr. DONNO, pp. 70 e ss.
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sulla concessione di un appalto, mentre si dispone di informazioni generali o di
seconda mano per 4/5 casi. Si cercherà, comunque, con una (evidente) forzatura metodologica, di azzardare qualche ipotesi interpretativa generale.
Il ritardo con cui la cooperazione di produzione e lavoro prese piede in
Capitanata non fu solo un fatto cronologico. Fino al 1908, nonostante
l’esistenza di un discreto numero di cooperative localizzate principalmente nei
grossi centri del Tavoliere (cooperative di muratori, soprattutto, si contavano a
Foggia, Cerignola, Manfredonia e S. Severo), il settore nel suo complesso non
sembra avere nell’economia generale della provincia alcun peso. Nella arretratezza dell’Italia meridionale e nella Puglia in particolare, la Capitanata spiccava
per assenza:
Ma, partendo dall’analisi dell’unico appalto concesso ad una cooperativa
per il quale si dispone di notizie complete, si cercherà di inquadrare il ruolo
avuto dalla società di produzione e lavoro nella provincia.
La cooperativa per la quale esiste la documentazione è L’Edilizia di S.
Severo, una società che si costituì nel 1908 tra 15 muratori con lo scopo di
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63 - Cfr. M. DEGL’INNOCENTI, Storia della cooperazione in Italia. La Lega Nazionale delle Cooperative 1886-1925, Roma, Editori Riuniti, 1977, pp. 213-215: l’importo degli
appalti delle cooperative pugliesi rappresentava soltanto lo 0,1% di quello totale per
l’Italia, che ammontava a L. 56.467.419,72, concentrato per l’86,2% nelle regioni settentrionali.
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«unire i lavoratori perché assumano direttamente le imprese edilizie»64. A
meno di un anno dalla sua fondazione, nel marzo 1909, in seguito a trattativa
privata firmava un contratto con il comune di S. Severo per la sistemazione di
P.zza Bruno (una piazza centrale delle città) e delle strade adiacenti.
Quello che va subito sottolineato è, però, il fatto che la società era riuscita ad aggiudicarsi l’appalto (del valore di lire 10.101,97) solo ricorrendo al
ribasso del 10% e rinunciando al 10% assegnato per i lavori commissionati ma
che il comune si riservava di non eseguire.
I lavori, iniziati nell’aprile, subirono un certo ritardo per cause che lo stesso Comune valutò indipendenti dalla cooperativa (e lo indussero a non applicare le sanzioni previse dalla legge), come, ad esempio, nel caso dello spargimento del brecciame usato per completare la massicciata, prorogato a causa
delle forti piogge.
Al termine dei lavori poi, nel maggio 1910, lavori valutati «generalmente
buoni», la cooperativa ricevette come utili finali la somma di lire 1642,4665.
Non si dispone dei dati per gli altri due appalti concessi nella provincia
di Foggia dei quali si hanno notizie: uno era stato concesso alla Cooperativa di
Muratori per Imprese di Costruzioni di Ascoli Satriano e riguardava la manutenzione
di tre strade esterne comunali per il quinquennio 1911 - 1915, l’altro interessava
i lavori di sistemazione di P.zza Umberto I di Candela ed era stato affidato alla
locale Società Anonima Cooperativa di Costruzione tra Capi-Mastri, Manovali e Affini66.
Sicuramente però non dovevano essere stati i soli: tra il 1910 e il 1912
l’amministrazione dei lavori pubblici concesse due appalti a cooperative nella
provincia di Foggia per un ammontare complessivo di lire 335.352,6067.
Non è possibile, perciò affermare se il ribasso d’asta fosse una
“necessità” generalizzata. Certo è che anche in un altro caso conosciuto, la già
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64 - Cfr. Statuto in Atto costitutivo in BUSA, Anno XXVI (1908), fasc. XXXVI,
pp, 46-56, pp. 47-53, p. 48.
65 - ARCHIVIO STORICO DEL COMUNE DI S. SEVERO, Categoria X, Classe 1, busta XXVIII, fasc. 4.
Da notare che l’appalto per la sistemazione della piazza fu l’unico concesso nel
comune di S. Severo per il secondo semestre del 1909: Cfr. ibid, Categoria XI, Classe I, fasc.
9, n. 339.
66 - Cfr. ASF. SOTTO PREFETTURA DI BOVINO (1860-1828), Busta 21, fasc.
16.
67 - Cfr. M. DEGL’INNOCENTI, op. cit., p. 298: da notare che la provincia di
Foggia superava quella di Bari per l’importo degli appalti ma non per il loro numero (Bari
aveva 6 appalti pari a lire 158.249).
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citata cooperativa tra muratori di Candela fu costretta a licitare al ribasso 68.
Comunque, l’impressione generale che si ricava è quella di un intreccio tra problemi legati ad una situazione economico-sociale non particolarmente favorevole allo sviluppo della cooperazione di produzione e lavoro e “ritardi” (o limiti) di un settore che non riusciva a proporsi come valido partner economico.
Non mancano esempi di cooperative che persero l’assunzione di lavori
per una certa incapacità di fondo di valutare determinate situazioni. Caso limite,
ma senza dubbio significativo, soprattutto per le conseguenze che comportò a
livello locale, fu quello della Società Cooperativa Agricola di Lavoro e Produzione “I
Pionieri” di Margherita di Savoia69.
Vale la pena soffermarsi un pò più a lungo sulla vicenda in quanto fotografa in modo abbastanza chiaro una situazione generale che, sebbene non dovesse essere prerogativa della sola Margherita di Savoia, in quella città si dimostrò molto favorevole alla nascita di strutture cooperative70.
A Margherita (sede di una salina regia) la raccolta del sale era affidata ad
un appaltatore.
«L’ingegnere Mazzolenis, direttore di questa salina,
tentò di distribuire direttamente ai lavoratori le 10 e
più mila lire di utile netto che l’appaltatore intascava
annualmente sopprimendo l’appaltatore e dando agli
operai non ciò che loro ricevevano dall’appaltatore
(50-55 centesimi il mc) ma ciò che l’appaltatore riceveva dalla salina (70 cent. al mc)».
Il risultato fu che a
«un appaltatore successe una quantità di appaltatori,
perché la gente ignorante è abituata a subire la camorra e invece di trattare direttamente, si raggruppò
in diverse squadre e ciascun capo squadra diventò un
cottimista».
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68 - Cfr. Un appalto all'amichevole per la comodità del Signor Sindaco in “Il Foglietto”,
Anno XVI - n. 1487, 23 gennaio 1913: la cooperativa, però, alla fine si ritirò dalla gara.
69 - Ecco uno dei casi più “classici” della confusione che può creare la denominazione delle singole società cooperative. Infatti la società, costituita nel 1910 tra 46 contadini
e con uno statuto molto simile a quello delle cooperative di produzione e lavoro agricole,
era in realtà una cooperativa di produzione e lavoro mista. La cosa doveva essere talmente
evidente che anche la stessa Lega non cadde nell’errore, classificandola “cooperativa mista”
(categoria II, sezione XVII): Cfr. LNCI, Annuario 1916, p. 169 e pp. 788-789.
70 - Basti pensare che su 13 cooperative costituitesi nel comune di Margherita di
Savoia, con Manfredonia la quarta città in Capitanata per numero di cooperative dopo S.
Severo (18), Foggia e Cerignola (16 a testa), ben 11 erano cooperative di produzione e lavoro, di cui 8 classificate come miste (7.2): Cfr. APPENDICE IV.
115
Quando poi si costituì la cooperativa, anch’essa chiese il suo lotto,
«ma dette pessima prova, tanto vero che, ad evitare
attriti fra soci, la direzione delle saline concesse (autorizzata dal Ministero) duecento lire in più di quelle
che avevano contrattate».
Perciò, quando per il raccolto del sale nel 1912
«la cooperativa chiese L. 1,30 il mc, mentre altri cottimisti avevan chiesto L. 0,65 per i campi vicini e L.
0,70 per i campi lontani [ ... ] il Ministero, trovando
esagerate le pretese della cooperativa - e ricordandosi delle colpe dell’anno scorso - ordinò che i lavori
fossero dati ai migliori offerenti e la cooperativa venisse esclusa».
La cosa creò parecchia tensione perché, essendo giunta da Roma la conferma, da parte del Presidente della cooperativa, dei lavori, si pensò ad un dispetto del direttore, soprattutto considerando il fatto che il brigadiere dei carabinieri non aveva letto ai soci della cooperativa la lettera dello stesso in cui era
spiegata tutta la faccenda. Ma
«ciò ignorando la cooperativa [ ... ] si fe’ indurre da
quattro o cinque [ ... ] a chiedere l’impossibile e cioè:
1. l’esclusività del lavoro, cioè il monopolio
dell’ammassamento, per quindi obbligare gli altri che
chiedessero lavoro a iscriversi alla cooperativa (e
questo è antidemocratico); 2. la sospensione dei lavori della raccolta, lavori che neanche il Ministero
delle finanze si sente in diritto di sospendere […]»71.
Come si è potuto notare, il caso di Margherita è molto emblematico.
Anche in una situazione “favorevole” una cooperativa di produzione e lavoro
stentava a crescere: basti considerare che nel 1915 il patrimonio complessivo
(capitale versato e fondo di riserva) di quattro cooperative di Margherita di
Savoia (I Pionieri, G. Garibaldi, Stella d'Italia e la Società Anonima Cooperativa di Lavoro tra i Figli degli Operai ai Sali) era di appena lire 2724,4072.
Ma, la “arretratezza” del settore da sola non basta a spiegare un (presunto) scarso peso degli appalti e, più in generale, dei pubblici rapporti
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71- Cfr. Eccidio e sciopero ad oltranza a Magherita di Savoia in “Il Foglietto”, Anno
XV- n. 63, 22 agosto 1912. La tensione accumulatasi, però, nonostante i dirigenti della
cooperativa, accortisi dell’errore, si affrettarono a ritornare sui propri passi, scoppiò in tumulti provocati dall’eccessivo “zelo” delle guardie di finanza preposte alla sicurezza delle
saline. La violenza degli scontri provocò, poi, l’immediata reazione della popolazione che
rispose con lo sciopero generale.
72 - Cfr. LNCI, Annuario 1916, pp. 788-789.
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nella vita della cooperazione di produzione e lavoro. La questione, infatti, investiva tutta una serie di responsabilità non tanto (o non solo) a livello nazionale73,
ma quanto soprattutto a livello locale, a livello di quella «borghesia di Capitanata che è un anacronismo, un feroce, anacronismo, anche il Medioevo arrossirebbe di lei!»74.
Gli ostacoli frapposti alla cooperazione da parte di una borghesia desiderosa di contrastare o, dove questo non era possibile, di controllare le forme
autonome di organizzazione delle classi popolari, non rappresenta certo una
novità. Ma questa “contrapposizione” faceva sentire maggiormente il suo peso
proprio nelle zone in cui queste forze autonome facevano fatica ad impiantarsi.
La Capitanata era senza dubbio una di queste zone.
I modi di intervento erano parecchi. Ad Ascoli Satriano, per esempio,
dove la locale cooperativa di muratori aveva «saputo co’ soli suoi mezzi provvedere alla disoccupazione ond’è travagliata la classe lavoratrice [ ... ], eseguendo parecchi lavori ed occupando in essi il maggior numero possibile di senza
pane», la borghesia cittadina tentò di correre ai ripari con mezzi “legali”: una
mozione presentata al Sindaco, «nella quale si chiede ragione del perché in periodi di disoccupazione i lavori municipali siano stati affidati proprio alla sullodata cooperativa»75.
A S. Severo, invece, dove la «cooperativa fra muratori “La Edilizia” ha
sconcertato gli appaltatori mediatori» si cercò di contrastare l’associazione sul
suo stesso terreno (anche se con esiti negativi): gli appaltatori, infatti, «per combatterla pensarono di costruirne un’altra, ma con forti capitali pignorati. Era
tutto pronto, mancavano solamente i soci, i quali vennero ma... per buttare
tutto a mare»76.
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73 - Non è il caso in questa sede di analizzare gli aspetti “settentrionalistici” della
politica giolittiana e la loro presa, anche a livello teorico, all’interno del movimento socialista, quel “connubio” che Gramsei (come Arturo Labriola e Salvemini) individuava nel
«riformismo-cooperative-lavori pubblici»: Cfr. A. GRAMSCI, Sul Risorgimento, Torino,
Einaudi, 1964, p. 98.
74 - Cfr. Il processo di Sansevero. Buona propaganda (contro contadini organizzati e attivisti
socialisti) in “Il Foglietto”, Anno X - n. 65,15 agosto 1907.
75 - La cooperativa muratori in “Il Foglietto”, Anno XVI - n. 1502, 16 marzo 1913.
Si consideri che la Cooperativa di Muratori per Imprese di Costruzioni di Ascoli Satriano era sorta
nel 1908, con una chiara impronta classista facilmente individuabile dal suo statuto. La
società, infatti, prevedeva sia sussidi per i soci in caso di malattiva o di “assoluta indigenza” sia una biblioteca circolante ed una scuola pratica per istruire i soci al mestiere che sercitavano. In più, la società, già per statuto, si federava alla Lega: Cfr. Statuto in Atto costitutivo in BUSA, Anno XXVII (1909), fasc. 6, pp. 144-160, pp. 146-159.
76 - I piccoli capitalisti muratori alla riscossa in “La Bandiera Socialista”, Nuova Serie,
21 febbraio 1909: il giornale era l’organo della sezione socialista di S. Severo.
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Il caso di Candela, infine, dimostra come il semplice tentativo di far nascere (o rinascere) una cooperativa creasse seri problemi alle classi dirigenti locali. Nel 1905 era sorta una cooperativa fra muratori che, però, formata a scopo puramente politico, non aveva avuto praticamente vita. Nel 1912, a causa
della propaganda di Antonio Rotola, democratico, articolista de “Il Foglietto”,
la cooperativa si ricostituì.
«Quando qui si conobbe che la cooperativa, costituita fin dal 1905, si destava dal suo lungo letargo e
prendeva la sua vera fisionomia subito corse la domanda: - ma come il risveglio? Ma chi la desta dal
sonno pacifico? […] Le autorità [ ... ] capirono che
sfuggiva loro la facile preda e non vollero rimanere
inerti e si dettero un gran da fare per impedire il risorgere della cooperativa. Degli emissari corsero da
ogni dove, si fece un lungo parlare di lavoro a milioni che il governo stava preparando, si mise in
moto l’autorità prima del collegio, si finse pure che si
ignorava l’esistenza della cooperativa del 1905, e che
si intendeva costituirne una, e la più larga copia di
promesse veniva fatta. I tentativi escogitati rimasero
infruttuosi»77.
Cosi, rendendosi conto di aver sbagliato strada, passarono alla controffensiva. Prima provarono con le calunnie. Poi un grosso appaltatore del luogo
si infiltrò nella cooperativa. Chiesta ed ottenuta la possibilità di diventare socio,
venne anche nominato membro del Consiglio d’Amministrazione a causa della
sua notevole esperienza. Il suo fu un tentativo continuo di convincere la cooperativa a chiedere i favori del Sindaco e dell’Amministrazione. Ma la cooperativa
non si fece imbrigliare nella rete tesa. Ecco come racconta uno di questi tentativi lo stesso Antonio Rotola:
«Un bel giorno [l’appaltatore] annunciò che il Sindaco voleva venire alla cooperativa a tenere un discorso... Ma che discorso! La cooperativa è una società
di produzione e lavoro; che cosa ci ha da vedere il
discorso di un Sindaco? - Vedranno, vedranno, i lavori pioveranno, la moneta affluirà, quante porte saranno aperte... Ma che! La dignità sovra tutto, e
quindi niente discorsi di Sindaco»78.
Il metodo della calunnia non era una prerogativa della borghesia foggiana. Anche a Taranto, «dove il proletariato [ ... ] lavora tenacemente colle sue
organizzazioni di lavoro a dare il crollo agli affaristi grandi e piccoli»,
____________
1912.
77 - Per asservire una cooperativa in “Il Foglietto”, Anno XV - n. 98, 22 dicembre
78 - Ibid.
118
gli «speculatori, i quali si vedono di giorno in giorno mancare il terreno, hanno
[…] nei giorni scorsi avanzato un reclamo al Ministero avanzando calunnie a
carico dei lavori organizzati»79.
Ma sicuramente la strada maestra intrapresa dalla borghesia per contrastare le classi popolari che cercavano nella cooperazione di produzione e lavoro
una qualche forma di emancipazione sociale, fu quella degli ostacoli frapposti
alla giusta applicazione delle varie normative sugli appalti. La Commissione
Provinciale di Vigilanza, creata con il R.D. 17/ 3/1907, n. 146, non brillò per
obiettività: alle cooperative, alle quali la legge dava la precedenza sulla aggiudicazione degli appalti, furono sollevati molti “cavilli” di natura giuridica che,
sommati ad inesperienza ed ignoranza, possono spiegare la poca consistenza
degli appalti nella provincia (ma, in generale, in tutta la Puglia).
Sicuramente a questi cavilli si riferivano, durante un comizio tenuto a Cerignola nel settembre del 1912, Antonio Misceo, capo-lega e presidente della
Società Cooperativa Agricola di Lavoro e Produzione, e Giuseppe Di Vittorio, Segretario del Circolo Giovanile Socialista, quando parlavano di «opera deleteria della burocrazia», alla quale i due rappresentanti socialisti facevano risalire la responsabilità del fallimento delle aste per l’appalto dei primi lotti dei lavori di arginamento dell’Ofanto 80.
Si è cosi entrati nel vero e proprio regno delle congetture. Il settore di
produzione e lavoro agricolo paga, infatti, un prezzo durissimo alla mancanza
di dati: quasi nessun bilancio publicato, nessuna notizia (quantitativa o qualitativa) di una qualche rilevanza sul ruolo economico svolto, rilevamenti statistici a
livello nazionale che non tengono conto della reale struttura delle singole società. In una situazione del genere, più che per tutte quelle precedenti, la strada
obbligatoria è quella dell’analisi di alcune realtà particolari.
Un primo dato bisogna subito mettere in evidenza. Delle 14 cooperative
di produzione e lavoro agricole costituitesi in Capitanata, solo 4 furono diretta
emanazione di leghe socialiste, mentre una era stata costituita tra i braccianti
aderenti al Fascio operaio cattolico. Il dato non deve meravigliare: se le particolari condizioni del mercato della manodopera e l’aspra
____________
79 - La cooperazione a Taranto in “La Cooperazione Italiana”, Anno XVII - n. 525,8
agosto 1903.
80 - Cfr. “Il Foglietto”, Anno XV - n. 66, 1 settembre 1912: a conclusione del co nvegno fu votato un ordine del giorno, col quale si fecero voti «che il Governo conceda gli
appalti a trattativa privata in modo da ottenere la esecuzione dei lavori per i primi mesi di
settembre».
119
resistenza dei proprietari aveva favorito il sorgere rapido di leghe,
nell’«animo dei contadini non albergano pensieri di collettivismo o di profonde
rivoluzioni economiche e sociali. Essi non vedono che la disoccupazione e
l’aumento dei salari»81.
Lo sciopero, fatto alla vigilia dei periodi di intensi lavori agricoli, era
un’arma che incideva maggiormente in una relatà, come quella foggiana, con
altissime percentuali di salariati agricoli, fissi ed avventizi (ben il 69% nel 1901)82.
Questo i proprietari lo avevano capito, tant’è vero che «lottano allargando,
quanto è più possibile, l’uso delle macchine agrarie, restringendo i lavori, sostituendo sulla più larga scala le donne agli uomini nelle lavorazioni, ritardandoli
fino al periodo, in cui, essendovi minor richiesta di manodopera, le mercedi
sono più basse»83.
Il sistema, in qualche modo, funzionò. Causa anche una situazione economica che stava peggiorando (siccità, crisi vinicola), nel 1907-8 in tutta la provincia vi fu un generale riflusso delle lotte, contraddistinto dalla diminuizione
degli scioperi e dalle prime defenzioni all’interno delle leghe (ad esempio, quella
di S. Severo perderà più della metà dei soci fra il 1909 e il 1910)84.
Si può azzardare l’ipotesi di uno stretto rapporto tra crisi dei tradizionali
sistemi di lotta e nascita delle cooperative, soprattutto se si guarda al dato cronologico: tutte le cooperative di produzione e lavoro agricole in Capitanata
sorgono a partire dal 1908, e in zone da sempre all’avanguardia nelle lotte dei
primi anni del ‘900 (Cfr. APPENDICE IV).
Ma rimane il dato di fatto di una cooperazione di produzione e lavoro
agricola poco consistente in una zona in cui, teoricamente, vi erano tutte le condizioni per il suo sviluppo.
Teoricamente, perché, ad esempio, era la particolare struttura sociale
delle campagne foggiane ad ostacolare l’adozione di uno dei mezzi più efficaci
di lotta adottati dal proletariato agricolo di vaste zone d’Italia: l’affittanza collettiva. Infatti, nonostante che in tutta la Puglia, solo qualche contadino «intelligente
in prov. di Foggia pensa alla eliminazione degli intermediari, i grossi affittuari,
vagheggiando di entrare in contatto diretto con i proprietari, mediante affittanze collettive»85, questa particolarissima
____________
81 - PRESUTTI, p. 602.
82 - Cfr. ibid, pp. 280-281.
83 - Ibid, p. 665.
84 - Cfr. G. DE FAZIO, Lotte contadine e socialismo in Capitanata 1900-1913, Bari,
Adda, 1974, p. 44.
85 - PRESUTTI, p. 602.
120
cooperativa non ebbe nessunissimo tipo di applicazione in Capitanata. Certo, a
livello teorico, era la soluzione richiesta da più parti.
«Il problema economico del Mezzogiorno è tutto o
massimamente [ ... ] in ciò: risollevare l’agricoltura [
... ]. Bisogna, dunque, avvicinare la terra a chi lavora,
concedendo ad associazioni cooperative di contadini
i latifondi [ .... ]»86.
Non solo, ma tutte le cooperative agricole di produzione e lavoro, tra gli
scopi sociali, prevedevano l’acquisto o il fitto di “terreni per essere coltivati o
goduti per conto sociale” 87.
Ma, in pratica, nella provincia di Foggia non vi è stato (o, almeno, non si
conosce) nessun caso di una qualunque forma di affittanza88. Le grandi aziende
a salariati, che avrebbero dovuto costituire uno stimolo alla loro costituzione
(vedi Emilia e Mantovano), avevano però in Capitanata una propria particolare
fisionomia, legata soprattutto all’alta percentuale di braccianti avventizi che vi
trovavano lavoro. Se l’esperienza dell’Italia settentrionale e della Sicilia dimostrava che la principale ragione economica della formazione di affittanze collettive «fu lo squilibrio sempre maggiore determinato fra la disponibilità di terreno coltivabile e le unità lavoratrici presenti localmente e che [ ... ] non potevano
essere utilizzate»89, condizioni simili non sembrano aver prodotto lo stesso risultato in Capitanata.
La questione è molto ampia ed investe problematiche diversissime, che
meriterebbero una trattazione separata e sistematica. Allo stato attuale delle ricerche, non è possibile neanche affermare con sicurezza se, al di là dei proclami
e dei programmi, le cooperative agricole della Capitanata ebbero un ben preciso “ruolo sociale”, dato che quello economico non è valutabile pienamente.
Con questo non si vuole disconoscere l’importanza delle cooperative come
mezzo di aggregazione dei ceti popolari e rurali, ma solo porre alcuni interrogativi di fondo.
Sono interrogativi che nascono dall’analisi di un particolare avvenimento
che, sebbene circoscritto, acquista un preciso valore simbolico. La più
____________
1907.
86 - I latifondi e le cooperative dei contadini in “Il Foglietto”, Anno X - n. 67,25 agosto
87 - Da notare due cose: la prima è che tutti gli Statuti erano praticamente uguali (8
società sulle 11 per le quali si dispone dello Statuto); la seconda che in nessuna società il
prendere in fitto terreni era il primo scopo: solitamete infatti veniva dopo quello di
“assumere per proprio conto lavori pubblici e privati”.
88 - Cfr. FEDERAZIONE ITALIANA DEI CONSORZI AGRARI, Inchiesta
sulle affittanze collettive in Italia, Piacenza, 1906 e U. SORBI, Le Cooperative Agricole per la
condizione dei terreni in Italia, Roma, Edizioni de “La Rivista della Cooperazione”, 1955.
89 - U. SORBI, op. cit., p. 16.
121
grande cooperativa agricola di produzione e lavoro della provincia, infatti, fu implicata in grosse polemiche che investivano la sua autonomia e la sua
immagine.
Costituita nel 1910 da 31 contadini, la Società Cooperativa Agricola di Lavoro
e Produzione di Cerignola nasceva nel più grande agro di tutta la provincia di
Foggia, nella zona all’avanguardia in tutte le lotte agrarie dei primi anni del ‘900.
Diretta emanazione della locale lega dei contadini, la più numerosa dell’intera
provincia (circa 6000 soci)90, la cooperativa non faceva nessun accenno particolare nello statuto a questo suo rapporto, forse per non creare problemi di
“immagine”: la conferma si trova nella messa in evidenza del fatto che la «associazione non si occupa che di questioni di lavoro e rifugge da ogni ingerenza
politica e religiosa nelle sue deliberazioni »91.
Presidente era lo stesso Presidente della lega, il già ricordato Antonio Misceo, uno dei massimi rappresentanti del leghismo in Capitanata. E proprio
Misceo fu il primo ad essere chiamato in causa dall’anonimo articolista de “Il
Foglietto” che, nell’aprile 1912, accusò la cooperativa, «la massima organizzazione operaia di Cerignola», di essere sotto la protezione politica dell’on. Maury, deputato salandrino 92.
L’articolo scatenò un’ondata di polemiche, di accuse e di smentite che
investirono il paese per circa tre mesi. Brevemente, le accuse rivolte alla cooperativa riguardavano il ruolo avuto dall’onorevole Maury tanto nella
“miracolosa” (per la brevità del tempo) iscrizione della stessa nel registro prefettizio, quanto (e soprattutto) nell’aggiudicazione di certi lavori concessi dal
Ministero delle Finanze93.
La polemica fu tanto violenta da costringere la CdL di Cerignola, il 1°
maggio, a stampare «un numero unico in cui viene riportato un ordine del
giorno, proposto dal suo segretario Di Serio e votato dal Comitato direttivo
dei contadini, col quale si fa obbligo ai dirigenti di non appoggiarsi più a deputati borghesi, anche quando si esibissero, spontaneamente, perché agiscono
con scopo opportunistico»94.
Ma le accuse aumentarono. Ora investivano anche Giuseppe Di Vittorio,
giovanissimo segretario del Circolo Giovanile Socialista, accusato di aver
____________
90 - Cfr. PRESUTTI, p. 609.
91 - Cfr. Statuto in Atto Costitutivo in BUSA, Anno XXVIII (1910), fasc. LII,
pp. 76-86, p. 77.
92 - Il connubio social-mauriano in “Il Foglietto”, Anno XV - n. 26, 4 aprile 1912.
93 - Cfr. Fanno i sornioni in “Foglietto”, Anno XV - n. 30, 21 aprile 1912.
94 - Aria netta... Le capriole dell'on. Maury in “Foglietto”, Anno XV - n. 35,12 maggio 1912.
122
concordato (insieme a Misceo) con Maury la messa in opera di alcune agitazioni
a favore di un qualche intervento pubblico contro la fillossera (che avrebbero
favorito i proprietari dei vigneti “malati” con la loro opera di denuncia) in
cambio del lavoro di scasso di alcuni vigneti95.
Misceo cercò di difendersi dalle accuse dando una propria visione dei
fatti che rendeva il rapporto con Maury solo un fatto occasionale96. Anche Di
Vittorio mandò una lettera al giornale per dare la sua versione dei fatti. Ma,
riuscì solo a far passare il suo coinvolgimento come un errore, «una necessità di
ambiente», come lui stesso lo definì97.
Non c’è, nella lettera, nessun tentativo di difendersi dalle accuse, ben più
gravi, sulla combutta per le agitazioni “anti-fillosseriche”, un’accusa che, tra
l’altro, nessuno cercò di circoscrivere o di spiegare.
Le polemiche si chiusero, almeno a livello ufficiale, con un Convegno
delle organizzazioni operaie di Cerignola in cui «i continui rapporti avuti dalla
cooperativa dei contadini con l’on. Maury» erano da addebitarsi soprattutto
all’uomo politico, «che cercava di speculare sulla buona fede dei contadini per
potersi costituire un più forte piedistallo elettorale»98.
Sicuramente è troppo poco per trarne conclusioni. Certo è che se la
maggiore cooperativa agricola di produzione e lavoro (non solo per numero
dei soci, ma soprattutto per i collegamenti con il più forte proletariato organizzato della provincia) foggiana aveva bisogno di appoggi per ricevere in concessione qualche lavoro, deve (almeno) significare che la situazione economicosociale non era particolarmente favorevole alle cooperative. E non solo a quelle
agricole.
Si osservi la situazione dell’intero settore di produzione e lavoro nel
1915:
____________
1912.
95 - Ibid.
96 - Polemiche fra socialisti e lavoratori in “Il Foglietto”, Anno XV - n. 35, cit.
97 - Polemiche socialiste a Cerignola in “Il Foglietto”, Anno XV - n. 37, 19 maggio
98 - Convegno socialista a Cerignola. L'accordo raggiunto in “Il Foglietto”, Anno XV n. 45, 16 giugno 1912.
123
Nonostante uno sviluppo numerico da non sottovalutare il settore nel
suo complesso non aveva una consistenza economica particolarmente forte, sia
in termini assoluti che relativamente alla realtà regionale. Solo il settore delle
società agricole era maggioritario rispetto alla Puglia ma, tutto sommato, aveva
scarso peso, sia in termini di soci, sia in termini economici, nonostante un importo degli affari maggiore di quello delle cooperative di produzione e lavoro
industriali99.
____________
99 - Non deve trarre in inganno il fatto che l’ammontare dell’importo degli affari
risultasse maggiore per le cooperative di produzione e lavoro agricole rispetto a quello
delle cooperative industriali: si tenga presente infatti che la sola Società Cooperativa Agricola
di Cerignola contribuiva con lire 200.000 al totale dell’importo (il 55,9%): Cfr. LNCI, Annuario 1916, pp. 791-792.
124
UNA NOTA CONCLUSIVA
L’aspetto “dimesso” della ricerca non è solo la conseguenza dell’estrema
frammentarietà dei dati e delle fonti a disposizione. Una, anche se pur minima,
parte di “colpa” deve essere assegnata ad una precisa scelta metodologica, opinabile finché si vuole, ma che è sembrata la più adatta al tipo di dati a disposizione: l’analisi della cooperazione in provincia di Foggia è stata, soprattutto,
analisi delle sue strutture, delle sue realizzazioni pratiche.
Il “censimento” (in certi casi asettico) del movimento cooperativo in
Capitanata era il primo passo da compiere. Era necessario per aprire la strada a
nuovi tentativi di ricerca.
Stefano d’Atri
125
APPENDICE I
TABELLA DI CLASSIFICAZIONE MINISTERIALE PER SETTORE
E CATEGORIA DI ATTIVITA’
1
1.1
1.2
1.3
1.4
1.5
1.6
1.7
1.8
1.9
1.10
1.11
1.12
1.13
1.14
2
2.1
2.2
2.3
2.4
2.5
2.6
2.7
2.8
2.9
2.10
2.11
2.12
2.13
2.14
2.15
2.16
Cooperative di consumo
Vendita di generi alimentari
Vendita di generi di abbigliamento
Vendita di articoli di arredamento
Vendita di prodotti meccanici, elettrici
Vendita di articoli di cancelleria, giornali
Vendita di prodotti chimici e sanitari
Vendita di materiale di costruzione
Vendita di combustibili
Attività ricreative
Attività sanitarie
Attività assicurative e finanziarie
Distribusione di energia elettrica, gas e acqua
Vendita di più generi
Vendita di prodotti ortofrutticoli
Cooperative di produzione e lavoro
Estrazione di minerali
Produzione di derrate alimentari
Panificazione e pastificazione
Macellazione del bestiame e lavorazione delle carni
Produzione di bevande (escluse cantine sociali e distillerie)
Produzione e lavorazione delle pelli
Produzione tessuti
Produzione di generi di vestiario, arredamento
Lavorazione del legno, sughero e affini
Produzione e lavorazione della carta e attività editoriali
Attività fono-foto-cinema-tipografia
Lavorazione meccanica e metallurgica
Trasformazione di minerali non metalliferi
Produzioni chimiche
Costruzioni edili, stradali
Insallazione impianti, produzione e trasporto energia elettrica
126
2.17
2.18
2.19
2.20
2.21
2.22
2.23
2.24
3
3.1
3.2
3.4
3.5
3.6
3.7
3.8
3.9
3.10
3.11
3.12
3.13
3.14
3.15
3.16
3.17
3.18
3.19
3.20
3.21
4
4.1
4.2
5
5.1
5.2
5.3
5.4
5.5
Servizi telegrafici, postali, telefonici
Igiene, pulizia e servizi vari
Attività culturali, artistiche, ricreative
Attività legali, commerciali, tecniche
Produzione e lavoro con attività commerciali
Agricole
Trasporto
Pesca
Cooperative agricole
Lavorazione della terra
Agricolo-silvo-forestale
Lavorazione delle uve
Produzione di acquaviti e liquori
Produzione di olio di olive, di semi
Produzione di conserve
Raccolta, trasformazione, conservazione e vendita ortofrutticoli
Filatura, molitura di cereali
Allevamento e selezione del bestiame
Coltivazione ed essicazione dei bozzoli
Coltivazione delle foglie di tabacco
Gestione dei granai
Vendita di prodotti agricoli
Esercizio di macchine agricole
Acquisto e vendita di materiale per l’attività agricola
Attività varie (mutua assistenza, servizi ai soci)
Allevamento di animali da cortile e vendita prodotti
Miglioramenti fondiari, lavorazione e vendita prodotti dei soci
Coltivazione e prima lavorazione del cotone
Servizi collettivi per la riforma fondiaria
Cooperative di edilizia per abitazione
Costruzione di abitazioni per i soci
Costruzione di abitazioni per i braccianti agricoli
Cooperative di trasporto
Trasporto terrestre con mezzi meccanici
Trasporto terrestre con veicoli a trazione animale
Trasporto marittimo ed aereo
Trasporto lacuale e fluviale
Facchinaggio
127
5.6
6
6.1
6.2
6.3
6.4
6.5
6.6
7
7.1
7.2
7.3
7.4
7.5
7.6
7.7
7.8
7.9
7.10
7.11
7.12
Carico e scarico
Cooperative per la pesca
Acquisto, vendita e manutenzione attrezzi pesca e gestione magazzini
Costruzione, acquisto, riparazione, manutenzione scafi e motori
Vendita dei prodotti della pesca
Allevamenti ittico in acque marine
Pesca e allevamento ittico in acque interne
Esercizio della pesca
Cooperative miste
Consumo
Produzione lavoro
Agricole
Edilizie
Trasporti
Pesca
Miste
Credito-casse rurali
Credito-banche popolari
Credito-assicurazioni
Credito-garanzia fra artigiani
Mutue
Nota:
La classificazione ministeriale è stata utilizzata per semplificare il lavoro di catalogazione. Ma dall’analisi dei vari statuti è risultato spesso che una cooperativa
classificata in un modo dalle statistiche ufficiali, spesso svolgeva la propria attività in un settore diverso da quello attribuitole.
Le cooperative censite sono state raggruppate, nel corso del lavoro, in 6 grandi
settori, formati dall’unione delle seguenti categorie:
CREDITO:
CONSUMO:
PRODUZIONE E LAVORO :
AGRICOLE:
EDILIZIE:
VARIE:
7.8,7.9
1,7.1
2, 5.5, 5.6, 6.6
3
4
2.20, 5.1, 5.3, 7.6
128
LA CHIESA E IL CONTROLLO SOCIALE
TRA IL XVI E IL XVIII SECOLO
E’ difficile, in un breve studio, affrontare una disamina esaustiva su ciò
che la Chiesa ha rappresentato nella storia della nostra società e analizzare il
controllo sociale e la sua applicazione.
Saranno per questo solo tratteggiate alcune considerazioni sulle strutture
e sulla “economia” del controllo erette dalla Chiesa nell’arco temporale che va
dal XVI al XVIII secolo.
Quando, usualmente si parla di controllo sociale, si intende una forma
“globale” ed organizzata di sorveglianza e di acquisizione del consenso. Nei
secoli considerati, la Chiesa, per la sua rigida e gerarchica struttura, assolve,
compiutamente a questi compiti.
E’ da ricordare, tuttavia, che secondo recenti studi storiografici, la società
è capace di rispondere con meccanismi propri a quell’autoritarismo generale
che M. Foucault indentifica seguendo la linea rossa che lega i vari sistemi di
controllo messi in atto dal potere.
La Chiesa usa due diversi strumenti per esercitare la sua azione: da una
parte l’apparato di deterrenza e repressione costituito dal tribunale
dell’Inquisizione, istituto da Paolo III nel 1542 per arginare la diffusione della
Riforma, dall’altra un sistema burocratico di rilevazione e registrazione che
spesso si intreccia con quello statale.
La pratica dei Censimenti, fin dagli inizi del ‘500, diventa funzionale, da
parte del potere statale, ad un controllo, oltre che anagrafico, fiscale e di ordine
pubblico.
Parallelamente a questo sistema, dopo il Concilio di Trento, la Chiesa
organizza gli stati d’anime e i registri parrocchiali (battesimo, matrimonio,
morte) che costituiscono un tipo di rilevazione preciso concernente la
135
descrizione delle famiglie, l’annotazione dei fedeli malati, l’enumerazione delle
vedove, dei separati, degli indigenti, dei parrocchiani non osservanti.
In questo periodo l’autorità ecclesiastica si occupa anche del rilascio di
“patenti” alle famiglie che si trasferiscono in altre parrocchie, in cui si garantisce
l’onestà e l’osservanza dei precetti della Chiesa dei componenti della famiglia
stessa.
Non ci sorprende che queste fonti e questi metodi di rilevazione, così
precisi, siano stati in seguito utilizzati dall’autorità civile a Foggia (a Milano, Venezia, Parma). Un chiaro esempio ci viene dallo Stato Veneziano dove è affidata ai parroci, dopo il periodo napoleonico, la cura dell’Anagrafe di famiglia.
Si passa così progressivamente da una utilizzazione di questi dati locale
ed individuale, ad una globale statistica che indica una trasformazione dello
Stato in senso “moderno”.
In certi casi la Chiesa amministra direttamente e in simbiosi con le istituzioni statali alcune pratiche del potere, come la gestione dei processi civili (in
casi di stupro, adozioni controversie, delitti contro la morale, ecc.), la risoluzione di casi di coscienza, la stesura dei testamenti in assenza del notaio, e così via.
La funzione regolatrice dei conflitti da parte della Chiesa è molto importante perché pone l’istituzione ecclesiastica su un piano superiore e oggettivo
del conflitto stesso (in alcune zone d’Italia veniva celebrato il rito della riconciliazione). Un soggetto determinante per l’applicazione delle pratiche di controllo è il parroco: egli è impegnato nella redazione dei registri parrocchiali, degli stati delle anime e delle patenti, ma il suo ruolo più importante è quello della
formazione del consenso attraverso un livello primario di conformazione e uno
secondario di indicazione della diversità.
L’omelia è il luogo in cui egli esercita con forza la salvaguardia della cultura e della morale dominante.
Non può essere inoltre trascurata la funzione rituale e simbolica di determinate manifestazioni che completano l’organizzazione del consenso.
Un chiaro esempio di affermazione dell’autorità in un contesto rituale è
la processione: emblematica quella del Corpus Domini a Napoli, in occasione
della quale l’autorità civile ed ecclesiastica è compiutamente rappresentata attraverso una precisa collocazione spaziale dei partecipanti che riproduce esattamente la reale gerarchia del potere.
Infine conviene considerare l’esigenza di una maggiore produzione di
esempi di santità “personale” (l’importanza dei Santi nella religione popolare).
136
Gli studi sulla santità, solo di recente approfonditi, impediscono di delineare un modello metodologico generale, ma si è accertato che, nel periodo
della Controriforma, alcuni modelli di santità son proposti come modelli di
comportamento.
La figura del Santo si presenta quindi duplice: da una parte espressione
del Divino, dall’altra operatore sociale nell’ambito della comunità con la sua
funzione di pacificatore dei conflitti interni e rassicuratore verso i pericoli non
solo esterni.
L’appropriazione, in questi secoli, simbolica e reale del Santo è appannaggio delle classi dominanti e complementare al loro potere economico e politico.
Giovanni Sardaro
137
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P. DESIDERI, Il culto dei Santi, in “Quaderni Storici” 57/a. 1984.
Per il Seicento e Settecento tutte le notizie sono tratte dai registri parrocchiali di
sepoltura.
Per l’Ottocento preunitario la serie di notizie relative a Foggia, Cerignola, Lucera, Troia, sono ricavate dallo spoglio dei registri parrocchiali di sepoltura
conservati negli archivi delle parrocchie o nell’archivio della Curia delle rispettive cittadine.
G. Sardaro
139
MICHELE URRASIO
E “LA METAFORA DELLA PAROLA”
Credo sia necessario, giunti ormai alla settima raccolta di Michele Urrasio, riprendere il discorso che feci alcuni anni fa su un autore al quale mi legano
non solo antichi e saldi vincoli d’amore per la comune terra d’origine (entrambi
siam nati e cresciuti ad Alberona, in provincia di Foggia) ma soprattutto la convinzione della straordinaria qualità di questa poesia che, attraverso una strenua
passione di quasi un trentennio, sembra aver trovato risorse imprevedibili
nell’ordine dell’approfondimento della verità: per questo appare ardua e richiede pazienza critica.
Non è sicuramente, infatti, con poche rapide battute che possiamo illuderci di delimitare un’area lirica che esige tempo e spazio molto più ampi e di
riconoscere meglio quella che è stata e resta la funzione di Urrasio in una storia
come quella della poesia pugliese (e nazionale in senso lato) del Novecento, così
ricca di invenzioni e di soluzioni che superano di gran lunga il quadro particolare. Semmai va osservato che in quest’alveo Urrasio si è conquistato un posto
importante, subito dopo i grandi della generazione cosiddetta ermetica e postermetica (Fallacara, Comi, Carrieri ed altri poeti dell’area salentina), scoprendo
qualcosa che non era stato sufficientemente affrontato.
La metafora della parola si innesta direttamente sul tronco dell’ultima opera
poetica di Urrasio, Il segmento dell'esistenza (Foggia, Bastogi, 1983, con prefazione
di G. BARBERI SQUAROTTI), mostrando una maggiore scioltezza che peraltro non tradisce l’intensità e la complessità di quel tipo di vocazione: ci sono
ancora alcuni temi, alcune cadenze e ritmi che
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costituivano la grande novità di quel libro, ma si ha ora l’impressione di una
maggiore trasparenza, di una più ricca libertà di movimento, e questo può essere facilmente spiegato e giustificato con il dato dell’urgenza, dell’ansia di fronte
ad avvenimenti sempre più incalzanti che conducono quasi inevitabilmente alla
catastrofe.
Si vuol dire, in fondo, che l’attuale sua “ripresa” poetica ma anche i vari
traguardi delle raccolte pubblicate in precedenza testimoniano di una tenace
fedeltà vincolata alla ratio e ci mostrano un poeta ben saldo nelle sue certezze;
egli, comunque, sembra essere di gran lunga più insidiato nelle sue speranze, più
esposto, più ansioso, più turbato di fronte ai mille segni di sommovimento e di
sconvolgimento del nostro tempo (poc’anzi abbiam parlato, forse esagerando
un pò di “catastrofe”). Alla dissipazione drammatica dei nostri giorni egli contrappone l’esigenza di una sintassi lucidamente organizzata, in cui la parola si
assesta nuda e certa, rispondendo anzitutto al bisogno d’impegnarsi, che equivale anche al suo contributo di certezza e di confronto.
Insomma, l’esigenza di chiarezza concettuale e morale, perseguitata per
alcuni decenni con tanta caparbietà da Urrasio, si è tradotta e realizzata in chiarezza espressiva, definitivamente, in questa Metafora della parola: il poeta si è reso
vigile contro ogni artificio formale e stilistico, mostrando amore per la frase
intera e distesa, il verso modellato, il periodo ritmico compiuto.
Con questa operazione si comprende non solo il valore del messaggio di
Urrasio ma anche il valore semantico della poesia in senso lato, suggerito proprio dal titolo, La metafora della parola appunto. Il linguaggio della poesia, si sa, si
fonda, strutturalmente parlando, su un meccanismo dotato di una duplice azione: posizione dello scarto e sua successiva riduzione. Ciò che si infrange con
tanta sistematicità nella poesia è solo il codice della comunicazione prosastica o
del linguaggio ordinario, che i linguisti chiamano “denotativo”, opposto a
quello “connotativo”, scaturito dalla soggettività e dall’affettività. La poesia segna la morte del linguaggio ordinario, per ricostruire col testo un universo di
significati su un piano superiore, grazie all’intervento della pura soggettività e del
suo principale strumento di manifestazione che è la “metafora”. Da qui si origina, secondo molti, l’improponibilità della poesia contemporanea sul piano
dell’esplicazione logica. La semanticità della parola sarebbe come sospesa tra
comprensione e incomprensione. Eppure la fede nella parola, in Urrasio come
in tanti altri validi poeti del nostro Novecento, tesa a scavare dura e pesante
come roccia
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ma, nello stesso tempo, capace di divenire incorporea e di innalzarsi, è costante
ed infinita.
Non esiterei, per questo, a sottolineare il carattere di “modernità” della
poesia urrasiana, carattere che si palesa e si afferma già nelle prime raccolte ma
che ora, in questa silloge della piena maturità, si impone all’attenzione di tutti,
ché risulta essere libera da suggestioni ermetiche, che pure qua e là, specie nei
suoi primi libri, erano sotterraneamente operanti.
In quest’ultima raccolta la ricerca linguistica di Urrasio corrisponde
all’urgenza di una ricchezza interiore da esprimere, perciò egli rifiuta ogni scaltrita sottigliezza espressiva come ogni macerata reticenza e continua, con tono
franco e convinto, a leggersi ininterrottamente, a conoscersi in ciò che il mondo
gli offre: non è un caso che le sue meditazioni molte volte nascano come epiloghi essenziali dei suoi viaggi. Da qui scaturisce la riassuntività gnomica e pregnante di molti versi, che costituisce uno dei tratti caratteristici del tessuto poetico urrasiano.
Un risultato di misura esemplare sia sotto il profilo contenutistico che
sotto quello formale è raggiunto nel poemetto di apertura al volume, Lungo
rotte impossibili, dove tutti i motivi presenti nell’invenzione poetica di Urrasio
compongono il sostrato di un discorso di solida struttura, in cui il realismo dei
particolari si decanta nella sfumatura di toni estremamente rarefatti ma di piena
trasparenza e godibilità per la lettura.
A confermare questa sua ansia di una sensibilità lirica e drammatica insieme non è solo il poemetto d’apertura, ma tutte le varie altre sezioni del libro
che stiamo esaminando; soprattutto affiora, in una visione complessiva,
l’intensità di una passione morale che illumina di sé, di volta in volta, la ricchezza
del lessico, che si accompagna alla varietà dei timbri e dei toni.
Ma leggiamola tutt’intera questa raccolta, magari affidandoci alla cifra
dell’insicurezza, al tentativo di voler chiarire, anzitutto a noi stessi, le ragioni sia
di una struttura così bene organata e compatta sia l’asciuttezza e significatività di
un linguaggio che arriva fino al cuore. Leggiamola anche con l’idea di cogliervi i
segni e gli indizi di un’ansietà che, senza intaccare le certezze, rende più franto, o
più diviso, il discorso, moltiplicandone gli approcci e i versanti.
E, si badi bene, anche quando Urrasio sembra affascinato e conquiso da
sollecitazioni occasionali, scalfendo così un pò l’omogeneità del suo discorso,
occorre, anche allora, recuperarlo lungo l’itinerario d’una intenzione organica ed
occorre saper riconoscere la sua volontà di costruirsi secondo un continuum, una
storia unitaria, che resta la sua conquista
143
migliore e il segno più evidente, in questa Metafora della parola, della sua autenticità.
In tal senso diventa emblematica la serie iniziale di Lunghe rotte impossibili,
come abbiamo poc’anzi notato, ma anche tutte le altre sezioni del libro (Il segno
e l'enigma, Il respiro dell'arnia, La variegata monotonia, La filigrana del nulla, Occasioni
razionali): tutto va letto distesamente, come un unico discorso per gradi e per
capitoli, rispettando la disposizione del poeta a meditare, la sua pazienza di riflettere e di riflettersi; soprattutto è necessario disporsi a cogliere, dietro la già
avvertita autunnale malinconia degli anni, dietro il rovello delle apprensioni individuali e storiche, una ostinata volontà di proporci soluzioni o ancoraggi di
speranza, segno verace dell’umanità e della modernità di questo schivo cantore
della Daunia.
Nel poemetto Lungo rotte impossibili Urrasio pare voglia suggerirci che la
storia dell’uomo non si esaurisce nello spazio della sua esistenza, ma si rivela
come il risultato del tempo che scandisce il respiro, l’ansia, l’aspirazione alla
conquista di generazioni e generazioni, scrutate nel loro “fatale andare”: un itinerario di conquiste e di cadute, di errori e di ravvedimenti, di sogni e di speranze disattese; un itinerario che spesso, seguendo un disegno del tutto imprevedibile, ci porta lontani dal nostro mondo, dalle nostre origini, tanto da ritrovare il segno delle nostre radici proprio quando si è costretti a percorrere altre
strade, a battere altri lidi.
Ma è proprio in questo peregrinare che scopriamo un’identità diacronica,
la consapevolezza critica cioè d’essere uomini veri, che si fan carico di tutte le
incertezze di quanti ci hanno preceduti lottando, per aprirci un varco su un
domani migliore. Spesso questa lotta è risultata vana, per cui, sopraffatti da una
sorte crudele (“...Nel groviglio delle dune cadde / il vento e i simboli abbattuti/ si eressero — inutili barriere —/ ai nostri passi” 1, I), fummo costretti a
iniziare il nostro viaggio per evitare che il silenzio riempisse totalmente la nostra
esistenza. E l’avventura inizia tra la fragilità del tempo, a volte tempestoso, a
volte in agguato, e i lidi cui approdiamo, che si presentano come terre aride,
poverissime, cariche di lunghi rimpianti, di una storia, in fondo, le cui istanze
attendono ancora di essere risolte o di avere almeno una risposta confortante
ed umana. In queste plaghe non siamo che numeri di comodo, sillabe vuote,
che inspiegabili eventi avviluppano nelle maglie di un disegno che mira al conforto, alla parità, ma che non raccoglie se non lutti, ingiustizie, proteste e scontenti.
Per ritrovare serenità - avverte ancora il poeta - non resta da fare altro
che dimenticare, dissolvere nel nulla quanto dì più caro riempie la nostra
144
esistenza. Dobbiamo sforzarci di realizzare la nostra imperturbabilità, ma il desiderio di condensare in poche battute ciò che siamo stati (il colore degli occhi
che inventarono il nostro destino, le mani che graffiarono i monti per rendere
agevole il nostro cammino), torna dal fondo della coscienza cosmica a ripercorrere e a riaprire i nostri solchi, a ripetere le sillabe che rimbalzano dalle rughe
del nostro satellite, per farsi nomi, stele, proiezioni nel futuro, speranze il più
delle volte deluse (“... E noi / lucidi di pioggia e di silenzio, / aspettavamo le
estati e il calore / la carezza e il perdono. / Invano. “ - 3, I).
Rinnegarsi è impossibile, poiché si è costretti a misurarsi con il tempo, il
cui rapporto, inversamente proporzionale al suo scorrere, dilata la nostra ricerca, le nostre aspirazioni, mentre affonda nelle “sabbie dei giorni” il profilo del
nostro Promontorio, l’approdo sospirato, dopo il lungo vagabondare,
nell’oceano delle età.
Spesso le nostre attese sono tradite e il silenzio torna a ingigantirsi nella
memoria, nell’immaginazione, ma anche negli attimi vissuti con il fiato sospeso,
con il timore di chi attende e non sa, di chi cerca e non trova (“ ... Oltre il giuoco / dell’orizzonte che celava di speranze / i nostri sguardi non riaffioravano /
isole, né terre nella memoria” - 4, I). Silenzio soltanto o, peggio ancora, dubbio
che non tarda ad insinuarsi, subdolo e discreto, nelle incertezze e nei fremiti
della nostra solitudine, tra spiragli di luce, per ridurla ad ombra, a negazione di
pur legittime aspirazioni e realizzazioni.
Al di là di ogni attesa non rimane che “un lungo richiamo”, pronto a rimontare le dimensioni del tempo, le tappe della nostra storia, a riservarci, in
ultima analisi, quel grumo di speranza che accomuna età ed intelletti con
l’intento di rendere sicuro il prosieguo del nostro viaggio: un viaggio appena
intrapreso, sebbene scandito da precedenti millenni, interrotto solo da qualche
sosta, per dare al poeta e ai suoi compagni il tempo di approdare allo scoglio
dove tentare di vivere una nuova, ritentata avventura. Un momento di sosta,
dunque, non del tutto riposante però. Qui la metafora di questa moderna odissea prende quota e lo scavo che il poeta fa nel proprio subcosciente diventa
severo, più pretenzioso.
Ripercorso l’itinerario dell’entrotempo, Urrasio concentra la sua attenzione sul suo destino di uomo, sul senso della sua esistenza. Sa bene di aver
perduto la coincidenza e di tentare “rotte impossibili”, ma accetta di affrontare
ugualmente il proprio destino, vivendone fino in fondo gli scompensi e le asperità, per cercare di riannodare il filo esistenziale che “si era spezzato da tempo”.
Soffre del suo presente il “mare di incertezze” nel
145
quale è costretto a navigare, il “taglio dell’indifferenza” che caratterizza il modus
vivendi attuale, cerca, con tutta la forza che gli resta, di difendere i valori in cui
crede, di salvaguardare la propria identità dal rischio della dimenticanza e del
disinteresse; per questo egli è costretto a seguire, ad inseguire anzi, “rotte impossibili”, itinerari che non danno la certezza dell’approdo, né promettono soste durature. Unico conforto è di attendere che la “verità misuri i nostri giorni”,
che la luce fughi le ombre e i dubbi, illuminando di nuove certezze le scadenze
cui si va incontro, senza timore di essere schiacciati dalla loro tragica realtà. Sono momenti, come si può notare, estremamente dolorosi, se il bilancio segna
sempre cifre al passivo e se del nostro esistere non sopravvivono che i segni di
uno sfacelo che annulla la dignità degli esseri umani e la proiezione del tempo
aperto a nuove avventure.
Questa constatazione così amara (“Tralci di generazioni stellari
/approdammo anche noi /al nostro scoglio, /ma non ci fu dato vivere” - 5, I)
deve spingerci non certo ad abbandonare i remi o a deporre le armi, per attendere passivamente la spinta del vento liberatore, ma deve abituarci a lottare
contro noi stessi e contro le avversità della vita, per farci ritrovare “rinnovati”
dalla forza del nostro volere, dall’ardire di impugnare gli estremi “di un disegno
crudele”.
Lungo rotte impossibili è un poemetto scavato nella memoria alla ricerca
della propria dimensione, vista come summa di esperienze generazionali, come
tralcio di silenzi stellari, come risultato di sofferenze che convergono nello spazio ristretto di ogni uomo, indicandone il paziente e il profeta; come il raccordo, infine, da cui si diramano altre uscite, ma dove, soprattutto, confluiscono “i
solchi / tracciati a fatica lungo i nostri /monti”: solchi di ricerche, di analisi affannose di barlumi colti ad ogni indizio, nella speranza che possano diventare
fuochi, luce e certezza che “non tutto si scioglierà nel nulla”. Un “non tutto”
che, pur attraverso la negazione e il fallimento dell’azione umana, vuole insegnarci a vivere e a lottare.
Ne Il segno e l'enigma, secondo “momento” di questa raccolta poetica, Urrasio è alla ricerca della verità, tenta cioè di conoscere se i suoi “segni” hanno un
valore reale e se il colloquio aperto con il mondo può restare senza interlocutori. Mentre lo spazio e il tempo si restringono, il poeta si arricchisce di altre dimensioni: diventa il “prodotto di più vite” in cui convergono gli affetti e le voci, gli echi e le proiezioni, le assenze e il desiderio di ritrovare il proprio equilibrio. Per semplificare questo concetto, basta esaminare solo qualche lirica.
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In Quando il pensiero dell’eterno, ad esempio, il poeta sostiene che la vita allarga i propri confini quando tenta di proiettarsi nell’infinito e nell’eterno: le
memorie si dissolvono e lo spazio a noi riservato si carica di interrogativi e di
inquietudini che traspaiono nel “dubbio se l’entrotempo [il passato] e il dopo [il
futuro] saranno ancora nostri”. Si insinua il desiderio della sopravvivenza, che
però presto si dilegua di fronte alla constatazione che il nostro viaggio è così
labile da lasciare appena qualche scia che “rasentiamo da sempre, inosservati”.
Così anche nella poesia I segni più certi, dove Urrasio si auspica che le sue
parole sopravvivano nel tempo, per quanto egli si renda conto che esse sono
labili e incerte a confronto dei “segni” che altri ascrivono a loro favore. Il vivere per gli altri, come fanno le madri, riduce i versi a “fragili sillabe raccolte/a
caso in un groviglio/di suoni indecifrabili”, minacciandone la sopravvivenza.
Il solo mezzo che può tenere in vita affetti ed amicizie - aggiunge il
poeta in Con il brusio delle sillabe - è il colloquio: la mancanza di comunicazione
rende grigia la vita, accentua la solitudine, rende più profondo il solco che divide e spezza la solidarietà umana. In tale stato “nessuno colmerà / la solitudine
che minaccia / le nostre ore” e persino le memorie più care e i volti più amati
saranno testimonianza di un passato inutile, che facilmente si dileguerà nel nulla.
Soltanto oltre i termini della vita umana e terrena - conclude Urrasio in
Dove il tracciato della vita - potrà avere fine il nostro esilio, questa forza che ci
spinge altrove, disperdendo ogni nostra energia e ogni nostro affetto: cadrà
così per sempre anche l’agguato del dolore e sarà il poeta ad attendere, “dentro
il respiro eterno”, che la sua razza, la sua generazione si ricompongano, quietando la sua ansia di dimensioni atemporali e infinite.
Nel terzo “tempo” di questa raccolta, Il respiro dell'arnia, la riflessione del
poeta è rivolta ai numerosi eventi che, inevitabili e sconcertanti, sconvolgono la
vita umana. La partenza dei figli, l’assenza della persona amata, il ricordo delle
dolcezze vissute suscitano ansie profonde, sentimenti insueti, che si caricano di
significato allorché si dà uno sguardo al proprio passato per tracciarne un bilancio. L’ispirazione insegue il poeta che non fa fatica a fissare sulla carta le sue
emozioni; difficile è stato semmai ordinarle, lasciarle decantare in un angolo,
per evitare di non sceglierne l’essenza, quella parte cioè che sa diventare poesia,
oltre che confidenza e lamento umani.
I ricordi si affollano alla mente e ci si accorge - dice Urrasio in L'ultimo
accordo - che qualcosa ha spezzato “l’anello/che salda il nostro
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equilibrio”: si cerca di rivivere l’attimo, di rivedere l’ultima curva dove i binari,
“le parallele del tempo”, hanno staccato da noi una parte di noi stessi.
C’è da osservare, inoltre, che il poeta vorrebbe distruggere a volte tutto il
suo passato: da qui quel desiderio, così bene riassunto in Vorrei, di rivisitare la
propria vita, evitando incertezze ed errori per il futuro. Pensando a ciò che si è
e alle proprie incapacità, ci si accorge che basta un attimo di raccoglimento e di
silenzio per valutare tutto quanto si è avuto e chiudere in parità il proprio bilancio.
Di tutte le dolcezze vissute - conclude Urrasio in Dei tuoi abbandoni — resta soprattutto il ricordo che si acuisce nel silenzio e nella solitudine. Non c’è
rifugio, infatti, che possa isolarci o che possa costituire come un riparo ai nostri
affanni: anche le pareti diventano schermi, su cui tornano, prepotenti e severe, le
immagini del passato (nella poesia immediatamente precedente Urrasio paragona la sua dimora a un’arnia, nella quale è costretto a muoversi in attesa che la
sua, e la nostra anche, inquietudine si plachi e la sua voce diventi serena: “La
nebbia discesa improvvisa / a cancellare il tuo volto, / ha disperso il respiro
dell’arnia / dove raccogli paziente / il volgere dei tuoi giorni...” - Nei raggiri del
vento). Sono pochi gli attimi di conforto e di distensione.
Purtroppo il nostro destino è di trascinarci, stanchi e delusi, tra volti che
spesso ignorano la nostra pena. “... Una stanchezza infinita / si accompagna al
mio lento / incedere tra volti / muti al richiamo del tempo” - Dei tuoi abbandoni.
L’insoddisfazione di essere testimoni impotenti del proprio tempo non
tarda a trovare un’eco incisiva anche in un’altra lirica, Più non basta, in cui l’autore
fa notare come le voci, i motivi e i ritorni che riscontriamo nei cicli delle stagioni, eternamente puntuali, non ci soddisfano più: eppure tante volte ci siamo
stupiti e li abbiamo ammirati! Ora l’aria, il silenzio, il mutare delle primavere
non appagano più le nostre esigenze e tendiamo lo sguardo al di là dello
“spazio breve / delle cifre”. Ma vano è il nostro sforzo, dal momento che non
è dato conoscere altro che le nostre misere storie: anche il futuro è protetto dal
velo “dell’incerto” che grava, come lama tagliente, sulle nostre attese.
La variegata monotonia, quarto “tempo” di questa nuova raccolta, comprende poesie che vanno dalla riflessione alla celebrazione di un evento, dalla
constatazione suggerita dall’esperienza della vita al desiderio, mai completamente pago, di trovare compagni di viaggio. Una poesia
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dai toni “variegati” appunto. Non mancano versi in cui il poeta tenti di fare un
bilancio della sua vita (In bilico, Che cosa posso ancora, La tenda sollevata) o cerchi di
ritrovare la propria identità tra tanta incoerenza e inutili parole.
A darci la misura esatta del nostro sapere, della nostra cultura - osserva
in La presunta certezza - è l’età matura; ma, a farci ricredere su questo, a farci intendere il valore reale delle nostre parole e dei nostri gesti, basta la parola, disarmante e illuminante, di un bimbo: “La presunta certezza di sapere, / strappata a pochi titoli corrosi, / urta contro la tua disarmante innocenza”.
In Che cosa posso ancora c’è, poi, il rimpianto di non potersi più stupire
come un tempo, di non avere più i facili entusiasmi giovanili. Ora egli ha una
visione più chiara, e dunque più amara, del mondo, ha la misura esatta degli
eventi e delle cose (lo spazio si restringe, le illusioni cadono, i desideri si dissolvono “in un deserto d’aria”, dirà In bilico). Come per l’agave, in lui resta ben
saldo quel filo misterioso che lo lega agli affetti, alle radici: “... Non sopravvive
che la generosità / del povero che cede / felice il suo nulla, / la trasparenza
dell’oliva / matura, il gioco delle parole / inchiodato al travaglio della coesione”.
Anche il “furore”, la necessità di arrabbiarsi, il desiderio di gareggiare e
di vincere appartengono al passato - insiste ancora il poeta in Quella dei furori
accesi - e vengono “dissolti nella lusinga / del silenzio”, ché il presente incede
con ben altre cadenze: ha interessi e inquietudini che ignorano le età e le memorie. L’ansia solamente sopravvive unitamente alla speranza di continuare a
“rifiorire / al primo cenno del vento”.
La filigrana del nulla è una sezione in cui il poeta studia e misura se stesso
attraverso motivi che lo riguardano non certo singolarmente, ma piuttosto come componente di una razza, come testimone del proprio tempo, come cellula
di un organismo che cerca “altrove” o al di là dei propri confini una dimensione nuova. In questo fermento di tentativi, di deboli approcci, il poeta, quasi, per
contrasto, trova la forza di confessare i propri timori, le proprie incertezze, di
inseguire l’ansia di scandaglio dell’imprevedibile, pur sapendo bene che dietro il
vetro opaco della vita non ci sono che ombre e ipotesi, difficilmente interpretabili.
In All’alt del semaforo guasto egli osserva che si è testimoni impotenti del
proprio tempo, costretti a registrare le assurdità e gli scompensi di un mondo,
come quello attuale, che rivela incoscienza e superficialità (“... testimone inopportuno seguo / dagli spalti del tempo consumarsi / la
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foglia e l’uomo cedere / al peso della nostra incoscienza”). La nostra piccola
cronaca trova agganci e conferme nelle notizie che riempiono le prime pagine
dei quotidiani, attenti a denunciare il sequestro della nave, gli scandali, le ingiustizie, ecc. Il poeta, a dispetto di tanto assurdo clamore, vorrebbe scrivere nel
tempo il nome di chi soffre in silenzio e in silenzio vive la sua storia (“ ... Se
potessi - ma non me n’è dato / privilegio - inciderei il tuo nome /nel silenzio:
troppo dura/è la stele per essere scalfita / dal soffio lieve del nostro passaggio”).
L’attaccamento alla terra è uno dei motivi più fortemente sentiti da Urrasio; egli, però, non lo limita alla stretta del ricordo o alla tematica ormai scontata e superata del meridionalismo tout court, ma ne comprende e ne decanta le
ragioni di fondo, guardando all’uomo e ai suoi travagli, per scoprire meglio la
propria identità.
In Il nostro altrove e in Cedere non era il nostro forte il poeta affronta con ferma voce poetica questo tema, sottolineando come l’amore dell’uomo per la
propria terra è profondo; eppure il desiderio di scoprire spazi e mondi nuovi
lo spinge a superare l’orizzonte e a proiettarsi nell’atmosfera: l’uomo vinse la
forza di gravità, la paura, il disagio di non essere più padrone del proprio peso,
del proprio corpo e vide franare la terra, oltre i confini del tempo, nel regno
dei silenzi. Ma il nostro “male di vivere”, forte oltre ogni misura, ci riportò nei
nostri “tratturi”, per farci riscoprire vivi tra tanti problemi e sofferenze.
L’occasionalità, auspicata vari anni fa da Mario Sansone per la poesia di
Urrasio, si rivela in tutta la sua efficacia nell’ultima parte di questa raccolta, intitolata appunto Occasioni razionali, dove compaiono poesie suggerite da immagini
improvvise e inattese (Si legga, ad esempio, Al girasole solitario, il cui “ ... occhio
/ rompe il crepitare dell’aria, / il battere monotono del silenzio”. Il girasole,
nato per caso sui margini di un fosso o lungo un pendio, non è che l’immagine
della solitudine che ci devasta: esso è anche un monito ad avere coraggio, a superare i momenti difficili, i punti morti, l’agguato della disperazione. Il suo tenace modo di cercare la luce è un invito a cogliere anche il più esile segno di
speranza, per continuare a difendere le nostre origini, i nostri valori in un presente difficile e rissoso. Corre facile qui il pensiero all’uorno quasimodiano
“trafitto da un raggio di sole” che riceve il privilegio dell’attimo fuggente di
luce come un dono, senza tuttavia rincorrerlo; in Urrasio, invece, il girasole è
costretto a volgersi quotidianamente su se stesso per appagare la sua sete di
luce, che in questo caso va vista con un significato metaforico
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ben più ampio e profondo: quel bisogno equivale alla proiezione dell’uomo nel
tempo nell’affannosa ricerca di una certezza, della propria ricerca esistenziale);
dal ricordo che riaffora alla mente dopo anni di assenza; dall’urgenza di esternare qualche considerazione da tempo maturata o di rendere omaggio a nomi
che hanno segnato, in qualche modo, il nostro destino.
Sono versi, questi delle Occasioni razionali, che conservano una loro forza
d’urto, ché sono scavati in interiore homine, ché sono sofferti e selezionati e perché, alfine, sono stati scelti tra tanti altri che pure avrebbero avuto un loro motivo di essere.
Le orme del passero sulla neve - osserva il poeta in Il messaggio cuneiforme,
fornendo così a se stesso un’occasione di canto e a noi un motivo di riflessione
- riportano alla memoria inverni ormai trascorsi, sofferenze patite da uomini
coraggiosi e tenaci, semplici e saggi, amati senza altri motivi che per la loro capacità di lottare e di tacere; ricordano, inoltre, le stagioni trascorse con tracce
indelebili, che sembrano ora riaffiorare dalla neve, il cui candore è l’unico segno
che la vita continua, che l’esistenza non è memoria, anche se noi, scampati al
naufragio, ci ritroviamo, smarriti e delusi, quasi stranieri in un mondo che non
ci appartiene: “ ... Il candore /che riveste le ombre del mondo, / i nostri sogni,
è il segno certo / della vita rapita alla memoria, / la calma scampata al naufragio / che ci sorprese smarriti / su altre rive”.
Nell'intrico dell'aria è annunciato l’arrivo della buona stagione, evento che,
sempre, ci rallegra confortandoci. Esso diventa triste, acquista cadenze drammatiche solo quando l’uomo tenta di distruggere ciò che la natura vuole sottrarre alla morte: “...Sulle ali di un vento maligno / il volto minaccioso della nube /
trafigge la nostra ebbrezza / con oscure ipotesi di morte” (E’ evidente
l’allusione al triste episodio di Chernobyl, avvenuto nella primavera del 1986).
Sono tutti questi elementi, di cui si è data qui una cospicua esemplificazione, che compongono il carattere di complessa modernità della poesia di
Michele Urrasio, la cui inquieta spiritualità contiene sempre una problematica
umana, un discorso fermo e chiaro, rivolto fraternamente a tutti.
Giuseppe De Matteis
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BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE POETICHE
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1965;
IDEM, Ancora un giorno, Prefazione di G. DE MATTEIS, Lucera, Catapano,
1970;
IDEM, Nel visibile e oltre, Prefazione di G. DE MATTEIS, ivi, 1974;
IDEM, Dal fondo dei Dolmen, Prefazione di M. SANSONE, Quarto d’Altino, Rebellato, 1977;
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MICHELE URRASIO è nato ad Alberona (Foggia) nel 1937, ma vive ed insegna a Lucera
da molti anni. E’ giornalista-pubblicista; collabora a vari quotidiani e a riviste letterarie; è
anche redattore capo del periodico culturale-letterario «Opinioni libere» e direttore del
mensile di cultura e attualità «Tholus».
157
PRESENTE STORICO O DELLA “TEMPORANEA ETERNITA’”: LA RIPETIZIONE, LA VARIAZIONE E L'OSSIMORO
NELLA POESIA DI RAFFAELE ANTINI*
1. Le modalità stilistiche di più ampia diffusione nella raccolta Presente storico di Raffaele Antini appaiono quelle della ripetizione, da una parte, e della
variazione e dell’antitesi, dall’altra.
Le formule ripetitive si diramano a tutti i livelli del testo poetico: da
quello fonico a quello lessicale, da quello sintattico a quello strutturale, investendo un campo estesissimo di applicazioni.
Quasi mai, però, la reiterazione appare come un puro raddoppiamento,
una pura procedura duplicativa, poiché essa è spesso portatrice di un sinuoso
elemento di variazione, di rettifica, se non di contrasto e di opposizione tra i
membri replicati.
La tessitura fonica delle composizioni è così fitta e stratificata, così variamente, e quasi accanitamente, modulata da rappresentare, a volte, una sorta
di autonoma proliferazione-gemmazione, una sorta di fenomeno di autogenesi,
del “significante”, di indipendente (dal livello del “significato”) o parallelo meccanismo musicale, di straordinaria cadenza politonale, slegato dalla semplice
mimesi onomatopeica del referente, e veicolo di ulteriore senso, di raddoppiamento semantico del “contenuto”.
I fenomeni fonici si realizzano quasi totalmente sul piano allitterativo (in
senso esteso) e paronomasico, mentre, correlativamente, è quasi del tutto assente il procedimento della rima, i cui pochissimi esempi, inoltre, sono irregolari, quasi sempre all’interno dei versi, e, quindi, non in posizione canonica.
____________
*La sezione 2. del presente saggio è apparsa come postfazione a Presente storico,
Forlì, Ed. Forum, 1989, e viene presentata in questa sede con alcune correzioni rispetto al
precedente testo.
159
E’ anche da osservare che la proporzione tra le modalità foniche muta
passando dalla prima sezione della raccolta (in cui è più marcata la presenza dei
fenomeni allitterativi e paronomasici) alla seconda ed alla terza parte (in cui è
più accentuata la ricorrenza delle rime, peraltro sempre abbastanza scarse).
Inoltre, anche la struttura compositiva, a livello sintattico, subisce delle variazioni, presentando maggiore complessità ed articolazione nella seconda e, soprattutto, nella terza sezione, così che si manifesta l’interdipendenza tra il fenomeno
della diradazione della tessitura fonica e quello della maggiore saldezza
dell’architettura sintattica (e concettuale).
1.1. Il catalogo delle replicazioni fonetiche è molto ampio, e di esse si
darà una veloce esemplicazione. Proprio ad apertura di libro si nota nel sintagma “L’aTTimo alla riDDa rapiTo - e fioTTa / inTanTo una conTesa Di opposTi...” (L’attimo) il martellante ritorno delle occlusive dentali /d/e/t/ (12 occorrenze su 54 fonemi) che, insieme alle altre occlusive p/e/c/ed alla vibrante /r/
(Ridda Rapito), scandiscono il ritmo duro ed incidente che sottolinea la linea
semantica di opposizione e di contrasto, resa esplicita, a livello lessicale, dal sintagma “contesa di opposti”.
La prima delle Due piccole elegie è costellata della presenza ossessiva del fonema /t/, che spesso si coniuga con i suoni vocalici /e/ed/i/, la cui irradiazione si diparte dal centro emotivo costituito dalle voci pronominali e possessive
di 2a persona singolare che, egualmente, gremiscono la composizione: “MolTe
presenze ha desTaTo la Tua venuTa / e molTi oggeTTi io frugo vanamenTe
per Te...” (10 occorrenze su 68 fonemi); “segni sono TuTTi del morTale passaggio, dal Tuo/all’alTrui. Mi resTano le figure degli oggeTTi. Te li / odio, Te
li amo, caro; miei specchi, Te li/vedo” (12 occorrenze su 114 fonemi), in una
sorta di sillabazione amorosa, di vertigine vocativa rivolta al “figlio lontano”.
(Di passaggio è da notare che la ricorrenza della sorda occlusiva /t/ evoca
spesso, ma non sempre, nella raccolta, l’evento della morte o, come in questo
caso, la situazione di lontananza e di distacco, quasi di “piccola morte”, richiamata, peraltro, sul piano lessicale dalla serie semantica: “fine”, “scomparsa” e la
replicazione di “mortale”).
Jeux presenta una straordinaria tessitura fonica (e musicale: non per nulla
ricorrono in sottofondo memoriale ed allusivo i titoli di composizioni musicali
di Ravel, Debussy e Stravinsky).
Dalla irradiazione omofonica del 1° verso (“Jeux d’eau feux”), che appare come una triplice ondata di echi dilungati e diffusi, alle paronoma160
sie “bRILLò - pRILLi - pRILLasti, SANA - inSANA e FORMe – sFORMa”, dalla catena delle allitterazioni (che sciamano in costellazione densissima
nell’8° verso: “iL nuLLa priLLi, priLLasti” - 7/1/su 22 fonemi - e che scandiscono il 10° verso: “si estingue lo strano Feu; Fu impressione Fu”. - in cui la
ricorrenza martellante della spirante /f/ si somma all’incidenza della rima tronca in /u/ e della sibilante /s/) ai poliptoti “rotola – rotolante” e, ancora, “prilli
– prillasti” (che insistono su un piano contiguo a quello fonico): l’ordito fonoritmico appare gremito e pluristratificato, con molteplici fili che si intersecano e
si sovrappongono, mentre alcuni nuclei fonici (i già citati /f/ed /l/) sono in
antitesi e dissonanza con altre cellule foniche aggregate in versi contigui. E’ da
rilevare la ricorrenza della /t/ in “... roTola, roTolanTe. Ah / già brillò il TuTTo e Tu...”, con l’ulteriore procedura percussiva Tu - Tu rieccheggiata a distanza dalla rima Tu - fu, che appare come una sorta di pietra tombale, di dissoluzione e di perdita definitiva e totale, contrapposte alla brillante levità di Jeux.
Per di più, la dissonanza fonica viene a spostarsi, raddoppiando il suo peso, sul
piano delle figure logiche (che si dispiegano nella serie di antitesi, ossimori, rettifiche, svolgimenti: “eau-feux, intrigo-pace, tutto-nulla, vane-forme-sforma, sana-insana”, con la sottolineatura della rima) e della dialettica temporale presente-passato (“brillò-prilli-prillasti; si estingue-fu”).
I versi iniziali di Primavera hanno come epicentro fonico la parola tematica della composizione: “primavera”, appunto, da cui si irradiano tre linee di
forza allitterativa: la prima, rappresentata dalla nasale /m/, orientata all’indietro,
la seconda, individuabile nella spirante /v/, che realizza la diffusione fonica in
avanti, mentre il terzo nucleo allitterativo, costituito dalla occlusiva dentale /d/,
rappresenta uno svolgimento fonico, originato dall’espansione attributiva di
“primavera”: “insidiosa”, che si dirama in sottili mutamenti paronomasici:
“invidiosa – livida” (nei quali entra in collisione con la deriva allitterativa della
/v/), riecheggiando e rifrangendosi anche nel 3° verso: “Mote, MiasMi riMesta
la luce / di priMaVera insidiosa. InVidiosa, liVida / per il passo di danza in cui
conduci”. Un’altra linea di forza allitterativa (/pr/), originata dalla replicazione
anaforica di “primavera”, si dirama, con la mediazione del poliptoto (perdiperduta), fino alla fine della composizione, sovrapponendosi alla linea di opposizione-confluenza semantica tra la luce e il buio, col quale l’io lirico si identifica
( e la cui situazione è sottolineata dalla triplicazione “a me” a contatto e a distanza): “di Primavera. .. / ... la Perdi . Perduta /Primavera, e Perché ti chini a
me, a me / Per Parole, a me che sono buio?”.
161
La composizione (Cos’è lo scampanio) è organizzata dal punto di vista fonico come un’aggregazione multipla e una condensazione pluristratificata di fonemi allitteranti, di modo che tra i vari livelli del testo si determina una sorta di
attrito fonico di nuclei sonori in opposizione, ma anche si realizzano la variazione e lo svolgimento, in quanto alcune cellule foniche in posizione subordinata rispetto alle dominanti all’interno di un verso vengono recuperate e moltiplicate nei versi successivi.
Nei primi due versi le cellule foniche prevalenti sono la sibilante /s/ (7
occorrenze) e l’occlusiva velare /c/ (6 occ.), spesso coniugate colle vocali
aperte o semiaperte /a/ (6 occ.) ed /o/ (7 occ.), che si irradiano dalla parolatema “scampanio”: “CoS’è lo SCampanio ChiaSSoSo /Che ha SCatenato le ire
oSCure”; nel terzo e nel quinto verso sono dominanti le occlusive dentali /d/e/
t/(di cui si individua un’anticipazione in “scatenato” del v. 2): “Di TanTi Dei?
Lo uDimmo TuTTi /... / Da quell’onDa D’urTo, Da suoni e sTrali” (da notare nel v. 5 il martellante ritorno della sillaba /da/), mentre nel v. 4 (“iN SileNzio, SoMMerSi”) viene realizzata la deriva fonica della sibilante /s/ dei vv. 1-2
(che si prolunga anche nel v. 5) e delle nasali /n/ ed /m/, già anticipate nel v. 3
(“taNti”, “udiMMo”), che sciamano nella seconda strofa spesso in posizione di
raddoppiamento: “fuMMo”, “salvaMMo”, “dispoNeMMo”.
Sono da notare nei vv. 8-9 i dilungati valori fonosimbolici suscitati dalla
connessione della /n/ (7 occ.) e della scura, chiusa vocale /u/ (7 occ.): “Ma
Nell’aria UN sUoNo dUrò a lUNgo, / UN sUoNo lUNgo”.
Il meccanismo di moltiplicazione e variazione a livello fonico viene realizzato anche sul piano lessicale, con il recupero nella seconda strofa, ma con
modalità grammaticali diverse e rettifiche semantiche, dei lessemi “silenzio” e
“suono” introdotti nella prima strofa (è anche da sottolineare la posizione di
inquadramento - o ciclo - di “silenzio” e l’epanafora di “suono lungo”).
Altro notevole fenomeno allitterativo è quello individuabile nei primi due
versi di Nomi: “TuTTi anDaTi. Il Tempo / ha Tre lanceTTe o quaTTro sul
quaDranTe” la cui forza fonica, centrata sulla /t/ della parola tematica
“tempo” si diffonde in lenta deriva per altri 6 versi finché non collide con
l’altro nucleo fonico fortemente connotato dei versi 9-10, che si irradia dalla
parola-tema “nomi”: “Borges, ReNato, e NoMi che iNdoviNi /Nella Nebbia,
Nel piaNto o Nel coMputer”, la cui progressione fonica, scandita dalla nasale
/n/ e dalla triplicazione della preposizione, sembra un lungo singhiozzo per il
ritmo lento della ricorrente sillaba /ne/. Il secondo nucleo
162
tematico, da cui deriva anche il titolo della composizione, “Nomi” (che si riferisce ai morti testimoni, alle presenze amiche di Borges e di Renato Mantino, per
aspetti diversi care ad Antini) convoglia, per la sua valenza emotiva e semantica,
accentuati fenomeni di replicazione e di variazione anche a livello lessicale: innanzitutto la replicazione della parola-tema, poi le raffinate procedure paronomasiche: “... nomi che indovini / ... / nomi di sassi e d’astri, nomi disastro”
(“disastro” risulta evidentemente dall’innesto dei precedenti termini “DI SASsi”
e “ASTRi”), infine la duplicazione di “Occidente” con la variazione quasi ossimorica degli attributi: “insano-piano” che presentano, d’altra parte, la caratteristica omofonica della rima. Anche il primo nucleo tematico: il “tempo” aggrega fenomeni lessicali replicativi soggetti a variazioni, rettifiche e dislocazioni: il
sintagma “ha tre lancette o quattro sul quadrante/improbabile...” dei versi 2-3 viene
ripetuto e trasformato nei vv. 3-4: “ ... Ho tre più o meno o quattro/frecce...” e
nel verso 15: “lancetta appena mobile, improbabile”.
Altri esempi di una estesa disseminazione fonetica possono essere individuati nella composizione All'inconsolato lamento dei pianeti che presenta nel primo
periodo 19 occorrenze della /t/ e 10 della /d/, su 159 fonemi, che eccedono
nettamente la frequenza standard (nel quarto verso addirittura la /t/ ricorre ben
11 volte: “perché la viTa TuTTa sia mosTraTa, TuTTa l’aTTesa”, e la sua forza
percussiva viene evidenziata dalla presenza di ben tre doppie e dalla ripetizione
quasi a contatto “tutta... tutta”), e nel quarto verso di Tu ed io, in cui le occorrenze della /t/ sono 7: “di TuTTI gli aTTi che si compiono incauTamenTe”, che
costituiscono la deriva fonica del primo verso: “Quando nella noTTe un Tramestio di membra” nel quale è evidente la triplicazione dei nuclei fonici: della /t/
appunto, ma anche della /n/ (4 occ.) e della /m/ (3 occ.).
1.2.1. Passando ad esaminare le modalità delle figure sintattiche (o
dell’ordine), bisogna sottolineare le stesse caratteristiche, già rilevate per le figure
foniche, dell’altissima frequenza, della complessità e della variazione o, addirittura, dell’opposizione semantica delle strutture “ripetitive” della raccolta.
Le prime modalità da esemplificare sono quelle delle ripetizioni a contatto che, sebbene siano istituzionalmente procedure di intensificazione, sono
spesso portatrici in Antini di elementi di rettifica di variazione semantica.
La replicazione a contatto (geminatio) è presente ampiamente nella raccolta: “l’altra, l’altra che sempre urge e urla di lontano” (L’attimo), in
163
cui la replicazione, ad apertura di verso, viene condotta sul piano
dell’esplicazione e dello svolgimento; “ ... e lui che gira, e gira solo” (L'amico
assente), in cui viene attuata una puntualizzazione (ed una progressione semantica); “... trama / sulla trama del velo, rete su rete...” (Presente storico), in cui appaiono i motivi della sovrapposizione e della diversificazione; “perché quel che
fui... / e quel che sono è triste, triste / tranne per quell’attimo in cui brilla / riflesso.” (Riflesso), in cui l’iterazione (“triste, triste”) si sviluppa in senso correttivo
o limitativo, ed è correlata ad una ripetizione anaforica (“quel... / quel”) che
egualmente si svolge come variazione o contrasto sul piano temporale (passatopresente); inoltre, lo svolgimento o il cambio di significato del lessema
“tempo”, e la puntualizzazione semantica sono evidenti, rispettivamente, nel
sintagma: “... il tempo, il tempo che si fissa” - oltre che nell’altra replicazione
con interposizione” ... un tempo, lo strappa al tempo” - (Quando gli occhi sono
mari); e in “ ... a morire, a morire nel cielo dei tralicci” (La Luna di Federico); “sul
litorale caldo della ragione, della ragione / che ha smesso tutti i sentieri ed ogni
costrutto” (Naufragio).
Solo in pochi casi il raddoppiamento a contatto appare come una semplice intensificazione di senso: “non so, non so davvero...” (Se nella memoria
d'uno); “ ... m’interroga... la voce, la voce” (Due piccole elegie, II); “Indago, indago
... / ... / ... è breve, è breve.” (La fine); “ ... a me, a me” (Primavera), presentando, tuttavia, qualche variazione, non fosse altro che nella pronuncia espressiva.
La replicazione a contatto appare nella raccolta anche in formulazione
tripla o quadrupla, come avviene in Tu ed io: “ciò che guardano è oltre, e oltre
c’è un oltre / oltre cui non si giunge...” , in cui i 4 membri replicati (gli ultimi
due in posizione di anadiplosi, a chiusura e ad apertura di verso) rappresentano
le ondate progressive di un continuo superamento o scavalcamento semantico
fino all’invalicabile ostacolo finale; ed in Il mattino: “... il non vederci / ti confina
alla meta, alla Meta. E la Meta / non è luce, né scamiciarsi né donne. Né maggio, /è Meta...”, in cui appare l’estensione semantica segnata dalla maiuscola e
l’esplicazione indotta dalla doppia negazione (con l’ulteriore deriva della replicazione a distanza).
L’altra modalità di raddoppiamento a contatto è rappresentata
dall’anadiplosi (in cui la vicinanza sintattica è allontanata artificialmente dalla divisione metrica) che si può individuare in L'attimo: “... batte, / batte come stoino il corpo...”; in Due schizzi: “ ... la luce / luce di sbieco...”; in “... segni: / segni
sono tutti del mortale passaggio...” (Due piccole elegie,
164
I); nel già citato “…oltre/oltre cui non si giunge…”, in Tu ed io (nella cui sequenza è anche presente, per il cambiamento semantico della parola replicata, la
figura dell’anaclasi); in “ ... un vano astratto al corpo.// E il corpo da quel
punto dilaga...” (Naufragio), in cui il contatto, allontanato dalla divisione metrica
della strofa e da quella sintattica della frase, si svolge semanticamente in un altro
territorio di discorso.
1.2.2. Estesissimo è il catalogo delle replicazioni a distanza: sia quelle in
cui il contatto tra le parole ripetute viene allontanato per l’interposizione di un
lessema, sia quelle in cui la distanza risulta progressivamente maggiore: e
all’interno delle composizioni, e in posizione esterna: all’inizio (anafora) o a
chiusura (epifora) dei versi.
Guazzo presenta, dando ragione al titolo, una composizione pittorica di
pochi elementi cromatici e semantici sovrapposti e variamente accostati, e una
trama fittissima di replicazioni a distanza: la parola tematica “luce” ricorre ben 5
volte (4 in anafora), ed è in connessione più o meno stretta con attributi, ad essa
riferibili, disposti in una lunga serie sinonimica (in senso lato): “candidi, bianco,
limpidi, diffusa, riflessa”. (E’ anche da notare il collegamento ossimorico con
l’acqua, deducibile dalla metafora “zampilli di luce”). Altri lessemi ricorrenti
nella composizione sono: “tavoli”, il cui raddoppiamento appare all’inizio ed
alla fine diversi abbastanza distanziati (in posizione di epanadiplosi, o ciclo);
“commensali”, la cui triplicazione presenta un disegno particolare (anafora posizione centrale - quasi epifora); “parole”, la cui triplicazione assume una figurazione diversa da quella precedente, presentando un accostamento quasi a
contatto (e lo svolgimento semantico dettato dalla comparazione) tra i primi
due termini e un collegamento epiforico-anaforico tra il secondo e il terzo (“si
scambiavano parole, credo; parole / assai simili a limpide bolle. / C’erano
commensali: sì, bigiognoli, / e parole...”).
La composizione riscatta la sua staticità con sfumate, sottili variazioni tonali e tematiche, attuate con una tecnica di accostamenti di notazioni di oggetti,
e con procedure sintattiche di tipo paratattico e folgoranti ellissi, e, tuttavia,
l’inserimento nella dimensione del passato e lo straordinario rilievo dei valori
luministici collocano la scena in una zona di perfezione intoccabile, nella definizione memoriale di un tempo assoluto e vitale.
Anche la composizione Se nella memoria d’uno è giocata sull’aggregazione,
la ripetizione accanita e la variazione di pochi elementi lessicali e figurali che sono organizzati in serie plurime di replicazioni a distanza: il lessema “memoria”
presenta il fenomeno ripetitivo di più rilevante
165
ampiezza in quanto ricorre ben 6 volte (3 in posizione di epifora e 3 di quasi
epifora) ed è inserito in un campo semantico che contiene anche i lessemi:
“ricordo”, “rammemorare” (anch’essi in posizione epiforica) e “dimenticare
(che rima col precedente); se poi si tien conto che “memoria” ricorre nei versi
estremi della composizione e che l’ultimo verso presenta in concentrazione figurale una metafora (“trottola”), una bellissima paronomasia, nonché rima derivata (“diurna di diuturna” elementi organizzati in figura di chiasmo, col suggello finale di “memoria” (“... trottola diurna di diuturna memoria”), bisogna
affermare che la parola tematica appare ossessivamente dominante nella composizione. Le altre serie replicative sono costituite da “prati” (2 volte in epifora,
e una volta in posizione interna al verso), “bandolo” (un membro centrale e
l’altro anaforico), “d’aver visto” (2 occorrenze in posizione anaforica ed interna), “davvero” (2 unità interne), ed, infine, “non so” che presenta un disegno
perfettamente bilanciato, con 4 membri disposti: 2 in anafora, uno a contatto,
uno in epifora, il che configura l’ulteriore modalità dell’epanadiplosi o ciclo.
Nella composizione, inoltre, compaiono meccanismi disgiuntivi, a livello microgrammaticale, e di scomposizione dei sintagmi e di nuove aggregazioni dei
membri degli stessi: “prati” e vicoli”, in un primo tempo legati dalla congiunzione, poi inseriti in un sintagma di disgiunzione (“ ... prati / o vicoli...”) e allontanati dalla divisione metrica del verso, vengono inseriti in sintagmi separati,
ciascuno dei quali di disegno disgiuntivo (“vicoli o sogni, memorie o prati”)
con l’ulteriore allontanamento dei due lessemi prima uniti, collocati l’uno
all’inizio, l’altro a chiusura del verso.
Tutte le modalità predette evidenziano il filo dialettico che attraversa
tutto il campo tematico (e temporale) della composizione: la memoria personale e quella collettiva dell’umanità, ed, ancora, l’impossibilità della vanificazione
memoriale del tempo sostanziale, che si diffonde in ondate successive, in cerchi
concentrici dal centro profondo alla riva della psiche, e la dialettica passatopresente-futuro (indotta dal sistema dei tempi verbali).
La linea dialettica e dinamica (di svolgimento e variazione) è evidentissima in Alba, in quanto vengono visualizzati nella ‘topografia’ della composizione
i movimenti (ed i rapporti) di luce e buio. Nei primi 3 versi il “buio” (6 occorrenze complessive, oltre ai lessemi “nel fondo” - 3 volte - e “notte” che fanno
parte dello stesso campo semantico di oscurità) si accampa con la triplice presenza anaforica (rafforzata dalla replicazione a contatto, nel 3° v., e dall’altra
epifora, nel 5° v., di “fondo”) mentre la
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“luce” è relegata in epifora; progressivamente il “buio” indietreggia nel centro
dei versi fino alla quasi epifora finale, mentre la “luce” (4 occorrenze complessive oltre ai lessemi “illumini” e “rifletti”, semanticamente affini) avanza gradatamente dalle posizioni epiforiche del 4° (5°) e 8° verso, affermandosi
nell’anafora, anzi nello spazio totale del verso 9° (legata significativamente con
l’anadiplosi al verso precedente), e nell’anafora pronominale (“che”) dell’ultimo
verso (“che, calma, le mille ampolle del buio ricolma”), realizzando anche sul
piano metaforico e su quello omofonico (delle due quasi rime che, in uno
schema simmetrico, replicano fonicamente le parti esterne del verso riferite alla
luce: “calma ... ricolme”, e quelle intermedie: “ ... mille ampolle...” che rimandano all’oscurità) la supremazia sul “buio” (che il verbo “ricolma”, in posizione di
inversione sintattica, evidenzia puntualmente).
L’accanita, ossessiva ripetizione della parola tematica “rosa” (presente
anche nelle variazioni flessive della lingua latina e transcodificatorie) delinea nella
composizione Verso il centro della Rosa una sorta di rosa verbale, una imitazione
della struttura della rosa realizzata con la disposizione stratigrafica delle parole.
La ricorrenza del lessema “rosa” per ben 12 volte viene articolata in quasi tutte
le figure replicative: dai poliptoti (la declinazione latina del nominativo-genitivo:
“rosa rosae”, e la relativa transcodificazione in italiano: “rosa della rosa”) alla
ulteriore declinazione latina in anadiplosi (“ ... Rosa rosae / rosae...”), dalla triplicazione delle anafore alle 5 epifore, dalle tre epanadiplosi, che realizzano il
cortocircuito tra l’inizio e la fine dei versi, al ciclo massimo istituito tra l’inizio e
la fine della composizione, che chiude in circolo il discorso. Nella costellazione
delle ‘figure’ si rivela il disegno di una dilungata metafora sintattica, s’intravede
la parvenza di un centro miracoloso con i numerosi petali-parole che vengono
convogliati, appunto, verso un centro illusorio e mitico (“ ... Non c’è che un
segno / per cui mirare al punto / intorno al quale tutto si svolge / e che non
c’è, ma è un segno / che non si vede...”: da notare è la replicazione negativa che
sottolinea l’illusorietà della figurazione, del ‘segno’, appunto, che appare in duplicazione epiforica).
1.2.3. Accanto alle replicazioni anaforiche ed epiforiche, altre modalità di
raddoppiamento a distanza assumono rilievo nella raccolta: sono quelle
dell’epanadiplosi (o ciclo) ed, in una prospettiva di maggiore ampiezza o distanza dei segmenti replicati, della ripetizione di interi versi (o di parti estese di
essi), e del riecheggiamento testuale da una composizione ad un’altra, modalità
sempre articolate in funzione dell’espansione, variazione (o contraddizione) semantica.
167
Per quanto riguarda l’epanadiplosi, si aggiungono agli esempi già dati
precedentemente, di passaggio, quelli tratti da Due schizzi, Tempo II: nei vv. 1-6
della prima parte (“ribelle / cirro e cirro bizzarro / di generosa nuvola, e cirro
vano / fondo di vita forse / in cui per tratti di canzona andare / e minuto cirro”) l’epanadiplosi (la replicazione di “cirro” all’inizio del 2° verso ed alla fine
del 6°) si complica con la ripetizione a contatto e con il chiasmo: “ribelle/cirro
e cirro bizzarro” (con i due aggettivi esterni e i due sostantivi interni), con la
sinonimia cirro-nuvola (e, sul piano fonico, con la potente carica allitterativa
della vibrante /r/). Nei versi 5-7 della seconda parte (“vanno / gelano forse /
(forse non vanno)” l’epanadiplosi di “vanno”, che scocca tra l’inizio del 5° verso e la fine del 7°, si innesta nell’anadiplosi di “ ... forse / (forse...”, rovesciando
l’affermazione nella negazione di “non vanno”.
La ripetizione a distanza di interi versi (o segmenti consistenti di essi) viene attuata in Il mattino: “... lo scamiciarsi delle donne / ... / ... né scamiciarsi né
donne... /... /... si scamiciavano donne” (con la consueta tecnica di variazioni,
scomposizioni e rovesciamenti semantici e temporali); in L’esatto punto del presente: “Prendiamo un punto ad esempio / ... / prediamo il punto”; in Presente degli
specchi: "E lì s’incarna il mondo / comunque / o s’incarnò o s’incarnerà / di sé
amante / ... / è lì che s’incarna / assai amante di sé” (con i soliti innesti e variazioni e con l’introduzione della dialettica presente-passato- futuro); ed in Tra
ombre viaggiando: “infine e per sempre / ... /le fissammo infine e per sempre”.
Addirittura il sintagma “infine e per sempre” è riecheggiato, da poesia a poesia,
nella composizione Presente degli specchi (che insieme a L’esatto punto del presente e al
predetto Tra ombre viaggiando costituisce il trittico Preparativi per il viaggio).
1.2.4. Si farà ora velocemente cenno all’espansione sinonimica attuata
nella raccolta, in funzione della progressione o del martellamento semantico (e
fonico); si notino, ad esempio, le sequenze: “ ... nebbie, caligini, veli” (oltre ai già
esaminati campi lessicali contrapposti centrati su “voce” e “silenzio”), in Sopra
una piana colma di nebbie; “...t’illumini, abbacini” (con variazione di senso), in
Quella prigione di luce; ... risacche, sciabordii, riflussi”, in All’inconsolato lamento dei
pianeti; ... dilaga, mareggia” e “ ... spiaggia ... litorale”, in Naufragio.
1.2.5. La funzione ripetitiva viene anche attivata (pur nella variazione lessicale e semantica degli enunciati) col ricalco del profilo sintattico delle frasi, sia
per il riecheggiamento a distanza della stessa cadenza intonativa
168
- con la reiterazione e l’intensificazione delle stesse strutture microgrammaticali,
spesso collocate nell’evidenza della posizione anaforica - (“Poiché parole più non
aprono i segni / ... / ... poiché parole / ... /più non si danno... / ... /poiché parole
l’animo più non inquieta...”, in Il bacio, in cui si sommano la replicazione sintattica e quella lessicale; “non so se dire che ricordo / ... / non so, non so davvero se
potrò / mai dimenticare... / ... non so / se potrò mai confessare di rammemorare”, in Se nella memoria d'uno, in cui s’evidenzia anche la serie delle progressive
variazioni lessicali), sia per la replicazione a contatto, martellante, della pronuncia
interrogativa delle frasi, che rivela l’accanita inquisizione dell’ ‘io lirico’ sulla propria identità e sul significato della sua presenza sulla scena del mondo (cfr. “Chi
parla di vento? E insinua dialoghi / nell’etere? Forse un mio moto inconsapevole / nel sonno, il tradimento oscuro della mente / slittata nella nebbia a un
tratto?... / ... / Lapsus? / Epifanie? O minacce, forse, fosche intimidazioni /
del sonno stesso, che per essere colmo / di sé mi nega, mi estrania da sé, mi
strema / nella veglia di domande? Ed è una voce / la mia che bisbiglia i nomi
delle voci, delle ingerenze / vocianti, purgatoriali, in cerca d’eco?”, in Le voci; la
triplice interrogazione che esaurisce totalmente la prima strofa di Diario; e l’altra
serie interrogativa di Quando gli occhi sono mari, di cui si parlerà in seguito: “Ma tu
chi sei? Tu sei? O non sei altro che l’altro di te in cui mi specchio?”).
1.3. Tra le figure logiche, quelle che ricorrono maggiormente nella raccolta sono l’antitesi e l’ossimoro che, con la loro carica bivalente, o polivalente,
provocano spesso il cortocircuito concettuale e logico, ma anche temporale,
figurativo ed, ancora più in profondità, tra diverse manifestazioni psicologiche,
esistenziali, e raffigurazioni del mondo e della realtà.
Il primo dei Due schizzi (nella sezione Tempo I) prospetta un quadro di
opposizioni spaziali e contrasti cromatici (luce-buio, bianco-nero) che si rivelano nell’anadiplosi, già ricordata: “ ... la luce / luce di sbieco...” (che presenta un
cambiamento del punto di vista o prospettico: “di sbieco”), nell’antitesi “ ...
offro e ripiglio”, nell’epifora (con poliptoto) “ ... buia / ... bui” (che si colloca
in posizione contrapposta al predetto binomio luminoso, configurando
un’antitesi potenziata), e nella replicazione quasi a contatto “strappata dai metrò,
velocemente, dai metrò bui”, in cui si evidenzia il processo di allontanamento,
la dialettica vicino-lontano.
Anche il secondo dei Due schizzi, Tempo I, presenta le caratteristiche dinamiche e oppositive del primo, incentrandosi sulla quadruplicazione
169
del lessema “alba” (che ricorre in triplicazione quasi a contatto: all’inizio, al centro ed alla fine del primo verso, ed inoltre alla fine del 3° verso) e svolgendosi
attraverso tutta una serie di figure: raddoppiamenti, combinazioni, contrasti
(l’opposizione spaziale sopra-sotto, la replicazione quasi epiforica di “acqua”, il
poliptoto “morti-muore”, il chiasmo “... morti verbi ad erbe marce...” e la
metafora massima “... l’acqua alba”) per mezzo delle quali procedure si realizza
l’indentificazione tra l’alba e l’acqua per cui la fenomenologia connotativa di
discesa spaziale (“sotto l’acqua”) e di decadenza, disfacimento e morte
(“morti/marce”) del secondo termine (“acqua”) viene assunta anche dal primo,
che viene poi investito anche sul piano denotativo della definizione della sparizione (“muore”). In tal modo nella metafora massima acqua-alba confluiscono
le due serie del dinamismo e dell’antitesi (ascesa-discesa e luce-oscurità).
La struttura, fin troppo accanitamente architettata, delle 2 composizioni è
la dimostrazione più evidente delle procedure di raddoppiamento e di antitesi:
in particolare, le modalità di replicazione vengono attuate in funzione ossimorica, affinché l’antitesi risulti potenziata, moltiplicata in una serie di echi o di rimandi speculari.
Anche La Sala presenta una fitta trama di ossimori e di antitesi, e di
campi lessicali in collisione, legati strettamente ai fenomeni reiterativi i quali, in
tal modo, addensano e sottolineano la funzione oppositiva o dialettica: dagli
ossimori “ ... pace cantata...”, “...tu vai vien via” e “... muori viva”, che sigillano
in apertura e in chiusura (della prima strofa e totale) la composizione, alle pluristratificazioni lessicali: “pace” (che ricorre 2 volte), “silenzi” (3 volte), “muta”
collocate in antonimia all’altra serie: “voce” (2 volte), “cantata”, “richiamo”,
“udito”, “cantore”, “odi”; infine, è da segnalare la contrapposizione attuata con
forme negative che segna totalmente la 2ª strofa: la serie “ ... più non traversa”,
“...ti sottrasse…”, più non odi…” si collega strettamente all’ossimoro già ricordato, “…e muori viva” il cui ultimo termine (“viva”) ripete, in epifora conclusiva, l’anafora iniziale della strofa. La presenza nella composizione di fenomeni
di replicazione fonica (la frequenza altissima - 9 volte – del fonema /v/ negli
ultimi 4 versi, con le allitterazioni percussive iniziali nonché l’anagramma nel
sintagma VAI VIen VIA, che sottolinea l’antitesi vai-vien raddoppiata dal
cambio di persona) si pone così in funzione di rispecchiamento delle modalità
logiche e sintattiche.
2. La costante formale del libro di Raffaele Antini appare, dunque, la replicazione a tutti i livelli: da quello fonico a quello sintattico e logico, ma
170
l’addensarsi fittissimo delle modalità ripetitive, che formano una sorta di costellazione fonica e lessicale, procede per lente, costanti variazioni, si dirama in
articolatissime sequenze contrappuntistiche, mentre egualmente rilevante è la
tensione antitetica e dialettica dei testi. Queste modalità stilistiche trovano corrispondenza ed espansione nella tessitura tematica delle composizioni, in quanto
la ripetizione, la variazione e l’antitesi investono tutto l’orizzonte comunicativo
della raccolta e ne modulano le ragioni profonde, l’organizzazione semantica, la
visione della realtà.
Il nucleo centrale del mondo poetico di Antini è costituito dal rapporto
dialettico ed ossimorico tra il tempo circolare (ciclico e mitico) e quello lineare
(storico) le cui rispettive modalità di manifestazione sono quelle della ripetizione, della ricorrenza, e quelle dello sviluppo e della variazione.
Ma il meccanismo delle due contrapposte misure temporali è più complesso, in quanto anche nel tempo ciclico sono individuabili mutamenti (e travestimenti) che increspano, talvolta, la sostanza profonda del fenomeno, mentre il
dinamismo del tempo lineare è scandito nella ripetizione delle singole frazioni
temporali.
I motivi tematici e figurativi che si accampano nella raccolta sono modulati secondo le procedure della ripetizione, della variazione e dell’antitesi, rispecchiando la grande metafora (dialettica) del tempo. La caratteristica sostanziale della ricorrenza (e circolarità) è presente nelle arditissime costruzioni e fantasie letterarie, nelle rappresentazioni oniriche, nelle figurazioni ‘mitiche’ femminili ed infantili (che pure, talvolta, sono attraversate da un’increspatura di movimento e di mutamento): tutte manifestazioni che si pongono in rapporto antitetico o dialettico con gli eventi e le sequenze della realtà e della storia, governati dalla legge dello svolgimento e della progressione, ma attratti, talvolta, nelle
traiettorie della ricorsività. (E’ evidente che la dialettica tra le due diverse prospettive temporali - e figurali - si propaga all’interno di ciascuna di esse).
Le altre figure tematiche: la situazione di specularità, la rappresentazione
teatrale e lo scambio pronominale presentano i caratteri di ripetizione sdoppiamento e di alternativa-variazione, attivando i meccanismi della finzione, del
parallelismo e dell’antitesi con la vita.
La poesia di Antini è, quindi, il teatro, il centro mentale e strategico, di
una collisione dialettica apertissima e vitale (o mortale?) tra il tempo lineare
(progressivo, storico) e quello circolare (mitico), dialettica che è luminosamente
rivelata dal bellissimo ossimoro “temporanea eternità” (Riflesso).
171
Le due prospettive antropologiche e psicologiche, che si incentrano sulle
due modalità temporali, si accampano in una lotta accanita, in una guerra di
posizione e di movimento, dando luogo ad accecanti dissonanze, a visioni dialettiche: la prospettiva storica appare spesso revocata in dubbio di fronte alla
sequenza sostanziale del tempo circolare. La progressione del tempo lineare,
frazionata negli innumerevoli lampi del presente, viene contemplata nel momento stesso del suo apparire già nell’evidenza della morte e della dissoluzione.
Illuminante è già il titolo, felicemente ambiguo, della raccolta, che realizza
una figurazione ossimorica: presente storico, da interpretarsi (con cautela) o
come l’affiorare e condensarsi della storia individuale e collettiva in una linea
continua e invariabile che si identifica o si dilunga nel presente, o come
l’immagine intravista e quasi scomparsa del presente, il suo guscio vuoto, privo
di sostanza vitale, retrocesso, precipitato nel tempo.
In questa dialettica temporale, la memoria appare, da un lato, come procedimento di archiviazione, certificazione di morte degli avvenimenti passati, e
‘ripetizione’, in quanto continuo riappropriarsi della morte. In Riflesso, la memoria ha proprio la funzione della definitiva attestazione della implacabilità del
tempo, della sua potenza devastatrice ed annientatrice: “Allunga dita affusolate
tra i compagni / d’un tempo, li snida dalle rocce del mio cuore / passandoli
nella più triste rassegna; / me ne contraddice i tratti; ne giudica / e ne equivoca
la ferma attendibilità. / Non ho difese, e non ne cerco neppure, / contro questo assalto...”. E’ da notare che tutta la composizione presenta un lessico bellico
che sottolinea la inesorabilità della guerra scatenata dal tempo (“passare in rassegna”; “con armi”; “non ho difese”; “assalto”; “soccombo”; “rifugio”), i cui
effetti vengono anche evidenziati dalla contrapposizione dei tempi verbali:
“perché quel che fui, tra i compagni, è scomparso /e quel che sono è triste, triste”.
D’altra parte, però, la memoria è l’attualità dell’essere, l’eterno presente,
la vitalità e la totalità dell’esperienza rifluente nell’esistenza.
La globalità temporale è attualizzata dalla ‘memoria inconscia’, legata alle
profondità, al fiume oscuro dell’essere (e che, in qualche modo, si spinge a
comprendere la memoria della stirpe, la memoria collettiva -come è già stato
notato nella sezione 1.2.2., a proposito della composizione Se nella memoria
d’uno); è la memoria che sboccia nel sogno: nelle visioni oniriche ma anche nelle
fantasie poetiche, nelle architetture letterarie e
172
nelle raffigurazioni mitiche, e che si estende in quello che la psicologia contemporanea (Schneider), utilizzando la concezione einsteiniana del tempo come
quarta dimensione dello spazio, ha definito “il tempo-spazio”, il continuum quadridimensionale legato ai meccanismi primari della psiche (E’ veramente
straordinario che Antini giunga, per penetrazione poetica, alla stessa formulazione della connessione spaziotemporale: “prendiamo il punto / pencolante /
tra un dove e un quando / dove nel dove non puoi non leggere dei quando”,
in L’esatto punto del presente).
L’ambivalenza caratterizza anche l’essenza del presente. Il momento che
fugge può apparire potentemente suggestivo (cfr. la balenante immagine della
“gioiosa giovinezza” che “tutta si scamicia”), può rivelare la carica di attrazione
e di vertigine che agisce sul soggetto lirico, anche se la memoria annientatrice,
antagonista del momento presente, può dissolvere la bellezza che fluisce (“ ... la
memoria / si accanisce con armi inedite al mio balcone, / mi sottrae diorama e
panorama / mi priva d’una bella chioma d’albero, del mare / che sempre
ammicca con ironia, / del viavai delle fanciulle che si cullano / nella grazia della
loro temporanea eternità.”, in Riflesso), ed anche se la prefigurazione delle
“colme estati” viene vanificata ed annientata, per cui la “stagione / che ci appartenne a maggio, con rose e tutto, / ... a giugno già declina nella notte, principiando” (Stagione).
Ma altre volte gli eventi del presente sono vissuti come aggressione e
violenza fisica e psichica, come “urlo e furore” o, almeno, come confusione,
caos, inessenzialità.
Anche il ritmo del tempo viene attratto nella prospettiva dialettica o antitetica: esso è soggetto alle opposte sollecitazioni della fluidità, della vorticosità,
da una parte, e, dall’altra, del rallentamento e quasi dell’immobilità (situazione
resa nel raddoppiamento etimologico: “ ... E’ un viaggiare lento, rallentato / ad
arte da un dio...”, in Naufragio, e nell’ossimoro: “ ... viaggiare, in sosta, sulla slitta
del tempo.”, nella composizione inaugurale di Tempo II).
Quando viene immesso nella dimensione della totalità dell’esistere, della
dilatazione mitica, il movimento temporale è solo apparente, è soggetto a ciclici
ritorni: “... enumera risacche sciabordii riflussi /ed altri apparenti modi del
moto escogita / perché la vita tutta sia mostrata...” (All’inconsolato lamento dei pianeti), così che la linearità si trasforma in circolarità.
D’altra parte, la vorticosità, la violenta accelerazione dei ritmi temporali
possono condurre al black out totale per una sorta di cortocircuito
173
esistenziale e di civiltà, come appare in Nomi. In questa composizione la compresenza (e la dialettica) delle due prospettive temporali è evidentissima, rispecchiando le modalità formali esaminate in precedenza. Il “sentimento” della
morte e della forza annientatrice “del tempo” viene vissuto con profondo strazio, ponendosi in antitesi con il tema della mitica figura femminile (che incarna
la pienezza, anche fisica, della vita) che sarebbe stata ardentemente appetita dai
“complici assenti”, e contro la quale si indirizza la ‘vendetta’ (“... Ho tre più o
meno o quattro / frecce per colpire”) dell’io lirico diviso e dilaniato tra le opposte visioni della totalità vitale e della egualmente totale irrevocabilità della
morte. In questa dimensione esistenziale è impossibile trovare un punto di riferimento: i parametri temporali sono vorticosamente dilatati e moltiplicati (“... Il
tempo /ha tre lancette o quattro sul quadrante / improbabile...”), risultano, alla
fine, impazziti, illogici, bloccati (“lancetta appena mobile, improbabile”) e condizionati dalla follia e dalla violenza della civiltà occidentale (“Occidente insano”
e, ironicamente, “piano”) che, pure, rappresenta lo scenario sostanziale
dell’esistenza.
La raffigurazione della morte appare nodale, centrale nell’universo tematico di Presente storico (ed, in modo anche più marcato, della raccolta parallela
Natura di pronome), si colloca al punto di confluenza o di intersezione delle due
diverse visioni del tempo, evidenziando il paradosso logico dell’estrapolazione
dell’evento luttuoso dal continuum temporale nell’ellissi o nella circolarità della
memoria (mitica), di modo che il principio dell’assenza diventa ricordo di una
presenza ricorrente, e, tuttavia, la carica di dolore e di strazio che accompagna
la nominazione dell’evento della ‘scomparsa’ potenzia l’ineluttabilità del tempo
storico.
Il tema del tempo e della “memoria incessante”, legato alla figurazione
della morte, è implacabilmente latente, presente e nascosto insieme; è l’idea ossessiva e sempre allontanata e rimossa che trova strade e varchi inattesi, imprevedibili per manifestarsi: è presente nella nominazione degli assenti (come si è
visto, in Nomi), nella prefigurazione del mortale pericolo (Tu ed io), nella situazione di distacco dal figlio (Due elegie).
Le fantasie letterarie, le figurazioni mitiche femminili (o infantili), le avventure oniriche riconducono fatalmente alla dimensione dell’infanzia, dello
spazio protetto e riparato (in opposizione allo spazio esterno, e nemico, del
mondo), al recupero di un tempo totale, alla riconversione del tempo lineare in
tempo circolare (o, se si vuole, alla inversione di direzione della freccia del tempo nel tentativo di allontanare o esorcizzare la morte).
174
La vita speculare, la scena teatrale, il balletto pronominale hanno la funzione di
uscire dalla ‘corporeità’, di costruire un ‘doppio’ illusorio e protetto dalla vita.
Bisogna a questo punto avvertire che le modalità stilistiche ed i nuclei
tematici individuati ed esposti, per comodità d’analisi, quasi sempre separatamente, a livello di descrizione molecolare, presentano nei testi collegamenti e
interazioni fittissime ed illuminanti che certificano la globalità vitale e la profonda dialettica delle composizioni, di un paio delle quali si proporrà una lettura
complessiva per documentare la precisione e la complessità del funzionamento
stilistico-semantico della poesia di Antini.
La concentrazione e il rispecchiamento dei moduli stilistici e delle componenti tematiche del testo Quando gli occhi sono mari fondano un sistema semantico coerente e bilanciato.
La replicazione accanita dei lessemi “tempo”, simmetricamente collocati
nella fascia centrale della composizione (nel 4° v. la ripetizione a contatto con
ripresa esplicativa: “ ... il tempo, il tempo che si fissa / entro battiti di morte e
temperate forme”; nell’8° la ripetizione a distanza con valore negativo o antitetico al precedente: “...non ha tempo...”; nell’11° v. la ripetizione quasi a contatto
con valore egualmente oppositivo tra i due termini: “ ... un tempo, lo strappa al
tempo”) presenta il motivo temporale nella diversità delle sue attribuzioni e
manifestazioni, coniugandolo strettamente ai temi della morte, della figurazione
mitica, dell’amore, dello specchio e dello scambio pronominale.
La risonanza psichica dell’immagine femminile (la cui durata “oltre i
giorni e le parole” è rispecchiata nella ricorrenza allitterativa “...Di Lei L’oDore
Dura”) rivela per contrasto il tempo progressivo che si svolge “entro battiti di
morte, il tempo che ristabilisce la sua funzione distruttiva e mortale in opposizione alla dimensione protettiva, nutritiva ed atemporale della mitica figura
femminile-materna (“Ecco si muore, senza più quel seno. E’ amore /quello che
dunque un po’ fremendo viene. /E’ amore e non ha tempo. Viene / lieve
sull’ala dell’aliante, svola / su basse nuvole e poi stacca / ritmicamente un tempo, lo strappa al tempo / che ci contenne, ci preme...”) la cui forza salvifica
(evidenziata dal raddoppiamento epanaforico di “E’ amore” ed epiforico di
“viene”) si oppone alla distruttività della morte (sottolineata dalla figura etimologica “morte-muore”). E’ la sintonia con la mitica immagine, è l’amore - nel
senso più ampio - che può affrancare col suo volo dalla prigione del tempo (e
la gremita serie
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allitterativa “Lieve suLL’aLa deLL’aLiante, svoLa” - in cui appare la diffusione della sillaba radicale del volo, il quale anche dal punto di vista lessicale aggrega un ampio campo semantico: “ali, lieve, aliante, svola”, avvalorato dalla figura
etimologica “ala-aliante” - sottolinea il movimento ascensionale), che può staccare un tempo ritmico, ciclico, dalla linea temporale che si prolunga dal passato
al presente (come le forme verbali “contenne-preme”, legate, tra l’altro,
dall’assonanza e dalla sinonimia, segnalano).
Infine, il tema del rispecchiamento, coniugato allo scambio pronominale
(lei-tu), si svolge attraverso la serie delle replicazioni dei segmenti testuali (e della
pronuncia interrogativa) e delle progressive variazioni ed antitesi: la domanda
sull’identità della figura mitica (“Ma tu chi sei?”) si trasforma in quella (“ ... Tu
sei?”) sulla sua esistenza — con la variazione del significato del verbo essere - e
poi nel dubbio (“…O non sei / altro che l’altro di te in cui mi specchio?”) che ella
non sia che il riflesso di un alter ego, in cui l’io lirico si rispecchia (e il profilo della
serie speculare fonico-sintattico-lessicale fa balenare, sul piano tematico, un rimando di specchi all’infinito).
Un altro testo in cui si manifestano in modo marcato la dialettica (e la
contaminazione) tra le diverse prospettive ed emergenze temporali, e il rispecchiamento o il collegamento delle figure del significante e di quelle del significato è Pioggia.
La fin troppo accanita volontà costruttiva fa sì che il testo diventi quasi il
pretesto di riprese contrappuntistiche, di motivi che si alternano e alla fine si
congiungono dando origine alle folgoranti metafore del “tempo-pioggia” e del
“filante tempo”. Le tre linee dei “fili”, della “pioggia” e del “tempo”, attraverso le replicazioni e le variazioni, alla fine si fondono, disegnando un quadro di
dilatazione temporale e spaziale.
L’effetto fonico (la gremita ricorrenza allitterativa della liquida /1/ per
22 volte e della dentale /t/ per 26 volte, sui 252 fonemi della composizione,
per cui i due fonemi totalizzano una frequenza altissima: 1/5 sul totale),
l’accanita replicazione delle parole tematiche: “fíli” (5 volte), “filante”, “tempo”
(4 volte), “pioggia” (2 volte), “umido” (2 volte) appaiono come l’equivalente
fonico-sintattico, come una straordinaria metafora ritmica, dell’aspetto visivofigurativo (“FiLi sgomitoLa da tempo La pioggia, di naiLon./L’intrico fitto
ha inghiottito umidi giorni /e bevuto cicaLanti notti dagLi occhioni Lucenti.
/Ma soLo fiLi di naiLon durano. FiLi esiLi./(Dove s’è ceLata L’attività? Tra i
fiLi /sparita, negata dai fiLi? È’ iL tempo umido / che ce La sottrae, iL tempo-pioggia, iL fiLante tempo?)”).
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A sua volta, la figurazione è slegata dal dato puramente referenziale, dal
fenomeno naturalistico, così che viene realizzata con la tessitura fonico-sintattica,
come in laboratorio, una struttura artificiale, una straordinaria architettura letteraria (cfr. il riferimento alla sostanza sintetica: il nailon in cui è mutata la pioggia).
Viene attuata, insomma, una sorta di trasmutazione alchimistica: la naturalità è trasformata in artificiosità, in sinuosa mitologia poetica la quale inghiotte,
cancella il tempo dell’attività quotidiana (ma con qualche rimpianto o esitazione,
individuabili nella forma interrogativa), blocca il movimento del presente e lo
sostituisce con una dimensione totale, dilatata del tempo, attuata per mezzo del
rallentamento, della sospensione temporale.
Un altro esempio di elaboratissima costruzione di fantasia poetica, di invenzione e di illusione dell’oggetto letterario, è rappresentato da Verso il centro
della Rosa.
E’, per dirla pasolinianamente, una “poesia in forma di rosa”, una figurazione linguistica e letteraria, una sorta di onomatopea visiva, che inventa e
replica la gremita struttura della rosa sul piano gremitissimo dei raddoppiamenti lessicali e delle immagini letterarie, ma i riferimenti, i riecheggiamenti di
luoghi letterari sono tutti impliciti, vengono tutti riassorbiti senza residui nella
‘forma letteraria’ (da Dante ad Eco, da Eliot al rilkiano “innumerevole fiore ...
corpo fatto sol di luce”, Sonetti ad Orfeo, VI, II parte). Si può affermare che la
letteratura della citazione, che caratterizza le precedenti raccolte di Antini fino a
Gli Arcadimenti, si è tramutata in pronuncia espressiva, in assoluta modulazione
letteraria.
La figurazione mitica che “ci giunge... dal tempo della rosa” (che presuppone, appunto, una inversione temporale, un’uscita dalla tangente del tempo
storico) è avvalorata e sostenuta da un’altra figura miracolosa, mistica o mitica
(“il bambino venuto dagli astri / e che coabita / ora nel giardino con me, o
con la vita / e mi contiene...”), una sorta di Gesù bambino o, almeno, un emblema di innocenza e dell’eterna fanciullezza, con la capacità di vedere la vita
con occhi ingenui (in cui è, forse, ravvisabile anche l’accenno al “fanciullino”
pascoliano), che evoca uno scenario di sospensione del tempo.
Sul piano del mito (di una mitologia personale, ma anche di proiezione
collettiva) campeggia la raffigurazione di un’entità femminile nella quale confluiscono molteplici connotazioni e proiezioni psicologiche.
Questa mitica figura femminile che ricorre nelle pagine della raccolta appare quasi l’archetipo della donna, della femminilità in senso esteso, che
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comprende anche la figura protettiva ed amorosa della madre, e forse è anche
la proiezione della poesia. Verso questa immagine l’io lirico assume una posizione di ambivalenza, essendo soggetto alle due forze contrapposte
dell’avvicinamento e dell’allontanamento, dell’attrazione e del riserbo o del distacco. Così avviene, per esempio, in Sopra una piana colma di nebbie (“mi tiro da
una parte... e lascio / un vuoto fedele e caro tra me e lei”) in cui si realizza
l’identificazione tra una città (Modena, slegata però dall’individuazione puramente referenziale) e una signora dalle “benevole braccia” (la presenza affettuosa e protettiva). La composizione che, all’inizio, prospetta l’identificazione con
assoluta precisione e coincidenza (“ ... tenera signora città”), lascia poi intravedere l’autonomia dei due termini della connessione, pur non attuando la disgiunzione tra essi (“Se sia città... o sia signora / ... non posso... / dire...”), prefigurando, comunque, per la città uno spazio interno, protettivo ed accogliente,
opposto allo spazio esterno, nemico o indifferente (“ ... una piana colma di
nebbie, caligini, veli”). Altre figure mitiche femminili, con il loro potere di attrazione in una sfera di atemporalità e di profonda risonanza psichica, sono presenti in alcuni luoghi della raccolta: (Ma è pavesianamente), Allo specchio, Gioiosa giovinezza, La Sala (oltre ai già toccati Nomi e Quando gli occhi sono mari).
Nella prima composizione sono evidenti lo stretto collegamento tra
mito e letteratura, in quanto la figura femminile appare nell’alone degli echi pavesiani e zanzottiani (La Beltà), e la duplicità della situazione: la ricerca e la dissolvenza.
La figura femminile della Sala, evocata in un’atmosfera rarefatta tra il
balenìo delle “vaganti luci” e l’eco di sfumati suoni e voci, e fluente
nell’evanescenza (delineata dal ricorrente lessico di negazione: “non traversa...
nell’immoto ... ti sottrasse... non odi ... muori”), si inserisce quasi in una dimensione teatrale, si muove su una scena allusiva e astratta o in incantato mondo
sognato.
La vicenda onirica rappresenta, ovviamente, la regressione, l’inserimento
nella dimensione dell’inconscio (la “coscienza degradata”, nell’espressione della
lirica Presente storico), nella cronologia circolare della profondità dell’essere. Il
sogno appare a volte come una fuga, un riparo (non sempre sicuro) dalla violenza del tempo e della memoria cosciente (cfr. “Dopo gli assidui, inutili ripari
/ nei labirinti vaghi del sogno, la memoria / si accanisce con armi inedite al
mio balcone” in Riflesso), a volte come l’immissione in una dimensione temporale non legata alla progres178
sione implacabile, ma aperta a inversioni folgoranti, a lunghissimi flash-back, a
identificazioni straordinarie (in cui vengono annullate la linearità cronologica e la
diversità delle condizioni psicologiche ed esistenziali).
Ciò appare, con la massima evidenza, nella situazione onirica rappresentata in Presente storico, in cui si realizza l’identificazione tra l’io ‘narrante’ (“ ...
adulto /mummificato, livido /e di nostra vecchia conoscenza...”), retrocesso,
nel sogno, all’età preadolescenziale (“ ... fanciullo mummificato, livido / e di
nostra vecchia conoscenza...”), e il figlio, preadolescente nel presente della
composizione, in una sorta di sovrapposizione di “ ... trama / sulla trama del
velo, rete su rete...”.
Come lo spazio onirico, anche il teatro è un ‘luogo’ privilegiato nella
poesia di Antini. L’evento scenico è la ripetizione della vita (o, meglio, della ‘vita
della fantasia’), ma anche la sua straordinaria differenza. E’ la rappresentazione
di atti, gesti, emozioni slegati dalla connessione di esistenza, dal fluire del tempo,
dalla collocazione nello spazio della realtà e immessi nell’astrazione del tempo e
dello spazio illusori.
Dalla creazione della nuova dimensione spazio-temporale proviene il
gioco delle ellissi e delle inversioni temporali e quello delle finzioni spaziali. La
dialettica tra il tempo e lo spazio diegetici ed extradiegetici, ossia tra le dimensioni della storia rappresentata e quelle della rappresentazione scenica, è - come
si afferma in All’inconsolato lamento dei pianeti – “l’abile rito della ribalta”, ripetizione e rispecchiamento ma anche allontanamento dell’evento (resi anche dal
punto di vista fonico dal quasi perfetto anagramma ABiLe RITo - RIBALTa).
Anche lo specchio, come il teatro, è il riflesso, il ‘doppio’ della vita: è il
luogo dell’immagine virtuale, dell’annullamento della corporeità, ma anche della
sorpresa e della rivelazione dell’io di fronte al mondo parallelo dell’immagine
riflessa. Il soggetto assume un duplice atteggiamento: il primo, di ricerca o di
individuazione della propria identità di fronte ad uno strumento che rimanda,
oggettivandola, l’immagine. “O specchio specchio! Chi dunque? Son io” interpella la voce recitante di Allo specchio, alla ricerca di un riferimento stabile, di una
risposta che non viene (e i fenomeni di duplicazione sintattica: il vocativo speculare, la doppia interrogazione con scambio pronominale, oltre all’allusione
ironica alla favola di Biancaneve: “Specchio delle mie brame, chi è la più bella
del reame?”, sottolineano il rispecchiamento, l’inquisizione e la retrocessione nel
mondo infantile).
La seconda prospettiva del soggetto lirico è quella della fuga di fronte
all’invadenza, alla brutalità del tempo (e della memoria del tempo), del
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“naufragio” in uno spazio intemporale ed illusorio, in un “riflesso” del fluire
della vita: “ora soltanto mi accorgo che infilarsi/ dentro uno specchio è l’ultimo
/ atto di salvataggio nella peregrinazione” (Riflesso).
Nello ‘scenario’, delineato dalla poesia di Antini, di fluidità delle prospettive temporali, dell’accelerazione o rallentamento dei ritmi storici,
dell’evanescenza delle collocazioni spaziali (si è già notato che Antini non descrive luoghi: le città, i panorami appaiono come spazi ‘astratti’, sono riconducibili
ad una topografia puramente mentale), delle incertezze esistenziali e ‘culturali’, è
naturale che le forme pronominali diventino gli indicatori più sensibili della situazione del ‘mondo rappresentato’. (A margine, e resistendo alla tentazione di
approfondire qui ulteriormente il complesso problema, si vuole rammentare
almeno che la seconda raccolta di Antini, Gioconda & Io, accampa sin dal titolo,
come protagonista, il pronome di 1? persona singolare, e che un’altra sua plaquette, pubblicata quasi contemporaneamente e per molti versi complementare a
Presente storico, è sintomaticamente intitolata Natura di pronome).
I pronomi - come afferma E. Benveniste - sono “segni ‘vuoti’ ... che diventano ‘pieni’ non appena un parlante li assume in ogni situazione del suo discorso... E’ identificandosi come persona unica che pronuncia io che ciascun
interlocutore si pone alternativamente come ‘soggetto’ “. (Cfr. “La natura dei
pronomi”, in Problemi di linguistica generale. Milano, Il Saggiatore, 1971, pp. 304305).
Lo scambio delle forme pronominali di 1a e 2a persona singolare denota, quindi, la crisi della soggettività, la fluttuazione o evanescenza dell’ego: il ‘tu’
diventa nient’altro che la proiezione labile ed evanescente dell’ ‘io’, privato della
sua consistenza e durata, dissolto quasi nel flusso e nella metamorfosi del tempo, non inseribile durevolmente nelle coordinate storiche e spaziali.
Alla luce di queste osservazioni può essere compreso il valore, nella raccolta, degli indicatori pronominali che prospettano il rovesciamento tu-io, in
quanto l’io si sdoppia nel tu (“ti sorprende”, “io a volte inclino a un verso”, “io
che mi perdo”, in Tu ed io), l’incapacità - o indifferenza- ad identificare
l’appartenenza del corpo all’io parlante (“il corpo, mio forse, che si srotola...”,
in L’attimo), l’interscambiabilità o confluenza della destinazione della comunicazione (“ ... là dove lui /a tratti si confessa/ con un tale, che sia io / o lui non è
importante ed anzi è uguale.”, in L’Amico assente), la fluidità dell’esperienza non
riconducibile ad un soggetto ben definito (“…E si agita / lietamente il destino
delle trasformazioni. / E non
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hai più sonno. Indaghi”, in Il mattino, l’interrogarsi sulla propria identità (“ ... Chi
dunque? Son io?”, in Allo specchio; “Ma tu chi sei? Tu sei? O non sei / altro che
l’altro di te in cui mi specchio?”, in Quando gli occhi sono mari, in cui è decisivo il
rispecchiamento pronominale).
E’ evidente lo scacco di un pallido ‘io’, fantasma vagante nelle zone più
rarefatte e lontane dell’esistere, fluttuante in una sorta di limbo della condizione
umana e continuamente attratto dai vaporosi e biancheggianti paradisi
dell’infanzia, dal mondo illusorio degli specchi, dalla vertigine nebulosa del sogno, dagli intricati sentieri dell’inconscio personale (e collettivo).
Sulla ‘scena’ del mondo si muove un ‘io’ alienato, disperso, ‘inondato’
dagli oggetti, sollecitato dai crudeli meccanismi della ‘civiltà tecnologica’, e immesso nella vorticosa, pluviale foresta del linguaggio in cui vive e rivela la frattura e la nevrosi, l’attrazione e la repulsione del nostro tempo.
Luigi Paglia
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LA TAVOLA DI TRINITAPOLI
Ordinamento fiscale di Valentiniano I - (365-375 d.C.)
La “Tavola” in marmo pregiato fu rinvenuta verso il 1968/69 durante i
lavori di scasso per l’impianto di un vigneto in contrada “Chiavicella Grande”
in prossimità della Stazione Ferroviaria di Candida (tratta Bari-Foggia) in una
necropoli a circa metà dell’ampia strada che congiungeva il sito Salapia Romana
(Monte di Salpi) con Canusium, centro della “Civitas Canusinorum”, ad un
terzo di distanza circa da Monte di Salpi ed a due terzi dalla collina di Canosa,
recentemente chiamata “Città Dauna” per gli innumerevoli ritrovamenti archeologici della civiltà dauna.
L’iscrizione, per quello che è dato sapere, copriva una tomba terragna
con la parte iscritta rivolta verso l’interno, il che ne ha permesso la conservazione fino al momento del rinvenimento. Ritrovata frantumata in cinque pezzi, la
“Tavola” fu consegnata alle Autorità Comunali, che l’affissero nell’androne vano scala dell’antico palazzo della sede comunale, storicamente noto come la
“fabbrica più antica” del feudale Casale della SS. Trinità (chiamato Trinitapoli
dal 1862 per Regio Decreto) che tra il tredicesimo e quattordicesimo secolo
costituiva un “allibergo”, munito di torre di guardia per avvistamento e difesa
del Borgo dai pirati Saraceni, appartenente al feudatario Ottavio Affaitati, che
vi teneva anche una ricca guarnigione di soldati. Ampliato nel 1400 all’epoca dei
Conti della Marra, il “castello della Trinità” passò nel sedicesimo secolo alle
dipendenze della giurisdizione dei Cavalieri di Malta e divenne libero da vincoli
feudali nel 1798.
La foto visualizza l’epoca dell’affissione della “Tavola” in tale sede. “La
Tavola” fu affidata per la pulizia ad un muratore del posto, che non
183
184
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trovò di meglio che sottoporre la preziosa lastra ad un disastroso lavoro di
smerigliatura meccanica.
Com’era organizzata l’Amministrazione pubblica dell’APULIA CALABRIA nel IV - V Secolo d.C.? Di ciò si parlò durante la conferenza tenuta
nell’Archeoclub di Trinitapoli nell’anno 1983 dal Prof. Francesco Grelle
dell’Università di Bari, che trattò il tema “La Tavola di Trinitapoli; Ordinamento fiscale di Valentiniano I”.
L’oratore confessò che “la lettura dell’epigrafe sembrava all’inizio veramente disperata. La lastra, ben pulita da mano inesperta, ha assunto nella sua
superficie originaria un andamento quasi ondulare.
Si sono salvate alcune “isole”, come lo sperone superiore, forse lì il muratore non arrivava o ha insistito poco, il risultato è che oggi della pietra, a prima vista, si può leggere poco o niente. Lavorando con centinaia di fotografie,
calchi in carta e calco plastico, abbiamo (Io e il collega Andrea Giardina
dell’Università di Palermo) recuperato il settantacinque per cento (75%) del testo originario e, dal momento che abbiamo individuato i caratteri, il contesto,
l’epoca, lo stile e l’andamento del discorso, possiamo procedere a soddisfacenti
integrazioni anche per il restante venticinque per cento (25%), che non riusciamo a leggere”.
L’iscrizione è annoverata come una delle più importanti dell’epigrafia
della APULIA et CALABRIA. Si pensa, a dire degli studiosi, che sia la più ampia dell’intera regione su supporto litico ed è seconda per lunghezza all’Albo
Canusino e l’iscrizione della Lex Municipii Tarentini, che però sono incise su bronzo.
Dal punto di vista della storia costituzionale ed amministrativa del tardo
Impero è uno dei documenti epigrafici più interessanti, perché ci conserva una
“Costituzione”, una legge imperiale non pervenutaci neppure mediante il Codice Teodosiano.
In base al profilo della storia specifica del territorio, poi, la “Tavola” ci
permette di chiarire che quest’ultimo, e più in generale, quello delle Province
dell’Italia Meridionale, era organizzato in “pagi”, sottoposti a “praepositi pagorum”.
Secondo l’indagine culturale condotta dal Prof. Francesco Grelle
dell’Istituto di Diritto Romano dell’Università degli Studi di Bari, pubblicata su
“L’Ercole Francaise, de Rome Tome 95-1983- “l’scrizione proviene dal centro
urbano di Canusium e deve essere arrivata nella zona di ritrovamento dal settimo al quattordicesimo secolo, perché è il periodo in cui quest’area conosce
un’occupazione delle campagne che può aver
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giustificato la riutilizzazione della pietra per coprire una tomba campestre. La
lastra a forma di rettangolo cuspidato verso l’alto misura al vertice m. 1,40;
lungo i lati minori m. 0,75; e lungo gli spigoli verticali m. 1,28 e m. 1,20.
Lo spessore è variabile da cm. 5 a cm. 3. - A seguito della pulizia la
“Tavola” ha assunto nella sua superficie originaria, un andamento quasi ondulare. - La lastra è coperta per due terzi dalla scrittura. Avanzano in basso 44-45
cm. che non sono stati erosi dallo smerigliatore, ma erano cosi in origine, privi
di segni.
Il discorso, che si ha davanti, pare, sia la parte finale della “Costituzione”
e, dal momento che non si può immaginare una lastra più alta di questa preziosa lapide, si deve pensare che la “Tavola” ritrovata è solo una di quelle che in
origine contenevano l’intera legge. - Il testo complessivo, che si riporta a parte,
è di 34 righi di diversa lunghezza, comprendenti dalle 65 alle 75 lettere, posti
sullo sperone dei primi cinque righi si sono potuti recuperare solo pochi frammenti. Dalla quinta alla nona-decima riga abbiamo un primo brano di lettura. Si
parla di “praeposti pagorum”, cioè si dice sostanzialmente che i preposti ai pagi e i
loro collaboratori ai granai dovranno preparare dei registri attraverso i quali si
possa fare un’ulteriore documentazione da inviare al Governatore, che serva a
controllare quanto ciascun contribuente ha pagato ed in quale forma (denaro e
derrate).
Per la prima volta si riesce a sapere anche in Italia della esistenza dei
“pagi”.
Infatti i preposti ai pagi erano conosciuti in Egitto, in Oriente, ma non
da noi; si riteneva che qui non avessero trovato spazio nell’organizzazione amministrativa; ora si sa da questa “Tavola”, che essi esistevano anche da noi e in
tal modo i Romani lottavano contro l’evasione fiscale.
Il testo, che doveva essere sottoposto anche ad una indagine termofotografica presso il CNR (Centro Nazionale Ricerche), come assicurato, all’epoca,
dall’Ispettrice Maria Luisa Nava, della Soprintendenza di Foggia, ci dice poi che
il Governatore della Provincia, ricevuti i registri (trasferiti con un documento
scritto all’Ufficio competente dal “Tabularius civitatis” - archivista o segretario
generale -, doveva girare per i pagi ad ispezionare se vi fossero state disfunzioni
tra la riscossione delle imposte ed il loro versamento all’Ufficio del Governatore e questa è un’altra novità: l'adventus, l’ispezione.
Il testo continua dicendo che “I Governatori delle Province, ricevuta
questa informazione, comunicano il giorno ed il luogo della loro ispezione,
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interroghino attentamente ciascun contribuente e controllino le ricevute di pagamento, affinché non sia possibile che una qualche parte del tributo venga nascosto.
O Prodo, rendi immediatamente pubblico questo provvido decreto dei
luoghi più frequentati di ciascuna città.
Con questo rimedio si provvederà ad eliminare quelle frodi che così
ampiamente si sono diffuse a causa delle perfidia degli esattori e degli Uffici
che si lasciano corrompere.
Eliminata la corruzione, immediatamente venga calcolato ciò che il contribuente ha versato nel granaio pubblico.
Non vengano mai sottratti gli arretrati d’imposta, a nessuno venga imposto il gravarne di un altro, ma sotto ciascun nome di contribuente risulti chiaramente attraverso i registri nominativi quelle che per le vecchie annate non è
stato pagato”.
Quindi la parte finale o “clausola di pubblicazione” è quella con il vocativo della persona cui è affidato il compito di divulgazione: “O Prodo...”.
Ma chi era questo Prodo?
Certamente un Prefetto del Pretorio o Prefetti del Pretorio.
Con questo nome tra il IV° e V° secolo conosciamo solo Petronio Probo, che ha tenuto più a lungo la carica di Prefetto in Italia tra il 365 e il 372 d.C.
(una prima vola) e per altre volte, ma in periodi brevi, intorno al 380.
Approssimativamente, questa “Costituzione” della ‘Tavola” di Trinitapoli va ricondotta alla prima Prefettura secondo gli studiosi Professori Grelle e
Giardina, perché tutta la normativa su di essa predisposta si inserisce in un disegno generale di riorganizzazione dell’Ordinamento fiscale, che si conosce nella
sua generalità attraverso il Codice Teodosiano, attribuibile, appunto, a Valentiniano I e databile tra il 365 e il 375 d.C..
Certo la “Costituzione” ci permette d’integrare ed ampliare le nostre conoscenze sul tipo di struttura economica della zona, perché se essa è esposta
con tanta cura sul marmo, (altre lo erano su legno e su stoffa), vuol dire che
l’utilità della stessa, la funzione sul territorio era enorme. Si parla di “Horrea
publica”, pubblici granai, il che fa supporre che l’economia prevalente della
zona ruotasse intorno al grano!
Il testo si chiude con alcune righe sulle quali la mano inesperta del muratore ha completato il disastroso lavoro di smerigliatura meccanica. Si può
però asserire che accennava alle punizioni che si prevedevano. Ci si
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aspettava l’indicazione della data che non c’è, ma si può pensare che la data fosse incisa in testa alla Legge, nella Tavola che non è stata rinvenuta. Questo Testo
apre un considerevole spazio di riflessione sulle vicende di quest’area del Basso
Impero.
Ci si può chiedere, per esempio, se anche l’organizzazione ecclesiastica
dei primordi non abbia conservata anch’essa delle tracce di
quest’organizzazione dei pagi.
Ma sono tutte ipotesi, studi da approfondire, stimoli per indagini e ricerche storiche che provengono da questa “Tavola di Trinitapoli”, ora custodita
dall’Archeoclub d’Italia, sede di Trinitapoli, e allocata nel Deposito di materiali
e reperti Archeologici attualmente esistente presso il Villaggio del Fanciullo di
Trinitapoli. La “Tavola” è sistemata su un supporto, all’uopo costruito, che ne
consente una completa visualizzazione ed è richiesta da studiosi di tutto il mondo; recentemente anche dall’Accademia Pugliese delle Scienze di Bari per la sua
esposizione nella prestigiosa mostra “Canusium” presso il Monastero di S.
Scolastica in Bari.
Enrico Mazzone
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Recensioni________________________________________________
NEL 70° ANNIVERSARIO DELLA FONDAZIONE
DEL PARTITO POPOLARE ITALIANO
UN’INTERESSANTE RICERCA SULLE ORIGINI DEL PPI IN CAPITANATA
Un’interessante ricerca sulle origini del Partito Popolare Italiano in Capitanata è stata pubblicata in questi giorni a Troia dal mensile locale Civitas (il nome della testata trae origine dalla denominazione medioevale della cittadina pugliese, Civitas Troiana) diretto dal giornalista Franco Marasca.
L’elegante volumetto, intitolato ... E sbocciò il biancofiore! (45 pagine, L.
5.000), rievoca avvenimenti e personaggi, alcuni dei quali molto noti, come
l’allora vescovo della diocesi Troia-Foggia, Mons. Fortunato Maria Farina, ma
non per il ruolo che ebbero, 70 anni fa, nella diffusione del nuovo partito nella
Capitanata.
Nella sua agile trattazione, l’autore, Vincenzo De Santis, non perde mai
di vista gli avvenimenti nazionali, all’interno dei quali inquadra quelli locali,
all’indomani del Primo Conflitto Mondiale. Apprendiamo così, come anche in
Capitanata serpeggiassero il malcontento e le frustrazioni per una “vittoria mutilata”, anche qui ci fossero rigurgiti di nazionalismo e i socialisti, sin d’allora,
fossero divisi in lotte di correnti. Un periodo inquieto che il nascente partito
fascista sfruttò per il suo progetto di conquista del potere. E tuttavia, non mancarono i fermenti di militanza cattolico-sociale di cui furono espressioni di circolo “Manzoni”, ubicato nel palazzo vescovile di Foggia, animato da don Giuseppe Patané e don Luigi Cavotta; le associazioni cattoliche di San Severo e di
Cerignola guidate, rispettivamente, da don Felice Canelli e dal professor Tommaso Pensa; mentre a Troia, la fanfara dell’oratorio festivo, fondato dal giovane sacerdote don Luigi Savino, già nel 1918 suonava l’inno Bianco fiore.
Ricca, e per la maggior parte inedita, la documentazione iconografica che
invita il lettore a un vero e proprio tuffo nel passato; ogni singolo episodio infine trova riscontro in note e citazioni di prima mano, come la
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visita di don Sturzo al circolo “Manzoni”, su invito dell’allora vescovo Salvatore Bella (siciliano anch’egli), prima che lanciasse il famoso “Appello agli uomini
liberi e forti”, il 18 gennaio del 1919. “Merito - scrive nella prefazione ’lon.
Donato De Leonardis - è stato proprio quello di risvegliare questi ricordi sopiti
e farli diventare storia, in una descrizione piacevole, corredata da immagini pregevoli”.
F.M.
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Recensioni_______________________________________________
Bovino dal paleolitico all'alto medioevo, Quaderno n. 1 del
Museo Civico "Nicastro", a cura dei Comuovino
Settore Beni Culturali, Bovino 1989. 132 pne di B. tav.
Questo primo Quaderno sostanzia i propositi dei responsabili del Settore
Beni Culturali e di altri volitivi enti locali, da tempo impegnati per una conoscenza sempre più profonda e diffusa del significativo patrimonio archeologico, archivistico ed artistico della pervetusta città.
Conoscere le proprie radici per poter crescere compiutamente è un’idea
che condividiamo senza riserve, soprattutto quando, come in questo caso, la
conoscenza, cui si mira, poggia su basi di accurate indagini documentarie.
Il pregevole volume raccoglie, coniugandone il titolo, il Primo Ciclo di
Conferenze, tenute dal 22 aprile al 15 maggio 1987 da eminenti studiosi della Soprintendenza Archeologica della Puglia e dell’Università di Bari sullo stimolante
tema “Bovino dal paleolitico all’alto medioevo”.
Le cinque relazioni, in uno stile scarno ed incisivo, enucleano ed analizzano reperti e documenti di momenti importanti del plurimillenario passato di
Bovino.
La prima relazione “Bovino nella preistoria: le stele antropomorfe” dell’archeologa Anna Maria Tunzi riferisce su dieci stele antropomorfe inedite, recuperate nella
nota località Sterparo Nuovo al confine tra Bovino e Castelluccio dei Sauri.
L’analisi delle loro caratteristiche strutturali ed espressive induce l’autrice a significative conclusioni. Le evidenti analogie di questi singolari manufatti preistorici
con raffigurazioni del repertorio rupestre dell’arco alpino della metà del terzo
millennio a.C., nonché il riscontro in esse di forti componenti di origine egeoanatolica della stessa epoca, attestano la contemporanea comune matrice ideologica e quindi i legami dell’uomo dell’area vibinate con quello delle altre regioni
dell’Europa centro-meridionale e orientale.
La seconda relazione “Bovino in età romana” di Marina Mazzei della Soprintendenza Archeologica per la Puglia considera la vasta realtà archeologica
dell’area vibinate di questo periodo. La consistenza e la varietà dei reperti recuperati a partire dal ‘600, parte dei quali ora raccolti nell’ordinato Museo Civico,
le menzioni di Polibio e di Plinio, le molte epigrafi, i resti visibili o ancora interrati di rilevanti opere pubbliche consentono alla Mazzei di individuare un momento preciso della romana
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Vibinum nella fase dell’istituzione municipale della prima metà del primo secolo
a.C. Ma le potenzialità in campo archeologico dell’area vibinate non si esauriscono qui. Il terreno tuttora vergine e i molti depositi non compromessi riserveranno a ricerche mirate conoscenze più precise dell’entità e della importanza
dell’insediamento romano, nel cui tessuto urbano oggi continua a vivere la città.
“Gli aspetti della cultura materiale in Capitanata nel Medioevo” è il tema della
terza relazione. L’autrice, Caterina A.M. Laganara Fabiano, prende in esame i
manufatti fittili inediti di epoca medioevale provenienti dal territorio di Bovino
e da altre località della Capitanata e ne evidenzia l’importanza come strumenti
primari di ricostruzione. Dall’analisi di questi manufatti profluiscono indicazioni
preziose non solo sulle tecniche artigianali e sulla evoluzione del gusto, ma altresì sulle condizioni sociali e sui rapporti economici e commerciali della popolazione bovinese e degli altri insediamenti di Capitanata in un’epoca, come quella
medioevale, piuttosto avara di notizie.
Nella quarta relazione “Contributi alla storia di Bovino nel Medioevo: le pergamene”, il prof. Pasquale Corsi dell’Università di Bari espone i risultati di una sua
prima rigorosa indagine su 15 pergamene, datate tra il 1100 e il 1390, e custodite nell’archivio capitolare della cattedrale. Esse riguardano le note donazioni
dei conti normanni di Loretello alla Chiesa e al Capitolo della cattedrale, le loro
conferme da parte di re e di papi, nonché altre donazioni, permute e vendite
intercorse tra i due enti ecclesiastici e privati cittadini. Le notizie di prima mano
che se ne traggono sono tante e consistente risulta il loro contributo per la storia medioevale della città.
La quinta ed ultima relazione “Bovino e il romanico pugliese” di Gioia Bertelli
dell’Università di Bari riferisce sui tre più significativi edifici sacri bovinesi: la
cattedrale, la chiesa di S. Pietro e il tempietto di S. Marco. La relatrice vi individua suggerimenti architettonici e scultorei provenienti dall’area campana e pugliese. Rileva altresì che i numerosi elementi scultorei reimpiegati nel rifacimento
della cattedrale (XII-XIII sec.) depongono per la presenza in Bovino di un architettonicamente importante edificio sacro sicuramente anteriore al Mille.
Ad impreziosire il volume, che auspichiamo sia il primo di una lunga serie, contribuiscono le pertinenti tavole illustrative che corredano le singole relazioni. Relazioni che possiamo senz’altro definire cinque insostituibili punti di
riferimento e di riscontro per quanti intendano conoscere o approfondire il
plurimillenario passato di Bovino.
Vincenzo Maulucci
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Recensioni_______________________________________________
Vincenzo MAULUCCI, Il Governo pastorale del Beato
Antonio Lucci OFMConv. vescovo di Bovino (1729-1752): Analisi delle sue “Relationes ad limina”, Roma, Edizioni Miscellanea Francescana, 1989. 180 p. tav.
Per antichissima consuetudine risalente ai primi secoli del cristianesimo, i
vescovi, gli arcivescovi, i primati, i patriarchi, si sono sempre ritenuti in dovere
di recarsi di tanto in tanto a venerare le Tombe degli Apostoli, e a riferire al
Supremo Pastore sulle condizioni del proprio gregge per ricevere consigli e
direttive.
Sisto V con la Bolla Romanus Pontifex del 20 dic. 1585, stabilì tale visita
periodica con obbligo giuridico. Viene detta ancora oggi “Visitatio ad Limina”,
e cioè Visita alle venerate Tombe degli Apostoli, ma è naturalmente legata a
due altre Visite: quella che viene fatta nella stessa occasione al Successore di Pietro nella Cattedra Romana, e quella che lo stesso Vescovo ha già fatto nella sua
diocesi, la Visita pastorale, della quale fa ora relazione al Papa.
E’ durante la Visita pastorale che viene favorito in modo esauriente e specificatamente il diretto contatto tra il Vescovo e il suo gregge, tra il suo clero e i
fedeli del popolo di Dio, realizzandosi le condizioni di un incontro personale,
spesso di parecchi giorni, che rende possibile anche una verifica esauriente delle
strutture e dei mezzi destinati al servizio pastorale.
Buona occasione perché il Vescovo possa lodare, stimolare, confrontare
e spronare gli operai della vigna, rendendosi conto di difficoltà varie presenti, e
portandosi a contatto immediato con le miserie e angustie più disparate dei
suoi figli, il tutto in un aiuto glorioso e paterno.
Il novello beato Antonio Lucci, OFMConv, prescelto a presiedere una
piccola diocesi, qual’è appunto quella di Bovino, centro della Puglia (Foggia) a
646 m. d’alt., presso la stretta gola dell’Appennino meridionale della valle di Bovino, che mette in comunicazione la Puglia con la conca beneventana, realizzò in
pieno quanto ora rilevato.
Bovino ha una bella cattedrale secc. X-XIII, e palazzo ducale (ora vescovato). E’ la Bovinum dei Romani, divenuta roccaforte dei Bizantini, invano assediata da Ottone I di Germania. Fu sede di ducato. Nei suoi pressi è tenuto in
grande considerazione il santuario della Madonna di Valleverde.
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Il Prof. Vincenzo Maulucci, conosciuto al vasto pubblico per alcuni pregevoli studi storici specie riguardanti località della diocesi bovinese, come L'assedio di Accadia del 1462 (Roma 1985, pp. 109, ill.), da qualche tempo ha fatto
precipuo interesse dei suoi studi la figura del pio e dotto Vescovo Lucci. Non
perché ne ritenesse imminente la beatificazione, ma solamente attratto dalla
splendida figura di questo Vescovo francescano conventuale del ‘700. Una figura così ricca e poliedrica, da spronarlo piacevolmente a laboriossime ricerche
d’archivio, iniziate da quello diocesano, e proseguite nell’Archivio Segreto Vaticano, in quello della S. Congregazione dei Santi e altrove.
Disponendo così di un imponente materiale archivistico da lui diligentemente raccolto, e del densissimo volume dei Processi di Beatificazione, egli ha saggiamente e con ammirevole logicità, utilizzato tutto l’insieme, scandendo le opere
e i giorni del Lucci, alla sola ed unica luce dei documenti, i quali ne ravvivano la
figura narrando fatti e momenti tra i più salienti e incisivi del suo lungo governo
(1729-1752).
Tale governo pastorale del Lucci, viene ritmato in ordinatissime e ammirevoli sei relazioni (1729-173l; 1731-1736; 1736-1740; 1740-1744; 1744-1747;
1747-1752), le quali con chiarezza e stile vivace, riescono a fornirci un quadro
oltremodo variegato, che verte dalle condizioni ambientali-spirituali a quelle
socio-politiche, che si dispiegano per circa un trentennio, quanto durò appunto
il magistero Lucciano.
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La prima relazione (1729-1731), riguarda prevalentemente le condizioni
etnico-geografiche della diocesi, delineandone la consistenza delle famiglie con i
vari fuochi che le compongono, dando una valutazione sullo stato particolare
della vita religiosa dei fedeli, e avvertendo soprattutto, come frutto primario
della sua visita, la costruzione di un Seminario.
La seconda (1731-1736), si sofferma, in modo diretto, sulle condizioni
spirituali e materiali della Casa di Dio difendendone senza astiosa animosità ma
con grande prudenza e verità i diritti, così spesso violati da un pugno sparuto di
signorotti che agivano con una virulenza e prepotenza non comune.
La terza, quella cioè del 1740-1744, si attarda prevalentemente sui fatti
emergenti del quadriennio, come i mutamenti politici del Meridione d’Italia, cui
la chiesa di Bovino appartiene “In Beventana provincia sita”,
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e cioè l’avvenuta conquista da parte di Carlo III dell’Italia Meridionale, assumendone anche il titolo di Re delle due Sicilie, titolo riconosciutogli
ufficialmente nel 1738 con la pace di Vienna.
Il dimorare per un breve periodo di tempo a Napoli diede modo al
Lucci di interessarsi anche del processo di beatificazione del Padre Bonaventura
da Potenza, OFMConv, e Dio sà con quanta gioia del nostro Vescovo.
E’ di questo periodo il ritrovamento nella Cattedrale di Bovino del corpo di S. Marco di Ecana, Vescovo di Aeca-Troia e patrono della città di Bovino, mentre la situazione spirituale unitamente ad alcune situazioni delicate, il
Santo Vescovo più che alle carte della Visita preferisce spiegarle personalmente
a viva voce alla Congregazione Romana.
La “suspicio pestis”, epidemia che in realtà si manifestò e duramente,
nell’estate del 1743, e infierì specie a Reggio Calabria ed a Messina provocando
circa 40.000 morti, non consentì al Lucci, ormai ultra sessantenne, di recarsi a
Roma, e così la sua Relazione datata “Bovini VIII Kal. Februarii 1744” (=25
gennaio), dopo essersi un pò attardata sull’accennata epidemia, privilegia a lungo questioni di grande importanza relative allo stato materiale e spirituale della
diocesi, originate prevalentemente dall’entrata in vigore del Concordato, tra Napoli e la Santa Sede e la formazione nel regno borbonico del Catasto onciario.
Sono proprio di questo periodo i vari editti emanati dal Lucci per dar
conoscenza delle direttive di Benedetto XIV, il quale doveva dimostrarsi più
presente nella vita delle chiese locali. Accento maggiore è posto anche sulla tutela dei Luoghi Pii e sulla situazione materiale e spirituale della stessa diocesi.
Pur desiderando vivamente recarsi a Roma per la quinta relazione (17441747), anche questa volta non poté farlo perché “aetas et senectus (65 anni)
hyemale tempus et huius dioecesis negotia” non gli consentirono di portarsi ad
“sacra limina deosculanda”. Momenti significativi di detta relazione sono la presenza di S. Alfonso e dei suoi missionari nella terra di Deliceto, e anche una
incresciosa situazione creatasi nella suddetta cittadina a causa di un canonico a
dir poco sobillatore e mistificatore.
La sesta ed ultima relazione (1747-1752) la si può definire come quella
dell’addio. Il pio Vescovo si rivolge al suo clero, ai suoi fedeli e soprattutto ai
suoi numerosissimi e amatissimi poveri, verso i quali, ormai spoglio di tutto, si
privò di quel pochissimo che gli rimaneva, pur di alleviarne le varie sofferenze.
Ribadisce la santità del clero, capace sola di preservare il gregge alle loro
cure affidato; ed è sempre per il clero che egli riserva cure speciali esigendone
però inappuntabilità e rettitudine di comportamento. Perorò
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energicamente presso il Re di Napoli, in qualità di “padre dei poveri”, affinché
proprio a questi ultimi, e in presenza di una grave carestia, venisse concesso di
poter seminare anche in luoghi demaniali.
Morì in Bovino il 25 Luglio 1752, tra il rimpianto universale di tutta la
sua diocesi e di coloro che ebbero la ventura di conoscerlo.
Il volume del Maulucci in una veste elegante si arricchisce di un pregevole indice analitico ed onomastico, di una preziosa appendice di documenti
vari e pertinenti, di un elenco degli scritti (numerosissimi) del Lucci finora a noi
conosciuti.
p. Bonaventura DANZA OFMConv
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