Volumi dell’Osservatorio Letterario
Collana Monografia
Antologia
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©
Osservatorio Letterario – Ferrara e l’Altrove
Edizione O.L.F.A., Ferrara 2011
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ALTRO NON FACCIO
Poesie – Racconti - Saggi
Antologia giubilare dell’Osservatorio Letterario
A cura di Melinda B. Tamás-Tarr
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Osservatorio Letterario Ferrara e l’Altrove
Edizione O.L.F.A. 2011
FERRARA
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ESTRATTO - KIVONAT
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LAUDATIO JUBILARIS
Festeggiare
l’anniversario di una rivista bilingue è opportuno farlo
con due parole ugualmente comprensibili in
entrambe le lingue. È il
15° anno che esce l’«Osservatorio Letterario», la rivista redatta a Ferrara, periodico importante
per molti italiani ed ungheresi sparsi in tutto il mondo.
Nella vita umana quindici anni rappresentano ancora l’età dell’infanzia,
appena l’inizio dell’adolescenza ribelle, ma per una prestigiosa rivista
letteraria è un periodo onorabile, quasi epocale. Poche sono le riviste che
possono vantarsi di aver vissuto così a lungo tempo. Sono piuttosto in
numero maggiore quelle che dopo qualche numero o anno si sono estinte
finendo nel dimenticatoio e sprofondate nell’indifferenza. Il «Nyugat¹
*«Occidente»+ di Ignotus e Babits, l’«Új idők» *«Nuovi Tempi»+ di Herczeg
hanno vissuto un’età simile, grazie all’appoggio del gusto dell’epoca.
Ma l’«Osservatorio» pubblicato a Ferrara viene curato da una sola
persona, per giunta, da una donna, che per quanto io sappia, può
contare solo sulle proprie forze, occasionalmente appoggiata dai lettori o
dai stretti familiari. L’impresa della Dott.ssa Melinda è paragonabile solo a
quello di László Németh. Ma quella rivista visse solo 3 anni, poi si estinse
per mancanza di soldi, per l’indifferenza, per gli attacchi da parte degli
altri scrittori ungheresi, che, ad eccezione del solo amico e critico Pál
Gulyás, lo sottoposero a feroci e dure critiche.
L’«Osservatorio» non è scritto da un’unica persona nel senso come lo è
stato il «Tanú» [«Teste» N.d.R.: in senso ‘testimone’+ di Németh. Ma è
sempre legato ad una sola persona, in quanto è la Prof.ssa Melinda che
raccoglie e seleziona gli scritti che verranno via via pubblicati. Lo fa come
una persona appassionata di fiori quando passeggia in un prato
raccattando gli esemplari profumati e più belli. E lei raccoglie i fiori in due
prati, in quello italiano e nel campo dei magiari. E con una particolare ed
autentica attenzione e con molta dedizione, potremmo dire, un po’
capricciosamente, come si addice ad una donna, sistema i fiori dei due
prati in un mazzo e li pone davanti a noi nel vaso della nostra rivista. Non
segue un ordine rigoroso a seconda delle lingue, ma alterna le opere in
modo da non compromettere mai la comprensione dei testi.
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Che cosa deve offrire una rivista del genere per sollecitare gli interessi di
un vasto pubblico diversificato? Grandi opere che aprano nuovi orizzonti
vengono raramente pubblicate su riviste. E poi, tali opere oggigiorno
nascono con numero sempre minore. Ma i capolavori pubblicati devono
essere custoditi, tramandati con attenzione sia ripubblicandoli che
adattandoli tramite la traduzione sfruttando le opportunità offerte dal
bilinguismo. È dimostrato da numerosi esempi, quanto la Redattrice
ritiene importante tale attività. E col suo talento offrendo un esempio,
incita anche altri a seguire questa strada. E poi, con la coraggiosa
pubblicazione delle opere e con la presentazione dell’attività di talenti
ingiustamente perseguitati, dimenticati, caduti in oblio per motivi
ideologici cerca di «rendere giustizia», supponendo che essa esista, nella
letteratura e in altrove.
Uno splendido, recente esempio ne è la critica di Cécile Tormay, la
presentazione bio-bibliografica della sua magnifica attività e l’illustrazione
del riconoscimento critico dei critici stranieri e degli scrittori ungheresi
d’epoca. Che triste ed ingiusta sorte ha avuto questa scrittrice
perseguitata a morte durante la sua carriera, come ci ricorda
l’«Osservatorio»! Come redattrice della rivista «Kelet népe» *«Popolo
dell’Oriente»+ aveva dato opportunità e spazio a molti scrittori dell’epoca,
fra cui pochi la ricordano nei loro scritti. Forse l’unica eccezione è quella di
Antal Szerb, che nell’ultimo capitolo della sua «Magyar Irodalomtörténet»
[Storia della Letteratura Ungherese] ne degnamente apprezza i suoi
romanzi ed altri suoi scritti. Ma – e non si deve tacere – questo capitolo
nelle successive edizioni fu omesso assieme alle critiche positive
riguardanti l’attività letteraria, culturale e sociale della scrittrice. *N.d.R.:
L’edizione del 1991 della Casa Editrice Magvető ripubblica il volume
integralmente.]
Non aspetti nulla di buono e nessun riconoscimento colui che osa
mettere piede sul terreno molle della letteratura. Illyés2 mi avvertì, prima
che avesse spedito alcune mie poesie al redattore dell’«Új Írás» *«Nuova
Scrittura»]: «Pensaci bene. Vuoi veramente pubblicare i tuoi scritti? Devi
sapere che in caso di edizione, d’ora in poi avrai più danni, aumenterà
l’inimicizia, i tuoi nemici si moltiplicheranno vorticosamente, mentre
coloro che ti chiudono nel loro cuore saranno pochi. Cambia almeno
nome per evitare l’immediata aggressione nei tuoi confronti, dopotutto
sei un medico. Tanti ti conoscono e molto di più ti aggrediranno per aver
scritto pubblicamente qualche azione non proprio da elogiare di qualche
loro parente». Ed avevo motivo di pentirmi per l’uscita dalla mia
solitudine, però, non è questo di cui vorrei parlare in questa sede.
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Un redattore di una rivista è esposto alle critiche, alle accuse ancora da
più lati e da più persone, anche da parte di coloro che si sentono falliti.
László Németh, anche sul suo letto di morte con odio pronunciò il nome di
Babits. Lo accusa assieme ad Osváth per aver ucciso in lui il poeta. Aveva
torto, anche perché, come novellista e saggista egli fu accolto da loro a
braccia aperte. E molto presto, in età molto giovane. E Babits fu accusato,
maledetto da un esercito di tanti altri, tra cui anche da Attila József, in una
stupenda poesia, è vero, che più tardi in una altrettanto stupenda poesia
si è fatto conciliare. Ma che cosa vale tutto questo....
In grandi linee si può dividere in due gruppi quelli che si scagliano
contro il redattore di una rivista prestigiosa che vigila la qualità - come è
l’«Osservatorio». Ci sono quelli che vedono rifiutare la pubblicazione dei
propri scritti. Non so, ma spero che la Signora Melinda dedichi un po’ di
tempo anche a loro, ma in caso contrario posso anche comprendere le sue
ragioni. A dire il vero, io ho incontrato un solo redattore così scrupoloso,
quello del «Jelenkor» [«Epoca Contemporanea»] di Pécs: il redattore
purtroppo „di una volta”, recentemente scomparso, Tibor Tüskés. Egli
entro pochi giorni rispondeva a tutte le lettere pervenute,
indifferentemente se accettava o rifiutava la pubblicazione del materiale a
lui spedito.
Evidentemente la maggior parte degli autori, nel veder rifiutare le
proprie „fatiche poetiche” ugualmente se ne ha a male. La schiera di
queste figure è composta dagli adirati. L’altra metà è rappresentata dai
veri astiosi che s’arrabbiano a causa degli scritti pubblicati sulla rivista.
Loro sono i più pericolosi, motivati dai pregiudizi, e la loro ira non è
avvolta alla pubblicazione strettamente legata alla letteratura.
Quante volte e in quale misura è stata in questi quindici anni il redattore
dell’«Osservatorio» l’unica responsabile, oggetto delle critiche, non posso
saperlo. Ma so, che – informazione avuta sempre da Illyés – che Babits
venne stroncato dalle ingiurie subite in veste di redattore del «Nyugat».
Quante altre diffamazioni non solo da Németh e da Attila József, ma
anche da tanti altri grandi, come ad esempio anche da Lőrinc Szabó,
spesso dovutamente non apprezzato a causa di altri vari motivi! È vero,
Babits è stato un curatore di un prestigioso premio letterario [N.d.R. il
Premio Baumgarten] che significava anche una lauta ricompensa in soldi.
La Prof.ssa Melinda può considerarsi fortunata di non disporre di tali
mezzi. Meno fortunata per non averne neanche un po’ per poter
compensare i collaboratori. Ma riceve lo stesso critiche di tutti i colori per
le pubblicazioni e per le omissioni.
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Se ancora una volta mi capiterà di parlare almeno al telefono con lei, le
chiederò: Quanti maltrattamenti ha ricevuto da parte degli uni e degli
altri? E sono curioso di sapere come ha fatto a sopportare, Lei donna,
appartenente al sesso debole, sia i rimproveri che i riconoscimenti?
Perché a volte, non sono facili da sopportare neanche questi ultimi,
soprattutto se non vengono dalla parte di chi sarebbero graditi. A tutto
questo ci vuole una forza, superiore a quella degli uomini. Forza di
volontà, tenacia, costanza, un accanimento a tutto quello a cui ha deciso
di dedicare la sua vita. A quello che si è legata.
E la Dott.ssa Melinda – come sopraddetto – è una donna femminile,
piena di tenerezza, di sentimenti. Che il suo carattere sia arricchito anche
di una forza virile, è una condizione necessaria per il suo lavoro da
missionari, di cui si è incaricata. Certo, ella deve possedere una forza da
missionario, altrimenti priva di essa non avrebbe potuto svolgere
quest’attività.
Chissà se coloro che sono incaricati di una missione siano più o meno
fortunati dei loro compagni? Non cerchiamo spiegazioni mistiche.
Semplicemente si riflette sulla propria capacità, sul modo di renderla utile.
Credo di sapere, che più di quindici anni fa, quando ha già parlato
l’italiano a livello da considerarsi bilingue, quando una metà dei sogni
forse l’ha fatta nella nuova lingua, si è sentita pronta ad avviare una
rivista bilingue. Doveva conoscere a fondo la letteratura, la cultura, la
storia, i rapporti secolari più–meno intensi tra i nostri popoli.
Il popolo ungherese e la lingua a causa di assenza di parenti, della loro
unicità e del loro isolamento possono considerarsi orfani del nostro
continente. I parlanti magiari saranno appena un quinto di quelli che
hanno per lingua madre l’italiano. I popoli parlanti le altre lingue latine si
capiscono tra di loro, sono forse cento volte in più rispetto ai magiarofoni.
Ma se non in altri campi in questo almeno, della lingua antica e della
letteratura, che conserva tutte le bellezze d’espressione, siamo almeno
uguali. E, possiamo aggiungere: a buon diritto possiamo misurarci anche
con altri popoli.
Tramite le opere pubblicate in due lingue, che s’intrecciano e
s’appoggiano a vicenda, non solo due culture linguistiche possono
avvicinarsi l’una all’altra, ma grazie alle reciproche influenze può nascere
qualcosa di originale, di nuovo. Lo posso affermare con certezza, siccome
grazie a mia madre, nata a Modena, si è sposata con un soldato magiaro,
perciò, per metà, anch’io vivo sotto l’influenza della cultura italiana che
m’incanta, anche se non sono mai riuscito a padroneggiare la lingua
italiana al livello di un parlante nativo. Tutto ciò viene testimoniato da
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numerosi miei scritti, poesie, drammi, racconti e saggi. Scrivendo le mie
opere, sento l’aura della cultura italiana allo stesso modo come sento i
sapori della lingua ungherese.
Qualcosa di simile deve provare anche la Dott.ssa Melinda, quando si
impegna ad avvicinare queste due culture, illustrando le differenze ma
salvaguardando con cura gli aspetti singolari. È questa missione che
irradia dalle pagine dell’«Osservatorio».
Ed il fermo sforzo non serve soltanto per la scoperta dei rapporti
letterari. Penso che per questo abbia accolto con grande entusiasmo ed
ha pubblicato per primo la «Cronaca Illustrata»*, frutto della
collaborazione artistica fra un mio cugino italiano e me stesso, raccontata
in edizione privata, in poche copie. Quelle stufe e le piastrelle sono state
vendute, ottenendo anche un successo economico, più di quanto
avrebbero ottenuto le mie opere e quelle della Prof.ssa Melinda. Ma,
dopotutto, quello che conta di meno è questo aspetto. [*N.d.R. NN. 71/72
pp. 49-55: «In risposta ad Orazio», Cronaca illustrata sulla straordinaria
vita di Pietro Voltolini, fabbricante di ceramiche]
Ci vuole una grande determinazione, intelligenza e bravura per poter
compiere questa missione. È ovvio che per noi, appartenenti ad una
lingua di minore diffusione, questa possibilità è più importante di quanto
non sia per gli italiani, capaci di misurarsi con letterature di popoli parlanti
le lingue di maggior diffusione. Ma forse, oltre al divertimento,
arricchendo la loro conoscenza, possono richiamare il loro interessamento
anche opere nate nella mente degli ungheresi. In particolar modo è da
onorare e da ringraziare la Redattrice che tramite il suo talento poetico e
competenza bilingue, in prima persona dà il suo contributo.
Come ultimo pensiero torno alla simbolica immagine dei fiori da
raccogliere sui vasti campi italiani e sui prati più angusti magiari. Non sono
posti in vasi, ma trapiantati in un giardinetto speciale che viene curato da
questa signora ungherese traslocata a Ferrara. Mi viene in mente la
meravigliosa poesia intitolata «La Pianta Sensitiva » [N.d.R.
Letteralmente: «La Pianta Sensibile»/«The Sensitive Plant» (la pianta
sensitiva è la Mimosa Pudica)] di Shelley. Ecco i primi versi:
«Una Pianta Sensitiva in un giardino è fiorita,
Dai venticelli con rugiada d’argento è nutrita...» 3
(Traduzione dall’inglese di © Melinda B. Tamás-Tarr)
E poi, pure i primi versi della parte seconda:
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«Ci fu un Potere in questo luogo di delizia,
Un’Eva in questo Eden; regnante Grazia
Per tutti i fiori, piante in sonno o deste,
Era come Dio nel comando delle stelle.
Una signora...» 4
(Trad. dall’inglese di © Melinda B. Tamás-Tarr)
Per lunghi decenni, quasi per mezzo secolo, i materialisti hanno cercato
di farci credere che tutto fosse frutto delle forze della materia, quindi
anche lo spirito, la cultura, le arti, tutto il mondo creato dall’Uomo, la
cosiddetta Civilizzazione. Ma è ovvio: si tratta di una grande sciocchezza.
La materia non è capace di creare forze spirituali; produrre, attuare,
mantenere qualsiasi cosa senza energie divine.
Alla Direttrice Melinda si augura di festeggiare ancora molti anniversari
nel suo bel Giardino dell’Eden, nel suo «Osservatorio» bilingue,
contenente piante particolari.
György Bodosi
alias Dr. Tivadar Józsa
- Pécsely (H) Traduzione originale © di Judit Józsa
Traduzione rielaborata ed adattamento
© di Melinda B. Tamás-Tarr ed Alessandra Bonani
______________________
1
N.d.R.: La rivista Nyugat (1908-1941) fu fondata da Ernő Osvát, Miksa Fenyő,
Ignotus (Hugó Veigelsberg) e non da Endre Ady. A partire dal primo numero Ady
apparve la prima volta con la prosa intitolata A magyar Pimodan [Il Pimodan
magiaro] I. (Vallomások és tanulmány [Confessioni e studio]) e con la lirica A
Sionhegy alatt [Sotto il monte Sion]. Caporedattori, redattori e collaboratori
furono: Ernő Osvát (1908-1929) caporedattore, Pál Ignotus (1908-1919)
caporedattore, Miksa Fenyő (1908-1917) redattore, Endre Ady (1908-1919)
collaboratore, redattore, Mihály Babits redattore (1917-1939) poi caporedattore
(1939-1941), Zsigmond Móricz redattore (1929-1933), Aladár Schöpflin (19331937) collaboratore primario. (1937-1941) redattore, Oszkár Gellért (1922-1939)
redattore, Gyula Illyés (1937-1941) redattore. La rivista con la morte (1941) di
Babits cessò di esistere.
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Il poeta Gyula Illyés (1902-1983)
3
«A Sensitive Plant in a garden grew, / And the young winds fed it with silver
dew...» (Percy Bysshe Shelley [1792-1822])
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4
« There was a Power in this sweet place / An Eve in this Eden; a ruling Grace /
Which to the flowers, did they waken or dream, / Was as God is to the starry
scheme. // A Lady.../...* (Percy Bysshe Shelley [1792-1822])
* La traduzione del primo verso integro della seconda strofa (Part.2 verso 120°):
«Una Signora c’era, la meraviglia della sua specie...» («A Lady, the wonder of her
kind...»)
LAUDATIO JUBILARIS
Kétnyelvű
folyóirat
évfordulóját köszöntendő
mindkét nyelven
érthető két szóval illendő köszönteni.
Tizenöt esztendőjébe
lépett, a Ferrarában kiadott, a világ sok táján élő magyaroknak és olaszoknak egyaránt jelentős folyóirat az „Osservatorio Letterario”.
Ember életében gyerekidő ez, a kamaszkor lázadó éveinek kezdete, de
egy rangos irodalmi lap számára tiszteletreméltóan hosszú időszak, mármár korszakos idő. Kevés az olyan rangosnak számító folyóirat, amely
ennyi időt megélt. Több az, amely néhány szám, vagy esztendő után erejét
vesztve az érdektelenségbe, a közönybe fulladt. Ignotus és Babits
„Nyugat”-ja, Herczeg Ferencék „Új idő”-je éltek meg, valóban korszakuk
izlésvilágának támogatásával ilyen időt.
De a Ferrarában szerkesztett „Ossservatórió”-t egyetlen személy ráadásul egy nő - szerkeszti, tudomásom szerint a maga erejéből.
Legfeljebb olvasói és családtagjai támogatását élvezve. Melinda asszony
vállalkozása és törekvése ezért inkább Németh Lászlónak a harmincas
években megindított egyszemélyes folyóiratához, a „Tanú”-hoz hasonlító
vállalkozás. Ám annak fejfájára az lett ráírva „Élt 3 esztendőt.” A
pénzhiány, az érdektelenség, és a többi jelentős írótársa támadása miatt
szűnt meg. Az egyetlen barát és kritikustárs Gulyás Pál kivételével össztűz
alá vették.
Az „Osservatorio Letterario” nem úgy egyszemélyes kiadás, ahogy a
„Tanú” volt. De mégis egyszemélyes, hiszen egyetlen személy, Melinda
asszony válogatja, gyűjti, keresgéli a bekerült írásokat. Valahogy úgy,
ahogy a virágokat kedvelő lélek, a mezőn a szebbnél szebb illatozó
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növényeket. Egyszerre két réten, az olasz nyelv rétjén és a magyarok
mezején gyűjtögeti a virágokat.
És ezt oly módon, hogy bár karakteresen, igazi műgonddal, azt is
mondhatnánk, hogy kissé asszonyosan szeszélyesen, ahogy a két virágzó
réten szedett növényeket csokorba köti, a közös folyóirat vázájában elénk
helyezi. Nem úgy, hogy előbb az egyik nyelven születettek olvashatók,
hanem elegyesen váltakoztatva, értelmet egyáltalán nem zavaró
sorozatokban állítva.
Mi az, amit egy ilyen, sokak érdeklődésére szító folyóiratnak kínálnia
kell? Korszakalkotó nagy műveket ritkán közölnek először folyóiratokban.
Amúgy is ritkán születik ilyesmi, manapság egyre kevesebb számban. De
már megjelent remekművekre illik és tudni kell vigyázni. Akár azok újra
közlésével, a kétnyelvűség kihasználásával, a művek gondos átültetésével.
Számtalan példa mutatja, hogy a szerkesztőnő ezt mennyire fontosnak
érzi. S hogy ebben a saját tehetségével is kiállva közreműködésre bíztat
másokat. Aztán méltatlanul elfelejtett, többnyire nem is irodalmi okok,
hanem világnézetük miatt száműzött vagy agyonhallgatott tehetségek
műveinek bátor közreadásával, jelentőségük méltatásával, valamilyen
igazság - ha az irodalomban, vagy bárhol létezhet ilyen - helyreállításával.
Az egyik mostani legnagyszerűbb példa és kísérlet erre Tormay Cécile
méltatása és nagyszerű életművének bemutatása, a róla szóló idegen
nyelvű kritikusok és hazai írótársak méltatásának bemutatása. Micsoda
fájdalmasan igaztalan sorsa volt ennek az életében is halálra üldözött
írónőnek, melyet az „Osservatorio Letterario” emlékünkbe idéz. A „Kelet
Népe” egykori szerkesztőnőjeként számos - később nagynevű írótársának adott helyet és teret, és közülük, alig emlékeztek rá
írásaikban. Talán egyedül Szerb Antal a kivétel ezen a téren, aki a Magyar
Irodalomtörténet-ének utolsó fejezetében méltatja regényeit és írásait. De
- és ez se hallgattassék el - a későbbi kiadásokból ezt a fejezetet kivették.
Ugyanúgy, ahogy a szerző munkáját és munkásságáról szóló méltányos
kritikákat.
Ne várjon senki jót és elismerést, aki az irodalmi élet ingoványos
mezejére rálépni merészkedik. Engem, hogy saját példámat említsem,
Illyés figyelmeztetett erre, mielőtt elküldte volna néhány veresemet az „Új
Írás” akkori szerkesztőjének. «Gondold meg jól, valóban közzé akarod-e
tenni írásaidat? Vedd tudomásul, ha kiadod, sokkal több károd,
békétlenséged támad, haragosaidnak száma hatványozottabban fog
növekedni, míg azok, akik, szívükbe zárnak, csak egyesével-kettesével
néha. Változtass nevet legalább, hogy azonnal rád ne támadjanak, elvégre
orvos vagy. Sokan ismernek, még többen fognak rátámadni azért, hogy
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„kiírtad” valamelyik rokonának nem éppen dicséretre méltó
cselekedetét.» És volt is okom megbánni a magányból való kilépést, de
nem erről szeretnék most beszélni.
Egy folyóirat szerkesztőjét még több oldalról és még többen támadják,
és okolják, a maguk sikertelenségéért is. Németh László még halálos ágyán
is gyűlölettel említi Babits nevét. Őt, és persze Osvátot okolja azért, hogy
megölték benne a költőt. Nem volt igaza, már csak azért sem, mert mint
novella és esszéírót ugyanők tárt karokkal fogadták be maguk közé. És
milyen hamar, és milyen fiatalon. És Babitsot nemcsak Németh, hanem
mások is, szinte csapatostól kárhoztatták. Köztük, egy remek versében
József Attila is, igaz, később egy ugyancsak remek versében kiengesztelte.
De hát mit ér az ilyesmi…
Nagy vonalakban két nagy csapatra lehet osztani azokat, akik egy, a
színvonalra vigyázó lap - és az „Osservatorio Letterario” ilyen szerkesztőjét támadják. Egyfelől vannak azok, akik beküldött írásait
lapjában nem hajlandó közölni. Nem tudom, de remélem, hogy ezekre is
szán időt Melinda asszony, de ha nem, ezt is meg tudom érteni. Igazából
én is csak egyetlen ilyen lelkiismeretes szerkesztővel találkoztam, az
egykori pécsi „Jelenkor” sajnos már szintén néhai szerkesztőjével, Tüskés
Tiborral, aki szinte napokon belül válaszolt minden hozzá küldött levélre,
akár hajlandó volt közölni a hozzá küldött anyagot, akár valamiért el
kellett utasítania.
Persze a szerzők többsége akkor is neheztelni fog, ha kedvesenudvariasan, de kosarat kap. Ilyenekből áll a haragosak egyik tábora. A
másoké, az igazán gyűlölködőké azokból, akik a lapban megjelent írások
miatt kelnek haragra. Ezek a veszedelmesebbek, mert többnyire
előítéletes, s legtöbbször nem irodalmi okokból neheztelnek a közlés
miatt.
Hányszor és milyen mértékben volt az eltelt tizenöt esztendő alatt az
„Osservatorio Letterario” szerkesztőnője, s ezért emiatt egyedül
felelősséget magára vállaló asszony, nem tudhatom. De – ezt szintén
Illyéstől tudom – Babits szinte belerokkant azokba a támadásokba,
amelyek a „Nyugat” szerkesztőjeként érték. S Csak Németh, József Attila
és más nagyságok, mint a más okok miatt szintén gyakran mellőzött Szabó
Lőrinctől is hány és miféle gyalázkodások. Igaz, ő egy rangos, és hazai
viszonylatban meglehetősen nagy pénzzel járó díjazásnak is kiosztogató
főkurátora volt. Melinda asszony szerencsés, hogy ilyennel nem
rendelkezik. Kevésbé szerencsés amiatt, hogy még annyival sem, hogy a
leközölt írásokért szerzői honoráriumot fizessen. De azért kap ő is eleget,
hideget-meleget a megjelentetésekért éppúgy, mint a kihagyásokért.
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Ha még egyszer lesz módom legalább telefonon beszélgetni vele, meg is
kérdezem tőle, hogy miből menyit kapott. S hogy – mégiscsak, a
gyöngébb nemhez tartozóan – hogy tudta elviselni a szidalmakat, éppúgy,
mint az elismeréseket. Mert néha ezeket se könnyű, főleg, ha nem
olyantól kapja, akitől igazán szeretné.
Férfiukat meghaladó erő kell ehhez. Akaraterő, kitartás, csakazértis
ragaszkodás ahhoz, amire az életét feltette. Amihez hozzákötötte magát.
Pedig Melinda asszony – amint az fentebb leíródott, gyöngédséggel,
érzelmekkel tele nőies nő. Hogy némi férfias erő is kapcsolódik
jelleméhez, az kell a küldetéses munkájához, amit magára vállalt. Ilyen
küldetéses erő kell, hogy legyen benne, másképp lehetetlen lett volna
vállalni ezt a működést.
Vajon szerencsésebbek, vagy szerencsétlenebbek társaiknál akik
küldetést kapnak valamire? Ne keressünk misztikus magyarázatokat.
Egyszerűen csak elgondolkodtatnak, hogy mire képesek, mivel
használhatnának. Tudni vélem, hogy amikor több mint 15 évvel ezelőtt,
mikor már anyanyelv szinten beszélte az olaszt és talán álmai egyik felét is
ezen a nyelven élte, vált alkalmassá, képessé arra, hogy egy ilyen kettős
nyelvű folyóirat megindításába kezdjen. Töviről-hegyire kellett ismernie
mind a két nyelv irodalmát, kultúráját, történelmét s a két nép között a
zivataros történelem során kialakult hol szoros, hol elfeledett
kapcsolatokat. A magyar nép és nyelv egyedisége, és árvasága,
rokontalansága miatt mostohája a kontinensünknek, létszáma is alig
ötöde az olasz nyelvet beszélőknek. A szorosan vett újlatin nyelvek
kultúrnépei pedig egymás nyelvét könnyen megértik, talán százszorta
többen vannak. Ám ha valamiben, akkor éppen ebben, ősi nyelvünknek az
irodalomban
elsősorban
megőrződő,
kifejeződő
szépségének
hordozásában velük egyenlők vagyunk. És más népekkel is vetélkedhetünk
– tegyük hozzá.
Az egyszerre két nyelven megjelenő, egymásba fonódó, egymást erősítő
irodalmi alkotások révén nemcsak a két nyelvi kultúra közelíthet
egymáshoz, hanem az egymásra hatás következtében valami, újdonság is
létrejön. Bátran merek hozzászólni ehhez a folyamathoz. Hiszen anyám, a
Modenában született és apámhoz, a magyar katonához hozzáment
leányzó révén - bár soha nem tudtam irodalmi szinten elsajátítani a
nyelvüket, ahogy ezt munkáim: verseim, drámáim, prózáim és esszéim is
tanúsítják - félig mégis az olasz kultúra bűvöletében élek. Ennek auráját
érzem, úgy mint a magyar nyelvnek ízeit, amikor valamelyik művemet
megfogalmazom.
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Valami ilyesmi járhatta át Melinda asszony tudatát is, amikor ennek a
két kultúrának különbözőségeit gondosan megőrizve közelítésén
fáradozott. Ez a küldetés, ami a legfőbb erővel kisugárzik az „Osservatorio
Letterario” hasábjairól.
A kitartó erőfeszítés már nem csak az irodalmi kapcsolatok felkutatására
szolgál. Úgy vélem, éppen emiatt fogadta lelkesen és tette elsőként közre
folyóiratában azt a csak néhány példányban megjelent „Cronaca
Illustratá”-t, amelyik egyik, olasz unokatestvérem és magam
együttműködése révén egy sajátosan magyar-olasz művészkedésként
bontakozott ki. A díszes csempék, stufák áruként is elkeltek, biztos több
anyagi sikert hoztak, mint Melinda asszony és remete jómagam alkotásai.
Mégis, ha valami, a legkevésbé fontos, az ez. Nagy elszántság, okosság és
ügyesség is kell ahhoz, hogy a küldetést teljesíteni lehessen. Önzetlenül,
még azt sem mérlegre téve, ami nyilvánvaló, hogy nekünk, kevésbé ismert
nyelvű néphez tartozóknak, fontosabb, többet jelent ez a lehetőség, mint
a világ legnagyobb nyelvű népek irodalmához magukat hozzámérni tudó
olaszoknak. De érdeklődésüket szórakoztatásukon túl tudásukat az ő
nyelvükre lefordított magyar agyakban született versek és írások is fel
tudják kelteni. Külön becsülendő és köszönet azért, hogy mindkét
nyelvben jártas költői tehetségével ehhez a szerkesztőnő maga is hozzá
tud járulni.
Utolsó gondolatként emiatt térek vissza a tágas olasz mezőkön és a
szűkösebb magyar réteken csokorba szedhető s köthető virágok
hasonlatára. Nem vázába kerülnek ezek, hanem gyökerestül átültetve
abba a különleges kertecskébe, amelyet ez a Ferrárába került magyar
asszony gondoz. Shelley csodálatos verse jut eszembe erről „Az érzékeny
Plánta”. Az első sorai:
„Egy kertben
egy Érzékeny Plánta nőtt
Harmattal a szél dajkálta őt”….
És aztán a második részben, Babits nagyszerű átültetésében:
„S ez Édenkertben egy bűvös Erő
Élt, titkos Éva, gondviselő
Varázs, altatni és költeni ott
Mindent, mint Isten a csillagot
Egy Hölgy….”
15
Hosszú évtizedeken, majd fél évszázadon keresztül próbálták elhitetni
velünk a materialisták, hogy az anyagi erők terméke minden, tehát a
szellem, a kultúra, a művészetek, az egész Civilizációnak nevezett,
emberek által is létrehozott világ. Pedig nyilvánvaló, hogy ez nagy butaság.
Az anyag képtelen szellemi erőt teremteni, alkotni; nem képes isteni
energiák nélkül bármit is létrehozni, megvalósítani, fenntartani.
Érjen meg még számos szép jubileumot Melinda asszony a maga szép
Édenkertjében, ebben a különleges növényzetű, kettős nyelvű
Osservatoriójában! (Fonte/Forrás: Editoriale/Vezércikk, Osservatorio
Letterario NN. 77/78 2010/2011 pp.3-5., 182-183.)
Bodosi György
alias Dr. Józsa Tivadar
- Pécsely (H) -
16
PREFAZIONE
È bello e commuovente festeggiare i 15 anni di
esistenza e resistenza sull’arduo cammino dell’attività
poliedrica e controcorrente dell’Osservatorio Letterario nello spietato mondo letterario e nell’editoria.
Oltre al redigere ed editare questo periodico, già
dall’inizio, mi impegno anche a pubblicare libri e mi
dedico anche alle varie traduzioni letterarie, come
testimoniano tutte le Edizioni O.L.F.A. L’italianista
prof. universitario Imre Madarász recentemente – e
nel passato anche il prof. liceale d’italiano e poeta
Fabrizio Galvagni – ha detto che tutto questo «è una cosa veramente
unica non soltanto in Italia ma anche in tutta Europa. Nell’Europa unita
che è la manifestazione della comune identità culturale, significa
particolarmente la comunicazione delle culture delle nazioni, il loro
“transito”». Posso dire soltanto, parafrasando Alessandro Monti: «Altro
non faccio che adempiere in Italia a seconda delle mie proprie forze,
capacità intellettuali e scarsissime possibilità finanziarie la missione
culturale e letteraria che m’impongono Italia ed Ungheria nonché i doveri
che mi legano a queste due nazioni: alla mia patria natia ed a quella
d’adozione...»
Gli Autori e Lettori cosiddetti «storici» dell’Osservatorio Letterario
possono bene ricordare con quale scopo è nato questo periodico: l’ho
fondato con l’intenzione di comunicare, per dare una voce agli autori
minori oppure ignorati, amanti ed agli appassionati dello scrivere poesie,
racconti, critiche, opinioni, per esprimere le svariate emozioni o i pensieri
che nascono nell’anima dell’essere umano e dare notizie di alcuni eventi
culturali che riguardassero la letteratura, l’arte ed in generale la cultura. A
breve tempo, accanto agli autori esordienti o poco conosciuti si notano
anche le firme di quelli affermati, noti nonché famosi. Il periodico, a
partire dal N. 0/1997, offre proposte di autori di talento e di qualità. «La
rivista è aperta, arricchente senza snobismo, senza accademismi, senza
intellettualismi… Dà senso alla sobria ricchezza del lavoro culturale della
direttrice che, non senza difficoltà, ha raggiunto il traguardo dei 15 anni
ed è pronto per un futuro sempre più intenso… La novità dell'Osservatorio
da lei diretto è proprio la centralità e l'importanza (che non significa
supponenza, narcisismo o vanagloria) della donna e dell'uomo nel
proseguire, col dono della sensibilità letteraria, la creazione. Insomma,
non è algidamente accademico, non è snob, non fa parte di quel mondo
17
letterario distante e irritante di chi si presume salvatore della patria o di
chi scrive futilità. È la paziente opera quotidiana, sinceramente
controcorrente, di chi lavora umilmente scoprendo dentro di sé un dono
da coltivare costantemente e da condividere con altre anime sensibili» –
afferma lo scrittore e giornalista pubblicista Umberto Pasqui.
Sulle sue pagine si leggono traduzioni, opere originali, ragguagli, critiche,
dibattiti, opinioni. Infinite peculiarità. Tramite gli editoriali speciali in
bilingue dei fascicoli quindicinali (NN. 77/78, 79/80, 81/82), di edizione
speciale, stampati interamente a colori, si può rievocare tutta la storia, il
cammino ed il progresso del periodico che in realtà ha piuttosto
sembianze di un libro.
«È grande e spesso, ma è piacevole tenerlo nelle mani, perché è sì molto
bello. Per quanto lo sia si può scoprire solo dal vivo; le foto non
restituiscono gli splendidi colori e la qualità della carta, ma nemmeno
l’emozione di leggerlo. È piacevole leggere la rivista *...+. È una vera
miniera. Qui in casa non c’è un periodico – forse nemmeno un sito web –
che abbia una così vasta scelta. Il giornale fa da mediatore tra due culture,
si possono leggere articoli di scrittori, poeti, scienziati italiani – alcuni
scritti tradotti anche in ungherese. Ma si trovano anche traduzioni di
opere classiche; i sonetti di Petrarca, Dante in una versione più moderna,
inoltre altre numerose opere della poesia italiana che qui si possono
leggere tradotte in ungherese per la prima volta. [...] Per me è stato una
grande emozione e scoperta quando mi sono imbattuto nella traduzione
in italiano dei versi di Ady tra le pagine della rivista. Ma non ci sono
soltanto riferimenti italiani o ungheresi: le traduzioni di Shakespeare [...]
vengono regolarmente pubblicate sulla rivista [...]. Possiamo leggere
abbastanza spesso dati sconosciuti e sorprendenti, fatti, date e vicende
sulla storia dei rapporti italo-ungheresi sia in ambito letterario che in altri
ambiti. L’Osservatorio Letterario tratta coraggiosamente anche argomenti
apocrifi (o che vogliono rendere apocrifi) per il pubblico del paese, così
come, in casa, le opere volutamente espulse dalla concezione bigotta
della storia letteraria e anche la conoscenza degli autori e i dibattiti su di
loro. Ora mai anche qui, nel nostro paese, nascono come funghi i siti web
che si occupano di queste cose ma quello di Melinda Tamás-Tarr-Bonani
ha già scritto di ciò quando in patria regnava un silenzio assordante. Per
non parlare del fatto che la parte più interessante degli argomenti trattati
dai millantatori organi di stampa, molte volte proviene da questa rivista.
Poesie, saggistica, novelle, studi, parte delle lunghe opere – sono dialoghi
tra due letterature aventi un lungo passato in Europa. Recensioni,
cronache, programmi anticipati sulla letteratura italiana e ungherese.
18
[...]» – scrive l’ungherese prof. liceale di letteratura, scrittore e poeta L. N.
Peters alias László Miklós Pete. (Trad. di Giorgia Scaffidi.)
«Abbiamo di recente letto l'ultimo numero dell'Osservatorio Letterario,
pubblicazione che troviamo unica e di straordinaria professionalità ed
accuratezza di studio. [...]» – sono le parole del titolare della Libreria
Culture di Reggio Calabria. Potrei ancora citare altre valutazioni, ma ho
preferito riportarle alcune dalle più recenti.
L'Osservatorio Letterario ha anche pubblicato numerosi – quasi 70 titoli
– quaderni letterari ed antologie di poesie, racconti, saggistica come
supplemento alla rivista dei vincitori e finalisti dei Premi Letterari
Nazionali ed Internazionali, banditi dal periodico e monografie
indipendenti da essi.
In Ungheria, oltre alla Biblioteca Nazionale Ungherese «Széchenyi»
(OSzK) di Budapest la rivista – come uno degli importantissimi prodotti
editoriali, cosiddetti «hungaricum», quanto si legge nella lettera del
bibliotecario dell'OSzK – è presente nella Biblioteca del Museo Letterario
«Petőfi» e nella Biblioteca e l'Istituto Culturale «Eötvös Károly» Regionale
di Veszprém, città della mia provenienza. L'Osservatorio Letterario si
presenta inoltre nel periodico scientifico delle Università degli Studi,
nell'XI Annuario dell'Ungarologia (Edizione dell'Università degli Studi di
Pécs 2010).
Informazioni più dettagliate si trovano sulle pagine del sito e del
supplementare portale ungherese del periodico:
http://www.osservatorioletterario.net/
http://www.osservatorioletterario.net/archiviofascicoli.htm
http://www.testvermuzsak.gportal.hu/
http://www.osservatorioletterario.net/hungarologia-11.pdf
http://www.osservatorioletterario.net/hungaricum_osservatorioletterario
.pdf
Oltre ai fascicoli speciali della rivista, ora festeggiamo la sua esistenza
quindicinale anche con questa preannunciata antologia giubilare di
poesie, racconti, saggi.
Quest’anno però abbiamo ancora un altro evento, ancora più grande, da
celebrare: dieci volte di più degli anni del nostro periodico, i 150 anni
dell’unità d’Italia a cui ho curato un vastissimo servizio nel fascicolo NN.
79/80 (cfr. pp. 120-171) di cui il sopraccitato prof. Madarász ha scritto:
«La ringrazio sentitamente per la splendida rivista, o per meglio dire per il
libro in duplice volume. È veramente un onore *…+ la mia presenza in essa.
19
*…+ Mi congratulo con Lei per la sublime parte sul Risorgimento da lei
curata, argomento a me caro. Leggendo il saggio sulle eroine di quella
grandiosa epoca, ho pensato che anche Lei fosse un’erede morale di
quelle donne tanto gloriose nell’era dell’Illuminismo, delle Riforme e del
Risorgimento, organizzatrici, vivificatrici ed ispiratrici della vita culturale –
per esempio nei saloni (vedi la contessa Maffei) “agisci, crea, accresci”
(citando Kölcsey), a favore della loro nazione, della loro patria e per i loro
compatriotti. Lei, gentile Caporedattrice, ha costruito un ponte forte,
lungo, largo e bello tra i rapporti italo-ungheresi. “In un’epoca” in cui si
parla molto degli effetti dannosi che ci sono nel rapporto tra lettura ed
economia, il periodico, o meglio questa serie di libri, da Lei redatto ed
edito, merita veramente ogni apprezzamento e riconoscimento.*…+»
Sono proprio felice che il periodo del 15° compleanno della nostra rivista
coincide con la ricorrenza di 150 anni della nascita dell’Italia unita. Il Bel
Paese da più di 27 anni (dal 5 dicembre 1983) essendo la mia patria
d’adozione ed avendo anche la cittadinanza italiana da più di 25 anni (dal
marzo 1986), motivata inoltre anche dai rapporti storici, politici, culturali e
letterari italo-ungheresi, sento il dovere di ricordare questo storico evento
anche in quest’antologia giubilare con una rassegna risorgimentale
ungaro-italiana di cui la versione più breve l’ho presentata a Ferrara
presso la Casa d’Ariosto il 7 agosto scorso in occasione dell’incontro ciclopoetico intitolato CicloInVersoRoMagna 2011, evento curato dal poeta,
romanziere e giornalista pubblicista Enrico Pietrangeli, «storico»
collaboratore dell’Osservatorio Letterario assieme allo scrittore e poeta
Emilio Diedo e – come un anno fa – ha collaborato alla sua realizzazione
anche l’Osservatorio Letterario. Ho riportato un resoconto parziale in
anteprima sull’internet con le immagini scattate da G.O.B. sulla pagina
http://www.osservatorioletterario.net/cicloinversoromagna2011breve.
pdf. Questo mio intervento «su collegamenti e relazioni tra Risorgimento
italiano ed ungherese è stato un perno dell’incontro. Un’occasione per
assaporare insieme anche alcuni versi del grande Sándor Petőfi» – scrive
Enrico Pietrangeli nel suo articolo dettagliato che potrete leggere sul
prossimo fascicolo NN. 83/84 2011/2012 dell’Osservatorio Letterario.
Nell’Estense.com nell’articolo intitolato I poeti in bici incantano Ferrara
firmato da Licia Vignotto a proposito dell’incontro ferrarese tra le altre si
legge: «…Ai componimenti in italiano, di natura tradizionale, si sono
affiancati testi in dialetto siciliano, haiku plasmati sul modello giapponese,
ed è stata ricordata la sperimentazione attuale nel settore della
videopoesia. Melinda Tamás-Tarr, “ferrarese adottiva” come lei stessa
ama definirsi, ha proposto invece un intervento in linea con l’anniversario
20
dell’unità italiana, focalizzato sui poemi dedicati al Risorgimento. Ha
inoltre collegato i moti che percorsero la penisola alla guerra per
l’indipendenza svoltasi in Ungheria. Diversi soldati italiani infatti
combatterono nelle legioni ungheresi, e altrettanti militi magiari
affiancarono le operazioni per l’unificazione italiana. Un approfondimento
sui poemi del poeta e patriota ungherese Sándor Petőfi, il quale ha scritto
sia per il proprio paese che per incitare l’Italia alla libertà, ha chiarito
maggiormente la connessione culturale e d’intenti dei due popoli…»
Infine ecco l’antologia con le opere selezionate tra gli elaborati degli
Autori aderiti a questa iniziativa – alcuni destinati a questo volume
sono anche stati pubblicati nei fascicoli quindicinali di speciale
edizione del periodico – per così festeggiare il compleanno del nostro
periodico. Sono state inserite, a mia discrezione, anche numerose opere
edite a stampa, pubblicate già precedentemente sui fascicoli della nostra
rivista (Osservatorio Letterario N. 0 1997 – NN. 81/82 2011) o nei vari
volumi dell’Edizione O.L.F.A.: quaderni e volumi individuali, antologie (vs.
Melinda Tamás-Tarr-Bonani: Le voci magiare 2001, Da anima ad anima
2009, Melinda Tamás-Tarr e Mario De Bartolomeis: Traduzioni –
Fordítások I.-II., 2002, Mario De Bartolomeis: Saggi letterari e storici
2003, Tolnai Bíró Ábel: Élet (31 poesie selezionate) 2001, Élet, Vita
Hungarica (silloge di 82 poesie: I. e II. Edizione) 2011, Maxim Tábory:
Ombra e Luce (Poesie, traduzione di Melinda Tamás-Tarr-Bonani) 2011 ed
in altre pubblicazioni estere. A causa dello spazio ho dovuto omettere
quasi tutti i singolari riferimenti riportati dopo ogni opera inserita, già
edita. Quindi, qui troverete poesie, racconti, saggi originali e traduzioni in
italiano ed in ungherese degli autori contemporanei e di quelli dei secoli
passati. Spero che sarà di vostro gradimento e fra cinque anni potremo
ancora incontrarci per festeggiare così anche il 20° compleanno del
periodico italo-ungherese Osservatorio Letterario…
Infine, Vi chiedo con cortesia che siate indulgenti con me per gli eventuali errori linguistici o stilistici oppure per i refusi sfuggiti. Come si sa,
editare un libro o una rivista non è facile, per le correzioni linguistiche dei
testi voluminosi non posso incaricare persone né a titolo gratuito, né a
quello redditizio. Comunque, in questo Bel Paese ci sono tanti autori italiani nati – scrittori, giornalisti anche tra i laureati (!!!) – che non sanno
usare correttamente la loro madrelingua. Penso che questo sia piuttosto
più grave da parte loro che da parte di una scrittrice straniera: in
quest’ultimo caso si sa che la gente di madrelingua straniera non potrebbe impadronire la lingua italiana, lo stile italiano forse neppure dopo una
vita intera vissuta in Italia. È importante, intanto, che i messaggi racchiusi
21
in questo volume possano arrivare ai Lettori, a loro cuori, alla loro alma.
Se per caso fosse un generoso poeta e scrittore italiano, vero padrone della sua madrelingua, per trascrivere i miei testi in perfetto, immacolato italiano, accetterei questo suo grande gesto con immensa gioia, gratitudine
e rifarei volentieri una seconda edizione riveduta di questo libro.
Un sentito grazie agli Autori che hanno subito ed esplicitamente aderito
a questo progetto: Mario De Bartolomeis – che nel frattempo è improvvisamente scomparso (il 10 febbraio 2011) –, Emilio Diedo, Gianmarco Dosselli, Olga Erdős, Jácint Legéndy, Umberto Pasqui, Enrico Pietrangeli, Ivan
Pozzoni, Andrea Rényi, Franco Santamaria, Giorgia Scaffidi, Emilio Spedicato.
Molte delle mie traduzioni qui presentate sono rivedute rispetto a quelle
già pubblicate sull’Osservatorio Letterario e nei volumi dell’Edizione
O.L.F.A.
Quanto tempo le preoccupanti condizioni finanziare della Redazione mi
permetteranno di continuare questa mia attività editoriale, non lo so, perciò ci tenevo tanto a realizzare questo volume così com’è per documentare ed immortalare il difficile cammino di questi quindici anni sul terreno
molle ed arduo della letteratura e dell’editoria, come un detto ungherese
dice al contrario a quello italiano: «Non rimandare per il domani quello
che oggi puoi fare!»
Per concludere: sappiate, ho realizzato quest’antologia con grade amore per render ancora più memorabile questa nostra quindicinale ricorrenza. Vi offro questa raccolta con lo stesso amore e Vi ringrazio per la Vostra compagnia in tutti questi anni: senza di Voi non esisterebbe
l’Osservatorio Letterario! Auguro di cuore a tutti Voi/noi di poter camminare ancora insieme sulla strada tratta di questo periodico ancora per
molti altri anni!
Con questi pensieri Vi saluto affettuosamente augurandoVi piacevoli
momenti di ricordi e di lettura!
Ferrara, 20 agosto – 25 settembre 2011
Prof.ssa Melinda B. Tamás-Tarr Dr.
Dr. Bonaniné Dr. Tamás-Tarr Melinda
Dir. Resp. & Edit
22
I. RASSEGNA RISORGIMENTALE UNGARO-ITALIANA
Omaggio in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia
Associandomi alle parole del direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di
Budapest, Salvatore Ettorre che, in occasione di ricorrenza di 150 anni
dell’unità italiana un commosso pensiero va a coloro che spesso a costo
di sacrifici se non della loro stessa vita hanno pagato un caro prezzo per
vedere l’attuazione di un sogno – quello dell’Italia Unita – vagheggiato da
tempo.
Non dobbiamo dimenticare che non si tratta solo di grandi eroi celebrati
sui libri di storia. Dobbiamo ricordare anche le donne eroiche ma invisibili
dell’epoca in entrambi i Paesi. Hanno contribuito in modo rivelante ed
originale al Risorgimento, come più tardi alla Resistenza. Eppure non ci
sono nei libri di storia… Di loro si può leggere di più sulle pagine – pp. 125131 – a loro dedicate sul numero doppio 79/80 del precedente fascicolo,
ancora speciale edizione a colori dell’Osservatorio Letterario.
Spesso ci si dimentica pure che all'impresa dei Mille di Garibaldi
parteciparono anche persone dalle umili origini, ma animate da uno
spirito combattivo, con un coraggio da leoni, pronti a dare il loro sangue
per l'ideale, oppure si scorda della Legione Ungherese di Garibaldi o della
Legione Italiana in Ungheria guidata dal colonnello Alessandro Monti
dopo che il 25 maggio 1849 Lajos Kossuth lo nominò comandante di
questa legione. Il 1° giugno ricevette il grado di colonnello. Così scrisse
all’amico, console Cerruti, anche se egli ben sapeva che si trattava di una
pia illusione: «Frattanto, fino a che venga restituita la mia qualità
diplomatica mi pongo alla testa della legione italiana, anzi mi occupo
adesso della sua organizzazione, e perché il mio governo non ne venga
compromesso io mi pongo temporariamente al servizio del governo
magiaro.»
Il Governo ungherese, nel corso di una solenne cerimonia svoltasi nella
capitale “provvisoria” di Debrecen, fece dono alla Legione della bandiera
23
con gli stemmi dell’Ungheria e quello della famiglia Visconti e del leone di
San Marco, con ramoscelli d’ulivo e linee con i colori nazionali: verde,
bianco e rosso; sul retro stava la scritta (vs. le immagini sotto):
«Éljen a Magyar - Olasz Unió - Éljen a szabadság!
Vìva l'unione magiaro-italica - Viva la libertà!»
Il prestigio del comandante attirava sempre più italiani - disertori,
prigionieri politici, civili - sotto le sue bandiere. Ai primi di luglio i legionari
raggiunsero il numero di mille. Vennero creati due battaglioni, il primo
formato da sei compagnie, per un totale di 627 uomini, il secondo di tre
compagnie, tra cui una compagnia di cacciatori, per un totale di 280
uomini. A questi andava poi aggiunta la cavalleria della Legione formata
da 57 uomini. Alla fine di luglio giunsero anche i 68 cavalleggeri del
Reggimento Kress. Gli ufficiali, ora tutti italiani, erano generalmente ben
preparati essendo militari di professione che vantavano lunghi anni di
esperienza nell'esercito imperiale. In totale dunque militarono sotto le
bandiere della Legione italiana 1104 soldati. 1
Cosa possiamo dire dell'amicizia nata fra italiani ed ungheresi sui campi
di battaglia?
Nel saggio intitolato Riflessi garibaldini di Fulvio Senardi (vs. I seminari
di Pécs, Pécs 2009, pag. 66) compare una dotta citazione di questa
amicizia: «La combattività con cui gli ungheresi lottarono per una Italia
indipendente e unita, la morte eroica del tenente colonnello Tüköry
nell'assedio di Palermo, le eccellenti prove di Stefano Türr, l'eroismo della
Legione ungherese nella battaglia del Volturno suscitarono in Garibaldi
una gratitudine e una calda simpatia verso l'Ungheria sofferente sotto il
giogo degli Asburgo...»
24
Tutto questo fa riflettere e ci fa meditare sul dilemma evocato fin dagli
albori del Risorgimento: quale Italia era stata auspicata?
Un'Italia senza dubbio unita anche se spesso il sogno di una repubblica
libera e democratica, non poteva essere chiaramente espresso viste le
grosse difficoltà connesse con la politica internazionale del tempo e le
mire espresse da Casa Savoia circa un Regno d'Italia che andasse dal
Piemonte alla Sicilia.
Ancora oggi è aperto un vivace dibattito sulla questione appena citata: i
nostri eroi risorgimentali quale Paese auspicavano? Voi italiani siete
ancora in pieno dibattito fra un Paese unito come dopo la Costituzione
repubblicana ed un Paese che vorrebbe attuare un federalismo a suo
modo. Gli anni a venire ci daranno modo di chiarire meglio questo
dilemma. 2
Torniamo un po’ indietro fino al 1848… Che cosa succedeva in quest’anno
in Italia ed in Ungheria? «L'Italia è un cuore lacerato, con i tormenti di
lunghi secoli. Il mare che circonda le sue lande fiorite, attirava una volta
sulle rive schiere di ammiratori devoti che si affollavano intorno a questa
bella dama superba. Ora l'immensa distesa d'acqua abbraccia con triste
mormorio le stesse sponde e le rovine dei palazzi superbi d'una volta si
specchiano con onta e tristezza nel cristallo splendente. Ecco Roma e
Venezia... Laggiù sopra Napoli il vulcano irrequieto, quasi fosse il poeta
eternamente vivo di quella terra, lancia rabbioso verso il cielo le sue faville
per presentare al cielo ed alle terre lontane i dolori della patria» - si legge
questo brano nel racconto intitolato La vendetta dell'artista
dell'ungherese Károly Obernyik, che fu pubblicato a Pest il 9 gennaio 1848
sul settimanale Pesti Divatlap [Moda di Pest]. L'Italia vi è rappresentata,
secondo l'antico stereotipo della decadenza morale e spirituale, mentre
piange sul suo glorioso passato. Questa era allora l'immagine dominante
dell'Italia all'estero: quella di un paese di antica civiltà, ma ridotto ormai
ad essere, come disse il primo ministro austriaco Klemens von
Metternich, una semplice espressione geografica.
Ma sarà proprio in quei giorni, e proprio ai piedi del Vesuvio, che l'Italia
tornerà ad alzare la testa: dopo la rivolta di Palermo e il rifiuto del Papa di
concedere il passaggio delle truppe austriache sul territorio dello Stato
della Chiesa, fu infatti Ferdinando II, Re delle Due Sicilie, il primo sovrano
della penisola costretto a concedere una costituzione. Lo seguiranno nel
giro di poche settimane il Granduca di Toscana, Leopoldo II d'AsburgoLorena (17 febbraio), Carlo Alberto (4 marzo) e il Papa (14 marzo).
Anche nel Lombardo-Veneto la tensione era altissima: le notizie
provenienti da Vienna raccontavano di una città in rivolta, di una
25
situazione incontrollabile, di un imperatore disorientato e della cacciata
dell'onnipotente Metternich.
Il 15 marzo anche a Pest il popolo ungherese era sceso in piazza. Notizie
simili giungevano anche da altre città dell'Impero, da Parigi e dalla lontana
Berlino.
Il 17 marzo Venezia insorse obbligando il governatore austriaco a
lasciare la città. Il 18 marzo il popolo di Milano si sollevò costringendo le
truppe austriache ad abbandonare il campo. Carlo Alberto, timoroso che
l'ondata democratica prendesse il sopravvento, affrettò i tempi e il 25
marzo passò il Ticino, dichiarando guerra all'Austria. 3
Il 15 marzo in Ungheria dopo la caduta del regime comunista di Kádár è
di nuovo festa nazionale: prima si poteva ricordare soltanto nell’ambito
scolastico e le scuole erano chiuse, però gli altri lavoratori dovevano
andare al lavoro… In questo giorno si ricorda l'inizio della Rivoluzione del
1848. La rivoluzione inizialmente mirava a ripristinare i privilegi perduti e
ad esigere riforme e diritti (l'abrogazione della servitù della gleba, la
libertà di stampa, la libertà di culto ecc.), ma con il passare dei mesi le
rivendicazioni si fecero sempre più radicali.
Già nel marzo 1848 la Dieta ungherese, aveva dato vita ad un Parlamento
che tentava di rivendicare la propria autonomia dall'Impero degli Asburgo.
In Ungheria arrivavano notizie di quello che era accaduto e ancora stava
accadendo in Italia, dei sovrani che erano stati costretti a concedere la
costituzione, delle sollevazioni di Venezia e di Milano, del Re di Sardegna
che aveva dichiarato guerra all'Austria.
In quei giorni il poeta Sándor Petőfi (1823-1849), la voce della Rivoluzione
ungherese, dedicava ai moti di Palermo (nel gennaio 1848) la seguente
poesia di cui l’autore della traduzione italiana purtroppo l’ignoro:
ITALIA
E hanno preso finalmente a noia di strisciare per terra,
l'un dopo l'altro si levano in piedi,
dei sospiri un uragano s'è formato,
non più le catene ma stridono adesso le spade,
non più di smorte arance gli alberi del mezzogiorno
sono carichi, ma di rosse rose di sangue.
Questi tuoi gloriosi santi soldati
aiutali, dio della libertà!
26
Dite, potenti presuntuosi tiranni,
dai vostri volti dove è fuggito il sangue?
Il vostro volto è bianco come spettro,
come se vedeste uno spettro;
e infatti l'avete veduto; in realtà apparso è
davanti a voi lo spirito di Bruto.
Questi tuoi gloriosi santi soldati
aiutali, dio della libertà!
Bruto dormiva ma s'è ridestato
e negli accampamenti s'aggira animando,
dicendo: «Questa è la terra da cui fuggito è
Tarquinio, su cui cadde Cesare ucciso;
davanti a noi piegò questo gigante
e voi piegherete davanti a questi nani?»
Questi tuoi gloriosi santi soldati
aiutali, dio della libertà!
Viene viene la grande bella stagione
verso cui volano le mie speranze,
come d'autunno verso un cielo più sereno
in lunga fila volano gli uccelli migranti;
la tirannia sarà distrutta e
la faccia della terra rifiorirà.
Questi tuoi gloriosi santi soldati
aiutali, dio della libertà!
Questi versi di Petőfi sono un esempio del crescente interesse che gli
ungheresi mostravano per quanto stava accadendo nella penisola italica e
di come anch'essi prendevano coscienza della necessità di coordinare gli
sforzi nella lotta contro il comune nemico.3
Il 15 marzo, sulla scalinata del Museo Nazionale Petőfi (1823-1849)
recitò la sua poesia composta in occasione, intitolato: Canto Nazionale
(Nemzeti Dal):
CANTO NAZIONALE
Alzati, Magiaro, la patria ti chiama!
È questo il momento, ora o mai più!
Saremo schiavi o liberi?
27
Questa è la domanda, decidete!
Al Dio dei Magiari
Giuriamo,
Giuriamo che schiavi
Mai più diventeremo!
Finora schiavi siam stati
E i nostri antenati furon dannati.
Coloro che liberi vissero e morirono
Sul suolo degli schiavi riposar non possono.
Al Dio dei Magiari
Giuriamo,
Giuriamo che schiavi
Mai più diventeremo!
È poco più di nulla, un impostore,
Chi ora teme di dover morire,
Poiché tiene più cara la meschina vita
Che l'onore della patria sua.
Al Dio dei Magiari
Giuriamo,
Giuriamo che schiavi
Mai più diventeremo!
Della catena la spada è più splendente,
Meglio onora il braccio, è evidente.
Eppure noi abbiam portato catene!
Eccoci, nostra vecchia sciabola!
Al Dio dei Magiari
Giuriamo,
Giuriamo che schiavi
Mai più diventeremo!
Il nome magiaro brillerà di nuovo,
Della sua vecchia fama sarà degno:
Dai secoli l'infamia plasmata
Sarà questa volta cancellata!
Al Dio dei Magiari
Giuriamo,
Giuriamo che schiavi
28
Mai più diventeremo!
Dove le nostre tombe s’alzano
I nostri nipoti s’inchinano.
Tra le preghiere osannanti
i santi nomi nostri enunciano.
Al Dio dei Magiari
Giuriamo,
Giuriamo che schiavi
Mai più diventeremo!
Traduzione © di Melinda B. Tamás-Tarr
In questo drammatico e difficile contesto che si svolge l'avventurosa
vicenda del colonnello Alessandro Monti, citando prof. Fabrizio Galvagni:
«bresciano di nascita, italiano per idealità, europeo per scelta ed
azione».
Le seguenti parole di Alessandro Monti apparirono sulla Gazzetta
Popolare di Cagliari il 14 maggio 1850: «Altro non facemmo che adempiere
in Ungheria, a seconda delle nostre forze, la missione che c’imponeva
l’Italia, ed i doveri che ci legano ad una nazione di fratelli.» Anche se gli
ideali per cui Alessandro Monti consumò la sua vita non poterono trovare
concreta attuazione, il valore ed il significato ideale della testimonianza
sua, e di chi come lui spese la propria vita per la causa della libertà e
dell’indipendenza dei popoli, rimangono esempi cui tutti i cittadini
europei, e soprattutto le giovani generazioni, devono continuare a
guardare…4
Quindi, il 15 marzo 1848, Petőfi fece balzare in piedi l’intera nazione col
Canto Nazionale e collabora al conseguimento della incruenta vittoria che
porta alla sanzione delle nuove leggi, alla libertà di stampa e al governo
responsabile. Egli divenne il più gran bardo della libertà cambiando la
penna con la sciabola per partire per il campo di battaglia. 5
Mi stanno a cuore le parole del prof. magiarista dell’Università di Udine e poeta Roberto Ruspanti che ci tengo assolutamente condividere. Eccole:
«Petőfi fu veramente una meteora luminosa di soli 26 anni passata lasciando tracce indelebili nel cielo dell’Ungheria e dell’Europa; un poeta
che trattò temi universali ed eterni, quali l’amore, la libertà,, l’uguaglianza
e la dignità umana, il cosmopolitismo, la riflessione e la ricerca dello spirito, e che al tempo stesso fu frutto e prodigio del suo popolo, l’ungherese, a
esso strettamente unito nel bene e nel male…»
29
Oppure:
«La poesia risorgimentale italiana, a differenza di quella ungherese, non
ci ha lasciato grandi capolavori. Anni fa, difendendo in una lettera aperta
inviata al quotidiano ungherese “Magyar Nemzet” (“Nazione Ungherese”)
il nome di Sándor Petőfi che un poco ponderato provvedimento dell’allora
Ministero della Pubblica Istruzione Ungherese voleva cancellare perfino
dal logo del Museo Letterario Petőfi (Petőfi Irodalmi Múzeum) di
Budapest, sostenevo che l’Ungheria deve tenersi ben stretto il suo grande
poeta risorgimentale che con la sua lirica di altissimo livello rappresenta
l’intera nazione magiara, a differenza di quanto avviene per l’Italia, a cui e
mancato un grandissimo poeta che possa impersonare lo stesso ruolo. Se
infatti è vero che alcune liriche del Leopardi o del Manzoni celebrano il
nostro Paese o, piuttosto, ne piangono le sorti, l’Italia non ha prodotto
quel grande poeta che potesse rappresentare l’intera nazione italiana e,
soprattutto, cantare la sua unità faticosamente raggiunta proprio negli
anni del Risorgimento. Delle cause di questa mancanza se ne potrebbe
parlare a lungo. Tuttavia ritengo di poter affermare che una poesia, sia
pure “minore” - con tutto il rispetto dei poeti che si potrebbero etichettare
così - celebrando il nostro Risorgimento, abbia svolto, nel suo piccolo, quel
ruolo che, ad un livello assai più alto, nella lirica ungherese del XIX secolo
fu di Petőfi.» 6
Fra questi “poeti minori” va sicuramente inserito il poeta veronese
Aleardo Aleardi (1812-1878) e, sia pure di qualche spanna al di sotto di
questi, il marchese Armando Lucifero (1855-1933), sconosciuto al grande
pubblico, che fu poeta, scrittore, storico, numismatico, archeologo e
naturalista italiano, profondamente innamorato della sua terra natale, la
Calabria. Numerose sono le collezioni ornitologiche, numismatiche e di
fossili donate alla Calabria.
Appoggiandomi ancora sulle affermazioni di Ruspanti Vi ricordo che
questi due poeti minori entrambi si occuparono, risentendone nelle loro
opere, del mito del grande poeta ungherese Petőfi.
Il poema di Aleardo Aleardi gran parte risuona, oltreché del nome di
Petőfi, di quello dell'intera Ungheria, impostato com'e su una visione nella
quale il poeta italiano, che aveva sofferto la prigione austriaca, immagina
che sette soldati caduti nella battaglia di San Martino, appartenenti alle
varie nazionalità dell'Impero multietnico absburgico e costretti a
combattere sotto le insegne giallonere dell'Aquila bicipite, rievochino
vicende legate ciascuna alla propria storia della patria. Fra quei soldati ce
n'è un ungherese che descrive con commossa partecipazione e dovizia di
particolari le lotte per la libertà combattute dall'Ungheria nel 1848-49.
30
Durante la narrazione sono riportate alla luce alcune delle pagine più
gloriose di quelle lotte e viene additata ad eterno vituperio la feroce
repressione austriaca dei comandanti rivoluzionari ungheresi, giustiziati il
6 ottobre 1849 nel vallo di Arad, in Transilvania7, (dal Trattato del Trianon
del 4 giugno 1920 appartenente alla Romania). Ecco l’XI Canto in cui
Aleardo Aleardi celebra Petőfi in versi dal tono commovente e solenne,
nel più classico stile aulico che senza soluzione di continuità caratterizzava
la poesia risorgimentale italiana da Leopardi a Carducci. Ecco un tratto dal
verso 53° al 103° (cfr. la 164^ pag. del numero doppio 79/80
dell’Osservatorio Letterario):
I SETTE SOLDATI
XI Canto
[...]
«E tu, Sándor, perivi,
dei carmi favorito e de la spada,
mentre l'arco de gli anni e di fortuna
poetando salivi,
verga gentile d'albero plebeo,
tu la natia favella,
che non ha madre, che non ha sorella,
ai virili educasti
metri di guerra, rustico Tirteo.
Ove n'andasti che non torni? Siede
sul letto nuzial la giovinetta
tua vedova che attende;
tra le candide bende
de la cuna bisbiglia
l’angiol recente de la tua famiglia.
Vieni. Per te le belle
figlie de la tua landa
sfidando i delatori
tintrecciaro ciascuna una ghirlanda
di tre colori. - Ahimé, la patria ignora
perfin la zolla, dove
inginocchiarsi a piangerlo! Cadea
forse in battaglia. Forse
ne le notturne insidiate corse
de la sconfitta sanguinando, immerso
dentro un padule transilvano, ai venti
31
diede il suo desolato ultimo verso.
Forse un Cosacco, cacciator di vite,
incontrato lo stanco
la per quelle romite
vie, con la picca ne trafisse il fianco:
e oltra passando il tartaro corsiero
col pie ferrato lacero la santa
testa che tanto contenea tesoro
d’inni venturi e tanta
carità di pensiero.
Forse smarrito in una fonda gola
tra i sassoni dirupi, anima sola,
quando quei truci abitator dell’alte
vette spiando del nemico i passi,
sui fuggitivi dirigean la furia
dei rotolati massi
quivi periva. A immagine del forte
Paladino ferito in su le arene
fatali di Pirene,
forse egli pria de la solinga morte
chiedendo aita, il corno
disperato sono: ma non l'udia
la esanime Ungheria».
Quel doloroso fe’ silenzio, e al suolo
cadde pregando genuflesso: e forse
la sua gentil preghiera
spiccando il vol, come divina cosa,
la giù in terra straniera
scoperse la segreta
aiuola, ove si posa
l’afflitta fronte del civil poeta.
(XI. vv. 53-109)
Il poema intitolato Alessandro Petőfi in Siberia di Armando Lucifero fu
scritto nel 1878 all’età di 23 anni ed, in quelle stesse settimane un
eccentrico imprenditore ungherese aveva finanziato una spedizione nella
lontana Barguzin in Siberia alla ricerca dei presunti resti mortali di Sándor
Petőfi, che una leggenda diffusasi in Ungheria subito dopo la scomparsa
del grande poeta nella battaglia di Segesvár il 31 luglio 1849 voleva essere
stato deportato dai russi in Siberia, dove sarebbe sopravvissuto fino alla
morte. La leggenda, circolò anche fra gli Ungheresi esuli in Italia
32
all’indomani del soffocamento delle aspirazioni di libertà e di
indipendenza dell’Ungheria da parte dell’Austria absburgica e della Russia
zarista, però le ricerche finora fatte l’hanno sempre puntualmente
smentita. Già nell’avvertenza al poema, da lui definito “cantica”, mostra
infatti di credere e non credere alla leggenda in questione, ma di averne
fatto pretesto per far narrare in prima persona allo stesso Petőfi, presunto
disperso o deportato in Siberia, le gloriose e tragiche vicende della sua
vita. Anche se non è un capolavoro – come sostiene Ruspanti –,
costituisce una sorpresa per lo studioso di cose ungheresi e, soprattutto,
per lo studioso straniero di Petőfi. Sorprende la conoscenza profonda e
minuziosa dei fatti e dei protagonisti della storia ungherese. Colpisce la
dovizia di particolari storico-geografici che denota da parte dell’autore
una conoscenza delle cose ungheresi invidiabile se confrontata con il
deserto culturale che nel mondo odierno caratterizza l’informazione in
generale riguardo all’area dell’Europa centrale ed orientale, regione
avvolta spesso da una vaga nebulosa.
Colpisce la conoscenza degli elementi leggendari propri della tradizione
letteraria ungherese, quali l’identificazione assolutamente romantica dei
Magiari con gli Unni, popolo quest’ultimo con cui lo stesso Lucifero, al pari
dei cronisti magiari del passato e dei grandi scrittori ungheresi dei tempi
moderni, volutamente confonde i primi.
La narrazione sul poeta magiaro è precisa e puntuale. I fatti e i
personaggi della storia ungherese sono messi in bocca al vero
protagonista del poema, Petőfi stesso, il quale all’età presunta di 55 anni
ripercorre fedelmente le tappe dell’intera sua vita di uomo e di poeta. 8
Ora ecco due brevi brani dai Canti I e XV di questo poema di Armando
Lucifero:
Armando Lucifero (1855-1933)
ALESSANDRO PETŐFI IN SIBERIA
(Canti)
I Parte
La gloria e la sventura undici lustri
Traggono sul mio capo; undici lustri
La fama dei miei canti e del dolore.
Voi che presso mi siete, anime avvinte
Dalla ferocia del bugiardo slavo
Nelle catene più gagliarde, ascolto
Deh! Prestate al mio dir, tra l’uno e l’altro
33
Colpo di vanga, a cui la ria fatica
A pro dell’oppressor sempre vi danna,
Cada eterna la neve, il ghiaccio offenda
Il nostro sguardo indebolito ed egro;
Sotto il peso feral, tremi la mano,
Delle viscere tue, cruda Natura;
Qui trascinati, noi morremo quivi
Inesorabilmente! Ed ahi! che vana
E questa fiera schiavitù! Languisce
La patria ancora, ed il mio canto e il grido
Valoroso di Bem, e il sangue sparso
Di Transilvania su gli adusti gioghi
Di vittoria fumanti in un abisso
Caddero, o ciel!, di Segesvar sul campo!
(canto I, vv. 1-21)
Su, fratelli!, sorgete accorrete,
Dal Danubio al Tibisco sorgete,
E la patria che alfin si desto!
Su, fratelli!, da gl’imi confini
Una turba di lupi ferini
Alla patria risorta ululo.
Come lampo l’annunzio trascorra
Per foresta, per piano, per forra,
Per villaggi, per borghi e citta:
E qual tuono quest’ungara gente
Tempestosa, superba, fremente,
D’ogni sesso v’accorra ed età.
Che?, sostate? Pei vostri burroni,
Come a preda feroci leoni,
Vi spargete, aspettando il furor
Delle ciurme fameliche, ansanti,
Che i passati e i presenti lor pianti
Terger vonno col nostro dolor.
Su, spronate! Magiari cavalli
Non han tema degli austri timballi,
Dei perigli son fatti signor!
(canto XV, vv. 1-21)
L’immagine del grande poeta risorgimentale magiaro è molto diffusa in
Italia che è un’immagine essenzialmente romantica. Questo però non si-
34
gnifica – come Ruspanti afferma nel suo saggio intitolato L’immagine
romantica di Petőfi in Italia – che gli Italiani conoscono Petőfi solo come
poeta del Romanticismo, ma piuttosto che nella conoscenza culturale collettiva del popolo italiano – possiamo tranquillamente affermarlo –
Petőfi è visto come il poeta delle intraprese romantiche, siano esse riferite
al sentimento dell'amore, quanto all'ideale dell'amor patrio.
L’immagine "romantica" del poeta magiaro, fortemente radicata nella
tradizione letteraria italiana, affonda le proprie radici negli stretti rapporti
politici che Italiani e Ungheresi ebbero nel XIX secolo, durante il periodo
che globalmente definiamo Risorgimento.
Verso la metà dell'Ottocento, lo scacchiere europeo e il quasi perfetto
incastro degli interessi ungheresi con quelli italiani ebbero un ruolo
determinante nell'avvicinare, come mai nella storia, l'Italia e l'Ungheria.
In Italia il momento di maggiore presenza della letteratura ungherese si
ha a partire dagli anni successivi alla metà dell'Ottocento. Qui un solo
nome magiaro, quello di Sándor Petőfi, riecheggia sul piano letterario gli
avvenimenti politici e culturali del biennio 1848-1849, che vide in terra
d'Ungheria prima (1848) esplodere la rivoluzione antiassolutista e poi
(1849) divampare una vera e propria guerra d'indipendenza antiasburgica
(da noi Ungheresi chiamata significativamente «guerra per la libertà»).
L'eternamente giovane poeta magiaro diventerà talmente famoso in Italia
da costituire un fenomeno che ha quasi dell'incredibile per un poeta
appartenente alla cultura di una lingua cosiddetta "minore", come quella
ungherese. Il poeta magiaro fu popolare tra i giovani d’allora come nei
giorni nostri i pop- o rockstar…
La fama di Petőfi sarà incontrastata in Italia a partire dalla seconda metà
dell'Ottocento fino ai nostri giorni: le sue poesie verranno tradotte in
grande quantità e la figura di Petőfi verrà analizzata da studiosi e storici
della letteratura, anche se non sempre con la dovuta competenza e
preparazione critico-linguistica. In Italia le poesie di Petőfi dapprima
vennero diffuse oralmente, riecheggiando sulle labbra degli esuli magiari
in Italia, quindi in forma scritta attraverso traduzioni letterali o
ritraducendole da altre lingue (soprattutto dal tedesco) e, infine, grazie
all'opera di diversi traduttori italiani, fra cui alcuni poeti, i quali presero a
tradurle direttamente dal testo ungherese originale, tanto da rendere
necessario lo studio diretto della lingua magiara. Il primo traduttore
dell'opera di Petőfi in lingua italiana fu lo studioso ungherese Ignác Helfy,
esule in Italia, seguito dagli italiani Teobaldo Cicconi, Francesco
Dall’Ongaro, Emilio Teza, Rina Larice di Udine, Umberto Norsa di
Mantova, Giuseppe Cassone, poeta-filologo di Noto (in Sicilia), Francesco
35
Sirola di Fiume; ed oltre a loro molti altri traduttori letterari tra
l'Ottocento e i primi del Novecento resero famoso il nome di Petőfi in
Italia. Tutta questa importante opera di diffusione della lirica petőfiana in
Italia si svolse nel segno del mito romantico che si creò dagli italiani
intorno al grande poeta ungherese e da questo mito fu costantemente
accompagnata.9 Peccato, che queste traduzioni sono difficilmente o
neanche raggiungibili, non sono a disposizione per chiunque oppure sono
perite…
A distanza di 43 anni dalla morte del poeta – siamo ancora
nell’Ottocento – il giornalista, scrittore e traduttore letterario Árpád
Zigány (1865-1936), in italiano d’epoca così valuta Petőfi nella sua Letteratura ungherese, edita nel 1892 dall’editore Hoepli:
Il Petőfi è uno dei poeti più originali: le sue poesie sono vero e
fedele specchio della sua vita, della sua personalità. Il contenuto
di esse è infatti quasi tutto soggettivo: anche allora che la fantasia prende le mosse dal mondo esterno o dal pensiero altrui,
giunge come a riposarsi sull'animo dello scrittore: ciò fa che il
suo volume prenda un carattere personale, che ci svela le lotte
del pensiero e i segreti del cuore di questo giovane e baldo ingegno. E davvero, scorrendo le sue eterne pagine, scendiamo nelle
più intime pieghe dell'anima sua; là dentro v'è un mondo, di
passioni tumultuanti, frementi, v'è un grido di guerra alla società
come la tirannide l'avea fatta; v'è un inestinguibile amore di patria, un orgoglio nazionale che manca l'eguale; v'è un odio mortale contro gli oppressori della patria, un grido feroce alla libertà,
agli uomini avviliti e oppressi: — ed egli raccolse quel grido e lo
gettò, maledizione contro il creato, ripetuto in mille modi, ma
sempre con la stessa energia.
Ed appunto per questo, la sua poesia riesce sempre e
soprattutto sincera e vera: — eco fedele del lamento generale
delle represse speranze, degli spiriti bollenti de' suoi tempi.
Questa era la poesia che la nazione avea presentito, ma non mai
saputo definire, questo l'esercizio sterminato di tutte lo facoltà
del cuore e della mente: l'universo intero stemperato sopra la
sua tavolozza; l'antica e la moderna sapienza; Dio accanto a
Satana, e quegli a paragone di questo comparisce più pallido —
dolori noti, angosce senza nomi, misteri non sospettati, abissi
del cuore intentati, e lacrime o viso, ed imprecazioni e
benedizioni, e Hosanna e crucifige — a piene mani gettati sopra
coteste sue pagine immortali.
36
Si spiega dunque l'immenso successo, l'ammirazione universale. E non si può non amare quest'anima buona o generosa che si
compiace di nascondere la sua generosità sotto l'apparenza di
un freddo cinismo, per dimenticarsi poi di aprire l'intero suo
cuore, con tutto le speranze e le gioie che vi albergano. Possiamo studiare l'uomo negli scritti del poeta, tanto le sue poesie
sono essenzialmente legate con la vita sua e derivano dalle vicende della medesima. Il centro, l'anima de' suoi versi è sempre
lui, il poeta che ci racconta tutto, fedelmente, sinceramente: anche cose che non dovrebbero essere menzionate: ma egli non è
capace di tacere, di celare alcuna cosa; sente l'irresistibile bisogno di confidare al lettore tutti i suoi pensieri, — e gli è perciò
che ha un'efficacia grandissima, duratura, eterna.
Sarebbe difficile decidere in qual genere della lira fu più divino
questo sublime genio; ma per noi, Ungheresi, io non mi perito di
dichiarare che egli toccò il punto culminante della poesia nelle
sue canzoni popolari. Poiché egli ora figliuolo del popolo, era ungherese di mente, d'indole, di genio e di espressione: tanto che
assimilò in sé anche i prediletti suoi poeti: l'Heine e il Béranger.
Ciò che più attrasse l'attenzione e nutrì d'immagini e di pensieri
l'intelletto del poeta e il cuore di sentimenti, furono i graziosi
paesaggi e le grandi memorie storielle della sua patria; lo spirito
suo si compiace di vagare negli spazi infiniti della Puszta, s'asside
sulle sponde del serpeggiante Tibisco *N.d.R.: ‘Tisza’ in ungherese], e ne svela e scopre gli aspetti ideali, creando con l'immaginazione cose che sono ideali nella loro origine stessa. E là dove la
bellezza della donna o l'amore è il motivo delle sue armonie: l'anima è sempre visibile attraverso i veli e la veste delle bellissime
forme, che da un significato trascendentale agli sguardi profondi,
agli ineffabili sorrisi della sua donna adorata.
Talvolta contempla e dipinge il tranquillo abbandonarsi dell'anima nell'ammirazione della natura; e allora si diffonde ne' versi
suoi una larga e profonda serenità come nelle vaste pianure del
suo paese. — La squisita incantevole melodia del verso, la quiete
rurale e la verità del paesaggio, la varietà eclettica degli argomenti, seducono irresistibilmente; ed alla contemplazione, alla
calma solenne, alla nota armonica d'improvviso sottentra l'azione, la lotta eroica, la speranza indomabile e il trionfo trascendentale dell'anima. Nell'aureo stile del Petőfì si vedono espressi
e messi sotto simpatica luce i motivi poetici di tutta la sua nazio-
37
ne, in una piacevole varietà di magiche melodie e di vivi, talvolta
abbaglianti colori; e la sua vera caratteristica, la sua opera rivelatrice, sta nell'aver scoperto un nuovo e fresco materiale poetico
nella creazione di un novello ideale che fu il popolarismo.
Le sue poesie politiche sono emanazione della sua nativa e selvaggia sincerità e della fede politica, estremamente rivoluzionaria, anzi giacobina, da lui professata. Quindi grida feroci, imprecazioni tremende, odi inestinguibili che nei versi rivoluzionari
del Petőfi passarono attraverso il fosco orizzonte dell'Ungheria,
come una meteora che illumina e accende. Nel suo Apostolo
[N.d.R.: in ungherese Apostol], Silvestre si consacra al popolo,
diventa notaio in un villaggio, ma i contadini incitati lo scacciano;
poi divulga le idee rivoluzionarie in un libro, o mentre il suo figliuolo muore di fame, egli viene imprigionato; lasciato in libertà
dopo dieci anni, tenta assassinare il re, e finalmente gli vien
mozzo il capo. Si riscontrano grandi bellezze poetiche nel racconto, ma l'insieme non può fare il voluto effetto, poiché Silvestre non è l'apostolo, ma bensì un pazzo frenetico della libertà.
— Fra le sue poesie narrative senza dubbio la migliore è Messer
Giovanni [N.d.R. Giovanni, il prode (János vitéz)], una fiaba poetica, delle avventure, degli amori, dei fatti eroici e del trionfo di
questo Giovanni, un giovane contadino, che si conquista il regno
delle fate. Nulla di più arcadico, di più ingenuo e di più idillico di
questa vera gemma poetica, in cui la fantasia vivace e magica
delle tradizioni popolari si fonde in assoluta e sublime identità
con l'armonia gioconda e sincera delle canzoni popolari.
Nelle pagine del Petőfi ritroviamo quasi sempre quella magia di
colori o di suoni che formano il vanto della nostra lingua poetica.
— Nel suo volume il colorito e la musica sono fusi e
contemperati: sembrano nascere l'uno dall'altro. L'orecchio del
poeta è musicale e delicato, ed i suoi occhi vedono gli oggetti
con la felice intuizione d'un pittore; sicché, leggendo i suoi versi,
si direbbe che la musica emani dalla sua pittura e che le pitture
assurgano vive o perfette dalle sue melodie. — E così, simile ad
una cometa che non s'assoggetta a nessun ordine di stelle, il
Petőfi passava selvaggio e libero attraverso il mondo; venne,
senza che nessuno gli desse il benvenuto, partì, senza che
nessuno gli dicesse addio; odiò gli uomini perché amò il genero
umano, perché amò la vita, la libertà. Fu sempre campione degli
ideali di giustizia, di libertà, di virtù, di eroismo; e questi
38
sentimenti, erompendo dal suo cuore generoso, empirono e
infiammarono di sé tutti i cuori capaci di comprenderlo, o
prepararono e produssero il più gran fatto della civiltà
ungherese che fu la rivoluzione, pegno sicuro dell'indipendenza
nazionale che ne seguì. Egli non toccò terra: navigò fra la
tempesta o naufragò coraggiosamente, sacrificando anche la
vita per quegli ideali che ispirarono il suo genio sublime. 10
Qui riporto le quattro iniziali strofe del poema fiabesco Giovanni, il
prode in mia traduzione riveduta rispetto alla prima versione:
Rovente picchia del sole estivo il calore
Dal sommo del cielo sul giovine pastore.
È inutile riscaldare così tanto
Il pastore di caldo ne ha altrettanto.
Un fuoco d'amore arde nel suo giovane cuore,
Così porta il gregge in fondo al paese a pascere.
Mentre la mandria oltre al villaggio si protende,
Sulla sua giubba posta sull’erba egli si distende.
Da un mar di fiori variopinti è circondato,
Però il suo sguardo verso i fiori non è puntato;
A un tiro di sasso da lui scorre un ruscello,
I suoi occhi stupiti sono attaccati a quello.
Non si posano di certo del ruscello alle lucenti onde,
Ma a una fanciulla sulla riva dalle chiome bionde,
Di quella ragazza bionda allo snello aspetto,
Ai lunghi capelli, al tondeggiante petto.
Traduzione © di Melinda B. Tamás-Tarr
János Hankiss (1893-1959), lo storico di letteratura, scrittore,
bibliotecario e professore di francese all’Università di Debrecen d’epoca
evidenziò nel suo libro Storia della letteratura ungherese:
Non c’è poeta ungherese il cui nome sia più conosciuto
all’estero di quello di Petőfi. Non soltanto per il fatto che molte
sue poesie furono tradotte in diverse lingue, ma anche perché
39
il suo carattere assolutamente singolare ne ha fatto un tipo
nell’opinione pubblica: il tipo della giovinezza esuberante, il
tipo del genio che va diritto, senza ammettere titubanze e
discussioni, allo scopo. La vita di Petőfi generalmente è più
conosciuta ancora della sua opera. *…+
Ora ecco una piccola rassegna in maggioranza di mia traduzione e
cominciamo con due brani significativi dello splendido poema elegiaco
Sogno incantato (Tündérálom) tradotti dal filologo e poeta di Noto,
Giuseppe Cassone (1843-1910) - di cui busto, opera di Györgyi Lantos, si
trova nel giardino della casa natia, adesso museo, di Petőfi in Kiskőrös -,
che venne pubblicato ad Assisi nel 1874 presso la Tipografia Sgariglia:
( ... ) Per man la presi,
E quella man bianchissima stringendo,
A trattenerla il braccio mio le cinsi
Al collo, e gli occhi nel raggiante aspetto
Così ardito fissai, ch'io non so come
Restarmi illesi, e ancor mi meraviglio.
Sotto il grand'arco de le nere ciglia
Erano gli occhi suoi due vive stelle
Fulgidissime, e qual notte Profonda
Sovra rosati flutti, il nero crine
Su gli omeri diffuso era e su 'l petto.
(...) - Ella baciommi,
Contrastar non tentò; già sin dal primo
Detto le labbra a le mie labbra affisse.
Oh quel bacio divin! Perché non fummo
In due statue conversi? eternamente
Io libato V’avrei quel dolce bacio..?
Cassone innamoratesi dei versi del giovane poeta magiaro conosciuti nel
suo paese proprio tramite i legionari ungheresi, imparò la lingua magiara e
divenne uno dei primi traduttori delle opere di Sándor Petőfi che ebbe
una stupenda storia d’amore spirituale con Margit Hirsch.
Ecco un’altra poesia di Petőfi, stavolta in traduzione del compianto
scomparso collaboratore dell’Osservatorio Letterario, Mario De
Bartolomeis (29 maggio 1943-10 febbraio 2011):
40
TREMA CESPO PERCHÉ...
(Reszket a bokor mert...)
Trema cespo perché
Uccello v’è volato.
Trema alma mia perché
Io te ho ricordato,
Io te ho ricordato,
Ragazza mia piccina,
Diamante mai c’è stato
Grande che t’avvicina!
Stracolmo va il Danubio,
Fors’anche rompe in piena.
Partenza anche in cuor mio
La si contiene appena.
M’ami di rosa o stelo?
Son tanto innamorato
Ch’amarti al parallelo
Non meglio ai tuoi è dato.
So che m’amavi allora,
Insieme quando s’era.
Inverno è, freddo, ora,
L’estate calda v’era.
Non più m’ami qualora,
Iddio sia benedetto,
Ma se tu m’ami ancora
Sia mille benedetto!
(1846)
Traduzione © di Mario De Bartolomeis
Vi riporto altre liriche in mia traduzione:
LIBERTÀ, AMORE!
(Szabadság, szerelem!)
Libertà, amore!
Voglio queste due cose.
Per l'amore sacrifico
Il mio essere,
41
Per la libertà sacrifico
Il mio amore.
SARÒ ALBERO SE...
(Fa leszek, ha...)
Sarò albero, se tu sei il suo fiore.
Se tu sei rugiada, io sarò il fiore.
Sarò rugiada, se tu sei il raggio di sole…
Perché il mio essere unirti a me vuole.
Se, fanciulla, tu il paradiso sei:
Allora io una stella diverrei,
Se, fanciulla, tu l'inferno sei: (per
Unirci) io dannato sarei.
CHI MAI RISOLVERÀ…
(Ki fogja vajon megfejteni?)
Chi mai risolverà
Questo enigma:
Possono le lacrime dell’umanità
Lavare l’umana onta?
CHE NE SARÀ DELLA TERRA?...
(Mivé lesz a föld?...)
Che ne sarà della terra?... gelerà o brucerà?
Credo ghiaccerà alla fine,
Gelidi cuori la faranno ghiacciare
Espandendosi in ogni direzione.
SUBLIME NOTTE!
(Fönséges éj!)
Sublime notte!
Risplendendo passeggiano in cielo
La grande luna e la piccola stella della sera.
Sublime notte!
La rugiada brilla sull’erba vellutata,
42
Nel fitto cespuglio l’usignolo gorgheggia.
Sublime notte!
Il giovane dalla sua amata… sta andando
Ed il brigante all’omicidio già s’appresta.
Sublime notte!
MALEDIZIONE E BENEDIZIONE
(Átok és áldás)
Sia maledizione sulla terra
Ove l’albero nacque
Da cui a me
Fu costruita la culla;
Sia maledetta la mano
Che piantò quell’albero,
E maledetti siano la pioggia e il raggio di sole
Che lo fecero crescere!... –
Ma sia benedizione sulla terra
Ove l’albero nacque
Da cui a me
Sarà costruita la bara;
Sia benedetta la mano
Che piantò quell’albero,
E benedetti siano la pioggia e il raggio di sole
Che lo fecero crescere!
IO NON PIANGO...
(Nem sírok én...)
Io non piango e non mi lamento;
Non parlo ad altri del mio tormento.
Ma guardate il mio volto scolorito,
Là che ve lo troverete scolpito.
E guardate nei miei occhi strazi d’ardore,
Vi potrete pure leggere che una dannazione
Si stende su di me: la dannazione,
Che la vita mi duole, mi porta un grande dolore!
Traduzioni © di Melinda B. Tamás-Tarr
43
Ora siamo arrivati alla moglie di Petőfi che non è da considerare poco
accanto al genio consorte: fu poetessa, scrittrice, ella tradusse in ungherese e pubblicò per la prima volta le favole di Andersen. Ebbe notevoli successi letterari):
Júlia Szendrey (1828-1868)
NON MI CREDERE...
(Ne higyj nekem…)
Non mi credere, se il sorriso mi sfiora,
È solo una maschera del viso,
Che ogni tanto indosso
Se voglio nascondere il vero.
Non mi credere, quando vedi
Le labbra aprirsi al canto,
Poiché il motivo cela il pensiero
Che m'è proibito esprimere.
Non mi credere quando sentirai
Quelle solite, sonore risate,
Piangeresti per me, se vedessi
L’anima mia in quei momenti.
Traduzione © di Melinda B. Tamás-Tarr
János Arany (1817-1882), il poeta epico d’eccellenza, pittore, scultore e
attore, perfetto traduttore di Aristofane, Shakespeare, Mikhail Lermontov, Aleksandr Puškin, Molière, fu l’amico fedele ed amato di Petőfi, un
po’ più anziano di lui. Arany al contrario del dinamismo di Petőfi fu più
parco di parole, più statico. Egli sopravvisse l’amico e ad un anno dal soffocamento della guerra per la libertà il 19 marzo 1850 scrisse la seguente
poesia:
RIPIEGO LA LIRA
(Letészem a lantot)
Ripiego la lira, la lascio a riposar.
Nessuno aspetti dei canti da me.
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Non sono colui che ero una volta,
Dentro di me la parte miglior è morta.
Il fuoco non riscalda, non è vivo:
È soltanto come la vita d'un purulento tronco.
Dov'eri, dove sei ora
Oh, giovinezza d'anima mia!
Un altro cielo mi spargeva il sorriso,
La terra girava in manto di velluto,
Un uccello cantava in ogni cespuglio,
Quando queste labbra poetavan un canto,
Il vento era più fragrante,
I fiori del prato erano più colorate.
Dov'eri, dove sei ora
Oh, giovinezza d'anima mia!
Non cantai così da solingo,
Ardevano in gara le mie corde,
Gli occhi d'amici, con cura dell’artista
Fissarono le dita del liutista;
Dalla passione fiamme s’accesero
Ed in un unico abbraccio s’unirono.
Dov'eri, dove sei ora
Oh, giovinezza d'anima mia!
Cantammo la speranza del venturo,
Piangemmo pel lamento del passato;
Portammo gloria
alla nazione, alla patria:
Ogni nostro canto come una fresca foglia
S’unì alla aureola della gloria.
Dov'eri, dove sei ora
Oh, giovinezza d'anima mia!
Oh, sembrava di veder sulla propria tomba
Riflettere la nostra fama,
Sognammo un popolo e una Patria
Che viveva per sempre e ci ricordava.
Credemmo invano che la gloria meritata
Da qualcuno ci sarebbe attribuita…
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Dov'eri, dove sei ora,
Oh, giovinezza d'anima mia!
Ora… mia canzone orfana, che cosa sei?
Forse lo spirito dei miei canti morti?
Che dopo la morte, come un fantasma,
Dal cimitero farà ritorno…?
Sei un ricamato coltre floreale …?
Sei una parola gridante nel vuoto...?
Dov'eri, dove sei ora
Oh, giovinezza d'anima mia!
Ripiego la lira. Quell’è pesante.
Chi s'interessa già del mio canto?
Chi è felice per veder una pianta appassita
Quando il gambo è già senza vita?
Se il soffio vitale dell'albero si rompe
Il suo fiore resta in vita solo per un istante.
Sei persa, lo sento, sei perduta
Oh, giovinezza d'anima mia!
Traduzione © di Melinda B. Tamás-Tarr
Ecco infine una poesia di Flóra Majthényi (1837-1915), eccellente talento musicale ex moglie del poeta, drammaturgo, giornalista e politico
Kálmán Tóth (1831-1881), che potrebbe essere scritta anche da una risorgimentale o attuale poetessa italiana che vuole bene, ama proprio la sua
patria natia, e, dato l’argomento trattato potrebbe essere cara a chiunque
in qualsiasi punto del mondo:
Flóra Majthényi (1837-1915)
COS’È LA PATRIA?
(Mi a haza?)
"Oh, dolcissimi genitori!
Ditemi pure: cos'è la patria?
Forse la casa dove siamo,
Dove noi tutti abitiamo?
Questa è la patria?"
46
"No, figlia mia, questa è solo la nostra dimora.
Ma quanto intorno a noi vediamo,
Ove grandi terre e giardini
Delle nostre terre s’estendono:
Quella è la patria!
Tutto ciò che distinguono gli occhi,
Nella terra che il pane ci dona;
Questi fiumi ricolmi di pesci,
Le colline di vigne e i villaggi:
Questa è la patria!
Ogni montagna d’azzurro tinta
Nel bosco dalla notte infittito
Sulla tortuosa pianura
Con l’arco della volta celeste:
Questa è la patria!
Laddove vissero gli antenati
E, lottando, si rallegrarono,
Ove stabilirono i confini
Che in eredità tramandarono:
Questa è la patria!
Dove le nostre ossa si dissolvono
Restando, per sempre, nella terra,
Laddove verremo adagiati
Una volta che saremo sepolti:
Questa è la patria!
Questa terra a noi cara,
Che più di tutto amiamo
E nella quale, ovunque andiamo,
Sempre tornare desideriamo:
Questa è la patria!"
Traduzione © di Melinda B. Tamás-Tarr
______________________
Note
1
Altro non facemmo, Vita di Alessandro Monti (1818-1854) un bresciano al
servizio della libertà dei popoli; I Quaderni del Liceo Fermi di Salò.
2
Nuova Corvina, Rivista Italianistica N. 22/2010, Prefazione di Salvatore Ettorre.
47
3,4
Altro non facemmo, Vita di Alessandro Monti (1818-1854) un bresciano al
servizio della libertà dei popoli; I Quaderni del Liceo Fermi di Salò.
5
Roberto Ruspanti, L’immagine romantica di Petőfi in Italia.
6,7,8
Roberto Ruspanti, Sándor Petőfi in due poemetti italiani: «I sette soldati»
(1861) di Aleardo Aleardi e «Alessandro Petőfi in Siberia» (1878) di Armando
Lucifero.
9
Roberto Ruspanti, L’immagine romantica di Petőfi in Italia.
10
Zigány Árpád, Letteratura ungherese, Manuali Hoepli, Ulrico Hoepli, Milano
1892.
Bibliografia consultata ed utilizzata:
Altro non facemmo, Vita di Alessandro Monti (1818-1854) un bresciano al servizio
della libertà dei popoli; I Quaderni del Liceo Fermi di Salò.
A Magyar Irodalom Története, Akadémiai Kiadó, Budapest 1968.
János Hankiss, Storia della letteratura ungherese, G. B. Paravia & C., Torino 1936.
Nuova Corvina, Rivista Italianistica N. 22/2010
Osservatorio Letterario, Anno XV – NN. 79/80 2011 pp. 120-170. vs.
http://www.osservatorioletterario.net/Osservatorio79-80boritos.pdf;
Roberto Ruspanti, L’immagine romantica di Petőfi in Italia; Sándor Petőfi in due
poemetti italiani: «I sette soldati» (1861) di Aleardo Aleardi e «Alessandro Petőfi
in Siberia» (1878) di Armando Lucifero.
Bruno Ventavoli (a cura di), Storia della letteratura ungherese I. vol., Lindau, Torino 2002.
Zigány Árpád, Letteratura ungherese, Manuali Hoepli, Ulrico Hoepli, Milano 1892.
Melinda B. Tamás-Tarr
(A cura di)
48
II. AUTORI DEI SECOLI PASSATI
In questo secondo capitolo sono riportate opere degli Autori italiani, quelle degli stranieri scritte originariamente in lingua italiana e
le traduzioni delle opere straniere. I poeti e scrittori non vengono
divisi né cronologicamente, né secondo i generi, neppure secondo
la nazionalità: gli Autori sono inseriti in ordine alfabetico riportando
avanti il cognome ed a seguito il nome di battesimo.
ADY ENDRE (1877-1919)
Né pago avo, né discendente
(SEM UTÓDJA, SEM BOLDOG ŐSE)
Né pago avo, né discendente,
Né parente, né conoscente
Non sono di nessuno,
Non sono di nessuno.
Sono come ogni uomo: altezza,
Polo nord, mistero, stranezza,
Una fatua, lontana luce,
Una fatua, lontana luce.
Ahimè, non posso così restare,
Me stesso vorrei presentare,
Che vedendomi mi vedessero,
Che vedendomi mi vedessero.
Per questo tutto è tormento, canto:
Vorrei che m’amassero tanto
E che a qualcuno appartenessi,
Che a qualcuno appartenessi.
Traduzione © di Melinda B. Tamás-Tarr
49
III. I CONTEMPORANEI ITALIANI, UNGHERESI
E D’ALTROVE
Anche in questo terzo capitolo in ordine alfabetico sono inseriti gli Autori delle opere scritte originariamente in italiano e le traduzioni degli
scritti dei contemporanei stranieri.
ASZALÓS IMRE (1989)
- Debrecen (H) -
«Dante. L’uomo comune» – Corpus e saggezza di vita
Nell’ultimo decennio abbiamo potuto osservare un
fenomeno positivo in Ungheria: è aumentato e continua
ad aumentare il numero delle opere scientifiche scritte
sul «Sommo poeta», padre della letteratura italiana e
gigante della letteratura mondiale, Dante Alighieri. Il
rinascimento della dantistica ungherese è legato ad
alcuni nomi come János Kelemen, Imre Madarász o
József Pál, eredi della scrupolosa attività di ricerca
eseguita sul corpus dantesco da Tibor Kardos e Imre Bán, i quali
presentando la vita, l’opera e la figura di Dante da più punti di vista
cercano di cogliere tutte le sfumature della grandezza personale e
letteraria del poeta.
Tibor Szabó, professore dell’Università di Szeged e dell’Università di
Debrecen, ricercatore della storia della cultura, storia della politica e della
filosofia ungheresi, italiane e francesi ha già contribuito a questo lavoro
con i suoi libri intitolati Vita eterna incominciata; Dante nell’Ungheria del
secolo XXesimo (Budapest, 2003) e Il Dante polifonico (Budapest, 2008). La
sua opera, che ha come titolo La saggezza di vita di Dante (Hungarovox
Kiadó, Budapest, 2008), propone un’analisi più che insolita, innovativa.
Nella prima parte del libro ha l’obiettivo di presentarci «Dante stesso, cioè
Dante come l’uomo comune e come pensatore moralista nel modo più
approfondito possibile». Esamina il suo carattere, i suoi princìpi morali
come i pilastri reggenti delle sue opere indagando «una concezione
morale seria» attraverso le sue opere dalla Vita Nuova, santuario costruito
ad Amore fino alla «cattedrale gotica» della Divina Commedia.
183
L’autore divide la vita di Dante in tre parti secondo la teoria degli stadi
esistenziali di Kierkegaard: stadio estetico, etico e religioso. Nel primo
stadio è nata la Vita Nuova in cui viene rivelato l’amore del poeta verso
Beatrice e verso le «donne gentili» tra le quali c’era una certa Lisetta. Le
due donne sono due simboli: simboleggiano l’amore celeste e quello
terreno (alla triade cuore-desiderio-Lisetta si contrappone la triade animaragione-Beatrice) in continua lotta in cui trionfa l’amore platonico
moralmente superiore.
Tibor Szabó attribuisce un ruolo chiave alle Rime che costituiscono il
trapasso fra lo stadio estetico e quello etico e funzionano anche come
«diario spirituale». La morte di Beatrice porta con sé una crisi morale
dirigendo l’attenzione di Dante verso la deviazione degli ideali del suo
tempo, della stessa società, mentre la poesia Poscia ch’Amor del tutto
m’ha lasciato ha una struttura morale presente anche nelle poesie e
opere in prosa scritte dopo l’esilio e nella Divina Commedia.
Il poeta esiliato voleva «seguire la strada della virtù». Per capire il
significato di quest’intenzione dobbiamo leggere il suo Convivio in cui
sono raccolte le risposte dantesche date alle questioni della filosofia
morale. Sappiamo che la filosofia aveva grande importanza per Dante, era
la sua consolatrice nel dolore e nella sofferenza, raffigurata come «donna
gentile». Il Convivio ha come base l’Etica di Aristotele e il poeta, parlando
delle categorie morali, applica quelle aristoteliche per esprimere i propri
pensieri, le proprie teorie.
Nel suo scritto intitolato De vulgari eloquentia si occupa dei problemi
poetici e stilistici della lingua italiana, della genesi dell’italiano ponendo,
per la prima volta in Europa, anche questioni storico-linguistiche. Anzi,
alla base della concezione di uomo aristotelica, dimostra il rapporto
reciproco fra lingua e morale dell’individuo, cioè non vuole separare la
morale di una nazione o di un popolo dalla lingua da essi parlata. Secondo
l’autore quest’è un passo decisivo verso la nascita del «singulis» di tipo
umanistico.
Un capitolo è dedicato anche al rapporto tra politica e morale in De
monarchia, saggio politico ritenuto «forse l’opera più grande del pensiero
politico europeo» da Imre Madarász, anzi, Federico Sanguineti pensa che
esso sia la «quarta cantica» in cui si tratta di trentatré problemi scolastici
più uno, rispecchiando la struttura dell’Inferno. Secondo Dante la politica
è azione ispirata e inseparabile dalla morale, poiché dalla politica dipende
il benessere di una comunità sia la sua Firenze odiosamata, sia l’Impero
unito dei popoli idealizzato dal poeta.
184
Forse sono le sue lettere a dare il più importante punto di riferimento
per conoscere il carattere di Dante, i suoi sentimenti più profondi espressi
liberamente in questo genere letterario. Possiamo seguire i suoi
cambiamenti emozionali legati ai grandi avvenimenti della sua vita,
l’ispirazione delle sue opere di genio.
Dopo una breve parentesi dedicata alla Questio de acqua et terra
arriviamo alla Divina Commedia, sintesi morale di tutti i suoi scritti finora
analizzati nel libro, arricchita da nuove esperienze e da nuovi pensieri.
Dante crea «un sistema morale gerarchico e complesso» preparato dalla
sua attività letteraria fino alla stesura del capolavoro dantesco delle cui
quattro chiavi di lettura, ce n’è anche una morale. Il poeta appare come
incaricato di San Pietro, come giudice che vuole arrivare ad incontrare Dio.
È entrato nello stadio religioso: riassume le sue esperienze di vita, il suo
sapere e li unisce in un’opera monumentale.
Tibor Szabó analizza questa sintesi passando in rassegna gli elementi
morali più importanti dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso. La
raffigurazione dei peccati in modo diretto o indiretto (per esempio
attraverso le tre belve simboliche) dà la possibilità al poeta di esprimere i
suoi principi, di mostrare le differenze fra il «mondo nuovo e quello
antico», di rappresentare la decadenza morale e civile di Firenze. È
un’ipotesi molto interessante quella della «torre di fame», un modello
strutturale possibile dell’Inferno.
Nel Purgatorio il poeta perde la sua posizione di giudice, vengono
giudicati anche i suoi peccati. L’accento è posto sulla penitenza, il giudizio
si fonda sull’insegnamento della morale cristiana, mentre nel Paradiso
fortemente platonista si parla di problemi etico-religiosi e sarà Dante il
mediatore, l’interprete delle parole celesti. La prima parte finisce con la
presentazione del modo come Dante ha integrato i paesaggi reali nel suo
capolavoro mettendo in risalto il ruolo della contemplazione. L’autore
pensa di aver trovato la chiave della vivacità delle opere dantesche in
quest’ultimo elemento.
La seconda parte è composta di altri scritti, di recensioni dell’autore sui
risultati recenti delle ricerche dantistiche in Ungheria presentando anche
alcune opere nuove il cui oggetto è il Sommo Poeta. Troviamo qui un
piccolo saggio scritto sull’attività di Tibor Kardos con le recensioni dei
nuovi libri di József Pál, János Kelemen e Imre Madarász. Tibor Szabó
tocca anche l’argomento del futuro di Dante nell’Ungheria del secolo
XXesimo e parla del codice «Dante» custodito a Budapest. L’opera finisce
con un piccolo riassunto dei punti essenziali del libro.
185
Possiamo affermare che l’autore ha raggiunto il suo scopo fissato
all’inizio del suo libro. L’opera è complessa e globale, ha arricchito con
nuove idee e nuove sfumature la letteratura critica ungherese su Dante,
operando con l’esigenza di creare sintesi e fornire un punto di partenza
per la realizzazione di nuove ricerche.
BODOSI GYÖRGY (1925)
(Dr. Józsa Tivadar)
- Pécsely (H) -
Poesie in lingua mista
(VEGYES NYELVŰ VERSEK)
I.
Vedi: le lampe di zucche
Vidáman ragyognak
Nem kérkednek azzal, hogy
Insegnano l’unica via
A tisztánlátást, l’illuminazione
Neanche la vita eterna
Mégis ragyognak
Come le stelle
II.
Dentro - dentro di me,
Non in ungherese, forse per non far loro capire
- Come se le parole non pronunciate
Potessero esser capite Nasce il grido:
„Questo è l’ultimo giorno che lavoro
come medico, come dottore”
Traduzioni © di Judit Józsa
Sii te stesso
(LÉGY ÖNMAGAD)
Sii proprio tu, sii te stesso!
Ti manda la parola, ti chiama la voce.
186
Sii proprio tu, sii te stesso!
Stendi le ali con coraggio.
Sii proprio tu, sii te stesso!
guarda la sorte, lotta per essa!
Sii proprio tu, sii te stesso!
Non più un premio, né un rango.
Sii proprio tu, sii te stesso!
Brucia, rifulgi, spargi il fuoco!
Sii te stesso!
Ricetta
(RP)
Prendi un bel po’ di tranquillità,
uniscila con l’impassibilità,
Aggiungi un pizzico d’ironia.
Metti dell’umore con qualche bottiglia
E, quanto basta, dell’allegria.
Versaci sopra lo sciroppo della lusinga,
Pigia con gli arnesi della tua angoscia,
Spezza il tutto in piccole pastiglie
E glassalo con delle bugie.
Quindi cerca di inghiottirle.
Quante se ne deveno prendere ancora?
Traduzioni © di Melinda B. Tamás-Tarr
Coprendomi di frasi
(Frammenti)
1. Colpo laterale
Il risultato ottenuto non soddisfa mai le aspettative, neanche in età piú
avanzata. Il foro riesce grossolaneamente sempre più grande del chiodo.
187
Le parti non si combaciano perfettamente. Le parole messe una acconto
all’altra, inseguono, zoppicanti i pensieri nella frase.
Non arriviamo, neanche facendo giri inutili dove si vuole giungere
direttamente. Sordi alle domande di chi ci sta accanto, dialoghiamo con gli
abitanti di galassie lontane. Cerchiamo di decifrare i nostri sogni più
confusi, mentre cigolano in modo da far pietà le giunture consumate delle
ruote.
Ma chi ci fa fare, dopo tutti i fallimenti, a prendere sempre nuove
iniziative? Forse proprio perché ci pare che a duolere non sia solo il nostro
fianco urtato, casualmente al bordo del tavolo, ma tutto l’universo.
2. Con segni senza segno
Ti faccio capire tutto - disse in verde ed in azzurro il Mare al Cielo. Poi
continuò a dire bugie alla Terra, in bianco, in grigio e in rosso fiamma.
Un uccello si tuffa nel mare. Una persona stava in piedi sulla riva. Ha
alzato la mano, ha fatto un cenno. La Mano e l’Essere Alato
appartenevano uno all’altro. La mano poi, stancatasi si lasciò cadere al
fianco, l’altro, imitandolo si tuffò nell’acqua. Il gioco andava avanti così,
chissà da quanto tempo. Poi l’uccello precipitò nell’acqua.
Siamo stati orfani e così bianchi, entrambi in quest’ultima congiunzione,
così lontana e cosi vicina.
Non ci capisco niente. Osserva la Terra in grigio, in bianco e in rosso
porpora. Il cielo ripeteva le stessa cosa al Mare, a sua volta in verde e in
azzurro. Ma quello come se non ci fosse niente continuò, incolore, ad
agitarsi all’impazzata.
3. Quotidianamente
Là fuori, al giardino il vento dirige la quotidiana ginnastica di prima
mattina. Spalanca, poi sbatte il porticino, ripetendolo senza stancarsi. I
fiori nelle aiuole giacendo bocconi a terra fanno alzare ritmicamente le
caviglie, mentre le verdure dell’orto supine, in appoggio sui gomiti alzano
il sederino. I cespugli piegano le ginocchia, e gli alberi, sulla punta di piedi
fanno cenni con le dita. Il merlo con il becco si sta impegnando a dare
picchi al lamiere della grondaia.
In periferia, via-via le finestre delle case si spalancano. Da qualche parte
un bambino senza padre – bambino o bambina? – fa cadere dalla mano
una palla gialla.
Il Sole comincia a rotolarsi in su, seguendo il suo vecchio cammino
abituale nel Cielo.
188
4. Colmo di impeti
Come fanno a ritrovarsi due bestie svegliate di soprassalto? Quando che si
libera dalla propria ombra l’uccello che spicca il volo? Dove che trovi le
orme che ci collegano con i carri di quelli che sono già partiti?
Ma va’! Perché ti tormenti con simili pensieri?
Accordati il liuto, Apollo mio! Fallo bene, c’é gente che ti aspetta nel
porto. Mettiti in ordine Venere, per quella confusa gente! Con particolare
cura soprattutto allle parti intime! Che tutti facciano il proprio dovere!
Mercurio mio, non esitare, perché aspetteresti un’occassione migliore?
Non fare storie! Fuori il coltello! Fuori il colpo!
Questi qui, tutti quanti sono arrivati, papunto, per rischiarsi la vita.
L’Anima ha bisogno di bollirsi, indignarsi. Non gocciolare come una botte
quasi vuota. Sei colmo di emozioni, di stupidi amori intensi! E di tanta
sana rabbia!
Mettiti in cammino! Via! Va’ a vivere la tua vita!
5. Trave di colmo laterale
Un bel giorno, sorvegliando i lavori di ricostruzione che eseguivano i
carpentieri presso una vecchia casa, ho incontrato sotto il tetto una trave
di colmo laterale, divenuta esile ma ancora vibrante nel corpo.
Me ne innamorai subito: una trave di colmo laterale, continuavo a
ripetermi. Alla fine anche lei si affezionò a me.
Da quel tempo perfino il mio modo di camminare é cambiato. Ho un
portamento più diritto. Si vede che a qualcuno sussurrano alla mie spalle i
soliti benevoli. Qualcuno me lo fa notare anche apertamente in faccia.
La nostra attrazione - o detta in maniera più volgare, la nostra relazione non poteva durare molto. Il tetto venne ricoperto di nuovo. Non ci
vedremo mai più, noi due.
Ma io so bene che lei c’é. Snella ma allo steso tempo rotonda, sta
aspettando qualcuno. Che stia aspettando me? O qualcun’altro?
Comunque sia, io non nutro rancore. Da parte mia continuo ad amarti,
amare Te, carissima Trave di Colmo Laterale, che mi resti fedele anche
nell’infedeltà!
6. Per una bellissima Elena
Sebbene mi considero troppo vecchio per fare visite alle Dame che
abitano cosi lontano e quardare incuriosito le loro bellezze, ogni giorno
esco a fare due passi e giro le colline. Passo in rassegna le belle vecchie
casa da vino.
189
- Questa qui ha ancora belle gambe. È vero che le pareti laterali sono in
uno stato pietoso, per non parlare delle parti inferiori. - Guarda, che ti
sistemerei bene io - dico ad un’altra. E getto un’occhiata dentro una
fessura apertasi in un punto insolito. Della parete.
Mi porterei a casa almeno la tua porta su cui c’é la bella incisione
raffigurante il sole. E se fosse possibile anche quel pezzo di parete da
dentro…. Ma come si è conciata male questa signorina! Come é vecchia,
ma ha ancora delle grazie promettenti. E come ha snelli i fianchi! E come é
brava, nonostante l’etá veneranda ad appoggiarsi con il gomito al fianco
della collina.
- Ma tu, non potevi venire dieci anni fa? O meglio ancora, alcuni decenni
fa? A scegliertene una bella, la giusta stagione erano i primi decenni del
secolo passato. Ma di chi é la colpa se il trisnonno non aveva abitato
queste parti?
-Mannaggia! Se non puoi entrare in nessuna di loro, cerca di conquistare
tutte. Come? Insieme a voi?
Ma prima bisogna definire i particolari, mettersi d’accordo. Come
nell’occassione di quell’altra battaglia per quell’Altra Donna. Cominciamo
con l’enumerazione. Poi facciamo un’immolazione. No, magari quello lo
faremo più tardi, fuori. Non ne abbiamo a casa del vino particolarmente
buono. Su, andiamo! Cominciamo l’assedio! Il sole d’inverno non riesce a
cacciare via la nebbia, ma noi, se uniti, almeno la strada per andarci la
troviamo.
Quella del ritorno è un’altro discorso… Come fare? Forse capiterà
qualcuno, magari un cantastorie cieco a cantare le gloriose e vaccilanti
esplorazioni in collina delle nostre ombre.
7. Coprendomi di frasi
Un fuoco si accende nella lontananza. Poco più in là un’altro. Il terzo nella
vicinanza. Si stanno avvicinando i cervi – gelo. Avanzano con passi snelli, si
fanno vivi i ricordi lontani.
Il vento emmette un fischio acuto. Dalla valle lassù verso la montagna.
Quando è stato esattamente il “tempo che fu”? Le parole hanno freddo,
si coprono di frasi.
Ho paura di me stesso. Dalla terra alzo una stella precepitata accanto a
me. La copro, delicatamente con un morbido fazzoletto. Era integra
quando la ho distesa sul palmo della mano, ma adesso con un tono cade
in pezzi.
190
Mi metto in ginocchio. Comincio a battere la crosta di ghiaccio. Armato
con un’accetta, furioso continuo a batterlo. Se sarà ancora sotto di me e
se non fosse così, dove sarà, dove mi sarà fuggito il fiume?
Traduzioni © di Judit Józsa
Note biografiche
György Bodosi (nome d’arte [N.d.R. del Dr. Tivadar Józsa]) è nato a Budapest
(1925), in una famiglia italo-ungherese (da padre ungherese e madre italiana),
l’ultimo fra tre fratelli. La famiglia da cui viene è tipicamente mitteleuropea, in
quanto oltre alle radici, italiana e ungherese/transilvana, nell’albero geneologico
della famiglia figurano anche antenati di linguamadre tedesca e slava.
Bodosi ha trascorso l’infanzia e la giovinezza nella capitale e nei dintorni, in una
pittoresca cittadina sul Danubio, a casa dei nonni a Szentendre. Durante gli anni
della scuola superiore ha composto le prime poesie. Consegiuta la maturità, si è
iscritto alla Facoltà della Medicina. Durante gli anni universitari (anni molto
difficili sia nella vita privata del poeta che in quella del Paese), ha collaborato
presso l’Istituto Orientale diretto da István Bibó, storico di fama europea.
Stimolato da quell’ambiente ed incoraggiato da alcuni amici ha cominciato a
scrivere ed a pubblicare. Nel 1949 è uscito presso la prestigiosa rivista letteraria
Válasz (Risposta) il suo primo saggio, uno studio su Berzsenyi, poeta del
classicismo ungherese.
Oltre alle poesie e scritti di sociografia – la cui maggior parte, in quanto mette in
dubbio i risultati del socialismo reale – rimasta inedita – si è cimentato con pezzi
teatrali, ma nonostante giudizi favorevoli di alcuni drammaturghi, per un motivo
o l’altro, non sono mai stati presentati sul palcoscenico.
Durante i decenni passati ha collaborato alle riviste di cultura e letteratura, di
diffusione regionale o nazionale, come Kortárs, Új Írás, Somogy, Magyar Szemle,
Új Horizont.
Il medico-scrittore ha vissuto una vita molto attiva fra famiglia e lavoro, fra
medicina e letteratura. Dalla sua valle si è mosso solo in rare occassioni. Però
nella sua vita e opera sono importanti fonti di ispirazione i suoi viaggi in Italia,
diventati possibili – in ogni 3-5 anni – solo dalla metà degli anni Sessanta. Per il
resto i suoi viaggi nello spazio e nel tempo si svolgono nella sua fantasia: una
meta preferita è la Grecia Antica.
Da pensionato, liberatosi dagli impegni del suo lavoro, comincia un nouvo
periodo, molto fecondo della sua attività di scrittore: oltre a scrivere opere nuove
sta raccogliendo, sistemando e rielaborando alcune opere scritte alcuni decenni
fa, ma per un motivo o altro rimaste inedite. Da allora vedono la luce i suoi saggi
di sociografia e miscellanea in due volumi. Il primo volume dal titolo Un paesino e
il suo medico raccoglie gli articoli che si riferiscono alle sue esperienze vissute nel
paese. Il secondo comprende articoli e saggi su vari argomenti di letteratura.
Noto come poeta e autore di sociografia, ha sorpreso i suoi lettori con la
pubblicazione dei suoi pezzi teatrali dall’argomento antico, preannunciato dal
titolo Giochi antichi (scritti su Santippe, Asclepio, Catullo e altri).
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Infine ultimamente esordisce come scrittore di racconti, in cui si mescolano
elementi reali, autobiografici con quelli fantastici. (Questa sua predilezione per il
fantastico in realtà non è una cosa del tutto nuova, anche nella sua poesia sono
rintacciabili tali motivi).
Traduzione © di Judit Józsa
Da «Dalla capitale in un paesino», «Osservatorio Letterario» NN. 69/70 2009 pp.
82-84.)
B. TAMÁS-TARR MELINDA (1953)
- Ferrara (I) -
Frammento
Pizzico le corde dell’anima mia,
cerco una melodia che mi conforti,
vorrei cacciar via la nostalgia
e riaver la mia perduta gioia...
(1993)
Ipocrisia
Aspetto in silenzio
che entri qualcuno...
Ma ormai non vien nessuno...
Chi potrebbe aprir la porta
quando non c'è chi s'interessa
della mia persona?...
Ma quando incontro i conoscenti
tutti sono tanto sorridenti,
cortesi parole, falsamente calde,
ma in realtà disinteressate.
(1993)
Stato d’animo
Non so cosa dire,
cerco le parole...
ma la mia lingua è ferma...
Non vuole far uscire
alcuna frase
192
dalla mia bocca.
Guardo nel vuoto:
chi sono, da dove
provengo?
L’Ungheria,
dolce Patria mia,
sei lontana dalla mia vita.
Vorrei ritrovarmi,
ma come potrei?
La terra gelata –
crudele – spietata
non accetta
la mia pianta sradicata.
Ho voglia di fuggire
lontano da tutti,
scappar finalmente
dai miei pensieri...
«Hai paura?
Di che cosa?»
«Stai zitta anima mia!
Ho una gran paura
della nostalgia!...»
Sono tanto lontani
la mia dolce terra,
i ricordi e i successi
della mia vita...
Esistenza spezzata,
l’anima pestata
dall’impossibilità
di radicarsi qua...
Sono tanto
stanca ed amareggiata:
è inadatta l’Italia
per la pianta rinvasata.
Stringo i denti
193
ed i pugni...
Urlerei verso
i finti sordi e muti...
(1994)
Vorrei sconfiggere la nostalgia
Vorrei sconfiggere la nostalgia,
ma son priva di certezze:
mi manca la fiducia
di vincere questa battaglia
che sembra essere assurda
già dalla partenza...
La mia anima tormentata
piange per la lontananza
della mia terra natia:
di quella bella Pannonia...
(1995)
Oh, Ferrara...
Città-Estense, oh, Ferrara,
tu, Bella addormentata
della pianura padana
adottami, non essere spietata...
Tu sei rigida, crudele
con la gente non ferrarese
come me che cerca di essere
una tua figlia degna di te...
Ma tu non mi prendi,
neanche consideri,
e anno dopo anno
mi umili soltanto...
Sei una duchessa vanitosa,
e dalla superbia anche cieca,
priva di sentimenti,
posseduta da secoli
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dai provinciali gelidi...
(1995)
La voce della mia anima
La voce della mia anima
è la sintesi dei sentimenti
di quelli grandi e misti
generati dagli attimi tristi...
Questi tetri pensieri
sorgono dal profondo
del mio animo ferito
ch'è colmo di vari dolori…
(1995)
Colloqui solitari
I.
L'anima stanca
La mia anima
stanca, ingannata
dalle false speranze
non ha più la forza
né alcuna voglia
di lottare.
Non son Don Chisciotte
che combatte sempre
i mulini a vento
non rendendosi conto
che tutto è assurdo...
Odio questo mondo
pieno d'egoismo,
di menefreghismo,
senza un sano principio
coperto soltanto
da un mare di fango...
Io mi arrendo
da sola non ci riesco,
non ce la faccio:
una povera rondine da sola
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non porta la primavera...
II.
In chiesa
È bello qui
in questo tempio
pace e silenzio
riempiono l’animo.
Chiudo gli occhi
chino il capo
sussurro parole
prego il mio Signore...
È bello qui
per dialogare
anche se
è unilaterale.
(1995)
Sul margine del presente
Frammento I
Vedo tanto fango
in ogni mio passo,
sangue ed odio
che sporcano l’animo...
Frammento II
Sorge il Sole
per dar alla gente
delle speranze –
le sofferenze
non sono poche...
Alla vigilia
del Duemila
che ci aspetta
in questa vita?
196
Raggio di Sole
facci sognare
che questa crisi
possa passare
e i valori persi
siano ritrovati,
i nostri sogni
diventino reali...
(1995)
Le melodie del pianoforte
Oggi i tasti del pianoforte
scorrono in modo inarrestabile
danzano le note della armonia
toccano l'angolo della mia psiche...
Ora vivo un grand'incantesimo
le mie dita coi tasti civettano
ed i bei messaggi delle melodie
arrivano a confortar il mio cuore.
(1.2.1996)
Terra natia
Ogni anno d’estate
posando i miei piedi
sulla terra dei Magiari
il mio cuor batte forte...
«Son di nuovo a casa mia!
Buongiorno cara Ungheria!» –
grido dalla grande gioia
quando rientro nella Patria.
L'emozione di tornare
è grande ogni estate,
l'intensità è la stessa
come la prima volta.
197
Col passare degli anni
questi sentimenti così forti
non son ancora passati
e neanche diminuiti...
È una grand’emozione,
sempre più commozione:
entrando nell'area ungherese
abbraccierei l'intero Paese...
La mia Patria natia
è la dolce Pannonia
di cui son innamorata
già dalla nascita mia...
(1995)
N.d.R. Poesie scritte originariamente in italiano.
Il sogno di Talibano
Non può essere vero!..., cosa? È una barbaria! Non ci sono più le
gemelle!...
Non ci sono più! È terribile, da brividi. Io ero là... nel 1992. Ho fatto la
tournée con la mia corale... Io c'ero, ed ero anche andata su una di esse
assieme ai miei colleghi ed alla mia famigliola...
«Talibano, svegliati dal tuo sonno profondo! Lo senti che non ci sono
più? Non dormire, svegliati! Torna in te! Cos'è che avete fatto? Quante
vittime innocenti! Assassini! ASSASSINI! Sono morti là anche tua moglie e i
tuoi figli! Lo senti? Talibano, svegliati! No, niente... ancora dormi,
profondamente! Che tu non abbia pace neppure nel sonno!»
«Ho un sogno meraviglioso, mi fa corona un serto di donne stupende:
dintorno feconde donne devote mi intrecciano danze ... figli sani mi hanno
donato e mi donano ... giamàl... giamàl...
Oh, donne... E tu, bella vergine... frecce mortali lancia dei tuoi begli occhi
lo sguardo, e sopra ad essi, archi minacciosi, si disegnano le tue
sopracciglia!... Chi sei? Ma sì, Leila... Leila!»
«Svegliati Talibano, non sognare!... Chiami Leila invano, anche lei non c'è
più ...»
198
«Oh, Leila, vieni da me!... giamàl... giamàl... Quanto sei meravigliosa! Sei
come il sole d'inverno, vieni fuori da sotto quel velo!... Vieni, vieni qui mia
cara...»
«Svegliati Talibano, non sognare... Leila non c'è più...»
«Vieni mia dolce... Sei ora come il sole... oh, che bella sei mia cara con il
tuo viso solare! Vieni mia Leila tutta luce e profumo!...»
«Talibano, Talibano! Svegliati insomma!... Torna in te!»
«Che c'è? Che sento?... Cos'è che succede?»
«Una grande tragedia... Avete ucciso persone a migliaia! Avete mandato
degli innocenti nella bara! Adesso è la vostra volta... Ora bombardano
voi... Le vostre innocenti ora stanno cadendo... Talibano, orfano sarai e
maledetto!...»
Non può essere vero!..., cosa? È una barbaria! Non ci sono più le
gemelle!...
Non ci sono più! È terribile, da brividi. Io ero là... nel 1992. Ho fatto la
tournée con la mia corale... E se fossi andata là ora... adesso non saprei
più suonare e cantare...
Udite questa musica... REQUIEM... REQUIEM PER OGNI MORTO...
REQUIEM PER TUTTE LE VITTIME... PER LORO PREGO ... ANCHE PER TE,
TALIBANO!...
Pazzia d’amore
«Amore immenso?… Si può amare a tal punto da non vedere altro che lui
in qualsiasi cosa o persona, persino nel vento sentire la sua voce, nel sole
sentire il suo calore e nella pioggia nascondere le lacrime per averlo perso
o forse mai veramente avuto? Si può trovare l'altra metà del nostro cielo e
aspettarsi di essere felici pur sapendo che mai potremo raggiungerla? Si
può sopportare di essere umiliati, disprezzati ed infine ignorati dall'unica
persona che per tutta la vita ti rimarrà nel sangue, nella mente e
nell'anima, insieme amore immenso e sofferenza disperata? »
***
«Sono certo che farei stupide pazze follie guardando nel serico
carezzevole velluto dei tuoi occhi scuri…
…Il mio cuore inesorabilmente pulsa forte e veloce per te…
…Mia cara, le tue parole mi stordiscono…. Finisce davvero che faccio
qualche sciocchezza per te. Calma, Andrea»… calma…!
199
…Sono felice che tu ti senta sulla vetta dell'Olimpo. A dire il vero, c'eri già
da tempo sull'Olimpo!…
***
…Che brutta giornata! Non sei riuscita a sganciarti neppure un istante?
Ho pensato a te continuamente senza darmi pace. Ti amo. Invio questo
scritto che ti dirà quanto sono stato male.
Quale tormento saperti lontana! Il mio pensiero ti ha seguito
costantemente tutto il giorno, là, sulla riva del mare, ed avrei voluto
essere un gabbiano volteggiante sull'acqua per non perderti mai con lo
sguardo. Avrei voluto essere l'acqua che lambisce la riva per sfiorare con i
miei baci i tuoi piedi. Avrei voluto essere l'onda impetuosa per cingere con
il mio abbraccio insinuante tutto il tuo corpo. Avrei voluto essere la brezza
marina perché tu potessi aspirarmi profondamente in te ed io potessi
carezzarti dolcemente insinuandomi tra i tuoi capelli, sfiorando le tue
guance, la tua nuca, le tue spalle, il tuo collo, le tue labbra… Avrei voluto
essere il sole bollente per coprirti caldamente dei miei torridi baci e per
donarti tutto l'oro delle mie carezze d'amore… Avrei voluto essere la
sabbia calda su cui hai camminato, l'ombrellone che ti ha fatto ombra,
l'acqua che ti ha dissetato, il cibo che ti ha sfamato… avrei voluto essere
tutto quello che ti stava attorno e poteva bearsi della tua presenza.
Nulla ho però potuto essere di tutto ciò. Sono soltanto riuscito a
pensarti incessantemente, intensamente, fino a farmi scoppiare le tempie
dal dolore e dalla disperazione. Sei come un virus insinuatosi
spietatamente nelle mie vene, che mi consuma con una febbre divoratrice
e distruttrice, e che ha come unica cura il suono della tua voce ed il miele
dei tuoi baci di fata. Se da te non riceverò presto l'antidoto, il fuoco che
arde la mia anima ed il mio corpo mi divorerà totalmente riducendo ad
atroci brandelli la mia esistenza resa misera dalla tua sempre più
intollerabile lontananza.
Invoco disperatamente il tuo aiuto.
***
«Andrea adora impareggiabilmente l'impareggiabile Stella…
Con il pensiero e con il cuore sei sempre fra le mie braccia e nella mia
mente. Ti copro continuamente di baci. Ti adoro.
Lo vedi quanto......ti amo?
Mi manchi tanto… »
***
…Ma poi… le lettere, i messaggi diventavano gradualmente meno
frequenti… non arrivavano più pensieri simili… né quelle lettere più lunghe
e profonde di sentimenti, né quei messaggi laconici… Si aveva la
200
sensazione di essere messi in un angolo… Anche la voce sembrava
assumere un tono sempre più distante ed ufficiale, dietro essa non si
percepiva più la sensazione d'una volta… Sembrava essere ingrigita… Si
cominciava a sentire le varie scuse - classiche - degli enormi impegni di
lavoro e della stanchezza… Stella così si paralizzava… aveva paura di
continuare il dialogo… Tutta la situazione cominciava a trasformarsi da
uno splendido mondo e sogno fatato in un incubo… Poi Stella avrebbe
voluto domandargli ma non lo faceva mai: «Dimmi solo se qualcosa va
cambiato»…
Aveva letto da qualche parte: «…la visione dell'amore delle donne è
molto più sacrificale di quella degli uomini. Per l'uomo l'amore è uno degli
aspetti dell'esistenza assieme al lavoro, alla carriera, ad altro. Non si
sacrificano per amore, non rinunziano a nulla… L'amore femminile e
quello maschile sono due realtà differenti. Non solo. L'amore in senso
romantico è assolutamente delle donne, è "figlio" delle donne…»
Aveva un tremendo timore: aveva paura di aver soltanto sognato di
trovarsi sulla vetta dell'Olimpo… A dire il vero, c'era mai sull'Olimpo?!…
Oppure era soltanto un crudele scherzo della mente, di un incessante
desiderio d'affetto e di un vero amore? Era soltanto un frutto insensato
della sua fantasia e della sua anima assetata d'amore, d'affetto e di
tenerezza?…
Dov'era sparito il suo «principe»?
Era convinta di possedere un raro grande tesoro e di conseguenza sentirsi
addosso lo splendore delle stelle e dei raggi del sole! Credeva che le fosse
accaduto un miracolo davvero, e non un miraggio qualsiasi!… Avrebbe
perso quel tesoro prezioso? Oppure non l'aveva mai avuto? Era soltanto
una idea fantasmagorica della sua mente forse malata? Chi lo poteva mai
dire?… Non gli dicevano più niente le sue parole? Aveva lasciato
spegnere il suo entusiasmo paragonabile a quello d’un ragazzino che si
accende per la prima volta d'amore? Non lo riconosceva più! Tutto quello
che veniva dal profondo del suo nobile animo per lei era un elisir di vita. Si
sentiva finalmente rinascere e rivivere! Grazie a lui i suoi occhi finalmente
vedevano diversamente il mondo circostante: è riuscita a vedere le cose
belle, positive e non soltanto il lato oscuro della quotidianità. Era
veramente diventata raggiante e gioiosa! Le sue parole erano un
miracoloso balsamo guaritore: «Mia cara…, mio tesoro dolcissimo…, ti
amo perdutamente… tesoro mio, grandissimo, giunto insperato a
rischiarare con il tuo abbagliante splendore la mia grigia incipiente
maturità, è dal più profondo del cuore e dell’anima che ti ringrazio per il
201
continuo dono che mi fai dei tuoi deliziosi sentimenti e delle tue parole
dolci, esaltanti, consolatrici…»
Poi parole simili non arrivarono più… Qualcosa era notevolmente
cambiata e non si sapeva che cosa… Che difficile essere donna! Donne,
amanti, madri, che fatica l'amore!… E che sconfitta!… Le sembrava vivere
un sogno o una stupenda favola!… Ma che cosa stava accadendo?…
Dov'era finita quell'atmosfera magica?… (C'era mai una volta…?!…) E poi?
Aveva tanta paura… Aveva la sensazione che c'era qualcosa che non
andasse… ma non sapeva con certezza, qualcosa le sfuggiva… Una
ragazzina le aveva detto: «Con la faccia pallida e con i tuoi grandi occhi
neri si ha un effetto di morto che cammina…» Forse quella fanciulla non
aveva sbagliato… qualcosa forse si stava involontariamente spegnendo
nella sua anima…
Un giorno si era guardata nello specchio per riflettersi riflettendosi…
guardava bene quell'immagine di fronte… s'era spaventata… non dalle
rughe che in essa scopriva più accentuate, ma dal suo sguardo tendente
allo spegnimento… ed improvvisamente s'era sentita appesantita da tutte
le lotte inutili, da tutte le incomprensioni, dai tanti compromessi
unilaterali… Era diventata tanto infelice e disperata perché egli non le
assicurava più la gioia delle sue parole! Che consolazione riusciva a darle
con la sua voglia di inondarla delle sue frasi più dolci! Improvvisamente
tutto questo veniva a mancare… Le parole, le frasi lanciate non avevano
più eco… Mancavano le tanto aspettate risposte… Ella s'affogava nel
lavoro dove però di nuovo non c'era più né stella, né sole… Stava
ritornando la sua odiata compagna di vita: la Solitudine… Sperava di averla
sconfitta definitivamente… Aveva sbagliato… Avrebbe tanto desiderato
riavere le sensazioni e lo splendore della sua anima di prima… però non
poteva mai essere esaudito questo suo desiderio ed ormai doveva
definitivamente considerarlo da scartare…
Negli ultimi mesi ha passato tante notti in bianco, torturata dai dubbi,
dalle incertezze, dalle brutte sensazioni… Soltanto lui avrebbe potuto
liberarla da questi incubi… Ma egli non era più ritornato quello di prima…
Una cosa era certa: lei non era mai cambiata nei suoi confronti… Anzi, si
sentiva legata a lui più che mai… Forse proprio questo fatto è stata la sua
disgraziata fine… Non era più «il suo raro prezioso tesoro di donna»…
Stella supplicava disperatamente il suo aiuto!… Ma quell'aiuto non era
mai arrivato… Andrea non aveva sentito o non ha voluto sentire il suo
grido d'amore tra i fragori di tanto lavoro e della quotidianità.
Egli nel giorno prefissato doveva venire a prenderla con sé per sempre…
Non s'era presentato, non si faceva più vivo in nessun modo… No, non
202
l'ha sentito più… Stella ogni giorno l'aspettava irremovibilmente ed
inutilmente… È uscita di senno… e da quel momento, ogni giorno, vestita
elegantemente, si reca alla stazione - ripetendo i messaggi d'amore del
suo Andrea ad alta voce - ad attenderlo per poter abbracciarlo
finalmente… Ma come al solito, Andrea non è arrivato…, non arriva… e
non arriverà mai… Sconsolata, quando anche l'ultimo treno ha lasciato la
stazione, torna a casa mormorando tra sé: «Allora, arriverà domani… Ed io
ci sarò di nuovo ad attenderlo… Domani… Sì, sì, domani… Non fa niente,
forse ho capito male io… sì, m'ha detto che sarebbe arrivato domani!
Certo! Domani! Domani!… Ci sarò domani!…»
…Sono arrivati tanti domani e Stella è ancora là, alla stazione ad
attenderlo… e di Andrea neppure una traccia, soltanto nel suo cuore, nella
sua mente, nella sua anima, nel suo Amore…
***
«Amore immenso?… Si può amare a tal punto da non vedere altro che
lui in qualsiasi cosa o persona, persino nel vento sentire la sua voce, nel
sole sentire il suo calore e nella pioggia nascondere le lacrime per averlo
perso o forse mai veramente avuto? Si può trovare l'altra metà del nostro
cielo e aspettarsi di essere felici pur sapendo che mai potremo
raggiungerla? Si può sopportare di essere umiliati, disprezzati ed infine
ignorati dall'unica persona che per tutta la vita ti rimarrà nel sangue, nella
mente e nell'anima, insieme amore immenso e sofferenza disperata? »
Storie di donne tra leggenda, fantasia e realtà...
l. Donna chimera
Giuditta una serena nubile spesso fantasticava osservando il castello tetro
del principe Barbablù dalla finestra della sua casa. Conosceva bene la sua
terribile fama, ma era convinta che il principe fosse non un assassino
sanguinario ma un uomo triste, infelice. S'innamorò di lui e l'aspettò. In
una notte piena di stelle, verso mezzanotte, arrivò finalmente l'eroe dei
suoi sogni coperto da un mantello col cappuccio di color blu fondo e
Giuditta lo seguì senza pensarci: lasciò i genitori, il fratello ed il fidanzato
per seguire il principe dagli occhi tristi.
Entrarono nel castello attraverso una piccola, stretta porta per scendere
in una sala buia al fondo dell'edificio. Ma la porta rimase ancora aperta.
«Siamo arrivati, ecco, questo è il castello di Barbablù» disse il principe.
«Ma che buio è il tuo castello…» sussurrò Giuditta titubante. «Ti fermi,
203
Giuditta? Vorresti tornare dietro?» «Vengo, vengo, Barbablù, soltanto le
mie gambe stanche tremano per il lungo cammino.»
Barbablù prese la mano di Giuditta e fissò i suoi occhi chiedendole:
«Giuditta, resterai allora da me?» «Oh, Barbablù se tu mi cacciassi via io
mi fermerei sulla soglia del tuo castello e mi coricherei là», gli rispose la
ragazza mentre si stringeva al principe. Barbablù l'abbracciò è disse:
«Allora si chiuda la porta!» E in quell'istante se ne andò anche quella poca
luce che penetrava attraverso quella porta aperta e la coppia rimase nel
buio.
«Ma non ci sono delle finestre? Non c'è alcun balcone? Anche se là fuori il
sole splende qui rimane freddo e buio!» — sussurrò la ragazza impaurita.
«Freddo… Buio…», fu la riposta.
Giuditta fece qualche passo avanti appoggiandosi contro il muro. «Ma il
muro è bagnato! Il tuo castello piange! Oh, povero, povero Barbablù!» «È
vero, Giuditta, sarebbe meglio se tu ti trovassi nel castello del tuo
fidanzato dai muri bianchi pieni di rose e raggiante di sole?» «No, non
farmi del male! Sono venuta con te perché ti amo! Farò asciugare i tuoi
muri bagnati, le pietre di questo castello, io lo riscalderò, e caccerò via
questo grande buio! Conducimi ovunque!» — pianse Giuditta.
La ragazza fece altri tre passi in avanti e si trovò di fronte ad una parete
scura. «Vedo sette porte nere! Perché sono chiuse? Aprile! Voglio che
entrino il vento ed il sole, voglio che diventi sereno il tuo povero, buio e
freddo castello!» «Giuditta, non hai paura?» «Dammi le chiavi, perché ti
amo! Io voglio aprirle! Io!» «Benedetta è la tua mano, Giuditta»—rispose
il principe e le consegnò una chiave.
La prima porta si aprì ed improvvisamente si sentirono sospiri e si vide
una luce rossa di sangue. «Catene, coltelli, strumenti di ferro rovente, fili
di ferro spinato! — gridò Giuditta — Pareti coperte di sangue! Il tuo
castello sanguina!» «Questa è la camera di tortura, Giuditta — rispose in
modo tetro il principe —… Hai già paura, è vero?» «No, non ho paura!
Devo aprire tutte le porte! Dammi le altre chiavi!» «Puoi aprire e chiudere
ogni porta — e le consegnò le altre chiavi —, sorveglia il mio castello,
sorveglia noi, Giuditta!» Così Giuditta aprì in ordine le altre porte
trovandovi stanze piene di armi coperte di sangue, piene di oro,
d'argento, di diamanti e di gioielli inestimabili, di fiori con le radici
sanguinose. Il principe era ricchissimo, ma ogni suo bene era macchiato di
sangue. Giuditta sempre più spaventata fece mille domande ma il principe
così rispose: «Giuditta, Giuditta, non chiedere mai! Apri le altre porte
rimaste!» Così la ragazza scoprì dietro la porta un balcone da cui si apriva
la vista su un immenso prato variopinto. Entrò una luce accecante nella
204
stanza e Giuditta dovette coprire gli occhi. «Questo è il mio impero. Ora è
tutto tuo! Qui abita l'alba, il tramonto, qui abitano la luna e le stelle, siano
i tuoi compagni di gioco!» — le disse il principe. Però Giuditta scoprì che la
nuvola faceva un'ombra di sangue, ma alla sua domanda il principe non
rispose, come se non l'avesse sentita, continuò così: «Guarda quanto il
mio castello splende! Sia benedetta la tua mano: è opera tua! Vieni
Giuditta, vieni, metti le tue mani benedette sul mio cuore!» Ma la ragazza
non si mosse. Mancavano ancora due porte e le volle aprire. «Queste
porte devono rimanere chiuse. Non sai che cosa nascondono!» — la
avvertì il principe. Ma ella aprì la sesta porta e vide un lago bianco: era il
lago delle lacrime. Poi l'ultima, la settima e dietro ad essa trovò tre
signore splendide ma infelici. «Qui ci sono tutte le mie donne precedenti.
Guardale. Sono tutte quelle che amavo prima di te.» «Ma sono vive! Non
sono massacrate! Sono vive! Vive!» — la ragazza gridò impaurita e fece
alcuni passi indietro. Giuditta le guardò incurvata con lo sguardo triste,
con gli occhi pieni di lacrime. E Barbablù le disse: «Sono belle, bellissime.
C'erano e ci saranno sempre! Queste donne hanno raccolto i miei tesori,
hanno annaffiato i miei fiori, hanno fatto crescere il mio immenso
impero!» Giuditta reagì singhiozzando: «Come sono splendide, belle! Ed
io, oh, sono povera come una mendicante!» «La prima l'ho trovata all'alba
ed ora è sua ogni alba, è suo il fresco mantello rosso e la corona
d'argento! La seconda l'ho trovata a mezzogiorno. Ed ora è suo il pesante
mantello di fuoco e la corona d'oro! La terza l'ho trovata in una sera
marrone ed ora è suo il triste mantello marrone e la corona di perle.» Le
tre donne s'inchinarono, poi lentamente in silenzio tornarono indietro.
Barbablù guardò la ragazza con uno sguardo profondo e tetro e s'avvicinò
a lei. «Oh, Barbablù non guardarmi così!» — lo supplicò Giuditta. Ma egli
come se non avesse sentito la donna incominciò a dire: «Ora ecco la
quarta accanto a loro. L'abisso del mio castello, la camera del sogno
eterno ora la aspetta.» «Ma no Barbablù, non stai sognando! Io sono una
povera donna viva!» — gridò Giuditta. Il principe prese dalla camera dei
tesori il mantello più bello e la corona più luccicante e disse: «Ho trovato
la quarta in una notte piena di stelle. Da adesso tutte le notti saranno
sue.» «Oh Barbablù, non fare così, riprendi questo mantello e la corona!
Ero una povera femmina viva e adesso divento una splendida donna
chimera?!» —pianse la ragazza, ma non le restò altro che seguire le altre
tre e la porta si chiuse dietro le sue spalle. «Ed ora sarà notte per sempre»
rimbombò la voce sorda di Barbablù piena di tristezza, dolore e rinuncia.
Al fondo del tetro castello il buio della notte eterna regnò per sempre…
205
II. Lei ed i telefoni…
Quella voce…
Lei fissa continuamente il telefonino. È quasi paralizzata. I suoi pensieri
sono altrove. Ha improvvisamente avuto una scossa arcana…
Nella sua vita monotona e tranquilla è entrata una tempesta
inspiegabile. Si trova inaspettatamente in una riva turbinosa… Qualcosa
l'ha fulminata…
Sente una forte eruzione vulcanica nella sua anima…
Vorrebbe comporre il numero… L'ha dato proprio Lui in caso di bisogno…
ma non ce la fa… ha paura che qualcosa vada storto… non vuole rovinare
una grande simpatia… Che cosa sta turbando la sua anima fino a poco fa
quieta?…
Continua a fissare il telefonino…
Che cosa la ostacola?
Basterebbe comporre il Suo numero…
Ma non ce la fa… e continua soltanto a fissarlo…
Nel frattempo, le melodie di Mozart, Beethoven, Chopin, Brahms, Liszt,
Tschaikowsky, Mendelssohn, Dvoøak, Sibelius si intrecciano con gli squilli
frenetici dell'altro telefono… Collaboratori… clienti… quasi tutti vogliono
soltanto delle informazioni tecniche…
Ma Lui, perché non la chiama già?… Le ha promesso…
Il telefonino suona…
Pulsano le tempie… niente… Non è stato lui…
È terribile quest'attesa…
Non è come prima…
«Chiamami, chiamami…» - è ipnotizzata dal telefonino… ma nessun
risultato. Altri la chiamano… Neanche stavolta è stato lui…
Niente di niente…
Ora non ha più bisogno di lei…
Ma la simpatia oltre all'interesse per un lavoro comune? Essa non c'entra?
Lei soffre… tanto… Perché?
Perché quella voce l'ha incantata… assieme a quel modo di fare… con
quella gentilezza… con quel rispetto nei suoi confronti… e con quello
sguardo profondo quasi ipnotizzante… con quell'espressione da cui si
legge l'interessamento per chi si ha di fronte…
Perché non era come i tanti che guardano le persone sopra la testa,
oppure, guardano coll'espressione assente… e sempre quella voce… già
dal primo momento l'ha colpita…
206
E lei finalmente si sentiva utile… uscendo dal tran-tran quotidiano… Grazie
a Lui… Egli l'ha fatta sentire utile… Egli l'ha fatta uscire dalla gabbia…
Lui aveva bisogno di lei… È lui che l'ha trovata, cercata, chiamata… Che
sorpresa inaspettata era!… Adesso lei ha bisogno di lui… vorrebbe
trasformare la conoscenza in una nuova e vera amicizia… vicina, non
soltanto a distanza o per corrispondenza…
Quella voce straordinaria arrivata dal nulla… Già dal primo momento l'ha
suggestionata… Fino allora non sapeva neanche della sua esistenza… Ed
ecco, lei è diventata più ricca nel ricordo di quel timbro di voce
straordinariamente melodico …
Quella, quella voce… indimenticabile… L'ha proprio incantata… quella
splendida voce… Che bellezza… autori, doppiatori potrebbero invidiarlo
per quel tesoro di gola… che bella musica per l'orecchio di chi l'ascolta!…
Beati coloro che possono sempre udirla…
Quella, quella bella voce… Sarebbe adatta per leggere gli splendidi sonetti
di Shakespeare… o per le altre perle liriche…
Fissa il telefonino… Lo prende in mano… vorrebbe comporre il numero…
ma ha paura… non vuole essere fraintesa… vorrebbe soltanto sentire
quella splendida voce che l'ha ammaliata… soltanto sentire… nient'altro…
U - D - I - R - E… niente di più… per godere quella bellezza vocale… Come
se fosse una droga… è narcotizzante quella voce…
Lei ha paura di ritornare nella monotonia quotidiana… Quella voce le ha
dato una scossa… L'ha fatta uscire dall'isolamento… Le ha fatto ricordare i
vecchi tempi movimentati, vivaci… e l'età della sua giovinezza…
Fissa il telefonino…
«Chiamami!… chiamami… chiamami anche soltanto per farmi delle banali
domande!… Magari quella: "Come stai?"… Io sarei già felice… perché avrei
potuto sentire quella splendida voce!…» — ipnotizza l'apparecchio.
Ecco, suona di nuovo!… ma non è lui neanche stavolta… Le telefonate
arrivano soltanto per interessi di lavoro… Non per l'amicizia, non per
voglia di socializzare… Non per rendere felici la gente, non per l'attenzione
disinteressata per l'individuo… Non per affetto, non per simpatia…
Basterebbe soltanto un piccolo gesto… sollevare la cornetta e chiedere:
«Ciao, come stai? Che cosa hai fatto di bello?» oppure «Ciao, ti auguro
una buona giornata!» Basterebbe poco per rompere la solitudine la quale
è una brutta e cattiva compagnia… ed è peggio averla in famiglia…
Che vita freneticamente disumana… In questo mondo non c'è più spazio
per l'ESSERE UMANO… è forse meglio chiudersi ermeticamente nel nostro
piccolo mondo?…
207
Ma lei non vuole di nuovo isolarsi dal mondo esterno per altri anni! Se
però, le resteranno ancora quegli anni… Ha già superato di un decennio "il
mezzo del cammino" della sua vita…
Fissa il telefonino.
Ma quella voce non arriva… Non ancora… oppure non verrà mai… (?)
Che peccato…
…Ma forse è meglio così…
(…?!…)
Gli squilli di telefoni…
Non c'è tregua. I telefoni squillano… irremovibilmente squillano…
«Pronto…» — e si inizia a parlare. Lei ha appena cominciato a
conversare, sono soltanto passati tre minuti… non c'è alcuna sostanza.
Soltanto le formule d'obbligo di cortesia…
Adesso squilla un altro apparecchio. Ora però è quello fisso…
«Mi scusi, ho un'altra chiamata… La prego di attendere un attimo…»
Lei solleva il ricevitore… Inizia un'altra conversazione…
«Blabla… bla… bla…»
«Blablablabla… blablablablabla…»
C'è da impazzire… Ora squilla il terzo, quell'altro telefonino… quello
giallino… Ha appena chiuso il discorso con il cliente del telefono fisso…
Torna dal primo cliente…
«Eccomi di nuovo… Devo chiedere scusa… Ora possiamo continuare il
discorso…»
Ma manca la sostanza. Quello parla, parla, ma non è ancora arrivato al
sodo.
Lei è già nervosa. Guarda l'orologio… Adesso Lei dovrebbe chiamare
qualcuno…
«Blabla… bla… bla… grazie, arrivederci.»
Finalmente, ha finito. Adesso si può cominciare veramente la giornata.
Compone i numeri… si tratta di affari…
Comincia a parlare… Non è passato neanche un minuto quando squilla ora
quel telefonino nero…
Comunica cortesemente col cliente di aspettare un attimo perché c'è
un'altra chiamata. Egli risponde pazientemente… Aspetta…
Nel frattempo riesce a pescarlo dalle montagne di corrispondenze e di
manoscritti di poeti e scrittori… Eccolo finalmente…
«Pronto… Come stai? Sai, mia figlia… Sai mio marito… Blablabla…
blabablablabla…»
208
Oh no! Proprio adesso. Questo momento non è adatto. Dopo tanti anni
adesso le viene in mente di chiamarla. Proprio adesso vuole sapere della
sua salute e raccontare le faccende familiari… di tutti i parenti! Veramente
non vuole neanche sapere di lei, soltanto raccontare le sue storie di
famiglia… Ora ha voglia di parlare… Dopo tanti anni… perché s'annoia…
Lei le dice che ora sta parlando con un cliente, non è adatto il momento
che la richiami un po' più tardi… No, la donna dell'altra parte della linea
non ne vuole sapere niente…
«Sai… blablabla… blablablablabla…»
Ora finalmente la saluta promettendo di richiamarla tra mezz'ora.
Finalmente può ritornare dal lavoro… Dio Santo, c'è un cliente in attesa
nell'altro apparecchio!…
Si riprende il dialogo… Nel frattempo il tempo passa con una velocità
supersonica e non è riuscita ancora a sistemare tutto. Le pulsazioni
aumentano, il respiro diventa sempre più affannoso, il nervosismo è già
all'apice…
Trattenendosi chiede delle scuse per l'attesa, passano ancora altri tre
minuti e poi tutto ricomincia da capo.
Quei due telefonini, quegli antipatici che fanno tutto questo caos. Li
odia… odia, odia… Prima non voleva avere a che fare con essi, era
contraria… Ma alla fine ha ceduto alla tentazione… Per un senso di
sicurezza… Per essere raggiungibile in caso di bisogno… Ma essi squillano
quando è meno opportuno… Non quando lei vorrebbe…
S'arrabbia sempre di più… è sempre più nervosa…
«Li odio!… Li odio… — grida — quello giallo perché squilla continuamente,
senza tregua… pure questo nero…»
Quest'ultimo non lo sopporta particolarmente… Perché è esso che la fa
soffrire… Se suo squillo non parte da Lui… Gli altri squilli sono soltanto
delle scuse… Lei li sentirebbe volentieri se provenissero da LUI…
«Ma EGLI dov'è? Perché non mi chiama?… Lui potrebbe rubarmi del
tempo… Anzi io gli regalerei un po' di tempo… anzi, tanto tempo… ma lui è
muto… muto… muto… Al diavolo!…»
I telefoni squillano. Ora contemporaneamente… tutti e tre…
No, no; non alza ora la cornetta…
Si tappa le orecchie… È stufa…
Attacca la segreteria telefonica fissa…
Disattiva i telefonini programmando anche la loro segreteria…
«Lasciate dei messaggi… Vi richiamerò io… se voglio… Ora devo scappare…
Dove? Lo stesso… altrove…»— pensa e con uno sguardo odioso li lascia
abbandonati ed esce come una furia all'aria aperta…
209
III. L’incubo*
Roba da non credere! Gli impiegati in un grande ateneo italiano furono
proprio privi di qualsiasi sensibilità. Non ascoltarono la gente: risposero
con irresponsabilità dando delle informazioni sbagliate. E così successe
anche a Melania, che voleva ottenere una terza laurea, rilasciata in Italia
per migliorare le sue possibilità di lavoro. Dopo il superamento della prova
scritta di russo le comunicarono: «Signora, Lei non doveva fare qui questa
prova, ma in via Romponi. Questa è la facoltà di Magistero! Lei doveva
andare alla sezione di Italianistica» le disse la docente che consegnava le
prove scritte giudicate e superate.
«Allora ho fatto tutto questo per niente? Oppure si può far accettare questa prova per accedere all'orale dell'altra sezione?» chiese incredula Melania con voce tremante.
Fu un colpo basso questa notizia, ed anche se lei era una donna forte e
ben allenata alle crudeltà della vita, ora a lei, quarantenne, questo episodio sembrava inaccettabile ed insopportabile. Pensò di trovarsi improvvisamente in un universo kafkiano.
«C'è da impazzire!» disse disperata sentendo il mondo crollarle addosso.
Guardò l'orologio e, fatto un rapido conto con orario ferroviario ed orario
di scuola di sua figlia, si diresse velocemente da via Gallomania a via Romponi. Qui scoprì che l'esame, benché superato, non sarebbe stato riconosciuto e che quindi lo si doveva ripetere in questa sede: era ancora in
tempo per mettersi in lista. Si sarebbe dovuta presentare dopo due giorni
per sostenere di nuovo la prova scritta che, fortunatamente, andò poi a
buon fine. Dopo queste premesse era giunta la vigilia dell'orale, e solo
poche ore la dividevano dall'esame.
Era stanca e sfinita: anche in quei giorni da dedicare alla preparazione non
aveva avuto alcun aiuto, aveva dovuto dividersi tra gli studi e le faccende
domestiche, badando naturalmente alla figlia ed ai suoi compiti scolastici,
oltre che al marito.
«Ti prego, almeno in questo fine settimana esci con la bambina lo aveva
implorato , state lontani da me, organizzatevi in maniera che io possa
ancora ripassare velocemente la materia!» La figlia, sentendo che sua
madre doveva studiare e non poteva interamente ed esclusivamente dedicarsi a lei, fece l'inverosimile per ostacolarla. Dopo una lunga lotta con
conseguente perdita di ore preziose finalmente rimase sola.
Riletti alcuni brani del racconto «II ritratto» di Gogol', aveva appena iniziato a ripassare la storia della letteratura russa quando, all'improvviso, udì
una voce parlarle in maniera un po' antiquata proprio in quella lingua. Si
trovò inspiegabilmente in un ambiente sconosciuto, strano, molto diverso
210
di quello di Ferrara. Non riuscendo a capacitarsene si stava chiedendo
«Dov'è che mi trovo? Ma che scherzo è questo'?» quando si ritrovò di
fronte ad un giovane promettente pittore, a San Pietroburgo, nella Russia
ottocentesca.
«ИЗвините меня... Разрешите представиться… Меня завут Чартков…1
Vedete quella bottega d'antiquario?» chiese il giovanotto che indossava
un vecchio cappotto. Il suo modo di vestire denotava una persona dedita
con abnegazione al lavoro senza potersi occupare troppo del proprio
guardaroba. Eh, sì... pochi pittori potevano permettersi di seguire l'ultima
moda...
«Che strano... non sono mai stata da queste parti, ma l'ambiente mi è familiare. Quell'ometto con la barba in soprabito di fustagno, è lui il padrone, vero?»
«Eh, già! Ma come fate a saperlo se non siete mai stata qui? Da dove venite? Indossate strani vestiti... strani... che moda è?...» il giovane pittore
non riuscì a terminare la frase perché il proprietario della bottega, avendo
fiutato che la sua professione lo invitò ad entrare nella certezza d'avere
davanti come potenziale cliente un vero intenditore. Iniziò subito a mercanteggiare: «Guardate, questi contadini e il paesaggetto venticinque rubli! Che pittura! Vi penetra negli occhi, semplicemente; li ho ricevuti or
ora dal mercato dei quadri... la lacca non s'è ancora asciugata, guardate
pure! Oppure questo inverno! Prendete questo! Quindici rubli! Così non
costa la sola cornice! Guardate un po' che inverno! Volete che ve li leghi
insieme e ve li faccia portare a casa? Dove abitate? Ehi, ragazzo, dammi
dello spago....»
Melania assistendo dalla porta alla scena, si scorse suggerendo al giovane:
«Aspettate! Non fate così in fretta! Io so che deve esserci qui un quadro
che sicuramente vi impressionerà... Andate più avanti, lì troverete...» «Ma
siete sicura?» «Senz'altro! Abbiate fiducia in me.» «Allora, andiamo ad
esplorare questa bottega. Vediamo un po' se c'è qualcosa come voi dite...
qualcosa che possa fare al caso mio» ed avanzando all'interno, chinatosi,
cominciò a tirar su da terra vari quadri. C'erano vecchi ritratti di famiglia, i
cui discendenti erano già da molto tempo scomparsi dalla faccia della terra; poi c'erano immagini del tutto ignote, con la tela lacerata, cornici senza
più doratura.
«Non vi scoraggiate!» gli disse Melania. «Niente affatto madame, anzi,
sto pensando chissà se non verrà fuori qualche cosa...»
«Guardate là quel ritratto - Melania gli indicò un quadro enorme -, guardate quel viso vecchio abbronzato, appassito, dagli zigomi sporgenti! Vedete quanto questo ritratto dimostri una forza dell'ardente sud?»
211
Il pittore si avvicinò al ritratto indicato e vide che la figura era drappeggiata in un ampio costume asiatico. Il quadro sembrava incompiuto, ma la
tecnica del pennello si rivelava stupefacente. Il giovanotto rimase immobile.
«Signore, avete trovato qualcosa?» gli chiese il padrone accorgendosi
dell'atteggiamento del pittore che stava fissando quasi sotto ipnosi quel
ritratto dalla cornice enorme, e un tempo sontuosa.
«È incredibile…» sussurrò.
«È incredibile veramente - aggiunse Melania -, particolarmente quegli occhi. Guardateli! Li vedete? Quegli occhi guardano proprio, guardano al di
fuori del quadro stesso...»
«È vero... quegli occhi ne spezzano quasi l'armonia con questa loro strana
vitalità.»
«Portate quel quadro sulla porta e guardate meglio alla luce! Scoprirete
una cosa straordinaria!» gli suggerì Melania.
Čartkòv portò il quadro vicino alla porta e scoprì che gli occhi guardavano
con intensità anche maggiore. Fecero quasi la stessa impressione sugli
altri clienti arrivati nel frattempo alla bottega. Una donna si fermò dietro
al pittore, accanto Melania, ed esclamò mentre si fece indietro:
«Ma quello..., quello - balbettò incredula - guarda..., guarda proprio!»
Il pittore, con un leggero senso di malessere inspiegabile posò il quadro
a terra.
«Voi l'avevate saputo? Conoscevate questo ritratto? Proprio per questo
mi avete suggerito di guardarlo?» si rivolse a Melania che non disse niente, soltanto fece un cenno affermativo con il capo. Anche lei percepì lo
stesso senso di malessere perché le sembrava tutto così irreale: tutto
quello che le accadeva sembrava già una cosa o vissuta o conosciuta. Ma
da dove? Aveva già avuto un'altra vita da qualche parte? Oppure aveva un
senso premonitore e così prevedeva alcune scene di vita? Non riusciva a
capire ed a spiegare... Che cosa stava succedendo?
«Ebbene, prendete questo qui?» chiese il padrone.
«Compratelo, ma non gli offrite più di venti copeche!» sussurrò Melania al
giovane pittore.
«Sì sì, lo comprerò ma per venti copeche» rispose al padrone ed il pittore
si preparò ad uscire.
«Ma che offerta avete fatto! Solo la cornice vale più di venti copeche!»
«Allora niente! Io dovrò pure mangiare! Ma che matto che sono! Ho pochi
soldi e li spreco per un quadro! Allora, до cвидания!2» lo salutò il giovane.
«Mah, vada pure reagì il padrone rassegnato , siete il primo compratore.»
212
Il pittore tirò fuori la somma dalla tasca e la diede al padrone, prese il ritratto sottobraccio e se lo portò via.
«Al diavolo ogni cosa! Mondo cane!» mormorò con lo spirito di un russo
al quale gli affari vanno veramente male, poi aggiunse: «Ma dov'è quella
donna misteriosa? Chi era? Che strano vestito indossava... Non è affatto
delle nostre parti...» e girò lo sguardo ovunque per ritrovarla, ma Melania non c'era più.
Si capisce, e come! Poveretta si trovò improvvisamente davanti alla zarina,
era impaurita perché la stava interrogando:
«Che ne dite? Vi siete incontrata con Čartkòv? Ma lui è un personaggio
inesistente! Una figura della fantasia dello scrittore Gogol'! Io ho letto
quel racconto, è intitolato Il ritratto. Io vi ho chiesto di indagare sullo scrittore! Che cosa avete scoperto? Ditemi tutto sul suo conto!»
Melania cominciò a sentire un sudore freddo mentre pescava nella profondità della sua memoria e cadde in uno stato di trans e vide davanti a sé
lo scrittore - ma la zarina non lo vide - che le stava dicendo:
«Non vi preoccupate, ascoltatemi e trasmettete quello che vi dico della
mia vita... Sì, sono proprio io, lo scrittore russo: Nikolàj Vasìlievió Gogol'.
Nacqui il 19 marzo 1809 nella cittadina commerciale di Soroč'ntsij, in provincia di Poltàva dell'Ucraina. La mia famiglia appartiene alla piccola nobiltà cosacca ucraina. Il mio padre è un drammaturgo dilettante. Nel 1820
cominciai a frequentare il ginnasio-liceo provinciale e lo finii nel 1828. A
scuola cominciai a scrivere. Devo confessarvi che non ero molto popolare
tra i miei compagni. Ho un carattere schivo e tetro, soffro di crisi di autocoscienza e delle mie grandi ambizioni illimitate. A vent'anni andai a San
Pietroburgo pieno di grandi speranze ed ambizioni. Volevo ottenere una
fama letteraria. Per questo scopo avevo portato con me un poema e a mie
spese lo feci pubblicare con lo pseudonimo di V. Alov. Ma i critici lo stroncarono, così comprai tutte le copie nelle librerie di Pietroburgo e le bruciai...» Melania sentì la sua autobiografia, ma cominciò sentirsi sempre più
debole e la sua voce svanire. Doveva fare il suo resoconto. Meno male che
la zarina intervenne improvvisamente:
«Lasciate stare... un'altra volta... Però, ora andate e tornate in compagnia
dello scrittore! Allora?... che cosa aspettate?»
«Come maestà zarina? Lo scrittore non è più fra noi... è morto il 21 febbraio 1852... Non posso presentarmi con lui, maestà...»
«Che cosa dite? Con chi non potete presentarvi'?» Melania sentì un'altra
voce, e si trovò invece che davanti alla zarina di fronte della temuta docente... Vide un volto duro, severamente crudele. Apparteneva alla professoressa esaminatrice... Si sentì estremamente confusa...
213
«Che cosa sta succedendo? - pensò poi ad alta voce, tremolante disse -...
Volevo dire che... Gogol'...» non riuscì a continuare la frase, ma rapidamente le allungò un foglio in cui si leggeva:
«...II giovane Čartkòv era un pittore di talento, che prometteva molto: a
lampi, a momenti, la sua pittura rivelava spirito di osservazione, acume e
un forte slancio verso la natura. "Sta' attento, figliolo", gli diceva il maestro: "Tu hai del talento: sarebbe peccato, se lo lasciassi perdere; ma tu sei
impaziente; sol che una cosa ti attragga o ti piaccia, non ti occupi che di
quella, e il resto per te è fanfaluca, non serve a nulla e non vuoi neanche
buttarci un'occhiata. Sta' attento, e non diventare un pittore alla moda; le
tue tinte già cominciano a gridar troppo; il disegno non è severo, a volte
addirittura fiacco; la linea non si distingue; tu già corri dietro agli effetti di
luce alla moda, a quello che colpisce gli occhi al primo acchito, sta' attento
a non cadere nella maniera inglese. Bada a te: il mondo già comincia ad
affascinarti: ti ho già visto qualche volta con un fazzoletto da zerbinotto al
collo e un cappello lustro... Certo, la cosa è allettante; ci si può lasciare
andare a buttar giù quadri alla moda e ritratti, per denaro; ma in questo il
talento si perde, non si dipana. Abbi pazienza. Rifletti su ogni tua opera;
lascia perdere l'eleganza; lascia che i quattrini li raccolgano gli altri, così
quello che è veramente tuo non se ne andrà... Eh già, abbi pazienza, pazienza!" – lo pronunciò con stizza. "Anche la pazienza ha un limite. Pazienza? E con quali soldi mangerò domani?"...»
«Che cosa è questo scritto? Ma lei doveva portare con sé l'analisi del racconto Il ritratto, naturalmente in russo, e non copiare dei brani! Mi spiace, prima dovrà superare l'esame di lingua... Lei non potrà fare l'orale.
Torni un’altra volta!...» le ordinò severamente la docente di origine russa.
«Mamma, mamma... Svegliati!» sentì di essere chiamata da vicino. Aprì gli
occhi e vide sua figlia e il marito preoccupati.
«Finalmente... bentornata tra noi!» la salutarono con fiato sospeso i suoi
cari.
«Dio mio, che cosa è successo?»
«Hai dormito per due giorni! Ma come! Hai fatto dei versi terribili e parlavi
esclusivamente in russo! Ci hai spaventati, lo sai? Come ti senti? C'era qui
anche il nostro medico...» le rispose il marito.
«Quanto?! Due giorni?! Il sabato e la domenica? Santo Cielo! Allora oggi è
lunedì! Devo fare l'esame di russo! Che ore sono?»
«Sono le sette di mattina... Se ti sbrighi arriverai in tempo alla stazione...»
«No! Sapete che cosa? Ora non andrò... Andrò per il prossimo appello!
Sono distrutta... Non mi sento ancora pronta...»
214
«Non mollare adesso, forza, vedrai ce la farai!» la incoraggiò il marito.
Così Melania col cuore in gola si presentò all'esame, ma come se l'incubo non volesse finire ebbe una brutta sorpresa: lesse sul comunicato appeso alla porta che gli esami di quel giorno venivano spostati... dopo tre
giorni doveva ritornare...
«Non ne posso più!... Quando vengo i professori non si fanno mai trovare!... Ora pure... l'esame slittato! Che cosa pensano?!... Non possono trattarci così! Nessuno mi ha avvertita!... Chi credono di essere questi?... Eh,
già! Sono i baroni universitari!!!... Sono degli irresponsabili, incoscienti!!!!
Al diavolo loro!... Non è possibile! M'hanno beffata ancora! È un incubo
anche questo!...» sconsolata ed arrabbiata calciò la porta dello studio ed
uscì zoppicando. Si diresse verso alla stazione per prendere il treno per
Ferrara... per tornare a casa... Stando sul treno decise di mollare tutto rinunciando a questa terza laurea che comunque non le sarebbe servita a
niente...
Infatti, nonostante che conoscesse bene anche il russo ed in più l'informatica, nonostante tutti gli studi, tutte le sue esperienze di lavoro passato
e di quelle saltuarie prestazioni professionali successive le sue prospettive
di lavoro non erano cambiate...
...Passarono altri sette anni e Melania rimase ancora senza reddito... e
rimpiangeva le sue attività nella patria d'origine che aveva dovuto interrompere a causa del matrimonio con un italiano. Altrimenti non avrebbe
potuto seguirlo in Italia... In questi vent'anni inutilmente lottò per riconquistare la sua indipendenza economica... Rimase disoccupata perenne. ..
__________________________________
1
Scusatemi... Permettetemi di presentarmi. Mi chiamo Čartkòv (Pronuncia: Izvinjìtje mjenjà... Razrjesìtje prejedztàvitjsja. Mjenjà zàvut Ciàrtkóv.)
2
Arrivederci (da svidànja!)
* Il racconto è ispirato da una vera, assurda storia accaduta e dal racconto «Il
ritratto» di Gogò!'.
IV. La storia di Magdolna
Magdolna non sopporta gli aggettivi di casalinga e disoccupata. Tutte le
volte che li sente le viene la pelle d'oca. Quelle espressioni le sono
antipatiche e le odia proprio. Particolarmente la prima è più irritante
perché uscendo di casa è circondata solamente dalle casalinghe la
maggior parte prive di istruzione. E lei sente di non avere niente in
comune con le casalinghe italiane. Con suo grande stupore, non soltanto
la categoria delle più anziane, ma anche le donne della sua generazione -
215
basta guardare i numeri delle statistiche - sono in gran numero ancora
prive d'istruzione. Sente di trovarsi quasi un secolo indietro, nonostante
che questo paese, l'Italia, sia uno dei più industrializzati. Per lei esse non
sono compagnie adatte. Oltre alle forme di cortesia, oltre a qualche
scambio di parole e di luoghi comuni non è mai riuscita ad affrontare con
loro alcun argomento adatto alle sue esigenze. Altre conoscenze degne di
lei non se le può procurare dato che è priva di contatti validi.
Dopo quasi due decenni non è riuscita a trovare un impiego retribuito. E
Dio lo sa quante centinaia di migliaia di curriculum ha inviato alla ricerca di
un lavoro stipendiato. Questo fatto non le va giù neanche adesso. La sua
nostalgia è particolarmente grande per le due carriere ricche di
prospettive e poi interrotte: l'insegnamento ed il giornalismo. Così è
rimasta esclusa, isolata, emarginata.
Lei comunque non considera se stessa casalinga. Infatti: anche nella sua
carta d'identità si legge: «Docente…» Eh, già, quando si laureò, assieme ai
suoi compagni di studi tutti sono stati proclamati, ufficialmente professori
e nel momento della consegna solenne della laurea tutti insieme, ad alta
voce, pubblicamente hanno fatto il giuramento di Stato per questa
professione. Durante gli anni di studi ha fatto il tirocinio prescritto, per il
programma didattico, dal Ministero dell'Istruzione che si concluse
coll'esame d'insegnamento pratico. Quindi sia lei che i suoi compagni
sono usciti dall'Università già professori pronti che sapevano insegnare e
non brancolavano professionalmente a danno degli alunni come succede
in Italia. Ma lei, volendo, potrebbe sostituire la parola «insegnante» con
quello di «giornalista», perché anche in Italia lo è già ufficialmente: è
iscritta infatti all'Ordine dei Giornalisti. Ma le testate non la volevano, la
rifiutavano con qualsiasi scusa. Per lei non c'era alcuna possibilità, ma
nello stesso momento per gli aspiranti maschi o femmine con le spinte dei
parenti, degli amici, dei politici le porte si sono aperte… Oppure sono stati
semplicemente "mandati da qualcuno" che pesava nella vita sociale
locale, o interregionale. Lei non poteva e non può dire: «Mi manda X. Y.».
Dire la verità le darebbe anche fastidio dato che è abituata ad ottenere le
cose per i suoi meriti e non perché figlia o conoscente di certi personaggi
considerati nella vita pubblica.
Anche dopo tanti anni per lei è veramente difficile accettare il triste ed
umiliante fatto di un'assoluta non considerazione e d'ignoranza voluta
riguardo la sua esistenza. Essendo stata abituata alla totale indipendenza
economica con due stipendi regolari, le è deprimente accontentarsi delle
briciole delle prestazioni occasionali che non danno né sicurezza, né
soddisfazione, né serenità…
216
Magdolna non riesce ancora ad accettare questa condanna alla prigione
domiciliare forzata. Lei, discendente da una famiglia di intellettuali circondata dei parenti scienziati, studiosi - è abituata al contrario: il padre
è ancora un lavoratore attivo in più rami delle scienze, della giustizia e
dell'istruzione pubblica. I nonni, i bisnonni comprese le donne, erano essi
pure così nonostante le mille difficoltà consapevolmente provocate
dall'opprimente regime comunista nella sua patria d'origine, l'Ungheria.
Quindi gli esempi di generazioni familiari hanno lasciato delle tracce
profonde nelle sue vene. Ma l'Italia annienta le persone condannandole
ad uno stato di perenne disoccupazione. Se non c'è lavoro, non c'è
guadagno; senza guadagno non c'è possibilità di cibarsi.
Magdolna in fondo può anche ritenersi fortunata: ha almeno il marito
che mantiene la famiglia. Ma questo non le basta e per lei è inaccettabile
la condizione di essere a carico del consorte. Non le va giù, non riesce a
rassegnarsi. Lei vorrebbe aiutare l'economia della famiglia tramite il suo
lavoro esercitando le sue professioni oppure con altri impieghi attinenti
alla sua preparazione ed esperienza. Ma l'iscrizione di quasi due decenni
all'ufficio di collocamento al lavoro non le è servita a niente. Anzi le ha
procurato piuttosto altre umiliazioni tra le quali una particolarmente
dolorosa: un giorno si è sentita rifiutata a causa della sua età. Unica
l'esclusione: l'età! Nessuno si era presentato all'ufficio di collocamento
per l'impiego di bibliotecario universitario che sarebbe stato un ottimo
impiego conciliabile con la famiglia e con gli altri suoi interessi ed i suoi
studi. A quel tempo lei era l'unica candidata, ma per aver compiuto due
giorni prima i suoi 43 anni la sua candidatura è stata rifiutata. L'impiegata
statale le disse con tono indifferente: «Mi dispiace signora, anche se i suoi
punti sono ottimi ed anche se lei è l'unica candidata ancora, devo rifiutarla
perché Lei ha già compiuto il 43° anno. Così non è possibile ammetterla…»
Cosa si può dire e fare in questi casi? Da allora sono passati altri otto anni
e non è migliorato niente… anzi, le possibilità sono sempre diminuite: la
causa principale è l'anzianità anagrafica. Ma anche vent'anni fa era
vecchia: a trent'anni era già stata scartata. Vive un'umiliazione
moltiplicata: fa parte della vita senza alcuna delle prospettive dei giovani;
vive l'esperienza del rifiuto ed abbandono degli anziani; vive la
discriminazione delle donne e degli extracomunitari nonostante la sua
cittadinanza italiana. A proposito dei giovani: cercano sempre i giovani?
Ma loro dove sono? Perché sono disoccupati? Perché sono senza
prospettive? Stranamente ovunque chiedono dei giovani, ed i giovani si
lamentano di non trovare lavoro. Dove sta la verità?
217
Magdolna ciò nonostante non si considera disoccupata. Per non
abbassarsi al livello dell'enorme fascia di analfabeti e semianalfabeti e non
alimentare il processo di rimbecillimento, oltre ad alcune occasionali
prestazioni professionali, perdendo la pazienza e stancandosi dei rifiuti
avvilenti, da pochi anni gestisce un'attività imprenditoriale non profit, in
proprio. Così non affonda nel mare delle faccende domestiche che
purtroppo, non facendo altro, le procurerebbero un forte degrado
mentale. È un'attività intellettuale stimolante, creativa quella che fa, ma
piena di mille difficoltà. Navigare su questa barca da soli, senza appoggi
finanziari è molto difficile. Ma si va avanti lentamente. Si dedica a questa
impresa con la massima dedizione, col cuore anche se non le porta alcun
profitto economico, ma una cosa è molto importante: lei così è attiva ed
in questo modo continua le sue due professioni forzatamente interrotte.
Ma se fosse da sola, non riuscirebbe a sopravvivere e finirebbe tra le
barbone.
Ma se fosse stata sola, non sarebbe venuta in Italia, non si sarebbe
sposata e non sarebbe stata presa in giro dalle autorità italiane operanti in
Patria che le dicevano nel solito stile italico: «Ma non si preoccupi signora,
lei potrà utilizzare le sue lauree, potrà trovare delle opportunità di lavoro
adeguato alla sua istruzione ed alle sue professioni!…» Parole, parole,
parole; belle parole, ma peccato che in un attimo gli Italiani non se ne
ricordino più… Se avesse saputo che in Italia sposarsi, da parte di una
donna d'origine extracomunitaria ma cittadina italiana, significava la
perdita dell'autonomia economica, non avrebbe mai lasciato la sua patria
prima di aver ricevuto delle garanzie sicure di lavoro.
Magdolna quindi detestava e detesta le parole di casalinga e di
disoccupata. Non ha niente in comune con queste categorie. Non si può
dire che lei sia casalinga, nonostante non abbia un reddito: perché non si
occupa esclusivamente della cura della famiglia e della casa, ma si occupa
della sua impresa di cui è manager praticando le sue professioni. E per
questo non si può dire neanche che sia disoccupata: perché del lavoro ne
ha, e per lei sola è già enorme. Diciamo che è una manager generale
precaria, una lavoratrice autonoma, quindi né casalinga, né disoccupata,
né sottoccupata. È una cittadina lavoratrice non stipendiata… Suona
meglio… Non è vero?
Ha imparato tante cose; tra cui che il sistema sociale e familiare italiano
è patologicamente diverso da quello delle altre nazioni europee e che per
le donne esso è assolutamente negativo: comporta il completo
assoggettamento al marito che mantiene la famiglia che è unica fonte di
reddito. Per la maggioranza delle donne italiane questa situazione forse va
218
bene: sono nate con questa mentalità tradizionale, ma Magdolna nella
sua patria ha visto ed è stata abituata diversamente, perciò non riesce a
rassegnarsi ed accettare queste condizioni. Una donna del nord, maritata
con un italiano, se vorrà avere una sua libertà personale, dovrà diventare
indipendente economica-mente, ma questo è quasi impossibile in questo
paese in cui la disoccupazione è altissima.
Il sistema familiare italiano condiziona ed ostacola le aspirazioni
professionali di una donna immigrata dal Nord Europa o dall'Europa
Centrale. La donna sposata deve stare - volontariamente o involontariamente - a casa accanto ai fornelli, ai figli; non può avere una vita privata
dedicata a se stessa perché non ha alcuno spazio per questo, figuriamoci
se può avere una vita sociale extradomestica! Spesso le donne italiane le
hanno fatto queste domande: «Hai un marito che lavora e che ti vuole
bene, hai dei bei figli, che cosa vorresti di più? Perché vuoi andare a
lavorare fuori di casa?» Magdolna vive proprio questa situazione. E gli
anni sono passati, i figli sono cresciuti, il marito è sempre assente perché
lavora fuori città: è via dalle sette del mattino fino alle otto di sera, ora del
rientro, se va bene, perché molte volte rientra anche a ore tarde. Quindi
per la gran parte della giornata Magdolna è sempre da sola con i figli per
gestire tutto come una ragazza madre. Non aveva avuto praticamente
alcun aiuto quando i ragazzi erano piccoli, né lo ha adesso che sono più
grandi. È sempre sola nonostante i suoi tentativi di avvicinamento ai
genitori dei compagni dei figli, in maggior parte anche più giovani di lei di
cinque o dieci anni, ma con una mentalità quasi medievale. Accanto ai
doveri familiari ha frequentato vari corsi universitari italiani per allargare
la sua cultura. Amicizie non è riuscita a farne neanche allora: i ragazzi
erano molto più giovani di lei ed essi non si sono avvicinati ad una signora
matura, anzi si sentivano infastiditi dal suo tentativo di far conoscenza. Poi
c'è un'altra cosa che la rattrista particolarmente: la sfiducia degli Italiani
nei suoi confronti. Oh, sì, di parole gentili, superficiali gli Italiani non sono
avari, ma quando si tratta di fatti o di fiducia si ritirano con una veloce
retromarcia!
Magdolna però, anche se ora si sente più sola che mai, non ha perso la
grinta, la voglia di fare e di mostrare le sue capacità, anche se è già un po'
più stanca. Finché ha il desiderio e la forza di creare non si ferma:
l'esercizio della sua attività, delle sue professioni in proprio le dà un raggio
di sole, un po' di colore nella monotonia del suo esilio involontario ma
imposto dalla sua patria d'adozione. Ed e felice anche perché ha almeno la
pelle bianca. Se l'avesse di colore, il suo cammino sarebbe più
travagliato… ed è felice che non fa parte delle istruite prostitute
219
connazionali che vengono periodicamente in Italia per 'lavorare' presso gli
appartamenti dell'Eros… ed amaramente così descrive i suoi sentimenti,
osservazioni in italiano:
APOLIDE
Quando qualcuno mi dice:
“Sei fortunata, hai due patrie!” non lo sa neanche
quanto mi ferisca
questa frase…
Due patrie!…
magari, potessi dire!
Ma non è così e mi sento apolide.
È vero,
ho la doppia cittadinanza:
l’ungherese ed italiana…
Ma per l’Ungheria
son già solo straniera,
e qui in questa penisola
non son ancora italiana…
Due patrie!
Che grottesca situazione!
Ma in realtà son soltanto
senza radice: non appartengo
più al corpo della terra magiara, non son ancora ben radicata
in Italia, nella mia nuova patria…*
* La poesia è stata scritta nel 1993, mentre il racconto tra il 1997-2000. La prosa
e la poesia sono state create originariamente in lingua italiana.
220
V. Echi de La Storia di Magdolna
Cara Autrice
«Cara Autrice,
scrivo queste mie righe a colei che ha scritto «La storia di Magdolna»
che si trova nella Biblioteca Elettronica Ungherese. Prima è stato difficile
individuare chi fosse l’autore del testo, perché c’erano scritti due nomi…
Vorrei aggiungere un’osservazione al testo italiano, poiché non riuscivo
a credere ai miei occhi quando leggevo il racconto. Quasi casualmente
sono finita sulle pagine web MEK* e tra i molti autori non sapevo chi
scegliere e cliccavo alla cieca.
La storia scritta là faceva a mio caso. Incredibile! Mi chiamo Magdolna e
il mio primo marito era italiano. Certamente io «sono uscita» da questo
cerchio stregato e ho iniziato una nuova vita in Canada, come poetessa e
pittrice, ma una parte della mia vita, i ricordi della mia giovinezza sono
legati all’Italia.
Non riuscivo a credere ai miei occhi quando l’ho letto, si vede che ci
sono numerose compagne di sventura in Italia, quelle che sotto il nome di
casalinga oggi hanno una vita segregata e avvilente. È una trappola
diabolica che molte connazionali scelgono volontariamente, non sapendo
cosa le aspetta. Chi sa quante donne ungheresi di talento, perdendo una
vita promettente, le hanno infrante tra i lavandini delle cucine italiane?
(Scrivo in modo metaforico ma è tutto vero.)
Vorrei sapere se la protagonista della storia fosse un personaggio
simbolico oppure una casalinga ungaro-italiana in carne ed ossa? Se
esistesse vorrei scambiare qualche parola con lei.
Tanti saluti dal Canada e un ringraziamento per l’articolo, Magdolna»
(Magdolna B., Canada)
*N.d.R. Magyar Elektronikus Könyvtár ([Biblioteca Elettronica Ungherese] della
Biblioteca Nazionale «Széchenyi» di Budapest
Traduzione dall’ungherese ©di Michela Scaffidi
Cara Melinda
«Cara Melinda,
proprio in questo momento ho finito di leggere La storia di Magdolna e
mi sembra quasi di averla scritta io! L’Apolide esprime in modo fantastico
la nostra situazione. Mi scuso per il plurale, ma mi viene spontaneo, come
anche il fatto di darti del tu che solo dopo me ne sono accorta.
221
Per ora solo questo. Presto mi farò sentire di nuovo. Con affetto, Éva»
(Éva G. da un paese vicino ad Udine)
Traduzione dall’ungherese ©di Michela Scaffidi
Ho letto la storia di Magdolna
Non so se questa lettera arriverà alla persona giusta. Anch'io sono di
origine straniera e vivo in Italia dal 1981. Ho studiato tanto e ancora
conservo la mente aperta e curiosa anche se a volte non vorrei fare
niente e mi sento molto male e depressa. Il mio campo è l'arte. Mi sono
sposata un fiorentino e abbiamo due figli. Ho 43 anni e la mia vita è stata
una lunga catena di delusioni e infelicità. L'Italia per me è stata un buco
nero dove sono cascata per perdere la mia identità sociale e la mia
dignità. Adesso sono in patria fino a gennaio e piango tutti i giorni
vedendo che qui non potrei più tornare. Perché non conosco più
l'ambiente e la vita è molto difficile, ma in Italia? Cosa m'aspetta... Ho
persino fatto la spazzina e a casa dei miei ce la servitù. Vorrei farla finita
con il mio matrimonio ma sono terrorizzata di come fare per garantire un
futuro ai miei 2 figli già che da mio marito non posso aspettarmi niente.
Non ci ha mai dato una sicurezza da sposati, figuriamoci da separati.
Sono venuta senza un soldo pur di vedere la mia famiglia è angosciante
dover dipendere dei miei fratelli e della mia mamma anche per i soldi del
pullman. Tornerò in Italia a gennaio e tra le altre cose mi vogliono
mandare via di casa. Va bene adesso non posso scrivere tanto... In caso
mai scrivetemi. M.P.
Traduzione dall’ungherese ©di Michela Scaffidi
Contattare l'autrice della «Storia di Magdolna»: Melinda
Sono nata a Bogotà, la capitale della Colombia. Sono arrivata in Italia per
la prima volta nel 1985. Ti voglio anch'io raccontare un po' della mia vita.
Mi chiamo P... Mia mamma scelse questo nome da Pablo: San Pablo il
romano che perseguitava i cristiani. L'ho sentita tante volte nominare San
Pablo per il suo maschilismo ma anche perché fece pure giustizia alla
figura della donna. San Pablo ordinava alla donna e ai figli di seguire suo
marito e padre e ubbidirlo ma in seguito ammonisce l'uomo
raccomandandoli di non esasperare loro. Mia mamma è stata una figura
molto forte per me. Ai suoi tempi non usava che la donna studiasse e
meno per lei che apparteneva a una famiglia importante e benestante.
Lei ha finito la scuola superiore come tutti gli altri fratelli e sorelle ( che
erano 13). I suoi fratelli andarono all'università mentre lei e le sue sorelle
222
potevano già sposarsi, ma lei scelse di studiare lavoro sociale e per un po'
di tempo prestò i suoi servizi come volontaria in un paese dove la miseria
e la povertà sono una cosa immensa. Più avanti andò in Stati Uniti dove
imparò l'inglese, lingua che le sarebbe servita per difendersi nella vita
giacché nel suo matrimonio è stata lei a mandare avanti la barca facendo
delle traduzioni. Mia mamma ha parlato sempre con adorazione di suo
padre. Tutti mi hanno parlato di lui descrivendolo come un patriarca
saggio, giusto e pieno di bontà. Mia mamma era abituata a essere
rispettata e considerata e da quando si sposò trovò una realtà assurda
accanto ad un uomo infantile, egoista, tiranno, irresponsabile. Del
matrimonio sono nati 6 figli. Io sono la seconda. Durante tutta la mia
infanzia e l'adolescenza ho sentito giorno dopo giorno insulti gratuiti e
ingiusti contro la mia mamma e per noi figli sono abbondati soprusi,
castighi, colpi, urli. Mio padre è una persona di grande cultura e di origine
aristocratica ma purtroppo è cresciuto viziato da una educazione
sbagliata in cui lui era il centro dell'attenzione con tutti i diritti e nessun
dovere. Nonostante questa situazione così difficile mia mamma è riuscita
a comprarsi una casa e a mandare all'università tutti i suoi figli
conservando sempre un'apparente serenità anche se ai miei occhi non
poteva essere felice e mi dispiaceva che avesse solo i suoi figli e non
avesse un compagno di vita per appoggiarsi o trovare un po' di affetto.
Mio fratello maggiore è un ingegnere, io ho una laurea in grafica e le altre
sorelle sono laureate due in giurisprudenza e una in disegno
architettonico e un'altra economia. Io ho finito di studiare grafica nel
1980 in Colombia e solo adesso sto per arrivare in porto con la famosa
omologazione dei titoli. Volendo approfondire nella pratica artistica sono
finita qua in Italia, a Firenze: "culla dell'arte accademica". Anni dopo ho
saputo dalla bocca della mia mamma che era stata proprio lei a spingermi
ad andare lontano perché mi vedeva troppo in conflitto con mio padre e
questo le faceva paura. Mia mamma pensava che se non andassi via
qualche cosa di più grave poterebbe succedere. Io ero molto ribelle e
affrontavo mio padre con determinazione. Magari lei credeva che prima
o poi sarei scappata di casa e con la scusa dello studio, ha preso la palla al
balzo come si suol dire.
Questo me lo disse quando finalmente si separarono dopo 30 anni di
matrimonio. Così allontanandomi avrei potuto studiare l'arte che tanto
sognavo e di passo scampare la tormenta famigliare. Questo fatto però
mi costò anni dopo i rimproveri delle mie sorelle che avevano sofferto
per anni un ambiente famigliare d'inferno e credevano che io qua in Italia
stavo nella gloria. Quante volte ho pensato che se loro avessero saputo
223
veramente quante angosce e privazioni ho passato in Italia mi avrebbero
rispettata di più o mi avrebbero disprezzata di più perché in Italia una
persona straniera senza soldi scende subito socialmente. Mia mamma mi
mandava dei soldi mensilmente ma dovevo aiutarmi lavorando come
cameriera in un ristorante la sera o vendendo i miei quadretti per la
strada. Loro non immaginano neanche lontanamente cosa vuol dire
dover arrivare a lavorare raccogliendo pomodori insieme agli
extracomunitari africani o lavando piatti o raccogliendo spazzatura.
Eppure ho dovuto affrontare ogni sorta di lavori precari e umili pur di
portare qualche soldo a casa. Ho anche lavorato come insegnante per i
corsi professionali della comunità economica europea ma sempre per
lavori a tempo determinato. Ultimamente ero in Colombia e lottavo con
dei sentimenti di orgoglio per essere stata capace di affrontare tante
cose nella vita ma frustrazione perché ho fatto 11 anni di studi oltre le
superiori e ho lavorato tanto, tanto senza avere alcun risultato in quanto
alla stabilità materiale e lavorativa. Non è che la vita dei miei parenti in
Colombia sia facile o meglio della mia. È che provo un sentimento brutto
di inferiorità, di fallimento. Nonostante la situazione di semiguerra che
c'è non hanno perso la loro identità sociale, le loro radici culturali. Non è
che voglio essere importante o potente. Vorrei semplicemente un poco
di serenità e sicurezza e un po' di ricompensa dalla vita. Mi sembra di
essere arrivata a un certo livello nella mia professione nonostante tutto
ma sembra che io non fossi nessuno e che quel che faccio non servisse a
niente. Ho anche avuto problemi di salute in parte dovuti allo stress e
altri procurati dai troppi sforzi. Ho 43 anni e non ho una casa, non ho un
lavoro. Parlo come se fossi sola perché nonostante stia ancora con mio
marito ho dovuto fare da uomo e da donna per tanti anni e anche se da
un po' di tempo si è messo in testa di fare da capo famiglia andando a
lavorare tutti i mesi non so se è già troppo tardi per ricucire la stima e
l'affetto. Io mi sento già così stanca e vecchia e senza futuro che vado
avanti per inerzia, per i figli, perché non so dove andare a sbattere il
capo.
A volte penso che se non fosse per i figli non vorrei proprio vivere più.
L'unico che mi ferma nel lasciarmi andare e la paura di mancare a loro. A
volte mi rendo conto che sono troppo depressa e non potendo
trasmettere positività mi sento colpevole e a volte ferita perché loro mi
rimproverano il mio atteggiamento. Il fatto è che mi lamento sempre e
lascio troppo capire loro il mio stato d'animo. Lo so che non è maturo ma
sono così sola che finisco confidando a loro tutte queste paure e
trasmettendo insicurezza.
224
Ho in mente un progetto di impresa. Penso che l'unica carta che mi
rimane e di mettermi per conto mio a lavorare ma per ora non ho
maturato bene il modo.
Ti voglio fare vedere alcuni dei miei lavori, che ti mando in allegato. A
proposito. Io vivo in Toscana Nord sul mar Tirreno. Tu dove vivi? A volte
penso che più al Nord si trovi un ambiente più colto ma mi terrorizza il
clima. Davvero! Ho anche pensato di fuggire dall'Italia ma se avessi 20
anni in meno e fossi sola potrei avventurare. Oggi potrei andare solo
dietro a delle certezze. Chissà se altrove ci sia un posto dove possa fare
quello che mi piace e vivere del mio lavoro e soprattutto aspirare a un
futuro per me e per i miei figli... quello che in Italia non sogno più.
Un abbraccio.
A presto, P.*
Chissà, dove sia finita questa creatura, non ho più sentito sue notizie...
* Dal fascicolo dell’Osservatorio Letterario NN. 33/34 2003
VI. Del destino delle donne ungheresi
Ecco una parte della lettera ricevuta in risposta alla mia richiesta nel
2002 da una giovane neomamma di 28 anni che sta in Italia da un anno e
mezzo, e che volevo pubblicare in un volume nel quale si racconta del
destino delle donne ungheresi, però non ho potuto realizzarlo per
mancanza di testimoni:
«Cara Direttrice,
in Ungheria ero una maestra dell’asilo, ho preso qui il diploma, che qui
sfortunatamente non è valido. Ho provato a sistemarmi, perché il lavoro
per me significa tanto, ma qui *…+ la situazione non è come speravo io. In
patria, ad es. a Budapest, dove ho lavorato, non c’erano problemi a
trovare un asilo dove lavorare, ma qui sì. Non volevo trovare a tutti i costi
un lavoro come maestra, ma qua non ho potuto trovare nient’altro.
È amareggiante la situazione che c’è qua, e cioè che quasi tutte le donne
sono casalinghe, e se volessero, non avrebbero possibilità di trovare un
lavoro. Io avrei accettato un impiego come commessa, lavori dietro al
banco, ma qui sorge l’illegalità da ogni lato, il pagamento che offrono,
spesso non copre nemmeno le spese di viaggio…
Qui le donne sono veramente limitate nelle loro possibilità di realizzarsi.
Se i bambini vanno all’asilo o a scuola, non hanno bisogno della presenza
delle madri tutto il giorno. Così le donne potrebbero svolgere un lavoro di
mezza giornata, potrebbero uscire di casa.
225
Il programma del mattino è sempre lo stesso: faccende domestiche.
Quale riconoscimento potrà portare ciò a lungo andare? Anche le donne
hanno bisogno di apprezzamenti e non solo per le conoscenze culinarie.
Noto che le casalinghe a tempo pieno sono più nervose e insofferenti
rispetto a quelle che si occupano anche di altre cose nella vita. Queste
ultime con i loro figli sono molto più tolleranti, più interessate, e inoltre
non si concentrano solamente sull’andamento scolastico, ma possono
raccontare ai loro figli cose che possono interessare ai figli (dove è andata,
chi ha conosciuto, che giornata ha avuto...), offrirgli novità. La monotonia
casalinga fa sparire il loro interesse, la loro pazienza, le fa diventare
introverse e i loro argomenti si limitano a uno o due cose. Purtroppo devo
constatare questo. Le ambizioni si perdono *…+
*…+
Perciò alla domanda se sono delusa del mio futuro qui, purtroppo devo
dire che in parte la mia risposta è un sì. Ho lasciato il mio adorato lavoro,
qui non ho ricevuto niente, non sono riuscita a diventare nemmeno una
commessa, perché non c’è bisogno di me, se no, in modo illegale
soltanto. Non mi sento utile, come mi sentivo in Ungheria, e secondo la
mia autocritica sono portata di più di quello di governare solamente la
casa. Avrei voluto accettare anche l’insegnamento dell’inglese, ma non
interessava a nessuno *…+ Qui lo studio non va di moda.
È successo che ho accettato di insegnare gratuitamente l’inglese a due
ragazzi; all’inizio venivano con gioia, ma dopo 3-4 lezioni mi sono accorta
che avrebbero preferito giocare a calcio. I genitori non hanno detto niente
su questo. Non è troppo lussuoso? L’insegnamento dell’inglese nelle
scuole di questo paese è pessimo; i ragazzi imparano a stento qualcosa. A
questo proposito mi è venuto in mente lo studio del russo di una volta.
Cosa avrei voluto fare in questo paese che ho scelto come seconda
patria? Lavorare, essere una donna attiva ed anche io contribuire alle
spese familiari. La mia conoscenza della lingua non è al 100%, ma è più
che sufficiente per un lavoro da commessa. L’unica fortuna è che mio
marito ci può mantenere ma un altro piccolo stipendio farebbe comodo.
Cosa cambierei? Niente, ho già provato tutto, mi sono stancata, ho fatto
domanda in mille posti, ho fatto annunci, dunque non c’è nient’altro, devo
accettare questa situazione ed aspettare affinché possiamo andare più a
Nord
*…+
Con molto affetto: Ildikó» (Ildikó K. dalla Sicilia)
Traduzione dall’ungherese ©di Michela Scaffidi
* Dal fascicolo dell’Osservatorio Letterario 79/80 2011
226
LE DONNE NELLA SOCIETÀ ITALIANA DI IERI E DI OGGI
I. DONNE ITALIANE NELLA LETTERATURA E NEL GIORNALISMO
I.1 UN BREVE PANORAMA STORICO-CULTURALE E SOCIALE
Alla fine del secondo Millennio, le donne non paiono così lontane da
quelle che ne hanno vissuto l'inizio: in quasi cent'anni ci sono stati
mutamenti enormi e impensabili, ma la sensazione è che tutto sia
avvenuto, sia pure per merito delle donne, fuori di loro, alla periferia della
loro esistenza. Se la donna non è rimasta immobile, se la sua rivoluzione è
in apparenza una delle più tenaci avvenute in Italia negli ultimi decenni, il
senso della sua esistenza ancora ondeggia tra miti e mete distanti e
diverse. E gli uomini, al di là dei confini dei rapporti affettivi, continuano a
guardarle con sospetto, a giudicarle, a diffidarne. Le donne soggette e
cancellate sono riemerse, si sono fatte visibili, si sono imposte, hanno
voluto emancipazione, liberazione, parità fino a riscoprire la differenza. Ed
ogni volta, ad ogni cambiamento o voglia di cambiamento sono state
giudicate, sgridate, ammonite. Il cammino è stato lungo, ricco di quelle
che chiamano conquiste secondo una cronologia dettata dalla storia degli
uomini. Ma oggi si è certi che le conquiste non sono mai acquisite, la
libertà sessuale è minacciata dall'AIDS e da tante altre malattie infettive e
così via. Le donne in generale restano più povere degli uomini, la politica è
maschile, le carriere, anche se tutte aperte, si scontrano a un certo punto
sul cristallo invisibile che separa le donne di successo professionale dal
vero potere.1
La conquista — la quale è nemmeno soddisfacente neanche oggi — da
parte delle donne dello spazio pubblico è il frutto di un lungo cammino. Il
secolo appena lasciato alle spalle che è stato segnato da due guerre
mondiali, da violente contrapposizioni ideologiche, da repressioni spietate
degli avversari politici, dai campi di concentramento e dall'Olocausto è
anche quello —che contraddizioni della storia! — che per la prima volta
riconosce, in Italia ed in Europa per le donne i diritti di cittadine. Viene
saldato così il debito che la Rivoluzione francese aveva contratto con le
donne quando nel 1789 aveva proclamato per tutti —ma non per le
donne— i diritti civili e politici.
L'emancipazione della donna significa anche, e forse soprattutto,
liberazione dalle «virtù che si convengono al suo sesso»: la silenziosa
disponibilità al padrone (padre, fratello, marito), la modestia dei
comportamenti, la mancanza di desideri e di volontà, la capacità di soffrire
in silenzio e incondizionata obbedienza. Queste virtù imposte alle donne
227
venivano considerate difetti per gli uomini, chiamati ad affrontare il
mondo da padroni.
La questione femminile è storicamente segnata dalle differenze sessuali
che si sono tradotte immediatamente in differenze di ruolo sociale e di
condizione culturale e morale. In tal modo, assumendo come
fondamentale la distinzione sessuale tra uomini e donne, ai maschi si sono
attribuiti un ruolo di potere, di decisione e di direzione e alle femmine è
stata assegnata ed imposta una funzione subordinata di custode della
casa e della famiglia. La natura di femmina capace di procreare altri esseri
umani ha relegato la donna in una condizione di sottomissione all'uomo,
impedendole non soltanto di svilupparsi e realizzarsi, come natura umana,
in piena libertà ed autonomia, ma destinandola immutabilmente ad un
compito subalterno. Sicché mentre le donne sono state da sempre
relegate nel ristretto privato —la famiglia, la casa— gli uomini si sono
impadroniti della sfera sociale: la collettività organizzata, l'economia, la
politica, la cultura, la scienza, etc.
Il processo di emancipazione e liberazione delle donne, uno dei
fenomeni più importanti della storia del secolo appena passato in Italia, è
assai complesso; investe leggi, costumi e culture e non può essere ridotto
né alla illustrazione di meri dati statistici, né a un repertorio di alcune
donne illustri. Tante sono le donne che hanno avuto un ruolo nella
cronaca, nel costume, nello spettacolo, nelle battaglie civili e sociali, nella
politica, nelle arti, nella letteratura, nella scuola riuscendo a proporre ed
imporre una presenza femminile. Queste donne hanno aperto la strada
alle successive generazioni che poi, su quella strada hanno potuto avviarsi
con passo più rapido e deciso. Di molte di queste donne e delle loro
attività però, non si trova traccia nei libri di testo o nelle enciclopedie.
Ecco un esempio tra le tante: 111 anni fa si laurearono in Italia sei
donne. Lidia Poet, la prima laureata in giurisprudenza, si vide rifiutare
l'iscrizione all'Albo, così non poteva esercitare la professione. Ricorse in
Cassazione, e anche qui fu sconfitta, con una sentenza che solennemente
affermava «la non ammissibilità della donna all'esercizio della professione
forense». Nel 1911 in Italia venne introdotto il cosiddetto «suffragio
universale». Un neo aveva: che quel «suffragio universale» non significava
nessuna universalità, dato che ne erano escluse le donne! Questo diritto
venne conquistato solamente nel 1945! Oppure più tardi, nel 1948
quando agli uomini, cui il fascismo aveva sottratto il diritto di voto, esso
venne finalmente restituito, alle donne venne dato soltanto per la prima
volta con qualche preoccupazione da parte di tanti: temevano che quel
voto potesse rafforzare lo schieramento conservatore. Con il diritto di
228
voto e l'affermazione, sancita nella Carta Costituzionale, della parità dei
diritti tra tutti i cittadini, si apre alle donne la possibilità di far pesare le
loro rivendicazioni sul terreno politico, economico e sociale. È stata una
battaglia lunga che ha portato nel giro di una generazione a importanti
successi sul piano legislativo e del costume. Di questa battaglia le donne
stesse erano protagoniste con le loro organizzazioni.
Nell'Italia semidistrutta dalla guerra, le condizioni di vita erano
estremamente difficili. Nel 1946 il salario reale non superava il 50-60 %
del salario reale dell'anteguerra. In queste condizioni è naturale e non c'è
niente da stupirci, che le prime battaglie delle donne italiane avessero
obiettivi apparentemente modesti ma essenziali: si trattava di conquistare
il diritto a una casa, alla scuola, all'assistenza, al lavoro. Alcune di queste
battaglie vennero anche coronate da successo: si conquistò allora quella
legge sulla tutela della maternità, quella parità di salario tra uomini e
donne che, ancorché proclamata nella Costituzione, non era rispettata
nella realtà (però neanche oggi!). Allora una donna che lavorava in
fabbrica o in banca poteva venire licenziata quando si sposava. Anzi
talvolta le veniva chiesto di sottoscrivere, nel momento dell'assunzione, la
cosiddetta «clausola di nubilato». A questo proposito la giornalista
Miriam Mafai così ricorda: «Ricordo i picchetti organizzati dall'Unione
Donne Italiane (una organizzazione di sinistra molto attiva) che, davanti a
un importantissimo istituto di credito, innalzavano i cartelli: "Per la legge il
matrimonio è un contratto, per la Chiesa un sacramento, per questa
banca è un reato"» 2
Alla Costituente, un autorevolissimo parlamentare democristiano,
docente universitario di diritto privato penale affermò che le donne non
potevano fare il magistrato «perché soffrendo di mestruazioni e
menopausa», non avrebbero avuto, in quei periodi, la serenità necessaria
per giudicare. Le deputate, tutte, dalle comuniste alle democristiane,
protestarono, ma ottennero soltanto che la questione venisse lasciata in
sospeso. Venne risolta la questione soltanto quindici anni dopo, con la
legge del 1963, che apriva alle donne tutte le carriere, senza esclusione.
Così, grazie alla opposizione dei parlamentari di sinistra e liberarli venne
lasciata in sospeso, alla Costituente, anche la questione della
indissolubilità del matrimonio, il che ha consentito di introdurre, nel 1970,
il divorzio senza ricorrere a una legge di revisione costituzionale
(procedimento che, dati i rapporti di forza vigenti, sarebbe stata
condannata all'insuccesso).
Ecco ancora un altro esempio: le ragazze di oggi non potrebbero
neanche immaginare che 35 anni fa l'adulterio del marito non veniva
229
considerato reato, mentre anche il solo sospetto di adulterio della moglie
era considerato motivo valido per ottenere una separazione per colpa.
L'adulterio è stato considerato delitto previsto dall'art. 559 c. p.
(dichiarato incostituzionale con le due sentenze del 19.12.1968, n. 126 e
3.12. 1969, n. 147), che puniva, con la pena della reclusione fino ad un
anno, l'infedeltà coniugale della moglie! La dichiarazione
d’incostituzionalità fu dovuta al fatto che l'infedeltà del marito era punita
soltanto se si concretava in concubinato, creando un'ingiustificata
disparità di trattamento tra i coniugi. Al giorno d'oggi poche persone
ricordano che esistevano allora anche i cosiddetti «fuorilegge del
matrimonio» — erano milioni — che vivevano insieme senza potersi
sposare, rischiando la persecuzione legale da parte del coniuge
abbandonato. La signora Giulia Occhini di Novi Ligure, sposata, ma
convivente con il famoso ciclista Fausto Coppi, venne arrestata per questo
suo comportamento che era considerato reato. Ai «fuorilegge del
matrimonio» era proibito avere bambini. La legge italiana, feroce ed
assurda insieme, stabiliva che il figlio di una donna sposata dovesse venire
denunciato all'anagrafe con il cognome del marito, anche se i due non si
vedevano più da anni. Sempre per via di quella legge un uomo sposato
non poteva riconoscere un figlio nato fuori dal matrimonio. Insomma due
conviventi, reduci da matrimoni falliti, non avrebbero mai potuto dare il
loro nome a un bambino nato dalla loro unione per quanto desiderato,
atteso ed amato. Sono state cambiate in positivo tante cose, sono state
conquistate la dignità, la libertà individuale, ma non sufficientemente.
Nella vita quotidiana ci sono degli ostacoli notevoli a causa delle
mancanze istituzionali che potrebbero aiutare le donne nell'inserimento
nel mercato del lavoro. Non si può parlare della libertà individuale se non
si riesce a raggiungere una certa autonomia finanziaria. Sì, ci sono sempre
più donne che lavorano fuori casa come dipendenti, autonome o
professioniste, ma... Poi cresce sempre di più la disoccupazione femminile.
La povertà è femminile! Il massiccio ingresso delle donne nel mondo della
produzione, della cultura, delle scienze, delle professioni non è avvenuta
senza travaglio, ed ancor oggi è una questione irrisolta: alle donne viene
chiesto un grande impegno al quale però la società italiana fortemente
maschilista non ha ancora risposto in modo adeguato. Ecco soltanto
qualche esempio: insufficienza dei servizi, rigidità degli orari di lavoro. Ciò
nonostante spesso avviene la scelta forzata: o famiglia o carriera. Chi ha
un lavoro, molte volte è costretta ad abbandonarlo a causa della nascita
dei figli. Ci sono sistemi praticati che, nonostante le prescrizioni della
legge, operano affinché le donne non vengano ricollocate al lavoro.
230
Durante la guerra le donne sono state coinvolte direttamente nella
produzione, nella lotta, nella politica. Da lì non si poteva tornare indietro.
Anche se poche, alcune sono quindi entrate a far parte della Costituente,
nella Commissione dei Settantacinque, e hanno imposto — quale che
fosse il loro schieramento politico — il concetto di parità. Ma nella
Costituzione italiana c'è un punto che nega la parità, è l'articolo 37: «La
donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse
retribuzioni che aspettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono
consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e
assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione. ...»
Che cosa significa l'espressione «essenziale funzione familiare» della
donna lavoratrice? Nient'altro che è quella di essere moglie e madre. Una
puntualizzazione voluta dai cattolici, che hanno combattuto per inserirla.
Si tratta di un comma che è stato usato dalla magistratura in varie
sentenze; molte cause in nome dei diritti civili femminili sono state perse
proprio perché l'articolo 37 stava lì a dire che il ruolo fondamentale della
donna è quello domestico.
In Italia siamo in ritardo su tutto: in ritardo e malamente hanno
realizzato l'istruzione di massa, in ritardo e malamente è stata affrontata
la parità femminile.
Il destino delle donne, nei primi decenni del secolo scorso era quasi
esclusivamente segnato dal loro sesso, che ne sancì l'inferiorità giuridica, il
non diritto al voto (che pure si chiamava suffragio universale!),
l'impossibilità di accedere alle professioni, la soggezione al marito, titolare
anche della patria podestà dei figli. La donna che piaceva doveva essere
graziosa, ingenua, stupida, casta: ancora negli anni Cinquanta le madri
raccomandavano alle figlie di non ridere quando gli uomini raccontano le
barzellette salaci per dimostrare che non se ne era capito il doppio senso,
di non mostrare un po' di cultura o di passione per la letteratura per non
essere definite saccenti, di non portare gli occhiali da vista — nei film
caratterizzavano sempre la bruttona ridicola — non tanto per una
questione estetica, ma perché qualcuno avrebbe potuto pensare che
l'occhialuta si era consumata gli occhi sui libri: la cosa meno femminile che
si potesse immaginare! L'unica carriera sicura per le donne era il
matrimonio e la caccia al marito era un dovere affannoso: a un certo
momento si sposava chiunque capitasse, anche se faceva un po' schifo,
perché nulla era peggio di essere annoverata tra le zitelle, tra quelle che
nessuno ha voluto. La giornalista Natalia Aspesi così commenta la
situazione femminile d'un tempo: «Per trovare marito bisogna essere
vergini, o almeno passare per tali: intere generazioni di donne hanno
231
vissuto la loro giovinezza a difendere quel misterioso angolo del loro
corpo che non sanno neppure dove esattamente si trovi e in che cosa
consista. Se l'ignoranza è un pregio, l'ignoranza sessuale è la migliore delle
virtù, è il fascino sonnacchioso, ma indispensabile della cosiddetta brava
ragazza da marito. Se la brava ragazza diventa distrattamente ragazza
madre, non è più da marito, non la vuole nessuno, né il suo complice né
spesso, neppure i genitori. Attorno al sesso, si compiono tutte le tragedie
della vita femminile: le ragazze perdono più tempo a difendere la loro
verginità che a studiare. "Cedere", in preda a follie d'amore, significa
"passare all'altra sponda", essere una creatura diversa, peccatrice,
pericolosa, inaffidabile, che disonora la famiglia e se stessa; non ha
importanza se il conquistatore è stato convincente, appassionato,
travolgente: anche ai suoi occhi l'innamorata che gli "si è data" come
prova suprema d'amore sacrificale, si deprezza, diventa indegna di lui. Le
ragazze degli anni Cinquanta —la generazione di mia madre [N.d.A.]—
hanno continuato a dibattersi come le loro madri dentro questa assurda
prigione, che facendole solo sesso, non consente loro di essere persona.
Non è il tempo della rivoluzione sessuale, gli anni sessanta, a ridare alle
italiane il diritto a non concentrare tutte se stesse su una sessualità che
non devono praticare e che la minaccia continuamente: in quegli anni la
libertà ha un valore soprattutto estetico, di grazia adolescente, e i modelli
sono Catherine Spaak, Claudia Cardinale, Mina, belle ragazze spericolate
e troppo truccate e cotonate, capaci di far ammattire gli uomini di cui non
sono più vittime, ma sempre "conservandosi" adesso allegramente, per
quello giusto. Il grande scandalo di quegli anni sono le nuove eroine, le
ragazze madri celebri, come Mina, Carla Gravina: le cronache sono molto
caute, mezza Italia le giudica, la RAI preferisce per un po' non esibire
Mina, i film di Gravina escono temporaneamente dai circuiti parrocchiali.»
Il Sessantotto fu una breve, giovane, gioiosa ed inerme stagione molto
maschilista: le ragazze erano tante, ma nessuna diventò un leader. Eppure
fu proprio nelle università, soprattutto a Padova e a Trento, dove le
ragazze si accorsero per la prima volta della loro disparità, dell'ingiustizia
della loro marginalità e così nei primi anni Settanta, mentre una parte
molto piccola degli studenti ribelli prendeva la strada dei gruppi eversivi e
si perdeva nell'utopia e nella violenza della lotta armata, le ragazze più
politicizzate, più colte, più creative, gettavano le basi della grande, ricca
stagione del femminismo italiano: è una ricercatrice dell'università di
Padova a scrivere il testo fondamentale, cui ne seguiranno tanti, della
liberazione femminile in Italia: si tratta di Maria Rosa Dalla Costa, ed il
suo libro: «Potere femminile e sovversione sociale».3
232
Le donne, che potrebbero dare un enorme contributo alla vita del paese,
sono mortificate e compresse. Ci sono ancora troppi ostacoli e troppi
pregiudizi che le impediscono di liberare davvero le energie femminili. Il
cammino della donna italiana oggi è ancora più arduo di quello di ieri e sta
nella sua innata poliedricità riuscire a far conciliare l'attività lavorativa con
l'essere donna, moglie, madre. Nell'attuale società la famiglia italiana è
ancora fondata su una base autoritaria, per cui i giovani si trovano in un
rapporto di subordinazione rispetto agli adulti e le donne sono ancora
soggette agli uomini. Fino a che i rapporti di potere non cambieranno
anche le leggi serviranno ben poco! Una parità sostanziale e non soltanto
formale tra donna ed uomo si potrà avere soltanto quando la società
italiana sarà effettivamente permeata da uno spirito democratico che
non permetta più ingiustizie, sopraffazioni, privilegi. Tra il 1986-1990 il
gruppo Onda dell'UDI (Unione Donne Italiane) ha condotto una ricerca a
tappeto sul rapporto tra donna e lavoro e da allora la situazione femminile
non s'è cambiata granché: storie di svariate discriminazioni, inserimenti
difficili. Delle donne si pensa ancor oggi che prima debbano accudire
marito, figli, genitori, suoceri, vecchi zii che non farsi una propria
indipendenza economica. Certo, non è problema di leggi perché una
diversa mentalità, un diverso modo di pensare non si impongono con le
norme giuridiche. Ma anche se si volesse considerare il problema
solamente legislativo, basta pensare a quante sono le donne su circa
1000 parlamentari! Inoltre gli strumenti di diffusione della cultura sono
predominio dell'uomo il quale manovra lo sviluppo civile e sociale nel
modo che più gli torna comodo e cerca di perpetuare una concezione
della figura e della funzione femminile che assicuri a se stesso il massimo
dei vantaggi possibili. L'identità femminile è determinata non da quello
che le donne effettivamente sono, ma da quello che gli uomini vogliono
vedere o meglio fa loro comodo in esse. Quindi, ciò che oggi soprattutto
limita e condiziona la donna è il fatto che ella, nella maggior parte dei casi,
deve assumere l'onore di un doppio lavoro: professionale e casalingo, il
compito di organizzare la vita familiare e di provvedere al benessere di
tutti, e l'eventuale aiuto del marito e dei figli —in maggior parte
inesistenti— può alleggerirne il peso, ma non eliminarlo. Bisogna
convincersi che il mondo, la società, questo nostro consorzio umano,
sono stati costruiti dall'uomo nello stretto senso di maschio a sua
immagine e somiglianza, cioè su misura per lui. Si pongono
inevitabilmente delle domande: perché c'è l'apparenza che l'uomo sia
superiore? Perché i grandi geni sono sempre stati maschi in tutti i campi
perfino in quelli che vengono generalmente considerati più adatti alla
233
mentalità ed alle capacità femminili (se in ogni caso vogliamo insistere per
distinguerli): i più grandi poeti e musicisti, i più famosi cuochi, i più
affermati sarti sono uomini. Ecco la risposta all'amaro perché: tutto
dipende dalla maggior forza fisica del maschio, la maggior resistenza
dell'uomo gli ha assicurato, con la forza, la superiorità sulla donna. Questa
superiorità puramente muscolare si è perpetuata nei secoli, ha fatto sì
che l'uomo fosse sempre stato considerato il capo, il padrone, quello che
aveva tutti i diritti, compreso quello allo studio, all'istruzione e al miglior
trattamento familiare per essere servito in ogni circostanza. In queste
condizioni le capacità della donna si sono, diciamo così, atrofizzate fino ad
essere effettivamente inferiori, sotto certi aspetti, a quelle dell'uomo. Ed
ora ci sono ancora donne, quando educano i figli, la figlia la vogliono
gentile, servizievole, carina, le insegnano a fare tutto ciò che in seguito
farà piacere all'uomo; mentre al maschio insegnano il coraggio, le maniere
energiche, ne incoraggiano gli studi e le capacità mentali in tutti i modi,
dimenticando di insegnargli e di tramandargli la parità dei diritti tra i sessi.
Il quadro generale anche delle famiglie è ancora il seguente — anche
nell'ambito intellettuale —: quando i coniugi tornano a casa dopo una
giornata di lavoro impegnativa, faticosa, ammettiamo pure appagante per
entrambi, quella che si deve sobbarcare il supplemento di lavoro
domestico è quasi unicamente la donna senza un minimo senso di
rimorso e di disagio da parte del marito.
La giornalista e saggista Marta Boneschi così vede la situazione attuale:
«È vero, le donne italiane sono cambiate tantissimo, direi che sono
cambiate quasi in tutto in questo mezzo secolo: erano subordinate,
oppresse, diverse dagli uomini, inferiori agli uomini, inferiori per legge,
inferiori secondo il costume e le usanze. Dovevano obbedire al padre
prima di sposarsi e obbedire al marito dopo essersi sposate. Oggi sono,
almeno sulla carta, indipendenti, autonome, si guadagnano da vivere,
decidono il loro destino, scelgono se studiare o se non studiare, possono
uscire di casa, possono sposare chi vogliono. Questa è una realtà in Italia
relativamente recente e sono le conquiste dell’ultimo mezzo secolo, non
ancora completamente attuate, ma sono comunque conquiste molto
grandi e che a mio parere hanno davvero cambiato il corso della storia in
Italia. Questo cambiamento è una rivoluzione grossa come il "miracolo
economico" e sicuramente si tratta di un cambiamento migliore di quello
che può portare qualsiasi guerra guerreggiata. Anche se è vero che il
cambiamento femminile è stato una "guerra guerreggiata", senza morti e
feriti, senza armi, ma è stata senz’altro una grande battaglia, una grande
rivoluzione. Però non possiamo dire che le donne italiane siano davvero
234
autonome ed indipendenti. Perché purtroppo non sono tali, nella vita
quotidiana le donne italiane hanno ancora dei fardelli che le mettono in
una condizione di inferiorità rispetto agli uomini, quindi la parità non è
completamente attuata; però, se non altro, noi possiamo dire oggi che in
Italia le cose stanno diversamente rispetto a qualche decennio fa. Oggi
nessuno si impegnerebbe per affermare che le donne sono inferiori o che
le donne non sono persone, come si diceva una volta. Oggi le donne sono
considerate a tutti gli effetti "persone", però vedo con sgomento che le
donne in Italia lavorano meno che nel resto dell’Europa, partecipano
molto meno degli uomini alla vita pubblica, politica. Le donne hanno
quello che si usa chiamare —come di sopra ho già accennato [N.d.A.] — il
"doppio lavoro": lavorano in casa, in famiglia e fuori casa, perché gli
uomini italiani hanno il poco invidiabile primato di essere, tra gli europei,
gli uomini che meno partecipano e contribuiscono alla vita familiare.
L’inferiorità delle donne, quindi, anche se non è affermata a parole, esiste
ancora. Servirebbe sicuramente anche una "rivoluzione culturale", oltre
a quella politica, perché in Italia è molto diffusa una cultura misogina,
una cultura che va contro le donne, che non stima le donne [N.d.A.:
Evidenziata da me]. Penso però anche a qualcosa di molto più semplice,
parlo di provvedimenti pratici che dovrebbero essere presi da subito dagli
organi pubblici, dal Parlamento alle amministrazioni locali. Penso
soprattutto agli asili nido e ai trasporti perché, secondo me, sono due
aspetti che oggi incidono fortemente sul tempo delle donne e una delle
risorse che oggi è meno a disposizione delle donne è proprio il tempo. Le
donne non hanno mai tempo perché hanno davvero sempre troppo da
fare. Questi sono i primi provvedimenti politici da prendere e poi credo
che qualunque forma di liberalizzazione dalle pastoie burocratiche
favorisca le donne.»4
Il Novecento si è chiuso senza che il grande problema sul rapporto tra i
sessi sia stato risolto. La politica è rimasta un mondo maschile, in cui le
donne ancora contano poco, defilate in ambiti sociali, ritenuti femminili e
non prettamente politici, essendo, tuttora, il politico maschile. Le donne
fanno grandi carriere, possono accedere ormai a tutte le professioni, ma
sono solo una minoranza che serve probabilmente solo a camuffare la non
cancellata disparità tra donne ed uomini. Le studiose, le filosofe, le
storiche, le scienziate, l'aristocrazia universitaria ed intellettuale stanno
tentando di smantellare la cultura, che è profondamente, esclusivamente,
la cultura degli uomini. Il potere accademico è tutto maschile, rare le
donne cui viene concesso l'accesso alle cattedre. Il conflitto tra i sessi
finora irrisolto continua ad appannare emancipazione, parità, liberazione,
235
quello che pone uno di fronte all'altro il maschile ed il femminile, gli
uomini che credono di perdere potere e si difendono colpevolizzando (e
amando meno) le donne, le donne che si affannano nel tentativo di
godere di una presunta libertà che poi risulta veramente inconsistente,
bugiarda. A partire dagli anni Novanta il segnale più forte della differenza
nel senso della disparità e dell'impossibilità di capirsi, è dato dal sempre
più forte e disgustoso sessismo delle immagini, dell'enfatizzazione del
copro femminile come strumento di piacere sessuale per uomini, le
pubblicità alimentari o per le vendite delle automobili, etc. sono infarcite
dalle immagini delle varie parti intime del corpo femminile; l'esaltazione
della donna ideale con sfondo sessuale continua attraverso la televisione,
nella pubblicità, negli spettacoli, in internet: bella e sporcacciona,
casalinga tecnologica superaccessoriata che, con uguale perizia, ancheggia
e fa luccicare gabinetti. Nei varietà televisivi, gli uomini sono sempre
vestiti, le ragazze seminude, rese caricaturali da seni immensi, da sederi
sbattuti allegramente sul video in primo piano. Se in cent'anni le donne
hanno conquistato il diritto alla sessualità, al desiderio, restano tuttora
oggetti sessuali la cui immagine è governata esclusivamente dai bisogni
maschili. Per non parlare di uno dei più gravi problemi sociali: di quella
sempre estesa prostituzione non soltanto nell'ambiente dei ceti degradati,
ma anche di quelli altolocati… e degli omicidi delle mogli, fidanzate,
sorelle da parte dei maschi —(ex) mariti e fidanzati oppure fratelli, zii etc.
— quotidianamente annunciati dalle cronache.
Il Novecento, grande secolo per il progredire femminile anche politico, si
è terminato lasciandoci l'eredità d'una neopovertà e un'incredula,
criminale Italia in cui le donne rischiano di riprofondare nell'antico ruolo
sofferente, provvido, domestico, dolente —come anche la giornalista
Lietta Tornabuoni ha già constatato dieci anni fa—… La questione
femminile italiana non si è affatto risolta neanche all'inizio del terzo
Millennio, anzi… le scarse possibilità per le donne nel mercato di lavoro
parlano di sé. I pochi esempi contrari non possono essere generalizzati,
quindi, non rispecchiano la realtà delle donne italiane di oggi…
I.2 DONNE ITALIANE NELLA LETTERATURA E NEL GIORNALISMO
La letteratura delle donne, elaborata sin dall’antichità con tematiche e
moduli espressivi propri, è stata sempre considerata minore solo perché
non copiosa e divulgata come quella maschile, tuttavia voci autorevoli di
donne si sono affermate con energia, trasformandosi da «oggetti»
letterari a soggetti, da muse ispiratrici ad autrici.
236
La prima donna italiana a prendere la penna con intenti letterari fu
Compiuta Donzella, una musica fiorentina del 1200, di cui ci restano tre
sonetti. Prima voce femminile in volgare italiano, i cui sonetti le valsero il
felice pseudonimo. Furono tre per l’esattezza, amorosi e dolenti, in seno
alla seconda metà del ‘200. Rimatrice fiorentina apprezzata dalla critica
per i sentimenti sinceri, la raffinata espressione e l’ispirazione malinconica
e sognatrice:
A la stagion che 'l mondo foglia e fiora
A la stagion che 'l mondo foglia e fiora
acresce gioia a tut[t]i fin' amanti:
vanno insieme a li giardini alora
che gli auscelletti fanno dolzi canti;
la franca gente tutta s'inamora,
e di servir ciascun trag[g]es' inanti,
ed ogni damigella in gioia dimora;
e me, n'abondan mar[r]imenti e pianti.
Ca lo mio padre m'ha messa 'n er[r]ore,
e tenemi sovente in forte doglia:
donar mi vole a mia forza segnore,
ed io di ciò non ho disio né voglia,
e 'n gran tormento vivo a tutte l'ore;
però non mi ralegra fior né foglia.
Lasciar vorria lo mondo e Dio servire
Lasciar vor[r]ia lo mondo e Dio servire
e dipartirmi d'ogne vanitate,
però che veg[g]io crescere e salire
mat[t]ezza e villania e falsitate,
ed ancor senno e cortesia morire
e lo fin pregio e tutta la bontate:
ond'io marito non vor[r]ia né sire,
né stare al mondo, per mia volontate.
Membrandomi c'ogn'om di mal s'adorna,
di ciaschedun son forte disdegnosa,
e verso Dio la mia persona torna.
Lo padre mio mi fa stare pensosa,
ca di servire a Cristo mi distorna:
non saccio a cui mi vol dar per isposa.
237
Ornato di gran pregio e di valenza
Ornato di gran pregio e di valenza
e risplendente di loda adornata,
forte mi pregio più, poi v'è in plagenza
d'avermi in vostro core rimembrata
ed invitate a mia poca possenza
per acontarvi, s'eo sono insegnata,
come voi dite c'a[g]io gran sapienza;
ma certo non ne son [tanto] amantata.
Amantata non son como vor[r]ia
di gran vertute né di placimento;
ma, qual ch'i' sia, ag[g]io buono volere
di senire con buona cortesia
a ciascun ch'ama sanza fallimento:
ché d'Amor sono e vogliolo ubidir.
Resta un enigma storico Compiuta Donzella, il nome, o lo pseudonimo,
sotto cui si cela una rimatrice fiorentina del Duecento, probabilmente la
prima donna che compone poesia d’arte in volgare italiano, della quale ci
sono pervenuti solo tre sonetti di gusto trobadorico e giullaresco, due dei
quali di una perfezione formale molto vicina a quella del Petrarca. Per
mancanza di altri riscontri, letterari o biografici, la Compiuta (nome,
peraltro, usuale nella Firenze del tempo in cui visse) è stata a lungo
oggetto d’inattendibili ipotesi spesso di carattere romanzesco.
Guittone d’Arezzo le indirizza un’epistola, la quinta, che suona come un
panegirico delle sue virtù: «Soprapiacente donna, di tutto compiuto
savere, di pregio coronata, degna mia Donna Compiuta, Guitton, vero
devotissimo fedel vostro, de quanto el vale e po’, umilmente se medesmo
raccomanda voi».5
E c’è anche un sonetto di un autore anonimo che allude alla fama di
Compiuta come autrice di poesie, in cui un verso così recita «che di
trobare avete nominanza»; il verbo «trobar» indicava appunto l’attività
dei trobadours, i poeti provenzali che armonicamente intrecciavano
parole e musica. Se riconosciuta era la sua attività, se pubblicamente
veniva esaltata la sua voce, come dimostrano le lodi e i riferimenti, in un
‘epoca come quella medievale in cui molto raramente alle donne era
concesso esprimersi in letteratura, Compiuta dovette allora essere dotata
d’indubbie qualità artistiche.
Bisogna arrivare fino al Cinquecento per trovare altre poetesse di un
certo valore. Queste furono tutte donne di cultura, signore, principesse o
238
cortigiane. Nell'Italia del Rinascimento le poetesse di successo aderirono
ad una norma di origine maschile, fuori dalla quale non sarebbe stata
riconosciuta loro la stessa dignità. Si può dire che il massimo del loro
riconoscimento e del loro successo è il corrispettivo del minimo di
autonomia sul piano formale e sostanziale. Ci sono tuttavia almeno due
figure di donne che fanno eccezione a questa regola. La loro vita si riflette
nella loro poesia in larga misura estranea al modello dominante. Si tratta
di Gaspara Stampa (1523 - 1554) e di Isabella Morra (1520 - 1546), che
pagarono ambedue per questa diversità, sia pure in modo diverso.
Gaspara Stampa, morta a soli 31 anni a Venezia, si distinse per la
passionalità e per la forza per cui proclamò il diritto della donna ad amare
sempre e comunque fuori da ogni sanzione legale.
Isabella Morra rimase insieme a sei fratelli ed a una sorella nel feudo
paterno, in Basilicata, mentre il padre, nel 1528, riparava a Roma,
temendo le rappresaglie spagnole in quanto filofrancese. Sospettata di
avere una relazione col nobile spagnolo don Diego De Castro fu pugnalata
dai fratelli, che più tardi assassinarono anche il De Castro.
Dopo l’età Rinascimentale ci fu un periodo di silenzio. È a partire dalla
seconda metà dell'Ottocento che le donne, specialmente di classi altoborghesi, cominciano ad affacciarsi ai corsi superiori di studi e, per mezzo
della cultura, hanno modo di far valere il loro genio.
Da Compiuta ad oggi, molte grandi donne italiane si sono avvicinate
alla scrittura, ognuna per un motivo e con un intento differente. I risultati
sono stati i più disparati. Diamo anche qui uno sguardo panoramico nella
storia della letteratura italiana in cui i nomi delle donne possono essere
trovati con fatica in trafiletti oppure con appena qualche riga d'accenno
senza la pretesa di essere esauriente:
Una delle tappe è rappresentata dal ruolo svolto dalle dame colte e
letterate nei salotti in Italia tra fine '600 e primo '900. La conquista da
parte delle donne dello spazio pubblico è un tema che da diversi anni è al
centro dell'attenzione degli studiosi ed è stato oggetto di un convegno a
Milano, che ha analizzato un particolare aspetto: «Salotti e ruoli femminili
in Italia tra fine Seicento e primo Novecento». Il ruolo svolto dalle donne
nella sfera pubblica, come hanno dimostrato le più recenti ricerche di
storia intellettuale, politica e di «genere», è cambiato in misura notevole
dal Medioevo ad oggi, e i mutamenti non sono avvenuti solo nella
direzione di un ampliamento degli spazi e dei ruoli consentiti alle donne.
Secondo tesi recenti, anzi, sarebbero state progressivamente private di
spazi e opportunità nel passaggio dal Medioevo all'Età moderna. Tuttavia,
nel dibattito sugli spazi di autonomia femminile bisogna osservare che
239
l'accesso delle donne alla sfera pubblica e politica ebbe un diverso
andamento. Come per gli uomini, tale accesso fu riservato ai soli ceti
superiori, ossia nobiltà e alta borghesia. Ma entro questi limiti, nel XVIII e
XIX secolo si aprirono alle donne nuove spazi nella sfera pubblica e ruoli
che sono stati definiti «quasi-politici». Questi ruoli «quasi-politici»
cominciarono ad assumere rilievo nel corso del Settecento, quando in
Inghilterra e in Francia si andò formando una sfera di socialità e di
opinione pubblica, distinta sia dall'ambito familiare sia da quello politico e
autonomo rispetto alla società di corte. In questi paesi nacquero i primi
saloni diretti da donne istruite e letterate, i quali da un lato resero
possibile la circolazione di nuove correnti di opinione filosofica, letteraria
e politica e dall'altro resero socialmente accettabile la figura della donna
colta, educata e letterata, offrendo un modello di ciò che le donne d'élite
potevano fare, anche al di fuori del convento o della famiglia.
Il modello del salon arrivò anche in Italia per effetto prima
dell'occupazione francese di alcuni stati della penisola durante gli ultimi
anni della guerra di secessione spagnola (1707-1713), poi del diffondersi
del genere letterario dell'Arcadia. Le donne vennero, quindi, ammesse alle
«conversazioni». Nel Settecento i salotti ebbero carattere letterario e
accoglievano quasi esclusivamente una società aristocratica.
Nell'Ottocento, invece, emerse la componente politica, dapprima nella
forma patriottica, sino talvolta a costituirsi in veri e propri «gruppi di
pressione», di elaborazione e coordinamento del programma di
unificazione dell'Italia. Frequentavano i salotti molti esponenti della
nobiltà e dell'alta e media borghesia politica e finanziaria, specchio della
composizione delle classi sociali. Non a caso, quindi, nel marzo 1848 gli
ospiti del salotto della contessa Clara Maffei scesero in strada a costruire
le barricate di piazza Belgioioso, via Morone e via degli Omenoni, dando
inizio alle gloriose cinque giornate di Milano.
L'Ottocento ci ha conservato molti ritratti e testimonianze dei salotti e
delle dame, salonnières, che li dirigono, in quanto, come spiega la
studiosa Maria Iolanda Palazzolo, «la donna è la vera e unica autorità
morale del suo salotto. È un esercizio di autorità che svolge con sapiente
abilità ed a cui è stata educata per anni; l'abitudine all'ascolto,
l'attenzione e il rispetto per le opinioni dell'ospite sono il frutto di un
lungo tirocinio che è parte anch'esso del complesso processo educativo di
una giovane donna del secolo XIX», che prevedeva «oltre alle tradizionali
attività femminili come il ricamo, il pianoforte ed in qualche caso la
pittura, anche lo studio delle lingue che consente alle "donne di qualità" la
240
comunicazione e la conservazione mondana con i molti stranieri che
transitano in visita nelle città italiane».
Tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento i salotti cominciarono a
perdere quel carattere di socialità borghese per spostarsi verso il
socialismo e l'emancipazionismo. Divennero sempre più luoghi di svago e
di riposo dalle occupazioni e le discussioni si spostarono in altre sedi.
Tramontava, così, il ruolo delle dame salonnières, che aveva trovato
espressione nelle conversazioni letterarie o nei dibattiti patriottici. Il
nuovo impegno delle donne istruite era ora verso opere di assistenza e
beneficenza e verso le prime azioni di femminismo militante e di scelta
politica. 6
Nell'anno del mio trasferimento in Italia, nel 1983, un gruppo di dieci
scrittrici italiane che avevano compiuto i settant'anni vennero intervistate
e le loro dichiarazioni raccolte in un volumetto intitolato «Le signore della
scrittura», a cura di Sandra Pedrignani, edizioni La Tartaruga. Erano donne
che avevano avuto vite, storie, difficoltà e successo diversi. Gran signore
della cultura come Anna Banti, moglie di Roberto Longhi e redattrice di
una delle più prestigiose riviste italiane «Paragone», e solitarie insegnanti
come Laudomia Bonanni; autrici osannate e dal successo indiscusso come
Elsa Morante ed autrici dai cassetti pieni di manoscritti lasciati a marcire
per paura e totale sfiducia nel mondo editoriale come Paola Masino. In
ognuna, nella diversità c'era un comune e vivissimo sentimento: la
solitudine. Non soltanto una solitudine esistenziale ma anche quella
dell'isolamento culturale. La difficoltà non solo e non tanto a far sentire la
propria voce, ma a fissare la propria immagine in una figura riconosciuta e
rispettata nel ruolo delle scrittrici. Lalla Romano disse: «Essere donna,
poi, nell'ambiente letterario del nostro Paese pesa ancora molto. Ti
trattano con una sorta di condiscendenza, di concessione.» L'orgogliosa
Anna Banti così espresse la sua opinione: «Una scrittrice, anche se di
successo, è comunque emarginata. La diranno grande fra le scrittrici, ma
non la equipareranno agli scrittori». Avere queste opinioni, che possono
ancora oggi essere attuali, non occorre essere femministe, come non le
erano neanche le scrittrici intervistate che neppure dimostravano
particolare interesse per la cosiddetta «questione femminile». Tutte si
erano formate negli anni del fascismo. Ecco alcuni nomi rapidamente
raccolti, e quindi incompleti, di autrici della letteratura italiana dopo la
sopraccitata Compiuta Donzella:
L’Umanesimo/Rinascimento: S. Caterina da Siena, Lucrezia detta Imperia,
Laura Cereta, Isotta Nogarola, Cassandra Fedele, Antonia Pulci, Alessandra
Macinghi Strozzi; dal Cinquecento al Settecento: Luisa Bergagli, Faustina
241
Maratti Zappi, Maria Clemente Ruoti, Lucrezia Marinella, Isabella
Andreini, Moderata Fonte, Olympia Morata, Isabella di Morra, Veronica
Franco, Laura Battiferri Ammannati; L'Ottocento: Cristina Tivulzio
Belgioioso, Gaetana Agnesi, Diodata Saluzzo Roero (fine 1700); 18501900 Verismo: Maria Messina, Neera , Grazia Deledda, Vittoria Aganoor
Pompilj, Contessa Lara, Caterina Percoto, Matilde Serao; Il Novecento:
Amalia Guglielminetti, Ada Negri, Sibilla Aleramo (1900); Rosa Rosà,
Gianna Manzini, Anna Banti, (futurismo); Fausta Cialente, Alba de
Cespedes, Elsa Morante (neorealismo); Natalia Ginzburg (seconda guerra
mondiale); Antonia Pozzi, Amelia Rosselli, Giulia Niccolai, Margherita
Guidacci, Maria Luisa Spanzani, Armanda Guiducci, Gina Lagorio, Dacia
Maraini, Alda Merini (secondo dopoguerra), etc.
Il Novecento si era aperto in modo squillante, con una sorte di libro
manifesto della emancipazione sociale, ed insieme della emancipazione
letteraria: «Una donna» di Sibilla Aleramo, epopea dell'affermazione
femminile a dispetto dei vincoli consacrati della famiglia, della coniugalità
e della maternità, esce nel 1906, l'anno della nascita della mia nonna
materna. Accanto alla Aleramo, altre leonesse occupano la scena
letteraria del primo Novecento: Matilde Serao, Ada Negri e Grazia
Deledda. Matilde Serao (1856-1927) affrontò il nuovo secolo da vera
donna moderna. Non divenne una scrittrice dei «corridoi in penombra
della storia», ma una giornalista intraprendente e coraggiosa, una
imprenditrice di successo e comunque scrittrice feconda ed instancabile:
fu la prima donna a lavorare all'interno di un quotidiano. Poi col marito
Edoardo Scarfoglio ne fondò tre ed un quarto da sola («Corriere di Roma»
«Corriere di Napoli», «Il Mattino», «Il giorno»). A Napoli era per tutti «la
signora». Nonostante il suo aspetto fisico non piacente, ebbe una vita
chiacchierata. Napoletana al cento per cento, nacque però in Grecia
(Patrasso), da Paolina Bouly, di nobili origini, e da Francesco Serao che là
visse in esilio per la sua opposizione politica ai Borboni. Il cambiamento di
regime permise alla famiglia di trasferirsi a Napoli, dove però fu costretta
a una vita di privazioni: la madre dava lezioni private, il padre tentava,
senza successo, iniziative editoriali. Matilde frequentava con scarso
entusiasmo la scuola normale. Ottenuto il diploma di maestra dovette
lavorare. Le piaceva molto leggere, divorava i libri, soprattutto romanzi,
ma non voleva insegnare. Preferiva entrare come ausiliaria all'Azienda dei
Telegrafi di Stato. In ufficio ottenne subito rispetto per la sua istruzione e
la sua vivace intelligenza. Non era tuttavia un modello di disciplina e ben
presto fece capire che in quel posto si trovava per necessità finanziarie,
ma che le sue aspirazioni erano ben altre: scrivere ed entrare a far parte di
242
un giornale. La «Gazzetta di Torino» pubblicò un suo racconto ed il
direttore del giornale complimentandosi la esortò a continuare nella
collaborazione. Nel 1877 decise di tentare senza compromessi la via del
giornalismo. Il direttore de «Il Piccolo», il calabrese Rocco de Zerbi le offrì
una collaborazione stabile ed uno stipendio che, sia pur di poco, era
superiore alle 66 Lire mensili che guadagnava alle Poste. Scriveva di tutto:
dalla moda al costume, dalle cronache alle recensioni. Nel frattempo
continuava a produrre racconti e romanzi «feuilletons» con sartine,
principesse e monache fra amori, adulteri e delitti. Nel 1881 pubblicò
«Cuore infermo» che le procurò molta popolarità. L'anno dopo le accadde
un fatto straordinario per l'epoca: venne assunta come redattrice fissa da
«Capitan Fracassa» di Roma, un giornale impegnato in campo letterario,
ma vivace e originale, ricco di firme illustri quali Gabriele D'Annunzio,
Salvatore Di Giacomo, Edoardo Scarfoglio, Gandolin, Cesare Pascarella.
Non era mai accaduto che venissero affidati ad una signorina incarichi e
responsabilità di redazione. Il fatto fece clamore specie nell'ambiente, ma
cominciarono anche le chiacchiere. Matilde, per arrivare all'incarico, più
che dei suoi meriti giornalistici, si sarebbe servita delle sue arti amatorie.
E pensare che era tutt'altro che bella, massiccia e con un tratto virile. Ma
aveva due occhi vivacissimi, uno sguardo che affascinò e soprattutto
conquistò con la sua spiccata personalità. Anna Banti che sulla Serao ha
pubblicato un libro, ha scritto: «Il suo più elementare e costoso coraggio
fu quello di sopportarsi brutta. Non conobbe mai, o quasi mai, la paura, e
ce ne volle del coraggio quando, presentandosi alla redazione di Capitan
Fracassa indovinò subito alla prima occhiata l'ostilità, o quanto meno, la
compassione che il suo aspetto suscitava. La salvò la fiducia nella propria
audacia ('faccia di cuorno' diceva) ed un'istintiva allegria —il guaio era che
le piacevano gli uomini— In quelle condizioni continuare ad “amare
l'amore” era un'altra prova di coraggio.» Nel 1884 pubblicò il suo libro
migliore «Il Ventre di Napoli». Il destino di Matilde si compì quando
incontrò Edoardo Scarfoglio, un bell'uomo colto, brillante, di buona
famiglia, arrivato nel giornalismo per l'amicizia con D'Annunzio. Fra i due
nacque l'amore al punto che si sposarono mentre, a Torino, erano inviati
sullo stesso servizio. Le nozze si celebrarono il 28 ottobre 1885, quando lei
era incinta. Gabriele D'Annunzio scrisse un elegante cronaca
dell'avvenimento. L'ambiente era scettico, si scommetteva su quanto
sarebbe durata quella singolare unione dalla quale invece, durante
quindici anni, nacquero quattro figli e tre giornali. Però l'infedeltà del
marito portò alla separazione nel 1902. Nel 1926 fu candidata al Nobel
ma l’essere ostile al nascente fascismo le fece perdere la corsa al Premio
243
Nobel che venne assegnato a Grazia Deledda. Pochi mesi dopo la grande
delusione del Premio Nobel, il 27 luglio 1927 morì a Napoli accasciandosi
sul tavolo di lavoro dove stava scrivendo l'ennesimo articolo per il suo
giornale. Ada Negri (1870-1945) Nacque da una famiglia molto povera, e
può essere considerata la prima scrittrice italiana proveniente dalla classe
operaia. Suo padre, Giuseppe, era un manovale e sua madre, Vittoria
Cornalba, una tessitrice. Ada passò la sua infanzia solitaria, nella guardiola
da portiera dove lavorava la nonna, osservando il continuo passaggio delle
persone, cosa che descrisse nel suo romanzo autobiografico, «Stella
mattutina» (1912). Grazie ai sacrifici della mamma, Ada Negri poté
studiare fino ad ottenere un diploma di insegnante elementare. Insegnò,
quindi, a partire dal 1888, nella scuola elementare Motta Visconti, di
Pavia. In questo periodo pubblicò le sue prime poesie, raccolte nel volume
«Fatalità» (1892). Dopo il grande successo di questo libro, Ada Negri
acquistò una certa fama, e le venne attribuito il titolo di «professoressa»,
per poter insegnare nei licei. Nel 1896, si sposò con Federico Garlanda, da
cui, nel 1904, ebbe Bianca, sua unica figlia. Pochi anni dopo, i due si
separarono, ed Ada, con l'inizio della Prima Guerra Mondiale, si spostò in
Svizzera. Successivamente, ebbe una relazione tormentata con un altro
uomo, esperienza descritta dalla scrittrice nel suo libro di poesie, «Il libro
di Mara» (1919). Un volume scritto con inusuale franchezza, per la società
italiana del tempo, fortemente cattolica e conservatrice. Nel 1894, vinse il
premio Milli per la poesia, e, nel 1931, il premio Mussolini, per la carriera.
Nella sua seconda collezione di poesie, «Tempeste», uscita nel 1895,
affrontò temi sociali rivoluzionari espressi con un linguaggio molto
moderato. Dopo le orazioni patriottiche tenute dalla scrittrice, raccolte,
nel 1918, in «Orazioni», Ada Negri pubblicò «Maternità» (1904) e «Dal
profondo» (1910), due opere spiccatamente introspettive. A seguito di
questo periodo di malinconia, uscì «Esilio» (1914), e, nel 1917, una
raccolta di quattordici racconti, «Le solitarie», in cui la scrittrice raccontò
la sua modesta visione del mondo, in qualità di ragazza venuta dalla
campagna. Nel 1919, uscì «Il libro di Mara», a cui fece seguito «I canti
dell'isola» (1924). Uscirono inoltre, «Vespertina» (1930), un libro di
poesie, «Finestre alte» (1923) e «Le strade» (1926), entrambi libri di
racconti, poi «Di giorno in giorno», che contiene una raccolta di
meditazioni sulle opere della scrittrice, ed «Erba sul sagrato» (1939).
L'ultima opera conosciuta di Ada negri fu «Oltre», uscito postumo, in cui
l'autrice propose una sua agiografia di santa Caterina da Siena. Nel 1940,
Ada Negri divenne membro dell'Accademia Italiana, e nel 1945 morì.
Grazia Deledda (Nuoro 1871- Roma 1936) A soli 17 anni pubblicò alcuni
244
suoi scritti su una rivista di moda, ed a 21 scrisse il suo primo romanzo:
«Fior di Sardegna». Molti dei libri che pubblicò, tradotti in tutte le lingue,
le dettero la celebrità, tanto che nel 1926 le fu assegnato il Premio Nobel
per la letteratura, ed è stata una delle poche donne ad aver ottenuto
questo riconoscimento. Caratteristica dei suoi romanzi è l'aderenza alla
realtà, descrivendo paesaggi e costumi tipici della Sardegna. Per queste
peculiarità fu considerata un'esponente della corrente verista, sebbene
nei suoi scritti siano presenti caratteri estranei al verismo, quali ad
esempio misticismo e superstizione. Tra i romanzi più celebri ricordiamo:
«Elias Portolu», «Cenere», l' «Edera», «Canne al Vento». Tra i volumi non
in dialetto sardo: «Il segreto dell'uomo solitario e il Dio dei viventi».
Nel Novecento troviamo anche sempre più poetesse valide che si
esprimono liberamente, dando forma ai propri sentimenti, pensieri e
visioni del mondo. Tra le poetesse contemporanee voglio ricordare Alda
Merini (21.3.1931, Milano – 1.11.2009 Milano), che oltre al suo essere
donna, ci apre un mondo sulle emozioni e i sentimenti di una categoria di
esseri umani sempre ancora al margine della nostra società: quella dei
malati mentali. È respinta in italiano (!) al Liceo Manzoni e frequenta
quindi le scuole professionali. Viene scoperta giovanissima da Giacinto
Spagnoletti, che la include appena diciannovenne nella sua «Antologia
della poesia italiana 1909-1949». Assai precocemente si manifestano in lei
disturbi psichici, che la costringono a lunghi ricoveri in manicomio. Nel
1953 sposa Ettore Carniti, dal quale avrà quattro figli. Rimasta vedova, nel
1983 sposa il poeta Michele Pierri e si trasferisce a Taranto. Dopo tre anni
torna a Milano. La sua vita è una continua odissea di sofferenza: i
momenti nei quali gode di buona salute si alternano a lunghi periodi di
malattia. La poesia la accompagna sempre e anche nei momenti bui
rimane accesa come una fiamma che la aiuta vivere , a tuffarsi nella sua
sofferenza e a rinascere di nuovo. Luigi Maino riassume così la sua poesia:
«La poesia di Alda Merini è una delirante illuminazione, un seme che
penetra nel tessuto connettivo della nostra società, da cui nascono fiori di
armoniche forme, ma con profumi e colori sconvolgenti, rivelatori dei
molteplici affanni dell'esistenza. Fiori poetici che esalano erotismo e
misticismo, tensioni e preghiere, irragionevole equilibrio e delicata
partecipazione alle vicende spirituali della vita».
______________________
1
Miriam Mafai: «Il secolo della libertà femminile», ne «Le donne italiane», Rizzoli,
1993 (a cura di Miriam Mafai)
2
Natalia Aspesi: «Cronaca e Costume» ne «Le donne italiane», Rizzoli,1993 (a
cura di Miriam Mafai)
245
3
Natalia Aspesi: «Cronaca e Costume» ne «Le donne italiane», Rizzoli,1993 (a
cura di Miriam Mafai)
4
Da una intervista fatta alla giornalista Marta Boneschi sull'Internet
5
Francesca Santucci: «Donna non sol ma torna musa all'arte», Antologia
poetica; Editrice Il Foglio, 2003
6
Federica Serva: Dame colte e letterate nei salotti in Italia
(http://www.assocarabinieri.it)
II.DONNE NEL RISORGIMENTO ITALIANO
II.1 LE DONNE INVISIBILI DELL’UNITÀ D’ITALIA
Hanno contribuito in modo rilevante e originale al Risorgimento, come
più tardi alla Resistenza. Ma non ci sono nei libri di storia. In occasione
delle celebrazioni per il 150° anniversario, si può provare a smascherare la
rappresentazione tutta maschile dell’unificazione nazionale?
Di alcune figure femminili, la cui opera si intreccia con il processo
risorgimentale e vi contribuisce, è stato scritto, anche in forma
romanzata, tuttavia non esiste una ricerca storica che superi una visione
di genere. Inoltre, se di alcune l’opera e il nome restarono vivi nelle carte
e nei documenti, ancor più numerose sono le donne senza nome, che
hanno operato personalmente o che hanno sostenuto i congiunti,
subendo nei cuori lo strazio che altri soffrivano nella carne, per la
prigionia, le torture, la guerra, senza contare le donne ferite, offese,
uccise.
Così il loro eroismo si consuma, come quello delle eroine conosciute, in
chiave di assoluta e spoglia quotidianità.
Le donne sono dunque presenti, nel primo Ottocento, in una prodigiosa
varietà di atteggiamenti, di scelte, alcune delle quali così coraggiose e
innovatrici da segnare una decisa maturazione culturale e spirituale, che
le consegna a un destino di dolore e attesta una partecipazione piena alla
dimensione civile del vivere. Ad esse va riconosciuto un realismo non
puramente pragmatico, ma disposto a cogliere il senso concreto e
profondo delle situazioni. Appare loro chiara la necessità di interventi
immediati intesi a sanare situazioni contingenti e insieme connessi in una
visione che abbraccia eventi e istituzioni in una logica storica.
Inoltre non temono di prodursi in testi a stampa di vivace e profonda
concretezza e non rifuggono la dialettica critica.
Un esempio, non marginale. Violento e misogino, come molti altri, e
spesso in conflitto con tutti, Francesco Domenico Guerrazzi non
risparmiava critiche al genere femminile: nel 1857 dopo il Carnevale,
pubblicò un libello dal titolo Memento homo, in cui deplorava con parole
246
roventi la partecipazione delle donne ai balli. Gli rispose Nina Bardi, il 22
marzo, con una intensa brochure, per i tipi di Delle Piane di Genova, con
parole piene di dignità e di orgoglio, ricordando le varie forme di presenza
femminile, in questi tempi in cui il sesso dei forti (fatte poche eccezioni)
s’addorme in vano torpore…
Relazioni personali, letture, viaggi, destano attitudini e sprigionano
capacità operative nuove.
Le donne amano, soprattutto, e di questo amore alimentano progetti e
attività.
Sia che aprano i loro salotti al nuovo spirito libertario, come Nina
Schiaffino Giustiniani, o Bianca De Simoni Rebizzo, o accolgano gli esuli
nelle loro case, come Giuditta Sidoli, o svolgano nuovi ruoli, come
prodigarsi come infermiere, fondare scuole e istituti professionali, asili per
gli orfani, studiare problemi sociali e del lavoro, come Bianca Rebizzo,
Cristina Trivulzio, Elena Casati Sacchi, Luisa Solera Mantegazza, sia che
combattano cavalcando come a Milano, Cristina Trivulzio o sulle barricate,
come a Novara Teresa Durazzo Doria o Anita Ribeiro Garibaldi a Roma vicina al suo José a Villa Spada nel giugno 49, incinta del quinto figlio e
destinata a spirare il 3 agosto dopo un calvario di 33 giorni, di marce
forzate a cavallo, a 28 anni - oppure sostengano con la loro fede destini di
esilio e di prigionia, esse consegnano alla storia e al futuro dell’Italia un
patrimonio di valori morali e civili che accompagnerà il faticoso percorso
dell’unità.
E tuttavia il riconoscimento del loro valore si ridusse spesso ad una
valorizzazione di elementi romanzeschi, mentre una certa supponenza
maschile impedì anche a uomini di valore di comprendere l’intelligente e
costruttivo apporto di idee di alcune straordinarie figure di donne, quali
Cristina Trivulzio.
Il cammino verso l’emancipazione sarà lungo, esse ad esempio avranno
il diritto di esprimere il loro voto solo nel 1947, né si può affermare che si
tratti di un cammino compiuto.
A Muggiò, in provincia di Milano, v’è un cimitero con il mausoleo della
famiglia Casati Stampa, ormai bisognoso di restauri. Nel 1830 vi riceve
sepoltura Teresa, moglie di Federico Confalonieri. Per lei Alessandro
Manzoni fece incidere sulla tomba il 26 settembre: Consunta, ma non
vinta dal cordoglio.
Arrestato il 13 dicembre 1821, Federico Confalonieri era stato condannato
a morte nel 1823, il 9 ottobre, poi la sentenza venne commutata nel
carcere a vita, per cui il conte fu tradotto il 10 marzo allo Spielberg. La sua
sposa non lo ha più rivisto dal giorno dell’arresto. Di lei raccontava
247
Giuseppe Mazzini, nel 1832: vedemmo la giovane moglie nata al sorriso
d’amore, bella, pura, fiorente, strisciarsi ai piedi del teutono pregando che
le fosse concesso il soggiorno nei luoghi ove geme il marito, e reietta la
sua preghiera, venirle per grazia speciale ogni cinque o sei mesi una voce
mossa dallo Spielberg a proferirle “Il numero 14 vive” e morì come un
fiore inaridito, nel lungo dolore e nella insistenza d’un pensiero
tormentatore.
Invano la sua amica contessa Erminia Frecavalli la sostenne con l’affetto
devoto, carbonara pure lei. Ora sulla tomba Casati questa epigrafe non si
legge più, ma la memoria di questa sposa non deve essere perduta.
Un altro tremendo episodio. Ad Alessandria il medico assai stimato
Andrea Vochieri, arrestato perché diffondeva il verbo della Giovane Italia,
non volle confessarlo, pur essendo incatenato alle mani e ai piedi e stretto
al collo con una catena di ferro. Fu tenuto 56 giorni in una cella lunga solo
cinque passi, con una piccola finestra a terra. Fu mandata a chiamare la
moglie, che incanutì al vederlo, stretto dalle catene come un animale, i
piedi nudi e piagati, irriconoscibile, e fu poi rimproverata dal governatore,
che pensava avesse portato allo sposo del veleno, per ”defraudarne il
patibolo”.
Il governatore Galateri lo condanna a morte, pur promettendogli salva la
vita se confessa. Vochieri gli chiede di liberarlo dalla sua presenza e riceve
un calcio nel ventre. Galateri lo fa portare al patibolo passando davanti
alla sua casa, sotto le finestre. La sposa incinta sviene, la sorella
impazzisce. Condotto alla Piazza d’Arme a porta Marengo, per giustiziarlo
sono chiamati degli aguzzini, non fucilieri, che non riescono a ucciderlo
dopo undici colpi, finché un agente non lo finisce con un colpo alla tempia.
Tante furono le madri generose ed eroiche, sollecite della formazione
morale e civile dei figli.
Maria Drago ci lascia un prezioso carteggio prima col cugino Giuseppe
Patroni, poi con l’avvocato Giacomo Bregante, per avere consiglio circa le
letture e gli studi di Giuseppe. È da notare che Bregante suggerisce tra
altri testi gli “Annali” del Muratori, perché “Il primo debito di un italiano è
quello di conoscere la storia d’Italia”. E Giuseppe allora aveva undici anni.
Adelaide Zoagli, la cui famiglia annoverava due dogi, Nicola (1394) e
Giambattista (1561) nonché tre consoli, Anselmo (1117), Giordano
(1131) e Andalone ( 1165), sceglie per il giovanissimo Goffredo l’istituto
dei padri Scolopi. Anche il figlio secondogenito è affidato ai Calasanziani,
nel collegio di Carcare.
Adelaide rifiuta i gesuiti, allora con sede nel palazzo Doria Tursi, perché
odia la simulazione e l’intransigenza che avevano tanta parte nei sistemi
248
educativi dei padri gesuiti. I Calasanziani invece facevano cardine del loro
insegnamento la lealtà e una qual liberalità. Il padre Muraglia, maestro di
Goffredo, faceva leggere Foscolo, Leopardi, Niccolini e Guerrazzi, Gothe,
Byron Schiller, tutti messi al bando dai gesuiti.
I liberali genovesi preferivano dunque per la formazione dei figli gli
Scolopi, e ciò spiega anche l’ammirazione del Mazzini per tre di loro, il
padre Dasso, il padre Paroldo e il chiavarese Michele Bancalari, scienziato
insigne. Ricordo che Vincenzo Gioberti, nel Gesuita moderno, narrava che
i Gesuiti, per mezzo della confessione e corrompendo i domestici, si
procuravano i segreti delle famiglie e li comunicavano alla polizia.
A proposito delle donne, e dei gesuiti, forse si ignora che a Chiavari, in
provincia di Genova, nel 1846, l’11 ottobre, Goffredo Mameli, Gerolamo
Boccardo, Nino Bixio, Nicolò Daneri, Stefano Castagnola, avevano fondato
la Società Entellica, divenuta poi in autunno, a Genova, iniziati i corsi
all’Università, Società poi Accademia Entelema. Si trattavano temi di
storia, di diritto, di economia, di politica.
Ebbene, questi giovani ad altri, col ricordo ancor vivo del Congresso degli
scienziati, dopo la visita di Carlo Alberto a Genova il 4 novembre 1846 e la
serata di gala al Carlo Felice, riuniti in casa del console di Francia, dove
erano presenti anche alcune ragazze, dopo che Goffredo ebbe composto
l’Inno, poi inviato a Torino all’amico Novaro che lo musicò, questi giovani
dunque presero un impegno curioso. Non avrebbero sposato fanciulle che
fossero state educate presso istituti in qualche modo ispirate ai gesuiti:
Convinta la gioventù italiana essere suo stretto dovere il promuovere con
quanti mezzi le è possibile il miglioramento dell’educazione e lo sviluppo
delle virtù patrie cittadine, virtù senza le quali non sarà dato a questa
Italia risorgere, …i giovani sottoscritti si obbligano sotto legame d’onore di
non riunirsi in matrimonio con zite state educate sotto la immediata o
mediata direzione delle suore del Sacro Cuore, non solo, non pur con
quelle che si conosce appartenere a parenti ligi o dipendenti dalla
Compagnia dei Gesuiti… ovvero educate sotto la direzione spirituale degli
stessi”.
.
Questo prova come quei giovani desiderassero nel matrimonio anche una
comunione di pensiero.
In quei giorni si celebrava il centesimo anniversario della rivolta
antiaustriaca di Balilla, e il 10 si cantò l’inno composto da Goffredo. Dal
Varo al Magra ardevano giganteschi falò sulle cime dell’Appennino, e
mentre il marchese Giorgio Doria in processione con le autorità civili e
religiose recava alta la bandiera già alzata contro gli Austriaci nel 1746,
249
dietro di lui la sposa Teresa Doria, che farà consegnare le catene della
Meloria da Genova a Pisa. capeggiava 150 donne genovesi.
Non passarono due anni che l’esercito di Alfonso Lamarmora inviato da
Vittorio Emanuele II contro Genova, rea di aver proposto di continuare la
guerra, la Prima Guerra di Indipendenza, dopo l’abdicazione di Carlo
Alberto, infieriva dal 29 marzo al 9 aprile contro i cittadini, ricevuta
l’autorizzazione di effettuare ogni violenza e stupro. Il 5 aprile 1849 le
batterie piemontesi sparano contro i genovesi e per 36 ore dura il
combattimento. Poi i bersaglieri si abbandonano a violenze che i genovesi
non potranno dimenticare.
Non parliamo delle torture cui vennero sottoposte le donne, le mogli dei
fuggiaschi, nel regno di Napoli e nello Stato Pontificio.
In Sicilia Nicola de Matteis, feroce persecutore, incarcerava a centinaia
donne, bambini e vecchi e li costringeva a fare delazioni a forza di
bastonate.
Gli uomini erano legati con sottili fili per i pollici, gli alluci e i genitali, e a
terra ricevevano nerbate, oppure così raggomitolati erano buttati giù a
calci per le scale.
Nel 1846 Gregorio XVI stava per morire, ma non si placavano le torture, le
persecuzioni. Il sospetto era diventato il clima quotidiano, con il carcere
senza imputazioni e senza difensori, la tortura, la ruota, le tenaglie
infuocate, i cadaveri profanati e dati in pasto ai lupi, la sedia ardente su
cui venivano fatte sedere le donne, e poi si bruciava sotto della paglia, la
macchina angelica che frantumava le braccia, il cerchio di fuoco che
faceva schizzare gli occhi fuori delle orbite…E come potevano stare le
donne? L’ansia per le persone care, l’angoscia per il loro destino, i
problemi economici…son motivo di strazio nell’anima e nel corpo.
E un altro oltraggio viene fatto alle donne: venivano falsamente addotte le
loro implorazioni per indurre gli uomini a confessare.
Contro i milanesi che avevano deciso di astenersi dal fumo (che dava un
reddito all’Austria di lire 1.386.786, annue) i soldati di Radetzky
guastarono, stuprarono, come in una città presa d’assalto (lo racconta
Vittore Ottolina, veterano della Guerra di Indipendenza).
Le donne salgono sulle barricate: Rosa Vega muore sotto una pioggia di
pallottole, lo ricorda Giovanni Montanelli. Una donna disarma tre
poliziotti, altre contrastano i croati, con gli schioppi e le carabine, nelle
memorie di Giorgio Pallavicino.
Nei salotti si parla di libertà, di indipendenza, di Costituzione, di diritti,
aborrendo i monopoli e i privilegi, mentre l’ala più avanzata della
250
democrazia, con Giuseppe Ferrari, Carlo Pisacane, affronta la questione
sociale.
Nel salotto di Clelia Piermarini, Massimo d’Azeglio viene sollecitato a
riannodare le fila dei patrioti, frenando le forze indisciplinate, e
sostenendo la fede di chi sperava di eliminare il potere del papato. Poco
dopo la morte della moglie Giulietta Manzoni, sposa Luisa Blondel, che
verrà esiliata per aver organizzato una questua per i feriti vittime degli
sbirri austriaci. Ma Luisa gli procura tramite Teresa Doria moglie di
Giorgio, i documenti per la stesura de I lutti di Lombardia. Aveva già
pubblicato Gli ultimi casi di Romagna, di cui in otto giorni furono vendute
2.000 copie, una requisitoria inesorabile.
Poi D’Azeglio combatte a Pastrengo come Cesare Balbo, che ha con sé
cinque figli di cui uno morirà proprio a Pastrengo. Al monte Berico, dove
sarà ferito, Luisa corre ad assisterlo.
A Brescia, dove continua la lotta dopo la “fatal Novara”, le donne
combattono con gli uomini, e vengono ricordate da Cesare Correnti due
sorelle,” fanciulle entrambe, di vita e di casa onorate, che sembravano
martiri, più che combattenti…”
A Torino la signora Farini, Emilia Peruzzi a Firenze, i Borromeo, i Litta, i
Visconti, i Trivulzio, i Trotta accolgono a Milano Marco Minghetti, i fratelli
Visconti Venosta, Emilio Dandolo, Stefano Jacini. Il salotto Maffei riunisce
l’alta borghesia, aperta ai liberi commerci e alle scienze.
A Genova tiene salotto d’opposizione Luisa Nina Schiaffino Giustiniani,
come Bianca Milesi, esule da Milano in quanto fondatrice della prima
sezione della Carboneria nel 1821. Poi fugge a Parigi, dove accoglie
Confalonieri, Pellico e il giovane Cavour.
Carlotta Benettini è arrestata nel ’33 per la sua fede mazziniana: sarà nel
’49 sulle barricate con il figlio Carlo.
Enrichetta de Lorenzo, amante di Carlo Pisacane, sarà a Roma nel ’49
come infermiera, con Giulia Calame moglie di Gustavo Modena, e Cristina
Trivulzio.
Bianca Rebizzo riceve Nino Bixio, Gioberti, Aleardi, Mercantini, Paganini e
numerosi esuli, tra cui nel 1857 Giuseppe Mazzini. Organizza comitati di
soccorso, e dà lavoro a decine di esuli, oltre a porre le basi per il collegio
italiano delle fanciulle.
Le donne intervengono anche pubblicamente con i loro scritti, a
cominciare da Cristina Trivulzio, e poi Bruna Milesi Moyon, Laura Solera
Mantegazza, Elena Casati Sacchi, la giornalista inglese Jessie White
imprigionata per i moti del 57, che sposerà Alberto Mario conosciuto in
carcere …
251
Cristina Trivulzio riesce ad impegnarsi in tutte queste attività.
Meriterebbe una giornata dedicata a lei sola. Ora vorrei ricordare, oltre a
numerose altre opere, come si prodigò, insieme a Bianca Rebizzo, Elena
Casati Sacchi, Laura Solera Mantegazza, nell’organizzare efficacemente
l’assistenza ai feriti, su ordine del Mazzini, e nell’opera di infermiera tra
quei volontari, come Nino Bixio, Goffredo Mameli, o Gerolamo Induno che
combattevano a difesa della repubblica Romana, nel 1849, Queste donne,
che curavano con dedizione i feriti e restavano vicine ai morenti, furono
giudicate da Pio IX, che riteneva li distraessero dalla preghiera, “sfacciate
meretrici”. Così furono definite nell’Enciclica dell’8 XII ’49 Nostis et
nobiscum.
La geniale e generosa Cristina Trivulzio subì dunque le incomprensioni di
molti, compreso il Manzoni bigotto, che pure aveva accettato la cospicua
eredità dell’amante della madre, Carlo Imbonati. Cristina, coltissima
(conosceva il latino, il francese, l’inglese, la filosofia, la musica, il disegno)
aveva sposato Emilio Barbiano di Belgioioso, donnaiolo inaffidabile, nel
1824, e nel '28 lo lascia (era sifilitico), pur continuando ad aiutarlo
finanziariamente, per stabilirsi a Genova, dove viene accolta dalla vecchia
Marchesa Pallavicino e lì conosce Adelaide Zoagli Mameli, e le marchese
Teresa Doria e Nina Giustiniani. Genova, tradita dal Congresso di Vienna,
con un sovrano del tutto ignorante vissuto in esilio in Sardegna, aveva
aderito alla Carboneria e ora guarda alla Francia. La memoria della
cacciata degli Austriaci, la fiera tradizione repubblicana, l’esperienza
napoleonica, una nuova cultura imprenditoriale, la presenza di moltissimi
esuli a cui si apriva generosamente la casa, rende la città una fucina di
liberali e rivoluzionari.
Cristina viaggia per l’Italia, frequenta salotti come quello di Ortensia
Beauharnais, madre di Luigi Napoleone, a Firenze recita Shakespeare in
inglese, frequenta il Gabinetto Viesseux, vi conosce il Tommaseo e il
Poerio, che la stimano molto.
Dalla Svizzera, dove è compromessa per aver approvato la costituzione
liberale nel Canton Ticino, passa in Francia. Conosce i più importanti
storici e con il Thiers e il Guizot propone l’unione europea. Finanzia
insurrezioni in Piemonte, con 60.000 lire, che andranno perdute e l’Austria
le sequestra i beni. In un discorso alla camera salva T. Mamiani, Pepoli e
Zucchi fatti prigionieri. Le sono amici devoti Balzac, De Musset, Bellini,
Stendhal, List, Heine, Chopin, La Fayette. Traduce Leopardi e G.B. Vico in
Francese. Nel suo salotto, dove riceve anche il Cavour, si ascolta Mozart,
ad esempio il Requiem, e tutti i musicisti del primo Ottocento. Fonda la
Gazzetta Italiana, a cui il Manzoni però non vuol collaborare, perché
252
giudica disdicevole scrivere su un giornale fondato da una donna.
Torna nel 1841 in Lombardia. Tutto è assopito. Cristina trasforma i suoi
terreni in colonia agricola, crea il primo asilo infantile, fonda scuole
elementari per maschi e femmine, e scuole professionali (vi si insegna
economia domestica, tecniche agrarie, canto), ateliers per pittori,
restauratori, rilegatori, stamperia, centro infermieristico, dà pasti caldi,
medicine gratuite: è un modello di falansterio. Le sue proposte saranno
seguite solo da Ferrante Aporti.
Le sue opere apprezzate in Francia sono criticate dal Manzoni, che non
la riceve quando Cristina viene a visitare l’amata Giulia Beccaria morente.
Il Tommaseo la conforta, come Hugo, Dumas padre, Sainte-Beuve,
Michelet, Balzac….
Dopo l’elezione di Pio IX va a Torino e discute con Balbo, Cavour,
Brofferio, Carlo Alberto. Nel gennaio del 1848 fonda a Napoli l’”Ausonio”,
e a marzo il “Nazionale”, che sostiene il progetto dell’unificazione. Alla
notizia della insurrezione di Milano, noleggia il Virgilio e va a Genova con
170 volontari. Con loro sale a Milano dove l’attende Gabrio Casati.
Combatterà, e i suoi volontari saranno anche a Curtatone e Montanara.
Nello stesso tempo scrive sul “Crociato”, e sulla “Revue des deux Monds”
per indurre i patrioti a superare le divisioni. Dopo l’abdicazione di Carlo
Alberto, va a Roma, dove sostiene la Repubblica e Mazzini le affida la
gestione dell’ospedale.
Ancora qualche esempio di eroismo di donna. Nel 1854, quando Cavour
portò il Piemonte alla guerra in Crimea, passò dinanzi alla coste di S.
Fruttuoso di Camogli il piroscafo inglese Croesus, che portava soldati in
Crimea. Ci fu a bordo un incendio, si ignora se per errore o sabotaggio, e
l’equipaggio si gettò in mare. Dalle vicine barche dei pescatori, tra quelli
che per salvarli si buttarono in mare, c’erano anche due sorelle, Maria e
Caterina Avegno, che perirono trascinate a fondo dagli uomini presi dal
panico. Il loro gesto eroico fu riconosciuto dal governo britannico, ed esse
furono tumulate a San Fruttuoso nel mausoleo dei Doria.
Pier Carlo Boggio, deputato liberale amico di Cavour, scrive una storia dei
fatti del ’59 e racconta come le donne spingessero alla guerra quei
medesimi per cui avrebbero dato la vita.
Garibaldi ricorda a Varese la morte del più giovane dei fratelli Cairoli,
Ernesto, elogiandone la madre Adelaide Bono, moglie del dottor Carlo
Cairoli di Pavia e con lei tutte le madri.
In Sicilia, fallito il primo moto a Palermo il 4 aprile 1860, nel corso delle
terribili repressioni fu anche percossa e imprigionata la vecchia badessa
del convento di S. Maria, rea di aver assistito i feriti.
253
I contatti fra i comitati siciliani e i comitati di Malta e Genova erano tenuti
dalla moglie di Francesco Crispi, Rosalia Montmesson, che poi fu dal
marito abbandonata in povertà. (Per questo la regina Margherita quando
Crispi, presidente del consiglio dei Ministri, le si presentò, gli voltò le
spalle.)
Molti nomi potremmo ancora citare, ma concludo, ricordando un
personaggio dell’arte, che incarnò l’eroismo femminile, dell’Attila di Verdi
la giovane Odabella, l’eroina della libertà di Aquileia.
Le quattro straordinarie frasi di recitativo vocalmente ardite e nuove con
cui proclamava la sua irriducibile scelta di libertà suscitavano gli
entusiasmi più intensi alla Fenice di Venezia quando l’opera fu presentata
la prima volta il 13 marzo 1846, poi nel gennaio ‘47 al C. Felice a Genova, e
nel ’50 a Chiavari.
Vorrei ora terminare con pochi versi composti per le donne che si
batterono per la Resistenza, a completare un cammino libertario, non
ancora concluso.
Piccola Italia, non avevi corone turrite
Né matronali gramaglie.
Eri una ragazza scalza,
coi capelli sul viso
e piangevi
e sparavi.*
(Versi di Elena Bono – di Chiavari –, una delle più alte voci poetiche del ‘900.)
* Fonte: «Le donne ed il Risorgimento» di Elvira Landò:
http://nuke.garibaldini.com
II.2 PATRIOTE E APOLIDI DEL RISORGIMENTO ITALIANO
L’interrogativo sulla presenza femminile nel Risorgimento (comprese
quelle che osteggiarono il processo, le reazionarie, le aristocratiche, e
perfino le brigantesse) non è certo relativo all’attivismo, ma alle lacune
storiografiche in tal senso. Manca ancora una ricerca sistematica che
riunisca, analizzi e metta complessivamente in evidenza il ruolo femminile
nel Risorgimento, benché ci sia stato un crescendo di ricerche dalla
nascita degli studi di genere in poi.
Tra le fonti di cui disponiamo non vi rientra la manualistica storica che
dal tempo dell’unificazione in poi certo non ha ammodernato i suoi
modelli; per l’Ottocento vinceva su tutte il mito della madre oblativa,
erede della virtuosa matrona romana. Le fonti sono piuttosto rare
autobiografie, carteggi, storie familiari, in qualche caso articoli specifici su
254
periodici talvolta fondati dalle stesse patriote, ma soprattutto quelle
particolari raccolte femminili italiane dell’Ottocento, sorta di "cataloghi
muliebri”, spesso divisi per secolo; quelli del XIX secolo sono pressoché
tutti ispirati, come è facile supporre, all’esaltazione degli eroismi che
produsse il connubio donna-patria .
Spesso caratterizzate da un marcato tono apologetico, queste antologie
patriottiche decantano gli sforzi di quante si erano rese benemerite nella
causa del risorgimento nazionale; il risalto maggiore viene dato alle
"madri eroiche", quelle che avevano offerto i figli alla Patria, esortandoli a
difenderla e a combattere. La maternità nel modo di descrivere, elogiare,
o condannare le patriote, è dirimente: Anita Garibaldi viene condannata
perché lascia i figli per seguire Garibaldi e per di più muore incinta, altre
sono punite con l’allontanamento dai figli per aver seguito da innamorate
i patrioti, altre invece sono esaltate come la madre di Giuseppe Mazzini,
Maria Drago, o come la madre per eccellenza del Risorgimento, Adelaide
Cairoli, ritratta in nero a simboleggiare i numerosi lutti. Sono eroiche
nell’atto di offrire i figli alla patria, e confermano quel concetto di
maternità che l’Ottocento renderà popolare: acquisire la cittadinanza
attraverso i figli che si procreano e si educano per la nazione.
Il catalogo, più di altri tipi di pubblicazioni, risente direttamente
dell’epoca in cui è concepito, in una parola ne riflette le esigenze ed è
funzionale, o volutamente disfunzionale all’epoca stessa; in un secolo
quindi in cui bisognava, oltre all’Italia, "fare gl’italiani", i cataloghi sono
affollati da una vera pletora di donne-mogli e donne-madri, tutte
fermamente nutrite di alti ideali. Non si mirava più, come nei cataloghi
settecenteschi a scovare donne d’eccezione nella storia affinché,
dimostrando come fossero numericamente non trascurabili, si
capovolgesse l’eccezione stessa in regola, ma ad additare alle future
generazioni donne-prototipo già costituenti una regola, abbellite da
qualità morali “di sostegno”, all’uomo, al padre, al fratello, al patriota.
Nelle guerre risorgimentali, il tipo d’azione a cui le donne erano
essenzialmente chiamate si può definire "a latere", occorrendo nella
guerra, come recitava un’espressione dell’epoca, "sia il generale che la
sentinella". Ed effettivamente la gamma dei suoi interventi è
svariatissima: "giardiniera", cioè seguace femminile della Carboneria,
apostola mazziniana, procacciatrice di danaro per le cartelle del prestito
sempre mazziniano, conversatrice apparentemente disimpegnata nei
salotti, ma in realtà vere fucine di idee e progetti insurrezionali, nonché
luoghi di reperimento e aggiornamento -notizie, realizzatrice di coccarde e
divise tricolori, per le quali rischiava il carcere e la tortura, improvvisatrice
255
di pubbliche proteste e manifestazioni contro "l’asservimento allo
straniero", staffetta nei momenti cruciali, infermiera sempre presente
dopo i fallimenti dei primi moti insurrezionali e le guerre d’indipendenza,
sobillatrice attraverso scritti, opuscoli e pamphlets, portatrice di messaggi
e materiale cospirativo, tanto più efficiente in quanto donna e quindi
meno sorvegliata, perché essere a metà strada fra un fanciullo ed un
ornamento, ma l’elenco delle attività potrebbe continuare.
La cultura contemporanea è decisamente in ritardo nell’affrontare un
simile argomento se nei loro confronti già Vittorio Cian, nel 1930, epoca
sensibile alle virtù guerriere, aveva coniato il termine “femminismo
patriottico”: “Bisogna che noi signori uomini abbiamo coraggio di
confessare che, senza volerlo, solo spinti dal nostro istinto e dalle nostre
abitudini di maschi sopraffattori, nello scrivere la storia abbiamo fatto e
continuiamo a fare un po’ troppo la parte del leone; abbiamo finito cioè
con lo scriverlo un po’ ad usum non delphini, ma viri, dell’uomo cioè quasi
del solo ed unico attore di essa. Bisogna che abbiamo pure il coraggio di
rivederla questa storia scritta da noi e di riconoscere col fatto che, quanto
più si estendono e si approfondiscono le indagini sul nostro Risorgimento,
più vediamo balzar fuori numerose figure di donne...perciò è tutta
un’opera di giustizia storica distributiva".
Anche Atto Vanucci, memorialista del Risorgimento, annotava che non
soltanto gli uomini affrontarono “le ire feroci dei despoti e che anche il
sesso che chiamiamo debole sfidò prigioni e torture; anche le donne
salirono impavide sul patibolo del tiranno e caddero olocausti della causa
del vero...Numerose già alla fine del 1833 le nuove Ginevre d’Italia, a
partire dalla fine del XVIII secolo, cioè agli albori del Risorgimento
diventano legione quando ci si spinga alla fase ultima e conclusiva di esso
che comprende la guerra. E dacché la statistica non deve essere
un’opinione, riconosco che le centinaia di nomi femminili più o meno
illustri che finora sono venuti alla luce sono una piccola minoranza in
confronto alle migliaia di martiri e combattenti. E sarà atto non di
generosità, ma di giustizia da parte dell’uomo il riconoscere che alla
inferiorità numerica o quantitativa è grande compenso la qualità
dell’azione femminile" . La distinzione tra un "martirologio" maschile ed
uno femminile è semmai da rintracciare unicamente nel fatto che
quest’ultimo è fatto di "riserbo, di soavità fuggitive, di silenzi, di rinunzie,
ma non per questo è una passività trascurabile" .
Oggi il termine stesso di "partecipazione" appare insufficiente a
connotare l’esperienza femminile e rischia di essere ancora una volta una
“formula che presenta le donne come ospiti occasionali in una storia non
256
loro dove la normalità e la norma è l’azione degli uomini: partecipare non
equivale a far parte, anzi marca il divario fra appartenenza e convergenza
momentanea”.
La presenza fattiva delle donne non fu solo quantitativamente rilevante
in questa fase che fu un momento cardine del processo di unificazione,
ma produsse significati ben oltre il 1848 e il compimento stesso dell’unità.
Le donne, lungi dal restare escluse, sono chiamate in causa
principalmente attraverso il legame familiare e affettivo, in quanto madri,
figli, consorti di patrioti, ma anche come sorelle in quanto figlie della
stessa madre Italia, e dunque come patriote esse stesse secondo una
interpretazione estensiva e di genere dell’idea di fratellanza.
E tuttavia la natura del patriottismo femminile contemplava precisi ruoli
nei quali le donne erano chiamate a dare il loro contributo alla causa
italiana: se un legame fraterno univa le loro sorti a quelle dei loro uomini
non per questo erano uguali. Inoltre, agivano all’interno di una
contraddizione che negli eventi bellici successivi, prima e seconda guerra
mondiale diventerà sempre più evidente: lottavano e si sacrificavano per
una patria che non era la loro e non riconosceva alle donne una
cittadinanza sociale e politica.
Si ritiene che a partire dal Risorgimento s’innescherà proprio una
tipologia partecipativa legata ad un rifiuto della categoria di apolidi,
semmai ad una richiesta di cittadinanza politica come ricompensa per il
lavoro offerto.
Le donne del Risorgimento, che nei loro scritti non si richiamano ad una
storia comune di genere, fondano invece a loro volta una genealogia
femminile cui si richiameranno le donne degli anni a venire.
Le maestre post-unitarie, così come le emancipazioniste avranno a
disposizione modelli per le giovani altamente positivi. Inoltre, l’aver
partecipato ad una storia fondativa, quella della nazione italiana,
contribuirà anche al risveglio per l’interesse di una storia passata in cui la
presenza femminile s’infittisce.
Fiorenza Taricone considera la partecipazione femminile al
Risorgimento legata per molti aspetti a due eventi bellici successivi,
prima e seconda guerra mondiale, per più di un motivo. Il primo è che
per le donne, oltre alle sempre presenti motivazioni affettive e familiari, si
riscontra una motivazione ideale: nel Risorgimento, legata all’amore per
una Patria, anche se avara e matrigna nei loro confronti; nella prima
guerra mondiale, soprattutto per le interventiste democratiche, la
convinzione che si dovesse portare a termine il processo di unificazione
risorgimentale; nell’ultima guerra, la liberazione della patria stessa dal
257
nemico con la Resistenza, per una società politica nuova, in cui finalmente
cessare di essere apolidi. Naturalmente il dato quantitativo della
partecipazione diretta e consapevole in tutti i casi è numericamente
ridotto, ma la ricaduta sull’intero genere femminile, in termini
emancipatori, economici, e nell’immaginario collettivo, è stata per molti
versi imponente.
Un secondo motivo sta nel carattere anonimo attribuito alla
partecipazione femminile in tutti e tre gli eventi. Di moltissime
risorgimentali non sappiamo neanche il nome, delle partigiane Ada
Gobetti metterà in rilievo proprio il valore dell’anonimato collettivo
come dato positivo.
Un terzo motivo è rappresentato dalla condanna di ruoli che, da
sempre tradizionali, diventavano disdicevoli quando sconfinavano nella
politica. Ne sono esempi fra i tanti gli ospedali organizzati nella Repubblica
Romana del ‘49 essenzialmente da Cristina di Belgiojoso e Margaret
Fuller, criticati in quanto avevano impiegato prostitute o comunque
donne che mostravano le braccia nude. Oppure le partigiane che vivevano
con i compagni nei boschi espletando mansioni tradizionali e che, una
volta tornate alla vita civile, furono accusate di immoralità.
Un quarto motivo è nella fusione continua per le donne, agli occhi dei
contemporanei, di sentimenti e politica, più che di ideali e politica. I
sentimenti, materni, amorosi, filiali, sono attribuiti solo alle donne,
mentre la politica virile se ne distacca, attribuendo agli ideali quasi la sola
razionalità. L’unilateralità di una politica senza sentimenti ha in realtà
danneggiato negli anni a venire l’essenza stessa della politica.
II.3 LE RADICI DELLA REPUBBLICA: CHI DICE DONNA DICE RISORGIMENTO
L’Italia è donna, si dice, alludendo al fatto che, nell’iconografia ufficiale,
la Repubblica Italiana è rappresentata da una statuaria figura femminile
col capo cinto dalla corona turrita. E le donne, nelle imprese che hanno
portato all’unità d’Italia, hanno compiuto azioni di grande coraggio e
intraprendenza, forse non ancora conosciute quanto meriterebbero.
Prendiamo, ad esempio, le Cinque Giornate di Milano: quanti sanno che
nel marzo 1848, tra i patrioti accorsi da tante regioni d’Italia a combattere
contro gli austriaci, c’era anche un contingente di 200 napoletani guidati
dall'aristocratica rivoluzionaria Cristina di Belgioioso, detta la «principessa
rossa» per il suo attivismo politico? Nata a Milano nel 1808, Cristina di
Belgioioso fu cara amica di Giulia Beccaria, madre di Alessandro Manzoni.
Dopo il fallimento dei moti del '31 si era stabilita a Parigi, dove il suo
258
salotto era diventato un punto di riferimento per intellettuali ed esuli
come Gioberti, Fauriel, Thiers, Poerio, Tommaseo, Maroncelli.
Oltre alla principessa di Belgioioso, le Cinque Giornate di Milano ebbero
come protagoniste tante giovani patriote di ogni classe sociale. C’era Luisa
Battistotti Sassi, moglie di un artigiano, che vestita con l’abito della
guardia nazionale, la striscia tricolore al petto e la gonna a campana si
batté valorosamente, salvando la vita a molti insorti rimasti accerchiati. O
la diciassettenne Giuseppina Lazzaroni, scappata di casa per mettere la
sua mira infallibile al servizio della difesa di Porta Comasina. Oppure Paola
Pirola, che combatté per cinque giorni fino a quando, sfinita dalla
stanchezza, il fucile le esplose fra le mani, amputandole due dita.
Gli innumerevoli episodi che videro protagoniste le patriote italiane
impressionarono anche il maresciallo Radetzky, che così commentò le
eroiche giornate milanesi: «Il carattere di questo popolo mi sembra
cambiato, il fanatismo ha pervaso ogni età, ogni ceto, ogni sesso».
A raccontare le vicende che hanno segnato gli ultimi duecento anni della
nostra storia è ora una nuova creazione dei «triumviri» della saggistica
italiana Tarquinio Maiorino, Giuseppe Marchetti Tricamo e Andrea
Zagami, un fortunato sodalizio editoriale che ha già dato alla luce vivaci
ricognizioni di simboli e periodi «caldi» della storia d'Italia.
Il loro nuovo libro Viva l'Italia. Viva la Repubblica (Mondadori), ha come
sottotitolo «Uomini, donne, luoghi dal sogno risorgimentale a oggi». Quali
furono e cosa fecero le donne per la realizzazione del «sogno»
risorgimentale? A questo proposito troviamo dei particolari che ci
riempiono di stupore.
Ad esempio veniamo a sapere che, durante l’esperienza mazziniana
della Repubblica Romana, le donne furono impegnate in operazioni
militari ad alto rischio. Quando ancora non esistevano quei sofisticati
congegni che si usano oggi per disinnescare gli esplosivi, le ausiliarie della
Giovine Italia erano in prima linea nel raccogliere e disattivare bombe. In
che modo? Lo racconta un giornale dell’epoca, citato nel libro: «Tengono
pronte delle masse di creta, e non appena cade una bomba o una granata,
la coprono con essa e ne impediscono lo scoppio».
Ma simili manifestazioni femminili di amor patrio non impedirono che,
sul finire dell’Ottocento, il presidente del Consiglio Francesco Crispi si
opponesse con queste parole alla proposta di voto alle donne: «Quando
voi distaccate la donna dalla famiglia, e la gittate nella pubblica piazza, voi
fate, o signori, della donna non più l’angelo consolatore della famiglia, ma
il demone tentatore...» (di Gaetano Afeltrea, Corriere della Sera, 30
giugno 2003 )
259
II.4.POETESSE DEL RISORGIMENTO ITALIANO
La Rivoluzione francese aveva contratto con le donne quando nel 1789
aveva proclamato per tutti – ma non per le donne – i diritti civili e politici.
Qlympe de Gouges, che di quei diritti si era fatta sostenitrice e teorica,
scrivendone e parlandone in pubbliche assemblee, ghigliottinata, negli
anni del Terrore, «per aver dimenticato le virtù che si convengono al suo
sesso», come commentò un giornale parigino dell’epoca.
L’emancipazione della donna è anche, è forse soprattutto, liberazione
dalle «virtù che si convengono al suo sesso»: la silenziosa disponibilità al
padrone (padre, fratello, marito), la modestia dei comportamenti, la
mancanza di desideri e di volontà, la capacità di soffrire in silenzio,
l’obbedienza. Quelle che vengono (o venivano) considerate virtù per le
donne, vengono (o venivano) considerati difetti o debolezze per gli
uomini, chiamati ad affrontare il mondo da padroni. Virginia Woolf scrisse
una volta che la sorellina di Shakespeare non avrebbe mai potuto
diventare Shakespeare, perché mentre al fratello si apriva fin da infanzia
la possibilità della conoscenza dell’avventura e dello scontro a lei, povera
sorellina, la vita offriva soltanto la fatica monotona dei lavori domestici.
La donna in particolare, con la sua trasgressione all’ordine della famiglia
e della proprietà e dunque alla società nei suoi vincoli più forti, è l’eroina e
il cuore del grande romanzo realista. In Italia, è la incarnata Lucia
manzoniana a contrapporsi a Emma Bovary di Fleaubert. Nell’Italia
dell’Ottocento il problema nazionale lascia poco spazio alla questione
sociale e nessuno alla questione femminile. La storia della scrittura
femminile italiana è molto diversa da quella di altre nazioni europee. (Cfr.
Letteratura di Elisabetta Rasy IN Le donne italiane, il chi è del ‘900, a cura
di Miriam Mafai)
In Italia, nel 1892 sei donne si laurearono. Lidia Poet, la prima laureata in
giurisprudenza, si vide rifiutare l’iscrizione all’Albo, non poteva esercitare
la professione. Ricorse in Cassazione, e anche qui venne sconfitta, con una
sentenza che solennemente affermava la non ammissibilità della donna
all’esercizio della professione forense».
Nonostante gli ostacoli e le ostilità nei confronti delle donne in ogni sfera
dell’avvenire femminile, qua e là possiamo incontrare loro nomi e così
pure nella letteratura dominata dai maschi guidati dall’ideologia
fallocentrica
– in cui troviamo qualche eccezione come ad es. gli
ungheresi János Vajda, Mór Jókai che erano a favore alle pubblicazioni
letterarie delle femmine, alle loro presenze nella letteratura –: ci sono
poetesse anche se non vengono citati i loro nomi, come an questa
selezione dei saggi. Ecco le poetesse italiane dell’era risorgimentale
260
italiana anche come: Diodata Saluzzo di Roero, Matilde Joannini, Sophia
Sassernò, Adele Curti, Laura Beatrice Oliva Mancini, Giulia Molino
Colombini, Ottavia Mombello di Masino (Torino e il Piemonte); Erminia
Fuà Fusinato, Cristina Archinto Trivulzio, Giannina Milli, Vittoria Berti
Madurelli (Milano, Venezia, Vicenza); Massimina Fantastici Rosellini,
Nina Olivetti, Quirina Mocenni Magiotti, Costanza Moscheni (Firenze);
Maria Alinda Bonacci Brunamonti, Anna Miliani Vallemani (Le Marche e
l’Umbria); Maria Guacci, Irene Ricciardi, Mariannina Coffa Caruso,
Giuseppina Turrisi Colonna (Sud-Italia: Napoli e la Sicilia)
Diamo qui appresso lettura di alcune liriche delle poetesse italiane
dell’Ottocento:
Diotada Saluzzo di Roero (1774-1840)
LE ROVINE (Ode 1816)
Ombre degli Avi per la notte tacita
al raggio estivo di cadente luna
v’odo fra sassi diroccati fremere,
che ‘l tempo aduna.
Incerte forme nella vasta ed arida
strada segnata dall’età funesta
tremante affretto; che dei prischi secoli
l’orror sol resta.
Eccomi al varco; non più altiero scuopresi
vana difesa della patria sede,
il fatal ponte, nè alle trombe armigere
alzar si vede.
Ahi vaste Sale! qui gli Eroi che furono,
stavan seduti della mensa in giro:
del Trovatore qui su cetra armonica
s’udìa sospiro.
Qui sconosciuta la trilustre vergine
ignota ai prodi sen vivea secura
e sol nei sogni palpitava l’anima
vivace e pura.
Qui al suon dell’armi, che là giù squillavano,
in aureo manto la Consorte antica
forte vestiva al forte Duce impavido
elmo e lorica.
Ancor mi sembra udir sommesso piangere
fanciul, che l’elsa stringere volea
261
con debol mano al ferro altrui terribile
e nol potea.
Bambin minor d’un lustro egli qual siedasi
sul duro scudo rimirar qui parmi,
mentre le fanciulline i lacci intricano,
che annodan l’armi.
Il forte scudo verginella immobile
mirando andava pien di fiori il grembo;
e lasciavasi i fiori in fervid’estasi
cadere a nembo.
Coprian lo scudo ed il Bambin, che ingenuo
ridea tra fiori e l’armi in dubbia sorte.
L’uom così ride sul sentier suo labile
fra scherzi e morte.
Salve, o sacra rovina! Ah perchè il rapido
fato tardommi ad affrettar la vita?
la Magna età ben si doveva ai palpiti
dell’alma ardita.
Nella mia destra d’Alighier la cetera
suonato avrebbe sui vetusti eventi;
ed a me sol giù dalla valle ombrifera
fan eco i venti.
Giù dalla valle, ove, chi sa? s’udirono
due fratei d’armi ragionar d’amore,
strette le palme fra curvati salici
sul primo albore.
Giù dalla valle, ove a tenzoni vindici
spinsero entrambi il corridor veloce,
l’un dell’altro scudier, e scudo ed anima,
e fama e voce.
Salve, o sacra rovina! io seguo, e schiudonsi
innanzi al lento e traviato passo
le doppie torri e meditando siedomi
sul duro sasso.
Oh! come brune l’alte cime incurvansi,
dei larghi muri, ove penètra appena
di luna un raggio, che la dubbia e pallida
luce qui mena!
Perchè ferrate le finestre altissime,
ed è merlata la superba torre?
No! non qui il prode la lorica armigera
solea deporre.
262
Qui forse mentre un molle riso ingenuo
la verginella in dolce sogno aprìa,
al bel raggio di luna, occulta e perfida
l’Oste venìa.
Forse da quelle alte finestre videsi
entrar talvolta del castello avverso
il reo Signor, all’empie smanie vindici
d’ira converso.
Forse qui stretto il suo pugnal, lentissimo
muoveva il passo fra tacenti squadre,
e ai fanciullini sul materno talamo
svenava il padre.
E forse, ahimè! sulla sua cetra eburnea
il Trovatore dell’età passata
lodò gl’iniqui, se con lor sedevasi
a mensa aurata.
Chi sa se in mezzo a quegli acerbi e bellici
costumi avversi in ricca treccia e bionda,
non rea Consorte d’empie fiamme ardevasi
invereconda?
Qui sparse qui le disperate lagrime
furor geloso, d’ogni cuor tiranno;
quai furo i tradimenti, i colpi, i gemiti,
que’ muri ‘l sanno.
Pensier funesto, in me chi mai ridestati?
Fuggiam, fuggiam dalle fatal rovine.
Raggio di notte, tu la via rischiarami
fra sassi e spine.
Tutte l’età di variate furono
vicende ignote spettatrici alterne;
fra stessi affetti le stess’opre sorgono
girando eterne.
Sol l’alma ardente, che d’intorno cercasi
invan la pace e le virtù soavi,
in un pensier d’amor tutte rivestene
l’ombre degli Avi.
Addio, sacre rovine: allor che polvere
di voi non resti, gli obelischi e gli archi,
opra di noi, di questa polve andrannosi
pel tempo carchi.
E forse andranno vaneggiando i posteri
sul secol nostro lezïoso e rio.
263
il disinganno io m’ebbi, ombre terribili,
rovine, addio!
Massimina Fantastici Rosellini (1788-1859)
DALLA TRAGEDIA «I PARGI»
(Atto I, scena IV)
Carlo: Felice te cui riposare è dato
Sulle virtù de’ tuoi congiunti. Il Cielo
Tal sorte a me non dava: i dubbi miei
Pur niuno udria sulle mie labbra, tranne
Te sola, Eudossia, che già tengo ed amo
Qual mia dolce compagna. Ah, se colui
Che mi diè vita, l’amistà de’ Greci
Demeritar potesse, io che t’adoro,
Dovrei portarne insopportabil pena
Perdendoti? Io, che ad incontrar la morte
Pronto sarei pria che spiacerti?
Eudossia: Oh Dio!
Qual crudel dubbio! Ah dimmi, e che ti tragge
Sì tristo caso a paventar?
Carlo: La cupa
Alma del Padre. Ah tu non sai qual’ira
Destar si può con oltraggiosi detti!
Deh! Se lieto mi vuoi, se di mia pace
Veramente ti cal, securo fammi
Che niuno sarà che all’amor mio t’involi.
Vittoria Berti Madurelli (1794-1841)
ELEGIA
Com’è sola la stanza, ove d’intorno
Pace, Giocondità, Letizia, Amore
Vaga corona mi faceano un giorno!
Irto le chiome, il gelido Timore
Siede alla porta, e in proprio albergo il Pianto
Sta dentro col Silenzio e col Dolore.
Appena il piè sul limitare io pianto,
M’investono i fantasmi in un sol tratto,
E di dietro il primier mi scuote il manto.
264
Pur io m’avanzo, simile nell’atto
A chi s’apre la via fra spine e sassi,
Da cui contrasto al suo cammin vien fatto.
Ecco il letto di morte. A lenti passi
Tutti movete, e con dimesso ciglio
Guardate: è desso, che là spento stassi.
Se non del seno, del mio cuore è il figlio.
Jeri mancò sua vita: eppur reciso
Da vomero pur or rassembra un giglio.
Vedete tutto il bel del Paradiso
Nella fronte serena; in sul bel labbro
Degli angeli mirate anco il sorriso.
IL MIO RITRATTO
(dalla raccolta Versi, 1827)
Ho il busto in belle forme armonizzato.
Nera la chioma ed ho pur l’occhio nero;
Il guardo muovo biecamente altero;
Son brutta, e il sesto lustro ho già varcato.
Ho nobil alma, a cui sol piace il vero;
Mio sesso abborro per istinto innato;
Vivo a me sola in umiltà di stato;
E per me sola d’innalzarmi io spero:
Pronta allo sdegno son, pronta alla posa;
Di madre ho il nome, e non mi diè martoro;
E più lieta mi fa quello di sposa:
Amo de’ Sofi e delle Muse il coro;
Di fortuna il rigor sprezzo orgogliosa;
E cortesia, non mai dovizia onoro.
Cristina Archinto Trivulzio (1799-1852)
UN DOLCE SUONO
(Madrigale dalla raccolta Poesie inedite 1847)
Ebbe sempre un dolce suono
Il tuo nome nelle ore
Dell’attesa e del ricordo.
Eri unico e appassionato
Pensiero: fonte di gioie
E malinconie, a stento
265
Celate ed or che non
Nascondo più il mio amore
Sono di baci e
Carezze impaziente.
________________________________________________
Altre fonti consultate
«La rappresentazione della figura femminile nella lirica italiana dallo Stilnovo al
Barocco», a cura di Paola Casale, Scuola Iad/Università degli Studi di Roma «Tor
Vergata», Roma, 2006.
Francesca Santucci: «Donna non sol ma torna musa all'arte», Antologia poetica;
Editrice Il Foglio, 2003.
Federica Serva: Dame colte e letterate nei salotti in Italia.
Melinda Tamás-Tarr: «Le donne nella società italiana di ieri e di oggi: Donne
italiane nella letteratura, nel giornalismo», in «Annuario 2004», JGYF Kiadó,
Szeged, 2004, pp. 101-111.
«Paradigmi Letterari di fine millennio», a cura di Cristiana Lardo, Scuola
Iad/Università degli Studi di Roma «Tor Vergata», Roma, 2006.
Fiorenza Taricone: Patriote a apolidi del Risorgimento italiano (L’esperienza e
l’eredità delle Patriote dal primo Risorgimento all’Italia post-unitaria, Roma 19
novembre 2010),
Operaie, borghesi, contadine nel XIX secolo, Roma 1985,
Vittorio Cian: Femminismo patriottico del Risorgimento, Roma 1930,
Anna Bravo: Introduzione, in Donne e uomini nelle guerre mondiali, Roma-Bari
1991: Literary.it
A cura di Melinda B. Tamás-Tarr
(Da saggi pubblicati negli anni 2004, 2011)
266
BOTÁR ATTILA (1944)
- Veszprém (H) -
Due sgocciolii
Oggi, tutta la via sull’arida sponda
del giacinto, in violetta si tramuta.
Sul mio cuor riarso la notte s’affaccia.
Sto in piedi, abbandonata e orfana.
La pastorella che prima ha cantato
un giovane con se ha ammaliato,
L’altra, or venuta, ha cuore che s’è fermato,
Né può più cantare nel lutto avvolta.
Da una riga d’addio
“Dannazione mia l’amarti sul mare”.
Sulla lamina di piombo me lo ha donato
colui che ho accolto nella mia vita
e, come una sposa, ho abbracciato.
Scritta di stele
Danza incantevole era. Grazie. Con le ginocchia
bimbo più non cavalca, né arco brilla.
Il fiore divampa sul musco di rosa,
passaggio nella notte, enigma di tregua.
Versi torti dal Cumbrion ¹
1.
Questa città è a un passo. Alla sera
di festa il fuoco del bicchiere
indora gli angoli bassi con la luce
e, dal granaio, reclinando coglie il profumo di castagne.
267
2
Le melodie dalle corde leviamo.
Qui canto non resta, né verbo, né ricordo –
da qui al sud la luce è ormai partita
e la corda scricchiola come un ramo.
_____________________________________________________________________
¹ Cumbrion/Kümbrion: è la città nella zona circondata dagli odierni Carpazi,
probabilmente tra la sponda destra dell’Istros (=Duna/Danubio) e le propaggini
delle Alpi orientali, a nord dal lago Balaton. Dei suoi abitanti e della
loro esistenza qui si accenna per la prima volta. (E secondo le nostre conoscenze:
l’ultima volta.) I dati della regione di Cumbriana/Kümbriana si leggono solo nelle
poesie di Atthis.² I popoli pannonici celtici immigrati in questa zona soltanto dopo
molti anni diedero questo nome a Veszprém odierna.
² Atthis: poetessa greca arcaica, (Sunion, 596 a. Cr. – ? [probabilmente nella zona
di Cumbrion morì+), fu amica di Sappho. Il suo nome significa: ”di Attica”.
Poesie tratte dal volume intitolato «Atthisz naptekercsei» [Le pergamene di
Atthis] pp. 68, 2003, Median, Balatonfüred (pp.52, 53, 56).
Traduzioni © di Melinda B. Tamás-Tarr
CSERNÁK ÁRPÁD (1943)
- Kaposvár (H) –
Se Dio Signore detta
«La ragione è capace di articolare
soltanto le cose date dalla fede.»
Canterbury Anselmus
Venga quel temporale! Per ora soltanto lontani
lampi con tonfi rumori ritardanti. Il mio cervello
scoppia di tensione, ho un forte dolore. Sento le
vene pulsare nelle tempie, il mio collo ha dei crampi
ed è rigido. Sono appoggiato sul lato destro in
posizione di un embrione con occhi aperti. Non mi muovo. Mi concentro
fuori e dentro. Fuori: lampi che stanno venendo più vicini, tuono; dentro:
tensione, pulsazione, dolore. Nell’angolo della stanza c’è una poltrona.
Vedo nella luce lampeggiante: là è seduto un uomo di tonaca e il capo
calvo. Non mi meraviglio neanche. Non chiedo da dove e come sia
arrivato. Non mi muovo. Neppure lui.
268
Sforzo soltanto gli occhi nella penombra, aspettando, spiando il
momento che nella luce del lampo possa leggerlo dallo sguardo: perché è
venuto? Già vicino schioccano le luminose lance, riecheggiano le enormi
lamine d’argento per opera dei severi angeli, rumoreggia il cielo, si alza il
vento benedetto, odo il sussurrio delle foglie dal colore di bronzo e dei
rami degli ebani, però questo non è ancora quella tempesta che ridisegna
le linee del mio volto. Lasciamo perdere queste frasi di secessione! Non
formulare, non sforzarti, scrivi soltanto quando ti detta il Dio Signore e
scrivi soltanto quello che ti detta. È difficile ricordarsi. Quand’era qua e ci
guardavamo faccia a faccia, allora non ho scritto. Sarebbe una bugia se
dicessi che adesso è qui. No. Ora accanto a me, il mio cane ansima. In
questo momento un interruttore della luce è saltato, una porta si è
sbattuta, si sente il mormorio delle conversazioni dell’altra stanza e il
ronzare di una zanzara. Il cielo è ammutolito. È scuro e silenzioso. Sono
accoccolato sul fondo del letto con le ginocchia tirate su e scrivo accanto
alla luce di una piccola lampadina. È difficile ricordare il passato. Eppure è
passato soltanto qualche giorno. Però, quando è stato qui, non potei
scrivere, perché dovevo seguirlo attentamente ed ora è difficile ricordarsi
e rievocare esattamente gli avvenimenti. Ho osservato il suo volto. I lampi
erano sempre più frequenti e scoppiavano sempre più vicini e finalmente
è iniziato a piovere. La tensione nella testa si è sciolta, anche il crampo nel
collo, il dolore si è attenuato. Mio padre è morto da mesi. Non puoi
sapere dove e quando è iniziata la tua storia, dove e quando finirà. Tu esci
e vai nel giardino, finalmente sotto la splendente luce primaverile
tenendo nella mano le forbici per potare, inizi a tagliare i sarmenti
disordinati della vite. Questo tu sono io. Ma è meglio se questo è più
lontano. È meglio se non si tratta nè di me nè di te ma di lui. Lui esce e va
al giardino, in mano le forbici per potare, il suo capo è ancora coperto da
un berretto sotto la splendente luce primaverile e taglia i sarmenti
disordinati della vite. Si ferma all’angolo della casa. Qui, stavi in
quest’angolo quella notte; l’aria era pura, hai alzato lo sguardo al cielo
stellato e piangevi uggiolando. Questo tu ero io. Ma è meglio se questo è
più lontano. È meglio se non si tratta di te ma di lui.
Piangeva là, in quell’angolo della casa alzando lo sguardo al cielo, ha
visto nitidamente suo padre che era già là. Dal cielo suo padre lo ha
guardato. Tutto il cielo aveva il volto di suo padre. Dentro si stava per
soffocare. Non sapeva esattamente perché uscisse. Poi si fermò
sull’angolo della casa e pianse. Era una notte di maggio. Adesso siamo a
marzo e c’è una luce splendente. Finalmente una luce splendente di
primavera. In tutte le file, da un albero all’altro. Quando si trasferirono
269
qua tutto era coperto di erbaccia. Erbaccia dappertutto, densa alta come
un uomo. Anche i ragazzi aiutavano a toglierla. Il vostro cane nero correva
con macchie di ruggine, tra di voi, avanti e indietro nell’alta erbaccia, alta
come un uomo; finalmente libero, sprigionato dalle celle
dell’appartamento. Adesso un cagnolino di color panino sta salterellando
intorno a te. Si deve potare accuratamente il melo. Se non utilizzi sostanze
chimiche, la mela sarà una delizia per i vermi.
Godranno anche del ciliegio e pure dell’amareno, dato che non utilizzi
sostanze chimiche. Ti fermi sotto il noce, guardi in su, verso i rami,
abbracci il tronco snello ed inspiri il suo forte, asprigno profumo.
Superando la fila della tuia puoi vedere quel piccolo tumulo. È meglio se è
più lontano. È meglio se è lui che si accorga della tomba del suo cane.
Sopra di esso ci sono una croce di legno e la ginestra. Non puoi sapere
dove e quando è iniziato la tua storia, dove e quando finirà. Il tuo
cagnolino di color panino saltella intorno a te, alza il muso per guardarti,
prende un rametto con la bocca e con le zampe anteriori si abbassa
nell’erba, mentre alza in alto il sedere scodinzolando. Tu togli il rametto
dalla morsa dei denti e lo lanci, egli gli corre dietro, zigzaga nel giardino
tra gli alberi e i cespugli sotto una luce splendente. Sento un piacevole
formicolio. Mi avvicino. Il luogo e l’ora sono già completamente diversi.
Però il luogo e l’ora hanno mai un significato? Il dramma continua fuori e
dentro, in qualsiasi momento e ovunque: di nuovo la stessa storia. Se
detta Dio Signore.
Ora sono rannicchiato sotto la luce infrarossa di una lampada che emana
calore. Mi sono svegliato con la sensazione di precipitarmi in un abisso;
non so dove mi trovo, non so dove sia il sopra e il sotto, dove siano le
pareti, il pavimento e il soffitto. Sono passati alcuni minuti fino a quando
sono riuscito ad orientarmi tra la luce della luna, il canto dei grilli e
l’abbaiare dei cani che mi hanno riportato al luogo reale, la mia stanza. Se
ti stai avvicinando dall’anticamera, attraverso la porta aperta potrai già
vedere il quadro giallo di Mátyás Oláh con i cavalieri dell’Apocalisse, con
l’albero soffiato dal vento, con la scala a piolo appoggiata sul muro di
mattoni in rovina che si allunga verso il vuoto del cielo su cui in cima vi è
un ragazzino che suona il violino e vedrai anche la metà della cassa dipinta
con tulipani e la consumata valigetta appoggiata sopra. Ne ho già avuto
una simile. Quando subii un incidente essa si era rotta. Per tanti anni ne
cercai una simile finché, circa tre o quattro anni fa, ne trovai una nel
mercatino di Kaposvár. Era dinanzi una signora anziana che conoscevo.
Spesso si trovava qui. Un’ex suora, capelli bianchi e sempre gentile. Ero
agitato davanti a lei quando le chiesi il costo della valigia. Imbarazzata mi
270
disse che la valigetta le serviva per trasportare la merce e che non era sua
intenzione venderla anche perché era già molto vecchia e sporca di
macchie di lampone, ma se io fossi interessato ugualmente potrebbe
vendermela per 20-30 fiorini. Le dissi che gliene avrei dato cinquanta. E
così avvenne. Si trattava di una valigia marrone scura di cartone,
consumata e sulla superficie delicatamente reticolata. Ad un suo lato era
attaccata una lamina di rame su cui c’era disegnato un elefante che
posava sopra una valigia simile. Accanto ad esso si leggeva: prìma
hartplatte imprägniert.
Una volta l’avevo persa a Parigi, sulla Gare du Nord, dimenticandola
appoggiata alla macchinetta dei biglietti. Avevo già sceso due piani, erano
passati circa 4-5 minuti quando mi ero accorto della sua mancanza: avevo
nelle mani soltanto due bagagli, e il terzo, quella valigetta che
rappresentava il mio “grande tesoro”, mancava. Corsi come un pazzo. La
piccola e consunta valigia troneggiava su un banco da lavoro lucido dal
nikkel. Di notte ho sognato che ci trovavamo da giorni su una nave in
mare aperto. Il bagaglio, in cui custodivo i miei tesori, lo tenni con me per
tutto il viaggio. Non dormii nemmeno un minuto. Osservavo come
penetra la prua della nave nell’acqua e spiavo il volo degli uccelli. Lo
sapevano tutti che questa nave ci avrebbe portati in quella città dalle case
bianche e dal cielo sempre blu. Appena mi appoggiai alla ringhiera della
nave per guardare l’acqua, la valigia, nella quale conservavo i miei tesori,
improvvisamente mi scappò di mano. Scese lentamente sul fondo del
mare tra le perle e i coralli. Mi lasciai cadere. Anche da sotto l’acqua
riuscivo a vedere bene il fondo. Stavo quasi per riprenderla, quando mi
raggiunsero dei grandi tentacoli di un polipo. Dovevo sbrigarmi. Se il
polipo si prenderà la valigia, non potrò mai oltrepassare i suoi tentacoli
muscolosi che si intrecciano attorno. Pigramente si protese verso la mia
valigia: uno strano fiore, enorme, disegnato da petali, e piccole corone di
fiori. Tirai fuori il coltello, e con tutte le mie forze mi lanciai sul bersaglio.
Soltanto all’ultimo minuto il nemico percepì il pericolo, e trasalì
improvvisamente. Sentivo come si intrecciavano sulla mia vita i grossi
tentacoli, come scrocchiavano le mie ossa. Raccolsi tutte le mie forze e
scagliai il coltello tra gli occhi del polipo. La presa si affievolì. Non vidi
niente. C’era oscurità e sentivo una puzza nauseante. Nuotai verso la
superficie. L’acqua splendeva alla luce del sole, il sole bruciava, solo una
macchia scura segnalava la nostra lotta. La nave era già lontana. A bordo
uomini ben pettinati, rosei, in camicia bianca e con un gilè scuro facevano
tranquillamente colazione. Sapevano che la nave li avrebbe portati in
quella città dalle case bianche e dal cielo sempre blu. Mi tuffai di nuovo in
271
acqua. Dovevo sbrigarmi, non volevo rincontrare un altro stupido mostro.
Già da lontano vedevo nell’acqua ripulita la mia valigia sul fondo del mare:
piccoli pesci di color argenteo vi nuotavano attorno. Non puoi sapere dove
e quando è iniziata la tua storia, dove e quando finirà. Il dramma continua
dentro e fuori. Mi avvicino. Sono accovacciato nella mia stanza, sotto la
luce infrarossa di una lampada, nella notte. Ho sognato di precipitare.
Accanto alla valigia c’è in un secchio una palma. A terra una stuoia. Faccio
un passo più in avanti, la prima cosa che vedi è una scrivania barocca di un
contadino, sopra una grande cornice di bronzo il volto triste da pagliaccio
di Nizsinszkij, travestito da Petruska. Nell’immagine di una grande cornice
un albatro blu di carta, più sopra un disegno di Taj, sotto su tremanti e
fisse lettere gotiche c’è scritta una poesia di Lao Tse - Tao Te King* che
inizia così: “Al mondo tutti riconoscono il bello, ma assieme a questo
anche il brutto.” A destra delle medaglie di Jang e di Jin c’è l’immagine di
color tabacco di Mátyás: un ragazzo solitario seduto su una panca che
legge su un terreno roccioso, sotto la luna e sopra il volo degli angeli. Sulla
mia scrivania c’è la macchina da scrivere, libri, montagne di carte,
cartacarbone. Nelle scatole pietre, provenienti da diversi mari e fiumi, una
pedina dello scacco: un cavallo nero ben scolpito. Se ti siedi sull’angolo
destro della mia vecchia sedia dove solevo riflettere, di fronte a te in alto
in mezzo al muro c’è Watteau Gilles. Tutte le mattine mi cade lo sguardo
sul suo vestito accecante. Sopra la porta marrone in una cornice marrone
c’è Santo Geremia di Dürer, alla sua sinistra un crocifisso e le mie due foto
di Gandhi: in una cammina lentamente sotto un sole calante, nell’altra il
mondo ha già un colore di fuliggine, e in questa l’oscurità risplende la
mancanza di Gandhi. Sotto le due foto, accanto alla testata del mio letto ci
sono, in un piccolo cassetto con sopra una lampada marrone, libri, riviste,
quaderni sui quali qualche volta annoto questo o quello, se detta Dio
Signore. Mi faccio domande a proposito e a sproposito per le quali non c’è
una risposta. Spesso appare l’uomo con la tonaca e il capo calvo, e mi
interroga. Non con violenza, ma con calma, con amore. Dopo la morte di
mio padre lui ne ha assunto le sembianze. È bello se vieni, ma ho bisogno
di più fede e forza, per saper rispondere alle domande. Arrivi, chiedi il
conto, ma non dici se sono sulla retta via, se ciò che mostro ha qualche
valore. Mi lasci a me stesso con i miei dubbi, mi confondi solamente. Ora
lascami dormire. Vattene. Sono indolente. Non mi fa più male la testa. Nel
tempo e nello spazio – così – senza ostacoli, senza illusioni. Una piccola
storditaggine, dei dolori, un sapore di mela nella bocca, e qualche volta
sogno anche. La mattina la sveglia suona alle 2. Mi alzo e mi lavo. C’è
freddo, sento freddo. Infreddolito esco in strada. Per le 8 devo essere
272
all’albergo chiamato “Bacca Verde”. Se ritarderò mi uccideranno. Sono le
7 e 30. Saluto mia moglie e mi ritrovo nuovamente per strada. Dopo
saluto mia moglie altre tre volte. Mi dice: sbrigati. Prendo il primo tram
che arriva, su di esso ci sono persone che pendono aggrappate così sono
costretto a salirvi, ma almeno è giallo. Il secondo tram è nero, ma penso
che non sia un tram ma un furgone mortuario perché vi stanno persone di
colore verde, è vero sono aggrappate, ma sono molto rigide e
inespressive. Il terzo tram che arriva non esiste così non posso andare
nemmeno con questo. L’orologio ticchetta molto rumorosamente. Mi
inquieta il fatto che la mattina ho visto dal balcone un pesce fuori
dall’acqua. Sono ritornato e l’ho messo nell’acqua. Ho lasciato a casa
anche l’orologio, perché ticchettava molto rumorosamente. Ho deciso di
andare in autobus, poiché devo sbrigarmi e ora mi ritrovo ancora al punto
di partenza. Riesco anche a salire su un autobus, ma mi porta nella
direzione opposta e quando mi accorgo di ciò scendo e salgo su un altro, è
vero che era rosso ma almeno andava nella giusta direzione. Solo dopo mi
accorgo che non vi ero salito. Sul fiume naviga una nave e in cielo romba il
motore degli aerei, sono così tanti che per i molti aerei non si vede il cielo.
Per strada si affollano macchine. Insetti grandi e neri si schiantano sul mio
viso. Mi incammino a piedi sulla montagna. Devo sbrigarmi, devo arrivare
in cima al monte, e non ho molto tempo a disposizione. Mi metto a
correre. Di sfuggita guardo l’orologio e mi viene in mente di averlo lasciato
a casa, al suo posto c’è soltanto una macchia verde. Nelle vicinanze non
vedo persone da nessuna parte. Gli alberi corrono velocemente vicino a
me, le campagne girano assieme a me, la strada è polverosa. Durante la
corsa getto la giacca, la camicia e la cravatta. Continuo a correre col dorso
nudo. Il sole mi brucia. Sudo e la polvere si attacca alla mia schiena. Sento
le mie scarpe molto pesanti, tolgo anche queste, e così continuo a correre.
La sabbia mi brucia i piedi. Inciampo su una pietra, cado, ma per fortuna
ho solo una distorsione alla caviglia, così riesco ad alzarmi. Ho un flash: se
mi sedessi sul bordo della strada, sotto l’ombra degli alberi, mi sdraiassi
nell’erba e le more mi cadessero in bocca, facessi una passeggiata fino al
fiume, dal fiume soffierebbe un vento tiepido, dopo mi facessi un bagno,
mi piacerebbe. Ma scaccio questi pensieri. Non mi calmo ugualmente: io
devo arrivare in cima al monte. Posso scegliere: o arrivo fin lì oppure
ritardo e allora devo morire. Non puoi sapere dove e quando è iniziata la
tua storia, dove e quando finirà. Il dramma continua fuori e dentro. E
sempre, in qualunque posto continua la stessa storia. È meglio se più
lontano. È meglio se è lui. È tutta questione di punti di vista. Posso
scrivere anche che Max Red Bartlett si svegliò di soprassalto dal sogno.
273
Ora è rannicchiato sotto la luce infrarossa di una lampada che emana
calore, sono le 3 e mezza della mattina. Certamente la porta stride se la
apro, e i miei passi, per come mi muovo e per come vivo, sicuramente –
per quanto mi sforzo – sono accompagnati dal rumore. Così mia moglie si
sveglia di soprassalto e mi domanda: Che c’è? Cosa fai? Mi è impossibile
trattenere il sorriso per queste sue domande così sbigottite. Eppure si
ripete, di notte in notte – scrive Max. Da allora comprai una stufa per la
mia stanza e quando dormo da solo – cioè non dormo – a mia moglie sono
ritornate notti serene. Provo ad accendere il fuoco. La legna è bagnata.
Per accendere la stufa neanche una montagna di carta è sufficiente.
Cenere e fumo. Per prima toccò ai documenti ufficiali, ai giornali, ai vecchi
quaderni e libri di scuola, poi riviste, programmi, lettere, adesso brucio
anche le mie novelle, perché non mi piace sentire freddo. Cenere e fumo
– scrive Max. Si spegne nuovamente. La riaccendo? Forse per questa notte
non la accendo – lo pensa. Ma poi la accese ugualmente. Alla fine bastò
soltanto una sua novella.
* N.d.R. Tao Te King o Tao Te Ching ( Il Libro del Tao e della virtù; considerato
come una delle vette del pensiero cinese) di Lao Tse o Lao Tzu.
Traduzione © di Melinda B. Tamás-Tarr e Giorgia Scaffidi
Csernák Árpád attore, scrittore, fondatore e caporedattore del mensile Búvópatak, premiato col Premio Libertà della Stampa «Sándor Petőfi» e con la Croce
d’Argento al Merito della Repubblica d’Ungheria.
274
ERDŐS OLGA (1977)
- Hódmezővásárhely (H) -
Là
(OTT)
Sono nata là, ove
le rugginose rocce
si versano nel mare.
Io vivo là, ove
il volteggiante falco
canterella stridendo.
Vengo da là, ove
la Luna e il Sole
assediano le brame.
M’attendono là,
verso l’antica caverna, ove
l’Eternità a rilento cammina.
Labirinto cosciente
(TUDATOS ÚTVESZTŐ)
Schegge di porcellane –
mille a mille
giacciono dissemminate.
Frasi cancellate –
isolate son scarse
nel codificato errore.
Frammenti di ego-psiche –
quasi io vacante
300
cerco l’avvenire.
Cateratta chiusa dalla mia sorte –
via segreta, custodita
temo, non c’è via di uscita.
Labirinto cosciente –
batto la parete
del campo di magnete…
Bonaccia
(SZÉLCSEND)
Il mondo tace –
e in me la quiete
anela voce.
Ti penso ancora –
come terra arsa
che pioggia implora.
Non un soffio sull’oggi –
e non sarò oltre
le chimere.
Va, Passato! –
frutto Avariato,
non cadere!
Tramonto rimani –
a lungo sosta
mietendo brame.
Tutto ora si può –
speme di miele
le labbra m’infiora…*
* N.d.T. Una versione tra le tante.
301
Grigio
(SZÜRKE)
Talvolta prediligo mostrarmi grigio
o, piuttosto, nero, magari
bianco, oppure blu tela di cotone* –
Per dirla tutta: in uniforme,
per non esser fuori dal comune,
provocante e stridente,
che la massa della gente
accogliere mi possa e accettare pure:
«mass» come pronuncia inglese –
«massa» – per un ungherese –
è nauseante, viscoso,
fluido e palpitante, ma inutile.
Dunque, che senso ha così la vita?
Perciò io di nuovo tornerò insolita,
un’atipica anima ribelle.
N.d.T.: Farmerkék: blu di tela di contone/blu da jeans.
Sul canapè del soggiorno
(A NAPPALI KANAPÉJÁN)
Conserverei quest’attimo con te.
Lo sistemerei in un vaso di confetture,
poi sulla mensola e lo aprirei soltanto
se venissero dei giorni tutti uguali.
Di esso avremmo voglia come un bimbo
della marmellata di pesche.
Spalmeremmo quest’intimità sul pane
tanto che, la nostra lingua, s’attaccherebbe
come adesso io con te, nel grigiore dei primi
giorni d’autunno, sul canapè del soggiorno.
Traduzioni © e nota di Melinda B. Tamás-Tarr
302
Domenica pomeriggio
(VASÁRNAP DÉLUTÁN)
Un caffè nel cortile
domenica pomeriggio
intanto che flebile
il sole di settembre
come il vecchio cane
ai piedi ti siede.
Di foglie secche
aspro viene nell’aria
sentore di fumo.
C’è pace. Silenzio
per qualche momento –
autentica quiete.
E solo in lontananza
sordo odi il tonfo
di noce nel fogliame.
a lábadhoz ül.
Orrodba száraz falevél
fanyar füst szagát
hozza a szél.
Béke van. Néhány
pillanatnyi csönd –
valódi nyugalom.
És csak távolról hallod,
ahogy tompán koppan
a dió az avaron.
In strada
(ÚTON)
Me auto, treni, bus
via portano e riportano
a mai perché non uno
il posto è che per notti
cercando andavo intrisa
d’aroma di sambuco.
Un pioppeto vedendo
dalle foglie d’argento
303
in golene del Tibisco
o per vie di Ravenna
d’agosto a mezzogiorno
ho davvero creduto
possibile il restare.
Ma lieve una qualche ala
poi di farfalla mi chiamava
e la strada riprendevo.
Molla non è curiosità,
neppure smania, solamente
a me da anni fuggo ormai.
TraduzionI © di Mario De Bartolomeis
E taci...
(ÉS HALLGATSZT)
E taci,
mentre le pareti
s’alzano e scrollano
in me – contro di te,
ma non ho già né forza, né fede.
Sei un sogno passato,
una speme d’istante,
un risveglio amaro.
È ancora sempre taci:
il tuo castello muto
l’assedierei invano.
Sono solo un esercito sconfitto,
un calpestio di zoccoli sopito,
fiore d’una rampicante pianta
sul recinto putrido
coi petali da farfalla.
Traduzione © di Melinda B. Tamás-Tarr
Per il giorno dei defunti
(HALOTTAK NAPJÁRA)
una candela – un’anima
una lucerna – una vita
fiamma che arde – sospiro che aleggia
304
visse una volta – è già un ricordo
tomba di marmo – croce di legno
sera nebbiosa – non ci lascia andare
inchino il capo – padri dei padri
di odore passato – camposanti
Traduzione © di Melinda B. Tamás-Tarr
Favola del cacciatore
(MESE A VADÁSZRÓL)
Péter Balogh: La freccia
La freccia ha volato,
e tagliato il traguardo.
Ma lì non ha trovato niente,
oltre se stessa,
come volando ha trovato
(questo ero io)
solo la solitudine.
C’era una volta un cacciatore che era molto bravo con l’arco. Non era più
un giovinetto di primo pelo, ma un giovane uomo maturo che volentieri si
recavanella foresta.
Ormai da anni viveva solo per anni in una casa da caccia, che si trovava in
una radura nascosta profondamente tra gli alberi.
A volte incontrava qualche viandante, qualche altra scambiava due parole
con gli inviati del re sulle cose della vita. Ma nel complesso preferiva il
mondo creato da lui stesso, gli alberi con il fogliame sussurrante, il
mormorio del ruscello e gli animali selvatici. Conosceva e amava la natura,
anzi, ammirava in segreto quel ordine e quella pace che riceveva dal
bosco e dalla sua vita scelta volontariamente.
Solo le notti di plenilunio portavano inquietudine nel cuore del cacciatore.
In questo caso si sentiva la mancanza di qualcosa inconcepibile. I membri
erano tesi e lui avrebbe voluto correre per il mondo per trovare qualcosa
di cui aveva solo idee confuse e che sorgeva dal fondo dell’anima.
Quell’anno la primavera era arrivata molto prima in qualche modo. Fiori
appena aperti ondeggiavano nel vento ancora forte, il sole giocava fra gli
alberi che si coprivano di foglie verdi fragorose, gli uccelli migratori
305
ritornarono più presto per cominciare la nidificazione e anche il cacciatore
sentì un enorme desiderio che era più doloroso che mai.
Il cacciatore era seduto sulla panchina davanti alla casa e guardava il
sentiero partito dalla porta e si snodò lentamente verso la selva e si perse,
mentre le nuvole cariche di pioggia diventavano blu scuro.
Improvvisamente il vento si alzò e gli alberi divergevano dondolando.
Come se una persona fosse stata tra i rami. Il cacciatore era teso come
l’arco.
L’ombra si avvicinò e pian piano emerse la sagoma di una ragazza. Quasi
ballava per la radura avvicinandosi sempre di più al cacciatore che divenne
immobile. Lei stava già davanti a lui, le dita fresche toccarono il suo viso
mentre i loro sguardi s’immersero l’uno nell’altro. In un attimo attraverso
i ricordi gli passò davanti tutta la sua vita. E anche quella di qualcun’altra.
Sentì una serenità infinita. Sapeva certamente che la solitudine non
poteva dargli più nessun’altra tormentata, dolorosamente triste notte di
primavera. Chiuse gli occhi quando il fantasma pose le labbra sulle sue. Fu
dolce questo bacio come la pioggia di maggio.
Quando alzò gli occhi la ragazza non c’era più. Vide solo la sua figura
allontanarsi nel sentiero.
Il cacciatore balzò in piedi per correre dietro la ragazza. Ma gli alberi non
erano più amici, non lo aiutarono, anzi, sembrava che nascondessero
qualcosa. Lui invece continuava la ricerca sempre più disperato. Prima era
arrabbiato – soprattutto per se stesso – poi voleva solo essere sicuro di
non sognare.
Girovagò molte ore nella foresta o forse solo pochi minuti, quando
qualcosa si era mossa tra i rami. Involontariamente posò le mani sull’arco.
Tese l'orecchio. Silenzio. Era solo il vento.
Poi di nuovo provenne qualche rumore, ma stavolta da un’altra direzione.
Si guardò intorno e prese una freccia. La volta seguente lanciò subito la
freccia verso la voce.
La freccia scivolò insolita sotto il fogliame. Volava e volava, poi giunse al
bersaglio. Il cacciatore con gli occhi riusciva a seguire a malapena il volo,
ma andò avanti, facendosi strada da sé. Aspettò che si muovesse
qualcosa, un animale, un uomo oppure la ragazza dalla radura, chi forse
non era stata una visione.
Ma non ci trovò nulla.
La freccia giaceva sulla riva del ruscello, puntata verso l’acqua. Lui si
avvicinò e si chinò. In questo gesto vi era tutta la sua umiltà. Poi vide la
sua immagine riflessa nell’acqua e sentì la stessa emozione di prima,
provata nella radura guardando negli occhi della ragazza.
306
E allora finalmente capì che non sarebbe mai stato solo perché trovò
quello che stava cercando.
Se stesso.
Traduzione © dell’Autrice
Olga Erdős si presenta
Sono nata nel 1977 a Hódmezővásárhely, Ungheria dove vivo anche adesso.
Durante gli studi medi inferiori frequentavo il circolo letterario e spesso
partecipavo a concorsi di recitazione di poesie e prose. All’età di circa 12 anni ho
già scritto le mie prime poesie. Durante gli studi del liceo ho partecipato a un
concorso letterario con un racconto ‘science-fiction’ a Szeged con cui ho vinto un
premio speciale. Questo racconto è stato pubblicato nel giornale del liceo dove
più tardi ho intrapreso l’attività di redattrice.
I miei primi scritti conservati risalgono al 1997, ma ho cominciato a pubblicare
solo nel 2003 su un sito letterario nel web: (www.fullextra.hu).
Fra i miei scritti ci sono poesie, racconti e qualche traduzione di Daniela
Raimondi. Le sue poesie spesso basate sulle donne e sulla femminilità, hanno
fatto grande impressione su di me. E poi grazie a lei ho conosciuto la
professoressa Melinda B. Tamás-Tarr che mi ha dato la possibilità di far
pubblicare mie poesie e traduzioni nella rivista Osservatorio Letterario Ferrara e
l’Altrove.
Nel 2006 ho vinto un concorso organizzata da una fondazione del municipio di
Hódmezővásárhely.
Il mio primo libro (poesie e traduzioni) è uscito in luglio 2008 col titolo Résnyire
tárva (Aperto di uno spiraglio).
307
Per la trasmissione di R.A.I.3 "GEOeGEO" condotta da Sveva Sagramola e le
trasmissione "IIl baco del Millennio" sulle frequenze di Radio R.A.I. 2.
Berlino, 2 dicembre 2007 in un radio documentario che prende spunto dalla sua
vita e dalla sua opera ("missione bellezza"), scritto da Christian Försch (scrittore e
giornalista tedesco), per le frequenze della Kultur-radio rbb (emittente nazionale
radiotelevisiva tedesca).
Berlino, 6 giugno 2008, rappresentazione teatrale dello stesso nella cattedrale
di Berlino, (voce narrante Tilmar Kuhn attrice protagonista Petra Kelling, regia di
Nikolai von Koslowski.) A fine rappresentazione viene tenuto un concerto "live" di
poesie e canzoni con Riccardo Cappelli alla chitarra.
Berlino, 22 ottobre 2008, al radio documentario viene assegnata una
"nomination", che consentirà all'autore, e alla produzione, di accedere alla finale
del Prix Europa 2008.
È uscito un CD musicale che è stato allegato al libro: "Fiüma" , (poesie e canzoni
in dialetto lombardo/mantovano, con oli, disegni e fotografie - della stessa
autrice - relative al Po e alle "tematiche" della donna). Il libro è stato edito nel
2009.
HOLLÓSSY TÓTH KLÁRA (1949)
- Győr (H) -
Verde danza
(ZÖLD TÁNC)
Albeggia. S’aprono i petali,
gli alberi, i cespugli, i fiori e le foglie
narrano i segreti ed i sogni
i brusenti venti vorticosi.
La primavera brioso minuetto danza
offrendo silente piacere all’incanto,
danza che rallegra l’esistenza,
spalanca la porta del rinnovamento.
Sorride il sole, scintilla la luce,
gioca, volteggia e passa librando,
splende felice nello spazio bianco argentato
il nastro tessuto di verde dorato.
312
Nel mulino del tempo
(IDŐMALOMBAN)
L’occiduo sole languisce in veste regale,
splendore che affida all’etereo specchio
e, fluttuando nell’infinito di luce e faville,
s’oscura dietro quel vespertino telo.
Mentre brillare fa granelli di scintille,
imperlato sulla pace discesa fiammeggia,
salutando si congeda dalle distanti stelle
col fresco degli aromatici venti volteggia.
Sulla cupola del cerchio azzurro gli onori
brillano chiamando l’attimo a fermarsi
e, ordinatamente, raccolgono colori
mentre, sulla riva, la rugiada s’ estende.
Gli azzurri di pace sorvolano su angeliche ali,
con zelo e immenso fervore recitano la litania,
vagheggiano la tremula creatura
tingendo violette di lillà sbiadite.
Congeda il paesaggio obbediente
l’incanto cullando luce nel segreto viola-quiete,
nella pace dell’immortalità smarrita
vigila l’Eternità dal soave mulino del momento*.
* N.d.T.: Nel senso del tempo.
Qanto!...
(MENNYI!...)
Quanti sono i lutti, i dolori e la rabbia
in questa colorita trasformazione,
del cielo stellato nella sfuggente visione
l’assordante ed ansante essere s’allevia.
In questo profondo, pacato silenzio
313
la luce sparsa sembra puro oro,
nel silenzio dell’ombra dell’olio dorato
tanti rochi taciti sogni si agitano.
Nelle vicissitudini a noi addossate
quanti tormenti, idee dolorose,
negazioni, frodi, cose non volute,
ma gratuite, si trovano ovunque!
Quanta solitudine nella compagnia,
quanta volontà sprecata viene sciupata
nel travaglio forzato per venir alla luce,
eppure l’albore non sta per arrivare.
Traduzioni © di Melinda B. Tamás-Tarr
JÓKAI ANNA (1932)
- Budapest (H) -
L'angelo di Reims
(REIMSI ANGYAL)
Sta là nell'angolo stretto del portone con le ali
ancora tese dal viaggio.
«Eccomi» - dice alla statua dell'uomo mutilata lì
accanto. E sorride civettando col musetto come se
si facesse scoprire dopo un lungo gioco a
nascondino. L'uomo è offeso. Sulla sua fronte si
notano tre rughe profonde e non guarda neanche
l'angelo. Forse non lo sente neppure. Guarda
avanti, sulla terra, socchiude le palpebre gonfie,
disperato. «Non ne posso più» - dice nonostante che sia un santo. La
nicchia gotica si estende sopra di loro. Le dita affilate cercano la ragione
che si sta allontanando. È già l'autunno ma le trine di color giallo son
ancor più freddo. Si rifugiano qua gli hippy; una scatola vuota di conserva
rumoreggia mentre sta rotolando giù dagli scalini; il pesce al pomodoro
schizza le pietre. Jean-Baptiste tira fuori la sua pipa, il fumo s'imbatte nel
viso dell'angelo. Louise ride. Piace a Jean-Baptiste: «Lo affumichiamo da
qui.» Strofina le dita sporche nel piede dell'angelo. Il pomodoro brilla
314
come sangue. «Dov'eravamo ieri?» - chiede Louise e si copre con la
maglietta decorata coi fiori neri tirandola fino alle caviglie. «Non è
indifferente?» Jean-Baptiste si risiede accanto, toglie le calze e strofina i
piedi nudi contro gli spigoli della scala. «E dove andremo da qui?» «Non
domandarmi - risponde il ragazzo - a chi domanda la gente gli risponde
delle bugie». La ragazza alza le spalle e si stende sulla scala al rovescio,
con la testa in giù. «Questo è il nostro angelo - dice improvvisamente -,
guarda i capelli». È vero, sulla fronte e dalle orecchie le ciocche
morbidamente cadono. Jean-Baptiste sta facendo le frange sull'orlo dei
pantaloni. «Noi non abbiamo l'angelo.» «Io ho una volta pianto» - dice
Louise apparentemente in modo illogico. Il ragazzo cerca qual cosa nel
sacco rotto. Prende la bottiglia arancione a fibbia. L'offre alla ragazza,
beve un sorso. È mattina, Jean-Baptiste fa la pipì dai piedi dell'angelo che
come un ruscello scorre in giù. «Anche noi creperemo» - dice Louise.
«Non ce ne accorgeremo.» Jean-Baptiste intreccia i capelli.. «Noi non
produciamo dei dolori. Il nulla è contento di nulla. Tu lo capisci?» Una
macchina chiusa, una Mercedes passa davanti alla chiesa poi scompare a
sinistra. «Chi è intelligente? - chiede Louise - colui che assume un
atteggiamento senza scopo o chi nega ed inventa la scatola di latta a
quattro ruote?» «Porci - Jean-Baptiste sputa -, ma tu non domandare.» La
macchina blù profondo ritorna dal lato destro e frena davanti alla
scalinata. La porta segreta s'apre ed il capo famiglia scende. La bionda
barba curata inghiottisce le labbra. Aiuta la moglie nel scendere. Anche i
capelli della moglie sono biondi, lineari, tagliati con precisione, tutte le
ciocche di capelli hanno la stessa lunghezza ed arrivano fino alla metà
della schiena. Anche le figlie sono bionde: due bambine. Indossano un
cappello bianco di cotone fissato con un nastro blù sotto il mento. I loro
denti sporgono un po' avanti, questo le dà un aspetto curioso. «È pure
questo» - dice Klaus. S'incammina, la signora e le figlie si mettono in coda
dietro di lui. La barba di Klaus si sbandiera come uno scudo. Evitano JeanBaptiste e Luoise, pure gli sputi, la salsa e lo stagno della pipì mentre di
nascosto gettano uno sguardo verso loro. «È triste. Ehi, che triste» - dice
Hilde e sistema il suo cappellino bianco. Jean-Baptiste e Louise fanno la
linguaccia al massimo della lunghezza, ed emettono dei suoni da pecora.
«Perché hanno fatto così?» - chiede Hilde. «Così esprimono il loro essere
animalesco - dice Klaus - e tutto il loro disdegno per ogni cosa che elogia la
grandezza dell'intelletto umano La scalinata della cattedrale su cui
camminiamo è un esempio pregnante del puro gotico…» La bimba più
piccola con cappello bianco guarda Jean-Baptiste e Louise di nuovo con
meraviglia. S'inciampa nell'ultimo gradino della scalinata. Il padre se ne
315
accorge e per avvertirla, senza collera preme il pollice tra le costole della
bambina. «Ahi! - grida di dolore un attimo la ragazzina ed entra
disciplinata nel buio. «Li sterminiamo? Tutti questi?» - chiede Luoise. Sta
lanciando delle carte piccicose dal sacco. «Sciocca. Deridili. Lo vedi - indica
verso l'alto - anche quello ride di tutto». Con una mano raggiunge il
ginocchio dell'angelo, lo palpeggia intorno poi prendono il sacco, se lo
trascinano dietro sé perdendosi nella polvere. Klaus guarda con gli occhi
socchiusi nella luce, chiude il libro di guida. «La ricchezza della navata
laterale gareggia con quella della trasversale - dice -. Sbrighiamoci, Hilde.
Ce ne sono ancora altre tre.» «Klaus - la signora si ferma al fondo della
scalinata, le due figliole le sono accanto e leggermente si appoggia a loro qui ci dovrebbe essere un angelo. Un angelo qualunque… - continua
insicura nel silenzio - così dicono i libri.» «È un'affermazione tradizionale.
Si abbondano di angeli. È la caratteristica della chiesa medioevale» risponde con tono professorale. «Ma questo è un altro angelo… è
particolare… » - dice Hilde e si regge al sottile collo delle bambine. Klaus la
guarda severamente. «Tutti gli angeli sono uguali. È un ornamento banale.
Non ti capisco, Hilde.» Hilde ritenta, fa un passo indietro sulla scalinata. Le
bambine non la seguono, si fermano. Klaus è già dalla macchina. È
spaventosa questa disgregazione, la sbrecciatura dello spigolo. «Vengo,
Klaus» dice e si siede nella macchina con la gonna sistemata liscia. «Dove
andiamo ora, lo sai?» «Non ti capisco, Hilde» - ripete l'uomo. Infila le mani
nei guanti traforati, accende il motore. «Siamo arrivati da Metz ed
andiamo attraverso Parigi direttamente a Chartres. È chiaro?» Le bambine
stringono il nastro sotto il mento. Hilde fa un cenno col capo, i suoi capelli
le cadono sul viso mentre la vettura balza un po' in avanti.
«Sono in ritardo» - ansima la signora Chouchou e col bastone picchia il
lastricato cinque volte. «Sento che qui mi daranno qualcosa. Lo sento»
Suole stare sempre presso il portone laterale. Gli stranieri pensano che
tenga la scatola d'argento in nome della chiesa. «Cara Madonna mia,
aiutami!» - dice all'angelo. «Che giornata, cara Madonna mia! Tu riesci a
sistemare tutto. Adesso dove corro? Piuttosto al cinema? Cara Madonna
mia - dice all'angelo con caparbietà - ti chiedo soltanto due settimane di
tempo sereno, così avranno voglia di venire… Porta coloro che hanno e
danno! Per te questo è niente. Vedi, io credo in te, in cambio tu mi
sistemi… Aiuta i tuoi fedeli e non i nemici, sii carina, sii intelligente cara
Madonna mia!…» alita un bacio sulla mano incrociata in preghiera e lo
passa sulle pieghe del vestito dell'angelo. «Il sorriso non basta - dice con
un leggero rimprovero - questo lo puoi ammettere.» Si appoggia sul
bastone, osserva la via principale; il sole le raggiunge gli occhi, la scatola
316
d'argento lo riflette, suoni di Morse vibrano nell'aria. «Cosa? - dice la
vecchia - Devo andare dove sono esposti i gioielli d'incoronazione?»
Diventa più agitata. «Potrò farlo. Ma se di nuovo mi mentirai sarò
arrabbiatissima» prima di scendere col bastone dà un colpo ai gradini
della scalinata. Nel cielo nuvole giganti s'accumulano e piove per molte
ore. Piove tanto forte come in primavera, cadono le gocce diagonalmente,
il guardiano della chiesa chiude il portone.
Dalla strada, con la cartella dei disegni, Marcello corre su, sotto l'angelo e
si appoggia al muro. La pioggia lo raggiunge anche lì, l'acqua accumulata
sulla pietra della statua raggiunge l'orlo del suo cappello. Correrebbe via,
cercando di proteggere la cartella dalla pioggia sotto il grembiule a
quadretti; guarda il cielo, ma invece di esso vede l'angelo,
improvvisamente vicinissimo. Si meraviglia. Il viso dell'angelo è coperto
dai sottili raggi d'acqua della pioggia, dalla cavità delle orbite e dall'angolo
delle labbra le gocce cadono continuamente sul magro petto. «È bello pensa Marcello e lo guarda incantato - sorriso eterno sotto le lacrime
eterne. Non lo dimenticherò» - promette a se stesso. Porta la cartella
strettamente sulla pancia mentre sta camminando sul viale alberato
raffreddato. Poi non piove più. Ma il sole non torna, traspare leggermente
dal grigio. Arriva un pullman a forma di balena, davanti con una piccola ed
unica porta davanti. La porticina si apre, la guida scende. Fa un cenno con
la mano. Tutti scendono in fila indiana, le labbra della guida si muovono.
Intima anche al conducente a raggiungere la coda. Prende la chiave e
chiude la porta cura. Gli altri aspettano mentre egli sistema la chiave nel
fondo della sua cartella.
«Si può andare più dentro» dice la guida e gli obbediscono. Una donna col
fazzoletto sul capo, con una pesante corona di capelli è titubante sulla
soglia dell'entrata. Vorrebbe appoggiare la mano destra sulla fronte. La
guida subito si ferma accanto a lei, prende la sua mano destra dal gomito
e la aiuta cortesemente ad oltrepassare la soglia. Restano dentro a lungo.
Una donna con gli occhiali da sole legge uno stampato fotocopiato, ogni
tanto scruta intorno, cerca qualcosa e quando i due - la carta e l'oggetto concordano emette un urlo di vittoria. Tornando dietro passano quasi
davanti all'angelo. La guida fa cenno col capo, sussurra qualcosa alla
donna con gli occhiali ed indica con l'angolo della cartella l'ultimo punto
della lista. La donna vergognandosi conduce il gruppo indietro. Con una
voce piacevole da contralto ripete tutto quello che si deve conoscere della
statua. Due persone prendono degli appunti. La guida va avanti in fretta
ed apre la porticina del pullman a forma di balena. Sta lì finché tutti
salgono uno dopo l'altro, le labbra si muovono di nuovo. Allegramente
317
trascina il conduttore sul pullman, salta su anche lui con un movimento
elastico, poi tutti salutano con la mano la piazza vuota. Sta arrivando il
tramonto e già si percepisce che il grigio diventerà più grigio mentre la
luce si ritira. Hriszto trascina due piene valige e sulla schiena porta uno
zaino di telo. - Magari arrivassi soltanto fino alla chiesa - sta pregando fino a quel misero tempio in rovina. Mi siedo sulle scale tra i musoni
arcaici, mi riprendo un po', poi via, andrò alla stazione. Il pacco cade con
un tonfo sulla piastra del pavimento. Hriszto prende il fazzoletto, lo
stende vi si siede sopra, chiude le ginocchia. Inumidisce con la saliva il
palmo della mano duro come la cinghia. Diventa agitato. Apre il telo
ceroso, cerca qualcosa. Si calma, sospira. «Ho sistemato le mie cose pensa soddisfatto - ogni tanto penso che esco dal tempo. Ciò nonostante
ci sono riuscito.»
Maria lentamente sale sulla scalinata. Una verde foulard di mussola vola
dietro le spalle avvolge la crocchia di capelli incanutiti. Sotto s'apre la
gonna a pieghe come una fisarmonica muta. Ha freddo, con le mani
incrociate copre il collo, sembra come se con la mano sinistra volesse
strangolarsi, ma la mano destra volesse impedirselo. «La gente porta con
sé tutto - pensa, ma lei non ha nient'altro che un sacchettino perlato con
la chiusura nichelata - sempre tutto in tutti i luoghi». L'angelo si confonde
col muro, la donna lo guarda incerta, ma vede soltanto il buio concavo.
Hriszto pensa che Maria sia più giovane. La sciarpa di mussola ed il
sacchettino perlato traggono in inganno. S'avvicina e posa i suoi tesori sul
gradino della scalinata. «La tecnica - dice con orgoglio -, la radio. Sech
Transitor. Verstehen? Six.»
«Son venuta da casa - pensa Maria -; mia figlia a casa tinge i suoi capelli
finti. La figlia di mia figlia rigetta i cibi nutrienti. Il padre di mia figlia
guarda la tivù e beve la birra».
«Magnetofono - dice Hriszto e sistema le cose in modo febbrile -, Made in
Japan. Frist Class… »
Accende le piccole, sottili torce, s'agita con le mani, ridacchia. Maria
distratta fa cenno col capo. «Peccato - pensa - ora è già definitivo: non
hanno chiuso il mondo. La mia finestra è diventata opaca.»
Hriszto mostra un paio di forbici giganti schioccandole. «Perfetto…
perrrfetto…» arrota la 'r', salta balzando sulle lastre di pietra.
Maria vorrebbe alzarsi quando accendono i riflettori laterali. L'uomo vede
il viso della donna da fronte, raccoglie le sue cose frettolosamente.
L'angelo risplende ed il suo sorriso si stende dall'ombra.
«L'angelo - dice Maria sgomentando - l'angelo.»
318
«'Ein' Engel - Hriszto fa cenno con le mani - nur ein Engel.» Indica il
riflettore da duemila Watt: «La tecnica… Ja… La tecnica, ja… Aber Engel…»
- muove la testa dispiaciuto. Ha fretta. Alle ventuno e venti il treno parte,
prende la coincidenza, a casa.
La donna resta ancora. Prova a guardare dietro la statua. Poi si allunga,
stira le dita dei piedi mutilate. Questa luce è furba. Avanza dal basso verso
l'alto.
Ragazza col cane
(KISLÁNY A KUTYÁVAL)
Il cane impietrito stava accanto alla ragazza, in postura corretta e gli
occhi simili al vetro. Mancavano soltanto il piedistallo e la targhetta degli
animali imbalsamati e poteva essere considerato come tale. Però per
questo onore era troppo piccolo, di qualità scarsa ed estremamente
particolare.
Per mostrare qualcosa è sempre meglio un tipo medio di qualità; però di
quello del livello superiore. Come questa ragazza che ha ricevuto il nome
Erzsike¹ e non si sa per quale motivo. Ma è già da diciassette anni che
porta questo nome. Ella però soltanto da sei mesi chiama il cane col nome
Szofi².
– Perché proprio Szofi? – chiese la madre.
Erzsike scosse le spalle e si concentrò soltanto per a prendere il denaro
per la dose quotidiana del gelato, delle castagne e del cinema.
– Lo chiamo così – rispose brevemente –, perché Szofi è una donna
splendida.
Però il cane era maschio. Ma nonostante ciò Erzsike non trovò il nome
illogico.
– Se sporcherà, lo ammazzo – disse teneramente la madre facendo
capire di accettarlo. Erzsike lo sapeva molto bene che sua madre non
avrebbe ammazzato nessuno: anche le mosche venivano appena cacciate
via col panno dei piatti che usava per asciugarli, neanche i suoi schiaffi le
riuscivano bene: a stento sfiorava il berretto, o la larga manica del
cappotto fatto ai ferri, ma mai il corpo della ragazza. Questa pietà valeva
anche per gli oggetti: le dispiaceva buttare gli avanzi dei piatti nella
pattumiera. Spesso stava curva sopra la pattumiera aperta ad osservarli,
forse aveva anche parlato agli umidi avanzi della buccia di verdura e di
patate. Proprio per questo motivo conservava tutta la chincaglieria, la
scatola vuota di pasta, il pezzo rotto di flanella, figure rotte di ceramica.
319
– Mi dispiace buttarli via nel buio, nel nulla – soleva ripetere.
Non la guidava il senso pratico, infatti, non le veniva mai in mente il
pensiero di «forse potrebbe essere utile ancora per qualcosa». Ma al
contrario:
– Questo già non vale nulla – sospirava – ed ora ancora anch’io... poiché
si è rovinato...
Erzsike affermava chiaro e tondo questa strana situazione:
– La mamma è tocca – disse ad una compagna di classe, ancora prima
dell’arrivo del cane. – Da noi si sgretola tutto. Anche il denaro. Perché la
mamma è pazzarella.
Però la mamma non era arrabbiata per quest’affermazione della figlia. Le
piaceva la sua creatura, forse la temeva anche quando le sopracciglia di
Erzsike si congiungevano al centro. Anche la sua corporatura era robusta,
perfetta, tutta energia da comandare, i muscoli del polpaccio
sembravano una palla di tennis.
Già quando stavano davanti al portone si capiva l’inconfondibilmente
situazione: qui la ragazza sorvegliava il cane. Il cane era un suddito. Ed
esso – se non dimentica la sua sottomissione –, poteva essere molto
amato.
Szofi fu trovato nella neve. Erzsike proprio mezz’anno fa lo aveva
scavato dalla neve ove era sepolto. Egli è ora diventato obbediente e
molto docile. L’obbligatoria gratitudine trasforma anche gli animali.
– Non entreremo, finché quell’uomo sta seduto lì... – disse Erzsi al cane,
nonostante piovevesse.
Pioveva fittamente, tutti e due erano umidi, il guinzaglio freddo
scivolava dal palmo della ragazza. Szofi aveva ricevuto per Natale questo
bel guinzaglio di cuoio marrone, decorato da chiodi. Il cane per molto
tempo non le aveva permesso di metterglielo sul collo credendolo una
frusta. Alla fine però lo si dovette picchiare ugualmente. Naturalmente la
madre pianse in quella circostanza. Il suo volto divenne pallidissimo.
Versava tante lacrime ed il suo corpo grasso a forma di salame divenne
un unico saccone di lacrime: bastava premere appena, appena e subito
usciva una goccia di lacrima.
– Non far male a quella sciocca bestiola...
– Lo educo soltanto.... Szofi, opplà!... Szofi, opplà!...
Chiedergli di raddrizzarsi su due piedi non era poi un compito così difficile ,
però Szofì non voleva imparare nemmeno questo. Quasi quasi sembrava
volesse rinunciare anche alla caramella, però alla carne e all’osso
nemmeno per sogno! Quando brontolerà suo stomaco chiederà il cibo!
320
– Non riesco neanche a guardarlo! Ha tanta fame... – si lamentò la
signora.
– Resisterà per due giorni – disse Erzsike -, anche noi ci siamo riusciti
quando quell’uomo ha svuotato il tuo portafoglio.
E quell’uomo ancora ora stava seduto nella cucina.
– No, Szofi... non muoverti! Buon cane, non muoverti... Se ne andrà...
Deve andarsene...
Il cane saltò subito sopra il bastoncino. Prima mugolò un po’, e poi lo saltò.
– Ti voglio bene, Szofi... Ti voglio bene se obbedisci... e se obbedisci
soltanto a me... soltanto a me...
Sì, perché Szofi si esibiva esclusivamente per lei, al suo ordine. Non
accettava cibo da nessun’altro: neanche dalla madre. Gli schiaffi di Erzsike,
degni dei soldati, gli avevano fatto imparare questo.
– A che serve? – domandò la madre fiaccamente, era sempre stanca,
ogni giorno doveva preparare la massa per la macchina per formare
millecinquecento anatre di plastica di color arancione. Questa quantità era
la norma giornaliera, la metà di millecinquecento anatre di plastica. Poi
venivano incollate ad un tavolo per creare l’intera figura. Nel suo libretto
di lavoro come professione vi era scritto: caricatrice, di ciò ne rideva anche
l’impiegata dell’amministrazione. – Perché l’addestri? Non è un cane da
circo...
– Sei invidiosa perché mi obbedisce! A te lo fa nessuno... hai lasciato che
quest’uomo pure...
– Papà – disse sottovoce la donna -, papà.
– Quell’uomo – continuò la ragazza con coerente determinatezza – ha
chiesto credito su pegno per il tuo cappotto invernale... a causa delle
carogne!
– Cavalli – rispose automaticamente la madre –, a causa dei cavalli...
– Carogne. Si dovrebbe trasformarli tutti in sapone. I cavalli sono
carogne. Un credito su pegno per il tuo cappotto invernale...
– Non l’hanno neanche accettato. Lo sai Erzsike che non l’hanno
accettato...
– Allora, dov’è? – La ragazza posando le mani sui fianchi si mise sulla
porta della cucina a gambe divaricate. Il cane girò intorno alle sue gambe
prima da destra verso sinistra, poi al contrario. Pensava che anche questo
fosse un dovere.
– L’ho dimenticato sul tram, mia cara... – disse a quei tempi questo
l’uomo con un largo sorriso e poi annunciò di trasferirsi temporaneamente
in un posto più adatto in cui egli non sarebbe stato «ostacolato».
321
Questo era il suo settimo trasferimento. Ed ecco, stava di nuovo seduto
qui, in cucina.
– Deve andarsene... Szofi, lo capisci? Ella non potrà riaccoglierlo...
Semplicemente glielo proibisco.
Erzsike odiava quell’uomo. Nonostante egli fosse suo padre di sangue.
Nonostante egli non l’avesse mai picchiata. Anzi, le parlava sempre con
dolcezza, ripetutamente le accarezzava il suo capo a meno che Erzsike non
fosse abbastanza svelta da girarlo dall’altra parte.
Egli non aveva neanche bevuto. Altrimenti il suo stomaco l’avrebbe
subito rigettato.
– Non ci sono nemmeno le altre donne – disse la madre una volta ad una
vicina di casa -, non ci sono donne. Eppure...
Si lamentava di una malattia ignota che divora l’interno dell’organismo:
una volta gli facevano male i reni, un’altra volta il cuore, o soffriva per un
dolore causato da un tumore purulento dell’orecchio che ogni tanto gli
provocava la febbre e gli distruggeva i nervi.
Per questo motivo non aveva posto fisso di lavoro, l’appetito però non gli
mancava. Quando per caso tornava a casa, sempre si inventava qualcosa di
particolare: pane al burro con zucchero a velo, ricotta di mucca con pepe,
succo di pomodoro condensato e diluito con acqua gassata.
Stava seduto accanto al tavolo distendendo le gambe in avanti:
– Il vostro gusto è rovinato– disse schioccando la lingua –. Questa vostra
la vita non è vita... Se solo una volta potessi riuscirci... vi farò vedere...
resistete solo ancora... siate coerenti...
Erzsike ricordava molto bene quel duro inverno quando suo padre non
tornava neanche una volta, viveva in una camera in affitto, dove l’acqua
veniva riscaldata da un geyser. Quell’inverno ella dovette accettare un
paio di scarpe usate e la maestra la interrogò della sua situazione
familiare:
– Che professione svolge tuo padre?
– Non lo so.
– Chiedilo alla mamma...
– Neppure lei lo sa...
– Sono divorziati i tuoi genitori?
– No. Soltanto papà non c’è a casa.
– Ah... – disse la maestra – Sono separati. Così si dice. Lo confermerà il
custode del condominio.
Però neanche lui poteva confermarlo, perché l’uomo non aveva
annunciato il cambiamento di domicilio.
322
– Che caos... – sospirò la maestra. – Quanti problemi ci saranno con quel
certificato sul reddito...
Così Erzsi non venne iscritta al doposcuola.
Sua madre cercò di assicurare la cifra indispensabile per le spese
scolastiche. Quanto si poteva, risparmiavano sulla pancia. Però il giorno
dopo Erzsike non riuscì più a mandar giù la stessa pastasciutta al semolino.
Da essa già vomitava, nel sogno vedeva sempre dei vermi ostinati di passar
giù dalla gola.
Poi l’uomo tornò a casa per cinque mesi con la licenza di malattia.
Una volta il suo cavallo aveva vinto. E allora aveva portato a casa una
bottiglia di spumante, ma la metà fu sprecato mentre impazientemente
tentava di tirar fuori i tappo.
Sparì nell’ora della mattinata quando Erzsi e la madre si sbrigavano con
le loro faccende.
Però egli non aveva portato via più cose di quelle che poteva tenere nelle
sue mani. Una volta, sotto la giacca, aveva attorcigliato due lenzuola
intorno al corpo. Erzsike lo vide allontanarsi dall’angolo della strada, ma
non ebbe coraggio di corrergli dietro perché quella figura le sembrava
troppo grassa e pensava di sbagliarsi.
Inutilmente rimproverò sua madre:
– Caccialo via, mamma, lo senti? Caccialo via! Non lasciarlo entrare più...
Ma la madre scosse il capo e sospirò: è inutile.
E se avesse paura di lui! Macché! Non lo temeva. È stata una signora
robusta, anche forte; soltanto con una mano avrebbe potuto respingere
questa figura magra, malato di clorosi.
– Forse lo ama – disse una compagna di classe ben informata di Erzsike –,
le donne amano gli uomini.
Ma nemmeno questo. La ragazza li spiava vigile: Si montano qualche
volta? Macché. Non facevano l’amore. Era successo soltanto che nel
periodo del quinto o sesto ritorno, all’alba Erzsi si svegliò da un pianto.
Non era della madre. L’uomo pianse davanti al letto della donna, in
mutandine appoggiando le ginocchia contro al bordo del letto.
Aveva sentito dire che suo padre fosse un bottaio. Non sapeva
esattamente cosa significasse. Pensava che fosse una cosa astrusa,
superflua ed inutile, come tutto quello che lo circonda.
Il suo ricordo più remoto risaliva all’età di quattro anni quando ricevette
una grande scatola dal padre. Tolto il coperchio vi era una splendida
bambola con lunghe ciglia, fissata con un filo di nylon, vestita di un abito
azzurro in una tulla. Ella allungò le braccia per tirarla fuori dalla scatola per
323
prenderla ed abbracciarla gridando il suo nome battezzandola col nome di
Szofi, ma l’uomo aveva richiuso la scatola.
– È bella, vero? – chiese dolcemente. – È la tua. Domani potrai giocare
con questa. Ed anche con tante altre bambole. Se ci riuscirò. Mise la
scatola contenente la bambola sotto le braccia e se ne andò, non l’avrebbe
riportata mai più.
– Cagnolino mio – Erzsi s’inchinò verso il cane per accarezzarlo – hai
freddo, è vero? Fra poco se ne andrà. Se mi chiedi da mangiare, riceverai
una buona cena.
Il cane emetteva un suono. Tremava.
Se non lo manderà entro dieci minuti – pensò Erzsike – li faccio
attaccare da Szofi.
Riversava sul padre il suo odio accumulato in questi lunghi anni. Quasi
quasi anche sulla madre.
Soltanto questo cane era suo. Veramente. Già tirandolo fuori dalla neve
sapeva perché l’avesse fatto.
– Eppure se dovessimo entrare, non farci caso. Lo capisci, Szofi? – tirò
forte il guinzaglio. Szofi emise un suono con un filo di voce. Erzsike lo
minacciava con il guinzaglio, Szofi aveva girato il muso da un’altra parte. –
Ecco, mi raccomando...
Un cane grande e spettinato passava dinanzi al portone in compagnia
del suo padrone che indossava una pelliccia altrettanto spettinata. Szofi
desideroso alzava la zampa posteriore, piegata graziosamente in
ginocchio, col muscolo del collo teso.
Erzsike ora lo picchiava leggermente.
– Ci mancherebbe altro!... tu porco...
Già pioveva intensamente. Dalla grondaia rotta l’acqua le cadeva loro
addosso. Dentro invece c’era corrente e una voce maschile proveniva
dolciastra mentre stava raccontando delle barzellette. La madre
cortesemente tossicchiava ma non rideva. La mamma non sapeva ridere. Il
suo sorriso e una carta velina attaccata al volto, dietro comunque
emergeva il telo scuro.
– Erzsike... fiiiiiiglia miiiia... Erzsi...
– Szofi! Quando superiamo la soglia della porta ringhia! Hai capito? Fagli
vedere i tuoi denti affilati! Così, Szofi: grrrrr...
Szofi faceva la prova ma il mormorio non sembrava affatto spaventoso.
– Stupido cane.... così: grrrrr... grrrrr...
Stavano seduti alla tavola della cucina nello stesso modo in cui Erzsi
l’aveva immaginato. Suo padre con noncuranza accavalcava le gambe e si
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vedevano le calze vistosamente colorate sotto i pesanti pantaloni sporchi
ma ben stirati.
– Figliola mia, ti saluto... come sei cresciuta bene... Avvicinati al tuo
papino...
– Fa puzza qua – disse Erzsi annusando intorno.
– Il barbiere – disse l’uomo toccandosi con le mani il viso liscio appena
rasato –, ho chiesto inutilmente di non mettermi nessun dopobarba per
non far restringrere la pelle... E questo cane? Che carino... Come si
chiama?
– Non ha nome – rispose Erzsi veloce –, mamma tira fuori la sua
polpetta.
– Dio mio! – la signora si alzò impaurita per nascondere un piatto sporco
dalla tavola. – Dio mio! Erzsike, non c’è la polpetta. L’ho data a tuo padre –
disse facendo anche l’occhiolino implorante.
– Tu, gli hai dato la cena del mio cane? – la voce penetrante di Erzsike si
alzò e sopra gli occhi si contraevano frequentemente le sopracciglia. A
causa di queste contrazioni andarono tre volte nel reparto di neurologia
pediatrica. Allora il medico propose il cambiamento d’aria rassicurando la
madre che intanto il novanta per cento degli adulti è malato di nervi sia
per questo sia per quello.
– Anche i ragazzi? – chiese la signora inorridita.
– Sì, anche i ragazzi – rispose il medico.
– Erzsike, scusami – tentò di spiegarle la signora – da ieri è ancora
rimasto un osso, quello andrà bene al cane. Non ho trovato altro. Non
riesce a magiare la pasta, i carboidrati gli danno fastidio.
– Mia cara, non devi spiegarle! – e l’uomo con allegria stese la mano
verso il cane. – Mia Erzsike, sei felice di vedermi?
Erzsike non gli rispose. Lanciò uno sguardo minaccioso verso la madre.
– Hanno divorato tutta la tua pappa, cagnolino mio. Vedi? Divorano
anche la tua pappa... Forza... Abbaia! Abbaia!
Szofi si posizionò accanto alla pattumiera appoggiando pigramente la
testa.
– Sarebbe caso di riscaldare la stanza – disse l’uomo con immutato buon
umore. – Non è una cosa intelligente star seduti in cucina... assieme ad un
cane... anche se è un cane carino... Avresti potuto dargli almeno un nome,
Erzsike...
– Non glielo dico! – gridò Erzsike isterica.
– Ecco ad esempio: Gáspár... non è un nome volgare e sta bene ad un
cane... Con Gáspár una volta ho anche vinto... Gáspár, vieni qua, vieni dal
padrone...
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Il cane sollevò il muso. Erzsike lo picchiò forte.
– Questo è il mio cane! Ha sentito? E non abbia coraggio di chiamare il
mio cane...
– Erzsike – disse l’uomo solennemente –, il cane è attirato dove sente il
cuore...
– Lei non c’entra nulla con questo cane! Lei qui è un ospite!
– Ma Erzsike... – intervenne la madre, lentamente con grande tristezza. –
È il tuo padre. Sempre lo è.
– Ospite! Ospite! – gridò Erzsike. – Un ospite inaspettato... che mangia la
cena del mio cane...
– Erzsike – diminuì il buon umore dell’uomo –, mia cara, dolce bambina...
lo so che ce l’avete con me... lo so che sei arrabbiata con me... Però io per
voi faccio di tutto, non come fanno gli altri che si rassegnano alla miseria
eterna della famiglia...
– Bugiardo... dice sempre le bugie... – Erzsike si accovacciò in altezza del
cane, lo accarezzava, gli scoccava un bacio. – Non ascoltarlo, cagnolino
mio...
– Che intenzione hai? – chiese la donna improvvisamente all’uomo. –
Dimmelo.
– Vuole – mormorò Erzsike al cane – ingrassarsi con tua polpetta...
Mamma, hai chiuso a chiave l’armadio? Lì ci sono i miei nuovi stivali...
– Erzsike – disse l’uomo e sopra gli occhi anche le ciglia cominciavano a
prendere il color rosso –, tu chiuderesti a chiave l’armadio davanti al tuo
padre?
– Ti prego – disse la donna – esprimiti: che intenzioni hai?
– Mia cara... tutto, ma tutto è possibile... dovevo uscirne soltanto da
questo mio stato attuale... non lo reggo più con l’anima... trasportare tutti
quei malati gravi... ed anche la barella è pesante...
– Questo posto non è un luogo di passaggio – disse Erzsike di nuovo al
cane –, e non è neppure un albergo. Però nell’albergo non si alloggia
gratuitamente.
– Perché parla così strano nostra figlia?
– Erzsike è molto svelta – rispose velocemente la donna –, è brava a
comporre frasi. Il suo stile è stupefacente. Questo l’hanno scritto sul suo
compito di classe.
– Per voi è più vantaggioso se rimango. – disse l’uomo calmandosi. –
Avete un sostegno in casa! Posso dormire anche su un sacco di paglia.
– Io non vado a dormire nello stesso letto con te – disse Erzsike alla
madre –, e se rimarrà, domani scapperò assieme al cane.
326
– Erzsike, mia dolce Erzsike – l’uomo voleva toccarla con le mani ma non
ce la faceva - , parli così con tuo padre ammalato? Con colui che forse avrà
soltanto qualche mese di vita?...
– Non posso buttarlo fuori – disse la madre -, è invano. Non sa dove
andare a dormire.
– Sei un tapiro... tapiro mamma...
Erzsike ancora non aveva mai visto un tapiro ma immaginava l’animale
come se fosse una bestia nera col corpo viscido, un animale
continuamente ansimante che non sentisse nulla: né una coltellata, né una
carezza. Allora perché è in vita?!
– Mia cara, tu sei così buona. Come posso ricambiarti tutto quanto?
Avrò abbastanza forza per questo? – sospirò l’uomo.
– Questa non è bontà – disse la donna con voce rauca indirizzando
questo piuttosto ad Erzsike -, semplicemente non c’è niente da fare.
– ...però, mi avete amato – improvvisamente gli occhi dell’uomo
s’inumidirono e con un appiccicoso, sporco fazzoletto asciugò gli occhi. –
Mia Erzsike, ami tuo disgraziato papà, non è vero?
– Io voglio bene soltanto al mio cane – rispose la ragazza. La madre la
guardò. Non era arrabbiata. Non si sentiva neanche gravemente offesa.
Ora il suo sguardo era saggio: annuì col capo.
– La senti? – si lamentò dolorosamente l’uomo. – Senti che cosa dice
nostra figlia? Erzsike... Tu affermi di amare di più un animale che...
– Diglielo – intervenne apaticamente la madre –, diglielo Erzsike che lo
ami di più.
– Questo cane è mio. Lo capisce? Senza di me si sarebbe morto. E mi
obbedisce! E non mi lascerà... cosa c’è da guardare?
– Ma io vi ho abbandonate? – l’uomo pianse veramente. Ritorno
sempre, non ho un’altra famiglia, ma non ho trovato ancora... non ho
trovato ancora...
– Lascia stare, Erzsi – la implorò la madre. Non farlo soffrire. A che
serve?
– Gáspár... piccolo bel cane...Carino, piccolo cane... lo vedi, fanno male
al padrone... vieni dal padrone...
– Non osi chiamare il mio cane!... Non sa neanche il suo nome....
– È un animale intelligente – disse la donna – è addestrato. Soltanto
Erzsi ha il potere sopra di lui. Non accetta neanche le leccornie da altri.
– Fa vedere i tuoi denti: grrrrr...fagli vedere: grrrrr...
Il cane indebolito fece vedere le gengive.
– Gáspár, vieni qua...
Le orecchia di Szofi si erano mosse.
327
– Non si muove – disse la ragazza con malizia – , neppure se
scoppiasse...
– Nessuno sa farlo spostare – disse la madre rassicurante -, proprio
nessuno. Non vale la pena esercitarsi, piuttosto mi faccio il letto sul
pavimento.
– L’uomo singhiozzò.
– Non ho nulla da dargli... Non ho neppure delle caramelle... Se le
avessi... sono sotto piedi, mia cara? Soltanto con una parola devi dirmelo
e me ne andrò... in piazza... sotto i portici... oppure mi raccoglierà
l’ambulanza...
Il cane si mosse nervosamente.
– Ha paura – disse Erzsi accusandolo –, ha paura dei simili tipi.
– È un bel cane... vorrei accarezzarlo...
– Erzsike – le rivolse la madre – ordina al cane di tenere il capo fermo.
Soltanto per un minuto.
– È il mio cane! – Erzsike si mise a piangere – Mai!
– Crudele. Sei crudele – le disse la donna senza però rimproverarla.
– Vorrei tanto accarezzare il suo pelo... Non gli faccio male... soltanto lo
accarezzo... cagnolino, vieni qua, vieni qua de me...
L’uomo congiungendo le mani chiamò il cane. La sua voce appena
cambiata sottile assomigliava a quella di un bambino piuttosto che di un
maschio. Incurvò la schiena ed i suoi occhi luccicavano desiderosi.
Erzsike sicuramente stava in piedi sulle muscolose gambe divaricate. Il
cane si alzò e si scosse più volte.
– Accuccia! – gli ordinò Erzsike con la voce tagliente.
Il cane si sedette nuovamente, poi si rialzò, si scosse il pelo come se si
fosse appena svegliato dal sonno.
Erzsike lo picchiò con la cinghia.
– Vieni da me – l’uomo gli mormorò e si piegò avanti sulla sedia, cercando
gli occhi del cane –, Gáspár, tu cane infelice... vieni dal padrone... vieni...
Il cane prima volse lo sguardo verso Erzsike, poi all’uomo. Barcollando fece
due passi avanti.
– No! – gridò Erzsike terribilmente spaventata ed abbracciò il collo del
cane: – Non puoi andare da lui!... Io ti ho salvato... Io.... Solo io.... Perché?
Unico cagnolino mio, ma perché?
Di tutto questo non capì niente.
L’uomo già non disse più nulla. Con il palmo vuoto sporto in avanti
cercava di stare in equilibrio sul bordo della sedia e canticchiava qualcosa.
Il cane invece con la pancia appiattita si svincolò dalle braccia di Erzsike ed
appoggiò il capo sul palmo aperto dell’uomo.
328
– Buon cane, bravo cane – disse felicemente l’uomo, chiuse gli occhi e
con ebbrezza accarezzò il soffice pelo.
– Vedi Erzsike, non lo mangio mica... – si girò verso la ragazza di nuovo
spensierato ed allegro.
Erzsike indietreggiò fino alla porta e poi, anche oltre.
– Crudele. Sei crudele pure tu – disse la donna all’uomo.
Invece la ragazza fuori con gesti consueti con forti strattoni tirava il
guinzaglio. Era intelligente, lo sapeva, dovrà ritornare comunque, adesso
non potrà neanche nascondersi senza cane.
Da: Jókai Anna, Az ifjú és a halász, Összegyűjtött Novellák *Il giovanotto ed il
pescatore, Raccolte di novelle], http://www.pim.hu/
Traduzioni © di Melinda B. Tamás-Tarr
Anna Jókai è una scrittrice ungherese
nota e famosa – è anche corrispondente
occasionale dell’Osservatorio Letterario,
periodico letterario e di cultura italoungherese di Ferrara, fondata, redatta
ed edita dalla direttrice, Melinda B. Tamás-Tarr –, è nata a Budapest il 24 novembre 1932, madre di due figli (Gábor
1955, Nóra 1957) già da piccola desiderava diventare una scrittrice, ma a causa
di varie circostanze, a 16 anni interruppe
le prime esperienze narrative. Subito dopo la maturità (Liceo Femminile "Zrínyi
Ilona" di Budapest) iniziò a lavorare prima come ragioniera (1951-53) poi come
istruttrice popolare e relatrice artistica (1953-57). Soltanto nel 1956 riuscì ad ottenere l'iscrizione alla Facoltà di Lettere dell'Università "Eötvös". Nel 1961 si laureò nell'indirizzo di docente di Ungherese- Letteratura e di Storia. Dal 1961 al
1970 ha insegnato presso alla Scuola d'Obbligo di via Jázmin e dal 1970 al 1976 è
stata docente presso il Liceo "Vörösmarty" di Budapest.
Intorno all'età di 33-34 anni iniziò la carriera di scrittrice. Nel 1968 uscì il suo
primo romanzo intitolato "4447" che in verità è un numero di catasto di una casa
di periferia, poi nel 1969 pubblicò il volume di novelle col titolo "Senza corda". Le
sue opere furono subito con rapidità inaspettata al centro d'interesse dei critici e
del pubblico di lettori. Da allora fino ad oggi è un'autrice attiva nella vita letteraria. Dal 1976 vive da libera professionista. Tra il 1986 e 1989 coprì il ruolo di vicepresidente, poi (dall'estate 1990 fino all'anno 1992) di presidente dell'Associazione degli Scrittori Ungheresi, dal 1989 è membro presidenziale. Nel 1990 e poi dal
1998 è presidente del Sindacato degli Scrittori, dal 1996 è anche presidente della
Società Amichevole del Teatro Nazionale, è membro fondatore dell'Accademia
Letteraria ed Artistica "Széchenyi".
329
Ha ottenuto i seguenti prestigiosi premi letterari per le sue opere: Premio József
Attila (1970), Premio SZOT (1974), Premio PAX (1980, Polonia), Premio Kossuth
(1994), Premio Eredità Ungherese (1998), Premio Villaggio Tisza (1999), Premio
Libro dell'Anno (1999), Premio Letterario CET (1999), Premio per La Cultura Ungherese (2000), Medaglia al Merito del Presidente della Repubblica d’Ungheria
(2002), Grande Premio János Arany (2003), Premio «Prima Primissima» [in due
categorie] (2004), Premio Stephamus (2006), Cittadina Onoraria del quartiere VII
di Budapest.
Lo scopo artistico della scrittrice è - come lei professa apertamente – la ricerca
delle domande e risposte sull'assenza eterna delle condizioni difficili della vita
quotidiana. La sua prosa parte dalle tradizioni e si svolge secondo le esigenze della novità, del nuovo contenuto. Le sue opere contengono una critica tagliente ai
sistemi dell'Europa orientale, tra la descrizione di fatti crudeli ed il distacco filosofico. I suoi libri sono stati pubblicati in varie lingue: in polacco, ceco, slovacco,
sloveno, tedesco, bulgaro, ucraino, russo. Le sue novelle sono presenti in innumerevoli antologie straniere: ad es."L'Angelo di Reims" ("The Angel at Reims")
nell'antologia "Oscar at the Window" pubblicata in inglese nel 1980 a Minneapolis
a cura del Prof. Albert Tezla, in francese è stata pubblicata a Parigi nel 1996, ed è
stata tradotta anche in tedesco. La versione italiana all’opera di Melinda B. Tamás-Tarr oltre alla presente antologia è reperibile nelle altre edizioni O.L.F.A. (Le
voci magiare [2001], Traduzioni – Fordítások II. [2002] e nelle loro versioni digitali
sul sito della MEK, Biblioteca Elettronica Ungherese della Biblioteca Nazionale
«Széchenyi» di Budapest .
Le sue opere sono: "4447" (1968), "Dovere e pretendere" ["Tartozik és követel"] (1970), "Giorni" ["Napok"] (1972), "Fino
alla
morte" ["Mindhalálig"] (1974), "Il compito" ["A feladat"] (1977), "La scala a piuoli di Giacobbe" ["Jákob
lajtorjája"] (1982), "Star
insieme/Vita
comune" ["Az
együttlét"] (1987), "La povera Anna Sudár" ["Szegény Sudár Anna"](1989), - romanzi; "Senza corda" ["Kötél nélkül"] (1969), "La palla" ["A labda"] (1971), "I nostri amati, i nostri amori" ["Szeretteink, szerelmeink"] (1973), "L'angelo di
Reims" ["A reimsi angyal"] (1975), "I segni del lamento" ["A panasz leírása"] (1980), "Venga a Lilliputh!" ["Jöjjön Lilliputba!"] (1985), "Il giovine pescatore
ed il lago" ["Az ifjú halász és a tó"](1992), "Rosso e rosso" ["Vörös és
vörös"] (1994), "Tre" ["Három"] (novelle, saggi 1995), "Non temete!" ["Ne féljetek!"] (1998) - novelle; "Questo sogno che cos'è?" ["Mi ez az
álom?"] (1990), "Radice e ramo" ["A töve és a gallya"] (1991), "Baldoria degli uometti-secondo" ["Percemberkék dáridója"] (1996), - saggi; 3 sui drammi sono stati
presentati nei teatri ungheresi. L’ago della bilancia I. [A mérleg nyelve
I.] (Raccolta di saggi, elzeviri epistolari) (2002), Preghiere apocrife (2002, audiolibro), L’ago della bilancia II. [A mérleg nyelve I..] (Raccolta di saggi, elzeviri epistolari) (2003), Imitatio Christi (volume di interviste) (2004), All’alba della domenica
delle palme [Virágvasárnap alkonyán] (Poesie – predhiere in versi) (2004), Breviario di Anna Jókai ([Jókai Anna Breviárium], Raccolta dei pensieri più importanti
dell’autrice, 2005), Savi e Pastori [Bölcsek és Pásztorok] (Válogatott írások) (2006)
330
L’ago della bilancia [A mérleg nyelve] III. (2006), Godot è arrivato [Godot
megjött] (romanzo) (2007), Ho raccontato [Elbeszéltem] I-II. (Raccolta di novelle e
brevi romanzi) (2007).
I suoi volumi - quasi tutti - sono stati ripubblicati in più edizioni, alcuni anche 5-4
-14… edizioni.
KÉRI KATA/KATE CARRY (1966)
(Dr. Kéri Katalin)
- Pécs (H) -
Un uomo sulla spiaggia
(FÉRFI A PARTON)
Piove forte. Grigia e triste è la città, le case dai
muri inumiditi si stringono infreddolite ed il cielo è
minacciosamente scuro. L'acqua scorre per le
strade, sono riuscita ad attraversare a malapena da
un lato all'altro. Indosso un'impermeabile giallo
perché vi sia almeno qualcosa che con questo tempo desolante richiami
alla memoria i raggi del sole, la luce solare e l'estate. L'estate, quell'estate
fattasi lontana da me irrimediabilmente. Essa s'allontana sempre più
giorno dopo giorno, se però chiudo gli occhi riesco a rivivere di nuovo
tutto. Vedo ancora lui ravviarsi i capelli neri all'indietro e scuotersi l'acqua
di dosso. Vedo come di sottecchi egli guarda verso me ad occhi socchiusi,
con una qualche insopprimibile tristezza nello sguardo.
Avevo visto nei suoi occhi questo dolore sin dal primo istante, subito, la
prima volta che era arrivato in spiaggia. Era un'estate meravigliosa, dal
sapore di mare, profumata di fiori. La vita danzava gaia tra gli scogli, i raggi
del sole guizzavano sulle pietre bagnate. L'uomo s'era seduto su un masso
e guardava fisso in lontananza. Indossava una camicia a quadri, di quelle
camicie a piccoli scacchi bianchi e neri che rendono la gente tranquilla.
Aveva suscitato nel mio cuore sensazioni calde e familiari ed avevo
trovato stupenda pure la sua pelle abbronzata. Quando aveva guardato
nella mia direzione la prima volta i nostri sguardi si erano letteralmente
intrecciati. S'era pure girato leggermente col corpo verso me per vedermi
meglio. Uno spruzzo d'acqua aveva all'improvviso raggiunto le sue gambe
e per questo un sorriso gli era affiorato sulle labbra. S'era alzato ed aveva
passeggiato molto lentamente lungo la riva così che potessi vedere ogni
particolare del suo corpo, che con lo sguardo ne sfiorassi ogni cellula.
Aveva poi scagliato la camicia ed i pantaloni tra gli scogli e s'era tuffato in
331
acqua. Il mare era trasparente e quasi immobile, solo le sue braccia
fendevano un varco nel tranquillo specchio dell'acqua. S'era adagiato sul
dorso e, sollevando il capo leggermente, mi guardava. S'allontanava da
me lentamente senza però staccarmi gli occhi di dosso. L'acqua intorno a
lui era tornata liscia ed egli galleggiava come una pianta marina
inverosimilmente lieve e leggiadra.
Poi era uscito dall'acqua, aveva pettinato con le dita i suoi fitti capelli
all'indietro ed aveva scosso il suo corpo, come se si fosse scrollato di
dosso gocce d'oro a milioni. Egli sapeva che lo guardavo ed aveva teso i
suoi muscoli un soffio più di quanto fosse naturale. S'era quindi seduto da
me a quasi un braccio teso, avevo creduto persino di percepirne il respiro.
Il giorno seguente era giunto di nuovo e s'era limitato sempre a
guardare, guardare con i suoi grandi occhi tristi. Aveva acceso una
sigaretta dopo l'altra e, come aveva un attimo volto verso me la sua larga
schiena, io ero stata capace solo di pensare quanto fosse indifeso.
Nonostante il corpo alto e forte egli appariva vulnerabile, versare in
costante pericolo. Sul suo viso dai lineamenti fini troneggiava sempre
quell'indefinibile tristezza che genera nelle donne premura ed
apprensione. Anche nelle ore meridiane più calde era rimasto nei miei
pressi. Era rimasto per giorni a guardarmi senza però venirmi più vicino
d'un solo centimetro. Aveva qualche volta sorriso, ma anche allora era
sembrato triste. Io trascorrevo l'intero giorno a lambiccarmi su chi mai
fosse quell'uomo, a chi appartenesse, quale fosse l'origine della sua
grande tristezza. Con l'immaginazione imbastivo su di lui storie sempre
diverse. Lo vedevo una volta come un uomo che fuggiva dai suoi
persecutori e che aveva trovato rifugio in questo piccolo golfo del
Mediterraneo. Un'altra volta lo vedevo come un marito in lutto che aveva
perduto la sua famiglia. Se però lo guardavo ogni mia fantasia appariva
inverosimile.
Egli se ne stava tutto il santo giorno seduto, qualche volta nuotava, e mi
fissava sempre. Nulla era accaduto ad ogni modo oltre a ciò. Non aveva
parlato, non aveva fatto cenni, non aveva chiamato e mai s'era fatto più
vicino. Solo i suoi occhi, i suoi enormi occhi tristi gridavano verso me
implorando e manifestando la sua attrazione. Quando venne il giorno del
mio ritorno a casa ormai non riuscivo più ad immaginare la mia vita senza
di lui. Egli faceva parte della spiaggia, del caldo, del fulgore, del profumo
dei fiori e del mio cuore. Dentro di me egli ingigantiva rispetto agli altri
uomini conosciuti in precedenza che con milioni di parole m'avevano
vezzeggiato, che giurando m'avevano ribadito il loro amore. Io ero
divenuta sua così, senza m'avesse neppure sfiorato, e sapevo bene che lo
332
stesso era stato anche per lui. Altro e più questo era che un semplice
desiderio. Mentre ci guardavamo le nostre anime evadevano dai nostri
corpi e s'incontravano nell'aria umida e fresca. Quando ogni sera
muovevo adagio verso l'albergo, non avevo con me la stessa anima che
tutte le mattine usciva frettolosa per la spiaggia. Portavo pure la sua con
me, con l'umano e sensibile spirito infinitesimi iridescenti brandelli del suo
triste intimo maschile, e lo sentivo che recava con sé anch'egli i miei
frammenti.
L'ultima sera avrei voluto accomiatarmi da lui, dirgli qualcosa, ma non
ebbi il coraggio d'avvicinarlo. Egli se ne stava a guardarmi seduto sotto un
albero, il suo sguardo era così insistente come se avesse saputo che non
avrebbe più potuto rivedermi, quasi volesse osservarmi una volta ancora
per sé, per incidere a fuoco i miei tratti nel suo cuore…
Non credo questa pioggia cessi mai. Pioveva pure quando avevo fatto
ritorno a casa dal mare. Ero partita al mattino presto, ma avevo dovuto
affrettarmi perché non sarei riuscita a capacitarmi d'incontrare lui. I
tergicristalli della mia auto non ce la facevano a rimuovere l'acqua che si
rovesciava dal cielo. Avevo un freddo terribile ed un'indicibile paura. Per
ore avevo guidato quasi inconsciamente, spesso non sapendo neppure
ove mi trovassi con esattezza. In qualche modo avevo proceduto per
istinto sempre verso nord.
Quando la pioggia aveva finalmente cominciato a placarsi era ormai
pomeriggio. Ero giunta nella città in cui vivo ed osservavo l'andirivieni
della gente. Era smisuratamente tanta ed io invece infinitamente sola.
Com'ero scesa dall'auto avevo trovato sull'asfalto bagnato, davanti ai miei
piedi, un sassolino piatto a forma di cuore. Pure senza di quello però
sapevo già allora che egli era venuto con me e che con sé aveva recato
pure me.
Cammino da tempo immemorabile nel mio impermeabile giallo e mai ci
sarà ormai un'estate o un inverno in cui con me non avrò il muto uomo
dagli enormi occhi tristi.
Il sogno del fiore di ciliegio
(A CSERESZNYEFAVIRÁG ÁLMA)
- Che splendida luce vedo! - esclamò sulla cima del ramo alto del ciliegio il
minuscolo fiorellino. Scosse i suoi piccoli petali stropicciati e si girò verso i
raggi del sole nascente. Era il suo primo mattino a questo mondo e si
guardò intorno stupefatto.
- Tu chi sei? - chiese alla brezza che gli volteggiò attorno.
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- Sono la figlioletta del vento, la brezza mattutina che da i brividi - rispose
al fiore di ciliegio la giovane birichina. - Vengo tutte le mattine ed
accarezzo i tuoi petali. Sei molto più bello delle migliaia di tuoi compagni.
Ti si vede già da lontano.
Il fiore di ciliegio arrossì leggermente e imbarazzato s'accostò un po'
l'abito bianco. Non sapeva s'era bello o brutto, non vedeva nessun altro.
Sbirciò a destra e a sinistra ma nessuno dei suoi fratellini s'era ancora
svegliato. Sul mandorlo di fronte invece, si dondolavano dei fiori rosa.
- Che splendidi siete! – li apostrofò il fiore di ciliegio pensando di non
poter mai arrivare ed essere come loro.
- Ma cos’hai da guardare, - gli gridò uno di essi. - non hai mai visto un
mandorlo?
- No, - rispose spaurito - mi sono dischiuso solo oggi.
- Allora richiuditi, non sei certo tu il centro del mondo! – soggiunsero in
coro anche altri fiori color rosa.
-Sì… sì - mormorò con voce sommessa il fiorellino di ciliegio e si volse a
guardare le nuvole che galleggiavano nel cielo. Le diafane nuvolette
azzurrine lo mandarono in visibilio. Pur avendole vicine al cuore capiva
quanto fossero lontane.
- Portatemi con voi! - le supplicò desiderando volare anch’esso lontano,
come quelle nuvole che sul loro dorso di riccioli spumosi egli credeva
portassero a nuoto nel cielo dei segreti. Il fiore di ciliegio si chiese cosa
potesse mai esserci dietro le nuvole in quel mondo a lui invisibile. E
concluse che così lontano, oltre le nubi luminose, doveva proprio
trovarsi un mondo uguale al suo, con brezze, con fiori bianchi e rosa e
con un cielo azzurro…
Sentì d’un tratto uno strano rumore e vide sopra il suo capo una grande
ombra scura. Una mostruosa piccola ape roteava ronzando nell'aria.
- Tu chi sei? - chiese alla sopraggiunta.
- Sono una piccola ape, vorrei fare un piccolo banchetto tra i tuoi petali.
- Va bene - disse il fiore e le aprì il suo abito bianco. – Di’ un po’ piccola
ape, hai già visto tanto del mondo? Quant’è grande? Ci sono anche altri
alberi oltre quello del mandorlo? Ed oltre le nuvole, ci sono fiori anche lì?
E lo sai dove fugge il vento e dove si dirigono le nuvole?
- Che piccolo sciocco! - rise la piccola ape e strofinò le sue zampette. - Il
mondo è grande davvero. Oltre gli alberi finisce il giardino, da lì inizia il
prato, poi c'è un ruscello. Penso che sia lì la fine del mondo, io almeno ho
il coraggio di volare solo fin là. Delle nuvole… sai però che non so nulla,
ritengo non abbiano proprio niente a che vedere con il mondo.
334
- Ma ve’! - esclamò il fiore di ciliegio. - Che interessante! Io credevo che le
cose stessero in modo completamente diverso. Ti prego, portami con te,
mi piacerebbe così tanto vedere il prato ed il ruscello!
- Non ci penso neanche a portarti! – fece sdegnata la piccola ape
leccandosi le labbra soddisfatta. – Riesco a malapena a portarmi dietro
tutto questo polline - disse, e furente piantò in asso il fiore.
Dopo un po’ giunsero delle mosche dalle ali verdastre, ma al fiore di
ciliegio che si sgolò inutilmente al loro indirizzo non fecero proprio caso e
si limitarono a zigzagare intorno al mandorlo. Si calarono nei calici dei fiori
rosa sino a scomparire e schiamazzarono allegramente. Di tanto in tanto
strani uccelli
scuri transitavano nel cielo ed il fiorellino aveva di loro
così tanta paura che avrebbe voluto nascondersi, ma quelli lo lasciarono in
pace. Scese poi lentamente il crepuscolo ed il piccolo fragile fiore raccolse
infreddolito i suoi petali su di sé. Il mattino seguente tutti i suoi fratellini
si dischiusero ed il ciliegio rumoreggiò della loro vivace conversazione. Il
fiore che se ne stava però sull’estrema punta del ramo non prestò alcuna
attenzione a fratellini e sorelline. I suoi pensieri erano altrove, anelava al
grande prato di cui aveva parlato la piccola ape.
Passarono dei giorni in cui il fiore di ciliegio sognò giorno e notte. Un bel
mattino si svegliò tanto stanco, ogni petalo gli doleva e non capiva cosa
gli fosse accaduto. Alla solita ora ecco accorrere la brezza mattutina la
quale però non gli aleggiò accanto come in altre occasioni ma, presolo per
mano, lo portò oltre con sé. Al fiore di ciliegio sembrò proprio di sognare.
Volarono intorno al mandorlo e sorvolarono lo steccato sino al prato. Il
fiore di ciliegio era tanto felice… Un suo petalo giunse sopra il ruscello, un
altro ancora provò a raggiungere le nuvole mentre la maggior parte danzò
intorno ad un cespuglio in fiore. Folleggiarono e ballarono nella
sfolgorante primavera intrecciandosi felici con i petali fratelli.
Dei bambini vennero dalla casa correndo incontro alla fresca aria
mattutina del giardino coperto di rugiada.
- Guardate, - esclamò una bimba tra loro - come il vento fa vorticare i
petali del fiore di ciliegio! Tra non molto le ciliegie saranno mature!
I bimbi sciamarono verso il prato ed i petali dei fiori come migliaia di
farfalle svolazzarono intorno ai loro capelli dorati.
Fiaba del Natale dei libri
(MESE A KÖNYVEK KARÁCSONYÁRÓL)
Una neve soffice, brillante aveva ammantato le strade. Aveva fatto
anche presa sui rami dei pini ed i fiocchi avevano intrecciato la danza
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intorno ai cespugli del giardino. La sera di dicembre era calata di soppiatto
sul borgo. Tutto si andava lentamente acquietando, si chiudevano i negozi
e così anche la biblioteca.
- Buon Natale! - dissero accomiatandosi gli ultimi lettori che con i libri
sottobraccio si diressero verso casa.
- Buon Natale! - rispose il bibliotecario e smorzò la candela decorata che
era sul tavolo. Spense la luce nella sala di lettura, si vestì e chiuse a chiave
la porta dell'edificio.
Diretto verso casa i suoi stivali affondavano nella neve caduta di fresco.
- Sentite quello che dico? - chiese un filo di voce nella sala buia.
- Chi è che parla? - chiese un'altra voce.
- Sono il 396, dal ripiano superiore - disse il primo.
- Puah! Roba di donne! - mormorò una voce più autorevole.
- A nome dei libri di cucina io protesto per le dichiarazioni
antifemministe. Parliamo piuttosto d'altro! - intervenne un grosso,
sbrindellato, letto e riletto libro di ricette.
- Certo, siccome il bibliotecario sarà in vacanza da Natale a Capodanno,
avremo tempo a volontà per parlare - soggiunse un libro giallo fresco di
stampa.
- Mah! Potremo allora guardarci fra noi! - squittì un romanzo d'amore -.
La polvere ci seppellirà del tutto.
- Non fare la leziosa, sorella - disse l'enciclopedia da trentacinque volumi
-, io sono qui che m'impolvero da decenni e nessuno mi apre.
- Nessuno almeno ti deteriora. Presto ti scarteranno ed io avrò
finalmente il mio posto! - disse un borioso dizionario nuovo di zecca -. Io
sono estremamente importante al giorno d'oggi.
- Macché, macché, non esagerare! Chi è che studia l'ottentotto
oggigiorno? - gli chiese ironico un volume di poesie.
- Sarebbe meglio che tu tacessi! Non ti ha letto ancora nessuno - ribatté
il dizionario.
- Ma amici, non discutiamo! Sul proprio ripiano ognuno è importante,
non questioniamo! - provò a sedare la disputa un vecchio voluminoso
romanzo biografico. Vi fu un momentaneo silenzio rotto qua e là da
sussurri sommessi.
- Hai ragione, fratellone - disse una guida di viaggi -, non siamo noi i
nemici di noi stessi, no di certo. Piuttosto lo sono i lettori che mandano in
rovina le nostre nervature ed alterano la nostra disposizione. Da me, ad
esempio, hanno staccato una pagina annodata. È pur vero che in vita mia
ho già viaggiato tanto, ma non ne ho ottenuto alcuna gioia. Hanno
ricevuto altri una simile ingiuria?
336
- Come no! - sbottò un intrepido romanzo . - Sono vissuto tanto tempo e
tante cose mi sono accadute. Sto in questa biblioteca da cinquant'anni e
sono anche andato in tante case. Quando ero ancora nuovo tutti mi
volevamo prendere in prestito. La mia copertina era azzurro cielo ed il mio
titolo vi era impresso a caratteri d'oro. Probabilmente parlo di mare
poiché i miei lettori sospirano sempre: «Oh, il mare, il mare…!» Ci sono
stati di quelli che mi hanno tenuto con gran riguardo; una volta mi hanno
anche riposto in un cassetto profumato, soffice, pieno di fazzoletti. Una
volta però mi ha preso con sé un ragazzo e lui è stato estremamente
crudele con me. Ha completamente scarabocchiato la mia splendida
copertina ed ha disegnato ad l'inchiostro delle cose sulle mie pagine e…
- Basta! - lo interruppe a questo punto una raccolta di formule fisiche. Proprio non ce la faccio ad ascoltare ancora ! Si dovette scartare anche il
mio migliore amico per una cosa simile.
- A me sono successe cose benanche peggiori - disse sottovoce un
romanzo romantico dalla copertina rosa. - Ad esempio le donne,
leggendomi, mi hanno sempre inzuppato delle loro lacrime.
- Inaudito! - si indignò un libro di animali illustrato -. Ultimamente mi
hanno utilizzato come sostegno per un pesante proiettore di diapositive.
Mi si rompeva quasi la schiena. E dire che sono stato tradotto dal tedesco!
- La stessa cosa vale per me - disse una dispensa di sociologia -. Io sono americana di origine eppure mi scarabocchiano in
continuazione. Ogni mia riga è stata ormai sottolineata. C'è chi trova
interessante una parte di me e chi un'altra. In ogni pagina sono ormai
tutto un inchiostro. Il bibliotecario ha osservato un giorno: «Mah, questa
non si riesce proprio più a leggere!»
Fu per un attimo silenzio ed i libri udirono qualcuno piangere.
- Chi è che frigna? - chiese l'enciclopedia d'arte. La domanda non ebbe
risposta.- Chi è? - tornò a chiedere.
- Sono io, una copertina nella pattumiera - rispose una voce dopo un bel
po' -. Ieri qualcuno ha rubato tutte le mie pagine.
- Che titolo hai? - domandò una guida di storia delle religioni commossa
poiché un'atrocità simile non l'aveva ancora mai sentita.
- Non riesco a leggere la mia copertina, contenevo un'infinità di numeri e
tabelle, almeno lo credo.
- Avresti quindi potuto essere un annuario statistico. Ma a chi mai sarai
servito? - domandò una raccolta di facezie. Al che la copertina buttata via
cominciò a sciogliersi in lacrime ancor più sonoramente.
- Prestate attenzione, fratelli - prese la parola uno dei libri di fiabe sin qui
rimasto ad ascoltare in silenzio -, puniamo i lettori irriconoscenti. Per
337
quando dopo Capodanno verrà riaperta la biblioteca, facciamo sparire
completamente le nostre lettere. Da qualche parte c'è qui un gran libro di
magia che sicuramente ci aiuterebbe… Quando la gente ci porterà a casa
sarà presto sorpresa vedendo che non conteniamo più nulla da poter
leggere.
I libri dibatterono a lungo questa proposta. Neppure per la sera di Natale
riuscirono a trovare un'intesa, ma per Santo Silvestro l'accordo fu
raggiunto.
La neve era caduta, era caduta sempre più ed aveva completamente
ammantato la gradinata della biblioteca. Dedita alle feste la gente, presa
totalmente dai regali e dalla kocsonya1, non pensò neppure lontanamente
ai libri della biblioteca. Dopo Capodanno ad ogni modo rimasero tutti
molto sorpresi quando portarono a casa i libri presi in prestito: sulle
pagine bianche
non c'era un solo carattere! Anche le illustrazioni e le carte geografiche
erano sparite.
- Cosa accadrà ora? Cosa facciamo? - la gente corse avanti e indietro per
le strade. Il bibliotecario propose di aprire il grande libro di magia e
riportare nei libri con un sortilegio i caratteri birichini. Il libro di magia
rilegato in pelle decorata dal dorso dorato era invece completamente
vuoto…
- Come hanno potuto i libri fare questo a noi? - vociavano i lettori e non
si era accorto nessuno che aveva smesso di nevicare e i ghiaccioli sotto le
grondaie cominciavano a sciogliersi.
1
kocsonya : Tipico piatto ungherese invernale a base di lingua, zampa, orecchio e
naso di maiale in gelatina. (N.d.T.)
TraduzionI © di Melinda Tamás-Tarr e Mario De Bartolomeis
LEGÉNDY JÁCINT (1976)
- Gödöllő (H) -
La sfida
(KIHÍVÁS)
rastrellare le foglie cadute è una sfida come accorciare
sul ciglio stradale la chioma dei cespugli
o approdare dalla caviglia del piede d’una donna
338
al monte di Venere, dove scrupolosamente
si deve
far attenzione ai dettagli
del mezzo, allo scatto del suo movimento
per non scuoterlo senza ragionamento
come un giardiniere dilettante
che con le forbici la siepe taglia
altrimenti i suoi morsi fermerebbero nell’increspatura
della materia come le dita impazienti nella sottana e, sgradevolmente,
si fa ferita su una parte a stento evidente
della terra materna, poi
restano le forme alle quali si deve star senz’altro attenti
quindi assesto le foglie a forma di cono o di mezzo globo come
la testolina degli arbusti sempre verdi oppure
tolte le vesti infine rastrello ancora i morbidi fili d’erba perché le
tenere calugini splendano in ordine sensuale, come
le lanugini sulle cosce
del marrone colore del terriccio.
La notte dei morti
(HALOTTAK ÉJSZAKÁJA)
poesia di camposanto
(temetői vers)
Per quanto la speranza sia surreale,
nel sogno immagino
il risveglio dei miei defunti,
la nonna dai stopposi capelli di canapa
che verso me brancola
tra le tombe nel suo scialle con le frange
dai nodi di terracotta che
339
pendono come gialle decorazioni
di plastica e le unghie
nel buio s’illuminano,
anche il bisnonno si scioglie
dalla gelosa morsa
della terra, sotto il curvo
candelabro,
e m’abbracciano ancora con le spalle
mentre scende la chioma di luce e le loro immagini splendono incantate.
L’inconscio
dalle sue misteriose bolgie
ancora richiama i ricordi
e vedo gli altri defunti
che quasi m’ aggrediscono dall’angolo
dell’umida parcella
come isterici tifosi.
Mio nonno sta portando
un panettone sulla chiassosa bicicletta
e con vertigine martiniana
la vicina irene* cade
tra le mie braccia e mi fa
rotolare come una trottola,
fino ai piedi.
La loro immagine nella notte
è bizzarro miraggio
come il collegamento
televisivo dall’aldilà
e ovunque
ondeggianti fiamme
dei serpeggianti lumini
vengono ammirate
anche dalla betulla
*N.d.T. Il nome è volutamente scritto in minuscolo.
L’ombra, che se ne sta andando
(TÁVOZÓ ÁRNY)
Vedo la spina dorsale con le piaghe
di mia nonna. Serpeggia come un fiume
340
d’olio sulla pianura
della schiena e si perde
tra le colline ulcerate
delle anche. È un panorama
infernale. Sul cielo
il sole della lampadina splende
e il piumone come una grigia nuvola
giace all’orizzonte. Come
un dio angosciato la guarirei
con le pomate e con la polvere,
quindi con cerotti miracolosi,
ma dal bassofondo
della schiena fino alla nuca
cancrenose macchie coprono
la pianura in cui soltanto ascessi
si moltiplicano inabissandosi
come l’imbuto delle bombe
presenti sulle zone di guerra
in qualche parte le ossa si bucano e da orfani
sbirciano come bianche lapidi
nel camposanto. Il sole della lampadina vibra
spaventosamente.
M’affanno e tra le dita
lo straccio disinfettato
sfugge. Dove il vento
dei sospiri brulicava e
le pozzanghere della tiepida pioggia
del piacere brillavano,
là il terremoto dell’ultimo sospiro
attraversa galoppando. Un ombra
aleggia nella stanza che se ne sta andando.
Omaggio d’onore
(HÓDOLAT)
prendono il sole i calabroni sulla colonna del recinto mentre il vento accarezza i petali dei tulipani la primavera come
un’antica alchimista libera il piacere verde
dorato di tutte le gemme a dal cotogno
341
cadono le mummie della frutta e dai vicini
echeggiano gli strumenti
d’industria
dei lastricatori dal cappotto sboccia
il corpo di adrienn con la bellezza d’una
rivoluzione il fiore del giacinto fa cenno
di azzurra speranza come la luce del neon
è finito l’inverno a voi ragazzi selvaggi un omaggio d’onore per la leggenda
Nella pallida luce
(SÁPATAG FÉNYBEN)
questo volevo nella pallida luce:
stare davanti la finestra e dietro
all’armadietto, con la felicità dell’alchimista
osservare sulla punta dell’albero di noce
i fiocchi di neve radunati poiché
l’inverno è adatto per ricordare quindi approfondirsi nell’anima
e come se nuotassi sotto il sottile strato
di ghiaccio ed i miei fianchi incominciano
a tremare e le immagini dei ricordi come pesci paleolitici
per esempio posso percepire il mio essere da adolescente nel pomeriggio dello squadriglio
trascorso tra gi alberi del mio giardino o
del parco nelle dimensioni sintonizzate
interpretando da lontano le correnti postmoderne mentre sulla mia
nuca il vento più anticamente
correva come un mistico cheguevara
e sono stato com’egli dato fino ad
oggi faccio azioni per il futuro però
alla leggera con scarponi consumati
e le pallottole sono le farfalle perciò
è sicuro che continuerò ad essere
un incantevole tenero sensibile rivoluzionario
Fonte: Központi Zóna, Balassi Kiadó, Budapest, 2006
Traduzioni © di Melinda B. Tamás-Tarr
342
MADARÁSZ IMRE (1962)
- Budapest - Debrecen (H) -
László Németh e la letteratura italiana
I rapporti di László Németh con la cultura letteraria
italiana meritano la nostra attenzione per molte
ragioni. László Németh (1901–1975) è uno dei
massimi rappresentanti della letteratura ungherese
del Novecento – ma anche uno dei più discussi e
fraintesi. Németh è una grande figura europea, oltre
ad essere l’ideologo più importante, forse, della
corrente che si suole chiamare “nazional-popolare”,
e questo suo “europeismo” viene spesso dimenticato sia dai suoi seguaci
sia dai suoi critici. Coloro che accusano Németh di nazionalismo
dimenticano che pochi autori ungheresi del Novecento, tranne Mihály
Babits, amavano e conoscevano la letteratura europea (o se vogliamo, le
letterature europee) come Németh. Così la sua “italianistica” (come la
chiama Maria Teresa Angelini nel suo saggio1) è interessante anche perché
dà una dimostrazione concreta dell’armonia o del rapporto dialettico
felice in Németh fra coscienza nazionale ed europeismo, sintesi, questa,
ereditata dai padri dell’età delle riforme (reformkor) e in pieno accordo
con il testamento degli apostoli del Risorgimento, primo fra i quali il
Mazzini.
Németh come “italianista” occupa una posizione particolare fra gli
italianisti ungheresi. Egli legge i classici italiani con l’ottica dello scrittore
collega, autore di romanzi e drammi diventati anch’essi classici, alcuni dei
quali di argomento italiano come il Gregorio VII ed il Galileo.2
Quest’ottica di scrittore apparenta l’italianistica di Németh a quella di
Babits e Antal Szerb. È dunque quasi doveroso raffrontare questi tre
grandi italianisti d’eccezione, fra i quali le somiglianze sono altrettanto
interessanti quanto le differenze. Tutti e tre seguono la grande tradizione
della saggistica letteraria ungherese moderna iniziata da Jenő Péterfy
proprio con un bellissimo saggio su Dante.3 Anche la loro storiografia
letteraria – lungi dall’erudizione positivistica di un Antal Radó – è di tipo
saggistico, non scientifico-filologico. In realtà di storiografia letteraria vera
e propria possiamo parlare solo nel caso di Babits e Szerb, autori
rispettivamente della Storia della letteratura europea4 e della Storia della
letteratura mondiale.5 I saggi italianistici di Németh non sono parti o
343
“membra” organiche di opere vaste: sono degli scritti singoli raccolti
successivamente in volumi di saggi come La rivoluzione della qualità (A
minőség forradalma, 1940),6 Il viaggiatore europeo (Európai utas, 1980)7 e
Un ultimo sguardo (Utolsó széttekintés, 1968).8 Queste circostanze
spiegano la frammentarietà dell’italianistica di Németh anche rispetto a
quelle di Babits e Szerb che pure presentano delle lacune notevoli. Per
quanto riguarda queste macchie bianche troviamo una coincidenza
significativa fra Németh e gli altri due grandi saggisti, che poi è una
caratteristica comune a gran parte dell’italianistica ungherese: essi
dedicano attenzione all’Umanesimo-Rinascimento e all’epoca che lo
precede cioè, per semplificare, al periodo che va da Dante fino a Tasso, e
poi al Novecento, mentre mettono tra parentesi o trascurano
completamente i secoli intermedi: non solo il Seicento ma anche
Settecento e perfino – sebbene in forma meno vistosa – l’Ottocento.
Mentre Babits e Szerb sono per così dire costretti dal genere letterario
scelto – la storia letteraria – a dedicare qualche riga al Barocco,
all’Arcadia, all’Illuminismo e al Romanticismo italiano, in Németh queste
“stagioni” della letteratura italiana sono completamente assenti. E anche
queste manchevolezze hanno per noi una certa importanza.
Ma procediamo con ordine – ordine cronologico cioè, seguendo non la
successione delle stesure dei saggi (dove le date sono talvolta incerte) ma
la linea storico-cronologica degli autori esaminati da Németh.
Il primo grande classico di cui si occupa – c’è bisogno forse di dirlo? – è
Dante.9 Contrariamente a Babits e a Szerb, la preoccupazione principale di
Németh non è quella di caratterizzare storicamente ed esteticamente la
poesia dantesca, ma quella di esaminare in che modo e misura “l’enigma”
della Divina Commedia sia stato sciolto da tre interpretatori di Dante
come dice appunto il titolo del saggio Dante-tolmácsolók: cioè il saggista
Péterfy, il poeta-traduttore Babits e lo xilografo Fáy. Mettere a confronto
le interpretazioni dantesche di tre artisti così diversi fra loro è uno dei
contributi più originali di Németh alla dantistica ungherese. Egli guarda
con simpatia questi interpreti, anche Péterfy, nonostante il giudizio
contrario di Maria Teresa Angelini, secondo cui Németh liquida e censura
di superficialità un saggio così interessante come quello di Péterfy.10 In
realtà Németh giudica che il saggio di Péterfy sia degno di Dante,11 loda il
suo sicuro intuito critico12 e dice addirittura di aver trovato in Péterfy
un’anima gemella nella dantistica. La traduzione babitsiana della Divina
Commedia è giudicata molto più fedele, meno decadente, meno
“nyugatos” da Németh che non da altri critici successivi.13
344
Il saggio di Németh sull’Ariosto – scritto nel 1933 come parte di una
trilogia intitolata Il secolo sedicesimo e con il sottotitolo Tre saggi da un
libro in preparazione (a dire il vero mai portato a termine)14 – non è
inferiore per originalità, anzi è forse il più bello e più profondo saggio di
italianistica del Nostro. Il saggio di Németh è fino ad oggi l’interpretazione
ungherese più significativa ed originale del grande poeta del Rinascimento
e mostra nel contempo non poche affinità con le interpretazioni crociana
e hegeliana.15 Anche lui, similmente a Croce16 e a Hegel,17 attribuisce
un’importanza centrale all’ironia, e anche lui l’avvicina a quella di
Cervantes.18 È interessante il ruolo che Németh assegna al Furioso fra i
romanzi cavallereschi “sottoletterari” del Medioevo ed il romanzo
moderno. Anche questa volta dobbiamo avanzare i nostri dubbi sulla
lettura di Maria Teresa Angelini, secondo la quale il giudizio di Németh
sull’Ariosto sarebbe tutto sommato negativo.19 Al contrario, Németh
esalta l’Ariosto come “grande artista e vero poeta dall’intuizione sicura e
dal gusto puro, creatore di un’opera perfetta”, espressione “del momento più
felice del Rinascimento”.20 L’unico punto dove mostra un po’ di imbarazzo –
similmente a Babits e a Szerb21 – è quando si trova di fronte alla esuberanza
narrativa ad alla trama “irraccontabile” del Furioso.22
Siamo invece d’accordo con Maria Teresa Angelini che il modo in cui
Németh si avvicina al Candelaio di Giordano Bruno è piuttosto bizzarro e
non dà luogo ad una lettura proficua (vorrebbe adattare questa
commedia al teatro delle marionette).23 Ci sembra strano inoltre che
proprio Németh, autore del dramma Galileo, si sia occupato di Giordano
Bruno solo come commediografo trascurando il filosofo e il martire.
Sentiamo anche la mancanza della trattazione del Barocco: sarebbe
stato interessante leggere l’opinione di questo grande rappresentante del
protestantesimo laico sull’età della controriforma cattolica.
Fra il Seicento e il Novecento l’unico classico a cui Németh dedica due
scritti brevi e di attualità in occasione di due rappresentazioni teatrali è il
Goldoni.24 Németh mostra di aver capito solo in parte l’importanza della
riforma goldoniana del teatro italiano, e anche la sua valutazione sul
Goldoni è piuttosto riduttiva: in sostanza lo considera uno scrittore vivace
e divertente ma assolutamente inferiore a Molière. Németh non trova in
Goldoni, come non trovava molto nell’Ariosto, l’impegno e la serietà del
messaggio morale: giudizio questo che ci ricorda un po’ quello del De
Sanctis.25 Questi motivi li avrebbe trovati invece nell’altro grande del
Settecento, l’Alfieri, nelle cui tragedie avrebbe trovato anche, se le avesse
conosciute, pure delle affinità con i suoi migliori drammi storici.
345
L’interesse di Németh per il teatro italiano è documentato – dopo gli
scritti sul Bruno e sul Goldoni – anche dai due saggi dedicati al Pirandello.
Il primo, intitolato Il teatro di Pirandello o più precisamente Il palcoscenico
di Pirandello (Pirandello színpada), 192726 è forse il più bel saggio di
italianistica del Nostro dopo quello sull’Ariosto. Questa volta è proprio
vero che Németh guarda con l’occhio dello scrittore-drammaturgo un suo
collega contemporaneo. Pur apprezzando la “perfezione” della macchina
teatrale pirandelliana e la rappresentazione della crisi dell’individuo, delle
idee sulla verità e della percezione dei fatti, in ultima analisi accusa
Pirandello di essere uno scrittore non ispirato ma del tutto cerebrale, e
arriva a dire che le situazioni teatrali dei suoi drammi sono degli “astratti
giochi della mente”.27 Questa condanna abbastanza dura è in accordo con
quella data dal Croce,28 ma anche con il giudizio di Antal Szerb.29 La
distanza – o se si vuole l’antipatia – di Németh nei confronti di Pirandello
è motivata forse dal fatto che Németh come pensatore e scrittore credeva
sempre fermamente in certi valori assoluti come l’individuo e la verità, e
quindi non poteva non rifiutare il relativismo etico-antropologico e
gnoseologico di Pirandello.
L’altro scritto pirandelliano – minore per ampiezza e per importanza –,
quello su Si gira30 – insieme a altri tre piccoli scritti su autori del
Novecento (Borgese, Papini, Bontempelli),31 sono delle recensioni riunite
nel Diario critico del Viaggiatore europeo, il che mostra il carattere
occasionale di questi scritti. Troviamo qui anche dei cenni di
comparatistica. Németh trova che “il linguaggio di Kosztolányi sia il più
adatto a tradurre i drammi e i romanzi pirandelliani” essendo Kosztolányi
“il nostro artista più vicino al Pirandello”.32 E scopre una simile “parentela”
fra il Rubè di Borgese e I figli della morte (Halálfiai) di Babits.33
Più interessanti sono due scritti di italianistica contenuti nel volume Un
ultimo sguardo.
Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa è giudicato da Németh “un
capolavoro eccezionale, che eleva il suo autore fra gli altri due grandi
siciliani, Verga e Pirandello”, anzi fra i massimi classici di tutta la narrativa
novecentesca. Anche il “tradizionalismo” del Gattopardo è valutato da
Németh positivamente, non senza un accenno polemico ai modernisti
sopravvalutati.34
Ben diverso è il parere di Németh su Italo Svevo, il romanziere
modernista ricordato più volte insieme con Proust e Joyce ma anche
insieme con Németh, autore del romanzo di coscienza Orrore (Iszony),
come egli stesso nota.35 Ma a Németh non sembra che piaccia molto
questa parentela. Ritiene infatti che Senilità sia un romanzo un po’ noioso
346
e un po’ “angusto”36 e La coscienza di Zeno “il prodotto raffinato di
un’industria del romanzo”.37 I risultati del connubio sveviano di
modernismo e freudismo sono per Németh assai discutibili.
Il valore degli scritti di italianistica di László Németh non consiste
nell’originalità delle scoperte o nella profondità delle analisi. Non si deve
dimenticare che egli non era un filologo né un italianista nel senso stretto
del termine. I suoi scritti sono, come abbiamo visto, in genere occasionali,
spesso delle recensioni. Ma in queste piccole opere egli affrontava – e
spesso in modo nuovo – molti dei grandi problemi dell’italianistica. La sua
saggistica, che è qualcosa fra la divulgazione scientifica e la “scienza letteraria” (Literaturwissenschaft), è originale, in sostanza, per il carattere eccezionale dell’autore, uomo la cui grandezza si sente anche negli scritti
minori.
Due sono i messaggi o le eredità principali di Németh per noi italianisti
ungheresi. Egli voleva portare i classici italiani più vicino ai lettori
ungheresi poiché era convinto che la conoscenza della letteratura italiana
è, o meglio dovrebbe essere, parte essenziale del mondo di ogni persona
dotata di una certa cultura. È questo un impegno e una fede che
rappresenta anche per noi tutta una serie di imperativi categorici. E anche
il modo di scrivere di Németh ci può servire da esempio. Proprio per
avvicinare i classici italiani al pubblico ungherese egli usava uno stile
chiaro, vivace, colorito, comprensibile e gradevole per tutti, in netto
contrasto sia con la pasentezza erudita di certo positivismo letterario (ad
esempio di Antal Radó), sia con lo stile di alcuni italianisti contemporanei,
incomprensibile ai “non addetti ai lavori”. Németh era un genio della
cultura ungherese del Novecento che fecondava tutti i terreni da lui
coltivati: né l’italianistica rappresentava un’eccezione.
______________________
NOTE
1. Maria Teresa Angelini, L’Italianistica nel “Viaggiatore europeo” di Németh László
in “Giano Pannonio”, 3., Budapest 1987, pp. 175–184.
2. László Németh, VII. Gergely in Szerettem az igazságot, Budapest 1980, vol. 1.,
pp. 535–611; Galilei in op. cit., 247–343.
3. Jenő Péterfy, Dante in Válogatott művei, Budapest, 1983, pp. 285–338.
4. Mihály Babits, Az európai irodalom története, 1935, Budapest 1979.
5. Antal Szerb, A világirodalom története, 1941, Budapest 1980.
6. László Németh, A minőség forradalma, Budapest, 1992.
7. László Németh, Európai utas, Budapest, 1980.
8. László Németh, Utolsó széttekintés, Budapest, 1968.
9. László Németh, Dante-tolmácsolók, in A minőség forradalma, pp. 476–485.
10. Angelini, op. cit., p. 181.
347
11. A minőség forradalma, cit., p. 480.
12. Ibidem, p. 479.
13. György Rába, A szép hűtlenek, Budapest, 1969, pp. 124–154., Péter Sárközy,
Letteratura ungherese – letteratura italiana, Roma 1990, pp. 212–223.
14. A minőség forradalma, cit., p. 122.
15. Imre Madarász, Az olasz irodalom története, Budapest 1993, pp. 145–149.
16. Benedetto Croce, Ariosto Shakespeare e Corneille, 1920, Bari 1968, pp. 3–68.
17. G. W. F. Hegel, Esztétikai előadások, Budapest, 1980, pp. 316–317.
18. A minőség forradalma, cit., pp. 135–136.
19. Angelini, op. cit., p. 182.
20. A minőség forradalma, cit., p. 126.
21. Babits, op. cit., p. 155; Szerb, op. cit., p. 248.
22. Angelini, op. cit., p. 181; A minőség forradalma, cit., pp. 123–124.
23 Egy bábjáték terve (Progretto di un teatro di marionette) in Európai utas, cit., p.
150–151.
24. Goldoni-bemutató (Presentazione di Goldoni), in Európai utas, cit., pp. 212–214;
Goldoni: A chioggiai csetepaté (Le barruffe chiozzotte), in Utolsó széttekintés,
cit., pp. 195–197.
25. Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana (1871), Milano 1978, pp.
437–478.
26. Európai utas, cit., 348–369.
27. Ibidem, p. 359.
28. Benedetto Croce, Luigi Pirandello in La letteratura della nuova Italiana, VI., Bari
1945.
29. Szerb, op. cit., pp. 872–874.
30. Európai utas, cit., pp. 418–420.
31. Ibidem, pp. 425–429, 467–469, 489–491.
32. Ibidem, p. 420.
33. Ibidem, p. 428.
34. Utolsó széttekintés, cit., pp. 273–277.
35. Ibidem, p. 299.
36. Ibidem, p. 300.
37. Ibidem, p. 302.
Martire, libero pensatore, mistico
La presenza di Giordano Bruno nella cultura ungherese del
Novecento
Due caratteristiche principali della fortuna di Giordano Bruno – cioè che in
essa il mito non ha avuto un’importanza minore della scienza e che la
figura era importante forse più dell’opera – valgono anche in Ungheria,
anzi, proprio il rapporto – armonioso, dialettico o contraddittorio – fra
348
queste considerazioni e valutazioni del Nolano ha determinato e continua
a determinare la sua immagine nella cultura ungherese. Lo dimostra
anche il fatto che alla formazione di quest’immagine hanno contribuito
ugualmente libri scientifici e letterari, esaltando ora il martire del
progresso scientifico, ora il libero pensatore razionalista o addirittura
preilluminista, ora invece il mistico maestro di una sapienza antichissima
(o „antiquissima”, per dirla con il Vico).
Dal nostro punto di vista „bruniano”, il Novecento ha avuto inizio in
Ungheria, con un’opera per vari aspetti eccezionale: la monografia
intitolata puritanamente Giordano Bruno di Samu Szemere (1881–1978),
pubblicata nel 1917 (nel mezzo del cammin sanguinoso della prima guerra
mondiale) dall’Accademia Ungherese delle Scienze. Questo volume di
quasi 400 pagine è ancora oggi il libro più vasto e più profondo in lingua
ungherese sul Nolano, un vero monumento dell’erudizione positivistica.
Presenta la sua epoca, la sua vita, e soprattutto la sua filosofia nelle sue
fonti e nel suo sistema (metafisica, filosofia della religione, filosofia della
natura, gnoseologia, estetica ed etica) e, infine, la sua influenza sul
pensiero filosofico europeo successivo. Per Szemere Bruno non è solo „il
più grande filosofo della nazione italiana”, ma anche il padre e precursore
dell’intero „pensiero moderno” che è „sviluppo, illuminazione, esplicazione in forma sistematica delle sue idee, delle sue intuizioni, di alcuni suoi
pensieri fondamentali”.1
Al nome di Szemere – accademico fra il 1945 e il 1949, traduttore
diligentissimo di filosofi europei (Spinoza, Cartesio, Vico, Hegel, Feuerbach
ecc.) – sono legate le due traduzioni bruniane principali, anzi le uniche
reperibili oggi: quelle dei dialoghi-capolavori De la causa principio e Uno e
De l’infinito universo e mondi, pubblicate per la prima volta nel 1914, poi
varie volte col titolo Due dialoghi (Két párbeszéd).2
L’ammirazione per la statura morale, le lotte coraggiose e la morte
eroica del filosofo, fortissima anche nella monografia di Szemere, è il
motivo dominante del romanzo biografico-storico dello scrittore – di
origine transilvana – Ádám Raffy (1898–1961), intitolato con una metafora
dal significato molteplice Il rogo (A máglya). Pubblicato per la prima volta
nel 1936, quando il totalitarismo nero e rosso stava dominando quasi
l’intera Europa, incarcerando, deportando e uccidendo filosofi e scrittori,
questo libro (diviso in tre parti: La lucerna, La fiaccola, Il rogo) era anche
un atto di protesta contro la tirannide, in nome della libertà della persona
e del pensiero. Una funzione in parte analoga doveva assumere nel 1957,
un anno dopo il soffocamento nel sangue della rivoluzione ungherese
scoppiata contro lo stalinismo e il dominio sovietico, un altro romanzo
349
(più pallido) di Raffy: Se Giordano Bruno avesse scritto un diario… (Ha
Giordano Bruno naplót írt volna…).3
Ma intanto Giordano Bruno era diventato un simbolo non solo per i
nemici della dittatura. Il regime comunista lo enfatizzava come
progressista antiecclesiastico, nemico dell’“oscurantismo religioso”,
vittima della ”reazione clericale”, come viene testimoniato dal Dizionario
di Filosofia (Filozófiai lexikon), tradotto dal russo nel 19554, e da due
antologie. Una intitolata Giordano Bruno, Galilei, Campanella e tradotta
da un’opera romena curata da C. I. Giulian e I. Banu, l’altra intitolata
Dialoghi scelti di Giordano Bruno (Giordano Bruno válogatott dialógusai)
con un’introduzione del sovietico M. A. Dinnik (che cita abbondantemente
Marx, Engels, Lenin, Stalin e Zdanov) è a cura di noti italianisti ungheresi:
József Szauder (1917–1975), Miklós Fogarasi (1916–1992), Jenő KoltayKastner (1892–1985) e il già ricordato Szemere. Questo secondo volume,
pubblicato nel „350 anniversario del martirio di G. Bruno”, offre una
scelta di brani tratti da cinque dialoghi bruniani e di atti del suo processo,
in chiave anticlericale, antiscolastica, „antioscurantista”.5
A cominciare dagli anni Sessanta la figura di Bruno cominciò a essere
sempre meno politicizzata. Nelle antologie La teoria letteraria del
Rinascimento italiano (Az olasz reneszánsz irodalomelmélete, 1970) e Il
manierismo (A manierizmus, 1975) curate da tre grandi professori
italianisti, Koltay-Kastner, Imre Bán (1905–1990) e Tibor Klaniczay (1923–
1992) il pensiero del Nolano veniva presentato come espressione della
crisi del Rinascimento che preannuncia le inquietudini del barocco.6
In questo periodo è nato l’interesse anche per il commediografo,
piuttosto trascurato prima. Il Candelaio è stato pubblicato nel 1972 nella
traduzione di Nándor Benedek (A gyertyás).7 Invece la traduzione del
grande scrittore László Németh (1901–1975), portata in scena nello stesso
anno, nel 1972 (A gyertyaöntő) è rimasta inedita e dimenticata per più di
vent’anni.
Anche lo stesso Giordano Bruno è stato piuttosto trascurato fino alla
metà degli anni Novanta quando è stato curiosamente “ripescato” e
riscoperto non più come precursore del razionalismo moderno ma come
l’ultimo custode mistico di una scienza antica, occulta ed ermetica, come
„mago”: in questo senso la budapestina ”Società Culturale Nuova
Acropoli” (Új Akropolisz Kulturális Egyesület) sta avviando da anni un vero
culto del Nolano con convegni, rappresentazioni sceniche e pubblicazioni.8
Il culto occulto del „mago” Giordano Bruno – in evidente sintonia con la
moda irrazionalistica della „New Age” e con una certa “brunologia” anche
italiana (cfr. Gabriele La Porta: Giordano Bruno, Milano, 1988, 1992 ecc.) –
350
può essere fuorviante soprattutto se non è controbilanciato da studi
scientifici e filologici seri. Manca, in Ungheria, una monografia moderna,
scientifica sulla filosofia bruniana e manca la traduzione – completa, non
antologica – dei suoi capolavori: di tutti i dialoghi italiani (per non parlare
delle opere latine). È sintomatico che né il quarto centenario della morte
di Bruno, né il successo internazionale di Sándor Márai (1900–1989) siano
stati motivi sufficienti per pubblicare in Ungheria il romanzo del famoso
scrittore Il confortatorio (Erősítő) stampato nel 1975 nell’emigrazione
americana, a spese dell’autore in pochi esemplari, per cui quest’opera su
Giordano Bruno è diventata del tutto irreperibile e fantomatica.9 Intanto,
però, sta per uscire la traduzione del Candelaio fatta da László Németh e
ritenuta dispersa, ma ritrovata, nel 1994, dalla giovane ricercatrice
dell’Università di Debrecen, Edit Bagossi, allieva del sottoscritto: verrà
pubblicata nella collana da noi curata dei Classici Eötvös (Eötvös
Klasszikusok).10 Si sta traducendo anche De gli eroici furori. La serata
bruniana organizzata dall’Istituto Italiano di Cultura a Budapest il 17
febbraio 2000 in onore del 400 anniversario del martirio del Nolano ha
avuto una vasta risonanza mediatica, anche a causa del “ripensamento”
della Chiesa cattolica rappresentata, in quell’occasione, dal Nunzio
apostolico.
Insomma, qualcosa, forse, si sta movendo.
______________________
NOTE
1. Szemere Samu: Giordano Bruno, Budapest, 1917, pp. 168, 201–202.
2. Giordano Bruno: Két párbeszéd, Budapest, 1970.
3. Raffy Ádám: A máglya, Budapest, 1936, 1962.
Raffy Ádám: Ha Giordano Bruno naplót írt volna…, Budapest, 1957.
4. Filozófiai lexikon, Budapest, 1955, pp. 110–111.
5. Giordano Bruno, Galilei, Campanella, Budapest, 1952, pp. 3–51.
Giordano Bruno, válogatott dialógusai, Budapest, 1950.
6. Koltay-Kastner Jenő: Az olasz reneszánsz irodalomelmélete, Budapest,
1970, pp. 356-357.
A manierizmus, Budapest, 1975, pp. 144–154, 267–286.
7. Olasz reneszánsz komédiák, Budapest, 1972, pp. 207–378.
8. Új Akropolisz Kulturális Egyesület: Giordano Bruno (1548–1600), Budapest,
1996.
9. Márai Sándor: Erősítő, Washington, 1975. È stato pubblicato a Budapest, nel
2002.
10. Madarász Imre: „Titus íve alatt”, Budapest, 1998, pp. 91–95.
351
Poesia e politica: i vati e il Novecento
La crisi del valore sociale, del ruolo sociale degli scrittori [...] è tanto più
appariscente perché segue al secolo che ha visto la massima glorificazione
dello scrittore “civile”, quello cioè che ha una funzione “morale e civile”,
per dirla col Gioberti, glorificazione incarnata nella figura quasi mitica del
poeta vate. Mitica anche perché le sue origini risalgono ai tempi mitici.
Come è noto l’archetipo del vate fu Omero. Ma il termine stesso “sacro
vate” è foscoliano, quindi ottocentesco (Dei Sepolcri è del 1807), così
come ottocentesco è il culto di Dante, poeta vate per eccellenza della
nazione italiana (come ho esposto nel mio intervento al convegno
dantesco dell’Università Cattolica di Piliscsaba). Come il culto
ottocentesco di Dante così anche il culto ottocentesco dei vati risale
all’Alfieri che nel suo trattato Del principe e delle lettere non solo
contrappone il letterato al principe cioè al tiranno, ma identifica il “libero
scrittore” con lo “scrittore tribuno” e attribuisce addirittura ai “veri
scrittori” una missione di demiurghi di “nuovi popoli” cioè di popoli liberi.
Così lo scrittore nell’età del Risorgimento e del romanticismo diventerà la
“colonna di nube” di cui parla il Mazzini o la “colonna di fuoco” di Petőfi o
il “poeta come eroe” di Carlyle, fino al “grande artiere” che “picchia… per
la libertade” e “per la gloria” come leggiamo nel Carducci definito dal
Croce (con le parole stesse del poeta) “l’ultimo vate”.
La crisi dei vati si osserva in modo esemplare nel caso dei due poeti italiani
che ritenevano di essere, e venivano considerati (sebbene in modi e
misure diversi), gli eredi del Carducci: il Pascoli e il D’Annunzio. Il poeta
delle Myricae non ha dato certo il meglio del suo genio facendo il vate
della guerra libica (La Grande Proletaria si è mossa, 1911). E il D’Annunzio,
come è noto, da “protagonista” del decadentismo italiano è diventato il
vate ufficiale dell’“Italia littoria”.
È uno dei paradossi del Novecento che sia i regimi totalitari di destra e di
sinistra sia le democrazie liberali hanno contribuito al tramonto dei vati
tradizionali, ottocenteschi, romantici.
I totalitarismi moderni non hanno tollerato gli “scrittori tribuni”
dell’Alfieri. Nelle dittature nere e rosse le vie davanti ai “liberi scrittori”
alfieriani erano quattro:
1. Esilio: Aleksandr Kuprin, Ivan Bunin, Corrado Alvaro, Thomas Mann,
Bertolt Brecht sono gli esempi più famosi di scrittori che, abbandonando
la Russia sovietica, l’Italia fascista o la Germania nazista, hanno scelto una
352
nuova patria, più libera. Ma il caso più clamoroso ed estremo è quello
dell’ungherese Sándor Márai (oggi tanto di moda) che, per non vivere
sotto la dittatura comunista prima terroristica, poi “morbida”,
condannava se stesso all’esilio più lungo che il Novecento conosca, durato
più di quarant’anni, fino alla morte.
2. Esilio interno, cioè resistenza passiva: qui gli esempi più tipici e più
numerosi sono forse quei grandi scrittori e poeti ungheresi che negli anni
Cinquanta, durante il regime stalinista di Rákosi hanno tradotto opere
classiche in ungherese come László Németh o Lőrinc Szabó, hanno scritto
favole per bambini come János Pilinszky oppure hanno scelto il “silenzio
eloquente” come Lajos Kassák. (Béla Hamvas, filosofo, saggista e
romanziere lavorava addirittura come operaio magazziniere in una
fabbrica di campagna!)
3. Resistenza attiva, coraggiosa: esempi gloriosi sono l’antifascismo
culturale del Croce, l’audace lotta contro la censura sovietica di
Solzenicyn, forse l’ultimo vate di statura mondiale, ma anche le coraggiose
allegorie storiche dello scrittore transilvano András Sütő sotto la dittatura
megalo-paranoica di Ceauşescu.
4. Martirio: che spesso era la conseguenza tragica della resistenza. È una
delle vergogne indelebili del Novecento il grande numero di scrittori e di
poeti classici assassinati dai regimi tirannici: Federico García Lorca ucciso
dai falangisti, Antal Szerb e Miklós Radnóti trucidati dai nazisti, il
giovanissimo poeta ungherese Attila Gérecz morto nel novembre del 1956
sotto un carro armato sovietico… Gli esempi potrebbero essere citati
ancora a lungo.
Agli antipodi dei martiri troviamo gli scrittori di regime che, per usare
sempre i termini alfieriani, hanno obbedito all’“impulso artificiale”,
lasciandosi influenzare dalla “terribile protezione principesca” o, con una
terminologia più moderna, sono diventati i propagandisti dei regimi
totalitari, i poeti ufficiali delle dittature. L’Italia mussoliniana aveva fra i
suoi intellettuali rappresentativi, oltre il già citato D’Annunzio, anche il
futurista Filippo Tommaso Marinetti e il grande filosofo Giovanni Gentile;
la Russia sovietica staliniana e post-staliniana aveva come portavoce
letterario uno scrittore come Ilja Ehrenburg (“modello” della figura del
poeta Minimus nella Fattoria degli animali di Orwell); mentre in Ungheria
il propagandista romanziere del kádárismo era il mediocre András Berkesi.
Ma anche scrittori e poeti grandissimi del Novecento subirono per un
certo periodo il fascino dello Stato Leviatano: basta pensare a Majakovskij
e a Gorkij, o a Pirandello, a Malaparte, a Brancati, a Vittorini (diventati poi
antifascisti).
353
“Il tradimento dei chierici”, secondo la celebre espressione di Julien
Benda, non era però sconosciuto nemmeno fra i vati o pseudovati dei
regimi liberal-democratici che al termine “vate” preferivano quello di
“scrittore impegnato” ed erano per la maggior parte comunisti. Il patriarca
dell’“engangement”, Jean-Paul Sartre nel 1968 istigava i giovani ad
abbattere con la violenza il regime parlamentare francese, ed esaltava
nello stesso tempo Mao Tse-tung, uno dei tiranni più sanguinari della
storia universale; similmente si comportava in Italia il premio Nobel Dario
Fo, in quegli anni febbrili. In genere gli scrittori di impostazione marxista
erano infinitamente più indulgenti con le dittature rosse attuali che con
quelle nere, scomparse in Europa dopo la seconda guerra mondiale.
Per fortuna c’erano scrittori occidentali ugualmente nemici di ogni
tirannia totalitaria e di ogni “tirannia della maggioranza” (per dirla con
Tocqueville), come George Orwell o Albert Camus, i quali anche se non si
consideravano vati, erano certamente eredi non indegni dei “liberi
scrittori” alfieriani e ottocenteschi.
Credo che il loro esempio sia valido anche oggi. Di fronte a nuovi attacchi,
anche in alcune democrazie, contro la libertà di parola e di stampa,
quando taluni manipolatori del passato invocano addirittura la prigione
per reati di opinione storica, di fronte all’invadenza della cultura di massa
americana che minaccia di cancellare dalla coscienza delle giovani
generazioni europee le loro identità europee e nazionali, con le loro
tradizioni culturali, l’eredità dei vati creduti obliati e ritrovabili solo nelle
storie letterarie, alla soglia del terzo millennio acquista una nuova e
straordinaria attualità.
Italiani e ungheresi nella caratterologia nazionale di Lajos
Prohászka
È uno dei paradossi della mentalità di noi Ungheresi che mentre ci
lamentiamo della scarsezza della nostra tradizione filosofica,
dimentichiamo molti nostri pensatori illustri. Uno di questi è Lajos
Prohászka (1897–1963), forse il più conosciuto dei filosofi ungheresi fra
le due guerre mondiali. Benché avesse scritto tutta una serie di trattati
importanti – come per esempio Teoria dell’insegnamento (Az oktatás
elmélete, 1937) o La morale della vita contemporanea (A mai élet
erkölcse, 1944) – la sua fama era ed è sempre legata ad una sola opera,
pubblicata nella rivista Minerva nel 1932–35, e poi in volume nel 1936: Il
viandante e l’errante (A vándor és a bujdosó). Questo capolavoro di
354
Prohászka e della saggistica filosofica ungherese del primo Novecento ha
avuto un successo eccezionale, è stato letto da tutti gli uomini di cultura,
suscitando reazioni positive o negative. De un lato aveva influenzato in
modo decisivo la storiografia letteraria di un Antal Szerb1, dall’altro lato
invece conservatori, liberali e nazional-popolari o “populisti” lo criticavano
con simile veemenza, e fra di loro troviamo anche le grandi figure di un
Gyula Szekfű2, di un Mihály Babits3 e di un Géza Féja4. Questi critici così
diversi fra di loro per l’impostazione ideologica, erano d’accordo sul fatto
che Prohászka guardasse il carattere e la cultura degli Ungheresi
attraverso occhiali tedeschi che deformavano il suo quadro. Questa critica
si riempiva di contenuto politico a dominciare dalla fine degli anni Trenta
ed era diventata un’accusa gravissima dopo la seconda guerra modiale,
quando Prohászka veniva
tacciato dai giornalisti di sinistra come
prefascista o filonazista. Così ingiustamente venivano giudicate le sue
simpatie non solo per la Germania, ma anche per l’Italia, infatti –
continuavano a ripetere gli accusatori incapaci di leggere da un punto di
vista diverso da quello politico – il Prohászka voleva fornire con il suo libro
le basi ideologiche per la collaborazione dell’Ungheria con le due
dittature di estrema destra. Queste accuse false, infondate, da nessuno
dimostrate pesavano maggiormente che la sua decisa avversione alla
dittatura e al razzismo del nazifascismo documentata dal suo già citato
libro, uscito proprio nel 19445. La politica culturale del comunismo
staliniano, rappresentata dalla figura sinistra di Gábor Tolnai, dopo aver
privato Prohászka della sua cattedra universitaria di Budapest, lo
giudicava “indegno” anche del suo titolo scientifico- accademico (nel
1952).
L’ultracinquantenne filosofo veniva così doppiamente umiliato: escluso
dai lavori scientifici, è stato condannato alla passività ed alla miseria6. La
sua riabilitazione è stata avversata dallo stesso György Lukács (nel 1956)
che lo giudicava un rappresentante delle “idee di estrema destra”7. Non
solo il Prohászka stesso veniva condannato al silenzio, ma anche il suo
nome doveva essere taciuto oppure, al massimo, pronunciato insieme con
le solite calunnie. Pál Sándor, ad esempio, il filosofo del regime, lo storico
della filosofia di impostazione dogmatico-marxista lo annoverava fra i
“filosofi dello Stato” e lo definiva uno dei “quartiermastri” del Terzo
Reich8. Questa falsa accusa veniva riecheggiata – sebbene in forma più
moderata – anche da studiosi di gran lunga più seri, come István Sőtér9 o
György Poszler10. È significativo che una valutazione più equilibrata ed
imparziale, dovuta a Tibor Hanák, poteva uscire in questi anni soltanto
all’estero11, così come è simbolico il fatto che la “riabilitazione” di
355
Prohászka poteva aver inizio soltanto nel 1989, anno della caduta del
regime comunista in Ungheria, con la piccola monografia di László
Tőkéczki12. Nel 1990, anno del grande cambiamento di regime, delle prime
elezioni libere e della formazione del primo governo democratico, è uscito
finalmente, in edizione “reprint”, il capolavoro di Prohászka A vándor és a
bujdosó13 (insieme con le due opere già ricordate14) ma veniva accolto
dall’indifferenza del pubblico. Prohászka è rimasto un filosofo ancora da
riscoprire.
Al di là delle polemiche politiche e delle accuse infondate, è indiscutibile
che la formazione filosofica di Prohászka è tedesca (come tedesche sono,
in parte, le sue origini familiari). I due filosofi che influenzarono
maggiormente il suo pensiero furono Hegel e Spengler (con l’importante
differenza che mentre sul primo aveva scritto sempre positivamente15, del
secondo aveva espresso anche delle dure critiche16), la scuola filosofica
alla quale era più vicino era quella della “storia dello spirito”
(Geistesgeschichte). Queste filosofie sono state però sviluppate da
Prohászka in modo originale.
Egli vuole definire “lo spirito di una comunità nazionale” (“népközösség
szelleme”), stabilendo un rapporto dialettico fra “comunità nazionale che
porta lo spirito” e “spirito che delimita la collettività, cioè la rende storica”
poiché spirito e storia si identificano hegeliamente (“soltanto lo spirito ha
una storia”)17. La storia dei popoli è determinata da tre fattori: l’“attività
vitale”, le influenze provenienti dall’esterno e le opere da loro prodotte
(cioè dai popoli).18 In sostanza ciò che Prohászka cerca è l’individualità di
una nazione, cioè la sua “forma” come “punto di partenza, portatrice e
movente comune” di un popolo. “E questa forma è anche la sorte della
comunità nazionale”19 – scrive Prohászka, precisando che “anche”
significa pure “non esclusivamente” (come pensava invece Spengler),
infatti “l’esistenza di una comunità nazionale deriva da un rapporto
particolare della sorte e della libertà”.20 Questo rapporto “particolare”,
cioè dialettico, è riassunto così: “Lo spirito oggettivo dal punto di vista
della sua esistenza è sorte, dal punto di vista del suo significato è invece
libertà. Come la libertà preannuncia la sorte, così la sorte raffrena la
libertà. Ma in questo consiste anche l’aspetto tragico della storia, che ogni
libertà diventa sorte per la generazione successiva. Perciò chi guarda il
passato, vede sempre i segni della sorte; solo chi vive sente la libertà.” 21
Là dove “sorte e libertà sono inseparabilmente uniti” si parla, sempre
hegelianamente, di “classicità, in altre parole “di unità del naturale e dello
spirituale”.22 Questa sintesi nella sua armonia perfetta è stata raggiunta
soltanto dai Greci23, ma la classicità, in forma meno pura, si trova anche
356
presso altri popoli, soprattutto presso i popoli latini: i Romani, appunto, e
poi i loro “discendenti”: gli Italiani ed i Francesi24. Invece “i popoli
germanici” e soprattutto i Tedeschi mostrano “un’ambivalenza particolare
fra classicità e romanticismo” e completamente romantico è lo “spirito
ungherese caratterizzato dal conflitto perpetuo con i fatti della sorte”.25
Così siamo arrivati alla “caratterologia nazionale” di Prohászka, la parte
più importante e più vasta del suo capolavoro. Dando “la tipologia delle
singole comunità nazionali”26. Prohászka sceglie per ognuno un simbolo
“umano” o “soggettivo” come Spengler sceglieva un simbolo “materiale”
od “oggettivo” per ogni “ciclo culturale”27.
Così il Greco sarà l’“Espressivo” („kifejező”), il Romano l’“Organizzatore”
(„szervező”), il Medioevale il “Pellegrino” („zarándok”), lo Spagnolo il
“Don Chisciotte” (“quijotista”), il Francese lo “Stilizzatore” („stilizátor”),
l’Inglese il “Colono” („telepes”), “l’Italiano l’Umanista” („humanista”), il
Tedesco il “Viandante” („vándor”) e l’Ungherese “l’Errante” („bujdosó”).28
Non solo il titolo ma anche le proporzioni strutturali del libro
suggeriscono che le parti dedicate al “Viandante” e all’“Errante” (che
occupano i due terzi dell’opera intera) sono le più importanti. Anzi,
l’autore stesso dice che i capitoli precedenti sono una specie di
introduzione.29 Tuttavia fra questi capitoli “introduttivi” il più lungo ed il
più vicino alle parti principali è proprio quello dedicato all’“Umanista”,
cioè al carattere italiano.30 La successione dei tre capitoli in questione
(L’Umanista, Il Viandante, L’Errante) rispecchia una successione logica. Le
tre figure simboliche, cioè i popoli che rappresentano, nella loro
successione presentata da Prohászka, si trovano sempre più lontano
dall’ideale di classicità, sono sempre più contraddittori e problematici,
sempre più “misteriosi”. La nazione italiana, è, fra le moderne, quella
giudicata più positivamente da Prohászka. (Nota bene: egli sottolinea la
fondamentale unità della cultura italiana, al di là del “regionalismo” e
delle diferenze fra “lo spirito settentrionale e quello meridionale”, e
questo oggi, nell’età della moda separatistica ha una sua ancor maggiore
attualità.) Il popolo italiano, sostiene Prohászka citando un’espressione
felice di Burckhardt, è il “primogenito dell’Europa”, il che significa per il
nostro filosofo che è, fra tutti i popoli moderni, il più vicino alla tradizione
antica della classicità. È proprio questo il carattere distintivo degli Italiani,
“l’aspetto nazionale generale che caratterizza esclusivamente soltanto gli
Italiani e che dà loro la capacità di rinnovarsi perennemente, e garantisce
nello stesso tempo al loro spirito una giovantù inesauribile”: la “tradizione
come esperienza vissuta” o meglio, la “fusione mirabile di esperienza, di
tradizione e di individualità.”31 Questa è la quintessenza dell’“Umanista”:
357
la capacità di vivere la tradizione, di vivere la cultura, capacità non solo di
pochi, ma di tutto il popolo, anche dei “membri più insignificanti della
comunità”32. E questo umanesimo che rende lo spirito italiano
“imparziale, sereno, tranquillo e bello”33 in cui “sorte e libertà si sono
incontrate in modo davvero fecondo e irraggiungibile”34 il che, come già
sappiamo, equivale e dire che la classicità (il classicismo: klasszicizmus) è
presente nello spirito italiano sempre e senza eccezioni non come
prodotto storico irripetibile, ma come forza viva, perenne e inesauribile di
tutta la vita spiritiale”35. Perfino il Romanticismo storico culturale degli
Italiani, osserva acutamente Prohászka, era sostanzialmente “classicità
pura, sia nella forma sia nel contenuto”36). Prohászka arriva a dire che gli
Italiani sono “divini”37, e comunque, essi “sono oggi il popolo più sano
d’Europa”38 e rappresentano forse il futuro e la salvezza per tutta l’Europa
in grave crisi39.
Dopo questo inno all’Italia non ci può sorprendere che anche quando il
filosofo passa ad esaminare la cultura da lui più conosciuta e “sentita”,
cioè quella tedesca, il punto di partenza sarà dato dai rapporti fra lo
spirito italiano e lo spirito tedesco, cioè fra l’“Umanista” e il “Viandante”.
Il Prohászka non esita ad affermare che “senza L’Italia lo spirito tedesco
non sarebbe diventato ciò che è diventato”40. “Questa influenza
meridionale è stata decisiva sulla germanità in tre momenti: per la prima
volta verso la fine del Medioevo quando sotto l’influenza del misticismo
latino (San Francesco d’Assisi, San Bonaventura) anche la speculazione
religiosa tedesca è diventata più profonda”, poi durante il Rinascimento,
attraverso “i contenuti della cultura antica” e infine nel Classicismo
quando la germanità era attratta dalle idee estetiche ed umanitarie”41, e
qui l’allusione a Goethe, al suo viaggio in Italia (anche come opera:
Italienische Reise) è evidente. Ma questa “influenza meridionale” aveva
prodotto sempre risultati originali; esiste una strada diretta che conduce
da Mastro Eckhardt a Lutero, dall’erudizione rinascimentale alla scienza
moderna e dal classicismo alla cultura e alla coscienza nazionali.42
Evidentemente, “la cultura italiana poteva incantare lo spirito tedesco
solo perché esso l’aveva avvicinato con animo fraterno”43, sentendolo
nello stesso tempo anche come “problema eterno”44. Infatti nella
dialettica (così tipicamente tedesca45) la classicità italiana era una feconda
antitesi al carattere irrequieto, lirico-titanico, sempre “in movimento”,
sempre “migrante”, sempre in lotta (anche con la realtà) dei Tedeschi.46
L’Italia era, insomma, con la sua cultura, punto di partenza e punto di
riferimento, norma e specchio per la cultura tedesca.
358
E aveva un significato molto simile anche per la cultura ungherese. A
questo punto i rapporti delle nazioni caratterizzate da Prohászka
diventano molto interessanti dal nostro punto di vista. Come egli sostiene,
molto spesso le influenze provenienti dall’Italia arrivavano in Ungheria
attraverso la mediazione tedesca.47 Anche questo spiega il fatto che i
sentimenti degli Ungheresi nei confronti degli Italiani e della cultura
italiana erano, nella diagnosi di Prohászka, sempre molto simili a quelli dei
Tedeschi, cioè in essi si mescolavano la simpatia, l’ammirazione e la
consapevolezza (amara) delle diversità.
La nostalgia e l’ammirazione degli Ungheresi per l’Italia nascono in parte
proprio dalle differenze riconosciute fra i due popoli. È infatti lo spirito
“imparziale, sereno e tranquillo”, l’armonia “sana” e “divina” della
classicità che manca, più di tutto, al carattere nazionale degli Ungheresi
lacerato dal contrasto eterno fra il “finitismo” (finitizmus: la tendenza di
chiudersi entro limiti creduti sicuri, ma spesso angusti)48 e il “furore”
(furor: lo spirito “di parte”, la divisione nazionale, le lotte intestine,
indicati con una espressione del grande poeta Berzsenyi: „visszavonás”)49.
Ciò è dovuto al rapporto antitetico delle due nazioni con la propria
tradizione: gli Ungheresi non hanno quel senso di continuare e di vivere la
tradizione che è proprio degli Italiani. A causa dei perenni conflitti interni
ed esterni non c’era la possibilità di un’evoluzione organica e quindi di una
tradizione unitaria ed ininterrotta, noi dovevamo sempre “ricominciare da
capo”.50 Questo ha reso altrettanto problematico il rapporto degli
Ungheresi con la realtà stessa: donde il nostro carattere “fortemente
affettivo”51, spesso addirittura irrazionalistico che fugge dai problemi della
realtà52 o nel mondo delle illusioni53 o nel “sogno pigro” della passività
asiatica54 o ancora in imprese eroiche ma disperate ed impossibili55; più
spesso si nasconde (“Hungaria abscondita”56) o “erra”, “vagabonda”
eternamente („bujdosó”57). Insomma, il carattere nazionale ungherese è
fondamentalmente romantico58, mentre quello italiano era, come
abbiamo visto, classico.
Romanticismo e classicità (o classicismo), proprio nel loro rapporto
antitetico, sono dialetticamente collegati fra di loro. Ecco la ragione
fondamentale della grande attrazione che l’Italia e la cultura italiana
avevano sempre esercitato sugli Ungheresi. Se è vero che la classicità
dell’“Umanista” era per il “Viandante” tedesco una mèta eterna, perché
irraggiungibile come un’“idea platonica, l’ombra del mito della caverna59,
è altrettanto vero che fra il “finitismo ungherese” e l’ordine “tranquillo e
bello” dello “spirito latino” e italiano c’era sempre una “corrispondenza
silenziosa, segreta eppure del tutto spontanea, diciamo pure: una
359
parentela esistenziale”60. Nel suo eterno avvicinarsi (e mai arrivare)
all’Umanesimo italiano l’Ungheria era riuscita a diventare “l’estrema
pietra miliare”61 della cultura umanistico-europea rappresentata al livello
più alto dalla cultura italiana. “Lo spirito di Roma è arrivato fino ai Carpazi
e non oltre.”62
La caratterologia nazionale di Lajos Prohászka è una filosofia che
appartiene piuttosto al regno dell’arte, delle belle lettere che a quello
delle scienze rigorose. Il suo messaggio sul destino comune degli Italiani,
dei Tedeschi e degli Ungheresi poteva suscitare, al suo apparire, anche dei
dubbi e sospetti, ma oggi, in un clima storico-politico del tutto diverso,
quando si sta realizzando l’unità europea all’insegna della libertà e
quando, finalmente, questi tre Paesi – l’Italia, la Germania e l’Ungheria –
sono diventati tutti democratici, l’insegnamento di Prohászka acquista una
nuova e vera attualità.
__________________
NOTE
1. Szerb Antal: Magyar irodalomtörténet (1934), Budapest, 1978, pp. 295, 341,
343
2. Szekfű Gyula: Nem vagyunk bujdosók in Magyar Szemle, 1938 ápr.
3. Babits Mihály: A magyar jellemről in Mi a magyar, Budapest, 1939 e Esszék,
tanulmányok, Budapest, 1979, vol. 1. pag. 633.
4. Féja Géza: Magyar irodalomelmélet, s. a., s. 1. p. 6.
5. Prohászka Lajos: A mai élet erkölcse, Budapest, 1944, pp. 42–43, 157–158,
170–171, 231.
6. Tőkéczki László: Prohászka Lajos, Budapest, 1989, p. 6.
7. Hanák Tibor: Az elfelejtett reneszánsz, Budapest, 1993, pp. 100, 102.
8. Sándor Pál: A magyar filozófia története, Budapest, 1973, vol. 1. pp. 225, 228.
9. Sőtér István: Szerb Antal magyar irodalomtörténete in Szerb Antal: Op. cit. p.
16..
10. Poszler György: Szerb Antal pályakezdése, Budapest, 1965, pp. 113–114.
Poszler György: Szerb Antal, Budapest 1973, pp. 108–109.
11. Hanák Tibor: Op. cit., Bern, 1981., pp. 100–103.
12. Tőkéczki László: Op. cit.
13. Prohászka Lajos: A vándor és a bujdosó, Szeged, 1990.
14. Prohászka Lajos: Az oktatás elmélete, Budapest, 1990. Prohászka Lajos: A mai
élet erkölcse, Szeged, 1990.
15. Prohászka Lajos: Hegel, Budapest, 1931, A vándor és a bujdosó, pp. 11, 18, 25,
55, 77–79.
16. A vándor és a bujdosó, p. 25. A mai élet erkölcse, p. 129.
17. A vándor és a bujdosó, pp. 5–6.
18. p. 26.
19. p. 9.
20. p. 17.
360
21. p. 15.
22. pp. 18–19.
23. pp. 19–22.
24. p. 22.
25. ibidem.
26. p. 23.
27. Oswald Spengler: Il tramonto dell’Occidente, Milano 1981, pp. 250–330.
28. A vándor és a bujdosó, pp. 26–158.
29. p. 26.
30. pp. 44–51.
31. pp. 45–46.
47. p. 130.
32. ibidem e. p. 53.
48. pp. 87–94.
33. p. 47.
49. pp. 100–114.
34. p. 50.
50. pp. 88, 145.
35. p. 51.
51. p. 94.
36. ibidem.
52. p. 97.
37. p. 53.
53. pp. 93–94.
38. p. 50.
54. p. 99.
39. p. 51.
55. pp. 100–114.
40. p. 72.
56. pp. 91, 99.
41. ibidem.
57. pp. 124–125.
42. ibidem.
58. p. 22.
43. p. 73.
59. pp. 125–126.
44. p. 52.
60. p. 132.
45. pp. 55, 79.
61. p. 131.
46. pp. 54, 56, 62, 80.
62. ibidem.
Letteratura e rivoluzione. Corrado Alvaro e l’Ungheria
Corrado Alvaro e il 1956: il collegamento tra il grande scrittore calabrese e
la rivoluzione ungherese è difficile, ma forse non del tutto impossibile.
Apparentemente Alvaro, oltre alla data della sua morte (il 1956, appunto),
non aveva nulla in comune con la rivolta di Budapest, ma guardando più
profondamente nella sua opera, e specialmente in una delle sue opere
(forse il suo capolavoro) troviamo fra di loro qualche rapporto “segreto”.
Il narratore classico del Novecento italiano, morto alcuni mesi prima
della “piccola rivoluzione d’ottobre” (come è stata definita dal poeta
ungherese György Petri) evidentemente non poteva subire la sua
influenza politica, ideologica, letteraria come molti dei suoi colleghi e
connazionali. Indro Montanelli, forse il più grande giornalista italiano del
ventesimo secolo, ha scritto i suoi articoli migliori “in loco”, come inviato
361
speciale della Corriere della Sera e testimone oculare della “morte del
comunismo”: da questa esperienza decisiva della sua vita e della sua
carriera ha tratto un dramma (1960) e perfino un film (1961, il suo unico
sforzo di regista cinematografico “d’occasione”) entrambi intitolati I sogni
muoiono all’alba. Alberto Mondandori, figlio del famoso editore Arnoldo,
nel 1957 ha composto e nel 1959 ha pubblicato un volumetto di poesia
epico-lirica intitolato Canto d’ira e d’amore per l’Ungheria. Ignazio Silone
già nel 1956 ha tratto l’insegnamento da La lezione di Budapest che gli
intellettuali occidentali dovevano “guarire dalla nevrosi” del comunismo
sovietico, seguendo l’esempio degli scrittori ungheresi come Gyula Háy e
Péter Veres, e non quello dei loro “cattivi maestri” che hanno taciuto o
addirittura giustificato la tirannide staliniana e la repressione sovietica coi
carri armati. Italo Calvino sembrava accogliere questo invito: ha
abbandonato il Partito Comunista Italiano nel quale non solo Togliatti ma
anche l’insigne latinista Concetto Marchesi ha inneggiato al soffocamento
nel sangue della cosiddetta “controrivoluzione” anticomunista.
Anche se per la ragione ovvia, già menzionata, Alvaro non poteva
scrivere su questi fatti, quel suo capolavoro che è L’uomo è forte rimane
uno dei “testi obbligatori” per capire la catarsi dell’autunno tragico di
Budapest. Il romanzo corradiano aiuta infatti a comprendere contro che
cosa si erano ribellati i “ragazzi di Budapest” mettendo a rischio e spesso
persino sacrificando la loro vita giovane. L’uomo è forte è uno dei più
grandi romanzi novecenteschi sulla tirannide, una grande allegoria del
totalitarismo moderno, piuttosto di quello rosso che di quello nero. Il
romanzo di Alvaro può essere accostato alle antiutopie o utopie negative
del secolo scorso come Noi di Zamjatin, Il mondo nuovo di Huxley e
soprattutto 1984 di Orwell, ma in parte si differenzia da loro per il suo
maggiore realismo storico-politico: risente fortemente delle esperienze
sovietiche di Corrado giornalista che non si lasciava ingannare dalle
messinscene “potemkiniane” della propaganda sovietica, e in alcuni suoi
elementi (i processi farsa, le autoaccuse degli innocenti ecc.) non si può
non riconoscere il terrore staliniano. Ciò nonostante vale la pena di
rileggere L’uomo è forte alla luce anche del successo mondiale sempre
rinnovatosi del successivo 1984: i due grandi libri sono accomunati non
solo dal messaggio politico antitotalitario (a differenza delle satire
piuttosto antitecnocratiche di Zamjatin e di Huxley), ma anche da una
serie di motivi più concreti: dalla distruzione dell’amore nell’atmosfera
della paura e del sospetto mediante i tradimenti coatti degli innamorati
fino ai grandi dialoghi ideologici fra vittime ed esecutori del potere
assoluto (Barbara e l’Inquisitore, Winston e O’Brien). Nello stesso tempo
362
dobbiamo vedere anche le differenze fra le due opere: L’uomo è forte è
meno sanguinoso e, alla fine, più aperto al dubbio.
L’uomo è forte è stato pubblicato in Ungheria appena due anni dopo la
sua prima apparizione in Italia, nel 1940, nella versione del noto poeta,
prosatore e traduttore István Vas (1910-1991) cristiano, ma colpito dalle
leggi razziali, uomo di sinistra ma “eretico”. In un momento storico in cui,
durante la seconda guerra mondiale, l’Ungheria non era ancora entrato
nel conflitto (proprio con l’URSS), il lettore magiaro poteva riconoscere
nell’allegoria alvariana il regime di Stalin, o quello di Mussolini, o quello di
Hitler. Ma dopo che con la presa del potere da parte dei comunisti, alla
fine degli anni Quaranta, la censura di Rákosi (e poi anche quello di Kádár)
non ha permesso nuove edizioni del libro, per coloro che lo possedevano
nella loro biblioteca privata non potevano esserci più dubbi che si trattava
proprio del comunismo sovietico, che dell’URSS “fabula narratur”. Il “non
admittitur” della censura comunista ungherese si era rivelato un autogol
simile all’avvertenza voluta dalla censura fascista in Italia che l’azione del
romanzo si svolgeva in Russia, “precisazione” che spingeva il pubblico
italiano a leggere il libro in chiave antifascista come “trascrizione” della
dittatura del Duce.
Comunque, l’unico libro di Alvaro tradotto in ungherese (con il titolo
leggermente modificato in Az erős ember) è ancora oggi L’uomo è forte.
Non si capisce perché non è stato tradotto e pubblicato Gente in
Aspromonte che, oltre a essere un’opera apolitica, certamente non
accusabile di anticomunismo, con il suo realismo lirico avrebbe potuto
ricordare al lettore ungherese le sociografie letterarie del movimento
populista (népi írók) fra le due guerre mondiali (di László Németh, Gyula
Illyés, Géza Féja, Pál Szabó, József Erdélyi, István Sinka). Ad ogni modo, la
(ri)scoperta di Corrado Alvaro in Ungheria non può non cominciare con la
ripubblicazione di Az erős ember. L’uomo è forte oggi, nel
cinquantacinquesimo anniversario della rivoluzione del ’56 sarebbe una
lettura doppiamente “forte”.
Dr. Prof. Imre Madarász è nato nel 1962 a Budapest. Dal 1975 al 1982 ha vissuto
e ha studiato a Milano. Ha cominciato i suoi studi superiori all'Università Statale
di Milano (con il prof. Emilio Bigi) e si è laureato nel 1988 in lingue e letterature
italiana e ungherese all'Università ELTE di Budapest. Docente dell'Università di
Debrecen dal 1990, ha insegnato letteratura ungherese al dipartimento diretto
dal prof. István Bitskey. Nel 1992 ha ottenuto il titolo accademico di "kandidátus"
(CSc). Nel 1993 ha organizzato e da allora dirige a Debrecen il Dipartimento di
Italianistica. Nel 1998 ha ottenuto anche il titolo di "dr. habil" delle scienze
letterarie. È uno degli italianisti ungheresi più noti, ha pubblicato 26 libri, di cui 17
363
sulla letteratura italiana, fra i quali una Storia della letteratura italiana (1993)
uscita finora in 6 edizioni, e una grande monografia su Vittorio Alfieri (2004). Ha
curato l'edizione di più di 100 volumi fra i quali le traduzioni di quasi 50 opere
classiche della letteratura italiana e 4 collane di autori classici (Felfedezett
Klasszikusok, Eötvös Klasszikusok, Kráter Klasszikusok, Italianistica Hungarica). È il
redattore anche dell' annuario "Italianistica Debreceniensis". Ha fino ad oggi in
suo attivo 1330 publicazioni. Oltre che al Dipartimento di Italianistica
dell'Università di Debrecen insegna letteratura italiana anche all'Università ELTE
di Budapest. Ha tenuto relazioni in più di 160 convegni nazionali ed internazionali
in tutti gli atenei ungheresi, in varie università italiane (Roma, Napoli, Cosenza,
Trento, Trieste, Udine, Pisa ecc.) e in vari Paesi europei da Zagabria a Cracovia, da
Bucarest ad Amsterdam. I suoi libri sono stati recensiti in Italia da varie riviste
(Giornale Storico della Letteratura Italiana, L'Alighieri, Campi Immaginabili,
Quaderni Vergeriani, Viator, Il Pensiero Mazziniano, Bollettino della Domus
Mazziniana, Bibliografia Petrarchesca ecc.). Ha ottenuto numerosi premi
riconoscimenti in Ungheria (Széchenyi Professzori Ösztöndíj, Széchenyi István
Ösztöndíj, Pro Scientia vezetőtanár due volte ecc.). Nel 2002 è stato insignito
dell'onorificienza di Cavaliere dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana dal
Presidente della Repubblica Italiana, Carlo Azeglio Ciampi per i suoi meriti nel
campo dell'italianistica. I suoi allievi e dottorandi hanno conseguito risultati
scientifici importanti, alcuni attualmente insegnano all' università.
Per ulteriori informazioni e dettagli, nonché per l'elenco completo delle
pubblicazioni, delle citazioni, dei convegni ecc. vedasi www.madaraszimre.eoldal.hu.
MONTRESOR NIKOLETTA
- Verona, Vr (I) -
Márai Sándor e i grandi italiani
Lo scrittore ungherese Márai Sándor nei suoi racconti di viaggio, nei suoi
articoli ma soprattutto nelle pagine del suo Diario raccoglie annotazioni di
ogni genere: esperienze personali ed eventi pubblici, le relative profonde
considerazioni, aforismi perfetti, splendide riflessioni sulla letteratura e
sul mondo contemporaneo. Soprattutto il suo Diario, scritto per
cinquant’anni, è uno scrigno molto speciale: si parla infatti di un diario di
lettura (olvasónapló), un diario in cui sono registrate le proprie esperienze
di lettura e i relativi pensieri. Quindi oltre a raccontare della gente
comune, lo scrittore magiaro rievoca i personaggi famosi italiani delle
epoche passate, mentre cita più raramente i suoi contemporanei.
364
Menziona spesso gli artisti, tra loro specialmente i grandi del
Rinascimento, ogni tanto uno scrittore e tra i personaggi della vita
pubblica contemporanea solo Mussolini.
Dante è l’unico personaggio prerinascimentale menzionato
ripetutamente da Márai. Di lui dice che, con San Francesco d’Assisi,
Michelangelo e Raffaello, è tra i pochi personaggi di natura
sovraumana.(1) Nel libro Ispirazione e generazione, Márai immortala la
moglie di Dante essendo stata immeritevolmente dimenticata dal poeta.
Qualche volta lo scrittore magiaro menziona Tiziano, Tintoretto e
Leonardo da Vinci, considerando quest’ultimo artefice di opere che
“illuminarono il mondo”(2).
Tra gli artisti del Rinascimento, così come tra gli artisti di tutti tempi e di
tutti i generi, è Michelangelo il personaggio italiano di cui Márai scrive più
spesso e volentieri. Scrive con simpatia di lui come “uno dei personaggi
più infelici dell’umanità”, che anche verso la fine della sua vita con “mani
deboli”(3) crea opere come l’incompiuta Pietà di Firenze. Per Márai, la
Pietà di Roma è uno dei capolavori dell’umanità: “L’umanità non è niente
– scrive – la gente pure conta poco, anche i Grandi Personaggi contano
poco, quello che conta è Guerra e Pace, la Divina Commedia, la Pietà, la
Nona Sinfonia o il Faust.”(4) Rivede la statua di Mosè parecchi anni più
tardi, durante il viaggio del 1946 a Roma: “Il marmo della statua di Mosè,
le vene del braccio, i muscoli della gamba, l’intera testa brilla nella luce
d’inverno, in carne, piena, viva. Solo la mano dell’uomo rinascimentale era
capace di dare vita alla materia così. No, non è vero, neppure loro, solo
Michelangelo ci riuscì.”(5) Márai considera Michelangelo il sommo artista
tra tutti i generi artistici.
Nelle pagine del Diario medita sulle opere incompiute, tra cui la X
Sinfonia mai composta. “Probabilmente – dice – neanche uomini della
grandezza di Shakespeare o Beethoven sarebbero in grado di comporre la
X Sinfonia. Forse Michelangelo l’ha terminata, l’ha dipinta. Sospetto che
lui sia l’unico ad averla potuta fare.”(6) Sempre nel Diario racconta di un
suo progetto: gli piacerebbe scrivere Il Giudizio Universale in esametro
ma, non sapendo scrivere in esametro e non essendo adatta al tema
nessun altra forma, presto ci rinuncia. Con piena approvazione scrive che
Michelangelo invece ci riuscì: “chinato dalla fatica, col secchio al braccio,
si arrampicava sulle impalcature pericolose della Cappella Sistina, davanti
a quel muro enorme e vedeva tutto. Ma lui era Michelangelo.”(7)
Nel Diario, a proposito del grande Rinascimento italiano, Márai accenna
all’umanista fiorentino Poggio e, in poche righe, spiega com’è riuscito ad
ottenere il rispetto dei fiorentini.
365
Dei grandi del Rinascimento menziona Marco Polo che, secondo lo
scrittore, è l’uomo più “completo” dell’epoca.
Márai ricorda qualche volta anche artisti che vissero nei secoli successivi
al Rinascimento ma raramente e con meno importanza. “Questo popolo
ha dato il meglio di sé nel Rinascimento. – dice in Il Ratto d’Europa – Non è
possibile mettere al mondo in un unico breve secolo dozzine di artisti come
Raffaello, Leonardo da Vinci, e continuare così nei secoli.”(8)
A cavallo tra il Rinascimento e il Barocco, Márai cita Benvenuto Cellini
che lo incanta più come scrittore interessante ed universale che come
orefice. Lo scrittore ungherese trova l’autobiografia di quest’ultimo una
lettura elettrizzante e sconvolgente, perché narra una vita straordinaria:
“Vivere, creare, uccidere, incidere linee fini nell’argento o ferire un rivale
finemente fra le costole, per lui è la stessa cosa, la vita è azione. Questo
fiorentino vive il ritmo della vita del Cinquecento attraverso le sue opere e
la sua vita.”(9)
Márai non scrive benevolmente dell’architetto barocco Carlo Maderno.
Passando da Bissone gli torna in mente Maderno, che visse lì, ma di lui
scrive che “ha costruito davanti alla cupola di Michelangelo quel
padiglione malriuscito.”(10)
Agli occhi di Márai può sembrare che non ci fossero stati artisti italiani
degni di menzione nel periodo tra Maderno e gli scrittori italiani del
Novecento. L’unico è forse Casanova che appare come protagonista in La
recita di Bolzano ma, come afferma anche András Mészáros, qui non si
tratta del Casanova storico.
È strano che uno scrittore così appassionatamente interessato alla
letteratura come Márai, che si obbliga a leggere quotidianamente, non
menzioni quasi mai gli scrittori italiani. Nel suo Diario, che in gran parte è
un diario di lettura, accanto ai nomi di Shakespeare, Goethe, Thomas
Mann, André Gide, G.B. Shaw e Wilder l’unico scrittore italiano presente,
con una certa regolarità, è Dante.
Nell’antologia Scrittori, poeti, letteratura di Márai non troviamo
nemmeno uno scrittore o un poeta italiano. Naturalmente, sappiamo che
Márai legge anche opere italiane – negli anni dopo il 1948 menziona tra
gli altri Alessandro Manzoni – ma non sembra colpito da nessuno in
particolare modo. Secondo lui, gli scrittori italiani non reggono il
confronto con gli scrittori tedeschi e francesi degli ultimi due/trecento
anni. Secondo János Szávai, la letteratura contemporanea “occupa un
posto minore nella critica di Márai”(11), che si limita soprattutto agli
inglesi e ai francesi oltre al tedesco Thomas Mann. Nel 1946, parlando
366
degli italiani, Márai dice: “Hanno degli scrittori. Ma non hanno lo
scrittore.”(12)
L’unico ad essere presente nel Diario è Benedetto Croce. Durante gli
anni trascorsi a Napoli, Márai lo incontra ma lo ritiene più interessante
come filosofo che come scrittore.
Oltre a Croce, menziona altri due contemporanei: il poeta D’Annunzio
che, fino alla morte, avvenuta nel 1938, visse sul Lago di Garda e Luigi
Pirandello.
Per Márai la vita riservata di D’Annunzio è poco autentica, la chiama
“solitudine isterica” ed “eremitaggio da spacconi”. Nel Diario del 1943
Márai ricorda l’abitazione di D’Annunzio e la considera di gusto
stravagante. “Mattinata di agosto a Gardone. Scendo in riva al lago dal
giardino di D’Annunzio, da questo palcoscenico della pazza ed astuta
raffinatezza, del caos nauseante della guitteria, della grandiosità
declamata, della sublimità che spacca i muri.”(13)
L’altro contemporaneo che Márai menziona in Ispirazione e generazione
pubblicato nel 1946 è appunto il drammaturgo Luigi Pirandello. Ne scrive
con simpatia come l’unico genio assoluto della drammaturgia ma, alla
fine, trova più interessante la sua personalità rispetto alla sua
drammaturgia ed alle sue opere. Ricorda con piacere la figura del
professore che scrive instancabilmente ma che, fino all’età di
cinquant’anni non riesce ad avere successo per poi diventare il “vegliardo
miracoloso della letteratura mondiale”(14).
Márai non si interessa di politica ma, vista l’epoca in cui vive, soprattutto
gli anni Trenta e Quaranta, non può non prestare attenzione e
commentare gli avvenimenti politici europei ed ungheresi. È il Diario a
testimoniare che segue gli avvenimenti con la responsabilità dell’uomo
che ragiona e come testimone annota tutto quello che gli sembra
particolare e caratteristico. Viaggiando nell’Italia degli anni Venti e Trenta
naturalmente non tralascia il fenomeno Mussolini anche se non menziona
molte volte il Duce. In Le confessioni di un borghese, lo scrittore ricorda
quando, nella metà degli anni Venti, abitando a Firenze, ha avuto
l’occasione di vedere ed ascoltare Mussolini. “Lo rividi alle adunate, dove
folle in delirio spiavano ogni suo gesto, prima a Firenze, poi a Bologna e a
Venezia. (…) La sua persona, il modo in cui si presentava ostentavano una
sorta di invulnerabilità. Quell’uomo aveva introdotto nell’Italia del dolce
far niente una corrente ad alta tensione. (…) E questa forza emanava da
un solo uomo: Mussolini. Chi non ha vissuto i primi tempi del fascismo in
Italia non sarà mai in grado di comprendere il segreto del successo di
questo movimento. Che cosa può mai significare un uomo? A quanto pare,
367
tutto.”(15) Pur riconoscendo le capacità di Mussolini e la forza della sua
personalità, Márai non ha mai simpatizzato con quell’uomo e non lascia
dubbi sul fatto che ritiene Mussolini un episodio, neanche tanto
importante, della storia italiana.
Fino a questo punto abbiamo considerato la prima parte della vita dello
scrittore magiaro. Dal 1948 con la scelta dell’emigrazione si apre un nuovo
capitolo della vita di Márai. È interessante leggere sulle pagine del Diario
come si sono evoluti i pensieri e i giudizi dello scrittore ungherese nei
confronti di famosi italiani e se le sue considerazioni radicali sono rimaste
immutate in seguito all’allontanamento dalla sua patria e all’inserimento
diretto nella vita e nella cultura italiana.
È importante comunque precisare che negli scritti di Márai occupa il
posto più importante la gente semplice come il vicino di casa, l’uomo che
pulisce le scarpe, l’orologiaio, un bambino napoletano ed altri.
Lo scrittore che già da viaggiatore fece ottime osservazioni, durante gli
anni passati insieme agli italiani, imparando a parlare la loro lingua, ebbe
la possibilità di conoscere ancora più profondamente il popolo italiano.
Rispetto a prima, è evidente che Márai presta più attenzione ai
protagonisti della vita intellettuale contemporanea italiana e scrive anche
più spesso dei grandi personaggi della letteratura italiana di altri tempi.
Oltre a questi, nel pensiero di Márai sono sempre presenti anche i pittori e
gli scultori dell’epoca d’oro italiana. Questo è naturale perché,
girovagando per Napoli, Roma e Firenze viene sottoposto a continui
impulsi del genere artistico e deve solo farne tesoro. Lo stare in una chiesa
di Napoli e l’ammirare gli affreschi di Giotto e dei suoi discepoli diventa
per Márai l’occasione per esporre la sua teoria del genio.(16) Questa è
una caratteristica di Márai: citando scrittori e pittori scelti da lui stesso,
spesso esprime la sua opinione su alcuni aspetti dell’arte che lo
interessano.
Degli artisti del Rinascimento, oltre ai già citati Leonardo da Vinci,
Tiziano, Tintoretto e Michelangelo, incontriamo anche il nome di
Botticelli. Márai può ammirare i suoi dipinti nella Pinacoteca di Roma, di
Firenze ed anche al Museo di Napoli, il Capodimonte. Ci vede una luce
misteriosa, proprio quella che, secondo Márai, manca alla Gioconda, uno
dei quadri più famosi del Leonardo. “Questa signora rinascimentale ben
messa non è affatto misteriosa. Potrebbe essere una signora benestante,
contenta di vivere in campagna. Nel suo sorriso non vedo il mistero, ma
piuttosto si rispecchia la luce della sana digestione e dei sani principi
morali. La luce risplende dal profondo del viso delle donne botticelliane;
questo viso invece è solo illuminato dalla luce esterna.”(17) Allo stesso
368
tempo, Márai non ha dubbi, per lui Leonardo è un genio creatore
eccezionale. Oltre a Michelangelo come scultore, in questo periodo Márai
cita diverse volte anche Michelangelo come pittore. Seguendo le
istruzioni di Károly Tolnay, osserva, con la lente d’ingrandimento, i disegni
e le macchiette di Michelangelo: “Disegnava con una perizia, spigliatezza
e quiete come quella con cui Dio creava e modellava: senza possibilità di
sbagliare.”(18)
Tra gli artisti barocchi, Márai cita solo il Bernini, di cui apprezza la
superiorità dell’agilità delle sue mani, ma non lo ritiene un genio.
Considera invece geniali alcuni compositori di musica tra i quali Mozart,
Rossini, Bellini, e più tardi Verdi che componevano un’opera a settimana,
se ne avevano voglia. Rispettando profondamente Verdi si permette di
scriverne con un pizzico di malizia a proposito di una rappresentazione del
Rigoletto: “Cantano tutti, il palcoscenico si riempie di eroi, eroine, cori e
cavalli, tutti che cantano. Verdi fa cantare anche i cavalli.”(19)
A differenza dei riferimenti alla letteratura tedesca, francese ed inglese,
possiamo incontrare pochi nomi italiani negli scritti e nel Diario di Márai.
Da questo punto di vista il Diario degli anni dell’emigrazione sono, anche
se non marcatamente, diversi. Per Márai, che vive ormai in Italia, spesso
non sono le opere letterarie ma l’ambiente stesso, il nome di una via o di
una tomba a far menzionare scrittori e poeti italiani, con maggior
frequenza rispetto al periodo precedente.
Márai considera Dante uno dei grandi spiriti dell’umanità. In questo
periodo, agli occhi dell’esiliato Márai, una caratteristica di Dante dapprima
meno importante, si accentua. La sua figura e la sua opera fanno da
esempio: “Dante, nell’emigrazione, - a Lucca o a Pisa, lontano quindi
dall’odiata-amata Firenze – ogni tanto gettò i suoi conoscenti “meritevoli”
nel catrame bollente, fumante di putrido zolfo, e guardava compiaciuto la
sofferenza del personaggio, attraverso qualche terzina. Questa è l’unica
soddisfazione dello scrittore esiliato.”(20)
Dapprima Márai non ha mai scritto di Sannazaro, sonettista del
Quattrocento. Durante gli anni trascorsi a Napoli trova la sua tomba a
Posillipo e questo lo incuriosisce: “Ieri ho visitato la sua tomba, fu sepolto
in una cappella sopra la Mergellina. Visse verso la fine del Quattrocento,
quando noi stavamo marcendo nella disfatta di Mohács, lui stava
scrivendo sonetti, imitava smorfiosamente il Petrarca, faceva finta di
essere innamorato.”(21) I dintorni di Napoli fanno venire in mente a Márai
anche il Tasso, che pure nacque in questa terra. Scrivendo del Sannazaro,
del Tasso e dell’Ariosto, Márai, senza dirlo esplicitamente, si rammarica
per la sorte degli scrittori in esilio, rimasti quindi senza lettori: “Tasso,
369
Ariosto, Sannazaro: ai loro tempi brillarono altre stelle con una luce più
abbagliante. Ma questi tre, che vissero nella stessa epoca e le condizioni
del loro destino personale furono simili, parlavano lo stesso linguaggio, si
fecero carichi dello stesso spirito dell’epoca: che poeti fortunati furono! (…)
Erano consapevoli dell’esistenza di un mondo dietro a loro che li chiamava.
(…) Il pubblico aspettava, trattenendo il respiro, la Gerusalemme liberata,
la continuazione dell’Orlando Furioso oppure una nuova manifestazione
poetica dell’innamorato Sannazaro, imitatore del Petrarca.”(22)
Márai, pur non valorizzando troppo la vita intellettuale italiana
contemporanea, osserva con interesse i fenomeni di quel periodo. Negli
anni Settanta costata che gli italiani hanno riscoperto un loro poeta
dell’Ottocento: Giacomo Leopardi. Lo scrittore visita la tomba del
Leopardi ancora durante gli anni trascorsi a Napoli e, a proposito della
riscoperta del poeta romantico, Márai scrive: “Adesso hanno riscoperto
Leopardi, la gioventù italiana sente riecheggiare il “tormento” nella poesia
romantica dell’inizio del secolo scorso. (…) È di moda adesso in Italia, la
gioventù sente la nostalgia inquieta del poeta della passione e della
morte.”(23)
Lo scorcio della via Alessandro Manzoni di Napoli durante una
passeggiata gli ricorda che il primo romanzo che ha letto è stato proprio I
promessi sposi all’età di dieci anni; questo lo fa sorridere un po’ perché
quando iniziò a leggerlo, sperava che fosse un’opera erotica.
Di D’Annunzio, di cui aveva già scritto negli anni Trenta, scrive diverse
altre volte. Sappiamo dal Diario che ogni tanto legge qualcosa di lui. In una
lettera scrive dei boicottati al premio Nobel e nell’elenco cita D’Annunzio
insieme a Tolstoj, Strindberg ed ai poeti della generazione ungherese
Nyugat (Occidente).(24) Nel 1963, a New York, Márai rievoca D’annunzio
in occasione del centenario della sua nascita: “Ha cent’anni. Anche lui era
demonico all’inizio del secolo: era il condottiere letterario dalla barbetta
caprina. (…) I giovani conoscono il suo nome ormai solo dall’enciclopedia.
(…) Riusciva a raccontare con forza anche il patetico, l’enfatico. (…)
Nell’Ottocento, in un atmosfera di soffocante provincialità, lui riuscì a dare
alla letteratura italiana di nuovo un rango mondiale. (…) D’Annunzio
parlava in nome degli italiani (…) così come poteva, facendo l’istrione, ma
con credibilità. (…) La figura gracile del piccolo condottiere barbuto è
cresciuta nel tempo.”(25)
Arrivando in Italia nel 1948, Márai dedica i primi mesi a studiare l’Italia:
studia la lingua, fa conoscenza della città, osserva le persone, si riempie
l’anima nei musei di Napoli con le bellezze ed i valori italiani dei secoli
passati. Saziandosi di tutte queste cose, ben presto si riprende e crea
370
l’atmosfera per poter lavorare. Gli manca però lo stimolo proveniente dal
mondo che lo circonda, lo stimolo di un’atmosfera intellettuale. “In Italia
c’è la vita italiana, forse c’è la vita di società, c’è la vita turistica, c’è la vita
sportiva e c’è anche la vita religiosa. Solo la vita intellettuale manca.
L’ultimo scrittore fu D’Annunzio. Ora la vita intellettuale è presente
solamente intorno a Croce (…) ma Croce ha ottantatre anni. Del resto
hanno solo scrittori, talenti, fenomeni occasionali. Non esiste la vita
intellettuale. Ed io ogni tanto sento di soffocare in mezzo a tutte queste
bellezze.”(26)
In un’intervista del 1949, accusa di superficialità la cultura italiana
dell’era moderna. Menziona di nuovo Benedetto Croce che ritiene un
intellettuale eccezionale ma capisce che la gente non vuole
immedesimarsi con gli intellettuali eccellenti, ma si interessa di cinema, di
sport e di spettacoli. “Hanno solo finto splendore; la loro letteratura, il
teatro al massimo è divertente, ma non è istruttivo e non sensibilizza sui
problemi attuali.”(27)
Márai non si pente però di aver scelto tra i paesi europei proprio l’Italia
“per soggiornarvi nel periodo iniziale dell’emigrazione (…). Parigi
sicuramente offre una vita intellettuale più eccitante (…), ma in Italia (la
vita) è più umana, più nobile.”(28)
Durante gli anni trascorsi a Napoli, Márai visita Benedetto Croce che
abita a Napoli est. Lo scrittore conserva dei buoni ricordi delle loro
conversazioni e più tardi a New York, quando viene a conoscenza della sua
morte, ne scrive commosso.
Sappiamo dal Diario che Márai legge anche opere appena pubblicate
della letteratura italiana: Il bell’Antonio di Brancati, i libri di Moravia,
Malaparte e li trova giornalistici. Oltre a questo, sostiene che la nuova
letteratura verista è fatta di troppe chiacchiere: “Come se lo scrittore
italiano non si esprimesse per iscritto, ma con la parola viva, nel parlare.
Gli italiani, qui al Sud, parlano con le mani, ma in qualche maniera
scrivono con la bocca.”(29) Legge con interesse Ignazio Silone perché è
deluso dagli ideali del comunismo e lo ritiene comunque uno scrittore
migliore di Arthur Koestler. Cita ancora tra i contemporanei il nome di
Giovanni Papini, di cui ha letto Il libro nero. Quest’ultimo non gli interessa
di per sé ma gli offre l’occasione per esprimere quello che pensa della
nuova generazione di scrittori italiani. “Questi giovani scrittori italiani
sono impazienti. Raramente descrivono un paesaggio, una stanza. Hanno
sempre fretta di arrivare al dialogo, per dire qualcosa di amaro,
lamentoso.”(30)
371
Fra gli scrittori contemporanei scrive in tono di autentico rispetto solo di
Giuseppe Lampedusa, apprezzandolo. Il Gattopardo, uscito postumo,
ottiene ben presto un successo internazionale. Anche Márai lo legge nel
1948. L’autore e il libro verranno menzionati diverse volte negli anni
seguenti. “È un libro latino – scrive Márai del romanzo – aristocratico. Non
perché fu scritto da un aristocratico o perché gli eroi del romanzo erano
principi, ma perché il paesaggio, il clima, la vegetazione, gli animali, le
parole, i costumi, i sentimenti e le relative conseguenze sono così come
sono – non vogliono sembrare altro. Lo scrisse un amatore, che però non
“ama” troppo la sua opera.”(31) Lampedusa rievoca un mondo perduto
per Márai, un mondo simpatico a modo suo: “Un gran signore parla in
tono indifferente di una forma di vita ormai perduta, della vita della Sicilia
feudale, racconta com’era la vita dei gran signori, senza una parola blesa,
senza un briciolo di senso di colpa. Era un principe e viveva bene. Non si
vanta, ma neanche si discolpa. Intorno a lui ci sono i piccoli e i grandi del
principato, tutti complici, si conoscono, con maniere cerimoniali e se ne
infischiano di tutto.”(32)
Oltre alla letteratura, Márai tiene d’occhio anche gli altri generi della vita
culturale. In qualche nota riflette sulla pittura contemporanea, sul cinema
e sulla musica. Fra i nuovi pittori italiani, pur notando la buona
conoscenza del mestiere e l’influenza di una tradizione consapevolmente
conservata, non riesce a trovare una figura di spicco. Gli ultimi grandi
pittori italiani erano i romantici della Lombardia, Modigliani e pochi altri.
Márai non è un appassionato della settima arte, ma va a vedere i film di
Fellini che considera il migliore regista del cinema italiano
contemporaneo. In una lettera menziona lo scrittore e regista Pier Paolo
Pasolini riferendosi al suo funerale scandaloso: “Qui il grande
avvenimento è l’ordalia della bara per la morte di uno scrittore-regista di
nome Pasolini: il fatto in sé è un banale incidente tra pederasti (il mignon e
il padron si sono picchiati, il mignon era più forte e ha ammazzato il
fidanzato), ma il funerale che è stato trasmesso in diretta alla televisione è
stato interessante: partì dal Campo dei Fiori di Roma, una grande folla
circondava la bara, a destra gli omosessuali, a sinistra gli eterosessuali, un
po’ più lontano i bisessuali. Moravia pronunciò un discorso, la massa di
gente mormorava, fu sepolto come Garibaldi, l’eroe e la vittima della
libertà. Mancavano solo i manifesti sui pali: “frocioni del mondo unitevi”, e
la solita voce del coro: “questa sarà l’ultima battaglia”, etc. Viviamo in un
mondo strano, a volte il contemporaneo non riesce a seguire con
attenzione le notizie, perché quello che è patologico è sempre anche
noioso.”(33)
372
NOTE:
(1) Márai Sándor, Quello che è rimasto escluso dal Diario 1948, Toronto,
Vörösvári, 1998, pag. 25.
(2) Márai Sándor, Quello che è rimasto escluso dal Diario 1948, Toronto,
Vörösvári, 1998, pag. 28.
(3) Márai Sándor, Paesaggi, città, persone, Budapest, Helikon, 2002, pag. 46.
(4) Márai Sándor, Quello che è rimasto escluso dal Diario 1945-1946, Toronto, Vörösvári, 1992, pag. 19.
(5) Márai Sándor, Ratto d’Europa, Budapest, Helikon, 1995, pag. 64.
(6) Márai Sándor, Quello che è rimasto escluso dal Diario 1948, Toronto,
Vörösvári, 1998, pag. 27.
(7) Márai Sándor, Quello che è rimasto escluso dal Diario 1947, Toronto,
Vörösvári, 1993, pag. 275-276.
(8) Márai Sándor, Ratto d’Europa, Budapest, Helikon, 1995, pag. 63-64.
(9) Márai Sándor, Diario 1943-1944, Budapest, Helikon, 1998, pag. 248-249.
(10) Márai Sándor, Ratto d’Europa, Budapest, Helikon, 1995, pag. 35.
(11) Szávai János, Márai Sándor es vilagirodalom, In: PILLANATKÉP A HAZAI
IRODALOMTUDOMÁNYRÓL. Budapest, Anonymus, 2002, pag. 224.
(12) Márai Sándor, Ratto d’Europa, Budapest, Helikon, 1995, pag. 38.
(13) Márai Sándor, Diario 1943-1944, Budapest, Helikon, 1998, pag. 19-20.
(14) Márai Sándor, Ispirazione e generazione, Budapest, Helikon, 1992, pag.
198.
(15) Márai Sándor, Le confessioni di un borghese, Milano, Adelphi, 2003, pag.
365.
(16) Márai Sándor, Diario 1945-1957, Budapest, Helikon, senza anno di pubblicazione, pag. 101.
(17) Márai Sándor, Diario 1958-1967, Budapest, Helikon, senza anno di pubblicazione, pag. 137.
(18) Márai Sándor, Quello che è rimasto escluso dal Diario 1950, Toronto,
Vörösvári, 1992, pag. 21.
(19) Márai Sándor, Diario 1958-1967, Budapest, Helikon, senza anno di pubblicazione, pag. 92.
(20) Márai Sándor, Diario 1968-1975, Budapest, Helikon, senza anno di pubblicazione, pag. 286.
(21) Márai Sándor, Quello che è rimasto escluso dal Diario 1950, Toronto,
Vörösvári, 1998, pag. 28.
(22) Márai Sándor, Diario 1945-1957, Budapest, Helikon, senza anno di pubblicazione, pag. 99.
(23) Márai Sándor, Diario 1976-1983, Budapest, Helikon, senza anno di pubblicazione, pag. 53.
(24) Márai Sándor, Caro Tibor!, Budapest, Helikon, 2003, pag. 40.
(25) Márai Sándor, Diario 1958-1967, Budapest, Helikon, senza anno di pubblicazione, pag. 174.
373
(26) Márai Sándor, Quello che è rimasto escluso dal Diario 1949, Toronto,
Vörösvári, 1999, pag. 103.
(27) Szőnyi Zsuzsa, Vagabondo e straniero, Budapest, Kortárs, 2000, pag. 139.
(28) Márai Sándor, Quello che è rimasto escluso dal Diario 1950, Toronto,
1992, Vörösvári, pag. 131.
(29) Márai Sándor, Diario 1958-1967, Budapest, Helikon, senza anno di pubblicazione, pag. 166.
(30) Márai Sándor, Diario 1945-1957, Budapest, Helikon senza anno di pubblicazione, pag.171.
(31) Márai Sándor, Diario 1958-1967, Budapest, Helikon, senza anno di pubblicazione, pag. 90.
(32) Márai Sándor, Diario 1976-1983, Budapest, Helikon, senza anno di pubblicazione, pag. 117.
(33) Márai Sándor, Caro Tibor!, Budapest, Helikon, 2003, pag. 94.
La Dr.ssa Nikoletta Montresor è una signora, madre di due figli, è – come Lei dice
nella sua lettera di presentazione – di madrelingua italiana e ungherese.
Stava completando il suo dottorato di ricerca in Ungheria all’Università ELTE di
Budapest al dipartimento di Italianistica. La sua tesi era su Sándor Márai e l’Italia.
Per poter terminare il dottorato di ricerca all’ELTE di Budapest (previsto per
dicembre 2009) doveva fare due pubblicazioni sull’argomento della sua tesi.
L’Osservatorio Letterario perciò volentieri le ha dato una mano pubblicando
questo suo saggio inviato sul fascicolo NN. 71/72 2009/2010 – uno tra i due
dovuti – che è anche attinente al profilo della ns. Rivista.
NÉMETH ISTVÁN PÉTER (1960)
- Tapolca (H) -
Versetti da Döbling
"Che non tremi la mano dell’imperatore
quando spara contro István Széchenyi.”
(István Kocsis)
vers versus siamo prigionieri
a che cosa serviva la poesia
la generavo io per la nazione e poi
uccidevo il poeta io lo facevo fuori
finire solo con me stesso no
in questo parco dietro le vostre spalle
374
la mandorla del mio occhio
si è amareggiata dalla luce
e com’era bello marzo
comme il rosso crepuscolo a Venezia
come vicino al Balaton ascoltare
al tramonto le triple onde
erano 3 parole più bianche
della neve di Branisco
quelle 3 parole mai più
s’alzeranno sopra noi o voi
vers versus anello
d’odio slavi valacchi
si arroventa il cerchio che cinge
l’ungherese
allora vi ho inviato una scacchiera
che forse si potrà sempre fare un altro giro
ad esempio può bussarti alla porta Avraham Janku
bel giorno quello in cui giocasse con te
oppure sarei già ridicolo
come una perquisizione in casa qui –
è stato un buon galoppo ma proseguo
lascio l’indirizzo SUD-EST-MITTEL-EUROPA
fin quando ci vedremo
vers versus sì
la poesia zoppica sempre
no non è il paese che affonda
prima soltanto il ponte delle Catene
sia il ferro sia la pietra
il fondo del Danubio è pieno d’alghe
ed i 4 leoni di pietra si farrano crescere la lingua
se sarà verde vivo l’ ASCOLTA ASCOLTA
Traduzione © di Alberto Menenti
375
Da «Hamlet szíve» (versek, rajzok, fotók veszprém megyei és szalentinói kortárs
szerzők műveiből, Bevezető jegyzet: Giuseppe Conte, Magyarból fordította Alberto
Menenti, olaszból fordította: Baranyi Ferenc,) Veszprém, 1996. pp. 116-119.
PACZOLAY GYULA (1930)
- Veszprém (H) -
Adagiorum graecolatinohungaricum chiliades quinque
La prima raccolta dei proverbi ungheresi di János Baranyai Decsi
A Bártfa del Nord-Ungheria (oggi Bardejov
nell'odierna Slovacchia) due anni fa si
celebrava il 400° giubileo della prima raccolta
di proverbi e detti ungheresi, intitolata
"Adagiorum graecolatino-ungaricorum chiliades quinque" edita nel 1598. Una raccolta
simile in altre lingue dell'Europa centrale ed
orientale - salvo la lingua ceca - venne edita
soltanto più tardi, ad esempio in polacco nel
1618, in bulgaro e romeno solo nell'Ottocento.
L'autore di questa raccolta, János Baranyai Decsi (1560 ca. - 1601)
nacque a Decs dell'Ungheria meridionale, allora sotto il dominio turco.
Egli fu uno dei più colti personaggi dell'epoca. Dopo gli studi universitari a
Wittenberg si laureò all'Accademia di Strassburgo con la tesi intitolata
"Synopsis Philosophiae" la quale a Wittenberg venne pubblicata ed anche
tradotta in inglese. Scrisse in latino un racconto di viaggio, nell'opera di
700 pagine intitolata "Syntagma institutionum iuris imperialis ac Ungarici"
(1593) paragona il diritto ungherese con quello dell'Eurpa occidentale (è il
primo lavoro del diritto armonico), scrisse la storia della sua epoca
basandosi sui dialoghi dei protagonisti (oral history), tradusse due opere
di Sallustius (Sallustio) in ungherese (1596) e compose anche poesie in
latino e greco. Non ricevette però molti riconoscimenti. Negli ultimi anni
della sua vita fu direttore della scuola di Székelyvásárhely (dal 1616 si
chiama Marosvásárhely, l'attuale Tirgu Mures nella Romania).
La base della raccolta "Adagiorum graecolatino-ungaricorum chiliades
quinque" fu l'opera intitolata "Adagiorum Chiliades" di Erasmus (Erasmo),
edito a Basel nel 1574, una raccolta di proverbi latini accompagnati dalle
spiegazioni. Decsi invece delle spiegazioni inserì i proverbi ungheresi
376
rispondenti oppure le loro traduzioni tra cui circa 1000 possono essere
considerati proverbi e detti.
Parecchi conosciuti proverbi ungheresi d'oggi si ritrovano nella raccolta di
Decsi ed ancor'oggi si dice nello stesso modo con lo stesso significato
come 400 anni fa. Alcuni proverbi però si ritrovano oggi soltanto in alcune
regioni di etnia ungherese (o nell'attuale territorio d'Ungheria o in alcune
zone di Trasilvania nella Romani d'oggi). Si ritrovano anche dei proverbi
con lo stesso significato ma formulati da diversi modi.
Nella raccolta di Baranyai Decsi si leggono anche dei proverbi, con lo
stesso significato, che sono in uso anche in più lingue europee, quindi
anche nell'italiano. Ecco alcuni esempi: "Ajándék lónak ne nézd a fogát"
(Trad.: "Non guardare i denti del cavallo donato") in italiano si dice così: "A
cavallo donato non si guarda in bocca"; "Több szem többet lát" (Trad.:
"Più occhi vedono di più"), in italiano: "Vedono più quattr'occhi che due";
o il proverbio d'origine biblica "Aki másnak vermet ás, maga esik bele" in
italiano: "Chi scava la fossa agli altri, vi cade dentro egli stesso" (trad. è
uguale alla versione italiana); "Más szemében meglátja a szálkát,
magában a gerendát sem": "Si vede la paglia nell'occhio altrui e non si
vede la trave nel proprio"; oppure il proverbio d'origine latino, da Plinius
(Plinio): "Varga ne tovább a kaptánál" (trad.: "Calzolaio non andar oltre al
gambale", (oggi: Suszter maradjon a kaptafánál" [trad.: Ciabattino resti dal
gambale"]), in italiano: "Ciabattino, parla sol del tuo mestiere".
Nel 1998 al Dipartimento di Folklore dell'ELTE - l'Università degli Studi di
Budapest "Eötvös Lóránd" - e la Biblioteca Nazionale "Széchenyi" hanno
organizzato una conferenza internazionale in cui si ricordava dell'edizione
giubilare di 400 anni dell'"Adagiorum…". L'ELTE in quest'occasione nel
1998 ha fatto uscire 400 copie simili all'opera originaria che oggi è
considerata una rarità .
N.d.R. Il Professore ha scritto quest'articolo appositamente per l'«Osservatorio
Letterario». Fonte: N. 15-16 Luglio-Agosto/Settembre-Ottobre 2000
dell'«Osservatorio Letterario».
Traduzione dell'articolo e la trad. letterale dei proverbi dall'ungherese © di
Melinda B. Tamás-Tarr
Congresso Mondiale del Folclore a Melbourne 2001
Come stabilito nel congresso di Gottinga del 1998, l'International Society
for Folk Narrative Research (ISFNR: Società Internazionale di Ricerca sulla
377
Narrativa Folclorica) ha tenuto il suo 13° congresso da lunedì 16 a venerdì
21 luglio 2001 nella città di Melbourne, capitale dello Stato Federale
Australiano di Victoria. Altri congressi si erano in precedenza svolti a
Budapest, Innsbruck, Mysore (Stato di Karnataka, India meridionale) e
Gottinga. Conferenze intermedie sono state organizzate nel 1996 a
Pechino e nel 2000 a Nairobi, in Kenya.
Nel corso della cerimonia d'apertura il congresso è stato salutato
dall'indigeno (elder) John Landy governatore di Victoria, dal primo
ministro del suddetto stato Steve Bracks, da Peter Costigan sindaco di
Melbourne, da Galit Hasa-Rokem presidente dell'ISFNR e da Susan Faine
direttrice della Victorian Folklife Association.
Il Congresso di Melbourne avente come tema centrale l'argomento
«Tradizioni e Transizioni» (Traditions and Transitions¹) si è svolto
all'Università di Melbourne; le conferenze hanno avuto luogo all'Old Arts
Building; il concerto è stato dato al Melba Hall; il banchetto di chiusura è
stato offerto all'Ormond College. Ente organizzatore: Victorian Folklife
Association, PO Box 1765, Collingwood. VIC. I giorni di lunedì e
martedì, nonché di giovedì e venerdì, sono stati dedicati alle conferenze,
mentre il mercoledì è stato riservato alle escursioni.
I partecipanti sono stati 182 provenienti da 35 nazioni². La maggior parte
di essi, 74 (40%), rappresentava ovviamente il paese ospitante, l'Australia.
Gli altri sono giunti: 18 dagli USA, 11 dall'India, 10 dal Giappone, 8 da
Israele, 5 dall'Estonia, dalla Cina e dalla Germania, 4 dal Regno Unito e
dalla Nuova Zelanda (tra essi Rolf Brednich!) , 3 dalla Finlandia, dall'Iran e
dalla Svizzera, 2 dall'Argentina, dal Bangladesh, dalla Grecia e da Samoa.
Un solo delegato ha rappresentato le seguenti nazioni: Bulgaria, Unione
Sudafricana, Isole Fiji, Olanda (E. Ágoston-Nikoleva!), Canada, Polonia,
Ungheria, Nigeria, Norvegia, Italia (Sabir Badalkhan!), Russia, Portogallo,
Arabia Saudita (Korvin Gábor!), Slovacchia, Slovenia, Tanzania, Turchia,
Vietnam.
Fra i partecipanti citiamo qualche nome: Christina Bacchilega (Honolulu),
Mehri Bagheri (Tabriz, Iran) Duan Baolin (Pechino), Jawaharlal Handoo
(Mysore), Wolfgang Mieder (Burlington, USA), Žužana Profantová
(Bratislava), Galit Hasan-Rokem (Israele).
Necessita anche dire che molti grandi stati, come ad es. Indonesia,
Kenya, Corea, Pakistan, Sri Lanka, Ucraina, Brasile, Messico e Spagna non
hanno avuto nessun rappresentante. Diversi relatori iscritti a parlare non
hanno potuto per varii motivi essere presenti e lo dimostra il fatto che
delle 210 conferenze in programma ne sono state regolarmente tenute
soltanto 182 ²). La lingua delle relazioni è stata l'inglese eccezion fatta per
2378
quella tenuta dal conferenziere vietnamita che ha presentato un testo in
russo (di cui è stata però distribuita tra il pubblico la versione in inglese).
In molti casi "la nazione ufficialmente rappresentata" da un
conferenziere elencato sulla lista dei partecipanti non aveva alcun nesso
con il folclore del relativo paese perché si capitava "per caso" al congresso
e così trattava argomenti riguardanti un diverso paese.
In rappresentanza dell'Italia è giunto ad esempio Sabir Badalkhan,
collaboratore dell'Istituto Universitario Orientale di Napoli che ha
naturalmente scelto un argomento indiano. D'un tema italiano,
Fortunatus in Italia, ha parlato un conferenziere svizzero, mentre una
ricercatrice di Honolulu dal nome italiano (nata da padre italiano) ha
parlato di argomenti hawaiani. L'unico partecipante "olandese" ma di
madrelingua bulgara, Elka Ágoston-Nikolevaha, ha trattato un tema
riguardante i musulmani parlanti in bulgaro. Il cittadino australiano Gábor
Korvin di madrelingua ungherese e rappresentante l'Arabia Saudita professore in Australia dell'Università Politecnico ha anche conseguito il
dottorato in scienze islamiche - ha fatto conoscere il diario scritto in
lingua urdu da un commerciante afgano che nell'Ottocento era stato più
volte in Australia e aveva fondato nel Lahore un "minareto australiano".
Un collaboratore coreano della Harward University ha tenuto una
conferenza su un argomento coreano, mentre d'un tema indonesiano ha
trattato un indonesiano d'Australia. Di argomenti cinesi - oltre ai cinesi ha parlato in una conferenza un cinese che vive in Australia.
Ecco alcuni titoli: La cultura tradizionale e la globalizzazione; Le
problematiche delle e-edizioni e le possibili soluzioni; La perdita delle
tradizioni tra i giovani giapponesei; L'origine, il mutamento e la sparizione
dei proverbi; Il fossile vivente: l'apparizione di una fiaba popolare di 4000
anni in Cina; Le fiabe di Grimm in Giappone; La nuova valutazione della
mitologia in Cina; L'accoglienza de "La storia di Heike" in Giappone nei
secoli XIV-XVI; La secolarizzazione in Bangladesh del canto-danzanarrazione gambhira originariamente dedicato a Shiva; Il nuovo
Pañcatantra (Nuove fiabe di animali in India); Il folclore come
rappresentazione dell'identità culturale in Sumatra Occidentale; "Naviga
nella propria barca!" - proverbi di Frederick Douglass nella conferenza
intitolata "Self Made Man"; Racconti della guerra civile negli Stati Uniti; Il
centro e la periferia in un antico racconto: la retorica rabbinica
nell'Impero Romano; L'astrologia popolare estone: La via degli Uccelli
oppure la Via Lattea?; Libri editi in occasione del Giubileo Kibuz: folclore
ed ideologia; Leggende dei templi e la religiosità popolare in Assam; Le
odierne funzioni degli scherzi in Cina.
379
Diverse relazioni hanno trattato dell'emigrazione e dei problemi degli
emigranti, dei giapponesi australiani d'inizio secolo, dell'arrivo dei Greci a
più ondate, dell'emigrazione dei Russi israeliani e si è anche parlato delle
fiabe dei minatori cinesi abitanti nell'australia ottocentesca.
Agli allogi hanno assicurato la colazione, tutti i giorni è stato servito un
pranzo freddo (tavola svedese) con thè, caffé, frutta e a metà mattina e
metà pomeriggio, nell'intervallo tra gli interventi, si teneva la cosidetta
pausa per il thè. Ai partecipanti è stato anche fornito un'abbonamento
settimanale per il tram valido nell'ambito della 1° zona (interna).
Su delibera dell'assemblea generale il prossimo congresso dell'ISFNR
verrà organizzato nel 2005 a Tartu, in Estonia.
¹) Esattamente: Traditions and transitions. Folk narrative in the
contemporary world.
²) Sulla carta avrebbe dovuto partecipare il rumeno Pavel Ruxandoiu che
non si è presentato. L'unico partecipante russo (A. Panchenko) nonostante
l'evvertimento ha notevolmente oltrepassato illimite di tempo messo a sua
disposizione.
______________________
NOTA: Senza alcun sostegno economico da parte di un'istituto ufficiale o
di una fondazione l'Ungheria è stata rappresentata dal Professor Dr. Gyula
Paczolay. Titolo della conferenza da lui tenuta il pomeriggio del 19 luglio è
stato «Appearance, Change an Disappearance of Proverbs». Con il titolo «
400 anni di proverbi ungheresi» la mattina del 21 luglio il Dr. Paczolay ha
tenuto dietro invito una lezione sui proverbi magiari presso la scuola
ungherese di Melbourne, lezione ripetuta nel pomeriggio stesso davanti
ad un pubblico di 200 ungheresi nella Casa Magiara (760 Boronia Road,
Wantirna VIC 3152).
Fonte: Osservatorio Letterario, ANNO V - NN. 19/20 Marzo-Aprile/Maggio-Giugno
2001
Traduzione © di Melinda B. Tamás-Tarr
Il Congresso Ugrofinnico a Tartu in Estonia
Tra il 7 ed il 13 agosto 2000 l'Università Estona di Tartu (Tartu Ülikól) ha
ospitato il IX Congresso Internazionale Ugrofinnico.
Tartu oggi conta centomila abitanti, l'Università venne fondata dal re
svedese Gustav Adolf nel 1632, oggi ha 7500 studenti ed 820 docenti. Il
congresso viene organizzato in ogni 5 anni. Le seguenti città l'hanno ospi-
380
tato negli anni precedenti: Turcu (Finlandia), Siktivkar (Repubblica dei
Komi, Russia), Debrecen (Ungheria), Jyvaskyla (Finlandia).
Il numero registrato dei partecipanti al congresso è stato di 670, in gran
parte Estoni e Finnici e 38 Ungheresi. Tra i partecipanti c'erano anche Italiani come Amadeo Di Francesco di Napoli, Carla Corradi-Musi di Parma,
Antonella Magnabosco di Vicenza. Però hanno tenuto conferenze anche
rappresentanti austrialiani, americani e giapponesi, ad. es.: il prof. Waseda Mika, docente d'ungherese all'Università delle Lingue Straniere di Osaka.
Il congresso, suddiviso in quattro temi: linguistica, letteratura, folclore
ed etnologia ed infine genetica, ha visto su questi argomenti sia conferenze conclusive plenarie che conferenze di sezione.
Ecco una selezione di titoli degli interventi:
Conferenze plenarie: La famiglia lappone meridionale ed i nomi di battesimo - L'influenza della lingua lettone sull'estone e sul finnico - Parole
estoni e livoniane nel lettone - Prestiti turchi (cioè tatari, baschiri, cinvassi)
nella lingua votiaca - La funzione modale dell'imperativo magiaro nei periodi subordinati (Waseda Mika) - La lingua dei Magiari viventi in Svezia L'epopea finnica nazionale, i problemi di traduzione in turco dell'epopea
finnica nazionale "Kalevala" - Prestiti turchi nell'estone e nel finnico - Il
linguaggio delle canzoni ecclesiastiche estoni e finniche - L'esame computerizzato del "Kalevala" e del romanzo finnico - La patria e l'Occidente nella letteratura finnica degli immigrati - L'attività letteraria del poeta votiaco
(udmurto) Gerd Kuzebaj (giustiziato dalle autorità sovietiche nel 1937 - o
nel 1941?- per il reato di "nazionalismo") - Il mito goliardico folcloristico
nella moderna letteratura ungherese (Amadeo Di Francesco) - Il rispetto
per gli antenati degli Ostiachi (Hanti) e dei Voguli (Manysi) - La mitologia
del Voguli - La tradizione e miti urali e le antiche mitologie greco-romane
(Carla Corradi-Musi) - Gli Dèi precristiani degli Ostiachi - Le opere e le attività del poliglotta pastore anglicano Solomon Caesar Malan (si paragona al
cardinale Mezzofanti) nel fine Ottocento: "Taccuino per l'Antico Testamento" in tre volumi (l'opera comprende proverbi italiani, ungheresi e
finnici, citazioni dal "Kalevala") - Il mutamento della cultura popolare
ostiaca nel Novecento - Variazioni delle canzoni ostiache sulle renne - L'adiacenza dei finnici e turchi (cinvassi, tatari, baschiri) nella musica popolare - La comparazione dell'antico calendario siriano ed il sistema del calendario indo-iraniano - Ricerche archeologiche in Finlandia, Estonia e sulle
terre dei Ceremissi - Esami genetici dei vari popoli ungrofinnici.
Durante lo svolgimento del congresso sono state organizzate anche delle
escursioni per visitare le città più note dell'Estonia, le zone etnografica-
381
mente molto particolari, visitando ad esempio i territori di Setu famosi per
la loro particolare cultura antica.
Il congresso è stato salutato dal presidente della Repubblica d'Estonia
Lennart Meri, mentre gli ambasciatori di Finlandia e d’Ungheria hanno
organizzato un ricevimento in onore dei partecipanti che in due sere hanno assistito ai concerti presso l'Aula Magna dell'Università. Durante il congresso è stato possibile inoltre passeggiare tra le belle fiere dei libri e gustare il folclore nella città di Tartu.
Il prossimo X Congresso Internazionale Ugrofinnico sarà organizzato nel
2005 nella capitale della Repubblica Ceremissa - Marij El: a Joskar-Olában;
la Terra dei Ceremissi appartiene all'attuale Russia.
POST SCRIPTUM A PROPOSITO DELLA FAMIGLIA LINGUISTICA, DELL'AFFINITÀ DELLE LINGUE
Le lingue appartenenti alla stessa famiglia linguistica hanno una comune
base lessicale ed anche il loro sistema grammaticale è simile. Ad esempio
le seguenti famiglie linguistiche sono presenti in Europa: quella indoeuropea (indogermanica, indoariana), ugrofinnica e la turca Alle lingue indoeuropee appartengono per esempio le lingue neolatine (italiano, francese,
spagnolo), le lingue germaniche, slave, il greco, persiana nordiraniana ( ad
es.: indi, bengala, urdu) e singala di Ceylon. Una delle più caratteristiche
parole comuni come "madre" in tedesco è Mutter, in inglese mother, in
russo (nel genitivo plurale) materi *матери+, in indi mata; oppure la parola
"tre" in tedesco drei, in inglese three, in russo ed in indi tri, ecc. In tutte
queste lingue ci sono (nell'inglese c'erano in una buona parte) i generi
grammaticali e le preposizioni.
Alle lingue ugrofinniche appartengono le seguenti lingue, con i numeri
delle persone di madrelingua (tra parentesi il numero indica le persone
oltre frontiera):
Lingue proprie di uno stato indipendente: l'ungherese, 15 milioni (30%); il
finnico: 5.3 milioni (10%), l’estone: 1 milione (15%). I Finnici e gli Estoni
sono parenti prossimi, e tra loro si capiscono abbastanza facilmente.
Vari popoli che parlano la lingua ugrofinnica vivono in Russia ad ovest
degli Urali. Hanno uno status di repubblica denominata a seconda del nome della propria lingua, alla quale però appartiene una minoranza e l'uso
della propria lingua è limitato. L'istruzione scolastica in madrelingua è
sempre più in calo e capita che il presidente della Repubblica non parli
neppure la lingua della minoranza nonostante che la Repubblica porti il
nome della lingua minore. Qui si elencano le seguenti lingue (tra parentesi
382
si riporta la capitale): Sirieni - 350mila (Siktivkar), Votiaki - 520mila (Iževsk), Mordvini - 770mila (Saransk), Ceremissi - 540mila (Joskar-Ola).
I parenti linguistici più vicini ai Magiari sono i Voguli (nella loro lingua originaria: i Manysi) abitanti oltre gli Urali nei pressi al fiume Ob: contano
3000 anime e gli Ostiachi (gli Hanti) con 1360 abitanti. Il centro di questa
zona è Hanti-Manysijsk. Parlano la loro madrelingua soprattutto gli anziani, mentre i giovani che vanno a studiare nelle città sono in maggior parte
russificati. Nelle loro zone di caccia e pesca una volta c’era una produzione
di olio a livelli della grande industria.
Altri popoli ugrofinnici minori sono i Careli (62mila), i Vespi (6mila) gli
Ižori (300), i Livoniani (15), i Voti (?). I Lapponi vivono in tre paesi (Svezia,
Finlandia, Russia) e il numero dei parlanti il lappone č di circa 35mila.
Le particolari parole comuni delle lingue ugrofinniche sono - tra parentesi sono riportate soltanto in ungherese - ad esempio: 'mano' (kéz), 'sangue' (vér), 'pesce' (hal)¹, 'pietra' (kő),, 'tre' (három), ecc. In queste lingue
non esistono generi grammaticali ed invece delle preposizioni si usano in
generale i suffissi (postposizioni), ad esempio: 'a Roma' in ungherese è
'Rómában'.
NOTA: Secondo le nuove ricerche le lingue samoiede vengono considerate
appartenenti alla comune famiglia linguistica delle lingue ugrofinniche. Ad
est degli Urali, nella Siberia settentrionale, i popoli che parlano le lingue
samoiede sono numericamente i seguenti: gli Enjezi (100), I Njenjezi
(24mila), i Nganasanai (1000), i Selkupi (1800)².
_____________________________
¹ N.d.R.: l'h nell'ungherese viene pronunciata aspirata.
² I nomi di questi popoli sono stati resi dalla Traduttrice con un neologismo, dato
che nei vocabolari e nelle enciclopedie non si è trovata alcuna voce corrispondente.
Traduzione dall’ungherese © di Melinda B. Tamás-Tarr
Prof. Gyula Paczolay PhD (1930) vive a Veszprém (Ungheria), ingegnere chimico e
filologo poliglotta, si è laureato nel 1953 nell'Università di Veszprém, nel 1962/63
con una borsa di studio ha frequentato l'Università di Milano, attualmente
professore universitario in pensione, attivo scienziato linguistico. Accanto ai
numerosissimi articoli, studi ecco alcune sue opere senza essere esaurienti:
Négynyelvű kémiai szakszótár [Dizionario chimico in quattro lingue] 1955 coautore; Egyetemi szógyűjtemény - Glossary of College Terms 1967; A tudomány
néhány elméleti kérdése [Alcune questioni teoriche delle scienze] 1970 coautore; Tudományok és rendszerek - A tudományterületek közös
törvényszerűségei [Scienze e sistemi - Le comuni leggi delle aree scientifiche]
1973; Magyar kifejezések angolul [Espressioni ungheresi in inglese] 1975; Fizikai
383
kémia agrárvegyész hallgatóinak [Chimica fisica per gli studenti agrochimici]
1978; Magyar-észt közmondások és szólások német, angol és latin megfelelőikkel
[Proverbi e detti ungheresi ed estoni con corrispondenze tedesche, inglesi e
latine] 1985; Science and Technology Policies in Finland and Hungary. A
Comparative Study 1985 - coautore; Magyar-észt-német-angol-finn-latin
közmondások és szólások cseremisz és zürjén függelékkel [Proverbi e detti
ungheresi-estoni-tedeschi-inglesi-finnici-latini con appendice ceremisse e sirieno]
1987; Magyar közmondások és szólások [Proverbi e detti ungheresi] - Hungarian
Proverbs 1989; Magyar Közmondások és szólások [Proverbi e detti ungheresi] 750 Ungarische sprichtwörter und Redewendungen 1990; 750 Magyar közmondás
és szólás - 750 Hungarian Proverbs [750 Proverbi e detti ungherresi in ungherese
ed inglese] 1991; Észtország a fordulat után [Estonia dopo la svolta] 1994 coautore; Magyar-japán közmondások és szólások [Proverbi e detti ungheresi e
giapponesi] 1994; European, Far-Eastern and Some Asian Proverbs 1994; Addenda
to the European, Far-Eastern and Some Asian Proverbs 1996; European Proverbs
in 55 Languages with Equivalents in Arabic, Persian, Sanskrit, Chinese and
Japanese [Proverbi europei in 55 lingue con equivalenza araba, persiana,
sanscrita, cinese e giapponese]1997; Duka Tivadar 1998. Ha partecipato ed
intervenuto in numerosi linguistici congressi mondiali.
Il corrispondente ungherese dell’Osservatorio Letterario, è titolare della
Medaglia del Folklore Europeo dell’UNESCO che il distinto scienziato ha ricevuto
nel 2000 fa in occasione del suo 70° compleanno dal Presidente dell’Istituto
Folkloristico Europeo, Dr. Mihály Hoppál. (Tratto dal fascicolo dell’Anno IV N. 1516 Luglio-Agosto/Settembre-Ottobre 2000 e dell’Anno XIV/XV 77/78 2010/2011
dell'«Osservatorio Letterario».)
PAPP ÁRPÁD (1937-2010)
- Kaposvár - Badacsony (H) -
Ancora una volta della poesia
Lo specchio di una giostra della mia infanzia,
con le macchie dietro
Non vi è alcuna relazione con illusionismo,
e nemmeno con i rispecchiamenti.
Lo tenevo nascosto, lo custodivo e adesso lo tengo
dinnanzi alle tue labbra, popolo mio –
Si appana o no?
Ottobre, 1976
Traduzione © di Vincenzo Mascaro
384
Certezza
Ai giovani caduti
del Politecnico di Atene
Quelle statue di Curo con i loro falli rotti
Vi ingradivano di nuovo e di nuovo,
Epoche puttane
Adattamento © di L. Sinisgalli
Sui pannolini dei miei figliuoli
Quest’ epoca i razzi lanciano verso il futuro
Me voi, pannolini, ondulate nei freschi venti
Le vostre bianchi deboli ali
Traduzione © di Vincenzo Mascaro
Oracoli
Quindì di quei viaggi altro non resta
Fuori strepita il contatore del gàs
Scarpa chiodate, sù e giù,
sul pavimento a mosaico
Non lo posso soffrire
Fa’ boccate molto profonde
In un’urna comune raccogliamo
dei nostri sogni e degli attimi le ceneri
Una piccola vitrea ara sacrificale fuma
nell’intrigato boschetto dell’amore
E un angusto canapè è carcassa ossuta della gioventù
Ai fianchi il remo spezzato della tua mano
In quali porti ardete, fra quali scogli
Piccoli fari del nostro tempo:
autofiammeggianti sacerdoti, studenti
Fa boccate molto profonde di questo fuoco
Appoggia la spalla alla marmorea colonna
di piazza San Marco
Ancora un ricordo da cui manchi
Ancora una bianca colomba e la città
va a fondo con i tesori trafugati
385
Con la porta della buca delle denunzie
del palazzo dei dogi
e soltanto le nenie del mare
soltanto le parole che qui non mi dicesti
soltanto i gondolieri, neri uccelli beccanti
sull’acqua vuota
soltanto le tetre macchie dove un tempo
ardevano i roghi
slacciati le scarpe e vieni
getto alla spalle il mio pettine di ragazzo
selva densa, su di essa tutti saranno colpiti
butto loro dietro le mie spalle
lo specchio macchiato –
lago senza fondo dentro cui tutti affogano
vieni, noi scalzi ribelli dell’amore,
sotto una bandiera di barba e capelli
attendiamo incerti lungo le strade,
neppur’ un giorno si ferma,
non si ferma invano facciamo cenni con la mano
di fuoco calpestato in fuoco calpestato
quei giornali carbonizzati entro la cenere
con le loro più nere lettere
queste pietre arrugginite sono ignote, neri sguardi
le loro braci racimoliamo ancora e ancora
quelle piccole fiamme irrequiete, invano graffiano:
è un gran blocco di carbone la notte –
incidenti tra astri lassù nel cielo agostano
frecce, sicure di sè, come al pomeriggio
trafitte: Capua, Cumae
non bevete ai pozzi, non bevete, sono avvelenati
e se l’antro è chiuso ci siederemo sulla sponda del lago,
prossimo all’ingresso dell’Inferno
prendimi la mano in questo vicolo cieco
Où est? Gdzie jest? Where is?
battagliavano le voci sulla pietra di lava
e solo nel lago dell’antro cadevano
una a una le gocce dal buio di sopra
e sugli azzurri solchi
del disco-specchio d’aqua
ferma la puntina del giradischi
386
interminabilmente la domanda
la domanda la domanda
forse a Delfi, fissavo il fico selvatico
sbattendo le ciglia
sulla dirimpettaia sponda del golfo: Pompei
su una rovina marmorea
slogans sbaditi delle lotte di partito
il sole, ragazzo-tentato: caduta d’archangelo
soldati in congedo, guardando la Sentinella
masticano semi di zucca
una statua, preme l’orecchio impaziente,
sul torace della terra
su pietra rovente una lucertola palpita,
piccolo drago verde
nella sua gola arsa cuspide rotta dell’asta di San Giorgio
e dalla caserma vicina i serali squilli di tromba,
stremate legioni, la marcia di prigioneri di guerra
la stessa strada, soltanto la strada
in principio creata –
e le navi disradicati dal mare,
con le corde strappate dell’ancona
una coperta, un pezzo di pane
bevi, e getta all’onde la bottiglia vuota
per colui cui mandi
un messaggio in questa lingua?
sedevamo senza parole, emigranti – dove? –
dal nostro antico sogno
e col lamento si scuotevano
le grandi membra del vascello Minosse
e il vento, senza patria, senza visto
gira per il mondo
foglie volanti, vuoti di conserve tira calci
nelle strade secondarie delle metropoli
la stessa canzone fischia tra i denti,
ostinatamente
chiudi gli occhi, in qualche luogo,
lontano, forse su una riva
l’astro Cane latra come nelle notti di allora,
della giovinezza
una catena strepe nel tuo dormiveglia,
387
senti il suo lamentoso abbaiare
sbarcheremo all’alba
ci ritireremo tra i monti, guariti,
là dove tutto gridava allo straniero
con un coltello in mano
Libertà o Morte lacerava l’echo
dammi ancora una sigaretta
fa boccate molto profonde di questo voce
ti piega su di me, due piccoli ceri ardono
nei miei occhi
li ho accesi nella cappella di San Nicola
circonda con la mano la loro piccola fiamma,
lì, nel Bianco Abisso, che ferisce questa terra
come ha fatto a sopravvivere ai colpi
della doppia scure
non mi giova il tuo aiuto, dissi
alla fanciulla di Knossos
lavora all’uncinetto il farsetto per Teseo –
senti, un ape, piccola prigioniera,
sul suo tallone
con una pesante pallina di polline al piede,
ininterrottamente bisbiglia qualcosa
alle orecchie delle statue –
improvvisi colpi di frusta dal mare flagellato
la nostra carne nuda si torce
mare, el Greco vi lavava dentro
il suo pennello: le rimane del colore di celo
delle cretesi ali dei suoi angeli eretici
dall’altra sponda supremi dei,
tutti grandi, figlio di Sole, indomiti,
il loro volto si coperse
con la grande bandiera
senza traccia di sovranità della sabbia
ai loro piedi zampillano sempre,
inesauste, verdi fontane, le palme
e gli olivi, con i rami nuovi
del loro tronco mutilato
con immane sapere, nelle loro rughe sapienti
e con i grilli, con le cicale,
così come friniscono da Creta ad Epidauro
388
il loro coro perenne, cupo,
accompagnava la tragedia:
sempre novità ridipinte sulle scena,
con il loro canti scintillanti
sulle pietre scorticate e su tutto ciò
che è in fiore –
quella donna „Vestiti, facciamo tardi!” grida dalla casa
e nella base sta immobile la flotta
No, Ifigeneia, no! masticavo le parole
e vidi che se ne andava
e vedevo il coltello nelle mani di un lercio fanciullo
incideva strani segni malauguranti su un pezzo di verga,
e i tesori che forse tu mai non vedevi,
cantore dei cantori,
e pure t’accecò il loro fulgore,
e gli aurei orecchini del pero dell’estate,
là, accanto al pozzo, nel nostro cortile,
e le pietre di rubino della visciola selvatica
nell, incastro delle fronde
come fossi tu qui, padre mio,
col tuo piede gonfio, dal solco
ad crocevia di Tebe andando verso la Sfinge
e il mio volto ho lasciato che cadesse
come pietra lesionata nell’onda Castalia,
Poco, duemila anni fa qui c’era l’oracolo,
si scusa la guida
e anche a Dodona soltanto le querce
frusciano invisibili nella sera,
nella mia mano col fiammifero:
Dove corri con quella fiammella
dal boschetto sacro d’Olimpia?
E vola ogni alba e vola in un arco magico,
senza tempo, il disco del sole
dalla mano dell’atleta
e i bianchi mulini di luce gesticolano
sempre nello stesso luogo dell’isola di Micono
e spinge inesistenti cavalli, ostinatamente, da millenni l’auriga
e le rondini, in ogni istante
s’incontrano entro mura invisibili
sopra Salamina, disperatamente cercano
389
aperture verso la luce –
vieni, attraverso questa piazza
dove regna il silenzio, conducimi
al patibolo, fino alla grande muraglia
sprizzava il sangue dalle vene delle gole
dopo le salve di urràh, e gli applausi,
questo silenzio, questa pietra tombale
spacca in due un gladiolo bianco come neve,
con un colpo solo, ferisce
un grido: Viandanti, nodo scorsoio picchiettato di blù,
scogliete dal suo collo:
lasciate che continui la frase!
statue, nel rovai muto i poeti, nell’eterno esilio,
nevica, nevica su di loro, ma dalla parte del cuore
la neve fonde lesta –
chiese annerite, con Cristi tra lance di ceri giganti
con cuspide di fiamma
sulle labbra screpolate con sapore d’aceto
agonizzano da secoli
e sempre capita qualche vecchia solenne che li adotta
e sempre capita qualcuno che sende
in qualche cerchio infernale
e sempre capita qualcuno che si taglia
le vene del polso
quando l’inchiostro finisce
e non ho preso con me relique del nuovo
Santo Sepolcro, miracoloso amuleto,
soltanto un fascicolo di versi con parole
dall’odore di terra, vecchie cose
attraverso la grande steppe
dove la bufera invano batte – batte
con le sue magiche bacchette i cimiteri
e il vento matto va in giro con cartoline del campo
lette da nessuno
e muto depone la cetra dalle corde d’osso
del loro torace –
e ricordatevi di nuovo, da principio, ancora una volta
corpi nudi fino alla cintola nell’acqua
embrionale del mare
cadaveri, gettati a riva, i tre continenti:
390
di naufragio in naufragio
orme di capezzoli nella rena, orme derelitte di piedi
che cancella con la sua spugna blù il mare
con un colpo solo
colonne di Sunion col nome del Lord,
dietro di esse isole esiliate –
pezzi di sangue coagulati nel tramonto
e i pini, aperte mani di mendico con le piccole
monete rumorose del sole del Sud
il mare, misura col suo nervoso mercurio
della febbre intermittente dell’universo
il mare, colpisci, vi butti dentro i ricordi,
che ti trapassano
butti, li riporta indietro tristemente ai tuoi piedi
mare, queste obliate ferite, frecce ricurve,
spade ricurve, lance
ancora di più fanno male nell’acqua tua salsa
perchè allora i viaggi, perchè?
si sfilaccia tortuosa linea della via lattea
urna comune, la vuotiamo al vento,
cade lentamente come
pioggerella di cenere sul viso, sui capelli dei passanti
chi lo sa che la cenere è la religuia
dei sogni bruciati durante la vita
le tue dita tenute fuori dalla finestra
si distaccano dalla mano
pallide sigarette a metà fumate
con la brace rovente allo zoccolo
vieni, il prodigio ti scatena nera cascata
dei tuoi capelli sulla tua spalla rocciosa
breve antro di Sibilla la tua bocca
con i crescenti stalattiti del silenzio –
con che profetiche parole nel mondo?
Prometeo, 1982, Milano, Poeti Europei
Adattamento © di Vincenzo Mascaro
391
Le sue attività di ricerca sono documentate in circa 450 pubblicazioni, fra le
quali alcune monografie e vari volumi di atti dei convegni da lui organizzati, ed
hanno riguardato:
- La teoria dei metodi quasi-newtoniani per ottimizzazione nonlineare e sviluppo dei metodi ABS per sistemi algebrici lineari, nonlineari, ottimizzazione
nonlineare con e senza vincoli lineari, sistemi diofantei; in questo ambito ha
contribuito a generalizzare un fondamentale teorema di Eulero ed a definire
un metodo generale per risolvere il decimo problema di Hilbert lineare.
- Sviluppo di software ABS nel package ABSPACK.
- Soluzione di problemi di matematica applicata nel campo della ottimizzazione del consumo carburante ed emissioni inquinanti delle auto.
- Analisi delle catastrofi descritte nei testi antichi.
- Problemi di identificazione di luoghi citati nei testi antichi, ad esempio: Eden, Ofir, itinerario di Gilgamesh ed Atlantide.
- Questioni musicologiche relative ad Andrea Luchesi, Arturo Toscanini, Magda Olivero.
Emilio Spedicato si occupa inoltre della modellizzazione della esplosione
di Fetonte, nel cui ambito, fra l'altro, può essere proposta una spiegazione
del biblico passaggio del Mar Rosso da parte di Mosè. (Da Wikipedia)
È corrispondente dell’Osservatorio Letterario in cui è anche presente con vari
suoi scritti, tra cui citiamo -senza la pretese di essere esaurienti –alcune: il lungo
saggio a puntate Sulla geografia dei viaggi di Gilgamesh, saggi su Arturo Toscanini
e Magda Olivero (in italiano ed in ungherese), interviste alle stelle della lirica italiana ed altri saggi.
SZIRMAY ENDRE (1920)
- Kaposvár (H) -
La poesia
(A KÖLTÉSZET)
La poesia è l’unica magia
Che fa percepire e ragionare,
Ti insegna a ritrovare te stesso
E con gli altri spartire qualcosa.
La poesia è l’unica delle certezze
Che si rende identica al tuo vivere,
Rivolta l’ingannevole parere
E ti libera dai ceppi delle vaghezze.
541
La poesia è l’unico strumento
Che è priva dell’odio cruento;
Ti insegna le magie quotidiane:
La libertà, la rivolta e la pace.
Traduzione © di Melinda B. Tamás-Tarr
TÁBORY MAXIM (1924)
- Kinston, NC (U.S.A.) -
L’alba di dicembre1
Ad Anna Jókai 2
Dicembre è sereno nel primo albore
E pieno d’inverno è il nostro cuore.
Il silenzio ci benedice e santifica,
L’anima s’irradia dai nostri occhi.
Il cielo dispensa un immane freddo,
Azzurro Chiarore in alto si distende.
Lingue e patrie divengono tutt’uno
E il nostro spirito, elevato, volteggia.
Con anelito sospiriamo e scrutiamo
Ovunque il cielo, davanti al Venturo;
Oppure, dietro lo strazio interiore,
Con esso saremo nell’Adempimento.
Come l’io cessati infine noi siamo
Poiché un milione di Entità in Noi vive.
Tutto questo aleggia dal nostro cuore
Di notte, al risveglio, in granelli di polvere.
In mille luoghi, anche se dalla nebbia avvolti,
La nostra vita, talvolta, s’aggroviglia,
Avvertiamo l’Infinito e, in quel momento,
Diveniamo quasi più grandi di noi.
542
Non ci conosciamo ma, alba o sera,
Una comune missione ci conduce.
Insieme, solo per loro preghiamo, a bassa voce...
Vola un’orazione verso il lontano cuore.
________________________
1
«Lingue e patrie divengono tutt’uno...», ovvero i poeti e gli artisti si sono uniti ed
il mondo è la loro patria; «un milione di Entità in Noi», perché attraverso noi
milioni di uomini riconoscono la propria interiorità.
2
N.d.T. Anna Jókai (Budapest, 24 novembre 1932. – ) nota scrittrice e poetessa
insignita dai più prestigiosi Premi di Stato (ad es. «Lajos Kossuth», «La medaglia
della Repubblica d’Ungheria», etc.) membro fondatore dell’Accademia Letteraria
Digitale (vs. più dettagliatamente pp. 358-377 della presente antologia).
Maxim Tábory (1924), bibliotecario (B. Sc.), Media specialista (M. L. S.), poeta e
traduttore letterario, nonché naturopata (ND [Naturopathic Doctor]). Sua moglie
Jean Tábory, docente della lingua e letteratura inglese (M. A.), psicologa (M. Ed.),
poetessa e traduttrice letteraria, è scomparsa all’inizio di gennaio 2011.
Alcune liriche e traduzioni di Maxim Tábory sono state pubblicate su quotidiani e
riviste ungheresi ed americane. Negli anni ’90, alla biblioteca dell’Università degli
Studi di Debrecen (Ungheria), si tenne un simposio sull’attività traduttriva del
professor Watson Kirkconnell e sua moglie. Jean Tábory lesse alcuni brani
dall’antologia di ottocento pagine, intitolata L’Helicon Ungherese *The Hungarian
Helicon – A Magyar Helikon] di Kirkconnell, contenente una ricca selezione di
poesie ungheresi di cinquecento anni. Maxim Tábory ed altri tre traduttori hanno
collaborato con Kirkconnell alla gran parte delle traduzioni di questo volume. Gli
editori sono: La Compagnia Széchenyi, Calgary e l’Università Acadia in Nova Scotia,
Canada (1985).
Su invito dell’Istituto di Linguistica Critica dell’Università dello Stato di Arizona
[Arizona State University Critical Languages Institute] M. T. e J. T. hanno declamato
delle loro poesie in inglese con le relative traduzioni (2003).
Maxim Tábory tenne un simposio di Kirkconnell e del L’Helicon Ungherese alla
facoltà di Lingua e Letteratura Inglese nell’Università degli Studi di Szeged
(Ungheria), conducendo un laboratorio per gli studenti dell’indirizzo di traduzione
avanzata. Nella Biblioteca Comunale Károly Somogyi e nella Biblioteca Regionale
Maxim e Jean Tábory condussero anche un simposio poetico sulle poesie inglesi di
Maxim Tábory, per l’occasione musicate e riprodotte con registrazione.
Laurea Honoris Causa dall’Accademia Mondiale delle Arti e della Cultura *The
World Academy of Arts and Culture] «per i risultati ottenuti nelle attività poetiche
e nella traduzione letteraria» (1990), ha ricevuto il Premio del Concorso
dell’Associazione degli Scrittori Ungheresi in Canada. La sua poesia intitolata
Nebbia sul lago ha ottenuto il Premio della Comunità degli Amici Ungheresi (QuaLà [Itt-Ott]).
543
Frost and Fire: raccolta di poesie inglesi e traduzioni (1986), Edizione American
Hungarian Review.
Brina e Fuoco *Dér és Tűz+: raccolta di poesie ungheresi (1988), Edizione American
Hungarian Review.
Jean Tábory, con la poesia L’inverno *Winter+, ha vinto il Premio della Tavola
Rotonda degli Scrittori della Nord-Carolina [North Carolina Roundtable Writers]. Il
volume Nord-Carolina 400 anni: Segni lungo il cammino [North Carolina 400
Years: Signs Along the Way] contiene le poesie di Jean Tábory e di altri poeti della
Nord-Carolina. Edizione Acorn Press – The N. C. Poetry Society, 1986.
Oceano alle finestre, dai narratori e poeti ungheresi [Ocean at the Windows,
Hungarian Prose ed Poetry since] Editore Albert Tezla, 1945.
Press dell’Università di Minnesota [The University of Minnesota Press] (1980). In
quest’antologia Maxim Tábory assieme a Enikő Basa Molnár e a tanti altri
traduttori ha partecipato anche alla traduzione di numerose poesie di Ágnes
Nemes Nagy.
Fonte: Maxim Tábory, «Ombra e Luce», Edizione O.L.F.A., 2010, 2011
Traduzioni © di Melinda B. Tamás-Tarr
TOLNAI BÍRÓ ÁBEL (1928)
- Veszprém (H) Si fa sera e sto seduto sulla scala,
Chino la testa sull’asta della scopa.
Mia madre ha appena spazzato
Ed ora un po’ di quiete si concede,
Sia a sé che alla scopa…
- La luna, birichina si nasconde –
Ed io… io sto seduto sulla scala…
Pioverà, lo sento. È il vento a sussurarlo!
Abele tra gli esseri da Caino
Abele tra gli esseri come Caino
Oh, tante volte sono stato,
Cento volte m’ hanno ammazzato,
poi, cento volte, son anche spirato.
Dalla forza di Cristo
544
Son sempre risvegliato,
Tuttavia ai sicari
Non ho mai dato neanche uno schiaffo.
Come potrei, altrimenti,
Esser degno di Te
Se nel profondo dell’ animo
La vendetta albergasse…
… Dammi la forza per provar amore
verso chi m’ha straziato, oh mio Signore…
Forse così potremo rendere migliore
Questo nostro, terrificante mondo.
Traduzioni © di Melinda B. Tamás-Tarr
Ábel Tolnai Bíró alias Prof. Dr. György Tarr PhD, CSc, magistrato in pensione
(1992) è nato nel 1928, vive a Veszprém (Ungheria) -, padre illustre della direttrice della ns. Rivista, è sato dal 1996 a circa due anni fa Professore di Diritto all'Università Cattolica «Péter Pázmány» di Budapest ed all'Accademia Teologica Arcivescovile - istituto parauniversitario - di Veszprém. Padre della professoressa Dr. B.
Tamás-Tarr Melinda.
Attualmente è professore di Diritto all’Università Calvinista «Gáspár Károli» di
Budapest. Fino alla nomina a Professore universitario presso l’Università «Pázmány» di Budapest ha ricoperto i seguenti ruoli professionali: 1952-53 giudice
praticante al Tribunale Provinciale di Kaposvár, 1953-54 giudice al Tribunale Provinciale di Marcali, 1954-57 giudice al Tribunale Provinciale di Bonyhád, 1957-59
presidente del Tribunale Provinciale di Barcs, giudice ai Tribunali Provinciali di
Kaposvár (1959-61), di Putnok (1961), di Ózd (1962-63); 1963-71 vicepresidente
del Tribunale Provinciale di Veszprém, 1971-92 giudice al Tribunale Regionale di
Veszprém, 1980-92 presidente del Consiglio Giuridico, 1992 direttore dell'Ufficio
del Protocollo dei Registri delle Licenze per le imprese presso al Tribunale Regionale di Veszprém, 1980-94 Segretario della Commissione di Lavoro del Diritto
Privato della Sezione di Veszprém dell'Accademia delle Scienze d'Ungheria, 199498 membro della Commissione del Controllo delle Persone con incarichi importanti presso al Parlamento ungherese, dal 1990 presidente della Commissione di
Lavoro del Diritto della Difesa della Natura, sottosegretario della Commissione
Tecnica dell'Economia - Diritto - Scienze Sociali, presidente dell'Alleanza degli
Intellettuali Cattolici di Veszprém. Le aree delle sue ricerche scientifiche sono: i
diritti dell'uomo, i diritti della persona, i diritti alla vita, il diritto della natura. È
stato insignito della grande onorificenza della Chiesa Cattolica: Cavaliere della
Sacra Corona (1999) e Prode (2002), la Croce degli Ufficiali dell’Ordine al Merito
della Repubblica Ungherese (20 agosto 2011)
Pubblicazioni principali: Környezetkárosításból eredő igény érvényesítésének bírói
gyakorlata (társszerző, 1991)
545
Gyermekjog (1999)
Személyiségvédelem – Környezetvédelem (egyetemi jegyzet, 1998)
A szerv- és szövetátültetés dologi jogi kérdései (egyetemi jegyzet, 1999)
Az ajánlati kötöttség idejének meghatározása és a joggal való visszaélés
(egyetemi jegyzet, 1999)
Élet, egészség; orvos és beteg, jog és erkölcs, az emberi méltóság, fogalom
szférájában. Az orvoslási jog vázlata (2003)
Élet, Válogatott versek, Edizione O.L.F.A. Ferrara 2001, pp. 40
Élet, Edizione O.L.F.A. Ferrara 2011 (I. Ed., edizione ampliata) pp. 100
Vita Hungarica/Élet, Edizione O.L.F.A. Ferrara 2011 2011 (II. Ed., edizione
ampliata) pp. 94
I suoi hobby: intaglio, disegno, pittura, scrivere poesie.
TUSNÁDY LÁSZLÓ (1940)
- Sátoraljaújhely - Miskolc (H) -
I campanelli del silenzio
I campanelli del silenzio
suonano a voce di neve;
non li sente soltanto il cuore,
è tanto lieve.
Un giglio olezza nell’oasi
della vita, sotto il sole sfolgorante.
Le arpe di vento stormiscono
fra le foglie di piante.
La coccinella della speranza
pensa che il cielo sia diamante,
ma sotto le spade delle erbe
piange il suo amante.
I campanelli del silenzio
suonano a voce di neve;
non li sente soltanto il cuore,
è tanto lieve.
546
I cavalli passati
La corsa di passati cavalli romba
sulla passarella notturna;
essi vanno allegramente
sotto le torri di nebbia.
Hanno la bava alla bocca,
e vola un vapore tenue.
La luna piena accompagna
una mandria di cavalli di nuvole.
Molte ombre guizzano
sull’arco metallico della via lattea.
I raggi dell’universo scintillano sopra,
ma la notte diventa cenere,
e sta il tempo eterno.
Alla Bottega. Milano. Anno XXXII –n. 5, settembre-ottobre 1994. 32 p.
La pianura
Il vento arriccia i baffi d’erba dei pozzi
antichi.
Le corone dei ricordi si agghiacciano
sopra i rami sfogliati.
Pianura.
La missione di campana del tempo
avvampa nella luce.
Alcuni andavano qui:
i loro ricordi sono nel colore variopinto
e nello stormire del vento.
Testi in italiano dello stesso Autore
Dr. Prof. László Tusnády è nato nel 1940, vive a Sátoraljaújhely. Titolare del titolo
accademico di „kanditátus” (CSc) e dottore delle scienze letterarie. S’occupa
particolarmente della letteratura ungherese ed italiana. S’interessa oltre le lingue
occidentali della lingua turca, persica ed araba. Pubblica anche in lingua italiana.
Ha scritto una monografia sul Tasso (Eötvös Kiadó, Budapest, 2005). Le sue
traduzioni: Torquato Tasso: A megszabadított Jeruzsálem [Gerusalemme liberata]
547
(epopea), Aminta (dramma). Ha anche tradotto 150 poesie d’amore di Tasso. Il
volume A tűnt idő hírnökei [I messaggeri del tempo sfuggito] (Poesie e
traduzioni) contiene anche 65 poesie tradotte dal turco. Ha scritto un’epopea col
titolo Janus Pannonius tavasza [La primavera di Giano Pannonio] (Eötvös Kiadó,
Budapest 2006). È membro d’onore dell’Accademia Internazionale delle Scienze e
dell’Accademia d’Arte «Leonardo Da Vinci» e dell’Accademia Internazionale delle
Scienze «Pontzen» di Napoli. È cittadino d’onore di Collegno, città gemella di
Sárospatak. È membro dell’Accadeimia delle Scienze d’Ungheria e del Comitato
del Dottorato della Facoltà delle Lettere dell’Università di Miskolc. Nel 1999 ha
ricevuto la Borsa di Studio Professorale «Széchenyi».
548
IV. RACCOLTA DELLE OPERE IN LINGUA
UNGHERESE
In questo quarto capitolo invece – a causa della vastissima estensione –
con numero limitatissimo sono inserite le originali opere magiare e le
traduzioni letterarie, scelte a discrezione della Curatrice di questo volume.
Tutti i poeti e scrittori – come nei capitoli precedenti – si figurano in ordine alfabetico.
A nagy terjedelem miatt ebben a fejezetben csak korlátozott számban
olvashatók eredeti magyar nyelvű alkotások és műfordítások. Mint az
előző fejezetekben, itt is ÁBC-s sorredben találhatók a klasszikus és kortárs
alkotók alkotásai.
ASZALÓS IMRE (1989)
- Debrecen (H) -
Holdjáték
Arcodat láttam vagy csak a Hold
csókolt csillagot csöndem egén?
Hangod csengett? Oly szép zene volt,
lágy tündér-dalban ontva felém
lázban oldott mézízű mannát,
rejtett fények hívó melegét,
pillantást, mely izzva suhant át
fényév-távot, mely úgy töri szét
lomha láncát e szürke világnak,
mint kristály-könnycsepp kőszívet old...
"Árnyad láttam!" - zengtek szárnyak.
"Arcodat láttam!" Vagy csak a Hold
játszik a szívvel, fénytelen éjjel
lelkem alá lopózva nevet.
Csendbe hanyatlom... Mellém térdel,
s fülembe súgja égi neved.
549
Sermones
„Adjunk az életnek új nevet!”
„S mi legyen az?”- kérdeztem tőle.
„Tekintsd csak a kék eget,
S a földet, hogy’ nő ki belőle,
Az éji lepkét, hogyan éled,
S órákban méri életét,
S a fény vajh mennyi évet élt,
Míg balgán sötétségbe tévedt?”
„Nem tudom, Mester”- súgtam a fáknak.
„Nevezzük hát Múlandóságnak?”
„Adjunk a halálnak új nevet!”
„S mi legyen az?”- kérdeztem tőle.
„Tekintsd a hanyatló lelkeket,
S láttad-e azt a szőke
Kislányt a gomolygó világban,
Ki nem érti a tompa gondokat
- a szalagokat őszülő hajában -,
melyeket az eszmélet bontogat?”
„Nem tudom, Mester”- súgtam a szélnek.
„Nevezzük hát Felismerésnek?”
Elárvult kérdések fonnak körbe,
S az idő sikong kezem alatt,
Tükörképem keres a tükörben,
De nem látja az üvegfalat,
Jeges kezű hajnal ébreszt,
S szemembe az éjfél költözött,
De elég-e a felismeréshez
Másnak lenni az emberek között?
„Nem tudom, Mester” – zokogom egyre,
S már nem emlékszem a nevemre.
550
Az ismeretlen Magyarország
Tusnády László nyomán
Aznap mindenre oly köd szállott,
nem láttuk egymást, a házakat,
nem láttuk a világot.
A szívekbe gyűlölet költözött,
vakon jártunk s hidegen
simító kezek között.
Tiszta lábunkkal sárba léptünk mélyen,
s napfényt vártunk hamis bálványok
neon-sötétjében.
Szennyes áradat hömpölygött köröttem,
halál-úton nem halottnak,
én apostolnak jöttem.
Most mégis: tűnt Mester vérző tanítványa
egy népért kiáltok, tetszhalott népért
sziklasírba zárva.
Örökre elveszett? Hitványak ál-dárdaéle
feledést s szégyent hozhat
oly tiszta nevére?
Haza? Idegenbe? Úttalan útra léptem,
előttem: a Semmi; mögöttem megkínzott
büszke ezredévem.
Új Ulysses, szállván nem látott vizekre
hazám lelkét ébresztni indulok
a Purgatórium-hegyre.
De hiszem s tudom, hogy egyszer egy éjen,
ha remény nélkül maradok lelkem
elsüllyedt kikötőjében,
551
könny-tengeren járva Ő hozzám siet,
kenyerem, borom megáldja majd,
letörli könnyeimet,
s fáradt szívemben felgyújtja a lángot,
hogy látva lássam, hogy lássuk
az ismeretlen Magyarországot.
Várakozás
Az üres padokon, a korhadó fában
az Idő aludta álmát.
Úgy ültem, nekivetve hátam,
s néztelek az emlékek alatt,
mint örök, mint sosemvolt csodát.
Az eső sárosan szakadt,
s te csendben, mint a gyermek,
könnyek nélkül zokogtál egyre.
Gondoltam, átölellek,
testem melegével, lelkemmel ölellek,
s ráterítem zöld szemem szemedre.
De, tudod, én jobban didergek,
gerincemen jéghideg cseppekben
folyik a múltam, a kimondott szavak,
s minden, ami jóvátehetetlen.
-----------Még látlak, bár óvnak a falak,
érezlek az álmaim alatt,
a fű alatt, a föld alatt,
a vizekben, a tengerekben,
Téged hallak a végtelenben,
s a padon ülve, leplünk alatt
megfagytam, mikor betakartalak.
552
Bodosi GYörgy (1925)
(Dr. Józsa Tivadar)
- Pécsely (H) -
Farkas társam – I.
A külső udvaron fal alapozása közben érdekes
dolgok kerültek felszínre. Kövek, csontok,
agancsdarabok, kagylóhéjak. Néhány darabon
rovátkákat fedeztem fel. Emberkéz jelei, talán egy
kezdetleges írásról árulkodnak. Egy délutáni
félálomban laptákoknak neveztem el az itt élhetett
elődöket. A csontok rénszarvas maradványok voltak,
az agancsok a kihalt jávorszarvasoké. Ebből arra következtettem, hogy a
jégkorszak idejéből, tán annak a legvégéről valók.
Elkezdtem játszani a gondolattal, hogy értelmezzem a jeleket. Nem
kételkedhetek abban, hogy az akkor élőknek is voltak gondolataik,
érzelmeik, indulataik, reményeik, félelmeik. Ezekről szólhatnak a
rovásjelek. Képtelenség lenne nyelvüket, hangzóikat és mássalhangzóikat
megismerni, de arra marad némi esélyem, hogy képzeletem révén valamit
megértsek az életükről. Ezzel a szándékkal fordítottam le a rovásjeleket.
Vigyáztam arra, nehogy ködös útvesztőkbe kerüljek, s a mai korszerűnek
nevezett líra homályos, nehezen érthető kifejezései helyett, az
egyszerűségre és az érthetőségre törekedtem. A lefordított rovásdarabkák
mindegyikénél feljegyeztem, hogy milyen anyagon leltem rájuk.
Fordításaim végül egy, az akkori kor valóságában megtörténhetett
eseményről is beszámolnak, a farkas emberhez szelídítésének nagyon
jelentős eseményéről, hiszen ez által vált a táplálék akkori
megszerzésének egyetlen lehetősége a vadászat könnyebbé.
Kőre vésett jel
Farkas társam csak fekszik, alig mozog.
A medvebőr, amin rég elkopott
Valamit fal, ha orrához dugok.
Csupán halat mivel a szarvasok
Most nem jönnek erre. Siratom, ahogy
Elnyúlni látom. Bárki toporog
A jégkunyhó előtt, senkire nem morog.
553
Szerencsétlen azt is beengedi majd
Kit vendég-látni senki nem óhajt.
Rénszarvas csontos
Én nem láttam, ám mások igen, ahogy
A kunyhók mögé kitett tetemeket
A nem mozdulókat valakik elviszik
Valahová, éjjel, vagy ha leülepedik
Reánk a köd. Varázslók szerint
Szellemek viszik föl a Holdba egyenest
Ahol megint kezdhetnek életet.
Kagyló hátán vésett
Valamikor jártunk abban a távoli
Völgyben. Ott, ahol olvadó jégcsapok
Szájából az édes víz lecsorog
Egylábú százkezű szelleme őrzi.
De túl járva eszén ittunk azért
Akkor annyit, amennyi torkunkon
Át befért bendőnkbe.
Másoknak is mondtuk, eredjetek.
Még farkasunk is vígan lefetyelgetett.
B. TAMÁS-TARR MELINDA (1953)
(Dr. Bonaniné Dr. Tamás-Tarr Melinda)
- Ferrara (I) -
Válogatott műfordítások
Dante Alighieri (1265-1321)
AZ ÚJ ÉLET (XXVI)
Oly kedvesnek látszik s oly őszintének
az én nőm, amint mást köszönt illendőn,
a nyelvnek némulnia kell remegőn
554
és a szemek ránézni bizony félnek.
Ő, kit mindenütt annyian dicsérnek,
jár szerénység jóságos köntösében,
mintha mennyből azért jött volna éppen,
hogy csodát lássanak a földi lények.
Őt meglátni tetsző annak, ki nézi,
hogy szemnek szép látvány édes a szívnek,
hogy meg nem érti az, aki nem érzi:
és úgy tűnik, hogy ajkáról ellebben
egy szelíd, szerelemmel teli szellem.
- Epekedj! - szól a lélekhez s elrebben.
Assisi Szent Ferenc (1182 - 1226)
NAPHIMNUSZ
VAGY A TEREMTMÉNYEK DICSŐÍTÉSE
Fölséges, mindenható, jóságos Úr,
Tiéd a dicséret, a dicsőség s a tisztesség, és minden áldás.
Fölséges, csakis Téged illet,
és semmilyen ember sem méltó, hogy neveden nevezzen.
Légy dicsőített, Uram, minden alkotásoddal,
Különösen urunk-bátyánk, a Nap,
Mely a nappal fénye s Te őáltala minket megvilágosítasz.
És szép és nagy ragyogással sugárzó ő:
Óh, Fölséges, a Te megjelenítőd.
Légy dicsőített, Uram, a Hold nővérért és a csillagokért:
az égen formált fényes, drága és szép alkotásaidért.
Légy dicsőített, Uram, szél fivérünkért,
a borús és derült égboltért, s minden időért,
általuk tartod fenn teremtményeidet.
Légy dicsőített, Uram, víz húgunkért,
oly hasznos ő, alázatos, drága és tiszta.
555
Légy dicsőített, Uram, tűz bátyánkért,
vele világolsz az éjjel:
és szép ő, örömhozó, bátor és erős.
Légy dicsőített, Uram, földanya nővérünkért,
ki felnevel minket, táplál, vezet,
tarka virágos gyümölcsöket és növényzetet termeszt.
Légy dicsőített, Uram, a szeretetedben megbocsátókért,
s azokért, kik tűrik a gyötrelmet s a nyavalyát.
Boldogok, kik békében tűrnek,
Fölséges, mert általad, nyernek koronát.
Légy dicsőített, Uram a testi halálért, nővérünkért,
aki elől egyetlen ember el nem menekülhet:
jaj azoknak, kik halálos bűnben halnak meg!
Boldogok, kik halálukkor Isten kegyelmére találnak,
mert nekik a második halál nem okoz fájdalmat.
Dicsérjétek és áldjátok az én Uramat,
s hálát adva szolgáljatok neki nagy alázattal.
Benvenuto Cellini (1500-1541)
SZONETT
Megírom ezen vajúdó életem,
A Természet Istenének hálából,
Ki lelkem adta, s felette őrt állón
Életre hívta egyéb nemes művem.
A kínjaim egyike Ádáz Sorsom,
Az Élet több mint dicsőség és erény,
A forma kegyes értéke a szépség,
Sokat haladtam, s ki lehagy, behozom.
Nagyon kínoz engem, mert bizony sejtem,
Hogy az emberekbe ölt drága Idő
És törékeny ábrándunk a Szélbe vesz.
556
Aztán a bűnbánat boldoggá nem tesz,
Nem emel oda, honnan én süllyedő
E dicső Toszkán Virágföldre estem.
Michelangelo di Lodovico Buonarroti Simoni (1475 – 1564)
AZ ÉLET ALKONYÁN
(114. Szonett)
Életutam immár a végéhez ért,
Törékeny bárkán, viharos tengeren
Elérte a partot a közös révben,
Hol számadás várta jó s rossz tettekért.
Mivelhogy a hajthatatlan képzelet
A művészetet bálvánnyá emelte,
Jól tudom ezért, milyen bűn terhelte
S mi tévedés a lenn sóvárgó embert.
Elmélkedéseim boldog végzetem,
Mi lesz most, hogy két halálhoz közelgem?
Az egyik biztos, a másik fenyeget.
Nem nyugtat meg se vésőm, se ecsetem,
Az égi szerelemhez fordul lelkem,
Mely karját tárta felénk a kereszten.
Guido Gozzano (1883-1916)
AZ UTOLSÓ HŰTLENSÉG
Édes bú, téged magához ragadott,
hisz' a sápadt gyermek, nem is oly régen,
délután uzsonnát falatozgatott
az utált görög lecke fölé görnyedten...
Majd ismét magához ragadott téged
érzelgős kamaszságán; vak vágy hajtója
midőn utolérte a női léptek,
egy asszonyi melódia echója.
557
Ma mégiscsak a búbánat elillan
örökre ebből a romlott lélekből,
hol egy epés kacaj konokon feltör,
egy kacaj, ami torzítja szüntelen
ajkamat… Ó, jaj! Valóban nem tudom,
mi a lesújtóbb, ha már nem szomorkodom!!
Mjgy.: Egy változat a sok közül.
José Maria De Heredia (1842-1905)
A KENTAUROK FUTÁSA
Vérgőzmámorban, lázadón rohannak
A rejteket nyújtó meredek hegyre,
Félelem-űzötten a sötét éjben
Érzik a halált s a bűzét a kannak.
Hidrát és gyíkot taposnak-tipornak,
Szakadék, víz, bozót, gátat nem szabnak,
Máris az égbe mered a távolba’
Az Ossa, Olympus, Pelion orma.
Olykor a menekülő, vad csordából
Egy meg-megtorpan, hátrafordul, kémlel.
Majd beéri azt csak egy szökkenéssel;
Mivel a telihold teljes fényében
Látta utánuk omolni széltében
Iszonyatos árnyékát Herkulesnek.
José Maria Heredia (1803-1839)
HALHATATLANSÁG
Mikor a vakító és derült égen
Az árnyas éjek csillagai égnek,
Boldog mélabútól és rettegéstől
Zaklatott érzés szakad fel a szívből.
558
Jaj, ha belülről fellázad a lélek
A fagyos sírban a rest álom ellen!...
Büszkeségből és tehetetlenségből
Haszontalan a vezeklés rettegőn.
Mit mondjak? – A sors elkerülhetetlen,
És a haláltól egy csillag sem mentes,
S majd látja a fényt sötét életében.
Az időn s a halálon túli térben
A lelkemre a sorsadta végzet vár,
S egyesül a jövendő örökléttel.
Ismeretlen szerző
JESU BENIGNE!
(Altes Lied)
Jézus, köszönet Neked,
Kitől a szerelem ered!
Vágyom lángolni
És Téged szeretni:
Jézus Krisztus, te
Nem lángoltál? Miért?
Nem szerettél? Miért?
- Óh, búskomor hidegség!
Giacomo Leopardi (1798-1837)
A REMETE RIGÓ
Az ősi toronynak csúcsáról,
Remete rigó, a mezőkön át,
Míg él a nap, dalolva szállj,
S e völgyre árassz harmóniát.
Körös-körül a kikelet
Csillámlik a légben, s az ujjongó szántók
Gyönyörén megenyhül szívem.
Hallod a nyájbégetést, a csordabőgést;
Míg a többi víg madár egymással versenyre kél
559
S a szabad égen kereng százfelé,
Legjobb perceiket is ünnepelve
Te mindezt meghúzódva csodálod elmerengve;
Nincsenek társak, nincs szárnyalás
Derűtlenül haladsz, mindent elkerülve
Dalolsz és tovaillan
Éveid s élted legszebb virága.
Ó jaj, mily hasonlók
Szokásaink! A zsenge évszak édes háznépe
Mulatsága s nevetése,
S te szerelem, az ifjúság fivére,
Elnyűtt napok sanyarú sóhaja,
S nem is tudom, miért, de nem törődöm veletek,
Sőt messze elkerüllek bennetek
Csaknem remeteként,
S szülőföldemnek idegenként,
Így múlik éltem tavasza.
E nap, mely most már az estnek enged,
Utcánkban szokásból ünnepelnek.
Hallod, a vidámság harangként zendül
Hallod a vaságyúdörgést is gyakorta
Mely házról-házra messzire dübörög vissza.
Minden ünneplőbe cicomázva,
A helyi fiatalság otthonától távol
Az utcákon szerteszét barangol,
S szívében vidám egymást mustrálón.
A mezők távoli zugába
Magányosan bújtam,
Minden gyönyört s játékot
Máskorra halasztottam: közben
Szerteszét kémlelem a fényes légben,
Hogy a Nap mint hull alá
Eltűnvén a víg nappal után
A messzi bércek hátán s mintha azt mondaná,
Hogy elenyészik a boldog ifjúság.
Te, magányos madárka, ha eljő
Élted csillagokkal teli estje,
Megszokott magányod
Kínzón rád nem hat,
Hisz természet gyümölcse
560
Minden vágyad.
Ha a gyűlölt aggkor küszöbét
Én ki nem kerülhetem,
S mikor mások szívének néma a szemem,
Akkor lesz üres a világ s a holnap nekem
A mánál sötétebb s kegyetlenebb.
Milyen, s lesz-e majd vágyam?
Milyennek tűnnek ez éveim? Hogy látom magam?
Jaj, majd eljő a szánom-bánom kora,
S vigasztalan bár, visszarévedek gyakorta.
Umberto Pasqui (1978) — Forlì (I)
JÁRKÁLÓ OSZLOPOK
Már jó ideje volt, hogy néhány száz méterre
egy terjedelmes galagonybokortól daruk és
földdel teletömött furcsa teherautók
dübörögtek. A növények között egy rég
elfeledett, ősidőkbeli kis templomocska
rejtőzködött; ott, ahol emberemlékezet óta
állott mindig is a három túlélő, apránként
századok marcangolta tornyával. Mindenki
által elfeledve a napsugarak és a holdvilág
alatt várta az idő végét. De egy váratlan eseménytől újraéledt. Az állandó,
pusztító gépdübögérgésekre a templomocska összerezzent és a három
felzaklatott oszlopa megvonaglott s oszlopfőjükről kőtörmelékek hullottak
alá. A temlom előtt utat építettek, talán azért, hogy láthatóbbá,
elérhetőbbé tegyék. De ez az ősi imahely, kerülvén a reklámot, jobbnak
látta a megadás nélküli reagálást. Történt ugyanis, hogy mindhárom
oszlopa elrugaszkodott a talajtól és útnak eredt az idő vége várására
alkalmas, új helyet keresni. Öt év eltelte után sem tudja még senki, hogy
hová tűnt a kicsike templom. Az arra haladó nem talál mást, mint csak egy
sűrű galagonyabokrot.
AZT MONDJÁK
Már vagy négy éve, hogy ugyanazt az utat teszi meg. Ahogy látható,
mintha nem tudna semmi mást csinálni, mint szokásához híven föllehaladni, mintha fel kellene szántania egy termőföldet. Olykor-olykor
561
eltávolítja a száraz ágakat a járdaszélről és azokat emlékbe hazaviszi.
Különös aprólékossággal keresi és gyökerestől tépi ki a gazokat, majd a
zsebében őrzi. Azt mondják, hogy otthon albumot tart, amelyben az
összegyűjtött, bár értéktelen növényeket őrzi. Aztán azt is mondják, hogy
minden hónap tizenkettedikén szokásához híven kinyitja az albumot és
elmeséli a szárított növényeinek a világ történéseit. Azt is mondják, hogy
gyerekkorában bántották és ezért vannak zavarai. Azt is híresztelik, hogy
Antoniónak hívják, meg azt is, hogy nincs is neve és hogy három szemű fia
van. Mondják, hogy a természet tréfája, hogy bárgyú vagy pedig egy
színész, aki megjátssza magát. Azt is mondják, hogy nem ismer senkit és
magányában csavarog a centrum utcáin. Azt is mondják, hogy a fákon
alszik. Nagyon sok mindent mondanak róla, mert senki soha nem beszélt
vele.
ÓH, SZERENCSE
Hárman voltak s mindegyikük mesélt valamit. Az út utolsó kilométereit
együtt tették meg, az ösvényen véletlenül találkoztak. Nem ismerték
egymást. Menet közben szép és vigasztaló dolgokról beszélgettek. Pont a
megérkezés pillanatában tört meg az idilli atmoszféra. Mikor magukhoz
tértek, úgy gondolták, hogy megosztják egymással a legrosszabb
eseményt, ami külön-külön megtörtént velük. Az egyik egy nagyon közeli
szomszédját gyászolta s ez a szerencsétlen esemény már tíz éve nem
hagyta nyugodni, a másiknak szerelmi csalódásban volt része. Míg a
harmadik így szólt: „Az volt a legrosszabb dolog, ami megesett velem,
amikor egy reggel, ébredés után lementem kávézni az otthonom alatti
eszpresszóba.” Útitársai meghökkentek. Az egyik elnevette magát,
gondolván, hogy tréfál. A másik bosszankodott, mert ezt a fajta humort
egyáltalán nem kedvelte. Az egyikük megkérdezte, míg a másik kibámult
az ablakon a hüvelykujját harapdálva: „A kávé különösen keserű volt?” „Az
igazság az, hogy jó volt a kávé” – volt a válasz.
Francesco Petrarca (1304-1374)
159. SZONETT
Szerelmem! Dicsfényünket ámuljuk itt,
Földöntúli és fennkölt, új csodákat,
Látod, belőle mennyi báj sugárzik,
S látsz égből földre küldött fénycsóvákat.
562
Látod, mily művészi gonddal borítja
Arannyal a sehol sem látott kelmét;
Lábát és szemét oly bájjal jártatja
Ezen szép domboknak árnyas sövényén.
A zöld fű s a tarka virágok vágyják
A vén és sötét tölgy alatt szerteszét
Kecses lába nyomát, vagy érintését.
Körötte a kóbor s fényes szikrától
Az égbolt lángba borul és felderül,
A szép szemeket látván örömet ül.
Enrico Pietrangeli (1961) – Roma (I)
NEM A SZERELEM...
Nem a szerelem az, mit nem lelek,
egy kihunyt, kiirtott érzést észlelek,
egy rettegő, lelohadt epedést.
Nem a szerelem az, mit nem lelek,
érzelmektől való félelmet észlelek
láthatatlan, megszokott rémtetteket.
Nem a szerelem az, mit nem lelek,
egy hányadék emberiséget észlelek,
melytől szurkot okádva öklendezem.
Nem a szerelem az, mit nem lelek,
kiszáradt kupaaljat észlelek,
mibe bor már többé nem csörgedez.
Enrico Pietrangeli (1961) – Roma (I)
AZ ŐRÜLT
A szeplőtelen ártatlanság
mély és tiszta folyója
nemesen s kéken nektek ered
értelem nélküli pupilla
mereven bámul és ás
a lélek ódon labirintusában,
563
míg mi csupasz férgek
elfordulunk, mintha nem létezne.
Enrico Pietrangeli (1961) – Roma (I)
AZ IDŐ
Az időtartam, mely időben
rohan mindig őrjítőbben
képünkbe vágva múlt időket,
ódon ajtókat keneget
a csikorgó eseményeket
törmelékké zúzva visszatér időnként
s rátelepszik az emlékezetre.
Az idő így tűnik nekem,
rövid szünetekben,
mocskos járművem belsejéből.
Az első kérgesedés pora,
mely az idő zamatát megóvja.
Enrico Pietrangeli (1961) – Roma (I)
A TUNIZIAI AFRIKAI NŐKNEK
Imádom a tuniziai afrikai nőket,
mind magtalanítanám őket
s tömjént hintenék minden
éretlen olívabogyóra,
mint a metszett virágok közt
a díszített oltárokra.
Enrico Pietrangeli (1961) – Roma (I)
BOLYGÓK ÉS CSILLAGOK MIKROKOZMOSZA
A féligzárt ablakon
csillognak, ringanak, pörögnek,
az apró porszemek,
égi harmónia,
egy dicső teremtmény,
564
bolygók és csillagok mikrokozmosza
ellipszis pályán
suhan át a szobán.
A roló résein
átszökő napsugár
egy isteni villanásban
lopva besurran
s elborul az árnyban.
Csongor Rubino - Monte delle Fate, Lt (I)
PILLANGÓ
Vörös rózsasziromra szálló
Hablenge kicsinyke pillangó,
Piros szirom szerelem rubinja,
Szívem gyújtja s marcangolja.
Véletlentől küldött kis lepke
Az alkonyi szürke egekbe
Vidd magaddal tüzes szerelmem
A messze lévő kedvesemnek.
Biztos vezér lesz lépted nyomán
Hozzá, ki reggel még ragyogva vár.
Fernando Sorrentino (1942) – Buenos Aires (Argentina)
VAN EGY EMBER, AKI SZOKÁSBÓL ESERNYŐVEL ÜTÖGETI A FEJEMET
(EXISTE UN HOMBRE QUE TIENE LA COSTUMBRE DE
PEGARME CON UN PARAGUAS EN LA CABEZA)
Van egy ember, aki szokásból a fejemet ütögeti az
esernyővel. Pont ma van már öt esztendeje, hogy
elkezdett engem az esernyővel búbolni. Az első
időkben nem bírtam elviselni, de most már kezdek
hozzászokni.
Nem tudom hogyan hívják. Azt tudom, hogy egy
átlagember, szürkébe öltözik, kissé mákos hajú, sóvár arcú. Egy füllesztő
délelőtt, öt évvel ezelőtt ismertem meg. Egy fa árnyékában a Palermó
Park egyik padján újságot olvastam. Egyszercsak hirtelen éreztem, hogy
valami a fejemhez ér. Éppen az az ember volt, mint aki most is, míg írok,
aki a fejemet automatikusan és érdektelenül egy esernyővel ütögeti.
565
Akkor méltatlankodva hátrafordultam, de ő csak folytatta a
búbolásomat. Megkérdeztem tőle, hogy talán megőrült, de úgy tűnt,
mintha nem is hallott volna engem. Akkor hát megfenyegettem azzal, hogy
parkőrt hívok, de ő csak változatlanul és nyugalommal folytatta műveletét.
Néhány perc bizonytalankodás után s látván, hogy nem tágított
szándékától, felálltam s egy ökölcsapást mértem az arcára. A férfi egy
panaszos nyögés kíséretében a földre rogyott. Ezután, látszólagos nagy
fáradsággal lábra állt és csendesen újra kezdte a fejem ütögetését az
esernyővel. Vérzett az orra - ebben a pillanatban szánalmat éreztem iránta
- és már meg is bántam, hogy úgy megütöttem. Ugyanis az igazat
megvallva a férfi úgymond nem vert engem az esernyővel, inkább enyhén,
fájdalmatlanul kopogtatta a fejem. Természetes, hogy azok a búbolások
rendkívül kellemetlenek. Mindannyian tudjuk, hogy amikor egy légy a
homlokunkra száll, az nem okoz nekünk fájdalmat, de irritál. Nos hát, az az
esernyő olyan, mintha egy óriás légy lenne, s rendszeres időközökben
rászállt volna hol itt, hol ott a fejemre.
Meg voltam győződve, hogy egy őrülttel állok szemben, s ezért
igyekeztem odábbállni. De a férfi csendesen követett engem anélkül, hogy
abbahagyta volna az ütlegelésemet. Erre fel elkezdtem futni (itt meg
pontosítanom kell: kevesen vannak olyan gyorsak mint én). De ő csak
követett engem s eredménytelenül igyekezett még néhányat rám sózni. Az
az ember csak fulladozott, fulladozott, fulladozott és zihált, hogy azt
gondoltam, hogyha kényszeríteném még ilyen ütemű futás folytatására,
kínzóm azon nyomban ott rogyna össze élettelenül.
Éppen ezért lassítottam, majd ismét lépésben haladtam. Néztem őt. Az
ábrázatán nem volt se hálaérzés, se szemrehányás. Csak ütlegelte a
fejemet az esernyővel. Arra gondoltam, hogy jelentkezem a
rendőrkapitányságon és elmondom, hogy: «Rendőrka-pitány úr, ez az
ember állandóan a fejemet búbolja az esernyővel». Előzmények nélküli
eset lehetett volna. A rendőrkapitány gyanúval teli pillantással nézett
volna rám, majd elkérte volna az irataimat, majd elkezdett volna faggatni
zavarba ejtő kérdésekkel, s talán mindez az én letartóztatásommal
végződött volna.
A legjobb megoldásnak a hazatérés tűnt. Felszálltam a 67-es buszra. Ő,
anélkül, hogy abbahagyta volna az ütlegelésemet, mögöttem szállt fel.
Leültem az első ülésre. Ő állva maradt mellettem: bal kezével a
fogódzkodóba kapaszkodott, a jobboldalival engesztelhetetlenül lóbálta az
esernyőt. Az utasok bátortalan mosolyra fakadtak. A buszsofőr a
visszapillantó tükörből figyelt bennünket. Lassacskán az összes utast egy
hatalmas, zajos véget nem érő nevetés kerítette hatalmába. Én a
566
szégyentől violaszínbe borultam. Üldözőm túl a nevetéseken csak folytatta
a búbolást.
Leszálltam - leszálltunk - a Csendes-óceán hídnál. A Santa Fe útján
haladtunk. Mindenki ostobán bámult utánunk. Gondoltam, hogy
mondom nekik: «Mi van annyira bámulni való, fajankók? Nem láttatok
soha esernyővel ütlegelő embert?» De aztán arra gondoltam, hogy
valószínűleg nem láttak soha hasonló színelőadást. Öt vagy hat gyerek
követni kezdett bennünket megszállottként, üvöltözve.
Ellenben, nekem volt egy tervem. Ahogy hazaértem, igyekeztem az orra
előtt becsapni az ajtót. Nem sikerült: biztos kézzel megelőzött, egy
hirtelen mozdulattal megragadta a zárat, egy pillanat alatt kibújt a fogás
alól, s belépett velem együtt.
Azóta folytatja a fejem búbolását az esernyővel. Amióta csak az eszemet
tudom, soha nem aludt, se nem evett. Csak a búbolásomra szorítkozik.
Minden gesztusomat kíséri, még a legintimebbeket is követi. Emlékszem,
hogy az elején az ernyőütések akadályoztak az alvásban, most pedig azt
hiszem, hogy azok nélkül lehetetlenség lenne elaludnom.
Mindenesetre a kapcsolatunk nem mindig volt jó. Gyakran, az összes
elképzelhető formában kértem, hogy magyarázza már meg nekem
cselekedetének módszerét. Reménytelenül: csak folytatta szótlanul az
ernyővel való ütlegelésemet. Számtalanszor megragadtam az öklét,
megrugdaltam - Isten bocsássa meg nekem - sőt még visszaütöttem az
ernyőjével. Elviselte a viszontütéseimet minden zokszó nélkül, elfogadta,
mintha
feladatának ez utólagos része lett volna. És pont a
személyiségének ez az oldala a legfurcsább: ez a munkájának sorsszerű,
nyugodt meggyőződése, ez a gyűlölet nélküli létezése! S végül az a
bizonyossága, mintha valamiféle titkos és felsőbbrendű küldetést látna el.
A fiziológiai szükségleteinek hiányossága ellenére tudom, hogy amikor
visszaütök, érzi a fájdalmat, tudom, hogy gyenge s tudom, hogy halálos.
Azt is tudom, hogy elegendő lenne csak egyetlenegy lövés, hogy
megszabaduljak tőle. Csak az ismeretlen számomra, hogy a lövedék
engem, vagy őt ölné-e meg. Azt sem tudom, ha mindketten meghalnánk,
akkor is folytatná-e az ernyővel való búbolásomat vagy mem.
Mindenesetre ez az okoskodás hasztalan: beismerem, hogy nem lenne
bátorságom sem őt, sem magam megölni.
S egyébként is, megértettem a legutóbb, hogy nem tudnék már tovább
élni a búbolásai nélkül. Mostanság, mindig gyakrabban üldöz egy rossz
előérzet. Egy új, belső, rettegő izgalom nyomja a keblemet: arra gondolok
rettegve, hogy amikor a legnagyobb szükségem lenne rá, majd akkor fog
567
ez az ember faképnél hagyni, s soha többé nem fogom érezni a kellemes
ernyős búbolásait, amelyek a legmélyebb álomba ringattak el engem.
Szerk.: A kaposvári „Búvópatak” 2011. június-július összevont száma is publikálta
ezt a novellát. E folyóiratban megjelentetett írókolléga, Szirmai Péter az
alábbiakat írta ezen alkotással kapcsolatban a havilap főszerkesztőjének: «Nálam
szenzáció-számba megy a közölt Fernando Sorrentino-novella. A Borgesfanatikus, a Borges-riportkönyv szerzője szorosan ott van a mester, de még
inkább Kafka nyomában?» Tolmácsolván neki Fer barátunk hálás köszönetét a
magyar írókolléga Fer-mesternek nevezte őt.
A LECKE
(LA LECCIÓN)
A középiskolai tanulmányaim befejezése után egy Buenos Aires-i
biztosítási társaságnál találtam tisztviselői munkát. Rendkívül kellemetlen
munka volt és egy rettenetes emberekkel teli környezetben, s mivel
éppen hogy csak tizennyolc éves voltam, a dolog nem nagyon izgatott.
A tízemeletes épület emeleteit négy lift kötötte össze. Ezek közül három,
függetlenül a hivatali hatalmi hierarchiától, a személyzet általános
használatára szolgált. A vörös szövettel tapétázott, három tükörrel
felszerelt és különösen dekorált negyedik viszont a társaság elnökének, a
vezetőség tagjainak és a vezérigazgató kizárólagos használatára volt
fenntva. Ez annyit jelentett, hogy csakis ők közlekedhettek a vörös lifttel,
de nem volt megtiltva nekik a másik három használata sem.
Soha nem láttam a társaság elnökét, sem a vezetőség tagjait. Ellenben,
néha — mindig távolból — láttam a vezérigazgatót, akivel soha nem
váltottam egyetlen szót sem. Olyan, kb. ötven év körüli „nemesi” és
„úrias” vonású ember volt; én egy régi argentin lovag és egy legfelsőbb
bírósági, nagyon becsületes bírónak a keverékét láttam benne. Ősz haja,
sima bajusza, szolid öltözéke és kellemes modora miatt bizonyos fokú
szimpátiát éreztem don Fernando iránt — annak ellenére, hogy az összes
közvetlen főnökömet ki nem állhattam —. Mert donnak hívták inkább,
mint a családnevén, a látszólagos családiasság és egy feudális úrnak kijáró
tiszteletteljes hódolás közötti megnevezéssel.
Don Fernando és kísérői hivatali szobái az épület ötödik emeletét
foglalták el. A mi részlegünk a harmadik emeleten található, de engem,
mint alacsonyabb beosztású tisztviselőt gyakran küldözgettek a hivatali
értesítésekkel egyik emeletről a másikra. A tizedik emeleten csak idős és
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morcos hivatalnokok voltak, a hölgyek mind csúnyák és duzzogók; s ott
működött egy úgynevezett archívum, ahol öt perccel a munkaletétel előtt
elmaradhatatlanul át kellett adnom az egész napi tevékenységről a
jelentést tartalmazó, bizonyos számú papírhalmazt.
Az egyik este, ezen papírlapok leadása után a tizedik emeleten a liftet
vártam, hogy végre hazamehessek. Éppen ezen szándékom érdekében
már nem voltam ingujjban, hanem az öltönyöm viseltem,
megfésülködtem, a tökörbe nézvén megigazítottam nyakkendőmet, s a
kezemben a bőr aktatáskám tartottam.
Hirtelen mellettem termett don Fernando teljes mivoltában,
nyilvánvalóan ő is a liftet várta.
A legnagyobb tiszteletadással köszöntöttem:
— Jó estét kívánok, don Fernando!
Don Fernando még ennél tovább ment. Kezet fogott velem és így szólt
hozzám:
— Nagyon örvendek, hogy megismerhetem, fiatalember. Látom,
befejezte a gyümölcsöző munkanapot s most hazatérőben van, hogy a
megérdemelt pihenést élvezhesse.
Ez a magatartása és ezek a szavak — amelyekben kis ironikus árnyalatot
éreztem ki — idegessé tettek. Éreztem, hogy bíborba borul a képem.
Pont ebben a pillanatban ért fel az egyik „népi” lift, s az ajtó
automatikusan kinyílt feltárván a kies kabint. A gombot benyomva
tartottam, hogy megakadályozzam az ajtó becsukódását, s így szóltam don
Fernandóhoz:
— Parancsoljon, uram! Csak ön után.
— Fiatalember, szó sem lehet róla! — válaszolt don Fernando mosollyal
az ajkán — Lépjen be maga elsőként!
— Nem uram, parancsoljon! Nem tehetném soha ezt, csakis ön után,
kérem!
— Csak menjen, fiatalember! — valami türelmetlenség volt a hangjában
— Legyen szíves!
Ezt a „legyen szíves”-t olyan felszólítással ejtette ki, hogy kénytelen
voltam parancsnak tekinteni. Kissé meghajtottam magam és valóban
beléptem a liftbe s a hátam mögött pedig don Fernando.
Az ajtók becsukódtak.
— Don Fernando, az ötödik emeletre megy?
— A földszintre. Szeretnék visszavonulni, ugyanúgy, mint ön. Azt hiszem,
nekem is jogom van a pihenésre, nem igaz?
Nem tudtam mit válaszolni. Ennek a mágnásnak a közelsége rendkívül
zavarba ejtett. A kilenc emeletnyi csend sztoikus elviselésére állítottam rá
569
magam, egészen a földszintig. Nem bátorkodtam don Fernandóra nézni,
így kénytelen voltam a cipőm orrát bámulni mereven.
— Melyik részlegen dolgozik, fiatalember?
— A Termelésigazgatáson, uram — s csak most tűnt fel nekem, hogy don
Fernando valamivel alacsonyabb nálam.
— Hát ott – mondta mutatóujját az állának támasztva —, az ön
igazgatója Biotti úr, ha nem tévedek.
— Igen, uram. Biotti úr.
Ki nem állhattam Biotti urat, aki szerintem egy beképzelt hülye, de nem
informáltam erről don Fernandót.
— És Biotti úr soha nem mondta önnek, hogy tiszteletben kell tartania
a vállalati hierarchia sorrendjét?
— Hooo-hogyan, uram?
— Hogy hívják?
— Roberto Kriskovich.
— Aha! Lengyel családnév.
— Uram, nem lengyel: horvát családnév.
Leérkeztünk a földszintre. Don Fernando — aki az ajtó mellett állt —
félreállt, hogy elsőnek szállhassak ki a liftből.
— Parancsoljon, kérem! — utasított engem.
— Nem uram, kérem! — válaszoltam neki idegesen — Csak ön után!
Don Fernando szigorú tekintettel nézett rám.
— Fiatalember, kérem, hogy szálljon ki!
Megijedve engedelmeskedtem.
—
Fiatalember, tanulni sohasem késő — jegyezte meg elsőként
kilépve az utcára —. Szeretném meghívni egy feketére.
S valóban, beléptünk egy sarki kávézóba — elsőként don Fernando, majd
én — és az egyik asztalnál szemben találtam magam a vezérigazgatóval.
— Mióta dolgozik a vállalatnál?
— Tavaly márciusban kezdtem, uram.
— Hát, akkor egy éve sincs, hogy nálunk dolgozik.
— A jövő héten lesz kilenc hónapja, don Fernando.
— Nagyon jó: én huszonhét esztendeje dolgozom a társaságnál — s
újból szigorúan figyelt engem.
Mivel feltételeztem, hogy vár tőlem valamit, a fejemmel bólintottam,
igyekezvén úgy mutatni, mintha egy bizonyos, visszafogott csodálatot
éreznék iránta.
Előhúzott a zsebéből egy kis zsebszámológépet.
—
Huszonhét
szorozva
tizenkét
hónappal
az
egyenlő
háromszázhuszonnégy hónappal. Háromszázhuszon-négy osztva kilenc
570
hónappal, az annyi, mint harminchat. Ez azt jelenti, hogy a vállalatnál
harminchat hónappal idősebb vagyok magánál. Maga egy egyszerű,
tisztviselő alkalmazott, én meg vezérigazgató vagyok. Végül is maga
tizenkilenc- vagy húszéves, én meg ötvenkettő. Nem igaz?
— De, igen. Nyilvánvaló.
— Másodszor: jár egyetemre?
— Igen, don Fernando: a bölcsész karon latin és görög szakon tanulok.
Gúnyosan legyintett, mintha ezek a szavak megsértették volna. Majd így
szólt:
— Mindenesetre, majd meglátjuk, hogy befejezi-e a tanulmányait. Én
ellenben a közgazdasági tudományok doktora vagyok, a legmagasabb
osztályzatokkal végeztem.
Lehajtottam a fejem és egy kissé széttártam a kezem.
— S ahogy a dolgok állnak, nem gondolja, hogy meg kell érdemelnem
egy különös bánásmódot?
— Igen, uram. Kétségkívül.
— Akkor hát, hogy merészelt maga előttem a liftbe lépni...? S a
földszinten hasonló vakmerőséggel előttem szállt ki.
— De, jóságos uram, nem akartam én tiszteletlen lenni, sem
nyakaskodni. Ön makacskodott nagyon...
— Hogy én makacskodom avagy sem, az az én dolgom. Magának rá
kellett volna jönnie, hogy semmiképpen sem engedheti meg magának
hogy előttem lépjen be a liftbe. Sem pedig előttem kijönni. És különösen
nincs joga ellentmondani nekem: miért mondta nekem azt, hogy horvát
családneve van, holott én azt állítottam, hogy lengyel?
— Mert tény, hogy horvát: atyai felmenőim Jugoszláviában, Splitben
születtek.
— Engem az nem érdekel, hogy atyai felmenői hol születtek, vagy hol
nem. Ha én azt mondom, hogy a családneve lengyel, maga semmiképpen
sem mondhat ellent nekem.
— Uram, bocsásson meg. Nem fog többé előfordulni.
— Remek. Tehát, atyai felmenői Splitben születtek, Jugoszláviában?
— Nem, uram, nem ott születtek.
— Akkor, hol?
— Krakkóban, Lengyelországban.
— De, furcsa! — Don Fernando a meglepetés jeléül széttárja a karját. —
Hogy lehet, hogy atyai felmenői lengyel mivolta ellenére a maga
családneve horvát?
571
— Egy családi és egy igazságügyi probléma miatt mind a négy
nagyszülőm Jugoszláviából Lengyelországba emigrált és itt, lengyel
honban születtek az atyai felmenőim.
A mély szomorúság óriási, sötét fellege borította be don Fernando
ábrázatát.
— Én egy érett ember vagyok és nem hiszem, hogy megérdemlem, hogy
ugrassanak. Mondja, fiatalember, hogy jutott eszébe ilyen ostobaságot
kitalálnia? Hogyan gondolhatta, hogy én ezt az abszurd mende-mondát
beveszem? Éppen az előbb nem azt mondta, hogy Splitben születtek atyai
felmenői?
— Igen, uram, s mivel azt mondta nekem, hogy nem mondhatok önnek
ellen, úgy tettem, mintha az atyai felmenőim Krakkóban születtek volna.
— Tehát, akárhogy is legyen, hazudott nekem.
— De, igen, uram, így van: hazudtam önnek.
— Elöljárónak hazudni súlyos tiszteletlenséget jelent , olyannyira, hogy
minden hamisság támadás a társaság hatékonysága ellen.
— Így van, uram. Tökéletesen egyetértek önnel.
— Nagyon helyes. Ezek szerint újra megfontolhatom a maga értékét,
látván, hogy ilyen értelmes és ésszerű. De utoljára egy utolsó próbatétel
alá helyezném. Két kávét rendeltünk: ki fizeti ki a számlát?
— Öröm lesz számomra.
— Ismét hazudott. Biztos, hogy magának, aki nagyon keveset keres,
nem szolgálhat semmiféle örömére, hogy kifizesse a vezérigazgató
kávéját, azét, aki a maga kétévi kereseténél egy hónap alatt többet keres.
Kérem tehát, hogy ne hazudjon nekem és mondja meg az igazat: biztos,
hogy örömet szerez magának az, hogy kifizetheti a kávém?
— Nem, don Fernando, az igazság az, hogy egy csepp örömet sem jelent
ez nekem.
— De, annak ellenére, hogy ez nem tetszik magának, mégis képes lenne
megtenni?
— Igen, don Fernando, képes vagyok rá.
— Hát akkor fizessen végre s ne vesztegesse el az időmet, az Isten
szerelmére!
Szólítottam a pincért és kifizettem a két feketét. Kimentünk — elsőnek
don Fernando, aztán én — az utcára. A metró bejáratával találtuk
szemben magunkat.
— Remek, fiatalember. Itt el kell válnom magától. Őszintén remélem,
hogy jól elsajátította ezt a leckét s hasznára válik a jövőben.
Kezet szorított s lement a Florida állomás lépcsőin.
572
Mondtam már, hogy nem szerettem ezt a munkát. Az egyéves munkaidő
betöltése előtt egy másik vállalatnál találtam egy kevésbé kellemetlen
beosztást. A biztosító társaságnál töltött utolsó két hónapban láttam még
néhányszor don Fernandót, de csak messziről s így többé már nem volt
alkalma engem megleckéztetni.
Tamás-Tarr Melinda (1953)
TÖREDÉK
(FRAMMENTO)
Pengetem lelkem húrjait bánatomban,
a vígaszt nyújtó dallamokat kutatom,
messzire űzni kívánom honvágyam
és elvesztett boldogságom sóvárgom.
HIPOKRÍZIS/KÉPMUTATÁS
(IPOCRISIA)
Várakozom a csendben,
hogy ide valaki betérjen...
De senki sem toppan be hozzám...
Az ajtót ki is nyithatná rám,
mikor egyetlen lélek sem
érdeklődik felőlem?...
Bezzeg, ha összefutok ismerősökkel,
mind széles mosollyal üdvözölnek,
udvarias, meleg szavak hamisan csengenek
s a valóságban bizony csak érdektelenek.
LELKIÁLLAPOT
(STATO D‘ANIMO)
Mit mondhatok?
Szavak után kutatgatok,
de nyelvem mozdulatlan...
Ajkamról egy hangot
sem hagy
felröppenni.
573
Bámulok a nagy űrbe:
Ki vagyok? Ide honnan kerültem?
Édes Hazám,
Magyarország,
messze vagy már
éntőlem!
Magamra találni szeretnék,
de hogyan is tehetném?
E fagyos föld,
gonosz-kegyetlen
be nem fogad engem,
gyökértelen embert.
Úgy elmenekülnék
messzire mindentől,
végre elrejtőznék
a gondolatok elől...
«Te, csak nem félsz?
De, hát mitől?»
«Hallgass, te lélek!
A honvágytól félek!...»
Végtelen távoliak
édes szülöföldem,
emlékeim, sikereim,
miket korábban elértem...
Kettétört élet,
eltiport lélek,
mert képtelenség
itt a gyökéreresztésem.
Holtfáradt vagyok
és elkeseredett:
az átplántálásra még
Itália nem érett meg.
Összeszorítom
fogaim és öklöm...
Az álsüketnémáknak
574
üvölteném ürömöm...
A szerző 1993-1996-ban eredetileg olaszul írt verseinek 2011. januárjában
készült magyar nyelvű változatai. Forrás: Osservatorio Letterario 79/80 48-49.
old.
Paul Verlaine (1844-1896)
A ÉN SZÍVEMBEN KÖNNYEZIK
(IL PLEURE DANS MON COEUR)
Az én szívemben könnyezik,
mint a városban, úgy esik.
Mi ez a kín, mi keserít,
Hogy a szívem így könnyezik?
Óh, esőzaj, édes ének
A földön és a háztetőn!
A kínokat élő szívének
Gyógyírt jelent ez az ének!
Alaptalanul könnyezik
E szív, mely csupa bánkódás.
Ugye, nincs semmi csalódás?
Értelmetlen egy kínlódás.
A kín pedig gyötrelmesebb,
Mert a miért ismeretlen.
Se gyűlölet, se szerelem,
Mégis meghasad a szívem.
Paul Verlaine (1844-1896)
ŐSZI DAL
(CHANSON D’AUTOMNE)
Őszi hegedűk húrja
bús bánatom jajongja,
a szívemet
kínozón
bágyadtan, monoton.
575
Minden fuldokló
és olyan fakó
midőn üt az óra
s a múló napokra
gondolok zokogva.
S én elmegyek
a gonosz széllel,
mely magával ragad
s össze-vissza felkavar
mint holmi holt avart.
(Egy fordításvariáció a számtalan közül.)
ERDŐS OLGA (1977)
- Hódmezővásárhely (H) -
Úton
Autók, vonatok, buszok
visznek el és hoznak
vissza, mert egyik sem
az a hely, amit bodzaillattól párás éjeken
kerestem.
Egy-egy ezüstlevelű
nyárfaerdő
láttán a Tisza árterében
vagy Ravenna utcáin
augusztuskor délben
elhittem,
hogy lehetne maradni.
Aztán mégis hívott valami
lenge lepkeszárny,
s én megint útra keltem.
Nem kíváncsiság hajt,
nem is vágy, csak önmagam
elől menekülök évek óta már.
576
Ezredvég folyóirat (XVII. évfolyam,8-9. szám, 2007. augusztus-szeptember),
Osservatorio Letterario (XI/XII. – NN.59/60. szám, 2007. nov.-dec., 2008. jan.feb.),
Erdős Olga: Résnyire tárva (Bába Kiadó, 2008)
Reggel
Úgy látom magam néha
akár egy moziban,
mikor peregnek a kockák:
a nő reggeli napsütésben
teát főz, kenyeret vág.
Ezerszer látott mozdulat,
ahogy a konyhapultnál állva
várja, hogy forrjon a víz,
és a háttérben zene szól:
Breakfast at Tiffany's
a Deep Blue Something-tól.
Néhány álomszerű pillanat
csupán, aztán újra tudom,
hogy én vagyok ez a nő,
itt a nyolcadikon.
Én nyúlok a cukorért,
én vetem be az ágyat,
én kísérlek az ajtóig
s nézek még most is
hitetlen utánad.
(2008. 03. 27)
Nyomtatásban megjelent:
Ezredvég (XVIII. évfolyam 8-9. szám, 2008. augusztus-szeptember),
Erdős Olga: Résnyire tárva (Bába Kiadó, 2008)
A nappali kanapéján
Konzerválnám ezt a percet veled.
Befőttes üvegbe raknám, aztán
a polcra, és csak akkor bontanám
fel, ha túl sok a hétköznap. Rájárnánk,
577
mint baracklekvárra a gyermek.
Kenyérre kennénk a meghittséget,
mely úgy bújna nyelvünkhöz,
ahogy most én hozzád
az ősz eleji szürkületben
a nappali kanapéján.
(2009. 09. 10)
Nyomtatásban megjelent:
Osservatorio Letterario (XIII/XIV. – NN.71/72. szám, 2009. nov.-dec., 2010. jan.feb.),
Ezredvég (XX. évfolyam, 5. szám, 2010. május)
Erdős Olga bemutatkozik:
Erdős Olga Katalinnak hívnak, 1977-ben születtem Hódmezővásárhelyen, ahol
jelenleg is élek.
Az irodalommal vers- és mesemondó versenyek, illetve szakkörök révén már az
általános iskolában kapcsolatba kerültem. Ekkortájt kezdtem írogatni is, igaz, az
első „komolyabb” megmérettetésre középiskolás koromig kellett várni. Egy
szegedi iskola szervezésében meghirdetett sci-fi irodalmi pályázaton nyertem
különdíjat. Ez a novellám később megjelent az Eötvös József (akkor Frankel Leó)
Közgazdasági Szakközépiskola diáklapjában, amelynek egyik szerkesztője voltam.
2003-ban egy internetes irodalmi portál lap (www.fullextra.hu) közvetítésével
merészkedtem a nagyobb nyilvánosság elé.
Írásaim között találhatóak versek, elbeszélések, mesék és néhány műfordítás is
kedvenc kortárs olasz írónőmtől, Daniela Raimonditól. Az ő, minden ízében
nőkről, nőiességről szóló versei, prózái nagy hatással voltak rám, illetve az ő
révén ismertem meg Dr. Bonaniné Dr. Tamás-Tarr Melindát, aki a nyomtatásban
is megjelenő ferrarai irodalmi folyóiratában, az Osservatorio Letterario-ban
biztosított publikálási lehetőséget legelőször írásaim, fordításaim számára 2005ben (ez a megjelenési fórum azóta is rendszeresnek mondható). Ezt követően
jelentek meg verseim a Fullextra saját kiadású antológiáiban, illetve a
Fulltükörben.
2007 óta viszonylag rendszeresen közöl írásaimból az Ezredvég című irodalmi,
művészeti és társadalomkritikai folyóirat. Ugyanez év őszén elnyertem a Czirbusz
Piroska Emlékére a Hódmezővásárhelyi Művészetekért Közalapítvány
támogatását, így 2008-ban a szegedi Bába és Társai kiadónál megjelenhetett első
verseskötetem Résnyire tárva címmel, Göbölyös N. László író előszavával.
2008-ban a Szegedi Szépírás című folyóirat közölt le verseimből, 2009-ben
pedig Tamás-Tarr Melinda Olaszországban kiadott műfordításokat tartalmazó
antológiájába (Da anima ad anima) válogatta be néhány versemet.
578
2010. májusában a hódmezővásárhelyi Kárász József Alapítvány Irodalmi Köre
tagjai közé választott.
Erdős Olga
Hódmezővásárhely, 2010. május 17.
GYÖNGYÖS IMRE (1932)
- Wellington (Ausztrália) -
Dante
Ártatlan álmú művész mesemondó,
életre kelted hímzett másvilágod
oly nagyszerűn, hogy képzett ész se gondol
másra, csak mit a lelked szeme lát ott.
Agg mestered minden aggodalomtól
védve nyugtatja kész kíváncsiságod,
s Veled hűen, kézen fogva barangol,
míg mondád csengő szóláncát kitárod.
Most mesterem visz szép igéje által
meséden át magyarra hangszerelve
amint tudása, szíve, lelke áthall
ős florenziről új tolnai nyelvre,
mely fényében, Költők Költője, rádvall:
Magyar nyelvedben büszkeséged telne!
1996
Berzsenyi Dániel
Rejtett erőnek titkos apostola!
Magyar szerencsénk, hogy kilesett a kor
s fiókod kincsét elragadta
műveid érdemeit kitárva
felénk, a nyelvünk tétova, bámuló,
romantikátlan, gyakran erőtelen
alattvalóid bús elébe:
töltsd meg azokkal a lelkeinket!
Minden mulandó! - hirdeti életed
vezériránya: eszmei gondolat,
579
9mely lelked is legyőzte végül,
ősi magyar baj: a búskomorság!
Magasztosodj hát: ódon ütem dicsér!
Költő-gigász, a szóutadon kisér
a szellemed s a nyelved őre:
műkegyelettel a hű magyarság!
2009 április 14.
Földrengésre
Úgy tör elő soraimnak az árja, akár a morajlás
földremegéskor, amelynek a ritmusa lázba hevíthet!
Láz tüze izzik a versemen is, ha a lelki parancsom
vad sorokat zabolázni s ütembe igázni a hajrás
táncainak robaját s toros ünnepük ős riogását!
Mint ahogyan hül a vérem az árnak a láttán,
mely kiemelt vízözön-szakadék tömörében elindul
falvakat élve befalva, lenyelve Japán fele száguld,
büszke, atomkori műveit öntve tetőzi veszélyét:
szennye vizet, levegőt betegít, mindent telefertőz!
S pusztul a nép, belepusztul az ország, míg a lakóit
pillanatokban «örökbe fogadta» e kripta ezerszám.
Szemfedelük csak a tengeriszap s a sodort rom a sírjuk!
Bús leírással adózzuk mély kegyelettel a gyászunk!
2O11. április 1.
Szent Erzsébet
Szívének titkos, csendes szenvedélye
a segíteni, adni akarás
korán indult az éhezők helyére:
fehér kötényében kenyér, kalács.
Így akadt útját álló mesterére,
kitől parancsként jött a gyors tanács:
"Ne tékozolj semmit a sok szegényre!
Az haszontalan, léhűtő bagázs!
mutasd, mit tömtél abba a köténybe?"
"Virághalom van csak, mi lenne más?"
S ezzel feltárult hófehér köténye
és sok virág, ezerszínű, csodás!
580
A biztos, bátor jóság érdemére
Isten jutalma lesz az áldomás!
2O11. május 19.
Sorsszámadás
A bennem élő s megrekedt idő,
a képekbe szilárdult folytonosság
agyamban tárolt s kivetíthető
életdarabjaim valódi hosszát
bizonylatul sem hívhatná elő:
a fájókat a könnyek szűkre mossák,
a szép emlék mindent legyőzve nő,
kortársak és utódok ostorozzák!
A végtelen egy részéből kivágott,
csak számomra szelt, röpke kis időmből
létemet mérő ál-vagy jóbarátok
ítéletének rostája megőröl.
A rostjaim fényét tárd fel világ,
hogy majd ragyogni lásson, aki lát.
Arany János
Nyelve méltósága mint hatalmas szárnyak
írt és beszélt magyar nyelvünkre vigyázhat;
földünkkel, vérünkkel annyira összeforrt:
arannyal fémjelez egy hős, költői kort.
Magyar olvasóknál nincsen nagyobb híve:
azt érzik, hogy velük együtt dobog szíve.
Magyar erőről szólt: Toldi izma bírta;
még szebb volt a verse, ahogyan leírta!
Azóta is csüggünk a hős Toldi példán,
Arany János örök remekművén ― méltán!
Tucatnyi ballada drámai meséje
szépen megtanít az erkölcsi veszélyre!
Minden gondolata, írása művészet:
581
életműve része a teljes művésznek!
Mint a fényjelzőket továbbító relé,
költői leckét vet a költőink elé!
Azóta, aki ír valaha is verset,
figyelmet tanoncként szentel a mesternek!
Költői szépsége ezer csillag fénye:
ezer fele ragyog ezreknek lelkébe!
Wellington 2010. júl. 10.
HOLLÓSSY TÓTH KLÁRA (1949)
- Győr (H) -
A tudós, a tudatlan meg a bolond
A tudós gyakran kételkedik,
a tudatlan ritkán, a bolond soha.
Elméjük parancsát követik,
máshogy az okos, máshogy az ostoba.
Belső énjének parancsára
a tudós dolgozik, keresgél, kutat,
a tudatlan spontán, mit sem várva
oldja meg így-úgy a feladatokat.
A bolond csak az igazi észlény!
Játssza, hogy soha sincsen észnél,
s szellemóceánja mélységekbe ér.
Szórakoztat, bolondot játszik,
unalmában jó nagyokat ásít,
s közben okosabb az összes többinél.
582
Édes anyanyelvem!
Hozzád szól versem édes anyanyelvem,
benne vagy véremben, minden idegemben.
Veled gondolatom kifejezhetem,
beszélek, írok, és mindezt úgy teszem,
hogy belemélyedve már észre sem veszem,
mindenféle másról megfeledkezem.
Te vagy, aki alkotsz, tán nem is én teszem,
te suttogsz bennem, mint szél a tengeren.
Te tudod azt is, amit én nem tudok,
de amikor kell, fülembe suttogod.
Te nem hagytál el egyetlen percre sem,
mióta megnyílt e burjánzó értelem.
Óh drága SZÓ, te anyám nyelvű zengés!
Szellők ringatta, dajkáló csevelygés!
Te csodacsengő értőm és megértőm,
hű társam, utamon végig kísérőm,
ki örökül hagytad hangjaid zenéjét,
hogy szépségét az emberek megértsék.
Örömöm, fájdalmam tiszta hangja,
nem ér fel hozzád a világ hatalma!
Gondolatom vagy a számon kitörvén,
a lelkiismereten te vagy a törvény.
Boldog, ki tőled nyeri a szavakat,
s kinek léte a te kebledből fakad.
Változatod színe millió, s pompája,
ki merészelne béklyót vetni rája?
Óh, te gyönyörű, drága, édes ének,
mit szerelmes zenghet el édesének,
A hangod a legigazibb szerenád,
mit költő szerelmének e szeren ád.
Annyi báj van benned, zene, szerelem,
boldog, ki játszani tud e hangszeren.
Te zengő pacsirta, érctorkú madár,
583
életet fémjelző, csengő aranykarát,
ki magadban hordod hazád vagyonát,
nyelveden daloljuk hazánk himnuszát!
Hadd köszönjem meg most végre itt neked,
hogy nyelveden szólhat költészetem.
Tőled gondolatom, és tőled a szavam,
mind az, mi lelkemben, szívemben fakad.
Te vagy hazánknak és múltunknak éke,
minden emberednek nyelve, menedéke.
Hűtlen fiad, ha él már más hazába‘,
te kiáltasz utána a nagyvilágba.
te vagy az ereje, te a fegyvere,
te vagy a magyarnak lelke, ékszere.
Velem vagy, jelzed a létezésemet,
hangodra nyílik bennem a képzelet.
A szavaid mindig örömmel hallgatom,
s újra megfogalmazódik az ajkamon.
Páratlan szerencse, átöröklött vagyon,
hogy nyelveden tudom szavam kimondanom.
Te tudsz a legszebben szólni és akarni,
s te tudsz legmélyebben a szívekbe marni.
Te zenged a legeslegszebb melódiát,
nyelveden legszörnyűbb a szomorúság.
Hogyan tudnám megköszönni néked,
hogy éltetőm vagy, mert általad élek.
Te törsz fel folyton az ösztöneimből,
ha boldogság ér, vagy lelkem búja sír föl.
Virulj soká! Zengj himnuszt, imádkozz,
és sose érts a koldus dadogáshoz!
Te vagy, ki megteszel mindent a nemzetér’,
ahol te vagy, s ápolnak, az a nemzet él!
Általad szólni a legboldogabb varázs,
minden mondatunk egy-egy honfoglalás.
Te vagy nekünk édes anyanyelvünk,
584
nemcsak kifejezőeszközünk, de lelkünk!
Te vagy az otthon és te vagy a haza,
s otthon csak az van, kinek vagy birtoka.
E hazában általad vagyok itthon én,
mert véremben élsz lényem rejtélyeként.
Gyönyörű, élő, édes anyanyelvem!
teremtsd a szavakat, s keltsd életre bennem!
Sokasítsd, édesítsd, csobogtasd a bájt,
hogy az is jó legyen, s kellemes, ha fáj.
Népek, atyafiság, együttes érdekek,
csak veled kifejezve lehetségesek!
Nemzetté a hazát a nyelve teremti,
minden nemzet csak vele tud teljes lenni.
Te vagy anyanyelv a megváltó vigasz,
minden szavad egyenes, tiszta és igaz.
Te szavatolod, itthon csak itt vagyunk,
mindenhol máshol csupán vendégek vagyunk.
Nagy a gazdagságod, az ízeid kiforrtak,
te vagy elrendelése itt szegénynek, úrnak.
A létezés vagy, a létező gondolat,
egyesítesz lelkeket, határokat.
Édes anyanyelvem! Drága szósereg!
Te vagy, mely előtt az elme tiszteleg!
Augusztusi búcsúszimfónia
Lomhán, pislogva csordogál a nap,
a ragyogó nyár hangja már szerény,
lehangoltan ballag, néz hosszasan,
dajkálja az elizzott szenvedélyt.
Mosolyog, lágy fényeket sugaraz,
komor hangulat borong bársonyán,
fák között oson, bujkál, simogat,
búcsúzkodnak a lüktető csodák.
585
Szólítja őket az örök törvény,
ágak közé bújnak a fényimák,
friss szellő simogatja gyöngén,
a lanton zengő búcsúszimfóniát.
HORVÁTH SÁNDOR (1940)
- Kaposvár (H) -
Letakarva a tükrök: Emlékezzünk!
Sírszavú költő cincog földszagú dalt.
Bozótból bozótba futunk szakadtan
Határkövek alatt haldoklik a csönd:
Jézust kutatja kopjafánk hasztalan –
Lorelei násza: Haláltánc
Nem fuldoklók képe ez:
Telihold, lágy tükrön át,
A jövő halált nemez.
Sors-álcái, páriák:
Hatot vetnek a kockán,
Ám a végzet csak nevet.
Int a halál; képmását
Löki eléje az ész,
Üvegcsendje árulás.
Mártír árnyak zuhannak
A vörös sírgödörbe Ki adna feloldozást?
Fáj, belém nyilall a szív A csend -, sír a hazáért,
Ki bűnbakká tétetett.
586
Jönnek, kéz-láb kölöncök,
Megszaggatott csont-inak,
Körmök, pörkölt húscafat Márványfürtként súlyosul
Hajuk, valónknál teltebb,
Tisztább áldozat a múlt.
Mind Lorelej-nővérek Túl nagy terhekkel dobol
Fülükben a félelem!
Mértekkel, jól-kormányzott
Országunkban, így élünk
Nemzet árulók között Kínpadon az igazság!
Bőszen dúlva, örvénylő
Ostromok közt az ország!
Inter/média 2011
Koldus minta - centekért szivar Zúgnak a szenvedés harangok,
Az ünnep ma miértünk csikar,
Mikor húrjába tép a dalnok.
Fáj a szó, ami fogva tartott,
Megrabolt országnyi életet,
Úgy vezették el, mint a barmot,
Kifosztott, megcsúfolt népemet.
Emeld fel fejed és nézz körül!
Trianon újra, börtönbe zár Feszítsd meg! kiált és örül,
Hisz rajtunk a poklok malma jár.
Ne légy Te, kamatláb áldozat,
Ki bankóban őrzi végzetét,
587
Elég! Ne légy sorstalan bitang!
Ki tál lencsén adja életét…
Sakura 2011
Cseresznyevirág:
a tenger öblein át
gyász ül a tájra a romok árnyai közt
hamis az ünnepi fény...
Költőlélektársak
Motto:
Csak életünk öregszik, lelkünk halhatatlan –
A fátyol szétszakad, már nics tovább titok,
Itt van, ki lélektársként hozzánk tartozott.
Ne feledd el, hogy egyszer visszatérek,
Mikor egy percre elcsitul az élet,
A nagyobb csöndből visszajőve, érzem,
Már másik nő szövi élet-regényem.
Andánk kézfogása ver hidat közénk –
A szív megérzi, társát megtalálta,
Ezért küldettünk mi egykor máglya lángra,
Végtelenből szőtték lelkünk köpenyét.
Századok sarából jött a Jóbarát?
És most szemében csillog ezer karát?
Fénye itt van, hogy újra átöleljen,
Hű lélektárs az idő végtelenben.
Életünk folyama egykor megszakadt,
De örök az élet – idő áradat.
Élet-szerelem s lelki rezdülések
Formát adnak az ősi küldetésnek.
Annyi idő telt el, s mégis itt vagyok,
Csillag szememben könnyes vád, ezernyi
Átok, kín, titok és égi vágy ragyog,
S amott egy ajtó, csak most kezd kinyilni.
588
A vers igéző villanás
Hommage a’ Tamás-Tarr B. Melinda
Nem inspiráció jele: véletlen
kincsek, krőzus gyűjteménye bár legyenek azok, oly csodás okok?
Költeni annyi,
mint kicsit meghalni, magányos csöndben,
ismeretlen fény magasában, ott fenn,
csak hogy meghalljam a rejtett hangokat.
Édeni dalban,
rátámaszkodni a papír kínálta,
szűzi, fehér lobogásra, feledve,
elhullt sor(s)töredékek regimentjét Már csak a csend szól,
amikor egy hangsor ölelés, mintegy
álomból odaintve, megszületik a szó ragyogás, feketén fehéren:
ím az ajándék.
Mintegy varázsütésre telik a lap,
ártatlanságának felavatóján,
már megfeledkezve a címről is - túl
emberi lelken,
hangosan szólna az - és amikor egy
dallam töredék, csak szemernyi, mintegy
odahintve, megszületik az első
pillanatából,
a másikig, az esetleges ihlet
ősi zenéje megőrzi s visszatér
ajándékképpeni sebezhetetlen
forma világa s a bizonyosság, hogy a túli semmin,
már itt van, hogy hitelesítse a költőt,
az alabástromi, éteri álom,
szűzi zenéje.
589
Megszületett a vezérünk…
Csiksomlyói búcsújárás
Valami csalfa, ősi rontás,
Szállt népemre, annak foglya Körötte ordas, sakál horda
Gyülekezik győztes torra.
Ha szittya-magyar népünk násza,
Törvényt hozna, kinek fájna?
Szentkoronás, ünnepre jöttünk,
Parolára, áldomásra.
Az én népem, igazat akar,
Szent ajakán vádak zúgnak,
Mély emléke a szabadságnak,
Egekre tör – tűzvész gyullad.
Az én népem igazat akar,
Rendet vár és tiszta ágyat,
Utána nem jön szent pihenés,
Fényt teremt a szabadságnak.
LEGÉNDY JÁCINT (1976)
- Gödöllő (H) -
Hódolat
dongók napoznak a kerítésoszlopon és tulipánok szirmait becézgeti a szél mint ősi alkimista
a tavasz megannyi rügyből kiszabadítja az aranyzöld gyönyört
a birsalmafáról gyümölcsmúmiák
hullnak és a szomszédban már
csengenek a burkolók ipari hangszerei adrienn teste kibomlik a
kabátból szép mint a forradalom
jácintvirágok bólogatnak neonkék
590
reménységgel elmúlt a tél és nektek vadfiúk hódolat a legendáért
Kötetben: Központi Zóna, Balassi Kiadó, Budapest, 2006
Szerk.: a tulajdonnevet a költő szándékosan írta kis kezdőbetűvel.
Sápatag fényben
ezt akartam sápatag fényben
az ablakhoz állni s a kisszekrény
mögül egy alkimista boldogságával figyelni a diófa csúcsán
összegyűlt hópelyheket hiszen
a tél igézően alkalmas az emlékezésre tehát épp a lélekben zajló
búvárkodásra s mintha vékony
jég alatt evickélnék a csípőm
is remegni kezd mellettem ősvilági
halakként surrognak a múlt képei például érzékelhetem tinédzser önmagam a rajnyi délutánt
amit kertem vagy a park fái közt
az összehangoltság dimenziójában töltöttem el messziről értelmezve posztmodern áramlásokat míg tarkómon a legódonabb
futott a szél akár egy misztikus
cheguevara olyan voltam s vagyok mindmáig hiszen a jövőnek
akciózom ugyan k önnyűsúllyal
ám vásott bakancsban s a töltényeim lepkék ezért elbűvölően
biztos hogy továbbra is gyöngéd érzékeny forradalmár leszek
Kötetben: Központi Zóna, Balassi Kiadó, Budapest, 2006
591
Kócsagok szárnyát
kócsagok szárnyát rajzold a porba
koravén gyermek és táltosok s zemét
míg a morfium csöndben ringat el hallod
a messzi őserdők lombja
közt
nyers gyönyörrel zengő szimfóniát
s talán muezzin énekét a Földért
már látod a reménytől dúlt városok
színes ösvényein menekvő kutyát
s a homokban szunnyadó üveggolyót
amit kisgyerek nem illet ujjával
már érzed Don Juan csókját arcodon
s tudatod forrását keresve száll
történelem és csillagok lombja közt
míg a morfium csöndben ringat el
koravén gyermek és táltosok szemét
kócsagok szárnyát rajzold a porba
Forrás: Központi Zóna, Balassi Kiadó, Budapest, 2006
Legéndy Jácint 1976-ban született, Gödöllőn él. Verseit az elmúlt évek folyamán
több irodalmi lap (Árgus, Jelenkor, Liget, Spanyolnátha, Parnasszus, Új Forrás,
Litera, Hitel, Osservatorio Letterario) publikálta. Központi Zóna című kötete a
2006-os könyvhétre jelent meg a Balassi Kiadónál. Néhány írása bekerült Az év
versei gyűjteménybe és a Légyott-antológiába. 2009-ben jelent meg Szitányi
Györggyel és Tamás Gáspár Miklóssal közösen írt könyve RAF: Búcsúszimfónia
címen a Kalligram Kiadónál. Köteteiről az utóbbi hónapok során például a Műhely,
a Litera, az Új Forrás, a Spanyolnátha, az Exit, a Metropol és a Népszabadság
hasábjain jelentek meg recenziók. RAF: Búcsúszimfónia című könyvének
tanulmányozásával készült A Baader-Meinhof csoport (Oscar-jelölés, BAFTAjelölés) magyar szinkronja.
592
PAPP ÁRPÁD (1937-2010)
(Dr. Papp Árpád)
- Badacsony - Kaposvár (H) -
Ha már…
Ha már nem élhetsz úgy, ahogy szeretnél,
ne alázd meg magad, hogy válaszolsz az ostobáknak.
Ha már mindenki árulónak bélyegez,
ne alázd meg magad se véd- se vádbeszéddel.
Húzódj csak félre szótlanul, hadd forrjon össze újból
ajkad nyers sebe,
Legyints, ajtó, amelyen át szabadba jutsz –
nagy, lélegző fák és lüktető csillagok közé.
Ne zúzd szilánkká szelid tekinteted kő-arcukon –
Elég, ha volt egy múlhatatlan semmi-pillanat,
Elég, ha van egy cigarettaparázs, hogy melengessed magányod,
Miként nem vagy élője senkinek, halottja sem leszel,
Ne szerezd meg hát nékik azt az örömet,
hogy sírni lássanak.
(1972)
Még egyszer a költészetről
Vakotás, gyerekkori vásárfia-tükröm
Semmi köze trükkökhöz, tükrözéshez.
Dugdostam,
s elejbéd tartom, népem:
Bepárásodik-e?
1976. októberében
593
Emlékezés vásznat fehérítő nagyanyámra
A kenderáztató tavak köré
terítve már végszám a vásznak:
a sárgásbarna rétek.
Napfény fakítja színüket,
szemerkélő esőkben áznak, áznak, áznak,
s egyik reggelre – hófehérek.
Nagy telek emlékszilánkjaiból
Intenzív osztály
De megcsitult acsargó, pártos harci lármád!
Oly szánakozva nézek rád, s magamra –
Ecce, mi vár rád,
Európa, mélyhűtött hullakamra.
1962. szilveszterén
Képeslap, Scipio-szoborral
Ne hidd,
Hogy pénz, hír, hatatlom megóvnak!
Egy karthágói vendégmunkás veti be sóval,
Urbs Aeterna, utcáid, tereid...
Róma, 1976. havas Karácsonyán
Nagycirkuszok vendégszereplése
Közel-Keleten és Afrikában
„... itt még könnyebben felfrissíthetjük állatseregleteinket,
s ha netán véresre sikerül egy-egy mutatvány,
itt leglább könnyen felszórhatjuk homokkal
a porondot ...”
(Európai és tengerentúli impresszáriók
közös nyilatkozatából 1977.)
Forrás: «Írógép, végtelenített gyász-szalaggal» c. verseskötetéből, Kaposvár 1998
594
PETE LÁSZLÓ MIKLÓS/ PETERS L. N.
- Sarkad (H) -
A másik Magyarország
(Vers-kantáta)
Én nem ismerem a sztárok nevét
Nem igazodom ki
Jellegtelen
Arcéleken,
Nem tudom melyik
Egyen-sovány,
Smink-halovány,
Diétázó gebe
Mikor megy oda-ide;
Hogy éppen szakácskönyvet dedikál,
Vagy a Blöff-szigeten csótányt zabál.
Már nem tudom,
Ki kicsoda,
A tévé elé nem ülök oda.
Én most is szeretek, hiszek, remélek;
Ahol élek:
Egy másik Magyarhon,
Ahol tűzpiros még az alkony,
Ahol a tárgynak tapintása van,
Ahol az ember munkába rohan.
Úgy gondolom,
Ez egy másik Magyarhon;
S én ITT lakom.
Én nem tudom, hogy melyik kicsoda
Hogy melyik a Boci,
És melyik a Buci,
Kinek sztriptiztáncos anyuci,
Ki volt pornószínész,
Ki az, aki megvész,
595
Ha elvész
A százhuszonkettedik rész;
Hogy a Mega-Micsodát,
Meg a Micsoda-Csodát
A nézők izgulni
Győzik-e,
S hogy csalja-e a nejét
Győzike.
A Mester
Jön mosolyogva, kedvesen, szerényen,
Ócska, rozsdás kerékpárja recseg,
A szájában cigaretta fityeg,
Dolgozik, és közben
Arról mesél:
Ahogy az igazi magyar
Ma él.
——
Akárhány pártprogramnál pontosabban
Látja az álnok, pénzsóvár jelent,
Látja a nem-et, éli az igen-t,
Szerel, és ömlik
Belőle a szó,
Munkája? Szép és tiszta,
Mint
A hó.
——
Látott munkát, munkanélküliséget,
Nem mindig talált, csak mindig remélt,
És mivel igen sok munkához ért,
Ásott, lapátolt, épített,
Szerelt,
És közben több gyermeket
Felnevelt.
——
Külföld? Olyat ő nem látott soha,
Akadt mindig baj, vagy tennivaló,
Most meg már csak a gyereknek való,
Van fusi munka, nagy kert,
Vagy barázda,
Csak menjen a sok öltönyös
596
Garázda.
——
Ezer ráncában jóságos mosollyal
Tanít hitet és szent alázatot,
Mond az uraknak egy példázatot,
Hiába sok pénz
És kevés ima;
Majd jön még béke
A poraira.
——
Baj hozza el,
Tesz-vesz
Szerel,
Békére lel,
S ünnep marad utána.
Nincs nyugta,
Pecsétes papírhalom;
Csupán jókedv,
Humor,
Meg bizalom.
——
Testületek jönnek-mennek,
Őrületek voltak-lesznek,
Öltönyös taknyok grasszálnak,
A celebek mennybe szállnak,
Csirkefogók lógni fognak,
De leginkább mégis lopnak,
Nyelvek lógnak, fogak kopnak,
Ripacsok dalolnak-ropnak,
Szélhámosok hasra esnek,
Vagy kákán csomót keresnek,
Nyegle majmok prédikálnak,
Parvenük pénzt hajigálnak,
Ócska lelkek
Horogra
Akadnak;
Kisemberek
Emberek
Maradnak.
2010. július 19., hétfő
597
A Szabadság
A Szabadság a Lélekben fogan,
Nem zászlódísz, nem kölcsön kamata,
Nem talált pénz fűszeres zamata,
Nem szolgája sem kénynek, sem piacnak,
Nem felbujtója gyilkos, sötét dacnak,
Nyakunkba nem bombák hegyén szakad;
Ha hírbe hozzák, máris elszalad.
——
Várjuk már rég,
De nem járt erre még.
——
Rég hirdetik nevét,
De közelről
Senki se látta még.
——
Még árnyéka is tiszta,
S azzal élnek lépten-nyomon
Vissza.
——
Nekünk nem jut,
Csak belőle
Részlet;
Tán utódunk
Egyszer
Szemébe nézhet.
——
A Szabadság majd
Emberré tehet;
De nem torz utánzója: a lehet.
——
Az ál-szabadság tekintete
Tompa,
Abból lesz mindig újra
Tilalomfa.
——
A láthatatlan Szabadság hegyén
Félénken egyensúlyoz
Az egyén;
Szabadsága csak akkor nem hamis,
Ha jót hoz minden más embernek is.
598
SZIRMAY ENDRE (1920)
(Dr. Szirmay Endre)
- Kaposvár (H) -
A költészet
A költészet az egyetlen varázslat
Amely eszméltet és kijózanít,
Megtanít, hogy találhatsz magadra
És hogyan oszthatsz meg mással valamit.
A költészet az egyetlen bizonyság
Amely léteddel azonosít,
Visszafordít fonák hiedelmeket
És a vágy béklyóitól megszabadít.
A költészet az egyetlen eszköz
Amelyre nem tapad a gyűlölet vére;
Megtanít olyan köznapi csodákra
Mint a szabadság, a lázadás, a béke.
Forrás: Szirmay Endre, Nem volt hiába (Versek és versfordítások), Kaposvár
Megyei Jogú Város Közgyűlése, Kaposvár 2009, 156 old.
Nem kérdezel
Amikor volt és van
miért nincsen…?
neszező vágy matat
a kilincsen;
az esetlegesség
csak igézet a mindent semmire
elcseréled;
ami előtted volt
láz és látszat
csak a kormozó csönd
száll utánad…
599
amikor a van és lesz
körülölel
már mindent megértesz
s nem kérdezel.
Salvatore Quasimodo (1901-1968) verseiből fordítások:
Morzsányi idő
Vöröslik a narancs a kertben
észrevétlenül,
ahogy az idő leng el
a vékony narancskérgen,
a malom kereke döccen
a vízzel áradó özönben,
de forog tovább,
és összefon egy percet
az elmúlt perccel
vagy a jövővel. Másféle az idő
a gyümölcsök forgatagán,
a hajlíthatatlan testen
visszaverődik a halál,
lesiklik kicsavarodva,
s markolatával
a szellembe fogódzva írja
egy élet próbáját.
Elégia
Mint fagyos küldönce az éjszakának,
csillogón visszatértél a félig lerombolt
házak erkélyeihez, megvilágítani
az ismeretlen sírokat --- és a füstölgő föld
elhagyott roncsait. Itt pihen
az álmunk. Te meg magányosan észak felé
fordulsz, ahol minden fénytelenül
omlik a halálba -- de te ellenállsz.
Forrás : Szirmay Endre, «Nem volt hiába», Versek, versfordítások; Kaposvári
Megyei Jogú Város Közgyűlése, Kaposvár, 2009; Sorozatszerkesztők : †Papp
Árpàd-Szijártó István-Szili Ferencés Osservatorio letterario 2010/2011 77/78. sz.
600
SZITÁNYI GYÖRGY (1941)
(Dr. Szitányi György)
- Gödöllő-Máriabesnyő (H) -
Történelmi lecke
Mostanság, hogy a Márs így ránk fókuszált,
szerintem ki lesz törve a háború,
magyarázta
ifjabb
munkatársainak
Verbatim. Háborús uhubagoly, morgott a
megbízható Józsi. Olyannyira megbízható
volt mindig is, hogy reá lehetett építeni közelmúltat s jövendőt: olyan volt,
mint a kőszikla.
Te ebbe ne pofázzál bele, mondá erre Verbatim, mer’ én ott voltam már a
szarajevói merénylésnél is, és tisztán láttam a történelmet. Ja, feleselt Józsi,
már akkor látta, hogy ki lesz törve…, na ne!
Nem bírták tovább az idősebbek, kivált az éjjeliőr, aki már nem is járt haza,
mert elfelejtette, hol lakik, s így azt sem tudhatta, hogy egyszobás otthonában
díjfizetés elmulasztása miatt megszűnt az áramszolgáltatás. Mordult is
nagyot, hogy mindenki tudta, a pánok csak a casus bellit keresik, de az sosincs
meg, mert a bibendire valahogy mindig előbb rálelnek, és akkor esett meg a
világ folyását befolyásoló esemény, amikor a nagy kavarodásban valahogyan
egyszerre lett meg mindkettő, s így nem volt lehetőségük idő előtt berúgni.
Juhé, rikoltott Józsi, ugat a vén kuvik!
Bugris, jegyezte meg erre az éjjeliőr, akiről kevesen tudták, hogy nem is
nyug-, hanem kegydíjas, és a kegydíjból marad bent napra nap éjjeliőrködni.
Verbatim, aki már az első világháborúban kisdobos volt, miáltal katonai
szaktudását nem engedte vitatni, a helyzet adta kényszerűségből egészen az
éjjeliőr füléhez hajolva ordította alázattal: Tábornok úr, én nem hagyom a
katonai becsületet. Helyes, fiam, állj ki értünk, súgta az éjjeliőr, aki nem volt
süket, és így nem értette, miért üvöltöz vele állandóan a kisdobos, aki a
második világháborúra, akár az éjjeliőr tábornokká, tisztiszolgává avanzsált.
Tahó vagy, Józsi, értesz engemet? Egy bunkó, beszari ágyútöltelék vagy, és
te pofázol itten stratégiáról, rogyjon reád az ötágúcsillagos ég, kúrjon fejbe a
kalapács, a sarló nyesse el a nyakadat, álljon hátadba a nyilaskereszt! Mit
értöl te ehhöz, ha nem a gyakorlatban tanultad, mi az, hogy fogat fogért?!
Mert mink a vérünkkel áztattuk a földet, hát tudjuk, mi az, hogy ki van törve a
háború.
Az idősek egységfrontot alkottak, csak abban nem tudtak megegyezni,
válasszanak-e politikai nézőpontot, vagy tisztán filozófiailag tiltakozzanak Józsi
nyilvánvaló hülyesége ellen. Ebből nem következett hasadás a korosabbak
601
között, de kiabálás igen, és akkora zajt csaptak, s az esetek többségében oly
közönségesen fejezték ki magukat, mintha demokratikus képviselők volnának.
Józsi valóban rémesen hülye volt, de maga is fölfedezte a hasonlóságot, és
vidáman heherészett, jóllehet nem lett volna boldog, ha az általa kiszolgált
parancsuralmaknak akár csak egyik jelképével testi kapcsolatba kerül.
Lelkesedni tudott, testesedni azonban nem: ekkor is oly sovány volt, mint a
népdalban az a komámasszony, ki a kóróra hajazott.
Az idősebbek végül kiegyeztek, és a konkrétumok helyett Józsi általános és
teljes megrohadása mellett foglaltak állást.
A fiatalok, persze, kevesen voltak, de ez érthető, amikor egy nemzet
öregszik. Az ifjak tehát kussoltak, és várták, hogy eljöjjön az idejük, amikor
végre ők is kifejthetik, amit akarnak. A korosabbakkal szemben inkább Józsi
mellett álltak volna ki, de nem érezték magukat egy náluk idősebb mellé
kötelezhetőnek. Még maga Köteles Gyula sem, pedig neki jó oka volt az idősb
Köteles Gyulával szembehelyezkedni, mivel annak halála esetén rá maradt
volna az öreg svájci bicskája, amit a környék mendemondájával ellentétben
nem maga a svájci király adott neki, hanem valóban a fővárosi boltok
egyikében vásárolt.
A nép azonban nem dőlt be az ilyen átlátszó meséknek, és igaza mellett
szólt az is, hogy a svájci bicskát fehér kereszt ékíti, ami mégsem vörös. Vox
populi vox Dei.
Az ügyvezető igazgató irodájából sápadtan figyelte, mivé fajul a termelési
tanácskozás, amit eredeti szándéka szerint az általa teremtett óriási
gyarapodásnak magasztalására rendelt összegyűlni. Nagyon félt, hogy
valamely deputáció előbb-utóbb jóváhagyásért, pláne tanácsért fölkeresi
majd, és akkor ki kell mutatnia a foga fehérjét, ami lehetetlen, mert reggel
elaludván, a fogak két sorának fehérje egy pohár vízben vigyorgott otthon, a
fürdőszobában. Elfelejtette magához venni. Erről eszébe jutott, hogy a
természet romboló ereje folytán ő maga is az idősebbek közé tartozik. Egy
ideig afölött gondolkozott, hogy vajon a fogsor puszta lét indokolja-e jobban
pártállásszerű öngerjedését, vagy netán az ekkora feledékenység. Mint
rutinos vezető, természetesen nem volt képes határozottan állást foglalni,
abban azonban dűlőre jutott, hogy aznap nem harap titkárnője lábikrájába,
amiről a keresztrejtvényszerzőkkel ellentétben pontosan tudta, hogy nem
rágós ín, hanem formás vádli. Férfiszármazású lévén nagyon is pontosan
tudta, mi a különbség valakinek ina és lába között.
Míg ezen sajnálkozott, s aggódott, hogy küldöttség keresi fel, és ő nemhogy
mosolyogni nem képes, sőt foga fehérjét kimutatni sem, alant a harcias
Verbatim magához ragadta a kezdeményezést. Véreim!, harsogta, Talán máris
határainkon az ellen!
Talán igen, talán nem, vihorászott a hülye Józsi, mint egy amerikai krimi
nyomozója. Maga azt nem tudhatja, vénember!
602
Hát te? Te szemétből kikelt taknyos! És újra a nemzethez fordult: Mutassuk
meg nekik, mit tudunk! Fogjunk össze! Egységben az erő!
Dareszt, kiabált Józsi, ez a mi jelszavunk, mint az, hogy munka és béke!
Ekkor, nem tudni hogyan s minek következtében felhar-sant az évek óta
hallgatag hangszóró: KÖSZÖNTJÜK A VÖRÖS CSEPEL HŐS MUNKÁSAIT!
Kötélre!, sipította egy koros tenor, és tulajdonosa Józsira mutogatott.
Feszítsd meg!, dörögte a gazdasági igazgató.
Mi a szarral, lármázott Vibratim, amikor még a feszítővasakat is elloptátok
innét?
Keresztre!, súgta az éjjeliőr. Keresztre vele!
Tábornok úr, bömbölte a fülébe Vibratim. Alázatosan jelentem, ezt a
parancsot jámbor keresztyén őseimre való tekintettel megtagadom.
Mit merészelsz, paraszt?, hördült az éjjeliőr. Ke-resz-TY-én?
Az. És éljen Kálvin János is, meg Luther Márton is!
Abcúg!, kékült el dühében a notórius díjfizetés-mulasztó. Éljen a szent
inkvizíció!
Az ügyvezető igazgató ezt hallván végképp kikészült. Óvatos szülei se meg-,
se kikeresztelni nem akarták. Nyomban felhívta mobilján a gazdasági dirit. Az
a tömegben nyugodtan beszélhetett, ott is mindenki sajátmagával volt
elfoglalva. Simon Péter, ne szarj be, kiabálta a mobilba a gazdasági, ha ezek itt
keresztyénezni kezdenek, mi obligón kívül maradunk. Biztos ez?, rémüldözött
Simon Péter alig valamennyi reménnyel hangjában. Nyugi, még ráérsz
dönteni, amikor arra kerül a sor. Akkor pedig azt mondasz, amit akarsz.
Mondd csak, miért mondod úgy, „biftof ev?” Mi van a fogaddal? Péter így
válaszolt: Bivony mondom néked, otthon helejtém. Nem baj, nyugi,
csillapította a remegő hangút a gazdasági. Te ügyvezető igazgató vagy, elég,
ha aláírsz valamit, akármit, értesz? Aha, mondá erre Simon Péter. Akármit,
nyomatékosította Iskarióthy Júdás, és elvegyült a tömegben, de abban nem
volt biztos, hogy szülei okosan tették-e, mikor választott-népi családnevét így
megómagyarították. Lehet ezt tudni?
Közben a katolikus fiatal demokrata éjjeliőr elérte, hogy a volt tisztiszolgát
átvilágítsák.
A röntgenből kijőve Vibratim nem nézett többé a tábornokra. Ártatlan volt.
Igaz, az éjjeliőr pedig gyanún fölüli. De ez a kereszTYénezés!
Fölszólítalak tikteket, tegyetek hitet mellettem!
Tudatlan!, szólt bele a valahonnan előkerült főmérnök. Pázmány Péter…
Galád ellenreformátor!, lármázott Vibratim.
Ha még egy szót szól erről, elbocsátom!, nőtt túl a népen hangjával a
főmérnök. Miféle reformátor maga, ha azt sem tudja, hogy Pázmány még
keresztyénnek mondta a keresztényt? Csak a könnyebbség kedvéért mondjuk,
mi, katolikusok, kereszténynek. Mit akar itt, ha ezt sem tudja?!
Hazudik!, lármázott Vibratim.
603
Maga menjen a francba!, utasította Vibratimot önnön közösségének egyik
presbitere.
Mééér?!
Azér, maga barom testvér, mer’ a gyepükön az ellen, és ezt maga is tudja,
mindvégig tudta, és mégis mellékvágányra terelte a hadiösvényt.
Feszítsd meg!, rendelkezett az éjjeliőr.
Elég, ha megsüssük!, kiabált egy izgatott.
Simon Péter fellélegzett.
Iskarióthy Júdás mélyen elgondolkozott.
És felbődültek a hangszórók:
A KAZÁROK MEGROHANTÁK TÁBORUNKAT! A KORMÁNY A HELYÉN VAN. A
KAZÁROK HITSZEGŐ MÓDON BELÉNK OLVADNAK, ÉS KITARTANAK VELÜNK A
HONFOGLALÁSIG!
Megint egy etnikum, háborgott az idősebb Köteles Gyula.
Vibratim nyomban elhagyta a tanácskozást, fogta briftasniját, és elsietett.
Másnap Weiss Manfréd néven gyáróriást alapított a zöld Csepelen, ami csak
akkor volt vörös, amikor a Fradi színét piros-fehérre, nevét pedig Kinizsire
módosítá egy rőt manó.
A harmadik pún háború pedig igenis ki lett törve.
Fonte: Szitányi György, Héterdő, Novellák, Edizione OlF.A. Ferrara 2005 pp. 120
A művészet mint tudás és igaz ismeret
Tudásra, azaz ismeretre két módon tehetünk szert. Vagy közvetlen
tapasztalás, vagy gondolkozás révén. Az emberiség tudása is így halmozódott
fel.
Kezdetben, amikor zárt, egymástól külön élő közösségekben élt az ember,
ismeretei a közvetlen gyakorlatból, a tapasztalásból származtak. Ezek az
ismeretek nem csupán a világ tárgyaira, az eszközökre, a növényekre és az
állatokra vonatkoztak, hanem a közösség tagjaira is. A néhol máig fennmaradt
faluközösségek tagjai közötti munkamegosztás a közösség egészét szolgálja.
Ugyanakkor azt is elmondhatjuk, hogy az ilyen zárt egészet alkotó közösségek
tagjainak neve sokkal kevésbé fontos a többiek számára, mint az, hogy mihez
értenek, mire használhatja őket a közösség.
Néhány évtizeddel ezelőtt még a fővárosi bérházakban is éltek olyan
emberek, akik nem tudták szomszédaik nevét, ezzel szemben megbízható
ismereteik voltak arról, mit tudnak, mivel foglalkoznak szomszédaik.
Másodlagos volt, hogy Kovács urat hogy hívják, ha ő a házban lakó
gépkocsivezető volt. Akkor az ő neve általában a Sofőr volt, ahogy ott lakott a
Kéményseprő, a Szabó, a Tűzoltó, vagy akár a Tanár is.
604
Ez az elnevezési mód azt fejezte ki, mire való, akit jelölnek vele. Ez volt az ő
mineműsége (quiditas). A Kárpátok keleti részein még ma is találhatunk olyan
zárt faluközösségeket, önellátó, rendszerint magyar falvakat, amelyekben él
még a faluanya intézménye is. A faluanya az, akihez minden munkanap
reggelén odaterelik a gyerekeket, és ő vigyáz rájuk, neveli a következő
generációt. A faluközösség többi nő tagja dolgozik, a falu pedig ezért a
munkájáért cserébe eltartja a faluanyát.
Történelmileg szemlélve: amíg fennálltak az önellátó, zárt közösségek, ki-ki
általában szülei mesterségét folytatva maradt része a közösségnek, és a
közösség így mindaddig fennmaradhatott, ameddig a közösséget a
fejlődésnek nevezett átalakulás szét nem bomlasztotta.
Ebben a korban még mindenki tudott mindent, ami szükséges volt a
megélhetéshez, és a közösségnek mintegy alkatrésze volt az egyén. Ha nem
lett volna alkatrésze, szokásait és gyakorlatát nem rendelte volna a
hagyományozódott közös életforma alá, a közösség kivetette volna. A
közösség embere számkivetve elpusztult. Természetesen volt ilyen is. E
kornak erkölcsét a közösség szabta meg. Ugyanez máig megmaradt egyes
kolóniákban. Olyan helyeken, ahol az erkölcsi ítéletet az utca lakóira bízzák,
ahol a dzsumbuj nyilvánossága (Hernádi Miklós kifejezése) még hatni tud, a
világról alkotott kép szinte ugyanolyan kezdet-leges, mint a hajdani zárt
faluközösségekben.
Ez a kép kezdetleges, de teljes kép. A világról való olyan tudás, ami
napjainkban már idegen test a kultúrában. Nem szabad azt gondolnunk, hogy
ennek a közelmúltban nem akartak hatalmi szóval létalapot adni. A
kommunizmus lényege e tekintetben a közösségi társadalom rögeszméjében,
magában a jogrendben is jelen volt. Súlyosan ítélték meg (vagy akár el), ha
valaki nem akart a lakóközösség többnyire irigy és képmutató erkölcse szerint
élni. Egy-egy lakóközösségnek is alá akarták vetni akár a velük egy házban élő
orvos, mérnök, zenész vagy tanár életmódját, szokásait is. Érdemes
utánajárni, miféle képtelenségekkel élt a magyar családjogi törvény is.
Látnivaló, ezzel a fajta, felülről diktált, jellegében ősközösségi szemlélettel
hogyan szerette volna a politika az emberek közötti kapcsolatokat
megdermeszteni. Világnézet lehetett ez a huszadik század vége felé?
Természetesen nem. Ez ideológia volt. És ugyanezzel az ideológiával akarták
elnyomorítani a művészeteket is.
Ugyanígy képtelenség világstílusok, Európát bejáró eszmei áramlatok idején
a nemzeti kulturális értékek alá helyezni más nemzetek kulturális értékeit.
Ilyen hierarchia képtelenség. Amint abszurdum más népek, nemzetek – végső
soron hatalmi komplexumok – politikájának aláren-delni egy nemzet
kultúráját.
Más kérdés az, hogy szinte mindenki a maga nemzetének kultúráját,
művészetét, illetve népművészetét becsüli a legjobban. Ez természetes,
605
hiszen abban nőtt fel, a maga nemzetét szereti benne. Az azonban, hogy egy
másik nemzet művészetét lenézzük, nem hazaszeretet, csupán a magunk
becsületének csorbítása, vele a magunk méltóságát és tisztességét kezdjük ki.
Azok az ismeretek, amelyeket a közvetlen tapasztalásból szereztünk, illetve
tanultak meg őseink, jellegüknél fogva igaz ismeretek. Ebben nemcsak az
elnevező ember igazsága dönt, hanem az, hogy a tárgyak, dolgok, általában
véve a világ olyan ismeretéről beszélünk az ősi korokban, amelyek nemcsak a
gyakorlatból voltak ismertek, hanem a gyakorlatban azonnal és közvetlenül
igazolódtak is.
Ez ismeretek neve doxa.
Fonte: Szitányi György, Általános Esztétika II.: Esztétikai megismerés és fogalmi
tisztázás, Edizione O.L.F.A., Ferrara 2005, pp. 72
TÁBORY MAXIM (1924)
- Kinston, NC (U.S.A.) -
A kőbe dermedt őshaza
- Fáy Ferenc új kötete Fáy Ferenc a KÖVÜLET című legújabb könyvének első versében így indítja
útnak a Királyfit: „Elindultál, hogy a Feketerózsa kelyhéből elhozd azt a
harmatot, melyből ők is mindörökké élnek, s melyben magad is szebbé
moshatod.” De a mások és saját boldogságát kereső évek „elnyűtték a
kincskereső kisködmönt”. Megtalálja-e végül a kincset? „A kincs? — A
kincsed? — Elkéstél vele.” A költő egyik élettragédiáját foglalja magába e
néhány szó. Józanul ő nem okol mást — látszólagos — kudarcáért: „Magadra
vess, ha úgy élsz, mint a rab a kővé dermedt arcok ketrecében.” „És nem látsz
túl ujjaid sövényén, hol emberek élnek.” De mégiscsak egyedül. Sorsa azonos
a világba vetett népe sorsával. Míg „megreked” „a kőre kövült kegyetlen
képkeretben”, az eddig részvétlen emberek rádöbbennek, hogy azonos a
sorsuk, s köré gyűlnek, „hogy lássák az arcod áttetsző egén az arcuk
pusztulását”.
A kőbe dermedt őshal — a költő. Innen ez a szokatlan könyvcím: KÖVÜLET.
Vajon valóban megkövesül a költő kiáltása? S utánozhatatlan szépségű sorai
kőbe dermedten fognak meredni a jövő nemzedékekre? A mai olvasó hiszi,
hogy mert ő szenvedi mindnyájunk kínjait, ki fog lépni a betűkbe fagyott
halhatatlanságból, hogy életre keljen az utódok száján, kik könyesen fogják
olvasni és felolvasni verseit. Fáy mondanivalója ezért marad mindig szívhez
606
szóló. Csaknem minden versét fájdalmas reménytelenség hatja át. A lelki
tusákban és anyagi nehézségek közt vergődő költő együtt járja honfitársaival
az emigráció bugyrainak végtelen köreit és nincs egy Beátrice, ki égi
könyörülettel besugározza nyomorúságát.
Péceljének tehetős, de szegény sorú lakói is, a méltóságteljes Batár bácsi,
szeretett szülei, a rongyos Fitus Jani és mások, kiknek erőteljes formáit őrzik
előző kötetei, itt meggyászolt árnyékokként jelennek meg: „Az arcuk lárva,
sáros emlék.” Már nem emelkedik ki a falu büszke szépségében, hanem őneki
kell, hogy a porból „kaparja elő az utcát”. S maga is ott, „egy csontváz, kék
matrózruhás kisfiú”. Halottak szellemének önkínzó felidézése festi a fájdalmas
és sokszor nyomasztó hátteret. „A csodálatos halászat”-ban hálója szakadozik
s „zúzott ujja közt sebzett ég csurgatja vérét...” „A Corvin közi halottakat, diák
hősöket, csepeli munkások szétroncsolt testét fogom ki” — mondja Fáy —.
„Őket látom, mikor bedobom hálóm, hogy kihalásszam az elsodortakat a
mélyvizek áramából, az októberi fiatal hősöket. — „Itt és most, minden
magyar elé mered a kérdés” — folytatja Fáy —, „mikor az ágyad szélére ülnek
a temetők s a régi halottak kérdeznek, tudsz-e nekik felelni, vagy
asszimilálódtál és csak állsz a kérdő szavak között és már nem érted őket.”
A költő Istenhez való viszonya változáson megy keresztül. Most az
Örökkévaló vonul lassan vissza tőle a végtelenbe... Kezdetben még „rázuhan
az Isten”. Legalább így érezteti jelenlétét. De később, másutt, „a távoli Isten
alszik”, s a költő kétségbeesetten sóhajt föl: „Milyen kihalt most nélküled a
táj”. Mégis: próbálja Vele felvenni a kapcsolatot. A „Rövidzárlat”-ban hiába
tárcsázza, mert mással beszél. A magára hagyott, elkeseredett költőnek néha
úgy tűnik, hogy manapság az Istent hosszúhajú, marijuánát füstölő,
extázisban örjöngő szekták tagjai vallják magukénak, és Ő, hogy kedvében
járjon visszataszító teremtményeinek, „gitározik és dópot szed”.
Van-e kiút ebből a „kilincstelen és kulcstalan világ”-ból? Bár a költő „senki”
és „nincs sehol”, s az Úr nem veszi fel a telefonkegylót, s ott lakozik a
felmérhetetlen távolban, de talán itt is van. „Olyan közelben, hogy lélegzete
szinte hallatszik”. (T. M.) Mert e közelség nélkül hogym tudta volna megírni a
Keresztutat? E Mű nem a pillanat szüleménye. A harmadik, ötödik és az utolsó
stációval már „Az Írást egyszer megtalálják” című kötetében találkozunk. A
Bevezető zárósoraiban maga is vallja: „Ezt a Keresztutat akarom elmondani,
és azt az Istent, ki megcsúfolt, öszvér-életem minden sebében benne van. A
„Keresztút”-ban a költői képek nincsenek zsúfolva, mint sok más versében, a
megelevenedett Természet nemcsak részt vesz a történtekben, hanem eggyé
válik a tragédiával. Fáy is úgy látja a tömeget mint Karinthy Frigyes a
„Barabás”- hörgő óriás szájú Szörnyeteg, miben az emberiség minden bűne,
könyörtelen öldöklési vágya egyesül. Az a Krisztus, kinek „megduzzadt nyelve,
kéken kifordult száján mint egy rongydarab”, sohasem volt Emberibb, „a
porban úgy feküldt, mint minden idők alkonyában a fáradt ember fekszik
607
mindenütt...” Benne vagyunk így, s mindnyájunkban van — a Megváltó. És
látjuk roskadozni a Kereszt alatt, míg a legionárusok, papok, könnyező nők, a
vérszagtól megvadult tömeg, és a Via Dolorosa fölé kérhetetlenül tornyosul a
DOMB — a Végzet és a Beteljesülés. Ez Fáy Péceljének a keresztútja, de
százezer más szépséges, szeretett, de szegénységben nyomorgó falué is,
Kamcsatkától — a Tűzföldig. Ő megőrzi at egész világ magyarsága részére
Pécelt, a Magyar Falut. Fogja tudni az emigráns magyar más országban valaha
is otthon érezni magát? Kutasi Kovács Lajos írja a clevelandi SZABADSÁG 86.
Évfolyam 40. Számában: „Voltaképpen az ember akkor kezdi otthon érezni
magát valahol, amikor már van egy kedvenc helye, ahova keresgélés nélkül
odatalál, ahol ismerősek az épületek és az arcok, anélkül, hogy bárkit is
közelebbről, személyesen ismerne.” Természetesen ilyen érzés nem tudja
megszüntetni a honvágyat, de legalább terra fermá-val szolgál, ahol az
emigráns megvetheti lábát. Képes-e az író és a költő, ki mindig a nép
lelkiismerete volt, önvádlás nélkül elfogadni egy más országot, mint második
hazát, és lenni „két szívvel” jó magyarnak és jó amerikainak? Angliában
Kabdebó Tamás, életével és munkásságával bizonyítja, hogy lehetséges.
Flórián tibor, három évtized hazát-vesztett bolyongás után végre megtalálta
helyét. A „Krónika” 1978. májusi számában
írja: „...bolyongtam
kétségbeesetten. Amíg egy Erdéllyel hangulatban rokon tájra bukkantam New
Englandban. A connecticuti erdőkben Erdély fái zúgtak, a tavak és a hegyek
visszahozták az otthoni tájat. Így nőttem a New England-i tájba anélkül, hogy
megszűntem volna erdélyi lenni, és úgy fogództam az amerikai talajba, hogy
európai és magyar maradtam.” Az ilyen felismerés lehetősége az egyén
érzelmeitől függ, az egyéni érzelmeknek va alávetve. De, ha az emigráns, s
köztük a költő, hűtlenségnek minősít a saját részéről minden közeledést
mostoha hazájához, és visszautasítja annak barátságra nyújtott kezét, a neki
„idegenek” szeretetét, akkor sohasem lesz képes börtönének rácsait
szétfeszíteni, s kilépni — Fáyval szólva — a: ”csakis belülről nyitható valóság”ba. Bár Fáy írja „Egy hazaindulónak”-ban, hogy „rám ölti nyelvét minden ág
itt”. Jónéhány más versében szeretettel nyilatkozik meg a kanadai táj és
természet szépségeiről. Mi sem bizonyítja ezt jobban, mint az a számos
ritkaszép, csodálatos hangulatú vers, amit a kanadai évszakokról írt.
E sorok írójának az a meggyőződése, hogy Fáy Ferenc további fejlődése
nagyrészben attól fog függni, hogy megtalálja-e a saját egyensúlyát a
Szülőhaza és Kanada között. A „Sütkérezés” c. versében írja Fáy: „S te
hallgatod, hogy feslik ki a zöldburkú nyarakból a dióbarna csend, és hogy
gurul a székek közt a porban, s nincs kinek megtörhetnéd.” Erre egyenesen
Fáyhoz intézem szavaim: Mi, emigrációs magyarok ezrével állunk köréd és
mondjuk és valljuk, hogy nekünk te igenis megtörheted „a dióbarna csönd”et, mi hallgatunk, várunk és meg fogunk érteni! Mert te, nekünk, „mégis élsz
még”, mert mi mindnyájan őrizzük „szavaid áfonya ízét”.
608
A „Mese a tavaszról” is hozza a Jövő ígéretét: olyan vitális, lendületes
vonalat költészetében, amit a borongó és fájdalommal áthatott verseihez
szokott olvasó alig ismer. Úgyszintén a „Halotti maszk” gúny és öngúnya
mögött új alkotások ígérete rejlik. A könyv egyenletesen magas nívójú versei
közül kiemelkedik a „Keresztút”. E mestermű igazolja, hogy a költő méltónak
bizonyult a Témához.
Buday László rajzai e sorok írójának véleménye szerint, a Békaszerenád rész,
megnyitó rajzának a kivételével, művészi és egyben érthető munkák, s ha
témailag nem is mindig, de hangulatban, harmóniában vannak a
költeményekkel.
Minket itt, a szétszóratásban, ahogy Buday László írta a Krónikában: „Valami
mélységes fájdalom fojtogat... Keresed hűtlen szavaid, és nem találod őket. S
ilyenkor olyan jó megváltó szavakat találni... Ekkor szól hozzánk Fáy Ferenc,
mély hitével, a keresztút gyönyörű eposzával. Újraéled a múltad, hogy híven
újra járhass, és a Fáy-vezette ámulatban ismét hinni tudj.”
S talán ez a kulcs: A Múltra építhető Jövő.
(Megjelent Új Európa, Politikai és kulturális szemle, 18. Évfolyam 6. Szám, 1979.
november-december) Újraközlés a még szerkesztés alatt álló, de hamarosan
megjelenő magyar nyelvű Árny és fény c. verseskötetéből.)
Életbölcsesség
Sóvárogj! Vágyjál! Epekedj!
La Vita Nuova
szellemének mind egyre megy.
Visszhang: Összehasonlító interpretáció
Dante Alighieri La Vita Nuova (XXVI) szonettjének két fordítását tárgyalom
szakaszok szerint Babits Mihály és B. Tamás-Tarr Melinda műfordítóktól,
609
amelyek az Osservatorio Letterario 2011. 79/80. dupla számában, a 79.
oldalon jelentek meg (ld. a Tradurre-Tradire-Interpretare-Tramandare
[Fordítani-Ferdíteni-Interpretálni-Átadni] c. rovat nyomtatott és internetes
elérhetőségét is [http://www.osservatorioletterario.net/osservatorio7980tradurre-tradire.pdf]:
Dante Alighieri (1265-1321)
LA VITA NUOVA (XXVI)
Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.
Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che ’ntender no la può chi no la prova:
e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo a l’anima: Sospira.
Babits Mihály fordítása:
B. Tamás-Tarr Melinda fordítása:
Dante Alighieri (1265-1321)
AZ ÚJ ÉLET (XXVI)
Dante Alighieri (1265-1321)
AZ ÚJ ÉLET (XXVI)
Olyan nemesnek látszik, oly kevélynek
hölgyem, amint köszön, bólintva szé[pen
hogy minden nyelv remegve néma lé[szen
és a szemek ránézni szinte félnek.
Oly kedvesnek látszik s oly őszintének
az én nőm, amint mást köszönt illen[dőn,
a nyelvnek némulnia kell remegőn
és a szemek ránézni bizony félnek.
Babits az „onesta”-t, bármennyire is hihetetlen, „kevély”-nek fordította. A
„gentile” mint „nemes” és „hölgyem” jól hangzanak együtt, mint tiszteletnek
jelei, de a „kedves” közvetlenebb és „az én nőm” férfiúi/férji büszkeséget
610
éreztet; ugyancsak a „szépen” túl általános és keveset mond, addig az
„illendő” kifejezőbb. A „szinte” túl feltételező, míg a „bizony” határozott.
És mégis ő kit annyian dicsérnek
szerénységnek jár ritka köntösében
mintha égből azért jött volna épen*
hogy csodát lássanak a földi férgek.
Ő, kit mindenütt annyian dicsérnek,
jár szerénység jóságos köntösében,
mintha mennyből azért jött volna ép[pen,
hogy csodát lássanak a földi lények.
A „ritka” szó nincs a versben, míg helyes a „jóságos” (benignamente). „A
földi lények” megfelelő. Kétségtelen, hogy „a földi férgek” a rím kedvéért
lett föltalálva, ami sokat levon a fordítás értékéből. Hogy más költő is
elkövetett ilyesmit, az nem mentség. Pl. Tóth Árpád, aki sokak szerint jobb,
hűebb költő-fordító volt mint Babits, a saját „Április” c. versében így
örökítette meg — egy rím kedvéért — a jövő olvasó nemzedékek számára
verse néhány sorát: „Vak lapárus: eleven / Bús utcaszemét / Sütkérezik a
melegen , / S nyitja holt szemét.”. Az „eleven” szótári jelentése: élénk,
mozgékony, ami nem lehet feltételezhető egy bús vak lapárusról, de hát ,
eleven és melegen jól rímelnek. Ezt a bús vak embert úgy nevezi a költő, hogy
„utcaszemét”. Nem tudott ellenállni a „szemét-szemét” ritkaság számba
menő rímnek.
Ez, egy vak emberrel kapcsolatban, zavarja az olvasó
érzelmeit. Mindenesetre, lehangoló, hogy egy ilyen nagy költő, egy rím
kedvéért gyengítette e vers ragyogó hangulatát. Ha nem is olyan mértékben,
de itt , Babits fordítását is gyöngítik „a földi férgek”.
Olyan tetszőnek látja aki nézi
hogy nincs szív amely kéjjel meg ne
[telljen,*
hogy meg nem értheti aki nem érzi.
Őt meglátni tetsző annak, ki nézi,
hogy szemnek szép látvány édes a
[szívnek,
hogy meg nem érti az, aki nem érzi:
Valahogy, a „dolcezza al core”-ben kéjjel megtelt szívet vél látni a fordító.
Míg a másik, a „szép látvány édes a szívnek”-ével megnyeri az olvasó szívét.
Itt is az óvatos, feltételező „meg nem értheti” helyett van a bátor és
egyenesen kimondott „meg nem érti az”.
Ajkáról száll fel és a szívbe megy
egy édes, szerelemmel teli szellem
mely így szól a lélekhez: Epekedj!
és úgy tűnik, hogy ajkáról ellebben
egy szelíd, szerelemmel teli szellem:
- Epekedj! - szól a lélekhez s elrebben.
Fordította © Babits Mihály (1883-1941) (Avagy: - Sóvárogj! - szól a lélekhez s elreb[ben.)
* Így találhatók a mai helyesírással
Fordította © B. Tamás-Tarr Melinda
ellentétben.
611
„A szívbe megy” fordítást olvassuk, de ebben a szakaszban hiába keressük a
„szív” vagy az „édes” szót. A „soave” határozottan nem „édes.” A másik
fordító jól választotta a „szelíd” jelzőt. Az ajakról a „szívbe megy”-ben a
„megy” ige nem hangzik költőiesnek. Mindkét fordító az „Epekedj!”-et
használja, vagy „Sóvarogj!”-ot ajánl. „Sospira” után nincs felkiáltójel.¹ Úgy
néz ki, hogy Dante inkább tanácsot ad, nem egy erős felszólítást. Így ezért is
„vágyódj”, vagy ha a ritmus megkívánja: a „vágyódjál.” talán alkalmasabb
lenne. Nyelvünk gazdag szóárnyalatokban. „Ellebben” és „elrebben” nem
pontosan ugyanaz. Ezt a fordító jól tudja-érzi, ezért míg a nő ajkáról mint egy
sóhaj ellebben a szellem , szelíden (nincs felszólításról vagy parancsról szó itt)
szól a lélekhez, s azután gyorsan elszáll, szárnyra kel, mint egy madár:
„elrebben”.
Nem kétséges, hogy melyik fordítás
gazdagabb.
szöveghűbb és
finomságban is
¹ A műfordító, B. Tamás-Tarr Melinda észrevétele a felkiáltójellel kapcsolatban: az
olaszban gyakran még a felszólítás, parancs ellenére is sokszor elhagyják
manapság is a felkiáltójelet, a magyarban viszont nemcsak ez esetekben, de még
óhaj, kívánság, vágyódás után is odakívánkozik a felkiáltójel – annak idején így is
tanultuk, tanították s én is így tanítottam és tanítom – s ehhez is ragaszkodom a
továbbiakban is, hiszen nem egyszerű kijelentésről van szó s ezzel még
nyomatékosabbá válik a költő szonettjében kifejezett érzelem. Ezért tettem én is
felkiáltójelet az olasszal ellentétben...
TAKARÓ MIHÁLY (1954)
- Budapest (H) -
A
huszadik század első fele irodalmi
kánonjának eltorzított, megcsonkított,
egyoldalú ábrázolásáról, ennek okairól és a
helyreállítás lehetőségeiről
A jelen helyzet és annak kialakulása
Az 1948-ra kialakuló politikai diktatúra mellé
határozottan és tökéletesen szervezett formában
sorakozott fel a nézetdiktatúra és az ízlésterror is (lásd: Révai korszak).
Az irodalomtörténet-írás és az irodalom tanítása az osztályharc eszköze lett.
612
A kommunizmus négy évtizede alatt nem csak értékközvetítési alapon
kerültek be alkotók az irodalmi kánonba, hanem igen jelentős mértékben
világnézeti szempontok határozták meg az írók, költők helyét abban.
A 20. századi irodalmi kánonba kerülésnél az elsődleges szempontok a
baloldaliság, az internacio-nalizmus (kozmopolitizmus), és az ateizmus voltak.
A keresztény nemzeti szellemiségű írókat és életművüket – lehettek azok
bármilyen értékesek is – az osztályharc nevében vagy kitörölték az irodalom
tankönyvekből és az irodalomtörténeti munkákból, vagy teljesen
jelentéktelennek, gyakran egyenesen retrográdnak tüntették fel.
Elgondolkodtató tény ebből a szempontból, hogy például az 1945-ös BartaKovalovszky-Waldapfel-féle gimnáziumi 8. osztályos tankönyv még egyaránt
tartalmazza József Attilát, Szabó Dezsőt, Gyóni Gézát, Reményik Sándort stb.,
ezzel e korszak teljesebb és a valóságot sokkal hitelesebben tükröző irodalmi
palettáját tárva a tanulók elé.
Az osztályszempontú kánon (ez váltja fel az értékszempontú válogatás
elvét!) kialakításának esett áldozatul a polgári liberális irodalmi póluson kívül
szinte minden más irányzat bemutatása, elsősorban a konzervatív-nemzetipolgári, (pl. Herczeg Ferenc, Gyóni Géza, Tormay Cécile, Szabó Dezső, Márai
Sándor, stb.) valamint a teljes, transzilvánista irodalmi pólus (pl. Reményik
Sándor, Makkai Sándor, Nyírő József, Tompa László, Wass Albert, Áprily Lajos,
Bánffy Miklós, Dsida Jenő stb.).
Ez a helyzet az irodalomtanítás terén az ún. rendszerváltás (1990) óta sem
változott érdemben, sőt, e korszak ábrázolása tekintetében a torzítás
drámaian fokozódik.
Miközben továbbra sem kötelező tananyag néhány olyan, a saját korában
irodalmi Nobel-díjra jelölt kiváló író, mint pl. Herczeg Ferenc (Az élet kapuja
című regényéért terjesztette fel 1925-ben a korabeli magyar Nobel-díj
Bizottság- Császár Elemér, Négyessy László, Horváth János), Tormay Cécile
(10 nyelvre lefordított, európa-szerte híres regényéért, a Régi ház-ért, 1936ban), Wass Albert (felterjesztve Németországból 1949-ben az Adjátok vissza
a hegyeimet! című regényéért), vagy Gyóni Géza, aki 1934-ben az Angol
Irodalmi társaság nagydíját nyeri el (halála után 17 évvel), addig aggasztó
módon olyanok lesznek tankönyvi anyaggá, akiket csak másodrangú, szerény
életművű, bár tehetséges írónak tartott saját koruk is. Ennek a jelenségnek
legeklatánsabb példájaként Csáth Géza említhető.
És ez a torzítás, tudatos csonkítás és egyoldalú válogatás nemcsak az egyes
írókra, hanem magára a korszak irodalmi életének bemutatására is
hatványozottan igaz!
Mert miközben triviális tény, hogy a 20. század első két évtizede jelentős
változásokat eredményezett a magyar irodalom fejlődési irányai és irányzatai
terén (tudniillik irodalmunk 1920-ra hárompólusúvá vált), aki ma kezébe vesz
Magyarországon egy általános, vagy egy középiskolai tankönyvet és annak
613
alapján próbál meg képet alkotni a 20. század első felének irodalmi életéről,
meglepő eredményre juthat.
Tankönyveink szinte kivétel nélkül úgy ábrázolják ezt a kort, mintha csupán
egy meghatározó irányzat létezett volna irodalmunkban, melyet a Nyugat
reprezentált, mintha ez a lap képviselte volna kizárólag az irodalmi
progressziót és a körülötte csoportosuló írók, költők művei jelentették volna a
korszak egyedül értékes magyar irodalmát.
A valóság azonban teljesen más volt. Hiszen míg a Nyugatot fénykorában is
alig 900 példányban adták ki, addig a konzervatív-keresztény-nemzeti
irányzatú polgári irodalmi hetilap az Új Idők 30ezer példányban jelent meg.
E mennyiségi összehasonlítás természetesen nem jelent automatikusan
minőségit is, de azt feltétlenül megmutatja, hogy a Nyugat csak igen szűk
társadalmi körben volt ismert és olvasott lap, az össztársadalmi
közgondolkodásra tett hatása összehasonlíthatatlanul szerényebb volt, mint a
kor vezető lapjáé, az Új Időké.
Találóan jellemzi Herczeg Ferenc ezt a korszakot egy 1908-ban vele készült
riportban az őt kérdező újságírónak:
,, –Hát a mai irodalom?
–Pezsgő, fejlett és érdekes.
–Nem állok be a siratói közé. Nem csak azért, mert még soha olyan öntudatos
irodalmunk és művészi literatúránk nem volt, mint amilyen most, hanem azért
sem, mert soha és sehol irodalom nem volt olyan hű tükre az országnak, mint
épen a mai irodalom.
Hogy sokféle és kevert? Hogy forrongó és százféle energia ütközik benne
össze? Az nem tesz semmit, sőt éppen azért értékes, éppen azért hű. Mert így
éppen azokat a kevertségeket és széthúzó küzdő energiákat mutatja, amelyek
magában az országban is birkóznak egymással. Így van helyén, így jó!” (1)
A század első két évtizedében fénykorát élő, az akkori legnagyobb írókat,
költőket is megjelentető Új Idők (2) sikerrel gyűjtötte össze mindazokat, akik
magas esztétikai minőséggel a magyar nemzet valódi sorskérdéseiről írtak, s
ezekhez a kérdésekhez nemzeti-patrióta szemmel közelítettek. Közös
jellemzőjük még keresztény-keresztyén világnézetük, mely eleve
meghatározta látásukat a problémák megoldásával kapcsolatban.
Természetesen nem semlegesen, de mindenképp elfogulatlanul próbálják
bemutatni a magyar valóságot, meglátva mély válságának minden tünetét. Itt
publikál rendszeresen haláláig Jókai Mór, Mikszáth Kálmán, e lap ad helyt
sokak mellett Ambrus Zoltán, Gárdonyi Géza, Tömörkény István, sőt 1908-ig
Ady Endre (3) írásainak is.
A századforduló magyar prózáját uraló írótriász, ahogy Márai Sándor nevezi
őket (4)
közel négy évtized biztos távolából még azt az irányzatot fémjelzi, amely a
mintegy 1000éves magyar literatúrából kontinuitív módon fejlődött ki.
614
A 20. század első évtizedeinek jelentős irodalomkritikusai, illetve azok nagy
többsége úgy érezte, hogy a Nyugat – bár kétségtelenül a magyar líra
robbanásszerű fejlődését idézte elő mind tematikailag, mind minőségileg –
más irányú tevékenysége (lásd pl. műbírálat, irodalomkritika) aggasztó
törésvonalat eredményezhet irodalmunkban. Ennek kirívó példájának
tekinthető Hatvany Lajosnak a Nyugatban megjelent méltatlan, sértő és
teljesen igazságtalan kritikája Herczeg Ferencről (5). Rákosy Jenő, Herczeg
Ferenc, Császár Elemér, Horváth János és még számosan ezen az állásponton
álltak. Az 1911-ben, kimondottan a Nyugat ezirányú munkásságát
ellensúlyozandó (kiegyensúlyozandó!), Herczeg Ferenc által alapított kritikai
folyóirat, a Magyar Figyelő ,,nyugatos” kíméletlenséggel és határozottsággal
mutat rá irodalmunk átalakulási jelenségeire. Kevéssé ismert tény, hogy ebből
az időszakból datálható irodalmunk-ban a máig fennálló ,,népi-urbánus” vita
megjelenése is.
A Nyugat és reprezentánsai tudatosan és igen agresszíven kisajátították a
modernség és megújulás jelszavait, önmagukat jelölve meg az irodalmi
progresszió egyedüli letéteményeseinek. Különösen igaz ez a lap
működésének első két évtizedére, az 1908-1928 közötti időszakra. ,,Újításaik
(önmaguk által is gyakran hangoztatottan) nem a magyar irodalom
kontinuitásából nőttek ki, ezért a legtöbben aggasztó paradigma váltásnak is
érezték, érezhették munkásságukat” (6) a konzervatív népnemzeti írók.
Féja Géza, a népi írók kiváló képviselője ezt írja erről a korszakról:
,, –A Nyugat korszak intellektuelljei végzetes egyoldalúságban éltek. Csak a
negatívumokat vették észre, meglátták a történelmi Magyarország
hullafoltjait, de nem látták meg Magyarország pozitív erőit, életképességének
forrásait, sajátos belső alkatát. Így azután, amit hirdetek érvényes lehetett
valaminő elképzelt helyzetre, de nem magyar honra.
*…+ Az építésnek a legelemibb erői sem voltak bennük. Ady addig volt a
kedvencük, amíg a társadalmi kritika számára fel bírták használni.” (7)
Az ebben az időben erőteljesen kibontakozó kultúrharcot és annak
következményeit kiválóan jeleníti meg a Lengyel András által beazonosított
(8) Kosztolányi cikksorozat, amely 1920. szeptember-októberében jelent meg
az Új Nemzeték című folyóiratban és az előző évtizedekben kialakult helyzetre
mutat rá. A cikksorozat címe: A magyar irodalom és az ő irodalmuk. Ezen
írásmű lényege, hogy ,,Kétféle irodalom székel Budapesten: a magyar
irodalom és az ő irodalmuk.
*…+ és bebizonyítjuk azt is *…+ az ő irodalmuk hadat üzent a magyar
irodalomnak.” (9)
A cikksorozat második részének címe: A vörös hetesek.
,,A magyar irodalom ellenlábasait röviden ,,vörös heteseknek” is nevezhetjük.
Vörösöknek, mert nemzetköziek, és a nemzetköziség színe a vörös, heteseknek
615
pedig azért, mert pokoli véletlen folytán pont heten vannak. Hét író. Hét
dramaturg. És hét jóakaratú kritikus.
A hét író: Molnár Ferenc, Bíró Lajos, Lengyel Menyhért, Gábor Andor, Heltai
Jenő, Bródy Sándor, Szomori Dezső.
Most jön a hét dramaturg: Alexander Bernát, Jób Dániel, Vajda László,
Heltai Jenő, Hajó Sándor, Bárdos Arthur, Salgó Ernő.
Azután a hét kritikus: Keszler bácsi (Keszler József - a szerk. megjegyzése),
Bálint Lajos, Alexander Bernát, Sebestyén Károly, Hatvany Lajos, Béldi Izor,
Erényi Nándor.
A hét író birtokba vette valamennyi színházat s a hét dramaturg szigorúan
őrködött azon, hogy új magyar író minél kevesebb tűnjék fel a láthatáron, a
hét szigorú kritikusnak pedig az volt a dolga, hogy égig magasztalja a hét író
színre kerülő darabjait, viszont a sárga földig lerántsa az esetleg betolakodott
idegeneket. *…+ Összetartásuk szinte egyetlen nagy célban domborodott ki:
megfosztani az irodalmat nemzeti jellegétől.” (10)
A nemzeti-keresztény irányítású (Horthy-korszak) Magyarországon robbant
ki ez a vita, melyhez hozzászól szinte mindenki, jobb és bal oldalról egyaránt.
A két irodalmi pólus nézetei érzékelhetően kibékíthetetlen ellentétben állnak
egymással. Az Est-lapokban megszólalnak maguk az itthonmaradt érintettek
is. A hét részből álló cikksorozat rávilágít, hogyan juthatott uralomra itthon
egy olyan, magyar nyelven megalkotott, ám nem a nemzeti literatúrában
gyökerező és abból kifejlődő irodalom.
A harmadik pólus kialakulása
Az 1920. június 4.-i trianoni békediktátummal Magyarország nemcsak
területének vesztette el mintegy kétharmadát, hanem az új, megváltozott
politikai realitások következtében nemzetalkotó, többségi helyzetből
kisebbségi létbe szorult több mint hárommillió magyar is. Olyan jelentő
irodalmi központok kerülnek a határon túlra, mint pl.: Nagyvárad, Kolozsvár,
Kassa, Pozsony.
Ekkor születik meg – igaz kényszerből – kultúránk-irodalmunk új pólusa, a
transzilvánizmus, melynek programját Kós Károly, Zágoni István és társaik
fogalmazzák meg a Kiáltó Szó című röpiratukban. Az újonnan mesterségesen
összetákolt országalakulatba, Romániába szorult Erdély, Partium Körös-vidék
és Bánság kétmillió magyarja egészen más és új problémákkal kell
szembenézzen, megküzdjön. Az ekkor és itt keletkező magyar irodalom
kisebbségi nézőpontú, ám kétségtelenül továbbra is nemzetünk irodalmának
szerves része. Programjuk lényege, hogy megváltozott, új helyzetükben
felvázolják programjukat: a kisebbségi irodalomnak kettős feladatot kell
teljesítenie, földrajzilag, politikailag egy számára idegen többségű közegben
kell léteznie, ugyanakkor gyökereivel, láthatatlan hajszálereivel mélyen az
616
összmagyar kulturális, szellemi, nyelvi hagyományokhoz kell kötődnie. Ennek
a gondolatnak a lírai megfogalmazása az azóta jelképessé vált gyöngykagylómetafora. Makai Sándor ezt a kettős meghatározottságot fejti ki és foglalja
össze a következőkben:
,,Az egymástól országhatárokkal elválasztott nemzettest részének nem
szabad, hogy a magyar lélek szétesését jelenítsék meg, nem szabad, hogy
külön-külön elégtelen, félszeg, egymásra nézve idegenül vegetáló, halódó
szellemi torzók siralmas törpecsaládjává silányodjanak… nem nyugodhatunk
bele soha, hogy az összetört nagy tükör üvegcserepei más napot
sugározzanak vissza, s hogy a nemzet Géniuszának arcát akármelyik is
torzképben tükrözze. Minden nehézség ellenére innen és túl azon kell
fáradoznunk, hogy szellemi egységünk épen maradjon, s ha új vonások tűnnek
fel benne, az ne idegenséget és elszakadást, hanem gazdagodást jelentsen
minden rész számára.”
A kezdeti, hermetikus elzártságot követően újra kezd összekapcsolódni az
anyaországi és az erdélyi transzilvánista irodalom, melynek egyik eklatáns
példája az egyre gyakrabban párhuzamossá váló könyvkiadás. Wass Albert
könyvei például 1935-től egyidőben jelennek meg Kolozsvárott (Erdélyi
Szépmíves Céh), illetve Budapesten (Révai Kiadó). És igaz ez az irodalmi
elismerések terén is, hiszen a Babits Mihály vezette Baumgarten-díjat
odaítélő bizottság minden évben a határon túlra szorult magyar írókat is
díjazza, így kap például Baumgarten-díjat Reményik Sándor (1941),
Baumgarten-nagydíjat Wass Albert (1940).
A Helikoni Triász – Áprily Lajos, Tompa László, Reményik Sándor – és Dsida
Jenő a magyar líra megújulásának egészen más vonulatát képviseli, mint a
korabeli anyaországi. A magyar regény fejlődésében is új vonulatot jelent
Kuncz Aladár, Makai Sándor, Bánffy Miklós, Nyírő József, Tamási Áron, Kós
Károly, Wass Albert művészete. Az egyetemes magyar literatúra
szempontjából kétségkívül óriási értékeket teremtő korabeli erdélyi irodalom
drámaian alulreprezentált jelenlegi kánonunkban és különösen is irodalomoktatásunkban.
Összegző gondolatok
Eljött az ideje, hogy e korszak történettudományi értékeléséhez hasonlóan
az irodalom történetében is új utakra lépjünk. A kommunista diktatúra torzító
szellemi öröksége miatt most éppen a múlt hiteles feltárására és
bemutatására van szükség. Meg kell születniük az irodalomtörténet írásban,
általános- és középiskolai tankönyveinkben, egyetemi oktatásunkban azoknak
a munkáknak, amelyek képesek megszűntetni a korszak jelenlegi egyoldalú,
elfogult és aránytalan bemutatását.
617
Az egyoldalúan retrogádnak, (fél)fasisztának bemutatott korszak (19001945) igazi dilemmáit, valódi sorskérdéseit csak akkor lehet megismertetni,
sőt megértetni a jövendő, Európába igyekvő generációkkal, ha végre
elfogulatlan, valóságos képet kapnak – irodalom-tanításunkon keresztül is –
azokról.
Hivatkozások-szakirodalom
1. Adorján Andor: Látogatás Herczeg Ferencnél- Pesti Napló 1908. január 18.
2. Irodalmi folyóirat, 1894-1944(49) Szerkesztette: Herczeg Ferenc
3. Együttműködésüknek a híressé duk-duk affér vetett véget.
4. Márai Sándor: Herczeg Ferenc tanulmányai, (Emlékkönyv- Budapest, 1943.)
5. Hatvany Lajos: Herczeg Ferenc, mint phylosoph (Nyugat, 1909. Budapest)
6. Takaró Mihály: A gróf emigrált, az író otthon maradt (szabad Tér Kiadó,
Budapest, 2004) 245. oldal
7. Hetei Zoltán: Ady Endre tragédiája (Magyar Ház Budapest, 1999) 195. oldal
8. Lengyel András: Egy anonim Kosztolányi cikk azonosítása (Történeti
Tanulmányok Studia Historica 11. Szeged, 2008) 254. oldal
9. *Kosztolányi Dezső+: A magyar irodalom és az ő irodalmuk u.o.: 252. oldal
10. u.o.: 254. oldal
Takaró Mihály
író, irodalomtörténész, tanár személyében régi, pécsi,
tanárképzős korabeli, kedves évfolyamtársamat köszönthetjük Íme, a honlapján
olvasható rövid tömör bemutatása:
Általános- és középiskolai tanulmányai elvégzése után egyetemi előfelvettként
sorkatonai szolgálatot teljesített, ahonnan őrmesterként szerelt le. Első
diplomáját Pécsett szerezte, a JPTE tanárképző magyar-ének szakán.
Középiskolai tanári diplomát 1982-ben szerzett, a debreceni KLTE BTK magyar
szakán. 1978-tól a budapesti Kossuth Lajos Gimnáziumban tanított 1995-ig. 1993tól 2004-ig az OKSZI főmunkatársaként a magyar nyelv és irodalom országos
tantárgygondozója volt. 1993. januárja óta a magyar irodalom OKTV bizottság
ügyvezetői-elnöki teendőit is ellátja. 1996-ban három szerzőtársával együtt
elkészítették a négy kötetes, új koncepción alapuló érettségi szöveggyűjteményt.
1995-től 2002-ig szerkesztőbizottsági tagja volt a Magyar című
tantárgypedagógiai lapnak. Több mint 100 iskolai egyedi tantervet és számos
helyi tantervet bírált 1995 óta. 1995-ben elkészítette, 1999-ben átdolgozta az
érettségi útmutatót magyar nyelv és irodalomból. Több mint húsz éve lát el
érettségi elnöki feladatokat. 1999-től 2004-ig a Budapest Lónyay utcai
Református Gimnáziumban egyetemi gyakorlatvezető tanárként dolgozott. 2004től 2009-ig a Budapest Fasori Gimnáziumban oktatott.
A Károli Gáspár Református Egyetemen 2000-2004-ig oktatóként, 2004-2005ben egyetemi adjunktusként tanított eszmetörténetet és irodalmat.
2002-2005-ig a Felsőoktatási Felvételi Tételkészítő Bizottságban a tanító- és
tanárképző főiskolák felvételi feladatlapjait készítette. 2004 őszén szerezte meg
az emelt szintű érettségi elnöki képesítést. 2005 júniusában szerezte harmadik
618
diplomáját a Budapesti Műszaki Egyetem közoktatás vezető és menedzser szakán.
2007-2008-ban a Pázmány Péter Katolikus Egyetem bölcsészettudományi karán
oktatott. Jelenleg az Oktatási Hivatal külső munkatársa, a Trianoni Szemle
szerkesztőségének tagja. A Magyar Írószövetség tagja.
Takaró Mihály a pécsi főiskolai évek alatt alapító tagja volt a Szélkiáltó
együttesnek.
Legjelentősebb tanulmányai, előadásai:
Egyház- társadalom- kommunikáció- 1995 (előadás) Balatonszárszó értelmiségi
Konferencia – Szárszói Füzetek
A mama-motívum József Attila költészetében – 1999 (tanulmány) Magyarszaktárgyi folyóirat
A XX. századi irodalmi kánon problematikája – 2003 (tanulmány) Kredit,
Budapest
A kárpát-medencei irodalmi kerettanterv kialakításának folyamata – 2005
Karcag- Nemzetközi Pedagógiai Konferencia
Egy irodalmár töprengései Trianonról- tanulmány, Trianon átírta Európáttanulmánykötet, Trianon Kutatóintézet, Kairosz kiadó, 2008. 85-102. oldal.
Szabadkőművesek és Trianon- Trianoni szemle, 1. szám, 2009. 28-35. oldal.
A huszadik század első fele irodalmi kánonjának eltorzított, megcsonkított,
egyoldalú ábrázolásáról, ennek okairól és a helyreállítás lehetőségeiről – Magyar
Nemzetstratégia, Püski kiadó, 2009. 116-121. oldal.
Trianon hatásai és következményei a magyar irodalomban, első rész – a
kényszerűségből önállóvá váló erdélyi irodalom,
Transzilvánizmus
Könyvei:
Érettségi szöveggyűjtemény, 1996.
A XX. század első felének nem nyugatos irodalma (távoktatási tananyag) – 2003
Apertus, Budapest
Kánaán felé (verseskötet) – 2004 Püski kiadó, Budapest
Wass Albert regényeinek világa – 2004 Masszi Kiadó, Budapest
Wass Albert igazsága (monográfia) – 2004 Szabad Tér Kiadó, Budapest
(társszerzők: Raffay Ernő, Vekov Károly)
Wass Albert: Voltam – kiadatlan és befejezetlen önéletrajzi regényének alkotó
szerkesztése, befejezése – 2005 Szabad Tér Kiadó, Budapest
Wass Albert titkai – 2006 Szabad Tér Kiadó, Budapest
Csönd-parázson szóforgácsok (verskötet) – 2007 Masszi Kiadó, Budapest
619
TEGDES ÁGNES
- Debrecen (H) -
Madarász Imre: A legfényesebb századforduló
A legfényesebb századforduló a ti-zennyolcadiktizenkilencedik század fordulója. A felvilágosodás és
felújulás, a klasszicizmus és a romantika ellentétének és
azonosságának fordulója. A századforduló, mely
szintézisre emelte az ellentétes korszakokat. A
századforduló, mely minden másiknál több géniuszt nem
adott a világnak, Guido De Ruggiero, olasz filozófiatörténész szavaival élve,
akit a szerző, Madarász Imre is idéz: genieperiode, azaz zsenikorszak.
Kultúrtörténetileg is jelentős időszak ez, soha az eddigi évszázadok folyamán
nem becsülték meg annyira az írókat és költőket, mint ebben az időszakban,
és soha, egyetlen korszakban sem élt ennyi lángelme: Voltaire, Diderot,
D’Alembert, Stendhal, Schiller, Heine, Dickens, Byron, Shelley, Alfieri, Monti,
Manzoni, Puskin, Gogol, Csokonai, Fazekas, Vörösmarty, s a sort még
hosszasan lehetne folytatni. Olaszországban a Settecento és az Ottocento
fordulója virágzásnak eresztette a költőgéniuszokat, az írókat és művészeket,
s a könyv egy-egy tanulmánya ezen időszak öt legnagyszerűbb olasz irodalmi
klasszikusát mutatja be: Beccariát, Alfierit, Montit, Foscolot és Manzonit.
A kötet első fejezete Cesare Beccaria A bűnökről és a büntetésekről című
könyvét vizsgálja, mely a felvilágosodás egyik legjelentősebb műve volt, s a
modern büntetőjog alapjait fektette le. A kritika mégsem kímélte: többek
között Rodolfo Mondolfo és Ugo Spirito is kemény szavakkal illete az olasz
filozófus alkotását. Madarász Imre ezt a fejezetet arra szánja, hogy feltárja
előttünk a felvilágosodás és Beccaria viszonyát, egymásra gyakorolt
hatásukat, valamint hogy a legjelentősebb jog- és állambölcselők hogyan és
milyen mértékben befolyásolták Beccariát, illetve ő maga miként emelte
szintézisre az elmúlt korok tudását, és mindezt hogyan fejlesztette tovább.
Beccaria célja a büntetőjogi reform megalkotása volt, hiszen az
igazságszolgáltatás még ebben az évszázadban is gyermekcipőben járt, a
középkori mintákat követte. Továbbra is gyakoriak voltak a nyilvános, szadista
kivégzések. Míg Voltaire nevét alig vagy egyáltalán nem, addig Montesquieu
nevét gyakran említi Beccaria, igaz, felrója neki, hogy A törvények szelleme
című értekezésében Montesquieu homályban hagyta a büntetőjog kritikáját
és reformját, ugyanakkor a három hatalmi ág szétválasztásának elvét ő maga
is vallja. Beccaria számos „kiegészítést” intéz kortársa művéhez, melyről
többek közt a Büntetési jog, a Következmények illetve a Nemesek büntetéséről
című fejezetek is tanúbizonyságot tesznek. Az eddig nem létező büntetőjogi
620
alapelvek megalkotása volt a filozófus egyik feladata. A középkori
törvényeket, rendeleteket és az újkori természeti jogot valamint a társadalmi
szerződés elméleteket kitűnően ötvözte Beccaria. Meglepő azonban, hogy az
alapvető emberi jogokért harcoló szerző pont Thomas Hobbes nevét említi
először művében, aki köztudottan a modern totalitarizmus előfutára volt.
Gondolatmenetébe azonban csak a „hobbes-i” homo homini lupus elvét szövi
bele, ezek után irányt váltva Locke és Rousseau lesznek vezetői az emberi
jogok tanulmányozásánál. Beccaria követi mestereit a szabad akarat és az
egyén szabadságának kérdésénél is, s megalkotja a legalapvetőbb állam- és
jogbölcseleti igazságokat: a párbaj és vérdíj elutasítását, a családfők és a
nemesek privilégiumainak eltörlését, a fejedelmi és államfői
kegyelemgyakorlást. Könyvének legnagyobb és legfontosabb fejezete a
halálbüntetés kérdését tárgyalja. S míg Hobbes és Locke is megengedettnek
vélik a halálbüntetést, addig Beccaria merőben eltér szellemi vezetői
véleményétől, sőt, egyenesen jogi abszurdumnak tartja, hiszen az élethez való
jog az emberek legalapvetőbb joga. A bűnökről és a büntetésekről így vált
tehát a mai, modern büntetőjog alappillérévé.
A második fejezetet Madarász Imre Vittorio Alfierinek szenteli, a magány és
individualizmus egységét és kettősségét vizsgálja. S miért volt magányos a
költő? Mert zsenialitása meghaladta korát, túlszárnyalta azt, így egy olyan
világban kellett élnie, ahol minden untatta s undorította. Alfieri - Dante után –
a legpolitikusabb költő a szó egy magasabb rendű értelmében. Ezt bizonyítja
két nagy értekezése A zsarnokságról és A fejedelemről és az irodalomról is.
Magányossága e művekben is visszhangzik: a szabadság hősei magányos
hősök, hőstetteik magányos tettek. Az ismeretlen erény párbeszédes
elmélkedésében Alfieri valójában önmagával, magányosan vitázik. A
kívülállóság érzete azonban a lírai művekben teljesedik igazán ki: Rime című
szonettjeinek bemutatásával Madarász Imre kitűnően érzékelteti mindezt. A
magányosság és az individualizmus kettősségének szintézisét az Életem című
önéletrajzi műben találhatjuk meg. S bár életében az egyedüllét kínzó
érzésétől sosem szabadult meg, halála után méltó társakra talált: Dante
mellett az egyik legnagyobb olasz költőként tartják őt számon.
Vincenzo Monti méltánytalanul keveset emlegettet alakját idézi fel szerzőnk a
harmadik fejezetben. Monti a romantika korában igazi klasszicista költőnek
számított. Ez a fajta paradoxon végigkíséri életében, s erőteljesen
meghatározza azt. De nem csak itt figyelhetünk meg ellentéteket, Monti már
egész fiatalkorától mestere volt a hirtelen véleményváltásnak: kezdetben
dicsőítette VI. Pius pápát, majd szembefordult vele, Napóleon legnagyobb
megéneklője volt, majd I. Ferenc Habsburg császár hódolója lett. Ha a művei
között keresünk bizonyítékot Monti rapszodikus viselkedésére, az eposzok
lesznek segítségünkre. A köpönyegforgató költő egyetlen eposza sem maradt
ránk teljes egészében, mind töredékben maradt, hiszen hirtelen változó
621
véleménye miatt ugyanis még alig kezdett bele egy uralkodót, vagy nemes
személy dicsőítésébe, máris talált egy másikat, akit magasztalhatott.
Ugo Foscolo a „halál költője” a könyv negyedik fejezetében kap helyet.
Foscolónál talán senki sem szerette jobban az életet, a szenvedélyt, erről
tanúskodnak szerelmi ügyei, hódításai, melyek még Casanova csábításait is
túlszárnyalják. Pont ez a fajta hedonizmus volt az ami menedéket biztosított a
költő számára az élet múlandósága elől. A Jacopo Ortis utolsó levelei
kulcsfontosságú mű a halálkoncepció elemzése szempontjából, melyet
kritikusai keresztényellenesnek véltek. Foscolo négy nagy szonettje továbbfűzi
a halálmotívumot, A Múzsához, A Giovanni testvérem halálára, a
Zakinthoshoz és A síremlékek mind a halál érzésével átitatott, egyre inkább a
romantika felé hajló művek. Ezek közül a legjelentősebb A síremlékek című
„halálfilozófiai” mű. Foscolo írását ódának vagy, mint ahogyan azt egyik
levelében írja, epistolának nevezi, ám Luigi Russo egyenesen eposzként
emlegeti, melyet terjedelme is bizonyít, mintegy 295 sorával. Madarász Imre
tanulmánya e mű elemzését adja.
A kötet ötödik s egyben utolsó fejezete Manzoni alakját idézi meg. Bonaparte
Napóleon a történelem azon alakja, akiről a legtöbb irodalmi mű született,
megihlette a legnagyobb költőóriásokat, irodalmárokat, művészeket. Nem
képez ez alól kivételt maga Manzoni sem, aki Május Ötödike című, Napóleon
halálára írott ódájával helyet nyert a legnagyobb Napóleont megéneklők
között, s ezzel vált az olasz romantikus irodalom legjelentősebb versévé.
Francesco De Sanctist idézve: egy géniusz története, egy géniusz által
megírva. De vajon hogyan látta Manzoni Napóleont? Erre a kérdésre keresi a
választ a tanulmány szerzője. A költőt Napóleon halálának híre mélyen
lesújtotta, ám ihletet is adott neki, fia Pietro szerint őrült lelkesedéssel vágott
bele terjedelmes művének megírásába. Az elemzés szempontjából már maga
a cím is érdekes, melynek számos írásmódja ismeretes (a nagy kezdőbetűk
változása), ám a legmegfelelőbb a következő, névelővel írott Il Cinque
Maggio, vagyis A Május Ötödike, mely még inkább a dátum nagyságát fejezi
ki. Az óda hat magyar fordításban jelent meg, melyek szintén bemutatásra
kerülnek a tanulmányban. Manzoni a mű folytatásában saját maga is belép a
Napóleont megillető dicsfénybe, ezzel is kifejezve műve jelentőségét,
nagyságát. A költő hangot ad Napóleon iránti tiszteletének a mű tizenhatodik
sorában, ahol elmondja, tiszteli és becsüli a hadvezért,méghozzá azért, mert ő
még a vereségből is képes volt talpra állni. Napóleon életének utolsó éveiben
bekövetkezett megtérését, Isten felé fordulását talán senki sem tudta volna
jobban megírni, mint a saját maga is megtért Manzoni. Ez az óda igazi
remekmű, Manzoni legnagyobb lírai-költői alkotása.
Madarász Imre újabb, nagy haszonnal forgatható könyvet írt, sikerült
megmutatnia, bemutatnia az individualizmus korának öt legnagyszerűbb olasz
622
alakját. A korszak, s az olasz irodalom után érdeklődők biztosan nem fognak
csalódni, ha kezükbe veszik a kötetet.
TOLNAI BÍRÓ ÁBEL (1928)
(Dr. Tarr György)
- Veszprém (H) -
Nagy kincs – szomorú nincs
Vasárnap délelőtt, szentmise után
Ballagott haza egy öreg házaspár.
Megadva a módját szépen felöltöztek,
Így adva meg jelét a tiszteletüknek.
Ruhájuk nem volt új, ámde gondozott,
Kopott volt tán kicsit, de nem foltozott.
„Mackó” cukrászda van az egyik sarkon,
Ahol nem volt drága sem torta, sem mignon.
– Gyengeséged miatt nem tudtál ma sütni.
– Nézzünk be, hogy van-e kis olcsó valami.
Bent elcsodálkoztak az árakat látván,
Nem is jutott többre két kicsi mignonnál.
Kis anyóka motyog: – E drágaság riaszt.
Ám erre apóka mondja már a vigaszt:
– Egyszer megtehetjük... ne légy búba esve,
– Egyet délben felezünk, egyet pedig este.
...És már mosolyognak, s viszik a nagy „kincset”.
Pedig mit is visznek? A szomorú „nincset”... ...
Veszprém, 1995. január 23.
Mai életkép
Egyre többen járnak
Meggörnyedt gerinccel
Aszott, sovány arccal
623
Réveteg szemekkel.
Ételhordót visznek
Tán azon töprengve
Milyen löttyöt adnak
Ma ismét ebédre?...
Ám, az éhség nagy úr:
Egy igen nagy fenség
Testvére egy állapotnak
Úgy hívják: szegénység.
Nem jut már jobb étek
Morzsányi nyugdíjból
El kell hát tűrniök
Az ebédosztótól:
Eszi vagy nem eszi?
Mit akar? Nem kap mást!
…S inkább eszi, mert nem akar
Kínzó éhenhalást…
…
…
…
…
…Egyre többen járnak
Korgó, éhes hassal,
S csak belesnek a konyhába
Jóllakni a szaggal.
Veszprém, 1996. május 26
A Szent Korona, mint alapvető jogforrás
I.
Az igazság felismerése, s megtalálása érdekében
mindig az alapfogalnakból kell kiindulnunk. Jelen
elmélkedésünk szempontjából az első lényeges
alapfogalom a jogforrás fogalma.
Földi világunkban a kútfő, vagy jogforrás alatt
kétféle jelenséget értünk.
Az egyik értelemben maga jogalkotó hatalom, vagyis a hatalom, amelytől a
jog ered. Ezen értelemben beszélünk belső jogforrásról, vagy érvényességi
forrásról.
624
A másik értelemben a külső megjelenési forma, amelyben a jogi szabályzás
megjelenik, amelyben megismerhető. Eme értelemben szólunk külső vagy
megismerési forrásról (pl. törvény, rendelet, önkormányzati rendelet,
szokásjog).
Az új jogi lexikon meghatározása szerint „egyfelől az a társadalmi jelenség,
tényező vagy viszony, amely az objektív jogot (a jogi normák összességét)
közvetlenül előidézi, létrehozza (genetikai jogforrás); másfelől pedig az a
forma, amelyben a jog megjelenik és megismerhető (gnoszeologia). A nem
kifejezetten jogelméleti szakirodalomban ritkán tűnik fel a genetikai jogforrás
fogalma, s ha igen, akkor anyagi (materiális) jogforrás elnevezéssel. Ez azt a
társadalmi erőt jelenti, amelynek hatalmában áll jogot alkotni.
A második lényeges alapfogalom a korona fogalma:
A korona a királyok, császárok hatalmának jelképe. Ebből átvitt értelemben
korona alatt gyakran magát az uralkodót, sőt magát az államot is értik.
A korona már a legrégibb történelmi korban is szerepelt, mint az uralkodási
méltóság jele. Szerepelt már az asszír, a babilóniai, egyiptomi királyok
fejdíszeként, de nem a későbbi gyűrűformában, hanem mint drágakövekkel
díszített magas süveg, tiara. Salamon királyról is említik, hogy koronát viselt.
A karika alakú jelvényt a római császárok kezdték használni.
A korona nyitott volt, négy-nyolc levél-díszítvénnyel ékítve. Korona volt a
neve annak a koszorúnak is, amelyet a győzőnek adtak kitüntetésül.
Azóta, hogy Nagy Károlyt a pápa császárrá koronázta, a korona a keresztet is
viselte.
A korona gyakori heraldikai (címertani) jelvény is.
A harmadik elmefuttatásunk szempontjából legfontosabb, s egyben
címfogalom a Szent Korona, a II. Szilveszter pápa által Szent Istvánnak
adományozott korona.
II.
Mindenekelőtt azonban ismerjük meg a Szent koronát
Történelmi sorsát tekintve a rendelkezésünkre álló forrásokból azt tudhatjuk
meg, hogy:
- a középkorban a pápai hatalom egyetemes szellemi uralma szoktatta rá
a keresztény államok uralkodóit, hogy a pápától kapott koronával, vagy
esetleg személyesen a pápa által koronáztassák meg magukat;
- a korona lassanként nagy közjogi jelentőséget is nyert, mellyel szemben
az egyházi aktus inkább az ünnepies külső keretet adta;
- ez a közjogi jelleg a magyar királyok koronázásánál domborodott ki
leginkább,
625
- amikor is ez a trónra lépésének lényeges kiegészítő része lett, mintegy
befejező aktusként.
III.
A Szent Korona előbb a királyi hatalomnak, majd az egész magyar
államiságnak szimbóluma lett. Már a XV. században kifejlődött és Werbőczinél
részletes kifejtést nyert a Szent Korona-tan, az alkotmányos magyar
államszemlélet alapja. E tan szerint az államhatalom a nemzettől ered, mely
azt a Szent Koronával való koronázás útján osztja meg a királlyal. A király és a
nemzet együtt teszik a Szent Koronát. A király a Szent Korona feje, az
állampolgárok annak tagjai, az államterület a Szent Korona országa, az
államjavak a Szent Korona javai.
A Szent Korona tartja össze a magyar államot, a nemzetet és biztosítja annak
egységét. A Szent Korona juttatja kifejezésre a hatalom átruházott- és az
államhatalom megosztott voltát.
A Szent Korona nem múzeumi tárgy, nem műtárgy, hanem olyan elő közjogi
fogalom, amely személyiségként él s mint ilyen, a magyar államhatalom
alanya. Ennek ellenére a mai magyar törvényhozó és végrehajtó hatalom nem
tekinti élőnek és hatályosnak. Ezen meg nem indokolt és meg nem
indokolható tagadás ellenére a Szent Koronában jelenvalóan létezik a hatalom
gyakorlásának valamennyi tényezője.
Itt kell feltennünk azt a kérdést, hogy mi a hatalom, s mit jelent a hatalom
gyakorlása?
A hatalom valakinek az akarata véghezviteléhez szükséges erő, de jelenti az
ezen erővel való élést is. Másképp meghatározva, s elfogadva Max Weber
meghatározását a hatalom „egy egész, csoport vagy szervezet képessége arra,
hogy más egyéneket, csoportokat vagy szervezeteket az általa kívánt
magatartásra késztessen”. A hatalom eszerint mindenfajta társadalmi
kapcsolat velejárója. Lehet eseti, de többnyire valamennyire
intézményesített.
Az állam hatalma az állam intézményesített politikai hatalmán alapszik, tehát
azon a képességén, hogy lakosságát, a népet engedményességre késztesse.
A hatalom valójában egy komplex társadalmi tény, amelynek megléte nem
függ a hatalom gyakorlója erkölcsi, jogi igazolhatóságától, sem pedig az
engedelmeskedők motivációjától, azaz a hatalom legitimációjától vagy
legitimitásától. Az állam lényege tehát, hogy az a legnagyobb társadalmi
hatalom, amely általában képes tetszőleges eszközökkel engedelmességet
kiváltani.
Az államhatalom egységének elve az alkotmányosság, amely formai
értelemben az alkotmány gyakorlatban való megvalósulását jelenti. Tartalmi
szempontból pedig azt, hogy a rendőrállamot a jogállam váltsa fel. Tágabb
626
értelemben pedig azt jelenti, hogy az állami berendezkedésnek meg kell
felelnie bizonyos elveknek, amelyek alkotmányba foglalása és érvényesítése
nélkül az állam nem felel meg s nem fogadható el alkotmányos államnak.
Ezek az alkotmányossági elvek:
1. az államhatalom egységének elve,
2. az államhatalmi ágak megosztásának elve,
3. a törvény uralmának és prioritásának elve,
4. a jogegyenlőség elve,
5. az alapjogok garantáltságának elve.
Ezen elvekből következik többek között az, hogy a polgároknak joguk és
tényleges
lehetőségük
van
a
szembenállásra
a
közhatalom
alkotmányellenesen működő szervével, s különösen az ilyen szerveknek a
hatalomból való eltávolítására és felelősségre vonására.
A magyar államhatalomnak az alanya maga a Szent Korona, a Szent Koronatan pedig a magyar történelmi alkotmánynak az elmélete. Egy olyan sajátos
fogalom, amely a magyar királyok Szent Koronáját jogi személyiséggel ruházza
fel.
A Szent Korona eleinte csak a királyt szimbolizálta, ám később nyilvánvalóvá
vált, hogy nemcsak a király személyét, hanem elsősorban a király
jogosítványait testesítette meg. Egy hosszas folyamat eredményeként a
korona eszmeileg elkülönült a királytól, majd, föléje emelkedett. Ez által a
Szent Korona nemcsak a királyt és a király jogait testesítette meg, hanem
egyúttal a Szent Korona fogalom alkalmassá vált arra, hogy megszemélyesítse
a magyar királyságot. Így, mint a király személyétől elvonatkoztatott jogalany,
személyiség, az államhatalomnak mindenek fölé emelkedett alanyává lett,
mégpedig önálló jogalannyá. Mint jogi személyt megillette a hatalom
teljessége. Ez a jog ma is megilleti. Úgy is mondhatjuk, hogy a Szent Korona,
mint államhatalmi teljesség, a hatalom koncentrátuma. Mint ilyen, látható
formában megjelenő közjogi létező jogot alkotó erő, ennélfogva minden jog
forrása, amely minősége zománcképei ábrázolataiban is megjelenik. Olyan
kútfő, amelyből — az eddig elmondottak szerint is — minden jogtétel ered, s
amely a maga fenséges megjelenésével és különleges jogalanyi mivoltával
jogrendünket fenntartja és közvetíti.
Tolnai Bíró Ábel alias Prof. Dr. Tarr György PhD, CSc 1948-ban érettségizett az
1928–29-ben épült és átadott Dombóvári Esterházy Miklós Nádor
Reálgimnáziumban, majd a Pécsi Tudományegyetem Jogtudományi Karán szerzett
diplomát 1952-ben.
1952–53-ban a kaposvári járásbíróságon volt fogalmazó, 1953-tól bíró a marcali, a
bonyhádi, a barcsi, a kaposvári, a putnoki és az ózdi járásbíróságon. 1963-tól
1971-ig a veszprémi járásbíróság elnökhelyetteseként, 1971 és 1992 között a
627
Megyei Bíróság bírójaként működött. 1980 és 1992 között a tanácselnöki posztot
is betöltötte. 1992-ben a megyei cégbíróság vezetője volt, 1992-től nyugdíjas
bíró. 1994-től 1998-ig az Egyes Fontos Tisztségeket Betöltő Személyek
Ellenőrzését Végző Bizottság (Átvilágító Bizottság) tagja volt. 1996-tól a budapesti
Pázmány Péter Katolikus Egyetemen oktatott, a 2010. szeptemberi búcsúztatásáig
a Veszprémi Érseki Hittudományi Főiskola óraadó tanára is volt, jelenleg a
budapesti Károli Gáspár Református Egyetem jogtanára. 1980 és 1994 között a
Veszprémi Akadémiai Bizottság polgári jogi munkabizottságának titkára, 1990 óta
a környezetjogi munkabizottság elnöke, a gazdaság-, jog- és társadalomtudomány
szakbizottságának alelnöke. A Keresztény Értelmiségiek Szövetsége veszprémi
szervezetének elnöke. Dr. Bonaniné Dr. Tamás-Tarr Melinda édesapja.
Az állam- és jogtudomány doktora, kanditátus.
A Szent Korona Lovagja, (1999) és Vitéz (2002), a Magyar Köztársaság
Tisztikeresztje (2011. augusztus 20.) kitüntetettje
Fő művei:
A környezetkárosításból eredő igény érvényesítésének bírói gyakorlata
(társszerző, 1991), Gyermekjog (1999),
Személyiségvédelem – Környezetvédelem (egyetemi jegyzet, 1998),
A szerv- és szövetátültetés dologi jogi kérdései (egyetemi jegyzet, 1999),
Az ajánlati kötöttség idejének meghatározása és a joggal való visszaélés
(egyetemi jegyzet, 1999), Az orvoslási jog vázlata (2003).
Élet, Válogatott versek, Edizione O.L.F.A. Ferrara 2001, 40 old.
Élet, Edizione O.L.F.A. Ferrara 2011 (I. Bővített Kiadás) 100 old.
Vita Hungarica/Élet, Edizione O.L.F.A. Ferrara 2011 2011 (Bővített Kiadás) 94
old.
TUSNÁDY LÁSZLÓ (1940)
(Dr. Tusnády László)
- Sátoraljaújhely (H) -
A széttört szivárvány
A képek már peregnek, egyre tűnnek.
Kagyló az éj, búg szakadatlanul.
Benne a szemek virág-táncra kelnek.
Villódzó vágyak víg, nagy karneválja,
szúnyogszárny zizzen, pók és béna rák
bolond mosollyal száll a levegőben.
628
A gyász-harangok ily éjjel születtek.
Felkél a por, és ősmesét üzen,
a hulló levél visszaszáll az ágra,
hegedt sebek már újra felfakadnak,
és álmaink felett nincsen szivárvány.
Álmomban sírtál
A csönd-szitakötő már messze száll,
de végleges szállást hol is talál?
A kályha mellé bújnék, mint gyerek;
apám zokog, sirat sok életet.
Ó, mennyi arc előtte elvonul;
a napderűre a zord est borul.
Csípős a szél, a vizek ostora
suhog, meghajlik a füvek sora.
Apám, fázunk. A vihar énekét
az est röpíti, s csapzott fellegét.
Sötét erdő komorlik most elénk.
A szél sodorja a fák seregét.
Elbújnék félve, mint a kisegér,
míg elvonul a sejtelmes szekér.
Tűnt ifjúságod, apám, felderül:
tudtál élni s harcolni emberül.
Hadd sírjak helyetted az életért!
Felejtsed el, hogy mennyi bú, baj ért!
A széltorok mily rémesen ugat,
s a ködbe vesznek a messzi utak.
629
Mint szarvas
Ragyogó téli nap volt. A fagy, a hó, a jég a káprázó napsütésben szinte
bizonyítani akarta, hogy a tél is versenyre kelhet a többi évszakkal. Az
ágakon dús zúzmarabevonat fehérlett. Kristályos csend uralta a falut.
A főutcát is ünnepi hallgatás töltötte be, csak távolból szüremlett vidám
gyermekzsivaj; a tél kicsiny rajongói az alvégen, a Gőgő nevű kis tó jegén
csúszkáltak, korcsolyáztak.
Bár karácsonyig tartana ez a tiszta káprázat! kívánta Szamosi Bertalan
plébános, amint a parókia épületéből áttekintett a főutcán, majd újra
belemélyedt olvasmányába. Öreg, fájó szeme szinte csak tapogatta a
sorokat, ez a homályos érintés lobogtatta ragyogóbbra lelkében a fényt.
Ott már minden a helyén volt: nyugalom csönd és fehérség. A szemmel
való tapogatás csavarta égőbbre a benti világosságot: „Mint szarvasgím a
források vizére, úgy sóvárog utánad, én Istenem, a lelkem”. Igen, ez a szép
zsoltár lesz a holnapi szentbeszéd központjában. Rég nem írta le előre a
beszédeit, de nem szerette ugyanazt elmondani, amit már egyszer kitárt a
híveinek. Az új megközelítés, az egyre mélyülő érzés és gondolat az ő lelki
építését is szolgálta, hiszen tudta jól, hogy nemsokára már nem tükör által
lát, hanem lehull szeméről léthomály, s a tükör nélküli fényben szemtől
szemben nézheti a tiszta igazságot.
Mint szarvas a híves patakra
csengett-bongott lelkében a fönséges
üzenet; harmatos, tiszta adventi várakozás hangja visszhangzott, zengett
vissza erre, s ahogy feltekintett, az ablakon túlról figyelő szempárt vett
észre.
Egy szarvas. Furcsa az öregkor. Hát előjönnek a régi zsoltáros könyv
szereplői? A belső látás már a külsőt is teljesen uralja. Kedves szarvas,
híves forrásra, patakra vágyakozó lelkem!
Túl eredeti volt a kép. A szempár túl életes volt. Nem érintette a látomás
határát. Létezés volt benne. Bánat nem, de valami fájó idegenség.
Az öreg pap recehártyája még akkor is őrizte a képet, mikor a jelenésnek
vélt alak eltűnt. Mint belső képre, úgy tekintett utána. Maga is
csodálkozott azon, amit tett, de önkéntelenül felállt székéről, kezében a
nyitott könyvvel az ablakhoz ment, hogy kinézzen, és íme, a patyolatfehér
havon piros vércseppek látszottak. Becsukta hát fekete kötésű könyvét, és
tűnődve az ablaknál maradt.
Ötven éve tudja magát a falu szellemi vezetőjének, hívei pásztorának, de
szarvas ide még sohasem jött a közeli erdőségekből. Hivatásos vadász nem
volt a faluban. Valutás nyugati urak járták a rengeteget csodás trófeákért.
Néhány orvvadászról is tudott mindenki, így ő is, és most, hogy a látomás
630
ily valóságossá lett, hirtelen azt is tudta, hogy ki sebezhette meg ezt a
nemes vadat.
A csendes utca hirtelen zajjal telítődött. A szarvas menekült volna ki, az
erdőbe, de csak hol ebbe, hol abba a kertbe, udvarba ugrott be, és itt is,
ott is támadókba ütközött. Nem híves forrásról álmodó emberekkel találta
magát szembe, hanem a meglepetés tizedmásodpercei is karót, villát,
lapátot ragadtattak az itteniek kezébe, mintha egy életen át mindenki arra
készült volna, hogy majd ezt a vadat elejtse. Kertből kertbe ugrott szegény
állat, egyik telekről át a másikra: meglepett arc, ideges mozdulat, szúrós
ütés fogadta mindenütt. Világos szőrén folyt a vér, életére pályázott
mindenki, bárhova lépett.
Nagy Jani épp a konyhában borotválkozott, mikor felneszelt a zajra. Félig
már lehúzta az arcáról a szappanhabot, mikor kinézett, épp ekkor ívelt át a
kerítésen még karcsú tartással az üldözött szarvas. A konyha előtt hasított
fa volt, a rönkbe belevágva ott fénylett a balta. A szarvas alig szusszantott
egyet; Jani nekiiramodott, futtában kirántotta a baltát a rönkből, és
belevágta az állatba. a fejét célozta, de a hátába talált. Ott maradt a balta,
a szarvas megtántorodott, de ritka szívóssággal szinte suhant át máris a
kerítésen.
Elborult Jani agya, feszítette az indulat. Szarvast akart, és baltát vesztett.
Fénylő szerszámát valami foglalófélének tekintette, és ész nélkül rohant a
vad után. Beszappanozott fél arcáról egészen elfeledkezett. Mint valami
rosszul sikerült hóember, zúdult a szomszéd udvarába. Ott Kiss Ignác
döfött egy paradicsomkaróval a szarvas felé, de az már röpült át a
kerítésen.
Mit akarsz, hé, a szarvasommal? rikoltott Jani.
Te mit háborgatsz az én birtokomon? röffent rá Ignác. A két legény
majdnem összeakaszkodott, mikor a távolodó lárma arra figyelmeztette
őket, hogy nem egymást kell most megnyúzniuk a nemes vad helyett. A
szarvast a kutyák is követték. Azok is marakodtak, mint az imént a
legények.
A szerencsétlen állat nem tudott kifutni a főutca ostromgyűrűjéből; a
paplak és a másik vég - Janiék háza - között már ötödször futott végig.
Egyre sűrűbben jöttek elő az emberek. Szamosi plébános csak ámult, hogy
lám, az oly gyakran kihalt utca most milyen népes. Minden ingázó, távol
élő ma itthon van. Most többen nyüzsögtek az utcán, mint amennyien az
éjféli misén szoktak lenni. A menyecskék félénken álltak a tornácokon.
Nézték a nagy virtusú legényeket.
Legutóbb a szarvas Vargáék kertjében két játszadozó cicusra tiport,
hallván a miákolást, erre zúdult a kutyanép. A vezéreb átvetette magát a
631
kerítésen, nekitámadt a cicáknak, azok fel egy törpealmafára, a kutyák a
talpukat érték. Vicsorogtak, nyüszítettek; a szarvas is vonzotta őket, errearra iramodtak.
Közben a hajtóvadászat rendületlen erővel folyt. Mindenki magáénak
akarta szarvast, és ez az üldözött némi szerencséjét jelentette, legalábbis
ideiglenes szerencsét, mert az üldözők egymásba akaszkodtak, lökdösték
egymást. Káromkodás, trágár beszéd fejezte ki az egymás elleni fortyogó
indulatot, ezt egy-két rúgás, gyomorszájas is kísérte.
Furcsa az én nyájam
tűnődött a pap , beszélhetek én ezeknek
holnap a szarvasról. Azt hiszik, hogy kutyafalka-marakodásuk ihletett meg,
pedig én másképp akartam szólni. Jók is ezek az emberek, jók, de rosszak
is. Lélekbőrük hidraszerű. Kifordul. A jót tölti bele az angyal, hamar
kifordul az; a rosszat tölti bele az ördög, az is kifordul. Háromezer
szentbeszédet mondtam nekik. Hol van az most bennük? „Mint
szarvasgím a forrás vizére,...” Mit érlelne bennük a holnapi beszédem? Azt
a fényt mutatom, és kell mutatnom nekik mindig, melyet a jóság, az
igazság és a hit táplál. De mi ez az indulat, mi ez az öldöklő erő? Ha egy égi
kéz kiemelné innen a szarvast, nagy tragédia történne. Még szerencse,
hogy itt van ez az állat, azt lehet ütni, a legártatlanabbat.
A nap haladt az égen, a viadal tartott, s a nagy mozgás ellenére az egész
jelenet már állóképnek hatott. Közben a tej itt is, ott is felforrt, kifutott;
kozmás szag terjengett innen is, onnan is. Siránkoztak a háziasszonyok: mi
lesz a ebéddel?
Gács Gusztinak volt telefonja. Ő púpos volt. Csatázni nem tudott a
szarvasért, hát a rendőröknek telefonált: „Falunk főutcáján egy szarvas
veszélyezteti a közlekedést”.
A rendőrök megértették, hogy azonnal ki kell szállniuk, és azt is tudták,
hogy nem a közlekedésről van szó, hanem az az igazság, hogy Guszti szíve
fájna, ha valamelyik győztes legény magáénak mondhatná az elejtett
vadat.
Jöttek hát a rendőrök fegyveresen megvédeni a veszélyeztetett
közlekedést. A gyereksereg előttük érkezett meg a Gőgőről, kipirulva,
vidáman, így a hajtóvadászat élvezetéből ők sem maradtak ki.
Épp a plébánia épülete előtt érte a szarvast a végzetes lövés. Az utolsó
vércseppek tovább színezték a hófehér téli takarót. A szarvas szeme előtt
fekete alakok robogtak ide-oda. A fátyolos, tört szemsugarat furcsa
módon jól látta az öreg plébános is. Ő szinte reflexszerűen szeretett volna
odamenni; szelíd mozdulattal szerette volna eltakarni a vádló tekintetet,
melyből most távozik az élet. De nem mozdult. Idegenséget érzett a falu
iránt. Szörnyű nagy távolságot.
632
Jól tette, hogy nem mozdult, mert abban a pillanatban, amikor a nemlét
merevsége birtokába vette a szegény állatot, Kácsa Gusztávné a vad
fejénél termett, és eszelős siratóénekbe kezdett:
Jaj, te ékes állat! Így kellett neked elpusztulni. Te hűtlen, te beste!
Nem várhattál addig, míg az uram megjön a börtönből? Jaj, annak is épp
most kell oda lennie. Az elejtett volna téged. Ő hazahozott volna hozzánk.
Akkor nem kellett volna fáradniuk ezeknek... Jaj, te csúfság, hűtlen állat.
Jaj, az én börtönben senyvedő uram!
Kácsánét hagyták beszélni, mert mindenki féleszűnek tartotta. Közben
zajlott az élet. Gazsi bá’, a városi hentes megnyúzta a szarvast. Húsát,
bőrét és szarvát a hatóság lefoglalta. A beleket a kutyáknak dobták. Volt
nagy marakodás, nyüszítés, csak úgy villogtak a fehér fogak.
Teherautó érkezett. A nap hősének a földi maradványait ráhelyezték. A
kátyús, csúszós, döcögős úton ünnepélyesen indult végállomása felé, a
városba.
Délutánra fordultak a nap sugarai. Elült a lárma, kiabálás, miákolás és
nyüszítés. A kozmás szag is felszállt az éteri magasságba. A nem létező
forgalmat már semmi sem akadályozta. A fehér havon vércseppek
harmata piroslott véges-végig az egész főutcán.
Hamar leszállt az est, majd a koromfekete éj. Kísértetkomor füstcsíkok
törtek elő a kéményekből. Puha csönd volt mindenütt. A kutyák is
elfáradtak. Az öreg pap elhomályosuló szemmel szinte tapintja a könyv
szavait: Mint szarvas a híves patakra,...
Prof. Dr. Tusnády László 1940. április 27-én Mátészalkán született,
Sátoraljaújhelyen él. Az irodalomtudomány kandidátusa, doktor. Magyar és olasz
irodalommal foglalkozik főként. Nyelvismeretei: angol , francia , német , olasz ,
orosz , spanyol , lengyel , török, perzsa, arab, latin. Olasz nyelven is publikál.
Tassóról monográfiát írt (Eötvös Kiadó, Budapest, 2005). Fordításai: Torquato
Tasso: A megszabadított Jeruzsálem (eposz), Aminta (dráma), ill. Tasso százötven
szerelmes versét is lefordította. A tűnt idő hírnökei (Versek és műfordítások) című
kötetében hatvanöt törökből fordított vers is szerepel. Eposzt írt, Janus Pannonius
tavasza címmel (Eötvös Kiadó, Budapest 2006). Tiszteletbeli tagja a Római
Nemzetközi Tudományos és Művészeti Leonardo da Vinci Akadémiának és a
Nápolyi Nemzetközi Tudományos és Művészeti „Pontzen” Akadémiának.
Díszpolgára Collegno-nak, Sárospatak testvérvárosának. Az MTA és a Miskolci
Egyetem BTK Doktori Bizottságának tagja. 1999-ben Széchenyi Professzori
Ösztöndíjat kapott.
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INDICE – TARTALOM
LAUDATIO JUBILARIS (In italiano) di György Bodosi
5
LAUDATIO JUBILARIS (In ungherese) di György Bodosi
11
PREFAZIONE dI Melinda B. Tamás-Tarr 17
I. RASSEGNA RISORGIMENTALE UNGARO-ITALIANA 23
Omaggio in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia – A cura di Melinda B. TamásTarr 23
II. AUTORI DEI SECOLI PASSATI 49
Opere degli autori:
Ady Endre (Trad.-i di Melinda B. Tamás-Tarr, Mario De Bartolomeis) 49
Augustini Delmira (Traduzioni di Enrico Pietrangeli) 54
Babits Mihály (Traduzioni di Melinda B. Tamás-Tarr) 57
Balassi Bálint (Traduzione di Melinda B. Tamás-Tarr) 59
Csokonai Vitéz Mihály (Traduzioni di Melinda B. Tamás-Tarr, Mario De
Bartolomeis) 60
De Heredìa José Maria (Traduzione di Melinda B. Tamás-Tarr) 61
Eugeren José Maria (Traduzioni di Enrico Pietrangeli) 61
Heredìa José Maria (Traduzione di Melinda B. Tamás-Tarr) 62
Illyés Gyula (Traduzioni di Melinda B. Tamás-Tarr) 63
Jókai Mór (Traduzione di Melinda B. Tamás-Tarr) 66
József Attila (Traduzioni di Melinda B. Tamás-Tarr, Mario De Bartolomeis)
67
Juhász Gyula (Traduzioni di Mario De Bartolomeis, Melinda B. Tamás-Tarr)
69
Kaffka Margit (Traduzione di Melinda B. Tamás-Tarr) 71
Kassák Lajos (Traduzioni di Melinda B. Tamás-Tarr, Mario De Bartolomeis)
76
Kosztolányi Dezső (Traduzioni di Melinda B. Tamás-Tarr, Andrea Rényi,
Mario De Bartolomeis) 79
Kölcsey Ferenc (Traduzione di Melinda B. Tamás-Tarr) 97
Mikszáth Kálmán (Traduzionie di Andrea Rényi) 99
Móra Ferenc (Traduzione di Mario De Bartolomeis) 102
Neruda Pablo (Traduzione di Melinda B. Tamás-Tarr) 106
Pannonius Janus (Traduzioni di Melinda B. Tamás-Tarr) 107
Prévert Jacques (Traduzioni di Mario De Bartolomeis) 108
Radnóti Miklós (Traduzione di Melinda B. Tamás-Tarr) 109
Ramón Jiménez Juan (Traduzione di Melinda B. Tamás-Tarr) 110
Reményik Sándor (Traduzioni di Melinda B. Tamás-Tarr) 110
Szabó Lőrinc (Traduzioni di Melinda B. Tamás-Tarr, Mario De Bartolomeis)
112
La poesia di Szabó Lőrinc - di Mario De Bartolomeis 115
Szalay Fruzsina (Traduzione di Melinda B. Tamás-Tarr) 117
Tormay Cécile (Traduzioni di Melinda B. Tamás-Tarr) 118
634
Tóth Árpád (Traduzioni di Melinda B. Tamás-Tarr, Mario De Bartolomeis)
165
Reminiscenze leopardiane in una poesia di Tóth Árpád? – di Mario
De Bartolomeis 173
Árpád Tóth – A cura di Melinda B. Tamás-Tarr 177
Vajda János (Traduzione di Melinda B. Tamás-Tarr) 178
179
Verlaine Paul (Traduzioni di Melinda B. Tamás-Tarr)
Vörösmarty Mihály (Traduzioni di Mario De Bartolomesi, Melinda B. TamásTarr) 182
III. I CONTEMPORANEI ITALIANI, UNGHERESI E D’ALTROVE 183
Aszalós Imre: «Dante. L’uomo comune» – Corpus e saggezza di vita 183
Bodosi György: Poesie in lingua mista, Sii te stesso, Ricetta, Coprendomi
di frasi (Frammenti) (Traduzioni di Melinda B. Tamás-Tarr, Judit Józsa) 186
B. Tamás-Tarr Melinda: Poesie proprie, racconti, saggi…
Le donne nella società italiana di ieri e di oggi (A cura di MBtt), In memoriam
Jean Tábory: Inverno, Canti di primavera, Disneyworld la sera di Natale
(Traduzioni di Melinda B. Tamás-Tarr) 192
Botár Attila: Due sgocciolii, Da una riga d’addio, Scritta di stele, Versi di
Cumbrion (Traduzioni di Melinda B. T-Tarr) 270
Csernák Árpád: Se Dio Signore detta (Traduzioni di Melinda B. Tamás-Tarr
e Giorgia Scaffidi) 271
De Bartolomeis Mario: Echi di corde magiare 278
Diedo Emilio: vibranti membrane, esigenze; orti, porti aperti 290
Dosselli Gianmarco: On line con Pascoli, Infanzia, Trastevere, L’ago della
bilancia 293
Erdős Olga: Là, Labirinto cosciente,Bonaccia, Grigio, Sul canapé del
soggiorno (Traduzioni di Melinda B. Tamás-Tarr), Domenica pomeriggio, In
strada (Traduzioni di Mario De Bartolomeis), E taci (Traduzione di Melinda B.
Tamás-Tarr), Favola del cacciatore (Traduzione dell’Autrice) 300
Fiorini Ornella: Le parole dette, Una camminata differente, Il Po 308
Hollóssy Tóth Klára: Verde Danza, Nel mulino del tempo, Quanto!...
(Traduzioni di Melinda B. Tamás-Tarr) 312
Jókai Anna: L’angelo di Reims, Ragazza col cane (Traduzioni di Melinda B.
Tamás-Tarr) 314
Kéri Kata/Kate Carry: Un uomo sulla spiagga, Il sogno del fiore di ciliegio,
Fiaba del Natale dei libri (Traduzioni di Melinda B. Tamás-Tarr e Mario De
Bartolomeis) 331
Legéndy Jácint: La sfida, La notte dei morti, L’ombra che se ne sta andando;
Omaggio d’onore, Nella pallida luce (Traduzioni di Melinda B. Tamás-Tarr)
338
Madarász Imre: László Németh e la letteratura italiana? Martire, libero
pensatore, mistico. La presenza di Giordano Bruno nella cultura ungherese
del Novecento; Poesia e politica: i vati e il Novecento, Italiani e ungheresi
nella caratterologia nazionale di Lajos Prohászka Letteratura e rivoluzione.
Corrado Alvaro e l’Ungheria 343
Montresor Nikoletta: Márai Sándor e i grandi italiani 364
635
Németh István Péter: Versetti da Döbling (Traduzione di Alberto Menenti)
374
Paczolay Gyula: Adagiorum graecolatunohungaricu chiliades quinque,
Congresso Mondiale del Folklore a Melbourne 2001, Il Congresso
Ungrofinnico a Tartu in Estonia 376
Papp Árpád: Ancora una volta della poesia (Trad. di Vincenzo Mascaro,
Certezza (Trad. di L. Sinisgalli), Sui pannolini dei miei figliuoli (Trad. V.
Mascaro), Oracoli (Adattamento di V. Mascaro) 384
Pasqui Umberto: Incastri, La casa delle voci (Luci, Inquieto vivere, La doppia
coppia; Haydn, oh Haydn; Ombre); Lo strano caso delle anatre affagiolate
(saggio) 392
Pietrangeli Enrico: AAA Amore cercasi, Agosto, Alla taverna dei peccati, Alla
Patria nella primavera del Suo anniversario, Il dolore, Non sarà mai tutto
come prima, Tutto prossimo al Natale, Nel vespro mi confondo, Foto
(ricordo), Auschwitz, Ad Amsterdam – Seconda parte; Borghese, Segreta
morte; Sorella morte, cugina borghesia; Letto 26, Stanza numero 12; Una
serata da Titty 407
Pozzoni Ivan: Liberalismo e democrazia in Benedetto Croce, I fondamenti
divini di morale e diritti nella Shola Pythagorica 419
Ramaioli Federico Lorenzo: Rime delle stagioni 435
Rubino Csongor: Farfalla, Lettera a Tünde 474
Santamaria Franco: Su ala di roccia, Sorriso di Zagara, A rinnovato vento,
Una cometa, La mia voce, Sogno, Vigilia, La fuga 475
Scaffidi Giorgia: Il Canto della Sera, I poeti ungheresi tra l’800 e il ‘900
488
Sorrentino Fernando: Ambizioni illegittime, La laguna di Cubelli (Traduzioni
di Mario De Bartolomeis) 498
Spedicato Emilio: La visita dei Magi di Gesù, Jenő Egerváry: Un matematico
ungherese spinto al suicidio dai comunisti… Compositori, Giulietta, Clara,
Alicia… e Yudina, la pianista che pregava per Stalin; Dal pianoforte di Liszt
nasce un grande soprano 505
Szirmay Endre: La poesia (Traduzione di Melinda B. Tamás-Tarr) 541
Tábory Maxim: L’alba di dicembre (Tradizione di Melinda B.T.T.) 542
Tolnai Bíró Ábel: Si fa sera… Abele tra gli esseri da Caino (Tradizioni di
Melinda B.T.T.) 544
Tusnády László: I campanelli del silenzio, I cavalli passati, La Pianura
(traduziondi dell’Autore stesso) 546
IV. RACCOLTA DELLE OPERE IN LINGUA UNGHERESE 549
Aszalós Imre:
Holdjáték, Sermones, Az ismeretlen Magyarország
Várakozás 549
Bodosi György: Farkastársam-I., Kővé vésett jel, Rénszarvas csontos, Kagyló
hátán vésett 553
B. Tamás-Tarr Melinda: Válogatott műfordítások (Dante Alighieri, Assisi Szt.
Ferenc, B. Cellini, M. Buonarroti, G. Gozzano, J.M. De Heredía, J. M.
Heredía, Ismeretlen Szerző, G. Leopardi, U. Pasqui, F. Petrarca, E.
636
Pietrangeli,
Cs. Rubino, F. Sorrentino, Melinda Tamás-Tarr, P. Verlaine)
554
Erdős Olga: Úton, Reggel, A nappali kanapéján 576
Gyöngyös Imre: Dante, Berzsenyi Dániel, Földrengésre, Szent Erzsébet,
Sorsszámadás, Arany János 579
Hollóssy Tóth Klára: A tudós, a tudatlan meg a bolond? Édes
anyanyelvem!, Augusztusi búcsúszimfónia 582
Horváth Sándor: Letakarva a tükrök: Emlékezzünk!, Lorelei násza: haláltánc,
Inter/média 2011, Sakura 2011, Költőlélektársak, A vers igéző villanás,
Megszületett vezérünk... 586
Legéndy Jácint: Hódolat, Sápatag fényben, Kócsagok szárnyát 590
Papp Árpád: Ha már..., Még egyszer a költészetről, Emlékezés vásznat
fehérítő anyámra, Nagy telek emlékszilánkjaiból, Képeslap Scipio-szoborral,
Nagycirkuszok vendégszereplése 593
Pete László Miklós/Peters L. N. : A másik Magyarország, A Mester, A
Szabadság 595
Szirmay Endre: A költészet, Nem kérdezel, Salvatore Quasimodoversfordítások: Morzsányi idő, Elégia 599
Szitányi György: Történelmi lecke, A művészet mint a tudás és igaz ismeret
601
Tábory Maxim: A kőbe dermedt őshaza, Életbölcsesség, Visszhang:
Összehasonlító interpretáció 606
Takaró Mihály: A huszadik század első fele irodalmi kánonjának eltorzított,
megcsonkított, egyoldalú ábrázolásáról, ennek okairól és a helyreállítás
lehetőségeiről 612
Tegdes Ágnes: Madarász Imre: A legfényesebb századforduló 620
Tolnai Bíró Ábel: Nagy kincs – szomorú nincs, Mai életkép, A Szent Korona,
mint alapvető jogforrás 623
Tusnády László: A széttört szivárvány, Álmomban sírtál, Mint szarvas
628
INDICE – TARTALOM 634
637
Progetto e foto della copertina fronte: © Melinda B. Tamás-Tarr
Retro copertina: Melinda B. Tamás-Tarr, Foto © di G.O.B.:
Edizione a cura di Melinda B. Tamás-Tarr
Dir. Resp. & Edit. dell’Osservatorio Letterario Ferrara e l’Altrove (O.L.F.A.)
Redatto da: Melinda B. Tamás-Tarr
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
Le composizioni non possono essere utilizzate in nessun modo e forma senza
l’autorizzazione degli Autori, né tramite stampa, strumenti digitali o
fotocopiatrici. Brevi brani possono essere liberamente citati, se utilizzati per
recensioni o per altri saggi professionali.
Printed in Italy – settembre 2011
ISBN 978-88-905111-5-8 ISSN 2036-2412
© Copyright 2011 by Melinda B. Tamás-Tarr alias Dr. Melinda Tamás-Tarr-Bonani,
Osservatorio Letterario Ferrara e l’Altrove (O.L.F.A.) – Edizione O.L.F.A. e gli
Autori presenti nell’antologia
Supplemento all’OSSERVATORIO LETTERARIO Ferrara e l’Altrove (O.L.F.A.)
http://www.osservatorioletterario.net/
http://www.testvermuzsak.gportal.hu/
Responsabile della pubblicazione la curatrice dell’edizione:
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