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■ RACCOLTA A CURA DI STEFANO CARETTI CON UN SAGGIO INTRODUTTIVO DI MAURIZIO DEGL'INNOCENTI
GIACOMO MATTEOTTI. EPISTOLARIO 1904-1924
Maurizio Degl’Innocenti
polo italiano privo di materie e ansioso di occupare la sua manodopera sia in casa sia all’Estero”. Matteotti scrive sulla pressione tributaria nei Comuni, su Come può diventare
“attiua” la gestione privata dei servizi pubblici, e infine, nel novembre 1923, su Smontature finanziarie e La serie dei disavanzi italiani, “con dati ... sbalorditivi”.
C
on l’Epistolario 1904-1924,
che consta 207 tra lettere e cartoline, edite e inedite, Stefano
Caretti presenta al lettore il decimo volume
delle Opere di Matteotti, che già consentono
una puntuale ricostruzione del personaggio.
L’Epistolario (il carteggio familiare è già stato
pubblicato) si pone a utile corredo, disvelando
stati d’animo e retroscena, e soprattutto ponendosi come insostituibile chiave di lettura del
fattore “situazionale”, oltre che strettamente
biografico. Così dalla corrispondenza di Matteotti datata dal 27 settembre 1904 con Giulia
e Ada Gherardi, che lo hanno ospitato da studente a Bologna, si hanno interessanti informazioni sul suo apprendistato politico. A quella data risulta militante già “da un po’ di tempo”, e l’impegno si traduce nella istituzione di
un circolo o di una lega di contadini “con
un’infinità di discussioni”, nonché nella collaborazione a “La Lotta”, foglio socialista del
Polesine. All’azione di propaganda e di organizzazione si accompagna quella per le elezioni politiche dell’ottobre-novembre 1904 a
fianco di Nicola Badaloni, riuscito eletto a Badia Polesine, dopo avere perso per pochi voti
a Lendinara contro il moderato Eugenio Valli.
Matteotti appoggia Badaloni anche nelle elezioni politiche del 1909, e gli è ancora legato
nell’ aprile 1912 se raccomanda a Gino Piva
di recensire sull”‘Avanti” e sull”‘Adriatico” il
volumetto di A. Gherardini, Il Pensiero e
l’opera di Nicola Badaloni, edito a Badia Polesine nel 1912, prendendone le distanze solo
dopo la scissione dei bissolatiani dal Partito
socialista al congresso di Reggio Emilia del
1912, che produce effetti laceranti anche nel
Polesine prima nelle elezioni politiche del
1913 e poi di fronte alla guerra mondiale.
Contro recenti tentativi di attribuire a Giacomo Matteotti la responsabilità di azioni violente che avrebbero “giustificato” la reazione
fascista il “carteggio” off????? una piena e documentata smentita.
“La lettera inviata in data 3 marzo 1921 ad
Aldo Parini, segretario della Camera del lavoro di Rovigo e collaboratore di Matteotti, è illuminante sulla realtà polesana, sempre in movimento non risultando mai gli accordi faticosamente raggiunti né stabili né condivisi da
tutti. La posizione di Matteotti non è occasionale, ma il frutto di una meditata riflessione,
perché ribadisce concetti già rappresentati ad
altri organizzatori e esponenti socialisti. Sotto
l’apparenza di difendere l’interesse” di classe”, con ciò intendendo l’interesse generale, e
di non escludere “le ultime chiamate e i maggiori sacrifici per tutti”, egli denuncia la miopia inconcludente di coloro che vogliono
estendere l’agitazione e ne taccia i comportamenti come “meschinamente egoisti”. Certo,
non è: in grado di respingere in linea di principio lo sciopero generale, ma lo colloca in
una dimensione est rema e, al buon fine, “col
massimo vigore”, rifiutandosi alla pratica scioperaiola che tanto ha caratterizzato il biennio
rosso, Come comportamento “egoistico” indica la pretesa di estendere lo sciopero anche
“nelle campagne dove gli agricoltori (i proprietari) accettino la manodopera”, e di coinvolgere obbligati e bovai. Sul problema scottante delle compartecipazioni, è dell’avviso
che occorra accettarle laddove i proprietari accolgano l’imponibile di manodopera, anche
per dividere il fronte degli agrari, ammettendo
T
solo l’opportunità, che per consolidare “la vera
solidarietà”, bovai, obbligarti avventizi impiegati versino una piccola quota per la cassa comune. Per le semine si dice convinto che non
sia “il momento per ora di pensare ti semine
forzare, a invasioni di terre e simili”, consigliando piuttosto alle leghe di garantire pubblicamente la fornitura di manodopera a giornata ncccssaria. Chiara è la raccomandazione
contro “le violenze stupide e dannose”: “Non
precipitate nulla. Chi vuol precipitare è perché
nell’anima si sente incapace di resistere”. È
evidente la preoccupazionc di tenere unita
l’organizzazione, unico strumento valido
d’unione, ma l’atteggiamento è pragmatico,
attento di non dare agio a “comportamenti
egoistici” o a “violenze stupide e dannose”.
Esce una figura ben diversa da quella dell’incendiario! E sono i giorni nei quali verrà sequestrato e minacciato di morte.
I rapporti con la Kuliscioff e Turati si fanno
più stretti. La collaborazione su “La Critica sociale”, e in parte sull’“Avanti!”, si sviluppa su
temi di grande rilevunza, in parallelo alla crescente autorevolezza acquisita dal giovane deputato all’interno del Partito. In una lettera dell’agosto 1919 richiama l’attenzione sulla “ingiustizia” dell’art. 12 della legge elettorale,
perché consente la somma dei voti personali a
quelli di lista. Si occupa di recensire il libro di
J.M. Keynes critico sulla pace di Versailles (La
revisione di Versailles secondo J.M. Keynes),
cogliendo lucidamente il pericolo dell’oppressione della “nuova Germania democratica”.
Nella corrispondenza con il pubblicista francese Charles Omessa del dicembre 1921, Matteotti ne condivide la percezione del “raffreddamento postbellico” tra Italia e Francia, lamentando come la prima si stia accodando alla
seconda in una politica di armamenti contro la
Germania disarmata, e prevede che così operando “resusciteranno e faranno rimpiangere
al popolo tedesco l’antico regime militarista e
prussiano come quello che almeno incuteva rispetto ai nemici”. Critica la politica francese
in Polonia e in Jugoslavia dove, “anziché mirare alla pace e alla ripresa dei rapporti con la
Russia e con l’Italia, attizza gli odi e provoca
armamenti e sospetti di qua e di là dei confini”, cosicché “il nazionalismo italiano profitta
della tattica del nazionalismo francese, per ripeterne gli errori e i danni contro l’Europa lavoratrice che anela il ritorno della pace”. Ritiene infine che in economia le pretese francesi
a danno della Germania sollecitano il protezionismo che è “specialmente dannoso al po-
urati è e resterà il suo punto di riferimento.
A proposito dell’ odg del congresso nazionale
del PSI che si terrà a Milano dallO al 15 ottobre 1921, in relazione al quale Turati rinunzia
alla designazione di relatore sul tema: “collaborazione, partecipazione al potere, tattica parlamentare”, Matteotti condivide il rifiuto del
tema “collaborazionismo”, in quanto esso sarebbe “la collaborazione portata a sistema e
metodo”, laddove si potrebbe ammettere solo
come “incidente” o come mezzo per meglio
attuare la lotta di classe che resta il fondamento del partito. Non è su questo, pertanto, che
si determina la disputa con gli “estremissimi”,
quanto sul “metodo per la conquista del potere
politico”, essendo la posizione dei massirnalisti incerta tra violenza e conquista legale, mentre quella dei riformisti ferma nella “conquista
legale graduale”. Ma auspica che sul tema sia
lo stesso Turati (o il comitato di frazione) a
prendere posizione. N e riemerge qui il retroterra ideologico classista, del resto comune e
comunque ora un inevitabile pedaggio da pagare a fronte dell’ offensiva polemica massimalista e comunista, ma l’impianto di fondo è
inequivocabilmente democratico, non prescindendo dall’ azione graduale e riformatrice e
dal metodo legale. Ciò trova conferma nelle
polemiche con Serrati del marzo 1922 e con il
massimalista trentino Lionello Groff del settembre successivo, quando respinge l’accusa
ai riformisti di patteggiamento “coi nemici del
proletariato”, concludendo che il programma
massimalista (“proselitismo, propaganda avveniristica, pressione continua, opera di critica”) è un equivoco o un errore, essendo di fatto ormai tutt’uno con quello comunista, e cioè
“formazione di quadri di forza che con un assalto violento si impadroniscano del potere,
mediante una dittatura”. A fronte della proposta del PCdI di un blocco tra i tre partiti di
classe, Matteotti risponde a Palmiro Togliatti
in data 25 gennaio 1924 che essa contrasta
“con l’obiettivo preliminare della restaurazione pura e semplice delle “libertà statutarie”,
tanto più che il proponente ha posto tre condizioni inaccettabili: l’indirizzo tattico comunista (“antitetico al nostro”); la partecipazione
alla lotta elettorale in qualunque condizione,
rendendo così impossibile l’astensione del
blocco che più immediatamente esprimerebbe
la protesta di tutto il proletariato contro il regime di dittatura fascista, e soprattutto perché
si vorrebbe escludere a priori “qualsiasi blocco
di opposizione al fascismo e alla dittatura da
esso instaurata che si proponga come scopo
una restaurazione pura e semplice delle libertà
statutarie”, magari con l’appoggio di elementi
non appartenenti ai tre partiti. T aIe posizione
è confermata nella riposta alla Direzione del
Partito comunista in data 16 aprile 1924 in merito all’ipotesi di una manifestazione unitaria
per il I maggio. Matteotti respinge la tesi del
fronte unico, di cui coglie la strumentalità polemica da parte di chi ha inasprito le ragioni di
scissione e di discordia nella classe lavoratrice.
E scrive: “Restiamo quel che siamo. Voi siete
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comunisti per la dittatura e per il metodo della
violenza delle minoranze; noi siamo socialisti
e per il metodo democratico delle libere maggioranze. Non c’è quindi nulla di comune tra
noi e voi”. Per lui il nemico è uno solo: il fascismo, ma complice involontario di esso è il
comunismo, perché la violenza e la dittatura
predicata dall’uno, diviene il pretesto e la giustificazione della violenza e della dittatura in
atto dell’ altro. Il distacco con i comunisti è ormai incolmabile. Troppo diversi gli obiettivi
tattici e di fondo, perfino il linguaggio. Quello
socialista unitario parla ormai di libertà e di
democrazia.
Nell’aprile 1923 Matteotti presenta a Turati
il manifesto redatto per il I maggio (“Di tutta
l’Europa civile, solo l’Italia mancherà alla festa del lavoro”). Oltre a denunciare la perdita
della “libertà”, e cioè dei diritti di associazione, riunione, propaganda e di stampa, e del
peggioramento delle condizioni salariali, la riflessione è finalmente portata anche sulla debolezza della sinistra, sulle esagerate illusioni,
sui rapidi sco ram enti dei facilmente accorsi
dopo la guerra e facilmente passati più tardi
alle violenze opposte, sui seminatori e sugli
autori di continue scissioni, sugli egoismi delle
categorie più pronte a mutare colore, sulla trascuranza degli elementi morali ed intellettuali.
La revisione della dottrina pare una necessità ineludibile: “saggiarla al confronto della
esperienza, è cosa degna di un partito d’avvenire”. Nella lettera del 4 maggio 1923 a Turati,
a cui trasmette la prefazione all’opuscolo Direttive del Partito socialista unitario italiano,
ricorda la feconda opera di redenzione delle
plebi svolta in trenta o quarant’anni dal partito
socialista e i significativi risultati ottenuti in
tutti i campi dalla” civiltà del lavoro”, e con
orgoglio constata come “l’ascesa e lo sviluppo
dell’Italia nella corte civile delle nazioni, coincidano perfettamente con 1’ascesa e lo sviluppo del partito socialista e delle libere organizzazioni operaie”. L’immagine è quella di un
graduale, ma profondo processo di emancipazione popolare, e quindi dell’intera nazione,
che prima la guerra, poi le illusioni comuniste,
e infine “la reazione e la violenza fascista”
hanno interrotto e distrutto in larga parte. L’attesa è di riprendere il lavoro avviato improntato alla “grande solidarietà umana” (“]«, rifaremo! “), essendo “il socialismo un’idea che
non muore! Come la libertà!”
Il carteggio evidenzia il precipitare della crisi delle istituzioni liberali, che dimostrano tutta
la loro fragilità. Nell’estate 1921 la partita
sembra già compromessa. Le amministrazioni
locali sciolte, le cooperative in liquidazione o
infiltrate da fascisti, alcuni esponenti socialisti,
come il massimalista Antonio Zilli, passati al
fronte avverso, minacce vengono costantemente rivolte contro la casa e la persona stessa
della madre settantenne di Matteotti, le autorità di polizia sono troppo spesso conniventi
con i fascisti. I compagni di Badia Polesine
continuano a informare dettagliatamente sugli
accadimenti, come richiesto con insistenza da
Matteotti (nell’ attesa di tradurre la protesta in
atto parlamentare). Matteotti palesa grande lucidità, e percepisce tra i primi la drammaticità
della svolta che si va compiendo nell’ ottobre
1922, convinto che l’avvitamento della crisi
sbocchi nella dittatura, termine che usa precocemente e senza incertezza. Di fronte alla crisi
del Governo Facta e alla marcia su Roma la
posizione è quella dello spettatore passivo, a
testimonianza dell’inanità politica dei socialisti così come delle altre forze di opposizione
(“del resto tutto si è svolto fuori di ogni azione
o possibilità di azione”). Nella lettera a Treves
dell’ottobre 1922 segnala la natura “extrapar-
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lamentare della crisi” preannunciando le dimissioni di Facta, e indica la parvenza di “un
movimento per Orlando” (“ma non è ancora
chiaro”), ben presto abortito. In una successiva
a Turati osserva: “Se il Governo o il Re avessero voluto resistere, sarebbe stato facilissimo.
Si dice che il Re dapprima avesse consentito
allo Stato d’assedio, e solo poi abbia pensato
altrimenti. Si dice che i comandi d’esercito abbiano risposto che essi erano pronti a resistere
solo se il Governo voleva fare sul serio. Ciò
che ... naturalmente Facta non voleva”. Dà
conto dell’ipotesi di un Ministero Salandra e
delle voci di un dissidio tra i liberaI-nazionali
e i fascisti, del coinvolgimento presunto di
Baldesi. E proposito della marcia su Roma:
“molti studi distrutti, una ventina di morti, indifferenza pubblica. Viltà generale alla Camera: tranne il vecchio Cocco. Tutti pronti a entrare nel Ministero ... con lo strazio nel cuore!”, e “l’aria di non sicurezza, perché tutto è
affidato all’ arbitrio”, nonostante che la grande
maggioranza delle squadre è partita.
In quanto al Partito socialista unitario, nato
da pochi giorni dalla scissione con il Partito
socialista italiano, a maggioranza massimalista, il neo segretario si trova di fronte a due opzioni: l’aperta opposizione, o “se bisognerà
per vivere, vellutare la nostra opposizione,
considerare il fatto rivoluzionario esclusivamente dannoso alla democrazia, e portarci
sui problemi concreti”. Lascia la decisione alla
Direzione che sarà convocata alla vigilia dell’
apertura della Camera per sapersi meglio regolare secondo i fatti. E intanto pubblica un
manifesto “abbastanza largo da poterei lasciare libero l’esame degli avvenimenti successivi”. E al socialista teramano Giuseppe De
Dominicis in data 4 novembre 1922 ammette
che è “probabile che permanga ancora quello
stato di cose in virtù delle quali ci siano rese
impossibili le nostre attività di organizzazione
e di propaganda”, e allora “in attesa che la situazione si chiarisca” é necessario continuare
a lavorare com’è possibile, riunendo le sezioni
e “continuando soprattutto la pubblicazione
del giornale, tenendo presente che la stampa è
il solo mezzo di propaganda utile in questo
momento”. Il consiglio è di evitare” gli atteggiamenti che possono dare al nostro lavoro un
carattere cospiratorio”. L’opposizione è ridotta
alla stampa! E per giunta le pubblicazioni de
“La Giustizia” sono sospese: vengono riprese
solo 1’8 novembre. È ormai una lotta solo di
“difesa delle posizioni”. L’opposizione si sta
sfaldando. Riducendosi la funzione del Partito
alla stampa (“aiutiamo la stampa nostra ultima
fiaccola di un libero pensiero”), che sembra
parlare all’interno più che all’ opinione pubblica, i problemi di diffusione, di redazione, di
costi sono destinati a ingigantirsi, e ben poco
valgono le sottoscrizioni raccolte da Gregorio
Nofri o gli appelli rivolti agli emigrati socialisti nelle Americhe. E poi c’è il disorientamento, del resto comune alle altre forze politiche,
ma per i socialisti unitari ancora più grave per
le ripercussioni sull’universo organizzativo,
sindacale e cooperativo.
Nella lettera a Treves del 9 novembre 1922
Matteotti parla “di tutto un movimento di circuizione, esercitato su molti dei nostri uomini,
dagli emissari del dittatore”, convinto com’ è
che si voglia indurre il Partito “a piegare, a
consentire, cioè a permettere il più comodo
sviluppo della Dittatura”. Si conferma “l’opera
perfida di assalto a tutto l’ultimo rimasuglio di
ciò che possediamo, non più con la violenza
certamente, ma con la semplice minaccia del
terrore, con la corruzione degli elementi più
resistenti, con la prigionia morale di chiunque
dei nostri sarebbe capace di agire”. Matteotti
è convinto che anche ai soli fini di prendere
per buone “le inevitabili tendenze demagogiche (cosiddette di sinistra) del Governo Mussolini”, la migliore tattica resti comunque “la
più ferma e dignitosa resistenza”. A Treves,
che dirige a Milano “La Giustizia”, la quale
sembra individuare i più impellenti problemi
del nuovo Governo nell’ordine pubblico e nel
pareggio di bilancio, oppone che sarebbe meglio parlare semplicemente di “libertà” e di
“vita, cioè del pareggio nella economia dei lavoratori”. E ammonendo: “aspettiamo a venderei, quando ci pagheranno un prezzo conveniente, cioè una vera e non una falsa garanzia
di libertà”. A Turati scrive il 18 dicembre
1922: “Le cose interne sembrano accomodate,
e le corporazioni divengono fasciste, mentre
le milizie che divengono del Presidente del
Consiglio dovrebbero aprire gli occhi a tutti”.
Nello stesso Gruppo parlamentare serpeggia
verso il Governo una linea attendista, che fa
capo a Enrico Ferri (,’leale attesa”), e con
qualche difficoltà Matteotti riesce a imporre la
propria in una riunione del 6 febbraio 1923, e
decisa opposizione, e se ne lamenta: in un
“momento grave come questo, non fanno che
danneggiare proprio l’unica cosa che ci resta,
il nostro bagaglio ideale”. Ancora più grave si
presenta “la crisi di persone per la particolare
situazione in cui ci troviamo”: l’accenno è alle
visite a Mussolini di Baldesi nella prospettiva
di un’improbabile unificazione sindacale, di
Vergnanini sul futuro delle cooperative, e ancora di Alessandri. E polemizza con lo stesso
Turati, che cerca di evitare personalisrni e si
dimostra più comprensivo dei timori dei dirigenti della CGdL di salvaguardare il possibile
dell’ organizzazione confederale. Matteotti
continua a vedere nella linea di Baldesi un pericolo mortale, e quando al convegno confederale di Milano del 23 -25 agosto 1923 questi
pretende che spetti al sindacato “la difesa degli
interessi immediati dei lavoratori organizzati”
e dunque di valutare le condizioni “della solidarietà e dell’ aiuto a quei partiti e a quei governi che si trovino sulla stessa linea del programma minimo di attuazione pratica e immediata del Sindacato”, vi coglie un assist agli
avversari per colorare i socialisti di scopi piccolo-borghesi di bassa utilità immediata, e interpreta la rivendicata autonomia politica del
sindacato come premessa per un possibile accordo col Governo. In ogni caso, capisce che
una volta accettata la rinuncia all’azione “mediata di tutta la classe e di tutta la collettività
produttrice” attraverso il Partito in Parlamento
e in paese, sarebbe stata inarrestabile la condanna all’ assoluta marginalità del PSU. A
Giuseppe Parpagnoli, emigrato in Argentina,
trae.ia nell’agosto 1923 un breve bilancio del
biennio di “reazione [ascista”: “le organizzazioni economiche e politiche del proleI ariato vennero in gran parte assorbite o distrutte. Molti giornali perirono. Infinito numero di lavoratori dovettero per fame piegarsi al
nuovo giuoco. Quelli che non si piegarono furono boicottati economicamente quando non
anche banditi, carcerati o uccisi”. In quanto al
PSU assicura la volontà di tenersi “ritto fra tutte queste macerie. Impoverito di soci, di denaro, di istituzioni e di consensi attorno, con voce affiocata e coperto di ferite, pure rimane in
piedi circondato di squallore, grazie alla tenacia, e, ben può dirsi, talvolta anche dell’eroismo dei compagni superstiti”. Dice di una sua
Direzione operante a Roma, ma “vi funziona
come può, incoraggia, traccia le linee della
nuova I attica, mantiene unite le scarse forze
rimaste”; e di un suo organo centrale a Milano,
che registra quotidianamente i misfatti del fascismo e “riafferma la nostra dottrina modificata secondo Ic terribili esperienze, e col solo
fatto di uscire, dà ogni giorno ad amici e a nemici la prova provata che il socialismo in Italia, percosso e sconvolto dall’ ondata fascista,
non ne fu sommerso, resiste, si abbarbica al
suolo della Patria ed è deciso a riaversi non appena le circostanze lo permetteranno”. Occorre prendere atto che “La Giustizia” è boicottata
dai fascisti in molti centri, cosicché sarebbe
necessario l’aiuto d’Oltre Oceano, per consentire al PSU “per le incontrate esperienze” di
sperare di tornare a guidare la classe lavoratrice” a raggiungere i suoi destini per una vita
piena, assennata e conforme a natura”. Chiosando: “Alcuni affermano che questa via è più
lunga di altre che vengono additate, ma in realtà non è tale perché quelle altre vie, in apparenza più spicce e più estetiche, conducono solamente al disastro o ad una sterile contemplazione”. Si ribadisce così che l’obiettivo essenziale è ora non fare morire “La Giustizia”, perché si ha la possibilità di “parlare ai lavoratori
solo attraverso la stampa”. Ma mentre si cerca
di ritessere i contatti con i socialisti europei,
anche in vista della ricostituzione dell’Internazionale socialista, il tesseramento incontra
grande difficoltà (“mal connesse trincee della
nostra difesa”), e amaramente si deve ammettere che non è “lieta prospettiva per chi è
abituato a vedere nella milizia socialista l’onesto e tranquillo esercizio di qualche carica
pubblica”. Cosicché “la tessera è il legame
simbolico che fa delle nostre anime insofferenti un fascio resistente all’irrompere della
tracotanza avversaria, ma è anche il mezzo per
dare alla Direzione la possibilità di esplicare
vantaggiosamente per il Partito il programma
di riorganizzazione delle nostre forze”.
Matteotti punta su un blocco di alleanze per
la libertà, e così si dispiace per il fatto che non
si sia riusciti a includere nella lista elettorale
per le amministrative milanesi del 10 dicembre 1922 “anche persone e competenze fuori
del partito, a destra e a sinistra”. Nel dicembre
1923 aderisce ad un’Associazione nazionale
per il controllo democratico fondata da antifascisti a Milano su un precedente inglese durante la prima guerra mondiale, ma insorge
quando per il raggruppamento antifascista
Prampolini propone il nome “Democratico”
insorge perché lesivo delle legittime aspirazioni del partito (“Io e T argetti troviamo la cosa
di una inopportunità straordinaria”). Nel maggio 1923 al socialista campano Menotti Bucco,
che si rende disponibile a recarsi a Chieti per
propaganda, raccomanda di “raccogliere in
quella provincia adesioni e possibilmente, con
i rimasti nel capoluogo, formare un gruppo o
una sezione”, e tuttavia sa bene che nei piccoli
paesi ciò è diventato impossibile, e per il resto
non si può fare affidamento che su alcuni studi
di avvocati, di cui viene fornito 1’elenco. Tra
momenti di grande disillusione e incoercibili
impulsi a fare, Matteotti non perde comunque
la speranza di fare del PSU il centro aggregativo delle opposizioni (“l’unione di tutte le forze che onestamente e lealmente intendono di
opporsi alla dittatura fascista”), e in tale prospettiva giunge a considerare l’ipo[(‘si di una
riunificazione con i massimalisti. Tale eventualità, su (Id Turati resta molto tiepido, è considerata opportuna per non pvrdere completamente il contatto con le masse. Sta lavorando
.ill’opusco]o Mussolini nel 1919-20 (uscirà
postumo con il titolo Fascismo della prima
ora. Pagine estratte dal “Popolo d’Italia”) e
pOlta avanti il lavoro preparatorio per il libretto Un anno di douriuazione fascista, terminato
poi agli inizi del dicembre 1923, e pubblicato
nel febbraio 1924. L’opuscolo è pronto, è diventato ,Ii 200 pagine e potrebbe “uscire ora
per lo scioglimento CameIII”. Gli acclude solo
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una premessa breve, ma di grande efficacia,
.love alla pretesa del Governo fascista di giustificare “la conqui~I il armata del potere politico, 1’uso della violenza e il rischio di lilla
guerra civile, con la necessità urgente di ripristinare l’autorità .lella legge e dello Stato, e di
restaurare l’economia e la finanza sulvandole
dal pericolo”, oppone “i numeri, i fatti e i documenti ruccolti (che) dimostrano invece che
mai, come nell’ anno fascista, l’arbitrio si è sostituito alla legge, lo Stato asservito alla fazione, e clivisa la Nazione in due ordini, dominatori e sudditi”.
Per rilanciare il partito considera l’opportunità di un concorso a premi per il “distintivo”
o per la tessera del 1924, la quale infine sarà
oggetto di studi e vari tentativi. Ha in mente di
organizzare convegni a Napoli, Roma e, il più
importante, a Milano tra settembre e ottobre.
Conta ancora sulla autorevolezza di Turati, come dimostra la lettera del 29 agosto 1923: sarebbe un suo discorso quel “qualcosaltro”, più
forte, su cui far leva per cercare di aggregare
ceti e persone interessate ad “un’ azione per la
riconquista della libertà, e per toccare l’opinione pubblica”. Ipotizza come sede Torino, alla presenza dello stato maggiore del Partito, e
come “programma” la riaffermazione di che
cosa ci sia di vivo nella dottrina socialista, per
poi ribadire “l’avversione ai metodi che hanno
discreditato il partito nel dopoguerra e a tutti
gli eccessi negli scioperi, negli appetiti di categoria, nei servizi pubblici” e quindi concludere con obiettivi immediati per la riconquista
della libertà e per “la ricostruzione economica
e morale del paese”. La prospettiva è ambiziosa: solo così sarebbe possibile “preparare
una piattaforma nuova e a larga base, che abbia
ripercussione non soltanto negli strati popolari,
ma anche nei più colti e moderni della borghesia”. Turati è molto dubbioso “sull’opportunità
- direi anche sulla serietà e sulla possibilità - di
aprire il fuoco così presto, e di aprirlo proprio
a Torino, dove il comunismo e il fascismo ci
prendono tra due fuochi, dove, non è molto, si
poterono assassinare a varie diecine di compagni (ciò dice l’ambiente) e dove un insuccesso
comprometterebbe tutto per un pezzo”, anche
se si dice convinto che in caso di elezioni, i socialisti sarebbero costretti a tentare, non fosse
che per constatarne l’impossibilità. Ma infine
accetta di aprire la campagna elettorale il 20
gennaio 1924 al Teatro Scribe di Torino, il testo
integrale del discorso appare su “La Critica sociale” e poi viene raccolto in opuscolo: resterà
uno dei documenti più alti dell’ antifascismo
italiano.
I rapporti con lo stesso Turati non sempre sono all’unisono, anche perché ben presto 1’attività di partito ha due centri: a Roma è la Direzione, a Milano si stampa “La Giustizia” e l’influenza del gruppo di “Critica sociale” è più
forte. Un caso significativo è dato dalla celebrazione del Milite Ignoto. Matteotti per primo
pensa di non lasciare ad altri “la brutta ipoteca
bellicosa su un simbolo così sentimentale”, e
ritiene possibile richiamarsi al Milite come colui che è morto “per la patria libera e per un
mondo senza guerre”. Ma non tutti i compagni
sono dello stesso parere. A Milano, senza coordinamento alcuno con la Segreteria, i socialisti cercano di prendere parte al corteo del 4
novembre, ma vengono aggrediti e allontanati
da nazionalisti e fascisti. Intanto, anche “La
Giustizia” si è aggregata alla celebrazione della
Vittoria. Del mancato coordinamento e del tono esagerato del giornale (“nessuno finora era
mai arrivato a questo”) Matteotti si lnrnenta
con Turati in una lettera del 6 novembre 1923:
“si comI) rende - scrive -1’ esaltazione di una
Difesa vittoriosa, ma non di lilla Vittoria che
per un altro proletario si risolve in una Sconfitta (‘ in una oppressione. Perciò io ti avevo
sempre scritto nel senso (klla Patria libera e
mondo senza guerre. Ma mai più oltre”. Poi
nuutisce la critica dichiarandosi comprensivo
della situazione particolare di Milano e dell’
Associazione combattenti, e come già per la
Confederazione, “nelle circostanze attuali, a
cose fatte”, non intende recriminare pubblicamente. Anzi si ripromette “di difendere il fatto”
e di trarne argomento contro l’avversario.
Un motivo di maggiore dissenso è dato dall’attesa risistemazione dell’organico del giornale. In data 8 gennaio 1924 Turati lnmenta la
frettolosità e la scarsa preparazione di certe decisioni della Direzione (“inutili e, dato il momento, pericolose”). Matrcotti si sente spiazzato, lamenta l’assenza di un minimo di disciplina, alza i toni parlando di “disfattismo”,
che “trova tutti i pretesti e tutte le ragioni”, fino a coinvolgere lo stesso Turati (“mi duole
soprattutto quando arriva a far presa su di te
che ‘l’i uno dei pochissimi che resistevi all’inerzia dei molti. Io non comprendo codesto
eterno dire e disdire”), fino a minacciare le dimissioni (“se ciò non va, dite di riconvocare
la Direzione, affinché provveda altrimenti. Io
così non vado avanti”). Ma poi Matteotti si ributta nella lotta con inalterato impegno. Tramite Canepa e Zaniboni nel febbraio 1924 favorisce una riunione con repubblicani, bonomiani, sardisti, Italia libera e “Patria e libertà,
“Volontà” per rilanciare 1’obiettivo del blocco
elettorale per la libertà, cioè di una lista nazionale comprendente tutta l’opposizione, ovvero
della comune deliberazione per l’astensione.
Una volta tramontata l’idea della lista nazionale delle opposizioni riunite, il partito preferirebbe l’astensione purché in questo proposito
convengano tutti i partiti d’opposizione, da
Amendola e Bonomi ai massimalisti, “non richiedendo invece il concorso dei popolari e
dei comunisti”. Anche l’ipotesi dell’ astensione svanisce ben presto, come risulta in una lettera a Giulio Zanardi del febbraio 1924. Resta
il fatto che già si preannuncia l’Aventino.
Le enormi difficoltà incontrate nella preparazione della campagna elettorale inducono
Matteotti a rivolgersi ancora a Turati per annunciare le dimissioni dalla segreteria dopo le
elezioni. In realtà, percepisce chiaramente che
la lotta politica è entrata in una fase nuova, per
la quale larga parte dei vecchi quadri del Partito non sembrano più idonei (“ gente arrivata
in altri tempi e per altri modi”). I tempi richiedono gente di volontà e non scettica, per una
“resistenza senza limite” contro la dittatura fascista (“Cerco la vita, voglio la lotta contro il
fascismo. Per vincerla bisogna inacerbirla”).
Tale presupposto si base sulla convinzione, rivelatasi corretta, che il fascismo dominante
non avrebbe deposto le armi né tantomeno restituito spontaneamente all’Italia un regime di
legalità e di libertà perché “tutto ciò che esso
ottiene, lo sospinge a nuovi arbitri a nuovi soprusi. È la sua essenza, la sua origine, la sua
unica forza, ed è il temperamento stesso che
lo dirige”. Da politico persegue sempre la “ricostituzione delle nostre file” con fede nella
libertà, ma l’appello è sempre più rivolto ai
“puri di cuore”. Va dunque a ricercare “gli atti
di coraggio e di fermezza compiuti dai compagni in nome del Partito, perché d’ora in
avanti intendiamo più che mai attingere alle
energie morali del partito che fortunatamente
rimangono intatte in mezzo al frantumarsi dell’inquadramento materiale della nostra organizzazione”. La dimensione della lotta al fascismo è spostata sul piano dei simboli, dei valori, delle idee. Il martirio di Matteotti ne rappresenterà l’apoteosi. s
Maurizio Degl’Innocenti
Lettera 93.
Giacomo Matteotti
a Giuseppe De Dominicis
“1922: Quanti morti e feriti da parte nostrsa?”
Roma, 4 novembre 1922
Caro compagno.
Durante gli avvenimenti di questi giorni, la
Direzione dci Partito, non ha interrotto che in
parte la propria attività. I suoi membri residenti in Roma si sono più volte riuniti per esam i
nare i mutevoli aspetti della grave situazione
e per raccogliere notizie su quanto avveniva in
altre parti di Italia.
In questo periodo, come sempre, i compagni
che corrispodono con noi possono assolutamente confidare nella oculatezza e nella prudenza della Segreteria e perciò possono indirizzare le loro lettere al solito indirizzo.
Intanto la situazione politica è da noi seguita
con grande attenzione e cerchiamo di trarre da
quella insegnamenti utili per l’avvenire. È probabile che permanga ancora quello stato di cose in virtù delle quali ci siano rese impossibili
le nostre attività di organizzazione e di propaganda.
In attesa che la situazione si chiarisca è necessario continuare a lavorare come e dove si
può; riunendo dove è possibile le nostre sezioni e continuando soprattutto la pubblicazione
del giornale, tenendo presente che la stampa è
il solo mezzo di propaganda utile in questo
momento. Siate molto circospetti e prudenti
nel prendere contatti con i compagni e con le
sezioni, ma evitate quegli atteggiamenti che
possono dare al nostro lavoro un carattere cospiratorio.
Poiché dalla cronaca dei giornali apprendiamo che ovunque sono state compiute nuove
distruzioni, necessita che ci facciate conoscere
dettagliatamente la situazione locale, indicandoci:
1) quanti morti o feriti di parte nostra o meglio di parte sovversiva ci sono stati da quando
è cominciata l’azione fascista a tutto il 4 corrente mese;
2) quante sono state le case private bruciate
o devastate a compagni o comunque a militanti in partiti od organizzazioni avversate dal fascismo;
3) quanti sono i giornali che sono stati soppressi;
4) quanti bandi sono stati emanati dal fascismo;
5) quante amministrazioni hanno dovuto dimettersi in seguito alle violenze;
6) quali sono stati i compagni che hanno dato esempi di fermezza e di coraggio di fronte
alle violenze fasciste;
7) quali sono stati i compagni che avendo
cariche rappresentative hanno dato prove evidenti di non saper tenere con dignità ti posto
occupato di fronte alle violenze suddette.
Tutte queste notizie ci occorrono al più presto tenendo presente lo spazio di tempo che va
dal novembre 1920 a1 4 del c.m. e indicando
per i colpiti oltre ai nomi la professione e la
località.
Intendiamo segnalare gli atti di coraggio e
di fermezza compiuti dai compagni in nome
del Partito, perché d’ora in avanti intendiamo
più che mai attingere alle energie morali del
partito che fortunatamente rimangono intatte
in mezzo al frantumarsi dell’inquadramento
materiale della nostra organizzazione.
La Direzione, in questo momento veramente
critico per il Partito, intende assolvere a costo
di qualunque sacrificio il compito che le fu affidato dal Congresso e perciò fa appello a tutti
i compagni perché le si stringano attorno con
rinnovata fiducia. Il nostro quotidiano che fra
giorni riprenderà le pubblicazioni continuerà ad
essere il nostro più efficace mezzo di propaganda. Non tralasciate quindi di procurare
abbonamenti e di raccogliere sottoscrizioni inviando il tutto a Milano al compagno Nofri, via
della Signora 8.
Ricordare ai compagni il dovere di prelevare
immediatamente la tessera la quale serve non
solo a testimoniare la inscrizione di ciascuno
al Partito, ma anche e soprattutto per dare i
mezzi necessari alla Direzione per continuare
il programma di lavoro stabilito.
Sicuro che tu ed i compagni di codesta provincia farete tutto il possibile per sormontare
con dignità la situazione presente, vi porgiamo
i nostri più affettuosi saluti.
Il Segretario Matteotti
(Da “Avanti!”, a. LXXXI, n. 191, 24 agosto
1977, pp. 8-9 . Giuseppe De Dominicis (18831967), principale esponente dei socialisti unitari di Teramo)
Lettera 95
Giacomo Matteotti
a Claudio Treves
(Il 2 dicembre, insieme a Tito Zaniboni, Baldesi aveva avuto un colloquio con Mussolini
sulla possibilità di unificare tutte le organizzazioni sindacali. Antonio Verganini (18611934) segretario della Federazione delle cooperative, il 120 novembre aveva discusso con
Mussolini questioni inerenti il movimento cooperativo. L’episodio era poi abilmente sfruttato dala stampa fascista per contrapporre lo
spirito collaborativo di Vergnanini, nei confronti del governo Mussolini, alla rigida intransigenza di Turati e Treves)
Roma, 2 dicembre 1922
Caro Treves,
Avrai visto la nuova esposizione Baldesi.
Come al solito, a noi è stata comunicata solo
dopo avvenuta; e non sappiamo se conosciamo
esattamente il contenuto del colloquio.
Per Vergnanini abbiamo dato il comunicato
che egli non è inscritto al P [artito] S [ocialista]
Unitario.
Non sappiamo cosa se ne pensi a Milano;
ma da tutte le altre parti di Italia arrivano consensi alla nostra opera, contro gli esibizionismi
personali.
Noi crediamo ancora e fermamente che si
tratti di tutta una montatura e crisi di persone
per la particolare situazione in cui si trovano.
Ci ha però fatto meraviglia l’articolo della
“Giustizia” Governo e lavoratori(1) che io credevo di Mazzoni, ma che questi afferma essere
probabilmente tuo. Ciò che io non credo.
Ad ogni modo cerco di convocare al più presto la Direzione; o a Milano, o a Roma. Magari in settimana se si può farla a Milano. Ti
saprò dire. Musatti voleva dimettersi anche
dalla Direzione.
Saluti cordiali, Matteotti
Nel blocco amministrativo’ come mai non
vi è riuscito includere anche persone e competenze fuori del partito, a destra e a sinistra?
NOTA
(1)
L’articolo era apparso sulla “Giustizia”
del 30 novembre 1922. Nino Mazzoni (18741954), dirigente sindacale e parlamentare socialista dalla XXIV alla XXVII legislatura
18 ■ CRITICAsociale
Lettera 96
Giacomo Matteotti
a Claudio Treves
Roma, 4 dicembre 1922
Caro Treves,
Profitto di un messaggero per dirti rapidamente qualcosa.
Qui nulla di nuovo veramente importante.
Ieri il Direttorio (Modigl. - Musatti - Donati
- Bocconi - Garib.) deliberava di mandare un
telegramma urgente a Baldesi per invitarlo a
spiegazioni sui colloqui mussoliniani. Egli ci
ha risposto oggi che non può e che mercoledì
vedrà Turati a Milano.
Il colloquio è avvenuto naturalmente senza
preavvisare alcuno di noi. Dopo il colloquio
egli cercò me e informò Modigliani che si trattava soltanto dell’unità sindacale, e che anzi
Mussolini non si era opposto alla adesione ad
Amsterdam. Naturalmente Mussolini volle sapere come la pensasse ciascuno di noi. Modigliani e altri credono che nel colloquio vi sia
stato molto di più da parte almeno di Baldesi.
Così a Silvestri e a qualcun altro ha invece detto che partiva per Gardone!!
Certo così non si può andare avanti. Mentre
da tutte le Sezioni e da tutte le Province ci vengono incoraggiamenti a stare fermi e diritti, il
primo che vuole, fa per conto proprio e impegna il partito compromettendolo.
Volevo fare la riunione di Direzione a Milano perché voi siete certamente impegnati nella
lotta elettorale; ma i due o tre rappresentanti
del mezzogiorno non potrebbero venire. In caso sarà quindi a Roma subito dopo. Ciao
Matteotti
P.S.: Bararono ha indetto per stasera una riunione tra alcuni massimalisti e alcuni nostri
(Musatti, Donati”, ecc.). Sono invitato anch’io. Pare che egli voglia affermare superato
il concetto democratico e nello stesso tempo
negare la III Internazionale (non so poi come
risolva la contradiz.!). Temo sia ingenuamente
succube di De Pazzi.
Lettera 97
Giacomo Matteotti
a Filippo Turati
Roma, 8 dic. 1922
Caro Turati,
Mi dispiace dei tuoi giudizi, fondati sull’ audizione di una sola campana, e precisamente
di quella interessata personalmente.
1°) «Tutti noi sapevamo». Non so chi siano
i noi. lo potrei dire «tutti noi non sapevamo».
Cioè tutti coloro che appartengono al Direttorio ed alla Direzione e si trovavano a Roma
non sapevano nulla. Né Modigliani, né Bocconi’, né Buozzi, né D’Aragona, né Musatti,
né altri che pure non si chiamano Matteotti.
Per lo meno Baratono è venuto a chiederlo, e
non ha trovato in noi «la ostilità preconcetta».
2°) «Invitato da Mussolini - invitato da
D’Annunzio». Tutto ciò risulta evidentemente
a te solo e a nessun altro. Noi sappiamo benissimo invece come sono combinati codesti colloqui e purtroppo sappiamo ora anche di quello Baratono «invitato da Mussolini», L’invito
era il parto di uno dei soliti intriganti. E se
avessimo saputo, avremmo detto di no anche
a quello. Se ne sono viste le conseguenze.
3°) «Ritardo per non piegarsi ai comodi del
dittatore». Anche questo risulta a te solo. Qui
a Roma solo dopo il colloquio, Modigliani ebbe qualche resoconto da Baldesi che non aveva
trovato me. Ma Baldesi non disse a Modigliani
2-3 / 2013
che poi sarebbe andato a Gardone né a nessun
altro di noi; lo disse solo ai soliti giornalisti che
dovevano lanciare la réclame. Perché?
4°) In seguito a questo fatto si riunì il Direttorio, anzi pochi membri del Direttorio, tra i
quali Modigliani, che propose di telegrafare a
Baldesi perché venisse ad informare prima che
avvenisse qualche cosa di non riparabile. Da
noi nessuno ha saputo della spedizione del telegramma, il quale quindi non voleva affatto
lo scandalo dell’ad udendium verbum. Ma trapelò per i giornali solo tre giorni dopo spedito,
cioè dopo che fu recapitato. Perché?
5°) Non sento che noi gli dobbiamo alcuna
«riconoscenza per essersi esposto alle malignità» ecc. Oggi ci vuole assai poco coraggio ad
esporsi a tali specie di malignità. Ce ne voleva
nel 1919-20 quando ti ci esponevi tu. Non oggi
che tutti sanno con grande facilità buttarsi verso il vincitore nei più diversi atteggiamenti,
ma in ogni caso ritrovandosi sempre in una situazione assai più favorevole dei compagni
che resistono fermi. E questi, questi soli hanno
il diritto alla nostra riconoscenza. Questi soli
perché essi soli rischiano veramente qualche
danno effettivo. Vedi infatti articolo del “Popolo d’Italia” che è perfettamente l’opposto di
quei propositi di libertà che attribuisce adulatoriamente Baldesi a Mussolini.
6°) Il Comunicato della Direzione non ha
cercato, neppure esso, lo scandalo. Anzitutto
non lo abbiamo comunicato ai giornali, ma alla sola “Giustizia”. Poi, prende in un fascio
tutti gli intervistaioli di questo tempo, da Baratono a Zirardini’, da Baldesi a Vergnanini che hanno veramente mosso il disgusto e la
nausea in tutti - per lo meno in tutti che vengono da noi e scrivono alla Direzione.
7°) La tua pregiudiziale si applica quindi
non a noi, ma a quelli che con i loro fatti, con
il loro scarso riserbo provocano tutti gli argomenti di scissione. Noi abbiamo avuta fin troppa pazienza e usate tutte le strade per evitare
quel troiaio di cui ora sono riempiti i giornali.
Tanto è vero che di noi non si parla affatto, ma
si parla soltanto di tutti i nuovi avventurieri.
Stamattina il “Messaggero” porta invettive di
Zaniboni’ contro di noi. L’altro ieri Cabrini mi
comunicava un’intervista Zaniboniana sull’emigrazione che era un’ira di dio, e così di
seguito ogni giorno.
8°) Che Baldesi abbia salvata la Confederazione, nessuno si è accorto né Buozzi, né Baglion ai quali abbiamo parlato. Evidentemente
voi avete notizie speciali. O siete entrati anche
voi nella mentalità miracolista.
9°) Per tua norma, Baratono è quasi sulla linea stessa di Baldesi. La parte della riunione
coi vecchi massimalisti non terzinternazionalisti era ancora peggio. Ma il putrido
era nella suggestione De Pazzi, che chiariva e
sviluppava poi l’avvicinamento a Mussolini (il
solo temperamento rivoluzionario secondo
Baratono); dando a noi la precisa sensazione
di tutta la manovra che si ordisce per avvincere
questo e quello e sgretolare l’ultima forza
ideale che ci resta.
Noi non siamo né abbastanza disonesti, né
abbastanza ingenui per aderirvi. E abbiamo
consenzienti quasi tutti i compagni delle Federazioni Provinciali che ci hanno scritto.
Tutto ciò senza entrare nell’ulteriore merito
delle questioni interne sindacali ed internazionali, di cui parleremo in una prossima occasione. La lettera è per te, per la signora Kuliscioff e per Treves - esclusivamente - per non
provocare nuovi pettegolezzi.
Scusami, ciao, tuo
G. Matteotti
P.S.; E (in tutta confidenza) ti ha informato
Baldesi delle sue intenzioni giornalistiche?!
Tieni nota anche di questo.
Mi duole anche che si parli o almeno si accetti da te alcun accenno di mia «ostilità preconcetta» contro Baldesi. lo non ho nessuna
ragione personale; non gli sono nemmeno ...
collega di lista di collegio. Fino a quando occuperò il posto di segretario del partito agirò
obbiettivamente come tale, e pretendo di essere creduto. Se i compagni non credono non
hanno che un mezzo, sostituirmi.
Lettera 184
Giacomo Matteotti
a Filippo Turati
Roma, marzo-aprile 1924
Caro Turati
Vorrei fermare un pensiero, nella tua rivista
affinché non abbia neppure il sospetto di ripercussioni elettorali, e prima delle elezioni affinché non sembri più tardi conseguente a un esito qualsiasi delle medesime. L’esito darà la misura della violenza e del terrore, non del consenso dei singoli partiti.
E vorrei fermarlo personalmente, non come
segretario del Partito, tanto più che io sono deciso e spero, subito dopo le elezioni, che mi
vorrete aiutare a liberarmi da un incarico che
doveva essere provvisorio per due mesi e si è
prolungato invece per oltre un anno.
«Anzitutto è necessario prendere, rispetto
alla Dittatura fascista, un atteggiamento diverso da quello tenuto fin qui; la nostra resistenza
al regime dell’ arbitrio deve essere più attiva;
non cedere su nessun punto; non abbandonare
nessuna posizione senza le più recise, le più
alte proteste. Tutti i diritti cittadini devono essere rivendicati; lo stesso Codice riconosce la
legittima difesa. Nessuno può lusingarsi che il
fascismo dominante deponga le armi e restituisca spontaneamente all’Italia un regime di
legalità e di libertà; tutto ciò che esso ottiene,
lo sospinge a nuovi arbitrii a nuovi soprusi. È
la sua essenza, la sua origine, la sua unica forza; ed è il temperamento stesso che lo dirige.
Perciò un Partito di classe e di netta opposizione non può raccogliere che quelli i quali
siano decisi a una resistenza senza limite, con
disciplina ferma, tutta diretta ad un fine, la libertà del popolo italiano.
D’altro canto bisogna tornare a considerare
la posizione del Partito Socialista Italiano. Purgato dai terzinternazionalisti e nettamente discorde da Mosca, ormai non è diviso da noi
che da minori divergenze teoriche, più o meno
equivoche o avveniristiche. Nella pratica e nel
momento attuale non vi è poi alcuna differenza
rilevante; e si potrebbe anzi dubitare se non sia
minore la rigidezza e la combattività, in quelli
che riparano sotto il pretesto formale che tutti
i Governi borghesi sono eguali.
Ora, per tali divergenze tutte astratte o proiettate nel più lontano futuro, non è permesso
tenere divisa la classe lavoratrice italiana, e toglierle tutto quel lievito di speranze, di ardimenti, di consensi, che soli possono permettere un’ azione efficace, entusiastica e concorde
nel momento attuale.
Il nemico è attualmente uno solo: il fascismo. Complice involontario del fascismo è il
comunismo. La violenza e la dittatura predicata dall’uno, diviene il pretesto e la giustificazione della violenza e della dittatura in atto
dell’ altro. I lavoratori italiani, ammaestrati
dalle dure esperienze del dopoguerra, devono
riunirsi concordi contro il fascismo che opprime, e contro l’insidiosa discordia comunista;
così nel campo dell’azione politica, come nella
economica.
I fatti del resto lo impongono, anche al di
sopra delle nostre minori antipatie, risentimenti, ecc.
Se non possono muoversi i Partiti ufficialmente, i socialisti dell’uno e dell’ altro campo
devono porre la questione e risolverla. Senza
ritardo. Le cose non avvengono da sé; ma ad
opera degli uomini. Il ritardo serve soltanto a
diffondere un più largo scetticismo nelle masse, e a lasciare quindi penetrare negli spiriti indeboliti i veleni più opposti.
Le obiezioni sono facili, e le sento; ma bisogna superarle ad ogni costo, per agire rapidamente.
G. Matteotti
(L’articolo, proposto da Matteotti, non vide
mai la luce. Sulla “Critica Sociale” (1-15
aprile) veniva invece pubblicato un commento
di Turati contrario ad ogni ipotesi di riunificazione dei due partiti socialisti)
Lettera 186
Giacomo Matteotti alla Direzione
del Partito comunista
“Non c’è nulla di comune tra noi e voi”
Da “La Giustizia”, a. XXXIX, n. 93, 17
aprile 1924, p. 1.
1) La lettera della Direzione del Partito comunista per una manifestazione unitaria in occasione del 1 o maggio era apparsa sull”‘Unità” del 15 aprile 1924. La pubblicità data alla
lettera aveva suscitato la reazione negativa
non solo dei socialisti unitari ma anche dei socialisti massimalisti (cfr. “Avanti!”, 17 aprile
1924) che la giudicarono strumentale.
2 Il riferimento è al fallimento delle trattative tra i tre partiti della sinistra per una strategia comune in occasione delle elezioni politiche dell’aprile 1924.
Roma, 16 aprile 1924
Riceviamo la vostra lettera contenente la solita proposta poligrafata per tutte le occasioni”.
L’esperienza delle altre volte e dell’ ultima in
particolare’, ci ha riconfermati nella convinzione che codeste vostre proposte, apparentemente formulate a scopo di fronte unico, sono
in sostanza lanciate ad esclusivo scopo di polemica coi partiti socialisti e di nuove inutili
dispute.
Ciò può recare piacere e vantaggio a voi, come al governo fascista dominante con gli stessi metodi di dittatura e di violenza che voi auspicate. Ma non fa piacere né a noi, né alla
classe lavoratrice, che subisce il danno delle
vostre disquisizioni e dei riaccesi dissensi.
Chi ha moltiplicato e inasprito le ragioni di
scissione e di discordia nella classe lavoratrice
è inutile e ridicolo si torni a camuffare da unitario e da «fronte unico».
Restiamo ognuno quel che siamo: Voi siete
comunisti per la dittatura e per il metodo della
violenza delle minoranze; noi siamo socialisti
e per il metodo democratico delle libere maggioranze. Non c’è quindi nulla di comune tra
noi e voi.
Voi stessi lo dite ogni giorno, anzi ogni giorno ci accusate di tradimento contro il proletariato. Se siete quindi in buona fede, è malvagia
da parte vostra la proposta di unirvi coi traditori; se siete in mala fede, noi non intendiamo
prestarci ai trucchi di nessuno.
Perciò, una volta per tutte, vi avvertiamo
che a simili vostre proposte non abbiamo nulla
da rispondere.
Tanto per vostra norma e definitivamente; e
indipendentemente da quella che sarà la decisione della nostra Direzione intorno alla festa
dello Maggio.
Il Segretario del Partito Socialista Unitario,
Matteotti
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