RICORDI E FRAMMENTI *
di Mario Simone
FIUME 1919
I
L’estate di quel ‘19 mi trovò tutto una fiamma (febbre di adolescenza
alimentata dalla psicosi dell’irredentismo e dal dannunzianesimo) e mi vide
abbandonare la scuola diseducatrice, sdegnoso del piccolo mondo borghese che
la esprimeva.
A Manfredonia chiamai a raccolta i più fedeli e nello stesso fondaco di
mio padre al Corso Manfredi (oggi farmacia Centrale) che il 1916 aveva
ospitato il Circolo studentesco Cesare Battisti, costituì la Unione sportiva
«Nazario Sauro» prima e unica del genere in Capitanata a imprimere alla sua
attività agonistica uno spirito politico di intransigenza che, in relazione ai tempi
e all’educazione dei giovani di allora, è sembrato un segno anticipatore del
fascismo come ha recentemente ricordato il «Giornale d’Italia» (21 giugno).
Doveva essere secondo il mio disegno una cellula di quel movimento
rinnovatore nazionale che da qualche tempo presagivo attraverso la stampa, ma
io ero un capo troppo giovane per impormi all’ambiente dominato da mentalità
e psicologia bizantina.
Comunque, riuscì a conservarle la sua fisionomia politica e approfittai
della commemorazione del Sauro per affermarla in maniera solenne.
Come riportò « Il Foglietto » di Lucera (26-8-‘19) dopo il discorso
celebrativo da me tenuto al Teatro Eden, « A mezzanotte tutti i giovani della
sezione ed altri moltissimi si recarono in corteo sul Ponteporto e lì sulle
scogliere dell’estrema punta di esso, dinanzi alla maestà dell’Adriatico nostro,
lanciarono in gran coro il grido di guerra di Gabriele D’Annunzio, che l’eco
profondo portò certamente ai nostri fratelli dell’altra sponda, come una
promessa, come una speranza ».1
* E’ stata operata dai « Ricordi e Frammenti » una scelta accurata. Sono state
escluse pagine già pubblicate su giornali e riviste o passi la cui stesura si limita ad una
prima provvisoria raccolta di appunti incompleti.
1 La sez. sportiva « Nazario Sauro » - Manfredonia 18 agosto 1919 Una eletta
schiera di giovani studiosi ha testè costituita in questa città una Sezione Sportiva,
intitolandola, con opportuno sentimento patriottico all’eroe martire « Nazario Sauro ».
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II
In tali condizioni di spirito mi raggiunse la notizia della Marcia di
Ronchi.
Letto i giornali e deciso a raggiungere il Comandante fu tutt’uno.
Con quello che ritenevo il più spregiudicato dei miei compagni, Edoardo
Mazzone di Ludovico, decisi d’imbarcarmi subito su uno dei velieri che
facevano il piccolo cabotaggio con la Dalmazia.
Ma nonostante la nostra riservatezza sui propositi di partenza, il 15
settembre ricevei da Foggia una lettera dello studente Michele Cainazzo: « So in
parte le tue intenzioni a proposito dei fatti di Fiume. Animato dai medesimi
sentimenti, ti prego di venire a Foggia domani per un abboccamento…… ».
Fu il primo contrattempo.
Incominciai a fare la spola col Capoluogo che mi ammoniva ogni volta
sull’approssimarsi della sessione autunnale e ivi presi contatto col prof. Luigi
Natoli, esponente del patriottismo massonico locale, e con qualche altro
valentuomo. Essi m’informarono di star preparando una grande spedizione con
l’intervento di numerosa rappresentanza delle forze armate e mi consigliarono
di collaborare alla buona riuscita di essa.
Si trattava di un piano che, riuscendo, avrebbe fatto storia nella nostra
provincia. La colonna di uomini (arditi, cavalleggeri, aviatori) avrebbe dovuto
raggiungere nottetempo Manfredonia dove alla scogliera dell’« Acqua di Cristo
» avrebbe dovuto trovare pronti una passerella e un piroscafo della Società di
navigazione « Puglia », già occupato di forza e colà diretto.
Ma il tentativo fu sventato dalla Questura, e Manfredonia incominciò ad
essere rigorosamente sorvegliata.
III
Da tempo trovavasi in porto sull’ancora una regia nave vedetta; i suoi
sottocapi timoniere e radiotelegrafista erano entrati a far parte dell’Unione
Sportiva.
Insinuai a questi due marinai l’idea di portare a Fiume la nave
Domenica, nell’Eden teatro, tutto imbandierato, l’egregio giovane sig. Mario
Simone tenne il discorso inaugurale suscitando il più grande entusiasmo. Evocò l’epiche
gesta dellEroe Martire invocò con frase elegante la fede di tutti i giovani, dopo di aver
rilevati gli scopi educativi della sezione, concluse, applauditissirno, con una calda
perorazione alle speranze della gioventú ed ai piú grandi destini della patria.
A mezzanotte poi tutti i giovani della sezione ed altri moltissimi si recarono in
corteo sul Ponte-porto e lì sulle scogliere dell’estrema punta di esso dinanzi alla maestà
dell’Adriatico nostro, lanciarono in gran coro, il grido di guerra di Gabriele
D’Annunzio, che l’eco profondo portò certamente ai nostri fratelli dell’altra sponda,
come una promessa, come una speranza.
Congratulazioni ed auguri.
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e non ebbi bisogno di molte parole, per farmi capire. Consigliarono anzi, di
affrettare la partenza che s’imponeva prima che facesse ritorno da Bari il loro
comandante.
Chiamai a raccolta i fedeli di Manfredonia e mi portai a Foggia per
avvertire quegli amici. Ebbi l’assicurazione che insieme con pochi borghesi
sarebbe venuto al completo il gruppo di arditi.
Qualche giorno dopo, ritornando a Manfredonia per organizzare la
partenza fissata l’indomoni notte, una sorpresa mi attendeva in treno. Tra gli
altri viaggiatori un capitano di Marina mi fece gelare le vene. « li capo non può
essere che lui - pensai -tutto dunque svanisce! »
Ma il caso sembrava congiurare con me.
Ecco che due agenti di Polizia salgono e si fermano nel corridoio per
scrutarci uno ad uno.
- Che guardano questi ridicoli! - Esclama come seccato il Capitano.
Non mi par vero di poter prendere la parola: - Hanno l’aria di essere
poliziotti. Temono partenze per Fiume.
- Ebbene - dichiara subito quello in modo piú teatrale - Ecco la
provocazione più grave per farmi raggiungere subito D’Annunzio!
Ebbi l’ingenuità di confidargli il piano.
- Quei pirati - gridò - sarebbero dunque partiti senza il loro comandante!
La sera nel caffè Castriotta concertammo il da farsi. Si sarebbe partiti la
notte successiva, per consentire l’arrivo della gente di Foggia. Avremmo
portato a Fiume, oltre i cuori e le armi, sopratutto il danaro esistente in cassa
sulla nave.
Mi agitai tutta la notte. Alll’alba montai in terrazza, per rivedere la nave,
che finalmente ci avrebbe portato trionfanti fino alla meta.
Ma il Capitano, prudentemente, aveva già preso il largo.
IV
Ammaestrato dalle difficoltà delle partenze in grande stile, decisi di
ridurre il programma alle originarie modeste proporzioni.
Erano quel tempo in corso i lavori del Porto Varano. A Manfredonia il
Genio Marino che li eseguiva era allogato nel Castello e aveva come fiduciario
un mio affiliato, Michele Cafarelli di Carlo.
Con questo misi l’occhio su un rimorchiatore d’alto mare capitanato da
un di Romagna, autentico lupo di mare col quale però non si riusciva mai a
imbastire un ragionamento perché era o fingeva di essere sempre ubriaco.
Decidemmo dunque di agire con la violenza. Imbavagliata la guardia di
Finanza del faro, non sarebbe stato difficile raggiungere la nave e obbligare i
marinai eventualmente ostili a sbarcare e il capitano a guidarci a destinazione.
E saremmo certamente partiti se proprio il giorno stabilito non
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fosse apparso a Manfredonia il comandante la tenenza Carabinieri di Foggia.
Io e Cafarelli ci trovavamo appunto in Castello allorquando quello venne
a chiederci di poter telefonare a Foggia.
- Pronto! pronto! nessuna novità. Qui tutto bene.
E l’indomani di nuovo tutto male perché alla sorveglianza del porto
furono addetti anche i Carabinieri.
Il rimorchiatore partì per il Varano, e dovemmo così cambiare un’altra
volta programma.
Ecco il disegno del Cafarelli: « Partire da Foggia - Sansevero - Apricena S. Nicandro G. - S. Nicola Varano - Capoiale. A Capoiale, ove mi farei trovare
col rimorchiatore « Lido » vi sarebbero solamente l’ufficiale telegrafico ed il
magazziniere. Se vestiti da operai dire che si va in cerca di lavoro, se vestiti
ordinariamente dire che si cerca l’ingegnere D’Arienzo o Delli Muti, tanto per
avere alloggi e mangiare gratis, la notte e la mattina alle sei, quando il
rimorchiatore dovrebbe fare ritorno a Manfredonia, imbarcare tutti, tagliando
comunicazioni telegrafiche e fornendosi di una buona scorta di carbone e di
olio e indurre il comandantte a sbarcare l’equipaggio. Quindi seguire la rotta ».
Progetto anch’esso svanito per la mancata tempestiva azione degli
elementi foggiani.
FORMIGGINI, CONTI, PETRUCCI (Maestri miei iniziatori)
Ad Angelo Fortunato Formìggini debbo le più gioiose emozioni della mia
carriera di lettore. A Napoli, dove il 1918 preparavo la licenza liceale,
conquistata poi al « Genovesi », ricevetti in libreria un saggio de « L’Italia che
scrive »: ritornato a casa ottenni che mio padre pagasse l’abbonamento alla
gaietta rivista. Fui conquistato dallo stile magico di quel periodico, in cui lo
spirito vivace dell’editore sceglieva e amalgamava le varie collaborazioni, in
modo da comporre una unità culturale e tipografica.
Trasferitomi a Roma, sapevo trovare le occasioni e le scuse, per farmi
ricevere un attimo nello sgabuzzino di lavoro di quel gigante di vicolo Doria,
dove uno scantinato ospitava la casa editrice e la Biblioteca circolante, unica
istituzione di quel genere nell’Urbe. Sembrava un idillio, l’attività di AFF a
Roma, con le gerarchie fasciste; fino a quando queste non decisero di
stroncare... l’uomo, lasciato ancora libero e fu l’assalto alla « Leonardo », cui
seppe rispondere con La picozza filosofica del fascismo. Stretto ai pochi amici, ne
condivisi la pena, e mi esasperai alle prime misure razziali, e non mi rassegnai
facilmente dopo lo storico sacrificio dalla Torre di Modena. Rivedere il suo
sorriso m’è tuttora di conforto e di incoraggiamento, tra le contraddizioni della
vita.
A Roma ho avuto la fortuna di esaltarmi vicino ad altri due uomini
eccezionali: Giovanni Conti e Alfredo Petrucci. Furono essi
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Angelo Fortunato Formiggini
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a « insegnarmi il mestiere ». Conti fu il promotore e, con l’avv. Lanzetta, il
realizzatore della editoria politica romana. Quando le altre forze politiche
credevano di assolvere tutti i loro compiti nell’azione parlamentare, e poi
aventiniana, il discepolo di Arcangelo Ghisleri affermava che il successo di
qualsiasi tattica e strategia politica non può non essere condizionata dalla carica
morale, dalla preparazione ideologica e dalla esperienza pratica dei protagonisti,
i quali non sono soltanto i capi e i dirigenti (parole delle quali aborriva) ma
anche e soprattutto il « popolo ».
Fondatore e direttore de « La Voce Repubblicana » e della « Libreria
Politica Moderna », fu il mio modello di editore, pervaso da un alto ideale di
rinnovamento e sdegnoso di tutto quanto costituisce la materia vile della
funzione mercantile. Sincero e leale fino a traumatizzare chi non « filava » sulla
sua linea, suggestionava e trascinava in virtù di un temperamento virile, vivace
ed esuberante, La sua lezione non era fatta per farlo chiamare maestro (altra
parola che egli dava ai nemici). Sentivo in lui il padre severo, che non si
trattiene dal contestare, senza rinunziare alle prove, la capacità di rinnovamento
del vecchio repubblicanesimo meridionale, intellettualistico e settario, e per ciò
inconcludente.
Petrucci - Poeta ed artista di rara sensibilità e operosità, Alfredo Petrucci,
autorevole fratello maggiore, mi ha trasfuso il gusto, i segreti tecnici e il rispetto
amorevole della buona stampa, dall’esordio lontano ai suoi ultimi tempi: un
periodo di cinquant’anni nel quale è stato per me decisiva la sua collaborazione.
I nostri appaiono sui tre volumi dell’« Almanacco Giuridico Forense
Italiano » (Lunario della Toga), pubblicati per le nostre cure a Roma negli anni
1930-33, ma essi sono stati sempre vicini, sia che recensissi sue opere, sia che
annunciassi quale mia edizione il suo Gargano monumentale (trasfuso poi in
Cattedrali di Puglia).
Vocino nella pubblicazione della rivistina « La Puglia a Roma », dei «
Quaderni Pugliesi » iniziati nella capitale col suo Caldara e dell’altro periodico «
Puglia » di entrambi volle affettuosamente disegnare le testate, uscito a Bari il
1926 presso i Laterza.
I LATERZA
Il 30 maggio 1960, diciassette anni dalla scomparsa, Putignano, comune
patrio, murò una lapide su la casa nativa di Giovanni Laterza senior.
Nel salone della biblioteca civica, Tommaso Fiore ripercorse la vita di
quel grande pugliese con una celebrazione, che attendiamo di vedere a stampa
in opuscolo.
Varie componenti personali, fanno di Giovanni Laterza il prototipo
dell’editore nuovo del Mezzogiorno, destinato ad assicurare alla sua regione un
primato insuperabile. Introdotti nella sua straordinaria
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Biblioteca civica di Putignano. Commemorazione di Giovanni LaTerza
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utensileria, senza la preparazione richiesta da quel complesso apparato, si
rischiava facilmente di uscirne bocciato e deluso. Don Giovanni, uso al dialogo
con Benedetto Croce, al centro della rete culturale distesa nel Paese e fuori; e
con lui fratelli e figli, legati dal mestiere e dall’indirizzo politico: Giuseppe,
Franco, Vito, Peppino, tutti esperti, reduci dalla stessa grande scuola
tipografico-editoriale-libraria del Nord e dei paesi esteri scelti a scuola
d’esperienza.
Affidata alla officina, che si ornava di quei nomi, « Puglia » si illuse di
potervi fondare la sua immortalità, lucrando la estesa fama editoriale; ma
nessuno si accorse del periodico e della stamperia. Mancò a quel foglio, con
tante altre cose, un gruppo redazionale e la organizzazione amministrativa;
mentre ebbe una base di lettori bene individuata durante un non breve lavoro
preparatorio, assolto con meticolosità tra i numerosi amici corregionali o
dimoranti in Puglia; sulle schede da me distribuite essi mi notificarono molti
indirizzi interessati a ricevere il periodico.
Aiutato solo da una allieva, che preparavo nello svolgimento di una
banale tesi di laurea, mi sottoposi a un lavoro in gran parte frustrato dalla
disordinata spedizione dei numeri da parte della tipografia e dalla resistenza ad
esporre ìl foglio delle edicole giornalistiche, e da tanti altri fattori.
Fattori di successo di un periodico sono la tempestiva pubblicazione e
diffusione e si sbaglia, affidandone la stampa a un grande stabilimento. Esso,
appunto per la sua modesta mole, sarà sempre curato meglio in una piccola
tipografia, purché sia animata da gente per bene, modesta, volenterosa di
collaborare con gli intellettuali della medesima loro stoffa, sopportandone le
interferenze tecniche.
ANARCHICI
Tramite Filippo Maria Pugliese m’incontrai per corrispondenza con
Cesare Teofilato, il solitario pubblicista anarchico di Francavilla Fontana
(Brindisi), del quale parla Tommaso Fiore nelle ultime pagine di « Un popolo di
formiche ».
Mi scrisse di Michele Angiolillo, il giovane foggiano garottato in Spagna,
citando lo scritto del Morelli (Rastignac) in suo ricordo: « Germinal ». Di
Angiolillo mi parlò il libraio Mancino, di Lucera, ch’era stato suo compagno di
scuola.
Un altro incontro con anarchici dauni e pugliesi fu alla lettura di « La
Puglia nel Risorgimento con particolare riguardo ad Acquaviva delle Fonti » di
Antonio Lucarelli. Suggestive le figure di Cafiero e di Covelli.
A Roma, nel periodo dell’università (1921-25) mi procurai numerose
edizioni anarchiche, politiche e letterarie; di esse non tutte figurano nel mio
schedario perché, al fine di sottrarle alle perquisizioni romane, le diseminai tra
insospettabili famiglie amiche. Molte di quelle
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T. Fiore commemora nella Biblioteca civica di Putignano Giovanni
Laterza
(30-5-1960)
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possedute, risalgono al periodo foggiano, ai rapporti affettuosi, che mi legarono a
due anziani anarchici: i ferrovieri in pensione Quirino Perfetti e Adolfo Valente,
questo oriundo di Manfredonia, che non posso ricordare senza commozione, per la
dirittura dei loro caratteri, per l’azione educativa svolta e per la solidarietà, che mi
dimostrarono quando i miei genitori furono aggrediti e poi abbattuti dal male.
Nella pagina pubblicata da « Rassegna pugliese »1, fascicolo in onore di
Tommaso Fiore, nomino gli anarchici garganici Bramante e Palladino, che da tempo mi avevano incuriosito, fino a farmi cercare le loro tracce nei paesi di origine:
Carpino e Cagnano Varano. Qui mi fu propizio il commissario al Comune, dott.
Antonio Papagno, manfredoniano, che riuscì a farmene ottenere il ritratto, del quale volle copia Antonio Lucareli, per il suo scritto biografico apparso con l’immagine
« Umanità Nova » e poi in quaderno. Infruttuoso fu, invece l’incontro con le sorelle
superstiti del Palladino, mostratesi ingenerose verso la sua memoria, non perdonandogli la tresca adulterina, per la quale una notte del 1896 fu spento dall’uomo
tradito.
Dei fratelli Bramante, promotori col Palladino della prima internazionale (anarchica) non si serbano molte notizie a Carpino. Lo storico locale, Giuseppe
D’Addetta, non mi ha potuto fornire elementi di dettaglio.
Il 1921, durante la campagna elettorale a Manfredonia, mi si presentò un
bracciante, ritornato in Patria dagli Stati Uniti, Antonio Latosa, per dichiararmi la
sua fede repubblicana e donarmi alcuni giornali anarchici in lingua italiana di quel
paese, con articoli e cronache relativi al « caso » di Sacco e Vanzetti.
Non ero andato ancora a Roma, dove mi sarei arricchito di informazioni politiche, e quella stampa mi fu molto utile.
A Roma, dove arrivai all’inizio dei corsi universitari (ottobre 1921) e dimorai
fino al gennaio del 1933, conobbi numerosi anarchici, che erano gli amici meno...
pericolosi di noi repubblicani. Frequentavo la tipografia « Poligrafica » dove, oltre «
la Voce Repubblicana » e altri periodici e numeri unici del PRI e della Federazione
giovanile, si stampava anche il settimanale anarchico « Umanità Nova », poi diventato quotidiano. Vi incontravo Enrico Malatesta, che non lesinò suggerimenti bibliografici per la migliore conoscenza storica e ideologica del movimento, allora da
lui animato in Italia. Quando, finalmente, presi la laurea, mi disse con l’abituale bonomia: « Mò te ne ritorni al paese, dove la famiglia ti farà trovare l’orgoglio d’oro e
una ragazza di buona famiglia per sposa; ti butterai nella professione e sarai simile
ad altri giovani, che ho conosciuto, come te, pieni di ardore e di programmi qui, tra
noi; perdutisi dopo ».
Gli dissi che tutto poteva accadere, ma che, comunque, avrei fatto del mio
meglio per non « finire » come qualche altro.
Dopo anni di esilio a Foggia, ho scritto questo ricordo agli amici di Roma,
che preparavano un quaderno dì ricordi in memoria del
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Malatesta. Fortunatamente, mi ero salvato (ma a quale prezzo risulta dagli altri paragrafi di queste memorie).
Dopo il mio fallimentare rimpatrio del 1933, straziato dall’attività professionale (vedi « La toga e la croce ») a Foggia il mio impegno ideologico-politico fu
guastato dalla pena del « natìo loco » e dalla illusione di potermi rendere utile a suo
beneficio...
Riusciti vani i tentativi di iniziare un colloquio marginale con avvocati già esponenti dell’antifascismo: il repubblicano Colaminè e i socialisti Fioritto, Laporta,
Lupino, Maitilasso, Manedes e l’indefinito Raho, massone, tutti affogati nella professione, con l’abituale ingenuità ricevuta da mio padre non capii che, dai loro partiti o congreghe, legati per bisogno o per consuetudine a quella che sembrava alienante pratica forense, fuori da ogni corrente culturale, ma soprattutto perché esauriti e prossimi alla vecchiaia, essi non disponevano più delle energie necessarie a
farli resistere ancora sulla linea della opposizione e salvarli dal destino assegnato
loro dalla meschina vita provinciale. Un’altra illusione: mi attendevo da costoro un
segno di riconoscimento della mia attività culturale romana, della quale erano segni
lampanti in alcune riviste e... monumento « Almanacco giuridico-forense italiano »
redatto in collaborazione con Alfredo Petrucci.
Finii col detestare quei signori, che furono causa non secondaria del mio deterioramento politico (vedi « La toga e la croce »).
Tardi conobbi gli esponenti anarchici Perfetti e Valente, e poi Gualano di
San Nicandro, e altri.
MARTINEZ
Tu lo sapevi allora, Gaetano, che sarebbe andata così. Ma non t’immaginavi,
confessa, che avresti durato tanto a lungo. Quanti anni da quella sera, che
c’incontrammo da Palazzi, al Foro italico? Mettiamo trentaquattro (e tanti approssimativamente sono quelli del tuo martirio), ché da poco eri giunto a Roma dalla
nostra Puglia.
« Troppi ». Quale gusto poteva darti quella vita, che il Prossimo rendeva così
difficile? Se all’ultimo non ti eri fatto frate, dopo essere stato fascista e, forse, cavaliere, dobbiamo proprio concludere che l’Arte, (questa volta ci vuole la maiuscola)
che il pane e formaggio che non sempre riusciva a procurarti, bastavano a tenere in
piedi il tuo piccolo sacco.
Ma, che vuoi? A vedere le Lede e le Ballerine puttaneggiare sui mobilucci borghesi mi si rivoltano le visceri. Dove sono andati a finire i genii che popolavano lo
Studio di Via Monserrato? Bovio, Wagner, Carducci, Hugo... e quel Caino che issammo trionfalmente a Palazzo Salviati il 1925 alla Mostra degli Artisti pugliesi ordinata da Alfredo Petrucci?
Via Monserrato, il cortile di un vecchio palazzo papalino. Per la scaletta degli
stallieri salivo con Laurenzio alla tua stamberga. E lo
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studio, la fetida rimessa e la fontanella col capelvenere. A volte appariva un cartello: « Dar la voce prima di entrare ». Era per via di una modella, che non amava esibirsi agli « estranei al lavoro » (Pin dove sei, pietrificata nella « Ignara mali
»?) In quella spelonca mi donasti alcuni disegni, dicendomi che « domani » avrebbero avuto un prezzo. Eccoli sani e salvi da tutti i naufragi: « Che vuoi,
Imbriani? - Dite, Bovio, agli Italiani che li aspetto sul Carnaro. - Sì, sii benedetto... ». Chi ha più disegnato meglio di te quelle immagini del nostro ideale repubblicano? E questo Enrico Ferri, che dalle contrazioni della mano sinistra
esprime la dinamica del suo pensiero (dall’altra parte del foglio abbozzi del tuo
autoritratto)? Poi gli ultimi doni, che io m’ero già ritirato in provincia, compresa
un’autocaricatura, ma fredda, di moda, come t’avevano costretto a diventare.
Dunque, dicevo che l’avevi previsto. Ed eccoci tutti a farti onore (forse
c’è pure chi ha la colpa di aver troppo atteso). E non manca il premio giornalistico. Dopo averti mummificato, verranno - son già venuti - a ripetere ai portieri che ora sei morto sul serio (Morto, ridi, Gaetano, morto proprio adesso che
finalmente sei vivo!) essi che non si sono mai accorti di te quando, come quel
personaggio del mito, andavi combattendo ed eri morto.
STORIOGRAFIA (MINORE?)
Da tempo la grande Editoria va documentando i rinnovati interessi e le
vedute nuove della storiografia su la vicenda meridionale nel primo e nel secondo Risorgimento (Resistenza). Purtuttavia, le restano tuttora estranei gli
apporti così detti minori (se è lecito ipotizzare una scala di valori comunque
riferita ai contenuti) che, affidandosi a collaboratori con impegno culturale più
che mercantile, non si avvantaggiano dei comuni canali di propaganda e di diffusione (stampa, fidejussori autorevoli, agenzie librarie ... ), rimanendo il più
volte ignorati dalla Bibliografia generale.
E’ il caso degli studi di storia contemporanea relativi al processo di formazione nazionale, chiamati a dignità scientifica in Puglia con il costituirsi dei
Comitati dell’Istituto per la Storia del Risorgimento, promossi da Giuseppe
Petraglione, e sostenuti dalla Società di Storia Patria, dalla Società Dauna di
Cultura e dallo Studio Editoriale Dauno.
Si deve a quest’ultimo laboratorio la « Biblioteca del Risorgimento Pugliese » edita in Foggia col platonico patrocinio del predetto Istituto, e dilatatasi
in prosieguo di tempo nella collana « Quaderni di Risorgimento meridionale »,
curata dal Centro per la Editoria Scolastica e Popolare (Napoli).
Allo Studio e al Centro dobbiamo il « fissaggio » di una serie di temi, che
hanno dato nome alle pubblicazioni che ci è gradito segnalare in questa rassegna cui si affida la duplice funzione di documento e di incentivo specie verso i
giovani, per convogliarli verso ulteriori ricerche e attese sintesi.
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I titoli compresi in questa miscellanea sono autentici e autorevoli contributi
alla Bibliografia risorgimentale, non risultando mai prima d’oggi trattati « ex professo ».
La redazione dei testi e il corredo delle note dei documenti e degli indici corrispondono ai canoni della più severa storiografia; le tavole figurate risultano scelte
e collocate in modo di corrispondere insieme ai moderni canoni culturali ed estetici,
sì da costituire un altro pregio editoriale con la stampa equilibrata e pulita.
25 APRILE 1971
Quest’intervento oratorio non vuole, non può, né dev’essere meramente
convenzionale e decorativo; tanto meno può avvalersi della letteratura epica sulla
Resistenza e la Liberazione. D’altra parte, non considerandomi uno storico e non
volendo usurparne le prerogative, mi astengo da ogni altra considerazione che sopravvanzi la mia qualità di amministratore e i miei limiti di studioso.
Non è mio compito risfogliare le pagine d’oro della Resistenza armata e della
Liberazione, che contribuiscono a costituire il patrimonio sapienziale di tutti i Popoli. Sono ormai noti i nomi nostri conterranei, confessori e testimoni della fede
civile, combattenti oscuri o martiri consacrati. Tra questi ultimi gli umili figli del
popolo lucerino, padre e figlio Bucci, caduti abbracciati in catene alle Fosse Ardeatine, e il giurisperito Teodato Albanese di Cerignola, di nobile parentado, anch’egli,
come i primi, vittima del medesimo eccidio, eppure tutti tre cresciuti nel fascismo e come tutti noi delusi, traditi, disingannati e contestatori.
Naturalmente anche noi vogliamo elevare un peana per il nuovo trionfo degli eterni valori evangelici su la brutalità degli ultimi pagani d’Europa. Ma quei valori li andremo a cercare e riconoscere nell’area della vita civile dei nostri paesi, tutti
impegnati nella lotta di Liberazione.
Ricorderemo come, nonostante gli annunci premonitori della strage, sotto
forma di adesione all’Asse e di mobilitazione degli spiriti, di richiami ai doveri e di
catechismi di resistenza civile, le nostre popolazioni furono lasciate indifese e quindi abbandonate dai poteri centrali all’arbitrio dei tedeschi e poi alla ignoranza degli
alleati che, nonostante i loro uffici psicologici, male ci amministrarono nei due periodi dell’Amgot e della successiva Commissione di controllo.
Foggia contro le leggi di guerra, fu tutta un deposito tedesco di armi ed armati; nella villa, in alberghi si mascherava un reparto corazzato: fu pertanto, condannata alla distruzione.
Sopraggiunti i « liberatori », non alleviarono di certo le condizioni del popolo
innocente, occupando gli immobili risparmiati dai bombardamenti, riversandone in
strada il contenuto, sottratosi agli « sciacalli ».
Di questo nostro contributo mi tocca parlare, ignorato dalla storia della lotta
armata, degli oscuri eroi e martiri caduti sotto le macerie
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delle loro case o scacciatine e umiliati, senza protezione e costretti a rinunce
spesso degradanti della dignità umana e civile.
Nel vasto e profondo panorama della Resistenza e della Liberazione, oltre le vite e le gesta degne di Plutarco, deve trovar posto il contributo spirituale
e materiale dato dalla nostra gente umile.
E’ vero: non possiamo vantare gli scioperi politici, che hanno qualificato
la lotta nel Nord, le sue azioni partigiane, il sacrificio di uomini subìto con le
deportazioni, le torture, le stragi collettive e le esecuzioni individuali; la distruzione o il danneggiamento dei luoghi di produzione e di lavoro.
Aggiungo che, per la preminente fisionomia agricola e marittima della
nostra provincia, abbiamo patito meno le conseguenze delle misure condizionatrici dell’alimentazione e degli altri approvvigionamenti.
Purtuttavia, la Capitanata ha pagato un oneroso contributo alla sua liberazione. Si dice questo non per presentare il conto alla Repubblica, ma per
chiederci se facemmo interamente il nostro dovere, se dobbiamo rimproverarci
qualcosa.
I sacrifici della guerra non finirono con la liberazione. Dal primo sbarco
alleato a Manfredonia fino alla resa tedesca, il Tavoliere si offrì alla offensiva
apocalittica dell’arma aera, accogliendo la più grande base di lancio mai realizzata, dalla quale s’irradiarono gli stormi per l’Europa, fino agli estremi avamposti
in Russia; avamposti alimentati con gli altri servizi mobili, dai sifoni di carburante del nostro Golfo e per le condotte da esso partenti.
Una formidabile macchina bellica, e un corrispondente mastodontico
apparato di attribuzioni amministrative e civili - in gran parte affidati alla lealtà
delle popolazioni - che non subirono danni, così come non si verificarono episodi di malavita e la prostituzione risultò quasi tutta importata.
Le popolazioni, costrette a sfollare i paesi o a ridursi in difesa fino alla ritirata tedesca, seppero autoamministrarsi mirabilmente, tagliati fuori dai centri
decisionali, disseminati senza alcun criterio razionale a Bovino, a S. Severo, a
Troia, a Lucera: e questo nonostante i grandi preparativi all’intervento armato e
alla organizzazione del fronte civile.
Si può dire che fossero duramente provate non tanto dalla guerra quanto
dalla liberazione e dalla ricostruzione. Ogni discorso diventò sempre più difficile e arduo - bisogna riconoscerlo - fu il travaglio dei Comitati di Liberazione
Nazionale.
Foggia, largamente lacerata e disabitata, si ripopolò lentamente, per infiltrazione, essendo luogo militarizzato. Con lo stesso sentimento e slancio di ripresa; il tronco ferroviario di Manfredonia, anch’esso militarizzato, fu intelligentemente usato dalla popolazione, e Manfredonia stessa si affermò anche in
un’altra direzione, dotandosi delle sezioni distaccate di alcuni istituti del Capoluogo, apprestando sedi e attrezzature anche per pubblica sottoscrizione: raro
esempio d’iniziativa locale, estranei i pubblici poteri.
26
E che dire del nostro comportamento politico? Inganni, ingiustizia e anche
violenze, e non soltanto morali, non erano mancati durante il ventennio: non pochi,
anche innocenti « fuor della mischia » avevano pagato lo scotto, così come in ogni
trapasso da regime a regime. Purtuttavia non vi fu reazione.
Nessun fascista si mostrò pervicace, tutti essendosi affrettati ad accettare
l’ordine nuovo.
Nessun antifascista profittò delle condizioni vantaggiose in cui lo mettevano
le circostanze.
A quanto mi risulta, la Polizia alleata chiese invano liste di proscrizioni. Se
alcuno si prestò al ruolo d’informatore, lo fece non per vendetta politica, ma per
comodo personale.
Non soltanto, perché al tempo dei procedimenti contro i fascisti responsabili
di aver strafatto, esponenti medesimi dei C.L.N. operarono a favore dei principali
accusati, concorrendo al loro salvataggio, come i viventi tra essi testimoniano con la
pratica più larga delle libertà democratiche delle quali, in verità, mostrano di non
abusare e, vorrei dire, hanno così bene profittato da assumere anche ruoli di prestigio.
LA CADUTA DEL FASCISMO
Non produsse traumi di particolare gravità. Anche da noi, come in tutto il
Mezzogiorno, dopo la prima sfuriata squadrista di Cerignola e Sansevero, il PNF si
era burocratizzato così bene, che dopo il 25 luglio andò in fumo come i registri e gli
schedari dei suoi uffici.
Questa eclissi può farei porre una domanda: se da noi lo squadrismo fu davvero un movimento politico promosso o finanziato dagli agrari, dai reazionari, oppure un movimento di disoccupati - volontari o coatti - tra i più facinorosi, capitanato da furbi, che lasciarono loro le spine della conquista, a guisa delle bande che il
1799 scesero dal Gargano a Manfredonia e raggiunsero la colonna del Ruffo a Bovino.
Certo che di tutti i promotori e degli altri protagonisti di quel fascismo in
Capitanata non è rimasto traccia e nemmeno il ricordo, sì che sarebbe lieto chiedere
su quali eredità di spirito o di realizzazioni può razionalmente e legittimamente
fondarsi un movimento eversivo, che si appelli a un passato senza monumenti.
Ma che vi siano o non vi siano motivi, non dico di frizione sociale e di polemica politica, fatali, indispensabili alla vita di una nazione civile, da politici responsabili ci sembra che il modo migliore di celebrare questa e tutte le altre date
della Resistenza e della Liberazione siano il rifiuto della retorica e l’invito a reprimere ogni impulso, sia pure giustificato, sia pure rivolto soltanto a respingere la violenza e non anche ad eliminare le contraddizioni, spesso corruttori degli uomini di
buona fede, tanto da farli indulgere - se non ad aderire - alle iniziative dei facinorosi.
27
Dev’essere nostro impegno - nostra la fedeltà ad esso - di usare i mezzi
conosciuti, e nuovi esercitarne, per sostituire una nuova coscienza politica alla
coazione della legge.
Noi non sappiamo quanti degli Italiani, oggi trascinati a denigrare la Patria con la violenza, provengono dalle generazioni così dette fasciste. Sì, nei cortei, che usiamo chiamare di destra, non mancano uomini maturi, così come non
mancarono i bonapartisti dopo la caduta di Napoleone. Ma questi erano i fedelissimi del Corso, del quale avevano spartito il sonno, le fatiche, i pericoli, di un
capo, che aveva combattuto fino all’ultimo, di « colonnelli », che non avevano
mai rinnegato il generale.
DISEGNO DI UN « LIBRO DELLA MIA GENTE »
(Manfredonia, 29 novembre 1970)
Anzitutto, qual’è la mia gente? Alla porta dei 70 anni, posso dire senza
retorica che non riesco più a « battere » a favore dei Manfredoni, i Montanari o
i Napoletani o i Foggiani. Ai Manfredoni mi sono sentito figlio e innamorato,
da struggermi fino al 1967.
Napoli ho incominciato nel 1954 a frequentarla, per svolgervi attività
editoriale; a Monte Sant’Angelo mi sono relegato quando vi fui sfrattato da
Foggia per la guerra nel 1943.
Di tutto questo dirò in appendice, augurandomi adesso di rimanere fedele al tema e parlare pluralmente degli altri, del « prossimo ».
Da giovanotto (1922) entrato nel movimento repubblicano sono per la
federazione dei popoli, alla Mazzini e alla Cattaneo. Quindi non ho più
concepito barriere, che non fossero geografiche.
Fin da ragazzo mi sono sentito legato alla gente umile, incontrandola nei
locali di mio padre, che era commerciante all’ingrosso.
Vi trovavo i vetturali, che ritiravano le merci, i marinai delle barche, che
trafficavano con Vieste, Bari e la Dalmazia, questa fornitrice soprattutto di legname, i « vastasi » (facchini che, singolarmente o a squadre, facevano la spola
tra le barche - o il piccolo piroscafo « Puglia » - e i carretti, tra questi e i depositi).
Erano esseri in movimento, dei quali, ragazzo, non potevo cogliere quella umanità commovente, che poi mi si sarebbe rilevata.
Mio nonno, mal consigliato, si era reso aggiudicatario di un fondo rustico in località « Pagliete ». Ad esso per molti anni rimase condizionata la serenità
della mia famiglia. Masseria malsana, lungi dalla via maestra, e raggiungibile solo
per un tratturo in servitù, infestata da zanzare, arvicole, pulci, erbe parassitarie,
mancante di acqua potabile, isterilita da lunghi periodi di siccità o di inondazione. Amara la terra, livido il paesaggio, stagnante e muta l’atmosfera: un invito
alla pazzia e alla morte. Imparai molto tardi a chiamare tutte queste cose con il
vero loro nome, ma ragazzo, vedendole tutte disegnate nelle carni
28
Mario Simone a colloquio con pescatori in pensione (Manfredonia – 1971)
29
di due poveri uomini, ne rimasi talmente conquiso, che posso attribuire proprio
a loro la mia giovanile vocazione populista, poi concretizzatasi nella partecipazione al movimento repubblicano (1921).
Tizio e Caio erano i fittuari della masseria. Il contratto prevedeva l’estaglio
in danaro, a pagarsi in breve termine, dopo il raccolto.
Il tema della « masseria », risuonava in casa poche volte come il tocco di
una campana a morte, che mio padre si sforzava di non udire. Eppure con quei
tocchi dal 1916 e per oltre 15 anni tirò avanti la mia famiglia, ché la piccola rendita agraria, con quella di alcune case, di mano in mano alienate, sopperì al danno prodotto dalla cessazione dell’attività mercantile, causato dalla guerra di
Trento e Trieste.
Ma più che di questo, oggi, mi piace parlare della mia inconscia vocazione per la causa proletaria.
Perché l’amaro, che arrivava in casa da quel desolato luogo, mi produceva sensazioni come quella che più tardi avrei ricavato dalla narrativa russa?
Quanto più mio padre malediceva « quella campagna », tanto più mi veniva di rappresentarla con tutti i suoi malanni e di amarla come avrei amato un
innocente condannato a soffrire.
Questo amore si acuiva in due circostanze: a Pasqua, con l’arrivo
dell’agnello, del formaggio e delle ricotte; a giugno, per regolamento dei conti.
E venne l’ora dell’atteso incontro, di maggio, verso il ‘19. Il calesse, era il
veicolo leggero e dalle grandi ruote, più idoneo al difficoltoso itinerario. Vi presi posto con Francesco, nostro cocchiere, e un mastro d’ascia per certe riparazioni a farsi, e dopo due ore mi trovai ad approdare innanzi l’edificio a un solo
piano, che comprendeva: la stalla per i cavalli e i carretti, il magazzino di
deposito degli attrezzi e delle semenze, il dormitorio della gente e si prolungava
con una tettoia, sostenuta da pilastri e chiusa in tre lati, che era il riparo delle
vacche e delle pecore, fienile insieme e deposito di letame.
Partiti col sole basso, arrivati verso le sette, l’atmosfera era ancora respirabile, ma tutto diceva miseria, desolazione e tristezza, dalla fabbrica, messa su
in economia e mal tenuta, al pozzo secco, con il boccale quasi a fiori di terra, al
pollaio colmo di stabbio, al riparo, vuoto di animali e invaso dalle erbe parassite, con i festoni di fuliggine, pendenti dalla tettoia, tesi tra i vani delle finestre e
finanche sulla porta d’ingresso.
Quando entrai nel dormitorio, che era la dimora dei fittuari (un lettaccio
con baldacchino e sporche tende in giro, per difendersi dalle zanzare), avendo
le gambe nude, me le sentii avvolgere come da un velo, erano le pulci, allevate
in luogo con generosità commovente.
TESTIMONIANZE PER FORMIGGINI
Trent’anni dopo la sua scomparsa, Angelo Fortunato Formiggini è ancora in piedi nel mio ricordo. Si consenta che lo rievochi nel bollettino che,
affidato alla mia consulenza grafica, riflette l’amore e l’arte
30
trasfusimi da quel loro maestro editore e papà della bibliofilia e bibliografia.
Non era pugliese. Di Malena figlio tenace e servizievole (famose le spiritose
celebrazioni tressoriane da lui organizzate con stile inimitabile), abbandonato la
toga cui non si prestavano le spalle, intolleranti degli onori della Giurisprudenza,
s’era fatto editore e, come tale, dopo una esperienza s’era insediato sul Campidoglio.
Era lì la sua « casa del ridere », editrice versata in cose, da cui presiedeva la
più fine condizione irrinunciabile di una vita interamente dedicata al godimento del
genere umano, se sapere è felicità e suo combattere è il leggere.
Amare gli Italiani a questa funzione! Non v’eran mezzi che bastassero, di
quelli usuali, forse sperimentati e certamente falliti. Sorse quindi una voce affidata
ad una rivista, « L’Italia che scrive » in sigla I.C.S., gaietta e robusta », che penetrata
subito tra editore e librai sboccò subito tra i lettori più refrattari e molti ne raggiunse lontano, eccitandoli non soltanto a seguire da vicino nelle sue colonne il moto
degli astri guidati dagli stampatori nazionali e forestieri ma anche innamorando a
quella scienza nuova da essa rappresentata e svolta, quale era la bibliografia.
Stanchi di liceo, senza nemmeno la possibilità di conoscere attività socio-educative e scolastiche, un compagno che aveva studiato a Napoli ed io reduce
dal foggiano « Lanza » ci esaltammo tra le pagine di quella rassegna che una volta il
mese ci recava in provincia le novità librarie sul filo di un discorso brillante per noi
nuovissimo.
IN TRIBUNALE
a Roma
Avevo il proposito onesto di svolgere una severa pratica forense, servendo
in tutto, anche nelle mansioni umili, un avvocato-docente; non ebbi la fortuna di
farmi adottare da qualcuno ben disposto a considerarmi e trattarmi da apprendista.
Senza dubbio influirono l’età (ho fatto gli esami di procuratore a 25 anni!), il
modo di presentarmi e tenere i rapporti sociali, la presunzione di essere pubblicista
o che so altro, un certo aspetto e comportamento professorale. Pur non sapendo
distinguere, forse, due requisitorie nei diversi riti, sommario e formale, frequentavo
tribunali e corti a fianco di maestri vecchi e non, con i quali si finiva col confondermi: Conti, Niccolai, Trozzi, Russo... e i giovani - diciamo così - de « I Rostri »:
Berdini, Liuzzi...
A darmi importanza concorsero le prestazioni, sia pur modeste, ai « Repertori » de « Il foro italiano », la rappresentanza nella capitale de « Il tribunale », diretto
a Napoli dal collega Gaetano Grimaldi-Fifioli, le edizioni dell’« Almanacco giuridico-forense » o « Lunario della toga » da me inventato.
D’altra parte mi suggestionavano le dimensioni e la sede princi32
pale (monumentale palazzo di giustizia a Piazza Cavour) dell'attività forense, i
piacevoli rapporti con molti suoi autorevoli esponenti, l'aspirazione di seguirne
le orme, sull'esempio dei veri maestri.
a Foggia
Da Roma a Foggia: un trauma. E' in provincia che ad un esordiente
giudiziario appalesa il suo vero contenuto, non avendo, per celarlo, i
paludamenti cittadini (nella grande « provincia » meridionale comprendo anche
il foro di Napoli, del quale è tipico riflesso Giovanni Leone).
« FIAMMA »
di Guido Guido
Una domenica del mio primo anno romano (1921), in casa di Alfredo
Petrucci conobbi lo scultore galatinese Gaetano Martinez. Anch'egli
antifascista, non fu difficile intenderci e volerci bene nell'aurea romantica della
Roma ottocentesca, che mi piaceva rievocare.
Dico meglio di lui al capitolo che gli s'intitola, volendo qui solo
occuparmi della Casa d'arte « Fiamma », dove mi introdusse, trovandovisi
allestita una sua « personale ». Occupava alcuni vani terranei di un basso
edificio in fondo a destra di Piazza Venezia, sull'area oggi occupata dall'esedra
verde, con la quale i competenti uffici capitolini eliminarono lo squallore che
cingeva il « Vittoriano », esaudendo, bisogna riconoscere, una delle sociali
ambizioni di Mussolini.
Geniale padrone di casa, era esperto di belle arti, Guido Guido, oriundo
foggiano, del quale avevo conosciuto alcuni congiunti: un capostazione in
servizio a Manfredonia, una brunissima ragazza e suo fratello, che
parteciparono alla nostra filodrammatica. Con lo stesso nome, « Fiamma »,
l'istituzione, che ospitava mostre individuali e collettive, pubblicava una
rivistina in funzione- delle sue attività artistiche e mercantili.
Nei primi tempi romani, adempiuti al mattino i doveri scolastici alla
Sapienza, trascorsi tutto il mio tempo libero tra gli uffici del PRI, la « Voce
Repubblicana » e quella Casa d'arte. Qui, sul tardo pomeriggio, si trattenevano,
o solo transitavano, artisti e belle donne, tra le quali appetitose modelle in cerca
di ingaggio, e studenti dell'Accademia.
Martinez era uno dei frequentatori più assidui; vi trascorreva lunghe ore,
taciturno, con l'aria imbambolata di chi non mangia ogni giorno e ad ora fissa, e
finisce col perdere l'appetito. Se parlava, la voce sottile, metallica e sincopata,
sorprendeva e la si stimolava ed eccitava, per l'ironia, che coloriva ogni
esperienza. Le donne più spiritose avrebbero voluto provarsi con
quell’eccentrico linguaggio, tutto salentino, tutto Martinez, che lo faceva
rimbalzare su se stesso, impietosamente. Ma era tipo che tagliava corto, un
riccio, che presto si ritirava, armando gli aculei, per isolarsi nella tristezza del
povero
33
ragazzo di provincia, quale sentiva di essere rimasto, nonostante le grandi
ambizioni.
In quell'ambiente, oltre che nel sodalizio di Alfredo Petrucci, nutrendomi
di arti figurative, integrai la mia educazione artistica che a Manfredonia si era
iniziata a contatto con le antichità sipontine (architettura e scultura
romanico-pugliese).
Non posso dir molto del Guida che, sempre indaffarato, mostrava di
non aver tempo da spendere in conversazioni con coloro che facevano solo
circolo nel suo locale, anche se concorrevano ad animare le sue manifestazioni.
Non ricordo nomi di frequentatori, sebbene ad alcuni di essi riesca a
dare volti e voci, come quelli dolcissimi di una vivace e laccata signora bionda,
che, rientrando a casa, si faceva accompagnare fino al portone di casa, per
godere il solletico dei bacetti, che mi aveva insegnato a darle nel cavo delle mani
di bambina.
LIBRI E CARTE: EREDITA' PAVENTATE
« Cambiamo casa » mi disse un giorno Vincenzo Tangaro « ho iniziato la
distruzione dei miei scartabelli, l'ossessione di mia nuora ». E un figlio di Piero
Delfino Pesce: « Le carte di mio padre? Sono nel suo studio così come le ha
lasciate. Nessuno di noi ha avuto il coraggio di mettervi mano ».
Su questo ritmo è il ritornello di quasi tutti gli eredi di coloro che,
essendo stati « qualcuno », hanno dubitato di essere fisicamente mortali e,
potendolo, non hanno dato una destinazione civile alle loro cose di cultura.
Ma vi sono casi molto più gravi, come quello delle figlie di uno scrittore
e famoso agitatore politico del Gargano, le quali insolentiscono ad ogni
richiesta di informazioni sul « de cuius », cui non hanno mai perdonato la
rinunzia per « i suoi strambi principi politici », alla posizione privilegiata che gli
spettava in paese, quale professionista.
Nel paragrafo dedicato a Giovanni Tancredi non mancherò, spero, di
ricordare la sorte toccata alla sua biblioteca. Dirò, frattanto, che anche egli
commise la ingenuità di morire senza aver assicurato un degno avvenire alle sue
raccolte, compresi i manoscritti inediti. Purtroppo egli non è stato l'ultimo della
lunga serie, che comprende tra i molti: Fioritto di S. Nicandro G., Del Viscio di
Vico G., Centoza di Cagnano V., Petrone e Caruso di Vieste, Del Giudice di
Rodi, Capparelli, Pascale e Bellucci di Manfredonia, Rosario di Ascoli S.,
Maurea di Chieuti, Cerulli di Celenza Valfortore, F. M. Pugliese di Cerignola,
Umberto Fraccacreta di San Severo, Serrilli di S. Marco in Lamis.
Ma sentite questa.
Verso il 1940 viveva a Napoli Pietro Panzini, il vecchio - e discutibile deputato repubblicano di Molfetta. Era stato discepolo e collaboratore di Luigi
Zuppetta, personaggio che mi aveva molto incuriosito soprattutto per la
storiografia; fino a quando non lo riesumai, pro34
muovendo le onoranze dalla nativa Castelnuovo della Daunia. Vecchio Panzini
era ospite di una nipote maritata a Napoli, quartiere Sanità. Costei, quante volte
bussai alla sua porta, trovava una risposta buona per licenziarmi: l'onorevole era
indisposto a letto o era uscito, fino a quando potè notificarmene il decesso. «
Ma che volevate » mi chiese l'ultima volta. « Potrei vedere i libri, le carte che ha
lasciato »? « Sicuramente, ma chi ha tempo di aprire la cassa, dove si trova tutta
la sua roba? ». « E la carabina del suo maestro Zuppetta » - « Proprio .ieri mio
marito l'ha portata allo stagnaro; si è rotta perché ci gioca il mio bambino »!
Ma questi non sono nemmeno i casi-limite, perché più gravi e scandalosi
« casi » potrei proporre a cattivo esempio, per indurre gli anziani a rivolgere alle
loro cose culturali quel rispetto, che meritano.
Non solo gli eredi di famiglia, ma anche quelli pubblici si rendono
colpevoli, a volte anche penalmente del cattivo uso fatto di cose loro destinate
in donazione o successione. E sarei per dire che con la loro responsabilità
concorre l'indifferenza della opinione pubblica, che nei nostri paesi lascia tutto
correre alla deriva, nonostante la presenza dei partiti, tutti bene alienanti nelle
loro beghe.
Questo mio sproloquio è rivolto a tre obiettivi: 1) a convincere gli
anziani che i loro beni culturali sono conquista della comunità, che pertanto è
in diritto di usarli quando vengono lasciati ad amministratori incapaci; 2) a
indurre gli enti (comuni, biblioteche, centri di cultura ... ) a sperimentare ogni
mezzo, per assicurarsi in via legale la destinazione ad uso pubblico delle
biblioteche, degli archivi, di ogni altra raccolta privata; 3) a vigilare perché,
raggiunti i primi due obiettivi. non siano abbandonati all'azione corrosiva
dell'ambiente.
IL FORO ITALIANO
Ero a Roma. Giulio Andrea Belloni mi procurò l'amicizia di Corrado
Perris, nostro coetaneo, di famiglia napoletana, trasferitosi a Roma (un fratello
era dirigente all'Istituto intern. d'Agricoltura che andava a rappresentare, anche
all'estero, come in Cina).
Giovane modernissimo, simpatico, aperto e colto tra i pochi esperti di
lingua e cultura russa e, come tale, essendo laureato in diritto, per lo studio
giuridico forense di Gennaro Escobedi e la sua grande rivista “ La giustizia
penale” , curava i rapporti culturali con l'U.R.S.S. e le rubriche di dottrine e
giurisprudenza sovietiche.
Debbo a lui, come a Belloni, la « cotta » per la gius-pubblicistica, che mi
avrebbe portato senza dubbio lontano, se avessi avuto l'ambizione della carriera
scientifica.
Perris era legato da rapporti amichevoli - non ho mai capito se centrasse
la politica -col dottor Carlo Sequi, giovane sardo che alla editrice del « Foro
Italiano » curava i repertori di giurisprudenza e di bibliografia delle sue
prestigiose edizioni. Factotum della editrice
35
era il comm. Carlo Scialoia, nipote del grande Vittorio; un uomo di prim'ordine,
per formazione morale e professionale. Fui ammesso in quella specie di
università del pubblicismo giuridico con l'incarico di « estrarre » le massime
delle sentenze penali, ordinarle alfabeticamente per voci, correderle di richiami
a precedenti giurisprudicati e bibliografici. Compenso: venti centesimi la
massima. Questa mia collaborazione risulta dai frontespizi dei due volumi, che
raccolgono i « Repertori del Foro Italiano degli anni 1936.
Nella primavera ricevetti la visita dello Scialoia. Seduto al mio posto
dietro il tavolo da lavoro, mentre arrotolava una sigaretta, puntandomi in viso
gli occhi che sembrarono sgranati sempre a sorpresa: « Lei ci tiene tanto a
questo suo diritto penale? Non accetterebbe per due tre anni la nuova cattedra
di diritto agrario in Sardegna? Mi impegnerei ad assicurarle l'incarico e la
definitiva sistemazione in Italia dopo il breve periodo di... esilio ».
Chiesi un termine: esaminai la situazione di famiglia, la inopportunità di
un trasloco nell'isola e la impossibilità economica di mantenere la casa a Roma;
ma sopratutto non riuscii a liberarmi dalla suggestione del foro penale, cui mi
sentivo incline.
Scialoia non insistette, ma non mi sentii più interamente degno della sua
amicizia e fiducia, che avevo deluso.
Così rimase in boccio il professore universitario!
LA MIA « FORMAZIONE GARIBALDINA »
(18-10-72 in treno per Napoli)
Mia nonna materna fu Teresa Salentini di Napoli, appartenente a buona
famiglia borbonica, imparentata con il Capocelatro: parlava francese e, come
tutti i « prossimi » alla real corte, beccava « Franceschiello » per la sua timidezza
di re e di marito. Conobbi due germani di questa donna vivacissima: un
Francesco, chiamato « Ciccillo » e una Virginia, vedova di . . . . . Lazzaro, . . . . . .
Ignoro perché queste due famiglie decadessero con l'Unità: se per cause
politiche o per la morte o la invalidità dei loro capi. Credo di poter fissare il
ricordo dei Lazzaro ai miei undici-dodici anni e descriverli così: la casa linda
con la suppellettile modesta, un salottino ove tutto era coperto da tende e
giornali; il ritratto di un personaggio barbuto, chiamato con rispetto ed orgoglio
« nostro padre ». In un lettino, difeso ai bordi da ringhiera - quasi culla anche
per le dimensioni - Virginia, la « mammà », molto vecchia, piccola piccola, rosea
e demente; tre figlie zitellone: Benita, Fedora (poi sposa e madre) e Ginevra
impiegata ai telegrafi.
Zio Ciccillo - 70 - 80 anni - si fermava spesso dai miei nonni per la «
tazzulella » di caffè, che sorbiva - sprofondato in poltrona dopo averlo versato
nel piattino. Come mia nonna, era molto faceto. Entrambi spiritosamente meglio dire « napoletanamente » - accu36
savano Garibaldi di averli rovinati, avendo aperto la via ai Piemontesi e… alle
tasse.
Di un altro fratello - Annibale - si diceva che, prima garibaldino, poi
tenente del Genio nell'esercito regio, mandato sul Gargano a fare strade, era
caduto per piombo di briganti. Ne scoprirà la tomba a San Marco in Lamis mio
padre il 1913.
***
Questi ricordi furono la prima eco per il mio cuore infantile che - a
differenza dell'epopea garibaldina, tutta freschezza giovanile, calore, musica e
movimento -non potè subito palpitare agli accenni familiari del « travaglio »
carbonico dei Simone al tempo dei moti liberali nel Mezzogiorno. Gargano
(1821 e 1848).
Ed eccomi conquiso dalle tavole del « Garibaldi », della Jessi Mario, oggi
raro, da noi posseduto prima che qualche amico, con la scusa del prestito, non
lo aggregasse alla sua libreria; eccomi nei frequenti viaggi a Napoli dai nonni,
ancora fanciullo, attendere vigile che si profilasse l'acquedotto di Carlo III detto
« ponti della valle » (di Maddaloni), per trovarmi puntuale a scattare in piedi
quando, oltre l'arcata aperto al suo passaggio, il convoglio rasentava la radura
col monumento ai Caduti nella battaglia del Volturno.
REPUBBLICANESIMO E PROLETARIATO
La iniziativa repubblicana concorde (sic) e si svolge col movimento
proletariato », ma se ne distingue: non mi spetta in questa sede delineare un
quadro del movimento operaio e contadino.
A Manfredonia la iniziativa repubblicana rinvigorisce con motivi culturali
l'organizzazione proletaria che ne è sprovveduta per la lontananza dei suoi
giovani promotori - Castigliego, De Marzo, Melucco-e per l'abulia di chi era
loro succeduto.
Elezioni 1921
1) Comizio Natali accompagnato fino alla Stazione campagna.
2) Celebrazione XX settembre. Pesce, X marzo 1922.
Uniche e sole manifestazioni rosse
Verifica insegnamento Mazziniano: col Popolo e per il Popolo
e intuizione legge politica esterna che quando casa brucia cessa l'accademia e
la sostituisce la costituente di tutti gli oppressi, affratellati dal dolore.
37
Dolore
prete!
Quale poteva ispirare e muovere i Repubblicani?
Non vi erano, tra loro, di condizioni servile.
Estrazione borghese, mercantile, artigianale, indipendenti. E anche un
Avevano da perdere, non da guadagnare.
Purtuttavia, oppressi dalle quotidiane manifestazioni periferiche, cioè
locali, dall'ordinamento statale imposto alle provincie; liberate e da Garibaldi
donate al Savoiardo caracollante a Teano, origine delle nostre nuove e non
ultime sventure.
Effetti della conquista piemontese.
Ulteriore degradazione della vita pubblica, dominata da gruppi di potere.
Pantano solo agitato dall'alito dell'affarismo e della conservazione.
Atmosfera irrespirabile, vita meschina di pettegolezzi, conformismo,
rinuncia-alienazione, analfabetismo, indifferenza verso la cultura.
Municipalismo più gretto.
PROCESSO DI POLITICIZZAZIONE
1)
2)
3)
-
Rivelazione degli obiettivi e degli strumenti;
Mobilitazione degli spiriti, per la loro acquisizione e utilizzazione;
Piano di applicazione e strategia di svolgimento.
Tecnici moderni, quali i raffinati marxisti.
Noi imparammo da Mazzini, Cattaneo e, per ultimo, Pisacane, che li hanno
preceduti e li sopravvanzano.
Per ciò non si rimase nelle nuvole e si applicò la cultura politica alla vita
municipale.
Inutili episodi.
ALL'INSEGNA DELLA COERENZA
Fummo corteggiati dal fascismo cerignolano, che aveva origini
romantiche e repubblicane.
Non passammo il ponte lanciatoci.
Lottando contro i municipali, guadagnammo come alleati anche i
Combattenti, che alla fine si eran dato un capo, preparato e volitivo.
Ma rifiutammo la proposta soluzione di un fronte unico e di una lista
unica, per la conquista del Comune, che si profilava sicura.
P. C. I.
Al tempo del C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale) il PCI ebbe a
Manfredonia un ispiratore e organizzatore in Federico Rolfi, uno della vigilia
comunista di Foggia, arricchitosi durante il fascismo
38
Mario Simone docente in un corso per animatori di biblioteche,
organizzato dal C.S.C. Società Umanitaria di Manfredonia (1970)
39
col duro lavoro di artigiano tappezziere e di commerciante (sarà selvaggiamente
criticato anche in documenti a stampa dall'ex-compagno, Romeo Mangano,
ferroviere, servitore dell'OVRA e, dopo il 25 luglio, furbescamente nominatosi
capo di una fantomatica centrale foggiana della Internazionale).
A Manfredonia era numeroso e attivo anche il Partito d'Azione, nel
quadro di una federazione provinciale da me organizzata, sulla base di sezioni e
gruppi, quasi in tutti i comuni dauni: tessere pagate nel 1944 circa 5.500!
Esponenti dei Partito a Manfredonia l'avv. Michele Lanzetta, il rag. Vincenzo
Bissanti...
Lanzetta, commissario e poi sindaco della Città, per temperamento e per
mancanza di tempo, sembrava tutto preso a ridurre sempre più la presenza
politica, facendosi assorbire dalle cure municipali, rese pressanti dal difficile
dialogo con gli Alleati.
Più volitivo e sensibile alle esigenze e ai problemi della organizzazione
era il Rolfi, che poteva permettersi certe « invadenze », che in diversa situazione
certamente non si sarebbe permesso.
Militava con noi azionisti il rag. Michele Magno, rientrato dalla prigionia.
Egli trovò in mezzo a noi alcuni bravi lavoratori che, allo scioglimento del
Partito di Parri, come lui avrebbero scelta la via più sicura del socialismo,
iscrivendosi al Partito di Togliatti, che rappresentava allora la logica della
situazione italiana.
Svanito in un mare di chiacchiere il Partito d'Azione, nauseato e
scontento (vedi « Partito d'Azione ») - pur senza cedere al « qualunquismo » mi dedicai esclusivamente alle cose di cultura, lasciando così indebolire i
rapporti personali con i vecchi compagni ed amici. Essi d'altra parte, non se ne
afflissero, curandosi ben poco di me, fino a mostrare di ignorarmi in tante
occasioni.
Falliti i tentativi di collaborazione con amici della sinistra popolare dovei
purtuttavia frequentare Luigi Allegato (vedi « Allegato ») e la « Provincia », della
quale curavo le edizioni, mentre a Roma, frequentando Montecitorio, ove feci
un lavoro agli « Studi Legislativi », potei incontrarmi alcune volte con Terracini
e Di Vittorio.
Assurto ad esponente e a parlamentare comunista di Manfredonia,
Michele Magno non mi negò mai la sua cordialità, quante volte c'incontravamo
in treno sulle strade di Manfredonia o di Roma. Mai, però, una conversazione
politica, mai una stampa che dicesse di lui o, almeno del suo partito.
Non dovei stentare, pertanto, allorché alla morte del grande proletario di
Cerignola, gli proposi di scrivere un articolo per « la Capitanata ».
GLI EVANGELICI
racconto di Borgomastro
Verso il 1929 si registrano le prime presenze di cattolici dissidenti. Si
trattava di lavoratori che, incontratisi in campagna con un
40
loro simile di S. Giovanni R., erano stati sensibili alla loro propaganda religiosa.
Quegli stessi lavoratori di Manfredonia si fecero zelanti diffusori delle
nozioni recepite, e riuscirono a formare un gruppo che si riuniva in casa per la
lettura e lo svolgimento dei sacri testi. Si firmarono così « riunioni » di
preghiera che, dopo una certa pratica autonoma, presero contatto con altri
gruppi di paesi vicini (soprattutto di Foggia) ove da qualche tempo agivano le «
Assemblee libere dei fratelli ».
Questi rapporti contribuirono a incoraggiare l'iniziativa di Manfredonia
che si andò sempre più sviluppando, richiamando in tal modo la considerazione
e l'intervento di missionari evangelici, che contribuirono a sostanziare di cultura
il movimento locale.
Verso il 1940 questo movimento, forse per insinuazione di elementi
fanatici di parrocchia, fu preso di mira dalla polizia, che lo qualificò senz'altro
come politico e antifascista.
Furono arrestati cinque uomini e tenuti in carcere otto giorni, nel corso
delle indagini, che si conclusero negativamente, per mancanza di prove.
(Nomi?)
Con l'arresto furono sequestrati libri di fede, quasi che ne potesse
scaturire la prova del dissenso politico.
In questa occasione operò l'Ente Morale (dei Fratelli) con sede in
Firenze.
BORGOMASTRO
Figlio di Ciro, con bottega di falegname in via S. Francesco, deceduto, il
1944, lasciando Michele, più grande, (studiava per geometra) che, abbandonata
la scuola, si mise al lavoro.
Compagni un colonello Adabbo (fratello del prof. Tommaso), Fabiano,
D'Andrea (sindaco). . .
Sposate le sorelle, lavorando e studiando la notte, licenza abilitazione
magistrale 1954, subito contabile cooperativa Sant'Abrogio, fondata dal fratello.
Primi 48 aderiti movimento evangelico, nella Comunità di circa 30-40
(una decina di famiglie).
Raduni in via Pasubio 64, casa del bracciante Murgo Lorenzo, padre di
12 figli.
1 maggio 1953 aperto luogo di culto in via Mozzillo Iaccarino n. 9, su
terreno comprato con risparmi lavoratori.
Longo Saverio di Poggio Imperiale, suocero di Borgomastro.
BIBLIOTECA DE' GEROLOMINI A NAPOLI
Inaspettato premio ai miei interessi fu l'ospitalità guadagnata dai pp.
Filippini nella sontuosa prisca sede cinquecentesca di via Duomo.
41
Il carissimo Don Mastrobuoni, a Napoli tanto conosciuto e riverito per
gli studi storici oltre che per lo zelo e la severità sacerdotali, mi presentò al
vecchio e nobile erudito p. Antonio Bellucci, che mi ammise a godere lunghi
periodi nell'appartamentino riservato di quella sede, con le finestre affacciatisi
sul grande chiosco folto di agrumi.
Credo che pochi « intellettuali » abbiano potuto godere del privilegio
allora concessomi, di inebriarmi al profumo delle zagare in un ambiente storico
e monumentale, legati al travaglio di Giambattista Vico, dei Filippini e di tutti
coloro che concorsero a edificare la mole destinata ad affidare ai secoli la
genialità della Congregazione dell'Oratorio.
Non sarebbe superfluo un cenno descrittivo delle opere, che
costituiscono il grande collegio e la grande Chiesa, che occupano una
rispettabile arca tra la detta via Duomo e il largo intitolato appunto ai
Girolomini.
Rimandando, per ora, a una qualsiasi guida, per la storia e la descrizione
della Biblioteca, la più antica di Napoli rinascimentale, dirò che quando mi
proposi di andarvi a trascorrere le mie ore di studio lo trovai affidato a un
cortese anziano signore alle prese con lo schedario antico, che aveva avuto
l'incarico di « rifare ». Mi resi subito conto della sua preparazione, costituita da
quell'abecedario nozionistico - e niente affatto pratico - che s'impartisce nei
corsi per la direzione delle biblioteche popolari, promossi dalle Soprintendenze
regionali bibliografiche, svolti in dodici o ventiquattro ore col contributo
ministeriale.
Ma come spiegarsi la presenza di costui in una biblioteca « nazionale »
come quella?
Per speciale « intrallazzo » il Ministero competente mette a conto dello
Stato tutte le spese inerenti all'Istituto, lasciando alla Congregazione il compito
di dirigere e curare i servizi a mezzo di suoi incaricati. Non sono stato tanto
indiscreto da indagare su questo meccanismo « straordinario », ma debbo
supporre che il Bellucci e altri padri, quali Borrelli, Spada, Ferrara, congregati in
quella sede, fossero titolari di funzioni bibliotecarie, che non sono mai riuscito
a constatare.
A quel buonuomo successero due giovani, implumi, anch'essi usciti da
uno di quei famosi corsi. La ragazza fu applicata alla schedatura - « sommaria,
per ora » (sic!) - il giovanotto fu addetto a rivoltare i libri negli scaffali, si che
molti di essi, perduta l'originaria collocazione segnata sulle vecchie schede,
sarebbero stati irreperibili fino a quando non sarebbero state inserite in
catalogo le relative varianti.
Sua cura da me ben distinta era quella di... sgusciare i periodici in arrivo.
Sorpresolo un giorno a questo lavoro, dissi: « Quante riviste! Ma perché non
destinate loro un tavolo, per la consultazione corrente? ». Rispose che tutto
quel materiale - e ve n'era, fatto fornire con i ben conosciuti criteri dal Ministero! -giorno per giorno veniva ammassato in un locale a piano terra, dove era
progettata la sala di lettura dei periodici (se ne attende ancora l'auspicata inaugurazione).
« Ma a che vale prendersi tanta pena » m'insegnava l'uomo delle
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pulizie della casa (solito comunista brontolone in attesa di una sistemazione
salariale) « questa biblioteca è solo un cimitero di grandi e piccoli morti, dove
una volta l'anno viene qualcuno a scovare, assistito da Padre Borrelli, quando
può allontanarsi dalla sua Casa dello Scugnizzo ». Forse vigeva uno speciale
regolamento (?!) che rendeva difficile i rapporti fra libro e lettore; forse era la
diffidenza suggerita dalle non lontane peripezie giudiziarie dell'Oratorio (un
filippino aveva fatto sparire alcuni pezzi della pinacoteca): certo è che anche a
me, ospite della casa e riconosciuto bibliofila, era difficile portarmi in camera
financo una edizione ottocentesca del Verne, per via delle « tavole » incise!
Un errore fondamentale del Ministero era il considerare quell'antico
istituto alla stregua di una biblioteca d'oggi, che pertanto alimentava con la
stessa sciatteria usata per le biblioteche popolari, invece d'organizzare un lavoro
« sui generis » in relazione ai fondi esistenti.
Perché non mettere su un catalogo descrittivo dei fondi manoscritti? La
presenza degli eruditi Bellucci e Borrelli agevolava questo lavoro.
Sull'attico dell'edificio trovavano alloggio gli studenti universitari, che
riuscivano a farsi accettare per efficienti presentazioni. Non si ponevano loro
condizioni diverse dal pagamento della retta. La massima libertà era lasciata
loro, senza che alcuno esercitasse la benché minima sorveglianza e tutela: non
erano infrequenti casi di vandalismo o di semplice monelleria, come la
inutilizzazione di un servizio igienico o un danno alla rete illuminante.
Inibita la promiscuità di sesso, non c'era modo di evitare che, acceduta al
primo piano, dichiarando al portiere di recarsi in biblioteca, una ragazza potesse
partecipare a un convegno non culturale. Ma questo non mi risulta mai
avvenuto, forse per la timidezza dei ragazzi, che ho potuto verificare,
indagando sui loro rapporti con la biblioteca, con il seguente risultato
approssimativo: L'l % vi era entrato una volta per conoscerla; lo 0,50% vi aveva
studiato, tutti gli altri ne ignoravano la esistenza!
TREMITI
La tradizione romana del diritto, della quale s'investivano e vantavano i
governanti littori, non suggerì mai un espediente, per alleggerire la spesa
pubblica nella amministrazione della giustizia. Si pensi al costo delle procedure
giudiziarie aperte per Tremiti, già colonia di galeotti e poi sede di confine
politico dal 1935 al 1943.
Non si contano le denunzie per questo o quel reato a carico degli ospiti e,
a volte, anche degli indigeni, quasi sempre definite con assoluzione o pene lievi.
Esse comportavano un continuo traffico di prevenuti, a mezzo di un vecchio e
piccolo piroscafo della Società « Puglia », lunghe detenzioni preventive ed
attese, a volte non brevi,
43
come in tempo di guerra, per il ritorno in sede. Senza contare le trasferte degli
addetti alla Pretura di Manfredonia (giudice, ufficiale giudiziario) per interrogatori e
notifiche. Eppure, sarebbe costato così poco disporre che fosse il Pretore a recarsi
sull'isola, per tenere udienze con un difensore di ufficio trovando sul posto un
ufficiale di governo idoneo a fare da pubblico ministero.
Ma non conveniva di più allo Stato evitare che s'imbastissero tante
procedure? E tutte le contravvenzioni alla « carta del confino » non si sarebbero
potute evitare sol che agenti e direttore della colonia fossero stati meno prevenuti e
sprovveduti?
Rievoco un esempio che vale per tutti.
Il confinato benestante Levi acquista un pollo lesso, che gli viene offerto in
piazza da una giovanetta. Poi che trattasi di compendio di un furto, Levi, in stato di
arresto, è denunciato per ricettazione. Tradotto a Manfredonia e da me difeso, è
assolto perché il fatto non costituisce reato. Non rientra a Tremiti, perché è accolta
la domanda da me suggeritagli e sostenuta dai parenti ricchissimi, di ottenere un
soggiorno vigilato in famiglia e viaggia così mezza Italia nel Nord, con grande
gaudio dell'agente accompagnatore.
Ho difeso quasi tutti i confinati, tradotti innanzi la pretura di Manfredonia e,
a volte, nel Tribunale di Foggia. Di alcuni conservo i fascicoli, ai quali rinvio.
Giudice era il dott. Roberto Perfetti di Ascoli Satriano, preparato, di sociali
sentimenti e antifascista, che vantava l'amicizia di Mauro del Giudice. Sarebbe stato
davvero un « buon samaritano » se disordini fisiologici e psicologici non lo avessero
fatto accidioso.
Questi umili, spesso immeritevoli, da me patrocinati non avrebbero mai
potuto raffigurarsi il mio impegno, senza limiti, nonostante fossi raramente e
modestamente retribuito, quando non ci rimettevo le sigarette. Alla maggior parte
dei colpevoli non si sarebbe potuto irrogare più di tre mesi di reclusione. Purtroppo
a volte la detenzione preventiva superava quel periodo, perché il giudice non era
stato sollecito a fissare il dibattimento.
Eppure l'ufficio vantava un cancelliere di eccezionale costume morale, di
profondo acume e di vasta cultura, il dott. Tommaso Aragiusto, unico e solo
funzionario in lotta continua ma sterile col pretore che, contraddicendo le sue
convinzioni, non sì comportava in modo irreprensibile (forse per accrescere l'odio
dei confinati contro il regime, osservava malignamente un avvocato, che faceva il
doppio giuoco).
VOCE REPUBBLICANA
Con questa testata il quotidiano del Partito Repubblicano Italiano condusse
la lotta politica a Manfredonia nel 1921-25. Dopo circa 50 anni la nostra città si
esprime autonomamente con una « Voce », tutta sua e per sempre sua: anch'essa
voce repubblicana, sebbene sia indipendente
44
dal P.R.I., perché della repubblica popolare sono assercoti convinti coloro che la
pubblicano.
Una voce che non è il chiasso di dieci o di mille persone, azzuffandosi per i
loro privati interessi o per sostenere servilmente una fazione. E' voce di un comizio
permanente, che vuol esprimere gli ideali, i bisogni, le istanze, le delusioni e le
speranze della intera comunità cittadina.
In questo coro è naturale, legittimo e indispensabile che si manifestino
opinioni, anche strettamente personali, che non coinvolgono alcun partito, e,
purtuttavia, vanno considerate come espressione di pratica politica, cioè attività
civica primaria.
Orientato a questi concetti, mi sembra doveroso apportare un contributo alla
chiarificazione delle idee, che ispirano il dialogo nel nostro contesto. Mi riferisco
alla presenza e alla funzione attuale del P.R.I. a Manfredonia.
Dal 1921 al 1925 il « partito storico » fu molto attivo a Manfredonia non
solo nella lotta antifascista, ma anche quale fattore di educazione politica; promosse
l'alleanza con le altre forze democratiche, tra le quali preminenti erano quelle
marxiste, alle quali non dimostrò di essere allergico. E fu, si badi, un'alleanza
morale, oltre che tattica, fondata sulla reciproca stima; direi una collaborazione «
fraterna », se l'espressione non potesse sembrare retorica. Quell'alleanza, che
avendo resistito sotto la dittatura, riprese a funzionare nel 1943, quando i vecchi
repubblicani, caldi della fiamma di « Giustizia e Libertà », collaborarono con le
forze popolari, prima nella strade, poi nel Comitato di Liberazione Nazionale.
Tutte queste cose furono ricordate il 26 dicembre 1971 quando la sezione
del P.R.I., anticipando l'anno del Centenario mazziniano (1872-1972), rievocò in
sede storica l'originario movimento repubblicano locale. Ma una più larga
documentazione è offerta dal Magno nel suo libro recente Lotte politico-sociali a
Manfredonia durante il periodo fascista.
A questa tradizione si richiamava e obbediva la sezione del P.R.I., quando
aderì alla Giunta municipale popolare partecipandovi con un suo rappresentante.
Chi ne stigmatizza la decisione, quale contraria all'indirizzo della direzione centrale,
trascura di considerare che, se fu una infrazione disciplinare, essa interpretò lo stato
d'animo generale della base repubblicana, insofferente della sterile partecipazione al
Centro-Sinistra. Non solo, ma superando le posizioni meramente intellettualistiche
(e classistiche?) dei « puri », realizzò la tendenza dei gruppi avanzati, verso
l'autogoverno delle forze produttive del Paese, finalmente libera dalla ipoteca
capitalistica. E fu anche coerenza ai precetti della scuola storica repubblicana, che
da Mazzini svolge tutti i teoremi della dialettica politica con l'evolversi del pensiero
di quel Maestro attraverso Cattaneo e Pisacane, Ferrari e Mario, fino al Quadro e
agli ultimi epigoni postrisorgimentali, che nelle prime organizzazioni di categoria,
crearono con spirito rivoluzionario le premesse dell'attuale
45
movimento operaio e culturale democratico.
Fu uno sbaglio la rinnovata alleanza repubblicana con le forze marxiste?
Essa non va forse considerata - e apprezzata - in relazione: 1) ai conseguenti
risultati locali raggiunti; 2) alla mutata politica del P.R.I.; 3) alla odierna diversa
valutazione da parte « ufficiale », del ruolo rappresentato dal P.C.I. nel Paese?
Riflettiamo su questi tre punti:
1) Partecipazione alla Giunta del P.R.I. - Essa ha significato anzitutto che gli
artigiani, i commercianti, i professionisti, i giovani che fanno parte del P.R.I.
sono rimasti fedeli all'insegnamento della storia, e all'esempio di coloro che con sacrificio di sé e a volte dei congiunti – con la loro alleanza affermarono
che l'immacolata bandiera della Giovine Italia risventolata nella « Settimana
rossa » di Ancona con tutto lo schieramento di sinistra del paese, compresi gli
anarchici, ben poteva marciare con quelle delle leghe proletarie a difesa e
affermazione dei comuni ideali umani e sociali. Ha significato, poi, la vitalità di
un'amministrazione realizzatrice, sinceramente aperta alla collaborazione con le altre
forze democratiche - come dimostrano tante decisioni adottate alla unanimità -,
e per ciò idonea ad attuare il precetto informatore dei decentramento e
dell'autonomia nel quadro della novazione regionale.
Non ha certamente coscienza politica ed è nemico del suo paese, l'uomo
qualunque che, in odio agli uomini dei partiti al governo - e non certamente per
coscienza politica - arriva a declinare « tutto per tutto: meglio di questi " rossi "
un commissario governativo, che è un funzionario al di sopra dei partiti ». La
sua è la psicologia di chi, purtroppo, è nato schiavo, ignora il prestigio che gli
viene dall'essere elettore, riunzia a pensare, a capire che cosa è la complessa
realtà che lo circonda e respinge il governo collegiale, invocando a comandarlo
uno solo a nome dello Stato, di quello stato che egli, uomo da niente, forse
tradisce in tanti modi, disobbedendo alle sue leggi. Ed è cieco e sordo, oppure
si benda gli occhi e si ottura le orecchie, per non ammettere i passi avanti che,
bene o male, si sono fatti.
2) Il P.R.I. boccia e smonta il Centro-Sinistra. Dopo averlo sostenuto in un
altro tentativo. Esso ha concorso ad eleggere l'on. Leone alla presidenza della
Repubblica, determina lo scioglimento delle Camere, e con lo slogan di La Malfa
fa credere agli Italiani che « questa volta si può ». Conta il P.R.I.,
evidentemente, su un mezzo plebiscito di voti, da parte delle categorie medie,
ma rimane deluso, perché gli manca la base, privo com'è anche della spinta ad
azionare una minoranza propagandistica « di rottura ». Risultato dell'infelice
operazione, che rivela anche la debolezza organizzativa del P.S.I. e l'isolamento
suicida delle sinistre extraparlamentari, è il vero fascismo della così detta «
Destra Nazionale ».
Qualcuno, dunque, sbagliò, ma non la modesta sezione di Manfredonia.
Logoratisi e non ricostituibili i rapporti di coabitazione e di amministrazione
con la D. C., condizionata da una centrale clerico46
artigianale, cadde ogni illusione di intrallazzo, coltivata da qualche « dissidente ».
La ricostituzione del Centro-sinistra ricevette la più ospitale sconfessione dal
nuovo corso politico autorizzato dal conservatore presidente Leone con il varo del
Governo Andreotti. Insegnò all'on. La Malfa e al suo stato maggiore quanto fosse
facile un esperimento come quello del Centro-destra, quando il corpo elettorale,
per l'anticipato e precipitoso scioglimento delle Camere, è chiamato senza la
opportuna preparazione psicologica e informativa, a pronunziarsi sulla situazione
politica e sull'avvenire del Paese.
Per concludere: se i dirigenti nazionali del PRI hanno finito col riconoscere
la impossibilità di collaborare con la DC, nessun dovere avevano ed hanno i
repubblicani sipontini di credere a una formula smentita e abortita al Centro!
A contestare la presenza dei repubblicani nella Giunta Popolare è
sopraggiunta la mutata valutazione della vocazione e disponibilità ministeriale
comunista nell'area parlamentare. Dopo la dura prova del Centro-destra, che ha
agevolato il crollo finanziario del Paese, indebolendone in stravagante misura la
resistenza democratica contro le forze eversive, non c'è motivo di allevare
l'opposizione del partito mondiale, che raccoglie il maggior numero di lavoratori e,
nonostante l'inesaudimento delle loro istanze, mantiene un atteggiamento pacifico e
conciliante, che non può non essere garanzia di ordine e di disciplina, mentre nella
piazza si ricompongono le membra spezzate dello squadrismo.
Ci sembra di aver detto cose di comune evidenza, in piena buona fede, con
l'animo aperto ai frutti della civile convivenza e con l'unico scopo di dimostrare ai
male informati e agli scettici, che la nostra situazione amministrativa, valida con la
maggioranza di cui fa parte il PRI, è anche politicamente e moralmente legittima.
Ma vi è una terza categoria di nemici irriconciliabili del buon senso, ai quali
va riservata una particolare ammonizione: sono i pasticcioni, gl'intriganti, i
pettegoli, i chiacchieroni, gl'insofferenti, e, non escludo certi romantici. Si credono i
depositari della verità e sol perché si trovano con l'avere in tasca la storia con le
loro elucubrazioni, di poter spaccare in quattro ogni situazione, di poter accampare
dei diritti, per sé e per i parenti; pretendono di far carriera nel partito, e anche se le
sue file sono appena sufficienti a dare un eletto al Consiglio comunale, osano
ipotizzare ipoteche per l'avvenire, minacciando di rompere il meccanismo, perché
nessuno se ne serve.
Tutto questo ci è stato esibito recentemente proprio in un ambiente dove,
per tanti motivi concorrenti, nessun contestatore si dovrebbe sentire autorizzato ad
alzare la voce, senza aver prima esaminata la sua posizione personale alla stregua
dei rigorosi canoni morali, o della sapienza politica e del costume, attribuiti della
divisa che oggi si ostenta.
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MAURO DEL GIUDICE
Lo conobbi al tempo del crimine Matteotti, vedendolo uscire un giorno dal
suo ufficio della Sezione di accusa al Palazzo di Giustizia a Roma. Era molto amico
dell'on. Giovanni Conti, che noi giovani amavamo riconoscere l'esponente verace
del repubblicanesimo di allora.
Rientrato in provincia nel 1933, solo più tardi appresi del suo «
pensionamento » e con il pretore di Manfredonia, Perfetto, mi proposi di visitarlo.
Ma mi feci troppo assortire da altre cure, nelle quali dispersi tante energie. Pertanto
risolse il nostro incontro al 1940, quando mi recai a visitarlo in Vieste, ov'era ospite
di un suo fratello. Era ritornato sul Gargano dopo tant'anni, dopo che, messosi in
pensione da procuratore generale, ufficio ultimamente esercitato a Catania, erasi
fermato alcun tempo a Roma, presso la signora Franca Brunoni (Viale Eritrea, 52),
che lo aveva ospitato essendo rimasto celibe.
Ma ci trattenemmo lungamente, come avrei voluto, a colloquio: suonava la
messa alla sua chiesa e vi andammo per una lunga scalinata. .Mi fece impressione
vedere quel vegliardo appoggiarsi a un bastone e a un ombrello, come un proletario
qualsiasi. Rientrati, mi fece vedere due diplomi cartacei dedicatigli ultimamente
dalla loggia foggiana « Giannone » del G. 0.
Un giorno Don Mauro fu prelevato dalla signora di Roma e sua figlia e morì
in quella città.
Lasciò al comune nativo libri e manoscritti, senza inventario.
Il marzo 1951 feci assumere le onoranze in memoria dalla Società Dauna di
Cultura.
Il 17 e 18 luglio mi fermai a Rodi per la ricognizione delle cose su dette.
Era sindaco il generale a riposo Ruggiero imparentato con i Petrucci;
segretario comunale il rag. Pasquale Queto, mi fu propizio.
Nell'aula, consigliare, senza chiusura di sorta, due grandi casse contenevano
quanto aveva costituito il patrimonio intimo del grande Garganico. Come altre
volte, quando giovanotto avevo scoperchiato a Manfredonia la cassa del «
quarantottista » Murgo, affondai le mie mani in quegli scrigni, sudando non solo
per l'atmosfera pesante e fetida della sala, ma anche e sopratutto per l'emozione,
per il privilegio del quale mi sentivo investito, di esplorare, per primo, l'aspetto più
geloso della vita di quel protagonista, ultimo pensatore di nostra terra.
Con la data 17-18 luglio compilai l'inventario dei manoscritti, che feci
chiudere nella cassaforte della segreteria.
Le onoranze sfumarono, nonostante un contributo di 30.000 lire del
Comune di Rodi, sindaco Moretti. Vocino, presidente della Società, pur essendo
entusiasta della iniziativa, non sollevò un dito per alleviare i miei solitari conati.
Per ovviare in parte alla nostra contumacia, del n. 1-2, 1970, prima parte di «
La Capitanata » (Foggia) ho pubblicato la monografia apparsa la prima volta il 1925
in « Studio giuridico Napoletano »
50
(Napoli) vol. XII. « Piero Giannone nella storia dei diritto e nella filosofia della
storia ».
Com'era doveroso, ho fatto seguire il testo da una lunga nota.
Nel nostro incontro di Vieste, ricevetti in dono il dattiloscritto dei «
Malfattori e benefattori della Giustizia nella vicenda di un secolo » con questa
dedica: « All'amico Mario Simone, per solidarietà nell'ideale repubblicano »
Vieste IX febbraio 1940, e un esemplare dell'opuscolo: « La legge penale nel
tempo » testi di diritto penale comparato (Napoli, 1882) con le aggiunte
autografe ad ogni pagina, destinata a una seconda edizione, una e l'altra
dell'opera mi proposi di fare una edizione d'intesa con in Consiglio dell'Ordine
degli Avvocati e Procuratori di Foggia.
Avrei voluto pubblicare « Malfattori e benefattori », e insieme l'opuscolo
stampato il 1950 del collega Scabelloni a Catania « li potere giudiziario al
cospetto del nuovo Parlamento », comprendendolo in « Quaderni di
risorgimento meridionale », col titolo « La giustizia tra due repubbliche
(1799-1948) » per le cure di Vincenzo Tangaro, del quale mi attendevo una
presentazione che, oltre a delineare la personalità dell'autore, commentasse il
testo. Ma questo mi fu restituito con le sole correzioni formali del dattiloscritto.
lo non potei corredare la narrazione critica e polemica, così com'era necessario
e doveroso. Il 1970 passai in composizione l'opuscolo « Il potere giudiziario ».
Avevo ricevuto il testo, emendandolo, e vi avevo aggiunto una documentazione
di eccezionale interesse: le lettere che il Del Giudice aveva indirizzato subito
dopo la « liberazione » al predetto Tangaro.
Il piombo di questo opuscolo è oggi (15-9-73) ancora « in piedi » nella
Tipografia Laurenziana di Napoli.
LA PUGLIA A ROMA
Verso il 1921, per slancio di un gruppo di corregionali, era viva in Roma
una Associazione Pugliese con sede prestigiosa nel Palazzo Marignali al corso
Umberto, sopra lo « storico » di Aragno. Ne erano maggiorenni elementi non
fascisti quali il dott. Chieffo, magistrato di Cassazione, il suo fedele rag.
Antonio Borgia, l'avv. Del Sonno (li si diceva massoni), gli avv. Majolo e
Melucco (socialisti)...
Con la marcia su Roma e la nomina a sottosegretario alle Poste dell'on.
Giuseppe Caradonna, questo fu chiamato a presiedere il sodalizio, per
adeguarlo alla nuova realtà politica, e vice presidenti furono creati l'ing.
Alessandro Carelli e il comm. Gaetano Petrucci, della direzione generale delle
Poste, che presto divenne il « factotum » del sodalizio.
Presentato dal fratello Alfredo, gli esposi un progetto di attività culturale
per valorizzare la nostra regione e non dovei attendere molto, per ingolfarmi in
un lavoro, arduo ma piacevole, che mi alleviò le
51
sofferenze, per la irreparabile crisi politica e, naturalmente, contribuì a distrarmi
dalla università e a farmi rimandare l'inizio della pratica forense (che oggi ritengo
indispensabile, alla formazione professionale di un giovane, che voglia fare sul serio
e per ciò non ingannare se stesso, la famiglia, la società).
Al mio exploit nel campo culturale, le attività sociali erano preminentemente
costituite da riunioni danzanti di ogni specie e da qualche conferenza: la sala di
lettura era dotata di numerosi quotidiani e periodici: letti i primi, appena sfogliati i
secondi, anche se riguardavano la nostra regione.
Tutta questa mia operosità, nonostante che fosse preminente alla superficie
(quella « vitale » era pur sempre il giuoco... sotterraneo!) costituzionalmente rimase
fino all'ultimo marginale, perché non mi furono mai dati una investitura e un
riconoscimento ufficiali, nonostante gli ampi poteri che gradatamente usurpai, fino
a essere considerato il segretario generale e l'esponente culturale del sodalizio.
Sono di quell'iniziale periodo alcune esperienze nuove, tra le quali molte
amicizie e la Mostra degli artisti pugliesi, ordinata da Alfredo Petrucci (1925).
Coinvolto alla sprovvista nell'impegno, nell'ansia, nella tecnica di quella
impresa; a contatto con artisti, artigiani specializzati, critici di arte e giornalisti, mi
esaltai e mi prodigai nella illusione pirandelliana di costruirmi quale personaggio.
Il 1926 dal Palazzo Marignoli ci trasferimmo in via di Torre Argentina n. 12,
dove curai numerose iniziative, registrate dalla stampa. Senza far spendere una lira
formai una raccolta di pubblicazioni regionali, ottenendole in dono da editori e
autori (sistema che oggi detesto, convinto della sua immoralità): opuscoli e libri che
solo pochi soci chiesero di leggere. Avendo trovato in libreria un fondo di libri
francesi, donati da un giuocatore reduce da Parigi, vi aggiunsi romanzi e novelle,
guadagnando molti lettori, in specie tra le ragazze. La distinzione di questi libri,
come dire, « profani » l'affidai a un consigliere, il buono e innocuo rag. Miccolis,
che volentieri se la faceva a sfogliare pagine con l'elemento femminile alla ricerca
del « libro interessante ».
Per le conferenze, al fine di presentare agli oratori una sala affollata, convinsi
l'amico Petrucci a consentire... quattro salti dopo il... sacrificio. Con questo
espediente potemmo assicurarci un uditorio che, oltre gli invitati e i soci « a livello
», comprese anche quel pubblico, che più aveva bisogno di penetrare nella cultura e
nell'arte di Puglia. Aprimmo la serie con l'autorità massima degli studi pugliesi,
mons. Nitti, al quale seguirono altre illustrazioni. Il prof. Federico Hermanin,
sovrintendente ai monumenti dei Lazio e degli Abruzzi, e direttore della Galleria
Corsini, succedettero sino al prof. Quintino Quagliati.
Ma non tutti i conferenziari si mostrarono consapevoli dei limiti che
imponevano anzitutto le loro stesse qualità espressive, e poi il
52
tema e l'ambiente. Di essi fu proprio il Quagliati a dover prendere atto quando,
fattosi chiaro dopo oltre un'ora di proiezione d'indole archeologica, nella sala si
contarono i soli « tenacemente intellettuali » rimasti legati alle sedie in generosa
attestazione di solidarietà.
Un apporto eccezionale allo sviluppo della mia «linea» culturale perseguita
nonostante la palese indifferenza dei «mondani» e degli invidiosi, mi venne dal dott.
Vito Reali di Tricase (Lecce), direttore-editore della « Rassegna nazionale di musica
», al quale debbo molto della mia educazione musicale.
Non si contano i concerti, individuali e collettivi, svolti nell'Associazione per
il suo autorevole intervento presso gli esecutori, a volte davvero autorevoli, quali il
Casella, lo Schipa, il Chiarozza...
E non furono trascurate le arti figurative. Il primo ad essere accolto e
festeggiato fu Luigi Schingo di San Severo, patrocinato da Alfredo Petrucci (lo
avevo conosciuto, ammirandone i paesaggi a pastello, che erano la sua prerogativa
di successo). Lo aiutai a montare nella sede sociale la sua « personale », lo misi in
contatto con esponenti del mondo romano, organizzai la vernice e l'inaugurazione,
un ricevimento e un pranzo in suo onore. Vendette molti lavori, alcuni dei quali
pagati a pronta cassa, mi promise in dono « Golfo di Manfredonia » del quale mi
ero innamorato e che oggi attendo ancora.
Un altro da noi « valorizzato » fu il pittore Pastina, del quale conobbi un
giorno il figlio, vice provveditore agli studi in Foggia, ma la rassegna lasciò freddi,
nonostante la presenza in effige e in carne ed ossa di Edy, la giovane modella dagli
scandalosi grandi seni a forma di cono.
E venne fuori, rivistina mensile illustrata, « La Puglia a Roma », dalla
copertina montata da Alfredo con gli stemmi delle cinque provincie della regione:
direttore il vice presidente Gaetano Petrucci, redattore capo il sottoscritto, e
intelligente, bravo, paziente tipografo il socio cav. Armellini, della provincia di Bari
(Tip. dell'Urbe, via Vittoria Colonna n. 27); assiduo frequentatore in finanziera
dell'Associazione, padre di una delle più belle signore, che la infioravano.
Perché ci si possa rendere conto della validità culturale del mio lavoro anche se la sua influenza fu irrilevante, a causa della limitatissima diffusione -,
riproduco in appendice il sommario dei nove numeri pubblicati.
La collaborazione ottenuta e i consensi guadagnati incoraggiavano a
sviluppare la iniziativa, ma fu soffocata dal consiglio di amministrazione, non
appena che da una disavventura estranea alla sua carica nel sodalizio, Gaetano
Petrucci se ne dovette allontanare.
Anche in questa impresa non ebbi che aiuti marginali dai consoci: non da
Peppino Modugno, vecchio compagno nel PRI, assorbito oltre che dall'ufficio,
dalla pubblicazione di « La Puglia Letteraria », uscita anche con la mia
collaborazione; non dal prof. Salvatore Mininni, insegnante al « Massimo » giovane
preparato e volenteroso, ma che purtut53
tavia perdeva il suo tempo a pavoneggiarsi, limitandosi a scrivere qualche
recensione.
Chi alla rivista e all’attività culturale in genere si mostrava del tutto
indifferente, era proprio il Caradonna, che, per temperamento e per prassi di vita,
considerava la carica tenuta solo per quel margine di vantaggio, che poteva dargli la
presidenza del sodalizio rappresentativo della sua regione. Essendo notorio che,
tutte le altre consorelle di carattere regionale, quella nostra ospitava una sala da
giuoco, il margine già abbastanza modesto, si ridusse a una mera ipotesi di prestigio
quando Mussolini adottò l’equivoco provvedimento di sopprimere i sodalizi
regionali di Roma, con i quali si affermavano velleità campanilistiche, che egli si era
incaricato di deludere, col senso unitario dello Stato accentratore, burocratico e
livellatore.
Non ricordo se fu in quella occasione o per altre cause, che l’ambiente
ducesco tentò, senza riuscirvi, di schiudere al Caradonna la carriera diplomatica,
destinandolo a rappresentare l’Italia a . . . . . (la manovra fu sventata, ma per sempre
il comandante delle squadre d’azione Appulo alla marcia di Napoli e di Roma di «
emarginato » e non ritornò alla ribalta nazionale fino alla sua « leggendaria »
evasione da San Vittore, subito dopo scomparendo.
L’Associazione andò sempre più deteriorandosi. Dovette lasciare la sede di
Torre Argentina e andò a finire al ghetto, a Piazza Cenci, nel famoso che fu questa
famiglia, ove ci fu amico il fantasma della dolce parricida, deliziandoci degli effluvi
di Piperno, il maestro dei filetti di baccalà in padella.
Il consiglio di amministrazione aveva così decretata la fine del sodalizio. E’
risibile apprendere che tra i provvedimenti diretti a salvare le finanze, si annoverò la
soppressione della rivistina, che pure rappresentava l’unica testimonianza di vita, di
ideali e di prestigio dell’A s soci azione. Vale la pena consegnare alla storia le
generalità dei galantuomini, autori del bel gesto: presidente comm. dott. Giuseppe
Mastropasqua, del M.ro alla P. I., com.. rag. Carella, cav. Fortunato.
A Torre Argentina, collateralmente al periodico, pubblicai « Alfredo
Petrucci, Pittori pugliesi dell’800: Domenico Caldara » (con quattro illustrazioni). Il
frontespizio recava, presuntuosamente, tra l’altro : « Quaderni Pugliesi diretti da
Mario Simone », cui seguiva nella pubblicitaria: « Seconda serie », con riferimento
alla prima, che nel 1925 avrebbe aperta la prima con « Manfredonia e il Gargano »
(vedi voce).
Questo quaderno gravò solo per poche lire sul bilancio sociale, essendosi
utilizzato per il testo il piombo della rivista; purtuttavia come questa parve urtare la
suscettibilità dei dirigenti, che mi pregarono di soprassedere, come fu fatto.
STUDIO EDITORIALE DAUNO
Un modulo per la iscrizione al registro della ditta presso la Camera di
Commercio di Foggia (Consiglio dell’Economo - verificare):
54
Riccardo Ricciardi
55
tutto qui l’apparizione a Foggia dello Studio Editoriale Dauno intestato a mio
padre Antonio.
Non fu ordinato un programma culturale, né un piano finanziario; non
vi fu una riunione di amici perché l’iniziativa avesse un decollo più appariscente
da una base di consensi e di auspici.
Era mio intendimento raccogliere la tradizione tipografica della
Capitanata, svolgerla con moduli moderni, creare una editoria « dauna » quale
fatto di cultura al servizio della mia Terra.
Le circostanze vollero diversamente e lo Studio esordì con i connotati di
una editrice giuridica, pubblicando la rivista « La Corte d’Assise », recante i tre
nomi dei promotori e redattori: l’avv. Vincenzo Lamedica, direttore, il
procuratore del re prof. Cocurullo e Mario Simone.
Se fossi stato meno ingenuo, cioè un tantino avvocato, avrei «
manovrato » in modo che il... triumvirato si identificasse con lo Studio
Editoriale e lo amministrasse: in tal modo, gli avrei assicurata una veste
giuridica e un’attività meglio spiegata nello spazio editoriale e nel tempo.
Improvvido come sempre, mi... « buttai a pesce » nell’impresa col
risultato finanziario di rimetterci le piccole spese personali e quello morale di
sapere da nessuno considerato il valore della editoria da me creata.
Ancora oggi, dopo quarant’anni, nell’esame critico del libro è raramente
considerato e tanto meno discusso il dato editoriale. E’ facile intuire, dunque,
come sfuggisse all’attenzione del mondo giuridico-forense e, soprattutto,
dell’ambiente di una provincia, come la nostra, dove contenuti e forme delle
pubblicazioni « locali » erano ancora arcaici, come documentano i... palinsesti
del tempo.
Le prime maggiori prove dello Studio Editoriale Dauno furono, dunque,
« La Corte d’Assise », i « quaderni » e la « biblioteca omonima ».
I primi raccoglievano i contributi apparsi nel periodico (estratti), la
seconda i testi, a cominciare da « L’ingiuria e la diffamazione » del Cocurullo,
stampata bene dall’avv. Massimo Frattarolo a Firenze, dove da Lucera aveva
trapiantata la sua famosa attività tipografica.
Oltre queste collane giuridiche, il 1940 venne fuori la « Biblioteca del
Risorgimento Pugliese ».
In un periodo nuovo dello Studio vanno considerate le mie prestazioni a
favore del Consiglio provinciale di Capitanata, che nel 1955 mi chiamò a
riordinare e stampare i suoi atti deliberativi dal 1952. A far invitare lo Studio,
cui purtuttavia, l’incarico ebbe il crisma della gara, fu il segretario dell’Ente,
dott. Luigi Basso, e non per favoritismo ma, com’ebbe a dichiarare, perché solo
per le mie cure si sarebbe potuto ottenere la revisione degli originali, compilati
in una lingua qui e là un po’ approssimativa.
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PRO-MEMORIA AGLI INTELLETTUALI DAUNI
... di nulla preoccupati fuori che di sostituirsi in una nuova gerarchia di
privilegiati per razziare nei residuali beni spirituali ed economici della nazione.
... li conosciamo questi martiri da carnevale, questi eroi della sesta giornata
questi frodatori della pubblica opinione. Rintanatisi il 28 ottobre, hanno a lungo
svernato nei comodi «fifaus» dell’antifascismo scudato, non esitando a trafficare
all’ombra del Littorio. Oggi ritornano alla luce con la pelle del vittorioso leone,
quasi che il 25 luglio segnasse l’inizio di una rivoluzione o almeno di una ribellione
in 180 da essi promossa e attuata, e non un oscuro colpo di Stato del quale
possono attribuirsi le cause soltanto per quel tanto di collaborazione che
prestarono al fascismo, aiutandolo a raggiungere l’estrema antitesi che ne aiutò la
caduta.
E’ ritornato il tempo dei programmi politici, degli appelli, degli esami di
coscienza, e delle decisioni.
Per venti anni i nostri uomini di cultura, inquadrati nel partito e nei sindacati
del regime totalitario non hanno avuto altro dilemma, ma innanzi a loro:
collaborare o non col fascismo.
In massima parte lo hanno risolto con una negazione, ma sia gli attivi che i
passivi si sono adagiati nella situazione « comodamente » col proposito comune di
non farne niente, e niente infatti facendo.
I collaborazionisti, tali non per spirito politico, ma per « opportunismo » non
riuscendo (in buona o mala fede) a prendere sul serio nemmeno le funzioni loro
affidate, non hanno mai sentito il dovere di formarsi una cultura fascista. Gli altri
non ne hanno avvertito nemmeno il bisogno, convinti che di cultura fascista non
fosse nemmeno a parlarne.
2) Ma al di là della collaborazione e dell’opposizione al fascismo, gli uni e gli
altri, si sono trovati tutti d’accordo su un punto dove si è saldata la tradizionale
apatia degli intellettuali del Sud: l’ostracismo agli studi politici e sociali.
3) Non si tratta qui di far loro un processo, per il quale io non ho certamente
l’entità di giudice, né mi sento di far da pubblico accusatore.
Come potrei, del resto(?!). Essa mi porta a ricercare tutte le attenuanti
possibili a farne di questa categoria che non possiamo chiamar borghese come
classe, perché ad essa specialmente in questi ultimi tempi sono confluiti tanti figli
del popolo lavoratore: ma che senza dubbio è « borghese », per mentalità e come
borghese ha purtroppo pensato ed agito nei venti anni che l’abbiamo attentamente
seguita.
E questa ricerca non è difficile sol che siamo tutti d’accordo sul fallimento
dello Stato italiano creato dalla truppa piemontese ai danni del popolo delle
provincie annesse prevalentemente di quelle meridionali.
Volersi fermare al fascismo per attribuirgli tutte le colpe del57
l’attuale disastro d’Italia sarebbe infatti ingenuità imperdonabile. La politica
monarchica che culminò con la resa alle squadre d’azione ha una storia che tutti
possono facilmente conoscere sol che lo vogliano. Fu essa, per fermarci
all’Italia meridionale, che isterilì le forze rinnovatrici della Rivoluzione italiana
che avevano redento l’Antico Reame della ignominia barbarica; essa che lasciò
insoluta la questione sociale delle nostre provincie tanto fervide e attive nei
moti del Risorgimento che seminò la corruttela nella nostra classe borghese e
deviò le più intemerate coscienze della loro missione civile.
Com’era fatale, nell’ambiente squisitamente « cafone » della provincia,
mortificato da una economia primitiva e chiuso alle correnti vivificativi delle
idee, gl’intellettuali, anche quelli più svegli finirono con l’adagiarvisi,
contribuendo ad aggravare la situazione col politicantismo e con l’agnosticismo
più deleteri.
Queste due forme di partecipazione alla vita pubblica dei nostri
intellettuali si riprodussero dopo la prova redentrice.
Pochi uomini di cultura, in verità, si convinsero che i tempi nuovi
richiedevano vita nuova, ed elevarono la loro voce per dire una parola di vero al
popolo disorientato e sofferente. 1 più, quasi che la guerra forse trascorsa
invano sulla scena del mondo, si rigettarono nei personalismi e campanilismi o
si misero alla finestra, e finirono con l’accogliere il fascismo come un mezzo
più facile per raggiungere i loro obiettivi egoistici o come un nuovo spettacolo
che si spiegava alla loro esperienza.
Qui non posso esimermi dal rispondere a una domanda che potrebbe
essermi facilmente rivolta: « Che cosa si sarebbe potuto fare »? E dico subito il
mio pensiero. Ai collaborazionisti era offerta l’occasione di renderci molto utili
al loro paese, attraverso le cariche e gli incarichi ad essi assegnati con iniziative
culturali che avrebbero potuto prendere e sviluppare anche con aiuto del
partito.
Agli assentisti nessuno proibì mai di dedicarsi agli studi e di svolgere
tutte quelle altre attività sociali dirette al progresso morale e culturale del
popolo.
Gli uni e gli altri invece si astennero da ogni fatica intellettuale « tirando a
campare » fino quasi all’annullamento della loro personalità che essi
rinunziarono ad affermare.
Quali doveri sociali conferisce infatti a noi la cultura? Indubbiamente
quello, sopra tutti gli altri, di volgerla a profitto morale e materiale del popolo
prima che nostro.
Ed è appunto questa funzione sociale, e non il privilegio naturale ed
economico di aver conquistato un titolo di studio, che ci eleva sull’affarismo
(utile anch’esso, indubbiamente, ma non nobile) del negoziante; che ci autorizza
ad indicare al popolo la via della sua elevazione di farsi interpreti e assertori
delle sue esigenze e dei suoi diritti.
Chi non compie questo principale dovere è dunque in difetto con la sua
missione, colpevoli, se pur con tutte le attenuanti, sono
58
coloro che in venti anni intellettualmente poltrirono.
A tanto avevo interesse di giungere, per giustificare questo frettoloso « promemoria ».
Gli intellettuali non hanno bisogno più di un lungo discorso per intendere
l’imperativo dell’ora. Ancora una volta essi sono di fronte a gravi responsabilità che
impongono sollecite e risolutive decisioni.
Essi non vorranno certamente ripetere gli errori passati, che questa volta
non troverebbero attenuanti.
Il Paese, attende da essi tutto quanto da essi è lecito pretendere: sincerità di
propositi, idee chiare, azione intellettuale a servizio degli interessi collettivi,
dedizione suprema al dovere.
Indubbiamente, restituito come le altre di Puglia alla sua missione civile,
anche la nostra provincia entrerà tra breve nel movimento ricostruttivo della
Nazione. Gli uomini di cultura son chiamati pertanto a costituire le nuove gerarchie
che i partiti esprimeranno liberamente.
Necessità, dunque, s’impone, di meditare sui casi d’Italia e al lume della
storia e delle dottrine, dare un ideale e un programma alla propria attività sociale.
Una volta si poteva scegliere un partito secondo le utilità personali da esso
offerte senza molto arrossire dell’opportunismo che sacrificava la coscienza, ed era
un suicidio morale ed un delitto di lesa Patria. Oggi questo delitto sarebbe anche di
lesa umanità, perché dal sangue dei popoli di Europa sorge una civiltà nuova alla
quale l’Italia deve dare un alto contributo.
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