M.Paola Vittone
GRAZIE,
FRANCESCO!
Esperienze di vita e meditazioni spirituali di
una terziaria francescana
(I parte)
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Il Signore ti benedica e ti protegga
Mostri a te il suo volto
E abbia di te misericordia
Volga a te il suo sguardo
E ti dia la pace
Il Signore ti benedica
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INTRODUZIONE
Questa è una raccolta di esperienze di vita e meditazioni spirituali di una terziaria
dell’Ordine Francescano Secolare del Convento di S. Caterina da Genova di Genova.
È un libretto da “sorseggiare”, non da leggere tutto d’un fiato, come capita di solito quando un libro piace. A parte le esperienze di vita, contiene testi meditati, scritti, riveduti e
corretti perché possano dare il miglior frutto possibile.
In un primo tempo volevo scriverlo insieme a Fiorella, mia carissima sorella del
Terz’Ordine Francescano del Convento di S. Caterina da Genova, di cui facciamo parte
entrambe da molti anni; purtroppo, per vari motivi, lei non può portare a termine, momentaneamente, il suo lavoro, per cui “partirò” io per prima.
Se questo primo libro avrà successo, come mi auguro, lei proseguirà con la seconda parte,
più ricca di scritti – ci saranno anche delle preghiere – e più mistica della mia perché,
per la verità, io sono, anche come carattere, molto più “ruspante” pur sforzandomi di
mantenermi fedele agli insegnamenti del Serafico Padre S. Francesco. Per questo motivo,
sotto il titolo ho voluto specificare I PARTE.
Principale obiettivo è quello di dimostrare ai lettori come, seguendo la scia di un santo a
cui siamo particolarmente affezionati – sia esso S. Francesco, oppure S. Domenico, S.
Agostino, S. Benedetto – nell’ordine secolare, si può rafforzare ed approfondire la nostra fede; vivere più serenamente, migliorare il nostro rapporto con gli altri; affrontare con maggiore sicurezza le difficoltà del nostro cammino terreno, sempre confidando nell’aiuto del Signore e andando, qualche volta controcorrente.
Per tutto il bene ricevuto da quando ho detto il mio "Sì", devo sicuramente ringraziare lui, il grande e piccolo Francesco che, con la sua vocina discreta, sottile ma penetrante mi ha chiamato e convinto a impegnarmi a seguire le sue orme.
Affido questo mio umile manoscritto alle mani del Signore, affinché tutto si compia
secondo la sua volontà.
Il Signore ci conceda la pace.
Paola
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A TU PER TU CON IL SIGNORE
Quando si parla di “deserto” di solito si pensa subito ai luoghi aridi in Africa, America ed
Asia. Però, chi legge il Vangelo, sa che Gesù si ritirava spesso e volentieri in luoghi solitari per stare tranquillo e così mettersi in contatto con il Padre e pregare indisturbato.
Per Gesù erano momenti magici, perché solo allora ritrovava, come uomo, l’energia e il
coraggio per affrontare le difficoltà della vita, per portare a termine la sua missione e, alla
fine, soffrire sulla croce. Da qui deriva il significato mistico della parola “deserto”. Ognuno di noi potrebbe godere di questo, se solo lo volesse.
Molti, quando sentono parlare di preghiera, se non ti rispondono che è tempo perso, nel
migliore dei casi trovano la scusa che hanno troppi impegni, che la giornata dovrebbe essere di 30 ore anziché di 24, ma sono certa che se anche avessero ore in più a disposizione, farebbero dell’altro.
Non voglio con questo atteggiarmi a giudice spietato… Dio me guardi!; solo mi dispiace che
si perdano delle occasioni così importanti per godere pienamente della presenza del Signore.
Mi scuso se in questo mio scritto farò più volte uso della parola “esperienza”: ciò è dovuto al fatto che di questo si tratta fondamentalmente: vivere un incontro con Dio in modo
vitale, vario e intenso.
Ho fatto almeno quattro volte esperienze di “deserto” e tutte sono state preziose.
La prima volta fu durante uno dei tanti esercizi spirituali a La Verna. Il Padre Assistente
ci diede le direttive per affrontare questa nuova esperienza e fu allora che conobbi il “deserto” a contatto con la natura.
Approfittando della tranquillità dei boschi, del silenzio degli angoli sacri, dell’atmosfera
satura di misticismo del santuario francescano, fermarmi a chiacchierare confidenzialmente con il Signore fu particolarmente produttivo non solo per me ma per tutti coloro
che assaporarono quel frutto mistico…
Dieci anni fa circa, nella Chiesa di S. Caterina conobbi e frequentai il Laboratorio di Preghiera fondato dal Frate Cappuccino Ignacio Larranaga, che si concluse con un “deserto”.
Ripetei nuovamente l’esperienza, ma in modo diverso ad Assisi, sotto la guida dello stesso Padre Ignacio e fu sconvolgente, nel senso buono della parola.
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Infine, due settimane fa, sono stata invitata dalle stesse guide che mi avevano fatto conoscere il Laboratorio di preghiera, in una Casa di Missioni a Genova.
Il solo pensiero di restare sola con il Signore per un minimo di 3/4 ore mi ha riportato indietro nel tempo ed è stato sufficiente per entusiasmarmi.
Sapevo che, spento il cellulare, cibo e acqua a disposizione, liberata la mente e il cuore
tramite una buona confessione, nessuno mi avrebbe disturbato e mi sarei messa in colloquio col Padre con l’aiuto del Rosario, della Bibbia, del libretto “Incontro” che insegna i
vari tipi di preghiera e di un quadernetto dove avrei descritto le mie sensazioni ed impressioni.
Uno potrebbe pensare: caspita, tre/quattro ore di preghiera sono tante, non ci si annoia o ci si stanca?
Rispondo formulando un’altra domanda: quando stiamo insieme a chi ci ama e amiamo,
non vorremmo che il tempo si fermasse?
Il tempo è volato, sono riuscita a stare concentrata quasi fino alla fine; ho pregato per tutti
coloro che mi avevano chiesto di ricordarli e la compagnia della Parola è sempre consolante, rasserenante, energizzante, incoraggiante e, soprattutto, mai deludente.
Lì per lì, confesso, ho provato quasi un senso di vertigine perché, svuotata di me stessa,
col cervello e il cuore libero, solo in attesa di essere riempita di spirito nuovo, mi sentivo
leggera come una farfalla.
Il tempo trascorso soli a tu per tu con il Padre non è mai tempo perso. Ci si sente pervasi
da un senso di pace, di calma, avvolti come in un bozzolo di amore e tornare alla vita
normale, così rumorosa e caotica, quasi dà fastidio.
Ho voluto parlare di questa mia ripetuta esperienza per invitare quelli come me che amano pregare e anche quelli che ritengono invece la preghiera tempo sprecato, a vivere almeno una volta un “deserto”. Si può fare quando si vuole, l’importante è scegliere un
luogo che sia propizio alla meditazione.
Gli effetti non si sentono subito perché è come una cura ricostituente i cui risultati si riscontrano nel tempo nel corpo e nello spirito.
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Benvenuti e bentornati alpini…
“C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
anzi d’antico: io vivo altrove e sento
che sono intorno nate le viole.
Sono nate nella selva del convento
Dei cappuccini , tra le morte foglie
Che al ceppo delle querce agita il vento.
Si respira una dolce aria che scoglie
Le dure zolle…”
Mi si chiederà perché inizio questo scritto con uno stralcio della celebre poesia di
G. Pascoli “L’aquilone”: ebbene scrivo così perché c’è proprio un’atmosfera particolare, in questi giorni di maggio, a Genova.
Basta guardarsi attorno: bandierine tricolori ovunque nelle strade e ai balconi appese alle porte dei negozi, una strana musica aleggia per la città. Alcuni giorni fa
le rondini sono tornate a riempire di voli il nostro cielo, sono tornate ai loro nidi e
ravvivano con i loro corpicini saettanti l’aria primaverile.
Da qualche giorno, inoltre, sono tornati nelle nostre strade, nella nostra città, dopo
20 anni, le famose e dolcissime “PENNE NERE”. I nostri alpini che hanno portato con sé un tornado di allegria, di amicizia, di fratellanza, di emozioni, di ricordi.
Come tutti gli anni, si radunano spinti dallo spirito di amicizia, “di corpo”, come
dicono loro, perché hanno condiviso anni di esperienze ora tragiche, ora felici,
sempre a disposizione del loro paese e del prossimo in difficoltà (alla loro attività
nei luoghi terremotati e alluvionati, nel volontariato e ovunque ci sia stata necessità di “rimboccarsi le maniche”, di una mano forte, valida e, soprattutto, di un cuore che a nulla guarda se non al fratello).
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E lo vedi dalla loro organizzazione: vengono da tutta Italia e chi non ha trovato
posto negli alberghi non si è dato per vinto e ha provveduto ad accamparsi in tende e a cucinare per sé e per i compagni… si sente un profumino di salsiccia e porchetta quando si passa vicino ai loro bivacchi..! D’altra parte non hanno partecipato alla guerra? Allora non c’erano comodità e bisognava adattarsi a tutto o soccombere. Pensiamo alla campagna di Russia…
Sono ordinati, sempre in gruppo (come potrebbe essere diversamente?) e diffondono vivacità, canti e solidarietà ovunque. Hanno anche i loro momenti di raccoglimento e preghiera che sono così ricchi di emozione e sentimento.
Proprio ieri sera ho assistito alla fine della Messa celebrata in un tendone da un
frate cappuccino che ha elogiato, incoraggiato lo spirito e l’attività degli alpini invitandoli a continuare sempre sulla loro strada incuranti delle difficoltà e degli ostacoli perché solo nella perseveranza del bene sta la vera luce e il benessere futuro.
Questo maggio abbiamo avuto due domeniche ecologiche: il 6 siamo stati senza le
auto che danneggiano la salute del corpo e il 20 è stata una domenica ecologica
per lo spirito perché l’anima dell’alpino è in sostanza molto vicina all’anima del
francescano: umile, solidale, disponibile, amante della natura, della montagna,
delle cose semplici, conscia di ciò che vuol dire sacrificio, fatica, amore per il
prossimo.
Mi auguro che portata dalle “penne nere” la “dolce aria che scioglie le dure zolle”
sciolga almeno un poco l’aridità e l’indifferenza di tanti cuori. Sabato 19, la nostra
chiesa di S. Caterina, grazie all’invito di Padre Vittorio, ha avuto l’onore e il piacere di ospitare, nel suo nuovo Auditorium, proprio un concerto del corpo degli
alpini di Lecco.
Credo che non pochi si siano commossi nell’ascoltare quella serie di canti, ora allegri ora tristi e nostalgici che ci hanno fatto un periodo non molto lontano della
nostra storia. Canti struggenti che talvolta hanno coinvolto anche la voce del pubblico, canti suggestivi perché guidati dal cuore, da un cuore che da sempre segue
impulsi veri, sinceri, oggi non più di moda ma sempre validi.
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Il 20 maggio c’è stato l’apice della festa: migliaia di penne nere hanno sfilato per
le vie della città suonando, cantando, esibendo stendardi che ancora una volta
hanno ricordato cosa vuol dire essere “alpini”. Tutta la città li ha applauditi ed era
impossibile non rimanere commossi di fronte a tanto calore.
La mia prima impressione è stata come se un enorme cuore tricolore si aprisse,
diffondendo raggi d’amore e altruismo per le strade di Genova.
Ecco cosa vuole l’alpino ed ecco cosa vuole il francescano: credere nei propri ideali con l’esempio e la fiducia.
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CONVERSIONE: CAMMINO DI LUCE
“Il cammino di conversione non è qualcosa di triste, di cupo, austero; al contrario
è lasciarsi inondare di luce, è aprirci affinché lo Spirito Santo dissipi le tenebre,
rimuova gli ostacoli, vinca invece le passioni che ci dominano. Non aspettare a fare dietro-front per cercare il perdono del Padre: non aspettare a gustare la gioia di
essere nuova creatura”.
“Come si può essere ‘sale della terra’, del mondo nostro e altrui? La Parola di oggi ci propone il metro e il metodo per essere sale=Sapienza in grado di condire
l’universalità. Occorre dare un TAGLIO vivo sulle azioni, sui pensieri, sugli
sguardi, sui passi che facciamo, sulle mani, dove le posiamo…. Un NO vivo, su
ciò che facciamo che non è in linea col Vangelo, che può essere occasione di
scandalo per il nostro prossimo, soprattutto per i più piccoli.”
“Non dobbiamo abusare della misericordia di Dio… Non dire: ‘Ho peccato e che
cosa mi è accaduto?’ poiché il Signore sa aspettare. Non presumere del perdono
per aggiungere peccato a peccato. Non dire: ‘Grande è la sua misericordia, mi
perdonerà le molte mie colpe.’ perché presso di lui vi è la pietà e l’ira. Non indugiare a convertirti a lui…”
Queste sono citazioni tratte da tre libri diversi che leggo ogni mattina quando prego.
Era un po’ che non trovavo tre brani così ben collegati tra di loro: il primo è tratto
da un calendario un poco particolare regalatami da un’amica; il secondo dal Libretto Momenti Francescani e il terzo dal Siracide 5,1/10.
Mi hanno fatto pensare.
Di solito, quando ci parlano di conversione, ci viene naturale pensare a qualcosa
di faticoso, legato a digiuni, penitenze, cose in apparenza tristi. In parte è vero
perché, a mio avviso, rinunciare al superfluo, a quello che ci rende momentaneamente felici, talvolta costa. Tante volte pesa fare un esame di coscienza, una revisione della nostra vita (siamo quasi sempre sicuri di non aver niente di grave da
confessare e allora rimandiamo). Ritengo invece che fare penitenza non sia poi
così difficile: “fare digiuno” di maldicenza, di televisione “spazzatura”, di letture
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sconvenienti, di permalosità, essere più disponibili verso gli altri, accettare con
pazienza e soprattutto con fede le difficoltà della vita, i problemi più o meno gravi
di salute. Può solo farci bene, soprattutto evitare programmi televisivi pedanti, che
non insegnano niente di buono che, anzi, ci danno esempi di vita scandalosi. Vivere l’amore, visto in sua ogni forma, non ha mai fatto del male a nessuno. Qui entra
in gioco la mia esperienza.
Ci sono dei momenti che non mi sento a posto e allora mi accosto al Sacramento
della Riconciliazione ed ecco che dopo, quasi per magìa, il peso si alleggerisce,
mi sembra di aver bevuto un bicchiere di acqua fresca e anche se non ho fatto una
vera e propria confessione, il fatto di essermi “sfogata” e liberata di pesi che mi
opprimono, mi dà una sensazione di leggerezza e benessere.
A mio avviso vale la pena “liberarsi”: si entra in un mondo pieno di luce, di serenità, di pace che solo la consapevolezza che il Signore ci vuole bene sopra ogni
cosa, ci può garantire.
È bello vivere nella luce: si guarda il mondo con occhi nuovi. Ci si sente più ottimisti. Si affrontano la vita e le sue difficoltà in modo più equilibrato. I nostri rapporti con gli altri risultano quasi più facili, si è più pazienti, più portati a comprendere ed accettare le manchevolezze altrui. Le tenebre fanno e hanno fatto
sempre paura a tutti, grandi e piccini. Perché dunque ostinarsi a voler restare nel
buio quando c’è la luce dell’amore di Dio che ci attende?
La conversione costante e giornaliera è ciò che comporta la Regola di chi appartiene all’OFS; è un impegno importante, è vero, però sappiamo che la continua
presenza di Dio nella nostra vita, è una garanzia di successo.
La consapevolezza che Dio è sempre lì, in attesa che io lo riconosca come padre, pronto
a consolarmi, a “raddrizzarmi” con l’aiuto dello Spirito Santo, a rinforzarmi, a indicarmi la giusta strada, ad accogliermi tra le sue braccia, è di grande conforto. Quello che
mi dà maggior sicurezza è sapere che Dio mi conosce profondamente, sa che come tutti
sono una persona vacillante e che, nonostante tutta la mia buona volontà e i miei sforzi
per essere migliore, combino spesso dei “pasticci”, ma è sempre pronto a perdonarmi.
Tutto ciò è un incentivo per alimentare la mia fede e la mia speranza.
Il Signore ci dia la pace.
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Davanti al crocifisso
Non sempre durante la giornata mi riesce di dedicare il giusto tempo alla preghiera, di conseguenza ogni tanto mi sento scarica, proprio come una pila e il mio spirito reclama il suo giusto. Ci sono anche i periodi in cui non riesco a pregare, o per
lo meno non riesco ad esprimere al buon Dio quello che c’è dentro di me.
So di non essere l’unica a provare questa esperienza nonostante il fatto di essere
una francescana. Dico ciò perché alcuni potrebbero meravigliarsi: “Come, è una
terziaria e non sa pregare?”
Io obietto: non basta essere terziaria francescana per saper pregare, tanto è vero
che anche per noi dell’OFS ci sono periodi di esercizi spirituali in cui si prega con
costanza ed assiduità e durante i quali ci si carica di quell’energia nuova, di cui
abbiamo tanto bisogno come esseri umani con le nostre debolezze, pecche e limiti.
Fortunatamente, abbiamo chi ci aiuta a migliorare e ci dà l’esempio: il nostro Padre S. Francesco: “l’uomo fatto preghiera”.
Quando mi trovo in una situazione di disagio, esco, vado in S. Caterina, mi siedo
davanti all’altare e guardo il crocifisso. Mi concentro sul quel capo reclinato, su
quel corpo martoriato inchiodato alla croce e lascio libero spazio alla mia mente
ed al mio cuore. Mi chiedo il perché di una morte così crudele per un innocente,
penso all’amore che ha condotto Gesù a sacrificarsi per noi, alla strada verso il
Calvario che, simbolicamente parlando, ognuno di noi vive o dovrebbe vivere a
modo suo. Se non riesco a parlare, apro il mio cuore, tanto so che Gesù sa leggerci
dentro.
Allora mi chiedo: perché pregare, se tanto Dio sa già di cosa abbiamo bisogno? E
a questa domanda segue in risposta un’altra domanda: perché nel Vangelo Gesù ci
dice: “Chiedete e vi sarà dato, bussate e vi sarà aperto?” Si prega per avere un
contatto filiale con Dio, per adorarlo, per ringraziarlo, per conversare con lui, perché ci faccia capire cosa vuole da noi, per sentirlo più vicino a noi, con tanta confidenza, amore e fiducia.
Quando ho la sensazione che lui mi stia ascoltando e mi legga nel profondo, allora
mi sembra che dei raggi di luce dorati partano dalle ferite di Gesù ed arrivino a
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me: mi sento meglio perché è come se avessi stabilito realmente un contatto fisico
con lui.
Poi, sempre guardando la croce, i miei occhi si abbassano verso i piedi di Gesù e
mi sento abbracciare con lo sguardo le ginocchia ed aggrapparmi alla croce. Una
volta ho sentito dire alla radio: “Non lasciamoci sopraffare dalla croce di ogni
giorno, ma aggrappiamoci alla croce di Cristo, vediamola come un sostegno che ci
aiuta e salva nelle tempeste della vita.”
La mia mente vaga, il mio cuore si scalda: non ho pregato, ma il Signore ha voluto
leggere nel mio cuore e questo mi basta.
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Dio, presenza viva
Una di queste mattine, esattamente il 30 aprile, durante la mia solita preghiera con il libretto Momenti Francescani, leggendo il vangelo di Giovanni e più precisamente il cap.
6, versetti 44/51, mi ha particolarmente colpito questa frase: “Io sono il pane vivo disceso
dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo.”
Subito dopo aver letto questo tratto delle Scritture, la mia mente ha incominciato, non so
bene come, a lavorare vorticosamente e mi sono venute in mente un sacco di cose.
Potrà sembrare il mio, uno scritto un poco cervellotico, ma credo che esprimere queste
mie emozioni e pensieri, possa essere utile in qualche modo a qualcuno.
Il Signore, più di una volta, ci ha detto che non ci lascerà mai orfani e che sarà con noi
fino alla fine del mondo, ma come, mi sono chiesta?
La mia domanda ha subito avuto più di una risposta.
Prima di tutto e fondamentale: tutti i giorni Dio è con noi nell’Eucarestia.
Ma proseguiamo. Sull’altare, i simboli della presenza di Dio sono il pane, l’acqua e il vino. Mi chiedo: quali cose più semplici poteva scegliere il Signore?
La particola, così piccola e sottile, da dove viene? Dal pane e di qui il logico passaggio:
pane, farina, grano. Ecco allora una visione emozionante: le dorate spighe di grano che
ondeggiano al sole. Campi sterminati che d’autunno hanno un caldo color marrone, tipico
della terra arata, lavorata, dissodata e, dopo un lungo inverno durante il quale sono imbiancati dalla neve, fanno intravvedere prima una corta erbetta quasi insignificante e poi
esplodono nel biondo delle spighe durante l’estate. Io che ho la passione per la campagna,
ho spesso la fortuna di poter godere di questo quadro vangoghiano. Il pane viene da qui e
quindi anche la particola che, una volta consacrata, rappresenta il corpo di Gesù. Ecco già
un altro modo di sentirsi vicino a Lui, in natura.
Parliamo poi dell’acqua. Nostra sorella natura, nella sua immensa generosità, ci dispensa
doni grandi, piacevoli e rinfrescanti come una sorgente d’acqua, un ruscello, un torrente
che scorre impetuoso in una valle, oppure il getto scrosciante, imponente e limpido di
un’alta cascata. L’acqua così fresca, cristallina, leviga e modella tutto ciò che incontra
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sulla sua strada. Nella calura dell’estate, un sorso d’acqua di fonte rinfranca, rigenera, purifica.
L’acqua è simbolo del Battesimo, ma per me anche simbolo della riconciliazione perché,
ogni volta che mi accosto alla confessione, subito dopo, provo un senso di refrigerio e di
liberazione, come se mi fossi tolta un fardello dalle spalle.
E il vino? È il simbolo del sangue di Gesù, ma nella vita quotidiana dà anche energia oltre
a soddisfare il palato. Uniamo quindi il sacro al profano.
La nostra terra è famosa per i suoi vigneti. Mi capita spesso di andare nel territorio delle
Langhe ma anche nel centro Italia e ovunque il mio sguardo si satura di sconfinate distese
di campi coltivati a vigna. Quanto sono ridenti e lussureggianti! Sembra, guardandoli da
lontano, che qualcuno nel piantarli, abbia eseguito il lavoro con la squadra, tanto sono
perfettamente delineati e sono tanto più attraenti quanto sono più ricchi di grappoli succosi e gustosi d’uva bianca o nera. Il vino che troviamo ogni giorno sull’altare viene da loro,
dal lavoro dei contadini. Ecco, basta anche ammirare un vigneto che, per associazione di
idee, viene in mente Gesù.
Il 25 aprile ho avuto il piacere di trascorrere la giornata in una rustica cascina in campagna, dove un carissimo cugino alleva un piccolo gregge di pecore. Stanno nascendo i piccoli e c’era una pecora che teneva al suo fianco un agnellino appena nato. Quanta tenerezza nel guardare quel batuffolo di lana bianca! Come per incanto, mi è venuta alla mente la dolce persona di Gesù che viene sempre rappresentata come l’agnello immolato.
Non solo, ma osservando come stava sempre vicino alla sua mamma, mi sono ricordata di
quella frase detta per l’appunto da Gesù: “Se non vi farete piccoli come questi fanciulli
non entrerete nel regno del cieli”. Per questi cuccioli la madre è un punto fisso di riferimento, colei di cui puoi fidarti incondizionatamente così come il Signore dovrebbe essere
per noi.
Se non erro anche il nostro caro San Francesco aveva la predilezione, tra tutti gli animali,
per l’agnello perché appunto gli ricordava Gesù.
Comunque, non è indispensabile trovarsi in campagna per accorgerci della presenza del
Signore.
Sempre la natura ci dà degli spunti interessanti: il sorgere del sole, il volo e il garrire delle
rondini che sembrano diffondere le loro lodi nel cielo, il vento che ci accarezza il viso.
Pensiamo al Cantico delle Creature di S. Francesco che nell’universo ha trovato mille ragioni per ringraziare e lodare il Signore e assaporarne la presenza.
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Tutta questa mia lunga elucubrazione ha la sua ragion d’essere: rendiamoci conto che,
ovunque viviamo, ovunque guardiamo, ovunque andiamo, c’è sempre qualcosa che ci unisce al Signore, che ci fa sentire la Sua presenza, la Sua protezione e che quindi, deve
farci capire che non siamo mai soli, non siamo mai orfani. Occorre però aprire non soltanto gli occhi, ma soprattutto il cuore ed essere ricettivi dell’eterno e sempre presente amore
del Padre.
Il Signore ci dia la pace.
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Esperienza di preghiera
Più di una volta, nei miei scritti, ho parlato di quelli che sono per me il valore e la forza
della preghiera.
La mia esperienza in questo campo è migliorata da quando, l’estate dell’anno scorso, partecipai all’“Esperienza degli incontri con Dio” condotti ad Assisi da Padre Larranaga.
Ammetto che in seguito, solo raramente, sono riuscita a dedicare più di un’ora al colloquio con il Padre, ma almeno mezz’ora del mio tempo questo sì, non importa in quale
parte della giornata e con varietà di contenuti. Anche la predisposizione del mio cuore
non è sempre stata la stessa. Dico questo per spiegare che il colloquio con il Signore varia
da persona a persona.
Si prega per lodare e ringraziare il buon Dio per doni e grazie ricevute; si prega nel momento del bisogno per chiedere un aiuto o un’assistenza particolare; a volte si prega
quando ci si trova nella disperazione (anche se per una persona di fede questa parola non
dovrebbe esistere) e si cerca un poco di pace; preghiamo nei momenti di gioia perché,
dopo tanto dolore, si intravvede uno spiraglio di luce e ancora si prega al mattino e alla
sera per affidare la propria giornata ed il proprio riposo alla protezione del Signore e altro
ancora.
Ultimamente ho pregato più del solito perché non sono stata bene e, non trovando via di
uscita al mio sconforto invocavo durante la notte la pietà del Padre e durante il giorno, in
un certo senso, a mio modo “litigavo” con Lui perché avrei voluto capire la ragione di
tanta sofferenza. Mi è spesso sembrato sordo e indifferente.
La mia fragilità di essere umano mi diceva: “Lascia perdere, è inutile” e la parte di fedele
cristiana invece mi incoraggiava dicendomi: “Dio è un padre buono, non ti farà soffrire
più di tanto e non ti abbandonerà.”
Ero talmente avvilita che non mi rendevo nemmeno conto delle belle cose che Dio mi regalava ogni giorno e per questo lo pregavo di aprirmi gli occhi ed il cuore.
Poi, finalmente, il fardello che mi pesava in modo così tormentoso sulla schiena e sul
cuore si è lentamente alleggerito e allora mi si sono presentate più chiare le parole del
Vangelo dove Gesù dice: “Tutto è possibile per chi crede” e poi “Nulla è impossibile a
Dio”. La mia fede è stata dunque sottoposta a nuove prove.
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La sera, prima di dormire, è piacevole nella semioscurità della mia stanza, seduta sul letto
con gli occhi chiusi, parlare con Dio. È uno dei momenti più rilassanti della giornata. Gli
apro il mio cuore, ben sapendo che lui conosce tutto di me. Lo prego di plasmare questo
mio cuore così fragile, di renderlo più forte, di rinforzare la mia fede. Lui solo è
l’Onnipotente e non manca mai di aiutarci.
Le vie del Signore sono infinite e imperscrutabili e, come diceva P. Larranaga, tante volte, dietro situazioni apparentemente difficili e insopportabili si nascondono poi cose belle
mai sperate.
Tante parti del Vangelo ci invitano ad una preghiera costante e testarda.
Io sono convinta che, se ogni essere umano avesse un rapporto confidenziale e costante
con Dio, non sentirebbe mai il vuoto dentro di sé, non si sentirebbe mai solo, avrebbe tanto da dare al suo prossimo e sarebbe in grado di fargli conoscere la via della luce e della
fede.
Il Signore ci dia la pace.
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Festività e televisione
Per quasi tutto l’anno la sera, prima di coricarmi, guardo la televisione e confesso
che, il più delle volte, tempo mezz’ora, mi ritiro in camera mia perché disgustata
per quello che ci propinano.
Che cosa offre la TV alle nostre famiglie e, soprattutto, ai nostri ragazzi che non
sia violenza, turpiloquio, volgarità, sesso, malcostume, orrore. Il più delle volte
invito mio figlio tredicenne ad andare a dormire o a leggere, piuttosto che vedere
certi programmi molto discutibili che non gli danno nulla di buono.
Può capitare talvolta qualche film accettabile, qualche documentario veramente
interessante ma il più delle volte è necessario controllare quello che stanno a vedere i nostri figli.
Ieri sera, per caso, ho visto un film fino alla fine e proprio il finale mi ha confortato e fatto pensare. Oh, finalmente c’era una morale! La vera ricchezza non sta nel
denaro, nel potere, nel successo ma nell’amore della famiglia, nell’amicizia, nella
solidarietà.
Che cosa succede stasera? Mi è stato risposto: “Siamo a Natale ed è per questo
che programmano questi film.”
Ma accidenti! È mai possibile che le cose belle, semplici, utili e con un minimo di
valore spirituale esistano solo in certi periodi mentre per il resto dell’anno vengano poste del dimenticatoio?
Mi chiedo: “Si deve essere buoni, si deve amare solo a Natale, Pasqua… e gli altri
giorni?” Il Signore, col suo amore e la sua misericordia è con noi sempre, nella vita di tutti i giorni, lo ha detto lui stesso: “Sarò con voi tutti i giorni fino alla fine
del mondo…” Perché scoprirlo solo durante le festività? Perché scoprire di avere
un cuore e seguirlo solo quindici giorni all’anno?
Non si vivrebbe forse meglio, meno di corsa, se ci si dedicasse di più alle piccole
cose, alle più semplici ma non per questo meno importanti, se si amasse con più
intensità?
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Sono sicura che certe persone pensano che sono un’idealista e che al giorno
d’oggi si risponde agli ideali con un’alzata di spalle ma io credo fermamente che
non sia così. Basta un poco di buona volontà per scoprire di essere capaci di dire
addio o almeno mettere un freno al dio denaro, al dio successo, al dio egoismo.
Lasciamo un po’ di spazio a quello che è in soffitta, dimenticato e che aspetta solo
di essere riscoperto, spolverato e rivalutato: il Dio Amore.
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Gocce di rugiada
Quest’estate è stato l’Abruzzo, con il silenzio e la quiete dei suoi boschi e dei suoi
numerosi eremi a favorire la mia meditazione sulla Parola di Dio.
Leggendo il Vangelo di Matteo, al cap. X, dove Gesù, scelti i dodici apostoli, li
istruisce mi sono sentita particolarmente coinvolta e, in certi punti, anche commossa.
Prima di tutto è chiaro il fatto che ognuno di noi è discepolo e apostolo del Signore. Non siamo noi che abbiamo scelto lui ma è lui che ha scelto noi.
Anche io so di essere stata chiamata, esattamente quando ho deciso di intraprendere il cammino del francescanesimo. La strada non è stata sempre facile, ma la vocazione e il mio grande amore per S. Francesco sono stati più forti di ogni dubbio
o titubanza.
Sono tuttora discepola perché cerco di seguire in tutta umiltà e semplicità gli insegnamenti di Gesù e sono apostolo perché mi sforzo di comunicarli agli altri. Ho
ricevuto questo dono dal Signore e mi sono impegnata a seminare la buona parola
nel mio mondo, ma talvolta mi chiedo se ho fatto e sto facendo ancora abbastanza.
Spesso mi sono sentita e altri come me (anche se non sono terziari) “come una pecora in mezzo ai lupi”, perché ho affrontato situazioni in cui ero chiamata a testimoniare la mia fede in un ambiante ostile e ho temuto di non essere all’altezza del
mio compito.
Lo Spirito Santo però è venuto in mio aiuto, suggerendomi le parole giuste, senza
essere particolarmente “pesante” e sono riuscita nella mia impresa, in quanto non
è facile parlare di fede in un mondo dove credere spesso è scomodo e costa fatica.
D’altra parte ho imparato che non si deve aver paura di manifestare il proprio credo perché, al momento opportuno, proprio quelli che mi avevano “snobbato” e
giudicato “bigotta”, sono poi venuti a cercarmi per avere una parola di conforto, di
speranza, uno spiraglio di luce, una preghiera.
Ciò che mi conforta e commuove è che il Signore ha sempre confermato la sua fedeltà ed amore verso coloro che non si stancano di seguirlo.
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Inoltre mi frulla spesso nella mente la domanda: “Sono capace di abbandonarmi
senza riserve al Signore, accettando completamente la sua volontà?”
Ci sono stati momenti di dubbio, subito fugati da ciò che dice il v. 30 del cap. X:
“Perfino i capelli del vostro capo sono contati”. Tutto dipende dal Signore: la nostra vita è nelle sue mani.
Se tutti fossimo capaci di abbandonarci a lui con la stessa fiducia di un bambino
che si rifugia tra le braccia di sua madre, se non dessimo tanta importanza al superfluo, la nostra vita sarebbe più semplice.
Ed eccoci arrivati al punto per me più cruciale: portare la propria croce.
Ognuno di noi, chi più chi meno, ha i propri affanni: c’è chi li affronta con coraggio, chi li sopporta quasi con gioia (io, purtroppo, non sono tra quelli) e chi se ne
lascia sopraffare.
Riconosco di non essere certamente l’emblema della pazienza e dell’accettazione.
Quello che mi consola è la consapevolezza che Dio non pretende mai troppo dai
suoi figli, conosce i loro limiti e quando la croce si fa troppo pesante, non tarda ad
accorrere in loro aiuto.
Perché ho intitolato questo mio scritto “Gocce di rugiada”? Perché questi passi del
vangelo che parlano della bontà, pazienza e misericordia del Padre e del fatto che
egli vede e provvede purché ci affidiamo a lui con fede, sono come la rugiada del
mattino che rinfresca e rigenera lo spirito e ci dà la forza di andare avanti con
maggiore energia, coraggio e sicurezza anche nei momenti più difficili e bui.
Pace e bene.
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Una Chiesa da conoscere
I Laboratori di Preghiera e Vita
I TOV (Talleres de Oración y Vida, ossia Laboratori di Preghiera e Vita), nascono
a Santiago del Cile per iniziativa di padre Ignacio Larrañaga, frate cappuccino basco, il quale dinanzi alla lacuna riscontrata in varie comunità ecclesiali di un approccio metodico alla preghiera avverte la necessità di guidare il popolo credente
verso una relazione personale con Dio. L’esperienza fatta con il primo gruppo di
laici a Santiago spinge il Fondatore a dedicarsi alla formazione di persone (guide)
di diverse nazionalità che possano avviare “laboratori di preghiera” nei vari Paesi.
Nel 1987, in occasione del primo Congresso internazionale si approva un “Manuale di preghiera e vita” redatto con il contributo delle guide di 15 Paesi. I TOV
raggiungono rapidamente una notevole espansione e nel 1993, nei luoghi in cui
sono presenti, si celebrano trentadue “settimane di consolidamento”, finalizzate
all’approfondimento del carisma dell’associazione. Nel 1994, nel corso del secondo Congresso internazionale, vengono presentate la stesura definitiva del Manuale
e una nuova struttura di governo a livello internazionale. Il 4 ottobre 1997, il Pontificio Consiglio per i Laici decreta il riconoscimento dei Talleres de Oración y
Vida come associazione internazionale di fedeli di diritto pontificio.
I TOV sono un servizio ecclesiale teso a fornire un metodo pratico per imparare a
pregare in modo ordinato, vario e progressivo: dai primi passi fino alle profondità
della contemplazione. Si prefiggono di introdurre i propri membri alla vita di preghiera, aiutandoli a coniugare preghiera e attività temporali ordinarie; di ravvivare
in loro la consapevolezza della propria condizione e dignità di battezzati e della
propria responsabilità nella missione della Chiesa nel mondo; di divenire vivai di
vocazioni laicali all’apostolato e al servizio della Chiesa nelle diocesi e nelle parrocchie. La formazione iniziale dei membri dura un anno ed è finalizzata a introdurre alla storia, al carisma e alla vita dell’associazione oltreché
all’apprendimento di diverse modalità di preghiera. La formazione permanente,
dopo il loro invio in missione, avviene mediante incontri mensili volti
all’approfondimento della Parola di Dio, del significato della vita sacramentale e
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del magistero della Chiesa (dal sito web “Pontificio Consiglio per i Laici” sezione
dedicata ai Laboratori di Preghiera e Vita).
Affascinata da tutto questo, ho seguito la scuola di formazione e sono diventata
“guida” dei Laboratori di Preghiera e Vita e quindi racconto in questo articolo la
mia personale esperienza.
“Ho portato a compimento il mio primo Laboratorio di Preghiera e Vita”
Quando, alla fine della Scuola di Formazione, mi hanno dato il permesso di iniziarlo, subito mi son data da fare per cercare il posto adatto e, come immaginavo, i
miei cari Frati Cappuccini di S. Caterina, hanno accettato con grande entusiasmo
la mia proposta di condurlo proprio lì. Così l’ultimo venerdì di gennaio 2012 alle
ore 15.30 ho iniziato questa nuova esperienza. Sono venute all’inaugurazione tutte
le mie consorelle Guide di Rapallo e S. Margherita e, proprio quel pomeriggio,
come “buon auspicio”, a Genova è venuto il terremoto. Ho fatto un poco di fatica
a mantenere la calma, ma tutto è andato bene.
Ho iniziato con 8 persone poi, chi per un motivo chi per l’altro, si sono ritirate
quasi tutte, tranne due. I motivi, a mio modesto avviso, erano di poco conto ma,
evidentemente, abbastanza validi perché decidessero di non continuare. Chi era
scettico, chi aveva troppo freddo e avrebbe voluto partecipare solo nelle giornate
calde, chi è venuto per curiosità ma poi lo ha ritenuto troppo faticoso e impegnativo (…dopo solo due sessioni…), chi non aveva tempo, chi non “sentiva niente” e
forse si chiedeva perché si trovasse lì. C’è stato addirittura chi ha definito il Laboratorio “troppo intenso per le emozioni provate” e l’ha abbandonato per troppa
sensibilità. Quello che li ha spaventati di più, secondo me, sono state la frequenza
obbligatoria e severa e soprattutto la “sacra mezz’ora”… quando trovare il tempo
per pregare…
Gabriella è stata una compagna paziente, ha avuto la cortesia di correggermi molto gentilmente quando vedeva che avevo “troppa fretta” nel condurre i momenti di
silenziamento ed è stata molto fedele perché è sempre stata presente nonostante il
freddo.
Le sessioni più difficili, e cioè quelle più complesse dal punto di vista della concentrazione e della trasmissione degli alti sentimenti di Gesù, quali la pazienza, la
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mitezza, l’umiltà, il perdono, la comprensione verso il prossimo e in particolare
quel prossimo così detto “scomodo”, sono anche state le più esaltanti. Lo Spirito
Santo mi ha preso per mano, mi ha dato lucidità, calma, equilibrio e fiducia.
Il 20 di maggio abbiamo fatto il “deserto” nel Convento di S. Barnaba dove il padre guardiano ci ha messo gentilmente a disposizione una comoda celletta e un
gran bel giardino del quale purtroppo abbiamo goduto poco perché è quasi sempre
piovuto.
Già tempo fa parlai su Liguria Francesca della mia personale esperienza del Laboratorio di Preghiera e Vita, in qualità di semplice partecipante: è stato così bello,
anche se faticoso per la concentrazione e l’impegno che richiede, che ritengo sia
veramente un peccato perdere un’occasione tanto speciale per crescere nella fede,
pacificarsi ma soprattutto migliorare e intensificare il nostro rapporto con il Signore con l’aiuto delle varie modalità di preghiera. Abbiamo sottolineato MOLTO
sull’importanza della SACRA MEZZ’ORA che si deve ogni giorno dedicare alla
preghiera. Il nostro Fondatore, Padre Ignacio Larranaga sempre insiste su questo
aspetto: se siamo capaci di conservare e promuovere quotidianamente il tempo
della preghiera, lo stesso salverà la nostra vita e ci darà la forza necessaria per affrontarne i momenti difficili ma anche saperne apprezzare le “semplici” bellezze.
Solo col tempo ci si rende infatti conto di quanto il Laboratorio abbia effetti benefici sull’anima, sul corpo e sulla nostra esistenza.
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Il ricettario della felicità
In un periodo in cui avevo bisogno di meditare, rientrare in me stessa, riconsiderare il valori della mia vita, controllare “la rotta della mia nave”, mi è stato regalato
un libro che ha soddisfatto le mie esigenze.
Appena l’ho aperto, ero quasi delusa perché conteneva un centinaio di pagine,
scritto a caratteri grossi mentre io sono abituata ai cosiddetti libri corposi, con le
pagine fitte.
Quando ho iniziato a leggerlo, però, ho subito cambiato idea. Sin dal primo capitolo ho compreso che in quelle poche pagine c’era un condensato di moralità, saggezza e buon senso.
L’istinto era di leggerlo tutto d’un fiato ma, avendo capito che meritava concentrazione, sono riuscita a centellinarlo. Vi ho trovato frasi, concetti, riflessioni che
condivido in pieno e così ho pensato di farne partecipi anche voi. Forse potrà essere d’aiuto a qualche persona che ha bisogno di luce, di ottimismo, di una “bussola” per poter meglio orientare la sua vita.
Perché questo titolo “Il ricettario della felicità”? Proprio perché seguendo con costanza e fiducia quanto ci comunica, credo ci si possa avvicinare ad uno stato
d’animo più tranquillo e sereno, cosa non tanto facile da conseguire.
Cominciamo:
Problema: “Mi sento fiero dei traguardi raggiunti, ho tutto il denaro che voglio,
eppure nella mia vita c’è qualcosa che non va. Nella corsa qualcosa è andato perduto. Possiedo il mondo e in realtà non ho niente. Ho smarrito la felicità”.
Soluzione: “la felicità non si trova con gli affari che vanno in porto o con i soldi
che guadagni. Alla fine devi rendere conto solo al tuo cuore di ciò che hai realizzato: è l’unico bilancio che conta. Occorre prendersi il tempo per vivere, per apprezzare i doni che Dio ti dà, prima che sia troppo tardi.”
Problema: “Per me conta migliorare la mia condizione.”
Soluzione: “Confondiamo la felicità con la ricchezza e il prestigio senza renderci
conto che chi ha questo non è detto che sia felice. Occorre distinguere le cose che
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ti aiutano ad arricchire la tua vita spirituale da quelle che ti appagano solo al momento. Liberiamoci delle cose superflue e avremo campo libero per vedere cosa
c’è oltre. L’uomo talvolta si sente come smarrito nel mondo dove accumula beni;
meglio per lui riscoprire i veri valori della vita quali l’amicizia, un sorriso a chi ne
ha bisogno, la famiglia, l’apertura del cuore.”
P.: “Non sono in pace con me stesso”.
S.: “Non è facile essere in pace con se stessi ma chiunque può farlo. La felicità,
come la purezza, non ha prezzo ma una sola cosa vale: il tuo cuore. Condividiamo
i nostri beni materiali e spirituali con le persone bisognose, non chiudiamoci in
noi stessi e allora capiremo cosa siano la pace e la gioia del cuore.”
P.: “La mia vita non può ridursi al lavoro.”
S.: “ Non si può dare importanza solo ai grandi eventi della vita. Non permettiamo
che avidità e sete di successo ci rendano schiavi perché allora dimentichiamo i veri tesori della vita. La bellezza è anche nelle piccole cose, nelle piccole soddisfazioni quotidiane, è un fiore da cogliere ogni giorno perché è sempre intorno a noi.
Basta accorgersene. È solo aiutando il prossimo che si conosce la vera felicità;
quando si pensa al bene degli altri, ci si sente meglio.”
P.: “Come posso essere felice quando c’è la guerra, la violenza, la rabbia nel
mondo? Come posso godermi una bella giornata, quando c’è gente che soffre?”
S.: “Il fatto che non si riescano a capire certe cose, non significa che non ci sia
una ragione per cui esse accadono. Le persone perseguitate dal male non devono
cessare di sperare e credere. La felicità deve essere nei loro cuori. Le circostanze
fanno soffrire ma la ricompensa futura è molto più grande. I violenti, quelli che
odiano, girano a vuoto e la loro vita sarà sempre un inferno perché sono lontani
dalla felicità.”
P.: “Ho fatto tanti errori, come posso rimediare?”
S.: “Il più saggio degli uomini è quello che ha più esperienza, più sbagli ha fatto
più ha imparato. Traiamo insegnamenti dai nostri errori.”
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Condimento comune ed indispensabile a queste ricette: se vuoi essere felice, ascolta il tuo cuore perché esso racchiude tute le risposte che cerchi.
Mi pare che ci sia abbastanza da meditare in questi estratti di saggezza.
I miei più cari auguri a coloro che sperimenteranno questo “ricettario della felicità”.
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Il valore della preghiera
È proprio vero che quando si intraprende un nuovo cammino succedono tante cose, le più imprevedibili e solo affrontandole in un certo modo si possono superare
le difficoltà che si incontrano.
Nella mia vita ho sempre pregato né poco, né tanto, non sopportavo il Rosario
perché mi distraevo sempre. Da quando faccio parte del Terz’Ordine le cose sono
molto lentamente cambiate. Senza quasi accorgermene, spesso, durante il giorno,
il mio pensiero è rivolto a Dio e la sera, prima di addormentarmi, prego S. Francesco chiedendogli di farmi riposare serenamente tra le sue braccia.
La preghiera non è solo la recita di formulette e giaculatorie che diventano quasi
meccaniche: è il dialogo aperto con Dio, parlargli, dirgli quello che hai nel cuore,
le tue ansie, le tue preoccupazioni ma anche le tue gioie, i tuoi successi, le tue vittorie.
Giorni fa, in preda a una strana malinconia, ho capito che dovevo raccogliermi in
silenzio nella mia stanza; ho preso in mano il crocifisso di S. Damiano e, guardandolo negli occhi, gli ho parlato, ben sapendo che lui mi leggeva dentro. Non
so, sarà stata la suggestione, il fatto è che piano piano mi sono sentita meglio, più
leggera, meno oppressa. Per me la preghiera è indispensabile, è un’arma a dir poco invincibile, una corazza contro le tentazioni.
Lo stesso vale per l’Eucarestia: ogni volta che mi ci accosto, mi sento più forte,
più sicura, più ottimista. Gesù non si smentisce mai! Senza di lui non possiamo
fare nulla.
Quando siamo depressi, ci sentiamo soli, quando abbiamo difficoltà a pregare non
è perché Dio si è allontanato da noi, semmai proprio il contrario. Dio ascolta sempre le nostre preghiere, solo i suoi tempi non sono i nostri, le sue risposte non
sempre sono quelle che ci aspetteremmo e spesso, col passare del tempo, ci rendiamo conto che ci dà cose ancora più belle.
Tenere aperta la porta del nostro cuore è mantenere quel filo diretto con il Padre
che non si spezza mai, se non lo vogliamo noi e che ci rafforza ogni giorno se abbiamo la costanza di pregare con tutti i benefici che ne derivano.
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La Fede non va in vacanza
Ho intitolato questo mio scritto così perché è quella la frase detta dal sacerdote
durante una Messa a Sauze d’Oulx, dove mi trovavo in vacanza. Mi ha fatto molto
pensare e anche sorridere.
Ritengo che sia opportuno capire cosa intendiamo per “fede”.
Non è soltanto credere in Dio, nelle sue opere, nel suo amore ma è soprattutto vivere da cristiani e dimostrare con le opere la nostra fede.
In vacanza, credo che nessuno possa e debba dimenticare di essere cristiano. Ci si
rilassa, chi si riposa e, una volta più calmi, più pazienti, si dovrebbe essere più disponibili verso il prossimo.
C’è chi, durante le vacanze, si dedica al volontariato, alle opere di carità ma basta
anche meno, purché sia fatto con amore.
Durante l’anno, quando la maggior parte della gente lavora e conduce la cosiddetta vita normale, se parli di fede, di meditazione, ti senti rispondere: “Io già vado a
messa la domenica. Meditare? E chi ne ha il tempo durante il giorno, sempre di
corsa a destra e a sinistra.”
Se parli con i giovani, generalmente, va già bene se ti rispondono che vanno a
messa, perché poi c’è lo sport, gli amici, la palestra ecc. Tutto è più importante
della fede. Se poi parli di “fare deserto”, sono veramente poche le persone che ne
conoscono il significato.
E d’estate, in ferie, le cose cambiano? Sì, forse… La messa domenicale è più frequentata ma poi quanti, una volta fuori di chiesa, si ricordano le parole del Vangelo che è stato letto e trovano il tempo, in settimana, di dedicare almeno mezz’ora a
una buona lettura, al silenzio, alla contemplazione? Per i giovani c’è la discoteca,
gli amici e per i meno giovani le gite ecc. – per carità, salutari anche quelle in
mezzo alla natura-.
Ho letto un articolo consolante su un opuscolo che parlava di vacanze: pare che
sempre più persone sentano il bisogno di ritirarsi almeno per una settimana in uno
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dei tanti conventi di cui è cosparsa la nostra bella Italia, dedicandosi alla preghiera
e al silenzio per ritemprarsi e rinnovarsi nel corpo e nello spirito. Se è vera, è una
gran bella notizia!
Cosa capita d’estate alla sottoscritta? Gli unici momenti di preghiera sono al mattino quando esco col cane per portarlo un poco nei prati prima della gita giornaliera, offro al Signore la mia giornata, recito il rosario e la sera, prima di dormire,
quando leggo un breve tratto del Vangelo.
Devo purtroppo rinunciare alla messa quotidiana perché sono sempre in giro con
la famiglia.
Mi reputo comunque fortunata perché durante l’anno mi si offrono molte possibilità di coltivare la mia fede: gli incontri di fraternità, il ritiro di Natale, gli esercizi
spirituali a La Verna. Non ho che l’imbarazzo della scelta.
L’estate è fatta per riposare, non solo il corpo e la mente, ma anche lo spirito.
È giusto godere dell’aria aperta, del verde, del sole, dei boschi, basta ringraziare
Dio per tutto quello che ci offre e per la possibilità che ci dà di goderne. Cosa c’è
di meglio per “stare meglio” che abbandonarsi al Signore? Non è lui che ha detto:
”Venite a me, voi tutti che siete affaticati ed oppressi ed io vi ristorerò?” (Mt
11,28)
Non dimentichiamo mai, per il nostro bene: “La fede non va in vacanza”.
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La forza della fede
“L’angoscia fa parte della vita. Non è solo sintomo disturbante che rimanda a
qualche disordine o patologia; c’è una forma che potremmo dire ‘normale’ di ansia, quella legata alla realtà nei suoi aspetti di fatica, di preoccupazione e di dolore. Vivere una vita di fede non significa essere immuni da questo stato
d’animo che tutti vorrebbero fuggire. La fede non è un rifugio paravento che
ci distanzia dal reale, non è mettere la testa sotto la sabbia per non vedere e
non sentire.
La fede entra nel concreto della vita, dandole una carica incredibile di speranza e di forza anche quando la realtà rimane incomprensibile”.
Quanto precede non è ricavato da un trattato di psicologia ma da un libretto che si
chiama “Momenti francescani” che leggo tutte le mattine.
A mio parere, nessuno è esente da periodi o momenti di difficoltà, di crisi esistenziale, di “buio” nel cuore e spesso e volentieri, se non ha la fede a sostenerlo, può
cadere in preda all’angoscia, alla disperazione, non sa a quale santo votarsi.
La fede, come detto sopra, non ci mette al riparo dalle sofferenze; non ci spiega il
perché accadano certe cose.
Fede, a mio avviso, è credere in un Dio, Padre amorevole che non ci preserva
dalle difficoltà, non ci libera dalla croce che ognuno deve sopportare, ma ci
assiste, ci è vicino e di sicuro non permette che siamo schiacciati dal male, in
qualunque forma si manifesti.
Dio ci conosce dal grembo materno, sa come siamo fatti, sa che siamo deboli, insicuri, facile preda della paura.
Ho vissuto periodi di ansia; la sofferenza mi ha sempre accompagnato nella vita a
causa di una noiosa forma reumatica, talvolta ho anche toccato il fondo, eppure
(non è un vanto! Lo considero uno stato di grazia) c’è sempre stata una forza interiore, una voce dentro di me che mi ha incoraggiato a non lasciarmi andare, ad avere fiducia, una mano invisibile tesa verso di me e ne sono uscita sempre più forte e sempre più convinta dell’amore del Padre e della sua potentissima presenza
nella mia vita.
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Talvolta, certe persone sono talmente sopraffatte dalla tristezza e dal pessimismo,
che diventano cieche e non riescono a intravvedere le cose belle che sono intorno
a loro, ad esempio, l’amica che ascolta, incoraggia, strappa un sorriso quando
non avresti nessuna voglia di sorridere; una bella giornata di sole; una buona notizia inaspettata; una delusione che col senno di poi si rivela un dono del Signore…
si dice spesso che Dio chiude una porta ed apre una finestra…
Mi ritengo fortunata, perché riesco a vivere la vita abbastanza serenamente con
tutte le sue ombre e le sue nuvole. Ciò che mi consola è la convinzione che “dietro le nuvole, c’è sempre il sole”.
Grazie, Signore.
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Riflessioni sulle tre “V”
Titolo un poco strano per un articolo, qualcuno penserà.
Giorni fa, durante le mie solite letture e preghiere mattutine, mi è capitato questo tratto
del Vangelo di Giovanni, cap. 14. “Io sono la Via, la Verità e la Vita. Nessuno viene al
Padre se non per mezzo di me.” È la risposta che Gesù dà a Tommaso che gli chiede: “Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?”.
Come accade, ogni volta che il mio cuore e la mia mente sono attirati da una frase particolarmente “forte”, ecco che ho cominciato ad elucubrare.
Premetto che non so se i concetti che esprimerò siano giusti o sbagliati ma, come mio solito, ve li propongo, semplicemente per condividerli con voi.
Tra l’altro, rileggendo in questi giorni questo mio scritto, ho pensato che potrebbe essere
utile per aiutarci in un’accurata revisione di vita per iniziare a prepararci per il periodo a
cui ci stiamo avvicinando a lunghi passi: l’Avvento.
Suppongo che questa sia la domanda che quasi ognuno di noi, ad un certo momento della
sua vita si pone: sono sulla strada giusta? Generalmente, quando vengono certi dubbi, ci
sentiamo a disagio, insoddisfatti, proviamo un certo malessere e cerchiamo una risposta
che ci illumini e soddisfi.
Per noi francescani, la conversione dovrebbe anzi deve essere giornaliera. Non penso che
ci si debba adagiare: se nella nostra vita c’è qualcosa di sbagliato, si dovrebbe avere il coraggio di dare un taglio netto subito , tanto più che sappiamo che l’aiuto del Signore non
viene mai meno.
La nostra vita è un pellegrinaggio, con tante tappe, luoghi di sosta in cui fermarsi e fare il
punto della situazione e controllare la rotta.
Le Scritture, come sempre, vengono in nostro aiuto, purchè abbiamo l’umiltà e la pazienza di leggerle, meditarle da soli o meglio con l’aiuto di un padre spirituale e metterle in
pratica. Non solo: il Signore ci ha lasciato in dote il sacramento della Riconciliazione che
ci purifica, ci apre gli occhi e ci rinforza.
Quando Gesù ci parla della “via”, ci indica la strada.
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Di solito ci parla della “strada della croce” .” Chi vuol essere mio discepolo, prenda su di
sé la croce e mi segua.”
La parola croce ,di per sè, si abbina alla sofferenza. Però, a mio avviso, non è solo portando la propria croce con serenità e pazienza che si segue il Signore.
Si può infatti essere seguaci di Gesù anche nella gioia, ringraziandolo per i suoi doni e
per il fatto che non ci lascia mai orfani; diffondendo la serenità e la pace nel nostro ambiente; dimostrando amore ai fratelli, non importa di quale razza, religione, lingua; dedicando un poco del nostro tempo al volontariato, qualunque esso sia ; perdonando anche e
soprattutto nei momenti in cui costa di più.
La via che ci indica Gesù è anche la via dell’amore. In Giovanni (cap. 15) ritroviamo
quanto ci dice Gesù: “Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri”.
Ognuno di noi, qualunque sia la sua professione, ha la possibilità di seguire la via della
verità che non è altro che la via del Vangelo. Bisogna però accertare quale sia la sua scala
di valori.
Pensiamo un poco quanto sia difficile, per i giovani d’oggi, fare delle scelte. Ci sono tante
tentazioni: la via del successo, il mondo dello spettacolo che, se a prima vista è molto attraente poi, spesso lascia l’amaro in bocca, soprattutto perché, nella maggior parte dei casi vi domina la corruzione , il denaro facile, la perdita della propria dignità.
Se guardiamo la televisione, si rimane stupefatti per l’attrazione che esercitano sulla gioventù il diventare “veline”, partecipare a reality come “Il grande fratello”, ”La fattoria”,”
L’isola dei famosi”. Il desiderio di “apparire” ed “avere” è più forte di quello
dell’”essere”. Si imparano un sacco di cose vuote ed inutili e si è di una ignoranza abissale per quanto riguarda la Sacra Scrittura (lo si può appurare dai quiz televisivi). Non sarebbe male, ogni tanto, riprendere in mano il Catechismo e, soprattutto se abbiamo le idee
un poco confuse, appunto perchè lo consultiamo molto poco (chiaramente questo non vale per le persone di coscienza), rinfrescarci la memoria.
Passiamo ora alla parola “vita”. A mio modesto parere, si può intendere la vita terrena
sulla scia del Vangelo (per noi francescani, è la regola di base) e l’altra vita , quella che
Gesù ci ha promesso e preparato nel suo regno.
Siamo capaci di cambiare drasticamente la nostra vita, quando percepiamo di essere sulla
strada sbagliata? Siamo capaci di lasciare “l’uomo vecchio” per scegliere “l’uomo nuovo”?
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Ecco che qui interviene la parola “verità”. Il cammino della verità è la strada che ci indica
il Signore: è un cammino pieno di scogli, di difficoltà, di scelte controcorrente (pensiamo
al discorso della montagna),è ricco di cedimenti e riprese; è una strada che però, se affrontata con coraggio, perseveranza e fede, ci rende liberi da noi stessi, dai nostri egoismi,
da sovrastrutture e fardelli inutili e pesanti.
In questo il nostro caro padre S. Francesco ci ha dato una moltitudine innumerevole di esempi, fondamentalmente abbandonandosi nelle mani del Padre che ci conosce sin dal
grembo materno; ha dovuto fare una scelta radicale e l’ha fatta.
Auguro a tutti i fratelli e sorelle di intraprendere il cammino dell’Avvento armati delle
migliori intenzioni.
Quando siamo insicuri, non sappiamo “che pesci prendere” o abbiamo paura di sbagliare,
affidiamoci a Gesù e sarà lui a condurci sulla via della luce e della pace.
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L’eredità del nonno
Nella vita di ognuno di noi ci sono persone che ci lasciano un ricordo particolare e
significativo di cui ci rendiamo conto solo col passare degli anni.
Nel mio caso è stato il mio caro nonno Pippo a lasciare in me un segno indelebile.
Era un uomo burbero, schivo, ma generoso, umile e profondamente religioso.
Che ricordi ho di lui? Tanti. Sceglierò quelli che ritengo più importanti.
Mai a tavola dimenticava di ringraziare il Signore, dandoci così l’esempio.
Sempre piuttosto parsimonioso, non utilizzava i tovaglioli normali ma quadrati di
“carta straccia” (carta da involto in uso nei negozi di commestibili). I tovaglioli di
stoffa erano di appannaggio solo nei giorni di festa. Già da questo si deduce quanto vivesse in semplicità.
Trascorreva quasi tutti i pomeriggi nel suo studio, dove accoglieva un frate cappuccino, di solito si trattava di Padre Valeriano da Finalmarina con il quale leggeva e commentava il santo Vangelo.
Questo è uno dei momenti che, parlandone ora, ho più invidiato della vita del
nonno: aveva sempre con sé la persona adatta con la quale chiarire ed apprezzare i
vari passi della vita di Cristo.
Quando sorprendeva i suoi nipoti a leggere fumetti, giornali o riviste, con la sua
voce tonante li rimproverava e li invitava se non ad emularlo, a migliorare quantomeno la scelta delle loro letture. Ho ancora nelle orecchie la sua voce che con
autorità diceva: “Leggete il Vangelo che è la sola fonte di verità e di vita.”
Nella sua ottica, riteneva sprecato il tempo che noi ragazze impegnavamo davanti
allo specchio per imbellettarci e ancora la sua voce possente tuonava: ”Vanità delle vanità, tutto è vanità…”
Quando c’era ancora la nonna Giovanna, anche se durante il giorno avevano avuto
qualche battibecco, immancabilmente, dopo cena, ella lo chiamava per recitare il
Rosario. Grande esempio questo per le nostre famiglie che chissà se la sera trova39
no il tempo e la voglia di riunirsi in preghiera, dimenticando lo stress, le fatiche
della giornata, le incomprensioni piccole o grandi che siano.
Tutte le mattine il nonno si recava alla Santa Messa e di solito prediligeva la chiesa di S. Caterina perché c’erano i suoi frati e lui era, l’ho scoperto solo dopo che è
mancato, un terziario francescano.
Quando mia sorella ed io ricevemmo la Prima Comunione volle che fossero dei
Frati Cappuccini ad amministrarcela. Fu così che Padre Valeriano e Padre Teodosio da Voltri ebbero questo compito importante e furono proprio gli stessi che,
venni poi a sapere, gli regalarono un libro sulla vita di Padre Francesco da Camporosso ed il Trattato sul Purgatorio di S. Caterina da Genova.
Almeno una volta all’anno si recava nel convento di San Barnaba e, indossando il
saio, trascorreva alcuni giorni di ritiro in una celletta che i frati gli avevano messo
a disposizione e viveva con loro. Egli stesso chiese di indossare quel saio per la
sua sepoltura. Mi ricordo ancora il chiostro, le tortore che vi svolazzavano tranquille, la pace che vi regnava ed ecco spiegato il motivo per cui ho sempre avuto
tanto affetto e tenera attrazione per le chiesine francescane.
Nella Chiesa di S. Caterina i fratelli e le sorelle più anziani del Terz’Ordine lo ricordano ancora quando si recava ai vespri e cantava con la sua voce baritonale.
Giorni fa, mettendo in ordine vecchi documenti, ho trovato uno stralcio del giornalino dei Cappuccini che riportava un piccolo brano scritto quando il nonno è
mancato. Mi sono commossa perché una volta di più ho capito quanto avesse
amato S. Francesco, la vita francescana, come vi fosse stato fedele e quale grande
ricordo avesse lasciato nel cuore di tutti.
Anche io amo S. Francesco, cerco, come posso, di seguire il suo esempio, facendo
parte del Terz’Ordine Francescano proprio nella chiesa che nonno Pippo ha amato
così tanto.
Quando feci la Prima Comunione, il nonno mi regalò il tradizionale messalino e
nella prima pagina scrisse questa dedica che voglio proporvi:
Carissima Paola, questo piccolo grande libro sia per te fonte di acqua viva che
all’aurora della tua vita ha preso pieno possesso del tuo cuore innocente e puro e
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sia santa l’unione eucaristica fatta all’altare di Dio. Il Signore ti conceda una perenne e spirituale giovinezza: Prega per la tua cara nonnina Giovanna che ti amava con tanto sviscerato affetto. Prega per il tuo caro nonno Pippo, figlio del
serafico Padre S. Francesco, che vero amante di Gesù Crocifisso, percorreva le
strade gridando: “L’amor mio non è amato, l’amor mio non è amato!”.
Col tempo, più volte, mi sono chiesta cosa mi ha spinto a fare questa scelta di vita:
è stata una chiamata del Signore oppure chissà, il piccolo seme che i nonno ha
gettato durante la sua vita ha trovato un terreno fertile proprio nella sua nipote più
piccola?
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Non di solo pane
Da qualche anno, quando arriva il tempo d’Avvento, mi sento stranamente pervasa da una certa tristezza. Può sembrare un controsenso, soprattutto dal punto di vista religioso, che una credente che conosce il valore di questo periodo, si trovi a
provare questo sentimento.
Per la verità non dipende da me ma dall’ambiente in cui vivo e dalla mentalità della maggior parte della gente che mi circonda.
Durante l’anno, io come tanti altri, troviamo spesso rifugio nella preghiera per affrontare le fatiche della giornata ma anche per ringraziare del gran bene che riceviamo gratuitamente ogni giorno. A maggior ragione, durante l’Avvento che prelude alla nascita del Salvatore, sorge la necessità di preparargli non una stalla
fredda e scomoda in cui nascere ma un luogo per lo meno confortevole come un
cuore che lo ama.
La causa prima della mia tristezza è quello che sembra essere il primo pensiero
della gente: “Cosa mi faccio regalare? Che cosa regaliamo? Che cosa mangiamo?”
Tempo fa, parlando con amiche proprio di questo argomento, alcune hanno arricciato il naso dicendo che vorrebbero che il Natale non venisse mai, perché è preceduto solo da ulteriori giorni di frenesia, confusione e di spiritualità… neanche
l’ombra. “Meglio” dicono “il Natale di una volta, quando si era più poveri fuori
ma più ricchi dentro.”
Hanno ragione! Basta guardarsi attorno nelle strade: illuminate a giorno con festoni colorati e un’inarrestabile corsa allo shopping natalizio.
Nei negozi di giocattoli devi avventurarti a tempo debito se vuoi evitare code di
ore. Alla televisione non si parla altro che di cellulari superdotati, playstation, giochi elettronici dai prezzi stratosferici, come se fossero essenziali nella vita dei nostri ragazzi.
Nei supermercati c’è la corsa al panettone e al dolce speciale.
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Pare proprio che la gente mangi solo a Natale e durante l’anno faccia invece la
fame; come se non ci fossero i veri poveri che per mangiare un boccone devono
rivolgersi alla mensa dei poveri, che vada bene.
Il bello è che il Vangelo ci dice: “Non di solo pane vive l’uomo ma di ogni parola
che esce dalla bocca di Dio” (Mt. 4,4). A cosa si è dunque ridotto il periodo
d’Avvento?
L’altro aspetto che mi fa rabbrividire è che durante l’anno alla Messa si vedono i
soliti “habituès” e le chiese hanno molti posti vuoti… A Natale devi entrare in
chiesa almeno una mezz’oretta prima se vuoi trovare un posto a sedere. Perché ci
si ricorda del Signore solo nelle festività importanti?
Perché non ci liberiamo dalla schiavitù del consumismo e rivalutiamo invece un
poco il silenzio, la meditazione, la preghiera? Noi francescani, sia durante
l’Avvento che durante la Quaresima dedichiamo almeno una giornata a queste
bellissime pratiche. Preghiamo per tutti: per quelli che soffrono, per quelli meno
fortunati di noi, per le famiglie in difficoltà, per i non credenti, per quelli che sono
senza lavoro, per i nostri giovani che affrontano la vita.
Cerchiamo d’ora in poi di porre Gesù al centro della nostra vita, almeno in questi
periodi e di certo i buoni frutti di questa semina, prima o poi, si faranno vedere.
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Pellegrinaggio ad Assisi
Siamo partiti il 25 aprile alle ore 6, felici di trovarci assieme per condividere questa nuova esperienza; la prima tappa è stata il Lago Trasimeno. Bello, una località
riposante con le sue isolette che richiama un poco il Lago Maggiore ma con una
differenza speciale: su una di queste, in una chiesa un poco nascosta, S. Francesco
è stato a pregare.
Siamo ritornati ieri sera in anticipo rispetto al previsto, dopo un viaggio tranquillo,
col bel tempo, senza troppo traffico e sono certa che ognuno di noi ha avuto il suo
bel fagotto di emozioni, esperienze, spiritualità dal quale trarrà, col tempo, i benefici che un pellegrinaggio, specialmente ad Assisi, comporta.
Tirando le somme, direi che gli unici aspetti negativi, legati soprattutto alla debolezza umana, sono stati la stanchezza per le lunghe marce e il dormire poco che,
però, sono stati irrilevanti di fronte all’abbondanza dei doni spirituali ricevuti.
Ma veniamo al nostro Francesco: è stato sempre con noi ed è stato lui che, almeno
per quanto mi riguarda, ci ha dato la forza fisica e l’energia spirituale per sentire,
assaporare, respirare la sua presenza ovunque.
Mentre passavo per le strade di Assisi percepivo il secco rumore degli zoccoli del
suo cavallo, quando giovane ed esuberante, galoppava e si divertiva con i suoi
compagni; lui, prima così amante del divertimento e dell’avventura e, dopo,
“l’araldo del gran Re”.
Più conoscevo i posti dove Francesco è nato, cresciuto, vissuto, ha sofferto, ha
amato, più sentivo di essergli vicina, anche se vivere come lui, parliamoci chiaro,
è da pochi eletti. È possibile forse avvicinarsi a lui e seguire i suoi insegnamenti
con tanta umiltà e profonda perseveranza.
Ho conosciuto meglio anche S. Chiara che, a dire il vero, avevo sempre considerato come l’ombra di Francesco e che invece era dotata di una sua spiccata personalità tanto è vero che, giovanissima, contro il volere dei genitori, ha lasciato la sua
casa per seguire il Signore nella semplicità, umiltà e povertà francescane.
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Come è sempre vero Francesco! Pregava nei luoghi più angusti, bui, freddi, umidi,
umanamente scomodi ma, evidentemente, non gli importava molto perché c’era
Gesù che sopperiva a tutto.
Siamo noi capaci di pregare così ardentemente da dimenticare, anche per pochi
minuti, il mondo, i disagi, le preoccupazioni più banali della vita e concentrarci
nel Signore?
Pensiamo un po’: quando siamo nei boschi, se mai ci andiamo, sappiamo riconoscere nel sussurro del vento nel colore dei fiori, nel canto degli uccelli, nello stormire delle fronde, la voce di Dio che ci parla?
La voce della natura ci parla di Dio, del creato, dell’immenso amore del Padre per
tutte le sue creature. Sappiamo ascoltare la sua voce nel silenzio, nella contemplazione?
L’esperienza senz’altro più particolare per me è stata la visita a S. Maria degli
Angeli. Erano vent’anni, dal mio viaggio di nozze, che non ci entravo. Rivedere la
Porziuncola è stata un’emozione che non si può esprimere a parole. Rivedevo il
Poverello, umile nel suo saio, che pregava con i suoi fratelli.
Mi sono soffermata a contemplare la chiesetta per un po’, prima di tornare al pullman e in quei pochi minuti c’è stato un cambiamento dentro di me: al posto del
mio cuore si è insinuata la cappelletta e, con quel tesoro immenso incastonato nel
mio petto come un diamante, ho ripreso il viaggio di ritorno a Genova. Questo è
ciò che ho provato ma credo che gli altri pellegrini che erano con me abbiano provato più o meno le stesse emozioni.
Giovani e meno giovani, nella famiglia francescana, non conta l’età: quello che ci
accomuna è l’amore per Francesco, per la preghiera intima, personale ma anche
comunitaria, l’amore per le cose semplici.
Nessuno di noi disdegna una “grande risata” perché anche Frate Francesco era allegro, amante della compagnia, della musica, della poesia e non dimentichiamo
poi che il vero francescano vive il Vangelo nella gioia più vera.
Il Signore ci dia la pace.
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Povertà dignitosa e feconda
Tutto cominciò circa quattro anni fa. Allora c’era ancora fra noi della fraternità di
S. Caterina, il caro Padre Agostino che è stato poi trasferito. Tutti lo ricordiamo
con grande affetto.
Si era deciso con lui e molti volontari di offrire, alla domenica, la colazione ai poveri e ai clochards del quartiere, una colazione a base di focaccia, panini, un buon
caffè caldo oppure del the.
Non vennero in molti e non indagammo sul perché anche se pensammo che, forse,
era la soggezione e la timidezza a tenerli lontano dai loro “rifugi”. Però, tra quei
pochi che vennero, lui si distinse subito.
Scrivo “lui” perché, chiaramente, allora non ne conoscevo il nome ma ricordo che
all’epoca lo incontravo spesso o alla Consolazione oppure nella Chiesa di S. Ambrogio. Se ne stava sempre seduto in fondo vicino alla porta, in silenzio, immagino in muto colloquio con Gesù Crocifisso.
Non lo vidi mai chiedere l’elemosina e quello che mi colpì subito fu la sua bellezza fisica che scoprii, in seguito, essere anche interiore: alto, robusto, capelli candidi corti, due splendidi occhi azzurri, claudicante purtroppo, di poche parole, con
un forte accento straniero. Mi disse il suo nome.
Anche quella mattina se ne stava in disparte gustando la sua colazione ma non dava l’impressione di “abbuffarsi” come facevano gli altri e anche l’abbigliamento
era dignitoso e pulito. Come ho detto prima, non l’ho mai visto chiedere
l’elemosina e forse non so se l’avrebbe accettata.
Col passare del tempo l’ho incontrato in fraternità perché, soprattutto il mercoledì,
quando c’è del lavoro da sbrigare, seguito poi da pranzo e dalla condivisione, veniva anche lui e allora ci siamo conosciuti meglio, se così si può dire, data la sua
estrema riservatezza.
Ho saputo che vive solo, qui a Genova; ha navigalo per tanti anni, ha avuto momenti difficili e che ora si sposta nei vari luoghi di accoglienza a spese del Comune.
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Perché ho intitolato questo mio scritto “povertà dignitosa e feconda”? Perché, da
quel poco che ho potuto vedere e conoscere, posso dire che è una persona povera
ma povera solo materialmente, perché ha una sua dignità, un suo valore e, da un
punto di vista spirituale, ha tanto da offrire a noi francescani.
Viene in S. Caterina a pranzo, ma prima si rimbocca le maniche e lavora sodo,
trasporta pesi, sposta mobili, aiuta nei lavori di muratura e falegnameria; dopo
pranzo sparecchia la tavola, scopa per terra, saluta i fratelli che incontra con il suo
bel sorriso e poi, al momento della formazione, si ritira in un angoletto e sta ad ascoltare in silenzio. Se gli chiedi aiuto per qualsiasi cosa, non rifiuta mai. In breve,
non viene solo per prendere ma dona quello che ha di suo che è solo forza fisica.
Perché ho detto che è un uomo fecondo? Perché nella sua semplicità, nella sua
povertà, nella disponibilità verso gli altri, nella sua riservatezza, nel suo saper ascoltare, sa donare molto dimostrando che non è la ricchezza materiale che conta
ma quella spirituale, la sola che porta frutto.
Grazie Signore per il dono di questo fratello.
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Preghemmu in zeneize
Funzione davvero speciale quella a cui molti fortunati genovesi e la sottoscritta
hanno assistito domenica 11 settembre 2005, nella chiesa di S. Caterina.
Ci era già stata preannunciata dal nostro caro Padre Vittorio, nonché pubblicizzata
dallo stesso sui giornali ed è valsa veramente la pena parteciparvi: sto parlando
della Santa Messa in dialetto genovese inserita nella novena dedicata a S. Caterina
da Genova.
Tanto per dare una panoramica: chiesa piena di fedeli come accade quando è Natale e Pasqua.
La maggior parte dei presenti, premunita di libretto per poter seguire meglio la
funzione, nonché quelli che sono abituati a parlare il dialetto e quindi lo conoscono bene, hanno seguito passo passo la liturgia, meglio delle altre volte, direi.
Il nostro caro dialetto che ci ha fatto sentire vicini e ci ha legato di più. Le letture,
il salmo e il Vangelo, a mio modesto avviso, sono state più coinvolgenti, sentite in
genovese.
Certe parole, certe espressioni mi facevano sorridere, per non dire poi l’omelia del
padre Vittorio, centrata sul perdono, sul carattere un poco chiuso di noi liguri che,
però, superata la prima naturale e congenita diffidenza, sappiamo mettere il cuore
in tutto quello che facciamo, soprattutto nel rapporto con gli altri.
Chi non è ligure, spesso, ci accusa di essere appunto musoni e poco comunicativi
ma poi, col tempo, si ricrede perché impara a conoscere la nostra generosità.
S. Caterina è stata con noi spiritualmente per tutta la sera e si è pregato perché “una piccola scintilla del suo ardente amore” (come dice la preghiera a lei dedicata
che tutti o quasi tutti conosciamo) possa conquistare i nostri cuori e guidarci ad
imitarla.
Parte importante e molto toccante ha avuto il coro che ci ha allietato con i suoi
canti in genovese e, fatto veramente tenero, tutti cantavano, nessuno escluso, soprattutto l’Ave Maria in zeneize che tanto commuove quando la sentiamo.
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Ma il canto forse più bello e toccante è stato l’ultimo, davvero inaspettato, che da
lungo tempo non ascoltavo: Piccun dagghe cianin. Sono quasi certa di aver scorto qualche “lacrimuccia” sul viso di non pochi perché tanti canti dialettali arrivano
profondamente al cuore in quanto ci portano indietro nel tempo, ad un tempo in
cui forse si era più poveri, si viveva una vita più semplice ma, probabilmente, ci si
voleva bene in modo più profondo.
Tutti, al termine dei canti, hanno applaudito come segno di un piccolo ma sentito
riconoscimento al coro. Uscendo di chiesa, commossa nel mio cuore, ho desiderato che funzioni del genere si ripetano più spesso nella nostra chiesa.
Grazie.
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Riflessioni tra le mele
Anche quest’anno, durante le vacanze trascorse in Val di Non, in un ridente paese
più popolato di mele che da esseri umani, ho avuto la fortuna di imbattermi in un
sacerdote che, durante la Messa domenicale, ha saputo catturare la mia attenzione.
Capita, a volte, di non trovare religiosi che sappiano predicare bene: o si dilungano troppo e sono ripetitivi, o sono troppo spicci, oppure parlano così velocemente
da non permettere di assaporare la loro omelia.
Ho incontrato invece chi, parlando quanto basta e con brevi pause, mi ha dato il
tempo di assimilare il commento ai testi sacri.
Una frase in particolare mi ha colpito: “È da pazzi non lasciarsi amare dal Signore!”
Parlandone più tardi con un amico, egli stesso, sorridendo, ha aggiunto: “Beh, costa poco e porta molto frutto!”
Da queste due frasi, secondo me, strettamente legate, è nata la mia riflessione che
si è sviluppata, giorno dopo giorno, mentre me ne stavo dolcemente rilassata nel
bel mezzo di un meleto.
Quanti di noi si lasciano amare dal Signore? Quanti hanno cieca fiducia in lui e gli
si abbandonano? Cosa impedisce a tanti di affidarsi completamente a Dio?
Per molta gente l’essenziale è possedere: denaro, successo, potere. Quando poi si
trovano nella prova o in difficoltà, non sanno a che santo votarsi, talvolta si lasciano sopraffare dalla disperazione, spesso con tragiche conseguenze. Proprio allora si rendono conto che coscienza pulita e serenità non si comprano… Altri ancora credono di poter fare tutto da sé ed arrivano così le delusioni e le batoste: non
accettano infatti quello che Dio ha detto: “Senza di me non potete fare nulla.” perché probabilmente lo hanno escluso dalla loro vita.
Allora mi chiedo: perché non pregano e non domandano aiuto al Signore? Presto
detto: non hanno fede o l’hanno molto debole. La fede, infatti, esclude la disperazione.
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Io, personalmente, mi sono resa conto che solo affidandomi al Signore, ogni giorno, da quando mi sveglio al mattino, fino al momento di coricarmi la sera, trovo la
gioia di vivere, la serenità, il coraggio, la forza di affrontare la giornata con le sorprese che essa ci riserva nel bene e nel male. Quando penso all’infinita misericordia di Dio, al suo incommensurabile amore per noi, capisco che è proprio da
sciocchi aver paura dell’oggi e del domani.
Il Signore sa di cosa abbiamo bisogno e ci aiuta ma, chiaramente, vuole la nostra
collaborazione, non che stiamo lì a guardare. Non per niente c’è il detto: “Aiutati
che Dio ti aiuta.” Ci ha dato il dono della libertà intesa non come “faccio quello
che mi pare” ma come vivere nell’amore per Dio per me stessa e per gli altri.
Nel mondo c’è poco amore, per questo si va a fondo.
Giorni fa, parlando con un’ospite dell’agriturismo dove soggiornavo, mi sono sentita dire questa frase per me, mi sia concesso, veramente stupida: “Che brava che
vai a messa! Però si può essere cristiani anche senza andarci.” Al che, di getto, le
ho risposto, lasciandola alquanto spiazzata: “Allora non si è cristiani.”
Quanta poca coerenza in certa gente!
Mi chiedevo, all’inizio di questo mio scritto, cosa può impedire di lasciarsi amare
da Dio.
Quante persone vorrebbero forse cambiare vita perché riconoscono i loro errori
ma non hanno il coraggio di fare il grande salto? Non si rendono conto che Dio,
da buon padre, è lì che li aspetta a braccia aperte.
Perché non leggono, si soffermano e meditano sulla parabola del Figliol Prodigo o
su quella del Buon Pastore? Non sono solo parole.
Dio ci dà la libertà di scegliere, non ci obbliga a vivere bene o male. Se viviamo
male è perché lo vogliamo o perché crediamo di guadagnarci (che cosa non so!).
Abbiano queste persone la forza, il coraggio di porre fine a una vita di errori,
l’umiltà di guardare Dio con fiducia, di lasciarsi abbracciare da lui e allora si accorgeranno che, per quanto possa costare, dà sempre ottimi frutti.
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Una spiritualità lontana
Da lungo tempo interessata alla civiltà e spiritualità dei nativi americani, ho voluto
approfondire questo argomento.
Ho letto libri, saggi, riviste, visto e rivisto film (pochi purtroppo) che hanno saputo far risaltare (a chi è stato capace di andare al di là del proprio naso) la loro civiltà e adesso penso di poterne comunicare, a chi fosse interessato, alcuni aspetti
che sono validi tutt’oggi. Questo popolo, infatti, reietto e perseguitato nel tempo,
ha molto in comune, dal punto di vista spirituale, anche con il francescanesimo.
In un mondo dove la violenza, la guerra, l’egoismo, l’indifferenza, lo spreco, la
speculazione, il consumismo, l’inquinamento, il denaro fanno praticamente da padroni, parole di saggezza, amore e pace provengono proprio da quella gente che
per decine di anni, secoli, è stata reputata “cattiva” e “selvaggia”.
Mi piace riportare, qui di seguito, un segno del modo di porsi degli indigeni
d’America perché spero che sempre più venga riabilitata e rivalutata la loro civiltà, il loro modo di pensare e di rapportarsi con la natura e l’intero universo.
Uno dei loro più noti capi, Nuvola Rossa, così si esprimeva:
“Non ci interessa la ricchezza, ciò che vogliamo è allevare bene i nostri figli. La
ricchezza non è di nessuna utilità e non si può portarla con noi una volta morti.
Noi non vogliamo ricchezza, Vogliamo amore e pace. Noi ringraziamo la Madre
Terra che ci nutre. Ringraziamo i fiumi e i ruscelli che ci danno acqua. Ringraziamo le erbe che ci donano forze risananti. Ringraziamo il mais e i suoi fratelli,
il fagiolo, la zucca che ci tengono in vita. Ringraziamo i cespugli e gli alberi che
ci donano i loro frutti. Ringraziamo il vento che muove l’aria e che allontana e
malattie. Ringraziamo la luna e le stelle, che ci illuminano con le loro luci,
quando il sole tramonta.
Ringraziamo il nostro progenitore Hèno che protegge noi, suoi nipoti e che ci
dona la pioggia. Ringraziamo il sole che ridente guarda giù sulla terra. Ma soprattutto ringraziamo il Grande Spirito che unisce in sé tutta la bontà e tutto
volge per il benessere dei suoi figli”
E il popolo degli Irochesi così pregava:
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“Guardate, fratelli: è primavera, il sole abbraccia la terra. Tutti i semi si risvegliano, tutti gli animali cominciano una nuova vita. E anche la nostra stessa vita proviene da questa immensa e misteriosa energia. Quindi, fratelli, concediamo a tutti e anche agli animali, lo stesso diritto che reclamiamo per noi la libertà di vivere su questa terra.”
E il popolo degli indiani Cree così profetava:
“Solo dopo che l’ultimo albero sarà stato abbattuto. Solo dopo che l’ultimo fiume sarà stato avvelenato. Solo dopo che l’ultimo pesce sarà stato catturato. Solo
allora scoprirai che i denaro non si mangia.”
Questi sono solo alcuni degli aspetti che si rivelano comuni anche con lo spirito
francescano ma ce ne sono tanti altri, come il digiuno, la meditazione, il silenzio,
la preghiera in luoghi deserti per meglio comunicare con il trascendente che è in
tutti noi.
Posso solo aggiungere, come simpatizzante di questo popolo, che i nativi americani, proprio perché considerati “ultimi”, nella loro sofferenza e persecuzione ci
hanno insegnato quanto è importante vivere seguendo il proprio cuore, l’amore
per la Madre Terra che mai ti tradisce se tu la rispetti e per il creato intero.
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SOFFERENZA E CONDIVISIONE
Nella mia vita ho sempre sofferto molto, sin dall'infanzia, di una noiosa forma
reumatica. Col passare degli anni, fortunatamente, trovando le cure giuste, sono
riuscita, per lo meno a soffrire di meno.
Confesso che quello che mi ha aiutato molto è stato entrare nel terz'Ordine Francescano. La mia fede si è rafforzata, sono riuscita a "portare la mia croce" abbastanza serenamente, perché ho avuto l'esempio del serafico padre S. Francesco,
con l'aiuto della preghiera costante e soprattutto con la consapevolezza che Dio
non ci manda mai prove che superano le nostre forze.
Ho anche riscontrato che mentre tanta gente è resa arida dalle prove della vita,
maldisposta verso gli altri, incapace di condividere i loro problemi, per me è stato
diverso. È raro che io non abbia parole di incoraggiamento , di speranza, di fiducia
per chi mi si rivolge in momenti di sconforto. Ma questo deriva dal fatto che credo
fermamente nella divina provvidenza e sono convinta che il Padre Celeste non ci
lascia mai soli e indifesi.
In questa ottica, mi sono venute in mente tutte le persone, soprattutto le donne
che, in paesi più o meno ricchi del mio, subiscono sofferenze di ogni tipo: dai
maltrattamenti, alla violenza, ai pregiudizi, dalla mancata considerazione allo sfruttamento.
Nella nostra fraternità c'è una nostra consorella che da tanti anni vive in Brasile,
come missionaria, nelle favelas, a contatto con la povertà, la sofferenza, la delinquenza, la prostituzione.
So che ci sono nel mondo tante organizzazioni che si occupano di questi problemi
e io vorrei, con il ricavato dalla vendita di questo mio libretto, aiutarle a progredire nei loro intenti. Sarà come una goccia nel mare, ma tutto fa e anche dalle piccole cose - pensiamo al granello di senape - con l'aiuto del Signore, possono prodursi grandi progressi.
Il Signore ci dia la pace.
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Storia di un “piccolo miracolo”: il Rosario
Quando ero bambina, la sera in campagna, con le due vecchie zie con cui trascorrevo le vacanze, recitare il rosario era un vero e proprio supplizio.
Si diceva a letto, prima di dormire ed io, immancabilmente, stanca dopo una lunga
giornata all’aria aperta, mi addormentavo a metà.
Col passare degli anni, non l’ho quasi più recitato, tranne che alle veglie funebri e
non vedevo l’ora che finisse. Lo ritenevo una preghiera noiosa e mi distraevo con
estrema facilità.
Da quando frequento S. Caterina, il Terz’Ordine, le cose sono stranamente cambiate. I primi tempi, quando riuscivo a trovare il tempo necessario, arrivavo più o
meno alla metà del Rosario e poi seguivo la Messa. Ho sentito successivamente la
necessità di recitarlo da sola in casa, mentre stiravo o accudivo alle faccende ma,
immancabilmente, mi distraevo e “perdevo il filo”.
Ultimamente, ogni volta che posso, qualcosa mi chiama in chiesa alle 17: mi siedo
accanto alla cara amica Piera, sempre presente, così lo recito dall’inizio alla fine.
Tanti pensieri mi vengono alla mente, ma sono tutti motivi di preghiera: la mia salute, la scuola di mia figlia, il carattere di mio figlio e altri ancora e mi trovo alla
fine del Rosario senza quasi accorgermene: ogni decina è stata dedicata a qualcuno o a qualcosa.
È per questo che lo chiamo “piccolo miracolo”: non avrei mai creduto che una
preghiera che ritenevo così noiosa diventasse per me necessaria, piacevole e rasserenante.
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Un piccolo laboratorio famigliare
Ricordo che quando ero bambina, a metà di dicembre, la casa entrava in fermento
perché si avvicinava la solennità del Natale.
Abitavo nello stesso palazzo dove viveva il nonno Pippo, fervente terziario francescano, esattamente al piano di sopra e, di solito, con l’approssimarsi della festa
dell’Immacolata, si cominciava a pensare alla costruzione del presepe.
Si prendeva dallo scatolone nella dispensa lo scatolone che conteneva tutto il necessario per costruirlo e si faceva una cernita degli oggetti che si potevano ancora
utilizzare; si trattava, infatti, di statuine che erano ancora dei nonni per cui i pezzi
che erano rotti si aggiustavano e quelli mancanti si costruivano con materiale di
fortuna.
Avevo una zia insegnante elementare che, durante la lavorazione del presepe, esortava sempre noi fratelli, me in particolare, perché ero la più piccola, la più impaziente e non vedevo l’ora di porre la capannina e i vari personaggi, alla calma e
alla precisione. Per lei era fondamentale lo sfondo, il paesaggio, o meglio, la sua
cosiddetta “impalcatura”.
Ci procuravamo spilli, scotch, carta roccia, costruivamo le alture, i ruscelli che erano costituiti da piccoli specchietti da borsetta. Una volta terminata
l’ambientazione, davamo sfogo alla fantasia sistemando le varie statuine.
Oggi le cose sono cambiate di poco: l’addetta all’impalcatura sono io, l’ingegnere
di casa (mio marito) costruisce le casette di cartone, le dipinge, aggiusta se necessario le luci che illumineranno la grotta e il paesaggio, si procura nelle sue “biciclettate” domenicali a Boccadasse la sabbia, i sassolini, oppure il muschio che
trova nei boschi quando va per funghi e mio figlio, molto pazientemente e scrupolosamente, attende il suo turno per sistemare tutto il resto.
Ognuno ha dunque il suo ruolo e diciamo che è l’unico periodo dell’anno in cui si
lavora insieme, in cui la famiglia si trasforma in un piccolo laboratorio e ci si sente più uniti per preparare un nido d’amore per Gesù.
La notte di Natale poi, dopo la Santa Messa, quando si ritorna a casa, poniamo il
bambino nella mangiatoia e assieme si recita una preghiera di benvenuto a Gesù,
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di ringraziamento e si prega per le persone meno fortunate di noi, per quelle sole,
ammalate. La nostra famiglia si trasforma così in un piccolo laboratorio di preghiera.
Auguro a tutte le famiglie di poter trovare, a cominciare da questo Natale, se non
l’hanno mai fatto prima, lontano dallo stress e dai mille pensieri e preoccupazioni
di ogni giorno, un pomeriggio di serenità e di pace, di preghiera e di raccoglimento per riservare una calda accoglienza a Gesù nella costruzione del Presepe e nella
disponibilità e apertura del cuore.
Buon Natale e pace e bene a tutti!
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Un piccolo scorcio di paradiso
Ricordo, molti anni fa, avevo ancora i ragazzi abbastanza piccoli, un collega e amico di mio marito ci invitò a trascorrere una giornata in montagna con lui e la
sua famiglia.
Aveva un appartamentino in una località montana del cuneese ma non andammo
lì; ci volle far conoscere un posto veramente eccezionale.
Dopo aver fatto una breve passeggiata nei prati – era una splendida giornata di
agosto, col cielo terso blu cobalto, immensi boschi di pini, larici, in una natura incontaminata, ci invitò a pranzo in una baita che di baita portava solo il nome: dentro era un ristorante arredato alla foggia tirolese, elegante e raffinato, molto accogliente e si pranzò pure in modo principesco, per quanto semplice ed accurato.
Dopo volle portarci a fare una nuova esperienza: ben sapendo quanto amiamo la
montagna, la natura in tutta la sua vitalità ed essendo a conoscenza della mia “passione” per i frati francescani, ci condusse all’Alpe Giovanni XXIII: panorama da
sogno, immense distese di verdi prati, sentieri morbidi e tortuosi e, soprattutto,
con nostra grande sorpresa, colonie di marmotte che, incuranti dei turisti presenti
e dei bambini rumorosi, giocavano tra loro vicino alle loro tane. Questi simpatici
roditori, di solito, hanno paura dell’uomo ma forse quelle erano abituate alla sua
presenza e allora si crogiolavano fuori al sole senza alcun problema.
Strada facendo, il nostro amico ci spiegò che, quasi in cima a uno di quei monti,
in una casetta solitaria viveva un anziano frate francescano chiamato l’“eremita”
che, con l’aiuto dei pellegrini che transitavano abitualmente, aveva costruito un
piccolo villaggio di cellette e una più grande delle altre era stata attrezzata per la
celebrazione della Messa. Chi aveva bisogno di un poco di solitudine, d’accordo
con lui, poteva recarsi in una di queste casupole e ritirarsi in preghiera.
Il vecchio frate che “caso strano” si chiamava Frate Francesco, faceva da mangiare per tutti e condividevano il pasto frugale in serena amicizia. Ma la caratteristica
di questo fraticello era che accoglieva tutti i passanti con un tenero sorriso di benvenuto e alcune zollette di zucchero impregnate di Cognac per rifocillarli dopo la
lunga camminata.
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Lo volli incontrare e rimasi incantata: piccolo, mingherlino, vestito con un umile
saio, viso segnato dall’aria e dal sole forti della montagna, due splendidi occhi azzurri e un’aria di assoluta serenità. Mi parlò poco di sé in quanto conduceva una
vita veramente umile, a contatto con la natura, il silenzio, la preghiera e, tutti i
pomeriggi, alla stessa ora, si armava del suo bastone e scendeva a valle per andare
alla Messa nel paese vicino. Poi, con calma, ritornava al suo rifugio in mezzo alle
montagne.
La pace e la serenità che emanava quella dolce creatura erano contagiosi; avrei
voluto fermarmi in una di quelle umili cellette e trascorrere con lui qualche giorno, lontana dal frastuono della città e con la mente libera da pensieri e preoccupazioni. Avevo trovato, in compagnia dei miei cari e del nostro amico, un piccolo
scorcio di paradiso.
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UNA BUONA LETTURA PER L’ESTATE
Credo che sia la prima volta che mi accingo a fare un commento ad un libro ma, come si
usa dire, c’è sempre una prima volta…
Lo sto rileggendo per la seconda volta e, come al solito, a un’ulteriore lettura e meditazione, scopri sempre cose nuove che prima non avevi notato.
È stato scritto dal mio Padre Assistente del Terz’Ordine di cui ho già avuto il piacere diverse volte di ascoltare le meditazioni su vari argomenti.
Già il titolo è di per sé interessante e curioso: “Un Vangelo senza sconti”. Viviamo in
un’epoca in cui, quando si va a fare la spesa, si cercano sempre le offerte speciali, i saldi,
gli sconti, soprattutto perché la vita costa cara.
Leggendo con calma e buona predisposizione d’animo questo libro, ti rendi ben conto
che, per chi ha intenzione di vivere il Vangelo, non ci possono essere sconti o facilitazioni.
Se andiamo a vedere la vita che ha condotto il nostro serafico Padre S. Francesco, egli
aveva scelto di vivere secondo il Vangelo e lo viveva “alla lettera” o “sine glossa”, non ci
potevano essere dei dubbi. Se mai Francesco ne ha avuto, li ha subito fugati chiedendo
consiglio a chi ne sapeva più di lui. Molti sono i riferimenti al nostro amato santo, praticamente uno per ogni capitolo.
Tocca temi di grande attualità: la sofferenza, il valore della croce, il tema della famiglia,
del lavoro, del denaro, delle scale di valori, del senso che vogliamo dare alla nostra vita,
della fedeltà alla Parola.
Lo stile è un poco particolare in quanto la maggior parte delle frasi termina con puntini di
sospensione perché l’intenzione dello scrittore è quella di offrire spunti di meditazione, di
parlare al nostro cuore; si pone dei quesiti che tutti, prima o poi ci poniamo o ci siamo posti e per i quali non sempre è facile trovare la risposta.
Il linguaggio è semplice, alla portata di tutti, molto scorrevole e talvolta anche spiritoso.
Ogni capitolo inizia con un passo della Scrittura che può essere tratto sia dal Vecchio che
dal Nuovo Testamento.
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In questo mi è stato molto utile perché, come ho già confessato altre volte nei miei scritti,
ho sempre avuto grosse difficoltà ad allacciare collegamenti tra il Vecchio Testamento, il
Nuovo e la vita presente. Quante volte ho letto brani tratti, ad es., dai Profeti oppure dai
libri del Pentateuco e sono rimasta molto perplessa perché mi trovavo a brancolare nel
buio. Continuavo a chiedermi: “Ma cosa c’entra questo con i Vangeli? Cosa mi vuole dire
il Signore in queste righe? Avessi almeno un Sacerdote ad illuminarmi!” Ebbene, leggendo questo libro, ho capito alcune cose che prima mi erano incomprensibili.
Non so se vi è mai successo quello che è capitato a me. Suppongo di sì, anche perché non
tutti siamo ferrati in materia religiosa.
Quanti interrogativi a cui lo scrittore, tramite la meditazione e approfondimento delle
Scritture, si è sforzato di dare una risposta!
Quello che più mi ha colpito di questo testo è la consapevolezza che il Signore è sempre
fedele al suo popolo, sia quello di allora che quello di adesso: che è un Padre buono; che
il male nel mondo non può derivare da lui perché sarebbe una contraddizione alla sua infinità bontà e misericordia; che gli unici colpevoli dei nostri mali siamo noi perché, molto
spesso, ci intestardiamo a vivere la nostra vita escludendone Dio.
Lo ha detto lui stesso: “Senza di me non potete fare nulla!”
Si è parlato del valore della preghiera come cura nelle sofferenze sia fisiche che psicologiche.
Mi è piaciuto.
Se il suo fine, come ha detto lo scrittore nell’introduzione, è quello di parlare al cuore dei
lettori, allora, almeno nel mio caso, lo ha raggiunto.
È stato illuminante e rasserenante. Non si può leggere tutto di un fiato, logicamente perché è un libro di meditazione. È fatto per essere assaporato e meditato. Ve lo consiglio
fortemente come libro da leggere durante e vacanze, possibilmente in un luogo silenzioso
e tranquillo.
Il Signore ci dia la pace.
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Una pietra preziosa
Quando osserviamo in controluce una pietra preziosa, notiamo tante piccole sfaccettature che ne costituiscono la bellezza e il valore.
C’è come un caleidoscopio di luminosità e arcobaleni che lasciano senza fiato per
il loro splendore.
La preghiera, a mio avviso, è come una pietra preziosa: pensiamo in quanti modi
si può pregare e come tutti collaborano a renderla bella, luminosa; pregare è come
entrare nella luce poiché si installa un dialogo con il Padre.
Si può pregare assieme nella Liturgia Eucaristica, durante la quale tutto il popolo
di Dio celebra con il sacerdote il sacrificio della Croce. Si leggono le letture, stralci di salmi, un brano del vangelo, si ascolta l’omelia che ci spiega i concetti, non
sempre facili, della Sacra Scrittura; c’è la preghiera dei fedeli, in cui si prega Dio
per i vari problemi e necessità del mondo, della società, dei fratelli. Questa è preghiera comunitaria come quella che del resto si recita in fraternità.
Frate Francesco amava insegnare ai suoi frati a pregare secondo la liturgia delle
ore con la quale, i vari momenti della giornata, dal mattino con le Lodi, sino alla
sera con Compieta, vengono affidati alla protezione del Padre.
Tutte le sere, in chiesa, si recita il Santo Rosario, preghiera ripetitiva se si vuole
ma dolcissima, rilassante, durante la quale ognuno può personalmente dedicare
ogni “decina” alle proprie intenzioni.
Personalmente, la preghiera che amo di più è quella personale. Mi piace molto,
ogni volta che posso, ritirarmi in silenzio e mettermi in contatto diretto, spirituale
con Dio, proprio come Gesù che amava ritirarsi nel deserto per trovare una carica
nuova in colloquio col Padre. La preghiera mi aiuta nei momenti difficili, prego
prima di prendere qualsiasi decisione importante o di fare qualche discorso particolarmente difficile e impegnativo e chiedo alo Spirito Santo di illuminarmi e
suggerirmi le parole giuste che servono a raggiungere lo scopo.
Prego per i miei cari, per le loro necessità, per me stessa; altre volte ringrazio il
Signore per i suoi doni, per la sua bontà, per le cose belle che accadono nella mia
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vita, perché una paura che mi assillava ora non esiste più, perché mi sono rivolta a
Lui, per le azioni che ho intrapreso e che hanno avuto buon fine.
È rasserenante sapere che, in qualsiasi momento, mi posso rivolgere a Lui perché,
nella sua misericordia, mi fa capire che non sono mai sola.
Sarebbe bellissimo trasformare il nostro cuore in uno scrigno prezioso in cui custodire questo grande tesoro dalle mille sfaccettature che è la preghiera, fonte di
luce, di serenità, di forza e di pace per la vita nostra e dei nostri fratelli.
Pace e bene
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Il Vangelo forza plasmante
Da tempo ho la bella abitudine, prima di coricarmi la sera, di leggere un brano del
Vangelo; tento, con grosse difficoltà, di coglierne l’essenza.
Mi piacerebbe avere vicino qualcuno che mi aiutasse a capirne meglio il significato o per lo meno qualcuno con cui commentarlo.
Mi piacerebbe un “Padre Vittorio tascabile”, da consultare al momento del bisogno!
Non ho difficoltà ad interpretare le parabole perché le ho sentite commentare in
moltissime occasioni e mi rendo conto sempre più della grandezza dell’amore e
della misericordia di Dio.
Ci sono dei brani che prediligo e ogni volta che li leggo li interiorizzo nella mente
e nel cuore.
Spesso mi identifico in coloro che “pur vedendo non vedono e pur udendo non
odono e non comprendono” (Mt 13,11) e penso che se fossi vissuta a quei tempi
mi sarei trovata a metà strada tra coloro a cui Gesù parlava in parabole e quelli in
sintonia con lui, ai quali le spiegava.
Per esempio, considerando la parabole del “figlio perduto e il figlio fedele: il figliol prodigo” mi sono trovata a pensare proprio come quello che disse al padre:
“Ecco io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando e tu non
mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo
figlio che ha divorato ….”(Lc 15,29/30). Credo comunque di non essere l’unica a
pensare, istintivamente, a questo modo. Riflettendo e dopo un accurato esame di
coscienza, mi rendo conto che è perdonando, imparando a non giudicare e migliorando noi stessi che possiamo vivere più serenamene nel mondo e con Dio.
L’uomo d’oggi, concentrato in preoccupazioni superflue, mi fa pensare al brano
sull’abbandono alla Provvidenza (Lc 12,22/32). Quanta ansia e stress in meno e
quanto bene in più per noi e per il nostro prossimo, se ci concentrassimo invece
nel fare il bene e soprattutto nel capire che cosa vuole Dio da noi, abbandonandoci
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al suo amore, certamente “non aspettando che piova la manna dal cielo”, ma dedicandoci ad una carità attiva e fruttuosa.
Ogniqualvolta sono andata al convento di Montecasale, sulla strada per La Verna,
mi sono fermata a visitare le celle di S. Antonio e S. Francesco. Essi vivevano con
meno dell’essenziale, perché Dio era il fulcro dei loro pensieri.
Nei momenti di difficoltà, mi piace soffermarmi e riflettere su quanto Dio ci insegna riguardo alla preghiera con fede (Mt 7,7/11). È troppo meraviglioso pensare
quanto sia sempre pronto ad aiutarci. Non rifiuta mai a nessuno il suo abbraccio
consolatore.
Non siamo sempre disposti ad accettare la sofferenza e il fatto che il Signore la
permetta per rinvigorirci. Ecco dove giunge la nostra fragilità umana. Anche io,
come altri, mi trovo talvolta “nelle curve” e devo chiedere a Dio di rinforzare ogni
giorno la mia fede e la mia speranza. La disperazione che talvolta porta a farci
soccombere è indice di fede debole o inesistente.
Chiediamo al Signore di camminare nelle sue vie.
Leggendo il Vangelo con perseveranza ed amore, troveremo che la parola di Dio è
come la goccia che scava nella roccia: la roccia è il nostro cuore, la goccia è la parola che la modella.
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VOLONTARIATO E DIVERTIMENTO
Sin da ragazza quando, dopo gli studi e prima di lavorare, avevo un poco di tempo a disposizione, mi è sempre piaciuta l’idea di fare qualcosa per gli altri, rendendomi utile in
qualche modo, non necessariamente in modo impegnativo o troppo gravoso e sono riuscita, negli anni, ad attuare questo mio sogno. Di volta in volta, ho avuto diverse chance.
Mi attirava la parola “volontariato” e meditando sul suo significato, mi sentivo come se
fosse una cosa giusta per me. Il volontario è colui che, spontaneamente e gratuitamente,
offre una parte del suo tempo, delle sue energie ai fratelli bisognosi.
Le occasioni mi si presentarono già quando ero al liceo: ricordo, negli anni ’60, la brutta
bellissima esperienza dell’alluvione a Genova.
Ricordo il disastro in cui si era venuta a trovare la città, soprattutto le zone della Foce,
della Stazione Brignole, Marassi.
Con mia madre, un pomeriggio, scendemmo in centro e rimasi sconcertata ed impressionata dalla quantità di giovani che, armati di stivaloni, guanti, grembiuli, pale ed altri
strumenti da lavoro, liberavano dal fango strade, negozi, scantinati. Era un pullulare di
gente che lavorava insieme, indefessamente, fermandosi giusto per mangiare un panino.
Mi guardai intorno e mi chiesi: “Paola, allora? Che facciamo? Vogliamo dare una mano a
questa gente?”
Nel mio vagabondare incontrai un gruppo di miei amici che ripulivano un garage, pieno
di fango fino quasi al soffitto e ci mettemmo d’accordo per il giorno dopo.
Trascorsi diversi giorni ad aiutare quella gente che aveva bisogno ed è vero che la sera
arrivavo a casa stanca, ma era stato piacevole, perché lavoravamo con gioia, raccontandoci barzellette, ridendo come matti perché eravamo sempre sporchi di fango.
Ricordo che in quei giorni non frequentai la scuola perché gli stessi insegnanti avevano
capito le circostanze e non dovevamo giustificare le assenze.
Quando poi il peggio passò, transitando in quella strada, vidi qualcosa che mi lasciò letteralmente commossa soprattutto perché non me l’aspettavo: sul portone del garage che avevamo ripulito assieme ai miei amici c’era un cartello con su scritto: “Grazie ragazzi!”.
Anche se non ce n’era bisogno, quel ringraziamento fu la ricompensa più grande per quei
giorni in cui avevo lavorato e mi ero stancata per gli altri.
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Da allora sono passati diversi anni, ma nuove occasioni per mettermi al servizio del prossimo si presentarono.
Per un po’ insegnai catechismo e a quei tempi non c’era la scuola come è stato poi in seguito. Era bello frequentare i bambini, spiegare loro la Scrittura, per quanto era nelle mie
capacità, rispondere alle loro prime domande, soddisfare le loro piccole curiosità. Ancora
adesso quando incontro persone adulte cui ho insegnato, si ricordano delle mie lezioncine
e me ne parlano con tenerezza. Meno male che non ero una maestra noiosa!
Poi, dieci anni fa, quando entrai nel Terz’Ordine Francescano, sempre cercai di partecipare attivamente alla vita di fraternità, dedicando il tempo libero alle diverse iniziative che
venivano prese. Guidata da una carissima consorella, imparai ad allestire la Pesca di Beneficenza che si tenne per diversi anni.
Nel frattempo, con l’aiuto di un confratello, vero intenditore di computer, non solo imparai ad usarlo, ma lo aiutavo nella sua gestione nell’ambito della fraternità. Univo così
l’utile al dilettevole perché, tra l’altro, con questo signore, diventammo molto amici e
condividemmo molte piacevoli esperienze sia di vita che francescane.
Da due anni a questa parte, infine, ho trovato un’attività che mi soddisfa pienamente e mi
permette di conoscere persone nuove e fare loro del bene. In fraternità ci hanno parlato
della Mensa dei Poveri che è allestita da diverso tempo al Padre Santo.
Si tratta di servire un pasto caldo ai poveri due volte alla settimana (siamo abbastanza
numerosi e facciamo i turni).
In tarda mattinata, insieme ad una consorella, andiamo al convento. Trascorriamo una
buona mezzora a pregare assieme, cosa che è sempre utile e fortificante, e poi, assieme ad
altri volontari (in genere siamo quattro), ci dedichiamo a questa gente, di razze e religioni
diverse, uomini e donne.
Quello che rende divertente questo servizio è, da un lato, che il lavoro scorre veloce e
come in una catena di montaggio: c’è chi prepara i vassoi con pane e focaccia, chi riempie le ciotole, chi prepara i contenitori in alluminio per coloro che desiderano portare a
casa la cena. Poi si tratta di rimettere tutto a posto, ripristinando l’ordine in cucina, e,
dall’altro lato, forse più importante, scambi nel frattempo due parole con questi fratelli
bisognosi, impari a conoscerli e, soprattutto quando sono un poco scontrosi, impari a vedere in loro Gesù e allora li accetti con meno difficoltà.
È piacevole questo servizio e quando, per qualsiasi ragione, non posso farlo, mi manca.
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Ma ci sono anche altre opere di volontariato che sono altrettanto piacevoli anche se un
poco stancanti. Ci sono l’AVO, la Comunità di S. Egidio che, a detta di chi le pratica,
portano a dare e ricevere molto.
Mia sorella, da non molto, trascorre il lunedì pomeriggio in un istituto di suore dove si
accolgono neonati abbandonati. Non sono molti, ma hanno bisogno di tutto e non solo di
essere tenuti, puliti e nutriti. Nei pomeriggi di sole vengono portati fuori all’aperto in un
bel giardino.
Mi ha dichiarato di essere molto soddisfatta perché ci si affeziona a questi “cuccioli” e
non c’è niente di più disarmante e tenero del sorriso con cui ti accolgono quando ti vedono arrivare. Alcuni vengono adottati e dispiace quando vanno via, ma trovare una famiglia affettuosa che li accoglie, vale più di mille grazie. Ci sono circa venti volontari, ma
non sono mai troppi.
Quando penso a tutte queste forme di assistenza volontaria, c’è una frase evangelica che
mi frulla per la testa e che penso dovrebbe spingerci a ricordarci un poco degli altri e non
a chiuderci in noi stessi: “Qualunque cosa avrete fatto al più piccolo dei miei fratelli,
l’avrete fatto a me”.
Il Signore ci dia pace.
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INDICE
Introduzione
-
A tu per tu con il Signore
Benvenuti e bentornati alpini
Conversione: cammino di luce
Davanti al crocifisso
Dio presenza viva
Esperienza di preghiera
Festività e televisione
Gocce di rugiada
Una Chiesa da conoscere
Il ricettario della felicità
Il valore della preghiera
La fede non va in vacanza
La forza della fede
Riflessioni sulle tre “V”
L’eredità del nonno
Non di solo pane
Pellegrinaggio ad Assisi
Povertà dignitosa e feconda
Preghemmu in zeneize
Riflessioni tra le mele
Una spiritualità lontana
Sofferenza e condivisione
Storia di un “piccolo miracolo” : il Rosario
Un piccolo laboratorio famigliare
Un piccolo scorcio di Paradiso
Una buona lettura per l’estate
Una pietra preziosa
Il Vangelo forza plasmante
Volontariato e divertimento
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5
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