Jelena Banfichi Di Santo
La Casa in pietra grigia
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ISBN 9788867520022
Ideazione grafica: Piergiorgio Leaci (Interrete A. L.)
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In memoria del M° A. B.
Hai vissuto la collana di giorni infiniti
nel buio.
Non vedevi più la cavalcata di albe pallide,
sere infilate di rosso, notti trapunte.
Accettavi il silenzio buio con docile remissione
come un discorso già sconfitto,
anche se avevi paura.
Ma, ora si son accese le lucerne,
i muri sono caldi come in una conchiglia;
grovigli e cascate di musica,
perle sfilate dalla collana,
languidi cori celesti, che
ti fanno compagnia.
Non ho bisogno di chiedere niente per te
al Signore!
Ti ha teso palma calde, concave come nidi
per i tuoi passi sigillati
di stanchezza.
Non ha senso il marmo freddo sulla terra,
con le solite bugie che consolano i vivi.
La primavera scriverà in eterno
un’epigrafe con fiori alla tua memoria.
E io so che a te basta.
A noi Signore, sì, ti prego
dona a ognuno la sua parte:
raccogli le colpe, togli le consolazioni ambigue,
pietosi inganni e rancorosi silenzi,
dacci parole lucide, giuste e vere,
a ogni attesa il suo ritorno.
JBDiS – 1972
I luoghi di questo racconto sono reali, mentre le possibili
somiglianze a dei personaggi, esistenti o esistiti, sono del
tutto casuali.
Premessa
Ho impiegato anni per scrivere degli avvenimenti che
hanno attraversato il periodo dal 1940 al 1968. Se avessi
proceduto con cautela nella scelta dei racconti, eliminando
quelli meno incisivi, non sarei riuscita a entrare nella Storia.
E questa storia, come tutte le storie non è sempre
avvincente, come può essere un racconto costruito per
attirare l’attenzione di chi lo legge. Poiché tutto ciò non è
fiaba, non potevo nemmeno scegliere quali invenzioni
narrare e quali omettere. Sono tutti nella stessa maniera
significativi per comprendere una parte della nostra Storia,
quella jugoslavo-croata, che coinvolse tanti destini personali.
Sono rimasta per moltissimo tempo in contemplazione dei
fatti reali prima di decidere di comunicarli in quanto
esperienze di un’identità collettiva, nella quale solo certi
nomi sono fittizi, volutamente, vicino ad altri veri che non
saranno cancellati dal tempo perché importanti. La
decisione, poi, di scrivere in prima persona, mi ha aiutata a
condurre la narrazione dal punto di vista del dopo-avvenimenti;
una libertà necessaria perché ho scritto per un bisogno
interiore.
Per molti anni questo è stato il mio modo di vivere, per
riappropriarmi della realtà.
Queste pagine sono una storia romanzata di vita vissuta.
Non è il caso di cercare in essa spunti autobiografici. Non
ho scritto una saga familiare, ma raccontato storie umane. I
luoghi sono autentici, veri, eccezionali, in me profondamente
impressi, molto amati. I tempi sono i nostri. I personaggi
sono di passaggio. Non esprimono sentimenti, passano.
Esistono come luci che illuminano luoghi indimenticabili. La
loro vita è nei comportamenti che non giustificano mai.
Fanno quello che ritengono opportuno secondo la propria
coscienza e una visione d’ordine tra gli individui. Il lettore
non potrà mai dare loro ragione o torto, entrare con loro in
sintonia o disapprovazione.
Però, avendo conosciuto le loro storie sarà raggiunto dal
loro spessore umano. Se esiste una cosa che si possa ritenere
valida, è perché prima di essere scritta e fissata nel tempo, è
stata vissuta. Non ha importanza da chi. E poi, se
raccontando fatti importanti e a volte anche drammatici ho
cercato di farlo con una certa leggerezza, è stato per
trattenere nel racconto i rari momenti di vita possibilmente
meno penosi.
I. La Casa in pietra grigia
La Casa in pietra grigia. Solida come una fortezza, cinta
da mura alte, spesse. Protetta. Costruita a metà della collina
di Gojava, in una posizione riparata dalle sferzate di bore
invernali, calate dalle pendici dinariche e aperta ai benefici
venticelli delle stagioni miti. Affacciata sul porto, sulle Isole
Spalmadori e su due promontori: Capo Croce 1 con poche
ville nella pineta a sud e Majerovica 2, con il grande bosco di
pini marittimi a ovest, che fanno da cornice alla chiesa
medievale Veneranda, oggi anfiteatro, allo stabilimento
dell’ampio bagno comunale di pietra bianchissima delle cave
di Brazza3 e alle belle residenze estive dei ricchi ebrei lungo la
costa frastagliata.
Sulla collina di San Nicola, con le antiche case contadine
dai tetti spioventi, e oltre i pini e i cipressi verde scuro
intenso sulle loro sommità, è nascosto il piccolo e antico
camposanto. Sul declivio verso la riva e la piazza si snoda
Burak, l’abitato dei pescatori con stradine strette e ripide
scalinate, che raggiungono sul pendio sinistro il Chiostro dei
Francescani.
Sotto la collina di Gojava il campanile dell’antica chiesa
sconsacrata di San Marco delinea i vigneti terrazzati tra la
roccia di Santa Catarina e la pineta.
La Casa in pietra grigia fu costruita nella metà del
Cinquecento sulla parte bassa dell’ampio agrumeto,
immediatamente fuori delle antiche mura cittadine che,
imponenti, scendono dall’alto della Fortezza Spagnola fino
all’odierno Palace Hotel. Ai tempi della Serenissima questo
palazzo, con la Loggia e la torre quadrata dell’orologio di
fine architettura veneziana, fu la dimora del Doge. Le mura
cittadine cingono Groda, il borgo medievale di bottegai e
artigiani, tra la cattedrale di Santo Stefano e la vasta piazza, la
più grande piazza dalmata. La solidità e l’imponenza della
Casa in pietra grigia e delle sue altissime mura di cinta senza
aperture né feritoie intorno al cortile anteriore, in mezzo a
piccoli fazzoletti di orti digradanti verso l’insenatura Bok e
l’ampio giardino sul retro, sono dovute al fatto che è stata
costruita fuori dalla cinta muraria della città. Infatti, quando
l’ansa di mare dinanzi alla cattedrale di Santo Stefano fu
colmata, completata con palazzi signorili e trasformata
nell’odierna piazza, la Curia vescovile decise di costruire la
Casa fuori delle mura. La Casa di un influente prelato non
poteva che essere imponente, massiccia, confortevole e con
quella vista mozzafiato.
Alla Casa si giungeva attraverso un’ampia scalinata in
pietra bianca di Brazza, costeggiando il giardino terrazzato
del Palace Hotel che si arrampicava dalla darsena per le
piccole imbarcazioni dei pescatori, Mandrač4, e sorpassava il
Park Hotel. Un antico portone in legno massiccio dipinto di
verde scuro, con il batacchio in ferro battuto, chiudeva
l’accesso al cortile, protetto da un insormontabile muro di
pietra grigia, uguale a quella della Casa. Il cortile, lungo
quanto la facciata principale, inglobato tra le terrazze
affacciate sui giardini sottostanti, era ingentilito da due rose
rampicanti in efflorescenza tutto l’anno. Ramificate rose con
grandi, profumate corolle dai colori sorprendenti: dal giallo
paglierino all’arancio sgargiante, dal rosa pallido al rosso
cupo, sanguigno. Oltre le rose disposte al bordo della
terrazza, era ordinatamente sistemato, in alto verso il sole, il
pergolato di uva moscato. Con i suoi chicchi oblunghi,
turgidi, di colore giallo oro, profumatissimi, lasciati al loro
sostegno naturale fino alle prime piogge invernali, dava la
sensazione di una prolungata estate di San Martino.
Addossati al muro del cortile, arbusti con larghe foglie
coriacee, palmate e grappoli di fiorellini rosa cipria che
sembravano smaltati, tappezzavano generosamente le lunghe
aiuole. Non ricordo di aver mai visto altrove piante così;
ormai estinte, probabilmente. Solo di recente scoprii una di
queste piante, dal nome a me sconosciuto, sopra una vecchia
tomba abbandonata nel camposanto cittadino sul colle di
San Nicola.
In fondo al cortile una ripida scala in pietra,
sormontando l’antico arco, saliva sul ballatoio e proseguiva
collegando la terrazza al giardino dietro Casa. Sulla parte
interna della scala, cuscini pendenti di infiniti piccolissimi
fiori bianchi di lippo, simili a chicchi di riso, tra le foglioline
scure e carnose, in fioritura oltre le brine mattutine di Natale,
alle quali resistevano riempiendo lo spazio del corrimano in
ferro battuto.
Dalla terrazza e dalle finestre dei tre piani alti si apriva
una magnifica vista sul porto, sul canale e sulle Isole
Spalmadori. Simili a un avamposto sull’orizzonte verso
Lissa5; quest’ultima scura nella foschia blu violacea, come
una imbarcazione immobile, mistica.
Il giardino sul retro della Casa era ugualmente cinto da
alte mura sui tre lati verso il declivio della Fortezza e aperto
sul dirupo verso mare. L’agrumeto e gli altri alberi da frutta
da sempre destavano invidia per la loro abbondanza e
varietà; due vecchi contorti alberi di fico con i primi grandi
fioroni di San Pietro e la seconda maturazione agostana di
piccoli fichi verdastro-gialli con la goccia zuccherina, sempre
carichi; grosse susine rossastre, sode ciliegie nere, albicocche
dorate, melograni spaccati al sole, robuste aspre mele
cotogne sui rami piegati dal peso, piccole pesche, tonde,
gialle, simili a minuti soli, dall’odore inebriante nell’estate
inoltrata. Quello stesso indimenticabile odore che spesso ho
cercato nei vecchi orti riparati e in mezzo ai vigneti. Alberi
che più tardi ho piantato nei giardini delle mie case in luoghi
diversi. Un soffice manto, ricamato di immacolati petali
caduti dal vecchio mandorlo, in primavera ricopriva le
chianche dell’uscio sul giardino, il tavolo e le sedie in ferro
smaltato. Le violette, in un gioco di ombre e sole,
tappezzavano una striscia di terra sotto il muro. Due
antichissimi carrubi con i rami appoggiati sul basso muro
verso il mare, con resistente, coriaceo fogliame, facevano da
barriera naturale alla salsedine del forte scirocco invernale
che si spandeva dall’imboccatura del canale tra Capo Croce e
l’isoletta Galešnik6. Una parte del giardino coltivato a orto e
la bassa costruzione in pietra, ricovero per gli animali
domestici, erano nascosti da due arbusti di rose rosse con
grandi fiori multistrati e da una rosa bulgara di colore rosa
intenso a ripetuta fioritura. Molto profumata, destinata alla
marmellata di petali, rara e molto apprezzata. I viottoli
dell’orto oltre le piante aromatiche erano bordati da
un’infinità di bianchissimi gigli di Sant’Antonio, iris blu e
gialli, candide calle, fresie. Tutto in un colorato miscuglio
dopo la sfioritura in febbraio dei narcisi, con le loro corolle
avorio e il cuore intenso giallo, abbondanti ad ogni angolo.
Dal grande portone del giardino sormontato da tre
altissime, sottili palme, si usciva sulla stradina sterrata in
mezzo ai vigneti, alle poche case e ai piccoli curati orti. La
Casa in pietra grigia, con il suo cortile, la terrazza, il giardino,
chiusa come una roccaforte. Un voluto, eccezionale rifugio
rispetto a tutto quanto accadeva al di fuori delle sue mura.
Casa che, probabilmente, ognuno di noi dovrebbe avere.
Protezione fisica e psicologica.
L’interno della Casa era suddiviso tra la parte di
rappresentanza e quella privata. Non risulta che, dall’epoca
del vecchio canonico, abbia durante i secoli subìto alcun
rimaneggiamento. Il tempo le è stato clemente. Non l’ha
danneggiata, ma conservata. Ciò era dovuto alla sua solida
costruzione, all’accurata scelta dei materiali e alla continua
manutenzione. Anche dopo centinaia di anni continuava a
rispecchiare la moderna concezione di confortevole dimora
dell’erudito prelato, amante delle belle cose, dell’arte e della
letteratura, come confermava la grande biblioteca
cinquecentesca. In quei tempi solo un ecclesiasta colto
poteva possedere una biblioteca con una tale quantità di
libri.
Alla fine del Settecento, come lascito della famiglia del
vecchio canonico, la Casa passò in proprietà della Curia
vescovile. In tempi successivi era sempre stata abitata da
preti e seminaristi, per cui non cambiò nulla del suo
originario aspetto. Anche il magnifico, curatissimo giardino,
concepito e in seguito sempre mantenuto nel suo splendore,
era opera degli ecclesiasti. L’unica trasformazione avvenne
nella metà degli anni ‘30. Su ogni piano, una stanza cambiò
destinazione e divenne un grande bagno con l’antibagno.
Lavoro di non semplice esecuzione considerando l’antico
tipo di costruzione in pietra con soffitti a cassettone e il
pozzo nero all’esterno, in fondo al cortile sotto un antico
arco.
Sorpassando il portone d’ingresso si accedeva alla Casa.
Dopo il vestibolo c’era l’ampio salotto con due porte
affacciate sul cortile. I muri del salotto erano rivestiti di
legno in pino biondo. Il soffitto a cassettone appena un po’
più scuro, uguale agli infissi delle porte e ai pavimenti a
doghe, era dello stesso legno dell’antica biblioteca, costruita
a tutta altezza sulla parete divisoria con il tinello-cucina
collegato dall’ampia vetrata scorrevole. Anche questo
ambiente era rivestito nella stessa maniera del salotto,
probabilmente per diventare, secondo necessità, un unico
spazio.
Oltre la preziosa, antica biblioteca, in salotto troneggiava
il grande pianoforte a coda. Un lungo arrotondato divano e
delle profonde poltrone erano tappezzati di tessuto
damascato color verde oliva, con tavolini angolari costruiti
nello stile della biblioteca. Il lampadario di cristallo boemo
veniva poco usato. Magnifici lumi a petrolio in ceramica
faentina, invece, si accendevano quando la centrale elettrica
toglieva la corrente. I lumi a petrolio davano un aspetto
particolare a tutto l’arredo e alle persone, morbido, soffuso.
Nei grandi vasi di cristallo sfaccettato si deponevano, di
solito, profumatissime rose raccolte in cortile. Nelle ciotole
di uguale manifattura si intrecciavano spighe di lavanda e
foglie d’edera bicolore. Un odore di lavanda persistente
dominava in tutta la Casa. I muri erano impreziositi da
dipinti ad olio con scene di caccia; bellissimi cani, carnieri
debordanti di cacciagione: lepri, quaglie, pernici con i loro
sguardi fissi e un po’ inquietanti, corbezzoli giallo-rosso
maturi, piccole verdi mele selvatiche, fiori ed erbe medicinali.
Gli antichi tappeti floreali dell’Anatolia, spessi, ricoprivano il
pavimento e attutivano tutti i rumori.
Nell’adiacente tinello-cucina la maggior parte dello
spazio era riservato alla grande cucina a legna, smaltata in
bianco, con la caldaia e le staffe in acciaio sempre lucidissimi.
Sulla parte opposta era sistemata la credenza a tutta parete,
con le eleganti porcellane dietro il vetro smerigliato. In
mezzo risaltava il massiccio tavolo rettangolare con il ripiano
in marmo bianco a sottili striature grigie. Sotto la finestra lo
spazio era occupato dal tavolino da tè con il grande
apparecchio radio. I mobili di colore avorio erano costruiti
su misura da un artigiano-artista, come d’altronde tutti i
mobili della Casa. Le poltroncine con sedute, spalliere e
braccioli rivestiti di ruvido tessuto a trama robusta color
bordeaux, erano opera di un tappezziere venuto dalla costa
dalmata. Le vaporose tende, lavorate all’uncinetto, davano la
sensazione di un’estrema cura e attenzione all’ambiente
destinato alla vita familiare quotidiana, essendo l’unico
riscaldato durante i mesi invernali.
A questi vani seguiva la cucina estiva, vasta, funzionale,
da sempre considerata adatta a quella stagione.
Probabilmente il grande pozzo d’acqua piovana scavato nel
suo sottosuolo aveva fatto presumere che sarebbe stata un
luogo gradevole durante le torride, afose giornate estive.
Non fu mai così. Dotata di un vasto camino e di un
mastodontico forno a legna, con una larga canna fumaria in
laterizi forati che riscaldavano i locali del pianterreno, si
dimostrò un ingegnoso ed efficace sistema di riscaldamento
indiretto sia per le stanze adiacenti alle sue pareti dei due
piani superiori, che per il sottotetto mansardato. Il bellissimo
camino, acceso dai primi umidicci giorni autunnali fino a
primavera, troneggiava in quella cucina e ne faceva un
ambiente molto apprezzato dalle persone, ma anche dai cani
e dai gatti di Casa, sistemati sotto l’alto forno sulle loro
spesse stuoie di lana grezza. L’antico camino, aperto sui tre
lati intorno al largo focolare di mattoni refrattari, era
racchiuso da levigata pietra bianca, uguale a quella dell’antica
corona del pozzo, del lavapiatti scolpito a mano e delle
basole della pavimentazione. Il camino sormontato da
massicce travi annerite in centinaia d’anni di uso, con i
barattoli delle spezie in ceramica bianca, rimase sempre il
fulcro della Casa. Una piattaia a tutta parete, con il vasellame
in ceramica decorata a mano e stoviglie in rame lucidato, era
appesa alla parte superiore della robusta credenza bassa con
la ghiacciaia incorporata. Il grande tavolo da lavoro nel
mezzo, con sedie impagliate, poteva ospitare una ventina di
persone. I mobili robusti del tipo campagnolo erano
verniciati dello stesso colore verde scuro usato per infissi,
portoni e imposte all’esterno, rustici, indistruttibili.
Due scale interne accedevano al primo piano, una dalla
parte del vestibolo e l’altra dalla cucina estiva. La scala
esterna, invece, collegava con un largo corridoio la terrazza
prospiciente al giardino dietro Casa. Le tre stanze del primo
piano erano da sempre camere da letto. Tutte e tre spaziose,
con soffitti a cassettone, pavimenti di legno chiaro, finestre
con apertura a vetri e persiane affacciate sulla terrazza con
tralci di rose rampicanti. La prima, cosiddetta stanza glicine,
con mobili bianco panna, le trasparenze rosa pallido violetto
della carta da parati e della tappezzeria, un soffice tappeto e
copriletto in tinta, tende in pizzo vaporoso, riproduzioni ad
acquerello delle antiche collezioni botaniche di rose, era
elegante nel suo aspetto e nella cura dei particolari. In
mezzo, la stanza padronale con mobili color miele in legno
di ciliegio, lineari, quasi spartani. Impreziosita da trapunte
damascate, copriletto ad uncinetto, uguale alle tende. Sui
comodini lumi a petrolio in vetro ambrato, cornici in argento
con belle foto-ritratto. Ai muri dipinti ad olio con soggetti di
marine in burrasca e tramonti violacei, surreali.
E l’ultima, la stanza verde, improntata sul colore verde
acqua pallido, suggestiva e rarefatta. Simile a un paesaggio
lacustre. Immobile e rassicurante nella propria tranquillità.
Dal pianerottolo del primo piano la scala proseguiva ai
piani superiori. Al secondo piano era sistemato lo studio
della musica con il piccolo pianoforte verticale, l’antico
scrittoio, il leggio, le scaffalature per le partiture e libri di
musica. Intere opere di Verdi, Puccini, Mascagni e altri autori
italiani, spartiti di musica per l’orchestra, i grandi romantici
tedeschi e francesi, compositori russi, le più belle pagine
sinfoniche, concerti per pianoforte, trasposizioni per gli
ottoni. Una ricchissima biblioteca. Spazio per appartarsi, per
dare lezioni ai molteplici allievi, per comporre in silenzio. Le
due stanze seguenti servivano per gli ospiti, anche musicisti,
spesso presenti.
Nel sottotetto, nella parte anteriore, con gli alti lucernari
incassati nei muri spioventi della mansarda, c’erano le stanze
dei domestici e il grande locale spazioso, rustico, con il
camino aperto su tutti i quattro lati che dava la possibilità di
affumicare le carni di pecora secondo una tradizione isolana.
Alla metà degli anni ‘30, scoperta l’eccezionale capacità di
un ebanista artigiano giunto sull’Isola per caso, furono
ordinati molti lavori nella Casa. Dapprima il rifacimento
degli antichi mobili della cucina estiva, massicci, rustici,
indistruttibili, nello stile delle case dalmate di campagna con
l’aggiunta della bella credenza bassa con la ghiacciaia. Si
continuò con i tavolini angolari adatti alla biblioteca
cinquecentesca del salotto e, grazie al validissimo lavoro di
un tappezziere spalatino, si rifecero il grande divano e le
poltrone. Alla fine sono stati costruiti i mobili del tinellocucina e delle stanze al primo piano. La risistemazione della
Casa in pietra grigia durò un paio d’anni. I mobili erano
studiati nei particolari. Unici, armoniosi, adatti alla sobrietà
dell’antica costruzione della Casa: levigati, di fine fattura, con
rilievi, eleganti arabeschi di tralci e foglie stilizzati, preziosi.
Agli inizi degli anni ‘40 la cittadina non superava i mille
abitanti, prevalentemente pescatori e contadini, un paio di
bottegai, un oste, un macellaio, un calzolaio, qualche
impiegato comunale addetto al catasto e pochi notabili: il
vescovo, il canonico, il Sindaco anche medico, il farmacista,
l’ex giudice proprietario terriero, il finanziere, il maestro di
scuola elementare italiana e il maestro di musica, dirigente
dell’Orchestra Municipale di strumenti a fiato, da tutti
semplicemente chiamato Maestro, che nel dialetto isolano si
trasformava in meštar7. I notabili si frequentavano con una
certa assiduità. O per meglio dire, tutti regolarmente erano
ospiti della Casa in pietra grigia. In parte per l’indubbio
carisma che esercitava Maestro. Il suo fascino derivava dal
fatto che fosse lo straniero approdato dall’Italia. I signorotti
isolani consideravano, infatti, quest’ultima il mondo colto, per
via dei loro antichi legami con la Serenissima durante il lungo
dominio sulla Dalmazia, quando ricevettero molti privilegi e
subirono la latinizzazione dei propri cognomi. Tutti bilingue,
il croato e un simil veneto, amanti della cultura, della
letteratura e della musica italiane. Nel frequentare la Casa in
pietra grigia, oltre allo snobismo, era, considerata unico
luogo cittadino di un certo spessore per la cultura che si
respirava, personaggi stranieri che si incontravano e per il
tipo di intrattenimento. C’era un ulteriore motivazione da
non sottovalutare; l’inusuale cura della cucina, personalizzata
con estro e fantasia, al di là della solita tradizionale dalmata
altrettanto apprezzata.
La Casa viveva in modo particolarmente frenetico
d’inverno, durante la stagione della caccia. Maestro era
considerato il migliore cacciatore sull’Isola. Si spingeva
lontano, lungo i sentieri delle valli oltre il paesino Brusje 8 a
est e Grablje9 a sud. Si tratteneva con i contadini, dai quali
era ospitato con molta simpatia e garbo. Le storielle e i
fantastici aneddoti delle sue ricche battute di caccia
circolavano tra il popolino accrescendo, da una stagione
all’altra, la sua fama e considerazione di provetto cacciatore e
amabile signore straniero che si esprimeva in uno strano
miscuglio di idiomi e frasi. I notabili si ritenevano privilegiati
nell’essere ammessi agli indimenticabili pranzi della Casa e
nel godere dell’accurata preparazione di quaglie ripiene, lepri
salmistrate, pernici in agrodolce, grossi funghi di bosco
arrostiti alla brace, insalatine dell’orto, ossia piatti non in uso
tra gli isolani. Il corposo vino color rubino dei vigneti sulle
pendici a sud di Vrisnik10 era conservato e custodito, da una
vendemmia all’altra, nelle botticelle di rovere e travasato
nelle panciute damigiane impagliate, per essere, ogni festività
offerte dagli allievi musicisti al loro Maestro, in segno di
riconoscenza per la fatica con la quale li introduceva all’arte
del suono. Imparare a suonare uno strumento avrebbe dato
loro in seguito la tanto agognata possibilità di entrare a far
parte dell’Orchestra Municipale. I premi conseguiti in Patria
e all’estero nelle competizioni per bande musicali di ottoni, e
i successi riscossi durante più decenni, erano il vanto e
l’orgoglio di tutta l’Isola.
Prima di Natale la caccia era all’apice. Motivo di
maggiore aggregazione e frequentazione tra gli amanti della
nota buona cucina della Casa. Nei giorni prima delle festività
natalizie Maestro si inoltrava fino alle baie più impervie e
solitarie, lontano dalla presenza umana. Tornava con i
carnieri carichi di cacciagione. Al ritorno dal lungo vagare
per boschi, anche Lilla e Lola, i cani di Maestro, appagati
dalla giornata movimentata e dal compito eseguito nel
rincorrere e riportare la selvaggina, si accucciavano tranquilli
nell’angolo, al riparo dal continuo viavai dei domestici in
quei giorni festivi.
Una settimana prima della vigilia, Rocco, il tuttofare con
la gamba di legno, sistemava nel grande camino il massiccio
ceppo di pino che rimaneva lentamente a bruciare durante
tutte le festività. Si iniziava la preparazione della cacciagione:
lepri salmistrate, salse al pepe rosa e castagne per il ripieno
delle beccacce; odori forti, persistenti, gradevolmente
speziati, mescolati all’odore di resina liquefatta del tronco nel
camino, si depositavano sui muri della Casa, nel cortile e
oltre.
Su un angolo del tavolo da lavoro nella cucina estiva si
sistemava lo spianatoio, tirato giù dal muro sopra la
ghiacciaia, dove rimaneva appeso quando non era in uso. A
Natale si impastava il pane di farina bianca, senza aggiunta di
crusca. Molto più bianco del pane di tutti i giorni. Si
confezionavano i dolci. Il profumatissimo kugluf; una
ciambella piena, alta, a lungo miscelata e lentamente lievitata
al tepore della cucina riscaldata giorno e notte in quella
settimana magica prima della Natività. Il kugluf faceva parte
del rito natalizio della Casa. Il composto di molte uova, latte
e burro, profumato con zucchero vanigliato e scorza di
limone, sistemato nei tondi, ondulati stampi di rame per una
seconda lievitazione, cuoceva lentamente nel forno a legna.
Si ritirava soffice, dorato, profumatissimo, debordante dagli
stampi. Con il suo aroma riempiva l’aria fino alla strada. I
kugluf, deposti in fila sotto una candida tovaglia, rimanevano
in attesa degli allievi musicisti di Maestro e di altri ospiti.
Oltre al kugluf, si confezionavano croccanti di zucchero
caramellato, mandorlato con miele di rosmarino, crostate
con marmellate di rosa bulgara, biscotti, panpepato al miele e
cannella a forma di piatte bamboline, tanto amate dai
bambini, la cotognata nelle formelle a stella, fiore o ferro di
cavallo. Dolci destinati a tutti quanti si recavano a porgere gli
auguri il giorno di Santo Stefano.
Ma il dolce natalizio per eccellenza rimanevano le
morbide, piccole, tonde frittelle profumate al maraschino,
vaniglia e scorza di arancia, dorate nell’olio profondo e
arrotolate nello zucchero a velo. Una ghiottoneria della
tradizione natalizia dalmata, di probabile origine veneta.
La settimana prima della vigilia si aprivano i massicci
bauli borchiati e si tiravano fuori le belle tovaglie ricamate
delle grandi occasioni. Nelle giornate soleggiate, terse da
pungenti bore come di solito sono quelle del dicembre
isolano, si lavavano e si stendevano inamidate al vento nel
giardino. Le ritiravano ancora umide e profumate di erbe
aromatiche: salvia, maggiorana, rosmarino.
Il giorno della vigilia iniziava già all’alba con un gran
fermento. Nel camino il ceppo di pino continuava
lentamente a bruciare. L’odore della cacciagione alle spezie e
gli aromi dei dolci proferivano una sensazione di benessere.
Si terminavano le ultime accuratissime pulizie di tutti gli
angoli della grande dimora. Le chianche della cucina estiva si
sbiancavano con il sapone al profumo di lavanda prodotto in
Casa. I pavimenti di legno a doghe si sfregavano con robuste
spazzole di crine. L’acciaio della cucina a legna si lustrava e
lucidava a specchio.
Nel salotto i tappeti erano rinfrescati con ammoniaca
altrettanto profumata di lavanda. I lumi a petrolio si
ripulivano. I vasi di cristallo colmi di rose dell’ultima fioritura
sui tralci nel cortile. Sulla grande tavolata si stendeva la
tovaglia di fresco stirata, liscia, bordata da ghirlande d’edera
e fiorellini bianchi di lippo, soliti a fiorire oltre Natale. Si
tiravano fuori i sottopiatti d’argento, bicchieri di cristallo
Baccarat, posate con il piccolo stemma a rilievo. Ad ogni
angolo erano appoggiati cesti d’argento con mandarini e
arance appena raccolti nel giardino dietro Casa. Il
pianterreno si riscaldava e illuminava a giorno nel primo
calare delle ombre crepuscolari. Tutto rimaneva sospeso, in
attesa.
Verso le diciannove c’era l’arrivo dei primi ospiti: il
vescovo, il parroco, il Sindaco medico con moglie e tre figli,
il farmacista e signora, l’ex giudice proprietario terriero con
cognata vedova e nipote, il finanziere con la sorella nubile, il
maestro della scuola elementare italiana con famiglia, qualche
ospite illustre dell’isola di Curzola11. Una ventina di
commensali e cinque, sei bambini, compresi i figli delle
donne del paese, di solito presenti durante le festività come
aiuto in cucina, ma anche ospiti. Gli uomini, di fresco
sbarbati, impomatati, un po’ rigidi, non abituati alla cravatta
e al panciotto. Le signore con i migliori vestiti delle feste e
certe spille fantasiose che colpivano la mia immaginazione.
Mi sembravano simili a uccelli appoggiati ai loro
prorompenti busti, sacrificati nei corpetti poco adatti alle
loro abbondanti forme. I bambini, liberi dall’obbligo del
posto a tavola e tenuti a bada nella cucina estiva dalle donne
di servizio, si divertivano a giocare sulla paglia del presepe e
con la statuina lignea del bambin Gesù. Donne e bambini,
rumorosi e allegri più del solito consentito, facevano pensare
a qualche bicchiere bevuto di nascosto o di troppo. Insieme
ai bambini, anche i cani e i gatti di Casa con sguardi attenti
seguivano l’insolito trambusto e continuo movimento.
La grande cena della vigilia, con un ricco menu sistemato
con fantasia nelle belle porcellane color avorio bordate di
spighe dorate di grano su vassoi d’argento, usciva dalla
cucina estiva. Si iniziava con le uova di quaglia su letto di
asparagi selvatici, fegatini di pernici con crema di pisellini in
crosta, sfoglie di pasta arrostita con sugo di lepre in
agrodolce, beccaccini ripiene di prugne secche e crostini di
pane bianco, cuori di carciofi con purè di fave, pernici
ripiene di castagne, funghi di bosco alla brace, insalate
dell’orto in vinagret. Le portate si accompagnavano con il
vino rosso rubino e il rosato muschiato di Vrisnik. E per
terminare, sorbetto di menta e limone. Infine i dolci, tanti, di
mandorla, al limone, al cioccolato, ai frutti del giardino.
Sparecchiata la grande tavola, finalmente arrivavano le
enormi coppe trasparenti con le profumate fritule, piccole,
tutte uguali, tonde, dorate e arrotolate nello zucchero
vanigliato. Si svuotavano e continuavano ad essere riportate
piene. Un’orgia di frittelle, attese tutto l’anno, generosamente
accompagnate dal dolce prosecco di uva passa seccata al
sole, proveniente dai vigneti dell’ex giudice, proprietario
terriero.
Alla fine del rito delle fritule, i bambini ormai esausti si
addormentavano sulla paglia. La messa in cattedrale a
mezzanotte, per i bambini assonnati, era un momento da
eludere. La notte fresca e l’aria frizzante però, li svegliava
presto e metteva loro addosso nuova euforia.
La gente arrivava in cattedrale alla spicciolata. I canti
iniziavano timidi e si sviluppavano lentamente, sempre più
compatti e sonori. Il grande organo riempiva la navata di
suoni arcaici e di canzoni tradizionali. Finiti i canti di rito,
Maestro intonava all’organo un pianissimo di Bach o di
Gounod, oppure semplicemente un’aria di Leoncavallo o
Cherubini e la gente nella maestosa cattedrale si appiattiva
sui banchi, in silenzio assoluto, come in una preghiera.
Iniziava così il concerto di Natale che la gente, ormai da
moltissimi anni, riceveva in omaggio per le festività da
Maestro. L’incanto di quei suoni non finiva con lo
sbriciolarsi delle ultime note sul sagrato della chiesa, ma si
liberava sopra la piazza e oltre, verso il mare. La solennità di
quegli accordi rimaneva a lungo nell’aria fredda ma ancora di
più nei ricordi dei presenti. Ogni anno, da tantissimi anni, la
gente con sempre maggiore affetto era riconoscente a
Maestro che, attraverso i propri virtuosismi, offriva suoni
magici e l’immaginazione di un mondo diverso che con la
musica aveva portato nel microcosmo isolano.
Il rito augurale alla Casa in pietra grigia aveva luogo già di
buon’ora il giorno di Santo Stefano.
Il pellegrinaggio iniziava con gli auguri dello
spazzacamino Iorio, poi arrivava il vecchio postino Sibe,
proseguiva lo spazzino Luka e continuavano gli allievi
giovani e i musicisti attempati che, dai paesini interni
dell’Isola, portavano i doni della loro terra e del mare. A
piedi raggiungevano la città e rientravano estasiati con i dolci
della Casa: il famoso kugluf dorato, il panpepato per i
bambini e altri piccoli dolci.
II. L’avvento della guerra
Con l’avvento della guerra i personaggi che
frequentavano la Casa in pietra grigia cambiarono. Tra il ‘41
e il ‘43 arrivarono sull’Isola le truppe italiane con i loro
ufficiali eleganti nelle nuove divise, accompagnati dalle
consorti in un certo modo insolenti, rumorose, costrette in
un abbigliamento che su di loro perdeva l’originaria eleganza
della nota sartoria di Spalato dove era confezionato.
Impiccione, si aggiravano per Casa mettendo il naso
dappertutto, stupite di trovare, su un’isola sperduta in mezzo
al mare, cultura, storia, signorile accoglienza, misura.
Presenze fisse erano i parenti italiani di zia Marica 12: il
comandante regionale delle truppe occupanti il Paese che,
dall’arrivo, aveva sistemato la propria famiglia nella Casa, il
posto più confortevole e sicuro, lontano dai possibili
bombardamenti che flagellavano la costa dalmata e ormai
anche Spalato, dove c’era il comando dell’esercito italiano. Il
comandante, sua moglie, sorella di zia Marica, e i loro tre
figli adolescenti, avevano letteralmente invaso la Casa. Non
solo avevano occupato le stanze destinate agli ospiti, ma tutti
gli spazi, senza particolare riguardo per le abitudini e
necessità dei proprietari. Oltretutto, le persone di servizio
venivano trattate senza la considerazione alla quale erano
abituate. Tutto dava l’impressione di una strana visione della
guerra, come se fosse una breve e allegra gita nella quale
l’esercito italiano avrebbe, senza alcuna fatica, ripreso la
Dalmazia. Per cui gli ufficiali si portavano appresso la
famiglia intera. Appunto, come in un viaggio di piacere. In
quest’ordine di idee rientrava anche l’uso della Casa. Tutto
era dovuto, prestabilito, lecito. Maestro non era ben disposto
a questa forzata presenza. La riteneva non solo invadente,
ma addirittura estremamente penalizzante. Toglieva la
serenità alle sue abitudini. Sconvolgeva i suoi ritmi nel
lavoro, nella composizione e nelle lunghe ripetizioni al
pianoforte in orari insoliti. Alla fine, Maestro fu vinto dalle
argomentazioni pratiche di zia Marica. Lei sosteneva che il
comandante e gli ufficiali italiani portavano in Casa del cibo
e che questa non era cosa da poco. Sull’Isola, ormai,
scarseggiava tutto. Non si soffriva ancora la fame, ma una
certa penuria era presente. E, davanti ai problemi pratici,
Maestro lasciava spazio a chi riusciva a risolverli. Egli non
era capace di trovarvi rimedio e ne era conscio. L’intenzione
del comandante, invece, era di approfittare della stima e
dell’affetto che Maestro riscuoteva tra gli isolani. Ed anche
se da più di vent’anni era cittadino del Paese che aveva scelto
come sua nuova Patria, il comandante lo riteneva pur sempre
un italiano, e quindi disponibile agli scopi degli occupanti.
Nell’inverno del ‘42 la presenza degli ufficiali italiani si
intensificò nella Casa. Le cene ormai si susseguivano ogni
sabato, quando il comandante e i suoi aiutanti raggiungevano
le famiglie sull’Isola, lontano dai pericoli e dai sabotaggi.
All’imbrunire il coprifuoco sfollava la piazza, la riva e il
porto. Alle vecchie case, sulle ripide stradine del colle San
Nicola e negli antichi borghi riparati, Groda e Gojava, la vita,
all’improvviso, sembrava essersi fermata. Gli usci dei cortili e
delle stalle venivano sbarrati. Le basse cucine dei contadini e
dei pescatori si rischiaravano con la poca luce dei camini
accesi in anticipo, prima del buio serale. Nelle pentole
appese sopra i focolari bollivano foglie di cavolo nero, poco
prima raccolte nell’orto dietro casa, e qualche patata che non
aveva ancora germogliato nell’umidità della cantina. L’odore
persistente di cavolo impregnava gli angoli morti dei
popolari abitati. Un odore che, più tardi, a lungo evocherà in
me la guerra e la carestia. Sempre più raramente si percepiva
l’odore della polenta arrostita sulla brace e condita con le
profumate sarde sotto sale. Cibo molto ambito dagli isolani,
un vero lusso ormai raro. Nel frattempo dalla Casa si
spargevano gli odori di brodo di gallina, risotto con fegatini
di pollo, arrosto di capretto e patate al forno con rosmarino,
frittelle con marmellate di mele cotogne. Cibo scambiato
dagli ufficiali italiani con i contadini per farina, riso,
zucchero. Odori che, purtroppo, superavano le mura del
cortile e riempivano la strada fortunatamente non abitata, ma
solo di passaggio per la gente, rarissima.
Gli ufficiali con le loro consorti, accompagnati dai soldati,
si presentavano verso sera alle abituali cene e nella stessa
maniera venivano prelevati. Il coprifuoco non permetteva
uscite per le strade cittadine. Le cene del sabato erano
diventate l’unico svago. Tra gli ufficiali era evidente la paura
di qualche possibile agguato da parte dei partigiani dei quali,
sempre con più insistenza e con particolari inquietanti, si
mormorava durante i discorsi a tavola.
Dopo cena gli uomini si disponevano in salotto per la
partita a carte e le donne nel tinello-cucina si dedicavano a
chiacchiere senza alcun argomento preciso oltre ai vestiti, il
cibo e null’altro. Alle ventuno la centrale elettrica toglieva la
corrente. La serata proseguiva a lume di petrolio. Anche
quello fornito dall’esercito italiano. Maestro non amava il
gioco delle carte. Si metteva al pianoforte e si immergeva in
una propria ininterrotta riflessione. Assente da tutto e da
tutti. Non suonava per gli altri, ma per se stesso, brani di
musica classica, opere note e meno note. Spesso
improvvisava. Viveva in quei momenti una propria interiore
voluta solitudine. Semplice in apparenza e difficilissima da
penetrare. Di quell’idealista romantico, artista fuori dal
mondo, pianista virtuoso, rimaneva l’intellettuale colto,
rigoroso. Senz’altro ammirato e amato, ma non sempre
anche compreso.
Il divampare della guerra costrinse il conte Pavlù, ricco
ebreo proprietario di stabilimenti per la lavorazione del
cristallo boemo in Cecoslovacchia e Germania, ancora prima
dell’occupazione del suo Paese da parte dei tedeschi, a non
poterci rientrare. Confidò a Maestro di dover vendere, a
qualsiasi prezzo, la sua bellissima villa di Postine 13, costruita
solo un paio d’anni prima della guerra. Intendeva al più
presto espatriare negli Stati Uniti, dove aveva già sistemato la
sua famiglia. Di ciò seppero il comandante e sua moglie ai
quali, in tempi molto brevi, la villa passò di proprietà per
pochissimi soldi e un salvacondotto. Tutta la
documentazione notarile doveva essere intestata a un
prestanome di nazionalità jugoslava, per assicurare la
proprietà da eventuali rivalse contro il comandante, cittadino
straniero. Zia Marica, incalzata dalla sorella e dal molto
convincente cognato, si prestò ad assumersi questa
responsabilità. Un po’ per accontentarli, come era nella sua
natura, ma anche per toglierseli di mezzo. La loro presenza
nella Casa era diventata problematica per tutti. Dopo la
stipulazione del passaggio di proprietà il nuovo proprietario
volle un rapido spostamento alla villa. Avanzò una richiesta
tanto assurda quanto inattuabile. Voleva con sé le persone di
servizio della Casa: la fidata Jera, ormai parte della famiglia, e
Rocco, validissimo tuttofare. Alla fine di estenuanti
trattazioni, zia Marica decise che per l’estate saremmo andati
tutti alla villa di Postine: gli abituali occupanti della Casa, gli
ospiti e Jera, mentre Rocco sarebbe rimasto in città.
Purtroppo nessuno era felice di allontanarsi dall’abitato.
La villa di Postine era diversa dalla rassicurante roccaforte in
città. Anche d’estate, così isolata, incuteva un certo timore.
Erano tempi di guerra. L’apparente tranquillità nascondeva
molte incognite. Il rapporto tra i cittadini e i militari italiani
poteva avere anche risvolti negativi. Gli italiani erano le
truppe occupanti e, anche se cercavano di ignorare la
presenza dei partigiani, questi, con sempre maggiore
insistenza, si facevano sentire e in ogni momento poteva
scatenarsi qualche imprevisto.
Stranamente non eravamo presi dalla solita spensierata
allegria per le vacanze estive, che non erano mai state
lontano dalla Casa. Non avevamo alcuna necessità di un
qualsiasi spostamento. Le vacanze d’estate da sempre erano
semplicemente un periodo dell’anno lontano da obblighi di
qualsiasi genere. Erano giorni interi dedicati al mare, al sole
sotto la villa Bonaparte nella piccola baia appartata, immersa
nelle acque cristalline con levigati, coloratissimi ciottoli e
sabbia dorata ornata da fantastiche scogliere sormontate da
pini bassi, piegati dal vento.
All’inizio di giugno arrivò il giorno del trasferimento. Dal
giardino dietro Casa la stradina sterrata si arrampicava in
mezzo ai vigneti oltre la chiesa di San Marco e la pineta della
baia Majerovica, per poi girare verso nord sopra il
Promontorio del Fabbro, sempre più stretta e sconnessa in
mezzo ai filari di viti, fino all’alta Roccia Cava, da cui il nome
di Postine14, cioè Sotto roccia. Esattamente a mezza costa
sotto la Roccia Cava, tra il mare e il terreno argilloso
sostenuto da muretti a secco e la profonda baia di sabbia
grigia finissima, protetta dalla bassa scogliera marrone scuro,
si ergeva la villa del conte Pavlù, nota come villa Postine,
sopra il biancore delle onde che lambivano e si infrangevano
contro quel molo naturale. Con la sua facciata,
rigorosamente rettilinea, pulita, interrotta solo dai quattro
grandi pilastri tondi che sorreggevano le massicce travi scure
della tettoia, sembrava un eremo. Tutta bianca sotto la scura
Roccia Cava, quasi minacciosa. Dalla imponente cancellata
in legno grezzo, un viottolo piastrellato con regolari lastre di
pietra bianca e larghe scale uguali, portava all’ingresso
principale.
L’interno si presentava ugualmente rigoroso: la grande
moderna cucina in acciaio, la sala da pranzo con mobili
lineari, le stanze da letto quasi spartane ma accoglienti e
confortevoli con l’unico lusso delle pesanti tende contro il
sole. I bagni ci sembrarono favolosi, mai visti sull’Isola.
Arredati da grandi vasche in ghisa, tutte bianche, rubinetteria
dorata, enormi stufe in ceramica finemente decorata, in stile
nordico. Sulle piastrelle ciuffi di fiori e foglie sparsi come
caduti dall’alto. Quei bagni ci attiravano irresistibilmente. Il
nostro gioco consisteva nell’osservare l’acqua che a fiotti
usciva dal soffione. I fiori e le foglie sulle ceramiche
sembrava ballassero sulle gocce tremolanti. Il nostro gioco
veniva regolarmente interrotto, togliendoci uno dei pochi
voli di fantasia. L’acqua piovana del pozzo doveva bastare
fino alle nuove piogge autunnali. Tutto l’ambiente ci era
parso estremamente suggestivo, lasciato così come era stato
abitato. Il conte Pavlù non aveva portato via né smosso
nulla.
Quello che ci affascinava almeno quanto i bagni era il
salone, quell’ambiente a elle, irregolare, strano. Lo
chiamammo il salone rosso. Rimaneva sempre chiuso, non
accessibile a noi bambini. Probabilmente era per questo che
ci sembrava un ambiente di fiaba, incantato. Non solo per i
suoi mobili intarsiati e dorati, poltrone bombate, divani
tappezzati di stoffe color rosso cardinale. Lo stesso colore
base degli enormi tappeti, sopratende sempre semichiuse su
quelle vaporose e trasparenti, ma anche per gli enormi quadri
con portrait di personaggi sconosciuti, seri, altezzosi. Donne
con certe pettinature improponibili, vestiti sfarzosi di
un’epoca passata. E poi, i paesaggi sotto neve che non
avevamo mai visto. Palazzi con tetti spioventi, un fiume
straordinariamente trasparente. La nostra curiosità fu attirata
anche dal grande grammofono a imbuto con la manovella. I
dischi a settantotto giri erano per la maggior parte di musica
classica e opere di compositori slavi.
Uno di quei sabati, durante il raduno degli ufficiali giunti
al primo imbrunire in idrovolante da Spalato e sbarcati nella
baia di Postine, qualcuno mise in funzione il fantastico
apparecchio. Maestro ci spiegò che la musica appena iniziata
era l’opera La mia patria del compositore cecoslovacco
Smetana, che il fiume del dipinto era la Moldova e il
paesaggio sotto neve Višehrad 15, il castello simile a quelli
delle fiabe. All’innalzarsi dei suoni, Maestro intonò al
pianoforte un accompagnamento che imitava il rumoreggiare
dell’acqua sulle pietre levigate del fiume. Iniziò così grazie ai
racconti di Maestro, il mio rapporto intimo anche con questa
musica nuova, affascinante e misteriosa. La musica, infatti,
fu, in un modo particolare, il supporto di tutta la mia
infanzia. Le storie delle opere verdiane, Aida, Tosca, Il
Trovatore, Nabucco, erano spesso e volentieri ascoltate alla
Casa in pietra grigia come intrattenimento. Verdi era
presente non solo in un bel dipinto, ma anche nelle partiture
esposte sugli scaffali della biblioteca in salotto e in un’infinità
di spartiti scritti da Maestro, con la sua bella calligrafia
rotonda, regolare, perfetta. Alla villa di Postine la
conoscenza della musica slava allargò il mio mondo oltre le
opere liriche italiane.
Eravamo quattro bambini. Un gruppetto mal assortito,
costretto alla vita in comune. Da una parte i tre prepotenti
figli del comandante, dall’altra io da sola, ridotta alla loro
sudditanza ed esposta alle più impensate angherie e a scherzi
cretini, molto spesso malvagi. Derisa dai fratelli terribili
perché appassionata ai racconti di Maestro. Avevano
classificato storielle strappalacrime le mie opere preferite e la
necessità di vivere emozioni più ampie di quelle che ci
offriva la vita lontana da tutto. Quei racconti, infatti, mi
isolavano da ogni contatto sgradevole: dalle minacce della
guerra, dagli imposti rapporti umani e dalle cretinate dei gonzi,
come diceva Jera. Non riuscivo a capire il significato della
parola gonzo, però suonava offensivo e questo mi appagava.
Si viveva in mezzo agli adulti; le famiglie degli ufficiali e
qualche ospite occasionale che, per non affrontare il rientro
in città sempre più spesso si tratteneva alla villa. Giornate
intere a trastullarci sui morbidi cuscini dei divani in vimini
sul grande terrazzo. Di sera le cene, lunghe e per noi
bambini noiose. La radio accesa per le notizie dal fronte che
ci era proibito ascoltare.
L’estate scivolava pigra. I bagni si facevano tutto il
giorno. Con il sentiero, in mezzo ai vigneti e lungo il dirupo
con il canneto, si scendeva nel fondo baia. La sagoma alta
del Promontorio del Fabbro allargava la sua ombra sulla cala
per cui, nelle giornate afose, un piacevole fresco si tratteneva
fino al pomeriggio. I bagni erano infiniti nell’acqua bassa e
fresca. Mai abbastanza lunghi. Uno dei miei abituali
divertimenti era lasciarsi trasportare sulla battigia piatta dalle
brevi e striscianti onde. Chiudevo gli occhi e ascoltavo il loro
soffio che mi portava con l’immaginazione, lontano, oltre
l’orizzonte. L’orizzonte, per me, era in fondo al canale, lì
dove all’imbrunire il sole annegava la sua infuocata palla
rossa, striando il cielo di rosa, viola e arancione, mentre in
lontananza il mare diventava blu dorato e le Isole
Spalmadori ai margini, di argento vivo. Le piccole onde che
raggiungevano il fondo baia si allungavano e ritiravano
portando con sé il ciottolato più piccolo. Assomigliavano a
un respiro profondo, misterioso. Continuo e mai esaurito.
Ogni giorno di nuovo, il calare del sole era un momento
magico. Si raccoglievano i cesti del pranzo portatoci a
mezzogiorno. Le sedie a sdraio si sistemavano in una nicchia
naturale, dove venivano custodite durante tutta l’estate. Il
rientro, all’imbrunire, era sempre emozionante. Mentre gli
adulti raggiungevano a passo spedito i vigneti sopra il dirupo,
noi bambini sostavamo. Indugiavamo fino a scomparire.
Lungo il sentiero c’erano due vecchi alberi di fico larghi,
contorti, con rami bassi che toccavano terra. Silenziosamente
ci infilavamo sotto il fitto fogliame in cerca di frutti che, ogni
giorno maturi, turgidi, con la goccia zuccherina sulla loro
base, soddisfacevano le nostre attese. Li mangiavamo senza
togliere la buccia. Il loro vischioso lattice legava la bocca, e le
dita diventavano appiccicose. Una sensazione sgradevole che
non ci tratteneva affatto da quella avventura dei primi frutti
rubati, con il rischio del divieto di scendere per giorni nella
baia per i bagni e i soliti giochi, sempre di nuovo pieni di
imprevedibili scoperte.
Agosto ci regalava anche un altro atteso divertimento; le
more mature sui folti rovi sotto la Roccia Cava. Di quelli
non ci era proibita la raccolta. I rovi sulla Roccia Cava non
avevano proprietari e se li avevano, non si occupavano
affatto dei loro frutti neri, generosamente abbondanti. Li
raccoglievamo, nei cestini di paglia intrecciata, destinati alla
marmellata. Pochi, però, giungevano sulla tavola della cucina.
Ne mangiavamo in quantità impressionanti, fino alla nausea,
particolarmente se, come al solito, per cena abbondavano le
verdure e gli ortaggi. I grossi pomodori con le foglie
emananti quel particolare profumo, le melanzane pesanti e
lisce, i peperoni carnosi, lucidi erano motivo di allegria,ma
solo durante la raccolta, non altrettanto ai pasti.
La loro preparazione per l’inverno, come pure quella delle
marmellate e della cotognata, tutte senza zucchero, da cui
l’aggiunta di una generosa quantità di acido salicilico per la
conservazione, offriva una certa immagine di abbondanza.
Almeno quella di una ricca produzione casalinga.
L’estate scorreva velocemente tra l’infinità di piccoli e
semplici divertimenti che il mare ogni volta ci riservava. Per
noi bambini era ancora il tempo di una pigra, spensierata
esistenza, racchiusa in quel luogo che sembrava lontano da
possibili esperienze negative.
A metà settembre le sferzate di un improvviso scirocco
umidiccio e appiccicoso ci costrinse al rientro alla Casa in
pietra grigia. Probabilmente il vero motivo di un così
precoce rientro non fu solo l’inaspettato cambio climatico,
perché l’estate di San Martino di solito si prolungava fino alla
fine di novembre e alle prime piogge invernali. Una seconda
estate morbida, gradevole, carica di sole senza il calore
invadente che nei mesi precedenti arroventava le pietre e
seccava la terra arsa nei mesi senza una goccia di pioggia. La
verità sulle ragioni del rientro, alquanto precipitoso, era
probabilmente più seria. La guerra incalzava un po’
dappertutto. I tedeschi avevano bombardato Belgrado,
occupandola assieme a Zagabria, anche se la Jugoslavija era
nell’asse congiuntamente alla Germania e all’Italia. Il re con il
governo aveva abbandonato il Paese, riparando all’estero. I
partigiani, formati in reparti militari, incalzavano ormai un
po’ su tutto il territorio e venivano nominati sempre più
spesso anche in un ambiente fuori mano qual’era l’Isola. La
villa di Postine era diventata vulnerabile, abitata dalla
famiglia di un alto ufficiale dell’esercito occupante il
territorio, anche se, almeno in apparenza, non era
considerato nemico.
L’autunno nella Casa in pietra grigia passò quasi
inosservato, a parte l’averci portato una certa strisciante e
non completamente consapevole ansia. Certi personaggi
sconosciuti, definiti ex alunni del Maestro, ogni tanto di sera
tardi, malgrado il coprifuoco, arrivavano dall’ingresso
posteriore e Maestro il giorno successivo si assentava. In
Casa si diceva che erano le sue solite battute di caccia ad
allontanarlo. Tornava però regolarmente con il carniere
vuoto. Non portava cacciagione, come se non cacciasse
affatto.
La presenza degli ufficiali italiani con le famiglie si era
fatta sempre più serrata. Anche se sistemate in altre case
cittadine abbastanza comode, la Casa in pietra grigia era la
base fissa di ogni avvenimento.
Ogni sabato pomeriggio il piccolo piroscafo Šipan16
sbarcava sulla riva il suo carico di abituali passeggeri: ufficiali
italiani, qualche parente in visita alla famiglia sull’Isola e la
bella Nina, presenza fissa durante tutto il periodo della
guerra.
All’inizio di quell’autunno incerto i giorni si susseguivano
apparentemente senza particolari avvenimenti, oppure la
notizia di questi non ci raggiungeva. Cosa ne pensassero gli
adulti, a noi bambini, non era dato sapere. A volte un
giornale distrattamente lasciato in vista attirava la mia
attenzione, particolarmente per le foto di guerra: case
distrutte, uomini feriti con vestiti laceri, sformati, sudici. Alle
mie domande gli adulti rispondevano in modo elusivo, poco
convincente, dicendo che si trattava di film e cercando poi di
spiegare cosa fosse un film. In definitiva, una finzione. Non
ero certa che fosse così ma mi piaceva crederlo. Le brutture
e la sofferenza mi travolgevano, spaesavano, anche se erano
solo intuizioni e non ancora certezze.
Arrivò un altro Natale i cui preparativi ci fecero, almeno
per poco, rimuovere quelle strane sensazioni di disagio che
toglievano la solita tranquillità. L’inverno non portò alcun
grande cambiamento nelle abitudini e nei riti della Casa.
Quel Natale c’erano sulla tavola di zia Marica più lepri e
pernici del solito, preparati sempre nella solita maniera della
cacciagione in salmì.
Giocando in giardino, dinanzi al pollaio, dopo le feste, mi
sembrò che fosse diminuito il numero dei conigli, delle oche
e delle galline. Mi assalì un pensiero folgorante: gli animali
erano finiti nelle pentole per le feste natalizie.
Immediatamente allontanai quel pensiero della possibile o
sicura fine degli animali con i quali giocavo abitualmente,
senza mai soffermarmi sulla vera ragione della loro esistenza.
Per me le galline servivano per darci le uova, i conigli, così
magnifici, bianchi, soffici, curiosi, si allevavano per essere
regalati. Allontanare un pensiero sgradevole, angoscioso, già
allora era il mio modo di fuggire la realtà anche se ancora
non ne ero conscia.
Ci inoltrammo rapidamente nella primavera.
A quell’età le stagioni sembrano brevi, particolarmente in
un posto protetto come la Casa in pietra grigia. Il tempo
scorreva in modo regolare e la primavera era sempre
emozionante. Significava la ripresa della vita nella natura:
l’orto e il giardino in nuove germogliazioni e poi
infiorescenze; i cuccioli degli animali che nascevano, pulcini
che crescevano simili a pigolanti batuffoli con la mamma
chioccia attenta e premurosa; i gatti di Casa al sole che
puntavano le lucertole in giochi infiniti sui viottoli dell’orto.
Un mondo divertente e affascinante, sempre nuovo.
Per le festività pasquali del ‘43 le autorità dell’esercito
italiano organizzarono una festa nella Loggia cinquecentesca.
Tutti gli alunni della pre-scuola e scuola elementare
dovevano essere vestiti da piccoli balilla e presentati ad un
personaggio appartenente alle Camicie nere in visita all’Isola.
Maestro era ufficialmente invitato a suonare il pianoforte
durante quell’avvenimento. In Casa si bisbigliava sul da fare.
Era ovvio: c’era ben poco da fare. Si doveva obbedire ed
essere presenti. L’obbligo valeva particolarmente per la
famiglia di Maestro, parente del comandante italiano. Arrivò
il giorno della festa. Misero anche a me la camicia nera
confezionata per l’occasione, il cravattino, la gonna a pieghe
e i calzettoni al ginocchio. Ci furono discorsi che sfuggivano
alla mia comprensione. Un paio di canzoni a me sconosciute
con l’accompagnamento del pianoforte. Finì tutto con il
saluto fascista collettivo. Di quello che ricordo, per me fu
disastroso proprio il saluto. La timidezza mi giocò un brutto
scherzo e il panico mi bloccò completamente. Non
ricordavo più nulla. Non seppi nemmeno ripetere la frase
che ci avevano insegnato durante le estenuanti prove nella
scuola italiana. Tanto meno alzare la mano per il saluto
fascista. Rimasi paralizzata. Maestro giustificò questo
comportamento con la mia estrema timidezza. Zia Marica
invece era del parere che quell’atteggiamento nascondesse la
mia natura ribelle e testarda, quella che mi attribuiva a ogni
reazione di disagio. Per lei era disubbidienza ritenuta muta
rivalsa a tanti suoi devi, e non è permesso. Era vero che
osservavo molto, ascoltavo altrettanto, ma non si trattava
affatto di reazioni e ribellioni coscienti. Gli avvenimenti
erano incomprensibili, strani. Capivo con i sensi, con
l’intuito. In ogni modo, persi la serenità propria dell’infanzia.
La presenza dei parenti italiani e le assenze di Maestro mi
procuravano un’ansia che si faceva padrona di tutti i miei
sensi. Percepivo il pericolo come un animale. Finché
Maestro non rientrava dai suoi strani allontanamenti, non
c’era nulla che riuscisse a tranquillizzarmi. Una sensazione
nuova si era instaurata nella mia quotidianità. La paura
strisciante, che impregnava ormai ogni più banale
avvenimento.
L’estate del ‘43 iniziò ufficialmente, come consuetudine
isolana, il tredici giugno con la festa di Sant’Antonio,
protettore della Casa in pietra grigia. Si partecipava ai
festeggiamenti per la messa solenne al Chiostro dei
Francescani, alla processione con la statua del Santo lungo le
calli del borgo antico Burak, al pranzo festivo con gli ospiti e
i poveri radunati nella cucina estiva, anche se le risorse di
cibo erano completamente esaurite. Ancora una volta, zia
Marica riuscì a procurarsi della farina, fagioli e qualche pezzo
di pecora affumicata per insaporire la classica minestra.
Il trasferimento alla villa di Postine quell’estate era stato
lungamente discusso. Nessuno, al di fuori della famiglia del
comandante, era disponibile a lasciare la Casa in pietra grigia.
Con poco entusiasmo si preparava l’esodo. Per fortuna,
giunti alla baia fummo ripagati per l’accettata imposizione.
Erano le continue mutazioni dei colori del mare che ci
affascinavano ogni volta di nuovo. In quel periodo, lontano
dalle calure agostane, l’aria era particolarmente piacevole, il
mare nella baia striato di tonalità straordinarie. Nelle giornate
piatte senza vento, dirimpetto alla villa dove era profondo, di
solito si colorava di blu scuro, per diventare ai suoi bordi di
colore cobalto e poi, verso le rocce basse, celeste come il
cielo. In mezzo alla baia una sagoma nera sembrava una
strana imbarcazione distesa sul fondale, o una roccia
sottomarina.
Una volta trasferiti alla villa di Postine cambiavano tutte
le abitudini, anche se una certa ansia non ci abbandonava.
Gli adulti si facevano sempre più pensierosi e, appena si
percepiva in lontananza il rombo di un motore aereo, si
saliva velocemente pochi passi sopra la villa, alla grotta della
Roccia Cava. Sembrava un gioco di addestramento, ma
molto serio, silenzioso. Per fortuna di notte non c’erano
incursioni aeree sull’Isola. Purtroppo sempre più spesso i
bagliori dalla costa illuminavano l’orizzonte e i tuoni dei
bombardamenti, di mattina presto, giungevano lontani al
nostro isolamento. Ogni tanto a bassa quota sorvolavano
degli Spitfire inglesi. Arrivavano all’improvviso da sud,
passavano sopra il canale e si perdevano con rumore
assordante oltre il promontorio Pelegrin, per tornare da dove
erano arrivati. Ormai li riconoscevamo dal rumore, diverso
da quello degli Stuca tedeschi. Quando poi si avvicinavano
particolarmente, li riconoscevamo anche dal colore grigio
chiaro e dalla stella sulla fusoliera. Nel porto cittadino non
c’erano navi, né artiglieria contraerea, per cui nemmeno
motivi di bombardamento.
Il comandante era lo stesso convinto che la villa di
Postine fosse più sicura della Casa in città. Infatti, di mattina
presto, formazioni di aerei tedeschi, svegliandoci con il
rombo dei motori in mezzo alle nuvole, sorvolavano la città.
Ci precipitavamo alle finestre per osservare le sagome scure
che arrivavano da nord, sopra il campanile di San Marco.
Dicevamo: Sono scuri, sono tedeschi. Mentre i piccoli Spitfire
inglesi, chiari, veloci come uccelli rapaci, sbucavano
improvvisamente due a due, sempre da sud, da qualche
postazione italiana nel basso Adriatico. Eravamo ormai
abituati. Diretti alle loro destinazioni, ci ignoravano. Alla
villa di Postine la loro rotta rimaneva spostata alla sinistra
sopra la città, dandoci l’impressione di essere al di fuori del
loro abituale tragitto.
L’estate si snodava afosa. Il sole implacabile arroventava
le pietre bianche che lastricavano la spianata intorno alla
villa. Poi, verso mezzogiorno, si annunciava l’immancabile
leggera brezza di maestrale, che si innalzava dal fitto dei pini
sul promontorio Pelegrin, incuneandosi sotto le volte del
grande terrazzo, portando un odore penetrante di resina e di
piante aromatiche arse al sole.
I bagni nella baia erano diventati più rari e sbrigativi. Il
sentiero sopra il dirupo era troppo esposto a improvvisi
sorvoli di aerei in chissà quali perlustrazioni, le cui incerte
intenzioni non permettevano di rischiare il cammino in
aperta campagna. Sonnecchiavamo pigramente imprigionati
sulla terrazza. Annoiata, con difficoltà sopportavo la
proibizione di recarmi alla baia. Tutto aveva un certo senso
di attesa. Il mare, che per me da sempre aveva avuto una
importanza ineluttabile, era lì davanti e proibito. Abituata
com’ero a convivere con i suoi umori e mutamenti, in tutte
le stagioni e qualsiasi tempo, sereno o tormentato, morbido
come il fondo di una giara o stremato da bore precipitate
dalle ripide, nude falde dinariche sulla costa dalmata, non
riuscivo a stargli lontano. La mia insistenza di andare alla
baia aveva alla fine convinto Maestro a recarsi a fare il
bagno. Successe allora un fatto inaspettato. Camminavamo
tranquillamente in mezzo ai filari delle basse vigne sul
sentiero sopra il dirupo. All’improvviso dietro il boschetto a
nord sbucò un aereo tedesco sorvolandoci a bassissima
quota. Prima che potessimo capire cosa stava succedendo
aveva virato, e sembrava che ci venisse addosso. Infatti, una
raffica di mitragliatrice si abbatté lungo il nostro cammino,
sollevando a rimbalzo piccoli sassi e polvere, investendoci.
Istintivamente Maestro mi spinse per terra rimanendo
impietrito, appoggiato sul muretto a secco. Incredulo,
sorpreso, incapace di reagire. Giunto sopra la baia, l’aereo
sganciò due piccole bombe e sparì nella stessa direzione dalla
quale era arrivato. Verso Spalato. Passò del tempo, che
sembrò interminabile, prima che riuscissimo a muoverci con
circospezione. Senza dire una parola, arrivammo alla villa
dove il panico aveva preso il sopravvento. Pensavano che
fossimo stati colpiti. Non era comprensibile la ragione del
mitragliamento e delle bombe. Non si sapeva cosa fare. Si
paventava un’altra incursione e velocemente ci recammo
tutti alla grotta della Roccia Cava, dove passammo il resto
della giornata. Ma non successe più nulla. L’abituale silenzio
dell’estate esplosa sulla terra arsa, da mesi senza una goccia
di pioggia, i grilli instancabili nelle fronde dei vecchi carrubi.
Tutto come sempre. Oltre a una paura terrificante.
All’imbrunire il solito idrovolante di servizio sbarcò il
comandante nella baia. Con una certa sollecitudine ordinò il
trasferimento in città prima del calare della notte. Ci fu detto
che al pilota dell’aereo in perlustrazione, la sagoma della
roccia scura in mezzo alla baia era sembrata un sommergibile
nascosto, arrivato chissà come da Lissa. Nessuno ci spiegò
però perché avevano mitragliato un uomo e una bambina.
Era chiaro, ormai tutto era possibile e senza alcun plausibile
motivo.
Alla Casa in pietra grigia ci sentimmo più al sicuro. Era
ovvio, non si poteva più ignorare che la guerra era arrivata
anche tra di noi.
Pochi giorni dopo sarebbe avvenuto l’armistizio
dell’Italia. Una sera senza preavviso il comandante imbarcò
la famiglia su una veloce vedetta dell’esercito. Gli ufficiali e
le loro famiglie lasciarono l’Isola. Da Spalato, la stessa notte,
proseguirono via terra fino a Zara e da lì sempre con nave
militare italiana, verso l’altra sponda, in mezzo a seri pericoli
e con la paura dell’alto Adriatico, ormai controllato
dall’incessante presenza dei partigiani.
L’8 settembre 1943, giorno dell’armistizio, i militari
italiani erano abbandonati a loro stessi. Completamente allo
sbando, come ubriacati anche dalla convinzione che per loro
la guerra fosse finita. In attesa dell’imbarco e di una possibile
rimpatriata, sparavano per aria senza un motivo, oppure
abbandonavano le armi per strada.
Dopo la partenza dell’esercito italiano disfatto, un
silenzio minaccioso si instaurò nelle strette strade cittadine.
Non uscivamo più dopo il calare del sole. Strani, sconosciuti
personaggi, ormai senza alcuna circospezione, si recavano
alla Casa in pietra grigia. Si trattenevano chiusi con Maestro
nel suo studio e non ci era permesso salire. Eravamo tutti
spauriti. Nella Casa erano rimasti Jera e Rocco, persone
affezionate e ligie ai propri doveri. Tutti noi eravamo stretti
in certe paure inconsce durante le assenze di Maestro finché
egli stesso ci spiegò che non dovevamo avere timore.
Diceva:- I partigiani sono nostri amici. Il pericolo non esisteva più perché per tutto il tempo
della permanenza degli Italiani sull’Isola, egli aveva aiutato i
partigiani a conoscere in anticipo le intenzioni dell’esercito
italiano, salvando dalla sicura fucilazione i due noti partigiani
isolani Jozo Kirgo e Zdeno Roja e le loro case dall’incendio.
Pratiche queste di uso quotidiano sulla parte est dell’Isola,
dove il comandante delle truppe italiane regolari era
affiancato anche dalle Camicie nere. Dalla partenza dei
soldati italiani non si circolava più oltre la periferia cittadina.
Appena imbruniva, le stradine si spopolavano
completamente. I contadini si affrettavano con i loro muli
carichi di frasche per il camino e qualche pugno di cicoriella
selvatica raccolta nella vicina campagna sotto il monte
Poljun17. I pescatori ormeggiavano le piccole imbarcazioni a
remi nel porticciolo Mandrač, portandosi a casa il magro
bottino pescato sotto l’isolotto Galešnik. In quel periodo
dell’anno ricco di calamari solo i più coraggiosi azzardavano
a spingersi nel canale, in mezzo alle Isole Spalmadori. Nel
tardo pomeriggio moltissime piccole barche sostavano al
riparo dell’isolotto, dove si ritenevano più sicure in caso di
una improvvisa incursione aerea. Dalla riva si scorgevano
questi gusci con la sagoma di una o due persone in piedi che,
con braccio teso, compivano un largo ripetitivo movimento
nel tirare a sé e lasciare libera la lenza, sulla cui estremità era
legato, invece della solita zampa di gallina, uno straccio
bianco come esca. Troppe barche, assiepate a ridosso una
dell’altra, non consentivano una pesca soddisfacente. Di
sera, però chi riusciva a pescare inondava tutto l’abitato
dell’odore di calamari arrostiti, che dava una strana
sensazione di agio.
In quei giorni il piccolo piroscafo Šipan, unico
collegamento tra la costa e l’Isola, non era più regolare.
Ormai viaggiava solo chi aveva particolare necessità di
recarsi da una o dall’altra parte. Gli approvvigionamenti
erano completamente interrotti. Scarseggiava tutto. Le visite
di Nina continuavano, anche se più rare. Dipendevano
dall’arrivo del piroscafo e dalle condizioni meteorologiche,
incerti l’uno e l’altro in quell’autunno stranamente
burrascoso, con il mare in tempesta. Nina era diventata la
nostra salvezza. Non si sapeva come e da dove riuscisse a
procurarsi e portarci farina, fagioli, un po’ di strutto di
maiale, un pugno di zucchero. Probabilmente in città sulla
costa, era fiorente il mercato nero, al quale lei riusciva ad
attingere.
L’ultimo giorno di ottobre prima di Ognissanti era un
giorno particolarmente piovoso, come di rado sull’Isola in
quel periodo dell’anno. Nel tardo pomeriggio Šipan approdò
con difficoltà e con un’ora e mezzo di ritardo, quando ormai
si pensava che non sarebbe più arrivato. Sbucò piccolo,
grigio, esile con il suo fumaiolo alto, sbuffando e
rovesciando un pennacchio di fumo nero denso nelle basse
nuvole. Per fortuna quel pomeriggio lo scirocco tramutò in
bora e permise l’attracco del piroscafo sulla riva. D’inverno,
durante così forti sciroccate, il porto diventava impraticabile.
Le onde si abbattevano furiose in crescendo sul lastricato
dell’insenatura Bok, infrangendosi contro i muri del
palazzotto dei Boglić18. Non succedeva mai in autunno.
Quell’anno, anche le condizioni climatiche erano avverse.
Nel tardo pomeriggio della vigilia di Ognissanti zia
Marica, ormai convinta che nessuno avrebbe affrontato le
strade flagellate da quella scrosciante pioggia e dal vento
sempre più indomito, decise che doveva farmi il bagno
sistemando per l’occasione, in mezzo al tinello-cucina, unico
ambiente ben riscaldato, la grande tinozza di legno, usata di
solito per lavare la biancheria. Un’usanza che tutte le volte
mi procurava un forte disagio. Non mi era chiaro per quale
motivo io non potessi usare, anche se non riscaldato, il
bagno come gli adulti. Non perdonavo a zia Marica
l’insensibilità verso il mio disagio per la nudità che, in cucina
diventava ancor più vulnerabile con la possibilità che
qualcuno improvvisamente aprisse la porta. Ritenevo il
bagno estremamente intimo, non condivisibile con chiunque
altro. Infatti, senza preavviso, alla porta scorrevole del
tinello-cucina si affacciò Nina. Non avevamo sentito né il
batacchio sull’uscio del cortile, né il suo ingresso in Casa. La
sua inaspettata apparizione provocò in me una sensazione di
oltraggio. Così nuda, nella tinozza per la biancheria, in
mezzo alla cucina, mi sentivo offesa nel pudore. Mi prese un
pianto disperato. Precipitai nel panico urlando, sbraitando.
Nina cercò di abbracciarmi per consolarmi, il che aumentò la
mia ira. La spinsi con una furia sproporzionata rispetto al
fatto in sé, motivo perciò il mio gesto poteva essere
facilmente interpretato come assoluta mancanza di affetto
nei suoi confronti, oppure come una delle tante mie
stranezze. D’altronde, mai nessuno mi aveva insegnato la
gentilezza verso Nina e tanto meno ad amarla. Di mezzo
c’era sempre zia Marica. Tutti i giorni, ogni giorno e ogni
attimo: onnipresente, invulnerabile, autoritaria.
Nelle apparizioni domenicali di Nina non si creava né
cresceva alcuna confidenza tra noi. Mi limitavo
educatamente a sopportare quelle visite. La sua presenza mi
toglieva la solita serenità; si insinuava nella mia ordinata
tranquilla quotidianità fatta di certezze. Era un elemento
estraneo, incomprensibile. Un disturbo addirittura fisico, che
Nina non poteva non percepire. Per me era solo una bella,
elegante signora, la cui presenza creava un estremo disturbo.
Durante le sue brevi visite domenicali, Maestro rimaneva,
come al solito, appartato. Seguiva con disattenzione gli
avvenimenti, senza mai intromettersi nelle decisioni di zia
Marica, tanto meno nel mio rapporto con Nina. A volte
cercava di mediare tra me e zia Marica, ma senza insistenza.
Mai con Nina. Lei arrivava, si tratteneva per poco e partiva.
Passava come un’ombra impercettibile. Non rimaneva alcun
ricordo di lei, né necessità di alcuna domanda o spiegazione.
Nessuno la contrastava. Almeno, questo mi era stato
trasmesso dall’atteggiamento degli abitanti della Casa.
Probabilmente il silenzio era la ragione del mio disamore nei
suoi confronti. Motivo che me la rendeva lontana, quasi
inesistente. In totale assenza di qualsiasi intimità. Non ho
mai saputo se questo atteggiamento l’aveva fatta soffrire, o
l’aveva indispettita. Purtroppo non ero legata in modo
particolare non solo a Nina, ma a nessuno. Tanto meno a zia
Marica, malgrado il suo indubbio affetto nei miei riguardi.
Può darsi che mi respingesse il modo di comportarsi troppo
pressante. I suoi troppi no senza ragionevoli spiegazioni, ma
semplicemente esercitati da persona adulta e per tanto
capace di imposizioni non comprensibili alla mia età, mi
mettevano in assoluto antagonismo con la sua autorità. La
temevo e il timore non è un sentimento positivo. Non aiuta
a crescere.
L’unica persona, pregna di sensibilità e tenerezza, con la
quale avevo un rapporto di simbiosi, era Maestro. Fin dalla
prima infanzia era per me sinonimo di serenità, gentilezza,
buon senso, riservatezza: l’esempio da emulare, per cui avrei
voluto essere il suo alter ego. Cosa che ho continuato a
desiderare a lungo. Direi per sempre.
Per amore suo, ero disposta ad esercitarmi per ore intere
al pianoforte. Anche ad accompagnare Nina alla messa
domenicale. Due cose che odiavo profondamente. Almeno
così pensavo allora.
La domenica di Ognissanti mi recai con Nina in
cattedrale alla grande messa delle undici. Una bora forza
sette/otto, accompagnata da scrosci di pioggia, spazzava la
piazza. Entrate nella grande navata, ci sistemammo tra i
banchi delle ultime file. Come al solito, le donne iniziarono,
una ad una, a voltarsi verso di noi. Sembrava che qualcosa di
irresistibile proibisse loro di rimanere ferme verso l’altare,
dove si celebrava la messa. Nina non diede segno di
accorgersi degli sguardi. Uscendo, alla fine della funzione,
passammo in mezzo alla gente fissa sul sagrato. Non si
capiva se per salutarla o semplicemente osservarla. Nina,
senza fermarsi, non rispose ai mezzi accenni di saluto e ai
sorrisi. In prossimità del porticciolo Mandrač, sotto la
scalinata per la Casa in pietra grigia, la bora soffiava talmente
forte che ci impediva di camminare. Una raffica violenta di
vento portò via a Nina il suo turbante bordeaux. Lei fece
qualche passo sbilanciato sui tacchi alti per riprendere il
copricapo che un’altra raffica spinse in mezzo alle barche del
porticciolo. Un gruppetto di pescatori, reduci dalla messa, in
procinto di entrare nell’osteria di Slavo per un cicchetto di
grappa prima del pranzo, si precipitò a recuperare il
turbante. Nina ringraziò senza particolare gentilezza. Era a
disagio o altezzosa?! Intimorita? Anche questa volta aveva
fatto colpo sugli uomini e come al solito suscitato il livore
delle donne. Indubbiamente era bellissima. La sua bellezza
ed eleganza erano invidiate. Di media statura, ma slanciata
con i tacchi alti. Sottile, con fianchi e spalle proporzionati,
gambe tornite, caviglie sottili; bruna naturale, con capelli a
mezza lunghezza, appena mossi, alla moda. Occhi verdi con
pagliuzze dorate, ciglia lunghe e sopracciglia sottili, all’insù
sulle tempie. Lo sguardo sempre un po’ malinconico anche
quando, di rado, sorrideva. Aveva occhi magnetici e
penetranti su un viso pallido. Uno sguardo raro, da felino
che attirava e intimoriva. Non sono sicura di ricordare tutti
questi particolari. È probabile che la mia memoria sia legata
a qualche bella foto d’epoca. Nella mente conservo la sua
immagine fasciata nel paltò bianco, turbante e guanti
bordeaux, all’ultima moda anni ‘40. Certamente vestiva in
modo eccezionale per i tempi che correvano. I suoi vestiti
uscivano dall’atelier sartoriale di Spalato, dove aveva fatto
fortuna vestendo le consorti degli ufficiali italiani e le mogli
dei signori del mercato nero. Unici in quei tempi difficili
capaci di spendere per vestiti costosi. Anche questo
particolare, come quelli del suo aspetto, mi sono stati
raccontati, moltissimi anni più tardi, da persone che
l’avevano conosciuta e senz’altro anche amata.
Quella domenica di Ognissanti fu l’ultima volta che vidi la
bella Nina. Era diventato impossibile viaggiare, soprattutto
per i collegamenti irregolari con l’Isola e per la pericolosità
della navigazione nell’Adriatico, in guerra.
III. L’esodo - El-Shatt
Poco dopo la partenza dell’esercito italiano dall’Isola e
l’avanzare dei tedeschi dall’entroterra costiero, anche nella
Casa in pietra grigia cominciarono molto seriamente a
scarseggiare tutti i generi alimentari e la legna per ardere,
sempre più difficile da portare dai paesi interni dell’Isola. Le
strade erano diventate insicure. Jera e Rocco facevano di
tutto per far fruttare l’orto, e le galline e i conigli erano
visibilmente dimezzati. Arrivammo sotto Natale.
Impossibilitato a inoltrarsi nei boschi, mancò anche la
cacciagione che Maestro era solito procurare per le festività.
Ormai i partigiani venuti dalla costa circolavano liberamente.
Molti non conoscevano Maestro, ma anche quelli che lo
conoscevano non potevano assumersi la responsabilità dei
suoi spostamenti in quei giorni tumultuosi e incerti. Nella
Casa si era arrivati alla mancanza di tutto il necessario. Le
piccole scorte erano esaurite.
La vigilia di Natale del ‘43 fu uggiosa. Piovve in
continuazione. Accendemmo un piccolo ceppo di pino nel
tinello-cucina invece che, come sempre, nel grande camino
della cucina estiva. C’era la necessità di riscaldare l’ambiente,
ma anche di far bollire un po’ di bietole e qualche patata
ancora sana, oppure cavolo con finocchietto selvatico e
carne di pecora salata e affumicata. Un vero lusso per quella
festività in piena guerra.
Quel giorno, in cui avremmo dovuto assaporare la carne
per pranzo, iniziò tragicamente. Alla sparizione della vecchia
pecora Lula, la storiella di zia Marica, secondo la quale
l’animale sarebbe stato mandato in paese perché lì, libero sui
pascoli, avrebbe trovato erba a volontà, mi lasciò perplessa.
Lula per me faceva parte della famiglia. Per anni ci aveva
dato il latte appena munto e caldo, poi bollito e raffreddato
con la sua spessa e gustosissima panna. In verità nemmeno i
suoi piccoli rimanevano nel recinto a lungo per poterci
giocare ancora, perché il latte serviva a noi. Ogni volta zia
Marica diceva di aver mandato gli agnellini in paese per farli
mangiare a volontà l’erba dei ricchi campi. Un racconto al
quale avevo creduto. Ma dopo un certo discorso tra Jera e
Rocco, avevo intuito: zia Marica aveva veramente mandato
Lula in paese, ma per farla salare e affumicare. Sacrificava
Lula per il nostro pranzo festivo. Paragonavo la sua crudeltà
nei confronti di Lula a quella che credevo usasse verso di
me. È probabile che simili accostamenti di idee non mi
permettessero di amarla quanto meritava. Purtroppo era da
sempre costretta a decisioni poco piacevoli dalle quali non si
tirava indietro, né lasciava ad altri l’ingrato compito. Si
immergeva a capofitto nei problemi cercando di risolverli.
Anche in quella occasione spettò a lei la decisione drastica e
inderogabile di sacrificare Lula.
Senza volere, quella settimana prima di Natale, tanto tetra
e piena di inconsce paure, zia Marica ci riempì, purtroppo,
anche di profonda tristezza per averci voluto offrire qualche
pezzo di carne affumicata. Non ingoiai nulla tutto il giorno.
Né parlai, piangendo sommessamente senza voce. Ignoravo
zia Marica, decisa a non parlarle mai più. Sopraffatta dalla
fame chiesi a Maestro perché non potevo avere almeno
qualche frittella. Maestro serenamente rispose che ancora
non era la vigilia. Bisognava aspettare quel giorno festivo per
ritrovare le tanto desiderate frittelle. Subito zia Marica si
accanì contro Maestro:- Mi sai dire con quale olio? - chiese con
veemenza.
- Con l’acqua! Perché quando vuoi, le frittelle sai friggerle anche con
l’acqua! - le risposi.
Queste furono le mie conclusioni sulla sua capacità di
risolvere i problemi quando voleva qualcosa veramente. Per
togliere un po’ di tensione, Maestro mi invitò al pianoforte
intonando una sonata a quattro mani. In serata ci fu
presentata una scodella di panata: pane raffermo bollito
nell’acqua con l’aggiunta di qualche goccia di olio crudo.
Vivevamo in attesa di qualcosa che non conoscevamo.
Ad ora già avanzata, nel buio minaccioso e sotto una pioggia
scrosciante, qualcuno bussò sull’uscio del cortile. Andò ad
aprire zia Marica e rientrò con un uomo sconosciuto,
coperto da un lacero cappotto militare e il fucile in mano.
Era un partigiano che giungeva con l’ordine della nostra
immediata partenza. Dovevamo essere pronti per
mezzanotte. Ci fu spiegato che l’ultimo barcone con gli
sfollati dall’Isola partiva per Lissa a quell’ora. Si doveva
partire prima dell’arrivo dei tedeschi che avanzavano da est.
Disse anche che, avendo Maestro collaborato con i partigiani
durante l’occupazione italiana, il Comando di Liberazione
era sicuro che ci sarebbero state rappresaglie, per cui doveva
partire. Non esisteva un’altra soluzione. Si poteva prendere
giusto il necessario, cioè quasi nulla. Lo sgomento era
immenso. Iniziò una febbrile raccolta delle cose. Ma quali?
Un cambio di indumenti personali, una coperta calda, un
qualsiasi oggetto come ricordo? L’attenzione era rivolta a
cose di estrema necessità. In una coperta imbottita di lana zia
Marica mise degli indumenti invernali: il cappotto di panno
nero con il colletto di velluto di Maestro, le sue scarpe buone
in stile inglese come cambio all’usuale mise sportiva da
cacciatore in panno marrone verde, cucito su misura prima
della guerra. Malgrado il momento confuso e saturo di
incertezze, zia Marica pensava all’aspetto di Maestro. Noi
due con i vestiti buoni, come per la messa di mezzanotte a
Natale. Ricordo solo una paura paralizzante. Nel trambusto
la grande coperta imbottita si riempiva e svuotava di cose
estremamente utili, ma sempre troppo pesanti per essere
portate sulla spalla, per cui più volte rimosse e scambiate con
altre. Non vista, infilai tra le cose della coperta la mia grande
bambola. L’unico giocattolo con il quale ero cresciuta, anche
se non ci avevo giocato mai. I compagni dei miei giochi
erano i gatti di Casa, i pulcini, gli agnellini, i capretti, i cani di
Maestro, i fiori, le pietre. Una popolazione viva, duttile, e
cose affascinanti con le quali mi sentivo a mio agio. Anche
quella sera nefasta mi consolava il pensiero che la gatta Micia
la Bella, con il manto lucido e soffice a tre colori, bianco,
nero e rossiccio, fosse sdraiata serena con i suoi piccoli, nel
cesto di paglia sotto la cucina economica accesa. Pensavo a
quanto Micia la Bella fosse una gatta fortunata. In una notte
come quella, quando il temporale non accennava a smettere
di imperversare, rimaneva con i suoi piccoli nel tepore della
Casa, dove anche io sarei voluta rimanere. La invidiavo ed
ero felice che lei non dovesse uscire e lasciare la Casa in
pietra grigia.
Raffiche di vento cariche di pioggia battevano sulle pietre
del cortile, sulle spesse mura del tinello-cucina dove eravamo
raccolti, sgomenti e infreddoliti per l’incertezza e l’umidità
penetrante. A una certa ora zia Marica tirò fuori un paio di
uova e un pezzo di pane scuro, quello che di solito
razionava. Fece bollire il vino rosso corposo, con una buona
dose di zucchero, conservato con tanta parsimonia. Il nostro
umore però non cambiò con il vincotto. L’incognita era più
forte di una così blanda anestesia alcolica. Insieme a noi
mangiarono Jera e Rocco, come al solito da quando il cibo
era strettamente razionato. Si divideva tutto nella Casa in
pietra grigia. Zia Marica convocò loro dopo cena e si
raccomandò di riempire i grandi bauli borchiati con
biancheria da letto, cristalli, porcellane, argenti, per poi
nasconderli nel solito posto del sottotetto. La stessa cosa era
da fare con la macchina da cucire, i fucili da caccia di
Maestro e tutto quello che si riteneva di un certo valore.
Loro due rimanevano a custodire la Casa e ad accudire gli
animali superstiti, ma se si fosse presentato un qualsiasi
pericolo dovevano ritirarsi in paese a casa di Jera, portando
gli animali e consegnando i bauli alla signora Juri, amica di
famiglia. Verso le ventitré bussarono di nuovo. Prendemmo
le poche cose: la coperta imbottita con gli indumenti di
cambio, avvolta in un telo antipioggia da caccia e,
accompagnati dallo stesso uomo con il cappotto militare
lacero e il fucile, scendemmo le scale del Palace Hotel.
Raggiungemmo il piccolo molo sotto il palazzo della
Capitaneria di porto. Un barcone a due alberi maestri si
dondolava pericolosamente sulle onde, urtando con il suo
ventre panciuto contro la banchina. Era già pieno di gente:
uomini anziani, donne e bambini. L’interno del barcone, di
solito usato per il trasporto della sabbia, pietrisco e altro
materiale per l’edilizia, umido, appiccicoso, soffocante. Era
difficile respirare a causa della presenza di tante persone
bagnate dalla pioggia. Zia Marica e io ci sistemammo in
fondo al barcone sulla nostra coperta. A Maestro toccò il
telo antipioggia per proteggersi in coperta, dove trovò posto
con altri uomini. Verso mezzanotte, annaspando nel buio
totale, senza luci, il barcone prese rotta lungo il canale e alla
metà delle Isole Spalmadori, in mezzo ai promontori di
Ždrilca19 e Perna puntò verso Lissa. Su tutti scese un silenzio
opprimente. Si udiva solo il rumore irregolare e sommesso
del motore. Il barcone ballava sulle onde alte, schiumose.
Per fortuna aveva cessato di piovere. La piccola
imbarcazione,non più lunga di venti metri, con un’infinità di
persone che nel buio totale era impossibile contare, con
difficoltà uscì nel canale di Lissa, sbandando e inclinandosi
pericolosamente sotto forti raffiche di vento irregolare.
Improvvisamente nell’oscurità più completa si posarono sul
barcone i fari di avvistamento con luci intermittenti,
chiedendo la parola d’ordine per il riconoscimento data dagli
inglesi alle imbarcazioni partigiane. L’improvvisato
comandante del barcone, ubriaco già in partenza per la paura
e le responsabilità, non rispose prontamente. Non ricordava
i segnali. In preda al panico addirittura abbandonò il timone.
Il barcone rimase per qualche istante senza pilota. Sotto
un’onda anomala sbandò facendo spezzare uno dei due
alberi. Cadendo, il pezzo dell’albero ferì più uomini. Si
sparse il panico. Le persone in coperta iniziarono a gridare
alla vedetta inglese:- Partigiani, partigiani! - ma una raffica di
mitragliatrice ugualmente tagliò l’aria sopra il barcone in
balia delle onde. La vedetta inglese si avvicinò, pronta a
spararci addosso. Uno dei pescatori prese il timone e cercò
di raddrizzare il barcone pericolosamente inclinato su un
fianco, con tutto il suo carico umano spostato verso il lato
opposto dell’onda presa di sbieco. Gli inglesi illuminarono il
barcone. Capirono che si trattava di profughi. Con due forti
cime imbrigliarono la prua dell’imbarcazione in dissesto e la
trascinarono con difficoltà fino a Lissa.
A Lissa ci trasferirono su delle navi militari inglesi
attraccate nel porto. Quella mattina zia Marica scoprì la
mano sinistra di Maestro tumefatta e molto dolorante.
L’albero maestro del barcone, cadendo, aveva colpito
rovinosamente il suo braccio sinistro.
In quella mattina di Natale fredda e nebbiosa, arrivati
nell’enorme ventre della nave con i nostri vestiti pesanti di
umidità, ci rendemmo conto che il suo interno era allestito
con letti a castello. Una fila infinita di letti. Fummo sistemati
nelle cuccette. Ci togliemmo i vestiti bagnati e li mettemmo
ad asciugare sui tubi bollenti che solcavano il ventre della
nave. Avvolti nelle coperte di lana militari, ci consolammo
con il loro tepore. I militari distribuirono un tè molto forte
con il latte condensato, dolcissimo, e delle gallette friabili.
Dopo una notte burrascosa e piena di paura, crollammo
addormentati nel ventre caldo e protettivo della nave. Ci
svegliarono portandoci altro cibo: fagioli al sugo dolce, una
porzione di carne pressata cornbeef, pane bianco e di nuovo tè
con il latte. Durante il giorno la nave si riempì di altra gente.
Ancora donne, bambini, uomini anziani e feriti. Sopra le
navi, sospesi, galleggiavano nell’aria palloni aerostatici.
Enormi mongolfiere oblunghe, di colore grigio argenteo,
dondolanti, a protezione del porto. Tra i partigiani c’erano
feriti che si prodigavano come interpreti tra i militari inglesi e
i profughi. Ci dissero che eravamo imbarcati su una nave
della Croce Rossa inglese. Si attendeva la notte per la
partenza verso l’Italia. Cercavano di tranquillizzarci
asserendo che la nave della Croce Rossa, accompagnata da
vedette armate e protetta da palloni aerostatici dai possibili
attacchi aerei, avrebbe solcato l’Adriatico sicura. Era il
nostro Natale in esilio e nessuno pensò alla festività.
Purtroppo la traversata non fu semplice né tranquilla.
Quella notte in mezzo al mare, sentimmo il rombo dei
bombardieri. Per fortuna erano indirizzati altrove. Non
erano interessati a noi, oppure non erano tedeschi. Ma noi
non lo sapevamo: tutti erano nemici e la paura ormai faceva
parte della nostra stessa esistenza.
Il giorno di Santo Stefano, a metà mattina, la nave
ospedale approdò a Bari. Il porto era pieno di navi, tutte con
lo sbarramento dei palloni aerostatici: enormi, inquietanti,
irreali, simili a uccelli gonfi, immobili. Ci sistemarono negli
enormi stanzoni-magazzino vuoti. Completamente spogli e
freddi, con le sbarre alle finestre. Per terra, come in un
carcere. Dalle finestre si scorgeva un lungomare, delle mura
antiche di un castello e niente più. Presto ci raggiunse altra
gente sfollata da altre isole e dalla costa dalmata. Restammo
chiusi in quegli stanzoni un giorno intero e una notte. Il cibo
ci fu distribuito regolarmente e in abbondanza. Ci
consegnarono pacchi di razione di viveri per militari:
biscotti, formaggio, frutta secca, cioccolato, gomma da
masticare. Il cibo era americano, ma a noi che avevamo
sofferto la fame, non dispiaceva. Ci abituammo subito a
quegli strani sapori: il salato mescolato al dolce, il cioccolato
fondente amarissimo, il latte denso nel tè, la gomma arabica
da masticare. Vista e assaggiata per la prima volta. Erano
scomparsi la fame e il freddo. Le coperte militari distribuite
sulla nave, calde e leggere, erano confortanti, il cibo
assicurato. Quello che era difficile da sopportare era la
promiscuità. Un’umanità sofferente, varia. Tutti per terra
come dei mendicanti. Un numero imprecisato di persone di
estrazione e condizioni sociali molto diverse, una accanto
all’altra, con il fiato pesante del prossimo inesorabilmente
addosso, senza scampo. La gente ammassata, gomito a
gomito, mi creava un disagio fisico insopportabile. Lo stesso
che provava Maestro e che senza volere mi aveva trasmesso.
Passai una notte infernale cercando di trattenere una tosse
secca e stizzosa che mi tormentava. Le persone, ognuna a
proprio modo sofferente, si lamentavano in coro a ogni mio
colpo di tosse, come se volessi intenzionalmente disturbare.
Oltre che dagli odori, dai respiri affannosi, dai disagi vari e
tanti, ero anche tormentata dalla preoccupazione di
disturbare gli altri. Una realtà che non aveva soluzione.
All’alba della mattina seguente ci fecero salire sui vagoni
per il trasporto di merci e bestiame. Di nuovo tante, troppe
persone stipate in uno spazio ristretto e angusto. Di nuovo
per terra. Partimmo da Bari verso sud, per Tuturano, con
sosta a Santa Maria di Leuca e sbarco di partigiani, feriti più
leggermente. Alla fine giungemmo a Taranto. Viaggiavamo
seduti sulla nostra coperta, ormai abituati a tutte le possibili
vessazioni. Quello che ci sembrò inaccettabile era il bidone
per le necessità corporee sistemato in fondo al vagone.
Durante tutto il tragitto, la cui durata non ci era data
conoscere, il convoglio non si sarebbe fermato. Le donne del
vagone sistemarono una coperta su delle corde per
nascondere, alla meno peggio, il recipiente in un angolo. Il
treno si fermò più volte, ma per motivi ben diversi dalle
nostre necessità. Al passaggio degli aerei, il convoglio si
arrestava, ma senza che si potesse scendere. Nei passaggi del
treno in curva, attraverso le feritoie laterali del nostro
vagone, riuscivamo a vedere i militari inglesi, con pesanti
mitragliatrici mimetizzate, sistemati su dei vagoni aperti.
Erano allertati per difendere il lungo convoglio con la Croce
Rossa. Al rallentamento e al fermo del treno, si udiva il
rombo degli aerei. Ogni volta rimanevamo appiattiti e inermi
dentro i vagoni senza poter aprire i pesanti portelloni. Dopo
una giornata di viaggio, battuta dalla pioggia densa e pesante,
arrivammo a Taranto. Ci imbarcammo di nuovo su navi
militari inglesi. Migliaia di persone: profughi e partigiani
feriti. Di nuovo lunghe file di letti a castello, latrine sistemate
nel mezzo, cattivo odore, buio, tristezza, paura. Sapevamo di
essere diretti in Egitto. Si sarebbe salpato per Port Said con
un largo viaggio per evitare Malta e i tedeschi. Navi grandi.
Una decina in convoglio sotto palloni aerostatici e protette
da veloci vedette armate. Apprendemmo che l’esodo
comprendeva quasi trentamila profughi della Dalmazia
centrale e della Grecia. Tutti verso la terra della pace
promessa. Dopo parecchi giorni di viaggio con il mare in
burrasca, a Port Said ci attendeva una lunga fila di carri per il
bestiame. Il nostro destino sembrava quello di viaggiare da
animali. Sarà stata la guerra a dettare questa nostra
condizione. Sembrava che non esistessero altre sistemazioni
se non le peggiori. Era anche vero che la guerra continuava a
imperversare e noi scappavamo da situazioni ben più gravi:
bombardamenti, fame, rappresaglie, morti ammazzati,
completa distruzione del Paese che lasciavamo… ma
probabilmente non c’era alternativa.
Dopotutto eravamo grati a chi ci portava verso la
salvezza. Ci ritenevamo fortunati, malgrado le condizioni
con le quali ci veniva concessa.
Saliti di mattina presto sui vagoni per il bestiame, il
freddo notturno del deserto ancora persistente penetrava
nelle ossa. Appena il sole si innalzò sopra le dune di sabbia,
un improvviso caldo soffocante si impadronì degli uomini e
delle cose. Il treno partì lentamente, con i grandi portelloni
aperti che non facevano affatto diminuire l’afa nell’interno
dei vagoni, velocemente riscaldati dal sole africano. Il
paesaggio, nel quale serpeggiava il lunghissimo convoglio,
era sempre uguale. A perdita d’occhio dune di sabbia gialla e
ogni tanto qualche sparuta palma solitaria, esile, inerme. Il
rumore ritmico delle ruote di ferro ci portava verso un
orizzonte vibrante nella calura, allontanandosi da Port Said
verso il deserto sempre più avvolgente lungo il canale di
Suez. Una giornata intera nel dormiveglia di un caldo
soffocante fino ad Ismailia sul Mar Rosso. Lì il lungo treno
passò sull’altra sponda del canale di Suez, sulla penisola del
Sinai, nella più totale desolazione del deserto. Un’altra notte
di viaggio all’indietro lungo il canale e all’alba il treno si
arrestò in mezzo a un’immensa distesa di grandi tende
militari tutte uguali e dello stesso colore giallo ocra.
Ci sistemarono, una ventina di persone per tenda:
famiglie intere, uomini singoli, bambini. Di nuovo uno
attaccato all’altro, giusto lo spazio di passaggio tra una
brandina e l’altra. Nessuna possibilità di scegliere i compagni
di tenda. Ci capitò gente che non conoscevamo. I
comportamenti durante il viaggio da Lissa fino al deserto si
erano dimostrati senza riguardo verso il prossimo. Con
l’attenuante della propria sofferenza, sembrava che fosse
stata liberata da ogni inibizione e considerazione delle
necessità altrui. Eravamo sistemati nel campo C. C’erano
inoltre i campi B, D, E, occupati da sfollati dalmati, e il
campo F, dai greci. Ogni campo comprendeva all’incirca
tremila persone.
All’inizio tutta l’organizzazione era sotto stretto controllo
dei militari inglesi. In mezzo alle tende, in costruzioni di
legno, erano sistemate le latrine. C’era poi un’enorme
costruzione bassa in legno e lamiera ondulata, con gli uffici,
la mensa, le docce, l’ambulatorio. Nell’enorme mensa,
arredata con lunghi tavoli e panche in legno, che funzionava
a turni, il cibo era preparato e distribuito dai militari. I tre
pasti abbondanti, anche se poco adatti alla nostra abituale
alimentazione. Dopo la fame patita, ciò non rappresentava
un problema. Almeno all’inizio. La brutta sorpresa fu
l’invasione dei pidocchi. Ne eravamo paurosamente assaliti.
Uscivano da tutte le cuciture delle tende. Si trovavano
dappertutto. Evidentemente le tende erano servite ai militari.
La presenza di tante persone li aveva risvegliati dal letargo.
Diventammo le loro vittime. Per debellare questa nuova
calamità si usarono vecchi sistemi, ben noti alle donne del
popolo: petrolio, olio di canfora e non so cos’altro. Gli
inglesi ci fornirono del disinfettante liquido. Il suo fetore era
così forte e nauseabondo che coprì tutti gli altri odori. Ma
nessuno stratagemma servì. Alla fine usarono una polverina
bianca che sparsero con degli apparecchi su ogni cosa. Sulle
tende fuori e nell’interno, sulle brande, sui vestiti, su noi
stessi dapprima denudati e successivamente spediti in gruppi
alle docce, dove ci strofinavamo con sapone catramato. Ci
sentivamo in colpa e oltraggiati. Come se quella disavventura
fosse da imputare a noi stessi. La polvere bianca era
tremenda. Sterminava ogni essere vivente: formiche,
mosche, piccoli roditori del deserto. Si trattava dei primi usi
del DDT, appena inventato in America.
Nel frattempo El-Shatt si organizzava: fu creato il campo
A, arrivarono funzionari inviati dal Governo Jugoslavo di
Liberazione. Realizzarono il comando per i campi di ElShatt con il proprio personale. I profughi iniziarono a
migliorare le proprie condizioni di vita. Cercarono,
cambiando tenda, di trovare una convivenza più idonea con
persone conosciute o almeno della propria isola o città.
Riuscimmo anche noi a sistemarci con delle persone dei
paesini Brusje e Grablje. Gente semplice, tranquilla e
rispettosa.
Gli uomini sistemarono e migliorarono la presa delle
robuste corde delle tende, scardinate in continuazione dal
forte vento, ghibli. Le donne si predisposero per adattare i
vestiti e gli indumenti forniti dalla Croce Rossa. Si
scoprirono molte brave sarte. La vita nella tendopoli iniziò
ad avere sembianze e ritmi più umani. D’altronde c’era tutto
quanto fosse necessario per un’esistenza sopportabile. Si
poteva vivere e sopravvivere. Il clima del deserto invece era
inclemente. Le notti fredde, la temperatura si abbassava fino
allo zero, e di giorno raggiungeva i quarantacinque gradi.
Un’aria secca, il sole cocente. Le escursioni termiche così
forti debilitavano i già provati organismi. L’unica vegetazione
del deserto era costituita da certi arbusti secchi ricoperti di
spine. Arbusti tondi che il ghibli rotolava e spostava insieme
alle dune, modellandoli con una forza indomita. Dopo poco
tempo, in quel deserto poco ospitale, qualcuno piantò dei
semi di ricino, reperiti chissà come. All’ingresso delle tende
comparvero delle piantine con foglie larghe, palmate di
colore verde scuro e striate di rosso cupo. Dai piccoli cumuli
di sabbia generosamente innaffiati, sbucarono germogli che
si svilupparono velocemente in piante robuste, legnose, non
alte, come se volessero proteggersi dalle sferzate del ghibli.
Quelle piante, amorevolmente seguite, presero a crescere
davanti a tutte le tende. Erano la prima avvisaglia di vita nel
deserto: il giardino di casa, il legame della popolazione
contadina alla propria terra tanto diversa e agognata.
Le donne del campo C con zia Marica ottennero il
permesso di preparare i pasti per i profughi. Il cibo cucinato
da loro diventò molto gradevole. La cucina condotta in
modo famigliare, con l’esperienza culinaria di zia Marica,
ebbe un beneficio anche psicologico sulla gente. L’attesa dei
pasti metteva allegria.
Maestro riuscì a risolvere il problema della propria
privacy. Con due coperte militari appese intorno allo spazio
della sua brandina, sistemata nell’angolo, e con le nostre due,
fuori della sua nicchia, zia Marica aveva realizzato una barriera
tra Maestro e gli altri occupanti della tenda. Finalmente era
isolato e protetto. La nostra tenda, fortunatamente condivisa
con persone di Brusje che conoscevano Maestro e gli
volevano bene, probabilmente influenzò il loro rispettoso
riserbo. Altrove non era così. I malintesi erano all’ordine del
giorno. La mancata occupazione portava la gente a facili
litigi. La forzata promiscuità tra persone con mentalità e
abitudini diverse, causava discussioni e malessere. Poi
ognuno trovò qualcosa da fare. L’arrangiarsi era un’antica
abitudine. Se non altro, la gente iniziò a scambiare merci con
gli arabi. Questi ultimi, non appena i militari inglesi erano
occupati altrove, scendevano dal treno con il carro merci che
transitava in prossimità del campo e si inoltravano tra le
tende. Portavano datteri, piccole dolci banane, semi di ricino,
tessuti sgargianti, sandali coloratissimi che scambiavano con
zucchero, tè, latte in polvere, formaggio, cioccolato, sapone,
distribuiti in abbondanza dagli inglesi ai profughi. Entrarono
nel campo le prime piastre egiziane. Gli arabi pagavano la
merce anche con la moneta, che all’inizio non servì a nulla.
Non c’era dove spenderla.
Nel frattempo, parlando con la gente, Maestro seppe che
tra i profughi dalmati erano presenti dei musicisti della banda
cittadina di Curzola, gente proveniente dalla costa, e un certo
numero di suoi allievi musicisti dell’Isola. Si rivolse al
comando del campo profughi El-Shatt ed ebbe l’aiuto per
radunare tutti i musicisti sparsi. Il comandante Barle, un
partigiano tutto d’un pezzo gradito ai profughi e al comando
inglese, fu favorevole all’idea di organizzare un’orchestra di
strumenti a fiato. Egli riteneva questa un ottimo strumento
di propaganda per la nuova Jugoslavija di Tito, già
riconosciuta. Maestro raccolse ventisette elementi di buon
livello. Organizzò anche un coro di giovani cantanti.
Iniziarono le prove: lunghe e ripetitive. Uno stimolo per
tutti. Si preparava il primo concerto per orchestra e coro.
Maestro compose due brani per l’inaugurazione dell’evento.
Per l’orchestra la marcia Torno alla mia Terra, con la scrittura
delle partiture per ogni singolo strumento, e per il coro la
ballata Il mondo nuovo, per solo tenore e cinque voci.
Componeva su un piccolo pianoforte messo a disposizione
dal comando nello spazio della mensa, dove ogni sera, si
tenevano le prove. La vita sembrava essere rinata, malgrado
la guerra non desse segni di rapida soluzione. Anche l’attesa
della fine del conflitto era sopportabile lontano dai
bombardamenti e dalla mancanza di cibo. Ben presto però
un’altra calamità si abbatté sulla gente. Non si era fatto il
conto con il clima. Di notte il freddo penetrava nelle tende e
di mattina presto il primo sole non faceva respirare. La
calura procurava un’eccessiva sudorazione e il forte ghibli
spesso non permetteva l’uscita dalla tenda. La sabbia
finissima si infilava dappertutto: tra gli indumenti, sotto le
mascherine. Era inutile qualsiasi tipo di protezione. Tra i
bambini e gli anziani, già indeboliti dagli stenti in Patria,
iniziarono a diffondersi malattie agli organi respiratori. Ci fu
una moria. Una vera strage di bambini e anziani. Infatti, nel
grande cimitero di El-Shatt rimasero all’incirca tremila
profughi. Come la maggior parte dei bambini, anch’io mi
ammalai e fui mandata all’ospedale organizzato in mezzo ai
campi dal personale medico e paramedico militare inglese.
Zia Marica venne a sapere che c’era uno strano modo di
assistere i bambini ricoverati. Sistemati nei grandi stanzoni,
nei letti uno accanto all’altro, venivano curati con delle
pasticche e null’altro. A un certo punto della malattia,
quando la febbre superava i quaranta gradi, in fondo al letto
veniva legato un nastro rosa. Ai piccoli così segnalati, gli
infermieri facevano una doccia fredda. Dopo la doccia,
alcuni miglioravano, ma pochi però superavano realmente la
malattia. Zia Marica passava la maggior parte della giornata
dietro le sbarre delle finestre dello stanzone. Si
raccomandava a malati anziani e bambini più grandi di farle
sapere se mi fosse stato legato il nastro rosa. Passai una
settimana con febbre altissima in uno stato di dormiveglia,
incosciente di quello che succedeva intorno a me. Mi fu
appeso il nastro rosa. Qualcuno avvisò zia Marica e lei riuscì
a entrare in ospedale. Trovò il modo di contattare i medici e
grazie alla sua presenza non andai sotto la doccia fredda.
Purtroppo la mia condizione rimase critica. Ormai sembrava
senza soluzione. Un medico disse a Maestro che l’unica
possibile salvezza era procurarsi un nuovo farmaco scoperto
in America e ancora in uso solo per i soldati statunitensi
all’ospedale di Tobruk. Ero ormai in fin di vita. Chiamarono
il sacerdote per l’estrema unzione, mentre Maestro metteva
in moto le autorità inglesi al Cairo e quelle americane a
Tobruk. Zia Marica cercava di destare il mio interesse con
ogni stratagemma possibile e immaginabile. Arrivò
addirittura ad escogitare cose che a tutti sembravano
stravaganti e inutili. Conoscendo il mio irrefrenabile amore
per i gatti, trovò chissà dove, un gattino. Non dimostrai
alcun interesse. Zia Marica, giustamente, interpretò ciò come
prova della gravità delle mie condizioni. Nel frattempo
arrivò dall’ospedale militare di Suez la miracolosa medicina.
Somministrata a regolari intervalli, dopo un paio di giorni in
coma, cominciai a migliorare. Proseguirono con le punture e
lentamente tornai alla vita. Il segno di sicuro miglioramento
fu la mia richiesta di portarmi il gattino. Lo ricordavo come
in un sogno: una bestiola bianca e nera. Mi accontentarono,
ma per breve tempo. Il gattino tornò al suo legittimo
proprietario.
Ero sopravvissuta a una brutta polmonite con
complicanze che decimarono la popolazione infantile di ElShatt. Così la penicillina fu per la prima volta usata per un
civile. Per lungo tempo mi rimase una forte tosse secca, che
mi soffocava e sconvolgeva. Sembrava tosse canina.
Qualcuno consigliò a zia Marica di farmi respirare il carbone
bruciato della locomotiva. Ebbe così inizio la trattativa di zia
Marica con gli arabi, conduttori del treno merci. Uomini che
barattavano merci con i profughi. Un po’ inquietanti, scuri in
faccia, vestiti con i soliti caftani lunghi bianchi, sporchi di
carbone o completamente neri, con turbanti arrotolati sulla
testa e lembi abbassati sul viso per proteggersi dal sole e dal
ghibli. Arrivò il giorno in cui dovevo salire sulla vecchia
sgangherata locomotiva e respirare il fumo del carbone
bruciato. Mi fecero salire da sola in mezzo a due uomini
sconosciuti. Senza una parola mi presero e mi tennero ferma
davanti al grande buco con il carbone arroventato, mentre il
treno proseguiva lentamente e zia Marica scompariva dalla
mia visuale. Mi prese un panico impressionante. Detti in
escandescenza. Dovettero fermare il treno e farmi scendere.
Terrorizzata a peso mi buttai fuori dalla locomotiva. Dalle
donne del campo avevo sentito strane storie sugli arabi che
rapivano le ragazzine e se le portavano via nei loro harem.
Cosa era un harem? La prigione, dissero. Erano racconti che
probabilmente dovevano servire a evitare confidenze tra i
bambini e gli arabi che con le loro merci erano ormai
presenti nei campi. Così finì l’esperienza del carbone
bruciato, rimedio contro la tosse che scomparve lentamente,
dopo molto tempo.
Dopo più di sei mesi di permanenza nel campo C, ci
trasferirono nel campo A, al comando dei profughi di ElShatt. La famiglia ebbe una tenda tutta per noi. Tre metri per
tre, divisa da un paravento in due zone: quella antistante con
un tavolo, seggiole, bauli, una piccola cucina militare a
cherosene e la parte retrostante con le tre brande, alcune
casse-comodini e cassoni per gli indumenti. Le pareti della
tenda erano realizzate da più strati di tela impermeabilizzata.
Quelle esterne di colore giallo ocra come la sabbia, le
intermezze blu scuro e quelle interne verde militare. Con le
triple pareti il freddo della notte divenne più sopportabile. La
corrente elettrica fornita da una piccola centrale a nafta,
faceva funzionare anche il benefico ventilatore che di giorno
muoveva l’aria stagnante. La vita qui si presentava più
accettabile, quasi piacevole. In breve la tenda si arricchì di
tappeti che furono sistemati all’uso dei berberi, per terra e
sulle pareti, dandole l’aspetto di una tenda nomade. I tappeti
proteggevano ulteriormente anche dalla sabbia che il ghibli
lasciava infiltrare senza pietà. Arrivò la ghiacciaia nella quale
si inseriva un grosso masso di ghiaccio venduto dagli arabi
ogni giorno, oltre alla frutta fresca a volontà, ortaggi,
essenze, oli aromatici, tessuti. Tutti i desideri venivano
esauditi per poche piastre dagli abili mercanti. L’orchestra di
Maestro iniziò i concerti per i profughi, per i militari
impegnati nei campi, per le autorità inglesi e civili in varie
città egiziane. Il successo cresceva. Fu organizzata anche una
partita di calcio al Cairo tra i soldati inglesi e i giocatori del
club Hajduk di Spalato, trasferiti in aereo dalla Jugoslavija
ancora in guerra.
L’orchestra partecipò suonando il nuovo inno inviato
dalla Patria, appena adattato da un antico brano nazionale.
I concerti comprendevano musica lirica dei grandi
compositori italiani, e non solo. Maestro aveva composto a
memoria la trasposizione e gli arrangiamenti dei più noti
brani per ogni singolo strumento della sua orchestra.
L’esecuzione, sotto la sua morbida, suadente direzione,
esaltava il suono di ogni singolo strumento e il cromatismo
in una sofisticata compattezza. L’interesse fu grande e i
giudizi favorevoli. I concerti si svolgevano ogni settimana a
Suez, Cairo, Alessandria, Ismailia. L’orchestra finì col
suonare anche durante l’udienza delle autorità del comando
di El-Shatt al Palazzo Reale, in presenza del re Faruk. Dai
suoi numerosi viaggi, Maestro portava cose meravigliose,
regali ricevuti o comprati con i compensi delle trasferte. Si
faceva consigliare e acquistava bellissime camicie ricamate di
seta e di colori tenui, biancheria fine, mai vista prima, sandali
e borsette in pelle chiara con fantastici disegni che poi zia
Marica conservava. Era un periodo sereno. A volte
accompagnavo Maestro nei viaggi per i concerti.
Dappertutto eravamo ricevuti con simpatia. Spesso ero
circondata da attenzioni e sommersa di regali dalle donne
egiziane, bellissime nei loro vestiti lunghi, vaporosi. La vita
sembrava quasi normale, se non fosse stato per l’abitazione
sotto la tenda e il deserto.
Le lettere dalla Patria arrivavano di rado e con grande
ritardo. La guerra non accennava a terminare.
Non conoscevo le notizie che giungevano agli adulti.
Loro non esprimevano né inquietudine né particolare
preoccupazione.
In attesa della fine della guerra passammo a El-Shatt più
di due anni. Arrivò così anche il fatidico agosto del ‘45. Gli
americani sganciarono le bombe atomiche su Hiroshima e
Nagasaki. Si disse che la guerra era finita. Cominciò l’attesa
del rimpatrio. Continuò anche una occulta propaganda per
nulla favorevole al nuovo ordine in Patria e a Tito che, con i
partigiani e l’aiuto dei russi e degli alleati, aveva cacciato i
tedeschi, vinto la guerra e instaurato la Repubblica Federale
Socialista Jugoslava. Nel campo profughi di El-Shatt non
tutti erano sostenitori della nuova corrente. Infatti, chi non
simpatizzava con la politica di Tito poteva emigrare in
Argentina, Canada o Australia. La presenza in quei paesi di
sostenitori del re serbo Karadjordjević20 e di appartenenti alle
frange nazionaliste croate, invitavano all’espatrio. A Maestro
fu proposto da amici di emigrare in Argentina. Non accettò.
Ritenne proprio dovere rientrare nella terra che più di
vent’anni addietro aveva scelto come sua nuova Patria. Nel
maggio, del ‘46 tra gli ultimi profughi iniziò l’avventura del
rientro dal campo direzionale di El-Shatt. In due giorni le
navi inglesi ci riportarono da Alessandria a Spalato. Poi, dalla
nave di linea sbarcammo sulla riva dell’Isola.
IV. Rientro sull’Isola
In quel giorno limpido del maggio isolano tutto sembrava
irreale, anche la notizia data all’improvviso, lì sulla riva, senza
preamboli, della morte di Nina. Non avevo mai ritenuto
Nina una persona importante. Lei era un’esistenza lontana,
sbiadita. Non commentai quella morte. Né chiesi nulla. Ogni
sentimento era confuso, ma ero turbata.
Quel giorno tiepido, terso, era pieno del penetrante odore
di rosmarino in precoce fioritura. Fu la prima strana,
avvolgente sensazione del rientro dall’esilio dopo quasi tre
anni di assenza. Sulla riva c’erano molti cittadini in attesa del
piroscafo e del nostro sbarco. Amici un po’ preoccupati,
conoscenti più o meno indifferenti, tutti sicuramente curiosi.
A parere loro tornavamo in Patria senza aver patito la
guerra. Tre anni in esilio come se fossimo stati in vacanza. Il
Paese era impoverito e distrutto, anche se l’Isola non aveva
subìto disastri diretti. Mancava tutto, per cui la maggior parte
degli sguardi erano fissi sui nostri bagagli, sui grandi colli e
sulle valigie ammucchiate sulla riva. Probabilmente
immaginavano contenessero tutto quello che lì mancava da
molto tempo: cibo, articoli di prima necessità, vestiario. Cose
che presto si sarebbero dimostrate importanti nella nostra
nuova vita, che non si prospettava per niente priva di
difficoltà, né serena. Sulla riva ci attendeva la signora Juri
con il genero Dare. Stranamente non ci avviammo verso la
Casa in pietra grigia, ma alla casa di Dare nel centro della
piazza e all’inizio della grande scalinata per la fortezza
Spagnola. Salimmo al primo piano dell’edificio disabitato. Il
motivo della nostra sosta in quel luogo non ci era chiaro.
Sarebbe stato Dare, in qualità di membro del comitato
cittadino ed esponente politico del nuovo Governo
Socialista, a spiegarci la nostra situazione. Ci comunicò che
la Casa in pietra grigia, secondo l’ordinamento della nuova
Jugoslavija, era stata nazionalizzata e divisa in più alloggi,
dati in uso a persone indigenti. La proprietà privata non c’era
più. Inoltre, la nostra Casa era troppo grande per una
famiglia di tre membri. Durante la nostra assenza, il piano
terra era stato assegnato a Paro, addetto a legare le corde del
piroscafo, detto acchiappacime. Al primo piano era stato
sistemato Furbo, il partigiano che aveva una casa propria
sulla piazzetta di San Marco ceduta alla sorella. Al secondo
piano e nel sottotetto c’era la famiglia del vecchio pescatore
Padua, con figli sposati e cognata vedova con prole. Un vero
condominio. Avendo saputo dell’imminente rientro di
Maestro dall’Egitto, le autorità cittadine intendevano liberare
il primo piano della Casa in pietra grigia. Purtroppo avevano
ritardato. Maestro non fece alcun commento. Zia Marica
rimase esterrefatta e poi andò su tutte le furie. Chiedeva a
Dare come fosse possibile un tale trattamento per Maestro,
costretto all’esilio perché si era prodigato, durante
l’occupazione italiana, a salvare i partigiani dalla sicura
fucilazione e le loro case dal rogo. Aveva salvato gli eroi
nazionali e per questo era stato obbligato a un’assenza
forzata, per ordine delle stesse autorità della nuova
Jugoslavija. La risposta di Dare fu esplicita: queste erano le
leggi della nuova Repubblica Federale Socialista Jugoslava. Il
Comune e le autorità locali non potevano fare nulla.
Avevano potuto giusto assicurare la liberazione del primo
piano dando la possibilità a Furbo di costruirsi un alloggio
nell’ultima parte del giardino retrostante la Casa in pietra
grigia. Zia Marica chiese come era possibile, considerando le
leggi, che la casa di Dare non fosse stata requisita. La
risposta fu che i suoi cognati, ufficiali partigiani, venivano in
vacanza sull’Isola. A questo punto zia Marica si infuriò:
come era possibile una tale ingiustizia? I cognati di Dare da
sempre avevano vissuto a Zagabria e Spalato dove avevano i
loro alloggi. Dare spiegò che personalmente riteneva l’offerta
della propria casa a Maestro un atto di amicizia e coscienza
civica. La proposta di Dare, probabilmente, era un ben
studiato calcolo. Maestro non poteva a lungo rimanere in
una casa, tanto generosamente offerta in uso. Almeno una
parte della Casa in pietra grigia doveva essere restituita.
Infatti, era ben diverso offrire la propria casa ammobiliata a
Maestro per breve tempo invece che doverla cedere in uso
permanente a gente del popolo. Malgrado non sapesse
ancora che molte case erano state lasciate ai loro proprietari,
zia Marica era fuori di sé per il fatto che le autorità non
avessero preso in alcuna considerazione le particolari
condizioni che avevano costretto Maestro all’esilio. Nessun
disagio, invece, avevano subìto quelli che nel frattempo
erano diventati improvvisamente grandi patrioti. Quelli che,
dopo imboscate e dubbie assenze, nelle ultime settimane
della guerra si proclamarono grandi comunisti. Loro sì che
avevano avuto un trattamento di gran riguardo. Malgrado le
proprietà fossero state nazionalizzate e le case nominalmente
diventate proprietà dello Stato, la loro posizione non era
mutata. Per noi, una soluzione diversa da quella adottata
dalle autorità non c’era. Fino alla liberazione di una parte
della Casa in pietra grigia, ci sistemammo nella casa di Dare:
due stanze e una cucina abitabile con il cortiletto interno
lastricato e un paio di aranci selvatici. Il secondo piano e il
sottotetto chiusi a chiave.
Iniziò così una vita provvisoria, fatta di nuove attese.
Non si discuteva in merito agli avvenimenti che ci avevano
costretto a non poter tornare nella nostra Casa. Si credeva
che le cose sarebbero in qualche modo state risolte. Zia
Marica fece un sopralluogo alla Casa in pietra grigia e tornò
esterrefatta. Riferì poco o niente. Cercò di farci coraggio
dicendo che tutto si sarebbe sistemato. Si raccomandò: non
c’era alcuna necessità che qualcuno di noi andasse alla Casa
prima che fosse stata liberata. Non disse altro, ma la sua
espressione faceva pensare a cose non dette, volutamente
nascoste.
Il nostro ritorno, muniti di parecchi colli, dette adito alla
convinzione che fossimo ben forniti di cibo. Ricordo
vagamente un viavai continuo di persone che si recavano da
zia Marica a chiedere zucchero, riso, caffè. Dicevano: per
malattia. Erano persone che zia Marica non ricordava
amiche. Il viavai continuava con richieste alimentari, le più
disparate. Come se le nostre risorse fossero illimitate. Zia
Marica si lamentava con Maestro non sapendo come far
terminare quel pellegrinaggio che seriamente assottigliava le
nostre riserve portate dall’Egitto. Io di solito non ero attenta
a quello che succedeva intorno a me. Distrattamente sentivo
ciò che si diceva. Successe però che diventai l’artefice di un
fatto che zia Marica definì villano e non adatto a persone di buona
educazione. Un giorno incrociai sulle scale della nostra
abitazione provvisoria, la signora Ilda, sorella dell’ex
finanziere. Si era recata in pellegrinaggio per una ripetuta
richiesta di riso, zucchero, caffè. Le sbarrai il passaggio e
senza alcun indugio esordii:- Non c’è più né riso né zucchero!
La signora Ilda rimase come folgorata. Non sapeva se
proseguire o andarsene. Alla fine, violentemente girò i tacchi
e sparì. Probabilmente credette che zia Marica fosse l’artefice
di quel mio comportamento. E d’altronde lo fu, ma senza
volerlo. Infatti, lei, parlando con Maestro, lamentava
l’atteggiamento dei concittadini, con molti dei quali non
aveva mai avuto prima alcun rapporto. Lo faceva in italiano,
convinta che così rimanessi all’oscuro dei loro discorsi.
Purtroppo per lei, capivo benissimo. Magari non tutte le
parole mi erano chiare, ma il significato, particolarmente
quello di disagio, sconvenienza, inganno mi prendeva in
pieno creando ansia e sospetto. Anche se nessuno aveva mai
pensato di insegnarmi la lingua italiana, tantomeno di
controllare le mie capacità di apprendimento, comprendevo
bene. La signora Ilda non fece più ritorno alla nostra porta.
Molto risentita troncò ogni rapporto, non prima di aver
raccontato ai quattro venti dello sgarbo subìto, attraverso la
bocca della bambina, perché Marica non aveva il coraggio di
allontanare una persona che le faceva visita per pura cortesia
verso chi ne aveva necessità! Zia Marica ci teneva molto ai
rapporti corretti e probabilmente ancora di più a un mio
atteggiamento signorile. Secondo il suo modo di vedere, una
simile libertà da parte mia era del tutto fuori luogo sia per il
contenuto, sia per la maniera, che non apparteneva a una
bambina ben educata. Ancora una volta credeva di aver
riscontrato, celato in me, un cattivo carattere che lei, con
tutte le attenzioni e gli sforzi non era riuscita a sconfiggere,
tanto meno a tenere sotto controllo. Si spazientì, come ad
ogni mio inenarrabile misfatto, senza spiegarmi perché il mio
gesto fosse considerato villano, significato che io da sola non
riuscivo a comprendere. Quello che avevo detto alla signora
Ilda, era la verità. Non riferire in quel modo, non
apparteneva ancora alla mia mancata conoscenza della
simulazione. Per cui ritenni zia Marica colpevole di
pretendere da me sincerità, mentre lei non la esercitava
affatto. Mi sembrò una grande falsità. Quell’improvviso
partecipare alle cose quotidiane cui sembravo essere
completamente disinteressata, e in quel modo inadatto, non
fu ben visto. Zia Marica intensificò il suo controllo su ogni
mio movimento. Maestro rimase interdetto e chiuse
l’incidente con l’osservazione:- I colombi sporcano la casa!
Bisogna fare attenzione! - Ma cosa voleva dire? Chi doveva fare
attenzione a quello che si diceva? Eravamo salvi dalla signora
Ilda. Non ci fece più visite, tantomeno di cortesia, per cui mi
sentivo appagata. Qualcosa, però, imparai anche dalle cose
sottintese. Rimasi attenta, ma tenendo la bocca chiusa.
Essere vigile non era affatto nel mio carattere, per cui
aumentò la mia chiusura verso gli estranei, ma anche verso la
zia, accrescendo così il mio senso di insicurezza. Non capivo
gli adulti. Mi mancavano punti fermi. L’unica persona della
quale mi fidavo rimaneva Maestro, ma non sapevo quali
domande fargli, per cui mi rispondevo da sola. Spesso
sbagliando.
L’inizio dell’estate isolana risvegliò prepotentemente in
noi la necessità della vita all’aperto, immersi nella natura. La
casa di Dare, oltre quel piccolo cortile lastricato con un paio
di alberi di arance, era soffocato dalle alte mura circostanti.
Dopo anni nel deserto di El-Shatt ci mancavano gli spazi
aperti, l’odore della terra. Maestro e io iniziammo le nostre
lunghe passeggiate all’imbrunire. Salivamo la ripida scalinata
verso la fortezza Spagnola in mezzo agli usci delle cantine
con il forte odore delle botti di vino e dei barili con pesce
salato. I piccoli cortili ricoperti di viti rampicanti, in mezzo al
quartiere medievale Groda, si affacciavano sulla scalinata
fino alla strada panoramica della Fortezza che sorpassava la
collina di Gojana oltre i vigneti di San Marco, verso Santa
Catarina. Più si saliva, più bellezza si riscopriva. Lo sguardo
si poggiava sul reticolo di antiche case in pietra dai tetti
bruniti, in mezzo a dei fazzoletti di orti e giardini ben curati.
Lungo la cinta muraria a ovest, verso la cattedrale, i palazzi
dei nobili estinti resistevano al tempo. Appartenevano ormai
ad una piccola borghesia nata da artigiani e bottegai. Molti
bellissimi palazzi in stile gotico veneziano, ormai ridotti alle
sole mura esterne diroccate, con splendide finestre a bifora
in pietra merlettata, come orbite vuote erano rivolte fisse sul
mondo moderno che velocemente cambiava e lasciava
sempre di più la sola memoria di ricchezze e sfarzi remoti.
Tra i pochi palazzi rimasti intatti si stagliavano i tetti nuovi,
di un improbabile rosso, come quelli rifatti del Convento
delle Benedettine, dell’antica Orlana, attuale scuola di
musica, del Palace Hotel e di un paio di antiche dimore che
nei secoli avevano subìto repentini rifacimenti e cambiato
proprietari, i cui attuali nomi non ci svelavano nulla della
loro illustre storia. Palazzi passati in proprietà allo Stato
Socialista Jugoslavo e trascurati in attesa di giorni migliori.
All’inizio di giugno l’imbrunire sulla strada della Fortezza
era un momento magico. Il caldo non era ancora tanto forte
come quello che nei mesi seguenti avrebbe arroventato la
pietra bianca delle abitazioni e della piazza. I fazzoletti di
terra in mezzo alle case, amorevolmente annaffiati,
lasciavano evaporare velocemente l’acqua e una lieve foschia
si innalzava sopra i tetti. A quell’ora di prima sera gli odori di
zolla umida, degli alberi di frutta sfioriti e di erbe aromatiche
piantate nei vasi di latta si sprigionavano con prepotenza.
Dai camini appena accesi nelle basse cucine, un lieve fiotto
di fumo avvolgeva usci e finestre aperti sulla morbidezza
dell’imminente calare dell’oscurità. Tutto diventava avvolto
di una nebbiolina lieve e trasparente, mentre il globo rosso
del sole, in quel periodo dell’anno spostato sulle Isole
Spalmadori verso Lissa, scendeva dietro le loro sagome
bluastro brunite, lasciandole improvvisamente solitarie e
misteriose, riflesse contro l’orizzonte. La porta a ovest delle
antiche mura cittadine si apriva su poche case e sui loro
frutteti con ciliegi e albicocchi sotto la strada panoramica. Il
tetto scuro della vecchia casa squadrata degli Juri si
intravedeva solitario in mezzo al giardino.
Passando sulla strada sopra le sue mura, Maestro si fermò
a ricordare tempi passati che mi sembrava fossero anche
nella mia memoria. Sorrideva dicendo:- Tu non puoi ricordare
quando abitavamo in questa casa. Come al solito, io mi alzavo al
sorgere del giorno. All’alba salivo insieme a Lilla e Lola oltre la
chiesetta della Madonna Candelora sui sentieri per le baie di Brusje.
La caccia, in quei tempi, era molto ricca e pochissimi i cacciatori. Mi
ritiravo dai boschi nel pomeriggio e mai con il carniere vuoto. Dopo il
pranzo avevo l’abitudine di riposarmi. Prendevo il giornale e il mio
bicchiere preferito, quello grande da birra, con il manico, riempito per
un dito di vino rosso che sorseggiavo lentamente leggendo il giornale. Eri
talmente piccola che con difficoltà riuscivi con tutte e due le mani a
tenere il bicchiere. Ogni pomeriggio insistevi per portarmene uno. Ci
incuriosì la tua insistenza. Presto scoprimmo il mistero. Avevi sentito
che chiedevo di versarmi “due dita di vino”. Facevi versare due dita,
però due dita di un adulto, e poi durante il tragitto dalla cucina alla
stanza ti fermavi e bevevi, misurando “le due dita di vino” con le tue
dita. Non eravamo per nulla contenti di questo tuo vizietto. Cercavamo
di spaventarti dicendo che bevendo saresti rimasta nana. Non servì a
niente. Il vino ti piaceva. Visti i risultati, zia Marica fece un altro
tentativo. Ti portò in piazza davanti alla palazzina delle suore del
Sacro Cuore. In alto sulla facciata c’era un bassorilievo. Rappresentava
una donna vestita di stracci con un grande bicchiere in mano. Zia
Marica disse:
- Quella è santa Jelisaveta, chiamata Jelisaveta l’ubriacona! Così
brutta diventerai tu!
Credo che nemmeno questo discorso abbia portato alla rimozione
del vizietto. La verità è che, con tutto il vino bevuto di nascosto, sei
cresciuta anche più del normale. - Questo particolare della mia
prima infanzia mi venne così rivelato. Data l’età non potevo
ricordarlo. Eppure, mi sembrava di avere memoria di quel
tempo, o forse l’avevo sentito raccontare e fatto mio.
Assorbivo moltissimo, tutto. E con una fervida
immaginazione in silenzio elaboravo gli avvenimenti. Spesso
davo l’impressione di essere più grande della mia età. Ero
alta, troppo alta. Quasi un’adolescente, per cui un’altra
ossessione di zia Marica era vestirmi con abiti da bambina e
grandi fiocchi in testa. Un altro motivo di incomprensione e
scontro tra noi due.
A fine giugno ci liberarono il primo piano della Casa in
pietra grigia.
Zia Marica chiamò la nostra vecchia domestica Jera e si
buttò euforica nelle pulizie e nella ricerca delle nostre cose,
portate via dai concittadini durante la nostra assenza. Una
parte dei mobili, ammassati senza alcuna cura in cantina, era
rovinata. Tutti necessitavano di seri restauri. Qualcuno aveva
raccontato a zia Marica dei furti delle nostre masserizie e dei
mobili, finiti in certe famiglie. Dopo di ciò, zia Marica iniziò
delle visite a sorpresa. Improvvisate di questo genere
suggerirono a parecchi concittadini di restituire
spontaneamente le cose portate via. Si giustificarono di
averle prese per conservarle e salvarle. Salvare da chi?! Dai
tedeschi?! Cosa se ne facevano i tedeschi delle masserizie?!
Conservarle da altri concittadini?! Perché non avevano
restituito le cose senza l’intervento della legittima
proprietaria?! Rientrarono così una parte dei mobili del
salotto, il mobilio del tinello-cucina, qualche tappeto, quadri,
lumi a petrolio, pentole di rame, piatti e bicchieri, in verità
dimezzati. Mobili e oggetti troppo singolari e riconoscibili
per poter essere trattenuti. Mancavano materassi, coperte
imbottite, tendaggi e tant’altro. Non c’era traccia dei bauli
con l’argenteria, i cristalli e la bella biancheria ricamata,
lasciati in custodia alla signora Juri. Le cose di Casa
rientravano in vari modi: in parte rintracciate per l’avviso di
quanti avevano seguito il saccheggio, in parte perché
qualcuno, diciamo, si era vergognato del proprio
comportamento. Tutti gli altri le restituirono perché
costretti. Jera scese dal paese per aiutare nella risistemazione
della Casa, resa completamente inabitabile dal passaggio di
tanti estranei.
La grande stanza padronale al piano con la doppia
finestra fu divisa in due con un pannello in legno di pino,
procurato dai vecchi musicisti e venduto a buon prezzo:
anche per cibo. Si ricavarono le stanze per Maestro e per me.
La prima stanza sulle scale, la stanza glicine, divenne un
salottino, con la parte più corta del vecchio divano, due
poltroncine, la vetrinetta con le scaffalature per le partiture,
l’antico scrittoio di Maestro, un tavolo. Mobili ritrovati tra le
cose abbandonate nella cantina e recuperati in varie case. La
stanza verde diventò una grande cucina abitabile con la
finestra e la porta sulla terrazza antistante. La rampa di scale
dalla cucina estiva ai piani superiori era chiusa al lato del
grande bagno. L’acchiappacime e le famiglie del vecchio
pescatore Padua ebbero l’ingresso dal giardino posteriore.
Furbo invece, con il permesso del Comune iniziò la
costruzione della casa a nord del giardino, sotto il muro di
cinta, che non finì mai.
Le pulizie e la pitturazione, cure necessarie alla Casa, si
conclusero velocemente. Jera fece miracoli con i tessuti di
nylon dei paracadute portati da El-Shatt. Era il primo tessuto
in nylon sull’Isola: robusto, trasparente, senza grinze. Tende
vaporose, leggere svolazzavano sulle finestre delle stanze.
Recuperati i mobili, la cucina, dove si sarebbe svolta la vita
quotidiana, ci sembrava bellissima. Ritornavamo a godere
della vista dalla terrazza sulla riva e sulle Isole Spalmadori.
Un telo parasole, recuperato dal tessuto interno blu di una
tenda portata da El-Shatt, fu sistemato in terrazza sopra il
tavolo e le sedie. Di sera Maestro riceveva amici e vecchi
musicisti al fresco dei muri, narrando particolari della vita nel
deserto di El-Shatt, dell’Egitto, del Sinai. Gli anziani
musicisti si presentavano con piccole damigiane di vino,
bottiglie d’olio o prosecco, ortaggi dei loro orti, pesce
appena pescato e un grande desiderio di far prendere lezioni
private di musica a un figlio o nipote. Ciò portò una certa
allegria nella Casa in pietra grigia. Le scorte erano
drasticamente ridotte e le carte annonarie a bollini per
l’acquisto delle cose di prima necessità non erano affatto
sufficienti. Le lezioni private di vari strumenti integravano lo
stipendio di Maestro, modesto come tutti i compensi statali.
Le lezioni aiutarono la ripresa di una vita più gradevole.
Maestro riuscì velocemente a riunire i suoi vecchi musicisti,
desiderosi di ritornare a suonare, particolarmente dopo i
successi a El-Shatt, e l’antica tradizione si ripeteva.
Dal 1922, con la direzione di Maestro, l’Orchestra
Municipale aveva raggiunto traguardi invidiabili di qualità,
riconosciuti a livello nazionale e all’estero. Generazioni di
giovani avevano per anni, a piedi, raggiunto dai paesini
limitrofi la città per studiare musica. Era considerato un
privilegio far parte dell’orchestra, un cambiamento
importante nella vita di contadini e pescatori, come un
avanzamento nella condizione sociale. Essere ammesso da
Maestro a studiare musica significava essere stato preso in
considerazione come persona con capacità artistiche e perciò
al di sopra dei semplici mortali. Inoltre in quei tempi non
esistevano divertimenti che potessero occupare il tempo
libero dopo un lavoro di tutto il giorno su sassosi campicelli,
scoscesi vigneti o con le reti da pesca di notte. Tutte le feste
comandate durante l’anno e le domeniche con la messa
grande finivano sempre con un concerto, d’inverno
nell’antico arsenale e già in primavera e durante tutta l’estate
in piazza davanti alla Loggia, l’angolo con una eccezionale
acustica, protetto dagli alti palazzi.
Le visite alla nostra terrazza di padri e rampolli, probabili
futuri musicisti, nelle belle serate estive domenicali, avevano
un preciso scopo: quello di convincere Maestro a dare
lezioni private per abbreviare il tempo del loro ingresso
nell’orchestra. Maestro spesso cercava di far capire che non
tutti i ragazzi avevano attitudini per la musica. Allora i
convincimenti finivano con la raccomandazione di far
suonare al loro figlio almeno il tamburo. Sembrava inutile la
spiegazione che anche la grancassa, i piatti e il tamburino
erano importanti strumenti musicali e si doveva imparare a
suonarli come tutti gli altri. Un ragionamento quasi mai
recepito. In breve, il tamburo non era ritenuto uno
strumento.
Per loro era un non strumento. Poca soddisfazione per tanti
ragazzi volenterosi ma scarsi di orecchio, come li classificava
Maestro senza farsi coinvolgere. Ugualmente il numero di
allievi era considerevole e l’entusiasmo molto vivo.
La gente isolana, non aveva mai avuto moneta a
sufficienza. Seguendo le antiche abitudini tutto si pagava in
natura. Maestro non si era mai interessato a questo aspetto
del proprio lavoro, né pensava al compenso per le lezioni.
Zia Marica stabiliva il prezzo secondo la possibilità di ogni
singolo allievo. Nessuno mai aveva lesinato su quanto si
stabiliva. Prodotti di migliore qualità e il pescato scelto erano
conservati per Maestro. Prodotti spesso rari, costosi e quasi
inesistenti sul mercato per la maggior parte della
popolazione, si trovavano regolarmente sulla tavola della
Casa. Almeno da quel punto di vista, la vita aveva assunto un
aspetto più gradevole, quasi normale. Se ciò ancora era
possibile.
Dopo due mesi dal rientro da El-Shatt, finalmente
echeggiavano di nuovo le note dei più bei brani delle opere
liriche, soprattutto italiane: Verdi, Mascagni, Rossini,
Puccini, e più raramente dei grandi maestri tedeschi e russi.
La lirica italiana sembrava essere di più facile apprendimento
per gli allievi isolani. Può darsi che una maggiore semplicità
nell’approccio a queste composizioni fosse trasmessa da
Maestro, dalle sue antiche radici e dalla passione per questo
tipo di musica, suonata dalla banda comunale che aveva da
sempre seguito nella nativa Padova. Già da bambino
trascurava gli impegni scolastici per correre dietro alla banda
cittadina, con grande disappunto del padre, professore al
Politecnico, che aveva programmato un sicuro, onorevole
futuro per il figlio. Il severo genitore non si capacitava di
quelle inclinazioni verso un mestiere che non era da
considerare serio. La musica era arte, e l’arte non era un
mestiere in una famiglia di autorevole posizione sociale.
Poteva essere solo un hobby. Purtroppo, dopo un’infinità di
infruttuose imposizioni e grandi malintesi, il figlio partì
determinato per il Conservatorio di Parma per studiare
composizione
e
direzione
d’orchestra,
con
la
specializzazione in pianoforte. Distaccato dall’autorità
paterna, con l’aiuto nascosto della madre molto affezionata
al figlio artista, passò la gioventù in libertà, fuori dal mondo
reale e da tutti i suoi inconvenienti. Si laureò in tempi
strettamente canonici dando prova di un sicuro talento.
Come migliore laureando della propria classe, già a ventitré
anni diresse l’orchestra del Regio Teatro di Parma in
presenza del maestro Arturo Toscanini, che prese a volergli
bene e a incoraggiare la sua intenzione di organizzare
un’orchestra di ottoni con giovani musicisti vicentini.
Vicenza era la città originaria della famiglia materna, con la
quale aveva un fortissimo legame, non solo per simili
attitudini e sensibilità, ma anche per la passione da lui
ereditata per la caccia, alla quale, già da ragazzino, fu avviato
dal nonno conte, proprietario di boschi e sempre sui loro
sentieri nonostante il serio impegno come docente di Storia
dell’Arte all’Università di Filosofia a Padova. Conseguita la
laurea, il giovane Maestro decise di fare una visita alle isole
dalmate. Ne aveva sentito racconti di caccia miracolosa.
Fornito di una somma di denaro elargito di nascosto dalla
madre e con l’aiuto del nonno, affezionati al giovane ribelle,
approdò nell’antica cittadina omonima dell’isola dalmata,
Curzola, attorniata di splendidi paesaggi boschivi, laghi
salmastri e ricche riserve di caccia. Trovò un ambiente
genuino e ospitale, popolazione semplice e una gradevole
sistemazione nella casa del commerciante Piva. La famiglia
benestante accolse con simpatia il giovane Maestro. Il bel
giovane educato, affascinante, venuto dal Gran Mondo,
esercitò un’indubbia attrazione sulla piccola comunità.
Maestro decise che la musica si poteva insegnare in qualsiasi
parte del mondo, senza conoscere la lingua del posto. La
musica si insegnava nella lingua musicale per eccellenza,
l’italiano. Fu così che iniziò la sua felice e fortunata
esperienza a Curzola. Purtroppo la grande guerra del ‘14-‘18
da cittadino italiano sorprese Maestro in Dalmazia: si trovò
sotto l’occupazione austriaca, senza poter fare rientro in
Italia. Nel 1917 fu prelevato dalla propria casa e portato in
campo di concentramento a Linz, in Austria, e i suoi beni
furono tutti confiscati. Rimase in prigionia fino alla fine della
guerra.
Alla fine tornò a Curzola accolto dalla famiglia Piva. Tutti
i suoi beni erano dispersi. Distrutta la sua preziosa biblioteca
musicale. Molti decenni più tardi, riordinando i documenti di
Maestro, trovai e conservai le sue lettere al Ministero degli
Esteri italiano, scritte su fogli con pentagramma. Chiedeva
l’intervento ufficiale del Governo italiano perché gli
venissero restituiti i beni, requisiti dagli austriaci senza
motivo, dal momento che non era un militare. Ben poco si
trovò di sano e integro. Credo che Madre Patria deluse
Maestro, tanto è vero che, poco tempo dopo, prese la
cittadinanza jugoslava. A Curzola rimase, con reciproca
soddisfazione sua e dei cittadini, fino al 1922, quando decise
che era arrivato il momento di accettare proposte di
maggiore impegno. Particolarmente quella di dirigere
l’orchestra dell’Opera di Spalato, con la possibilità di abitare
sull’isola di Lesina. Tra Lesina e Spalato il tragitto in
piroscafo era breve e quotidiano. E Lesina era un altro
paradiso per la caccia.
Ora, dopo quasi venticinque anni sull’Isola, un’altra
guerra, la Seconda Guerra mondiale, e un altro esilio
avevano fatto di nuovo sparire completamente la sua
collezione di tutte le opere liriche, suo unico vero tesoro
patrimoniale già una volta ricostruita. In Egitto aveva
riscritto a memoria gli arrangiamenti della maggior parte
delle partiture per ogni strumento dell’orchestra di ottoni.
Rientrato alla Casa in pietra grigia riprese lo stesso lavoro. Il
salottino al primo piano con il piccolo pianoforte verticale,
restituito dal Comune, divenne lo studio dove Maestro
componeva, lavorava sulle partiture per l’Orchestra
Municipale e teneva lezioni private. Ogni mattina, tutte le
mattine, si udivano suoni di tromba, di clarino, clarinetto,
sassofono, ma anche fisarmonica e chitarra, malgrado questi
strumenti non facessero parte dell’orchestra. Uno strazio di
suoni scomposti, striduli, prodotti da suonatori principianti,
inesperti, testardi e insistenti nel cercare di imparare a
suonare.
Di sera, poi, la bella voce baritonale di Maestro si
innalzava al di sopra i suoni degli strumenti. Le sue
spiegazioni ai musicisti che, allievi per parecchi anni prima
della guerra, facevano parte della banda, erano ormai sempre
le stesse: espressioni fotografico-illustrative, piene di errori
linguistici, come d’altronde succede alle persone che non
imparano mai bene una lingua straniera. Per tutti i
sessant’anni che visse sulle isole dalmate Maestro non
cambiò mai il modo di esprimersi.
Alla domanda sul perché non cercasse di parlare un
croato più comprensibile, rispondeva, come di rito:- La
musica ha un’unica lingua: l’italiano. - Molto più tardi realizzai
che per Maestro esprimersi in perfetto italiano celava
un’inconscia consapevolezza di appartenenza a un ambiente
diverso. Indubbiamente amava gli isolani e ne era
pienamente ricambiato con molto rispetto. Eppure tutto il
suo modo di essere esprimeva qualcosa che lo rendeva
diverso. Probabilmente si trattava del mistero di un uomo
che veniva da un altro paese; riservato, colto, che abitava una
vera roccaforte dove la vita era per gli altri invisibile.
Indossava bei vestiti di stoffe inglesi confezionati su misura,
passava il tempo libero con i propri cani lungo le valli isolane
e non frequentava luoghi pubblici. Di solito con evidenza
esprimeva un’innata indifferenza per tutto quanto succedeva
al di fuori delle sue scelte. Questo spiegava anche l’uso della
propria madre lingua, perfetta.
Con voce seria, scherzosa, a volte arrabbiata in un
improbabile strano miscuglio di idiomi di italiano e dialetto
isolano, spronava allievi giovani e musicisti anziani. Anche se
molto
volenterosi,
spesso
trovavano
difficoltà
nell’apprendimento della musica. I suoni e gli umori
arrivavano dall’Orlana sulla piazzetta del Convento delle
suore Benedettine e sulla scalinata verso la Fortezza, dove
nelle serate estive molti passanti si fermavano ad ascoltare
suoni interrotti, poi armoniosi, sempre più compatti,
addirittura soavi. Nell’Orchestra Municipale erano ormai
radunati trentacinque validi elementi.
Nel frattempo anche la vita nella Casa in pietra grigia
aveva ripreso tutte le vecchie abitudini. L’estate ci portò il
piacere dei lunghi bagni nella piccola baia sotto villa
Bonaparte. Quella minuta conca, molto protetta da due
braccia naturali di roccia grigiastra sconnessa con l’acqua
trasparente che luccicava sulla battigia. Ogni mattina, prima
che il sole iniziasse a picchiare, ci avviavamo per la stradina
sterrata dietro Casa che attraverso la pineta di Santa Catarina
proseguiva verso villa Bonaparte fino alla baia. Una serenità
ermetica e intensa sembrava essere stata ritrovata. Non ci
mancava nulla per essere sereni. Quasi felici. I lunghi anni di
esilio nel deserto del Sinai ci avevano insegnato molte cose.
Anche se dimezzata, apprezzavamo in pieno la nostra bella
vecchia Casa abitata in comune con estranei. Ma quelle
erano le leggi, per cui non aveva senso affliggersi. Credo che
Maestro e io vivessimo la nostra nuova serena esistenza con
incoscienza. Era ovvio che zia Marica, invece, per renderci la
vita piacevole, senza coinvolgerci combatteva molti
problemi. Ogni tanto ci arrivava qualche sprazzo di
avvenimenti sgradevoli, ma marginalmente.
Successe così che si recò un pomeriggio a raccogliere le
nostre cose lasciate nella casa di Dare. Non abbiamo mai
saputo quali motivi la spinsero a salire in soffitta, chiusa a
chiave durante la nostra permanenza. Trovò la chiave
lasciata nella toppa della porta, entrò e rimase impietrita. I
nostri bauli consegnati in custodia alla signora Juri e
dichiarati trafugati erano tutti lì, nel sottotetto della casa di
Dare, riempiti di cose vecchie. Nessuna traccia
dell’argenteria, dei cristalli, della bella biancheria ricamata.
Come erano arrivati nella soffitta della casa in piazza? Per
essere custoditi? E poi, chi li aveva svuotati? Ci avevano
riferito che erano spariti, rubati! Alla scoperta della soffitta,
zia Marica si sentì male. Fu chiamato il medico. Parlò di un
piccolo infarto. Raccomandò l’assoluta tranquillità. L’estate
passò, però, senza che la sua salute migliorasse.
Dei bauli ritrovati vuoti non si parlò con nessuno.
Maestro e zia Marica decisero che fosse più saggio non
urtare la suscettibilità delle persone che appartenevano alla
cerchia delle vecchie amicizie, diventate influenti nella nuova
amministrazione cittadina. Rimanere senza quel tipo di
amicizie poteva portare all’isolamento. Questo Socialismo li
spaventava. Era ben diverso da quello che divulgava la
propaganda. Maestro e zia Marica erano increduli e sbigottiti
dal verso che le cose prendevano. Non esisteva più nessuno
dei vecchi diritti da sempre considerati sacrosanti. Avevano
concluso che il migliore atteggiamento era fingersi ignari dei
fatti e rimanere in silenzio. Non si parlò più né di diritti, né
di proprietà violata. Tanto meno di richieste lecite ed esilio
forzato. Zia Marica disse:- È tutta colpa della guerra!
Con ciò chiuse i discorsi. Come se la guerra fosse stata
condotta da qualcuno che non appartenesse a quegli stessi
individui. Adattarsi alle leggi significava vivere e
sopravvivere.
Purtroppo le sorprese non erano esaurite. All’inizio di
ottobre un Podestà di turno ebbe un figlio. Secondo vecchie
abitudini, zia Marica si recò a fare gli auguri alla puerpera e
mi portò con sé. Dopo i primi convenevoli ci avviammo alla
stanza da letto, dove il bimbo roseo e paffuto era sistemato
in mezzo ai soffici cuscini di piume d’oca e avvolto in grandi
asciugamani di morbida spugna bianca con le evidenti cifre
AB ricamate in seta chiara sui due lati corti. Zia Marica
improvvisamente impallidì. Si sedette sull’angolo del letto
sollevando un lembo del copriletto scoprendo il materasso.
Con una voce rauca che mi spaventò, senza scomporsi,
disse:- Anche voi ci avete derubati. Non solo gli asciugamani, ma
anche i materassi!
La moglie del Podestà, senza un minimo d’imbarazzo e
con estrema tranquillità, rispose che suo marito aveva
comprato i materassi e la biancheria da persone sconosciute,
di passaggio. Non immaginava potessero essere stati rubati.
Zia Marica si ritirò senza alcun commento. Durante il rientro
alla Casa più volte si appoggiò alla mia spalla. Tremava. Mi
turbò il suo silenzio. Con molta calma riferì a Maestro
l’accaduto e non se ne parlò più. Non abbiamo mai saputo
nulla delle azioni che intraprese in seguito. Una sera tardi i
materassi, le coperte imbottite e della biancheria arrivarono
nella Casa in pietra grigia. Di questa strana restituzione
nemmeno Maestro seppe mai molto. Probabilmente zia
Marica credette fosse più saggio non mettere nessuno al
corrente di tutti i retroscena. Aveva pensato che le autorità
erano le autorità! Il Podestà persona potente. Più che mai
era: lasciare perdere.
Zia Marica sembrava riappacificata con gli avvenimenti.
Dava l’impressione di essere serena. Non ci rendevamo
conto che era cambiato il suo solito vigore, quella nascosta
forza motrice. Battagliera ed estremamente attenta alle
necessità della vita in Casa, fra le quali si era dovuta da
sempre districare con abilità, improvvisamente non vi
prestava più attenzione. Aveva combattuto con tessere
annonarie troppo scarse per le reali necessità, con le risorse
portate da El-Shatt quasi esaurite e con la poca moneta.
Tutto sembrava tranquillo e risolto. Purtroppo zia Marica
deperiva, senza che ce ne accorgessimo. Il medico la visitò
più volte. Parlò di una strana polmonite e un altro piccolo
infarto. Abituati come eravamo alle sue decisioni sicure e
risolute, non ci rendevamo ancora conto del suo vero stato.
Era come se si fosse spenta tutta la sua forza. All’inizio di
novembre fece una cosa strana: riempì la vasca del bagno di
acqua fredda, aprì le finestre a un vento gelido di bora e, con
addosso una febbre a termometro pieno, si infilò nell’acqua
ghiacciata. Svenne. Durante la sera entrò in coma. Due
giorni dopo, senza scomporsi o dare un qualsiasi segno di
disagio, si addormentò. Zia Marica aveva seguito la prassi dei
medici inglesi a El-Shatt. Quella del nastro rosa ai letti dei
bambini con febbre alta che venivano sottoposti a docce di
acqua fredda. Quella malattia che si trascinava da mesi
togliendole tutte le forze, senza che si capisse quale fosse
l’origine di quello stato di assoluta prostrazione e se ne
conoscesse il rimedio, l’aveva resa vulnerabile. Secondo il
suo modo di concepire e vivere la vita, la sua infermità era
un serio impedimento alla tranquillità della famiglia, alla
quale da sempre aveva sacrificato ogni personale benessere.
Sicuramente molti pensieri avevano tormentato la sua mente.
Qualsiasi cosa avesse meditato, la preoccupazione di
diventare un peso inutile era perfettamente in linea con tutto
quanto era stata la sua vita. Aveva creduto di poter scegliere
il proprio futuro? Aveva la convinzione che l’acqua gelata
l’avrebbe fatta rivivere? Aveva intuito che, come più tardi ci
confermò il medico, non aveva un futuro da persona sana e
attiva come sempre era stata e per questo scelse
deliberatamente di lasciarci liberi di organizzare la nostra vita
senza il fardello della sua malattia? Per questo decise di
lasciarci?
A quel tempo avevo creduto che non ci amasse poi tanto,
se scelse di abbandonarci. Ma ero anche rosa da una cattiva
coscienza. Sinceramente credetti che avesse deciso di
andarsene perché non la amavamo abbastanza. Dico noi
perché l’intesa che esisteva tra me e Maestro era di totale
complicità. Certamente ero io che dimostravo una certa
indifferenza. Maestro sempre garbato, senza molti
convenevoli e parole superflue, la rispettava. Mai uno scatto
d’ira o malumore. Comportamenti che cercavo di imitare già
dalla prima infanzia e doti che non si potevano considerare
proprie alla schietta, impulsiva natura di zia Marica. Lei era la
persona che nella vita pratica risolveva tutti i problemi. La
sicura guida, la salvezza. Colei che ci toglieva da ogni
inconveniente e disagio. Spesso creati da noi stessi per scarso
senso pratico.
In verità io mi sentii come liberata e Maestro frastornato,
abituato a non affrontare la vita di tutti i giorni e i suoi
risvolti pratici.
V. La scomparsa di zia Marica
Dopo la scomparsa di zia Marica rimanemmo a lungo
incapaci di reagire a quest’ultima perdita: la più grande. Jera
continuò a dividersi tra gli obblighi di casa sua in paese e la
Casa in pietra grigia. Durante la settimana assolveva ai doveri
verso i genitori diventati anziani e ormai incapaci di
occuparsi della terra e degli animali, loro unico
sostentamento. Scendeva di sabato e domenica alla Casa in
pietra grigia cercando di istruire Dina, una strana ragazza che
aveva convinto ad aiutarci nella conduzione della Casa
durante la settimana. Dina assolveva ai propri compiti
secondo personali scelte, umori e orari, senza alcun ordine. Il
suo atteggiamento disinvolto, probabilmente proprio alle
ragazze del popolino, senza molto riguardo né inibizioni,
sicura di sé, con parlantina facile e risposta sempre pronta,
aveva su di me una strana influenza. Mi spingeva
indirettamente alla libertà delle azioni, alla disubbidienza. La
mia prima adolescenza lasciata a se stessa, senza un esempio
e senza controllo, era soggetta a nuove sconosciute
esperienze. In particolare osservavo l’approccio di Dina con
i ragazzi del Ginnasio partigiano, la scuola di recupero
organizzata nella cittadina per studenti da tutta la Dalmazia
che, durante la guerra, erano stati costretti a interrompere la
propria istruzione. Con la scusa di raccogliere verdure per la
Casa, Dina si recava sul campicello della sua famiglia,
lontano, oltre il promontorio Croce, nella baia Pokonji Dol 21
in prossimità dell’isolotto del faro. Mi aveva coinvolta
dicendo di avere paura a recarsi così lontano da sola. Ero
troppo ingenua per capire che si trattava di uno
stratagemma. Arrivate sul campo mi lasciava a cogliere le
fave, i piselli e si appartava dietro i pini con un ragazzone
della scuola di recupero. Questo arrivava con un compagno
più giovane che rimaneva a raccogliere le verdure. Un
ragazzino sempre allegro, spensierato, giocherellone, pieno
di idee interessanti; un piacevole intrattenimento, ma
secondo la mentalità isolana poco adatto a me, ragazzina.
Credo che nemmeno lui fosse conscio di servire come
copertura all’amico adulto. Purtroppo questi incontri, anche
se innocenti, non sfuggirono alla gente. Osservavano e
commentavano non tanto Dina, quanto me, sia per l’età che
per il fatto in sé. La gente era maliziosa. Si preoccupava della
mia troppa libertà. Cosa avevo io in comune con Dina e che
ci facevo in compagnia di ragazzotti sconosciuti, in mezzo
alla campagna? Il mio comportamento era considerato
riprovevole. Alla fine, anime buone si preoccuparono di
informare Maestro, ignaro delle mie escursioni con Dina e,
purtroppo, delle assenze da scuola per lunghi mesi. Dina fu
minacciata e licenziata, ma la mia istruzione subì seri vuoti.
Alla già difficile situazione dell’inadeguato insegnamento di
El-Shatt, si aggiunse questa prolungata libera uscita. Anche
se fui promossa, subii un’umiliazione profonda: venni
considerata troppo dissoluta, indolente e senza alcun
interesse. Credo che fosse il mio primo consapevole urto
con un ambiente privo di indulgenza. In troppi sostenevano
che non meritassi la vita che vivevo, indegna delle attenzioni
che mi circondavano. Il desiderio di un’esistenza più felice
era ritenuto egoismo che dovevo strapparmi di dosso.
Questo aumentò la mia insicurezza. Convinta di essere
condannata alla solitudine e all’infelicità, mi sentivo
dappertutto fuori luogo. Avendo da sempre vissuto in una
specie di sottomissione per i pressanti controlli di zia Marica,
credetti di aver raggiunto finalmente la libertà e il riscatto,
che non si addiceva alla mia età, ma che sembrava
appartenere a una persona più adulta. Le reazioni ai giudizi
negativi erano, imprevedibilmente di totale ribellione a
qualsiasi regola.
Cominciai inoltre a vestire in modo strano, inaudito per
la mentalità isolana. Calcavo cappellacci di lana e maglioni di
varie taglie più grandi, prestati dal fratello dell’unica amica
che, nel frattempo, mi ero fatta. Per mia fortuna, perché
l’incontro con Elina fu significativo. Entrai nella sua serena e
ordinata famiglia, con tutte le mie necessità di affetto e di
attenzioni. La madre di Elina e Zori era una persona a
modo. Da molto giovane aveva vissuto in diverse grandi
città secondo gli impegni del marito, un finanziere oriundo
della Slavonija. Anche lui una persona mite, disponibile e di
buon senso. Nella loro famiglia avevo trovato protezione.
Possedevano la mentalità e comportamento opposti a quelli
della cittadina isolana. Infatti, facevano di tutto per rendermi
la vita più semplice. Rappresentavano il mio contatto con la
realtà fuori della Casa in pietra grigia, che non era più tutto il
mio mondo. Elina, una ragazza giudiziosa, la migliore della
classe; sua madre, persona estremamente religiosa, a
differenza della sorella fervente comunista, uscita dalla
guerra partigiana profondamente avversa alla Chiesa,
considerata una specie di mangia-preti. Per fortuna la zia non
era presente sull’Isola ed Elina rimaneva abbastanza
indifferente alle sue pretese di non frequentare quell’ambiente,
cioè la Chiesa. Elina amava cantare e la sua bella voce fu il
motivo per cui il parroco la invitò nel coro della cattedrale.
Così entrai anch’io. Era un coro di pochi giovani, solo quelli
i cui genitori non avevano timore delle autorità e cioè quelli
che riuscivano a sbarcare il lunario senza attendersi una
qualsiasi agevolazione dal nuovo regime. Non è che ci
fossero dirette proibizioni di frequentare la Chiesa, ma
nell’insegnamento scolastico, sul lavoro nei pochi posti
pubblici come i negozi statali o la nuova fabbrica di sardine,
dove la maggior parte delle donne del popolo aveva trovato
occupazione, e un paio di alberghi finalmente in funzione,
discorsi con sottintesi avevano indotto la maggior parte delle
persone a un allontanamento da tutto ciò che si riteneva in
antagonismo con le direttive dello Stato. In pratica, non era
proibito frequentare la Chiesa, ma nemmeno permesso.
La mia partecipazione alle messe domenicali cantate,
nemmeno strano a dirsi, di nuovo erano state interpretate in
modo alquanto sproporzionato. Per Elina tale
frequentazione era motivata, con la famiglia materna da
sempre cattolicissima, imparentata con prelati e vescovi,
devota seguace di tradizioni strettamente legate al clero, per
cui bastava la sorella partigiana, influente membro del nuovo
Partito Comunista, a proteggere e giustificare le residue
debolezze della sorella più anziana e della nipote troppo
giovane per capire il significato delle proprie azioni. Per me il
discorso era diverso. Era ritenuto fuori d’ogni possibile
comprensione un improvviso fervore religioso. Per fortuna il
mio avvicinamento alla Chiesa, che non era un fatto conscio né
una scelta ragionata, non fu attribuita a Maestro. Era troppo
rispettato come persona per bene per addossargli i miei
comportamenti contrari al buon senso. La mia
partecipazione si esauriva al coro perché, a differenza di
Elina e degli altri, non frequentavo le ore di insegnamento
religioso, cioè il catechismo regolarmente propinato da don
Jure. Nemmeno questa assenza aveva una ragione precisa,
ma era per semplice noia. Una noia mortale. La religione
insegnata da don Jure era come le regole di zia Marica: ovvia,
senza spiegazioni e ragionamento. Così è basta! Non mi
soddisfaceva. Come al solito, ero di nuovo al posto sbagliato.
Quegli anni hanno, almeno, portato a una cosa positiva: il
mio avvicinamento alla scuola e il recupero del tempo
perduto. E questo non per merito mio, ma di Elina.
Arrivammo al quinto anno della scuola dell’obbligo,
quando l’insegnamento passava da un maestro fisso a
professori per ogni singola materia. Immediatamente
inciampai nell’odio viscerale dell’insegnante di lingua serbocroata e russa. Sin dall’inizio mi collocò tra le proprie
irrazionali e spropositate antipatie, sotto i colpi di un
inaudito spirito maligno sempre pronto all’offesa e al
disprezzo. L’anziana professoressa Melina era nota come una
vera sventura da intere generazioni di studenti isolani.
Persona profondamente permeata da forti pregiudizi, una
disgrazia per quelli che prendeva sotto il proprio malevolo
tiro, capace di distruggere ogni barlume di amor proprio.
Spesso senza un motivo valido, anche se nella mia situazione
il motivo c’era, semplicemente il mio modo di essere e il
fatto di dover accettare senza capire le cose così come ce le
predicava. Il suo insegnamento, basato esclusivamente sulla
memorizzazione di regole senza un pratico riscontro nei
testi, non riuscivo ad accettarlo. Schematico. Oggi posso
considerarlo fortemente limitativo. Non comprendevo e non
imparavo. Mi sembrava che, per non farmi fare una cosa,
bastasse impormela. Prendevo tutto come una sfida.
- Non sei buona a nulla - ripeteva Melina, e io cominciai
seriamente a crederci. Infatti, non ero l’unica a non seguire
con profitto il suo insegnamento. La grammatica della
madrelingua e del russo erano un vero problema per tutti.
Molti non impararono mai bene né la grammatica né la
sintassi. Anche per me sarebbe rimasta una materia con
molte lacune. Più tardi, nell’Accademia Magistrale a Zagabria
sarebbe stata una seria manchevolezza. Ci vorranno forte
volontà e impegno per superare quel vuoto quasi assoluto,
ma il disprezzo di Melina non era legato al nostro mancato
interesse per le sue materie. Non le importava nulla del
nostro apprendimento. Ci considerava tutti, senza
distinzione, destinati ad una vita meschina. Quella che lei
odiava da quando era arrivata sull’Isola, tra la gente che
riteneva di modi grossolani, rozzi. Gente di provincia troppo
occupata con i fatti altrui, sui quali alla fine anche lei si
adagiò come unica rivalsa verso l’ambiente che le era ostile.
Non era riuscita a non ritenersi superiore. Ma di superiore,
purtroppo, aveva solo una cattiveria che non riuscivo a
comprendere, né a giustificare. Particolarmente certi
sottintesi. Non si rivolgeva mai a qualcuno di preciso. Con
uno sguardo obliquo sulle mani congiunte e un non sorriso,
una maschera, era avvezza ad uscirsene con frasi come:- Che
figlia è quella la cui madre sceglie di starle lontano?! - Frase che
nessuno comprendeva. Non capivo nemmeno io, ma ero
l’unica nella classe senza madre, non avendo nessun figura
materna nei ricordi. Le insinuazioni balorde della Melina mi
inducevano a pensarci. Fino ad allora non mi interessava
nulla. Mi sentivo come se fossi nata da sola. Non c’era e non
mi facevo domande. Com’era e dov’era, aveva avuto quello
che desiderava? Era felice o infelice? A tredici anni si fanno
certe domande sulle proprie origini, anche se non
approfondite, in particolar modo se si ha avuto un’infanzia
felice e protetta come era stata la mia. Però la malignità
umana può risvegliare sentimenti di insicurezza e in questo
Melina era maestra. Troppo spesso mi aveva detto:- Sei una
buona a nulla. Ora, raccontando un passato che ho vissuto, ripenso a
quel periodo della mia vita. Il passato è uno spazio nel quale
si possono scegliere o scartare le esistenze che ritornano a
far parte del presente. È come osservare un tramonto e poi
un’altra alba che si danno il cambio e sempre ritornano.
L’adolescenza è un tempo di ricerca in solitudine. Non
solitudine in senso di individuo solo, ma quella che ha la
capacità di permettere l’osservazione e l’ascolto con
maggiore sensibilità. È probabile che si tratti di quello che
Marguerite Yourcenar descrisse come maggiore comprensione di
se stessi, quando in giovane età aveva conosciuto la solitudine.
Guardando indietro, posso dire di essermi ritrovata in questa
definizione. In una specie di solitudine che è ricerca della
propria identità. Le frasi di Melina mi sono rimaste dentro.
Non le ho mai dimenticate. Erano un motivo inconscio
nell’approccio con il nuovo. Qualsiasi cosa questo potesse
essere.
Per assurdo, oltre a partecipare al coro della cattedrale
iniziai a frequentare le riunioni della Organizzazione
Giovanile Cittadina, la sezione anticipatrice del Partito
Comunista Jugoslavo. Anche questo non perché ne avessi
capito il significato, ma per semplice noia e una certa
inconscia attesa. Una specie di destino dell’Isola. Le persone
dell’Organizzazione Giovanile, tutte più adulte di me, erano
diverse da quelle poche che avevo frequentato fino allora.
Parlavano un linguaggio diverso. Mentre la Chiesa insegnava
cieca ubbidienza, sottomissione, cristiana indulgenza e
prometteva l’inferno per i peccati mortali, purtroppo tanti.
Prediche che, in un modo distratto, seguivo dal soppalco del
coro
durante
la
messa
domenicale
cantata,
nell’Organizzazione si parlava di libertà personale, diritti,
lavoro e ricchezza per tutti, sconfitta della povertà,
uguaglianza. Una vita felice per ogni essere umano. Concetti
allettanti, comprensibili a tutti, in apparenza semplici. Un
futuro giusto, splendido: la libertà che a quell’età dava il
senso di una nuova avventura.
Dalle grinfie della Melina uscii per l’arrivo di nuovi
professori. Un totale cambio di insegnanti, giovani e
aggiornati al nuovo sistema di programma scolastico,
sull’esperienza Sovietica. I nuovi professori, oltre ad avere
un approccio completamente opposto all’insegnamento della
scuola arcaica che per un paio d’anni era sopravvissuta
sull’Isola, avevano migliorato i rapporti fino allora rimasti
conflittuali. Era necessario avvicinare le generazioni per
arrivare a una reciproca accettazione. Così mi sembra oggi,
giudicando i cambiamenti dopo l’arrivo dei giovani
insegnanti. Melina fu messa in pensione. Purtroppo il suo
insegnamento della madrelingua, fondamentale nella scuola
dell’obbligo, avrebbe lasciato indiscutibili vuoti. Dopo due
anni arrivai alla piccola maturità, cioè all’ottavo anno della
scuola dell’obbligo, quasi un modello di studentessa. Per
merito di Elina, che cominciai dopo poco a trascurare per le
compagnie dell’Organizzazione Giovanile. Elina attaccata
alla Chiesa, io altrove.
Durante l’ultimo anno della scuola dell’obbligo, a lungo
avevo discusso con Maestro il mio futuro scolastico. Era
ovvio che avrei proseguito gli studi nella capitale della
Repubblica. Maestro era dell’avviso che per me fosse
indicato intraprendere l’istruzione magistrale. Considerava
positivo il fatto che dopo cinque anni avrei potuto
proseguire l’università se desideravo, ma anche avere un
sicuro posto di insegnante nella nuova scuola dell’obbligo,
dove era richiesta una più approfondita specializzazione di
quella precedente della vecchia scuola elementare. A
Zagabria quell’anno iniziava a funzionare l’Accademia
Magistrale Sperimentale con la durata di cinque anni,
adeguata alle esigenze della nuova istruzione obbligatoria.
Il numero di iscritti all’Accademia era limitato. Potevano
accedere esclusivamente studenti con il voto di quattro e
cinque alla piccola maturità. Avevo terminato la scuola
dell’obbligo con il voto di quattro per cui fui ammessa.
Quell’estate era piena di nuove aspettative, con un senso
di ancora sconosciute libertà, intuite tra i giovani
dell’Organizzazione, per una parte già agli studi nelle grandi
città. Da un paio d’anni mi accompagnavo a ragazzi più
adulti e avevo acquisito una maggiore mobilità, che
consisteva nel poter rimanere tutto il giorno al bagno
comunale ad allenarmi al nuoto o in qualche gita in barca
sulle isole più vicine al porto, raggiungibili a remi. Il massimo
dei nostri desideri era ottenere dai genitori di qualche nostro
amico, figlio di pescatori, l’imbarcazione a remi, impegnata
di solito, per la pesca delle sarde. Di rado ci capitava di avere
a disposizione una barca con un rudimentale albero, al quale
era possibile appendere un triangolo, simile alla vela, e
salpare lungo il canale con il vento in poppa. Le piccole
panciute imbarcazioni chiamate gaeta, dal ventre vuoto per
essere riempite di pesce azzurro, erano l’ideale per il nostro
gruppetto.
Alla metà degli anni ‘50, le barche a vela, bianche,
eleganti, solcavano in poche il mare intorno all’Isola.
Appartenevano a politici di grosso calibro, a qualche
personaggio legato al mercato nero e agli stranieri. Ormai
ero legata alla comitiva di Rino, un allievo musicista di
Maestro, e a sua sorella Bela; a Veko, unico, tra di noi, figlio
di un pescatore; a Gorana, Seka e ad altri che, fissi,
passavano l’estate dai nonni o parenti, o che soggiornavano
da anni sull’Isola come turisti.
Quella era l’estate degli interminabili balli sulla terrazza
dello Slavia Hotel, sulla riva, dove un’orchestra di studenti
musicisti di Zagabria suonava fino a mezzanotte. Era
diventato un rituale. L’orchestra iniziava a suonare durante la
cena degli ospiti dell’albergo. Nel frattempo l’altra parte della
terrazza si riempiva con persone che occupavano le case
private. La comitiva più nutrita, la nostra, si sistemava al
tavolo degli orchestrali, un po’ perché era l’unico libero e
non richiedeva l’obbligata consumazione. Eravamo quasi
tutti considerati bravi ballerini. Infatti, di giorno ci
esercitavamo spesso con il vigile insegnamento di Veko per
il valzer, english valzer, tango, e di Nino, uno spilungone
triestino in vacanza dalla nonna ogni estate, che ballava
divinamente la rumba e il samba. Imparai molto
velocemente a ballare. I miei compagni fissi di ballo erano
ovviamente Veko e Nino. Ci soprannominarono Il gruppo dei
ballerini, un po’ per invidia, un po’ per scherno. Mentre
ballavamo le persone si fermavano a osservarci. Particolare
attenzione attiravano Rino e sua sorella Bela per il loro tango
figurato. Sembravano usciti da una scuola di ballo. Le
vecchie comari, adagiate sulla staccionata della pista, avevano
ogni sera un sicuro divertimento: commentavano ogni
nostro movimento con bocca storta di disapprovazione per
il libero e rovinoso comportamento. Noi ballavamo e null’altro.
Per niente avvinghiati o in atteggiamenti equivoci. Ci
consideravano quasi depravati, al di fuori di ogni regola della
morale cristiana. In realtà eravamo giovani e spensierati. Ci
ispiravamo ai vecchi film di Fred Astaire e Ginger Rogers
visti e rivisti al cinema. I nostri sogni si realizzavano su
quella pista da ballo. Le malelingue non raggiungevano la
nostra felicità. Ci divertivamo con poco. Certamente
eravamo diversi dalla maggioranza dei giovani isolani avviati
al lavoro in campagna, sulle barche da pesca o alla
conduzione casalinga di un’osteria. La nostra formazione,
per letture e frequentazioni di studenti provenienti da
Zagabria o Belgrado, ci portava ad avere una maggiore
apertura verso il mondo esterno, lontana da quell’arcaica
attesa consumata su tutte le isole. Eravamo certamente più
disinvolti e sicuramente anche più sinceri di quelli legati
all’educazione bigotta delle famiglie imbevute di una certa
apparenza perbenista. Le nostre amicizie erano gli studenti
musicisti dello Slavia Hotel, come il pianista e compositore,
poi anche medico, Niki Kalodera; i fratelli Kramer, un
sassofonista e l’altro contrabbassista, musicisti conosciuti e
apprezzati a livello nazionale; Sten, il noto suonatore di
tromba, idolo dei giovani. La mia prima cotta giovanile, mai
confessata o espressa, ma sicuramente trasparente,
considerando gli scherzi degli amici.
Sten apparteneva alle amicizie giovanili, fatte di sguardi,
innocui intrecci di mani, e dal desiderio di stare vicini.
La barca a vela di un amico dei musicisti ci portò per la
prima volta alla baia Palmižana sull’isola San Clemente, nota
solo ai ricchi proprietari degli splendidi yacht mozzafiato che
attraversavano il Mediterraneo e sostavano in quel nuovo
scoperto paradiso.
L’intuito affaristico suggerì al giovane agronomo Oto
d’inventare una specie di ristoro all’aperto. Da provetto
subacqueo, pescatore di murene, cernie, aragoste, in
abbondanza nel canale e sotto Lissa, iniziò con l’offrire i
propri servizi ai ricchi avventori delle favolose imbarcazioni
in sosta nelle baie protette di Palmižana e Vala.
La sua vecchia casa, ormai scrostata e malconcia, era
costruita in una bella posizione a sud della baia Palmižana, su
di un appezzamento acquistato a buon prezzo all’inizio del
secolo dai sempre poveri indigeni. Sottoipinidellacasa
familiare per le vacanze, improvvisò un posto di ristoro. Un
tavolo, due panche, la brace con pesce fumante, l’ottimo
vino dei vigneti isolani di Santa Domenica, dovevano
sembrare particolarmente affascinanti per la rusticità e la
sensazione del ritorno al primitivo, al bucolico.
Indubbiamente Oto ci aveva visto bene. In brevissimo
tempo aveva attirato tutti quanti non erano poveri di
moneta: politici della nomenclatura Repubblicana e Federale,
ex eroi, signori del mercato nero arricchiti, con yacht a
bandiera panamense, stranieri in cerca di remoti paradisi.
Anche se era abolita la proprietà privata, né esisteva la
possibilità di avere un’attività in proprio con lavoratori al di
fuori dell’ambito familiare, sembrava che per Oto questi
limiti fossero stati a larghe maglie superati. Quali le
protezioni e agevolazioni che riuscì a procurarsi, era e dè
rimasto un mistero. In realtà nemmeno poi tanto, se si
considera chi erano gli ospiti che chiedevano e ottenevano
da Oto il massimo della privacy. Naturalmente a prezzi
proibitivi. È possibile che proprio quello fosse il mistero del
successo: sapersi far pagare bene. Una dote che avrebbe
fatto crescere Oto in modo sproporzionato per il tempo che
correva e le condizioni sociali che dovevano vigere per tutti.
E così la vecchia casa di Oto, in pochi anni, fu allargata
con una terrazza sopra le grandi vasche delle cisterne,
autorizzate ad essere costruite dai privati sulle Isole
Spalmadori in quanto considerate pozzi d’acqua utili alle basi
militari di Lissa in caso di necessità. Nessuno poteva
obiettare che il terrazzo con la cucina era costruito sul
terreno nazionalizzato di proprietà dello Stato. Infatti, le
vasche per l’acqua si moltiplicavano, il terrazzo si allargava,
la cucina cresceva, nasceva velocemente il resto: sale, salette,
appartamenti. Sempre più protetto e off-limits per la maggior
parte dei non graditi avventori, quelli con scarsa moneta.
La meta degli isolani, invece, era un luogo nascosto sopra
il promontorio Vinogradi. Un semi-rudere di casa contadina
con stalle intorno a un ampio e ombreggiato cortile.
Si trattava della proprietà della vecchia zia Kate, l’ultima
discendente della famiglia di indigeni ancora rimasta sugli
Scogli, come tra il popolino erano da sempre denominate le
Isole Spalmadori.
Quell’estate anche io scoprii il rifugio di zia Kate: un
lembo di cortile sterrato e l’antica casa a un piano. La sua
cantina con piccole scure botti appoggiate sulla roccia viva e
un focolare nell’angolo a piano terra; l’accesso al primo
piano con una sorta di scala, fatta da vecchie assi, con travi a
vista e le due finestre rivolte sulla baia Vala 22. Al lato sinistro
della casa, verso sud, due stalle in pietra, uguali ad altre tre
dirimpetto, a livello più basso del cortile, attorniavano lo
spazio simile a una piccola conca. La stalla centrale era stata
trasformata, alla fine della Seconda Guerra mondiale, in una
specie di cucina, bassa, squadrata, dotata di un unico
finestrino e di un fumaiolo in lamiera arrugginita. La nuova
costruzione piatta e sgraziata, un vero pugno nell’occhio,
vuota con una spianata di cemento, serviva per arrostire il
pesce. Nel cortile un pergolato sistemato alla meglio su rami
irregolari di pino, sostenuto da simili tronchetti, ricoperto di
foglie secche di palma. Sotto il pergolato troneggiava il
vecchio tavolo sgangherato e scorticato, dotato di due
panche insicure e traballanti. Tutto intorno, nel cortile, massi
tondi di pietra, in uso come peso per barili di alici e sarde
salate, erano diventati sedili d’emergenza. Il fogliame secco
delle palme era ormai completamente avvolto e ricoperto da
una vecchia pianta rampicante, detta velo della sposa, con
grappoli di profumati fiorellini bianchi, ronzanti di api e
vespe. L’ambiente mostrava una certa trascuratezza delle
cose e della natura circostante. Però, appena raggiungemmo
quell’informe e sterrato cortile, ci avvolse un piacevole
appagante senso di inaspettata frescura. Qualcosa di magico
c’era in quel indigente e primitivo posto. Dopo il primo
bicchiere di vino, un po’ acidulo e amaro per la forte carica
di tannini, dimenticammo che i bicchieri, per essere
risciacquati, venivano appena immersi in un secchio d’acqua,
trattenendo addosso le impronte dei polpastrelli unti. Scoprii
che i visitatori portavano le sarde e il pane fresco e zia Kate
offriva il proprio vino, quello aspro e amarognolo. Lo
vendeva a bicchieri, a bottigliette di un quarto, di mezzo litro
e litro intero, secondo le capacità dei bevitori e la moneta
disponibile. Mentre le sarde grosse, per la stagione
favorevole e dal profumo invitante, sfriggevano sui carboni
ardenti, zia Kate attingeva alle sue alici salate, i cosiddetti
inciuni nei barili di legno. Li sollevava dalla salamoia, con un
colpo secco del polso scrollava il sale grosso e li appoggiava
su di un piatto di lamiera, inondato di aceto e cosparso di
una erbetta essiccata, in abbondante crescita sugli Scogli. Una
specie di origano, ma dall’odore e dal gusto più forti e
penetranti, il mravinac23. Le alici salate erano migliori di
qualsiasi prosciutto mai assaporato. Le sarde, appena
arrostite, venivano appoggiate su grosse fette di pane fresco
e divorate con voracità. Una scorpacciata di sarde bollenti,
grondanti del loro succo profumato di rosmarino. Una bontà
mai assaporata al di fuori delle Isole Spalmadori. Odori e
sapori irripetibili.
In quel tempo, a metà degli anni ‘50, zia Kate era la prima
locandiera, anfitrione delle Isole Spalmadori. Naturalmente
per quel posto remoto, in un modo del tutto particolare,
secondo una visione dell’ospitalità propria della gente
semplice, come lei. Senza pretese. Quanti avevano
frequentato il suo primitivo cortile, con la sua capra lì nel
mezzo legata al vecchio olivo e le galline razzolanti nella
terra smossa sotto il basso fico piegato e il pergolato,
improvvisato come tutto il resto, ne hanno conservato una
impareggiabile memoria. Probabilmente perché era gente
sagace e senza sussiego che riusciva ad apprezzare la
particolarità di quel luogo e sapeva divertirsi con poco. I
musicisti dello Slavia Hotel, quell’estate, composero e
dedicarono a zia Kate una canzone affettuosa e divertente
che si cantò per decenni. Credo che ancora molti di età un
po’ avanzata la ricordino.
Il pranzo abbondante con sarde, pane fresco e vino
rosso, forte da inebriare ma non da ubriacare, continuò nel
pomeriggio con canti accompagnati da chitarra e
fisarmonica. Un piccolo spettacolo in proprio, allegro e
spensierato. Si proseguì con bagni nella rada in mezzo ai due
promontori di Vinogradi e Punta Šilo 24. L’insenatura della
Vala, con un bianchissimo ciottolato e sabbia finissima, e
con acqua trasparente dai riflessi leggeri che variavano, con il
passare delle ore e l’inclinazione del sole, dal turchese al
violaceo. Le poche barche a vela erano disturbate solo da
qualche rapido fruscio di ali nel sorvolo dei gabbiani e dallo
sciabordio delle piccole onde contro i bassi scogli. Il
promontorio Vinogradi, denominato così per le discese di
ricchi vigneti in digrado sulla sua parte interna verso la baia
Vala, aveva il crinale brullo ricoperto da irti legnosi arbusti di
rosmarino ed erica. Le rocce sulla ripida discesa, disposte ad
anfiteatro sulla baia Perna, sembravano scolpite dalle onde
dell’insidioso scirocco, dando la sensazione dell’eternità
recuperata al passato per il presente e il futuro. Tutto accolto
dal blu profondo del mare esteso verso l’orizzonte,
irraggiungibile.
Quasi mezzo secolo fa, la baia Perna mi stregò. Sentii
un’attrazione che mi fece desiderare di rimanere per sempre
in quel posto remoto, immobile. Non dimenticai più la
quiete che si spandeva nell’aria e avvolgeva la natura, gli
odori di piante aromatiche liberati sotto un sole appoggiato
con il suo grande globo rosso a ovest, sulla sagoma bluastra
di Lissa, colorando di oro le vele ancora aperte al leggero
vento dell’imbrunire. Tutto ispirava un forte desiderio di
tornarci. Un sogno irreale e lontano, e per lungo tempo
sarebbe rimasto tale.
Allora non conoscevo nulla delle Isole Spalmadori oltre a
quello che avevo studiato a scuola, legato però all’isola di
Lesina, e alla sua storia che l’ha vista crocevia di popoli e
culture diverse, lasciando nel tempo il segno delle loro
civiltà. Abitata fin dalla preistoria, sulla strada tra Occidente
e Oriente, ha subito numerose dominazioni, dagli Illiri e dai
Greci, dai Romani e da altri ancora, che si sono avvicendati
anche sugli Scogli facendone un raro patrimonio. Era ciò che
me li faceva apparire come un piccolo ma prezioso scrigno
di tesori arcaici, luogo d’altri tempi, ricco di angoli
incontaminati, forte di colori e profumi, temperato di
antiche esperienze. Affascinante, capace di offrire paesaggi
indescrivibili, una natura multiforme: declivi coltivati a
lavanda e vigneti, spiagge sabbiose, scogliere fantastiche
sotto boschetti di pini lussureggianti, baie appartate e un
mare che, quasi con pudore, lascia spazio alla terra. Un
piccolo paradiso naturale impreziosito dai doni della terra e
del mare, che ancora sapeva essere generoso perché abituato
all’accoglienza, alla genuina ospitalità, in grado di ammaliare
e stregare il più scettico dei visitatori.
Allora non conoscevo nemmeno la storia del vecchio
caseggiato di zia Kate, ma le cose della vita sono strane e
inimmaginabili.
All’inizio degli anni ‘70, dopo un quarto di secolo, per
caso e per condizioni di mare avverso, capitai nella baia
Palmižana, improvvisa ospite della ormai allargata e per la
maggior parte abusiva, pensione di Oto. Ci raccontò della
morte di zia Kate e della ventennale vendita della sua
proprietà, impossibile da gestire a causa dei molti eredi,
incapaci di mettersi d’accordo. Visitai il luogo, nel frattempo
completamente ridotto a rudere, soffocato da rifiuti, rovi ed
enormi fichi d’India cresciuti a dismisura nel totale
abbandono. I ricordi di quel luogo mi attiravano. Doveva
esserci da qualche parte una memoria del passato. La trovai
tra i documenti della Curia vescovile. Nei libri ecclesiastici
c’era una annotazione sulla zona di Moće25 sull’isola San
Clemente dell’Arcipelago Spalmadori. Si parlava di un
caseggiato, stalle, vigneti e pascoli di proprietà nel
Cinquecento della Curia, dati in uso ai braccianti isolani
disponibili a vivere sugli Scogli, gli antenati della zia Kate, i
primi abitanti indigeni. Nel diciottesimo secolo, con una
legge agraria, i terreni e il caseggiato con le stalle in uso
passarono in proprietà dei contadini che per più di cent’anni
di anni ne avevano avuto cura. Uno scritto in appendice
parlava, quasi poeticamente, di Moće, come di un raro
esempio di abitato contadino di antica architettura isolana.
Un armonioso agglomerato con una solida casa a un piano
in pietra e stalle dello stesso materiale, disposte in una linea
fine intorno al cortile ombreggiato, luogo che gli indigeni
avevano eletto loro dimora per quel - naturale corridoio di fresco
maestrale che a mezzogiorno, nei giorni di calura estiva, si insinua in
mezzo alle fronde dei pini lungo il ripido cammino dalla baia
Palmižana a nord e imprigionato si unisce all’umido ponentino sotto il
pergolato del cortile, portando beneficio agli uomini stanchi e creando
abbondante rugiada notturna, favorevole ai vigneti a sud.
La scoperta del passato di Moće contadina mi indusse alla
non facile avventura dell’acquisto e alla sfida del recupero di
quell’ambiente dal fascino celato che intuivo sarebbe stato,
prima o poi, fagocitato dall’esclusivo grandeggiare di Oto,
inimitabile nello sfruttamento delle risorse naturali, e senza
rispetto per un giusto rapporto tra ambiente e
urbanizzazione. Proprio lì dove l’ambiente doveva inglobare
le costruzioni, basandosi sulla logica tra le regole e il
disordine. Ma questa è storia recente. Appartiene alla metà
degli anni ‘80 e al racconto che lo scrittore Fulvio Tomizza
intitolò: Il cortile delle albe rosse.
Quell’estate, alla metà degli anni ‘50, con la scoperta del
rifugio di zia Kate e della solitaria baia Perna, anche i sogni
erano legati a cose raggiungibili nei ritmi cadenzati dei
semplici divertimenti. Avevamo ben poche cose, come fare
un bagno lungo tutto il giorno, un po’ di allenamento al Club
di nuoto, il tifo alle partite di waterpolo, discorsi a non finire e
di sera gli obbligatori balli allo Slavia Hotel. Il cinema alla
Veneranda o i concerti al Chiostro dei Francescani si
svolgevano negli orari dei nostri impegni di ballo, perciò
l’avere limitati divertimenti ci portava a certe poco
intelligenti bizzarrie. Infatti, in una di quelle sere, a qualcuno
venne in mente di voler proseguire a ballare dopo
mezzanotte sulla terrazza del bagno comunale. Per me
l’ostacolo era rappresentato da Maestro che ogni sera, al
suono che annunciava la fine della serata danzante, si faceva
trovare dinanzi la terrazza della pista da ballo, per rincasare.
In qualche modo convincemmo Maestrochenon ci saremmo
allontanati a lungo. Probabilmente cedette, con la solita
signorile accondiscendenza, per non destare la curiosità delle
comari appese alla staccionata dell’albergo a osservare e
malignare. Giunti al bagno capii il perché delle insistenze per
recarsi nella pineta di notte, con la scusa di ballare, come se
non fosse bastata tutta la serata. L’idea era, infatti, quella di
andare a rubare l’uva e le pesche nel vigneto di Toni
Malesco. Sapevamo tutti che la prima uva matura si trovava
in quell’unica zona. Alcuni fin troppo bene per probabili
vecchie incursioni. Il gruppo si divise. All’impresa si
avviarono un paio di ragazzi. Chissà per quale improvviso
impulso volli fare parte della spedizione. Può darsi per un
senso di incosciente avventura adolescenziale oppure per
spirito di trasgressione. Arrivati oltre il filo spinato del
muretto a secco, ci inoltrammo cercando le pesche più
mature e i grappoli più grossi. All’improvviso nel buio più
completo si accese una torcia. Era il padrone del vigneto.
Esasperato dalle incursioni notturne, effettuate in verità da
altri malintenzionati, si era appostato deciso a porre fine a
quel gioco che lo danneggiava. Un fuggi fuggi a perdifiato ci
fece volare giù dal muro di cinta e oltre la strada verso il
bagno. Purtroppo, nella rocambolesca ritirata, a me e a un
altro ragazzo si strappò un pezzo di vestito che rimase
incastrato sul filo spinato.
Quell’estate avevo un unico vestito buono per le uscite
serali. Di giorno giravo in pantaloncini, confezionati in
proprio da un vecchio lenzuolo di lino, camiciole ricavate da
antiche camicie da notte e scalza. Era il tempo del film La
contessa scalza con Ava Gardner. Circolava il parere che
somigliassi ad Ava, per cui decisi di imitarla, girando scalza.
Non avevo inventato una nuova moda. Anche i miei hotpants alla BB non erano affatto l’imitazione della Bardot, ma
molto più semplicemente il risultato di una totale mancanza
di esperienza nel tagliare il tessuto per i pantaloncini.
Venivano sempre troppo grandi e per portarli alla misura
giusta continuavo con coraggio a tagliare, fino a trovarmi
con le natiche troppo scoperte. A quel punto dovevo
indossarli così com’erano, non c’era altro da fare. Quanto
scandalo avevano suscitato quei pantaloni corti! Se ne
parlava per le calli come dell’ultima vergogna. Sinceramente
non provavo alcuna colpa, non mi sentivo in soggezione. E
poi non ero affatto interessata a quello che si poteva dire.
Andava bene così. Portare pantaloncini troppo corti era
audace per i tempi, per cui non mi seguì nessuno. Nemmeno
questo poteva avere importanza. Ero l’unica ad aver fatto di
necessità tendenza. Ma nessuno si accorse che tutto era solo
un caso.
Di sera, invece, usavo l’unico vestito, per così dire,
buono. Di cotonina bianca a fiorellini stilizzati celesti,
comprata con i bollini delle tessere annonarie e cucito dalla
sarta Mercedes. Lo lavavo di mattina e mettevo di sera.
Possedevo anche un paio di sandali egiziani, portati da ElShatt e ormai diventati un po’ corti, malgrado fossero stati
comprati qualche numero più grande, per quando sarei
cresciuta, come diceva zia Marica. Sandali coloratissimi,
fantasiosi, dalla tomaia ormai assottigliata per i balli di
quell’estate. Siccome l’incursione al vigneto era stata fatta a
piedi nudi, i sandali erano salvi. I piedi, invece, erano coperti
di ferite e tagli procurati dalle pietre e dai rovi. Il vestito era
rovinato. Ne mancava un lembo, rimasto appeso sul luogo del
delitto. La cosa peggiore era che dal pezzo di tessuto rimasto
sul filo spinato si arrivava facilmente alla persona che lo
indossava. Da lì le mie preoccupazioni. Infatti, la mattina
seguente di buon’ora, successe l’irreparabile. Toni Malesco
era nel cortile di Casa nostra chiedendo a Maestro se, per
caso, io avessi un vestito di quel genere. Non so se Maestro
ricordasse il mio vestito. Il discorso finì come era
prevedibile. Maestro pagò la frutta mai presa e il danno in
realtà, almeno da noi, non cagionato. Ma ciò non ci salvò
dalla cattiva fama che prese a girare in città. Non tanto per i
ragazzi che, maschi e quasi adulti, potevano combinare cose
simili e anche più gravi senza destare un particolare pubblico
rimprovero. Ero io ad essere presa di mira, ormai
considerata completamente persa senza la sicura mano di zia
Marica, anche perché non ero capace di occultare i fatti
come usavano fare le altre femmine del gruppo, non
attaccabili in quanto straniere di passaggio in vacanza.
Quell’inconveniente con il proprietario del vigneto non ci
insegnò molto. Inoltre, non avendo avuto danni nessuno del
gruppo, per il fatto che Maestro, come al solito, aveva chiuso
la faccenda pagando senza discutere, un’altra sera, appena
spente le polemiche della frutta rubata, qualcuno unitosi al
gruppo ebbe la cattiva idea di vendicarsi del custode del
bagno comunale, Toma detto hlap26, perché non permetteva
senza biglietto d’ingresso la sosta sotto la terrazza. L’idea era
di buttare in mare i tavolini e le sedie del bar. Personalmente
pagavo sempre il biglietto. Maestro non concepiva che
potessi essere cacciata dallo stabilimento, tanto meno io ero
disposta a essere trattata male. Facevo anche parte del Club
di nuoto, per cui ero tutto il santo giorno presente per gli
allenamenti e il tifo per le partite di waterpolo. Un bel nugolo
di amanti di questi sport, molto praticati e seguiti, faceva
presenza fissa dalla mattina alla sera, bello o cattivo tempo.
Certamente non tutti bene educati e attenti nei confronti
degli ospiti paganti che occupavano le cabine, come gli ospiti
del Palace Hotel, l’albergo lussuoso per eccellenza, che
pretendevano la privacy anche al bagno comunale, ritenuto
altrettanto esclusivo.
Il custode Toma, trovati i tavolini e le sedie in mare, se la
prese con il nostro gruppo. Ormai bollati come capaci di
qualsiasi malefatta, ci costrinse in apnea a togliere dal mare
tutte le cose. Il che non fu per nulla facile. Sotto la terrazza
la profondità del mare era di quattro, cinque metri. Una
fatica tremenda. Finimmo tutti, addirittura, denunciati alla
polizia
comunale.
Un
fatto
ritenuto
ignobile,
immediatamente risaputo e raccontato per le calli, tra le
comari, con aggiunte e inverosimili particolari, largamente
descritti come deplorevoli e significativi. Un nuovo tassello
al mio comportamento senza regole. Si sussurrava, si passava
voce del vero e molto di più dell’immaginario. Senza
precedenti per una ragazza appena sedicenne, che si
accompagnava agli adulti, per di più, prevalentemente
maschi. Che orrore! Per quanto possa ricordare i
comportamenti erano, semplicemente, infantili. Avevo quella
strana età che è l’adolescenza. A parte il fatto che oltre a
quell’incursione nel vigneto di Toni Malesco, non avevamo
combinato altro e la faccenda dei tavolini e delle sedie in
acqua non era una nostra prodezza, ormai eravamo
considerati inadeguati. La polizia comunale ci stava addosso
come se fossimo i peggiori soggetti capitati da quelle parti.
Ci seguiva senza darci tregua. Questa esagerata presa di
posizione, mandò su tutte le furie Rino, studente al
Conservatorio di musica a Spalato. Da eccellente
trombettista, aveva suonato un paio di sere sulla strada della
Fortezza. Il suono, in verità molto gradevole, aleggiava sopra
la città come in un anfiteatro naturale, ma anche questo mise
in moto i guardiani dell’ordine pubblico. Rino si vendicò a
modo suo. Faceva impazzire i poliziotti. Suonava sotto la
Fortezza e quando questi salivano, già suonava sulla roccia di
Santa Catarina. Si spostava con facilità per scorciatoie in
mezzo ai vigneti, mentre i poliziotti arrancavano su per la
strada in salita della Spagnola e sopra San Marco. Non
riuscivano a prenderlo in flagrante, né potevano dimostrare
che fosse Rino a disturbare la quiete pubblica suonando
dopo mezzanotte. Per molto tempo si ripeté la frase di un
poliziotto esasperato:- Quando acciufferò quel galletto, ci rimetterà
le penne. - Rino, di statura minuta, sottile, magrissimo, era
veramente simile a un galletto. E rimase galletto di
soprannome.
Agosto si avvicinava alla fine. Fra poco ce ne saremmo
andati tutti incontro ai nostri destini. Arrivò Wilma. Le
comari paesane si erano date la briga di farle conoscere le
mie malefatte. Dicevano dovute alla troppa permissività di
Maestro, secondo loro incapace di avere un atteggiamento
adeguato al carattere ribelle e libero che mi si attribuiva.
Con Maestro avevo già deciso di trasferirmi a Zagabria
per proseguire gli studi, alloggiando nella Casa dello
Studente per allievi dell’Accademia Magistrale, ma Wilma
all’improvviso aveva stabilito di volersi occupare della mia
educazione. Zia Marica l’aveva da sempre tenuta al di fuori
della nostra vita. Anzi, non si parlava affatto di lei, come non
si parlava mai di cose o persone sgradevoli. Dalla scomparsa
di zia Marica, Wilma cercò di inserirsi nelle cose di casa
nostra. Senza successo, considerando l’indifferenza di
Maestro, e naturalmente il mio innato senso di avversione
per tutto quanto si cercava di impormi. È probabile che
Maestro fosse a conoscenza di fatti vecchi, a me sconosciuti,
per cui non volle affidarle il mio futuro. Ogni particolare per
il trasferimento nella capitale l’aveva concordato con il
fratello di Jera, professore a Zagabria. Wilma fece
ugualmente di tutto per vincere la battaglia e avermi
finalmente sotto la propria custodia. Si riteneva l’unica
benefica influenza, in quanto parente prossima, depositaria
del mio bene e sola capace di correggere le mie pessime
abitudini. Se ciò fosse stato ancora possibile. Tra tanti tira e
molla arrivò alla conclusione che anche Maestro,
trasferendosi d’inverno a casa sua a Zagabria, come diceva,
comoda e bene organizzata, avrebbe avuto giovamenti.
Programmò che lei e Zoko sarebbero scesi sull’Isola già dalla
primavera fino ad autunno inoltrato. Ci riteneva soli e
abbandonati a noi stessi. Non riusciva a capire che avevamo
passato troppi anni nell’assoluta indipendenza e la sua
risaputa incapacità di scendere a qualsiasi compromesso, il
suo considerare ogni debolezza come manchevolezza
caratteriale e perdizione ci intimorivano. In lei avevo intuito
una certa durezza che mi sconcertava. Ma il problema di
come sarebbe stata la mia nuova vita, mi dicevo, l’avrei
affrontato in seguito.
Ora nulla doveva turbare quell’estate libera da qualsiasi
impegno e priva di sgradevoli pensieri.
Con molti alti e bassi erano passati sette anni dalla
scomparsa di zia Marica. Jera finalmente si era trasferita in
modo definitivo dal suo paesino alla Casa. Memore dei suoi
splendori prima della guerra, faceva di tutto per darle un
aspetto più possibile normale. Ormai rassegnata al futuro di
zitella, affezionata a Maestro e dedita al suo benessere, aveva
catturato anche la mia fiducia. Cosa non da poco. Non aveva
mai risvegliato l’ostilità che nutrivo verso tutti quelli che, in
qualche modo, tentavano di intromettersi tra me e Maestro.
Jera era fedele a tutti e due. Non avevo alcun desiderio che le
cose cambiassero.
Un giorno Jera mi riferì che la sarta Mercedes si era
offerta di occuparsi del mio guardaroba invernale necessario
per il freddo di Zagabria. Infatti, non avevo nulla per
affrontare il clima continentale della capitale. Tutti i miei
vestiti appartenevano ancora alla Croce Rossa di El-Shatt e
non erano abbastanza pesanti. Mercedes, brava sarta, con
l’aiuto della sorella, suora svestita, come era soprannominata in
paese, confezionava dei bei vestiti. Avevano già cucito il mio
famoso vestito rimasto sul filo spinato del vigneto di Toni
Malesco. Si occupavano anche generosamente dei vestiti di
Maestro: risistemavano i pantaloni, le giacche, i colletti e i
polsi delle camicie. A quel tempo non c’era ancora granché
da comprare e oltretutto quel che c’era, era di pessima
qualità, per cui si aggiustava quello che si aveva ed era ancora
in buone condizioni, quasi tutto comprato al Cairo o a Suez.
Mercedes usava molta attenzione verso Maestro. Le sorelle
sartine erano legate da una lunga amicizia con zia Marica.
Appartenevano a una vecchia famiglia di commercianti,
imparentata con personaggi della Chiesa locale, e come tutte
le persone del ceto medio, parlavano un italiano, in verità
storpiato: mezzo veneto, mezzo dialetto. Motivo per indurre
Maestro a fare qualche chiacchiera, viste le loro attenzioni e
disponibilità. Vivevano da sempre nella loro tetra casa in uno
di quei viottoli del vecchio borgo Groda, all’ombra del
Convento delle Benedettine e della Chiesa di Santo Spirito,
dove il sole non arrivava mai, attaccata all’antica Orlana, il
palazzotto cinquecentesco adibito a scuola di musica. Per
anni, ogni sera, le sorelle avevano ascoltato le prove
dell’Orchestra Municipale. D’estate si sistemavano davanti
al’uscio della loro casa e attendevano che Maestro passasse.
A volte si tratteneva a fare dei convenevoli con le sorelle
gentili e insistenti. Sicuramente aveva esercitato su di loro il
suo indubbio fascino. D’altronde Maestro era un bell’uomo
di lineamenti fini, modi gentili, atteggiamenti signorili,
splendide mani da pianista, naturalmente elegante, molto
ammirato anche se con un unico vestito estivo e uno
invernale. La proposta di occuparsi del mio guardaroba
portò le sorelle a prodigarsi anche per l’acquisto del tessuto
per un tailleur con i bollini delle tessere annonarie. Per il
cappotto, invece, fecero tingere la soffice coperta militare di
pura lana, portata da El-Shatt. Così ebbi il cappotto di colore
marrone. Una vera rarità per tepore e morbidezza. I capi
erano confezionati con cura e buon gusto. Almeno così mi
sembrava. Erano i primi capi confezionati per me su misura.
I vestiti rifatti della Croce Rossa, di foggia americana, a
lungo, dopo la guerra, erano stati molto ambiti sull’Isola, ma
poco adatti all’inverno capitolino. Le sorelle sartine mi
ricoprirono di piccole attenzioni che mi stupivano. Ciò
rappresentava una novità. Non c’era molta benevolenza nei
miei riguardi tra i concittadini. Allora non avevo capito che
Mercedes aveva rivolto i suoi interessi verso Maestro.
Moltissimi anni più tardi mi sarei resa conto che avevo
assestato un brutto tiro alla povera Mercedes, anche se non
avevo nulla contro di lei. Sinceramente la ritenevo troppo
ordinaria per prestarle attenzione. Una donna insignificante,
bruttina, nascosta dietro spessi occhiali da presbite,
psicologicamente invisibile, il che bastava per non occuparmi
di lei più di tanto. Le chiacchiere che mi giungevano sulle
visite di Maestro alle sorelle suscitavano in me un senso di
ilarità. Era assurdo ogni possibile riferimento tra Mercedes,
Maestro e la nostra vita.
Intanto mi preparavo al grande passo: l’immersione nel
mondo della capitale.
Per la prima volta apparecchiata da signorina, il che era
così lontano dalla mia natura, con tante perplessità decisi
coraggiosamente di affrontare il carattere spigoloso di Wilma
e quello che era disposta ad offrirmi. In settembre il nostro
gruppo estivo si sparpagliò. Ognuno verso la propria
destinazione. La partenza non fu indolore. Per la prima volta
lasciavo la Casa in pietra grigia, Maestro e tutto quello che
era per me: la sicurezza, un passato di assoluta serenità, il
rifugio da ogni dispiacere e pericolo.
Dopo una notte di viaggio su di un treno scomodo, lento
e rumorosissimo, che si fermava in ogni più remota stazione,
approdai a Zagabria.
VI. Accademia Magistrale
A Spalato Rino mi accompagnò e sistemò sul treno. Era
la prima volta che viaggiavo in treno, escludendo quelli presi
durante la guerra, adibiti alle merci e al bestiame. Il viaggio
era infinito e disagevole. Passai tutta la notte in dormiveglia,
in compagnia di studenti spalatini che raggiungevano
l’Università di Zagabria. Giunta a destinazione, nella grande
e complicata stazione ferroviaria per i moltissimi binari e
passaggi sotterranei, mi aspettava Wilma. Scesi con la mia
valigia di cuoio, che Maestro aveva comprato a Suez e non
era stata mai usata. Nessuno di noi, dal rientro da El-Shatt,
aveva fatto un viaggio per il quale servisse una valigia. Per
fortuna. Si partiva solo fino a Spalato per recarsi all’ospedale
o alle istituzioni superiori, quelle giudiziarie. Per conservare
la valigia, Jera aveva cucito una fodera di tela grezza che le
dava un aspetto curato, - tanto simile -, diceva Maestro un po’
ironicamente e un po’ scherzoso, - alle valigie dei signori
dell’Orient-Express. - Ci avviammo a piedi. Wilma affidò la mia
valigia a un improvvisato portabagagli. Era pesante non per
il contenuto, ma per la sua fattura in cuoio.
Wilma abitava nella Città Bassa che aveva conservato la
sua signorile cornice di parchi e boschi che lambivano il
centro separandola dalla Città Alta, in una strada non
lontana, perpendicolare alla grande arteria commerciale
Ilica27, che iniziava dal fulcro cittadino, la Piazza della
Repubblica, dai zagabresi sempre denominata con il suo
antico nome Jelačić Plaz28 e giungeva fino alla piazza dei
fiori, Britanski Plaz, altro grande mercato della Città Bassa. A
questo slargo con bancarelle cariche di prodotti freschi, ogni
mattina portati dalla vicina campagna, si innestava la via
Klaićeva29, alberata da tigli e ippocastani per giungere fino
allo slargo dei palazzi neoclassici: l’ex Ginnasio classico e la
Facoltà di Ingegneria. All’angolo di via Medulićeva, classica
via zagabrese con palazzi ottocenteschi, non più alti di due
piani, grigi in pietra arenaria con grandi finestre a doppia e
tripla apertura, si trovava la casa di Wilma, adiacente al noto
Cafe Medulić30, ritrovo di avvocati, notai, impiegati
governativi, pensionati e massaie che si recavano per la
cioccolata mattutina dopo la spesa al mercato della Britanski
Plaz.
La via Medulićeva aveva mantenuto l’aspetto
ottocentesco delle case dei ricchi commercianti ebrei: case al
massimo a un piano, con un alto pianoterra, grandi finestre,
massicci portoni in legno scuro, ampi atri con l’antico
selciato di legno, resistenti alle ruote dei carri e ai cavalli di
passaggio per i cortili alberati dietro di esse, dove di solito
erano sistemati magazzini e basse, lunghe costruzioni per
l’attività mercantile.
Da tutti e due i lati della via Medulićeva, palazzotti molto
simili l’uno all’altro, ora con botteghe di artigiani e piccole
rivendite con merci di largo consumo, proseguivano fino
all’attuale Accademia Magistrale, vecchia prestigiosa Scuola
per Maestri Elementari inaugurata all’inizio del
diciannovesimo secolo, e alla Scuola Commerciale nello
slargo dell’ex Ginnasio classico.
Il palazzotto ad un piano con la casa di Wilma era
appartenuto alla famiglia ebrea dei Šilković31, ricchi
commercianti di pregiati tappeti orientali e tessuti da
arredamento. Nel ‘38, quando fu chiaro che l’accordo tra il
Governo Monarchico di Belgrado e i rappresentanti croati
aveva portato a scatenare ancora di più gli ustaša32 contro tutti
quelli che non erano di fede cristiano-cattolica, la famiglia
Šilković, con quello che ancora riuscì a salvare, riparò in
Israele. L’anziano e testardo capo famiglia non volle
abbandonare i ramificati e floridi affari.
Lasciatolo solo, i famigliari dell’anziano ebreo, tramite
loro conoscenti e partner d’affari, cercarono qualcuno che
fosse disponibile a occuparsi della sua persona; il che non era
facile per i tempi che correvano. Si rivolsero anche ai
commercianti Tador di Spalato. Questi raccomandarono una
brava ragazza che per un certo tempo aveva lavorato per
loro e che poi avevano fatto sposare ad un anziano signore,
loro affittuario, un italiano di Zara nazionalizzato croato,
impiegato statale che, con la creazione della Banovina Croata
e con la cessione della Dalmazia alla Croazia, aveva avuto il
trasferimento a Zagabria. La coppia era alla ricerca di un
alloggio con un fitto confacente agli stipendi impiegatizi. La
ragazza era brava, timorosa di Dio, cresciuta con le suore,
lavoratrice, ottima cuoca, seria, molto religiosa e con un
marito di venticinque anni più grande; sarebbe rimasta senza
grilli per la testa. Fu così che Wilma e Zoko finirono nella
bella casa del signor Šilković. L’anziano signore, un taciturno
piccolo ometto, grigio ma con lo sguardo penetrante, uno
spiccato senso per gli affari e buon conoscitore della natura
umana, si ritirò al primo piano nobile della casa, lasciando a
Wilma il piano terra con il grande salone, le due stanze con
l’affaccio sulla strada, la cucina-tinello e il bagno verso il
cortile, completamente arredati con mobili d’epoca. Gli anni
prima della guerra e durante la guerra non furono semplici
per l’anziano ebreo. Il nucleo ribelle croato, gli ustaša,
autonomisti nazionalisti di peggiore espressione,
perseguitavano gli ebrei. Pavelić riteneva che i tedeschi
fossero gli alleati più attendibili e i maestri a cui guardare
nella creazione dell’ordine nuovo, non solo per il maggiore
valore militare, ma anche per la capacità di risolvere, una
volta per tutte, la questione ebraica. La soluzione finale nella
mente degli ustaša era indirizzata a tutti quelli che non
fossero di pura fede cattolica, per cui procedevano a
ribattezzarli secondo il rito cristiano, esiliarli o rinchiuderli
nei lager. Crimini nei confronti dei quali la Chiesa capitolina
rimase oscillante tra la collaborazione e una resistenza
piuttosto debole, prediligendo che venissero ribattezzati.
Nel caso del signor Šilković, influenza determinante fu il
legame di Wilma con la Chiesa capitolina e la sua amicizia
personale con l’arcivescovo di Zagabria, Alojzije Stepinac 33.
Wilma era cresciuta dalle suore di Nova Gradiska in
Slavonija, dove Stepinac iniziò la sua ascesa a importante,
illuminato prelato. Quando il padre di Wilma partì per
l’America, in cerca non si sa di che cosa, considerando che
nel fertile granaio pannonico era proprietario di importanti
terreni, lasciò la seconda moglie, già vedova con tre figli del
primo matrimonio e due suoi ancora piccoli. Il fratello di
Wilma fu inviato a Požega nella bottega di un maestro
falegname e Wilma dalle suore, un quasi orfanotrofio dove
ebbe una rigida educazione cattolica. Vi rimase fino ai
diciotto anni, poi tornò dalla matrigna, ma vi rimase poco.
Nel ‘37 scoprì che sua cugina Marica si era sistemata dopo la
morte di tutti i suoi famigliari, trasferendosi nel Ventidue
sull’isola di Lesina. Si presentò, ma Marica in brevissimo
tempo la allontanò dall’Isola, raccomandandola da
conoscenti, i commercianti Tador a Spalato. Non fu mai
chiaro perché zia Marica si disfece velocemente di Wilma. In
verità tra loro non era corso mai buon sangue. Dai Tador,
Wilma fu indotta a sposare il signor Zoko. Credo che si
trattasse di un mutuo soccorso. Il rispettato signore, già in
età avanzata, per motivi sconosciuti rimasto semplice
impiegato malgrado la laurea in legge, aveva assicurato a
Wilma una vita anche se non agiata, sicura e senza
vessazioni. Il signor Zoko era accudito e con ciò venivano
soddisfatte tutte le sue necessità. Wilma era un’eccezionale
cuoca, un po’ meno brava massaia. Alternava periodi di
totale pigrizia, quando la polvere si depositava dappertutto e
i panni da lavare e stirare crescevano oltre il cesto per la
biancheria, a successivi di autentica febbrile smania per le
pulizie. Ma non era questo che la rendeva sempre
indisponibile verso quasi tutte le persone, escluse le
pochissime che riteneva brave. Non era cattiva, ma
irragionevole, insistente, pignola, irascibile, senza misura nei
giudizi e senza comprensione. Il suo vecchio legame con
suore e preti aveva senz’altro influenzato la sua, credo,
incosciente ambiguità. Wilma predicava misericordia, ma la
esercitava a modo suo, imponendo i propri punti di vista. I
preti, suoi consiglieri di indubitabile perfezione, hanno avuto
moltissima influenza su tutta la sua vita, come anche su
quella di molti altri più deboli di lei in fede e volontà. Wilma
indusse il signor Šilković a battezzarsi secondo il rito
cattolico, il che la dice lunga sulle sue convinzioni. Credo che
l’anziano signore, però, sia rimasto sempre e solo un ebreo.
Ma i suoi guai non finirono con la conversione. Non so
come e per quale suggerimento, il signor Šilković, con la
scusa di non voler stare solo e della difficoltà di fare le scale,
abbandonò il primo piano e scese da Wilma. Il piano nobile
completamente arredato fu dato in uso, senza compenso, a
un membro del Movimento Nazionalista Croato. Unica
fonte di sostentamento dell’anziano ebreo, i magazzini nel
cortile, una volta carichi, si stavano svuotando; ormai merce
svenduta al mercato nero.
Wilma si addossò quel problema: procurava il cibo
introvabile al mercato normale, trafficava per racimolare
carbone per il riscaldamento e la cucina, pagava le bollette
arrivate alle stelle. Salvò se stessa, Zoko e il vecchio Šilković.
I zagabresi, stranamente, salutarono in modo trionfante
l’entrata delle forze della Wermacht a Zagabria. Più tardi,
quasi con perplessità, compresero che il Consiglio
Antifascista dei Popoli Jugoslavi aveva gettato le basi per un
futuro stato federale articolato in repubbliche nazionali,
affossando il regno dei Karadjordjević. Il potere comunista
non andò certamente per il sottile. Portò sul banco degli
accusati lo stesso arcivescovo di Zagabria, monsignor
Stepinac, con l’accusa e condanna per la sua supposta
collaborazione con gli ustaša. Inoltre, i serbi uscivano dalla
guerra come vincitori. Erano stati loro a sventolare per primi
il vessillo della rivolta contro gli occupatori stranieri, loro a
costituire il nerbo delle truppe partigiane, loro a pagare il
prezzo più alto in termini di vite umane per la nascita della
Nuova Jugoslavija e, come nell’Unione Sovietica era toccato
ai russi, così il posto emergente tra le nazionalità della
Federazione nella Jugoslavija Socialista era dei serbi.
Rimanevano la pietra miliare di tutto l’edificio statale. E i
Serbi, nella persona di un medico di Niš, entrarono nel
palazzotto dell’anziano Šilković, requisendolo e rendendolo
proprietà dello Stato Jugoslavo.
Alla metà degli anni ‘50, quando arrivai a Zagabria, il
corpo etnico serbo, proveniente dalla Krajina e da altri
territori, era presente dappertutto. Sostenevano il regime,
l’esercito, la polizia segreta, l’attività di propaganda politicoideologica plasmata secondo la loro mentalità patriarcale. Le
loro tradizioni oscillavano tra autoritarismo e populismo. La
loro ostilità era contro tutto ciò che era diverso, non
ortodosso. Dichiarata federale, la Jugoslavija era retta da
Belgrado, dove si concentrarono le risorse finanziarie del
Paese e gli aiuti dall’estero. Questa realtà segnò non soltanto
il primo periodo del regime titoista e poi quello della alleanza
con Stalin, ma anche quello successivo al ‘48, quando il PCJ,
non essendo disposto ad accettare i voleri del Cremlino,
venne escluso dalla famiglia dei partiti comunisti europei.
Nella lotta tra Tito e Stalin si schierarono molti vecchi
partigiani e, seguendo la loro tradizionale cultura politica
simile a quella di Mosca, in particolar modo serbi e
montenegrini, pagarono a caro prezzo la loro lealtà
ideologica con l’esilio e la reclusione nei lager allestiti dalla
Polizia Segreta UDBA. Il potere locale era in mano ad
elementi serbi, come pure tutti i posti chiave dell’apparato
amministrativo ed economico. Negli anni ‘50 il Partito
cambiò il nome in Lega dei Comunisti Jugoslavi e si
impegnò a creare una società con un’autorità statale capace
di concentrare nelle proprie mani tutte le risorse economiche
del Paese, distribuendole secondo i propri criteri, giudicati
poco razionali da repubbliche come la Croazia che, essendo
più sviluppata, riusciva a mantenersi da sola. Ne nacque un
conflitto di interessi. Il rinnovato centralismo di Belgrado, il
sempre maggiore predominio dell’elemento serbo in Croazia,
trattata come una potenziale ribelle da tenere sotto stretta
sorveglianza, in più modi influenzava la vita della capitale,
anche se io a quel tempo non lo percepivo molto.
La mia età, l’educazione, la vita appartata sull’Isola
lontano dai poteri occulti, mi avevano conservata in una
certa beata ingenuità. Non conoscevo nemmeno la storia
dell’anziano ebreo Šilković, che a quel tempo era
semplicemente un signore molto anziano che Wilma
manteneva in cambio dell’alloggio. Se ne stava sempre
chiuso nella sua stanza, eccezione fatta per qualche breve
uscita nel cortile retrostante la casa, dove sostava seduto
sotto un enorme albero grigio con grandi foglie, anche quelle
grigiastre, e grappoli di fiori viola, e dove un giorno Wilma lo
trovò addormentato per sempre. Per poi seppellirlo nella
tomba della famiglia. Anche quella diventata proprietà dello
Stato.
Già dal primo giorno l’Accademia Magistrale
Sperimentale si dimostrò alquanto impegnativa. Ero ben
conscia delle mie scarse nozioni grammaticali di madre
lingua, mai apprese in modo soddisfacente e non solo perché
la vecchia Melina me l’aveva fatto notare troppo spesso e per
più anni. Era vero. C’era da mettersi a lavorare. Feci una
cosa sinceramente spontanea: mi confidai con il professore
di lingua serbo-croata chiedendo di essere aiutata. L’avevo
fatto prima che avesse verificato le mie lacune. Subito mi
conquistò la disponibilità del vecchio professor Sova e il suo
metodo di insegnamento. Non c’era dubbio, dovevo lavorare
sodo, ma questo non mi preoccupava. Il rapporto con gli
insegnanti era leale e rispettoso. All’Accademia eravamo
arrivati da varie parti della Croazia e anche da altre
repubbliche federali, con gradi di istruzione molto diversi.
Essendo una scuola sperimentale, aveva attirato un gran
numero di giovani, per cui l’ammissione era regolata sui voti
presi alla piccola maturità. Per mia fortuna senza la verifica
delle reali nozioni acquisite. Ma per non essere scartata al
primo semestre c’era da sgobbare, per cui mi rimboccai le
maniche. Mi resi conto che non potevo essere rimandata
all’Isola da incapace come dicevano le comari, uccelli del
malaugurio.
Nella capitale non cercai nessuno dei vecchi amici, ma
siccome le scuole superiori più importanti e quasi tutte le
facoltà erano concentrate in quella zona, in breve tempo
incontrai molti giovani conosciuti sull’Isola. Un paio di
isolati lontano dall’Accademia, nella stessa strada, c’era
l’abitazione di Wilma. All’inizio mi ero trattenuta qualche
volta con i compagni all’uscita della scuola. Mi stupii molto
di scoprire Wilma a osservarmi dall’altro lato della strada.
Cercavo di non guardarla. Interrompevo il discorso e a passo
spedito mi avviavo verso casa, un po’ per dimostrarle di non
avere intenzioni inadatte alla sua concezione di buon
comportamento, un po’ per quieto vivere. Avevo presto
imparato che alla fine dei turni scolastici di mattina, non
aveva la possibilità di controllarmi assiduamente perché era
occupata con il pranzo che doveva essere a tavola quando
Zoko, come ogni pensionato senza impegni, tornava dalle
sue quotidiane letture per biblioteche straniere. Ma anche
perché, probabilmente, Wilma riteneva che di giorno non ci
fossero pericoli.
I turni scolastici pomeridiani, invece, erano per Wilma da
tenere sotto stretta sorveglianza. A quell’ora il buio era già
sceso e secondo lei poteva succedere di tutto. Se per caso mi
trattenevo per strada si faceva prendere da certe irragionevoli
sfuriate che mi intimorivano. Avevo difficoltà ad adattarmi
alle regole che m’imponeva. Decisi perciò di rinunciare alle
mie libertà isolane. Desideravo una sola cosa: far venire
Maestro a Zagabria durante l’inverno. Ci contavo. Avevo
necessità di trovare una soluzione alla solitudine che
improvvisamente mi attanagliava. Iniziai così a cercare di
assecondare Wilma, ma anche un po’ a imbrogliarla. La
domenica mattina uscivo con una compagna della quale
Wilma si fidava. Dunia, che apparteneva a una famiglia
molto religiosa e per questo era degna della sua massima
fiducia. Dicevo di voler partecipare alla messa delle dieci in
cattedrale. In realtà rimanevo in chiesa per una mezz’ora e
poi alla chetichella uscivo per visitare qualche mostra, a fare
una passeggiata o a incontrare qualcuno dei vecchi amici.
Nulla di trasgressivo. Di domenica a mezzogiorno, dinanzi al
Gran Caffè del Dubrovnik Hotel, sotto l’orologio, si riuniva
tutta la gioventù delle scuole superiori e dell’università. Un
salotto all’aperto che ospitava giovani ma anche anziani;
uomini politici, giornalisti, scrittori, avvocati di grido. Tutti
quelli che contavano o credevano di contare. Si passeggiava,
si combinavano appuntamenti, feste e festicciole,
s’incontravano conoscenti e si conoscevano sconosciuti. La
vita nella capitale offriva molti divertimenti: numerosi teatri
che ospitavano l’opera, il dramma, la commedia, spettacoli
sperimentali e di cabaret; una decina di cinema di prima e
seconda visione, concerti particolarmente interessanti: serate
danzanti organizzate da universitari e club, mostre di pittura
e scultura, incontri con scrittori, molte manifestazioni
sportive. Tutte cose a me vietate. Non riuscivo a capire né
ad accettare quelle proibizioni. Dover nascondere di avere
precisi interessi, in effetti innocui, come se ci fosse in tutto
qualcosa di turpe, mi faceva riflettere sulle persone che
avevano avuto un’educazione tanto diversa dalla mia. Per la
prima volta cercavo di capire gli altri per capire me stessa.
Fino ad allora non avevo avuto alcuna necessità di giudicare
il mondo intorno a me. Ero libera di fare e sbagliare. Ora
non sapevo più cosa era giusto e cosa sbagliato. Sembrava
ingiusto tutto quello che desideravo e facevo. Quando
Wilma scoprì il mio stratagemma della messa lasciata a metà,
come al solito si fece prendere da attacchi isterici e il dottor
Komić34 dovette somministrarle una buona dose di
tranquillante. Questo suo permanente smaniare per ogni mio
passo falso, metteva Zoko in agitazione e lo spronava contro
di me, preoccupato per la propria tranquillità. Cercavo di far
capire che non chiedevo nulla di eccezionale. Era assurdo
andarci di giorno a vedere un film accompagnata da Zoko,
oppure, dovermi accodare alle figlie del dottor Komić per
andare al teatro e senza poter scegliere quello che mi
interessava. Secondo Wilma certe rappresentazioni non
erano adatte alla mia età, per cui doveva essere lei a compiere
la scelta. Purtroppo anche solo comprare un quaderno o un
libro dovevo farlo di corsa per la paura dei rimproveri,
durante i quali spesso alzava le mani, appioppandomi certi
sganascioni che mi facevano perdere la testa, ma anche la
dignità. Non avevo mai subìto punizioni fisiche e non le
sopportavo. Cercavo di capire il perché di quei rigidi
atteggiamenti per cose semplici e naturali. Wilma era
imbevuta della convinzione che l’unica strada da seguire
fosse quella della rettitudine per sconfiggere i peccati mortali.
I piccoli piaceri della vita, addirittura certe letture, erano
dannose debolezze umane.
Wilma fu la prima persona che mi costrinse a prendere
coscienza di quello che veramente volevo. Ma anche di lei,
come cieca e ingiusta natura umana. Per me era ovvio, lei
cercava la perfezione nelle persone che non amava, mentre a
quelli che sceglieva come propri beniamini, perdonava ogni
possibile sgarro. Non capivo secondo quali regole.
Diventava cieca dinanzi a spudorati inganni ed evidenti
affettazioni. Io non ero portata per la diplomazia, né per la
mistificazione. Ero troppo schietta per cercare di catturare le
sue simpatie, per cui non ci capivamo. Non riuscivo a
mantenere atteggiamenti di circostanza. La sua insensibilità
mi metteva sgomento. Inoltre, dopo la scomparsa di zia
Marica, Maestro mi aveva educata al più totale rispetto della
personalità e alla responsabilità, cosa naturalmente ritenuta
sbagliata sull’Isola, ma anche da Wilma. Non per i fatti
compiuti, ma per i pregiudizi. In verità sapevo quello che
non dovevo fare. Le scelte, poche, che ero stata costretta a
compiere, erano quelle che mi avevano fatto crescere
velocemente e portato all’autonomia e al coraggio nelle
decisioni. Giuste o sbagliate che fossero: precisamente quello
che a Wilma era stato precluso, non dagli altri, ma dal suo
stesso carattere inflessibile. Certe presunte colpe di zia
Marica, inoltre, erano all’origine dell’assoluta indisposizione
nei miei riguardi. Riteneva tutto in me da rifare, ma non
conosceva il modo, né intendeva trovarlo. E io non avevo
l’età per essere accondiscendente.
A metà novembre cadde la neve. La prima neve che io
abbia mai visto. Fummo presi tutti da una certa euforia. Mi
trattenni a giocare con la poca neve nel frattempo
depositatasi sulla strada. Wilma improvvisamente si avvicinò
e in presenza di molti studenti, senza dire una parola, iniziò
ad allungarmi sberle e calci. Provai un’immensa vergogna,
non sapevo se per lei o per me. Scappai inseguita dalle sue
imprecazioni e dagli stretti pugni alzati. Il suo gesto aveva
superato ogni possibile limite di sopportazione. Un simile
isterismo non aveva alcuna ragione di essere, tanto meno
espresso in quella maniera. Il giorno dopo mi recai dalla
direttrice della Casa dello Studente dell’Accademia,
pregandola di farmi alloggiare lì. Mi affidai a quella persona
che mi sembrava esigente ma giusta, una di quelle che
dimostrando rispetto danno fiducia. Mi trasferii alla Casa
dello Studente con un’infinità di minacce e maledizioni di
Wilma. La direttrice sarebbe diventa una delle mie rare
certezze, mi avrebbe restituito serenità e dignità. Nella Casa
dello Studente avevamo tutto il necessario. La mensa era
relativamente buona, le sale per lo studio riscaldate. L’unico
inconveniente era rappresentato dal dormitorio con
diciannove letti in fila. Ragazze, più o meno della stessa età,
tutte delle due prime classi parallele, di due turni scolastici.
La convivenza non era semplice considerando mentalità ed
educazione molto eterogenee. Non esisteva una vita privata.
Avevo serie difficoltà ad abituarmi allo spirito della
collettività, che per la maggior parte delle ragazze non
rappresentava un problema, dal momento che molte erano
senza genitori, figlie di partigiani periti in guerra o di
divorziati, lasciate alla loro sorte o abbandonate negli
orfanotrofi, poi avviate dallo Stato agli studi. Ognuna con la
propria storia, una vita più o meno difficile, l’educazione
diversa o addirittura senza alcuna impronta educativa. Tutte
abituate alla vita in comunità. Al piano superiore erano
ospitati studenti di sesso maschile, con i quali avevamo in
comune solo la mensa e la sala per il tempo libero. Anche se
severamente proibiti, c’erano segreti coinvolgimenti
sentimentali. Scoprii velocemente gelosie, soprusi,
licenziosità, egoismi. Non urtai contro il nocciolo duro del
gruppo già compatto, formatosi prima del mio arrivo, solo
perché schivai gli scontri tenendomi da parte, abituata al
silenzio e alla solitudine. Avevo necessità di serenità.
Terminai quel primo anno scolastico con un punteggio di tre
sul massimo di cinque. Un voto buono, soddisfacente
rispetto alle mie precedenti esperienze scolastiche, ma non
abbastanza per me stessa. Il mio buon rapporto con il
vecchio professor Sova mi aiutò moltissimo. La priorità che
dava alla letteratura invece che alla grammatica era un punto
a mio favore. In grammatica zoppicavo, ma un’innata
predisposizione per i concetti bene esposti, forma compatta
e fluida scrittura mi aiutarono. Un rapporto ugualmente
buono lo avevo con la docente di inglese. Riteneva che
avessi, per la mia ottima pronuncia e la capacità di dialogare,
una spiccata attitudine per lo studio delle lingue. Continuai a
essere appassionata di storia e geografia, da sempre di mio
grande interesse. Le materie che non mi avevano mai attirato
e che continuavano a essere poco attraenti per me erano la
matematica, la fisica e la chimica, mentre quelle didattiche,
come pedagogia, logica, metodica e psicologia, erano su un
gradino più alto nelle mie preferenze. La scarsa applicazione
in aritmetica e algebra e poi nell’imparare a memoria formule
e regole della fisica e della chimica erano legate alla già nota
incapacità di soffermarmi sui meccanismi che regolano
determinate materie richiedendo ripetizioni e prolungato
esercizio. Ritenevo una grande fortuna doverle studiare solo
nei primi due anni. I seguenti tre erano dedicati alle materie
didattiche, alla lingua materna e straniera, alla storia moderna
e geopolitica, alla storia dell’arte e alla musica. Un’infinità di
materie interessanti e coinvolgenti che mi mettevano in
contatto diretto con il mondo della cultura, mi spronavano a
seguire la stampa, a frequentare biblioteche, teatri, concerti, a
visitare gallerie d’arte e a leggere. Leggevo molto. Avevo
immaginato così i miei studi. Era quello che da sempre
avevo desiderato e che finalmente si stava concretizzando.
Quella primavera l’effervescente vita letteraria di
Zagabria aveva attirato anche la mia curiosità. Tutto un
mondo diverso circolava intorno alla Facoltà di Lettere e
Filosofia e al vicino Caffè del Teatro, che si scorgeva
dall’Accademia. Un mezzogiorno libero trascinai Dunia al
Caffè. Vi avevo già fatto da sola qualche veloce escursione,
ma mi ero sentita come un pesce fuor d’acqua tra tanti
studenti sconosciuti che si aggiravano in prossimità dei
tavolini occupati dagli habitué. La maggior parte non aveva i
soldi per pagarsi la consumazione, anche se avesse trovato
qualche posto libero per sedersi. La mia attenzione era
attirata da un gruppetto di studenti intorno a un tavolino ad
angolo sotto il muro del Caffè. Si intrattenevano con un
personaggio strano, la cui presenza mi stupì in quel posto
sofisticato. Un tipo trasandato, vestito quasi di stracci, con
pantaloni sformati e logori, tenuti su con una corda
attorcigliata in vita, barba incolta. Un mezzo ubriaco o un
pazzo furioso, pensai. In poco tempo avrei saputo che si
trattava del vecchio poeta Tin Ujević35, uno dei più noti poeti
croati contemporanei, autore di intere collane di poesie,
tradotte in numerose lingue. Un intellettuale acuto, sensibile,
di vasta cultura, ma purtroppo un forte bevitore. Un alcolista
perso, più un clochard che un bohémien. Ogni mezzogiorno
era presente al Caffè del Teatro. Molti gli offrivano da bere,
non saprei dire se per compassione o per indurlo alle sue
argute, incontrollabili esternazioni su questioni che gli altri si
guardavano bene dal discutere. Al vecchio Tin la pazzia
permetteva di essere irriverente nei confronti del Potere,
della rinnovata e crescente politica centralista di Belgrado,
del predominio dell’elemento serbo in Croazia quando
questo non disturbava ancora in modo particolare il
Governo croato. Le acque si erano appena smosse. Nella
metà degli anni ‘50, infatti, un gruppo di filologi di area
linguistica serbo-croata aveva ribadito al convegno di Novi
Sad il connubio del serbo-croato come lingua letteraria
jugoslava, pur riconoscendo la differenza di alcune varianti
locali, anche per gli alfabeti con cui venivano scritte: cirillico e
latinico. Dopo di ciò i croati contestarono il fatto che la loro
variante serbo-croata veniva sempre più emarginata nella vita
pubblica, alla televisione, alla radio, nella pubblicistica, quasi
si trattasse di una parlata locale da eliminare quanto prima.
Le battute, i ragionamenti del vecchio Tin, non tutti li
ritenevano dovuti alla sua mente offuscata dall’alcool. Si
credeva che spesso venisse indotto a dire cose che gli
intellettuali croati pensavano. La questione della lingua stava
prendendo connotati di seria rivendicazione. Esternazioni di
questo genere facevano finire Tin al manicomio Vrapče36 per
un tempo indeterminato, per poi essere rilasciato sempre più
distrutto nello spirito e nel fisico. Usciva ed entrava
dall’Ospedale psichiatrico o dal manicomio, posti sempre
inadatti all’estrema sensibilità che traspariva dalla sua
splendida poesia. Dopo poco Tin morì, sconfitto dall’alcool
e dal cancro.
Lo avevo incontrato più volte insieme al gruppo di
studenti che amavano ascoltare le recitazioni del vecchio
poeta. Leggevamo le sue poesie e le imparavamo a memoria.
Cosa c’era di tanto affascinante nella poesia di Tin nella cui
sensibilità si sono riconosciute intere generazioni? È difficile,
direi impossibile, penetrare nei suoi segreti, anche quando si
arriva a vivere la sua parola poetica. Questo perché il
profondo dell’arte non si riesce mai completamente ad
afferrare. Così è per la poesia di Tin Ujević. Si vive con essa
e ci sembra tutto chiaro, noto, comprensibile, aperto, ma
non è così. Negli anni successivi al ‘55 ho studiato Tin, ma
solo ora le argute sottili esternazioni sono diventate la chiave
segreta che mi ha permesso di penetrare i misteri della sua
creatività poetica. Tin è rimasto sempre in una certa ombra,
espressione della sua estrema sensibilità, - salata come il sangue,
tenera come l’erba giovane, leggera come la nuvola e pure dura come se
fosse cresciuta su una sabbiosa roccia marina, o su qualche pietra
rapita su una inadeguata sponda deserta, come se facesse fatica a far
entrare negli elementi primordiali tutto quello che porta in se stessa.
Quando mi sono dedicata allo studio della poesia di Tin
Ujević mi è sembrato, fermandomi a osservare le sue foto
per catturare la sensibilità nell’espressione, che l’immagine ne
fosse priva e che riflettesse solo un uomo segnato
dall’ineluttabile rinuncia e sofferenza. Figura scavata dal
vento, nella nebbia, e nella brace sotto la cenere. E pure, in
ogni parola, dappertutto e sempre sensibilità. Perché senza di
essa non c’è vita, né creazione. Aiuta a vincere l’angoscia,
libera l’urlo negli spazi della vita. Mancò a tutti la sua figura
alta, magra, sofferta, dalla signorile dignità, senza mai un
lamento. Era così che l’avevamo vissuto. Non il poeta, ma
l’uomo.
Per le vacanze estive mi recai sull’Isola e mi resi conto di
avere cambiato tutte le abitudini. Mi fermavo di meno al
mare. Di sera incontravo lo stesso vecchio gruppo, ma di
rado e per breve tempo. Purtroppo ero sempre stanca.
Preferivo la penombra della mia stanza e le passeggiate
all’imbrunire. Quasi con sollievo, ai primi di settembre,
tornai a Zagabria e subito dovetti immergermi nella vita
collettiva: condizione che non ero capace di accettare. Mi
aiutò un fatto di non poco conto. Al secondo anno
scolastico passammo tutti la visita sanitaria obbligatoria. Una
specie di check-up, con esami radiologici. Si scoprì che
avevo sulla parte destra dei polmoni una macchia in
posizione sub-clavicolare che non andava sottovalutata. La
tubercolosi è stata lo spauracchio di tutta la mia vita. Quella
subdola malattia portò via giovani mia nonna e mia madre,
per cui, almeno finché era viva zia Marica, si era cercato di
non sottopormi a fatiche fisiche e a penuria alimentare.
Morta zia Marica, tutte le precauzioni erano venute meno e
sperimentai tutto quanto in precedenza mi era stato proibito:
molto sport, particolarmente nuoto, lunghissime esposizioni
al sole e scarsa, scarsissima alimentazione. La direttrice,
venuta a conoscenza delle mie condizioni di salute, fece di
tutto per non dovermi mandare via dalla Casa dello
Studente. Aveva a disposizione una stanza a due letti per
malati occasionali, dove era stata costretta a sistemare una
ragazza malata di tubercolosi, senza genitori né parenti e
senza un’altra possibilità di alloggio. Zlata divideva il tempo
tra il sanatorio per malati di tubercolosi e la Casa dello
Studente. I medici assicurarono che la sua malattia non era
contagiosa per me.
Fui trasferita in stanza con Zlata. Durante le vacanze
invernali decisi di recarmi sull’Isola. Desideravo far
conoscere personalmente le mie condizioni a Maestro
perché sapevo lo avrebbero stravolto. Fornita delle medicine
specifiche, partii a Casa. Ero presa da una certa
rassegnazione. Divenni ancora più malinconica, taciturna. Mi
isolai nel mio rifugio. Sull’Isola, anche se era inverno, mi resi
conto di cosa significasse non fare più sport.
Nei giorni trascorsi alla Casa in pietra grigia, non
incontrai quasi nessuno, a parte Bela. Un sabato mi trascinò
al ballo organizzato nella sala dello Slavia Hotel, a una di
quelle serate che in precedenza frequentavo con grande
divertimento. Mi resi conto che non avevo più alcun
interesse per il ballo, tanto meno per la vecchia comitiva.
Anche se era passato un periodo di tempo relativamente
breve, tutti i miei interessi erano cambiati.
Gennaio, mese di maltempo per eccellenza, lo passai
rintanata in Casa. Trascorrevo giornate intere leggendo,
ascoltando musica e, appena il tempo lo permetteva, facendo
lunghe passeggiate. Jera cercava di rallegrare ogni giorno con
pasti particolari, specie quelli che mipiacevano: gnocchi di
patate al sugo di pasticada37, brodetto e polenta, crostata con
cotognata e una montagna di frittelle. Prima del mio arrivo si
era procurata a Brusje della lana grezza. L’aveva cardata,
filata e confezionato per me un bellissimo, pesante e caldo
maglione bianco con delle trecce verticali, di fattura simile ai
maglioni nordici, visti solo nelle riviste e nei film. Sull’Isola
poteva sostituire il cappotto. Era talmente bello che desiderai
imparare a fare la maglia e insistetti finché non ci riuscii.
Nella nostra bella cucina riscaldata tutto il giorno,
passavamo sere tranquille sferruzzando e aspettando il
rientro di Maestro dalle prove con l’orchestra all’Orlana. Il
Comune non aveva mantenuto la parola e non aveva liberato
il piano terra della Casa. Rimase in uso all’acchiappacime. La
nazionalizzazione degli immobili era definitiva. Secondo le
leggi vigenti Maestro aveva anche troppo spazio: il salottino,
la cucina, due stanze con bagno, il terrazzo, una parte del
vecchio giardino, erano considerati addirittura fuori regola.
Ormai era chiaro che non si poteva chiedere di meglio. Jera
teneva ordinata, con tutte le cose a posto, la mia camera,
ricavata dalla divisione dell’antica stanza padronale con due
porte-finestre. In mia assenza probabilmente accoglieva
qualche ospite, visto che lei aveva scelto per sé l’ottomano in
cucina. Aveva ricoperto lo spazioso letto in ferro verniciato
avorio con una nuova morbida trapunta e con cuscini
ricamati. L’antica brocca e il bacile in porcellana dipinta con
fiori di ciclamino, una volta usati per lavarsi, ora erano pieni
di spighe viola di lavanda e fiori bianchi di piretro: gli antichi
odori della Casa.
Jera mi confidò gli intrighi della sarta Mercedes nel
cercare di entrare in qualche modo nella Casa. Non aveva
capito che Jera non era solo la nostra vecchia domestica, ma
anche persona ormai considerata membro della famiglia.
Cercai dei chiarimenti riguardo questo atteggiamento di
Mercedes. Chiesi a Maestro. Un po’ stupito mi spiegò che le
sorelle sartine continuavano ad occuparsi dei suoi vestiti e
nulla di più. Conoscendo la mentalità isolana, avevo intuito
che qualche burlone poteva essersi divertito e le visite di
Maestro alla casa delle sorelle aveva fatto intendere come
qualcosa che loro in effetti potevano desiderare. Avevo
sentito delle voci secondo le quali Maestro era indicato come
possibile futuro consorte di Mercedes. Non era affatto
difficile indurre a simili pensieri due persone come le sorelle
sartine, tutta la vita racchiuse nella propria solitudine, carica
di chissà quali e quante immaginazioni e struggimenti. Era da
anelare, anche se ritardato per l’età, un matrimonio con
Maestro, economicamente sistemato e solo perché, vista la
mia assenza durante quasi tutto l’anno, ero già estromessa e
non considerata più di alcun disturbo. Pregai Maestro di
togliere alle sorelle ogni speranza di un possibile ingresso
nella nostra vita e gli feci promettere di ridurre le visite.
L’effetto di questo mio comportamento nei riguardi delle
sorelle mezze suore fu devastante per Mercedes. Sparì dal
nostro presente e futuro. Ripartita per Zagabria non sentii
più parlare né di Mercedes, né della faccenda, assurda e
impensabile.
A metà gennaio tornai a Zagabria. Mi dedicai allo studio.
Convivevo bene con Zlata. La sistemazione nella stanza a
due letti aveva risolto i miei problemi di vita in comune e mi
permetteva di evitare lo stanzone per lo studio, sempre
soffocante di cattivi odori per il troppo riscaldamento.
L’inverno era molto rigido, la neve si accumulava sulle
strade. Fortunatamente il tragitto dalla Casa dello Studente
all’Accademia era distante appena un paio di isolati. Ciò mi
permetteva di non bagnare i piedi e di non contrarre qualche
malanno che avrebbe compromesso la mia già intaccata
salute. La primavera ci sorprese all’improvviso. Un giorno,
soffermando lo sguardo fuori dalla finestra, me ne resi
conto: gli alberi di tiglio lungo il viale erano ricoperti di
piccole gemme di colore verde pallido. Le seguivo ogni
giorno svilupparsi in foglioline, prendere forma e colore.
Sempre più aperte fino a ricoprire i rami e formare splendide
cupole sferiche in un susseguirsi e perdendosi in prospettiva
verso la piazza della Facoltà di Ingegneria e dell’ex Ginnasio
classico. Alla fine di maggio l’odore penetrante dei tigli in
fiore sormontava ogni altro odore e il vialone si ricopriva di
un pulviscolo leggero e svolazzante posandosi sulle basole
dei larghi marciapiedi. Tutta la città era in un tripudio di
aiuole e alberi in fiore. La Zagabria Bassa, con la zona delle
facoltà, biblioteche, scuole, gallerie, teatri, le sue strade
alberate e i spaziosi parchi, mostrava la particolarità di questa
splendida città.
Infatti, la primavera di Zagabria era da sempre un
avvenimento di rara bellezza. Purtroppo non avevo né
tempo né molte forze per scoprire gli angoli più remoti della
città ancora sconosciuta. Mi stancavo rapidamente, ero
molto dimagrita malgrado il supplemento di miele, biscotti e
altri alimenti inviati regolarmente da Jera e l’aumento della
mia retta mensile da parte di Maestro. Purtroppo,
nonostante i farmaci, la mia malattia non regrediva. In
giugno, alla fine dell’anno scolastico, detti tutti gli esami con
buoni voti.
La direttrice della Casa dello Studente prese accordi con
il primario del sanatorio per malati di tubercolosi e, cercando
di approfittare dei due mesi di vacanza, a metà giugno mi
fece entrare nel sanatorio Jordanovac sulle pendici del monte
Sljeme, vicino a Zagabria. Una bella struttura, luminosa,
d’avanguardia, simile a un lussuoso albergo, sistemata in un
rigoglioso bosco. Non era facile entrare in quell’ambiente,
Avevo la fortuna di essere stata raccomandata dalla direttrice
della Casa dello Studente, influente nel sociale e
politicamente potente. Negli anni ‘50 la tubercolosi era
ancora difficilmente guaribile. Se non veniva curata bene,
poteva avere esiti mortali. Trovare un ambiente sanitario
bene organizzato era raro. La moderna concezione di cura
della tubercolosi era semplice: vita il più possibile normale,
senza fatiche fisiche e particola ricomplicazioni psicologiche,
alimentazione calorica e vitaminica adeguata, passeggiate
mattutine nel verde e intensiva somministrazione di
pasticche PAS e streptomicina. La disciplina era rigida. Non
erano consentite trasgressioni di alcun genere, pena
l’espulsione dal sanatorio. Molto graditi e venivano spesso
improvvisati avvenimenti culturali: serate letterarie, brani
teatrali preparati dai pazienti, concerti di chitarra, violino e
pianoforte. Nel sanatorio incontrai un gruppetto di persone
simpatiche, già affiatate per la prolungata permanenza in
quel luogo. Anche se ero parecchio più giovane, entrai a far
parte del gruppetto da tutti denominato Gli intellettuali.
Grazie a quelle frequentazioni la mia passione per le letture
acquisì una maggiore consapevolezza. Nel gruppo c’era un
poeta, assistente alla Cattedra di letteratura spagnola
dell’Università di Zagabria. L’influenza di Nicola il poeta
sarebbe diventata importante per la mia formazione
psicologica e culturale, ma anche per la mia futura
professione. Iniziò a procurarmi libri che riteneva adatti alla
mia istruzione, discuteva le mie letture, mi introduceva nei
segreti della scrittura. Mi fece conoscere e apprezzare grandi
scrittori e poeti contemporanei. Mi piacquero i suoi libri di
poesie. Considerando le visite domenicali delle studentesse
dei suoi corsi, doveva essere molto corteggiato, anche se
sposato. Era un trentacinquenne ascetico, con forti
lineamenti di tipo dalmato-dinarico, colto, riservato. Mi
sembrò, in tutti i sensi, eccezionale. I miei nuovi amici
intellettuali formavano un gruppo bene assortito. La
permanenza al sanatorio sembrava una vacanza senza
problemi né preoccupazioni. Ero giovane e fortemente
intenzionata a guarire. Pensavo poco alla malattia. Decisi di
studiare seriamente. Una volta al mese scendevo a scuola
dove segnavo i testi da studiare ed ero soggetta a una specie
di breve esame. I professori erano premurosi. Particolare
disponibilità mi veniva dimostrata, come al solito, dal
vecchio professore Sova, dalla professoressa di inglese e
dalla grande signora Pavić38, insegnante di storia: tutte materie
che mi divertivano. Non erano affatto un impegno, ma un
hobby. Mi piacevano un po’ meno le materie didattiche, ma,
nonostante fossi convinta che non mi sarei mai avviata
all’insegnamento al quale mi abilitava l’Accademia, mi ci
applicai ugualmente.
Ritornavo al colle Rebro dalle escursioni scolastiche a
fine mattinata. Sembrava di tornare in un bell’albergo.
Silenzioso, tranquillo, confortevole, lontano dal frastuono e
dalla calca delle affollate strade capitoline. Il sanatorio era
diventato la mia casa. Mi sentivo protetta. Probabilmente
l’età mi faceva sembrare tutto facile. Anche la malattia era un
pensiero rimosso, quasi fosse superata. Vivevo senza
problemi, dedita allo studio e immersa nel gruppo intellettuale.
Nucleo vivo di tutti i piccoli avvenimenti che facevano la
nostra quotidianità. Gli impegni culturali erano ritenuti un
validissimo supporto alla buona riuscita della cura.
I miei interessi indirizzati verso uno studio più specifico e
approfondito della letteratura, consolidati durante i primi
due anni all’Accademia, mi avevano avviato verso scelte
accurate, per cui avevo già letto molto, conosciuto i grandi
classici, la letteratura americana e quella moderna di
madrelingua serbo-croata. Con serbo-croata intendo due
letterature diverse, quella serba e quella croata, con una
stessa lingua ufficiale ma con due basi culturali e tradizioni
diverse.
L’Accademia, come tutte le scuole superiori e le facoltà
universitarie, aveva l’obbligo d’impartire lezioni di istruzione
Premilitare, introducendoci gradualmente alla storia del
socialismo, con un ovvio collegamento ai grandi avvenimenti
rivoluzionari, in particolar modo quelli russi comunisti
dall’ottobre del 1917, dai quali Josip Broz Tito, dirigente del
Movimento Socialista dei Lavoratori Jugoslavi, fu
completamente assorbito per schierarsi con la rivoluzione e
il cambiamento del sistema sociale anche nel proprio Paese.
Per noi giovani la storia della liberazione popolare era
piena di fascino. Ci conquistarono i momenti salienti della
nuova era jugoslava. Ora diventava chiaro tutto quello che
per la nostra giovane età, durante la guerra e nell’immediato
dopoguerra, non ci era stato possibile conoscere: il Patto di
Vienna a tre in aperta collaborazione fascista.
Il bombardamento di Belgrado. L’ingresso dei tedeschi a
Belgrado e Zagabria. Il panorama politico di una Jugoslavija
distrutta, con il re e il governo in fuga all’estero. Il Paese
pervaso dagli odi nazionali e gruppi di popolazione
contadina alla ricerca della tradizione balcanica di guerriglia e
di una possibilità di sopravvivenza, nelle montagne e nei
ricordi. I comunisti che offrivano un’organizzazione militare
e consapevolezza politica. Un moto di resistenza che ci
affascinava, grazie al quale ci sentivamo parte integrante di
quell’illuminato passato. L’intreccio di guerra patriottica e
civile, gli sforzi per la realizzazione di uno Stato
profondamente nuovo secondo gli indirizzi socialisti e
l’unione paritaria tra popoli diversi come componente
essenziale della stessa rivoluzione, divennero parte di noi
stessi. Ci fu chiara anche la grave e drammatica rottura con il
mondo comunista avvenuta nel ‘48. Quella dolorosa vicenda
di allontanamento dalla Grande Madre Russia l’avevamo
recepita come necessaria per la nostra indipendenza, per la
coesistenza e l’edificazione di una nuova Jugoslavija unita
nella costellazione internazionale e nel futuro sviluppo
mondiale. Anche il concetto di Tito del nonallineamento era di
alto contenuto morale, meritevole di essere abbracciato con
fierezza dal nostro Paese che voleva essere all’avanguardia.
Al di là dell’istruzione Premilitare, il Movimento
Giovanile Studentesco era estremamente attivo. Tutti i
giovani amavano veramente il loro nuovo Paese, convinti
della rettitudine della sua strada indirizzata verso
l’uguaglianza, la libertà, la fratellanza, verso una vita migliore.
Nella seconda metà degli anni ‘50 il Paese aveva avviato uno
sviluppo economico, garantiva scolarizzazione per tutti e
condizioni migliori per gli operai nella prospettiva di
un’autogestione del lavoro e dello sviluppo di personalità
libere, capaci di creatività, pensiero scientifico-sociale.
Il gruppo degli intellettuali al sanatorio era una fonte
molto informata su quel preciso momento sociopolitico. Le
due studentesse di storia dell’arte e letteratura romanza, il
professore di filosofia, il violinista insegnante al
conservatorio capitolino e il poeta Nicola rappresentavano,
per la loro età e le loro idee, il nuovo mondo socialista e il
futuro nel quale, allora, credevamo tutti profondamente.
L’istruzione Premilitare suscitò il mio interesse anche per la
letteratura politico-sociale più approfondita, per i discorsi di
Tito, per la grande epopea dei poeti Nazor, Ivan Goran
Kovačić39 e altri.
Al sanatorio alloggiavo in una stanza a due letti che mi
dava la possibilità di leggere di nascosto durante la notte. La
mia compagna, una persona garbata, mi aiutava in questa
trasgressione. Mare era una trentenne riservata, gentile,
misurata, sempre pronta a dispensare consigli, ma senza
invadenza. Legammo subito moltissimo. Proveniva dalla
bella regione di Konavlje, l’alto litorale a sud di Dubrovnik,
verso la frontiera con la Bosna-Herzegovina. Veniva da una
ricca famiglia di proprietari terrieri e, come tutte le donne di
quella zona, lavorava nei campi solo per l’impossibilità di
reperire manodopera fuori della cerchia famigliare. Aveva
studiato economia domestica, si occupava della grande casa
paterna ed era un’eccezionale ricamatrice. Un’arte molto
nota nella zona; i ricami più belli e ricchi del folklore croato.
Lei stessa vestiva esclusivamente l’abito tradizionale di
Konavlje: gonna lunga bianca con coprigonna e corpetto
neri finemente ricamati sul davanti con fili scarlatti e oro;
camicetta candida intrecciata con gli stessi fili gialli e rossi.
Mare, sottile e alta, non bella, ma fiera, mi sembrava una
delle cariatidi rappresentanti le Repubbliche nel Mausoleo
del Milite ignoto sul monte Avala di Belgrado. L’amicizia
con Mare era quello che mancava nella mia vita solitaria di
ragazza cresciuta senza figura materna, in perenne ricerca di
affetti ed esempi femminili. Sarebbe diventata una persona
importante per me. Non solo durante la mia permanenza al
sanatorio, ma anche più in là nella vita.
Oltre un ventennio più tardi, frequentando la sua
splendida e antica casa, l’avrei conosciuta meglio. La nostra
amicizia durò fino alla sua scomparsa, avvenuta durante il
Conflitto jugoslavo del ‘91-‘95, nel quale l’Armata jugoslava
rase al suolo l’intera meravigliosa e antica Konavlje,
costringendo alla fuga gli abitanti prima di sottoporre al rogo
le loro belle case in pietra, riducendole a mura vuote,
annerendo aranceti, limonaie e orti, lasciando una landa
desolata di alberi arsi dalle folate di bombe incendiarie. Mute
sentinelle pietrificate di un ricco passato felice.
Ma negli anni tra il ‘50 e il ‘60, la fratellanza tra croati e
serbi non faceva presagire una simile barbarie. Anche Nicola
aveva vissuto l’esperienza partigiana da giovanissimo
studente. Certe sue poesie alludevano agli avvenimenti
vissuti e alle speranze cui erano finalizzati; riflessioni intrise
di una malinconia esistenziale che non riuscivo a
comprendere completamente, ma che percepivo.
Molti anni più tardi le avrei analizzate dando loro una
collocazione psicologica. A quell’età mi attirava il
personaggio, probabilmente per l’importanza che mi
attribuiva ritenendomi promettente, anche se ero convinta
che avesse preso un grosso abbaglio. Non mi sono mai
ritenuta dotata di nulla in particolare.
Intanto mi preparavo per gli esami della fine del terzo
anno all’Accademia. In giugno Wilma venne a sapere del mio
ricovero al sanatorio e chiese informazioni al primario. Lo
stretto contatto con la malata di tubercolosi, ormai
progredita, poteva vanificare un anno di cure intraprese. Le
mie difese fisiche indebolite richiedevano un ambiente
protetto e sano. Wilma si appellò al primario e questi mi
raccomandò un ambiente famigliare. Purtroppo non avevo
altra soluzione che accettare il suggerimento. Detti tutti gli
esami dell’anno in corso e in settembre, per l’inizio del
quarto anno scolastico, tornai, non senza perplessità, da
Wilma. La malattia o forse le frequentazioni di quegli anni
resero più tranquilla la mia convivenza con Wilma. Erano
cambiate molte cose. La mia vecchia irrequietezza si era
completamente assopita, l’esuberanza calmata. Mi ero
affezionata a Nicola e avevo acquisito un comportamento
molto più sereno. Il mio atteggiamento si era trasformato in
una strana nostalgia. Non avevo preso in considerazione
alcuna nostra frequentazione fuori dal sanatorio; eravamo
troppo diversi per età e stile di vita per attenderci un
qualsiasi, se non occasionale, proseguimento di
quell’amicizia.
L’inizio dell’anno scolastico mi impegnò di nuovo. Al
ritorno in città, seguendo il consiglio del primario del
sanatorio, ogni pomeriggio cominciai a fare lunghe
passeggiate nel verde del bellissimo parco Tuškanac 40. Il
bosco cittadino situato sull’omonima collina, con larghi viali,
centri sportivi, poche ville di politici e personaggi pubblici
importanti, antiche case requisite a ricchi ebrei,
nazionalizzate e date in uso a persone influenti. Mi recavo al
passeggio accompagnata dalle gemelle della signora Hern.
Due ragazzine di una decina di anni, vivaci e intelligenti.
Wilma disse che sarebbero state una buona compagnia. E
perché no? Non mi resi conto che le ragazzine erano
utilizzate come mie guardie del corpo. Mesi più tardi, in una
di queste passeggiate, incontrai Nicola. Non so se l’incontro
avvenne per caso. Il parco a quell’ora era molto frequentato
da persone a passeggio o dirette ai campi sportivi e al parco
giochi; facevano sport o semplicemente si riposavano,
leggendo e riflettendo. Tutti gli incontri erano possibili. Non
avevo nessun motivo per illudermi. Si offrì di portarmi dei
libri. Mi sentivo a disagio, come se stessi facendo qualcosa di
proibito. Iniziò a piovere e quasi con sollievo mi riparai nel
passaggio coperto del parco. Nicola era lì e si avvicinò
allungandomi un piccolo libro; la sua prima raccolta di
poesie, Sotto le impassibili stelle, fresca di stampa, con ancora
un forte odore di tipografia.
C’era una dedica. Significativa. Da far riflettere, come
tutto quello che diceva e non diceva. Intuivo i sottintesi, ma
non cercavo di razionalizzarli. Preferivo l’immaginazione
perché potevo modellarla a mio piacere. La realtà era in
quello che pensavo, non in quello che mi circondava. Solo
così mi sentivo estremamente ricca e serena. Quella dedica,
non espressa in modo esplicito ma comprensibile nella sua
intenzione, mi avrebbe accompagnata per anni influenzando
molte delle mie scelte.
Incontrai Nicola più volte, nella stessa maniera e nello
stesso posto, in compagnia delle mie guardie del corpo.
Discorrevamo di poesia, di scrittori contemporanei che egli
frequentava e desiderava farmi conoscere personalmente,
degli studi che avrei intrapreso, dei paesi nei quali aveva
soggiornato e in cui spesso tornava. Pomeriggi gradevoli,
attesi. Credevo che Wilma non sapesse nulla di quegli
incontri. Non immaginavo che, dopo ogni uscita,
sottoponeva le gemelle a un interrogatorio. Dalle reazioni di
Wilma era ovvio che non riferivano molto, almeno non che i
miei incontri erano ripetitivi. Non ho mai conosciuto il
motivo del silenzio delle gemelle con Wilma. La loro era
distrazione, complicità o un certo intuito, spesso molto vivo
nelle ragazzine della loro età?
Quel novembre compii diciotto anni. Tra me e Wilma ci
fu una specie di tregua. I fatti della vita, la malattia, il mio
impegno scolastico accresciuto dalla permanenza di un anno
al sanatorio, ma anche la frequentazione di persone diverse
da quelle dell’Isola, ci resero tutte e due più concilianti.
Wilma era, o cercava di essere, accondiscendente. A ciò
l’avevano senz’altro indotta la fiducia manifestata dalla
direttrice della Casa dello Studente e dal primario del
sanatorio, che mi consideravano matura, responsabile e
impegnata. Non avevo fatto nulla per meritarmi un tale
giudizio. Continuai a essere quella di sempre. Erano loro ad
attribuirmi meriti per cose che mi sembravano poco degne di
attenzione. Arrivai al quarto anno e la scuola mi assorbì
moltissimo. Il professor Sova, al corrente delle sue
proibizioni, decise di parlare con Wilma, desiderando farle
presente quali, fra quelle attività che lei riteneva poco adatte,
fossero necessarie per la mia istruzione. Il risultato fu
positivo. Iniziai a frequentare dei pomeriggi letterari, incontri
di studenti delle scuole superiori e universitari con scrittori e
poeti molto ambiti, in particolare quelli del giovedì al Teatro
di Arte Drammatica. Tra i poeti ospiti spesso era presente
Nicola. A volte scendeva fra il pubblico per raggiungermi. La
sua presenza, anche se non andava mai al di là del rapporto
maestro-allieva, mi sembrò essere troppo pressante.
Naturalmente ne ero lusingata, grata per le attenzioni che mi
dimostrava. Attraverso i libri e gli spettacoli teatrali che mi
suggeriva, sempre estremamente riservato ma assiduo,
entravo nella vita dalla porta giusta. Sentivo a rischio quel
rapporto: io avevo diciotto anni e lui era un adulto oltre i
trentacinque, noto scrittore, professore universitario,
personaggio in vista e molto corteggiato. Decisi,
istintivamente, di proteggermi da coinvolgimenti non adatti.
Probabilmente non avrei deciso la ritirata se Nicola non
fosse stato anche sposato. Di nuovo avevo preferito
l’immaginazione alla realtà. Desideravo conservare il bello di
quell’amicizia.
Come già ho detto, alla metà degli anni ‘50, i poeti croati
denunciarono un uso inadeguato della lingua croata nella
letteratura. La poesia di Nicola Milić41 era uno di quei segnali
che facevano presente la necessità di rispettare l’interrotta,
respinta o addirittura contestata continuità poetica dal
periodo della giovane lirica croata fino alla formazione dei
cosiddetti fortemente espressivi, quali Tin Ujević in quasi tutta la
sua vita creativa e Miroslav Krleža, scoperto con la sua
Balata di Petrican Kerempuh42 immediatamente prima della
Seconda Guerra mondiale. Tale richiesta di continuità non
era dichiarata. Da nessuna parte, infatti, si evocava lo spirito
tradizionale del focolare lirico, ma nei versi del gruppo di
giovani poeti si rispettava l’eco della tradizione che basava la
propria esperienza poetica sulla ricerca delle emozioni e sulla
riflessione. Non solo in poesia ma anche nella vita. Il
romantico eregi monumentum doveva essere sostituito con il
monumento all’uomo e al poeta, riportandolo così alla misura
umana; il contributo del destino doveva essere rappresentato
come un aspetto comune della vita. Già con la sua raccolta
Sotto le impassibili stelle, Nicola aveva scelto di contrapporre la
convinzione della nullità umana all’idea del valore della vita.
Intorno a questo pilastro si cristallizzò la maggior parte della
sua creazione che, molti anni più tardi potrà esprimere con
un più ampio spettro di emozioni, complicità del pensiero e
preoccupazione per il mestiere del poeta. Nicola ha
condiviso il bene e il male con gli altri intellettuali raccolti
intorno alla Matica Hrvatska43 che confermava i successivi
sviluppi contro le contraddizioni individuali e collettive di
sterile poetizzazione tipica dell’attivismo socialrealistico.
Attraverso questa controversia si forgiò la vocazione poetica
individuale pretendendo il diritto alle scelte personali, la
presa di coscienza contro la poesia delle regole assegnate e
compiti sottoposti in anticipo.
Nelle perturbazioni della letteratura croata nella metà
degli anni ‘50, poco conosciute al pubblico,
conseguentemente ad una sempre maggiore insistenza sul
diritto del poeta di occuparsi di se stesso oltre che dei
problemi
comuni e del sistema metafisico del cosmo, si formò una
poesia che intendeva, a qualsiasi prezzo, essere l’espressione
dell’affettività e dell’immediatezza delle esperienze.
La letteratura croata, sul finire di quegli anni, da una parte
aspirava alla sintesi del quotidiano e dall’altra cercava di
instaurare un vocabolario indispensabile e sicuro nella
sempre più sentita necessità di un’espressione ripulita dai
complessi della moderna poesia manieristica. In ogni modo
c’era una tendenza all’espressione autentica dell’attuale.
Rinunciando all’esecuzione di ordini prestabiliti, purtroppo
questa poesia si politicizzò nella sempre più forte pretesa di
parlare dei fenomeni presenti con il linguaggio interiore. Si
volle far sapere che il poeta deve essere conscio della propria
condizione esistenziale perché questa era e sarà il futuro.
Nella necessità di comprendere il senso della vita, si trovò la
giustificazione dell’attenzione rivolta alle piccole cose, nei
contenuti mediocri, ambizioni frenate. Nicola era molto più
esigente. Realizzò la sintesi del sentimento con la
meditazione. La sua osservazione fu la sfida alla meditazione
stessa, dirottando sull’introspezione. È un periodo di intense
ricerche, verifiche, accettazioni e rifiuti definitivi che
sarebbero diventati chiari non prima di una ventina di anni
più tardi. Anche le mie riflessioni appartengono a un periodo
posteriore. A quel tempo non ne sapevo nulla delle
perturbazioni nella letteratura croata. Quella che racconto è
l’esperienza degli anni ‘70.
In quel periodo uscivo poco, ma nonostante tutto, il
destino mi fece incontrare persone che avrebbero occupato,
in qualche modo, parte del mio futuro. L’appartamento di
Wilma aveva delle grandi finestre al piano terra, sulla strada.
Spesso mi trattenevo a osservare il passaggio delle
persone. Di lì, più volte al giorno, transitavano studenti delle
varie facoltà che si trovavano in fondo alla strada. Ne notai
soprattutto due per il loro aspetto atletico e i bei vestiti. Uno
in particolare portava jeans americani, introvabili sul mercato
nazionale, magliette aderenti, scarpe sportive, estere. Erano
inoltre curati, diversi dai soliti studenti squattrinati e mal
vestiti. Passavano quotidianamente sotto le finestre alle quali
spesso stavo affacciata e mi salutavano, finché un giorno
non si fermarono a chiedermi se qualche volta uscissi. Il
discorso non andò avanti. Feci un passo indietro ritirandomi
dalla loro visuale, senza rispondere. Più volte così, sino a
quando, vedendo che continuavano a fermarsi, non mi
sembrò
stupido
ripetere
la
stessa
scenetta
dell’indietreggiamento.
Se
non
avessi
desiderato
quell’approccio mi sarebbe bastato non affacciarmi negli
orari del loro passaggio. In fondo, mi sembrava già di
conoscerli. Iniziò un discorso superficiale, di occasione. Si
presentarono, dissero che frequentavano la Facoltà di
Ingegneria e finì tutto lì finché, un giorno che pioveva a
dirotto, ci incrociammo davanti all’Accademia. Mi
accompagnarono fino a casa proteggendomi con l’ombrello
e proseguendo poi per la loro strada. Quasi tutti i giorni
intravedevo dall’altra parte della strada lo studente vestito
all’americana. Si tratteneva con delle ragazze del ginnasio,
tutte curate, ben vestite, allegre e, mi sembrò, disponibili.
Ero convinta che il motivo della sua sosta fosse quel nugolo
di belle ragazze, anche perché, oltre ai saluti, dopo quella
volta che mi accompagnarono sotto la pioggia, non era
successo più nulla. E in realtà pregavo Dio che non mi si
avvicinassero in una giornata soleggiata. Il mio cappotto di
coperta militare tinta di marrone e confezionato da Mercedes
iniziava a far intravedere striature più chiare nelle pieghe del
colore sbiadito e il pelo liso. Era il quinto anno del mio
vecchio cappotto e mi imbarazzava il suo aspetto. Così mi
decisi. Un sabato non andai a scuola e mi apprestai a disfarlo
e rovesciarlo sull’interno. Lo scucii, girai il tessuto e durante
il sabato e la domenica lo ricucii tutto a mano. Questa
coraggiosa quanto incosciente impresa mi costò due giorni
interi di grida, imprecazioni, rimproveri di Wilma. Non
avevo alcuna esperienza di cucito, se non quella del taglio dei
pantaloncini, sempre troppo striminziti e abbondantemente
criticati. Ma un cappotto completamente rigirato era
un’impresa di grande coraggio o di estrema disperazione.
Non so come, ma il risultato fu veramente soddisfacente, per
non dire eccezionale considerando le mie nozioni in merito.
Lunedì mattina andai a scuola fiera con il mio cappotto dal
nuovo aspetto. Come fossi riuscita nell’impresa non saprei
dirlo. Mai nessuno mi aveva insegnato a cucire. Mi piaceva.
Probabilmente l’abilità di mia madre, riconosciuta come un
vero talento, era anche una delle mie doti. Almeno qualcosa
di positivo l’avevo ereditato, ma questo non lo pensai a quel
tempo. La mia esperienza con il cappotto finì lì. Durò poco
il mio rifatto capolavoro. Prima di Natale arrivò la borsa di
studio con gli arretrati dei due anni scolastici. Una vera
ricchezza per me, che significò moltissimo. La prima cosa
che decisi di comprare fu un cappotto confezionato
industrialmente, un paio di scarpe con la suola di gomma per
la neve e uno di scarpe eleganti tipo ballerine in simil vernice
nera, nuovo motivo di scontro con Wilma. Desiderava che
conservassi i soldi per eventuali necessità, come se quella di
un cappotto decente e scarpe adatte per poter
tranquillamente uscire non fossero necessità.
Raramente ero così felice. Il mio nuovo cappotto dal
taglio alla moda di colore verde bosco e le scarpe solide che
non facevano passare l’umidità delle strade ricoperte tutto
l’inverno di neve sciolta, finalmente mi davano la possibilità
di prender parte al passeggio domenicale di mezzogiorno
nella piazza sotto l’orologio del Dubrovnik Hotel.
Il giorno della mia prima uscita iniziò improvvisamente a
nevicare. Prima lentamente con grossi fiocchi svolazzanti e
incerti, poi sempre più spessi. La mia compagna Dunia prese
il suo tram e mi lasciò aspettare il mio che passava all’angolo
della casa di Wilma. Continuava a nevicare sempre più
abbondantemente. Attendendo il tram, mi ero già bagnata e
sentivo freddo. Dovetti constatare che il cappotto nuovo
non era affatto caldo come il mio vecchio cappotto in
morbida lana di coperta militare. Credo che fossi diventata
livida dal freddo. Mi accorsi che dietro di me c’era qualcuno
che aveva l’ombrello aperto. Era lo studente vestito
all’americana. Attendeva il tram. Notai subito il suo
bellissimo giubbotto di pelle opaca nera con l’interno di
pelliccia che le dava un aspetto bombato, allargando il già
largo torace da sportivo sui fianchi stretti; un cappello di lana
da marinaio e una grande sciarpa color avorio avvolta a
doppio sopra il giubbotto; i soliti jeans trapuntati e stivaletti
imbottiti, introvabili nei negozi. Si dovette essere reso conto
del mio stato pietoso. Tolse la sua bella sciarpa e l’adagiò
sulla mia testa bagnata e intorno alle spalle. Arrivò il tram e
lo prendemmo insieme. Il tragitto era breve. Scendemmo alla
stazione vicino alla casa di Wilma. Per proteggersi dalla neve
sempre più pesante d’acqua, entrammo nell’ampio atrio. Mi
disse che il suo nome era Giorgie, frequentava il terzo anno
di Ingegneria elettrotecnica, era serbo e abitava con la sorella
maggiore studentessa di medicina. Parlammo per pochi
minuti. Osservato da vicino, sembrava più giovane. Aveva
tolto il suo berretto di lana, scoprendo capelli nerissimi,
tagliati molto corti come quelli dei marines, occhi scurissimi,
un sorriso che non capivo se doveva essere, sicuro o
imbarazzato. Senza dubbio era affascinante. Mi sovrastava in
altezza di metà testa, eppure io con il mio metro e ottanta
ero considerata molto alta. Insistette a lasciarmi la sua
sciarpa. Da quel giorno iniziò ad attendermi davanti alla
scuola, per poi accompagnarmi per quel breve tratto di
strada fino a casa. Alla fine mi invitò a teatro insieme a sua
sorella. Avevo avuto il permesso per recarmi al teatro, non ci
fu però verso di poter partecipare a una delle abituali feste
dei due amici. Erano i migliori giocatori della squadra di
pallacanestro universitaria e spesso dopo le partite
partecipavano a feste organizzate. I miei movimenti limitati
facevan sì che le nostre frequentazioni fossero brevi e
sporadiche. Dopo poco tempo mi accorsi anche che i nostri
interessi erano molto diversi. Direi opposti. Giorgie era
preso completamente dallo sport, dalla palestra, da una certa
bella vita per la quale c’era bisogno di avere un portafoglio
ben fornito, che si trattasse di andare qualche settimana a
sciare o in qualche luogo elegante delle vicine terme. Io,
invece, ero avviata a uno stile di vita diverso, senza spese,
fatto di mostre, teatro, cinema d’avanguardia. Mi sembrava
del tutto normale che frequentasse altre ragazze, anche
perché avevo una scarsa considerazione di me stessa. Non
credevo affatto che un ragazzo bello, ricco, sempre
attorniato da ragazze carine e disponibili, potesse essere
interessato a me. D’altronde tra noi non c’era alcun impegno
sottinteso o espresso, ma solo una reciproca simpatia.
Passavano giorni e a volte settimane che non ci vedevamo.
Io non lo cercavo. Era Giorgie a spuntare all’improvviso
davanti alla scuola o sotto la finestra, quando credevo che
non l’avrei più incontrato. In estate Giorgie partì con l’amico
e la sorella al mare. Mi invitarono a partire con loro. Declinai
l’invito senza spiegazioni. Non potendo passare l’estate
all’Isola, mi impegnai come educatrice in una colonia estiva
per ragazzi poveri o senza genitori. La colonia era ospitata in
uno splendido maniero medievale completamente
ristrutturato.
I ragazzi della colonia erano dei soggetti difficili, in età
adolescenziale. Appartenevano a famiglie disagiate o
addirittura erano senza famiglia, cresciuti nei centri statali
d’accoglienza. Giovani cresciuti dopo la guerra in una società
smembrata, con la convinzione che l’essere figli di eroi o
presunti tali rendeva loro tutto dovuto: alloggi statali,
scolarizzazione, borse di studio, ferie organizzate e nessun
obbligo verso la società che gli assicurava tutto questo.
Se in passato avevo avuto dei dubbi, quell’estate fui certa
che non avrei mai fatto l’insegnante.
All’inizio di settembre, con le giornate meno calde, mi
recai sull’Isola. Ormai l’unico mio desiderio era fare visita a
Maestro. Passai una settimana indimenticabile. Un settembre
dorato carico di odori di frutta matura, di vendemmia alle
porte. Rino, ormai apprezzato direttore d’orchestra e
compositore, si sposava e mi aveva invitato per l’occasione
alla loro vecchia casa contadina nella baia Okorija, sull’isola
San Clemente dell’arcipelago delle Spalmadori, dove aveva
organizzato quell’avvenimento. Il gruppo di partecipanti era
eterogeneo: molti archeologi, guidati dal padre di Rino sugli
scavi di siti illirici, greci e romani, individuati dal vecchio,
curioso esploratore nei lunghi anni di permanenza a San
Clemente. C’erano anche un paio di cantanti del coro
cittadino, amici musicisti del conservatorio, cantanti
dell’Opera di Spalato e altri ancora. Si partì con più barche
da pesca a motore, le gaete, per arrivare a Okorija verso
mezzogiorno. Tutti i partecipanti alla festa dovevano
indossare esclusivamente la tenuta marinara. Molti anni più
tardi, osservando l’unica foto che possiedo di
quell’avvenimento, non sono riuscita a non sorridere. Il noto
archeologo di fama internazionale, il tenore dell’Opera, il
volubile basso Toni Rizzo, vanitoso come una primadonna
per la sua bella voce, e qualche altro signore attempato in
mezzo ai più giovani; tutti rotondetti e fasciati in magliette
marinare, addirittura di qualche misura più ridotta del
dovuto. Una trovata di Rino che metteva alla pari gran
signori e contadini isolani, togliendo il senso al vecchio
detto: L’abito non fa il monaco.
Sulla spianata dell’ampio cortile in terra battuta, nel
punto più alto all’estremo nord di San Clemente, con
l’affaccio aperto sulle due baie in basso, c’era la vecchia casa
della famiglia di Rino con il grande forno per il pane, le stalle
disposte in semicerchio sotto tre vecchi gelsi ramificati e due
poderosi alberi di fico, contorti, come abbracciati uno
all’altro, piegati sotto il carico dei frutti. Nell’ombra delle
fronde dei gelsi era sistemata una lunga tavolata di assi
assemblate insieme e panche di fortuna, anch’esse di assi,
appoggiate a pietre. Nel forno era tutto pronto per l’arrosto
delle carni e, su un camino improvvisato, c’erano le griglie di
pesce da adagiare sui carboni ardenti. Nei recipienti ricoperti
di canovacci bagnati erano tenuti i frutti di mare: le ostriche,
i molto ambiti musoli e i famosi datteri, molluschi bivalve che,
raccolti sui ricchi fondali delle Spalmadori a quei tempi,
erano ancora facili da reperire, per essere più tardi venduti al
grande albergo Palace o portati ai ristoranti di Spalato, fonte
di eccellente guadagno e per questo non considerati cibo da
consumare in proprio. Formaggi caprini conservati sott’olio,
pane appena sfornato, barilotti di vino bianco dei vigneti
dell’Okorija, damigiane di prosecco prodotto dal vecchio
Rino, fichi secchi arrostiti con la mandorla incorporata,
gelatina di frutta simile a cotognata, la particolare acquavite
di sette erbe. Una festa bucolica, simile a qualche antico rito,
quasi pagano. Grigliate di carne e pesce sembravano non
finire mai. Il vino in generose quantità, altrettanto. E così
fino all’imbrunire. In allegria e con l’euforia che mettevano il
cibo e il vino, ma anche l’ambiente insolito.
Prima di allora ero stata a Okorija una volta sola,
giungendo a piedi da Palmižana, dove era possibile
approdare con qualche barca, mentre a Okorija si recavano
solo i pochi abitanti per la pesca e il lavoro nei campicelli e
nei vigneti.
Vi ero arrivata con il sentiero che si snodava sotto i pini,
attraverso più insenature e promontori. Su per i declivi, fino
al punto più alto con il caseggiato in pietra e lo stesso nome
della baia a sud; Okorija, profonda e riparata da uno stretto
ingresso a imbuto che la rendeva di difficile approdo nelle
giornate di forti sciroccate. A nord si protendeva un’ansa
larga, in dialetto denominata ciarnieni bok, ossia ansar rossa,
per via di uno scoglio appena affiorante dal mare, spoglio, di
pietra calcarea rossiccia, attorniato da fondali bassi molto
pescosi, ma non adatta alla prolungata sosta delle barche per
la sua esposizione alle improvvise bore provenienti dal
canale di Brazza e dalla terraferma.
Il caseggiato di Okorija era costruito al riparo dai venti,
come le antiche case di Moće sopra la baia Vala, per cui
anche le sue origini dovevano essere antiche. Purtroppo non
si sono trovate testimonianze. E come in tutte le baie delle
Isole Spalmadori, il versante a nord era ricoperto da bassi
alberi di leccio e corbezzolo che permettevano un’ampia
visuale sopra i più bassi crinali, sull’isola di Lesina e verso
l’imboccatura di Spalato tra Brazza, Solta e l’orizzonte oltre
Lissa. I pini, invece, ricoprivano solo gli avvallamenti a sud,
riparando i vigneti terrazzati che si susseguivano fino al
mare.
L’ampio cortile attorniato da stalle in pietra era
completamente racchiuso da alti fichi d’India, addossati alle
loro pareti esterne, che lasciavano aperto un passaggio a
ovest. Quello era l’unico posto sulle isole dalmate del medio
Adriatico dove cresceva il fico d’India con frutti
commestibili. A quei tempi, questa peculiarità era nota solo
al vecchio Rino, che aveva verificato la loro bontà. Il frutto,
inesistente da quelle parti, non era conosciuto. Il vecchio
Rino, lontano da sguardi curiosi, produceva a Okorija
un’ottima marmellata e la vendeva come fosse di corbezzoli.
Saranno necessari più di vent’anni per conoscere la bontà di
questo frutto. Un gruppetto di turisti italiani, rientrando dalle
Spalmadori, portò un secchio pieno di fichi d’India. Che loro
facessero man bassa di frutti non aveva molta importanza: il
problema era che distruggevano le piante, spezzavano i rami
dei vecchi alberi, asportavano i profumati arbusti di
maggiorana, menta e certi rari cactus, piantati con amore dal
vecchio Rino per abbellire il proprio cortile contadino. Sulle
nostre isole non chiudevamo mai gli usci a chiave.
Lasciavamo le case incustodite, come la casa di Rino a
Okorija o a Moće, cosicché gli isolani entravano liberamente.
Si proteggevano dal maltempo, prendevano l’acqua dal
pozzo, usavano il forno, raccoglievano verdura e frutta
necessaria, ma non distruggevano, né asportavano mai nulla.
Il saccheggio ci ha raggiunto quando siamo entrati in
contatto con un mondo diverso che ha cambiato le nostre
abitudini e anche certi valori.
Alla fine degli anni ‘50 l’Okorija era ancora nota solo ai
pescatori isolani, agli archeologi per gli scavi negli antichi siti
e a qualcuno di noi fortunati che avevamo avuto l’occasione
di conoscere quei posti remoti, appartenenti a un mondo
arcaico, sospeso, misterioso.
Una giornata di allegra baldoria era finita con la partenza
degli ospiti. Rimanemmo in pochi, i familiari e un paio di
vecchi amici. Con il sole già annegato nella linea immaginaria
dell’orizzonte sulla distesa dorata del mare, l’imbrunire
avanzava rapido. Eravamo tutti un po’ affaticati da quella
giornata particolare. In attesa della sera Rino ci invitò ad
adagiarci su delle coperte distese sui rami di rosmarino, dove
suo padre di giorno sistemava larghi, piatti cesti con i fichi ad
essiccare, ritirandoli prima della brina notturna. Il silenzio
iniziò morbido ad avvolgere l’ambiente, in tutta la sua
impalpabile attrazione. Lissa alta, scura, immobile,
ammiccava con i tremolanti bagliori delle sue piccole luci che
si accendevano moltiplicandosi e creando uno scenario
irreale. Molto velocemente cadde il buio prendendo
completamente possesso dei riverberi di Lissa e la Via Lattea
nel cielo basso. All’inizio molto brillante e vicina e poi
sempre più fioca, finì per mutare a est in una trasparenza
lattiginosa prima dell’affacciarsi della luna che, sopra l’abitato
di Lesina, in un’orbita ascendente, raggiungeva un punto in
alto dove si appoggiava sull’argentea superficie senza margini
né confini. La luna distante, invulnerabile, intoccabile, rimase
lì probabilmente per qualche ora, fino a quando la
stanchezza ci trasferì, senza preavviso, nel sonno. Ci
svegliammo col sopraggiungere dell’alba che con una falcata
trasformava la luna in un pallido ricordo di se stessa,
spargendo di rosa pallido e di un celeste-blu violaceo il
firmamento, annunciando la forza dominante dell’arancio
solare. Veloce padrone di tutte le morbidezze notturne. Non
avevo mai vissuto prima il sorgere dell’alba in un luogo
aperto. Non so se mi sia rimasto tanto impresso per la magia
che avvolgeva Okorija, forte della propria semplice bellezza,
oppure perché il morire di un giorno e la nascita di un altro,
ineluttabile e ripetitivo, incidessero sulle mie inconsce
percezioni, lasciando in omaggio ricordi che riescono a
portarmi all’origine del bello, vero e perciò indimenticabile.
Il rientro sull’Isola era accompagnato da una strana
sensazione. Un rimpianto per il risveglio da un bel sogno.
Eppure si era trattato solo di una notte senza avvenimenti,
ma carica di percezioni di momenti ancestrali riportati nel
presente.
Il resto della permanenza sull’Isola la trascorsi in totale
rilassatezza alla Casa in pietra grigia, facendo lunghe
passeggiate verso sera sulle tranquille strade di Santa
Catarina e verso la Fortezza. Raccontai a Maestro le
sensazioni provate a Okorija che, mi disse, anche lui aveva
conosciuto parecchi anni prima. Invitato da Rino, si era
recato a caccia di fagiani e lepri, abbondanti in quella
macchia mediterranea. Mi confermò l’impressione che
esercitava quel luogo di silenzi totali, forti odori e colori
inimmaginabili.
In Casa si respirava una serena quotidianità. Maestro e
Jera avevano trovato un giusto equilibrio, anche se Maestro
lamentava l’indebolimento della vista, già compromessa con
le lunghe scritture di partiture con la pessima illuminazione
dei lumi a petrolio, per cui componeva di meno. Di giorno
continuava con le lezioni private, esclusivamente a giovani di
promettente talento musicale, e di sera con le prove
dell’orchestra. La mia salute era migliorata senza lasciare
alcuno spiacevole strascico. È da dire con sincerità che gran
parte di ciò era stato merito di Wilma. Anche se non tutto
era perfetto, ognuna di noi aveva fatto del proprio meglio
per frenare la propria natura. Maestro pensava che dovessi
pazientare fino alla fine di un altro anno scolastico.
Avviandomi agli studi universitari era probabile che mi sarei
liberata delle dirette influenze di Wilma. Tornai alla vita di
sempre nella capitale con l’unico rammarico di aver lasciato
Maestro e la nostra bella Casa. D’altronde ogni mia partenza
dall’Isola era accompagnata da nostalgie: il rimpianto dei
tempi che cambiavano, gli anni che passavo lontano. Il
penultimo anno all’Accademia già si era presentato
abbastanza impegnativo; in parte per lo studio, ma anche per
il lavoro affidatomi nel giornale dell’Accademia.
Collaboravo, ora a pieno ritmo, con critiche letterarie e
teatrali, piccoli saggi e recensioni. Impegni che mi
assorbivano molto e sui quali insistevano il professor Sova e
Nicola, ritenendo le mie potenzialità letterarie degne di
essere curate e sviluppate.
Le frequentazioni con Giorgie erano più o meno saltuarie
e superficiali. Più lo conoscevo, tanto più mi rendevo conto
di quanto eravamo diversi per interessi, atteggiamenti,
aspettative. Le nostre strade seguivano direzioni opposte ma,
per pigrizia e abitudine, accettavo questo così detto
ammiratore senza impegni né coinvolgimenti. Purtroppo era
anche la sorella di Giorgie, Mila, che spesso mi metteva a
disagio. Credo che avesse tutte le intenzioni di essere gentile
con me, ma non ci riusciva. Mi invitava a teatro. Insisteva
per regalarmi i vestiti mandati da suo padre dall’America, e
che a lei andavano puntualmente stretti. Non mi piacevano
particolarmente, anche se qualcuno era grazioso, come
quello in misto georgette e terital color verde foglia di malva.
Mi sembrò che le dispiacesse per come cadeva bene sulla
mia magrezza. Disse qualcosa che mi stupì:- Ma guarda un po’
la croata spocchiosetta, con un bel vestito è pure graziosa!
E quando Giorgie mi regalò i suoi jeans in disuso che a
me piacevano moltissimo, così aderenti su bacino e cosce e a
zampa d’elefante, diventò rossa in faccia dicendo con
evidente ira:- Solo i maschi hanno fianchi così stretti. Poveretta, non
sembra nemmeno una donna. Vuoi mettere le ragazze delle nostre
parti, belle, prosperose, piene. Questa qua insiste pure con i pantaloni
che non porta nessuna giovane per bene. Eppure sembra che a Giorgie
piaccia proprio perché è tutta un chiodo. Dice che è particolare! Sarà
particolare: infatti, è croata! Magari quelle puro sangue dalmate sono
più simili a noi? Un discorso del genere lo faceva in mia presenza, ma
come se non ci fossi. Potevo immaginare cosa dicesse
quando non c’ero. Feci presente a Giorgie che non
desideravo essere trattata in quella maniera. Deve aver
reagito contro il comportamento della sorella. Mi chiesero
scusa, dicendo che l’inconveniente non si sarebbe ripetuto.
Nel frattempo ero presa dai miei vari impegni e lasciai da
parte tutti e due. Era Giorgie che si faceva vedere
regolarmente. Cioè, credo, quando non aveva di meglio da
fare.
Il diploma all’Accademia prevedeva un lavoro
impegnativo di preparazione della tesi in letteratura e con un
tema a libera scelta. Per la tesi di letteratura scelsi Il
simbolismo nella letteratura comparativa, collegandola alla pittura
impressionista e alla musica europea contemporanea. La tesi
doveva dimostrare grado di cultura personale, collegamento
di diversi avvenimenti in un arco ampio di tempo, capacità di
espressione; padronanza della lingua, e conclusioni. Una
sfida con le mie capacità?
Le materie didattiche, meno congeniali ai miei interessi,
non creavano problemi, ma mi toglievano tempo.
Altrettanto era con la storia e la geografia che da sempre
rappresentavano un viaggio nel passato o nei tanti posti
lungo i meridiani e paralleli. L’inglese, poi, era una piacevole
conversazione.
Ormai ero vicina a un traguardo, alla fine di una strada in
salita. Certa di intraprendere gli studi universitari. Tutto il
resto non contava un granché. Mi scoprii molto più sicura e
riflessiva.
Il giorno degli esami di maturità ero padrona di tutte le
emozioni. Dimenticai addirittura di essere all’esame che
avrebbe dovuto cambiare il mio futuro. Da
quell’avvenimento e dalla sua riuscita dipendeva la possibilità
di proseguire gli studi universitari o dover abbandonare
l’idea e ripiegare sull’insegnamento. Solo con votazioni di
quattro e cinque, sul massimo di cinque, c’era la speranza di
accedere alla facoltà che mi interessava.
Secondo l’ordine alfabetico entrai nella sala degli esami
per prima, il primo giorno. Iniziai con l’esame orale di storia
e geografia. La grande signora Pavić mi fece un’unica
domanda:
L’Europa immediatamente dopo il 1848: Napoleone, Francia,
Russia, risvolti politici negli altri paesi europei. La professoressa mi
lasciò parlare a lungo. L’esame d’inglese fu concentrato
sull’analisi del romanzo San Michele di Axel Munthe. Una
conversazione, addirittura distensiva.
Poi passai con la commissione esaminatrice nella sala
circolare ad anfiteatro per l’esame di lezione praticodidattica.
L’argomento dell’esame era Poeti e poesia per l’infanzia e le sue
influenze. Dopo la lezione l’auditorio si svuotò e, in seguito a
una breve pausa per il trasferimento nella sala degli esami,
ebbe inizio l’analisi della tesi di letteratura e madrelingua. La
votazione per ogni singola materia e il risultato definitivo
sarebbero stati dati alla fine degli esami di tutti gli studenti,
insieme alla consegna del Diploma dell’Accademia
Magistrale.
Nel giorno della proclamazione dei risultati e della
consegna del diploma venne organizzata una festa per
alunni, genitori, parenti e amici nella sala ad anfiteatro. Era
un giorno di metà giugno, con tutti i tigli in ritardata fioritura
lungo i viali cittadini che emanavano un profumo penetrante
nell’aria improvvisamente riscaldata. A Wilma non avevo
detto della consegna del diploma e della festa organizzata.
Avevo avuto con lei un discorso molto concitato in seguito
alla mia ferma intenzione di proseguire gli studi all’università.
Era assolutamente decisa a impormi l’accettazione
immediata del posto d’insegnante nel comune di Knin, nella
Krajina, che mi aveva concesso la borsa di studio. Se non
avessi obbedito mi avrebbe buttata fuori casa. Decisi di
prendere la palla al balzo e risolvere il problema cercando un
posto d’insegnamento nell’hinterland zagabrese per poter
frequentare l’università.
A venti chilometri da Zagabria viveva il fratello di Wilma.
Lei non aveva gradito l’eventualità che io mi avvicinassi a lui
e chiedessi il suo aiuto. Nemmeno io avevo un grande
desiderio di allacciare rapporti con persone che alla Casa in
pietra grigia non erano state considerate. La possibilità di
trovare un lavoro mi suggerì di fargli visita. Mi ricevette, si
offrì di parlare con la direttrice della scuola cittadina.
Samobor era una bellissima cittadina in mezzo a colline,
frutteti e vigneti, su un affluente del fiume Sava, limpido e
fresco. Un posto di villeggiatura di fine settimana molto
ambito dai zagabresi. Si arrivava con un treno locale che in
mezz’ora portava i villeggianti dalla vecchia stazione
ferroviaria a ovest di Zagabria su un binario ridotto, ormai in
uso solo per quel vetusto trenino ma pratico e amato per la
sua estrema economicità.
Il mio certificato di maturità con buoni voti mi aprì la
porta della scuola. Sembrava una buona occasione. Decisi
che una qualsiasi soluzione aveva bisogno di ulteriore
riflessione.
Cercai nel frattempo di trovare un lavoro adatto durante
le ferie estive. La mia vecchia compagna Dunia si preparava
a raggiungere i suoi parenti, conducenti di un albergo in
montagna, a mille metri di altezza e una sessantina di
chilometri lontano da Zagabria. Avrebbe fatto la tuttofare in
quell’albergo dal pretenzioso nome Mir44 e propose anche a
me di provarci. Avevano necessità di persone affidabili e
riservate. I loro ospiti desideravano la più assoluta privacy,
per cui il personale doveva essere selezionato con cura.
Anche se non conoscevo il tipo di lavoro che eventualmente
mi sarebbe stato affidato e non avevo mai lavorato
fisicamente, desideravo avere quell’impiego. Tutto il resto
l’avrei risolto al momento. Ora volevo vivere alla giornata.
VII. Hotel - chalet Mir
Alla vecchia stazione ovest di Zagabria prendemmo il
trenino a vapore. Superammo le colline di Samobor
immergendoci in mezzo a fitti vigneti, frutteti e alberi
frondiferi. Sul binario ridotto il vecchio trenino serpeggiava
lento lungo la vallata del fiume Sava, ancora giovane vicino
alla sua sorgente, incuneandosi negli ondulati declivi
incorniciati dai pini delle Alpi, sempre più alti verso la
frontiera slovena. Alla piccola stazione del paesino Pregrada
finiva la corsa del trenino, dove ci attendeva il cugino di
Dunia con il calesse a un cavallo. Il paesino di poche case,
disseminate in mezzo a folti frutteti di mele e graziosi orti, si
presentava defilato dalla nuova strada regionale che correva
a fianco dei binari ed entrava in paese dividendo la già
piccola piazza con la vecchia chiesa rurale, squadrata con il
tetto e la guglia del campanile in legno annerito dal tempo.
Entrava rompendo la sua precedente armonia. Non
attraversammo Pregrada, ma prendemmo uno stretto
sentiero in ripida salita su una delle boscose colline, lungo il
quale le specie degli alberi, a seconda dell’altezza,
cambiavano velocemente. Più ci abbarbicavamo in alto, più
l’aria diventava leggera e fresca, causandoci un improvviso
brivido. Dopo quasi un’ora, all’altezza di novecento metri,
dinanzi a noi si aprì un vasto altipiano con un ondulato prato
punteggiato di fiori variopinti, attorniato da larici e abeti.
Spostato a nord c’era il lago Trakoščan45, di probabile origine
glaciale. Uno di quei laghi chiamati Occhio alpino per il suo
colore blu cupo, dovuto alla profondità e alla limpidezza. Sul
lato opposto del lago si ergeva l’albergo chalet Mir. Una bella
costruzione in massicce travi di legno su base di pietra
arenaria. Anche se non amavo la montagna, dovevo
ammetterlo: tutto l’ambiente era molto gradevole, la natura
splendida e il resto da scoprire. Dopo un colloquio con i
gestori del Mir, venni accettata. Ci fecero alloggiare nella
dependance. Gli alloggi erano semplici, puliti, arredati con
mobili rustici. Fummo destinate alla cucina. Si stava
preparando tutto per l’apertura estiva. Durante il pranzo il
personale fu trattenuto sotto il porticato della cucina nella
parte posteriore rivolta verso il bosco. Oltre ai cugini di
Dunia, come aiuto c’erano loro figlio Saša e l’amico Brano,
studenti di giurisprudenza, il cuoco e sua moglie. Tutti
lavoravano in quel luogo da più anni. Ci fu raccomandata
l’assoluta discrezione e quasi l’invisibilità. Mir era destinato a
personaggi molto particolari che pretendevano tranquillità.
Non ci era permesso intrattenerci in sala da pranzo, al bar,
nelle stanze, negli spazi dentro e fuori dallo chalet. I contatti
con gli ospiti li mantenevano i cugini di Dunia. Avevamo
l’impressione che si trattasse di una specie protetta per cui,
naturalmente, era ovvia la curiosità. Dopo qualche giorno
Saša mi avrebbe confidato che gli ospiti erano membri del
Partito Comunista e personaggi del Governo.
In attesa delle persone che avrebbero alloggiato al Mir,
aiutammo a sistemare definitivamente tutto l’ambiente e lo
scoprimmo molto curato.
Sul piano rialzato sotto il porticato erano sistemati
tavolini e poltrone di legno scuro con soffici cuscini color
avorio. L’ingresso a doppia vetrata si apriva sul salone con il
bar, e poltrone dello stesso tipo. Un’ampia porta a piccoli
vetri molati, incorniciati da listarelle di legno, portava alla
sala da pranzo con un affaccio di centottanta gradi
sull’altipiano. Un sentiero conduceva verso la brughiera con i
salici appoggiati sul lago Trakoščan dai riflessi blu argento, le
ninfee in fioritura, le lunghe annerite barche piatte e la
piccola piattaforma sotto la corona di alberi frondiferi che si
davano cambio con le scure conifere verso la volta del cielo.
La luminosa sala da pranzo, con la tappezzeria verde
muschio tenue e le tovaglie color salmone contrastanti con il
legno scuro. Gli appartamenti ai piani superiori, ognuno
arredato in modo diverso con mobili d’epoca, tappezzeria a
tessitura tradizionale del luogo, lenzuola in lino ricamate,
morbide spugne. Tutto, per l’ennesima volta quell’anno
messo a nuovo. Un lusso visto solo nei film americani.
Ma il paesaggio soprattutto era magnifico, anche se la
montagna mi intimoriva e il lago mi procurava una strana
sensazione per la sua minacciosa immobilità.
I primi ospiti arrivarono all’inizio di luglio. Malgrado ci
fosse stata fatta seria raccomandazione di essere discreti e
invisibili,la cucina consentiva un’involontaria osservazione,
sullo spazio posteriore a ridosso del parcheggio dove
Mercedes scure scaricavano bagagli e persone per poi
ripartire immediatamente. Silenziose così com’erano arrivate.
Scendevano uomini, per lo più non giovani, dall’aspetto
negletto; abito obbligatoriamente grigio classico di buon
taglio sartoriale, ma portato come una divisa. Segno di
riconoscimento di una determinata condizione sociale,
indefinita. Scarpe regolarmente scalcagnate, come quelle dei
contadini che fanno a piedi parecchia strada polverosa.
Donne relativamente giovani, bellocce, piuttosto prosperose,
con abiti alla moda, chiassosi per nulla eleganti. Gioielli
vistosi messi tanti e tutti insieme, simili all’addobbo
dell’albero di Natale. Coppie defilate. Consumavano i pasti
nei propri appartamenti e non si trattenevano insieme a
lungo. Le donne partivano e gli uomini rimanevano e si
univano agli altri.
C’era anche un’altra tipologia di ospiti, quelli che
entravano dall’ingresso principale e si trovavano dappertutto.
Facevano comunella tra di loro, pranzavano insieme,
cavalcavano in gruppo, prendevano il sole al lago e ogni fine
settimana si facevano raggiungere dalle segretarie, per un
giorno. Organizzavano festini, bevevano fiumi di
champagne, rigorosamente francese, a tutte le ore e
un’impressionante quantità di caffè turco. Estremamente
rumorosi, quasi sempre alticci e indiscreti. Le loro cene
impegnavano in modo stravolgente tutto il personale. Il
caviale rosso, d’origine russa, a chili luccicava nelle coppe di
cristallo. Vodka polacca ghiacciata gorgogliava come fiume
in piena. Paté d’oca, daino salmistrato, piccioni arrostiti,
asparagi, funghi, intingoli vari, ortaggi in soufflé e altre
vivande mai viste. E poi un’infinità di cetrioli sott’aceto che
permettevano di continuare a bere a volontà. Tutto
consumato senza misura. Non avevo mai visto scorrere
tanto champagne, vodka e altri liquidi meno nobili.
Sembrava si divertissero solo mangiando a sproposito, anche
se il giorno dopo erano tutti, o quasi, completamente disfatti,
ridotti ad alcaselzer e a brodini vegetali. Certo che facevano
riflettere se si rapportava il loro modo di vivere alla mestizia
del Paese. Iniziavo a fare paragoni, ma non li esprimevo.
L’importante era lavorare. Al momento tutto procedeva
bene. Gli impegni in cucina erano sopportabili, il cibo dei
migliori, anche se solitamente non era in nostro uso. Spesso
quello che veniva restituito in cucina senza essere toccato
poteva sfamare altre venti persone. Lo spreco mi disturbava.
L’uso disinvolto del cibo mi faceva stare male. Quella gente
apparteneva a un mondo lontano, sconosciuto,
incomprensibile, parallelo. Da valutare? Da cercare di capire?
Come era possibile ci fossero tante differenze in questo
Paese che si diceva uguale per tutti, ma dove poi la
stragrande maggioranza non riusciva ad avere abbastanza per
le cose essenziali e gli altri vivevano nello spreco senza
curarsene? A tanto disprezzo e noncuranza non ero abituata.
Alla Casa in pietra grigia il cibo era considerato dono della
natura e della fatica dell’uomo. Non si sprecava nulla. Si
divideva con gli altri quello che si aveva, anche quando non
c’era abbondanza.
Qui invece raccomandavano di sotterrare il cibo
avanzato, come rispondeva Saša quando obiettavo che il
cibo poteva essere regalato ai contadini.
- No - mi rispondeva stizzito - è possibile che non hai ancora
capito. Un membro del Partito è una persona senza vizi e senza difetti.
Non beve e non mangia smoderatamente. La guida spirituale del
Paese, dedita solo alla Patria e alla Famiglia, integerrima. Non crea
scandali, non accumula beni materiali. È vero, abita appartamenti
migliori di quelli di uso comune, spesso anche ville favolose requisite ai
legittimi proprietari, ma è l’ordinamento Socialista. Togliere ai ricchi
per dare ai poveri.
Ma chi erano i poveri? Quelli che si radunano in posti
simili al Mir? Saša non era solo stizzito e ironico, ma
addirittura infuriato. Certamente il doppio volto dei
personaggi pubblici che ci erano portati a esempio di
correttezza e giustizia faceva riflettere. Che Saša li
disapprovasse, per me era una scoperta. Personalmente
ritenevo che avessero delle libertà sulle quali era inutile
discutere. I membri del Partito avevano scelto quel posto per
i loro divertimenti? Vi si recavano con le amanti, casuali o di
lunga frequentazione, segretarie disponibili? Succedeva in
tutti gli alberghi del mondo: piccoli, grandi, stamberghe di
lusso. È questione di uomini. Certi si comportano sempre,
ovunque, allo stesso modo. Si divertono come piace a loro.
A quel tempo non mi interessava nulla degli intrecci che
regolavano determinati aspetti della quotidianità. Di come
era fatto il mondo dei potenti, non mi interessava entrarne in
merito! Alla Casa in pietra grigia si lasciava perdere tutto
quanto non si poteva cambiare e io intendevo pensare solo a
quello che mi permetteva di vivere con serenità quelle
giornate di passaggio.
Intanto mi ero resa conto che in quel posto tanto curato
nei particolari mancava qualcosa: non era né gentile né
allegro, completamente privo di fiori. Probabilmente per
quel tipo di ospiti questi ultimi non avevano alcun senso. I
fiori dovevano essere considerati inutili, superflui.
Contavano solo le cose materiali, pratiche, ma anche il lusso
degli ambienti; i mobili d’epoca, la biancheria in lino, le
porcellane, i cristalli, l’argento erano superflui. Anche il cibo
sofisticato, lo champagne introvabile nei negozi statali, a
pensarci bene, erano altrettanto non necessari, ma lo stesso
diventati status symbol, come i vestiti di sartoria o il cappello
di panama. Se lo portava il Maresciallo, lo emulavano i
capobanda.
Credevo che i fiori servissero come complemento
d’arredo. Mi offrii di addobbare il bar e la sala da pranzo. Un
modo per ingentilire l’ambiente e trattenermi di mattina
fuori dallo chalet.
A quell’ora la brezza increspava l’acqua del lago e il
rumore del vento vibrava tra le canne e si confondeva con
gli schiamazzi degli aironi e delle folaghe. Nel bosco l’aria era
ancora fresca, leggera, la penombra riposante e il fruscio dei
ruscelli costituiva l’unico rumore. Si poteva scoprire
l’esplosione di un’incredibile ricca fioritura di ciclamini che
ricopriva i margini delle piccole radure. Tra gli alberi
frondiferi, il sole riusciva a infilarsi come una luminosa spada
e i sentieri a raggiera penetravano il bosco scoprendo angoli
di inaspettata bellezza punteggiati da margherite prataiole.
In due larghe ciotole di vetro avevo sistemato dei
ciclamini appoggiati sui tralci di mirtillo con bacche nero
violacee e verde pallido sullo stesso stelo, nel gioco dei due
colori prima della completa maturazione. Le sistemai ai lati
del bancone del bar. Offrivano un armonioso assemblaggio
di colori e forme. Sfortunatamente nessuno si accorse di
quella novità. Con l’arrivo di un numero sempre maggiore di
ospiti, passai a occuparmi dei tavoli da pranzo, sfruttando
l’occasione per sistemare le mie piccole composizioni,
ognuna diversa, con accostamenti di fiori variopinti, rametti
di forme strane, piccoli frutti selvatici di vari colori e minute
pigne d’abete, su tutti i tavoli. Purtroppo gli ospiti rimasero
insensibili alla mia piccola arte floreale. Non la notavano
nemmeno. Le donne, quelle poche che raggiungevano i capi
dei loro uffici, erano occupate esclusivamente con i loro
protettori. Davano l’impressione di disprezzarsi l’una con
l’altra, come se ognuna ritenesse di essere più importante.
Probabilmente per la misura della propria importanza
usavano quella della scala nella nomenclatura del loro capo
amico. Involontariamente scrutavo quella varietà umana. A
volte riconoscevo qualche personaggio pubblico molto noto,
ma facevo finta di nulla.
All’inizio d’agosto arrivò un ospite che sembrò diverso
dagli altri, almeno nell’aspetto. Vestiva in modo sportivo:
pantaloni di lino sgualciti, magliette polo colorate, mocassini
di ottima fattura, estere. Solo, non si soffermava con gli altri.
Pranzava velocemente, lavorava sempre su certi incartamenti
in un angolo sotto la tettoia rivolta verso il bosco. Di mattina
cavalcava o remava sul lago. La sera si ritirava presto nel suo
appartamento con la luce che rimaneva accesa a lungo,
mentre si udivano brani di musica classica provenienti dalla
sua radio portatile. Un uomo affascinante sulla quarantina,
alto, atletico, castano brizzolato con occhi grigi penetranti.
Lo notarono tutti, ma non se ne parlò tra di noi, memori
della raccomandazione di essere riservati; in breve ciechi e
muti. Lo denominai signore compagno distinto. Uno strano
appellativo? In quei tempi nella Jugoslavija socialista era
proibito l’uso del signore e a tutti si dava del tu. Tutti erano
compagni: il professore era compagno professore, il
direttore compagno direttore, il medico compagno dottore e
di seguito compagno Rossetti, compagno Bianchi,
compagno Alessandro. Ma i zagabresi incapaci di usare
indistintamente la parola compagno, un po’ ironicamente e
un po’ per distinguersi, inventarono il gospon drug, signor
compagno. Da lì uscì il mio signor compagno distinto.
Uno di quei giorni stavo sistemando le mie piccole
composizioni floreali sui tavolini sotto la tettoia. Nell’angolo
in fondo, c’era il nuovo ospite con i fogli sparsi un po’
dappertutto. Per non disturbare, non mi avvicinai nemmeno.
Il signor-compagno, facendo spazio tra i fogli sparsi, fece
segno di lasciare i fiori anche sul suo tavolo. Ebbi un attimo
di esitazione ricordando sempre la solita raccomandazione.
Scelsi una composizione di violette e margherite prataiole in
un morbido tralcio di foglioline e la appoggiai.
- Belle, disse, molto belle. È lei che si occupa dei fiori?Annuii. Finalmente qualcuno si era accorto della mia
fatica! Naturalmente erano parole di circostanza, dette giusto
per dire qualcosa. I giorni successivi sistemai i miei fiori
quando il signore compagno era assente. Poi, una mattina di
buon’ora, lo incontrai. Cavalcava sui sentieri dentro il bosco.
Scese dal cavallo e mi chiese se raccogliessi anche le
fragoline.
- No, non le ho viste! - risposi.
- Venga, - disse - le faccio vedere dove sono. Conosco molto bene
questi boschi. Sono nato nelle vicinanze. Quando eravamo bambini ci
divertivamo moltissimo raccogliendo frutti di bosco!
Mi condusse su un breve pendio ombreggiato ricoperto
di piccole piantine striscianti. Allargando le foglie scoprì i
minuti frutti rossi. Avevo completamente ignorato quelle
piantine insignificanti. I fiori delle fragole non erano né
vistosi, né visibili, come pure i suoi frutti sotto il fogliame,
rigoglioso e protettivo. Ne raccolse una manciata e me ne
offrì. Confessai che non conoscevo le fragole, né la
montagna, né i boschi, né il lago.
Poi chiese se conoscessi la storia dell’albergo-chalet Mir.
No, non ne sapevo nulla. In breve mi raccontò che l’antico
basamento in pietra che dava al Mir l’aspetto di un piccolo
castello, apparteneva a una fortificazione del quindicesimo
secolo di proprietà di una delle più potenti famiglie croate, i
conti Draško. All’inizio del diciannovesimo secolo i conti
Draško trasformarono la fortificazione in residenza estiva.
Rimase in loro possesso fino al 1944. Alla fine della Seconda
Guerra mondiale lo Stato lo requisì e lo trasformò
nell’attuale albergo. Ricordava che da bambino, insieme ai
genitori, aveva spesso soggiornato alla residenza dei conti
Draško. Il lago Trakoščan era sempre stato limpido, per le
acque di montagna sotterranee che lo alimentano. Il discorso
non ebbe ulteriori sviluppi, un po’ per il divieto di avere
contatti con gli ospiti del Mir e molto perché ero seriamente
imbarazzata. Non riuscivo a mostrare interesse per un
qualsiasi seguito. Credo che a quell’età chiunque sarebbe
stato a disagio in un incontro ravvicinato con un ospitepersonaggio sicuramente noto. In verità non sapevo chi
fosse esattamente, né ero interessata a scoprirlo.
Probabilmente mostravo tutto il mio disagio, perché il signore
compagno riprese il suo cavallo dicendo:- Credo che lei desideri
rimanere sola!
Era vero, per cui non risposi. Cosa potevo dire? Non lo
rincontrai più.
Le giornate passavano velocemente tra tanti piccoli
impegni, le mie regolari ricerche di fiori e la costruzione di
addobbi sempre diversi. Alla fine del lavoro, di sera, ci
mettevamo a chiacchierare sotto la tettoia della dependance.
Saša e Brano erano ragazzi intelligenti, informati, un po’
anarchici, estremamente critici nei confronti del crescente
potere di Belgrado che ritenevano assolutamente dannoso
per la Federazione. Raccontavano le loro esperienze di
politica allineata, come definirono quella della loro facoltà, e
spiegarono che, a causa del loro nonallineamento personale,
non erano riusciti a procurarsi una borsa di studio, né ad
avere la sistemazione nella Casa dello Studente, tanto meno
altre agevolazioni. Nessuno dei benefici che secondo la legge
e a chiacchiere, dicevano, era loro dovuto. Tutti e due erano
figli di contadini, proprietari dell’orto intorno alla piccola
casa, costruita in estrema economia e con la fatica del
bracciante che ha creduto nel nuovo potere sociale, per
offrire a uno dei suoi figli una diversa fortuna, l’aveva
mandato a studiare. I discorsi di Saša e Brano, con i
particolari della loro vita da studenti poveri, costretti a
lavorare per poter studiare, erano del tutto diversi dall’aria
che si respirava al Mir. La loro contrarietà, la estrema criticità
e le prese di posizione mi facevano seriamente riflettere.
Purtroppo, pensai, non ora. Non conoscevo a sufficienza
le trame della vita sociale per prendere una qualsiasi
posizione. Qualcosa l’avevo vissuto, qualcos’altro intuito, ma
sempre con l’idea protettrice della Casa in pietra grigia di
lasciar perdere quello che non si poteva modificare. Con l’età
che avevo non era possibile occuparsi delle ingiustizie del
potere istituzionale, anche se mi dispiaceva ed ero turbata
per quello che sentivo. Stabilii: finché mi fosse stato
possibile, dedicarmi solo alle cose che potevo risolvere.
Un pomeriggio decisi di andare sul lago. Di solito lo
evitavo per quella strana sensazione di nascosto pericolo.
Ma, come al solito, erano i fiori ad attirarmi. C’erano delle
ninfee che stavano per fiorire. Da lontano si intravedevano
ai bordi dell’acqua, simili a un variopinto tappeto. Per
raccoglierle si doveva usare una piatta lunga e stretta barca,
con la quale non avevo alcuna dimestichezza. Le acque del
lago, malgrado fossero estremamente limpide, non mi erano
congeniali per l’intreccio di piante acquatiche, canneti e
terreno viscido. Ero abituata ai fondali marini trasparenti,
dove si scorgeva ogni particolare e le sponde erano solide e
levigate, sicure sotto i piedi. Saltai sulla barca insicura e
ondeggiante. Mi spinsi al largo. Attraversai lo specchio
d’acqua diretta verso il bordo opposto con le ninfee.
Raccolsi un grande mazzo di fiori bianchi, gialli, rosa viola su
steli lunghi e foglie perfettamente rotonde, carnose. Rientrai
verso l’approdo. Per appoggiare la lunga prua in secca, mi
aiutai con il remo come avevo visto fare. A quel punto,
credo, sarebbe stato necessario saltare giù dalla barca a piedi
nudi sulla sponda fangosa per far salire la chiglia della barca
fuori dall’acqua, ma non riuscivo a fare la giusta manovra,
quella che mi sembrava tanto semplice. Più la spingevo verso
riva, tanto più la barca si sbilanciava mettendosi di traverso.
Ormai ero seriamente preoccupata di dover entrare in mezzo
alla melma ricoperta di tralci simili a tante bisce acquatiche.
Mi resi conto di essere osservata nei miei inutili tentativi di
scendere dalla barca. Era il signore compagno. Si apprestò ad
aiutarmi tirando la barca in secca. Nel saltare dalla barca,
tutte le mie ninfee si sparpagliarono per terra e nell’acqua. Il
signore compagno, senza dire nulla, le raccolse. Imbarazzata per
l’incapacità di governare il piccolo mezzo, l’unico desiderio
che avevo era di allontanarmi. Ma questa non sembrava sua
intenzione. Ci avviammo insieme sul sentiero verso lo chalet.
Il tragitto era breve, ma a me sembrò interminabile. Mi
limitai a rispondere a domande più o meno generiche, su
come procedevano il lavoro, la raccolta e la sistemazione dei
fiori, se fosse vera l’idea che si era fatto che mi piacevano le
violette e i ciclamini, sul perché non raccogliessi le fragoline
e i mirtilli, e cose simili. Risposi che i frutti li raccoglievano e
li vendevano, all’albergo e alla stazione, i ragazzi del villaggio
e non desideravo togliere loro quel poco di guadagno. Mi
fece notare che vendevano anche i fiori. Non sapevo cosa
rispondere a questa constatazione. Per fortuna arrivammo
allo chalet e il signore compagno concluse dicendo:- Capisco, sono
i fiori che l’attirano!
- No, non è che mi attirano solo i fiori. In verità le violette e i
ciclamini sono parte della mia infanzia, della mia Casa, quella che non
ho più! - dissi un po’ irritata.
Senza accorgermene e senza averne intenzione, avevo
svelato qualcosa di me. Mi allontanai indispettita. Più tardi
ripensai al mio comportamento e mi resi conto di essere
stata precipitosa e maleducata senza un valido motivo.
Credetti di dover riparare e prima di cena, sistemando i fiori,
lasciai una ciotola di ninfee gialle e viola sul tavolo del signore
compagno. Mi sembrava un grazioso omaggio. La mattina
dopo improvvisamente lo vidi arrivare nella radura. Scese dal
cavallo porgendomi un grande bouquet di violette:
- Alla stazione di Pregrada, - disse - i ragazzi mi hanno venduto
tutte le violette che avevano. Nel pomeriggio parto e ho pensato di farle
un piccolo omaggio. I suoi fiori hanno rallegrato il mio soggiorno al
Mir. È giusto che io la ringrazi! Questo è il mio biglietto da visita.
Qualsiasi cosa le possa servire, può contare su di me. Ringraziai e, come al solito, il discorso finì lì. Nessun
argomento opportuno mi veniva in mente. Avevo la testa
vuota. Dovevo veramente essere patetica. Non riuscivo mai
ad avere delle giuste reazioni: ringraziare, essere disinvolta.
Misi il biglietto direttamente nel cesto dei fiori, non
guardandolo nemmeno. Tanto non avevo intenzione di
usarlo. Di sera, seduti nel nostro solito angolo, Saša mi
chiese se il segretario mi avesse trovata.
- Quale segretario? - chiesi.
- Quello che si è tanto interessato sul tuo conto - ribadì Saša. Mi
ricordai del biglietto da visita e lo presi dal fondo del cesto.
C’era scritto: Dott. Zoran Babić, segretario particolare Presidenza
della Repubblica Croata, l’indirizzo per esteso e aggiunto a
mano un numero di telefono. Lo feci vedere ai miei
compagni. Scoprii che Saša aveva in più occasioni parlato
con il signore compagno che, diceva, era chiamato Gregory Peck
per la somiglianza con l’attore americano. Perché non mi
aveva detto nulla? Rispose che non aveva senso.
- Zoran Babić, - disse Saša, - è un personaggio noto e influente, il
prediletto di Tito. Un uomo con il doppio della tua età, che sarà
probabilmente rimasto intrigato dai tuoi diciotto anni. Che senso aveva
dirtelo? Tanto, una volta partito, tutto sarebbe caduto nel
dimenticatoio. Conosco bene gli interessi di questi signori compagni.
Ma, ora che ti ha dato il suo biglietto da visita, deciderai tu. Non sarò
stato io ad aiutarlo in una delle sue conquiste.
Nulla mi aveva fatto pensare a un’intenzione di conquista!
Probabilmente Saša aveva esagerato, ma non avevo
considerato quell’interesse come qualcosa da prendere
seriamente. Non ci poteva essere null’altro che curiosità in
un uomo della sua posizione. E non ci pensai più.
Il mio lavoro all’albergo-chalet Mir terminò alla fine di
agosto. Con le prime piogge si diradarono i soliti personaggi
più o meno noti. Non pensai più a chi avevo incontrato o
riconosciuto. Il personale venne ridotto e Dunia e io
partimmo. L’estate era trascorsa senza particolari
avvenimenti. Avevo vissuto in un ambiente, un po’ equivoco
ma senza complicazioni di alcun genere, e avevo guadagnato
bene.
All’inizio di settembre mi iscrissi alla Facoltà di
Letteratura Slava e Lingue e, senza esporre le mie intenzioni
a Wilma, partii per l’Isola.
La Casa in pietra grigia aveva uno strano potere
tranquillizzante su di me. Maestro era sereno perché riteneva
che avessi finalmente preso una decisione sul mio avvenire.
Parlammo molto della mia esperienza lavorativa al Mir.
Tralasciai ogni accenno sulla tipologia degli ospiti che lo
frequentavano. Tanto non aveva alcuna importanza.
Descrissi minuziosamente il lusso dell’albergo, il paesaggio
incantevole, l’ottimo cibo e la gente certamente importante,
ma di passaggio, senza che potessimo intrattenere rapporti di
alcun genere. Facevo le solite lunghe passeggiate oltre la villa
di Don Felice. Di sera uscivo con Bela. Tutti i nostri
compagni e amici erano ripartiti, chi per motivi di lavoro, chi
per imminenti esami. Ci trattenevamo brevemente sulla
terrazza dello Slavia Hotel. Erano cambiati i musicisti e il
genere d’intrattenimento. Altrettanto le nostre abitudini.
Al bagno comunale avevo conosciuto un paio di tennisti
della nazionale belgradese. Si allenavano sul campo sportivo
della Veneranda e poi scendevano al bagno. Ci trovammo a
nuotare insieme sulle strisce destinate agli allenamenti.
Avevo ripreso a fare due, tre vasche da cinquanta metri.
Purtroppo non avevo più né la forza di prima, né la
respirazione regolare. Ero stata brava nel nuoto a dorso.
Non avendo più né velocità né resistenza mi sentivo
menomata. Così rimanevo sul bordo della vasca senza
insistere ulteriormente. Negli spazi degli allenamenti sportivi
si fa velocemente amicizia. Ci sono sempre un’infinità di
interessi comuni. Così fu con i tennisti. Loro soggiornavano
al Palace Hotel, l’albergo di lusso accessibile a pochi
prescelti, come appunto i campioni sportivi, vezzeggiati e
considerati quasi eroi nazionali con un’infinità di privilegi,
compreso quello di abitare nei migliori alberghi, frequentare
ambienti alla moda e cose simili. Mi invitarono al Palace per
la Serata Scandinava.
- Cos’è la Serata Scandinava? - chiesi. Mi spiegarono che
ogni serata era organizzata con il menù tradizionale di una
regione o paese diverso e quella sera toccava alla
Scandinavia. Non ero convinta di essere all’altezza di
quell’ambiente ricco e artefatto. Un’idea di quelle serate me
l’ero già fatta. Dalla terrazza della Casa in pietra grigia si
riusciva a intravedere quanto succedeva nell’esclusiva,
riservata sala all’aperto sopra la Loggia. Uomini in vestito da
sera, di solito con la giacca bianca tanto di moda. Donne
quasi tutte con vestiti lunghi. Nel mezzo tavolini in
penombra illuminati da candele e suono soffuso di un
quartetto di musicisti. Tutto elegante, ovattato, o almeno
così appariva visto dalla nostra terrazza.
Mi chiedevo come avrei potuto farcela con il mio vestito
di georgette misto terital americano color verde foglia di
malva, regalatomi da Mila perché a lei stretto e, suo
malgrado, adatto alla mia figura alta e magra. Quel vestito
che era stato invidiato e ammirato, secondo me era troppo
modesto per l’occasione del Palace. C’era anche il problema
delle scarpe di finta vernice nera, tipo ballerine ma rigide e
pesanti, comprate con gli arretrati della borsa di studio
ricevuta qualche anno prima. Decisi che non sarebbero stati
questi inconvenienti a scoraggiarmi. Mi buttai all’avventura.
Avevo deciso di cogliere l’occasione ed entrare in quel
santuario del lusso osservato da sempre solo dall’esterno.
Scesi la scalinata del Palace che dalla Casa in pietra grigia si
immetteva sulla piazza in mezzo alla gente. Uno dei tennisti,
Dean Ivanić46, mi attendeva appoggiato al muretto del
Mandrač. Quasi non lo riconobbi nella sua giacca elegante
color panna, pantaloni scuri e camicia candida. Pensai a
quanto le persone vestite siano diverse da quando sono in
costume da bagno. Dean apparteneva a quelli che vestiti
acquistano fascino, e ne era conscio. Si muoveva con
naturalezza e grazia nel suo bel completo. Ci mescolammo
alle persone che passeggiavano e poi ci avviammo verso la
terrazza del Palace: un avvenimento osservato e sicuro
motivo di indovinelli, congetture e conclusioni da fiato
sospeso dei concittadini non solo curiosi, ma anche invidiosi.
Io ormai non tenevo più in conto le chiacchiere, se mai
l’avevo fatto in modo serio.
La serata iniziò con una cena a base di salmone. Salmone
in tutti i modi, dagli antipasti ai primi e secondi piatti.
Irriconoscibile di aspetto e gusto. Il salmone era un pesce
sconosciuto sull’Isola. Presto si passò alle aragoste casalinghe
pescate sotto Lissa, cernie e murene arrostite sulla brace di
un largo fornello sistemato nell’angolo della terrazza sotto
l’orologio, da dove si spargevano invitanti odori nostrani. E
dall’acquavite scandinava dell’isola Gotland offerta con il
salmone, passarono al vino bianco Rizling. Tutto diventò
meno elegante: donne, uomini, risate, ammiccamenti. I miei
nuovi amici tennisti, da bravi sportivi sotto controllo
dell’allenatore, non bevevano e non si scomponevano.
Avevano individuato due svedesi e si buttarono a capofitto a
corteggiarle. Pensavo a Dean sacrificato dalla mia presenza e
decisi: a fine cena mi sarei ritirata. Dopo cena iniziarono i
balli e Dean mi trattenne. All’una, poi, mi accompagnò a
Casa.
La mattina successiva non andai al bagno. Non ero solo
stanca, ma avevo anche i piedi pieni di vesciche e piaghe.
Non potevo infilare le mie scalcagnate espadrillas, né andare
scalza come facevo solo qualche anno prima, tanto meno
bagnare i piedi nell’acqua. Rimasi sulla terrazza di Casa.
Verso sera Jera mi avvisò che un bel giovane mi cercava e
lo aveva fatto accomodare in cortile. Era Dean. Mi invitava
di nuovo alla terrazza del Palace. Per motivi che non potevo
rivelare, non accettai. Dean rimase sulla nostra terrazza,
ammirando la vista sul porto e il canale, e si trattenne alla
cena che Jera preparò. Un menù degno del migliore cuoco:
frittura croccante di pesciolini chiamati bukvin, insalata mista
e la fragrante rožada47, dolce simile al crème caramel ma
affogato nel prosecco di uva passa. Per completare, vino
rosato delle pendici di Vrisnik, una coppa di dolce uva
zibibbo e fichi maturi, frutta e vino raffreddati nella vecchia
ghiacciaia messa in funzione da Jera.
L’aria settembrina era satura di odori; il gelsomino sopra
la ringhiera della scala inondava la terrazza. Pochi, lontani
rumori arrivavano stemperati, come liquefatti. Le stelle,
appoggiate alle sommità delle Isole Spalmadori, tremolanti,
simili a delle lucciole in volo, sembravano avvicinarsi e poi
subito allontanarsi. Una quiete irreale avvolgeva la terrazza,
la facciata in pietra grigia, il cortile sottostante sommerso
dalla forte fragranza dei fiori dischiusi della bella di notte, le
falene intorno alla luce discreta dei lampioni sotto la volta
delle rose rampicanti e la vecchia vite, da Jera di nuovo
sistemata sul suo supporto di filo di ferro.
Ad una certa ora ci raggiunsero Bela e Nino, il mio
vecchio compagno ballerino di Trieste. Arrivarono giusto
per la rožada di Jera, morbida e profumata. Rimanemmo sulle
poltroncine intorno al tavolo sul quale Jera aveva lasciato la
coppa con la frutta fresca e il vino raffreddato, omaggio di
uno degli allievi di Maestro. Al nostro quartetto si unì per
breve tempo Maestro, elegante nel suo completo beige di
tela fresca, cosiddetta buret, comprato in Egitto. Chissà
quante volte lavato con cura, sistemato, risistemato e usato
per la passeggiata serale, anche quella notte compiuta come
un rito. Era elegantissimo, signorile: occhiali con bordo
sottile, bastone nero con pomello d’argento cesellato, al
mignolo sinistro l’anello con il monogramma, movenze
misurate, voce modulata, abituato ad affascinare grandi e
piccoli. Ne ero orgogliosa per il suo aspetto mai trascurato o
scontato. Poi si ritirò e dopo un po’ dal salottino ci raggiunse
il suono del piccolo pianoforte verticale. Suonò, al buio, un
paio di romanze e poi ci avvolse il silenzio. Dean rimase
quasi stupito per l’ambiente semplice, la cena e Maestro.
Fece accenno alla sua vita. Figlio di un militare dell’armata
nazionale, era un promettente tennista che per lo sport aveva
abbandonato gli studi di economia al quarto anno e ora se ne
pentiva pensando di riprendere. Accennò qualcosa sulla
madre politicamente impegnata e molto assente, per cui lui e
la sorella erano cresciuti soli. Riteneva che fossi fortunata per
la serenità che vivevo nella Casa in pietra grigia. Gli
sembrava tutto eccezionale. Lo credevo anch’io. Promisi che
il giorno successivo l’avrei accompagnato a visitare la
fortezza Spagnola.
Il pomeriggio del lunedì riuscii a infilarmi le vecchie
espadrillas, requisite a Maestro. Adoravo quelle morbide,
leggere scarpe in corda e tessuto che si era procurato in
Egitto, dove erano d’uso comune tra i gentlemen inglesi.
Maestro ne aveva fatto incetta. Da quando il piede mi era
cresciuto, ne approfittavo per usarle d’estate. Le portavo
infilate, con il bordo posteriore sotto il tallone e le punte
riempite di cotone. Ne avevo rovinato un paio, tanto che
Maestro non le voleva più. Ormai usavo quasi sempre
pantaloni corti, al ginocchio alla marinara, oppure lunghi e
larghi. Quell’anno avevo avuto da Giorgie in regalo i suoi
jeans. I primi jeans visti anche a Zagabria. Portati da una
donna come facevo io, erano una novità assoluta. A me
piacevano tanto. Fasciavano aderenti la mia figura alta e
ossuta e cadevano larghi in basso. Mi sentivo a mio agio.
Giorgie me ne aveva regalati due paia uno blu e uno bianco
di tela, così era risolto il mio problema di vestiario d’estate e
d’inverno. Nessuno poteva immaginare che addosso avessi
pantaloni bianchi da marine americano regalati, maglietta
intima in filo di scozia alla quale avevo tagliato le maniche
fino all’omero, espadrillas in corda requisite a Maestro e una
fascia di tessuto color turchese attorcigliata in vita a mo’ di
cinta, trovata tra i resti di Jera per confezionare piccoli
variopinti cuscini.
Mi sembrava di poter affrontare quella passeggiata in
modo adeguato alla solita eleganza di Dean.
Ci arrampicammo oltre la scalinata della Casa in pietra
grigia con strette, ripide stradine sterrate in mezzo ai vigneti
e alle poche case della Gojava, non conosciute dai turisti.
Raggiungemmo le mura merlettate e turrite della fortezza
Spagnola quando il globo rosso del sole si prestava ad
appoggiarsi alle sommità già scurite delle Isole Spalmadori in
fondo al canale. Non mi è mai piaciuto far la guida turistica,
né essere da qualcun altro guidata in visita ai monumenti.
Non mi ha mai attirato l’assillante snocciolare di dati storici.
Preferivo soffermarmi e lasciare le persone libere di
osservare quanto le circondava; l’aspetto architettonico, la
particolarità del paesaggio, i tetti spioventi punteggiati da
piccoli cortili nella morsa delle facciate, quel momento
magico dell’ora all’imbrunire di assoluta suggestione. Se poi
ci fosse stato interesse per i particolari storici, ognuno
poteva trovarli negli opuscoli e nei libri. Avevo espresso
questo mio parere a Dean aggiungendo solo che la Fortezza
era stata costruita nel dodicesimo secolo e che l’attuale
aspetto risaliva al Quattrocento, e se fosse stato interessato
ad altro, poteva trovarlo in ogni libreria. Quello che non
avrebbe mai potuto trovare era il momento che stavamo
vivendo, la particolarità della natura immersa in quella luce
quasi irreale. Rimanemmo in silenzio a osservare la città
sotto la rocca che iniziava ad animarsi di gente che usciva sul
lungomare a passeggio, mentre un sole stranamente rosso
cupo, bordato di un largo alone dorato, annegava
velocemente nella striscia scura dell’orizzonte. Era proprio
quel momento del giorno che da sempre avevo vissuto
molto intensamente e che desideravo, che lo vivessero anche
gli altri allo stesso modo. Dean sembrava affascinato. Non
feci domande. Preferivo credere alle mie sensazioni.
Le prime luci dei lampioni lungo la scalinata, sulla piazza
e sul lungomare, illuminavano la città dandole l’aspetto di un
presepe. Scendemmo. In piazza incontrammo un gruppo di
belgradesi che abbordarono Dean in maniera un po’
sconveniente, addirittura trascinandolo sulla loro
imbarcazione ormeggiata sulla riva. Uno yacht pretenzioso di
una trentina di metri con bandiera panamense e personale
istriano. Sulla poppa c’erano altri avventori brilli e stralunati,
una decina di persone, coppie, considerando l’aspetto e il
contegno, messe insieme per l’occasione. Sul ponte, in bella
vista dalla riva, erano sparse bottiglie di whisky.
Le donne dimostrarono immediatamente attenzioni un
po’ grossolane a Dean, noto tennista e uomo di mondo,
anzi, ritenuto del loro mondo e pertanto anche sfrontato. In
breve tempo anche gli uomini, liberatisi da ogni residuo di
discrezione, divennero sempre più sconvenienti.
Scambiandomi per una delle loro compagne di ventura,
iniziarono ad allungare le mani a sproposito. Al che
seriamente chiesi a Dean di accompagnarmi a casa. Gli
uomini si schernirono. Uno di loro, quello più audace e
particolarmente brillo mi si rivolse collerico:- Come, non siamo
buona compagnia per la fanciulla dalmata? Non sarai mica una
boriosa croata?! Ma tu Dean con chi ti accompagni?! Senza voltarmi mi avviai verso la scala di discesa e Dean
mi seguì, liberandosi di una delle donne. L’altra gli si
appiccicò addosso, brilla e ondeggiante. I paesani sulla riva
osservavano. Cercai di darmi un contegno quanto più
naturale. Dean era a disagio, almeno così mi sembrò. Per
non dare spettacolo, lasciò la donna avviluppata al suo
braccio. Allo slargo del Palace feci di corsa i gradini verso la
Casa in pietra grigia e mi sedetti in terrazza, esausta. Avevo
bisogno di riordinare le idee su quello che avevo vissuto.
Perché quel comportamento nei miei riguardi? Avevo fatto
qualcosa per indurre quelle persone a trattarmi in quel
modo? Perché avevano usato quei termini? Quali erano le
persone che Dean frequentava? A che mondo apparteneva?
A che mondo appartenevo io? Essere potenti e ricchi
significava essere arroganti e sfrontati? Dov’era
l’uguaglianza, quella della dignità umana? Erano tutte
chiacchiere imbonitrici per ingannare la gente? Quanti
pensieri accavallati!
Arrivò Jera e mi disse che in cortile c’era il tennista. Dean
era già sul pianerottolo della terrazza. Non avevo intenzione
di parlargli. Non desideravo mettere Jera ulteriormente in
agitazione. Lo era già abbastanza per il mio rifiuto di ricevere
una persona che precedentemente avevo invitato a Casa
nostra. Continuavo a non guardare Dean e a non parlargli.
Allargò le braccia dicendo:
- È imperdonabile quel comportamento. Non me lo aspettavo. Non
conosco e non frequento quel tipo di gente. Purtroppo mi considerano un
personaggio pubblico, che appartiene a tutti. Quelli lì sono potenti. La
mia carriera sportiva dipende anche dalla benevolenza dell’apparato
politico dirigente. Faccio sport agonistico. Solo con il mio talento
rimarrei a giocare, come tanti altri, a livelli regionali. Non mi interessa
la politica, ma non posso contrastarla. Alla fine lo guardai e gli dissi tutto d’un fiato:
- Cosa c’entra quello che stai dicendo con il fatto che io
sia stata denominata: boriosa croata?! Io non sono un
personaggio pubblico come te. E sono in casa mia. A questo
punto se i croati sono boriosi, perché i signori serbi non
rimangono a casa loro? Certamente dovrebbero far riflettere
lo yacht con bandiera panamense, uomini dalla nomenclatura
belgradese mezzi ubriachi e senza vergogna, donne di quel
tipo certamente non signore, whisky a fiumi sotto gli occhi
degli isolani che fanno salti mortali per comprare un po’ di
farina bianca, un pollo, o un po’ di strutto! Cosa pensi, che a
noi non piacciano i vestiti di stoffa inglese? E non ci farebbe
comodo studiare senza dover lavorare per mantenerci agli
studi? Oppure credi che siamo felici di dover dividere la
nostra legittima casa con delle persone estranee? Chi di
questi potenti vive in comunità forzate? Vivono sugli yacht,
in ville requisite, in appartamenti di lusso; fanno vacanze
negli alberghi di classe a spese dello Stato, cenano con
caviale e champagne, fanno spreco di cibo mentre la gente
non sa come arrivare alla fine del mese. Ho già incontrato
persone del genere. Ora mi è chiaro perché il gestore
dell’albergo dove ho lavorato quest’estate ci proibiva di avere
alcun contatto con gli ospiti. Credevo che fosse per la loro
privacy! No, tanto non gliene fregava nulla di quello che noi
vedevamo e pensavamo. Erano ben diverse le ragioni, che
ora comprendo meglio! Ci proteggeva per non farci andare
fuori di testa!
Dean, visibilmente a disagio per l’impeto delle mie parole,
rimase in silenzio e poi, quasi sottovoce, disse: Non immagini
nemmeno quanto sei fortunata a vivere come vivi e avere la famiglia che
hai. È vero, viaggio, ho bei vestiti, abito nella zona residenziale di
Belgrado, mio padre ha uno stipendio al di sopra della media come tutti
i militari in carriera, mia madre segue il potere, mia sorella studia
all’estero senza problemi. Sono cresciuto nell’ambiente in cui mi sono
trovato, ma non lo approvo. Posso essere responsabile degli
atteggiamenti di persone incivili?! Sono insolenti, villani, incivili e
stupidi. Si mettono la gente contro da soli. Non hanno rispetto per le
donne perché per la loro posizione riescono a entrare in contatto solo col
tipo di donne che hai visto. Non potevo immaginare quello che poi è
successo. È stato spregevole anche per me. Non amo essere considerato
quello che non sono. Devi dimenticare. Ti chiedo scusa per loro. Ti
prego di non dare importanza alla stupidità umana! - Questo è più che certo: non ne avrei mai fatto una malattia della
villaneria di quei personaggi insulsi. Questo attributo di croata boriosa
mi è stato già appioppato da una serba nel centro di Zagabria. Anche
lì la persona era ospite, come quelli sullo yacht. Cosa c’è di irritante nel
fatto di essere croati? In che cosa si manifesta l’alterigia croata? Nel
fatto di non accettare di essere trattati senza rispetto? Nel modo di
essere? Non è che per caso nelle parole di scherno è nascosto un senso
d’inferiorità e d’invidia per una dignitosa riservatezza? - aggiunsi
velocemente, per non ripensarci e interrompermi nel
giudizio.
Come al solito avevo imparato a Casa mia: non devo dire
sempre tutto quello che penso per non far conoscere tutte le
mie idee! Provai una pena segreta per quel giovane ricco,
vezzeggiato, ma in un certo modo succube della sua stessa
posizione. Mi chiesi perché i giovani della mia generazione, o
almeno una gran parte di quelli che erano cresciuti in
condizioni agiate, non avessero spessore! O non volevano
averlo? Era più semplice scivolare lungo i percorsi della vita?
Era quello che facevo anch’io? Mi abbandonai di nuovo ai
miei pensieri, osservando Dean adagiato sulla poltroncina
come sui carboni ardenti. Se avessi riflettuto più a lungo,
probabilmente non avrei detto tutto quello che avevo
espresso con tanta rabbia. Dopo un po’ arrivò Maestro dalla
sua solita passeggiata serale. Si sedette tra noi. Avevo già
superato il disagio dello yacht. Era sufficiente la tranquillità
della Casa, l’atteggiamento di Maestro, che mi si rivolse
chiedendo:
- Cos’è questa storia dello yacht? Un po’ stupita risposi:
- Sì, ci siamo finiti per sbaglio. Non sapevamo che quelli sulla
barca erano un po’ brilli. Ma tu come lo sai? - Oh, in paese si sa subito tutto. Ero sotto la Stella Maris a
passeggiare. Mi ha raggiunto Slava, la moglie di Toni hlap, il bagnino,
e mi ha riferito della tua presenza sull’imbarcazione in mezzo agli
ubriachi. - Parlandomi, Maestro non esprimeva alcun indugio.
Non proseguì con le domande, per cui gli chiesi:
- E tu cosa ne pensi? Cosa le hai risposto? - Non ho risposto. Le ho regalato una monetina per ringraziarla
dell’avvertimento! - e sorrise con un largo gesto della mano,
come uno che finalmente era riuscito a fare qualcosa che
desiderava compiere da molto tempo. Il fatto che ero
tranquillamente seduta sulla nostra terrazza, confermava la
sua sicurezza: sapevo badare a me stessa. Questo era
Maestro. Dean aveva capito probabilmente solo la metà del
discorso tra noi. Come al solito Maestro si esprimeva nel suo
stentato linguaggio per metà dialettale isolano e per metà
italiano, per uno del continente quasi completamente
incomprensibile. Pensai che fosse meglio così. Chi poteva
capire la nostra reciproca fiducia e intesa? Né la
comprensione altrui aveva alcuna importanza. È probabile
che Jera ritenesse di dover stemperare il mio modo di
esprimermi. Uscì con un gelato di melone, fatto da lei in
modo sublime, e disse a Dean:
- Domani sera preparo le frittelle, come sempre prima della
partenza della nostra studentessa. È un dolce nostro, isolano, per il
buon augurio a chi parte. Se le può far piacere unirsi a noi, saremmo
felici di dividere con lei la nostra antica usanza. Era certo: Jera signorilmente concludeva un discorso da
me portato a un estremo sgradevole, non adatto nei
confronti di un ospite. Il suo gesto doveva dimostrare quello
che eravamo: ospitali e generosi. L’invito di Jera era la
conferma della nostra gentilezza anche se offesi.
Esattamente quello che poteva disturbare chi non lo era. Jera
era molto più intelligente di quello che ci si poteva aspettare
da una domestica. Era una contadina isolana fiera e
dignitosa, ma anche cresciuta e invecchiata nella Casa in
pietra grigia dove aveva assimilato tutti i comportamenti e gli
umori di quel posto eccezionale. La stessa eccezionalità che
aveva recepito anche Dean. Credo si rese conto che gli
venisse offerto qualcosa di importante.
Divenne assiduo frequentatore della nostra Casa.
Le frittelle del commiato, la nostra piccola ricchezza
malgrado le ristrettezze di approvvigionamento sull’Isola,
appartenevano a quell’innato genere di ospitalità.
I miei ultimi giorni di vacanza stavano volgendo alla fine.
Feci qualche bagno sotto villa Bonaparte, la baia della mia
infanzia: un altro posto particolare lontano dal bagno
comunale, diventato luogo d’incontro mondano di ricchi e
apparenti tali. Avevo riacquistato la serenità. Unico mio
pensiero assillante era il peggioramento della vista di
Maestro, che lo limitava sempre di più nelle sue scritture e
nella composizione. L’inesauribile indebolimento dei suoi
occhi era un problema con il quale conviveva sin dalla
giovane età e non ne aveva mai fatto un dramma. Jera mi
assicurava di non dovermi preoccupare, Maestro era
completamente sereno, soprattutto perché lo ero io. Qualche
giorno più tardi ripartii per Zagabria. Dean mi accompagnò
alla nave. Sarebbe venuto a trovarmi. Cominciavo a
conoscerlo. Compresi che era migliore di come lo avevo
giudicato. Da sempre mi rallegrava lo scoprire i lati buoni di
una persona. Mi sembrava di riprendermi qualcosa che
credevo perso.
Rientrata a Zagabria mi recai da Wilma, che nel frattempo
aveva saputo del mio esonero dall’impegno con la scuola di
Knin. Trovai tutte le mie cose in mezzo al salone,
ammucchiate per terra. Mi comunicò che non intendeva
sopportare un attimo di più la mia presenza. Non riuscivo a
capire una reazione tanto drastica. Mi aveva preso di
sorpresa. Trovare un alloggio così, su due piedi, era
impossibile. Quel problema aveva bisogno di qualche
giorno. Era chiaro, non perdeva occasione di mettermi in
difficoltà. Non riusciva a sopportare che le cose stessero
avendo uno sviluppo diverso da quello che lei credeva
giusto. Chiederle di essere ragionevole e di darmi la
possibilità di trovare una sistemazione, non aveva senso.
Non era capace di alcuna indulgenza. Tanto meno io
riuscivo più a sopportare i suoi eccessi. Mi buttava sulla
strada senza un minimo di rimorso. Il suo comportamento
era assurdo e io dovevo velocemente risolvere il problema.
VIII. Università degli Studi - inizio
Uscii per strada senza avere in mente alcuna meta
precisa. Con una sensazione di vuoto assoluto mi trovai sul
tram diretto in periferia. Senza rendermene conto, ero diretta
a casa di Dunia, persone delle quali potevo fidarmi e alle
quali avrei potuto chiedere aiuto. Credevo che ci potesse
essere la possibilità, tra loro amici e conoscenti, di trovare
una sistemazione per me. La madre di Dunia mi
tranquillizzò. Potevo rimanere da loro finché non avessi
trovato una soluzione. Purtroppo dovevo dividere il letto
con Dunia. Una diversa sistemazione, così all’improvviso,
non esisteva. Ero imbarazzata, ma grata. Quella notte
almeno, avrei avuto un tetto sulla testa.
La famiglia di Dunia viveva in una casetta di due stanze e
cucina con un piccolo orto, simile a tutte le altre nella zona
popolare di Trešnjevka48, il vecchio quartiere in periferia
abitato da piccoli artigiani, venditori del mercato
ortofrutticolo rionale, impiegati di basso livello, manovali.
Erano tre figlie più i genitori: il padre, impiegato di una
cooperativa agricola, dove aveva trovato lavoro dopo essere
stato costretto a chiudere la sua piccola rivendita di frutta e
verdura, la madre casalinga. La primogenita, raggiunta la
maggiore età, riuscì a farsi assumere come operaia nella
fabbrica di materiale elettrico Rade Končar49, perciò Dunia
poteva diplomarsi da maestra e la sorella minore finire la
scuola dell’obbligo. Intanto Dunia era in attesa di essere
richiamata da una scuola a Bilje 50, nella Baranja51, un paesino
di ottocento anime nell’estremo lembo della Croazia, un
triangolo di terra racchiuso tra il fiume Danubio e la
frontiera con la Serbia. Un paesaggio fatto di canali, paludi,
fitti canneti, modellato dalle frequenti alluvioni del Danubio.
Durante la primavera e l’estate si riduceva a un unico
specchio d’acqua pieno di zanzare, malsano, inospitale,
mentre d’inverno veniva spazzato da venti freddi e la neve
accumulata all’altezza delle finestre delle case basse, in fila
lungo un’unica strada. Da non sottovalutare il vecchio
problema della difficile convivenza tra croati, serbi e
ungheresi. Le scuole dell’obbligo dei centri più grandi erano
destinate ai raccomandati e Dunia non apparteneva a quella
categoria. Anche quell’impiego era da prendere o lasciare.
Lasciare non significava trovare un impiego migliore, ma
fare l’operaia in qualche centro appena un po’ più
industrializzato.
La mia sistemazione nella famiglia di Dunia poteva essere
solo provvisoria, così lontana, in quella periferia fangosa da
dove era difficile raggiungere l’università e il lavoro che
dovevo ancora trovare. Decisi di recarmi dalla sorella di
Giorgie. Più volte si era vantata di essere riuscita ad avere
l’alloggio alla Casa dello Studente Universitario tramite
conoscenze e raccomandazioni, malgrado non ne avesse
necessità. Diceva che lasciare una costosa stanza della casa
privata e trasferirsi nella struttura statale le dava la possibilità
di avere più mezzi a disposizione, anche se di soldi già ne
aveva abbastanza. Il padre di Giorgie e Mila, un ufficiale
serbo del vecchio regime, ritenuto nemico del nuovo
ordinamento di Tito, quando il re abbandonò il Paese,
emigrò in America. Considerando il tenore di vita che poteva
condurre la sua famiglia, doveva aver raggiunto una florida
situazione economica. Manteneva Mila alla Facoltà di
Medicina e Giorgie d’Ingegneria Elettrotecnica a Zagabria,
ritenute le più prestigiose e costose del Paese. Le gemelle
frequentavano Ingegneria Biologica a Belgrado e la sorella
più piccola una scuola per contabili a Kragujevac 52, unico
centro industriale della provincia serba per la presenza della
fabbrica automobilistica Zastava, che lavorava su licenza
della Fiat torinese. Con una situazione economica simile,
Mila per più anni aveva abitato in una costosa stanza privata,
dove l’aveva raggiunta il fratello, coccolato e riverito più di
tutti da lei: la sorella maggiore che aveva sostituito la madre
quando questa aveva raggiunto il marito in America. Georgie
abitò per un anno con Mila, dopo di che lei pensò bene di
procurarsi un alloggio nella Casa dello Studente
Universitario. La sua nota condizione economica, la vita
dispendiosa, vestiti costosi, spese superflue, festini, e la poca
attitudine allo studio non le impedirono di infilarsi in uno di
quegli alloggi destinati a studenti di modeste condizioni
economiche o ai rampolli di personaggi pubblici, per cui
meritevoli di tali privilegi. Entrambe condizioni non di Mila.
Secondo le sue stesse beffarde ammissioni, bastava avere un
amico potente serbo ed essere serbi per ottenere tutto quello
che si voleva, perché i fratelli si aiutano sempre a vicenda.
Mila il fratello lo aveva trovato nientemeno che nel potente
compagno Bata Popalić, l’influente direttore del Centro
Universitario Croato di Zagabria, fulcro ideologico
comunista e centro di potere con vasta supremazia su tutte le
attività universitarie.
Bata Popalić, sfegatato attivista della Krajina serba,
membro del Partito Comunista Centrale di Belgrado, per
motivi organizzativi dislocato a Zagabria, dirigeva il Centro
Studentesco da padrone assoluto. Pensai che Mila mi
avrebbe aiutata, se non altro per dimostrare la propria
ascendenza su chi poteva elargire favori, il che le dava un
senso di superiorità, come quando regalava vestiti per lei
inadatti o biglietti per concerti o spettacoli teatrali che non le
interessavano. La sua prodigalità non era generosità, aveva
altre radici. Invidiosa per un suo senso d’inadeguatezza
cercava di distribuire favori per appagarlo. Contavo proprio
su questo.
Il Centro Universitario non era solo una grande struttura
moderna con uffici direzionali, mense a prezzo ridotto e
buoni pasto destinati a studenti bisognosi, ma ospitava anche
l’ufficio dello Student Service, che procurava lavoro
temporaneo a studenti con necessità di mezzi per sostenersi
allo studio. Inoltre, disponeva ed era responsabile della
distribuzione degli alloggi per studenti, che erano dislocati in
tre complessi, in varie zone della città. C’era il vecchio
ostello, il meno confortevole, con stanze a quattro letti e
bagni comuni al Largo delle Vittime del Fascismo, meglio
noto con il nome di Piazza della Moschea, molto ambito
perché sistemato nello stretto centro della città. A piedi, in
pochi minuti, si raggiungevano tutte le facoltà, le biblioteche
e il Centro Universitario. Gli altri due complessi avevano
stanze a due letti, uno nella periferia collinare Lašćina53 e
l’altro, nuovo, sulla sponda destra del fiume Sava, costruito
secondo l’ultima concezione di abitazione studentesca con
appartamenti dotati di cucinotto e bagno privato, chiamato
Cvijetno Naselje54. Entrambi destinati, solo a parole, a figli di
famiglie con un basso reddito certificato, impiegati, operai,
pensionati, e naturalmente figli di ex partigiani e
combattenti.
Il Centro Universitario, oltre agli uffici direzionali e ai
vari servizi, comprendeva più sale per lo studio e per il
tempo libero, dove si svolgevano molteplici attività: mostre,
riunioni, incontri con scrittori, politici ecc. Comprendeva
anche il Centro Radio Studentesco, la direzione del giornale
Studenski list55, un teatro, il più moderno cinema della città a
largo schermo, una sala concerti, strutture sportive chiuse e
all’aperto. Chi dirigeva quella struttura aveva in mano
almeno un’intera generazione di studenti. Ebbi fortuna, Mila
si prestò. E non aveva importanza il motivo per cui aveva
voluto intercedere per me. Bata Popalić dette disposizioni ed
io in due giorni fui alloggiata in stanza con Mila e altre due
studentesse nell’ostello in Piazza della Moschea. Quello più
ambito, anche se più vecchio.
Lasciai la piccola casa della famiglia di Dunia nella
periferia dei poveri disgraziati, dove a ogni passo si respirava
penuria e ristrettezza. Volevo vivere con maggiore serenità e
una diversa speranza. Certamente la quotidiana presenza di
Mila non era molto allettante, ma rappresentava il primo
passo verso quello che volevo per me ed ero disponibile ad
accettare i disagi di quella prima sistemazione.
Mi abituai presto al modo di vivere della Casa dello
Studente, condiviso un po’ da tutti i suoi abitanti. Imparai
che non si doveva andare a mangiare alla mensa, ma il cibo
lo si portava a casa. Per tale impresa gli studenti si erano
muniti di contenitori in alluminio assemblati in tre, quattro
pentolini a incastro in verticale su un supporto. Le ragazze si
procuravano dei buoni pasto a prezzo ridotto con i quali
ritiravano il pranzo e lo portavano a casa. Alla studentessa
del servizio distribuzione era destinato un regalino e lei
riempiva i tegami. Con un buono pasto si portava a casa più
porzioni, sufficienti per due o anche tre persone. Pasti caldi,
sempre con primi di minestre con pasta, riso, legumi, cavolo
verza; secondo di carne di manzo, pollo, salsiccia, contorni
di verdure o patate, pane, frutta e di domenica o nei giorni
festivi il dolce. I pasti si integravano con prodotti freschi,
possibili da reperire a prezzi stracciati all’ora della chiusura
nel fornitissimo mercato centrale Dolac 56. Le venditrici della
ricca vicina campagna zagabrese non portavano indietro i
prodotti deperibili. Preferivano cederli a prezzi esigui. In
questo modo ogni giorno si riuscivano ad avere formaggi
freschi, yogurt, latte, pollame, verdure, frutta. Vendevano
anche altre mercanzie, come insaccati di produzione
casalinga, oca arrosto conservata nel grasso di cottura, lana,
prodotti di lana, stoffe tessute su telai tradizionali. Tutte cose
meno abbordabili per le nostre risorse. Le ragazze mi
insegnarono ad arrangiarmi, il che non dispiaceva.
Necessitavo di un po’ di praticità. Ero ben contenta di
imparare. Finalmente avevo un alloggio e un pasto caldo.
Una delle ragazze, Lila, con il suo buono, divideva il pasto
caldo con me, mentre Sonia e Mila mettevano insieme i loro
buoni e recuperavano la cena anche per Giorgie. Non
avendo buoni, dovevo occuparmi dell’approvvigionamento
al mercato di Dolac.
Mi piaceva gironzolare fra le bancarelle verso le tredici, a
fine lezioni, quando molte massaie, per risparmiare, facevano
la stessa cosa. Portavo al nostro alloggio formaggi freschi,
yogurt, panna di produzione casalinga, verdure per insalata e
frutta di stagione. La convivenza si presentava abbastanza
solidale. L’unico inconveniente era il comportamento di
Mila. Da tutte noi pretendeva un’assurda sottomissione. Ci
faceva fare le pulizie al suo posto, esigeva che sopportassimo
le visite giornaliere del fratello per la cena e del potente Bata
Popalić per i festini. Di solito le visite degli uomini nel
quartiere delle donne non erano libere, ma quest’ordine non
era valido per Mila. Decidemmo che ci conveniva accettare
le imposizioni. Conoscevamo bene i poteri del compagno
Bata e l’eccentricità di Mila quando doveva dimostrare
l’appartenenza alla sua razza diversa. Spesso usava frasi che
avevano valore di antagonismo come noi serbi e voi croati, che
in realtà non ci facevano una grande impressione. La
ritenevamo semplicemente snob, con qualche rotella fusa.
Lila era una croata della Krajina. Spesso scherzava dicendo
di non conoscere le proprie origini dato che, per il miscuglio
di croati e serbi in quella zona di vecchia frontiera,
sicuramente tra gli antenati annoverava qualche serbo. E ci
rideva sopra, compiaciuta della sua nuova ritrovata identità.
- In questi tempi, diceva, è bene essere carne e pesce!
Sonia era figlia di un ex combattente purtroppo rimasto
fedele alle idee della madre Russia staliniana, che dopo il ‘48
era stato messo in prepensionamento perché fortemente malato.
Dopo aver soggiornato al Goli Otok 57 per un breve periodo,
venne sistemato in un ospedale psichiatrico. Da eroe
nazionale era diventato nessuno. Sonia a ventitré anni era
una ragazza disillusa, ironica. Per le presunzioni di Mila
aveva coniato l’espressione: Acqua gelida. L’aveva collegata a
una nostra esperienza negativa. Il maggiore inconveniente
del vecchio ostello in Piazza della Moschea erano i bagni con
acqua fredda. Le docce comuni avevano acqua calda solo la
mattina presto fino alle sei. Questo inconveniente era noto
agli studenti, perciò si alzavano alle quattro o alle cinque per
fare la doccia Sonia usava spesso la frase coniata:
L’acqua fredda mi fa venire l’orticaria, - o - Io abolirei l’acqua
fredda, è da lager, - o - ancora Un giorno rompo a calci tutte le
sorgenti di acqua fredda - riferendosi a Mila. Lila e io
sorridevamo di nascosto e sopportavamo le esibizioni di
Mila. Spesso irritate e quasi sempre malvolentieri. Ma quella
era la vita.
Quell’inverno mi divertii confezionando maglioni. Avevo
imparato abbastanza bene. Al mercato di Dolac mi
procuravo della morbida lana filata a mano dalle contadine,
che facevo poi colorare da un improvvisato colorificio
casalingo in periferia. Alla mania dei pantaloni avevo
aggiunto quella dei maglioni abbinati a grandi sciarpe e
cappelli. Negli anni ne avevo prodotti di vari colori: blu
scuro, verde bosco, color castagna. Ne facevo sfoggio e
dopo un po’ li vendevo. Richiesti com’erano, non ci
guadagnai mai. Riuscivo a mala pena a ricavarne il prezzo
della lana, per cui abbandonai l’idea del commercio.
Avevo cominciato a frequentare più regolarmente le
lezioni, per cui mi trattenevo poco alla Casa dello Studente.
Ero assidua frequentatrice delle lezioni più interessanti,
quelle di letteratura. Le lezioni di lingua serbo-croata
ovviamente non mi attiravano. Il docente di quella materia,
autore del Manuale e del Nuovo Dizionario della lingua serbocroata, subito si dimostrò molto esigente. La sua convinzione
era che la grammatica e la sintassi fossero la base per ogni
passo nello studio della letteratura. Ovviamente non aveva
torto. Studiare letteratura e probabilmente insegnarla,
significava conoscere bene la lingua nella quale era scritta e
tradotta. Questo ragionamento non l’avevo fatto prima di
iscrivermi a quel corso. Io scrivevo senza imparare a
memoria le regole della scrittura. Il professor Sova, ma anche
Nicola, dicevano che - scrivevo ad orecchio! - Non so se ciò
fosse un complimento o una presa in giro. A orecchio, cioè
come la musica senza conoscere le note? Eppure tutti e due
mi incoraggiavano a scrivere e studiare letteratura.
Un altro esame obbligatorio era quello di vetero-slavo,
una lingua morta, fatta di antiche scritture compilate in
lettere glagolitiche, con idiomi e lessico importanti solo per
chi intendesse diventare studioso di quella materia. Una
lingua ormai inesistente, con regole lessicali dalle quali si
sono evolute le lingue slave moderne. Si dovevano studiare e
decifrare antichi scritti, con una fatica immane e nessuno
sbocco pratico come la possibilità di un futuro impiego.
Quante erano le Facoltà di letteratura in tutta la Federazione
Jugoslava che avevano necessità di un docente di veteroslavo?
Un altro esame obbligatorio per l’accesso al successivo
anno scolastico era una materia spauracchio a causa della
pignoleria del docente che le attribuiva una sproporzionata
importanza. Si trattava della Poesia Epica Popolare, un
patrimonio orale trasmesso dai vecchi cantori che si
accompagnavano con uno strumento monocorde, il
cosiddetto gusle, molto presente e amato tra i serbi.
La raccolta dei canti epici serbi, nel Novecento la iniziò
con grande tenacia Vuk Karadžić58, fondatore della moderna
lingua letteraria serba. I suoi contatti con il romanticismo
viennese lo convinsero che la lingua del popolo e il folklore
devono costituire le basi su cui costruire la moderna
coscienza nazionale. La poesia epica, trasformata da
patrimonio orale del popolo in testo stampato, era destinata
ad essere letta nelle scuole e inserita nelle antologie. Dal
livello folcloristico fu elevata a quello ideologico, che le
diede una nuova valenza, la stessa che indusse i serbi a
formarsi una visione mitica di sé e della propria sorte e,
come disse M. Djilas59, - a vivere nel passato e nelle proprie
illusioni - Questi atteggiamenti nella realtà quotidiana erano
da sempre lontani dalla cultura croata, ma non dal fanatismo
del nostro professore, un serbo di Vinkovci, nell’estremo
margine orientale tra la Croazia e la Serbia. Lavorando con
solerzia alla raccolta e alla pubblicazione di questa forma
poetica, era risaputo che pretendesse dagli studenti visite ai
luoghi storicamente noti come focolai, molto prolifici in
precise regioni geografiche della Jugoslavija. L’unico modo
per riuscire a superare quell’esame era unirsi al suo gruppo di
ricerca. In questo modo il perspicace studioso aveva il
validissimo aiuto degli studenti che registravano le storie dei
vecchi cantori nei paesini sperduti, dove la tradizione della
poesia popolare orale resisteva in un assoluto vuoto di
progresso. Completando le edizioni delle sue scoperte in
materia, si rendeva sempre più noto e, secondo suo parere,
importante, come un nuovo Vuk Karadžić, ideologo
dell’epopea serba e cioè - della croce cristiana contro la mezzaluna
islamica. Rimanevano ancora come esami obbligatori l’Istruzione
Premilitare e la Lingua straniera facoltativa, l’italiano.
Entrambi facili, soprattutto il secondo, ritenuto da me
ingenuamente semplice perché ascoltato fin dall’infanzia.
Nel frattempo, avevo necessità di trovare un lavoro
temporaneo qualsiasi. Maestro aveva fatto domanda per la
pensione, per cui avevo deciso di non accettare più il suo
sostegno economico.
Quando decisi di proseguire gli studi all’università,
intendevo risolvere da sola il problema economico. Questa
volta mi rivolsi personalmente a Bata Popalić, spiegandogli le
mie condizioni famigliari. In breve, prima di Natale ebbi un
lavoro alla fabbrica di imbottigliamento dell’olio alimentare,
nel turno notturno dalle ventidue alle sei di mattina.
Eravamo un gruppo di studentesse impegnate nel
lavaggio delle bottiglie di vetro rese dai negozianti e restituite
alla fabbrica, dove venivano pulite e sterilizzate per il riuso.
Tutto era fatto a mano, nell’acqua bollentissima, senza usare
una qualsiasi protezione. La fabbrica non permetteva di
lavorare per più di quindici giorni. Il lavoro notturno, a
lungo andare, diminuiva l’attenzione e aumentava le
possibilità di infortuni. Rifiutare un lavoro in quanto
pesante, significava perdere l’opportunità di lavorare, perciò
non ci pensavo nemmeno. Purtroppo, tra gli studenti era
risaputo. I migliori lavori erano riservati agli amici dei
dirigenti del Servizio Studentesco, oppure ad altri
raccomandati. Anche se il lavoro era pesante, non mi
lamentavo. Era importante avere la possibilità di lavorare.
L’unico inconveniente era l’atteggiamento irriguardoso di
Mila. Mentre Lila e Sonia si recavano ogni mattina
all’università, Mila rimaneva a sfaccendare per casa, facendo
rumori di proposito. Credo che non mi perdonasse il fatto di
essermi rivolta direttamente al suo amico protettore. Poi
improvvisamente passava a una estrema gentilezza, come se
volesse farsi perdonare per la sgarbatezza. Purtroppo non
era mai chiaro come le sarebbe girata la luna e cosa sarebbe
capitato nei momenti seguenti. Stavamo sempre in leggera
apprensione. Mila aveva una malata necessità di
spadroneggiare, di intromettersi nella vita altrui, di disporre
gli avvenimenti secondo il suo modo di intendere le cose. Mi
sembrava una seconda Wilma, ma più maligna.
Arrivammo così alla fine dell’anno. Com’era prevedibile,
Mila si prestò ad organizzare la serata del Capodanno. Nei
festeggiamenti, senza essere interpellata, aveva incluso me e
suo fratello Giorgie. Non so quanto lui fosse contento di
questa iniziativa, io per niente. Non avevo mai festeggiato
l’ultimo dell’anno. Alla Casa in pietra grigia le festività erano
quelle natalizie, prima della guerra e durante. Molto
sommessamente anche al rientro da El-Shatt, con l’avvento
del Comunismo, eravamo rimasti fedeli alle tradizioni, per
quanto possibile. Altrettanto nella cattolicissima casa di
Wilma. Per giorni Mila si era recata nel quartiere dei
grattacieli sulla sponda destra del fiume Sava, nella nuova
casa di Bata Popalić. Preparava, addobbava, si tratteneva in
quell’appartamento giornate e notti intere. Avevo la netta
sensazione che avesse considerato Bata Popalić come un
buon partito da agganciare. Per la sua mentalità, a ventotto
anni e lontana dalla laurea, doveva occuparsi seriamente di
una confacente sistemazione. Allo stesso tempo, si
preoccupava di trovare a chi lasciare le incombenze del
coccolato, vezzeggiato, palesemente viziato, piccolo fratello,
unico erede maschio e rampollo della grande stirpe dei
Radovan di Peč601. C’era da pensare ai suoi pasti regolari e
sostanziosi, alle camicie da stirate, alla sua serenità. Ormai
era evidente che mi aveva 60 Peč / Pec(i)
scelta per quella importante missione, magari solo
temporaneamente, finché non avesse trovato di meglio.
Ogni qualvolta rifiutavo un invito di Giorgie, Mila
reagiva con un’inspiegabile ostilità nei miei confronti. Diceva
un’infinità di sciocchezze, anche offensive, come:- Ma guarda
un po’ la dalmata spocchiosa! Si fa pregare per uscire. Cosa aspetta, il
nobile cavaliere croato? Dovrebbe baciare la terra dove cammina il
principe serbo! La sua immodestia la farà rimanere zitella! - Cosa
rispondere a simili stupidaggini dettate da un antico senso di
irremovibile goffaggine e rozzezza? Il fratello in realtà era
diverso da lei. Un po’ bonaccione, gioviale, futile per pigrizia,
succube del carattere dispotico di Mila. Non capivo perché
Mila non si rivolgesse mai direttamente a me. Mi parlava
come se non ci fossi. Una volta sola le risposi adirata, tutto
d’un fiato:- Sì, regina madre. Non ho motivo per essere boriosa e il
principe non lo voglio. Né serbo, né croato! Non è affar tuo la mia
zitellaggine.
Non abituata a vedermi reagire, per un attimo rimase in
silenzio come stupita. Poi scoppiò in una risata isterica senza
più dire altro. Seguirono giorni di gelida gentilezza, Mila
probabilmente si preparava per qualche sorpresa.
Tutto continuava nella stessa maniera, quasi banale.
Avevo concluso che Mila non avesse tutte le rotelle a posto.
Considerata questa possibilità, si doveva tirare avanti senza
scomporsi. Fu così anche per quel Capodanno.
La sera dei festeggiamenti prendemmo il tram in Piazza
della Moschea per raggiungere il nuovo quartiere oltre il
fiume Sava. Nel pomeriggio era caduta neve in abbondanza
e continuava copiosamente a fioccare. La gente ormai aveva
raggiunto le proprie destinazioni. Il rumore metallico sulle
rotaie era attutito. Le poche macchine sembravano scivolare
su un cuscino soffice. Le carrozze del tram erano vuote. I
mastodontici ippocastani lungo il viale di Piazza della
Moschea si immettevano nel giardino di Zrinjevac 61, con i
suoi busti marmorei di condottieri, artisti e scrittori croati
che, fuori dai finestrini del tram, sembravano scivolare
assopiti. Le belle facciate ottocentesche del Museo
Archeologico, della Galleria d’Arte Moderna, dell’Accademia
di Scienze e Arti si snodavano intatte in un biancore lunare
al lento procedere delle carrozze sferraglianti.
Le finestre illuminate dietro le tende, sospese sulle
intimità dei massicci palazzi borghesi, nascondevano i loro
affacci indifferenti su quella tranquilla serata di
festeggiamenti sommessi, misurata come tutto in quella città
dai comportamenti riservati. Lo sfarzoso hotel Esplanade,
centro di vita sociale dei più importanti nomi della politica
locale, faceva intuire il fervore per il tradizionale Ballo dei
Giornalisti, occasione obbligata per farsi vedere e fotografare
con gli ufficiali testimoni in un’immagine di momentanea
abbandonata austerità. All’altezza dell’Orto Botanico il tram
imboccava la larga via d’accesso al ponte sul Sava, sospeso
tra le sponde illuminate e le sagome dei grattacieli nuovi con
le sommità perse nella sempre più fitta nevicata. Scendemmo
dal tram all’inizio di un giardino delimitato da alte siepi,
completamente ricoperto da un soffice manto bianco.
L’ingresso con telecamere e l’apertura automatica erano
novità assolute. Attraversammo l’androne in marmo
screziato nero e legno chiaro. Prendemmo un ascensore
super-moderno, spazioso, tappezzato. Sesto piano,
appartamento con porte vetrate ad apertura totale, mobili
d’epoca, imbottiti preziosi, quadri d’autore, lumi e antichi
abat-jour. Uomini e donne come in una messinscena, vestiti
costosi, profumi forti, riscaldamento da bagno turco, tanto
cibo, troppi alcolici. Mila faceva le veci della padrona di casa,
simile alla vecchia zia. Bata Popalić, il padrone di casa, ebbro
ancora prima della cena. Giorgie, come al solito, al centro
dell’attenzione delle fanciulle gaudenti, mentre i compagni
facevano i predoni senza ritegno. Una serata da evitare, in
quella disarmonia di ricordi. Quando non ne potei più, decisi
di andarmene con il primo tram. Recuperammo Mila delusa
dalla scoperta cupidigia di Bata Popalić.
Il freddo sembrava aver stretto nella sua morsa tutta la
città. Il tram non accennava ad arrivare. Chiamammo un
taxi. Facemmo il viaggio in silenzio. Non parlammo di quella
notte, né allora, né mai più. Una notte che aveva tutto per
essere piacevole, ma non lo fu, probabilmente per il suo
contesto né distinto né raffinato. Senza volerlo notai che, tra
gli ospiti di Bata Popalić, non c’era nessun zagabrese. Né
c’era nessuno che avrei scelto per trascorrere una serata di
Capodanno. Tutti ben vestiti, freschi di parrucchiere,
impomatati, anche belli, ma senza garbo nei gesti, nel
contegno, con un modo di ridere chiassoso e
un’ostentazione equivoca di galanteria maschile e civetteria
femminile. Povera Mila, pensavo. Si credeva la favorita di
Bata Popalić. Quella notte si era resa conto di quanto la
usasse, facendo leva sul suo senso esasperato del ceppo
genealogico serbo, sfruttato per gli interessi polizieschi di
Bata Popalić nel controllo della marmaglia croata alla Casa
dello Studente in Piazza della Moschea. Questa verità sulla
loro presunta intesa scappò alla stessa Mila.
Chissà che idea Bata s’era fatto di me. L’avevo più volte
sorpreso ad osservarmi, ma non si avvicinò mai in modo tale
da poter far pensare a un qualsiasi interesse. Avrebbe cercato
di usare anche me, avendomi fatto dei favori?
Subito dopo Capodanno, tramite il Servizio Studentesco,
riuscii a ottenere un lavoro per un’altra settimana. Si trattava
di fare le pulizie nei grattacieli nuovi. Dovevano essere
ripuliti dalla calce, dal cemento e da altro materiale residuo,
per poi essere consegnati completamente lustri a personaggi
di riguardo. Palazzi nuovi, ancora senza riscaldamento e
corrente elettrica, con la temperatura esterna di quel gennaio
a dieci/dodici gradi sotto zero. Non era proprio il lavoro
migliore che si potesse desiderare. Le mani nell’acqua che si
ghiacciava, i polmoni pieni di polvere ed esalazioni della
nafta usata per la pulizia del parquet e degli infissi di porte e
finestre in legno. Sembrava però che fossi entrata nel giro
del Servizio Studentesco, anche se solo per lavori pesanti.
Per ora, con la buona volontà, in attesa di migliori
possibilità, andava bene così.
Il lavoro iniziava alle sette, ma partivo già alle sei, a buio
pesto, con il tram che attraversava tutta la città e la periferia
per arrivare nella Zagabria Nuova sepolta dalla neve e aperta
ai venti del lungofiume. La Città Nuova era bella con i suoi
appartamenti favolosi. Naturalmente, se si possedeva la
macchina per raggiungerla.
Nel freddo pungente che la fatica non riusciva a mitigare,
il lavoro nei grattacieli finalmente finì. Non desideravo altro
che partire per l’Isola al più presto possibile, unico mio
rifugio e riposo totale.
A quel tempo, il viaggio a fine gennaio attraverso la Lika
e la catena montuosa delle Alpi Dinariche, che dividono
l’interno della Croazia dall’Adriatico, con la temperatura
notturna di quindici gradi sotto zero, non era
raccomandabile, soprattutto di notte. Purtroppo di giorno il
viaggio era ancora più disagevole, pieno zeppo di pendolari.
Il treno normale collegava tutti i paesini, fermandosi in ogni
più remota stazione, mentre quello rapido notturno
percorreva quella stessa strada ferrata, obsoleta e ormai
inadatta, in tre ore di meno. Di notte si riusciva anche a
distendersi su una delle panchine di legno dell’unica classe,
se si era preveggenti e si intraprendeva quel viaggio
equipaggiati di una calda coperta. Il passaparola tra studenti
dalmati a Zagabria salvò anche me dal treno
insufficientemente riscaldato.
Tutta la notte il convoglio arrancò in mezzo a un muro di
neve altissima. Lasciata la pianura di Gospić62, iniziò la sua
avventura attraverso la gelida Lika, spazzata da raffiche di
vento in tempesta, carico della neve accumulata sulle rotaie.
Il treno rallentava spesso e superava gli ostacoli, creati dal
ghiaccio, a passo d’uomo, senza che ci fosse possibilità di
rimuoverli in breve tempo. Pochi erano i passeggeri in quella
notte di gennaio così particolarmente inclemente. Fuori dei
finestrini arabescati con strani disegni di ghiaccio scorrevano
sagome scure indistinte di alberi piegati sotto il peso della
neve. Ogni tanto lucette tremolanti di paesini immersi nel
buio, stazioni scarsamente illuminate e deserte scivolavano
come dissolte. Quell’inverno i lupi erano scesi fino ai villaggi
poco abitati sotto la parete ripida dell’altopiano del monte
Velebit.
Appena raggiunto il passo di Klis si poteva prevedere
quanto ritardo il treno avrebbe accumulato. Gli anni
precedenti, durante gli studi all’Accademia, le vacanze
invernali avevano inizio a metà dicembre. In quel periodo il
freddo non è ancora tanto rigido né le condizioni del mare
così proibitive da non permettere alle imbarcazioni di
lasciare il porto. Ma nella seconda metà di gennaio tutto
diventava a rischio. Infatti, quella mattina il treno arrivò con
quattro ore di ritardo. La nave era salpata e la prossima
sarebbe partita solo il giorno successivo. Mi chiedevo dove
riparare. Non c’erano né pensioni, né affittacamere e i due
grandi alberghi erano per me inaccessibili. Ricordai che Rino,
da poco dirigente dell’orchestra al Teatro Stabile di Spalato,
abitava dalla sorella sposata. Spesso aveva raccontato che la
famiglia della sorella e del cognato abitava al Palazzo Calvi,
in prossimità della Chiesa di San Francesco. Una famiglia
numerosa, che gli aveva offerto ospitalità in attesa
dell’alloggio promesso dal Comune.
In città vivevano tutti in abitazioni divise tra più famiglie.
Con l’avvio delle fabbriche di cemento e di materie plastiche
a Kaštela63, vicino a Spalato, molte famiglie avevano
abbandonato la brulla campagna e impoverita trovando
lavoro in città, ma non anche un alloggio. Le autorità
avevano risolto il problema seguendo il sistema sovietico,
dividendo le abitazioni tra due e più famiglie, con servizi in
comune.
Era il periodo in cui si doveva velocemente formare una
classe operaia. Secondo la teoria marxista, solo attraverso il
potere operaio del proletariato era possibile realizzare il
socialismo anche in una società senza basi materiali e
condizioni di vita soddisfacenti. Naturalmente si trattava di
una vita precaria, cosa della quale la gente contadina, abituata
a ben più pesanti sacrifici, non si rendeva ancora conto.
L’importante era che lo stipendio arrivasse regolarmente e
che fosse possibile reperire i beni di prima necessità. Le
abitazioni precarie in comune erano considerate situazione
transitoria. La gente riteneva di essere finalmente felice.
Oppure voleva solo crederci?
Decisi di chiedere ospitalità per quella notte alla sorella di
Rino.
Trovai con facilità il vecchio Palazzo Calvi, in verità
molto malconcio. Un unico palazzo a due piani con un alto
sottotetto, all’inizio del quartiere popolare Varoš 64, con il
groviglio delle sue pittoresche stradine di case basse verso il
monte Marjan.
A prima vista il Palazzo Calvi dava l’impressione di
essere una grande caserma militare, con i suoi magazzini a
piano terra, un androne in basole cementizie di colore grigio
cupo, scale e corridoi ai piani in legno vecchio e
scricchiolante con tante porte tutte uguali in fila. Al secondo
piano abitava la famiglia Tica65: sei persone e ospite fisso in
una cucina, due stanze e bagno, naturalmente in comune con
altri inquilini. A casa Katia, la sorella di Rino, disse che ci
saremmo arrangiati. Di fatto, loro già lo facevano. Katia e il
marito nella stanzetta, le tre sorelle con la nipotina e la
nonna, che aveva ceduto il suo sofà in cucina a Rino, nella
stanza grande. Tornarono dal mercato la nonna, la figlia
Nane e la piccola Inge.
Si preparò il pranzo. Dalle contadine del mercato Dolac 66
avevo procurato per Maestro pancetta, costolette affumicate
e zampone, tanto desiderati e introvabili sull’Isola, rari e
molto costosi a Spalato. Ne tirai fuori una parte.
Aggiungemmo le costolette alla zuppa di fagioli e, con le
salsicce zagabresi e i peperoni sott’aceto della nonna,
ottenemmo una cena di lusso. Rino mi disse che la paprica al
finocchietto selvatico l’aveva preparata suo padre a Okorija.
Quella sera ne parlammo a lungo. Kuzma era l’unico figlio
maschio della vedova Tica. Suo padre, tutta una vita
marinaio su barconi che trasportavano materiali vari, era
morto all’inizio della guerra lasciando la vedova, Kuzma e le
tre figlie femmine. Durante i bombardamenti di Spalato, il
loro quartiere era stato raso al suolo. Il Palazzo Calvi, anche
se ridotto male, dette la possibilità alla loro famiglia e ad altre
nelle stesse condizioni di avere un tetto. Lo Stato li aiutò
nelle riparazioni.
- Stiamo bene - disse Kuzma - è una situazione transitoria,
finché non si costruiranno gli appartamenti per gli operai. - Intanto
erano passati diversi anni dalla fine della guerra.
Le loro finestre erano rivolte sulla facciata ovest del
grande albergo Bellevue, un palazzo neori nascimentale,
basso, con portici chiusi sui tre lati intorno alla terrazza-caffè
aperta verso il mare. Il caffè era molto frequentato dagli
spalatini ricchi, politici, membri del partito e simili. L’albergo
e il ristorante altrettanto. Osservavo l’albergo e non potevo
non paragonare i due mondi: da una parte Palazzo Calvi
trasformato in casa comune con un bagno per più di dieci
persone, pasti a base di zuppa di fagioli e null’altro, spesa al
mercato per procurarsi le ali di gallina per il pranzo
domenicale di pollo arrosto e patate; dall’altra il grande
Bellevue, elegante, con suite mozzafiato, illuminate a giorno,
accessibili a pochissimi. Ci stavo pensando. Semprepiù
spesso riscontravo la diversità delle condizioni economiche e
sociali. Vivendo sull’Isola non riuscivo a vedere questo
divario. Oppure ero io che non sapevo guardare? Anche la
situazione di Rino mi faceva riflettere. Sua moglie aveva
conseguito l’insegnamento alla Scuola Tecnica di Milna,
sull’isola di Brazza, e poteva raggiungere il marito a Spalato
solo di domenica. Ma come facevano a incontrarsi? Dove?
Quando? Rino di domenica e nei giorni festivi dirigeva i
concerti. Non poteva assentarsi. Che razza di vita, per due
promettenti e giovani intellettuali, era questa?
Il giorno dopo partii per l’Isola. Non dimenticai mai il
gesto gentile di quella numerosa e per niente agiata famiglia.
Più tardi, a ogni mio viaggio per l’Isola, mi sarei recata a
trovarli brevemente di passaggio, portando loro un piccolo
omaggio.
IX. L’inverno sull’Isola - Brusje
Anche sull’Isola l’inverno era particolarmente rigido. Mi
accolsero la nostra cucina riscaldata e l’antico scaldino di Jera
tra le lenzuola del letto. Fu festa alla Casa in pietra grigia con
i famosi zamponi, gli insaccati e i formaggi procurati al
mercato Dolac, specialità che prima della guerra Maestro si
faceva regolarmente inviare da Zagabria e ora ricordava con
nostalgia, per cui facevo di tutto per trovarli.
Il freddo ci fece rintanare in Casa. La bora spazzava la
riva e la piazza incuneandosi nelle calli e negli slarghi in
mezzo alle case. Tutto era deserto, addormentato, come in
attesa dell’estate. Il giorno successivo al mio arrivo sull’Isola,
Jera mi svegliò con una tazza di profumato e bollente
caffellatte. Aprì le imposte. Rimasi sorpresa. I davanzali delle
finestre e la terrazza erano ricoperti di un manto bianco
spesso una ventina di centimetri, simile allo zucchero a velo,
candido e leggero, come appeso alla pietra. Le rose
rampicanti, l’uva moscato sotto le finestre e i due larghi
arbusti di capperi cresciuti spontaneamente sul muro sopra
l’uscio del cortile, protetti dall’alta facciata della Casa,
innevati, somigliavano a una nuvola sospesa.
Erano più di trent’anni che non nevicava in città.
Maestro ricordava nel ‘23 una spruzzata di neve sulla piazza
e sulla riva che durò appena un’ora. A metà mattinata spuntò
il sole sopra il Monte Poljun e la neve divenne una pozza
d’acqua.
Quella mattina di fine gennaio, la neve non accennava a
sciogliersi. A Brusje sicuramente doveva essere abbondante e
Jera si preoccupò per l’orto, le olive, gli animali. A metà
mattina arrivarono improvvisamente le sorelle gemelle di
Jera con il loro mulo carico di legna. Erano partite
all’albeggiare. La forte bora precipitata dal massiccio del
monte Biokovo aveva già raggiunto il crinale della collina di
Brusje e depositato, sul versante orientale dell’Isola, uno
spesso manto di neve, ghiacciata durante la notte. Il vecchio
padre di Jera, riconoscendo i capricci di quel raro freddo
inverno, ci inviò altra legna. Le gemelle scaricarono il
prezioso bagaglio, che comprendeva anche formaggio
caprino conservato sott’olio, le sorbe lasciate lentamente
maturare appese a grappoli in cantina e i funghi prataioli
raccolti e seccati prima della nevicata. Si rifocillarono, pronte
a ripartire facendo un’altra volta a piedi la salita dalla città
verso il paese. Partirono intorno a mezzogiorno sotto un
cielo bigio e monocromo, mentre le raffiche di vento
aumentavano lungo la strada per Brusje, in mezzo al bosco,
alla fitta vegetazione mediterranea e alle distese terrazzate
coltivate a lavanda che lambivano il mare sulla costa
occidentale dell’Isola, dove non ghiacciava mai.
Il piccolo borgo era completamente innevato, esposto
alla rigidità invernale e alle calure estive irradiate dal nudo
monte, disboscato dai veneti e dai molti altri di passaggio
sulla costa dalmata. Quella mattina le piatte pozze d’acqua,
ricavate nelle pietraie per abbeverare le pecore,
biancheggiavano rigide di una sottile lastra di ghiaccio. Le
gemelle si affrettarono a rientrare a casa. Dovevano ancora
accudire il gregge.
La famiglia di Jera, gli anziani genitori, il fratello
professore di matematica a Zagabria e le gemelle, nate da
genitori ormai anziani, appartenevano a quell’antico nucleo
di impianto rurale con belle, solide case a un piano in pietra
sulle strette stradine sterrate che convergevano verso la
piazza e la chiesa di San Giorgio.
Alla fine degli anni ‘50, il borgo non aveva più di
centocinquanta abitanti. Gente laboriosa, fiera e intelligente,
che aveva dato il numero più alto di intellettuali e accademici
di tutta la Dalmazia, malgrado moltissimi sacrifici e un
rapido spopolamento. In paese ormai c’erano solo anziani,
donne e pochi bambini. L’origine del piccolo borgo risaliva
ai tempi delle grandi migrazioni balcaniche.
In quegli anni spesso mi recavo a Brusje. Mi piaceva quel
paesino lindo, tranquillo, con i vecchi contadini gentili e
sempre pronti a raccontare antiche storie, dove tutti erano
imparentati o si ritenevano parenti.
Mi piacevano le serate intorno all’antico camino in
mezzo all’unico stanzone al primo piano della Casa dei
Tibetovi e le persone che vi si radunavano per passare la
serata. Di solito il sabato perché la domenica non si recavano
ai campi. Dagli anziani seppi la storia della nonna materna
Margarita, soprannominata bonicina67. I cognomi a Brusje
erano quasi tutti uguali e la gente si riconosceva grazie ai
soprannomi.
Gli antenati di Margarita Dubović, i Bogetić,
appartenenti alla nobiltà contadino-guerriera insignita con
titoli e stemma dalla Repubblica di San Marco per coraggio e
meriti dimostrati nella difesa dei suoi territori dalle incursioni
dei turchi. Spinti dagli uskoci68, come intere popolazioni,
verso la costa dalmata e poi sulle isole del medio Adriatico,
arrivarono dall’Ungheria meridionale e dalla Slavonija. Si era
trattato di un lungo processo che ebbe il suo apice nel
Cinquecento, quando Solimano il Magnifico, non avendo più
bisogno delle comunità dedite alla pastorizia e
all’allevamento del bestiame, tolse loro tutti i privilegi.
Pressati dai beg turchi e dai repentini attacchi delle bande
degli uskoci che li depredavano, gruppi di cristiani cattolici
ungheresi e croati, vessati e tormentati, si rifugiarono
sull’Isola sotto la protezione di Venezia e più tardi degli
Asburgo. Occuparono la parte disabitata, boscosa, impervia,
mentre le città come Lesina 69 e Cittavecchia70 erano nel pieno
di un tumultuoso sviluppo sociale, economico e culturale.
Gli abitanti di Brusje portarono la pastorizia e
l’allevamento delle pecore e delle capre. La presenza della
pietra calcarea li fece diventare abili produttori di calce viva,
molto richiesta per le costruzioni cittadine. Disboscando le
pendici isolane verso sud, piantarono vigneti e produssero
un ottimo vino rosso, il plavac713, che più tardi avrebbero
esportato con successo. Tutt’oggi gli antichi recinti con
muretti a secco, coltivati a lavanda o lasciati incolti con
arbusti di rosmarino per la produzione di oli ed essenze
derivati da queste due piante, sono la testimonianza di un
passato di validissimi viticoltori.
Purtroppo all’inizio del Novecento la tremenda malattia
della vite, la filossera, annientò completamente questa florida
attività favorendo una fortissima emigrazione verso
l’Argentina e l’Australia. Quei pochi rimasti continuarono a
praticare la pastorizia, la coltivazione delle olive, la raccolta
di rosmarino e lavanda e, con l’aiuto dei famigliari dalle
Americhe, proseguirono una vita appartata e dignitosa,
disponibili, signorilmente riservati e gentili.
Anche la loro parlata ciacava era ed è diversa da quella
sguaiata lesiniana e dalle altre parlate isolane.
Una ventina d’anni più tardi, esattamente nell’‘82, avrei
visitato l’Argentina. Durante quel soggiorno cercai di
rintracciare emigranti isolani. Nella Patagonia centrale e a
sud trovai molte famiglie. A Calefate, sul Lago Argentino in
prossimità del grande ghiacciaio Perito Moreno, nella
sterminata pianura della savana patagonica, rintracciai una
famiglia d’origine isolana. Su quell’altipiano di terra rossiccia,
senza un albero a vista d’occhio, sulla griglia di due strade
polverose che solcavano l’immensa distesa che va dalle Ande
all’Atlantico e fino all’infinito, verso il piccolo Eldorado.
Sotto un vento insistente che porta a spasso arbusti rotondi
e stopposi come fossero sfere d’aria compressa, nascevano
pascoli nelle valli protette della Cordigliera Andina, in
fazzoletti di prati e boschetti che custodivano le fazendas e le
instancias con i gaucho a cavallo a governare le mandrie di
bestiame. Una gigantesca distesa pochissimo abitata,
escludendo i guanaco e i nandù liberi. La più grossa produttrice
di lana, la fazenda San Jorge72 era anche un posto di ristoro per
viandanti che dall’aeroporto di Rio Gallegos 73, dopo
parecchie ore di viaggio prima di proseguire per Calafate,
facevano sosta per il pranzo in quel confortevole avamposto.
Calafate, un piccolo paese insignificante, è dedito
esclusivamente al mantenimento del turismo per le
numerosissime visite ai ghiacciai Onelli e Perito Moreno,
unici al mondo per dimensioni e bellezza. Gli abitanti della
San Jorge non vorrebbero mai cambiare la propria vita con
un’altra. Non contemplano nemmeno la possibilità di vivere
più sull’Isola. Nessuno di loro ha ricordi del Paese d’origine
e tanto meno nostalgia.
Un’altra famiglia originaria di Brusje la trovai
nell’estremo sud dell’Argentina, oltre Ushuaia, la cittadina
più meridionale del mondo, nella Terra del Fuoco, Cabo San
Diego un’immensa fazenda in mezzo a grandi boschi di
conifere, con un florido allevamento di bovini e ovini. I
proprietari di Cabo San Diego erano tra gli ultimi emigrati
giunti in Argentina, dopo la Seconda Guerra mondiale, da
El-Shatt. Oltre agli allevamenti di bestiame, si
specializzarono nella loro bella istancia per la ristorazione.
Cabo San Diego oggi è proprietà del nipote degli emigrati di
Brusje. Con una numerosa famiglia imparentata con i
discendenti degli estinti indios jamgan, conduce l’omonimo
ristorante, molto frequentato dai turisti che si recano alla
Terra del Fuoco, in visita alle splendide isole del Passaggio di
Magellano, nel Canale di Beagel. Quello spazioso ristorante
costruito in legno massiccio, con tavoli e panche lunghissimi
e un affaccio strepitoso su Punta Arenas e sulla frontiera
cilena che la lambisce e la divide, accoglie tutti quanti visitino
quell’avamposto. Anche qui come in Patagonia centrale tutto
è grande e spazioso. Un enorme territorio poco popolato, un
grande senso di libertà. Il ristorante è particolare come tutte
le cose in quella parte del mondo.
Su enormi fuochi si arrostivano pecore e vitelli interi,
aperti e sistemati verticalmente su dei supporti di ferro
intorno a un focolaio centrale secondo il modo argentino,
cocendo piano e inondando tutti gli spazi di odori invitanti.
La carne, poi tagliata a pezzi ed adagiata sui fornelli squadrati
con la brace accesa, era servita ai tavoli. Ognuno si serviva a
volontà; quella carne fumante, morbida, profumata, priva di
grassi perché in continuazione bucherellata per farli uscire,
accompagnata da una salsa piccante di mele asprigne
sottaceto, simile al chili74 messicano. Il tutto irrorato con una
birra artesiana abbastanza alcolica.
Nessuno della famiglia dei proprietari emigrati usava la
lingua d’origine. Non si erano mai recati nella vecchia Patria.
Non conoscono il loro Paese natio, non hanno ricordi, né
nostalgie. Dicevano di non avere nulla da cercare nel vecchio
Paese. Tramite il club dei croati di Buenos Aires hanno
avuto poche confortanti notizie sul paese del loro nonno
defunto. Le foto della loro antica casa diroccata, con mura
traforate e finestre ridotte a fessure vuote rivolte alle bore
del monte Biokovo, ora di proprietà dello Stato, come pure i
loro striminziti pascoli lasciati all’incuria e all’abbandono,
diventati macchia mediterranea, li lasciano indifferenti. Non
sognano la Croazia, ma nemmeno qualsiasi altro posto per
viverci. Il massimo dei loro spostamenti è Buenos Aires e
per le vacanze la California, ma non per restarci. Sono
argentini senza radici, ma non solo per cittadinanza. Sono
soli e non desiderano cambiare nulla. L’unico inconveniente
per loro è il clima. Le sole due stagioni: primavera e inverno.
La mancanza dell’estate e dell’autunno accorcia loro la vita.
Tutta un’altra situazione la trovai a Comodoro Rivadavia,
una cittadina deserta sull’alta roccia sopra l’Atlantico,
sommersa da braccia meccaniche per l’estrazione del gas e
del petrolio.
Sull’elenco telefonico di Comodoro Rivadavia, trovai un
elenco di cognomi isolani più lungo di quello che si sarebbe
potuto mettere insieme a Brusje. Si tratta della generazione
di emigranti isolani arrivati in Argentina prima della Seconda
Guerra mondiale. Comodoro, fondata all’inizio del
ventesimo secolo, ebbe un inaspettato sviluppo dovuto al
ritrovamento dell’oro nero al posto dell’acqua. Bulgari,
ucraini, dalmati affluirono in quella cittadina remota in
mezzo a una distesa di roccia fossile, sull’altopiano rosso
polveroso privo di vegetazione a precipizio sull’Atlantico,
spazzato da continui venti sui tetti delle case basse in
mattoni cotti al sole e circondato da collinette prodotte dagli
impianti di trivellazione per le cisterne di petrolio e gas. Tutti
emigranti dirottati dalle autorità argentine dove c’era
necessità di manodopera. Gente in cerca di fortuna. La
fortuna non la trovarono, ma nuova fatica. Non si
spostarono mai da quel luogo. Non ne ebbero la possibilità,
né la voglia. Fuggiti dalla miseria e da varie vessazioni,
esprimono uno strano rifiuto di tutto quello che
significherebbe un qualsiasi legame con il Paese d’origine,
soggiogati da un astio ramificato contro tutto e tutti. La
convinzione degli emigranti isolani è che i loro guai siano
derivati dai fatti salienti degli anni ‘30: la scomparsa dello
Stato Indipendente Croato, l’NDH, ritenuta la disgrazia
principale. Nelle loro case di Comodoro, nel posto d’onore
che sarebbe spettato a San Giorgio, protettore paesano,
trovai grandi foto di Ante Pavelić, il fondatore del
Movimento Nazionale Croato, il nucleo di ribelli ustaša75 che
all’estero aveva trovato forti appoggi dai fascisti e dagli
emigranti croati.
Gli ustaša volevano una completa rottura con la casa
monarchica di Belgrado e aspiravano all’assoluta
indipendenza.
Inoltre, secondo la loro ideologia, erano decisi a
mantenere uno Stato Croato etnico puro e attuarono
l’eliminazione di tutti quelli che non erano di sangue croato,
cioè serbi, ebrei, zingari, musulmani non convertiti al
cristianesimo e altre minoranze; situazione che preoccupò il
Governo Jugoslavo e le borghesie serba e croata, che fecero
un disperato tentativo per salvare la Monarchia e risolvere
l’annoso problema croato con l’accordo Cvetković76 Maček77.
Anche se questo accordo assicurò alla Croazia un peso
rilevante nella vita politica monarchica jugoslava, non aveva
soddisfatto gli ustaša di Pavelić, che reagirono con le loro
bande punitive, macchiandosi di atroci crimini. Ma non tutti
gli autonomisti erano ustaša criminali. La verità è che molti
autonomisti croati, erano stati presi di mira senza distinzione
anche dalle forze di liberazione del Paese con a capo Tito,
che predicava la fratellanza e l’unità. Non avendo avuto vita
facile, furono costretti ad emigrare. Questo li spinse verso la
terra promessa che non trovarono mai. Era inutile ragionare
a posteriori sull’impossibilità di un’autonomia croata in
ambito internazionale durante i conflitti interni della
Seconda Guerra mondiale, ma anche in seguito; eppure era
questo che ricordavano gli isolani trovati a Comodoro. Molti
particolari di quel periodo tragico non li conoscevo a causa
della mia età. Iniziai a conoscerli negli anni ‘60 e ad elaborarli
ancora più tardi.
Il freddo sull’Isola non era mai stato particolarmente
insidioso come in quel gennaio del ‘60. Ci eravamo rintanati
in Casa in attesa che quel improvviso gelo terminasse. In
quelle serate spesso avevamo un ospite, il direttore della
scuola dell’obbligo isolana, vedovo, che da sempre aveva
vissuto con il vecchio zio prete e la sua perpetua nella casa
oltre il muro del nostro giardino. Era un grande estimatore
della cucina di Jera e una gradevole compagnia per Maestro.
Ai tempi della mia istruzione isolana, lui e la moglie
defunta erano insegnanti di zoologia-biologia e matematica.
Una coppia originaria del paese Vrbanj, nell’interno
dell’Isola. Colti, spiritosi. Li ricordavo con piacere. Jera
aveva preparato una cena di festa con gli zamponi, il purè di
lenticchie, le patate arrostite nella brace e irrorate di burro
fuso al rosmarino. Poche cose, quasi dimenticate, ma sempre
gradite.
Le gemelle, prima della gelata, raccolsero lungo la strada
di Brusje rami carichi di corbezzoli maturi e Jera ne
approfittò per fare una profumatissima crostata. Tutta la
Casa era pregna di questi odori famigliari e rassicuranti. La
cucina tenuta calda senza risparmio di legna e la stanza di
Maestro, riscaldata dalla nostra cucina economica, ci dava la
sensazione, con la sua larga porta aperta, di uno spazio
riconquistato. La tavola con una bella tovaglia che non avevo
mai visto prima perché ricamata di recente da Jera, le vecchie
porcellane spaiate di diversa foggia, i bicchieri differenti di
cristallo a stelo colorato come quelli delle collezioni di
Murano, il centro tavola di vite canadese con foglie rosse
autunnali e spighe rosa di erica essiccata, davano il
benvenuto a me, al mio vecchio professore e a coloro che
riempivano la Casa in pietra grigia di ricordi che diventavano
sempre più importanti per me che li portavo nella memoria
per la mia strada verso il futuro. Quello era anche il tempo di
un altro ricordo che ho sempre conservato: l’odore della
lavanda e del rosmarino nel periodo della distillazione delle
essenze nei lambiki, che spandevano, da Brusje verso Lesina,
quel particolare e intenso odore con fragranze di legno, di
sottobosco, di sole, di pietraie, di brume, che rapide
avvolgevano la nostra vecchia Casa e l’immacolata biancheria
dei letti intiepiditi con l’antico scaldino, della cui esistenza mi
ero dimenticata.
Appena il freddo attenuò la morsa dovetti rientrare nella
capitale e riprendere la vita di tutti i giorni, anche perché,
prima di quella vacanza, Bata Popalić mi aveva fatto sapere
di avermi procurato un lavoro fisso. Si trattava della pulizia
delle sale per lo studio del Centro Universitario. Dovevano
essere fatte, alla chiusura, dopo le ventidue. Finalmente era
arrivato un lavoro continuativo e con orari accettabili. A
mezzanotte, terminate le pulizie, riuscivo a prendere l’ultimo
tram per non affrontare in inverno di notte la strada verso la
Casa dello Studente. Mi dedicai a frequentare le lezioni con
maggiore assiduità. Pregai Bata di assumere per le pulizie
anche una mia collega musulmana, Safeta. Mi accontentò. Il
lavoro era sopportabile. Un grande aspirapolvere e un
lavapavimenti risolvevano i problemi pesanti. Diventava
difficoltoso il lavaggio del parquet con il petrolio e
l’applicazione della cera, eseguiti ogni quindici giorni. Ci
organizzammo cercando l’aiuto di un paio di ragazzi,
offrendo loro un compenso che corrispondeva a una
sostanziosa cena al ristorante-bar del Centro, dove
preparavano enormi hamburger o fegato di vitello arrosto
sulla piastra, con patatine fritte, ciambelle dolci tipo grossi
krapfen, Pepsi-Cola, cappuccini con caffè forte e panna: un
lusso da permettersi solo ogni tanto. Nelle sale per il tempo
libero, gli studenti si trattenevano fino a mezzanotte. Erano
luoghi di grande aggregazione. Si poteva giocare a scacchi,
leggere, venivano organizzate spesso serate letterarie,
incontri con scrittori, poeti, pittori, politici, economisti,
molto frequentate non solo da studenti ma anche dalla
cittadinanza. Il lavoro permanente di poche ore notturne ben
pagato mi aveva dato sicurezza. Potevo finalmente
concedermi qualche spesa voluttuaria come un vestito, un
paio di scarpe, il parrucchiere ogni tanto, un piatto al
ristorante-bar, un biglietto per il teatro o per un concerto che
non fosse in piedi in galleria, un mazzo di fiori al mercato di
Dolac. Questa condizione mi aveva aiutato a liberarmi di
Mila e di suo fratello Giorgie. Le assenze, durante il giorno
per motivi di studio e la sera per lavoro, mi restituivano la
libertà evitandomi le ingombranti frequentazioni. La
permanenza nel Centro mi aiutò a fare incontri stimolanti.
A primavera inoltrata incontrai il noto vignettista
belgradese Rade Rudić78. Conoscevo bene le vignette con la
sua firma che apparivano spesso nei quotidiani e nei
settimanali belgradesi, regolarmente forniti alle sale per il
tempo libero del Centro. Avendo conosciuto Rade di
persona, ne capii meglio l’ironia, lo scherno che traspariva
dai suoi disegni verbalizzati. Era un ragazzone solare, diretto,
gentile, amicone, sempre pronto alla battuta. Ci
trattenevamo in lunghe conversazioni fino all’orario del mio
lavoro serale. Scoprimmo molti interessi comuni: musica,
pittura, architettura, natura. Rade si era laureato
all’Accademia di Belle Arti di Belgrado e aveva scelto di fare
il vignettista.
Diceva:- La satira ha sempre un doppio senso. La intendi come
ti pare! - Aveva origine bosniaca ed era un appassionato
dell’alta montagna, dove amava trascorrere gran parte delle
proprie vacanze. Mi raccontò episodi avvenuti sulla
montagna Romanija con boschi di secolari conifere: gli
incontri con i daini, la scoperta di orme d’orso bruno lungo i
ruscelli ricchi di carpe e trote, che aveva imparato a pescare
con le mani sotto i sassi. Mi invitò in montagna. Mi avrebbe
fatto conoscere luoghi che non potevo nemmeno
immaginare quanta bellezza e serenità potessero offrire.
Purtroppo, come era del tutto normale, finito l’impegno alla
Fiera Campionaria primaverile rientrò a Belgrado. Credevo
fosse la fine di un’amicizia che si stava appena
approfondendo. A mia sorpresa mi continuarono, con una
certa regolarità, ad arrivare lettere e cartoline corredate da
spiritose vignette, scherzose, con didascalia e spesso solo
con il disegno del punto interrogativo e la nota
- Da scrivere il commento e restituire! - che mi impegnava a
riflettere e rispondere. Un modo abbastanza astuto per farmi
dire qualcosa che desiderava sapere. Un gioco che richiedeva
impegno, e l’impegno dimostrava interesse. Il tutto in un
piacevole gioco di vignette.
Il tempo scorreva velocemente e gli esami erano
imminenti. Il docente di Poesia Epica Popolare,
probabilmente per la sala delle lezioni sempre mezza vuota,
mi aveva individuato dicendo:- Lei giovane collega, non l’ho mai
vista! -
Aveva l’abitudine di apostrofare con l’appellativo giovane
collega tutti quelli che non incontrava regolarmente alle sue
lezioni. Dovevo reagire velocemente, trovare una scusa
qualsiasi per le mie assenze. Serviva qualcosa che avrebbe
toccato la sua presunzione. Senza pensarci risposi:
- In verità sono stata costretta ad assentarmi più volte per un
soggiorno in Bosna, ma ho avuto fortuna perché in questa forzata
permanenza ho trovato alcuni focolai di trasmissione verbale della
poesia popolare. Il professore si illuminò e io iniziai solo allora a pensare a
cosa avrei detto e fatto. Non ero mai stata in Bosna. Perché
mai avevo detto Bosna e non Slavonija, o Krajina, o qualsiasi
altra zona?! Non ne sapevo nulla della poesia epica trasmessa
dai cantori. In verità provavo un totale disinteresse
sull’argomento, incapace come ero di dedicarmi a qualsiasi
cosa dovesse essere imparata a memoria. Il fatto poi che tutti
i miei colleghi mi avevano ritenuto fanatica perché
interessata ad una materia considerata di nessun conto, mi
spinse subito ad ammettere con loro di aver detto una
madornale bugia, il che diventò motivo di ilare attesa per lo
sviluppo del fattaccio. Andai dal professore. Ricamai su
notizie un po’ raccolte da Safeta, montanara bosniaca che ne
aveva sentito raccontare nel suo paesino e, un po’ lette nel
frattempo. Ebbi l’impegno di raccogliere e registrare il
materiale durante l’estate per consegnarlo nella sessione
autunnale, termine ultimo per iscrivermi all’ultimo anno
scolastico. Confidai nella mia buona stella. La soluzione
l’avrei trovata. Intanto dovevo superare due esami difficili e
due che reputavo facili.
Prima dell’Università non avevo mai avuto seri problemi
di apprendimento perché ero costretta a frequentare le
lezioni. All’Università invece mi perdevo in più occupazioni.
In verità non ero mai stata una studentessa costante. Da
sempre alternavo buoni voti a giornate in cui con molta
semplicità dichiaravo di non aver studiato e non essere
pronta a dare risposte. Chiaro, prendevo un voto negativo,
ma stando attenta ai termini fissi nei quali dovevo senza
deroga essere sottoposta alle interrogazioni, imparavo
velocemente. Bastavano un paio di notti a studiare per
rimettermi in carreggiata. Purtroppo, in un tempo altrettanto
breve, dimenticavo tutto o quasi. Quello che recepivo
durante le lezioni, spesso, era più che sufficiente per dare
l’impressione di conoscere bene la materia, ma dovevo
frequentarle, il che all’Università era diventato difficile.
Oltre al lavoro serale, avevo iniziato la collaborazione
con il giornale universitario Studenski list79 con analisi e
recensioni di letteratura moderna, soprattutto di poesia, sia
nazionale che estera. Il lavoro di collaborazione era gratuito,
ma dava visibilità. Il giornale era molto letto e apprezzato. A
questo impegno mi aveva spinto il mio mentore, Nicola.
Con il bel tempo dell’impareggiabile primavera di
Zagabria, ormai senza serie preoccupazioni per problemi
primari, iniziai a uscire di più. Era risolto anche il mio
vecchio problema dei vestiti troppo modesti. Per fortuna
non cambiavo gusti nell’abbigliamento. Prediligevo
pantaloni, anche vecchi ma di buon taglio, di solito maschili,
che io magra e piatta riuscivo a portare. Più volte ero stata
invitata da Nicola e avevo già iniziato a scoprire la città. Era
tradizione frequentare caffè e localini, punti d’incontro
diversi per ogni professione. I letterati, i docenti e gli
assistenti della Facoltà di Letteratura e Filosofia si
trattenevano al Grand Caffè del Teatro nei pressi
dell’Ateneo. Una vera folla che si accalcava all’orario d’uscita
dalle lezioni, ma anche di sera, quando il Caffè diventava
ritrovo di punta per quelli che si recavano al Teatro
dell’Opera o ai concerti alla Sala Lisinski. Si incontravano
personaggi noti e meno noti, interessanti e insignificanti,
semplici cittadini un po’ snob.
Alla fine degli anni ‘50, il clima di disagio si percepiva tra
i tavolini del Caffè Teatro. A una maggiore attenzione per
quello che si diceva avevano contribuito gli intellettuali croati
che, puntando sulla creatività, sull’intelligenza e sul retaggio
europeo del proprio popolo, tentarono di spostare il
monolito staliniano che continuava a dominare la realtà
jugoslava e croata anche dopo la rottura con Stalin
successiva al ‘48.
Al Congresso degli scrittori Krleža80 aveva tenuto un
discorso prudente nella forma, ma rivoluzionario nella
sostanza, rivendicando per la letteratura, e implicitamente
per qualsiasi attività intellettuale, la libertà da ogni dogma
ideologico, tracciando una netta linea di separazione tra
prassi politica e attività speculativa. Ma più che al Caffè
Teatro, gli intellettuali capitolini si riunivano in un piccolo
localino chiamato Gradec81.
Al Gradec le condizioni croate e federali si discutevano
sommessamente tra amici e compagni di pensiero. Al Caffè
del Teatro per breve tempo ero accompagnata da colleghi
universitari più grandi, aspiranti scrittori, Glamac82 e Majdan,
tutti e due serbi della Baranja, l’estremo lembo nord-est della
Croazia. Un triangolo di terra racchiuso tra i fiumi Drava e
Danubio e la frontiera con l’Ungheria, confine serbo-croato
dove vive una popolazione mista di croati, serbi e ungheresi.
Brano Glamac e Zvono Majdan facevano gruppo a sé
all’Università e nella vita sociale. Tra gli studenti erano
considerati presuntuosi provinciali e arroganti.
Fu Nicola a farmi notare certi loro atteggiamenti poco
simpatici. In primo luogo le antiche provocazioni al vecchio
Tin al Caffè Teatro, in seguito alle quali più volte era sparito
per un paio di mesi. Una sera, prima di una rappresentazione
teatrale, fecero velocemente amicizia con Giorgie e Mila. Poi
si incontrarono a certe loro feste alle quali, con la scusa del
lavoro serale, non andai mai. Incontratisi di nuovo, alla
domanda di Brano sul perché non fossi andata anch’io, Mila
disse qualcosa come:- L’intellettuale tronfia, croata arrogante non
ama le nostre feste tradizionali. - Al che risero. Ci rimasi male e
raccontai a Nicola di essere, in un certo modo, stata messa
da parte dal gruppo degli aspiranti scrittori. Lui mi chiese:
- Ci tieni proprio alla loro compagnia?
- Più o meno. Sono miei colleghi universitari! - risposi. E Nicola
ribadì:
- Ti fidi di loro? Sono serbi! Che fossero serbi per me non aveva alcuna importanza.
In verità un’aperta distinzione tra serbi e croati la faceva Mila
in diversi modi, ma anche i due futuri letterati non erano da
meno. Nicola se ne rese conto e proseguì con una certa
gravità:
- Tu non dovresti fidarti di nessuno di loro! Infatti, non mi fidavo. Nicola aveva centrato il motivo
intimo anche del mio rifiuto di una persona come Giorgie,
ammirato e ricercato un po’ da tutti, braccato dalle ragazze
bene. Prima non ci avevo pensato perché durante quel
periodo, anche se abbastanza lungo come possono essere tre
anni, mantenevo quel rapporto senza approfondirlo e senza
impegnarmi in alcun modo. Nicola aveva collegato la mia
poca fiducia al fatto che fosse serbo. Non era questo il
motivo, ma la mia prudenza. Lo avrei capito molti anni più
tardi. Allora eravamo tutti ancora giovani, fratelli, amici,
anche uguali, dicevano, cosa della quale avevo cominciato
seriamente a dubitare.
X. Zagabria - Città Alta
La primavera di Zagabria mi attirava sempre di più nella
Città Alta, con la sua Passeggiata panoramica Strossmayer 83 e
le innumerevoli panchine in legno scuro sotto platani e
ippocastani con la vista sui bei palazzi neoclassici della Città
Bassa: biblioteche, gallerie, musei, case borghesi e, oltre il
fiume Sava, i moderni grattacieli del quartiere nuovo. La
Passeggiata Strossmayer era da sempre molto amata dai
zagabresi, particolarmente al calare della sera, quando le luci
fioche degli antichi lampioni a gas creavano misteriosi giochi
di ombre sulle storiche facciate e sugli scuri portali di legno
che nascondevano silenziosi, ombrosi cortili.
Dalla Passeggiata Strossmayer serpeggiavano strette
stradine in salita tra palazzine basse con tetti spioventi in
ardesia, obliqui finestrini quasi raso terra, piccoli giardini
retrostanti e, ad ogni angolo, un localino, un’osteria con i
suoi soliti visitatori che sorseggiavano un bicchiere di vino
bianco o il famoso gemist84. Tutto molto simile ai vecchi
quartieri viennesi. Zagabria Alta è una città indimenticabile.
La solennità dei Dvori, antica sede del Governo Croato e
oggi Palazzo della Presidenza della Repubblica Croata, il
Kaptol, centro del potere vescovile con la bella cattedrale
barocca di Santo Stefano, la porta di pietra sul grande
mercato Dolac, la funicolare realizzata nell’Ottocento con
l’espansione della Città Bassa, fanno della Città Alta un
angolo del mondo a sé stante, antico, nobile, riservato.
La Città Bassa, invece, in fondo alle dolci pendici del
monte Sljeme e al limite della pianura del fiume Sava nel
disegno delle piazze, dei viali e dei giardini, parla del suo
florido passato culturale ed economico. Le scuole di ogni
ordine e grado, e le numerose facoltà fanno di Zagabria un
polo scolastico di nobili tradizioni. Il predominare dei
palazzi borghesi di linea classicheggiante e liberty,
quell’infinità di parchi divisi da grandi arterie trasversali, la
rendono unica. L’impareggiabile Tuškanac 85, un bosco con
alberi secolari, le belle ville nel cuore della città; la verde
collina Šalata, quartiere residenziale con campi da tennis,
piste da pattinaggio, piscine; l’immenso bosco-parco
Maksimir al limite nord, con laghi artificiali, viali per
passeggiate e per ciclisti, giardino zoologico.
La meta preferita dai zagabresi per le gite domenicali è il
monte Sljeme, che consente arrampicate sui sentieri
attraverso i fitti boschi con soste nelle numerose piccole
trattorie e nei rifugi, per ristorarsi con un bicchiere di vin
brulé o un gemist, d’accompagnamento per salsiccia
domestica con salsa di rafano, formaggio fresco con panna
acida e il famoso strudel di mele e noci. Ma Zagabria non era
solo natura. Era da sempre allietata da eventi culturali di
risonanza internazionale come il Festival del folklore, la
Biennale di Musica Classica, il Festival del Teatro
d’Avanguardia, la Triennale Mondiale della Ceramica, il
Festival delle Marionette, la Fiera Internazionale dei Fiori, il
Festival dei Cartoni Animati, la Campionaria Internazionale
con esposizioni varie tutto l’anno.
Dopo la Seconda Guerra mondiale iniziò a formarsi il
quartiere moderno oltre il fiume Sava, collegato da quattro
ponti con la Città Bassa. Il quartiere Zagabria Nuova, con i
suoi moderni grattacieli, il Parco Mladost 86, i laghi artificiali
Jarun e Bundek allargati per le gare di canottaggio,
l’ippodromo, era in continua espansione senza intaccare i
centri storici. Questa era Zagabria all’alba degli anni ‘60. Per
viverla e amarla si doveva avere serenità e io l’avevo
raggiunta. Allora mi innamorai della Città Alta, la Zagabria
dei zagabresi, una piccola, segreta, gentile nicchia, lontana
dal frastuono e dalla vita frenetica della Città Bassa.
La Città Alta dei solitari, dei privilegiati, dei poeti, pervasa
da uno spirito remoto fatto di incontri e attese. Un mondo a
parte nel quale ero stata introdotta per caso e grazie
all’attenzione che mi dimostrava Nicola. In quell’ambiente
incontravo la maggior parte della Zagabria colta: scrittori,
accademici, attori, pittori, liberi pensatori. Era un mondo
diverso, particolare. Quanto più mi inoltravo nel fitto tessuto
di quell’ambiente, tanto più venivo presa dai suoi racconti,
dalle sue leggende e intrecci storici. Mi ero innamorata di
qualcosa di estremamente ricco di solide convinzioni, di
umanità e riservatezza.
Alla fine di maggio il caldo si era fatto improvvisamente
afoso. Tutto il giorno studiavo nel Centro o nella Biblioteca
Nazionale e la sera lavoravo. Così cominciai, dopo cena fino
all’orario di lavoro, a recarmi sulla Passeggiata Strossmayer, a
volte con Safeta, a volte da sola in cerca di un po’ di calma e
di aria pulita. Mi trattenevo su una panchina vicino la
funicolare, bene illuminata dai lampioni per eludere eventuali
inopportuni seccatori. Una precauzione non indispensabile.
La gente era abituata a passeggiare senza essere disturbata. Il
vialone era sempre pieno di bambini che giocavano, madri e
pensionati sulle panchine a godersi il fresco e la vista sulla
Città Bassa illuminata e frenetica. Una di quelle sere
incontrai Nicola. Si recava al suo solito appuntamento con
gli amici all’antico locale Gradec, frequentato ormai
esclusivamente dai membri della Società Letteraria Croata,
Matica Hrvatska87, che ne avevano fatto quasi un club
privato. In quei giorni era uscita un’intervista a Tito sul
settimanale zagabrese Vjesnik u srijedui88. Era ovvio che a
Gradec si discutesse della necessità di una maggiore libertà
nella cultura, nell’arte, nella scienza e nell’economia. Si
diceva che la pianificazione di Belgrado fosse la causa del
crescente malcontento e sconforto tra la popolazione croata,
per cui era necessario trovare il modo di limitare il sempre
più forte potere del Governo centrale. Naturalmente, questo
doveva essere perpetrato nel rispetto dei fondamentali
princìpi dello Stato socialista, onorando la fratellanza tra i
popoli senza egemonia di un popolo sull’altro. D’altronde
nell’intervista Tito diceva di essersi reso conto che il
problema croato e del Paese poteva essere risolto solo
offrendo alle Repubbliche ampie possibilità di espressione
negli interessi specifici, applicando l’autogoverno.
- L’obiettivo - disse Tito - deve essere la limitazione del potere
dello Stato, che non significa intaccare la sovranità che è e rimane una
comune per la Repubblica e per la Federazione. Inoltre aveva ammesso l’esistenza di certi piccoli gruppi
di potere che, con lo sviluppo della Lega Comunista,
avevano rafforzato il burocratismo e le tendenze
tecnocratiche, arricchendosi in modo illecito. Era chiaro che
questi gruppi dovevano essere individuati e sconfitti. Con ciò
Tito accusò la Lega Comunista e i dirigenti delle
organizzazioni sociali e politiche croate di una mancata
vigilanza sulle forze antisocialiste. Pertanto i discorsi tra gli
amici di Gradec erano in linea con il pensiero di Tito, per
nulla segreti, disfattisti o pericolosi per il benessere della
Federazione.
Nel frattempo, al Centro Universitario, le riunioni
dell’Unione Studentesca diventavano obbligatorie. Il potere
della Lega Comunista era presente in tutti gli aspetti della
quotidianità e la concentrazione dei serbi evidente. Il Centro
Universitario confermava la sovra-presenza dei serbi non
solo nel Governo e nelle forze armate, ma anche nei posti
chiave, dove si disponeva di risorse umane e finanziarie.
Rischiava di minare il delicato equilibrio del panorama
politico nazionale. Alle riunioni Bata Popalić era molto
esplicito nella critica della classe dirigente croata. Parlò della
questione nazionalista come del risveglio scatenante delle
passioni scioviniste e della nascita di un nuovo elemento
controrivoluzionario, dogmatico, antisocialista, contrario al
programma della Lega Comunista Popolare.
Il problema della necessità di maggiore democraticità,
all’inizio degli anni ‘60, era all’ordine del giorno sulla stampa,
alla radio, nelle riunioni obbligatorie dell’Unione Studentesca
nella Lega Comunista. Non si poteva ignorarla, anche se si
era totalmente intenzionati a non voler entrare nel problema
politico.
- Il focolaio - asseriva Bata - è nella Società Letteraria Croata e
nel quotidiano zagabrese “Vjesnik”89, dove opera il Comitato
rivoluzionario dei cinquanta, con quattro, cinque caporioni.
Bata Popalić parlava di persone che conoscevo bene e
frequentavo, con le quali passavo serate intere nel piccolo
locale Gradec. Mi sembrava che non ci fosse nulla di
antisocialista nelle loro discussioni. Erano profonde le
contraddizioni tra quello che sosteneva Bata e quello che
esponevano gli amici. Molti di loro avevano contribuito alla
liberazione e rivoluzione popolare permettendo la creazione
del nuovo stato della Repubblica Federale Jugoslava, nella
quale tutti i popoli e i diversi gruppi etnici dovevano avere
gli stessi diritti e la stessa considerazione. Si parlava, in verità,
del discorso di Krleža in merito alla necessità di liberalizzare
la vita sociale. Tito, affermando che gruppi della Lega
Comunista avessero agito con leggerezza, permettendo
arricchimenti illeciti e lo sfruttamento di repubbliche più
ricche come la Croazia e la Slovenija, ammassando la moneta
nella Banca Centrale di Belgrado, richiedeva un maggiore
equilibrio economico. Non si voleva prendere in
considerazione il concetto principale, che lo statalismo
doveva essere superato. Sembrava che il potere decisionale
assoluto di Bata Popalić, nel Centro Universitario e altrove,
fosse in rotta di collisione con il pensiero di Tito sulla
necessità di limitare i poteri forti dello Stato e della Lega
Comunista.
Le contraddizioni e i dubbi crescevano. Le questioni di
coscienza si facevano sempre più assillanti.
Ad aumentare il mio senso di disagio, già combattuta tra
l’antico e radicato sentimento di lealtà verso il mio Paese e
una nuova consapevolezza del mancato raggiungimento della
giustizia sociale, fu la presenza di Vlado Hamm al Gradec, il
segretario dell’Unione Giovanile Croata, conosciuto nel
Centro e amico intimo di molti personaggi che avevo
incontrato nel localino. Non mi aspettavo un incontro di
quel genere e in quel posto. Il mio stupore doveva essere
evidente. Un paio di volte scoprii che mi osservava. Credo
che si chiedesse come fossi riuscita a entrare in quel gruppo
relativamente chiuso, appartato, e quale fosse il mio merito
per esservi accettata. Quella sera discutevano, come al solito,
dei problemi ricorrenti e poi passarono alla questione
dell’autogoverno. Il segretario Vlado aveva un suo
convincimento in merito. Disse qualcosa come:- Con
l’autogoverno così come lo intendono Tito e Kardelj, lo Stato perde la
possibilità di mantenere i suoi privilegi. Lo sviluppo, però, deve essere
democratizzato. Il centralismo non ha futuro. La storia fa il proprio
corso! È un passaggio obbligatorio in una federazione plurinazionale
come la nostra. Il frazionamento può essere evitato solo con una
maggiore libertà in economia, nella ricerca scientifica, nella cultura,
nell’arte; in breve, in tutti i campi della vita sociale! - Rimasi colpita.
Mi sembrava giusto quello che diceva e mi sconcertava una
posizione tanto aperta nonostante fosse esponente del
Governo Centrale.
Presente quotidianamente al Centro per il lavoro, non
potevo esimermi dalle riunioni dell’Unione Studentesca
Universitaria, che continuavano ad avere una cadenza
regolare. Successe che, durante una di quelle riunioni, Bata
Popalić mi pose una domanda in merito a quello che
pensavo sul nascente movimento di massa popolare del
quale si faceva portavoce la Matica Hrvatska.
Rimasi stupita, in primo luogo perché non appartenevo al
gruppo degli studenti di solito scelti anticipatamente per le
discussioni, che venivano così ovviamente preparate; in
secondo luogo, veramente non ne sapevo nulla. Risposi:
- Se si riferisce alla richiesta di una maggiore autonomia delle
Repubbliche, delle Province e dei Comuni, ebbene sì, è stato Tito che ne
ha proclamato la necessità. La Matica Hrvatska è un’antica
istituzione culturale che addirittura ai tempi dell’Illirismo si è fatta
portatrice del retaggio intellettuale. È tutto quello che so!
Bata fu lapidario:
- Il tuo è puro e semplice opportunismo! - disse in modo
arrogante. Mi sentii oltraggiata e aggiunsi:
- Dai suoi discorsi si potrebbe credere che, essendo Tito croato, ha
un occhio di riguardo per la Croazia, per cui cerca di mettere ordine
nella vita croata! Non può pensarlo seriamente. La storia personale di
Tito non consente una tale considerazione! Il processo di
riorganizzazione dei poteri conservatori, che si ostinano a mantenere la
gestione centralizzata per continuare ad approfittare delle acquisite
posizioni di potere, sembra che le dia fastidio! -
Ecco, l’avevo detto! Ma perché? Perché avevo parlato in
quella maniera? Era ovvio. Perché credevo nelle idee di Tito.
Cominciavo sempre di più a pensare che quelli che le
dovevano tradurre in realtà, non lo facessero affatto. Ero
convinta che un movimento nazionalista-sciovinista, inteso
come una volontà nostalgica d’indipendenza totale della
Croazia dalla Federazione, non fosse nelle idee dei dirigenti
croati, tanto meno in quelle degli amici della Matica
Hrvatska. Immaginarla avversa alla Lega Comunista era
assurdo, come era impensabile ritenere controrivoluzionario
e antisocialista Nicola e molti altri. Da giovanissimi avevano
partecipato alla guerra di liberazione. I loro libri, le azioni, gli
impegni sociali confermavano la totale dedizione alla propria
Patria. Che senso aveva quella domanda di Bata? Cosa ne
sapeva delle mie frequentazioni? Perché aveva accennato al
Comitato dei cinquanta con aria quasi minacciosa? Il suo
comportamento esprimeva forse dei sospetti su di me,
pregiudizi che avevano a che fare con l’idea che si era fatto
del gruppo di intellettuali che si incontravano al Gradec?
Bata sicuramente sapeva molto. Non per niente era una
specie di poliziotto, mastino della polizia segreta tipo
NKVD sovietica, cioè UDBA jugoslava, quella dei serbi
dislocati in giro per il Paese? Perché mi ero andata a
immischiare in un ambiente che non conoscevo?! Sull’Isola,
nella Casa in pietra grigia, le condizioni di vita, la politica
corrente rimanevano fuori dalle mura. Maestro non era mai
stato interessato a nulla al di fuori della sua musica. Certe
ingiustizie, come le chiamava zia Marica, venivano accettate in
quanto nuove leggi nell’uguaglianza sociale e non si
discutevano. Ero cresciuta nella convinzione che certi
avvenimenti facciano ineluttabilmente il proprio corso, e a
noi non restava che usare l’intelligenza per accoglierne i lati
positivi ed evitare quelli negativi. Dopo la collaborazione di
Maestro con i partigiani durante l’occupazione, causa del
nostro esilio, e dopo tutto quanto era seguito al rientro in
Patria, la delusione per la poca considerazione con la quale
Maestro era stato trattato dalle autorità, i furti, la privazione
dei propri beni e della mancata sicurezza, Maestro aveva
assunto un comportamento totalmente defilato nei confronti
di tutti e di tutto. Più tardi l’Unione Giovanile sull’Isola ci
aveva riunito per le feste governative obbligatorie, per le gite,
il rimboschimento, fuochi festosi, canti, allegria e tutto finiva
lì. Gli isolani sembravano tutti indiscussi paladini del
crescente comunismo. Poi, la rottura con quello stesso
comunismo staliniano nel ‘48 ci scivolò addosso. Ci fu
presentato e raccontato in maniera tale da sembrare un
naturale sviluppo della necessità d’indipendenza nazionale e
una scelta ovvia di non appartenenza ad alcun blocco
politico-militare, né URSS né USA, cioè al nonallineamento.
Sull’Isola non ci fu alcuna risonanza della drammaticità
dell’Informbüro che spiazzò molti personaggi importanti che
avevano fatto la guerra di liberazione e la rivoluzione sociale
successiva. Non ci arrivò affatto notizia delle disillusioni,
delle sconfitte e delle molte improvvise sparizioni. Oppure
ero io che non avevo l’età per recepirle. All’Accademia
Magistrale ero rimasta lontana da qualsiasi attività e
influenza, presa com’ero dai problemi quotidiani: studio,
malattia, incertezze del futuro che non davano tregua. I
primi dubbi su certe contraddizioni tra la realtà e la teoria li
avevo avuti a causa dei discorsi degli intellettuali al sanatorio,
ma con il rientro agli impegni scolastici scordai le loro
osservazioni. Poi il lavoro al Centro Universitario, i contatti
con Bata Popalić, la compagnia del localino Gradec, tutto
sembrava confuso, complicato. Bata aveva parlato di un mio
presunto opportunismo. Può darsi che avesse ragione.
Probabilmente era il caso di approfondire il mio pensiero su
tali questioni!
Gli esami si avvicinavano e il mio tempo diventava
prezioso.
Decisi di mettere da parte tutto. Da studentessa per lo più
incostante, per niente sistematica, ero costretta a studiare
spasmodicamente, come al solito, in un tempo limitato, per
poi di nuovo darmi a tante attività diverse fino alla fatica
successiva. A metà giugno avevo risolto il problema dei due
esami più pesanti, la prima parte del corso di lingua serbocroata e il vetero-slavo, indispensabili per l’iscrizione al
successivo anno accademico. Dopo pochi giorni avrei dato
l’esame di Istruzione Premilitare, non preoccupante perché
trattava della recente storia jugoslava già studiata
all’Accademia. Per l’autunno mi rimaneva il famigerato
esame di Poesia Epica Popolare. Ancora non sapevo come
esattamente avrei attuato la raccolta e la registrazione del
materiale promesso al professore in quell’attimo di pura
incontrollata follia. Dovevo recarmi in Bosna in agosto.
Contavo sull’aiuto del vignettista Rade e di Safeta. A
disposizione c’era un mese e mezzo prima della partenza
agostana.
Al Centro Universitario per gli ultimi quindici giorni di
giugno avevamo affidato il nostro impegno delle pulizie ai
due ragazzi che ci aiutavano nei lavori più pesanti. Gli esami
richiedevano questa pausa lavorativa. Un giorno mi trovai
improvvisamente davanti il manifesto dei Mercoledì Letterari al
Centro. La famosa e molto seguita Emissione 5 minuti dopo h20
annunciava:
- Le vie della Democrazia nella Società Socialista - Relatore
Zoran Babić, segretario della Presidenza della Repubblica
Croata, autore dei nuovi emendamenti della Costituzione
Federale Jugoslava. Ecco chi era Zoran Babić. Lo avevo completamente
dimenticato dopo i tanti avvenimenti susseguitisi dall’estate
precedente all’albergo-chalet Mir. Ero curiosa. La Emissione 5
minuti dopo h20 era condotta da Maja Hrubar, un’intellettuale
intelligente e preparata che aveva ormai fatto storia. I suoi
programmi non erano solo un fatto letterario. Maja invitava
personaggi della vita sociale, politica, culturale,
intervistandoli con un’impronta informativa, senza mai
calcare sulla componente politica. Con ciò non è che non
fosse politicizzata, sarebbe stato assurdo pensarlo, ma non
poneva l’accento su quell’aspetto: né sulla Lega Comunista,
né sul potere federale, né sulle aspirazioni croate. Si
districava bene in un labirinto vischioso nel quale era facile
scivolare. Con Bata Popalić aveva un rapporto di reciproca
sopportazione. Da quanto avevo capito dai loro discorsi e
dalle loro battute, Bata avrebbe volentieri fatto a meno di lei.
Ma non c’era niente da fare, Maja aveva una lunga amicizia
con il grande Miroslav Krleža, e suo padre aveva combattuto
al fianco di Tito. Vantava rapporti personali con importanti
personaggi e, come sarei venuta a sapere più tardi, addirittura
con il presidente della Repubblica Croata Vladimir Bakarić e
con Zoran Babić. L’argomento annunciato per il dibattito di
quel mercoledì di giugno era all’ordine del giorno sui
quotidiani, trattato come può essere trattato un argomento
non proprio simpatico al potere, spesso apertamente
denigrato. Solo il quotidiano zagabrese Vjesnik si esprimeva
contro il conformismo federale. Dietro la faccenda
dell’autogestione c’era Tito e, nonostante le critiche che
stava subendo, non esisteva possibilità che accantonasse
l’idea. Infatti, solo Tito aveva recepito in pieno il pericolo del
frazionamento della Federazione nella situazione creatisi in
quel periodo.
Il giorno del dibattito la sala per le conferenze si riempì
velocemente. Quando arrivai, tutti i posti a sedere, all’incirca
duecento, erano occupati. Dopo poco tempo i passaggi
laterali e la parte posteriore della sala erano pieni di studenti,
ma anche di cittadini, rimasti in piedi. L’argomento
evidentemente era molto sentito. All’Emissione 5 minuti dopo
h20 entrarono Maja Hrubar e il suo assistente, Zoran Babić e
Bata Popalić. Sul palchetto appena un po’ sollevato rispetto
al piano delle sedie, si sistemarono Zoran Babić e Maja. Maja
introdusse con poche parole Zoran Babić, che senza
preamboli né introduzioni iniziò la sua esposizione, secco e
semplice, con la domanda:
- Qual’è il motivo di questa conferenza-dibattito sulla democrazia
dell’autogoverno? - e proseguì più o meno con le seguenti
affermazioni:
- Ci sono alcune ragioni. Negli ultimi anni si sono avuti nel nostro
Paese cambiamenti molto importanti, nel sistema socio-economicoproduttivo così come nell’ambito della Federazione, cioè nei rapporti tra
le Repubbliche e negli emendamenti alla Costituzione. Questi ultimi
oggi sono in fase di preparazione per problemi che non potevano essere
posti all’ordine del giorno prima che la nostra società ottenesse la sua
forma di collegamenti interni socio-economici tali da poter funzionare
senza l’egida dell’apparato statale. È opportuno ricordare che l’intreccio
di guerra patriottica e civile nel nostro Paese ha consentito al movimento
di liberazione di farsi rivoluzione sociale per la realizzazione del
fondamentale indirizzo socialista; la costruzione di uno stato
profondamente nuovo, come primo passo. L’idea di una nuova
fratellanza fra popoli uguali, senza egemonie, è stato il principale
motivo del successo della resistenza. Il secondo passo riguardava
l’unione paritaria fra popoli diversi. La via jugoslava al socialismo,
un’autentica idea-forza nella rivoluzione socialista in Europa, rese
drammatica la rottura del ‘48 fra la Jugoslavija e il resto del
Movimento Comunista L’isolamento in cui il nostro Paese si trovò fu
gravemente pesante. Solo l’indubbia statura politica di Tito fece
superare quel momento difficilissimo. Dopo di ciò, la politica jugoslava
si catalizzò su due capisaldi: l’autogestione, come indirizzo principale
dello sviluppo socialista del Paese e il nonallineamento, rifiuto di
partecipare a blocchi politico-militari pur operando attivamente, nella
politica internazionale, per la pace.
Perché la necessità dell’autogestione nel nostro Paese? La prima
ragione risiede nell’estrema complessità del mosaico nazionale, nelle
diverse vicende che i suoi popoli hanno attraversato nella loro storia e
quindi nei loro eterogenei patrimoni culturali e nei forti dislivelli
economici. Durante la guerra di liberazione e quando lo scatenamento
delle passioni scioviniste si era affacciato sulla scena jugoslava, i popoli
jugoslavi hanno saputo trovare forti spinte unitarie in una prova
decisiva di fermezza e generosità. Questo dimostra che i contrasti
nazionali non sono affatto qualcosa di fatale.
Qual’è, invece, la natura dei dissensi? Sono i piani elaborati
teoricamente e la loro scarsa incidenza nella pratica. La pianificazione
centralizzata ha permesso uno sviluppo disordinato, aumentando
sproporzioni, situazioni abnormi e abusi. Le negative conseguenze sono
una crescente differenziazione sociale con fenomeni di arricchimento.
Questi sono i motivi di squilibrio e instabilità che hanno rallentato lo
sviluppo. Perciò va preso un nuovo impegno. Negli accenni critici
durante l’ultimo Congresso dei Comunisti Jugoslavi, Tito ha affermato
che lo sviluppo dell’autogestione avrebbe attenuato la presenza del
Partito Comunista in diversi aspetti della vita sociale. L’autogestione
significa democratizzazione dei rapporti sociali, sviluppo dei successi
conseguiti nel campo scientifico, nella cultura, nell’arte e negli altri
campi della vita sociale. La forza maggiore dell’autogestione risiede
nella liberazione dell’iniziativa creatrice dell’uomo. I principali pericoli
sono lo statalismo e il burocratismo. L’autogestione non ha ancora
raggiunto la propria affermazione perché gruppi di burocrati e tecnocrati
senza controllo finiscono col fare da freno allo sviluppo della
democrazia. Il centralismo burocratico, il tecnocraticismo, la libertà del
Partito, il settarismo, l’opportunismo, l’eccessiva fiducia negli strumenti
amministrativi, le ambizioni individuali e altre tendenze di questo tipo
sono ancora molto presenti.
Quali sono le libertà e i diritti nella Società Socialista Autogestita?
L’autogestione non è una forma di neoliberalismo economico, né
anarchica concorrenza di molti parziali interessi. L’autogestione è un
sistema economico democratico che permette ai lavoratori di manifestare
liberamente le proprie necessità. Essa si organizza nell’alveo degli
interessi dei lavoratori. Sottolineo che con il termine “lavoratore” mi
riferisco ad ogni persona impegnata in un lavoro fisico o intellettuale,
nella produzione di materiale o in altre attività sociali. L’autogestione
socialista deve dare più ampie prospettive dell’individuo di gestire la
propria esistenza. L’uomo diventa così soggetto di tutti i rapporti
sociali. Il diritto all’autogestione è una grande responsabilità che ogni
uomo deve assumersi in pieno mantenendosi fedele alla reciproca
solidarietà, e rispetto della libertà degli altri. I lavoratori devono gestire
il lavoro e i mezzi di riproduzione, regolare i rapporti reciproci, decidere
le forme d’associazione e ripartire il reddito e i consumi individuali in
armonia con i criteri e le misure valutati a partire dai contributi dati
alla realizzazione del reddito. La rivoluzione scientifico-culturale ha
portato a mutamenti strutturali che richiedono sempre maggiore
impegno delle forze intellettuali. Il numero degli studenti diplomati e
laureati rappresenta la grande forza creativa. L’acquisizione di una
sempre maggiore specializzazione significa un’autogestione più
sviluppata che non separi gli intellettuali dagli altri lavoratori.
L’autogestione offre agli intellettuali le condizioni migliori per svolgere
un’attività creativa, un pieno incentivo e larga affermazione sociale. In
questo senso è importante la riforma dell’Università. Si deve assicurare
un insegnamento moderno con una vasta offerta culturale nella
formazione di specialisti, ricercatori e innovatori. Ai giovani dotati,
provenienti da famiglie operaie e contadine o più in generale di reddito
basso, deve essere data maggiore possibilità di sviluppare le loro
capacità. Si deve attuare una nuova politica di assegnazione delle borse
di studio e degli aiuti, e l’obbligo della comunità ad essere più presente.
Inoltre, per quanto riguarda il Movimento Monetario, si devono
adottare nuovi meccanismi che eliminino la proprietà statale, che ha
provocato conseguenze di mercato incontrollabili. Devono essere
garantiti il controllo e la concentrazione delle risorse finanziare prodotte
nelle organizzazioni. Ciò sarà possibile appena verranno adottati gli
emendamenti che sanzioneranno le forme che assicurano a tutti i
lavoratori un ruolo determinante nei processi di produzione. Non si
tratta affatto di rivedere e completare l’attuale Costituzione, ma di un
suo cambiamento rivoluzionario che sarà la base del nostro nuovo
sistema socio-politico. Zoran Babić aveva esposto delle linee generali, senza
enfasi. Lavorando sugli emendamenti della nuova
Costituzione, era stato esplicito su quello che era stato
travisato, considerato sbagliato o incoerente. Nelle
conferenze che sarebbero seguite, non attaccò mai le
condizioni per le pianificazioni centralizzate, né sottolineò i
crescenti poteri della Lega Comunista, ma la sua presa di
posizione era chiara. Come quella prima volta, parlò sempre
e solo di ciò che è necessario fare per raggiungere una
migliore democraticità nell’intero Paese, come era l’indirizzo
della Presidenza della Repubblica Croata. Ne parlava in
qualità di responsabile della stesura degli emendamenti della
nuova Costituzione, che stava elaborando come primo
collaboratore di Edvard Kardelj, teorico dell’Autogestione
Socialista. La necessità di cambiare i poteri statali limitando
la dilagante corruzione e gli sproporzionati arricchimenti,
condizione inadeguata di una, seppur, piccola parte dei
comunisti, era diventata un’evidente preoccupazione del
Maresciallo Tito. Babić condusse i successivi interventi in
forma di dibattito, rispondendo alle domande degli studenti
e dando un chiaro responso sugli intenti del Governo
Croato. Alle conferenze di Babić venne attirato, oltre agli
studenti, un consistente numero di cittadini, intellettuali
croati. Una situazione non molto gradita a Bata Popalić.
L’autogestione come garanzia di una maggiore democraticità
nella vita sociale del Paese non era ancora, a quel tempo,
apertamente ostacolata, ma nemmeno agevolata. I risvolti
negativi purtroppo si sarebbero avuti nella metà degli anni
‘60 e ancora di più in seguito.
Alla fine di quella prima conferenza sull’argomento
all’ordine del giorno, la stampa ne dette un’immagine diversa
a seconda dell’origine dell’informazione. A fine dibattito
molti studenti attorniarono il relatore cercando di porre
domande, per cui Babić si fermò in mezzo alla sala. In quel
momento ne fui certa, mi aveva riconosciuta. All’uscita mi
raggiunse una persona invitandomi nella sala riunione della
direzione del Centro Universitario. Babić, un po’ appartato
dagli altri, era seduto con Maja Hrubar. Maja si allontanò e
Babić si alzò per accogliermi e, come se ci vedessimo tutti i
giorni, mi comunicò che desiderava scambiare delle opinioni.
Disse esattamente scambiare delle opinioni, avevo sentito bene.
Cosa poteva significare un così improvviso invito?
Mi suggerì di raggiungere la macchina con il suo autista.
Durante il percorso verso casa avremmo potuto parlare. In
breve si accomiatò dai dirigenti del Centro Universitario.
Ci avviammo lungo le strade bagnate dopo il solito
lavaggio notturno. Tutti i lampioni erano riflessi sulla lucida
carreggiata. Lo scivolare silenzioso della macchina dava
l’impressione dei fuochi d’artificio, a brevi lampi. La tarda
serata dell’estate esplosa respirava carica dell’odore dei tigli
in fiore. Odore di miele, di mandorle amare, di pesche
mature. Più che odore, era uno stato d’animo. Più volte nella
vita ho associato certi avvenimenti agli odori. Gli odori
evocano ricordi. Così anche quel prolungato silenzio,
percepito come infinito, era tutto nelle sensazioni
provenienti dall’estate lungo le strade umide e nella notte
piena di odori. Dovevo aver trasmesso, con visibile disagio,
tutti i miei confusi pensieri e il senso di insicurezza che
proveniva dalla mia incapacità di rifiutare un invito che mi
creava imbarazzo poiché mi sembrava non avesse senso.
Babić, senza preamboli, disse con estrema semplicità: - Ci
fermiamo a cenare!
Non era una domanda, ma l’affermazione di una
decisione già presa. Risposi che non avevo programmato una
cena. Un po’ stupito e un po’ divertito, ma molto sicuro di
sé, proseguì: - Vorresti cenare all’Esplanade? Il primo pensiero che mi assalì fu: - Mi sta prendendo in giro,
scherza! Sapevo benissimo dove era il mio posto. Da studentessa
costretta a fare le pulizie per poter frequentare gli studi,
vestita con modestia, inadatta a girare di notte in macchina
con un funzionario del Governo con quasi il doppio dei miei
anni e probabilmente anche sposato, mi sentii umiliata
dall’insensibilità della persona convinta di potersi permettere
ogni cosa le venisse in mente. Decisi di tirare fuori tutto il
mio coraggio e quel po’ di dignità.
La macchina si fermò. Accennai a scendere rivolgendomi
a Babić: - Io non ho chiesto nulla! Non può accusarmi di alcuna
pretesa. Credo lei sappia che tra i zagabresi c’è l’abitudine ironica di
dire, per qualcuno che è particolarmente esigente, “vuoi per caso cenare
all’Esplanade?” Io non posso far finta di condividere il suo modo di
vivere! Stupito mi guardò dicendo:
- E perché no? Perché tu sei giovane e io no? Nella mia lunga
carriera di dirigente dei giovani prima e pubblico funzionario poi, sono
sempre stato abituato a trattare con i giovani, incontrarli, parlare con
loro, andare nelle scuole, nelle fabbriche, in gite organizzate, invitarli a
cena. Cerco di capirli, incoraggiarli. Non conosci ancora il motivo del
mio invito. Qual’è il problema?
E dopo una breve pausa aggiunse:
- Vuoi ancora andare direttamente a casa? Credi che io potrei
metterti a disagio?
- L’ha già fatto! - ribattei con meno impeto.
- No, io non ho fatto nulla. Sono i tuoi pregiudizi che ti fanno
sentire poco serena. Pensai che fosse inutile continuare a discutere. Mi lasciai
condurre. Salimmo alla terrazza del Club degli scrittori.
Attraversammo quell’ambiente di interni raffinati e silenziosi.
Decisi di non dimostrare interesse, né stupore. Feci un
respiro profondo pensando per un attimo agli insegnamenti
di zia Marica: - Non dimenticare mai, quando arrivi in un posto
nuovo, non guardarti intorno, non dimostrare interesse né stupore.
L’indifferenza dimostra la tua abitudine a qualsiasi imprevisto!
E così sia! Mi comportai come se fossi abituata agli
ambienti sofisticati.
Al Club la terrazza era quasi deserta. La gente che la
frequentava era già in vacanza al mare o in montagna. Le luci
erano soffuse, i tavolini collocati in mezzo a cespugli di
ortensie rosa e blu sotto le grandi fronde allargate dei platani.
Ci sedemmo a un tavolo nell’angolo. Di nuovo pensai a zia
Marica. Aveva sempre tanto insistito sul mio corretto
comportamento a tavola, sull’uso delle posate giuste, sulla
presa dei bicchieri, sui gomiti giù dal tavolo, sul discreto uso
del tovagliolo. La cena iniziò con semplicità. La questione
del menu fu risolta da Babić senza alcun mio impegno. A
modo suo, disse:
- La cucina è gradevole. Ti fidi delle mie scelte?
Amen! Un’altra volta sicurezza e imposizione. Iniziammo
a parlare, o meglio, era Babić a parlare. Disse che seguiva
regolarmente il giornale studentesco al quale collaboravo e
aveva letto tutte, e sottolineo tutte, le mie recensioni e analisi.
Si era interessato particolarmente al mio scritto Stile e
sensibilità poetica di Danilo Kiš. Si chiedeva come mai avessi
scelto proprio Danilo Kiš, scrittore moderno tanto preso di
mira dalla stampa contemporanea. Spiegai che ritenevo
provinciale l’inclinazione dei critici a generalizzare
attribuendo a Danilo Kiš dei plagi. James Joice, Jorghe Luis
Borges, Aleksandr Solženicyn, le cui influenze gli sono state
attribuite, sono stati letti da molti, ma il Giardino, cenere lo
aveva scritto Kiš e nessun altro. Perché si è andati all’assalto
di Kiš sul piano letterario? Per quale motivo in un Paese
come il nostro, che accoglie tante nazionalità con relativi
credo religiosi e differenze etniche, si sta mistificando un
presunto coinvolgimento ideologico di Kiš anche se i suoi
scritti non hanno nulla a che vedere con la Jugoslavija e le
varie situazioni attuali? Nessuno dei suoi personaggi è
jugoslavo. Sono polacchi, russi, romeni, irlandesi, ungheresi,
in realtà in maggioranza d’origine ebrea, ma lo spazio
rievocato è Mitteleuropeo. Come per qualsiasi scrittore, la
storia fornisce a Kiš il contenuto, il cast dei personaggi e
anche il contesto in cui si muovono, ma la narrazione riduce
la Storia a semplice racconto. Per questo non mi ero
interessata a qualsiasi possibile implicazione ideologica.
Quello che mi aveva affascinato nella scrittura di Danilo Kiš
era l’uso della struttura narrativa, del lessico, della
costruzione grammaticale, che dipendono dallo sviluppo
della storia letteraria e non dalle influenze. La particolarità
del suo stile, inoltre, appartiene al modo in cui Kiš fonde i
suoi princìpi poetici in una tessitura narrativa. Nella sua
scrittura ho trovato inoltre una rara sensibilità poetica e una
grande enfasi nelle frasi. Siccome per un poeta la trama è
sempre secondaria, Kiš affida la narrazione alla biografia dei
suoi personaggi. Biografia come ultimo baluardo del
realismo. Infatti, ci troviamo dinanzi a una serie di elegie
perché la biografia rientra nel genere elegiaco. Ciò dimostra
ulteriormente la sua sensibilità poetica. Molti suoi capitoli
possono essere letti e apprezzati singolarmente, come brevi
componimenti. La tecnica della scrittura di Kiš è un
miscuglio di nostalgia e fatalità. E poi è estremamente
simbolica. Enfatizzando immagini e dettagli, in apparenza
combinati con distacco, Kiš indirizza la propria narrazione
alla valutazione etica degli eventi, al di fuori dei sentimenti. Il
sentimento diventa pensiero e non viceversa. E poi,
l’attenzione che Kiš dedica ai suoi personaggi rivela un forte
investimento psicologico. Probabilmente la sua capacità di
spingere il lettore all’immedesimazione è stata il motivo per
cui si è alzata tanta polvere intorno alla sua letteratura. Ciò
non ha nulla a che vedere con il plagio che si è cercato di
attribuirgli. Ed è quello di cui avevo scritto nel mio articolo.
Per caso non era chiaro?
- Io l’ho inteso - disse Babić - come puro trattato sullo stile. Sul
piano del ragionamento formale è esatto. Purtroppo qualcuno l’ha
inteso come voce del “bastian contrario”. Perché devi scrivere di scrittori
controversi? Non sei troppo giovane per voler bruciare le tappe
esponendoti in situazioni non facili?
- Ora mi dica, compagno segretario, lei ritiene che io debba
ridimensionare il mio modo di pensare? - chiesi un po’ irritata.
- Cerco semplicemente di suggerirti un po’ di diplomazia. E ci
tenevo a dirtelo! - rispose Babić.
La cena finì quasi a mezzanotte. Durante il tragitto verso
casa mi disse che, se avessi accettato, mi avrebbe fornito
l’elenco di un programma attuale e interessante sul quale
avrei potuto scrivere senza urtare la suscettibilità di coloro
per i quali era mestiere quello che per me era un hobby. Mi
invitò nel suo ufficio a Dvori, nella Città Alta. Arrivai a casa
alquanto irritata. Non riuscivo ad addormentarmi. Stavo
pensando che non ero più libera di far nulla. Bata Popalić
con le sue idee del Partito Comunista, Mila con le sue smanie
di grandezza serba, Zoran Babić con la pretesa di influenzare
le mie scelte, la mia profonda necessità di un’assoluta
autonomia nelle decisioni e l’intima sensibilità verso quello
che volevo diventasse il mio mestiere. Perché tutte le
persone avevano bisogno di influenzare la mia vita?! Decisi
che ne avrei parlato con Nicola.
Qualche giorno più tardi lo rintracciai nel suo ufficio al
Seminario di Romanistica. Gli dissi che avevo bisogno di
parlargli di un problema personale. Si alzò da dietro la
scrivania e si avviò all’uscita. Durante tutto il percorso lungo
il corridoio e le scale dell’Ateneo si tenne a una distanza che
non permetteva alcun discorso, se non di circostanza. Giunti
al grande slargo del Teatro dell’Opera, scelse una panchina
libera all’ombra della posteriore monumentale facciata. Un
po’ mi stupì questa scelta. Di solito, alla fine delle lezioni, ci
trattenevamo al Caffè del Teatro. Mi spiegò che di cose
private non si poteva parlare né all’università, né al Caffè e
neppure al Gradec, e poi mi chiese quale fosse il problema.
Gli raccontai del colloquio con Zoran Babić e della sua
intenzione di guidare le mie esposizioni pubbliche sugli
articoli dello Studenski list.
Non rispose subito, poi esordì dicendo:
- Il segretario è una persona per bene. È stato più volte eletto
presidente dell’Unione Giovanile Comunista Jugoslava, la SKOJ.
Ama molto la compagnia dei giovani. Non che li porti al circolo, ma
offrire cene a operai e studenti è nelle sue abitudini. Se ti ha detto
qualcosa in merito alle scelte degli autori sui quali scrivere, avrà avuto
le sue ragioni. Ho letto il tuo articolo su Danilo Kiš. Mi è piaciuto. È
pulito, appassionato, puramente letterario. Ma io non sono un politico
per giudicarlo dal lato ideologico. Zoran lo ha fatto. Non ti deve
stupire. Lui ci tiene ai giovani e se ha creduto che qualcosa ti potesse
nuocere, te lo ha fatto notare. Credo che dovresti apprezzarlo e usare un
comportamento più defilato. Stiamo vivendo momenti strani, dagli
sviluppi non chiari. Tu credo conosca l’accusa fatta ai componenti del
cosiddetto Comitato Rivoluzionario dei Cinquanta appartenenti alla
Matica Hrvatska, nel quale mi hanno incluso con altri amici,
ritenendoci degli attivisti anticomunisti, antisocialisti, nazionalistasciovinisti. Lo stato dei rapporti attuali tra la Repubblica Croata e il
Governo Federale si fa sempre più complessa nel corso dello sviluppo
dell’autogestione. Gli intellettuali croati credono che l’autogestione offra
le condizioni migliori per l’attività creativa, pieno incentivo e larga
affermazione sociale. Certo, siamo preoccupati per le forze conservatricistataliste che si stanno ostinatamente adoperando per il prosieguo della
gestione amministrativa centralizzata, approfittando delle posizioni
tecnocratiche acquisite. Il rinnovato centralismo di Belgrado, il
predominio dell’elemento serbo in Croazia e il potere comunista stanno
creando un clima di disagio tra gli intellettuali croati che rivendicano la
libertà dal dogma ideologico, tracciando una netta linea di separazione
fra prassi politica e attività speculative. Non si può negare che si stia
verificando una frattura tra società ufficiale e società civile e non solo in
Croazia. Perché ti ho detto che di questioni private non si parla in
posti pubblici? Perché ormai siamo sicuri che la polizia segreta di
Ranković sia attiva dappertutto. Ci osserva, ci segue, ci spia. Non
siamo noi intellettuali a porre la questione dei rapporti della Croazia
nella struttura federale, pretendendo per la nostra Repubblica maggiore
possibilità di disporre dei frutti del proprio lavoro e della valuta
occidentale che negli ultimi anni si guadagna con il boom turistico in
Dalmazia e Istria, per finire nelle casse belgradesi, ma il gruppo dei
giovani politici croati al potere: Mika Tripalo, Pero Pirker, Savka
Dapčević90 - Kučar91, Vlado Hamm, sono a porre il problema del
rinnovamento economico e di ristrutturazione politico-istituzionale.
Belgrado e la Lega Comunista Jugoslava avvertono le critiche rivolte
alla Federazione come attacco alle loro posizioni privilegiate. La
tensione sta aumentando anche per l’appoggio che Tito ha concesso ai
croati, convinto di dover neutralizzare la leadership serba, riducendo a
funzioni rappresentative il suo ruolo al vertice dello Stato.
Probabilmente tutto si sarebbe risolto dietro le quinte, come già
precedentemente in crisi simili, se nella nuova atmosfera non si fosse
voluta inserire, come portavoce, la Matica Hrvatska, ritenuta
addirittura dai tempi dell’Illirismo, una vena irrazionale che secondo il
Potere Federale vuole una totale autonomia della Croazia. Niente di
più assurdo. Nella posizione degli intellettuali di oggi c’è la piena
coscienza che nessuna repubblica da sola potrebbe assumere una
posizione valida internazionalmente. Noi abbiamo parlato
dell’autonomia della letteratura e della lingua indipendenti e sulla falsa
riga di una tradizione, ma mai dell’indipendenza totale. Sulla vita
culturale sta calando una cappa plumbea di ortodossia e di sciovinismo,
e il Governo Centrale sembra non rendersi conto di essere sull’orlo del
baratro. Sta cercando politicamente di decapitare gli intellettuali croati.
Fra poco cominceranno i licenziamenti, le carcerazioni, le epurazioni
per cercare di rafforzare le posizioni della Lega Comunista e dei serbi
nei posti chiave del potere. Si dimentica che ormai la Croazia non è più
rassegnata al silenzio e non lascia parlare in sua rappresentanza i
mediocri, gli arrivisti, i dogmatici. Non si potrà a lungo rimanere da
parte. Chi meglio di Zoran Babić conosce la condizione della quale ora
ti ho parlato da croato e non da antisocialista o antijugoslavo.
Naturalmente io non mi posso tirare indietro. Sono un personaggio
pubblico dal quale ci si aspetta una presa di posizione. Ma tu, perché
non puoi attendere i tuoi tempi? Devi ancora conquistare una
collocazione sociale. Sei sulla buona strada. Ha ragione Zoran, tieniti
da parte. Non ti far coinvolgere. Ora cerca di dedicarti allo studio e al
lavoro. Evita dibattiti che non hanno possibilità di cambiare alcunché.
-
Di tutto quello che mi disse Nicola intuii solo una parte
molto superficiale, come di un iceberg improvvisamente
sorto dinanzi a me. La mia mente mulinava in maniera
vertiginosa: avvenimenti vecchi, meno vecchi, noti e poco
noti. Crollava tutto un piccolo mondo di semplici certezze.
A poco più di vent’anni urtavo contro lo zoccolo duro della
realtà, quella presente, palpabile. Ebbi solo la forza di
chiedere a Nicola cosa lui avesse fatto quando aveva la mia
età. Rispose:
- Lasciai il seminario e andai in montagna con i partigiani! Ma
tutto era diverso. Si sapeva di dover difendere la propria terra dai
nemici. L’interesse di raggiungere la libertà era uguale per tutti. Oggi
che gli interessi sono diversi, dobbiamo appropriarci delle libertà per le
quali ci siamo battuti. Non tramite rivoluzioni, ma con l’evoluzione
delle condizioni sociali. Chi ha accumulato poteri maggiori non vuole
intendere che questa è l’unica strada per una tranquilla convivenza.
Noi cercheremo di comportarci con saggezza. Perciò i giovani devono
seguire linee pacifiche per raggiunger l’autogoverno! Dissi a Nicola che dopo una settimana sarei partita con la
mia compagna Lila in Slavonija. Avevo deciso insieme a lei
di continuare la promozione di vendita porta a porta
dell’Enciclopedia Pratico-domestica affidataci dalla casa editrice
Nolit. Attività che Lila proponeva già da un paio d’anni
durante il mese di luglio guadagnando bene, divertendosi e
visitando ogni volta un’altra parte della ricca e grande
Pianura Pannonica, con la sua progredita popolazione
contadina e con crescenti necessità culturali.
D’altronde il mio lavoro al Centro Universitario finiva
con la chiusura delle sale per lo studio a fine giugno.
Rimaneva il disagio dell’esame di Poesia Epica Popolare e
l’obbligo di recarmi in agosto in Bosna per la famigerata
raccolta dei canti epici. Speravo molto nell’aiuto di Safeta
che con diligenza, tutto l’anno, aveva approntato un fitto,
dettagliato riassunto delle lezioni. Confidavo, infatti, nel
materiale che avrei raccolto e che mi sarebbe servito durante
l’esame.
Avevo necessità di rimanere da sola e di decidere il
comportamento da adottare nell’immediato futuro. Dal
punto di vista pratico, avrei dovuto seguire i consigli di
Babić. Non conoscendomi affatto, pensai che si era
abbastanza esposto. Dovevo delle spiegazioni.
Due giorni più tardi decisi di usare il suo numero
telefonico aggiunto a mano sul biglietto da visita. Mi rispose
una voce d’uomo informandosi su chi fossi. Dopo breve
tempo riconobbi il particolare accento di Babić. Mi disse che
sarebbe stato libero il giorno successivo verso le tredici e
trenta e che a quell’ora, alla portineria di via Matoševa, mi
avrebbe atteso il suo autista.
Recarmi al palazzo della Presidenza della Repubblica
Croata non era proprio come fare una passeggiata. Come per
la maggior parte delle persone, credo, il contatto diretto con
le massime istituzioni mi intimoriva. Dover recarsi alla
polizia, oppure agli uffici giudiziari, da sempre mi ha fatto
una sgradevole impressione, come se avessi qualcosa da
nascondere. Ora sentivo lo stesso disagio con il palazzo del
massimo potere della Repubblica nella città nella quale
vivevo. Il palazzo della Presidenza della Repubblica Croata,
dagli zagabresi chiamato semplicemente Dvori, cioè reggia,
era uno squadrato fabbricato barocco settecentesco sulla
piazza della Chiesa di San Marco, formato da due
costruzioni, una esterna ad un piano simile a una
fortificazione, con le finestre rivolte sull’ampio cortile
interno, e in mezzo quella interna, protetta. Dvori aveva due
ingressi, quello principale dalla Piazza di San Marco, con le
guardie in alta uniforme che rappresentava il passaggio
ufficiale dei governanti, per le visite dei membri dei governi
stranieri e per i ricevimenti di alto livello, e il secondo per gli
addetti ai lavori e il pubblico, in verità molto ridotto e
altrettanto controllato da moltissime guardie in uniforme e
vestiti civili, tutte sistemate nella costruzione esterna. Il
palazzo interno aveva una hall immensa con doppia scala
curva e balaustre in marmo bianco. Al piano c’erano gli uffici
del Presidente della Repubblica Croata e quelli del Segretario
della Presidenza e dei loro stretti collaboratori. Varcai
l’ingresso intimidita. Alla portineria mi attendeva l’autista di
Babić. Aveva già il pass per il mio ingresso e mi pregò di
portarlo in modo visibile. Salimmo al piano con un
ascensore vetrato. Silenzio, spessi tappeti lungo i corridoi,
splendidi quadri alle pareti: Bukovac92, Račić93, Hegedušić94,
arazzi, tende con sopratende sulle spaziose finestre. L’autista,
che poi capirò fosse tuttofare di fiducia e guardia del corpo,
mi fece entrare in un salotto per nulla simile ad un ufficio;
uno spazio organizzato in modo moderno, con poltrone e
divani comodi, pieno di libri, riviste, giornali, luci soffuse,
fiori, e di nuovo quadri di pittura contemporanea, tappeti,
una grande radio e un modernissimo giradischi con molti
dischi riposti in un apposito mobile. Tutto in perfetto
ordine, come se nessuno ci soggiornasse. Presi un giornale
per darmi un contegno e fingere sicurezza, cercando di
riordinare le idee. Il tempo sembrava essersi fermato. Non è
possibile a quell’età non essere intimoriti da un ambiente di
potenti. Non ebbi molto tempo per ambientarmi. Dopo
poco, dalla porta laterale entrò Babić. Mi trovò a leggere. In
verità ero stravolta per qualcosa che non sapevo cosa fosse
Il Segretario, come decisi di chiamarlo, senza l’usuale compagno,
fu immediatamente cordiale ed espansivo, capace di mettere
chiunque a proprio agio, ma non me. Si presentò con un
grande sorriso aperto, che non conoscevo avendolo
incontrato solo in pubblico. Quasi con sollievo sprofondò
nella poltrona poco distante dalla mia, allungando le mani
per salutarmi e trattenendomi dall’alzarmi in piedi. Aveva
uno strano modo di far fare agli altri ciò che voleva fosse
fatto. Precedeva sempre di qualche istante le intenzioni
altrui, troncando all’inizio una qualsiasi azione differente.
Questo modo di agire mi bloccava non solo nei movimenti,
ma anche nell’immediatezza dei ragionamenti e delle
decisioni, lasciandomi incapace di giuste reazioni e in balia
delle sue volontà, anche se ancora non espresse. Entrò il suo
autista. Il Segretario me lo presentò. Il suo nome era Max.
Disse a Max di avvisare il cuoco che saremmo scesi a
pranzo. Appena cercai di respingere questo invito perché, di
nuovo, non si trattava affatto di un invito ma di
un’imposizione. Si piegò in avanti nella sua poltrona e con le
dita unite batté sul dorso della mia mano appoggiata sul
bracciolo, come se avesse voluto dire:- Silenzio!
Mi bloccai per la seconda volta in pochi istanti. Sentii
salire il sangue alla testa, al viso. Mi venne in mente il
comportamento di Nicola. Pensai che non voleva parlare lì
dove eravamo. Scendemmo nella sala da pranzo. Una specie
di giardino invernale, raccolto, elegante, fresco, arredato con
mobili d’epoca, belle piante rare, con pochi tavolini già
sparecchiati e vuota. Avevo bisogno di capire quello che
stava succedendo. Decisi di usare tutto il mio coraggio e
chiesi:
- Ho necessità di sapere se lei mi ritiene talmente incapace di
prendere qualsiasi decisione da dover decidere per me in continuazione.
Mi guardò stupito, sorpreso, e aggiunse:
- Ma cos’altro si poteva fare a quest’ora?! - e sorrise ordinando
il pranzo e parlottando con il cameriere, di nuovo senza
interpellarmi. Eppure non sembrava volesse essere poco
gentile. Il suo comportamento era esattamente quello di un
adulto in presenza di un bambino. Decisi che dovevo stare al
gioco finché mi trovavo in quella situazione di imposta
dipendenza, per cui rimasi in silenzio, in apparenza
completamente indifferente. Accettai il pranzo, tanto non
c’era un’altra soluzione. Non ricordo nulla di quel pranzo. Il
discorso scorreva con domande e risposte. In verità, il
Segretario chiedeva e io rispondevo. Come poteva essere
diversamente? Mi rendevo conto che ogni mia risposta
svelava qualcosa di me, delle mie intenzioni, dei miei
desideri, purtroppo anche delle mie insicurezze. Feci
accenno all’imminente viaggio con Lila in Slavonija per la
vendita dell’Enciclopedia. Per un po’ non disse nulla, come
se stesse riflettendo, e poi esordì:
- Credo che tu non conosca le estati in mezzo ai campi di
granoturco e la terra arsa, il sole cocente!
Mi resi conto che di nuovo mi aveva dato del tu come se
ci frequentassimo ogni giorno. Senza rendersene conto!
Parlava di un problema sul quale avevo riflettuto
considerando i miei precedenti di salute non proprio
eccezionali. Ma avevo deciso. Alzai le spalle, come per dire:Così è e basta!
Poi proseguì:
- Puoi lavorare anche a Zagabria. Se vuoi puoi collaborare con la
rubrica culturale del quotidiano “Vjesnik” durante il Festival estivo! - Le sono grata, ma ho promesso e preso impegno con una
compagna. Non posso abbandonarla ora. A parte il fatto che non sono
pronta per espormi in un grande giornale come il “Vjesnik”. Non ho
nemmeno ancora finito tutto il corso di lingua serbo-croata e ne ho
scarse nozioni. E poi riesco a scrivere solo di argomenti che mi
appassionano, non di quelli che sono semplicemente all’ordine del
giorno. Sarei a disagio e a lei farei fare una magra figura. Ci pensi, il
Segretario favorisce una studentessa incapace. Non è il caso, conosco
bene le mie capacità!
- Non credo che sia proprio così. Conosco i tuoi articoli.
Probabilmente vuoi dedicarti solo a quello che ti appassiona! Purtroppo
non è tutto così nella vita!
- Infatti, non è così - risposi - finora ho scelto solo cose nelle quali
ero certa di potermi cimentare. Non ho rifiutato i turni di notte in
fabbrica, ho lavato le bottiglie unte nell’acqua bollente. Non mi hanno
spaventata le pulizie del calcestruzzo negli appartamenti eleganti
appena costruiti e gelidi senza riscaldamento con la temperatura a dieci
gradi sottozero, né le pulizie, ogni sera, delle asfissianti sale per lo
studio del Centro Universitario. Il Servizio Studentesco mi ha offerto
queste possibilità di lavoro finora e mi sta bene. Arriveranno lavori
meno pesanti. Ora ho deciso di fare questa esperienza: vendere
l’Enciclopedia “porta a porta” e conoscere la Slavonija.
- Ho capito, hai deciso di non accettare aiuti. Non li accetti in
generale o solo da me? Non ti fidi?
- Non è che non mi fido. Non riesco a capirla. Non so cosa
desidera da me. Cosa si aspetta da me? Sorrise e dopo un po’, come se fosse assente, rispose:
- Se e quando avrai fiducia in me capirai cosa desidero “per te” e
non “da te”. Ho un desiderio per i giovani. Ora ogni discorso è inutile!
- Credo che abbia ragione lei. In questo momento sono abbastanza
confusa. Prima non lo ero, un po’ per l’età, per la vita “piombata”
sull’Isola e quella limitata durante l’Accademia, ma ultimamente
spesso ho pensato a un libello politico-letterario che ho letto e che ora mi
confonde maggiormente. Più o meno diceva: “Ci hanno mentito,
mentito, mentito! Ci hanno mentito le madri, i fratelli, i maestri, i
catechisti. Ci ha mentito l’aria, l’acqua, il cielo, le stelle, i libri. Tutto
ci ha mentito. La menzogna ci ha educati. Tutto era una menzogna: i
gloriosi re, i bani, le coronazioni, i documenti pubblici, gli accordi.
Tutta la nostra Storia è una fila di menzogne. Per cui mi sembra che
la collera sia talmente radicata in noi che non riusciamo più a vivere
senza la menzogna. Ci siamo ubriacati con i sogni su certi eroi che da
qualche parte sonnecchiano. E quando si sveglieranno iracondi, ci
vendicheranno. E noi aspettiamo questi eroi e continuiamo a ripeterci la
menzogna. È sicuro che arriveranno?” Qui desidero riallacciarmi al
discorso sul mio modo di scrivere che lei ha trovato inadatto. Dal punto
di vista ideologico, ha ragione lei sul mestiere dello scrittore. Per
assolvere bene al proprio compito è necessario che egli sia in un certo
modo dissidente con le istituzioni, le autorità. Ma non capisco perché
certi sono trattati da figliol prodigo che torna al focolare domestico e
altri no. Nell’artista la negazione è la forma dell’accettazione del
mondo. Allora perché questa regola non è valida per tutti gli artisti
dissidenti? Perché, per esempio, Krleža può essere un dissidente
accettato e venerato e Nicola Milić no? Perché Krleža è sempre al
potere. Probabilmente perché disse che “alla Declarazione per il
riconoscimento della lingua croata partecipò solo con la firma per
cambiare un articolo della Costituzione”?! Un incidente che fu
dimenticato molto velocemente. Il potere ha sbandierato da sempre
Krleža come una preziosa bandiera. Trattato come genio caduto dal
cielo oscuro in mezzo a questa nostra melma. Sinceramente, a me
sembra un destino triste per uno scrittore che da cavaliere solitario
diventa un compagno di viaggio del potere. Qual’è la ragione che
permette la dissidenza ad un artista e all’atro no?
- Apprezzo la tua analisi - mi disse - ma c’è qualcosa di
fondamentale nella realtà che dovresti accettare. In primo luogo
l’alternativa. Questa nostra società è organizzata in maniera tale che i
dissidenti non possano esistere. Eppure, se possono esistere, ciò
comporta determinati disagi che i dissidenti accettano in anticipo. La
nostra società ha attraversato, in una linea a zigzag, varie fasi. Ci sono
stati periodi nei quali non si è sopportata la negazione. Poi ci sono stati
periodi nei quali è stata permessa. Con un po’ di abilità e coraggio è
stato possibile andare contro corrente e diffondere la negazione come
fosse lo scorrere del fiume principale. Ma qualsiasi fosse il pericolo, la
constatazione dominante rimane: il dissidente è condannato alla
solitudine. A una particolare severità nei confronti delle sue opinioni.
La nostra stampa a larga tiratura scrive di un dissi dente solo alla
morte. Per lo scrittore dissidente ciò è logico. Lui è conscio che il suo
scontro con la società è conseguenza di diverse e contraddittori
aspirazioni. Lo scrittore dissidente segue il proprio sogno, quello
dell’assoluta libertà, uguaglianza e bellezza estetica. La società, invece,
segue il proprio sogno, la logica del potere nella quale è tutto relativo:
l’uguaglianza, la libertà, il pensiero artistico e la scurrile profondità
umana. Infatti, il potere proviene dal relativo e finisce nel relativo. La
letteratura nasce, invece, nell’assoluto e nell’illimitato. Nata nel sogno
dell’uomo illimitato, può aiutare il potere a diventare meno relativo.
Nei periodi delle pulizie ideologiche, il potere è sempre pieno di disagi
per ogni vero artista. Ha dato all’arte larghi spazi, facendo intendere:
fate quel che volete, solo non vi intromettete nella politica. Nella
letteratura ciò non può essere accettato. Nascono così i dissidenti.
Possono essere eroi o martiri, ma sono solo la viva testimonianza
dell’idea dell’uomo in quanto unità omogenea. Krleža, infatti, non è
mai stato dissidente. Egli si è sempre distinto solo con due fondamentali
caratteristiche, la negazione relativa dell’esistente e senz’altro la
riflessione indipendente. Ma ha anche in modo contraddittorio
coscientemente accettato il guanto che la Storia gli ha lanciato. È un
modo possibile di creare o semplicemente un galoppo artistico intrapreso
con astuzia e coraggio? Ma dissidente no, non lo è mai stato. È sempre
rimasto con i vincitori, come hai ben notato. I dissidenti rimangono
solitari! Nicola è solitario. È dissidente: un po’ martire, un po’ eroe! Il discorso era chiaro, trasparente. Non c’erano dubbi.
Tutti e due avevamo parlato sinceramente. Il tempo si era
improvvisamente esaurito. Promisi che prima della partenza
mi sarei fatta viva e che durante l’estate non mi sarei
sobbarcata in qualche imprudenza. Non era importante,
ripeteva, quello che desiderassi fare, ma come avrei trattato
gli argomenti. Mi disse ridendo:
- Ti raccomando di non usare la negazione, anche se ti è molto
congenita! Prima di dire “no” pensa se veramente desideri dire “no”.
E su questo aveva ragione.
Qualche giorno più tardi, prima della partenza per la
Slavonija, mi recai al Centro. Avevo necessità di verificare se
mi fosse già stato assegnato per l’anno successivo l’alloggio
alla Casa dello studente. Dovevo ancora sostenere l’esame di
Poesia Popolare, ma era un problema che nessuno
considerava un serio impedimento. Naturalmente nessuno al
di fuori di me, per via dell’imbroglio che io stessa avevo
combinato con la fasulla e precipitosa promessa. All’ufficio
assegnazione alloggi scoprii che mi era già stato assegnato il
posto letto nella stanzetta singola. Pensavo che fosse uno
sbaglio. Di stanze singole ce n’erano in tutto sei per le donne
ed erano riservate a studenti dell’ultimo anno e non so per
quali particolari meriti. Chi ero io per beneficiarne? Non è
che fosse una sistemazione di particolare agio: la brandina di
ferro, l’armadio, il comodino da notte, il tavolino a due sedie,
la finestra sul buio cortile interno se la stanza era ai primi
due piani.
Ma la possibilità di essere finalmente sola nella stanza, per
me era una conquista di non poco conto. Per tutto il resto
avrei trovato il modo di risolverlo. Mi recai al vecchio posto
di lavoro e prendere accordi con Safeta per il trasferimento
d’agosto in Bosna. Mi riferì che Bata Popalić aveva lasciato
un messaggio e mi attendeva in direzione. Mi ricevette nel
suo ufficio, comunicandomi che dall’inizio del nuovo anno
scolastico ero stata assegnata allo staff dell’Emissione 5 minuti
dopo h20, condotta da Maja Hrubar. Avevo sentito bene?!
Non avevo il coraggio di chiederne la conferma.Bata
interpretò il mio silenzio a modo suo e mi disse:
- Nessuna sorpresa come noto, sembra che tutto ti sia dovuto!
- Non è vero Bata, sono talmente sorpresa e felice che non ho parole!
- ribadii, ma non chiesi nulla. Tanto non aveva alcuna
importanza. Avevo il lavoro assicurato per l’anno successivo.
Mi presentai a Maja. Il mio lavoro per L’Emissione 5 minuti
dopo h20 sarebbe iniziato ai primi di settembre. Alla Casa
dello Studente non riferii nulla di quanto stava accadendo.
Immaginavo le frecciate di Mila e anche qualcosa di più
inopportuno. D’altronde stavano tutti partendo per le
vacanze estive e dopo un paio di giorni anche Lila e io
saremmo partite per la Slavonija.
La stanzetta assegnatami era, per fortuna, al terzo piano,
al limite del cortile interno, e la sua finestra spaziava sulla
strada alberata Boškovićeva95. Non era per niente tetra come
le stanze ai piani inferiori sul cortile. Non so perché, ma da
sempre per me era importante la vista dalle stanze in cui mi
trattenevo. Probabilmente perché mi faceva sognare. I tetti
scuri delle case ottocentesche a un piano si confondevano
con le larghe fronde degli ippocastani: una lunga prospettiva
di verde screziato con il ruggine delle foglie rinsecchite.
La studentessa che occupava la camera l’avrebbe liberata
a fine giugno, per cui potevo trasferirmi prima della
partenza. La stanzetta era graziosa, con un copriletto allegro,
cuscini, un piccolo tappeto tessuto a mano, tendine, bei
poster artistici sui muri. Voleva lasciare tutto così com’era.
Siccome sloggiavo dalla stanza con Mila e le altre, dovevo
finalmente riferirglielo. Mila diventò purpurea in viso
quando annunciai il trasferimento.
- Ecco – disse - hai fatto tutto in sordina. Ogni occasione per voi
croati è buona per fregarci! Mi ribellai, ma quale fregatura?! Mi era stata assegnata la
stanza a un letto. E perché no? Si vede che era stato ritenuto
giusto così! Non avevo fatto niente per meritarmi un
trattamento particolare. Appartenevo ad una famiglia di
pensionati con reddito relativamente basso e l’alloggio mi
competeva. Quale? Uno qualsiasi! Perché la stanza singola?
Probabilmente perché ero studentessa lavoratrice e la stanza
con quattro letti come quella dove avevo passato l’anno
precedente, con una rompiscatole come lei, a lungo andare
mi avrebbe fatta finire in manicomio. Era furibonda anche
perché, non andando avanti con gli esami, nemmeno Bata
Popalić poteva più agevolarla. Inoltre, con la sua arroganza,
le continue prepotenze e allusioni a tutto serbo e solo serbo fatte
con aria di superiorità e di pretesa, aveva creato il vuoto
intorno a sé. Bata Popalić, da grande amico che era, l’aveva
scaricata in modo definitivo. Dalla festa di Capodanno non
si faceva più vedere alle cene nella Casa dello Studente.
I festini, probabilmente più appropriati alle sue
condizioni, li organizzava nella sua nuova casa a Zagabria
Nuova. Mila non si perse d’animo. Rivolse le proprie
attenzioni a un giovane architetto. Più giovane di lei, timido
e, guarda caso, croato. Uno di quei giovani per bene,
appartenenti alle antiche famiglie croate tradizionaliste e
religiose, legate da sempre alla Chiesa Cattolica, mentre Mila
era ingombrante, serba fino al midollo e di religione
ortodossa… che strana scelta! Sbattuta fuori dalla Casa dello
Studente senza molti complimenti, frequentando persone al
di fuori dell’ambiente abituale, credevo l’avrei persa di vista.
Probabilmente anche altri miei incontri prima inevitabili
sarebbero diventati sempre più sporadici. Avrei avuto
maggiore libertà nelle mie scelte.
Avevo promesso a Zoran Babić di farmi viva prima della
partenza per la Slavonija. Non feci in tempo. Alla portineria
della Casa dello Studente trovai una lettera con l’invito per il
concerto al palazzo del Vecchio Teatro Nazionale alla Città
Alta, che era stato adibito per avvenimenti sempre molto
ambiti e con biglietti introvabili se non per tortuose vie di
conoscenze e meriti. In programma Rachmaninov: Terza
Sinfonia in la minore e Variazioni sul Tema di Corelli; Smetana:
Poema sinfonico Vltava96 del secondo ciclo La mia patria,
eseguiti dall’Orchestra Filarmonica di Leningrado. Un
avvenimento musicale estivo zagabrese che da sempre era
annunciato dalla stampa e trasmesso dai cinegiornali in
pompa magna, perché non si trattava di un concerto
qualsiasi, informale, nella grande Sala Lisinski aperta al
grande pubblico. Cercavo nella memoria un qualche
riferimento alla musica spesso sentita nella Casa in pietra
grigia. Per quanto riguardava Rachmaninov, più che
l’armonia mi era rimasto impresso il nome delle Variazioni di
Corelli. Invece il tema della Vltava di Bedrich Smetana era
vivo e presente nei miei ricordi. Aveva accompagnato
soprattutto l’estate del ritiro alla villa di Postine, durante la
guerra.
L’avevo ascoltata tante volte sul grande grammofono del
conte Pavlù ed eseguita al pianoforte da Maestro.
Reminiscenze vive; il rumore dell’acqua della Moldava dalle
sue sorgenti di piccoli rigagnoli nel tema dei flauti. Il fiume
che si ingrossa e serpeggia nel paesaggio boemo e moravo
costeggiando rupi, foreste e sereni attraversamenti dopo le
rapide. I motivi di Višehrad, il Castello di Praga e le feste
rupestri. Il ritmo, la tonalità elegiaca della strumentazione,
elevata testimonianza di un’arte di forte spirito nazionale
che, con il suo continuo ritorno sul fulcro melodico
fondamentale dà il tono ineguagliabile della malinconia slava
tanto elogiata da Maestro. Un mio lontano passato ma
vivissimo. Di Rachmaninov non ricordavo nulla. La mia
infanzia era lontana e anche i suoni sentiti. Evidentemente
non avevo la stessa sensibilità per tutta la musica sinfonica,
ma solo per una parte precisa.
Quella sera sarei entrata in un ambiente che sapevo molto
diverso dal mio. Entrai in crisi. Non avevo un vestito adatto
perché non curavo particolarmente il mio abbigliamento. Mi
sentivo bene, a mio agio, con pantaloni, camicie e maglioni,
probabilmente perché non scontati, banalmente simili a
quelle gonne, tutte sformate e ineleganti che si vedevano in
giro. Durante l’inverno avevo deciso di procurami un vestito
femminile in caso di estrema necessità. Dovevo pur averlo.
Quello americano regalatomi da Mila perché a lei stretto, corto
e inservibile, aveva già fatto la sua storia, d’estate e
d’inverno. Io non frequentavo feste, ma sapevo che ci sarei
andata al ballo annuale della Facoltà di Giurisprudenza. Ero
stata invitata da Saša, il cugino della mia vecchia compagna
Dunia. Si era laureato in maggio. Nell’elegante via Tkalčićeva
avevo scoperto una rivendita di abiti usati, dai zagabresi
chiamata Bottega dell’antiquariato. Uno dei tanti eufemismi
ironici usati tra i signori poveri. La bottega commerciava in
vestiti usati, portati dalle signore della nomenclatura che a prezzi
ridotti cedevano abiti della precedente stagione. Erano
vestiti, per la maggior parte, comprati all’estero o di sartoria,
costosi in origine, all’ultima moda, il che non significava
anche belli o eleganti. Ce n’era per tutti i gusti. Sapendo
scegliere si riusciva a trovare qualcosa di decente. E se ci si
sapeva arrangiare, almeno diventavano diversi da quelli nei
negozi statali, tutti uguali, simili a uniformi, alla cinese. Dopo
tanti rovistamenti avevo trovato un vestitino blu in ottima
seta pura, ma anonimo, insignificante. Il corpetto era sottile,
con l’apertura del collo rotonda, scollato in un piccolo
decolté, attillato fino ai fianchi, per poi aprirsi in una leggera
corolla fino alle ginocchia, le maniche dritte al gomito
appena un po’ arricciate sulla spalla. Avevo subito pensato
che potevo, in qualche modo, renderlo meno monacale ed
austero, ma come, non lo sapevo ancora. Il vestito cadeva
molto bene. Era avvolgente e morbido, ma corto.
Mancavano una buona quindicina di centimetri alle
ginocchia. La persona che lo indossava era di statura
normale, ero io molto alta. Non mi persi d’animo. Come ero
riuscita ad adattare i pantaloni americani regalati e le
espadrillas di Maestro facendo di necessità virtù, sarei
riuscita a fare anche con il vestito di seta blu. Si parlava tanto
della minigonna proposta da Mery Quant e le foto di Twiggy
occupavano i pensieri delle giovani zagabresi, almeno di
quelle benestanti, per cui decisi di scoprire le gambe,
anticipando la moda capitolina. Al mercato di Dolac, tra gli
antichi vestiti tradizionali ormai ridottia brandelli venduti
dalle contadine di Šestine, si poteva ancora trovare qualcosa.
Scovai una vecchia camicia, finemente ricamata, come d’uso
nei bellissimi abiti del folklore di questo piccolo paese
dell’hinterland zagabrese. Il colletto e i larghi polsi in pizzo
antico, di color avorio per la vecchiaia, erano intatti. Applicai
al largo tondo il colletto in pizzo antico e sulle maniche
dritte gli alti polsi della stessa lavorazione, stringendoli sopra
il gomito. Conferii al vestito un aspetto più carino grazie
all’applicazione dell’antico pizzo impalpabile, quasi prezioso,
dall’effetto ormai sperimentato e apprezzato nella festa della
Facoltà di Giurisprudenza, dalla stessa che avevano mandato
Mila su tutte le furie. Quell’inverno ero riuscita anche a farmi
confezionare su misura un paio di scarpe e una pochette in
tessuto gro’ blu. Una spesa pazza, un paio di scarpe che mi
avrebbero accompagnata per più di dieci anni. Per tutta la
vita, infatti, avrei usato possibilmente scarpe morbide della
migliore fattura. Era così che, quella sera, con moltissime
insicurezze e perplessità mi accingevo a entrare in un mondo
diverso da quello al quale ero abituata.
Mi recai nella Città Alta, al Vecchio Teatro il cui atrio era
stato nel ‘46 trasformato in sala estiva per concerti.
L’ambiente piccolo, non più di un centinaio di posti. Un
anfiteatro con la volta aperta, cinta muraria alta, illuminato
da torce sistemate negli incavi delle pietre, molto suggestivo.
Le poltroncine in semicerchio, il tappeto lungo la larga
discesa verso il palco, fiori, tutto di un rosso brillante.
Accompagnata da una delle hostess, presi il mio posto. Lo
spazio si stava riempiendo. La gente più o meno elegante.
Vestiti costosi, certi troppo sfarzosi, corti, lunghi, tanti
gioielli, evidente ricchezza, mi creavano vertigini, anche per il
mio vestito di seconda mano e la pretesa di voler essere
all’altezza dell’ambiente. Purtroppo avevo poco più di
ventun anni, volevo conoscere il mondo e non avevo ancora
deciso quale sarebbe stata la mia collocazione.
Zoran Babić mi trovò un po’ assorta in questi pensieri,
accompagnato da una signora alta, elegante che, con sollievo
notai vestiva un semplice tailleur nero di taglio perfetto, con
gonna dritta e giacchino appena allargato e sceso sui fianchi,
due fili di perle naturali e nulla di più. Mi alzai per salutarli.
Zoran Babić ci presentò, disse:
- Una studentessa, promettente poetessa, mia madre! - E si
sedette in mezzo a noi due. Aveva capito che doveva essere
l’anello di congiunzione per una possibile conversazione.
Sempre prudente nel valutare le eventualità, il compagno
segretario! E, infatti, si preoccupò di sostenere la situazione. Li
osservavo di lato. Erano talmente uguali, che la loro
somiglianza non lasciava dubbi. I loro profili, il mento, il
taglio degli occhi, l’attaccatura dei capelli, addirittura il
colore, cenere, al naturale, quelli della signora, evidentemente
curati nel taglio corto, armonioso e con riflessi argentati. Il
modo di sorridere, la loro naturale eleganza erano ancora più
evidenziati dal loro modo semplice di vestire. La signora in
nero illuminato alle bellissime perle e il figlio in giacca
avorio, pantaloni e sottogiacca senza colletto blu scuro,
molto giovanile e di grande effetto, allora visto solo nei film
americani. Stavo riflettendo su a chi Zoran Babić
assomigliasse. Mi ricordai Saša. Aveva ragione, Zoran Babić
assomigliava moltissimo a Gregory Peck, nella figura, nei
movimenti. Più volte mi aveva fatto pensare a qualcuno
conosciuto, ma il paragone mi sfuggiva. Allora non sapevo
che, infatti, lo chiamavano Gregory.
Il concerto iniziò e proseguì in totale silenzio. Madre e
figlio ascoltavano l’esecuzione della Terza Sinfonia di
Rachmaninov. In silenzio ricordai: con questa composizione
dimostrò di non essere affatto vero che un compositore
russo non potesse comporre fuori dalla Russia. In qualche
meandro della memoria ricordai anche che Rachmaninov
aveva assistito a New York nel ‘29 alla Rapsodia in blue e che
l’inizio e la fine della sua opera suggerivano forti
reminiscenze di Gershwin. Ma la musica mi lasciava
indifferente per la maggior parte. Come potevo dire una cosa
simile a chi mi aveva invitata a quel concerto? Non
conoscendo le mie preferenze non doveva essere facile!
Decisi che non mi sarei esposta. Ma come? Per fortuna,
iniziata la pausa tra le Variazioni e la Moldava, si avvicinò
una coppia invitando tutti al bar. Io e Zoran Babić
declinammo l’invito. Girai il discorso esprimendo la mia
ammirazione per la signora che avevo scambiato per sua
sorella. Con la sua solita noncuranza Babić disse:
- Se hai scambiato mia madre per mia sorella significa che io sono
vecchio e mia madre si mantiene giovane. Anzi, colgo l’occasione di
spiegarti l’invito al concerto senza prima approfondire le tue preferenze.
Mia madre partecipa a questi concerti biennali dal ‘46, quando sono
stati istituiti, escludendo il ‘50, anno in cui morì mio padre. Da allora
la accompagno. Quest’anno, come tutti i precedenti, mi sono reso libero
per la serata. L’unica sera libera fino alla mia partenza. Questo
avvenimento è importante per mia madre. Dalla scomparsa di mio
padre mi prendo cura di lei. Mia madre è nata e cresciuta in
Inghilterra, qui non ha parenti. Era una promettente pianista e
giovanissima sposò mio padre, anche lui giovane giurista che aveva
studiato a Oxford, dove si conobbero. Siamo solo noi due. Mia madre
verrà sempre con me se dovrò essere trasferito per motivi di lavoro. È lei
che organizza la mia casa, anche se viviamo in modo autonomo,
ognuno nei propri spazi e con i propri interessi e ritmi. Ci pensa lei ai
miei impegni sociali, anche se Max è la sua mano destra, il nostro
tuttofare. In comune abbiamo solo il tetto, ma anche gli ingressi sono
diversi. Prendiamo ogni tanto insieme il tè delle cinque. È importante
che lei percepisca la mia presenza, anche se non ha necessità di nulla.
Mi preparavo per la carriera diplomatica. Non ho velleità di fare
politica attiva. Si è voluto il mio impegno per la stesura della nuova
Costituzione, ma appena finisce questo impiego, desidero abbandonare
l’attuale posizione. Non sono portato ad assumere l’atteggiamento del
personaggio pubblico, quello che gira con la guardia del corpo, non può
andare a cena dove vuole e con chi vuole, passeggiare liberamente per le
via delle città e tante altre piccole cose che vengono considerate di
“esempio eccepibile” per un pubblico funzionario che si presume dedito
solo al Partito e allo Stato! - Poi il compagno segretario mi
suggerì di chiamarlo semplicemente Zoran, come facevano i
suoi amici. Invece, per moltissimi anni, in pubblico l’avrei
chiamato sempre con l’appellativo di compagno segretario in
tono ironico alla zagabrese, la cui origine lui conosceva e
aveva accettato con una certa bonomia. Quella sera avevo
saputo molto sullo Zoran Babić privato. Aveva dimostrato
un comportamento da semplice mortale.
La signora tornò al suo posto. La seconda parte del
concerto con La mia patria di Smetana iniziò con mio grande
sollievo. A fine concerto non ebbi difficoltà a dimostrare il
mio entusiasmo per l’opera che conoscevo bene. In verità,
sembravo a me stessa disonesta per il totale silenzio sulla
sinfonia di Rachmaninov, per cui confessai:
- Di Rachmaninov non ho capito nulla. Evidentemente ho assoluta
mancanza di affinità con la musica difficile. Per me Rachmaninov è
incomprensibile!
La signora ribadì di ritenere una buona qualità la sincerità.
E questo mi sembrò gentile. Non è detto che tutti debbano
apprezzare tutta la musica. Ci sono preferenze, sensibilità e
modi di recepire completamente diversi. Zoran propose di
fermarci a cena. La signora chiese di essere accompagnata a
casa dicendo che alla sua età è consigliabile saltare i pasti
serali. Davanti alla loro bella villa a Šalata mi salutò con
cordialità e con una vigorosa stretta di mano. Un’altra
piacevole espressione della sua personalità. Da sempre
giudicavo le persone dal modo di stringermi la mano.
Nel cortile dell’antica villa Max tirò fuori dal garage una
vettura fuoristrada, porgendo a Zoran una giacca sportiva in
lino celeste. Pensai al modo in cui Zoran e il suo autista
tuttofare si rapportavano, senza parole, come tra un padrone
e il suo cameriere. Dovevo aver lasciato trapelare il mio
pensiero. Zoran, come scusandosi, disse:
- È nell’indole di mia madre prevenire le cose che uno intende fare.
Le avevo detto dove intendevo recarmi perché avevo invitato anche lei a
cena. In quel posto la mia giacca da sera avrebbe messo a disagio gli
altri avventori!
- Un pensiero premuroso da parte della signora, ma è anche merito
del buon allenamento di Max! - risposi. Zoran mi sembrò
seccato dalla mia osservazione. Credo che lo avesse
disturbato il mio pensiero di farsi servire fino al punto di
non entrare a cambiarsi da solo. Anche questo percepì,
perché aggiunse:
- Non volevo farti aspettare! Guidava con sicurezza avviandosi verso le pendici del
colle Medveščak97 con un dedalo di stradine incorniciate da
case basse, sempre più rade. Sembrava che tutte le stradine si
immettessero in una provinciale verso i paesini disseminati
in mezzo a grandi frutteti di mele e vigneti. Le case dai tetti
scuri molto inclinati sulle basse pareti imbiancate a calce e
sulle piccole finestre di forma irregolare, si facevano sempre
più distanziate Ci fermammo davanti a una di queste con la
staccionata di legno annerita dal tempo e la scritta intarsiata
sul portoncino Klet.
In croato zagabrese Klet ha il significato di casetta, di
solito quelle nei vigneti. La porta della casa, relativamente
bassa, tant’è vero che Zoran dovette abbassarsi per entrare,
dava su un locale con pareti bianche, piccole finestre sui tre
lati nascoste da tendine di tessuto ruvido lavorato al telaio
casalingo, e sulla parete posteriore a tutta lunghezza una
stufa con un focolaio a vista. Di lato, una piccola porta con
disegni floreali a vivacissimi colori sull’anta, simili a quelli dei
mobili tirolesi. Pochi tavoli, tondi, molto rustici, con tovaglie
in colore naturale tessute a mano, sedie massicce con
braccioli, di legno scuro, e cuscini di un arancione spento. Ci
avviammo verso il retro. Un corridoio con il basso divisorio
affiancava la cucina a vista e poi proseguiva sulla sinistra
dove la casa si allungava in un braccio ad elle. Uscimmo sul
retro recintato dalla staccionata sui due lati, che permetteva
la vista dei filari con viti sistemate in alto e grappoli
pendenti, sotto la volta delle foglie, illuminati da terra.
Nell’angolo retto dei due muri della casa c’erano dei tavoli
sistemati sulla ghiaia sotto la tettoia di canne lacustri,
ricoperte di vite canadese e ipomee in fiore dai colori
vivacissimi: rosso, rosa, viola, bianco. I tavolini quasi tutti
occupati da uomini in gruppo, in due o solitari. Zoran mi
disse:
- Ritrovo sempre le stesse persone. Quasi un piccolo circolo privato.
Pochi lo conoscono. Quelli che lo scoprono lo tengono segreto. Anche i
padroni non si ritengono né vogliono essere considerati locandieri. Sono
produttori di mele, uva, un ottimo sidro che nessun altro produce. Si
sono dedicati a una cucina a base di paste sfoglie con formaggi, erbe e
kajmak, strudel di mele e noci o di ciliegie, e sidro, oltre al vino novello.
Disse che gli piaceva molto quel posto così appartato,
adatto a rimanere tranquillo, lontano dagli sguardi indiscreti.
Considerando la cordialità con la quale era stato accolto,
pensai che il posto lo conoscesse bene. Anche le sue
compagnie dovevano essere ben conosciute. Credo mi
avesse letto nel pensiero perché aggiunse:
- Niente equivoci. La mia vita privata si svolge in casa mia. Non
sopporto essere esposto alla pubblica opinione sui miei fatti privati. Io
non sono un personaggio pubblico, ma un funzionario di pubblico
impiego. Si pretende da me una condotta morale anche nella vita
familiare. A volte è assurdo. Spero di rimanere in ombra, anche perché
non ho nulla da nascondere! Cenammo con un’eccezionale sfoglia, ripiena di
formaggio fresco e una crema di panna acida, impastata con
uova e latte, poi cotta al forno, e alla fine delle crespelle
ripiene con crema di noci aromatizzate alla vaniglia, irrorate
di panna dolce e infornate. Fragranti, leggere tutte e due ed
estremamente gustose. Da nessun’altra parte mai avevo
gustato uno strudel salato simile a quello, né crespelle così
morbide e soffici. Almeno così mi sembrò.
Quella sera assaggiai per la prima volta il sidro di mele,
fresco, frizzante, dissetante e poco alcolico. Passammo a
parlare del mio nuovo lavoro al Centro Universitario nella
redazione dell’Emissione 5 minuti dopo h20.
Zoran affermò di non aver saputo nulla della mia nuova
destinazione, ma toccò un argomento che mi fece riflettere.
Disse che l’attuale assistente di Maja Hruban voluto da Bata
Popalić abbandonava il Centro.
Aggiunse che si disponeva ormai di abbondante materiale
sulla scorretta gestione del Centro e che certi dirigenti
avevano confuso l’indipendenza delle decisioni con
un’organizzazione d’interessi privati. Purtroppo nella Lega
Comunista di Belgrado aveva messo radici una corrente
contraria all’autogestione volendo mantenere il potere di
gruppi e fazioni dalla concezione statalista burocratica, che
grazie a varie speculazioni e macchinazioni aveva fatto fare
loro fortuna, e non erano disponibili a lasciare i posti chiave
del potere. La malsana situazione nella direzione del Centro
Universitario, con tutta una serie di errori e manchevolezze,
aveva bisogno di essere ristabilita. Il Governo Croato doveva
intervenire perché era diventato evidente che qualcuno aveva
passato il limite. Pertanto l’ingerenza della Lega Comunista
di Belgrado doveva essere completamente assente nelle
questioni interne dell’organizzazione studentesca e nelle
decisioni di ordine tecnico.
Il Centro Universitario era un fulcro di potere politico
molto importante. Contravvenendo alle leggi, certi
personaggi erano diventati veri padroni del Centro,
elargendo favori, benefici, cortesie, beni materiali secondo
una loro personale concezione. Per ciò il Governo Croato
aveva l’obbligo di risanare la situazione che dava
un’immagine distorta del Socialismo autogestito. Nel
progetto dell’autogoverno bisognava al più presto includere
il settore colto e prima di tutto lavorare in favore
dell’affermazione di quella parte dei giovani intellettuali che
realmente potevano contribuire allo sviluppo della società. Si
trattava, cioè, della formazione dei nuovi quadri dirigenziali
già annunciata dai nuovi emendamenti alla Costituzione sulla
quale stava lavorando e che avrebbero dato la possibilità alla
gestione economica diretta. Certo, non era facile. Venivano
intaccati troppi interessi dei poteri ormai saldi, ma finché
Tito sarebbe stato dietro la necessità di stabilire l’ordine,
sarebbe stato possibile riportare giustizia e serenità tra le
Repubbliche, in questo momento molto traballanti.
- Come crede che nel Centro Universitario si possa giungere ad
attirare gli studenti per interessarli all’autogoverno? - domandai e
aggiunsi - La Lega Comunista non ha un vero ascendente sugli
studenti. Escludendo la Facoltà di Giurisprudenza, tutti sono
politicamente tiepidi. Nelle riunioni della Gioventù Universitaria si
usa l’obbligo di partecipazione con il presupposto “o vieni alla riunione
o niente benefici, anche se per legge ti spettano”. Perché dovrebbero
interessarsi a qualcosa di nuovo, che poi non dà alcun privilegio? –
rispose.
- Di certo non conoscono le prerogative dell’autogoverno. Perciò
dobbiamo farle conoscere e, ripeto, creare nuovi quadri socialmente
corretti e onesti! Rimasi un po’ perplessa e in silenzio. Pensavo: - Non c’è
un po’ troppa utopia in questi propositi?” - Di nuovo Zoran
previde i miei pensieri dicendo:
- Vale la pena di fare qualcosa per una condizione di vita migliore!
- Ora che mi ha esposto la sua opinione, vuole qualcosa da me? chiesi.
- No, non voglio nulla. Credo che tu farai le tue scelte. Era questo
che volevo dirti a proposito del lavoro che in autunno intraprenderai.
Spero che vorrai collaborare con il programma delle conferenze
sull’autogestione non solo al Centro, ma anche fuori sede.
- Fuori sede significa sul territorio?
- Sì, spero che le idee abbiano tale felice decorso! - mi sentii in
dovere di rimarcare:
- Credo che lei mi abbia sopravvalutata in tutti i sensi. Non ne
capisco nulla dell’autogoverno, dell’autogestione, sono apolitica per
natura ed educazione. Sono pigra, non sono costante in qualsiasi cosa
che non sia il mio studio. Non mi importa di essere chiamata
“Croata”. Ho difficoltà a ritenermi di una determinata nazionalità,
vorrei essere Jugoslava”, semmai “Dalmata isolana”! Zoran ridacchiò e non rispose. Conoscendolo meglio
avevo capito che, non contraddiceva mai una mia opinione.
Probabilmente intravedeva nei miei discorsi una parte di
verità che non voleva confermare. Il discorso scivolò sulla
mia partenza con Lila in Slavonija. Cercò di nuovo di
trattenermi a Zagabria offrendomi la possibilità di lavorare al
quotidiano Vjesnik. Rifiutai con fermezza facendo presente
la mia ignoranza sulla musica sinfonica, accennando alla
sinfonia di Rachmaninov di quella sera che mi aveva messo a
disagio perché, se mi avessero chiesto un parere, non sarei
stata capace di dire nulla. L’analisi dell’opera di Smetana era
sincera; infatti, era stata la mia salvezza perché era vicina a
certe mie percezioni, all’abitudine a un certo tipo di musica.
E ciò non bastava. Ne ero sicura.
- Credo - disse - Zoran - che tu non voglia impegnarti.
Basterebbe che Rachmaninov o un altro autore, lo ascoltassi un paio di
volte e ti concentrassi. Sono convinto che sapresti usare quello che i
suoni produrrebbero nella tua fantasia e nei sentimenti. Ma hai detto
“no” e no rimane. Come hai detto tu: “In Slavonija ci vado!” e ci
andrai. Malgrado il caldo estivo afoso e pesante che attanaglia quella
grande bassa pianura, per cui estremamente umida, che fa scappare
tutti quelli che possono allontanarsi. È vero che la produzione agricola,
lo sviluppo di reti stradali e ferroviarie, la presenza di porti sui fiumi
Drava e Danubio, i traffici commerciali, le sue antiche tradizioni e una
certa ricchezza al di sopra del resto nel nostro Paese, la fanno apparire
un mondo tutto diverso e da conoscere. Ma non è proprio così idilliaco.
È sempre il mondo contadino, lontano, a sé stante. Ti vuoi immergere
nella loro vita che è molto dissimile dalla tua?
Mi sentii troppo imbrigliata e risposi:
- Lei mi offre poco lusinghiera immagine di me. Non riesco a capire
su quali basi sia riuscito a costruirla. Probabilmente perché non
esprimo i miei pareri quando non sono sicura che siano quelli giusti,
oppure perché ritiene che la mia età è fatta solo di ingenuità e
leggerezze. Può darsi che abbia ragione. Ma le mie esperienze devo
farle. Devo cercare di scoprire il mondo. È anche vero che nessuno mai
mi ha detto cosa devo fare, per cui sono cresciuta da sola e non so
interiorizzare le esperienze altrui. Apprezzo sinceramente le sue
intenzioni, ma non riesco ad accettarle senza riflettere e provarci,
magari anche sbagliando, avendo sempre la forza di ammettere di aver
sbagliato. E se succederà… pazienza!
A mezzanotte passata mi ritirai a casa. Zoran mi lasciò
l’indirizzo al quale potevo trovarlo durante l’estate.
XI. Slavonija
Due giorni più tardi Lila e io partimmo per la nostra
avventura di luglio. Rimaneva ancora quella d’agosto in
Bosna. Mi stavo domandando perché mai avessi detto di
essere stata e di dover tornare in Bosna e non in Slavonija?
Perché avevo con troppa velocità accettato l’invito di Rade,
il vignettista che conoscevo poco e solo attraverso quello
strano scambio epistolare fatto di vignette mandate spesso
senza testo, alle quali aggiungevo le parole per poi restituirle
e trovarle pubblicate sui quotidiani belgradesi.
Rade scriveva:
- Ti prego di collaborare. Nella totale mancanza di spirito di
osservazione, la mia matita si esprime solo nel disegno. Che strano rapporto. Se non fosse stato strano, non
sarebbe esistito! Le cose semplici non facevano per me, ma
solo quelle difficili, complicate, non definite. Si pensi un po’
al compagno segretario. Dove mi stava conducendo? Il suo
patriottismo, la sua lealtà verso il Paese, l’assoluta affezione
al vecchio Maresciallo, il desiderio di una qualità di vita
migliore per tutti, la volontà d’introdurre nuove forze
giovani nelle schiere ormai traballanti della vecchia e
arricchita nomenclatura, erano sinceri. Non c’era dubbio che
volesse rimanere semplicemente funzionario del Governo,
ma quanto era possibile ciò? Il viaggio in Slavonija, speravo,
mi sarebbe servito per capire se ero disponibile e capace di
entrare in un labirinto vicino alla politica, se non nella
politica pura. La Federazione non accettava di buon grado
l’autogoverno delle Repubbliche per semplici motivi
d’interessi particolari. Lavorare alla preparazione della
Costituzione Socialista con maggiore democraticità
significava andare controcorrente. Chi doveva farlo? Ci avrei
pensato al rientro!
Da Zagabria il treno ci portò verso Koprivnica 98 sul fiume
Drava, un importante snodo ferroviario verso l’Ungheria.
Decidemmo di iniziare la nostra campagna di vendita porta a
porta da Hlebine, un piccolo villaggio agricolo nelle vicinanze
del fiume Mura. Hlebine è noto oggi come colonia di pittoricontadini che intorno agli anni ‘30 hanno dato vita alla
cosiddetta Scuola di Hlebine, considerata la prima in Croazia di
arte naïf, tecnica pittorica completamente nuova che ritraeva
i paesaggi di questa zona, piccoli villaggi, case contadine,
animali domestici, feste tradizionali, in modo del tutto
originale, semplice ma molto espressivo. Conoscevo la
corrente della pittura naïf croata, le opere di Ivan
Generalić99, Rabuzin, Lacković, anche se in realtà negli anni
‘60 non si era ancora affermata. Avevo proposto a Lila di
iniziare il nostro percorso da quel villaggio scendendo
attraverso la Pianura Pannonica lungo il fiume Drava verso
sud e il Danubio, il granaio della Croazia, che poi, verso la
bassa montagna Papuk a occidente, era racchiusa dal fiume
Sava.
Appena lasciate le basse montagne intorno a Zagabria,
ricoperte di boschi, frutteti e vigne, il treno arrancò in una
calura pesante e afosa, sbuffando il suo fumo nero sugli
sterminati campi di granoturco maturo alternati a rettangoli
coltivati a girasoli, tutti rivolti verso la luce accecante del
mezzogiorno. Per ore e ore, dall’alba a mezzogiorno,
nient’altro che distese di grano, smosso da un’impercettibile
corrente arroventata che lo ondulava come un mare giallo
oro, appezzamenti di tabacco già raccolto e, sul terreno
spaccato dal sole, fusti rinsecchiti lasciati alla loro sorte e
granoturco, alto, giallo paglierino, sorvolato da stormi di
uccelli per niente intimoriti dai grotteschi spaventapasseri.
Il treno arrivò in una piccola stazione deserta. Il sole
picchiava con tutta la sua forza. Nessuno uscì per attendere
o accompagnare il treno. Nemmeno il casellante, o almeno
così ci sembrò. Forse aveva alzato la sua paletta da dietro le
finestre impolverate del casello. Dalla stazione una strada
maestra con poche case a un piano si congiungeva con delle
viuzze sterrate in una raggiera un po’ scomposta con tipiche
case contadine, basse, squadrate con tetti alti e forti
inclinazioni per far scivolare la neve d’inverno, qui
particolarmente abbondante. Il villaggio sembrava disabitato,
deserto: né uomini, né animali sulle strade polverose. In
fondo alla strada larga si intravedeva il margine del fiume
Drava: una chiatta adagiata sulla riva punteggiata da rade
canne; un casotto da pesca, anche quello chiuso, come
abbandonato, unica ombra, un filare di salici. Di fare un
bagno ristoratore, non c’era nemmeno da pensarci. In quel
punto il grande fiume era largo, senza alcuna ansa, pieno di
visibili vortici. Potevamo solo bagnarci nell’acqua che
smossa diventava melmosa, ma fresca. Decidemmo di
attendere il calare del sole per cercare di fare qualche
contratto di vendita dell’Enciclopedia e trovare un giaciglio
per la notte. Mangiammo i panini al formaggio e uova sode
che Lila provvidentemente aveva preparato, bevemmo
dell’acqua dall’immancabile termos e ci addormentammo
sulle nostre coperte di fortuna. Avevamo ognuna uno zaino
con il cambio di indumenti, la copertina, il termos, cose che
Lila riteneva indispensabili per le sue passate esperienze. Ma,
con quel caldo, lo zaino sulla spalla sembrava un macigno.
Verso una certa ora fummo svegliate da rumori
improvvisi, attutiti. Un paio di vacche ci stavano osservando.
Le strade si erano animate: animali, carri, persone, tutti
indaffarati; bambini dietro una vecchia ruota di bicicletta che
facevano rotolare con un rigido filo di ferro in una nuvola di
polvere. Un cane cacciava delle grosse oche costringendole a
razzolare nello stagno vicino l’argine del fiume. Gli usci delle
case si aprivano a una leggera brezza che cominciava a venire
dal fiume. L’imbrunire era privo di ombre, senza raggi solari,
con il cielo celeste-grigio e poi sempre più bigio. Ci
avviammo a visitare i probabili compratori della nostra
Enciclopedia pratica. I contadini, avendo rigovernato gli animali
e sistemato gli attrezzi da lavoro, si preparavano per la cena,
il riposo, gli incontri famigliari. Le donne occupate con il
pasto serale erano quelle che si soffermavano a sfogliare
l’Enciclopedia. S’interessavano dei consigli pratici,
particolarmente sull’accudimento di figli e familiari nei
possibili inconvenienti quotidiani; ferite, annegamenti,
bruciature, raffreddori, tonsilliti, laringiti, diarree, mal di
denti, orzaioli, sbucciature di ginocchia, febbri da insolazione
e cose simili.
Gli uomini rimanevano indifferenti davanti al grande
libro. Il pagamento rateale, a piccole somme quasi
inesistenti, non ostacolava le donne a impegnarsi nella
compera. A quel tempo era una cosa nuova offrire una
collana di libri in bella veste grafica, con foto a colori e testi
semplici, studiati per un pubblico altrettanto semplice di
operai e contadini. Scoprii in Lila un’eccezionale venditrice.
Già quella sera era riuscita a fare un paio di contratti grazie
alla parlantina scorrevole, persuasiva. Ogni volta di nuovo
rimanevo meravigliata dalle sue capacità. Io non sapevo fare
nulla di simile. Prima che calasse la sera si era procurata
anche un letto per noi, durante l’ultima visita della giornata a
una vedova, in fondo a una di quelle viuzze che portavano
verso i campi oltre lo stagno. La vedova Ilona, una donna
ancora giovane con due figli appena usciti dall’adolescenza,
entrambi impegnati insieme aleisuicampi di mais, d’origine
ungherese, aveva sposato giovanissima un croato di Hlebine,
figlio di ex proprietari terrieri, che sposandosi si divise dalla
grande famiglia, costruì una casa per la sua giovane sposa e si
dedicò ai campi. Durante la guerra del ‘41-‘45 si arruolò con
i partigiani e tornò a Hlebine più comunista di prima.
Diventò una specie di guida popolare della zona.
Innamorato e fervido seguace delle idee sovietiche
nell’organizzazione dei kolchoz100, lavorò moltissimo nel
convincere i compaesani della bontà dell’unione dei
contadini in cooperative di quel tipo.
Tutto quello che veniva dalla grande madre Russia era per lui
un vangelo che trasferiva nel lavoro e nelle idee. L’Informbüro
del ‘48 lo colpì con tutta la sua drammatica forza. Non riuscì
a fare autocritica e a confessare a se stesso e agli altri che era
tutto sbagliato e che l’Unione Sovietica voleva fare di tutti i
paesi a lei legati dei semplici satelliti senza autonomia e
diritti. Continuò a mantenere la sua cieca fedeltà in quello
che gli avevano insegnato ad amare al di sopra della sua
stessa terra e finì sul Goli Otok al confino da dove, come
tanti altri, non tornò più. La vedova Ilona rimase con i due
figli nella loro piccola casa e sulla terra collettivizzata, nel
grande granaio dove tutto era nazionalizzato e comune: il
lavoro e il raccolto, o meglio ciò che di questi rimaneva.
La vedova Ilona, a quarant’anni era una donna forte, dal
carattere deciso e intelligente che, tra i contadini della zona
con accentuate diversità nazionali, aveva capito l’importanza
di collocarsi nella maggioranza croata e aveva imparato a
non distinguersi. Abbandonò le sue abitudini e anche la
lingua; doveva pensare ai suoi due figli. Tra questi impegni
riteneva rientrasse anche quello di conoscere le basi del
primo soccorso in caso di eventuali e sempre presenti guai,
abitando in un luogo dal quale era difficile raggiungere il
medico.
Aderì così alla proposta di Lila, firmò il contratto per la
compera dell’Enciclopedia. Alla domanda su dove potessimo
trovare alloggio per la notte, ci offrì la sua stanza con il letto
matrimoniale, e poi anche la cena. Insieme alla vedova Ilona
e ai suoi due robusti ragazzotti di venti e diciotto anni, solari,
dal colore dei capelli come quello del loro granoturco secco
e dal carattere allegro e gioviale, mangiammo una polenta
morbida condita con del kajmak sfuso. Il tutto
accompagnato da uno yogurt molto liquido, come una
bibita, gustoso e rinfrescante. Dopo mangiato ci trasferimmo
sull’aia nel retro della casa. I ragazzi ci offrirono frutta
essiccata al sole, albicocche, prugne, pere e noci,
l’immancabile šljivovica101, l’acquavite di prugne, forte,
profumata, presente dappertutto. L’aia era illuminata solo
dalla luna piena che a tratti scompariva dietro ai larghi
cumuli di nuvole in veloce movimento, portate da un vento
alto, non percettibile sopra la terra; all’improvviso il poco
fresco serale proveniente dal fiume si tramutò in un’afa
pesante. La corrente cambiò direzione. Le rane nello stagno
smisero di gracidare. Le oche e le galline nel loro recinto si
acquietarono. Anche le foglie degli alberi di acacia intorno
all’aia rimasero come sospese, senza respiro. Il cielo in
lontananza si mise a borbogliare, con tuoni sempre più
ravvicinati. I fulmini solcavano l’orizzonte con sciabole
infuocate e minacciose. I ragazzi di Ilona ci dissero:
- È troppo caldo, tuona e saetta ma vedrete non pioverà!
Ci ritirammo nella stanza offertaci dalla padrona di casa.
Una stanza contadina come tutte in quella zona, linda, con il
tipico odore di fiori di gelsomino e basilico essiccati e messi
nei sacchettini di tela per profumare la biancheria.
Il letto era alto e gonfio, a una piazza e mezzo, con il
saccone riempito di foglie secche di granoturco al posto del
materasso, ricoperto da piumini ed enormi cuscini in piume
d’oca, presenti d’inverno e d’estate. Il fruscio delle foglie
secche del materasso accompagnava ogni nostro
movimento. Ci rigiravamo sul letto con il serio pericolo di
ritrovarci per terra. Il caldo era asfissiante. Smossi i piumini,
tolti i cuscini, il letto diventò fresco ma anche scomodo.
Dalla piccola finestra entrava la notte con tuoni e fulmini
sempre più lontani. Non cadde una goccia di pioggia. Il
temporale si scaricò altrove, sulle montagne.
Ci svegliammo quando i ragazzi erano già sui campi. Ilona
ci aspettava con pane appena sfornato, marmellata di
prugne, burro. Durante la colazione ci indirizzò sulla strada
verso Virovitica102, disseminata da piccoli insediamenti rurali,
isolati o a pochi chilometri uno dall’altro in mezzo a campi e
stradine di campagna, sul quadrilatero verso il Drava.
Dell’arte naïf di Hlebine non trovammo tracce in paese. Ivan
Generalić, dopo il successo della mostra a Zagabria, aveva
cambiato residenza trasferendosi in un luogo più proficuo
per la vendita delle sue opere. Si pensava alla costruzione di
una galleria per l’arte dei pittori-contadini, ma in quel
momento c’erano altri problemi più impellenti da risolvere.
Decidemmo di rimanere dalla vedova Ilona finché i nostri
spostamenti avessero avuto una distanza che ci permettesse
il rientro di sera, naturalmente con mezzi di fortuna, ma in
verità confidando, più di tutto, nelle nostre gambe. Ci
avviammo sulla strada verso Djurdjevac103 in mezzo ai campi
di granoturco e senza essere sicuri della direzione. Né un
albero, né un campanile, né un’insegna. Pensavo che
l’inclinazione del sole e le nostre ombre potessero esserci
d’aiuto. Ma le ombre non c’erano. Significava che eravamo
vicino a mezzogiorno. L’accortezza di Lila ancora una volta
confermò la sua conoscenza di quei posti. Tirò fuori una
piccola bussola di fortuna. Spazi sterminati, chilometri e
chilometri di paesaggio uguale; da nessuna parte anima viva.
Né uomini, né animali, né un trattore, né una mietitrice.
Tutto piatto, basso, con il mais che superava la nostra
visuale! Certo, non era ancora il tempo della raccolta del
granoturco. Cosa ci dovevano fare gli uomini e gli animali
sotto quel sole infuocato di mezzogiorno e nella calura
umida e appiccicosa?! Anche le cicale facevano sentire solo a
tratti un breve stridio, disturbate dal nostro passaggio. Alla
fine di parecchie ore di cammino, raggiungemmo un gruppo
di casolari sul margine del fiume Mura. Incontrammo un
gruppetto di ragazzi che oziavano sotto un avvizzito,
giovane pioppeto.
Erano ben disposti alla chiacchiera. D’altronde sembrava
che avessero poche occasioni per parlare con estranei, per di
più ragazze. Quando hanno saputo che eravamo studentesse
e quel che eravamo venute a fare si prestarono a darci
consigli. Ci dissero di essere šokci104, croati dei villaggi di
quelle parti e che di loro potevamo fidarci, ma c’erano anche
serbi, cechi, slovacchi, ucraini e moltissimi ungheresi con cui
non saremmo riuscite a combinare nulla. Le loro tradizioni e
il loro modo di vivere era completamente diverso. I ragazzi,
tutti di quella zona, erano studenti della Facoltà di Economia
a Osijek105. Iniziò un discorso sulle condizioni di vita, la
collettivizzazione, lo scontento degli ex grandi proprietari
terrieri diseredati e resi poveri e dei poveri che non erano
diventati più ricchi. Tutta un’improvvisazione del Governo
Federale, con la sua politica agraria sul modello sovietico,
fatta e condotta negli uffici: la collettivizzazione e
redistribuzione delle proprietà a gruppi di serbi privilegiati,
ma non capaci, come si era dimostrato in pochi anni
disastrosi alla fine della guerra, con la promessa di creare una
classe operaia sul modello del socialismo sovietico attraverso
la dittatura del proletariato. Per questo molti contadini non
tornarono nella loro ricca Slavonija. Attirarono addirittura
molti parenti, amici, conoscenti che andarono dietro a nuovi
mestieri, per i quali non erano affatto preparati. I disagi si
sarebbero presto fatti sentire. La migrazione dalla campagna
nei grandi o più piccoli centri suggerì ai governanti di
popolare la Slavonija, la Vojvodina e poi le regioni autonome
annesse alla Serbia, con gente proveniente dai territori
distrutti e incendiati in guerra. Dalla Krajina bosniaca, dalla
Baranja106, dal Kordun107 e dalle montagne Kozara e
Grmeč108, partirono i cosiddetti treni senza orario per la
Slavonija. Lo spostamento della popolazione dalla zona
montagnosa, pastori e contadini con tradizioni e abitudini
completamente diverse, trapiantati tra contadini con domicili
organizzati e stabilizzati malgrado fossero stati dimezzati e
indeboliti dalla guerra e dalla migrazione nelle città, si
dimostrò devastante. I nuovi arrivati cercarono per anni di
adattarsi alle nuove condizioni, senza successo. Diventarono
il pomo della discordia, senza incentivi e interessi, improduttivi.
Vigeva il detto: “non puoi mai tanto poco pagarmi, quanto poco
posso lavorare”. Le megalitiche proprietà collettivizzate erano
guidate da gruppi e da singoli privilegiati. In piena opera era
il collettivismo, il cosiddetto bene comune. I beni collettivi
diventarono abbastanza velocemente riserva di caccia dei
gruppi scelti e di singoli messi dallo Stato. Spesso senza
necessarie nozioni e senza una valida programmazione. Si
emanarono leggi agrarie che sembravano progressiste, ma
servivano solo come copertura all’improvvisazione. Il potere
del gruppo faceva quel che voleva. Lo sviluppo dei grandi
collettivi in Slavonija raggiungeva risultati produttivi anche
alti, ma per breve. La programmazione inadatta rallentava il
naturale cammino e portava ad una produzione sempre più
bassa, all’impoverimento. A queste condizioni economiche
lo Stato, per giustificare la propria funzione dirigente e del
Partito, elargiva il diritto di stabilire il monopolio,decideva i
compensi per il lavoro svolto, disponeva del capitale e dei
mezzi di produzione. Infatti, il suo scopo primario non era la
soluzione dei problemi sociali ed economici dei contadini
lavoratori, ma l’assicurazione del funzionamento dello Stato
centrale. Non si rendeva conto che i repentini spostamenti di
popolazioni intere dalla montagna alla pianura, ma anche
dalla campagna in città, e la politica agraria decisa e condotta
negli uffici di Belgrado, erano semplici improvvisazioni che
danneggiavano le spostate popolazioni, incapaci di liberarsi
delle tradizioni tramandate di generazione in generazione.
Queste dunque erano le opinioni degli studenti šokci,
autoctoni abitanti della Slavonija, popolata da un groviglio di
minoranze varie. I šokci della Slavonija, dicevano gli studenti,
rivendicavano il diritto dei loro avi giunti in quella terra già
nel settimo secolo d.C. La Slavonija è stata da sempre luogo
d’incontro d’interessi contrapposti, zona di confine tra
distinte sfere politiche, religiose, linguistiche e culturali. La
storia della Slavonija, in quanto regione che con la Dalmazia
componeva il regno medievale della Croazia, comprende
anche la storia delle popolazioni croate presenti nella
regione. Un popolo che dopo secolari traversie era riuscito
ad affermarsi come moderna nazione croata appena
nell’Ottocento e nel corso del successivo secolo come Stato
nazionale. Alla mia domanda su cosa pensassero della
preparazione della nuova Costituente per l’introduzione
dell’autogoverno delle Repubbliche e di conseguenza di tutte
le attività della vita sociale, che avrebbe dovuto portare una
maggiore autonomia dal Governo Centrale, cambiamento
voluto e sostenuto da Tito, gli studenti dimostrarono una
forte perplessità. Sottolinearono:
- Il potere difficilmente molla le redini che ha in mano.
La proposta dell’autogoverno non è ancora matura. Si potrà ottenere
poco o niente. È solo un cercare di tirare avanti.
- Allora, cosa succederà?
- Niente per ora. Si andrà avanti così per altri vent’anni. - E poi?
- E poi ci sarà un’altra guerra. Questa volta tra fratelli. E non la
fermerà nessuno, perché interna, appartenente alla sovranità del Paese!
La Jugoslavija, fuori dai blocchi politico-militari, non è più cuscinetto
di possibili scontri, e le sue condizioni interne non interessano nessuno. Questo era il pronostico nel pieno del cosiddetto sviluppo e
benessere. Solo le capacità di Tito riuscivano a reperire aiuti
internazionali, sia dall’occidente che dall’oriente, e a far
arrivare beni di consumo a basso costo per far sembrare
ancora forte il Potere. Tutto il tempo che ci trattenemmo in
Slavonija, respirammo un’atmosfera di scontento. Il contatto
diretto con quella gente semplice, malgrado tutto ospitale, di
indole tranquilla, anche fiduciosa, era diventato cordiale. I
discorsi meno guardinghi. I rapporti invece molto più
formali con i dirigenti dei grandi collettivi, tutti serbi
denominati stranieri, alquanto isolati per propria scelta, ma
anche per prudenza contadina.
Questi personaggi stranieri vivevano in disparte. In certe
occasioni eravamo invitati nelle loro case per le feste
organizzate alla fine del raccolto del tabacco, del granoturco
o della mietitura del grano. Ogni occasione era buona per
ammazzare il vitello o il maiale, improvvisare un grande
girarrosto in mezzo all’aia, far scorrere fiumi di grappa
šljivovica per tre giorni interi, quanto duravano le loro feste.
Tutti ubriachi, sempre più disponibili ad aizzare baruffe
contro i loro simili e con gli altri, che rispondevano meno.
Alle loro feste con balli e canti della tradizione serba ho visto
invitati Šokci, Magiari e Švabe109. Si distinguevano dai vestiti
tradizionali, ma anche dal comportamento. I magiari erano
estroversi, allegri, molto attenti; gli švabe insignificanti,
immediatamente ubriachi e taciturni, assenti; i šokci
indifferenti in apparenza, un po’ sostenuti, dai movimenti
lenti, misurati come le loro canzoni e i loro balli, dalle risate
sommesse e di rado ubriachi.
Le case dei dirigenti serbi dei grandi collettivi erano
spesso di nuova costruzione, oppure quelle dei contadini
migrati in città o requisite ai più ricchi costretti a unirsi a figli
o parenti in un unico domicilio. Di solito avevano la cucina
spaziosa con enormi stufe maiolicate che, nell’inverno rigido
e lungo, servivano a riscaldare l’ambiente per le riunioni di
abitanti, parenti e visitatori, intorno a un grande tavolo
imbandito. Tutte avevano il pavimento di legno, spessi e
ruvidi tappeti tessuti sul telaio, che coprivano ottomani e
panche. Ma tutto meno lindo delle case dei šokci, di estrema
pulizia. In quelle case si cantava e si ballava spesso, si
mangiava e si beveva. Avevo l’impressione che il loro
divertimento principale fosse nei grandi pasti e
nell’abbondante šljivovica, come una caratteristica nazionale.
C’era anche differenza tra i serbi stanziali e i serbi fatti
arrivare dalla montagnosa Bosna. I serbi bosniaci,
probabilmente da secoli abituati alla loro terra povera e avara
e alla convivenza con i musulmani, non bevevano molto,
non mangiavano carne grassa, cercavano di adattarsi al
lavoro, al divertimento, alla vita, ma erano e si sentivano
indesiderati, considerati come qualcosa di estraneo. Avevo
una strana sensazione, un misto di pena e rabbia per la loro
incapacità di reagire. Ma per questo probabilmente sarebbe
servito altro tempo!
Mentre i magiari e gli švabe, con una numerosa parentela
sulla sponda settentrionale del fiume Drava, nella Baranja
ungherese, dove si rifugiavano ogni qualvolta i lavori sui
campi non li costringevano sul posto, ignoravano i serbi. I
šokci facevano sempre più spesso trapelare il loro odio
viscerale verso i serbi in quanto fratelli, parenti prossimi, da
sempre desiderosi di intrufolarsi lì dove non era il loro
posto.
Nei rapporti tra i contadini stanziali, šokci, magiari e švabe,
ormai da centinaia di anni presenti nella Slavonija, non era
impossibile una serena convivenza. Più o meno legati alle
loro tradizioni, nella vita quotidiana si aiutavano, si
frequentavano, partecipavano alle feste gli uni degli altri, si
sposavano tra loro. Diventati parenti e amici, dimostravano
la necessità di dimenticare i secoli di conflitti imposti per
questioni che spesso non li toccavano nemmeno, perché
appartenevano a interessi di ben distinte sfere politiche.
Loro, da contadini senza istruzione, erano preoccupati per i
raccolti, per il bestiame, per il benessere della prole, senza
che gli interessasse molto a chi pagassero la gabella. Bastava
che li lasciassero campare tranquilli. Il senso dello Stato
nazionale e la possibilità d’istruzione per i loro figli li
raggiunsero solo nell’Ottocento.
Nelle notti afose di quell’estate, con l’aria satura del
polveroso odore del grano maturo nel pieno della mietitura,
cercavo di ricordare quello che avevo conservato dei vecchi
studi di storia nella mia memoria di adolescente. In realtà
solo qualcosa di lontano, nebuloso, come date, nomi,
battaglie, altalena di dinastie, veloci o prolungate
occupazioni, ma nulla che si fosse fissato in me con
un’immagine. Mentre la geografia la studiavo seguendo la
carta geografica, viaggiando con l’immaginazione da una
all’altra parte del mondo, la storia, indefinita nelle parole
masse, popolazioni, raccontata spesso da gente l’una contro
l’altra, non suscitava in me quella sensazione di realtà. Come
se non fossero stati processi vivi, con protagonisti reali giusti
o ingiusti. La Storia l’ho vissuta da sempre come una
giustificazione di battaglie, occupazioni, morti ammazzati,
desiderio di prevaricazione. Interpretata in modo diverso, a
seconda di chi la raccontava. È possibile seguire la storia
senza volere necessariamente discolpare qualcuno per le
azioni perpetrate?
Ricordavo che il più autorevole narratore delle condizioni
croate, dalle sue migrazioni dalla pianura transcarpatica del
settimo secolo, era stato Costantino Porfirogenito.
Egli narrò che tra le tribù slave si distinguevano i croati
che si insediarono nella Slavonija Pannonica a nord delle
Alpi Dinariche e quelli nella Dalmazia sulla costa adriatica.
Nel Nono secolo entrambi gli insediamenti erano già stati
convertiti al cristianesimo e nel Decimo diedero vita a un
solo regno con il primo re Croato, Tomslav, incoronato nel
925 a Gradec, futura Zagabria. Dal Decimo secolo la società
croata conobbe le prime differenziazioni sociali: gli schiavi, i
coloni, i contadini impoveriti fusi con i servi della gleba. Il
regno era diviso in županije110, con i župani111 che, al servizio
del sovrano, controllavano ampi possedimenti terrieri.
L’ultimo grande sovrano, Zvonimir, duca della Slavonija, si
imparentò con la dinastia Arpad, permettendo una certa
individualità statale garantita dal sabor112, con un ban113
rappresentante della nobiltà croata. L’unione della Croazia
con l’Ungheria, nei secoli a seguire, portò all’affermazione
dei grandi signori feudali e del ceto medio. Si affermò il
concetto di regno trino: Slavonija-Croazia centrale-Dalmazia.
Conflitti interni nella dinastia Arpad portarono la nobiltà
croata a schierarsi con la dinastia degli Angiò, sperando di
ottenere l’appoggio del Papa Bonifacio VIII contro Venezia
in Dalmazia. Il continuo trasferimento della corona dagli
Arpad agli Angiò ridusse l’economia allo sfacelo attraverso
gabelle, dazi e il passaggio dal baratto al sistema monetario.
Il cerchio Ottomano, sempre più minaccioso sulle frontiere
e le battaglie per scacciare Venezia dalla Dalmazia,
caratterizzarono altri due secoli di altalenante occupazione di
queste terre, sottoposte alle mire espansionistiche di tanti e
di troppi: dei grandi signori croati, di dinastie e nazioni
straniere. Da una parte si crearono innegabile prosperità e
ricchezze feudali e dall’altra contadini sempre più impoveriti.
Nel Quindicesimo secolo, e qui i secoli galoppano, gli
Ottomani si lanciarono di nuovo in rapide incursioni con le
truppe irregolari e mercenari di origine ortodossa, con lo
scopo di costringere la popolazione croata alla fuga.
Il baluardo sulla frontiera bosniaca, alzato contro queste
incursioni dai sovrani ungheresi, non resistette. I croati
nobili decisero di far finire queste scorrerie, ma nello scontro
sul fiume Krbava subirono gravissime perdite e i territori
della Lika e dell’adiacente litorale adriatico rimasero senza
difesa, costringendo la popolazione a un altro esodo verso le
città e le isole dalmate, protrattosi per decenni. Gli Ottomani
divisero le terre conquistate in sangiaccati, creando condizioni
per l’insediamento dei mercenari provenienti dall’interno
della Serbia, i cosiddetti vlasi114. I croati rimasero per decenni
impegnati nella piccola guerra contro gli Ottomani e
contemporaneamente nella grande guerra contro l’Ungheria e
l’Austria. Quando il re ungherese perse la battaglia e la vita
contro i turchi a Mohač115, la Croazia, abbandonata a se
stessa, dovette ricorrere all’aiuto degli Asburgo, riducendosi
alla fine ai resti dei resti del celebre regno sotto gli Asburgo, come
più forte potere europeo.
Nell’anno 1600 gli Asburgo sottrassero i territori
controllati dal Sabor di Zagabria, ora abitati dai morlacchi
ortodossi, per organizzarli come frontiera militare autonoma
governata da Vienna. La Croazia venne ulteriormente
dimezzata nella Croazia civile del ban di ordinamento feudale,
che conobbe un rigoglioso sviluppo e l’affermazione delle
grandi famiglie nobili croate che dominarono politicamente
ed economicamente con interessi sempre meno coincidenti
con la corte di Vienna, in contrapposizione a quella militare
della Krajina, dove c’erano solo ufficiali austriaci, gli
irregolari morlacchi, ai quali le differenze etniche e religiose
dettero un ordinamento ufficiale completamente diverso da
quello della Croazia feudale.
Alla fine del Settecento furono soprattutto le riforme di
Maria Teresa d’Austria e di suo figlio Giuseppe II a
caratterizzare i conflitti tra le diverse nazioni della Monarchia
Asburgica. Si verificò l’estinzione della lingua tedesca su
tutto il territorio, mentre gli ungheresi cercavano di imporre
l’ungherese e i croati di difendersi dalle nuove idee
rivoluzionarie che circolavano con l’arrivo delle truppe
napoleoniche.
Napoleone contribuì alla realizzazione della Provincia
Illirica. Più che le riforme napoleoniche fu l’eredità della
memoria Illirica a lasciare maggiore traccia nella vita
culturale e nei nascenti sentimenti nazionali.
Il Regno di Croazia-Slavonija, staccato dalla Krajina e
dalla Dalmazia come regno a sé, diede vita al Movimento
Illirico che propugnava la comunità di tutti i popoli illirici e la
dignità della lingua croata. Con l’inizio del Risorgimento
Croato e l’annessione della Dalmazia, si ricostruì il triplice
regno: Croazia-Slavonija-Dalmazia. La lingua croata diventò
lingua ufficiale e avvenne la crescita culturale di Zagabria con
la fondazione dell’Accademia di Scienze e Arti e
dell’Università. Soppressa la Krajina militare, divenne parte
della Slavonija-Croazia. Crebbe il malcontento politico per la
marginalità della Dalmazia nella vita pubblica, ma soprattutto
per gli scontri con i serbi dell’ex Krajina, ora parte cospicua
della Banovina Croata. Alcuni politici croati sperarono
nell’autonomia in seno ad uno Stato degli Slavi del Sud in
Jugoslavija. La Prima Guerra mondiale del ‘15-‘18 aprì la
questione del futuro del popolo croato. Nel 1918 si sciolse
l’Impero Austro-Ungarico e fu fondato il Regno dei Serbi
Croati e Sloveni sotto la dinastia serba dei Karadjordjević.
Presto si verificarono attriti tra croati e serbi che
destabilizzarono il Paese controllato dai secondi nelle
istituzioni chiave. La proclamazione della dittatura e la
costituzione della Jugoslavija non ebbero grandi risultati. Nel
1934 la stagnazione economica impedì un rilancio della
Croazia. Questa rimase agricola, ma i contrasti si placarono
col riconoscimento della Banovina di Croazia, dalla forte
autonomia nell’interno della Jugoslavija. Con lo scoppio
della Seconda Guerra mondiale, la Jugoslavija gravitò tra i
paesi filotedeschi. Le terre croate confluirono nello Stato
Indipendente Croato di Ante Pavelić. I croati parteciparono
alla formazione del Movimento di Resistenza Partigiana
guidata da Tito e dal Partito comunista.
Nel 1945 i partigiani ebbero ragione su tedeschi e ustaša e
la Jugoslavija divenne un Paese socialista di iniziale
ispirazione sovietica, con il monopolio del Partito
Comunista al potere. Nel 1948 si giunse al nuovo modello
socialista dopo il distacco dall’URSS, poi nel 1953 al
Federalismo Centralizzato e dal ‘63 alla fase liberale.
Nell’estate del ‘60 eravamo all’avvio del liberalismo nel
quale l’identità nazionale specificatamente croata si
risvegliava, ma le frontiere storico-geografiche erano
tutt’altro che definite. Sfogliando l’atlante storico si osserva
quante volte il territorio della Croazia medievale sia passato
da un protettore all’altro. La Croazia, per secoli associata
all’Ungheria e poi all’Austria, con l’inserimento della
Dalmazia nell’orbita veneziana, subì una dicotomia politicoculturale in seguito alla quale storicamente esistono due
Croazie, una gravitante verso l’area germanico-asburgica,
cioè la Croazia vera e propria con la Slavonija, e una
seconda, la Dalmazia, rivolta verso Venezia.
Ma io ero in Slavonija per la prima volta e finalmente
capace di osservarla. Terra antichissima, la Slavonija assolse
nei millenni la funzione di corridoio per il passaggio dei
popoli bellicosi, perciò in continuazione distrutta e
saccheggiata, quasi completamente spogliata delle
ricchissime vestigia risalenti all’età neolitica e dell’antica
Pannonia Romana.
Negli anni ‘50-‘60 la Croazia visse un’accelerata
industrializzazione che interessò molti settori: l’industria
alimentare, il petrolchimico, l’industria pesante la
cantieristica e il turismo in Dalmazia. Ma i problemi
economici e gli indebitamenti con l’estero fecero affiorare
contrasti tra la ricca Repubblica Croata e Belgrado. La
popolazione serba concentrata nella Krajina si ribellò contro
la Croazia più libera, ma il carisma di Tito ancora una volta
tenne unito il Paese e, con la preparazione della nuova
Costituzione per una maggiore democratizzazione interna,
suscitò le speranze di molti.
Dopo una decina di giorni di spedizioni forzate da un paese
all’altro lungo il Drava fino a Donji Miholjac 116, sull’unione
di questo fiume con il Danubio, decidemmo che saremmo
scese nell’interno della Slavonija meridionale, nella Posavina
lungo il fiume Sava, la terra delle grandi città avviate
all’industria. Era tutto un fermento per la lavorazione del
legno, la trasformazione di frutta e verdure, la produzione di
olio di girasole, vino e grappa a livelli industriali, ma sempre
con parecchie difficoltà per la mentalità e le abitudini degli
operai-contadini legati al doppio lavoro in fabbrica e al fuori
orario in campagna. D’altronde era l’unico modo per
garantirsi una vita più agiata, con tutti i pericoli e gli
inconvenienti del non essere ancora operai ma non più
contadini. La collettivizzazione delle proprietà non
permetteva loro di essere quello che erano: contadini. La
terra lasciata alle loro cure non era sufficiente nemmeno per
farli sopravvivere.
Con dei pellegrinaggi lungo il fiume Sava arrivammo
anche a Nova Gradiška117, cittadina di circa trentamila
abitanti alle pendici meridionali del monte Psunj, coperto di
boschi. Era un centro di fabbriche per la lavorazione del
legname e la costruzione di mobili, con un vivissimo
artigianato artistico in legno di noce. La vicinanza ai piccoli e
pescosi affluenti del fiume Sava e al monte Psunj, ricco di
cacciagione, ne facevano anche un centro di attrazione
turistica. Ricordavo che la famiglia di Wilma era oriunda di
Nova Gradiška, ma più di tanto non sapevo.
Il centro di Nova Gradiška era d’impianto medievale, con
palazzi e chiese barocche su strade che si allargavano in
cerchio verso la periferia alle pendici del monte Psunj, verso
černik. Nel ‘60 černik era ancora la periferia di Nova
Gradiška, abitata da antiche famiglie croate. Il paesaggio si
presentava molto gradevole con le sue case bianche recintate
e l’aia con i fienili aperti ai lati per l’essiccazione del tabacco
o per la conservazione delle pannocchie di granoturco,
appese ai sostegni sotto il tetto scurito dall’umidità. Ai bordi
delle spaziose aie c’erano alberi di acacie e irti arbusti
variopinti di rosa malva che ravvivavano il verde persistente
delle distese di alberi di prugne, talmente pieni di frutta sui
loro rami piegati, da assomigliare, da vicino, a salici
piangenti, ma tutti viola. L’odore pungente della grappa di
prugne aleggiava un po’ dappertutto, allargando i suoi fumi
dalla vicina distilleria.
Ebbi l’idea di cercare e di scoprire tracce dell’esistenza di
parenti di Wilma e di zia Marica. Non sapevo quasi nulla di
quella famiglia e ne ero incuriosita. Mi recai all’anagrafe.
Trovai un unico discendente dell’antica famiglia Barac 118.
Non era difficile rintracciarlo. Era molto noto sia nei
mercatini dei paesi circostanti che tra i contadini del
circondario, una specie di artigiano-scultore in legno. Hrvoje
Barac raccoglieva, un po’ dappertutto, forme di tronchi
particolari di quercia che gli ispiravano soggetti vari per le
sue opere che poi vendeva ai mercati settimanali. Lo trovai
intento a scolpire il legno in una baita costruita in fondo
all’aia della sua casa, su di una pendice con vista su frutteti e
vigne. Ricordava benissimo Wilma. Da ragazzina aveva
vissuto nella casa poco lontano. Tutte le case di černik, che
una volta erano in aperta campagna, avevano una storia
molto antica, come i loro proprietari. Più volte nei secoli
erano state rimaneggiate, ingrandite secondo necessità, ma
mantenendo le proprie tradizionali sembianze di casa
squadrata con aia, orto, fienile, ricovero per animali
domestici e attrezzi.
Hrvoje conosceva la storia dei tre rami della famiglia
Barac. Il primo era quello di Krsto Barac, nominato nel
Quindicesimo secolo nei documenti diocesani di Požega,
dove sposò Magda Lajoš119, ungherese di Sigetvar. Da Krsto
Barac si sviluppò la famiglia che tramandò questo nome
lungo i secoli, fino alla fine dell’Ottocento; l’ultimo Krsto fu
il padre di Wilma. Questi sposò in prime nozze Ilona Nemet,
bellissima ungherese di Kečkemet ed ebbe Wilma e Dušan.
Ilona morì molto giovane e Krsto in seconde nozze sposò
una vedova croata con tre figli minori. Il padre di Wilma,
apprezzato falegname-ebanista, costruiva mobili noti non
solo nella Slavonija. Non si abituò mai al lavoro nei campi.
Nel 1930 emigrò in America. Abbandonò la seconda moglie
con tutti i figli, propri e della vedova. Wilma finì dalle suore
a Požega e Dušan a imparare il mestiere del padre, per il
quale aveva una spiccata predisposizione. Infatti, sarebbe
diventato un apprezzatissimo mobiliere. Oltre al ramo di
Krsto Barac c’era quello di suo cugino Slavo Barac che,
sempre nello stesso periodo, sposò la sorella di Magda Lajoš,
di nome Giula. Le due sorelle erano figlie di un ricco
allevatore ungherese, commerciante di cavalli e bovini. Slavo
Barac rimase a vivere e a lavorare dal suocero a Sigetvar, in
Ungheria. Nella metà del Quindicesimo secolo Lajoš forniva
i cavalli all’esercito austroungarico nella Krajina, per cui
Slavo si stabilì con la moglie a Posušje 120, allargando il
commercio del bestiame che gli forniva il suocero Lajoš da
Sigetvar. All’avanzare degli uskoci121, si stabilirono nella
Krajina e Slavo Barac si spostò a Podgora sulla costa
adriatica. La sua famiglia rimase a Podgora e i suoi
discendenti si spinsero fino alle isole dalmate, sotto
protezione austriaca. I tre fratelli discendenti di Barac si
spostarono sull’isola di Lesina, a Brusje, dove continuarono
a fare gli allevatori di bestiame, ma anche i braccianti. Uno di
loro, Antun, nel Diciannovesimo secolo sposò la splendida
Margarita Dubovac-Dubović, figlia di un’antica famiglia
croata, madre della bella Nina e mia nonna.
Altri discendenti di Slavo Barac, da tempo a Podgora,
fecero sposare una figlia al ricco commerciante Piva, padre
di zia Marica, che si stabilì sull’isola di Curzola. Il ramo Barac
al quale apparteneva Hrvoje era l’unico rimasto in Slavonija e
aveva dato origine a una famiglia di artigiani. Il figlio di
Hrvoje, Miroslav Barac, professore universitario e autore di
molti libri di Linguistica slava, l’avrei incontrato all’università
senza sapere che fosse un mio lontano parente. Hrvoje non
conosceva particolari della famiglia di Slavo Barac, migrata
alla fine del Cinquecento in Dalmazia. La ricostruzione del
ramo cosiddetto dalmato l’avrebbe fatta molti anni più tardi il
professor Mate Grabovac122, accademico e scrittore, cugino
di Margarita Dubović. Così avrei scoperto la parentela e una
famiglia nobile con tanto di stemma.
Fu una strana sensazione per me che mi ritenevo da
sempre senza radici. Non è che queste parentele abbiano mai
avuto alcuna influenza sui miei percorsi di vita.
Con Hrvoje passammo bellissime giornate. Aveva una
splendida e giovane cavalla di nome Vilica 123, che lo portava
in calesse nei paesi circostanti. Oltre a offrirci vitto e
alloggio, insisteva per accompagnarci con Vilica di mattina
presto nelle nostre spedizioni. Ci fece conoscere molta gente
e molti comprarono la nostra Enciclopedia.
Dopo una settimana Lila disse che aveva fatto molto di
più di quanto prevedeva e potevamo ritirarci dal lavoro.
Personalmente non avevo combinato nulla. Non ne ero
capace. Mi occupavo di tutto, ma non dell’offerta del libro.
Mi sembrava di imbrogliare la gente. La parlata di Lila,
così persuasiva e sicura, mi faceva spesso pensare a quanto la
mia presenza fosse priva di utilità. Decisamente non ero
capace di vendere. Era certo che il guadagno di quella fatica
fosse merito di Lila. Alla fine di lunghi convincimenti Lila
accettò di dividere il guadagno, come mi sembrava giusto.
Decidemmo che l’ultima settimana avremmo cercato di
riposarci a Lipik per avere la possibilità anche di visitare
Požega. Trovammo sistemazione in una casa privata. Ville,
giardini, impianti sportivi e uno stabilimento termale dalle
linee classicheggianti dimostravano la tradizione turistica di
Lipik, a suo tempo amata dall’aristocrazia austro-ungarica
per le acque termali ricche di sodio, fluoro e calcio.
Lipik, distesa alle pendici del boscoso Psunj, era
gradevolmente fresca di sera, anche se torrida di giorno.
Trovammo delle trattorie con cucina regionale molto ricca e
saporita come il kulen124, čobanac125, fiš-paprikás e tra i dolci la
gibanica126 e la gùžvara127. Anche le tradizioni popolari erano
vivissime a Lipik. Canti accompagnati dalla tamburica128
animavano numerose manifestazioni dedicate al folklore,
dove si riscontravano influssi diversi: accanto ai šokci croati
c’erano quelli serbi, ungheresi, ucraini, tedeschi.
A Lipik c’era una vivace produzione di scultura naïf in
legno. Bei pezzi, singolari, attirarono la mia attenzione e non
resistetti a uno splendido cavallo imbizzarrito. Lipik, piccolo
centro termale, molto frequentato da politici e da altra gente
con le tasche piene di soldi, arricchimenti incomprensibili
per impieghi statali seppur, privilegiati, agevolati anche nelle
cure termali. A Lipik come a Požega non si respirava l’aria
pesante della campagna. Sembravano due mondi diversi. In
città si aveva una strana sensazione, come di appagamento.
Gli operai erano organizzati, socialmente seguiti,
politicamente istruiti, ma sempre contadini nelle abitudini e
nella mentalità. Il proletariato, infatti, non si forma in una
manciata di anni.
Anche Požega, denominata l’Atene della Slavonija,
meritava i nostri vagabondaggi. A Požega già nel
Diciottesimo secolo fu istituita l’Accademia dei Gesuiti,
quella dove aveva studiato il futuro vescovo zagabrese A.
Stepinac129. Era stato aperto il primo Ginnasio e altre scuole
professionali in Slavonija. Iniziarono a lavorare le tipografie,
a stamparsi libri e giornali.
Il bel centro storico, formato da palazzi dalla struttura
tardo-gotica e viuzze con piccole botteghe artigianali, nel ‘60
era divenuto sede di cooperative statali che portavano avanti
la tradizionale costruzione di mobili di altissima qualità,
esportati in tutto il mondo. Požega a quei tempi era il ricco
fulcro economico della fertile vallata del fiume Orljava 130
grazie all’industria alimentare e di alcolici. Nella nuova
fonderia erano accorsi molti contadini, che però non
abbandonarono completamente i campi. Lavoravano nelle
fabbriche e aiutavano i cugini in campagna, mantenendo il
loro vecchio domicilio. Non erano né operai né contadini.
Ma per loro tale condizione era migliore rispetto a quella di
chi si era dovuto allontanare dal proprio focolare.
XII. Bosna - Ilidža
L’ultima settimana di luglio tornammo a Zagabria e
ripartimmo, Lila per casa sua e io alla volta di Spalato,
proseguendo per Metković e lungo il fiume Neretva verso
Mostar e poi Sarajevo.
Alla vecchia stazione ferroviaria di Sarajevo mi attendeva
Rade. Era sceso dalla montagna per far visita ai parenti
materni a Ilidža131. Mi ricevettero con un’eccezionale
ospitalità; bella casa, un konak a piano unico, con giardino.
Un po’ solitario. La zia di Rade, una bella donna, mora di
carnagione con splendidi occhi tanto neri da non
distinguerne le pupille, indossava le famose dimie turche. Era
musulmana, come suo marito. Tutto parlava della loro
appartenenza a quel credo: il vestire, il comportamento, il
modo di vivere, le abitudini e le tradizioni molto radicate e
rispettate. Sull’uscio di casa, Rade si tolse le scarpe. Pensai ai
miei piedi, dopo una notte e mezza giornata nel treno
surriscaldato e polveroso con i sandali bassi, aperti. Prima
che riuscissi a realizzare, la cugina Fatma, una bellissima
ragazza non più grande di vent’anni, taciturna e riservata e,
come la madre, di grande somiglianza con Rade, mi
accompagnò al grande bagno tutto bianco, compresi i
tappeti di lana grezza coperti dalla striscia di cotone lunga
fino a una piccola vasca squadrata e l’altra molto grande e
profonda. Con discrezione mi spiegò che nella vasca piccola
si lavavano i piedi con l’acqua corrente, mentre la grande era
per il bagno turco, ma si poteva anche fare la doccia. Credo
che fosse abituata a dare queste spiegazioni agli ospiti non
musulmani. All’uscita dal bagno Fatma mi porse un paio di
calzini bianchi, uguali a quelli che portava lei, e poi mi
accompagnò in una spaziosa stanza con panche basse e
ottomani, tutti coperti con più strati di tappeti e un’infinità di
cuscini di varie misure, e nessun altro mobile. La grande
porta a tutta parete, aperta sul cortile alberato racchiuso da
alte mura, faceva entrare un ombroso fresco. Un’altra
ragazza, la cugina Raina, adolescente e molto affettuosa con
Rade, probabilmente per la sua giovane età, ci portò la
brocca di creta gocciolante con bibita fresca, frizzante e
dissetante. Non era né limonata, né aranciata, ma una
bevanda sconosciuta e deliziosa: la boza132. Dopo breve
tempo due donne anziane con l’aiuto di Fatma e Raina
iniziarono a portare grandi recipienti di rame dall’interno
maiolicato, la sofra133, con del cibo, e li appoggiarono in
mezzo alla stanza su una candida tovaglia, sulla miza134 stesa
per terra sui tappeti. Entrarono degli uomini: il padrone di
casa, due suoi fratelli e il cognato, fratello della zia di Rade,
con il figlio Orhan. Si disposero in cerchio intorno al cibo
fumante, molto profumato di spezie. Gli uomini erano
vestiti con pantaloni e camicia tipo casacca e gli immancabili
calzini bianchi. Gli anziani portavano in testa un fez135 di lana
pressata, il copricapo turco a tubo altrettanto bianco. Più
tardi avrei imparato che le calze bianche sono una
distinzione musulmana, il senso della pulizia, mentre il fez un
segno di appartenenza nazionale. Le donne non si
avvicinarono per il pranzo. Rimasero in disparte. La zia di
Rade, seduta sulla bassa panca vicino l’ingresso della cucina,
controllava l’andamento del pranzo e il cambio della sofra che
prontamente eseguivano Fatma e Raina, mentre le due
donne anziane erano impegnate in cucina. Le pietanze erano
svariate, difficili da individuare, ma dal sapore eccezionale. I
commensali si servivano da soli e dopo ogni portata, la sofra
veniva prontamente cambiata. Non era possibile rifiutare
una pietanza. Rade mi fece capire che era offensivo non
accettare quello che era stato preparato e portato sulla miza.
Avevo fatto presente che mi sentivo a disagio come unica
donna alla miza. Mi risposero che l’ospite è sacro per
tradizione. Conclusi che le donne mangiavano insieme agli
uomini solo se erano ospiti. Risero della mia considerazione
e risposero:
- No, le donne musulmane ospiti si accompagnano con le donne di
casa. Le donne hanno i loro discorsi e gli uomini i loro! Ribattei che, secondo quanto detto, io allora stavo
intralciando i discorsi degli uomini!
- No! - mi rispose Assad, lo zio più anziano di Rade - Lei è
ospite di nostro nipote Rade, sappiamo che le sue abitudini sono diverse
e che lei desidera conoscere le nostre, come pure la poesia epica
tradizionale. Anche noi siamo tutt’oggi testimonianza delle nostre
epopee. Un esempio della nostra splendida poesia popolare bosniaca è la
Canzone dolente della sposa di Hasan Aga. Pensai che probabilmente ignoravano che Alberto Fortis
già nel Settecento aveva inserito questo poema nel suo
celebre libro Viaggio in Dalmazia, e che per questo non era
più considerata epica popolare.
Ero estremamente grata a Rade per le attenzioni nei
confronti delle mie necessità. Durante il pranzo discutemmo
delle condizioni che avevano fatto di quella zona
bosniaca un vivissimo centro di poesia popolare trasmessa
oralmente dai vecchi cantori. L’anziano zio di Rade, Assad,
ricordava che durante certe feste nella montagna sopra
Goražde136, dove si era sposata la loro sorella più grande con
il cugino Soliman, aveva ascoltato un vecchio cantore.
Parlammo della Bosna, che insieme alla Hercegovina più
cattolica, già nel quarto secolo era stata divisa con il fiume
Drina in Impero Romano d’Occidente e nell’Orientale
Bisanzio. La Bosna fu oggetto di innumerevoli contese, varie
dominazioni e cinque secoli di governo Ottomano che
lasciarono un’impronta molto forte. I più antichi abitanti
illirici e più tardi romani si insediarono a Ilidža approfittando
delle sue sorgenti sulfuree e già nel 1400 venne abitata anche
dai turchi, che nei secoli l’hanno completamente trasformata
in loro provincia, facendola diventare zona di confine tra il
mondo islamico e quello cristiano. Si svilupparono numerosi
traffici e commerci, spostamenti e nuovi insediamenti. Era
così, dissero, che la famiglia Skender 137 approdò a Sarajevo
con il suo mestiere di kujundžije138, prima come commercianti
e poi stabilitisi con il loro laboratorio di battitori di rame nella
Baščaršija139, antico mercato di Sarajevo. Trattenendo i
rapporti con il resto della famiglia a Costantinopoli, avevano
sviluppato in seguito un mercato molto più vasto con oggetti
d’argento, lavorati in filigrana e gioielli in oro. Con lo
sviluppo di Ilidža come centro termale, il più giovane dei
fratelli, Ahmed, l’orefice che aveva sposato la zia di Rade, si
trasferì in quella bella cittadina, più tardi diventata sobborgo
di Sarajevo, collegata dall’antico tram prima tirato dai cavalli
e poi elettrificato. Ahmed comprò l’antico konak140 signorile,
palazzo turco sulla riva del fiumiciattolo Lastva e nel centro
storico aprì un’oreficeria, punto di riferimento per tutti quelli
che desideravano un particolare gioiello o un pezzo unico.
Tutto ciò avvenne immediatamente prima della guerra. Poi ci
fu il conflitto, l’occupazione, l’annessione al nuovo Stato
Indipendente Croato. Gli ustaša, attaccando la popolazione
musulmana, procurarono la crisi. Alla fine del conflitto
mondiale, con in corso la guerra civile, l’unico potere capace
di offrire un’alternativa era quello dei partigiani di Tito. Negli
anni ‘60 la Bosna era una delle Repubbliche Jugoslave meno
progredite.
La gioielleria divenne un piccolo laboratorio-rivendita di
argento in filigrana, facile da smerciare perché a buon
mercato, e il konak sulla Lastra venne prima saccheggiato poi
usato, e sicuramente salvato mettendoci ad abitare tutti i
fratelli Skender, quelli di Sarajevo, i kujundžije con figli,
nuore, nipoti. Inoltre, grazie all’aiuto dei parenti da Istanbul,
i fornitori ripresero i commerci necessari per rendere le loro
condizioni di vita più sopportabili. Abolite certe restrizioni
religiose, la sorella piccola, madre di Rade, sposata a un alto
personaggio politico di Novi Sad, influente e per i suoi meriti
trasferito a Belgrado, aiutò la famiglia Skender a ricomporsi e
a recuperare una certa tranquillità economica. La famiglia
non abbandonò mai le tradizioni. Non parlarono di quello
che avevano vissuto durante la guerra. I musulmani bosniaci,
prima del conflitto e successivamente, avevano convissuto in
completa serenità con le etnie serba e croata stanziali, ed
erano rimasti dominanti a Sarajevo e nella Bosna centrale,
imparentandosi molto spesso con serbi e croati. L’esempio
era proprio la famiglia Skender, che in pochi decenni riuscì a
trovare una serena convivenza. La loro sembrava, ed era, una
grande famiglia molto unita e felice, e in seguito mi sarei resa
conto che nella loro vita quotidiana non erano affatto solo
tradizionalisti e formali.
Pranzavano in cucina su un enorme tavolo fornito di
comode panche e dormivano su confortevoli letti. Si
riposavano, oziavano in interminabili bevute di
profumatissimo denso caffè turco preparato nelle džezve141 e
travasato nei fildžani142, giocavano a carte, fumavano molto,
sia gli uomini che le donne. A casa degli Skender ho
imparato a bere il caffè alla turca: la zolletta di zucchero
intinta e gustata a piccoli morsi bevendoci sopra con molta
lentezza il caffè.
Tra quella gente tutto era lento: il pranzo del bajram143, il
prolungarsi delle portate nei grandi recipienti sofra, il rito del
caffè alla turca, l’incedere, i movimenti, la scelta delle parole
e l’esprimere giudizi.
A tardo pomeriggio mi sentivo distrutta per la posizione
delle gambe a yoga, alla quale non ero abituata e che agli
altri, anche anziani, non creava alcun problema. Non stanca
però del pranzo che non finiva mai, né per le tante pietanze,
leggere malgrado fossero quasi tutte a base di carne, kajmak
e dolci, vere bombe caloriche come le bahlave, sfoglie con
noci e crema di mele imbevute di sciroppo e miele, le
tusfakije, pasta sfilacciata, molto sottile farcita di uvetta
sultanina e irrorata con sciroppo al miele e con
l’immancabile slatko, intere prugne o ciliegie sciroppate prese
a cucchiaini con un sorso d’acqua tra il pranzo e il famoso
forte caffè turco, da svegliare un cavallo. Era da apprezzare
la loro ospitalità. Ogni ospite per loro era motivo di bajram,
che così non era più solo la festività comandata. E insieme
all’ospitalità erano da apprezzare anche le abitudini.
Decisi di visitare Ilidža. Uscimmo all’imbrunire. Con
Rade e suo cugino Orhan, ci inoltrammo lungo i viali alberati
con i piccoli locali e i tavolini sistemati per la bella stagione
all’aperto, pieni di visitatori delle terme, intenti a sorseggiare
il caffè alla turca e ad ascoltare la tradizionale musica
bosniaca, il cosiddetto sevdah, un particolare canto
malinconico e sensuale, definito il blues bosniaco. Creava
un’atmosfera particolare, tanto diversa da quella che si
respirava da qualsiasi altra parte. L’odore inconfondibile
degli alberi di acacia, in fiore dappertutto, riempiva l’aria e
penetrava prepotentemente nei polmoni. Quell’aroma
dolciastro, inebriante e persistente, più tardi negli anni in altri
luoghi con le acacie in fiore, lo avrei associato
involontariamente sempre al melos bosniaco, alle sue
canzoni melanconiche che si insinuano nell’anima portando
una sorta di tristezza senza un valido motivo.
Ci ritirammo al konak degli Skender a notte inoltrata. Le
esperienze e le impressioni di quella lunga giornata mi
avevano frastornata. Mi sembrava di essere in un mondo
molto lontano, irreale. La mattina, appena sveglia, mi recai
con Rade all’antico bazar di Sarajevo, a Baščaršija.
In un quarto d’ora il tram ci portò da Ilidža al cuore di
Sarajevo dove ci attendeva Orhan, ottimo conoscitore della
città e di tutti i suoi angoli nascosti. Dai rivenditori, per
pochi soldi, comprammo un buon registratore usato, per me
necessario. Poi, con la preziosa guida di Orhan, ci
inoltrammo bighellonando tra le piccole variopinte botteghe,
piene di attrattiva, di oggetti strani di tutte le specie possibili
e immaginabili: in metallo, cuoio, legno, tessuto, gioielli
etnico-turchi, belletti, oli essenziali, spezie, marmellate di
fiore di acacia, frutta secca, vecchie macchine fotografiche,
antiche lampade sopravvissute, elmetti militari, uniformi
americane e vestiti di foggia tra l’indiano e il moderno turco
in puro cotone leggero. Una ricchezza in mezzo alla miseria.
Mi attirarono i vestiti da donna in cotone, in particolar modo
una specie di caftano lungo al ginocchio e dei pantaloni
stretti.
Il giorno precedente avevo notato che tutti gli uomini
Skender portavano questa specie di vestito leggero in cotone
bianco, ma anche le giovani. I tradizionali pantaloni larghi,
gonfi, molto ingombranti, stretti alla caviglia per le donne e
dal cavallo molto abbondante per gli uomini, le cosiddette
dimije, erano sostituiti con calzoni sottili, più idonei alla vita
moderna. Orhan mi disse che, per quanto riguardava il
vestito tradizionale, era stato Ataturk, il grande riformatore
padre della patria turca, a liberalizzarne l’uso, così che gli
uomini e le donne giovani avevano adottato quella versione
con caftano e pantaloni normali, mentre le donne anziane
avevano continuato a indossare, secondo le proprie
abitudini, le dimije. In verità, tutti vestivano totalmente
europeo, fatta eccezione per alcune antiche famiglie che
d’estate almeno, e nei giorni di feste, vestivano di bianco.
Inutile dirlo, mi ero subito innamorata di quei vestiti esotici.
Dove c’erano dei pantaloni da indossare, il vestito per me
diventava più che desiderabile. Il commerciante, inoltre, era
un più che capace venditore.
Una volta indossato il vestito di colore turchese, non ci fu
la possibilità di non acquistarlo. Sapevo benissimo che era un
po’ avventato portarlo fuori dall’ambiente nel quale era nato.
Ma io avevo già deciso. L’avrei portato senza imbarazzo,
come facevo con i pantaloni che per gli altri erano un vero
azzardo. Comprai due vestiti, quello turchese, molto
semplice con il caftano leggermente segnato in vita, una
piccola apertura verticale sul davanti, maniche lunghe un po’
svasate sul fondo e pantaloni morbidi, appoggiati sul collo
dei piedi; l’altro bianco, uguale nel taglio ma ricamato con
seta bianca lucida intorno all’apertura del collo e sul fondo
delle maniche, molto elegante. Pagai pure poco, grazie alle
contrattazioni di Orhan. Riuscii addirittura ad avere in
omaggio due grandi scialli dello stesso tessuto dei vestiti di
solito usati come copricapo alla turca per nascondere la
capigliatura, impreziositi con piastrine tonde lucide, con i
bordi sulla fronte. Portarli in questo modo probabilmente
sarebbe stato un po’ troppo. E io non avevo nessuna
capigliatura da coprire. Portavo i capelli cortissimi.
Verso mezzogiorno decidemmo di partire, felici per la
decisione di Orhan di venire con noi. Disse che il suo
vecchio Maggiolino Volkswagen ci sarebbe stato molto utile
per gli spostamenti e ribadì di avere un pazzesco desiderio di
pescare le trote e le carpe con le mani sotto i sassi nel fiume
e di dormire nel fienile sotto le stelle. La partenza avvenne
dopo molti convenevoli. Ci sentivamo in colpa per il sincero
dispiacere dimostrato dagli Skender per la nostra breve
permanenza a Ilidža. Purtroppo spiegai che avevo un
impegno con i cantori e l’esame in settembre dal quale
dipendeva la mia iscrizione al successivo anno accademico.
Partimmo forniti di burek, una sfoglia con formaggio, e
savijača, un tipo di strudel con semi di papavero e confettura
di prugne.
Usciti da Ilidža sulla strada provinciale, iniziarono le
serpentine in mezzo ai boschi di faggi e l’infinità di ruscelli
degli affluenti del fiume Drina. Salimmo tra le montagne
calcaree dal tipico paesaggio collinare frastagliato di grotte e
di verdissimi corsi d’acqua di una limpidezza rara, e più
avanti, in alto, di foresta di abeti. Orhan era una guida
eccezionale. Conosceva ogni sentiero, la storia di ogni
angolo. Sapeva molto sulla Chiesa bosniaca ispirata dai
monaci bulgari bogumili, molto sull’arte e sulla letteratura
bosniaca e non solo. Orhan era all’ultimo anno di Slavistica e
Filologia Slava all’Università di Sarajevo, molto promettente,
sicuro futuro docente universitario. Un grande estimatore di
Ivo Andrić, narratore della storia bosniaca analizzata come
microcosmo delle vicende umane nei romanzi Il ponte sul
fiume Drina e La cronaca di Travnik, incentrati sull’amalgamarsi
della comunità islamica, croata e serba. Orhan ne conosceva
a memoria passi interi e ricordava le intime sfumature del
dolore e della rassegnazione fatalista tipica della malinconia
slava, ma non estranea ai moderni discendenti turchi che,
dopo il crollo del potere ottomano e l’impoverimento, erano
diventati anche tristi
o come esattamente disse tristi e grigi.
Per discendenza paterna e materna Orhan era
musulmano, ma si sentiva completamente integrato
nell’ambiente bosniaco. Disse, appunto, di sentirsi un
bosniaco capace di mantenere le antiche tradizioni della
propria origine musulmana, ma in senso folcloristico.
Procedendo su una strada sempre più polverosa e
maltenuta, in una radura rocciosa vedemmo Goražde,
appoggiata sulla riva sinistra del fiume Drina. Sulla strada
che seguiva il corso d’acqua lungo la periferia verso est,
Orhan ci condusse alla casa dei figli dello zio Suliman.
Una casa non finita, senza intonaco, con un accesso
sterrato, da cantiere. Da lì avremmo proseguito per la
montagna, un’altra meta in salita verso le poche case dove in
realtà la famiglia viveva. La casa di Goražde la stavano
costruendo i figli, avendo trovato lavoro nei cantieri
cittadini.
Dal fiume salimmo a quasi milletrecento metri in mezzo
alla più fitta foresta. Su un altopiano privo di alberi si
presentarono cinque, sei case di legno scuro su un tappeto di
erba verdissima con fienili in cerchio, vacche libere e un paio
di massicci cavalli al pascolo. Eravamo arrivati a un pugno di
case con il nome di Suliman selo144, sede di montanari tutti
imparentati tra loro, dediti alla pastorizia. Il sole era già
nascosto dagli altissimi abeti che incorniciavano l’altopiano.
Intorno al Maggiolino di Orhan, in breve si radunò
un’infinità di bambini di tutte le età. Poi dalle stalle, dagli orti
e dal bosco arrivarono anche gli adulti. Avendo saputo da
Rade la composizione della famiglia di sua zia Nura, avevo
provveduto a un regalo per ognuno di loro. Portammo caffè,
zucchero, caramelle per i bambini, tabacco per gli uomini.
A casa Sulimano c’erano tre figli adulti: Ibrahim, Sead e
Selima. I due giovani maschi, già impiegati a Goražde, dove
appunto costruivano la casa, tornavano in visita al nativo
Suliman selo sabato e domenica.
Quella sera si arrostirono sui grandi spiedi pecore intere
in mezzo allo spiazzale sul quale erano rivolti tutti gli usci
delle case in cerchio.
Eravamo seduti intorno ai grandi falò. Credo una ventina
di persone e altrettanti bambini. Le donne indaffarate con il
cibo, gli uomini nell’attizzare i fuochi, del falò e dei
girarrosto. Non erano tutti musulmani, perché girava la
bottiglia di šliva, la forte acquavite di prugne. Un sorso mi
bruciò l’anima. In quel momento, con un freddo invernale
che potevo solo immaginare, mi sembrò del tutto normale
che bevessero anche i musulmani. E non saprei dire come
veramente andassero le cose lì, lontano dal mondo. Penso
che solo gli anziani rispettassero le tradizioni, i giovani molto
meno.
Già quella sera ebbi la fortuna di incontrare un vecchio
cantore serbo. Approfittai della sua presenza e Orhan
promise tutta la sua collaborazione ed esperienza per la
registrazione.
Il vecchio Stevan conosceva, com’era ovvio, canti
popolari e si esibiva nelle feste della popolazione serba,
sempre più di rado. Vivendo con i figli sposati in un
ambiente prevalentemente musulmano, evitava i canti che
immortalavano gli avvenimenti, i sovrani e i condottieri
serbi.
Il giorno successivo, domenica mattina, Sead ci
accompagnò con il vecchio cantore nel bosco. Ci
sistemammo in prossimità di un torrente gonfio di acqua
cristallina. In certi punti scoscesi i sassi affioravano alla
superficie e in altri più pianeggianti l’acqua diveniva
profondo fino a un metro, un metro e mezzo, con delle
cascate alte e rumorose; un posto ideale per fare i bagni e
pescare. Poco sole penetrava in mezzo agli altissimi abeti. Il
sottobosco era verde, con piccoli fiori nascosti in mezzo ai
licheni e alle felci, sotto alberelli di piccole mele selvatiche
rosse e verdi, secondo il grado di maturazione. Un
pulviscolo tremolava appoggiato sui raggi obliqui e sulla
superficie dell’acqua. Aleggiava solo il silenzio della vita
segreta, invisibile dell’alta montagna con la sua foresta. Rade
e Sead iniziarono subito la ricerca del pesce. Orhan trafficava
con il registratore, il vecchio Stevan sistemava le sue gusle.
Quel piccolo strumento monocorda accompagnava i canti
popolari con la tipica monotona cantilena, lagnosa che
sfiorava la noia per la continua ripetizione di un’unica frase
di due note: un piagnisteo, almeno per i miei gusti. Io
restavo accovacciata a sentire e cercare di capire.
Quel giorno Stevan mi narrò la Leggenda del principe Lazar.
Iniziava con la vigilia della battaglia di Kosovo nell’estate del
1389, quando un falcone grigio volò da Gerusalemme al
campo del principe Lazar, condottiero degli eserciti serbi,
portando nel becco un’allodola. Il falco era in realtà Sant’Elia
e l’allodola non era un uccello, bensì un messaggio inviato
dalla madre di Dio. Nel momento in cui Lazar stava per
scontrarsi con i turchi ottomani fu invitato a scegliere tra la
vittoria e il regno in terra o la sconfitta e la gloria dei cieli.
Considerando l’eternità delle cose celesti e la caducità di
quelle mondane, Lazar scelse la seconda alternativa,
lasciando ai serbi in retaggio l’esaltante consapevolezza di
aver testimoniato con il proprio sacrificio la redenzione di
Cristo, ma anche un sottile, struggente rimpianto per il regno
terreno e la determinazione di riconquistarlo per
congiungere i due Regni nello splendore di una sola vittoria.
Con questa storia, in infinite varianti, canti popolari
parlarono a generazioni serbe del regno perduto. Nella
memoria popolare la disfatta del Kosovo illumina la credenza
serba come l’incendio di Troia illumina tutta l’antichità greca. Quello
che per gli storici cattolici è la nascita di Cristo, per i serbi è
la battaglia del Kosovo. Infatti, nel corso dei tempi, la
battaglia del Kosovo fu considerata come l’origine di tutte le
sventure che la Serbia dovette subire durante i lunghi anni
della sua soggezione ai turchi.
Un altro canto popolare che Stevan ricordava bene era Il
principe Lazar e il tradimento di suo genero Vuk Branković145, che
abbandonò il campo di battaglia e il resto della travolta
cavalleria serba, lasciando che il principe Lazar fosse
decapitato con altri compagni di sventura. Da allora sul
campo dei merli cresce un fiore purpureo, il božur146, che
ricorda il sangue versato da tanti eroi.
I due canti, sentiti, registrati, commentati da Stevan ci
portarono via tutta la mattinata. Nel frattempo Sead e Rade
avevano catturato due belle trote. Si unì anche Orhan, che
ormai fremeva per essere libero per pescare. I tre cugini
sembravano invasati. Si appostavano silenziosi, immobili, in
certi punti del torrente con dei sassi scuri levigati sopra
piccole caverne. All’improvviso, con movimenti rapidi si
immergevano completamente sott’acqua e con le mani nude
tiravano fuori il pesce catturato. Questo nei punti dove
arrivava poca luce e l’ombra degli alberi creava particolari
riflessi. Il pescatore più bravo era Orhan, ma nemmeno gli
altri due scherzavano. A ogni appostamento prendeva una
trota grande e poi un paio di lucci. Ero meravigliata da quel
tipo di pesca effettuata nei buchi con le mani sotto i sassi.
Mai visto o sentito cose del genere. Finché gli uomini
pescarono, il vecchio Stevan si mise a sonnecchiare e io mi
feci un bagno in quell’acqua gelata, alla quale il corpo si
abituò abbastanza velocemente. Nella piccola radura, Sead
accese il fuoco, infilzò i pesci su delle bacchette ritagliate
come spiedi e, seduti su un sasso, arrostimmo ognuno il
proprio pesce. Sead aveva portato un sacco di tela, dal quale,
al momento giusto, tirò fuori formaggio stagionato di
pecora, una ruota di pane casereccio, peperoni gialli tondi,
molto carnosi e gradevolmente aspri, frutta secca.
Mangiammo il pesce arrostito, appoggiato sulle larghe foglie
di un arbusto che cresceva lungo il corso d’acqua, formaggio
con paprica e alla fine prugne, pere e mele essiccate al sole,
bevendo l’acqua del ruscello. Il vecchio Stevan sembrava
rapito dal pranzo. Io invece ero incantata dalla montagna,
dalla pesca e da quei tre ragazzi così diversi tra loro per
tantissimi aspetti e alla fine uniti da un ricordo d’infanzia: la
pesca con le mani nude nei torrenti, evidentemente pieni di
pesce.
Nel pomeriggio scendemmo con il Maggiolino di Orhan
verso Višegrad, sulla frontiera con la Serbia, dove Stevan ci
presentò il cantore Jovan di Užice147.
Ci trattenemmo due giorni interi raccogliendo e
registrando del materiale che mi sembrava valido. Jovan
conosceva dei canti popolari significativi per la storia serba,
come Gran suppano148 Stevan Nemanja della Zeta e Raška si
conferma sovrano di Kosovo, Metohija e Macedonia; I santi Sava e
Stevan Nemanja monaci al monte Athos; San Sava abbandona il
monastero di Hilandar e torna alla vita mondana in Serbia; Dušan si
proclama zar dei serbi e dei greci
S. Pasqua anno 1346; Battaglia sul fiume Morača149 in terra
macedone - anno 1371; Miloš Obilić nel giorno di San Vito dell’anno
1389 per la maggiore epica religiosa e Mehmed Pascia Selimović
e gli zimini. Quest’ultimo canto narra della leva obbligatoria
dei contadini adolescenti di fede non islamica, portati con la
forza a Istanbul per essere educati e istruiti dagli Ottomani
come futuri combattenti contro i loro fratelli. Canto
sfruttato anche da Andrić.
Dopo due giorni ne avevo abbastanza di battaglie, di
sovrani, di santi, di matrimoni combinati e scombinati, di
morti ammazzati, principesse tristi, figli illegittimi. Potevo
solo immaginare come si sentivano Rade e Orhan in
quell’atmosfera di secolari disfatte. Proposi di spostarsi verso
il Montenegro. Il paesaggio non cambiava di molto; foreste
di faggi, abeti, altopiani, radure, corsi d’acqua, paesini che
per il basso numero delle casupole non potevano essere
chiamati villaggi.
Ci fermammo a Maglić150, una piccola città mineraria con
popolazione completamente serba, sul fiume Piva e sul
laghetto Peruča151. La differenza tra i casolari musulmani e
serbi montanari non era molto evidente, se non per la
pulizia, un po’ troppo approssimativa quella degli ortodossi,
la grappa e la birra in abbondanza, maiali e oche un po’
dappertutto.
Le case trasandate. Le loro cucine unte di grasso
gocciolante dai tegami anneriti. Le stanze da letto simili a
disordinati e poco arieggiati depositi. L’osteria sullo slargo in
terra battuta con tavolini impolverati e mosche appiccicate ai
bordi dei bicchieri unti. In paese ci procurammo della carne
da arrosto, peperoni verdi, grosse cipolle dolci, formaggio
fresco, una ruota di pane e birra, e ci avviammo verso le
pendici della montagna Durmitor.
Arrivammo sull’altopiano con un pugno di case adagiate
sulla sponda del laghetto con un’infinità di torrenti, e
dall’altra solo fienili. Parcheggiammo il Maggiolino sotto uno
di questi in prossimità dello specchio d’acqua trasparente.
L’altopiano, tutto il giorno esposto al sole d’agosto, al calare
dei raggi verso ovest, oltre le cime della montagna, gli alti
abeti irti e una sottile fila di pioppi lungo la riva del lago,
traspirava un leggero aroma di erba medica e di mele mature
lasciate essiccare sui teli stesi sul manto erboso. Appena il
sole abbandonò la radura, insieme a dei sottili pennacchi di
fumo dai comignoli del caseggiato, dalla terra si innalzò
un’impalpabile nebbiolina, avvolgendo e sollevando tutto in
una nuvola sospesa e rarefatta. Poi molto velocemente scese
la penombra serale di piena estate, annunciando gli incerti
bagliori delle stelle ancora pallide. Lo spazio erboso dalla
parte del laghetto che avevamo scelto per accamparci era
deserto, punteggiato da solitari fienili, mentre dall’altra
sponda le fioche lucette di quel pugno di annerite case
montanare, come occhi assonnati con palpebre pesanti,
sembravano spiare la nostra invadenza dello spazio
solitamente deserto.
Accendemmo un grande fuoco che illuminò la superficie
dello specchio d’acqua. In attesa che si facesse la brace per
arrostire la carne, i peperoni e le cipolle, rimanemmo in
silenzio, ognuno dietro i propri pensieri. Mettemmo le
bottiglie con la birra a raffreddare in mezzo ai sassi
nell’acqua del lago. Lungo il bordo, con circospezione si
avvicinarono due uomini. Erano incuriositi dalla nostra
presenza, ma anche desiderosi di comunicare con noi.
Li invitammo a unirsi per la cena. Il fragrante odore della
carne si sparse nell’aria senza un alito di corrente. I due
montanari tirarono fuori delle patate da arrostire nella brace,
del kajmak in una piccola scodella ricavata dalla corteccia del
faggio e della grappa.
Mi ero soffermata a pensare alla nostra strana compagnia.
Formavamo un gruppetto molto eterogeneo: Orhan
musulmano-bosniaco; Rade ortodosso-serbo; io cattolica
croata; i nostri due nuovi amici del casolare montanaro
Vidovići152, ortodossi serbi bosniaci. Dividevamo una cena
improvvisata in mezzo all’alta montagna bosniacoserbomontenegrina, consumando quello che ognuno di noi
aveva in quel momento, senza chiederci chi e cosa ognuno di
noi fosse. Nessuno pensava alle nostre differenze. Ci aveva
unito il caso. Un’esperienza tanto semplice quanto intensa.
In quella notte serena non ci divideva nulla. Il passato
sembrava essere stato spazzato via dai venti della guerra che
avevano visto incendiata quella terra lontano dal resto del
mondo. Il cibo gradevole, in particolar modo le patate
arrostite nella cenere, ancora bollenti spalmate con un
kajmak dal singolare gusto di erbe di montagna, carne
fragrante, birra fresca e qualche sorso in più di šljiva, aveva
reso euforici i nostri nuovi compagni Vidovići. Erano
giovani, direi sotto i venticinque anni, uno di loro maestro
elementare e l’altro minatore nella miniera di bauxite a
Maglić. In montagna trascorrevano le loro vacanze estive.
Erano tutti e due politicizzati, membri della Lega Comunista
Regionale. A Maglić avevano trovato un lavoro,
un’abitazione, anche se non ideale perché collettiva. La Lega
Comunista era la loro speranza, il loro futuro, anche se lo
sviluppo era lento e spesso inadeguato alla mentalità
montanara. L’industria zuccheriera di barbabietola e quella
olearia di girasole, portate in quella zona dalla pianura serba,
non decollavano a dovere. I pastori fino al giorno prima
erano operai, operai a metà, ma seguivano la Lega, si
organizzavano nel lavoro. Il maestro da parte sua, membro
del Comitato Regionale della Lega, era soddisfatto della
scolarizzazione offerta a tutti. Sembravano più che contenti
della loro situazione, malgrado le paghe basse e una vita
poco autonoma, guidata e controllata. Senz’altro erano un
po’ troppo entusiasti. Noi tre completamente sobri
ascoltavamo in silenzio le loro lodi al Partito e al Governo.
Erano convinti. Orhan era teso. Disse addirittura che con
dispiacere sopportava la propria astemia. Ubriaco li avrebbe
ascoltati più volentieri. Verso mezzanotte, spento il fuoco, ci
arrampicammo sugli alti covoni di fieno secco ordinatamente
stesi sotto il tetto del fienile. Ci sistemammo nella parte
anteriore del fienile con l’apertura rivolta controvento, verso
ovest. Ci avvolgemmo ognuno nella propria coperta,
osservando le stelle riflesse sulla superficie del lago e la luna
piena che illuminava il paesaggio sonnolento con i suoi
rumori attenuati, quasi inesistenti. L’aria fresca ci vinse. Ci
addormentammo senza sogni né improvvisi risvegli.
Con il sole già alto ci svegliò l’odore forte del caffè.
Saltammo giù dal fienile direttamente nel lago tanto freddo
da rimanere senza respiro. Il maestro Vidovići aveva già
portato il latte appena munto e bollito. Orhan arrostì grosse
fette di pane, le spalmò con il kajmak e riempì le tazze di un
caffèllatte caldo, con un dito di panna formatasi sulla
superficie. Finita la colazione, il maestro ci accompagnò
verso Kotroman, dove sapeva vivesse un cantore. Aleksije
era il suo nome. Ci trattenemmo un giorno intero a registrare
i suoi canti. Raccolsi il poema Pietro il Grande, La lotta del
1711 contro il sultano e La difesa della fede, sull’impegno della
Russia nella storia balcanica, in particolar modo nel
Montenegro, dove sopravviveva una società tribale, e poi
Petar Petrović Vladika, capo spirituale e temporale di Cetinje 153
e I legami con San Pietroburgo. Ma questa era storia già narrata
dal poliglotta serbo Dositej Obradović, che aveva percorso
in lungo e in largo l’Occidente, al quale la Serbia si doveva
riavvicinare avendo pagato a carissimo prezzo il secolare
dominio turco, con il quale aveva perso ogni contatto nei
tempi in cui si era sviluppata la moderna coscienza europea.
Decisi che ne avevo abbastanza della poesia popolare.
Tornammo a Ilidža.
Avvisai Safeta che non l’avrei raggiunta nel suo paese.
Avevo abbastanza materiale per presentarmi al professore di
Poesia Epica. Dovevo partire per l’Isola e studiare. Rade era
dispiaciuto per la fine delle brevi vacanze in montagna e
sosteneva che non avessi visto nulla di quello che desiderava
mostrarmi: le orme degli orsi sul torrente, le volpi, i grifoni.
Ma a me bastava così. Lo invitai sull’Isola.
Desideravo ricambiare le sue cortesie. Aveva ancora una
settimana di vacanza dal giornale e così accettò.
Scendemmo in treno attraverso la Bosna, poi la
Herzegovina, fino alla foce del Neretva a Metković154, lungo
il litorale. A Spalato arrivammo la mattina presto dopo una
notte intera passata sui duri sedili dei vagoni, pieni di gente
che scendeva al mare. Prendemmo il piroscafo per l’Isola.
Eravamo pieni di pacchi preparati a Ilidža. Sembravamo
contadini scesi in città. Ci sistemammo nell’ombra di una
scialuppa e ci addormentammo. Ci svegliarono le carrucole
delle cime abbassate sulla riva. Velocemente ci avviammo
sulla Gojava.
Entrati nel cortile della Casa in pietra grigia, mi sentii
sopraffatta dall’emozione. Il silenzio, quel senso del sereno
scorrere del tempo arrestatosi fuori delle mura di cinta, mi
lasciavano ogni volta, per un attimo, senza fiato. Come se in
me, insieme a quella calma, entrasse un altro, diverso ritmo
vitale.
Poi sentimmo il flebile suono della radio. Sulla terrazza,
oltre il tavolo da pranzo, seduto nella sua poltrona, sotto la
tenda da sole abbassata, Maestro ascoltava una stazione
radio italiana. Uscì Jera con il suo eterno grembiule sollevato
tra le mani, come faceva ogni volta che era sorpresa
dall’arrivo di qualcuno non annunciato. Non mi aspettava,
tanto meno anche un ospite. Non ospitavamo mai nessuno
alla Casa in pietra grigia, se non per qualche pranzo o cena. I
nostri spazi non permettevano ospiti fissi. Capii subito la sua
perplessità e, al suo sguardo interrogativo, le dissi di
sistemarmi il divano nel salottino. Avrei ceduto la mia stanza
all’ospite. Maestro desiderava sapere tutto sull’esperienza in
Slavonija, tutto sulla Bosna. Nessuno meglio di Rade era
capace di narrare con tanto entusiasmo la vita di montagna,
la pesca con le mani e la caccia, che interessava Maestro più
di tutto. Dopo il pranzo con un pesce arrosto eccezionale,
Maestro si ritirò come al solito. Jera si mise a sfaccendare in
cucina e noi ci sistemammo sulle sedie a sdraio sotto i lembi
abbassati della tenda da sole che creavano uno spazio
protetto in totale ombra, silenzioso e fresco, molto adatto al
riposo dal caldo agostano. Credo che dormimmo per un
paio d’ore. Ci svegliammo all’improvviso per il forte odore
penetrante del gelsomino fiorito sulla ringhiera della scala e
delle corolle già aperte della bella di notte nel cortile
sottostante; gli odori sprigionati negli attimi in cui il calore
lascia spazio al fresco. Il sole si era già appoggiato sulle
sommità degli scogli. Passammo per il giardino dietro Casa,
avviandoci con il sentiero di Santa Catarina e i vigneti di
Postup verso la piccola baia sotto la villa Bonaparte,
abbarbicata sullo sperone scosceso e brullo oltre il suo bel
giardino, con la limonaia rivolta al canale e la bassa scogliera
lungo i due promontori: a destra quello del Fabbro ricoperto
dalla bassa vegetazione mediterranea, con in mezzo un
cerchio convesso di alti pini marittimi, e a sinistra gli irti e
scuri cipressi cinti dalle mura dell’antica villa Petra, stagliati
sulla superficie della piccola baia al di sotto della strada, che
proseguiva lungo la costa frastagliata da altre minute baie
della Majerovica e dalla grande pineta che lambisce la città
sopra il bagno comunale.
Avevo dimenticato il fascino del bagno a quell’ora, prima
che l’imbrunire avvolgesse il paesaggio e quando
immergendosi nel movimento pigro e ritmico delle basse
onde, sulla pelle rimane il luccichio del plancton e i corpi
sembrano ricoperti di argento vivo. Quando, nel passaggio
dal giorno alla sera, il variopinto tondeggiante, ciottolato,
levigato dalle maree in fondo alla conca, arroventato dal sole
e bagnato da piccole onde espande una calda rugiada come
fonti di acque termali e l’aria frizzante raffreddatasi prima
dell’acqua, dona una sensazione di prolungato e rilassato
ristoro. Un fenomeno affascinante e poco conosciuto a
quanti non sono abituati al nuoto notturno in quel mare
d’agosto. Al rientro verso la Casa in pietra grigia, con
l’imbrunire, evanescente prima del buio nel grigio lattiginoso,
preferivo passeggiare sul lungomare già illuminato dai
lampioni accessi: i viali della pineta invasi dai bambini nei
numerosi giochi, dalle loro madri agitate nel cercare di
frenarli, dalle coppie di anziani in cerca di fresco sulle
panchine, il Caffè della Loggia in piazza e le terrazze degli
alberghi sulla riva, pieni di avventori per l’aperitivo prima
della cena. In realtà pochi oriundi. Ci fermammo al Caffè in
piazza. A un tavolino era seduto un gruppo di persone e tra
loro lo scrittore isolano Jozo Kirgo, ritenuto una specie di
eroe per i trascorsi da partigiano raccontati nei suoi libri, e
ultimamente anche biografo del Maresciallo Tito e ospite
fisso sulla sua nave Galeb155, che solcava i mari del mondo e
da dove Kirgo regolarmente inviava i suoi articoli ai
quotidiani e settimanali belgradesi. Non immaginavo che
Kirgo e Rade potessero conoscersi, ma pensandoci bene i
giornalisti belgradesi, come tutti, frequentavano gli stessi
giornali e circoli. Tutti conoscevano le vignette di Rade.
Kirgo mi raccontò che da poco era stato pubblicato il suo
ultimo libro, intitolato L’alba, nel quale narrava i giorni
dell’occupazione dell’Isola da parte dei fascisti; le
scorribande dei partigiani nei boschi, le fucilazioni, le
rappresaglie e gli incendi delle case dei membri della lotta per
la liberazione e il ruolo che ebbe Maestro nel salvare la sua
casa famigliare dal rogo e un gruppo di partigiani isolani da
morte sicura, compreso lui stesso. Mi annunciò che sarebbe
venuto a far visita a Maestro e a portargli in omaggio il libro.
Non era una novità che Kirgo frequentasse la Casa in pietra
grigia. Il suo giardino era confinante con la parte bassa del
nostro orto, che permetteva, senza annunciarsi, il passaggio
dalla casa di Kirgo alla Casa in pietra grigia. Un’abitudine
isolana che Maestro non aveva mai apprezzato, ma solo
sopportato per un senso di buon vicinato.
Ritornammo alla Casa in tempo per la cena. Maestro era
invitato al concerto di quella sera, il primo concerto di
pianoforte della stagione nell’ambito dell’appena organizzata
Estate Lesignana. Il giovane Sindaco, ex alunno del Maestro
all’Orchestra Municipale, cresciuto sotto la sua influenza fra
musica lirica e classica, a differenza dei nuovi vertici politici
cittadini venuti da fuori e convinti che la musica non fosse
altro che una inutile distrazione per le masse, dimostrò di
pensarla diversamente.
Si prestò moltissimo per organizzare concerti al Chiostro
Francescano, all’anfiteatro estivo della Veneranda e in
cattedrale. Era già molto che il Partito non ostacolasse
l’antica tradizione dei concerti dell’Orchestra Municipale.
Decidemmo di accompagnare Maestro al concerto, anche
se erano già annunciati come accompagnatori due suoi
musicisti, impiegati al comune. Durante la cena Maestro
chiese di leggergli il foglietto scritto a macchina, arrivato con
il programma ufficiale riportato dalla bacheca dinanzi
l’Arsenale e distribuito al Palace Hotel, allo Slavia e all’Istra.
Sul foglietto lasciato sui tavoli degli alberghi era scritto:
- Chiostro dei Francescani - Concerto per pianoforte: Franz Liszt,
Edvard Grieg, Claude Debussy, Frederic Chopin” - senza
alcun’altra indicazione.
L’approssimazione dell’avviso e la sua inadatta
presentazione grafica, spazientirono Maestro. Invece di
attirare gli ospiti degli alberghi, che secondo Maestro non
erano tutti ignoranti se si considerava l’affluenza e l’attesa dei
concerti dell’Orchestra Municipale, con la mancanza di
serietà nell’organizzazione dell’avvenimento si raggiungeva il
risultato opposto. Quando arrivarono Vinko e Drago, i suoi
accompagnatori, rifiutò di partecipare ufficialmente a quel
qualcosa di superficiale, di improvvisato. Pretese da uno dei suoi
musicisti di intervenire all’inizio del concerto, spiegando i
motivi di un programma non specificato a causa del cambio
del pianista all’ultima ora, il che purtroppo non era vero.
Vinko annunciò:
- Liszt, Concerto per piano in E maggiore; Grieg, Concerto per
piano in A minore; Debussy, Raflet danseau; Chopin, Mazurka in B
minore e Walz in B minore. Spiegò che il cambio del pianista era dovuto a motivi di
salute. In realtà la sostituzione aveva ben altre origini. Un
potente aveva preteso che a esibirsi fosse uno sconosciuto,
minacciando di boicottare le serate musicali dell’Estate
Lesignana, se non fosse stato accettato il suo protetto.
Al Chiostro il Sindaco attendeva Maestro in prima fila.
Come avevo previsto, egli rifiutò il posto di rappresentanza,
optando per l’ultima fila dell’auditorio. Dopo un certo
tempo dall’inizio dell’esecuzione, Maestro si rivolse ai suoi
accompagnatori con voce abbastanza alta, senza curarsi del
pubblico:
- Chi è questo individuo? - chiese - È un macellaio. Sta
storpiando gli spartiti tagliando interi passi. O non conosce i brani che
sta eseguendo o crede di stare dinanzi a soli ignoranti. È inaudito.
E senza attendere risposta abbandonò l’auditorio.
Insieme a lui uscì una parte dei presenti. L’incidente creò
molti commenti e una presa di posizione più seria da parte
del Sindaco e di un gruppo ristretto di funzionari comunali.
Anche se eravamo ormai a quasi quindici anni dalla fine della
guerra, la burocrazia e il Partito continuavano a dettare leggi.
E quella nostra, balcanica, si stava trasformando nel segno di
quell’ideologia che avrebbe dovuto cambiare il mondo e
anche il modo di comprendere la cultura, musica inclusa.
L’ignoranza dilagava. Anzi, veniva sostenuta dal sistema
della
cosiddetta
scolarizzazione
riformata
e
dall’organizzazione della cultura. Immediatamente dopo la
fine della guerra si era percepito un certo slancio in ambito
culturale. Infatti, si costruivano le Case della cultura, si
aprivano librerie e biblioteche. Era il prolungamento
dell’entusiasmo partigiano, ma solo nel campo amatoriale.
Inconsciamente il Potere si rendeva conto che il pericolo gli
veniva dalle persone con un certo spessore culturale, per cui
nelle scuole si effettuavano programmi che scoraggiavano
ogni interesse per gli studi umanistici.
Servivano tecnici. Al Paese erano necessari ingegneri,
economisti, elettrotecnici, albergatori, cuochi, cioè tutte
quelle professioni che fanno crescere le basi materiali.
Che cosa se ne facevano dei ginnasi? A che servivano il
latino e il greco, Aristotele e Tacito? A che cosa serviva il
Rinascimento, la Riforma, Brugel, Beato Angelico,
Michelangelo, Monteverdi, Delacroix, Rousseau, Voltaire?
Cosa farne degli studi sullo sviluppo della scienza e dell’arte
durante i secoli, quando servivano uomini che costruiscono
fabbriche e fanno muovere le macchine? A loro basta
qualcosina del marxismo!
E così, la cultura venne rilegata all’ultimo scalino della
vita sociale. Le manifestazioni culturali resistevano solo nelle
grandi città con delle forti tradizioni. Altrove erano ridotte a
recite e, nelle migliori occasioni, alla musica dei quartetti di
strumenti popolari come accompagnamento dei comizi
politici. Più di tutto erano incoraggiati il folklore e la musica
popolare, espressioni prive di pericoli per il regime. Altri
valori avrebbero creato un’élite. E un’élite era la cosa che
serviva di meno.
La battaglia contro l’élite era la battaglia contro l’avanzare
della cultura, perché la cultura è contagiosa. Fa riconoscere le
cose per quello che sono.
Questa situazione di repressione culturale non poteva
non essere all’ordine del giorno anche sull’Isola. L’unica
forma culturale che non poteva essere messa da parte erano i
concerti dell’Orchestra Municipale, intesi come tradizione.
Tutto il resto era ostacolato, ritenuto superfluo e dannoso.
Contrastava con le idee di un Paese fattivo, dedito alla
costruzione di beni materiali.
Proliferavano strane idee poco progressiste camuffate
dalla necessità di tenere a bada i nemici del popolo che si
annidavano nel mondo colto, quello sempre pronto alla
protesta. Era un argomento assurdo per cercare di arginare la
necessità di dare all’Isola dei contenuti culturali, almeno
durante l’estate, per attrarre una clientela alberghiera come
quella esistente prima della guerra. Infatti, il turismo di un
certo livello era scritto nel futuro dell’Isola. Questo
l’avevano capito il Sindaco Barbić e qualche altro dirigente
comunale, sostenuti dall’esterno da isolani e ospiti estivi
abituali legati al governo di Zagabria. Maestro si impose con
una richiesta di serietà per i concerti al Chiostro e alla
cattedrale, pretese la scelta di musicisti di alto livello.
Ebbe la direzione artistica degli avvenimenti musicali e le
cose cambiarono negli anni in cui rimase a condurre la vita
culturale, che avrebbe dato un’impronta diversa all’ambiente
purtroppo ancora sotto la cappa del Partito troppo presente
in tutte le cose.
In quel periodo era tutto ancora da capire.
Nello stesso tempo il giovane Sindaco aveva iniziato un
ambizioso piano di costruzione di alberghi. Oltre al vecchio
e prestigioso Palace, al Park, all’Istra e allo Slavia sulla riva,
tutti nazionalizzati e diventati proprietà dello Stato,
iniziarono i lavori del lussuoso Adriatic e di altri hotel più
economici, come il complesso Pharos, i padiglioni del
Delfin, del Sirena e poi del Badul e del Galeb, nella baia oltre
il Chiostro Francescano.
Ivo Barbić aveva capito che l’Isola non era adatta a un
turismo di massa spinto dal Governo all’ospitalità nelle case
private. Mancavano le infrastrutture: l’acqua, l’elettricità, la
fogna, le strade. Considerando le condizioni climatiche della
città chiamata La Madeira Adriatica per il numero delle ore
soleggiate durante l’anno, l’inverno mite, l’estate
particolarmente gradevole per il fresco maestrale
pomeridiano e i paesaggi verginei e incontaminati puntò sulla
costruzione degli alberghi, sempre con un numero
controllabile di presenze, e sul turismo invernale. Dette
inizio anche alla costruzione del complesso del Centro
Allergologico, un’idea nata ai tempi dell’Impero AustroUngarico, quando il prestigioso Palace Hotel aveva iniziato
la propria funzione pubblica come centro per la cura dei
malati con difficoltà respiratorie, in particolare dell’asma. Fu
decisa anche la realizzazione della residenza estiva della
Presidenza della Repubblica Croata. Si recintò il
promontorio del Fabbro e venne lasciata al pubblico la
strada panoramica che girava solo in parte del promontorio,
interrompendola al nuovo molo della Baia Postine. Si
prospettava la visita di Tito sull’Isola, che avrebbe dovuto
dare maggiore impulso all’ambizioso piano turistico,
sostenuto direttamente anche da Belgrado e intensificato con
l’avanzare della richiesta di noti personaggi della
nomenclatura politico-governativa e dintorni per
l’insediamento delle proprie case estive. Ebbe inizio così
anche la costruzione delle ville dei potenti. I più bei terreni
con vigneti nazionalizzati, ma lasciati in usufrutto agli ex
legittimi proprietari, all’improvviso venivano requisiti per
necessità sociali. Le pendici della Majerovica oltre Postup, fino
alla Baia Postine, cominciarono a disseminarsi di ville di
vario stile o prive di stile, senza un piano urbanistico e
infrastrutture. A quella zona di ricche costruzioni il popolo
prontamente, con ironia, dette il nome di Dedinje, lo stesso
del quartiere belgradese con le case-ville dei potenti del
Governo federale.
Per rasserenare la cittadinanza, il Sindaco iniziò la
realizzazione di un quartiere di case popolari organizzate in
condomini, sul pendio brullo di Vrisak, sopra la Baia della
Croce. Una parte dei contadini dell’antico borgo San Nicola
sotto il cimitero e dei pescatori del Burak furono indotti a
lasciare le loro antiche case con basse cucine e pavimenti in
terra battuta per case con marmi e parquet. I giardini
condominiali, intorno ai lunghi e sgraziati grigi palazzotti a
tre piani, presto si arricchirono di stalle e recinti di lamiera e
di vecchie annerite assi di legno. La gente si portò nel nuovo
quartiere l’asino, la capra, la pecora, i conigli, le galline. Le
vasche da bagno diventarono seminatoi per l’insalata e le
cime di cavolo, che poi venivano piantate nel cortile delle
nuove case. I pescatori fecero un reticolato di canne per
asciugare le reti e costruirono piccole capanne arrangiate per
gli attrezzi e i remi. In breve tempo quasi tutti capirono che
quelle case non rispondevano alle loro antiche esigenze di
vita e tornarono alle vecchie case individuali, anche se senza
bagni, ma con la stalla e l’orticello. Le nuove case, in breve
diventate decrepite, furono cedute ai molti forestieri
occupati come manodopera nella costruzione degli alberghi.
Insieme ai grandi complessi alberghieri crescevano anche
le ville dei potenti e dei vari direttori isolani; prima di quelli
che ricoprivano posti di potere fuori dall’Isola, poi degli
influenti impiegati comunali e dei dirigenti della Lega
Comunista locale. In quel tempo la Banca Jugoslava, con le
sue filiali presenti dappertutto, accordava dei mutui concessi
per un giorno. Ne approfittavano quelli che per linea diretta ne
erano informati. Venivano velocemente distribuiti crediti
agevolati tra parenti, amici, vicini dei politici. I piccoli paesini
dell’entroterra isolano si svuotarono. I contadini
abbandonarono la campagna e scesero in città. Si
accontentarono, all’inizio, del lavoro nei tanti cantieri e
popolarono Vrisak. Erano nati sei complessi alberghieri dallo
stile amorfo in un’economia a basso costo di tipo socialista,
malgrado i moltissimi mezzi destinati alla loro realizzazione.
Il materiale usato scadente, il basso livello della manodopera,
la mancanza di controllo e di professionalità, avrebbero
avuto un ruolo influente sulla mancata solidità di queste
costruzioni e la loro veloce deperibilità.
Quell’estate, girando con Rade e visitando le più belle
baie, trovammo dappertutto cantieri: dal sud della città fino
all’ovest. L’ambiente si stava degradando con costruzioni
inadeguate al paesaggio. A un nostro pranzo domenicale si
unì Kirgo. Discutemmo della cementificazione del
paesaggio. Kirgo era amareggiato da quell’insensata corsa alla
costruzione.
- Eppure - diceva - dopo la guerra del ‘41-‘45, con l’aiuto delle
Nazioni Unite, era stata preparata una prevenzione urbanistica per la
risistemazione delle cittadine e dei paesi sulla costa dalmata nel noto
Progetto dell’Adriatico.
Si trattava di un eccezionale progetto architettonicoambientale di riqualificazione dei confini urbanistici che
rispettava l’antico ma sviluppava il moderno, funzionale e
adatto all’ambiente circostante. Purtroppo furono chiamati
architetti e ingegneri ingaggiati come collaboratori dei
potenti comunali e di altri, perché disponibili al loro gioco, al
saccheggio della collettività, che hanno avuto un ruolo
importante nella distruzione di quell’ambiente unico. La
veloce corsa alla costruzione di grandi complessi alberghieri
e gli immensi appetiti cresciuti intorno alla loro
realizzazione, non hanno dato la possibilità di controllare e
correggere quell’enormità di lavoro. I finanziamenti spillati,
inoltre, pretendevano il rispetto di certi obblighi,
particolarmente lì dove era entrato il capitale della Banca
Jugoslava, mano lunga del Governo centrale, finanziatore di
note società serbe che nella Dalmazia e sul litorale avevano
individuato la propria vacca lattifera.
I prestiti non onorati portavano a veloce passaggio di
proprietà. Naturalmente aiutati e sostenuti dagli intermediari
oriundi senza scrupoli né coscienza, che se ne approfittavano
largamente. Insieme ai grandi complessi alberghieri statali,
crescevano i cantieri privati, senza che qualcuno si chiedesse:
- Come? Con quali mezzi?
I potenti facilmente si lavavano le mani sporche
d’imbrogli, da truffe e appropriazioni compiuti alla luce del
sole e senza vergogna. Il Governo era dietro di loro.
Dopo la partenza di Rade, dovetti seriamente mettermi a
studiare e abbandonai i pensieri che mi rendevano cosciente
di una situazione per nulla gradevole. Stavo realizzando che
il largamente sostenuto unipensiero non lasciava nulla al caso.
Costruiva la fratellanza e l’unità popolare ma, sotto quella grande
coltre, scorreva un altro silenzioso flusso carico di variazioni
sul tema della diversità della vita e del suo standard.
In realtà lo standard cresceva, ma solo in quel cerchio
politico ristretto, chiuso. Si costruiva e si lavorava in un
modo alquanto specifico, imprenditoriale e democratico, ma
solo in apparenza.
La novità stava nel fatto che quei disastri venivano
denunciati da un personaggio vicino ai poteri centrali. Da
Kirgo, uno scrittore del Potere.
Di questi discorsi mi sarei ricordata parecchi anni più
tardi. Esattamente alla fine del ‘70. Tutti gli alberghi erano
già funzionanti. Un altro potente di turno, ex partigiano, con
la fissazione di voler essere ricordato per qualcosa di
importante. Malgrado tutti i pareri negativi, sia urbanistici
che paesaggistici, fece carte false e dette inizio all’assurda
costruzione di un altro grande albergo, distruggendo la
bellissima conca con splendidi vigneti e pescheti terrazzati
digradanti sopra il bagno comunale. Si costruì il famoso
Hotel Anfora, illustre per le dimensioni e l’aspetto. Una
specie di aeroporto internazionale, con spazi estremi, spogli,
freddi, privi di un minimo di fascino e comfort, e con una
piscina olimpionica coperta, riscaldata, che faceva diventare
umido tutto l’ambiente, per lo più occupata da nuotatori di
vari club e da giocatori di waterpolo in trasferta per
allenamenti. In città, ma anche altrove, circolava una verità,
d’altronde per nulla nascosta.
Durante la costruzione dell’Anfora, in zona vietata alle
costruzioni, nasceva una lunga, spaziosa casa in pietra di
Brazza con le terrazze che dal mare salivano fino alla strada
nella bassa collina alberata. La pietra della costruzione, il
legno degli infissi delle porte e delle finestre, le travi dei
porticati, i marmi delle pavimentazioni interne ed esterne, i
sanitari dei bagni, le ceramiche italiane, erano tutti uguali a
quelli dell’Anfora Hotel.
Gli operai che lavorarono all’Anfora, erano impiegati
anche nella grande casa bianca e il trasporto del materiale
necessario fatto alla luce del giorno. Trasportarono anche
un’infinità di anfore antiche, sottratte alla collezione privata
di un sub isolano che le aveva recuperate al largo delle Isole
Spalmadori, ma che il nostro potentone decise di requisire per
abbellire l’albergo, dandogli appunto il nome di Anfora. E
naturalmente, per buona parte le aveva usate come grandi
fioriere sulle proprie terrazze. Questo personaggio avrebbe
ammorbato l’aria isolana per più quadrienni, giocando le sue
influenze per più legislazioni. Non era più possibile stanarlo
dagli uffici del potere imposto. D’altronde il sistema
unipartitico e le elezioni-farsa gli davano la possibilità di
combinare un’infinità di disastri.
Ma non fu né il solo né l’unico in questo gioco di
governanti potenti che rubavano a piene mani. Personaggi
immorali e corrotti sono stati al potere in tutte le società, ma
quelli nostrani mi sconcertavano per il disamore che
mostravano nei riguardi di quel particolare ambiente
paesaggistico e l’incapacità di comprendere le tradizioni
isolane nelle tracce architettonico-urbanistiche che avevano
necessità di essere seguite, curate e sviluppate. Il fenomenale
rapporto tra l’urbanizzazione e l’ambiente circostante
diventò un campo di battaglia sul quale personaggi primitivi,
incapaci e prepotenti misuravano le proprie forze
d’imbecillità nell’imporre interventi inadatti al paesaggio.
Sembrava come se una forza sinistra li spingesse a
distruggere tutto quello che la natura aveva donato e l’uomo
nei secoli con sacrificio nobilitato e ingentilito.
Dopo una lunga assenza dall’Isola per il disgusto e
l’assoluto rifiuto di quanto personalmente mi successe negli
anni ‘60, ebbi la sfortuna di incrociare quell’ex potente,
questa volta dopo la sua defenestrazione ad opera di
individui più avidi di lui.
Cambiavano i personaggi al potere, ma il tipo di potere
rimaneva lo stesso. Dietro tutti loro c’erano potenti
meccanismi che sapevano come mobilitare tutte le
organizzazioni sociali: il Partito, l’Unione Socialista, il
Sindacato, i Combattenti, la Gioventù, gli operai ai loro posti
di lavoro.
Chiedevano e ricevevano senza ripensamenti carta bianca e
si riciclavano più o meno sempre gli stessi individui. Le
elezioni erano una farsa ben congegnata, all’inizio con un
unico candidato e dopo, per garantire una maggiore
democraticità, con due o tre nomi in lista. Ma non cambiò
nulla. Veniva scelto il personaggio già in anticipo deciso dai
comitati del Partito. Era chiaro da che parte stava il corpo
d’armata di tutte le organizzazioni, sotto il massimo controllo
della SUP, polizia statale sostenuta dai militari. C’era solo da
sperare nell’arrivo di qualcuno meno peggio. Purtroppo
nessuno di questi individui, protetti dai loro simili, pagò mai
per i danni irrimediabilmente perpetrati. Addirittura, dopo
una certa silenziosa assenza, si ritrovavano in posizioni
anche di maggiore responsabilità. Con tutte le conseguenze
che si possono immaginare, magari solo in un campo
diverso.
Per me l’estate si stava esaurendo. Gli ultimi giorni
sull’Isola li passai immersa nello studio della Poesia Epica
Popolare, l’ultimo esame. Le miti sere settembrine le
dedicavo completamente alle passeggiate con Maestro.
All’imbrunire scendevamo la grande scala del Park Hotel e ci
dirigevamo sul lungomare della Fabrika, verso la rotonda
della chiesetta Stella Maris. Ci fermavamo sulla panchina
sopra il moletto della villa Kirin a picco sul mare.
In settembre, quando il numero dei villeggianti si
riduceva, gli isolani liberi dai soliti impegni stagionali, i
pescatori ormai senza la pesca al pesce azzurro per la luna
piena, i contadini non più costretti ai campi in attesa della
vendemmia, avevano l’abitudine della passeggiata serale. La
gente usciva per incontrarsi, fare due chiacchiere, conoscere
e far sapere notizie di sé. Era una usanza di società, soprattutto
la domenica, nei giorni festivi e a fine estate, in tutte le sere
morbide di un autunno ancora lontano. Le persone, tutte
quelle che conoscevano Maestro, si fermavano a salutare; le
altre, i nuovi arrivati, salutavano con deferenza senza
disturbare oltre.
In autunno e in inverno queste abitudini cambiavano. Si
svolgevano domenica mattina dopo la fine della messa
grande delle undici in cattedrale e duravano un’oretta fino al
pranzo. La passeggiata si spostava a seconda del tempo. Nel
caso che soffiasse la bora, il flusso dei passeggianti si
indirizzava sul lungomare di Fabrika, protetto dalla collina di
Gojava e dal rialzo roccioso della Santa Caterina. Nel caso di
una sciroccata, la passeggiata si svolgeva sulla riva al riparo
dal vento meridionale, dietro il promontorio della Croce.
Per la chiusura della stagione estiva, si tenne il concerto
dell’Orchestra Municipale diretta da Maestro. Era
annunciato con manifesti e atteso come al solito. Nella serata
prestabilita, sotto la torre dell’orologio, si disposero i
musicisti in rialzo sopra le tre scale, con i loro leggii in
semicerchio. Nella parte più bassa, protetta dall’ex palazzetto
Ghilve e dal vecchio palazzo del Boglić, che di quello spazio
fanno una naturale nicchia dall’eccezionale sonorità e
acustica, erano sistemate le quattro, cinque file di sedie
occupate già in anticipo.
Il resto della piazza, protetta dai palazzi e dalla Loggia
fino al muretto del Mandrač, si riempì velocemente. Quando
Maestro scese dalla scalinata del Park Hotel accompagnato
da due suoi musicisti, lo salutò un fragoroso applauso che si
protrasse a lungo. La piazza era piena e, appena Maestro alzò
la palizza per dirigere, scese il silenzio. Il programma
comprendeva brani di musica Verdiana, di Puccini, Bellini,
Leoncavallo. Il pubblico rimase inchiodato in assoluto
silenzio per una buona ora e mezza, invocando alla
conclusione il bis, che si protrasse per un’altra mezz’ora. Alla
fine in molti attorniarono Maestro, trattenendolo. Dopo il
concerto, nella terrazza della Casa in pietra grigia si radunò
un nutrito gruppo di amici e qualche potente ormai trasferito
nella capitale o altrove, ma rimasto fedele all’Isola e alle sue
abitudini. Tra queste continuava a persistere la musica, da
quarant’anni portata da Maestro sull’Isola, senza perdere
slancio né importanza per i suoi abitanti, ma anche per i
molti ospiti che da tempo si consideravano, durante l’estate,
cittadini isolani.
L’estate si avviò alla fine e arrivò il distacco dalla serenità
della mia Casa, dalle consolidate abitudini che duravano e
proseguivano nelle piccole cose quotidiane, negli improvvisi
accordi sul pianoforte che Maestro faceva risuonare dentro
le spesse mura di quella rocca affrescata da vecchie memorie
e più recenti ricordi, negli oggetti, negli odori. La splendida
terrazza, il nostro salotto estivo protetto da sguardi
indiscreti, rivolta al cielo e alle stelle sopra i comignoli scuri,
sarebbe rimasta deserta e così pure la grande cucina, nostro
rifugio e ritrovo di intimo calore nelle giornate di scirocco
scatenato e piogge a raffica, portate insieme alla salsedine
alzata dall’urto delle onde sotto la vecchia Capitaneria di
porto. Silenziosa. I nostri spazi interni, caldi di antichi
linguaggi sinceri, conchiglia di piccoli gesti gentili, concilianti,
desiderati, riparo da parole brutali e meschini inganni. Il
nostro microcosmo sicuro dentro le mura spesse, cariche di
un garbo dilatato nella tenacia capace di resistere ai tempi
poco propizi in attesa, anche grazie alle rasserenanti
indulgenze di Maestro nell’approcciare gli aspetti di quegli
anni che mi mettevano in crisi scatenando dubbi, rimpianti,
insicurezze e sempre minore fiducia nella quotidianità.
Nella capitale affrontavo tutto da sola, senza quella
sicurezza che percepivo a Casa mia, che poteva essere anche
solo il frutto della ben costruita autoconvinzione
dell’esistenza di sostegni reali. Non si trattava di appoggi
richiesti, ma della certezza del loro esserci, del sapere di
avere un posto in cui tornare in caso di estrema necessità.
XIII. Centro Universitario di Zagabria
Alla fine di settembre iniziai la collaborazione col Centro
Universitario all’Emissione 5 minuti dopo h20. La direzione
della manifestazione permanente, oltre a Maja Hrubar,
comprendeva, con me, sei collaboratori. Presto mi sarei resa
conto che la responsabilità dell’organizzazione artistica
affidata fino allora a Maja era stata appoggiata su di me, che
ero priva di esperienza.
Oltre alla collaborazione per le conferenze-dibattito
sull’Autogestione Socialista richiesteci dalla Presidenza della
Repubblica Croata, si dovevano considerare varie altre
esigenze. La compilazione del programma era sicuramente il
passo fondamentale, per motivi facilmente intuibili.
Decidemmo di improntare l’Emissione su tematiche inerenti
la letteratura contemporanea, distaccandoci dagli
avvenimenti musicali e teatrali che erano già stati avviati nel
Teatro Sperimentale e nella Sala Concerti del Centro.
Bisognava dare una maggiore libertà professionale
all’organizzazione dei concerti regolarmente svolti, sia a
quelli di musica classica che moderna e di jazz, in stretta
collaborazione con musicisti e compositori di professione.
Più difficile era creare un programma letterario senza farlo
diventare didattico e poco interessante per la più larga fascia
degli ascoltatori. Maja, avendo studiato Storia dell’Arte, si
dedicò alla promozione della pittura e della scultura
contemporanea, iniziando da quella nazionale. A me toccò la
letteratura. Ebbe inizio una piccola battaglia di opinioni e
indirizzi. Secondo il mio parere, il decennio che stavamo
vivendo, dal ‘55 al ‘65, era un periodo interessante per una
molteplicità di avvenimenti che avevano creato svariati
capovolgimenti
nella
letteratura
internazionale.
Personalmente ero attratta dalla letteratura americana:
Steinbeck, Faulkner, Dos Pasos come rappresentanti,
ognuno a proprio modo, dei diversi risvolti sociali nel grande
Paese dopo la colossale crisi che aveva portato certi scrittori
americani a una specie di glorificazione del Comunismo. Mi
attirava anche quella francese con Camus, Sartre e Simone
de Beauvoir, per la collocazione filosofico-letteraria
dell’esistenzialismo, e quella dell’Unione Sovietica del
dissenso, ancora non conclamato e palesemente espresso, ma
già vivo nel primo circolare dei dattiloscritti di Solženicyn, in
particolare del racconto Šc 854 che, tramite canali segreti, uscì
all’estero e permise al nuovo leader comunista Nikita
Sergejević Khruščev di scoprire per la prima volta e portare
alla conoscenza, la realtà dei lager sovietici del periodo
staliniano, in URSS tenuta nascosta.
Allora non sapevo che in quel lavoro non mi sarebbero
bastate le sole idee, per arrivare alla loro realizzazione, ma
che avrei dovuto espormi per farle accettare. I critici letterari
che sarebbero stati scelti, naturalmente dal Partito, oltre al
voler essere responsabili degli indirizzi programmatici,
davanti a scalette non precise e ponderate negli intenti,
avrebbero potuto portare allo svilimento del contenuto,
soggetto a pareri e spiegazioni di parte.
Quegli anni erano un periodo di sbandamento nel nostro
Paese, e del tutto ovvi erano gli sguardi rivolti agli Stati Uniti
dopo la nostra ubriacatura e poi rottura con l’Unione
Sovietica. Gli effetti disastrosi della grande crisi, la New Deal
roosveltiana e la guerra europea, avevano variamente
influenzato la letteratura americana.
Emerse la generazione post-depressione, convinta di aver
finalmente ristabilito il senso della realtà.
Il fatto di essere scrittori imponeva nuovi obblighi e
diritti. Attraverso il naturalismo letterario, molti si avviarono
verso il realismo comunista. In America la letteratura sul
proletariato divenne un’attrazione in quanto arma politica.
Storditi dalla crisi, gli scrittori americani erano desiderosi di
una nuova e solida idea di cambiamento e credo fosse la
povertà manifesta di tanti a condurli al Comunismo,
credendolo energico, ferreo, aggressivo, con l’unico
programma di costruire una nuova società e una nuova
letteratura che avrebbero offuscato tutti gli altri periodi della
storia americana. Di fronte al crollo mondiale del
Capitalismo, la filosofia marxista risuonava potente nel senso
delle certezze. La Russia, nel periodo del grande ottimismo,
appariva qualcosa di più grande di un esperimento sociale.
L’avventura letteraria comunista poggiava su due opposte
entità: la speranza di una maggiore democrazia economica e
sociale e l’influenza della Russia che, per l’appunto, non
conosceva la democrazia.
Nella Jugoslavija, dopo rottura con l’URSS staliniana degli
anni ‘60, copiosamente si traducevano John Dos Pasos, John
Steinbeck e William Faulkner. In realtà questi scrittori erano
molto diversi tra loro nei concetti. Quello che mi interessava
era la parabola con la quale veniva offerta una
rappresentazione approfondita e rigorosa, per esempio della
Salinas Valley di Steinbeck, che non ha eguali nella
letteratura, se si fa eccezione per la vasta ed esauriente
descrizione che Faulkner fa dello Stato del Mississippi. Il
racconto di Dos Pasos, invece, nella sua potenza
palingenetica aperta alle risoluzioni dialettiche, fece
conoscere New York per la sua umanità e l’irrefrenabile
slancio di autentici impulsi: l’amore e l’odio coagulati che
vanificano ogni moralistica rinnegazione del tempo che fu.
L’involuzione politica e letteraria di tanti scrittori americani
di quella che veniva definita l’età del jazz, apparteneva, infatti,
alla ricerca di un’identificazione culturale dovuta alla
seduzione marxista, che non derivava dalla diretta lettura di
Marx, ma da un altalenante umanesimo socialisticheggiante e
individualismo libertario. Il fascino del Comunismo non
contagiò solo gli intellettuali di New York, ma andò oltre.
Il celebre slogan: Il Comunismo è l’americanismo del ventesimo
secolo sarebbe cambiato in pochi anni, insieme alle sue
prospettive. I giudizi successivi di ispidi romanzi
pseudosperimentali su quella letteratura non credo siano stati
giusti. Basta prendere in considerazione le numerose pagine
ancora oggi appassionanti, le tecniche innovative e
l’influenza che hanno avuto su scrittori come Norman
Mailer in America, Sartre in Francia e in Italia su Pavese.
Tutti motivi validi per esaminare questa letteratura in senso
formale, anche perché le guerre, quella calda e quella fredda,
passarono e arrivò il Maccartismo che congedò le idee
comuniste. Ci rimane comunque la forma innovativa,
appassionata, l’ossatura e il supporto di qualsiasi racconto
coinvolgente.
Un’altra mia idea, quasi per comparazione inversa, era
quella di occuparci della letteratura russa degli anni ‘50-‘65,
poco conosciuta perché per molti versi sotterranea e
clandestina. Solženicyn non era uno scrittore, ma uno dei
milioni di ex prigionieri, in gergo chiamati zek o nemici del
popolo, sopravvissuti ai campi di concentramento staliniani;
un cittadino, insegnante di matematica e fisica, nel ‘45
condannato per attività contro-rivoluzionarie. In realtà criticò
Stalin in una delle lettere a un amico. Durante la permanenza
di otto anni nel lager scrisse il racconto Šc 854, che è il
numero di matricola scritto sugli stracci dello zek Ivan
Denisovič Šuhov156, protagonista del racconto. Šuhov è
contadino, ex soldato, colpevole di essere evaso dalla
prigione tedesca, per cui accusato di tradimento e
condannato a lunghi anni di gulag. Così Šuhov diventò l’eroe
di una nuova, brutale epica, quella dei lager e della
sopravvivenza. La storia assomma le caratteristiche essenziali
del mondo concentrazionista sovietico: le gerarchie, le
violenze, le repressioni, le celle di isolamento, anticamere
della morte, le fucilazioni, i controlli crudeli che assicuravano
l’ordine, il comando dei peggiori con il codazzo di leccapiedi
e spie che rubavano tutto quel che potevano.
Si tratta di uno specchio dei lager che però rimanda
l’immagine del mondo esterno. Le vittime appartengono a
diversi strati sociali: non solo ai quadri comunisti traditori, ma al
popolo. L’esistenza dei lager staliniani era nota all’estero, ma
taciuta in URSS, dov’era vietato anche solo nominarla.
L’improvviso, violento attacco di Khruščev contro Stalin
sembrava il momento adatto per far emergere la realtà
sovietica: non solo per i lager staliniani, ma anche per le
condizioni misere dei kolhoz e dei lavoratori organizzati nelle
grandi fabbriche. Purtroppo il Partito e i conservatori, che
ostacolavano il processo di destabilizzazione del vecchio
potere, fecero un’altra volta cadere tutto nell’oblio. Il
racconto Šc 854 fu ribattezzato dal poeta Tvardovskij,
direttore della rivista Novii Mir: Una giornata di Ivan Denisovič,
per imporlo a una redazione reticente, impaurita dalla novità
e dall’audacia del racconto.
Non c’era da stupirsi, in URSS era vietato addirittura
pubblicare il romanzo Dottor Živago di Boris Pasternak.
Il carattere di opposizione in un primo momento sfuggì
al potere di Khruščev, ma poi velocemente suscitò un vero
scontro politico, assolutamente nuovo per l’URSS.
Suchov, il protagonista del racconto Una giornata di Ivan
Denisovič, divenne bandiera dei riformatori liberali e bersaglio
dei conservatori staliniani, solo in apparenza contro il
formalismo e modernismo dell’arte di Solženicyn, ma di fatto
contro il suo battersi per la libertà di espressione e creazione.
Voce in evidente opposizione con le stesse fondamenta
ideologiche del regime, capace di far crescere il fenomeno
del dissenso. E in Jugoslavija?
Sappiamo quali furono gli sviluppi dell’esperienza di
Solženicyn. In bilico fra gli apprezzamenti e le accuse di
incomprensione dei processi storici, di dannosità della sua visione della
vita filosofica e sociale. Sarebbe finito sotto le grinfie della KGB,
poi esiliato e, dietro un movimento internazionale, alla fine si
sarebbe trasferito in Vermonte, negli USA, dove nel ‘70
sarebbe stato insignito con il Nobel per la letteratura. Ma
negli anni ‘60 non si poteva trovare in libreria Una giornata di
Ivan Denisovič. E anche in Jugoslavija era arrivato in forma
dattiloscritta con il vecchio titolo Šc 854, portato dall’URSS
da confidenti e amici.
In quegli anni in Jugoslavija era trapelata ormai la realtà e
verità dei lager nostrani. Goli Otok 157 sarebbe stata più tardi
paragonata all’Arcipelago gulag di Solženicyn, come campo
di concentramento e rieducazione per i fedeli della grande
madre Russia del post-imformbüro. Inoltre si facevano paragoni
tra il miserabile kolhoz russo della Casa di Matrjona e i villaggi
del grande granaio Pannonico collettivizzato.
La vita, organizzata in tutti i suoi aspetti, non era quel
mondo felice e prospero raffigurato in tanti romanzi del
realsocialismo, anche dalle nostre parti. Purtroppo nemmeno
nella nostra società erano assenti il dominio dell’avidità, la
grettezza, l’irresponsabilità.
La passione per il lavoro come retaggio della parte
migliore del mondo contadino era distrutta dalla
collettivizzazione. L’etica personale con le sue doti di onestà,
mitezza, umiltà, disponibilità verso gli altri, comprensione…
tutto era scomparso nella morale collettiva, negatrice della
persona.
Tutto, ma per portarci dove? mi chiedevo all’improvviso.
Eravamo testimoni della veloce fine del comunismo americano,
se di Comunismo si poteva parlare, poi di quello vero oltre il
marxismo, staliniano, e vivevamo il momento cruciale del
Comunismo jugoslavo nel sempre più presente dissenso
verso il centralismo statale. Io proponevo l’idea di parlare
senza mistificazioni di queste realtà tanto diverse in paesi
altrettanto diversi, ma con lo stesso risultato: la disfatta del
Comunismo. Quella che stava assillando Belgrado. Non ebbi
affatto con facilità il consenso per la mia scaletta
programmatica, presentata al vaglio della direzione del
Centro
Universitario.
Maja
Hrubar,
occupata
dall’organizzazione delle conferenze di pittura e scultura, era
una sfinge. Bata Popalić si era in parte defilato per la sua
precedente gestione troppo personalizzata del Centro; Zoran
riteneva prematura la mia introduzione di un argomento in un
certo modo ancora privo della presa di posizione ufficiale da
parte della critica nazionale nei confronti di queste letterature
che sconvolgevano le fondamenta ideologiche di più
generazioni comuniste.
Qual’era stata la partenza dei dissensi, particolarmente
croati e di altre Repubbliche federali? Nella letteratura serba
si erano fatti sentire Kiš, Pavlović, Kostantinović,
assumendo toni da critici corrosivi nei confronti della realtà
jugoslava che voleva essere eroica. Si aprì, infatti, la breccia
nel bastione del realismo socialista, velocemente crollato
nell’arte, nella letteratura e nella mentalità della gente. Cosa
stava succedendo alla Croazia e alla Federazione Jugoslava
all’inizio degli anni ‘60? Nata, come è noto, dalla lotta
partigiana e dalla carneficina seguita alla vittoria dei
comunisti, era stata strutturata in Federazione sul fedele
schema istituzionale sovietico e, com’era toccato ai Russi
assumere un ruolo emergente nell’Unione Sovietica, così
nella Jugoslavija socialista furono costruite le basi della
Federazione sulla priorità dei serbi. Una realtà totalitaria,
fortemente centralizzata, retta da Belgrado, dove si
concentravano le risorse finanziarie e gli aiuti ottenuti
dall’estero. Questa realtà non fu avvertita in tutta la sua forza
distruttrice nel primo periodo del regime, ancora forte per la
memoria della vittoria del conflitto e durante l’alleanza con
Stalin. Ma successivamente al ‘48, quando la Jugoslavija fu
esclusa dalla famiglia dei partiti comunisti europei e iniziò il
suo cammino di nonallineanza con nessun blocco, quelli che
nella lotta tra Tito e Stalin si erano schierati con
quest’ultimo, fedeli all’ideologia inculcatagli a massicce dosi,
pagarono a caro prezzo la propria lealtà. Quello che aveva
fatto la KGB in URSS era stato messo in opera dall’UDBA
in Jugoslavija.
Tutto iniziò già tra gli anni ‘50 e ‘65, per la promozione
della liberazione della letteratura dai rigidi schemi del
realismo sociale da parte del solito gruppo di intellettuali
croati.
In quel clima di crescenti scoperte dei lager nazionali tipo
Goli Otok, tanto simili ai lager staliniani descritti da
Solženicyn, con la richiesta dell’indipendenza della letteratura
dal regime e il crollo del realismo socialista un po’
dappertutto, io avanzavo la pretesa di parlare apertamente di
quello che si bisbigliava. Appena dopo due mesi sarebbe
stato approvato il mio programma dell’Emissione 5 minuti dopo
h20 per quanto riguardava un’analisi della letteratura russa e
americana contemporanea, ma con titoli alquanto
ingannevoli: L’attrattiva dell’avventura letteraria americana
contemporanea e Risveglio dell’uomo nuovo del marxismo sovietico. Da
settembre a fine ottobre andò avanti la conferenza con la
letteratura serba e di meno con quella croata, con scalette
rifatte, sconvolte, incomplete, senza un’analisi realistica né
fondata sui fatti.
Per quanto riguardava il programma americano e russo
non esistevano saggi, né bibliografie. I romanzi stampati di
Faulkner e Steinbeck erano privi di alcun commento
sociopolitico. I critici chiamati alla collaborazione col Centro
Universitario per l’Emissione, capaci di trattare l’argomento in
modo il più possibilmente reale e corretto, erano pochi. Mi
rivolsi a Nicola e ai suoi amici del localino Gradec. Zoran
frenava molte delle mie intenzioni, malgrado il permesso per
svolgere quel programma fosse uscito dalla Presidenza del
Governo Croato, anche quello considerato un atto politico.
Apertamente parlavo per paragoni. Naturalmente, anche se
protetta dalla presa di posizione del Governo Repubblicano,
ero entrata nel ciclone in pieno movimento contro il
centralismo federale, lì dove ogni parola alludeva, o si
credeva alludesse, all’indipendenza, al cambiamento di
situazioni, che anche altrove avevano dimostrato la propria
invalidità ed erano rovinosamente crollate. Cosa mi aveva
spinto a quella aperta adesione a un’idea nuova nel
panorama della Federazione socialista? Può darsi una scarsa
coscienza della realtà o il senso della giustizia e di una
maggiore democrazia. Per i troppi abusi e le situazioni illecite
scoperti un po’ dappertutto? Come era vista questa mia
attività trasformata in avvenimento pubblico tramite
l’Emissione 5 minuti dopo h20, tanto da raggiungere gli
intellettuali capitolini? Veramente in breve tempo il dibattito
ottenne consensi inaspettati e divenne il punto di riferimento
per la maggior parte degli studenti zagabresi. L’appoggio del
Governo Croato era ovvio, altrettanto quello della Matica
Hrvatska, con un certo liberalismo nei programmi di E.
Kardelj sull’autogoverno e l’aperta approvazione di Tito. A
me l’Emissione aprì le porte del lavoro presso l’Ufficio
Stampa della Presidenza del Governo Croato per
l’organizzazione delle conferenze sull’autogestione. E mi
portò tanto, tantissimo lavoro.
Mi dividevo tra il Centro, la Presidenza e lo studio,
purtroppo, di sera. Non era affatto facile conciliare tutti gli
accadimenti di quelle giornate frenetiche con l’inizio
dell’anno scolastico.
Per motivi poco chiari, Safeta rimase senza alloggio nella
Casa dello Studente. Praticamente per strada. Senza indugi le
offrii ospitalità nella mia stanzetta. All’inizio dividemmo
addirittura lo stesso letto. Con un po’ di pazienza scovammo
al mercato dell’usato una piccola brandina pieghevole, da
campeggio. La fornimmo di pelli di pecora conciate e
coperte di lana pesante che i genitori di Safeta inviarono
dalla Bosna. Riuscimmo a creare una calda, confortevole
cuccia. Per fortuna Safeta era minuta e magrissima, per cui il
lettino andò bene. Di notte lo stendevamo nell’angolo sotto
la finestra e di giorno lo piegavamo facendolo diventare un
sedile squadrato, morbido, coperto di pelli a riccioli bianchi.
Per me la presenza di Safeta era come una manna dal cielo.
Tutti i giorni seguiva le lezioni e con estrema diligenza,
com’era nella sua natura, prendeva appunti che mi aiutarono
moltissimo. La sera continuava a lavorare al Centro
Universitario, facendo le pulizie nella sala per lo studio e
aveva tempo di occuparsi di un’infinità di mie incombenze.
Prima di uscire si approvvigionava del carbone alla rimessa
della Casa dello Studente. Accendeva la grande stufa in
maiolica del nostro alloggio e la caricava di carbone. Quando
tornavamo di sera, la piccola stanza era calda e accogliente.
Il freddo iniziava già a metà ottobre e il vecchio
caseggiato dell’ostello si riscaldava solo a carbone. Safeta si
procurava ogni giorno, al mercato di Dolac, pane fresco,
latte, formaggi e frutta. Spesso mi faceva trovare le morbide
palačinke, le crespelle riempite di marmellata di ciliegie inviate
dai suoi genitori, oppure delle frittelle salate farcite di
formaggio fresco. Era bravissima a preparare questi cibi
semplici, fatti con poca farina, latte e lievito, cotti o fritti sul
nostro fornello elettrico. Sul davanzale della finestra aveva
sistemato una cassetta di assi usata per la frutta, creando il
nostro frigorifero. Anche la stanzetta era gradevole grazie
alle cure di Safeta, colorata e allegra, con la piccola radio e il
giradischi che in verità avevamo poco tempo per ascoltare se
non ogni tanto, di domenica pomeriggio, nelle giornate
cariche di neve.
Il 29 novembre, giorno della ricorrenza della
proclamazione della Repubblica, Tito fece il giro della
Croazia. Dopo il discorso a migliaia di operai sulla riva di
Spalato, si fermò a Zagabria. Visitò il Centro Universitario,
partecipò al ricevimento per dirigenti e funzionari del
Governo Croato ospite del presidente Vladimir Bakarić a
Dvori. Durante la visita al Centro, accompagnato da Zoran
Babić insieme al presidente Bakarić, non fece discorsi, ma
regalò sorrisi e approvazioni accompagnati da strette di
mani. Notai Bata Popalić oltre la fila del vertice delle
massime autorità croate, condotte da Zoran Babić. Chi
conosceva le vicissitudini che attraversavano il Centro si rese
conto della retrocessione del suo dirigente politico, almeno
in presenza delle autorità croate. Era evidente una certa
cordialità che il Maresciallo usava con Zoran. Spesso si
rivolgeva con domande al suo accompagnatore, facendo il
gesto di trattenerlo per il braccio e immediatamente ritirando
la mano, come qualcuno che si rendesse conto di essere in
pubblico, e il suo aplomb presidenziale doveva rimanere
impeccabile malgrado l’amichevole intimità che lo induceva a
un certo comportamento meno formale. Un giorno avrei
saputo da Zoran che il suo rapporto cordiale con Tito aveva
lontane radici. Suo padre era stato amico intimo del
Maresciallo. Lo aveva accompagnato attraverso tutte le
offensive durante la guerra di liberazione. Fu consigliere di
Tito fino alla sua prematura scomparsa. Sempre Tito ad aver
voluto Zoran presso la sede del Governo Croato per
l’elaborazione della nuova Costituzione e come segretario
particolare della Presidenza. Era più che ovvio che Tito
avesse una forte simpatia per Zoran, cresciuto sotto i suoi
occhi per poi affrontare gli studi ad Oxford come suo padre
e lo ammirava. Tito era anche padrino di Zoran e fidato
amico della madre. La stessa sera il presidente del Governo
Croato Bakarić dette il solito ricevimento per la festa della
proclamazione della Repubblica Jugoslava, avvenuta a
Jajce158 il 29 novembre 1943. Approfittò del passaggio del
Treno Blu di Tito al rientro da Spalato per la visita al Centro
Universitario finalmente completato, diventato struttura
d’avanguardia in senso architettonico e organizzativo, fiore
all’occhiello del Governo Croato.
I preparativi per la serata di festa iniziarono una settimana
prima. Si transennò quasi tutta la Città Alta con accessi e
percorsi obbligatori. Dvori assunse un insolito aspetto. Tutto
il complesso nell’interno delle sue alte mura, dal cortile agli
ingressi e agli androni, si stava trasformando. L’immenso
salone del piano terra interno, di solito sobrio con i suoi
marmi, sculture, punti con rare piante ornamentali,
silenzioso e in penombra, era stato illuminato a giorno già
durante i lavori di sistemazione del grande tavolo da buffet
lungo la parete con le larghe porte rivolte verso il cortile e le
sale laterali con tavolini e poltrone. Sulla grande scala di
marmo bianco fu steso il tappeto rosso delle occasioni
importanti; i lampadari di cristallo sfavillanti.
Tutto trasformato, irriconoscibile: uno spazio di altri
tempi, sfarzoso, visto solo nei film sulla Russia zarista, dei
tempi di Caterina La Grande. Sembrava la ricchezza della
Russia prima della rivoluzione, dei palazzi moscoviti
dell’aristocrazia intorno al potere che si differenziavano dalle
masse contadine oppresse e in estrema povertà. Dvori mi
dette l’immagine chiara delle impressioni scaturite dalla
lettura di Tolstoj in Guerra e Pace. C’era qualcosa del passato
in quella situazione, di affascinante, anche se fuori luogo.
Non avevo mai immaginato che da noi, in quel tempo,
potesse essere creato uno sfarzo di quel genere. I giornali, o i
cinegiornali, non davano quell’impressioni di estrema
ricchezza. Sarà dipeso dal modo in cui venivano ripresi i
ricevimenti, sempre imperniati e fissi sui personaggi
importanti, sempre gli stessi e in bianco-nero.
Il buffet era altrettanto sfarzoso, con vassoi di portata in
argento, porcellane Roosenthal, posate con stemma, cristalli
boemi, alzate con frutta e fiori come addobbi, camerieri
dietro il lungo tavolo e in mezzo agli ospiti, tutti scelti,
eleganti e atletici, simili ai cadetti di una scuola militare. E
poi gli ospiti, non più di trecento, selezionati, sicuramente
erano stati valutati a lungo, considerando la eccezionalità
della presenza del Maresciallo Tito. Non conoscevo nessuno,
se non pochi dell’Ufficio della Presidenza, il resto solo dalle
foto sui giornali e dalle apparizioni nei cinegiornali. La
televisione non era ancora presente.
C’erano naturalmente i massimi dirigenti delle più note
istituzioni, il rettore dell’Università di Zagabria,
rappresentanti di scrittori capeggiati da Miroslav Krleža,
pochi rappresentanti della Matica Hrvatska, il Sindaco, un
paio di pittori e scultori di grido, dirigenti della Lega
Comunista Croata… insomma, la crema del massimo potere
Repubblicano, come dicevano i zagabresi doc. Personaggi a me
noti solo grazie alla loro immagine pubblica. Dell’Ufficio
Stampa della Presidenza c’eravamo solo il capo e io, in
quanto assistente al segretario delle conferenze-dibattito
sull’autogestione. Il ricevimento era organizzato alla
perfezione. Pochi famigliari, parecchie donne attempate, capi
ufficio.
Avevo intravisto Nicola con un paio di scrittori, amici del
localino Gradec, Maja Hrubar del Centro Universitario, dei
miei professori lo scrittore Jure Kaštelan, il direttore del
quotidiano Vjesnik Bono Navok, mio compaesano. Intravidi
anche la bella madre di Zoran, ma non azzardai ad
avvicinarmi. L’avevo incontrata solo una volta a un concerto
e non sapevo se mi ricordasse ancora. Nel frattempo mi
chiedevo come rivolgermi alle persone di sesso femminile
presenti: signora non andava bene, compagna ancora di meno,
non chiamarle affatto era possibile solo per breve tempo. Le
donne presenti tra di loro sembravano conoscersi tutte e
darsi del tu, perciò rimasi in disparte. Inoltre, ero l’unica della
mia età. Mi tolse d’impaccio Zoran, come era giusto, credo.
Era lui ad avermi obbligato a prender parte a quel
ricevimento. Anche se non mi sentivo isolata tra i funzionari
della Presidenza al Governo che, dopo un mese a Dvori,
sembrava mi conoscessero tutti tanto erano gentili,
premurosi e sempre pronti ai complimenti.
Lasciato il Maresciallo Tito nella saletta, in disparte con
Bakarić e i suoi più vicini collaboratori, Zoran si avvicinò e
mi accompagnò da sua madre. Mi presentò alla moglie del
presidente Bakarić, dicendo:
- La mia più giovane collaboratrice. È dell’Isola.
La madre di Zoran mi accolse con gentilezza, come,
credo, fosse nelle sue abitudini verso gli estranei. La moglie
di Bakarić si illuminò dichiarando che era stata lei a scegliere
il promontorio dove costruire la residenza estiva per il
presidente. Disse:- per il presidente non per la presidenza - il che
faceva la differenza rispetto a quello che sull’Isola si sapeva.
Secondo lei la residenza non era per gli appartenenti al
Governo, ma per una singola persona?! Non mi piacque né il
modo di esporre l’idea, né la persona. Salutai, esprimendo il
desiderio di non disturbarle ulteriormente e mi avviai verso
gli amici. Gli amici erano Nicola e i suoi compagni del
Gradec.
Ebbe inizio l’apertura del sontuoso buffet. Mentre Tito
con le più alte cariche del Governo Croato rimaneva seduto
nella saletta attigua, gli ospiti venivano serviti dai tanti
camerieri. Il buffet era di un’eleganza impeccabile, i cibi
assortiti e presentati negli splendidi vassoi con estrema cura.
C’erano pietanze mai viste e champagne a fiumi che presto
influenzò l’umore degli ospiti, diventati sempre meno
formali. Dopo un’oretta, terminato il rinfresco, in verità per
quantità e qualità di cibo più simile a una ricchissima cena,
Tito uscì dalla saletta insieme al suo seguito e con il bicchiere
in mano si sistemò sui primi gradini della grande scala. Con
estrema semplicità ringraziò per l’ospitalità e l’eccezionale
serata offertagli. Fece il brindisi con tutti i presenti
chiamandoci cari fratelli croati e sottolineò che non intendeva
fare discorsi né proclami. Tutto ciò che aveva a cuore l’aveva
trasmesso ai membri del Governo e al suo presidente. Si
rivolse con particolare calore al segretario Zoran. Lo chiamò
con il nome e non con la carica ufficiale, probabilmente per
aumentare il peso delle proprie raccomandazioni da amico
per quanto concerneva il suo impegno alla redazione della
nuova Costituzione. Come al solito era affascinante nel
semplice vestito blu di ottimo taglio che indossava in
occasioni non ufficiali. Il suo carisma era sempre forte e
solido. Trascinava gente semplice e potenti e indubbiamente
era amato. Bakarić e Zoran lo accompagnarono al Treno Blu
che partì verso Belgrado prima di mezzanotte. Quando
tornarono, gli ospiti del Dvori già ballavano e allegramente si
divertivano. Bazzicavo un po’ in giro, mentre gli amici di
Gradec facevano in modo di farmi divertire. Non ero molto
allegra. La ricchezza del ricevimento, i vestiti costosi delle
donne presenti, i gioielli, le pellicce di volpi rosse… non mi
era chiaro come si potesse ottenere tutto ciò con buste paga
non particolarmente alte! Non potevo non pensare ai villaggi
della Slavonija, alle casupole nelle montagne bosniache. E
mentre si invitava la popolazione a stringere la cinta, si
organizzavano simil ricevimenti e l’intera Jugoslavija faceva a
gara nelle solenni feste del giorno della Repubblica, del
Primo maggio, del Giorno dei combattenti, di Capodanno. Si
costruivano residenze estive e palazzi per divertimenti,
nascevano ville dei governanti, il Treno Blu sfrecciava lungo i
binari nazionali e internazionali carico di responsabili della
rappresentanza, gli yacht dei potenti si spostavano da una
all’altra baia delle nostre isole, le Mercedes dell’ultimo tipo
trasportavano i politici e i loro innumerevoli ospiti. Ed ora
anche io ero in quel giro. Ci ero arrivata per motivi di lavoro,
ma un lavoro del tutto particolare. L’avevo accettato perché
mi attirava l’essere presente in un certo ambiente oppure ci
credevo in quello che stavo facendo?! Zoran mi trovò
immersa in questi pensieri e si rese conto che c’era qualcosa
che mi aveva turbato. Non desideravo discutere, almeno non
prima di averci pensato con calma, e me ne andai a casa.
Era passata la mezzanotte. La Città Alta era ancora
transennata e piena di poliziotti in borghese. La vecchia
funivia deserta, le strade semivuote con qualche gruppetto
sparso di persone reduci dai ricevimenti nelle loro
organizzazioni. Safeta non c’era.Avevadecisoditrascorrere i
giorni festivi a casa sua. La solitudine mi pesò. Decisi di
passare il giorno libero dormendo e riflettendo. Iniziò a
nevicare. Per fortuna Safeta, prima di partire, mi aveva
lasciato un grosso cartone di carbone. Accesi la stufa e mi
preparai una ricca colazione con tè e latte bollenti.
Verso mezzogiorno bussarono alla porta. Era Max con
un biglietto di Zoran. Avevo un grande desiderio di rifiutare
l’invito, ma non abbastanza coraggio. Oppure avevo bisogno
di esternare le mie perplessità? Infilai i pantaloni di pesante
panno blu, il caldo maglione bianco con la grande sciarpa,
calcai il cappello e raggiunsi Max alla vettura sotto l’ostello.
Mi consolavo almeno con il pensiero di non andare in giro
con la macchina blu, ma con un privatissimo fuoristrada.
Arrivati alla villa dei Babić, immediatamente ci raggiunse
Zoran con un giovane amico.
Con il suo giaccone alla marinara blu scuro e un piccolo
berretto di lana dello stesso stile calcato basso sulla fronte,
sembrava più affascinante del solito. Non l’avevo mai visto
vestito come tutti i semplici mortali. Mi presentò il suo
amico. Disse che avrebbe lavorato con noi. Il suo nome era
Nenad. Era di Varaždin, città nativa di Zoran. Laureato in
legge da un paio d’anni, Zoran lo riteneva adatto al lavoro
sulla Costituzione e lo aveva inserito nel proprio staff.
Era un ragazzo taciturno, riflessivo, parlava poco. Non so
se per timidezza o per la mia presenza. Nevicò sempre di
più. Partimmo verso il monte Sljeme. Poi a bruciapelo Zoran
disse:
- Penso di sapere cosa ti ha infastidito ieri sera. Credi di essere dove
non dovresti. Non voglio discutere i tuoi sentimenti e le tue sensazioni.
Desidero solo che tu mi dica se credi che anche io non sia dove dovrei
essere e non faccia il mio dovere secondo coscienza. Ma non rispondermi
subito. La risposta a me e a te stessa la darai quando sarai sicura di
quello che per tutti noi è giusto fare!
La mia tensione si sciolse. Decisi di non parlare dei miei
dubbi, almeno per quel giorno. Trascorremmo per la prima
volta una mezza giornata riposante e serena. Raccontai le
giornate con Lila sui campi di granoturco, in mezzo alle oche
e ai suini; la Bosna dei mille miracoli e la povertà vissuta
dalla gente tra le montagne con tranquilla rassegnazione; la
pesca con le mani nei torrenti; le notti nel fienile sotto le
stelle. Zoran mi ascoltava con attenzione, ma rimase senza
commenti.
Poi rivolse l’attenzione a Nenad, poco coinvolto dei miei
racconti. Seppi così che Zoran l’aveva seguito durante gli
studi, indirizzato nelle scelte e scoperto certe sue qualità che
riteneva di dover assecondare. Notai tra di loro un rapporto
di cordiale amicizia, reciproco rispetto, ma non di deferenza
da parte del giovane.
Arrivai alla conclusione che Nenad volesse veramente
bene a Zoran e si fidasse completamente dei suoi giudizi e
delle sue intenzioni. Tra loro c’era senz’altro una forte intesa
intellettuale.
I sentieri sul monte Sljeme si erano ormai ricoperti di
neve. Il piccolo rifugio era pieno di villeggianti che
approfittavano della giornata festiva e della prima neve.
Pranzammo con saporite salsicce di produzione
domestica e un eccezionale vino bianco frizzante di Fruška
Gora, poco alcolico, che ci riscaldò dopo la lunga
passeggiata in mezzo ai boschi innevati e silenziosi,
mettendoci di buon umore.
Non pensavo a nulla. Almeno per il momento erano
scomparsi i dubbi della sera precedente. La semplicità di
quella tranquilla passeggiata, il bosco semideserto, le persone
cordiali e disponibili, mi crearono un benessere di
incosciente leggerezza. Inoltre, scoprivo Zoran un amico
prezioso, misurato, ottimo consigliere. Uno che sapeva
ascoltare, senza essere invadente. Sapeva mettere tutti a
proprio agio, essere gioviale, espansivo e piacevole senza mai
superare il limite tra allievo e maestro. Cominciavo a
conoscerlo e ad apprezzare le sue qualità di uomo
consapevole della propria, senza dubbi privilegiata posizione,
che non cercava mai di usare per interessi personali. Aveva
voluto anche me nell’Ufficio Stampa dandomi l’occasione di
dimostrare cosa fossi capace di fare. Come faceva per molti.
Se avevo ancora dei dubbi sulle mie capacità e delle
perplessità sulla qualità del lavoro che stavo iniziando a
svolgere, dovevo decidere se ero disponibile a un impegno
sociale o se volevo rimanere completamente al di fuori di
quella che era la vita quotidiana per una persona impegnata.
A quello stavo pensando durante il tragitto in macchina
verso la città, che raggiungemmo prima che il buio
avvolgesse il paesaggio. Zoran disse che in serata attendeva
degli amici a casa sua. Desideravano vedere un film che non
circolava ancora nemmeno in America. Mi invitò a
trattenermi. Credevo di non avere i vestiti adatti per una
serata in casa altrui. Sembrò stupito dal motivo del mio
rifiuto. Riteneva che il mio abbigliamento fosse più che
adatto.
- Il tempo libero - disse - uno lo passa come vuole, si veste come
desidera. A parte il fatto che non ti ricordo quasi mai con vestiti
propriamente cittadini. Il comportamento e l’aspetto degli amici di Zoran mi
tranquillizzarono. Sembravano persone completamente
diverse da come mi immaginavo il mondo privato del
segretario particolare della Presidenza del Governo
Repubblicano. Confondevo il personaggio pubblico che ero
abituata a trattare e quello intimo, in casa sua con amici
d’infanzia.
Durante la visione del film, che non mi piacque, pensai a
quello che mi attorniava e al perché mi trovassi in quel
posto. Riflettevo anche se l’amicizia e l’affetto che quelle
persone dimostravano con gesti, parole, scherzi e
atteggiamenti di estrema fiducia e comprensione, fossero
simili al mio modo di sentire l’amicizia. Un tipo di amicizia
benevola e protettiva da parte di Zoran, nei miei confronti,
indubbiamente esisteva. Mi considerava, come diceva, una
giovane promettente, per cui meritavo la possibilità di
esprimere liberamente le mie idee e capacità. A volte mi
sembrava che tutto ciò scavalcasse quella sottile linea che
divideva l’ovvio dal non-ovvio.
Non ero l’unica sottoposta alla sua influenza e alle sue
spinte senza sotterfugi o scivoloni di alcun genere. Zoran
pretendeva da tutti assoluto rigore nel lavoro e rapporti
amichevoli, nei quali esercitava la propria esperienza di
persona matura intenzionata a far emergere i lati positivi e
quelli negativi dalle persone. Quella sera mi dissi di dover
esaminare le mie sensazioni e i miei dubbi su quello che
stavo facendo. Ero distratta e credo fosse molto evidente. Il
discorso sul film non mi trovò partecipe. Non mi piaceva. Si
trattava di Lolita di Kubrick, tratto dallo scandaloso, per i
tempi che correvano, omonimo romanzo di Vladimir
Nabokov. Probabilmente non avevo l’età per perdonare agli
adulti un sentimento tanto passionale come quello del
protagonista del film verso un’adolescente, ma nemmeno la
sfacciataggine morbosa della ragazzina verso l’uomo maturo.
Il pudore mi metteva contro tutti e due. Zoran capì al volo le
mie reazioni. Quando il suo giovane amico Nenad si offrì di
accompagnarmi a casa, Zoran non si oppose. Avevo
l’impressione che non desiderasse affrontare alcun
commento. Ed era la stessa cosa che pensavo io. Il film era
stata una mossa sbagliata in quella giornata.
Arrivata nella mia stanza non fui più capace di fare nulla.
E non riuscii ad addormentarmi. Cosa dovevo fare? Come
dovevo comportarmi in merito al lavoro? Come affrontare i
dubbi? Decisi di ricorrere, un’altra volta, al giudizio di
Nicola.
La sera, dopo il lavoro all’Ufficio Stampa, rintracciai
Nicola al Gradec. Esposi i dubbi sulla mia presenza e utilità
in quello specifico tipo di lavoro. Cosa stava succedendo
nella nostra società? Ero confusa.
- La storia, come sempre e anche da noi - diceva Nicola - si
scrive per i potenti, perché così loro trovano in essa la conferma di se
stessi e della loro opinione di sé. Una storia oggettiva, se mai fosse
possibile, non c’è. Nemmeno come esperimento. Non c’è possibilità che
da noi nasca una specie di storia sociologica, con delle prove, spiegata
con analisi, statistiche, dibattiti nei quali si potrebbe riflettere la realtà
dei nostri giorni. Ai nostri capi federali non serve la realtà perché loro
in anticipo si immaginano lo sviluppo degli avvenimenti che devono
svolgersi secondo i loro schemi. Nel frattempo, però, gli avvenimenti
dirottano dal cammino proiettato. Molte cose sono ingoiate dal buio,
soprattutto gli avvenimenti dubbiosi degli anni di piombo. Noi da
sempre siamo stati specializzati nel dare il lucido all’aspetto esteriore
delle cose, ma il lucido continua a scivolare via. Si aggiunge dell’altro,
del nuovo, ma sotto rimane la ruggine che corrode. Pochi cercano di
sollevare il lembo della coltre sopra la realtà e quelli che lo stanno
facendo sono stigmatizzati. E probabilmente saranno alla fine
allontanati dalla scena, come nemici. Troppo a lungo abbiamo riempito
le nostre anime di illusioni e astrattismi. I potenti federali e il Partito
hanno capito che nei periodi di rottura è importante gonfiare di
grandezza e senso storico le masse popolari per poi, ancora una volta in
nome del popolo, riprendere la conduzione degli affari, ma secondo la
propria regia. Così lo Stato diventa sempre più grosso e sempre meno
efficace. Le sue strutture sono sature di persone poco istruite che per
linea politica e non percapacità personali ottengono posizioni di rilievo.
È chiaro che il mercato è lo stimolo allo sviluppo, ma in quel momento,
come da noi in Croazia, quando il mercato prende a tirare, si
dimostrano dei risultati positivi e ciò inizia a minare le posizioni
tracciate dalle strutture politiche, arriva l’urto. Forze estranee
controrivoluzionarie, si dice, si sono incorporate nel sistema e la classe
operaia viene chiamata a “svegliarsi” perché i suoi diritti sono in
pericolo. Si sostiene che è stata effettuata l’aggressione alla sua gestione
socialista per cui deve essere ristabilito l’ordine. In questa situazione
l’autogestione, secondo il concetto di Kardelj, dovrebbe disciplinare e far
diventare consci tutti i cittadini che il bene datogli da gestire è un bene
loro, per cui dovrebbero cadere i rapporti e gli interessi personali. Ecco,
a questo servono le leggi, a questo la nuova Costituzioneche attendiamo.
È l’unico modo ancora possibile per introdurre la disciplina, contro
tutto quello che ci sta soffocando. Zoran Babić è uno dei rari funzionari
al Governo Croato capace e senza idee estreme. Fa il mestiere per il
quale è stato scelto e senza cedere alle lusinghe del Partito. Crede
nell’autogestione. Quello a cui non crede e che non dice è il fatto che non
sia facile introdurla e contrastare il Governo di Belgrado. Si attornia di
persone delle quali si può fidare. Vuole intorno a sé i giovani che ritiene
promettenti e onesti. Ti ha scelto per questo. Abbiamo parlato del tuo
lavoro nel Centro Universitario e all’Ufficio Stampa. Che ti abbia
offerto un lavoro abbastanza impegnativo e di responsabilità dovrebbe
lusingarti. Se hai timori per la tua tranquillità, devi decidere quale
posizione nella vita vuoi avere. La possibilità di non rimanere ai
margini della società attuale ti è stata data, il resto è imprevedibile. Gli
sfarzi della classe politica in auge non sono un tuo problema. Tu ricevi
una busta paga per il tuo lavoro, che poi non è nemmeno adeguata
all’impegno e al tempo che gli dedichi. Cosa c’è di straordinario? Un
paio di ricevimenti all’anno, qualche cena dopo il lavoro alla quale
preferiresti non dover partecipare. Un lavoro di questo genere ha anche
queste incombenze. In ogni ambiente lavorativo ci sono anche risvolti
meno piacevoli. Impara ad accettarli con semplicità. Sinceramente non
mi aspettavo da te tante perplessità. Credevo di conoscere la tua indole,
il tuo senso del giusto e la tua volontà di non metterti da parte e
osservare il mondo che passa e va avanti. Ti impegni nel Centro
Universitario per l’Emissione 5 minuti dopo h20, con un programma
che oggi è un po’ sulla bocca di tutti per la sua impostazione. Perché ti
deve sconvolgere il contatto diretto con una classe politica uscita dai
binari dei propri poteri e doveri? Le frange di estremisti di vario genere
esistono in tutti i sistemi. Perché il nostro ne dovrebbe essere privo?
Sappiamo di non essere affatto in perfetto ordine. Ma gonfiare e
sottolineare in continuazione gli aspetti negativi significa non guardare
al futuro. E a noi è stato insegnato a guardare avanti perché è questo a
portarci verso giorni migliori. Ora il Governo Croato chiede maggiore
democraticità, non solo per se stesso, ma per tutta la Federazione. Noi
croati siamo un popolo di larghe vedute e spesso all’avanguardia in
confronto ai nostri fratelli. Durante la guerra siamo stati capaci di
affrontare nemici enormemente più forti di noi, equipaggiati delle più
moderne tecnologie belliche, esercitati per decenni dalle battaglie che in
poco travolsero l’URSS, portandoli sulle sponde dell’Atlantico
penetrare nel Mediterraneo. Ci siamo contrapposti con la sola forza di
un piccolo popolo. Vuoi che non si riescano a superare gli ostacoli che
impone la pace?! Questo popolo ha la forza per spingere il macigno di
Sisifo fino in cima alla montagna. Il suo fuoco ha caratteristiche
prometeiche.
Le argomentazioni e le convinzioni di Nicola erano
oneste. Quelle di un vecchio partigiano. Era riscaldato
ancora dall’entusiasmo di ciò che ci era stato inculcato
durante e dopo la guerra. Ora iniziavamo a sentirci fieri per il
ruolo che il nostro Paese stava assumendo in campo
internazionale. In Croazia eravamo sulla retta linea del corso
Tito-Kardelj-Bakarić, con spiegazioni e argomentazioni più
che plausibili. Eravamo definitivamente convinti di essere
sulla strada per effettuare un sistema che, tra il Capitalismo
spinto e il Socialismo dogmatico, avrebbe dimostrato la sua
importanza per la vita della Croazia, della Federazione e
magari anche dell’Europa. C’era la coscienza di arrampicarsi
sulla scalinata mondiale nell’introdurre la teoria del
nonallineamento, entrata come un cuneo tra l’Ovest e l’Est, per
cui diventammo tutti più rilassati.
La visita di Tito a Zagabria e i discorsi che fece a Bakarić
e ai governanti croati, ci dettero nuovo slancio. Tito ci
approvava, sosteneva, sollecitava al lavoro sulla nuova
Costituzione come regola di corretto comportamento
nell’uso delle risorse, del lavoro autogestito, delle
responsabilità di ogni singolo individuo. Infatti, alla classe
lavoratrice si davano autorizzazioni che nessuna classe al
mondo aveva mai avuto. Tito sapeva dare fiducia, e ce la
dette a Zagabria. Sapeva anche fare molte altre cose. Prima
di tutto, era insuperabile nel creare la giusta atmosfera. Lo
sapeva fare molto meglio di un raffinato politico o
diplomatico istruito nello spirito occidentale. Era il re in
mezzo ai re. Chi erano in sua presenza Haile Selasie, Ben
Bela, Seku Ture, Naser, Castro, o altri in ordine sparso? Tutti
gli stati del mondo, grandi e piccoli, lo rincorrevano con
benevolenza. Tito sapeva meravigliosamente adattarsi a ogni
situazione, sia che uscisse dalle cosiddette casamatte, fortezze
di reclusione prima della guerra, sia che si nascondesse dagli
agenti della vecchia Jugoslavija nei fienili e nelle stalle con
documenti falsi addosso, ai tempi dei partigiani. Ma anche
vestito con estrema eleganza, il panama in testa e il bastone
in mano, scarpe chiare di scevro, la divisa bianco-oro di alta
carica, il suo carisma era inestimabile e ci travolgeva. È
probabile che i nostri sguardi fossero un po’ offuscati perché
ci muovevamo tra l’entusiasmo e le visioni. Eravamo acritici?
Innamorati di Tito e di noi stessi? Ci sembrava, in linea di
massima, tutto normale. Galeb solcava il mare, sfrecciava il
Treno Blu. Non esisteva Paese che Tito non avesse visitato
nei suoi lunghi viaggi d’affari di Stato. Lunghissimi. I
particolari dei servizi d’informazione di Jozo Kirgo ci
affascinavano. I viaggi ripetuti in India, Burma, Indonesia,
intorno all’Africa, attraverso il mondo, ci davano la
sensazione dell’importanza del nostro piccolo Paese, grazie a
questogrande uomo. È vero che il Paese continuava a
sospirare dietro ai crediti internazionali, ma è vero anche che
Tito riusciva ad averli e nell’immediato, per far saltare il
fosso al Paese. Nel frattempo Kardelj e Bakarić sviluppavano
le linee di Tito in senso teorico e pratico. La stampa locale
sosteneva le richieste croate, che avevano un unico
denominatore: una maggiore democraticità. Il futuro ci avrebbe
dimostrato che lo sfacelo della Jugoslavija degli anni ‘90 era
stato messo in pieno movimento negli anni ‘60 e ‘70.
Appunto nella nostra buona fede e acriticità.
Messi da parte i dubbi, come era logico sia per la mia
indole spinta da sempre verso ciò che si presentava come
giusto, sia per le convinzioni che regnavano nell’ambiente
lavorativo, protetto dalla sua stessa collocazione al vertice
governativo, mi dedicai a pieno ritmo al lavoro e allo studio.
I due anni seguenti di università mi sfuggirono
nell’andirivieni delle stagioni. Appena scendevo dalla vecchia
funicolare sulla Passeggiata Strossmayer, recandomi al lavoro
all’Ufficio Stampa, scoprivo l’odore di primavera. Gli alberi
di tiglio si coprivano di foglioline verde pallido in attesa della
fioritura che poi avrebbe emanato quel penetrante odore
dolciastro che copriva tutti gli altri odori della Città Alta.
Evitavo l’estate. L’autunno lo scoprivo dalla finestra della
mia piccola stanza, con l’affaccio sul vialone ricoperto di
foglie in uno spesso manto di colore ruggine scuro, lucido
sotto gli scrosci di lunghe piogge sospese sui lampioni accesi.
L’inverno, poi, si annunciava con lo scricchiolio della neve
ghiacciata sotto le rotaie del tram in partenza dallo slargo
della Moschea e in arrivo al Centro Universitario o
all’Ateneo.
La settimana prima di Natale partivo verso l’Isola, per
trascorrervi esattamente la vigilia e il giorno della festa, e poi
tornare alla fine dell’anno. Esaurito il programma di
letteratura americana e russa all’Emissione 5 minuti dopo h20,
mi vidi costretta a difendere sul giornale Studenski list le mie
opinioni, il che mi permise di ribadire le valutazioni negative
sulla stampa impegnata politicamente. A far scivolare il
discorso nel silenzio credo che si sia prodigato qualcuno
degli amici, intento a non farmi bruciare completamente.
L’aria di ostilità cessò, ma non si sarebbe dimenticato
nulla e mai, come si vedrà negli sviluppi degli anni a venire.
Nell’estate di quell’anno diedi tutti gli esami di quella
sessione, con un bruttissimo scivolone nel colloquio di
italiano, che non frequentavo, né studiavo a dovere, ma che
pretendevo di superare e che mi avrebbe accompagnato
irrisolto fino alla laurea.
Quell’estate mi portò altre, nuove esperienze. La madre di
Zoran Babić era ospite del presidente Bakarić sull’Isola nella
nuova residenza estiva sul Promontorio del Fabbro. Durante
quell’anno ero stata a volte ospite a casa di Zoran insieme al
suo amico Nenad, con il quale lavoravo in stretto contatto.
Situazioni di lavoro mi avevano portato a incontrare in
più occasioni anche la madre di Zoran. Il nostro rapporto
era diventato più espansivo. La chiamavo signora e il figlio
segretario. Ci sembrava assolutamente naturale, che sul posto
di lavoro rimanesse per tutti l’ufficiale presidente, vicepresidente,
segretario e quei pochi che non erano presidenti, né vice di
alcunché, dovevano accontentarsi del più che comune
compagno, spesso senza nome e cognome aggiunto. Sapendo
che la signora si trovava sull’Isola, mi sembrò gentile farle
visita. Non mi piaceva la moglie del presidente Bakarić e non
capivo perché la madre di Zoran avesse accettato l’invito alla
residenza. Come faceva lei così sofisticata, misurata, di
poche parole, con quel suo atteggiamento tutto inglese, a
dividere gli stessi spazi con una persona risaputa come
arrogante e pettegola, soprannominata sull’Isola la regina delle
babbucce del presidente, per la differenza con il presidente
Bakarić, schivo, poco incline ai troppi discorsi, fino a dare
l’impressione di non esprimere mai un parere se non quelli
rimuginati fatti dal grande Maresciallo?
Con l’arrivo della regina, si raccontava in città, sul
Promontorio del Fabbro era tutto cambiato. Recintato per
intero da un alto muro in pietra. La strada panoramica sulla
scogliera che lo circondava e saliva dal molo verso il dirupo
sul fondo della baia Postine, penetrando nei vigneti e nelle
ville dei nuovi potenti verso Postup, era scomparsa. La sua
parte più bella in alto, da dove si ammiravano le ultime
piccole isole dell’Arcipelago Spalmadori, con certi tramonti
che osservavamo nelle estati durante la guerra, trascorse alla
villa dell’ex conte Pavlù non esisteva più. Ora quell’altopiano
con bassi e contorti alberi di fico, grigi per il largo fogliame,
era completamente incorporato nello spazio della nuova
residenza presidenziale e la strada s’interrompeva sul nuovo
pontile all’imbocco della baia. Per raggiungere l’ex villa
Pavlù, ora era necessario prendere la ripida e stretta strada di
Postup in mezzo ai vigneti. In realtà, tra i pochi vigneti
ancora rimasti, disseminati da case finite e da finire, tutte
attaccate una all’altra con piccoli spazi, ridotti al minimo per
garantire una costruzione il più grande possibile. Sembrava
che i loro proprietari facessero a gara per costruire ognuno la
casa più grande, più sgraziata e meno conforme a qualsiasi
senso estetico e legge di urbanizzazione. Come era da
prevedere, la nuova residenza estiva presidenziale era stata
costruita nella parte alta del dirupo, vista solo dal mare.
All’esterno dell’altissimo muro non si intravedeva nulla.
Tutto quello che esisteva nel suo interno era diventato un
mistero e per ciò sempre più soggetto a curiosità, illazioni e
chiacchiere. L’ingresso, con una specie di dependance e
gabbiotto per le guardie, dava l’impressione di impenetrabile
fortezza. Una strada larga partiva dal parco dell’Anfora
Hotel fino all’ingresso principale a est, che serviva poco
perché tutti gli ospiti della residenza arrivavano al molo della
baia in motovedette, in yacht o con altri natanti e con jeep
portati attraverso il grande giardino fino alla costruzione.
Attesi a lungo prima di essere ammessa al gabbiotto dei
poliziotti in borghese, tutti arrivati da Zagabria, come pure i
cuochi, le cameriere e altro personale. La signora Babić,
avvisata telefonicamente della mia presenza, si apprestò a
farmi introdurre all’interno del recinto, il che non era per
niente né immediato né semplice.
I guardiani stranieri dovevano chiedere informazioni sui
visitatori isolani a uno strano personaggio paesano diventato
guardiano del complesso durante l’inverno e informatore
d’estate. Una specie di confidente dei poliziotti, messo a
controllare dal Partito isolano tutti e tutto. Uno di quegli
individui diventato all’ultima ora comunista sfegatato, da
tutti conosciuto, durante la vecchia Jugoslavija, come fervido
membro del Partito Contadino, certamente non favorevole
ai comunisti. Ma come molti in Paese, cambiò bandiera con
il cambio del potere preposto diventando guardiano della
casa estiva del presidente. Si riteneva più importante di
chiunque, pronto a cacciare in malo modo chi azzardasse
avvicinarsi alla famosa dimora. In paese si diceva che non
permettesse l’ingresso nemmeno agli abituali fornitori. E
naturalmente la curiosità cresceva. La domanda si poneva:Perché tutti questi misteri?
A lungo aspettai per entrare, accompagnata dal
famigerato Joko. Sgarbato e insolente, mi accompagnò alla
residenza.
L’interno si presentava dappertutto con viali e alberi di
alto fusto, portati chissà da dove e piantati su tutta la
superficie, una volta ricoperta da macchia mediterranea.
In mezzo un eliporto. Nel punto più alto sopra il fondo
baia, volta verso ovest sul canale, la grande casa squadrata,
massiccia e completamente sollevata da terra da larghe
tondeggianti arcate. Assomigliava tanto alle palafitte, con
quello spazio sottostante aperto da tutti i lati.
Il primo piano era completamente circondato dal
terrazzo, sotto la tettoia di travi portanti, le spesse tende da
sole. Tutto bianchissimo: muri in pietra di Brazza, pareti,
imposte delle porte-finestre, tende, poltrone, ombrelloni,
selciato. Tutto bianco, forte e indiscreto, che stancava la
vista nel riverbero del sole agostano.
Ero ferma sul viale sotto l’implacabile solleone,
imbarazzata per come mi trattava quell’insignificante ometto.
La signora Babić non fece caso al suo modo ostile. Si
comportò come se non ci fosse, mentre lui continuava a
blaterare qualcosa sul fatto che fosse proibita l’entrata alla
residenza senza specifici permessi. Un particolare, infatti, che
la signora risolse senza rispondere.
Si diresse verso le arcate dove il presidente Bakarić, in
evidente relax su una profonda e morbida poltrona, sfogliava
un libro. Il silenzio del fresco sotto le arcate era interrotto
solo dallo stridere delle cicale sollecitate dal sole di
mezzogiorno che avanzava. Tenendomi con affabilità per il
braccio, la signora raggiunse il presidente chiamandolo con il
nome proprio, dicendo:
- Vlado, desidero presentarti una persona che lavora con Zoran al
vostro Ufficio Stampa. È nata e cresciuta in questo bellissimo posto. Il presidente, con un cordiale gesto della mano, indicò le
poltrone invitandoci a sedere, senza minimamente far caso
alle scuse per il disturbo che borbottava Joko.
Evidentemente l’omino non era considerato nemmeno dai
residenti della casa.
Il presidente dimostrò interesse per il lavoro nell’Ufficio
Stampa. Voleva conoscere le reazioni del pubblico durante le
conferenze-dibattito sull’autogestione tenute da Zoran in
provincia.
Non credo che non fosse informato. Era affabile, attento.
Un signore nell’aspetto e nel comportamento. Non avrei mai
potuto rivolgergli la parola chiamandolo compagno presidente.
La sua cordiale semplicità credo dipendesse dal suo
rapporto di amichevole intimità con la madre di Zoran, che
anche lui chiamava semplicemente Eleonor, dandole del tu.
Le arcate sotto la grande casa offrivano un fresco
inaspettato. Le club-poltrone disseminate intorno ai grandi
bassi tavolini, le bibite fresche, i vassoi di frutta sistemata
con molta cura e servita sul ghiaccio da camerieri silenziosi
in perfetti vestiti bianchi, completavano l’atmosfera di
estrema serenità. Poi il presidente cominciò a discutere del
clima isolano. Come se avesse aperto una porta alla
confidenza, raccontò che quel posto era l’unico accettabile
per le sue condizioni di salute, che non gli permettevano la
permanenza sul mare d’estate.
Durante le visite non incontrai mai né la moglie del
presidente né gli altri familiari. Erano sempre tutti al mare.
Ci pranzavano anche, nel fondo baia. Un fatto che mi
ricordò le estati durante la guerra nella ex villa Pavlù. Ora la
villa si stagliava sulla pendice destra della Roccia Cava,
smilza, lunga, abbandonata e misteriosa, con i muretti
sottostanti a secco sul terreno argilloso in evidente stato di
degrado, che faceva pensare all’attuale stato dei muri e
pavimenti, della famosa villa, pieni di crepe e fessure.
Raccontai al presidente e a Eleonor la storia di quella
casa, una volta bellissima e indimenticabile. Ricordai gli anni
della guerra, le pigre giornate nel fondo della baia, le serate in
compagnia del pianoforte di Maestro, il bombardamento
dello scoglio scambiato dai piloti per sagoma di un
sommergibile adagiato sul fondale della baia Postine.
Quella prima visita finì per mia insistenza dopo meno di
un’oretta di conversazione. Fu il presidente a invitarmi,
disse:
- Eleonor ha necessità di una compagnia perché ho timore che si
senta troppo isolata. Mi farà una cortesia personale se vorrà distrarla.
Questa esternazione poteva dire molto sulla loro vecchia
e consolidata amicizia e sul perché due persone così diverse
dall’entourage presidenziale ne riuscissero a fare parte.
Infatti, non avevano nulla in comune con esso, come avrei
potuto constatare durante le mie visite. Nulla in
quell’ambiente rispecchiava la personalità del presidente.
Avevo la netta impressione che anche la struttura e l’aspetto
di quella casa avessero un eccesso di particolari spesso
presenti nelle case dei politici a Zagabria Nuova, dove
andavo a fare le pulizie con il Servizio Studentesco. Erano
case fatte per sembrare importanti, ma rimanevano
senz’anima, uscite dalla mentalità piccolo borghese, tanto
evidente nella persona della moglie del presidente. Una casa
immersa nei blocchi di vivida luce violentemente diretta sui
suoi muri nudi, lucidi e di un bianco estremo. Non era chiara
la scelta di piantare lontano gli alberi che normalmente negli
ambienti mediterranei, sistemati a ridosso dei muri,
spezzettano i raggi solari sulle facciate. Una scelta fatta o
lasciata fare a qualcuno senza l’idea chiara di quel clima con
un altissimo numero di ore soleggiate. Persone prive di
sensibilità verso quello che non è urlato con ovvietà, ma
sommesso, garbato, appena accennato.
Entrando successivamente nell’interno di quella
costruzione, mi resi conto di trovarmi in un posto senza
senso di intimità. L’abbondanza di ottoni, di specchi e
cornici dorate, che potevano essere anche ori, gli arredi
sfarzosi in uno stile semplicemente megalomane, mi dettero
l’impressione del falso perbenismo che avevo recepito nelle
case dei nuovi ricchi e che mi sconcertava per la sua inutilità.
La ricchezza era fuori luogo, senza dignità. Per abitarci in
una casa come quella e per amarla, secondo il mio modo di
vedere, si doveva demolire tutto. Durante quelle visite a
Eleonor incontrai spesso il presidente. Lo conobbi come
persona sempre gentile, attento ascoltatore, eccezionale
conversatore, divertente, almeno nei miei riguardi e nei
riguardi di Eleonor. Senza dubbio era molto legato a Zoran e
a sua madre.
A metà agosto, dopo una breve sosta con Kardelj dal
Maresciallo Tito a Brioni, Zoran scese sull’Isola. Arrivò
anche Nenad e molte delle nostre giornate diventarono
lavorative. I due ospiti arrivarono con la vedetta della polizia
e scesero sul molo alla baia di Postine. Anche loro prigionieri
privilegiati? Mi chiedevo perché gli ospiti della residenza
venissero protetti con tanta ossessione, come fossero
completamente reclusi nella loro posizione. Non
immaginavo che il presidente e tanto di meno i funzionari
del Governo Repubblicano potessero avere nemici. Tutte le
precauzioni di quel tempo mi sembravano esagerate.
Certamente molte verità sociali e politiche non arrivavano
alla mia conoscenza.
La risposta a queste e tante altre domande l’avrei avuta
dopo parecchi anni. L’unico che non si curava delle guardie
in borghese presenti era Zoran. E appena possibile, le
seminava.
XIV. Commiato di Maestro
Quell’estate Maestro aveva deciso di lasciare la direzione
dell’Orchestra Municipale. La sua vista si stava indebolendo
e vedeva sempre con più difficoltà. Si stabilì che, durante
l’ultimo concerto di quell’estate, Maestro avrebbe
pubblicamente salutato la cittadinanza e le autorità,
consegnando la bacchetta da direttore al suo ex allievo Rino,
che finalmente era riuscito a far assumere sull’Isola. La serata
sarebbe proseguita alla Radosav Tadić, Casa per le vacanze
dei lavoratori, con una cena per orchestrali, coristi e autorità.
In Casa, invece, si sarebbero invitati gli amici più intimi di
Maestro. Eravamo convinti che fossero rimasti in pochi e
non avrebbero creato problemi per gli spazi ridotti nei quali
vivevamo. Maestro ci proibì di fare inviti. I suoi ex allievi
dovevano fare un sondaggio per conoscere quanti amici
intimi di vecchia data avevano il desiderio di partecipare alla
serata sulla nostra terrazza. Purtroppo si doveva veramente
cercare di mantenere un numero basso di presenze. La Casa
in pietra grigia non permetteva le riunioni di una volta.
L’idea di aprire la porta della Casa in pietra grigia alla
festa di commiato di Maestro ebbe una insospettata, anche
se non sorprendente, risonanza. Un gruppetto di vecchi
musicisti, contadini e pescatori, scesero dai paesini Brusje,
Grablje, S. Nedelja, Milna, arrivando in città una settimana
prima, carichi di damigiane di vino, prosecco, olio, olive,
formette di formaggio locale, cosciotti affumicati di pecora, i
cosiddetti violini, e l’intenzione di portare il giorno prima
della festa capretti per l’arrosto, musoli, ostriche e pesce
fresco, come facevano una volta per le grandi festività.
Questa vecchia abitudine non era completamente scomparsa
dopo la guerra. Soppresse le feste religiose, era naturale che
non affluissero come prima tutti quei prodotti, molto
ricercati. Inoltre, non erano più possibili le grandi riunioni,
anche perché non c’era più zia Marica, la grande forza
motrice di quelle feste organizzate alla perfezione, oltre al
fatto che la Casa era ridotta ad un solo piano abitativo, senza
il salone. L’unico spazio eccezionale era il grande terrazzo, il
nostro salotto estivo. Era vero che i vecchi musicisti non
erano mai andati via senza lasciare a Maestro i loro prodotti,
ma non ci aspettavamo una tale organizzata partecipazione.
E nessuno che volesse essere pagato!
Una volta la Casa in pietra grigia veniva ripulita da cima a
fondo per l’arrivo dei Santi: per Natale, Carnevale, Pasqua,
Sant’Antonio di Padova protettore della Casa, l’Assunzione.
Ciò perse ogni significato dopo la fine della guerra e il nuovo
ordinamento socialista. L’abitudine delle pulizie generali era
rimasta nella memoria di Jera, che fece venire le sorelle
gemelle dal paese. Lavarono, asciugarono, stirarono le
tovaglie, le tende, i copriletto, i cuscini. Lustrarono tutti i
pavimenti in legno della Casa fino a farli diventare di colore
giallo miele. Con spazzoloni di crine, raschiarono le antiche
pietre del cortile, le scale e il terrazzo, togliendo parte della
loro patina ispessita sotto le piogge e l’umidità. Non vedevo
il motivo di tutto quel trambusto. Probabilmente perché mi
faceva tornare con la memoria molti anni indietro, alle
grandi feste religiose prima della forzata partenza per ElShatt. Le ricordavo molto intensamente e mi rattristavo. Era
rimasto poco o quasi nulla della Casa in pietra grigia, delle
vecchie abitudini familiari. Non esisteva più nulla: lo
splendido salone, la grande libreria cinquecentesca, il
pianoforte a coda, i cristalli, l’argenteria, le porcellane.
Ma anche le persone che avevano annunciato la loro
presenza erano amici veramente? Con Mate, fratello di Jera,
cercammo di fare un elenco il più possibile vicino
all’indispensabile.
Jozo Kirgo espresse il desiderio di esserci, accompagnato
dalla moglie, dal suo compagno Zdeno Roja, ora dirigente
del Club di velisti a Spalato, e seguito da Vicko, uno degli ex
sindaci dopo la guerra e ora presidente della Organizzazione
Culturale Orest Žunković, comprendente l’orchestra, il coro, il
gruppo folcloristico di balli e canti tradizionali. Si
annunciarono: l’anziano giudice, nipote dell’amico cacciatore
ed ex proprietario terriero Kasandri; l’archeologo Gorgo
Novok e lo slavista Matia Haros di Brusje, professore
all’Università di Zagabria; Šimun Vučo159, scrittore, con la
moglie insegnante all’Accademia Magistrale di Zagabria,
amici dei giorni giovanili di Maestro a Curzola; Marin
Franić160, il poeta di Vrisnik; Frane Juri, giornalista del
quotidiano Slobodna Dalmacija; Bono Navok, direttore del
quotidiano croato Vjesnik; l’ex giovane Sindaco cittadino Ivo
Barbić, ora deputato al Governo Croato di Zagabria; il più
anziano musicista dell’Orchestra Municipale, il calzolaio
Jelić161 con il figlio Žiko162, uno dei migliori clarinettisti;
Drago Juri, eccellente trombettista; Sando Zanić, ex alunno
di Maestro, ora dirigente della Filarmonica di Niš in Serbia, e
Rino, nuovo dirigente dell’Orchestra Municipale; Todor, ex
musicista ora direttore degli alberghi Palace e Park; tre o
quattro cantanti del coro cittadino, impiegate comunali e
molto affezionate a Maestro, come Vina Papara
dell’anagrafe, la nobildonna Janka Božin, insegnante di
canto, Vina Šakaj, un soprano eccezionale, convinta zitella,
elegante e fine come poche in paese.
Todor aiutò Jera prestandoci tavoli, sedie, piatti e posate
dell’albergo Park, compreso il cuoco Jorio, due camerieri
allievi della scuola alberghiera e giovani musicisti
dell’Orchestra Municipale. La maggior parte degli ospiti
erano ormai cittadini delle capitali e solo d’estate in vacanza
sull’Isola. Ma non finì qui. Il giorno prima della piccola festa
sul terrazzo si annunciarono il direttore della scuola
cittadina, il professore Gvozden, nostro primo vicino di
casa; i fratelli Balić e il vecchio medico condotto. Eravamo
quasi cinquanta presenti. Decisi di invitare Zoran, Eleonor e
Nenad. Dissi al presidente Bakarić che saremmo stati felici
se avesse voluto eludere le regole della sorveglianza e uscire
dal suo eremo. Sorrise e disse solo:
- Non dimenticherò che lei abbia pensato anche a me! Quella sera il cortile e la terrazza erano illuminati da
piccole torce, preparate dal professor Mate. La nostra
terrazza era completamente occupata dalla lunga tavolata,
ricoperta dalle belle, ma vecchie tovaglie con gli eccezionali
rammendi fatti da Jera, coperti con ghirlande di foglie e
corolle gialle del gelsomino di San Giuseppe. Le sorelle
gemelle avevano portato anche dei ramoscelli di menta
piperita con fiorellini rossi e grappoli di bacche di corbezzoli
semimaturi dal colore misto giallo-arancio che, uniti ai tralci
di gelsomino, facevano somigliare i piccoli frutti a delle
lucette in attesa di essere accese. L’effetto scenico era di
quelli inaspettati, nascosto a prima vista. Non avevamo più i
vecchi vassoi d’argento, i cristalli, né le porcellane, ma
l’aspetto della tavolata mi piaceva molto. Quando arrivarono
i tre ospiti avevo già avvisato Maestro della presenza del mio
capoufficio, di sua madre e del giovane collega. Come al
solito Maestro non fece domande, ma fu lui a far
accomodare Eleonor, al posto riservato all’ospite più gradito.
Zoran e Nenad si sistemarono vicino al direttore del Vjesnik
e al deputato ex Sindaco. Notai che Zoran li conosceva
bene. Mate e io cercavamo di fare da tramite tra gli ospiti, il
che presto si dimostrò inutile. Dopo gli antipasti di frutti di
mare appena scottati sulla brace, risotto alla polpa di
granzeola, si proseguì con trancio di cernia alla brace. Finito
il pesce, i camerieri offrirono uno spumone alla menta e poi
si passò alla carne di capretto ai carboni e ortaggi scottati e
conditi con salsa alle acciughe salate, aceto e olio d’oliva. Alla
fine furono serviti i dolci tradizionali fatti dalle donne di
Brusje e cesti di frutta coloratissima e profumata, prosecco
di uva passita, grappa digestiva alle sette erbe e profumata
alle bacche di ginepro. Il vino bianco paglierino di Vrisnik,
quello corposo delle pendici sud di S. Nedelja al profumo di
more selvatiche, aveva messo di buon umore gli ospiti.
Eleonor era visibilmente presa da quello che Maestro le
raccontava nel suo improbabile dialetto italiano isolano.
Evidentemente era divertita per chi sa quali aneddoti che
Maestro aveva spolverato nella sua memoria, sempre così
fervida. L’osservavo nel suo bel vestito color panna,
sbarbato e profumato, i suoi piccoli occhialini scuri con i
quali si difendeva dalle luci e dagli sguardi estranei; le belle
mani appoggiate alla sua abituale, poltrona; l’anello con lo
stemma sul mignolo della mano destra. Misurato nei gesti e
attento a prendere il bicchiere e ad avvicinarlo alla bocca.
Sembrava invecchiato, ma fresco nella sua figura appesantita,
ma non flaccida. Provai un’infinita tenerezza e pensai a
quanto tempo trascorrevo lontano dal suo affetto. Mi
chiedevo quando avrei potuto stargli vicino. Magari appena
mi fossi laureata e avessi trovato un posto di lavoro sicuro,
avremmo potuto vivere insieme per periodi più lunghi di
quelli che ora potevo permettermi. Sapevo che sull’Isola non
sarei mai più tornata. Era la strada per il mondo che mi
attendeva e si apriva a tutte le esperienze che volevo
intraprendere. Potevo solo desiderare che la Casa in pietra
grigia, la mia rocca di sicurezza fisica e psicologica, rimanesse
così com’era, anche se ridotta al minimo, solitaria,
protettrice, senza ricchezze, preziosa, fatta a misura di tutte
le mie solitudini, spesso volute e necessarie per il mio
equilibrio. Osservando la gente presente, più che mai quella
sera mi resi conto che le cose passavano e diventavano
qualcos’altro rispetto a quello che erano state fino a quel
momento. Com’era diversa quell’estate da quelle di soli
pochi anni fa, quando ancora ero uno spirito spensierato e
tutte le persone erano amiche oppure indifferenti individui di
passaggio, senza alcun mio interesse. A quei tempi solo
quella pigra routine isolana guidava i miei pensieri senza
impegni: le lunghe ore immerse nella tranquillità; la scelta
della baia, sulle vicine Spalmadori o sull’Isola grande, dove
trascorrere giornate intere senza pensieri, senza fretta, senza
conflitti, nella pigra incoscienza dei fatti ricorrenti. L’età che
mi difendeva dagli avvenimenti, regalandomi una vita
spensierata. L’ignoto era ancora lontano. Ora il tempo era
pieno di interrogativi, di dubbi, conflitti con me stessa e con
il mondo. Questo stavo pensando mentre la cena volgeva
verso la fine. A un certo momento un gruppetto di musicisti
e Maestro si spostarono nel salottino. In breve ci raggiunsero
degli accordi. Maestro al pianoforte, Sandoall’oboe, Rino al
sax alto, Drago alla tromba e Žiko alle percussioni. Si
innalzarono suoni morbidi, sommessi, poi sempre più
svolazzanti. Dopo le prime battute riconoscemmo i brani
dell’ultima composizione degli anni ‘50 di Maestro,
denominata I boschi all’alba, più volte eseguita dall’Orchestra
Municipale, ma anche dalla Filarmonica di Zagabria diretta
da Maestro e dall’orchestra del Teatro Stabile di Spalato
diretta da Rino. Rispetto a un’altra composizione degli anni
‘44-‘45 a El-Shatt, tutte e due per orchestra, i brani contenuti
in quest’ultimo lavoro erano maturati nell’arco di diversi
anni. L’atmosfera di boschetti mediterranei nelle varie
stagioni dell’anno, racchiusa nella composizione per
l’orchestra di ottoni, oboe e flauto, era una vera suite.
Un’ispirata interpretazione intrecciata dal lirismo in sordina
della tromba, del flauto e dell’oboe, in passi costituiti da una
cascata di suoni interrotti del pianoforte, accentuati dal sax e
dalle percussioni. Le luci dell’alba variegata, gli echi d’ambiente
dentro un suono leggero e impalpabile vivevano nel tempo
attraverso le emozioni. Questo lavoro, più del precedente
Nuovo mondo, carico di paesaggi tormentati dalla guerra e
composto in esilio, era stato definito dalla critica musicale un
lavoro maturo, ispirato nella scrittura e poeticamente
emozionante, nel quale emerge soprattutto la capacità
compositiva spinta molto oltre la musica pianistica delle
numerose composizioni romantiche per questo strumento,
prediletto da Maestro. Questa era una vera suite composta
per la molteplice interpretazione di più strumenti, spesso
difficili da armonizzare, come delizioso affresco costruito in
un paesaggio sonoro in cui il tema predominante rimane il
sogno. La bravura di Maestro al pianoforte mostrava ancora,
malgrado l’età e la quasi completa cecità, la mano virtuosa
delle sue migliori esecuzioni. I presenti, quasi tutti abituati ai
concerti di Maestro, erano ancora una volta commossi. La
madre di Zoran aveva gli occhi lucidi e quando Maestro
rientrò sulla terrazza lo abbracciò con trasporto. Maestro si
prese con noncuranza gli applausi, senza apparente
commozione. Dopo quasi cinquant’anni di palcoscenico
sapeva trattenere le proprie emozioni, ma io sapevo che era
orgoglioso dell’esecuzione del suo gruppetto.
Più tardi, rientrando dalla terrazza in Casa, mi resi conto
che nel cortile e sulle scale c’erano gli ospiti del Park Hotel
seduti e in piedi, immersi nell’ascolto. C’era ancora posto per
il bello e per i sentimenti più nobili?
Scesi in piazza ad accompagnare i nostri ospiti. La jeep
con le guardie attendeva Zoran per accompagnarlo alla
residenza. Troppo emozionata per recarmi subito a dormire,
avevo il desiderio di fare qualche giro nei caffè,. Per non far
rientrare Eleonor da sola, Zoran e Nenad si ritirarono
insieme a lei. Rimasi a lungo con Rino e Sando al piccolo
locale Del Capitano sul lungomare Fabrika, discutendo della
serata appena trascorsa, delle tante persone presenti che
contavano.
Nei giorni successivi accompagnai i miei amici della
residenza presidenziale nelle baie al nord dell’Isola, le belle
baie di Brusje. Fu messo a disposizione un gommone a
motore fuoribordo con due marinai, immancabili guardie
che non ci servivano per niente. Zoran portava benissimo la
grossa imbarcazione. Nenad non era da meno. Entrambi
erano ottimi vogatori di canoa sul fiume, sport al quale si
dedicavano da sempre. Zoran addirittura faceva parte, ai
tempi universitari, della Nazionale Studentesca di
Canottaggio, sport che poi riprese e intensificò durante gli
studi a Oxford. Le guardie del segretario non erano marinai.
Non conoscevano le baie né gli approdi, non sapevano
pescare. Erano d’impiccio, ma era così o niente. Facevamo
lunghe e veloci scorazzate sul gommone. Uscivamo nel
canale verso Brazza. Compravamo pesce direttamente dai
pescatori sulle barche mentre pescavano e lo portavamo
nelle case marittime dei contadini di Brusje, improvvisate e
rustiche bicocche con tettoie grezze di rami di pino, spianate
di terra battuta, odore delle botti di vino e dei barili di pesce
salato. Le bellissime baie a nord, sotto il paesino Brusje, da
sempre terra di quei contadini, a differenza delle Isole
Spalmadori, negli anni ‘60 non erano ancora state toccate dal
turismo di massa che si riversava sulla città, e che per pochi
dinari ogni mattina rovesciava centinaia e centinaia di
villeggianti con il pranzo nel sacchetto di plastica sulla
spiaggia di Palmižana o di Jerolim, Stipanska, Ždrilca 163,
abbandonandoli fino il tardo pomeriggio al solleone in
picchiata e all’impossibilità di ristorarsi con qualche bicchiere
di acqua minerale nelle due osterie private, con prezzi
proibitivi per qualsiasi turista sistemato in case private o
ancora peggio negli ostelli di riposo per lavoratori.
Purtroppo anche gli ospiti degli alberghi di bassa categoria
non potevano permettersi i prezzi delle due osterie, né tanto
meno la Pensione di Oto, adatta per tasche più profonde.
Le baie di Brusje erano quelle più protette dalla bora che
soffia dalle pendici delle Alpi Dinariche, fenomeno che
d’estate si verifica raramente: Parja, Vira, Prapotna, Jagodna,
Stiniva e altre meno note, fino all’imboccatura di
Cittavecchia, erano rimaste vergini, senza strade carrabili ma
solo mulattiere fino al mare in mezzo a boschetti ombrosi di
pini contorti, ricchi vigneti sui dorsi dei declivi e piantagioni
terrazzate di lavanda e rosmarino. Una vera manna per quei
posti abbandonati a se stessi e ai suoi abitanti. Le baie più
miti sotto Brusje, protette da geli e dai venti furiosi del
monte Velebit, ricche di orti con verdure e frutta, ogni
mattina, portati al mercato cittadino a piedi, all’andata e al
ritorno.
Avendo avuto una nonna nativa di Brusje e una madre
che i compaesani più anziani conoscevano meglio di me,
tutti si comportavano come se fossi una parente prossima.
Anche se di solito evitavo di presentarmi, tutti i discorsi
iniziavano e immancabilmente finivano con:- Ma tu, non sarai
mica la figlia di Bonina, la nipote di Margarita Bonicina?!
A volte rispondevo:
- Non saprei! Può darsi!
Al che un po’ dispiaciuti aggiungevano:- Assomigli tanto
alla nonna. Due gocce d’acqua. - Questo era un paese di trecento
anime in continua diminuzione. Dalla morte di mia nonna
erano passati una quarantina d’anni e da quella di mia madre
quasi venti, ma le ricordavano tutti. Era per questo che nelle
baie di Brusje ci regalavano i più bei pomodori, i peperoni
più turgidi, la frutta più sugosa. Eleonor si stupiva della
generosità di quei contadini che offrivano tutto quello che
avevano. Ci arrostivano il pesce, porgevano il miglior vino, si
preoccupavano del fresco, dell’ombra per le nostre
scampagnate e credo non fosse soltanto per le mance elargite
da Zoran, che ridacchiando diceva:
- Con la scusa di riconoscerti per la somiglianza con le tue antenate
ti vendono delle illusioni. Ero d’accordo con Zoran. Forse si stavano comportando
da furbi. Ma quando capitava un discorso del genere, in
realtà non mi vendevano nulla di materiale, né si
attendevano alcuna ricompensa. Cercavamo solo di essere
gentili. Infatti, dissi a Zoran:
- Mi regalano un’illusione, non me la vendono. E ciò significa che
sono gentili. Cercano di riscattare il passato.Quella vacanza mi avvicinò molto a Eleonor, ma
altrettanto a Zoran e Nenad. Anche se il lavoro si sarebbe
dimostrato sempre più impegnativo, mi sentivo serena e in
un certo modo protetta. Avevamo imparato a conoscerci e
ad apprezzare l’amicizia che ci legava ogni giorno di più.
Alla fine d’agosto, all’ultimo concerto diretto da Maestro,
andammo in gruppo in piazza. Maestro diresse un solo
brano e poi passò la bacchetta a Rino. Uno scroscio di
applausi riempì l’aria. Il pubblico era commosso. Dopo
cinquant’anni di direzione dell’Orchestra Municipale,
Maestro salutava tutti, ritirandosi nel suo eremo. La festa per
i musicisti e i coristi proseguì nella bella villa Tadić a
Majerovica. Con la scusa della lontananza e l’avversione per
le macchine, Maestro declinò la partecipazione alla cena.
Infatti, non desiderava incontrare né l’attuale Sindaco, né i
responsabili del Partito. Dopo la consegna della targa di
riconoscimento per il lavoro svolto e della medaglia al valore
per meriti artistico-organizzativi, si ritirò nella Casa in pietra
grigia, indifferente ai festeggiamenti. Non rimpiangeva nulla,
né si attendeva nulla. Ora voleva la quiete.
Ascoltammo ancora un paio di concerti per organo in
cattedrale, ma non era più la stessa cosa di prima. Una sera
decidemmo di passare un po’ di tempo al locale notturno
quell’anno inaugurato sull’isolotto Galešnik, all’imboccatura
del porto. Dicevano che fosse molto sofisticato, carissimo,
frequentato solo da gruppi prescelti della nomenclatura
belgradese, ospiti dei grandi yacht ancorati nelle baie isolane.
Il night club funzionava secondo l’umore dei vari potenti.
Più volte era stato chiuso perché la musica proveniente
dall’antica costruzione in pietra, per secoli adibita a
quarantena per marinai o avventori con sospetta malattia di
colera o altre malattie infettive, disturbava la serenità degli
occupanti delle lussuose ville sul Promontorio della Croce o
sulle imbarcazioni ancorate nel porto con la vista sulla riva e
la piazza come personale affaccio sulla mondanità estiva
trasferitasi sul lungomare.
La trasferta sul Galešnik veniva effettuata con barconi
attrezzati per il trasporto del pubblico. I biglietti bisognava
procurarseli in anticipo e non saprei dire esattamente per
quali vie o grazie a quali meriti. Credo che la selezione
avvenisse per il loro prezzo, ma non solo. Zoran aveva avuto
i biglietti. Ci imbarcammo verso le ventitré sul molo sotto
l’Arsenale. Gli ospiti degli yacht ancorati nelle baie o davanti
al porto sulle loro imbarcazioni, non attendevano per
sbarcare sulla terraferma. Una piccola flotta di tender di tutti
i tipi, assiepati nel piccolo approdo dell’isolotto,
pretendevano precedenza per lo sbarco. Gli ospiti erano tutti
in abito da sera; le donne in lungo, con gioielli o presunti tali.
Un miscuglio di facce e atteggiamenti alquanto diversi da
quelli che ogni sera passeggiavano sulla riva, sbirciando
curiosi sui ponti degli yacht ancorati e prepotentemente
esibiti a quel pubblico di turisti di massa.
L’isoletta sembrava buia. Lungo il viale dell’approdo fino
al caseggiato in pietra, l’illuminazione era bassa, nascosta da
paraluci. Lo spiazzo davanti la bassa costruzione, lastricato
in pietra, aveva tavolini, anche questi poco illuminati, con
candele schermate. Molte persone, ma quasi invisibili. Era
tutto disposto in maniera tale da rendere i visitatori quanto
meno riconoscibili. C’era chi cenava, chi era già alticcio, chi
rideva istericamente e si perdeva sui viali verso il boschetto,
chi ballava. Tutto aveva la strana atmosfera dei vecchi film di
perdizione e sfrenata lussuria. Le bibite avevano un costo da
capogiro. Ogni minuto di permanenza esigeva una grossa
banconota, in dollari, marchi tedeschi, sterline inglesi,
franchi svizzeri. Il motivo della nostra ritirata fu proprio il
clima generale che peggiorava col passare del tempo e il
troppo alcool che, senza essere visto, circolava. Non ci
piacque. Riuscimmo a trovare un passaggio per la città. Non
ne discutemmo. Era la prima volta che mi trovavo in una
vera orgia e mi sentii a disagio. I miei amici si sentivano
colpevoli per avermi portata a un festino, che per i miei gusti
non era un divertimento. Infatti, da sempre rifuggivo eccessi.
Un certo pudore mi proibiva di voler curiosare nei
comportamenti spinti. Mi sembrava di guardare foto osé.
Era chiaro che Zoran non si aspettasse una serata tanto
trasgressiva. Non so se ci sarebbe andato da solo.
Conoscendo il suo stile di vita, se avesse saputo che il
divertimento era di quel tipo, non mi avrebbe mai portata.
Al Palace ormai era tardi per una cena. Si ballava soltanto
o si poteva bere. Inutile dire che la nostra presenza sul
terrazzo del Palace, e non solo per le guardie in borghese
che, anche se appartate e secondo loro discrete, erano
purtroppo riconoscibili, presto fu notata. In ogni modo,
quella sera si montò il caso de il segretario della Presidenza e la
ragazza. Non ci facevamo caso, anzi non ci accorgemmo
nemmeno dell’insistenza degli sguardi di quelli che ci
conoscevano tutti e due e di quelli che ci osservavano perché
erano gli altri ad osservarci. Gli uomini salutarono Zoran in
un modo che dimostrava la loro indubbia buona
conoscenza. Erano tutti capi ufficio e funzionari, alcuni
ospiti della residenza presidenziale sul Promontorio del
Fabbro. Avevo riconosciuto qualcuno di loro. Ci guardavano
senza nascondere il loro interesse ed evidentemente si
scambiavano pareri sul nostro conto. Come mi avrebbe
raccontato nei giorni successivi l’amica Bela, in città si
chiedevano, da un po’ di tempo, quali motivi avessero le mie
più o meno regolari visite alla residenza? Perché alla cena di
Maestro per gli amici era presente il segretario? Ma
l’evidenza del mio rapporto con il segretario fu stabilita dalla
visita al Galešnik e dal ballo sulla terrazza del Palace. Che io
avessi ballato con Nenad e avessi avuto con lui un
atteggiamento meno formale, più cameratesco e spensierato
che con il segretario, non l’aveva notato nessuno. Era il
personale del Palace che aveva raccontato a Bela con
un’infinità di particolari della mia presenza sulla terrazza. Si
discuteva, disse, del mio modo divestire, ritenuto particolare,
tanto che per tutti era evidente fosse un regalo portato
dall’India o dalla Burma durante i viaggi del segretario
insieme a Tito. Non svelai la verità. Il mio vestito di seta
indiana e costoso regalo, era il completo di pantaloni e caftano
comprato al mercato di Baščaršija a Sarajevo l’estate
precedente; quello bianco, completato con una sciarpa
morbida color ciclamino e scarpe basse, tipo ballerine,
confezionate a Zagabria in tessuto dello stesso colore della
sciarpa arrotolata in vita. Era questo il famoso regalo, ritenuto
di chissà quale origine morbosa e prova di un rapporto
peccaminoso.
L’invidia partì in sordina. Non eravamo consci di essere
diventati, in breve, molto noti. Osservati, spiati, seguiti.
Quella sera l’unica cosa che provavo era la fame. Trascinai i
miei accompagnatori alla Casa in pietra grigia, anche se non
era lontana la mezzanotte. Jera si dette subito da fare.
Apparecchiò il tavolo in terrazza con piatti spaiati e bicchieri
di colori diversi. Affettò cosciotto affumicato e formaggio
caprino sott’olio e li servì con crema di olive nere e cetriolini
sott’aceto. Portò le vope in savor, una specialità isolana di
pesce arrostito alla brace e conservato sotto olio di oliva,
aceto, rosmarino, aglio, alloro, grani di pepe e ginepro. Si
mangiavano fredde accompagnate da melanzane impanate
fritte. Irrorammo la cena con il vino bianco di Vrisnik e
finimmo con uva e fichi. Dimenticammo completamente la
serata di confusione e sguardi indiscreti. Ci lasciammo dopo
l’una di notte, bisbigliando per non svegliare Maestro. Le
guardie sembravano appisolate sugli scalini del Park Hotel,
in attesa di accompagnare il segretario alla residenza. Pensai
quale libertà fosse la nostra. Dico nostra perché sotto
osservazione permanente lo ero anch’io.
Quegli ultimi giorni d’agosto decidemmo di muoverci
come se le guardie non ci fossero. Le facemmo impazzire. Ci
spostavamo con il gommone sull’isoletta Šcedro a comprare
aragoste, che poi cucinavamo nella Casa in pietra grigia.
Partivamo con la jeep verso paesini interni all’Isola.
Scoprivamo angoli sconosciuti. Scorazzavamo lungo le
strade sconnesse delle baie a nord e a sud. Ci trattenevamo
nei posti isolati più difficilmente raggiungibili sempre in
compagnia delle due guardie al seguito del segretario.
L’unico luogo dove non potevano penetrare era la Casa in
pietra grigia. Rimanevano fuori del cortile o sulle scale del
Park Hotel, seduti in lunghe attese. Ormai Eleonor, Zoran e
Nenad arrivavano a casa nostra a ogni ora: mattina,
pomeriggio, sera. Eleonor rimaneva spesso con Maestro.
Suonava per lui, leggeva distesa sulla sedia a sdraio sulla
terrazza, si tratteneva a parlare con Jera. A volte anche
Maestro si faceva convincere a suonare qualche sua
romanza, mentre noi tre cercavamo di eludere i controlli
uscendo dal giardino per recarci in qualche baia, rosolarci al
sole, senza gli occhi sempre puntati addosso. Era l’amicizia
ormai a legarci. La fiducia significava moltissimo.
Supposizioni, ipotesi, malignità e invidia non penetravano
nel nostro rapporto.
Una di quelle sere decisi di mettere il mio vestito turchese
di foggia indiano-turca, arrivato da Costantinopoli e
comprato per pochi soldi al mercato di Sarajevo. Per una
buona parte delle comari isolane era diventato chiaro: io
indossavo solo vestiti arrivati dal lontano oriente e comprati
durante i viaggi della Galeb. Era ovvio che vestiti costosi non
si regalano certo per beneficenza. Il caso si stava montando a
dismisura. C’era chi mi vedeva usata e abbandonata perché non
era possibile nulla di serio tra un personaggio importante,
amico del Maresciallo e una ragazza senza particolari qualità. Gli
altri, più benevoli, ritenevano il segretario un libertino che
sfruttava una ragazza giovane. Poi si seppe che lavoravo
all’Ufficio Stampa e il segretario era il mio capo e le illazioni
cambiarono direzione. Il popolino si chiedeva come mai
fosse capitato proprio a me; quali capacità possedevo?
Quando il segretario partì e Nenad si trattenne un altro paio
di giorni sull’Isola, continuammo a uscire insieme di sera e di
giorno al mare. Nell’immaginario delle comari il segretario fu
velocemente sostituito dal giovane collaboratore d’Ufficio. A
certi venne anche il dubbio:- Chi dei due, in realtà era il vero
spasimante? Magari tutti e due! Naturalmente queste voci non arrivarono mai fino alle
mie orecchie. Le avrei conosciute in modo inusuale. Dopo la
partenza di Zoran e degli altri, arrivò un’inspiegabile
convocazione del segretario della Lega Comunista isolana.
Un impiegato della segreteria venne alla Casa in pietra grigia
comunicandomi di recarmi alla sede della Lega. Dopo
parecchia attesa, in un androne addobbato con un kitch
sfarzoso, mi ricevette il segretario. Il famoso ex cuoco
diventato potente membro del Partito. Senza molti
preamboli mi chiese come mai mi recassi spesso alla
residenza estiva del presidente, quali fossero i miei rapporti
con il segretario e con sua madre. Risposi:
- Con il segretario ci lavoro e siamo anche amici. Sua madre la
frequento in pubblico e nel privato!
Poi mi chiese che tipi erano e se li si potesse ritenere
fedeli al Partito. Mi soffermai per un attimo a riflettere,
anche se in mente avevo un unico pensiero: mandarlo a quel
paese. Ma, se non avevo esperienza con tipi simili, avevo pur
sempre vivo senso intuitivo. Non si doveva giocare con un
individuo del genere, ma rimanere il più possibilmente
impenetrabile. Il segretario cuoco aggiunse che si attendeva
tutta la sincerità possibile, perché per me ci sarebbero stati
dei vantaggi. Cercava di fare di me la sua confidente, cioè
spia. Era un po’ come le proposte di Bata Popalić al Centro
Universitario. Istintivamente percepivo la necessità di
proteggere me stessa e le persone intorno a me, con le quali
avevo un rapporto leale. Il segretario ex cuoco era un uomo
di poca sensibilità. Partì con quelle che riteneva lusinghe. Si
dilungò nel raccontarmi ciò che si pensava delle mie
frequentazioni. Raccontò che si diceva che il segretario e io
formavamo una splendida coppia. Come tutte le splendide
coppie, anche questa faceva invidia. E, come sempre quando
c’è invidia, dilagavano i si dice. Si diceva che io, giovanissima,
avevo trovato molto opportuno conquistare un uomo di potere,
non proprio giovanissimo, ma fascinoso.
- Poi si sussurra – disse - che il segretario lui abbia ceduto al
piacere di accompagnarsi con una bella e giovane che, come è ben noto,
il Partito non approva e pertanto io devo denunciare le sue attenzioni.
La morale comunista ritiene che un uomo maturo non può permettersi
un rapporto fuori dal normale! C’era da aspettarsi una reazione contro qualcuno come
Zoran, che lavorava su un progetto che era al centro delle
preoccupazioni del Partito e del Governo centrale,
soprattutto per le difficili riforme che cercava di attuare.
Non immaginavo che sarebbero partiti cercando di
screditarlo sul piano strettamente personale e intimo, quello
al quale lui, per natura ed educazione, teneva di più. Dovevo
essere seria, offesa ma accondiscendente con
questo spregevole individuo? Non subito risposi:- Visto
che non provengo dal serraglio politico, la difficoltà della mia
collocazione lavorativa probabilmente consiste nel fatto che oggi spesso
non si guarda affatto all’efficacia, ma al fatto di essere più o meno fedeli
al Partito. Ma io sento l’obbligo di produrre dei risultati e m’impegno.
Voglio conoscere alla perfezione il lavoro che mi è stato affidato. Non
mi permetto di improvvisare. Mi piace quel che faccio. Qualcuno può
vedere in modo strano il rapporto del segretario con i suoi collaboratori.
Il segretario è una persona posata che dedica molto tempo alle
spiegazioni e all’ascolto. Non impone mai nulla senza ponderare le
ragioni degli altri. È capace di coordinare, non si mette mai in primo
piano e non si scompone davanti alle difficoltà. Lavorare all’Ufficio
Stampa della Presidenza significa essere in continuo contatto con la
realtà. Assistere agli incontri con la popolazione significa capire
maggiormente le responsabilità che derivano da tali sforzi. Non sono
sempre momenti inebrianti. Un giorno su tre si lavora sul campo.
Spesso anche i fine settimana. Quando si viaggia con lo staff del
segretario si deve avere un programma preciso. Spesso non è semplice
seguire le preparazioni. C’è bisogno di abnegazione, fedeltà e amicizia.
L’amicizia e gli affetti sono fondamentali. Tra me e il segretario il
rapporto è in questi termini, come tra tutti gli altri. Della fedeltà al
proprio Paese e al Partito potrà darle maggiori rassicurazioni lo stesso
Maresciallo Tito, più di tutti convinto delle capacità lavorative e della
moralità del segretario. Ed ora mi permetta di salutarla, perché credo
di averle dato tutte le risposte che lei desiderasse avere. - E mi
congedai.
La situazione si stava facendo pesante. La Lega
Comunista sentiva di perdere terreno e si serviva di tutti i
mezzi per cercare di recuperare sicurezza. Mi chiedevo come
mai gli isolani, benché croati, fossero avversi al Governo
Croato e legati a quello Federale. Il controllo spettava alla
Lega. Per farlo in un modo tanto poco professionale e
sconsiderato, doveva essere sull’orlo di una crisi di nervi.
Rientrata a Zagabria, le acque si calmarono. Il quotidiano
zagabrese Vjesnik, diretto da Bono Navok, sempre più
spesso riportava notizie delle conferenze sull’autogestione.
Le foto immortalavano Zoran Babić, ma spesso anche il suo
staff in trasferta. La stessa cosa accadeva con i cine-giornali.
Le notizie rimbalzarono anche sull’Isola. Le riconoscenze
ufficiali per il lavoro a Zagabria, contrastato da Belgrado e
dal Partito, avrebbero avuto il loro peso sul futuro di tutti i
coinvolti. Ma negli anni ‘60 combattevamo per
un’autonomia più idonea per tutti i partecipanti alla
Federazione, con il forte sostegno del Maresciallo Tito, del
presidente Bakarić e del potente teorico della nuova
autogestione Edvard Kardelj. Il super poliziotto Aleksandar
Ranković viaggiava ancora insieme a Tito e Kardelj sulla
Galeb. Erano amici e compagni, per cui sembrava non avesse
anche sguinzagliato i propri cani da guardia negli alti ranghi
del Governo Croato. L’influenza di Ranković, sfuggita
sottomano al vecchio Maresciallo, avrebbe dovuto ancora
prendere piede e schiacciare un’intera generazione di vecchi
e di giovani intellettuali, non solo croati. Ma questa parte
della nostra storia deve ancora venire. Nel frattempo il
consenso all’autogoverno stava prendendo piede sempre di
più tra le larghe masse della popolazione. Le prospettive di
una maggiore indipendenza da Belgrado creavano speranze
nella popolazione delle Repubbliche sotto forti influenze
centralistiche e sempre sotto maggiore controllo da parte
della Lega Comunista.
XV. Conferenze – dibattito sull’Autogestione Socialista
In settembre continuai il mio programma all’Emissione 5
minuti dopo h20, con l’analisi dell’esistenzialismo letterario in
Francia attraverso i romanzi di Camus, le basi filosofiche di
Sartre e quello strano femminismo di Simone De Beauvoir,
che non mi era affatto chiaro.
Quanto a Sartre, in Jugoslavija non godeva di buona fama.
La filosofia ufficiale non accordò credito all’esistenzialismo
venato di psicoanalisi. L’affare Sartre durò per molto tempo.
Le recensioni erano sfavorevoli, tra il silenzio e le
incomprensioni della critica. Da parte marxista, in Jugoslavija
suscitò diffidenza da quando la Pravda denunciò Sartre come
agente dell’imperialismo americano.
Come al solito, nella scelta per l’argomento dell’Emissione,
Sartre mi interessava per il suo talento nell’aver saputo
rendere argomento da romanzo l’angoscia e gli interrogativi
sull’esistenza, perché l’esperienza conduce a prendere
coscienza di se stessi e ad accettarsi attraverso la crisi con il
mondo esterno.
Le piccole disfatte, come Sartre chiama la follia, l’impotenza,
la perversione, l’omosessualità, la malafede, la morte sono
messe a nudo da rivelare le sue qualità di analisi, con uno stile
eccezionale e una lingua pura. La qualità magistrale della
scrittura, il ritmo serrato, lo stile, sono il risultato di un
lunghissimo lavoro, di anni di tentativi e di riflessioni sulla
letteratura, sulle teorie riguardanti le diverse forme di
scrittura e le sue tematiche. In termini semplici,
l’esistenzialismo non era da considerare una moda passeggera
con la convinzione che lo scandalo dell’esistenza preoccupi chi
guarda solo ai comuni ideali morali.
L’interesse del pubblico dimostrò che le mie intuizioni sul
materiale scelto, anche quell’anno, avevano fatto colpo.
Nel frattempo nell’Ufficio Stampa il lavoro si intensificava
per le conferenze sull’autogestione tenute in provincia. Il
lavoro sulla redazione della nuova Costituzione stava
giungendo alla sua definizione. Gli attacchi, particolarmente
dove la Lega Comunista era più forte e radicata, piovevano
copiosamente. Le conferenze-dibattito della Presidenza del
Governo Croato erano sempre sotto maggiore pressione. La
provincia recepiva con molti dubbi la formula
dell’autogoverno. Era vero che lo Stato era diventato sempre
più presente dappertutto, ma inefficace. Le sue strutture
erano sature di individui che occupavano le posizioni di
rilievo non per le proprie capacità professionali, ma per gli
adattamenti politici. Lo Stato frenava le riforme, come quella
in atto. Nel settore economico, si era già fatta avanti la Banca
Centrale, le mani prolungate del sistema. La riforma
annunciata aveva degli aspetti che facevano presagire dei
risultati che avrebbero messo a rischio le passioni delle
strutture politiche trincerate. Si stavano preparando le
contromosse. Le forze politiche si erano incorporate nel
sistema e dovevano frenare le riforme. La classe lavoratrice
veniva invitata a essere vigile perché i suoi diritti erano in
pericolo.
Nel frattempo le conferenze-dibattito sull’autogestione
cercavano di spiegare le nuove necessità, come la
stabilizzazione. Seguivano altri impulsi aggiuntivi. La
Jugoslavija si apprestava a passare da una organizzazione a
un’altra. Si sarebbero tolti grandi poteri alla Federazione per
darli alle Repubbliche in nome della decentralizzazione. Si
sarebbe deviato dall’industria pesante verso quella leggera
per andare incontro alle necessità del popolo. Il sistema
poliziesco era di nuovo molto presente. Era vero che, per le
evidenti azioni che l’avevano compromesso e per la troppo
grande autonomia, era iniziata la rimozione degli individui
manifesti. Un simpatico atto di pulizia degli ostinati membri
dell’UDBA. Per fortuna Tito era sempre la guida indiscussa.
Il progressismo della nuova Costituzione destava la speranza
di riportare ordine. Tito manteneva la linea di principio e di
decisione, ma una divisione sotterranea continuava a
compiersi. Una parte del popolo rinvigorito dalle nuove
cognizioni sull’autogestione, ancora prima dell’applicazione
della nuova Costituzione, liberata dalla rigidità dei vecchi
sistemi, si dava nuovi compiti. Nascevano fabbriche. Il
turismo si sviluppava. Crescevano le necessità di materiale di
consumo. Si aprivano le ali del settore privato. Quando non
era più possibile su un posto di lavoro guadagnare quanto
era necessario, ci si arrangiava con tutti i possibili lavori
aggiuntivi. Il primo impiego si riduceva allo sbrigare
velocemente dei compiti principali e al raccogliere energia
per gli altri impegni nella realizzazione delle proprie
aspirazioni.
Questa era la situazione riscontrata nella Croazia durante
le conferenze-dibattito. Secondo il concetto di Kardelj,
l’autogestione doveva disciplinare le persone e renderle
responsabili e consce che i beni che gli venivano dati da
gestire attraverso il lavoro, erano beni loro. Ma prima
dell’entrata in vigore della nuova Costituzione, per parecchi
anni ostacolata, le leggi non offrivano ancora stimoli e vi si
trovavano un’infinità di trucchi. Molti singoli continuarono a
truffare la società e la società a illudere loro, dandogli dei
poteri.
Così, dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto,
continuava a svilupparsi il sistema del reciproco imbroglio.
Si doveva essere ciechi per non rendersi conto delle
difficoltà createsi anche a livello dei rapporti umani, radicati
in quasi vent’anni di comunismo o del nostro socialismo
trasformato attraverso il potere unipartitico. Gli sforzi, nel
far capire e coscientemente accettare l’autogoverno per le
sue idee innovative, erano enormi.
Oltre ai comportamenti umani di base, giocavano contro
anche la Lega Comunista e il Governo Centrale. A Kandelj
mossero la critica di star inventando un supposto migliore
sistema al mondo, che si collocava tra il capitalismo classico
e il socialismo staliniano, vendendolo a caro prezzo ai paesi
nonallineati, allettandoli con la speranza che questo fosse il
loro ingresso sulla scena mondiale. Un solco ancora più
profondo era presente nell’ambito del lavoro e della
produzione. Si trattava del fatto che era proprio il sistema a
non permettere uno sviluppo stabile. Osservando i flussi nel
nostro Paese dalla guerra in poi, anche senza analisi
statistiche, si arrivava presto a certe conclusioni: le
migrazioni sulla linea villaggio-città, gli spostamenti della
popolazione da una regione all’altra, le grandi previdenze
sociali dello Stato, la politica agraria e la suddivisione della
proprietà, la qualità dell’industrializzazione, già di per sé
significavano che il socialismo non aveva avuto grande
fortuna.
Si voleva un’uscita velocissima dall’arretratezza, il
desiderio di tutti. La gente era spaventata dal passato e
voleva uscirne il più presto possibile, per cui si
abbandonavano i vecchi mestieri perché la speranza
spingeva verso una cosiddetta vita migliore. Ma la speranza
aveva i passi insicuri e portava all’incertezza. L’agricoltura
tirava avanti solo nei grandi tratti, nelle grandi superfici, dove
di terra ce n’era abbastanza e dove i megacollettivi potevano
sopravvivere. La collettivizzazione sovietica aveva presto
scoperto i suoi insuccessi. I trasferimenti di grandi masse
avevano fatto degradare le culture tradizionali. Erano
scomparsi la pastorizia, le culture mediterranee abbandonate,
lasciando posto al pino, alla bassa vegetazione mediterranea
e alla selvaggia costruzione turistica. Se si passa poi a parlare
dell’economia alberghiera, la costruzione megalomane aveva
degradato l’ambiente. Le città sul litorale e sulle isole erano
state abbandonate a un comportamento che, in effetti, era la
cosciente conseguenza dell’ideologia vigente. Tutto in nome
del popolo e della sua obbedienza. Il populismo si era ormai
instaurato.
Questa rimase la realtà fino alla fine degli anni ‘60. E la
Presidenza, impegnata nello sforzo diretto di fare quanto era
richiesto, ne subiva tutti i momentanei mutamenti.
Il tempo ci sfuggiva velocemente. Quasi sempre in
trasferta, ero costretta a studiare di notte. Mentre il resto
dello staff si rilassava in qualche simpatico localino dopo
cena, sorseggiando un bicchiere di vino o un caffè, io ero
costretta a ritirarmi nella mia stanza e studiare.
A Natale ebbi la possibilità di scendere sull’Isola appena
quattro giorni. Fatica patita meno in confronto ai precedenti
viaggi. Ora avevo la possibilità di pagarmi il viaggio nel
vagone cuccette, di coricarmi sotto le coperte e dormire da
Zagabria fino a Spalato, tutte le lunghe dodici ore. Anche i
passaggi in nave per l’Isola in certi giorni erano due.
Nonostante il ritardo del treno, due volte la settimana si
riusciva a prendere la nave pomeridiana che attraccava in
porto verso sera. E così anche quel giorno non veniva perso.
Alla Casa in pietra grigia tutto aveva il consueto aspetto.
L’unica preoccupazione era rappresentata dalla vista di
Maestro, sempre più debole. Ma lui non sembrava perdere la
solita serenità. La sua rassegnazione era pari alla tranquillità
che riusciva a trasmettere agli altri. Tutto sembrava in
perfetto ordine. Se c’erano problemi in Casa, Maestro e Jera
si guardavano bene dall’esprimerli. Passammo un Natale che
mi sarebbe rimasto a lungo nei ricordi. Alla cena della vigilia
che ormai non si festeggiava, almeno non in pubblico e
davanti a occhi e orecchie indiscrete, Rino, sua moglie e la
loro figlia furono nostri ospiti. Ora abitavano in un piccolo
appartamento assegnato dal Comune all’interno di una
vecchia casa di Burak di proprietà di persone trasferite nel
nuovo quartiere popolare cosiddetto moderno, Vrisak.
Certamente non una reggia, ma finalmente avevano una casa
loro e non dividevano lo spazio vitale con estranei. Come in
tutte le case del vecchio quartiere, il loro appartamento,
comprendente un piano rialzato e un primo piano sopra la
bottega di un bottaio, stretto e profondo, con un unico
ambiente per piano. La cucina in quello rialzato, con il
ballatoio esterno, e la stanza da letto in quello superiore. Dal
retro più alto, sulla strada laterale, era ricavato un gabinetto
con la fossa biologica. L’antico pozzo per l’acqua piovana
era all’ingresso davanti alla cucina poco illuminata e
perennemente senza sole, con la vista sui muri delle due file
di case sopra la riva. Conoscevo bene quella vecchia casa.
Una volta l’aveva abitata una mia compagna di scuola
elementare. Ci ero entrata per curiosità. Per me erano
misteriose e strane quelle case con un unico ambiente a
piano, sviluppate in alto, tutte strette una all’altra con l’odore
stagnante del cavolo bollito, poco e male ammobiliate, con
tantissime persone stipate in quegli spazi angusti e umidicci.
Quando alla Casa in pietra grigia si parlava di poveri, di
miseria, scarsezza, angustia, pensavo a quelle case. Rino era
contento di averla avuta dal Comune. Era nato e cresciuto in
una quasi uguale. Addirittura mi disse che la loro non aveva
né acqua, né gabinetto. Come quasi in tutte le case dei
borghi vecchi, l’acqua andavano a prenderla, con dei mastelli
portati in testa, dal pozzo dei Francescani, e prima dell’alba
versavano il secchio dei liquami all’imboccatura del porto.
Eppure Rino riteneva quelle case belle. Potevo immaginarlo,
dopo la convivenza nella cucina della suocera di sua sorella a
Spalato, con la moglie all’isola di Brazza. Ora era di nuovo
sull’Isola. Aveva coronato le proprie aspirazioni. Finito gli
studi di musica, diventato direttore, rientrava nel proprio
Paese d’origine con un lavoro fisso e una casa.
La madre di Rino, rimasta sola con la figlia Bela e il
vecchio marito sempre più assente per seguire i suoi piccoli
interessi in Okorija, ebbe il posto di bidella nella nuova
scuola cittadina e un alloggio di un paio di stanze, con
cucinotto e bagno, ritenuto un cambio idoneo rispetto alla
loro vecchia malsana casa nel Burak. Inoltre, la vecchia
Pavica164, da sempre ritenuta una un po’ svitata, sua figlia
Lucia, diventata nota durante la guerra partigiana, l’altra figlia
Katia, sposata al sindacalista sfegatato, Kuzma che, come
Rino, era in attesa perenne dei suoi diritti, Bela, contabile
nella direzione del Park Hotel, e con impiego statale e
alloggio, avevano dimenticato le proprie origini contadine
del villaggio Vrbanj, e la cattolicissima educazione familiare.
Dimenticarono la strada per la chiesa, cancellate le festività
religiose, un po’ come tutti del resto. Perciò Jera pensò bene
di invitare Rino per la vigilia. Accese il ceppo di pino nel
forno, ricostruito al lato della grande cucina economica.
L’odore di resina liquefatta inondò tutto il piano. La nostra
cucina dava una sensazione di ricchezza e benestare.
In realtà tutto era il risultato di un’estrema cura e di
moltissimo amore: i muri di fresco ridipinti ogni anno prima
delle festività, i tegami di rame lucidati, le tende ai vetri della
porta-finestra scostate per dare l’illusione di uno spazio
dilatato con la visuale sul terrazzo fiorito anche d’inverno, lo
sfondo del porto con il colore del mare sempre diverso a
seconda dell’ora del giorno e del tempo; era il nostro
prezioso palcoscenico. La bella tavola apparecchiata con
piatti di foggia diversa e bicchieri a calice dai colori assortiti;
soluzione escogitata da parecchi anni con i nostri servizi da
tavola dimezzati nei tempi di guerra.
La cena iniziò con antipasto di scampi e insalata in salsa
rosa, brodo di cappone con gnocchetti di fegatini di pollo,
grongo arrosto sull’alloro, scorfano in brodetto con polenta
e carciofi stufati con fave, tanti dolci con la cotognata, i soliti
vini e prosecco in attesa delle frittelle. La cena si protrasse
nella serata. Chiuse bene le finestre al freddo penetrante e
alle indiscrezioni della strada, Rino intonò dei motivi natalizi.
Le frittelle e il prosecco ci rallegrarono. Cantammo anche,
un po’ sommessamente. Sembrava che nulla fosse cambiato.
In realtà nulla era più come prima. A Zagabria mi ero
procurata dei piccoli regali, oltre all’ormai presente zampone
e salame tipo Gavrilović165, tanto graditi da Maestro, burro,
formaggi freschi e anatra conservata nel grasso d’arrosto.
Inoltre ero riuscita a trovare per Maestro sottilissime maglie
intime in lana irlandese, per Jera uno scialle di seta. Avendo
saputo all’ultimo momento dell’invito alla famigliola di Rino,
rimediai un paio di guanti per Rino, calze di nylon per Vera e
per la bambina una camiciola di tela ricamata dalle contadine
di Šestine e dolcetti di cioccolata della ottima fabbrica
dolciaria Podravka. Ciò portò maggiore allegria al nostro
piccolo gruppo. Anche io rimasi sorpresa ed emozionata.
Jera mi regalò un bellissimo cappello di lana con lunga
sciarpa e guanti che completavano la mia pelliccetta in rat
mousquet, scovata nel solito negozio di roba usata,
L’Antiquario, nella Città Alta, che traeva in inganno i non
intenditori di pellicce, tanto assomigliava al visone, e
suscitava invidia e congetture. Quel Natale Maestro mi
regalò il suo anello da mignolo con l’incisione del
monogramma che aveva portato da sempre e che ora gli era
diventato un po’ stretto. Le dita si erano leggermente
gonfiate per l’artrosi. Questo anello lo porterò per tutta la
vita.
Il giorno di Natale ci svegliammo sotto una pioggia
scrosciante. Le finestre appannate dal tepore del camino
acceso tutta la notte, con il ceppo che continuava a bruciare
a rilento davano la sensazione di protezione da tutto quanto
succedesse oltre quei vetri. Il mare si era gonfiato e con
fragorosa violenza batteva le rive esterne dell’isolotto Jerolim
e lo spunzone roccioso del Promontorio Croce. Nel breve
canale tra la Baia della Croce e Galešnik, il mare ribolliva
inondando la strada panoramica e i bassi pini piegati da simili
sciroccate invernali. In un giorno così, nessuna imbarcazione
sarebbe passata da quella strettoia e il porto rimaneva
impraticabile. Nubi basse, plumbee, con lentezza si
spostavano da sud verso ovest, infilando raffiche di vento
cariche di pioggia nel canale tra la città e le Isole Spalmadori,
increspando la superficie e facendo salire il mare oltre i soliti
limiti, inondando i terreni e in ritirata portandosi via terriccio
e arbusti, lasciando le rocce sempre più nude e bianche come
ossa spolpate. I pescatori conoscevano bene i segni
premonitori che annunciavano così minacciose mareggiate di
scirocco. Ricoveravano le proprie barche nel porticciolo di
Mandrač e nella Baia della Croce. Si riunivano in gruppetti
sotto la volta concava dell’Arsenale, osservando la direzione
dei venti secondo l’inclinazione delle fronde di pini sopra la
Veneranda, attendendo che passassero i tre giorni di
sciroccata. Succedeva che nessuna nave riusciva ad
attraccare.
In simili situazioni era necessario recarsi con il pullman a
Cittavecchia166 e prendere la nave per Spalato. Questa recente
soluzione di collegamento con la costa aveva interrotto
l’isolamento della città durante certi giorni burrascosi.
L’inverno sull’Isola mi piaceva moltissimo. Da sempre.
Quando ero più giovane pregavo Dio che mandasse una
sciroccata perché il giorno prestabilito non potessi partire.
Ora questa possibilità non esisteva più, purtroppo. C’era
un’altra strana sensazione che in quei giorni invernali mi
sembrava essere una giustizia divina.
La bella villa Kirin, all’inizio della Majerovica e il molo
davanti Galešnik, non grande ma armoniosa, di bella linea
con capitelli bianchi, finestre a bifora sulle pareti di colore
ocra, adagiata sulla roccia bianca che dava maggiore risalto al
rossiccio dei muri, coi pilastri sull’ordinato giardino con
vialetti, tralicci di vite canadese, un’infinità di cactus bassi, di
iris e narcisi in perenne fioritura, recintati con un’alta rete a
vista, dava a tutti l’immagine di un mondo irraggiungibile. La
piccola villa, con la sua parte est rivolta verso la città, quella
ovest sul canale e a nord protetta dalla fitta pineta sopra il
bagno comunale, apparteneva a un noto pittore ebreo.
Confiscata alla fine della guerra, fu assegnata come
abitazione a un’insegnante di storia, venuta dall’interno del
Paese, nota per meriti acquisiti durante la guerra di
liberazione.
La professoressa Bonaći167 una brava insegnante, severa
ma giusta, simpatica a tutti se non fosse per l’occupazione di
quella casa, che molti in città non le perdonavano. Era un
po’ così per tutte le case tolte ai loro legittimi proprietari,
diventate proprietà dello Stato e date in uso ad estranei. Il
pittore Kirin era un amico della Casa in pietra grigia.
Avevamo vissuto in modo violento la sua espulsione dalla
casa e una parte del rammarico era passato sulla persona che
aveva preso il suo posto. Spesso passeggiavamo lungo la
recinzione della villa Kirin, dove un nutrito numero di
persone durante tutta l’estate occupava il giardino degli
aranci. Si tuffava in mare dalla bassa scogliera, pranzava, si
divertiva sotto gli occhi dei passanti, si tratteneva sulle
poltrone sotto il pergolato: invidiata da tutti.
Arrivate le sciroccate d’inverno, il mare con violenza
entrava nelle parti basse della villa e pian piano rosicchiava
l’intonaco dei muri, scrostava la pittura delle finestre a
bifora, faceva arrugginire ferri e feritoie. L’inarrestabile
degrado della villa era evidente e seguito con passione.
D’inverno anche la mia gelosia per quel posto così speciale,
perdeva di intensità. Mi soffermavo a considerare la
sicurezza della nostra vecchia rocca, lontana da quelle
mareggiate che a ogni urto contro le pareti basse di cemento
immerse nella pietra viva, con fragore spargevano nuvole di
alti spruzzi, facendo somigliare la villa a un castello irreale
sospeso sull’acqua, avvolto di una fitta improvvisa nebbia.
Per me, che da sempre avevo avuto uno strano rapporto con
il mare, quasi catartico, rappresentava una continua sfida, un
confronto in ogni periodo dell’anno. Ogni qualvolta si
sprigionava un temporale, sgattaiolavo dal cortile della Casa
in pietra grigia e mi appostavo sotto il colonnato della Banca
a osservare l’imperversare del mare, nell’insenatura di Bok, o
il fluttuare della villa Kirin in mezzo alle sferzate dello
scirocco contro i crepacci, e il crepitio incerto al ritiro della
massa d’acqua in burrasca. Ne rimanevo affascinata e non
riuscivo a distaccarmi. Fin quando il sottotetto della Casa in
pietra grigia fu in nostro possesso, ogni momento libero lo
trascorrevo dietro i vetri delle finestre in contemplazione dei
venti, delle onde e dei loro umori sul porto e lungo il canale.
Pensandoci meglio, nella vita ho viaggiato molto. Ho
conosciuto tutti i mari del Mediterraneo, dell’Atlantico e del
Pacifico. L’Adriatico, dal Golfo triestino fino a Otranto;
l’Egeo da Corfù a Creta, il Mediterraneo da Alessandria alla
rocca di Tangeri; il Mar Ligure e il Tirreno fino ai Mari del
Nord Atlantico. Oltre Suez il Mar Rosso; le coste del Canada
in discesa verso le Bahamas e oltre Acapulco; giù oltre la
Terra del Fuoco e il Passaggio di Magellano, in salita verso il
Guatemala e il Messico, e poi le coste della California per
trasvolare l’equatore fino alle isole indonesiane nel Pacifico;
superato il Tropico del Cancro, a sud verso l’Australia e le
isole Giapponesi. Esperienze affascinanti. Mari piccoli e
grandi, di colori e umori sempre diversi. Mossi o calmi, dalle
sponde nude, piatte, sabbiose o rocciose o ricoperte di
vegetazione lussureggiante, di origine vulcanica o
sedimentale, infiniti o racchiusi. Non mi innamorai mai di
nessuno di quei mari. Non desiderai mai tornarci per
rimanere.
Se sogno un mare, sogno il mare delle Isole Spalmadori,
delle baie isolane a nord e a sud. Gli odori dell’Isola. Ed è
una nostalgia struggente, per nulla assopitasi con gli anni che
avanzano. Direi, al contrario, sempre più pressante.
I quattro giorni di Natale passarono con una velocità
irreale, proprio perché erano pochi. L’inverno sull’Isola è
sempre stato carico di sonnolenti giornate ombrose con
improvvise schiarite e il sole in riverbero sulle lucide
chianche della riva e della piazza, che non ingannava. In quei
giorni l’aria era fredda, tagliente. Con il sole, la bora spazzava
le nuvole e prendeva prepotentemente il posto dell’uggioso
scirocco, carico di umidità. Partii dall’Isola via Cittavecchia il
terzo giorno di scirocco, quello che secondo i pescatori
manteneva ancora la stessa direzione dei venti. Il canale di
Brazza, nel tragitto verso Spalato protetto a sud-est da
Lesina, era relativamente calmo, escludendo l’imboccatura
del porto di Spalato, esposta, prima di doppiare il grande
molo foraneo. Il treno partì solo a sera inoltrata. Arrivai nella
capitale giusto in tempo per cambiare borsa. A metà
mattinata lo staff dell’Ufficio Stampa partiva per preparare le
conferenze di Zoran Babić nel circondario di Varaždin, per
la fine dell’anno. Partimmo in treno. Il segretario ci avrebbe
raggiunto in serata con Max.
A Varaždin alloggiammo in un bell’albergo, capolavoro
dell’architettura barocca, come d’altronde tutto il centro,
scrupolosamente restaurato e ben tenuto. Una volta
Varaždin era stata la capitale della Croazia, la sua città più
fiorente, il che spiega gli eleganti palazzi. Per molti aspetti
viene considerata Praga in miniatura, senza la folla che
caratterizza Praga. Le meraviglie barocche comprendono
anche la turrita Stari Grad, città antica di un bianco
abbagliante. Per il fatto di essere un’importante città
industriale e uno dei principali nodi stradali della Croazia
settentrionale, la cittadina, di una cinquantina di migliaia di
abitanti, è centro della regione Hrvatsko Zagorje 168, per
secoli polo economico, amministrativo e culturale croato. Il
grande incendio della fine dell’Ottocento piegò la città
togliendole il primato economico, ma non riuscì a cancellare
la particolare eleganza del suo centro storico con palazzi,
conventi, chiese, quasi tutti ricostruiti durante l’Ottocento e
il Novecento.
La città del barocco sul grande fiume Drava, con un
paesaggio verde dominato da ordinate colline e maestosi
castelli medievali e barocchi, è perfettamente integrata con i
caratteristici paesini rurali, i laboriosi agglomerati agricoli, i
centri termali, i boschi. Un’ampia pianura con numerosi
castelli eretti nel ‘600 a difesa dalle invasioni turche, che
costituivano un sicuro rifugio per i nobili croati anche
durante le sommosse contadine. In età barocca molti di
questi castelli furono trasformati, e altri ancora eretti, come
sontuose dimore dell’aristocrazia croata. Culla dell’antica
nobiltà, elegante, colta, amante dell’arte e in particolare della
musica, Varaždin vanta, infatti, una solida tradizione
musicale. La rassegna Serate barocche di Varaždin dagli anni ‘70
sarebbe diventata il Festival Internazionale di Musica
Barocca. Da allora si svolge ogni anno a cavallo tra
settembre e ottobre, e tutta la città diventa una grande sala
da concerto. I teatri, le chiese, le cappelle e i palazzi
accolgono orchestre, provenienti da tutta Europa. I ricchi
dintorni, dalle terme di Krapina, Trakošćan, Lepoglava,
čakovec169 ai paesi lungo il fiume Drava, fino a Koprivnica 170,
erano tutti nel programma delle conferenze-dibattito del
segretario.
Varaždin, la sua città natale, vanta le antiche radici della
sua famiglia paterna nella stirpe aristocratica degli Hercog 171,
come sarei venuta a sapere durante quel soggiorno a
Varaždin. Il giudice Ivan Babić, noto rivoluzionario e
compagno di Tito in tutte le cinque offensive e al Governo
dopo la liberazione, era molto noto in città. Altrettanto il
nome di suo figlio Zoran, studente di giurisprudenza tra
Zagabria e Oxford, ma sempre presente in città con la
passione per il canottaggio, e a lungo vincitore nazionale
nella categoria singoli. Anche dopo la laurea e il
trasferimento, non mancava di essere tutti i fine settimana
sul fiume a gareggiare. Dopo la morte improvvisa del marito,
Eleonor Babić aveva seguito il figlio nella capitale, ma non
era stata dimenticata dai moltissimi amici ed estimatori. La
ricordavano tutti come un’eccellente pianista, signora fine,
gentile, bella, anzi bellissima.
Con questi precedenti, il nostro compito organizzativo
delle conferenze-dibattito era agevolato. Nei comitati
cittadini, nelle grandi organizzazioni produttive, nelle scuole
professionali, nell’Università, tutti ci ricevevano con
simpatia.
La stessa cosa si ripeteva nel circondario. Ciò ci riempì di
entusiasmo. Non era per niente sempre così. Sul terreno
incontravamo difficoltà di vari generi. Lì dove la Lega
Comunista creava ostacoli, anche l’approccio con la
popolazione era difficile. Spesso abbiamo tremato prima
degli incontri e se gli appoggi logistici non erano positivi,
anche gli interventi del segretario potevano subire un
insuccesso, che non ci era permesso sperimentare. Il nostro
piccolo gruppo si muoveva sui tracciati studiati dal
capoufficio, che di solito precedeva i nostri spostamenti e
poi ci affidava il campo per la realizzazione del programma,
senza lasciare nulla al caso. Eravamo un quartetto. La
dattilografa-segretaria, il fotoreporter, Nenad ed io addetti ai
contatti con le istituzioni, la preparazione dei comunicati
stampa e tutto il necessario. Di solito conoscevamo in
anticipo le eventuali possibili reazioni dell’ambiente e le
difficoltà che si potevano riscontrare e prevenire. Da noi
dipendeva l’esito di un lavoro che era importante per il
futuro di tutti. Le riforme non erano una manna venuta dal
cielo. Imporre un’altra volta delle condizioni che non
avevano riscontro nella realtà quotidiana, sarebbe stato un
maggiore punto di insuccesso. Sul terreno si riscontrava il
malcontento per la programmazione fatta nelle stanze del
potere centrale, senza prendere in considerazione la
situazione creatasi nei specifici luoghi. In linea di massima, in
Croazia le riforme si chiedevano ogni giorno con maggiore
insistenza. La liberalizzazione del lavoro e del mercato, oltre
alle indipendenze sul piano scientifico culturale, avevano
fatto alcuni passi importanti.
La nuova Costituzione sarebbe dovuta essere proclamata
al Primo Congresso Federale dell’autogestione.
- Si è partiti con la convinzione - disse Zoran Babić che votare la
legge sull’assegnazione della gestione di tutte le organizzazioni e
istituzioni ai diretti interessati, da sempre abbia significato appoggiare
la visione umanista del socialismo. In pratica, ci si è attenuti al
principio che l’individuo, quale creatore di tutti i beni, deve essere il
soggetto nella produzione e nella ripartizione, e che il sistema
economico-sociale deve garantirgli il diritto di esprimere i propri
interessi. È chiaro, siamo consci di assumerci una grande responsabilità
storica di fronte ai nostri popoli, ma siamo convinti che solo così si
possa stimolare l’iniziativa creatrice e che ciò corrisponda agli interessi
di tutti. Solo così si possono raggiungere risultati positivi nello sviluppo
economico e nel progresso del Paese: la maggiore democratizzazione dei
rapporti sociali nel loro insieme, come nella preparazione di centinaia di
migliaia di quadri capaci; il successo nel campo scientifico, nella cultura,
nell’arte e in tutti gli altri campi della vita sociale. Ciò che si è
raggiunto finora con l’introduzione dell’autogestione in determinati
campi non rappresenta una meta della quale essere soddisfatti. Ci
rendiamo conto delle debolezze e degli ostacoli esistenti.
Infatti, sono presenti due pericoli fondamentali: lo statalismo e il
burocratismo, nonché le tendenze tecnocratiche e manageriali che
possono seriamente minacciare tutti gli sforzi. Nell’intento di superare
certi ristagni e attuali limiti socio-politici ed economici, ed anche della
necessità di regolare su basi nuove i rapporti nella nostra comunità
multinazionale, abbiamo deciso di affrontare importanti mutamenti
costituzionali. -
Così a Varaždin. E poi il segretario parlò della
Costituzione riformata rivolgendosi al pubblico della
Federazione:
- Per la Jugoslavija Socialista non sussistono dilemmi a proposito
della priorità. Noi vogliamo perfezionare il nostro sistema in modo da
ottenere la massima espressione degli interessi di tutti i lavoratori, intesi
anche gli intellettuali, e nello stesso tempo l’affermazione piena dei
diritti e degli interessi di tutti i nostri popoli e nazionalità. Gli interessi
essenziali sono identici per tutto il Paese.
Era qui la svolta del lavoro sulla nuova Costituzione, che
in quell’occasione fu esposta. Era la decisione di Tito
trasmessa al segretario a Brioni quell’estate. Alla base stava la
sua ferma decisione di applicare l’autogoverno dalle
fondamenta fino al vertice della società. Pertanto, in base alle
esperienze, era necessario fissare soluzioni ottimali per un
fruttuoso sviluppo. Sicuramente, nella seduta della
Presidenza della Lega dei Comunisti Jugoslavi che si tenne in
quei giorni, erano state prese in esame le questioni
fondamentali dello sviluppo politico, sociale ed economico.
Ciò rappresentava un fatto alquanto nuovo. Si attribuì
particolare significato a quanto era stato concordato in quella
riunione, anche a proposito della condotta dei comunisti,
specie di quelli che ricoprivano funzioni dirigenziali.
In un’altra occasione Babić si soffermò sui rapporti tra le
Repubbliche e la Federazione e disse:
- La Costituzione Jugoslava varata finalmente nel ‘65, ma
elaborata già dalla fine del ‘60, subirà aggiunte e modifiche. La sua
annunciata riforma sancirà piani fondamentali per i rapporti tra le
nazionalità. Sono stati formulati in maniera nuova, con maggiore
chiarezza e competenza i principi costituzionali sui rapporti fra le
Repubbliche in seno alla Federazione. È stata notevolmente ampliata
l’autonomia economica e politica delle Repubbliche e delle Regioni
autonome, riducendo al minimo le possibilità di dissidio di carattere
nazionale. Con maggiore precisione è stato espresso il principio che le
Repubbliche sono comunità democratiche autogovernate dai cittadini.
Le Repubbliche così assumono il carattere statale nel cui ambito i
cittadini-lavoratori esercitano la maggior parte dei loro diritti e doveri
sovrani. La Federazione in questo modo viene definita come strumento
collettivo per la soluzione degli interessi comuni. Con la nuova
Costituzione modificata, tali rapporti democratici nel quadro della
Federazione saranno ulteriormente elaborati. In conseguenza della
riforma costituzionale, la Jugoslavija di fatto non è più una
Federazione nel senso classico, ma una specifica comunità di popoli, che
realizza nella Federazione solo una parte dei diritti sovrani sulla base
volontariamente stipulata, che entrerà in vigore solo quando verrà
ratificata, singolarmente, da ciascuna Repubblica. Nella sfera del
sistema politico, la Costituzione instaurerà il sistema delegatario per
risolvere i rapporti autogovernati. Inoltre prevede un nuovo sistema di
pianificazione, sostanzialmente diverso dal precedente, perché assumerà
come base di partenza i diritti di autogoverno. Pertanto, i protagonisti
di tale sistema dovranno essere le organizzazioni di base. Di
conseguenza, i piani collettivi dell’intera società dovranno poggiarsi sulle
intese di coloro che possono metterle in atto. Lo Stato potrà partecipare
alla pianificazione soltanto in caso di interessi vitali per la
sopravvivenza della società. Per la realizzazione degli impegni assunti,
si stabilisce che colui il quale li ha accettati dovrà rispondere della loro
attuazione. Per cui dovranno essere concreti e misurabili affinché si
conoscano le responsabilità.
E poi parlò della legge sul lavoro:
- Un’altra legge sul lavoro deve regolare la ripartizione del reddito,
basata sui mezzi destinati ai redditi personali nei rapporti
interpersonali, come ad esempio il contratto di lavoro, la
regolamentazione dei diritti, la responsabilità per l’esecuzione dei
compiti, la tutela dei diritti reciproci, la gestione dei mezzi sociali, il
collegamento del lavoro individuale con il sistema del lavoro autogestito.
Oltre alle leggi sulla pianificazione del lavoro, in fase di preparazione
c’è la legge sulla Banca Jugoslava e sulla gestione monetaria delle
banche delle Repubbliche, la legge sul sistema monetario, quelle sui
fondamenti del sistema bancario e creditizio, sulla gestione delle valute
straniere, sui crediti e sul commercio con l’estero; sull’esercizio di
attività economiche all’estero e la legge sul finanziamento della
Federazione. Si sta cercando di apportare importanti e opportuni
cambiamenti anche nella sfera del sistema politico, fondati sempre più
sulla forza, sui mezzi e sulle proprietà sociali. Purtroppo lo sviluppo
del sistema politico denota un non indifferente ritardo. Il sistema
politico è ostacolato dalla mancanza di una cosiddetta anima
socioeconomica nella nostra società. Lo stato del nostro sistema politico
è chiuso alle prospettive dei mutamenti annunciati.
Pertanto ci si chiede quali misure adeguate si debbano estendere per
consolidare i rapporti democratici nel processo sociale e nell’autogoverno
nella sua globalità. Certo, sotto parecchi aspetti il nuovo sistema non è
per tutti stimolante. Nel sistema di pianificazione sociale, non è
scomparso il ruolo dello Stato, anche se viene sempre di più circoscritto
ai settori e ai casi che rientrano negli interessi collettivi e dove
l’intervento dello Stato è ancora necessario. Non si può nemmeno
negare l’esistenza di interessi opposti oggettivi, tali da non poter essere
conciliati. Dobbiamo renderci conto di dove si tratta di incertezze
temporanee e dove invece di fenomeni effimeri che, vogliono il
rallentamento dello sviluppo democratico. Un altro fattore agisce contro
questo sviluppo: le tendenze tecno-burocratiche che hanno portato al
monopolio dell’apparato amministrativo. Il tecnocraticismo avanza
istanze liberiste per quanto riguarda la propria posizione nella società,
e pone delle richieste contrarie all’autogoverno, in certi casi
manifestandosi come un’ideologia e una politica ben precisa. Per agire
contro queste tendenze, che si manifestano e continuano a manifestarsi,
si deve agire in modo che la Costituzione realizzi due compiti: primo,
l’eliminazione della vecchia macchina che soffoca il sistema e i singoli, e
secondo, la premunizzazione nei confronti dei suoi stessi rappresentanti
politici e dei funzionari, cioè dell’apparato esecutivo tecno-burocratico. -
Questo era il contenuto delle conferenze-dibattito alla fine
del ‘63. A Varaždin e in Zagorje per la prima volta, in modo
esplicito, veniva tracciata la strada che la nuova Costituzione
avrebbe portato nella nuova società jugoslava autogestita. La
Costituzione che sarebbe entrata in vigore più tardi (con
rifacimenti nel ‘68, ‘70, ‘71 e ‘74) ampliava il concetto
basilare del sistema politico-sociale autogestito, già definito
come
compito
a
fine
prioritario.
L’ulteriore
perfezionamento, l’elaborazione di idee teoriche e pratiche,
sarebbero andate avanti per un decennio. Quelli che si
stavano realizzando alla fine del ‘63 erano punti di partenza
pratici e politici. Primo: misure per un efficace
funzionamento; secondo: arricchimento del sistema politico
con forme di rapporti democratici; terzo: esame delle cause
del divario tra i principi democratici sanciti dalla nuova
Costituzione e la pratica sociale e politica.
Lo squilibrio tra i princìpi e la prassi era dovuto a diversi
fattori sociali, quali il centralismo burocratico, il
tecnocraticismo, la libertà del partito, la conquista del
monopolio del potere, il settarismo, l’opportunismo, le
ambizioni individuali. Era pertanto necessaria una nuova
analisi critica del funzionamento delle istituzioni, della
responsabilità delle singole organizzazioni e dei funzionari.
La stabilità del nuovo sistema dipendeva naturalmente dalla
forza della grande maggioranza dei cittadini. Da qui
nascevano i compiti principali per il prossimo periodo. Il
processo sociopolitico ed economico rappresentava, infatti,
l’estinzione dello Stato quale strumento di coazione.
Questa visione era, come diceva il segretario, a lungo
termine. Era ovvio: la Lega dei Comunisti non intendeva
considerare la funzione dello Stato, e tanto meno il Governo
Federale, un elemento di secondaria importanza.
Il sistema della nuova Costituzione Jugoslava definiva con
massima precisione le responsabilità degli organi esecutivi
ripartendo le loro funzioni e responsabilità.
Le conferenze-dibattito proseguirono con un’aperta e
spietata critica alla Lega Comunista. Una cosa impensata
qualche anno prima. Era ovvio che Kardelj e Tito avevano
richiesto e autorizzato questo tipo di aperta campagna in
difesa del nuovo corso sociale e politico.
Avendo le spalle coperte da tali padrini, il lavoro di
propaganda dell’autogestione, come erano denominate da
qualcuno le conferenze-dibattito, sembrava aver aperto le ali
e volare tranquillo verso il traguardo. E poi tutti noi eravamo
convinti del beneficio che avrebbe apportato l’opera svolta.
Il terreno fertile di Varaždin, per discorsi altrove spesso
contrastati, aveva alla base anche una non indifferente
influenza del segretario tra la gente che lo rispettava e amava.
Non credo che lui si fosse mai illuso di poter realizzare il suo
compito in tempi brevi, né sottovalutava le sue difficoltà.
Anche in Zagorje, dove tutto andò liscio, non lo vidi mai
esultare o lasciarsi andare alle lusinghe. Comunicava poco
anche con noi. Si appartava, si isolava assorto. Ed era ovvio
che non si trattava unicamente del suo carattere solitario e
schivo. Era difficile penetrare i suoi pensieri. Le
responsabilità gravavano su di lui.
Ne avevo discusso con Nenad, che lo conosceva bene.
Rimaneva sempre così, impenetrabile. Ci stupì molto quando
ci annunciò che gli avrebbe fatto piacere se i suoi più stretti
collaboratori fossero rimasti a festeggiare l’ultimo dell’anno.
Tanto si doveva lavorare il giorno successivo. Aveva avuto
l’invito da amici alle terme di Varaždin nel nuovo, lussuoso
albergo, e lo aveva accettato anche perché era invitata sua
madre, che dopo tanti anni aveva consentito a partecipare a
quella festa, convinta che sarebbe servita alla causa del
lavoro comune.
Decidemmo di accettare quell’invito, anche per non
deludere il desiderio del segretario. Era chiaro che teneva alla
nostra presenza. L’ultima riunione l’avevamo il 31 mattina
alla fabbrica di biscotti Dunia, e poi il 2 gennaio dovevamo
proseguire nel circondario, prima di spostarci in Podravina.
La mattina del 31 dicembre ci sorprese con una fitta coltre
di neve che aveva sepolto ormai il paesaggio e continuava a
cadere copiosamente. Le colline ondulate digradavano
dolcemente verso la pianura del fiume silenzioso, animata
solo di rumori attutiti dei campanacci sulle slitte con cavalli
qui usate d’inverno. Leggeri pennacchi di fumo biancastro
uscivano dai camini mescolati ai grossi, vaporosi fiocchi di
neve. I pattini della slitta con la quale ci spostavamo verso la
fabbrica Dunia, si muovevano in mezzo allo slargo con i
campi sportivi, tra i quali quello di pattinaggio sul ghiaccio e
le basse costruzioni della Società dei Canottieri sul fiume.
Tutto era come addormentato sotto la spessa coltre di neve.
Sulle sommità delle colline, i vecchi scuri e isolati manieri,
attorniati da abeti appesantiti dalla neve, svettavano contro al
cielo grigio lattiginoso. Le piccole case campagnole,
squadrate, bianche, dai finestrini stretti come occhi
addormentati, si confondevano con l’imbiancata e fluttuante
distesa. Nella fabbrica si respirava l’aria festiva e un odore
penetrante di biscotti. La sala della mensa era già popolata
quando arrivammo. Offrirono a tutti, operai, dirigenti della
Dunia e gli ospiti esterni biscotti e cioccolato fumante.
Arrivato il segretario, tutti si accalcarono intorno a lui. Lo
conoscevano, molti dalla società sportiva, altri ancora
dall’università e i più anziani da bambino. Era evidente
l’affetto di quella gente per il loro concittadino, che con
estrema semplicità svolgeva un importante ruolo nell’attuale
Governo Croato, rifugiandosi dietro atteggiamenti da
persona non importante, con un tono di elegante diniego
delle lusinghe. Ormai lo sapevo, quel suo comportamento
era sincero. Non amava nulla di esagerato, non misurato e
non controllato. La cordialità della sua gente aveva un
duplice effetto. Senz’altro, il fatto di essere amato non
poteva lasciarlo completamente indifferente, ma dall’altro
lato, quello inglese, era imbarazzato perché sopra le righe
rispetto alla sua concezione della dimostrazione d’affetto. La
conferenza ebbe successo. Un aperto dibattito, fatto di
moltissime domande, e l’incontro si protrasse più del
previsto, fino all’ora di pranzo.
Il pranzo per una quindicina di persone fu organizzato in
un paesino sul fiume Bednja, importante snodo ferroviario e
stradale per la vicinissima Ungheria, ritrovo di croati e
ungheresi, amanti della nota cucina del rustico e gradevole
ristorante Belec172. Non eravamo affatto entusiasti del pranzo
programmato per noi. Per l’ultimo dell’anno avevamo il
nostro progetto, ma non c’era verso di sottrarsi.
Organizzarono l’attraversamento della pianura in slitta. Ci
avvolsero con delle caldissime coperte e invitarono i cavalli a
sferzare sulle strade innevate lungo la vallata. Il movimento
ritmico del passo attutito dei cavalli, lo strisciare della slitta, il
calore dei corpi vicini, mi fecero quasi addormentare. Ero
stanca. Studiavo, lavoravo mattina e pomeriggio e avevo
bisogno di riposare. Invece mi aspettava la festa dell’ultimo
dell’anno. Scendeva la sera quando ci accompagnarono al
nostro albergo.
Mi infilai a letto, come credo tutti gli altri, per ridarsi poi
appuntamento, abbastanza sul tardi. Quando scesi nella hall
dell’albergo gli altri erano in attesa. Mancavano il segretario
ed Eleonor. Un fortissimo grog a base di sciartres di alta
gradazione alcolica mi mise un po’ di buon umore. Dovevo
farmi passare l’apatia per il prolungato sonno pomeridiano.
Avevo accettato di rimanere a festeggiare e non c’era posto
per la stanchezza. Lo dovevo a me stessa e agli altri.
Il rinnovato albergo Tabor era addobbato con ricercata
eleganza, o almeno lo era la sala, non molto grande, nella
quale eravamo sistemati noi con i cittadini notabili: dal
Sindaco ai deputati del Governo Croato, dal rettore
dell’Università di Varaždin al direttore del giornale regionale,
da un paio di professori di Giurisprudenza a Zagabria a un
avvocato. Tutti con consorti e nessun rappresentante della
Lega Comunista, né dell’Alleanza Socialista, tanto meno del
Sindacato. Ma allora questo non lo sapevo. Eleonor si perse
tra vecchi amici, il segretario si sedette a tavola dirimpetto,
con a fianco il Sindaco e il rettore. Avevo l’impressione che
non prestasse attenzione a quanto gli raccontavano. Durante
la cena, una cena sontuosa e servita con tutte le regole di una
impeccabile ristorazione, dava la sensazione di concentrarsi
sui cibi. Più tardi si mise a rigirare in mano il bicchiere
fissando la sua superficie, oppure indirizzava lo sguardo
sopra la mia testa, come se dietro le mie spalle succedesse
qualcosa di molto interessante. Facevo grande fatica a non
girarmi per accertare il motivo di tanto interesse. Nenad, al
mio fianco, faceva commenti sui presenti. Conosceva tutti.
Pochi conoscevano il suo attuale lavoro, ma lo ricordavano
come sportivo di canottaggio. Dall’altra parte il mio
commensale era il fotoreporter che cercava di animare la
nostra segretaria. Poi, un’ora prima di mezzanotte, nell’altra
sala l’orchestra intonò musica da ballo. Il buonumore salì
con l’avanzare della serata. Le donne al nostro tavolo erano
tutte ultra-cinquantenni. Prevedevo che il segretario non si
sarebbe schiodato dalla propria sedia e mi chiedevo se si
sarebbe lasciato andare alle danze, e chi sarebbe stata
l’invitata. Con Nenad avevo scommesso che non si sarebbe
mosso. Ne ero convinta. Nenad sosteneva invece di sì.
Pensai che questo avesse a che fare con lo sguardo del
segretario fisso dietro le mie spalle. Quasi vincevo la
scommessa. Il segretario lasciò i suoi commensali a
immergersi abbondantemente nel contenuto dei loro
bicchieri con diversi e mescolati alcolici che appesantirono
parole, movimenti e allentarono le inibizioni. Il desiderio di
divertimento si trasformò pian piano in un grottesco sforzo
di felicità. Sembrava che raggiungessero questo stato di
grazia solo tracannando sempre maggiori quantità di alcolici,
dimenticandosi le persone con cui capitavano nei balli
sempre più sfrenati.
Tenevo la testa bassa per evitare eventuali inviti. Avevo
imparato che un comportamento restio e indifferente
scoraggia i possibili allegri cavalieri. Una persona musona
non li divertiva. E loro volevano solo divertirsi. A
mezzanotte eravamo pochi ancora intorno al tavolo. Ci
avvicinammo per farci reciprocamente gli auguri. Finito
l’attimo del saluto all’anno nuovo, l’orchestra intonò un
tango, esattamente il Tango del Caminito.
Zoran mi condusse per mano fino alla pista da ballo.
Dietro le mie spalle sentii Nenad dire:
- Ho vinto, ho vinto!
Non ho mai dimenticato le parole di Nenad di quella
notte. Molti anni più tardi, verso l’‘86, quando ci
incontrammo a San Francisco dove lui era divenuto addetto
all’Ufficio Stampa del Consolato Jugoslavo e ricordando gli
anni di lavoro insieme, gli chiesi quale fosse la scommessa
che aveva vinto quella notte. Mi rispose:
- Ero convinto che Zoran fosse innamorato di te, ma il segretario in
lui non gli permetteva una tale trasgressione. Anche se avesse avuto
coraggio, non avrebbe potuto, nei tempi che correvano, nemmeno
chiederti di sposarlo. Primo, perché aveva vent’anni più di te e non si
riteneva adatto. Per un principio morale, anche se tu avessi dimostrato
un minimo di interesse verso la sua persona. Bada bene che non ha mai
parlato di te in termini diversi che di una persona che deve essere
sorretta nelle proprie ambizioni. Le mie conclusioni appartengono alle
certezze sulla sua morale e sulla sua idea del giusto.
In verità, il segretario Babić non mi dimostrò mai alcun
altro sentimento se non un profondo affetto d’incrollabile
amicizia, che si sarebbe consolidata negli anni a venire, anche
quando i nostri destini si sarebbero completamente separati.
Ma in quegli anni eravamo tutti convinti che le nostre
amicizie e i nostri impegni non sarebbero mai cambiati e non
avrebbero preso strade tanto diverse.
Quell’anno passò con fulminea velocità. Detti tutti gli
esami, preparavo le conferenze per l’Emissione 5 minuti dopo
h20, viaggiavo con lo staff dell’Ufficio Stampa. I nuovi
emendamenti voluti e sostenuti da Tito misero sotto
pressione la Lega Comunista e il Governo Federale. La
Costituzione riformata avrebbe tolto pian piano la maggior
parte dei poteri allo Stato e al Partito. Alla metà degli anni
‘60 si ebbe un indubbio rafforzamento dell’autogoverno in
gran parte delle organizzazioni statali e la relativa
indipendenza economica di Repubbliche e Regioni
Autonome. Nel maggio del ‘65 Tito tenne un discorso agli
attivisti serbi, nel quale disse chiaramente che non era
possibile credere che andasse tutto bene, e che soltanto di
rado fossero capitate debolezze e manchevolezze.
- È abbastanza preoccupante - sottolineò - in primo luogo tutto
quello che riguarda la Lega Comunista Jugoslava, ma soprattutto la
Lega Comunista della Serbia. Aveva parlato anche dello stato della società jugoslava.
- Le masse lavoratrici - disse - si aspettano che determinati
problemi vengano risolti, eliminati i lati negativi e messe in atto le
decisioni prese. Ne hanno abbastanza di risoluzioni, dichiarazioni ed
enunciazioni che tardano a essere messe in pratica. Si avvertono troppo
acutamente le anomalie, l’inefficacia, le inattività. Gli ultimi
emendamenti costituzionali sono stati elaborati e accettati e ora devono
essere introdotti per un radicale cambiamento nel settore delle banche,
dei trasporti, del commercio estero, del commercio all’ingrosso dove
niente è stato fatto. Le maggiori critiche delle Repubbliche vengono
rivolte proprio alle concentrazioni dei capitali in queste istituzioni. Purtroppo era più facile parlare della lotta contro
l’egemonismo che intraprendere il difficile, ma inevitabile
compito di cambiare un insieme di superati rapporti, che,
infatti, alimentavano l’insorgenza del nazionalismo.
In un altro discorso a Belgrado, per il suo compleanno il
25 maggio, parlò del consolidamento dell’autogestione e
delle misure adottate per sviluppare la maggior parte dei
settori della vita sociale, che andavano verso il
miglioramento dell’intero sistema economico. Disse:
- Non è più possibile tollerare che in certi posti ancora si creino dei
deficit, che si prolunghi la non liquidità e si spenda più di quanto sia
realmente possibile, che si dirigano gli affari in modo antieconomico,
burocratico e irresponsabile.
E finì l’intervento con un fermo proposito di vastissima
risonanza, dicendo:
- Dobbiamo fare i conti con quelli che stanno dall’altra parte della
barricata, con i nemici. Ripulire le fila del Partito, ovverosia la Lega
dei Comunisti della Jugoslavija e della Serbia. La situazione in seno al
Comitato Esecutivo non è buona e ciò si ripercuote specialmente
sull’attività delle direzioni periferiche del Partito. In effetti nella Lega
dei Comunisti ci sono molte persone che da un pezzo dovevano essere
allontanate. Non lo si è fatto per liberismo. Ora io raccomando di
espellere quelli che si danno ad azioni controrivoluzionarie e anche di
sciogliere quelle scivolate organizzazioni. Nella Lega dei Comunisti ci
sono molti membri che non hanno niente in comune con il Partito e il
suo programma. Di conseguenza, noi la dobbiamo epurare. In diversi
centri, soprattutto in quelli che vengono chiamati “i centri del potere
economico e politico”, le posizioni chiave sono occupate da membri del
Partito. Il problema dell’arricchimento, della stratificazione della
società in ricchi e poveri, si manifesta anche nella Lega dei Comunisti e
degli ex combattenti. Ci sono persone che hanno delle case nella
capitale, ville sulla costa e case in montagna. Possiedono due o tre
automobili, yacht, fuoribordo. Com’è possibile? Si deve stabilire
l’origine di ciò che uno possiede, vedere da dove proviene. Ci sono quelli
che possiedono un alloggio statale e nello stesso tempo hanno in
proprietà una casa abitabile e una villa. Le affittano a scopi di lucro.
Tutta una serie di cose sono state lasciate andare, per cui c’è più
anarchia che democrazia. Il potere è nelle mani di un determinato
numero di persone che hanno intorno a sé, all’esterno e all’interno del
Partito, il sostegno di elementi avversi che occupano diverse posizioni
sociali. Bisogna, non soltanto, cacciarli dal Partito, ma anche
perseguirli. Gli individui che si sono arricchiti a spese del lavoro altrui,
sono nemici della società. Noi dobbiamo restituire i beni di cui essi si
sono impossessati a coloro che li hanno creati. Molti si sono fatti
trascinare nella corsa al denaro. La fisionomia morale del comunista
purtroppo non è più quella di una volta. Oggi, con uno sviluppo interno
così movimentato e uno internazionale complicato, bisogna comportarsi
in modo da guadagnarsi il rispetto, la stima e la fiducia. Bisogna che
gli atti e il comportamento siano conformi a quanto si dice. Certamente
questa non è la sede adatta per parlare di spostamenti del personale da
compiere negli organi dirigenziali. Questo è vostro dovere. Sono convinto
che lo potete fare! -
Così parlò Tito, apertamente! Questa ultima stoccata alla
Lega Comunista Jugoslava e ai potenti, inflitta senza mezzi
termini, riportata dal quotidiano Vjesnik con tutti i punti e le
virgole, creò una vera euforia a Dvori e in mezzo al popolo.
All’inizio, per parecchi mesi, la Lega Comunista fu come se
fosse scomparsa. Visse in un tono basso, curandosi le
provocate ferite, per il momento, solo dalle parole di Tito.
C’era da chiedersi quando sarebbe iniziata la pulizia. Cosa
sarebbe successo? Perché qualcosa doveva cambiare. I primi
emendamenti della Costituzione, nella maggior parte delle
organizzazioni economiche, erano avviati. Quello che era
difficile da smuovere era il monopolio statale della Banca
Federale e delle organizzazioni politiche. Dopo le aperte
raccomandazioni di Tito e alla fine le richieste di togliere di
mezzo quanti proseguissero a non adeguarsi alle nuove leggi,
ci fu come un vuoto.
Né Belgrado, né la Lega comunista fecero alcun passo.
Si andò avanti così per più mesi.
Ampiamente discussi e resi pubblici gli emendamenti della
nuova Costituzione, che sarebbero diventati operanti solo
dal ‘65 fino a tutto il ‘70, il compito del segretario Babić era
finito in quella direzione. Si preparava per lui un impegno
maggiore a Belgrado. Tito lo voleva vicino. Zoran Babić
insisteva per passare alla carriera diplomatica, professione
per la quale aveva studiato, sempre richiesto e che gli era
stata promessa alla fine dell’attuale impegno.
L’Ufficio Stampa della Presidenza del Governo Croato, al
compimento della preparazione e promulgazione della nuova
Costituzione, sarebbe rimasto un ufficio consultativo senza
necessità della presenza della persona che l’aveva elaborata.
Zoran mi chiese se avessi interesse nel rimanerci. Era
l’ultimo anno dei miei studi. Se avessi continuato con il
ritmo attuale non mi sarei potuta laureare alla fine di
quell’anno, per cui era opportuno che lasciassi uno dei lavori:
o l’Ufficio Stampa o il Centro Universitario. Il lavoro a
Dvori non mi attirava come lavoro permanente. Inoltre non
ero affatto sicura che le condizioni sarebbero state le stesse
dopo il trasferimento di Zoran. Ci sarebbe stata, come prima
cosa, la richiesta della mia politicizzazione per l’ingresso nella
Lega Comunista, che in realtà già pendeva fortemente sulla
mia testa. E poi, non ero convinta di voler essere relegata per
diciotto ore in un ufficio. Come al solito, decisi che ci avrei
pensato al momento giusto.
Nel frattempo il mio lavoro era diventato ancora più
impegnativo che in precedenza, mentre gli esami
incalzavano. Il quarto anno era abbastanza duro ma,
trattandosi per la maggior parte di esami di letteratura, non
avevo difficoltà né ritardi. Serviva solo molto tempo in più a
disposizione perché la lettura era abbondantissima e io non
ero capace di basare lo studio sulle recensioni o sulle
bibliografie. Studiavo letteratura approfondendo i testi
integralmente, riportando giudizi personali prima di rivolgere
l’attenzione ai saggi critici. Questo era più che normale, per il
mestiere che avrei preferito intraprendere e sulla cui strada
mi trovavo già avviata al Centro Universitario, purtroppo
sacrificata dal lavoro all’Ufficio Stampa della Presidenza del
Governo Croato che aveva le sue valide motivazioni, anche
se lontano dai miei più profondi interessi e prevedibilmente
difficili da raggiungere come mestiere fisso. C’era troppa
gente che scribacchiava senza avere conoscenza delle materie
trattate. La politica dell’appartenenza e del favoritismo era
molto presente nel giornalismo e nella cultura. Per affacciarsi
in quei campi si faceva fatica immane. Se poi non si era
politicizzati bisognava desistere. Non c’era speranza se non
con una fortissima spinta dall’alto. A questo non intendevo
ricorrere, anche se avrei potuto arrivare ad avere
raccomandazioni dopo due anni di lavoro a Dvori.
Certamente si annunciava una svolta importante non solo
nella mia vita privata, ma anche in quella sociale e lavorativa.
A fine giugno avevo dato tutti gli esami e iniziato la
stesura della tesi che doveva essere pronta per la fine
dell’anno. Zoran si preparava per la trasferta a Belgrado. Tito
l’aveva nominato presidente della Commissione Federale
Permanente per i Rapporti con i Paesi nonallineati.
Un’altra volta gli era sfumata la possibilità della vita
diplomatica all’estero, che si aspettava. Io approfittai per
dedicarmi alla tesi e lasciai il lavoro a Dvori. A metà estate
mi giunse la telefonata di Jera. Mi avvisava che Maestro era
caduto e che aveva lesionato l’occhio destro con il quale
ancora riusciva qualcosa a vedere. Era diventato
completamente cieco. Gli amici e il medico curante avevano
subito accompagnato Maestro alla Clinica Oculistica a
Spalato affidandolo a uno specialista, sperando di ottenere
qualche miglioramento. Mi fece sapere anche che certi
spalatini, i Tador, su raccomandazione di Wilma, andavano a
trovare assiduamente Maestro.
Nel frattempo Jera, ogni sabato mattina, prendeva la
piccola nave e raggiungeva Spalato per trattenersi
all’ospedale fino al ritorno di pomeriggio sull’Isola. I Tador,
madre e due figlie, erano sempre presenti. Jera si diceva
convinta delle intenzioni cristiane delle donne, legate alla
chiesa e buone samaritane, secondo il parere di Wilma, che le
conobbe in gioventù per poi dare alloggio alle figlie durante i
loro studi. Era un’amicizia consolidata, sosteneva Wilma, ma
Jera era stupita di non aver mai sentito nulla su di loro.
Appena ebbi la notizia, presi l’aereo e raggiunsi Spalato.
Fisicamente Maestro stava bene, per quanto possa stare bene
una persona completamente cieca e per di più sradicata dal
suo ambiente. Mi feci accompagnare dal giornalista Frane
Juri per poter avere notizie più precise e consigli dal primario
Sokol. Egli non mi nascose che Maestro psicologicamente
aveva ceduto a una pericolosa e fortissima depressione.
- Sembra - mi disse - che abbia cercato di farla finita, facendo
credere di essere caduto dalla finestra.
La permanente presenza di una delle tre donne Tador lo
aiutava a lenire la solitudine. C’era poca speranza di ridargli
la vista. L’occhio destro, durante la caduta, aveva avuto un
totale distacco della retina e il sinistro soffriva per un
glaucoma da troppo tempo per poter essere operato. Il
dottor Sokol intendeva trattenere Maestro in ospedale finché
non si fosse abituato alla sua nuova situazione, ma anche
perché conservava una fievole speranza di poter, con più
interventi chirurgici, rimediare in qualche modo alla ferita
dell’occhio destro. Maestro rimase più di sei mesi nel reparto
di Oculistica dell’Ospedale Militare di Spalato, una struttura
per quel periodo all’avanguardia e la migliore a disposizione,
com’erano d’altronde gli ospedali militari. Tutto ciò grazie
all’interessamento di molti amici che si prestarono a
procurare le migliori cure al loro vecchio Maestro.
All’ospedale era sistemato in una piccola stanza a un letto
con l’aggiunta di una brandina per l’accompagnatore. Di
notte aveva un infermiere fisso. Quell’autunno e inverno
scesi più volte a Spalato. Tra il lavoro al Centro Universitario
e la tesi, il tempo era ridottissimo.
A Natale mi incontrai con Jera a Spalato. Decidemmo di
passarlo insieme a Maestro in ospedale. Nella stanzetta di
Maestro, Jera sistemò piccoli addobbi, preparò il pranzo, i
dolci, i regali. Il pomeriggio ci furono visite a non finire di
vecchi musicisti e amici, che si trattenevano brevemente. Un
saluto, gli auguri, un piccolo regalo, molta commozione. A
sera inoltrata Jera si ritirò nell’abitazione di Frane Juri e io
rimasi a dormire sulla brandina. Parlammo a lungo. Maestro
era lucidissimo. Aveva un unico desiderio: non dovevo
preoccuparmi per lui perché era accudito nel migliore dei
modi. Aveva molta fiducia nel primario oculista. L’assistenza
che riceveva in quell’ospedale era la migliore possibile.
Tornare sull’Isola, almeno per ora, non era pensabile. Io
dovevo concentrarmi solo sull’ultimo esame. Parlammo
anche del futuro. Lo rassicurai che avrei accettato il posto di
insegnante là dove sarebbe stato a lui gradito. Eravamo
d’accordo. Partii rincuorata. Allora non sapevo ancora che
un altro dramma si stava perpetrando. Lo avrei saputo nel
modo più inaspettato e violento parecchio tempo più tardi.
Jera me lo tenne nascosto. Sarebbe stato suo fratello Mate a
raccontarmelo.
XVI. La perdita della Casa in pietra grigia
Dopo il ricovero di Maestro all’ospedale di Spalato, Jera
gli faceva visita regolarmente ogni sabato. Portava la
biancheria pulita, il cibo che gli piaceva, i dolci. Tutto
sembrava aver preso un andamento più sereno. Dopo
qualche giorno incontrò Nika Tador che le disse di essere
amica di Wilma, la quale le aveva raccomandato di accudire
Maestro.
Quando arrivò la pensione di Maestro, Jera la portò a
Spalato per consegnargliela, o comunque sapere cosa farne.
Dopo la scomparsa di zia Marica, Jera maneggiava le risorse
della Casa. Nika Tador prese i soldi senza chiedere cosa ci
fosse da pagare, e lasciò Jera esterrefatta.
Jera non era mai stata ritenuta una semplice domestica,
ma un membro della famiglia da sempre, anche se percepiva
un compenso più che decente, servito a far studiare suo
fratello Mate. Nessuno di loro mai aveva pensato di
assicurare la vecchiaia di Jera. Secondo le buone abitudini
isolane avrebbe finito i suoi giorni nella Casa in pietra grigia,
dove era venuta da ragazzina. In seguito la pensione di
Maestro non arrivò più alla Casa in pietra grigia, ma venne
dirottata all’indirizzo dei Tador. Jera resistette senza aver
avuto alcun mezzo di sussistenza dai Tador per sei mesi,
spendendo i propri piccoli risparmi con i quali ogni sabato
mattina presto si imbarcava sulla vecchia nave Lastovo e
continuava a recarsi all’ospedale di Spalato, e di pomeriggio a
rientrare nella Casa deserta. Durante uno di questi suoi
viaggi Nika Tador disse a Jera che Maestro aveva deciso di
chiudere la Casa in pietra grigia durante la sua assenza, che si
sarebbe protratta. Jera rimase allibita e chiese:- E la piccola?
Sta per laurearsi. Appena libera vorrà venire a casa sua!
La risposta fu:- Non deve con queste domande sconvolgere
Maestro. Si è appena un po’ rimesso. La ragazza è giovane. Non
essendoci Maestro sull’Isola, non avrà più nulla da fare in
quell’ambiente!
La Casa in pietra grigia venne chiusa e Jera spedita dai
suoi vecchi genitori a Brusje. Per di più le fu ordinato di
consegnare la chiave della Casa ai Tador. Jera ne soffrì
moltissimo, ma non ebbe la possibilità di discutere con
Maestro. La signora Nika e le due figlie, sempre presenti
quando arrivava Jera, facevano l’impossibile perché Maestro
non fosse disturbato.
A gennaio discussi la tesi di laurea La comparazione nella
letteratura degli Slavi del sud dopo la Rivoluzione d’ottobre. Tema
scelto in quanto molto contraddittorio in quel periodo, ma
molto interessante per me durante gli anni di studio e
l’attività al Centro Universitario.
Conseguii la laurea e partii per Spalato. Arrivai la mattina
presto. Trascorsi la giornata all’ospedale e ripartii la sera per
Zagabria. Il giorno successivo avevo il mio ultimo impegno
con l’Emissione 5 minuti dopo h20. Finiva il periodo del mio
lavoro al Centro Universitario.
Finalmente ero laureata e disoccupata. Le mie decisioni
dipendevano dalle condizioni di salute di Maestro. Ero
andata a Spalato per dargli personalmente la notizia della fine
degli studi e chiedergli dove avrebbe preferito stabilirsi.
Decisi che mi sarei trasferita in qualsiasi luogo Maestro
avesse scelto. Il discorso fu molto strano. Maestro si
commosse, ma affermò che per lui ormai Spalato era l’unico
posto accettabile per la presenza del medico oculista, del
quale non poteva più fare a meno. Disse anche che io
dovevo pensare al mio futuro e di conseguenza lui si sarebbe
adattato a quello che la vita ancora gli conservava. La cosa più
importante ora era la mia sistemazione. Partii decisa ad
accettare l’insegnamento in un ginnasio provinciale, dove
non avrei avuto difficoltà ad avere l’alloggio statale e
rifugiarmi con Maestro e Jera durante l’anno scolastico per
scendere d’estate sull’Isola.
Quella notte in treno non riuscii a prendere sonno,
malgrado una stanchezza pesante nell’anima. Tutti i miei
pensieri erano contraddittori. Non mi aveva mai attirato
l’insegnamento. Non avevo la mentalità dell’insegnante. Mi
chiedevo cosa in realtà desiderassi e cosa potessi raggiungere.
L’unica strada sicura era l’insegnamento, ma per aspirare a
un buon posto dovevo allontanarmi da Zagabria e attendere
un determinato tempo. Nel frattempo dovevo trovare una
stanza privata e liberare l’alloggio alla Casa dello Studente.
Trovare anche un lavoro temporaneo.
Ebbi fortuna. Trovai una stanza decente in casa di un
avvocato dalmata. Non era nemmeno tanto cara
considerando la sua posizione centrale, ma pretendevano che
dessi lezioni d’inglese alla figlia adolescente. Naturalmente
accettai. Mi rivolsi agli amici del localino Gradec nella Città
Alta. Nicola mi procurò un lavoro nella Matica Hrvatska,
l’antica istituzione letteraria croata,come correttrice di testi
per la stampa di vari mensili informativi. Un lavoro d’ufficio
e di tipografia che potevo svolgere negli orari che preferivo
ed era pagato a ore. Ciò mi permetteva di seguire di mattina i
concorsi per insegnanti al Ministero della Scolarizzazione per
tutta la Repubblica. Le possibilità erano parecchie, le
richieste di professori per il serbo-croato altrettante, ma di
posti buoni dovevo ancora individuarne. Erano tutti per
l’anno scolastico successivo, oppure si trattava di qualche
sostituzione temporanea che non mi interessava. Mandai
documenti a destra e manca. Ebbi un paio di risposte molto
vantaggiose da Zara, da Knin nella Krajina e da Virovitica 173
nella Slavonija. Telefonai all’ospedale per informare Maestro
che avrei scelto Zara perché le condizioni erano abbastanza
favorevoli e l’ambiente da sempre italianizzato, della stessa
cultura e con le stesse usanze dell’Isola.
Mi fu risposto che Maestro aveva lasciato l’ospedale
trasferendosi stabilmente in casa della famiglia Tador.
Immediatamente telefonai a casa loro. Mi rispose Nika
riferendomi, con estrema calma, che questa soluzione era
stata voluta da Maestro. Mi informò che dopo il
trasferimento della figlia Maja a Dubrovnik e il recente
matrimonio dell’altra, Marja, erano rimasti soli lei e il marito.
La loro casa con una stanza resasi libera, il giardino, la
tranquillità del quartiere nella baia Špinut 174 sotto il boscoso
monte Marjan, la presenza dell’oculista, erano state valutate
come condizioni ideali per Maestro. In un primo momento
la notizia così improvvisa, senza alcun avvertimento e con
tutti i particolari già stabiliti, mi sconcertò. Poi montò in me
la rabbia. Chi erano queste persone che fino a sei mesi fa
non conoscevano nemmeno l’esistenza di Maestro, se non
per vecchissimi racconti di Wilma e certi rapporti ancora più
antichi con la famiglia di zia Marica, che spedì Wilma dai
Tador tanto tempo prima?
Come potevano questi estranei voler influenzare la vita di
Maestro, ma anche la mia? Poi mi tranquillizzai pensando
che per il momento quella era l’unica soluzione possibile.
Nel frattempo, mi sarei organizzata. Decisi di scendere
sull’Isola e di riflettere a Casa mia per trovare un’altra
soluzione, per cui non mi fermai a Spalato.
Arrivai sull’Isola con la nave pomeridiana sotto una
pioggia scrosciante e su di una riva completamente deserta.
Un’ansia, come un presentimento cupo, si impadronì di me.
Quasi di corsa raggiunsi il vecchio portone della Casa in
pietra grigia. L’uscio era aperto e l’antico portone sbilenco,
appeso solo su una cerniera. Il primo pensiero fu che Jera,
ora sola, l’avesse trascurata troppo. Poi notai che i fiori del
cortile erano mal ridotti, le rose rampicanti e le viti
rinsecchite, le chianche del cortile e delle scale annerite,
sporche. L’ingresso della Casa era chiuso a chiave. Salii le
scale esterne che portavano alla nostra cucina e aprii la porta.
Mi trovai faccia a faccia con degli estranei. Li conoscevo.
Erano i famigliari di Milatin, il messo comunale.
Non riconoscevo invece la nostra cucina. Eppure qualche
mobile era nostro: l’antica cucina economica, la credenza. Le
persone mi guardavano come fossi un fantasma. Rimasi
impietrita sulla porta aperta senza avere la forza di dire o fare
nulla. Poi mi resi conto che erano spaventati. Si fece avanti
Milatin dicendo:- Cosa vuole da noi, è stato il Comune ad
assegnarci la casa.
- Cosa c’entra il Comune, la Casa è mia! - risposi.
Si fece più sicuro:
- No, signorina, sono venuti dei signori da Spalato, hanno venduto
i mobili di Maestro e consegnato la Casa al Comune perché loro
avevano fatto domanda a Spalato, attraverso l’Unione dei Ciechi, per
far ottenere a Maestro l’alloggio dei ciechi. Non sapevamo che lei non
fosse d’accordo!
Non solo non ero d’accordo, ma non ne sapevo nulla.
- Cos’è successo a Jera? - Milatin mi rispose che Jera aveva
abbandonato la Casa più di sei mesi prima e si era ritirata a
Brusje. Più di tanto non sapeva.
Momenti difficili nella vita ne avevo vissuti, ma credo che
quello sia stato il momento peggiore. Non riuscivo a
pensare, né decidere cosa fare, dove andare. Ero, in tutti i
sensi, per strada. Con la borsa da viaggio in mano, bagnata
dall’incessante pioggia, infreddolita e scossa da uno strano
tremore che mi veniva da dentro e che non riuscivo a
trattenere. Stavo appoggiata alla grande doppia porta con la
vista sul porto. Abbracciai con lo sguardo le vecchie mura
grigie della terrazza. Mi sembravano diverse, così spoglie
senza le loro sedie di vimini, il grande tavolo da pranzo, le
tende da sole raccolte e protette in giornate come quella. Poi
mi balenò il pensiero:- Ora dove vado? A Brusje da Jera? A fare
cosa? E come? La corriera partiva subito dopo l’arrivo della nave. Uscii senza sapere come avessi fatto a scendere le scale di
casa. Invece di prendere la scalinata verso la piazza, salii
verso la Fortezza, attraversai le strette stradine e raggiunsi la
stazione delle corriere vicino alla vecchia centrale elettrica a
Dolac175. La corriera era lì, ferma. Il conducente Duje
giocava a carte nell’osteria a lato. Non era partito perché non
c’erano passeggeri, ma dopo poco avrebbe raggiunto
Cittavecchia, da dove la mattina presto iniziava la sua corsa
giornaliera. Nessuno degli avventori mi chiese nulla. Mi
offrirono un bicchiere di grappa. Credevano fossi stravolta
dal pungente freddo e dalla pioggia.
Faceva già buio quando la corriera giunse nella piazzetta
di Brusje. Pioveva ancora. Bussai alla porta della cucina dei
Tibetovi. Erano tutti seduti intorno allo squadrato focolare
aperto.
Mi accolsero con un misto di stupore e benvenuto. Le
loro domande erano tante, ma non erano sorpresi. Sembrò
loro naturale la mia presenza. Mi fecero cambiare i vestiti
bagnati, asciugare i capelli, mi riscaldarono del latte molto
zuccherato. Alla fine ebbi la forza per chiedere cosa fosse
successo.
- Come, non sapevi nulla?
No! Ero all’oscuro di tutto, anche del fatto che Jera se ne
fosse andata dalla Casa. Poi mi dissero che loro avevano
saputo dalla gente del posto che le tre donne Tador di
Spalato erano venute sull’Isola e in un paio di giorni venduto
i mobili e tutto quello che la gente volesse comprare. E che
comprò, considerando i prezzi. Quando Jera scese in città
non aveva trovato più nulla, e la famiglia di Milatin si era già
stabilita nella Casa in pietra grigia.
Jera piangeva sommessamente. Non poteva credere che
io non fossi stata informata di nulla. E non volle aggiungere
particolari. La situazione era già tristemente pesante senza
stare a sezionarla ulteriormente. Il fratello di Jera che si
trovava a Brusje per le vacanze scolastiche invernali,
aggiunse quello che Jera e sua madre non erano capaci di
raccontare: il fatto che i Tador avessero lasciato Jera senza
un soldo, trattenendo l’intera pensione di Maestro senza
avere alcuna spesa; il fatto che avessero subito fatto richiesta
per il supplemento della pensione per l’accompagnatore,
nella persona di Nika Tador e la richiesta di un alloggio
all’Unione Ciechi con l’offerta della Casa in pietra grigia in
cambio, come se Maestro fosse da solo senza famigliari
domiciliati in quel luogo. Era bene informato e incredulo,
come lo era la persona che gli aveva raccontato gli
avvenimenti. Mi raccontò che nel tragitto sulla nave da
Spalato all’Isola aveva incontrato Vinka Palafava, l’addetta
all’Anagrafe del Comune, che in due ore di viaggio riferì con
moltissimo sconcerto il modo di fare dei Tador con Maestro.
Conoscendo bene Maestro si chiedeva perché agissero
queste persone estranee e non quelle che gli erano state da
sempre vicine ed erano parte della sua famiglia! Per
l’appunto Jera, suo fratello Mate, persona colta e molto
vicina a Maestro, altri amici isolani come Frane Juri, Jozo
Kirgo, il direttore della Scuola Superiore Cittadina, l’ex
giudice Kasandri, lei stessa, vecchi musicisti dell’Orchestra
Municipale. Come mai Maestro non si era rivolto a nessuna
di queste persone che gli erano state vicine per
cinquant’anni? Perché tutto era fatto nel più assoluto
segreto? Se questa era la volontà di Maestro, perché non
l’aveva espressa a Jera? Perché anche lei da un bel po’ di
tempo non poteva più vederlo? Dov’ero io? Dovevo
laurearmi, ma da me non arrivavano notizie e lei si chiedeva
se non fosse il caso di rintracciarmi. Sul vecchio posto di
lavoro non mi si trovava più. Avevo lasciato il lavoro e
anche l’alloggio alla Casa dello studente. Incontrato Mate,
intendeva attivarlo a Zagabria per rintracciarmi e verificare le
informazioni che aveva avuto dagli Uffici Regionali a
Spalato, e delle quali nessuno era al corrente sull’Isola.
Ora che ero arrivata sull’Isola, Mate si offrì di
approfondire i fatti, ma più di tutto di cercare di risolvere il
problema della Casa in pietra grigia, dalla quale ero stata
allontanata in modo illegale, e tutto il resto, inclusa la storia
dell’accompagnatore fisso nella persona di Nika Tador,
un’estranea. Secondo la legge a Maestro spettava, come
invalido di lavoro, l’aumento della pensione del cinquanta
per cento per l’accompagnatore fisso in quanto non vedente,
ma non anche l’alloggio perché possedeva casa propria e una
famiglia. Decisi subito di partire per Spalato. Mate mi
accompagnò.
I coniugi Tador ci ricevettero con sostenuta cautela.
Abitavano in una piccola casa grigia nel quartiere del cantiere
navale in espansione, alle pendici della pineta del monte
Marjan. La casa, attorniata da un giardino abbandonato, era
in mezzo al cantiere delle nuove costruzioni. Evidentemente
attendeva l’abbattimento, come più o meno quasi tutte le
vecchie case della zona. Trovammo Maestro sereno. Mi
sembrò quasi anestetizzato. Era alloggiato in una piccola
stanza nella quale c’era spazio giusto per il letto, un
comodino, una sedia e il pianoforte. C’erano inoltre una
cucina abitabile e un’altra stanza. Tutto molto modesto. Ci
offrirono il pranzo, che accettammo per renderci conto del
clima che regnava. Era ovvio, Maestro veniva accudito bene.
Aveva tutto quello che gli serviva. E gli serviva poco.
Non vedeva l’ambiente. Dal giardino polveroso e ridotto
male sentiva il rumore del mare, il fruscio delle fronde dei
pini. Realizzammo subito che i Tador, da vecchi
commercianti di modeste condizioni, impoveriti, erano
ridotti quasi senza mezzi di sussistenza. Maestro era la loro
assicurazione sulla vita. Mate mi disse subito che
l’abbattimento della vecchia casa dava ai Tador il diritto
all’alloggio statale, ma la presenza di Maestro e la domanda
d’alloggio
significava
un’abitazione
più
grande.
Accennammo appena ai problemi con Maestro. Lui
dimostrò una rassegnata insistenza nel ripetere in
continuazione di - stare bene, anzi molto bene.
Quando introdussi l’idea di trasferirsi insieme a Jera a
Zara, dove avrei avuto l’impiego di insegnante al ginnasio,
Maestro entrò in agitazione. Con molta enfasi disse che alla
sua età non erano più possibili un cambiamento e altre
novità. Quella era la sua decisione. Ci rendemmo conto che
Maestro si riteneva accudito e per questo sereno. Tutto il
resto anche per me era di minore importanza. Ero io rimasta
senza fissa dimora. Potevo fare causa ai Tador per aver
sfruttato le condizioni psicologiche particolari di Maestro sia
per accaparrarsi l’accompagnamento, che per il cambio
dell’alloggio e la cancellazione del mio domicilio, il che aveva
inoltre dell’assurdo. Infatti, non ero più domiciliata sull’Isola,
ma ero ancora nell’elenco comunale degli aventi
diritto/dovere al voto. Tutto ciò non aveva senso. Per
quanto riguardava la mia situazione decisi di tornare
sull’Isola al Comune e cercare di capire cosa fare.
Dopo una legislazione saltata, mandato a riposo, era
tornato al potere come Sindaco un personaggio
chiacchierato e artefice di moltissimi abusi e grosse
irregolarità. Andai a chiedere quali fossero le sue intenzioni,
in quanto primo cittadino, in merito al fatto che il Comune
avesse permesso lo scambio della nostra casa storica con un
alloggio in un altro comune. Inoltre, secondo la legge, gli
invalidi usufruivano del diritto all’alloggio da parte
dell’Unione Ciechi, ma solo quelli che non avevano una
propria dimora! Non per Maestro, che la casa l’aveva. Non
era un nullatenente. Molto beffardo, il grande Sindaco mi
rispose che il domicilio per Maestro era stato semplicemente
trasferito a Spalato e nessuno mi proibiva di unirmi a lui.
Quella era la mia famiglia e l’alloggio era assegnato per tre
persone: capo famiglia, un familiare e l’accompagnatore.
Appunto per tre persone, non per i famigliari, ma per i
Tador!
- Secondo la legge è tutto in perfetto ordine - disse.
Come sempre, pensai.
Quel giorno sull’Isola sarebbe stato l’ultimo. Non avrei
più messo piede su quella terra per più di quindici anni.
Scendevo regolarmente a Spalato. L’unico mio pensiero era
la serenità di Maestro. Per suo quieto vivere, mantenni
rapporti sereni con la famiglia Tador.
In un paio di occasioni ritornai sul discorso del
trasferimento di Maestro, ma ogni tentativo rimase
completamente negativo. Un giorno Maestro mi chiamò
nella sua stanza e disse:- Io non andrò più via da questa famiglia
che si prende cura di me. Lo so che hanno il loro tornaconto, ma fanno
le cose per bene. Ho tutto quello che mi serve. La cosa più importante è
che tu possa organizzare la tua vita nel modo che desideri. Non devi
badare a me. Tu hai bisogno della tua libertà! Ora è importante quello
che farai. Io sarei solo d’intralcio!
Qui finalmente capii tutto. Anche nell’estremo disagio
Maestro agiva nel modo che potesse maggiormente liberarmi
da pensieri, preoccupazioni e rinunce.
Maestro non pensò, almeno allora credevo, che la perdita
della nostra Casa in pietra grigia avesse significato per me la
perdita d’identità. Quei vecchi muri grigi conservavano
intatti tutti i miei ricordi, le mie speranze e sicurezze. Ora la
memoria era tutto quello che mi rimaneva. E per lunghi anni
non ebbi il coraggio nemmeno di pensare alla Casa in pietra
grigia. Avevo sviluppato una specie di amore-odio verso i
ricordi. Il passato non mi consolava più. Chiusi tutti i
rapporti con l’Isola. La cancellai. La evitai. Volli
dimenticarla, sostituirla con altri luoghi, cercando momenti
che avrebbero riempito i miei vuoti.
Odiai il mio luogo d’origine.
Vidi tutte le trasformazioni della vita di Maestro nella sua
nuova condizione. Abbattuta la vecchia casa con il minuto
giardino, i Tador e Maestro entrarono in un appartamento al
piano terra di un grigio e anonimo caseggiato popolare del
nuovo quartiere, con due stanze, cucina-soggiorno, un
balconcino e la larga strada a lungo sterrata, polverosa e non
completata. Dopo un po’ di tempo arrivò anche
l’appartamento dell’Unione dei Ciechi, quasi delle stesse
dimensioni. Nel frattempo, morto il capofamiglia, Nika
Tador decise di cambiare i due appartamenti con uno
grande, avvicinandosi alla figlia Marja che intanto aveva
avuto due figli maschi ed era diventata una potente dirigente
nella Jugoslavenska Banca a Spalato, perciò la nonna si
sarebbe occupata della prole. In breve Nika Tador e Maestro
si trasferirono in un bell’appartamento avuto in cambio dei
due più piccoli, sulla pendice verso la penisola čiovo176, nella
strada dei nuovi ricchi spalatini, per lo più politici, direttori
di grosse fabbriche, del cantiere navale, delle banche.
Un’antica strada alberata con case moderne condominiali,
costruite per i potenti. Stanze spaziose, ariose, odore di mare
e tigli fioriti, balconate soleggiate e tranquille. Mi misi l’anima
in pace. Maestro non si sarebbe più mosso da quell’ultima
casa e i nipoti della Nika sarebbero cresciuti con la nonna e
vicino a Maestro, strimpellando sul vecchio scordato
pianoforte, sul quale anche Nika pretendeva lezioni di canto,
convinta di avere una bella voce e di fare una cortesia a
Maestro, occupando il suo tanto tempo libero. Considerando
l’insieme, Maestro stava bene e questa era la cosa più
importante. Ma la vera padrona di tutte le anime in quella
casa non era Nika, ma sua figlia Marja; la madre dei due
pargoli. Una donna politicizzata che controllava tutti gli
avvenimenti. Li aveva elaborati con lo stesso spirito
d’impegno e cupidigia senza scrupoli con il quale dirigeva il
Reparto dei Crediti Bancari che l’avrebbe fatta diventare
amica molto ambita e alla fine sprofondata tra quei membri
del Partito Comunista che Tito indicò come persone non
gradite e di mancato profilo morale comunista. La sua scaltrezza e
durezza erano a dir poco sconcertanti. Facevano paura.
Cercavo di mantenere una ragionevole distanza da lei,
evitando gli scontri che provocava, per mettermi nella
situazione di non poter far visite a Maestro. Dopo breve
tempo compresi. Marja faceva il lavaggio del cervello a
Maestro. Ma nonostante le parole sdolcinate che gli
rivolgeva, Marja non lo aveva mai convinto. Erano il tono di
voce, le espressioni che mal celavano la sua rabbiosa natura.
Mi resi conto che Maestro la temeva. Con quella rara
intuizione dei ciechi, riconosceva le persone malfidate dalla
loro voce, da una certa energia negativa che emanavano.
Inoltre Marja non nascose mai l’antipatia che nutriva per me.
Un modo astuto per tenermi più possibilmente lontano. Era
più che sicura che non avrei insistito su alcuna cosa che
avrebbe potuto mettere Maestro in agitazione. Mi rendevo
conto che anche la mia presenza gli toglieva la serenità.
Maestro aveva timore che io dicessi qualcosa che potesse
infuriare Marja, cosa che succedeva spesso e senza ragione.
La sua malvagità le faceva immaginare pensieri negativi in
ogni miogesto. Che Maestro desiderasse profondamente
credere a quelle persone estranee, me lo confermò un suo
discorso. Un giorno mi disse:- Tu devi credere alla signora Nika,
è una donna buona e mi è molto affezionata. Pensa, ha voluto che
comprassi la tomba al nuovo cimitero di Spalato attaccata alla loro
tomba, dove hanno sepolto il signor Tador e dove sarà seppellita lei un
giorno. Rimasi molto stupita. E glielo ricordai. Tutta la vita aveva
detto che la vista dal camposanto della collina di San Nicola
era l’angolo più bello, con quella visione sulle Isole
Spalmadori e sul canale. Un posto che un giorno sarebbe
stato suo per l’eternità. Cos’era cambiato così tanto da
avergli fatto abbandonare questo desiderio di sempre?!
Mi rispose:- Questa è ora la mia vita. Chissà? Quando sarà
finito tutto in questo mondo, potrò anche tornare in quei posti che ho
amato tanto. Magari potrai farlo tu per me.
E non volle più proseguire. Cambiò discorso. Capii
moltissimo da quelle poche parole. Maestro non intendeva
lasciare quella gente. Dipendeva ormai da loro. Si sentiva
protetto. Voleva essere protetto. Aveva bisogno della
sicurezza e loro avevano saputo fargliela intravedere. Per me
era una consapevolezza amara e triste. Io purtroppo, non
avevo saputo dargliela. Non si fidava di me? Oppure, come
sempre, aveva valutato e scelto quello che per me era più
importante: il mio futuro, non il suo. Riflettendo più tardi
decisi che al suo sacrificio, dovevo contrapporre i miei sforzi
nel raggiungere qualcosa di positivo. Ma cosa? La mia
solitudine era ancora senza punti fermi al di fuori della Casa
in pietra grigia. Ancora evitavo le amicizie e l’amore. Gli
unici legami erano quelli connessi al lavoro. Perciò, quella
era l’unica strada da proseguire.
XVII. Matica Hrvatska - epurazioni in Croazia
A marzo iniziai a lavorare all’Istituto Editoriale
dell’Accademia Jugoslava delle Scienze e delle Arti,
appartenente all’antica istituzione letteraria croata, la
Matica177 Hrvatska. Era un inizio da vera gavetta. Un periodo
di duro tirocinio. Ma il solo fatto di essere appena laureata e
già entrata nel Santuario della cultura nazionale mi imponeva
un impegno non indifferente. Mi sentivo anche lusingata per
essere stata accettata. Basandomi sugli amici di Nicola del
localino Gradec178, quasi tutti appartenenti alla Matica
Hrvatska, ritenevo l’ambiente molto selettivo. Non
conoscevo i ranghi bassi nei quali ero approdata, la parte
oscura degli operatori, con i quali era del tutto naturale dovessi
convivere malgrado fossi laureata, per il solo fatto di essere
giovane e senza appoggi politici. Mi immersi nel lavoro. La
maggior parte degli operatori lavoravano alla sistemazione di
un’infinità di materiale che sarebbe stato pubblicato
dall’Istituto Editoriale della Matica. Veri e propri correttori
di testi erano insufficienti per la mole di lavoro che arrivava,
ma anche per operatori non specializzati, sistemati per meriti
politici. Presto mi resi conto che non era solo quello il
problema. Il lavoro subiva ritardi, dirottamenti, a causa della
mancanza di responsabilità personale, come se tutto fosse
programmato per la peggiore riuscita. Purtroppo quello che
in un dato momento era interessante, se lasciato da parte,
perdeva di attualità. Vigevano strane abitudini. Nemmeno
poi tanto strane, se si riscontravano regolarmente quasi in
tutti i settori del lavoro. Infatti, un po’ tutti arrivavano con
mezz’ora di ritardo, facevano la pausa dalle nove e trenta alle
dieci e trenta, cioè un’altra ora sottratta al lavoro; alle tredici
salivano al vicino mercato di Dolac 179 a fare la spesa, si
ritiravano alle quattordici, marcavano il cartellino d’uscita dal
lavoro e sulle scrivanie rimanevano plichi di manoscritti con
l’annotazione dare precedenza!. Dopo un paio di giorni
sparivano sotto altri fascicoli accumulati. Tanto
menefreghismo era inconcepibile per me. Anche se non ero
capace di pensare male, presto mi resi conto che a pensare
meno bene degli sconosciuti non si sbaglia mai. Sembrava
tutto un atteggiamento assolutamente inconsapevole, eppure
era autogestito. Il dirigente del reparto per la preparazione
dei testi di vari tipi di mensili, un comunista sfegatato della
Krajina dalmata, era un ignorante inaffidabile, incapace e
presuntuoso. Non aveva le capacità per mantenere un ordine
logico, tanto meno organizzare il lavoro, oppure non lo
voleva? I suoi meriti erano politici. Un disastro. Pensai agli
insegnamenti delle conferenze dibattito sull’autogestione,
l’autocritica, le responsabilità personali. Ero io che non le
trovavo? Oppure erano volutamente ignorate? Ero l’ultima
arrivata e non mi sembrò il caso di fare presente certe grosse
manchevolezze. Presi il lavoro sul serio e quando notavo
qualche fascicolo con la scritta urgente lo prendevo e sbrigavo
il lavoro. Arrivavo quasi sempre prima degli altri. Il mio
orario andava dalle sette alle quattordici con pausa di
mezz’ora alle dieci e, non essendo nell’organico ma a
contratto, ero pagata a seconda di quanto producevo, l’unica
novità introdotta nel lavoro autonomo previsto dalla nuova
Costituzione per pochi precari. Successe così che la maggior
parte del materiale letterario, quello che non mi creava
problemi, non rimaneva più sulla scrivania. Il responsabile
non se ne rendeva nemmeno conto che certi testi passavano
in prima linea. Se ne accorsero in direzione. Si seppe che i
manoscritti letterari finiti nelle mie mani in breve tempo
erano pronti e senza ritardi per la stampa. Da una parte
questo mi portò approvazione, ma come era prevedibile
anche scherno. Poco importava che, a differenza degli altri
operatori fissi, io fossi pagata per il lavoro effettivamente
svolto e che pertanto era del tutto naturale che cercassi di
lavorare senza perdere tempo. Per questo mi guadagnai la
fama derisoria di stacanovista. Il lavoro svolto con evidente
passione e volontà mi fece invece guadagnare l’approvazione
e l’amicizia di personaggi legati all’Accademia di Zagabria. Si
approfondì anche il mio rapporto con gli amici di Nicola
che, per gli impegni del lavoro a Dvori, avevo quasi
abbandonato. Alcuni di loro facevano parte del Direttivo
della Matica Hrvatska. Più volte cadde il discorso sul lavoro
nell’Istituto Editoriale. Il menefreghismo dilagante era ben
noto ed era ritenuto un problema che richiedeva un’urgente
risoluzione. Si disse che si doveva cercare di estromettere
quanti frenavano la normale attività. Gli operatori inadatti
ma imposti dal Partito dovevano essere sostituiti. Ma come?
In quel clima di quasi generale disimpegno era ancora
impossibile licenziare gli elementi negativi. I lavoratori,
sebbene le raccomandazioni di Tito, erano sacri, se poi
anche membri del Partito, allora intoccabili. Distinguersi per
l’impegno non era difficile, dal momento che nessuno faceva
niente. Pericoloso però sì. Si rischiava l’isolamento. Se la
situazione non mi stava travolgendo dipendeva dal fatto che
avevo buoni rapporti con la maggior parte dei personaggi
che avevano voce in capitolo alla Matica, ma anche per
dimostrato lavoro precedente alla Presidenza del Governo
Croato.
Dopo meno di sei mesi ottenni una promozione. Entrai
nella redazione del periodico Foro, la rivista della Sezione di
Letteratura Contemporanea dell’Accademia delle Scienze e
delle Arti, ritenuta di notevole importanza perché
precorritrice di tutto il nuovo che si annunciava nella
letteratura nazionale. Abbandonai l’ufficio al piano interrato,
dalle cui mezze finestre protette da sbarre di ferro si
vedevano scorrere solo i piedi dei passanti sul marciapiede.
Passai al primo piano nobile, con le varie redazioni. Dal primo
piano a quello di massima importanza, c’erano da salire altri
quattro piani fino all’ultimo, con i finestroni sopra i tetti
della Città Bassa e verso la Passeggiata Strossmayer nella
Città Alta. La vista del primo piano si posava sui fili elettrici
del tram. Un bel cambio di visuale!
Il lavoro nella redazione del Foro era specifico, letterario e
completamente formulato, partendo dalla correzione
obbligatoria dei testi, tagli, verifiche di vario genere e
incontri con gli autori, ricerche bibliografiche, fino alla
consultazione con il capo redattore, il passaggio alla
tipografia e l’ultimo controllo. Prima di intraprendere questo
tipo di lavoro, ero convinta che gli autori di testi letterari
fossero tutti eccezionali conoscitori della lingua nella quale
scrivevano. Con mia sorpresa notai che non era affatto così!
Ciò mi consolò, perché per quanto riguardava la grammatica
e la sintassi spesso dovevo ricorrere ai dizionari e alle regole
linguistiche. Ma la materia letteraria contemporanea, oltre ad
aggiornarmi sugli avvenimenti, mi fece conoscere molti
personaggi emergenti e scoprii molti avvenimenti nella
frequentazione assidua della Biblioteca dell’Università di
Zagabria, dell’Archivio Nazionale e cominciai ad apprezzare
sconosciute realtà. Ero diventata una cittadina responsabile, nel
senso che diventavo adulta grazie a un lavoro che mi
permetteva di essere al passo con i tempi. Anche la mia
collocazione sociale stava prendendo connotati ben precisi.
Si poteva tranquillamente affermare che appartenevo alla
giovane intellighenzia capitolina. La mia vita stava prendendo
definitivamente quella svolta positiva che desideravo.
A Zagabria Nuova, oltre il fiume Sava, si stavano
costruendo palazzi per i lavoratori culturali, cioè quelli che in
qualche maniera erano legati ai Ministeri dell’Istruzione e
delle Arti, all’Accademia e la Matica Hrvatska a capo. Con
un po’ di fortuna sarei entrata negli elenchi per
l’assegnazione dell’alloggio.
Molti amici mi suggerivano di rivolgermi al presidente
Bakarić a chiedere il suo intervento sull’Isola per i fatti
riguardanti la Casa in pietra grigia. Altri erano convinti che
dovessi avvertire Zoran Babić dell’accaduto. Ma io mi
chiedevo che possibilità avessi d’intraprendere una qualsiasi
azione quando Maestro aveva avuto in cambio l’alloggio a
Spalato dove anche io avevo diritto al domicilio?
Ufficialmente tutto era ben congegnato e in ordine. Quello
che io desideravo era la mia vecchia Casa, ormai persa, finita
in mano ad altra gente in modo assolutamente illegale.
Zoran si faceva vivo dal lontano Oriente, dove con Tito
perorava la causa dello sviluppo dei rapporti internazionali di
nonallineanza. I giornali erano pieni di notizie in cui il
Maresciallo era ricevuto con onori e simpatia. Le lettere di
Zoran erano leggere e spiritose. Esprimevano una grande
dose di ironia. I fatti ufficiali erano beatificati dai giornalisti
accompagnatori. Zoran ne ricavava la parte divertente. Ogni
sua lettera, anche se per niente frequente, mi riempiva di
allegria. Sentivo che desiderava proteggermi anche da
lontano. Mi mancava la sua forza di persuasione e la
sicurezza che sapeva trasmettermi nei momenti di dubbi e
d’incertezza. Non è che Nicola non lo ritenessi un amico, ma
purtroppo era tanto diverso. Avevo l’impressione di dover
essere io a proteggere lui. Nicola era, in tutte le sue
incertezze e nel suo vagare, di un idealismo estremo. In una
lettera Zoran espresse il suo parere non molto lusinghiero
sul lavoro alla Matica Hrvatska, finché non passai alla
redazione del Foro. Era chiaro, conosceva bene le istituzioni
capitoline e le fazioni esistenti, esattamente quello che
sfuggiva a Nicola, per cui si trovava sempre in mezzo a
discussioni che si potevano considerare contrarie al sistema
prestabilito. Ma tanto si sapeva. Nicola e il suo gruppo di
amici scrittori erano considerati quasi avversi alle direttive
della Lega Comunista. Li salvava solo il passato di autentici
patrioti e vecchi combattenti, ma sempre di più le loro
posizioni nei libri, nella stampa quotidiana, nei dibattiti,
esprimevano un aperto dissenso alla politica sociale e
culturale. Si notava un certo movimento che prendeva
sempre più spazio nell’opinione pubblica croata che
insinuavano partisse dalla Matica. Dai suoi vertici. Il
movimento di massa popolare, detto masrok, con un brutto
acronimo di stampo leninista, diventò all’inizio degli anni ‘70
sempre più chiassoso e audace. Innervosì i serbi e le altre
repubbliche perché reclamava una totale autonomia della
Croazia. Tutto ciò veniva dai leader comunisti croati, che
sembrava non fossero consapevoli di essere sull’orlo del
baratro. Da loro prese le distanze anche Tito e si giunse a
una vera e propria purga, non paragonabile a quelle
staliniane, ma pur sempre traumatica. In Croazia venne
politicamente decapitata quasi l’intera leadership e epurate,
gettate in carcere o licenziate, migliaia di persone. Dal ‘65
anche sulla vita culturale croata iniziò a calare una plumbea
cappa di ortodossia e di servilismo. Ne fu vittima la Matica
Hrvatska. Nicola, con buona parte degli amici del vecchio
localino Gradec, fu condotto nelle patrie galere.
All’improvviso, durante la notte. Una cosa inaudita e
terribile. I comunisti serbi occuparono tutti i posti chiave
ancora
liberi
della
Lega
Comunista
Croata,
dell’amministrazione e dell’economia. Non ci fu
un’incriminazione o un vero processo. Il gruppo degli
scrittori croati, per motivi di lavoro legati alla Matica, furono
semplicemente accusati di aver tramato contro la
Federazione. I giornali scrissero che facevano parte del
Comitato dei Cinquanta, che operava in clandestinità.
Un’assurdità mai dimostrata. Infatti, erano solo firmante del
Manifesto puramente linguistico, ma che poteva
rappresentare anche il segnale che la società croata aveva
superato il trauma dell’esperienza ustaša e mirava ad
affermare il proprio ruolo nella Federazione Jugoslava.
L’incidente legato al Manifesto degli intellettuali fu risolto
con un intervento dei vertici, con la convinzione che
bastasse una bacchettata sulle dita per mettere le cose a
posto. Ma a Zagabria si stava affermando al potere un
gruppo di politici relativamente giovani che, senza dirlo
espressamente, si ponevano la questione dei rapporti tra la
Croazia e le strutture federali, pretendendo per la Repubblica
maggiori possibilità di disporre dei frutti del proprio lavoro e
della valuta occidentale che gli emigranti croati mandavano a
casa e che grazie al grande boom turistico veniva guadagnata
in Dalmazia e Istra. Per quanto tali richieste si inserissero in
un discorso di rinnovamento e di ristrutturazione politicoeconomica attraverso l’autogestione ormai avviata, i serbi
l’avvertirono come un attacco alle loro posizioni privilegiate.
La tensione che ne nacque imbavagliò la Croazia. Molte
persone di mia conoscenza rimasero senza lavoro, per la
maggior parte intellettuali. Molti lasciarono volontariamente
la capitale dietro consiglio ufficiale. Scrittori, poeti, giornalisti,
ancora non compromessi, si ritirarono in provincia per fare
gli impiegati. I loro scritti erano all’indice. Non si
pubblicavano più. Una parte venne messa in pensione
anticipata calcolando la partecipazione alla guerra partigiana.
Altri passarono a lavori umili, in qualche ufficio.
Foro non uscì per un anno intero e cambiò capo
redazione e organico. Decisi di andarmene prima di essere
licenziata. Ma dove? Per mia fortuna ci fu un torneo
internazionale di tennis e Dean, il tennista, mi annunciò la
sua presenza a Zagabria. Durante gli ultimi cinque anni ci
vedevamo ogni volta che veniva nella capitale. Tra noi era
rimasta una profonda amicizia. Ci legavano regolarmente
lettere, messaggi e molto affetto. A cena, dopo il torneo,
raccontai quello che non potevo scrivere. Dovevo trovare un
altro lavoro. Dean, senza un attimo di esitazione, disse:
- Vieni a Belgrado! Conosco tanta gente. Ti sistemerai subito! Rimasi interdetta. Come potevo andare a Belgrado, in
mezzo ai serbi, io croata e per lo più avendo lavorato prima
alla Presidenza della Repubblica Croata e poi alle dipendenze
della Matica Hrvatska? Non espressi le mie perplessità.
Avevo poche possibilità di scelta. Decisi che, se fosse andata
male, mi sarei rifugiata in provincia a insegnare, come tanti
altri. Purtroppo questo doveva essere il mio futuro
prossimo. Avrei fatto tutto velocemente, senza possibilità di
ripensamenti. D’altronde a Belgrado avevo un altro amico,
Rade il vignettista. E poi anche Zoran Babić non sarebbe
stato perennemente in viaggio sulla nave Galeb. Anche Tito
sarebbe, almeno per breve, stato fermo in Patria. Tutti i miei
averi, in un paio di scatole di cartone, li lasciai dalla madre di
Dunia. Li avrei ritirati appena sistemata. Presi il treno e partii
per una nuova avventura. Se ero confusa? No! L’imprevisto
era la mia vita. Un po’ faticoso e poco adatto alla mia natura
abitudinaria, ma era così. Dovevo accettare i cambiamenti.
Tanto non avevo più radici da nessuna parte. Ero disposta a
cambiare ogni cosa, anche certe vecchie convinzioni. Quante
persone rimangono fedeli ai vecchi valori come la passione
per un determinato lavoro, al senso di profonda
responsabilità verso di esso, alla mitezza, all’umiltà? E la
disponibilità verso gli altri, la comprensione, non vengono
distrutte dalla violenza della vita? Avevo ancora qualcuno di
questi valori? A Zagabria non lasciai nessun mio recapito.
Non c’era nessuno che aspettasse mie notizie. Ero in
procinto di compiere un salto nel buio. Avevo solo la
speranza di un lavoro procurato da una persona che
conoscevo attraverso simpatiche lettere e qualche breve, anzi
brevissimo, incontro tra un torneo di tennis e l’altro.
Ricordai che Rade il vignettista era stato più a lungo presente,
in una comunque fugace parte della mia vita, nei giorni sulle
montagne bosniache durante la avventurosa raccolta di
Poesia Epica Popolare. Con Rade e Dean avevo in comune
splendide serate sulla terrazza della Casa in pietra grigia. A
questo pensiero un dolore acuto mi attraversò, e non solo la
mente. Al fondo della gola mi strinse un crampo che senza la
mia volontà si espanse prendendo tutta me stessa,
diventando uno spasmo.
Viaggiavo nella notte con un treno che avanzava verso il
nulla. E anche dietro di me lasciavo il nulla. Una
consolazione l’avevo. Quelle due persone verso le quali
stavo andando conoscevano il magnifico posto dal quale
provenivo. L’avevano ammirato e amato insieme a me.
Sarebbe consistito in questo il loro aiuto? Nel fatto di
conoscere la mia origine, il mio mondo?
XVIII. Belgrado – Multi Export-Import
Alla brutta, vecchia stazione ferroviaria di Belgrado mi
aspettavano Rade e Dean, così diversi e così simili, uno
elegante e serbo puro, l’altro trasandato in apparenza e
mezzo musulmano. Entrambi bruni, rassicuranti e
immediati, sinceramente disponibili. La macchina di Dean,
una piccola BMW decappottabile bianca, era parcheggiata
oltre il marciapiede. La stazione e il vicino mercato generale
facevano a pugni con la bella macchina in mezzo ai rifiuti.
Mi sembrava troppo coraggioso averla messa in vista. Saliti
in centro, le strade si fecero larghe, con un traffico caotico e
variopinto, finché non ci inoltrammo lungo un vialone
alberato con ville attorniate da immensi giardini più o meno
curati. In una di queste abitava la famiglia di Dean. Il padre,
generale della Armata popolare; la madre, non so cosa al
Governo Federale; la sorella, che studiava in Inghilterra.
Nessun’altro c’era mai a casa loro, a parte una cameriera di
mezza età, d’aspetto zingaresco, ottima cuoca, disordinata e
con la sigaretta sempre accesa. Dean disse che la casa e Vera,
la cuoca zingara, erano a mia disposizione. La grande villa non
era né bella, né curata, come se fosse un posto di passaggio.
Mi riposai e il giorno successivo Dean mi accompagnò da un
avvocato in centro. Allora non sapevo nulla dell’avvocato
David Fila, un potentissimo ebreo che si occupava dei più
grossi casi penali dell’intera Serbia. Mi chiese solo cosa
sapessi fare. Ero laureata in Letteratura slava e lingue. Non
sapevo fare nulla. Dopo quella prima volta in ufficio
incontrai il potente avvocato più volte al Club degli Scrittori,
dove mi dava appuntamento per prendere insieme un caffè,
una cioccolata. Presto mi resi conto che lì si incontravano
tutti quelli che contavano qualcosa nella capitale.
David Fila mi esibiva e presentava. Se doveva piazzarmi,
doveva farmi conoscere! Poco meno di un mese dopo,
David Fila mi disse di rivolgermi alla Multi Export, una
grossa ditta di commercio con l’estero. Mi ricevette la
segretaria della direzione e pochi giorni dopo iniziai a
lavorare come interprete per i paesi dell’est. Mi misero
davanti a una macchina, in quel tempo molto moderna: un
teleprinter. Dovevo comunicare direttamente con i partner
dall’altra parte del mondo: Russia, Cecoslovacchia, Polonia.
Conoscevo le lingue, anche l’inglese, ma scrivevo male a
macchina e pertanto comunicavo anche male.
Trovato il lavoro decisi di non approfittare oltre
dell’ospitalità di Dean, anche se nessuno, al di fuori di lui e
Vera, si era accorto della mia presenza in quella casa sempre
deserta. Cercai una stanza. Erano tutte inadatte o troppo
costose. Rade mi offrì la sua mansarda, dove si ritirava
quando voleva dipingere, ultimamente quasi mai per gli
impegni con i giornali nei quali lavorava. Mi procurò una
vecchia macchina da scrivere. Non appena uscivo dal lavoro,
mi compravo qualcosa da mangiare e mi ritiravo in soffitta a
esercitarmi.
La cosiddetta mansarda di Rade era una soffitta nel vero
senso della parola. Per accedere si doveva passare attraverso
una scala di assi e una botola. Spaziosa, con una enorme
finestra inclinata sul tetto, rivolta verso il vecchio
Parlamento e sul boulevard; un vialone largo, alberato e
illuminato. Lo stanzone era corredato da un grande letto di
ferro, il tavolino tipo scrittoio, un paio di sedie, un cavalletto
da pittore, un cassone-baule, armadio, una enorme stufa a
carbone, una piccola cucina elettrica, qualche tazza, un paio
di piatti e bicchieri, un tegame, un bricco di alluminio per il
tè o il latte e, in fondo, la toilette e il rubinetto dell’acqua
nascosti dal paravento di cartone dipinto con colori vivaci. Il
letto era morbido, ricoperto da ruvide coperte di lana e
lenzuola bianchissime.
Per più di un mese non uscii. Dovevo imparare a scrivere
sul teleprinter. Rade e Dean mi trovavano rintanata a battere
a macchina, finché un giorno mi stancai e decisi di rendere la
soffitta più gradevole. Per ora mi andava bene abitare in
soffitta. Ero libera di battere a macchina senza disturbare
nessuno. Mi feci mandare le scatole dalla madre di Dunia.
L’autunno si stava esaurendo e avevo bisogno dei miei
vestiti.
Alla gente della Multi Export dovevo sembrare una
strana persona. Il mio nome d’origine ungherese e slavizzato,
il mio cognome straniero, la parlata in pura lingua letteraria,
non rivelavano le mie origini. La mia solitudine e la
consapevolezza di tutti che era stato David Fila a
raccomandarmi per quel lavoro, con le sue conoscenze che
era meglio non indagare, mi rendevano soggetta a molta
curiosità. Il totale disinteresse che mostravo verso le
sollecitazioni e gli inviti di parecchie persone in azienda, non
facevano che aumentare l’indiscrezione. E poi lavoravo da
sola, appartata e irraggiungibile in un ufficio adiacente a
quello del direttore generale, al quale presto iniziai a servire
da assistente personale. Forse perché ero un’incapace con il
teleprinter, i discorsi che dovevo condurre scrivendo, li
stenografavo per trasmetterli via telefono. Per fortuna avevo
imparato la stenografia durante il lavoro all’Ufficio Stampa.
Il direttore mi consegnava sempre più messaggi da
trasferire telefonicamente, mi faceva prendere appuntamenti
per lui all’estero. Scoprì così le mie doti organizzative, quelle
che Zoran Babić aveva sempre apprezzato, ma anche Maja
Hrubar. Nel frattempo avevo imparato l’uso della micidiale
macchina. Non ero veloce, ma finalmente riuscivo a lasciare
tracce di quello che telefonicamente stabilivo. Rimanevo il
pomeriggio dopo l’orario di lavoro per trasmettere i
messaggi del direttore generale, e dopo non molto tempo
anche dei direttori dei vari settori. Quando i dirigenti erano
all’estero, tutte le comunicazioni passavano dalla mia grossa,
brutta macchina. Dopo sei mesi ero padrona del mio lavoro.
Ormai azzardavo anche qualche uscita in mezzo alla
gente; a teatro, manifestazioni sportive. Il nostro trio
divenne sempre più unito. Stavamo bene insieme. Riuscivo a
preparare simpatiche cenette nella soffitta. L’avevo resa
addirittura gradevole, con delle tende che oscuravano il
finestrone, con dei tappeti bosniaci che mi regalò Rade e con
un’infinità di cuscini. Con l’avanzare dell’inverno e accesa la
stufa a carbone, ci disponevamo per terra ad ascoltare
musica sul giradischi portatile regalatomi da Dean. Infatti, da
ogni torneo, specialmente da quelli all’estero, Dean mi
portava i più svariati regali: una teiera, un thermos, un vaso
per i fiori, tovagliette americane, una poltroncina pieghevole,
candele profumate, un foulard di Hermes, dei guanti, un kilt.
Rade invece arredò completamente il grande stanzone e
costruì con un suo amico la doccia e un muro al posto del
paravento di cartone colorato. Mi aiutò ad appendere i suoi
quadri, che a me piacevano molto. Erano paesaggi a
tempera, disegni di uccelli e felini, a china, bei portrait di
bambini, ma soprattutto paesaggi, boschi, fiumi, la Bosna.
Rade conservava una grande nostalgia per la sua Bosna.
Già
in
novembre
Belgrado
si
imbiancò
abbondantemente. Subito sembrò più pulita e meno
rumorosa. Conoscevo poco la città. Non ero attratta né dal
suo aspetto, né dalla mentalità della gente che incontravo per
caso. Le mie impressioni erano senz’altro dettate dal fatto
che non avevo né tempo, né voglia di entrare nell’analisi di
un ambiente nuovo e troppo diverso da quello dal quale
provenivo. Nulla era chiaro in quella città. Non sapevo mai
quando le persone erano sincere e quando fingevano. E se
fingevano, quali erano i motivi? Così al mercato, nei negozi,
sul pullman, in banca; tutti mantenevano un atteggiamento
bonario, quasi intimo, come se mi conoscessero da sempre.
Sarebbe stato anche gradevole se non avesse avuto un
sottofondo di falsa indulgenza. Avevo l’impressione che mi
trattassero, e non solo me, come qualcuno che non riesce a
capirli fino in fondo. Al lavoro ero di poche parole. E meno
parlavo io, più si animavano gli altri, come se rimanessero
nel dubbio se avessi capito i loro messaggi. In realtà è
probabile che la gente volesse essere gentile, ma era anche
senz’altro estremamente curiosa, per cui non si accontentava
di rapporti non necessariamente intimi. Riscontravo una
cortesia troppo invadente. Con Dean avevo più volte visitato
la parte antica della città, la Scadarlija, con i suoi localini e
osterie storicamente frequentate da artisti, con le botteghe
dei vecchi mestieri, le strade ancora piastrellate da piccole
pietre scure squadrate, che nel silenzio della notte facevano
rimbombare i passi dei rari passanti, come fossero zoccoli di
cavalli. Facevano tanto pensare a tempi remoti. A Scadarlija
s’incontravano tutti quelli che contavano qualcosa nella vita
culturale, ma strettamente belgradesi: attori teatrali con nomi
altisonanti, registi del cinema, giornalisti, poeti, scrittori
d’avanguardia, calciatori. Un miscuglio umano variopinto.
Serate allegre, violini zigani; quasi sempre un po’ sopra le
righe; un ambiente con un certo fascino nascosto, ma solo
fino a quando non ci si trasferiva al di fuori di quell’antico
selciato di pietra arenaria. Lì sicuramente era autentico.
Anche Rade frequentava Scadarlija, pur non partecipando
alla sua vita fragorosa. Avevo l’impressione che, come me,
osservasse l’ambiente un po’ dal di fuori. Da vero
mezzomusulmano bosniaco, Rade possedeva il garbo
orientale del quale percepivo la mancanza tra i belgradesi.
Non dico tra i serbi, ma tra i belgradesi con i quali
convivevo. Gli altri serbi non li conoscevo. Un aspetto lo
riscontravo senza dubbio in quella città nuova: il senso
semplicistico nei rapporti che semplici non erano.
Nell’azienda dove ero stata sistemata, progredivo senza
difficoltà. Avevo catturato la fiducia del direttore generale
molto velocemente e di conseguenza dei dirigenti dei vari
settori. Presto mi resi conto che la Multi Export non era solo
una tra le più ramificate aziende commerciali con l’estero,
ma anche la proprietaria di tutti i grandi supermercati della
Serbia e del Montenegro, con la prospettiva di nuove
aperture a Mosca, Praga e Varsavia. La documentazione che
mi arrivava attraverso il teleprinter mi fece conoscere gli
obiettivi più immediati e futuri dell’azienda. Il lavoro
cresceva via via che lasciavo intravedere le mie capacità.
Spesso mi trovavo a esprimere un parere che veniva adottato
come soluzione.
Il direttore generale sempre più mi affidava più impegni
nei quali dovevo decidere autonomamente. Non era
semplice prendere decisioni appropriate. Alla fine mi resi
conto di essere diventata una specie di tuttofare del direttore
generale, e anche degli altri dirigenti che si affidavano a me
se c’era la necessità di risolvere un qualche loro intoppo. In
realtà ogni settore aveva gli uffici e una segretaria che
avrebbe dovuto risolvere le necessità della propria divisione.
C’erano un’infinità di impiegati, tutti presenti, ma non saprei
dire quanto impegnati. L’azienda era strutturata in modo tale
da non farmi capire molto. I settori erano tanti. C’erano la
direzione del commercio estero, con la potente Dora Eban a
capo, e la direzione del lavoro sul territorio nazionale, a loro
volta divisi in svariate sezioni e la direzione dei supermercati,
che erano una decina in quel periodo, con un paio sulla costa
adriatica montenegrina in allestimento.
Il palazzo della Multi Export era un moderno caseggiato
nel centro della Terazije, la centrale direttrice che collegava le
due estremità della città estesa sul fiume Sava, fino
all’imboccatura del Danubio e al monte Avala. Cinque piani
e chissà quanti uffici sovrappopolati. Il secondo piano era
destinato alla direzione generale e alle quattro direzioni
settoriali, l’ultima formata per i supermercati dell’Est, che
per ora era condotta dal direttore generale Mile Jovanić, un
ometto minuto, biondiccio, più simile a un modesto
impiegato di qualche sperduto ufficio che al capo di una
delle maggiori potenze economiche serbe e jugoslave.
In questo santuario del grande commercio, molti
facevano la fila per essere ricevuti: direttori di varie ditte,
commessi viaggiatori, cittadini, politici, ex carcerati, venditori
e compratori stranieri, da est a ovest. Tutti dovevano passare
dalla mia stanza per avere un appuntamento con il direttore
generale. Ero diventata una specie di assistente personale di
Mile Jovanić, ma risolvevo anche le necessità più elementari
degli altri tre direttori e, se mi fossi fatta sopraffare, anche di
qualche direttore di settore.
Come al solito, mi ero immersa nel lavoro anima e corpo.
Di domenica ero spesso invitata a pranzo a casa di Rade.
Lavoravano tutti in quella famiglia e mi dispiaceva togliergli
l’unico giorno che probabilmente desideravano trascorrere
insieme. Il padre di Rade, vice-ministro degli Affari Esteri,
serbo di Novi Sad, era un uomo notevole. La madre di Rade,
musulmana, insegnante in una scuola media superiore,
donna bellissima, aveva la malinconia della sua gente
bosniaca. Abitavano in un bell’appartamento in Piazza
Slavia, dirimpetto al grande omonimo albergo.
Tra loro tre si percepiva un legame forte, ma
estremamente misurato. Nessuno si lasciava andare a
comportamenti superflui o sdolcinati. Mi piacevano ed ero
sicura che io piacessi a loro. Quando Dean era a Belgrado ci
raggiungeva a casa di Rade. Ci rintanavamo nella sua stanza
ad ascoltare dischi. Ne aveva un’infinità veramente belli. In
casa loro regnava un ordine particolare, anche quando
c’erano i maglioni di Rade sparsi un po’ dappertutto.
Quell’ordine apparteneva a una concezione della vita
come libero uso dello spazio e delle cose. L’appartamento
non era né grande né piccolo, ma giusto, confortevole e
caldo, in senso umano mi dava tranquillità. Rade si spostava
con la sua bella motocicletta, finché la neve lo permetteva.
Avevo imparato con lui a cavalcare il vento lungo i fiumi.
Arrivata la neve, prendevamo il pullman e ci recavamo in
qualche trattoria sul Danubio. In particolare mi piaceva un
piccolo locale su una chiatta, dal nome pretenzioso di Aquila
del Danubio, di solito ancorata sotto le mura della fortezza di
Kalemegdan. Aveva quattro o cinque tavoli. Prenotato il
posto il giorno prima, la chiatta partiva verso le undici e
trenta lungo il Danubio, scivolando piano verso paesini
appoggiati alle sponde, in mezzo al verde ondulato della
pianura danubiana. L’immenso fiume, congiuntosi con il
Sava nella grande ansa serpeggiante sotto i bastioni cittadini,
abbandonava Belgrado Nuova con i suoi moderni grattacieli
in mezzo ai larghi viali alberati da acacie e ai giardini con
prati inglesi interrotti da variopinte chiazze di gladioli sotto
costante cura di un’infinità di giardinieri. Il grande albergo
Jugoslavija superlussuoso e supermoderno e la sede della
Lega Comunista e dell’Unione Giovanile, con l’immenso
Stadio Nuovo, campi sportivi di pattinaggio, canottaggio,
piste ciclabili e da corsa e il porto turistico, si stagliavano
sull’abbraccio dei due fiumi, grandi ma diversi. Il Sava
placido e verdeggiante, il Danubio impetuoso e limaccioso.
Allontanandosi dall’estuario del Sava nel Danubio, le sponde
si facevano più alte, creando una specie di laguna attorniata
da alti canneti e scure casine di pescatori costruite con le
canne delle paludi. Negli angoli fuori dalle violenze dei
gorghi, uccelli trampolieri e anatre dai colori sgargianti si
abbandonavano a serene nuotate prima della partenza per i
paesi del Sud. E poi arrivava la neve e si imbiancavano le
sponde dei fiumi, si irrigidivano i parchi, si allontanavano gli
uccelli, si attutivano le voci. Cambiava tutto, il paesaggio e
l’umore nell’aspetto delle cose. Solo la vecchia chiatta Aquila
del Danubio non cambiava rotta. Proseguiva il cammino
insieme al Danubio. La nostalgia per qualcosa che non era
più, si stemperava con un bicchiere di grappa al ginepro
dopo un pranzo con pesce di fiume che, anche se gustoso,
non riusciva ad assopire il ricordo delle vope arrostite sui
carboni nella terrazza della Casa in pietra grigia. Quante
volte i miei amici hanno ricordato le serate intorno al grande
tavolo con piatti e bicchieri di foggia diversa che tutti
scambiavano per una bizzarria della Casa ricca di cristalli e
porcellane preziose, e che invece era nata dalla necessità.
Rade e Dean erano amici affidabili, parte viva del mio
passato, quello scomparso, ma rimasto anche nel loro
immaginario come una realtà felicemente condivisa.
Si avvicinava il venticinque dicembre. Il Natale cattolico
non era nemmeno avvertito in Serbia, mentre quello
ortodosso era molto festeggiato e la religione era tenuta più
in considerazione che in Croazia. Un controsenso. La Chiesa
Ortodossa molto influente prima dell’avvento comunista lo è
rimasta, non solo nella mentalità del popolino. Personaggi
politici e del partito, funzionari in posti chiave del governo,
non nascondevano i loro legami con la potentissima Chiesa e
con il Patriarca. La bella Chiesa di San Marco, alle spalle del
Parlamento nel centro di Belgrado, apriva quotidianamente
le porte a sfarzosi matrimoni con vestiti dallo strascico
bianco, uomini in tight con corone in testa secondo gli
antichi riti ortodossi, accompagnati da canti tradizionali
molto suggestivi. Una situazione opposta a quella che si
viveva a Zagabria, ma anche sull’Isola.
A Natale le chiese croate erano piene zeppe, ma ogni
individuo che teneva almeno un po’ alla propria proficua
convivenza con il potere, si teneva in disparte. Ricordo i
funerali sull’Isola, anche con il prete e il rito alla cattedrale. Il
corteo partiva dalla casa del defunto, attraversava
obbligatoriamente la piazza, arrivava alla cattedrale. Quasi
tutti i cittadini rimanevano fuori dall’ingresso. Finito il rito
funebre, riprendevano tutti insieme il cammino verso il
camposanto. Ho visto chiesette ortodosse durante i funerali
e i matrimoni e non c’era mai nessuno in attesa fuori dalla
porta. Qual’era la differenza? Nei sentimenti, nella paura,
nella fede? Era vero che la Chiesa Cattolica era stata messa
da parte per il suo atteggiamento non interventista durante le
epurazioni dei non puri anche fra i serbi, o per quel sottile filo
che l’aveva legata al fascismo?
Per il Natale cattolico chiesi due giorni di permesso dal
lavoro e senza alcuna spiegazione presi l’aereo per Spalato.
Trascorsi una giornata serena. Maestro stava bene, quanto
poteva stare bene una persona nelle sue condizioni. Gli
raccontai della nuova vita a Belgrado. I miei regali avevano
confermato la mia nuova condizione economica. Descrissi,
molto abbellita, la mia mansarda con finestre di tipo parigino
inglobate nei tetti dell’antico palazzo. Che poi fosse una vera
e propria soffitta con l’ingresso attraverso una botola nel
pavimento e un bagno ricavato ultimamente nella parte più
bassa con il finestrino nei coppi che, nel caso dimenticassi di
chiuderlo bene e piovesse, inondava non solo il bagnetto, ma
anche il resto, non era importante. Tornai serena alla mia
bellissima soffitta piena di luce.
La neve aveva fatto ritardare l’aereo. L’aeroporto per due
giorni era rimasto impraticabile. I pullman facevano fatica a
portare i passeggeri in centro. La campagna piatta e
sommersa dalla neve dava la sensazione di essere
abbandonata da uomini e animali. Le carreggiate delle strade
cittadine erano ridotte a una poltiglia marrone, ripulita solo
sui marciapiedi dei palazzi più importanti. Quando arrivai in
soffitta iniziò di nuovo a nevicare e il freddo penetrante
allentò la morsa. Dalla finestra in alto del vecchio palazzo, il
boulevard del Parlamento, con i suoi alberi piegati sotto la
neve e illuminati in piena notte dai tripli lampioni a sfera,
sembrava una strada verso l’infinito. Finiva lì dove
continuava la città. Mi accolse il tepore della grande stufa
accesa, come me la fece trovare Rade. Sul tavolo un
bicchiere con candidi fiori di bucaneve, raccolti chissà da
quale prato lungo i fiumi, in mezzo alla neve sciolta per il
passaggio dei tubi di riscaldamento sotterrati nei campi
sportivi. C’era anche dell’oca arrosto, formaggio fresco e un
pezzo di torta alle noci. Una bottiglia di vino rosso senza
etichetta era aperta. Ero a casa. Arrivò velocemente
Capodanno. Non amavo le feste comandate, quando
sembrava che tutti dovessero essere per forza felici a
qualsiasi prezzo. In azienda si organizzava la grande serata
nel solito albergo Mosca, ritrovo del mondo pubblico di un
certo livello, com’era d’altronde quello del commercio
estero, fondamentale portatore di ricchezze, soprattutto per
la capitale. La vita sociale che vi si svolgeva era quella della
potente classe burocratica, politica e dei servizi pubblici
come ministeri, banche, finanza in generale, esercito e
polizia.
Il crimine economico doveva essere molto diffuso,
considerando quanto annunciava la stampa quotidiana e
quanto lavoro aveva l’avvocato Fila, sempre in prima pagina
per grossi processi in varie grandi città serbe. Conobbi allora
anche i poteri del famoso avvocato. Non c’era in Serbia, in
Vojvodina, in Kosovo o in Montenegro un’azienda o
un’istituzione di un certo livello nella quale Fila non avesse
avuto come cliente un personaggio caduto in disgrazia.
Infatti, nei casi condotti da Fila, dopo il processo e
l’assoluzione, questi personaggi non sparivano affatto. In
breve tempo si trovavano in un altro posto guida e di
responsabilità. Di solito erano prima di tutto influenti
membri della Lega Comunista.
Il Partito li salvava e venivano, chi in sordina, chi alla luce
del giorno, riabilitati. Era così che David Fila aveva in tutti i
settori una larghissima rete di personaggi importanti
riconoscenti che ricambiavano i suoi favori professionali.
Seppi che il direttore del commercio interno della Multi
Export era anch’egli un naufrago salvato e che la potente
direttrice del Commercio estero non era finita dietro le
sbarre nemmeno un giorno, né perso la posizione di rilievo,
solo perché il diabolico ebreo aveva escogitato per lei una
scusante plausibile che la lasciò libera e fece ricadere le
irregolarità su uno dei suoi direttori di settore, scomparso in
quel nulla nel quale già prima si trovava. Si parlava di
appartamenti costruiti e arredati con materiali mai pagati alla
Multi Export, di ville sul Zlatibor e cose simili. Il direttore
del Commercio interno, un rubicondo signore dai modi
gentili e dagli occhi sempre velati di rosso, il che faceva
presumere uno stretto rapporto con la šlijvovica di settanta
gradi, aveva giocato un brutto scherzo alle casse aziendali
con il suo debole per il gioco d’azzardo. C’erano anche altri
peccatori alla Multi Export. La segretaria amministrativa, una
donna di mezza età addetta all’Ufficio Legale, era reduce da
Goli Otok, che negli anni ‘50 accolse molti comunisti che
non erano stati capaci prontamente di rinnegare lo storico
legame con il comunismo staliniano. Milana aveva fatto la
guerra partigiana, condiviso la montagna e la clandestinità
con il Maresciallo Tito e con i suoi più vicini collaboratori.
Era stata ed era rimasta amica di Jovanka Broz, seconda o
terza moglie di Tito. Era stata un caso politico dopo il ‘48,
che venne presentato come usurpazione del potere per scopi
privati, e la condusse nelle patrie galere. La salvò Tito e la
riabilitò David Fila. Era lei la mia benefattrice. Quando per il
mio posto di lavoro Dean si rivolse a Fila, amico di famiglia,
lui ingaggiò Milana e in breve io approdai alla Multi Export.
Ma di questo era al corrente solo Milana e non ne parlò mai,
nemmeno a me. Milana aveva conservato i suoi antichi
poteri occulti in azienda, invisibilmente influente. Mile
Jovanić, il direttore generale, non muoveva passo senza il
parere di Milana, saggiamente defilata in un ruolo pubblico
di basso profilo. Non ho mai capito se le fossi simpatica.
Alla mia riservatezza rispondeva con indifferenza e io non
avevo intenzione di cambiare nulla.
Dopo quasi un anno avevo mosso i primi passi nella
capitale. Vivevo sempre nella soffitta, ma con il tempo anche
questo cambiò. Non guadagnavo abbastanza per pagare il
fitto di un appartamento. Questa impossibilità non
apparteneva solo a me, ma alla stragrande maggioranza dei
cittadini della capitale. I fitti erano alle stelle e finire in una
stanza ammobiliata in qualche famiglia, non faceva per me.
Ero in attesa di qualcosa di più definitivo. Intanto, con
l’aiuto di Rade, la soffitta aveva cambiato aspetto. Rimase la
botola d’ingresso perché la struttura del vecchio palazzo non
permetteva una soluzione più semplice.
Ebbe solo una scala più solida e regolare. Il bagno venne
ingrandito, la finestra chiusa con un sistema che non
permetteva la penetrazione della pioggia. Comprai una
credenza trovata al mercato dell’usato e la trasformai in
libreria. Acquistai anche delle poltrone e una cucina elettrica.
Rade mi regalò un antico camino trovato da un rigattiere. Lo
montammo nell’angolo dirimpetto alla finestra. Quando lo
accendemmo per la prima volta la canna fumaria non tirava.
La soffitta si riempì dell’odore acre di legno bruciato.
Credevo già che il camino sarebbe rimasto solo un
bell’oggetto senza scopo. Il giorno successivo Rade arrivò
con un operaio che costruì un vero fumaiolo. Per fare prima,
lo fece in materiale prefabbricato. Il tiraggio fu eccellente.
L’atmosfera morbida, incredibilmente intima in un ambiente
modificato con l’amore per le vecchie cose. Amavo quella
soffitta come se avesse riempito il vuoto della perdita della
Casa in pietra grigia. Cominciavo a sentirla come mia e
sapevo che non era una cosa buona.
Zoran Babić si annunciò con una lettera alla Multi
Export, dove arrivava tutta la mia rara posta. Era assente da
quasi due anni e le sue lettere erano state sempre cordiali,
come succede tra amici che non si perdono di vista. Mi
scriveva che Eleonor si era definitivamente sistemata in
Inghilterra e lui sarebbe stato a Belgrado fino a nuovo
ordine. Stranamente mi sentivo più serena per l’imminente
arrivo di Zoran. Lo ammiravo e mi mancava.
Avevo ormai un’età che presupponeva un legame
sentimentale, ma galleggiavo da anni in un limbo di affetti
alquanto sublimati. Alle prime cotte giovanili, che erano
rimaste platonicamente sospese per la mia troppo elevata
timidezza, erano seguiti motivi di studio e lavoro che non
permettevano di sviluppare alcun altro interesse. La
mancanza di legami sentimentali era dovuta anche al fatto
che non ero stata mai sola. Intorno a me c’erano sempre
uomini disponibili. Ero io che mantenevo i rapporti a livello
di amicizia. Probabilmente credevo che solo così avrei
potuto conservare il loro interesse. Non si trattava affatto di
un atteggiamento studiato, ma inconscio. Eppure a ognuno
di loro ho voluto bene in un certo modo, attento. Senz’altro
ero egoista. Non volevo perdere l’affetto di nessuno. Ma,
come dissi una volta, vivevo in quello che immaginavo, non
in quello che realmente avevo. Può darsi che questa sia stata
la mia fortuna, rimanere al di fuori delle delusioni di certi
rapporti umani che avrebbero potuto indebolire la mia
volontà e la mia necessità di essere forte, di bastare a me
stessa.
Il marzo di quell’anno non fece scivolare l’inverno verso
la primavera, ma batté la ritirata e piombò nel gelo di
gennaio. A un paio di giorni dalla fine di marzo ci trovammo
con la neve fangosa che la faceva scivolare in larghi rivoli
lungo le strade pendenti verso i fiumi, per unirsi al loro
limaccioso corso, gonfiandolo e facendolo straripare
dall’alveo ghiacciato.
Una inaspettata, gelida e tagliente košava180, il vento che
scende dalla Siberia, si incuneò lungo la pianura danubiana,
sferzando la puszta ungherese, ricoprendo Sava e Danubio di
sottili lastre di ghiaccio. La košava soffiava spesso d’inverno,
ma perdeva la sua rigidità all’inizio di marzo, scontrandosi
con i tiepidi flussi di aria che salivano dalla pianura protetta
da alti cumuli di neve che la conservavano calda. Pensando
all’etimologia del nome Beograd, dove beo ha il significato di
bianco e grad di città, e cioè città bianca, si poteva dedurre che
il nome fosse dovuto a qualcosa di bianco. In realtà di
bianco la città non aveva nulla se non Beli Dvori, cioè la Casa
Bianca sopra Dedinje, il quartiere con la residenza del
Maresciallo Tito allora, e di re e sovrani serbi nel passato. La
vera città, quella della čaršija181, della burocrazia, del
commercio, delle facoltà, degli alberghi più o meno
prestigiosi, era tutta allineata sulla Terazije, che divideva la
parte moderna da quella vecchia, bassa, scomposta ed
estremamente povera. Non si capiva quale delle due parti
fosse più grigia, anche se in modo diverso, quasi opposto.
Il fatto che durante l’ultima Guerra mondiale le bombe
degli alleati e dei tedeschi avevano raso al suolo questa città
sempre pregna di contraddizioni, aveva segnato anche
visivamente le sue mura. Aveva conservato poco del suo
disarmonico aspetto precedente, risultato di tante influenze.
La capitale inoltre, come tutta la Serbia, aveva pagato a
carissimo prezzo per lunghi anni il secolare dominio turco.
Anche durante gli anni successivi, nei quali si sviluppò la
moderna coscienza europea, rimase estranea alle riforme,
chiusa nella cultura bizantina, custodita entro le spesse mura
delle chiese e dei monasteri. Distrutta la parte borghese,
sopravviveva l’altra parte della città, quella vecchia, rinchiusa
nella sua totale miseria, grigia ancora più della città sulla
Terazije. La città del popolino, la čaršija.
Čaršija era un dedalo di viottoli e cortili sterrati, case
basse primitive con qualcosa che somiglia a latrine all’aperto
e pompe d’acqua in mezzo a recinti con steccati divelti. La
neve invernale, profonda, soffice e alta da altre parti, non
riuscì mai a coprire la miseria di questo quartiere di case
fragili, costruite con materiale di risulta trovato nelle
discariche dei palazzi borghesi in costruzione, quelli annegati
nel cemento armato. Le bicocche avevano slarghi che si
inoltravano in viottoli affogati nella fangosa poltiglia, creata
da carretti tirati a mano colmi di carbone sottratto alla
vecchia stazione ferroviaria e piccoli traini a cavallo che
dall’hinterland capitolino - carichi di teste congelate di
cavolo cappuccio, pannocchie di mais e qualche sacco di
patate- raggiungevano il vecchio mercato Dorčol, vendendo
le rimanenze agli angoli della čaršija, calpestata da passi degli
opanki182, ricavati da vecchi copertoni abbandonati lungo gli
argini sollevati contro le inondazioni primaverili dopo il
disgelo, sulla parte bassa dei fiumi. Tutto a Belgrado in quel
tempo era grigio, e non saprei dire se lo fosse anche negli
anni a venire. A Belgrado solo la prima neve, faceva
sembrare il vialone del vecchio Parlamento un ambiente
fiabesco e magico. La notte e il freddo pungente lasciavano
deserti i larghi e spaziosi accessi al Palazzo del Governo,
senza togliere il bianco verginale alla neve non calpestata che
accentuava il grigio della maestosa costruzione. La città
assumeva un aspetto trasandato in quell’angolo dove la neve
non aveva coperto le crepe dimenticate, come se fossero
sempre in attesa di lavoro. Sembrava che le intemperie la
trovassero sempre impreparata, in uno stato di abbandono.
Terazije era lo spartitraffico cittadino, quello della
rappresentanza, dei caffè sempre stracolmi, dei locali tra
osteria e bistrò, dei ritrovi di categorie, dei circoli, dei
pretenziosi ristoranti aziendali, dei moderni supermercati.
C’erano poi oreficerie con oro turco, quello a caratura e
prezzo più basso; costosissimi Moda-export con manufatti di
lana pura e lino finissimo di produzione artigianale, esposti
in un paio di vetrine di lusso estremo, a prezzi uguali a sei
mesi del mio stipendio.
Queste e altre cose facevano scoprire la capitale una città
piena di contraddizioni che, passando lo sguardo dalla čaršija
alle Terazije, confondevano in un socialismo di uguali diritti
e doveri!
Il grigiore della città seguitava fino al disgelo vero e
proprio, poi esplodeva un caldo continentale e Belgrado non
riusciva a vivere nessuno dei benefici delle stagioni di
passaggio. Non esistevano. Tutto era esagerato. L’autunno e
l’inverno si confondevano e la primavera e l’estate
scavalcavano i tempi naturali. Era questa anche la condizione
dell’uomo?
Per motivi di lavoro frequentavo molta gente, ma in
realtà non conoscevo nessuno. Tutti sembravano presi dalla
smania di voler sembrare allegri. E lo erano, ma lontani dalla
felicità. Mancavano di solarità. Purtroppo non avevo tempo
per pensare agli stati d’animo umani.
Ogni giorno cresceva il numero degli impegni. Ormai ero
convinta che non fosse per le mie capacità, ma per
l’indolenza e il mancato impegno degli altri. Il fatto di
lavorare più del dovuto non mi creava problemi. Mi faceva
conoscere la vera natura della gente intorno a me: pigra,
disinteressata, comodamente adagiata sulle posizioni
raggiunte.
In maggio si sarebbero festeggiati i vent’anni di attività
della Multi Export. A lungo si discusse sulla forma dei
festeggiamenti. Nelle riunioni della direzione venivano
avanzate proposte che rasentavano i livelli della sagra
paesana: maialini arrosto, cetriolini, pite di formaggio, birra e
šlijvovica.
Ero dell’avviso che i festeggiamenti dovessero
rispecchiare la condizione di un’azienda che aveva
conquistato una posizione di prestigio a livello europeo. Era
opportuno agire in senso promozionale e non solo riunirsi
per sentire un paio di discorsi scontati, riempirsi di arrosto
grasso e ubriacarsi con birra e šljivovica.
- E come dovrebbe essere? - chiesero un po’ tutti.
- Deve essere una cosa che faccia parlare, che attiri i partner
stranieri e nostrani e tutti i potenziali clienti! - Questo l’avevano
recepito, ma su come farlo non avevo un’idea precisa.
Quando il direttore generale mi disse:- Va bene, organizzi
l’avvenimento, faccia come sarebbe opportuno - non voleva mettermi
in difficoltà, convinto che conoscessi già la soluzione.
Allarmata per la mia audacia mi lamentai con i miei
confidenti Rade e Dean. Ci mettemmo a programmare. In
primo luogo bisognava trovare del vecchio materiale
giornalistico sullo sviluppo dell’azienda, poi filmare l’attuale
situazione, decidere dove svolgere i festeggiamenti con inviti
a clienti e partner e una cena in piedi, fare un preventivo
spese e cercare di non annoiare i partecipanti con discorsi. Ci
fu una nuova riunione della direzione. Ancora perplessità,
discussioni, contrarietà sulla spesa, ma il direttore generale
disse:
- Va bene, può andare!
Ora iniziava la battaglia vera e propria. Per
l’organizzazione della serata mi venne in aiuto Dean. Mi
propose un paio di prestigiose sale e altrettanti chef per
organizzare la cena. Era da evitare i luoghi pubblici che
erano sempre soggetti a difficile controllo dell’ordine e delle
presenze. Optai per il nuovissimo Circolo Sportivo sul
Danubio e il cuoco dell’Ambasciata francese.
La sala scelta nel Circolo Sportivo rispondeva alle
esigenze. Purtroppo l’elenco degli invitati stava crescendo a
dismisura. Ogni dirigente portava il proprio elenco. Mi resi
conto che la scelta doveva essere affidata al direttore
generale. Era una responsabilità che non potevo assumermi.
Tolsi il superfluo: amici, conoscenti, come d’usanza.
Pensavo:- L’azienda festeggia con il personale, i partner, il
messaggio lo daranno il filmato e la stampa che è ancora da
mettere in moto. - Un mese di lavoro si trascinò per altri
dieci giorni. Il materiale promozionale estrapolato dai vecchi
filmati lo organizzò Rade con uno dei migliori fotoreporter
del settimanale Nin.
Lo chef franco-ungherese si servì dei suoi soliti
collaboratori per la preparazione del menù e l’addobbo della
sala. Dean si interessò alla tipografia per gli inviti e io non
potei sottrarmi a un mio vecchio debole, quello di addobbare
con i fiori la sala, anche se ritenuto superfluo e dispendioso
come spesa.
Il fatidico giorno era tutto pronto, o quasi. Circa
quattrocento inviti e una cinquantina di presenze clandestine,
dovute all’umore dei direttori, tutti smaniosi di invitare
persone di loro gradimento, che era prevedibile.
Come passò quella serata? E chi lo sa. Ero talmente
occupata dietro le quinte che non entrai in sala. Osservavo
l’andamento. I presenti non abituati a servirsi da soli,
all’inizio erano un po’ contrariati. Gli ospiti, non abituati ai
buffet, riempivano i piatti all’inverosimile, adagiandosi ai
tavolini sparsi nelle sale illuminate con discrezione e
abbandonandosi al cibo che molti non avevano mai
assaggiato. Il cuoco Sandor aveva dato il meglio possibile. I
cineoperatori e i fotoreporter non trascurarono nulla,
nemmeno le mie condizioni non proprio di rappresentanza.
Addirittura mi regalarono in seguito una foto in cui,
visibilmente affaticata, con le scarpe in un angolo, ero scalza.
Conservai la foto per parecchi anni, come evidente conferma
della mia capacità di entrare a capofitto in situazioni, che mi
ostinavo a risolvere. Nessuno sapeva però che avevo due
angeli custodi, due amici che avevano sciolto tutti i miei
problemi. Certamente mi potevo considerare fortunata.
Trovavo sempre qualcuno per tirarmi fuori dagli impicci.
La festa ebbe vasta risonanza sulla stampa e nei notiziari.
Se la Multi Export si era sviluppata come una solida struttura
commerciale, quell’avvenimento le dette un punto, se non
anche di più, nel senso della visibilità, per la sua modernità
che poteva competere con molti del ramo.
Questo, senza dubbio, era merito dell’ottimo filmato
estrapolato e assemblato in modo eccezionale da Rade, in
quanto regista di quel documento di promozione aziendale.
Una testimonianza visibile della crescita di un’azienda
commerciale che nel ‘46 esportava carne suina con dieci
addetti alla vendita. Ora era un colosso, con il proprio
palazzo a cinque piani di uffici, una decina di moderni
supermercati tra la capitale e le maggiori città della
Repubblica e sulla costa montenegrina, le future aperture a
Mosca e a Praga, quasi trecento operatori dislocati fuori dalla
direzione generale, nel ventesimo anno di attività. I
festeggiamenti della Multi Export aprirono una nuova
prospettiva agli affari di importazione. Uno scambio merci
ben congegnato da un nuovo giovane direttore proveniente
da Niš e con un’esperienza di vari anni all’estero.
Il nuovo direttore dell’allargata Multi Export-Import si
stabilì abbastanza velocemente nella sala conferenze,
adiacente al direttore generale. Ebbi l’incarico di
riorganizzare la sala riunioni per l’ufficio del nuovo direttore.
Gli sembrò del tutto normale affidarmi un’infinità di piccoli
compiti. Gli veniva naturale di mattina, passando, dire:Venga ho una lettera da dettarle in russo, da inviare con il teleprinter.
- Chiaro, chi altro poteva farlo! Ero addetta a quella
macchina e alle traduzioni. Ma, altrettanto senza indugi, di
passaggio mi diceva:
-Alle undici devo prendere l’aereo per Praga. Veda di procurare un
biglietto anche se hanno detto che l’aereo è al completo!
Ora non era più questione di una o più telefonate.
Dovevo raggiungere la solita agenzia con la quale avevo
instaurato ottimi rapporti e ottenere il famigerato biglietto
aereo per Praga. Ormai ero entrata nei meandri delle cortesie
possibili e impossibili. A ogni buona riuscita inviavo alla
responsabile dell’agenzia un mazzo di fiori, una scatola di
cioccolatini svizzeri, sigarette americane, una rarità culinaria
come caviale del Baltico, caffè arabico, un cognac francese
d’annata, in considerazione della sua cortesia. Erano tutti
prodotti che acquistavo al supermercato sotto gli uffici e
mettevo sul conto delle spese di rappresentanza che dovevo
gestire per le colazioni di lavoro durante le interminabili
riunioni del Comitato di Autogestione Aziendale. In quelle
riunioni riservate esclusivamente al vertice dirigenziale, ebbi
il compito di stenografare durante i dibattiti. All’inizio questo
riservatissimo compito spettava a Milana, la persona più
misteriosa che abbia incontrato. Quando passò mano a me
per tanti compiti legati alla direzione generale e
particolarmente per le riunioni della dirigenza, si
raccomandò di comportarsi come le tre scimmie cinesi:
quelle che non sentono, non vedono, non parlano!
Mi ci è voluto tempo per comprendere il messaggio.
Nell’interno della grande organizzazione commerciale, un
po’ tutti i direttori, peccavano di un eccesso di autonomia.
Per dirla in breve, facevano quel che volevano. E il direttore
generale Mile Jovanić era un personaggio troppo debole per
metterli in riga. L’autogestione era stata presa alla lettera da
tutti quelli che avevano poteri decisionali. Si proteggevano a
vicenda. Si trattava molto spesso di ridistribuzione di
guadagni non proprio chiari e mai applicati in misura equa ai
collettivi di base. Il Comitato dei Lavoratori decideva in
direzione perché era composto di delegati delle direzioni,
cioè di quei membri indiscussi della Lega Comunista
politicamente affidabili. Ricordo un dibattito che aveva le
sembianze di un aneddoto. In una di quelle riunioni si
discuteva il bilancio negativo del Settore legno, legname e
affini. Facendo e rifacendo calcoli i conti non quadravano. A
un certo punto il direttore del Settore, un ometto grigio
d’aspetto e di azioni, si batté la mano sulla fronte
esclamando:- Compagni, abbiamo dimenticato la costruzione della
casa estiva della compagna Dora su Zlatibor! Credevo che scherzasse. Nessuno aveva conteggiato
quello che la potente direttrice del settore estero aveva
prelevato per la costruzione della sua, si diceva, lussuosa
baita in legno pregiato. Come si risolse il problema non
saprei dirlo. La faccenda venne lasciata alle successive
decisioni che si spostarono da un bilancio a un altro.
A metà estate rientrò Zoran Babić, questa volta da un
lungo viaggio che lo aveva trattenuto nei paesi africani:
dall’Egitto a Capo Verde, Burundi, Uganda, Ruanda, Congo,
tutti più o meno paesi possibilmente nonallineati, dove il
Maresciallo Tito lasciava Babić prima e dopo i suoi
pellegrinaggi. Dopo l’esperienza cinquennale croata per
l’introduzione dell’autogestione, erano già un paio d’anni che
soggiornava in India, Burma, Cambogia, per passare a paesi
africani minori, più vicini a casa nostra, ma anche più
esigenti nelle loro richieste di sostegno fattivo, nel quale noi
eravamo molto prodighi. Prendevamo da una parte ed
elargivamo all’altra. Eravamo il cavaliere buono che prendeva ai
ricchi per donare ai poveri. Tito voleva essere il padrino dei
bisognosi.
Di solito uscivo dal lavoro dopo le quattordici, se mi
andava bene e non ero costretta a risolvere qualcosa che non
poteva attendere da venerdì a lunedì. Stavo pensando se
rientrare nella mia soffitta, che a quell’ora, inondata dal sole
fino al tramonto, diventava un forno.
Non avevo mai amato il fiume, ma con l’estate che
esplodeva e spopolava la città, prendevo il filobus che
partiva dalla piazza Savska, si inoltrava tra i quartieri lungo il
fiume, saliva sul Ponte Nuovo e proseguiva dall’altra parte
del Sava, oltre il grande albergo Jugoslavija, il Palazzo della
Lega Comunista e del Governo girando verso Belgrado
Nuova. Per raggiungere i Campi Sportivi nel Parco
dell’Amicizia, era necessario prendere un altro filobus che
scendeva perpendicolare alla città fino all’isola Grande della
Fratellanza, dove il Danubio era drenato in continuazione e
tenuto pulito da materiale alluvionale. Alla massa della
domenica erano destinate le spiagge sabbiose dell’Isola
Grande, con le sue sponde basse e senza margini, dove era
facile guadare l’ansa.
Il venerdì pomeriggio ormai mi recavo alle belle piscine
del Parco dell’Amicizia, attrezzatissime con sedie a sdraio e
ombrelloni su ampi spazi con curatissimi prati inglesi alberati
da salici, pioppi ed eucalipti, viali bordati da fiori color
avorio molto simili al pitosforo, angoli bar e ristoranti,
frequentati ma non sovrappopolati. Per l’ingresso era
necessaria la tessere associativa a un costo non trascurabile,
ma che per la maggior parte veniva compensato dalle
aziende associate. Naturalmente le agevolazioni erano
riservate alla dirigenza aziendale o delle istituzioni. Il
pubblico era quello che avevo conosciuto ai ricevimenti
ufficiali a Zagabria e altrove, per lo più ufficiali dell’armata,
dirigenti nel pubblico impiego, operatori commerciali, rari
professionisti indipendenti.
Un ceto medio con reddito alto e capacità economiche,
dal comportamento o troppo rilassato o sostenuto.
Dopo poco tempo avevo saputo che si poteva rimanere
nel palazzetto Konak per il week-end. Così mi trattenevo dal
venerdì pomeriggio fino alla domenica sera. A volte di
sabato o domenica mi raggiungevano Rade o Dean, oppure
tutti e due.
Di sera al Konak suonava una piccola orchestra. Ottimi
jazzisti, conoscenti di Rade, suonavano durante il week-end
per arrotondare lo stipendio e con mogli e fidanzate
rimanevano i fine settimana al Konak. Erano di Novi Sad, la
città del padre di Rade. Direi simpatici, scanzonati, sempre
pronti allo scherzo, a prendere in giro un po’ tutti, ma prima
di tutto se stessi. Riuscivano a trovare sempre la parte
leggera delle cose, una compagnia piacevole. Di sabato
soprattutto e un po’ meno la domenica, Konak si riempiva di
famiglie, di coppie, di sportivi, tutti in fuga dalla città
accalorata. Il Parco dell’Amicizia con i suoi alberi, la costante
umidità dei prati tenuti sotto una forte irrigazione che un
venticello della pianura polverizzava riempiendo l’aria,
attirava la gente.
Io ne approfittavo per fare lunghe nuotate in tutte le ore.
Tornando domenica sera in città, aprendo la botola
d’ingresso e la finestra sull’alto tetto, tanto simile ai tetti
parigini, tutto il soffitto si rinfrescava velocemente.
Il palazzo era una volta proprietà del patriarca della
Chiesa Ortodossa di Belgrado, il metropolita Petrović. Uno
dei rari palazzi del Settecento rimasti in piedi durante i
bombardamenti, tutto squadrato, con una lunga e stretta
terrazza aperta sull’interno del cortile per la presa di luce. Da
questa terrazza all’ultimo piano del caseggiato, come un
posticcio partiva la cupola ricoperta da lastre di lamiera
verde rame. L’interno della struttura della cupola di massicce
travi di legno era tutta rivestita con doghe di legno scuro
come il pavimento. Rade mi disse che il palazzo, danneggiato
dalle bombe, aveva subito rifacimenti e nelle antiche foto
erano visibili grandi finestre su tutti e quattro i lati.
Probabilmente la cupola era servita come osservatorio per
essere così bene rifinita. Perché non aveva un ingresso
normale? Un mistero. Durante la guerra era servito come
rifugio clandestino. Quando Rade la scoprì, battagliò per
averla come proprio studio e riuscì a ottenerlo dal Comune,
probabilmente per le sue condizioni che sembravano
disastrose. Quello che aveva avuto Rade era da considerarsi
un privilegio non di poco conto per i tempi che correvano.
Dubito che ne sarebbe stato beneficiato se non fosse stato
figlio del ministro Rudić, anche se sono altrettanto convinta
che suo padre personalmente non avesse mai chiesto alcun
favore.
Il padre di Rade era un personaggio che affascinava.
Aveva combattuto per la liberazione della Patria
arruolandosi tra i primi partigiani della Vojvodina. Il nonno
di Rade era personaggio ancora più noto. La ricca e
culturalmente progredita Novi Sad, sua capitale, era stata tra
le prime città serbe a svegliarsi dal torpore che sembrava
avesse preso Belgrado e una gran parte della Serbia. Novi
Sad e la Vojvodina, come già nel secolo precedente, pur
avendo perso l’autonomia politica, riuscirono a evolversi. In
tal senso era stata importante la formazione della Matica
Srpska183 all’inizio dell’Ottocento e la successiva creazione di
una comunità ricca e culturalmente matura. Non da meno fu
la Rivoluzione di Budapest del 1848, alla quale la Vojvodina
si associò rovesciando nella propria provincia il regime
militare e burocratico di stampo metternichiano, richiedendo
la creazione di un’entità autonoma assieme a Bačka, Baranja,
Srem e Banato. Bisogna dare molta importanza anche
all’alleanza tra i serbi della Vojvodina e i croati, perché si
trattava della prima collaborazione politica tra i due popoli.
Purtroppo l’unica intesa con un risultato durevole fu
l’accordo del 1850, che decideva di coltivare come lingua
letteraria comune la variante ekavo-štokava composta con
l’interrogativo što. Tale impegno fu ribadito ufficialmente dal
Governo serbo e dal Sabor croato. Purtroppo ulteriori
sviluppi nella collaborazione fra i popoli non si verificarono.
Le aspirazioni grandiserbe coltivate dai conservatori di
Belgrado e contrastate dai liberali di Novi Sad, non si
placarono. Al fascino dell’idea grandeserba sostenuta dal
populismo russo e anche da Mazzini, non si sottrasse
nemmeno il fondatore del socialismo serbo Svetozar
Marković184, influenzando negativamente le masse. Più tardi
la rivolta popolare serba, nata come rivoluzione agraria, si
trasformò in lotta per la liberazione nazionale. Per un attimo
sembrò a portata di mano la creazione di uno Stato
Jugoslavo. La proclamazione dell’unione della Bosna con la
Serbia suscitò entusiasmo anche in certi ambienti croati,
convinti con il vescovo zagabrese Strossmayer che si stesse
formando un nucleo di Slavi del Sud. Belgrado purtroppo
non fu all’altezza di questo compito. Indebolita dalle lotte
intestine tra i fautori dell’autocrazia e i liberali, subì una
rovinosa sconfitta. Tutta una serie di conflitti e scandali
finanziari interni favorirono a Belgrado l’attuazione di un
colpo di stato militare e di un vortice di congiure, come
espressione di una società prevalentemente contadina,
ancora arretrata, alla quale si contrapponeva la rampante
borghesia della Vojvodina, insoddisfatta dell’opportunismo
politico dei regnanti. In tale torbida situazione ebbe a
Belgrado rigoglioso sviluppo un nazionalismo xenofobo che
vedeva tutti i popoli vicini come nemici storici della Serbia.
Dopo quasi mezzo secolo d’esilio, rientrò a Belgrado il
principe deposto Petar Karadjordjević che favorì lo sviluppo
di una certa democrazia, dando la spinta alla
modernizzazione economica, culturale e sociale, soprattutto
nella Vojvodina, dando almeno alle città un aspetto più
europeo. I rari intellettuali di Novi Sad, legati alla Matica
Srpska, facevano ogni sforzo per tenere il passo con il
mondo culturale letterario e artistico dell’Occidente. In quei
lunghi decenni, la cultura e soprattutto la letteratura sul
modello di quella religiosa russa si impegnarono nella
descrizione delle condizioni sociali arretrate ma spesso con
sarcasmo e humour. Una delle caratteristiche di quella
letteratura serba divenne il riso-non riso attraverso le lacrime.
Nel Novecento, con Jovan Sterije Popović, le pochade di
Branislav Nušić, i racconti rurali di Milovan Glišić e quelli
psicologicamente più raffinati di Laza Lazarević, si aprì nella
vita intellettuale della Vojvodina un nuovo capitolo
d’influenza francese che sostituì quella russa. Il processo di
modernizzazione fu tuttavia inquinato dal persistente peso
dei militari nella vita belgradese. In politica estera la Serbia di
quel tempo si avvicina alla Russia e alla Francia, mirando alla
riunione sotto l’egida di Belgrado di tutte le terre
precedentemente in mano ai turchi e agli austriaci.
Ciò procurò la chiusura delle frontiere, creando una vera
guerra doganale all’esportazione serba. Il tentativo di
strangolare l’economia serba rinfocolò l’odio in ampi strati
della popolazione, con a capo gli intellettuali della
Vojvodina. La volontà di Belgrado di annettersi questa
provincia, portò la classe dirigente belgradese, sempre presa
dalla smania di guerra, a un conflitto su larga scala, per cui si
costituì un’organizzazione segreta con il proposito di
conquistare la Vojvodina, ma anche la Croazia, la Dalmazia,
la Bosna-Herzegovina, il Montenegro, il Kosovo e la
Macedonia. Purtroppo un’altra volta si arrivò ad aspri
conflitti negli stessi vertici belgradesi. Il governo di Pašić
cercò di far passare la provincia di Vojvodina sotto
l’amministrazione civile. Ciò non piacque ai militari che, per
quanto divisi in varie fazioni in lotta per il potere,
organizzarono un golpe convinti che bisognasse dare una
spallata anche all’Impero Asburgico. Approfittarono del
viaggio dell’arciduca Ferdinando in Bosna. Giunto a Sarajevo
il giorno di San Vito, il colpo di pistola dello studente
Gavrilo Princip185 contro l’arciduca e sua moglie dette il via a
quella reazione a catena che fece precipitare l’Europa intera
nella Grande Guerra. Altri intrighi, colpi di mano, negli anni
successivi danno la propria impronta al Regno nato
dall’unione di Serbia, Montenegro e altre terre appartenute
alla Monarchia asburgica. Nel novembre del 1918 i
rappresentanti del Regio Governo di Belgrado e
dell’Assemblea Nazionale di Zagabria elaborarono per il
futuro Stato un programma che prevedeva un’entità bipolare
di tipo federale. Tale programma, firmato anche dal
presidente del Consiglio Serbo, solo qualche giorno più tardi
fu da lui stesso sostituito con un documento di carattere
spiccatamente centralista. Un altro voltafaccia. Ogni
concessione a croati e sloveni era impossibile, e la loro
debolezza fece sì che dovettero accettare le condizioni
dettate da Belgrado. Per ben ventidue anni il regno dei
Karadjordjević nei momenti migliori fu uno stato autoritario,
nei peggiori una dittatura. In esso si riconoscevano solo i
serbi e neanche tutti. Un gruppo di politici, gravitanti
intorno alla corte, all’alto clero della Chiesa Ortodossa,
all’alta borghesia belgradese, ma soprattutto agli ufficiali
dell’esercito, adottarono il termine Regno di Serbi, Croati e
Sloveni per non rinunciare all’individualità serba che poteva,
inoltre, accentuare il peso della tradizione illirica, così a
lungo coltivata dai croati. Al di là di tutti gli accordi,
Belgrado non era disposta a concedere un equo ordinamento
alle numerose etnie del Paese, considerandole barbare e
prive di qualsiasi dignità culturale. A tutto ciò si aggiunse una
conflittualità ancora più pericolosa. I croati, memori della
loro tradizione storica, non erano disposti a farsi dominare
da un popolo considerato di civiltà inferiore. D’altronde, la
grande massa popolare serba, soffocata dalla miseria e da
un’ignoranza secolare, in balia a sua volta della čaršija, era
facilmente manovrabile, tanto più che il peso fiscale, per la
sua disparità, colpiva i serbi cosiddetti asburgici, cioè quelli
della Vojvodina, della Baranja, del Banato e dello Srem. Ciò
contribuì notevolmente a rendere pure questi ostili al
centralismo belgradese, facendo rilevare le varie differenze
della tradizione storica tra i serbi al di qua e al di là del
Danubio e della Sava. Alessandro Karadjordjević, diventato
effettivamente sovrano, dette al golpe un contenuto politico
cambiando il nome del Regno di Serbi, Croati e Sloveni in
Jugoslavija, raccogliendo al suo interno una consorteria
criminale. La crisi economica mondiale del ‘29 colpì
fortemente la Jugoslavija, mettendo in ginocchio la fragile
agricoltura. Continui intrighi e voltafaccia dimostrano come
le masse serbe potevano essere strumentalizzate. Infatti,
l’annunciato concordato tra la Chiesa Ortodossa e Cattolica
non ledeva né gli interessi della Chiesa ortodossa né quelli
del popolo serbo, ma suscitò ugualmente oscuri sentimenti
antioccidentali assumendo aspetti rivoluzionari.
L’accordo Cvetković-Maček tra serbi e croati fu accolto
in Serbia come un vero tradimento. Ritenevano di perdere il
ruolo di nazione cardine dello Stato, perché l’elemento serbo
veniva a trovarsi in minoranza. Nel 1941 Cvetković firmò a
Vienna l’adesione della Jugoslavija all’Asse, approfittandone
un’altra volta per rovesciare il potere interno. Quando
nell’aprile di quell’anno la guerra si affacciò con l’attacco
simultaneo alla Jugoslavija, fu chiaro quanto l’opinione
pubblica serba fosse stata manipolata da personaggi senza
scrupoli, ma anche senza cervello. La Luftwaffe rase al suolo
Belgrado causando la morte sotto le macerie di svariate
migliaia di persone. Il re e il Governo ripararono in Grecia,
la Serbia venne occupata, la Vojvodina annessa all’Ungheria
per una parte e per l’altra assegnata in feudo alla locale
minoranza tedesca, la Macedonia e il Montenegro consegnati
all’Italia. Furono gli inizi della Resistenza, quella dei
cosiddetti četnici186, guidata dal colonnello dell’ex regio
esercito Draža Mihajlović187 con un drappello di ufficiali e
soldati riallacciati all’antica tradizione guerrigliera serba per
aspetto esteriore, ma anche per incapacità di organizzarsi in
un movimento strutturato e coeso. L’altra opposizione,
manifestatasi dopo l’attacco di Hitler all’Unione Sovietica,
costituitasi in Serbia negli anni venti sul modello bolscevico
di Lenin e manovrata da Mosca fino al ‘37, quando il
controllo del Partito Comunista Jugoslavo venne preso dal
segretario generale Milan Rudić di Novi Sad, nonno di Rade,
e poi dal croato Josip Broz Tito, formò un organismo
compatto, disciplinato, in cui le tensioni nazionali
sembravano superate.
L’indubbia carica messianica di Tito riuscì a compiere
miracoli, permettendo ai partigiani della Resistenza di trovare
negli anni ‘42 e ‘43 un ambiente accogliente nella Bosna e nel
Montenegro, dove si sviluppò un vigoroso movimento
politico-militare. E a Jajce, antica capitale dei sovrani
bosniaci, nel novembre del 1943 il Consiglio Antifascista dei
Popoli della Jugoslavija, guidato da Tito, gettò le basi di un
futuro Stato Federale, articolato in Repubbliche Nazionali.
È probabile che, leggendo l’ultima parte sulla vita
belgradese nel periodo che va dai primi anni ‘60, ci si chieda
il motivo della digressione in senso storico, sociale e umano,
che a prima vista non ha una particolare attinenza con quel
periodo. Non è così. Ogni passo nella Belgrado vecchia e in
quella nuova, che per la sua condizione temporale non riesco
a classificare come antica e moderna, in ogni rapporto
umano di quella città o della provincia, ero costretta a
cercare di trovare la conferma di certi aspetti o
comportamenti del passato nel quale erano collocati i motivi
della loro attualità.
Nella società, l’ordine o il disordine, la sicurezza o
l’insicurezza, la paura e il coraggio, la miseria o il benessere
formano la natura umana. Come le lunghe nebbie danubiane
creano quel certo grigiore che offende la mia necessità
mediterranea di sole invernale; come quelle trasparenze
assenti nelle estati continentali belgradesi, come i palazzi
nuovi senza storia né ricordi impressi, come le strade sterrate
e perennemente fangose in mezzo a casupole basse e
indecorose, così gli uomini e le donne in mezzo ai quali ero
finita a condividere i loro spazi, mi davano la sensazione di
una invisibile patina di tonalità offuscate. Credo che solo
osservandoli da vicino fosse possibile capirli. E tutti i loro
difetti, che scoprivo senza intenzione, mi facevano riflettere
sulle cause che li avevano resi vulnerabili sotto una corazza
di indolenza e inefficace prepotenza. Il mio era uno strano
atteggiamento mentale, non voluto. Mi chiedevo perché
questa loro storica necessità di grandezza?
È mai possibile che un intero popolo o certi gruppi siano
talmente legati a idee ben definite che, per cercare di
raggiungerle, continuino ad andare sempre, di nuovo nella
stessa direzione, verso gli stessi sbagli, senza mai veramente
arrivare al voluto traguardo? Possibile dimostrino tanta
incapacità di trovare in se stessi una soluzione misurata per i
vecchi problemi, senza ripetere percorsi sbagliati nei secoli,
con spargimenti di sangue, immani sacrifici, per poi non
risolvere e non approdare a nulla di valido e duraturo?
Proprio seguendo i percorsi storici ho maturato la
convinzione che il senso d’inadeguatezza spinga questi
gruppi al perenne scontento e ad una viscerale infelicità.
Non è questione di precarietà vera e propria, ma della sua
percezione, nel senso del crederla come un’imposizione
perpetrata da altri. Da qui i continui intrighi, gli inaspettati
tradimenti, i repentini voltafaccia, le piccole invidie,
l’incoscienza scambiata come sfortuna, che li spinge a voler a
ogni costo innalzarsi al di sopra di se stessi, con la
convinzione che la felicità vada cercata al di fuori di noi.
Questo è quanto la storia ci trasmette. La ricerca della
grandezza nell’incapacità di comprendere la nostra vita.
Probabilmente è vero che è questo il loro marchio, come per
taluni popoli o gruppi sono la tristezza, la nostalgia, la
gaiezza, il garbo, la lealtà.
Venerdì mattina arrivai in ufficio con l’allegria per il fine
settimana da trascorrere lontano da scartoffie e problemi.
Con la posta mattutina arrivò una lettera di Zoran Babić. Era
già da una settimana a Belgrado occupato in continuazione
con gruppi di diplomatici stranieri. Con taluni aveva stretto
contatti durante gli ultimi anni di soggiorni nei loro paesi.
Zoran mi comunicava che aveva bisogno della mia presenza
come traduttrice per una coppia di cecoslovacchi, ospiti
insieme a una delegazione libica e al loro ambasciatore
appena accreditato a Belgrado. Purtroppo gli unici giorni
liberi per questo incontro erano nel fine settimana. Mi
avvertiva che era importante che io lo raggiungessi venerdì
pomeriggio al Grand Hotel Jugoslavija per motivi
organizzativi.
Sabato ci sarebbe stato l’incontro ufficiale e domenica si
partiva con il battello Pannonia lungo il Danubio per rientrare
la sera. Mi annunciava inoltre la presenza di Nenad, che nel
frattempo era diventato membro del suo staff.
Alla fine dell’orario di lavoro, come ogni venerdì, mi tolsi
il mio tailleur-pantalone in lino blu con la camicia bianca,
ormai la mia abituale uniforme di lavoro, sistemandola nel
borsone. Infilai il piccolo vestito blu a bretelle per la
spiaggia. Decisi che avrei fatto una nuotata al Konak, una
doccia, e poi verso sera avrei raggiunto lo Jugoslavija.
Uscii dall’ufficio sotto un solleone a picco e un vento
arroventato che scioglieva l’asfalto. Fuori dall’ufficio mi si
avvicinò un uomo, prima fermo vicino al portiere della Multi
Export-Import, chiedendomi se fossi già disponibile a
recarmi all’Hotel Jugoslavija. Il presidente Babić aveva
pensato che potessi essere accompagnata con la macchina se
avessi avuto necessità di andare da qualche parte e poi
raggiungere lo Jugoslavija. Mi ritrovai nuovamente a
chiedermi come facesse Zoran a credere di potermi guidare
anche dopo anni di assenza. Desideravo fare a modo mio,
ma il caldo soffocante mi suggerì di accettare il passaggio in
macchina, la cosa più intelligente in quel pomeriggio di
fuoco. D’altronde nel mio borsone avevo tutto quello che mi
serviva per il fine settimana al Konak, per cui anche se avessi
dovuto trascorrerlo altrove.
Non c’era nessuno in strada a quell’ora, ma per le
chiacchiere bastava lo sguardo del portiere. Potevo
immaginare i commenti ai quali sarei stata sottoposta. Ormai
sapevo che Belgrado era un centro provinciale. In senso
linguistico čaršija aveva il significato di cortile, in quello
letterario recinto con animali domestici e nell’uso comune un
senso spregevole per indicare il modo in cui era ridotta
Belgrado, naturalmente nelle idee e sulla bocca di una certa
intellighenzia che chiamava la politica belgradese la politica di
čaršija, cioè da cortile. Pensai, finalmente c’era un motivo per
parlare anche di me nella čaršija. E qui le voci non si
sarebbero facilmente spente. Belgrado non era Zagabria,
distratta, vaga, indulgente di un disinteresse totale.
La vettura, una Mercedes vistosa scivolò lungo le strade
polverose, salì sul Ponte Nuovo. Arrivata al Grand Hotel
Jugoslavija, girò nel viale per le vetture ufficiali. L’ultimo
piano dell’ala, un attico con affaccio diretto sull’estuario
formato dalla congiunzione del Sava con il Danubio, di
solito diventava alloggio e ufficio di personaggi del Governo
di passaggio a Belgrado, come mi spiegò l’autista. Da due
anni il dottor Babić - disse “dottore” e non “compagno” era diventato presidente della Commissione per i Rapporti
con i Paesi nonallineati. Dopo l’attuazione dell’autogestione,
ritenuta introdotta con la conferma della maggior parte degli
emendamentinel‘65,TitopreteseBabićalsuofianconella cura dei
rapporti internazionali, calcando sempre più su questo tipo
di rapporti con i paesi fuori dei blocchi politici e militari.
Allora non conoscevo l’albergo Jugoslavija. Era
accessibile solo a delegazioni straniere, a personaggi politici
nazionali ed esteri, a qualche molto noto ricco straniero.
Non sapevo come fossero gli altri piani, ma l’attico era
qualcosa di mai visto. Certo, allora non avevo altro metro di
paragone che i film. Molti anni più tardi, quando avrei
frequentato i grandi alberghi d’Europa, America, ma
soprattutto quelli di Singapore e Hong Kong, non avrei mai
visto nulla di simile. Alloggio privato, uffici, arredi sofisticati,
tendaggi preziosi, spazi schermati, giardino pensile alberato,
fiori esotici, cascate d’acqua, addirittura terrazzi rinfrescati da
invisibili ventilatori, camerieri, segretari, autisti. Pensai
involontariamente che ero solo tre o quattro chilometri
lontano dalla Belgrado sul Sava, quella delle casupole senza
recinti e con la pompa dell’acqua in mezzo alla strada
fangosa e maleodorante. E io mi godevo il fresco in una
terrazza fiorita come se fossi in un altro mondo! Ero assorta
in pensieri non molto gradevoli e non mi accorsi nemmeno
della presenza di Zoran Babić abbronzatissimo, vestito con i
soliti pantaloni grigio perla di lino fine e maglietta in filo di
scozia celeste, mocassini chiari, l’immagine viva di salute,
freschezza e serenità assoluta, appena con qualche piccola
ruga di più all’angolo degli occhi e le tempie leggermente più
brizzolate. In quel momento mi resi conto del perché, oltre
che per le sue indubbie capacità di convincimento, Tito lo
volesse vicino a sé. Esteta carismatico lui stesso, usava anche
l’aspetto aristocratico e sofisticato del suo presidente per
affascinare maggiormente il mondo che voleva attirare.
Zoran rimase fermo come se fosse in dubbio sul cosa fare.
Sono stata io ad abbracciarlo con trasporto in un impeto di
vecchio cameratismo. Ci pensai solo dopo che questo gesto
impulsivo poteva essere interpretato in maniera sbagliata.
Poteva dedurre che mi fosse mancato. In un certo senso era
vero. Mi mancava la sua sicurezza in tutti quei controsensi e
nelle estreme diversità che mi circondavano in
quell’ambiente.
Contraddizioni
troppo
evidenti,
inadeguatezze che sentivo addosso fra persone che non
capivo.
Il pranzo sciolse l’iniziale esitazione. Dovetti raccontargli
tutti gli avvenimenti della Matica Hrvatska a Zagabria, il
carcere di Nicola e degli altri, il lavoro alla rinnovata Multi
Export-Import, le miei considerazioni e le opinioni sui fatti e
sulle persone. Trascurai volutamente la brutta perdita della
Casa di pietra grigia, finché non fu Zoran a chiedere notizie
di Maestro. Era quello che non volevo ricordare, ma poi di
un fiato raccontai tutta la faccenda sottolineando che non
avevo voluto e non volevo alcun intervento per far valere i
miei diritti, perché questo significava togliere la tranquillità
raggiunta da Maestro.
Zoran disse solamente una cosa:
- Mi dispiace non esserci stato quando si potevano ancora
interrompere le macchinazioni dei Tador, anche se il Comune ha di
certo le sue responsabilità. Ora chiedi un terreno in sostituzione di
quello che ti hanno tolto, se credi che questo possa compensare almeno
in parte la tua perdita!
- No – fu la mia risposta - io non voglio più nulla in quel luogo.
- Fui sopraffatta da una tristezza che da molto non provavo.
Zoran se ne rese conto e mi invitò a ritirarmi per riposare.
Di sera c’erano gli ospiti a cena e doveva arrivare Nenad.
Mi affidò a una delle cameriere che mi accompagnò nella
mia stanza e si prese cura del mio tailleur blu per la serata,
che iniziò con una cena ufficiale, abbastanza formale: due
stretti collaboratori dell’ambasciatore libico, sua moglie, la
coppia cecoslovacca, il presidente Babić, Nenad e io, molto
distratta dai miei pensieri. Nenad aveva l’evidente compito di
intrattenere la moglie dell’ambasciatore, mentre il presidente
parlottava fitto in inglese con suo marito. I due collaboratori
dell’ospite d’onore erano muti e attenti ai discorsi del
presidente, mentre la coppia di cecoslovacchi, il segretario
degli Affari Esteri della Repubblica Ceca e la sua capo
ufficio, erano come in attesa. Non ero per niente zelante nel
tradurre i discorsi del presidente. Infatti, i cecoslovacchi mi
dissero che capivano perfettamente l’inglese e il francese, e
se avessero avuto difficoltà nel comprendere qualcosa, mi
sarebbero stati grati se fossi stata loro d’aiuto. Mi rilassai.
Non capivo molto di quello che abbastanza animatamente
esponeva il presidente. A un altro tavolo cenavano le
rispettive delegazioni dei due paesi: Jugoslavija e Libia. I miei
interventi avrebbero avuto luogo sabato durante la gita con il
Pannonia sul Danubio e il Tisa 188, che si sarebbe svolta, senza
delegazioni. Poteva facilmente succedere che non vi
partecipasse nemmeno il presidente. Per esperienza sapevo
che in riunioni internazionali l’interprete era obbligatorio e
doveva essere procurato dai padroni di casa, per cui la mia
presenza era ufficiale. La sera si protrasse abbastanza a
lungo. Quando si ritirò l’ambasciatore e i cecoslovacchi
finalmente riuscirono a carpire maggiore attenzione al
presidente, mi resi conto che erano, in un certo senso, un
posticcio a quell’incontro. Non erano programmati e come
tali pazientemente attendevano il loro turno.
I libici sembrava avessero qualche marcia in più. Che
strano mondo quello della politica internazionale e quello
della diplomazia! Quel contatto diretto, per la prima volta a
quel livello, mi incuriosì, anche se ero conscia che nella mia
posizione non dovevo registrare nulla, né pensare a nulla, né
cercare di spiegarmi alcunché.
Questo era il motivo per il quale Zoran Babić aveva
preferito chiamare me in questa occasione invece di affidarsi
alla persona che gli uffici federali gli avrebbero imposto.
Buona regola era, prima dell’inizio di una traduzione,
informarsi sui contenuti, sul paese di provenienza degli
ospiti, abitudini, usanze, cenni storici, condizioni sociopolitico-economiche. Io non avevo fatto niente di tutto ciò e
neppure avevo il tempo di farlo. In altre condizioni avrei
rifiutato una responsabilità come quella. Se il mio compito
era assistere la coppia cecoslovacca, non potevo essere
completamente a digiuno su quanto riguardava la
Cecoslovacchia, ma anche la Libia. Il corso per traduttori e
interpreti internazionali che avevo frequentato durante
l’ultimo anno all’Università di Belgrado, poneva regole
precise, rigorose. Aver terminato il corso con esito positivo
non significava affatto essere approdata a quel lavoro, da
pochi raggiungibile. Il mio lavoro principale, quello di
interprete internazionale per la Multi Export-Import, che mi
avrebbe messo nella condizione di dovermi recare all’estero,
non necessitava solo della laurea in lingue, ma, anche
dell’abilitazione al lavoro di traduttore-interprete e
dell’iscrizione alla Camera di Commercio nell’elenco dei
periti di ruolo. Non si trattava solo di tradurre. I rapporti
internazionali erano completamente diversi dai soliti rapporti
aziendali che ormai, conoscevo bene. Qualche legittima
perplessità me la creava la mancata preparazione per l’attuale
evento. Cercavo di capire quali fossero i rapporti tra il
Governo Jugoslavo, la Delegazione libica e nello stesso
momento la presenza, che mi sembrava meno ufficiale, dei
cecoslovacchi. Quella sera, ritiratisi gli ospiti, feci presente le
mie perplessità al presidente. La sua risposta fu molto
semplice:
- Tradurrai esattamente quello che ti dirò durante la
riunione di domani mattina. Per il resto non ti chiederanno
nulla, se non probabilmente qualcosa sul paesaggio, sul
tempo e sull’itinerario. I cecoslovacchi sono di scuola russa,
sanno che tu non conosci quello che si fa e che, se pure ne
fossi al corrente, non lo diresti. Perché dovrebbero fare la
figura dei non informati con domande che non avrebbero
risposte? Per quanto riguarda i libici hanno tutto l’interesse a
parlare quanto meno possibile, anche con gli stessi membri
della loro delegazione! -
Avrei imparato moltissimo in soli due giorni.
Oggi posso raccontare, almeno in linee generali, quanto
nel ‘66 era ancora del tutto in ebollizione.
Il principe Idris-Al-Senussi era a capo dello Stato Libico
in quegli anni. Le potenze arabe, in particolare l’Egitto,
seguito da Pakistan e India, erano molto favorevoli
all’indipendenza degli Stati Arabi e lavoravano in tal senso.
Egitto, Pakistan e India erano paesi già molto legati alla
Jugoslavija di Tito, i primi a essere menzionati nel suo
discorso fra i nonallineati. Quando la Libia nel 1953 entrò
nella Lega Araba fece un passo verso una maggiore
indipendenza, ma concluse anche un accordo con gli inglesi
per ricevere aiuti economici, cedendo in cambio territori per
la costruzione di basi militari. L’anno successivo fece lo
stesso con gli americani. Malgrado i supporti economici e i
programmi di sviluppo, la Libia rimase arretrata e povera. La
situazione iniziò a cambiare nel 1959, quando nella Cirenaica
la Esso trovò un ricco pozzo di petrolio e poi altri ancora e
la Libia intraprese un processo di sfruttamento di queste
nuove risorse. Molti libici si trasferirono nelle città in cerca
di lavoro, abbandonando il deserto, ma l’estrazione del
petrolio continuò ad arricchire solo le compagnie straniere.
A metà degli anni ‘60, grazie anche all’idea del nonallineamento
e d’indipendenza che Tito professava tra i popoli poveri
asiatici e africani, cominciarono a sentirsi anche in Libia
questi influssi nei movimenti panarabi,con il forte sostegno
di Jamal Abdul Nasser, grande amico del Maresciallo Tito.
Vennero fatti progetti rivoluzionari contro il re Idris e
contro le basi militari americane a Tripoli. Un gruppo di
ufficiali dell’esercito si impossessò del potere. Il movimento
si diffuse negli anni seguenti attraverso il Libro Verde, il
testo di riferimento e di normativa della futura grande
Repubblica Araba Libica Popolare Socialista.
La delegazione e l’ambasciatore a Belgrado
appartenevano a quel gruppo di ufficiali che avevano
deposto il re Idris ed erano in procinto di smantellare le basi
militari anglo-americane. Gli americani non reagirono affatto
a questi avvenimenti, anche se le loro basi a Tripoli erano le
più importanti nel Mediterraneo. Di questo atteggiamento,
anche se ritenuto strano, allora non si seppe il motivo. I libici
avevano avuto molti contatti con Tito e il presidente Babić
durante i loro viaggi e soggiorni con la Galeb lungo le coste
africane. La Jugoslavija promise aiuti economici e
manodopera specializzata per il lavoro nei pozzi di petrolio e
la inviò. Ora c’era necessità di costruire le città. Gruppi di
disoccupati bosniaci, pagati dal governo jugoslavo, partirono
per i paesi africani. Da lì, appena poco dopo, sulla scena
libica si affacciò il colonnello Muammar Gheddafi.
Velocemente avrebbe assunto la leadership del Movimento
Rivoluzionario, smantellato le basi americane, nazionalizzato
le banche e l’estrazione del petrolio espellendo coloni,
moltissimi italiani, confiscando i loro beni.
Gheddafi, figlio di beduini del deserto libico, si era
distinto già nella scuola superiore, dalla quale venne espulso
per aver organizzato una manifestazione contro la
repressione politica e la dominazione straniera. Cresciuto nel
mito di Omar Al Mukhtar, che aveva guidato la Resistenza
libica nel 1930 contro l’esercito coloniale italiano, divenne un
fervido ammiratore del presidente egiziano Nasser, che
incarnava il suo ideale nell’Unione dei Paesi Arabi. Dopo il
diploma all’Accademia Militare di Bengasi e un periodo di
addestramento in Inghilterra, Gheddafi entrò in stretto
contatto con il gruppo del governo al potere e si preparò per
l’impresa che lo avrebbe fatto entrare nella storia: il colpo di
Stato, seguito da un lungo processo di rinnovamento della
Libia, teorizzato nel Libro Verde. In breve, Gheddafi
avrebbe lasciato la carica di presidente del Consiglio
Rivoluzionario e conservato solo la qualifica di guida della
Rivoluzione, rimanendo per anni, fino a oggi, in conflitto
con i Paesi Occidentali, cambiando atteggiamento solo in
linea con la politica della Lega Araba contro il terrorismo
internazionale. Avrebbe ospitato la conferenza dei capi di
Stato africani, proposto la creazione di un’Unione Africana
con un parlamento unico, una sola Corte di giustizia, una
moneta comune. Ma questo è già il futuro. Un futuro che
vide molto impegnato il Maresciallo Tito.
Quel sabato del giugno 1966 tante cose che avrebbero
coinvolto molti Paesi in apparenza lontani si stavano
consolidando, prendendo direzione e forma. Non sapevo di
partecipare ad avvenimenti che avrebbero fatto la Storia.
Quella sera, dopo una giornata lavorativa estenuante perché
in quei discorsi i cecoslovacchi erano interessati a ogni
particolare, mi sentivo esausta.
Domenica mattina si partì con il battello Pannonia lungo il
Danubio a nord-est, salendo verso il suo affluente Tisa e la
città magiara Seghet. Il Pannonia era un battello, cioè uno
yacht moderno per la navigazione fluviale. Una nave di
quelle usuali per le crociere danubiane tra Bratislava e
Vienna, con la carena piatta, la prua affusolata, il ponte largo
con salone vetrato e cabine sulla poppa. Il Pannonia era usato
solo dagli appartenenti al Governo Federale e vi erano
invitati ambasciatori e ministri dei governi stranieri. Alla gita
non parteciparono i componenti della delegazione libica, ma
solo i commensali del nostro tavolo di venerdì sera insieme
all’ambasciatore. C’erano i due cecoslovacchi. Nenad si
dedicava ad animare la moglie dell’ambasciatore. Una donna
giovane, né brutta né bella, inespressiva, disinteressata, poco
adatta al suo ruolo. Non capivo nemmeno se seguiva Nenad
nei suoi discorsi fatti in un perfetto inglese, borioso e
leggero. Il presidente Babić, in continuazione puntato dai
libici, dimostrava il solito aplomb. I cecoslovacchi erano
evidentemente nervosi. Dall’arrivo sul battello più volte
avevano chiesto la possibilità di parlare al presidente. Il
segretario del presidente era un po’ imbarazzato per le loro
insistenze e li dirottava su di me per tenerli occupati.
Era il periodo in cui in Jugoslavija si era manifestata
quella frattura nel cui ambito cominciarono a prendere
corpo due correnti contrapposte: la prima autonomista e
libertaria, l’altra centralista e dogmatica. Si scontravano
dietro le quinte in una lotta senza esclusione di colpi. In un
primo momento la coalizione autonomista e libertaria
sembrò più forte. Infatti, alla fine del ‘65 la Polizia di Stato
Federale riuscì a condannare Ranković, fino allora al vertice
dell’UDBA. La scomparsa di Aleksandar Ranković, per
quanto terribile fosse stato il suo dominio, per i serbi e i
montenegrini rappresentò il crollo di una visione
centralizzata dello Stato, ostile ai particolarismi e agli
interessi dei gruppi etnici minori. La leadership serba,
costituita da esponenti liberali dopo la caduta di Ranković,
non mancava nemmeno a Belgrado. Anch’essa era convinta
della necessità di nuovi rapporti tra la Serbia e il resto della
Jugoslavija, la necessità cioè di costituire una Federazione
più stabile e moderna, libera dalle sotterranee conflittualità
etniche ed economiche che ne minavano l’esistenza. La
Jugoslavija era insidiata anche dal timore che l’Unione
Sovietica e i suoi satelliti potessero puntare sui suoi dissensi
etnici per indebolirla. I rapporti dal 1956 al 1966 tra Mosca e
Belgrado furono particolarmente tesi. Per quanto riguarda la
Cecoslovacchia, dopo il ‘48 seguì un processo di
industrializzazione inadeguata per un paese altamente
sviluppato come la Boemia. La popolazione ceca e slovacca
fu sottoposta a controlli e vessazioni da parte della polizia
politica. Durante gli anni della guerra fredda si cominciò a
creare un fossato tra la gente e gli organi di regime, ponendo
le basi alla crisi del sistema. Alcuni oppositori della politica
stalinista furono condannati a morte. Il socialismo dal volto
umano predicato da Tito affascinava anche il segretario del
partito slovacco Alexander Dubček. La nuova leadership
ceca, formata da intellettuali, politici, economisti, guardava a
quello che succedeva nelle Repubbliche Jugoslave. Il nuovo
corso cecoslovacco assecondava la liberazione della vita
politica, culturale ed economica, con lo scopo di coinvolgere
le masse e di ampliare il consenso popolare, senza però
mettere in discussione il Partito Comunista. Il Movimento di
Liberazione era orientato a seguire gli insegnamenti
dell’autogoverno che si stava attuando in Jugoslavija. Uno
dei rappresentanti del nuovo corso, il cecoslovacco Otà Šik,
si era recato più volte a Belgrado per seguire le direttive di
Kardelj sulla via jugoslava al socialismo.
Con l’introduzione dell’autogestione in Jugoslavija era
stata eliminata la pianificazione amministrativa centralizzata.
La battaglia politica si estendeva a terreni molto più vasti,
mettendo in luce motivi più profondi che riconducevano ai
problemi generali dell’autogestione e del socialismo. Era la
nuova seconda battaglia jugoslava del nonallineamento. Un’opera
considerata esclusiva di Tito, una sintesi dei problemi su
vasta scala, temi per i quali molti paesi entrarono nella
nonallineanza documentandosi alla fonte. Era quello che
anche la Cecoslovacchia intendeva fare.
Non so quanto Mosca fosse al corrente dell’attività di
Otà Šik. Credo che, essendo esponente del Governo
Cecoslovacco, non fosse possibile non venisse controllato
dai Sovietici. In quegli anni il Governo Cecoslovacco
manteneva stretti contatti con quello jugoslavo, seguendo
con sotterraneo consenso il cammino per l’autonomia
sociopolitica ed economica. Erano anni difficili. La
Jugoslavija cavalcava l’idea sempre più pressante della
nonallineanza, mentre i paesi circondanti il territorio jugoslavo
ad est erano legati, volenti o nolenti, al Patto di Varsavia. La
Jugoslavija aveva buoni rapporti con i paesi del Patto. Sia
l’Ungheria che la Cecoslovacchia erano importanti partner
economici.
Gli scambi commerciali e culturali erano buoni. La
Jugoslavija si guardava bene dall’entrare nel merito delle loro
condizioni politiche interne. Se questa fosse solo l’apparenza
dei fatti è difficile dirlo. I cecoslovacchi in quegli anni erano
spesso ospiti del Governo di Belgrado, come si può dedurre
anche dalla loro presenza nel giugno di quell’anno al grande
albergo belgradese Jugoslavija. È vero anche che il
presidente della Commissione per i rapporti con i Paesi del
Terzo Mondo e nonallineati ricevette Otà Šik in veste, credo,
privata, perché non si soffermò mai su di un qualsiasi
dialogo pertinente le condizioni politiche, né aveva discusso
sullo sviluppo della democrazia socialista autogestita come
controparte del comunismo est-europeo.
Erano anni anche pericolosi.
Il revisionismo praghese non lasciò indifferente Mosca.
La sua ideologia preoccupò per possibili sviluppi similari
negli altri Paesi dell’Europa dell’Est. Mosca attese gli sviluppi
e al momento giusto mandò le truppe dei paesi del Patto di
Varsavia a invadere la Cecoslovacchia, mettendo fine
all’esperienza della Primavera di Praga. Per Dubček e per il
Partito Comunista Cecoslovacco cominciò il periodo della
cosiddetta normalizzazione, con il ritorno alla politica e ai
metodi
dell’ortodossia
comunista.
L’opera
di
normalizzazione del regime e il conseguente clima di pesante
oppressione instauratosi non impedirono il nascere e lo
svilupparsi di sentimenti di dissenso e di opposizione, che si
concretizzarono appena nella metà degli anni ‘70, nella
costituzione del movimento Charta 77, volto alla
rivendicazione e difesa dei diritti e della dignità dell’uomo
nello spirito della Conferenza di Helsinki.
I problemi di Belgrado tra il 1965 e 1970 erano simili. La
Lega Comunista si era indebolita al suo interno per
l’altissima corruzione e concussione con una classe nuova di
manager al potere grazie alle liberalizzazioni permesse dalle
regole autogestionali, comprese e applicate secondo il libero
arbitrio di quanti erano convinti di essere intoccabili. I serbi
erano più che certi che le rivendicazioni della Croazia, della
Slovenija, della Macedonia e di quasi tutte le Regioni
autonome che facevano tremare le fondamenta della
Federazione, non fossero un problema loro. Gli affari tra la
Banca Jugoslava e le grandi aziende sempre di più facevano
discutere e riempivano le pagine dei giornali. I potenti
manager viaggiavano, concludevano vantaggiosi affari per le
proprie aziende, ma anche per se stessi. Affari e viaggi
all’estero strettamente personali li svolgevano sempre più
spesso a spese del collettivo. Nascevano fastose ville sulla
costa adriatica e nei posti rinomati in collina, montagna, alle
terme. A lettere, prima minuscole poi sempre più evidenti, si
leggevano sui giornali anche nomi di noti, insospettabili
personaggi pubblici. Qualcosa di non del tutto chiaro stava
prendendo piede, anche nella Multi Export-Import. Sempre
più spesso vari direttori di settore mi incaricavano
dell’acquisto di biglietti aerei in classe affari e prenotazioni in
alberghi a cinque stelle con la loro sola firma sulle delibere
per gli affari da svolgere. Una cosa non regolare.
Normalmente ci doveva essere la firma della Commissione
per l’approvazione e la somma esatta della spesa, la durata
della missione e la consegna delle ricevute per la copertura.
Mancava sempre qualcosa e i documenti, passati da me alla
contabilità, non tornavano più dal direttore generale tramite
il mio ufficio, come deciso nelle riunioni del Consiglio dei
Lavoratori Aziendali. Questioni che non avevo il compito di
far notare. Non era affar mio il controllo delle firme dei miei
superiori. Io notavo le incongruenze nell’iter delle pratiche,
ma solo perché avevo conosciuto tutti i particolari
dell’autogestione nella sua corretta applicazione e la serietà
che doveva essere posta nel controllo per scoraggiare
comportamenti illeciti. Purtroppo mi rendevo conto che più
i personaggi erano in alto nella scala della gerarchia,
ovviamente con la copertura della Lega Comunista, tanto più
esercitavano poteri occulti. E proprio per la loro misteriosa
presenza scoprivo una misera realtà in confronto a quello
che l’autogestione imponeva.
XIX. Montenegro – Miločer la spiaggia della regina Lago di Scutari
A fine luglio riuscii ad avere due settimane di ferie. Ebbi
la possibilità di soggiornare nell’ex palazzo estivo del re a
Miločer189, trasformato in albergo per i membri del Governo
di Belgrado, a prezzi estremamente bassi per il suo tenore e
per la posizione nell’esclusiva baia davanti alla penisola di
Santo Stefano, in quegli anni ancora borgo di pescatori. Non
conoscevo l’Adriatico montenegrino. Era il periodo della
costruzione dei grandi alberghi, smisurati nella baia tra
Bečići190 e l’antica Budva fino a Ulcinj, lungo le spiagge piatte
e sabbiose. Qualcosa che doveva somigliare e fare
concorrenza alla Riviera Romagnola, a Rimini e Riccione, ma
che non sarebbe diventata mai nient’altro che un insieme
d’immensi alloggi a uso e consumo popolare, a prezzi ridotti,
senza tradizione e stile. A Miločer, invece, l’ex palazzo estivo
del re, con la spiaggia della regina cui per assurdo era stato
lasciato il vecchio nome Dvorac, reggia, castelletto, era una bella
costruzione in pietra di Brazza, lineare, a due piani, con
larghe arcate a piano terra lungo tutto il perimetro. A
pochissimi passi dalla spiaggia c’era una conca naturale
attorniata da un parco-giardino con moltissime piante
esotiche, ma soprattutto cipressi, pini marittimi, aiuole fiorite
e variopinte di peonie su distese di prato inglese curatissimo
in contrasto con la vegetazione mediterranea circostante,
fuori dalla conca e sulle pendici della montagnola
retrostante. In un angolo protetto a sud della baia, scolpito
nella pietra, si trovava il trono della regina. Si diceva che da lì la
regina osservasse il gioco del futuro re da bambino.
Suggestiva come storiella e molto probabile. L’attuale
albergo Dvorac191, rimaneggiato e adattato, aveva molto del
suo antico fascino regale, lasciatogli appositamente, penso.
Quando il Maresciallo Tito soggiornava in Montenegro, si
tratteneva al Dvorac. Si diceva che ai Brijoni, dove aveva
stabilito una delle sue più importanti dimore estive, avesse
voluto imitare moltissimi accorgimenti riscontrati al Dvorac di
Miločer. Era noto. Dvorac era all’altezza dei suoi ospiti. Ben
tenuto, confortevolissimo, con un servizio impeccabile, spazi
interni ed esterni curatissimi, intimo ma non solitario, a
misura degli ospiti in realtà non numerosissimi.
Mi sembrarono anche riservati. Supponevo si trattasse di
personaggi abituati ad ambienti ricercati in Paese e all’estero.
Sembrava ci fosse anche una certa naturale convivialità. A
questo pensava il direttore, un montenegrino molto astuto
che per anni aveva svolto il mestiere di albergatore tra
Vienna, Londra e Parigi, iniziando da portiere per arrivare
all’attuale posizione. Il direttore, come molti montenegrini,
era un uomo fascinoso, coinvolgente, e l’aspetto fisico da bel
montanaro gli era d’aiuto. Sicuramente credeva di essere un
diplomatico nato. Conosceva tutto di tutti e non lo avevo
sentito mai, nei discorsi sugli altri ospiti, andare oltre una
misurata esternazione delle peculiarità positive dei singoli
personaggi. Una grande rarità nell’ambiente belgradese, dove
il vaniloquio era di facile uso e consumo. Ma era giusto così,
pensai, prima di scoprire altri suoi aspetti di servile
sudditanza.
Gli ospiti erano per la maggior parte alti funzionari del
Governo, prevalentemente membri di ambasciate all’estero,
qualche sottoministro, membri di commissioni governative
con famigliari o soli.
Arrivai da Belgrado un pomeriggio nel pulmino
Mercedes a sedici posti, occupati per metà da due famiglie
con figli adolescenti e due uomini che si dovevano
conoscere, considerando il modo in cui comunicavano tra di
loro. Le due famiglie, una dell’ambasciatore in Irlanda e
l’altra di un funzionario del Consolato Generale ad
Amburgo, con due figli adolescenti di sesso diverso,
sembravano riservate. Durante il viaggio parlammo
pochissimo. Nelle soste da Belgrado alla costa attraverso la
montagnosa
Montenegro,
i
discorsi
verterono
sull’eccezionalità del prosciutto affumicato montenegrino e
del formaggio con kajmak e su cose del tutto frivole e
casuali. Nessuno sembrava avere desiderio di sapere
qualcosa sugli altri. Mi sembrò un buon inizio. Tornavamo
nuovamente sul pulmino semi-sdraiati nelle nostre comode
poltrone, uguali a quelle aeree, ognuno appartato nei propri
pensieri; osservando il paesaggio che ci scorreva dinanzi,
sonnecchiando o facendo finta di essere assopiti. Che inizio
di vacanza prudente! Finalmente Miločer, dopo lunghe ore di
strada. Dvorac era bello sopra ogni aspettativa. La stanza con
porta-finestra aveva una vista a centottanta gradi sulla baia,
incorniciata dai due promontori completamente ricoperti di
pini.
Appena arrivata mi tuffai nel mare trasparente e dorato
dai riflessi del pomeriggio inoltrato. Dopo una lunga nuotata
mi ritirai e mi addormentai. Mi svegliò il suono del telefono
che era già buio. Il direttore chiedeva se desiderassi cenare in
stanza o in sala, sola o in compagnia. Disse che era meglio,
per la prima serata, in compagnia. Di solito all’arrivo degli
ospiti organizzavano grandi tavolate.
Risposi:- Vada per la compagnia!
La cena era discretamente elegante. Gli uomini in giacca,
le donne con vestiti da sera. Un ambiente senza apparenti
esagerazioni. Mi posi ugualmente il problema di come mi
sarei vestita ogni sera per quindici giorni, avendo un unico
vestito che indossavo tutti i giorni pomeriggio e sera! In città
ero equipaggiata con pantaloni e camicie per il lavoro, ma
per una cena in un albergo lussuoso non avevo nulla da
indossare. Decisi, come al solito, che ci avrei pensato in
seguito. A cena ero sistemata tra i due miei compagni di
viaggio. Dal loro modo di fare, dal rapporto con il personale,
compresi che conoscevano bene il posto e le sue abitudini.
Uno di loro, Milan, sulla quarantina, sottosegretario al
Ministero dei Trasporti, originario del Banato, sembrava più
gioviale e aperto, mentre l’altro, più giovane, belloccio,
trattenuto, un po’ enigmatico, sfuggente, dall’improponibile
nome di Ramo. Gli chiesise per caso fosse della Šumadija,
verso la frontiera con la Romanija, collegando l’origine del
nome al suo aspetto da zingaro. Rispose affermativamente.
Era ingegnere meccanico e presidente di una Commissione
del Ministero dei Trasporti. Tutti e due appassionatamente
innamorati della spiaggia della regina, cioè di Dvorac, e appena
avevano qualche giorno libero vi si recavano per riposarsi.
Beati loro, pensai. L’albergo offriva una vacanza da sogno. Il
fatto che i prezzi fossero più bassi, e di parecchio, rispetto a
quelli del Palace Hotel sull’Isola, come mi spiegarono i miei
nuovi compagni, era perché il Palace era un albergo aperto al
pubblico, con prezzi pubblici, mentre Dvorac aveva un
carattere chiuso, finanziato dallo Stato per uso interno. Milan
si spinse oltre dicendo che sicuramente dovevo avere meriti
particolari per essere in quel luogo. - È vero - risposi - sono
interprete ufficiale del Governo! Sentivo la necessità di frenare l’immaginazione di Milan.
Era ovvio che avesse chiesto al direttore del Dvorac notizie
sul mio conto, perché in un paio di occasioni mi si era
rivolto dicendo - la nostra giovane segretaria.
Mi sembrava quasi un’insolenza. Che fossi una segretaria
era pur vero, ma non nel modo in cui in generale si
intendeva il lavoro di una segretaria, cioè una tuttofare, invece
che un’assistente con impegni specifici, importanti e spesso
segreti, una figura con particolari capacità. Poi chi se non il
direttore dell’albergo poteva avergli rivelato la mia posizione
lavorativa? Era vero che ero stata assunta con la qualifica di
interprete aziendale provvista di laurea e con una buona
conoscenza di più lingue straniere! Ma ciò non contava nella
mentalità popolare. Le segretarie erano quelle che non
sapevano fare nulla e basta. L’essere classificata come bella
segretaria poteva facilmente perciò alludere ad altri meno
nobili presupposti. Per esempio, il fatto che la mia
prenotazione d’albergo fosse arrivata da un ufficio
governativo poteva significare una particolare attenzione di
qualcuno nei miei riguardi e in senso strettamente personale,
cioè intimo. E ciò non poteva andare bene per vari motivi.
Avevo visto la richiesta per le ferie. Era fatta dal Ministero
degli Esteri, dalla Commissione per i rapporti con i Paesi
nonallineati, per l’interprete ufficiale a nominativo. Era vero
che ero solo prestata alla Commissione nei giorni liberi da
impegni permanenti. Era anche vero che di mezzo c’era il
presidente della stessa, per cui mi sentivo alquanto coperta
da illazioni, ma era sempre meglio stare in disparte e non
assecondare supposizioni.
Decisi di frequentare il meno possibile gli ospiti
dell’albergo.
Facevo colazione di mattina presto. Mi recavo sulle rocce
di uno dei due promontori, mi ritiravo il pomeriggio tardi,
ordinavo formaggio e prosciutto e poi andavo a Santo
Stefano o a Pržno192 paese, rientrando quando erano tutti già
ai tavoli per cena, se non già sotto le arcate ascoltando
musica o ballando. Ormai era più che ovvio che non fossi
per nulla portata per la vita in comune che l’albergo, in un
certo modo, imponeva.
Non cercavo compagnia, né avevo alcun desiderio di
approfondire conoscenze balneari. Avevo avuto appena
qualche approccio con una coppia di mezza età, il marito
segretario dell’ambasciata in Lettonia e la moglie insegnante
di francese, parigina doc e semplicemente moglie discreta,
fine, sempre sorridente e abbastanza appartata. Quando non
potevo fare diversamente, qualche volta di sera mi univo a
loro. Di solito ascoltavamo un po’ di musica eseguita al
pianoforte, scambiavamo qualche battuta in merito e tutto
finiva lì. Non avevo mai visto tante cambiate di vestiti al
giorno quante in quell’albergo: per la colazione, per la
spiaggia, per il pranzo, per il tè pomeridiano, per la cena.
Una cosa molto lontana dal mio modo di considerare la
libertà della vacanza. Non avevo mai pensato che avrei
dovuto uniformarmi per stare al passo con un ambiente le
cui preoccupazioni erano tanto frivole.
Ero in vacanza e in libertà. Lo sfoggio d’abiti potevo
concepirlo solo in determinate occasioni pubbliche e anche
mondane. Era di rito, anche se personalmente mi rendeva
insicura e vulnerabile. Non è che non apprezzassi i bei
vestiti. Mi piacevano, ma sugli altri e in occasioni particolari.
In gioventù, già durante l’adolescenza, non avendo
sufficienti possibilità economiche avevo fatto di necessità virtù,
optando per pantaloni corti durante tutta l’estate e poi,
appena mi era stato permesso, pantaloni lunghi, camice
maschili sportive, maglioni pesanti. Avevo trascorso così
tutti gli anni universitari e quelli lavorativi a Zagabria e poi a
Belgrado. Il modo di vestire maschile non era diffuso a quel
tempo. Era una mia scelta. Odiavo le gonne dritte, sformate,
di pessima stoffa, che riempivano le strade con le loro
indecenti mollezze. In pantaloni invece mi sentivo a mio
agio e, per la mia altezza e conformazione fisica, mi si
adattavano anche meglio. E io ne approfittavo. Stava per
finire la seconda settimana a Miločer. Ormai mi trovavo
meglio con gli abitanti di Santo Stefano dove, girovagando
per le stradine del piccolo borgo, avevo stretto varie
amicizie. Incontrai persone straordinarie distinte, fiere, ma
come chiuse nel silenzio di un certo mal celato rammarico.
In piazzetta esisteva un unico ritrovo dove, al calare della
sera, si intrattenevano un po’ tutti. Tra gli abituali
frequentatori della Kavana c’erano due operatori della TV di
Titograd, la capitale montenegrina. Da loro, e non dagli
abitanti dell’isolotto, seppi il motivo di quell’evidente
malcontento. La stragrande maggioranza degli abitanti del
piccolo borgo era già stata traslocata sulla collina dirimpetto,
dove il governo gli aveva assegnato appezzamenti per la
costruzione delle loro case. Venivano sfrattati dall’isolotto e
dai loro vecchi campicelli, che rimanevano fuori mano.
L’isolotto di Santo Stefano, collegato alla spiaggia con
una lingua di sabbia che cambiava la propria curva a destra o
a sinistra a seconda della direzione del vento, era destinato
dal Governo Federale a diventare un complesso alberghiero
di lusso, con casinò e tutto il resto, per un turismo di alta
classe. Una fabbrica di dollari. Il problema erano gli abitanti
di Santo Stefano, ai quali non era nemmeno stato chiesto un
parere sul loro trasferimento, magari in una località più
idonea. Le loro nuove case erano sparse oltre la conca, nella
località di Praskvice193 sotto il monte Paštrovići194, in mezzo
alla macchia mediterranea, dove non era possibile raccogliere
nemmeno abbastanza legna da ardere.
Allontanati dalla poca terra dei campi nella conca,
vivevano un vero dramma. Il Governo Federale riteneva che
la zona delle grandi spiagge, da Bečići fino a Ulcinj, con la
costruzione dei mega-alberghi avrebbe accolto il turismo di
massa che si stava già riversando in quel tratto di costa, e
avrebbe dato lavoro agli abitanti della zona, compresi gli
sfrattati di Santo Stefano. Ma i problemi erano due: le
abitudini della popolazione e la mancanza di una tradizione
turistica. I due amici della TV di Titograd ritenevano che il
Montenegro non avesse la forte tradizione di ospitalità della
Dalmazia, dove la popolazione era da sempre abituata a
offrire servizi. Impiantare alberghi, ristoranti e pretendere
che quelli che fino al giorno prima erano contadini, appena
sradicati dalla terra diventassero personale adatto alle
esigenze turistiche, era assurdo. Quello che ritenevano
imperdonabile era il modo in cui erano stati sfrattati i vecchi
abitanti che datavano la presenza dei loro avi a Santo Stefano
già nel Cinquecento, e non solo sull’isolotto ma anche sui
campi della conca distrutti con le costruzioni in atto. A due
passi dall’elegante Dvorac, la gente viveva un intimo dramma.
Erano rimaste sull’isolotto ancora cinque, sei famiglie sotto
la pressione dell’eminente trasloco.
Ormai mi trattenevo quasi ogni sera nel piccolo borgo.
Dušan195 e Steva mi raccontarono che nell’isolotto venivano
in vacanza da quando erano studenti. A Santo Stefano
d’estate c’era stato sempre molto movimento. Parenti, amici
e conoscenti riempivano le vecchie case degli isolani e
ravvivavano la solita vita. Si scambiavano favori, si
procuravano
quello
che
mancava
sull’isola,
contraccambiavano l’ospitalità in modo semplice e genuino
con doni e attenzioni. Erano abituati a ospitare i loro simili.
E così si comportavano ancora quell’estate con Dušan e
Steva. I due ospiti, oriundi dell’antica capitale montenegrina
Cetinje196, si procuravano prosciutto di montagna e formaggi
e li dividevano in piazzetta con gli amici isolani. Il tutto
abbondantemente irrorato da un’acquavite a settanta gradi.
Noi di solito sorseggiavamo una leggera e freschissima birra
di Nikšić. A notte inoltrata ci incamminavamo attraverso il
bosco del promontorio che divideva le due conche di sabbia
finissima, quella grande di Santo Stefano e la piccola con la
spiaggia della regina. Una luna piena trapassava le fronde
degli alti pini illuminando il sentiero lungo la scogliera
inondata dall’odore del mare, delle alghe fresche appena
depositate negli angoli delle rocce durante l’alta marea.
Ridacchiavamo, raccontavamo aneddoti, canticchiavamo
struggenti canzoni di Aznavour ed eravamo quasi felici, nei
brevi momenti in cui dimenticavamo il forzato trasloco dei
vecchi abitanti di Santo Stefano. Per far soldi che erano
necessari a Belgrado! La moneta straniera tanto agognata!
Non importava come venisse procurata. Cercavamo di
dimenticare. Anche il Governo montenegrino aveva chiuso
tutti e due gli occhi su ciò che avveniva nel suo territorio.
Avvicinatici all’ingresso del lussureggiante parco di
Miločer, l’esclusiva reggia del Socialismo Federale ci
imponeva il silenzio. Invisibili guardiani erano sempre pronti
ad intervenire a ogni possibile trasgressione, anche a quella
di un sommesso riso nella quiete notturna, che avrebbe
potuto disturbare il riposo di tanti piccoli padreterni, non
meno potenti anche se insignificanti. Ci lasciavamo in
silenzio, con il desiderio di urlare. Entravo in quell’altro
mondo, nel quale non riuscivo a divertirmi, né a sentirmi a
mio agio.
Un giorno decisi che avrei invitato Dušan e Steva a cena
al Dvorac. Riferii la mia intenzione al direttore, che rimase per
un attimo contraddetto.
- Perché - chiesi - c’è qualche divieto? Spiegai in breve che dalle mie parti c’era l’abitudine di
contraccambiare gli inviti. Credendosi diplomatico, si
comportò come se la mia richiesta fosse del tutto naturale,
quando invece non si erano mai visti ospiti di passaggio.
Quella sera avevo deciso di fare a modo mio. Chiesi che
il mio tavolo fosse sistemato sotto l’arcata, fuori dalla sala da
pranzo. Non sapevo come si sarebbero vestiti i miei ospiti e
non desideravo che loro si trovassero a disagio tra le giacche
da sera e i vestiti sgargianti che mi sembrava avessero il
compito di ostentare in continuazione l’appartenenza a una
classe superiore.
Si dimostrò che i ragazzi di provincia conoscevano bene le
abitudini dell’ambiente. Arrivarono in vestiti blu, anche se
con la giacca sulla spalla e senza cravatta. Non potei non
ridacchiare quando li vidi alla fine del viale infilare le giacche,
come fanno i contadini prima di avvicinarsi alla città. Mi
balenò il ricordo anche delle scarpe in mano per non
impolverarle. Poi pensai quanto fosse assurdo dover
indossare le giacche con i rivoli di sudore che inzuppavano le
camicie. Che fatica erano costretti a sopportare quei due
poveri diavoli per colpa mia!
Appena si avvicinarono li invitai a togliersi le giacche.
Per un attimo rimasero perplessi per il mio invito, ma poi
senza indugi le tolsero appoggiandole alla spalliera delle
sedie. Intorno a noi, sotto le arcate, era vuoto. Gli ospiti
erano seduti sulle poltrone intorno alla pista da ballo e al
pianoforte. Eppure molte teste si voltarono verso di noi
come se avessimo compiuto chissà quale sopruso. Eravamo
divertiti senza sapere ancora quanto quella sera stessimo
richiamando l’attenzione di tutti o quasi. Per quello che
riguardava me, potevo esserne certa. Ho già detto che avevo
un unico vestito corto che indossavo da pomeriggio a sera. E
anche volendo farlo sembrare diverso con un fiore, una
scarpa di colore diverso, messa con più o meno fantasia,
tutto si esauriva in un paio di volte. In quel luogo dove tutti
si cambiavano di vestito in continuazione, mi sentivo fuori
luogo. Ma la mia ferma decisione era che non avrei cambiato
nessuna delle mie abitudini. Pertanto indossai una camicia e
pantaloni larghi bianchi, un paio di vecchie scarpe tipo
ballerine e la collana lunga di due fili di corallo, regalo di
Dean, portatami da Ischia in occasione di un torneo di
tennis. E così eravamo tutti e tre a nostro agio, a modo
nostro. Inutile a dirsi, la cena era eccellente, ricercata ma non
sofisticata. Servizio impeccabile, senza invadenti presenze, a
parte qualche sguardo fisso sulle giacche appese sulle sedie,
ma tutto con stile e misura. Avevo dimenticato che i miei
due nuovi amici della TV pubblica rappresentavano gli occhi
e le orecchie del Paese e conoscevano vita e miracoli anche
dei luoghi riservati alla classe dirigente federale. Mi
raccontarono che la spiaggia della regina o Dvorac, come
ancora oggi era chiamato l’albergo di Miločer, era durante
tutto l’anno un covo di bisca clandestina e solo in luglio e
agosto diventava un riservatissimo, tranquillo posto per la
villeggiatura dei funzionari governativi. Durante la bassa
stagione arrivavano il venerdì aerei pieni di biscazzieri e la
domenica sera li riportavano a Belgrado. Mi aspettavo la
domanda su come mai fossi finita in quel luogo, ma non
arrivò, almeno non quella sera. La spiegazione l’avevano già.
Naturalmente in modo conveniente, come mi avrebbero
fatto sapere i miei due amici più o meno una quindicina di
anni più tardi, durante una mia presenza in veste di
interprete a un Convegno italo-jugoslavo tenutosi a Titograd.
La mattina dopo la cena con Dušan e Steva a Dvorac, il
direttore dell’albergo volle parlarmi. Con un’infinità di
preamboli, mezze frasi, scuse, sguardi che mi fissavano come
se non mi vedessero, alla fine tirò fuori il succo del
problema:
- Gli ospiti e le signore, sono rimasti un po’ stupiti dal
comportamento dei suoi amici in maniche di camicia durante la cena. E
poi, la sua personale insistenza nel vestire pantaloni e camicie sformate
è sembrata una contestazione delle regole.
E proseguì che si riteneva mancanza di rispetto in un
contesto signorile, serio e soggetto alle formalità, una
persona giovane che mettesse a disagio gli altri con i propri
atteggiamenti, come a voler sottolineare il proprio
menefreghismo verso le abitudini. Disse ancora che l’unica
persona che aveva cercato di difendermi era la fascinosa
parigina Ortensia, la quale riteneva che tutto nascesse da una
grande dose di gelosia, - perché la ragazza giovane si può
permettere qualsiasi cosa. La gioventù dà questo permesso! Il direttore concluse pregandomi di cambiare
atteggiamento e di cercare di assecondare i desideri degli
ospiti.
Credevo che scherzasse.
Che strano mondo c’era intorno a me! Tutti così
impettiti, retti, prodi. Senza debolezze, senza vizi. Tutto
accuratamente occultato, mascherato. Anche quell’ambiente
che voleva essere la crema della società capitolina era animato
da piccole meschinità provinciali, che non aveva perso nel
contatto con le altre realtà dei vari Paesi la cui vita e le
abitudini potevano insegnare loro un’infinità di cose.
Risposi dopo qualche attimo:
- Mi faccia preparare il conto - e null’altro.
In realtà con Dušan e Steva avevo già programmato di
partire per il lago di Scutari. Partivamo nemmeno un’ora
dopo quel fantastico discorso.
Carichi di attrezzature e camere professionali, ci
avviammo con il fuoristrada di Dušan verso Virpazar, dove
avremmo preso la barca e costeggiato l’estremo nord-est del
lago per raggiungere il villaggio Dodoši, in mezzo
all’immensa palude solcata da innumerevoli corsi d’acqua:
fiumi, fiumiciattoli, ruscelli.
Dopo un breve tratto, la strada locale si immetteva sulla
Magistrale Adriatica lungo il litorale piatto, iniziando la parte
secondaria delle serpentine di Petrovac197 in mezzo a
montagnole molli digradanti verso Virpazar.
In quegli anni il lago di Scutari198 era lontanissimo
dall’accogliere quei flussi turistici che una decina di anni più
tardi avrebbero caratterizzato la zona, quando sarebbe stata
proclamata una delle più grandi riserve naturali per gli uccelli
acquatici rari e in estinzione in Europa.
Allora Virpazar era un villaggio roso dalla pioggia, che
cadeva da autunno a primavera inoltrata e con il disgelo degli
innumerevoli flussi inondava la bassa del Crmničko polje199,
abbattendosi su Virpazar e sulle sue case di legno su
palafitte. Ritirandosi ad estate già inoltrata, lasciava le travi
annerite scoperte, simili a magri e sproporzionati arti
inferiori dei suoi bambini, abituati alla miseria e alle malattie
dell’acqua. Allora era un villaggio strano, scuro, melmoso,
estremamente povero, con pochi abitanti dediti alla pesca e
alla coltivazione di minuti appezzamenti sui cumuli
alluvionali sollevati in mezzo alla palude, sui quali vigorosi
crescevano cavoli neri e poche piante di granoturco, cibo
quotidiano per gli abitanti dello spazio paludoso.
A Virpazar ci attendeva Aca Prijić200, pittore
montenegrino e direttore della Galleria Moderna di Titograd,
personaggio molto noto e vecchio partigiano, ritrattista e
intimo amico del Maresciallo Tito, nativo di Rijeka
Crnojevića201, chiamata anche La città del fiume per la vicina
sorgente dell’omonimo fiume dei Crnojevići202. Questo,
all’inizio impetuoso, scendendo verso la pianura e il grande
lago si allargava e oltre i suoi invisibili margini creava fitti
acquitrini e, infine, la grande palude del lago di Scutari.
L’estremo est del lago, un braccio ristretto, era racchiuso da
brevi sollevamenti, simili a isole sparse in un cerchio
ravvicinato: Pregrada, Drušići203, Dodoši, Žabljak, Vranjina,
con piccoli campicelli. Tutta la parte est del grande lago
invece era solcata da un numero imprecisato di affluenti dei
due fiumi principali, Rijeka Crnojevića e Morača204, che
creavano la grande palude che si estendeva fino alla frontiera
albanese. A ovest del lago immenso, simile a un mare con le
sue alte sponde e il fondale profondo, c’erano molte belle,
piccole baie e isolotti con monasteri ortodossi, fino alla
cittadina di Scutari, dove la linea della frontiera con l’Albania
tagliava le acque montenegrine, dividendo i due Paesi.
Al nostro arrivo a Virpazar, dove lasciammo il
fuoristrada, ci attendeva il barcaiolo con un’imbarcazione dal
fondo piatto, lunga e stretta, con pareti basse, un piccolo
motore fuoribordo a due cavalli e due corti remi palmati. Ci
sistemammo uno dietro l’altro, dalla prua alla poppa, sulle
traverse annerite e umide, per non sbilanciare l’alquanto
precario assetto della piccola imbarcazione. La barca scivolò
insicura sul tappeto di foglie di innumerevoli piante
acquatiche, spinta dai larghi e corti remi. Raggiunta la parte
più profonda e messo in moto il fuoribordo, prese un
andamento più regolare, ma piano e attento. Per una buona
parte la traversata non portò alcuna sorpresa. Sembrava
quasi noiosa con l’acqua fredda e il sole cocente. Superata la
strettoia di Vranjina e Lasandro lungo l’affluente Piccola
Morača, entrammo negli acquitrini di čeklinsko polje205,
diretti verso il paesino Dodoši, sul fiumiciattolo Karatuna.
Attraversato l’alveare profondo di Scutari, la barca iniziò una
lenta scivolata sulla fitta distesa di ranuncoli acquatici,
imbrigliando il piccolo fuoribordo, diventato completamente
inutilizzabile. Tirammo fuori i remi per dare una spinta alla
piccola imbarcazione, facendo pressione sulle lunghe e
flessuose radici della vegetazione acquatica. Una distesa
uniforme e liscia di intenso colore giallo si allargava a vista
d’occhio, sempre più compatta. Puntammo verso il
monastero Kum, lasciando alla nostra destra le due braccia
della Piccola Morača, delineata da una larga fascia di canne
palustri. La piccola barca avanzava silenziosa.
L’unico rumore era l’aritmico sciabordio dei remi sulla
superficie dell’acqua compatta, difficile da penetrare.
Al nostro passaggio improvvisamente si sollevavano le
grandi e piccole teste degli uccelli in mezzo ai giunchi, che ci
osservavano con attenzione, senza paura.
Non ci fermammo. Per osservare gli uccelli avremmo
dovuto visitare la palude di mattina presto, prima del sorgere
del sole. La nostra meta sarebbe stata l’incontro con il
pellicano piumato, raro e presente ancora solo con pochi
esemplari sul lago di Scutari. Intanto, prima del solleone del
mezzogiorno, che cominciava già a far evaporare l’acqua più
bassa degli acquitrini creando una lieve nebbiolina che
sempre più fitta scendeva in mezzo ai canneti, avvolgendoli
di un manto bluastro trasparente, arrivammo al monastero
Kum, su di un isolotto minuto e spoglio nella distesa d’acqua
e foglie di ninfee a perdita d’occhio. Pope Uroš, ascetico con
la sua folta barba completamente bianca, abitava, con due
uomini dal piglio contadino, le antiche mura della rigida
costruzione in pietra annerita. Il pope conosceva bene la
nostra guida Aca Prijić, il pittore. Erano tutti e due oriundi di
Rijeka Crnojenića e Uroš aveva insegnato ad Aca nella
scuola elementare.
I miei amici della TV montenegrina avevano intenzione
di girare un cortometraggio sul lago e sulla sua vita. Questa
visita aveva l’obiettivo di individuare un itinerario e stilare un
programma. I piccoli monasteri, cosparsi in mezzo alla
palude, erano simili a minute roccaforti che probabilmente
nei secoli passati erano servite come rifugio per la
popolazione del lago in svariate occasioni di pericolo. Erano
anche centri di cultura, quella della Chiesa Ortodossa.
L’ambiente era austero. All’interno delle mura di
fortificazione, la squadrata costruzione adiacente alla
massiccia chiesa a una navata non alta e un tozzo campanile,
più simile a una torre d’avvistamento che a una torre
campanaria, erano circondati da un curato orto e da un
rigoglioso frutteto. Nel recinto dietro l’abitazione del pope
razzolavano galline, oche, un paio di maiali, una scrofa con i
piccoli, delle capre e delle pecore. Infatti, producevano un
ottimo formaggio e sembravano autonomi nelle loro
necessità alimentari, riuscendo anche a vendere il superfluo.
Non avevano altre risorse né aiuti. Si mantenevano con il
loro lavoro. Con l’età che avanzava e senza discepoli, il pope
Uroš non prevedeva un roseo futuro. Gli antichi affreschi
della chiesa risalenti al tredicesimo secolo, le sue bellissime
icone, si stavano scrostando, cadendo a pezzi. Lo Stato non
provvedeva al restauro, nonostante il loro indubbio valore
artistico e storico-culturale. Il pope Uroš lamentava la
recente corsa alle elevate spese sulla parte ovest del lago per
un veloce e sproporzionato sviluppo delle strutture
turistiche, senza inserire nei programmi e nei possibili
itinerari gli antichi monasteri lacustri per aiutare la loro
salvaguardia.
- La palude come riserva naturale con più di duecento specie di
uccelli, molti tra i quali rari e in via di estinzione, i suoi monasteri
ricchissimi di splendidi tesori pittorici e una architettura rupestre
medievale importante, dovrebbero essere - diceva il pope Uroš - un
fiore all’occhiello del Montenegro e un richiamo per visitatori nostrani e
stranieri. - Aca, il pittore, era ancora più critico nei confronti
del Governo Federale che, a parer suo, non prestava alcuna
attenzione né alle risorse naturali, tanto meno ai monumenti
culturali del Montenegro. Si installavano di sana pianta
fabbriche metallurgiche tra Titograd e Nikšić206, colossi per i
quali sia la materia prima che la manodopera arrivavano dalla
Serbia, ed erano di poca utilità per la popolazione locale,
abituata a ben diversi ritmi e condizioni lavorative. Per non
parlare poi dell’impatto negativo di queste cattedrali
sull’ambiente. Si tagliavano boschi secolari, si sbarravano
fiumi, si scavavano montagne invece di rendersi conto di
avere a disposizione un terreno già pronto per un turismo a
tutti i livelli. Il turismo sulla costa adriatica montenegrina,
con i suoi mega-alberghi destinati a essere una specie di
colonia per operai con tanto di agevolazioni varie, non
fruttava nulla. Le grandi spiagge, il lago, l’alta montagna
erano, secondo suo parere e dei suoi amici, il futuro.
Naturalmente anche la particolarità del lago era da sfruttare.
Bisognava agevolare la costruzione di case decenti nei
villaggi lacustri, aiutare i laboratori nella trasformazione del
giunco e delle canne nella costruzione di mobili, sostenere la
pesca e la pastorizia, portare la corrente elettrica negli
agglomerati abitati, salvaguardare le antiche usanze. Quando
i discorsi ad alta voce si fecero un fitto parlottare, io mi
assentai per visitare la chiesa, i suo orti, il recinto degli
animali.
Rifocillati con un ottimo formaggio pecorino e pane
scuro appena sfornato da sotto sacie207, irrorati con rakia
un’acquavite di pere della quale Aca faceva largo uso
divenendo sempre più ciarliero dopo ogni bicchierino
bevuto d’un fiato, partimmo verso un agglomerato di un
paio di casupole sulla sommità di un promontorio fatte di
mattoni forati e ricoperti di canne: Dodoši. Nostro scopo era
visitare un giovane scultore conosciuto con il soprannome
artistico di Riječki208. Giungemmo che tutti gli uomini adulti
del piccolo villaggio erano occupati nella costruzione della
casa di famiglia di Riječki, giunta alla copertura del tetto.
Secondo un’antica usanza, a questo punto sul tetto si ergeva
la bandiera nazionale e si organizzava una grande festa per
ringraziare il paese, che ogni volta aiutava.
La casa era costruita in disparte rispetto alle altre
costruzioni con muri in mattoni forati e ricoperte da giunchi
fissati con argilla mescolata a cemento. Essendo isolata sul
margine del promontorio, aveva una piccola aia sulla quale
avevano già preparato un improvvisato girarrosto con il
maiale in piena cottura. Da un alto recipiente appeso a una
carrucola costruita per l’occasione, si spargeva forte l’odore
di cavoli neri bolliti con costole affumicate di maiale.
Dopo breve tempo la vecchia madre di Riječki rientrò
dalla campagna, remando vigorosamente sulla sua barca,
simile a quella che ci aveva trasportato in mezzo alla palude.
Carica di pannocchie, di foglie di cavolo e maturi meloni
grigi retinati. Aiutammo a scaricare. Le pannocchie si
arrostivano per la festa.
Il pane, disse con semplicità la donna, era troppo caro
per loro. In verità anche il maiale, ma era abitudine offrire
carne in occasioni tanto rara quale la costruzione di una casa.
Capitava una sola volta nella vita. La madre di Riječki, una
donna minuta, rinsecchita dal sole e resa curva dall’umidità,
con due mani nodose e forti, schiva e taciturna, ci raccontò
che in quei giorni era particolarmente felice. Riječki, grazie
all’interessamento di Aca, durante la mostra a Belgrado
aveva venduto un paio di pietre. Disse esattamente pietre,
riferendosi alle sculture. E così lei e le sue due figlie
potevano finalmente avere una vera casa con stanza, cucina
e, cosa rara, piano superiore, con spazio da lavoro per
Riječki e le sue pietre.
L’imbrunire scese improvviso avvolgendo tutti i contorni
del caseggiato. La piccola barca nera adagiata sulla piatta
sponda sotto la nuova casa di Riječki, immobile, illuminata
dalle torce fatte con erbe secche imbevute di petrolio e
sistemate in cerchio sull’aia, aveva un aspetto irreale, sospesa
in mezzo alla tremolante nebbiolina che nascondeva il
canneto. La serata iniziò e proseguì in allegria, ma senza
eccessi. L’unico sopra le righe ed euforico era Aca. Ma ciò
divertiva un po’ tutti, soprattutto gli anziani. Mi dissero che i
giovani abbandonavano il lago. Per loro non c’era né lavoro,
né futuro. Erano tutti emigrati nelle miniere serbe e nei
servizi cittadini come spazzini o come bassa manovalanza
per la costruzione dei nuovi quartieri popolari, ma pagati
troppo poco per poter aiutare la famiglia rimasta sul lago.
Una volta loro erano pescatori e a Virpazar o a Bijelo polje
potevano vendere il pescato. Virpazar è stato lasciato
sprofondare nelle acque limacciose e a Bijelo polje le celle
frigorifere non venivano più inviate per ritirare il pesce. La
capitale e le strutture turistiche si approvvigionavano più
vicino, nella parte ovest del lago. Almeno fossero stati aiutati
nella lavorazione del giunco e delle canne, mestiere
tradizionale del posto! Ora, sui piccoli cumuli di torba e di
terra in mezzo ai canneti, coltivavano quel poco granturco,
cavoli, ortaggi, meloni e angurie che portavano, quando era
possibile, con il treno a Titograd209. Ma, oltre alla lontananza,
giocava a loro sfavore anche il fatto che il mercato fosse
saturo. Vi scendevano già i contadini dalla vicina piana della
Grande Morača, e loro sopravvivevano con quel poco che
erano capaci di produrre. La notte della festa per la fine dei
lavori alla casa di Riječki si prolungò con discorsi sulla
guerra, l’occupazione italiana, i partigiani, le montagne, la
pace, l’euforia per le idee di libertà, la ricostruzione nelle città
e le promesse. Intanto i villaggi si spopolavano, la gente
abbandonava i vecchi mestieri e le proprie case che
crollavano, mentre altri alloggi non venivano costruiti. I
senzatetto affliggevano la capitale montenegrina. Il lago,
anche se pieno di risorse naturali, abbandonato a se stesso,
rischiava il degrado. Promesse e speranze erano sopportate
con dignitosa stoicità dagli anziani, ma non dai giovani, che
se ne andavano, spesso senza una meta precisa, il che faceva
riflettere. Dopo una serata iniziata con allegria per un
compito portato a fine, nell’odore della carne arrosto e
dell’acquavite evaporata, mescolato a quello del petrolio delle
torce cosparse sull’aia e verso un plenilunio trasparente,
vibrante in cielo lattiginoso sul lago, ci addormentammo sui
giacigli improvvisati per meno di un paio d’ore.
All’alba volevamo scendere lungo il canneto per
osservare il risveglio dei pennuti. Tutta la notte non li
avevamo sentiti. Nessun suono, nessuno sbatter d’ali, come
invece ci aspettavamo. O erano stati intimoriti dai rumori e
dai canti del nostro piccolo gruppo festaiolo, o non li
sentivamo perché eravamo noi a creare una confusione
insolita in quel luogo. Quando ci svegliammo, la nebbia era
ancora come una coltre spessa, adagiata sul lago. Un’umidità
persistente penetrava nelle ossa. Non sembrava estate.
L’avremmo riconosciuta più tardi, in tutta la sua implacabile
forza, sotto il solleone che faceva scoppiettare le canne
secche. Sembrava che il lago fosse sempre così: fino
all’alzarsi del sole tanto umido da dare brividi di freddo, e
dopo brividi da umido caldo. Decisamente: il lago non mi
attirava, malgrado il suo indubbio fascino. Avvolti ancora
nella foschia della notte, che da lì a poco si sarebbe
improvvisamente dipanata con la stessa velocità con la quale
di sera era scesa, abbandonato il piccolo promontorio di
terra e torba del caseggiato di Dodoši, ci spostammo in
totale silenzio. Per far avanzare la barca in mezzo al canneto
ci aiutavamo con le mani, aggrappandoci alla base delle
canne nel punto in cui emergevano dall’acqua ed erano
meno flessibili. Il flusso dell’acqua che seguivamo, uno dei
tanti che solcavano il canneto e permettevano la sua
transizione in lungo e largo, ci portava verso il promontorio
dell’Andrijska Gora210, chiamata così probabilmente per i
suoi 230 metri di altitudine, ritta in un infinito campo di
giunchi di palude, con i pennacchi smossi dal leggero flusso
d’aria che, se osservati dall’alto, li faceva somigliare a un
campo di grano maturo. Prima del sorgere del sole, gli uccelli
iniziarono a farsi sentire, inizialmente con uno stridere
solitario accompagnato da rare e poi sempre più frequenti
risonanze, simili all’eco. In breve l’acquitrino si popolò di
un’infinità di uccelli piccoli, grandi, bianchi, grigi, colorati;
folaghe, tuffetti, strolaghe, gabbianelle pescaiole, germani
reali, oche colombaccio e tantissimi trampolieri, come
l’airone bianco e cenerino, avocetti, cavalieri d’Italia, garzette
in gruppi e solitarie. Silenziosi, indaffarati a pescare,
immobili e intenti a osservare un punto fisso. Fu
un’esperienza eccitante, difficile da raccontare. La stessa
sensazione la provai molti anni più tardi durante la visita nel
bosco delle farfalle a Kuranda, in Australia. Una sensazione
indescrivibile per la molteplicità e per la bellezza di quegli
esseri liberi e imperturbabi
li. Dušan e Steva con difficoltà riuscivano a maneggiare
le loro telecamere.
Al minimo fruscio la popolazione pennuta si agitava e si
allontanava dalla nostra visuale. Ma sapevamo di essere
osservati. A sole alto decidemmo di abbandonare il canneto
e di scendere verso la foce del fiume Grande Morača, verso
il monastero S. Nicola, dove un lungo ponte ferroviario
sospeso sopra gli acquitrini collegava la parte paludosa dalla
stazione Zeta aggirando Virpazar verso ovest, per finire a
Litine in mezzo alle montagne.
Molti anni più tardi questa parte del Montenegro sarebbe
stata collegata alla costa adriatica con la ferrovia. Per vedere i
pellicani dovevamo attraversare un’altra larga superficie di
palude e spingerci in acqua profonda in mezzo al lago per
muoverci in modo spedito. Sapevamo che sui corsi d’acqua
Crnionik211 e Zetica212, oltrepassata una larghissima parte
dell’acquitrino ricoperta da ninfee bianche, ranuncoli e iris, la
vegetazione sul margine cambiava in territori di prateria
erbosa con piante arbustive quali prugnolo e ginestre, dove
nidificavano e si trattenevano i pellicani. Avevamo avuto
fortuna. Al calare del sole avevamo avvistato tre coppie,
placide nel nutrirsi di pesce, abbondante a giudicare dai
guizzi nell’acqua piatta. Erano maestosi pellicani grigi dallo
sguardo penetrante e indagatore.
Rapidamente il giorno versava all’imbrunire e noi ci
apprestammo a raggiungere l’altra sponda per trovare un
approdo e un posto in cui rifocillarci e dormire. A buio già
avanzato doppiammo il faro della Petrova Punta e nel porto
di Brod trovammo qualcosa di simile a un piccolo albergo,
con ristorante sull’acqua limpida e profonda. Incontrammo
amici dei due fotoreporter della TV e fummo costretti ad
accettare l’invito al banchetto di pesce che si stava
preparando. Tinche, carpe, trote, avvolte nelle foglie di
alloro, si stavano arrostendo sulla brace. L’odore era
invitante, la birra di Nikšić fresca e leggera, la serata appena
agli inizi. Dušan, da buon narratore, raccontò la nostra
piccola spedizione e la visita alla casa di Riječki. Lo
conoscevano un po’ tutti, ma solo perché giovane scultore e
per il suo strano rapporto con la pietra. Lui, uomo del lago.
Aca raccontò che si recava sul monte Lovčen o sulle alture
di Cetinje a procurarsi i massi da scolpire. Le pietre caricate
sulla sua piccola barca, non potevano essere molto grandi, e,
come diceva Riječki, avevano già una loro fisionomia. Lui
non faceva altro che, con pochi tocchi di scalpello e
martello, farla emergere. In realtà le sue sculture non erano
molto lavorate. Ne è la prova la piccola testa del vecchio
montenegrino che mi avrebbe regalato parecchi anni più
tardi, in occasione di una sua mostra che aiutai a realizzare a
Roma, e che conservo tutt’oggi.
Il profilo del vecchio montenegrino baffuto, con il
caratteristico copricapo dell’antico vestito tradizionale, ha
l’aspetto di un pezzo di pietra semplicemente distaccato da
una parete rocciosa.
Riječki conobbe il successo e la miseria. A metà degli
anni ‘80, per motivi politici impossibilitato a lavorare, si trasferì
in Svezia e poi in Canada. Nel 1986 lo incontrai a Montreal.
Scolpiva poco e niente. Si manteneva lavorando le lapidi
ordinate dai francesi per il loro cimitero. Mi disse che la
pietra canadese non gli parlava, perciò anche lui era muto. Nel
‘66 era pieno di vita, come lo erano in molti, non solo in
Montenegro. Infatti, il Montenegro di quegli anni era quello
di Santo Stefano, di Miločer, ma anche di Virpazar, di
Dodoši, dei monasteri lacustri abbandonati e del grande lago
ancora vergine e sconosciuto.
Una ventina d’anni dopo questi avvenimenti, il Governo
montenegrino e quello italiano iniziarono le trattative per
l’apertura della linea aerea Airone dell’Alitalia tra Bari e
Risan, all’ingresso delle Bocche di Cattaro, per garantire un
velocizzato
spostamento
turistico
sul
territorio
montenegrino e un maggiore flusso di montenegrini verso i
mercati pugliesi. Ebbi l’incarico d’interprete ufficiale e
accompagnai la delegazione italiana con rappresentanti
dell’Alitalia, il Ministro in carica per il turismo, il Sindaco di
Bari, il presidente della Regione Puglia, giornalisti e
rappresentanti pubblici presenti in ogni trasferta, anche se non
era mai chiaro in quale veste. Per l’occasione si visitarono gli
ormai noti centri alberghieri da Budva fino a Ulcinj, il lago di
Scutari con le sue nuove strutture turistiche, qualche
monastero ricostruito e diventato albergo di alta categoria,
simile all’isolotto Santo Stefano, abbordabile a pochi. Aca, il
pittore, sempre direttore della Galleria Moderna di Titograd
e sempre più influente membro della Lega Comunista
federale, faceva parte di una delegazione culturale che,
durante quel viaggio, avrebbe concordato con il Sindaco di
Bari la mostra itinerante Pittura Moderna montenegrina, di
passaggio al Castello Svevo per poi proseguire verso Parigi. I
montenegrini non procurarono un interprete valido come è
in uso nei discorsi bilaterali, per cui la mia opera diventò un
vero incubo. Ero costretta a partecipare a tutti gli accordi e
spesso anche alle serate conviviali, traducendo frottole di
una stupidità che mi innervosiva, oltre a stancarmi
inutilmente. Fu una lunghissima schiera di incontri del
massimo livello tra i due governi, italiano e jugoslavo, che
sarebbero durati più di venticinque anni, ma che portarono a
ben poche conclusioni.
Le molte realtà e i mutamenti della società jugoslava dagli
anni ‘60 in poi si svolsero in un susseguirsi di apparente
normalità, finché i discorsi venivano fatti ad alto livello
governativo. Ma appena si scendeva tra i ranghi delle
amministrazioni delle singole repubbliche, e di più ancora tra
quelli comunali, l’aria cambiava. La situazione del Paese si
scopriva drammatica, al limite del verosimile. Era strano che
vecchi comunisti come il pittore Aca o lo scultore Luka
Tomanov sviscerassero, in maniera aspra e nel totale
dissenso, la situazione sociale e politica montenegrina
riguardo alle decisioni e ai fatti compiuti a Belgrado. Un fatto
di per sé pericoloso perché già era caduta più di una testa sul
patibolo della Fratellanza e dell’Unità. Tra gli intellettuali
croati c’era già stata quella vigorosa pulizia. La Matica
Hrvatska era stata ripulita con foga e senza processi né colpe
dimostrate; nel Montenegro nella Macedonia il sacro fuoco
dell’autonomia aveva superato i margini dei piccoli focolai e
divampava malgrado i più o meno forti flussi d’acqua usati
per spegnerli. Nel frattempo l’Europa, il Mondo, sembrava
non accorgersi di nulla. Ma anche a Belgrado, nelle
ambasciate e nei consolati all’estero, facevano gli struzzi. O
gli era stato ordinato di dare la sensazione di un’assoluta
normalità? Era difficile credere che le sedi ufficiali jugoslave
all’estero non fossero al corrente di quello che a tutti in
Patria regolarmente capitava di vivere. Certo, non erano
affari miei. Il mio compito era tradurre i discorsi ufficiali e
non ascoltare quelli privati. Inoltre, tra il 1965 e 1967, a
Belgrado vissi in un ambiente privilegiato, come in un limbo.
Le notizie dalle altre repubbliche arrivavano annacquate. I
giornali ne parlavano come di movimenti molto marginali,
isolati e di assestamento. Durante la missione in Montenegro
come interprete con gli amici della TV di Titograd e Aca il
pittore, una parte della loro realtà balzò alla mia attenzione,
molto simile a quella che Zagabria aveva vissuto negli anni
precedenti,. Mi resi conto che quasi nessuno di loro era
conciliante con gli indirizzi impartiti dalla Lega Comunista
Federale, né accettavano le decisioni scese dall’alto. Facevo
fatica a capire come mai personaggi noti che avevano pagato,
anche personalmente, il tributo per la creazione di una
Federazione di popoli uguali patendo carceri ed esili,
combattendo in mezzo ai boschi, contando innumerevoli
morti ammazzati, solo vent’anni più tardi facessero di tutto
per disunire la Federazione Socialista dimenticando tutto:
l’idea dell’uguaglianza, della libertà, diritti sovrani per un
Paese unificato. Che poi sembrava non fossero uguali per
tutti nemmeno nella stessa Serbia… questo è quanto si
sarebbe potuto constatare solo molto più tardi.
Nel 1966 e 1967 il lavoro mi portò con la Multi ExportImport a est e nel 1968 feci il grande passo scegliendo la
strada dell’Ovest. Passai da un sistema sociale e politico a
uno completamente diverso. Da quello governativo
comunista a quello capitalista, in verità senza scossoni. Fare
l’interprete era legato dappertutto alla discrezione, al buon
senso e molto spesso all’intuizione. Ad alti livelli le
responsabilità sono molteplici e non bisogna sottovalutarle.
Una volta fatta la scelta di passare a un mondo con regole
diverse, abbandonai la mia dipendenza dal Paese d’origine e
smisi di seguire le intime tribolazioni della stragrande
maggioranza della popolazione jugoslava nei suoi ranghi
governativi cosiddetti minori, quelli delle Repubbliche afflitte
dalla mancanza di sviluppo, dai redditi bassi, dalla corruzione
dilagante, dagli sprechi ai vertici del potere, dalle risorse
monetarie dirottate alla Banca centrale e dagli altri soprusi
più o meno gravi che anticiparono quello che poi si sarebbe
sviluppato negli anni ‘70, come anteprima della tragedia degli
anni ‘90.
Nel 1968 Belgrado scivolava ancora sulle sembianze di
un benessere in sviluppo. Nascondeva con abilità i suoi
stracci laceri e le nudità del Potere. Nessuno voleva vedere il
re nudo. Non in Serbia, anche se il re era già stato per bene
denudato. Tutti i fatti successivi non furono sviluppi
improvvisi, ma annunciati da quasi una ventina d’anni nei
dissensi e in coperture troppo deboli all’interno e fumogene
verso l’esterno.
Un altro paio di giorni di riposo a Budva e poi il rientro
al lavoro. In azienda trovai un clima di tensione e
confusione. Il giovane direttore del Settore Importazioni
stava riorganizzando il vecchio assetto, cambiando quasi
tutte le regole, secondo lui diventate sorpassate e
improduttive. I vecchi direttori, punti nella loro dignità di
eccellenti conduttori di affari e benefattori della
monumentale Multi Export-Import, mal digerivano le
interferenze del nuovo manager che toglieva loro poteri dalle
mani. L’autogestione compresa e attuata da loro non era
quello, diceva Marjanović, che la nuova Costituzione
richiedeva. In una delle riunioni della direzione, Mile
Jovanić, direttore generale, annunciò di voler cedere il suo
posto a Marjanović. Le interferenze di Marjanović, protetto
dalla Lega Comunista, Jovanić le avvertì come preludio di
cambiamenti e preferì sottrarsi a una possibile rimozione.
Scelse il danno minore. Lasciò la poltrona di sua spontanea
volontà. Comunicò che le sue aspirazioni erano legate
all’apertura dei supermercati, ora anche all’estero, e
intendeva seguirla di persona. Inoltre era sicuramente a
conoscenza del libero arbitrato perpetrato negli affari
aziendali dai direttori di settore che, usando l’autogestione
secondo personale parere e indirizzo, stavano uscendo dai
binari del lecito. Da lì a poco ci sarebbe stata la necessità di
soggiornare all’Est, per cui programmò in anticipo la propria
temporanea assenza, probabilmente finché non sarebbero
stati ristabiliti gli assetti interni.
A fine settembre ebbi la conferma della mia posizione
positiva raggiunta nella ditta. Mi venne assegnato
l’appartamento aziendale, un ampio monolocale con
cucinotto e bagno al quarto piano dei nuovi grattacieli, le
cosiddette torri solitarie nella Belgrado Nuova, collegate dal
filobus con il centro di Belgrado.
Un quartiere di ventimila abitanti, completamente nuovo,
bene attrezzato, con centro commerciale, cinema, scuole,
vialoni alberati, prati inglesi e affaccio sul fiume Sava. Forte
della posizione raggiunta, presi il coraggio per chiedere al
direttore Jovanić di nominarmi assistente particolare e di
condurmi con sé nel suo nuovo incarico all’estero. Non era
facile. - C’erano più persone interessate, più anziane e meritevoli, con
un lungo servizio nell’azienda e anche qualificate. - disse Jovanić.
Decisi che questa volta avrei tentato tutte le mosse
possibili per raggiungere la nuova meta.
- Certo - risposi al direttore - ma io sono l’unico interprete traduttore ufficiale, con conoscenza della lingua russa!
Approfittai della sempre più frequente presenza di Zoran
nella capitale e per la prima volta gli chiesi di aiutarmi per
riuscire nel mio intento. Non mi rispose. Avevo
l’impressione che non avesse nemmeno sentito la mia
richiesta. Quando parlò fu per comunicarmi che aveva avuto
l’incarico di ambasciatore a New York. Finalmente, dopo
tanti anni di attesa. Appena sbrigati gli affari in corso,
sarebbe partito con l’intento di riorganizzare la sede
newyorkese. Avrei potuto far parte del suo staff? Era
arrivato il mio turno di rimanere senza risposta. Stetti in
silenzio con un’infinità di pensieri contrastanti, dissi solo di
non conoscere bene l’inglese per essere parte attiva in un
ambiente di lingua anglofona e io, per natura, non credevo di
poter fare solo presenza. Di tutto il resto non dissi nulla.
Avevo faticato un paio d’anni per imparare un lavoro
completamente nuovo, avevo fatto il possibile per essere
accettata in un ambiente estraneo alla mia mentalità ed
educazione, superato un’infinità di pregiudizi, catturato
l’attenzione dei superiori e alla fine ero riuscita a ottenere
l’assegnazione dell’appartamento, un chiaro riconoscimento
della applicazione al lavoro. Come facevo a iniziare tutto
daccapo e in un paese straniero, con un lavoro nuovo,
sconosciuto e per di più certa di non riuscire nel lavoro in
una sede diplomatica?! Cosa potevo fare di importante?
Attendere la benevolenza di Zoran? Non dissi di no, ma era
chiaro. Lo incontrai in un paio di altre occasioni durante le
sue soste a Belgrado tra lemissioni del suo incarico ancora a
pieno ritmo.
Una di quelle sere a cena, parlando di lavoro, Zoran mi
chiese come andassero le cose nella Multi Export-Import,
quali fossero i rapporti tra il personale, quanto fosse sano
l’ambiente, come funzionasse la distribuzione del plusvalore,
se ci fossero sperequazioni nella divisione dei guadagni tra
l’apparato dirigenziale e i lavoratori di base. Insomma, credo
desiderasse sapere se nell’azienda ci fosse quel malgoverno
del quale i giornali, in quel periodo, quotidianamente
accusavano una ad una le più importanti organizzazioni,
soprattutto quelle del mercato estero. Molti direttori generali,
nuovi manager portati a un livello più alto con l’evento
dell’autogestione, risultavano indagati per peculato, per
dirottamento dei mezzi aziendali alle sedi estere, dove il
controllo risultava più difficile. Altri erano additati per abuso
d’ufficio a interesse privato e via dicendo. Mi stupì la
domanda di Zoran. Credevo che la situazione della Multi
Export-Import lui potesse conoscerla meglio di me, e risposi
in tal senso.
- Appunto - mi disse - per ciò ti faccio questa domanda! Cosa
succede? Dovetti ammettere che una certa battaglia sotterranea si
stava muovendo tra la direzione e il nuovo direttore
Marjanović, ma non mi era chiaro da quale parte stessero le
verità. Raccontai che il vecchio direttore Jovanić si era messo
da parte di sua spontanea volontà e aveva optato per la
direzione dei supermercati con la temporanea trasferta, e che
per ciò, essendo interprete per i paesi dell’est, avevo chiesto
di poterlo seguire.
Volevo fare esclusivamente l’interprete e non la tuttofare
della direzione, dove tutti mi comandavano e sfruttavano in
modo indecente. Inoltre ero quasi sicura che l’unica persona
al di sopra di ogni sospetto fosse appunto il vecchio
direttore. Avevo assoluta fiducia in quel piccolo, mite omino,
convinta di averlo conosciuto bene. Gli altri non potevo
giudicare.
Non ero a conoscenza del loro modo di fare. Come
potevo io dare un giudizio?
Zoran rispose:
- Non chiedo un giudizio, ma il parere di chi vive in un collettivo
ed è soddisfatta o meno dell’operato. Chi meglio di te può capire che
l’autogoverno non sia stato stravolto nell’azienda nella quale lavori,
visto il malaffare che si è allargato in parecchi grossi centri produttivi
serbi, come riporta quotidianamente la stampa? Come facevo a sapere se il mio stipendio mensile fosse
inferiore al merito? Superiore sicuramente no, anche se si
trattava di una buona paga. Come potevo fare paragoni con
le paghe dei vari direttori di settori se ognuno di loro
percepiva un reddito calcolato sui punti di merito e sul
guadagno settoriale? Se ci fosse giustizia sotto questo
aspetto, bisognava domandarlo all’apparato dirigenziale e dei
delegati. Se ci fossero o meno inesattezze, malversazioni e
sottrazioni di denaro collettivo, bisognava controllarlo fra i
delegati. Cosa facevano i direttori di settore? Viaggiavano in
limousine prese a nolo, frequentavano in Paese e all’estero
alberghi di gran lusso, si spostavano in prima classe
ferroviaria e aerea per fatti privati, ordinavano banchetti
interi al nostro supermercato più vicino per riunioni fiume
che spesso finivano in troppa allegria. Ma questo succedeva
dappertutto e da sempre. La regolarità de gli spostamenti che
mi passavano tra le mani, tutti ordini di viaggi per affari, per
me erano ordini e basta. Se dovevano avere un certo iter, una
durata x o y non stava a me controllarlo. Chiacchiere? Ci
sono state sempre, ovunque, ma non erano affar mio! Senza irritarti proseguì Zoran - cerca di non assecondare nessuno e
a ogni operazione richiesta da chiunque pretendi la documentazione con
il massimo del rigore. Non voglio dirti di più e non devi certo essere tu
a scoprirmi gli altarini della Multi Export-Import. Mi sono ben noti
anche se lontani dal mio interesse ufficiale. Per quanto riguarda il
fattore umano, continuo a credere che l’autogestione ha bisogno di un
alto profilo umano per attuarlo. E considerando gli sviluppi, necessita
di nuovi, più rigidi emendamenti costituzionali. Voleva per caso dire che l’autogestione aveva fatto flop?
Non aggiunse altro, né io chiesi nulla. Non parlammo più di
questo argomento.
Zoran era spesso a Belgrado. Abbastanza spesso
uscivamo insieme a teatro, per concerti, gite domenicali,
come al solito in gruppo. Zoran era solo nella capitale e
aveva bisogno dei vecchi amici. Pochissimi. Credo che
riuscisse solo così a rilassarsi. Le nostre frequentazioni,
anche se non erano state mai solitarie, non rimasero
invisibili. La visibilità la dette anche la televisione, che
cominciò a seguire la vita ufficiale e meno ufficiale degli
appartenenti al Governo. Novità e curiosità.
Il 25 maggio, compleanno del Maresciallo Tito, fu
organizzata a Beli Dvori una mega-festa. Il popolo festeggiava
in strada e gerarchi e affini nel grande parco della Reggia.
Ebbi l’invito e ci andai. C’era tutta la nomenclatura
capitolina. Passai la serata in compagnia di Nenad e Zoran.
La TV nazionale riprese molti particolari e si soffermò sui
personaggi di maggior rilievo. Naturalmente non trascurò
Zoran Babić, l’ex segretario particolare della Presidenza del
Governo Croato, ex presidente della Commissione per i
Rapporti con i Paesi nonallineati e nuovo ambasciatore negli
Stati Uniti, prossimo a iniziare la missione. Le camere della
TV si soffermarono anche sui suoi accompagnatori,. La
trasmissione fu seguita in tutto il Paese e ci fece balzare sulle
cronache, con le nostre facce ben in vista. Non so per gli
altri, ma sul mio conto, almeno alla Multi Export-Import,
crebbero molte chiacchiere. Come mai ero a Beli Dvori?
Come mai conoscevo Zoran Babić?
Mi fermavano nei corridoi, venivano apposta in
segreteria per farmi queste domande.
- Sì, lo conosco! Ho lavorato con lui.
- Veramente?
- Sì, veramente. - E giù chiacchiere, che poi seguirono per
ogni mia apparizione in compagnia di quel personaggio,
anche se non c’era mai stato un tête à tête.
Dopo poco venni informata della mia partenza con
Jovanić per Mosca. Non sapevo se Zoran Babić avesse
sollecitato quel mio nuovo incarico. Quando gli comunicai
l’avvenimento, il suo unico commento fu:
- Finalmente ti allontani da questo provincialismo! Tutto quello che succedeva in quel particolare periodo lo
sarei venuta a conoscere molti anni più tardi, per buona
parte da Nenad, ormai da tempo capo ufficio stampa del
Consolato Jugoslavo a San Francisco. Zoran Babić, a fine
missione da ambasciatore negli Stati Uniti e dopo aver
presieduto la Rappresentanza Jugoslava nelle Nazioni Unite,
alla morte del Maresciallo Tito dette forfait al governo di
Belgrado, entrando a far parte di uno dei più noti studi legali
bostoniani, da libero cittadino, come lui stesso si definì quando
lo incontrai nell’‘82 a New York.
XX. Mosca commerciale
Il primo viaggio a Mosca durò appena una settimana.
L’impatto con il nuovo ambiente non fu dei più
soddisfacenti.
Ci caricarono all’aeroporto internazionale Šeremetovo
sulle macchine ufficiali, rigorosamente blu, e ci scaricarono
all’albergo Ukraina, centralissimo, destinato a uomini d’affari
stranieri. Stanze sfarzose, quasi kitch, con arredi antichi, tutti
i comfort e atmosfera incerta. L’Ukraina, un enorme edificio
degli anni ‘50, come tutti gli edifici di quel periodo
rappresentava una visibile esaltazione retorica del potere,
costruito nello stile barocco socialista, vale a dire con quel
decorativismo che raggiunse l’apice proprio con i famosi
grattacieli del centro-ovest cittadino. Tutto qui quello che
vedemmo all’arrivo. I discorsi ufficiali si svolsero in albergo,
poi ci accompagnarono, naturalmente con le vetture blu, al
sito del futuro moderno immenso supermercato.
Il lungo edificio del Gum, con tre ordini di gallerie coperte
da volte vetrate intelaiate in ferro, era stato costruito alla fine
del 1Ottocento in quella che, già dal quindicesimo secolo,
era la vecchia sede del mercato generale.
Niente era pronto. Il personale locale non era capace di
eseguire nemmeno le fasi pre-organizzative per un sistema
commerciale moderno. Dovevamo iniziare con loro una vera
istruzione completa organizzata. Insegnare un po’ tutto.
Serviva il nostro personale qualificato. Tornammo a
Belgrado per la scelta di almeno tre provetti dirigenti dei
nostri supermercati, istruiti nelle grandi strutture straniere.
Ritornammo con il disgelo, di nuovo caricati sulle vetture
blu con tanto di accompagnatori interpreti, nostri angeli
custodi, l’unico collegamento con l’esterno. Tutto si svolgeva
all’Ukraina, nel nostro ufficio. I rapporti con il personale
locale erano controllati continuamente, e nemmeno di
nascosto.
I tre istruttori ebbero ognuno un interprete affiancato e
partivano alle otto di mattina in macchina blu al Gum.
Rientravano verso le sedici in albergo. Io e il direttore
Jovanić rimanevamo in ufficio all’Ukraina per condurre
trattative con i dirigenti del futuro supermercato, in presenza
del loro interprete che di solito rimaneva muto. Uscire da
soli, fare una passeggiata? Presto imparammo che non era
possibile. I miei compagni di ventura erano appagati già dalle
visite collettive organizzate dai nostri padroni di casa. In
breve avevamo visto un’infinità di musei, conosciuto
l’evoluzione storica di Mosca dal suo insediamento alla
supremazia sulle altre città russe, la fama sanguinaria di Ivan
IV Il Terribile, la sua spietata lotta contro la vecchia
aristocrazia dei Boiardi espropriati dalle loro terre a favore
della nuova classe di servitori. Ci somministrarono grandi
quantità di nozioni sulla nascita della Russia moderna: tutto,
o quasi, su Pietro I Il Grande, fautore dell’occidentalizzazione
della Russia; sulla costruzione della nuova futura capitale San
Pietroburgo con la sua fisionomia non russa; sulla crescita
culturale con la fondazione di istituti come l’Università di
Mosca, musei e accademie da parte di Caterina II;
sull’atteggiamento della sovrana illuminata e sul suo
mecenatismo che favorì lo sviluppo di arti e scienze;
sull’Ottocento, sulla crisi dello zarismo; sulla massa
contadina che continuò a pagare il prezzo della corruzione
dei governanti e gli sprechi dell’aristocrazia; sulla politica
espansionistica; sulla servitù della gleba estesa e
sull’intolleranza dei contadini, fino alla rivolta dei cosacchi
sul Volge guidati da Pugačev. E ancora, sul nuovo secolo
con la grande sconfitta di Napoleone nell’inverno del 1812;
sulle guerre e sulle battaglie interne tra i bolscevichi e
menscevichi; sul colpo di Stato rivoluzionario e sui
bolscevichi di Lenjin che diventarono i Comunisti; sulla
Rivoluzione dell’ottobre 1917, sui Soviet, sulla costituzione
dell’URSS e la morte di Lenjin nel 1924. E poi Stalin,
l’invasione tedesca del 1941, la vittoria di Stalingrado
nell’inverno ‘42–’43, la fine della guerra e la morte di Stalin
nel 1953. E io integrai, con la rottura di Tito con il
comunismo staliniano, le delusioni per tutto quello che
rappresentava la forza motrice, l’unico esempio di una
società giusta: quella dell’Uguaglianza e della Fratellanza
Sovietica, della grande madre di tutti gli Slavi, che avevamo
imparato a conoscere già alla scuola elementare, ma che non
aveva scalfito la mia generazione. Quella dell’ordinamento
Socialista Jugoslavo che nel ‘45 e negli anni postbellici avevo
vissuto ancora nell’infanzia. Continuò con la Guerra fredda e il
periodo dei processi nell’URSS e delle repressioni staliniane,
i crimini di Stalin definiti eccessi del culto della personalità, la cui
fine arrivò con l’improvvisa morte dello stesso. Nel
frattempo la rottura tra Tito e Stalin produsse in Jugoslavija
le repressioni del Goli Otok, che significarono il carcere
senza ritorno per moltissimi di coloro che erano legati
visceralmente alla grande madre e che pure scivolarono
accanto alla mia generazione. Morto Stalin e accantonate le
mistificazioni che avevano fatto ammutolire le generazioni
più anziane, sembrava tutto superato. Era finalmente
arrivato il grande momento delle speranze. Si poteva essere
protagonisti. Uscivamo dall’adolescenza; l’adolescenza che
vede e comincia a capire. Ma cosa? Cosa sapevamo
veramente della Russia? La Russia, e non l’URSS,
sprigionava su di noi un grande fascino attraverso la sua
letteratura classica: Tolstoj, Gogol, Dostoevskij, Turgenev,
čechov, ma anche Puškin, Jesenin, Majakovskij, che scrisse:
- Tutti lo sanno. Dal Cremlino ha inizio la terra! Mosca rimase per il mondo slavo il luogo sognato. Lì si
viveva il presente e si preparava il futuro. I russi dicono:
- Mosca è il cuore della Russia. Il centro dei grandi percorsi
commerciali, la sede del Patriarca della Chiesa Ortodossa. Essa da
sempre rivaleggia con San Pietroburgo, proda nella letteratura e nella
cultura in generale. Mosca è di natura asiatica, non occidentale, slavofila, come
disse Jesenin. Puškin invece non nascose le proprie delusioni
dipingendo Mosca come città che aveva perso l’antico
splendore aristocratico, diventando commerciale. I mercanti
sostituirono i nobili invadendo le tranquille zone oltre il
fiume Moskova, mentre Tolstoj la vide in chiave più
domestica, ricca di memoria nelle sue piccole vie che si
irradiano dalla Lubjanskaja Ploščad213. In Guerra e Pace nella
Lubjanskaja Ploščad c’è il palazzo di molti eroi tolstojani.
Mosca, caratterizzata dai cosiddetti anelli, con un reticolo di
tranquille vie e preziosi edifici liberty, unisce questa piazza
tolstojana per eccellenza alla città dei commercianti e degli
affari del Kitaj Gorod214, del BelyjGorod215 e dell’isola
Zamoskvoreča, cioè al di là della Moscova, affiorata dopo la
deviazione del fiume Moscova e velocemente popolata da
mercanti e ricchi borghesi con piccole case dalle facciate
affrescate.
Ma tutto ciò stancò velocemente i miei compagni di
lavoro. Lamentavano la totale assenza di aggregazione
conviviale dei moscoviti, che rimanevano impenetrabili nelle
loro abitudini, restii a intrattenere rapporti con gli stranieri.
Ai belgradesi non interessavano né la storia, né la letteratura,
né i teatri. Assistere a uno spettacolo del Bolšoj era cosa da
non ripetere dopo le favolose rappresentazioni del Boris
Godunov e del Lago dei cigni. Alla sala concerti Chaikovski li
fece sonnecchiare la Sheherazade di Rimsky-Korsakov. Per
non parlare della pittura moderna, ma anche di quella
medievale; le icone della scuola moscovita che superano per
bellezza e forza di espressione i precedenti capolavori della
pittura universale. A loro bastavano gli ottimi ristoranti
dell’Ukraina, ogni giorno uno diverso, la sala cinema con
film strappalacrime sugli eroi della guerra e sui battellieri del
Volga, le interminabili partite a carte e a scacchi al Club dello
straniero, la sala fitness all’aria aperta sull’immensa terrazza
all’ultimo piano dell’Ukraina, sopra i tetti e le torri
moscovite. Così rimasi sola. A me l’Ukraina non bastava.
La vista dalle finestre dell’Ukraina, almeno dalla sua
facciata principale, dava sulla sconfinata Krasnaja Ploščad216,
piazza che porta quel nome da secoli. Krasnaja in russo
antico significa anche bella, oltre che rossa, per cui esisteva
prima ancora di diventare faro del comunismo
internazionale; una piana delle più famose e più vaste del
mondo. Il fascino della Krasnaja Ploščad, Piazza Rossa, per
me aveva da sempre la sua origine nella consapevolezza delle
mutazioni di ruolo che ebbe nelle varie vicende storiche.
Krasnaja Ploščad era il simbolo della Russia, il luogo da dove
il potere, chiuso dietro le mura del Cremlino, comunica al
Mondo parole d’ordine. Vista finalmente dalle finestre del
nostro albergo, si presentava in tutta la sua vastità, estesa da
nord-ovest a sud-est. A ovest era attorniata dalla smerlettata
muraglia del Cremlino, dal Mausoleo di Lenjin, dal Museo
Storico, dai Magazzini Gum e dal profilo della Cattedrale di
San Basilio, che la chiudeva in prospettiva. La Piazza Rossa,
centro della vita politica, piazza d’armi e di mercato dove già
nel medioevo confluivano le vie carovaniere più importanti
di tutta la grande Russia, con la presenza delle numerose
botteghe sull’attuale area dei grandi magazzini Gum e del
Kitaj Gorod, conferma il suo carattere in prevalenza
commerciale. Gli stessi moscoviti spesso ripetevano: - A
Mosca si viene per fare affari, a Pietroburgo (o Leningrado, e poi di
nuovo San Pietroburgo) per turismo.
- A Mosca, a Mosca - ossessivamente ripetevano invece le
sorelle cechoviane nel loro vano sogno di fuga dalla
claustrofobica provincia russa.
E Mosca sia, pensai anch’io nel ‘67. Belgrado era una
provincia opprimente e bacchettona, sempre più corrotta
anche per quelli che non lo volevano ammettere. In Russia si
era già scavalcato il periodo del disgelo. Dalla lotta per la
successione era emerso Nikita Hruščev, che inabissò la
figura di Stalin e i suoi crimini, liquidandoli come eccessi del
culto di personalità, il che andò bene a tutti. Era uno solo che si
era macchiato di eccessi, e non la Grande Russia.
Avanzò la politica di apertura verso l’Occidente, anche se
la repressione dell’insurrezione ungherese del 1956 guastava
le speranze di autonomia dei Paesi satelliti. Hruščev promise
maggiore benessere e beni di consumo per il popolo. Il
riavvicinamento di Tito a Hruščev aprì la grande porta a
rapporti commerciali su larghissima scala. I prodotti
jugoslavi e quelli di transito entrarono nell’URSS. I
programmi agricoli sbagliati, la ricerca spaziale, i prelievi per
lo sviluppo della potenza nucleare, portarono però alla
sostituzione di Hruščev con una direzione collegiale dalla
quale emerse Leonida Brežnev. Il periodo non fu per nulla
semplice nello sforzo di conservare il proprio status quo
nell’Europa orientale. Le aperture commerciali erano un
tentativo nell’immobilismo della gestione dell’economia. In
quell’ottica ebbe inizio l’apertura di supermercati a Mosca. Si
iniziò con quello elegantissimo del Gum per la nomenclatura
statale, corredato da caffetteria, pasticceria, bar e ristoranti
con cucina russa tradizionale e francese. Uno spazio
sfarzoso, luccicante, con scale mobili, vetrate colorate, merce
di alta qualità di tutte le possibili provenienze. Poi si passò a
un altro a Kitaj Gorod, e poi all’ Arbat Bolšoj Ulica, più
piccoli e non destinati solo all’entrata di dollari americani. In
questa maniera si voleva far passare la valorizzazione del
grande commercio. Chi comprava in simili santuari? L’URSS
ricca e tanti stranieri che a Mosca trovavano molta merce
estera a prezzi convenienti.
Gli affari erano partiti e si allargavano anche per noi. Il
lavoro non finiva mai e il tempo della permanenza si
allungava. Vivevamo tra di noi e in compagnia di altri gruppi
di uomini d’affari stranieri. Molti vendevano e cercavano di
entrare nel giro e moltissimi compravano, non sempre merce
di qualità superiore.
In un certo modo soffrivo per il nostro isolamento dalla
popolazione.
I nostri contatti, le gite, uscite, visite, erano sempre in
presenza degli interpreti. Inutile a dirsi, era così per tutti. La
libera uscita era sorvegliata e impossibile, ma tanto i miei
compagni non avevano grande interesse a entrare nella
mischia moscovita e conoscere la vita della strada. Ero io
che avevo necessità diverse. Il mio accompagnatore quasi
fisso era un funzionario per gli Affari Sociali al Ministero
degli Esteri, di nome Oleg. Avevo l’impressione che
dormisse anche all’Ukraina, tanto era onnipresente. Per
fortuna era anche un individuo simpatico, misurato, con
esplosioni di vena ironica. All’inizio parlare con lui era come
fare domande a qualcuno che non ti capisce. In occasione
del discorso sulla situazione sociale in URSS, dissi che
Leonida Brežnev era una grigia figura di burocrate e che era
sempre aperta l’era della stagnazione. Divenne rosso in
faccia asserendo che si trattava di un periodo di riequilibrio.
Non riuscii mai a farlo parlare. L’unica cosa possibile era
farmi accompagnare in periferia per bighellonare nelle
innumerevoli ploščad, nei parchi, nelle strade e sulla favolosa
metropolitana, nei monasteri, nelle chiese, molte delle quali
distrutte o sconsacrate. Ufficialmente agli stranieri erano fatti
vedere i luoghi del culto comunista: palazzi monumentali,
quartieri aristocratici e borghesi formatisi nel diciottesimo
secolo come l’Arbat, roccaforte dei ricchi borghesi, e il
Sokolnik, primo polmone verde con larghissimi viali alberati;
poi i quartieri d’affari attorno all’antico Kitaj Gorod, nati nel
ventesimo secolo, con la Borsa, banche, edifici commerciali
dove la monumentalità venne soddisfatta nell’architettura col
riavvicinamento eclettico allo stile russo del Quindicesimo e
Sedicesimo secolo. Ma il sorgere di quartieri popolari non
venne mai mostrato, come nemmeno il quartiere oltre il
fiume Moscova, punto caldo dei moti rivoluzionari del
19151917. Questo lo si doveva, se vi si riusciva, scoprire da
soli. Un iniziale riequilibrio tra il centro e la periferia doveva
esserci stato per l’immissione della popolazione operaia negli
alloggi borghesi espropriati. Il processo di urbanizzazione,
l’urgenza dei problemi abitativi, il grande entusiasmo
ideologico post-rivoluzionario, avevano dato vita a un
periodo di intenso cambiamento che avrebbe trasformato
Mosca nel nuovo modello di città socialista. Vennero
realizzate, infatti, le prime costruzioni con metodi industriali,
per rispondere alla carenza di alloggi. Così si dette il via alle
case comuni e poi tabula rasa. Si soddisfaceva la necessità di
monumentalismo con principi architettonici consoni alla
realtà sociale mutata dalla politica socialista. Era la nuova
epoca dello sviluppo dell’architettura e dell’urbanistica. Si
allargava la struttura radiocentrica cittadina dei tre anelli, si
costruiva la metropolitana con le sue lussuose stazioni e
collegamenti fluviali con il fiume Volga, grandiosi parchi di
verde pubblico, vaste realizzazioni scenografiche con i
palazzi del potere, colossali blocchi edilizi sulle strade
principali, esaltazione retorica del potere in centro. La stessa
idea di gigantismo si allargò alla periferia. Il modello del
super blocco diventò sinonimo di unità abitative autonome.
Si trattava, infatti, di abitazioni minuscole e di pessima
qualità per dare un alloggio a milioni di russi nelle komunalche
cittadine. Gli anni di Brežnev della nostra permanenza
moscovita furono caratterizzati dallo sterminato estendersi
della periferia, con enormi quartieri dormitorio che, anche se
migliorati nella qualità, mancavano di riconoscibilità. Milioni
di persone vivevano in colossali alveari di cemento,
appartamenti di tipo comunitario occupati da più famiglie
con a disposizione un’unica stanza con cucina e bagno. Ecco
perché l’innata convivialità dei russi aveva perso il proprio
fascino. Erano già fin troppo costretti alla vita in comune.
D’altronde anche i salotti o le case borghesi promotrici di
cultura per questi motivi avevano lasciato spazio a
conferenze nelle case della cultura e non avevano più nulla di
genuino, improvvisato, com’era nelle abitudini dei ritrovi che
avevano a lungo resistito, almeno tra la dissidenza colta che
spesso si radunava in cucine di appartamenti in coabitazione.
Le cucine sovietiche erano di solito le stanze meglio isolate
acusticamente, luogo ideale per conversare quasi
liberamente.
Tra un bicchierino di vodka e l’ altro si leggevano testi
letterari spesso proibiti, si ascoltavano racconti d’oltrecortina
degli ospiti stranieri a cui venivano affidati manoscritti,
lettere e messaggi. Fuori dalle cucine c’era Mosca, in uno dei
suoi periodi non molto felici. Prima la cortina di ferro e poi
Brežnev, Mosca senz’altro rimase l’incontrastato centro del
potere, ma non più anche mito di una capitale simbolo
dell’arte e della cultura. Era la stessa che Pasternak fece
conoscere nel suo romanzo, Dottor Živago.
Le case museo come quella di Puškin, di Majakovskij, di
Jesenin e Gogol, erano diventate posti di conferenze
letterarie ufficiali: guidate, impostate, noiose. Anche se ricco
di memoria, tutto era svuotato di originalità e spesso anche
di verità. Ogni pregio era svilito, spiegato e classificato
secondo il pensiero ufficiale del momento. Per questo persi
l’interesse per quel tipo di istruzione letteraria destinata al largo
consumo. Rimanevano i teatri. In realtà, per la mia
formazione mentale e psicologica, il Bolšoj, santuario del
balletto e della musica sinfonica la sala Chaikovski.
Infatti solo la musica, particolarmente quella sinfonica,
era rimasta come unica espressione artistica totalmente libera
e affidata a sensibilità e fantasia personale. Non
dimenticherò mai l’esecuzione della Quinta sinfonia di
Chaikovski della Filarmonica di Leningrado, la sua
interpretazione che sembrava ardere nel suono che partiva
dai contrabbassi, impregnata di memoria, per passare agli
archi in tanti accenti che non spezzavano il canto struggente
e i pizzicati rigorosi, imprendibili, negli strumenti a fiato la
violenza primitiva che mutava in celebrazione della luce, un
corno che confidava le speranze e i rimpianti con tutta la
libertà del respiro. Il suono come anticipazione di un’intesa,
abbandonata come una danza, a volte un’immersione
nell’estro liberatorio, celebrazione della terra e del cielo,
ebbrezza e dolore.
Era così che continuavo a vivere la Russia della terra, la
Russia dell’acqua e della poesia, dei grandi romanzi, dei
tumulti, degli sconvolgimenti, delle oppressioni. Può darsi
che fossi fortunata e premiata per l’amore che, malgrado la
realtà, provavo ancora per quel grande Paese. Purtroppo nel
periodo brežneviano nel quale mi capitò di soggiornare a
Mosca, la capitale del Soviet era una grigia città
addormentata. Parecchi anni più tardi sarebbero state spese
cifre da capogiro per riverniciare i palazzi del centro,
sistemare le cupole di centinaia di chiese, sostituire le stelle
rosse con le aquile bicipiti, ma soprattutto per ripristinare
uno dei simboli della rinata grandezza nascosta, l’enorme
cattedrale del Cristo Salvatore, distrutta da Stalin.
Gli anni della mia permanenza a Mosca coincidono con
un periodo di vero immobilismo culturale. Cresceva solo
l’edilizia commerciale, quella delle sedi degli uffici di piccole
e medie imprese, dei negozi, spesso senza una pianificazione
vincolante. Questo probabilmente accentuava la percezione
di Mosca come megalopoli caotica e multiforme, malgrado
in quegli anni il traffico automobilistico non fosse ancora
quello che poi sarebbe divenuto dopo una decina d’anni per
merito dei fiumi di petrol-dollari che invaderanno il Paese.
Quale fosse il tenore di vita, non era semplice da dedurre.
Infatti, qual’era la vita della gente comune? Non ho mai
saputo dare una risposta precisa a questa domanda. Avevo la
strana sensazione come di qualcosa che mi scivolasse
accanto senza lasciare traccia di un qualsiasi fatto positivo o
negativo. La stessa sensazione di un collettivo disinteresse e
svogliatezza, la percepii qualche anno più tardi, durante la
permanenza a Barcellona, nel periodo di Franco, con la sola
differenza della mentalità: quella spagnola menefreghista e
giocherellona, abituata a cercare soluzioni il più
possibilmente facili nei discorsi, nel lavoro, nel divertimento,
nella sfrontatezza, nello scherzo, tutta mediterranea e quella
russa, malinconica, rassegnata da centinaia di anni di
remissiva attesa, della “sonnacchiosa Asia dorata, sulle cupole
assopita” di Jesenin, della cortina di ferro, degli sconfinati geli
della tundra siberiana, degli zar, del Soviet, della perenne
speranza. Per le strade di Barcellona gli operai appoggiati alla
pala fumavano tranquillamente l’ennesima sigaretta, nei
mercati rionali brulicanti di venditori vocianti che invitavano
a comprare dai loro ricchi variopinti banchi. Le ramblas, in
qualsiasi ora del giorno e della notte, con un continuo viavai
festaiolo che si snodava tra un numero imprecisato di
chioschi floreali delle specie e dei colori più svariati, fino
all’incredibile; il ballo collettivo domenicale della sardana
davanti alla cattedrale. Tutto sembrava un gioco, un leggero
partecipare alla vita con più semplicità possibile. A Mosca
avevo conosciuto il mercato di Kitaj Gorod, ma anche quelli
della periferia, naturalmente con qualche difficoltà per il mio
accompagnatore fisso Oleg. Ma le strade e i mercati delle
città che visitavo da sempre avevano suscitavano i miei
interessi. Per questo bastò spostarsi dalle grandi arterie
dell’anello d’oro verso la periferia-dormitorio per imbattersi
in lunghe code che si snodavano davanti a chioschi e banchi
ospitanti schiere di donne imbacuccate nelle loro vesti
sgraziate, con merce di ogni tipo e foggia, offerta quasi con
disperata necessità al casuale compratore. In silenzio, con un
sorriso mesto, imbarazzato! Contadini e contadine, non
collegati all’apparato commerciale, assiepati lungo il
perimetro degli edifici ai mercati delle piazze periferiche,
improvvisando la loro vendita sui marciapiedi.
C’era di tutto, da pezzi di vecchie macchine Moskvić217,
passate in licenza di produzione dalla Fiat torinese prima alla
Zastava serba e poi all’Unione Sovietica, a gavette militari
ammaccate, vecchie scarpe militari scalcagnate ma intere,
maglie di lana grezza, qualche rachitica spennacchiata gallina,
un pugno di cipolle, un fazzoletto di noci, un cestino di mele
dall’aspetto poco invitante, qualche carota rinsecchita. Anche
a voler comprare una cosa qualsiasi per lasciare a quelle
poveracce qualche rublo, non era possibile. Tutto era
inservibile e allungare i soldi sembrava un’elemosina.
Le persone si fermavano, rigiravano nelle mani le cose
esposte per terra, ci pensavano, ma non compravano se non
di rado. C’era chi aveva necessità anche di quello che si
trovava lì. In mezzo a quella miseria, accompagnata da un
timido sorriso come di scusa per quello che offrivano, a
volte si intravedevano appassiti mazzetti di fiori di campo o
di cortile, raccolti di passaggio per dare un tocco gentile alle
cose che si portavano appresso nella speranza che a
qualcuno sarebbero potute servire. Pertanto era ovvio che le
istruzioni date a Oleg non comprendessero escursioni nella
sterminata periferia dormitorio moscovita. Il mio parere che
il carattere delle persone lo si riesce a comprendere solo
osservandole nei loro comportamenti quotidiani naturali, mi
aiutava a capire maggiormente la realtà del Paese che
frequentavo. Quello che ci veniva offerto dai nostri padroni
di casa era una passeggiata in bianco e nero e molto sbiadita,
piena di ombre. Infatti, l’illusione del disgelo durò appena un
paio di anni. E così, mentre durante gli anni brežneviani
Leningrado continuava a essere citata nelle pagine della
letteratura ufficiale come culla della Rivoluzione e città eroe.
Mosca non rappresentava alcuna visione originale. La furia
con cui Mosca tentò di sbarazzarsi di ogni traccia di
comportamento borghese, nobiliare, ricordava molto quella
che negli anni ‘90 avrebbe segnato la fine dell’Unione
Sovietica. Il passato prossimo prevalse sul futuro e cedette al
perenne potere della nostalgia. Forse il rifiuto istintivo per il
nuovo aspetto che la vita cittadina di Mosca aveva assunto
creava nei russi una non meglio definita forma di repulsione
per la sua crescita e i cambiamenti? Mi chiedevo dove fosse
finita l’intellighenzia moscovita. E lo chiesi a Oleg. Gli chiesi
come lui, appartenente al mondo colto, vivesse i contrasti
esistenziali, e non capivo perché ciò venisse nascosto al
mondo esterno. Come le autorità credevano di poter illudere
uno straniero? Fare la spesa a Mosca non era facile per gli
operai della periferia. Nello stesso momento, per chi
disponeva di denaro, nascevano negozi come quelli del Gum,
supermercati come quello che stava allestendo la Multi
Export-Import e che a giorni avrebbe aperto le sue porte
mostrando il trionfo della fase neoconsumistica con
l’accattivante nome di Moskovskaja isba218. Questa nuova fase,
tutta fatta di un mercato al di sopra delle righe e per pochi
sovietici ricchi, sembrava una movida russa che offriva al
visitatore straniero una dubbiosa immagine di interventi
snaturanti, d’influenze occidentali con tutte le caratteristiche
della tendenza all’eccesso, alla celebrazione, propria della
nomenclatura e non della popolazione.
La vita spicciola, nella quale si confondevano il passato e
il presente, le tradizioni e le trasgressioni, il vecchio e il
nuovo, si manifestava nelle strade. Il mercato kolhosiano e
sovhosiano denominato Jarmarka, cioè fiera, pareva una
realtà superata. Ora i prodotti alimentari e di largo consumo
arrivavano dall’estero e i fornitissimi supermercati della Multi
Export-Import, il Moskovskaja isba, dove per isba s’intendeva
la piccola casa per tutti, era l’unico luogo in cui, previo
autorizzato aumento dei prezzi, fosse possibile trovare a
colpo sicuro insieme alle verdure, ortaggi, frutta fresca,
carne, formaggi, latte, anche prodotti esteri, spesso di infima
qualità, ma in allettanti, ammiccanti, confezioni. Anche i
banchi di vendita negli interni di questi spazi dai nomi
stranieri fantasiosi, era chiaro che fossero moscoviti,
assegnati in base a criteri poco chiari, per il favoritismo e vari
interessi. Che fosse così non era difficile intuirlo. Oleg,
anche se mi lasciava regolarmente sola nelle rare passeggiate
sulle strade moscovite e mi dava la possibilità di osservare la
gente al di fuori degli spazi ufficiali, non si lasciava mai
andare a un commento negativo. Tanto meno cercò di
convincermi dell’inesattezza delle mie conclusioni. Era
troppo intelligente per contraddirmi ed estremamente
corretto per darmi ragione.
Arrivò agosto e dopo gli ultimi tre mesi di permanenza a
Mosca eravamo al punto di inaugurare Moskovskaja isba. Sia
la costruzione degli spazi nella nuova galleria, sia il
comportamento delle persone scelte per lavorare nella
nuovarrivò agostoa struttura non seguivano i nostri ritmi
lavorativi. Non era chiaro che tipo di persone la direzione
dei lavori avesse scelto. Sicuramente non per preparazione e
prontezza. Credo che continuassero a essere fatte scelte in
base a meriti ben diversi da quelli che erano necessari. Sia gli
uomini che le donne avevano impressa una sorta di rudezza,
una mancanza di duttilità nei rapporti con il pubblico e di
uno spontaneo sorriso. Avevo l’impressione che essere
disponibile verso i clienti, peggio ancora se stranieri,
togliesse loro il senso di dignità. Si sentivano servi. Una
condizione che avevano, secondo loro, lasciato dietro di sé.
Lo stesso strano rapporto lo avevano con chi chiedesse loro
un aiuto, una cortesia, o semplicemente un sacrosanto
servizio, anche in ristoranti e alberghi, naturalmente non di
alto rango. La stessa cosa l’avevo riscontrata in Serbia e
Montenegro. Era possibile che fosse una caratteristica
naturale di certi popoli Oppure era un’insicurezza acquisita
in secoli di domini vari? All’Ukraina e nei ristoranti di lusso
incontravo donne di servizio o governanti, guardarobiere,
camerieri che avevano un comportamento completamente
diverso. Ad osservare come maneggiavano le tazze del tè, le
posate, la biancheria, la scopa, come tenevano le mani ferme
quando non facevano nulla, davano l’impressione di essere
governanti e maggiordomi inglesi. Qualcuno mi raccontò
che erano donne e uomini di origini nobili che avevano
trovato l’unico mezzo di sussistenza nel servire ricchi e
potenti. Le vedove di guerra, poco adatte a servire, erano
spazzine per le strade, nelle stazioni della favolosa
Metropolitana moscovita. La nuova generazione era tutta
scolarizzata, l’università sfornava tecnici per le grandi
industrie siberiane e insegnanti per le sconfinate regioni
decentrate. Mancava una classe destinata ai servizi. Non
sembravano dignitosi e pochi si accontentavano.
Il caldo d’agosto faceva arrancare Mosca. Io partii per le
vacanze. Il nostro direttore rimase con gli istruttori e Oleg.
In settembre si doveva finire quel primo impegno. Scesa da
un aereo a Belgrado, ne presi un altro per Spalato. Tra la
posta che Rade regolarmente mi faceva arrivare, c’erano
lettere del Sindaco di Curzola. Mi informava che stavano
preparando una Monografia sulla vita di Maestro per i suoi
ottant’anni, che avrebbe compiuto il sei agosto. Mi chiedeva
informazioni e foto. Io non avevo nulla. Non sono mai
riuscita a prendere nulla dalla Casa in pietra grigia. I Tador
l’avevano smontata in un battibaleno in mia assenza. Sapevo
però che il giornalista Frane Juri e lo scrittore Jozo Kirgo
avevano più volte scritto sull’attività di Maestro e
possedevano parecchio materiale. Lo stesso Rino, ex allievo
di Maestro, e altri vecchi musicisti come Drago e Vinko
potevano esserne provvisti. A Spalato mi sistemai nel
bell’albergo Park, sul mare della baia di Bačvice, e mi
precipitai a far visita a Maestro. Lo trovai abbastanza bene.
Invecchiato fisicamente, ma vivace e sereno. Mi recavo da lui
a metà mattinata e nel pomeriggio verso l’imbrunire. Non
finiva mai di fare domande sulla vita in Russia, sulla gente,
sulla cultura e sul Bolšoj. Credo di aver ripetuto le stesse
cose un’infinità di volte. Non perché non le capisse, ma
perché voleva sentire sempre nuovi particolari.
A Mosca, al mercato dei dischi, avevo trovato le
registrazioni di due grandi pianisti russi: Benno Moiselvinsky
e Alexander Brailowsky, primi in assoluto a incidere la
celebre suite di Musorgskij, Quadri di una esposizione – e poi
l’LP di Horowitz. Eccezionale. Li ascoltammo tantissime
volte nei pomeriggi con il sole appoggiato a ovest e il fresco
che avanzava dalla pineta del monte Marjan. Maestro si
accorse subito che Horovitz non suonava la versione
originale. In pochi, fatta eccezione per i pianisti
professionisti, potevano accorgersene.
- Uno degli aspetti più stimolanti dei quadri è proprio la scrittura
pianistica innovativa. Horovitz li riscrisse realizzando una situazione
romantica, quasi lisztiana, brillantissima, ma meno interessante di
quella originale - mi spiegò Maestro. E poi proseguì:- Molti dei
grandi interpreti spesso intervengono per adattare i brani alle proprie
possibilità, essenzialmente di mano, ma l’adattamento è cosa diversa
dalla creazione ex novo. Quante pagine pianistiche sono state elaborate
sui temi delle grandi opere? È un tipo di dominio della tastiera.
Possono affascinare le fantasie, ma sono solo impressioni.
Mi stupì moltissimo con le sue deduzioni. Splendido, a
ottant’anni seguiva, sicuramente per radio, gli avvenimenti
musicali ed era sempre rimasto profondamente legato
all’oggetto del suo grande amore di compositore-pianista: la
tastiera. La notizia della Monografia sulla sua vita lo lasciò
indifferente. Il Sindaco di Curzola l’aveva contattato più
volte, mi disse:- Ricordi da esporre non ne aveva.
Io, invece, ritenevo che il gesto dei curzolani fosse un
segno d’affetto e di riconoscenza che sarebbe stato un
dovere dei lesignani, dopo i cinquant’anni di proficuo lavoro
che gli aveva dedicato. L’unica risposta fu:- I lesignani sono
troppo superficiali per sentire dei doveri!
Il discorso finì lì. Io misi in contatto il Sindaco con i
giornalisti Juri e Kirgo. Il materiale fu raccolto e la
Monografia stampata. Bella, vera e commovente. Uscì dalla
stampa nell’estate del ‘68.
Due settimane a Spalato passarono in fretta. Mi riposai. A
Belgrado non c’era nessuno. E nulla mi attirava. Dean si era
trasferito in Inghilterra da un paio di mesi. Faceva l’istruttore
di tennis. Rade era in vacanza sulle montagne bosniache e a
breve in partenza per Copenhagen, dove avrebbe intrapreso
un nuovo lavoro in una grande società pubblicitaria. Zoran
Babić era oramai ambasciatore negli Stati Uniti. I miei tre
vecchi amici abbandonavano il Paese. Il ‘68 fu un po’ per
tutti l’anno dei grandi cambiamenti. I giornali erano saturi
delle scoperte di comportamenti illegali delle grandi firme e
della Banca Federale. Illeciti, truffe, arricchimenti personali,
procedimenti legali amministrativi e penali. Belgrado era in
fiamme. La Multi Export-Import altrettanto. Erano stati
presi di mira i vecchi direttori di settore sotto l’ala del
direttore generale, che sostituì Mile Jovanić, inviato a Mosca
a occuparsi dei supermercati.
A Spalato la gente ironizzava sugli sfacciati arricchimenti
serbi. Si diceva che l’autogestione l’avevano applicata nel vero
senso della parola: autogestivano i beni sociali come fossero
privati.
Di sera, tornando dalle visite a Maestro, facevo a piedi il
tratto del lungomare fino al Park Hotel. Al caffè Bellevue si
radunava un po’ tutta la gente dei giornali, della televisione,
del teatro. Più di una sera incontrai Frane Juri,
corrispondente del quotidiano Slobodna Dalmacija219, e altri
che conoscevo per i loro articoli. Una parte era stata messa a
riposo a cinquant’anni nel periodo della pulizia della Matica
Hrvatska.
Erano fortunati a non essere finiti nelle patrie galere
come Nicola e altri ancora, tuttora dietro le sbarre senza
un’incriminazione e un qualsiasi processo. Si riunivano per
abitudine. Discutevano di calcio, delle scoperte dei posti
dove fosse ancora possibile pescare il pesce, sulle ricette. Su
cosa ne pensassero dei fatti riportati quotidianamente dalla
stampa, non sentii alcun commento. Avevano le bocche
cucite. D’altronde la cosiddetta intellighenzia spalatina era
sempre stata né pesce né carne, secondo una definizione
zagabrese. Lo spalatino per natura girava la bandiera secondo il
vento che soffiava. Pochi remavano controvento.
L’unico che sembrava aver avuto un colore ideologico,
era Smole, oramai ricordato solo per una fortunata serie
televisiva tratta dal suo libro Il nostro paese, ma rovinosamente
ridotto a uomo sborniato, con le idee sciolte nei fiumi
dell’alcool, a causa del quale parlava e sparlava senza tregua.
Una di quelle sere lo trovai intento a esporre le idee sulle
condizioni economiche del Paese e sulla marcia indietro del
Governo federale nelle liberalizzazioni concesse in campo
socio-politico, specie nella gestione dei beni pubblici in
pieno regime di autogoverno. Riteneva Tito troppo
tollerante con i croati e da buon croato severo e rigido con i
serbi. L’attuale pulizia di una certa classe dirigente federale
era, secondo lui, il risultato di un’autogestione inadatta. Una
forma di illimitata e anarchica concorrenza di molti parziali
interessi. In una società ancora così acerba era necessario,
sempre secondo Smole, uno Stato dalla mano di ferro per
evitare un fenomeno reazionario come il nazionalismo. Non
era possibile spezzare l’unione dell’apparato federale e del
Partito per raggiungere uno sviluppo economico autonomo
croato. Diceva inoltre che le disposizioni costituzionali non
garantivano ipso facto l’attuazione dei diritti basati
sull’autogoverno! In breve non accettava l’autogestione e
riteneva inviolabili gli interessi di Belgrado. Mi chiedevo, era
veramente fuori di testa o in fondo credeva in quello che
diceva?
La Croazia in massa, com’era evidente dai tantissimi segni
premonitori, desiderava la propria autonomia e Belgrado
arrancava nel volere a tutti i costi far rientrare i dissidi, anche
con la soppressione dei privilegi elargiti senza parsimonia,
come dimostrava la furiosa pulizia tra la dirigenza federale.
Ma anche in Croazia c’era chi sosteneva Belgrado! Questo
succedeva dove la Lega Comunista aveva radici ben piazzate
nel terreno dei privilegi, come a Spalato, una città provinciale
che dalla fine della guerra aveva usufruito di tutte le forme di
assistenzialismo statale e pertanto era cresciuta a dismisura
senza aver mai risolto i problemi sorti dalla grande
immigrazione di popolazione contadina in cerca di lavoro
nelle mega-fabbriche di cemento e materiale plastico che
ammorbavano l’ovest spalatino, distruggendo la bellissima
costa dei Sette Castelli, una volta ricchi orti e giardini pieni di
primizie di ortaggi e frutta che approvvigionava tutta la
Dalmazia centrale.
Ora era ridotta a una landa deserta seppellita da polveri in
libera uscita dalle alte ciminiere delle cattedrali nel deserto, che
avevano distrutto anche una grande porzione del turismo
medio dalmato.
Non mi è mai piaciuto Smole. Ubriaco o no, era
semplicemente dotato di una furbizia e un opportunismo
tutti spalatini. Il suo parere, così sfacciatamente espresso,
non mi sembrava sopportabile nel momento che il Paese
stava vivendo. Inoltre conoscevo direttamente gli sforzi del
Governo croato nella ricerca di una maggiore democraticità,
per cui non mi trattenni dal replicare:
- La Costituzione varata nel 1965 e i successivi
emendamenti hanno definito la Federazione Jugoslava come
strumento collettivo delle repubbliche e delle regioni per la
soluzione degli interessi comuni e solo di una parte dei loro
diritti.
Le repubbliche stanno assumendo il carattere di comunità
politico-sociali autogestite, nel cui ambito i cittadini e i
lavoratori esercitano la maggior parte dei loro diritti e doveri.
Con la legge sul lavoro sono stati regolati i rapporti
economici, per esempio la ripartizione dei redditi aziendali,
la destinazione di quelli personali, i diritti e i doveri dei
singoli, le responsabilità degli organi aziendali, i rapporti
interpersonali, la responsabilità nell’esecuzione dei compiti
lavorativi, la tutela e la gestione dei mezzi aziendali, il
collegamento del lavoro individuale con quello collettivo.
Dunque: serietà e responsabilità. Purtroppo si è sottovalutata
la natura umana e il suo egoismo. Anche se l’uomo non può
esistere come individuo isolato e vive rapportandosi agli altri
su una base di parità, si è dimenticato che nessun sistema
può farlo diventare felice membro di una società basata
sull’uguaglianza, se avido. Purtroppo l’interesse individuale e
collettivo da noi non si sono uniti. L’autogoverno, infatti, è
stato inteso come totale e anarchica libertà di azione, mentre
lo Stato Federale e il Partito non hanno mai pensato di
perdere il proprio ruolo nelle decisioni relative all’accumulo
delle risorse. Le grandi organizzazioni statali hanno
sviluppato la propria burocrazia e sono diventate le uniche
promotrici del proprio sviluppo. Il plusvalore, la gestione dei
mezzi nelle sue varie forme sono stati fatti scorrere
attraverso oscuri canali. Il sistema bancario e dei crediti,
sono diventati sempre più autonomi. Così si è sviluppato e
rafforzato fino all’inverosimile lo strato sociale dei burocrati
e dei tecnocrati. Si è verificata la fusione del monopolio
tecnocratico-manageriale-economico con gli organi del
potere Statale e del Partito. Si è accresciuta la proprietà, la
privatizzazione dei beni sociali di forze ostili all’autogestione,
per deformarne il carattere e la sostanza che minaccia
l’arricchimento illecito e illegale. Il Governo croato e quello
sloveno, repubbliche trainanti dell’economia del Paese, sono
stanchi di non riuscire a progredire, a svilupparsi
adeguatamente in rapporto ai redditi ottenuti, e di continuare
a versare tutti i profitti nelle casse Federali. È mai possibile
che ci sia ancora qualcuno in Croazia che non ha capito che
l’autogestione è stata pensata, elaborata sulla base di
un’economia controllata, meno settoriale e privilegiata?! Ciò
non ha nulla a che fare con le correnti nazionalistiche croate,
ma semmai con quelle serbe, da sempre convinte di dover
essere “la guida spirituale e ideologica della Federazione
Jugoslava” e del bieco opportunismo di chi vive di perenni
sussidi. Sembra che non sia ancora chiaro, per questo stiamo
andando verso uno sfacelo generale.
Lo dissi tutto d’un fiato. Un silenzio totale accompagnò le
mie parole. Eppure ero in mezzo a persone che avevano
pagato personalmente per le stesse idee che avevo appena
esposto. Non sapevo se avessi sbagliato o meno a parlare.
Ero in Croazia, lavoravo e vivevo a Belgrado, avevo toccato
con mano il grande mito della madre Russia e ne avevo le scatole
piene di imbrogli ideologici, delle fregature del potere
istituito, della impossibilità di riuscire a decidere chi fossi.
Infatti, chi ero: una jugoslava? No. Croata? E chi può dirlo!
Una dalmata, oramai senza casa e radici? Mi sentivo esule in
casa di nessuno, con l’idea chiara di non appartenere più a
quel mondo, fatto di voltafaccia, opportunismo, stupidità!
Parecchio tempo più tardi di quando realizzai di sentirmi
nessuno, intorno alla metà degli anni ‘80 già da quasi vent’anni
all’estero e rientrata per un senso di illusoria nostalgia alla
ricerca e in conferma del mio locus nativo come origine
primordiale, feci ricostruire il mio rifugio sul rudere
dell’antico caseggiato cinquecentesco sulle Isole Spalmadori,
realizzando un meraviglioso e ombreggiato cortile di albe rosse
e notti di lune d’alabastro, come lo definì lo scrittore italo-
istriano Tomizza. Qualcuno dei personaggi presenti al
discorso del Bellevue caffè nel ‘67 e lo stesso Smole, in
compagnia del giornalista Juri, molto spesso e più volte
approdarono nella baia in visita a casa mia. Strano come
nessuno ricordasse il discorso che mi costò parecchie, serie e
irrevocabili decisioni. Ricevevo quei signori come ricevevo
tutti quelli che non riuscivano a oltrepassare il mio cortile
senza soffermarsi a magnificare l’intervento costruttivo che
aveva riportato al suo aspetto primordiale il caseggiato e le
stalle, ricostruite in rapporto all’ambiente circostante nel più
assoluto rispetto della fine architettura isolana, nella sua
rarità nel cercare di mantenere spazi autentici, lontani dalla
sfrenata e incontrollata furia dell’edilizia omologata per il
massimo sfruttamento turistico che ha alla fine distrutto le
Isole Spalmadori. Dopo vent’anni un po’ tutti, compreso
Smole, erano pronti a giurare che in verità erano sempre stati
delle mie stesse idee. Salvo, naturalmente, cambiarle un’altra
volta dopo la guerra del 1991-1995, che definitivamente
sconvolse il Paese dei mille privilegi per mille potenti.
Ma questa è un’altra storia, o meglio, il suo seguito
annunciato, prevedibile e, con più buonsenso e meno
avidità, evitabile da tutte le parti in causa.
Intanto a metà agosto rientrai a Belgrado. Pensavo se
sistemare il mio appartamento nella torre solitaria a Belgrado
Nuova. Prima della partenza per Mosca avevo comprato al
Multi Export-Import, nel settore legno e affini, dei mobili.
Pochi, perché il monolocale aveva una cucina
completamente arredata, nell’ingresso un ampio armadio su
due pareti e nella grande stanza la libreria a giorno a tutta
parete. Comprai un grande e comodo divano letto, il tavolo
con quattro poltroncine imbottite e mobili-contenitori bassi
per la parete vuota tra la porta della stanza e la grande
vetrata dal balcone con vista sul fiume e la città sullo sfondo,
e due pezzi per completare i vuoti lasciati ai lati del divano.
Avevo sistemato tutto in deposito e pagato in tre rate
durante l’assenza. Credevo di trovare tutto ammassato come
l’avevo lasciato alla partenza. Un’altra volta Rade mi stupì
con la sua gentilezza. Gli avevo lasciato la chiave perché
tutte le mie poche cose erano rimaste nel suo studio-soffitta.
Non solo aveva sistemato i mobili nella stanza, ma aveva
anche trasferito i miei vestiti negli armadi, le masserizie nella
cucina, libri e oggetti regalatimi o comprati di recente, sulla
libreria, la radio e il giradischi, un bel vaso sul mobile basso,
sui muri i suoi quadri che avevo scelto e appeso nella
soffitta. C’era anche una gradevole sorpresa. Un grande
quadro che non conoscevo. Il soggetto era una finestra in
penombra aperta su una distesa di nebbia lattiginosa e nella
cornice della finestra una sagoma femminile sfocata,
stilizzata, senza forme e alcun tratto, di colore celeste, che si
fondeva con la nebbia dell’esterno. La figura femminile non
aveva nulla di reale, come reale non era l’invisibile paesaggio.
Sembrava un quadro non finito, una bozza. Più volte mi
chiesi quali sensazioni mi suscitasse la sua visione. Un giorno
me ne resi conto. Creava in me una certa nostalgia. Quando
chiesi a Rade cosa il quadro rappresentasse rispose:- La
nostalgia. Questa era la sensibilità che mi legava a quel ragazzo
gentile, capace di arredare casa mia con tutto l’estro
dell’artista - designer che era.
Rade era rientrato a Belgrado dalla sua vacanza sulle
montagne bosniache. Aspettava il mio arrivo da Spalato,
evidentemente soddisfatto del suo lavoro nell’appartamento,
dove era riuscito anche a farmi allacciare il telefono, cosa
molto difficile. L’unica sua indecisione era stata la tenda sulla
grande vetrata, per cui l’aveva lasciata nuda, con il solo
pesante telo blu dell’arredo fisso negli appartamenti. Non
avevo alcuna voglia di cambiare qualcosa. Tutto andava
bene. Desideravo svagarmi. Andammo a cena al Club dei
giornalisti nel parco Topčider. Rimanemmo a lungo. Il
giorno successivo avevo deciso di recarmi all’azienda, anche
se in agosto sicuramente in direzione sarebbero mancati un
po’ tutti. Il clima, come mi raccontò Rade, era pesante. I
giornali non risparmiavano nessuno dei personaggi presi di
mira, certi già smossi dai loro incarichi, certi indagati in
pieno processo.
Sulla lista nera della Multi Export-Import c’erano il
direttore degli Affari Generali, la direttrice del Settore esteri,
il responsabile acquisti e vendita elettrodomestici, legname e
affini, insomma, quasi tutti, per irregolarità finanziarie, abuso
del potere sul posto di lavoro e indebito arricchimento.
La persona indicata dalla gente come lo spazzino dei ladroni
era il nuovo direttore generale Marjanović, arbitro di
tantissimi cambiamenti nella direzione aziendale e poliziotto
più accanito della polizia tributaria e amministrativa.
In direzione al piano nobile trovai un deserto. L’unica
figura rassicurante era la sempre presente Milana, in
sostituzione di un po’ tutti i più importanti assenti. La mia
stanza era vuota, la scrivania sgombera. Ciò significava che
non mi aveva sostituita nessuno durante l’assenza per
l’incarico estero.
Per un attimo mi chiesi come facessero senza un tuttofare
disponibile. Poi mi resi conto che veramente, tra quelli in
ferie e quelli allontanati per indagini o sospetti illeciti, non
era rimasto quasi nessuno dei dirigenti. Milana non mi rivelò
né confermò alcuna delle notizie largamente strombazzate
dalla stampa. Sostenne che era tutta un’esagerazione, basata
su un’enorme invidia verso i collettivi diventati ricchi e
potenti con il proprio lavoro e un’accurata conduzione. Le
chiesi come la mettesse con il fatto che il nuovo direttore
che aveva sostituito Jovanić stava ripulendo dall’interno la
ditta. - Lui è membro del Partito, portato a verificare la situazione nel
suo interno e fa ciò per cui è stato scelto! - mi rispose e capii che
sarebbe successo quello che il Partito aveva deciso. Quella
stessa mattina incontrai Vera, la responsabile dell’Ufficio
legale aziendale con la quale avevo un rapporto meno
formale della maggioranza degli impiegati.
Mi raccontò, come curiosità, che la televisione aveva dato
ampia pubblicità dell’apertura dei nostri supermercati a
Mosca. Era stata trasmessa la nostra partenza all’aeroporto
ed eravamo stati ripresi, e ben visibili, durante l’arrivo
all’Ukraina.
Mi raccontò anche che qualche giorno più tardi si era
recata all’Ambulatorio di Medicina Generale del suo
quartiere in periferia e una nuova dottoressa, segnando i suoi
dati anagrafici e avendo saputo che lavorava alla Multi
Export-Import, le aveva fatto domande sulle persone che
erano partite a Mosca e le aveva chiesto se conoscesse
l’interprete.
- Certo che la conosco - aveva ribadito Vera. - Intendo, la
conosce bene? Sa chi è? - Sì, è nostra segretaria generale da parecchi
anni! - E sapete da dove viene?
- Veramente non gliel’ho mai chiesto. So che è dalmata! Perché?
- Perché è una sporca ustaša croata. Ha lo sciovinismo nel sangue.
All’Università di Zagabria, protetta da certi suoi spasimanti, dettava
legge dentro e fuori il Centro Universitario. Conduceva certe
trasmissioni sull’autogestione che avevano un’impronta apertamente
contraria allo Stato e al Partito. Poi finì nell’Ufficio stampa della
Presidenza del Governo Croato e fece la parte della “sommossa dei
nazionalisti croati”, propagandando la necessità dell’autonomia della
Croazia da Belgrado. Il suo ultimo impegno fu un lavoro redazionale
per il mensile di letteratura “Foro”, edito dalla Matica Hrvatska, che
improvvisamente abbandonò nel momento in cui la maggior parte dei
suoi amici e capobanda finirono in carcere per azioni contro il governo
federale, e altro ancora.
Vera, allibita, le aveva chiesto come facesse a sapere tutte
queste cose.
- Ero studente a Zagabria e quando la conobbi lei era ancora alle
scuole superiori. Per anni fu fidanzata con mio fratello. Lo lasciò
perché era serbo. E quando mi laureai ed ebbi il posto di medico in
provincia per una errata diagnosi di un collega su un paziente e la
faccenda fu attribuita a me, seppi che il medico era amico intimo e
parente stretto del capoufficio della “brava ragazza”. Quei croati
chiusero così la mia permanenza in Croazia. Rimasi senza lavoro. Rimasi io senza parole. Si trattava di Mila, la sorella di
Giorgie, con il quale non ho mai avuto un rapporto più che
superficiale e sporadico. Fidanzato nemmeno per sogno! E
che fosse serbo o musulmano o ebreo non me ne poteva
importare. Laureato Giorgine e lasciato Zagabria, persi di
vista anche Mila. Che lei fosse divenuta medico in un paese
del circondario di Varaždin l’avevo saputo dai giornali. Un
grande articolo sull’opera sanitaria di questa dottoressa uscì
dopo l’esposto e la lunga battaglia giudiziaria dei genitori del
ragazzo morto. Il collega che Mila cercò di rendere
responsabile dei propri errori aveva solo il cognome uguale a
quello del segretario particolare della Presidenza del
Governo croato, non era né parente né conoscente. Non
dissi nulla a Vera. Era ovvio, Mila non mi aveva perdonato
mai quello che ero, cioè una croata, semplicemente capitata
per caso sulla sua strada e con serenità proseguita per la sua,
senza pregiudizi, atavici odi e livori. E ora ero nella sua
Serbia e in vista! Che orrore! Tutto ciò per me era
semplicemente il vaneggiare di una visionaria fanfaluca.
- Ma non finì qui - disse Vera.
Dopo quel discorso, il direttore del Settore carni e
insaccati si era recato nel suo ufficio e a bruciapelo le aveva
chiesto come mai non dicesse nulla dei precedenti
dell’assistente della direzione generale saputi dalla dottoressa
dell’ambulatorio. In breve, čedo Zvonar abitava nello stesso
quartiere di Vera e si era recato all’ambulatorio, dove la
solerte nuova dottoressa, avendo come paziente uno dei
direttori di settore della Multi Export-Import, aveva pensato
bene di allargare e approfondire le proprie mendacità. Più
persone avessero conosciuto il mio oscuro passato di
nazionalista sfegatata e addirittura attivista, più possibilità ci
sarebbero state di minarmi la tranquilla esistenza e
considerazione in cui vivevo. Ma, perché mai era tanto
interessata a me? A dire la verità, non è che tutto ciò potesse
lasciarmi completamente serena. In quel clima di estrema
tensione e incertezze che serpeggiavano nell’ambiente
lavorativo, nulla più era sicuro. Il mio disagio proveniva dal
fatto che tutto quello che Mila aveva raccontato a Vera e a
čedo Zvonar aveva le sue fondamenta di verità. Era vero che
avevo lavorato nel Centro Universitario e che seguivo una
corrente moderna, autonoma nelle trasmissioni letterarie.
Avevo ritenuto e difeso pubblicamente Kiš come uno
scrittore valido, anche se naturalmente nel senso letterario e
non ideologico. Avevo elaborato i dissidenti russi tracciando
una linea parallela tra le condizioni sociali e politiche di tanti
Ivan Denisovič dei nostrani Solženicyn: dei villaggi, kolhos,
sovhos e simili invenzioni staliniane che hanno distrutto il
nostro tessuto contadino senza aver creato la dittatura del
proletariato. Avevo approfondito il comunismo americano da Dos
Pasos a certi tratti di Steinbeck e Faulkner, come esempio
della sua breve vita. Naturalmente non avevo mai pensato
che certe teorie ideologiche potessero scaturire da analisi
prettamente letterarie. Anzi, la politica non m’interessava, né
l’ho mai capita. E poi, nell’Ufficio stampa, avevo collaborato
all’elaborazione della nuova Costituzione come espressione
dell’autogestione socialista per una maggiore democraticità!
Mi innamorai dell’idea dell’uguaglianza, della libertà del
lavoro autogestito, della possibilità di progresso, cioè di una
vita migliore basata sulla responsabilità del singolo e della
collettività. Chi poteva essere contrario a questa quasiutopia?! Naturalmente chi non voleva perdere il potere e i
privilegi. Si diceva il Partito, ma il Partito era solo una
minoranza! Dunque? C’erano anche certi vertici economici
troppo arricchiti che dettavano leggi e non intendevano
cedere le redini. Sarebbero stati responsabilizzati o
decapitati? Finita pulizia ideologica dopo il 1948, c’era stata
la pulizia economica degli anni ‘60, protrattasi con sbalzi e
frenate fino al ‘68, con la battaglia ai manager balzati
all’onore delle cronache per il cattivo impiego
dell’autogestione in ambienti economicamente evoluti e
indotti a due tipi di nazionalismi, uno che non voleva più
essere sottomesso e un altro che non aveva mai smesso di
essere dominatore eccelso. La peggiore cosa che ci potesse
capitare e che ci stava capitando. Non eravamo più liberi
nella nostra Patria. Eri croato? In Croazia eri ridotto alla
sudditanza del potere statale. In Serbia eri nientemeno che
sospettabile. Mi trovai all’improvviso a non sapere più da che
parte stare. Eppure non stavo da nessuna parte. Non c’ero
mai stata.
Il resto delle vacanze lo passai a Novi Sad, invitata da
Rade nella casa dei suoi nonni paterni.
La cittadina aveva qualcosa di nobile nelle mura, nei
porticati, nelle strade lastricate, tutte dritte sotto due
ininterrotte file di platani. La casa, protetta sui tre lati dalle
alte mura di un cortile oltre la facciata sullo stradone
principale, dimostrava i molti anni trascorsi in un clima
migliore, ma non era sgradevole. Era solo vissuta e gli zii di
Rade erano persone amabili. Avevo bisogno di un ambiente
famigliare. Li conoscevo già tutti, ma non avevo avuto mai il
tempo per far loro una visita, più volte promessa. In verità
passammo poco tempo in casa. Già a metà mattina
cavalcavamo la moto di Rade e ci dirigevamo sul fiume Sava.
Rade ne conosceva ogni anfratto e successivo angolo con
acque tranquille, quasi immobili, dove il bagno era piacevole.
Raccontai le malvagità di Mila, non avendo deciso ancora
come comportarmi. Mi era stata fatta un’ingiustizia, pensavo.
Dovevo reagire o lasciar perdere? Come spiegare che
erano tutte fandonie, frutto di pura e bieca invidia? Rade era
del parere che, se i due personaggi contattati da Mila non
avessero dato peso alle sue illazioni, allora non avrei dovuto
fare nulla. Nel caso in cui avessero reso partecipi altri
nell’azienda, e per questo la mia esistenza avesse dovuto
subire dei risvolti negativi, sarebbe stato opportuno
incaricare l’avvocato David Fila per farli desistere dal
denigrarmi.
Intanto a giorni sarei ripartita per Mosca. E poi? E poi si
sarebbe deciso. Eravamo oramai pronti a partire tutti e due.
Rade per Copenhagen. Non lo so se felice, ma deciso e
sicuro della scelta. La vita in Patria non gli offriva nulla. Alla
sua età era ancora lontano dall’esercitare il suo mestiere.
Fare il vignettista era un hobby che l’aveva portato a
essere conosciuto e apprezzato, ma non anche soddisfatto e
con un guadagno adeguato alle sue capacità. Voleva fare il
mestiere per il quale aveva studiato e il centro pubblicitario
che gli aveva proposto il lavoro era quello che desiderava.
Ne abbiamo parlato e parlato, sviscerando tutti gli aspetti
positivi e negativi del lavoro all’estero, del cosiddetto esilio
d’élite, come lo definivano tutti quegli intellettuali jugoslavi
che erano costretti, ed erano tantissimi, ad emigrare per
riuscire a coronare con più o meno successo i propri sforzi
mettendo a frutto le proprie capacità. Erano gli anni
dell’emigrazione in massa degli intellettuali, un po’ da tutto il
Paese.
Così si crearono sacche di emigrati laureati in Svezia,
Danimarca, Germania, Inghilterra, Francia, Svizzera e oltre
oceano negli Stati Uniti, in Canada, in Australia.
In realtà si scappava dall’impossibilità di crearsi certezze,
rapporti umani di amicizia e di lealtà, un futuro sereno, senza
dover necessariamente compiere lo sforzo di sembrare
quello che non si era. Negli anni della nostra lunga amicizia,
anche se non sempre fisicamente vicini e addirittura vivendo
in realtà completamente diverse e cresciuti con mentalità e
culture difformi, avevamo costruito un profondo legame.
Per me Rade era come un fratello maggiore. Gli stessi
sentimenti mi legavano a Dean. Eppure tutti e due non
appartenevano al mio ambiente. Ma qual era il mio
ambiente? Non quello isolano. Quello zagabrese? Un po’ di
più, grazie a un altro amico, Zoran Babić, per anni il più
importante nella mia formazione, presenza silenziosa nelle
scelte. A lungo ho discusso con Rade su come fosse
possibile affibbiarmi l’etichetta di xenofoba come aveva fatto
con moltissimo livore Mila. In realtà, da sempre ero convinta
di avere una grossa mancanza caratteriale. Quella di non
serbare rancore e di non sapere restituire pan per focaccia alle
offese, ai soprusi e alle ingiustizie, addirittura dimenticando
le prepotenze. Riflettevo a voce alta con Rade, cercando di
analizzare i miei rapporti di amicizia, sinceramente parlando,
abbastanza rari. Sostenevo convinta che il presupposto
fondamentale per un rapporto di amicizia fossero la fiducia e
la reciproca stima. Infatti, doveva trattarsi di un rapporto che
permettesse di apparire senza riserbo, essere certi di venire
accettati con tutti i propri difetti, incertezze e dubbi, sicuri di
essere sempre compresi senza dover sembrare perfetti.
Credevo che all’amico ci si potesse rivolgere con assoluta
confidenza sapendo di non essere giudicati.
Nei confronti dell’amico si conserva quello che si
definisce il pregiudizio positivo, per cui accettiamo osservazioni
che non tolleriamo da altri. Sappiamo che l’amico ci parla
con franchezza, anche se ciò può a volte ferirci. Lo fa per il
nostro bene. La sua sincerità è molto importante. Ci aiuta a
capire gli sbagli, le esagerazioni, gli atteggiamenti inadeguati.
Io credevo e sostenevo che un rapporto di amicizia fosse
possibile anche tra due persone che abbiano avuto percorsi
di vita lontani anni luce uno dall’altro, e che frequentarsi
significasse mettersi in discussione, misurare le reciproche
posizioni. Pertanto, mantenere un rapporto di amicizia con
una persona che abbia un modo di essere completamente
diverso dal nostro, è una strada da percorrere insieme, solo a
condizione che le differenze siano di reciproco
arricchimento. Di solito le amicizie vengono strette fra
persone di simili virtù, perché carattere, convinzioni, azioni
sono qualità umane costanti, e pertanto anche l’amicizia
rimane permanente. Cosa ne penso di me stessa come
amica? Credo di pormi in modo semplice, con sincerità,
disponibilità e prontezza nel partecipare ai problemi e alle
necessità di altre persone. Nemmeno intimamente mi ritengo
una persona perfetta, ma semplicemente una con tutti i suoi
difetti, ma con altrettante virtù, e per questo non mi
considero nemmeno una persona umile. D’altronde l’ideale
eticomorale e cristiano non è quello della persona umile, ma
della persona capace di amare e rispettare il prossimo per
non sopravvalutare se stessa né sottovalutare gli altri. Lo so
che sono più volte incappata in rapporti di amicizia per
convenienza, e sempre transitori, perché mutati nell’inutilità. In
quei casi si creava l’illusione dell’amicizia per presupposta
somiglianza, perché la persona che si avvicina per
convenienza la simula. Da ciò nascono veri disastri causati
da gelosia, scarsa autostima, necessità di voler sembrare
superiore e integro, e per cui ci vengono attribuiti
comportamenti altrui. È esattamente quello che mi stava
succedendo con i transfert di Mila. Come dimenticarlo? Come
ovviare a uno sbaglio giovanile per il quale non ero stata
capace di valutare le simulazioni di persone trovatesi sul mio
percorso? Ora mi sentivo sola e fragile. Partendo e
immergendomi nel lavoro avrei scambiato la necessaria
sicurezza con quella solitudine? Evidentemente iniziavo ad
essere stanca delle continue incertezze.
Ai primi di settembre ero sul luogo di lavoro. Si
preparava l’inaugurazione del grande supermercato
Moskovskaja isba. Ci preoccupava il personale, l’incapacità
delle donne di mantenere un atteggiamento duttile, senza
essere servili o arroganti. Quel mercato elegante che induce
alla compera anche di ciò che non serve, non esisteva
ancora. L’offerta aveva l’aspetto di un ordine. Memore del
fatto che nei grandi alberghi erano impiegate come cameriere
le ex signore della vecchia nobiltà, suggerì al direttore
Jovanić di convincere i dirigenti a introdurre persone del
genere. L’idea ebbe un certo riscontro, ma le nuove
generazioni e il tempo che attraversava tutto con molta
velocità fornirono personale più adatto, meno rigido dietro
una maschera di dignità.
XXI. Epurazione belgradese
Il lavoro proseguiva finalmente senza intoppi. Si
costruivano e si organizzavano nuovi spazi a Kitaj Gorod.
Mi stava pian piano attanagliando la noia. Per fortuna
nell’albergo era arrivata una delegazione italiana. Subito si
creò un rapporto cordiale. Si trattava della fabbrica
Lombardini di Ferrara, nota per le famose macchine sportive
viste solo sulle riviste. La Lombardini, in effetti, produceva
trattori e l’Unione Sovietica era interessata ai suoi piccoli
trattori cingolati. Con l’arrivo degli italiani l’albergo si animò.
Nessuno come loro sapeva divertirsi e spendere. Presto si
convinsero tutti, capi e servitù, che da lì veniva la ricchezza e
il lusso. Mariuccio non si faceva mancare nulla, ma
nemmeno ai suoi interlocutori o futuri partner. Non c’erano
trattative e dimostrazioni che non si svolgessero al di fuori di
sontuosi pranzi a base di caviale e vodka, con il naturale
epilogo della presenza di ragazze bellocce ma con una scarsa
conoscenza della lingua italiana. Il divertimento andava bene,
pensava Mariuccio da buon emiliano, ma gli affari? Non si
combinava nulla ed era convinto, non conoscendo i russi,
che l’inghippo stesse nelle infime traduzioni. Mi incrociò una
mattina al Caffè dell’albergo dicendo che voleva parlarmi. Mi
offrì dei soldi se avessi partecipato a una sua trattativa
d’affari. Mariuccio non era uomo che si faceva scrupoli, né
aveva il senso della misura. Gli dissi che ero l’assistente del
direttore e l’interprete ufficiale dell’azienda dalla quale ero
stata mandata a Mosca per eseguire esattamente quella
funzione e non ero libera di fare quel che mi veniva in
mente. Avevo un direttore al quale rispondevo dell’operato
per cui ero pagata. Inoltre sarebbe stato un affronto verso i
colleghi interpreti locali. Gli proposi di chiedere se avessero
potuto cedere Oleg, che parlava un buon italiano. Ma
Mariuccio non mollò la presa. Mi offrì addirittura di lasciare
il mio attuale lavoro e di lavorare per la Lombardini Trattori
sul mercato dell’est, tanto era convinto che avrebbe sfondato
su quella piazza. Reclinai un po’ infastidita. Si comportava
come se i suoi soldi fossero capaci di comprare ogni cosa.
Cercavo di tenermi da parte. Una sera ci trattenemmo a
vedere uno spettacolo di balli moldavi tradizionali e kazaciok
frenetico, eseguito dal balletto dei kozaki dell’Armata Rossa.
Il direttore delle vendite Lombardini, con due russi e un
interprete anzianotto, si sedette vicino a noi. Ci furono
presentazioni, convenevoli, discorsi frammentari. Alla fine
dello spettacolo il direttore italiano mi invitò a cena con loro.
Caddi in trappola. Fu una cena d’affari in presenza
dell’interprete ufficiale che ascoltava e non proferiva parola.
Dopo quella sera ebbero un altro paio di incontri, sempre in
albergo e sempre di sera. Partecipai ai discorsi traducendo
esclusivamente per motivi di cortesia. L’affare andò in porto.
Non credo per merito mio, ma perché i russi erano
veramente interessati al prodotto della Lombardini. Prima di
lasciare Mosca, Mariuccio mi volle per forza fare un regalo.
Rifiutai. Poi mi fece recapitare un biglietto nel quale mi
offriva un lavoro in Italia. Evidentemente era convinto che
gli sarei servita.
Non pensai subito a questa possibilità, ma più passava il
tempo più il lavoro si faceva uguale, senza stimoli, per cui
riflettei sulla proposta, anche se si trattava un’altra volta di
commercio, il che non era proprio nelle mie preferenze e
aspettative di miglioramento. Era l’Italia ad attrarmi, non la
Lombardini con le sue macchine agricole.
Un avvenimento inaspettato mi mise davanti a molti
interrogativi. Il direttore Jovanić mi riferì di aver avuto un
lungo discorso telefonico con l’attuale direttore generale
della Multi Export-Import, che stava indagando su certe
irregolarità e sembrava anche truffe della direzione.
Si erano scoperte fatture false, ordini di viaggio d’affari
finiti come privati, appropriazioni di merci del Settore esteri,
a causa dei quali la sua direttrice e il direttore degli Affari
Interni, ritenuti responsabili, erano stati sollevati
dall’incarico. Il direttore generale desiderava sapere quanto io
fossi a conoscenza dei fatti, considerando che tutti gli ordini
passavano dalle mie mani. Avevo riscontrato irregolarità?
Strana domanda, pensai. La documentazione mi arrivava
firmata per l’approvazione e il mio compito era farla
proseguire alla scrivania addetta per il controllo e la
definizione dell’operazione. Chi ero io per contestare un
ordine venuto dall’alto? Cosa m’importava di quello che
facevano i signori direttori? E anche se avessi riscontrato
irregolarità, e Dio sa se ci sono state, c’era chi se ne doveva
occupare. Risposi che non avevo nulla da dire e non
intendevo affatto parlare. Presto mi resi conto che la
faccenda si allargava, si appesantiva. Evidentemente si voleva
avere più pareri negativi all’interno dell’azienda per incastrare
chi si voleva mettere alla gogna. Erano vecchie ruggini
interne. La pulizia la facevano tra di loro. Perché mai io avrei
dovuto prestarmi a denunciare fatti e persone solo perché ci
lavoravo accanto? In che mondo ero capitata? No, non ci
ero capitata, ci ero cresciuta senza rendermi conto di
com’era quell’ambiente egoista inaffidabile, opportunista,
cinico, rancoroso, intollerante, maligno. In breve:
mostruosamente deforme. Quale progetto futuro era
possibile fare su questi elementi? Mi resi conto che, da
quando riuscivo a ricordare, negli avvenimenti, anche se non
sapevo ancora individuare la loro natura nefasta perché,
come già dissi, l’infanzia non riconosce le ingiustizie e non è
critica, c’era stato un crescere d’incontrollabile disagio. Ero
passata attraverso un tempo nel quale credevamo, per poi
abbandonare tutto e partire per l’esilio a El-Shatt. Poi
tornammo e trovammo la nostra Casa, la celebre Casa in
pietra grigia, divisa e fatta diventare appartamento per più
famiglie, non perché fossero senza alloggio, ma perché ne
volevano dei migliori. Il sistema era quello sovietico.
Togliere ai ricchi perché sono nemici del popolo. E il popolo
è sovrano, anche se spesso poco avvezzo a zappa e badile o
alla fatica delle reti sul mare. Eppure Maestro non era né
ricco, né nemico, ma amico riconosciuto di quel popolo.
Aveva sacrificato la propria incolumità per salvare i
partigiani dalle ben note rappresaglie e aveva affrontato
l’esilio. Perché quell’affronto nel toglierli l’unica cosa che
aveva, distruggere completamente il suo piccolo mondo
creato con onestà e fatica? Perché questo era il socialismo?!
Voleva essere uguale per tutti. Ma piano piano ci rendemmo
conto che l’egoismo portava all’imbroglio e per perpetrarlo
era necessario nutrire dei sospetti, per cui nessuno era
affidabile. Per raggiungere i privilegi era necessaria una forte
dose di opportunismo, addirittura di cinismo per sostenere
di essere quello che non si era mai stati. La regola era
mentire spudoratamente e così ottenere particolari privilegi
personali: borse di studio, alloggi a basso costo quando non
gratuiti, buoni pasto e altro ancora per i propri figli; cioè una
scolarizzazione quasi a costo zero. La paga di Maestro, da
sempre a livelli bassi, se non fosse stato capace di sostenersi
dignitosamente con le lezioni private di piano e altri
strumenti, mi avrebbe dovuto dare accesso ai presupposti
privilegi quasi alla totalità della popolazione. Eppure io
dall’età di diciassette anni avevo cominciato ad affrontare il
lavoro, spesso umile e pesante, come in fabbrica nei turni di
notte o facendo le pulizie, fino a risorgere con fatica dalla
lunga gavetta, ma sempre con la minaccia delle gelosie di
quelli che tenevano il sedere al caldo. E quando raggiunsi la
possibilità di dare un mio contributo, secondo il socialismo
mendace, sulla base del libero pensiero e dell’espressione
individuale, incappai nell’ostilità. Non indirizzata contro di
me personalmente, ma verso un sistema spacciato come
legittimo e legittimato, che all’improvviso si ritenne avverso
al socialismo federale perché cercava di arginare soprusi e
angherie. E creò rancori, intolleranza tra popoli fratelli e
come conseguenza portò a un programma di radicale
epurazione, congegnata con una malignità estrema, difficile
da considerare umana. Non era questa la deformazione del
socialismo jugoslavo che Tito cercò di correggere con leggi,
emendamenti, una nuova Costituzione, dando la libertà di
autogestire la propria vita e il lavoro in maniera più equa? E
non fu dai serbi ritenuto per ciò amico dei croati in quanto,
dissero, lui stesso croato e pertanto sospetto e inaffidabile?
Crollava tutto, anche i miti! In che cosa credere ancora?
Cambiare cosa? Dimostrare, giustificare cosa? Ero confusa,
sola e con un problema non di poco conto. Per l’ennesima
volta mi trovavo davanti a un dilemma: come affrontare le
contraddizioni di una vita sociale basata sulla corruzione,
tollerata e incoraggiata per diretti interessi personali di
uomini che poi, una volta scoperta, se ne lavavano le mani e
rimanevano innocenti, magari usando la denuncia
opportunamente sagomata su richiesta del potente di turno?
Le insistenze da Belgrado per delle mie dichiarazioni in
merito all’andazzo degli affari correnti dei personaggi
aziendali sotto processo, erano diventate pressanti. Il
direttore Jovanić continuava a rispondere che non potevo
abbandonare il posto di lavoro. Credo che non riferisse il
mio vero atteggiamento e il mio riserbo in merito ai
problemi interni, che comunque rimanevano. Come
perdurare nella riservatezza e nel disinteresse per le faccende
non di mia competenza? Ci avrei pensato.
Eravamo oramai in novembre. Cospicue nevicate in
breve trasformate in ghiaccio avevano stretto la terra. La
Moscova già trasportava grigie lastre gelate arrivate dal Volga
attraverso i canali. Mosca diventò più cinerea del solito e
ancora più cupa e deserta. E poi, non ero nemmeno
equipaggiata per quel freddo. Avevo necessità di fare
qualcosa per distrarmi. Pensai di non aver per niente
approfittato delle vantaggiose occasioni delle vendite
moscovite di determinati articoli di produzione locale.
Disponevo di denaro. Durante l’anno di permanenza a
Mosca, vivendo in albergo, la trasferta era sufficiente per
tutte le mie necessità personali e lo stipendio rimaneva
intatto. Curiosando al Gum decisi di comprarmi una calda
pelliccia al posto del mio vecchio paltò di ratmousquet. Le
pelli erano bellissime, ma la manifattura delle pellicce
lasciava a desiderare, anche se per la bellezza e la qualità del
pellame erano d’effetto e per il caldo che diffondevano
molto invitanti. Decisi per una folta, lunga pelliccia di
marmotta e colbacco color grigioargento con riflessi nerastri.
Spesi quattro mensilità di paga. L’aspetto appagava le mie
necessità estetiche e anche un po’ di eccentricità, alla quale
da sempre avevo la tendenza nell’abbigliamento, come per
l’insistenza nell’indossare quasi sempre pantaloni. Un po’
tutti in albergo e alla Moskovskaja isba erano estasiati per
l’aspetto della mia nuova pelliccia. I moscoviti magari per il
suo prezzo, inabbordabile per la stragrande maggioranza, i
compagni per dimostrazione d’affetto, desiderio di
compiacere? Un po’ di allegria. Si vive pure di questo. Decisi
di uscire, anche per avere conferma dell’effetto che creava la
bella pelliccia di marmotta. Oleg non potette sottrarsi. Il mio
angelo custode era un cavalier servente.
Alla sala concerti Chaikovski era in programma il concerto
di pianoforte di Grieg. La sala era bella, non bellissima,
dall’acustica eccezionale e con un pubblico attento. Suonava
un pianista relativamente giovane, a me sconosciuto, con
l’orchestra leningradese. Un concerto rigoroso: dall’allegro
iniziale al moderato fino ai pianissimi appena sussurrati, la
tensione aumentava. L’orchestra oscillava sopra il suono
della tastiera, tra turbamenti, dubbi, aspirazioni. Esplosioni
sonore lasciavano spazi a mormorii interrotti da angosciosi
fortissimi, per passare di nuovo a languidi e quasi
impercettibili pianissimi. Il suono del pianoforte mi fece
tornare alla memoria la Casa in pietra grigia e, come per un
antico presagio, ebbi la certezza di chi fossi e da dove
venissi. Le delusioni mi avevano fatta vacillare.
All’improvviso lo seppi, finalmente. Avrei abbandonato
tutto quello che non ero più capace di amare nelle condizioni
in cui ormai si era ridotto.
Feci la mia scelta.
Indice
In memoria del M° A. B.
Hai vissuto la collana di giorni infiniti
Premessa
I. La Casa in pietra grigia
II. L’avvento della guerra
III. L’esodo - El-Shatt
IV. Rientro sull’Isola
V. La scomparsa di zia Marica
VI. Accademia Magistrale
VII. Hotel - chalet Mir
VIII. Università degli Studi - inizio
IX. L’inverno sull’Isola - Brusje
X. Zagabria - Città Alta
XI. Slavonija
XII. Bosna - Ilidža
XIII. Centro Universitario di Zagabria
XIV. Commiato di Maestro
XV. Conferenze – dibattito sull’Autogestione Socialista
XVI. La perdita della Casa in pietra grigia
XVII. Matica Hrvatska - epurazioni in Croazia
XVIII. Belgrado – Multi Export-Import
XIX. Montenegro – Miločer la spiaggia della regina - Lago di
Scutari
XX. Mosca commerciale
XXI. Epurazione belgradese
Note
1
Capo Croce = Križni Rat
2
Majerovica / Maeroviza
3
Brazza = Brač
4
Mandrač / Mandrac(i)
5
Lissa / Vis
6
Galešnik / Galesnich
7
Mestar = meštar
8
Brusje / Brusie
9
Grablje / Grablie
10
Vrisnik / Vrisnich
11
Curzola = Korčula
12
Marica / Mariza
13
Postine = sotto roccia
14
stine = roccia
15
Višehrad/Visegrad
16
Šipan = Sipan
17
Poljun / Poliun
18
Boglić / Boglic(i)
19
Ždrilca / Ždrilza
20
Karadjordjević / Karagiorgevic(i)
21
Pokonij Dol = La Valle dei Defunti
22
Vala / Valla
23
Mravinac / Mravinaz
24
Šilo = Silo
25
Moće / Mocie
26
hlap = rospo
27
Ilica / Iliza
28
Jelačić Plaz / Jelacic(i) Plaz
29
Klaićeva / Claicieva
30
Medulić / Medulic(i)
31
Šilković / Silkovic(i)
32
ustaša / ustascia
33
Stepinac / Stépinaz
34
Komić / Komic(i)
35
Ujević / Uievic(i)
36
Vrapče / Vrapc(ie)
37
Pasticada = tipo di carne di manzo brasato.
38
Pavić / Pavic(i)
39
Kovačić / Covacic(i)
40
Tuškanac / Tuscanaz
41
Milić / Milic(i)
42
Petrica Kerempuh / Petriza = Nota ballata
43
Matica Hrvatska / Matiza Hrvatska = Ape regina croata
(Associazione accademica culturale)
44
Mir = pace
45
Trakoščan / Trakoscian
46
Ivanić / Ivanic(i)
47
rožada = rozada
48
Trešnjevka / Tresnevca
49
Rade Končar / Rade Conciar
50
Bilje / Bilie
51
Baranja / Barania
52
Kragujevac / Kragujevaz
53
Lašćina / Lascina
54
Cvijetno Naselje / Cviietno Naselie = quartiere dei fiori
55
Studenski list = Giornale degli studenti
56
Dolac / Dolaz
57
Goli Otok = Isola calva / campo di concentramento
58
Karadžić / Karagic(i)
59
M. Djilas / M. Gilas
60
Peč/ Pec(ci)
61
Zrinievac / Zrinjevaz
62
Gospić / Gospic(i)
63
Kaštela / Castela
64
Varoš / Varos
65
Tica / Ti(z)a
66
Dolac / Dola(z)
67
Bonicina = soprannome: “Bona/ricca”
68
Uskoci /uskozi
69
Hvar / Lesina
70
Starigrad / Cittavecchia
71
plavac / plavaz
72
San Jorge / San Horhe
73
Rio Gallegos / Rio Gaiegos
74
chili / cili
75
ustaša / ustascia = gli insorti
76
Cvetković / Zvetcvic(i)
77
Maček / Maciech
78
Rudić / Rudic(i)
79
Studenski list = Giornale degli studenti
80
Krleža / Krleza
81
Gradec / Gradez
82
Glamac / Glamaz
83
Strossmayer / Strossmair
84
gemist / ghemist = metà vino bianco, metà soda
85
Tuškanac / Tuscanaz
86
Mladost = della gioventù
87
Matica Hrvatska= ape regina croata
88
Vjesnik u srijedu = Notizie di mercoledì
89
Vjesnik = Notiziario
90
Dapčević / Dapcevic(i)
91
Kučar / Kuciar
92
Bukovac / Bukovaz
93
Račić / Racic(i)
94
Hegedušić / Hegedusic(i)
95
Boškovićeva / Boscovicieva
96
Vltava = Moldava
97
Medveščak / Madvesciach
98
Koprivnica / Koprivniza
99
Generalić / Gheneralic(i)
100
kolchoz / colhoz
101
šljivovica / slivoviza
102
Virovitica / Virovitiza
103
Djurdjevac / Giurgievaz
104
Šokci / scokzi
105
Osijek / Osiec
106
Baranja / Barania
107
Kordun / Cordun
108
Grmeć / Grmec(i)
109
Švabe = tedeschi
110
županije /zupanie = province
111
župani = capi
112
sabor = dieta
113
ban = governatore
114
vlasi = morlacchi
115
Mohač / Mohac(i)
116
Miholjac / Miholiaz
117
Gradiška / Gradisca
118
Barac / Baraz
119
Lajoš / Laiosc
120
Posušje – Posuscie
121
Uskoci / uscozi
122
Grabovac / Grabovaz
123
Vilica / Vilizza = vila / fata
124
kulen = salsicciotto di carne tritata speziata
125
čobanac / ciobanaz = zuppa di carne
126
gibanica / ghibanizza = pasta sfoglia ripiena di formaggio
127
gùžvara = sfoglia con noci e semi di papavero
128
tamburica / tamburiza = strumento simile al violino
129
Stepinac / Stepinaz
130
Orljava / Orliava
131
Ilidža / Iligia
132
boza / bosa = bibita di frutta e soda
133
sofra / recipienti di rame maiolicati
134
miza / misa = tipo di pranzo servito sulla tovaglia stesa
per terra, alla turca
135
fez / fes
136
Goražde / Gorazde
137
Skender / Schender
138
kujundžije / cuiungie = lavoratori di rame
139
Baščaršija / Basciarsia
140
Konak = palazzotto
141
džezve / gezve = piccole brocche di ottone con il manico
lungo
142
fildžani / filgiani = minuscole tazzine di porcellana con
supporto d’argento filigranato per i ricchi o di peltro
battuto tra il popolino
143
bajram = pranzo festivo
144
Suliman selo = Il paese dei Suliman
145
Branković / Brankovic(i)
146
božur = fiore simile alla peonia
147
Užice / Uzize
148
Suppano / dignitario
149
Morača / Moracia
150
Maglić / Maglic(i)
151
Peruča / Perucia
152
Vidovici
153
Cetinje / Zetigne
154
Metković / Metkovic(i)
155
Galeb = Gabbiano
156
Šuhov / Sucov
157
Goli Otok = Isola Calva
158
Jajce / Jaize
159
Šimun Vučo / Scimun Vocio
160
Marin Franić / Marin Franić(ic)
161
Jelić / Jelić(ici)
162
Žiko / Žiko(zico)
163
Ždrilca / Zdrilza
164
Pavica / Paviza
165
Gavrilović / Gavrilovic(i)
166
Starigrad = Cittavecchia
167
Bonaći (ici)
168
Hrvatsko Zagorje = Oltremonte croato
169
čakovec/Cacovec
170
Koprivnica/ Kopřivnice
171
Hercog / Herzog
172
Belec / Belez
173
Virovitica / Virovitiza
174
Špinut / Spinut
175
Dolac / Dolaz
176
čiovo / Ciovo
177
Matica / Matiza
178
Gradec / Gradez
179
Dolac / Dolaz
180
košava / cosciava
181
čaršija / Ciarscia
182
Opanki = scarpe ricavate da vecchi copertoni
183
Matica Srpska = Ape regina serba
184
Svetozar Marković / Svetozar Markovici
185
Gavrilo Princip / Gavrilo Prinzip
186
četnici / cetnizi / dalla parola četa = banda
187
Draža Mihajlović / Draza Mihalovic
188
Tisa = Tibisco
189
Miločer / Milocier
190
Bečići / Becic (ici)
191
Dvorac / Dvoraz
192
Pržno / Przno
193
Praskvice / Praskvize
194
Paštrovići / Pastróv(ici)
195
Dušan / Dusan
196
Cetinje / Zetinie
197
Petrovac / Petrovaz
198
Scutari = Skadar
199
Crmničko polje = la campagna di Zrmnize
200
AcaPrijić / Aza Prijić(i)
201
Crnojevića / Zrnojevicia
202
Crnojevići = una antica piccola tribù montenegrina
203
Drušići /Drusic(i)
204
Morača / Moracia
205
Ceklinsko polje / Cieclinsko polje = Campagna di
Cekline
206
Nikšić / Niksic(ici) 207 sotto sacie = coperchio bombato in
ferro, che ricoperto con brace viva serve per cuocere il
pane e la carne
208
Riječki / riječki = del fiume
209
Titograd – capitale del Montenegro, oggi chiamata
Podgorica(za)
210
Gora = montagna / bosco
211
Crnionik / Zrnionik
212
Zetica / Zetiza
213
Lubjanskaja Ploščad = Piazza Lubianca
214
Kitaj Gorod = La città cinese
215
Belyj/Gorod = Città bianca
216
Krasnaja Ploščad = Piazza Rossa
217
Moskvić / Moskvic(i)
218
Isba = piccola casa
Scarica

La Casa in pietra grigia