Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
Direttore: Francesco Gui (dir. resp.).
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Maria Giraldi, Francesco Gui, Giovanna Motta, Pèter Sarkozy.
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Immacolata Leone, Chiara Lizzi, Daniel Pommier Vincelli, Pamela Priori,
Vittoria Saulle, Giulia Vassallo.
Proprietà: Università “La Sapienza” di Roma.
Sede e luogo di trasmissione: Dipartimento di Storia moderna e contemporanea,
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Decreto di approvazione e numero di iscrizione: Tribunale di Roma 388/2006
del 17 ottobre 2006
Codice rivista: E195977
Codice ISSN 1973-9443
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
Indice della rivista
ottobre-dicembre 2007, n. 5
ATTI DEL CONVEGNO
Il Manifesto di Ventotene. Radici filosofiche e fondamenti culturali
Istituto dell’Enciclopedia italiana
Roma, martedì 4 dicembre 2007
Presentazione
Prolusioni
Francesco Paolo Casavola, Renato Guarini, Maria Antonietta Visceglia
Ricordo di Altiero Spinelli
di Gennaro Sasso
Il pensiero politico del Manifesto. Originalità e fonti d’ispirazione
di Arturo Colombo
Genesi del Manifesto: la filosofia implicita di Spinelli nei manoscritti del
confino
di Francesco Saverio Trincia
DOCUMENTI
Altiero Spinelli a Ernesto Rossi
RECENSIONI
La prima guerra arabo-israeliana (1947-1949)
e lo “scontro di civiltà”:l’altro sguardo di Benny Morris sul Medio Oriente
di Pamela Priori
Autobiografia di Simone Veil.
di Paola Bernasconi
Indice
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
Presentazione
di Vittoria Saulle
Come annunciato nel numero precedente, Eurostudium3W offre all’attenzione dei
lettori le prolusioni e le relazioni presentate al convegno dal titolo Il Manifesto di
Ventotene. Radici filosofiche e fondamenti culturali, tenutosi il 4 dicembre 2007
presso l’ Istituto dell’Enciclopedia italiana a Roma.
Un ringraziamento particolare deve essere rivolto al professore Gennaro Sasso
per la commossa e al tempo stesso lucidissima commemorazione di Spinelli
uomo, pensatore e politico, dello Spinelli intimo e dello Spinelli pubblico, di
“Ulisse” imperioso, brusco, sbrigativo ma anche attento, quasi premuroso,
verso il giovane timido che gli poneva degli interrogativi “scomodi”, di
“Ulisse” intimamente sconcertato di fronte alla crudeltà del destino riservato ad
un altro giovane, tanto promettente quanto destinato a concludere precocemente la sua esistenza, di Altiero affascinato da un ideale di saggezza
orientale con cui porsi di fronte all’imperscutabilità dell’essere.
Inoltre, di particolare rilievo risulta la relazione di Arturo Colombo, professore
di Storia delle dottrine politiche presso l’Università di Pavia. Il professore
analizza gli aspetti più originali del testo di Rossi e Spinelli, sostenendo che non
è azzardato parlare di un vero e proprio “Decalogo del Manifesto di
Ventotene”. Con la simpatia e con la vivacità che lo contraddistinguono,
l’illustre professore ha offerto al pubblico presente in sala un momento di
formazione culturale particolarmente intenso, suscitando, pertanto, un lungo e
spontaneo applauso.
Un ringraziamento sentito deve essere rivolto al prof. Francesco Saverio Trincia,
che ha esposto con rara efficacia e pregnanza una riflessione profonda sulla
tematica filosofica spinelliana, tanto che la sua relazione può essere
legittimamente considerata la prima analisi approfondita e specifica di Spinelli
filosofo negli anni del confino, con evidenti connessioni con l’impostazione
concettuale e le analisi del Manifesto. Dovuto e sincero è dunque il nostro
ringraziamento al prof. Trincia, senza la collaborazione del quale il convegno
stesso non sarebbe stato realizzabile e con cui speriamo di poter proseguire
anche in futuro l’approfondimento dei temi affrontati in tale sede.
V. Saulle. Presentazione
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
La gentilissima ospitalità dell’Enciclopedia Treccani ha permesso di rendere
l’incontro particolarmente suggestivo e coinvolgente, e per tale motivo si
ringrazia sentitamente il presidente il prof. Francesco Casavola, che ha favorito
l’iniziativa.
Al convegno è intervenuto anche il Rettore della Sapienza Università di Roma,
il prof. Renato Guarini, che ricopre peraltro anche la carica di presidente del
Comitato nazionale Altiero Spinelli. Il prof. Guarini ha sottolineato come la
figura di Spinelli rappresenti un punto di riferimento di primaria grandezza
non solo per la cultura dell’Italia, ma per tutta l’Unione europea.
La professoressa Maria Antonietta Visceglia, direttore del Dipartimento di
Storia moderna e contemporanea, in collaborazione con il quale è stato
promossa la commemorazione di “Ulisse”, nell’offrire un inquadramento
complessivo dell’iniziativa, ha sottolineato come la figura di Spinelli debba
essere considerata edificatrice della democrazia sia sul piano interno che sul
piano delle relazioni internazionali.
Per ragioni editoriali, le tre relazioni tenute nella medesima occasione dai
professori Antonella Braga, Piero Graglia e Giovanni Falcetta, saranno
pubblicate nel numero successivo della rivista, completando così il quadro degli
interventi.
Il convegno del 4 dicembre ha rappresentato il primo importante incontro
incentrato sulla figura di Spinelli filosofo, una dimensione ancora poco
conosciuta, eppure essenziale per comprenderne a fondo la personalità, anche
sotto il profilo politico. Per l’interesse suscitato anche presso il numeroso
pubblico presente, ci auguriamo che l’evento possa dare seguito a numerosi e
suggestivi approfondimenti.
V. Saulle. Presentazione
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
Prof. Francesco Paolo Casavola
Presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana
Come accade ai documenti che segnano un mutamento nel corso della storia, il
Manifesto di Ventotene si lascia illuminare e ingrandire a mano a mano che il
tempo trascorre e gli eventi nuovi appaiono già delineati in quelle pagine.
Nel 1941 e 1942, la guerra era in pieno svolgimento e imprevedibile ne era
l’esito. Eppure i confinati nell’isola di Ventotene non avevano dubbi sulla
sconfitta della Germania e sugli scenari che si sarebbero verificati nel
dopoguerra.
La causa di tanta certezza era riposta nella razionalità dell’analisi di lungo
periodo sulla formazione dello Stato nazionale in Europa.
“La sovranità assoluta degli Stati nazionali ha portato alla volontà di dominio
di ciascuno di essi”. Da tutore delle libertà dei cittadini, lo Stato nazionale “si è
trasformato in padrone di sudditi tenuti a servizio, con tutte le facoltà per
renderne massima l’efficienza bellica. Anche nei periodi di pace, considerati
come soste per la preparazione alle inevitabili guerre successive, la volontà dei
ceti militari predomina ormai in molti paesi su quella dei ceti civili, rendendo
sempre più difficile il funzionamento di ordinamenti politici liberi”. Finanche i
bambini sono educati dalla più tenera età al mestiere delle armi e all’odio verso
gli stranieri.
Lo Stato totalitario realizza più compiutamente questa perversa evoluzione
dello Stato nazionale. Proprietari terrieri, capitalisti industriali, sindacati operai
contribuiscono a sostenere il regime poliziesco e militarista. Nell’interesse della
classe governante è falsificata la storia, librerie e biblioteche vengono purificate
da testi non ortodossi. Quanto alla Germania, l’arroganza dei suoi ceti dirigenti
militari “può già darci un’idea di quel che sarebbe il carattere del loro dominio,
dopo una guerra vittoriosa”. Alle forze sociali e intellettuali che si profilano
dietro gli eserciti alleati “è oggi affidata la salvezza della nostra civiltà”.
Ma la sola sconfitta della Germania non riordinerebbe l’Europa “secondo il
nostro ideale di civiltà”, se ci si limitasse alla restaurazione democratica nei
singoli Stati nazionali. Si tornerebbe alla lotta di classe, alla utopia della
dittatura del proletariato? Comunisti più efficienti dei democratici nelle crisi
F. P. Casavola, Prolusione
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
rivoluzionarie, tenendo separate le classi operaie dalle altre, nei momenti
decisivi costituiscono “un elemento settario che indebolisce il tutto”.
Se si resta nel chiuso dello Stato nazionale “sarebbe molto difficile sfuggire alle
vecchie aporie”. Risorgerebbero le vecchie gelosie per gli Stati, e malgrado
regimi democratici e socialisti si tornerebbe alla guerra, rischio da sventare solo
con “la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in Stati nazionali
sovrani”.
Di qui in poi il testo del Manifesto è tutt’altro che intriso di utopie. E’ una
rilevazione realistica degli eventi. La inabilità della Società delle Nazioni che si
affida ad un diritto internazionale privo del presidio di una forza militare
capace di farla rispettare dai singoli Stati. Assurdo il principio del non
intervento “secondo il quale ogni popolo dovrebbe essere lasciato libero di
darsi il governo dispotico che meglio crede, quasi che la costituzione interna di
ogni singolo Stato non costituisse un interesse vitale per tutti gli altri paesi
europei”. Insolubili i problemi delle minoranze, degli sbocchi al mare, delle
questioni balcanica, irlandese che troverebbero soluzioni solo nella Federazione
europea. La sicurezza consistente nella inattaccabilità della Gran Bretagna, forte
della sua splendid isolation, dall’esercito della Repubblica francese, dissoltosi al
primo nato con quello tedesco, in una fase politica di declino, per la prima con
l’accettazione del principio dell’indipendenza indiana, per la seconda con la
perdita di tutto il suo impegno coloniale, può essere compensata solo con
l’implicazione dell’Europa in una federazione.
I compiti del dopoguerra saranno indirizzati al “potenziamento della civiltà
moderna, di cui l’era totalitaria rappresenta un verso”.
Dovrà essere ripreso il processo storico contro la disuguaglianza ed i privilegi
sociali. Tra le varie indicazioni programmatiche, una è ancora completamente
attuale: “I giovani vanno assistiti con le provvidenze necessarie per ridurre al
minimo le distanze fra le posizioni di partenza nella lotta per la vita. In
particolare la scuola pubblica dovrà dare le possibilità effettive di proseguire gli
studi fino ai gradi superiori ai più idonei, invece che ai più ricchi”.
Chi scriveva il Manifesto aveva guardato nel profondo la crisi della civiltà
europea e poteva ben ammonire di “tenersi pronti al nuovo che sopraggiunge,
così diverso da tutto quello che si era immaginato”. Oggi siamo forse di nuovo
dinanzi ad uno scenario pieno di incognite, quello di un’Europa ancora indecisa
tra le eredità di tante storie marginali e il futuro di una sola storia europea in
una costituzione federale.
F. P. Casavola, Prolusione
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Prof. Renato Guarini
Rettore della “Sapienza” - Università di Roma
Presidente del Comitato Nazionale Altiero Spinelli
Porgo innanzitutto il saluto mio personale e a nome della comunità
universitaria della Sapienza a tutti i presenti.
Partecipare a giornate di studio e di riflessione dedicate ad Altiero Spinelli, nel
centenario della sua nascita e nel cinquantesimo anniversario della firma dei
Trattati di Roma, rappresenta per me, in qualità di Rettore della Sapienza, non
tanto e non solo un atto istituzionale - mi onoro di presiedere il Comitato
nazionale a lui dedicato nel centenario - ma una occasione per ribadire un
impegno culturale. La figura di Spinelli è sempre più, per la cultura del nostro
paese e per quella dell’Europa unita, un punto di riferimento di primaria
grandezza.
Il Comitato nazionale Altiero Spinelli, come saprete, è stato istituito
nellʹaprile del 2006 con decreto del Ministro per i Beni e le Attività culturali.
Esso opera sotto lʹAlto Patronato del Capo dello Stato e ha come presidente
onorario il vicepresidente del Consiglio e ministro per le Attività e i beni
culturali Francesco Rutelli.
Il suo compito è di promuovere, attorno alla figura di Spinelli, unʹintensa
attività di sensibilizzazione e informazione dellʹopinione pubblica, di
formazione degli studenti delle scuole e delle università, di studio, di
approfondimento e di ricerca, nonché di dialogo con le forze sociali e gli
esponenti delle istituzioni pubbliche italiane ed europee.
L’incontro di oggi si colloca in questo contesto ed è un’occasione per
valutare e discutere quello che viene considerato il cuore del pensiero di
Spinelli, fondante per l’identità stessa della nostra Repubblica, quale è il
Manifesto di Ventotene.
Ma è anche un’occasione, nel centenario della nascita, di ricordare ancora una
volta la figura umana e la statura morale e politica di Spinelli.
Mi pare particolarmente significativo da questo punto di vista che il
convegno di oggi si svolga presso la sede dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana,
luogo privilegiato di valorizzazione del patrimonio culturale italiano, e di
questo ringrazio molto il presidente dell’Istituto, Francesco Paolo Casavola.
Altiero Spinelli deve essere considerato un punto di riferimento per le
nuove generazioni, particolarmente nel contesto universitario dove i giovani
R. Guarini, Prolusione
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
completano la propria formazione e si preparano a divenire i cittadini di
domani. La sua è una personalità umanamente e intellettualmente trascinante,
sulla quale riflettere non solo per meglio conoscere i fondamenti forti della
Repubblica e del processo di unificazione europea, ma anche per individuare le
vie da percorrere nellʹimmediato futuro.
È proprio con questo spirito che la Sapienza Università di Roma, insieme a
esponenti di molti atenei italiani, ma anche del Movimento federalista europeo,
fondato da Spinelli, dellʹIstituto Affari Internazionali, anchʹesso creatura del
medesimo “padre dell’Europa”, del Movimento Europeo, dellʹAssociazione del
Consiglio dei Comuni e delle Regioni dʹEuropa, di numerosi altri enti e
associazioni, nonché di autorevoli personalità dellʹeuropeismo, ha promosso la
costituzione del Comitato nazionale che porta il nome di Spinelli.
La speranza e l’augurio è che questo anno quasi compiuto di attività di
approfondimento e divulgazione del pensiero di Spinelli, possa produrre nuovo
slancio per progetti di studio, di discussione, di mobilitazione delle coscienze e
di promozione di quei valori di democrazia e di progresso, delineati con
mirabile chiarezza e incrollabile fiducia nel Manifesto di Ventotene.
R. Guarini, Prolusione
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
Prof.ssa Maria Antonietta Visceglia
Direttore del Dipartimento di Storia moderna e contemporanea,
“ Sapienza” - Università di Roma
Vorrei porgere il mio personale ringraziamento e quello del Dipartimento di
Storia moderna e contemporanea anzitutto al presidente dell’Istituto della
Enciclopedia Italiana, il professor Francesco Paolo Casavola, che ha favorito
l’iniziativa che oggi si tiene nella sede della Enciclopedia, e il nostro rettore, il
professor Renato Guarini, nonché presidente del Comitato Nazionale per le
celebrazioni del centesimo anniversario della nascita di Altiero Spinelli, che
opera sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica.
Rivolgo, inoltre, un ringraziamento ai relatori, il professor Sasso, di cui
abbiamo già ascoltato questa intensa rievocazione con il valore aggiunto del
ricordo personale e dell’esperienza convissuta, e i professori Arturo Colombo e
Francesco Trincia, i quali ricostruiranno il contesto culturale, politico e filosofico
del “Manifesto di Ventotene”.
Ringrazio altresì gli intervenenti, della professoressa Antonella Braga,
autrice di un volume recente su Ernesto Rossi, e del professore Pietro Graglia,
autore di una biografia di prossima pubblicazione, e Giovanni Falcetta.
Ma desidero anche ringraziare in modo particolare il professore Francesco
Gui, studioso dell’Europa moderna e contemporanea del nostro Dipartimento e
segretario tesoriere del Comitato Spinelli, che ha curato la pubblicazione sulla
rivista “Critica liberale” e sulla rivista on line “Eurostudium3W” di documenti
inediti su Altiero Spinelli, con la collaborazione dell’Istituto Gramsci al quale
va il mio ringraziamento.
Nell’ambito dell’attività del Dipartimento, attraverso il lavoro di Francesco
Gui, di Antonello Biagini e di Giovanni Sabbatucci, ma anche di numerosi
giovani, perché intorno a questa iniziativa si sono coagulate forze vive, sono
stati attivati degli assegni di ricerca; un aspetto che, come direttrice di un
dipartimento, mi sta particolarmente a cuore.
Il Comitato opera da circa un anno, istituito con decreto del ministro dei
Beni Culturali nell’aprile 2006 e terminerà le sue attività nel 2008. Lo scopo è
duplice: da un lato, diffondere presso l’opinione pubblica, presso i giovani e
presso i nostri studenti, la conoscenza del pensiero e dell’opera di Altiero
Spinelli, dall’altro, farne oggetto di ricerca e di analisi scientifiche, come
richiede la consapevolezza, più volte sottolineata anche dal nostro capo dello
M. A. Visceglia, Prolusione
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
Stato, che Spinelli fu una delle personalità che offrirono uno dei contributi più
validi e duraturi alla Resistenza, ma anche all’edificazione della democrazia sul
piano interno e sul piano delle relazioni internazionali.
Credo che questo sia un punto di straordinaria rilevanza, su cui vorrei
soffermarmi, un punto chiave del saggio scritto da Spinelli a metà del 1942, Gli
stati uniti d’Europa, ovvero la percezione della difficoltà di una restaurazione
democratica che potesse avvenire senza rimuovere il peso delle contraddizioni
dello Stato moderno: «una restaurazione democratica» - sostiene Spinelli - «non
è possibile senza una divisione del paradigma dello stato nazionale».
Un’idea formulata da un pensatore politico e un politico militante che
viveva in una situazione di totale isolamento anche se nell’isolamento c’era un
travaglio e un dibattito intellettuale attivissimo e che precede di decenni quella
che poi è stata solo recentemente la revisione storiografica degli storici di
professione che, dopo aver esaltato questa cifra della modernità, “lo Stato
nazione”, ne hanno preso le distanze in maniera talvolta, a mio parere, anche
eccessiva.
Mi ha colpito molto il bel intervento del professor Sasso, quando diceva
che nell’opera di Spinelli non troviamo riferimenti al Risorgimento, proprio
perché lo Stato nazione stava come un’esperienza da rimuovere che, solo nel
momento in cui si supera trasformando le relazioni internazionali da politica
estera in creatività istituzionale e politica, si riesce ad entrare in una fase nuova.
Dopo l’inaugurazione del dicembre 2006, tenuta alla presenza del capo
dello Stato, del nostro rettore, del professor Stefano Silvestri, presidente
dell’Istituto Italiano Affari Internazionali, del professor Bino Olivi, collaboratore
dello stesso Spinelli nonché storico dell’Unione Europea, e del professor Giulio
Ferroni che ha messo in luce la qualità umana dello stesso Spinelli, autore fra
l’altro di una interessantissima biografia intitolata Come ho tentato di diventare
saggio, il Comitato ha lavorato a un ritmo molto intenso e dinamico, sia su scala
italiana che su scala europea: a Bruxelles, dove è stata rievocata l’esperienza
politica di Spinelli all’interno delle istituzioni europee, ma anche in Romania,
grazie all’iniziativa del professor Biagini; e mi chiedo quanto possa essere
propositiva una riflessione politica di questo tipo in paesi che sono
recentemente entrati nell’Unione Europea, in una situazione di non completo
consenso dei paesi primi membri e con culture politiche differenti dalla nostra,
e quanto questo possa essere un modo anche di costruire l’integrazione europea
di questi paesi.
Questa attività convegnistica si è accompagnata con una operazione di
valorizzazione delle fonti, in particolare gli scritti filosofici elaborati prima del
manifesto e conservati presso gli archivi della Comunità europea di Firenze, che
ringraziamo per aver consentito al sito Eurostudium di pubblicarli.
M. A. Visceglia, Prolusione
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
Al centro dell’incontro di oggi è il “Manifesto di Ventotene”, oggetto già di
riflessione di intellettuali di grande statura, da Bobbio a Colombo a Padoa
Schioppa.
Gli organizzatori del convegno si sono proposti però di approfondirne
l’analisi concettuale e anche la ricostruzione testuale. Ha scritto Lucio Levi: «la
stesura del manifesto, le sue successive versioni e la sua diffusione sono avvolte
nella leggenda e alcune sue zone restano in ombra e forse non potranno mai
essere illuminate»; non è stata infatti rintracciata nessuna delle versioni
dattiloscritte o ciclostilate del documento, che circolarono tra il 1941 e il 1943,
quindi c’è un problema di ricostruzione della genesi del testo e di ricostruzione
anche degli apporti culturali, che sono plurali e sono distinti dal marxismo e
dalla critica del marxismo, per cui abbiamo quello che rimane del marxismo in
Spinelli nonostante il suo precoce distacco nel 1937, e poi tutta l’elaborazione
concettuale del marxismo e l’influenza del costituzionalismo americano.
Questʹultimo è un tema di straordinario interesse, se si pensa che
attraverso la riflessione su questo filone politico, Spinelli arriva proprio alla
maturità del progetto di varare un trattato costituzionale sull’Europa, cosa che
avviene già nel 1984. Spinelli è quindi l’iniziatore di un vasto processo, che è
ancora in corso, visto che, in realtà, dopo Maastricht ci sono stati il “no”
dell’Olanda e della Francia e tutto si è interrotto, tutto è tornato indietro forse
anche di molti decenni. Questo lavoro di Spinelli non è solo la conclusione della
riflessione di una generazione di antifascisti, ma è anche l’inizio di un processo
in cui noi oggi siamo ancora totalmente calati.
Quando il professor Sasso diceva che una delle cifre della riflessione
politica di Spinelli è quella della crisi, mi pareva che ne cogliesse proprio la cifra
costitutiva, un’idea di crisi che poi in un certo senso non era solo di Spinelli ma
anche di personalità molto distinte, come ad esempio di storici della statura di
Lucien Febvre o Marc Bloch, che parlano dell’Europa come nozione di crisi. E’
la crisi dei totalitarismi che nega l’Europa, ma anche di una generazione che
non sa cosa sarà l’edificazione della democrazia, ma che sa comunque che la
riedificazione della democrazia non può avvenire all’interno degli Stati
nazionali secondo il vecchio paradigma.
L’odierna situazione di crisi non è di quel tipo, ma ce la ricorda. Forse non
siamo del tutto consci della gravità di questa crisi, perché è lo stesso concetto di
Europa che con la globalizzazione necessita di una revisione. Pertanto, credo
che celebrare Spinelli all’insegna non della santificazione dell’uomo né
dell’apologia, ma traendo tutti gli spunti per vivere in maniera critica il nostro
presente, sia forse l’augurio migliore che posso fare alla prosecuzione dei lavori
di questo comitato.
M. A. Visceglia, Prolusione
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Ricordo di Altiero Spinelli
Prof. Gennaro Sasso
Direttore dellʹIstituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli, Socio Nazionale
dell’Accademia dei Lincei
Debbo chiedere innanzi tutto scusa ai presenti1 se questo ricordo di Altiero
Spinelli non sarà detto nella forma che la circostanza rievocativa certamente
avrebbe richiesto. Ma sebbene la mia conoscenza del personaggio risalga assai
indietro nel tempo, e cioè agli anni immediatamente successivi alla fine della
guerra, e sebbene il suo modo di intendere lʹEuropa e la federazione europea
subito mi affascinasse, non perciò sul suo pensiero avrei potuto dire cose che
già non fossero state dette da molti, di me assai più competenti. Gli anni passati
dal giorno in cui lo incontrai per la prima volta sono tanti; e molti di quelli che
in quel periodo, come e con me, conobbero Spinelli, purtroppo non ci sono più.
Non è quindi possibile che alla mia oggi aggiungano la loro parola, al mio
ricordo, il loro ricordo, rendendo l’una e l’altro migliori, più ricchi e intensi. Per
questo, perché sento di essere un superstite di quella lontana stagione, ho
accolto l’invito di parlare di Altiero Spinelli e di rievocarne nelle grandi linee la
singolare personalità.
Spinelli era un uomo di intelligenza straordinaria, che trovava la sua
espressione, quando scriveva, in una prosa limpida, diretta, priva di
compiacimenti letterari, e di rara, tuttavia, efficacia rievocativa. Sia che
scrivesse di politica, sia che scrivesse di altro, si avvertiva subito, leggendolo,
che al di sotto delle analisi, delle proposte, delle prese di posizione polemiche,
si muoveva un mondo inquieto di pensieri, di riflessioni, di tormenti, che anni
e anni di letture solitarie, condotte per la gran parte entro le strette pareti del
carcere, avevano assunto per lui un significato che così intenso e essenziale
altrimenti non sarebbe stato. Spinelli era una lucidissima mente politica, uno
che sapeva guardare così a fondo nel presente da farne risaltare le linee del
Siamo lieti di pubblicare su “Nuova Antologia” il testo della relazione, tenuta da Gennaro
Sasso, in apertura del convegno su “Il Manifesto di Ventotene. Radici filosofiche e fondamenti
culturali”, promosso per il centenario della nascita di Altiero Spinelli e svoltosi a Roma il 4
dicembre 2007 presso l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana.
1
G. Sasso, Ricordo di Altiero Spinelli
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futuro. Ma aveva anche la vena autentica dello scrittore; tanto che quando
prese a coltivare, in chiave autobiografica, questo suo talento, ne derivarono
pagine di rara efficacia.
Detto questo, non si è però detto se non quel che è più ovvio, e subito
risulta se ci si dedica alla lettura di una qualunque sua pagina. Quel che in lui
era notevole, e, per quel che concerne la mia personale esperienza, unico, era
l’intreccio di realismo e idealità; un intreccio singolarissimo, che in lui aveva
una forza unica e alla sua utopia conferiva il rilievo delle cose che quasi
possono essere toccate con le mani. Era la capacità di guardarle per come erano,
in modo che non risultasse illusoria e velleitaria l’azione diretta a mutarle. Era
la capacità, ancora, di trasformare ogni situazione, soggettiva o obiettiva, in un
mezzo per la realizzazione del proposito. Avendo passato lʹintera sua vita nella
politica, e una parte di questa fra il carcere fascista e il confino di polizia,
l’impressione era che la politica, nella quale viveva e fuori della quale non
avrebbe potuto vivere, non fosse, per Spinelli, una professione, e se era una
vocazione, non lo era se non nel senso che di quella si serviva come di uno
strumento indispensabile a realizzare quel che sul serio per lui era importante.
Cioè l’Europa, che in tanto richiedeva di essere messa innanzi a tutto, o,
meglio, alla radice di ogni scelta e di azione politica, perché la sua «idealità» era
il risultato di un ragionamento che, a sua volta, traeva la sua legittimità
dall’analisi delle cose come, in modo particolare, si erano svolte in questo
continente fra Otto e Novecento. In questa indicazione dell’Europa come
premessa, non come conseguenza, di ogni ragionamento politico che valesse
nella realtà del presente, si avvertiva chiara la presenza, nella sua mente, del
marxismo, che era stata, per Spinelli, da giovane, la prima scuola. Una scuola
che, elaborandone i criteri nel carcere in cui fu presto rinchiuso, aveva lasciato
il suo segno profondo su di lui che, di quell’esperienza, da solo, poco alla volta,
leggendo e riflettendo, si era fatto critico, ma aveva conservato il metodo, il
criterio, la tendenza a cercare il «primo», e cioè la radice problematica, la
contraddizione reale entro la quale occorreva muoversi per superarla, per
vincerla. Questa radice problematica e contraddittoria era, per il marxismo, da
individuare, come si sa, nel conflitto delle classi, nella contraddizione in cui i
mezzi di produzione entravano con sé stessi e con la società in cui operavano.
G. Sasso, Ricordo di Altiero Spinelli
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Per Spinelli, che dal comunismo e dalla sua ideologia era uscito senza però
dimenticare il tema della contraddizione, questa si era trasferita dalle classi alle
nazioni; chè se, dividendosi fra esse, l’Europa le avesse conservate, e non
superate, la sua sorte sarebbe ineluttabilmente stata segnata.
Liberalismo e socialismo potevano sopravvivere, per lui, e svolgere la loro
efficacia, solo se il particolarismo delle nazioni fosse stato superato nell’assetto
dello Stato europeo, sopranazionale, dotato di organi politici e di forza militare.
Spinelli aveva tante corde al suo arco, ma non certo quella che potrebbe
definirsi del dottrinarismo ideologico. E nemmeno quella del profetismo.
Proiettato come pochi nella direzione dell’avvenire, derivava questo
atteggiamento da ciò che vedeva nel presente. Essendo un’utopia, il suo
europeismo non aveva paradossalmente niente di utopistico nel senso
tradizionale del termine. Nasceva come rimedio politico a una situazione delle
cose che, se fosse stata conservata e restaurata dopo la catastrofe della seconda
guerra mondiale, avrebbe con facilità aperto la via alla terza, e con questa alla
conclusione del dramma. Precocemente, ante litteram, Spinelli era già allora, nel
lontano 1943, quel che sarebbe stato dopo, al tempo di De Gaulle: un nemico
giurato dellʹEuropa delle patrie. E anche all’approccio «diplomatico» di Guy
Mollet fu contrario, malgrado la stima che faceva dell’uomo. Se, nel 1952, egli si
battè strenuamente per la CED, ossia per l’istituzione di un esercito europeo, e
contro la politica di Mendès-France, condivisa dai partiti comunisti
dell’Occidente, la ragione non va certo ricercata in un suo inesistente
militarismo: nell’esercito europeo Spinelli vedeva uno strumento di
unificazione politica, non di avventure belliche.
***
Lo conobbi, credo, nella sede del Movimento federalista europeo, che
allora si trovava nella Piazza della Fontana di Trevi. Laura Calogero, che era già
mia moglie, lavorava con lui al Movimento federalista avendo il compito di
seguire la stampa estera (inglese e francese: ma Spinelli desiderava che lo
estendesse anche a quella tedesca, e ogni tanto, quando la incontrava, le diceva:
hai imparato il tedesco?); e quando a volte, a fine mattina, passavo di lì, spesso
incontravo lui che, curioso com’era di tutti e, in particolar modo, dei giovani
intellettuali, si fermava talvolta a parlare con me. Poiché avevo letto il
“Manifesto di Ventotene”, malgrado la timidezza che allora in particolar modo
mi affliggeva, ricordo che, quando aveva un po’ di tempo, gli rivolgevo qualche
cauta domanda su quello che potrebbe definirsi il suo retroterra marxista.
G. Sasso, Ricordo di Altiero Spinelli
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
Ma sembrava che alla questione che gli ponevo Spinelli non fosse
interessato. Forse la considerava accademica, roba comunque del passato, non
utile al dibattito delle idee quale si svolgeva, e doveva svolgersi nel presente.
Non sapevo allora quel che tanti anni più tardi appresi, non dalla sua viva
voce, ma dal suo bellissimo libro di ricordi. Parlando del “Manifesto di
Ventotene”, con la lucidità e anche la spietatezza intellettuale che gli erano
proprie. Spinelli vi rilevò alcuni errori. Il più grave fu quello che gli fu subito
fatto notare da Ugo La Malfa che, dopo averlo letto, in una lettera del 1943,
purtroppo perduta, a Rossi e a lui rimproverò la mancata considerazione del
ruolo che, a guerra finita, necessariamente sarebbe stato tenuto in Europa dagli
Stati Uniti, l’unica potenza che avrebbe potuto contrastare quella dell’Unione
Sovietica, rivelando perciò le obiettive difficoltà che l’idea federalista avrebbe
incontrate sulla strada della sua attuazione. L’altro errore fu indicato da Spinelli
nell’ottimismo che circolava nel “Manifesto”, e che non poteva non appartenere
a chi credeva nella «imminente realizzazione» di quel che aveva in testa.
Scriveva, non senza ironia: «poiché questo errore si ritrova dal Vangelo che
credeva di essere impostato tutto sull’idea dell’imminente fine del mondo, al
Manifesto del partito comunista che credeva di essere fondato anch’esso tutto
sull’imminente rivoluzione socialista, si può considerare veniale l’errore
identico del Manifesto federalista».
Veniale o no, quello era per lui un errore; e poiché ammetterlo gli appariva
tanto necessario quanto si rammaricava di averlo compiuto, può comprendersi
perché di parlare della questione non avesse voglia: anche se a presentargliela
era uno che gliela poneva spinto dall’ammirazione e dalla simpatia che provava
nei confronti, non solo della sua persona, ma anche di quella sua idea e del
modo in cui, memore di Marx, l’aveva delineata. Dalla vecchia anima marxista,
che Spinelli chiudeva in sé, e che, avendola variamente emendata nelle lunghe
riflessioni del carcere e del confino, mai però aveva cancellata, mi sembrava
allora, e anche adesso mi sembra, che provenisse a lui quel senso profondo della
crisi dell’Europa che alla sua riflessione storica conferiva accenti particolari, una
tonalità che non era facile ritrovare in altri scrittori di cose politiche, la
larghezza di sguardo che ci affascinava quando lo ascoltavamo discutere di
politica e constatavamo come, con pochi tratti, dalle minute questioni della
politica nazionale, salisse in alto e rivolgesse la sua attenzione al mondo e al
movimento profondo delle cose che vi accadevano e vi sarebbero accadute. Era
quello il momento in cui l’utopista che venerava la realtà effettuale delle cose e,
nello stesso atto, soggiaceva all’imperativo categorico, appariva con il volto di
Machiavelli e con quello di Kant, che, come ricordò nelle sue Memorie, avevano
entrambi presa stanza nel suo animo.
G. Sasso, Ricordo di Altiero Spinelli
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Forse anche per questo mostrava interesse alle cose che facevo io, ai miei
studi, nell’atto stesso in cui non mancava di farmi notare, con piena ragione, lo
scarso impegno che mettevo nelle cose dirette della politica. Che pur con quella
riserva, vi prendesse interesse, non deve sorprendere; non certo perché dei miei
studi egli avesse particolare conoscenza, ma perché l’interessarsene era per lui
un modo di prendere contatto con una dimensione della realtà che le vicende
dell’esistenza non gli avevano consentito di considerare con l’attenzione e la
sistematicità che avrebbe desiderate per esse. Certo è che l’interesse per il
mondo degli studi rivelava, accanto alla passione per le idee, un’altra
dimensione della sua anima, una delicatezza di sentimenti che, chiunque abbia
cercato di guardare dentro di lui, non ha potuto non cogliere: per esempio nella
straordinaria dolcezza del suo sorriso che sembrava contrastare, a volte, con le
parole dure con cui definiva un concetto e una situazione.
Sapevamo tutti, e sapevo anch’io, che in carcere Spinelli aveva studiato,
riflettuto, preso decisioni difficili e coraggiose, imparato le lingue moderne; e
molti ancora oggi ricorderanno il disegno tracciato da Emesto Rossi, l’Empirico
come veniva chiamato, per ritrarre le discussioni filosofiche e culturali che i
confinati intrecciavano fra di loro nei lunghi giorni della loro segregazione dal
mondo. Ricordo che tuttavia rimasi sorpreso il giorno in cui, essendo andato a
casa sua per non ricordo quale ragione, vidi che sul suo tavolo da lavoro era
aperto un volume delle hegeliane Vorlesungen über die Philosophie der Religion,
che egli stava evidentemente leggendo insieme ad altri libri che a quello si
riferivano. Spinelli era un laico integrale e credo che si considerasse estraneo a
qualsiasi religione; non però a quel che accadeva nell’anima degli uomini, al
loro coraggio nell’affrontare la vita e, quindi, alla serenità di fronte alla morte. E
forse anche per questo leggeva Hegel.
Ricordo un episodio accaduto durante i funerali a Roma di Ferruccio Parri,
che molto mi colpì. Mi trovavo dalle parti del Senato, dietro una transenna di
legno messa lì per contenere la folla e impedire che qualcuno occupasse il
centro della strada. Di quel che accadeva in altre parti della via non potevamo,
io e chi era con me, sapere niente di preciso, perché gli altoparlanti che
diffondevano i discorsi funebri in quel punto trasmettevano in modo confuso, sì
che non era facile capire che cosa gli oratori stessero dicendo. Qualcosa, in quel
che era stato detto di Parri, doveva però, questo è certo, averlo fortemente
irritato, forse addirittura offeso. Con il segno sul volto di una grande agitazione
e commozione, quali non avevo mai viste nel suo aspetto, a mia moglie e a me
disse che c’era qualcosa di più profondo dell’idea cristiana della morte, era
l’idea stoica, e che questa, non quella, doveva essere ricercata e indicata in Parri.
G. Sasso, Ricordo di Altiero Spinelli
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
Non so chi, ossia quale discorso, avesse provocata in lui quella reazione.
Ma subito mi passò per la testa il ricordo dei personaggi di Tacito, e quindi
della scena indimenticabile del Giulio Cesare di Shakespeare, in cui, a Cassio che,
prima della battaglia di Filippi, si doleva con lui per piccole cose, Bruto dice,
impassibilmente, che da Roma gli era giunta notizia della morte di Porzia, sua
consorte.
Chi si pone questioni come queste alle quali quel pomeriggio Spinelli
accennava, non può non chiudere in sé un animo sensibile, una disposizione
alla severità mai disgiunta dalla gentilezza e delicatezza dei sentimenti. Chi lo
ha conosciuto, e ha letto le sue Memorie, sa dell’amore profondo che lo legò a
Ursula Hirschman, dell’affetto e della dedizione con cui la circondò e la
protesse per tutta la vita. Ma queste sono cose a cui è giusto non dedicare se
non un accenno discreto; e vorrei invece ricordare altro, a testimonianza di
questo aspetto del suo carattere: Spinelli ebbe molti amici ai quali seppe
rimanere fedele, e a questi altri ne aggiunse, negli anni della riacquistata libertà.
***
Vorrei, per concludere questo breve ricordo e dare una testimonianza del
modo in cui Spinelli viveva le sue amicizie, citare un mio carissimo amico, al
quale anche lui si legò con affetto profondo, nei pochi anni che poté giovarsi
della sua grande intelligenza anche nelle cose riguardanti la politica e l’Europa.
Renato Giordano aveva meno di trentaquattro anni quando la sua vita fu
spezzata da una malattia che, qualche mese più tardi, avrebbe potuto essere
contenuta, se non vinta. Giordano era un giovane intellettuale napoletano, di
origine irpina, allievo ideale di Croce e, quindi, di Guido Dorso, che diresse i
suoi primi passi nella politica napoletana e italiana. Visse la breve esperienza
del Partito d’Azione, condividendo le posizioni non solo di Dorso, ma anche di
Ugo La Malfa; quindi, dopo la fine di quel piccolo partito e un anno di studio
trascorso negli Stati Uniti, vinse il concorso per funzionario della Comunità
europea, dove, a Bruxelles e a Strasburgo, divenne di fatto il principale
collaboratore per l’Italia di Jean Monnet, avendo naturalmente frequenti
occasioni di incontro anche con Spinelli. Giordano era un uomo di finissimo
senso psicologico; e come se, mannianamente, la malattia avesse potenziato in
lui la capacità di penetrare nell’intimo delle persone che incontrava e con le
quali intratteneva rapporti, come se la vita che stava vivendo avesse inclusi in
sé anche gli anni che non gli sarebbe stato concesso di vivere, le descrizioni e
interpretazioni che ne forniva erano di straordinario acume. Penetranti, mai
malevole; perché questo giovane uomo destinato a una morte precoce
rispettava troppo la vita per poterla denigrare in chi ne godesse, fosse pure
persona non congeniale e non gradita.
G. Sasso, Ricordo di Altiero Spinelli
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Dell’intelligenza e della personalità, ma anche dell’eccezionalità
esistenziale di Giordano, Spinelli si rese subito conto. Ne fece uno dei suoi
principali interlocutori italiani. E poiché Renato era l’amico con cui forse, in
quegli anni lontani, mi incontravo più spesso, così accadeva che anche con
Spinelli, attraverso di lui, la frequentazione fosse abbastanza intensa. Furono
conversazioni politiche di grandissimo interesse quelle alle quali allora potei
assistere, e, in rare occasioni di partecipare attraverso l’esposizione di dubbi e la
formulazione di qualche domanda. Svolgendosi a Roma, avevano il loro punto
di riferimento nelle grandi capitali dell’Europa, e negli Stati Uniti, che ora,
diversamente da come era accaduto al tempo in cui scriveva il “Manifesto di
Ventotene”, nella riflessione di Spinelli tenevano naturalmente il centro. La
politica italiana vi era presente, ma senza il senso di soffocazione ideologica che
derivava a chi troppo da vicino la considerasse o, addirittura, vi partecipasse. E
qui a prendere forma dinanzi ai miei, ai nostri occhi, fu un altro tratto del
carattere intellettuale di Spinelli, la sua limpida, libera «spregiudicatezza».
La constatavo, questa sua estrema libertà di spirito, ogni volta che lo
sentivo parlare della Germania e dei tedeschi. A causa delle sue molte letture di
opere scritte in quella lingua, nonché certo del forte legame che lo univa a
Ursula Hirschmann, un’ebrea tedesca di intelligenza e sensibilità pari alla
bellezza, che era decisamente fuori del comune, Spinelli non poteva non avere
un rapporto speciale con questo grande paese, con la sua cultura, e anche,
beninteso, con le tragedie che aveva procurate allʹEuropa e al mondo. Ma è
anche vero che Spinelli era entrato nelle patrie galere quando era ancora un
ragazzo, e ne era uscito che quasi toccava i quarant’anni: con il fascismo, e con
quella che egli una volta definì la sua forma peggiore, con il nazionalsocialismo,
aveva un conto aperto, che, in quanto tale, non si sarebbe potuto chiudere mai.
Eppure, della Germania e dei tedeschi Spinelli parlava con la semplicità che è
dei grandi costruttori, i quali, se debbono rimettere in piedi un monumento che
sia crollato anche perché mal costruito, non esitano a riutilizzarne le parti, sicuri
che nel nuovo assetto queste significheranno in modo diverso dal precedente.
Forse che, in questo suo atteggiamento, c’era dell’ingenuità, poca attenzione
rivolta a quanto di torbido e irrisolto ancora si nascondeva nel profondo della
Germania distrutta e umiliata di quegli anni?
Sarebbe follia dare questa risposta a quel quesito: fra Spinelli e l’ingenuità
non c’era infatti alcun rapporto. Ma Spinelli era un costruttore indomito,
guardava indietro solo per poter meglio individuare la strada che andava nella
direzione dell’avvenire. Rendere presente il passato nell’eterna sua
denigrazione non era cosa che potesse piacergli.
G. Sasso, Ricordo di Altiero Spinelli
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Vi coglieva il segno, o di una politica diversa dalla sua, e da lui giudicata
dannosa, o della più schietta e ipocrita stupidità. Se sua convinzione profonda
era che quel che aveva trascinato l’Europa – l’Europa, si badi, e non la sola
Germania e l’Italia - nel baratro della prima e poi della seconda guerra
mondiale risiedeva nella forma dello Stato nazionale e della «contraddizione»
che aveva provocata, e provocava, nell’intero contesto europeo, tutta l’Europa
doveva essere coinvolta nel superamento di quel suo assetto ormai arcaico e,
potenzialmente, ancora molto pericoloso. La spregiudicatezza era, torno a
ripetere, quella del costruttore che, poiché non dimenticava e sapeva, proprio
per questo guardava avanti. A tenerlo fermo in questo atteggiamento era, del
resto, quello che definirei il suo spirito rivoluzionario, il tratto che rendeva
Spinelli unico nel panorama del pensiero federalista.
Nel “Manifesto di Ventotene” aveva introdotta l’idea, che apparteneva a
lui ben più che a Ernesto Rossi, del partito rivoluzionario che avrebbe dovuto
accelerare il processo storico delle cose: e a essa più tardi aveva rinunziato come
a cosa non sul serio possibile e realizzabile, come a un residuo irrisolto del
marxismo-leninismo condiviso in gioventù. Ma, se l’idea del partito era
tramontata, rivoluzionario Spinelli era restato nell’intimo: in forza, direi, di
un’idea della storia moderna che, poiché gli sembrava che culminasse nella
formazione delle nazioni, e nel relativo concetto, assumeva ai suoi occhi un
aspetto in ogni senso negativo, da combattere, non certo da conservare, nel
giudizio, come cosa positiva. Se non ho visto male, non cʹè nelle sue Memorie,
dove pure alle sue letture si fa largo spazio, un solo accenno al Risorgimento
italiano, non a Cavour, non a Mazzini, nemmeno a Garibaldi. E di questo credo
che fosse ben consapevole. Era proprio questa sua convinzione che, quali che
fossero stati i modi dell’attuazione, quella federalista era un’idea rivoluzionaria,
a mantenerlo su una lunghezza d’onda diversa: come proprio a Renato
Giordano era dato di dover constatare ogni volta che le idee di Spinelli
sʹincontrassero con quelle, certamente diverse, di Monnet.
Quando la malattia di Renato Giordano accennò a farsi così grave che a lui
non fu più possibile vivere da solo, a Roma, e dovette rassegnarsi a trasferirsi a
Napoli nella casa di un suo fratello, noi amici andavano spessissimo a trovarlo;
e più volte con noi fu anche Spinelli, che non sapeva rassegarsi all’idea che quel
giovane di così particolare intelligenza e talento, così sottile e spiritoso
indagatore delle anime, dovesse tanto presto toccare il traguardo. Di quella
fatalità Spinelli stentava a prendere atto, e sembrava che la respingesse nell’atto
stesso in cui la malinconia che s’impadroniva di lui era come l’altro volto della
sua consapevolezza, del cedimento a cui, suo malgrado questa volta, la realtà lo
costringeva.
G. Sasso, Ricordo di Altiero Spinelli
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Quei viaggi a Napoli restano per me e per molti un ricordo incancellabile.
Quando penso a lui, che con Ugo La Malfa e Leo Valiani, mi insegnò che cosa
sia la politica, la sua realtà e la sua idealità, penso certamente alla sua
razionalità, alla sua capacità di analisi, alla sua straordinaria tenacia. Ma anche
a questo suo aspetto, forse meno evidente, di uomo, non solo generoso nelle
amicizie, ma anche gentile. Fu certamente per rendere omaggio al luogo dove
aveva vissuta una parte notevole della sua vita, dove aveva pensate le sue idee
e strette le amicizie che, nella vita, contano sul serio, che Spinelli chiese di essere
sepolto a Ventotene, di fronte al mare. Spero che presto a mia moglie e a me sia
dato di andare lì, a deporre un fiore sulla sua tomba, e a ringraziarlo di tutto
quello che ci ha insegnato.
G. Sasso, Ricordo di Altiero Spinelli
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
Il pensiero politico del Manifesto. Originalità e fonti d’ispirazione.
Prof. Arturo Colombo
Emerito di Storia delle dottrine politiche, Università di Pavia
Quando arriva a Ventotene – esattamente nel luglio del 1939 – Altiero Spinelli
ha trentadue anni di età. Sulla stessa isola, che Camilla Ravera, pure lei condannata al confino, avrebbe definito “una ciabatta sul mare”1, c’era dalla primavera dello stesso anno anche Ernesto Rossi, classe 1896. Un “eroe vivente ma
già leggendario”: ecco la definizione che di Rossi darà, in seguito, Spinelli, aggiungendo, non senza un pizzico di sense of humour: “Ci avvicinammo l’un
l’altro con notevole iniziale diffidenza reciproca, quasi annusandoci come cani,
incerti se fraternizzare o azzannarsi”. E prosegue in quella sua indimenticabile
autobiografia: “Per lui [= Rossi] ero uno che con ogni probabilità ai difetti mentali dei comunisti, per lui già abbastanza gravi, aggiungeva i difetti dell’ancor
più insopportabile settarismo degli eretici”, precisando che “per me [= Spinelli]
lui era un liberale, dunque di certo un conservatore”, addirittura “ un nazionalista”. Ma subito dopo aggiunge: “Quando ci rendemmo conto che avevamo
un’immagine sbagliata l’uno dell’altro, essendo in realtà tutti e due impenitenti
non-conformisti, diventammo rapidamente amici”2
A prima vista, infatti, a distinguerli non era solo l’età, quasi dieci in più
per Rossi: erano soprattutto le diverse radici culturali, i diversi percorsi ideologici, le diverse scelte politiche, che entrambi avevano alle spalle. Rossi aveva
conosciuto di persona il dramma della ’15-’18 – la cosiddetta Grande Guerra;
poi aveva collaborato, seppur brevemente, al “Popolo d’Italia”.
Cfr. Ada Gobetti, Camilla Ravera. Vita in carcere e al confino con lettere e doceumenti, Presentazione
di Norberto Bobbio, Guanda, Parma, 1969, pp. 95.
2 Cfr. Altiero Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, Il Mulino, Bologna, 1988, pp. 301.
1
A. Colombo, Il pensiero politico del Manifesto
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Ma dopo, a Firenze c’era stata l’esperienza del “Non Mollare”, coi fratelli Rosselli: quindi, il trasferimento al nord, l’incontro con Riccardo Bauer, l’avvio del
movimento di “Giustizia e Libertà”3, fino al tradimento della “spia del regime”4,
l’arresto nel 1930, la condanna inflitta dal Tribunale Speciale a vent’anni di carcere, trascorsi per molta parte a Regina Coeli, fino all’assegnazione al confino
nell’isola di Ventotene, ancora in compagnia di Bauer5 (e lì, fra quegli ottocento
confinati, c’è un ricchissimo campionario di antifascisti di diversa estrazione, da
Sandro Pertini a Umberto Terracini, da Mauro Scoccimarro a Eugenio Colorni,
da Pietro Secchia a Alberto Jacopetti6).
Spinelli aveva seguito un percorso di tutt’altro genere. L’attività antifascista l’aveva coinvolto fin da giovanissimo, dopo aver aderito al partito comunista fin dall’autunno del 1924, appena diciassettenne. Arrestato nel giugno del
’27 e condannato dal Tribunale Speciale a oltre sedici anni di carcere (confesserà
più tardi: “io, un po’ per superbia di rivoluzionario, un po’ perché avevo paura
di sperdermi in una difesa legalistica, un po’ per disprezzo per quella farsa di
giudizio, rifiutai l’avvocato e dichiarai che della mia attività di comunista avrei
reso conto al mio partito e non al tribunale speciale”7), aveva conosciuto la “segregazione” nella cella di Lucca, e di Civitavecchia, prima di approdare al
confino di Ponza, nel marzo del ’37, “leggermente inebriato dall’accoglienza
festosa [da parte degli antichi compagni di cospirazione], che faceva
rassomigliare lo sbarco a un grottesco trionfo”8.
Ma di lì a poco, l’aperto dissenso con la “linea” assunta dall’Unione Sovietica e dall’Internazionale (nel gennaio – come sappiamo – era iniziato a Mosca
un altro dei grandi processi staliniani) porta non solo alla “rottura” quanto
piuttosto alla espulsione dal partito comunista9. Con la conseguenza di un isolamento, che finirà per maturare la definitiva scelta politica di Spinelli, nonostante quelli che lui stesso chiamerà “i rischi del convertito”, confessando – sempre
Cfr. Giuseppe Armani, La forza di non mollare. Ernesto Rossi dalla Grande Guerra all’esperienza di
giustizia e Libertà, FrancoAngeli, Milano, 2004.
4 Cfr. Ernesto Rossi, La spia del regime, Feltrinelli, Milano, 1955, n.ed. Una spia del regime. Carlo Del
Re e la provocazione contro Giustizia e Libertà, a c. Mimmo Franzinelli, Bollati Boringhieri, Torino,
2000.
5 Cfr. Riccardo Bauer, Quello che ho fatto. Trent’anni di lotte e di ricordi, a c. Piero Malvezzi e Mario
Melino, Presentazione di Arturo Colombo, Laterza, Bari, 1987, pp. 117-120.
6 Cfr. Giuseppe Fiori, Una storia italiana. Vita di Ernesto Rossi, Einaudi, Torino, 1997.
7 Cfr. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, cit., p. 121.
8 Cfr. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, cit., p. 225.
9 Cfr. Edmondo Paolini, Altiero Spinelli. Dalla lotta antifascista alla battaglia per la Federazione
europea 1920-1948: documenti e testimonianze, Il Mulino, Bologna, 1996, p.181 e ss., nonché
Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, cit., pp. 244-254.
3
A. Colombo, Il pensiero politico del Manifesto
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in sede autobiografica – : “io non ero un figlio della città democratica, ero un
convertito che si accingeva ad insediarvisi come meteco”.
E infatti, quando arriva a Ventotene, Spinelli sta vivendo un momento
tutt’altro che facile della sua esistenza, in preda a una sorta di torpore
intellettuale, che poteva confondersi con uno stato d’animo “quasi sognante”,
che – con la solita franchezza – descriverà come una specie di “comodo
rifugio”10, da cui l’avrebbe scosso, anzi l’avrebbe svegliato proprio Rossi, con
quel suo entusiasmo contagioso e quel suo attivismo frenetico.
Eravamo in guerra, coinvolti in quel secondo immane conflitto, seguito – a
distanza di così poco tempo – alla prima guerra mondiale. E fra quanti erano
costretti alla dura vita di confino, la discussione, il confronto, anche vivace,
polemico, ruvido, non poteva non porsi all’ordine del giorno. Quid agendum ?
ovvero: che fare ? (seppure in una chiave diversa dal titolo di un pamphlet allora
famoso, scritto da Lenin agli inizi del ‘90011). Se lo chiedevano un po’ tutti,
anche se progettare, e quindi ripensare, le linee del futuro prossimo venturo
voleva dire – soprattutto per Spinelli e Rossi – non già accontentarsi di guardare
nostalgicamente al recupero del passato (il famigerato deja vu) ma piuttosto
immaginare i lineamenti di un avvenire de jure condendo, che non poteva non
essere radicalmente diverso, rispetto a quanto si era verificato nel precedente
dopo-guerra, durante i primi, inquieti e turbinosi anni ’20.
***
Intendiamoci. A proposito di quanto stava succedendo nel nostro vecchio
Continente, specie negli anni ’30, di denunce ne erano apparse più di una,
anche se improntate a motivazioni le più dissimili. Basterebbe – per fare
qualche rapido esempio – ricordare il composito mosaico di voci, raccolte
attraverso un apposito concorso promosso dalla “Revue des Vivants”, cui
avevano partecipato anche nomi di grande spicco, da Paul Valéry a Edvard
Beneš, da Heinrich Mann a Henri de Jouvenel, a Carlo Sforza12. Oppure
soffermarci sulle pagine amare che uno storico svizzero, come Louis Gonzague
de Reynold, aveva consegnato nel suo libro, dal titolo inquietante, “L’Europe
tragique”13. O, ancora, riandare alla durissima polemica che con grande
coraggio, dal forzato esilio parigino, Carlo Rosselli aveva affidato a certi suoi
vigorosi articoli, apparsi su “Giustizia e Libertà”, dove emerge tagliente
Cfr. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, cit., p. 304.
Cfr. Lenin, Che fare ?, a c. Vittorio Strada, Einaudi, Torino, 1971, e Arturo Colombo, Lenin e la
rivoluzione, Le Monnier, 1974, pp. 20-50.
12 Mi riferisco ai testi dei partecipanti al concorso indetto dalla “Revue des Vivants” e raccolti
nel volume La fédération européenne, Parigi, 1930.
13 Cfr. Louis Gonzague de Reynold, L’Europe tragique, Spes, Parigi, 1934.
10
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A. Colombo, Il pensiero politico del Manifesto
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
l’attacco contro il Terzo Reich e la pretesa hitleriana di “nazistizzare” il
mondo14.
Anche Rossi, per la verità, nonostante l’isolamento carcerario, fin dagli
anni ’30 aveva riflettuto sulle drammatiche conseguenze che l’esasperazione dei
nazionalismi andava provocando nel vecchio Continente. Non solo, ma – come
ha chiarito di recente il bel libro di Antonella Braga15 – non aveva tralasciato di
affrontare alcuni temi sul futuro dell’Europa, utilizzando una chiave di analisi
che merita di essere considerata in una chiara prospettiva di federalismo
europeo ante litteram. Se ne ricava un documento persuasivo, leggendo una sua
lunga lettera del 30 aprile 1937, che contiene – precisata addirittura in una “
lista di argomenti” – una specie di ben ponderato indice-sommario, dove Rossi
partiva dalla contrapposizione fra il principio, squisitamente mazziniano, “della
indipendenza nazionale come presupposto necessario per la libertà e la
collaborazione fra i popoli” e l’idea “nazionalistica”, tipica delle “condizioni
attuali dell’Europa”, che non solo tendevano “all’autarchia economica” ma
moltiplicavano “l’accentramento e l’onnipotenza” dei singoli Stati nazionali16.
Fin da allora Rossi avvertiva tutta una serie di “ostacoli generali che si
oppongono alla realizzazione degli S.U. di E” [= Stati Uniti d’Europa]”: le
ideologie nazionaliste, gli ordinamenti antidemocratici, gli interessi costituiti.
Ma è proprio in conseguenza di questo stato di fatto – aggravato dal “crollo
delle illusioni riguardo alla Società delle nazioni” – che secondo Rossi occorreva
impegnarsi per quello che avrebbe dovuto diventare il problema dell’Europa
“dal punto di vista internazionale nel dopo-guerra”17. In vista di un simile
traguardo, con lucido realismo indicava come preliminare la convenienza di
dare il via “l’attuazione di un programma minimo non appena possibile, per
costituire un primo nucleo – ecco la tesi di Rossi – a cui [avrebbero potuto] poi
aderire gli altri Stati, quando la loro situazione politica interna lo permetta”.
Basta ricordare l’intervento di Carlo Rosselli, Europeismo o fascismo, in “Giustizia e Libertà”del
17 maggio 1935. Cfr. Piero Graglia, Unità europea e federalismo. Da “Giustizia e Libertà” ad Altiero
Spinelli, Il Mulino, Bologna, 1996.
15 Cfr. quanto scrive a proposito de “la critica del nazionalismo e il progetto di studio sugli Stati
Uniti d’Europa” Antonella Braga, Un federalista giacobino. Ernesto Rossi pioniere degli Stati Uniti
d’Europa, Il Mulino, Bologna, 2007, pp.135-154.
16 Cfr. Ernesto Rossi, “Nove anni sono molti”.Lettere dal carcere 1939-1939, a c Mimmo Franzinelli,
con una testimonianza di Vittorio Foa, Bollati Boringhieri, Torino, 2001, p. 572.
17 Cfr. Rossi, “Nove anni sono molti”, cit., p. 573.
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A. Colombo, Il pensiero politico del Manifesto
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
Anzi, Rossi andava ancora più in là, dando “maggiore fiducia nella
possibilità di una prima federazione dei paesi latini”, con un’aggiunta molto
significativa: “indipendentemente da ogni preoccupazione razziale”18
Ma forse conviene conoscere lo stralcio di una successiva lettera, datata 2
ottobre del ’38, dove Rossi – pur sempre attento ai valori risorgimentali –
sostiene in modo perentorio: “Quanto al principio di nazionalità […] a me non
dice più niente, se non è spiritualizzato in una concezione superiore di
solidarietà tra tutti i popoli”. Anzi, specifica in termini molto netti che
“accettato in senso naturalistico, quasi che le nazioni fossero organismi con loro
propri diritti di vita, questo principio dà l’anima al demone del nazionalismo,
che non sarà mai sazio di rovine e di stagi”19. Non basta ancora, perché qualche
mese più tardi – dopo aver letto “Nel crepuscolo di un mondo”, l’opera di
Franz Werfel, tradotta da Mondadori, e averne more solito discusso insieme ai
compagni di carcere (lo ricorderà anche Foa), Rossi ne scrive alla madre, e
prendendo spunto da quelle pagine, sottolinea il processo degenerativo subito
dagli ideali nazionali, riportando uno dei giudizi più duri, implacabili, dello
stesso Werfel: “dalla nazionalità, attraverso la nazionalità, alla bestialità”20.
C’é di più. Uno degli interventi più duri, e carichi di non celato
pessimismo, lo si ricava leggendo quanto di lì a poco Rossi avrebbe scritto alla
moglie Ada (la sua “carissima Pig”) il 30 ottobre del ’38. Certo, insiste nel suo
ideale di vita: “vogliamo lavorare a costruire un nuovo ordine internazionale in
cui i diversi popoli possan collaborare pacificamente ad una superiore civiltà”.
Ma è altrettanto consapevole che “finché i diversi Stati restan sovrani,
indipendenti da un qualsiasi organo superiore”, permane incombente il rischio,
la minaccia, l’incubo di una nuova guerra. Con l’immediata precisazione, da
citare per intero: “noi sappiamo bene cosa è la guerra […]: mota, pidocchi,
dissenteria, non poter dormire, uomini-animali da macello, bombardamenti,
gas, tribunali militari, fucilazioni, decimazioni per dare un esempio, feriti
abbandonati sotto i reticolati nemici, puzzo di cadaveri, pazzia, morti atroci,
sale operatorie negli ospedali, spasimi per le medicazioni, i mutilati, gli orfani, e
la selezione a rovescio, i profitti degli speculatori, il successo delle canaglie,
abitudini di violenza più diffuse, perdita del senso critico, ecc., ecc.”21
Cfr. Rossi, “Nove anni sono molti”, cit., p. 574.
Cfr. Ernesto Rossi, Elogio della galera. Lettere 1930-1943, Prefazione di Alessandro Galante
Garrone e Introduzione di Gaetano Pecora, Il Mondo 3 Edizioni, Roma, 1997, pp.434-435.
20 Cfr. la lettera del 19 febbraio 1939 in Rossi, Nove anni sono pochi, cit., pp. 769-770. Per il
precedente riferimento cfr. Foa, Lettere della giovinezza. Dal carcere 1935-1943, a c. Federica
Montevecchi, Einaudi, Torino, 1996, pp. 645-647.
21 Cfr. Rossi, Elogio della galera, cit., pp. 440-441.
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Del resto, se ripensiamo al palese, disastroso fallimento della Società delle
Nazioni, comprendiamo benissimo che a Regina Coeli, in quegli anni, Rossi non
era il solo a aver capito le conseguenze funeste che comportava la persistente
esistenza di tanti Stati nazionali sovrani, sempre fra loro gelosi e rivali; e quindi,
non aveva mancato di riflettere e riconoscere l’urgenza di trovare una solida via
d’uscita di tipo europeo (senza contare che, fin dal ’31, sempre nel carcere
romano la “Storia d’Europa del secolo decimonono” di Croce era stata un’altra
proficua lettura, fatta insieme agli altri compagni22). Del resto, ce ne ha dato una
diretta testimonianza anche Vittorio Foa, ricordandoci in sede retrospettiva
quanto erano andati meditando lui e i suoi compagni di prigionia: “si trattava
di affermare l’altra Europa contro l’Europa tedesca che stava, alla fine del 1938,
prendendo una forma precisa”23
Di lì a poco, allorché si erano trovati insieme nel semi-isolamento di
Ventotene, è fuori di dubbio che Spinelli e Rossi non possono aver esitato a
scambiare le loro idee, anche con gli altri confinati; ma è altrettanto vero che la
loro prospettiva – per non dire il loro piano di lotta – anziché trovare un
consenso e un terreno di convergenza (almeno da parte di qualcuno dei loro
compagni), acquista via via uno sbocco così decisamente innovatore, che
nessuno è disposto a sottoscrivere. Se si riuscirà davvero a sconfiggere e
abbattere il nazifascismo – ecco l’imperativo perentorio, che spiccherà subito nel
“Manifesto” –, occorrerà non tanto ristabilire le condizioni in atto prima della
cosiddetta Grande Guerra, ma impegnarsi soprattutto per costruire una nuova
Europa: altro che perdere tempo a immaginare, o fantasticare, su un ipotetico e
anacronistico “ritorno” del nostro Continente com’era quando del fascismo di
Mussolini e del nazismo di Hitler neppure si cominciava a parlare…
Certo, queste loro idee, destinate a trovare di lì a poco un concreto ubi
consistat nelle pagine del “Manifesto per un Europa libera e unita”, si nutrono
anche di riferimenti precisi e decisivi. Soprattutto Rossi, che è sempre stato un
lettore onnivoro e insaziabile, aveva scoperto quanto aveva scritto Luigi
Einaudi già molti anni prima (e non c’è dubbio che ne avrà parlato con Spinelli).
In particolare due articoli einaudiani, firmati con lo pseudonimo “Junius”,
apparsi sul “Corriere della Sera” e ripresi nelle “belle ‘Lettere politiche’ ”, come
lo stesso Rossi avrebbe confessato alla madre24. Il primo articolo, apparso il 5
gennaio del 1918, portava come titolo: “La Società delle nazioni è un ideale
possibile ?”, dove Einaudi non solo denunciava che “gli sforzi fatti per creare
una società di nazioni, rimaste sovrane, servirebbero solo a creare il nulla,
l’impensabile, ad aumentare ed invelenire le ragioni di discordia e di guerra”,
Cfr. La lettera del 23 giugno 1931 in Rossi, Elogio della galera, cit., p. 71.
Cfr. Vittorio Foa, Il Cavallo e la Torre. Riflessioni su una vita, Einaudi, Torino, 1991, p. 106.
24 Cfr. Rossi, Elogio della galera, cit., p. 380.
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ma – dopo aver respinto “questi ‘nomi vuoti’ di società di nazioni” – spiegava
che “la guerra presente è la condanna dell’unità europea imposta colla forza di
un impero ambizioso; ma è anche lo sforzo cruento per elaborare una forma
politica di ordine superiore”. E concludeva: “questa deve essere il frutto degli
sforzi di uomini convinti che soltanto le cose impossibili riescono ed hanno
fortuna; ma devono essere sforzi indirizzati non ad affermare maschere false di
verità, ma ideali concreti, saldi, storicamente possibili”25.
L’altro articolo einaudiano, uscito il 28 dicembre del ʹ18, riprendeva
sostanzialmente lo stesso tema, ma risultava ancora più chiaramente polemico
fin dal titolo: “Il dogma della sovranità e l’idea della Società delle nazioni”. Vi si
leggevano giudizio così drastici: “Bisogna distruggere e bandire per sempre il
dogma della sovranità perfetta”. Anzi, Einaudi rincarava la dose, sostenendo
che occorreva battersi contro la “potenza diabolica dell’idea fissa della
sovranità”, perché – spiegava – “la verità è il vincolo, non la sovranità degli
stati. La verità è l’interdipendenza dei popoli liberi, non la loro indipendenza
assoluta”. E concludendo, così precisava: “Solo le nazioni integrate, consapevoli
di se stesse, potranno fare rinunce volontarie che sino innalzamenti e non atti
costretti di servitù. Soltanto le nazioni libere potranno vincolarsi mutuamente
per garantire a se stesse, come parti di un superiore organo statale, la vera
sicurezza contro i tentativi di egemonia a cui, nella presente anarchia
internazionale, lo stato più forte è invincibilmente tratto dal dogma funesto
della sovranità assoluta”26.
La lezione, o addirittura la simbolica eredità einaudiana spiccherà subito
nel “Manifesto di Ventotene”, là dove Spinelli e Rossi sentono il diritto-dovere
di scrivere che “Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale
qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della
divisione dell’Europa in Stati Nazionali sovrani”27. Ma non basta: perché un
altro “incontro” decisivo – anche stavolta suggerito da Einaudi a Rossi – chiama
in causa alcune tesi dei federalisti inglesi operanti durante gli anni’30.
Questi articoli, com’è noto, sono stati raccolti in volume, insieme a altri scritti. Cfr. Luigi
Einaudi, La guerra e l’unità europea, Introduzione di Giovanni Vigo, Il Mulino, Bologna, 1986, pp.
19-27: le citazioni sono a pp. 23, 25 e 27.
26 Cfr. Einaudi, La guerra e l’unità europea, cit., pp.32 e 36, nonché Umberto Morelli, Contro il mito
dello stato sovrano. Luigi Einaudi e l’unità europea, FrancoAngeli, Milano, 1990
27 Esistono tuttora molte edizioni del “Manifesto”, la più recente pubblicata quest’anno, con
Introduzione di Lucio Levi, Mondatori, Milano, 2008. Comunque, per i riferimenti testuali
utilizzati in questo mio scritto cfr. Altiero Spinelli-Ernesto Rossi, Il Manifesto di Ventotene, con
un saggio di Norberto Bobbio, Guida, Napoli, 1982: in questo caso la citazione è a p.35.
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Sarà Spinelli a ricordarlo in una pagina di un altro suo testo
autobiografico, “Il lungo monologo”, là dove confessa da parte sua il netto
rifiuto di quello che chiama il “fumoso, contorto, poco coerente federalismo
ideologico di tipo proudhoniano o mazziniano”, mentre non esita a riconoscere
il forte debito verso quello che indica come “il pensiero politico, preciso e
antidottrinario, dei federalisti inglesi”28.
Probabilmente, quando potranno frequentare, più tardi, a Ginevra la
Biblioteca della pur criticatissima Società della Nazioni, a intrigare Spinelli (ma
lo stesso discorso vale anche per il suo amico Rossi) saranno i principi-guida
sostenuti dagli esponenti d’oltre Manica, che avevano dato vita al movimento
della “Federal Union”29. In primis Philip Kerr, più noto come Lord Lothian,
autore di uno di quei libri-chiave, che tuttora vanno considerati fonti essenziali
per la successiva strategia dei federalisti. Lord Lothian era stato molto fermo nei
giudizi, che emergono da uno dei suoi libri più incisivi fin dal titolo: “Pacifism
is non enaugh”30. Perché, dunque, il pacifismo non basta? Perché fin dagli anni
’30 non era difficile comprendere che sarebbe stato vano, illusorio e sterile
illudersi che si potesse “disarmare il mondo”, senza proporsi in via preliminare
di togliere di mezzo ciò che dobbiamo considerare la causa causarum di ogni
conflitto: e cioè gli Stati nazionali, a un tempo sovrani e rivali fra loro.
Da qui la cruda, spietata presa di posizione, con cui Lord Lothian – una
volta preso in esame quanto si era verificato all’indomani della fine della
Grande Guerra, ossia la “’14-‘18” – metteva in guarda da quello che, a suo
avviso, non avrebbe potuto non verificarsi nel giro di pochi anni, coinvolgendo
non solo il nostro vecchio Continente. Basta leggere queste sue parole,
purtroppo drammaticamente presaghe: “è triste constatare che a vent’anni dalla
più grande fra le guerre stiamo scivolando verso la ripetizione di un conflitto,
ma su scala mondiale”31. Inoltre, sempre fra gli autori che avevano aderito alla
“Federal Union”, un’influenza molto rilevante – soprattutto su Rossi, che ne
aveva studiato alcuni testi fin da quand’era nel carcere di Alessandria – l’ha
avuta Lionel Charles Robbins (“uno degli economisti che più apprezzo” aveva
Cfr. Spinelli, Il lungo monologo, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1968, p. 135.
Cfr. Richard Mayne, John Pinder, John C. de Roberts, Federal Union: The Pioneers, Macmillan,
Londra, 1990: Andrea Bosco, Federal Union and the Origins of “Churchill Proposal”, Lothian
Foundation Press, Londra, 1992; Alberto Castelli, Una pace da costruire. I socialisti bitannici e il
federalismo, FrancoAngeli, Milano, 2002, nonché Lord Lothian, Una vita per la pace, La Nuova
Italia, Firenze, 1986.
30 Cfr. Lord Lothian, Pacifismo is not enough, Oxford University Press, Oxford, 1935, tr. it. Il
pacifismo non basta, Introduzione di V. Luigi Majocchi, Il Mulino, Bologna, 1986.
31 Cfr. Lothian, Il pacifismo non basta, cit., p. 55.
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precisato fin dall’autunno del ‘38 32), che insegnava alla London School of
Economics di Londra, autore di “Economic Planning and Internation Order”33.
***
Anche sulla base della decisiva influenza esercitata da più d’uno di questi
autori, mi pare che sia giunto il momento di sottolineare quella che Spinelli, e
Rossi con lui, avrebbe da lì in poi indicato come la duplice originalità, destinata
a riversarsi nell’impianto programmatico del “Manifesto”. Anzitutto, è l’Europa
che deve diventare l’obbiettivo primario, e insieme il traguardo decisivo da
realizzare, in aperta alternativa tanto rispetto all’internazionalismo, tipico del
programma cui, soprattutto allora, continuavano a guardare i comunisti e i
socialisti classisti (contro i quali converrà non dimenticare uno degli interventi
più duri scritti da Spinelli34), quanto nei confronti dei progetti, o addirittura dei
programmi di ricostruzione democratica, perseguiti dagli altri vari partiti
politici antifascisti, capaci solo di operare entro la cosiddetta logica degli Stati
nazionali.
Ma c’è un ulteriore elemento di originalità, a mio avviso, che riguarda non
più il fine da perseguire ma i mezzi, ossia gli strumenti da porre in atto, e
quindi chiama in causa tutto il complesso degli organismi istituzionali, politici e
giuridici de iure condendo, che Spinelli e Rossi considerano indispensabili per
riuscire a costruire l’Europa di domani: ossia l’indispensabile ricorso a un
effettivo ordinamento federale, sulla base dell’esempio storico offerto al di là
dell’Atlantico con la nascita degli Stati Uniti d’America (non dimentichiamoci
che in carcere Rossi aveva letto anche le pagine del capolavoro di
Tocqueville…35). Così, forse per la prima volta, l’europeismo e il federalismo –
troppo spesso considerati come due elementi da tenere fra loro distinti (e quasi
distanti…) – spiccano insieme, strettamente legati e collegati come i due
principi d’azione fondamentali, in grado di indicare “la giusta direzione di
marcia”36. Al punto che non è esagerato ripetere, con la lingua di Cicerone,
“Simul stant, aut simul cadunt”…
Sappiamo bene che l’idea germinale del “Manifesto” risale all’inverno del
1940-’41; passano appena sei mesi, e nel giugno del ’41 Spinelli e Rossi decidono
di preparare, ossia di redigere insieme, un primo abbozzo, cui seguirà
Cfr la lettera del 9 ottobre 1938 in Rossi, Elogia della galera, cit., p. 436.
Cfr. Lionel Robbins, Economic Planning and International Order, Macmillan, Londra, 1937, tr. it.
Economia pianificata e ordine internazionale, Rizzoli, Milano, 1948.
34 Per chiarire meglio il senso di questa aspra polemica spinelliana cfr. “Politica marxista e
politica federalista”, ora in Spinelli-Rossi, cit., pp. 95-148.
35 Scriverà, infatti, alla madre il 28 settembre 1934: “Ho principiato proprio ieri la ‘Démocratie
en Amérique’ del Tocqueville”: cfr. Rossi, “Nove anni sono molti”, cit., p. 319.
36 Cfr. Mario Albertini, “I principi d’azione del Manifesto di Ventotene”, in Spinelli-Rossi, Il
Manifesto di Ventotene, cit., p.11.
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nell’agosto dello stesso 1941 un’ulteriore stesura, migliorativa e definitiva37, resa
tanto più necessaria dal fatto che non si poteva non tenere conto che anche
l’Unione Sovietica era ormai pienamente coinvolta nella guerra in atto. Ciò
premesso, se vogliamo cogliere, anche in rapida sintesi, i tratti originali di un
tale documento di alta strategia politica, credo che vadano indicati almeno dieci
punti, da considerare come altrettanti punti-chiave, che caratterizzano
l’originalità dell’intero testo spinellian-rossiano. Ecco perché ritengo non
azzardato parlare di un vero e proprio “Decalogo del Manifesto di Ventotene”,
ricavabile attraverso le precise parole scritte insieme dai nostri due autori.
Primo. “La civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio
della libertà”: così suona l’incipit del “Manifesto”, che prosegue mettendo in
luce come attraverso “un grandioso processo storico” si è andato affermando
“l’eguale diritto” spettante “a tutte le nazioni di organizzarsi in stati
indipendenti” (dove va subito segnalato che l’iniziale del termine “stato” è
scritta con la lettera minuscola, esattamente come usava Einaudi…). É, dunque,
storicamente esatto sostenere – si affrettano a sottolineare i due autori – che
all’inizio “l’ ideologia dell’indipendenza nazionale è stata un potente lievito di
progresso”; ma è altrettanto indispensabile, secondo Spinelli e Rossi, precisare e
porre in chiaro che, con il passare del tempo, questa stessa ideologia “portava
però in sé i germi dell’imperialismo capitalista”: quello che proprio “la nostra
generazione ha visto ingigantire, sino alla formazione degli Stati totalitari ed
allo scatenarsi delle guerre mondiali” 38.
Secondo. Un simile e così radicale mutamento nel ruolo svolto da ciascuno
Stati nazionale corrisponde, dunque, a un autentico processo degenerativo, per
cui ogni nazione da “storico prodotto della convivenza degli uomini” ha finito
per diventare, anzi per degenerare in “un organismo che deve pensare solo alla
propria esistenza e al proprio sviluppo”, tanto da pretendere di assurgere
addirittura a qualcosa di simile a “un’entità divina”, incurante delle
conseguenze o, peggio, dei danni che altre nazioni “possano risentirne”. Con il
risultato negativo, per non dire disastroso – precisano subito Rossi e Spinelli –
che “la sovranità assoluta degli stati nazionali ha portato alla volontà di
dominio di ciascuno di essi”. Peggio ancora – aggiungono –, “questa volontà di
dominio non potrebbe acquietarsi che nella egemonia dello stato più forte su
tutti gli altri asserviti”39.
Cfr. Paolini, Altiero Spinelli, cit., p.217.
Per tutte queste citazioni cfr. Spinelli-Rossi, Il Manifesto di Ventotene, cit., p.23.
39 Cfr. Spinelli-Rossi, Il Manifesto di Ventotene, cit., p.24.
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Terzo. Una simile degenerazione – ben visibile nel nostro vecchio
Continente già all’indomani del primo conflitto mondiale – provoca
un’ulteriore, grave risultanza negativa, di cui non si può non accorgersi perché
ormai coinvolge un po’ tutti i cittadini, limitandone i diritti e quegli spazi di
autonomia, che – almeno in teoria –proprio l’avvento degli Stati liberalgarantisti avrebbe dovuto saper garantire già da tempo: addirittura dal XVIII e
XIX secolo. Sotto questo aspetto il j’accuse del “Manifesto” appare netto e
vigoroso: “Lo stato, da tutelatore delle libertà dei cittadini, si è trasformato in
padrone dei sudditi tenuti a servizio, con tutte le facoltà per renderne massima
l’efficienza bellica”. Un simile fenomeno – si affrettano a spiegare – diventa
tanto più gravido di conseguenze drammatiche, perché ormai si va verificando
e diffondendo un po’ dovunque, “anche nei periodi di pace, considerati come
soste per la preparazione alle inevitabili guerre successive”40.
Quarto. Una simile, inquietante metamorfosi, che ormai dovrebbe essere
sotto gli occhi di tutti, non rimane isolata ma comporta un ulteriore fenomeno
patologico, perché contribuisce a generare, a diffondere, o addirittura a imporre
quello che Spinelli e Rossi indicano con il nome di “dogmatismo autoritario”41,
di cui i detentori del potere in ogni Stato nazionale sovrano non rinunciano a
approfittare in misura sempre più estesa e massiccia (anche attraverso un
nuovo fattore negativo, in grado di provocare il diffuso asservimento delle
strutture scolastiche, sedicenti educative) fino al punto da produrre quel
“massimo di accentramento e di autarchia”, destinato a metter capo al peggiore
“dogmatismo totalitario”, di cui erano allora macroscopici, e deleteri, esempi
paradigmatici tanto il nazismo germanico quando il fascismo di casa nostra.
Quinto. Noi sappiamo bene che il tema del potere è sempre stato una delle
chiavi di volta del pensiero politico. Non soltanto, però, come ricerca delle
origini del potere – e quindi dello Stato –, secondo il celebre insegnamento che
abbiamo appreso da Thomas Hobbes; ma piuttosto come ricerca intorno ai vari
modi di esercizio del potere, in base alle ben note lezioni di realismo, che
abbiamo imparato da Machiavelli a Spinoza, da Hamilton a Max Weber. E
dunque, pur avendo avuto un diversissimo background ideologico culturale,
entrambi, Spinelli e Rossi, trovano subito un terreno d’intesa nel comune
convincimento che occorreva innanzitutto difendere – anzi, riconquistare – un
“ideale di civiltà” (lo stesso, per cui aveva scelto la regola del “non mollare” un
personaggio come Rossi, che il suo grande amico Riccardo Bauer saprà definire
“un giacobino in un mondo di farisei”42). Sostanzialmente analogo nel ribadire
Cfr. Spinelli-Rossi, Il Manifesto di Ventotene, cit., p. 24.
Cfr. Spinelli-Rossi, Il Manifesto di Ventotene, cit., p. 27.
42 Cfr. Riccardo Bauer, Un giacobino in un mondo di farisei, in “Resistenza”, 1968, n. 2, p. 2.
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“Noi vogliamo che gli uomini siano liberi”, era il Leitmotiv di Spinelli43, che non
è mai stato “un predicatore solitario, ma un combattente capace di grande
realismo politico”44, secondo la vivida definizione di Giorgio Napoletano.
E allora? Se questi primi cinque punti coinvolgono la diagnosi del processo
degenerativo già in corso, e reso molto più grave – caso mai ce ne fosse stato
bisogno – dalla guerra in pieno svolgimento, che allora stava mettendo a ferro e
fuoco un po’ tutto il pianeta Terra, i successivi cinque punti del “Manifesto”
non sono meno importanti e qualificanti, perché chiamano in causa, secondo le
precise indicazioni di Spinelli e Rossi, quali avrebbero dovuto essere i compiti
fondamentali da affrontare nel dopo-guerra. Si tratta, cioè, non tanto di
prospettare i lineamenti di un anacronistico ritorno al passato, ma piuttosto di
progettare l’adozione di una medicina forte o, se preferiamo, di una terapia
d’urto, con cui riuscire ad affrontare – e possibilmente, anche a avviare a
soluzione – quelli che già si prospettavano come le incombenze decisive del
futuro prossimo venturo.
Eccoci così al punto sesto. Naturalmente, rimane innegabile che occorre in
primis abbattere il nazismo hitleriano; ma la sconfitta della Germania non
poteva, non doveva condurre “automaticamente al riordinamento dell’Europa”
sulla base di un equivoco, quanto pericoloso, revival del vecchio sistema degli
Stati nazionali (proprio quel sistema che nel giro di pochi decenni era
responsabile, anzi colpevole di avere scatenato le due guerre mondiali del XX
secolo). E dunque, se l’analisi storico-politica svolta da Spinelli e Rossi era esatta
– e entrambi ne erano convintissimi – non poteva esserci il minimo dubbio che
fra i “compiti del dopo guerra”, indicati dal “Manifesto”, spiccava l’obbligo
prioritario e decisivo di fissare le condizioni per un’immediata realizzazione
della “unità europea” 45.
Settimo. Per giungere a un simile traguardo Spinelli e Rossi, attraverso
un’analisi realistica e impietosa, non tralasciano di mettere a nudo anche quella
che ormai da anni consideravano “l’inutilità, anzi la dannosità di organismi del
tipo della Società della Nazioni”. Anzi, con la stessa chiarezza non esitano a
sostenere che “la dura esperienza degli ultimi decenni ha aperto gli occhi anche
a chi non voleva vedere”, così da riuscire a far “maturare molte circostanze
favorevoli al nostro ideale”. È in forza di simili convincimenti che gli autori del
“manifesto” sono pronti a ribadire che “tutti gli uomini ragionevoli riconoscono
ormai che non si può mantenere un equilibrio di stati europei indipendenti, con
la convivenza della Germania militarista a parità di condizioni degli altri paesi,
Cfr. Paolini, Altiero Spinelli, cit., p. 284.
Cfr. Giorgio Napolitano, Altiero Spinelli e l’Europa, con presentazione di Giuliano Amato, Il
Mulino, Bologna, 2008, pp. 33-34.
45 Cfr. Spinelli-Rossi, Il Manifesto di Ventotene, cit., p. 30.
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né si può spezzettare la Germania e tenerle il piede sul collo una volta che sia
vinta”46.
Ottavo. Se questo è il quadro che ci sta davanti, non c’è tempo da perdere
in merito alle decisioni da assumere, perché la medicina che occorre decidersi a
adottare (o addirittura “prendere”, se preferiamo) rimane una sola. E i nostri
autori – che conoscono il dovere della chiarezza, soprattutto appena si tratta di
indicare come occorre agire – con il linguaggio più semplice, ma anche con
quello più facile da intendere, sintetizzano quanto occorre decidersi a mettere in
atto, subito e senza più tentennamenti ambigui o furbeschi. Così, bastano queste
poche, semplici parole, che però contengono la carica forse più rivoluzionari di
tutto il “Manifesto”, tanto sono esplicite appena si propongono di indicare
“nella Federazione Europea la più semplice soluzione”47.
Nono. Dunque, affinché ci si possa avvicinare, sempre più rapidamente, a un
tale traguardo, che cosa resta da fare? ossia, quale strada occorre scegliere? “La
linea di divisione fra partiti progressisti e partiti reazionari – spiegano Spinelli e
Rossi, suggerendo l’unica strategia operativa da adottare – cade perciò ormai
non lungo la linea formale della maggiore o minor democrazia, del maggiore o
minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che
separa quelli che concepiscono come fine essenziale della lotta quello antico,
cioè la conquista del potere politico nazionale […] e quelli che vedranno come
compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che
indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il
potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per
realizzare l’unità internazionale”48.
Decimo. Intendiamoci bene: prima di raggiungere e riuscire a ottenere
questo grande, ambizioso obbiettivo finale di una concreta “unità
internazionale”, estesa su tutto il pianeta Terra, occorre impegnarsi per
realizzare il traguardo più immediato: ossia, fare l’Europa “libera e unita”, che
significa lottare per riuscire a costruire un concreto Stato federale europeo. Ecco
perché – sono pronti a ribadire Spinelli e Rossi – “oggi è il momento in cui
bisogna saper gettare via vecchi fardelli divenuti ingombranti, tenersi pronti al
nuovo che sopraggiunge, così diverso da tutto quello che si era immaginato,
scartare gli inetti fa i vecchi e suscitare nuove energie fra i giovani”. E non
rinunciano a concludere, magari con una punta di trasparente ottimismo: “La
via da percorrere non è facile, né sicura. Ma deve essere percorsa, e lo sarà!”49.
***
Cfr. Spinelli-Rossi, Il Manifesto di Ventotene, cit., pp.35-36.
Cfr. Spinelli-Rossi, Il Manifesto di Ventotene, cit., p. 36: le maiuscole sono nel testo.
48 Cfr. Spinelli-Rossi, Il Manifesto di Ventotene, cit., p. 37.
49 Cfr. Spinelli-Rossi, Il Manifesto di Ventotene, cit., p. 43.
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Proprio perché l’obbiettivo di un’Europa “libera e unita” appariva subito così
dirompente (a conferma – spiegherà anche Bobbio – del grande valore
innovativo del “Manifesto”50), nessuno dei compagni, allora confinati a
Ventotene (né Bauer, né Pertini, e neppure Terracini), si trova d’accordo nel
porre la propria firma in calce a quel documento, destinato di lì a poco a fare il
giro del mondo, soprattutto dopo che Eugenio Colorni, già trasferito a Roma,
era riuscito a ottenere una copia di quel testo, che farà pubblicare
clandestinamente. E saranno sue anche quella limpide pagine di prefazione,
dove ribadirà che “l’ideale di una federazione europea preludio di una
federazione mondiale, mentre poteva apparire lontana utopia ancora qualche
anno fa, si presenta oggi […] come una mèta raggiungibile e quasi a portata di
mano”51 (e in proposito vale la pena di ricordare quanto avrebbe scritto Rossi
nel luglio del ‘44, all’indomani della tragica morte di Colorni: “egli sentiva in
modo così vivo questa esigenza [= l’unificazione federale dell’Europa] che certe
volte era portato a mettere perfino, paradossalmente, in rilievo gli aspetti
positivi della politica hitleriana, in quanto poteva valere a spazzar via le
assurde anacronistiche sovranità dei trentadue Stati nazionali in cui era
spezzettato il nostro continente”52).
Di lì a poco, nell’agosto del ’43, sappiamo che verrà fondato
clandestinamente a Milano, in casa di Mario Alberto Rollier53, il Movimento
Federalista Europeo, con l’intervento – accanto a Rossi, a Spinelli, a Colorni – di
una trentina di personaggi, come Leone Ginzburg, Vittorio Foa, Manlio Rossi
Doria, Vindice Cavallera, Dino Roberto, Alberto Damiani54. Poi, all’indomani
dell’ 8 settembre, la vicina Svizzera è destinata a diventare la “terra d’asilo”55
per chi – come Spinelli e Rossi – proprio per non finire di nuovo dietro le sbarre,
è costretto a trovare rapidamente un rifugio all’estero. Dove entrambi
proseguono la battaglia federalista (magari con l’aiuto del giovane Luciano
Cfr. Norberto Bobbio, “Il federalismo nel dibattito politico e culturale della resistenza”, in
Spinelli-Rossi, Il Manifesto di Ventotene, cit., pp. 149-169.
51 Per la prefazione di Eugenio Colorni – firmata semplicemente Il Movimento Italiano per la
Federazione Europea – cfr. adesso Spinelli-Rossi, Il Manifesto di Ventotene, cit., pp. 15-21: la
citazione a p. 18.
52 Per questi riferimenti, che si trovano in un articolo dedicato a Eugenio Colorni, e pubblicato u
“L’Avvenire dei Lavoratori”del 15 luglio 1944, adesso cfr. Rossi, Un democratico ribelle, cit., p.
194.
53 Cfr. Cinzia Rognoni Vercelli, Mario Alberto Rollier. Un valdese federalista, Jaca Book, Milano,
1991.
54 Cfr. Rognoni Vercelli, “Milano, Via Poerio 37. La fondazione del Movimento Federalista
Europeo”, in Europeismo e federalismo in Lombardia dal Risorgimento all’Unione Europea, a c. Fabio
Zucca, Il Mulino, Bologna, 2007, pp. 149-185, nonché Paolini, Altiero Spinelli, cit, pp. 315-328.
55 Cfr. Renata Broggini, Terra d’asilo. I rifugiati italiani in Svizzera 1943-1945, Il Mulino,Bologna,
1993.
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Bolis56). “Come pescatori sulla riva di un fiume – racconterà Spinelli –,
cominciammo a gettare i nostri ami per pescare i federalisti europei viventi
nelle acque svizzere. Preparavamo, ciclostilavamo, facevamo tradurre,
diffondevamo articoli e opuscoli, scrivevamo sui giornali e settimanali,
spedivamo lettere, organizzavamo incontri, studiavamo la letteratura
federalista nella biblioteca della Società delle Nazioni”57.
A questo punto c’è solo da aggiungere che durante la primavera del ’44,
Spinelli e Rossi (anche con il vigoroso sostegno di Luigi Einaudi, lui pure
rifugiato in Svizzera, ma a Basilea58) si fanno promotori di una serie di riunioni,
avvenute a Ginevra, in casa del pastore protestante olandese Willem A,
Vissert’Hooft (un personaggio di rilievo, allora segretario generale del Concilio
ecumenico delle Chiese). A centodieci anni esatti di distanza da un altro
incontro storico, che aveva segnato la nascita della “Giovine Europa”, promossa
da Mazzini59, ecco che i rappresentanti della resistenza di vari paesi dell’Europa
occidentale (dall’Italia alla Francia, alla Germania) e dell’Europa orientale (dalla
Polonia alla Cecoslovacchia, alla Jugoslavia) si impegnano a firmare quella
“Dichiarazione Federalista Internazionale”, che purtroppo ben pochi conoscono
e ancora meno sono in grado di citare, e che invece merita di essere considerato
un testo di grande rilevanza, perché costituisce il vero complemento e il
completamento del “Manifesto per un’Europa libera e unita”.
Lo dimostra l’esplicito richiamo a considerare che “nello spazio di una
generazione – si legge nella “Dichiarazione” – l’Europa è stata l’epicentro di
due conflitti mondiali che hanno avuto sopratutto come origine l’esistenza su
questo continente di trenta stati sovrani”. Quindi, se “la pace europea è la
chiave di volta della pace mondiale”, occorre trarne le conseguenze e
“rimediare a questa anarchia con la creazione di una Unione Federale fra i
popoli europei”60.
Ma soprattutto lo dimostra il forte richiamo a tre obbiettivi, posti come
indispensabili nella “Dichiarazione” (che, seppure implicitamente, pone anche
il problema di dare vita a una carta costituzionale europea), là dove è netta
Cfr. Cinzia Rognoni Vercelli, Luciano Bolis dall’Italia all’Europa, Il Mulino, Bologna, 2007.
Cfr. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio , cit., p. 390.
58 Oltre a Luigi Einaudi, Diario dell’esilio 1943-1944, a c. Paolo Puddu, Einaudi, Torino, 1997, cfr.
Riccardo Faucci, Luigi Einaudi, Utet, Torino, 1986, pp. 315-334.
59 Cfr. Per l’unità europea. Dalla “Giovine Europa” al “Manifestao di Ventotene”, a c. Giovanni
Spadolini, “Quaderni della Nuova Antologia” n. XXII, Le Monnier, Firenze, 1984.
60 Cfr. La Dichiarazione Federalista Internazionale, in “L’Unità Europa”, 1944, n. 5, p. 1. Se ne veda
la ristampa anastatica con il titolo L’Unità Europea 1943-1945, con una “Nota introduttiva” di
Sergio Pistone, Fondazione Europea Luciano Bolis, Milano, 1983. Sul “Progetto di dichiarazione
federalista”, steso nel gennaio del 1944 cfr. Spinelli, Machiavelli nel secolo XX. Scritti del confino e
della clandestinità,. 1941-1944, a c. Piero Graglia, Il Mulino, Bologna, 1993, pp. 263-272.
56
57
A. Colombo, Il pensiero politico del Manifesto
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nell’evidenziare questi tre riferimenti, determinanti ancora oggi: “1) un governo
responsabile non verso i governi dei diversi Stati membri ma verso i loro
popoli, dai quali dovrà essere eletto e sui quali dovrà poter esercitare una
giurisdizione diretta nei limiti delle sue attribuzioni; 2) una forza armata, posta
agli ordini di questo governo, che escluda ogni altro esercito nazionale; 3) un
tribunale supremo, che giudicherà tutte le questioni relative all’interpretazione
della costituzione federale e risolverà gli eventuali conflitti fra gli Stati membri
e la Federazione”61.
Da allora sono passati oltre sessant’anni. Eppure – se ci guardiamo intorno
e consideriamo sine ira ac studio quanto si sta verificandosi – non possiamo non
prendere atto che l’Europa degli Stati, con le sue gelosie e le sue rivalità,
continua a rimanere in piedi. È vero, abbiamo cercato anche di dare vita a un
processo di integrazione comunitaria, e siamo riusciti a passare dalla “Piccola
Europa” (la cosiddetta Europa dei Sei, che ha preso il via nei primi anni ’50)
all’attuale Unione Europea62, che oggi comprende ben ventisette Stati-membri.
E resta altrettanto vero che ci siamo dati un impegno comune, quando – fin
dall’Autunno del 2000 – nella “Carta dei diritti fondamentali”, abbiamo ribadito
che “i popoli europei nel creare fra loro un’unione sempre più stretta hanno
deciso di condividere un futuro di pace fondato su valori comuni”63. Eppure
l’Europa federale, dotata di effettivi poteri decisionali – proprio come l’avevano
immaginata Spinelli e Rossi, e per la cui realizzazione Spinelli si è battuto fino
all’ultimo dei suoi giorni, anche dai banchi del Parlamento di Strasburgo64 – la
stiamo ancora aspettando.
Ma noi, proprio perché sappiamo che “l’Europa non cade dal cielo”65, a
raggiungere quel traguardo non rinunceremo, consapevoli che l’Europa
federale, gli Stati Uniti d’Europa, riusciremo a realizzarli “dal basso”, solo se
Cfr. La Dichiarazione Federalista Internazionale, cit., p. 2.
Oltre a Lucio Levi-Umberto Morelli, L’unificazione europea. Cinquant’anni di storia, Loescher,
Torino, 1994, Il rilancio dell’Europa e i Trattati di Roma, a c. Enrico Serra, Giuffré, Milano, 1989,
L’Unione europea e le sfide del XXI secolo, a c. U. Morelli, Celid, Torino, 2000, fra la pubblicistica
recente cfr. Mark Gilbert, Surpassing Realism. The Politics of European Integration since 1945,
Roowman & Littlefield, Lanham (Md), 1953, ed. It. abbreviata Storia politica dell’integrazione
europea, Laterza, Bari-Roma, 2005; Sergio Romano, Europa. Storia di un’idea. Dall’Impero
all’Unione, Longanesi, Milano, n. ed., 2006, pp. 225-269; Emilio E. Papa, Storia dell’unificazione
europea, Bompiani, Milano, 2006; Anthony Giddens, L’Europa nell’età globale, Laterza, Bari-Roma,
2007; Pier Paolo Portinaro, Il labirinto delle istituzioni nella storia europea, Il Mulino, Bologna, 2007.
63 Cfr. “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea” in L’Europa dei diritti, a c. Raffaele
Bifulco, Maria Cartabia, Alfonso Celotto, Il Mulino, Bologna, 2001, p. 175.
64 Cfr. Spinelli, Discorsi al Parlamento Europeo 1976-1986, a c. Pier Virgilio Dastoli, Il
Mulino,Bologna, 1986, e Spinelli, Una strategiaper gli Stati Uniti d’Euopa, a c. Sergio Pistone, Il
Mulino, Bologna, 1989.
65 Cfr. Spinelli, L’Europa non cade dal cielo, Il Mulino, Bologna, 1960.
61
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avremo la forza, il coraggio, la volontà di coinvolgere democraticamente strati
sempre più ampi del popolo europeo. Ecco perché l’interrogativo che Spinelli
rivolgeva agli europei oltre mezzo secolo fa – “Sapranno essi fare in quest’ora
buia quel che non hanno saputo fare nelle loro ore luminose ?” – acquista per
noi, proprio spinellianamente, anche il valore di un “monito” 66. Chi vivrà,
vedrà.
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Cfr. Spinelli, Dagli Stati sovrani agli Stati Uniti d’Europa, La Nuova Italia, Firenze, 1950, p. 340.
A. Colombo, Il pensiero politico del Manifesto
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Genesi del Manifesto: la filosofia implicita di Spinelli nei manoscritti
del confino
Prof. Francesco Saverio Trincia
Ordinario di Filosofia Morale, “Sapienza” - Università di Roma
La lettura degli appunti filosofici di Altiero Spinelli, quasi tutti risalenti al
periodo del confino a Ponza e a Ventotene, tra la fine degli anni trenta e i primi
anni quaranta, riserva la sorpresa di un ricerca filosofica seria, profonda, in
qualche misura organica proprio nel suo obiettivo di sottrarsi alla cattura nei
confini dei grandi sistemi dell’idealismo italiano. Essi non sono soltanto uno
strumento importante per completare il quadro della fisionomia di Spinelli,
aggiungendo ad essa la pratica del pensiero più volte evocata dalla sua
autobiografia e quasi sotterraneamente innervante ogni passo del
ripercorrimento “riflessivo” della propria vita, per usare un termine ricorrente
del vocabolario filosofico spinelliano. La riflessività richiama l’insostituibilità
dello sguardo che dalla vita si rivolge alla vita stessa, distaccandosene per
comprenderla, ma senza ma perderla di vista quale base e ambito della
riflessione . Non è solo di un interesse storico, dunque, quello che spinge a dare
pieno rilievo e a confrontarsi teoreticamente con un edificio filosofico
frammentario di fatto, ma non progettato come programmaticamente aforistico
e comunque aspirante a raggiungere una qualche forma di interna coerenza.
Ciò richiede che si definiscano i due significati dell’ aggettivo “implicito”
di cui ci serviamo per definire l’esercizio filosofico di Spinelli. Per un verso,
“implicito” intende segnalare il modo specifico di un esercizio del pensiero che
rifugge da ogni forma di progettata e finalizzata volontà di capire, attraverso la
cattura del reale entro una rete di concetti. Il termine allude al fatto che Spinelli
concepisce la riflessione filosofica come una necessità del pensare tipicamente
astratto che in un certo senso si impone dall’interno della concretezza attiva
dell’operare di un uomo della politica e della storia in fieri e futura, presente e
da realizzarsi. Per questo motivo essa gli si configura come una ricerca
“genetica”, nel senso dialettico e fenomenologico che il termine ha nella
Prefazione e nella Introduzione alla Fenomenologia dello spirito di Hegel, il testo e
l’autore di riferimento fondamentali negli appunti, il più frequentemente citato.
F. S. Trincia, Genesi del Manifesto
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Ciò non significa che sia legittimo definire la modalità spinelliana di praticare la
filosofia soltanto come uno scolastico ritorno a Hegel o come un puntiglioso
recupero della fluidità dialettica delle categorie, in polemica con quella che
denuncia come la determinazione e l’articolazione crociana delle forme dello
spirito, a suo parere trasformate o deformate in forme metafisiche del reale
sostanzialmente fisse, non dialettiche, ingiustificatamente presupposte,
sostanzialmente arbitrarie. Che la filosofia di Spinelli sia implicita allude
dunque anzitutto alla scelta teoretica fondamentale di farla sorgere dall’interno
della vita individuale e insieme universale, salvaguardata nella sua
caratteristica di esperienza “vissuta”. Pensiero implicito significa pensiero non
sistematico nel senso (non programmaticamente fenomenologico in senso
husserliano) di pretematico, in quanto colto al di qua della sistemazione che
volta a volta l’intelletto (il Verstand hegeliano) è chiamato a compiere della
fluidità della vita esperita.
Per altro verso, ma in netta continuità rispetto al primo significato di cui è
una importante specificazione, “filosofia implicita” è quella considerazione
astratta (non storica, non etica, non poetica, non estetica, ma speculativa) che
sfocia, nella pagine finali degli appunti su Dialogo sui sistemi, nella
determinazione dell’agire politico quale forma essenziale e centrale della realtà
umana. Spinelli probabilmente non accetterebbe questa interpretazione della
sua nozione di “politica”, ma essa gioca nel suo pensiero un ruolo che non si
saprebbe definire altrimenti che metafisico. “Politico” non è infatti solo quel che
designa l’empirico, storico agire pubblico di individui impegnati alla
realizzazione di progetti che trascendono la loro individualità singola e che
mirano alla instaurazione di un ordine (in Spinelli rigorosamente europeo e
sovranazionale, sebbene questo aspetto cruciale dell’attività spinelliana taccia
ancora nei manoscritti filosofici). Certo, ogni agire politico è risolvibile in questo
o quel concreto agire empiricamente storico, svolto nelle condizioni tante volte
analizzate da Spinelli nel corso della sua lunga vicenda carceraria, quando la
comprensione del senso della propria scelta antifascista compiuta in quanto
militante e dirigente comunista lo conduce progressivamente a metterne in crisi
regressivamente e al tempo stesso progressivamente le ragioni della scelta
giovanile e a respingere la futurologia comunista a vantaggio dell’altrettanto
grandioso, ma profondamente diverso progetto federalista. “Politica” è questo
concreto decidere e lottare e soffrire e progettare e riprogettare un ordinamento
sociale civile, statale, poi in seguito sempre più esclusivamente sopranazionale
condiviso, e realizzato attraverso la guida politica di altri esseri umani, entro
organismi associativi, in partiti che sono destinati a mutare la loro ragione
storica se le loro finalità mutano, se passano ad altre lotte, alle realizzazione di
altri progetti.
F. S. Trincia, Genesi del Manifesto
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
È vero anche, tuttavia, e costituisce punto di merito cruciale dell’analisi,
che gli appunti filosofici di Spinelli si interrogano sulla forma della politica, sul
suo senso, sul suo perché non storico che comanda e riproduce costantemente
l’impegno politico concreto, conferendogli quel retroterra riflessivo di cui esso
abbisogna – quando e in colui in cui accade che il “bisogno della filosofia”,
come lo chiamava il giovane Hegel, si affermi prepotentemente. Che questo
bisogno agisca dall’interno della politica fatta e subita autorizza l’uso del
significato più circoscritto, ma come il primo legittimato dalla lettura degli
appunti manoscritti, della immagine di un pensiero filosofico “implicito”. Esso
è implicato dalla e nella politica che costituisce la categoria regia di un pensiero
che si esercita insistentemente – non senza abilità e genialità, date le condizioni
in cui viene svolgendosi - nella critica dell’astrattismo delle “forme dello
spirito” crociane. Ma di fatto tale pensiero segue un percorso formalmente non
diverso. Anche nello Spinelli critico di Croce, il “bisogno della filosofia” mira
comunque alla penetrazione razionale della attiva realtà del fare politico, che
solo grazie alla filosofia diviene pienamente disponibile agli attori storici. La
coscienza peculiarmente filosofica che essi acquisiscono, la penuria della quale
spinge gli attori politici della storia ad esaudire il “bisogno di filosofia” che
avvertono, li conduce con minore o maggiore consapevolezza a trascendere con
il pensiero l’immediatezza del loro agire, del loro vario scegliere e mutare le
proprie scelte, del loro soffrire per destini dolorosi che non sono solo o
prevalentemente i loro destini individuali.
È forse identificabile un senso ulteriore, più generale e più positivo,
verrebbe da dire, più aperto, dell’ ”implicito” argomentare filosofico di Spinelli
con se stesso. “Implicito” vuol dire in questo caso originario e in certo senso
fondativo. L’impressione generale che fanno i suoi appunti è che in lui il
concrescere del “bisogno della filosofia” con la vita politica e nella vita politica
sia la prima e fondativa consapevolezza. Essa precede , anzi in certo senso
sostituisce , l’acquisizione di una una vera e propria filosofia della politica.
Osservati dalla prospettiva che va facendosi via via più ravvicinata e più
profonda, gli esercizi filosofici di Spinelli appaiono paradigmatici del modo in
cui ‘nascÈ in quest’uomo, nelle condizioni storiche in cui vive, una
consapevolezza del bisogno di filosofare indistinguibile dal filosofare stesso,
come insegnava a Spinelli l’amato Hegel. Questo rende, come osserva, il
filosofare kantianamente non insegnabile. Ma se gli appunti filosofici
costituiscono il riscontro fattuale del racconto autobiografico dove l’esigenza, o
il destino, del pensare astratto sono descrittivamente narrati, gli appunti stessi
offrono una risposta non narrativa, ma interna alla e nei modi della filosofia,
dell’imporsi per lui e in lui della filosofia stessa.
F. S. Trincia, Genesi del Manifesto
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
Su tale sfondo generale e in ogni senso prioritario, si deve rilevare che il
tema essenziale degli appunti sta nell’idea che nella “politica” trovi soluzione la
ricerca del punto di incontro tra vita spontanea e sistemazione intellettuale di
essa. È importante rilevare che il punto di incontro tra storia e categorie appare
a Spinelli assolutamente analogo (nei termini che la tradizione criticistica
kantiana e postkantiana definisce formali, consapevolmente e rigorosamente
perseguiti dal filosofo Spinelli in base alla convinzione, ripresa dal più
profondo passato della tradizione del pensiero occidentale, che non si dia
comprensione della variabilità delle cose senza la stabilità della prospettiva
offerta da una permanenza epistemica sottratta alla variazione) a ciò che fa
della politica la sintesi originaria delle ragioni dei “bisogni” vitali, materiali,
esistenziali che intessono la vita degli individui associati, da un lato, e delle
ragioni dell’ “organizzazione” della vita associata, ossia della morale, delle
leggi, della costituzione, dello Stato, delle istituzioni, dall’altro.
“Politica” è l’equilibrio volta a volta raggiunto e costantemente
modificantesi attraverso la sistemazione del vecchio equilibrio in un nuovo
equilibrio, tra la pressione della materia vitale che la sua primitiva coscienza
marxista avrebbe definito come la produzione e riproduzione della vita
materiale degli individui associati, e quel passaggio alla istituzionalizzazione di
essa che lo Spinelli fuoriuscito dal cerchio della dogmatica materialistica ed
apertosi al riconoscimento della necessità di lasciare spazio alla creatività della
istituzione di ordini formali della convivenza umana scopriva come
quell’insostituibile ‘altro’ e ‘oltrÈ rispetto al pensiero di Marx, che conduceva
alla rovina il suo intero edificio dottrinario. Spinelli non avrebbe forse usato il
termine “normativo”, ma era la consapevolezza che ogni istituzione stabilisce
un ordine nella soddisfazione dei bisogni della vita associata solo in quanto si
serve di strumenti modificabili certo ma costantemente riferiti ad una norma da
imporre, ciò che lo conduceva alla scoperta della centralità della forma della
politica, e al riconoscimento della sua propria identità di attore o agente
politico.
Fuoriuscita dal marxismo, bisogno della filosofia, scoperta della
permanenza del normativo come strumento per dare ordine alla vita sociale e
prima ancora per guidare gli esseri umani verso obiettivi istituzionali nuovi e,
infine, affermazione della centralità della politica sono elementi
indistinguibilmente legati del crogiolo in ebollizione che lo spirito di Spinelli
era divenuto alla fine degli anni trenta. Ma per lui il ribollire della sua vita
intellettuale e morale era non distinguibile dall’intuizione che la renovatio
svolgentesi nella sua persona sottolineava il valore del paradigma filosofico
intorno a cui ruotano gli appunti. La sua vita in trasformazione gli mostrava che
trasformazione, mutamento, scelta, quella che nel linguaggio liberale di John
F. S. Trincia, Genesi del Manifesto
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
Stuart Mill, è il valore supremo dell’incoercibile creatività promanante dalla
libertà dei singoli, di ogni singolo, costituisce l’elemento essenziale della
scoperta della politica. “Politica” è destino di ogni singolo in un senso opposto a
quello della tradizione marxista, che conduce all’assorbimento del destino dei
singoli nell’orizzonte di quello che Hegel chiama nella Fenomenologia dello spirito
“l’Io che è Noi e il Noi che è Io. Gli appunti filosofici di Spinelli sono la
testimonianza viva, vissuta, esposta nella prima persona che parlando pure si
nasconde nell’apparente impersonalità dell’argomentare concettuale, dello
svincolamento dell’Io di Altiero Spinelli dal Noi in cui lo teneva prigioniero la
sua precedente coscienza teorica.
Un intreccio non dissolvibile fa convergere nella nozione dell’agire
politico, del creare politico, e dunque in prospettiva nella edificazione del
progetto federalista e nella identificazione dei passaggi necessari a realizzarlo,
la liberazione di una coscienza (che avviene in significativo parallelismo con la
ormai avvicinatesi liberazione del corpo in catene da anni), la scoperta che la
coscienza che si libera è sempre la coscienza già libera di ciascuno, di ogni singola
persona, e infine l’edificazione e la simultanea utilizzazione di una nozione di
politica ove sempre più chiaramente l’intera tessitura dei legami e dei rinvii tra
materia dei bisogni e loro ordinamento istituzionale si incardina nella
affermazione dell’anima politica quale elemento costitutivo di ogni
individualità. Qui, finalmente, “politica” significa “libertà”. Per questo motivo,
“politica” è anche per Spinelli, l’espressione della attività appassionata e al
tempo stesso sempre interessata di ogni singolo, che fa della sua azione il luogo
in cui l’universale si individualizza, trasformando crocianamente l’imbelle serie
delle semplici intenzioni di azione, in attività reale, guidata e voluta dalla libera
coscienza, dalle molte libere coscienze che decidano di liberamente cooperare.
Questi sono i significati della “filosofia implicita” di Spinelli, ivi compreso
quello per cui essa vuole essere per il suo stesso autore (che nell’esercizio
filosofico mette in scena la metanoia della propria anima) una autocomprensione
dell’attività politica del singolo, di sé come singolo uomo situato. Essa è
programmaticamente non sistematica, si è detto e ora si intende meglio, in
quanto vuole essere piuttosto la consapevolezza riflessa, epistemicamente
fondativa e normativamente regolativa, dell’agire umano. Chi intenda dedicarsi
allo studio degli appunti filosofici manoscritti di Spinelli secondo le indicazioni
di lettura che qui abbiamo fornito, si sottragga dunque anzitutto al rischio di
isolare la loro lettura del ripercorrimento critico, da compiersi invece
simultaneamente, dell’autobiografia e del Manifesto di Ventotene. Questa
avvertenza di metodo non serve tuttavia al progetto della ricostruzione della
fisionomia completa ed unitaria della figura di Spinelli, sebbene si tratti di un
punto importante per l’attuazione di ogni ricerca storiografica. Qualcosa di
F. S. Trincia, Genesi del Manifesto
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
altro, e di più rilevante, sembra essere richiamato dalla lettura degli appunti
filosofici: si tratta del fatto che, indagata da questo punto di osservazione, la
fisionomia di Spinelli risulta ridisegnata. La profondità e lo spessore del
progetto politico federalista acquisiscono, in virtù della travagliata
consapevolezza teoretica e indistinguibilmente personale con cui Spinelli
giunge a maturarlo nel corso degli anni quaranta, un’importanza almeno
altrettanto rilevante del contenuto del progetto stesso.
Spinelli ritiene di poter cogliere nella “politica” – che sentiva come la
forma stessa che la sua vita veniva assumendo negli anni in cui si affacciava,
con la fine del confino, la grande visione dell’Europa federata e quindi
democraticamente pacifica – la forma della realtà umana che non soccombe alla
determinazione formale irrigidente che l’intelletto deve comunque compiere,
nel momento in cui riflette teoreticamente su di essa. “Politica” è dunque al
tempo stesso forma essenziale dell’agire, e forma della dicibilità filosofica, della
comprensione e della conoscenza di esso. Più radicalmente, la filosofia è la
condizione della comprensione formale della politica, poiché in quest’ultima si
raccoglie la determinazione epistemica di quella realtà “vitale” (l’espressione è
crociana, come è noto, ma non appare tuttavia negli appunti filosofici di
Spinelli) che il sistema delle “categorie” del reale lascia comunque fuori, o forse
prima di sé. Ma se la nozione filosofica della “politica” è l’espressione della
vitalità del reale umano, colto da Spinelli nella trasformazione creativa della
propria stessa anima ed elevato a paradigma dell’agire di ogni singolo; se la
filosofia è la voce della trasformazione della sua anima colta in maniera riflessa,
e universalizzata, nella quale traluce la goethiana inarrestabile metamorfosi
delle formazioni vitali, questo magmatico risultato della filosofia spinelliana
non può essere visto solo come lo sfondo o la base della sola attività che in lui
sembra contare realmente, quella dell’inventore della prospettiva federalista per
l’Europa.
È questo che si vuol dire quando si assegna agli appunti filosofici il ruolo
di una riplasmazione della fisionomia spinelliana che, aggiungiamo ora, lascia
in piedi il grande respiro del suo pensiero politico di federalista e ne conferma
l’insostituibilità affinché la lotta per l’unità europea continui e resista alle
difficoltà che anche di recente la intralciano. Ma Spinelli trasmette oggi a noi,
prima ed in certo senso indipendentemente dalla riproposizione del progetto
federalista, il modello di una forma, di una modalità del rapporto tra, da un
lato, la politica come azione pubblica collettiva, dall’altro lato quella che si
potrebbe definire la costitutiva politicità dell’agire individuale concepito volta a
volta come un agire ‘mio’, ‘tuo’, ‘suo’ e vista dall’interno come il manifestarsi di
ciò che è ‘sempre mio’, ed infine la riflessività filosofica che rende trasparente e
visibile questo intreccio. Questo modello ci interpella. Ci indica un modo del
F. S. Trincia, Genesi del Manifesto
41
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
praticare la politica come progetto. Esso si rivolge in particolare a coloro che
ritengono di non poter fare a meno di questo lato riflessivo ed autoriflessivo
della politica, in un momento in cui il crollo delle progettualità del
progressivismo socialista ci consegna una situazione che specie in Italia, sarebbe
eufemistico definire di ‘difficoltà’ della realtà effettuale come della nozione
della politica.
A questo tema centrale, a questo vero e proprio cuore della filosofia
spinelliana, si collegano strettamente le profonde riflessioni sul significato della
religiosità e sulla esperienza mistica della assoluta alterità di un Dio non
antropomorfico, che concludono la parte a tutt’oggi leggibile dei suoi appunti e
consentono di gettare qualche luce sulla profonda problematicità della lettera
filosofica alle sorelle del 1942 aggiunta al manoscritto. Qui torna più che il
concetto l’intuizione di una ulteriorità comunitaria che precede e condiziona
ogni processo di individuazione, ne indica il destino, e tuttavia richiede una
suprema prudenza nell’eventuale accettazione di un abbandono ad esso.
Non appaia paradossale il rilevare che una silenziosa continuità lega
politica e mistica nelle pagine finali del manoscritto letto nella migliorabile
trascrizione fattane (Inediti di Altiero Spinelli, Ms. pp.79-99). Se nella prima parte
del testo Spinelli offre, come si è detto, la definizione dell’autonomia della forma
politica quale sintesi immanente di bisogni dei singoli in società e
organizzazione istituzionale ordinata ed ordinante, nel seguito del manoscritto
Spinelli si concentra nella determinazione della genesi antropologica dell’agire
(anche di quello politico) nella opinione interessata di ogni essere umano.
Prende corpo così la tesi centrale del radicamento della politica nell’individuo.
La sua creatività politica non è separabile dal fatto che egli sia volta per volta e
come tale interessato a compiere una scelta politica. Le riflessioni finali sulla
religiosità mistica sembrano gettare qualche dubbio sull’idea che nella politica
si realizzi, per ogni individuo, l’universalizzazione del particolare. Spinelli
sembra avvertire nel suo io particolare la presenza di un spinta al
trascendimento, ad un andar oltre, che tende a spezzare o a circoscrivere la
certezza che l’universalizzazione politica del particolare esprima l’assolutezza
onnicompresniva del reale umano, non naturale.
È molto importante tuttavia osservare che la spinta alla soddisfazione, per
via del loro trascendimento interno, degli interessi dei singoli e dei suoi
immediati bisogni trova nel trascendimento che conduce verso l’ ‘oltrÈ che
Spinelli chiama l’ Altro”, una sua silenziosa continuità. Non si vuol certo dire
che Spinelli veda nella religiosità mistica una prosecuzione della politica. È vero
tuttavia che la spinta verso un ‘oltrÈ, lo Streben dell’amato Goethe costituiscono
una sorta di base profonda, persino pretematica, dell’atteggiamento spirituale
di Spinelli. Politica e mistica sono due molto diversi, persino conflittuali, modi
F. S. Trincia, Genesi del Manifesto
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
dell’ ’andar oltrÈ, dunque del processo dell’universalizzazione del particolare,
ma in essi vive la stessa tensione. È un identico impeto quello che lo conduce a
pensare filosoficamente l’azione e la politica trascendendo la peculiare,
dolorosa condizione sua e del paese e dunque idealmente spezzando in avanti,
verso l’azione futura, le catene del carcere, ma muovendo dall’interno di tale
condizione, riconosciuta, analizzata ed indagata con gli strumenti dell’analisi
storica e della passione morale, e quello che lo spinge con il pensiero verso temi
che non costituiscono il suo autentico patrimonio di non credente e che tuttavia
gli appaiono come un limite sul quale comunque bisogna riflettere.
Nella connessione tra idea, libertà, volontà, passione e interesse (cfr. ivi,
pp.76-77), si delinea la struttura essenziale dell’agire politico. “Interesse” è ciò
che deve indurmi all’azione, ciò che devo sentire come mio nel corso di
un’azione il cui fine e il cui senso non coincidono pienamente con i miei.
L’interesse è il mio fine da soddisfare in cui si esprime l’ ”infinito diritto del
soggetto”, momento incancellabile della libertà. Nulla accade nel mondo,
“senza che gli individui che vi agiscono soddisfino anche se stessi”. È questo il
modo di sentire del tempo in cui matura la distruzione dei totalitarismi, quando
gli individui cessano di disporsi all’azione spinti dalla autorità, ma agiscono in
base alla loro “convinzione” ed “opinione”. Si avverte in queste tesi una eco
della “vitalità” crociana o della vichiana prevalenza del sentire sul pensare,
nonché un’attenzione all’immediatezza della vita psichica destinata ad
evolversi verso le superiori sfere della ragione, che tuttavia non potrebbe
procedere all’oblio e alla cancellazione di quella immediatezza. Si trova negli
appunti spinelliani più di un cenno, pur lasciato non sviluppato, alla
“psicoanalisi”, a testimonianza dell’attenzione costantemente rivolta alla
originaria, passiva materia naturale della vita razionale e progettante.
Freudiano, ispirato al Disagio della civiltà, sembra essere il passo in cui Spinelli
scrive che “le passioni soddisfano se stesse, realizzano sé e i loro scopi a
seconda della loro determinazione naturale e producono l’edifizio della società
umana, nel quale hanno procurato al diritto, all’ordine, la forza contro se
stesse”.
La politica creatrice di istituzioni è la passione limitata e incanalata dalla
ragione, è diritto che interviene a contrastare e a correggere le potenze che pure
lo hanno prodotto. Il motore spirituale della politica, la passione, è attività
guidata da interessi. Passione è infatti particolarità del carattere, in quanto
questa determinazione del volere non è solo “contenuto privato, ma è quel che
sospinge ed opera atti universali”. In questa tesi filosofica, ove l’ispirazione
crociana mostra di essere assai più resistente della polemica insistita nella prima
parte del manoscritto contro il Croce filosofo del sistema, è dato cogliere sullo
F. S. Trincia, Genesi del Manifesto
43
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
sfondo l’autodescrizione di Spinelli, uomo e anche teorico dell’azione, della
passione individuale, dell’interesse, diffidente verso la pura intenzione.
L’azione è, fichtianamente, il costante porre il non-io, che resta legato a me,
ma è anche contro di me. Il non-io è espressione di un ‘oltrÈ me stesso. Se si
tenta di dare una qualche coerenza al passaggio finale verso la mistica – posto
che ciò sia possibile e legittimo sulla base delle non molte frasi che si
susseguono su una serie di fogli di appunti – essa può forse essere trovata in
questa diversa, non più razionale ma tuttavia non ciecamente irrazionale,
declinazione dell’ ’oltrÈ verso cui spinge lo Streben vitale e insieme spirituale.
La mistica è, osserva con precisione Spinelli, una “riduzione al silenzio piena di
desiderio appassionato di sentir risuonare infine la parola arcana del supremo
Altro”. A questo stesso tema sembra alludere la tesi che la religiosità del XIX
secolo comporti un perdersi nella “potenza creatrice sovraindividuale dello
Spiritus creator “ e quella che attribuisce alla “comunione dionisiaca”
l’emersione della “elementarissima umanità”. Di entrambe le tesi è difficile dire
con esattezza se siano di Spinelli o solo fatte proprie in base a letture fatte, come
pure si potrebbe supporre. Approfondimenti ulteriori sarebbero necessari
(anche se forse non sono del tutto realizzabili).
Il tono con cui Spinelli parla dell’esperienza religiosa è quello di chi si
accosta alla religiosità con animo perplesso e problematico ma non ostile.
Spinelli non prende posizione in maniera chiara. Dubita forse che la formula
della sintesi del particolare possa essere la sua ultima parola di pensatore. In
ogni caso, essa lo spinge a toccare il confine del mistico, che egli non supera, su
cui si ferma, e che tuttavia non lo respinge come un contraccolpo negativo.
Converrà dunque adoperarsi affinché divenga possibile seguire sui testi
trascritti, e su altri se ve ne sono, ivi compresi i testi di argomento religioso, il
percorso di questo eccezionale ‘filosofo implicito’, modello non superato di una
progettualità politica opportunamente definita “visionaria” e profetica, ma non
astratta.
F. S. Trincia, Genesi del Manifesto
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
Altiero Spinelli a Ernesto Rossi (settembre 62)
La lettera di Altiero Spinelli a Ernesto Rossi qui di seguito riprodotta, che
costituisce la prima redazione (Erste Fassung, stando a un’annotazione a
margine) di una successiva versione a noi non pervenuta, rappresenta una
testimonianza di grandissimo valore. Di fatto, il documento, datato 5 settembre
1962 e conservato presso gli Archivi storici delle Comunità europee (AHCE),
nella sezione DEP, fondo A.S., si rivela quanto mai significativo, sia per
ricostruire l’evoluzione della riflessione spinelliana sull’integrazione europea
all’indomani della nascita del Mercato Comune, sia per tratteggiare
efficacemente i contorni del vivace dibattito intellettuale interno al Movimento
federalista europeo (Mfe) nei primi anni Sessanta; sia, infine, per individuare le
priorità e gli elementi fondanti del nuovo, e più maturo, progetto politico di
“Ulisse”, già riformulato nel Manifesto dei federalisti europei del 1957.
Occasione della missiva è la prima riunione del comitato di redazione del
settimanale L’Astrolabio - fondato da Ernesto Rossi, tra gli altri -, alla quale
Spinelli, rammaricato di non poter partecipare, non rinuncia ad offrire il
proprio contributo. Particolare attenzione meritano le considerazioni con cui
Altiero argomenta sull’opportunità di una collaborazione permanente tra
cattolici e laici in tema di integrazione europea e, in generale, per la tutela e il
consolidamento dei valori democratici. Posizioni che confermano la maggiore
duttilità del futuro commissario europeo, emersa anche ai tempi del primo
Manifesto, rispetto al rigido anticlericalismo di Rossi. Addirittura l’animatore
del Congresso del popolo europeo si dichiara a favore del mantenimento del
Concordato fra stato italiano e Chiesa cattolica, benché una richiesta di
abolizione apparisse notoriamente sul Manifesto del ’41 e restasse conservata,
salvo alcune attenuazioni polemiche, anche nella versione pubblicata da
Colorni nel ’44.
Le ulteriori osservazioni della lettera, riguardanti problemi teorici di politica
economica, l’antifascismo e la politica estera italiana ed europea, rafforzano
l’impressione di un approccio più realistico e consapevole, su alcune tra le
questioni più delicate allora dibattute, da parte del “padre del federalismo
europeo”, ormai di fatto alquanto distante dall’antico compagno di confino.
V. Saulle (a cura di), Altiero Spinelli a Ernesto Rossi
45
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
Il messaggio conclusivo è ad un tempo una presa di coscienza e un invito
all’azione. Tramontata l’ipotesi di costruire l’Europa vagheggiata a Ventotene,
Spinelli ritiene ancora necessaria la battaglia per l’unità poltica continentale.
Pertanto, sollecita l’interlocutore, nonché gli altri federalisti raccolti intorno a
L’Astrolabio, a ripensare i termini e, soprattutto, le premesse della lotta per la
Federazione, nell’assoluta certezza dell’attualità e dell’imprescindibilità della
questione.
G. V.
***
Roma, 5 settembre 62
Caro Ernesto,
purtroppo, essendo il 7 fuori Roma, non posso partecipare
alla prima riunione per il vostro settimanale, alla quale mi avevi
così amichevolmente invitato.
Ti riassumo perciò brevemente quello che sarebbe il mio contributo alla discussione se fossi presente ad essa.
Non so se la direttiva del giornale che mi hai esposta qualche
sera fa corrisponda già ad un accordo di massa del comitato di redazione o se sia solo una prima formulazione suscettibile ancora di modifiche. Nelle osservazioni che seguono mi atterrò a questa seconda
ipotesi, poiché nella prima ipotesi poca importanza avrebbe per voi
sapere quel che penso io.
Mi soffermerò naturalmente sui punti che mi lasciano perplesso.
La campagna per la moralizzazione della vita publica, per la riforma
Dell’amministrazione, contro le baronie economiche, contro le ingerenze clericali mi trovano infatti del tutto consenziente.
I punti dubbi sono i seguenti:
a) Problemi dei cattolici Mi sento da sempre lontano dal cattolicesimo, ma dal
cristianesimo in generale, e legato a quell’altro grande filone della
civiltà europea, più antico del cristianesimo, che parte da Omero,
V. Saulle (a cura di), Altiero Spinelli a Ernesto Rossi
46
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
passa per lo stoicismo, per l’umanesimo, per l’illuminismo, il libero
pensiero, l’ateismo, e in genere per la filosofia europea. Se proprio
dovessi scegliere una religione, preferirei non una delle tre religioni semitiche, ma il buddismo. Non sono dunque mosso da simpatie
culturali e spirituali per il cattolicesimo.
Come democratico devo tuttavia prendere atto che nella vita
politica del nostro paese i cattolici sono presenti ad ineliminabili.
È un dato di fatto, poco conta se piaccia o dispiaccia, che la
chiesa cattolica ha interesse politici forti, e, ovunque può, si
propone di essere presente nel giuoco democratico come forza politica
autonoma. E’ bene sapere che nel pensiero cattolico c’è un nocciolo
centrale che poco bene si concilia con la democrazia, e che perciò
in caso di crisi di questa non c’è da far tropo conto sulla chiesa
cattolica, anche se ci saranno pur sempre dei Don Sturzo e dei Donati.
Ma il problema della nostra rivista non è oggi quello di formare
l’ultimo quadrato di resistenza della democrazia (nel qual caso non
Solo il grosso dei cattolici, ma anche il grosso dei laici non potrebbe
essere ammesso nel battaglione sacro), bensì di contribuire al miglioramento della vita politica normale della attuale repubblica italiana.
In questa prospettiva bisogna allora constatare che non solo dal
‘45 ad oggi il partito dei cattolici è stato nel suo insieme uno dei
fattori decisivi del consolidamento democratico, ma, guardando verso
il futuro, non si può non partire della premessa che la democrazia in
Italia può funzionare solo a patto che una notevole parte delle forze
politiche cattoliche sia, insieme una notevole parte delle forze
politiche laiche, a fondamento della vita democratica. Ciò non esclude
Né la irreconciliabilità culturale e spirituale col cattolicesimo, né
la diffidente vigilanza di fronte alle tendenze clericali e reazionarie
fortemente presenti nel partito cattolico (e del resto non solo in esso).
Ma implica la rinuncia allo sfrenato anticlericalismo, e la accettazione di certi elementi confessionali nella struttura politica italiana,
che possono anche essere per noi sgradevoli, ma che sono condizione
sine qua non per avere una grossa frazione del cattolicesimo politico
fermamente ancorata alla repubblica democratica.
Per farti qualche esempio, io credo
che si possa seriamente
impostare la modifica di questo o quell’aspetto del concordato (il che,
fra l’altro, è possibile con procedura parlamentare normale e non sotto
forma di revisione costituzionale), ma non chiederei l’abolizione del
concordato; che sia bene battersi per il diritto dei non cattolici
ad avere un diritto matrimoniale che ammette il divorzio, ma lascerei
V. Saulle (a cura di), Altiero Spinelli a Ernesto Rossi
47
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
ai cattolici il diritto di preferire la sottomissione al diritto
canonico in questo campo. Il ghibellino senso di orrore che ti prende
quando constati che in questo campo lo stato non è allora più
pienamente sovrano, io non l’ho capito. Perché mai lo stato
dovrebbe monopolizzare la giurisdizione matrimoniale? Perché non
potrebbe esserci uno jus personale del matrimonio anzichè uno jus
territoriale?
In questa faccenda non bisogna lasciarsi illudere dal breve
e casuale primo periodo di esistenza dello stato italiano, nel
quale i cattolici si tennero, per loro decisione, fuori dalla vita
politica. Questa situazione era anormale e non tornerà mai più. La
nostra situazione è ormai analoga a quella belga, austriaca, olandese.
Del resto persino la Francia, che pure ha avuto, a differenza degli
altri paesi d’Europa, una vera e propria “riforma” laica, analoga per
profondità alla “riforma” protestante deve lentamente tornare dalla
concessione di una democrazia in cui c’è posto solo per i laici e per
le loro idee, alla concezione di una democrazia in cui coesistono
laici e cattolici, e nella quale perciò devono esserci accomodamenti
fra le idee degli uni e degli altri.
(b) Problema della politica economica
Non credo che Wicksteed e Robbins siano guide sufficienti.
Che anche l’economia di mercato implichi ed esiga una pianificazione,
è un truismo, che infine anche Malagodi può accettare. Il problema
da affrontare è quello del contenuto della pianificazione, cioè della
determinazione di scale di priorità dei bisogni, collettivi o privati,
da soddisfare e delle conseguenti misure non solo legislative, ma
anche di azione governativa quotidiana da realizzare. Credo perciò
che bisognerebbe rifarsi molto più a Keynes, al Gailsbraith [sic], alle
esperienze della pianificazione francese, all’econometria, e via dicendo.
E in questo campo Sylos Labini ha molto più da dire di me, e lascio
perciò la parola a lui.
Il problema della politica economica e inoltre legato strettamente a quello della politica europea. Occorrerà qundi [sic] occuparsi
da solo di quel che è e che dovrebbe diventare l’economia italiana,
ma anche e soprattutto di quel che è e dovrebbe diventare il Mercato
Comune.
(c) Antifascismo
V. Saulle (a cura di), Altiero Spinelli a Ernesto Rossi
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
Coltivare la memoria dell’antifascismo è doveroso, non solo
per il suo valore morale, ma anche per una ragione politica profonda:
l’antifascismo è il fondamento morale della nostra democrazia attuale,
non solo italiana, ma europea e va perciò rispettato. Ma bisogna
coltivarlo ormai con atteggiamento da storici e non con atteggiamento
da vestali. Tentare oggi raggruppamenti politici sulla base dello
antifascismo non ha senso, per le seguenti ragioni:
1° - L’antifascismo ha due componenti, quella democratica e
quella comunista, che sono oggi distinte ed antagoniste. I comunisti
amano molto la formula dell’antifascismo, perché li esime dal dovere
di ripensare alle ragioni del loro isolamento nel paese. Io sono
convinto che i comunisti dovranno percorrere il camino della loro
inserzione nella democrazia in Italia, ma questo camino passa non attraverso
la rievocazione della solidarietà antifascista, bensì attraverso un
cambiamento del loro atteggiamento di fronte ai problemi attuali della
vita democratica.
2° - L’antifascismo dà una risposta valida a chi si chiede come
ci si debba comportare verso una dittatura, ma non ne dà nessuna a chi
si chiede come costruire la democrazia, affrontando i suoi problemi
attuali.
3° - Casi come quello di Menichella e di Picardi, dimostrano ad
abundantiam che il criterio da adoperare per dare un giudizio di valore
su persone nella politica democratica oggi non ha nulla a che fare con
l’aver esse appartenuto o meno alla sparuta schiera degli antifascisti.
Vorrei da parte degli antifascisti un atteggiamento di understatement
od anche di ironia rispetto a sé stessi e non di continua e eccitata
esaltazione del proprio passato. Ciò sarebbe molto più educativo dal
punto di vista politico. Oggi si tratta di lavorare salveminianamente
intorno ai concreti problemi della quotidiana costruzione della
V. Saulle (a cura di), Altiero Spinelli a Ernesto Rossi
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
democrazia
rinascita
e
non
della
di
lottare rossellianamente
democrazia
dalle
per
la
sue
apocalittica
ceneri.
(d) Politica estera
Una rivista orientata verso la richiesta che l’Italia esca
dagli entanglements atlantici ed europei, per diventare neutrale,
darebbe un contributo non alla pace, ma alla confusione mentale nei
suoi lettori.
L’Italia non è così importante da poter imporre da sola una
direttiva di fondo alla politica mondiale, ma non è nemmeno così
insignificante da non poter contribuire allo sviluppo in un senso o
nell’altro della politica europea occidentale, cioè della politica
nella parte del mondo in cui si trova. Essere quindi per la neutralità
italiana implica un certo giudizio sulla situazione più auspicabile
nell’Europa occidentale. Se l’Italia deve essere neutrale cosa dovrebbero essere la Francia, la Germania, l’Inghilterra? L’Europa occidente
è un elemento fondamentale nell’equilibrio (o nel disequilibrio) politico, militare, economico, sociale del mondo intero. Che idea dovrebbe
avere la rivista di questo ruolo dell’Europa occidentale, e perciò
dell’Italia? O tutto queste cose non esisteranno più, solo perché
la rivista deciderà di ignorarle? Fare l’esempio della Svizzera e
della Svezia non ha molto senso. Anzitutto Svizzera e Svezia sono
paesi che spendono per il proprio armamento molto più dell’Italia e
che cominciano persino a pensare al proprio armamento atomico. In
secondo luogo entrambi questi paesi sono casi di abbastanza spregevole
egoismo nazionale, perché sono occidentalisti e filo-americani al 200%
ma profittano del fatto che un occidente storico permetta loro essere
neutrali, e contano che l’America sia abbastanza forte da proteggere
anche la loro indipendenza.
L’Italia ha un posto nel sistema occidentale - piaccia o non
piaccia da un punto di vista astratto - e salveminianamente si tratta
di cercare di comprendere quel che in questo posto essa dovrebbe fare:
non di fantasticare che essa non si trovi in quel posto.
V. Saulle (a cura di), Altiero Spinelli a Ernesto Rossi
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
La cosa è tanto più importante in quanto tutta la politica
mondiale è oggi in movimento, e bisogna pur avere qualche bussola
per orientarsi.
Una rivista democratica “liberal” (nel senso americano della
parola) dovrebbe secondo me avere i seguenti punti di riferimento
quanto a politica estera:
1° - Essere favorevole ad un riordinamento del sistema occidentale che sostituisce al patto Atlantico, fondato necessariamente
sull’egemonia americana e su una strategia atomica della difesa, una
intesa fra America e Europa occidentale, nella quale l’Europa provveda
da sola alla propria difesa con sole armi convenzionali, e l’intervento
americano sia richiesto solo per il caso che l’Europa subsca [sic] un attacco
atomico.
2° - Essere perciò favorevole alla creazione di una federazione
dell’Europa occidentale, la quale, fra l’altro, riconosca la Repubblica
Democratica Tedesca mettendo fine al pericoloso mito della riunificazione tedesca.
3° - Essere perciò favorevole a tutte quelle correnti che
spingono oggi a passare dalla semplice unione doganale al Mercato
Comune alla vera e propria unione economica e perciò alla creazione
di istituti politici federali.
4° - Essere favorevole ad una politica di distensione verso
il blocco comunista, nella ragionata speranza che in tal modo si
favorisce lì l’emergere di tendenze liberalizzatici, che sono già
evidentemente in opera.
5° - Essere favorevole ad una politica di assistenza ai paesi
sottosviluppati fatta in modo di aiutare questi paesi non già solo a
continuare a smerciare i loro prodotti coloniali ma a modernizzare la
loro economia. Ciò implica fra l’altro rendersi conto che anche l’Italia
malgrado il suo problema meridionale, appartiene alla sfera dei paesi
privilegiati del mondo e deve perciò contribuire.
6° - Esigere quindi che il governo italiano abbia una politica
V. Saulle (a cura di), Altiero Spinelli a Ernesto Rossi
51
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
continua in questo senso. Come vedi, io non credo che l’alternativa
per i democratici sia oggi atlanticismo o neutralismo. Credo che
il neutralismo sia un non-senso e che l’alternativa sia fra atlanticismo – necessariamente conservatore, guerrafreddista e generatore
di nuovi nazionalismi fra gli stati vassalli dell’America – e
federalismo europeo, alleato di un’America dedita veramente ad una
politica di New Prontier, poiché questa è la condizione per avere
una vita democratica (in America, in Europa, e perciò anche in Italia)
vivace e progressista nell’interno, capace di contribuire ad una
evoluzione positiva del mondo comunista e del terzo mondo, atta
a diminuire le tensioni mondiali e perciò i pericoli di guerra.
Dire che la speranza nella federazione europea è ormai svanita,
significa non rendersi conto che essa non ha seguito il cammino previsto
da noi ma che è tutt’altro che svanita. Quando mai la realtà storica
è stata conforto alle previsioni? Ogni uomo dotato di senso storico
e politico deve sapere che le previsioni sono in realtà solo provvisoria
direttive generali d’azione, e che bisogna farle, ma non restarne
prigionieri e non far drammi quando occorre cambiarle.
Il
problema
della
creazione
dell’unità
politica
dell’Europa
occidentale è oggi simile a quello dell’unità italiana nel secolo
scorso. Essa non è stata conforma né alle idee carbonari, né a
quelle dei mazziniani, eppure era un tema di cui nessuno riusciva a
liberarsi finchè non fosse stato risolto.
L’Europa nascente non è quella che avevamo fantasticata a
Ventotene. É l’Europa che cerca di nascere dalla crisi di crescenza
del Mercato Comune, dalla crisi di senescenza del Patto Atlantico,
dalla fine degli imperi coloniali inglese e francese, dalla crisi
della democrazia francese, dal problema della non-unità tedesca.
Forse anche questa volta non nascerà nulla. Ma il tema oggi esiste
ed è attuale. É una battaglia da fare o non mi sembra degno di un
democratico progressista volerla ignorare.
V. Saulle (a cura di), Altiero Spinelli a Ernesto Rossi
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
Rispondo insieme anche alla lettera circolare del 1 settembre
firmata da Luzzatto, da Parri e da te. Vi ringrazio molto dell’invito, ma poiché l’indirizzo politico del Movimento è evidentemente
identico
a
quello
della
rivista,
vorrete
scusarmi
se
resterò semplice spettatore finchè non saprò con precisione quale
sia l’atteggiamento del movimento rispetto ai problemi sollevati
in questa mia lettera.
Con cari saluti sono
Tuo
(trascrizione a cura di Vittoria Saulle)
V. Saulle (a cura di), Altiero Spinelli a Ernesto Rossi
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
La prima guerra arabo-israeliana (1947-1949) e lo “scontro di civiltà”:
l’altro sguardo di Benny Morris sul Medio Oriente
di Pamela Priori
«Non puoi fare una frittata senza rompere le uova». Così lo storico
israeliano Benny Morris, professore all’università Ben Gurion, rispondeva alle
polemiche domande del giornalista Avi Shavit, del quotidiano Ha’aretz, nel
gennaio 2004. Le quali domande polemiche erano rivolte alle più recenti
posizioni assunte da Morris - fino ad allora accreditato come agguerrito
esponente di quella storiografia israeliana che ha messo in discussione la
vulgata sionista sulle responsabilità e le dinamiche del conflitto mediorientale ma che ormai sembrava aver assunto un diverso e alquanto drastico
orientamento. Se vuoi fare la frittata, spiegava in pratica Morris, non c’è altro da
fare: «devi sporcarti le mani»68.
La frittata, fuori dalla metafora, è la fondazione dello stato di Israele; le
mani sporche alludono alla politica e alla strategia del movimento sionista nella
fase immediatamente precedente e successiva la guerra del 1948-1949.
L’immagine, al limite del banale, ben sintetizza l’evoluzione del punto di vista
di un intellettuale che negli anni Novanta, con i suoi tre volumi, 1948. Israele e
Palestina tra guerra e pace, poi Esilio. Israele e lʹesodo palestinese 1947-1949 e infine
Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, ha documentato l’esistenza di
espliciti piani di “trasferimento” e/o di “espulsione” dei palestinesi da quei
territori sui quali, alla fine del primo conflitto arabo-israeliano, si è costruito lo
stato ebraico.
La voce del giovane studioso - laurea alla Hebrew University di
Gerusalemme e dottorato in Storia dell’Europa a Cambridge- rompeva allora
con la tradizionale rappresentazione della nascita di Israele e dei problemi che
ne erano scaturiti nei rapporti con i vicini stati arabi ed in particolare con i
palestinesi.
La vittoriosa “guerra di indipendenza” israeliana e la speculare
“catastrofe” araba del 1948 non erano più il risultato di una legittima e morale
difesa della comunità ebraica di Palestina dall’aggressività e dall’aggressione
araba, ma anche il prodotto di un piano politico preciso, di cui Morris
Per la traduzione in inglese dell’intervista si veda:
http://www.haaretz.com/hasen/pages/ShArt.jhtml?itemNo=380986&contrassID=2.
68
P. Priori, Recensione
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
rintracciava formulazione e attuazione. Sostenendo l’esistenza di una deliberata
volontà di “trasferimento” della popolazione palestinese, egli inaugurava la
rivoluzione della “Nuova Storiografia” israeliana, cui avrebbero contribuito
anche Avi Schlaim, Ilan Pappè, Zeev Sternhell e Tom Segev, per citarne alcuni.
La rottura prodotta dalle analisi del giovane ricercatore, che aveva esordito
qualche anno prima come analista dei problemi del Medio Oriente sulle pagine
del Jerusalem Post, era risultata incisiva e certo non solo sul piano
dell’immaginario collettivo israeliano. Gli storici che per primi avevano
ricostruito e raccontato il passaggio doloroso dell’indipendenza di Israele
reagivano alle conclusioni di Morris mettendone in discussione l’attendibilità.
Ne è un esempio l’affondo apparso nel marzo 1999 sul Middle Eastern Quarterly
a firma del professor Ephraim Karsh, “Benny Morris and the Reign of Error”69,
che incolpava il collega di aver deliberatamente travisato le fonti. L’uso che
Morris ne aveva fatto e la ricomposizione dei passi documentali compiuta nella
sua narrazione gli valevano allora l’accusa - o il merito, a seconda della
prospettiva politica dalla quale lo si consideri - di post-sionista.
In realtà, di quelle conclusioni Morris non mette oggi in discussione
l’evidenza storica, che suffraga nuovamente con ulteriori fonti archivistiche.
Egli unisce piuttosto al minuzioso lavoro documentale una piena assoluzione
politica del sionismo del ’48, tanto da essere polemicamente tacciato, da quanti
avevano visto nei risultati della sua ricerca anche un sostegno importante alla
critica interna ed esterna a Israele, di regressione “sionista”.
Senza scomporsi davanti all’accusa di essere politicamente scorretto, il
professore dell’università del Neghev sottolinea invece quanto l’attuazione
degli incriminati piani di trasferimento e/o di espulsione fossero la via obbligata
per garantire la costruzione dello stato contro l’ostilità araba alla sua esistenza e
alla presenza ebraica in Medio Oriente. Non solo, ma in questa posizione, che
sfugge romantiche enunciazioni conciliatorie, confluiscono, allo stesso tempo, il
giudizio di Morris sul passato e quello sul presente della regione mediorientale,
su cui si guarda dal fare positive previsioni. Il suo è un realismo politico crudo e
sferzante, alimentato dall’allargamento dell’analisi a quella dimensione
cultural-religiosa del conflitto trascurata dalle sue opere precedenti e, più in
generale, dalla ricerca storica.
Non per nulla, è proprio questa dimensione la più significativa novità
dell’ultimo libro di Morris, La prima guerra di Israele. Dalla fondazione al conflitto
con gli stati arabi, 1947-1949, apparso qualche mese fa nell’edizione italiana, in
occasione del sessantesimo anniversario della risoluzione n. 181, con la quale,
nel novembre 1947, l’ONU si esprimeva a favore della spartizione della
Palestina storica. Come scrive l’autore, a commento delle numerose fonti
69
Per il testo dell’articolo si veda: http://www.meforum.org/article/466 .
P. Priori, Recensione
55
Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
rintracciate negli archivi, sui giornali e tra le memorie dei protagonisti di quegli
anni, tra cui leader arabi e sionisti, ulema e capi militari, responsabili dell’autorità
mandataria britannica, primi ministri e sceicchi, la guerra del 1948:
“fu senza dubbio una pietra miliare in una sfida tra due movimenti nazionali per il dominio su
una porzione di territorio. Essa fu però anche – se non altro perché è così che la maggior parte
degli arabi la videro (e la vedono tuttora) – un tassello di una lotta più generale, di portata
globale, tra l’Oriente islamico e l’Occidente, nella quale la Terra di Israele (la Palestina),
rappresentò, così come rappresenta ancora oggi, uno dei principali fronti di battaglia”. (p. 483)
In continuità con analisi precedenti, il conflitto viene qui riproposto come
l’espressione di una “posizione di antagonismo e di resistenza” tra movimenti
nazionali concorrenti che considerano la Palestina proprio patrimonio. Ma a
questo scenario Morris aggiunge, sottolineandone la valenza finora ignorata,
elementi che riconducono allo specifico culturale delle popolazioni
politicamente e militarmente organizzatesi attorno a quei movimenti e stati
nazionali antagonisti.
La prospettiva tracciata dallo storico israeliano nella sua ultima fatica
accademica ed editoriale è dunque quella, assai problematica, del conflitto come
prova violenta della difficile convivenza o coabitazione di civiltà diverse in un
“medesimo spazio”. Ovvero: la civiltà arabo-orientale, radicata nella società
tribale del deserto mediorientale, e quella ebraico-occidentale, che al deserto dei
padri tornava dall’Europa. Più precisamente, egli indaga le ragioni del rifiuto
arabo come la reazione di una popolazione che incarnava, nel pensiero come
nell’organizzazione della vita, una sensibile alterità culturale. Ad argomentare
la sua posizione, il professore scrive che:
“L’yshuv si reputava, ed era universalmente considerato dal mondo arabo musulmano, come
un’incarnazione e un avamposto dell’«Occidente» europeo. L’assalto del 1947-48 fu
un’espressione del rifiuto arabo-islamico dell’Occidente e dei suoi valori, oltre che una reazione
di fronte a quella che veniva percepita come un’invasione colonialista europea del sacro suolo
islamico. Il sionismo non veniva visto (o tollerato) come un movimento di liberazione nazionale
di un altro popolo “.(p. 483)
Ricondotta in questo orizzonte, la scelta dei leader arabi di rifiutare la
spartizione della Palestina e di aggredire militarmente la comunità ebraica lì
insediatasi sarebbe il sintomo di quello “scontro di civiltà” che nel passaggio tra
il XX e il XXI secolo è stato pensato compiutamente, e non senza polemiche,
come dato politico dell’attuale fase storica dell’umanità.
A sostegno di questa rinnovata lettura, Morris cita le dichiarazioni di capi
spirituali e politici. Per esempio: “Questa sarà una guerra di sterminio e un
imponente massacro, di cui si parlerà come delle stragi compiute dai mongoli e
delle crociate”, affermava il segretario della Lega Araba, Azzam Pasha, sul
P. Priori, Recensione
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Eurostudium3w ottobre-dicembre 2007
giornale egiziano Al Ahram del 16 maggio 1948, testimoniando un approccio
che, stando alle numerose e diverse fonti citate, permeava le valutazioni e
dichiarazioni di esponenti arabi. Da cui il commento dell’autore.
“L’impeto jihadista caratterizzò le reazioni sia popolari sia governative del mondo arabo di
fronte alla risoluzione di spartizione dell’ONU ed ebbe un’importanza centrale nella
mobilitazione delle «piazze» e dei governi per i successivi assalti di novembre-dicembre 1947 e
di maggio-giugno 1948. Le moschee, i mullah e gli ulema ebbero un ruolo fondamentale nel
processo.”
A sostegno di questa asserzione egli riporta, tra le tante, anche le affermazioni
coeve della dirigente dell’Organizzazione delle donne arabe, Matiel
Mughannam, di religione cristiana, secondo la quale “La decisione dell’Onu ha
unito tutti gli arabi come non sono mai stati uniti prima d’ora, neppure ai tempi
della lotta contro i crociati. […] [Uno Stato ebraico] non ha nessuna possibilità
di sopravvivere ora che è stata dichiarata la guerra santa. Tutti gli ebrei
verranno infine massacrati” (p. 485).
Ciò che l’autore vuole certificare è l’esistenza di una “cultura della spada”
che lo stesso movimento sionista avrebbe faticato a comprendere, limitandosi a
leggere l’ostilità degli arabi come una reazione esclusivamente politica al
progetto di uno stato ebraico in Palestina. In pratica, alla comprensibile
difficoltà di accettare l’arrivo di immigrati e sopravvissuti ebrei si
accompagnava una tensione che fondava il rifiuto della presenza ebraica su
valori culturali e religiosi, non meno che su una volontà di ritorno alla crociata
finora trascurata dagli storici di mestiere.
É proprio questo aspetto che Morris sembra voler recuperare, in un
volume che, in estrema sintesi, documenta la guerra non solo come fatto
militare, ma anche come il risultato di “un’avversione radicata in secoli di
giudeofobia con radici religiose e storiche”.
In quale misura questo dato abbia condizionato le parallele scelte sioniste
non è esplicitato. Certo è che nell’immediato secondo dopoguerra, e ancora più
all’indomani del voto dell’Assemblea dell’ONU e dell’attacco nella notte del 1415 maggio 1948, il protrarsi dell’ostilità araba alla presenza ebraica in Palestina
doveva incidere – e queste sono le conclusioni dell’intellettuale israeliano - su
piani e modalità d’azione dell’yshuv.
Secondo Morris, infatti:
“L’obiettivo della guerra dell’yshuv, inizialmente, era più semplice e più modesto: sopravvivere,
resistendo ai successivi assalti degli arabi palestinesi e degli Stati arabi. I leader sionisti
temevano veramente moltissimo una ripetizione mediorientale di quell’Olocausto che si era
appena concluso, e la retorica pubblica adottata dagli arabi rafforzava le loro paure. Col
progredire della guerra, però, iniziò a emergere uno scopo aggiuntivo: espandere lo Stato
ebraico oltre i confini del piano di spartizione dell’ONU” (p. 487)
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Nella presentazione che ne fa il professore dell’università di Beer Sheva,
l’emergere e il radicarsi di un’opzione “espulsionista” all’interno della
componente maggioritaria del movimento sionista pare quasi essere la
conseguenza necessaria dell’ostilità araba alla costruzione di uno stato
nazionale ebraico in Palestina. In quest’ottica, lo stesso problema dei profughi
palestinesi – tema d’esordio dello storico israeliano - diventa, nelle pagine del
nuovo libro, l’inevitabile esito della guerra voluta dagli arabi. Per sottolineare
questo delicato passaggio, che, qualora avvalorato, ridurrebbe se non la
dimensione morale certo quello politica dell’annosa questione dei profughi,
Morris fa parlare Moshe Sharrett, primo ministro degli Esteri israeliano. Questi,
nella riunione di gabinetto del 9 febbraio 1949, affermava:
“Alcuni dicono che abbiamo sradicato gli arabi dalle loro terre. Ma anche costoro dovranno
ammettere che la fonte del problema è stata la guerra: se non ci fosse stata la guerra, gli arabi
non avrebbero abbandonato i loro villaggi e noi non li avremmo espulsi. Se all’inizio gli arabi
avessero accettato la decisione del 29 novembre [1947] sarebbe sorto uno stato ebraico
completamente diverso. […] In sostanza, lo Stato di Israele sarebbe sorto con una forte
minoranza araba, che avrebbe lasciato la propria impronta sullo Stato, sul suo modo di
governare e sulla sua vita economica, e [questa minoranza araba] avrebbe costituito una parte
organica dello stato”.(p. 504)
A Morris si potrebbe obiettare che nel discorso di Sharrett risuona la retorica del
vincitore. Quella del responsabile degli Esteri israeliano è una raffigurazione
della storia fatta con i se: se gli stati arabi non avessero attaccato l’appena
proclamato Stato di Israele, probabilmente le sorti dei palestinesi sarebbero
state diverse.
Ma poi, basta forse una citazione da un vertice governativo per risolvere il
dibattito, ancora aperto, sulle ragioni scatenanti e sulle dinamiche della guerra
del 1948-49? Basta un fondo d’archivio a cancellare le responsabilità israeliane
circa la sorte di 700.000 profughi palestinesi? La domanda non può certo essere
risolta da una risposta monosillabica, e lo stesso sforzo di Morris non è
sufficiente a troncare il confronto, storico e politico, di ieri e dell’oggi, su un
nodo dirimente del conflitto in Medio Oriente.
Ma è altrettanto certo che la guerra del 1948-49, fuori da ogni sua mitica o
catastrofica rappresentazione, fu per la comunità ebraica di Palestina una
guerra autenticamente difensiva, nel corso della quale essa riuscì ad affermare,
contro la superiorità numerica degli avversari, la propria capacità organizzativa
insieme ad una tensione morale che si alimentava del ricordo, ancora vivo e
bruciante, delle camere a gas.
Estraneo alle logiche celebrative, nel passare ad approfondire le dinamiche
di quel conflitto, Morris riconduce la vittoria israeliana proprio alla matrice
occidentale del suo patrimonio culturale. Furono, cioè, considerazioni
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strategiche ed apparato tecnologico a garantire il successo di un esercito di
volontari su un antagonista che confidava più sulla forza dei numeri e sulla
foga antiebraica delle piazze. In quest’ottica, il terreno del confronto militare,
che Morris copre minuziosamente seguendo spostamenti di truppe, assalti ai
villaggi, sfondamento e composizione di linee di separazione, è il terreno della
politica. Egli non concede spazio al buonismo e la stessa rappresentazione della
retorica jihadista che infiammava gli entusiasmi contro l’yshuv non è oggetto di
reprensione morale. Fedele al suo sguardo disincantato, Morris racconta la
guerra, le sue atrocità e le sue dolorose conseguenze, per quello che essa è: una
rottura drammatica che impone agli uomini che devono combatterla altre leggi.
Per estensione diremmo anche altri codici morali.
Come ricorda lo stesso autore, citando Azzam Pashà, i cui discorsi
ricorrono numerosi nelle pagine del libro, “La politica non è faccenda di accordi
sentimentalistici: è il risultato di un confronto tra forze contrastanti”. Era il
settembre 1947. Il segretario della Lega Araba sembrava voler lanciare un
monito all’yshuv, come a sgomberare il campo da ogni equivoco: mai gli stati
arabi avrebbero consentito a riconoscere, tanto meno pacificamente, il diritto
degli ebrei a proclamare un proprio stato sulla Palestina storica: “Il problema è
vedere se voi, per la creazione di uno stato ebraico, siete in grado di mettere in
campo più forze di quelle che possiamo raccogliere noi per impedirla. Se volete
il vostro Stato, comunque, dovete venire a prendervelo. È inutile che mi
chiediate di darvi il Neghev. […] L’unico modo che avete per ottenere il vostro
Neghev è prendervelo”.
Era il settembre 1947, appunto. Due mesi più tardi l’Assemblea generale
dell’ONU votava a favore della spartizione della Palestina. All’accettazione
sionista della deliberazione della Nazioni unite faceva eco il fermo rifiuto arabo
a riconoscere la sovranità ebraica su parte del territorio conteso. Il 14 maggio
1948, alle quattro del pomeriggio, David Ben Gurion proclamava lo Stato
d’Israele. A mezzanotte gli stati riuniti nella Lega araba dichiaravano guerra e
attaccavano la comunità ebraica insediata in Palestina.
Un anno più tardi, quella comunità, fatta di pii religiosi, pionieri e
sopravvissuti ai campi di sterminio, avrebbe conquistato il suo Neghev. E oggi,
ancora lontana dal vedere la pace, Israele si prepara a celebrare i sessanta anni
della sua esistenza, mentre lo stato arabo che avrebbe dovuto e potuto nascere
su parte della Palestina resta un progetto che arranca, faticosamente, nella
ricerca di farsi realtà.
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Simone Veil, Une vie, Éditions Stock, Paris, 2007, pp. 398.
di Paola Bernasconi
É uscita, per i suoi ottanta anni, l’autobiografia di Simone Veil. La
“Ministre”, come è comunemente chiamata in Francia, racconta in prima
persona la sua intensa vita e lo fa con grande umiltà, tanto da intitolare il libro,
prendendo come riferimento Maupassant, “una vita”. Eppure quella della Veil
non è stata una vita qualsiasi, ordinaria, per due motivi principali: l’esperienza
di prigionia nel campo di concentramento di Auschwitz ed il ruolo politico
rivestito in Francia ed in Europa, dopo una iniziale carriera come magistrato.
In altre parole, la sua vita, la sua attività, la sua figura pubblica non
possono prescindere dall’esperienza della prigionia - che ha saputo tradurre in
una costante battaglia per tener viva la memoria attraverso un dialogo onesto e
rigoroso – e dal suo impegno politico che l’ha portata, dopo esser stata la donna
che, da ministro della Sanità, ha introdotto in Francia la legge sull’aborto, a
diventare protagonista del percorso di costruzione di un’Europa unita.
Nel libro, dedicato alla madre, al padre ed al fratello perduti nella Shoah
ed alla sua famiglia, la signora racconta, senza lasciare spazio all’oblio neanche
su aspetti particolarmente delicati, le grandi tragedie e le grandi speranze della
storia del Novecento di cui è stata diretta protagonista. Riesce a fare questo con
l’onestà intellettuale che la distingue: difatti non si trovano tracce di rancore, né
di avversione verso le più profonde ingiustizie della vita, se non verso l’oblio, la
dimenticanza:
“Là-bas, dans les plaines allemandes et polonaises, s’étendent désormais des espaces
dénudés sur lesquels règne le silence; c’est le poids effrayant du vide que l’oubli n’a pas le droit
de combler, et que la mémoire des vivants habitera toujours” (p. 103).
La Veil, insomma, ha sempre sostenuto l’importanza di raccontare quello
che avevano vissuto gli ebrei nei campi di concentramento, rivendicando un
ruolo che, al ritorno in patria, ha sentito spesso come sminuito, come
tormentato da un senso di colpa, quello di essere fra i sopravvissuti, come
confrontato ad un muro di omertà eretto da chi, molti, non voleva ascoltare. E
difatti, nel suo libro, la Veil racconta ancora una volta.
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Non solo, ma denuncia la pratica diffusa in Francia di eroicizzare la
Resistenza, quella che ha imbracciato le armi, e di lasciare invece nell’ombra,
con un senso di vergogna, il “comportamento passivo” di chi non si ribellò al
proprio destino:
“Eux (les résistants) sont dans la position des héros, leur combat les couvre d’une gloire
qu’accroît encore l’emprisonnement dont ils l’ont payée; il avaient choisi leur destin. Mais nous,
nous n’avions rien choisi” (p. 102).
La sua non è una denuncia contro “la banalità del male” e la responsabilità
collettiva (Hannah Arendt); a questo la Veil non crede, piuttosto vuole
sottolineare il ruolo di chi, anche nel Lager, mettendo a rischio la propria vita, ha
salvato qualcuno, spesso degli sconosciuti. La solidarietà di pochi, lascia
intendere, è sufficiente a non lasciarsi attrarre da un pessimismo totale, non solo
sull’umanità, ma neanche su un popolo o su una nazione. Un tema che si
ricollega al ruolo da lei rivestito in ambito europeo. Come poteva una persona
che proveniva dall’esperienza di distruzione nazista parteggiare per una
alleanza che vedeva i tedeschi uniti alle altre nazioni europee sottomesse
durante la guerra?
Di fatto, l’idea di un’Europa unita venne alla Veil proprio durante la
prigionia: l’unica soluzione per non trovarsi mai più in una situazione non solo
di conflitto ma di possibilità di dominio degli uni sugli altri. Quell’idea,
abbozzata allora, quando era una giovane adolescente “nell’inferno”, come
irreale soluzione di un incubo, l’avrebbe accompagnata lungo tutto il percorso
successivo, fino all’epoca dell’elezione a suffragio universale diretto del
Parlamento Europeo, di cui la Veil è stata prima Presidente, nel 1979.
L’Europa unita nasce in lei, dunque, sulle rovine di un’esperienza (non
grazie ad essa), sulle macerie di un tracollo che permettono di dire e ripetere nei
discorsi ufficiali: “plus jamais ça”. Non è uno slogan, è una frase, che urlata o
bisbigliata, ha la forza di un grido che contiene la tragica storia della guerra,
della distruzione, della sopravvivenza e della rinascita e che porta
inevitabilmente alla costruzione di una realtà politica che permetta la
solidarietà e la pace. Uno slancio, un’aspirazione che anche nella giovane Veil
prende forma e sostanza proprio nel momento in cui maggiori erano le
divisioni. A pensare all’Europa, infatti, a progettare l’unità fra gli stati in guerra
furono molto spesso uomini, politici ed intellettuali che vivevano situazioni di
isolamento e “di inerzia forzata” (si pensi al Manifesto di Ventotene), di
incertezza e di speranza insieme. Credere nell’Europa come unità politica
significava poter sperare ancora nell’avvenire.
Indubbio, Simone Veil non è da considerarsi fra i padri fondatori
dell’Unione Europea, ma è stata fra coloro che meglio ne hanno incarnato i
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valori ed il significato nel momento di più alta speranza per il futuro di
un’Europa federale. Racconta la “Ministre”, nel capitolo intitolato “Citoyenne
de l’Europe” (peraltro riducendo come sempre il proprio peso), come la sua
candidatura fosse stata voluta dall’allora presidente francese Valéry Giscard
d’Estaing, sia per la campagna elettorale per UDF, che la presidenza
dell’europarlamento proprio in base al suo ruolo simbolico. Tuttavia la sua
ricostruzione testimonia quanto invece lei non credesse nei simboli, ma
incarnasse veramente il ruolo di presidente, non solo di tutta l’Assemblea, come
pronunciò nel suo discorso di insediamento, ma ancor più dei cittadini europei,
L’episodio maggiormente illuminante è quello in cui la signora,
contrastando non solo il ruolo centrale della Commissione, ma dello stesso
governo francese, che cercava di porre dei freni alla sua azione comunitaria,
sostenne le rivendicazioni del Parlamento eletto, all’indomani del suo
l’insediamento. “L’incidente” nacque notoriamente sulla questione del budget,
riguardo al quale il Parlamento Europeo aveva la possibilità di intervenire sulle
cosiddette spese non obbligatorie. Per il 1980, vista la drammatica situazione
dell’Africa, gli eurodeputati pensarono di impegnarsi a combattere contro la
fame nel mondo, giudicando un proprio dovere inviare un aiuto finanziario
supplementare ai paesi bisognosi. Per contro, il primo ministro francese,
Raymond Barre, rievoca Une vie, fu quello che maggiormente si oppose ad uno
sforzo finanziario in fondo neanche troppo gravoso, fino al punto di accusare la
Veil di non difendere gli interessi del suo paese.
Quest’ultima, da Presidente del Parlamento Europeo, ritenne di non dover
accettare interferenze, mantenendo fermo il punto dell’indipendenza della
propria istituzione. Si trattò di un’azione politica di alto valore simbolico (in
effetti, al momento, soltanto una vittoria di Pirro, seppur con potenzialità di
lungo periodo), che mise in luce tutte le difficoltà della costruzione di un
Europa di tipo federale - è precisamente questo il termine usato - causa il
legame non risolto fra gli europarlamentari e i governi di origine. Ma il conflitto
sul bilancio – su cui in questa sede non ci può soffermare in modo adeguato - fu
anche la dimostrazione che era possibile dedicarsi alla causa europea
opponendosi alle scelte nazionali.
Non avendo mai rinunciato alla speranza di vedere l’Europa esprimersi
con una sola voce, la Veil ne analizza il ruolo nel contesto internazionale
riflettendo sulle aree di conflitto dove spesso si è recata in missione come
parlamentare europeo, evitando di prendere posizioni di parte, o di voler
giudicare immancabilmente dove si trovi il bene o il male. La sua è una
rinuncia, culturalmente critica verso certe tendenze soprattutto d’Oltreatlantico,
ad abbracciare in modo incondizionato l’idea di una giustizia universale.
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Con il realismo che la contraddistingue, la “Ministre” si dichiara portata a
considerare ogni conflitto in base alla propria storia e non a principi generali:
“On parle beaucoup ici ou là du droit d’ingérence. […] Quant à la force armée de cette
idéologie, je veux dire la justice internationale, elle me semble tout aussi inadaptée aux
situations particulières des États”. (p. 227)
A suo avviso, infatti, nelle relazioni internazionali non sempre si riscontra una
linea coerente in tema di diritti umani universali. In pratica, l’attenzione rivolta
dall’Occidente verso tali diritti varia sensibilmente, a seconda delle aree e delle
situazioni, fino a scomparire del tutto, qualora entrino in campo potenti
interessi economici, o strategici, o altro ancora. Per una persona come la Veil,
che si è impegnata in prima linea nella difesa dei diritti umani fin da quando si
occupava da magistrato delle situazioni carcerarie, è moralmente più giusto dar
prova di onestà intellettuale, acquisendo piuttosto una conoscenza pratica delle
questioni particolari e orientandosi verso soluzioni non “di principio”, bensì
adatte alle diverse realtà nazionali e ai singoli percorsi di evoluzione interna di
un popolo. I due esempi estremi, stando al libro, possono essere il caso del Cile
di Pinochet, in cui la “morale internazionale” non ha condotto alla risoluzione
dei problemi interni, e quella, di segno opposto, del Sudafrica di Mandela,
dove, in seguito ad un dolorosissimo processo pubblico ed attraverso
l’esperienza condivisa del confronto, si è riusciti ad emergere da una
interminabile tragedia.
Quanto all’Europa, una UE forte ed unita avrebbe potuto sicuramente
incarnare il ruolo di interlocutore determinante in talune situazioni di conflitto,
ma ripetute esperienze, tra cui quella della ex Jugoslavia e l’Iraq, hanno
dimostrato invece l’impossibilità di presentare un fronte unitario. Di
conseguenza il realismo della Veil l’ha portata a rivedere le convinzioni
federaliste che nutriva al momento del suo ingresso nel Parlamento Europeo.
Pensando sempre alle esigenze dei cittadini, e specialmente dopo i risultati
negativi dei referendum tenuti in Francia ed in Olanda sulla ratifica della
costituzione europea, l’autrice commenta:
“Aujourd’hui, à la fois parce que nous sommes plus nombreux et parce que les mentalités
ont changé, je ne peux que constater un attachement croissant des citoyens à leur cadre national
et aux facteurs historiques qui ont formé des identités singulières” (p. 220).
Se, da una parte, l’introduzione dell’Euro e l’abitudine sempre più diffusa alla
mobilità dei cittadini apportano un maggior senso di appartenenza all’Europa,
dall’altra, la questione dell’identità – la ricerca delle proprie radici, in risposta
alla mondializzazione - va delimitando il proprio campo non solo ai confini
nazionali, ma, spesso, alle realtà territoriali. Per queste ragioni, la convinzione e
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la speranza di superare le barriere nazionali, che la presidente nutriva venti
anni fa, è stata sostituita dalla constatazione di un’Unione Europea che somiglia
sempre più “ad un insieme di bambole russe che ad un edificio monolitico”.
Nonostante questo la Veil è ancora pronta a definirsi “militante europeista”
come durante l’ultima campagna presidenziale, nella quale, credendo nella
necessità di dare un “électrochoc” politico alla Francia che apportasse il
rinnovamento, ha sostenuto Nicolas Sarkozy.
L’autobiografia, che completa ed arricchisce due biografie precedentemente
uscite, una di M. Sarazin, del 1987, e l’altra, di M. Szafran, del 1994, è ricca di
informazioni e notizie, sostenute con grande lucidità e forza, nonché spunto di
riflessione sui momenti più delicati degli ultimi ottant’anni di storia francese ed
europea, fino ad essere un lucido sguardo sui nostri tempi. Il volume contiene
anche immagini familiari ed ufficiali, corredandole con alcuni discorsi pubblici.
P.Bernasconi, Recensione
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