Nota dellÊAutore
Questo romanzo, largamente autobiografico, non è un racconto di avventure o di viaggi, non è una storia dÊamore o di guerra, non è un libro di architettura o di archeologia e non è un
trattato filosofico - religioso, ma è
semplicemente la storia di un uomo
comune che, per un susseguirsi di circostanze, si è trovato ad affrontare
situazioni strane, imprevedibili, liete e
tristi, spesso pericolose.
Quello che è successo al protagonista
poteva succedere a chiunque, nato
nella prima metà del secolo scorso,
abbia affrontato le vicissitudini di un
dopoguerra che non vi è mai stato:
guerra fredda, Vietnam, Corea, terrorismo, rivoluzioni, trattati non rispettati, Medio Oriente, Somalia, Kosovo ⁄
La lista è lunga e continua ad allungarsi, forse non si chiuderà mai.
Il protagonista vive questi avvenimenti
che si intrecciano, e spesso interferiscono, nella sua vita privata, sorretto
da una Fede profonda, non incrinata
dai fatti tragici, sanguinosi, drammatici, spesso orripilanti nei quali, suo malgrado, è coinvolto.
Al suo fianco vi è una donna coraggiosa, saggia, cattolica convinta, che gli è
sempre accanto, nei momenti della
gioia ed in quelli del dolore, nello sconforto e nellÊesaltazione, sempre pronta
a sacrificarsi per lÊuomo che ama.
Nel romanzo molti nomi sono stati
cambiati, molti fatti sono stati
„romanzati‰, alcuni addirittura inventati ed il lettore potrà facilmente intuirne i motivi.
Nonostante ciò il racconto è vero, perché ciò che vi è narrato avviene tutti i
giorni, anche se noi non lo sappiamo o
fingiamo di non saperlo.
˚ la storia vera di uomini comuni, uguali a tanti altri, che hanno scelto di
servire la Patria ed i loro concittadini
in silenzio, rinunciando a se stessi per
il bene di tutti, al servizio della Giustizia , della Libertà e della Pace.
Per loro, per i nostri militari, per tutti
quelli che, in pace ed in guerra, in Italia o allÊestero, dal 1901 in Cina, prima missione allÊestero delle Forze Armate dopo lÊUnità dÊItalia, ad oggi, si
sono sacrificati e sono morti in nome
degli ideali di Pace, Giustizia, Libertà,
Uguaglianza per il progresso ed il bene di tutti, ho scritto queste povere
righe.
Mi auguro che il loro esempio sia una
guida sicura per le nuove generazioni,
affinchè il nome dellÊItalia sia sempre
amato, stimato e rispettato da tutti i
popoli.
LÊAutore
Per Aspera
ad Astra
IX
tutti i gusti ma, se devo essere sincero,
preferisco del riso lessato ad un’improbabile bistecca della mandrie texane!
Restai alcuni giorni a Flagstaff, indeciso se entrare nella Contea di Navajo da
Kayenta e Page o da Holbrook e Winslow, in pratica se visitare prima il
Gran Canyon e poi il Canyon de Kelly o
viceversa; consultai mappe, percorsi,
orari, strade, luoghi di sosta, ecc.
Al Days Inn, l’albergo che avevo scelto
perché si trovava sulla storica route 66,
i pareri del personale erano discordi, a
seconda che si trattasse di “visi pallidi”
o di Navajos: alla fine decisi di testa
mia, avrei noleggiato una macchina e
mi sarei recato ad Holbrook, fermandomi lungo il percorso per visitare, cosa fattibile in una giornata, il Meteor
Crater, il Wupatki National Monument
Indian Ruins, e la Pietrified Forest and
Painted Desert (in spagnolo: Deserto
Pintado) National Park.
Per quanto riguardava il ristoro durante il tragitto la cosa non mi preoccupava, la route 66, strada che avrei
seguito per arrivare ad Holbrook, è
prodiga di stazioni di servizio con relativi motel, puebliti semideserti ma forniti di General Store dove puoi acquistare di tutto, ampie piazzole di sosta
dove puoi fermarti per “pranzare al
sacco”.
Su questa strada non c’è rischio di perdersi: ogni tabella segnamiglia, ogni
indicazione, ogni (per fortuna pochissimi) cartellone pubblicitario porta scritta, a caratteri cubitali, la fatidica dicitura “HISTORIC U.S. 66”!
Parto di buon mattino e dopo poche
miglia trovo la prima indicazione: Wupatki NM (National Monument); qualche miglio fuori dalla 66 ed ecco le rovine di un antico pueblo costruito intorno al 1100 dagli indiani Hopi, provo
una strana sensazione: come sentissi
delle voci lontane, impercettibili, che
quasi parlano all’anima: è certamente
una suggestione dovuta nel guardare
queste antiche e dirute costruzioni di
arenaria, ma ora capisco perché gli
Hopi reputino questo luogo “sacro” e
CAPITOLO XVIII
Phoenix, dove mi fermai…
Phoenix, dove mi fermai quarantotto
ore, il tempo strettamente necessario
per riposarmi dopo il lungo viaggio
aereo, stabilire quale mezzo mi convenisse prendere per recarmi a Flagstaff
e, una volta sceltolo, saltare sul primo
treno in partenza, è una città praticamente invivibile, nel 1900 contava 500
abitanti, dato che il clima non si può
neanche definire desertico, in quanto le
precipitazioni atmosferiche non superano annualmente i 90-100 mm. di
pioggia (la soglia per indicare una zona
desertica è 250 mm. annui); nel 1911
una diga sul Salt River rese coltivabile
una piccola parte del territorio, nel 1926 arrivò la ferrovia, solo a metà degli
anni ‘50 il Central Arizona Project risolse il problema idrico, insomma una
città che vive solo grazie all’aria condizionata.
Dai comodi vagoni della Atlantic and
Pacific Railroad, veri salotti su ruote, si
scorgeva un paesaggio arido e stepposo
(secondo una delle fonti etimologiche il
nome Arizona deriverebbe dallo spagnolo àrida zóna) solo a tratti intervallato da distese di cactús o di pinastri
contorti dalle intemperie.
Mano mano che si sale (arriveremo a
quota 2.200) il paesaggio cambia radicalmente: Flagstaff è al centro di una
stupenda foresta di conifere che rendono il clima simile a quello delle nostre
valli alpine (o almeno mi è sembrato
tale; è vero che venendo da Phoenix
avrei trovato gradevole anche il clima
dell’equatore!) e, a differenza di molte
altre cittadine dell’Arizona, è ben tenuta e, grazie all’università, ha una movida che non è quella stereotipa e prevedibile data dal turismo.
Localini frequentati da giovani, orchestrine che suonano ottima musica, e
non solo country, permettono di passare serate piacevolissime.
Se poi si ha voglia di rivivere un po’ di
“Old West” basta allontanarsi di poco
da Flagstaff e si trovano Saloon per
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quella luce, sembrano colonnine di fuoco; ad uno dei vista point mi avventuro
in mezzo alle dune, ma ben presto devo
desistere: nonostante l’ora serale ed il
vento il calore è soffocante, devo risalire sulla jeep climatizzata per riprendere fiato. Riprendo il cammino, incontro
due stop point in corrispondenza di rovine di pueblos databili intorno al 1200
÷ 1300 circa, proseguo ed eccomi nella
Foresta Pietrificata: un susseguirsi di
resti pietrificati di una foresta fossile, i
ranger del parco esercitano una stretta
sorveglianza, dato che i visitatori provano spesso a portar via pezzi d legno
pietrificato come souvenir, anche qui
tutto il mondo è paese!
Mi godo il tramonto dalle Blue Mesa,
colline simili alle dune del painted desert, ma qui i colori dominanti sono il
blu, il grigio ed il marrone che al tramonto si mescolano creando un colore
sconosciuto e stupendo, rimango immobile, dimentico perfino di scattare
foto, ma il sogno si interrompe: i ranger ci avvertono che dobbiamo uscire!
Di nuovo sulla 66, 40 minuti d’auto ed
eccomi ad Holbrook, Al Best Western
Adobe Inn; mi addormento con gli occhi ancora pieni di quel tramonto incantevole.
vi tornino periodicamente, come in pellegrinaggio.
La visita è breve, circa quarantacinque
minuti: qualche foto, acquisto di cartoline e di un opuscolo illustrativo e poi
di nuovo in macchina, ancora qualche
miglio ed altra deviazione, questa volta
è il Meteor Crater, un enorme cratere
dovuto certamente all’impatto, avvenuto migliaia di anni fa, di un meteorite con la terra; inutile scattare foto,
neanche il più potente teleobiettivo con
grandangolo riuscirebbe a catturare,
sia pure parzialmente, l’immagine del
cratere; meglio comprare una pubblicazione esplicativa che, prima di tutto,
ci comunica che nel Meteor Crater la
NASA ha addestrato i primi astronauti
destinati all’esplorazione della Luna.
Lascio il cratere e mi immetto sulla Interstate 40, la superstrada che ha soppiantato la 66, per recarmi all’appuntamento clou della giornata: Deserto
Dipinto e Foresta Pietrificata.
Prima di arrivarvi mi fermo ad una
steak house per mandare giù un boccone, arriverò tardi ad Holbrook, perché
intendo fermarmi fino a sera nel Parco, per godere il tramonto.
Arrivo al Visitor Center del Deserto
Pintado (siamo ai confini col New Mexico, Gallup è a due passi, ma tutti mi
hanno sconsigliato di andarci, è solo un
chilometro di negozi di souvenir, bar
ed autorimesse, una vera delusione per
chi, come me, pensa di trovare un città
dell’Old West, e lo spagnolo è più usato
dell’inglese) intorno alle 15 per scoprire che per la visita del Parco ho solo
tre ore, la chiusura è infatti alle 18, pago l’ingresso e chiedo una mappa dei
vista point, mi faccio indicare i più interessanti, non avrei il tempo di visitarli
tutti, e parto a razzo: lo spettacolo è
indescrivibile, affascinante, meraviglioso, emozionante, non esistono termini
per descriverlo.
Il sole, quasi al tramonto, illumina trasversalmente le morbide dune giallastre, puntecchiate di un timido verde,
colorandole di un rosso tenue, sottile; il
vento crea dei piccoli vortici che, sotto
♦
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di Navajo rappresenta la Nazione!),
quando gli dissi che volevo cercare di
conoscere il più possibile il diné navaho
(il popolo navajo) andò in visibilio: conoscevo la loro lingua!; dovetti disilluderlo, quelle erano le uniche parole che
sapevo, e le sapevo perché un compagno di viaggio, un professore navajo
che tornava a casa, visto il mio interesse, mi aveva accennato qualcosa sulla
storia navajo, sui loro usi e costumi e
sul forte senso identitario che li distingueva.
Ci congedammo con l’impegno da parte sua di prepararmi un itinerario personalizzato (si informò per sapere se
avessi avuto difficoltà a passare eventualmente qualche notte in tenda,
quando gli dissi da dove venivo e cosa
avevo fatto fece un largo sorriso e si
stropiccio le mani, per farmi conoscere
al meglio la Nazione Navaho, luoghi
che io conoscevo solamente per le avventure, fantastiche e fantasiose, del
mensile Tex.
In attesa che il mio itinerario fosse
completato, che si trovasse una guida
capace e disponibile e che fossero fatte
tutte le prenotazioni negli alberghi dove sarei sceso durante il mio tour, mi
recai nei musei della città: una miniera
di informazioni sulla storia dei navajo;
scoprii che appartengono alla nazione
Apache e che arrivarono intorno al
millecinquecento d.c. nella zona del
fiume San Juan, affluente del Colorado, provenienti dal nord (i Navajo, come tutte le tribù Apache, sono un ramo
dell’etnia Athabaska, originaria dell’Alaska e del nord-Canada).
Sconfitti (e depredati) i popoli Pueblo
che vivevano in quei territori i Navajos, da popolazione seminomade di cacciatori si trasformarono in un popolo
di allevatori, specialmente di cavalli,
pastori ed agricoltori, diversificandosi
dal resto delle altre tribù Apache, rimaste prevalentemente cacciatrici, al
punto che gli stessi spagnoli, per loro
natura ottimi agricoltori, li consideravano alla loro stregua, se non, in alcuni
casi, addirittura superiori.
CAPITOLO XIX
Holbrook
Holbrook (T’iisyaakyn in lingua navajo), capoluogo della Contea di Navajo,
fu una piacevole sorpresa: la relativa
vicinanza al Canyon de Chelly e la zona
montuosa (dai 1.000 ai 3850 metri slm
del San Francisco Peak, la vetta più
alta dell’Arizona), rendevano la temperatura abbastanza gradevole, decisamente un sogno rispetto a Phoenix, Yuma o Tucson.
La mattina successiva mi recai all’Ufficio Turistico Centrale della Contea di
Navajo dove una cortesissima impiegata si mise a mia completa disposizione;
quando poi seppe che mi sarei trattenuto nella Contea per circa un mese
poco mancò che mi abbracciasse: di
solito i turisti si fermano al massimo
una settimana (Phoenix, Flagstaff souvenir Deserto Dipinto e Foresta Pietrificata, Page - souvenir e foto Grand
Canyon, Monument Valley, Wuptaki
National Monument Indian Ruins e,
mi raccomando, non bisogna assolutamente tralasciare il Meteor Crater, è li
che gli astronauti si sono allenati prima
di sbarcare sulla luna, è certo la cosa
più interessante da vedere in tutto il
viaggio!, Kayenta - souvenir Navajo,
Chinle - souvenir e foto Canyon de
Chelly, Winslow, Holbrook riposo e
souvenir vari, Phoenix - arrivederci e
grazie!) e si affrettò a presentarmi al
direttore come una rara avis.
Il direttore mi invitò nel suo ufficio, si
informò sulla mia provenienza, lui aveva visitato l’Italia ed aveva ammirato
particolarmente Pompei, Agrigento,
Roma e, ovviamente, Venezia; mi offri
del tiswin, una bevanda tipicamente
indiana, simile alla nostra birra, e mi
chiese, se non era indiscreto, il motivo
di una così lunga ed inusuale permanenza nella “Nazione Navaho” ( i Navajo, anche se perfettamente integrati
nel tessuto sociale americano, hanno
conservato un forte senso della loro
identità etnica, culturale, linguistica e
delle tradizioni, e per loro la Contea
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vantarsi, quindi, giustamente ed a ragione, nel dire che gli Stati Uniti hanno
vinto la Battaglia del Pacifico anche, e
soprattutto, grazie a loro!
Dopo quattro giorni, durante i quali
non mi ero certo annoiato, trovai alla
reception dell’albergo un cortese invito
del direttore dell’Ufficio Turistico che
mi pregava di passare da lui: il mio
itinerario e la mia guida erano pronti!
L’itinerario predisposto, pur seguendo
il tradi zi ona le gi ro tu ri s ti co/
semiculturale mi lasciava ampio margine per soste e digressioni non programmate ed il direttore, pur sapendo
che una notte in tenda non mi avrebbe
creato problemi, per evitare che diventassi un “on the road men” ossia l’inguaribile ottimista che non prenota l’albergo “tanto un buco per dormire lo
trovo!” e finisce col pernottare in macchina, cosa non insolita a Kayenta,
Page ed anche ad Holbrook, aveva effettuato una serie di prenotazioni molto elastiche nella catena alberghiera
dei Best Western Inn (tutto il mondo è
paese, se conosci qualcuno trovi sempre tutto!).
La guida fu una vera sorpresa: mi ero
aspettato, dato il programma ed il tipo
di tour, una guida navajo sul tipo di
Tiger Jack (non c’è nulla da fare, in
Arizona Tex Willer è sempre presente!), invece mi fu presentata un giovane
donna dal nome praticamente impronunciabile per lunghezza e dovizia di
consonanti, che mi disse di chiamarla
pure Maria; risultò essere laureata in
letteratura latina (!), parlava il francese, lo spagnolo ed, incredibile ma vero,
l’italiano, quando le chiesi se potevo
chiamarla Lilith sorrise, disse che non
aveva nulla in contrario, ma precisò di
non essere la moglie di Aquila della
Notte!
Sorpresa! Non solo conosceva Tex, ma
lo leggeva in italiano per mantenersi in
esercizio nella lingua.
Stabilimmo di partire il giorno seguente per Chinle.
Scoprii anche che i miei amati film western (i miei idoli erano John Wayne e
Gregory Peck) raccontavano una storia del west riveduta e (s)corretta, in
una parola una montagna di frottole: i
Navajos non erano i crudeli e sanguinari guerrieri con il culto della guerra,
la realtà era che, dato il loro tipo di
società, il valore e la capacità individuale era dato dai beni posseduti, di
qui le razzie ai danni dei coloni bianchi, per rubare bestiame e cavalli, dall’altra parte molti coloni bianchi vedevano gli indiani, abituati ad avere ampi
territori a disposizione per i loro allevamenti, come vicini scomodi ed invadenti; oltre ai coloni vi erano poi trafficanti senza scrupoli, che li consideravano alla stregue di pecore da tosare
(ed imbrogliare).
Questa serie di incomprensioni (!?!)
portò alla pagina più nera della storia
navajo: dopo un anno di guerra in cui i
morti superarono il migliaio, nel 1864
il Governo USA decise il confinamento
dei Navajos in una riserva a circa 300
miglia più a sud del loro habitat: Bosque Redondo, un territorio malsano,
arido, inadatto all’agricoltura, in più,
con la lungimiranza che ha sempre
contraddistinto i governanti USA, erano stati confinati insieme ai Mescaleros, loro nemici atavici!
Questo esilio durò 5 anni, nel 1868 un
trattato tra il governo degli Stati Uniti
ed i Navajos riportò la situazione alla
status quo ante, una nuova riserva, situata tra Utah, Nuovo Messico ed Arizona costituì il fulcro dell’odierna Navajo Nation.
Oggi la popolazione Navajo è attestata
sulle 250.000 anime ed è di gran lunga
il gruppo etnico più numeroso tra i nativi americani.
Un motivo di orgoglio per i Navajos è
che la loro lingua, praticamente conosciuta e parlata solo da loro, agli inizi
della seconda guerra mondiale fu usata
come cifrario dai militari che operavano nel Pacifico e che quel cifrario non
fu mai decodificato dai servizi di
intelligence giapponesi: possono ben
♣
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il nome altisonante, non è altro che un
modesto motel.
Dalla finestra della mia camera guardo
il paese: un modesto agglomerato di
case più o meno ben tenute, un unico
General Store che si affaccia sulla
Main Street, in lontananza altre due
costruzioni moderne, gli “Hotel” Thunderbird Lodge e Holiday Inn; il mio ha
almeno il vantaggio di essere a due
passi da un simpatico ristorantino dove
si possono gustare piatti tipici locali.
Dopo cena non c’è molto da fare: due
chiacchiere al bar dell’albergo sorseggiando un bourbon, bisogna pur digerire il cosciotto di big horn (grandi corna), nome altisonante per indicare una
coriacea capra di montagna servita con
una salsa speziata che mi ha fatto bere
almeno quattro pinte di tiswin, e poi a
nanna, ovviamente in camere separate,
non è molto igienico fare avancés ad
una donna navajo: i clan familiari sono
basati su linea matrilineare ed è lo sposo che va a vivere con la famiglia della
sposa, ed io, dopo l’esperienza fatta,
soffro di una profonda allergia al matrimonio!
La mattina seguente, dopo una lauta
colazione ( ho scordato l’italianissimo
caffè e cornetto e mi sono convertito al
breakfast americano!), insieme a Lilyth
tracciamo il piano della giornata: nella
mattinata lei si recherà al visitor center
per presentare le sue credenziali, pagare l’ingresso e dato che, anche se con
guida, il mio è un “tour fai da te”, un
piano di massima del percorso che seguiremo e, dulcis in fundo, l’autorizzazione a pernottare nel Canyon anche in
tenda, autorizzazione che viene concessa solo in specialissimi casi, e praticamente mai ai turisti!
Dopo il lunch partenza: prima tappa il
ramo nord, il canyon do muerto.
CAPITOLO XX
Da Holbrook a Chinle…
Da Holbrook a Chinle, percorrendo la
famosa route 66 su una Jeep Land Rover ultimo modello, approfondii la conoscenza con la mia guida: la giovane
navajo era nativa di Chinle, la cittadina dove avremmo fatto base per la visita al Canyon de Chelly, era docente
presso l’università di Flagstaff, la celebre N.A.U., dove aveva un nutrito
gruppo di allievi (scoprii con piacere
che molti nativi erano interessati alle
civiltà europee, ed a quella italiana in
particolare), era stata più volte in Italia, sia per studio che per diporto, non
faceva la guida di professione ma, durante il periodo estivo, su segnalazione
del direttore del Visitor Center, guidava
preferibilmente gruppi in visita alla
Nazione Navajo ed aveva accettato di
farmi da guida incuriosita da come gli
ero stato presentato: “un visitatore interessato non solo alle bellezze del territorio ma anche al Diné Navaho, ai
suoi usi, ai suoi costumi ed alla sua lingua”.
Ero molto curioso di sapere come mai
conoscesse così bene Tex: lo aveva scoperto per caso in Italia, aveva trovato il
fumetto sul treno, evidentemente lasciato o dimenticato da un passeggero,
lo aveva sfogliato per curiosità: era la
saga di “Sangue Navajo”, aveva cominciato a leggerlo, si era appassionate all’intreccio e, giunta a destinazione, aveva cercato il numero successivo e
poi… non aveva più smesso; un’amica,
dall’Italia, gli spediva periodicamente
il fumetto.
Una breve sosta in una stazione di servizio, dove enormi cartelli ci rammentano, qualora ce ne fossimo dimenticati, che stiamo percorrendo la Historic
U.S. Route 66 e ci troviamo nella Navaho Nation (questi cartelli li troveremo
ovunque, eccetto che nei parchi e nei
monumenti nazionali), per un rapido
lunch e via, verso Chinle.
A Chinle scendiamo al “Best Western
Canyon de Chelly Inn”, che, nonostante
♠
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latitudini, mostrano precocemente i
segni della vecchiaia; sorridono quando la figlia gli spiega perché io la chiamo Lilyth e cercano di insegnarmi a
pronunciare il vero nome della ragazza, fatica sprecata, i suoni che escono
dalla mia bocca a tutto somigliano
fuorchè a qualcosa che possa essere un
nome attribuibile ad un essere umano:
il tutto finisce in una risata corale ed in
un inaspettato invito a cenare e pernottare nel ranch.
Rimango interdetto: non so cosa dire o
come comportarmi; la mia guida mi
toglie dall’imbarazzo assicurandomi
che non avrei arrecato alcun disturbo e
che, dopo un comodo riposo, il giorno
dopo avrei goduto meglio le bellezze
naturali ed avrei assorbito meglio la
storia del canyon, aggiunse anche, con
un sorriso tra l’impertinente ed il malizioso, che non avrei dovuto trascorrere
la notte nel fienile o nella stalla: il
ranch era dotato di una comodissima
stanza per gli ospiti!
La serata trascorse piacevolmente, tutti parlavano correntemente l’inglese ed
una delle giovani accennò timidamente
qualche parola d’italiano, Lilyth mi
disse che era una nipote che desiderava
seguire le sue orme; quando dissi che
abitavo in campagna tutti divennero
attentissimi e mi sottoposero ad un fuoco di fila di domande: cosa coltivavo,
che animali avevo, oltre a me chi si occupava del possedimento, ecc.; dovetti
confessare che avevo meno di tre acri
di terra, rimasero sorpresi scoprendo
che non me ne occupavo perché il mio
lavoro di giornalista mi teneva lontano
da casa per la maggior parte del tempo, ma quando dissi che il terreno
non apparteneva a me, ma era proprietà della mia famiglia rimasero sconcertati: secondo la loro mentalità ed il loro
costume quello che era della famiglia
era di tutti ed io avevo l’obbligo morale di occuparmene!
La figlia cercò di spiegare le usanze e le
leggi che regolano il concetto di proprietà in Europa, ma, almeno così mi
sembrò, con scarso successo.
CAPITOLO XXI
Il Canyon do Muerto…
Il Canyon do Muerto è la diramazione
nord del canyon de Chelly ed, a rigore,
più che un canyon vero e proprio è una
stretta vallata ancora abitata: piccole
fattorie con campi ben tenuti ed i giovani navajo, che nel periodo scolastico
frequentano gli istituti di Tuba City,
Kayenta o Window Rock, durante le
vacanze tornano ad aiutare i familiari
nei lavori agricoli e nell’allevamento
dei superbi cavalli che, mentre ci inoltriamo nella vallata, ci guardano incuriositi e poi galoppano via, simili a folate di vento.
Lilyth ferma la macchina vicino ad una
graziosa fattoria: una nidiata di bambini, seguita da un gruppo di contegnosi indiani, ci viene incontro, sono, mi
dice Lilyth, i suoi familiari, e spera che
non mi dispiaccia se fa una breve sosta,
non è professionale, ma è parecchio
che non li vede…
La rassicuro e le rammento che il mio
tour non è fatto solo per ammirare le
bellezze naturali ma anche per conoscere e possibilmente capire la cultura
di una popolazione di cui, fino ad allora, avevo qualche vaga idea solo attraverso film, romanzi di avventure
(Salgari, London e l’impareggiabile
Zane Grey, di cui i miei avevano la collezione completa con la mitica copertina rossa della Sonzogno) e fumetti (le
“nuvole parlanti”, simili e diversissime
dai segnali di fumo degli indiani!), mi
ringrazia con un sorriso: evidentemente sono uno strano turista!
Due indiani di età indefinibile, un uomo ed una donna, ancora vigorosi anche se il loro volto e segnato da una fitta ragnatela di rughe, ci si avvicinano,
Lilyth me li presenta, sono i suoi genitori; mi invitano a seguirli in casa,
Lilyth intanto spiega alla parentela chi
sono e perché giro da solo e non imbrancato nel solito gruppo di turisti.
I genitori di Lilyth hanno una decina
di anni più di me, mi ero dimenticato
che gli indiani, specialmente a quelle
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io sentivo la presenza di questi guerrieri, li vedevo mentre combattevano, archi, frecce, lance e vecchi fucili avancarica, contro le, per quell’epoca modernissime, armi dei “visi pallidi”: provavo la stessa sensazione che avevo provato sul Carso, nel Sacrario di Redipuglia, ad El Alamein o a Giarabub!
Quando dissi a Lilyth l’impressione
che avevo provato lei mi guardò fisso
negli occhi e mi disse “Lei ha capito
l’anima e lo spirito del Diné Navaho,
sono (usò una parola navajo che non
volle tradurre) di essere la sua guida!”.
Lasciammo quel luogo pieno di ricordi
e, percorrendo a ritroso il cammino già
fatto, ci inoltrammo nel lato sud del
canyon con due mete ben precise, le
White House Ruin e Spider Rock: la
prima sono le rovine, piuttosto ben
conservate, di antiche abitazioni abbarbicate su una parete di roccia talmente alta che riesco a scorgerne la
fine solo con il teleobiettivo, la seconda
sono due immensi torrioni naturali di
roccia che svettano verso il cielo, sentinelle poste a guardia del lato est del
National Monument; la mia immaginazione corre al Natale quando, sotto la
neve che a queste altitudini scende copiosa, vorrei costruire un Presepe che,
con questa scenografia, sarebbe sicuramente unico al mondo!
Il rientro a Chinle è stranamente silenzioso: non so a cosa stia pensando Lilyth, dal canto mio devo cercare di assorbire tutte le sensazioni, visive e non,
che ho provato durante questo magnifico tour: i panorami inimmaginabili,
l’ospitalità navajo, la Navajo Fortress, i
pueblo abbandonati, gli Anasazi e, via
via, tutto il sense of wonder che permea questi luoghi stupendi!
La mattina successiva ci salutammo
cordialmente e noi proseguimmo nella
visita del Canyon.
A parte le lunghe soste per ammirare
panorami sempre diversi e scattare
centinaia di foto con la mia Panasonic
(teleobiettivo, grandangolo, filtri, telemetro ed ammenicoli vari: peso complessivo circa 10 chili!), ascolto con il
massimo interesse ciò che Lilyth mi
narra sulla storia del canyon: agli albori del 1800 alcuni pastori navajos, inoltratisi nella vallata in cerca di nuovi
pascoli, scoprirono piccoli agglomerati
abitativi, molti dei quali erano per tre
lati scavati nella roccia, completamente
abbandonati ma con evidenti tracce di
essere stati abitati (graffiti, affreschi
sulle rocce e sulle pareti delle abitazioni, resti umani fossilizati, ecc.) da una
popolazione che non era quella dei
Pueblo, ne tanto meno navajos, e che
essi battezzarono Anasazi, che in lingua
navajo significa “antichi” (un’errata
traduzione del termine, che fu interpretato come “nemico” attribuiva ai
navajos la causa della loro scomparsa):
di questa antica popolazione ancora
oggi si sa poco o nulla; alcuni fanno
risalire le loro origini a circa 6.000 anni, altri a 2.000 anni fa, si sa che quasi
certamente vissero in queste zone fra il
VII ed il XIV secolo e che scomparvero
misteriosamente in una sola notte; i
motivi di questa repentina scomparsa,
o migrazione, sono tuttora ignote, alcune teorie parlano di caldo eccessivo,
altre di siccità, altre di eventi naturali
traumatici quali terremoti od alluvioni; di certo vi è una sola cosa, sono venuti e sono scomparsi da e nel nulla!
Visitammo due dei loro siti, Ledge
Ruin e Antelope House, poi ci recammo
a quello che può essere a buon diritto
considerato il Sacrario storico dei navajos: la Navajo Fortress, una piccola
mesa a picco sul canyon dove, nel 1864,
si svolse l’ultima battaglia fra i guerrieri navajos e le “Giacche Azzurre”
prima che fossero esiliati per cinque
anni a Bosque Redondo.
Lilyth taceva, quasi in raccoglimento,
♦
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bisogno di un mutuo! Compro una
spilla in filigrana per mia madre, il
“ministro delle finanze”, ossia la mia
lettera di credito, non mi consente altro.
La mattina successiva ci rechiamo alla
Monument Valley, il Navajo Tribal Park
“Tse’bii’Ndzisgaii” (provate voi a pronunciarlo correttamente, io ci ho provato, con l’unico risultato di avere un
forte mal di gola e di far ridere tutti
quelli che erano nel raggio di cento metri da me!).
Non è possibile descrivere il Park, in
fondo si tratta di una distesa di sabbia
rossa da dove spuntano pinnacoli rocciosi che il vento ha eroso dandogli le
forme più strane, ma il suo fascino non
è questo, è la sensazione di mistero e di
forza, di pace e di inquietudine che non
può essere raccontata nè con parole nè
con immagini: ho scattato alcune foto
alle Three Sisters ed al Totem Pole, mi
accorgo, riguardandole oggi, che fuori
da quel contesto sono solo dei pezzi di
roccia brulla!
Rientro in albergo, lunch, pomeriggio
di riposo, comincio ad avvertire un po’
di stanchezza e ci sono ancora molte
tappe e molte cose da vedere, meglio
affrontarle riposati.
Domani e nei giorni seguenti, a Page ed
al Grand Canyon, avremo mille cose da
vedere e poco tempo per riposare.
CAPOTOLO XXII
Per giungere a Kayenta…
Per giungere a Kayenta (il Trading
Post della riserva navajo dove Tex riceveva la posta e da dove, molto spesso,
era costretto a cacciare via, con metodi
altamente persuasivi, loschi trafficanti
di armi e di whisky) da Chinle si traversa praticamente tutto il territorio
navajo in un paesaggio che ha del fiabesco: un altopiano ricoperto di un
tappeto verde che sembra velluto,
qualche rara fattoria, un traffico inesistente, sembra di essere nell’old west
dei pionieri; in lontananza spicca il
promontorio roccioso dell’Agatlha
Peak, maestoso ed inquietante, ci fermiamo per le foto di rito, grandangolo
e teleobiettivo cercano invano di catturare tutto lo scenario, consumo rollini
su rollini, eppure non riesco a cogliere
tutto ciò che vorrei, riprendiamo il
cammino e poco dopo ci fermiamo a
Church Rock, un cerchio di rocce che
nulla ha a che vedere con un edificio
religioso, ma che probabilmente, data
la sua forma, poteva servire agli Anasazi per sacrifici rituali dato che, a
quanto sembra, essi praticavano il cannibalismo sacro.
A Kayenta scendiamo all’Hampton
Inn, un comodissimo albergo arredato
in stile indiano con camere spaziose, un
grandioso bar/ristorante con al centro
un enorme camino (qui in inverno fa
veramente freddo) ed un’ottima cucina
che spazia dalle specialità locali a quella cosiddetta internazionale (che sconsiglio sentitamente in ogni parte del
mondo civile); dopo il lunch
“pomeriggio a disposizione”, come si
dice nei viaggi organizzati, ne approfitto per fare due passi per le strade affollatissime di turisti, i negozi di souvenir
non vendono la solita paccottiglia made
in Korea, ma solo prodotti artigianali:
coperte variopinte tessute a mano, collane e braccialetti in pietre dure od in
filigrana d’argento, alcuni, ma pochi,
oggetti in oro: se dovessi portare un
“ricordino” a parenti ed amici avrei
♣
- 40 -
Il Best Western di Page è certamente
superiore a quello di Chinle, ma non è
certo l’Hampton Inn di Kayenta!
E’ incredibile come una grande catena
alberghiera come la Best Western, che
copre praticamente tutto il south west,
riesca a trasformare i suoi alberghi,
spesso ubicati in località splendide
(questo è situato sulle rive del Lago Powell e ne porta il nome), in squallidi
motel di seconda categoria, i cui odori
predominanti sono quelli di disinfettante (siamo in America, l’igiene innanzi tutto!) e di cipolla fritta!
Sia come sia il letto è comodo ed i servizi sono pulitissimi: doccia, cambio
completo (la polvere che ho accumulato in questo viaggio fa impallidire il
ricordo della sabbia, ed era tanta, accumulata nel mio giro del Sahara spagnolo in Marocco) e poi al bar per lubrificare, come direbbe Kit Carson, la
gola; non vedo Lilyth, probabilmente
anche lei si starà rinfrescando dopo la
sfacchinata mattutina, quando scende
non la riconosco subito, abituato come
sono a vederla in jeans e camiciotto stile militare: indossa un magnifico costuma navajo, tutto frange e pizzi, mi sorride e dice di averlo indossato per farmi vedere almeno una volta un vero
costume navajo e questa era l’unica
occasione per farlo, da domani, infatti,
il nostro programma prevede tanti e
tali giri che jeans e camiciotto ce li potremo levare si e no per andare a letto!
Il costume e chi lo indossa sono stupendi, mi sembra di rivedere, mutatis mutandis, un’altra stupenda immagine:
Grazia in kymono nel bagno comune di
Tokyo.
La stessa grazia, la stessa prorompente
giovinezza, la stessa nonchalance di chi
è consapevole di poter indossare un’abito così impegnativo!
Le faccio i miei complimenti, lei si
schernisce, dice che tutte le donne navajo sono così, io esprimo i miei dubbi
in proposito e lei scoppia a ridere, una
risata fresca e cristallina che la fa vedere quale veramente è: una giovane
donna non ancora trentenne piena di
CAPITOLO XXIII
A poche miglia da Page…
A poche miglia da Page Lilyth mi propone una breve deviazione per visitare
la Upper section dell’Antelope Canyon,
è quasi mezzogiorno e questa è l’ora
migliore per visitarla; usciamo dalla
US 89, percorriamo una stradina sterrata (nei Parchi e Monumenti Nazionali, almeno nella Nazione Navajo, l’asfalto è bandito) che, tra buche e dossi
mi fa pensare di essere tornato a casa,
in Italia, dato che sembra la sorella gemella di quella che conduce alla casa
dei miei, il tragitto, fortunatamente,
dura non più di dieci minuti, scendiamo ed entriamo nel canyon: la prima
impressione è quella di essere entrati in
una grotta, poi il sole a perpendicolo ci
mostra una fessura, in alcuni punti non
più larga di dieci centimetri, che ci fa
intravedere il cielo; i colori sono unici e
variano ad ogni passo dal giallo al rosso, passando per tutte le loro sfumature, la luce solare, ora più forte, ora più
tenue, aggiunge colore a colore; credevo di aver visto i più bei colori nel tramonto del Deserto Pintado: al confronto di questi che sto ammirando, quelle
erano solo “varie tonalità di grigio”
per usare un gergo fotografico, ora capisco perché, quando al comando dei
ranger canadesi manifestai la mia intenzione di recarmi in Arizona, mi dissero che, anche se mi fossi fermato per
pochissimo tempo, avrei dovuto assolutamente visitare l’Antelope Canyon, ed
in particolare la Upper Section!
Riprendiamo la via per Page, alla mia
domanda del perché non visitiamo anche l’altra parte dell’Antelope Canyon,
la Lower, Lilith mi risponde che è meglio visitarla in mattinata e poi… al
Best Western Lake Powell, dove è fissato il nostro alloggio, ormai non troveremo più il lunch, ma sicuramente
troveremo ancora qualche piatto freddo, arrivando più tardi dovremmo aspettare fino al dinner, cosa certamente
non auspicabile, dato che il breakfast lo
abbiamo consumato in ora antelucana!
- 41 -
voglia di vivere, colta e seria; mi scuso
per il mio abbigliamento, ma nel bagaglio non ho certo messo il dinner jack o
la divisa da ex allievo e, anche pensando di trovarmi in una situazione simile,
non avrei certo potuto portarmeli dietro dall’Italia; rimpiango però di non
aver indossato l’unico tout de même che
ho portato con me, ma ormai sarebbe
ridicolo tornare in camera per cambiarmi.
A tavola gli occhi di tutti i commensali,
per la maggior parte turisti italiani,
sono fissi sul nostro tavolo: non è da
tutti i giorni vedere una giovane indiana in costume tradizionale seduta a
tavola con cavaliere vestito che più casual non si può.
La cena è la solita: o roast-beef, o steak
o piatti di cucina internazionale! Opto
per la bistecca, ovviamente “sepolta
sotto una montagna di patatine fritte,
cotte al punto giusto”, cosa penso della
cucina internazionale l’ho già detto e la
carne semicruda la considero alla stessa stregua.
Per digerire il quarto di bue che mi
hanno servito ingurgito litri di birra
(Lilyth mi ha detto che qui il tiswin non
è molto buono); dopo cena sosta al bar
per un whisky, poi sul patio ad ammirare le luci del lungolago e fumare una
sigaretta, in lontananza si sentono suoni e canti: Page è una città turistica,
pensate che i ristoranti accettano avventori fino alle 9 p.m., cosa rarissima
negli U.S.A.!
Altro whisky e poi a nanna, domani ci
aspetta una giornata intensa.
Il Best Western offre ai clienti la possibilità di fare il breakfast secondo il
proprio gusto, il grande salone del bar
ha un buffet ricco e vario, ci sono perfino caffelatte e cornetti, come se fossimo in un qualunque bar italiano
(grazie, ma cornetto e caffè li prendo al
Caffè Greco a Roma od al Gambrinus
di Napoli, sono certamente migliori!);
io perciò opto per una ricca colazione
americana, infatti il programma di oggi prevede una visita al Lower Antelope
canyon (circa un’ora di cammino a pie-
di su un percorso che prevede dei passaggi adatti ad un contorsionista) e poi
l’Horseshoe Bend, un frugale lunch
lungo la strada e, dulcis in fundo, il panorama al tramonto sul Lake Powell
dalla Romana Mesa.
Cinque minuti di macchina e siamo
davanti alla centrale elettrica che è alimentata dal lago Powell (scopro solo
ora che il Powell è un lago artificiale,
Lilyth non me lo aveva detto, forse se
ne vergognava, e non a torto: quella
centrale elettrica in mezzo a tante bellezze naturali è come un distributore di
benzina sotto l’Arco di Tito!); pagamento parcheggio, ticket d’ingresso e
via alla visita, non della centrale ma
del Lower Antelope Canyon; i colori del
Lower non sono quelli dell’Upper ma
sono ugualmente affascinanti, i passaggi sono molto più stretti ma le
“pieghe”, non so trovare altro termine,
delle rocce sono piu dolci, bulinate
piuttosto che tagliate con lo sgorbio, in
certi punti gli slot sono talmente stretti
che sembra di essere in una grotta.
Dopo circa un’ora torniamo all’aperto
e via, subito in macchina, verso Horseshoe Bend per fare il primo approccio
con il Colorado.
Un breve tragitto sulla US 89 ed ecco
uno slargo pieno di macchine parcheggiate; parcheggiamo anche noi ed una
breve pista sterrata (nel mio dialetto
verrebbe chiamata “rasaletto”) ci porta
ad un largo belvedere: lo spettacolo è
unico, il Colorado crea una cascata alta
varie centinaia di metri con una serie
di curve che somigliano tanto a ferri di
cavallo quanto ad un collo di oca, uno
spettacolo a mio avviso molto superiore alle decantate Cascate del Niagara;
passerei la giornata a scattare foto: teleobiettivo, grandangolo, filtri: per fotografare degnamente lo spettacolo
servono tutti gli accessori della mia Panasonic e forse non bastano! resterei
tutta la giornata se Lilith non mi richiamasse all’ordine, Romana Mesa
non è precisamente dal lato opposto
della strada e, tra una cosa e l’altra,
bisogna pur mangiare; lascio Horse-
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shoe Bend con rammarico, ma il tempo
è tiranno ed ho ancora tante cose da
vedere!
Romana Mesa non è eccessivamente
distante ma, dopo un breve tratto sulla
onnipresente US 89, ci attende un tragitto su strada sterrata che non ci consente, nonostante l’ottimo fuoristrada,
alte velocità: all’imbocco della strada
infatti un cartello ci consiglia una velocità di 30 miglia (40 Km/h) ma il fondo
stradale è tale che nei tratti migliori la
prudenza non ci fa superare le 10/15
miglia orarie.
A complicare le cose un forte temporale ci fa dubitare di poter arrivare a destinazione; fortunatamente il tempo
migliora e proseguiamo tra schizzi di
fango e folate tumultuose di vento; arriviamo sul pianoro ed a me sembra di
rivivere il “selvaggio west” così come lo
descrive Zane Grey nei tanti romanzi
che ho divorato da giovane: Il Cavallo
Selvaggio, il Fiume Abbandonato, Nevada, e via via tanti altri di cui ho dimenticato i titoli ma di cui saprei ancora
oggi recitarne paragrafi interi, tante
sono le volte che li ho letti e riletti!
Lo spettacolo del lago è incantevole,
piazzo il cavalletto e mi accingo a scattare alcune inquadrature, in attesa del
tramonto.
Manca circa un’ora al momento tanto
atteso quando il ranger di servizio si
avvicina e mi invita a smontare l’apparecchiatura: alle 18 il belvedere chiude! Rimango di stucco: che cavolo di
tramonto, foto o non foto, posso ammirare se il sole è ancora alto in cielo?
fortunatamente c’e Lilith che si avvicina al ranger, parla con lui, mostra non
so che tessera, il ranger annuisce e si
allontana sorridendo con rassegnazione; ogni giorno che passa debbo essere
sempre più grato alla mia guida, ed
ancora non so quale miracolo è riuscita
a compiere per consentirmi di effettuare l’escursione in programma per domani! intanto mi godo il superbo tramonto sul lago, impreziosito da uno
scintillante arcobaleno che segna la fine del temporale pomeridiano.
Si torna a Page per il dinner; dopo cena, sul patio, siamo circondati da un
folto gruppo di turisti italiani, si sa, in
vacanza si fa presto conoscenza, molte
convenzioni vengono tralasciate, e poi
sono l’unico turista che ha per guida
un’avvenente giovane indiana!
Quando dissi che il giorno successivo
avevo in programma la visita alle
“Vermillion Cliffs - Paria Canyon” e
più precisamente al “Coyote Buttes the
Wave” mi guardarono come fossi un
extraterrestre e cominciarono a tempestarmi di domande: da quanti mesi avevo presentato la richiesta? a quale
ufficio del BLM (Bureau of Land
Management) mi ero rivolto? e così
via; risposi che al Visitor Center di
Holbrook avevo chiesto di visitare la
Navaho Nation nel suo complesso, in
particolare i luoghi più significativi, e
che mi preparassero un tour adeguato;
avevo pagato per diritti, ingressi ai vari siti e per una guida, avevo richiesto
che in base alle tappe mi prenotassero
gli alberghi e quant’altro ritenessero
opportuno, in pratica viaggiavo come
in una gita organizzata con un solo
partecipante.
Non mi volevano credere, anche se per
il resto poteva essere vero, per i Vermillion Cliffs ciò non era possibile: anche se tecnicamente essi ricadevano
parzialmente nella giurisdizione della
Contea di Navajo (una parte di essi si
trova in Utah), il BLM tutela the Wave,
una piccola conca dal fragilissimo ecosistema, e non ammette che 10 (dieci!)
visitatori al giorno; per la visita bisogna prenotarsi almeno quattro mesi
prima ed esclusivamente tramite il sullodato BLM, era quindi impossibile
che io, in pochi giorni, avessi potuto
ottenere il ticket per la visita; intervenne Lilyth che spiegò che ogni giorno vi
sono due o tre “passi” extra, riservati
per casi eccezionali, e che io ero uno di
quei casi (benedetto l’incontro con quel
professore che, in treno, mi aveva insegnato l’apriti sesamo: “Diné Navaho”!).
Tra gli sguardi invidiosi dei meno fortunati, ci ritirammo nelle nostre stan-
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ze: ci attendeva una giornata campale!
Wave: è impossibile descriverla, in pochi metri di diametro vedo piccole pareti di roccia che sembrano ripiegarsi
su se stesse, sabbia finissima increspata
dal vento forma onde che vanno dal
rosso acceso al giallo passando per tutte le tonalità intermedie; le nervature
delle rocce sembrano raffigurare il sistema circolatorio e quello nervoso di
un uomo; afferro la macchina fotografica e uso non so quanti rollini senza
riuscire a fermare l’immagine: ad ogni
folata di vento lo scenario cambia!
Lilyth mi invita a seguirlo, poche centinaia di passi ed ecco la zona chiamata
anche “second Wave”, numerosi, piccoli avvallamenti meno variopinti della
sorella maggiore, ma anche questi bellissimi.
Salta l’idea di pranzare in loco, nubi
minacciose, ma fortunatamente ancora
lontane, annunciano l’arrivo del temuto, e previsto, acquazzone: l’idea, con
quel caldo torrido, di dover indossare
giacca a vento e stivaloni di gomma
non ci sorride, oltretutto non potremmo utilizzare i greti dei torrenti per il
pericolo di una piena improvvisa
(molti incauti turisti, incuranti dei consigli degli esperti, si sono salvati miracolosamente o sono morti a causa di un
flash flood) e quindi ci affrettiamo a
prendere, anche se a malincuore, la
via del ritorno, vorrà dire che pranzeremo in macchina.
Arriviamo alla jeep appena in tempo, il
cielo apre le sue cateratte: si intravede
a malapena il muso della vettura; durante il diluvio (che fortunatamente
dura poco più di mezz’ora) mandiamo
giù un boccone poi, anche se le nubi
incombono sempre minacciose, smette
di piovere e ci incamminiamo verso
Page.
Arrivo in albergo e volo in camera: urge una doccia ed un totale cambio degli
indumenti!
Cena, chiacchierata, saluto e brindisi
di addio con gli altri turisti, domani si
parte per il north rim del Grand Canyon, ci attendono 200 chilometri di
macchina ed, all’arrivo, una baita in
*****
La visita a The Wave inizia con un’alzataccia, infatti manca ancora un’ora
all’alba, d’altronde bisogna essere sul
posto molto presto, un po’ per evitare
il caldo ma, soprattutto per evitare il
probabile acquazzone che, puntuale
come un cronometro svizzero, arriva a
mezzogiorno!
Un rapido breakfast servito da un insonnolito cameriere e via in macchina,
circa settanta chilometri ci attendono;
imbocchiamo la US 89 in direzione Kanab (Utah), mentre Lilyth guida io mi
godo l’alba e poi, dopo alcuni chilometri, il sorgere del sole che illumina sullo
sfondo i Vermillion Cliffs: la meta si
avvicina.
Lilyth rallenta e si ferma ad una specie
di garitta da dove esce un ranger con
aria sospettosa, controlla che il nostro
equipaggiamento sia a norma, poi vede
il tesserino della mia guida, sorride a ci
augura buona escursione; ripartiamo,
dopo alcuni chilometri troviamo il cartello Coyote Buttes - Navaho Nation
(tutti i cartelli ricordano al viandante
che siamo nella “Nazione Navajo!), inizia la solita strada in terra battuta,
mezz’ora d’inferno ed arriviamo in
una piazzola di sosta che si identifica
solo perché è un poco più larga della
strada e da un cartello che dice in non
so quante lingue che li bisogna lasciare
la macchina e proseguire a piedi.
Il tragitto non è eccessivamente lungo
ma, tra dune, letti pietrosi di torrentelli
in secca ed il pericolo sempre presente
di incontrare qualche rattlesnake, ci
vorranno circa due ore per farlo.
Ci incamminiamo di buon passo e,
mentre osservo il paesaggio brullo mi
torna in mente un romanzo di Isaac
Asimov “Luky Star e le sabbie di Marte”: probabilmente l’autore si è ispirato ai Coyote Buttes mentre scriveva le
peregrinazioni del suo eroe negli sterminati deserti del “Pianeta Rosso”.
All’improvviso, come per magia, nascosta dietro una roccia, appare the
- 44 -
un complesso attrezzato; Page addio,
anche se in cuor mio spero che sia un
arrivederci: ci sono ancora tante cose
da vedere e godere!
♠
- 45 -
so inaccessibili, partì dal Messico per
trovarlo e vederlo.
La prima spedizione che può considerarsi scientifica fu effettuata più di due
secoli dopo (1869 - 1870) dal maggiore
John Wesley Powell, eroe della guerra
di secessione nella quale aveva perso
un braccio.
Nonostante la grave menomazione il
maggiore partì con quattro imbarcazioni appositamente predisposte, molto
simili alle canoe usate dai nativi, dai
pressi del Green River, il principale affluente del Colorado (fino al 1921
Grand River), superò, aggirandola, l’Horseshoe Bend ed arrivò sino alla
“Grande Conca” (oggi lago Mead, grazie ad una diga costruita nel periodo
della grande depressione, 1926 - 1930, e
che oggi, oltre a rifornire di acqua la
città di Las Vegas, è uno dei centri balneari più in del South West). Il maggiore descrisse le varie sedimentazioni
rocciose che si susseguono per centinaia di metri in altezza (il Colorado
scorre al fondo di una “spaccatura” la
cui profondità varia da 1.200 a 1.800
metri ed è in questo tratto, lungo circa
450 chilometri e largo da 6 a 30, che
raggiunge la profondità massima di
tutto il suo percorso: circa 40 metri),
intervallate da angusti pianori dove i
nativi, con tutta probabilità gli Anasazi, avevano edificato piccoli insediamenti abitativi. La spedizione dimostrò
anche che, nonostante le molteplici rapide che gli avevano valso, da parte degli indiani, il nome di “Fiume Tuonante”, il Colorado, pur con le adeguate
precauzioni, è navigabile. Il lago di
Page, anche lui artificiale, porta il nome dell’esploratore ed indica, con buona approssimazione, il luogo di partenza della spedizione.
All’altezza dello Jacob Lake abbiamo
lasciato la US89 e imboccato la AZ67,
che non è un volo Alitalia ma una strada di competenza dello Stato dell’Arizona: iniziano i tornanti che ci porteranno oltre i 2.500 metri s.l.m. ed inizia
anche la Kaibab National Forest; che,
ricca di conifere, si estende, salvo brevi
CAPITOLO XXIV
Dopo colazione, fatto il pieno…
Dopo colazione, fatto il pieno e caricati
i bagagli, partenza per il North rim (in
inglese dà l’impressione che indichi
chissà che località, in italiano significa
solo orlo o bordo nord, del Grand Canyon, una “passeggiata” di circa 200
chilometri su percorsi di montagna,
dato che dobbiamo arrivare, e superare, quota 2.500 s.l.m.; questo è il motivo per cui il north rim è aperto al turismo solo tre mesi e mezzo all’anno, da
giugno a metà settembre, nel restante
periodo nevicate, freddo intenso ed in
genere condizioni metereologiche proibitive ne impediscono di fatto la fruibilità.
Percorriamo la US89 in direzione della
cittadina di Bitter Springs (sorgenti amare) dove la strada si biforca, da una
parte Flagstaff, dall’altra, in direzione
nord, verso le Vermillion Cliffs, che ci
accompagneranno, anche se a distanza,
per un bel tratto di strada, la Kaibab
National Forest, che attraverseremo, ed
infine al sospirato lodge del North Rim
(sono curioso di vedere il lodge, i termini inglesi hanno parecchi significati e,
spulciando il vocabolario, ho scoperto
che la parola indica: padiglione di caccia, tenda indiana, residenza del rettore, ecc., ma niente che somigli alla parola residence.).
Sosta a Marble Canyon; la strada lo
attraversa su un ponte che congiunge i
due orli del canyon, parcheggiamo e ci
affacciamo dal ponte per vedere il fiume ma è praticamente impossibile: lo
strapiombo è tale che si intravede, lontana anni luce, una strisciolina luccicante: da brivido!
Proseguendo lungo l’ultimo, chilometrico rettifilo, Lilyth mi illustra la storia del Grand Canyon: il primo viso
pallido che vide il canyon fu, intorno al
1500 uno spagnolo, certo García López
de Cárdenas che, incuriosito dai racconti dei pastori Hopi su un misterioso
fiume dalle “acque tonanti” che scorreva tra pareti di roccia altissime e spes-
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intervalli rocciosi, praticamente dal
North al South rim, per una profondità
di oltre 500 chilometri.
Passando in mezzo a queste maestose
conifere quasi non si crede che a pochi
chilometri alla nostra sinistra c’è il Deserto Pintado! La bellezza e, perché no,
la stranezza dell’Arizona sta proprio in
questo: in relativamente poche miglia
si passa da un deserto ad una foresta
lussureggiante, da distese pietrose a
fiumi tumultuanti, da wave di sabbia a
laghi ondulati dalla brezza e luogo di
ritrovo e villeggiatura!
Ci fermiamo in una radura per un po’
di ristoro, dobbiamo percorrere ancora 60 miglia, guardo il cielo, di un azzurro abbacinante, e vedo volare dei
condor, questi meravigliosi rapaci sacri
agli Incas e tanto perseguitati dai coloni bianchi, al punto che oggi rischiano
l’estinzione! Lilyth mi dice che, oltre
che nella Cordigliera Andina, anche
nella Nazione Navaho i condor sono
una specie protetta e che, proprio nel
North Rim del Grand Canyon, vi è un
centro per il recupero e la protezione
del volatile; respiro di sollievo, il genere di vita che conduco non mi ha distolto dall’amare e rispettare la natura in
tutte le sue accezioni, anzi, mi stimola
ad amarla sempre di più.
Un filosofo greco diceva: “più conosco
gli uomini, più amo gli animali”, non
sono arrivato a tal punto di cinismo,
ma certe volte…
All’ingresso del Grand Canyon North
Rim National Park troviamo il gabbiotto del ranger, ne esce un arzillo vecchietto (mi auguro di essere come lui,
quando avrò la sua età) che ci dà il
benvenuto e guarda con aria interrogativa Lilyth, non è la prima volta che
succede e finalmente, sono decisamente
lento di comprendonio, ne capisco il
motivo: Lilyth mi ha detto più volte
che lei accompagna comitive, è quindi
logico che chi la conosce resti meravigliato di vederla fare da guida ad una
sola persona, per giunta uomo ed in
fondo non molto più grande di lei!
Lilyth sorride e spiega al ranger, che
evidentemente conosce bene, che date
le mie esigenze che non sono meramente turistiche ma essenzialmente culturali, al Visitor Center di Holbrook avevano ritenuto che lei fosse la guida
più adatta; lei aveva accettato e non se
ne era dovuta pentire.
Salutiamo e dopo mezz’ora arriviamo
al Lodge, che, di primo acchito mi fa
pensare, con un brivido, al Centro di
Addestramento di Santa Monica: costruzione centrale e tanti piccoli cottages sparsi intorno, “come purcini attorno ad una biocca” avrebbe detto il Belli.
Faccio mente locale: sono in Arizona e
non in California, il mare è a svariate
centinaia di miglia, non ci sono né MP
simili ad armadi né Wac più o meno
carine, sono veramente in vacanza e
posso veramente distendere i nervi!
Andiamo nei rispettivi cottages, un rapido cambio d’abito e primo giro d’orientamento sul rim, impressionante: lo
strapiombo, o meglio gli strapiombi,
sono ripide scarpate ciascuna di 300 400 metri che scendono, intervallate da
brevi tratti più o meno pianeggianti,
fino a 1.800 metri più in basso, là dove,
mi dice Lilyth, scorre il Colorado, ci
credo per fede, dato che non riesco a
vedere nulla, neanche quell’argentea
strisciolina che avevo visto al Marble
Canyon.
Cena nel grande salone stile “vecchia
America”, dopo un violento acquazzone il sole del tramonto è tornato a brillare ed illumina in modo fiabesco, attraverso le enormi vetrate, il salone in
cui ci troviamo; dopo cena, drink e sigaretta sul grande patio del lodge, ci
allontaniamo dalle luci per ammirare il
firmamento: spettacolo indescrivibile,
le stelle sono “a portata di mano”, hai
l’impressione che, allungandoti un po’,
le possa toccare, alcune sembrano addirittura che siano sotto di noi, la loro
brillantezza è unica, non le ho mai viste
così!
Prima di andare a dormire dico a
Lilyth che domani voglio vedere tutto,
lei sorride e mi chiede scherzosamente
se ho intenzione di trasferirmi in Arizona, con domicilio fisso nel Grand
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Canyon Village, forse così, dopo una
decina d’anni, protrei dire di aver visto
“quasi tutto” il Grand Canyon!
Buonanotte!
La giornata successiva è dedicata al
Walhalla Plateau, dove troverò località
dedicate non solo agli dei nordici, come
indicherebbe il nome dell’altopiano,
ma anche a quelli indù, romani, a re
ebrei, a divinità egizie e, per finire in
bellezza, con l’Holy Grail Temple, “il
Tempio del Santo Graal”!
Sarà un’escursione di circa 160 chilometri, su trail in terra battuta ed in zona di montagna: se il tempo ce lo permetterà, ovvero se non vi saranno showers, flash flood, snow-storm o quanto
altro il sommo Giove possa inventarsi,
pranzeremo “al sacco” a Cape Royal,
dove, come è chiaramente indicato sulla mappa fornitaci al lodge, vi sono anche le toilettes!
Partiamo come al solito relativamente
presto, un po’ per evitare il caldo, ma
essenzialmente per trovarci al riparo al
momento del rituale acquazzone del
mezzogiorno: a quanto pare anche nell’Olimpo un po’ raffazzonato degli dei
nordici (e non) piove a mezzogiorno!
Il Ken Patrick trail è il solito tratturo
allargato (esclusa l’altitudine ed il panorama, mi sembra di stare girando
per le campagne del mio paese) con
l’aggravante dei tornanti, dato che abbiamo da superare un dislivello di circa 200 metri; quando arriviamo a
Point Imperial mi scordo di tutto: il panorama, anzi i panorami, sono mozzafiato, da un lato si stende, a perdita d’occhio, la Kaibab Forest, da un altro si
vede in lontananza, ma molto chiaramente, il Nankoweap creek, che dopo
poche miglia si getta nel Colorado, sotto di noi il Walhalla Plateau si offre in
una panoramica che ha dell’incredibile, aguzzando la vista si intravedono le
propaggini del South rim.
Vista Encantada ad il Roosvelt Point
(sarà poi vero che il PresidenteTheodore, guardando da questo luogo, si innamorò del Grand Canyon?) offrono un
bellissimo panorama del tavoliere, ma,
a causa della relativa minor altezza,
non spaziano come da Point Imperial.
Si prosegue e, dopo alcuni chilometri,
una piazzola indica l’inizio del sentiero
che ci porterà, pedibus calcantibus, ad
Atoko Point, per ammirare ancora l’altopiano e vedere un altro affluente del
Colorado, il Kwagunt creek ed il suo
omonimo canyon.
Proseguiamo per Cape Royal, un’area
attrezzata per pic-nic e con adeguati
ripari in caso di pioggia.
Pranzo “al sacco”, ed una volta di più
vedo in Lilyth non la mia guida ma la
mia “fata benefica”: come farà a farmi
avere dei panini che non contengono i
soliti intrugli tanto cari agli americani
(Mac Donald docet), ma appetitose
“pagnottelle” semplici e gustose?
Stranamente non piove e Lilyth sembra delusa; le chiedo perché, io ringrazio il cielo della bella giornata, lei mi
spiega che all’andata ha volutamente
saltato il Walhalla Overlook ed il Greenland Lake per farmi ammirare l’altopiano dopo la pioggia ed il tramonto
sul lago con l’arcobaleno: “Pazienza”
le dico “sarà per la prossima volta!”,
lei sorride e sono certo che sta pensando quello che penso io: “quando, e se,
tornerò in Arizona?”
Ci incamminiamo verso l’Overlook,
qui, anche se da molto più in basso, si
vede l’altopiano fino a Point Imperial
ed anche oltre.
Continuo a scattare foto, penso di aver
diritto ad una fornitura di rullini omaggio da parte della Kodak: sono
quasi certo che questo è il trecentesimo
rullino che utilizzo dall’inizio del tour!
Due ore di viaggio ed eccoci al Lago
della terra verde, un piccolo specchio
d’acqua di un verde abbacinante, certo, vederlo con l’arcobaleno sarebbe
stata tutta un’altra cosa.
Lungo la via del ritorno, ormai a pochi
chilometri dal lodge, facciamo una piccola deviazione, a piedi, l’Uncle Jim
trail ci porta all’Uncle Jim Point, da cui
possiamo ammirare, alla vivida luce
del tramonto in montagna, siamo a
2.541 slm, il Bright Angel Creek; quan-
- 48 -
do ci trasferiremo nel South rim lo costeggeremo per un lungo tratto, ma lo
potremo vedere da altezze molto inferiori.
Dopo il dinner, drink, sigaretta e letto:
domani ci attende Point Sublime, da
cui potremo ammirare il Grand Canyon nel tratto chiamato Granite Gorge
(Forra di granito), uno dei tratti più
stretti del Colorado River.
La distanza non è eccessiva, circa 40
chilometri, ma la strada, ovviamente
unpaved, in caso di pioggia diventa intransitabile, c’è quindi il rischio di rimanere bloccati, perciò tenda, razioni
d’emergenza, ecc.: sto per tornare sulle
Montagne Rocciose Canadesi.
L’alba si presenta bellissima, in alto
brilla ancora la luna, mi tornano in
mente i Promessi Sposi, Renzo fuggiasco che attraversa l’Adda… decisamente manco dall’Italia e da casa da
troppo tempo!
Siamo a Point Sublime in poco più di
un’ora, il panorama è unico (sarò ripetitivo, ma la realtà è questa: in Arizona
TUTTI i panorami sono unici!), vedo
le pareti rocciose del Grand Canyon ed,
in lontananza, il Tempio di Shiva, una
puntatina in India non guasta!
Pomeriggio di riposo al lodge, domani
ci aspetta una “passeggiatina zaino in
spalla” di oltre 50 chilometri, infatti
non vi è strada carrabile diretta tra il
North ed il South rim, l’unico mezzo è il
“cavallo di San Francesco”.
I bagagli e la macchina ci verranno
spediti e li troveremo al nostro arrivo
al Grand Canyon Village.
Girellando per il salone del lodge trovo
l’elenco di tutti i “luoghi sacri” del
Walhalla.
Mentre, sul patio, ammiriamo l’ultimo
tramonto sul North rim, con l’immancabile sigaretta tra le labbra e l’ancor
più immancabile bourbon tra le mani,
Lilyth mi comunica allegramente che,
per traversare il Colorado, dovremo
passare sul Navajo Bridge.
“Sai” mi dice in tono discorsivo (siamo
passati al “tu” dopo l’episodio della
Navaho Fortress), “uno di quei ponti
sospesi che piacciono tanto a Kit Carson”.
Mi auguro che scherzi perché, anche se
nel corso dei miei viaggi e specialmente
durante l’addestramento militare, di
quel tipo di ponti ne ho attraversati
tanti, la mia simpatia per loro è pari, se
non superiore, a quella che ne nutre
Kit Carson!
♥
- 49 -
sperone di roccia a quota 1.500 vediamo, poco sotto di noi, zampillare acqua
di una limpidezza unica che si getta,
scrosciando, nella voragine sottostante,
e che improvvisamente si biforca, come
indecisa sulla direzione da prendere,
infatti sul fondo, quasi invisibili nella
bruma mattutina, vi sono due canyon,
il Roaring e il Bright, lo scrosciante ed
il brillante, la decisione è certamente
ardua; con il flash riesco carpire qualche scorcio, ma già so che neanche con
una cinepresa riuscirei a fissare un’immagine così dinamica e suggestiva;
mezz’ora di riposo e si riparte, prossima tappa Cottonwood, area di campeggio attrezzata ed ultimo posto dove potremo rinfrescarci, infatti dopo di lì
non troveremo altri posti attrezzati fino al Ranch del fantasma.
Come era prevedibile gli 8 chilometri
del tragitto li percorriamo in quasi due
ore, e sono circa le 8,25 quando arriviamo all’area attrezzata e vi troviamo
una sorpresa; oltre ai prevedibili campeggiatori, non molti per la verità, c’è
un vecchio nativo che, oltre a vendere
bibite fresche e souvenir fa anche profezie: come ci vede arrivare pronostica
per noi due (non spiega se insieme o
no) una vita felice e tanti bei papoose
(bambini), confesso che rimango sconcertato, Lilyth scoppia ridere e mi spiega che il vecchio, tutte le mattine, a cavallo di un ronzino spelacchiato, viene
qui dalle vicinanze del Phantom Ranch,
dove ha una sua capanna, per vendere
la sua mercanzia e per fare le sue profezie, che si riducono a due, se è un o
una single felicità futura, matrimonio e
figli; se è una coppia felicità subito,
matrimonio e figli!
Scoppio a ridere anche io e compro da
lui un bellissimo condor scalpellato in
un sasso, poi mi viene il dubbio di trovare, sotto la base del condor , l’onnipresente marchio: “Made in China”.
Non è così e Lilyth mi dice che quegli
oggetti li fabbrica lui stesso, rassicurato, torno da lui ed acquisto alcune collanine (o sono braccialetti?) in pietra
dura e che a me sembrano molto gra-
CAPITOLO XXV
Alle 5 antimeridiane…
Alle 5 antimeridiane siamo già all’imbocco del North Kaibab trail, ci aspettano circa 25 chilometri per arrivare
sull’orlo del Grand Canyon, fare un
dislivello da quota 1.220 a quota 730 in
soli 7 chilometri, mangiare qualcosa al
Phantom Ranch, traversare il Colorado
sul famoso (o famigerato?) Navajo Bridge, risalire per 8 chilometri ed imboccare gli ultimi 11 chilometri del South
Kaibab trail.
Mi segno, come è mia abitudine fare
quando devo affrontare difficoltà sia
fisiche che intellettive, ed invoco l’aiuto
di San Maurizio, mio Santo protettore
(per dire tutta la verità ringrazio anche
s. Guido .*, che mi ha fatto fare quel
mese di addestramento).
Si parte, passo uguale, nessuna fretta,
decisamente mi hanno addestrato bene, e poi lo zaino che porto peserà si e
no 20 chili, contro i 40/50 delle esercitazioni!
Anche Lilyth dimostra di essere allenata ed, al termine del percorso, risulterà
dei due la meno stanca.
Sulla nostra sinistra costeggiamo, dal
rim, il Roaring Spring Canyon (il Canyon delle sorgenti scroscianti), Canyon
che abbiamo già visto, dal lato opposto,
dall’Uncle Jim Point; faremo la prima
sosta alle Sorgenti scroscianti, proprio
nel punto in cui questo Canyon si interseca con il Bright Angel Canyon e l’omonimo Creek.
Arriviamo alle sorgenti alle 06.15, 8
chilometri in poco più di un’ora, un’ottima media, se potessimo mantenerla,
cosa statisticamente improbabile, alle
11.00 saremmo al Phantom Ranch!,
soste comprese.
Speriamo di arrivarci poco dopo le dodici, potremmo così riposarci prima di
affrontare la risalita ed i circa 30 chilometri che ci separano dall’Hotel El Tovar, nostro alloggio al Grand Canyon
Village.
Lo spettacolo che si presenta ai nostri
occhi ha qualcosa di irreale: da uno
- 50 -
aver fatto a ruzzoloni l’ultimo chilometro e, da come mi sento, potrei averlo
fatto davvero.
“Una bistecca alta tre dita, tenera come il burro e sepolta sotto una montagna di patatine fritte” dopo, mi riaffaccio alla vita; sono le 14, secondo i calcoli possiamo riposare fino alle 15.00.
Comodamente sdraiato su un lettino
nel vasto patio del ranch, con a fianco
una corroborante bibita dei cui ingredienti distinguo solo l’alcool (sugli altri
forse è meglio stendere un velo pietoso!), ascolto Lilyth che mi racconta la
storia (leggenda?) del Phantom Ranch.
Vi sono ben tre leggende legate al nome, non certo augurale, del Ranch: la
prima, la più accreditata tra i nativi,
non solo Navajo, è che quel luogo, nonostante l’assoluta mancanza di tracce
di pueblos, fosse la sede primaria dei
primitivi abitanti, scomparsi molto prima che le tribù provenienti dal “Paese
dei laghi e dei grandi alberi” giungessero in quei luoghi, e che gli spiriti di essi
vi aleggino ancora; la seconda parla di
combattimenti, tutti da dimostrare ed
anche questi senza alcun riscontro, tra
le tribù indiane e gli “uomini di ferro” (gli Spagnoli), che volevano impossessarsi dell’oro e degli altri metalli,
più o meno preziosi, che a quel tempo
si supponeva abbondassero in quei siti,
anche in questo caso gli spiriti dei caduti vi si sarebbero domiciliati e continuerebbero le loro interminabili battaglie; la terza, anche questa senza
“pezze d’appoggio”, ma certamente la
più verosimile, è che fra quelle gole inaccessibili vi fosse un covo di banditi,
una specie di “last heaven” (ultimo paradiso), per ladri, assassini, trafficanti
di armi e di wisky e via elencando.
Questo “paradiso” fu scoperto, e distrutto insieme a tutti i suoi abitanti,
da un reparto di cavalleria (e non da
Tex e dai suoi pard) che pattugliava,
insieme ad altri reparti dell’esercito,
quelle zone impervie alla ricerca di
questi banditi, anche in questo caso
ecco spuntare i fantasmi delle “anime
dannate”, condannate a vagare senza
ziosi.
Ci fermiamo a Cottonwood per circa
un’ora, abbiamo bisogno di rinfrancarci per il tratto più duro della prima
parte del tragitto: ancora 15 chilometri
circa, di cui gli ultimi 6 da percorrere
su un dislivello di circa 500 metri.
Alle 10.00 in punto si riparte, abbastanza rinfrancati, infatti riusciamo a
percorre i 9 chilometri restanti del rim
in poco più di un’ora e mezza, un record, se si pensa che il sole è talmente
forte che io viaggio in pantaloncini ed a
torso nudo, e Lilyth, per ovvi motivi,
con qualcosa di molto leggero sopra gli
shorts.
Da Roaring Springs il trail costeggia il
bordo del Bright Angel Canyon, in un
succedersi di panorami uno diverso
dall’altro: qui nude rocce a strapiombo, poco più avanti un boschetto, una
radura con fiori che non avevo mai visto prima, piccole polle d’acqua che
appaiono e scompaiono come in un miraggio; ogni passo porta ad una nuova
scoperta, ad un nuovo, insospettato aspetto della natura!
Sul bordo del Grand Canyon sostiamo
qualche minuto e poi giù, per un sentiero scosceso che sembra voglia trascinarci nel Colorado, che ancora non vedo, ma che sento ruggire tra le pareti
di granito, un granito che cambia colore ad ogni passo, ad ogni tornante, ad
ogni avvallamento del trail !; mi fermerei tutti i momenti per flashare
(bruttissimo termine, ma è l’unico che
descrive l’azione da compiere, lampeggiare dà l’idea di Zeus sulla sommità
dell’Olimpo che, tanto per distrarsi,
lancia fulmini e saette verso i miseri
mortali!) questo caleidoscopio di colori, ma il tempo è tiranno e dobbiamo
arrivare al Ranch entro le 13.30, altrimenti non arriveremmo più al Village
per questa sera e non siamo attrezzati
per dormire fuori (pensare di dormire
al Phantom Ranch è impensabile, in
questo periodo non ci sono libere neanche le vasche da bagno!).
Con la lingua di fuori riusciamo ad arrivare al Ranch per le 13.15, penso di
- 51 -
aver fatto a ruzzoloni l’ultimo chilometro e, da come mi sento, potrei averlo
fatto davvero.
“Una bistecca alta tre dita, tenera come il burro e sepolta sotto una montagna di patatine fritte” dopo, mi riaffaccio alla vita; sono le 14, secondo i calcoli possiamo riposare fino alle 15.00.
Comodamente sdraiato su un lettino
nel vasto patio del ranch, con a fianco
una corroborante bibita dei cui ingredienti distinguo solo l’alcool (sugli altri
forse è meglio stendere un velo pietoso!), ascolto Lilyth che mi racconta la
storia (leggenda?) del Phantom Ranch.
Vi sono ben tre leggende legate al nome, non certo augurale, del Ranch: la
prima, la più accreditata tra i nativi,
non solo Navajo, è che quel luogo, nonostante l’assoluta mancanza di tracce
di pueblos, fosse la sede primaria dei
primitivi abitanti, scomparsi molto prima che le tribù provenienti dal “Paese
dei laghi e dei grandi alberi” giungessero in quei luoghi, e che gli spiriti di essi
vi aleggino ancora; la seconda parla di
combattimenti, tutti da dimostrare ed
anche questi senza alcun riscontro, tra
le tribù indiane e gli “uomini di ferro” (gli Spagnoli), che volevano impossessarsi dell’oro e degli altri metalli,
più o meno preziosi, che a quel tempo
si supponeva abbondassero in quei siti,
anche in questo caso gli spiriti dei caduti vi si sarebbero domiciliati e continuerebbero le loro interminabili battaglie; la terza, anche questa senza
“pezze d’appoggio”, ma certamente la
più verosimile, è che fra quelle gole inaccessibili vi fosse un covo di banditi,
una specie di “last heaven” (ultimo paradiso), per ladri, assassini, trafficanti
di armi e di wisky e via elencando.
Questo “paradiso” fu scoperto, e distrutto insieme a tutti i suoi abitanti,
da un reparto di cavalleria (e non da
Tex e dai suoi pard) che pattugliava,
insieme ad altri reparti dell’esercito,
quelle zone impervie alla ricerca di
questi banditi, anche in questo caso
ecco spuntare i fantasmi delle “anime
dannate”, condannate a vagare senza
ziosi.
Ci fermiamo a Cottonwood per circa
un’ora, abbiamo bisogno di rinfrancarci per il tratto più duro della prima
parte del tragitto: ancora 15 chilometri
circa, di cui gli ultimi 6 da percorrere
su un dislivello di circa 500 metri.
Alle 10.00 in punto si riparte, abbastanza rinfrancati, infatti riusciamo a
percorre i 9 chilometri restanti del rim
in poco più di un’ora e mezza, un record, se si pensa che il sole è talmente
forte che io viaggio in pantaloncini ed a
torso nudo, e Lilyth, per ovvi motivi,
con qualcosa di molto leggero sopra gli
shorts.
Da Roaring Springs il trail costeggia il
bordo del Bright Angel Canyon, in un
succedersi di panorami uno diverso
dall’altro: qui nude rocce a strapiombo, poco più avanti un boschetto, una
radura con fiori che non avevo mai visto prima, piccole polle d’acqua che
appaiono e scompaiono come in un miraggio; ogni passo porta ad una nuova
scoperta, ad un nuovo, insospettato aspetto della natura!
Sul bordo del Grand Canyon sostiamo
qualche minuto e poi giù, per un sentiero scosceso che sembra voglia trascinarci nel Colorado, che ancora non vedo, ma che sento ruggire tra le pareti
di granito, un granito che cambia colore ad ogni passo, ad ogni tornante, ad
ogni avvallamento del trail !; mi fermerei tutti i momenti per flashare
(bruttissimo termine, ma è l’unico che
descrive l’azione da compiere, lampeggiare dà l’idea di Zeus sulla sommità
dell’Olimpo che, tanto per distrarsi,
lancia fulmini e saette verso i miseri
mortali!) questo caleidoscopio di colori, ma il tempo è tiranno e dobbiamo
arrivare al Ranch entro le 13.30, altrimenti non arriveremmo più al Village
per questa sera e non siamo attrezzati
per dormire fuori (pensare di dormire
al Phantom Ranch è impensabile, in
questo periodo non ci sono libere neanche le vasche da bagno!).
Con la lingua di fuori riusciamo ad arrivare al Ranch per le 13.15, penso di
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ticato sport, ho scalato montagne come
il Cervino ed il Dente del Gigante nel
Massiccio del Monte Bianco, ho traversato le Montagne Rocciose, sono stato
sul Grande Atlante, in Marocco, e
poi…poi sono un uomo, perbacco!
Ed eccola li, con il respiro regolare,
sorridente, impeccabile, mentre io ho
paura di accendermi una sigaretta per
paura che il fumo mi vada di traverso!
Ci sono rimasti da percorrere ancora
10 -11 chilometri di trail, poi, dallo Yaki point al nostro albergo, altri 10 su
strada asfaltata; facciamo due conti e
ci rendiamo conto che, con la fatica
accumulata fino ad ora, arriveremmo
alla fine della pista a notte inoltrata, a
questo punto 28 chilometri sono tanti;
Lilyth prende il suo walkie-talkie e
chiama una guida sua amica pregandola di attenderci con un mezzo allo Yaki
point verso le 20.00, in modo da percorrere il tratto asfaltato in macchina.
Risolto così il problema, l’ultimo tratto
del sentiero mi sembra più breve ed,
arrivati al luogo dell’appuntamento
con un certo anticipo, mi posso voltare
indietro ed ammirare lo splendido tramonto sul Grand Canyon.
L’amico, per nostra fortuna, arriva
puntuale perché, appena saliti in macchina, un temporale improvviso viene a
guastare la stupenda giornata che Giove pluvio ci aveva regalato!
In albergo abbiamo appena il tempo di
lavarci le mani, dobbiamo cenare subito, alle 21.00 il ristorante chiude; sono
più di due mesi che sono in America ed
ancora non riesco ad abituarmi ad orari così insoliti, e così drastici, per noi
europei: in Italia alle 21.00 si comincia
a pensare se cenare in casa od ad andare al ristorante o in pizzeria!
Paese che vai, usanze che trovi; dopo
cena fumo la prima sigaretta della
giornata e poi a letto, ne sento la necessità.
La mattina successiva prendiamo una
delle navette che percorrono il South
rim (la maggior parte dei punti di interesse turistico non si può raggiungere
con mezzi privati, almeno di avere uno
senza riposo!
“Come in tutte le leggende” conclude
Lilyth da buona studiosa di Letteratura antica “un fondo di verità da qualche
parte deve esseci, ma dove?”.
Per me, in questo caso, la verità può
aspettare, sinceramente preferisco pensare al resto del cammino che ci attende nel pomeriggio.
Alle 15.00 in punto, abbastanza rinfrancati, ripartiamo alla volta del Navajo Bridge, che troviamo poche centinaia di passi dal Ranch: non è certo il
ponte descrittomi maliziosamente il
giorno prima da Lilyth, è si un ponte
sospeso, ma lungo si e no 150 metri (in
quel punto il letto del Colorado non è
più largo di 50/60 metri), le corde sono
in acciaio e il tavolato, anche se sembra
fatto di tavole di legno, in realtà è dello
stesso materiale usato per gli scafandri
spaziali, inoltre un sistema di pesi e
contrappesi garantisce che l’oscillazione sia praticamente impercettibile, insomma è un ponte sul quale perfino
Kit Carson salirebbe fischiettando!
Mi fermo qualche minuto sul ponte,
guardo le acque limpide e tumultuose
che scorrono un centinaio di metri sotto di me e scatto qualche foto, impossibile non farlo!
Dobbiamo ora affrontare una differenza di quote di circa 600 metri, dai 500
metri del ponte ai 1.100 del rim, con un
percorso lineare di non più di 7 chilometri: più che una salita è una scalata!
Solo la lunga sosta ci consente di effettuare il percorso in sole due ore e un
quarto, alle 17.15 siamo sul rim, possiamo ritenerci soddisfatti; un quarto d’ora di break e si riparte, guardo sottecchi Lilyth e provo un moto d’invidia:
sembra che sia appena tornata da un
giro di shopping, un po’ faticoso forse,
ma nulla di più; va bene che ha 13 anni
meno di me (ho scoperto che ha 28 anni, beata lei), va bene che è allenata, va
bene che , come nativa e come guida
conosce i luoghi meglio di me e quindi
può dosare meglio le sue energie, ma.
vivaddio, io ho dietro le spalle un allenamento quasi da Seal, ho sempre pra-
- 52 -
N maiuscola!
Lilyth mi dice che relativamente vicino, circa 6 chilometri tra andata e ritorno, vi sono le Dripping Springs, le
“Sorgenti Gocciolanti”, un sito che merita di essere visitato ed ammirato e mi
propone, sempre che me la senta, di
andarle a vedere; accetto con entusiasmo, in fondo, rispetto a ieri, si tratta
solo di “sgranchirsi” le gambe!
La passeggiata è piacevole, il sentiero
appena abbozzato che ci porta alla meta è quasi pianeggiante ed è ricoperto
di un tappeto di erba verdissima, sembra quasi di camminare su un tappeto
di velluto.
All’improvviso mi si apre davanti uno
scenario fiabesco: in mezzo ad un folto
“wood evergreen” una composizione di
rocce multicolori sembrano piangere e
le loro lacrime si raccolgono in una
conca di finissimo cristallo sfaccettato
e translucido, anch’esso di mille colori
e sfumature diverse, ci si aspetta che
dagli alberi e dalle rocce ninfe, elfi,
driadi, nani e satiri escano inghirlandati per intrecciare danze: “questi allegri satiretti delle ninfe innamorati per i
boschi ed i laghetti…”, Lorenzo il Magnifico è stato sicuramente qui in spirito prima di comporre quell’inno alla
vita che è il “Bacco in Toscana”, lo dico a Lilyth che annuisce, con le labbra
atteggiate ad un sorriso meraviglioso,
vecchio di secoli: forse è stata lei la musa ispiratrice di Lorenzo!
Scatto delle foto pur sapendo che esse,
per quanto bene mi possano riuscire,
non saranno che una parvenza di quello, reale ed irreale, che vedo e sento in
questo momento; lascio le Dripping
Springs, se lo avessero chiesto a me le
avrei battezzate “Le lacrime delle rocce” (il termine “sorgenti” è troppo riduttivo!), ed a malincuore ritorno al
Ristoro dell’Eremita.
Navetta, El Tovar, alle 16.30 siamo di
ritorno in albergo, noia; Lilyth mi
chiede se sono stanco, rispondo che no,
non sono stanco, sono annoiato, mi
prende per mano, quasi mi trascina
verso una navetta in partenza con l’in-
specialissimo permesso, che neanche la
mia fata turchina è riuscita ad ottenere
in così breve tempo), d’altronde la navetta è gratuita, nel senso che il suo utilizzo è compreso nel prezzo (piuttosto
salato) dell’albergo.
Lilyth ha organizzato la giornata in
maniera che non risulti troppo stressante, solo quattro soste relativamente
vicine tra loro; all’ultima tappa, l’Hermits Rest, cioè il Ristoro dell’Eremita,
mangeremo un panino per fermarci lo
stomaco, dato che non è un’area in cui
è consentito fare il pick-nick, a me la
cosa interessa poco, il nome per me è
tutto un programma: se ci si ristora un
eremita, figurarsi come mi ci ristorerò
io, che certo eremita non sono!
La navetta ci porta allo Yavapai point
e sosta per circa 15 minuti, secondo me
sono anche troppi, in effetti siamo alla
periferia del Village, ed oltre a ciò lo
scorcio più interessante è quello che
mostra il trail che abbiamo percorso
ieri e che oltre a me, anche i miei piedi
e le mie gambe conoscono benissimo!;
proseguiamo per l’Hopi point, e qui il
discorso cambia: si vede bene la scoscesa parete nord del Grand Canyon ed, in
lontananza, ma raggiungibili con il teleobiettivo, i tre pinnacoli dei Temples
di Shiva, Osiris e Isis, forse visibili meglio da qui che dal Point Sublime del
North rim.
Ancora avanti ed ecco il Pima Point,
sosta per ammirare, sempre ad una
certa distanza, il punto di immissione
del Crystal Creek nel Colorado river.
La navetta ci lascia all’Hermits Rest,
ripartirà dopo l’ormai consueta sosta
di 15 minuti; noi preferiamo attenderne una delle prossime (ne passa una
ogni ora) e fermarci qualche tempo in
questa piccola oasi di pace, circondati
solo dalla bellezza e dal silenzio che la
natura ha profuso in questo luogo di
sogno: merita certamente il nome che
gli è stato dato.
Comincio a scattare foto, cerco di far
risaltare, nella staticità dello scatto,
l’immensità della Natura, che qui davvero merita di essere citata con la
- 53 -
dicazione “GOING TO GRANDWIEW
POINT”, confesso che rimango un po’
sconcertato, non si era mai comportata
in modo così cameratesco, ma lei è la
“fata turchina” ed agisce sempre per
farmi cosa gradita!
Dopo un quarto d’ora o poco più di
viaggio scendiamo al Grandwiew Point,
rimango per un attimo sconcertato: è,
si, un bel panorama, ma non tale da
giustificare la corsa ed il modo di fare
della mia correttissima guida; poi il
sole comincia la sua lenta discesa dietro una mesa e capisco il perché: nessuno dovrebbe perdere un tramonto come quello che ammiro in questo momento: la Horseshoe mesa si ammanta
di mille colori, un canyon prima invisibile ora brilla per il sole che tramonta!
Mi sembra di vedere uno spettacolo già
visto, già vissuto, forse per interposta
persona, sprazzi di ricordi si affacciano
alla mia mente: non è l’Horseshoe mesa
che vedo, ma è la “Mesa del Cavallo
Selvaggio”, i miei occhi vedono Paquitich, l’inafferrabile mustang vividamente descritto da Zane Grey, svettare
orgoglioso e superbo sulla vetta della
mesa inaccessibile, Lilyth è senza ombra di dubbio la decisa, impulsiva e
dolcissima Sue Melberne… unico neo,
io non sono Chane e confesso che la
cosa mi dispiace molto!
Torniamo in albergo ed io mi domando
come un uomo come me, eminentemente pratico, con un lavoro che certo non
può lasciare campo alla fantasia pena
le più catastrofiche conseguenze, possa
confondere realtà di oggi, anche se stupende, e fantasie di ieri, quando, giovane e spensierato, spesso mi immedesimavo negli eroi, fortunatamente positivi, delle mie letture favorite: fascino
dei luoghi e delle atmosfere che vivo e
respiro?; la magia impalpabile che avvolge Lilyth?; forse solo il desiderio di
evadere dalle realtà sempre spiacevoli,
spesso sgradevoli, a volte orrende (vedi
Sabra e Shatila), e che il lavoro che ho
accettato di svolgere al servizio della
mia Patria mi propone diuturnamente?; sono domande a cui non so o forse
non voglio rispondere ..., tiremm innanz, domani è un altro giorno.
Secondo e, purtroppo, ultimo giorno
nel South Rim, che cosa ci propone oggi il menu?; ormai ho imparato a seguire pedissequamente l’itinerario preparato dalla mia perfettissima guida,
solo un folle potrebbe voler sostituire le
pietanze del menù che Lilyth ha deciso
di ammannire ai suoi invitati!
Ci aspetta un tragitto di circa 40 chilometri, da percorrere con la solita navetta, per arrivare alla prima tappa, le
Tusayan Ruin, un pueblo molto ben
conservato che ha l’inestimabile pregio di avere un piccolo ma completissimo Museo che ci racconta la vita, gli
usi ed i costumi degli antichi abitanti
del Grand Canyon; è una vera miniera
per chi, come me, non si accontenta
solo di panorami e scenografie, per
quanto possano essere stupende, ma
vuole capire l’animo di quei popoli che
qui hanno vissuto e che, in larga parte,
ci vivono ancora.
Lilyth ha organizzato tutto per il meglio, ho tutta la mattina per visitare il
Museo, mi “perdo” nelle piccole sale
museali, ognuna delle quali è dedicata
ad una diversa epoca della vita nel
Canyon e nelle sue immediate adiacenze; provo, in questo minuscolo Museo,
ignorato, o quasi, dalla marea turistica
che quotidianamente invade il South
rim, le stesse sensazioni, forse anche
più intense, che ho provato al British,
al Louvre, all’Egizio di Torino ed all’Etrusco di Roma: mi immedesimo al
punto da vivere tra e insieme agli uomini che hanno usato quegli oggetti che
oggi vengono sbrigativamente etichettati come “reperti archeologici”; davanti ad un piatto sbreccato, davanti
ad una pentola di coccio incrinata, davanti ad un mestolo spezzato mi viene
spontaneo chiedermi: “come avrà reagito la massaia davanti al “guaio” domestico?, certo non si è potuta recare
all’ipermercato più vicino per acquistare l’utensile danneggiato!, quanto
tempo e quanta pazienza avrà dovuto
usare per riparare, se possibile, rico-
- 54 -
struire o sostituire l’oggetto danneggiato?”.
Sono solo “i pensieri oziosi di un ozioso”, per dirla con J.K. Jerome, sono
elucubrazioni mentali fine a se stesse o
sono un profondo, e forse inconfessato,
desiderio di conoscere e capire i nostri
antenati?
Non lo so e non voglio saperlo!
Lascio il Museo con rammarico, devo
chiedere a Lilyth di condurmi, appena
rientrati al Village, in un Bookstore
ben fornito: non è mia abitudine comprare libri più o meno divulgativi sulle
località che visito, ma per il Tusayan
Museum l’eccezione è d’obbligo!
Pranzo al Desert Wiew, cento metri sotto di noi , a circa 5 chilometri, il South
Rim del Colorado River e, a seguire, il
Walhalla Plateau, con l’aiuto di un canocchiale, e ve ne sono tanti nel piazzale antistante il ristorante, si vede la
Kaibab Forest: per me è l’ultima occasione per ammirare la parte più bella
ed interessante del North rim.
Sulla via del ritorno la navetta si ferma
in due Point, il Lipan ed il Moran, scatto qualche foto, quasi controvoglia:
domattina a buonora si parte, si torna
alla “civiltà”!; domani ripercorreremo
questa stessa strada, ma io la percorrerò ad occhi chiusi, voglio ricordare il
Grand Canyon così come è stasera, bellissimo e malinconico, ricordarlo in
altro modo mi sembrerebbe un sacrilegio.
Addio, Grand Canyon!
♦
- 55 -
l’angoscia lancinante che ti attanaglia
quando, partendo per una missione,
devi dire ai tuoi cari: “Vado a fare un
servizio sulle condizioni di vita dei nostri
militari in Kosovo”, e poi, nottetempo,
ti imbarchi su un aereo senza contrassegni che ti lascerà, o paracaduterà, se
tutto va bene, a qualche decina di chilometri dal luogo del rendez-vous e
poi… sia fatta la volontà di Dio!
Le rare volte che mi sono trovato al
Ministero mi è capitato di vedere fascicoli con su stampigliato “Top Secret
XXX - Dead in Action” o, peggio ancora, incontrare padri, madri, mogli in
lacrime, increduli: “Mio figlio? Impossibile, lui era un giornalista, un commerciante, un segretario d’Ambasciata… è certamente un equivoco!”.
E spesso si scompare senza lasciare
traccia, allora una mano impietosa
scriverà sul fascicolo riservato
“MISSING IN ACTION” e la vita continua.
007, OSS117, Nick Carter e via discorrendo, eroi di carta, mutuati da racconti fantasiosi, buoni per chi non sa, o
non vuole sapere, la realtà delle cose;
armi sofisticate, mezzi ipertecnologici:
è grasso che cola se nel momento del
bisogno ti trovi tra le mani una vecchia
pistola od un coltello arrugginito!
CAPITOLO XXVI
Partendo, la mattina successiva…
Partendo, la mattina successiva, mi
riprometto di tornare ancora, voglio
percorrere il Colorado come fece Powell nel 1870, dalla Horseshoe Bend al
Grand Wash, provare l’emozione di
superarne le rapide e goderne i tratti
riposanti tra una rapida e l’altra, rivedere i maestosi picchi dei Temple, visitare ad uno ad uno i canyon inaccessibili che si susseguono innumerevoli
nella Hualpai Indian Reservation, bagnarmi nelle placide acque del Lake
Mead.
Confido questi miei desideri a Lilyth,
che mi rivolge un enigmatico sorriso.
Il viaggio prosegue tranquillo ma io
non ho molta voglia di parlare; ancora
pochi giorni e poi tutto tornerà alla
“normalità”, se così può essere definita
la mia vita, a New York saprò qual’è il
mio prossimo incarico: tra le rocce dell’Anatolia o tra le sabbie del Sahara, in
un covo di intrighi come Beirut o su un
fronte di guerra (di quelli ce ne sono
tanti, non c’è che l’imbarazzo della
scelta!), in prima linea o nelle retrovie,
dove i rischi sono gli stessi, ma coperti
dal fair-play; inutile fasciarsi la testa
prima di essersela rotta, dovunque andrò farò il mio dovere, pregando il Signore di non farmi più trovare in mezzo a centinaia di cadaveri di civili innocenti: sono un soldato, sono stato addestrato anche ad uccidere ed a prepararmi ad essere ucciso, ma ad armi pari, combattendo contro altri soldati;
non mi hanno addestrato (ed io avrei
rifiutato) per sparare su una folla di civili inermi!
Lilyth nota il mio turbamento e mi
chiede cosa ho: non posso risponderle,
l’angoscioso e terribile scotto che si paga nel mio lavoro è quello che ti impone di mentire a tutti, ai parenti, agli
amici, alle persone che stimi e che ami!
Sapevo, quando ho liberamente accettato questo incarico, che avrei dovuto
condurre una doppia vita fatta di inganni e menzogne, ma non conoscevo
* * * * *
Riemergo da questi momenti di riflessione e sorrido a Lilyth, scusandomi di
non essere un buon interlocutore e
dando la colpa del mio mutismo al fatto che questo tour meraviglioso sta per
finire.
Finge di credermi, è troppo intelligente
ed intuitiva per prendere per buona
una scusa così debole, anche se parzialmente vera.
Stiamo percorrendo la AZ64 nella Con
tea di Coconino che seguiremo fino a
Cameron, di li proseguiremo per Winslow che, con i suoi circa 7.000 abitanti,
è la prima città della Nazione Navaho.
Siamo ancora sul Plateau del Grand
Canyon, che non lasceremo fin dopo
Winsolw; il paesaggio scorre veloce,
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inizialmente ancora tra piante e rocce;
comunque è sempre il verde che domina, viaggiamo ad una quota che varia
da 2.000 a 1.500 metri slm.
Guardo e non guardo il panorama, ancora assorto nei miei pensieri: tra qualche giorno questa bella avventura sarà
finita.
A Winslow ci fermiamo per il pranzo
ed anche se “la bistecca è alta tre dita e
tenera come il burro e le patatine sono
rosolate e croccanti, cotte al punto giusto” mangio controvoglia, senza assaporare, in testa mi ronzano sempre le
stesse due parole “è finita”!
Si riparte per Holbrook, a mano a mano mi torna il buonumore, Lilyth, sempre attenta, riprende a parlare, mi racconta aneddoti e vecchie leggende dei
Navajos, cerca in tutti i modi di distrarmi, mi chiede se intendo fermarmi
ancora qualche giorno ad Holbrook o
ripartire subito per Flagstaff e Phoenix; le dico che non ho ancora deciso e
lei, con nonchalance, mi dice che di li a
tre giorni tornerà a Flagstaff per riprendere le sue lezioni alla N.A.U.
Decido di rimanere ad Holbrook e tornare a Flagstaff insieme a lei: mi sembrerà così di essere ancora in vacanza
e non sulla via del ritorno!
Arriviamo ad Holbrook verso le 16.00,
Lilyth mi lascia in albergo e mi da appuntamento di li a tre giorni, ora farà
una “scappata” dai suoi nella fattoria
del Canyon de Chelly.
Appena rinfrescato telefono al Visitor
Center e chiedo del Direttore, voglio
ringraziarlo per come ha organizzato il
mio tour e soprattutto per la preziosa
guida che mi ha dato: non mi fa parlare ma mi chiede, se non mi reca troppo
disturbo, di recarmi nel suo ufficio;
non me lo faccio ripetere due volte, sono ben felice di incontrarlo di persona!
Dieci minuti dopo sono da lui, quasi lo
abbraccio tanto è il piacere di rivederlo!, trovo ancora Lilyth, che prima di
partire, sta facendo il suo bravo rapporto, ci ri-salutiamo e lei scappa via
come una folata di vento primaverile.
Ci mettiamo a parlare, o meglio parlo
solo io: ho tante cose da dire, tanti ringraziamenti da fare, lui si schermisce:
ha fatto solo il suo lavoro.
Sento la necessità di sdebitarmi per
come sono stato accolto e seguito in
questa mia vacanza ed invito lui ed il
suo staff a cena per la sera successiva,
dopo un po’ di convenevoli accetta ed
io ritorno in albergo: ho bisogno di tirare i remi in barca e di stare un po’
solo.
Passai quei tre giorni ad Holbrook andando da un Museo ad una Biblioteca
ad un altro Museo; per essere una cittadina di non più di 4.000 abitanti Holbrook è ricca di centri di cultura, per
la maggior parte dedicati allo studio ed
alla conservazione della memoria storica del popolo Navajo.
Era la seconda volta che visitavo queste istituzioni culturali ma, a differenza
della prima, mi avvicinavo ad esse con
un approccio diverso: se la prima volta
era stata la curiosità e la voglia di sapere che mi aveva spinto, ora le visitavo
con occhio e spirito diversi, volente o
nolente avevo assorbito, anche se in
minima parte, l’animo e lo spirito di
questo popolo, di questo Diné, perfettamente cosciente dei valori fondamentali della loro tradizione, fiero di quello
che erano stati e che sono tutt’oggi, in
una parola orgogliosi di essere Navaho,
o meglio ancora Navahuu, un termine
poetico che tradotto suona più o meno
così “Campo coltivato in un piccolo corso d’acqua”; io, dopo aver vissuto pochi giorni, se non addirittura poche
ore, con loro ed in mezzo a loro, direi
che quella definizione, per quanto poetica, è restrittiva, sarebbe certamente
piuttosto più giusto dire “Grande cuore
sul Grand River”!
Approfittai largamente del fatto che,
essendo in buoni rapporti con il personale del Visitor Center, la popolazione
fosse di una disponibiltà incredibile:
passavo quindi dal Museo ad uno store,
parlando con tutti, cercando di approfondire la conoscenza di una popolazione meravigliosa; a distanza di più di
trent’anni conservo ancora vivo il ri-
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cordo di queste chiacchierate amichevoli e, mentre per ricordare i particolari del tour devo guardare le vecchie e
sbiadite fotografie scattate in quei luoghi, i volti e l’animus di quel popolo
non hanno bisogno di stimoli, ricordo
perfino gli impronunciabili nomi con
cui si presentavano, salvo poi darmene
una, certamente sbiadita, traduzione
inglese.
I tre giorni passarono in un lampo, tutte le sere cenavo insieme allo staff del
Visitor Center e l’ultima sera, quando
ci salutammo, mi sembrò di lasciare
amici che conoscevo da sempre.
♣
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mossa anche lei!
Prima di lasciarci ci scambiamo gli indirizzi, ripromettendoci di scriverci.
Sulla porta dell’albergo sento la voglia
di abbracciarla ma mi trattengo, non
voglio rovinare tutto, non voglio perdere un’amicizia che mi è cara.
La mattina successiva, alla stazione
ferroviaria, ho una sorpresa meravigliosa, Lilyth è li che mi aspetta, commossa e sorridente, mi porge un pacchettino: “in ricordo del popolo navajo”
mi dice, lo apro con impazienza: è una
bambolina intagliata nel legno; Lilyth
mi spiega che è una Kacinah, un oggetto che rappresenta uno spirito, nella
fattispecie lo spirito del ricordo, la apre ed all’altezza del cuore vedo una
minuscola pietra: “è una pietra che ho
preso sulla Navaho Fortress, il giorno
che tu hai mostrato di capire a pieno
l’anima del popolo navajo!”, non posso
resistere, l’abbraccio, lei si irrigidisce,
poi capisce il significato del gesto e mi
stringe anche lei, ci salutiamo definitivamente con le lacrime agli occhi.
Sono tre ore che viaggio ed ancora sono tra le nuvole: la delicatezza del gesto ed il suo significato mi commuovono: sono diventato anche io una parte
di questo grande, meraviglioso popolo!
Arrivo a Phoenix in perfetto orario,
rapida corsa all’aeroporto, chek-in,
imbarco, decollo: New York, arrivo!
CAPITOLO XXVII
Alle 09.00 in punto…
Alle 09.00 in punto del mattino successivo Lilyth mi attendeva nella hall dell’albergo; caricati i miei bagagli in
macchina diedi l’ultimo addio ad Holbrook e partimmo alla volta di Flagstaff, un rapido lunch lungo la strada
e, nel tardo pomeriggio, arriviamo a
destinazione; Lilyth mi lascia in albergo e ci diamo appuntamento per il
pranzo del giorno successivo.
Con domani si chiuderà una parentesi
unica della mia vita, tra 48 ore sarò in
viaggio per New York.
Passo la mattinata passeggiando per le
strade della città, aspettando l’ora di
pranzo; rientro in albergo e mi vesto,
come direbbe mia madre, in “modo
civile”: tout de même, cravatta, camicia
ben stirata, scarpe in tinta.
Arriva Lilyth: gonna, camicetta, scarpe con tacco, borsetta, niente trucco:
più che una professoressa sembra una
liceale al primo appuntamento.
Mi saluta sorridendo e, mentre saliamo
in macchina, mi dice che è riuscita a
liberarsi dagli impegni e che ha tutto il
pomeriggio libero, se sono d’accordo
potremo passarlo insieme; figurarsi!,
io pensavo di passare un noiosissimo
pomeriggio, con la vaga speranza che
potesse essere libera per la cena; dopo
pranzo mi porta a visitare alcuni angoli caratteristici della città e, per cena,
andiamo in un locale appena fuori della città, dove suonano musica navajo;
Lilyth parlotta con il capo del complessino ed ecco una lenta melopea si sprigiona dagli strumenti dell’orchestra: è
un canto navajo che invoca gli spiriti
perché proteggano la famiglia e la casa; ricordo ancora gli ultimi versi:
“Spiriti di tutte le cose
sotto i cieli,
Benedite la mia casa
fatta di fango, resina, pino.
Benedite la mia famiglia
fatta di sangue, midollo, osso.”
Mi viene un nodo alla gola, mentre
Lilyth mi traduce la parole... è com-
♠
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intorno, mi chiedono se mi sento male,
chiamano Gianni, che accorre, legge la
notizia ed impallidisce: lui sa i rapporti
che mi legano al pilota!
Squilla il telefono: è Guido, un aereo
dell’Aeronautica Militare è pronto al
decollo all’aeroporto di Pratica di Mare, attende solo me per partire; Gianni
non vuole che parta solo, mi affianca
un giovane e bravo collega, io lo prego
di correre a Velletri per avvertire i
miei, in particolare mia nonna, sofferente di cuore, non voglio che siano i
Carabinieri a portarle la notizia.
Alla porta troviamo due volanti della
Stradale, una mi porterà a Pratica di
Mare, l’altra porterà Gianni a Velletri;
penso confusamente che dovrò ringraziare Guido per le sue premure, a cosa
si pensa in questi momenti, forse è un
modo per restare attaccati alla realtà
di tutti i giorni!
A Caselle torinese trovo una folla ad
attendermi: personale dell’aeroporto,
dirigenti della FIAT AVIO, giornalisti,
fotografi e semplici curiosi; quattro
Carabinieri mi fanno strada verso una
gazzella, che, a sirene spiegate, mi porta al CTO, questo lo debbo a Raffaele .*, il Segretario Nazionale dell’Associazione ex Allievi, attivatosi immediatamente, appena saputa la notizia; è
commovente vedere quanti amici mi
sono vicini in questo momento di dolore!
Al CTO non mi fu possibile vedere
mio zio: era in rianimazione, sotto tenda a ossigeno ed in stato di incoscienza;
parlo con i medici, non mi lasciano
molte speranze, in base ai risultati della TAC se sopravviverà, un se grande
come una casa, resterà paralizzato; mi
rivedo davanti mio zio, pieno di vita,
sempre sorridente e lo vedo paralizzato, in fondo ad un letto o, nella migliore
delle ipotesi, su una sedia a rotelle!,
meglio la morte!; ma che dico, che penso, la morte non è mai la soluzione migliore!
Non resta che pregare, mi reco a Superga, teatro anche li di una sciagura
aerea, rimango per non so quanto tem-
CAPITOLO XXIX
Tornato in Italia…
Tornato in Italia ripresi il mio lavoro
al giornale, ero oramai un “vecchio”
della carta stampata, avevo al mio attivo una serie di “servizi” che, data la
mia possibilità di accedere a “notizie
riservate”, ovviamente non pubblicabili
ma rielaborabili in maniera tale da
permetterne la divulgazione, mi ponevano in quella ristretta cerchia dei
“corrispondenti di guerra” più quotati
ed informati: ricevevo offerte da prestigiose testate, periodici ed ebdomadari specializzati mi chiedevano articoli
ad hoc, perfino alcune testate straniere
avrebbero gradito articoli con la mia
firma; dopo essermi consultato con
Gianni e Guido, accettai di collaborare
in maniera continuativa con alcune riviste specializzate, mentre gli altri richiedenti si dovettero accontentare di
qualche articolo “d’opinione” che scrivevo con notevole parsimonia.
Per giustificare il mio rifiuto a migliorare di molto la mia situazione economica, Gianni, in accordo con Guido,
l’Editore ed in parte con il Ministero
delle Finanze, che però non ne seppe
mai il motivo, mi aumentò notevolmente, ma solo sulla carta, lo stipendio; secondo il metro delle retribuzioni dei
giornalisti professionisti, dato il tipo di
testata, ero strapagato.
Devo dire, a loro onore, che i colleghi
non brontolarono per i miei emolumenti, alcuni addirittura ritenevano
che fossi sottopagato!
Passarono circa due anni quando, il
primo giugno del 1984 giunge in redazione una notizia terribile per tutti, ma
per me particolarmente atroce: il prototipo sperimentale del caccia di appoggio tattico AMX è precipitato nei
pressi dell’aeroporto di Caselle Torinese, ai comandi il pilota veliterno, capo
collaudatore della FIAT AVIO, Manlio
Quarantelli, mio zio!
Devo rileggere più volte il breve flash
dell’ANSA, stento a crederlo!, i colleghi, vedendomi impietrito, mi si fanno
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po davanti al Santissimo, muto, incapace perfino di pregare, riesco a malapena a ripetere, meccanicamente,
“Signore, pietà!”.
Di quei giorni ricordo solo le ore passate al CTO prima, alle Molinette poi, in
un’alternarsi di speranze e disillusioni,
le lunghe telefonate con mia nonna e
mia madre; sarebbero volute venire,
ma riuscii a dissuaderle: a che cosa sarebbe servita la loro presenza se non
ad aumentare la loro angoscia?
Tornai a Roma anche io, le condizioni
di zio erano gravi ma stazionarie, la
mia presenza era inutile, Camillo .*,
Segretario della sezione Piemonte dell’Associazione ed un giovane Ufficiale
dei Carabinieri, anche lui ex-Allievo,
mi avrebbero tenuto al corrente del
decorso clinico, telefonandomi più volte al giorno.
Mi trasferii a casa dei miei, Gianni e
Guido mi chiamavano giornalmente, i
miei amici più cari cercavano notizie,
Peppe .* si recò a Torino per avere notizie “sicure” dai colleghi delle Molinette, Corrado .* da Washington e Dino .*
da Ankara mi telefonarono più volte,
Raffaele .* venne a trovarmi, ero circondato da testimonianze di affetto che
non avrei creduto possibili.
Il 7 luglio una telefonata mi fece ripiombare nella disperazione: nella nottata, a causa di un improvviso aggravamento, zio era stato trasportato al
CTO di Milano, più attrezzato, per essere nuovamente operato, un ultimo,
estremo tentativo di strapparlo alla
morte!
Di nuovo corsa forsennata all’aeroporto, Fiumicino, Malpensa, CTO, lunghe
attese, incontri con gli specialisti, il decorso post operatorio che lascia qualche tenue speranza, la degenza tra miglioramenti effimeri e ricadute allarmanti, poi, il 19 agosto, la fine!
Il giorno del suo 58° compleanno zio
Manlio entrava nella Gloria del Signore e nella storia degli uomini: per il suo
gesto eroico l’Aeronautica Militare gli
concedeva la Medaglia d’Oro al Valore
Aeronautico, lo Stato, su proposta del-
la Giunta municipale e dei cittadini di
Caselle, miracolosamente scampati alla
strage, gli concedeva la Medaglia d’Argento al Valor Civile, il Brasile, coproduttore dell’AMX, una decorazione
per “L’alta professionalità ed il valore
che lo hanno portato al sacrificio supremo”; diverse città italiane, con in
testa ovviamente la Sua Velletri, gli
hanno intitolato una via od una piazza.
Lui non c’è più, ma il suo ricordo è impresso per sempre nel mio cuore, ancora oggi, a distanza di tanti anni, mentre scrivo queste righe mi si inumidiscono gli occhi.
Arrivederci, zio!
♦
- 63 -
Mi giunse un invito dall’Ambasciata
Israeliana, lo avrei declinato volentieri,
ma esigenze diplomatiche non me lo
consentirono e fu una fortuna…
Mentre vagavo nei saloni dell’Ambasciata, rispondendo meccanicamente ai
saluti ed alle domande degli invitati, mi
sembrò di scorgere una figura conosciuta, mi avvicinai e si, era proprio lei,
la mia hostess, Grazia!; un po’ invecchiata, ma sempre lei, e poi io la vedevo con gli occhi di allora, a Kyoto, allegra e sorridente, nel bagno comune di
Tokyo, sorridente e maliziosa, la mattina in albergo, preoccupata perché non
sapeva dove fossi andato.
Era stata per me una ventata di freschezza, un punto di forza in un momento in cui ancora non sapevo quale
via avrebbe preso la mia vita!
Solo adesso mi accorgevo di quanto
avesse contato per me e di quanto, seppure inconsciamente, lei fosse stata
sempre presente in ogni momento della
mia vita!
Cominciai a parlarle tumultuosamente,
senza riprendere fiato: volevo sapere
tutto di lei, cosa faceva, come viveva, se
era sposata, con chi, perché… lei mi
guardava sorridendo, con lo stesso sorriso che aveva sull’aereo dove l’avevo
vista per la prima volta, con la stessa
grazia che aveva in Giappone, dolce e
deliziosa come allora…
Quando riuscii ad arginare il torrente
di frasi, per lo più confuse ed incoerenti, che quasi l’avevano travolta, lei cominciò a raccontarmi la sua vita: morto il padre, sua madre si era ammalata
gravemente e lei aveva lasciato l’Alitalia per starle vicino; grazie alla sua conoscenza delle lingue ed a suo cugino
Giancarlo, che si era reso garante per
lei, aveva ottenuto un posto di traduttrice al Ministero degli Affari Esteri, la
sua intelligenza ed il suo savoir faire
avevano fatto il resto ed ora era una
dirigente del Dipartimento Relazioni
Diplomatiche.
Anche lei non mi aveva dimenticato ed
aveva più volte chiesto al cugino notizie
sul mio conto.
CAPOTOLO XXXIV
La mattina del 2 agosto 1990…
La mattina del 2 agosto 1990 tutto il
mondo seppe che le truppe irachene
avevano passato la frontiera del Kuwait ed invaso il piccolo Stato; quello
che non poteva sapere erano i convulsi
contatti intercorsi tra le grandi potenze, allertate dai rispettivi Servizi, per
scongiurare l’invasione; i Paesi tradizionalmente vicini all’Iraq, come la
Russia e la Cina, oltre ad alcuni Stati
arabi, avevano invano esercitato la loro
influenza su Saddam: il dittatore, per
tacitare i forti dissidi interni, non aveva altro mezzo che fare leva sullo spirito nazionalistico della popolazione e
quindi, dal suo punto di vista, l’unica
soluzione logica era la guerra di riconquista della diciannovesima provincia!
I Servizi erano al massimo dei giri, al
King David, l’albergo di Gerusalemme
dove si erano installati tutti i corrispondenti (e tutti gli spioni!) della
stampa internazionale, trovare un angolo libero era praticamente impossibile: per avere una consumazione al bar
c’era da attendere un’ora, al ristorante
si pranzava e si cenava a turno ed i telefoni erano perennemente occupati!
Io vivevo praticamente tra la nostra
Ambasciata e la sede del mio team, attualmente composto da Žjiva e Caleb
del Mossad, Elia e Sara della Shin Beth
e due giornalisti, uno americano ed uno
inglese, dei quali non sapevo neanche il
nome. A tutto questo bisognava aggiungere i servizi giornalistici che dovevo inviare al mio quotidiano, perchè
per tutti io ero un inviato speciale, un
po’ più informato degli altri (avevo le
mie fonti), e per questo i colleghi mi
stavano sempre intorno, sperando che
mi scappasse qualche indiscrezione;
come se non bastasse un canale televisivo italiano mi cercava in ogni momento
per avere notizie fresche!
Riuscii a trovare qualche giorno per
fare una scappata in Italia; anche qui
non trovai pace tra il giornale, il Servizio, mia madre e via discorrendo...
- 73 -
Giancarlo aveva potuto ovviamente
dirle ben poco: lavoravo presso una
testata giornalistica della Capitale, ma
difficilmente mi si poteva trovare in
sede, in quanto la direzione mi mandava frequentemente all’estero come inviato speciale.
Ricordando Hong Kong e Tokyo lei
aveva intuito quale fosse il mio vero
lavoro, ma saggiamente si era astenuta
dal porre ulteriori domande.
Come se fossimo tornati indietro di
vent’anni le chiesi se era libera per
pranzare con me il giorno dopo e, come
vent’anni prima, lei mi rispose che le
era impossibile, ma che avrebbe cercato di liberarsi per la cena,
Come allora andai trepidante all’appuntamento serotino, ma, a differenza
di allora, lei venne sola.
Parlammo di noi, della nostra vita e,
piano piano, arrivammo a confidarci
tutto: le dissi della mia fallimentare
esperienza matrimoniale, della mia solitudine, di come, nonostante tutto, mi
sentissi quasi un fallito; mi rincuorò
perché, a suo avviso, dal poco che le
avevo potuto raccontare e dal tanto che
lei aveva indovinato, avevo avuto una
vita piena, anche se qualcosa non era
andata per il verso giusto; al confronto
la sua vita era stata piatta e monotona:
fare l’hostess non è una vita di divertimenti folli, ma di sacrifici e rinunce, il
lavoro al Ministero era soddisfacente,
ma di routine, il dolore per la morte del
padre, la diuturna assistenza alla madre, ormai allettata da più di un anno… No, non si era sposata: aveva avuto delle richieste in tal senso, ma non si
era mai decisa, aspettava l’uomo giusto, mi confessò arrossendo… ci lasciammo, come allora, con un timido
bacetto sulle guance.
Ero sul piede di partenza quando ricevetti una telefonata da Giancarlo: la
madre di Grazia si era aggravata, doveva essere ricoverata d’urgenza e, in
tutta Roma, non si riusciva a trovare
un letto libero in una struttura che desse garanzie di un’assistenza adeguata;
si era ricordato che un mio amico era
Presidente di una clinica nei Castelli
Romani e mi chiedeva di intervenire
per procurarle il ricovero presso quella
struttura.
Nel giro di un’ora potei confermargli
che il posto c’era e che Grazia poteva
portarci la mamma anche subito.
Mandando all’inferno tutti gli impegni
mi recai in clinica ad attendere l’arrivo
dell’ambulanza, nel frattempo avevo
allertato mia madre: Grazia, sola con
un’ammalata, in un posto che non conosceva, avrebbe avuto senz’altro bisogno di una presenza femminile.
Dopo il ricovero andai a parlare con i
medici, li conoscevo tutti ed alcuni erano stati miei colleghi all’università, mi
dissero che, purtroppo, solo un miracolo avrebbe potuto salvare la signora: la
malattia aveva raggiunto un tale stadio
che loro erano impotenti, potevano solo
alleviare le sue sofferenze.
Provai una stretta al cuore pensando a
Grazia che, tra poco, si sarebbe trovata
completamente sola: non era giusto!
Ne parlai con mia madre per cercare
un modo di starle vicino e credemmo
di aver trovato una soluzione, sempre
che Grazia la accettasse: io vivevo per
mio conto, ai tempi del mio matrimonio avevo acquistato un piccolo appartamento vicino alla casa dei miei pensando che, una volta lasciata Bari, avrei potuto abitarlo con mia moglie,
mentre mia madre viveva insieme a
nonna nella villetta di campagna, pensava quindi di offrire a Grazia di andare ad abitare con loro, almeno per un
breve periodo.
Dopo dieci giorni di agonia la mamma
morì e Grazia accettò di buon grado,
“purchè non recasse disturbo”, di trasferisi presso i miei, non se la sentiva di
tornare nell’appartamento di Roma,
completamente vuoto ed oltretutto non
di proprietà, ma in affitto.
Avrebbe fatto l’abbonamento al treno
e si sarebbe recata al lavoro con quel
mezzo.
Sistemate così le cose ripartii per Gerusalemme, dove trovai notizie sconfortanti: Saddam aveva cominciato a
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deportare gli abitanti del Kuwait ed ad
inviare, nei loro territori, gli iracheni
che appartenevano al suo fedelissimo
clan.
Tutto ciò avveniva mentre i Grandi della terra si accapigliavano all’ONU ed il
Consiglio di Sicurezza non sapeva che
pesci pigliare.
Tornai un’altra volta in Italia, volevo
rivedere Grazia e partecipare ad un
evento eccezionale: il 18 novembre,
giorno della fondazione della Scuola
Militare e del Giuramento di Fedeltà
alla Patria dei nuovi allievi, coincideva
con il quarantesimo anniversario della
nascita dell’Associazione ex Allievi, era
qualcosa di rilevante, e tutti gli ex allievi che avessero potuto liberarsi non
sarebbero certo mancati all’evento!
Pensai quindi di invitare Grazia a partecipare anche lei come mia accompagnatrice, così come era successo a Kyoto, e ben deciso a comportarmi nella
stessa maniera.
Grazia accettò ed io, a scanso di equivoci, mi premurai di prenotare due
stanze all’hotel Terminus, dove ero solito scendere quando mi recavo a Napoli.
Proprio al Teminus, appena arrivati,
accadde un episodio imbarazzante, che
non so quante donne avrebbero superato con un’allegra risata, come fece
Grazia: alla concierge vi era un addetto che io conoscevo da tempo, eravamo
diventati amici, e che, come mi vide in
compagnia di una donna, conoscendomi come mi conosceva, non guardò neanche il registro delle prenotazioni ma
si rivolse ad un collega dicendo:
“presto, la solita matrimoniale per il signor Maurizio!”. Guardai con apprensione Grazia, mentre comunicavo allo
sbalordito impiegato che avevo prenotato due camere singole.
Non so dei due chi fosse più stupito, se
l’impiegato o Grazia, di certo io mi
sentivo
molto più imbarazzato di
quando a Tokyo, nel bagno comune,
era apparsa Grazia!
Chiarito definitivamente l’equivoco,
sotto lo sguardo un po’ imbarazzato ed
un po’ ironico dell’impiegato, ci registrammo e, prese le chiavi, ci recammo
nelle nostre rispettiva camere.
Grazia non conosceva Napoli ed espresse il desiderio di fare due passi
prima di cena, accondiscesi volentieri,
ansioso come ero di far dimenticare lo
spiacevole ed imbarazzante episodio di
poco prima.
Lei guardava con curiosità i bei negozi
del rettifilo, scherzando su quanto era
accaduto: “devi essere ben conosciuto
in quell’albergo” mi disse facendo una
bella risata; risi anch’io, però a mezza
bocca: non volevo che Grazia pensasse
che io fossi un donnaiolo impenitente!
Dopo la cena, che consumammo in un
localino a conduzione familiare e che io
prediligevo per il cibo e per il posteggiatore che, accompagnandosi con la
chitarra, cantava le più belle melodie
napoletane; andammo in centro: via
Toledo, i Quartieri Spagnoli, via
Chiaia, Piazza Martiri, Piazza del Plebiscito, tutto era nuovo per lei, ma lo
era stranamente anche per me, era la
prima volta che visitavo quei luoghi
tanto familiari in compagnia di una
donna colta ed intelligente e non con
una bambola vana, buona al più ad
essere la compagna di una notte!
Terminammo la serata al Gambrinus, il
locale famoso per essere stato il ritrovo
preferito di poeti, scrittori e musicisti,
da Bovio a Bongiovanni, da Scarpetta
a D’Annunzio, da Di Giacomo al principe de Curtis, meglio conosciuto con il
nome d’arte di Totò.
Un babà, un brandy e poi via in albergo
a dormire, la mattina seguente ci saremmo dovuti alzare presto.
Ci augurammo la buona notte sulla
soglia della sua camera scambiandoci,
come ormai era diventata una (per me
piacevolissima) consuetudine, un rapido bacio sulle guance.
♣
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Pranzai con Grazia nel solito ristorantino, con l’accompagnamento musicale
del posteggiatore che, avendoci sicuramente scambiati per una coppia di innamorati, non si allontanò mai dal nostro tavolo, suonando le arie più romantiche del suo repertorio!
Quel pomeriggio, lasciata Grazia in
albergo, feci una bellissima rimpatriata: Lino, ora Generale comandate della
Scuola ABC della Cecchignola, Corrado, Addetto Militare a Washington
DC, Luciano .*, Direttore del Servizio
Approvvigionamenti Esercito presso il
Ministero, Piero .*, Maurizio .*, Generale degli Alpini, con incarichi particolari presso la NATO, il mio fraterno
amico Giuseppe .* (detto Pepè), celebre
chirurgo plastico ricostruttivo che, oltre ad esercitare come libero professionista presso una grande clinica, prestava la sua opera, praticamente gratis, al
Regina Elena, l’ospedale oncologico
della Capitale, in team con Francesco
(Checco) .*, nostro “cappellone”, (ossia
che era entrato alla Scuola due anni
dopo di noi), ed ora primario chirurgo
del reparto maxillo-facciale di quel
centro.
Il pomeriggio passò in un attimo, tra
carrellate di ricordi e bonari sfottò (…
ti ricordi quando ti davi malato per
evitare l’interrogazione di latino…, tu
che servivi Messa non per fede ma per
squagliare la rivista…, tu che facevi il
piantone alle camerate perché dicevi
che la ginnastica pomeridiana faceva
male alla digestione…, e tu che…).
Parlammo anche di cose serie, della
professione, della famiglia, ma soprattutto parlammo degli assenti, non per
loro volontà, ma perché cause di servizio e malattie ce li avevano tolti per
sempre. Di loro, e di quelli degli altri
corsi, ce ne saremmo ricordati, con
commozione e rispetto, la domenica
successiva, durante la Santa Messa.
Tornai in albergo per prendere Grazia
pensando ancora al pomeriggio appena
trascorso, ai miei colleghi, alle loro vite
ed alle loro carriere, delle quali potevano parlare, mentre io…
CAPITOLO XXXV
Mentre, il giorno dopo…
Mentre, il giorno dopo salivo, insieme a
Grazia, verso Pizzofalcone, sul monte
Echia, sede della Scuola Militare, un’ondata di ricordi mi assalì: mi rivedevo, poco più che quattordicenne, salire
per quelle stesse vie con una valigetta,
tante speranze e tanta nostalgia di casa; rivedevo il maestoso portale d’ingresso della Scuola, gli ufficiali che ricevevano me ed i miei colleghi, i furieri
che ci consegnavano gli effetti personali e la divisa, sentivo di nuovo le note
del silenzio che, ascoltato per la prima
volta, causava nell’animo un sentimento misto di nostalgia e di speranza...
Passai con riverenza, proprio come allora, la porta carraia ed entrai nel
“cortile grande”, affollato di ex allievi
(eravamo accorsi in duemila al richiamo dell’Alma Mater!), fui indirizzato
alla Sala di Scherma per la registrazione: diedi il mio nome e l’anno di corso
e presentai Grazia come mia ospite, ci
dettero un foglio con il programma di
tutte le manifestazioni previste ed una
cartellina contenente la documentazione necessaria per parteciparvi, alcuni
volumi sulla storia della Scuola e dell’Associazione ed un libretto con i nomi
e gli indirizzi di tutti gli ex allievi, divisi per corso, attività professionale e
luogo di residenza.
Con dei pullman ci recammo al Campo
Sportivo Militare dell’Arenaccia, per
assistere al giuramento dei nuovi Allievi e poi, davanti alle Autorità ed agli
invitati, sfilare come allora divisi in
Compagnie di formazione.
Ancora ricordi e, perché no, qualche
sospirone per nascondere gli occhi,
stranamente lucidi!
Per il pranzo non erano previsti incontri, mentre nel pomeriggio, nei locali
della Scuola, ci sarebbero state riunioni separate per ogni corso; ci saremmo
ritrovati tutti insieme la sera, al molo
Beverello, per imbarcarci sull’Angelina
Lauro, dove avremmo cenato mentre
solcavamo il golfo.
- 76 -
Nel complesso un pomeriggio dolceamaro, pieno di gioia e, nello stesso
tempo, di malinconia
In albergo mi cambiai in fretta, la sera
dovevamo indossare la divisa da ex allievi: pantaloni grigi, giacca a doppio
petto in castorino blu notte, camicia
azzurra con cravatta regimental ed
ovviamente il due pizzi, il berretto della
divisa da fatica che indossavamo all’interno della Scuola; Grazia, con un abito da mezza sera, elegantissima, era, se
possibile, più bella del solito.
Saliti a bordo dell’Angelina Lauro la
prima persona che vedemmo fu Giancarlo che, passata la sorpresa nel vedere la cugina insieme a me, ci salutò calorosamente ma che, per tutta la serata, continuò a guardarmi con aria sospettosa!
Dopo cena salii con Grazia sul ponte
superiore della nave per farle ammirare il golfo sotto la luna: Capo Posillipo,
Nisida, Ischia, Procida, il Vesuvio, Napoli di notte e, in lontananza, Sorrento
e Capri; mi resi conto in quel momento
che Grazia non era solo una carissima
amica, ma che la desideravo al punto
da farmi dimenticare il proposito di
non sposarmi mai più, e che volevo che
diventasse mia moglie!
Non dissi nulla, non volevo pensasse
che, approfittando di quel momento
magico, volessi far cadere le mura di
Gerico, come nel famoso film di Frank
Capra!
Tornammo nel salone, Giancarlo aveva
notata la nostra prolungata assenza e
sulla sua fronte si leggevano i più atroci sospetti! Non feci nulla per rassicurarlo: avevo preso la mia decisione e di
quello che pensavano gli altri non me
ne fregava niente!
Tornati in albergo ci augurammo la
solita buona notte (stretta di mano e
casto bacetto).
Degli altri due giorni ho un solo ricordo ben preciso: ero diviso in due; se da
un lato desideravo stare con gli amici
per continuare a parlare di noi, dall’altro temevo di trascurare Grazia, riuscendo perfettamente a trascurare
Grazia e a non stare con gli amici!
Prima del rompete le righe ci eravamo
scambiati, con i colleghi che risiedevano a Roma, i numeri telefonici per tenerci in contatto in modo più continuativo; li invitai a venirmi a trovare,
quando il tempo fosse stato più clemente, nella casa dei miei, in campagna; a
loro volta mi dissero che avevano preso
l’abitudine di ritrovarsi periodicamente a casa dell’uno o dell’altro, qualche
volta al Circolo Ufficiali, altre volte in
un ristorante.
Mi invitarono ad unirmi a loro ed estesero l’invito anche a Grazia (“ormai è
un ex allievo onorario” disse Pepè,
guardandomi con un’aria…)
Tornammo a Roma per riprendere la
vita di sempre; Grazia mi sembrò più
distesa, sembrava felice delle nuove
conoscenze fatte.
♠
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completa disposizione e, dato che non
vi erano molti passeggeri, per farci stare più comodi aprì la porta di comunicazione con lo scompartimento adiacente in modo che non avessimo il fastidio di dormire sulla cuccetta superiore!
La mattina successiva lo ringraziammo
della gentilezza usataci ed io mi feci
dare il nome del fratello per segnalarlo
al suo comandante, qualora fosse stato,
cosa molto probabile, un mio collega.
Arrivati in albergo lasciai Grazia, che,
nonostante il comodo viaggio, si sentiva stanca, a riposarsi e mi recai alla
“Teuliè” per avere il programma dettagliato per la cerimonia che si sarebbe
tenuta il giorno seguente, incontrai alcuni ex-allievi che erano stati compagni di corso di povero zio, ed il vicecomandante (la Scuola per il momento
era un distaccamento della Nunziatella) si dichiarò felice che un rappresentante della famiglia dell’Eroe presenziasse al Giuramento; mi offrì un posto
in tribuna ed io dovetti fargli presente
che, come giornalista, avrei avuto necessità di muovermi con una certa libertà, ma che, se era possibile, avrei
lasciato il mio posto a mia moglie, inutile dire che la mia richiesta fu accolta
immediatamente.
Tornai in albergo e trovai Grazia che
si era rimessa, ma io ero preoccupato,
era la prima volta che notavo questi
sintomi di stanchezza in mia moglie;
oltretutto l’albergo non aveva il ristorante, e quindi saremmo dovuti uscire
per il pranzo.
Grazia mi assicurò che si sentiva benissimo e che sarebbe uscita con piacere,
anche perché voleva rivisitare Milano,
dato che l’aveva già visitata, ma molto
tempo prima, con i suoi genitori.
Dopo il pranzo ci recammo in centro, il
Duomo, il Castello Sforzesco, via Montenapoleone; in corso Buenos Aires le
comprai un borsetta che le era particolarmente piaciuta, prendemmo un aperitivo ed in serata scovammo una trattoria a conduzione familiare dove il
pizzaiolo, napoletano, ci fece mangiare
CAPITOLO LIII
Il 1996 si annunciava…
Il 1996 si annunciava come portatore
di due avvenimenti per me molto importanti: a marzo avrebbero giurato
gli Allievi del I° Corso della riaperta
Scuola Militare di Milano, la “Teuliè”,
la Scuola frequentata da zio Manlio
fino alla sua forzata chiusura nel 1943.
Sentivo il dovere morale di assistere a
quel giuramento: zio Manlio ci sarebbe
andato, io dovevo rappresentarLo!
A giugno poi il mio Corso (1956-1960)
avrebbe festeggiato il 40° anniversario
del nostro ingresso alla Scuola, un evento che due miei compagni di corso,
Maurizio .* e Giuseppe .*, stavano organizzando da oltre un anno ed al quale nessuno di noi sarebbe mancato.
Due appuntamenti che non si potevano
ignorare e sia Grazia che io ci demmo
da fare per pianificare i nostri periodi
di ferie per farli coincidere con i mesi e
le date previste.
Il 14 marzo in serata partimmo per
Milano; avevo prenotato uno scompartimento in vagone-letto per viaggiare
comodamente ed arrivare riposati a
destinazione.
Io indossavo già la divisa da ex-allievo,
dato che avevo timore, mettendola in
valigia, che arrivasse stazzonata; quando, a Roma Termini, salimmo sul vagone, l’inserviente di servizio rimase meravigliato e mi chiese cosa fosse lo strano berretto che portavo, gli dissi che
era il “due pizzi”, il berretto d’ordinanza della Scuola Militare di Napoli;
a questo punto cominciò un fuoco di
fila di domande: voleva sapere se ero
un ufficiale, dove era il mio reparto,
perché andassi a Milano, lui aveva un
fratello sottufficiale, voleva sapere se lo
conoscevo, ecc.; gli spiegai brevemente
che ero un civile e che mi recavo a Milano per il Giuramento Allievi presso
la Scuola Militare che, dopo più di 50
anni di chiusura, riapriva i battenti per
“preparare i giovani alla vita ed alle
armi”.
Quasi si commosse, si mise a nostra
- 129 -
un’ottima pizza “margherita”.
Rientrammo in albergo soddisfatti del
pomeriggio trascorso, io mi sentivo più
tranquillo: Grazia aveva ripreso il suo
colorito e non accusava più la stanchezza, nonostante la lunga passeggiata pomeridiana.
La mattina successiva ci recammo alla
Scuola, presentai Grazia ai colleghi ed
al Comandante e l’accompagnai al suo
posto in tribuna, mentre io, munito di
macchina fotografica e di mini registratore, mi accingevo a fare il mio lavoro di cronista.
Dopo la cerimonia del Giuramento,
cerimonia che mi faceva tornare in
mente il mio giuramento, fatto tanti
anni prima, e che mi commuoveva
sempre, fummo invitati al Circolo Ufficiali per il vin d’honneur, insieme alle
personalità che avevano assistito alla
cerimonia: il fatto che fossi il nipote del
Comandante Quarantelli ci pose al
centro dell’attenzione, creandomi un
certo imbarazzo, non ero io l’Eroe, ero
solo un parente che era venuto li per
onorarne la memoria!
Pranzammo ospiti dei colleghi di corso
di zio, ci scambiammo gli indirizzi, ripromettendoci di tenerci in contatto, e
ci salutammo all’insegna del più sincero cameratismo.
Nel pomeriggio inviai “via mail” al
giornale il “pezzo” e le foto del Giuramento con il valido contributo di mia
moglie, io ed il computer non eravamo
molto compatibili, mentre Grazia ci
colloquiava bene!
Il giorno successivo, in serata, ripartimmo per la capitale.
Riprendemmo la solita vita e, dei due,
Grazia era la più impegnata, io, dopo
aver scritto il mio pezzo ed aver sentito, per telefono o di persona, alcuni amici e conoscenti per avere sempre
chiaro il quadro della politica internazionale, non avevo praticamente nulla
da fare, ricevevo si inviti a manifestazioni o ricevimenti ma, a meno che non
fosse indispensabile per il mio lavoro, li
declinavo: senza Grazia non mi andava
di parteciparvi.
Ripresi quindi a frequentare i pochi
amici che avevo a Velletri, ma la maggior parte del tempo la passavo al bar
di Balilla, chiacchierando del più e del
meno con i frequentatori abituali e,
purtroppo, bevendo.
Arrivammo così a Giugno ed alla fatidica data del Raduno del mio Corso:
Maurizio e Pepè avevano organizzato
tutto alla perfezione; all’arrivo alla
Scuola, all’atto della registrazione, ci
fu consegnata una borsa che, oltre al
programma delle riunioni, conteneva
alcuni libri sulla storia della Nunziatella, per la maggior parte raccolti od addirittura scritti da Peppino .*, un ex
che era stato mio “anziano”, alto dirigente della Regione Campania ed appassionato di storia in generale e di
quella della Nunziatella in particolare,
inoltre vi era un cartellino di riconoscimento che riportava il nome e la foto
che ci era stata fatta, quarant’anni prima, per essere applicata sul nostro documento di riconoscimento: soluzione
azzeccata, infatti a tanti anni di distanza le nostre fisionomie erano decisamente cambiate e quelle foto, anche se
mostravano impietosamente gli anni
trascorsi, ci permettevano di riconoscerci meglio.
Anche le nostre accompagnatrici ebbero una borsa simile, ovviamente sul
loro cartellino non vi era la loro fotografia ma la nostra, per indicare il rapporto di “appartenenza”!
Tre giorni a Napoli, tra visite nei luoghi più interessanti della città, a beneficio delle nostre gentili compagne, cene conviviali ed una cena presso il refettorio della Scuola, con un menù identico a quello di “allora”: minestra,
mozzarella fritta con patate, frutta e,
cosa che allora non era prevista, vino e
dolce offerti dal Colonnello Comandante, un tuffo nel passato che a molti
di noi fece inumidire gli occhi.
Con questa cena si concludeva la parte
“ufficiale” del raduno ma, per quelli di
noi che si potevano permettere di assentarsi più a lungo dai loro impegni,
era previsto una piacevole aggiunta.
- 130 -
Capri, the island in the sun, la perla del
Golfo, l’isola degli innamorati, delle celebrità e... dei ricconi, era stata scelta
dagli organizzatori come piacevolissimo prolungamento del nostro raduno.
Partimmo nella mattinata del quarto
giorno su un aliscafo appositamente
noleggiato ed eravamo praticamente
tutti, ad eccezione di pochissimi, pressati da improcrastinabili impegni, nessuno se la sentiva di privarsi del piacere di rimanere ancora un poco insieme
e a portare un saluto, sia pur fuggevole, all’isola incantata.
Molti sarebbero ripartiti nella stessa
giornata e, a conti fatti, saremmo rimasti si e no una trentina per i tre giorni
previsti prima del definitivo “rompete
le righe”!
Pranzammo in un locale che si affacciava sui faraglioni; il pranzo era stato
organizzato sulla terrazza del ristorante ma un imprevisto rovescio di pioggia
ci costrinse al coperto: mentre le signore portavano all’asciutto le stoviglie
noi, rudi uomini, ci “incollavamo” i
tavoli e le sedie; mangiammo tra risa e
maledizioni, risa per l’imprevista variazione del programma, maledizioni
all’indirizzo di Giove pluvio.
Accompagnammo al porto gli amici
che ci lasciavano e ci acquartierammo
in uno degli alberghi più belli di Capri:
il Tre Palme, a due passi dalla celebre
piazzetta.
La sera cenammo ad Anacapri e potemmo ammirare il golfo sotto la luna,
solcato dalle scie luminose delle navi
che salpavano ed attraccavano dal porto di Napoli, in lontananza la Penisola
sorrentina era uno sfavillare di luci
multicolori e, proprio sotto di noi, la
piazzetta sfavillava come il sole a mezzogiorno; Grazia, che non conosceva
l’isola, era estasiata, sembrava una
bambina a cui avessero regalato il balocco tanto desiderato!
Il giorno successivo visitammo la Grotta Azzurra e, nel pomeriggio, mentre gli
altri si recavano a vedere i ruderi della
Villa di Tiberio, noi restammo in albergo, poiché Grazia aveva accusato un
po’ di stanchezza, al loro ritorno gli
amici ci trovarono seduti sul terrazzo
del bar dell’albergo e Pepè si fermò al
nostro tavolo; si informò subito di come si sentisse Grazia poi, notando un
lieve tremito alle sue mani mentre sorseggiava un drink, gli chiese se lo avesse spesso e, se si, da quanto tempo: disse che non gli piaceva quel tremito e le
consigliò di fare un chek-up completo il
prima possibile.
Il giorno successivo rientrammo a Napoli e, mentre ci scambiavamo gli ultimi saluti sul Molo Beverello, Pepè mi
prese da parte e mi raccomandò di far
visitare subito mia moglie: “probabilmente è una fesseria, ma con certi sintomi è meglio essere prudenti”.
Rientrati a casa insistetti perché si facesse visitare e così ci ricoverammo in
clinica per un chek-up , in fondo anche
per me, a 55 anni, un controllo completo non era superfluo.
Le analisi purtroppo confermarono
quello che Pepè aveva intuito: Grazia
soffriva di una disfunzione alla tiroide:
“nulla di grave, un’energica cura e tutto
tornerà nei limiti”, fu il verdetto dei sanitari.
Cominciò così il calvario di Grazia, un
calvario che ancora oggi l’affligge e che
avrebbe portato con il tempo ad un radicale cambiamento della nostra vita.
Aiutata dalle medicine, dal suo spirito
indomito e confortata da un notevole
miglioramento, riprese la sua vita normale ed io, anche se preoccupato, continuai con il mio lavoro.
♦
- 131 -
Nel 2008 ricorreva il 150° anniversario
delle Apparizioni della Vergine alla
Grotta di Massabielle e noi decidemmo, nonostante le difficoltà, di tornare
ancora una volta a Lourdes
Ci rivolgemmo quindi all’UNITALSI,
l’organizzazione di volontari cattolici
che si occupa di assistere i malati che
vogliono recarsi nei Santuari di tutto il
mondo.
Facemmo così il nostro primo pellegrinaggio da malati.
Recarsi a Lourdes da malati è un’esperienza unica, diversa, inimmaginabile:
il Santuario è diverso da come lo si è
visto da sani, lo spirito si innalza al cielo non per chiedere la propria guarigione, ma la guarigione di tutta l’umanità, la guarigione da tutti i mali che
l’affliggono, dalle guerre, dall’odio,
dalle sciagure e dalle malattie di ogni
genere.
Mentre scrivo queste righe ho davanti
agli occhi i volontari dell’UNITALSI, il
loro infinito amore, la loro eroica pazienza verso i loro fratelli più bisognosi: un esempio di dedizione che solo
l’amore divino può dare:
“quello che farete al più umile dei vostri
fratelli lo avrete fatto a me!”
CAPITOLO LXXIII
L’anno terminò …
L’anno terminò con un grande dolore:
a dicembre morì mia madre, oramai
gravemente malata da lungo tempo, al
punto che, con nostro grande dispiacere, eravamo stati costretti a farla ricoverare in una Casa di Riposo, dove poteva essere seguita con quella cura che
noi, in famiglia, non potevamo assicurarle.
Ci crollò il cielo sul capo: io adoravo
mia madre e Grazia aveva trovato in
lei una seconda madre, la loro intesa
era così intensa al punto che chi non ci
conosceva pensava che lei fosse la figlia
ed io il genero.
Le condizioni di salute di mia moglie
peggioravano ed io, purtroppo, cercai
il conforto nell’alcool, arrivando al
punto di intossicarmi: ebbi un collasso
e rischiai la vita.
Con l’aiuto di Dio e con l’abnegazione
di mia moglie riuscii a “sfangarla”, altri amici mi furono vicini e così riuscii
ad uscire da un tunnel perverso che mi
stava rubando gli affetti più cari.
Nel 2007 cessai ogni attività lavorativa
e contemporaneamente, purtroppo,
Grazia si aggravò al punto che dovette
chiedere di essere messa a riposo.
Ci stabilimmo definitivamente in campagna, in quel “pezzo di terra” che mi
aveva visto nascere, in quell’uliveto che
tanto ci piaceva.
Grazia cominciò a scrivere: racconti e
romanzi ispirati alla vita ed alla Fede
che ci aveva sempre sostenuti nel nostro cammino; partecipò anche ad alcuni concorsi letterari e due sue novelle
furono pubblicate poi, nel 2010, un suo
romanzo, in parte autobiografico, in
parte dedicato alla vita dello zio missionario, fu ritenuto meritevole di pubblicazione.
Una grande soddisfazione per lei che,
da una vita attiva era passata ad un
vivere sedentario, costretta come era a
muoversi a fatica, con l’ausilio del
“canadese” e perfino, per gli spostamenti più lunghi, della sedia a rotelle.
♣
- 204 -
EPILOGO
Con il Pellegrinaggio a Lourdes, il mio ventesimo, il quinto con la mia adorata Grazia,
termina questo lungo racconto di una vita che spero di aver vissuto, nel bene e nel
male, così come il Signore avrebbe voluto che fosse.
Guardandomi indietro mi rendo conto che forse avrei potuto fare di più, che in determinate circostanze avrei potuto agire diversamente.
Ho conosciuto tante persone, amiche e nemiche, buone e cattive, interessate e disinteressate; con tutte ho cercato di comportarmi per il meglio: sono stato fedele agli
amici e corretto, per quanto me lo permettevano le circostanze, con i nemici.
Ho cercato di servire la mia Patria e il mio prossimo così come la mia famiglia prima, i
miei docenti poi, mi avevano insegnato.
Quando verrà il momento mi presenterò al Giudice Supremo con lÊanimo tranquillo,
perché, come il salmista, sono certo che:
„Da tutta lÊeternità e per tutta lÊeternità, o Dio, Tu sei.
Perché mille anni, dinanzi ai tuoi occhi, sono come il giorno di ieri che è trapassato.
Come una vigilia della notte⁄‰
Alta Petunt
Stesura terminata il 17 Marzo 2011
150°À° Anniversario dellÊUnità dÊItalia
- 205 -
LÊautore
Nasce a Velletri, nei Castelli romani, nella prima metà del XX
secolo.
Rimasto orfano in tenerissima età (il padre, ufficiale di artiglieria, decorato al V.M.., muore durante i bombardamenti
degli alleati nel giugno 1944, durante lo sbarco di Anzio),
cresce circondato dallÊaffetto della madre, della nonna e degli zii.
La madre, professoressa di pianoforte, rimasta vedova, deve
dedicarsi allÊinsegnamento nelle scuole elementari per mantenere lei ed il figlio.
Terminati gli studi inferiori, frequenta il Liceo scientifico presso la Scuola Militare „Nunziatella‰ di Napoli.
Frequenta, con alterne fortune, lÊUniversità degli Studi „La Sapienza‰ di Roma, dove si
diploma in Scienze Statistiche.
Entrato in Banca, si sposa.
Il matrimonio è un fallimento sotto tutti i punti di vista e, dopo tre anni, divorzia.
Lascia la Banca, prende il Diploma di Consulente per lÊOrganizzazione (Tempi e Metodi)
del Lavoro dÊUfficio.
Come Libero Professionista insegna e coordina i Corsi Professionali promossi dallÊUnione Europea.
Contemporaneamente collabora con varie testate giornalistiche locali e nazionali.
Cattolico, di idee moderate e conservatrici, collabora nella segreteria di un deputato
DC che conosce tramite la Gioventù Cattolica, della quale è stato Presidente Diocesano e Dirigente regionale.
AllÊepoca del „Compromesso storico‰ si iscrive al MSI - DN (poi Alleanza Nazionale), di
cui diventa dirigente a livello locale.
Nel 1990 rincontra la donna di vasta cultura e intelligenza che aveva conosciuto qualche anno prima e che non aveva mai dimenticata, con la quale ha molti punti di contatto, sia intellettuali che spirituali, e lÊanno successivo la sposa.
Il matrimonio riesce benissimo e diventa un punto fermo nella vita errabonda che ha
sempre condotto.
Attualmente, abbandonate tutte le attività, vive con la moglie nel Paese natale dove si
occupa del terreno che ha avuto in eredità da uno zio, circondato dai suo adorati animali, cani e gatti abbandonati che ha raccolto dalla strada.
Bricolage ed allestimenti di Presepi sono i suoi hobby preferiti.
Questo è il primo romanzo che scrive e che narra, sia pure in maniera „fantasiosa‰, la
sua vita, errabonda ed avventurosa si, ma piena di soddisfazioni, di gioie e di dolori.
XIX
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