TRIMESTRALE DELLE ACCADEMIE DI BELLE ARTI, IDEE, TESTIMONIANZE, PROGETTI, DIDATTICA, RECENSIONI, MOSTRE, NOVITÀ. ANNO 2010 - N°6 - EURO 6,00
Redazionale:
COME SARÁ LA NUOVA
ACCADEMIA DI BRERA
Maestri storici:
TOTI SCIALOJA
Testimonianze:
EUGENIO CARLOMAGNO
ALBANO MORANDI
BRUNO CECCOBELLI
MARCO TIRELLI
Docenti artisti:
PAOLO ROSA
TULLIO BRUNONE
GABRIELE GIROMELLA
RADU DRAGOMIRESCU
MARCELLO CINQUE
Accademia di Sassari:
ANTONIO BISACCIA
Accademia di Bari:
PRE-VISIONI
Ex studenti:
MOIRA RICCI
Ex docenti:
GUIDO BALLO
FRANCESCO LEONETTI
Fondazione Maimeri:
GIANNI MAIMERI
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REDAZIONALE
Distruggere l’Accademia di Brera
Intervista a
MICHELANGELO PISTOLETTO
La sua esperienza all’Accademia di Vienna
Intervista a
DANILO ECCHER
Direttore della GAM di Torino
Intervista a
ENZO INDACO
Presidente dell’Accademia di Catania
PREMIO NAZIONALE DELLE ARTI
Accademia di Catania
Intervista a
MARTINA CORGNATI
Docente all’Accademia Albertina di Torino
Intervista a
NICOLA MARIA MARTINO
Artista e Direttore dell’Accademia di Sassari
Intervista a
ALESSANDRO GUERRIERO
Designer e Presidente della NABA, Milano
UNICREDIT & ART
L’esperienza con l’Accademia Albertina
Una mostra
GIUSEPPE MARANIELLO
Ex studenti
MICHELE GIANGRANDE
Redazionale:
ECCO LA NUOVA
ACCADEMIA DI BRERA!
Maestri storici:
TOTI SCIALOJA
Testimonianze:
EUGENIO CARLOMAGNO
ALBANO MORANDI
BRUNO CECCOBELLI
MARCO TIRELLI
Docenti artisti:
PAOLO ROSA
TULLIO BRUNONE
GABRIELE GIROMELLA
RADU DRAGOMIRESCU
MARCELLO CINQUE
Accademia di Sassari:
ANTONIO BISACCIA
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PRE-VISIONI
Ex studenti:
MOIRA RICCI
Ex docenti:
GUIDO BALLO
Fondazione Maimeri:
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TRIMESTRALE DELLE ACCADEMIE DI BELLE ARTI, IDEE, TESTIMONIANZE, PROGETTI, DIDATTICA, RECENSIONI, MOSTRE, NOVITÀ. ANNO 2010 - N°5 - EURO 6,00
TRIMESTRALE DELLE ACCADEMIE DI BELLE ARTI, IDEE, TESTIMONIANZE, PROGETTI, DIDATTICA, RECENSIONI, MOSTRE, NOVITÀ. ANNO 2010 - N°4 - EURO 6,00
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Redazionale:
C’É UN’ITALIA ROVESCIATA CHE..
Maestri storici:
LUCIANO FABRO
Testimonianze:
GIANNI CARAVAGGIO
PIETRO COLETTA
HIDETOSHI NAGASAWA
Sulla Scultura:
ACHILLE BONITO OLIVA
Patrimonio storico:
LA PINACOTECA ALBERTINA
DI TORINO
N.A.B.A. MILANO
L.A.B.A. BRESCIA
Docenti:
GIULIO DE MITRI
GABRIELE DI MATTEO
BARBARA TOSI
Sul Restauro:
DUILIO TANCHIS
Fondazione Maimeri:
TRATTATO SULLA PITTURA
Ex studenti dell’Accademia di Roma
Recensioni
Sommario ragionato
di Elisabetta Longari
Il numero 6 è “caldo” non soltanto perché è quello
estivo ma soprattutto perché fa il punto sull’annosa
questione della sede dell’Accademia di Brera che,
risolta egregiamente sulla carta (Brera spostando
molti corsi nella nuova destinazione assumerebbe
la fisionomia di un campus), attende però un
finanziamento adeguato per diventare realtà, e,
poiché, come si sa, il denaro non cresce sugli
alberi e purtroppo di questi tempi è vero anche che
gli investimenti pubblici e privati sulla formazione
culturale stanno calando in modo esponenziale,
non ci resta che incrociare le dita e fornirci di
amuleti speciali e potentissimi. Pubblichiamo una
“chicca” relativa al tema precedentemente esposto:
un intervento di Ado Franchini che ricorda e mostra
come un progetto datato 1935 e firmato dai migliori
architetti razionalisti lombardi, se fosse stato
realizzato, avrebbe salvato “capra e cavoli” mentre
avrebbe dotato la città di un edificio di grande
efficacia funzionale e purezza estetica (la vita in
generale è costellata di occasioni mancate).
Toti Scialoja è il maestro su cui concentriamo la
nostra attenzione, ospitando una lettura critica di
Barbara Drudi e il ricordo di alcuni tra i suoi allievi.
Un altro grande maestro scomparso di recente
cui si rende qui omaggio attraverso il ricordo di
un’allieva di talento (Fausta Squatriti) è Guido
Ballo, studioso appassionato del futurismo come
della realtà contemporanea in cui agiva da acuto
“occhio critico” (nella biblioteca dell’Accademia di
Brera si conserva il suo archivio, fondamentale
strumento di consultazione e di studio per chi si
dedica soprattutto all’approfondimento degli anni
Cinquanta, Sessanta e Settanta). Uno spazio
è stato dato alla Scuola di Nuove Tecnologie
di Brera, delle cui problematiche parlano
Paolo Rosa, Tullio Brunone e Riccardo Notte,
“vivaio” che ha già regalato al mondo dell’arte
diverse figure di spicco tra cui qui presentiamo
Moira Ricci. Mentre registriamo la vivacità
dell’Accademia di Catanzaro e il cambio di
direzione dell’Accademia di Sassari, Anna Maria
Amonaci “legge” criticamente il Teatro di figura
di Gabriele Giromella e proseguiamo, come di
consueto, a ospitare segnalazioni e recensioni
d’interesse “accademico”. Buona lettura e
arrivederci al prossimo numero.
Iniziativa editoriale adottata come progetto dall’Accademia di Brera
A A
DEMY
OF FINE ARTS
NUMERO 6 / Estate 2010
SEDE
Viale Stelvio, 66
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DIRETTORE RESPONSABILE
Claudio Cugusi
DIRETTORE
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VICE- DIRETTORE
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REDAZIONE
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Elisabetta Longari
Alessandro Gioiello
GRAFICA E PUBBLICITÀ
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3397880296
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SOMMARIO
*Tutte le collaborazioni si intendono a titolo gratuito
ACADEMY OF FINE ARTS
Iscritto al Tribunale di Trani
n.3/09
Fondato da Gaetano Grillo
HANNO COLLABORATO*
Anna Maria Amonaci
Ruxandra Balaci
Tullio Brunone
Bruno Ceccobelli
Maurizio Coccia
Giustina Coda
Pino Di Gennaro
Barbara Drudi
Ado Franchini
Albano Morandi
Sergio Nannicola
Riccardo Notte
Stefano Pizzi
Paolo Rosa
Fausta Squatriti
Marco Tirelli
1
02
Redazionale di Gaetano Grillo
05
La nuova Brera a Brera, 1935
07
Maestri storici: Toti Scialoja
11
Maestri storici, testimonianze: E. Carlomagno, A. Morandi, B. Ceccobelli, M. Tirelli
15
Docenti/Nuove Tecnologie: P. Rosa, T. Brunone, R. Notte
21
Docenti: Gabriele Giromella, Radu Dragomirescu, Marcello Cinque
30
Accademia di Sassari: un nuovo direttore, Antonio Bisaccia
32
Accademia di Bari: Pre-Visioni
34
Contributi: Stefano Pizzi, Sergio Nannicola, Pino Di Gennaro
39
Ex studenti: Moira Ricci
41
Ex docenti: Guido Ballo
43
Fondazione Maimeri: Gianni Maimeri
46
Recensioni
In copertina:
Accademia di Brera
Foto di Vito Giacummo
L’UNICA RIVISTA PERIODICA RIVOLTA ALLE ACCADEMIE DI BELLE ARTI, AI DOCENTI, AGLI STUDENTI E A TUTTI GLI OPERATORI DEL SETTORE.
Foto Ranuccio Bastoni
L’ACCADEMIA
DI BRERA
LASCIA
UNA PARTE
DELLA SEDE
STORICA MA
QUADRUPLICA
IL SUO SPAZIO!
di Gaetano Grillo
redazionale
2
L’accordo
La critica
Il 19 luglio 2010 forse rimarrà una data storica per l’Accademia di
Brera ma anche per Milano e per il sistema accademico nazionale.
In quella data, infatti, al Comune di Milano, alla presenza del
Sindaco Moratti, dei Ministri La Russa, Bondi e Gelmini, nonché
del Commissario Resca, è stato firmato il protocollo per il via libera
all’espansione dell’Accademia e della Pinacoteca di Brera; la prima
si espande fuori dal quartiere, la seconda occupa gli spazi lasciati
liberi dalla prima.
Si tratta di un compromesso che giunge dopo una faticosissima
transazione iniziata diversi anni orsono quando il Sindaco di Milano,
Letizia Moratti era Ministro dell’Istruzione e dell’Università.
Allora si pensò di edificare la nuova Accademia di Brera in un’area
della Bovisa, accanto al Politecnico, progetto poi abbandonato
per varie ragioni e sostituito da un accordo firmato nel 2008 dal
Presidente dell’Accademia, l’editore Gabriele Mazzotta; accordo che
prevedeva il trasferimento negli spazi della Caserma Mascheroni.
Ne è seguita una stagione di continui attacchi mediatici nei confronti
dell’Accademia, finalizzati a recepire frettolosamente quell’accordo
che, però, era fortemente penalizzante per la nostra istituzione
poiché conteneva condizioni che avrebbero portato inevitabilmente
alla perdita dell’identità e del prestigio della nostra Accademia.
Alcuni mesi orsono il Governo ha nominato Mario Resca a
Commissario Straordinario per Brera e quest’ultimo ha trattato con
l’attuale direttore, Gastone Mariani che ha tenuto il polso fermo
e ottenuto un risultato finalmente adeguato al sacrificio che ci è
stato pressantemente richiesto e al quale l’Accademia ha risposto
con unanime senso di responsabilità benché con dolore e senza
condividere il progetto generale.
Vediamo in sintesi quello che avverrà: l’Accademia di Brera cederà
alla Pinacoteca le aule del Cortile Napoleonico (con la condivisione
del Salone Napoleonico), cederà l’ex Chiesa di Santa Maria e altri
spazi compreso quelli affacciati sull’orto botanico per un totale di
circa diecimila metri quadri mentre conserverà tutto il quadrilatero
centrale e le aule del lato nord dell’edificio sino all’ingresso da via
Fiori Oscuri. In cambio la nostra Accademia si espanderà in una
grande area compresa fra via Mascheroni e via Mario Pagano,
un’area di ventunomila metri quadri coperti, quindicimila metri quadri
di parco e il diritto di prelazione su un terzo lotto di quattromila metri
attualmente destinato a mensa.
Il Ministro La Russa ha detto: “Quello che non è riuscito a fare
Napoleone, non è detto che invece non riesca al Ministro Bondi e al
Ministro Gelmini, con l’aiuto del Sindaco Moratti”. Peccato che con
la sua sottile formazione culturale non sapesse che il complesso
di Brera non era nato per essere un grande museo ma l’esempio
eccellente della cultura illuminista che voleva la convivenza delle arti
(Accademia e poi Pinacoteca), delle lettere (Istituto Lombardo delle
Lettere), delle scienze (Orto Botanico e Osservatorio Astronomico)
della memoria (Biblioteca Braidense).
Questo progetto di museificazione (alla Louvre), del quale è stato
incaricato l’architetto Mario Bellini, prevede la copertura del cortile
con una grande vetrata, il riordino della collezione esponendo parte
del patrimonio che giace nei depositi e il solito book-shop, caffetteria
e gadgets per turisti fast food.
L’obiettivo sarebbe quello di raggiungere per l’EXPO 2015 il milione
di visitatori ma con un investimento previsto di cento milioni di euro
che sono ancora da trovare.
Viene spontanea una domanda: ammesso e non concesso che sia
centrato l’obiettivo in concomitanza dell’Expo, cosa sarà di Brera
quando la città tornerà alla sua vita normale, tendenzialmente
modesta dal punto di vista turistico?
Sarà in grado la Pinacoteca di Brera con il suo solo patrimonio e
senza un contesto storico urbano come può esserlo quello di
Firenze, Venezia o Roma, ad attrarre molti visitatori l’anno? Oppure
il quartiere imploderà perdendo quell’autentica vivacità e identità
che gli hanno conferito nel tempo la presenza degli artisti, di milioni
di giovani studenti che l’hanno frequentato, galleristi, intellettuali,
mercanti, collezionisti?
Non sarebbe stato più opportuno trovare soluzioni per continuare
a far convivere l’Accademia e la Pinacoteca espandendosi sì ma
all’interno del quartiere?
Perché non si è pensato di aggregare alla Pinacoteca i più adeguati
spazi della Biblioteca Braidense, che sono già attigui e allo stesso
livello del primo piano?
La Braidense conta pochissimi visitatori, occupa un grande spazio
e spostare il patrimonio librario sarebbe costato meno che spostare
un’Accademia che conta tremilacinquecento studenti, quasi
cinquecento professori e poi personale di segreteria, ausiliario e tutto
l’indotto che ne consegue.
Perché non riconsiderare il bellissimo progetto per la nuova
Accademia di Brera firmato già nel ’35 dagli architetti Figini, Pollini,
Lingeri e Terragni? Si trattava di una nuova costruzione all’interno
dell’orto botanico.
L’autocritica
L’Accademia di Brera, nel decennio scorso, avrebbe potuto fare
una scelta di campo diversa, ovvero puntare sul contenimento
delle iscrizioni, evitare la proliferazione di troppi corsi, concentrarsi
sull’eccellenza del servizio formativo e consolidare il prestigio specifico
in ambito artistico che le viene riconosciuto da molto tempo.
In verità la Legge di Riforma 508/99 aveva messo le basi per la
trasformazione delle Accademie in Università ma come accade
puntualmente nel nostro Paese, a buone intenzioni con corrispondono
buoni provvedimenti tanto che invece di investire in questa direzione
lo Stato ha cominciato progressivamente a tagliare i fondi lasciando
le accademie, come si suol dire, in “braghe di tela”.
L’Accademia di Brera, prima e più di tutte le altre, ha cercato di
accelerare il processo di riforma adeguando la sua offerta formativa
e puntando sull’ampliamento di corsi sino ad avere un incremento
d’iscrizioni che ha sfiorato i quattromila studenti con il più alto tasso
d’internazionalizzazione, più di qualsiasi altra Facoltà Universitaria.
Questo successo ha naturalmente aumentato la necessità di
avere ulteriori spazi da dedicare alla didattica iniziando a pensare
all’ampliamento della sede con soluzioni più vicine all’idea di un
campus dotato di laboratori efficienti, ampi e luminosi, di spazi
espositivi interni ed esterni, nonché di grandi aule ad anfiteatro per
le lezioni frontali.
L’Accademia di Brera ha inseguito con convinzione il modello
universitario staccandosi sempre più da quello dell’Accademia
tradizionale soprattutto nella scelta dei nuovi Corsi che hanno guardato
meno all’arte e piuttosto alla moda, al design, alla comunicazione,
Ecco come sarà in futuro!
L’Accademia di Brera ha dimostrato di essere responsabile e sensibile
alle pressanti richieste che sono giunte in particolare dal Ministero
dei Beni Culturali, dal Comune di Milano e dalla Pinacoyeca di Brera.
Pur non condividendo l’obiettivo del progetto e pur essendo stata
oggetto di campagne diffamatorie mirate a screditare il suo prestigio,
ha accolto con apertura mentale la nuova fase interlocutoria avviata
dal Commissario Mario Resca. Un’istituzione intelligente come
l’Accademia di Brera non si è caparbiamente arroccata su posizioni
intransigenti di mera conservazione ma ha saputo trattare per
realizzare un salto di qualità verso una didattica adeguata alle nuove
istanze dell’arte, della formazione artistica, culturale, della ricerca e
della produzione.
Come sarà in futuro l’Accademia di Brera?
Si amplierà e si estenderà sull’asse che collega via Brera a via
Mascheroni passando per la Basilica di Santa Maria delle Grazie, il
Cenacolo di Leonardo da Vinci, sino ad affacciarsi sul nuovissimo e
avveniristico quartiere di City Life, già in costruzione.
A Brera resteranno molte aule, tutto il quadrilatero centrale, la
condivisione del salone Napoleonico con accesso dal Cortile, resterà
il Palazzetto della Fondazione Lombardi e Croce, resterà la sede
della ex Chiesa di San Carpoforo, spazi che saranno adeguatamente
ristrutturati, in particolare San Carpoforo che costituisce una enorme
risorsa potenziale.
Nei nuovi spazi di via Mascheroni (ventunomila metri quadri coperti più
quindicimila di parco, più la prelazione su un terzo lotto di quattromila
metri quadri coperti)1 ci sarà il grande ampliamento dell’Accademia
di Brera con il suo nuovo Museo dell’Accademia dove troveranno
finalmente posto tantissime opere d’arte di pregevole valore, oggi
temporaneamente depositate in varie sedi di Milano.
Sostanzialmente stiamo parlando di uno spazio quattro volte
maggiore a quello di cui oggi dispone l’Accademia senza parlare di
un’altra pregevolissima gemma: l’Isola Comacina (sul lago di Como),
una gemma che l’Accademia di Brera si accinge a valorizzare al
massimo dopo tanti anni di abbandono.
Questo sarà il futuro di una istituzione storica importante che ha
un cuore antico ma una mente fresca e pronta a riprogettarsi per i
prossimi cento anni. Sarà un’Accademia di Brera molto più grande,
molto più efficiente e molto più bella ma….
Il Commissario Resca riuscirà a trovare i finanziamenti?
Cosa accadrebbe se cadesse il Governo?
Sarà veramente questo il nostro futuro?
1
Si veda Paola D’Amico, in “Corriere della Sera”, 20 luglio 2010
3
redazionale
Foto Vito Giacummo
alle nuove tecnologie ecc. Si è trattato di una scelta di campo che
sarebbe stata profetica e veramente vincente se non fosse avvenuta
in Italia, peccato che la Legge 508/99 è stata tradita nel suo impianto
poiché è mancata la volontà dei Governi che si sono succeduti in
questi undici anni ad applicarla pienamente.
Oggi abbiamo un’Accademia di Brera che ha ereditato tutti i mali
dell’Università e ha perso tutto il fascino della vecchia identità.
Il modello del tre più due è risultato un fallimento sia da noi sia nelle
altre Facoltà e mentre si torna a riconsiderare il quinquennio per
ridare solidità formativa a quanto è stato sino ad ora frammentato, si
fa strada l’ipotesi che bisognerebbe riformare la riforma poiché la sua
estenuante fase di sperimentazione ha evidenziato la sua precoce
obsolescenza.
Sarebbe stato bello poter conservare nella sede storica i corsi storici
e portare tutti i nuovi corsi nei nuovi spazi con strutture adeguate
a una didattica supportata dalla tecnologia. Così non sarà poiché il
processo in corso non è controvertibile ma nella sede storica si potrà
ospitare la didattica di secondo livello, i master, i dottorati di ricerca
ecc.
Inutile piangere sul latte versato ed è molto meglio, ora, progettare
una nuova Accademia di Brera che abbia il cuore nella sua sede
originaria ma le braccia e la mente in un luogo finalmente idoneo
a svolgere un lavoro didattico all’altezza dei nostri tempi e con
l’ambizione che da sempre contraddistingue questa istituzione.
4
redazionale
Evidenziato in arancione la superficie che resta nella sede storica e in giallo la condivisione della Sala Napoleonica
Entro il tracciato rosso la nuova grande area dove sorgerà il Campus Brera
La nuova Brera a Brera, 1935.
Il progetto razionalista per la nuova Accademia di Brera.
5
Di Ado Franchini
Si tratta del progetto di nuova edificazione che nel febbraio 1935 il
Ministero della Educazione Nazionale e il Presidente dell’Accademia
Rino Valdameri affidarono a quattro dei più valenti giovani
dell’architettura moderna italiana: Luigi Figini e Gino Pollini (milanesi,
classe 1903)) con Pietro Lingeri e Giuseppe Terragni (comaschi,
classe 1894 e 1903), tutti ex allievi architetti dell’Accademia o del
Politecnico di Milano.
Il loro lavoro partiva dal presupposto, sostenuto con forza dal
Presidente Valdameri, di mantenere l’Accademia a Brera, ma
trasferendola in un nuovo edificio moderno ed efficiente da costruirsi
nell’area dell’orto botanico del palazzo (di proprietà demaniale),
dopo che nel 1932 una tromba d’aria ne aveva quasi distrutto
completamente la vegetazione.
I progettisti presentano nell’estate del 1935 un progetto che copre
3600 mq dei 6500 dell’orto botanico: si tratta di un edificio a ponte,
lungo 120 metri e composto da due corpi di fabbrica paralleli lunghi
sollevati dal suolo a m.5,40, per mantenere la visione unitaria del
giardino e per permettere una estesa sistemazione a verde anche
al piano terreno. Nella relazione si sottolinea la ricerca di “..una
vera e propria compenetrazione del nuovo palazzo con il verde
circostante.”
Il modello di studio ci dà una chiara visione della potenza e dell’energia
dell’edificio nel suo complesso.
Per garantire la massima trasparenza, pareti vetrate racchiudono
solo alcune zone del piano terra, che contengono atrio e scale di
accesso e anche alcune aule speciali. L’edificio più basso e slanciato,
alto solo 8 metri contiene la biblioteca, le sale espositive, l’aula di
storia dell’arte, un giardino pensile per esposizioni di scultura, ed è
accessibile e aperto anche al pubblico.
L’edificio principale delle aule, alto sei piani, ha un impianto molto
semplice ed efficace, diviso in tre fasce parallele: a nord le aule
dell’Accademia e il Liceo Artistico, illuminate da una grande vetrata
continua a tutt’altezza, al centro il sistema distributivo verticale e i
cavedii di ventilazione, a sud i percorsi di distribuzione orizzontale,
con una facciata più chiusa e compatta, tagliata da finestre a nastro
continue e lunghe come l’intero edificio.
L’altezza interna dei piani varia in relazione alle esigenze dei tipi
di aula e di laboratorio, e questa varietà di ambienti è leggibile
dall’esterno nel fronte vetrato nord, divenendo così il tema dominante
della facciata e dell’impianto architettonico, con i suoi sottili rapporti
armonici e con la visione dei “meccanismi” interni che consentono di
utilizzare le migliori condizioni di illuminazione e di flessibilità degli
spazi.
La risposta a quello che già allora si rimproverava alle antiche sale
del Palazzo di Brera, ma che “.... per masse architettoniche e per
qualità del materiale costruttivo, vetro acciaio, pietra...” avrebbe
potuto reggere al confronto con la storia, configurandone anzi la
continuità e la naturale evoluzione.
Un edificio così potente e sollevato dal suolo richiede una struttura
snella proprio come quella di un ponte, e infatti il progetto dei quattro
trentenni lombardi propone un telaio in acciaio, con travi reticolari
che hanno (un passo da 24 metri a terra e di 12 m agli altri piani, per
ridurre al minimo gli appoggi e far letteralmente volare la struttura sul
giardino.
Il progetto è di grande valore innovativo e ha forti elementi di qualità
documenti storici
Lo spostamento dell’Accademia dal suo antico palazzo, opera del
Richini e del Piermarini sulla struttura dell’antico convento degli
Umiliati e poi dei Gesuiti, è un problema che tra breve compirà i suoi
primi 100 anni. E’ dal 1913 infatti, che si discute e si tentano soluzioni
diverse, senza successo e con grande dispendio di energie e di
proposte, ma soprattutto con reiterate polemiche, sterili autodistruttive
e senza effettivi risultati concreti.
Penso che sia utile sapere che proprio per Brera, nel quinquennio
1935-1940, prese forma uno dei più interessanti progetti del
Razionalismo italiano, che per diverse e italiche ragioni non trovò
la possibilità di essere realizzato, portandoci oggi, settantacinque
anni dopo, a dover discutere ancora animatamente sul tema dello
spostamento dell’Accademia dalla sua storica sede originaria, voluta
da Maria Teresa d’Asburgo nel 1776 “...per sottrarre l’insegnamento
delle Belle Arti ad artigiani e artisti privati, e per sottoporlo alla pubblica
sorveglianza e al pubblico giudizio”.
BRERA
1935
documenti storici
6
sia tecnico-strutturale che distributiva e trova eguali in pochi progetti
di quegli anni, non solo in Italia ma in tutta Europa. Il risultato
architettonico e plastico, d’avanguardia e di alto livello qualitativo, e
potrebbe senza dubbio essere firmato oggi da qualche grande nome
dell’architettura contemporanea.
Ma è qui che, come oggi, interviene il sistema italico dei veti e delle
trame che comincia subito a lavorare per frenare opportunità e slanci
verso il futuro.
Nonostante l’approvazione del progetto da parte di Mussolini in
persona, al quale Valdameri e gli architetti si erano rivolti direttamente
per avere sostegno nel dicembre 1935, il sistema del sottopotere
professional-burocratico nazionale riesce a bloccare l’iter del progetto
per anni.
Il Genio Civile, preposto alla realizzazione delle opere pubbliche, di
concerto con il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, il Consiglio
Superiore delle Belle Arti (nel quale dominavano Piacentini e gli
accademici romani) e la Soprintendenza ai Monumenti con il parere
della Commissione edilizia locale, bocciano il progetto con varie e
diverse giustificazioni, (le sanzioni contro l’Italia, il costo dell’acciaio,
il calcolo statico non adeguato agli standard dell’epoca, il luogo non
adatto, la “modernità” non italiana, ecc) e impongono la ricerca di una
soluzione più modesta e riduttiva, con plauso vittorioso della stampa
governativa e locale che vede con malanimo sempre crescente
l’architettura non allineata alle forme auto celebrative del regime.
Forti tensioni si scatenano nel gruppo di lavoro e nel 1938 un nuovo
progetto di dimensione ridotta e fortemente banalizzata viene preparato
da Lingeri, Figini e Pollini, che si adeguano ai condizionamenti
convinti che “...prima si debba fare il palazzo e poi le polemiche
...”, accettando il compromesso di un’architettura autarchica e
sottomessa alla volontà dell’apparato fascista. Giuseppe Terragni si
rifiuta di firmare questa versione e ne propone un’alternativa che per
quanto dimensionalmente ridotta, non rinnega il progetto originario
e ne salva il senso, lo spirito moderno e l’elegante integrazione tra
corpi di fabbrica complementari.
E’ il tempo delle grandi polemiche tra architettura libera e l’architettura
di regime, che va sempre più decisamente verso una censura diretta
contro ogni forma di modernizzazione e di internazionalizzazione
della cultura architettonica, nella quale tanti giovani come Terragni
avevano creduto e lavorato.
Marcello Piacenti e gli accademici dominano ormai il panorama
dell’architettura italiana con il cinismo e la forza che il potere politico
ora concede loro e il tempo di un’architettura rivoluzionaria e
generosa è finito.
E’ tempo di guerra e di distruzione, di parole d’ordine e di violenza e
non c’è più spazio per un’arte che non sia di sostegno alla dittatura e
ne incarni la romana prosopopea.
Il progetto viene accantonato e Terragni, ormai senza lavoro, decide
di partire volontario per la Russia, facendo la cosa più irrazionale
per un razionalista moderno come lui. Tornerà nel 41 per morire
all’improvviso nel ’42, a 39 anni, con la mente e l’anima frantumata
dall’orrore della guerra e dai sensi di colpa per una fede, quella
fascista, che lo aveva tradito nella sua arte e nella vita.
Dopo la Guerra Lingeri, Figini e Pollini tenteranno di riprendere il
progetto per portarlo alla realizzazione, ma i tempi sono cambiati,
l’Italia ha altri obiettivi che non hanno bisogno di una nuova
Accademia di Brera.
Ma ancora oggi quel progetto ci dice che antico e nuovo possono
coesistere, possono parlarsi e convivere, e che solo l’ottusità delle
menti e dei tempi oscuri, allora come oggi, non riesce a vedere ciò
che è possibile e ciò che è saggio e utile.
*Ado Franchini
è architetto e dal 1995 è docente di Progettazione Architettonica presso il
Politecnico di Milano, facoltà di Architettura. Ha pubblicato saggi e articoli
su quotidiani e su riviste specializzate italiane e tedesche di architettura e
urbanistica, oltre a cataloghi di seminari ed esposizioni. Vive e lavora a Milano
dove dal 1983 svolge attività professionale nel suo studio ADM Architettura,
occupandosi di progettazione architettonica, urbanistica, restauro, interior
design. Fra i vari progetti ha realizzato nel 2010 il Parco Scientifico Tecnologico
Como Next, in provincia di Como.
7
Marte, 1991, cm 170x230, vinavil su canapa, coll. privata
TOTI SCIALOJA
maestro e… allievo all’Accademia di Belle Arti di Roma
“Amato” maestro, attivo all’Accademia di Belle Arti di Roma dal 1953
al 1983 come docente, e dal 1983 al ’85 come direttore, Toti Scialoja
era, si sa, pittore e poeta: un intellettuale con un ruolo da protagonista
nella cultura artistica italiana. Ma per molti, e soprattutto per i giovani
artisti “in erba”, era qualcosa di più. Lui, a differenza di altri, si dedicava
con passione e intelligenza anche all’insegnamento: un punto saldo
di riferimento per chi aveva deciso di seguire l’incerta strada dell’arte.
Tanto per essere chiari: Toti Scialoja, professore all’Accademia era
già allora- oggi forse ancor di più- entrato nel mito.
Nell’ambiente dell’arte romana nessuno dimentica il “passaparola”
tra i giovani studenti di qualche anno fa: si devono seguire i corsi di
Scialoja per “diventare un artista”. La fama delle qualità didattiche di
Scialoja era tale che, pensate, un giorno un giovane cinese, iscitto
all’università per stranieri di Perugia, si presentò all’Accademia
dichiarando di voler diventare “allievo di SCialoja”! Purtroppo per
lui era tardi. Toti aveva già lasciato la cattredra ed era passato a
ricoprire l’incarico di Direttore. Li Xiang Yang, questo il nome del
giovane cinese, divenne poi per qualche anno assistente di Scialoja.
Per Toti l’insegnamento aveva una connotazione particolare, quasi
‘paterna’: lui che nella vita aveva deciso di non avere figli, vi ritrovava
la gioia particolare del ‘dare’, dell’offrire agli altri anche senza aver
nulla in cambio, proprio come un padre. Scopriva questo con il suo
tipo speciale di insegnamento che andava ben oltre le poche ore
della didattica imposta dall’istituzione.
Ma rimaniamo per un istante nel “mito”, e vediamo come si presentava
il “maestro”. Ad una prima occhiata la sua biografia ci sembra aderire
in pieno alla cosiddetta “Leggenda dell’artista”, a quell’insieme di
verità e mistero, che appartiene alla nostra tradizione culturale e
che ha radici così profonde e lontane da perdersi sino nell’antico
Egitto. Una leggenda biografica che Scialoja amava rinnovare
spesso nei suoi racconti, arricchendola di aneddoti curiosi ma molto
significativi. Episodi, questi, che lo potessero inserire a buon diritto
nella genealogia della stirpe “artistica”.
Autodidatta, secondo uno dei topoi più diffusi dalla tradizioneautodidatta era stato Lisippo nel racconto di Plinio il Vecchio
– Scialoja non aveva frequentato nessuno scuola d’arte, né
tanto meno l’Accademia. Si era avvicinato al mondo della pittura
spontaneamente, senza le regone precise di alcun maestro.
Si aggiungeva poi alla sua biografia un altro “luogo letterario” tra
i più ricorrenti: la scoperta del talento in età assai precoce, quasi
infantile. Ricordate Giotto, giovinetto, che disegna la pecora sul
sasso? Anche a Scialoja piaceva ricordare così la sua infanzia: “ Ho
iniziato a dipingere molto giovane, ero quasi bambino, andavo a Villa
Borghese con la mia tavolozza, la tela, il cappello di traverso, facevo
maestri storici
Di Barbara Drudi
maestri storici
8
‘il pittore’ […] un simpatico pittore che stava lì un giorno mi disse: <<
Bravo, sei un pittore>>”.
E ancora, sempre nella scia della tradizione delle “vite d’artista”,
si trova in Scialoja la scoperta casuale del suo talento da parte
di un maestro. Ci torna in mente Cimabue che, fermatosi “tutto
maraviglioso” (Vasari) davanti alla pecora tanto verosimigliante
disegnata da Giotto, chiese al pastorello se voleva andare a imparare
il mestiere da lui in bottega.
Qualcosa di analogo sembra che capitò anche a Toti: un giorno, seduto
al tavolino con alcuni amici artisti, prese a disegnare una copia da un
quadro di Dalì; Corrado Cagli, lì presente, con entusiasmo gli disse:
“ […] tu sei un pittore, perché hai fatto questo disegno senza mai
staccare la matita dal marmo (il tavolino) e hai un segno interessante”.
Non starò a soffermarmi sul fatto se sia vero o meno che il “pittore
nato” si riconoscerebbe dalla spontanea capacità di disegnare
“senza mai staccare la matita…”, come sembra pensasse Cagli, o da
qualche altra bizzarria. Tutto questo ha pure il suo fascino, ma è mito,
appunto. Quale è invece la storia? La storia mi appare di tutt’altro tipo:
Scialoja apparteneva alla Tradizione, sia pittorica che sociale. Era
senza dubbio parte di quella comunità che ritiene l’arte trasmissibile,
che ha fiducia nell’insegnamento come
mezzo di comunicazione per la creatività.
Meticoloso nell’analisi dei dipinti, fin quasi
alla pignoleria, perdutamente innamorato
della Pittura, che lui considerava un’arte
sensuale, Scialoja non smise mai di riferirsi
a modelli, e di rileggere in senso sempre
nuovo la tradizione.
Allora, se ribaltiamo la situazione, e
guardiamo Scialoja non più solo come
maestro, ma come un “anello” di una
interminabile catena, lunga quanto la storia
stessa dell’uomo, la prospettiva cambia di
molto. In questa lunga catena Toti, come
ogni altro artista, appare avere un “prima”
e un “dopo”, annoverando quindi nel suo
percorso non solo allievi ma anche maestri.
È allora legittimo chiedersi: quali sono stati i
maestri di Scialoja? Lui, autodidatta- ma che
praticava con tanta passione e generosità
intellettuale l’insegnamento dell’arte- che
maestri aveva guardato?
“Ho avuto per Giorgio Morandi e conserverò
sempre, una particolare devozione”- aveva
scritto negli anni cinquanta- “La sua opera
è stata esemplare nel nostro Paese. È la
pittura del mio primo Maestro, del mio più
amato Maestro”1.
La storia dei maestri d’elezione di Scialoja,
o dei suoi ‘precursori’ sempre scelti e mai
subiti- per dirla con Borges- comincia molto
lontano, cioè quando Toti è ancora un pittore
figurativo e definisce il suo amore per Van
Gogh e Soutine. L’espressionismo delle
opere di questi anni, il segno insistito fino
allo spasimo, denunciano chiaramente la
loro fonte d’ispirazione. “Il mio modello era
Van Gogh, mitizzato sulle quadricromie”2
Il tocco minimo del segno che fa lievitare
la forma e torna su se stesso, ossessivo,
viene così spiegato in alcuni appunti di
Scialoja che illustrano il suo modo di
procedere creativo di quegli anni: “quello
che io chiamavo ‘l’ebollizione luminosa’,
l’ingigantirsi e venire avanti come bolle
nella luce-maschera. Abbaglio della pittura
di Ensor- così mi pareva nel 1938-40 […]
la frantumazione plastica e luminosa, il
modellatore per punti e linee di Van Gogh
[…] i frammenti di meteria in torsione: torce
di materia vivente che divampano in Soutine
[…] la tempesta dei contorni i Kokoscka”3.
Sul finire degli anni quaranta però, Scialoja
comincia a ricomporre il segno espressionista
in stesure più quiete: nei suoi quadri le campiture si accostano in un
gioco tenue e calibrato di ton sur ton. Sembra che la furia giovanile
si plachi in una più ponderata e matura definizione del concetto di
“spazio pittorico” e di cromatismo. Nel 1948 era cominciata infatti
la grande ammirazione per Morandi, che Scialoja conobbe anche
personalmente. La pittura del maestro bolognese incarnava per Toti
l’imprescindibile idea del “tono” cromatico. Quell’idea costante e mai
del tutto abbandonata: neanche molto più tardi, nelle grandi opere di
gestualità “tutta offerta” e vitale dipinte negli anni ottanta.
Ma, nel giro di pochi anni, al sorgere del 1950, l’insoddisfazione di
Scialoja per la pittura figurativa – retaggio del passato- , lo induce
ad esplorare nuovi territori e ad imboccarla strada, del resto assai
1
Giuseppe Appella, Vita, opere, fortuna critica, in Toti Scialoja.
Opere 1955-1963, catalogo della mostra, Verona, Galleria dello Scudo,
1999, p. 133.
2
Catalogo della mostra, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna,
1991, p. 23.
3
Roma.
Toti Scialoja, Giornale di pittura, inedito, Fondazione Toti Scialoja,
9
affollata, di una rivisitazione del cubismo. Con l’idea che proprio da lì
si dovesse ripartire per concepire la nuova spazialità dell’opera.
“L’argento e il grigio mentale della natura morta di Braque del 1911.
Un balsamo grammaticale, una chiarezza che addizionandosi
risuscita”4.
Attraverso una attenta rilettura del cubismo, comincia dunque al
principio degli anni cinquanta la transizione verso la pittura “astratta”,
a cui Toti approderà nel 1954.
Nel 1955 infatti, Scialoja si può considerare un pittore completamente
astratto. Il segno dinamico e fluido si muove ormai autonomo rispetto
alla “rappresentazione” della forma riconoscibile e, agile, prende vita
sulla superficie. Negli inchiostri così come nelle tempere il pennello
sui avvia a definire le tracce e le campiture di una nuova concezione
dello spazio pittorico: bidimensionale, astratto, esito formale di una
gestualità “automatica”, scoperta e condivisa con molti artisti di quegli
anni.
Scialoja ha scelto di nuovo i suoi ‘precursori’. Incantato dai labirinti
filamentosi di Pollock, sedotto dagli organismi fluttuanti di Gorky,
4
Toti Scialoja, Giornale di pittura, Parigi 1954, inedito, Fondazione
Toti Scialoja, Roma.
Toti individua nella emergente pittura dell’espressionismo astratto
americano il riferimento a lui necessario nella nuova strada
intrapresa.
Bellissime pagine scriverà infatti sulla pittura di Arshile Gorky, forse
l’artista americano da lui più amato. “Tanto io ho prediletto Gorky”ha dichiarato Toti in un’intervista- “che quando insieme ad Afro e
Colla facemmo due numeri di Arti Visive, di cui un numero doveva
essere dedicato a me, io mi trassi in disparte in favore di Gorky,
obbiettando che in Italia non esistevano monografie dell’artista ed era
più importante far conoscere la sua arte”.
Ancora un gesto di generosità intellettuale che si può accostare
all’insegnamento, cioè alla forza di chi è disponibile a rinunciare a
qualcosa che soddisfa la propria vanità, in favore di un arricchimento
culturale destinato a tutti.
Scialoja ci fa apparire la pittura di Gorky come un “traboccare dello
spirito distillato dal dolore personale”, in cui “il colore e la forma si
caricano di fantomaticità umana”. Per Toti si annulla in Gorky ogni
intercessione estetica: si tratta di pittura insanguinata e interiorizzata.
“La prima emozione che si riceve da una tela di Gorky è simile a quella
che potrebbe recarci una scritta segreta e leggerissima, un colore
maestri storici
Per Willem de Kooning, 20.3.1997, cm 204,5x205 vinavil su tela, coll.privata Verona
Irritazione, 1957, cm 108x93, vinavil su canapa, coll privata
maestri storici
10
tutto offerto, tutto affiorato sulla superficie”5. E ancora sulla pittura di
Pollock e di de Kooning, parole dedicate alla forza espressiva del loro
segno libero e incisivo “Pollock non fa che percorrere con il segnocolore, avanti e indietro, tutta la superficie della tela, per gremirla,
come inebriandosi di una continua riprova”6.
Tanto si sentiva un “pittore espressionista”, aderente all’atteggiamento
creativo degli action painters che un giorno Toti ebbe a rivelare a
Giuseppe Appella di aver cercato sempre nella pittura “qualcosa che
trascende la pittura stessa […] che la pittura possa essere simbolo
dell’uomo in toto, dell’uomo intero […]”. Arrivando a concludere:
“Nella pittura americana ho ritrovato me stesso”7.
Avere dei maestri, scegliere degli artisti che lo guidassero, quasi
come gli spiriti degli antenati, non significava tuttavia per Scialoja,
imitazione pedissequa, manierismo. Le sue scelte spaziavano
dalla pittura figurativa all’astrattismo, dall’antico al contemporaneo
prediligendo di volta in volta quello che sentiva più consono al suo
momento creativo. Individuando nella pittura di “quelli prima di lui”
l’intuizione profonda che aveva permesso di rendere tangibile il
pensiero, di rendere forma e colore l’immagine mentale. Nel giugno
del 1955 scriveva: “ Ho scoperto ora la grandezza, l’attualità folgorante
di Degas. Il colore deve avere una risuonanza interna (il colpo di una
lastra di metallo) ma apparire prosciugato, opaco di materia, senza
effusione”8.
Ogni modello contiene un travisamento da parte di chi lo guarda.
Potremmo dire dunque che il maestro non è quello che ti tocca in
sorte, ma è quello che ti scegli.
“Cézanne aveva insegnato semplicemente questo: che la linea
tracciata per descrivere la curva della collina vale in se stessa, senza
riguardo alla collina. […] La mia pittura fa cenno semplicemente a
questo: una linea, una pennellata, non cerca relazione con un’altra
linea […] ma vive del rapporto con te, che la tracci, tu, soggetto
temporale […]”9.
5
6
7
Toti Scialoja, Giornale di pittura, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 45.
Toti Scialoja, op. cit., 1991, p. 13.
Giuseppe Appella, Colloquio con Scialoja, in Scialoja. Opere
1955-1963, catalogo della mostra, GIbellina, Museo Civico, Edizioni La
Cometa, Roma 1985.
Toti Scialoja tenne il suo primo corso all’Accademia di Belle Arti di
Roma nel 1953. Vincitore di un concorso per un incarico straordinario
di Scenotecnica, conserverà la cattedra fino all’anno accademico
1956/57, passando poi, dall’insegnamento di scenotecnica, al corso
di Bianco e Nero. Quest’ultimo veniva inteso non tanto come Grafica,
quanto più specificamente come disegno e pittura. Nel 1960 Scaloja
lascerà l’Accademia in seguito alla decisione di traferirsi a New York,
ma vi farà ritorno, con la cattedra di Scenografia, alla fine del decennio
dopo un lungo soggiorno a Parigi. Il suo insegnamento durerà fino al
1982 seguito da tre anni di direzione dell’Accademia.
Come nelle antiche botteghe d’arte Scialoja preferiva lavorare lui
stesso in classe, definendosi “maestro di mestiere e non di stile”.
Realizzava alcuni “lavori” proprio davanti agli studenti, spiegando ad
ogni passaggio l’intervento tecnico che gli consentiva di mettere in
atto l’intenzione, il progetto mentale.
Scialoja si poneva come esempio di un certo modo di intendere e
vivere la pittura, e l’arte in generale. Il suo modo di insegnare non
era quello di distribuire precetti e regole, o di trasmettere un metodo
indiscutibile. Sembrava aderire a quell’idea espressa da Harold
Rosenberg per cui “l’arte è modo speciale di pensare”.
Amava poi parlare degli artisti più attuali, e fu tra i primi, nel 1958,
ad occuparsi in classe del New dada americano. Invitava gli studenti
a comprendere ed imitare il metodo di “stampaggio” e di collage
adoperati da Robert Rauschemberg, suscitando grande impressione
tra i suoi allievi: in particolare su Kounellis e Pascali.
La tecnica del “collage”, dapprima insegnata e poi fatta propria, fu
largamente adoperata da Scialoja nelle sue opere a partire dalla
seconda metà degli anni sessanta: corde, giornali, merletti costituirono
il suo primo repertorio materico. Queste materie andavano a sostituire
il ritmo ripetuto delle impronte, accostandosi sulla tela in successioni
temporali.
Tuttavia con il passare del tempo e mutata la situazione storica,
anche la “materia” viene abbandonata e la pittura di Toti si avvia
ad una modificazione sostanziale: gli inserti ritmici si irrigidiscono
in rettangoli e quadrilateri, lasciando il posto ad un linguaggio più
geometrico. Accostamenti cromatici di strisce dipinte su carta di
giornale – da lui definite “quantità” – e incollate sulla tela e sulla carta
divennero allora la sua scelta espressiva. Più raccolto e meditato
rispetto all’espressionismo della pittura precedente, il lavoro artistico
degli anni settanta sembra infatti meno partecipato: del resto molto
del tempo a disposizione di Toti veniva speso per l’Accademia, sia
come energie fisiche che psichiche. E in più erano gli anni della sua
consacrazione a poeta; un nuovo impegno creativo che lo coinvolgerà
al punto da fargli lasciare un po’ in disparte la pittura.
Ma, nel 1982, un nuovo maestro si affaccia prepotentemente
nell’immaginario visivo di Toti: Francisco de Goya. Ancora un
maestro antico, nelle cui opere Toti ravvisa una pennellata energica
e strutturante, una pennellata che da sola è in grado di costruire la
forma espressiva. I personaggi-spettri della “pittura nera”, quei volti
affioranti dall’ombra, riescono a catalizzare la sua attenzione e a
risvegliare il suo inesausto espressionismo, avviando un’ultima e
vitalissima fase di pittura. A Goya sono dedicati i titoli di alcune opere
di quest’ultima produzione: Primo San Isidro, Secondo San Isidro e
via così.
Dunque non solo Toti Scialoja maestro ma anche i maestri di Toti
SCialoja, quegli artisti da cui egli ha saputo trarre linfa vitale per il
suo percorso creativo. Del resto la passione che lo coinvolgeva nella
scoperta di maestri sempre nuovi era la stessa che permeava tutta la
sua esistenza artistica e dunque anche le sue lezioni in Accademia.
Accanto al lavoro artistico vero e proprio non dimentichiamo infatti
che Scialoja teneva avvincenti lezioni teoriche. Partendo dal teatro
arrivava ad affrontare temi della letteratura, della poesia e della storia
dell’arte, seguendo sempre il preciso svolgimento di un pensiero.
Un pensiero risorgente, fatto di interrogativi, di pause, di cadute
improvvise, quasi fosse un monologo teatrale.
Durante le sue lezioni dunque ogni problema riguardo all’arte- fosse
teorico o tecnico- veniva da Toti ogni volta scoperto, reinventato,
riassaporato, seguendo la convinzione che ogni valido insegnamento
consistesse non nel “far sapere”, ma nel “far sentire”. Nel “far vivere”
profondamente ad ognuno l’esperienza creativa.
8
Toti Scialoja, Giornale di pittura, giugno 1955, inedito, Fondazione
Toti Scialoja, Roma
9
Toti Scialoja, op. cit., 1991, p. 147.
*Estratto del testo per la mostra “Omaggio a Toti Scialoja” Galleria Il Segno,
Roma, dicembre 2007
11
Eugenio Carlomagno è stato allievo di Toti Scialoja all’Accademia di Belle Arti di Roma.
A Cura di Barbara Drudi
Quali sono i ricordi più vividi che hai dei tuoi anni come allievo
di Toti Scialoja?
fuori, condurre ad amare l’arte, i suoi diversi linguaggi e le sue infinite
realizzazioni.
I miei ricordi legano Toti Scialoja in particolare ad un libro IL CORVO
di Edgar Allan Poe che il maestro lesse un periodo in cui frequentavo
l’Accademia di Belle Arti di Roma. Era sempre vestito in modo
accurato ed elegante e movendo con grazia le mani, sembrava quasi
dipingesse nell’aria quello che ci leggeva,… piano piano, dalla forza
delle sue parole e dalla sua lettura accurata nasceva una specie
di scenografia virtuale in cui si materializzava il corvo, la stanza, i
rumori e i suoni delle parole. Era una specie di fascinazione collettiva,
profonda, come tutte le sue lezioni.
Quanto contano i “maestri” in Accademia?
Secondo Scialoja l’arte non si può insegnare, quello che si
può insegnare è “l’amore per l’arte”, sei d’accordo? Pensi che
questa idea sia valida ancora oggi?
L’arte non è fatta solo e soltanto di codici prefissati o definiti ma anche
da quel mondo particolare che appartiene al singolo soggetto che si
propone come artista. Anche le Accademie svolgono continuamente
questa pedagogia: educare, nel senso originario di estrarre, portare
Sono importantissimi. Il loro ruolo è fondamentale nel suggerire
percorsi e spunti; quando s’instaura tra maestro ed allievo un
canale di comunicazione quasi individuale, allora il maestro riesce
a far emergere quelle particolari soggettività dell’allievo che poi
consentiranno di affermarsi autonomamente. L’educazione all’Arte,
l’apprendimento e la conoscenza di tutti i suoi linguaggi, vecchi e nuovi,
è la fase intermedia per la realizzazione dell’opera d’arte. Il maestro
Scialoja aveva questo grande pregio: insegnarci l’amore per l’arte
anche grazie alla sua capacità di trasmissione e di comunicazione.
Nel suo orizzonte di vita (che si intravvedeva durante le lezioni) nelle
sue scelte linguistiche o pittoriche, nei suoi dubbi e nei suoi pensieri
c’era sempre spazio per un rapporto vero con gli allievi che proprio
per questo diventava fecondo.
*Barbara Drudi è docente di Storia dell’Arte Contemporanea all’Accademia
di Belle Arti de L’Aquila
maestri storici / testimonianze
Breve intervista a Eugenio Carlomagno, Direttore dell’Accademia dell’Aquila.
12
maestri storici / testimonianze
Grande Cammino di Santiago, 2006, nastro adesivo e cera su ready-made
Conversazione tra Albano Morandi ed Elisabetta Longari
Hai studiato all’Accademia di Roma alla fine degli anni Settanta.
Scialoja: diresti due o tre cose che sai di lui, per favore?
Inizio nel 76 (ottobre) e scopro un nuovo mondo.
L’incontro con Scialoja è folgorante, non è un insegnante che spiega
la scenografia, ma un grande attore, un poeta che recita il mondo e le
cose del mondo, siamo tutti ammaliati dal suo modo di fare.
La metodologia con cui ci avvicina allo studio dello spazio passa per
la scoperta della pittura del novecento e in particolare per l’informale:
Burri, Afro, Capogrossi, …, quello che lui chiamava lo spazio
bidimensionale astratto, il metodo che utilizzo oggi con i miei studenti
risente moltissimo della sua lezione.
Poi i pomeriggi passati nel suo studio di Piazza Mattei, 10 dove, dopo
aver visto gli ultimi lavori inchiodati al pavimento di legno, ci dissetava
con whisy e soda a volontà.
Non pensare che fosse così naturale e facile, la mia classe di
scenografia, partita nel 76 con oltre 40 iscritti è finita nel 1980 credo
con 5 persone.
Ma anche Alberto Boatto…
Anche con Alberto si è creata subito una buona intesa, si andava
a vedere le mostre e poi a cena al “Grottino” dietro campo de fiori,
bisognava prima dimostrare un grande attaccamento allo studio,
altrimenti nessuna confidenza. Scialoja è stato il sentimento, Boatto
il Pensiero.
Che rapporto avevi con i Transavanguardisti? Com’era la città
dal punto di vista della vita artistica? Che ricordi hai? Schifano,
Boetti, Mattiacci… li vedevi?
Roma in quegli anni era straordinaria o forse erano solo gli occhi
meravigliati di un ragazzino che veniva dalla provincia lombardo
veneta. Alberto Boatto ci portava a lezione gli artisti suoi compagni
di starda. Ricordo con grande piacere l’incontro con Alighiero Boetti
e con Matiacci. Boetti l’ho rivisto raramente, mentre Eliseo e il suo
lavoro li ho frequentati più assiduamente. È strano, rifletto solo ora
quanto sia stato importante il lavoro di Alighiero Boetti sulla mia
formazione artistica.
In che senso?
L’ironia leggera e sottile, “amo l’ironia perché è l’unico ingrediente
che fa digerire al mondo contemporaneo la spiritualità”, sono le
parole di Alighiero pubblicate su un delizioso libretto stampato da un
piccolo editore della mia città.È proprio all’insegna della leggerezza e
dell’ironia che ho impostato il mio percorso artistico alla ricerca di una
contemporaneità proposta in forma antiretorica e anticelebrativa.
Il concetto della “non scelta”, Boetti diceva in relazione alle “mappe”:
“non ho scelto niente nel senso che il mondo è fatto come è e non
l’ho disegnato io.” Questo ragionare attorno all’emergere di un’idea
base, di un concetto in cui far confluire prepotentemente l’imprevisto
scompigliando le regole e lasciando ampio margine al caso fa sì che
tutto il resto non sia più da scegliere ma venga di conseguenza. È
un po’ come il concetto di “disponibilità” di cui Parla Federico Fellini:
“…Le prime due settimane delle riprese sono un viaggio pieno di
contraddizioni. Destinazione ignota […] in seguito ho l’impressione
di non essere più io a dirigere il film, è il film a dirigere me, il film
sa benissimo dove andare. Allora cerco di restare disponibile, di
accettare le scoperte del viaggio.” Anche Boetti non vuole scegliere
ma lasciare che sia il contesto a scegliere “ il mio problema infatti è
di non fare scelte secondo il mio gusto ma di inventare dei sistemi
che poi scelgano per me.” È un po’ quello che succede a me con
le installazioni fatte con gli oggetti trovati su cui intervengo non
prevaricandoli ma cercando, con il mio lavoro, di mettere in evidenza
le potenzialità estetiche insite nella cosa stessa.È concettualmente
un modo di vedere il mondo attraverso la struttura del campionario
piuttosto che attraverso la tavolozza, come direbbe Alberto Boatto.Nel
mio operare più recente poi è entrato prepotentemente un concetto
che Boetti ha sempre frequentato, quello di delegare rimanendo se
stessi. L’operare degli altri diveniva il suo operare, operazione più da
regista che da artista visivo tradizionalmente inteso, è quello che sta
succedendo sempre più frequentemente al mio lavoro.
Torniamo alla domanda di partenza…
Non ho mai amato particolarmente il lavoro degli artisti della
transavanguardia, salvo alcune cose di Enzo Cucchi, ma ricordo
perfettamente la prima mostra di Sandro Chia vista alla Galleria
di Giuliana De Crescenzo con i compagni dell’Accademia e con
Giovanna Dalla Chiesa, che allora era l’assistente di Boatto, in
cui, dopo mesi di visite a mostre di opere fotografiche o oggettuali
vedevamo ripresentato il disegno (anche se era ancora un disegno
raffreddato dal processo progettuale). Ricordo perfettamente che al
ritorno in aula riferii a Giovanna l’interesse che aveva suscitato in me
questo tentativo di riprendere il rapporto con le avanguardie storiche
e con i mezzi della pittura precedente alla seconda guerra mondiale.
Era il 1978 e la transavanguardia non era ancora nata.
Come sei arrivato all’installazione su parete, a “frammentare”
l’unità del dipinto e a utilizzare oggetti?
È stato un processo assolutamente naturale, a me sembrava fosse
l’unica possibilità di evolvere il pensiero che Scialoja ci aveva
trasmesso attraverso lo studio e la comprensione dello spazio, ma mi
sbagliavo. La prima volta che mostrai a Toti i lavori ad acquarello su
carta di riso strappata e poi ricomposta direttamente sulla parete( ero
molto fiero di quel lavoro nato alla fine dell’ultimo anno di accademia
e nell’estate successiva )lo feci arrabbiare fuori misura. Dopo di
allora restammo molto tempo prima di riappacificarci. Ero molto
convinto di quel lavoro che esposi anche alla Librogalleria Giulia
(Alberto Boatto aveva mostrato i lavori a Mario Quesada che subito
li espose) dove Fabrizio D’Amico li vide e mi invitò alla Quadriennale
dell’86. L’insegnamento di Scialoja puntava a costruire delle persone
in grado di pensare uno spazio, qualunque esso fosse, dentro e fuori
dal teatro, nello spirito delle ricerche teatrali d’avanguardia che le
cantine romane offrivano. Erano i tempi di Carmelo Bene e di Leo
De Bernardinis, di Memè Perlini, il Living Theatre era accampato
a Roma, Grotowski e Barba venivano spesso in tournée. Questo
concetto di spazio dialogante divenne per me un pensiero costante,
l’opera non era finita in se ma solo in rapporto allo spazio che la
conteneva.
Riguardando alcuni tuoi lavori passati sento un retrogusto alla
Borges e alla Queneau, o sbaglio? Trapelano da atmosfere e da
titoli…
Le letture di Borges e Beckett, Queneau e Calvino sono state per
me linfa vitale. Più di qualsiasi testo di estetica o di storia dell’arte.
L’uso delle parole che si scontrano, creano un incidente di percorso
e formano nuovo senso: l’eterotopia mi ha insegnato che due cose
sommate non danno semplicemente un risultato algebrico.
*Albano Morandi è direttore artistico e docente di Scenografia alla L.A.B.A.
di Brescia
13
Questa foto è il ricordo di una cena voluta dagli allievi di Toti il 16
dicembre del 1993 (data del suo compleanno) alla trattoria “Pommidoro” a San
Lorenzo. Tra di loro Kounellis, Nunzio, Marco Tirelli, Gianni Dessì e molti altri
Un Maestro: Toti Scialoja
Di Bruno Ceccobelli
All’epoca in cui studiavo all’Accademia di Belle Arti a Roma tra
1973 - 77 leggevo molta di filosofia Zen, e uno dei primi curiosi
Koan più consono allo spirito ”rivoluzionario” del tempo era: <<Se
maestri storici / testimonianze
Foto di Claudio Abate
trovi un maestro uccidilo>>. Contemporaneamente facevo ricerche
esoteriche, ove i segreti dei misteri piccoli o grandi, passavano
esclusivamente da maestro ad allievo. Due scuole di pensiero che
potrebbero apparire superficialmente contrarie, infatti, in oriente,
la filosofia (il pensiero riflessivo) più spesso si manifesta con dei
paradossi. Comunque è sicuramente vero, sia per l’occidentale che
per l’orientale che, se s’incontra un signore che si pubblicizzi maestro
e magari a pagamento, per prudenza occorre sicuramente evitarlo e
cioè ucciderlo, dimenticarlo.
Uccidere un maestro potrebbe però voler dire tradirlo, digerirlo e
superarlo; ma prima deve accadere l’eccezionalità di trovare vero
un maestro. Io m’incontrai in Accademia con un certo gruppo di
studenti accorti e decisi a prendersi sul serio per diventare, in fretta,
bravi artisti. Gli stessi che oggi fanno capo alla nuova generazione
romana di via degli Ausoni, nel quartiere di S.Lorenzo. Noi, giovani
svegli, prima di iscriverci ai corsi accademici, indagammo su quali
professori risultassero più proliferi nello sfornare artisti valenti. Un
solo professore aveva le carte in regola ed era Toti Scialoja, era un
vero grande astrattista conosciuto nel mondo che aveva frequentato
i più grandi artisti europei e americani, nonché ottimo poeta, colto e
raffinato letterato. Serbavamo in memoria che nel giro di circa quindici
anni d’insegnamento erano passati sotto la sua regola (perché di
regola si trattava), artisti del calibro di: Pascali, Kounellis, Gino De
Dominicis, Giosetta Fioroni, Stocchi…. per le nostre convinzioni
erano artisti meritevoli più che sufficienti per scegliere il suo corso
di scenografia, e a completare la sua aurea, due donne importanti
legate alla sua intimità, Titina Maselli e Gabriella Drudi.
Ecco, come ricordo la regola di quello che per me era il mio Maestro:
primo, puntualità alle lezioni e ascoltare possibilmente senza
intervenire (come nella scuola Pitagorica), secondo, rispettare
tutte le consegne che erano frequenti, ogni quindici giorni circa.
Ma anche se avessimo voluto intervenire, sarebbe stato quasi un
sacrilegio, perché era come interrompere una partitura sinfonica,
sì, perché Toti sapeva come incantare il suo uditorio, soprattutto
se c’erano giovani e ricordo, negli anni, numerose ancelle e vestali
vicino al maestro. Aveva una voce stentorea, con modulazioni alte
e basse, a seconda della necessità emozionale degli argomenti,
gesticolava con abilità, a volte, nei momenti più filosofici dei suoi
discorsi, restava a lungo in silenzio e poi improvvisamente scoppiava
in una risata omnicomprensiva e nei momenti nervosi aveva delle
impuntature molto simpatiche. Negli anni che seguirono, dopo la
scuola, continuammo a frequentare Toti nelle sue esposizioni o feste
sempre con lo stesso calore e rispetto. Nel suo ottantaquattresimo
compleanno organizzammo una festa agli Ausoni, nel mio studio
c’erano tutti gli affezionati degli anni passati, dopo mangiato, con
insistenza gli chiedemmo una conclusiva lezione, si mise a parlare
con molta lentezza, ma con molta concisione, ricapitolando tutti i
suoi ideali e sogni di una lunga vita dedicata ai “gesti” artistici, io mi
commossi immediatamente perché compresi, solo in quell’istante,
che molti dei miei pensieri sull’arte, che da molto tempo scrivevo e
dichiaravo in giro per il mondo, erano dovute esclusivamente alle
sue esaltanti frasi. Pochi giorni dopo coniai questo nostrano Koan:
<<Sono allievo che sollievo!>>
Toti Scialoja è stato pittore, poeta
e soprattutto grande maestro.
Di Marco Tirelli
Sulla sua altezza come poeta e pittore ci sono le sue
opere a dirne ma che maestro è stato, se gli artisti che
sono usciti dalla sua Scuola, tra i quali il sottoscritto,
sono così differenti tra loro e soprattutto da lui stesso?
Forse proprio questa è stata la sua sottile grandezza.
Scialoja ci ha insegnato ad essere noi stessi ma
soprattutto che l’arte è una continua, rigorosa,
sofferta ricerca del senso intimo delle cose e
delle profonde ragioni del nostro stare al mondo.
Seminatore sempre in cerca di terreni fertili.
Spesso ripeteva che forse si può sopravvivere
senza l’arte, ma una volta che si è toccati dal
“sacro fuoco” non se ne può più fare a meno.
Toti è stato il piroforo di un fuoco acceso nella notte
dei tempi, forse lo stesso che Prometeo rubò agli
dei; ce lo ha consegnato e se ne è tornato lassù.
Voglio immaginare che ora sia una di quelle
stelle che si dice essere morte, ma la cui luce
arriva a indicarci ogni volta la rotta da seguire.
maestri storici / testimonianze
14
Marco Tirelli, Senza titolo, 2009, Tempera su tela cm. 234,5 x 181
ALESSANDRO RUSSO
Galleria
Antonio Battaglia
via Ciovasso, 5 - 20121 Milano
T/F 0236514048
[email protected]
www.galleriaantoniobattaglia.com
PAOLO ROSA
15
Studio Azzurro, Museo Laboratorio della Mente: il Tavolo Sonoro nell’area denominata Dimore del Corpo, 2008
Percorso multimediale permanente situato nell’ex Ospedale Psichiatrico Santa Maria della Pietà di Roma.
Laboratori del sensibile
della sapienza del terzo millennio, o meglio, dove si formano i nuovi saperi e chi ne detiene la maggior conoscenza. Subito scopriremmo
come siano mutate le condizioni di riconoscibilità disciplinare, di
condensazione dell’esperienza, di trasmissione dell’informazione.
Per chi s’illude ancora, come insegnante, di poter esibire la sua
conoscenza del mondo a un pubblico di allievi sprovveduti e
desideranti, basta ricordare a ciascuno di essi quante volte gli sia
capitato di chiedere ad un giovane studente il funzionamento di
un dispositivo, la procedura per una applicazione, il significato di
un termine sconosciuto o la modalità di connessione di un cavetto
misterioso.
Oppure, per andare oltre il tecnico, chiedere le conseguenze di un
social network, le ragioni di un blog o di un idioma da sms. Basta
ricordare di quante volte gli sia capitato di domandarsi come si sta
configurando (uso questa definizione consapevolmente) una realtà
che sfugge dalle categorie classiche e di trovare risposta improvvisa
nella proposta di un suo studente o in un suo inedito atteggiamento.
Quante volte si sia dovuto affidare ai suoi giovani interlocutori per
fruire di un aggiornamento spicciolo, quotidiano legato ad una
dinamica complessa e in continua ed esponenziale evoluzione.
Basta riconoscersi in questa semplice constatazione per capire come
il rapporto docente-studente debba rigenerarsi in uno scambio di
conoscenze e anche di esperienze, che occorre ammettere essere
bi-direzionale. Anzi tridimensionale se alle due componenti citate
volessimo aggiungere quella dell’habitat in cui questo scambio
avviene.
Occorre dunque partire da lì, dalla consapevolezza che non ti trovi
davanti e intorno una forza inerte ma viceversa una parte attiva
e fondamentale per calare la propria esperienza dentro una realtà
percepibile e condivisibile da tutti. Occorre attivare la massima
capacità d’ascolto, di dialogo, di sperimentazione comune per
docenti / nuove tecnologie
Occorre domandarsi se in questi anni non si sia persa un’occasione
straordinaria per ridisegnare radicalmente i modi di insegnamento, le
attitudini e le relazioni dell’apprendimento, approfittando dell’esplosiva
e inesorabile introduzione di nuove tecnologie e di nuovi linguaggi
nel panorama delle nostre vite. Ci siamo resi conto tutti di come lo
scenario intorno a noi sia mutato, come i nostri comportamenti, i modi
del comunicare, la costruzione d’immaginari siano determinati dal
rapporto intrinseco con i dispositivi e i sistemi che dipendono dalle
tecniche digitali.
Di come i ritmi, le abitudini, la socialità siano filtrati dai grandi sistemi
comunicativi e di come i processi di globalizzazione abbiano avvicinato
distanze, mescolato culture, insidiato identità millenarie e profilato
nuove riconoscibilità.
Eppure il sistema educativo, il più grande e organizzato dispositivo di
creazione di intelligenze, nonché di anticorpi utili ad ostacolare le forme
degenerative di queste novità, non si è smosso granchè da un impianto
che risale ormai ad un paio di secoli fa: quando si andava in carrozza,
non c’era elettricità, si comunicava con la penna a inchiostro la vita
media delle persone era intorno ai quarant’anni e le aule convergevano
sull’autorevole presenza della cattedra. Un sistema talmente vecchio e
indifendibile che anche i politici oggi hanno buon gioco a smantellare
pezzo dopo pezzo per dare spazio a canali di formazione (o meglio
forgiazione) affidati a media invasivi e adattati per distillare sottilmente
i modi di “stare al mondo”.
Se qualche timido passettino è stato fatto per inserire alcuni contenuti
adeguati, per istituire scuole o corsi che invitano ad un aggiornamento,
poco emerge invece sul lato delle metodologie d’insegnamento e sui
modelli relazionali. Mentre, è proprio lì che si potrebbe iniziare per
riattivare una linfa virtuosa, un’energia forte e capace di dare il passo
alla velocità del cambiamento sociale. Senza pensare che sia troppo
esagerato, si potrebbe cominciare cercando di immaginare i contorni
Studio Azzurro, Tavoli - Perchè queste mani mi toccano - videoambientazione interattiva.
“Oltre il villaggio globale”,Triennale di Milano, 1995
docenti / nuove tecnologie
16
poter creare le condizioni di un laboratorio di crescita e d’invenzione
reciproca. Detta in modo diretto: occorre che l’insegnante impari ad
apprendere dai suoi studenti. Solo così potrà godere del rispetto
che gli è dovuto per il tempo che porta addosso. Intendo il tempo
della stratificazione della conoscenza, dell’esperienza nel corso della
vita, della memoria che detiene, degli approfondimenti che ha fatto,
degli errori, delle incertezze e dei risultati che ha prodotto. Solo così
potrà ritrovare l’autorevolezza che distingue nettamente il suo ruolo,
insostituibile anche in una dinamica paritetica e restituisce peso alle
sue parole e valore alla sua figura. Solo così egli potrà osare un
giudizio di valore che in qualche modo possa essere interpretato
più che come una sentenza sul già fatto, come un’espressione in
relazione ai fatti della vita cui lo studente si troverà davanti al termine
del suo percorso. Una vita al futuro perciò, che impegna le due parti
a prefigurare una società prossima densa di valori e in continuo
cambiamento.
Tutto questo prefigura una modalità più laboratoriale che cattedrattica,
più esplorativa che dogmatica, che lega la conoscenza ad una
pratica continua, che sperimenta cose e relazioni. Le stesse relazioni
che compongono quell’habitat in cui tutto ciò accade. Quando mi
riferisco all’habitat alludo ad un ecosistema che si deve generare nel
luogo dell’insegnamento, una fertilità d’atmosfera che si compone
delle disponibilità reciproche, come abbiamo detto, ma anche di
una qualità fisica dello stare assieme nel medesimo luogo e tempo.
Uno spazio elaborativo dove si avvertono palesemente i segni del
divenire, delle idee che scaturiscono, delle visioni che prendono
forma. Un “laboratorio” aperto e in questo non assimilabile alle
vecchie scuole di “maestri”, chiuse nelle loro certezze e convinzioni,
nelle loro matrici e nelle loro riproduzioni. Mi rimane sempre nella
mente una visita a Jamas, l’istituzione più importante del Giappone
dedicata alle Arti dei Media. Accanto a studi attrezzati e aule efficienti
risaltava l’importanza di un grande open space, suddiviso in modo
molto semplice in una sessantina di micro studi, che gli studenti
gestivano autonomamente come propri, seppur in una dimensione
fortemente condivisa, un’area franca ma assolutamente congrua con
lo sviluppo didattico d’insieme. Al pari della condivisione del lavoro,
la condivisione del riposo. Che si svolgeva in una magnifica distesa
di tatami, uno spazio silenzioso e di penombra meditativa, contrasto
preciso alla vitalità degli ambienti precedenti. Un’effervescenza
ritmica e armonica che si differenzia radicalmente dalla cultura dei
corridoi, praticata dai nostri studenti e anche da qualche nostro
insegnante. Un’atmosfera intensa che mi rimbalza anche ad un più
antico viaggio fatto a Mosca alla storica scuola di cinema del Vgik, la
scuola di Sergeji Eisestein e dei maggiori autori russi.
Mi impressionò a quel tempo l’aula di montaggio, un enorme
salone fitto di moviole dove almeno un centinaio di futuri
montatori si stava esercitando al suono meccanico dei motori
di trascinamento dei rulli. E qualche passo più in là in un altro
ambiente, questa volta al suono di un brano classico, un gruppetto
di ragazzi, maggior parte uomini vestiti con un improbabile
tutina aderente, danzava con discreta leggerezza. “Scuola di
danza?” chiesi al mio accompagnatore. “No, di regia” mi rispose.
Atmosfere, magari non riproducibili, ma perché non sforzarsi di
trovare la nostra via, il nostro habitat appunto. Credo che di elementi
da mettere in gioco ne avremmo parecchi.
Certo, in questa divagazione, si manifesta chiaramente il
mio riferimento alle scuole che trattano i valori dell’arte.
E’ la mia esperienza e potrebbe apparire parziale e
limitata rispetto al complesso mondo della formazione.
Tuttavia mi vengono da sottolineare due fattori che possono
rendere questa riflessione più generale. Il primo è che la mutazione
cui alludevo in apertura si sviluppa su una dimensione “sensibile”
stravolta rispetto a ciò che conoscevamo. Oggetti, distanze, tempi,
presenze fanno capo a percezioni radicalmente cambiate. In questo
processo stiamo perdendo la nostra concezione di realtà oppure se si
vuole essere più positivi stiamo assumendo nuove sensibilità di una
Studio Azzurro, La Fortezza delle Emozioni – percorso multimediale permanente.
Particolare dell’installazione Occhi di luce.Forte Belvedere Gschwent, Lavarone (Tn)
17
nelle scelte dei giovani, non è certo perché in esse trovano le fila
di un collocamento al lavoro, ma forse, e su questo c’è davvero da
riflettere, perché esse potenzialmente possono offrire gli strumenti
per la creazione del lavoro, non solo nel settore della ricerca artistica,
ma in mondo che richiede grande attitudine all’immaginazione e
all’invenzione e che avrà sempre più bisogno di intelligenze visionarie
per uscire dalle numerose emergenze da cui è afflitto. Sono tutte
buone ragioni per non perdere l’occasione.
Paolo Rosa
docenti / nuove tecnologie
realtà che si è resa complessa e svariata nella sua forma del visibile
e dell’invisibile. Le arti si occupano proprio di sensibilità, si rivolgono
al mondo del sentire, razionale ed emozionale, si riferiscono ai sensi
propri ma anche al sentire comune.
Quindi sono l’ambito adeguato per costruire esperienze fondamentali
per dare forma e cultura a questo spostamento. La società dovrebbe
puntare su questi “laboratori del sensibile”, investire massicciamente
sulle sue sperimentazioni. Inoltre, ed è il secondo fattore, se queste
scuole, accademie, licei, hanno un significativo indice di gradimento
TULLIO
BRUNONE
docenti / nuove tecnologie
18
Detournement Venice, Palazzo Albrizzi - Venezia - 2010
Installazione interattiva - Computer/Video/Software/Specchio
La gran semplificazione introdotta dai media comunica al pubblico la sensazione
che i problemi siano anche facili da risolvere in tempi brevi .
A. Arbasino
È nell’esperienze del Laboratorio di Comunicazione Militante, intorno agli anni settanta,
che troviamo le origini della questione teorica sulla quale si sono fondate una serie
di operazioni ed interventi che hanno avuto, nella visione critica, analitica ed attiva di
tale laboratorio , anticipazione di ciò che in seguito sarebbe divenuta la consapevolezza
che gli strumenti che stavano apparendo nel panorama sociale e politico, avrebbero
determinato un radicale e profondo mutamento nel complesso dell’elaborazione e
dell’uso delle immagini nel sistema di comunicazione.
Cioè che tale mutamento non avrebbe più funzionato come semplice arricchimento della
strumentazione espressiva nello scenario della produzione artistica e della comunicazione,
...bensì che i sistemi espressivi che le nuove tecnologie proponevano, stessero aprendo
una fase rivoluzionaria, con in prospettiva lo scardinamento e la modifica radicale del
sistema della comunicazione, cancellando progressivamente, e sostituendoli, i criteri
estetico/ linguistici, filosofici e sociali con la logica delle nuove immagini e del nuovo
complessivo sistema che si stava prefigurando.
La necessità e la logica della moltiplicazione dei riferimenti, la velocità di diffusione,
l’incrocio dei territori e dei linguaggi, la diffusione sempre più capillare e personalizzata
delle possibilità di auto produrre immagini, filmati e oggetti multimediali, ne sono la
conseguenza.
Da queste origini il lavoro si è vieppiù indirizzato nella convinzione che la sua natura
stessa. non potesse prescindere da un profondo radicamento con il suo essere politico
e sociale
Da queste brevi considerazioni risulta evidente che la complessità del lavoro nel suo
insieme, oltre all’attenzione rivolta al concetto di comunicazione, si pone mettendo in
discussione i modi e i tempi tradizionali di realizzazione dell’arte. Infatti, il tema della
comunicazione, nell’ottica dell’utilizzo in maniera
prioritaria del mezzo digitale, del computer e del
video come strumento di disapprovazione della
pratica artistica tradizionale, crea un effetto di
collegamento e di scomposizione capace di guidare
l’esperienza artistica oltre se stessa e di darle una
possibilità mediale per indagare in maniera analitica
il proprio territorio.
Questo passaggio tende anche a disconoscere
drasticamente quanti si sono mossi sull’euforia
dell’immagine digitale, simulando un trasferimento
delle regole pittoriche classiche dell’iperrealismo
nel mondo dell’immagine mediale, è in gioco invece
un discorso più complesso: non si tratta più di
perlustrare uno spazio ambiente elettronico tramite
delle protesi tecnologiche, ma di con-venire con una
ibridazione dello spazio fra corpo e macchina. Tale
innesto riesce a gestire gli universi paradigmatici
dell’immersione diretta nei luoghi della memoria,
dove lo strumento tecnologico è stato superato da
se stesso e dove l’ipotesi si è catapultata in una
pratica interna all’oggetto stesso, dell’immagine e
della sua spazialità.
S’immerge sotto la superficie dell’immagine, per
compiere una gestione diretta delle proprie attività,
legate all’osservazione del mondo naturale che è lì
a scontrarsi e ibridarsi con quello artificiale offerto
dalla tecnologia. Si parla di proiezione fisica e quindi
di corporalità diretta in grado di scoprire l’anima
della rappresentazione, i dettagli dell’esistente più
che il generico essere.
Aspetto
proveniente
e
innestato
da
quell’esperienza, il rapporto con la produzione e
la partecipazione sociale, la profonda connessione
apertasi fra le esperienze produttive e la possibilità
di essere operatori nell’apertura di una disponibilità
strumentale dallo smisurato potenziale proposto
dalla commercializzazione e dall’abbattimento dei
costi delle attrezzature produttive, per cui chiunque
è messo nelle condizioni di produrre e realizzare.
L’apertura delle conoscenze e delle esperienze
per le quali vi è lo slittamento straordinario da
consumatore/osservatore a produttore, in grado
di possedere i meccanismi e gli strumenti, apre a
sua volta e genera una nuova ipotesi, la relazione
fra creatività e creazione, nella definizione di
produzione istintiva o di invenzione unica del
progetto.
Ci troviamo dunque in un territorio dove la
socializzazione dei mezzi di produzione è stata
uno dei punti fondamentali nell’esperienza degli
anni settanta. Dove l’aspetto laboratoriale è stato
uno dei momenti qualificanti della ricerca artistica
in generale, che gradatamente si è trasformato
e trasferito attraverso un lavoro di elaborazione
e di sviluppo nella struttura didattica, originando
le premesse di quello che poi sarebbe divenuto
elemento determinante nella impostazione degli
schemi che hanno dato origine con altri collaboratori
provenienti da quelle esperienze, al nucleo di base
originario della scuola di Nuove tecnologie dell’arte
dell’Accademia di Brera.
*«Nel XXI secolo è necessario mettere in discussione
il mòodo di creare l’immaginario esteriore ed
interiore, il significante ed il significato delle cose
ed il nostro modo di rappresentarlo non come una
volontà in atto, ma come fatto concreto, un luogo
dove interagiscono metamorfosi possibili senza
scindere l’aspetto tecnico da quello poetico...».
Tullio Brunone
*Com. Scientifico Scuola Nuove tecnologie dell’Acc.
Di Brera. (A.Balzola, G.Baresi, T.Brunone, E. Quoghi,
M.Folci, G.Pedote, P.Rosa.)
Verso una coevoluzione delle arti e
delle scienze
Se fondere le due culture
Bisogna a mio parere partire dalla constatazione che viviamo in un
universo che è in sé inconcepibilmente creativo, e questa creatività
si riflette in tutti i domini e a tutte le scale di osservazione. Forse, la
parte più esaltante di quest’epoca di tumultuose trasformazioni sta
proprio nel fatto che il mondo intero è per la prima volta testimone in
diretta della forza pulsante di siffatta incontenibile creatività: la quale
precede e supera tutti gli schemi. In altre parole, ciò che viene creato,
ciò che sorge dalle matrici, è quasi sempre assolutamente unico nel
suo genere, e irripetibile. Per questo motivo si assiste da qualche
tempo a un fenomeno singolare, poiché sembra quasi che la fiaccola
della creatività sia passata nelle mani del più veloce tra i tedofori,
rappresentato dalla scienza nel suo complesso.
In un certo senso oggi la scienza supera e precorre l’arte. Non è
forse un’opera d’arte la cellula artificiale creata da Craig Venter?
Non dubito che questa straordinaria invenzione avrà una ricaduta
impressionante nella pratica artistica, nel senso che è impossibile
che essa non suggerisca ipotesi, percorsi creativi, cortocircuiti. C’è
quindi sempre una ricaduta delle tecnologie, di tutte le tecnologie
e di tutte le scienze. Ma vanno fatte due precisazioni: non esistono
le scienze “al plurale” e le tecnologie “al plurale”. Esistono, certo, le
specializzazioni, anzi esse crescono con il fiorire della complessità.
Però, tutti i settori della ricerca appartengono allo stesso universo di
fenomeni, sono sfaccettature di una stessa manifestazione globale,
il che può sembrare a prima vista nebuloso, ma non lo è, se si
considera la nozione di universo “non ergodico”.
Secondo: se si studia l’immaginario che precede e prepara l’attuale
civiltà, e se si sottopone questo immenso materiale all’analisi
19
docenti / nuove tecnologie
Di Riccardo Notte
comparativa, e se infine si considera il testo (nel senso di qualunque
reperto culturale) come impronta che struttura la progressiva formazione
di miti, di aspettative, di concezioni generali di idee universali quali
la “vita”, la “macchina”, il “mondo”, l’”evoluzione”, l’”uomo” etc. , ci si
accorge molto in fretta che i pilastri delle attuali ricerche scientifiche o
tecnologiche emergono dalle sorgenti dell’immaginazione creatrice,
per usare un’espressione bergsoniana.
L’immaginazione precede e prepara qualunque realizzazione, anche
tecnologica. Questo asserto si oppone a ogni ipotesi di determinismo
tecnologico . Vale invece il principio della reciproca fecondazione o
ancor più dell’autofecondazione. L’immaginazione e le scienze “dure”
si comportano in un certo senso come quelle specie di invertebrati
ermafroditi in cui una sola gonade funge per ambedue i sessi; nel
senso che basta una minima innovazione teorica o tecnica ed ecco
che su di essa, se le condizioni di sviluppo sono favorevoli, si innesta
una immensa matrice inventiva che coinvolge tutte le arti, ma prima di
ogni altra la letteratura, perché essa è narrativa e pertanto si riallaccia
alla funzione primaria della comunicazione, ovvero all’oralità.
Se torniamo all’esempio della cellula artificiale intesa come opera
d’arte, ebbene esiste un famoso testo del 1962, scritto non a caso
da uno scienziato con la collaborazione di uno scrittore, in cui si
immagina la costruzione del DNA artificiale per mezzo e sulla base
dell’hardware e del software, insomma via computer, ovviamente
alieno. Questo romanzo è A come Andromeda, dell’eminente
astrofisico Fred Hoyle e di John Elliot, libro poi trasposto in uno
sceneggiato televisivo di successo. In realtà, le idee seminali sono
perfino precedenti e in parte affondano le loro radici nella letteratura
fin de siècle. Ma il computer che progetta il DNA sintetico (in forma di
una sublime bellezza femminile – autentica Galatea biomeccanica) è
una vera novità, se si pensa che nel ’62 il modello teorico di Watson
e Crick, basato sulle indagini fisico-chimiche di Rosalind Franklin,
aveva appena nove anni e la prima conferma sperimentale appena
quattro!
Il fatto che la penna sia stata impugnata da uno scienziato, non è
insignificante. Se si esplora la letteratura si resta sbalorditi dalla
quantità e dalla qualità delle menti scientifiche che si sono cimentate
in un genere considerato di evasione, ma che di evasione non è,
perché è in realtà di prefigurazione, di esplorazione dei “possibili
adiacenti”, per dirla con Stuart Kauffman. È come se la scienza
nel suo complesso sentisse urgentemente il bisogno non tanto di
comunicare (sarebbe banale, e poi esistono agenzie specializzate
che sanno farlo benissimo) ma soprattutto di scandagliare con la
libera immaginazione il ventaglio delle possibilità accessibili in quel
determinato momento storico. Però, sia chiaro, ciò non è prerogativa
degli scienziati. Se esiste un campo di convergenza delle più
svariate intelligenze questo è proprio l’interzona fantastica e terribile
dell’immaginazione.
La quale fa paura. Anche perché mette in gioco elementi di rottura,
non di ricomposizione.
Mi viene in mente quanto scrive Federico Gustavo Pizzetti, docente di
Istituzioni di Diritto pubblico alla facoltà di Scienze Politiche di Milano.
Pizzetti si occupa delle relazioni tra le neuroscienze e il diritto, materia
di grande attualità. Egli definisce “paradosso dell’alieno” il fatto che
le neuroscienze stanno avvicinandosi al punto in cui sarà possibile
in un certo senso “ristrutturare” varie funzioni cerebrali superiori. A
quel punto sorge un dilemma: chi decide per chi? Posso io, soggetto
e oggetto dell’intervento, decidere sulla base della mia attuale
personalità tutto ciò che riguarderà la vita di un “sé” completamente
diverso dal mio? Di un “sé” alieno?
Bel dilemma. Però, a ben vedere, il paradosso dell’alieno è esportabile
in tutti i settori, e non a caso lo stesso Fred Hoyle lo usò come
metafora di quel processo di radicale ripensamento del concetto
stesso di “vita” che sarebbe derivato dal connubio tra l’informatica e
la biologia.
Questo tema ci porta dritto a considerare le spinte e le resistenze ai
mutamenti. Le trasformazioni provocano instabilità e spunta sempre
un largo fronte di resistenza a ogni instabilità. Esemplare, oltreché
relativamente recente, resta l’instabilità introdotta dalle tecnologie
informatiche, il cui epifenomeno è il web. Ne feci a suo tempo
esperienza.
Quando alla fine degli anni Ottanta iniziai a occuparmi delle relazioni
tra l’arte, le tecnologie informatiche e il Media System scoprii con
sorpresa un fronte di resistenza pazzesco. Nessuno mi dava credito,
anche se le fonti erano di prima mano, perché attraverso un canale
docenti / nuove tecnologie
20
diretto seguivo quanto si discuteva negli Usa. Solo dopo oltre un
anno d’incessanti perorazioni, esortazioni e preghiere riuscii a
pubblicare nel marzo 1991 sulla rivista “Mass Media” un lungo saggio
sulle realtà virtuali e sui primi esiti dell’Internet. Però sotto la voce
“azzardi”.
Non mi ero reso conto che lo stesso standard del sistema di
comunicazione di quel tempo reagiva emettendo “anticorpi” all’ipotesi
di un’innovazione che ne avrebbe scombussolato gli assetti, come
poi è accaduto. È un esempio fra i mille del “paradosso dell’alieno”
di Pizzetti. Si avverte a pelle che dietro l’angolo si cela un alieno
“mostruoso”, “incomprensibile”, imprevedibile; e si reagisce col
sistema delle sabbie mobili. Il che è inutile, perché l’innovazione trova
le sue vie. Infatti, passano manco dieci anni ed ecco che “virtuale”
diventa sinonimo di “banale”.
In realtà ogni società , ogni civiltà prepara il suo “alieno”. Però la novità
risiede nell’accelerazione, già
evidente in tutto il secolo scorso,
ma mai così pressante come al
giorno d’oggi. Due o tre lustri sono
bastati a rivoltare come un guanto i
paradigmi dei tre o quattro decenni
precedenti. Infatti il crollo dei
blocchi, la globalizzazione della
finanza e la pervasività del mercato
mondiale vanno di pari passo con
la rivoluzione del web, la robotica o
la post-genomica. E sfido chiunque
ad affermare in coscienza che
ci si è davvero adattati al nuovo.
Eppure, non siamo ancora emersi
alla superficie dell’ultimo oceano
che già si annunciano altre, più
ampie e ancor più accelerate
rivoluzioni.
Questo ci porta a considerare una
questione delicata ma centrale:
che ruolo svolgono le istituzioni
(che come dice la parola stessa
“stanno”, non si muovono)nella
rivoluzione perenne dei rapporti?
Questo problema investe anche
un’istituzione così flessibile come
l’Accademia di Belle Arti. Però,
per quanto flessibile (suo valore
aggiunto
spesso
trascurato),
essa è sempre un’istituzione,
perciò soggetta a recepire,
spesso
traumaticamente,
più
che a governare, il processo di
trasformazione, almeno in Italia.
Se si torna al settore che ho scelto
come esempio, ebbene si registra
anche nell’attardatissima Italia un
fronte di sperimentazione avanzata
nei domini della bioarte e della
nanoarte, campi apparentemente
distanti ma in realtà convergenti.
Ma non mi risulta una ricezione
degli stessi domini da parte
dell’istituzione
accademica.
Un po’ meno attardati lo si è
in altri settori, al confine tra
la
comunicazione
e
l’arte.
Però, anche in questi casi, con
l’idea che sia l’istituzione a
reggere il vessillo, mentre nella
realtà essa regge la candela che
illumina fiocamente attori sociali
che trovano altri percorsi per
esprimere quanto vibra nell’aria.
Come superare tale punto morto?
Non c’è che una soluzione:
aprirsi.
* Riccardo Notte è docente di Antropologia culturale presso l’Accademia
di Brera, a Milano, dal 1997. Dalla fine degli anni ’80 inizia a studiare le
ricadute sociali, politiche e culturali delle nuove tecnologie di comunicazione,
pubblicando su questi argomenti i volumi Millennio virtuale (Roma, 1996), La
razza stellare (Roma, 1999), La condizione connettiva (Roma, 2002), You,
Robot. Antropologia della vita artificiale (Firenze, 2005), Machina ex Machina
(Roma, 2008). È stato redattore del bimestrale «Mass Media», storica rivista
di studi sulla comunicazione, che ospitò la prima riflessione organica apparsa
in Italia sul fenomeno emergente dell’Internet.
Modi del sentire parlare, 2008
Studio Azzurro, Museo Laboratorio della Mente: Parlare nell’area denominata
Modi del sentire.
Percorso multimediale permanente situato nell’ex Ospedale Psichiatrico
Santa Maria della Pietà di Roma
GABRIELE
GIROMELLA
Il teatro di figura come scultura ‘aperta’
Di Anna Maria Amonaci
ha approvato l’attivazione del biennio specialistico all’interno del
medesimo dipartimento di Scenografia). Si tratta di un laboratorioofficina, quello che ha attivato Giromella, ispirandosi ai cantieri
medievali, frutto di apporti collaborativi costanti, “fatti di tanti saperi,
di ricerca, di sperimentazioni”(1), teso a riconsegnare all’oggi un
genere espressivo confinato dal dopoguerra nella cerchia delle
attività per l’infanzia; nella certezza che il teatro di figura, recuperato
storicamente, possa offrire “un ampio spettro di comprensione delle
cose”, per via del suo “vasto ed eclettico linguaggio metaforico”(2),
tanto da emozionare un pubblico ben più ampio ed eterogeneo di
quello attuale.
Con Giromella mi sono incontrata di nuovo, stimolata dalla sorpresa
ricevuta, per capire meglio ciò che lo spinge a dedicarsi in pieno
a questo genere teatrale; quale nesso, insomma, vi ritrovi con la
scultura, tenendo conto tuttavia che l’interesse per la marionetta è
stato un fenomeno costante nelle sperimentazioni di avanguardia del
Novecento. In ambito teatrale Gordon Craig, nel primo decennio del
secolo, in consonanza delle ricerche astratte, teorizzò la sostituzione
dell’attore con la «supermarionetta», affinché fosse reso a pieno
il valore della levità in uno spazio tutto mentale, tradotto con la
semplificazione delle scene per rappresentare sul palcoscenico puri
stati d’animo. Penso poi a Tadeusz Kantor, che di Craig colse tutto il
portato, al suo utilizzo negli anni Settanta di manichini dai volti di cera
gravanti sulle spalle degli attori in La classe morta, a significare il
peso e insieme il valore del passato per il riscatto dell’immaginazione.
Quanto agli artisti visivi, rammento Fortunato Depero e il suo uso di
marionette, secondo l’ottica futurista di dinamismo, al posto di attoriballerini in Balli plastici (1918). Nell’ambito performativo anche Dennis
Oppenheim si è avvalso della loro esile consistenza per misurarsi
con i concetti di “dematerializzazione” e di “metamorfosi”, come nelle
istallazioni Theme for a Major Hit e Attempt to Raise Hell, entrambe
del 1974, dove “le marionette simulano i movimenti dell’artista”(3).
Riguardo più in generale all’impiego di manichini e di pupazzi: i
primi – com’è noto – connotano stilisticamente le opere surrealiste,
rappresentando paradigmi di silenzi oltreumani; i secondi, quali
metafore dell’uomo svuotato di senso, sono assai in uso nel tempo
corrente. Esemplari appaiono le geniali ironie corrosive che vertono
al tragico di Maurizio Cattelan.
Ma l’attenzione di Gabriele verso i personaggi inanimati del teatro di
figura – non soltanto burattini, marionette, figurine di carta – mi pare
scaturisca da motivazioni di natura direi più intima, mirata a suscitare
emozioni, toccando le corde degli affetti, piuttosto che attenta ad
21
docenti
Fine giugno 2010. Brera in clima di esami con i corsi terminati
da poco: qua e là qualche studente, ancora meno e di fretta i
colleghi. Mi aggiravo per i corridoi alla ricerca dell’aula, anzi del
laboratorio di Giromella, per chiedergli informazioni sulla modalità
di iniziative culturali dell’Istituto. L’ho conosciuto oltre un decennio
fa all’accademia di Carrara, dove si è formato scultore, ma in quel
tempo vi insegnava anatomia artistica. In seguito ci siamo rivisti a
Milano. Sempre gentile col suo accento triestino, ha mantenuto l’aria
un pochino spiritata che ricordo di allora. Riguardo alla sua didattica
a Brera, mi ero fatta idea che fosse di indirizzo meramente tecnico,
stando anche a quanto dicono gli allievi sulla bontà delle pratiche di
mestiere che acquisiscono presso il suo laboratorio. E poi l’avevo
visto quasi sempre affaccendato in mezzo a cavi elettrici, fari e faretti,
strutture di metallo e così via.
Con scarso entusiasmo, in prospettiva di un incontro su questioni
logistiche, sono entrata allora nella stanza. Ho aperto anzi la porta
quasi con noia, una noia però più generale e di lungo corso, dipesa
da un senso di monotonia rispetto per esempio a gran parte dei soliti
fatti artistici odierni che lasciano in fondo l’uggia del ‘già visto’. Al
primo colpo d’occhio mi è parso un ambiente laborioso, con diversi
studenti prossimi a un bancone pieno di oggetti, su cui spiccavano,
fra libri e materiali plastici, coloratissimi burattini in costruzione. Teste
di legno e di argilla, stoffe, carte, nastri erano sparsi intorno; una
folla altrettanto colorata di pupazzi e figurine si intravedeva dalle
grandi sporte semiaperte degli armadi a muro che testimoniano della
passata vita conventuale di Brera. Forse nell’aula di Giromella era
ubicata la cambusa del refettorio. A ridosso della porta, in bella vista,
catturava l’attenzione una fila gremita di marionette pendente da
un’alta impalcatura. Colpivano in particolare i volti di quei pupazzi:
Arlecchino, Pulcinella e gli altri personaggi della commedia dell’arte
si succedevano dinoccolati accanto a Cenerentola, Don Chisciotte,
il Diavolo, principi, turchi, ballerine; vicine, dondolavano ancora altre
marionette, per lo più vestite nell’esuberante foggia seicentesca,
ma anche con panni del nostro tempo, come quella di un milite dal
volto sparuto di ragazzo. Un insieme rutilante di attori muti dai grandi
occhi incisivi. Così ‘veri’ mi sono apparsi quei fantocci dalle smorfie
accentuate! Tutti quanti erano lì a richiamare emozioni sopite, nel
loro essere parodie dei caratteri umani.
È seguito un incontro davvero inaspettato: Giromella e il suo
collaboratore, Pietro Marchese, mi hanno parlato del laboratorio del
teatro di figura, attivato nel 2003 nell’ambito dell’offerta formativa
della Scuola di Scenografia (è di pochi giorni la notizia che il CNAM
accademia
docenti
di catania
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attivare energie sensoriali o cerebrali, in riga con le sperimentazioni di
avanguardia. Sperimentazioni che trovano origine nella concezione
modernista dell’«Uomo nuovo», la cui struttura, aveva scritto Lázló
Moholy-Nagy nel 1925, “è la sintesi dei suoi apparati costitutivi, dalle
cellule agli organi più complessi”(4). Pertanto all’arte veniva affidato il
compito di attivarli fino “ai limiti delle loro facoltà biologiche”, attraverso
la produzione di “nuovi rapporti [...] tra i fenomeni ottici, quelli acustici
ed altri fenomeni conosciuti e ancora sconosciuti, e di farli assimilare
in misura sempre maggiore agli apparati funzionali”(5), al fine di
giungere alla resa massima di questa ‘macchina’, organicamente
perfetta.
Un altro registro interpretativo riguardo al fare artistico mi pare si
avverta da parte di Giromella, anche in un suo scritto sul teatro di
figura, dove già dalla scelta delle parole appassionate, traspare un
diverso modo di intendere la funzione stessa della forza dell’arte.
Una forza – mi ha detto di recente – che sia “evocativa e veicolo
di trascendenza”, capace “di esorcizzare il ‘male’ per via della
stupefazione, della meraviglia, di intensità espressive, colme di
affetti”, attivando, in una “dimensione di ritualità, la comunicazione
‘aperta’, ossia quel senso di mutazione e di rinascita, proprio dell’opera
rigeneratrice”. Un teatro a cui egli affida il compito – ha scritto – “di
far emergere dall’oscurità la bellezza della metafora dell’uomo, il
senso poetico, il significato simbolico, la comprensione del sacro”(6).
Un brano intenso, pieno di sentimento per comunicare il significato
dell’atto teatrale, ossia offrire una visione coinvolgente, quella dello
“spettacolo”, appunto. Per cui il “linguaggio deve rimanere limpido,
comprensibile, emozionale non semplicistico né ridotto né banale,
(giacché) la sua grandezza sta nel poter raggiungere tutti i livelli di
comprensione dell’essere umano”(7). E a fronte di operazioni che
‘congelano’ il teatro di figura, inserendolo nei repertori di folclore del
passato, il più delle volte confinate ai circuiti formativi per l’infanzia,
egli si appella al potere evocativo dell’opera da trasmettere all’oggi:
“L’artificio si consuma, non si conserva – prosegue il testo –, va
celebrato, vissuto nel luogo del mistero, perché esso rinnovi il suo
ciclo vitale di energia e di emozione; in questo modo la poesia si
libera e passa vibrante su chi riceve il segreto messaggio”(8).
Nella seconda conversazione Giromella mi ha raccontato che al teatro
di figura è approdato riflettendo su “come poter esprimere a pieno la
mutevolezza, la trasversalità, il senso del divenire”, nella volontà di
dare forma a opere ‘aperte’. D’accordo con Arturo Martini, sul limite
della statuaria come «lingua morta»(9), essa gli rappresenta, nella
sua finitezza di oggetto concluso, una sorta di “cesura, di arresto,
rispetto alla comunicazione piena”, a differenza della terracotta che
permette, grazie alla duttilità della materia, usata magari nella quantità
minima necessaria al bozzetto, di esprimere intimità profonde “con
immediatezza e sincerità”. Sull’argilla facilmente si imprimono quei
gesti minimi, ogni volta unici, come “l’impronta lasciata dal polpastrello”,
per esempio, seguendo con maggiore velocità il flusso del sentire,
“secondo un andamento progressivo che è poi quello del racconto”. E
ancora: “L’argilla per la sua semplicità è veritiera, subisce trasformazioni
che si impressionano e si cristallizzano col fuoco; essa è come la vita
dell’uomo, adattabile alle mutazioni degli eventi che, succedendosi,
infine la determinano”. Proprio questo senso di “apertura, ben più
che con la duttilità dell’argilla”, egli l’ha avvertito attuabile attraverso
“la mobilità dell’atto teatrale” – mi ha detto –, chiarendo il passaggio
dalla scultura. Un atto teatrale che sia innanzitutto “rappresentazione
di spazi interiori, dove, con l’apporto tecnico necessario, unificante la
magia della luce e il portato musicale, si dia pieno svolgimento allo
stupore e alla meraviglia. A fronte dei rischi ghettizzanti dei pensieri
unici, il teatro di figura, grazie all’infinita possibilità espressiva che
possiede, può comunicare invece totale trasversalità, proprio per la
varietà di scelta dei suoi diversi elementi ‘recitanti’: dalle marionette,
ai burattini, alle figure del teatro delle ombre, di quello ‘su nero’ e
dell’oggetto, fin’anche ai mimi e ai ballerini. La cui eventuale entrata
nella scena è intesa alla stregua degli oggetti inanimati”, cioè semplici
corpi, funzionali ad arricchire la suggestione dello spettacolo. “Della
scultura – ha precisato poi – “respingo fortemente due cose: la prima
l’autoreferenzialità dell’oggetto, che richiede un’infinita produzione di
scarto prima della sua messa a punto. Intendo che per creare uno
dei tanti pezzi esistenti al mondo, devi violentare la materia, sia essa
roccia, pietra o marmo. La purezza è essenzialità, e necessita di
pochissime cose. La scultura corre il rischio di una super produzione
di oggetti sui quali l’artista appone la firma, tramutandoli in feticci
ambiti dal Mercato. L’altro aspetto che della scultura mi dà il senso di
limite, è la violenza spesso arrecata al contesto ambientale, perché
il più delle volte, la sua collocazione non tiene di conto del rapporto
con lo spazio circostante. Da ciò viene meno quella fruibilità che
sarebbe il fine stesso della scultura, una fruibilità data dalla perfetta
integrazione dell’opera nello spazio che l’accoglie, al fine di restituire
un sentimento di appartenenza a chi il luogo infondo lo vive”. Riguardo
alla formazione, gli ho chiesto poi quali maestri avessero concorso
alla messa a punto dei suoi stilemi espressivi. Così lui: “Nonostante
quanto abbia detto sulla scultura, fino dai primi del Novecento si
sono poste le basi affinché essa toccasse corde più intime, che non
1 Presentazione dell’«Associazione Teatrino Girò», opuscolo a cura di
G. Giromella, 2009, p. IV. “L’associazione si è costituita nel marzo 2001
a Fosdinovo (Massa Carrara), allo scopo di promuovere e diffondere la
conoscenza artistica, in particolare agendo in due specifici settori: quello della
produzione di spettacoli per il teatro di figura e quello della formazione di una
compagnia di teatro popolare dialettale”.
2 Ibidem.
3 Comunicato stampa (Paola C. Manfredini Studio) della mostra Dennis
Oppenheim. Materia Interchange. Opere 1968-1974, a cura di A. Fiz, Galleria
Fumagalli (5giugno-20 novembre), Bergamo, 2010.
4 L. Moholy Nagy, Pittura fotografia film, a cura e traduzione di A. Negri,
Scalpendi, Milano 2008, vol. I, p. 56.
5 Ibidem.
6 Le frasi riportate sono tratte dal comunicato di G. Giromella, letto in occasione
dell’incontro I patrimoni del Teatro di Figura: necessità della conservazione,
tutela della memoria, opportunità dello studio, Giornata di studio promossa
dall’Università degli Studi di Bergamo e dalla Fondazione Benedetto Ravasio
(lunedì, 14 dicembre 2009), Auditorium del Collegio Sant’Alessandro,
Bergamo.
7 Ibidem.
8 Ibidem.
9 Il riferimento è allo scritto di A. Martini, La scultura lingua morta, uscito nel
1945, ripubblicato a cura di E. Pontiggia, La scultura lingua morta e altri scritti,
Abscondita, Milano 2001.
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docenti
adempiere a funzioni quasi del tutto celebrative. Penso a Medardo
Rosso, capace di tradurre sensibilità epidermiche per via di una
materia mutevole, a seconda delle vibrazioni della luce, come la cera.
Una luce che dà vita alla forma. Le sue cere, infatti, si animavano con
la luce, per meglio rendere il valore della leggerezza, abbattendo
il peso della materia. È proprio nell’impiego della cera, per il suo
potenziale di mutevolezza che avverto nell’opera di Medardo Rosso il
senso della comunicazione”. “Intendi dire, Gabriele – gli ho chiesto –
che la plasmabilità della cera per te acquista significato di ‘apertura’,
ovvero quel potenziale comunicativo che tu cerchi nell’atto teatrale?
E lui: “Appunto, giacché il teatro rappresenta lo spazio vitale, dove
può avvenire massimamente il momento dell’incontro”.
Se Medardo Rosso lo induce a riflettere sulla materia ‘plasmabile’
con la luce, a Fausto Melotti Gabriele si ispira per il “senso di levità”
che affiora dagli scenari dei suoi teatrini, dove gli “spazi, organizzati
secondo metrica musicale”, traducono precisioni ideali esaltanti la
sinuosità delle forme.
Egli rimanda infine a Depero per “l’apporto della tecnica e della
meccanica, in chiave di produzione seriale, a fronte della pratica del
mestiere”. Sono dunque tre le coordinate direzionali nella ricerca
di Giromella: l’attenzione alla luce, che determina il divenire dello
spettacolo in opera ‘aperta’; il riferimento alla precisione della metrica
musicale, per la progettazione e l’ordinamento delle scene; il tenere
ben presente il portato tecnico, affinché, con la riunione del tutto:
valori luminosi, musicali e tecnici, si attualizzi il senso dello spettacolo
che in fondo è la resa ‘plastica’ di un “percorso metaforico e mentale”.
Di più: è la messa in atto di un’apertura comunicativa totale, così che,
con l’immaginazione accesa, il sentimento di libertà apra l’anima al
canto.
Allora comprendo la levità provata alla vista, lì per lì, di quell’insieme
variopinto di pupazzi dai panni sgargianti, appesi ai fili o montati su
buffi manicotti, in attesa di animarsi nello spazio dei sogni.
*Gabriele Giromella è docente di Teatro di Figura all’Accademia di Belle Arti
di Brera
*Anna Maria Amonaci è docente di Storia dell’Arte e della Fotografia
all’Accademia di Belle Arti di Brera
Senza Titolo, 2010, installazione, materiali diversi, dimensioni ambiente
docenti
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RADU
DRAGOMIRESCU
RADU DRAGOMIRESCU, UNA QUASIRETROSPETTIVA1
Segno e disegno della dolce morte
Bucarest, giugno 1998
Di Ruxandra Balaci
Principio vitale, trasforrnativo della Vita stessa, la “buona”,”dolce”,
“cara” Morte6, dall’ala fugace - un funebre paradossalment delicato,
(Allegro funebre ma non troppo...) è percepibile nel volo degli oiseauxscheletri, nelle fronde, onde, nubi, nella nebbiolina misteriosa,
avvolgente, quasi simpatica...7
Una “monografia dell’oscurità leggera”, la dimensione serena del
notturno. (“Cette obscure clarté qui tombe des etoiles”, Anselm
Kiefer).
...Nigredo e albedo (anche come metaforiche polarità del disegno...)
Nei disegni, come anche nelle installazioni o negli oggetti-sagome,
le aure di muffe e gas evanescenti dileguano - estompando contorni
e concetti - subentrando l’eterico, lo svanimento del trapasso l’indefinibile fantasma inavvertito, fragile ma possente, presente
ovunque in natura8. (Dans la mort il y a la vie, d’une écrasante
fragilité...)
Vi è suggerita la mobilità dell’immutabile. Materie acquose-aeriformi
colano lentamente, generando trasparenze squisite, ma anche
opacità o atmosfere soffuse (“Velo d’aria”). Agenti argentei, cenere
o artificiosamente colorati spariscono nell’Athanor, nell‘esoterico
Graal 9 ancora segno di deperizione, risoluzione e trasformazione. A
un certo punto il lavoro stesso può anche (deve) sparire, ritualmente
volendo.
L’iconografia con la quale Dragomirescu opera cela una sorta di
bizzarro iconoclasmo: il personaggio umano è quasi sempre “velato”,
nascosto, o parzialmente occultato; sagoma, angelo-fantasma,
pupazzo-mummia inquietante, sussiste come segno generico per la
specie, non come entità individualizzata10. L’apparenza è, al massimo,
quella di un’effigie, alter ego impersonale (I Gemelli), oppure spoglia
di un archetipo (Ellie).
La presenza di altri esseri, piante, animali è metonimica per la
supposizione eudemonica del New Age come comunione universale
(highest degree of integration in nature). Come esempi: il daino, la
colomba, ma soprattutto il leprotto. Quest’ultimo - Re della palude
- una specie di gynn lunatico, possibilmente, un muto alter ego11,
è, ancora, taciturne pulsion de vie, sottolineandone la velocità.
Spirito vitale ed erotico, può anche nascondere il complementare
thanatico; lo scorrere bisbigliato della vita e il sussurro del vento
nella palude. Egli pure ode l’inudibile, è inafferrabile ed invisibile...
Nell’Iconologia del Ripa, alla quale è interessante rimandare per certi
aspetti iconografici, citando l’antica autorità egizia, la Lepre è anche
segno di solitudine. Solitudine benefica, fonte di studio, possibilità di
mantenersi candido e puro12.
Altri elementi iconografici con connotati cosmogonici e mistagogici
riprendono un simbolismo archetipale arricchito di nuances e
significati personali.
A questo esempio le piccole sfere o il cerchio, manierismo
onnipresente, rimandano all’atomo princeps costituente la materia, al
vuoto, primordiale, roteante, fonte di mondi e di vita (nel Ripa la forma
circolare o il globo sono simboli d’eternità). Congruenti alle stelle nella
notte, indicanti le testoline degli scheletri-oiseaux13.
Oppure l’arco celeste o arcobaleno (ovviamente simbolo d’aria
nell’Iconologia) sposa forse la definizione New Age - “reminder
of a bridge that once existed between Henven and Earth and was
accessihle to all people.” Come pure sembra sposasse occultamente,
la materia ed il significato globale di quest’opera un’altra definizione
New Age legata alla nozione di Deepening - “reclaiming the dark
the fertile Earth where the hidden seed lies unfolding, the unseen
power that rises within us, reclaiming all the lost parts of ourselves”
(Starhawk).
Finalmente, un motivo-chiave, che rifugge ad un’accezione
superficiale, ma che si evidenzia alla lettura più accorta, è la Croce.
La Croce, simbolo eccelso di Morte e Resurrezione, compimento
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docenti
Poetico, rappresentativo e simbolico, peccando forse per un eccesso
di erudizione, il lavoro di Radu Dragomirescu contiene come
pervadente metafora quella della Morte, percepita parimente come
vita della Natura e cangiante interregnum, come decomposizione
(alchemica) e trasformazione degli elementi, come notturna riflessione
sull’Essere e sul Tempo.
Si partiva da “installate” Nature Morte2 (anni’70-80) - vanitas clamando
la deposizione della materia fiorente - grandi tavoli imbanditi recanti
frutta, agrumi e fronde (con varianti le teche di vetro cubiche o
ampie superfici cosparse di terra) - “o pus lentI” che marcivano,
macchiavano, defluivano gas, essiccavano finalmente, svanivano
nella realtà, lasciando macchie, tracce, ombre... E mentre svanivano
vi si ritrovavano, soavemente configurate, impronte fantasmatiche,
equivalenti delle “suprasensibili” proiezioni platoniche, nei disegni.
L’Opera si produceva con evidenza, illustrando la complessità
del processo di degrado, di deperizione, del morire nel reale e
del risorgere “altrove”. Pourissement materiale e sublimazione
proiettiva/ideale3. Fotografie e acquerelli, schizzi delle installazioninature morte, di trasposizioni di queste, di dettagli o di frammenti
macrotizzati sono serviti come strumentazione investigativa per la
finale, sofisticata elaborazione del disegno. Scarno, non estraneo da
trame geometriche di tipo rinascimentale, il disegno di Dragomirescu
è stato qualificato come “altamente innaturale (...) una schizofrenia
tra naturale e artificiale” (Mauro Panzera) o come “scheletro” e
“cenere” (Bonito Oliva). Non è un disegno ortodosso, anche se lo
potrebbe sembrare ad una superficiale ricognizione, giacché nutre un
doppio paradosso: da un canto la negazione della propria funzione
accademica - il disegno è pittura, affresco, installazione, work in
progress; da un altro canto, la negazione della propria sostanza:
seppure appariscentemente scarno ed esile, quasi immateriale, è
invece, di fatto, assai denso, palpabile, addirittura “costruito”, lavorato
in strati orizzontalmente sovvraposti di grafite4.
I disegni sono autonomi o parti integranti delle installazioni, piccoli,
medi o notevolmente grandi, su tela preparata, carta intelata, calco,
legno, evanescenti ma esibiti ovunque, insinuati e pervadenti allo
stesso tempo.
Talvolta vengono occultati, sovvraposti da altri, continuando a
esistere; il non mostrare mai tutto, il non spiegare mai tutto, l’intuito
ineffabile preso come regola d’intesa, come “frequenza d’ascolto”
implica esoterismo, iniziazione, il saper guardare...
Secondo l’opus alchemicum ma anche secondo Beuys: “Un’opera
è tanto più notevole quanto meno la si comprende. Quanto meno
è comprensibile tanto più è giusta. L’arte non è fatta per essere
compresa.” 5
La non-definizione sotto apparenze di esattezza, la dileguazione del
senso in tenue sfumature della forma...
...udire l’inudibile,
vedere l’invisibile,
toccare l’intangibile... sembrano essere gli esiti dell’arte di
Dragomirescu.
...cogliere la leggerezza (grafica) della Morte sotto la (disegnata)
peau de l’oeuvre.
La Morte sembra non-drammatica, non-angosciante; senza il pathos
dell’irreversibile, è trasformazione armonica, ciclica, naturale della
natura in Natura.
...il 13 del Tarot, il solve et coagula del rito alchemico; panthanatisme,
morte e vita come alternativa e complemento.
Sotto il segno della trasformazione - il lento, spettacolare marcire
dissolutivo-risolutivo...
L’o pus lento è il bacio lieve, soave della Morte positiva: “Death process of dissolving ourselves to become more harmonious on
another level” (Michio Kushi).
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docenti
Senza Titolo, 2010, installazione, materiali diversi, dimensioni ambiente più opera a parete
(Ho freddo, tanto freddo, 2010, grafite su tela, 97 x147 cm)
dell’universale ciclicità, memento mori e pegno del mito dell’Eternel
Retour. Ed è questo, forse, il senso fondamentale dell’opera di Radu
Dragomirescu... The paradoxical permanence of transience.. .
Note
1) “Quasiretrospettiva” informale, perché vi si ritrovano le principali tappe
del suo percorso artistico, qualché in parte liberamente interpretate: certi
lavori, rifacendosi a tappe anteriori, sono inventati sul e per il posto - il Museo
Nazionale d’Arte di Bucharest. Inoltre è questa la prima presentazione ampia
di Radu Dragomirescu in Romania, sua terra d’origine, dopo 25 anni di
assenza.
2) Originanti nelle nature morte napoletane, ma epurate, portate verso una
risoluzione astrattizzante, una “razionalizzazione” e un’artificiosità ricercata,
equiparando un’astrazione teorica del discorso visivo. Le teche cubiche con
frutta e agrumi in putrefazione (che ricordano anche i Kondensation swurfel
di Hans Haacke) richiamano alla mia attenzione soprattutto un reperto del
Museo di Capodimonte, la Grande Fiorera di mogano Empire, con un
elemento centrale una teca di vetro semisferica contenente frutta falsa; R. D.
ha trascorso a NapoIi, a Capodimonte appunto, i primi anni del suo soggiorno
in Italia, prima di stabilirsi a Torino. Non per niente a caso gli influssi e l’empatia
dell’artista con le “alchemiche” Napoli e Torino, le due città italiane di forte
tradizione esoterica. L’adottiva razionalità, tipicamente subalpina, fusa alla
vocazione mistico-esoterica - particolare per Torino, punto di riferimento per la
Cristianità e centro magico, vi si ritrovano, in R. D. assieme ad un pervadente
sentimento di comunione con la natura.
3) È da vedere l’ispiratissimo testo di Mauro Panzera, nel cat. di R. D.: Dove
(Solitario Sole), Loggetta Lombardesca, Ravenna, l996: “L’immagine di
Dragomirescu è il punto esatto del passaggio tra una vaporizzazione e una
mineralizzazione” (...) “L’immagine si forma tra vapori e minerali”.. Citerei
anche le annotazioni estremamente pertinenti sulla cromatica: “La sua
tavolozza è altamente innaturale. teorica. Il nero, il bianco, l’argento, ora il
rame a mosaico. E i pochi colori impiegati sono sommamente artificiali, anche
nei loro reciproci contrasti e stridori. Si direbbe che i colori di Dragomirescu,
come i suoni che le sue orecchie captano, viaggiano a frequenze improbe per
l’orecchio umano. E di ascolti sono disseminate le sue immagini (...) ogni sua
immagine è uno spazio d’ascolto...”
4) La critica si sofferma notevolmente sulla tipologia del disegno di R. D. v.: A.
Bonito Oliva, A. D’Avossa, M. Panzera, F. Poli, T. Trini, M. Vescovo. L’aspetto
“cenere”, nero-argenteo, grafite dei disegni va considerato anche come riflesso
della ceramica nera antica. Non è da trascurare la formaziene archeologica
dell’artista, implicante, ovviamente, un determinato tipo di cultura visiva e una
mentalità particolare riguardante la deperizione, la memoria. la temporalità.
5) J. Beuys: Arte e politica, in “Flash Art”, marzo ‘97.
6) Fu dedicata alla Cara Morte una mostra organizzata da Tommaso Trini,
nel ‘78, presso il Chiostro di Voltorre a Gavirate, con Luciano Fabro, Marisa
e Mario Merz, R. D. Inoltre, in Italia. vi si ritrovano, anche se rari, santuari
dedicati alla Buona Morte.
7) Nebbia chiara, tenue, sempre presente nell’atmosfera attorniante le colline
ad Aramengo, dove l’artista risiede (a questo proposito è da vedere il testo di
Piero Cavellini, dell’84, Il racconto delle Colline nere).
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Senza titolo, 2009, installazione dimensioni ambiente, Abazia Santa maria di Vezzolano
* Radu Dragomirescu nasce a Roseti (Romania) il 7 giugno 1944. Nel
1973 si stabilisce definitivamente in Italia. Frequenta l’università di arti
plastiche N. Grigorescu di Bucarest diplomandosi nel 1969. Partecipa agli scavi
archeologici sulla costa del Mar Nero, nella città di Costanza (Tomis),
Mangalia (Calatis) e a Ischia con la guida dell’archeologo rumeno Vasile
Canarache negli anni dal 1960 al 1965. Viene invitato a Parigi (anno 1968)
alla 6A biennale internazionale della gioventù ed ottiene il gran permio. Nel
1972 riceve il premio per la grafica dell’unione degli artisti rumeni. Nel 1984
viene invitato alla Biennale di Venezia - Aperto 1984. Vasto è il panorama
di esposizioni personali e collettive: 1971 Edimburgh Richard De Marco
Gallery - 1977 Quadriennale di Roma - 1977 Galleria La Salita -1979 Milano
Galleria dell’Ariete, Genova Galleria Forma - 1980 Kyoto Municipal of Art,
Modena Galleria Emilio Mazzoli - 1981 Wroclaw Museo di Architettura - 1990
Valencia Galleria Pasqual Lucas - 1982 Genève Galerie Marie Louise
Jeanneret - 1982 Torino Galleria Tucci Russo - 1983 Ravenna Loggetta
Lombardesca,1983 Brescia Galleria Piero Cavellini - 1984/1985/1987/1988
orino Galleria Eva Menzio - 1986. Ravenna Pinacoteca Comunale - 1988
Bucarest Museo Nazionale d’Arte della Romania - 1990 Torino Galleria In
Arco - 1991.
Alicante Centro Eusebio Sempre Palazzo Gravina - 1992 Warrenpoint (Northern
Ireland) Narrow Water Gallery - 1993 Ravenna Pinacoteca Comunale Santa
Maria delle Croci - 2001/2004 Torino Paolo Tonin Arte Contemporanea - 2001
Asti ex Chiesa di San Giuseppe - 2002 Cuneo Fondazione Peano - 2003
Moncalieri Foderie Teatrali Limone - 2005 Firenze ex Chiesa di San Carlo dei
Barnabiti - 2008 Firenze Accademia delle Arti del Disegno - 2009 Abbazia di
Vezzolano - Radu Dragomirescu è titolare di Pittura all’Accademia diTorino.
docenti
8) Sulla “natura insondabile e oscura” v. T. Trini: L’Arte sulla Terra. Note su
Dragomirescu (‘78), ma anche l’articolo di G. Verzotti: La Natura e la Morte
(‘83).
9) Che una tradizione vuole sotterrato nel basamento della Grande Madre
a Torino. Con riferenze al Graal v. il cat. di R. D. per la personale all’Istituto
Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica, Venezia, 1995-96: E o Silenzio e
anche la mostra al Narrow Water Castle (1992).
10) v. Verso il Paradiso, personale di R. D. alla Galleria Arco Multipli, Torino,
1990, cat. a cura di Sergio Bertaccini.
11) Autoritratto con lepre e stelle è un rarissimo esempio di personaggio
individualizzato. Come alter-ego funzionano pure I Gemelli, segno zodiacale
dell’artista, questa volta doppio impersonale, senza volto; facendo una
digressione: la sagoma dei Gemelli ripete, per una strana specie di coerenza
formale interna, quella delle primissime Colline di cera del ‘74, più tardi delle
Caveme, ampiamente commentate da Bonito-Oliva nel cat. del ‘79.
12) È da considerare l’inflazione odierna (Iudica e non) del motivo della
lepre, del coniglio e l’inserimento di Dragomirescu nella serie degli artisti
che lo sfruttarono: cominciando sempre da Beuys, passando per Koons e
Flanagan, fino all’Errotin le vrai lapin di Catte!an, per citare i molto noti.
13) Si veda sempre il Ripa per la figurazione analoga del Crepuscolo della sera.
Marcello Cinque
28
Costa Paradiso, 2009, cm 190x150x85, gomma spugna e guaina liquida
Qualcosa di nuovo (anzi di antico)
docenti
di Maurizio Coccia
Quando, anni fa, vidi alcuni lavori di Marcello Cinque, la prima cosa
che mi venne in mente fu una poesia di Giovanni Pascoli. Si trattava
de L’aquilone, di cui ho parafrasato l’incipit per dare il titolo a queste
brevi note (“C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, / anzi d’antico...”).
Il presente scritto, quindi, è l’occasione per approfondire
quell’accostamento, all’apparenza tanto stravagante. Perché,
obiettivamente, accostare due autori tanto diversi, è perlomeno
singolare. Ma andiamo con ordine.
Per cominciare, verifichiamo gli eventuali punti di contatto sul piano
– diciamo così – della concezione creativa. Le opere di Cinque,
effettivamente, sembrano ispirate da uno stupore quasi infantile. La
meraviglia del mondo è per lui un quotidiano rinnovarsi, sì che, nel
suo lavoro, possiamo parlare di “scoperta” e non di “invenzione”, di
qualcosa che già esiste nella realtà.
Chi ha studiato nei miei stessi, lontani anni, lo sa. Si tratta della
famigerata “poetica del fanciullino”. Un’interpretazione che mescola
elegiaco amor mortis e misticismo, Melodramma e Positivismo.
Però, quella definizione che, seppur stiracchiata, poteva adattarsi a
Pascoli, sicuramente è fuorviante per Marcello Cinque. Per capire
la differenza bisogna rifarsi alla sua biografia, più che allo stile.
Quel portato d’ingenuità, di facile trasporto emotivo, di intuizione
irrazionale, non può appartenergli. Perché essere napoletani non
è una condizione dello spirito. Ma è il risultato di un formidabile
percorso di adattamento. In quel tipo contesto, intelligenza, malizia,
autocontrollo, prontezza di riflessi fanno la differenza.
Bene. Il secondo aspetto da considerare, in questo passo a due
fra Pascoli e Cinque, potrebbe essere quello delle rispettive
caratteristiche formali. Vediamo l’esempio de L’aquilone. Questa
lirica, in sintesi, è un’esaltazione della giovinezza. Soprattutto della
leggerezza che la caratterizza. Attraverso una metafora, quella del
volo, che inserisce nel dettato qualche ambizione di sinestesia. Anzi.
Di più. Il ricorso a particolari strumenti retorici, in certi passi sfiora
addirittura l’onomatopea. Par di sentire, tra i versi, il frusciare delle
corde, il garrire dei tessuti.
Anche la ricerca di Marcello Cinque parte da un repertorio di forme
organiche, attinte dalla natura. Nei lavori più recenti, sembra persino
volerla sovvertire, la natura. Per creare un microcosmo personale,
dove le regole fisiche sono contraddette e si scompaginano i rapporti
A questa omologazione (che fa dell’anonimato
stilistico se non un valore almeno una premessa
metodologica), Cinque risponde tornando invece
a componenti grezze, sia materialmente che
concettualmente. Ispirandosi cioè ad un’iconografia
naturale, e manipolando materiali “primari”,
aspira a conciliare tradizione artistica e ricerche
della moderna industria. Originalità e qualità
manifatturiera del prodotto artistico.
Ecco la chiave. Il punto di intersezione che, forse,
mi ha fatto scattare l’associazione fra i nostri due
protagonisti. Lo slancio sperimentale di Pascoli,
all’inizio del XX secolo, si risolveva nella tensione
tra fissità strutturale e rinnovamento stilistico della
poesia italiana (e lo testimonia la sua influenza sui
movimenti letterari successivi). Anche per Marcello
Cinque – fatte le debite proporzioni – comporta
uno sforzo di mediazione tra patrimonio storico e
innovazione tecnologica. Tra immaginario quotidiano
e istanze di assoluto. Tra Nuovo e Antico.
Appunto.
29
*Marcello Cinque è artista e docente di Pittura
all’Accademia di Belle Arti di Sassari
*Maurizio Coccia è docente di Storia dell’Arte
Contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Sassari e
direttore del Centro per l’Arte Contemporanea Palazzo
Lucarini di Trevi.
Muschio bianco, 2007, 40x60 cm, gommaspuna e guaina liquida
Forma 1, 2007
diametro 50x30 cm, gommaspugna e guaina liquida
docenti
fra peso e volume. Tuttavia, l’uso del monocromo, e l’evidente
trasposizione del “segno” nella terza dimensione, testimoniano di
una tensione verso l’astratto, più che verso il reale.
Marcello Cinque modella l’anima in metallo di sculture “tattili”.
Nascono così corolle di fiori alieni, morbide coste mediterranee,
vulcani nani, coralli. Ultimamente, queste forme embrionali hanno
preso ad assemblarsi. I profili languidamente si intrecciano.
Assumono l’aspetto di sontuosi panneggi. O di stalattiti. O ancora, di
vortici e irruenti fenomeni meteorologici. Però l’aspirazione mimetica
è più una concessione ad un innato buon gusto, che un’esigenza
rappresentativa.
Mi sembra di capire che a Marcello Cinque non interessa proporci
una versione dell’Eden aggiornata ai tempi della sintesi chimica.
Piuttosto è un discorso attinente alla dimensione linguistica del fare
artistico. L’attuale panorama internazionale, infatti, presenta soluzioni
che prelevano i materiali da un campionario di forme, immagini,
concetti già esistenti. Questi poi, vengono rielaborati e metabolizzati
in una sorta di ready-made globale (e globalizzato), disinvoltamente,
senza ansie di primogenitura o autorialità
Antonio Bisaccia
30
Foto di Salvatore Ligios
All’Accademia di Sassari c’è un nuovo direttore
accademia di sassari
A cura di Elisabetta Longari
Chi è Antonio Bisaccia?
Credo di essere il meno adatto per rispondere a questa domanda,
anche perché
bisognerebbe intendersi su cosa vuol dire
“conoscersi”…. Detto questo, proverò ad abbozzare un breve ritratto.
Presupponendo esistente il mio “soggetto empirico”, descriverò
soltanto uno dei tanti “soggetti funzionali” che attiviamo nel corso
della nostra vita sociale. Innanzitutto nasco in un’altra grande isola, la
Sicilia, che mi ha dato l’opportunità di conoscere Leonardo Sciascia,
lettore dei miei primi e inediti racconti, negli anni del liceo. Cresco,
dunque, con l’idea che la letteratura e poi il cinema dovessero
necessariamente affondare in me i loro artigli. Laureato al primo
DAMS di Bologna (dove ancora insegnavano docenti del calibro di
Eco, Nanni, Squarzina, Maldonado, Barilli, Fabbri, Volli, etc…), ho
-da subito- la ventura di poter tenere dei seminari di Estetica presso
l’Università della stessa città sin dal 1993, grazie alla generosa
disponibilità intellettuale del Prof. Luciano Nanni e di tutta l’atmosfera
anceschiana che vi si respirava. E’ da allora che ho cominciato a
pubblicare volumi sul rapporto tra il cinema e le altre arti. Ricordo,
tra gli altri, Effetto Snow -Teoria e prassi della comunicazione
artistica (Costa&Nolan), con il quale ho vinto il prestigioso premio
“Filmcritica- Umberto Barbaro” e Punctum Fluens (Meltemi). Ho,
inoltre, collaborato, con quotidiani e riviste. La collaborazione più
strutturata è stata quella con la storica rivista Parol-Quaderni d’arte e
di epistemologia, realizzata nell’ambito dell’insegnamento di Estetica
dell’Università di Bologna.
Vice-direttore della stessa sin dal 2000, dal 2009 ne ho avuto in
affidamento la Direzione.
Ultimo dettaglio, non utile a tutti ma irrefutabile: ho 46 anni.
Hai scelto di insegnare a Sassari senza essere sardo, perché?
Non si sceglie di insegnare in un luogo in virtù di un diritto di nascita o
di residenza! Semplicemente accade. Come accade ad altri colleghi
che insegnano a Milano e non sono milanesi e così via. Ecco, diciamo
che l’essere sardo non era tra i requisiti richiesti.
Erano richiesti, piuttosto, i titoli artistico-culturali e professionali.
In ogni caso, in questi anni ho capito che è un assoluto privilegio
insegnare in Sardegna, dove il senso del possibile sposa una cultura
tra le più intriganti e dove la macchina raffinata della percezione
trascrive, balisticamente, il sentimento materico della visione.
Quale è stata la tua esperienza in tutti questi anni in
Accademia?
Quest’anno inizio il mio quattordicesimo anno qui a Sassari. Sono
arrivato in Accademia con molte aspettative e alcune di queste sono
state deluse. Ma, tra le delusioni, si è fatta sempre viva l’ossatura
semantica che sostanzia la ricerca. Ovvero quella ferma e non
meccanica intenzione di rendere visibile ciò che è semplicemente
celato. Provenendo da un ambiente universitario, ci ho messo qualche
tempo a capirne le logiche e i meccanismi. A volte, l’esperienza del
limite e dell’isola ha permesso di interrompere e decostruire tutte
quelle condizioni di fondo e afone che non avrebbero portato verso
circuiti accademici virtuosi. La mia esperienza è stata, dunque, di
grande operosità e crescita.
Cosa pensi della riforma?
Dell’idea di riforma penso un gran bene, in generale. Penso meno
bene se guardo alla legge di riforma 508/99. E’ davanti agli occhi di
tutti il suo essere una scatola ancora vuota o, meglio, uno scheletro
da rimpolpare, con i suoi regolamenti ancora latitanti: sebbene
qualcosa si sia fatto sugli ordinamenti didattici.
Manca ancora la fondamentale emanazione del D.P.R. sul
“Regolamento recante le procedure, i tempi e le modalità per la
programmazione, il riequilibrio e lo sviluppo del sistema dell’alta
formazione artistica musicale e coreutica, nonché per il reclutamento
del personale docente e del personale amministrativo e tecnico”,
ovvero almeno il 50% della macchina Accademia.
L’idea di fondo è da apprezzare, ma molte cose sono state tralasciate
con troppa leggerezza: ad esempio, lo stato giuridico ed economico
della docenza, ad oggi ancora relegata nell’area del famoso “ruolo ad
esaurimento”. Ecco perché qualche anno addietro fondai il C.N.E.G.E.D
(Comitato Nazionale Equiparazione Giuridico Economica Docenti:
www.cneged.org). All’inizio avemmo un’attenzione inaspettata da
parte del Ministro Moratti, che c’inviò una lettera in cui sostanzialmente
sottolineava che il rapporto d’impiego contrattualizzato dei docenti
ed assistenti delle Accademie di Belle Arti non può essere assimilato
a quello non contrattualizzato dei docenti universitari, di cui all’art.3,
comma 2 del D.Lgs 165/2001. Ciò posto, un’equiparazione giuridica
ed economica non può essere effettuata a livello amministrativo, ma
richiede un intervento legislativo. In tale direzione, negli anni, si
sono susseguiti vari disegni di legge bipartisan: ma nessuno ha mai
lasciato gli spazi ristretti delle varie commissioni cultura di Camera
e Senato. Diviene, ora, necessario riprendere in mano le fila del
Cneged per richiedere a gran voce ciò che i sindacati non possono
chiedere per noi: la decontrattualizzazione.
Come dovrebbe essere l’Accademia nel tuo immaginario
ideale?
Una domanda difficile, soprattutto per via del mio immaginario!
Comunque penso che l’Accademia dovrebbe imparare molte cose
dal passato. E “imparare” non vuol dire conservare. L’idea di metodo
non invecchia mai, ma spesso si è accecati dal nuovismo a tutti i costi.
A costo di togliere ossigeno anche allo stesso nuovo. Due parole
dovrebbero essere fondamentali per la poetica dell’Accademia:
ricerca e produzione. Se ricerca e produzione artistica vanno a
braccetto, quel luogo può essere chiamato Accademia. Purtroppo,
invece, notiamo spesso la dirompente conversione alla “maniera”:
che è il modo principe per uccidere le Accademie.
L’Accademia di Sassari, in tal senso, e per via della sua giovane
età anagrafica (20 anni), non si adagia e sfrutta la sua mancanza di
tradizione a totale vantaggio di una sensibile concrezione percussiva
dell’immagine.
Martino ha fortemente criticato questa riforma ed è stato
contestato per la sua posizione in difesa della specificità, tu
cosa ne pensi?
Le sue sono sempre state critiche costruttive e pochi hanno capito
che non si esce dalla specificità. Essa è la chiave di volta del
sistema Accademia. Uscire dalla specificità sarebbe come uscire dal
linguaggio. E’ l’eterna lotta tra “nomos” e “caos”. E Martino ha sempre
scelto l’esemplarità del “nomos” senza lasciarsi sfuggire le seduzioni
del “caos”. In tutto questo, specificità non vuol dire “recinto”. E’ su
La Sardegna rivendica da sempre l’Accademia nel suo capoluogo:
Cagliari, ti sembra giusto che quella città sia sprovvista almeno
di una succursale?
La nostra rivista, tramite Gaetano Grillo, che pure è stato dieci
anni fa vicedirettore da voi in Accademia a Sassari, un anno fa si
è molto attivato presso il Comune di Cagliari per questa causa. Il
Comune, con un testo congiunto fra maggioranza e opposizione
ha deliberato la richiesta di una succursale, sei a conoscenza
della cosa?
La Sardegna che conosco io è, invece, molto fiera di avere l’Accademia
a Sassari. La storia la conoscono anche le pietre. L’allora Presidente
Cossiga la volle qui, nella sua città natale. E solo dopo tanti anni ho
capito il perché.
Qualche anno addietro fui promotore, insieme al Consiglio
Accademico, di una richiesta per aprire una sede decentrata a
Iglesias, nel cagliaritano. Anzi, a dire il vero, fummo noi disponibili
a una richiesta del comune di Iglesias e della provincia di Carbonia
Iglesias. Comune e provincia deliberarono la loro disponibilità di spazi
e disponibilità economica. Qui a Sassari ci fu una levata politica degli
scudi. Ci ritrovammo innanzi a un’antica “dialettica” tra Sassari e il
sud della Sardegna, tanto che i politici locali gridarono allo “scippo”.
La cosa durò qualche mese finché non si capì che i tempi non erano
maturi e, soprattutto, che il famoso D.P.R. sul riequilibrio del sistema,
citato prima, non aveva visto la luce. In quello schema di D.P.R. è
segnato anche come normare eventuali corsi decentrati. E finché
non ci sarà, sarà impossibile pensare a eventuali allargamenti sul
territorio di quest’Accademia.
Fatta questa premessa, non posso che essere d’accordo con lo sviluppo
del sistema-accademia in Sardegna, che non necessariamente deve
passare per Cagliari, pur non escludendola.
La strada intrapresa, da qualche anno, dagli enti locali sassaresi
è quella di formare un forte polo artistico-culturale, in sinergia con
Università e Conservatorio, che dovrebbe avere il suo dato visibile
soprattutto negli spazi del restaurando ex-Mattatoio , del Museo
dell’Arte del Novecento e del Contemporaneo presso il Convento
del Carmelo, e del Museo Masedu qui a Sassari. Questa linea,
che affianca la nostra idea di un Politecnico delle Arti, è senz’altro
condivisibile: il Nord Sardegna come polo di attrazione per l’area
dell’alta formazione artistica e musicale.
Arrivando al punto, sono a conoscenza della nuova delibera del
comune di Cagliari, ma non ne conosco i dettagli. Ovvero, non so se il
Comune abbia intenzione di aprire un’Accademia privata, comunale,
o se abbia intenzione di attivarsi per avere un’Accademia Statale. Nel
primo caso, noi nulla possiamo fare se non assistere all’apertura di
un’ennesima Accademia privata. Nel secondo caso, nulla il Comune
di Cagliari potrà fare se non passando attraverso l’Accademia di
Sassari, come previsto dallo schema di D.P.R.
E, formalmente, l’Accademia di Sassari non ha ricevuto alcun
cenno.
Sulla questione se mi sembra giusto che Cagliari sia sprovvista almeno
di una succursale, potrei dire che non si tratta di scuola dell’obbligo,
in cui la dislocazione sul territorio è la priorità assoluta. Più che un
diritto potrebbe essere un’opportunità, ma diversa dall’attuale azione
di politica culturale di quest’Accademia.
Quali sono i programmi per questo nuovo corso?
Questo nuovo viaggio dell’Accademia di Belle Arti di Sassari non può
che essere quello di sempre, con una spinta davvero consistente verso
la sperimentazione e l’internazionalizzazione. Se posso sintetizzare
le circa 50 pagine di programma che mi ha portato all’elezione, posso
dire che l’Accademia di Sassari avrà sempre più un atteggiamento
glocal. Non il territorio come feticcio, ma come strumento per
focalizzare le inquadrature di altri spazi e di altre rappresentazioni
del mondo. La direzione da intraprendere è racchiusa nella formula
scritta sul nostro sito (www.hdemiass.org): Arte, Tradizione e Nuove
Tecnologie.
31
accademia di sassari
Che significa essere Direttore di un’Accademia fortemente
caratterizzata dalla direzione dell’artista Nicola Maria Martino
che è stato un riferimento forte per tanti anni a livello nazionale;
quale è stato il vostro rapporto?
A questa domanda potrò rispondere meglio dopo che avrò fatto
l’esperienza da Direttore. Posso però adesso affermare che molto
ho imparato sulle Accademie da Nicola Maria Martino, che ha forte
il senso dello Stato e dell’Istituzione. Ho collaborato con lui come
consigliere accademico e poi come consigliere d’amministrazione e
nessuno può negargli una lucidità tecnica e giuridica non comune.
Per ciò che concerne la sua Direzione didattica e artistica, non posso
che sottolineare il suo fermo intendimento a difesa delle cosiddette
“Scuole” tradizionali e l’altrettanta ferma intenzione a non ostacolare
le nuove tecnologie dell’arte (con aperture, ad esempio, di laboratori
di animazione digitale, di aule ipermediali, etc…). Non è un caso che
da un lato la nostra Accademia abbia avuto grandi riconoscimenti
oggettivi (leggasi premi etc…) e dall’altro sia stata la prima Accademia
cablata in Italia, e forse ancora l’unica totalmente cablata.
La mia Direzione, probabilmente, avrà nei contenuti e nello stile un’altra
impronta, com’è fisiologico che sia; ma, senza dubbio, conserverò di
quell’eredità consistente il dna utile allo sviluppo dell’Accademia.
quest’ambiguità, mai risolta, che hanno contestato Martino, ovvero
sulla lettura restrittiva della specificità: che è, invece, una sorta di
correlativo oggettivo delle opportunità che le Accademie dovrebbero
raccogliere.
32
PRE-VISIONI
Maria Santarcangelo
Una mostra della Scuola di Decorazione dell’Accademia di Bari
curata da Giustina Coda, Paolo Lunanova, Alfonso Pisicchio e
Giuseppe Sylos Labini.
accademia di bari
Di Giustina Coda
Il nutrito gruppo di giovani presenti nella mostra propone micro e grandi
storie, in ragionate dipendenze dal passato e in forti consapevolezze
delle suggestioni pittoriche del presente.
E’, il loro, un dialogo singolare col proprio tempo, un banco di prova,
su cui, tra diverse istanze, riassumono i molteplici linguaggi della
espressioni artistiche, liberi di affiancare e verificare tradizioni e di
declinare visioni già pronte per il futuro.
Con vivacità e ingegno, con linguistica libertà di esecuzione, con
originali testimonianze di tecniche e materiali diversi, dalle tele alle
carte, ai legni, agli acquerelli, agli acrilici, lo spazio è occupato con
proposte e formule che attestano lo studio, la ricerca e la riflessione
sul grande patrimonio della cultura artistica.
Allo spettatore è sempre richiesta una aperta interpretazione e
partecipazione per immagini che spesso non hanno un solo e unico
senso di lettura, ma accendono l’immaginazione in intense impressioni
visive, temporali, spaziali e conducono a un vivo coinvolgimento sulle
contraddizioni che caratterizzano la contemporaneità.
Tutte le opere, che si distinguono in differenza di espressioni,
inclinazioni, esperienze e sensibilità, conservano, tuttavia, un
peculiare accordo nell’approccio sperimentale e nell’attualità e
originalità del messaggio culturale attivando una serie di effetti
relazionali per trovare corrispondenze e sistemi di confronto. Liberi da
schemi precostituiti, non vincolati da alcun condizionamento, mettono
in mostra il loro lavoro con grande disponibilità perché solo così è
possibile trovare una identità per dialogare e trovare se stessi.
Il gusto della citazione, recuperato in un reticolo di forme minute e
raffinate, quasi ossessivamente ripetute nella eleganza di colori e
segni e nella finezza dei motivi decorativi di sapore klimtiano, associa
le opere di Schena e Di Leonardo. Diversamente Santarcangelo
combina i suoi arabeschi nostalgici con brani del Picasso più noto,
in un felice contrappunto tra la propria vitalità e quella del grande
artista, mentre Zambetta “copia” Pollock alla ricerca della propria
cifra artistica, inserendo nell’ opera una domanda per se stessa, in
uno stretto rapporto di tensione esistenziale, che nello stesso tempo
diventa risposta per lo spettatore.
A ricerche di tipo neo-concettuale, a operazioni sul linguaggio,
Volpicella affida la sua opera, consegnando poi questo compito alla
declinazione di rosa-ae. Storie di natura tradotte nella leggerezza
dell’acquerello, per Abiusi e Alterio. Percepiscono accenti e segnali
dal mondo animale e vegetale ricreando efficaci vibrazioni cromatiche,
la prima fissando con la macchina fotografica le variazioni della
corteccia di un albero restituite in pennellate nel manto di una zebra,
l’altra circoscrivendo i contorni immobili di una foglia. Bisceglia
ascolta il brusio del silenzio, trasportato sulla tela con una materia
bianca e ovattata, mentre nel grande acrilico di Piccolo appare un
universo armonico di gocce di colore libere nello spazio a simulare
immagini sbiadite di ricordi mediterranei.
Il gruppo formato dalle due sorelle, Marzulli con Linzalata e
Tarantini costruisce una scenetta ispirata alle fiabe attraverso un
giocoso percorso che mette insieme parole, segni, figure e colori “a
volontà”.Un fine uso del pastello ad olio permette a Campanelli di
trasformare la materia di una pietra preziosa in pura evanescenza
di luce, la forma in instabili riflessi coloristici, mentre, con la stessa
tecnica, Colucci racconta il difficile rapporto col mondo: la difficoltà
di comunicare, di relazionarsi con gli altri non arresta o impedisce la
libertà del pensiero.
Mariangela Volpe
Marinella Porcelli
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espressione della donna di oggi, statuaria e immensa quanto pudica
e nascosta sotto pesanti e preziosi abiti, quella di Porcelli è solo
evocata da un impalpabile velo bianco, leggera e poetica installazione
creata come uno spazio-riparo.
Una famiglia di bruchi di stoffa colorata divengono la forza sinestetica
di una memoria latente trasmessa dai molteplici tessuti: un’unica
vita nel racconto di tante stoffe. Ancora una volta Bagliato sceglie
l’ironia più leggera e sofisticata per confrontarsi con le possibilità
e le condizioni dell’uomo. La scultura di Vitucci occupa lo spazio
andando al di là di forme concrete e riconoscibili, in una cadenza
immaginativa che dà all’opera una plastica solidità.
Travalicano ogni realtà, in una rivalsa fantastica, gli acquerelli di
Miccolis. In una dimensione straniante la figura umana s’identifica
nel colore e si consuma in una libertà immaginativa raggiungendo
una cadenza favolistica.
L’astratta decorazione nera nella costruzione di Manfredi
accompagna il lento movimento dello spettatore in un coinvolgimento
visivo provocando un’illusione e una instabilità percettiva di sapore
optical.
Volpe smembra un corpo umano in sei cubi ubbidendo, da una
lato, ad una tradizionale lezione figurativa, dall’altro riproponendo la
stessa immagine in pixel diligentemente e accuratamente realizzati
con minuscole pennellate.
Una forza vitale e una fugace sensazione di magia ritroviamo
nell’opera di Mangini che rifugge da ogni forma immediata e
individuabile a favore di una disposizione astratta del colore di gusto
quasi minimalista.
Il tessuto pittorico di De Gennaro si organizza lineare nella sfera
luminosa degli ocra e degli azzurri, in un impulso cromatico che si
libera sulla superficie. Il grande ritratto di Zenzola è un divertente
omaggio al proprio maestro, una spiritosa caricatura che rivisita
in chiave ironica un’alta tradizione pittorica. Nell’installazione di
Carriero sono tracce della dignità dell’uomo, echi di frantumazione di
vita umana e di storia tragica: i colori, le etichette, le valigie rimandano
e sostanziano un percorso di memoria orribile. Da un processo di
mentalizzazione prende corpo il gran dio orientale di Di Vincenzo,
metafora di una abbondanza e una ricchezza che può diventare
fatale per l’uomo.
accademia di bari
Si animano, in sorprendenti slanci di sapore matissiano, le figure
di Scaringella. Un brillante e innaturale cielo d’Africa accoglie, in
una festa di colori, improbabili oggetti, piante e animali, sorpresi
nella assoluta fissità di una luce artificiale. E, nella danza, si liberano
anche le due figure di Lisi, in un movimento continuo e flessuoso che
arriva a coinvolgere lo stesso supporto.
Il versante ludico è attraversato dalle opere di Spagnoletta che,
in quattro piccoli quadretti, ricrea una atmosfera infantile e insieme
gustosamente ironica e accattivante. Crea personaggi fumettistici che
spuntano da macchie di colore e che fanno riflettere sul linguaggio
delle immagini di massa. Anche Zingaro usa la figuratività fumettistica
dimensionando lo spazio e ritagliandolo secondo un ordine in cui
comprime volti di attori e attrici famosi, super-donne o super-uomini,
scandendo un tempo indefinito, simbolo della vita.
Attenta alla poetica dell’infanzia, Schiavone racconta di bambini
prigionieri del nuovo mondo incapaci o ormai impossibilitati a vivere
una esistenza semplice e incontaminata.
Il dittico di Carrieri ha un preciso valore autobiografico: mostra
i suoi oggetti e i suoi vestiti, se stessa, in maniera aperta, come
si fa nei Social Network, li raduna, li confonde e li azzera sotto lo
smalto bianco e poi ne esprime tutto il dolore per la separazione. La
riscoperta della materia caratterizza l’opera di Minoia: uno spazio
organizzato razionalmente si configura di sostanza materica pittorica
in fisionomie di profili geometrici, fisici, catturati e definitivamente
bloccati nella suggestione.
Razionale anche la costruzione di Spizzico, un collage di forme
sottili che evoca nella sua sistemazione una studiata stabilità.
Declinazioni oniriche con utilizzo di colori brillanti ed immagini di gusto
pop nell’opera di Palmiotta nella quale non è prevista la presenza
umana, come per De Francesco, che fissa in un prodotto di serie,
traccia del lusso femminile, un ricordo di viaggio. Attolico costruisce
un luogo non-luogo con una presenza umana della quale è rimasto
solo un simulacro, un’ombra scura che vuole sottolineare il distratto
passaggio degli uomini.
“Segnaletica” l’opera di Testini che invita a guardare fuori, al di là dello
spazio espositivo c’è altro. Il dito tinto d’azzurro, metaforicamente e
senza alcuna intenzionalità drammatica, conduce verso il mare.
E se la narrazione di un corpo femminile è per Didonna una ironica
La varietà dei linguaggi è testimoniata dalla colorata maiolica di
accento cubista di Patruno, che sembra voler comunicare messaggi
autobiografici, e dai frammenti di corpo umano di terracotta di
Donatelli, che vengono inscatolati come reperti archeologici.
L’esplosione di geometrici modelli frammentati di Petruzzella
tagliano lo spazio, simbolo del caos e dell’inquietudine che invade
il nostro quotidiano, la stessa vita quotidiana che Balice propone,
al contrario, con la ricetta di una famosa torta al cioccolato come
segreto da conservare e custodire.
Una costante interrogazione dei punti di contatto tra arte e realtà
spiazza lo spettatore dell’opera di Vilei. Il virtuosismo della tecnica
pittorica raggiunge la sua pienezza in un intrigante gioco illusionistico,
la resa mimetica della realtà coinvolge l’oggetto in una godibile e
ingannevole visione.
La mostra che è stata patrocinata dalla Provincia di Bari è
documentata con un catalogo impaginato da Angelo Perrini
Michele Volpicella
*Giustina Coda è Docente di Storia dell’arte all’Accademia di Belle Arti di
Bari
contributi
34
A proposito di: c’è una generazione
di artisti docenti che………
Messaggero notturno, 2010, tecnica mista su tessuto, 50x50 cm
Di Stefano Pizzi
Caro Gaetano, Sull’ultimo numero di Academy, nel tuo fondo, hai
posto in luce quella che è la realtà del nostro Paese relativamente alla
formazione artistica, al mercato dell’arte, alla sovrastruttura culturale
e alla sconsiderata disattenzione che i governi, a mio parere di ogni
colore, hanno sempre dimostrato nei confronti di questi contesti ai
quali mi sento di aggiungere, non ultimi, i beni culturali e l’ambiente.
Come tu sai il sottoscritto, benché allora giovanissimo, è stato
uno dei protagonisti del movimento milanese e di cattedre ne ha
bruciate e ribaltate parecchie, diatribe anche violente con i baroni
ne ha condotte a non finire e non solo in accademia perché come
te e tanti altri giovani artisti in formazione pretendeva di sapere, in
quanto assetato di conoscenza. Grazie a noi e alle nostre lotte (che
uscivano dai muri di Brera e si contaminavano con le drammatiche
questioni sociali di quel periodo storico lasciando, ahimè, sui pavè
di Milano numerose vittime), l’insegnamento accademico è mutato
trasformandosi in pochissimo tempo da realtà semi-artigianale a
contestualità laboratoriale-universitaria. Questa straordinaria ed
accelerata metamorfosi ci ha permesso, a seguito dell’introduzione
nella didattica dei cosiddetti Corsi Speciali, di studiare con quelli che
erano tra i più lucidi e riconosciuti intellettuali del tempo: Roberto
Sanesi, Luigi Pestalozza, Francesco Leonetti, tanto per fare dei nomi
e gli artisti che per noi erano di riferimento: Fernando De Filippi,
Davide Boriani, Gianni Colombo, ecc.senza naturalmente scordare
l’apporto importantissimo di quei docenti che con noi condividevano
le istanze, i sogni e le speranze: Alik Cavaliere, Mino Ceretti, Vincenzo
Ferrari…
Insomma, per nostra fortuna, siamo riusciti a mettere in pratica
quello che chiamavamo “un uso parziale e alternativo dello studio”
scegliendo scientemente, cioè, di cogliere quei contenuti che
giudicavamo più appropriati alla nostra crescita culturale che
convergeva con un sentito e diffuso bisogno di stravolgere i decrepiti
stilemi dello stato sociale e di quella sua stravagante appendice che
si occupava della mercificazione delle opere d’arte scansandone i
contenuti e avvalorandone unicamente l’aspetto speculativo.
Ma poi, però, tutto è tornato come prima, quasi avessimo interpretato
il ruolo dei personaggi che animano le pagine del famoso romanzo di
Tomasi di Lampedusa.
Con la fine del movimento e lo svanire degli impianti teorici della
Nuova Sinistra (grazie soprattutto alla sciagurata politica della
sinistra ufficiale nei confronti di tutta la fenomenologia movimentista
nonché l’incresciosa scelta del “compromesso storico”, che innescò
in migliaia di giovani sentimenti di rabbia e sfiducia determinandone
la scelta della lotta armata), anche nelle accademie iniziò una fase di
stallo che perdurò fino ai primi anni ’80 e a Milano anche oltre.
Fu un po’ come se quegli anni, che vennero definiti di piombo,
avessero coperto con un velo le discussioni, le sperimentazioni e
la febbricitante e contagiosa voglia di partecipazione che ci aveva
contaminato nel precedente spazio temporale.
E’ proprio in questa fase di stallo che dilaga la ventata post-moderna,
sostenuta dal “pensiero debole” teorizzato da Vattimo e Rovatti e
accompagnata da un ritorno al privato di quanti i si erano spesi con
l’impegno ed i concetti: ricordi l’opera di Paladino del 1977 “Silenzioso
mi ritiro a dipingere un quadro”? Io rimembro bene quegli anni: il
ritorno alla pittura, la stagione del mostrismo, la “Milano da bere”,
li ho vissuti appieno spendendomi in ogni eccesso, fisico e morale,
perché nel mio intimo si era aperto un grande vuoto.E non ero certo
il solo in quella condizione.
Due accadimenti sono per me rappresentativi di quel vuoto in quella
stagione: il mitico “Muro” di Mauro Staccioli posto all’ingresso
dei Giardini alla Biennale di Venezia del 1978 che testimoniava la
distanza tra il mondo dell’arte e il sociale e la morte nel medesimo
anno di un insostituibile diverso, Pier Paolo Pasolini, che con i
relativi interrogativi e aspetti polemici quantificava l’enorme distanza
tra struttura e sovrastruttura.
Ebbene, oggi, a più di trent’anni da allora, nel corso dei quali nessun
esponente della politica italiana, si è mai preso la briga di prendere
posizione e di svolgere una seria, veritiera e storica analisi del proprio
passato prossimo, ma anzi concorrendo a una lettura revisionista
che adduce agli anni della rivolta, perché di rivolta si trattava, l’origine
di ogni male contemporaneo; e a seguito di una stagione giudiziaria
decisamente mal gestita il cui esito finale è stato quello di distruggere
una classe dirigente per sostituirla con elementi provenienti dal mondo
dell’impresa, o dai raggruppamenti populisti territoriali, la situazione
che già si presentava poco allegra è senz’altro peggiorata:
*Stefano Pizzi è pittore e titolare di Pittura all’Accademia di Brera dove ha
anche l’incarico di vice-direttore.
Riflessioni sullo stato dell’arte e
degli artisti a l’Aquila dopo il 06
aprile 2009
35
L’AQUILA, ABRUZZO, ITALIA: PARTECIPAZIONE
E RESISTENZA MEDIATICA
Di Sergio Nannicola
Sin dai primi istanti dalla tragica data che ha segnato per sempre la
storia, le persone e il territorio aquilano, gli artisti, anch’essi coinvolti
in prima persona nei crolli delle loro case e dei loro studi, si sono
chiesti nonostante le difficoltà personali del momento come potevano
offrire il loro contributo alla causa collettiva. La risposta semplice e
immediata è stata quella di continuare a fare ciò che di fatto stavamo
già facendo. Alcuni, con la propria rete di collegamenti hanno
cercato, come hanno potuto, di reperire beni di prima necessità,
tempestivamente arrivati da ogni luogo d’Italia, altri invece hanno
sostenuto e organizzato con grande determinazione iniziative di
vario genere.
Da subito è comunque apparso chiaro a tutti che dalla situazione in
cui si era caduti nessuno ne sarebbe uscito in tempi ragionevolmente
brevi, vista l’entità dei danni subita dalle abitazioni private e dal
patrimonio storico/artistico millenario stuprato da una interminabile
scossa durata circa trenta secondi (6.3 gradi Richter come dichiarato
dai sismologi di tutto il mondo e non 5.8 come invece fatto risultare
dall’Ingv italiano), e un tessuto economico e sociale oggi letteralmente
da rifondare.
Un territorio martoriato, smembrato da un eccezionale evento
naturale, ma anche dall’uomo con le sue discutibili scelte, sono ora
le questioni da considerare a futura memoria, quanto meno per non
ricadere negli stessi errori.
I cittadini aquilani, quelli che conservando nel tempo una capacità
di analisi lucida e obiettiva degli accadimenti, sanno che la ripresa
della loro esistenza e del loro territorio dipende dalla riconquista
dei luoghi della vita sociale e culturale, dal ripristino del patrimonio
artistico devastato dal sisma al rilancio di una economia attualmente
frantumata e pressoché inesistente. I danni ingentissimi inferti al
patrimonio storico della città (l’80% del patrimonio artistico è stato
contributi
- le organizzazioni capillari dei partiti e delle associazioni di massa
sono sparite cosi che i rappresentanti dei cittadini vengono ora decisi
“dall’alto”
- viviamo in una nazione, se lo è mai davvero stata, i cui abitanti
emigranti per secoli mostrano quotidianamente prove di generalizzata
xenofobia
- le libertà di stampa e di espressione vengono messe in
discussione
- i canali televisivi di stato, diversi canali televisivi privati, diversi
quotidiani e settimanali e case editrici diffondono un informazione
parziale e contenuti culturali che impongono valori etici e morali
basati sul successo economico e sulla capacità sempre e comunque
di apparire e rispondono per di più ad un unico proprietario che è
anche il capo del governo
- la creatività culturale, politica e strategica dei partiti di opposizione
è tragica così com’è deplorevole la loro compartecipazione alle
dinamiche di potere
- il mercato dell’arte è finalmente diventato un “sistema dell’arte” con
grande gaudio di chi come me i sistemi non voleva neanche cambiarli
ma abbatterli
- le accademie di belle arti poi, nonostante l’ingresso nel comparto
universitario, l’ampliamento dell’offerta formativa, i nuovi statuti
in vista di una futura ipotetica autonomia rimangono in attesa del
completamento della riforma sopravvivendo a stento grazie alla
capacità dei docenti, stranamente ancora motivati, di formare allievi
destinati (pochissimi) a svolgere un ruolo di provocatori o stupitori,
coordinati da una rete internazionale di curators, in un mercato
globalizzato, anonimo, decisamente pompieristico e asservito
all’economia.
Infine, volevamo il pane e le rose ma il pane sta iniziando a scarseggiare
e le rose sono state sostituite dalle antenne paraboliche.
CHE FARE?
Come tu indichi in chiusura del tuo scritto c’è oggi, all’interno
delle accademie italiane, un gruppo generazionale di artisti
docenti altamente rappresentativo, stimato e conosciuto in Italia
e all’estero sia per il personale percorso di ricerca che per le
proprie idee, nonché come sottolinei “con comuni identità di
provenienza”, che potrebbe farsi promotore di nuovi orientamenti
e future prospettive. Vogliamo come un tempo raccordarci?
Vogliamo finalmente e di nuovo rimettere in discussione quanto
stabilito dall’ ”Impero”, tanto per citare l’opera di un cattivo
maestro? Vogliamo, magari con una coraggiosa conferenza di
produzione che possiamo programmare perché no proprio a
Brera, porre le basi di una futura e costruttiva era?
Ho voglia di pensieri forti. Naturalmente senza scordarci della nostra
tenerezza. Hasta siempre.
Progetto di Installazione temporanea
LAVORO, PARTECIPAZIONE, SOSTENIBILITA?
contributi
36
distrutto o gravemente danneggiato), estesi su tutto il territorio
comunale e buona parte di quello provinciale, lasciano aperti molti
dubbi e frantumano le facili illusioni sul come potrà essere “l’Aquila”
del domani (raro, e forse unico esempio in Europa di città medioevale
interamente pianificata, con una griglia urbana tuttora presente). In
tale clima di incertezza, alcuni artisti nati in questa area geografica ma
anche di provenienza diversa insieme alle giovani presenze creative
che affiorano in diverso modo nel ‘cratere’, agiscono sul territorio sin
dall’inizio della tragedia, sperimentando modelli creativi e comunicativi
che danno vita a spaccati culturali prodotti nella gran parte dei casi
per necessità, con semplici mezzi di fortuna o con nuove tecnologie
e strumenti informatici avanzati, all’insegna di una partecipazione
popolare attiva rivolta alla soluzione del problema comune, aprendosi
ad un confronto interpersonale e intergenerazionale mai visto prima
da queste parti.
Salvare i monumenti e i palazzi storici, il tessuto urbano e quello
socio-economico della città insieme ai borghi che la circondano, sono
gli obiettivi dei residenti e le priorità chieste più volte a gran voce al
governo nazionale e alle istituzioni locali e regionali che gestiscono
o gestiranno nel tempo la questione. A questo però è necessario che
segua la conservazione della memoria collettiva e al tempo stesso
l’apertura al nuovo, affidando tali compiti non solo agli architetti o
ingegneri, ma anche agli artisti. Quegli artisti che con cognizione di
sorta possono oggi farsi carico di traghettare con la loro esperienza,
la loro visione e le loro opere, la città e l’intero comprensorio aquilano
verso una rinascita non solo edificata ma anche implicitamente
creativa.
Coinvolgere gli artisti e le forze attive di questo e di altri territori
nell’immane progetto di rinascita non deve essere un’elemosina
concessa dal governo centrale o dalle amministrazioni locali,
provinciali o regionali, ma un fattore di lungimiranza politica, sociale
e culturale, consci del ruolo e delle potenzialità che esprimono tali
energie.
Una città, un territorio, sono l’espressione stessa della forza
intellettuale e artistica che in essi si realizza, ce lo insegna la storia
e il nostro recente passato. Dare fiducia ai giovani significa quindi
costruire un futuro migliore per tutti, in cui si può trovare anche la
mera ragione di restare a vivere in luoghi disastrati come questi.
Se questa parte d’Italia si avvia a diventare il più grande cantiere
d’Europa, per esserlo veramente deve partire dai diritti dei
suoi abitanti, senza costringerli a subire direttive governative o
commissariali che si traducono sistematicamente in ordinanze
inefficaci e poco praticabili, il cui unico scopo sembra essere quello di
dilatare i tempi e ritardare i lavori di (Ri)costruzione per mancanza di
liquidità economica. Il governo e le istituzioni locali devono rendersi
conto che c’è bisogno di un cambio di rotta e di una volontà politica
nazionale che a monte scelga la vita e non la morte definitiva di
questo territorio. Territorio nel quale da tempo si chiede un confronto
vero tra le parti in causa, che porti certezza dei fondi (oggi erogati
solo teoricamente), pianificazione degli interventi, rispetto dei tempi
stimati per la ricostruzione, trasparenza, sostenibilità e partecipazione
nelle scelte, come chiedono da mesi gli abitanti di questa parte
d’Abruzzo, uomini e donne di cultura e i professionisti di tutte le
categorie, impegnati nelle decine di convegni organizzati in città e
come manifestano i vari comitati (primo tra tutti i giovani del 3e32) e
gli enti di salvaguardia, tutti con una buona ragione da rivendicare.
Se non si fa questo il rischio di rimanere impantanati è più che certo
(di fatto lo siamo già per via delle contorte lungaggini burocratiche
innescate ad hoc). Solo crescendo attraverso un dibattito serio,
serrato, aspro ma alla fine condiviso, forse riusciremo a risalire la
china. Provarci è sacrosanto, sperimentando nuovi modelli politici
che alla fine potrebbero davvero fare la differenza, come ci prova
sul versante culturale la fantasia creativa prodotta da queste parti,
il cui unico scopo al momento è quello di riflettere (a volte anche
ironicamente) sui problemi che affliggono il territorio, agendo da
catalizzatore tra le persone e costruendo giorno dopo giorno una
cassa di risonanza in grado di contrastare lo strapotere dei media
governativi. Una creatività spontanea e necessaria, per certi versi
stimolante e inaspettata che si manifesta nelle forme e nei modi più
diversi. Una creatività contaminata e contaminante, una sorta di arte
terapia popolare e trasversale che nonostante le difficoltà oggettive
del momento e le continue delusioni derivanti da un confronto
alterato e iniquo con i mass media nazionali, trova la forza di riuscire
in qualche modo a risvegliare le coscienze sprofondate da tempo
nel torpore più profondo, come dimostrano il crescente numero di
partecipanti alle manifestazioni (in ventimila hanno manifestato
il 16 giugno scorso a l’aquila per il ripristino repentino delle tasse
a quattordici mesi dal sisma, occupando anche l’autostrada A24 Roma/L’Aquila/Teramo in entrambe le direzioni di marcia. Quanti
in Italia ne sono venuti a conoscenza?) e alle assemblee cittadine
che si tengono sotto l’oramai indispensabile tendone di Piazza del
Duomo in piena zona rossa nel cuore del centro storico cittadino,
comprese le decine di altri interventi realizzati trasversalmente in
ruoli che difficilmente avremmo potuto immaginare prima, tutti con un
obiettivo comune da raggiungere: ‘riprenderci la nostra esistenza
e la nostra città’.
L’arte sconfina nel sociale e torna a essere ‘espressione concreta
della creatività’ riconquistando (almeno in questo pezzo d’Italia)
un compito inatteso, vista l’appartenenza di questa specie legata
a luoghi e funzioni che ci rimandano al clima rivoluzionario degli
anni venti del novecento, in una realtà sud americana in cui David
Alfaro Siqueiros, Rivera e Orozco, istruivano il popolo messicano
attraverso i murales.
Il sito: ‘www.3e32.com’; i ‘Comitati cittadini’; ‘Un Manifesto
per l’Aquila’ (I decalogo di regole per la rinascita); ‘Sangue e
cemento’ di M. Travaglio; ’Comando e controllo’ di A. Puliafito; il
‘Movimento delle carriole’; il Progetto: ‘ARTE SOTTO LE TENDE
– Laboratori creativi nelle tendopoli’; ‘Recomenza Domà – Artisti
Uniti per L’Aquila’; ‘http://www.diceche.com/’; ‘Guardarsi dentro
– Incontrarsi con le arti’ di G. Gentilucci; ‘La Deriva’ – Installazioni
artistiche; ‘Re_Place’ – Airò, Luci per l’Aquila; ‘Draquila’ di S. Guzzant;
‘www.laquila99.tv’ la prima wiki tv partecipata; ’J’Accuse!!!’ di
A. Gasbarrini; le ‘Analisi socio-antropologiche’ di A. Ciccozzi; i
‘Moduli e containers’ alternativi al progetto C.A.S.E del governo
proposti da ‘Laboratorio P.l.u.s.’ Politiche Locali Urbane Sostenibili;
‘l’Assemblea Cittadina’ organismo vitale di confronto democratico;
il ruolo della ‘Rete’ e della ‘Grafica multimediale’; il contributo reso
dai grafici nella comunicazione nel tradurre le parole in messaggi
visuali immediati, attraverso ‘volantini, manifesti e mega cartelloni’;
l’esperienza dell’Arte ambientale al servizio del popolo che la utilizza
durante il G8 aquilano per (ri)scrivere ironicamente sulla collina di
Roio il motto di Obama “Yes, we can!” (Si, noi possiamo), che diventa
“Yes, we camp!” (Si, noi “campeggiamo”), come per “S.O.S.”
(Sostegno all’economia, Occupazione, Sospensione delle tasse); i
”bambini (fantoccio) impiccati” da Cattelan a Milano che qui diventano
decine di manichini (penzolanti dai viadotti) suicidi, vittime delle
Tasse; poi altri progetti da realizzare: ‘Un monumento alla carriola’
inscindibile dai tre termini rivendicati: LAVORO, PARTECIPAZIONE,
SOSTENIBILITA’; il ‘P.A.T. Parco Artistico Territoriale’, e cento altre
iniziative culturali e sociali nate in rete e fuori dalla rete, di cui avete
sentito già parlare o forse no, sono oggi l’ossatura di una tesi che
vede l’arte, gli artisti e la gente comune sotto un unico ombrello,
quello del risveglio e della partecipazione alla realizzazione di un
progetto unitario non più utopico ma a portata di mano, come può
essere una rinascita collettiva auspicata più che legittima.
L’area del ‘cratere’ (così definita dai media la zona geografica
terremotata), è di fatto oggi un grande laboratorio sociale, dove si
sperimenta tra l’altro una resistenza mediatica estenuante ma
vitale, al momento unica in Italia, in nome e per conto del sacrosanto
diritto di continuare ad esistere, diritto che viene sistematicamente
negato alla popolazione attraverso una comunicazione governativa
distorta e praticamente a senso unico e ora, dopo la manifestazione
a Roma del 07 luglio 2010, osteggiata anche con la forza.
Se quindi perdura una certezza in queste latitudini, tale certezza
risiede nella tenacia, nell’impegno e nell’azione di chi ha reagito
fin dal primo istante dopo la tragedia e continua a reagire ora
contrastando una ‘cultura mediatica al cloroformio’, fatta respirare
alla popolazione terremotata durante e dopo la lunga permanenza
nei campi di accoglienza e contestualmente e costantemente anche
al resto d’Italia attraverso i Tg, sia delle reti di stato che in quelle
private, salvo qualche eccezione.
*Sergio Nannicola è artista e titolare di Decorazione presso
l’Accademia di Belle Arti di Brera, Milano
37
Prendersi cura dei luoghi della socialità urbana.
Di Pino Di Gennaro
Ho raccolto l’invito di Alessandro Gioiello, proposto in chiusura del
suo originale articolo pubblicato sul numero 4 del 2010 di Academy,
dove sollecita gli scultori a intervenire sullo stato delle scultura oggi; a
questo articolo hanno fatto seguito le “Note sintetiche sulla scultura”
di Pietro Coletta e l’interessante contributo di Gianni Caravaggio con
“Al principio”.
Ho sentito la necessità di intervenire pur non avendo l’intenzione, né
tanto meno la presunzione, di fornire in questa occasione risposte
esaustive al grande quesito “Cos’è la scultura oggi?”, ma avendo il
desiderio di contribuire con alcune riflessioni sul tema.
Credo che la scultura oggi non abbia bisogno di una sua ri-definizione,
poiché individuarne una nuova risulterebbe inopportuno e restrittivo.
Dal mio punto di vista, è preferibile lasciare aperto il libero confronto
tra gli inafferrabili sconfinamenti e le peculiarità delle modalità
espressive e ideali della scultura, anziché mantenere i tanto
rassicuranti e confortevoli limiti delle belle definizioni.
Sarebbe opportuno, invece, individuare una calzante definizione
proprio per tutte quelle modalità artistiche che si ibridano tra loro,
utilizzando contemporaneamente pittura, scultura, fotografia, grafica
e video.
contributi
Scritturamondo, 2009, Bronzo cm. 500 diam.
Progetto Scultura nella Città, Giardini I. Montanelli, Milano
Oggi la scultura deve prendersi cura dei luoghi della socialità e più
in generale della socialità urbana per creare luoghi d’incontro, per
favorire l’integrazione delle differenti etnie che popolano i grandi
centri urbani.
Prendersi cura degli spazi urbani per creare occasioni di forte identità
tra luoghi e cittadini.
Il prossimo evento dell’EXPO 2015 a Milano potrebbe essere
l’occasione per un grande coinvolgimento degli scultori, e non solo,
per invadere con interventi trasformativi tutta l’area metropolitana,
inoltre sarebbe indispensabile invitare in modo ufficiale tutte le
istituzioni artistiche, prima tra tutte l’Accademia di Belle Arti di Brera,
a fare sistema con l’evento.
Ritengo piuttosto che sia necessario, da parte di noi scultori, prestare
forte attenzione ai grandi temi ed eventi che coinvolgono le nostre
città, mettendo a disposizione le nostre competenze, da sfruttare
per migliorarne la vivibilità e la fruibilità, dal centro alle periferie e
viceversa.
Quei grandi spazi di parchi, piazze, luoghi di transito delle stazioni
ferroviarie e metropolitane, piccoli slarghi delle zone pedonali, incroci
della viabilità urbana e persino i non luoghi attendono di essere
completati con le nostre proposte progettuali.
Come dice l’urbanista Maurizio Carta su Il giornale dell’arte di aprile
2010, “possiamo immaginare la presenza dell’arte pubblica inserita
nei tessuti urbani sterili come una cellula staminale che, cambiando
il proprio DNA con quello dei tessuti, li rigenera, li vitalizza e produce
una nuova identità.”
Lo sanno bene i sociologi che la bellezza svolge un decisivo ruolo
inibitore contro il degrado urbano, e può essere utilizzata come
potenziale deterrente contro quei gratuiti atti vandalici che deturpano
i luoghi condivisi della socialità.
L’impegno per una funzione sociale ed etica della scultura chiaramente
non mi priva di quel rapporto intimo della ricerca, dopo quarant’anni
di esperienza sono ancora emozionato dalle rivelazioni spiazzanti ed
espressive dei materiali, emozione che mi riporta a quando, bambino,
modellavo l’informe materia della creta che vedevo trasformarsi, sotto
le mie mani inesperte e con mio grande stupore, in forme fantastiche
di pura energia.
La ricerca in campo artistico, in particolare sui nuovi materiali e sulle
nuove tecnologie, è da sempre finanziata unicamente dagli scultori
stessi: infatti questo nostro “mestiere” si sa essere da sempre molto
dispendioso in termini di spazi, attrezzature e tempo: infatti per
imparare il “mestiere” occorrono almeno 10.000 ore di duro lavoro
fisico e intellettuale.
L’amministrazione della città, nei secoli passati, viveva di un progetto
e di un sogno di metropoli in cui l’arredo urbano si trovava a essere
un elemento molto importante e qualificante per la sua storia. Oggi
invece, mostra una certa timidezza per scelte coraggiose, lungimiranti
e condivise, preoccupata più di aver cura del consenso piuttosto che
impegnarsi nell’offrire alle nuove generazioni segni di forte identità
culturale della contemporaneità.
Diciamo basta ai grandi investimenti a effetti speciali basati solo
sull’effimero e di puro consumo!
Occorre investire in proposte durature, che siano un valido
riferimento per le nuove generazioni, da educare alla sensibilità e
all’incanto, poiché il sapere e il conoscere ci consentono di capire più
intensamente che cosa sia il bello.
*Pino Di Gennaro è docente di Tecniche della Scultura e Tecniche espressive
per la terapeutica artistica all’Accademia di Belle Arti di Brera
38
exfabbricadellebambole
contributi
associazione culturale
via dionigi bussola, 6 - milano
377.190.2076
http://exfabbricadellebambole.jimdo.com/
Presidente:
Gustavo Bonora
Organizzazione e programmi mostre/eventi:
Rosy Menta
Ufficio Stampa&Relazioni Esterne:
Daniela Basadelli Delegà
Moira Ricci
Custodia Domestica, installazione video, 2004
La fotografia è un “calco” della realtà, ma dipende da chi la fa, ad
esempio il fotografo di Berlusconi non fa un gran “calco” della realtà.
Intervisa a cura di Elisabetta Longari
coperto dalla sabbia, fuori-scala, circondata da figure, come se
tu fossi protagonista degli scarti dimensionali di Alice nel Paese
delle Meraviglie o di Gulliver durante i suoi viaggi. Quanto la
letteratura credi che incida nel tuo laboratorio creativo anche a
livello inconscio?
Penso che la letteratura, come il cinema e altri media, m’influenzi
molto, come è normale che sia. in quel periodo facevo dei lavori in
cui il mio corpo era spesso fuori-scala, piccolo o grande, non perchè
mi rifacessi ad alice nel paese delle meraviglie, piuttosto per rendere
visibile la mia sensazione di disagio di fronte alle cose. nel caso di “a
lidiput” ad esempio io sono un gigante perché quando lavoravo come
“scattina” in spiaggia a lido di savio a ravenna, nonostante facessi
di tutto per farmi vedere e per interagire con le persone, queste mi
evitavano e non mi salutavano per paura che io chiedessi loro di farsi
fare le foto.
L’umiliazione che mi davano mi faceva sentire goffa e pesante, come
mi sono rappresentata in “a lidiput”: un gigante che tutti evitano e
fanno finta di non vedere.
Ricordo confusamente con un senso di rinnovato stupore
il primo lavoro che vidi realizzato da te ancora studentessa a
Brera ed esposto a Salon I: aveva a che fare con il corpo e con
la possibilità che danno le nuove tecnologie di attraversarlo,
mapparlo con l’immaginazione. Parleresti di quel lavoro, di
come l’avevi concepito e di come lo consideri adesso?
Il titolo è “faccio un giro e torno” ed è un lavoro del 2001. Ero in un
periodo in cui mi rendevo conto che il tempo e la lontananza dalla
mia casa in toscana mi stavano distaccando dalla mia terra. Avevo
fatto dunque un calco intero del mio corpo (un’esperienza allucinante)
percorso superficialmente da due strade in miniatura che partono da
casa mia in maremma (ai piedi), a Milano (alla testa). lo spettatore
doveva muovere la macchina sopra queste strade per vedere il
viaggio tra modellini dei paesaggi e tra dettagli di corpo. Adesso
questo lavoro, come gli altri precedenti a “20.13.53-10.08.04”, quello
dedicato a mia madre, fanno parte di un’epoca della mia vita passata
che guardo in modo molto distaccato. é un problema che non mi
tocca più come prima l’allontanamento dalla famiglia, dalla casa e
dalla terra, forse grazie al distacco fisico forzato che ho avuto da mia
madre.
Da buio a buio è l’ultima serie esposta al pubblico, ma è anche
l’ultima che hai realizzato? Lo spostamento sembra sempre
avvenire in un ambito coerente: dall’album di famiglia, che da
diario segreto diventa pubblico e contraffatto, all’idea della
catalogazione di anomalie che costituiscono una sorta di
galleria lombrosiana. La fotografia, che per nascita e natura è
deputata al “calco” della realtà, viene da te sottilmente trattata e
capovolta di segno.
Si è l’ultima serie che ho realizzato e ancora ci sto lavorando. In
questo lavoro la fotografia, il video, gli oggetti come pezzi di giornale,
insomma tutti i media che dovrebbero documentare, documentano
cose mai documentate.
Le storie di cui parlo sono arrivate a me fin da piccola come vere,
molte persone della mia zona dicono che sono vere, ma non ci sono
prove e io le ho realizzate. La fotografia è un “calco” della realtà, ma
dipende da chi la fa, ad esempio il fotografo di Berlusconi non fa un
gran “calco” della realtà.
Ricordo anche delle foto, degli autoritratti scattati quando
facevi il paparazzo estivo sulle spiagge: immagini con tuo corpo
Cosa ti resta dell’esperienza vissuta all’Accademia?
Mi resta soprattutto il ricordo di aver passato uno dei periodi più belli
della mia vita e molte persone (compagni e professori) che hanno
allargato il mio modo di vedere le cose. Tutto quello che ho fatto lo
devo a questo.
39
ex studenti
Il rapporto fra la fotografia e la morte. Il tuo lavoro è emblematico
da questo punto di vista. Alludo certamente al ciclo dedicato a
tua madre, nel cui vissuto ti sei introdotta anche quando non
c’eri proprio usando il supporto della testimonianza fotografica
e i “trucchi” del teatro e del digitale. Riusciresti a dire se nel
tuo lavoro nasce prima d’allora la percezione del legame
tra il linguaggio fotografico e la morte o se invece questo
riconoscimento è avvenuto al momento del distacco da tua
madre, nel tentativo di ripercorrerne la memoria?
Prima d’allora non mi aveva mai toccato l’esperienza della morte così
da vicino. i lavori precedenti a questo si riferiscono a esperienze di
crescita, al rapporto con la mia famiglia e con la mia terra d’origine,
all’ attaccamento e alla nostalgia del passato. il lavoro su mia madre è
stato fatto proprio nel momento in cui è iniziato il lutto, senza pensare
a qualcosa di concettuale o di artistico. era solo un desiderio, quello
di entrare nelle foto di mia madre, dove essa era viva e sorridente,
per starle vicino, per recuperare il tempo perso e per suggerirle di
stare attenta al suo futuro.
40
ex studenti
Da Buio a Buio, fotografie, video e installazione, 2009
MOIRA RICCI è nata a Orbetello nel 19.04.77, vive e lavora in Italia. Il suo
lavoro (fotografia, video, installazione) spesso d’impronta autobiografica,
indaga i temi dell’identità individuale e sociale, della storia familiare, della casa
e del legame originario con il territorio, intrecciando invenzione tecnologica a
riscoperta dell’immagine di appertenenza popolare.
MOSTRE PERSONALI: Da Buio da Buio a cura di Andrea Lissoni, a cura di
XING, Padiglione D’arte Contemporanea, Ferrara, IT, (2009); Interfuit. A cura
di Emanuela De Cecco, Artopia, Milano (2006).
MOSTRE COLLETTIVE: Realtà Manipolate. Come le immagini ridefiniscono il
mondo. Curata da M.Marangoni, F.Nori, B.Rogers, L.Sabau, Strozzina-Palazzo
Strozzi, Firenze , IT (2009); Hors Pistes 2009, Centre Pompidou, Paris –
France; Aspettando manifesta, Curated by Paola Tognon, Bolzano (Bozen),IT
(2008); a snake on a tree. Curated by Marco Antonini, White Box, New York,
NY (2008); Location1 project’s room. Curated by Nathalie Angles, Location1’s
gallery, New York, NY (2008); Invisible miracles, curated by A. Daneri - R. Pinto,
XIII CSAV Fondazione Antonio Ratti, Viafarini, Milano, (2007); Netmage. A cura
di Andrea Lissoni e Daniele Gasparinetti, Palazzo Re Enzo, Bologna (2007)
A cura di Fausta Squatriti
Nei primissimi anni ’60 a Milano il clima artistico era fervido,
l’avanguardia più praticata era l’informale, Guido Le Noci esponeva
il suo maestro internazionale, Fautrier, e i fratelli Pomodoro, che
allora lavoravano insieme, quasi in simbiosi, creavano le loro prime
sculture dentro alla poetica informale, cosa che per la scultura era
davvero inedita, scavando segni nella materia. I critici d’arte erano
pochi, e si dividevano tra i difensori della classicità, sia pure del
41
ex docenti
GUIDO BALLO
moderno, come Leonardo Borgese, che tuonava dalle pagine del
Corriere contro tutto, perfino contro il liberty, Lepore, Monteverde,
sono i nomi che ricordo. E poi c’era Marco Valsecchi, che firmò i
primi inserti dedicati all’arte e pubblicati dal nuovo quotidiano Il
Giorno, dove si spiegavano gli impressionisti, ancora ostici al grande
pubblico. Chi seguiva l’avanguardia che si andava formando giorno
per giorno era lui, Guido, Guido Ballo, che andava negli studi, che
scriveva anche poesia, che era parte integrante della ricerca che
freneticamente si andava compiendo negli studi milanesi, primo tra
tutti quello di Lucio Fontana in corso Manforte 23. Lui insegnava al
liceo artistico di Brera, ma i miei genitori mi mandarono dalle Suore
Orsoline, considerando Brera un luogo pericoloso, per una ragazza
di buona famiglia. Guido Ballo lo ebbi come professore di storia
dell’arte quando mi iscrissi alla Accademia, dove nel frattempo lui
era passato ad insegnare. Unico docente per tutte le classi, per
tutte le cattedre. Forse saremmo stati, in tutta l’Accademia, trecento
studenti o poco più. Quando per un malaugurato incidente Guido
dovette andare ad insegnare a Torino, fummo in molti a disertare le
lezioni del nuovo docente, del tutto inadeguate a quelle cui ci aveva
abituato il nostro Maestro, presentandoci poi soltanto all’esame. Ma
l’assenza durò poco, per fortuna, e feci in tempo a diplomarmi con lui.
L’auletta di storia dell’arte era, e c’è ancora, quella distaccata dentro
al cortile secondario, ingresso da via Fiori Chiari. Il riscaldamento,
come d’altronde quello delle altre aule, si effettuava con la stufa a
carbone.
Guido insegnava partendo dall’arte antica, Sumèri, Egiziani, Greci,
e avanti nei secoli, per i primi due anni. Negli altri due si passava
al moderno, cominciando dagli Impressionisti. Molta attenzione
Guido pose sulla ricerca di Klee e Kandinsky. Solo in quegli anni
si tradusse “La teoria della forma e della figurazione”, pubblicata
da Feltrinelli, leggendo la quale decisi per tempo di fare la mia tesi
proprio su Klee. Ma ricordo anche una lezione memorabile su Lazlo
Moholy Nagy, nome allora impronunciabile e sconosciuto ai più, che
Peppino Palazzoli della galleria Blu, allora in via Andegari, aveva
esposto, credo, per la prima volta in Italia. Così abbiamo imparato
la storia dell’arte senza buchi, senza salti, costruendo quel filo logico
che unisce la creatività all’esperienza e alla attualità dei mutamenti
storici.
Io mi sedevo sempre in prima fila, non volevo perdere neppure una
parola, prendevo appunti. Lui parlava a braccio, camminando avanti
e indietro nello spazio prospiciente la cattedra, le braccia dietro alla
schiena, il capo leggermente inclinato in avanti, alla ricerca di una
concentrazione estrema, che gli faceva dire il proprio pensiero con
voce talvolta emozionata ed emozionante, quando sollevava il capo
dalla propria introspezione a voce alta, per guardarci mentre diceva
– il filo sottile dell’inconscio – per comunicarci, a proposito dell’arte,
l’indicibile, quel mistero che lui, praticando la poesia in prima persona,
conosceva e soffriva così bene. Ed a quella frase univa il gesto della
mano, quasi un avvitamento delle dita magre, che faceva muovere
nell’aria a completare, appunto, l’indicibile. Perché l’arte si può
ex docenti
42
caffé Giamaica, dove ci chiedeva cosa
volessimo bere, e tutti, per scegliere
la consumazione meno costosa,
chiedevamo un caffé. E così, seduti
al tavolino, se in inverno intabarrati
nei cappotti perché la ex latteria non
era riscaldata, si parlava, se non
proprio da pari a pari, quasi, perché
il professore sorrideva, corteggiava le
ragazze, ci domandava, ci ascoltava,
ci invitava ai primi premi che in
quegli anni pullulavano in Milano
ma specialmente nella provincia. Se
c’era un premio in danaro, andava
a studenti talentuosi ma anche che
ne avessero bisogno. Noi eravamo
compiaciuti dalla attenzione che
Guido ci dava, coltivando la speranza
di entrare presto nel mondo delle
mostre, dei critici, dei collezionisti, ma,
almeno per quanto mi riguarda, con la
paziente attesa che questo avvenisse
per una inevitabile successione di fatti,
di generazioni, ma specialmente, di
merito. Poco contavano i giovani, era
ancora vivo Carlo Carrà, cappottane
blu scuro e basco, che ogni giorno,
con sua moglie, si avviava a sedersi
su una sedia nell’angolo della sua
galleria, L’Annunciata, in via Manzoni.
Ed era vivo Balla, che viveva a
Roma dipingendo ritratti. Il futurismo,
associato al fascismo, veniva tenuto
lontano come un appestato, e fu
proprio Guido Ballo a scrivere una
importante monografia su Boccioni,
che lo ripropose alla attenzione della
critica e del mercato. Quelli erano i
maestri, poi c’erano i “giovani” che
avevano cinquant’anni. Si affermarono
i quegli anni come classe emergente
gli artisti tra i trenta e i quaranta, poi
c’eravamo noi, che non contavamo
nulla. Tutto cambiò proprio nella prima
metà degli anni ’60, con uno sguardo
più informato alle avanguardie
internazionali,
che
sollevarono
Guido Ballo con Chighine e Scanavino
anche la critica dal provincialismo
cui le restrizioni culturali, retaggio
del fascismo e della guerra, avevano
costretto la cultura italiana.
spiegare, si deve spiegare, ma fino a un certo punto, oltre il quale si
Guido, come tutti lo chiamavamo, perché era lui, nel mondo dell’arte
deve usare l’intuizione, capire che, quel filo sottile dell’inconscio, se
c’era un solo Guido, amico degli artisti, ebbe una lunga vita. Con il
si spezza, cade l’opera. Questo era particolarmente evidente nell’arte
passare degli anni, insieme all’ ironia, cifra che non lo abbandonò
che si praticava in quegli anni, perché dopo, oggi specialmente, quel
mai, adorava scherzare, raccontare barzellette delle quali era il primo
filo si spezza di frequente, lasciando il posto alla sapienza, a volte
a ridere, fare battute, emerse anche la malinconia, a volte virata di
specialmente tecnica, alla speculazione intellettuale, alla costruzione
amarezza. Sfumature di un carattere complesso, spesso scontento,
dell’immagine che si rende comprensibile solo se sai tutto quello che
inappagato, così come mi pare sia inevitabile per un uomo come
le sta dietro. Quel filo cui Guido teneva tanto, quasi non esiste più, e
lui, che ha toccato con mano molti cambiamenti, probabilmente
l’artista e la sua opera si costruiscono nella officina della critica, non
perduto speranze. Presente con la propria storia personale di uomo
più interprete del mistero della creatività, ma spesso compartecipe.
e di poeta, di critico militante, come si diceva un tempo, quando era
Quando finiva la lezione, ci rilassavamo tutti, affollandoci attorno alla
per lui il tempo per esserlo, e poi sempre più osservatore, poeta,
cattedra. I più fedeli erano i ragazzi che, ancora studenti, formarono
sempre attento a quel – filo sottile dell’inconscio – che lo avrà fatto
il gruppo Miriorama, Colombo, Anceschi, Boriani, De Vecchi, Varisco.
soffrire ma anche che lo avrà reso sempre consapevole del contatto
Loro erano un poco più grandi di me, e mi facevano soggezione,
emozionante tra l’interiorità e la materialità dell’opera che alla
perché già erano certi della strada che avrebbero preso, strada
fine, uscendo allo scoperto, solidifica l’emozione e la trasforma in
innovativa, appoggiata dal più accademico dei maestri, e dal più
concetto.
capace di intendere i suoi geniali allievi, Achille Funi, e da Guido.
Io a casa facevo disegni informali, a scuola disegnavo la modella,
felice di potere studiare il segno in cui trasformare una forma data,
un corpo.
Guido, il professore, si avviava fuori dall’aula con il codazzo di
coloro i quali stentavano a separarsi dal Maestro, e si avviava al
43
Gianni Maimeri nel suo studio alla Barona
GIANNI MAIMERI
accennavo dei protoindustriali milanesi, ha creato proprio a Milano
una fabbrica di colori, sfidando le consistenze tecniche internazionali,
che sempre più si è affermata.
Maimeri tuttavia, pur assumendo quella iniziativa da vero imprenditore,
tecnicamente più che preparato, non ha mai abbandonato sorella
pittura, non è mai stato un industriale che dipinge, è sempre stato un
pittore di professione. Nulla ha potuto allontanarlo dall’amata pittura,
non l’attività industriale, non il fascismo, non la guerra. Fino all’ultimo,
all’inizio degli anni cinquanta egli ha coltivato quasi in segreto l’amata
pittura per cui un oggetto a lui consueto, un vaso, un bicchiere, fiori,
un angolo di casa, diventavano protagonisti di una poetica della
realtà, che non si è mai spenta.
Il vero valore di Maimeri, è una vita varia e anche movimentata, non
ha mai dipinto per imitazione, ma sempre seguendo un’idea, quella
di rappresentare le cose amate in un’atmosfera di poesia filtrata a
mezzo pittura.
Riassumendo i miei pensieri su Gianni Maimeri mi pongo molti
interrogativi sui perché questo ottimo, simpatico e chiaro artista
lombardo, non abbia ancora la fama che merita e troppo facile sarebbe
invocare la sua riservatezza, il fatto che egli sia stato riconosciuto
come un industriale dei colori, che egli sia partito come seguace
dell’ottocentista Emilio Gola, che infine egli si sia sviluppato come
un bravo continuatore della figurazione dell’Ottocento lombardo. Non
basta, ci sono altri artisti che hanno avuto una storia simile e che
sono molto più conosciuti di lui.
Come avviene che, quando la gente si trova in buona fede davanti
fondazione maimeri
Gianni Maimeri (1884-1951) aveva sedici anni quando sbocciò il
secolo XX. Era un tempo in cui a Milano, dove egli era nato, sorgeva
la grande industria moderna e dalle campagne giungevano gli
artigiani, e anche i contadini, inesperti che per poche lire venivano
portati davanti a una macchina che imparavano a poco a poco a far
funzionare. Via via che imparavano cresceva il salario ma anche la
responsabilità. Gli imprenditori si rendevano conto che l’acquisto di
cultura dell’operaio era un bene prezioso anche per la loro impresa
economica. I più intelligenti, come Luigi e Ferdinando Bocconi,
istituivano le università commerciali che fornivano i quadri alle
aziende. In questa società milanese che sta costruendo le prossime
fortune d’Italia, Maimeri entra in scena con i suoi ritratti, veri ritratti
senza quelle bizzarrie visive alle quali il terrore di soccombere alla
banalità del quotidiano ha suggerito a tanti artisti contemporanei che
vogliono sfuggire al sentimenti suggerito dal reale. Gli esempi sono
tanti, coprono tutto un secolo.
Fin dal principio Maimeri si è posto con coscienza fuori dalla moda
del secolo nuovo, il secolo dei Carrà e dei Sironi, rischiando così di
rimanere fuori da ciò che si chiama mercato, con le sue basi nelle
cosiddette Fondazioni che escludono tutto ciò che non corrisponde
alle mode mercantili, anche se autorevoli e in parte giuste.
Il percorso di Maimeri non ha conosciuto ingombri modernisti nel suo
sviluppo che abbraccia tutta la prima metà del secolo XX, sempre
informato alla pittura. Tanto egli è stato convinto dell’eternità del
percorso pittorico, che, nonostante tutte le scappatoie tecniche che lo
tradiscono, egli sentendosi diretto erede di quella tradizione cui prima
fondazione maimeri
44
Autoritratto giovanile, 1916
Olio su tela Oil on canvas, 50x40,5 cm
Non firmato, datato
alle opere di Maimeri, le apprezza con meraviglia, e poi se le scorda
perché non le trova nei bollettini delle aste o nei luoghi deputati alla
benedetta pubblicità?
Il problema è più generale e dipende come sono orientati gli odierni
studi di storia dell’arte. Maimeri ha sempre dipinto per necessità di
vocazione, come Ugo Bernasconi, come mio padre De Grada e tanti
altri. Ma la presenza di questi artisti è stata scarsamente avvertita
perché la critica ha seguito soprattutto la moda dell’effimero, di coloro
che per contare hanno seguito il chiasso dei tempi e con difficoltà
si è posta davanti a tutto il panorama dell’arte del periodo o onde
fare una scelta seriamente storica che costringerebbe a buttare a
mare tanti nomi di “mercato” e a studiare quelli che veramente hanno
rappresentato nella pittura un momento della vita e della storia. Ciò ci
rimanda all’Alto Medioevo quando nei monasteri si compiva un vero
“revisionismo” dell’arte greco-etrusco-romana.
Confidiamo che le nuove generazioni compiano questo necessario
“revisionismo”.
Noi modestamente ci limitiamo a dargliene spunto, come possiamo.
Tratto da
Il ritorno di Gianni Maimeri
Di Raffaele De Grada
Donne sul divano (la siesta), 1920
Olio su cartone Oil on cardboard, 71x103 cm
Non firmato, datato
45
fondazione maimeri
Vele nella laguna, 1928
Olio su tela Oil on canvas, 60,5x90 cm
Firmato e datato
dalla Cartella “La femme visible”, 1971
ADRIANO ALTAMIRA
allo Studio Giò Marconi
Milano
recensioni
46
Di Elisabetta Longari
La Galleria Marconi di Milano espone ancora una volta una selezione
di opere di Adriano Altamira, che, com’è noto, ha scelto di operare con
la fotografia e di riflettere sulle immagini e sulla loro fenomenologia
attraverso la fotografia (ricordiamo anche il suo impegno teorico che
si è concretizzato nel corso del tempo in una serie di collaborazioni
con quotidiani e riviste e nel recente volume La vera storia della
fotografia concettuale, Rossellabigi editore). Mezzo versatile, volatile,
ambiguo quant’altri mai, al tempo stesso calco della realtà e gioco di
prestigio, la fotografia per Altamira è sin dal principio un dispositivo
per vedere il mondo nei suoi lati più inattesi, nelle sue coincidenze
virtuose. Area di coincidenza è il titolo della sua più famosa serie di
opere, una serie potenzialmente infinita iniziata al principio degli anni
Settanta e portata avanti fino al 2009. Anche la più recente Visti per
caso, composta da cinque fotografie concepite e realizzate tra il 1995
e il 2009, si impernia sul principio della casualità, come è evidente
sin dal titolo. L’incontro fortuito tra il ferro da stiro e la macchina
per cucire sul tavolo anatomico, l’immagine di Lautremont presa a
modella dall’estetica surrealista, è sempre attiva, colma di potere
di seduzione e senza dubbio provocante meraviglia. Tra le opere
che Altamira ha selezionato per l’esposizione ci sono cinque tavole
estratte da Piccola Apocalisse (1999), una sorta di Atlante composto
da centosessantacinque immagini in sequenza, luogo in cui si sono
coagulati gli esperimenti fotografici dell’autore dai primi anni Ottanta
fino alla soglia del 2000.
Una mostra composta da una campionatura eccellente tra cui La
femme visible dei primissimi anni Settanta (1971), realizzata da
un autore appena ventiquattrenne: cinque lavori fotografici non più
“usciti” dal 1973. Da questa serie è stata scelta l’immagine dell’invito,
ambigua, intelligente e accattivante come tutto il lavoro di Altamira.
*Adriano Altamira è docente di Storia dell’Arte Contemporanea e Teoria
della Percezione e Psicologia della Forma all’Accademia di Belle Arti di Brera
WORDS
Un nuovo libro di
Valerio Dehò
Edito da MAT Edizioni
(via Confalonieri, 36 Milano)
WORDS è un lungo viaggio nei rapporti tra la parola, la poesia e le
arti figurative. Un viaggio che ha inizio con l’innata visualità di chi
scrive, con la necessità di superare le distinzioni tra l’immagine e il
linguaggio verbale. Una storia fatta di amori e di contrasti, spesso nel
nome di una complementarietà irriducibile, di un reciproco sopporto
finalizzato alla comunicazione, al superare le barriere delle lingue
nazionali, forse nell’inconscio desiderio di realizzare una lingua unica.
Dai carmina figurata latini fino a Barbara Kruger o Jaume Plensa.
Il libro è un punto di riferimento per le ricerche sui linguaggi logoiconici. Nomi eccellenti, ma anche scoperte si susseguono in una
ricostruzione storica di estetiche e di posizioni personali, mettendo in
luce legami magari poco appariscenti, ma anche riprese e risonanze
che si sono succeduti in particolare nel corso di tutto in Novecento.
WORDS è un panorama su di uno dei grandi temi aperti dell’arte
moderna e contemporanea che affronta ormai i problemi della
comunicazione digitale, delle ricchezze informative delle home page
e del dominante linguaggio verbo-visivo imposto dalla net-society.
Completano il volume una serie di utilissime schede su alcuni
protagonisti della ricerca tra parola e immagine curate da Gudrun
de Chirico.
* Valerio Dehò è docente di Estetica all’Accademia di Belle Arti di Brera
ALL’OPEN SPACE
DI CATANZARO
AFRICA IMMATERIALE,
UNA SIGNIFICATIVA
MOSTRA CON OPERE DI:
ARCURI, COSTA, DE MITRI,
PASCALI, VIOLETTA
E LA PARTECIPAZIONE ATTIVA
DI QUATTORDICI STUDENTI
DELLA LOCALE ACCADEMIA
DI BELLE ARTI
Un realista visionario:
FRANCESCO LEONETTI
A cui è stato appena assegnato l’Ambrogino
d’oro del Comune di Milano
Di Fausta Squatriti
“E allora, l’Ambrogino l’hai guardato? E’ proprio d’oro?”, domando
a Francesco seduto nella poltroncina all’interno della quale il suo
viso magro sembra esserne l’unico abitante, contornato dalla barba
un po’ rustica, sbucando dalla giacca di panno abbastanza pesante
per il clima settembrino. “Ma non lo so…”, e ride tra l’innocente,
l’interrogativo e l’ironico, cifra espressiva, quest’ultima, nella quale lo
riconosco pienamente. Gli occhi vivi, sorridenti e perfino dolci, di più
negli ultimi anni, appena un po’ smarriti. Ma anche prima, Francesco
è sempre stato, da che io lo ricordi, uomo entusiasmabile, senza
barriere, a suo modo innocente, totalmente disinteressato al denaro,
cosa che lo ha reso libero.
Ha l’aria leggermente annoiata per questo festeggiamento, dapprima
nella bella sala di Palazzo Marino, dove deve avere ascoltato
il discorsetto aggraziato e veramente affettuoso del sindaco,
tenendosene alla larga, distratto, come se la cosa non lo riguardasse
poi tanto, e poi nella più domestica riunione di coloro i quali sono
convenuti alla Fondazione Mudima, ospiti i cari compagni di tante
iniziative culturali create insieme a Francesco ed altri, Gino e Viviana
Di Maggio, ma anche tanti giovani ammiratori e forse curiosi.
Invecchiando Francesco si è fatto più mite, almeno all’apparenza. Si
permette di essere disinteressato a certi dettagli, e questo aumenta
la sua affettività, attributo questo che anni fa, molti anni fa, sarebbe
parso davvero contraddittorio con l’immagine che di Leonetti si
coltivava nel mondo delle arti e della politica, ambiti entro i quali lui
ha militato con grande coerenza fin dalla giovinezza.
Di lui si potrebbe dire che è il prototipo dell’intellettuale di sinistra
impegnato, arrabbiato, polemico, di quelli che, nati sotto il fascismo,
ne hanno patito la stupidità ancor prima della crudeltà, pur dovendo,
come lui, recarsi in guerra. La sordità da un orecchio di Francesco
deriva dalla esplosione di una granata proprio vicino a lui, nella
battaglia di Montecassino. Lo ha raccontato, ma senza mai soffermarsi
sui lati terribili di quegli anni. Francesco è un uomo incline alla felicità
assai più che al dramma.
La sordità parrebbe essere l’unico segno citabile, di quella guerra che
certo non gli deve avere fatto piacere combattere, da una parte che
non credo gli sia piaciuta neppure allora, giovane del sud cresciuto a
Bologna, laureato in filosofia e poi paleografo, infine bibliotecario.
Mi raccontava qualche tempo fa che avendo ricevuto ordini superiori
circa l’eliminazione di certi titoli sgraditi al regime, lui si limitò a
spostarne le schede all’interno dei cassetti, rendendo di fatto i libri
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recensioni
Giovedì 24 giugno - nell’ambito della stagione artistica 2009/2010,
promossa e organizzata dal Centro per l’arte contemporanea
Open Space di Catanzaro, con il contributo delle Cattedre di Pittura
e di Tecnica e tecnologia della pittura della locale Accademia di Belle
Arti e con il patrocinio dell’Amministrazione Provinciale e Comunale,
(Assessorati alla Cultura) di Catanzaro - l’inaugurazione della
mostra d’arte contemporanea “Africa immateriale, liquidità
della visione”, curata da Miriam Cristaldi, (critico e curatore
indipendente), con testo introduttivo in catalogo di Renato Barilli,
(critico, storico e direttore della Scuola di specializzazione di Storia
dell’arte contemporanea all’Università di Bologna) e con un testo
poetico di Paolo Aita (critico e curatore indipendente).
La mostra presenta opere di: Caterina Arcuri, Claudio Costa,
Giulio De Mitri, Pino Pascali, Antonio Violetta, artisti appartenenti
a formazione, generazioni e linguaggi visivi diversi, accomunati da
questo significativo progetto artistico-culturale dedicato all’Africa,
“capace di evocare - come afferma la curatrice nella presentazione in
catalogo - misteriosi fascini antropologici, radice dell’umanità, origine
della storia, “culla” del passato e - probabilmente - del futuro…Così,
per Caterina Arcuri la sanguigna terra africana può trasformarsi
in sottile pellicola capace di registrare il passaggio dell’uomo:
l’impronta, precaria pressione sulla sabbia, evoca presenze-assenze
trasformandole in tatuaggi indelebili sulla pelle dell’anima mentre
per Claudio Costa, attraverso processualità concettuali, riconosce
l’Africa settentrionale - coincidente con il profilo dell’Homo Erectus
- come splendida Opera d’Arte. Giulio De Mitri, sotto l’impulso
d’uno sposalizio mediterraneo, mette in campo vibrazioni liquidoenergetiche capaci di pervadere e sfondare spazi con iridescenti
densità aeree e preziose liquidità marine virate sui toni del bluazzurrino nei riflessi iridescenti del diamante. Pino Pascali definisce
questo luogo esotico con figurazioni ludiche stilizzate, stereotipate,
non esente dal mettere in guardia da possibilità turistico-speculative.
La visione di Antonio Violetta corrisponde invece alla insostenibile
sensazione di “leggerezza” governata da ampi e lunghi respiri virtuali
dove aritmiche estroflessioni/introflessioni creano moti sussultori
capaci di scuotere la pelle dell’Africa in intimi brusii dell’inconscio.”
Dopo l’inaugurazione della mostra seguirà la performance “Aprica,
giovani creativi per un collettivo percorso nell’immaginario”
con la partecipazione di quattordici studenti afferenti alle Cattedre di
Tecniche e tecnologia della pittura e di Pittura II. Un progetto didattico
realizzato e prodotto per l’occasione con diversificate espressioni
artistiche (dai suoni onomatopeici, alla pantomima, dalla maschera
al teatro della parola) che vedrà evocare l’Africa tra passato e
presente.
Per l’occasione è stata edita una pubblicazione per le Edizioni Open
Space, contenente testi di Paolo Aita, Renato Barilli e Miriam Cristaldi,
apparato iconografico e nota bio-bibliografica sugli artisti.
Fausta Squatriti e Francesco Leonetti
recensioni
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irreperibili, ma non eliminati fisicamente, e mi piace pensare a questo
sgambetto al potere ignorante, che chissà quanto lo deve avere
soddisfatto.
All’inizio degli anni ’60 lo incontravo qualche volta nello studio di
Arnaldo Pomodoro, o a casa di sua sorella Teresa, e lui, più grande
di noi due ragazze, già impegnatissimo nelle lotte delle opinioni,
si faceva ascoltare con autorevolezza. Non era facile, anzi, era
impossibile, discutere con lui, aveva la certezza delle proprie opinioni,
e non sentiva repliche da me, che ai suoi occhi non ero che una
ragazza borghese e come tale inevitabilmente viziata.
Ricordo una litigata quando osai dire che io non disdegnavo di
guardare la televisione, ritenendola parte della cultura pop, allora
emergente. Non lo avessi mai detto! La divisione tra sciocchezze e
cose serie, tra politico e non politico, era per lui capace di dividere.
L’ironia, credo, la acquisì dopo, con qualche delusione ideologica. Il
confine, allora, lo aveva tracciato con rigidità.
Per farmi valere come interlocutrice ci sono voluti degli anni, quando
gli chiesi la prefazione per il mio libro di poesia “La natura del
desiderio”, edito da Scheiwiller. Se Francesco entra nel tuo mondo
creativo, se ti stima, si riesce ad essere ascoltati, alla pari. Allora lui
diventa entusiasta, ammirativo, generosissimo. Ed eravamo arrivati
agli anni ’80, la visionarietà era già stata abbattuta, umiliata dagli anni
di piombo.
Dentro le ricerche più avanzate del dopoguerra, suoi compagni di
strada, tanto per citarne due, Vittorini, Balestrini, il Gruppo ’63, le
ricerche linguistiche, la contraddizione delle stesse avanguardie
storiche del ‘900, e la mediazione che le grandi case editrici potevano
offrire per pubblicare tali ricerche e renderle leggibili ad un pubblico
sperato vasto, Leonetti si trovava a proprio agio, anche se rimase
un solitario nella sua militanza di gruppo nel quale, credo, a stento
poteva collocarsi permanentemente, troppo sincero, mai diplomatico,
e difatti non lo fece, pur avendone avuto la possibilità. Gli premeva
di più coltivare la mobilità del proprio pensiero, in sintonia con gli
eventi storici, politici, culturali che via via ha attraversato nella sua
ormai lunga vita. Litigioso, intransigente, appassionato, andava più
d’accordo con Pasolini che con il potere delle case editrici.
Saggista anomalo, poeta, con l’andare del tempo sempre più poeta,
pensatore, e docente di estetica all’Accademia di Belle Arti di Brera,
cosa che gli permise di influire su più generazioni di studenti con
il suo straordinario fascino intellettuale. Aveva un modo di parlare
di filosofia, direi apodittico, esaltato ma lucidissimo, in una parola,
appassionato. Dico aveva, perché ora, da qualche anno, la voglia
di fare rivoluzione deve essergli passata, le belle speranze di
cambiamento, sconfitte dal conformismo, ancora una volta vincitore.
Il mio amico Giulio Carlo Argan, mi diceva, “So che è un’utopia,
ma quant’è buono il profumo della rivoluzione!”. Ecco, questo
profumo, così come un esteta come Argan lo aveva metaforizzato
a proposito della freschezza che si potrebbe ipotizzare nella fioritura
che contraddistingue le idee nuove, dunque rivoluzionarie, in
politica e nell’arte, da tempo non lo si respira più. Altri ripensamenti,
introflessi, si fanno necessari, dopo tanto sfoggio rivoluzionario,
spesso terminato in cenere. L’arte di oggi è più introflessa che
estroflessa, e non si potrebbe fare diversamente, avendo consumato
tanta energia dall’inizio del ‘900 fino a pochi anni fa, cosa che ci
obbliga a lavorare sulla masticazione dei miti del pensiero del secolo
scorso, spezzandoli, considerandone delle particelle, di volta in volta
ingrandite a dismisura, analizzate al microsopio della introspezione.
Leonetti, più sanguigno, più combattente di quanto non fosse il
Professore amante del neoclassico, del bauhaus e della ragione, mi
ha spesso detto di avere amato la lotta armata. Negli anni caldi a
Milano, a Parigi, a Roma, le sue frequentazioni, esplicite o segrete,
erano dalla parte della voglia imperiosa di cambiamento, di un
cambiamento che doveva avvenire in fretta, e per spazzare via il
vecchio e il guasto, si crearono molti drammatici errori, spreco di vite,
di idee. Leonetti, che non farebbe male ad una mosca, parlando della
“lotta” si esaltava. Prima che tutto precipitasse nel delitto, senza la
ragione di un progetto forte.
Comprensibile atteggiamento intellettuale per un uomo tutto sommato
appassionato, voglioso di atti eroici, non so quanto puramente teorici,
certo spavaldo, amante delle idee come passione e lotta, amante
delle donne, dell’innamoramento, del sesso, dei gesti significativi.
Incapace di drammatizzare sconfitte e mutamenti. Infatti Francesco
sa dove l’utopia si è infranta, e non se ne è lasciato deprimere. La
sua forza creativa lo conduce sempre avanti, verso nuove invenzioni,
riflessioni, rivoluzioni se non più politiche, almeno culturali.
Ricordo quando, negli anni ’90, insieme fondammo il “Teatro
dell’autore in scena”, altrimenti detto “Drammi corti”. Era un continuo
ripensamento, stesura di documenti teorici che andavamo a discutere
a pranzo, nella trattoria vicina al mio studio, nel quartiere cinese. Il
cibo più semplice, lo entusiasmava, tagliatelle con gamberi e rucola,
prendeva sempre quello. E parlando abbastanza ad alta voce, le
nostre idee erano ascoltate da quasi tutta la trattoria.
Eravamo un gruppo di artisti, poeti, critici d’arte, e scrivevano piccoli
pezzi teatrali, mettendoli in scena senza l’intermediario dell’attore.
Riuscimmo a fare parecchio, andando anche al festival “Ricercare” di
Reggio Emilia, alla Fondazione Mudima parecchie volte, a Venezia,
e ancora a Milano per i “Teatri ‘90”, alla Rotonda Besana.
Leonetti, Squatriti, Ceresoli, Fiorani, Dorfles, Nove, Voce, Scarpa,
Cepollaro, Balestrini, Castaldi, Varisco, Occhipinti, Isgrò, Torri, e
altri più di passaggio. Rivedendo ora i filmati di quei nostri teatrini,
riconosco che, oltre ad esserci non poco divertiti, abbiamo fatto
anche un buon lavoro, con mezzi che non fossero le nostre stesse
capacità, gli oggetti portati da casa, le luci improvvisate, scenografie
minimaliste per forza, e regia in parte autoctona, con la guida della
giovane Marina Spada.
Ricordo quando decisi di fare costruire una pedana di legno che
poi dipingemmo di nero, per sopraelevare la scena, nell’angolo del
primo piano alla Fondazione Mudima. Ah, bravissima, ecco quello
che mancava, giusto, la pedana!! Tu ti svegli una mattina, e inventi
che ci vuole la pedana! E tantissimo gli piacque l’idea di reggere
i testi che leggevamo, proprio come i giornalisti in televisione, non
avendoli imparati a memoria per principio, su tavolette di alluminio
anodizzato da me fatte costruire! Se fosse stato per lui, il teatrino lo
avremmo dovuto continuare ancora a lungo, e ci rimase male quando
con Eleonora e Jacqueline gli dicemmo che nessuno di noi poteva
stabilmente cambiare lavoro, e che il teatrino doveva considerarsi
un episodio.
Un entusiasmo che accompagna Francesco in tutto quello che
fa, anche adesso che scrive bellissime poesie che parlano senza
pudore e allo stesso tempo con fragranza, della vecchiaia, che lui
affronta, con lo strepitoso aiuto di Eleonora Fiorani, compagna di
un lungo percorso di vita, dalla quale lui ora sembra dipendere in
tutto, con la leggerezza che si addice ad un anziano maestro le cui
invenzioni sono, suo malgrado, sprofondate e confuse nella mischia,
pur rimanendo testimoni della libertà creativa.
Un segno nella polvere.
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10-02-2010
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DAI POTENZA
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modello Porsche dipinto da Alessandro Gedda, concept e photo Claudio Sforza
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