Saggi degli accademici incolti 7
V
Lucio D’Ubaldo
Prima di Nathan
Il municipalismo sociale dei cattolici e il progetto riformatore
di Romolo Murri nelle elezioni amministrative romane (1902)
OPERA
REALIZZATA
CON IL CONTRIBUTO
MINISTERO PER I BENI CULTURALI
E AMBIENTALI
UFFICIO CENTRALE PER I BENI LIBRARI
E GLI ISTITUTI CULTURALI
1998
Si ringrazia Serena Visintin per la collaborazione
nelle ricerche di archivio e nella raccolta
di materiali utilizzati per questo studio.
S’intende altresì ringraziare Stefania Troiani
per il prezioso lavoro redazionale
e Daniela Toccaceli per la cura del prodotto editoriale.
Ad Alberto Gaffi, Principe dell’Accademia
degli Incolti, le cui edizioni accolgono
questo scritto, semplicemente la conferma
dei sentimenti di stima e di amicizia.
Il libro è dedicato, in segno di ricordo
e come testimonianza di affetto immutato,
a Lamberto Valli.
(...)
Essi hanno però, come succede di norma presso i conservatori,
sempre trascurato un contatto con il popolo.
Adesso arrivano i democratici cristiani, che potrebbero rappresentare un contrappeso ai socialisti insorgenti, e che desiderano
solo una gestione per il popolo, ma anche attraverso il popolo, e
guarda un po’, i “Cavalieri Conti e Commendatori” dell’antica
città non lo tollerano.
(...)
Noi auguriamo ai nostri amici romani una splendida vittoria per
il bene del cristianesimo e della democrazia.
Alcide De Gasperi
(“Reichspost”, 27 giugno 1902)
INDICE
Prefazione di Giovanni Galloni
pag.
3
Introduzione
13
CAPITOLO I
Il retroterra storico e culturale dell’opposizione
cattolica
21
CAPITOLO II
I cambiamenti a cavallo del ’900:
39
la nascita della democrazia cristiana
e la “rinascita”dei comuni
CAPITOLO III
Le elezioni amministrative del 1902:
63
l’iniziativa di Romolo Murri, la sfida
all’Unione Romana e il veto della S. Sede
CAPITOLO IV
Una questione aperta,
quale politica di centro?
95
Indice - Documenti
Le imminenti elezioni amministrative
da “Cultura Sociale” - 16 aprile 1902
109
Alla conquista dei comuni
da “Cultura Sociale” - 1 maggio 1902
115
Un problema di tattica
da “Cultura Sociale” - 1 giugno 1902
119
(carteggio tra Luigi Sturzo e Romolo Murri)
Il programma municipale dei d.c. romani
da “Il Domani d’Italia” - 8 giugno 1902
131
(di Romolo Murri)
Elezioni amministrative in Roma
Elettori Cattolici Romani!
Il programma dei partiti popolari
da “Il Domani d’Italia” - 15 giugno 1902
145
148
149
Noi ribelli
Il municipio del popolo
Elezioni amministrative in Roma
Nei rioni
da “Il Domani d’Italia” - 22 giugno 1902
153
155
158
162
Elezioni amministrative in Roma
da “Il Domani d’Italia” - 29 giugno 1902
163
Le elezioni a Roma
da “Il Domani d’Italia” - 6 luglio 1902
167
Postfazione di Anna Maria Isastia
171
Bibliografia
Indice dei nomi
183
187
Prefazione
3
PREFAZIONE
Il merito di Lucio D’Ubaldo con la pubblicazione in volume
di questo saggio dal significativo titolo “Prima di Nathan” è quello di
essere andato a riscoprire il passaggio della storia amministrativa della città di Roma, quasi del tutto dimenticato, delle elezioni amministrative del 29 giugno 1902 che videro la vittoria delle due liste moderate, quella cattolica dell’Unione Romana e quella laica dell’Unione
liberale apparentemente in competizione fra loro, ma sostanzialmente
alleate nell’intento di escludere dalla rappresentanza capitolina tutti
gli esponenti laici più spinti e di tendenza anticlericale ed in particolare lo stesso Nathan che poi si prenderà una clamorosa rivincita nelle
successive elezioni. Questo risultato fu possibile grazie ad un sistema
elettorale allora vigente rigidamente maggioritario che dava però la
possibilità all’elettore di cancellare nomi della lista prescelta per sostituirli con nomi di una lista concorrente.
Non è però tanto questo risultato che può suscitare interesse
per noi oggi, quanto l’analisi della fase preparatoria delle elezioni che
l’Autore del libro è andato a ricercare con scrupolosa diligenza e che
documentano come in quella competizione amministrativa vi fu un
tentativo clamoroso ed altrettanto sfortunato (e forse in sè irragionevole) di entrata in campo di Romolo Murri, il leader riconosciuto del
movimento democratico cristiano e cioè del movimento della sinistra
intransigente cattolica giunto allora al massimo della sua notorietà e
del suo prestigio all’interno dell’Opera del Congressi.
Perché - ci possiamo domandare oggi - Romolo Murri tentò
questa operazione proprio all’interno di un ambiente, come quello del
cattolicesimo romano, che doveva saper essergli naturalmente ostile?
Era noto infatti come il tradizionale raggruppamento elettorale romano per le amministrative, quello dell’Unione Romana (punto di incontro di tutti i cattolici moderati transigenti e intransigenti) era tenden-
4
Prefazione
zialmente conservatore e, in ogni caso, ostile ad ogni forma di programmismo sia laico che cattolico.
A questo interrogativo D’Ubaldo fornisce una risposta implicita, che forse può essere resa esplicita pensando che Murri con il suo
intervento diretto nelle elezioni romane intendeva rovesciare, proprio
partendo dalla capitale, la tendenza in atto ad utilizzare i cattolici come massa di manovra a difesa della conservazione più retriva in sede
amministrativa come primo passo per usarli poi, una volta caduto il
non expedit, in sede di voto politico. L’obiettivo di Murri, e lo rileva
bene D’Ubaldo, era infatti quello di accelerare i tempi per la formazione di un partito popolare cattolico (per il popolo e con il popolo)
in antagonismo ai conservatori liberali e in competizione con le sinistre laiche, e proprio in questo senso riformatore e di centro, capace di
recuperare i valori morali e politici del Risorgimento e di superare la
questione romana non attraverso lo scontro tra Stato e Chiesa, ma ricreando fiducia nella democrazia e soprattutto fiducia tra il popolo,
tutto il popolo, e la Chiesa.
È vero che nel disegno politico di Murri rimangono ancora i
limiti - che saranno poi superati da Sturzo - tra sfera e responsabilità
autonoma della politica e sfera e responsabilità religiosa, ma è altrettanto vero che si intravedono già le linee di un grande disegno riformatore nel quale la vera democrazia sociale ricavata dalla Dottrina sociale della Chiesa non poteva affermarsi “fuori dagli schemi di una
moderna democrazia politica”. E ciò richiedeva l’uscita con un programma definito non solo sulle questioni economico-sociali a difesa
delle classi più umili, ma anche sulle questioni politiche istituzionali
e, in particolare, sulla riforma in senso autonomistico dello Stato, oltre
che sulla riforma in senso proporzionale delle leggi elettorali.
In questo quadro si collocava allora l’interesse di Murri per le
autonomie comunali e per l’Associazione dei comuni oltre che l’interesse già manifestato dai giovani democristiani verso i programmi comunali le cui linee, enunciate al Congresso di Torino del 1899, comprendevano fra l’altro, anticipando lo stesso Giolitti, la municipalizzazione dei servizi pubblici e l’attribuzione ai comuni di molte funzioni
fino ad allora esercitate dallo Stato.
Nel quadro di questa linea di pensiero e di azione murriana,
avversa ad ogni combinazione elettorale con i liberali e volta a bloc-
Prefazione
5
care l’emergere delle sinistre, si spiega la richiesta di Murri di partecipare a Roma con la sua personale candidatura e con quella di altri seguaci nella lista dell’Unione Romana che si definiva genericamente
cattolica e che, almeno formalmente, si contrapponeva a quella liberale (anch’essa composita e comprendente liberali di varie tendenze).
L’unica condizione posta da Murri per dare il suo contributo
era che si accettasse il programma amministrativo dei giovani democristiani socialmente avanzato e comprendente fra l’altro appunto la
municipalizzazione dei principali servizi pubblici, sì da dare una qualificazione all’Unione Romana che non aveva mai avuto un programma elettorale e formava liste di candidati per lo più esponenti dell’aristocrazia e della borghesia ad essa collegata.
Le difficoltà, come è documentato nel libro, non nacquero sul
programma che non fu mai formalmente respinto, ma in sostanza non
fu preso in considerazione dall’Unione Romana nè prima nè durante il
corso della campagna elettorale. Interessante è invece notare come l’iniziativa di Murri fosse seguita con vivo interesse a livello nazionale;
essa ebbe infatti una adesione dello stesso giovanissimo De Gasperi
allora studente a Vienna, anche se dal suo consenso traspare un certo
scetticismo sul risultato, e da una adesione dello stesso Sturzo anche
se attenuata dalla riserva circa il possibile sbocco verso alleanze con
partiti non cattolici; e questo perché Sturzo, in base alla esperienza
portata a buon fine poco tempo dopo nella sua Caltagirone, rimaneva
fedele al suo principio di liste di soli cattolici.
La difficoltà vennero invece sulla accettazione della candidatura di Romolo Murri, respinta nella fase conclusiva della formazione
della lista dall’Unione Romana con il consenso vaticano. La reazione
fu che i democratici cristiani romani non si impegnarono ufficialmente nella campagna elettorale. Aveva prevalso cioè la tendenza
moderata dell’Unione Romana che aveva evitato, dal suo punto di vista, il rischio di vedere nella sua lista un noto esponente cattolico
progressista riformatore il quale, con la sua sola presenza e soprattutto con la sua indomabile iniziativa, avrebbe turbato il vecchio equilibrio conservatore e aperto attraverso il programma nuove e in qualche modo spregiudicate alleanze nel consiglio comunale. I risultati
elettorali premiarono, come si è visto, la tendenza conservatrice perché senza Murri in lista furono possibili i giochi elettorali per fare
eleggere, accanto ai cattolici moderati, i liberali più conservatori realizzando così un consiglio comunale quasi del tutto omogeneo nella
6
Prefazione
tendenza clerico-moderata e all’interno del quale un gioco assai limitato potevano avere le pur generose iniziative di uno o al massimo
due murriani risultati eletti.
Ma questa quasi omogenea maggioranza conservatrice ebbe,
non dobbiamo dimenticarlo, una influenza determinante per facilitare
l’alternativa nelle successive elezioni comunali a favore di una maggioranza di sinistra laica e massonica fortemente anticlericale e caratterizzata dalla figura di Nathan, il quale poté oltre tutto avvalersi come sua base programmatica del programma lanciato da Murri.
È dunque dal ricordo di questo, in sè marginale episodio storico opportunamente rievocato che nascono riflessioni e considerazioni
dal significato politico ancora attuale.
Le ultime pagine del libro di D’Ubaldo che riguardano questo
aspetto vanno particolarmente segnalate al lettore e possono essere
utilizzate come punto di partenza per un allargamento del dibattito politico in corso.
Innanzitutto dalla documentazione storica esposta nel libro si
ricavano con estrema lucidità i punti che crearono l’unità e l’originalità del pensiero politico di tre personaggi che possiamo considerare i
fondatori del cattolicesimo democratico in Italia e cioè Romolo Murri,
Luigi Sturzo e, sia pure ancora giovanissimo, Alcide De Gasperi.
Pur esprimendo valutazioni diverse da Murri circa la possibilità di un esito positivo del tentato inserimento dei democratici cristiani entro il consiglio comunale di Roma, Sturzo e De Gasperi dimostrarono di essere d’accordo con Murri sul valore dell’iniziativa.
È in primo luogo considerata valida la posizione politica con
la quale il gruppo murriano intende partecipare alle elezioni amministrative romane e che nel futuro potrà essere adottata anche in competizioni politiche nazionali. Questa posizione si definisce come “antagonismo”, che di per sè non tollera forma alcuna di alleanza o di compromesso, con la destra liberale e moderata e invece “competizione
concorrenziale” con la sinistra laica e socialista.
Se ne ricava quindi - e questo è il secondo elemento - una posizione che, essendo distinta sia dalla destra liberale che dalla sinistra
laica e socialista, si autodefinisce di centro e che, per esprimersi nelle
istituzioni in piena autonomia e non essere schiacciata su una posizione non propria, ha bisogno di un sistema elettorale tendenzialmente
proporzionale. Luigi Sturzo, che avrebbe appunto sviluppato nella sua
Prefazione
7
Caltagirone una esperienza elettorale amministrativa conclusasi vittoriosamente, si preoccupa che l’iniziativa di Murri a Roma non abbia
come obiettivo immediato quello di realizzare una maggioranza di potere, magari attraverso un meccanismo di alleanze con partiti non cattolici. Preferibile è, secondo Sturzo, presentarsi da soli anche con il rischio di riuscire in minoranza o di non riuscire affatto.
Secondo il modello in sè esemplare usato da Sturzo a Caltagirone, il comune non fu conquistato attraverso alleanze di potere nè
con la maggioranza di destra liberal-massonica nè con la minoranza di
sinistra socialista, ma con la battaglia di chiara contrapposizione programmatica sul piano sociale alla destra ed una concorrenza spinta
sullo stesso terreno con i socialisti dopo aver chiarito le insuperabili
divergenze ideologiche. I risultati a Caltagirone furono - come è noto
- che alla fine Sturzo, senza alcun patteggiamento, costrinse i moderati a votare per lui e per un programma sociale amministrativo concorrenziale con quello socialista, pur di sbarrare la strada ad un’altrimenti
inevitabile maggioranza socialista.
Si evidenzia così il terzo punto di convergenza del pensiero
fra Murri Sturzo e De Gasperi, quello secondo cui il programma è l’elemento di qualificazione fondamentale di un partito per l’oggi solo
amministrativo, ma per il domani anche politico e nazionale. Il programma dunque e non l’identità cattolica è l’elemento qualificante il
partito dei cattolici democratici. L’identità cattolica infatti unisce i
credenti in alcuni principi religiosi, ma non li può unire su un programma politico o amministrativo perché, pur partendo dai comuni
principi religiosi, possono essere dedotti sul piano dell’azione sociale
o politica sia comportamenti conservatori o moderati che comportamenti progressisti.
Si ricava ancora di qui che il programma è l’unico o almeno il
fondamentale strumento di dialogo nelle istituzioni tra il partito dei
cattolici democratici e gli altri partiti e quindi anche il punto di partenza necessario per la formazione delle maggioranze. Le alleanze si possono anzi si debbono fare tra forze politiche diverse solo quando risulti chiara la convergenza sui programmi e non solo per la conquista del
potere. È quindi una concezione del potere, e in definitiva dello Stato
e delle istituzioni, finalizzata al bene comune che storicamente si
identifica nei programmi che le forze politiche propongono nella vi-
8
Prefazione
sione dell’interesse collettivo e sui quali richiedono e ottengono il
consenso popolare necessario.
Di qui emerge l’ultimo, ma fondamentale punto di convergenza fra il pensiero politico di Murri Sturzo e De Gasperi: il popolarismo. Come nel dibattito dei laici progressisti alla costituente francese
del 1791, Murri sostiene che i democratici cristiani non debbono essere solo per il popolo ma con il popolo, con tutto il popolo, elemento
essenziale per recuperare i valori morali e politici dell’unità nazionale
propri del Risorgimento e per ristabilire un rapporto di fiducia tra il
popolo, tutto il popolo, e la Chiesa cattolica.
Da questi cinque punti che già emergono nel giungo del
1902 dall’iniziativa di Murri si svilupperà in modo più compiuto il
pensiero di Sturzo nel discorso di Caltagirone del dicembre del 1905
e nelle “Idee ricostruttive” di De Gasperi, il programma della Dc del
1944-45.
Che cosa dunque mancò all’iniziativa di Murri e che cosa rese
invece possibile - sia pure in tempi e in condizioni diverse - a Sturzo
la conquista di Caltagirone e la formazione di un partito di cento deputati e a De Gasperi una maggioranza relativa alle Camere in contrapposizione alla destra fascista e nel confronto con i comunisti?
Dalla lettura del libro di D’Ubaldo risultano evidenti le contraddizioni in cui è incorso Romolo Murri e che dovevano inevitabilmente portare al fallimento della sua pur generosa iniziativa.
La prima fondamentale contraddizione è che Murri pensava ad
un partito cattolico popolare ed erede dei valori del Risorgimento pur
rimanendo all’interno dello schema dell’Opera dei Congressi che era,
come l’Azione cattolica, una struttura ecclesiale e dalla quale poteva
nascere solo un partito che fosse strumento della Chiesa contro lo Stato
e non lo strumento auspicato per ristabilire il rapporto di fiducia tra tutto il popolo italiano e la Chiesa. Questa contraddizione - come si è detto - fu superata da Sturzo con la costruzione di un partito aconfessionale e quindi capace di tutelare i diritti di libertà religiosa nel quadro più
ampio di difesa dei diritti delle libertà civili politiche e sociali.
La seconda contraddizione, che nasce direttamente dalla prima, è che se si mantiene, almeno sul piano teorico, la unità di tutti i
cattolici sul terreno politico, diventa poi impossibile qualificare il partito sul terreno programmatico fuori dall’ambito ristretto riguardante
Prefazione
9
solo i diritti di libertà religiosa. Si illudeva quindi Murri di poter inserire se stesso e i suoi democratici cristiani con un programma amministrativo progressista (comprendente perfino le municipalizzazioni) entro una lista a grandissima maggioranza moderata e dominata dalla
nobiltà romana. Era logico allora che l’Unione Romana temesse la
presenza di un Murri il quale avrebbe sconvolto gli assestati equilibri
e impedito il dialogo con le espressioni più moderate della lista laica e
liberale. Ma questa politica moderata di puro potere dell’Unione Romana, come poi tutto il moderatismo cattolico espresso fino ad oggi
nel nostro paese, peccava di miopia ed era destinata a farsi travolgere
dalla evoluzione della storia. È significativo infatti che, respingendo
Murri e il suo programma e alleandosi di fatto con la destra liberale,
l’Unione Romana abbia sì conquistato nel giugno 1902 un potere quasi assoluto nel Comune di Roma, ma abbia nello stesso tempo create
le premesse perché nelle successive elezioni si formasse la maggioranza più anticlericale dell’intera storia amministrativa di Roma, la
maggioranza capitanata da Nathan. E non è senza significato che lo
stesso Nathan abbia adottato un programma amministrativo che per la
parte sociale riprendeva nei punti fondamentali il programma dei democratici cristiani di Murri, comprese le municipalizzazioni.
Analogamente è naturale e facilmente prevedibile che tutte le
volte in cui i cattolici democratici non sono riusciti a far convergere
su di sé il consenso dei moderati con un programma socialmente aperto in concorrenza alle sinistre, si sono poi di fatto formate maggioranze di destra che hanno aperto la strada alla sinistra anche estrema.
Viceversa, tutte le volte che su programmi riformatori di partiti qualificatisi di centro sono potuti convergere i consensi moderati
come male minore per evitare il prevalere della sinistra, si sono potute
formare maggioranze stabili. Così è stato per Sturzo a Caltagirone, così è stato per De Gasperi che nella Dc, la quale pur presentava un programma riformatore e mantenne alla Costituente e nelle istituzioni un
dialogo con le sinistre, ha potuto giovarsi della convergenza dei voti
di una gran parte dei moderati, anche se costretti a votare (come scrisse Montanelli) “turandosi il naso”. Oggi però le condizioni, che hanno
reso possibile per quasi mezzo secolo, il disegno cattolico democratico sono in larga parte mutate. E quindi i modelli sturziani e degasperiani richiedono ormai un adeguato aggiornamento.
10
Prefazione
È venuta meno innanzitutto la condizione del sistema elettorale proporzionale senza del quale nessun partito di centro avrebbe potuto nascere in Italia. Senza il sistema proporzionale nè Sturzo avrebbe potuto raggiungere i cento deputati nel 1919 (e si sarebbe dovuto
accontentare di qualche rara presenza in Parlamento) né De Gasperi
avrebbe potuto raggiungere nel 1946 la maggioranza relativa all’Assemblea costituente. Ancora valido è l’ammonimento di Sturzo ai
murriani che dopo lo scioglimento dell’Opera dei Congressi avrebbero voluto dar vita subito ad un partito politico che in quelle condizioni
sarebbe stato solo una “chiesuola”.
La seconda e forse più rilevante condizione venuta meno proprio sul terreno politico è che, dopo il crollo del muro di Berlino e la
trasformazione della maggioranza del Pci in Pds, è venuta meno l’antica forza di pressione sui moderati per spingerli ad una convergenza
elettorale verso il centro. E tuttavia, se è vero che non può più infatti
ragionevolmente aver presa il timore di una maggioranza ideologica
programmatica di tipo collettivista, non si sono neppure create le condizioni di un bipartitismo attraverso il quale tutte le posizioni politiche
possano tranquillamente confluire in due soli schieramenti.
Sono pertanto venute meno le condizioni per cui possa emergere come forza maggioritaria o comunque determinate un partito o
uno schieramento di centro, ma non è venuta meno, anzi per certi
aspetti si è accresciuta, la “voglia di centro” o comunque la consapevolezza che senza l’apporto determinante dei voti moderati nessuno
dei due schieramenti in competizione può vincere.
In questa situazione quale insegnamento ci possono offrire
oggi gli episodi storici ricordati con tanta puntualità dal libro di D’Ubaldo?
Innanzitutto che, senza un ritorno oggi del tutto improbabile
ad un sistema elettorale proporzionale e soprattutto se permane una sinistra non più qualificata per l’ideologia e non estremizzata sul programma e si conserva una destra resistente attorno alle figure dei rispettivi leaders (Berlusconi e Fini), nessuna prospettiva nè elettorale
nè politica può avere un partito o uno schieramento di centro autonomo sia dalla destra che dalla sinistra.
Un raggruppamento di centro che convogliasse i partitini di
derivazione democristiana confluiti nel polo di centro-destra non
11
Prefazione
avrebbe alcuna possibilità di successo e non modificherebbe di fatto la
situazione se fosse costretto a confermare la sua alleanza con la destra. Se poi questo centro decidesse di delimitarsi a destra escludendo
le forze di derivazione fascista, con molta probabilità non potrebbe essere alternativo al centro-sinistra.
D’altra parte se è vero che il maggior partito erede della tradizione politica del vecchio Pci ha perduto, come si è detto, tutti i tratti
ideologici e programmatici che ostacolavano nel passato la collaborazione con i partiti democratici di centro, è altrettanto vero che esso
non ha finora perduto - specie per la composizione della sua classe dirigente - il metodo che lo caratterizzava nell’esercizio del potere. E
questa è la ragione per cui senza l’apporto del centro la sinistra non ha
potuto raggiungere la maggioranza nelle elezioni del 1994, mentre
con l’apporto di una parte del centro ha raggiunto invece la maggioranza nelle elezioni del 1996 o, quantomeno, ha impedito che la raggiungesse il centro-destra.
Un raggruppamento di centro che, nascendo all’interno dello
schieramento di centro-sinistra qualificato dall’Ulivo, potesse svilupparsi in virtù di un programma concorrenziale con quello della sinistra
estrema avrebbe dunque ancora la possibilità di attrarre i voti moderati che potrebbero confluire con l’obiettivo di ricostituire all’interno
dell’Ulivo un diverso equilibrio di forze tra sinistra e centro, puntando
a superare i rischi di metodo nella gestione del potere.
Questo sembra oggi il compito e la strada che il Partito Popolare e gli altri raggruppamenti di centro esistenti all’interno dell’Ulivo
possono percorrere per riprendere ancora ed attuare, nelle presenti
condizioni, gli insegnamenti storici sempre preziosi della tradizione
cattolico-popolare.
Dobbiamo quindi essere grati a Lucio D’Ubaldo per averci, con
il suo libro storico, ricondotto a ragionare sui nostri problemi attuali.
Giovanni Galloni
(Roma, maggio 1998)
Introduzione
13
INTRODUZIONE
Questa stringata riflessione sulla genesi e il significato dell’esperienza che Romolo Murri consumò nelle elezioni capitoline del
1902, non ha grandi cose da esibire e proporre. Non si avvale di documenti inediti né di testimonianze nuove. Ruota dunque attorno a ciò
che a vario titolo e in diverse sedi è stato già esposto, analizzato e
commentato. In fondo si tratta di un lavoro semplice, di puro riordino
di testi e documenti, sui quali si è cercato di “incidere” con pazienza e
qualche ostinazione per ricavare almeno una traccia o un indizio utili
a una riflessione sull’odierna vicenda politica.
A pensarci bene, il salto all’indietro fin alle soglie di questo
nostro secolo - “breve” o “sterminato” che sia(1) - ci riporta a un tempo e a una condizione politico-culturale che mostra punti di contatto
con la situazione in cui ora è dato a noi di vivere e di operare. Un’epoca nuova si affacciava, una nuova era oggi si profila all’orizzonte.
Avanzava, a quel tempo, l’idea del socialismo come alternativa stupenda e grandiosa al mondo borghese-capitalista; un’idea capace di
1. Alla tesi di Eric Hobsbawn, Il secolo breve, Rizzoli, 1995, con la quale s’intende significare l’esplosione e l’esaurimento tra il primo conflitto mondiale e la
caduta dell’Unione Sovietica delle grandi illusioni della politica moderna, recentemente Marcello Veneziani (Il Secolo sterminato, Rizzoli, 1998) ha voluto
opporre una diversa interpretazione che mira a identificare nel novecento il secolo in cui si incrociano e si confondono gli “incantamenti” ideologici, con la
caduta nell’esperienza tragica dei diversi totalitarismi, e il “disincanto” cinico e
massificante dell’uniformità globalistica del mercato. Questa lettura si configura
però non come un definitivo congedo delle titaniche passioni e devastazioni che
la coppia fascismo-comunismo ha prodotto, ma come una sottile e sofisticata
operazione di recupero dell’organicismo comunitario che soggiace a uno dei due
poli rivoluzionari del novecento, quello storicamente incarnato dal fascismo,
l’abbandono delle forme e dei limiti del quale non sembrerebbe determinare il
pieno distacco da una tradizione di pensiero e di prassi politica a cui l’Autore, in
un modo o nell’altro, criticamente si ricollega in antitesi alle fin troppo equivoche procedure di rimozione ideologica e vicendevole legittimazione delle due
forze antagoniste uscite sconfitte dell’immane confronto storico.
14
Introduzione
muovere e sostenere l’azione del quarto stato, la classe emarginata e
sfruttata per eccellenza, ma tuttavvia indenne dalle colpe e dalle catastrofi dell’esperienza nata successivamente con l’Ottobre sovietico. I
cattolici, invece, si accingevano a dare un senso diverso e nuovo alla
loro opposizione, sperimentando i limiti di una unità organizzativa a
carattere pre-politico e cogliendo quindi l’urgenza di una inevitabile,
corretta e giusta separazione tra conservatori e progressisti, moderati e
democratici, clericali e innovatori. La speranza di cambiamento assumeva il nome e il vessillo della democrazia cristiana, l’ala più intraprendente e coraggiosa del movimento cattolico. Il caso ha voluto che,
a distanza di quasi un secolo, lo stesso processo di distinzione per linee omogenee di pensiero politico abbia dovuto fare i conti con la
dissoluzione di quella democrazia cristiana che gli eventi della guerra
fredda avevano obbligato, in un certo senso, a costituirsi come riferimento unitario dei cattolici italiani.
Cosa ci consegni questo evento da molti ritenuto liberatorio è
un problema finora irrisolto. Il fatto, però, che un lungo ciclo politico
sia giunto a conclusione costituisce di per sé una novità sufficiente e
una condizione fondamentale ai fini della ricerca di legittimazione di
un futuro che appare senza radici e senza memoria.
In questa cornice, il cattolicesimo politico si è consumato nell’arco di poco tempo nel contrasto di opzioni politiche programmi e
alleanze, lasciando a una minoranza il compito di salvare le ragioni
della storia e dell’impegno dei democratici d’ispirazione cristiana. La
presentazione e il rinnovamento del cattolicesimo democratico sono
tuttavia apparsi all’orizzonte dello scenario politico come elementi
possibili all’interno di una prospettiva di tutela e rappresentanza dei
cosiddetti ceti moderati. Mentre il confronto con il movimento comunista aveva dilatato lo sviluppo e l’apertura della proposta democratico cristiana, tanto da inglobare in essa il tema del “laburismo cristiano”(2), all’inverso ora, caduto il Muro e scomparso l’antagonista
2. Cfr. Vincenzo Saba, Quella specie di laburismo cristiano. Dossetti, Pastore,
Romani e l’alternativa a De Gasperi, 1946-1951, Edizioni lavoro, 1996. Si noti,
en passant, che l’espressione “laburismo cristiano” è usata da Alcide De Gasperi, sia pure in chiave oggettivamente polemica, in una lettera indirizzata il 3
gennaio 1952 a Pio XII per chiedere un autorevole intervento in vista delle imminenti elezioni amministrative romane.
Introduzione
15
storico, il possibile dispiegamento del progetto puro conservato nel
cuore dell’esperienza cattolico democratica ha lasciato il campo alla
ridefinizione della figura del “politico” cattolico come forma della
moderazione. Ciò si propone in un tempo, per altro, di tumultuosa e
radicale accellerazione dei processi politici, così da rendere assai arduo il collegamento con un’area sociale e culturale che in quanto già
storicamente soggetta all’egemonia democristiana dovrebbe conservarsi nella sua tradizionale vocazione centrista e moderata, ma in
quanto sottoposta alle tensioni e alle spinte del cambiamento in corso
è piuttosto incarnazione essa stessa di una nuova mentalità radicale.
Tornando al nostro facile parallelismo storico, è riscontrabile
insomma come il nascente movimento democratico cristiano s’incaricasse all’alba di questo secolo di fornire gli strumenti e le formule per
una battaglia politica che doveva opporre all’utopia socialista una diversa prospettiva di cambiamento, facendo sì che i ceti popolari (in
specie i contadini e la piccola borghesia urbana) potessero liberarsi
del clerico-moderatismo per competere ad armi pari con i movimenti
politici di sinistra. Viceversa, in questo scorcio di tempo che ci separa
dal Duemila, è finalmente caduta la barriera ideologica che impediva
la piena collaborazione dei cattolici democratici con l’insieme delle
componenti politiche della sinistra. Ma invece di sancire l’incontro
tra filoni diversi di un pensiero politico riformatore, l’alleanza sembra
costituita sulla base di uno schema che riserva ai cattolici - per loro
autonoma decisione - il ruolo di rappresentanza moderata dell’area
politico-elettorale di centro.
Si potrebbe dunque dire: a sinistra in quanto moderati, a sinistra essendo e rimanendo comunque moderati.
Insomma, quasi una eterogenesi dei fini. Infatti i giovani democratici cristiani di Murri sognavano di contrastare l’impeto palingenetico del socialismo in nome e in virtù di una idea alternativa di rivoluzione, laddove alle asprezze e agli errori della lotta di classe si opponeva la forza del solidarismo cristiano e la fede nella libertas quale
strumento a servizio del popolo e per il popolo.
Il fatto che essi rifiutassero la violenza dei mezzi rivoluzionari del socialismo definiva specificamente il loro essere moderati,
ma del pari il ripudio della logica e della prassi del conservatorismo
clericale qualificava il loro essere portatori di una modernità culturale e politica.
16
Introduzione
Con lo sguardo al passato, alla ricerca delle proprie radici, i
cattolici rimasti fedeli alla lezione del popolarismo avrebbero pertanto
una ragione in più per rivendicare innanzi tutto l’ancoraggio ideale e
politico a una più feconda cultura del rinnovamento, ponendo la tematica della moderazione in posizione ausiliare e aggiuntiva, vale a dire
come utile ragionamento sulle modalità e lo stile di una peculiare
condotta politica.
Non un progetto politico moderato, ma un moderato - e cioè
realista e integralmente umano - agire in funzione di una politica del
cambiamento e dell’innovazione. Poiché sta scritto che i “miti erediteranno la terra”(3), spetta ai politici che trovano nella Parola l’ispirazione per il loro impegno concreto, intraprendere il cammino verso una
nuova democrazia che mitighi la violenza del potere, o meglio di tutti
i poteri, facendo sì che sopravviva e agisca sempre la speranza di rendere gli ultimi, gli esclusi, i più poveri come eredi delle risorse e delle
opportunità offerte dall’odierna economia attraversata dalla cosidetta
“rivoluzione della conoscenza”. Forse questa lettura politica della mitezza, in quanto trasfigurazione della controversa idea di moderazione, potrebbe sostenere il ricongiungersi all’interno della tradizione democratico cristiana dell’originaria vocazione antimoderata e progressista con l’odierna ricerca di una propria identità, autonoma e distinta,
nell’ambito di una coalizione in cui pesa effettivamente il rischio di
egemonia della sinistra di estrazione socialista e comunista.
Prendiamolo dunque come un buon pretesto questo andare
con il pensiero al tentativo di Murri di promuovere, quasi cent’anni fa,
una scelta politica generosamente rivolta alla costruzione di un’inedita
prospettiva di lavoro ed impegno di quel manipolo di giovani che credevano utile lo sforzo di avvicinare - come essi dicevano - la democrazia al cristianesimo.
Da questa convinzione è nata una storia, una grande storia.
Un’altra, pur fedele alla precedente, forse potrà sorgere ancora, ma a
condizione che vi sia una nuova speranza, un nuovo progetto, una
nuova politica.
3. Cfr. Dalmazio Mongillo, Sergio Quinzio, Quando i miti erediteranno la terra? (a cura di Giancarlo Marinelli), Edizioni lavoro, 1995.
IL MUNICIPALISMO SOCIALE
DEI CATTOLICI
E IL PROGETTO RIFORMATORE
DI ROMOLO MURRI
NELLE ELEZIONI
AMMINISTRATIVE ROMANE (1902)
I
IL RETROTERRA STORICO
E CULTURALE
DELL’OPPOSIZIONE CATTOLICA
Il retroterra storico e culturale dell’opposizione cattolica
21
Una vicenda oramai lontana, sperduta nelle pieghe delle cronache di altri tempi, non è affatto spoglia di significato e di valore se
torna utile al riesame di una prospettiva politica che le urgenze del
presente pongono in evidenza. Nella tarda primavera del 1902, quando già il movimento dei giovani democratici cristiani subiva i primi
segni tangibili di freno e di condizionamento da parte delle autorità
vaticane, Romolo Murri tentava la strada di un accordo politico con i
clericali dell’Unione Romana in vista delle elezioni amministrative
per il rinnovo del consiglio comunale. Un’operazione destinata a fallire per le resistenze e le ostilità che accompagnavano da tempo le mosse del sacerdote marchigiano, ma che s’inseriva in un più vasto disegno di penetrazione nell’ambito della vita politica locale di quel variegato e ancora fragile complesso di forze cattoliche, rinserrate ai margini delle istituzioni per effetto del non expedit decretato a suo tempo
dal Pontefice come risposta alla breccia di Porta Pia, ossia all’evento
conclusivo che pose fine per mano del nuovo Stato italiano al regime
temporale della Chiesa.
L’opposizione dei cattolici è, fin dalla costituzione dell’unità nazionale sotto la monarchia sabauda, una dichiarazione di sfida e di lotta che s’impernia sul rifiuto della legittimità della grande
operazione risorgimentale. Fuori dallo Stato, dunque, poiché l’armamentario ideologico e le concrete scelte di governo della classe
dirigente liberale costituivano una rottura rivoluzionaria che la
Chiesa avrebbe voluto evitare, ma che alla resa dei conti doveva invece subire nei termini più crudi e difficili da prevedere. Il quadro
politico e istituzionale, posto in essere soprattutto dall’intelligenza
e dalla volontà del Conte di Cavour, aveva senza dubbio molti elementi di debolezza e fragilità. L’atteggiamento, però, della Chiesa
rivelava una difficoltà molto seria in ordine alla più corretta e adeguata valutazione dei fenomeni che prendevano origine dalla Rivoluzione francese e che solo in apparenza, e in via transitoria, erano
stati messi sotto controllo con la Restaurazione sancita nel Congresso di Vienna del 1815, alla fine delle guerre napoleoniche. Lo
spirito di libertà a cui anelava la borghesia europea e il sentimento
d’indipendenza nazionale dei popoli soggetti al dominio dell’Impero Austro-Ungarico, non potevano rimanere molto a lungo compressi nella camicia di forza del legittimismo che il Principe di
Metternich aveva tenacemente difeso.
22
Capitolo I
Sarebbero stati i cattolici francesi ad aprire un varco nell’atteggiamento preclusivo della Chiesa verso tutte le novità che l’ascesa della
borghesia portava impetuosamente alla ribalta. Di fronte alla rivoluzione del 1830, contraddistinta dall’avvento della cosiddetta Monarchia di
Luglio che accompagnò il varo di una prima costituzione liberale, si
levò la voce di un monaco bretone, Félicité Robert de Lamennais, in
rottura anni dopo con la Chiesa, a rendere omaggio al significato cristiano di una trasformazione sociale e politica incardinata sul nuovo principio della libertà, anche se conseguenza ed espressione della moderna
speculazione dei filosofi “atei” dell’Illuminismo. L’apertura del Lamennais comportava il rifiuto di legare la Chiesa alle sorti dell’Ancien régime e , in un quadro di stretta correlazione, la scelta di un diverso approccio critico nei riguardi del liberalismo che andava via via propagandosi in ogni angolo del Vecchio Continente. In anticipo sul Tocqueville, e in un’ottica almeno inizialmente intraecclesiale, Lamennais definiva il nuovo modo di combattere le distorsioni politiche e sociali che
il nascente regime borghese sembrava destinato a determinare. Si operava dunque il distacco netto dalle posizioni controrivoluzionarie, come
quelle lucidamente esposte da Joseph de Maistre, benché di quest’ultimo il Lamennais conservasse l’idea della essenzialità del verticismo gerarchico della Chiesa cattolica e perciò il valore “politico”, a garanzia
dell’unità del popolo dei credenti, della figura del Papa.
L’originalità del discorso che il Lamennais metteva in campo
era tale da rovesciare la critica alla borghesia formulata, fino ad allora, sulla scorta dell’insegnamento tradizionalista della Chiesa. Non già
l’accusa per la propagazione dell’idea di libertà, ma la contestazione
di un uso particolare ed angusto della “concreta” libertà proposta, diveniva il leit motiv della polemica cattolica verso la borghesia al potere. La libertà non era per tutti, ma solo per i ceti borghesi che, avendola intanto impugnata come arma contro le monarchie assolute, ne
facevano ora lo strumento di difesa e di controllo nei riguardi del popolo, inteso quest’ultimo come un coacervo indistinto di gruppi e strati sociali subalterni (1). La libertà borghese era perciò una espropriazio1. Sul concetto di “popolo” in Lamennais e sul suo rifiuto a prendere in considerazione la moderna tematica delle “classi” cfr. Franco Rodano, Questione democristiana e compromesso storico, Editori Riuniti, 1977, e in particolare il
lungo saggio d’apertura, pp. 13-112. Questo aspetto costituisce, a giudizio del-
Il retroterra storico e culturale dell’opposizione cattolica
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ne indebita che veniva perpetrata, nella realtà del nuovo assetto politico, ai danni dei ceti popolari. Lamennais stabiliva dunque un’opposizione di tipo nuovo, essendo la precedente concepita e diretta in funzione del ripristino dell’ordine fondato sul trono e sull’altare: ora, viceversa, i cattolici avrebbero acquisito coscienza della necessità di dichiarare guerra all’ingiustizia prodotta da una rivoluzione a senso unico, in cui il liberismo della borghesia si traduceva, per dirla in breve,
nella distruzione delle libertà popolari.
Il senso di forte diffidenza e contrarietà verso gli esiti concreti
del movimento rivoluzionario non dava più vita alla pretesa di rilegittimazione dei vecchi ordinamenti, ma conservava pur sempre del
pensiero cattolico controrivoluzionario la ferma pregiudiziale nei riguardi del moderno Stato della borghesia. In Francia, dunque, si produceva una profonda trasformazione in senso sociale delle forme di
presenza e d’impegno dei cattolici. Tuttavia la condanna della borghesia, ovvero dei nuovi istituti della libertà che il suo avvento al potere
aveva sancito, pur evitando di replicare in termini aggiornati la nostalgia per il modello teocratico-sacrale dell’epoca medioevale, rimaneva
impigliata all’interno di una prospettiva radicalmente antistatalista che
precludeva la possibilità di formulare una critica ben più efficace e incisiva della società capitalistico-borghese. L’importanza della lezione
di Lamennais consisteva, pertanto, nella formulazione di un pensiero
antimoderno che non si riduceva a una forma di utopia premoderna.
Ciò nonostante, questo nuovo modello di cattolicesimo sociale si arrestava sulla soglia della politica intesa come luogo e sintesi dei processi di potere, con l’inevitabile incapacità o impossibilità, alla resa dei
conti, di superare lo stadio della denuncia e della semplice protesta
l’Autore, il limite più grave che caratterizza la riflessione di Lamennais. In essa
convergono elementi di un certo romanticismo e influenze cattolico-scolastiche
che espongono l’analisi storica e il giudizio politico al condizionamento inevitabile dell’integralismo. L’idea di una democrazia pura, quale si profila all’orizzonte di un pensiero che esclude l’egemonia di una classe sociale, importa la
riduzione del cambiamento sociale a processo tumultuoso e la degradazione a
forme anarchizzanti dell’ordinamento politico; talché il partito cristiano, nella
conseguente intenzione di fare argine a questa deriva, è indotto a ricorrere all’intervento superiore della Chiesa, usando integralisticamente il potere e l’apparato “ideologico” di cui essa dispone come strumento per ingessare la democrazia. Per Rodano l’integralismo è perciò implicito nel modo stesso di procedere di un pensiero fondato sull’astrattezza aclassista.
24
Capitolo I
derivante da una qualche, pur legittima, pregiudiziale morale.
Questa linea cattolico sociale che in Francia si svilupperà
già a partire dai primi decenni del secolo scorso, in Italia comincerà
a prendere forma e consistenza solo molto più tardi, quando il nuovo
indirizzo di Leone XIII, reso evidente e forte con l’enciclica Rerum
novarum, getterà le basi per un nuovo corso del movimento cattolico. All’interno dell’Opera dei Congressi, l’organizzazione nata per
fornire una cornice di unità all’azione dei cattolici e una base comune alle varie forme di intransigenza antiliberale, si manifesterà sul
finire del secolo l’esigenza di una profonda revisione della formula
di intervento nella realtà sociale italiana. In questo passaggio, Giuseppe Toniolo costituirà il punto di riferimento di quei settori preoccupati più che mai di declinare l’insegnamento sociale della Chiesa
in forme e modi tali da non pregiudicare la coesione del movimento
cattolico; Romolo Murri, dal canto suo, eserciterà invece un ruolo
straordinario di mobilitazione e di guida delle nuove generazioni
cattoliche che avvertivano oramai il bisogno di acquisire strumenti
di analisi e di proposta più adeguati a garantire una traduzione più
viva ed efficace del messaggio sociale cristiano. La storia di questo
periodo è anche uno scontro di generazioni, ma ciò nondimeno la
rottura, nel quadro del medesimo riferimento culturale, tra la posizione conservatrice dei vecchi intransigenti e quella “progressista”
dei giovani democratici cristiani.
La linea di demarcazione è tuttavia meno semplice e scontata.
Le categorie politiche di “destra” e “sinistra” non aiutano in particolare a stabilire il senso dell’evoluzione, tra contrasti e convergenze, dei
diversi punti di vista all’interno dell’Opera dei Congressi. In discussione non era il valore dell’opposizione allo Stato liberale, ma le modalità concrete di esercizio e di sviluppo che essa avrebbe dovuto
assumere, soprattutto in relazione all’emergere di un movimento socialista in lotta, nel medesimo tempo, con la borghesia sul terreno
economico-politico e con la Chiesa sul piano etico-sociale.
Tra fallimenti coloniali, scandali finanziari e rivolte popolari,
si consumava per altro il declino della classe dirigente liberale sul finire del secolo: le speranze e gli ideali della grande stagione risorgimentale sopravvivevano nel miglior dei casi solo nella retorica e nella liturgia delle pubbliche manifestazioni. Quanto più cresceva l’ini-
Il retroterra storico e culturale dell’opposizione cattolica
25
ziativa dei cattolici, tanto più aumentava la preoccupazione dei gruppi
dirigenti. A Milano la repressione dei disordini del 1898 avrebbe
comportato per la prima volta uno scontro aperto con le organizzazioni cattoliche, messe sotto tutela e sottoposte a stretta vigilanza al pari
dei nuclei rivoluzionari socialisti.
D’altronde il linguaggio adoperato per destituire di valore e di
legittimità l’avvento della borghesia alla guida del nuovo Stato, spesso non lasciava margini a possibili sfumature e sottigliezze. In un discorso del 1877, tenuto a Bergamo in occasione del IV congresso cattolico, don David Albertario così si esprimeva: “Per lottare con energia dobbiamo odiare il nemico, odiarlo di un odio razionale, frutto
della cognizione intima che di lui ci è d’uopo; odiare cordialmente,
odiare con tutte le forze dello spirito, odiare sempre, odiare collo
scritto, coi fatti, colle parole, odiare in modo che l’odio divenga natura nostra e tutti la veggano, la sentano, l’imitino o la temano; odiare
come in cielo si odia il peccato, odiare tanto, che l’odio al liberalismo
uguagli l’amore alla fede e a Dio(2) ”. È chiaramente un’espressione di
radicalismo antiliberale che si comprende solo se posta in collegamento con i tentativi in corso, già a poca di distanza di tempo dall’ingresso dei piemontesi a Roma, d’individuare malgrado tutto un possibile terreno d’intesa tra Stato e Chiesa. Questo iniziale atteggiamento
anticonciliatorista è ciò che va ad alimentare la cultura e la prassi dell’Opera dei Congressi e che successivamente condiziona la linea di
condotta delle nuove generazioni cattoliche più interessate ad aggredire e risolvere il tema della questione sociale, vale a dire della umile
condizione di vita delle masse contadine ed operaie. Si può dunque
tracciare un arco ideale, che unisce politica e autobiografia, tra il proclama di Bergamo e la partecipazione alle giornate del 1898, a Milano, in cui proprio l’Albertario sarebbe stato tratto in arresto come corresponsabile dei disordini sociali.
Da tempo la storiografia ha chiarito che il nucleo positivo della posizione intransigente si deve cogliere nella preservazione del movimento cattolico dai facili accomodamenti con la nuova classe diri-
2. Il testo completo del discorso si può leggere nella raccolta curata da
Pietro Scoppola, Dal neoguelfismo alla democrazia cristiana - Antologia
di documenti, Edizioni Studium,1963, pp. 49-51.
26
Capitolo I
gente, talché si conferma anche a distanza di un secolo la convinzione, assunta da Luigi Sturzo a paradigma della sua proposta politica,
che il non aver accettato transazioni si è rivelata come la vera e grande opportunità per la successiva nascita del partito di ispirazione cristiana, concepito in termini di aconfessionalità e in forza di premesse
antimoderate. Diversamente, qualora avesse prevalso la preoccupazione di giungere assai presto a chiudere il conflitto tra Governo e S. Sede, una formazione politica dei cattolici avrebbe visto la luce fin dai
giorni immediatamente successivi alla presa di Porta Pia, ma il suo
connotato, allora, sarebbe stato fatalmente di tipo moderato e la sua
natura conservatrice si sarebbe imposta come un fatto pressoché
scontato. Altro è invece il tema della mancata disponibilità della Chiesa e dei cattolici a contribuire in modo serio ed organico alla edificazione dell’unità nazionale, offrendo elementi essenziali alla definizione delle basi morali e civili dello Stato. È incontestabile il fatto che
l’estraneità e l’ostilità dei cattolici abbia reso fragile lo sviluppo dell’iniziativa risorgimentale e compromesso perciò l’affermazione piena dei valori di solidarietà e coesione nella vita politica della nuova
Italia. Ma una volta consumato il divorzio tra Chiesa e classi dirigenti,
il processo di reintegrazione delle masse cattoliche all’interno della
struttura politico-statuale richiedeva un lungo tirocinio dall’opposizione e una fase laboriosa di crescita nella società civile.
L’impegno nella cooperazione e nelle varie forme di mutualità, nella organizzazione e tutela delle prime esperienze sindacali,
nella promozione di numerose strutture di credito locale - come le
Casse rurali - essenziali ai fini della lotta all’usura e allo sfruttamento
delle piccole imprese familiari, sono il tessuto in cui opera un movimento che assorbe la sollecitazione della Chiesa affinché la cura dei
bisogni degli strati più deboli e più poveri della società si configuri
nei termini di un organico processo di riconquista cristiana del mondo moderno. Emerge la prospettiva di un neoguelfismo che abbandoni
le illusioni e le ingenuità presenti nella fase di avvio del Risorgimento, quando con Rosmini Balbo e Gioberti si arrivò a propugnare un’egemonia cattolica in seno al progetto di rinnovamento morale e civile
del popolo italiano, puntando sul coinvolgimento delle élites per realizzare il sogno di un’Italia unita sotto la presidenza del Pontefice.
Ora, svanite quelle speranze, una nuova strategia consigliava di rico-
Il retroterra storico e culturale dell’opposizione cattolica
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struire i legami tra Chiesa e popolo allo scopo di contenere e combattere - sul terreno dell’organizzazione sociale e della propaganda eticoreligiosa - l’ideologia, il potere, la prassi politica di una classe dirigente intrisa di pregiudiziali motivazioni antiecclesiastiche.
Questo indirizzo non vale solo per l’Italia, ma interessa in vario modo le realtà nazionali dell’Europa intera. In Italia, però, lo sviluppo di questa nuova dimensione sociale del cristianesimo si carica
di tensioni e problemi che altrove non manifestano un’analoga forza
di condizionamento. La ferita rappresentata dalla questione romana
implica, appunto, la conservazione di una speciale distinzione tra sociale e politico volta ad assegnare al movimento cattolico l’obbligo di
salvaguardare la propria identità soprattutto in virtù di un impegno
nelle opere di carità. Sciolto il legame trono-altare, la testimonianza
cristiana si realizza in mezzo al popolo. Perciò la democrazia deve
perdere, nel quadro della nuova mentalità, il suo carattere di pura forza dissolutrice dei vecchi ordinamenti per acquisire una funzione diretta a favorire la reintegrazione del popolo cristiano nelle istituzioni
di una società non più afflitta dalle lacerazioni e dai conflitti generati
dal liberalismo. Democrazia e cristianesimo sembrano allora specchiarsi nell’azione che i tempi nuovi esigono per il risanamento delle
basi morali e civili della società.
Tanto più cresce la sensibilità per i problemi sociali, quanto
più la democrazia appare lo strumento migliore per ricostruire la presenza delle forze cattoliche. Gli anni che vanno dal 1870 alla fine del
secolo si dipanano in questa complessa vicenda in cui l’intransigenza
cattolica si afferma sulle prime, acerbe e ciò nondimeno robuste tentazioni conciliatoriste, foriere di un compromesso di stampo conservatore, sulla base della teoria dei fatti compiuti, con le posizioni del ceto politico liberale più aperte al dialogo e alla collaborazione. Clamoroso il caso del gesuita Carlo Maria Curci, tra i fondatori e i più attivi
scrittori de “La civiltà cattolica”, il quale si era ben presto convinto
della impossibilità di restaurare il potere temporale e già nel 1875
aveva presentato a Pio IX un documento in cui si consigliava l’intesa
con l’Italia. Non si trattava di un ripudio della precedente polemica intransigente in favore di un cattolicesimo liberale di tipo risorgimentale, ma del passaggio a un modello apertamente clerico-moderato. Da
questo versante vengono le proposte e i tentativi di forzare il non ex-
28
Capitolo I
pedit avviando la costituzione di un primo nucleo di partito cattolico
conservatore. Ma sotto la guida di Pio IX e dello stesso Leone XIII,
l’indisponibilità della S. Sede a stabilire un accordo con lo Stato unitario per chiudere la questione romana, determinerà il fallimento dell’operazione a tutto vantaggio delle correnti intransigenti.
Ora, mentre in Germania i cattolici si organizzavano in partito, dando vita alla esperienza del Zentrum a cui si doveva riconoscere
un originale indirizzo laico e interconfessionale (3), ancora nello stesso
arco di tempo il movimento cattolico in Italia procedeva a piccoli passi come un blocco abbastanza unitario, con una forza non trascurabile,
privo tuttavia di adeguata fisionomia politica e reale consistenza programmatica. Il reticolo di gruppi parrocchiali e diocesani, le strutture
di assistenza e formazione, le iniziative sociali e le attività di studio,
compongono un mosaico interessante ma non ancora capace di assumere rilievo politico e men che meno responsabilità di tipo istituzionale: “né eletti né elettori” rimane la parola d’ordine, lanciata da
3. Cfr. Stefano Trinchese, Governare dal centro - Il modello tedesco nel
“cattolicesimo politico” italiano del ’900, Edizioni Studium, 1994. In
particolare, la ricostruzione storica dell’Autore consente di verificare
come il mito del “Centro” tedesco sia stato accolto in forme molto differenziate all’interno dell’esperienza cattolica italiana. In ogni caso, la
tendenza prevalente è stata quella di evitare una traduzione politica in
chiave puramente moderata e conservatrice. Ciò vale, in parte, anche
per il tentativo più serio e concreto di promuovere un partito di cattolici sull’esempio tedesco, quello formulato a Rho nel 1904 da Filippo
Meda, erede spirituale e politico di don Davide Albertario. Posto che
nel pensiero e nel lavoro politico di questo autorevole esponente del
cattolicesimo lombardo agisca la volontà di sanare la frattura tra coscienza laica e sensibilità religiosa, ponendo come obiettivo la “moralizzazione” della democrazia liberale e insieme il recupero di responsabilità etico-civile dei credenti, l’opzione che ne deriva sul piano storico
è indotta a separarsi dal legittimismo e dal moderatismo per enunciare,
in via alternativa, il progetto di un partito di centro capace di gestire in
forma graduale una scelta riformatrice. In Meda dunque non si confonde irrimediabilmente la figura del cattolico liberale con quella del clerico moderato, non essendo la conservazione degli assetti di potere il nucleo fondante della possibile formazione politica di centro che egli auspica e prefigura alla luce di una ormai più che matura esigenza riguardante tutti i cattolici e tutta la nazione. Cfr. Paolo Emilio Taviani, Due
discorsi di Filippo Meda, “Civitas”, n°5-6, 1959, pp. 3-10.
Il retroterra storico e culturale dell’opposizione cattolica
29
don Giacomo Margotti nel 1861, di cui si nutre il popolo dei fedeli
impegnato nella battaglia morale e civile per la libertà cristiana (4).
L’astensionismo elettorale appariva come un arma di difesa e
al tempo stesso un atto di accusa. L’anticlericalismo dei circoli liberali, il modello laico di Stato, l’aggressione ai diritti della Chiesa,
avevano lacerato il tessuto morale e religioso della nazione. La distinzione tra paese reale e paese legale ha origine, dunque, nella
lotta dei cattolici per il ripristino delle basi legittime del potere politico e delle istituzioni rappresentative. Per essi l’ordinamento politico
non corrispondeva più alla struttura originaria della società: infatti la
rivoluzione liberale, incarnata nel moto risorgimentale, definiva un
assetto dei pubblici poteri che non ricercava nella legittimazione religiosa il suo più vero e stabile ancoraggio (5). Era perciò necessario
ricostruire dalle fondamenta l’edificio sociale, stabilendo un fronte di
4. Né eletti, né elettori, in “L’armonia della religione colla civiltà”, 8
gennaio 1861 (cfr. Dal neoguelfismo..., op. cit., pp. 39-40). Il rifiuto
delle procedure elettorali, in anticipo sul decreto del non expedit di
Leone XIII, si definiva sulla base di una sfiducia radicale nei riguardi
dei moderni istituti di partecipazione politica e della classe dirigente liberale. “Non mica che siamo indifferenti”, si leggeva nell’appello, “sulle sorti della patria nostra, e neutrali nella battaglia che si combatte tra
l’ordine e la rivoluzione. Ci sta vivamente a cuore che la Chiesa trionfi,
che la nostra patria diventi ordinata, prospera e gloriosa. Ma col nostro
voto non potremo ottenere ciò dagli uomini, e quindi (...) nel giorno
delle elezioni noi pregheremo (...) perché vinca una volta la santa causa
della religione, del diritto e della giustizia; e con ciò non terremo né
per Garibaldi, né per Cavour, ma serviremo potentemente la patria”.
Da notare nel testo il forte richiamo alle ragioni della patria, ritenute
manomesse e contraffatte dai politici liberali, ma non per questo estranee od ostili alla viva coscienza civile dei cattolici.
5. “La libertà, dunque, della rivoluzione laicista era una libertà che i
cattolici intransigenti non accettavano, non soltanto perché, come essi
affermavano, era “assoluta” ossia perché loro sembrava che si presentasse come un bene privilegiato e riservato alla sola classe dirigente liberale che ne stabiliva natura e limiti, ma soprattutto perché contrastava con il loro ideale integralistico, in cui Stato e società civile dovevano
entrare nell’obbedienza assoluta alle leggi della Chiesa”. Gabriele De
Rosa, Il movimento cattolico in Italia. Dalla restaurazione all’età giolittiana, Laterza, 1974, p. 75.
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Capitolo I
lotta con quel nuovo ceto di potere che, nel migliore dei casi, voleva
piegare la Chiesa a un ruolo subalterno, senza più influenza diretta
sulla società intesa come naturale consorzio civile. Il rifiuto delle
pratiche elettorali si fondava pertanto su una critica della ideologia
borghese in cui operavano, nel medesimo tempo, visioni nostalgiche
e ansie palingenetiche.
Rientrava in questa difesa dell’ordine naturale, a cui il liberalismo avrebbe opposto la “perniciosa” novità dei suoi valori, l’attenzione e il rispetto per le comunità locali. Se lo Stato moderno esibiva
una conformazione artificiale, ben altrimenti i poteri locali rappresentavano il momento originario, e quindi più autentico, della struttura
sociale. Le rinnovate teorie del diritto naturale, da Massimo Taparelli
d’Azeglio esposte in modo organico e successivamente accolte all’interno delle correnti ufficiali del neo-tomismo, offrivano gli strumenti
per definire la realtà dei poteri locali, in primis del comune, come il
luogo ove effettivamente nasce e si realizza la dimensione sociale
dell’umanità. Come la famiglia e l’associazione professionale, il comune è un corpo intermedio tra la persona e lo Stato, con ciò stesso
appalesando il suo essere prima dello Stato, sia da un punto di vista
logico che cronologico.
È fondamentalmente un’eredità dello Stato assoluto il processo di accentramento che lo Stato a direzione laico-borghese ha continuato a sviluppare, aggravandone il peso a misura dell’incremento di
efficienza acquisito, tanto da ridurre l’autonomia dei corpi locali a
strumento del potere statuale, ovvero come semplice articolazione burocratica degli apparati pubblici centrali. Tutto si ricollega al programma della borghesia che in via di principio afferma il valore assoluto
della libertà, ma in pratica riconosce e promuove esclusivamente la
propria libertà, ad essa sottomettendo ogni altra possibilità di espressione attinente all’autonomia dei ceti, delle professioni, delle famiglie,
delle autonomie locali. La difesa del comune si può concepire allora
come la prima rottura dello schema ideologico, politico e istituzionale
del liberalismo e come l’avvio perciò di una operazione che partendo
dal basso, cioè dai gangli vitali della comunità, punti in modo sistematico al risanamento della società moderna.
Con queste premesse è più agevole intendere l’atteggiamento
che i cattolici, anche dell’ala intransigente, tennero in rapporto alle
Il retroterra storico e culturale dell’opposizione cattolica
31
elezioni amministrative. Nel 1872, a Napoli e più blandamente a Roma, risuonarono appelli e sollecitazioni per un esplicito impegno
dei fedeli nelle operazioni di rinnovo dei rispettivi consigli comunali.
Di lì a poco tempo, in occasione del secondo congresso nazionale tenuto a Firenze nel settembre del 1875, le organizzazioni cattoliche
avrebbero adottato ufficialmente la linea del non expedit, la cui fase
d’incubazione può essere retrodatata ai primi mesi del 1871. Tuttavia, così come suscita sospetto e contrarietà la partecipazione al voto
per il Parlamento, all’inverso il coinvolgimento nella vita amministrativa locale ottiene subito una più che benevola forma di attenzione e incoraggiamento.
È evidente, per altro, che le amministrazioni locali sono ben
presto considerate come un terreno di confronto o di possibile compromesso tra le due ali che si fronteggiano nel laicato cattolico. La
scelta per l’intervento nelle amministrazioni locali non fa solo da contrappeso alla linea dell’astensionismo sul piano politico generale, ma
è anche il segno e la volontà di una sperimentazione in chiave moderata della futura collaborazione tra cattolici e liberali. Parte della nobiltà fedele al Papa dà mostra di vivere con affanno la politica di contrapposizione tra Chiesa e Stato, avvertendo i rischi di un reciproco
logoramento e la conseguente prospettiva di uno stallo prolungato dagli esiti incerti. In questa cornice, già carica di difficoltà e pericoli,
doveva sembrare opportuna la ricerca di un punto di contatto che fosse virtualmente la premessa di una graduale e reciproca dichiarazione
di disponibilità a ricomporre un’organica articolazione di governo del
Paese. In assenza di questa sia pur minima condizione, sarebbe stato
inevitabile che gli elementi più radicali e settari della classe politica
liberale fossero posti nella condizione di sfruttare gli effetti prodotti
dallo stato di aperta conflittualità per imporre un progetto ancor più
segnato dall’anticlericalismo.
L’appello alla pacificazione diviene la piattaforma politica dei
cattolici conservatori i quali si adoperano - senza per altro ricevere coperture dal Vaticano - a gettare ponti e a fornire assicurazioni, immaginando di attenuare o di aggirare le disposizioni che bloccano il dialogo tra le parti in conflitto. Emerge così un discorso nuovo. La difesa dell’unità nazionale è innanzi tutto vissuta come alternativa alle
suggestioni legittimiste e reazionarie; il rispetto per l’indipendenza
32
Capitolo I
della S. Sede è inoltre dichiarato principio irrinunciabile soprattutto in
funzione di una vera stabilità politica dell’Italia unificata; lo Stato, eccessivamente condizionato dell’uniformità amministrativa imposta dai
piemontesi, diviene in ultimo oggetto specifico di attenzione affinché
possa aprirsi realmente a una riforma del suo impianto organizzativo e
burocratico, accogliendo l’esigenza di promuovere e difendere il patrimonio delle diverse tradizioni locali. Con un linguaggio chiaro e
concreto, l’Associazione dei Conservatori Nazionali, nata a Firenze
nel 1879, dichiara perciò di voler “praticare, quale base effettiva d’un
radicale interno rinnovamento dello Stato, il concetto di un vero ed efficace decentramento amministrativo, economico e civile, che sia consentaneo alle tradizioni, ai sentimenti, alle condizioni ed ai caratteri
svariati dei popoli della Penisola ” (6). La linea dei primi conciliatoristi
non manca, dunque, di modernità.
Va allora riconosciuto che l’interesse per il riordino in chiave
autonomistica dello Stato - volendo usare una formula più attuale appartiene in modo precipuo alla iniziativa dei cattolici conservatori
e definisce un indirizzo che, pur collegato a un obbiettivo di stabilizzazione dei rapporti politici, apre una prospettiva nuova nella riflessione e nella prassi del cattolicesimo politico. Ci si muove in un ambito che non enfatizza più il “mito” del comune e delle repubbliche
medievali, sicché il rinnovamento dello Stato si propone nei termini
di una complessiva riforma dell’ordinamento dei poteri. Non echeggia neppure il tema giobertiano del federalismo, non foss’altro perché, nella contingenza storica post-unitaria, il richiamo alle teorie del
filosofo e politico piemontese sarebbe stato obiettivamente incongruo
e fuorviante. In realtà, il federalismo di Gioberti era uno strumento
politico per superare agli inizi del processo risorgimentale l’impasse
derivante dalla combinazione di attività cospirative e repressione, in
una spirale davvero negativa per le speranze di unità dell’Italia. Egli
non elabora una filosofia politica d’impianto federalista, ma assume
6. Questa è la formulazione che si legge all’art. 6 dello Statuto dell’Associazione
avente come suo prestigioso organo d’informazione la fiorentina “Rassegna nazionale”. Cfr. Mariangiola Reineri, Il movimento cattolico in Italia dall’Unità al
1948, Loescher Editore, 1975, in particolare p.43.
Il retroterra storico e culturale dell’opposizione cattolica
33
più semplicemente una valutazione contingente e realistica circa l’utilità di un patto tra i Principi italiani, ivi compreso il Pontefice come
Primus inter pares, in forza del quale realizzare un assetto nazionale
tendenzialmente unitario e finalmente libero dalle tutele e dal controllo delle potenze straniere.
Gioberti è tanto poco interessato al federalismo in senso stretto da eludere l’approfondimento di ciò che esso implica ed esige. All’opposto, nel suo impegno filosofico e politico si registra la reiterata
polemica verso il cosiddetto partito municipalista che impediva, con
la difesa sistematica delle piccole logiche territoriali, l’apertura del
Piemonte alla prospettiva di una grande politica nazionale. In definitiva, la esasperazione in termini radicali di una concezione pur intrinsecamente giusta e vitale della funzione che spetta alle comunità territoriali, è percepita dallo “pseudo-federalista” Gioberti (7) come forma
di nuovo ghibellinismo, come restaurazione del “sogno di Arnaldo da
Brescia”, come alternativa improvvida a quell’unico sistema, il guelfismo, che per duttilità e realismo avrebbe potuto corrispondere meglio alla tradizione storica e civile dell’Italia: “Ma se nell’età media,
egli dice, quando i sensi nazionali dormivano, la città e il comune erano la sola patria, oggi il caso è diverso, essendo giunto a maturità bastevole il bisogno, il concetto e l’istinto spontaneo di nazione (8)”. Per
7. È Gianfranco Miglio a definire quello di Gioberti una specie di
“pseudo-federalismo”. Questa affermazione rientra in una critica più
ampia e radicale al cattolicesimo politico ottocentesco, responsabile
per Miglio di aver soltanto in superficie contestato il centralismo statale moderno. L’eredità del pensiero cattolico del ‘600, che è alla base
della creazione dello Stato assoluto, ha impedito di svolgere una operazione di effettivo ripudio del “nuovo” accentramento laico-borghese.
“I cattolici europei del secolo XIX non potevano dunque levarsi contro
i difetti dello Stato unitario, perché avevano alle spalle l’eredità di una
teoria rigorosamente unitaria dello Stato. È certo estremamente significativo che l’unico pensatore politico, l’unico grande giureconsulto che
abbia difeso la concezione organica cristiano-medioevale dello Stato
nell’età moderna, traducendola in termini di costituzione federale, sia
l’Althusio, cioè un protestante dei tempi di Suarez”. Cfr. I cattolici di
fronte all’Unità d’Italia, p. 357, in Gianfranco Miglio, Le regolarità
della politica, 2 voll., Giuffré Editore, 1988.
8. Vincenzo Gioberti, Del rinnovamento civile dell’Italia, Laterza, 1968, p. 201.
34
Capitolo I
questo sarebbe più corretto scorgere nella lezione di Gioberti il rifiuto
di una sorta di “teorica del federalismo”, quella stessa teorica, cioè,
che passando per Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari, a cavallo tra ottocento e novecento informerà di sé la cultura radicale e repubblicana,
nonché in parte quella socialista, ma non stabilirà seri punti di contatto con la posizione “autonomista” dei cattolici.
Il pensiero politico federalista di matrice laica ha insistito, infatti, sul carattere tipicamente italiano della “repubblica dei comuni”,
rintracciando tuttavia nella tradizione “ghibellina” l’origine di una
forma di Stato. In particolare Giuseppe Ferrari s’incaricherà di stabilire con la medievale esperienza dei liberi comuni italiani quel collegamento ideale che doveva servire a formulare un’alternativa nel cuore
del Risorgimento, enunciando la necessità di un nuovo Stato, laico repubblicano e policentrico, entro cui si sarebbe dovuto sviluppare così
forte uno spirito di libertà e di autonomia civile tale da produrre nel
tempo il dissolvimento del vecchio stato autoritario e clericale. Questa
posizione sconfinante nell’anarchismo agirà come un fattore negativo
all’interno del discorso sul federalismo, poiché in una nazione storicamente senza Stato essa apparirà incapace di fornire risposta e soluzioni adeguate ai bisogni della nuova Italia.
Anche Carlo Cattaneo, con un approccio politico diverso al
tema dell’ordinamento dei pubblici poteri, promuoverà un’analoga
saldatura tra liberalismo e federalismo sempre sulla base del distacco
e della diffidenza nei riguardi dello Stato unitario cavouriano. Questa
prevenzione critica, assorbente un certo pessimismo sulle sorti della
nazione e sulla capacità di estendere alle regioni più arretrate la prospettiva d’una Italia civile e moderna, manca essa stessa di sensibilità
verso la necessaria edificazione di uno Stato nuovo. Rimane in fondo
il sospetto che il federalismo di estrazione lombardo-veneta sia stato e
si sia conservato in forza di una condotta delle classi dirigenti locali
più inclini alla difesa delle libertà commerciali di un’area già fortemente progredita che non al sostegno della strategia volta al supera-
Quantunque nel Rinnovamento si assista a un cambiamento di prospettiva, poiché cade la speranza di una federazione presieduta dal Papa e si afferma un’idea
più laica di nazione, anche nel Primato Gioberti manifesta analoghe preoccupazioni in ordine ai limiti del municipalismo.
Il retroterra storico e culturale dell’opposizione cattolica
35
mento dei vari staterelli in cui da secoli l’Italia risultava essere divisa.
Schematicamente, alla luce del dibattito in corso oggi in Italia, sembrerebbe che grazie ai movimenti di opposizione, come in specie quello cattolico, il federalismo abbia rappresentato lungo la storia
del Paese la bandiera più significativa del cambiamento politico-istituzionale, alla cui stregua, pertanto, il semplice discorso sulla valorizzazione delle autonomie locali sarebbe stato insufficiente e ambiguo.
Ma è vero semmai il contrario. È vero, cioè, che l’aspetto per così dire
rivoluzionario del federalismo non di rado si accompagnava, almeno
nel campo cattolico, a ipotesi legittimiste o temporaliste che potevano
assorbire aspettative e volontà di rinnovamento, ma pur sempre in relazione a un progetto che rimaneva contraddittorio e confuso.
Forse serve un ulteriore precisazione. Quando il tema del rinnovamento delle istituzioni locali diventerà con la nuova esperienza
dei democratici cristiani un qualcosa di diverso, inserendosi in una
strategia di partecipazione politica a carattere moderno e con un impianto tipicamente riformatore, ancora una volta - e non per pura casualità - sarà piuttosto l’appello al federalismo a tornare utile per un
brusco richiamo, in tutti i sensi, all’ortodossia dei comportamenti. “In
una delle conferenze, tenute a Roma al Circolo dell’Immacolata sul finire del secolo scorso, Toniolo parlò dei “Futuri atteggiamenti politici” dei cattolici. L’Autore concentrò l’attenzione e parlò di Stati federali e complessi, di autonomie regionali, omettendo quelle amministrative, in relazione alla dovuta indiscutibile indipendenza del Pontefice” (9). È una questione che l’oramai vecchio sociologo cattolico, in
polemica con Murri e i suoi giovani amici, riprenderà di lì a breve in
una lettera del 15 agosto 1902 a don Albertario. Pur essendo tutta
nuova la temperie culturale e politica, egli intenderà utilizzare un’argomentazione che per quanto desueta nella forma era evidentemente
troppo consustanziale al tradizionale progetto su cui aveva fatto leva
l’azione dell’Opera dei Congressi. “Noi, precisa Toniolo, vogliamo e
dobbiamo essere cattolici, e perciò stesso patrioti sinceri e ferventi ...,
ma dobbiamo essere gli uomini dell’avvenire, che nell’indipendenza
9. Cfr. Antonio Fantetti, La questione temporale: Murri, Toniolo, Meda, p. 198,
in AAVV., Il movimento politico dei cattolici (Antologia di Civitas), Edizioni Civitas, Roma, 1969.
36
Capitolo I
del Papato in un proprio territorio, vuole adattare il prototipo ed il germe di quello Stato federale fondato sulle autonomie locali, in cui è
l’unica possibile unità italiana ” (10). Non si può ignorare, dunque, che
un certo filone culturale cattolico abbia utilizzato, in modo sia pure
occasionale e senza una organicità di fondo, la questione del federalismo come una forma di minaccia o di recriminazione nei riguardi del
liberalismo. Da qui a dire che questo intento abbia avuto continuità e
rigore, ce ne corre davvero.
Il generico federalismo dell’ala intransigente, usato all’occorrenza per ribadire il diritto della Chiesa all’indipendenza territoriale, e il più concreto autonomismo dei conservatori, esibito in funzione
di un’intesa clerico-moderata per il governo del Paese, si sovrappongono e si confondono nel contesto degli interessi, delle sensibilità, dei
bisogni che i cattolici faticosamente cercano di tradurre in una loro
autonoma piattaforma politico-programmatica. L’intreccio tattico induce progressivamente a individuare alcuni concetti cardine della proposta cattolica. Appartiene infatti a un comune sentire il disagio e più
ancora l’avversione nei confronti di uno Stato che al centro e in periferia assume il volto aggressivo di una forza che mina alla base l’organizzazione sociale tradizionale. La forte pressione fiscale che pesa
maggiormente sulle fasce popolari, l’ingerenza dello Stato nella organizzazione delle Opere Pie, il disegno di estendere il controllo sulla
pubblica istruzione, sono le pericolose manifestazioni del liberalismo
centralista ed anticlericale. La risposta che i cattolici pensano di allestire sul piano locale ha perciò un valore politico generale e corrisponde alla scelta di conservare integra la propria autonomia e distinzione in rapporto alle responsabilità di governo del Paese. Nei comuni
è possibile intervenire a sostegno degli interessi popolari e, al tempo
10. Idem, p.199. La lettera di Toniolo cade dunque all’indomani del fallito tentativo di Murri di presentare una lista di candidati democratici cristiani alle amministrative di Roma e in un frangente in cui i rapporti interni all’Opera dei
Congressi sembrano giunti al punto di massima tensione, obbligando la S. Sede
a intervenire ufficialmente proprio nella speranza di poter contenere l’esperienza murriana in ambiti di maggiore disciplina, sotto il profilo sia pastorale che
politico. È evidente allora come il prof. Toniolo, con questo suo intervento dai
toni così tradizionalisti, intenda assumere una posizione di grande fermezza affinché la fedeltà al Papa non venga minimamente scalfita da dubbi e incertezze.
Il retroterra storico e culturale dell’opposizione cattolica
37
stesso, a tutela dei diritti della Chiesa. Per i moderati si trattava di
operare con prudenza e flessibilità, giocando sulle alleanze per dissaldare o indebolire il blocco di potere liberale; per gli intransigenti valeva piuttosto l’aspirazione ad affermare, anche quando le alleanze venivano stipulate, il carattere della diversità e dell’autonomia del movimento cattolico.
Il punto di forza dei moderati era indubbiamente rappresentato dalla concretezza della loro proposta politica. Soprattutto nelle
grandi città, dove spesso gli interessi dei ceti emergenti finivano per
saldarsi al di là delle contrapposizioni ideologiche o religiose, l’accordo tra liberal-conservatori e clericali consentiva di assicurare la formazione di giunte e l’elezione di sindaci che garantivano lato sensu il
rispetto delle posizioni cattoliche. Al riparo di queste intese, non prive
di risvolti pratici, la Chiesa poteva indubbiamente muoversi con più
tranquillità. Avveniva così che la tutela delle libertà locali non rimaneva un’affermazione astratta di un principio o di un’istanza, ma si associava in via di fatto alla difesa del concetto di libertas ecclesiae. In
un modo o nell’altro il problema era sempre questo: che la questione
romana, cuore della protesta cattolica, appariva agli occhi degli intransigenti sottomessa ad una tattica largamente compromissoria. In
nome della Chiesa si alimentava pertanto una resistenza, ma con ciò
non si liberava spontaneamente, dall’involucro dell’integralismo, un
diverso progetto alternativo.
38
Capitolo I
II
I cambiamenti a cavallo del ’900:
la nascita della democrazia cristiana
e la “rinascita” dei comuni
I cambiamenti a cavallo del ’900: la nascita della democrazia cristiana
41
Sul finire del secolo le correnti europee del cattolicesimo sociale assumevano una fisionomia e un peso molto diverso rispetto al
passato. La Dottrina sociale della Chiesa si apriva a un discorso nuovo
sulla democrazia e sulla libertà, le idee cristiane potevano e dovevano
trovare il modo di reinserirsi nel flusso della storia, offrendo una
sponda alla domanda di giustizia che attraversava i popoli. Il futuro
della democrazia non avrebbe dovuto separarsi da un cristianesimo
più sensibile e più solerte in ordine alle tematiche del progresso e del
“risanamento” sociale. Le novità che il mondo moderno aveva portato
alla ribalta erano destinate a perire se la Chiesa avesse conservato in
forma chiusa e retriva le sue pregiudiziali. Questa democrazia, con
grandi privilegi per i pochi e grandi doveri per i più, richiedeva un
supplemento d’anima che solo il cristianesimo era in grado di fornire.
Ma se il cattolicesimo sociale nei primi decenni del secolo aveva sviluppato una netta propensione antistatalista, in opposizione specialmente al monopolio borghese del potere e in armonia con l’ipotesi di
riconquista cristiana della società, ora viceversa considerava essenziale che la politica in quanto forma moderna di carità s’incarnasse
nell’esercizio concreto di quelle pubbliche funzioni attribuite agli apparati dello Stato.
In Europa, soprattutto in Austria e in Germania, i cristianosociali si fanno interpreti di questo nuovo modo di pensare. Non si
può leggere l’esperienza dei giovani democratici cristiani, raccolti attorno alla grande personalità di Murri, al di fuori di questo più ampio
scenario culturale e politico. Un’esperienza nuova, segnata dai limiti
del volontarismo e dell’irrequietezza, che tuttavia si pone all’origine
del più maturo impegno dei cattolici nella vita politica italiana. Le linee del clerico-moderatismo, dell’intransigentismo, del cattolicesimo
sociale rappresentano, volendo dir così, un termine a quo della prima
democrazia cristiana, condizionandone il percorso e lo sviluppo, ma
non assorbendone l’originalità e l’autonomia. L’avvento della prima
democrazia cristiana costituisce il principio di un nuovo pensiero dei
cattolici sulle questioni sociali e politiche dell’Italia. È il tentativo di
entrare nel vivo delle lotte con un linguaggio e una proposta all’altezza dei tempi in cui la coscienza dei cristiani si deve incarnare. Un’apertura alla modernità e, in conclusione, una condanna sotto l’accusa
di modernismo: in questa parabola si racchiude la stagione del murri-
42
Capitolo II
smo, con il suo carico di attese e frustrazioni, di slanci e passi falsi.
Questa é tuttavia la temperie in cui si forma una nuova classe dirigente: anche Sturzo e De Gasperi, ciascuno per proprio conto, attraversano la medesima vicenda.
Gli anni che vanno dalla fondazione del circolo cattolico romano degli studenti universitari (dicembre 1894) allo scioglimento
dell’Opera dei Congressi (luglio 1904) circoscrivono le speranze e le
delusioni del movimento democratico cristiano. È il periodo in cui la
battaglia di Murri per l’assunzione di un ruolo di guida all’interno delle organizzazioni cattoliche si sviluppa inizialmente in maniera a dir
poco travolgente, con la dirigenza dei “vecchi” intransigenti raccolta
attorno a Giambattista Paganuzzi oramai in declino e priva in apparenza di solide coperture in Vaticano; poi entra rapidamente in crisi
con il mutare degli indirizzi ecclesiastici a seguito della morte di Leone XIII (20 luglio 1903) e l’elezione di Pio X (9 agosto).
La breve stagione del rinnovamento democratico cristiano subisce il contraccolpo di un generale ripiegamento della Chiesa su posizioni di ostilità verso le nuove tendenze politiche in campo cattolico.
Prevale un indirizzo pastorale che si concentra sulla lotta al modernismo, non solo per gli aspetti teologici ma anche per i risvolti politici,
da cui esce travolta la tendenza di Murri a collegare riforma politica a
riforma religiosa. Nella fase culminante della vicenda democratico
cristiana del tempo, si definiscono le linee di evoluzione dell’impegno
sociale e politico dei cattolici. A distanza di circa tre anni l’uno dall’altro, Murri Meda e Sturzo formulano i loro rispettivi programmi.
Murri, con il discorso di San Marino del 16 agosto 1902, porterà alle
estreme conseguenze il suo ideale politico-religioso a seguito del quale, avendo egli auspicato a gran voce un nuovo rapporto tra cristianesimo e libertà, subirà la riprovazione della S. Sede e la censura dei circoli intransigenti per un suo ipotetico cedimento, “col pretesto della
democrazia cristiana” (11), allo schema del libero esame e del protestantesimo; Meda, con il discorso di Rho del 29 dicembre 1904, lancerà
senza successo l’idea della formazione di un Centro, sull’esempio tedesco, che fosse più che un vero partito una federazione di correnti
11. Sulla soglia del libero esame e del protestantesimo, “La difesa”, 26 settembre 1902, in Piergiorgio Grassi, Il discorso di San Marino 1902, Edizioni Frama’s , 1974, pp. 206-208.
I cambiamenti a cavallo del ’900: la nascita della democrazia cristiana
43
senza una rigida disciplina organizzativa e programmatica(12); Sturzo,
in ultimo, con il discorso di Caltagirone del 29 dicembre 1905, getterà
le basi di quel partito di cattolici, programmatico e aconfessionale,
che solo nell’immediato primo dopoguerra troverà finalmente modo
di nascere e di affermarsi sulla scena della vita politica nazionale(13).
Sarebbe di tutto interesse una rilettura comparata di questi testi che
rappresentano il punto di massima tensione del progetto politico delle
nuove generazioni cattoliche, oltre il quale, malgrado le battute d’arresto che le circostanze avrebbero imposto, si potrà cogliere lo sviluppo potenziale delle diverse alternative proposte. Di certo, in tale circuito di analisi, vi è il dato della implausibilità sotto il profilo storico-concreto del progetto murriano.
La democrazia cristiana non fu per Murri solo un mezzo per
risolvere i problemi sociali ed economici, ma anche e soprattutto
un’espressione visibile di un equilibrio superiore concernente l’aspetto spirituale e morale della vita. Con il suo impegno guardò a tutta la
vita e a tutti i suoi problemi, compresi quelli letterari, attraverso cui
scorse, ad esempio, la grande funzione educatrice della poesia di Ada
Negri. In lui opera, appunto, l’apertura e il respiro culturale di quel
rinnovamento cattolico che va sotto il nome di modernismo, stagione
intensa e convulsa di speranze, aspirazioni, progetti la cui valenza
complessiva è da tempo sottoposta a un vaglio critico più sereno e distaccato, tanto da coglierne a distanza di tempo il motivo essenziale e
positivo oltrepassante la condanna storica inflitta dalla Chiesa (14). La
12. Vedi supra nota n° 3.
13. “Nell’inquadramento generale, nella sua strutturazione essenziale il testo
sturziano si distingue nettamente e dal discorso di Rho di Filippo Meda e dal
programma di Romolo Murri: il primo ha un carattere operativo immediato,
non tocca problemi fondamentali, risente d’essere stato concepito in clima elettorale e in vista di un risultato pratico imminente; il programma di Murri è ancora fortemente attraversato da un’ansia religiosa, è ancora, nonostante le professioni di autonomismo, nello schema di un’azione cattolica leoniana. Il concetto di partito nasce in Sturzo come risultato di un’analisi storica, come portato di un’esperienza che ha il suo costante termine di riferimento nella relatività
delle condizioni materiali in cui deve svilupparsi l’azione politica”. Gabriele De
Rosa, Luigi Sturzo, UTET, 1977, p. 133.
14. Cfr. Pietro Scoppola, Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia, Il
Mulino, 1961.
44
Capitolo II
consapevolezza di aver innescato un grande cambiamento nella mentalità e nella sensibilità del cattolicesimo militante, si accompagnava
negli ultimi anni di vita, quando già il dissidio con la Chiesa si era ricomposto superando la scomunica del 1909, a una sottile percezione
di fallimento (15). Con orgoglio, tuttavia, scriverà l’8 settembre a “Il
Giornale d’Italia”: “Caro Bergamini, tra i partiti, o nuclei di partiti in
via di ricostruzione, i quali si sono volontariamente offerti a collaborare con il governo Badoglio per il mantenimento di una severa disciplina nazionale che è necessità suprema in quest’ora difficile, c’è la
“Democrazia Cristiana”. L’annunzio della presenza di questa riuscirà
nuovo a molti, e parecchi risaliranno col pensiero alla Democrazia
Cristiana storica, la quale “tra il ‘98 e il 1903 aveva dato speranze copiose di successo” (“Osservatore Romano”, 29 agosto corr.). Poiché
con questa Democrazia Cristiana io ho una stretta parentela e le sue
vicende furono così intensamente associate alle mie vicende personali, mi permetta di far noto che io non ho avuto parte all’iniziativa della
“ricostruzione” di essa e che mi riserbo di vedere ed eventualmente di
dire, con serena obbiettività, quanto e come nei suoi sviluppi questa
Democrazia Cristiana risponderà allo spirito ed al programma integrale dell’antica e profitterà della ricca esperienza religiosa e politica maturata nel lungo intervallo, così da poter rispondere oggi a profonde e
vitali esigenze del nostro paese”. La morte, un anno dopo, sarebbe
giunta a stroncare questa sorta di rivendicazione di un proprio diritto
di supervisione e di critica del programma politico della nuova formazione degasperiana.
La democrazia cristiana di Murri nasce nel 1900 a Roma, il
pomeriggio del 3 settembre, in una riunione tenuta a latere del Congresso cattolico (1-5 settembre), alla presenza tra gli altri di Marc
15. “Ho riveduto, dopo molti anni, Romolo Murri pochi giorni prima della sua
morte: (...). Quanto a sé, egli mi aveva scritto di considerasi come un uomo fallito due volte: una prima, in quel movimento democratico cristiano, che avrebbe potuto mutare il corso della storia d’Italia; una seconda, nel tentativo di trovare e ravvivare la spiritualità cristiana al di fuori del Cattolicismo istituzionale
ecclesiastico. A voce però, richiesto da me, mi disse di aver adoperato la parola
“fallimento”, senza aver avuto l’intenzione di darle un senso definito e preciso”.
Corrado Giovannini, Romolo Murri. 1- La crisi religiosa, “Politica d’Oggi”, 15
gennaio 1945.
I cambiamenti a cavallo del ’900: la nascita della democrazia cristiana
45
Sangnier e Luigi Sturzo. Doveva essere un incontro ufficiale, ma le
polemiche insorte all’annuncio di un autonomo convegno dei democratici cristiani fecero parlare di un atto d’indisciplina destinato a
compromettere l’unità del movimento cattolico e spinsero i promotori a ripiegare su una formula meno impegnativa. L’anno successivo,
nel Congresso di Taranto (2-6 settembre 1901) un Breve pontificio
inviato ai partecipanti veniva letto come una forma di sostegno all’azione dei democratici cristiani. E nonostante i segnali negativi che invece sopraggiunsero con i primi mesi del 1902, il movimento murriano raggiungeva la vetta del suo successo nel Congresso di Bologna
(10-13 novembre 1903), tenutosi sotto la presidenza del conte Giovanni Grosoli - più aperto ai giovani - che il mese prima (21 ottobre)
era succeduto al Conte Paganuzzi alla guida dell’Opera dei Congressi. Pochi mesi prima, come sopra ricordato, era morto Leone XIII: il
nuovo Papa, Pio X, avrebbe atteso un anno ma alla fine avrebbe
sciolto l’Opera, togliendo quello spazio d’iniziativa e di direzione
politica che i democratici cristiani avevano conquistato all’interno
della vecchia e gloriosa organizzazione. Finiva un tipo d’impegno
dei cattolici che per quasi un trentennio aveva rappresentato lo sforzo
di preservare un equilibrio faticoso tra scelta religiosa e azione politica, apertura sociale e tradizionalismo a sfondo clericale. Il rinnovamento suscitato da Murri aveva accelerato la crisi di questo modello
politico-religioso e, trascinando con sé un retaggio di questioni irrisolte, aveva aperto comunque la strada a un nuovo tipo di presenza
del cattolicesimo politico.
È necessario, a questo punto, cercare di definire sinteticamente la novità del movimento democratico cristiano. In che cosa
consiste e si esprime? Qual è il suo contributo più valido e il suo
aspetto, dunque, di vera originalità?
Sono domande che lasciano intendere, appunto, che sarebbe
superficiale immaginare che anche la democrazia cristiana di Murri
non fosse contraddistinta, essendo “figlia” della stessa logica che presiedeva all’esistenza dell’Opera dei Congressi, da un particolare approccio ai temi religiosi, politici e sociali. In verità il nesso che si coglie nella originaria proposta democratico cristiana tra rinnovamento
della politica e riforma della Chiesa è la conferma del modello teorico
dell’intransigentismo, benché articolato in forme e contenuti peculiari.
46
Capitolo II
Poiché non può esserci una nuova politica senza un nuovo modo d’intendere e di vivere il cristianesimo, le implicazioni che ne conseguono
sono necessariamente quelle che si determinano sul terreno dell’integralismo. La laicità della politica, intesa non solo come dimensione
propria dell’autonomia del laicato, ma anche e soprattutto come
espressione di una struttura propriamente naturale della politica (ovvero non sottomessa alla hibrys di un discorso ideologico che sequestra l’agire umano nella società e nella storia in forza di un’astratta
pretesa di assoluto); appunto questa laicità, che sarà la conquista del
partito aconfessionale di Sturzo, rimane a tutti gli effetti un’ipotesi
ben al di fuori dell’impegno teorico e della scelta pratica di Murri.
Orbene, se l’ibrida natura politico-religiosa è il limite del
murrismo, viceversa la sua capacità di rovesciare in senso democratico e progressivo la generica sensibilità cristiana ai temi del sociale costituisce lo spartiacque tra la vecchia e la nuova figura del movimento
cattolico. E, dunque, possiamo così dire che i principali punti di distacco dalla tradizione e dalla prassi ufficiale dei cattolici sono quelli
che nel pensiero e nell’opera del sacerdote marchigiano riguardano:
1. il giudizio positivo sul valore morale e politico del Risorgimento, non più visto come pura e semplice “violenza” contro la Chiesa, ma piuttosto come grande rivoluzione nazionale - ancorché deviata
e corrotta dalla borghesia - a cui i cattolici avrebbero dovuto apportare
il loro decisivo contributo di rigenerazione e riscatto in nome degli interessi del popolo italiano e della Chiesa (16);
2. la convinzione che la questione romana non fosse più da risolvere in un rapporto di scontro - e neppure tanto per via meramente
diplomatica - con lo Stato italiano, ma in virtù di una rinascita in senso neoguelfo della iniziativa sociale dei cattolici, giacché solo questa
avrebbe garantito il ripristino di una condizione di fiducia tra popolo e
Chiesa da cui sarebbe stato possibile far discendere, come logica con-
16. “(...) Murri critica aspramente i gruppi dirigenti liberali, che non tengono
più fede a quei princìpi di libertà per i quali la borghesia combatté nel Risorgimento. Di questi princìpi devono farsi difensori i democratici cristiani: “le conquiste della libertà e del progresso, comunque ci sian venute, sono oggi nostre,
I cambiamenti a cavallo del ’900: la nascita della democrazia cristiana
47
seguenza, la restaurazione dei diritti della S. Sede (17);
3. l’apertura alla democrazia, non già quale semplice regola
entro cui esercitare una nuova forma di carità, ma quale tessuto politico di una società riordinata sulla base di un principio di giustizia tale
da configurare l’iniziativa democratica e cristiana come una politica
per il popolo e con il popolo;
4. l’impegno a costruire una nuova unità popolare che avrebbe comportato, a fronte dell’antagonismo con il “partito” liberale, una
come sono degli eredi di chi le guadagnò con la congiura e con la penna, e,
obliterati dal tempo antichi malintesi e dissidi, noi siamo oggi divenuti difensori
di quelle libertà e di quei diritti, al rispetto dei quali tenta invece di sottrarsi il
liberalismo dominante”. E nei riguardi dell’Italia contemporanea e della sua
classe dirigente il Murri svolge una critica, che ha ben poco di comune con la
tradizionale polemica antigovernativa dei vecchi clericali, intessuta di demagogismo generico, ma che invece è influenzata dai motivi allora correnti nella propaganda socialista e radicale”. In Giorgio Candeloro, Il movimento cattolico in
Italia, Editori Riuniti, 1974, p.273. Riemerge allora in Murri quel modello di
critica alla borghesia e al liberalismo che già negli anni ‘30 era stato formulato
dal Lamennais. In questo senso non è improprio associare queste due figure del
movimento cattolico, anche se gli studi più accurati (cfr. Sergio Zoppi, Dalla
Rerum novarum alla democrazia cristiana di Murri, Il Mulino, 1991) tendono
ad escludere facili parallelismi, in termini di pensiero e di vita, tra il francese e
l’italiano. Si consideri, infine, che lo stesso Murri ha sempre rifiutato e contestato di essere il “nuovo Lamennais italiano”, formula che andò ben presto a caratterizzare il senso della critica dei suoi vari oppositori.
17. Qui si riscontra, con grande chiarezza, la divergenza tra Murri e Meda.
Questi puntava a una funzione di condizionamento interno della democrazia liberale, sicché anche l’unità politica dei cattolici sarebbe stata una ipotesi transeunte in relazione alla necessità di superare la questione romana e in vista anche di un’intesa stabile e duratura nell’orizzonte politico più ampio tra tutti i
veri democratici, senza distinzione alcuna di ideologia o di appartenenza religiosa. Invece Murri pensava sì alla soluzione del conflitto tra Stato e Chiesa, ma
in virtù di una grande rinascita del sentimento cristiano tra le masse popolari,
tale da spezzare il pregiudizio anticlericale. Grazie, quindi, al rinnovamento della vita morale e civile della nazione, si sarebbe potuto affermare un nuovo sistema politico, vale a dire una rigenerazione della democrazia parlamentare e
un’alternativa cristiano-popolare al potere elitario della borghesia liberale.
48
Capitolo II
capacità di competizione dei cattolici con i movimenti di opposizione
(socialisti, repubblicani e radicali), seguendo un metodo intransigente
di lotta ideale e politica (18);
5. il confronto scevro da complessi con il collettivismo
marxista a cui si attribuisce la qualità di profezia fallimentare, capace di generare la speranza di una definitiva e irreversibile emancipazione dall’ordine iniquo del capitalismo, ma incapace praticamente di fondare sulla libertà civile e politica la prospettiva della
nuova società senza classi, essendo il determinismo filosofico e
morale l’arma decisiva e insieme l’ostacolo invalicabile della sua
opzione rivoluzionaria(19);
6. il superamento della ostilità cattolica verso lo Stato, proprio
in quanto peculiare prodotto della rivoluzione liberale, individuando i
18. Si tratta, in verità, di un approccio che non assume correttamente il valore
delle alleanze, ma insegue l’obiettivo di un assorbimento delle istanze popolari
e democratiche nella esperienza di una nuova politica cristiana. La democrazia
cristiana di Murri gioca la sua capacità di raccogliere la protesta delle classi
emarginate anche attraverso l’occupazione degli spazi aperti dai settori radicali
della borghesia. Per questo, in ricordo di Felice Cavallotti, Murri scrive che
proprio quella uccisione in duello pone fine alla “illusione d’una giustizia possibile nel liberalismo”. E aggiunge: “Ma il campo lasciato libero dall’illusione che
pareva sostanza l’occupiamo noi, noi cattolici”. Per poi concludere che era ormai necessario “sgombrare la via ad un programma cattolico di sinistra” (in
“Cultura sociale”, 16 marzo 1898, p.91; cfr. anche G. Candeloro, Il Movimento cattolico..., op.cit., p. 271).
19. “Osserviamo un momento il programma massimo del collettivismo. Il
Marx, che pure aveva ricevuto dalla filosofia tedesca contemporanea il criterio
generale della relatività delle cose e che si vantava quindi di aver esploso la metafisica e con essa la filosofia della storia (sviluppo della storia umana su di un
piano preconcetto) volle poi egli stesso, per la contraddizione grave ed evidente
fra il pensatore e il propagandista, anticipare gli eventi e prenunziare una forma
ventura della società, emergente dai contrasti di classe; ed anzi di quella forma
ventura egli non assegnò che il fondamentale carattere economico, il possesso
in comune dei beni di produzione; limitandosi per tutto il resto a dire che le altre formazioni sociali e la medesima sostanza del loro contenuto (due cose ben
I cambiamenti a cavallo del ’900: la nascita della democrazia cristiana
49
nodi reali di una riforma del sistema istituzionale e dell’ordinamento
dei poteri al fine di garantire tanto l’effettivo esercizio delle libertà
popolari quanto la riduzione, mediante l’intervento pubblico (20), delle
condizioni materiali d’ingiustizia e di sperequazione;
7. la scelta del tema delle autonomie locali in funzione, appunto, di
una riorganizzazione dello Stato su basi democratiche, avviando una
riflessione tecnico-scientifica in merito alle questioni del decentramento amministrativo e abbandonando progressivamente lo schema
della libertas ecclesiae quale fattore di legittimazione delle libertà locali, a cui invece aveva fatto riferimento fino ad allora il discorso au-
distinte) si sarebbero modellate su quel nuovo rapporto economico, generatore
di tutta la società ventura. Avemmo così per qualche decennio un programma
massimo, vale a dire uno stato sociale previsto come termine definitivo d’un
processo storico universale che aveva un contenuto assegnatole nettamente: un
certo stato economico e la dipendenza di tutto il resto da esso. Ora, come osserva brevemente in altra parte di questo stesso numero un nostro amico, il tentativo è fallito; in meno di cinquant’anni quei due canoni sono divenuti l’uno e
l’altro un impaccio pel movimento d’idee e di fatti che essi non riescono più a
contenere e sono stati spezzati dal movimento stesso che continua la sua via:
perché è tentativo vano e pieno di superbia il volere a un momento qualunque
della storia uscire dai limiti della contingenza che racchiudono l’opera nostra
umana e mortale e assegnar delle norme definite ai progressi venturi dell’umanità, in ispecie quando si è rinunziato alla filosofia tradizionale ed a ciò che essa contiene di realmente immutabile per tutti i tempi”. Romolo Murri, Programma massimo e minimo della democrazia cristiana, in “Cultura sociale” del
1° agosto, 1° settembre, 1° novembre 1901, ora in Gabriella Fanello Marcucci,
Documenti programmatici dei democratici cristiani (1899-1943), Edizioni Cinque Lune, 1983, in particolare pp. 47-48.
20. Qui invece si evidenzia l’appartenenza di Murri a un diverso ciclo culturale
e politico rispetto a Lamennais. Come quest’ultimo si faceva paladino di una
posizione antiliberale e antistatalista, Murri associava all’inverso la polemica
antiborghese a un “uso” alternativo dello Stato, in coerenza con ciò che il cattolicesimo sociale, in particolare della scuola austriaca e tedesca, andava predicando negli anni a cavallo del ’900. Grazie a questa posizione ideale e politica si
avvia un atteggiamento favorevole all’intervento dello Stato in campo economico e sociale, con ciò dimostrando una qualche sintonia con il “nuovo” pensiero dominante nei circoli intellettuali dell’epoca.
50
Capitolo II
tonomista e genericamente federalista dei cattolici.
Sulla scorta di tali valutazioni, è evidente come nel pensiero
dei giovani democratici cristiani sia soprattutto forte il convincimento
che il liberalismo produca una sostanziale disgregazione sociale, a
fronte della quale, come dato fittizio di unità politica, si ergerebbe il
modello accentrato dello Stato. Il richiamo alla dimensione primaria e
naturale delle comunità locali rispetto allo Stato assumeva, in questa
chiave, i connotati di una proposta innovatrice che tralasciava la polemica di tipo pregiudiziale allo Stato risorgimentale per acquisire il valore di un’alternativa politico-istituzionale volta a determinare un assetto dei pubblici poteri che fosse lo specchio reale di una vita democratica segnata dal pluralismo degli interessi popolari e dalla possibilità di autogoverno dei corpi sociali e territoriali.
Rompere l’uniformità amministrativa voleva dire in sostanza
poter concepire uno Stato che, contrariamente alla linea di evoluzione
della società industrializzata moderna, potesse andare oltre la semplificazione della dialettica sociale introdotta dal capitalismo e fosse capace di recuperare una funzione di garanzia per le diverse forme di libertà, di partecipazione e di cooperazione. La critica si spostava dal livello generico e astratto dell’opposizione antimoderna e antiliberale a
quello per così dire di merito, laddove cominciava ad essere più importante la costruzione di una piattaforma alternativa che prendesse lo
spunto dalla corruzione morale e politica delle classi dirigenti e dalla
cattiva amministrazione, sia al centro che in periferia, dello Stato.
Il “Programma di Torino dei giovani democratici cristiani”
(1899) è il documento che raccoglie in forma agile e stile moderno i
punti qualificanti di una politica di riforme corrispondente, secondo
gli estensori, “alle aspirazioni di una vera democrazia e ai principi sociali del cristianesimo”. Il testo si articola in dodici punti ed esibisce
ogni volta, in apertura dei singoli paragrafi, la formula: “Noi vogliamo...”. Si chiede, tra l’altro, l’introduzione del sistema elettorale proporzionale e a suffragio allargato, la tutela del lavoro minorile e il rispetto per il riposo settimanale, la previsione di un minimo salariale
per legge, il riconoscimento dell’iniziativa popolare attraverso il referendum, la riforma tributaria (con l’introduzione, in particolare, di una
imposta moderatamente progressiva), l’avvio di un processo di riordino a base autonomistica dello Stato e, in conclusione, la definizione di
I cambiamenti a cavallo del ’900: la nascita della democrazia cristiana
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un compito sociale del comune. In proposito, così recita espressamente il punto 4: “Noi vogliamo un largo decentramento amministrativo come avviamento alla effettiva autonomia comunale e regionale,
contemperata con le esigenze strettamente nazionali dello Stato”.
L’appello finiva con un riferimento, oltre che a Leone XIII e Giuseppe
Toniolo, allo statista inglese appena scomparso (1898) William Gladstone, quali artefici dell’avvento a livello internazionale della democrazia cristiana che, per quei giovani, “sarà la gloria del secolo ventesimo” (21).
Non è casuale questo accenno a uno sviluppo internazionale
dell’iniziativa democratico cristiana. Evidentemente si manifesta
l’aspirazione a trovare esempi e contatti con le altre nazioni per non
rinchiudere la novità del movimento democratico cristiano nell’ambito circoscritto della realtà politica italiana. E guardando alle esperienze estere - questa volta non tanto alla Francia, quanto alle nazioni di lingua tedesca e all’Inghilterra - essi trovano i dati e gli strumenti per sviluppare una proposta moderna nel campo del decentramento amministrativo e dell’autogoverno municipale. Siamo ad un
passaggio politico in cui il dibattito in Italia dei primi anni del novecento prende congedo dalle tentazioni conservatrici o reazionarie
che avevano alimentato le scelte dei governi Di Rudinì e Pelloux. Si
avverte con il nuovo secolo l’urgenza di aprire una fase diversa nella
vita politica e amministrativa del Paese. Con il governo Zanardelli
(1901-1903) si pongono le premesse per il “decennio giolittiano”: la
classe dirigente liberale si dispone a una guida più illuminata, aperta
alle riforme sociali e alla sperimentazione di nuove alleanze politiche. È in questo contesto che a seguito di una lunga e talvolta contrastata gestazione, nasce nel 1901 a Parma (17 - 19 ottobre) l’Associazione dei Comuni Italiani per iniziativa prevalente di radicali e
socialisti. I cattolici con Sturzo entreranno subito dopo, nel congresso di Messina del 1902. L’Associazione ricalca nelle sue finalità statutarie e nelle sue linee organizzative l’esempio della Lega dei comuni, sorta in Inghilterra già diversi anni prima. Tutte le correnti più
21. Il testo integrale del Programma si può leggere in P. Scoppola, Dal neoguelfismo..., op. cit., pp.93-95.
52
Capitolo II
aperte della realtà politica nazionale si misurano e si confrontano,
dunque, con le questioni del rinnovamento istituzionale ed amministrativo, facendo ampiamente ricorso alle novità di carattere programmatico ed operativo che il panorama internazionale metteva a
disposizione degli studiosi e dei politici.
L’ingresso nell’Associazione dei comuni non era un fatto
scontato, anzi poteva costituire un ulteriore dimostrazione di quella libertà di manovra e di comportamento che qualificava, non sempre
positivamente agli occhi delle autorità vaticane, il gruppo dei democratici cristiani. La responsabilità di questa operazione è generalmente
attribuita a Sturzo. Ma egli non aderisce da solo: con lui, destinato ad
assumere nel 1915 la carica di Vice-Presidente nazionale, ci sono fin
dall’inizio Angelo Mauri, Filippo Meda, Giuseppe Micheli. Tutta la
migliore rappresentanza del giovane movimento democratico cristiano
è pertanto coinvolta, con maggiori o minori responsabilità, nella vita
politico-organizzativa della nuova Associazione. È da supporre che la
decisione di Sturzo fosse in qualche misura dibattuta o perlomeno
messa a conoscenza preventivamente delle figure di maggiore spicco
del movimento. Non c’è tuttavia un coordinamento formale, manca
una sede ufficiale ove dibattere la linea e la condotta politica. Risulta
chiaro, comunque, che l’atteggiamento di Sturzo in seno all’Associazione risente anche delle alterne vicende del movimento cattolico. Le
oscillazioni e i mutamenti di fronte, come il passaggio dal congresso
di Roma (1903) al congresso di Napoli (1904) dallo schieramento di
sinistra a quello moderato, non corrispondono soltanto a una più o
meno forte disposizione tattica di Sturzo, né a condizionamenti tutti
interni alla vita dell’Associazione: giocano anche fattori politici generali per cui, non appena le circostanze si fanno più difficili, si determina la volontà di Sturzo di non fornire alibi o pretesti a chi intenda
colpire quel tanto di autonomia dei democratici cristiani (22).
Ma quale è il ruolo culturale e politico di Murri nel dibattito
22. “La figura di Sturzo che appare nei primi congressi dell’Anci è quella di un
politico concreto e pragmatico che maturava e adattava la propria azione alle
mutate condizioni politiche. A Roma, egli era riuscito a conquistare la fiducia
dell’ala moderata dell’Associazione con una posizione radicale che doveva liberale i cattolici dallo stereotipo del clericale, senza per questo arrivare ad indentificarsi con le posizioni socialiste, piuttosto affiancandosi ad esse; a Napoli
I cambiamenti a cavallo del ’900: la nascita della democrazia cristiana
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sulle autonomie locali? È stato detto che pur avendo accolto, sin dal
1898, molti contributi su “Cultura sociale”, egli non avrebbe assegnato soverchia importanza a questa specifica problematica (23). Ma non si
può neppure dire che sfuggisse all’esame e alla valutazione del sacerdote marchigiano il quadro delle implicazioni che questo confronto
teorico-politico poteva determinare. Il tema della “rinascita” dei comuni coinvolgeva tutte le forze attive della società, tutti i movimenti
di opposizione. La conquista dei municipi era considerata dai socialisti una parte essenziale del loro programma minimo, con ciò volendo
significare il nucleo delle richieste e degli obbiettivi ritenuti indispensabili ai fini della costruzione della prima, fondamentale tappa della
lotta politica rivoluzionaria. A livello locale era perciò possibile realizzare un esempio di contropotere capace di dare valenza concreta alle aspettative di cambiamento radicale delle masse popolari. “Impadroniamoci dei comuni”, era stata la parola d’ordine di Andrea Costa.
In fin dei conti, cattolici e socialisti si ritrovavano a competere sullo
stesso piano, avendo in comune l’aspirazione a rovesciare gli equilibri di potere locale e la corrente prassi di governo dei circoli liberali,
con tanto di camarille e clientelismi, che aveva svuotato e impoverito
la vita democratica tanto delle grandi città quanto dei piccoli centri.
Ma era pressoché evidente che la convergenza imposta dall’idem sen-
però le cose erano cambiate parecchio, le spiegazioni possono essere sostanzialmente due. La prima, un poco semplicistica, è di mera tattica politica: il sacerdote calatino, una volta dimostrato il carattere non clerico moderato della propria azione, non aveva più ragione di continuare ad affiancare le posizioni più
estremiste ed aveva voluto contribuire, con l’ala moderata dell’Associazione, a
togliere la direzione dell’Anci ai socialisti. Tanto più che erano poi soprattutto i
rivoluzionari che si erano messi saldamente in testa ad una campagna per le dimissioni dei consigli comunali che aveva debolissime prospettive di successo, e
oltretutto utilizzavano la “Rivista municipale” quasi come fosse una rivista propria, senza lasciar alcuno spazio agli altri”. Oscar Gaspari, I primi anni di Sturzo nell’Associazione dei Comuni Italiani (1902-1905), “Sociologia”, ESI,
n°2/97, Nuova Serie, p.157.
23. “(...) né egli, tutto preso dalla questione politica nazionale e dai rapporti
tra Stato e Chiesa, vi dedicherà mai un’attenzione particolare (a parte i momenti elettorali). Accoglie tuttavia nella sua rivista i contributi dei giovani studiosi
democratici cristiani di ogni parte d’Italia, che scrivono su questioni comunali
fin dai primi numeri”. Mario Belardinelli, Movimento cattolico e questione comunale dopo l’Unità, Edizioni Studium, 1979, p.131.
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Capitolo II
tire antiliberale, fosse tuttavia rovesciabile in aperto e duro contrasto
in relazione alle mète e alle strategie così diverse che entrambi i movimenti erano spinti a propugnare. L’anticlericalismo, come portato della filosofia moderna e della rivoluzione industriale, transitava dal liberalismo al socialismo in forme e modi che potevano apparire ancora
più aspri e temibili, assumendo in termini programmatici il connotato
di un ateismo militante e rivoluzionario. La collaborazione nei comuni
tra cattolici e socialisti era, quindi, una ipotesi irrealistica che serviva
da pretesto e schermo per le polemiche in un certo senso artificiose
dei conservatori(24).
Poteva accadere, però, che il rifiuto dei cattolici a fare blocco
con i liberali aprisse le porte dei municipi ad amministrazioni radicali
e socialiste. Era questa la ragione del contrasto che divideva il movimento cattolico. L’ansia di cambiamento che animava i democratici
cristiani precludeva gli spazi di manovra ai moderati che agivano, all’inverso, con la preoccupazione di evitare la radicalizzazione della
vita politica nazionale e locale. Le due sensibilità o meglio le due linee politiche implicavano alternativamente, da un lato, la ricerca e la
difesa dell’autonomia dei cattolici sulla base di una nuova piattaforma
programmatica e, dall’altro, la tendenza a privilegiare il tema delle alleanze, naturalmente in chiave moderata, per ottenere il rispetto di poche ed essenziali richieste (in genere riferibili al corretto impiego delle risorse pubbliche, per non gravare sulle classi popolari con una tassazione troppo elevata, e alla tutela delle organizzazioni cattoliche nel
campo dell’istruzione e dell’assistenza) (25). La forza di proposta dei
democratici cristiani era pertanto ciò che distingueva il campo tra “no-
24. Cfr. Lorenzo Bedeschi, Socialisti e cattolici nei comuni dall’unità al fascismo, Edizioni della Lega per le autonomie e i poteri locali, Roma, 1973.
25. Nella sua relazione al congresso di Taranto, il Presidente dell’Opera dei
Congressi, il “vecchio” Giambattista Paganuzzi, in risposta alle spinte dei giovani avrebbe ancora una volta precisato. “Nei Comuni e nelle Province (...) il
nostro ingresso significhi ingresso del principio cristiano nella scuola, predominio della moralità, risparmio della proprietà pubblica e privata. E significhi ancora ingresso di quel principio di beneficenza cristiana voluto dal S. Padre”. In
M. Belardinelli, op. cit., p. 143. Si noti, anche in queste parole, la lettura riduttiva che il conservatore Paganuzzi fa delle indicazioni pontificie, insistendo sulla
caratteristica di movimento a carattere sociale e senza implicazioni politiche
della democrazia cristiana, formula di compromesso che del resto suonava condanna delle spinte più coraggiose e innovative.
I cambiamenti a cavallo del ’900: la nascita della democrazia cristiana
55
vatori” e conservatori. Quest’ultimi, anche se mossi dalle migliori intenzioni politiche e morali, erano lontani dall’idea democratica di un
vero e significativo “contatto” con il popolo, idea che in realtà qualificava il programma e l’azione dei giovani che si raccoglievano attorno
alla bandiera della democrazia cristiana. Il contributo teorico e politico offerto dai giovani murriani in tema di autonomie locali consiste
precipuamente nell’aver contrapposto al socialismo municipale, che i
riformisti alla Turati avevano imposto all’interno del partito, il loro
municipalismo sociale, frutto degli studi comparativi con la più avanzata cultura amministrativa degli altri Paesi, specialmente con la
Science of city government dei circoli fabiani inglesi e la Kommunale
Sozialpolitik dei cristiano-sociali austriaci e tedeschi.
L’indirizzo scientifico esposto da Angelo Mauri, Francesco
Invrea e Antonio Nicola, si distaccava altresì dalle posizioni prevalenti della cultura giuridica italiana che, volendo solo fare qualche riferimento, con I principi di diritto amministrativo di Vittorio Emanuele
Orlando e la Teoria del decentramento amministrativo di Carlo Francesco Ferraris, confermava il permanere di una vocazione statalista di
ascendenza hegeliana tendente a ridurre gli enti locali a meri organi
decentrati dello Stato. Ecco dunque il giudizio più appropriato sulla
novità degli studi di questi giovani cattolici: “Appare notevole in questi lavori non solo il superamento graduale di quei riferimenti al medioevo, che avevano caratterizzato i primi studi di quanti si erano formati alla scuola cristiano-sociale del Toniolo, ma il respiro europeo
che li anima e li orienta a proporre soluzioni adeguate alle esigenze
del mondo contemporaneo” (26).
Sono molti gli elementi distintivi della riforma autonomistica
dello Stato che prende corpo attraverso l’approfondimento teorico degli scrittori impegnati sulle pagine di “Cultura sociale”, tutti per altro
così attivi nel lavoro di formazione dei quadri della prima democrazia
cristiana. Francesco Invrea, uno dei leader del gruppo dc torinese,
produrrà lo sforzo più ampio ed organico per l’elaborazione del programma municipalista. I suoi numerosi interventi sulla rivista di Murri
saranno successivamente rielaborati e pubblicati a parte in un volume
che ebbe notevole eco e diffusione tra tutti i militanti (27). Nella presen-
26. M. Belardinelli, op. cit., p. 134.
27. Cfr. Francesco Invrea, Il comune e la sua funzione sociale, Società Cattolica
Editrice, Roma, 1902.
56
Capitolo II
tazione era detto che il “risveglio comunale” appariva come una delle
novità che caratterizzavano la vita delle nazioni più progredite. E
mentre lo Stato accentrato e accentratore mostrava i suoi limiti per
aver distrutto la pluralità e l’organicità della esperienza democratica,
riducendo le funzioni di governo a un sistematico e meccanico procedimento astratto, a livello comunale riprendeva a svilupparsi un senso
comunitario nuovo, uno spirito riformatore che nasceva dalla domanda di partecipazione del popolo e di maggiore efficienza dei servizi,
un modello di autogoverno che garantiva una valorizzazione della democrazia locale a fronte di quel processo, in parte inevitabile ma nell’insieme esasperato e controproducente, di assorbimento di tutte le
funzioni a livello di poteri centrali.
Il comune per Invrea doveva anticipare lo Stato nell’attuazione di quelle riforme che i tempi esigevano. Non bastava, quindi, la
tradizionale difesa dell’autonomia dei corpi territoriali: occorreva
compiere un salto di qualità. Unitamente ai temi della democrazia e
della partecipazione, della sana ed onesta amministrazione, del pluralismo nel campo dell’assistenza e della scuola, era indispensabile e
doveroso fare riferimento al problema di una funzione sociale, efficiente e moderna, del comune. Sul piano istituzionale veniva formulata la proposta di dotare i comuni di uffici del lavoro, in sintonia con
l’idea di istituire analogamente a livello statale un apposito ministero, affinché i pubblici poteri fossero posti nella condizione di affrontare con adeguati strumenti i problemi connessi alla cosiddetta “questione sociale” (28). Sul piano economico s’invoca un’iniziativa più diretta e più organica dell’ente locale. Nella cura dell’igiene pubblica,
nell’allestimento dei mercati, nella organizzazione dei forni e dei
28. Il distacco dalla posizione clerico-moderata è anche in questo caso molto
netta, quantunque la Dottrina sociale della Chiesa costituisca pur sempre il comune elemento di legittimazione. ”Nell’involucro dell’enciclica di Leone XIII
potevano coesistere le scelte economiche della democrazia cristiana e quelle del
clerico-moderatismo. Alla democrazia cristiana, che nei conflitti fra capitale e lavoro chiamava lo Stato a mediare gli interessi generali della comunità nazionale,
fino a proporre la creazione di un ministero del lavoro, i clerico-moderati opponevano la neutralità dei pubblici poteri ai quali sarebbe spettato la difesa dell’ordine, della pace sociale e della tutela del libero gioco delle forze del mercato”.
Francesco Maria Cecchini, La prima democrazia cristiana, vol. II, p. 60, in
AA.VV., Storia del Movimento Cattolico in Italia, Il Poligono Editore, 1981.
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mattatoi, nella gestione della pubblica illuminazione, delle tranvie,
degli acquedotti e dei trasporti funebri, in ogni ambito di quel vasto
campo dei servizi pubblici era giunto il momento di verificare se non
fosse più democratico, più economico, più efficiente affidare il compito di promozione e direzione alla mano pubblica, vale a dire al potere municipale.
Era una svolta! “Con l’attuazione delle riforme fin qui accennate, sosteneva Invrea, si restituirà ai comuni quella vitalità che oggi
loro manca; se ne risanerà l’organismo, e lo si renderà idoneo al compimento delle proprie funzioni, che il progresso sociale tende a rendere sempre più complesso. E così risorgerà tra noi quella rigogliosa vita
locale che ben lungi dal generare o mantenere un gretto campanilismo, è invece (come ci insegna l’esempio delle nazioni ove la vita locale è più in fiore) il fondamento migliore di un potente e sincero sentimento nazionale, e nello stesso tempo permette lo svolgimento d’una
sana e forte democrazia, riuscendo così potente strumento d’una sana
e forte educazione politica, e risvegliando efficacemente sulle popolazioni la coscienza, oggi così affievolita, della responsabilità e della solidarietà sociale” (29). Un linguaggio tecnico e un progetto politico in
cui anche il retaggio della vecchia sociologia cattolica era palesemente marginale e poco influente.
La municipalizzazione dei servizi pubblici è perciò un punto
qualificante della corrente di pensiero del municipalismo sociale cattolico, benché in genere sia piuttosto collegata alla stagione del riformismo democratico e socialista. È tuttavia un’esperienza che travalica
i confini ideologici e gli angusti riferimenti politici, essendo ad esempio già avviata sul finire del secolo in una città come Milano dall’amministrazione clerico-moderata di Giuseppe Vigoni, sindaco dal febbraio 1895 al luglio 1899. In genere i cattolici, o comunque i giovani
appartenenti alla corrente democratico cristiana, sono pienamente e
legittimamente partecipi di questa nuova formula di sviluppo e organizzazione delle attività del comune moderno. Essi condividono l’esigenza di sottrarre alle gestioni private l’esercizio di servizi che interessano la vita dell’intera popolazione e che richiedono, proprio per
29. F. Invrea, op. cit., p.63.
58
Capitolo II
questo, un’assunzione di responsabilità diretta da parte delle istituzioni, quali appunto i comuni e le province (30). La municipalizzazione dei
servizi a rilevante interesse pubblico è, dunque, una prospettiva che
unifica le forze riformatrici d’inizio secolo e che corrisponde a una
evoluzione della scienza economica e alla nuova cultura amministrativa. È una scelta progressista che trova riscontro nella legge istitutiva
della municipalizzazione (L. 29 marzo 1903, n.103) promossa dal Governo Giolitti: essa esprime “l’esigenza di nuove tecniche nel controllo e nella gestione dell’economia comunale, indicando prospettive alternative rispetto alle “città sociali” dell’imprenditoria privata” (31). È
un elemento fondamentale della strategia di modificazione dal basso
dello Stato, attraverso la valorizzazione dell’autonomia di comuni e
30. Non del tutto omogenea, a riguardo, appare la posizione di Luigi Sturzo.
La municipalizzazione dei servizi pubblici, per il sacerdote di Caltagirone, intanto poteva esistere e avere titolo di legittimità, in quanto destinata fondamentalmente a recuperare, sotto altre forme, la più generale ed antica preoccupazione dei cattolici circa la moralizzazione della vita amministrativa locale
e la salvaguardia dei demani e delle pubbliche proprietà quali condizioni materiali atte a garantire una possibile funzione sociale delle istituzioni, a vantaggio delle classi popolari e delle fasce povere della società. Egli pertanto insiste
sul fatto che “la municipalizzazione dei servizi pubblici non perda il suo carattere proprio ed essenziale e si trasformi in un nuovo sfruttamento, mutate le
guise” (L. Sturzo, Il Senatore Saredo e la municipalizzazione dei servizi pubblici, “La croce di Costantino”, 24 luglio 1901, ora in L. Sturzo, La Regione nella
Nazione, Zanichelli, 1974, p.326). All’inverso, ciò che conta per Sturzo è il
recupero da parte del comune moderno di quella più antica vocazione alla tutela e alla promozione, attraverso il corretto uso dei patrimoni collettivi, dalle
classi sociali inferiori. “La municipalizzazione dei servizi pubblici, sistema di
carattere del tutto moderno, riavvia il comune alla sua funzione naturale e storica” ( idem, p.326 ). Anche Toniolo, nel suo “Il programa dei cattolici di fronte al socialismo” del 1894, aveva sottolineato l’esigenza di “salvare le ultime
reliquie e ricomporre possibilmente i patrimoni collettivi degli enti morali giuridici, delle opere pie, delle corporazioni religiose, della Chiesa, che furono ritenuti sempre quasi il tesoro riservato del popolo, cui possono aggiungersi i
beni e le proprietà collettive dei comuni, delle province, dello Stato (...)”. In
altre parole, l’interventismo statale o municipale nell’economia avrebbe potuto
dare luogo, agli occhi di chi come Sturzo conserverà sempre una chiara nota
di avversione al burocraticismo statalista, a forme incestuose e perverse d’incrocio tra pubblico e privato, con effetti ineliminabili di inefficienza e corruzione politico-economica. Una preoccupazione che oggi, a distanza di un secolo, riprende corpo nel dibattito economico e orienta per altro le scelte di
riordino nei rapporti tra pubblico e privato.
31. Giuseppe Barbalace, Riforme e governo municipale a Roma in età giolittiana, Liguori editore, 1994, p. 17. L’Autore, riferendosi alla tematica delle “città
sociali”, intende parlare di una certa sensibilità riformatrice ed umanitaria,
I cambiamenti a cavallo del ’900: la nascita della democrazia cristiana
59
province, nonché l’organizzazione a questo livello di una vita civile
più giusta e solidale.
Del resto, l’ipotesi della municipalizzazione dei servizi era
nel novero delle prospettive che derivavano dai nuovi indirizzi economici della scuola neo-classica (o del marginalismo) che aveva tra i
principali esponenti il francese Léon Walras e l’italiano Vilfredo Pareto. Le elaborazioni di questa recente scienza economica, ponendosi in
contrasto con le teorie di Karl Marx circa l’inevitabile “sfruttamento”
del lavoro salariato nel regime capitalistico di libera concorrenza, recuperava una positiva valutazione del mercato. Grazie ad esso, qualora non sussistano condizioni di monopolio che ne alterino il corretto
funzionamento, si realizza una ottimale allocazione delle risorse e
un’equa remunerazione di tutti i fattori produttivi. Questa nuova teoria, che invece della produzione delle merci poneva al centro il tema
della distribuzione del reddito prodotto, dando priorità alla questione
del consumo e riconoscendo pertanto la centralità del cittadino-consumatore, faceva da base alla edificazione di quelle politiche che nel
tempo, soprattutto a seguito della crisi del ‘29, avrebbero incarnato il
nuovo modello del welfare state.
La lezione del marginalismo entra nel vivo delle nuove tendenze municipaliste. La scelta politica di annettere alla gestione pubblica alcuni grandi servizi non è il riflesso di una visione dogmatica
volta a punire l’impresa capitalistica, ma un atto di governo consapevole e responsabile che mira a rimuovere le condizioni di monopolio
che interferiscono nella dinamica del libero mercato, recando pregiudizio e danno agli interessi legittimi dei consumatori. L’intervento
dell’ente pubblico non prefigura, allora, un tentativo di controllo arbitrario e burocratico sulla produzione di beni e servizi, ma è piuttosto
la individuazione delle garanzie per un più efficiente e razionale
equilibrio di mercato, dove il pubblico può decidere di entrare in concorrenza con il privato allo scopo di raggiungere l’efficace e giusta
soddisfazione della domanda dei consumatori. Il modello di organiz-
espressione delle correnti più aperte e radicali della cultura del libero mercato,
secondo la quale competeva e interessava all’imprenditore assicurare i servizi
primari, come l’alloggio per le famiglie dei lavoratori, definendo all’occorrenza
accordi e convenzioni con i pubblici poteri.
60
Capitolo II
zazione delle attività e delle funzioni del comune moderno si forma,
in buona misura, sulla scorta di un pensiero economico che tende a
sostituire il tema del sovrappiù che si determina nel campo della produzione con la questione del conflitto che scaturisce proprio dalla organizzazione del consumo. È rispetto a questo contrasto d’interessi
che le istituzioni devono pertanto intervenire affinché l’iniziativa imprenditoriale, quantunque essenziale ed insostituibile, possa svilupparsi in un contesto di mercato effettivamente libero e non surrettiziamente alterato dalla formazione di cartelli e monopoli privati. La municipalizzazione dei servizi è sostenuta, in questo ampio orizzonte teorico, da uomini di varia formazione e tendenza politico-culturale a cui
appariva evidente la bontà dell’intervento pubblico locale. Quanti erano assertori, come il socialista Giovanni Montemartini(32), di una nuova azione riformista dello Stato non potevano che auspicare un ruolo
più attivo, o meglio d’avanguardia, delle amministrazioni locali. Ma
anche la scuola che mirava a conciliare l’istanza di giustizia del socialismo e il ruolo determinante del libero mercato - e qui, oltre il già citato Pareto, è bene ricordare anche Antonio De Viti De Marco, Bruno
Leone, Maffeo Pantaleoni - individua nella nuova attività economica
dei municipi un motivo ulteriore, quand’ anche straordinario, di contenimento e disarticolazione dell’invadenza crescente del burocraticismo statalista.
Conviene, a questo punto, seguire per esteso il ragionamento
del democratico cristiano Francesco Invrea: “Ora dal momento che il
monopolio è inevitabile è certo meglio che esso sia esercitato dal comune nell’interesse pubblico che dai privati nell’interesse privato.
Perché è chiaro che un monopolio di fatto, lasciato a privati speculatori, torna a sommo detrimento del pubblico, il quale resta così legato
mani e piedi in balìa dei fortunati concessionari. È vero che a frenare
questo monopolio i comuni sogliono negli atti di concessione inserire
delle clausole con le quali vengon posti dei limiti alle tariffe e in altri
modi si cerca di tutelare gli interessi del pubblico; ma trattandosi di
concessioni necessariamente assai lunghe, i freni possono essere da
32. Questi sarà uno dei più autorevoli membri della Giunta Nathan, artefice principale delle politiche di municipalizzazione dei servizi pubblici nella capitale.
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principio sufficienti, ma col tempo diventano derisori. E poi i comuni
con le concessioni ai privati si precludono per un tempo lunghissimo
la via ai perfezionamenti tecnici e ai miglioramenti del servizio; perché le società profittando del loro naturale monopolio trascurano d’introdurre nei servizi i necessari perfezionamenti. Del resto in pratica si
vede abbastanza quanto riescano deficienti ed illusorie tutte le cautele
che i comuni prendono per porre dei freni al monopolio delle società
anonime concessionarie. L’unico rimedio in conseguenza sta in ciò,
che il comune assuma direttamente l’impianto e l’esercizio dei servizi
pubblici cittadini” (33).
Questo, allora, è il manifesto dei democratici cristiani all’inizio del secolo: una piattaforma politica avanzata e, per così dire, aggressiva e pugnace. È vero che per la pubblicistica corrente la grande
svolta nella politica municipalista si realizza con il sindaco Nathan e
la tanto celebrata epopea della sua giunta laica, democratica e di sinistra. Ma, prima di Nathan, sul piano teorico e programmatico il municipalismo sociale dei cattolici non è da meno nel proporre una scelta
di modernità, in linea appunto con le posizioni politico-culturali più
aperte e dinamiche sia di matrice liberale che socialista. Volendo semplificare parecchio, si può rilevare dunque che al movimento cattolico-municipalista non manca la forza del riformismo, quanto la capacità di traduzione politica del suo disegno innovativo.
33. F. Invrea, op. cit., pp. 74-75.
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Capitolo II
I cambiamenti a cavallo del ’900: la nascita della democrazia cristiana
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Capitolo II
I cambiamenti a cavallo del ’900: la nascita della democrazia cristiana
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Capitolo II
CAPITOLO III
Le elezioni del 1902: l’iniziativa
di Romolo Murri, la sfida all’Unione romana
e il veto della S. Sede
Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri
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Il tentativo di Murri di qualificare in senso democratico cristiano l’impegno amministrativo dei cattolici romani in occasione del
turno generale del giugno 1902 per il rinnovo di parte della rappresentanza consiliare, si può leggere in definitiva come un’operazione matura dal punto di vista dell’accumulazione di proposte e suggerimenti
tecnici, ma debole sotto il profilo delle effettive possibilità politiche.
Del resto, l’iniziativa che egli assume ha un evidente significato di
sfida agli occhi dei circoli conservatori e tradizionalisti del mondo
cattolico capitolino. Più che una sperimentazione è una provocazione,
non foss’altro perché è proprio a Roma che la proposta di una lista
aperta ai candidati e al programma dei democratici cristiani viene con
tanta enfasi presentata. Siamo nella Città Eterna, nel cuore della cattolicità: qui la tradizione, da quasi trent’anni, vuole che l’Unione Romana organizzi la lista cattolica con l’obiettivo di ricercare un’intesa possibile con i liberali moderati. Era, come già ricordato, l’archetipo della
politica clerico-moderata che vigeva nelle principali amministrazioni
locali e che stabiliva di per sé il contrappeso, nelle forme consentite
dal non expedit, all’intransigenza cattolica(34). Tutto si poteva supporre
meno che un’iniziativa di stampo nuovo, come quella congegnata da
Murri, potesse trovare terreno favorevole e sufficiente disponibilità
non chissà dove, ma addirittura nella capitale. Eppure Murri gioca le
sue carte a Roma, forte evidentemente del prestigio, della simpatia e
del consenso che la sua democrazia cristiana proprio nell’Urbe era
riuscita a conquistare. Il movimento aveva un carattere nazionale, circoli ne erano sorti ovunque, in altre città si poteva cogliere un analogo
fermento di idee e di militanza, ma certamente Roma costituiva la
realtà più significativa e vitale della democrazia cristiana, se non altro
perché qui si manifestava più direttamente e intensamente il magistero
morale e politico del fondatore, Romolo Murri, che per tutti era il vero
ed incontrastato leader.
34. “In altre parole l’Unione Romana, all’insegna della moralità amministrativa,
rappresenta la liason tra gli interessi economici cattolici e quelli liberali secondo l’invito di Paolo Campello della Spina: <<Nei Consigli comunali la politica
deve tacere >>. L’incontro avviene sul piano dell’immobilismo sociale, naturalmente coperto dal rispetto per la religione”. L. Bedeschi, Socialisti e cattolici ...,
op. cit, p. 49.
66
Capitolo III
La Roma dei primi anni del ’900 non era certo una grande
metropoli - la sua popolazione si aggirava attorno alle 400.000 unità poiché il suo ruolo di primario centro amministrativo, in qualità di capitale del nuovo Stato unitario, andava sì convulsamente sviluppandosi, ma non poteva ancora ritenersi compiuto. L’orientamento delle
classi dirigenti piemontesi aveva escluso, del resto, una commistione
di attività industriali con funzioni tipicamente culturali e burocratiche.
La capitale doveva avere un suo status, una sua propria identità, una
caratteristica tutta fondata sul ruolo di centro della cultura, della
scienza e della politica, rinverdendo le glorie della sua millenaria tradizione storica e della sua vocazione cosmopolita. Solo Luigi Pianciani, sindaco nel 1873-4 e nel 1881-2, avrebbe vanamente tentato di indirizzare la città verso un qualche sviluppo di tipo industriale. In
realtà lo spettro della Comune di Parigi, con la paura di tensioni e tumulti nel punto nevralgico della nuova compagine statuale, avevano
autorizzato Quintino Sella a insistere affinché Roma si conservasse
diversa, al di fuori e al di sopra dei problemi che travagliavano le altre
città italiane ed europee. Una scelta laica, del resto, che escludeva
apertamente l’opzione di un Bettino Ricasoli, assertore convinto della
missione storica di “provocare” dall’esterno la riforma della Chiesa,
per il quale Roma acquisita alla nuova Italia doveva essere il centro
dinamico di un nuovo cattolicesimo.
Dal 1870 in avanti la capitale aveva modificato in profondità
la sua struttura urbana e la sua vita civile. In pochi decenni avrebbe
compiuto il passaggio da città simbolo di un piccolo Stato a grande
capitale di una importante nazione, subendo processi di trasformazione che nel Vecchio Continente avevano richiesto due o tre secoli di
lento e graduale sviluppo. I primi sventramenti per realizzare le sedi
della pubblica amministrazione, le grandi opere infrastrutturali, le speculazioni edilizie e la trasformazione del tessuto urbano, la nascita di
nuovi ricchi e l’arrivo di masse senza lavoro e senza casa: è un quadro, questo, che permette di cogliere le contraddizioni di una città che
in teoria avrebbe dovuto acquisire una sorta di più moderna funzionalità, unitamente a un nuovo prestigio in Italia e nel mondo, ma che in
realtà era costretta ad affrontare le conseguenze impreviste di uno sviluppo senza programmazione e senza controllo.
Si avvertiva sempre più, con il nuovo secolo, l’esigenza di
Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri
67
una nuova guida politica, di una classe dirigente locale più consapevole delle proprie responsabilità, di un quadro amministrativo in grado di fronteggiare con maggiore determinazione i grandi problemi che
le trasformazioni sociali portavano alla ribalta. Il mito della “Roma
laica”, centro d’irradiazione di nuova civiltà, subiva l’usura degli
eventi e pativa nel contempo la pressione delle masse popolari per una
svolta nella vita politica e amministrativa locale. Il modello piemontese tendeva a mostrare i suoi limiti e le sue contraddizioni, sia in campo economico che urbanistico. Una città priva di nerbo produttivo e
soggetta a interventi architettonico-urbanistici, recanti spesso il segno
della speculazione e dell’affarismo, si affacciava all’alba del nuovo
secolo ponendo allo scoperto bisogni e domande sociali difficilmente
circoscrivibili nel disegno austero e magniloquente della politica dei
ceti dirigenti post-unitari.
Si avvertiva anche la stanchezza di una certa retorica risorgimentale che non trovava altre risorse che non fossero quelle della contrapposizione pura e semplice tra la “Roma laica” e la “Roma dei Papi”. Il Campidoglio doveva rappresentare, naturalmente ed emblematicamente, il nuovo volto dell’Urbe, in congiunzione con le antiche
memorie dei Cesari e perciò fatalmente in alternativa alla tradizione
espressa dal potere temporale della Chiesa. Ma questa pregiudiziale
anticlericale nel corso degli anni si era irrigidita in forme e costumi
che rivelavano la tendenza delle élites liberali a farsi scudo di un qualche motivo ideologico per conservare ed estendere, in buona sostanza,
i propri ambiti di potere. Era pertanto matura la spinta popolare che
dall’anticlericalismo estraeva, a beneficio di un programma radicale,
il motivo di rottura con il passato dominio “dei preti”, vedendo proprio nell’intreccio d’interessi tra i moderati di appartenenza liberale o
cattolica la dimostrazione ultima del perché fosse ormai giunto il momento di guardare al futuro attraverso le lenti di una nuova politica. Si
avvertivano, in altre parole, i prodromi della svolta che nel 1907
avrebbe portato all’elezione - con la vittoria del Blocco popolare in
cui erano confluiti liberali, radicali, repubblicani e socialisti - del sindaco Nathan.
Un passo indietro.
È vero che i cattolici a Roma avevano tentato ben presto di
reinserirsi nel gioco politico e amministrativo che si era determinato
68
Capitolo III
con la “conquista” piemontese. È però un luogo comune la descrizione semplificata di una vicenda che starebbe lì ad esprimere una sorta
di immediata e ininterrotta collaborazione tra liberali e cattolici, con
amministrazioni moderate che si sarebbero alternate alla guida del
Campidoglio nel segno di una comune volontà di stabilizzare ben presto la vita amministrativa della nuova capitale. Al contrario, i primi
passi che i cattolici romani mossero sul piano politico locale furono
improntati al rifiuto dei fatti compiuti e quindi alla condivisione delle
pregiudiziali vaticane: sicché, per essere chiari, “(...) salvo pochissime
eccezioni (essi) si astennero dalle elezioni per il primo consiglio comunale nel novembre 1870 e parimenti si astennero dal prendere parte a qualsiasi manifestazione ufficiale” (35). Invero solo due anni dopo
si organizzarono, attraverso la Società Primaria Romana per gli Interessi Cattolici, per combattere da posizioni intransigenti il “mostro liberale”. Rispondevano così all’appello del Card. Riario Sforza, arcivescovo di Napoli, rilanciato pur senza particolare convinzione dello
stesso Pio IX, affinché i cattolici prendessero parte alle elezioni amministrative (per le quali non era necessario nessun giuramento di fedeltà al nuovo Stato) e potessero almeno in questo modo contrastare,
secondo le parole del vecchio Pontefice, “i progressi dell’empietà e il
pervertimento della gioventù” (36). La battaglia dei cattolici, in quell’anno, fu anche contraddistinta dal desiderio di salvaguardare l’identità dei “romani de Roma” contro l’invasione dei liberal-buzzurri.
Questo indirizzo intransigente uscirà sconfitto, e pure in maniera
molto netta, provocando così l’avvio di un ripensamento della strategia politica da seguire.
35. Filippo Mazzonis, L’Unione Romana e la partecipazione dei cattolici alle elezioni amministrative in Roma (1870-1881), “Storia e politica”, 1970 (aprile.giugno), p.220. La ricostruzione storica del Mazzonis è essenziale per comprendere l’evoluzione del comportamento politico dei cattolici romani e il carattere per così dire esemplare dell’Unione Romana al cospetto delle organizzazioni cattoliche delle altre città italiane, nonché della stessa Opera dei Congressi. Infatti “(...) il movimento cattolico romano poté accrescere notevolmente la
propria influenza su scala nazionale tanto da essere considerato (...) uno dei
maggiori “centri d’irradiazione” del movimento italiano” (idem, p.229).
36. Sono parole tratte da un discorso di Pio IX ai parroci romani il 2 luglio
1872. Cfr. Mazzonis, cit., p. 223, nota 28.
Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri
69
Dal 1872 inizia una riflessione, dunque, che porta in breve
successione a distinguere all’interno del blocco liberale gli avversari
dai dissidenti, immaginando di concentrare solo sui primi il giudizio
di condanna morale e politica. L’apertura ai moderati del mondo liberale corrisponde a un tentativo che, pur facendo leva sull’iniziativa dei
cattolici romani, aveva tuttavia una dimensione e un respiro nazionale. C’è da rilevare che questo approccio, transigente e conciliatorista,
non avrebbe mai significato il recupero della posizione assunta dai
cattolici liberali nel corso del Risorgimento, nè l’individuazione di uomini della statura di Marco Minghetti, ancora attivi sullo scenario politico, come possibili riferimenti del nuovo corso. Come scriveva il
Padre Oreglia su “La civiltà cattolica”, bisognava distinguere gli appartenenti alla nuova scuola liberale non massonica, che dovevano
essere considerati liberali solo “politicamente, in quanto desiderano liberiorem administrationem, ma non moralmente né religiosamente in
quanto vogliono mantenersi cattolici, apostolici, romani”(37). Su questa
nuova base nasce l’Unione Romana che si cimenterà, per la prima
volta, nelle elezioni amministrative del 1877. I suoi esponenti di maggiore spicco venivano dalle file dell’aristocrazia bianca che, a differenza della nera, aveva nutrito la speranza di poter stabilire fin dall’inizio un rapporto minimo di collaborazione con lo Stato liberale. C’è
dunque un pratico abbandono dell’esperienza della Società Primaria
Romana per gli Interessi Cattolici, dal cui programma quello dell’Unione Romana si distanziava “per l’assenza ( e non è una differenza
da poco, ma riguarda piuttosto l’impostazione di fondo ) di toni polemici, di rivendicazioni territoriali, di attacchi ideologici” (38). Al suo
esordio, appunto nel 1877, l’Unione Romana riuscì a imporsi all’attenzione degli interlocutori innanzi tutto per il discreto successo, il 10
37. Idem, p. 233, nota 61.
38. Idem, p. 241. Scarno ed essenziale, come evidenzia il Mazzonis, il contributo programmatico dell’Unione Romana cui si rifarà ovunque in Italia la prima
esperienza del moderatismo clericale. Così possiamo leggere che i due punti
principali del programma elettorale furono sempre: “1) Un’amministrazione
saggia e prudente del denaro pubblico. 2) L’istruzione religiosa nelle scuole che
coltivi e tuteli l’educazione morale delle giovani generazioni”. Idem, p.253.
70
Capitolo III
giugno, alle elezioni amministrative per il comune e poi per l’inaspettato e trionfale risultato, il 18 novembre, alle provinciali. Parte dell’alta borghesia romana, il cosiddetto generone, così come prima si era
conformato agli equilibri del nuovo Stato, così ora, registrando i primi
segni di crisi dei liberali, si disponeva per evidenti ragioni d’interesse
a compiere un tragitto inverso.
In buona sostanza, nello scenario politico romano si riflettono
o si determinano gli orientamenti a carattere nazionale dei cattolici.
Non si può dire, cioè, che l’impianto moderato e conservatore dell’Unione Romana fosse esente da contrasti esterni ed interni. Se così fosse non sarebbe mai avvenuto che nel 1878 gli intransigenti si presentassero con liste separate, determinando la sconfitta del fronte cattolico. È vero, insomma, che tra successi e sconfitte andrà consolidandosi
nel tempo una sensibilità e una propensione dei cattolici capitolini a
operare con duttilità affinché nessuna dispersione di forze desse mai
agli avversari l’opportunità d’imporsi e fosse invece quanto più concreta, grazie proprio all’unità delle organizzazioni cattoliche, la possibilità di esercitare un potere di condizionamento nel quadro delle alleanze di volta in volta stabilite con i moderati di parte liberale. Questo modello di comportamento fu difeso dall’Unione Romana anche
quando sul piano nazionale s’impose la linea degli intransigenti, tetragona ad ogni prospettiva di aggiramento e svuotamento del non expedit, anche solo nelle elezioni amministrative. Si può riconoscere, in
sintesi, che l’Unione Romana fu in origine il risultato dell’accordo di
due gruppi contrapposti, i transigenti e gli intransigenti: ora, “mentre
ai primi era lasciata la funzione di rappresentanza ufficiale, e la loro
incidenza pratica, e di conseguenza le loro responsabilità vanno ricondotte entro questi limiti, agli intransigenti toccò il controllo dell’organizzazione e il compito di impedire, senza rompere equilibri talvolta
molto precari, che certe aperture assumessero un carattere politico più
generale” (39). Questo peculiare impasto politico e ideologico, renderà
39. Idem, p.256. A riguardo della coerenza, rispettivamente, dei transigenti e
degli intransigenti nella vicenda politica romana, il Mazzonis sostiene la tesi di
una maggiore “tenuta” politica da parte dei transigenti. Questi mantennero una
linea molto chiara che li portò a stabilire una distanza incolmabile con la dirigenza e l’organizzazione stessa dell’Opera dei Congressi. Per contro, non si giustificherebbe il comportamento degli intransigenti romani che, per parte loro,
avrebbero dovuto marcare una distinzione ferma ed inequivocabile nei riguardi
Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri
71
congeniale un progressivo e inarrestabile impulso dell’Unione Romana a realizzare quegli accordi e quei compromessi che sembreranno
più utili, con l’andare del tempo, a conservare semplicemente una
certa capacità di controllo sull’amministrazione capitolina, per giunta
smarrendo così il valore di una politica delle alleanze che perlomeno
implicava un primo assaggio di concretezza e laicità nell’agire politico dei cattolici.
Nel 1902 lo scenario politico nazionale e romano appare, dunque, segnato da un complesso di novità ed emergenze. È evidente la
volontà della borghesia illuminata di considerare ormai chiusa la strada dell’autoritarismo che i governi succedutisi negli ultimi anni del
secolo avevano tentato d’imboccare con grande nocumento per la vita
democratica dell’Italia (40). Il disegno riformatore di Zanardelli e Giolitti, comporta una trasformazione del sistema delle alleanze, sicché i
socialisti e i cattolici, per diverse ragioni esclusi dal processo risorgimentale, sono in forme alternative e conflittuali sollecitati ad assume-
della collaborazione con i moderati di matrice liberale. Ma a parere dell’Autore
non si trattava evidentemente di veri e propri intransigenti, ma di vecchi integralisti, più che mai abbarbicati attorno all’idea nostalgica del potere temporale
e preoccupati, con il passare del tempo, di difendere concretamente i loro interessi, specialmente di tipo fondiario.
40. L’atteggiamento di chiusura dei governi Di Rudinì e Pelloux, trasformatosi nel giro di poco tempo in quella politica di reazione che portò alle gravi repressioni dei moti del ’98, era psicologicamente e politicamente motivato dalla convinzione che fosse necessario “armare” la difesa della democrazia liberale, esposta ai pericoli di una lotta di opposizione in cui prendeva anche corpo un inedito connubio tra radicali e cattolici. Scriveva Di Rudinì nel suo diario: “Quando finirà questa gazzarra rosso- conservatrice !!? A Roma i clericali, la marmaglia borghese - clericale, è entusiasta di Cavallotti, che fa evidentemente molto bene i loro interessi. Mostrando che il governo dei liberali fu
un governo di ladri, la repubblica e il Papa ci guadagnano e ci sguazzano. E la
fede, le plebi sono sempre le stesse: ladro chi sta in alto! ”. In Nino Valeri,
Giolitti, UTET, 1971, p. 143. Invece il giolittismo si afferma, una volta registrato il fallimento della svolta a destra nella crisi di fine secolo, come un
nuovo progetto democratico delle classi dirigenti liberali. Alla scelta conservatrice e reazionaria, che aveva un supporto ideologico nella proposta di Sidney Sonnino tesa a restaurare in chiave antiparlamentare le prerogative della
Corona e a conferire allo Stato una più robusta intelaiatura burocratico-amministrativa capace di garantire una formale base di neutralità all’azione di
governo, si sostituiva l’iniziativa più aperta e dinamica di Giovanni Giolitti in
nome della riscontrata maggiore utilità di un’azione volta a integrare le classi
popolari nello Stato e a cooptare in qualche misura le forze politiche di opposizione nella guida del Paese.
72
Capitolo III
re una qualche corresponsabilità a livello di governo. Si manifesta, in
tale contesto, il logoramento delle formule di compromesso nella politica amministrativa locale che avevano consentito ai cattolici di attivare una strategia di reinserimento nel circuito della democrazia post-risorgimentale. Ci si rende conto, con crescente disagio, che le masse
popolari potrebbero definitivamente abbandonare la Chiesa per riconoscersi nell’annuncio rivoluzionario del socialismo, lasciando ai cattolici il compito di organizzare la protesta antiliberale entro confini
angusti e vecchie modalità di tipo corporativo, al di fuori cioè di uno
spirito vitale di rinnovamento politico e culturale. Tant’è che la ripresa, a scadenza ciclica, del laicismo d’impronta anticlericale e massone
era percepito dai cattolici come una vera minaccia che unendo - si dovrebbe dire oggettivamente - liberali, radicali e socialisti avrebbe potuto determinare non solo la irreversibile condanna del potere temporale della Chiesa, ma anche la riduzione dell’impegno cristiano a un
ruolo di supplenza nella cura pubblica della povertà e della emarginazione sociale. E non era pertanto una ragione di sorpresa il fatto che a
Roma, in una città ove il conflitto sociale e politico tendeva ad acuirsi
con la fine delle speranze o delle illusioni alimentate dalla classe dirigente liberale, si formasse attorno a Murri un gruppo di democratici
cristiani disposti a lottare per introdurre nel rinnovamento della società e delle istituzioni i germi dell’ispirazione cristiana, aprendo una
fase di conflittualità con l’ambiente conservatore dei clericali romani.
In cosa consiste, allora, il tentativo di Murri?
All’approssimarsi della scadenza elettorale amministrativa,
egli avanza nei primi giorni di giugno la proposta di presentare nella
lista dell’Unione Romana, ancorché sulla base di un programma autonomo, alcuni candidati appartenenti alla sua democrazia cristiana. Le
condizioni non sono propizie: alla prevedibile resistenza dei conservatori romani si aggiunga la determinazione ecclesiastica a comprimere,
dopo tentennamenti e parziali aperture, lo spazio di manovra dei giovani murriani. Se il congresso di Taranto aveva rappresentato, nell’autunno dell’anno precedente, un sostanziale successo dei democratici cristiani all’interno dell’Opera dei Congressi, con le Istruzioni
emanate il 27 gennaio dalla Segreteria di Stato si metteva bruscamente fine all’autonomia del movimento democratico cristiano, ricondotto d’autorità sotto il controllo del II°Gruppo di Economia sociale e
cristiana dell’Opera dei Congressi, guidata dal Conte Stanislao Medolago Albani. Il mutamento d’indirizzo dei vertici vaticani gettava lo
scompiglio nelle fila della democrazia cristiana. Al pronto allineamen-
Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri
73
to del gruppo di Milano, poco incline con Meda ad esasperare le ragioni di conflitto con la S. Sede e ad assumere una linea politica oltranzista, fa da contrappeso l’atteggiamento di resistenza del nucleo
romano. Murri tenta di leggere le Istruzioni vaticane in maniera da
non pregiudicare i pur modesti margini di manovra che sembrerebbero rimanere aperti. In una intervista in prima pagina su “Il Corriere
della Sera” del 18-19 febbraio dichiara di voler rispettare gli indirizzi
della S. Sede, ma non nasconde il disagio e il disappunto per un disegno che mira ad emarginare i “novatori” e a ricondurre appunto la democrazia cristiana all’interno di una angusta e tradizionale visione
della politica come pura e semplice azione di carità sociale(41).
In effetti, le direttive della S. Sede costituiscono uno degli ultimi tentativi di evitare la disarticolazione del movimento cattolico facendo leva sulla necessità di una mediazione tra le esigenze di rinnovamento poste dai giovani e le preoccupazioni per i rischi delle novità
paventate dai vertici dell’Opera dei Congressi. Il declino del lungo
pontificato di Leone XIII sembrava denunciare l’impotenza della gerarchia a mantenere integra la piattaforma programmatica derivante
dalla Rerum novarum, poiché l’emergere di una diversa sensibilità
culturale e politica delle nuove generazioni cattoliche revocava in
dubbio l’ipotesi che una vera democrazia sociale potesse affermarsi
al di fuori degli schemi di una moderna democrazia politica. Sotto il
vigile controllo del Card. Mariano Rampolla del Tindaro, Segretario
di Stato, l’Opera dei Congressi veniva confermata come la sede nella
41. Così si esprime Murri: “Evidentemente, un’azione religiosa e di carità spiegata in nome del cristianesimo nella società moderna, un’attività benefica a favore del popolo, è molto, ma non è tutto: essa è buona per tutti i cattolici e
consigliata a tutti, ma perciò stesso lascia fuori di sé molti elementi i quali per
necessità dividono i cattolici, in quanto questi appartengono a diverse classi ed
hanno diversi interessi e diverse abitudini politiche e sociali”. In La democrazia
cristiana attende (Intervista con don Romolo Murri), “Il Corriere della Sera”,
18-19 Febbraio 1902. È una riflessione critica che incide non su un aspetto secondario della Dottrina sociale della Chiesa, ma su un punto assai delicato e
controverso. D’altronde, nell’ Enciclica Graves de communi pubblicata il 18
gennaio 1901, Leone XIII si era espresso con grande chiarezza quando, nel riconoscere pure un valore in sè alla nuova formula della democrazia cristiana,
aveva precisato: “Non sia poi lecito di dare un senso politico alla democrazia
cristiana. Perché, sebbene la parola democrazia, chi guardi all’etimologia e all’uso dei filosofi, serva ad indicare una forma di governo popolare, tuttavia nel
caso nostro, smesso ogni senso politico, non deve significare se non una benefica azione cristiana a favore del popolo”. Nel superamento di questa limitazione
si gioca, dunque, tutto il significato “rivoluzionario” dell’azione intellettuale e
politica di Murri.
74
Capitolo III
quale le varie anime del movimento cattolico dovevano trovare le ragioni ideali, morali ed organizzative di un impegno unitario. Ai giovani era offerta la possibilità di far maturare la loro prospettiva di cambiamento all’interno della tradizionale organizzazione cattolica. Ai
moderati si dava incarico di garantire il rispetto di una interpretazione
del non expedit come strumento di lotta per l’affermazione dei diritti
della Chiesa. Ai democratici cristiani si concedeva lo spazio per vivificare con idee nuove il programma e l’iniziativa del movimento cattolico. Sul piano politico si ribadiva perciò l’opzione intransigente,
mitigata dalla ricerca di possibili alleanze sul piano locale con i settori
moderati della classe dirigente liberale. Sul piano programmatico, invece, si recepiva il nuovo discorso dei democratici cristiani, valutato
stricto sensu nei termini di un approccio etico e culturale, senza implicazioni pericolose sul terreno della lotta politica.
Sarebbe un errore, pertanto, considerare pregiudizialmente
ostile ai democratici cristiani la linea centrista del Card. Rampolla.
Questi, semmai, puntava a utilizzare il nucleo “neointransigente” del
movimento dc per contenere le tentazioni collaborazioniste che riaffioravano ciclicamente - ma ora con maggiore chiarezza e vigore politico - nel mondo cattolico, soprattutto in quei settori che apparivano
più solerti e fervidi nell’esprimere fedeltà alle direttive della S. Sede.
Il gruppo milanese, ad esempio, aveva sì dichiarato la propria adesione senza remore alla svolta vaticana sancita dalle Istruzioni; e però,
come lo stesso Murri ricordava con una punta di malcelato fastidio
nella succitata intervista a “Il Corriere della Sera”, era questo lo stesso
gruppo che nell’ottobre del 1901, in una riunione a Varese, aveva lanciato un messaggio “patriottico” volto implicitamente a forzare i vincoli del non expedit e a cui la S. Sede doveva replicare, benché in
via riservata, non senza una certa durezza (42). Il difficile rapporto umano tra Murri e il Card. Rampolla non faceva velo, pertanto, a una strategia vaticana che poneva al vertice di ogni altra cosa la preservazione
42. Cfr. Ernesto Vercesi, Le origini del movimento cattolico in Italia 18701922, Il Poligono editore, 1981. Si cita, a riguardo dell’iniziativa dei giovani
cattolici lombardi, la lettera del Segretario di Stato, Card. Rampolla, all’arcivescovo di Milano, Card. Ferrari, in cui veniva apertamente condannata la propensione a esaltare i doveri nazionali dei cattolici a discapito delle rivendicazioni della S. Sede in ordine alla questione del potere temporale (cfr. in particolare p. 92).
Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri
75
dell’unità dei cattolici e la difesa dei diritti della Chiesa. Tanto è vero
che il desiderio di conservare il potenziale innovativo dei giovani democratici cristiani, pur nel contesto dei forti limiti imposti con le
Istruzioni, faceva sì che lo stesso programma per il turno generale delle elezioni amministrative del giugno 1902 , presentato dal II° Gruppo
dell’Opera dei Congressi, fosse in gran parte corrispondente agli indirizzi su cui da tempo avevano lavorato Murri e i suoi amici. È difficile
pensare ad una svista o ad un fraintendimento da parte della Segreteria di Stato: forse, e più plausibilmente, si deve intravedere in questa
apertura la sanzione di un equilibrio tra esigenze diverse, laddove le
istanze del vecchio intransigentismo e il nuovo modello cristiano
d’impegno sociale venivano ricondotti a una qualche sintesi.
Giunti a questo punto non può che soccorrerci, ai fini della
precisazione di quanto poco sopra affermato, una completa riproduzione delle norme generali del programma cattolico per le elezioni
amministrative. Ecco, dunque, il testo della circolare, emanata da Bergamo in data 10 aprile 1902, dal Presidente Medolago Albani:
“Si avvicinano i giorni nei quali gli elettori amministrativi saranno chiamati a rinnovare, per metà, i Consigli comunali e provinciali. Non occorre ricordare ai cattolici e alle associazioni che dirigono il
movimento elettorale, i criteri direttivi d’ordine religioso e morale che
il Sommo Pontefice ha più volte tracciati a riguardo delle elezioni amministrative, né le deliberazioni prese in argomento, dai Congressi
cattolici regionali, sempre opportune e pratiche; basterà all’uopo che
si consultino gli atti dei diciotto Congressi, tenutisi dal 1874 al 1901.
Il II° Gruppo, mentre esorta i cattolici a prendere parte attiva
e illuminata alla prossima azione elettorale, tenendo sempre presenti
e le sapienti direzioni pontificie e le deliberazioni dei nostri Congressi, non può trattenersi dal chiamare l’attenzione loro sopra alcuni
punti del programma nuovo d’azione amministrativa, in corrispondenza alle condizioni ed ai bisogni presenti delle nostre popolazioni,
e al felice risveglio che si nota, da qualche tempo, nella vita comunale e provinciale.
In generale, il II° Gruppo raccomanda ai cattolici di far tesoro
degli studi compiuti, in questi ultimi anni, nel campo economico sociale, e degli esperimenti, comunque riusciti, fatti in parecchi comuni
grandi e piccoli, con l’applicazione di indirizzi più moderni, conformi
76
Capitolo III
specialmente alla funzione odierna del comune.
Ricordino che la legge assegna ai comuni e alle province limiti purtroppo ristretti alle loro iniziative e alle loro attività; limiti, non
di rado, da certe autorità tutorie resi ancora più angusti. Ond’è che le
rappresentanze amministrative e gli elettori stessi non devono trascurare nessuna propizia occasione che loro si presenti, per chiedere nelle
consentite forme legali:
a) Una più razionale limitazione nella tutela dello Stato che
invade tutte indistintamente le funzioni dei comuni e delle provincie.
b) Una limitazione nell’assorbimento fatto dallo Stato di parecchie funzioni che legittimamente appartengono ai comuni e alle
provincie, come, ad esempio, le scuole primarie e secondarie.
c) Una giusta suddivisione delle spese, sgravando i bilanci
dei comuni e delle provincie di tutti gli oneri obbligatorii per parecchi
servizii esclusivamente o prevalentemente governativi.
La doverosa partecipazione dei cattolici alla vita amministrativa importa che, in relazione alle condizioni ed ai bisogni dei singoli
comuni e delle singole provincie, essi abbiano a formulare un programma breve, concreto, pratico, sincero.
Tale programma non dovrebbe trascurare i seguenti punti:
1) Che nei regolamenti di lavoro si inseriscano alcune importanti clausole sociali, determinando, cioè, che municipii e provincie,
sia che facciano lavorare direttamente, sia che eseguiscano per mezzo
di appalto, fissino il minimo del salario, il massimo delle ore di lavoro, il riposo festivo.
2) Che nei servizi pubblici da affidarsi ai privati, venga inclusa nei contratti la partecipazione del comune o della provincia ai redditi, con quote percentuali e fisse; la ingerenza o la vigilanza loro nella esecuzione di contratti aventi attinenza alla soddisfazione di pubblici bisogni; il diritto di rescindere i contratti di lunga durata, a condizione eque, specialmente quelli che si prestano alla perfettibilità degli
strumenti tecnici.
3) Che in materia di dazio si abbia cura di sgravare le voci di
ordinario consumo popolare.
Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri
77
4) Che si preferiscano agli appaltatori singoli, le cooperative
di lavoro, con invito alle Commissioni provinciali di essere molto
oculate nell’accordare l’iscrizione se non a vere cooperative, che offrano tutte le volute garanzie.
5) Che si favorisca la municipalizzazione dei servizii pubblici, distinguendo quelli in cui prevale l’elemento morale e che riguardano generi di prima necessità, come l’igiene, l’acqua, la luce, da
quelli in cui è prevalente l’elemento tecnico e commerciale, ed è più
facile la frode: i primi, con le dovute cautele, possono essere più facilmente e più utilmente municipalizzati che non i secondi.
6) Che si preferisca il sistema della progressività equa e moderata a quello della proporzionalità, nell’applicazione delle tasse comunali.
7) Che si rifiutino sussidi alle Camere del lavoro, le quali
hanno generalmente dimostrato di non essere inspirate ai principi di
moralità e di giustizia sociale; che si promuova, invece, la istituzione
di Uffici del lavoro.
8) Che il riposo festivo, compatibilmente con le esigenze di
alcuni servizii pubblici permanenti, sia accordato a tutti gli impiegati
delle provincie e dei comuni.
9) Che le Opere pie, proprietarie di beni stabili, modificando
opportunamente sistemi contrattuali in corso, sostituendo all’unico
grande affitto, il sistema della affittanza collettiva ai lavoratori o il
frazionamento dei poderi, dandoli in conduzione diretta ai contadini,
secondino ed incoraggino con opportune istituzioni e premi il miglioramento agricolo, sia con la elevazione morale ed economica dei contadini, sia con l’introduzione dei metodi razionali di coltivazione del
suolo, sia col provvedere meglio alla salubrità delle abitazioni e all’igiene domestica.
10) Che si chieda o si favorisca la istituzione di collegi di
probiviri nell’industria, come nell’agricoltura.
Questa traccia, che il II° Gruppo ha creduto di esporre ai cattolici italiani, sia per loro argomento di esame e di considerazione;
veggano quali punti possano interessarli principalmente e questi si
studino a fondo. In tal guisa operando, il programma d’azione amministrativa dei cattolici si avvantaggerà, diventando sempre più serio,
pratico, attuabile, in quella parte che generalmente si fa più apprezza-
78
Capitolo III
re, cioè la economico-sociale.
Se in ogni comune e provincia d’Italia il II° Gruppo troverà
corrispondenza nello studio e nell’applicazione del suesposto programma, l’azione popolare cristiana o democratico-cristiana ne avrà
notevole incremento, e il popolo, a poco a poco, sarà tratto a riconoscere nei cattolici i suoi migliori amici.
Affinché questi nobili intenti possano essere più facilmente
raggiunti, il II° Gruppo raccomanda caldamente e confida che coloro i
quali hanno diretta in passato l’azione elettorale vorranno desiderare o
accogliere con lieto animo la cooperazione dei giovani militanti sotto
la bandiera della democrazia cristiana, e questi, tesoreggiando l’esperienza degli anziani, provata al fuoco delle combattute battaglie, sapranno recare nel movimento elettorale tutta la loro attività e il loro
zelo; gli uni e gli altri cooperando a mantenere e consolidare la concordia nel pensiero e nelle opere fra i cattolici italiani (43)”.
Costretto all’angolo, sottomesso alla disciplina dell’Opera dei Congressi, privato della propria autonomia, il movimento
dei giovani dc era tuttavia riconosciuto nel suo essere propriamente
un’espressione forte della volontà riformatrice dei cattolici. In quel
frangente, per altro, essi erano sollecitati a schierarsi con rinnovato
fervore e spirito di unità anche in ragione del fatto che si riaccendeva
improvvisamente la discussione sulla legge per il divorzio, indizio ulteriore della minaccia che incombeva sulla “civiltà cristiana”. La distinzione o più ancora la dissociazione del campo cattolico in conservatori e progressisti non poteva che apparire, allora, se non come una
formula equivoca, inopportuna e quanto mai dannosa. Questa ricucitura del tessuto politico ed organizzativo dei cattolici scontava comun-
43. Il testo si trova pubblicato sul numero del 17 giugno 1902 de “La Voce della Verità”, giornale della Società Primaria Romana per gli Interessi Cattolici, che
fungeva da portavoce ufficioso dell’Unione Romana. È evidente lo sforzo che
sostiene la circolare diffusa dai vertici dell’Opera dei Congressi: coinvolgere i
giovani democratici cristiani cui si concedeva il massimo di soddisfazione sul
piano dei contenuti e delle scelte programmatiche in vista della imminente competizione amministrativa che, quantunque affrontata con spirito nuovo, non poteva e non doveva rappresentare tuttavia la circostanza per sconfessare le “combattute battaglie” degli anziani.
Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri
79
que la difficoltà a mantenere unita e solidale un’esperienza che subiva
da diverso tempo lacerazioni e contrasti non di poco conto. In sede locale, l’appello del II° Gruppo dell’Opera stenterà ad affermarsi come
un solido ed efficace proposito. Le resistenze dei moderati che monopolizzavano in molte città e paesi l’organizzazione elettorale dei cattolici, erano fatalmente destinate ad emergere in un modo o nell’altro.
E così il programma elettorale, con il suo evidente connotato democratico cristiano, non era rifiutato o contestato, ma spesso più semplicemente aggirato. Esisteva e contava, ma non fino al punto di modificare una condotta conservatrice stratificata nel corso di molti anni. Il
dissenso veniva perciò occultato e tatticamente sostituito da un ossequio tutto formale, ma privo di conseguenze pratiche, verso il complesso delle novità elaborate.
Il comportamento dell’Unione Romana si sarebbe qualificato,
in relazione alla spinta generale del movimento democratico cristiano
e alla proposta di accordo avanzata localmente da Murri, con questo
tipo di prudente e vischioso distacco. L’ingresso dei giovani non era
pubblicamente contrastato, ma, nella misura in cui sembrava tradursi
in realtà, d’incanto s’infrangeva sugli scogli di una reticenza diffusa
volta a smorzarne l’impianto riformatore e la carica simbolica di rinnovamento. Non c’era soluzione di continuità con il passato: i clericali, specialmente a Roma, miravano a prolungare una tradizione che intanto risultava efficace in quanto riusciva, a loro giudizio, a irretire le
forze liberali nel gioco del compromesso sulle questioni essenziali a
cui i cattolici rimanevano fedeli. “Elettori ed eletti, come cattolici,
non possono aver bisogno di pubblicare programmi per tracciare la loro condotta in rapporto ai grandi principi religiosi e morali che si onorano di professare”: con queste parole, l’Unione chiamava a raccolta
le sue schiere, limitando il significato del proprio appello alla consueta difesa dei valori cattolici. Il programma elettorale predisposto dall’Opera dei Congressi veniva riproposto come allegato alla circolare
per le elezioni, tuttavia non ne era garantita una diffusione adeguata,
magari attraverso l’affissione di manifesti (44). Nulla proprio sembrava
mutare nella gestione della campagna elettorale dei conservatori ro44. D’altronde, spiegava la nota del Comitato Centrale dell’Associazione, era
prassi consolidata dell’Unione Romana evitare di pubblicizzare con manifesti la
propria posizione politico-programmatica. Quella consuetudine, confermata a
80
Capitolo III
mani: il blocco moderato, a guida cattolica, doveva restare immune
dalla contaminazione democratico cristiana.
In verità, con il passaggio da Pio IX a Leone XIII di fatto si
era andato attenuando l’indirizzo vaticano concernente la richiesta di
una effettiva restaurazione dell’antico potere temporale, anche se nelle
parole e negli atti mai era venuta meno la protesta per il vulnus inferto dallo Stato italiano. Ma questa evoluzione sotterranea, a carattere
eminentemente diplomatico, contemplava in pari tempo la sottolineatura del carattere “sacro” della città di Roma, quasi a voler restringere
il campo delle rivendicazioni vaticane ad un reciproco riconoscimento
di uno speciale diritto di controllo e supervisione della Chiesa sulla
vita spirituale e materiale dell’Urbe(45). Il problema che si propone, a
questo punto della nostra ricostruzione storica, è il perché della scelta
di Murri. Non doveva sfuggire alla sua valutazione politica, quantunque segnata da un certo radicalismo di fondo, la difficoltà che avrebbe
incontrato una proposta di accordo tra moderati e democratici cristiani
nella città di Roma. Del resto, il fatto stesso che nell’operazione interveniva in prima persona il leader del nuovo movimento politico, non
poteva che aggravare l’istintiva e consolidata diffidenza degli ambienti clericali della capitale. Le elezioni cadevano, per giunta, in un momento di particolare tensione tra i giovani dc e il Vaticano. In questa
crisi, l’atteggiamento di Murri mostrava oscillazioni e incertezze di
particolare evidenza. Da un lato, intuendo la serietà del conflitto con
le autorità ecclesiastiche, il sacerdote marchigiano aveva dichiarato
l’intendimento di appartarsi dalla vita pubblica, pensando di salvare
con il suo “sacrificio” l’esperienza della democrazia cristiana. Dall’altro, però, questo proclamato distacco dall’impegno politico appariva
tutti gli effetti, era la spia di un modello di comportamento teso a conseguire
concreti risultati amministrativi, evitando formule e gesti in qualche modo aggressivi che avrebbero potuto incrinare, sotto l’accusa d’indebita ingerenza clericale, la capacità di attrazione di forze liberali moderate, offrendo di conseguenza il destro alla sempre possibile costituzione di un fronte radicale anticattolico.
45. Cfr. Arturo Carlo Jemolo, Chiesa e Stato in Italia. Dall’unificazione a Giovanni XXIII, PBE Einaudi, 1965, pp. 55.
Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri
81
come un semplice gioco di specchi, poiché Murri immancabilmente
riemergeva dai suoi silenzi e dai suoi ritiri, come se un imperativo
superiore comandasse la volontà dell’uomo. Secondo logica, una volta verificata la determinazione della S. Sede circa l’inquadramento
dei giovani nell’Opera dei Congressi, un Murri davvero convinto dell’opportunità di farsi da parte non avrebbe dovuto avventurarsi in
quella che finiva per essere, inevitabilmente, una sorta di sfida all’Unione Romana.
Si potrebbe dire che il gesto di Murri s’inquadrava nella grande difficoltà del momento e nella condizione di estremo imbarazzo in
cui egli era costretto a muoversi da molti mesi. In questo senso, l’operazione romana andrebbe letta come una provocazione o al limite come un atto isolato e istintivo corrispondente al bisogno di aprire un
varco nella cortina di isolamento che circondava tutta l’iniziativa dei
democratici cristiani. Ma la chiarezza di linguaggio politico e la fredda constatazione, a cose fatte, del fallimento dell’esperimento proposto, inducono a ritenere che Murri non fosse guidato da una impolitica
volontà di giocare il tutto per tutto, scegliendo tra l’altro il terreno più
infido e scabroso possibile.
In realtà, aprendo il dibattito a Roma sulla condotta elettorale
delle organizzazioni cattoliche e assumendo su di sé il compito di tradurre in pratica la riflessione avviata da tempo sulla questione delle
autonomie locali, egli si disponeva a compiere una verifica seria e circostanziata dei rapporti che intercorrevano tra le varie anime del movimento cattolico e a stabilire un metro di valutazione molto concreto
in ordine alle obiezioni sollevate a carico della “eresia” politica del
murrismo. Era necessario, insomma, dimostrare che lo scontro verteva
sui contenuti, sulla prassi, sui metodi che il conservatorismo clericale
ostinatamente difendeva. Qualcosa che si poneva a metà strada, dunque, tra la speranza e la convinzione di poter innescare finalmente il
meccanismo essenziale alla costituzione del partito cattolico. La questione nasceva dalla politica e sempre alla politica doveva tornare. Ma
forse l’indole inquieta di Murri lasciava temere dell’altro o forse, alla
luce del discorso di San Marino tenuto appena due mesi dopo le elezioni amministrative, la sua rottura con l’establishment cattolico era
già pervenuta al punto di non ritorno. Sta di fatto che l’episodio qui
esaminato in relazione al rinnovo del consiglio comunale di Roma,
82
Capitolo III
tutto può esser stato fuorché un banale incidente di percorso, con generiche e inevitabili responsabilità da ambo le parti.
È ancora possibile supporre che Murri fosse convinto della
opportunità di una prova di forza sul terreno delle scelte amministrative, e quindi dei relativi comportamenti elettorali, che dovevano orientare il nuovo corso politico del movimento cattolico. Si è visto poco
sopra come la mediazione tra moderati e democratici cristiani avesse
comportato, nell’ambito dell’Opera dei Congressi, l’adozione di un
programma per le elezioni municipali che incardinava l’unità dei cattolici sulla base di quelle idee e di quegli indirizzi che i giovani avevano assunto a paradigma della loro iniziativa. La definizione di questo equilibrio che implicava per i moderati, da una parte, l’adesione a
un nuovo programma di stampo riformatore e per i democratici cristiani, dall’altra, l’accettazione delle liste unitarie cattoliche, lasciava
intravedere molte incertezze e troppi distinguo. Agiva, pertanto, nella
discussione interna al movimento democratico cristiano un senso di
diffidenza per l’unità politico-elettorale dello schieramento cattolico.
Il discorso di Murri conteneva elementi che miravano a forzare le tradizionali formule dell’impegno sociale e politico che la Chiesa, dai tempi della Rerum novarum, aveva provveduto a codificare. In
ogni caso pur muovendo dal rifiuto e dalla condanna del moderatismo clericale, egli non rifiutava l’ipotesi di un possibile recupero, in
tempi diversi e per gradi successivi, di tutto o di gran parte del movimento cattolico alle ragioni della democrazia cristiana. Questa era l’utopia di Murri: una rinascita cattolica, sostenuta dall’idea moderna di
un cristianesimo riconciliato con la democrazia, da doversi ottenere in
forza di una operazione di critica culturale delle forme di vita e di organizzazione del movimento cattolico, il cui esito tuttavia non escludeva la possibilità di salvare ogni parte e ogni esperienza di quella
complessa realtà così severamente e audacemente “provocata”. L’intransigenza di Murri agisce all’esterno, verso il mondo liberale, come
rifiuto dell’agnosticismo e dell’individualismo borghese; all’interno,
nell’ambito delle organizzazioni cattoliche, come distacco dalla
prassi di autoisolamento e separazione dal mondo moderno. Il senso
del nuovo intransigentismo murriano risiede in questa volontà di
rompere gli schemi e conquistare l’egemonia sulla scorta di un intervento per così dire straordinario, in quanto di natura epocale, capace
Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri
83
di suscitare una transvalutazione dell’esperienza storica del cattolicesimo. Ecco, perciò, l’inclinazione a procedere con atti di grande
determinazione e vigore che, per una concatenazione necessaria delle idee e delle cose, declinano in forme d’intempestività e radicalismo. Manca il motivo della gradualità e della concretezza politica,
tanto da far apparire la proposta e l’iniziativa dei giovani democratici cristiani in sovraesposizione rispetto alle reali capacità e possibilità di tenuta politica.
Murri s’incaricherà di spiegare il motivo per il quale l’autonomia della democrazia cristiana poteva coniugarsi, nella prospettiva di
una politica di riforme, con l’apertura ai partiti non cattolici(46). Nel
confronto che si apre sulle pagine di “Cultura Sociale”(47) il giovane
Sturzo si dimostra immediatamente consapevole dei rischi a cui Murri
espone, per effetto del suo approccio precipitoso, l’ancora gracile
movimento democratico cristiano. Il discorso verte sulla tattica elettorale da assumere. Contrariamente alle aperture di Murri, si registra
una sua netta contrarietà alla previsione di possibili accordi con partiti
non cattolici (ovvero, stante la preclusione antiliberale di tutto il mo-
46. L’incertezza e l’ambivalenza di Murri, in questo passaggio politico, sono il
segno di una difficoltà più generale. L’impegno municipalista non è l’abbandono del disegno vagheggiato di un nuovo partito in cui raccogliere le giovani generazioni cattoliche. E però non si configura neppure come una chiara e concreta verifica delle condizioni “ambientali” che avrebbero dovuto accogliere e
garantire una simile strategia politica. “Del resto era nel suo temperamento impetuoso il forzare le situazioni. Ecco perché, vistasi preclusa la via del partito,
imboccava quella del municipalismo a cui peraltro imprimeva un’indubbio carattere politico in senso democratico cristiano. La battaglia comunale insomma
gli serviva da copertura. Non è da escludersi che a ciò lo abbia indotto anche
l’esperienza che il suo amico don Sturzo (anzi suo discepolo in questi anni) stava facendo in Sicilia”. L. Bedeschi, Socialisti e cattolici ..., op. cit. , p. 110. Bisogna dire, però, che questa descrizione che Bedeschi propone non toglie il carattere tattico e per così dire difensivo della condotta di Murri, preoccupato evidentemente di salvaguardare innanzi tutto un certo grado di autonomia del movimento democratico cristiano. Gli indirizzi del pontificato leoniano avrebbero
dovuto incidere, un pò ovunque, sulla dura scorsa del tradizionalismo politico
dei cattolici. Un vento nuovo spirava da anni in ogni regione e contrada d’Italia. Ma a Roma evidentemente era diverso.
47. Infra, testi riportati nella documentazione allegata, pp. 119-135.
84
Capitolo III
vimento cattolico, con i partiti popolari di matrice repubblicana, radicale o socialista). Per il futuro leader del Partito Popolare, il tema
delle alleanze è innanzi tutto fonte di artificiale e impropria divisione
del fronte cattolico e conseguentemente ragione di facile discriminazione e condanna del movimento democratico cristiano. L’ansia sociale dei cattolici non può e non deve tradursi in un comportamento
politico destinato a trasmettere alla pubblica opinione e alla base
elettorale di riferimento un messaggio del tutto squilibrato e confuso.
L’analisi sturziana si differenzia, già in questa fase della costruzione
del movimento democratico cristiano, dalla ipotesi neo-intransigente
e modernistica che esaltando l’afflato morale e sociale del movimento cattolico ignora, o meglio surroga arbitrariamente, l’esigenza di
fondare l’iniziativa del futuro partito in termini di autonomia e laicità
della politica.
È utile del resto ricordare, a questo riguardo, proprio il carattere innovativo dell’esperienza amministrativa di Sturzo, il suo valore
pedagogico ed esemplare per tutto il movimento cattolico, l’anticipazione per molti aspetti del suo futuro modello di comportamento politico in quanto leader di partito. “Possiamo ritrovare, scrive De Rosa,
nello Sturzo calatino, poco più che trentenne, alcune caratteristiche di
comportamento, che rimarranno in lui costanti, una psicologia politica
lineare, che non subì crisi o dubbi nel corso delle sue vicende politiche, dalla fondazione del PPI all’esilio”(48). Si può, così inquadrare
correttamente l’atteggiamento tattico che Sturzo adotta nella costruzione delle alleanze locali. Essendo evidentemente prioritaria, a suo
giudizio, l’esigenza di affermare l’esistenza stessa dei cattolici sul terreno politico, Sturzo avvia le prime mosse evitando di scontrarsi frontalmente con i gruppi locali dominanti. Inizialmente, nel 1899, appoggia il candidato milazziano Amore contro il latifondista Libertini, di
matrice liberale. Successivamente, nel 1902, per evitare lo scioglimento del consiglio comunale vota il candidato libertiniano. Ma nel
1905, in virtù di questo approccio duttile, ottiene addirittura la maggioranza assoluta dei seggi. L’autonomia dei cattolici, attraverso la
48. In Introduzione a Umberto Chiaramonte, Il municipalismo di Luigi SturzoPro-sindaco di Caltagirone (1899-1920), Morcelliana, 1992, p. 11.
Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri
85
presentazione di una lista propria, è perciò il risultato di una complessa e prudente operazione politica che riesce a dissaldare il blocco
degli interessi organizzati attorno alle forze del latifondo e a impedire la subalternità dei cattolici agli schieramenti elettorali da tempo
consolidati.
E però non si tratta di un’azione tendente a risolversi solo nell’ambito delle opportunità elettorali e a dare di sé un’immagine di pericolosa indifferenza politica. Alle spalle di una condotta molto abile
sul piano delle alleanze, vi è un grande lavoro di formazione che utilizza la carica ideale e politica dell’intransigentismo per dislocare progressivamente i cattolici fuori dagli schemi clerico-moderati, in particolare in una regione come la Sicilia dove la Chiesa e i fedeli subivano fortemente l’attrazione del paternalismo borbonico e il ricatto della
proprietà fondiaria.
Il problema della specificità e dell’autonomia delle liste cattoliche è dunque riconosciuto come essenziale allo sviluppo di una prospettiva equilibrata e gradualista di penetrazione all’interno delle istituzioni democratiche. Contrariamente a Murri, che aveva sottolienato
l’esigenza prioritaria di considerare i conservatori come avversari e di
prevedere la possibilità pertanto di stipulare nuove alleanze, Sturzo resta fermo nell’indicare i rischi di un’apertura presumibilmente “rovinosa”(49). Condividendo la lotta contro i conservatori, egli propone una
collocazione al centro (né con i liberali né con i socialisti), anche
49. Cfr. “Cultura Sociale”, n° 106, 1 giugno 1902, Un problema di tattica, laddove Sturzo così esordisce: “Caro Pram, questa volta sono più radicale di te; tu
ammetti che nelle prossime elezioni amministrative i democratici cristiani, secondo le circostanze dei luoghi, con le debite riserve e cautele, possono unirsi
con qualche partito non cattolico, e scendere uniti nella lotta, e, vincendo, nella
vita amministrativa; io credo che questa tattica potrà, date le attuali condizioni,
riuscire rovinosa in ogni caso” (Infra, p. 125). Tuttavia il rifiuto delle intese con
partiti non cattolici - ipotesi avanzata da Pram (alias Murri) in modo per altro
allusivo e con l’obiettivo d’una conquista dei voti da ottenere, appunto,anche
mediante alleanze nuove - non si riferisce a una pregiudiziale astratta e definitiva, ma ad una questione di opportunità e convenienza, giacché, secondo Sturzo,
quel che conta è “l’avvenire della democrazia cristiana come partito di vita pubblica, più che qualsiasi problema speciale e locale di una possibile soluzione immediata”. L’articolo altro non è se non una lettera inviata da Caltagirone il 10
Maggio a cui Murri risponde di seguito, restringendo al minimo il dissenso con
il giovane sacerdote siciliano.
86
Capitolo III
scontando il fatto che l’isolamento dei democratici cristiani avrebbe
in molti casi avvantaggiato i socialisti. Ma se così sarà, conclude il
sacerdote calatino, la vittoria dei socialisti nei comuni sarà cagione
inevitabile del loro infiacchimento, da cui risulterà più nitida l’azione
del partito dell’avvenire(50). Alla fine é proprio la linea di Sturzo che
ufficialmente si assume e si propone ai militanti della democrazia cristiana. Nell’opuscolo che viene allegato al numero 23 de “Il Domani
d’Italia”, recante il titolo battagliero ed aggressivo di Conquistiamo i
Comuni!, si riporta un passo di Sturzo che costituisce lo stralcio del
suo precedente intervento, apparso sul fascicolo di ”Cultura Sociale”
del 2 giugno 1902. Il riquadro intitolato La nostra tattica dice testualmente:
a) bisogna scendere in campo nelle prossime elezioni amministrative, là dove la preparazione è sufficiente per un’affermazione
di principio e di partito;
b) dove questa preparazione non è sufficiente, è meglio o l’astensione positiva, o un intervento indiretto; purché si affermi sempre
il carattere di partito distinto e staccato dagli altri;
c) in nessuna ragione e per nessun caso - come criterio generale - è opportuno stringere leghe con i partiti avversi, liberali, popolari o personali di consorteria;
d) é necessario formulare programmi chiari, netti, specifici
(sia d’indole generale che locale) e fare grande propaganda delle nostre idee;
e) tranne in casi specialissimi ed eccezionali, nei quali è doveroso tentare di aver la maggioranza, - obbiettivo nostro dev’esser
quello di ottenere nei consigli la minoranza o il centro (51);
f) le liste devono essere formate di candidati coscienti del nostro programma, e che abbiano la sufficienza di sostenerlo nei Consi-
50. Infra, in particolare p. 130.
51. Con questa affermazione si precisa una strategia che sarà di lungo termine
e, specialmente nel pensiero e nella condotta politica di Sturzo, dovrà qualificare la posizione del partito d’ispirazione cristiana. La conquista del centro è l’obiettivo che attesta in ogni caso la volontà dei cattolici di mantenersi separati e
distinti dal blocco moderato, respingendo la tentazione di inserirsi in maggioranze generalmente prive di chiare e concrete basi programmatiche.
Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri
87
gli; e devono essere composti di elementi delle diverse classi sociali,
dal proprietario al lavoratore;
g) dove non è possibile formare una lista, è meglio contentare
anche d’un solo candidato, intieramente nostro e capace di sostenere il
mandato consiliare.
Nel caso di Roma, ricorreva chiaramente la condizione ultima
cui faceva riferimento Sturzo: non esisteva, cioè, la possibilità di una
lista autonoma dei democratici cristiani, talché si trattava di ricercare
l’intesa con l’organizzazione ufficiale dei cattolici, l’Unione Romana,
per l’inserimento puro e semplice nell’elenco dei candidati di alcuni
rappresentanti dc. In questo senso Murri si muove sulla falsariga di
quanto era stato dibattuto e convenuto all’interno del movimento. La
sua non è dunque una iniziativa isolata o un gesto del tutto improvvisato, quasi un atto sbocciato dal nulla o un’intuizione legata alle circostanze, ma una espressione abbastanza coerente del disegno che veniva emergendo, in quel contesto particolarmente difficile, nei settori
più avanzati del movimento cattolico (52). Murri non si sottrae al compito di battistrada o, per meglio dire, alle proprie responsabilità di leader. Entra sulla scena con la determinazione e l’impeto che lo distinguono, tenendo alta la preoccupazione di fare della vicenda amministrativa di Roma un’occasione straordinaria di verifica e di spiegazione della politica dei democratici cristiani.
L’impegno in prima persona di Murri, e per giunta nella capitale del Regno e nel centro universale della cristianità, non può passare certamente inosservato. Anzi, come facilmente intuibile, si presenta
agli occhi dei militanti e dei simpatizzanti nella forma di una scommessa coraggiosa e senza dubbio entusiasmante. Così d’altronde un
giovane studente, Alcide De Gasperi, che aveva conosciuto da appena
pochi mesi Murri in occasione di una sua visita a Roma(53), valuta il
52. Bedeschi, tornando più recentemente su queste vicende, insiste invece sul
carattere e il valore più che mai individuale delle scelte del leader, restringendo
tutto a una “tattica che egli intendeva adottare di fronte agli ukase dell’autorità ecclesiastica nel tentativo di salvare il movimento”. Lorenzo Bedeschi, Murri Sturzo De Gasperi - Ricostruzione storica ed epistolario, Edizioni San Paolo,
1994, p.130.
53. Alcide De Gasperi accompagnava sul finire di febbraio Monsignor Ernst
Kommer, di cui era segretario da alcuni mesi, in una lunga trasferta romana che
si inseriva nei festeggiamenti per il giubileo del pontificato di Leone XIII. “Il 3
marzo era in piazza San Pietro con Monsignor Kommer per la solenne benedizione con cui si aprivano le celebrazioni del venticinquesimo anno di pontificato di Leone XIII; e poi in Vaticano, in udienza prima dal pontefice e poi da Ma-
88
Capitolo III
l’Unione Romana. Sulla “Reichspost” di Vienna, città in cui viveva
come universitario, egli riporta e commenta la scelta di Murri di partecipare attivamente alle elezioni per il rinnovo del consiglio comunale:
“I democratici cristiani hanno in questa occasione per la prima volta
redatto un programma, che nel complesso concorda con quello cristiano-sociale. Volendo conservare, dopo le ultime disposizioni del Vaticano, l’unione con i conservatori, essi entrarono in trattativa con la
“Unione Romana”, e le offrirono un compromesso, in virtù del quale
sarebbero spettati ai democratici cristiani quattro mandati e in particolare un artigiano e tre propagandisti della Democrazia Cristiana, probabilmente Murri stesso. Benché le trattative non siano ancora concluse, sembra che la “Unione Romana” non voglia saperne dei democratici cristiani. Questa associazione ha avuto finora, a partire dal 1870,
esclusivamente nelle proprie mani il monopolio delle elezioni, e i suoi
candidati hanno finora amministrato insieme ai liberali. Essi hanno
però, come succede di norma presso i conservatori, sempre trascurato
un contatto con il popolo. Adesso arrivano i democratici cristiani, che
potrebbero rappresentare un contrappeso ai socialisti insorgenti, e che
riano Rampolla, il potente Segretario di Stato che voleva allineati con la diplomazia vaticana i cattolici nel governo o all’opposizione. Su questi incontri s’è
fatto un pò di favola, soprattutto attribuendo al giovane universitario un ruolo
significativo, senza però precisarne la natura e la portata. La colpa è di un buco
nella memoria di Maria Romana De Gasperi, che nella biografia del padre situa
l’avvenimento nel tardo autunno, facendolo slittare di quasi nove mesi”. Enrico
Nassi, Alcide De Gasperi. L’utopia del centro, Giunti, 1997, pp. 24- 25. In ogni
caso, il teologo e il suo segretario erano stati accreditati - ricorda sempre Nassi con particolare menzione in quell’adunanza di circa 40.000 invitati. Kommer,
infatti, era rappresentante del Senato accademico austriaco e De Gasperi il Presidente dell’Associazione degli Universitari cattolici trentini. A Roma De Gasperi conosce personalmente Murri, facendogli più volte visita presso la sede di Via
Montecatini. In una di queste occasioni viene presentato da Murri come uno
studente trentino di talento ad Antonio Fogazzaro, lo scrittore cattolico al centro di grande interesse da parte della pubblica opinione dell’epoca. L’emozione
sul giovane è fortissima: se ne ha una vivida e gustosa descrizione in una sua lettera, per la prima volta parzialmente riprodotta in Maria Romana Catti De Gasperi, De Gasperi uomo solo, Mondadori, 1965, p.28. Questi incontri e queste
esperienze rappresentano per De Gasperi la possibilità di apprendere dal vivo
ciò che si agita e si diffonde nella realtà intellettuale e giovanile del cattolicesimo italiano, grazie in particolare al contributo del movimento democratico cristiano di Murri. “Sta di fatto che De Gasperi ritornava dai colloqui romani pieno di fervore e <<troppo radicale>>, esaltava la validità delle idee democraticocristiane murriane con articoli e interviste nella Reichspost , prometteva di <<far
trionfare incontrastata la Democrazia Cristiana>> anche nel suo Trentino, iniziava la collaborazione ai periodici murriani”. L. Bedeschi, Murri Sturzo De Gasperi..., op. cit., p. 129.
Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri
89
desiderano solo una gestione per il popolo, ma anche attraverso il popolo, e guarda un po’, i “Cavalieri Conti e Commendatori” dell’antica
città non lo tollerano. Il Domani d’Italia a dire il vero non dà la questione per persa; noi però dubitiamo fortemente della possibilità di un
accordo. Ciò nonostante i democratici cristiani si danno un gran da fare. (...). Noi auguriamo ai nostri amici romani una splendida vittoria
per il bene del cristianesimo e della democrazia (54)”.
A pochi giorni dal voto, dunque, De Gasperi presagisce il fallimento dell’operazione Murri. Le sue parole sono però intrise di speranza e di fiducia, poiché l’iniziativa sembra comunque aprire una fase nuova nella politica dei cattolici italiani. S’intravede la possibilità
di esercitare un’azione più coerente in ordine alla costruzione di un sistema sociale e politico maggiormente in sintonia con il programma
riformatore dei democratici cristiani. È questa la fase in cui viene alla
luce, oramai, l’esaurimento della tattica moderata che condanna a un
destino di subalternità l’organizzazione del movimento cattolico. Con
nuove idee e nuovi programmi si può invece conquistare l’autonomia,
l’efficacia, la credibilità di un soggetto politico chiaramente strutturato, sebbene non ancora in veste di partito. L’augurio di De Gasperi per
“una splendida vittoria” reca in sé la convinzione che la sortita di
Murri trascenda le caratteristiche di un esperimento localistico e mu-
54. Alcide De Gasperi, La presa di posizione dei democratici cristiani alle elezioni del consiglio comunale di Roma, in “Reichspost”, 27 giugno 1902 (ora in Lorenzo Bedeschi, Il giovane De Gasperi e l’incontro con Romolo Murri, Bompiani
1974, pp.109-110). La succinta ma puntuale cronaca giornalistica mette in rilievo la piena adesione di De Gasperi alle nuove idee democratico cristiane e al
programma antimoderato del movimento murriano. È l’indizio che rivela una
scelta ideale e politica, quella democratico cristiana, niente affatto subordinata
alla scuola cristiano sociale mitteleuropea cui De Gasperi, secondo alcuni, dovrebbe tutta la sua formazione. Ancora Bedeschi, a proposito del suddetto articolo, sottolinea il fatto che “linguaggio, presentazione e notizie risultavano totalmente favorevoli a Murri: anzi, sul giornale viennese l’improvvisato pubblicista anticipava addirittura il programma municipale dei democratici cristiani romani, di cui evidentemente Murri gli aveva parlato nei colloqui, se poteva scriverne almeno due settimane prima ch’esso venisse reso pubblico. Però, nella
breve sintesi, veniva tacitata la parte veramente innovativa che, al di là delle
municipalizzazioni progettate, si basava sul rovesciamento delle alleanze, da ricercarsi fra i partiti popolari invece che tra quelli conservatori e moderati” (L.
Bedeschi, Murri Sturzo De Gasperi..., op. cit., pp. 129-130). Il discorso sulle alleanze a sinistra, tuttavia, dovrebbe essere inquadrato nei termini e nei limiti
qui riscontrati, non avendo mai assunto in realtà un carattere politicamente
esplicito e programmaticamente limpido.
90
Capitolo III
nicipale. Invece, malgrado attese e speranze, la vittoria dei conservatori avrebbe infine significato la sanzione della immaturità e debolezza della prima stagione democratico cristiana. Il carisma di Murri non
sarebbe stato sufficiente a vincere le ritrosie, le resistenze e le obiezioni del mondo tradizionalista in cui si esprimeva il pensiero e l’azione
della stragrande maggioranza dei cattolici romani. La tutela e la vigilanza così strette della Segreteria di Stato non potevano che produrre,
del resto, riserve e contrarietà verso un’iniziativa promossa con tanto
slancio e abnegazione.
Va tenuto presente che un sacerdote impegnato nella vita amministrativa romana rappresentava un’ipotesi ben al di fuori delle
possibilità concrete che la S. Sede fosse disponibile a prendere in considerazione. Qualche anno prima, era stata sconsigliata la candidatura
al Campidoglio di Mons. Giacomo Radini-Tedeschi, futuro vescovo di
Bergamo e all’epoca autorevole prelato della Curia vaticana, da cui
dipendevano tutte le opere cattoliche di Roma (55). L’opposizione del
Segretario di Stato, Card. Rampolla, in via riservata esposta e rappresentata da Mons. Della Chiesa, faceva riferimento ai rischi di un sempre più aspro contenzioso tra Stato e Santa Sede quale risultato di un
eventuale impegno esplicito e diretto del clero nella vita politica, benché limitato ai soli livelli delle amministrazioni locali. Questa preoccupazione, sia detto per incidens, può essere considerata alla base della diffidenza che nel primo dopoguerra segnerà il rapporto tra Sturzo e
Mons. Gasparri, già collaboratore di Rampolla e Segretario di Stato
durante il pontificato di Giacomo Della Chiesa (Benedetto XV). Le
difficoltà frapposte alla candidatura di Murri non sono, dunque, riferibili tanto a un problema di maggiore o minore apertura, in ambito ec-
55. Cfr. Lorenzo Bedeschi, Il programma municipalistico dc nel 1902 e la candidatura di Romolo Murri (documenti inediti), “Humanitas”, n.12, dicembre
1967, pp. 1225-1250. Il riferimento al divieto opposto alla candidatura di
Mons. Radini-Tedeschi è a p. 1233. La ricostruzione di Bedeschi - l’unica finora apparsa con la dovuta ampiezza, organicità e ricchezza documentativa - si avvale delle carte messe a disposizione dalla Contessa Eugenia Salimei, sposata in
seconde nozze con il Conte Francesco, collaboratore di Murri e protagonista
egli stesso del tentativo di presentazione della lista democratico cristiana. Francesco Salimei, tra l’altro, parteciperà con Sturzo ai primi congressi dell’Associazione dei Comuni in rappresentanza dei cattolici. Cfr. a riguardo O. Gaspari, I
primi anni di Sturzo ..., cit., in particolare p. 147. Nelle elezioni del 1902 verrà
eletto in consiglio comunale quale unico esponente dell’ala democratico cristiana, essendo stato prescelto dalla Segreteria di Stato quale elemento di mediazione tra Murri e i vertici dell’Unione Romana.
Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri
91
clesiastico, nei riguardi della sua persona. Sulla base del carteggio del
Conte Francesco Salimei, Lorenzo Bedeschi rileva che “gli amici sostenitori di Murri in Vaticano sono i monsignori Celli e Gasparri,
mentre Leone XIII (cosa non nota) e Toniolo gli erano decisamente
contrari sì da rendergli difficile ogni proselitismo (56)”. Cade pertanto il
sospetto di una avversione della Curia generalizzata , poiché anche in
questo caso il rapporto con Murri evidenzia linee di giudizio e di condotta parzialmente diversificate all’interno delle più alte sfere della
Gerarchia. Vero è che su tutto emerge, infine, il grande timore del
Card. Rampolla circa i pericoli di una ripresa dell’anticlericalismo in
quanto esito inevitabile, insieme, della divisione dei cattolici e della
radicalizzazione del loro impegno politico.
Nella vicenda romana, il Conte Salimei gioca un ruolo assai
rilevante. Come Guardia Nobile è ben introdotto nelle stanze che contano dei Sacri Palazzi. Essendo un giovane brillante, e per giunta di
una famiglia appartenente alla nobiltà nera, è subito considerato come
un opportuno anello di congiunzione tra l’Unione Romana e il drappello democratico cristiano (di cui fa parte). Non per nulla, malgrado
l’esito improduttivo dell’operazione Murri egli risulterà comunque
nella lista degli eletti (57), decidendo in ultimo di ritirare le dimissioni
da neo-consigliere comunale inoltrate alla presidenza dell’Unione
Romana all’indomani dello scrutinio. Spetta a lui spiegare a Murri il
perché del veto che la Segreteria di Stato oppone alla sua candidatura
56. Idem, p. 1245.
57. L’impegno di Salimei in consiglio comunale sarà espressione, del resto, di
quel progetto riformatore che inserisce i cattolici sulla scia del cambiamento e
dell’innovazione da cui scaturirà, di lì a pochi anni, la svolta dell’amministrazione Nathan. Ecco come lo stesso Salimei descriverà la sua esperienza in una lettera del 19 marzo 1903 indirizzata a Murri: “Così ho portato il mio piccolo
contributo nelle commissioni per l’Istituto delle case popolari e dell’ufficio del
lavoro dove credo di aver apportato non inutili modificazioni. E altre questioni
sto studiando e per altre sto sempre sulla breccia: come per quella per i lavori
pubblici per i quali sono diventato un vero incubo per la Giunta e per il sindaco
che sono quindi costretti a camminare con prudenza. Tu dici: voi lavorate per
una Giunta che non è nostra. Noi lavoriamo per il bene della città, cercando nel
tempo stesso di dimostrare quali attitudini abbia per questo fine il nostro partito al disopra degli altri. E tra molta zavorra, vi sono nelle nostre file uomini di
un grande valore, e me lo riconosceva recentemente l’on. Luzzatti, quali per es.
il Santucci e il Benucci. E nelle questioni tecniche non è facile raggiungere la
competenza di questi uomini. (...)”. Idem, nota 38, pp. 1242-1243. Salimei divenne successivamente consigliere e quindi vicepresidente dell’Istituto case popolari fino al 1915, attraversando dunque la fase in cui si dispiega l’esperienza
della Giunta Nathan.
92
Capitolo III
e l’alternativa che sarebbe stato invece opportuno perseguire. Infatti
gli scrive il 22 giugno in modo preciso e circostanziato: “Io riconosco
francamente delle difficoltà alla tua candidatura per il consiglio comunale, oggi; ma ritengo che esse saranno molto minori per una candidatura al consiglio provinciale. Certamente quest’ufficio non è il più indicato per te, ed in genere non è terreno opportuno allo svolgimento
delle nostre idee. Ma a quella candidatura io annetto due scopi importanti: 1° una potente affermazione che farà dare un gran passo avanti
al nostro partito e in Italia e all’estero, contenendo anche indirettamente un attestato di fiducia da parte del Vaticano; 2° assuefare la cittadinanza all’idea del sacerdote nelle amministrazioni pubbliche preparandoti così il terreno per le future elezioni comunali. (...). Per me
la riuscita, oltre l’importanza locale, avrebbe come ti ho detto un alto
valore per gli interessi più generali e prevalenti del partito. Per questi
interessi tu dovresti fare anche un sacrificio, accettando la candidatura
provinciale. Tu sai che anche i nostri amici di Milano non la trovano
del tutto inutile (58)”. La proposta, in sé ragionevole ed elegante, è però
registrata come una provocazione da parte dell’interessato.
L’accorta regia vaticana non sembra pertanto orientata a contenere o smentire, in modo chiuso e incomprensivo, il discorso politico dei giovani democratici cristiani. Il Card. Rampolla, in questo passaggio emblematico, ha di mira essenzialmente la salvaguardia dell’unità politica dei cattolici. Il nuovo impianto programmatico non costituisce un irrimediabile motivo di frattura, sebbene il moderatismo
dell’Unione Romana ne voglia ridurre il valore e la portata. Il problema politico-diplomatico consiste nella conservazione di un quadro di
unità operativa dei cattolici, facendo attenzione a non sovraccaricare
l’apertura alla democrazia cristiana di simbologie troppo forti. L’ingresso di Murri nel consiglio comunale di Roma avrebbe determinato
sicuramente un clamore così vasto da rendere irrefrenabile la spinta
alla costituzione di un partito di matrice cristiana, anticipando di circa
vent’anni lo sbocco politico a cui pervenne il popolarismo di Sturzo.
Ecco la ragione del compromesso: sostanziale accettazione dell’autonomia programmatica del gruppo democratico cristiano, con il semplice inserimento in lista di alcuni rappresentanti del gruppo - ferma
58. Idem, p. 1235.
Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri
93
restando l’esclusione di Murri - non in quanto espressione di un movimento ideale e politico, ma semplicemente come singoli “cattolici di
Roma”. Un modo come un altro per ravvivare la presenza e l’impegno
della tradizionale organizzazione elettorale dei cattolici, senza tuttavia
raccogliere l’esigenza di un riconoscimento concreto della novità costituita dalla compagine democratico cristiana.
L’offerta della candidatura alla provincia non poteva costituire un valido elemento di compensazione. Né, d’altra parte, poteva essere accettabile la prospettiva di una semplice cooptazione di uno o
due rappresentanti democratici cristiani in quanto “cattolici di Roma”.
Nonostante la fragilità organizzativa e il modesto peso elettorale (59),
Murri intendeva presumibilmente giocare la carta di una pubblica legittimazione della sua democrazia cristiana. Programma e candidati,
insieme, incarnavano la novità dell’iniziativa murriana. Per il leader
del movimento, che pure individuava nei consigli provinciali la sede
istituzionale ove in quel tempo la rappresentanza cattolica si esprimeva con maggior forza (60) , l’abbandono della candidatura comunale in
funzione di quella provinciale non avrebbe avuto altro significato se
non quello della sua sostanziale delegittimazione politica.
Il giovane Salimei attribuisce all’ostinazione dell’uomo il rifiuto del compromesso che sembrava delinearsi, ma in verità, ben oltre ogni aspetto caratteriale, giocava nella reazione negativa di Murri
la consapevolezza di dover spingere fino alle conseguenze ultime, così da poterne stabilire il grado di attendibilità, il laborioso processo di
ricomposizione che la Segreteria di Stato aveva messo in moto nella
59. Salimei scrive il 5 giugno 1904 una lunga lettera alla Baronessa Gertrud von
Hügel, che nel 1907 diverrà sua moglie, precisando le difficoltà dei democratici
cristiani romani, non senza una punta di polemica verso l’atteggiamento irremovibile di Murri. “Noi come gruppo democratico cristiano eravamo quattro
gatti; non potevamo contare, isolati, neppure 50 voti”. (In G. Bedeschi, Il programma ..., op. cit., 1240). Questa lapidaria affermazione, destinata presumibilmente anche a giustificare da parte di Salimei la sua dissociazione dal tentativo
di Murri, denuncia in ogni caso la scarsa penetrazione del movimento d.c. nella
realtà cattolica romana.
60. “Speciale argomento di studio potrebbe offrire l’opera dei cattolici nelle deputazioni provinciali, molto più che in questo campo essi hanno fatto le loro
migliori conquiste”. C.S., Dopo le elezioni amministrative - Una proposta, “Cultura sociale”, n°109, 16 luglio 1902, p. 206. L’editoriale, come si vede, é firmato C.S. ed é pertanto attribuibile a Murri quale direttore della rivista.
94
Capitolo III
speranza di mantenere formalmente unito il fronte politico-elettorale
dei cattolici. Parallelamente, gli sforzi di mediazione della S. Sede
potevano anche risultare efficaci nel prospettare e garantire un accordo per una lista aperta ai giovani d.c., ma si scontravano con la manifesta ostilità dei moderati nei riguardi di Murri in persona. Alcuni
mesi prima, e precisamente su “Cultura Sociale” del 1 dicembre
1901, questi aveva polemizzato duramente con “La Voce della Verità”, arrivando a definire gli animatori di questa testata come i “meno felici avanzi d’una età passata e chiusa per sempre(61)”. Con queste
premesse, altro che accordo!
61. In G. Bedeschi, ed Il programma municipalistico..., op. cit., nota 37, pp.
1239-1240.
Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri
95
CAPITOLO IV
Una questione aperta:
quale politica di centro?
Una questione aperta: quale politica di centro?
97
I documenti de “Il Domani d’Italia”, riportati in appendice,
testimoniano l’impegno, la determinazione, la qualità del tentativo
promosso da Murri. Il discorso con il quale egli formula pubblicamente il suo programma è la sintesi dei motivi culturali e politici della
proposta municipalista dei democratici cristiani. Non mancano gli accenni alle questioni più concrete della vita amministrativa capitolina,
ma il filo conduttore dell’esposizione riconduce sistematicamente
questo o quell’aspetto tecnico-operativo alla coerenza di un progetto
più generale. La battaglia per Roma assume dunque le note di un impegno di civiltà e il valore di una “rinascita” cristiana. Mentre il vecchio mondo declina, solo l’azione democratica e profondamente riformatrice delle nuove generazioni cattoliche può contenere, se non proprio surrogare, il grande sentimento di emancipazione che le classi
popolari erroneamente affidano alla mobilitazione e all’iniziativa del
movimento socialista. La “moderateria liberale”, come dice Murri,
imprigiona le forze e la vitalità del cattolicesimo militante consegnandole ad una inaccettabile funzione di copertura del conservatorismo
sociale e politico. Ecco, allora, cosa sembrerebbe delinearsi: una volta
acquisita la separazione dal moderatismo conservatore, i cattolici
avrebbero dovuto competere con le altre forze riformatrici, eventualmente stabilendo modalità di cooperazione sul piano delle possibili
convergenze programmatiche. Nulla di più e nulla di meno.
Di certo l’unità delle forze popolari costituisce un obiettivo
storicamente ambizioso che solo una nuova sensibilità religiosa e una
nuova mentalità cattolica avrebbero potuto legittimare. Ma non per
questo Murri arriva con il suo ibridismo politico-religioso a “confondere” irrimediabilmente l’azione della democrazia cristiana con l’afflato pedagogico-assistenziale di quanti testimoniano, sulla scorta delle idee e delle suggestioni legate al progressivo diffondersi del modernismo, l’insopprimibile esigenza del riscatto innanzi tutto morale delle classi subalterne.
L’impegno di uomini come Giulio Salvadori, Giovanni Semeria, don Brizio Casciola, Enrico Possenti, Emilio Re non rientra pertanto nel cono d’ombra delle murrismo. Neppure il cenacolo che si organizza a casa di Pio Molajoni risulta essere frequentato dal sacerdote
marchigiano. Queste espressioni del rinnovamento cattolico che agita-
98
Capitolo IV
no la Roma a cavallo del novecento (62) sembrano dunque giustapporsi,
ma non integrarsi, al moto di inevitabile e sofferta emancipazione dal
ben noto contesto clerico-moderato che vede protagonisti i giovani
democratici cristiani.
Invece, per il tramite di Salimei e soprattutto della sua futura
consorte, la baronessa Gertrud Von Hügel, Murri è in contatto con il
più raffinato ambiente intellettuale modernista della capitale. “La figlia del grande elaboratore del modernismo cattolico [Friedrich Von
Hügel], stabilitasi a Roma all’inizio del secolo teneva salotti intellettuali nella propria abitazione di Via Veneto 14. Aperta alle idee moderne come il padre (aveva avuto quale direttore spirituale padre Tyrrel) si interessava dei novatori invitandoli a casa sua. Murri era uno di
questi e più volte accettò l’invito” (63). Da una parte, allora, la frequentazione dei circoli intellettuali modernisti, dall’altra l’assenza apparente di legami con l’attività di quanti s’impegnavano a tradurre in
chiave operativa e formativa queste idee di rinnovamento che scaturivano da un cattolicesimo inquieto e non rassegnato. È una contraddizione che sembra avvolgere l’iniziativa di Murri, forse perché siamo
noi impossibilitati a trovarne le spiegazioni risolutive in mancanza di
maggiori elementi di conoscenza o forse perché, all’inverso, essa andrebbe spiegata come la conseguenza di una linea politica che mirava
a trascendere e riassumere le tensioni etiche e civili di piccoli gruppi
di testimonianza, facendo del messaggio democratico cristiano l’inglobante della novitas del cattolicesimo italiano. In quest’ultimo caso
apparirebbe chiaro il fatto che il murrismo, quale anima del progetto
democratico cristiano, dovesse esprimere un suo livello di autonomia
politica e culturale tanto da configurarsi come un fenomeno irriducibile alla pura e semplice esperienza del modernismo.
La sfida al moderatismo dell’Unione Romana e la condanna
della sua tendenza al connubio con i conservatori liberali, s’infrangono dunque sugli scogli di una coriacea difesa della tradizionale linea
di condotta della organizzazione ufficiale dei cattolici. Chiusa ogni
possibilità di accordo in presenza del veto sulla candidatura Murri, il
movimento democratico cristiano si pronuncia ufficialmente per l’a62. Cfr. P. Scoppola, Crisi modernista ..., op. cit., in particolare pp. 86-89
63. L. Bedeschi, Il programma municipalista ... , op. cit., p. 1236.
Una questione aperta: quale politica di centro?
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stensione dalle urne. Ciò nonostante, nella lista dell’Unione Romana
vengono inseriti, come atto unilaterale, Francesco Salimei, Romolo
Ducci, Umberto Perazzi, legati più o meno intensamente all’esperienza murriana (64). È il segno di quell’apertura, moderata e circoscritta,
volta appunto ad assorbire la spinta democratico cristiana.
I risultati elettorali decretano il successo della lista clericale
che, al pari di quella liberale, raccoglie all’incirca 6.800 voti (con i
Popolari fermi intorno ai 4700). Ma con il gioco attento delle preferenze, i moderati cattolici riescono a portare in consiglio comunale
anche alcuni liberali ritenuti più affidabili e disponibili. La compattezza degli uni, impegnati a votare senza defezioni e a deporre nelle urne
la lista dell’Unione Romana “così com’è compilata” (65), fa da contrappeso a una certa stanchezza e riluttanza del blocco liberale. Una campagna elettorale combattiva, una partecipazione alle urne non entusiasmante: questa è la fotografia della battaglia amministrativa del 29
giugno 1902, sindaco il Principe Prospero Colonna. Scriverà “Il Messaggero” nella sua cronaca del giorno dopo: “Tutto lasciava supporre,
data l’acredine portata nella lotta, che il concorso del pubblico alle urne fosse questa volta di molto più animato che non negli anni precedenti: invece, se l’apatia degli elettori non ha trionfato completamente, non si può nemmeno registrare uno zelo eccessivo nella maggioranza dei cittadini iscritti nelle liste amministrative” (66) . Su 35.000
aventi diritto solo 20.000, all’incirca, aveva deciso di votare. L’af-
64. La lista completa dell’Unione Romana presentata sul numero del 27 giugno 1902 de “La Voce della Verità” è la seguente:
Candidati pel consiglio Comunale
- Acciaresi Prof. Primo, Pubblicista. - Buttarelli Paolo, Industriale - Ceccarelli
Eugenio, Negoziante - Cecchini Giulio, Negoziante - Chigi Principe Mario- Colonna Principe Marcantonio - Di Carpegna Conte Mario fu Filippo - Ducci Romolo, Operaio tipografo - Galli Prof. Augusto - Salimei Conte Francesco - Salustri-Galli Pietro, Mercante di campagna - Santucci Conte Avv. Carlo
Candidati per il consiglio Provinciale
Mandamento I, Lapponi Dott. Giuseppe - Mandamento II, Busiri Ing. Carlo Jacoucci Avv. Virginio - Mandamento III, Ruspoli Principe Alessandro di Francesco - Mandamento V, Antici-Mattei Principe Tommaso - Santucci Conte Avv.
Carlo.
65. In Le elezioni di oggi, “La Voce della Verità”, 28 giugno 1902.
66. In La giornata di ieri, “Il Messaggero”, 30 giugno 1902.
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Capitolo IV
fluenza era stata dunque al di sotto del 60 per cento (ma nel 1905
scenderà addirittura al 43 per cento per poi risalire nel 1907, l’anno
della vittoria del Blocco popolare, al 65 per cento). Sempre per l’autorevole quotidiano romano la causa di tale basso livello di partecipazione non poteva che risiedere nelle incertezze e divisioni del fronte
liberale: “Si può essere liberali quanto si vuole, ma quando si vede
che sono appunto i liberali quelli che maggiormente si dilaniano fra
loro, l’elettore sente la nausea salire alla gola e si allontana da questa
lotta infeconda augurandosi un commissario regio a vita, che possa
con saggezza dirigere le cose capitoline, libero da ogni preconcetto
politico” (67) . L’articolo concludeva sottolineando, per contro, il maggior livello di mobilitazione del mondo clericale.
Il giudizio di Murri, prima e dopo il voto, non può che essere
di severità e distacco. Commenterà così, a metà luglio, le operazioni
elettorali: “Fra pochi giorni le agitazioni elettorali saranno finite in
tutta Italia. Se si guarda al numero ed alla importanza assoluta dei
successi essi sono stati poca cosa per noi (...). La nostra propaganda,
pur così recente, ha creato dappertutto una situazione nuova ai cattolici nella vita pubblica; ed ha permesso ad essi di presentarsi al pubblico, per la prima volta, in nome proprio, con forze proprie, staccati virtualmente o anche di fatto dai conservatori, dei quali erano stati insino
ad oggi una comoda appendice. (...). Infine in alcuni luoghi, come a
Roma, se le concessioni fatte ai nostri non furono quali si erano giustamente domandate, anche le antiche organizzazioni cattoliche elettorali non poterono non riconoscere col fatto che la situazione erasi, in
tre anni, enormemente mutata: e la segreta preoccupazione li condusse
a seguire una via di mezze misure che mostrava la loro malavoglia,
senza impedire il cammino delle idee e lo spostamento di molti interessi e di molte tendenze già prevalenti” (68). La battaglia non era stata
vinta, ma l’averla combattuta restava comunque un merito delle giovani generazioni.
Anno di svolta, il 1902. Roma costituirà presumibilmente il
contesto sociale in cui più acuto e profondo rimarrà il contrasto e l’an-
67. Ibidem.
68. C.S., Dopo le elezioni amministrative ..., cit., p. 205.
Una questione aperta: quale politica di centro?
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tagonismo tra le due ali del movimento cattolico, fino al punto di incidere sulle prospettive elettorali. Questa distinzione di linea politica
non sarà riassorbita o superata. Di lì a qualche anno, il 10 novembre
1907, dopo aver conseguito nel giugno precedente soltanto un successo parziale da cui sarebbe scaturito - per l’impossibilità di costituire
una maggioranza - un breve commissariamento del Campidoglio, il
Blocco popolare arriverà finalmente alla vittoria. In quella occasione,
l’Unione Romana deciderà nella campagna autunnale di disertare le
urne. Il dissidio tra l’anima clerico-moderata e quella democratico cristiana si pensa che abbia potuto accentuare le difficoltà e ampliato,
inoltre, le diffidenze che spingevano tradizionalmente l’Unione Romana ad astenersi(69). In un certo senso questo scenario era stato anticipato profeticamente da Romolo Murri quando, nel commentare “a
caldo” l’esito delle elezioni del 1902, così scriveva: “L’Unione Romana perde terreno ad ogni nuova elezione, mentre i popolari guadagnano rapidamente: il partito liberale invece si sgretola, come è apparso
nelle interne divisioni che lo hanno lacerato questa volta e nella rivelazione del morbo massonico che lo inquina (26 candidati massoni,
osservava il Fanfulla, su 34). Una parte del liberalismo si attaccherà,
mediante le aderenze moderate, all’Unione Romana, a danno certo del
cattolicismo: l’altra parte cadrà nelle file del partito più avanzato e radicale, pel quale anche sta in serbo l’appoggio del governo. E allora,
vedremo: e vedrà, l’Unione Romana che oggi ha voluto fare a meno
di noi” (70).
Virtualmente se non di fatto, per dirla ancora con Murri, si
era consumata la secessione della prima democrazia cristiana dall’ambiente clerico-moderato. Un nucleo dirigente si era andato formando,
consapevole dei propri obiettivi e delle proprie responsabilità. Murri
Sturzo e De Gasperi si ritrovavano insieme a condividere, ciascuno
con la propria personalità e la propria maturazione, questo percorso
69. Cfr. Mario Belardinelli, I cattolici nella vita politica romana, in Istituto per
la storia del Risorgimento italiano. Comitato di Roma, Roma nell’età giolittiana. L’amministrazione Nathan, Atti del Convegno di studi (Roma 28 - 30 Maggio 1984), Edizioni dell’Ateneo, Roma 1986. Inoltre cfr. Maria Immacolata
Macioti, Ernesto Nathan. Il sindaco che cambiò il volto di Roma. Attualità di
un’esperienza, Newton CSS, 1995, in particolare p. 38.
70. Infra, p. 179.
102
Capitolo IV
che avrebbe condotto all’ affermazione di una nuova autonomia culturale e politica dei cattolici in aperto contrasto con il vecchio modello
del moderatismo clericale.
L’episodio delle elezioni amministrative romane racchiude
parte di queste speranze e di questi contrasti. È una pagina di storia
minore, ma non di minore dignità e valore. Potremmo anche porci, in
conclusione, il classico e retorico interrogativo: e se Murri avesse vinto? Se la sua proposta avesse attecchito, riscuotendo successo nella
città capitale d’Italia e sede universale della cristianità? Sappiamo che
vi è una risposta altrettanto classica e retorica destinata a ripetere all’infinito che la storia non si scrive con i se e con i ma. Tuttavia, soffermarci su quanto è realmente accaduto e al contempo ipotizzare esiti
alternativi, serve se non altro a capire meglio la genesi e lo sviluppo di
un movimento politico, quello dei giovani democratici cristiani degli
inizi di questo secolo, che riuscirà nel tempo, passo dopo passo, a
conquistare la guida del cattolicesimo sociale e democratico. Un movimento che vince sulla base di una grande motivazione che ruota attorno a un programma di riforme economico-sociali e a una strategia
di cambiamento politico.
Il radicalismo che nel complesso l’iniziativa di Murri contempla, è forse la malattia infantile del cattolicesimo politico, o chissà, la
sua fonte di vitalità incomprimibile. Comunque, non si può ridurre
tutto a un limite di carattere di questo sacerdote inquieto, “polemico
prima che intelligente, dinamico quanto illogico” (71), giacché si finirebbe per sottovalutare le ragioni più profonde della storia che lo ha
visto protagonista generoso, ma pur sempre sconfitto. Se infine riconosciamo il valore di quel salto che si compie con l’abbandono del
conservatorismo clerico-moderato, possiamo accordarci sulla valutazione della operazione di Murri come l’indizio di un processo più ampio e di una evoluzione più ricca, positiva e coinvolgente. In quella vicenda politica ed elettorale che suscitò le speranze di un manipolo di
giovani, nonché a rovescio i timori della vecchia dirigenza cattolica,
possiamo scovare il nucleo di un progetto politico che torna ad essere
attuale oggi, emblematicamente e per analogia, allorché ci si imbatte
71. Michele Ranchetti, Cultura e riforma religiosa nella storia del modernismo, Einaudi, 1963, p. 172.
Una questione aperta: quale politica di centro?
103
nel problema di una nuova legittimazione della scelta antimoderata
dei cattolici democratici.
Il dibattito politico dell’estate 1902 proietta allora sulla scena
odierna la questione della originalità di un movimento politico d’ispirazione cristiana orientato a fondare le sue ragioni culturali e la sua
capacità di attrazione politica nel punto dove s’infrange il moderatismo, equivoco e malinteso, di un certo “sentire” cattolico. La questione che riemerge dalla nebbia della memoria per interrogarci sul futuro
dei democratici d’ispirazione cristiana, attiene alla plausibilità di una
mera equazione tra popolarismo e moderatismo. Se la figura del cattolicesimo democratico non si libera da questa gabbia teorica, rinuncia
ad esprimere il suo potenziale di novità ed originalità(72). Altro è pensare, anche sulla scia dell’esperienza di questo secolo, a un ruolo di condizionamento e di guida dei settori moderati della società, altro è concepire il soggetto politico come una diretta proiezione dell’humus
moderato del Paese. In un caso si esercita una legittima funzione direttiva, mentre nell’altro non si fa che gettare alle ortiche la propria
identità in favore di un generico appiattimento sulla semplice domanda di stabilità, equilibrio e ponderazione che nasce dal ventre molle
della società.
In questo quadro il confronto tra Murri e Sturzo sulla natura e
la funzione politica del centro può essere ancora un termine di riferimento essenziale e decisivo. Murri prendeva dunque le mosse dalla
preoccupazione circa i pericoli nei quali il movimento cattolico nel
corso del Risorgimento e successivamente poteva rimanere imprigionato, quando in sostanza era possibile che nascesse - e fortunatamente, per l’intransigenza della Chiesa, ciò non avvenne - un “centro cattolico, numeroso di più di un centinaio di voti, composto di ricchi
proprietari di ogni parte d’Italia e di alcuni capi del movimento religioso; un centro preso non eccessivamente sul serio dal paese e dal liberalismo, ricco delle grazie di una parte della Destra ma povero di
72. Cfr. anche Adriano Ossicini, Il fantasma cattocomunista e il sogno
democristiano, Editori Riuniti, 1998. Netta è la contestazione da parte
dell’Autore della tradizionale e ciclicamente riproposta identificazione
dei cattolici in quanto tali con i moderati (vedi in particolare il primo
capitolo).
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Capitolo IV
forze vive” (73) .
Sturzo in alternativa rivaluta, per parte sua, l’ipotesi del centro quale spazio politico confacente al ruolo e alla responsabilità dei
cattolici democratici, ma non per questo si concede l’alibi di ignorare
l’analisi critica di Murri. Essa viceversa permane nel corpus teorico e
politico del popolarismo, dando vita così a un processo di fondazione
del centro in quanto luogo e struttura di una politica riformatrice d’ispirazione cristiana. Sturzo in definitiva mirava a “costituire un terzo
partito che rappresentasse i cittadini che non erano d’accordo nè con
il partito di chi voleva comandare in qualsiasi modo, nè con il partito
di chi si opponeva a tutti i costi. Una teoria <<dinamica>>, di un centro
che superasse quella <<meccanica>> di due formazioni sempre contrapposte, per arrivare ad una sintesi del <<partito di Centro, cioé ora
controllo, ora opposizione, ora collaborazione, creando così gli urti e i
contatti di chi vive tutta la vita della società>>”(74).
La lezioni di Murri si presenta, dunque, come un, patrimonio
assolutamente necessario alla formazione del modello di partito aconfessionale, democratico e popolare - che nasce sulle ceneri della
tradizione clericale e moderata. Proprio facendo appello a questa lezione, é forse ancora oggi possibile ritrovare quella fonte di interrogativi e sollecitazioni a cui sempre la coscienza inquieta dei cristiani
sente l’esigenza di rivolgersi.
73. Citazione di Murri tratta da S. Zoppi, Dalla Rerum novarum ..., op. cit.,
p. 70.
74. O. Gaspari, I primi anni di Sturzo..., cit., p. 158. Per la definizione del “partito di Centro”, inserita nella citazione, Cfr. L. Sturzo, I cattolici nei municipi,
“Cultura Sociale”, 16 giugno 1904, pp. 179-180. È merito di Gaspari, grazie ad
approfondite ricerche sulla storia della prima Associazione dei Comuni italiani
(cfr. soprattutto il suo recentissimo L’Italia dei municipi. Il movimento comunale in età liberale (1879-1906), Donzelli, 1998), l’aver individuato un fecondo
rapporto tra cattolici e radicali su cui occorrerà tornare in maniera più ampia ai
fini di una nuova comprensione della genesi e dello sviluppo dell’idea del “centro” nell’originaria accezione democratico cristiana.
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Sono qui riprodotti innanzi tutto gli articoli apparsi su “Cultura Sociale” in cui si dispiega il confronto tra Murri e Sturzo sulla
questione della tattica elettorale da adottare nei comuni.
Seguono i testi de “Il Domani d’Italia” che illustrano il programma, il dibattito, il conflitto a cui occorre riferirsi per comprendere il senso e la portata dell’iniziativa politica che mirava alla presentazione di una qualificata rappresentanza del movimento murriano all’interno della lista dell’Unione Romana.
È evidente che una esauriente lettura “in diretta” degli avvenimenti richiederebbe una base documentale più ricca e variegata.
Ma intanto si è cercato di riportare alla luce la parola e gli
intendimenti dei principali attori della vicenda amministrativa del
1902.
In particolare, gli interventi e i commenti di Murri costituiscono l’espressione più diretta e autorevole del processo politico innescato, in quel frangente, dai giovani democratici cristiani romani.
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Da “Cultura Sociale”, 16 aprile 1902
LE IMMINENTI ELEZIONI AMMINISTRATIVE
Prepariamoci
Si avvicina il giugno, con le elezioni amministrative per il rinnovamento d’una metà di Consigli comunali che avranno luogo in quasi
tutti i comuni d’Italia: ed i cattolici d’azione debbono incominciare a
prepararsi e discutono già - solo pochi di essi, in verità - la via da seguire.
Quantunque le nostre idee in proposito possano esser note da tempo ci proveremo a riassumerle brevemente, per comodo degli amici ai
quali piaccia vederle formulate in brevi pagine e per avviare, se mai,
una discussione intorno ad esse.
Il problema delle elezioni amministrative si presenta molto complesso: infatti non si tratta in esso, come nella politica-sociale dei cattolici in Italia, di affermare dei principi e di tendere direttamente a
tradurli in atti, ma è questione spesso di conservare e di conquistare il
potere. E per potere intendiamo non già la maggioranza occupata
direttemente dai cattolici, ma qualunque parte e particella di influenza
si desideri avere, contentandosi della minoranza, come fa, per esempio, a Roma l’Unione romana, o dividendo la maggioranza con un
partito affine, come tentarono a Napoli nelle ultime elezioni, o semplicemente, provocando la riuscita di uno piuttosto che di un altro partito
o gruppo o uomo dal quale si sperano protezioni e favori.
Ora le questioni che si connettono alla conquista ed all’uso del potere in qualsiasi misura sono sempre molto complesse, per due motivi.
Il primo motivo è che esse hanno sempre un carattere eminentemente
locale. Le elezioni amministrative non sono una cosa a sé ed una novità passeggera nella vita di un comune: esse sono un atto, un momento, e dei più importanti, di questa e si ricongiungono quindi strettamente a tutto ciò che di quella vita determina la realtà concreta e lo
sviluppo: si tratta di problemi d’indole finanziaria e amministrativa, di
riflessi di più vaste lotte politiche, di equilibri di gruppi; e di parti lo-
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cali e personali.
Ora è evidente che intorno a tutto cio è difficile far delle considerazioni d’indole generale che non siano banali e state già fatte le mille
volte. Ricorderemo solo, a tale proposito, le deliberazioni seguenti,
prese nel convegno regionale romagnolo della democrazia cristiana,
tenuto in Imola nell’ aprile scorso.
L’altro fatto che complica le questioni riguardanti il potere municipale è che le più importanti di esse non sono già quelle aventi più
stretta attinenza con i grandi problemi politici e sociali del momento,
ma quelle che nel periodo delle elezioni vengono prime, o fra le prime, nell’animo degli elettori. Così la presenza di alcune suore in un
ospedale, la revoca d’un maestro elementare, lo stato delle finanze locali, qualche problema più urgente di viabilità o di altri servizi pubblici, determina una parte degli elettori a votare per gli uni o per gli altri.
E si noti che questo elemento mobile il quale, secondo che si trasferisce da una parte o dall’altra, decide sovente della vittoria, è proprio il
cattolico; al quale il difetto d’un programma comune e di una più vasta organizzazione di partito toglie spesso quella consistenza che gli
altri ricevono dalle clientele parlamentari e dalle direzioni o imposizioni del partito, e che li obbliga a sacrificare una parte delle rivendicazioni personali e locali a motivi d’interesse comune, per lo stimolo
più vivo che questi esercitano sulla loro coscienza politica.
Noi, quante volte avemmo occasione di occuparci di problemi municipali, e specialmente polemizzando con alcuni amici di Milano in
occasione di elezioni in quella città, se fummo solleciti di affermare
certi principi generali, non negammo l’importanza di tali questioni locali e la ragionevolezza di alleanze che si stringevano talora per esse;
benché, per una coincidenza notevole ma non curiosa, quelle alleanze
avvenissero sempre con i partiti conservatori. E quante volte ci si invitò a dare un parere sui casi particolari pei quali non conoscessimo
bene i dati di fatto, ci rifiutammo risolutamente, parendoci che specialmente in tali circostanze lo stare al summum ius e il procedere con
criteri uniformi e applicabili meccanicamente sia la peggiore delle politiche.
Noi non riproviamo quindi a priori e senz’altro le alleanze dei
cattolici, e più specialmente dei democratici cristiani con i partiti conservatori, neanche quando si tratti semplicemente di dare il proprio
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voto ai cattolici liberali e ricchi conservatori invece che ai candidati
dei socialisti o dei partiti popolari: solo insistemmo ed insistiamo perché tali alleanze, e specialmente quelle del genere indicato che son le
peggiori, siano ridotte allo stretto necessario e strette, non per abitudine o per servilità, ma solo in seguito ad un esame accurato dello stato
delle cose: e purché si prendano tutte le precauzioni necessarie ad assicurare i vantaggi in vista dei quali sono concluse e a diminuire i
danni che inevitabilmente producono.
Giacché non si può negare, innanzi tutto, che tali alleanze ed accordi abbiano presentato per molto tempo e infino ad oggi il carattere
non di una serie per quanto numerosa di fatti isolati, dovuti a condizioni locali, ma di uno stato d’animo disuso e comune a tutti, il quale
risaliva a condizioni di fatto d’indole nazionale, riassumentisi nella
assenza dei cattolici dalla vita pubblica, nel fascino inconsapevole che
su di essi aveva esercitato la borghesia rivoluzionaria e conservatrice,
nel difetto di forza, di resistenza e di lotta e d’un programma proprio
attinto a un concetto elevato di rettitudine amministrativa, di giustizia
civile e di solidarietà.
Insieme avveniva che la borghesia liberale conservatrice e, sinché
non venne la lotta contro i partiti sovversivi, anche le frazioni democratiche di essa, se incoraggiavano tutte le forme più insidiose di guerra alla Chiesa e di scristianizzamento della società, si mostrarono benevole ai cattolici ed al piccolo clero locale, od almeno si astennero il
più spesso da lotte violente: sicché le questioni ed il sentimento religioso delle masse o esulava dal campo delle contese amministrative o
militavano in favore dei conservatori e dell’aristocrazia liberale locale, riguardata ancora da molti dei nostri con occhio umile e servile.
Quando venne, in questi ultimi anni, il movimento cristiano sociale, noi mettemmo innanzi e sostenemmo principi che qui ci proveremo di riassumere, i quali dovevano avere un’influenza diretta anche
sulla condotta dei cattolici nelle elezioni amministrative, e modificarla, anche quando lo stato di cose e gli accordi precedentemente contratti avessero dovuto durare ancora un certo periodo di tempo. I democratici cristiani sostennero:
che oramai i cattolici italiani avrebbero dovuto escire dalla lunga
apatia per le cose sociali e far propria, correggendola ed integrendola,
gran parte del programma della giovane e vigorosa democrazia, avvia-
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re una larga propaganda di idee e di organizzazione professionale;
che era necessario, ora che il nuovo atteggiamento sociale e la
necessità e il dovere di salvar le masse dal socialismo ci restituivano
un’influenza notevole nella vita pubblica e la possibilità di farci e di
organizzare delle forze nostre, per un programma nostro, rompere le
catene che ci avvicinavano, specialmente nella vita amministrativa, ai
conservatori, ricordare le molte e insidiose ingiurie da essi fatte alla
religione cattolica e considerarli ugualmente come avversari;
prender posizione nelle contese e nelle lotte di classe, che dovevano assumere rapidamente tanta importanza, non a priori per l’una
classe e per l’altra, ma per quello dei due contendenti a cui vantaggio
avessero militato le ragioni di giustizia e di carità sociale così luminosamente espresse ed illustrate nell’enciclica Rerum novarum; e poiché
evidentemente, a tenore degli studi e delle conclusioni di tanti cattolici e della stessa enciclica Rerum novarum, il più spesso le ragioni di
giustizia e di equità militavano a sfavore dei lavoratori, ridotti dall’ingordigia dei padroni ad una condizione poco men che servile, essere
dovere dei cattolici di occuparsi direttamente ed efficacemente delle
rivendicazioni dei lavoratori, per un principio di giustizia— e ciò basterebbe — non soltanto, ma anche per impedire che i socialisti con
speciosi pretesti economici li alienassero dal cattolicismo, e per contenerne le mosse impetuose e inconsiderate dentro i termini della legalità e della lotta pacifica.
In base a tali principi ed al fatto che li seguirono si è venuta facendo e si va facendo tuttora una sostanziale trasformazione nell’anima e nella condotta dei cattolici: trasformazione che per la immanenza e la superiorità del cattolicismo e dei principi dai quali muove la
nostra condotta non ha dato luogo a grandi scosse violente, ma che
deve riflettersi un poco alla volta su tutta l’attività pubblica di parte
nostra. E le elezioni del giugno prossimo saranno un indizio importante e sicuro dei progressi fatti del programma cristiano sociale fra i cattolici.
Diremo nel prossimo numero quali siano, dinanzi alle elezioni imminenti, gli speciali doveri dei democratici cristiani militanti: diremo
oggi brevissimamente di quelli che ci sembrano doveri di tutti i cattolici, benché tocchi in particolar modo ai nostri vigilarne e inculcarne
l’osservanza.
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Non si deliberi l’accordo con altre parti o frazioni senza aver prima bene esaminato se motivi gravi lo richiedano. Trovarcisi tratti
spontaneamente, passivamente, senza alcuna affermazione od atto
proprio, è una debolezza e servilità che deve finire.
L’accordo non deve significare identità e confusione nella preparazione alla lotta. Normalmente l’organizzazione elettorale dei cattolici
deve essere tutta una cosa a sè: anche in vista di elezioni prossime, i
cattolici debbono lavorare, compilare liste, aprire scuole elettorali, far
pratiche per conto proprio tranne negli ultimi giorni, quando il lavoro
di propaganda debba essere per necessità fatto insieme.
Richieste e concessioni chiare ed esplicite debbono sempre accompagnare l’accordo. Coloro che sono eletti da voti di cattolici, anche se si crederanno per ciò liberi di insistere nei loro principi
clerico-liberali, sappiano almeno che qualche cosa è ad essi positivamente vietato od imposto dalla volontà di quelli che hanno concorso
ad eleggerli.
Non manchino mai i cattolici di assicurarsi nel consiglio municipale almeno una o due persone che rappresentino schiettamente ed integralmente i loro principi e che possano in ogni occasione dividere,
con un taglio chiaro ed esplicito, la responsabilità degli elettori cattolici da quella degli altri elettori della maggioranza.
Dove i cattolici non danno dei voti che a liberali conosciuti od a
cattolici di incerte idee e di fiacco carattere, ci pare assai difficile liberarli dalle responsabilità degli atti e delle omissioni delle quali il municipio si renderà reo contro la coscienza cattolica ed i diritti della
Chiesa.
In occasione delle elezioni e della propaganda elettorale ricordino
di esser cristiani e di avere dei grandi ideali e principi religiosi da difendere. Non lascino quindi mai ai loro alleati la direzione assoluta
della lotta nè trascurino alcuna delle occasioni che si offrono ad essi
per affermarsi e prepararsi maggiori conquiste nell’avvenire.
Esigano rigorosamente da tutti quelli pei quali voteranno una irreprensibile rettitudine amministrativa e l’equo trattamento di tutte le
classi e più specialmente delle più bisognose di aiuto.
PRAM
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Da “Cultura Sociale”, 1° maggio 1902
ALLA CONQUISTA DEI COMUNI
Ci rimane ora a vedere con quali criteri generali debbono condursi
nelle imminenti elezioni amministrative i democratici cristiani; in
quanto essi, oltreché dei compiti comuni di onestà e capacità amministrativa e di solidarietà e coerenza di parte, debbono occuparsi ancora
della lenta e graduale attuazione del loro programma cristiano-sociale.
Ciò impone ad essi dei riguardi speciali nello scegliere la loro base d’azione, nei rapporti con gli altri partiti o con le varie frazioni di
parte cattolica, nell’attività municipale.
Base d’azione dei nostri debbono essere gli elettori delle classi più
basse e gli operai più in particolare. È necessario, per una buona azione municipale dei nostri, che essi veggano di mirare più specialmente
alla conquista degli elettori popolari, di curare l’iscrizione di nuovi
elettori, anche mediante scuole serali, di aver frequenti contatti con i
già iscritti, occupandosi con essi di questioni amministrative e cercando di formarli alla consapevolezza dei propri interessi di classe e del
modo di difenderli. Armonizzare questi interessi toccherà poi al comune e alle varie frazioni che lo compongono; ma errerebbe chi, per
amore di quest’armonia, la quale non potrà essere che una risultante,
mancasse di stimolare i lavoratori ed il popolo minuto a reclamare la
tutela dei propri diritti di comunisti e una provvida cura per le loro più
urgenti necessità.
Ed anche, per stringere, dove condizioni locali le rendano necessarie, alleanze con altri, è indispensabile che i nostri non agiscano individualmente e in nome di un programma vago e generico,
ma facciano valere il numero dei voti dei quali essi dispongono e
dal quale viene ad essi il diritto di occuparsi di cose amministrative; come aventi già un mandato implicito e fiduciario, il quale deve
anche esser garante, per la vigilanza degli elettori, che il programma democratico-cristiano, agitato nei giorni di elezioni, non sia poi
dimenticato per via, tra i comodi opportunismi che suggerisce ed
impone il potere.
Dove i nostri non hanno un numero sufficiente di elettori loro e si-
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curi, ci pare che essi siano nello stretto dovere di non prender parte ufficialmente alla lotta, come gruppo distinto.
Ed anche in periodi di agitazioni elettorali noi dobbiamo mirare
principalmente al popolo, illustrando di preferenza quel che le nuove
amministrazioni dovrebbero fare per esso, o quello che i candidati
della lista preferita si sono espressamente impegnati affare, o, infine,
il programma amministrativo della democrazia cristiana, affidandone
la futura attuazione alla nascente coscienza degli interessati.
Dove si disponga di un certo numero di elettori e non sia quindi
necessario astenersi dalla lotta, converrà tuttavia avere dei criteri e
delle cautele speciali nella scelta dei candidati propri e nel designare
la loro linea di condotta per l’avvenire. Delle alleanze parlammo nel
numero scorso.
Gruppi dei nostri non dovrebbero, crediamo, concorrervi se non a
queste tre condizioni: che sia salva, innanzi al pubblico, la loro personalità; che una parte, la più urgente, del loro programma e delle loro
rivendicazioni sia accettata espressamente dagli altri; che tra i candidati figuri qualche rappresentante delle classi inferiori e dei lavoratori,
scelto e designato da essi. Introdurre, accanto ai soliti, qualche buon
elemento operaio nella vita comunale risponde mirabilmente non solo
alle più vitali esigenze del nostro programma, ma anche a quei criteri
generali di pace sociale e di cristiana cooperazione, sui quali tanto insiste la S. Sede e che sono quindi un dovere per tutti.
Salvi così i doveri di parte, se i nostri potranno, nonostante la impreparazione che essi portano a questa prima campagna elettorale, la
quale per giunta li sorprende in un periodo d’incertezze e di transizione, guadagnarsi un posto nel municipio e con ciò una tribuna opportunissima e nuovi mezzi di lavorare, tanto meglio; purché anche
nei posti acquistati rimangano fedeli al programma.
E innazi tutto, nei contatti e nelle agitazioni elettorali, non contenti
di quello che avranno guadagnato per sè, essi dovranno cercare di
avere una influenza utile e diretta sul lavoro degli altri. Tocca ad essi
fare che i candidati-vanità cedano il posto a gente attiva e di carattere
solidamente cattolico, che le alleanze non divengano connubi ibridi,
che chiunque deve qualche cosa a voti di elettori popolari paghi di
gratitudine e di reciprocità dei servizi i voti che non avrà clandestinamente pagato sulla soglia della sala per le elezioni, e si renda utile al
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movimento cattolico popolare.
Anche noi democratici cristiani abbiamo—prima dell’attuazione
parziale o integrale del nostro programma—un programma direi quasi
pregiudiziale e comune a tutti i cattolici; quello che deve gradualmente preparare i nostri, educandone il carattere e migliorandone la cultura, a prendere alla nostra vita pubblica — alla professionale e comunale specialmente—una parte più vasta e più rispondente ai principi
cattolici.
Questo programma previo e pregiudiziale deve condurci a non disdegnare i contatti e i rapporti i quali, dando forza agli elementi più
moderni e più affini ai nostri ed allontanando gli altri preparino la via
alle nostre idee o, se si vuole, a noi: anche noi democratici cristiani
non dobbiamo disdegnare di esser qualche volta “ministeriali” e di
saper discernere e cogliere le opportunità, purché ciò si faccia consapevolmente, per guadagnare altri a noi ed aumentare di forza, e non
già per i vantaggi degli altri, così da meritarci l’appellativo, insidioso, che in qualche luogo fu dato ai nostri, di democratici addomesticati. Addomesticati no; domestici cioè facenti parte d’una sola casa e
della stessa famiglia sí: e le intransigenze e le concessioni non sono
per noi due tattiche diverse ed opposte, ma due vie delle quali la buona non può indicarsi a priori, ma sarà quella che ci condurrà più direttamente e sicuramente allo scopo. Di quel che i nostri saranno, una
volta arrivati o condotti alcuni di loro in municipio, avremo tempo di
parlare. Le basi generali del nostro programma amministrativo sono
note da tempo, e le ricordava recentemente, con opportuna circolare,
la presidenza del II° gruppo. Ai nostri tocca di quelle varie e complesse rivendicazioni scegliere le più adatte alle mutevoli circostanze
locali, propugnarle arditamente e tenacemente, acquistare ad esse popolarità , indurre la maggioranza - con la forza della opinione pubblica - a farle proprie.
*
* *
Ma forse, nelle elezioni del giugno imminente, poco sarà possibile
ai nostri fare ed ottenere per l’impreparazione della quale parlavamo
più sopra. Solo fra tre anni, se continueremo a lavorare e se sapremo
prendere i passi per tempo, il nostro sarà un movimento maturo e potremo fare molte conquiste. In questo tempo, che deve essere per noi
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un periodo di preparazione e di raccoglimento, oltre al venir preparando e facendo gli elettori di parte nostra nelle associazioni professionali
e nelle scuole elettorali, i democratici cristiani debbono attendere a
preparare sè stessi al lavoro di domani, seguendo con attenzione lo
svolgersi della vita municipale nel luogo, studiando, allenandosi alla
vita pubblica, tenendosi in frequenti rapporti con gli elettori, chiamando vicino a sé, nelle associazioni di studio e di propaganda, alcuni dei
migliori elementi popolari per preparare anche essi alla candidatura e
al lavoro. Il nostro programma pratico, nelle cose municipali, deve essere: andare dai gruppi e dai circoli di studio al municipio, portati dalle nostre associazioni economiche. Una volta preso possesso dei municipi, noi saremo divenuti padroni di un magnifico campo di lavoro.
PRAM
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Da “Cultura Sociale”, 1 giugno 1902
UN PROBLEMA DI TATTICA
Caro Pram,
Questa volta sono più radicale di te; tu ammetti che nelle
prossime elezioni amministrative i democratici cristiani, secondo le
circostanze dei luoghi, con le debite riserve e cautele, possono unirsi
con qualche partito non cattolico, e scendere uniti nella lotta, e, vincendo, nella vita amministrativa; io credo che questa tattica potrà, date
le attuali condizioni, riuscire rovinosa in ogni caso.
Credo opportuno manifestarti le mie idee, perché una polemica fra di noi potrà sempre apportar luce alla questione, per me molto
complessa.
Io credo che un tal problema di tattica non debba essere studiato solamente dal punto di vista locale, vagliando le condizioni di
fatto e le circostanze specifiche in cui i democratici cristiani ma anche
e con maggior ragione da un punto di vista generale.
Noi democratici cristiani non siamo un partito puramente
amministrativo, quali ce ne sono tanti nei comuni del Regno, la cui
vitalità è circoscritta in quell’ambito determinato, con i fini di una
più o meno onesta amministrazione, di una finanza più o meno democratica; a non parlare dei partiti che sono delle vere consorterie
di mutua assicurazione, e servono come valida piattaforma delle elezioni politiche.
La concezione del nostro programma è così vasta, che la vita
amministrativa, nel senso stretto della parola, diviene (per quanto importante) una parte limitata e circoscritta.
Noi invece dobbiamo guardare la vita amministrativa, non
solamente come il mezzo di dare ai nostri comuni una onesta amministrazione, ma in rapporto ai compiti generali e alle finalità speciali
che incombono a noi come partito sociale in tutto l’ambito della vita
pubblica.
A noi è preclusa (e giustamente) la vita parlamentare, quella
vita che, nella sua complessa funzione e nell’influenza che esercita
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sull’ambiente, dà grande forza morale ad un partito e determina in
molta parte della coscienza delle masse.
Questa proibizione, per quanto in sè giusta, necessaria ed
emanata per ragioni di ordine altissimo, ci costituisce (è una semplice
costatazione di fatto) di fronte agli altri partiti, in una inferiorità notevole e diminuisce la nostra influenza nella vita pubblica e nell’animo
delle masse, che bisogna educare al nostro programma e stringere a
noi; perché per tale proibizione ci viene a mancare una porzione efficace di vita pubblica, che influisce sulla psiche del popolo e determina
un cumulo di rapporti e d’interessi e una maggiore propaganda di programma e d’idee.
Se all’influenza che può avere un partito per la posizione parlamentare si aggiunge il carattere di partito nuovo, riformatore, che
accoglie in sè le aspirazioni del popolo e sente le vie della riscossa nazionale o sociale, allora le masse vengono quasi fatalmente attratte
nell’orbita di quel partito e la coscienza popolare fermenta nuove
aspirazioni di vita.
Il liberalismo nella fase nazionale ha avuto ieri, come ha oggi
il socialismo nelle fase sociale, tutte due le condizioni; e nessuna meraviglia reca se il popolo ieri fu con i liberali (anche senza esser tale) e
oggi con i socialisti (pur non accettando intieramente le teorie del sistema), e ciò almeno nella vita pubblica; la quale di rimbalzo influisce
notevolmente sulla vita privata, come condizione ambientale efficacissima, come educazione di sentimento, come complesso di aspirazioni, come sviluppo di interessi.
Noi democratici cristiani nella vita pubblica necessariamente dobbiamo assumere il carattere di partito (benché tale parola non
incontri il gusto di molti....bizantini); e di partito nella sua essenza
popolare, nei suoi rapporti universali, e non circoscritto ad un solo
problema.
Questo carattere ci mette a paro dei partiti nuovi, con un elemento specifico e tutto nostro che determina una preponderanza notevole, l’elemento religioso. E se ci manca l’azione parlamentare, ci restano nella vita pubblica due elementi di primo ordine, cioè l’organizzazione positiva del non expedit, che tocca i rapporti tra Pontefice e
popolo, e che è un primo stadio di politica guelfo-italiana, e l’azione
municipale e provinciale che racchiude in sè molti problemi d’interes-
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se generale e determina una notevole influenza di partito sulla vita
pubblica e sociale.
Or, condizione necessaria di vita per ogni partito è pigliare
nette le posizioni di lotta e mostrare il proprio carattere senza ambagi; questa mancanza di equivoci ci farà avere tosto amici e nemici,
necessari gli uni e gli altri allo svolgimento del programma, all’incremento delle forze, all’attuazione dei propositi, alla conquista della vita pubblica.
Intensificare le forze è un secondo criterio di tattica, che deriva dal primo; l’equivoco politico snerva, fiacca, corrompe; la franchezza, si chiami anche intransigenza, elimina gli spiriti deboli e corrobora i coscienti; così le forze del partito s’intensificano.
Perché ciò avvenga sono necessarie le affermazioni pubbliche
nelle principali ragioni specifiche di partito, che per noi sono i fatti religiosi, il non expedit , i fatti sociali, la vita amministrativa.
Ogni affermazione può avere un esito positivo o un esito negativo nella finalità immediata; uno sciopero che non ha risultato, una
lotta elettorale perduta o viceversa; dico nella finalità immediata, perché se si lotta per un principio vero (è il nostro caso), i risultati mediati sono sempre positivi, non ostante le oscillazioni, anche forti, della
vita pubblica; perché solo così si formano le coscienze e l’elemento
intellettivo e morale corrobora.
Da ciò io credo che scenda evidente il seguente postulato:
“Che è d’uopo dare tutto e intiero il carattere specifico all’affermazione di un principio, anche con la previsione che i risultati immediati
possano essere negativi; anziché, per ottenere un risultato affermativo,
sminuire l’efficacia e il carattere dell’affermazione stessa.”
*
**
Entrando nell’argomento delle elezioni amministrative, esaminiamo quale sia la condizione degli altri partiti e la nostra; e quale
potrà essere la posizione che si assumerebbe da noi, o unendoci con
altri, o scendendo in campo da soli.
Possiamo dividere l’Italia in due parti; quella dove esistono
partiti d’idee e quella dove esistono partiti di persone; s’intende che si
tratta di caratteri predominanti, non essendo quasi mai i partiti d’idee
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scevri di personalismo, e quelli di presone addirittura senza qualche
idea d’indole generale.
Nelle città dove sono di fronte i partiti d’idee per lo più troviamo i liberali (divisi in due o più campi, con denominazioni diverse:
progressisti, moderati, giovani monarchici, democratici, ecc.); i popolari (radicali, socialisti, repubblicani, siano o no coalizzati); e i cattolici, divisi, se non di nome, almeno di fatto, e per criteri non di rado
irriducibili, in conservatori e democratici cristiani.
Questi ultimi in generale sono pochi, agli inizi della loro vita
e forse del tutto nuovi alle lotte amministrative. Tranne in pochi centri, dove si sono affermati in una delle precedenti campagne amministrative, o dove i cattolici (tipo generico) sono all’amministrazione da
pochi anni, nel resto d’Italia le prossime elezioni generali segneranno
per i nostri amici un primo passo, un primo tentativo, che per sè è il
più difficile e gravido di conseguenze, buone o cattive, per l’avvenire
della vita pubblica del partito.
Una delle due ipotesi: o i nostri hanno già con le leghe di lavoro, con l’istituzione di opere economiche, con la propaganda , una
posizione non indifferente nell’ambito del comune, e uomini coscienti, adatti a disimpegnare il mandato consigliare; - o invece sono scarsi
di forze non solo numeriche, ma anche intellettive, nè la coscienza
degli aderenti e dei simpatizzanti si trova sufficientemente formata.
Nella prima ipotesi, io credo necessario che i nostri manifestino la propria individualità , distinta e non confusa con l’individualità
di altri partiti. Pur avendo di mira prendere una posizione in consiglio,
o di centro o di minoranza, - in casi eccezionali, e dove i precedenti lo
consigliano, quella di maggioranza - l’educazione del proprio corpo
elettorale e i fini generali della nostra azione impongono il dovere
d’un programma veramente democratico-cristiano e di uno stacco leale e netto da qualsiasi altro partito che non può con noi avere le stesse
idee e lo stesso programma.
Del resto, è così difficile il caso che i nostri si uniscano con i
socialisti, che ciò si esclude senza discussione.
Restano i liberali non settari - perché i liberali settari hanno in
rapporto a noi l’enorme irriducibilità di propositi - con i quali se è
possibile un accordo nei limiti dell’onestà amministrativa e dell’elemento religioso; non è possibile un’intesa sincera nel resto del nostro
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programma che tocca l’essenza della democrazia cistiana. Ammettere una decapitazione di programma è semplicemente una capitolazione prima della battaglia. Prescinderne è mettere a base degl’indizi della nostra vita pubblica l’equivoco, rovinoso in ogni senso e
per ogni ragione.
Le masse che seguono il nostro programma si crederebbero
giustamente tradite e ingannate; un’onda di sfiducia ci farebbe perdere
quella posizione di già acquistata.
E non è di questo solo lo svantaggio che da simile coalizione
ne verrebbe.
Non si può accompagnare dall’azione municipale una forte ripercussione sull’azione politica; ed è evidente che noi, dando forza ai
liberali perché vincano nelle elezioni comunali e provinciali, contribuiamo indirettamente a sostenere un partito politico che ne’ suoi criteri fondamentali è antisociale, e nel fatto ha rovinato la nazione, ha
combattuto la Chiesa; un partito che è destinato a rovinare, e che nella
sua rovina tenterebbe di travolgere il nostro partito, anche alleandosi
con i socialisti: gli esempi non sono lontani. Si aggiunga che il popolo, sopra cui contiamo come elemento di vita pubblica, non potrebbe
certo aver fiducia in noi, visto che col trionfo dei liberali, per causa
nostra, lasciamo che continui un regime di vita pubblica poco o niente
consono agli interessi, ai diritti e alle rivendicazioni popolari.
E non basta: la coalizzazione di due partiti, uno più forte e
uno più debole, irriducibili nelle idee fondamentali e negli indirizzi
pratici generali, riesce al sacrifizio del più debole al più forte . Conveniamo che il più debole è il nostro; - ebbene, se i partiti coalizzati saranno soccombenti, i nostri nomi, che non hanno i precedenti politici
e l’influenza dei pezzi grossi della liberaleria, resteranno in fondo all’urna, con gli svantaggi e senza i reali vantaggi di un’affermazione; se invece riusciranno ad avere la maggioranza, andando all’amministrazione i nostri dovranno accettare eredità per lo più rovinose, con
colleghi niente affatto disposti a subire le nostre influenze - e così
avranno tutti gli svantaggi del potere, specialmente per un partito giovane, e che non si è prima affermato nei banchi dell’opposizione, senza il vantaggio di una posizione predominante nei diversi rami di amministrazione e nel paese.
E di ciò quarant’anni di vita municipale cattolica ci fanno fe-
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de; per lo più i nostri, senza volerlo, han servito di piedistallo ai liberali, che han saputo andare a baciare l’anello del vescovo o portare
l’ombrello al Sacramento o intervenire in pompa nelle feste del santo patrono.
Una difficoltà. - Non sarà peggio per il comune e per gli interessi generali della religione e della democrazia cristiana che vadano
al municipio o i liberali settari o i socialisti?
Ecco: quanto al meglio o al peggio non si può dare risposta
assoluta; perché, secondo i diversi punti di vista da cui si guarda, varia e si modifica il giudizio; certo che un tal trionfo non può esser voluto da noi, ma se avverrà anche perché noi non ci saremo uniti ad un
altro partito, non potrà cadere su di noi la responsabilità del male; ma
su quegli elettori che hanno col loro suffragio fatta cader la bilancia
da quella parte.
Del resto, per aver troppo ristretta visione del male e dei rimedi, molti sforzi generosi dei cattolici nell’ambito municipale sono
andati a vuoto, e non ci hanno lasciato nessun terreno preparato,
nessun ambiente formato; e l’utilità del momento ha spesso rovinato
l’avvenire.
Io ho ferma convinzione che il potere che cade in persone che
mancano del vero criterio dell’onestà e del bene, quando vi è una ben
nutrita opposizione nella vita pubblica, sfrutta e rovina. Del resto i
partiti liberali settari sono già sfruttati; i socialisti, che hanno l’aura
popolare otterranno il loro quarto d’ora fatalmente e ineluttabilmente.
È meglio che arrivino alla gran lotta dell’avvenire sfruttati dal potere;
perduti nelle dolorose condizioni amministrative dei nostri comuni;
impotenti a mantenere le troppo facili promesse; ridotti alla verità negativa delle loro fallacie; mentre si andrà affermando ed evolvendo il
nuovo partito dell’avvenire, fondato sulla verità e la giustizia, disposto a non dar tregua al nemico ma a combatterlo in tutte le posizioni.
Se il liberalismo avesse avuto in noi un avversario forte, unito, agguerrito, la decadenza sarebbe stata affrettata, e nella evoluzione
avrebbe trionfato più presto la forma normale della società.
Mi sono divulgato molto sulla prima ipotesi, perché è più facile la tentazione d’una unione per arrivare al consiglio, là dove le
nostre forze sono evolute per la vita pubblica, benché non siano così
numerose da essere sicure dell’esito in una lotta in cui scenderebbe-
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ro da sole.
La seconda ipotesi, cioè che i nostri siano pochi di numero,
non intieramente coscienti del programma, e non abbiano persone che
possano bene rappresentare al consiglio l’idea democratico cristiana,
credo che sia più generale. Stabilire una tattica netta e precisa in tali
casi è assai difficile. Forse sarebbe meglio non scendere per ora in
campo ma attendere che si maturi l’organizzazione con opere di propaganda, con istituzioni speciali, con un’azione prudente e progrediente nell’ambito sociale. Se è possibile, anche su una o poche persone, un’affermazione che non sia addirittura microscopica io la consiglierei, come una prima prova; anzi come mezzo di propaganda, riesce spesso assai utile; a Caltagirone nel 1899, a Girgenti e a Sciacca
nel 1891 tali tentativi sono riusciti - Se ciò non si crede opportuno, un
altro mezzo di affermazione sarebbe lo scegliere una questione ardente d’indole locale, possibilmente sociale, e votare per coloro che accettano formalmente i criteri dei democratici cristiani, mantenendo
però nette le distinzioni.
Anche quando si stimerà più utile appartarsi, è conveniente
che si faccia in una forma positiva e non mai negativa, come per
esempio, l’astensione in massa, o una candidatura protesta, o un ordine del giorno vigoroso.
Importante è l’affermazione del partito; tale affermazione
dev’essere principio, anche tenue di vitalità.
Passiamo poi a guardare quella parte dell’Italia dove, più che
il partito, può la consorteria a base di persone che tentano aver il potere per reggere sè e i propri deputati; - anche per tali cause con maggior ragione escludo qualsiasi proposta di unione e di coalizione.
Per lo più questi partiti personali non sono onesti, non hanno
programma, e loro fine precipuo è tenersi in alto per ragioni politiche... ed economiche, fin troppo economiche! - Manca alla loro azione elettorale e amministrativa qualsiasi idealità; per lo più il capo partito, il grosso barone, il deputato, sono l’insegna attorno a cui si agitano le più basse passioni pubbliche, e attorno a cui mestano i mafiosi,
i camorristi, i girella, i tornacontisti . Ambiente corrotto, dove la compravendita del voto è la condizione indispensabile di vittoria; dove il
favoritismo personale è cardine di vita amministrativa e sostegno delle maggioranze; dove il confusionismo e la disonestà sono conseguen-
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ze della mancanza di carattere e di idee.
E il popolo non ha nessuna coscienza della vita pubblica, dei
doveri che impone, nessun criterio d’indole generale; - facile alla passione arriva al delirio della vittoria o all’abbattimento della sconfitta,
riguardate come finalità ultime di tutta l’azione, che deve riuscire benefica o malefica ai propri interessi personali. - Tale passione fa riguardare gli avversari come nemici, turba le amicizie e le famiglie, e
crea nell’ambito del comune la fazione, tante volte confusa o immedesimata con le tradizioni delle divisioni campanilistiche tra le due chiese e il culto di due santi.
In tale condizione l’unione nostra con uno dei due partiti forti e potenti che da gran tempo, come i guelfi e i ghibellini, dividono
le città riuscirebbe ad alienarci metà di Comune, che domani potrebbe divenir nostro, e a stabilire uno stacco profondo, insanabile. A nulla varrebbe il programma sopra cui ci potremmo affermare; non si
capisce un programma, nè entra nella coscienza popolare, se non
quando un lungo lavorio di fatti lo impone . Altrimenti anche per noi
sarebbe fatale il confusionismo dei partiti locali, che ci trascinerebbe,
anche senza volerlo alla rovina. E ciò a non parlare delle altre conseguenze d’indole generale e di carattere politico ed amministrativo
sopra esposte.
È chiaro che in ogni caso è meglio far da soli, e seguire la tattica sopraccennata, che si può riassumere così:
a) Bisogna scendere in campo nelle prossime elezioni amministrative, là dove la preparazione è sufficiente per un’affermazione di
principio e di partito;
b) Dove questa preparazione non è sufficiente è meglio o l’astensione positiva , o un intervento indiretto; purché si affermi sempre
il carattere di partito distinto e staccato dagli altri;
c) In nessuna ragione e per nessun caso (come criterio generale) è opportuno stringere leghe con i partiti avversi , liberali, popolari
o personali di consorteria.
d) È necessario formulare programmi chiari, netti, specifici
(sia d’indole generale che locale) e fare larga propaganda delle nostre idee;
e) Tranne in casi specialissimi ed eccezionali, nei quali è do-
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veroso tentare di avere la maggioranza, - obiettivo nostro dev’essere
quello di ottenere nei Consigli la minoranza o il centro;
f) Le liste devono essere formulate di candidati coscienti del
nostro programma, e che abbiano la sufficienza di sostenerlo nei Consigli; e devono essere composte di elementi delle diverse classi sociali, dal propietario al lavoratore;
g) Dove non è possibile formare una lista, è meglio contentarsi anche d’un solo candidato intieramente nostro e capace di sostenere
il mandato consiliare.
Torno ad insistere che la preoccupazione maggiore dei nostri,
nelle prossime elezioni amministrative, dev’essere quella dell’avvenire del partito democratico-cristiano nella vita pubblica; nè dobbiamo
per considerazioni locali ritardare i passi al cammino della idea democratica cristiana.
Caro Pram, forse m’ingannerò; ma tu potrai meglio di me
guardare il nostro passato, prossimo e remoto, e il nostro avvenire.
Ti sembrerò pessimista; io aborro dagl’idilli. In questo momento, quando ancora una cultura soda anche riguardo ai problemi
amministrativo-sociali non è generalizzata nel campo nostro; quando
molto di tradizionale e di vecchio, diffuso nel nostro ambiente, ci lega
ai liberali; quando (nonostante gli sforzi) un soffio di reazione passa
sul nostro capo, una qualsiasi oscillazione della nostra condotta potrebbe portare gravi conseguenze nell’avvenire.
Credi che io esageri?
Caltagirone 10 maggio 1902.
Tuo
L. Sturzo
Se l’amico L. Sturzo non dichiarasse di aver scritto l’articolo
per suscitare una polemica con me, io non mi sarei forse accorto, leggendo il suo, d’un dissenso sostanziale nelle idee: grandissima parte
delle cose che L. Sturzo scrive nella lettera precedente io accetto e
sottoscrivo a due mani.
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Ma qualche differenza e qualche cosa che io non accetto delle
idee di L. Sturzo c’é, ed é appunto la parte che riguarda l’esclusione
assoluta - benché egli aggiunga come criterio generale - d’ogni accordo con uomini e partiti non cattolici.
In fondo, nei miei due articoli, a una tattica di accordi si concedeva molto poco: i democratici cristiani non avrebbero dovuto prendervi parte che alla spicciolata e senza impegnare il programma, e solo in quanto si supponeva che le altre graduazioni di cattolici - suggerente spesso l’autorità ecclesiastica - avrebbero accettato e concluso
tali accordi. Le restrizioni che io metteva erano poi tali e così gravi
che realmente solo in pochissimi casi esse avrebbero potuto verificarsi, dando così luogo ai nostri di agire per conto proprio e con grande
libertà di mosse, come essi accennano a fare nei centri dove sono più
numerosi e meglio organizzati.
Come criterio generale di partito democratico cristiano le idee
dello Sturzo sono giustissime, credo, e sono anche le mie; ma una parte dei suggerimenti pratici contenuti nei due articoli della Cultura non
era rivolta ai democratici cristiani, organizzati più o meno in associazione di partito ma a tutti quelli che, individui o aggruppati, per simpatie o affinità, avessero voluto tenerne conto; di fatto il primo di que’
due articoli era rivolto a tutti i cattolici.
Ora, democratici o simpatizzanti ve ne sono dappertutto; ed é
certo che, salva la integrità e la purezza del programma, essi possono
con molti modi variamente influire sull’esito delle elezioni, favorendo
gli uni o gli altri elementi; e ottenere, dentro certi limiti, con una condotta oculata e prudente, risultati notevolissimi.
Non si trattava di condotta di partito, ma di evoluzione generale dell’ambiente: acquistar contatto con gli elettori, trattar le quistioni municipali, prendere dalle elezioni e dai comizi occasione di far conoscere il proprio programma, facilitare l’accettazione di operai nelle
liste anche concordate, procurare la eliminazione graduale dei vecchi
elementi parassitari, ottenere assicurazioni e promesse per lo sviluppo
dell’organizzazione democratica cristiana: tutti criteri di tattica spicciola che, anche fuori della condotta rigida e intransigente di partito,
possono avere larghissima applicazione, e che hanno il vantaggio di
rispondere allo stato dell’animo cattolico in questi ultimi tempi.
Ma quale é l’indole dei problemi municipali più gravi e qua-
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le il loro rapporto con le rivendicazioni generali del nostro programma
cattolico sociale?
E dobbiamo o possiamo noi seguire nei problemi municipali una linea di condotta unica, mettendoci fuori, in nome di un partito guelfo, dalla varia combinazione dei dati di fatto e delle attività
politiche locali? Grosse questioni che richiedono una risposta più
larga e matura.
PRAM.
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Da “ Il Domani d’Italia”, 8 Giugno 1902
Il programma municipale dei d.c. romani
Discorso di R. Murri
«Tutto ciò che è di Roma rinasce».
Signori!
In mezzo a tante mutevoli vicende di parti e di scuole, un fatto
domina la vita moderna e ne costituisce la nota caratteristica: il rapido
estendersi, in tutti i campi dell’attività umana, dell’associazione. Sia
che con l’aumento della ricchezza e della cultura il rapido incalzare
dei bisogni costringa a provvedere con sforzi collettivi alla soddisfazione di quelli che hanno carattere comune; o che la consapevolezza e
il possesso che l’uomo ha acquistato delle forme concrete dei rapporti
sociali renda queste più adatte alle necessità umane, più plasmabili e
quindi più facili a svilupparsi; o sia anche che davvero l’uomo diviene
ogni giorno più fratello all’uomo e negli atti della sua vita esterna si
traduce un miglioramento, profondamente religioso e cristiano, avvenuto nei cuori; siano esse od altre o tutte queste ed altre insieme le
cause, certo mai come oggi questo fatto che ha tanta importanza nella
vita della specie umana, l’associazione, ebbe più rapido sviluppo e più
vaste applicazioni.
E tutte le forme di associazione vi hanno guadagnato: la libera, o
cooperativa, la professionale, determinata da una evidente e stabile
coincidenza di interessi, la politica. Ed è evidente che ciascuna di esse
è in intimi rapporti con le altre: poiché tutte le avvolge e penetra e domina un più alto senso di solidarietà, un principio nuovo di giustizia
sociale, un trasmutarsi del diritto umano per la sostituzione di un più
elevato concetto di proporzioni e di corrispondenze etiche al calcolo
strettamente giuridico e quasi meccanico della parità assoluta.
Ma nello sviluppo della associazione politica noi vediamo avvenire questo fatto: che mentre i compiti dello Stato e del comune aumentano insieme, una diffidenza giusta e diffusissima ci porta ad esaminare e vagliare accuratamente ogni nuova pretesa di espansione da
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parte dello Stato, ma con senso di fiducia giovanile e freschissima teniamo dietro all’aumento dell’attività dei comuni: e mentre pel primo,
più che gli aumenti necessarii e spontanei di operosità, ci preoccupa il
bisogno urgente di sottoporre ad una revisione critica tutti i suoi compiti attuali, di fare il processo ad una lunga tendenza di accentramento
e di compressione delle altre forze sociali, di sfrondare gli ufficii parassitarii della milizia permanente, della burocrazia, della amministrazione, delle scuole di Stato, pei secondi cerchiamo e sollecitiamo
provvedimenti legislativi che diano ad essi libertà piena di mosse e di
azione. E quel che oggi si fa per questa via, con il lodevole progetto di
legge Giolitti sulla municipalizzazione, è giudizio comune non sia che
un primo passo; un primo acconto a un creditore che reclama con insistenza ogni giorno maggiore i suoi crediti lungamente trascurati.
E, notatelo bene, non è una apposizione di nuovi compiti agli antichi, un estendersi delle funzioni municipali: è la sostanza stessa della
cosa municipale che si trasforma, nel concetto delle attribuzioni sue
proprie, nei modi di attingere alla ricchezza pubblica i beni dei quali
ha bisogno, nei suoi rapporti con le classi nelle quali ha le radici, in
quelli con lo Stato che la sovrasta: è un ente nuovo, produttore di servigii collettivi, integratore della comunità delle famiglie che lo compongono, e soprattutto, provvido iniziatore di giustizia, di assistenza,
di tutela, di comuni incrementi, il quale si sostituisce al municipio
presente, organo decaduto e avvilito di prevalenze di classe, di Stati
accentratori, d’un dritto pubblico gendarme, che dinanzi ai cittadini
stava, quasi come un estraneo, a tutelare l’incolumità delle persone e
dei beni, e null’altro.
E questi suoi compiti il municipio nuovo ripiglia, rifiorendo nel
turgido e fecondo terreno delle democrazie contemporanee, e risollevandosi, dalla decadenza di quattro secoli di servitù politica che pesarono specialmente su di esso e dalle grettezze in cui lo chiuse un regalismo arido ed assorbente, al concetto profondo e cristiano d’una illimitata solidarietà comunale fra i liberi ed eguali che lo compongono:
e li ripiglia, parte ricevendoli, come l’istruzione e la beneficenza, dalla Chiesa, provvida tutrice la quale li esercitò in luogo di esso e per
esso, maternamente; parte rivendicandoli dallo Stato, tenace e violento usurpatore, parte strappandoli all’ingordigia di speculatori, e parte
anche esprimendoli da sé medesimo e dal fecondo alito di giustizia e
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di pace sociale che lo ravviva.
Ma io debbo affrettarmi a parlarvi del municipio di Roma e della
materia di osservazione e di analisi, che esso mi offre; ed esaminando
anche il muoversi in esso dei partiti e dei programmi nell’ora presente, a delinearvi molto brevemente il programma che emerge dalle cose
indicate, e che per noi democratici cristiani è norma di condotta alla
quale rimarremmo stabilmente fedeli.
Prima del ’70 un governo degno di ogni rispetto, ma antico nelle
forme, invadente e sospettoso anche per necessità di difesa, sacerdotale, penetrava il municipio romano e lo dirigeva, lasciandogli poco più
che l’ufficio d’una semplice rappresentanza. Quanto limitata fosse attività di questo lo dice, fra l’altro, il bilancio modestissimo delle spese e il ricordo ancora vivo della parte che nel governo della città prendeva lo Stato.
Al comune nuovo, per un lungo periodo di tempo, durante il quale la borghesia governò sovrana e concetti politici dominarono tutta la
vita pubblica – il proletariato si preparava allora silenziosamente alle
prime conquiste, – il suo compito primo fu spontaneamente delineato
dalla situazione. Esso fu, sino alla crisi della fine del secondo decennio, un compito principalmente edilizio.
Far dimenticare che Roma era, sino al ’70, la città dei preti, offrire allo Stato una bella capitale, rinnovare tutto, piacere alla borghesia
grassa e magra che affluiva in Roma, fu il programma municipale di
venti anni. Il proletariato, avventizio in gran parte, contento dei grossi
salarii, mobilissimo, non esisteva come organizzazione cittadina e potenza municipale.
Innanzi a questa sete del nuovo e invadenza di estranei, nella
febbre di spendere e di distruggere che agitava la citta, l’Unione Romana sorse a raccogliere i cittadini della Roma di prima, fedeli alla
Chiesa per tradizione o per ufficio, quella parte della borghesia grossa
e quieta la quale vedeva con ispavento la fretta faraginosa degli altri, e
l’artigianato locale per cui la Chiesa era ancora la padrona cara e dispensatrice di lavoro.
L’Unione romana non rappresentava una resistenza politica, né
un programma di riconquista: aliena da pretese e da intemperanze, essa era per eccellenza, un elemento moderatore.
E l’Unione romana fu forte: fu forte pe le affinità degli elementi
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che la componevano e la loro docilità; forte anche per la democratica
semplicità della sua costituzione e pel valore degli uomini integri che
le diedero vita e la diressero.
Venne la crisi edilizia e il còmpito del municipio romano, invertito nei termini, rimase nella sostanza lo stesso, grettamente finanziario: dove prima si trattava di spendere, oggi si trattava di risparmiare.
E contro le intemperanze degli elementi politici più avanzati, i rappresentanti dell’Unione romana appoggiarono la borghesia liberale moderata della città e presero parte con essa al potere.
Ma, come avviene sempre, lo stato delle cose andava mutando
nella profondità, mentre alla superficie esse rimanevano le stesse: e
agli spiriti osservatori la decadenza e l’irrequietezza le quali apparvero poi improvvise nella notissima riunione dell’ottobre scorso incominciavano a manifestarsi.
Nelle ultime elezioni i socialisti presentarono un faraginoso programma loro e si affermarono su di esso: dei nomi dei candidati
dell’Unione non tutti furono egualmente accetti al pubblico, e parecchi col tempo divennero anche meno accetti per la nota indifferenza
all’alto ufficio: gli effetti della crisi edilizia cominciavano a dileguarsi, tanto che – sogno d’una notte di inverno – l’antico programma di
ingrandimenti edilizii parve dovesse tornar d’un tratto in onore: la
questione delle Naiadi mostrò come anche sulla tutela della parte del
programma più strettamente religiosa e morale le cattoliche oche capitoline sonnecchiassero: i Comitati rionali dell’Unione languivano.
Ma c’è di più. La coscienza popolare è lentamente ma perennemente permeata da altre correnti di idee.
Benché Roma, per l’assenza d’un proletariato industriale e per la
prevalenza di interessi politici, sembri terreno poco adatto alle nuove
fioriture sociali, tuttavia anche in essa va lentamente avvenendo una
nuova orientazione degli animi. I problemi economici e sociali, la
consapevolezza di poter far qualche cosa in un senso o nell’altro per
risolverli, le nuove scuole e parti sociali salgono sull’orizzonte e lo
tingono di nuovi colori: vecchi problemi tramontano o nuovi problemi
compaiono.
Due fatti debbono richiamare più specialmente la vostra attenzione: il rapido progresso della organizzazione professionale e l’apparire
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– salutate, signori – della democrazia cristiana. Il primo fatto, favorito
dalla Camera del lavoro ed anche, nei limiti del possibile, dalla nostra
Lega cattolica del lavoro, sostituisce agli elettori disorganizzati d’un
giorno, raccolti pèlè mèle all’ultim’ora da un’associazione politica,
elettori affiatati: il secondo vi avverte che in questi ultimi anni un’ampia revisione critica del programma di parte cattolica ha avuto luogo e
che esso ha oramai nuovi paragrafi e nuove esigenze, che è impossibile trascurare.
Quali sono questi paragrafi e queste esigenze nuove sarebbe lungo il dirvi: della parte sociale io mi occuperò più oltre: pel resto vi
dirò solo che il programma democratico cristiano rende o tende a rendere impossibili molte ibride alleanze e concessioni possibili un giorno ed ovvie: che dai cattolici, clero o laicato, eletti o elettori, essa reclama integrità di principii, rettitudine piena non di coscienza solo, ma
di condotta oggettivamente considerata, una altissima cura di ogni
compito di educazione popolare e di tutela sociale, un senso acuto e
perspicuo di modernità e di civiltà, una feconda gara, in giovinezza di
idee di iniziative di opere civili con tutte le altre o scuole o parti, negli
interessi del cristianesimo stesso e della Chiesa.
E per noi deve cessare specialmente quella tacita bugia che a
consumatori cattolici ed ecclesiastici associava stabilmente fornitori
liberali, che i compiti religiosi della vita parrocchiale e della istruzione privata dissociava intieramente dai compiti civili dei cattolici,
che conosceva la via del Vaticano per sollecitarne appoggi frequenti
più che per narrare lieti successi, che il mandato amministrativo, delicatissimo ufficio e gravissima responsabilità, diminuiva inconsapevolmente, per superbia od egoismo di classe ad affare privato e comoda sinecura.
A noi importa mostrare, più che contro cattive volontà contro false abitudini sociali, che la vita privata, la famiglia, il circolo, la professione, il municipio non sono cose o parti isolate, disiecti membra
christiani, ma costituiscono un circuito chiuso, un organismo vivo,
nella cui salda unità si affermano il carattere di cittadino integro e il
principio religioso profondamente sentito. E noi incalza e punge il
proposito di ricondurre il cristianesimo al governo della civiltà e di attrarre ad esso le correnti della democrazia, acque pullulanti dal
profondo seno dell’Europa cristiana.
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Diamo ora uno sguardo ai partiti e ai programmi di oggi.
Essi si riassumono in tre classi: l’Unione liberale, la democratica, la romana.
La prima, raccolta di borghesia liberale conservatrice e di parvenus della massoneria e dell’alta democrazia, di aristocratici bianchi
e di monarchicucci anelanti alla croce, di tutti i comitati per le onoranze e per i festeggiamenti, di clientele politiche e di clientele d’ufficio, non ha programma, altro che questo: rimanere al governo. Ed
essa si divide internamente in due: elementi massonici e anticlericali
sazii e stupidi parassiti del potere in tutte le sue ramificazioni ed elementi moderati che sottomano ricorrono e si appoggiano ai clericali.
Ipocrita e follaiuola essa batte oggi il chitet dell’anticlerismo: e il
chitet dà un suono fesso e rauco che vellica disgustosamente l’orecchio più che allarmarlo.
L’Unione democratica, dottrinaria e prevalentemente politica, è
associazione giovane che forse, come tutte le cose giovani qui in Roma, avrà poca fortuna questa volta; ma che avendo affermato, per bocca dell’on. Sacchi, la libertà per tutti, negli amplissimi limiti della costituzione, raccoglie in sé tutti gli elementi della Camera del lavoro,
associazioni professionali autonome, come quella degli impiegati governativi, e le frazioni più colte e progressiste della borghesia. Essa
sarebbe un fascio di forze imponente: solo le nuocerà forse grandemente il non aver potuto, per strettezza di tempo e difficoltà di organizzazione (essendo la maggior parte dei soci non romani d’origine) il
raccogliere in un programma più pratico e preciso di tutela di interessi
locali le sue tendenze amministrative. Ma l’Unione democratica ha
largamente affermato la volontà di accogliere nel suo programma le
principali rivendicazioni della democrazia municipale: ed è molto: e
gli uomini che essa sceglierà porteranno certo, se eletti, in Campidoglio il soffio dei tempi nuovi.
Una affermazione del Sacchi, nel suo recente discorso elettorale,
debbo qui rilevare: ed è quella nella quale egli, giudicando superate le
vecchie distinzioni fra clericali e anticlericali, dice che la questione va
posta nel terreno economico: alla quale però contraddice l’altra, dello
stesso Sacchi e nello stesso discorso, che i clericali sono fuori della
costituzionalità, perché non accettano il terreno presente delle lotte civili. Nel che l’on. Sacchi erra: perché oggi i cattolici, rivendicando an-
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che per sé le migliori tendenze e conquiste della democrazia, accettano benissimo per la loro attività il terreno che egli chiama costituzionale: le loro riserve non sono d’indole politica, e non toccano quindi
direttamente la loro attività economica e sociale, ma sì sono d’indole
religiosa: né sono certo tali per loro natura – forse l’on. Sacchi ne ha
una idea antiquata e inesatta – da impedire ad essi di sentirsi cittadini
e democratici, come ogni altro e di contendere agli altri la direzione
dei moti civili e sociali.
Ciò è così vero che noi cattolici stessi (o almeno noi democratici
cristiani) nella presente lotta municipale, siamo lieti di fare come il
Sacchi e di portare la questione sul terreno economico: per tutte le rivendicazioni d’indole edita e spirituale che il cristianesimo ci suggerisce prendendo posizione nella vita pubblica, non per imporle dal di
fuori, in nome d’una autorità superiore ed estranea, ma per promuoverle dal di dentro come forze di incivilimento e di progresso muoventisi ed operanti nel seno medesimo della civiltà cristiana. L’affermazione adunque del Sacchi non ci tange.
Ed ora, signori, il nostro programma. Ma, non temete, sarò breve: giacché un programma d’azione pubblica non prenasce mai intiero
nella mente d’un uomo, né si adagia nei periodi di un breve discorso.
Noi vogliamo solo che il pubblico sappia quale impegno prendiamo
innanzi ad esso e che giudichi se il nostro pensiero risponde al suo
animo: poi il programma lo verremo esponendo, o nella critica, libera
sempre e serena, dovesse anche appuntarsi oramai contro i nostri, fuori del Campidoglio, o nella critica e nell’azione insieme in Campidoglio; e l’una cosa piuttosto che l’altra, secondo che a voi piacerà, o
elettori romani.
Della parte religiosa del nostro programma permettete che non vi
occupi a lungo. Pretese nuove, in questo campo, noi non affacciamo.
Potrebbe trattarsi, al più, di far valere più liberamente e più vigorosamente le consuete: neutralità della Giunta, non troppi zeli patriottici, specie quando abbiano il male della retorica, rispetto alla religione, libertà alle sue manifestazioni consuete, insegnamento religioso
efficace nelle scuole. Potrà forse anche trattarsi di più prontezza di decisioni, integrità di condotta cristiana nelle cose pubbliche, libertà di
mosse: ma il più e il meno non mutano la specie, osservano gli antichi
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naturalisti. Certo un desiderio vago dice ai cattolici romani che gli interessi religiosi potrebbero essere in Campidoglio più validamente
protetti; e che non proprio quando si tratti della croce in Campidoglio
o del sacerdote nelle scuole ma quando si gestiscono le cose del pubblico economiche e amministrative una parola, anche meno apertamente clericale, se volete, ma più profondamente cristiana, troverebbe
le vie dell’anima popolare e rinnoverebbe gli antichi entusiasmi.
Più urgente e più grave è la questione morale. Il municipio moderno ha un nobile compito educativo: compito di tutela, contro l’invadente empietà di costumi e il paganesimo nuovo, compito di elevazione positiva dell’intelletto e dell’anima popolare.
Dove si tratti di moralità e di educazione noi dobbiamo smettere
il timore di parer clericali quando si tratta solo di essere uomini e cristiani: e perseguitare nei teatri nelle vetrine nelle vie nelle scuole la
immoralità, implacabilmente.
Ma sono più specialmente i còmpiti sociali del comune moderno
quelli nei quali voi attendete da noi una parola nuova e più aperta: ed
eccoci a dirvela, purché ci teniate conto dei limiti, strettissimi, di spazio e di tempo.
Noi vogliamo, o signori, – la parola è al suo posto, – noi vogliamo spezzare la attuale compagine della vita municipale romana per ricomporla: e la nostra riforma vuol cominciare direttamente dagli elettori. Ravvivare conviene il corpo elettorale dei nostri, chiamarlo ad
occuparsi esso stesso dei più urgenti problemi cittadini, aggiungere ai
vincoli religiosi e politici che uniscono gli elettori nostri quelli più
stretti della solidarietà di interessi e di rivendicazioni economiche: e
poi anche ravvivare il contatto e ristabilire la fiducia fra elettori ed
eletti, chiamare alcuni dal basso a salire, creare nel seno dell’Unione
romana – alla cui illustre presidenza io rendo qui tuttavia omaggio –
una rappresentanza extra-consiliare che controlli e punga l’opera dei
consiglieri di parte nostra: avviarci così a fare realmente del municipio un corpo di rappresentanti degli interessi collettivi della città, animati da un altissimo senso di giustizia distributiva e aperti al soffio
dei nuovi ordinamenti democratici.
Provvedete al popolo, accettatene nel vostro seno gli elementi
migliori sin da ora, educatelo, restituitegli il senso della sua libertà e
dignità, organizzatelo, chiamatelo a discutere i suoi affari ed a miglio-
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rare le sue condizioni con la solidarietà, dategli la fiducia in sé stesso,
e poi fategli, a questo popolo, più posto, più posto, più posto nella vita
pubblica: questo è il nostro programma, e tutto il nostro programma.
Primi nell’attuazione di esso i compiti morali ed educativi dei
quali abbiamo parlato: viene subito appresso l’appoggio largo, intelligente, cordiale alle forze di rinnovamento che emergono spontanee
dallo stesso corpo sociale, a questo nisus formativus di organizzazioni nuove che comincia a rivelarsi sotto i nostri occhi. Alcune cose specialmente, da tal punto di vista è necessario fare senza ritardo: migliorare l’educazione tecnica e commerciale dei figli della piccola borghesia, ottenendo dallo Stato o promuovendo per proprio conto la fondazione di una scuola commerciale media e superiore, con annesso un
museo commerciale, dando sussidii per viaggi all’estero, incoraggiando, dove e quanto è possibile, poiché non vogliamo farci illusioni su
ciò, il sorgere di industrie rispondenti alle condizioni della città e la
trasformazione dell’agro romano. Ed è anche opinione nostra che i
cattolici in Campidoglio né debbono né possono limitarsi al semplice
trattare le cose amministrative: attingendo forza nel loro ufficio e cercandone nella scienza più recente, la quale prepara il fondo ideale onde germogliano le nuove attività, essi dovrebbero tenersi in frequenti
rapporti con la vita cittadina e con quella del loro partito, esser larghi
di appoggio e di aiuto a ogni iniziativa che rifluisca nella vita comunale con nuovi flutti e correnti.
Fra queste forme di attività nuova da incoraggiare noi mettiamo
anche la cooperazione in ogni sua forma. È vero che una classe rispettabile di cittadini protestava recentemente contro alcune applicazioni
di essa: ma noi non chiediamo privilegii sibbene libertà e favore per la
cooperazione, che è, come osservava recentemente un liberista, non
arma di offesa ma difesa dei cittadini contro le ingiustizie della distribuzione: e, sinché un dritto nuovo non si sarà venuto formando, noi
crediamo che ad essa basti il presente terreno di libertà e di eguaglianza, quando la avvivi un profondo senso di solidarietà e la diriga un sicuro intelletto del suo intricato meccanismo.
Vien terzo il problema di ciò che deve il comune direttamente fare: e qui prima ci si presenta la questione finanziaria.
Il sistema tributario del Comune di Roma, permettete che lo dica
subito, è radicalmente ingiusto: basta osservare che i più dei tre quinti
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dei proventi sono dati dai consumi popolari e che dall’altra parte i
due quinti delle spese vanno a pagare interessi di debiti contratti per
i begli occhi dello Stato italiano e per le velleità patriottiche delle
classi superiori. Avrebbe il popolo, se chiesto del suo parere, pagato
tanto più caro il pane od il vino per la trasformazione edilizia della
«capitale»?
Io so, o signori, che i termini attuali dei bilanci sono per qualche
tempo immutabili: e che il recente contratto col governo trasferisce allo Stato l’onere immediato di alcune trasformazioni edilizie più urgenti. Ma osservate che non un soldo deve dare il comune per nuove
imprese edilizie, potendo ancora impiegare molte braccia e molto denaro in sistemazioni urgenti.
Nello studio delle questioni tributarie noi desideriamo che i cattolici portino, non più solo il consiglio d’una lunga esperienza, ma i
lumi delle indagini compiute in questi ultimi anni dalla scienza: indagini e risultamenti di essa che nella trasformazione dei tributi diretti e
indiretti, per ragioni o di giustizia o d’una più retta discriminazione
della finanza politica e comunale, o di comodità industriali e fiscali,
offrono tanto campo a riforme e ad audaci iniziative.
Inoltre, ed è quel che più importa, la nuova amministrazione troverà forse votato dalla Camera il progetto di legge per la municipalizzazione dei servizi pubblici; essa dovrà quindi subito provvedere per
un avvenire non molto lontano: trovar modo, senz’altro, di riscattare i
trams – servizio cittadino di enorme importanza economica e sociale,
indegnamente gestito – e la luce, possibilmente e più tardi l’energia
elettrica e l’acqua. È proprio, ripeto, la nuova amministrazione che nel
triennio prossimo deve mettere i capisaldi per la soluzione di questo
problema di importanza vitale, per la ricerca dei capitali necessarii all’utile impiego, e per la costituzione del nuovo demanio comunale. Il
popolo esige che i suoi interessi siano più vigorosamente e, permettetemi di aggiungere la parola, più insospettabilmente rappresentati, da
alcuni i cui interessi si confondono intieramente con quelli del popolo
e che sopra gli interessi porti la voce, e solo essa, del dovere e della
giustizia. Alcuni servizi pubblici di minore importanza possono essere
anche subito municipalizzati; altri più accuratamente sorvegliati; in altri il municipio può più sollecitamente provvedere ad entrare in lizza
con la produzione privata, per frenare i prezzi e introdurre migliora-
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menti tecnici: come fu tentato pel pane, per l’acqua, e come alcuni
proposero già di fare per la forza idroelettrica.
Ed allora, quando i cespiti del nuovo demanio municipale lo permettessero, solo allora, purtroppo, si potrà affrontare l’arduo problema della liberazione del popolo dalle imposte delle fame, sui consumi
di prima necessità. Ma la lotta contro l’ingordigia e la speculazione
privata, la lotta contro le grandi società vampiri deve essere proclamata ed iniziata subito, per l’onore di Roma e la salute del popolo.
A me non pare che l’attività d’un municipio conscio di questi
suoi uffici civili possa, in un primo periodo della sua espansione, condurre a gravi conflitti con l’autorità prefettizia, tutrice e spesso arbitra,
in nome delle mille ritorte che l’accentramento statale e la burocrazia
amministrativa hanno passato intorno alle braccia ed al corpo dei comuni italiani, dei passi del municipio: ma quando anche fosse, il merito di un contrasto aperto e reciso contro una tutela eccessiva, condannata oramai dallo spirito pubblico e dai progressi della democrazia,
sarebbe maggiore del danno. Tutti i grandi municipii di Europa sono
stati in questi ultimi anni e sono ancora in conflitto aperto con lo Stato: in Italia e a Roma una simile lotta sarebbe tanto più bella quanto
migliori sono le nostre tradizioni, più avida e assorbente la cura gelosa
dello Stato, più alte le cause del conflitto che verrebbero a riflettersi in
esso il giorno in cui i cattolici, in nome della libertà e della democrazia, alzassero dal Campidoglio la loro protesta: dal Campidoglio immemore oggi delle sue glorie latine e dei destini della città.
Primo dovere d’un municipio che intenda tutto ciò e che abbia
un così vasto e difficile campo di lavoro come è questo di Roma è
crearsi un organo di informazioni e di iniziative adatto allo scopo.
Noi ci dividiamo radicalmente, su questo punto, anche dai socialisti
perché dei doveri del municipio abbiamo un concetto più organico e
meno sospettoso e vogliamo un ufficio e consiglio municipale del lavoro. L’ufficio che raccolga diligentemente indicazioni, informazioni, statistiche, programmi: un consiglio che la messe raccolta ordini a
scopi di provvidenza e di iniziative d’amministrazione, che intervenga paciere nei conflitti, consulente nelle discussioni d’indole sociale
e finanziaria, creatore di nuovi enti, annessi all’ufficio e al consiglio
che, nello sviluppo di questa attività nuova sociale del comune, fossero trovati necessari.
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Questo ufficio del lavoro necessario a una azione provvida e
oculata, come l’occhio è necessario al braccio, noi reclamiamo sia non
chiesto sommessamente, ma voluto ed imposto, e costituito entro il
più breve termine possibile, con le 6000 lire che erano stanziate nel
bilancio dell’anno in corso per sussidio alla Camera del lavoro e con
la soppressione di qualche altra spesa inutile.
Edotto dai risultati d’una inchiesta ordinata e permanente, il municipio potrà così iniziare quanto prima un utile intervento nelle questioni che hanno attinenza col lavoro. Dolorosamente, la nostra legislazione sociale è così incompleta che il municipio non può far molto
in questo campo: pur tuttavia così alta è la sua autorità, così varii i
suoi mezzi, così forte l’appoggio che, anche contro lo Stato, gli verrebbe da un largo consenso popolare e dalla sicurezza di se stesso che
i risultati morali ed economici potrebbero essere in breve tempo notevolissimi. Ecco intanto alcuni dei compiti precisi del municipio, come
noi l’intendiamo, in questa materia: la tutela degli operai dipendenti
direttamente o indirettamente da esso; le clausole sociali negli appalti;
il favore accordato alle cooperative di produzione; la vigilanza perché
le poche leggi sociali che abbiamo sieno rigorosamente osservate;
l’arbitrato nei conflitti di classe; la sorveglianza benevola e incoraggiante della organizzazione professionale. L’ufficio municipale del lavoro è quindi la prima e la più concreta delle nostre rivendicazioni.
Esso elaborerà, sulla traccia delle idee brevemente indicate, i progetti
di opere ed iniziative nuove alle quali fosse opportuno porre mano.
Ma noi dobbiamo, anche o signori, spingere l’occhio più innanzi
e fermarlo un momento sull’ultima cerchia delle degradanti sfere sociali, alla periferia di questo immenso circolo della vita cittadina, là
dove si ricoverano i detriti delle famiglie vinte dalla miseria, i residui
di vite affrante dal lavoro, i giovani condannati dalla miseria al disonore e al delitto, le povere pavide famiglie che non riescono a farsi un
tetto quieto in cerchia meno triste e lottano contro il pericolo delle ultime degradazioni. Poveri quartieri che non hanno mai conosciuto la
società altro che per la fredda e nemica sorveglianza della questura,
per i quali la quiete e il lusso dei cittadini è davvero un insulto. Ora, io
lo dico con certa coscienza e con voce alta e ferma, al municipio tocca
provvedere a riparare a simili miserie cittadine: organizzare la pietà
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privata e dirigerla, aprire rifugii diurni, tutelare l’osservanza delle regole elementari di igiene e di morale, profittare dell’appoggio del clero e, quando fosse necessario, sollecitarlo. Molte forme di assistenza
suggerirebbe un amoroso intelletto di tali miserie: la scuola, con aggiunta la refezione gratuita ai più poveri (ed in certi quartieri sono tutti), il sussidio intelligente ed illuminato alle iniziative di comunità e di
associazioni caritatevoli, l’ispezione diretta affidata a dame pie e buone, l’opera locale della congregazione di carità, ed altre che suggerirà
l’esperienza.
Di altre forme di iniziativa provvida a tutela degli umili io dovrei
occuparmi: delle case operaie, dello sviluppo edilizio (per la parte
stradale e di illuminazione che riguarda la città) dei quartieri popolari,
della assistenza degli infermi a domicilio e via dicendo: forme di attività municipale nelle quali spesso non si tratta di fare, poiché molto fu
fatto, ma di fare di più, di fare più amorosamente e più razionalmente.
E se è necessario affrontare, per tal ramo di spese, poiché esse aumenterebbero di parecchio, la questione finanziaria, io credo si possa
equamente avanzare una proposta.
La tassa di famiglia, quella fra tutte che più si avvicina al nostro
concetto fondamentale di imposta personale sul reddito non rende oggi che 870,000 lire.
Tale cifra è evidentemente assai bassa. L’aliquota massima potrebbe essere assai facilmentre elevata, per le famiglie il cui reddito
accertato superi le 10,000 lire, così che solo i molto ricchi verrebbero
ad esserne colpiti: è giusto, o signori, che l’aristocrazia inoperosa, il
temuto mondo politico, coloro i quali guadagnano nell’agro romano
sui salarii di fame, coloro che vengono dalle provincie a godere gli
agii e i tepori invernali della capitale, coloro che più largamente attingono al bilancio dello Stato concorrano un poco di più a liberare dalla
fame, dalla miseria, dall’abbrutimento questa folla di infelici che fanno con essi una sola civitas.
Forse essi ritaglieranno la nuova e modesta contribuzione sulle
spese di puro lusso e sarà tanto di guadagnato anche per essi: forse anche ritaglieranno sulle spese di beneficienza, e sarà ancora qualche
cosa di guadagnato: in molte iniziative urgenti il municipio può far
più e meglio dei privati, e in ispecie di quelli che organizzano balli per
la tutela dei cani e dei muli.
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Ed ora ho finito.
Le linee generali del programma sommariamente esposto vi
avranno forse persuaso che un nuovo e vastissimo campo di lavoro sta
innanzi a coloro che il 29 corrente la città porterà al Campidoglio: e
che di una lieta primavera di attività cristiana e sociale nella vita pubblica noi cattolici speriamo veder fiorire quel campo.
Io mi auguro e vi auguro che un giorno e non lontano il comune
di Roma appartenga ai Romani e vuol dire ai cattolici, a noi cattolici.
Oggi io vi scongiuro di occuparvi attivamente di un problema
più modesto nei termini ma non meno importante: la gente di Roma,
al soffio della democrazia, vuol essere un popolo: un popolo di operosi cittadini, un popolo di liberi e di uguali, organizzato, padrone delle
sue sorti, retto dalla giustizia ad un benessere crescente: impedite che
questo popolo romano si formi al suono della parola lusingatrice dei
democratici radicali ed anticattolici: inalberate voi il vessillo della democrazia, fate che il popolo romano, disprezzando le cupide voglie
d’una democrazia di Stato ed atea, appartenga a sé e a Cristo, libero e
forte: e che l’anima di esso frema e parli ed operi in Campidoglio, e il
mondo, che sa le vie di Roma, guardi ed ammiri la nuova forza del
pensiero latino.
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Da “Il Domani d’Italia”, 15 Giugno 1902
Elezioni amministrative in Roma
Sabato sera nella sala del Gruppo democratico cristiano romano in via Montecatini 5, ha avuto luogo la annunciata conferenza di R.
Murri sull’argomento: Programmi e partiti municipali in Roma.
Il Murri dopo aver rapidamente tratteggiato la posizione sociale del comune nuovo, ricordò, a grandi tratti, le vicende del Comune di Roma in questi ultimi trent’anni e rifece la genesi dell’Unione
romana; della quale disse che essa si è sempre proposta un compito
modesto e strettamente amministrativo di elemento moderatore e che,
potendo avere la maggioranza, preferì lasciare il potere alla borghesia
liberale conservatrice, contentandosi d’una parte subordinata.
Passò poi a delineare il programma che, secondo i democratici cristiani, dovrebbero svolgere in comune i nuovi amministratori di
parte cattolica.
In una rapida esposizione il Murri toccò moltissimi punti: insisté più specialmente sui seguenti:
a) Sviluppo dell’istruzione ed educazione professionale in
Roma anche con l’impianto di una scuola e di borse commerciali;
b) Impianto d’un ufficio e consiglio del lavoro il quale con inchieste e lavori statistici prepari la nuova attività sociale del comune;
c) Studii per la denunzia (quando il progetto di legge Giolitti
sarà passato in legge) dei contratti con la Società dei trams e con l’altra per l’illuminazione di Roma, affinché il comune possa municipalizzare detti servizii. Iniziative, in concorrenza con altre Società, per
la distribuzione dell’energia motrice e dell’acqua (Vergine);
d) Favori varii alla cooperazione di produzione ed alle organizzazioni professionali;
e) Assistenza dei quartieri più poveri con istituzioni municipali di vario genere e con la refezione gratuita ai bambini delle scuole
povere nei quartieri suburbani;
f) Passaggio allo stato delle spese edilizie riguardanti non interessi locali ma quelli politici e nazionali della capitale;
g) Ritocco della tassa di famiglia per i redditi superiori alle
10,000 lire.
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Il Murri fu calorosamente applaudito: il programma che egli
ha presentato, a nome dei democratici cristiani romani, avrà certo una
larga eco nelle presenti lotte amministrative e susciterà varie ed importanti discussioni.
Dall’operaio Borgognoni fu poi presentato e approvato il seguente ordine del giorno: «Il gruppo d.c. e la Lega cattolica di Roma
riuniti in adunanza elettorale la sera del 7 giugno udito il discorso del
sac. Romolo Murri, riafferma la propria adesione al programma cattolico municipale espresso nel discorso sulle linee delle grandi direzioni
della democrazia e del cristianesimo sociale; delibera di fare una larga
propaganda nella iniziata campagna elettorale per la diffusione di quel
programma; si augura che gli elettori cattolici per mezzo dell’Unione
Romana, riconoscendo l’opportunità di avere in Campidoglio rappresentanti delle nuove tendenze cattoliche municipali portino nella lista
dei candidati dell’Unione un gruppo di democratici cristiani e ne votino concordemente i nomi insieme agli altri».
Seguì poi una vivace discussione.
Il signor Susi dell’Avanti fece ampio elogio delle idee e dei
propositi esposti dall’oratore: illustrò poi le condizioni finanziarie del
Comune di Roma, che dimostrò gravissime; asserì che liberali e cattolici benché divisi da profonde divergenze politiche, sono però egualmente responsabili della situazione attuale del comune e insistette a
questo proposito su alcuni fatti particolari.
Rispose Murri rilevando alcuni punti del suo discorso in cui
era ampiamente trattata la questione finanziaria ed edilizia; egli si disse sicuro che l’impulso nuovo venuto dalle nuove idee metterà gli
eletti dell’Unione romana perfettamente all’unisono con le vere esigenze di Roma quali esse sono intese dal popolo.
Il Conte Soderini scagionò l’Unione romana dalle accuse del
Susi: ricordò principalmente come i liberali si siano valsi della questione politica per impedire e ostacolare l’opera riparatrice dei cattolici: essi fecero apparire come politiche questioni puramente morali o
finanziarie, coprendo i loro interessi particolari sotto la smagliante veste del patriottismo.
Il signor Vercellone (radicale) riconobbe i meriti particolari
del Conte Soderini; egli e pochissimi altri furono dei veri solitari nel
consesso comunale. L’oratore domandando scusa per la indiscrezione
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pose poi in termini precisi questa questione: cosa faranno i democratici cristiani se l’Unione romana non accetterà il loro programma e il
concorso dei loro uomini: avranno la forza e il coraggio di staccarsi?
La domanda era suggestiva e compromettente, però il Murri
fu felicissimo nel rispondere: egli affermò che il programma democratico cristiano rimarrà intatto sempre e ad ogni costo; è in corso un’intesa con l’Unione romana, ma se questa intesa fosse impossibile, i democratici cristiani attingerebbero nei loro principii e nel loro stesso
programma i criterii della condotta da tenersi eventualmente.
La discussione, terminata alle 11, elevata, educata, interessantissima, lasciò la miglior impressione in tutto l’uditorio, costituendo
nella lealtà e nell’ampiezza della discussione un fatto nuovo e dei più
promettenti per la diffusione delle nostre idee.
Inoltre, constatiamolo subito, a quel programma hanno fatto
ottima accoglienza la stampa cattolica e gli elettori romani.
Un giornalista romano, mal menandola in una corrispondenza
al Cittadino, di Genova, mostrava di non averlo letto con attenzione o
di essere troppo estraneo a certi argomenti: ne riportava invece larghi
tratti, con lodi, l’Osservatore Cattolico in due numeri consecutivi.
Il Travaso ne lodava la sincerità e la opportunità in un articolo
di fondo: la Tribuna diceva che si sarebbe potuto discuterlo se a mettere a posto i democratici cristiani, quando avessero voluto fare sul serio, non ci fosse stato pronto non so quale spauracchio dall’alto: paura
vana, poiché nessuno spauracchio della Tribuna varrà ad imporre ai
democratici cristiani ed agli elettori romani una fiducia che essi non
avessero od una condotta che ritenessero contraria alla loro coscienza.
L’Avanti! dice che tanto i nostri voteranno egualmente per
l’Unione romana: osserviamo votare o no per l’Unione è un metodo
di lotta: la sostanza è per noi fare propaganda nella maniera più efficace a un programma schiettamente democratico; il resto verrà da sé.
Altri si sono mostrati offesi di altre parti del discorso: avvertiamo che sarebbe forse impolitico toccare tasti molto delicati e volere
che si faccia per i singoli un giudizio che noi abbiamo genericamente
voluto fare per una generazione e un ambiente. Speriamo che l’avvertimento non cada invano.
Altri infine avrebbero voluto vedere ricordare con più lode il
passato dell’Unione romana. Gli è che noi non siamo molto soliti a
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lodare: ma quel che dicemmo di essa ci pareva una lode e grande e
meritata. Per l’Unione Romana si tratta oggi di ripigliare le sue nobilissime tradizioni, ravvivando il suo spirito e completando il suo programma e di ristabilire un perfetto affiatamento fra gli elettori, conducendo i più restii di essi, con l’autorità che ha, sino là dove è giunta a tanto tempo la S. Sede con le sue direzioni sociali e con le sue lodi ai democratici cristiani. Mai come in questo caso chi non va innanzi va indietro.
Il programma nostro è stato ora ristampato in opuscolo a parte: ad esso i democratici cristiani di Roma, in Campidoglio rimarranno strettamente fedeli.
Intanto vedremo quel che la campagna elettorale avviata darà:
e non mancheremo di segnalare al pubblico i fatti più notevoli e specialmente i tentativi individuali, se ci fossero, di combattere il programma e i nomi nostri per poter più facilmente scambiare, nell’ombra, appoggi e promesse con i liberali.
Riceviamo e pubblichiamo:
Ill.mo Signor Direttore,
È giunto a nostra conoscenza che i vari presidenti dei Comitati rionali per l’Unione romana non credono ancora opportuno d’indire
le adunanze per gli elettori, supponendole non necessarie.
Non sappiamo invero spiegarci il motivo d’una tale innovazione, in specie nel presente momento elettorale, che ha scosso così
profondamente le fibre patriottiche dei nostri avversari.
Ci auguriamo, perciò, che quanto prima tali voci saranno
smentite.
Ringraziandola della benevola ospitalità concessaci, ci firmiamo Di Lei Ill.mo Signor Direttore
dev.mi
ALCUNI ELETTORI
Elettori Cattolici Romani!
Nella riunione tenuta ieri sera in Via Montecatini n. 5, il grup-
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po democratico cristiano, e un buon numero di elettori amici presenti,
hanno deciso di prendere viva parte alla campagna elettorale già incominciata, facendo propaganda nei rioni per il loro programma e per alcuni nomi da proporre alla accettazione degli elettori nelle adunanze
rionali, perché l’Unione romana li accolga poi nella lista.
I nomi sono stati scelti con questo criterio: un operaio, muratore, per affermare il principio della rappresentanza diretta degli interessi nella vita comunale e per mostrare agli lettori cattolici di parte
popolare che di essi specialmente si occuperanno i democratici cristiani, salvo il rispetto alla giustizia e ai diritti di ciascuno: tre propagandisti del gruppo stesso, perché in Campidoglio, fra i trentacinque consiglieri dell’Unione romana, siedano alcuni, rappresentanti diretti del
nuovo programma e delle nuove tendenze cattoliche popolari.
Voi, elettori cattolici, potete esser certi sin da ora che i nostri
amici dalla vostra fiducia prenderanno forza e argomento a sostenere
validamente in consiglio le loro idee, secondo il programma già noto e
con tanto favore accolto dal pubblico.
Rispettosi del dovere di unione e di accordo con gli altri rappresentanti di parte cattolica, essi propugneranno validamente il rispetto geloso degli interessi del pubblico in tutti gli affari, l’allargamento della attività del comune secondo i suoi compiti di tutela degli
umili e di incremento della vita pubblica, la lenta e graduale trasformazione della finanza municipale, e la reintegrazione d’un nuovo patrimonio del popolo, sul terreno oggi occupato dai capitali anonimi e
dalle grandi società produttrici dei più importanti servigii pubblici.
Se disgrazia volesse che non fossero accettati nella lista essi,
attingerebbero egualmente nella fiducia vostra la forza di parlare a voce alta e dinanzi al pubblico dei diritti e degli interessi di Roma cattolica e popolare: e conterebbero su giorni meno vicini per un trionfo
più intiero.
Il programma dei partiti popolari
Ha molti pregi e molti difetti: e non sapremmo dire se quelli
su questi prevalgano.
Prima ha il pregio di essere un programma amministrativo,
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mentre i liberali fanno dell’anticlericalismo goffo: poi ha l’altro che
vi passa dentro un soffio vivace di democrazia: esso è anzi tratteggiato a linee così vaste, che l’attuazione non può non parerne molto difficile e remota.
Ha nelle prime righe il merito di portare la questione, dalle
viete e spesso in questi ultimi tempi false contese fra clericali e anticlericali, sul terreno dei più urgenti problemi economici: ma perché
poi, verso la fine, la sfuriata contro la partecipazione del clero alle
opere pie e agli istituti di educazione? Combatte l’accentramento statale: ma perché poi propugna un altro accentramento, non meno odioso, quello del municipio nella istruzione elementare, che è dovere primo delle famiglie? Quando le scuole clericali in Roma raccolgono
20,000 alunni, mettersi a combatterle è intolleranza gretta e spendereccia che contrasta con la serenità di altre parti del programma dei
partiti popolari. Cerchi il comune che quelle scuole rispondano ai programmi pedagogici e all’igiene e basta.
Ma il programma dei popolari si occupa specialmente del problema finanziario e fa bene: e ciò che esso dice meriterebbe un lungo
ed accurato esame, il quale ci è impossibile.
Il programma lamenta: «Così di fronte a ventitré milioni e
mezzo di entrate il comune ha ventinove milioni e ottocentomila lire di
spese. Oltre sei milioni di disavanzo.
Il sussidio governativo dei due milioni e mezzo annui, stabilito fra i proventi diversi, viene a ridurre il disavanzo a poco meno di
quattro milioni».
E poi: «Sono 11 milioni circa di interessi e tasse ed oltre 3 milioni di ammortamenti che il nostro comune paga ogni anno per i suoi
debiti».
E la causa di questo sbilancio e debito enorme?
«Il comune ha speso per la trasformazione edilizia di Roma
oltre 200 milioni, lo Stato ha contribuito per non più di 70 milioni. Il
comune subisce in conseguenza delle spese fatte il carico insopportabile di 14 milioni annui, lo Stato dà 2 milioni e mezzo di contributo.
È giustizia questa?».
Ottime cose. Ma e i rimedii quali sono?
L’imposta suggerita sulle aree fabbricabili e sui miglioramenti
edilizii dei quali beneficiano i privati è buona e noi ne accettiamo vo-
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lentieri il principio: ma nelle presenti condizioni edilizie della città,
quanto può essa rendere?
Noi suggerivamo l’aumento della tassa di famiglia pei redditi superiori alle lire 10,000: ad esso accennano forse anche i popolari
dove parlano di esenzioni ingiuste ed arbitrarie: ma quell’imposta
dovrebbe essere devoluta alle nuove spese per i compiti sociali del
comune.
La conclusione delle cose ampiamente esposte in quel programma dovrebbe essere questa: chi ha rotto paghi: il governo si assuma il peso, almeno in parte, dei debiti comunali.
Ma perché, invece di un accenno timidissimo, i partiti popolari, i quali hanno mezzo di sostenere quel loro programma in Parlamento, non hanno indicato con chiarezza le loro rivendicazioni e i
mezzi di giungervi?
Noi siamo stati più sobrii. Alieni da qualunque solidarietà con
questo e con altri governi passati o futuri prossimi noi avremmo potuto e voluto spingere assai più avanti questo programma di rivendicazioni popolari, se poi i cattolici potessero attuarlo in municipio: ma il
loro compito è assai più modesto, sinché essi si propongono di rimanere minoranza; e noi non volemmo fare uno sfoggio inutile di grandi
idee che poi, al governo, si sarebbero dovute dimenticare. Il programma nostro, paragonato a questo, ci pare abbia il merito di essere più
vasto e insieme più pratico e più organico.
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Da “Il Domani d’Italia”, 22 Giugno 1902
Per la prima volta, con la presente campagna per le elezioni
municipali, i democratici cristiani si occupano delle cose pubbliche
della città di Roma e prendono parte – con interesse vivissimo – ai comizii del popolo che delibera sulla sua vita cittadina ed elegge i suoi
rappresentanti.
In tale occasione essi sentono il bisogno imperioso di portare
il loro pensiero al Soglio di S. Pietro: e con l’animo che sa e non dimentica, col proposito fermo ed immobile di impiegare tutta la loro
vita e le loro giovani forze per la causa delle libertà della Chiesa e della Sede romana, fedeli al loro sovente esposto programma guelfo, essi
depongono ai piedi di Leone XIII, sovrano pontefice, l’omaggio del
loro filiale attaccamento e della devozione di cattolici e di cittadini romani: ed insieme l’attestazione che i loro candidati portando in Campidoglio, se eletti, le speranze e il programma della democrazia cristiana, nulla avranno più a cuore, nel difendere gli interessi delle classi popolari e del municipio libero ed autonomo, che ravvivare nella
città romana il senso della missione affidatale da Dio, l’amore vivo alla Sede di S. Pietro e il proposito di essere esempio e maestra all’umanità civile del diritto nuovo cristiano che gli umili invocano e che la
democrazia, benedetta da Leone XIII, prepara. Essi rispondono anche
così alla sfida riunita dei liberali e dei popolari, i quali all’odio per la
Chiesa e pel papa hanno dedicato, nella presente campagna elettorale,
la loro parola più aspra.
Noi ribelli
Parliamo in terza pagina di quel che riguarda l’Unione romana, la propaganda dei democratici cristiani e la condotta di questi nelle imminenti elezioni amministrative.
Osserviamo qui brevemente come i fatti i quali si svolgono
sotto i nostri occhi permettono un paragone istruttivo con quel che è
avvenuto a proposito dei d.c. e dell’Opera dei congressi.
In quel caso come in questo noi non combattemmo l’istituto, che dice-
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vamo anzi espressamente degno di molte lodi, ma le più recenti manifestazioni di una tendenza conservatrice ed accentratrice che costituiva un allontanamento dell’attività di parte nostra dal vero campo di
lotta e un pericolo per l’avvenire.
Allora come ora noi non combattevamo l’unità dei cattolici,
ma, osservando che essa era divenuta impossibile di fatto per la intolleranza di parecchi, volevamo fosse più stabilmente ricostituita con un
sufficiente ampliamento del programma e con la accettazione di uomini nuovi. Allora come ora la grande maggioranza dei cattolici ci
venne dando ragione, mentre le resistenze forti e tenaci vennero da
quelli che erano alla sommità e che si compiacquero a immaginarci e
descriverci con i più neri colori.
E come nel disastro morale del 1898 noi alzammo la voce per
distinguere nettamente la nostra condotta da quella dei conservatori,
così oggi, dinanzi ad un pericolo simile, noi distinguiamo le nostre responsabilità dalle altrui, certi che male serviremmo la causa cattolica
accettando senza beneficio dell’inventario un patrimonio di attività
pubblica e di programmi civili gravato da molti debiti verso le esigenze dei tempi.
Allora, dopo un lungo dissenso, finimmo con l’avere ragione
e l’Opera dové, bene o male, rinnovarsi: questa volta, vedremo.
E quel che avviene a Roma avviene in molti municipii d’Italia: a Genova, p. es., a Napoli, a Firenze ed altrove.
Associazioni cattoliche preesistenti, benemerite da principio degli interessi di parte cattolica, si sono trovate un poco alla volta tirate sul
terreno di altri interessi, hanno compiuto inconsapevolmente un certo
adattamento all’ambiente pieno di idee e di tendenze liberistiche, si
sono create degli organi rappresentativi che vivono poi d’una vita
quasi autonoma, a scapito della vitalità di tutta l’associazione. È il
vecchissimo assioma che ogni istituzione divenuta potente si chiude e
si fa conservatrice.
I democratici cristiani, che in un più fresco effluvio di fede ed
in un più vivo contatto col pensiero e con l’attività del tempo, hanno
attinto energie nuove e propositi di ulteriori avanzamenti e progressi
nel grande programma sociale cattolico, si avanzano e chiedono la loro parte. E il loro dritto; essi non chiedono che di lavorare; si presentano a nome di tutti gli elettori contro gli eletti costituitisi come un
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corpo a sé e immemori delle origini del loro mandato, fanno un esame
del presente e del passato più vicino, espongono le loro idee di lavoro.
E sempre e dapertutto essi si sentono ripetere da quattro anni
le stesse accuse, opporre le stesse difficoltà, e solo dopo molte lotte
apparisce come quei principi di affetto alla Chiesa, di unità, di esperienza, invocati contro di essi, stavano invece dalla loro parte e come
essi avevano ragione.
Solo che spesso, perché ciò avvenga, è necessario un fatto
nuovo: il sostituirsi di un nemico più pericoloso al nemico liberale,
lo stacco violento dei cattolici conservatori dai conservatori liberali,
il pericolo d’una egemonia socialista con tutte le rovine che essa minaccia.
Che anche a Roma, a Genova, a Napoli, per le lotte amministrative debba avvenire lo stesso?
A ogni modo la democrazia cristiana andrà innanzi per la sua
via, con la fermezza e il coraggio che mise altre volte in simili imprese: non avendone essa un’altra per giungere, come anela, alla conquista dei municipi italiani.
Il municipio del popolo (*)
Signori,
Il mio recente discorso di cose municipali ha fatto emettere a
qualcuno dei lamenti su frasi ed accenni riferentisi alle passate amministrazioni ed a coloro che vi presero parte; ed ha dato luogo alle più
ampie riserve su alcuni punti del programma indicato.
Io ne sono rimasto… deluso: mi pareva essere stato così parco nella
critica e nel programma da meritare forse più lodi per la parsimonia
che per l’abbondanza: e le critiche mossemi mi hanno così poco toccato che io mi sono invece deciso a fare un altro passo, un piccolo
passo avanti, perché i miei critici o abbiano argomento nuovo di accuse, se ciò piace ad essi, e mi perdonino l’altro discorso, pensando il
più che io aveva loro risparmiato.
Io dissi chiaramente che noi vogliamo il municipio del popolo: per essere intiero avrei dovuto esaminare e perché oggi il munici-
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pio romano non sia del popolo e di chi esso sia invece; due questioni
molto scabrose, delle quali se io volessi andare a fondo non so precisamente quali contrasti in Roma e fuori si leverebbero.
Deliberò le due questioni.
Perché l’odierno municipio non sia del popolo potrebbero dirvelo le agitazioni elettorali dei giorni correnti. Io non sono in vena di
dar lodi e non dirò quindi neanche che i propagandisti democratici cristiani – sono pochi e quei pochi spesso occupati ad altro – si siano dati
gran che da fare in questi giorni per illuminare il popolo. Ma e anche
gli altri che han fatto? Quali questioni furono agitate e discusse? Chi
rese i conti? Chi prese impegni precisi e definiti per l’avvenire? E il
popolo, l’elettore nostro, e il proletariato autentico in special modo, da
chi fu convocato davvero, dove si è riunito, quando e dove e come ha
mostrato di aver dei desiderii chiari, dei propositi espliciti, delle esigenze categoriche da accompagnare al voto? Nell’adunanza di uno dei
rioni più numerosi, più di un centinaio di elettori sentirono quietamente fare dal presidente la dichiarazione che essi non avevano mai pensato di occuparsi di nomi e discuterli: la presidenza dell’Unione li
avrebbe presentati e bastava; essi erano lì per organizzare il voto e…
gli accessorii del voto. Potrebbe dire qualcuno: ecco il popolo di Roma: ma della Roma di Augusto o di quella dei Gracchi? Io dico invece
che il popolo di Roma, trascurato e disilluso, è assente e pensa solo a
se stesso, come può. E per questo il nostro programma è destarlo,
chiamarlo, educarlo alla vita pubblica.
Più grave l’altra questione: se il municipio non è del popolo,
di chi è?
O adunanze consiliari, o nobile lista degli ottanta, o rumorosa
attività sindacale, proscenio a grande stile ed a soggetto epico del Comune di Roma.
O interessi del pubblico, o consumi popolari, o movimento
misterioso di capitali anonimi e di imprese industriali, pesanti come
uno strano jato sul capo dell’urbe e sul collo, chi sa i vostri segreti, chi
vi insegue per le latebre della vita finanziaria, chi traccia la trama e
scopre i vestigii degli occulti consigli che vi guidano?
Grande, primo, supremo interesse pubblico è la finanza pubblica: è quell’intricato meccanismo di servizi collettivi che raccoglie
realmente tutto il popolo nella identità del pagare e del chiedere: cam-
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po del municipio nuovo è questo terreno amplissimo, oggi dominato
dai capitali anonimi, dalle Società vampiri e dai giuochi di borsa e dove domani sorgerà, fondato su d’un popolo nuovo e cementato dalla
solidarietà collettiva, il nuovo edificio della finanza municipale, il
municipio del popolo.
Oggi il comune è fuori di questo campo vastissimo ed importantissimo, dove i consumi popolari grondano realmente lacrime e
sangue e dove spazia indisturbata la speculazione capitalistica: esso
ne custodisce l’entrata ed esclude quelli che vorrebbero penetrarvi per
portarvi la voce del popolo: p. es. qualche d.c. sfacciato e radicale che
non si chiama Tizio né Caio, e che, se da quindici anni mangia il pane
che pagò dazio alla stazione di Termini (forse con la polvere di marmo che non lo pagò) e beve l’acqua della Società marcia e legge e si
guasta gli occhi col gas della Società romana e affida il suo corpo ai
carrozzoni della tramways-omnibus, non è «romano de Roma» o almeno del collegio politico di Frosinone o di Viterbo. E allora perché il
popolo di Roma dovrebbe ascoltarlo? Paghi, per bacco, il popolo, ma
pensi ad altro.
Così dunque il municipio di Roma è tagliato in due: mezzo
sta in Campidoglio e là c’è un sindaco, ci sono i clericali, i massoni, e
i moderati e là si discute e si combina e si parla di bellissimi e importantissimi argomenti: mezzo sta fuori del Campidoglio, sta… un po’
per tutto, e là governa, signore nascosto e terribile d’una folla muta, il
capitale: il capitale anonimo, la società per azioni, il banco, il ministero del Tesoro; e qualche frammento sperduto di quel danaro torna agli
elettori dei Comitati liberali, il giorno delle elezioni. E questo capitale
non è cattolico, anche quando è di prelati, né è massone, anche quando vien dai massoni. È l’oro, è mammone, è il principe del secolo.
Ecco o signori perché il municipio non è del popolo, ecco di chi è il
municipio.
Ed ecco anche perché, se siete vaghi di saperlo, noi vi presentammo un programma concreto e adatto ai bisogni locali, il quale si
ispirava insieme alla scienza più fresca ed alla più sana democrazia; e
per sostenere quel programma, cavalieri del popolo in Campidoglio,
domandammo quattro posti, per voi, per la democrazia, per noi. Ad
ogni modo, o programma dei nostri quattro candidati, se parteciperanno alla lotta, o piattaforma delle agitazioni elettorali del prossimo
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triennio, la parola che noi vi rivolgemmo non sarà caduta nel vuoto e
darà i suoi frutti.
Così a Vienna, sino a pochi anni addietro, la finanza delle
grosse banche (ebree) e delle grosse Società (ebree) dominava sovrana ed aveva creato nella grande città un immenso organismo burocratico parassitario, che avea le sedi sue vitali negli uffici delle Società
anonime (ebree): e correva tutte le strade, con reti immense di ferro e
di rame e di piombo, e penetrava tutte le case e tutte le stanze: e la ditta era il municipio semita. Venne un turbine, sorse un uomo, gli ebrei
e la Corte e tutti gli altolocati si spaventarono e il municipio delle Società finanziarie crollò e il municipio del popolo sorse: e quell’uomo
si chiamava Lueger e quel turbine era il popolo organizzato da Lueger
e da Lichtenstein, il popolo democratico cristiano.
Viva Vienna del popolo e viva Lueger, signori. Ed io scendo.
(*) Parole dette da d. Murri alla riunione elettorale del 18 corrente.
Elezioni amministrative in Roma
Mercoledì 18 ebbe luogo nella sala Giraud l’annunziata riunione elettorale dei d.c. Parlò primo D. Romolo Murri, il discorso del
quale riportiamo in altra parte del giornale.
Una triplice salva di applausi e frequenti grida di viva Murri accolsero
la fine del suo discorso.
Sorge quindi a parlare, accolto da applausi, il Conte Francesco Salimei, ricordando brevemente le principali rivendicazioni del
nostro programma ed in ispecie la necessità di interessare il popolo direttamente alla vita pubblica, trasferendo ad esso il controllo oggi
esercitato dallo Stato, ed il dovere nel municipio di occuparsi dei nuovi problemi creati dal sorgere di grossi monopolii industriali sul terreno dei più delicati servigii pubblici: monopoli nei quali l’interesse finanziario degli speculatori e dell’alta banca e quello fiscale del municipio prevale all’interesse collettivo della cittadinanza.
Il Salimei promette quindi che i democratici cristiani una vol-
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ta in Campidoglio cercheranno questo contatto diretto e frequente con
i loro elettori e si occuperanno attivamente degli interessi popolari. È
applauditissimo.
Chiese quindi la parola l’operaio Giulio Cece, uno dei candidati del Gruppo d.c. romano: e, invitato a salire alla presidenza, lesse
opportune parole ringraziando i soci del gruppo dell’attività spiegata a
favore del popolo e facendo una efficace professione di fede cristiana
e di democrazia. Il tipografo Ravelli fa una breve esortazione agli
elettori perché votino concordi i nostri candidati.
In appresso chiede di parlare G. Cassola, socialista, redattore
dell’Avanti!: avuta la parola appena, dalle prime frasi, si dichiara avversario e socialista, scoppiano interruzioni le quali sono subito dominate dal presidente che invita il Cassola a proseguire.
Ed egli osserva che il programma dei democratici cristiani,
quale apparisce nel discorso di R. Murri, è preso in gran parte dai socialisti i quali fin da tre anni addietro presentarono un loro programma per le elezioni municipali in Roma; e che gli pare la tattica dei
democratici cristiani contraddica ai loro principii, mentre essi appoggiano l’Unione romana, contro il cui operato Cassola fa una carica a
fondo. Invita quindi i d.c. a rivelare chiaramente i loro intendimenti
ed i loro propositi.
Appena il Cassola ha finito, parecchi chiedono di parlare: ma
parla primo D. R. Murri.
Egli osserva in primo luogo che il programma dei democratici
cristiani contiene certo le rivendicazioni generali della democrazia,
quali si vanno delineando dovunque. La causa del popolo è una, i suoi
interessi sono gli stessi a qualunque partito appartenga chi li promuove. Ed anche i progressi della scienza finanziaria, lo spirito di solidarietà crescente, e lo sviluppo della attività municipale e delle autonomie locali è patrimonio comune dell’umanità civile e cristiana in questo momento storico. Anzi, osserva il Murri, i socialisti se si sono vigorosamente e con parecchi buoni risultati per la democrazia, affermati sul terreno politico, nel terreno municipale hanno fatto molto
meno ed i loro sforzi sono raramente attecchiti. Né ha carattere socialista il Municipal trading inglese o americano, né ha tendenze socialiste la nuova scienza comunale, né, nei paesi latini i socialisti hanno
fatto buona prova ogni volta che sono saliti al potere. Ciò dipende dal
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loro programma di lotta di classe, buono forse per un partito politico,
ma impossibile nei municipi, dove le classi sono a contatto immediato, dalle loro tendenze di partito e dalle impossibilità in cui sono di attuare il programma collettivista e l’egemonia della classe lavoratrice.
Del resto si pongono a raffronto i due programmi democratici:
quello dei partiti popolari ed il nostro, l’uno è diverso dall’altro ed opposto ad esso come il socialismo si oppone alla democrazia cristiana. I
partiti popolari infatti tacciono sull’ufficio e consiglio del lavoro, negando al municipio la facoltà di darsi un organo autonomo di ricerche,
di mediazione, di iniziativa, perché vogliono influire essi direttamente, per ragioni di partito, nell’attività sociale municipale; essi dichiarano di non fare dell’anticlericalismo e poi vogliono che siano passati al
municipio, andando così per odio religioso incontro ad una maggiore
spesa di oltre mezzo milione, i 20,000 alunni delle scuole private.
Esigete che nelle nostre scuole si osservino le regole didattiche igieniche, osserva il Murri, ma lasciate stare i nostri fanciulli, lasciateli alle loro scuole, ai loro maestri, che si fanno educatori per un
alto principio religioso, alla loro fede!
Così i socialisti non toccano affatto la questione dei tributi diretti, ecc. ecc.
Passa quindi il Murri ad esaminare la condotta dei d.c. di
fronte all’Unione. Dice che essi non hanno temuto mai, quando era
il caso, di portare la critica in famiglia e rimproverare quelli di parte
loro d’una condotta che spesso non era più adatta agli interessi religiosi della società ed alle esigenze del tempo: e che anche all’Unione romana essi hanno ricordato apertamente il dovere di scendere
sul terreno della azione sociale, di rinnovare le sue forze in un contatto più diretto col popolo e di allargare e completare il suo programma: e ciò non disconoscendo le gloriose origini della stessa
Unione romana e tornando ad osservare come lo stato attuale del
Comune di Roma non sia dovuto principalmente ad essa che anzi fu
elemento temperato e moderatore: e prese anche di quando in quando delle iniziative che almeno implicitamente rendevano un omaggio preventivo al nostro programma.
Ad ogni modo i democratici cristiani hanno oggi posto la questione avanti agli elettori direttamente e si rivolgono ad essi e ad essi
chiedono la forza di salire in Campidoglio, ora od un’altra volta.
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Quanto all’Unione romana, siccome essa rappresenta anche
altre frazioni di cattolici, noi non le abbiamo chiesto di accettare tutto
il nostro programma: le chiediamo solo di farci una parte – e non fummo esagerati nelle pretese – fra i suoi rappresentanti: e essa mostra di
tener conto di noi, e ci avrà uniti; o, non accettando i nostri, dichiarerà
di voler fare a meno di noi e di non considerarci come forza viva ed
operante nella cittadinanza e noi non potremo sancire col voto la sua
condotta e la nostra esclusione.
Il Murri nella sua efficace e perspicace replica fu spesso interrotto da vivissimi applausi: un ultimo e più lungo ne suscita la recisa
dichiarazione finale.
Parlano quindi brevemente il Petrilli, chiedendo ai socialisti
reciprocità per la cortesia con la quale li si lascia parlare nelle nostre
adunanze, il De Paolis appartenente al gruppo, e G.B. Valente, proponendo due ordini del giorno che sono accettati.
Il dott. Cozzi chiede che si voti un ordine del giorno deliberante formalmente la condotta dei cattolici in caso di esclusione dalla
lista dei nostri candidati: dopo spiegazioni di Murri e Pierantoni sulla
necessità di lasciare ancora l’adito aperto a trattative ed accordi e di
attendere la compilazione della lista, l’assemblea prende atto delle loro dichiarazioni e l’adunanza è chiusa.
Nuovi applausi, specialmente ai candidati presenti e a D.
Murri; applausi che si rinnovano sulla via all’uscita dal teatrino.
Serata riuscitissima e indimenticabile, che ha dato veramente
al giovane movimento democratico cristiano in Roma il battesimo di
cittadinanza.
Diamo i due ordini del giorno approvati ad unanimità nella
adunanza.
«L’adunanza degli elettori democratici cristiani, riaffermando
la piena adesione al programma presentato a nome del gruppo D.C.,
delibera di continuare la propaganda iniziata per i candidati scelti. Si
rallegra della accoglienza loro fatta in varii rioni e si augura che l’Unione romana rappresentante delle aspirazioni dei cattolici li raccolga
nella lista, provvedendo così alla unità delle forze cattoliche e alle
aspirazioni popolari di Roma.
Si riserva di deliberare ulteriormente quando sarà nota la lista
dell’Unione romana».
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G.B. Valente presenta il seguente ordine del giorno, che è accettato:
«Il gruppo d.c. invita tutti i d.c. disorganizzati e i simpatizzanti a dare
il loro nome alle organizzazioni d.c., Gruppo e Lega del lavoro, per
lavorare in esse non solo alla vigilia delle elezioni, ma tutto l’anno».
La stampa romana ha riferito largamente – non sempre con
esattezza – intorno alle adunanze e al lavoro nostro e mostra di seguir
questo con vivo interesse. Notiamo specialmente il Travaso, il Giornale d’Italia, l’Avanti!, il Popolo romano, ecc.
Nei rioni
La propaganda nei rioni procede alacremente. Le difficoltà
più gravi si incontrano spesso nella apatia degli elettori, i quali o non
convocati in tempo e tutti dalle varie segreterie dei rioni od abituati a
disinteressarsi di programmi e di nomi, non intervengono. Dove le
adunanze sono riescite più numerose i nomi dei nostri sono stati accettati con applausi e con votazione unanime.
Così è avvenuto nei due rioni più importanti (Prati e Monti)
dove il programma e i candidati del gruppo d.c. furono validamente
sostenuti dai nostri amici presenti. Altre riunioni regionali hanno luogo nella settimana entrante. Preghiera agli amici di non mancare. Chi
non è stato invitato, si presenti dal segretario del proprio rione a chiedere il biglietto.
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Da “Il Domani d’Italia”, 29 Giugno 1902
Elezioni amministrative in Roma
Oggi gli elettori romani sono chiamati a rinnovare per metà il
loro consiglio municipale. Delle tre liste che si contendono il campo
quella dell’Unione romana, con sedici nomi, riuscirà tutta per la maggioranza, con molta probabilità: la lotta vera è quest’anno tra i popolari ed i liberali; e degli uni e degli altri entreranno probabilmente nomi
in Campidoglio secondo le combinazioni e le miscele che saranno fatte all’ultim’ora.
Ci daranno le elezioni d’oggi un consiglio capace di vivere e
di governare? Ne dubitiamo: ed in questo caso si avrebbero le elezioni
generali a non lontana scadenza e una lista unica combinata fra i popolari e i più vicini, con l’appoggio del governo. E la lotta sarebbe più
nettamente posta.
Oggi, mentre i cattolici si preparano a votare, non è il momento di lunghe riflessioni, che rimettiamo a elezioni avvenute. Daremo tuttavia una rapida scorsa al movimento elettorale cattolico di questi ultimi giorni. Nei rioni le adunanze di questa settimana sono riuscite più numerose e rumorose. In parecchie di esse, non ostante la qualità dei presenti, tutti piccola e media borghesia clericale di antica data, si sono avute buone affermazioni e dichiarazioni democratiche cristiane: ed i candidati del Gruppo hanno raccolto in parecchi luoghi la
maggioranza. Agitatissima riescì l’adunanza generale dei componenti
la presidenza dei vari rioni, adunanza la quale, non sappiamo bene
perché, ha puro carattere consultivo: e vi furono prese parecchie importanti deliberazioni; fra le altre, quella di un distacco netto e assoluto dai liberali e la rinnovazione per metà degli uscenti.
In genere tuttavia la propaganda dei cattolici è stata fiacca e non è
uscita dalle solite linee burocratiche, come conveniva a gente sicura di
vincere oggi e poco pensosa del domani.
Il Gruppo democratico cristiano ha deliberato di non prendere
parte ufficiale alla lotta, ritirando così implicitamente le sue designazioni; dopo le vicende di questi ultimi giorni era per esso dovere evidente di rispetto a se stesso, e di fedeltà al programma proprio, pel
quale il Gruppo ha deliberato di iniziare quanto prima una agitazione
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popolare ordinata ed efficace.
Hanno scontentato molti elettori cattolici non romani di origine le dichiarazioni fatte spesso da membri influenti dell’Unione romana in questi giorni che essa Unione non porterebbe se non gente nativa di Roma; poiché più di un terzo degli elettori cattolici non è romano di origine, e poiché, a norma dei più elementari principii di diritto
civile, l’essere eletti ed elegibili è la stessa cosa, il voto concedendosi
appunto ai cittadini che hanno interessi da far valere e da tutelare.
La riunione del Gruppo tenuta mercoledì scorso fu tumultuosissima, essendo i soci divisi sulla condotta da tenere, per quanto unanimi nel riconoscere la necessità di una astensione ufficiale del Gruppo. Su d’uno dei punti più importanti della discussione passò la massima che i soci del Gruppo, non potendo considerare impegnato il programma democratico-cristiano, avrebbero agito individualmente come
cattolici. Intanto crediamo che, a cose calme, un riordinamento interno di tutte le forze democratiche cristiane di Roma sarà l’effetto della
ora chiusa agitazione elettorale.
Molte osservazioni dovremmo fare intorno ai mezzi di lotta
che furono messi in opera da parecchi in questi giorni contro il Gruppo democratico cristiano ed i suoi designati; ma non vogliamo parer
di fare opera di divisione, in questo momento, anche col solo difendere i nostri da offese ed accuse gravi e ingiustificate e passiamo sopra
volentieri a queste miserie.
Elettori romani: la lotta dei giorni scorsi non mancò di essere
istruttiva: più istruttive saranno forse le vicende alle quali il Comune
di Roma si avvia: esso ha bisogno dell’opera dello Stato per non andare incontro al fallimento e lo Stato darà l’opera sua a prezzo di un
anticlericalismo più spiccato, se il popolo di Roma non si ridesta; il
popolo è sul destarsi e comincia a volere la sua parte, ma dolorosamente, a giudicare dagli uomini che prevalgono oggi, non saranno i
cattolici quelli che profitteranno di questo risveglio, appoggiandosi
fortemente su di esso per ristabilire e rinnovare il municipio senza l’opera dello Stato e senza pagare i favori di questo con la fede cattolica.
Noi democratici cristiani rimarremo sulla breccia col nostro
programma: e quel programma, esposto e sostenuto vigorosamente da
D. Romolo Murri ed alla cui coerenza, opportunità e schiettezza democratica sino gli avversari hanno reso ragione, finirà col prevalere.
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Ecco l’ordine del giorno votato dopo lunga discussione, dal Gruppo:
Il gruppo democratico cristiano romano riaffermando ancora una volta il suo proposito di prendere parte attiva alla vita municipale con il
programma a nome del Gruppo stesso svolto ed illustrato in questi
giorni; dolente che si sia mostrato di non apprezzare sufficientemente
quel programma e la urgenza delle rivendicazioni cattoliche e popolari in esso contenute, non accettando i quattro nomi presentati dal
Gruppo stesso delibera di non prender parte ufficialmente alla lotta,
certo tuttavia che i suoi membri compiranno individualmente il loro
dovere di cittadini cattolici.
È uscita oggi, venerdì, la lista dell’Unione romana con 17
nomi. Notiamo fra questi il nome di F. Salimei, il quale era uno dei
quattro designati dal gruppo democratico cristiano; quello di Romolo
Ducci, simpatico e valoroso propagandista del nostro gruppo e della
Lega cattolica del lavoro, che non si era potuto includere nella lista
dei quattro, ma pel quale la nostra Commissione elettorale s’era impegnata volentieri a fare propaganda; ed infine il nome di U. Perazzi,
uno dei migliori amici delle nostre organizzazioni, organizzatore lui
stesso della sua classe (commercianti) e che ha fondato poco tempo
addietro una cooperativa cattolica di produzione (carbone Vittoria).
Dopo i fatti che hanno indotto il gruppo ad astenersi, questi successi
parziali dei nostri amici ci rallegrano e ci fanno sperare bene pel partito stesso in prossime occasioni.
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Da “Il Domani d’Italia”, 6 Luglio 1902
Le elezioni a Roma
Quel che si prevedeva è avvenuto. Il corpo elettorale romano
ha dato la grande maggioranza dei suffragi ai clerico-moderati: e nel
segreto dell’urna, sotto le apparenze d’una lotta vivace fra Unione Liberale e Unione Romana, si è compiuto il connubio che domani ci
darà una amministrazione mista di moderati e di clericali, con a capo
il sen. Vitelleschi.
L’esame dei voti è facilissimo. Il Conte Santucci e il marchese
Vitelleschi, i primi delle liste liberale e clericale, hanno 7200 e 7400
voti rispettivamente: l’ultimo dei 25 liberali esciti ha 6200 voti, mentre la media dei voti degli altri 17 esclusi è di circa 5500.
Tutti i candidati della lista dell’Unione romana sono riusciti
per la maggioranza, con 6700-7200 voti.
Tenuto conto delle cancellature e delle minuscole clientele
personali è facile vedere come:
a) la lista dell’Unione Romana ha avuto una media di settemila voti;
b) i voti dei liberali sommano seimilacinquecento;
c) quindi sono stati i cattolici che, scegliendo nella lista del
partito liberale i nomi più affini, hanno determinato la vittoria dei
liberali entrati su quelli sconfitti, ed hanno dato alle elezioni di domenica la loro fisionomia e il carattere di successo evidente e definitivo della combinazione clerico-moderata per il governo della cosa municipale.
Questo fatto, che apparisce evidente dal semplice spoglio dei
resultati dell’urna, è anche provato da altre circostanze egualmente
notevoli.
Della lista liberale i battuti sono stati precisamente i più spinti: gli ebrei ed i massoni, e più clamorosamente che gli altri il Nathan,
spadroneggiante sul municipio in quest’ultimo periodo di amministrazione puramente liberale.
Sono riusciti invece i moderati: e per la maggioranza tutti o
quasi quelli che si può supporre l’Unione Romana avrebbe portato
nella sua lista, se, come era intenzione della presidenza, l’avesse com-
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pletata, all’ultim’ora, con nomi scelti fra i bigi: Vitelleschi, GiordanoApostoli, Torlonia, Tittoni, Cruciani-Alibrandi, Salvati, Ruspoli, Santini, Cagliati, di Roccagiovine, ecc.
Inoltre è notorio che in molti rioni alla lista dell’Unione Romana sono stati aggiunti, per opera dei consueti agenti elettorali, parecchi nomi scelti nell’altra lista: primo il Vitelleschi. Non solo: ma
anche alcuni non portati dalla lista liberale sono stati aggiunti dai nostri, p.e. il Tenerani che, non essendo in alcuna lista, deve almeno la
metà dei 2000 voti raccolti ai elettori dell’Unione Romana.
Apparisce adunque evidente come fu proprio l’Unione Romana quella che domenica scorsa conquistò per sé e per gli affini tutta la
maggioranza o quasi del consiglio comunale; e che con essa trionfarono i criteri e le tendenze già note della presidenza dell’Unione stessa
ed i suoi voti per una amministrazione nella quale i cattolici, lasciando
ai moderati più affini la gerenza visibile del potere, fossero realmente
i padroni delle cose capitoline.
E ciò è tanto più notevole in quanto l’Unione Romana ha potuto raggiungere questo risultato senza ricorrere allo espediente d’una
lista combinata, il quale avrebbe scoperto troppo il giuoco ed urtato i
nervi di molti elettori, solleciti assai più della forma che della sostanza; raggiungerlo permettendosi anzi il lusso di avere con sé due esciti
da quel gruppo democratico cristiano il cui programma era per molta
parte se non la condanna certo la esclusione dei metodi e dei criterii di
governo seguiti sin qui; neutralizzando essa così, con pochissima spesa e con parecchio guadagno, quel malessere diffuso ed inconsapevole
che si era manifestato nelle masse elettorali cattoliche e che avrebbe
potuto condurre, se trascurato, a svogliatezze e defezioni pericolose,
se pure non ha già determinato il passaggio di parecchie centinaia di
elettori della Unione Romana ai partiti popolari.
Noi non diremo ora se il successo di ieri sia stato, in definitiva, un vantaggio della causa cattolica e, se sì, per quali motivi ed in
che misura: diremo solo come, in una campagna elettorale in cui quelli che erano sicuri della vittoria vollero instaurare la vecchia amministrazione clerico-moderata e tutto quell’intricato complesso di interessi e di abitudini municipali che conosciamo, bene fece il gruppo democratico cristiano ad astenersi: e bene farà a tener gli occhi aperti e
vigilare perché la nuova amministrazione non sia troppo liberale nella
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sostanza e troppo dimentica dei doveri nuovi di giustizia e di iniziativa imposti oggi alla attività municipale.
Ed è utile che, mentre i partiti popolari son quasi saliti in tre
anni ai cinquemila voti e potrebbero domani raccogliere anche le frazioni più avanzate del liberalismo e riuscire, ci sia un gruppo di nostri,
nuovo e fedele ad un programma schiettamente democratico, che impedisca ai socialisti ed ai loro alleati di prendere il monopolio della tutela degli interessi popolari.
Intanto i segni della trasformazione alla quale accennavamo
nel nostro programma municipale sono sempre più evidenti.
L’Unione Romana perde terreno ad ogni nuova elezione,
mentre i popolari guadagnano rapidamente: il partito liberale invece si
sgretola, come è apparso nelle interne divisioni che lo hanno lacerato
questa volta e nella rivelazione del morbo massonico che lo inquina
(26 candidati massoni, osservava il Fanfulla, su 34).
Una parte del liberalismo si attaccherà, mediante le aderenze moderate, all’Unione Romana, a danno certo del cattolicismo: l’altra parte cadrà nelle file del partito più avanzato e radicale, pel quale anche sta in
serbo l’appoggio del governo.
E allora, vedremo: e vedrà, l’Unione Romana che oggi ha voluto fare a meno di noi.
Postfazione
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POSTFAZIONE
Il titolo del libro di Lucio D’Ubaldo Prima di Nathan esprime
la consapevolezza, condivisa da tutta la storiografia italiana, che, nella
storia amministrativa di Roma capitale, gli anni dal 1907 al 1913 hanno segnato una tappa importante. Fu infatti questo il periodo in cui la
carica di sindaco fu ricoperta da Ernesto Nathan che ebbe l’intelligenza e la capacità di circondarsi di alcune delle migliori menti dell’epoca, insieme alle quali riuscì a trasformare Roma in una moderna capitale europea.
Nei decenni precedenti la città aveva vissuto situazioni molto
complesse, delineate con grande sensibilità e consapevolezza dall’Autore che ha messo particolarmente in luce le problematiche all’interno
del mondo cattolico. Un’analisi altrettanto approfondita del liberalismo romano avrebbe imposto un esagerato numero di pagine e sarebbe stata inopportuna in questa sede.
Può essere invece più significativo ripercorrere, sia pure con
pochi cenni, il periodo dell’apprendistato politico di Nathan che venne
maturando nel corso di diciotto anni le linee guida di quella che sarà
la sua azione di sindaco.
1889-1902: gli esordi politici di Ernesto Nathan
Quando Nathan il 2 dicembre 1907 aprì i lavori del consiglio
comunale di Roma, nelle vesti di sindaco, aveva alle spalle una lunga
esperienza di amministratore pubblico, sempre svolta dai banchi dell’opposizione.
Politicamente Nathan si era formato alla scuola di Giuseppe
Mazzini ma, con realismo, aveva progressivamente operato una differenziazione tra i principi ideali dell’Apostolo genovese - che ebbero
172
Postfazione
una influenza non secondaria su tutta la sinistra democratica della seconda metà dell' ottocento - e l’intransigentismo istituzionale dei mazziniani puri, che rifiutavano qualunque forma di riconoscimento allo
stato retto da un sistema monarchico, da cui prese progressivamente
le distanze.
Nato a Londra, iniziò la sua attività di pubblico amministratore nel 1889, - non appena ebbe ottenuta la cittadinanza italiana(1),- in
coincidenza con l’allargamento della base elettorale dovuta alla nuova
legge Crispi. Era arrivato a Roma alla fine del 1870 e, in quei due decenni, aveva approfondito le tematiche sociali ed economiche più
avanzate della democrazia riformatrice europea.
A partire dagli anni ottanta entrò nell’agone politico maturando, insieme ad alcuni tra i più attivi personaggi della vita pubblica, il
progetto di un raggruppamento di tutte le forze della sinistra laica e
democratica che si sperava di poter opporre vittoriosamente alla maggioranza conservatrice, al notabilato dominante nella vita politica locale e nazionale.
Un progetto che aveva radici lontane nel mondo democratico
italiano post-unitario di matrice garibaldina, ma che non era mai approdato a risultati duraturi. Riprenderà corpo nel 1890, nel Patto di
Roma scaturito dal congresso radicale, voluto da Cavallotti, con la
collaborazione di Ettore Ferrari ed Ernesto Nathan.
Egli continuerà a perseguire questo disegno con tenacia e lo
realizzerà, sia pure tra non poche difficoltà tra il 1907 e il 1913 quando sarà a capo di una Giunta capitolina costituita da un “blocco” laico
democratico che comprendeva liberali, demo-costituzionali, repubblicani, radicali e socialisti.
Alla fine del 1889, grazie all’appoggio di repubblicani e radicali, fu eletto nel consiglio provinciale di Pesaro. Nella città marchigiana affondavano le radici italiane della famiglia attraverso la forte
figura della madre di Ernesto, Sarina Levi Nathan, attivissima mazziniana. Non dimentichiamoci, del resto, che Giuseppe Mazzini concluse la sua esistenza terrena a Pisa in casa di una figlia di Sarina, Giannetta Nathan Rosselli.
Nell’autunno del 1889 Ernesto entrò anche nel consiglio comunale di Roma dove visse un’esperienza breve, ma tale da lasciare il
1. La concessione della cittadinanza italiana ad Ernesto Nathan fu votata dal Parlamento il 9 febbraio 1888.
Postfazione
173
segno. Nella capitale, schiacciata dagli scandali e dalla crisi edilizia,
per la prima volta quell’anno, ci fu non un confronto di clientele, ma
di partiti che rappresentavano l’uno il ceto affaristico e reazionario,
prevalentemente legato a certi ambienti vaticani, l’altro la borghesia
più avanzata e quei settori popolari che la nuova legge ammetteva al
voto. Fu questo il contesto nel quale, nelle elezioni del 10 novembre,
avvenne la vittoria del primo blocco laico radicale, promosso da Baccarini, e sostenuto anche dal governo Crispi, in cui entrarono liberali,
radicali, elementi operai e impiegatizi.
Eletto assessore supplente all’Ufficio II Economato la prima impressione che dell’amministrazione romana ebbe Nathan fu
pessima.
“È un da fare inconcepibile, per quei di buona volontà, e mi ci
includo, che accettando vogliono far sul serio e ridurre il disordine a
condizioni normali. Difficile compito con una tradizione ed un arruffio d’interessi come esiste qui, ed in cui, se non cadiamo, più d’una
volta incespicheremo”(2).
Non ci fu però modo di avviare un programma di interventi
perché i centri di potere romano e lo stesso governo resero la vita difficile al sindaco Augusto Armellini, un personaggio gradito ai democratici, inoffensivo per i conservatori(3). La disastrosa situazione del
bilancio dell’amministrazione capitolina, gravata da un deficit pesantissimo (4) e da un’elevata esposizione debitoria, indussero il capo del
governo a presentare un disegno di legge per la città di Roma nel quale l’intervento statale era subordinato ad una pesante ingerenza governativa nell’amministrazione della capitale.
Non era certo quello che chiedeva la città, considerando che il
dissesto economico del municipio era in gran parte conseguenza degli
insufficienti sussidi concessi dal governo per i tanti lavori edilizi sollecitati alla Capitale per la sua trasformazione (5).
2. Biblioteca dell’Archiginnasio, Bologna, Fondo Saffi, Sez. 3. Lettera di Nathan
a Saffi, Corrispondenza politica 1846-1890, Roma, 2 febbraio 1890.
3. Fiorella Bartoccini, Roma nell’ottocento, Bologna. 1985, p.727.
4 Nel 1890 la situazione finanziaria del comune, ormai sull’orlo del collasso,
era diventata insostenibile, il disavanzo raggiungeva i 6 milioni sul bilancio normale e circa 12 milioni sul bilancio straordinario del piano regolatore del 1883.
5. La prima crisi legata alla questione edilizia si ebbe a Roma nel 1874. Il 3 luglio di quell’anno il sindaco Pianciani si dimise perché il comune non era in grado di sopportare l’onere finanziario impostogli dall’espansione edilizia della
città.
174
Postfazione
Ci furono polemiche seguite, il 28 marzo 1890, da dimissioni
in massa dei consiglieri comunali per protestare contro i provvedimenti crispini per Roma, ma solo Nathan le confermò ripetutamente
anche quando il resto della Giunta cercò di trovare una soluzione alla
vertenza tra Stato e comune. Il 25 giugno si giungeva alla conclusione
con le definitive dimissioni del consiglio comunale.
Nelle successive elezioni fu ritenuto politicamente più conveniente escludere il nome di Nathan dalla lista liberale insieme ad
altri nomi di radicali e repubblicani; ed egli ritenne opportuno non
accettare la candidatura offerta da altri comitati elettorali per evitare dispersioni di voti che avrebbero avvantaggiato gli avversari(6).
Convinto che a Roma la lotta politica fosse innanzi tutto un confronto fra opposti principi più che tra amministratori più o meno
validi, Nathan evitò sempre le personalizzazioni offrendo il suo
appoggio alle liste liberali anche quando da queste fu escluso il
suo nome.
Troppo apertamente schierato in senso antigovernativo, dovette aspettare il giugno del 1895 per poter essere nuovamente eletto
in Campidoglio dove andò a sedere a sinistra accanto ai repubblicani
Ettore Ferrari, Pilade Mazza, Federico Zuccari.
Nel 1890 il suo nome fu escluso dalla lista dei candidati al
comune. La stessa cosa si ripeté nelle amministrative della primavera
del 1892, in mezzo a violente polemiche, per la ferma opposizione dei
“moderati intransigenti” che lo consideravano troppo radicale.
Ottenne la candidatura nelle elezioni parziali del giugno 1893,
ma non fu eletto. Anzi le spaccature tra i democratici permisero ai cattolici dell’ <<Unione Romana>> di riportare una totale vittoria (7).
Negli anni che vanno dalla fine del 1889 al 1894 Nathan fu il
6. Lettera di Ernesto Nathan e Ettore Ferrari a Menotti Garibaldi pubblicata su
La Tribuna del 15 dicembre 1890. Lo presentò isolatamente come proprio candidato il giornale romano “Il Messaggero” Alberto Caracciolo, Roma capitale,
Roma, 1984 (1956), p 232.
7. Mario Casella, Roma fine ‘800. Forze politiche e religiose, lotte elettorali,
fermenti sociali (1889-1900), Napoli 1995, pp. 210-226.
Postfazione
175
capo dell’opposizione nel Consiglio provinciale di Pesaro dove era
stato eletto, come abbiamo già accennato, da un forte raggruppamento
di repubblicani e radicali (8).
Si mostrò particolarmente attento ai problemi legati alla situazione sanitaria locale, in particolare alle questioni derivate dal sovraffollamento del manicomio di San Benedetto che raccoglieva malati da tutta la provincia. Le condizioni di vita delle campagne marchigiane e la situazione di pesante indigenza della popolazione contadina
provocava la pellagra che, non curata, conduceva alla demenza. Il
conseguente aumento dei ricoverati faceva nascere problemi di igiene
che Nathan giudicava ineludibili. Per gli stessi motivi riteneva che si
dovesse trovare modo di occuparsi di coloro che, guariti, non potevano essere abbandonati nuovamente (9).
Convinto assertore del sistema cooperativistico, di matrice
mazziniana, che intendeva migliorare le condizioni economiche di
artigiani e operai attraverso l’assunzione diretta di impegni di lavoro da parte di società cooperative costituite dagli stessi lavoratori, si
impegnò, a Pesaro, per far avere direttamente ai cantonieri stradali
l’appalto per la manutenzione delle strade. La stessa proposta ripetè
poi a Roma facendo riferimento anche ai risultati positivi ottenuti a
Pesaro (10).
Considerato un amministratore pubblico molto competente,
negli anni pesaresi fu riconfermato tutti gli anni quale membro della
commissione provinciale del bilancio.
Nell’estate del 1895 Nathan tornò a far parte del consiglio comunale romano, dopo anni di impegno profuso nella Congregazione
di carità di Roma(11), composta da otto membri eletti dal consiglio comunale, che, dopo il ‘70, aveva assorbito antiche istituzioni caritative
8.Anna Maria Isastia, Ernesto Nathan. Un mazziniano inglese tra i democratici
pesaresi. Appendice di documenti a cura di Pier Damiano Mandelli, Milano,
1994.
9. Sull’argomento si veda Paolo Giovannini, Il manicomio San Benedetto di Pesaro. Follia, psichiatria e società (1829-1514) una indagine storica, Note e riviste di psichiatria, a.LXXIII (1890), pp.127-145.
10. Seduta del consiglio comunale del 20 dicembre 1895. Sulle stesse posizioni
il 21 dicembre 1896 interviene Mazza.
11. A. M. Isastia, Ernesto Nathan, cit., p 73.
176
Postfazione
pontificie subentrando ad esse. Nathan era direttore degli Uffici della
Congregazione di cui era presidente Emanuele Ruspoli, anche lui nel
consiglio provinciale di Pesaro e Urbino, eletto sindaco di Roma alla
fine del 1892.
Dal 1895 all’autunno del 1902, sarà consigliere di minoranza
in giunte a maggioranza clerico moderata dove, come scrive Caracciolo, regnava la convivenza e l’equilibrio tra uomini devoti al governo e
uomini cari al Vaticano, tra esponenti di gruppi capitalistici diversi, tra
rappresentanti del liberalismo e cattolici conservatori(12).
Le linee della sua azione, in piena sintonia con quelle dell’opposizione di sinistra, appaiono subito chiare. Attenzione al sociale,
preoccupazione costante per le condizioni di vita e di lavoro delle
classi meno abbienti, anche per quelle del mondo contadino. Si pensi
alla sua preoccupazione perché si avviino i lavori per la bonifica dell’Agro romano.
Dai verbali delle sedute del consiglio comunale emerge un
Nathan tecnico austero, amministratore competente. Colpisce la sua
insensiblità agli aspetti estetici delle questioni trattate, che, in una città
ricca di monumenti e ricordi storici come la capitale d’Italia, erano
spesso all’attenzione del consiglio. Ad esempio, nelle discussioni sui
diversi sistemi di trasporto pubblico, a differenza di altri, si preoccupava solo delle questioni strutturali. Per gli stessi motivi(13), essendo in
discussione il completamento della nuova galleria sotto il colle del
Quirinale, sostenne che era meglio destinare al recupero dei quartieri
popolari i soldi che il collega Iacovacci avrebbe voluto spendere per
impreziosire la galleria stessa.
Se tutti sanno che una delle glorie della Giunta Nathan (14) è
12 . A. Caracciolo, Roma capitale, cit., p. 234.
13. Tornata del 21 marzo 1902.
14. Sulle attività della Giunta Nathan esiste una bibliografia molto vasta. Segnaliamo gli atti di un convegno di studi svoltosi nel 1984 (Roma nell’età giolittiana. L’amministrazione Nathan, Roma, 1986), il lavoro di Giuseppe Barbalace,
Riforme e governo municipale a Roma in età giolittiana, Napoli, 1994 e quello
di Maria I. Macioti, Ernesto Nathan. Il sindaco che cambiò il volto di Roma. Attualità di un’esperienza. Roma, 1995, corredato da un’ampia bibliografia. La
fonte principale per lo studio di questi anni dell’amministrazione romana resta
Cinque anni di amministrazione popolare MCMVII MCMXII, Roma 1913.
Postfazione
177
stata la decisa opposizione alla speculazione edilizia, é meno noto il
fatto che Nathan cominciò ad impegnarsi pubblicamente in quella direzione fin dal dicembre del 1895, ben 9 anni prima che Giolitti varasse la sua legge. Il 13 dicembre 1895 infatti sollevò il problema della
revisione dei redditi dell’imposta sui fabbricati presentando, insieme
ai colleghi Ettore Ferrari, Lizzani, Zuccari, Malatesta un ordine del
giorno con il quale invitava “la Giunta a far valere presso il Governo e
presso la rappresentanza nazionale le ragioni di giustizia che militano
per procedere ad un nuovo accertamento del reddito dei fabbricati nella città di Roma” (15).
Il tema viene ripreso con insistenza nel corso degli anni.
L’espansione della capitale era avvenuta senza controlli. Molti caseggiati erano stati edificati violando le più elementari norme
igieniche. Nathan è uno dei pochi che denuncia lo scandalo e la gravità di una tale situazione. All’inizio del 1898 lamenta le condizioni
del nuovo quartiere Tiburtino “tutto e sempre ingombro di detriti umani, vegetali, organici e inorganici”. Dilagano malattie e prostituzione
contro le quali chiede di intervenire migliorando le condizioni igieniche e impiantando l’illuminazione a gas in quello come in altri quartieri periferici.
Alla fine del 1901 pone nuovamente la questione “degli alloggi della popolazione non abbiente, ora ricacciata ed agglomerata nei
quartieri più malsani con grave danno della moralità e dell’igiene pubblica”. Nathan sostiene la necessità di risanare i quartieri poveri, primo fra tutti quello fuori Porta S. Lorenzo.
Di grande interesse la sua raccomandazione di ‘‘escludere il
concetto di case esclusivamente operaie in cui si addensa la popolazione come un alveare, mentre sarebbe l’ideale che ogni famiglia potesse col tempo divenire proprietaria della casetta in cui abita”. Pochi
mesi dopo, a marzo 1902, torna a denunciare la situazione dei nuovi
quartieri popolari, cresciuti senza controlli, che non ha comunque risolto il problema delle tante famiglie povere accalcate in locali fatiscenti e malsani.
Nel testo della relazione della commissione sul bilancio preventivo 1902, di cui Nathan fa parte, troviamo anche un preciso riferi-
15. Il pronunciamento del consiglio comunale era finalizzato a dare forza ai deputati che avevano presentato analoga interpellanza alla Camera.
178
Postfazione
mento a quello che sarà il più difficile provvedimento della futura amministrazione Nathan: la tassazione delle aree fabbricabili.
“Cosi mentre le case pagano un’imposta in ragione dei fitti ritratti, mentre gli osti stessi pagano in ragione dei broccoli e dei carciofi prodotti, le aree fabbricabili non pagano un soldo, sebbene rappresentino valori ingenti, e ciò perché si dicono non redditizi”. La tassazione di quelle aree è giudicata “un ottimo calmante per le sfrenate
speculazioni che furono più volte così esiziali alla prosperità ed allo
sviluppo normale della città’’.
Tra le questioni che Nathan giudicò sempre di primaria importanza, accanto a quella della costruzione di case per i ceti più modesti, troviamo una mai sopita attenzione alla scuola. Torna in continuazione a denunciare la mancanza di edifici scolastici, il sovraffollamento delle classi, le proibitive condizioni igieniche delle scuole comunali. Come conseguenza di questa situazione molti bambini non
andavano a scuola o erano costretti ad iscriversi a scuole private. Si
preoccupava anche di un’altra istituzione, all’epoca ancora nuova, i
giardini d’infanzia, che egli auspicava fossero “veramente giardini all’aria aperta” . Perché tutti potessero avere una formazione di base
chiedeva l’incremento della somma destinata agli alunni poveri e di
quella destinata alla refezione scolastica.
L’esigenza di togliere i minori dalla strada e di dare a tutti una
istruzione e una coscienza civile lo spinse, nei sette anni in cui fu
consigliere, a tornare spesso a lamentare l’insufficienza degli edifici
scolastici e lo scandalo di bambini rifiutati dalle scuole dell’obbligo
per mancanza di posti.
Appena eletto, a fine 1895, tra le tante questioni affrontate,
Nathan pose anche il problema del riordino dell’organico del personale del comune (16) che già allora creava non pochi problemi, e chiese di
assicurare contro gli infortuni tutti gli operai del municipio(17) dicendo
16. Seduta del 16 dicembre 1895. Nathan chiedeva di eliminare il personale
fuori organico e di determinare il numero di impiegati necessari per ciascun ufficio. Gli impiegati provvisori che lavoravano da molti anni dovevano essere
mandati via con una pensione.
17. Seduta del 20 dicembre 1895.
Postfazione
179
che “sarebbe stato un bell’esempio quello che il Comune di Roma facesse iscrivere tutti i suoi operai alla Cassa Nazionale di Soccorso”.
Qualche anno dopo, nel 1902, pose invece il problema della
trasparenza delle carriere e del diritto dei dipendenti di conoscere le
motivazioni di promozioni negate o di non ammissioni a concorsi
interni.
Nel 1897 il consiglio comunale lo elesse membro della commissione per il bilancio(18) lo stesso incarico che aveva ricoperto per
anni a Pesaro.
Tra le questioni alla sua attenzione una posizione non secondaria era riservata al problema dell’evasione fiscale. Nel corso
degli anni tornò ripetutamente sulla questione. Da una parte chiedeva che le imposte fossero applicate secondo il criterio della giustizia distributiva(19) concetto questo che faticava ancora ad affermarsi;
dall’altra lamentava uno scarto eccessivo tra i preventivi e il reale
gettito delle tasse comunali che si spiegava solo con larghe sacche
di evasione. Mentre cercava di risolvere il problema dei mancati introiti dovuti alla pubblica amministrazione, Nathan appariva però
anche molto preoccupato delle conseguenze della crisi economica
sui cittadini della capitale. All’inizio del 1898 pose al consiglio comunale il problema delle condizioni di vita della popolazione che
stavano peggiorando di giorno in giorno. Il 7 febbraio chiese al sindaco, con una interrogazione, misure per ridurre il prezzo del pane.
Sappiamo bene quale scotto pagherà il paese alla carestia e alla
miopia della classe dirigente!
La relazione della commissione sul bilancio preventivo per
l’esercizio 1899 confermò il grave stato di disagio economico in cui
versavano migliaia di famiglie, anche se cominciava a notarsi un lento
miglioramento delle condizioni economiche generali.
Sempre per venire incontro ai bisogni della gente, nel 1899
18. Fece parte della commissione per il bilancio nel 1897 (bilancio preventivo
1898), nel 1898 e nel 1901. I bilanci del 1896 e del 1900 furono discussi articolo per articolo. Il suo ruolo appare sempre di rilievo nell’ambito di questioni
finanziarie ed economiche. Dal 1898 al 1901 fu anche revisore dei conti.
19. Seduta del 30 novembre 1900.
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Postfazione
propose tariffe ridotte per il trasporto degli operai, portando ad esempio il felice esperimento avviato dal municipio di Milano.
Nell’estate del 1901 chiederà un calmiere, sempre per frenare
la crescita del prezzo del pane, proponendone la vendita diretta da
parte del comune.
Anche il tema della municipalizzazione dei servizi pubblici fu
reiteratamente affrontato da Nathan ben prima di diventare sindaco.
Può apparire un controsenso lodare le municipalizzazioni in un momento in cui si lavora a privatizzare le aziende pubbliche. In realtà
considerando che ogni sistema alla lunga mostra i suoi limiti, è normale che si proceda per aggiustamenti progressivi alla ricerca di una
impossibile soluzione ottimale. Merito di Nathan fu quello di impegnarsi nella direzione che lui, e non solo lui, riteneva la migliore, in
quella fase storica, nell’interesse pubblico.
Contrario ai monopoli, fin dal 1898, durante la discussione
per il rinnovo del contratto in vigore con la Società Anglo-Romana
per l’illuminazione a gas ed elettrica, contestò gli accordi proponendo di municipalizzare il servizio per abbattere il costo delle utenze.
Un ordine del giorno sull’argomento venne respinto, ma la mancata
approvazione della convenzione con la Società Anglo-Romana indusse il sindaco e la Giunta a rimettere il mandato. Era la seconda
volta che un’iniziativa di Nathan metteva in crisi il consiglio comunale di Roma.
Problema analogo si pose nel 1901 nei confronti della società
dell’Acqua Marcia, ‘‘feudo” del Vaticano, che nel 1885 aveva stipulato col comune una convenzione che le garantiva il monopolio della distribuzione idrica. Quando l’amministrazione municipale propose di
venderle anche la fonte dell’Acqua Vergine, Nathan si oppose dichiarandosi assolutamente contrario a rafforzare una convenzione che andava in direzione opposta all’assunzione diretta dei pubblici servizi da
parte del comune che lui auspicava(20) .
20. Per la municipalizzazione dell’Acqua Pia Marcia, furono a lungo impegnati,
nel secondo dopoguerra, i consiglieri Selvaggi e Natoli. Bisogna arrivare al
1964 per raggiungere l’obiettivo di avere il controllo pubblico sull’intera rete
degli acquedotti.
Postfazione
181
Tornò a trattare l’argomento nel 1902 denunciando l’enorme
ritardo accumulato dalla capitale rispetto a tante altre città più attente
alla salvaguardia degli interessi dei cittadini.
Va detto però che a partire da quell’anno cominciò a farsi
strada una diversa attenzione al problema. È noto che nella primavera
di quell’anno Giolitti presentò in Parlamento il disegno di legge sulla
municipalizzazione dei servizi(21). Non stupisce che Nathan, tanto interessato al progetto, abbia chiesto alla Giunta di entrare nel merito della proposta che gli appariva macchinosa e di difficile applicazione
perché lasciava troppi spazi alle “società monopolizzatrici”.
Il 1902 fu un anno importante per Roma perché segnò la nascita dell’Unione democratica romana e dei primi tentativi di saldare
in un blocco i partiti democratici della capitale. Sconfitta nel 1902 e
poi nel 1905, per la mancata adesione dei socialisti, la coalizione riuscì alla fine vincitrice nel 1907 con un programma che vedeva al primo punto l’incremento della scuola elementare, seguita dalla tutela
della pubblica igiene e da una nuova politica edilizia.
Da questi sia pur rapidi cenni, appare con tutta evidenza che
l’uomo che sedette in consiglio comunale dal 1895 al 1902 era un personaggio molto attento a quanto accadeva in Italia e fuori, ben deciso
a modernizzare la città di Roma. Tutte le tematiche che affronterà da
sindaco sono già presenti nei suoi interventi degli anni precedenti.
I decenni a cavallo del secolo sembrano indicare un’accelerazione dei processi di interazione sociale, all’interno dei quali la città
appare come punto di intersezione essenziale, e Nathan dimostra di
conoscere e condividere la più moderna teorizzazione sul nuovo ruolo
e i nuovi compiti dei centri urbani. Si pensi alla sua costante attenzione alle questioni igieniche e sanitarie, che costituirono in quei decenni
uno dei terreni di intervento più assiduo e specifico dell’azione municipale, o al nodo rappresentato dalla municipalizzazione dei servizi
pubblici (acqua, gas, illuminazione, trasporti).
Più in generale Nathan appare consapevole della necessità di
trovare un equilibrio fondato su contrappesi e reciproci riconoscimenti
tra lo Stato e il Governo della città, tra il centro e la periferia, tra la
21. Legge 103/1903 sulle municipalizzazioni.
182
Postfazione
politica nazionale e la società riassunta da una consapevole rappresentanza comunale.
Ecco perché anche da consigliere dell’opposizione, Nathan
non si limitò mai alla sola denuncia. Le sue proposte furono sempre
concrete, fattive, costruttive, palesemente in sintonia con la più avanzata teorizzazione europea, espressione di una nuova coscienza amministrativa e di una generazione fiduciosa che l’ente locale potesse essere al centro di un progetto riformatore.
Anna Maria Isastia
(Roma, Maggio 1998)
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S. Trinchese, Governare dal centro - Il modello tedesco del “cattolicesimo politico” italiano del ‘900, Edizioni Studium, 1994.
N. Valeri, Giolitti, UTET, 1971.
M. Veneziani, Il Secolo sterminato, Rizzoli, 1998.
E. Vercesi, Le origini del movimento cattolico in Italia 18701922, Il Poligono editore, 1981.
S. Zoppi, Dalla Rerum novarum alla democrazia cristiana di Murri, Il Mulino, 1991.
Indice dei nomi
187
INDICE DEI NOMI
Acciaresi, Primo, 99n
Albani Medolago, Stanislao, 72, 75
Albertario, David, 25, 35, 28n
Althusio, Giovanni, 33n
Amore, Sebastiano, 84
Antici-Mattei, Tommaso, 99n
Apostoli, Giuseppe Giordano, 168
Armellini, Augusto, 173
Azeglio Taparelli, Massimo d’, 30
Baccarini, Alfredo, 173
Balbo, Cesare, 26
Barbalace, Giuseppe, 58n, 176n
Bartoccini, Fiorella, 173n
Bedeschi, Lorenzo, 54n, 65n, 83n, 87n, 88n, 89n, 90n, 91, 93n,
94n, 98n
Belardinelli, Mario, 53n, 54n, 55n, 101n
Benedetto XV (Giacomo Della Chiesa), 90
Benucci, Francesco Saverio, 91n
Bergamini, Alberto, 44
Berlusconi, Silvio, 10
Borgognoni, 146
Brescia, Arnaldo da, 33
Busiri, Carlo, 99n
Buttarelli, Paolo, 99n
C.S. (sigla)
Cagliati, 168
Campello della Spina, Paolo, 65n
188
Indice dei nomi
Candeloro, Giorgio, 47n, 48n
Caracciolo, Alberto, 174n, 176 e n
Casciola, Brizio, 97
Casella, Mario, 174n
Cassola, G., 159
Cattaneo, Carlo, 34
Catti De Gasperi, Maria Romana, 88n
Cavallotti, Felice, 48n, 71n, 172
Cavour, Camillo Benso di, 21, 29n
Ceccarelli, Eugenio, 99n
Cecchini, Francesco Maria, 56n
Cecchini, Giulio, 99n
Cece, Giulio, 158
C. M. Celli, 91
Chiaramonte, Umberto, 84n
Chigi, Mario, 99n
Colonna, Marcantonio, 99n
Colonna, Prospero, 99
Costa, Andrea, 53
Cozzi, 161
Crispi, Francesco, 172, 173
Cruciani-Alibrandi, Enrico, 168
Curci, Carlo Maria, 27
D’Ubaldo, Lucio, 3, 4, 6, 8, 10, 11, 171
De Gasperi, Alcide, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 14n, 42, 87 e n, 88n, 89 e n,
101
De Paolis, 161
De Rosa, Gabriele, 29n, 43n, 84
De Viti De Marco, Antonio, 60
Del Gallo di Roccagiovine, Luciano, 168
Della Chiesa, Giacomo (vedi Benedetto XV)
Di Carpegna, Mario, 99n
Di Rudinì, Antonio, 51, 71n
Indice dei nomi
189
Ducci, Romolo, 99 e n, 165
Fantetti, Antonio, 35n
Ferrari, Andrea Carlo, 74n
Ferrari, Ettore, 74n, 136, 172, 174 e n, 177
Ferrari, Giuseppe, 34
Ferraris, Carlo Francesco, 55
Fini, Gianfranco, 10
Fogazzaro, Antonio, 88n
Galli, Augusto, 99n
Garibaldi, Giuseppe, 29n, 174n
Gaspari, Oscar, 53n, 90n, 104n
Gasparri, Pietro, 90, 91
Gioberti, Vincenzo, 26, 32, 33 e n, 34 e n
Giolitti, Giovanni, 4, 58, 71 e n, 132, 145, 177, 181
Giovanni XXIII (Angelo Giuseppe Roncalli), 80n
Giovannini, Corrado, 44n
Giovannini, Paolo, 175n
Gladstone, William, 51
Grassi, Piergiorgio, 42n
Grosoli, Giovanni, 45
Hobsbawn, Eric, 13n
Iacovacci, 176
Invrea, Francesco, 55 e n, 56, 57 e n, 60, 61n
Isastia, Anna Maria, 174n, 175n
Jacoucci, Virginio, 99n
Jemolo, Arturo Carlo, 80n
Kommer, Ernest, 87n, 88n
Lamennais. Felicité Robert de, 22 e n, 23 e n, 47n, 49n
Lapponi, Giuseppe, 99n
Leone XIII (Vincenzo G. Pecci), 24, 28, 29n, 42, 45, 51, 56n, 73
e n, 80, 87n, 91, 153, 176n
Leone, Bruno, 60
Libertini, Pasquale, 84
190
Indice dei nomi
Lizzani, Carlo, 177
Macioti, Maria Immacolata, 173, 176n
Maistre, Joseph de, 22
Malatesta, Alberto, 177
Mandelli, Pier Damiano, 175n
Marcucci Fanello, Gabriella, 49n
Margotti, Giacomo, 29
Marinelli, Giancarlo, 16n
Marx, Karl, 48n, 59
Mauri, Angelo, 52, 55
Mazza, Pilade, 174, 175n
Mazzini, Giuseppe, 171, 172
Mazzonis, Filippo, 68n, 69n, 70n
Meda, Filippo, 28n, 35n, 42, 43n, 47n, 52, 73
Metternich, Klemens W.L. di, 21
Micheli, Giuseppe, 52
Miglio, Gianfranco, 33n
Minghetti, Marco, 69
Molajoni, Pio, 97
Mongillo, Dalmazio, 16n
Montemartini, Giovanni, 60
Murri, Romolo, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 13, 15, 16, 21, 24, 35, 36n,
41, 42, 43 e n, 44 e n, 45, 46 e n, 47n, 48n, 49n, 52, 55, 65, 72,
73, 74, 75, 80, 81, 82, 83 e n, 85 e n, 87 e n, 88 e n, 89 e n, 89 e
n, 90 e n, 91 e n, 92, 93 e n, 94, 97, 98, 100, 101, 102, 103,
104, 107, 145, 146, 147, 158, 159, 160, 161
Nassi, Enrico, 88n
Nathan Levi, Sarina, 172
Nathan, Ernesto, 3, 9, 61, 67, 91n, 167, 171, 172 e n, 173, 174,
175, 176, 177, 178, 179, 180, 181
Natoli, Aldo, 180n
Negri, Ada, 43
Nicola, Antoni, 55
Indice dei nomi
Oreglia, Luigi, 69
Orlando, Vittorio Emanuele, 55
Ossicini, Adriano, 103
Paganuzzi, Giambattista, 42, 45, 54n
Pantaleoni, Maffeo, 60
Pareto, Vilfredo, 59, 60
Pelloux, Luigi, 51, 71n
Perazzi, Umberto, 99, 165
Petrilli, 161
Pianciani, Luigi, 66, 173n
Pierantoni, Pietro, 161
Pio X (Giuseppe Sarto), 42, 45
Pio XI (Giovanni Mastai Ferretti), 27, 28, 68 e n, 80
Possenti, Enrico, 97
PRAM (sigla), 113, 118
Quinzio, Sergio, 16n
Radini Tedeschi, Giacomo, 90 e n
Rampolla del Tindaro, Mariano, 73, 74n, 88n, 90, 91, 92
Ranchetti, Michele, 102n
Ravelli, 159
Re, Emilio, 97
Reineri, Mariangiola, 32n
Riario Sforza, Sisto, 68
Ricasoli, Bettino, 66
Rodano, Franco, 22n, 23n
Rosmini, Antonio, 26
Rosselli Nathan, Giannetta, 172
Ruspoli di Francesco, Alessandro, 99n
Ruspoli, Emanuele, 175
Ruspoli, Enrico, 168
Saba, Vincenzo, 14n
Sacchi, Ettore, 136, 137
Saffi, Aurelio, 173n
191
192
Indice dei nomi
Salimei, Eugenia, 90n
Salimei, Francesco, 90n, 91 e n, 93n, 98, 99n, 158, 165
Salustri-Galli, Pietro, 99n
Salvadori, Giulio, 97
Salvati, Giovan Battista, 167
Sangnier, Marc, 45
Santini, Pio, 167
Santucci, Carlo, 91n, 99n, 167
Scoppola, Pietro, 25n, 43n, 51n, 98n
Sella, Quintino, 66
Selvaggi, Giovanni, 180n
Semeria, Giovanni, 97
Soderini, Odoardo, 146, 147
Sonnino, Sidney, 71n
Sturzo, Luigi, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 24, 26, 40, 41, 42, 43 e n, 45,
51, 52 e n, 58n, 84, 85 e n, 86 e n, 87 e n, 89n, 102, 103, 104,
107, 127, 128
Susi, 146
Taviani, Paolo Emilio, 28n
Tenerani, Carlo, 168
Tittoni, Romolo, 167
Tocqueville, Alexis de, 22
Toniolo, Giuseppe, 24, 35 e n, 36n, 51, 55, 58n, 91
Torlonia, Augusto, 167
Trinchese, Stefano, 28n
Turati, Filippo, 55
Tyrrel, George, 98
Valente, Giovambattista, 161
Valeri, Nino, 71n
Veneziani, Marcello, 13n
Vercellone, 146
Vercesi, Ernesto, 74n
Vigoni, Giuseppe, 58
Indice dei nomi
Vitelleschi, Francesco, 167, 168
Von Hügel, Friedrich, 98
Von Hügel, Gertrud, 93n, 98
Walras, Lèon, 59
Zanardelli, Giuseppe, 51, 71
Zoppi, Sergio, 47n, 104n
Zuccari, Federico, 174, 176
193
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