“Dona a chi ami ali per volare,
radici per tornare
e motivi per rimanere”
Dalai lama
Grazie Nonni!
Docenti
anna Cardinale, Nausicaa Carrino, Rosaria Durante, Cristina marzano,
mariella muci, Gianna Nazaro, Sofia Sabato,
Gabriella Sanasi, Giancarlo Pellegrino, maria Portorico
PREFAZIONE
abbiamo accolto con grande interesse la proposta di collaborare al progetto “agri..cultura” ispirato alla dichiarazione dell’assemblea Generale
delle Nazioni Unite per l’anno in corso. il tema dell’agricoltura Familiare,
ovvero delle aziende che si basano principalmente sui membri della famiglia per lavoro e gestione, è difatti molto caro al Gal Terra d’arneo.
Nel duplice ruolo di agenzia di sviluppo locale e di ente che opera a favore della rinnovata dimensione della tradizione e dell’identità di questo territorio, il Gal dall’inizio della sua attività ha promosso interventi
volti al sostegno delle attività agricole, all’incentivazione del turismo
rurale e alla valorizzazione delle risorse naturali, culturali e delle tipicità
di Terra d’arneo.
il diffondersi di nuove culture e stili di vita, che spesso proiettano gli interessi delle nuove generazioni verso realtà distanti da quelle locali,
rende necessario incoraggiare i più giovani a riappropriarsi del patrimonio culturale delle nostre comunità rurali. alla luce di questa riflessione
è molto apprezzabile l’impegno dei docenti nello stimolare la curiosità
dei bambini coinvolgendo, in un percorso di ricerca che si avvale dell’espediente ludico, anche le loro famiglie. Ecco allora che le informazioni raccolte in questo piccolo opuscolo divengono ancora più preziose
e ci ricordano che il cibo è molto più di un semplice bene di consumo
perché racchiude la nostra cultura, i gusti semplici e genuini dei nostri
prodotti, un capitale complesso che fa parte della nostra storia.
Dott. Cosimo Durante
Presidente GAL Terra d’Arneo
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Seminando…storie
“Seminando…storie” è il titolo che la Scuola dell’infanzia “J. Piaget” ha
dato alla programmazione didattica in vista delle attività previste per
Expo 2015, con l’obiettivo di avvicinare i bambini al mondo della natura
e in particolare al mondo dei semi per osservarli, conoscerli, piantarli,
vederli crescere…stupirsi! Tale percorso didattico si inserisce all’interno
di quello più ampio, approvato dal collegio dei docenti, al quale è stato
dato il titolo “agri…cultura” e ha tratto spunto dalla dichiarazione del
2014 come anno internazionale dell‘agricoltura Familiare, da parte
dell’assemblea Ge-nerale delle Nazioni Unite.
Per agricoltura familiare si intendono tutte le attività agricole basate su
nuclei familiari o piccoli gruppi: sono di fatto gli agricoltori, i piccoli produttori che lavorano preservando, incoraggiando e promuovendo metodi di produzione alimentare sostenibili, in armonia con la natura, il
paesaggio, la tradizione e il cui lavoro è oggi messo in crisi dal modello
dell’impresa agricola a carattere industriale.
Un grazioso spaventapasseri, isidoro, ha accompagnato i bambini in
questa avventura, svelando, attraverso simpatiche storie, tutti i segreti
dei semi e delle piante.
il mondo della natura richiama alla mente il mondo rurale, con i suoi
ritmi, le sue tradizioni, i suoi costumi.
le insegnanti hanno allora formulato un questionario rivolto ai nonni e
alle nonne dei bambini frequentanti la scuola, per “gettare i semi” del
ricordo nelle nuove generazioni raccogliendo notizie, informazioni sulla
vita contadina di un tempo, con particolare riferimento alla semina e
alla manipolazione di semi vari.
le domande formulate sono state tre:
1) avete mai partecipato da piccoli ad esperienze di semina? Quali ricordi vi vengono in mente?
2) Se pensate ai legumi, quali immagini, pensieri, ricordi affiorano nella
vostra mente?
3) Conoscete storie, proverbi, detti (anche dialettali) sui legumi o altri
tipi di semi?
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le risposte raccolte e riassunte in questo libretto, il cui titolo ripropone
quello della progettazione educativa, hanno fatto rivivere un patrimonio di tradizioni, usanze, racconti, proverbi, episodi, impressi ancora
nella memoria e nel cuore dei nonni.
Questi ricordi si sono intrecciati l’uno con l’altro, formando una fitta
trama, quella di una antica e semplice quotidianità scandita dal lento
scorrere delle stagioni. Una quotidianità all’insegna di una saggia economia delle risorse, nel rispetto dei ritmi naturali delle cose, una quotidianità fatta di rituali, cibi poveri, lavori faticosi a contatto con la terra.
Perdere questa trama significa perdere la propria ricchezza culturale.
Ciò che si è oggi dipende in buona parte dal nostro passato, dalle nostre
radici: farle riaffiorare significa riscoprirle per prenderne coscienza e
per costruire la propria identità.
ma, soprattutto, significa guardare con occhi nuovi quello che ci circonda per assumere un atteggiamento più rispettoso nei confronti della
natura, per “rallentare” i ritmi frenetici della vita di oggi, per rivalutare
la dieta mediterranea, per salvaguardare le risorse del nostro pianeta,
che oggi una diffusa cultura dello spreco e del consumismo ci fa sovente
dimenticare.
Significa sperare in un futuro in cui ci sia ancora spazio e tempo per
piantare un piccolo seme, vederlo crescere, ammirare lo sbocciare del
fiore e il maturare del frutto, proprio come i nostri nonni facevano da
piccoli.
Buona lettura!
Prof.ssa Tommasa michela Presta
Dirigente Istituto Comprensivo 3° Polo
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La semina del grano
“Levati o contadino sul far dell’alba
e affrettati a tagliare le spighe,
a portare a casa i covoni, affinchè
il grano ti sia bastevole per tutto l’anno”
“L’onda fa, ma mare non è,
porta li setule e puercu non è,
c’è ghè?” (il grano)
“Chi semina grano, non coglie ortiche”
La semina del grano era un evento atteso da grandi e piccini. La sera
prima ci si riuniva tutti insieme e si pregava affinchè il raccolto fosse
abbondante.
“Mena an’terra e guarda an’cielu”
A
l mattino presto si andava in campagna e a volte faceva molto freddo.
La semina del grano avveniva in autunno nel mese di novembre.
“A San Martinu, semina an’chinu”
“Ci uei cu futti li ceddhi pizzulanti,
semina lu granu di tutti li santi”
Prima della semina la terra veniva arata. Il cavallo procedeva davanti a
tutti e “cu l’aratinu” venivano creati dei solchi… gli uomini seminavano il
grano utilizzando un recipiente di paglia chiamato “sporta picciulara” che
si legava alla vita. Poiché la famiglia era numerosa, anche i bambini partecipavano alla semina e a volte qualcuno si addormentava nei solchi…
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“Cu l’aratinu” o “cu la tragghia” (a seconda se la semina era avvenuta
nei solchi o a tutto campo) venivano poi ricoperti di terra i semi che precedentemente erano stati gettati nel terreno.
Il momento più atteso, soprattutto dai più piccoli, era la pausa quando,
seduti sulla soffice terra, si poteva mangiare il pane con il pomodoro.
Man mano che il grano cresceva venivano estirpate le erbe che erano
spuntate tra le spighe.
Dovevano passare due intere stagioni perché il grano potesse essere
pronto per il tanto atteso raccolto.
“Sciamu a Santu Marcu e poi inimu
lu granu ’ncannulatu e l’uergiu è chinu”
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Il raccolto del grano
“Quiddhu ca siemini riccugghi”
“Chi semina vento,
raccoglie tempesta”
A giugno il grano veniva raccolto “cu la fagge” e in mezzo ai campi si
formavano i cosiddetti “mannucchi” cioè i covoni. Il momento del raccolto, se pur faticoso, era pieno di allegria e la campagna riecheggiava
di canzoni dialettali, alcune delle quali suscitavano ilarità. Si portavano
formaggio e pane fresco da consumare durante la pausa. Il grano raccolto veniva poi portato sull’aia per essere trebbiato separando così i
chicchi dalla paglia.
“Acqua di Fibbraru enchie lu granaru”
“Ci la fagge enche lu granaru,
pi tuttu l’annu si cotula lu farnaru”
“Acqua a campanelle, granu a carruzzelle”
I preziosi chicchi di grano venivano posti nei granai o nei sacchi di tela
e costituivano la provvista per un intero anno.
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Chi aveva del grano in più, a volte lo barattava con altre famiglie in
cambio di olio, legumi ecc.
Con il grano, soprattutto nelle famiglie più facoltose, si facevano la
pasta, il pane e le frise che venivano poi conservate in recipienti di
terracotta detti “capase”.
“Sparagna la farina quandu la matthra è chiena
cè ti serve lu sparagnare quando lu fundu pare?”
Nelle famiglie più povere si consumavano abitualmente le frise di
orzo, mentre le frise di grano venivano conservate per le grandi occasioni o venivano offerte agli ammalati.
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La semina del tabacco
“Ci ti l’ha ditta cu chianti lu tabaccu
la ditta nò ti dae li tiraletti”
I semi del tabacco venivano posti nelle “roddhre” (aiuole create a guisa
di semenzai) ricavate nel terreno e innaffiati “cu la menza di rame” o “
cu la bruffalora”. Una volta cresciute le piantine, queste venivano estirpate e ripiantate in fila nel campo. La raccolta del tabacco avveniva in
estate quando le foglie avevano raggiunto la giusta maturazione. Venivano infilzate una alla volta, poste tutte nel medesimo verso, con un apposito ago d’acciaio, “l’acuceddhra”. Si realizzavano così “li ‘nserte”, le
filze, che venivano appese ad essiccare su appositi telai ,“li tiraletti”. A
fine estate i fusti del tabacco (li tursi), rimasti nei campi, venivano tagliati
e bruciati. Il terreno veniva, quindi, preparato per una nuova semina.
La semina dei fiori
“La massara di Torre Noa face
la merce e non di proa,
quando mente l’uegghiu alli fae,
face la croce e si ‘ndi vae”
Mamme, nonne, zie e “massare” erano talvolta
impegnate nella semina di dalie, garofani, bocche di dama, ecc. nei vasi.
Per i bambini era bello vedere spuntare le prime
foglioline ed infine, in primavera, i bei fiorellini.
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La semina dei legumi
“Di San Giseppu la simente all’uertu”
Ogni famiglia piantava ciò che era necessario al proprio sostentamento. Molto diffusa nelle campagne era la semina dei legumi (fave,
piselli, ceci, lenticchie, fagioli, cicerchia ) che avveniva rispettando
tempi ben precisi. I vecchi contadini eseguivano i lavori in campagna
basandosi sui ritmi della luna e guardando il cielo.
“Ti santu Leonardu, chianta li fae ca è tardu”
“Ti santu Pati li fae chiantati”
“Alle idi di marzu m’ha siminare
e quantu pare la culuma m’ha ‘mbucciare”(il fagiolo)
“A San Sebastaiano i ceci nella mano”
“Se uei cu biti n’annata cupiosa,
Natale suttu e Pasqua muttulosa”
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Le fave e i piselli si seminavano in autunno, i fagioli e i ceci tra febbraio e marzo. Per piantare i legumi il terreno doveva essere molto
morbido.
Ecco perché si provvedeva alla sua concimazione utilizzando metodi
naturali. Per esempio, si spargeva del letame oppure quando i legumi
erano a fine ciclo si tagliavano le piante senza estirpare le radici perché
costituivano un prezioso nutrimento per il terreno.
Un’altra pratica molto diffusa era quella di conservare, durante il periodo di spremitura dell’uva, gli scarti che restavano nel torchio e che
venivano usati per creare uno strato di almeno venti centimetri per i
semenzai.
“Iò sò lu pasulu, chiantame rasu e chiantame sulu
e mename an’terra quantu pare mi ’mbuecci lu culu”
“Fae e granu semina a pantanu”
“Pasulu chiantame sulu, fanne n’acqua quando stau a fiuru
e poi vidi ccè ti face lu pasulu”
Una volta cresciute, le piantine venivano poste in fila ad una certa distanza l’una dall’altra a seconda della loro grandezza.
Giunti a maturazione i legumi venivano raccolti.
“Fagiolo, fagiolo si riempie il paiolo”
Una parte di essi veniva consumata fresca, il resto invece veniva essiccato
al sole. Le fave e i ceci venivano posti sul terrazzo e, una volta secchi, battuti
per separare il legume dal baccello. I ceci venivano messi “intra lu farnaru”
che veniva sollevato in aria e mosso energicamente per far cadere i legumi
per terra e separarli dai baccelli secchi che volavano via spinti dal vento.
“Chianta l’agghiu quando batte lu magghiu”
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“L’unguli”
“Ci chianta unguli mangia fae”
“Ci alla fava quandu è grande esse la spurchia,
certu ca non unchia”
“Fave in fiore, acqua a tutte l’ore”
L’unguli sono i baccelli delle fave ancora verdi che maturano tra aprile
e maggio. I bambini spesso ne facevano man bassa raccogliendoli di
nascosto, all’insaputa degli adulti.
Una curiosa tradizione era quella del 1° Maggio quando gruppi di bambini andavano in giro per le strade del paese o per le masserie per
chiedere “lu pumu di maggiu”, cioè un piccolo dono.
Gli adulti davano loro qualche biscotto, un tarallo, una caramella ma,
a volte, sulla “quantiera” (il vassoio) che i bambini sorreggevano, veniva posta una manciata di “unguli” che in quel periodo erano nel
pieno della produzione.
Non sempre i bambini rimanevano soddisfatti ma alla fine si finiva per
osservare il dono ricevuto e vedere qual’era “l’ungulu” più lungo o
dalla forma più strana, inventando dei giochi divertenti.
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“La pignata”
“Li guai ti la pignata li sape la cucchiara ca li ota”
“La pignata ti nasi ‘nculu, ci la bicini spitterra,
ci ‘lla ‘lluntani non ci ferve”
I legumi secchi venivano conservati nelle “capase” o in sacchi di tela
e costituivano una preziosa provvista per tutta la famiglia. I legumi
venivano mangiati quasi ogni giorno, perché in mancanza di altro “costituivano la carne dei poveri”. Non sempre i bambini li gradivano ma
gli adulti li esortavano ad apprezzarli perché tutto ciò che si mangiava
era costato tempo e fatica.
“Mangia pisieddhri ca ti ‘ntostanu li carcagne”
“Mangia li fae ca ti ‘ntostanu l’osse”
“Ci ene ceddhri tinne ca sta mangiamu pisieddhri”
L
a cottura dei legumi era laboriosa. La sera i legumi venivano messi
a “bagno” con acqua e sale. Il mattino successivo si strofinavano e si
lavavano per poi cuocerli nella “pignata”: un recipiente di terracotta
con due manici che veniva posto sotto il camino vicino alla brace. Di
solito si usava legno di ulivo per alimentare il fuoco.
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Quando l’acqua calda nella “pignata” si consumava se ne aggiungeva
dell’altra messa in un pentolino posto sempre vicino al fuoco.
“Ci nò rusce la pignata,
nò rusce lu pignatieddhru”
“La pignata ti lu prete
ferve cu li fiamme ti lu purgatoriu”
In particolare le fave venivano prima “muzzicate” cioè veniva tolta la
calotta superiore per facilitarne la cottura.
“Chiccu e chicca muzzicavanu fae
addhretu la specchia…
Chiccu li muzzicava e Checca li minava”
“L’anni passanu e li fae si cocinu”
Il massimo della pazienza:
“Cucinare li fae toste
cu li sarmente ierdi”
“Li fae ti l’ha mangiare an’ forza cu la scorza”
Una vecchia credenza consigliava alle partorienti di mangiare ceci
perché ciò stimolava la produzione di latte.
“Attenti ca li ciciri li pierdi puru ti susu la furcina”
I
legumi venivano anche consumati accompagnati da verdure selvatiche che nascevano spontaneamente in campagna e che i contadini
raccoglievano.
“Li ciciri e li pasuli nò si mangianu mai suli
“Fae, fogghie e mieru, lu villanu si sente an’cielu”
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Le fave e i ceci venivano messi sotto la brace del fuoco e arrostiti per
essere mangiati la sera a fine cena. Le fave arrostite venivano anche
regalate dagli anziani ai bambini in vece delle caramelle.
“Ci mangia cuntente, mangia mele,
ci mangia scuntentu, rozzula fae”
I legumi avanzati la sera prima venivano spesso consumati a colazione
“utati cu l’oliu fruttu” e mangiati con pane e verdure. Questa pietanza
veniva chiamata “la ‘mpanata”.
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Giocare con…i semi
I semi di diverse piante, soprattutto i legumi, venivano utilizzati dai
bambini nei loro giochi.
Con i ceci più grossi si giocava a “tuddhri” il famoso gioco dei cinque
sassolini.
Con i piselli freschi, munite di ago e filo, le bambine realizzavano simpatiche collane “verdi”.
I baccelli delle fave verdi, utilizzando degli stecchini come zampe, venivano trasformati in pecorelle formando veri e
propri greggi. Non mancava neanche il lupo che
cercava di acchiapparle e mangiarle.
E nel gioco della tombola si usavano fave o fagioli
per coprire i numeri.
I “Sepolcri”
Un’usanza
presente ancora
oggi, era quella di seminare in
piccole ciotole del grano e di
porle in un luogo buio (per es.
sotto il camino) fino al germogliare dei semi. Le piantine cresciute in assenza di luce
assumevano una colorazione pallida e venivano portate in chiesa
per addobbare i “sepolcri” (gli altari repositori del giovedì santo).
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Racconti, leggende e aneddoti
“FAE, CICIRI E PASULI”
Ad un aitante giovanotto arrivò la famosa “cartolina-precetto” di chiamata alle armi. Visto che aveva vissuto sempre in campagna aiutando
il padre contadino, quella gli sembrò l’occasione giusta per vedere
posti nuovi e conoscere altra gente ma, soprattutto, per rompere con
la solita routine: al mattino il lavoro nei campi dopo aver mangiato
“na poscia ti fiche secche”, a pranzo “fae, ciciri e pasuli” e a cena “fogghe”.
Dopo quaranta giorni di duro addestramento militare, arrivò la prima
libera uscita. Con alcuni compagni commilitoni si recò in una trattoria
del paese. Fu dato loro il menù che il giovanotto guardò alquanto allibito e per non fare brutta figura mise il dito su uno di quei paroloni
di cui non capiva il senso. Dopo un periodo di attesa passato a fantasticare su che cosa di buono sarebbe arrivato, gli fu portato un piatto
di legumi accompagnato da pane fritto. Il cameriere elogiò il piatto
dicendo che era una prelibatezza del nord, ma ciò che il giovanotto
riuscì a dire fu solo “Eh nò…ancora fae, ciciri e pasuli !”
LA PRINCIPESSA SUL PISELLO
Un giorno un re chiamò i suoi consiglieri perché sua figlia, la principessa non riusciva più a dormire. Furono aggiunti altri materassi, furono cambiate le lenzuola, si prepararono degli infusi per conciliare il
sonno ma tutto risultò vano. Alla fine una cameriera risolse il mistero:
sotto il materasso c’era un pisello, tolto il quale la principessa riprese
a dormire con grande gioia del re e del suo popolo.
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“CUMMARE MALOTA”
Cumare malota voleva maritarsi e si mise alla finestra. Passò un cane
ma quando ascoltò il suo abbaiare non lo volle perché avrebbe disturbato il suo sonno. Passò un gallo ma si spaventò per il suo assordante
chicchirichì. Passò un asino ma non lo volle perché ragliava troppo
forte, passò un maiale e ne rimase inorridita.
Quando passò “cumpare suricicchiu” ne rimase affascinata e si sposò
con lui. Un giorno “cummare malota” mise a cuocere “la pignata” e
chiese a “cumpare surucicchiu” di controllarla di tanto in tanto.
Ma il povero topo nel girare con il mestolo vi cadde dentro e morì.
“Cummare malota” cominciò a piangere “Cumpare suricicchiu è catutu intra lu ‘mpignaticchiu!”
CHI SPOSERÒ?
Alle fave è legata una leggenda secondo la quale, in età da marito, le
giovani mettevano sotto il cuscino due fave, una con la buccia e una
senza. A seconda di quello che pescavano il mattino del primo gennaio, sapevano se avrebbero sposato un uomo ricco o uno povero.
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LI FAE INTRA LA COPPA
Tanti anni fa c’era una curiosa usanza: il sacrestano di ogni chiesa, ogni
domenica, metteva una fava in una ciotola per contare le settimane
prima della pasqua. Una domenica, per sbaglio, la fava fu messa sia
dal sacrestano che dal sacerdote. Arrivò la pasqua e tutti festeggiarono. Accadde però che un signore di Galatone , passando da Nardò
vide tante persone vicino al tempietto dell’osanna con in mano delle
palme. Capì che c’era qualcosa che non andava e che i conti erano sbagliati. Per cui ritornò verso Galatone gridando: “Ci ha cambarratu
scambara, ca Nardò parmiscia” cioè “Chi ha rotto il digiuno sospenda
perché a Nardò è la domenica delle palme!”.
“TO CICIRI”
Un giovane aveva sposato una bella fanciulla che però non sapeva cucinare. Un giorno prima che andasse in campagna la moglie gli chiese
“Cè cucinu?” “Minti to ciciri” fu la risposta del giovane, intendendo
con ciò la preparazione di un bel piatto di ceci.
La fanciulla prese alla lettera quanto udito e mise nella “pignata” due
ceci. Uno lo mangiò a metà cottura per controllarne il sapore.
Quando arrivò il marito gli presentò un piatto con dentro un solo cece.
“E cè m’ha cucinatu?” chiese sbalordito l’uomo.
E la moglie rispose: “ Tu m’ha dittu cu mentu to ciciri, unu l’aggiu ‘ssaggiatu e quistu s’è cucinatu”
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Le ricette
“CICIRI E TRIA”
La tria è una pasta di semola di grano duro che assomiglia ad una specie di tagliatella, ma più larga e più spessa.
Una volta preparata, la pasta va cucinata in acqua salata. Una parte
di essa va fritta nell’olio bollente.
Alla fine va aggiunta ai ceci cotti nella “pignata”.
Si mescola e si condisce con il soffritto preparato precedentemente.
“PISIEDDHRI ALLA CECAMARITI”
Si frigge nell’olio del pane raffermo tagliato a pezzetti. Quando è dorato si versano i piselli già cotti e si mescola il tutto. Se è avanzata
anche della verdura (tipo rape lesse o altra verdura anche selvatica)
si può aggiungere assieme ai piselli.
“FAE E FOGGHIE”
Si puliscono le cicorie con abbondante acqua e si lessano. Si prendono
le fave che sono state in ammollo per tutta la notte e si elimina la
scorza esterna. Si cuociono in acqua salata finché non si trasformano
in purea. Durante la cottura si insaporiscono con uno spicchio d’aglio
o della cipolla, un pomodoro e del prezzemolo. A fine cottura si mettono le fave nel piatto assieme alle cicorie condendo il tutto con un
filo d’olio.
“FAE IANCHE”
Si cuociono le fave secche private della scorza in acqua leggermente
salata. Dopo che hanno assunto la consistenza di una purea si condiscono con abbondante olio oppure si mescolano con pezzetti di pane
casareccio fritti.
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Modi di dire…con i legumi e altro!
“Pigghiare to picciuni cu na faa”
“Mi pari na patella ti pasuli”
“Ci si anta sulu non ‘mbale nu pasulu”
“Quiddru ungulu ti criastianu”
“Si propriu nu lampascione!”
“L’amici so comu li pasuli…parlanu ti tretu”
“Sta ’mbieschi fae e fogghie”
Piccoli pensieri…
“Ci lu ecchiu si ricurdava li sua
nò dicia all’addhri cè farai”
Odore di terra
...durante i pomeriggi trascorsi con mio padre in campagna, la gioia
più bella a fine giornata era avere le mani che odoravano di terra
fresca.
La pietra di mare
…ricordo il rumore che la nonna faceva quando sgusciava le fave secche “sopra una chianca” utilizzando una piccola e sottile pietra di
mare che battendo faceva tic, tac.
Lacrime
…piangevo sempre quando la mamma mi preparava la “tolica” (la
cicerchia) perché non volevo mangiarla.
La coppa di ceramica
…ricordo mia nonna, con una grande coppa di ceramica che conteneva riso e piselli e noi bambini che facevamo festa per la gioia.
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La cipolla
…ricordo che mio nonno mangiava le fave usando una cipolla a mo
di cucchiaio e diceva “la cipolla fa buon sangue”.
La punizione
…i maestri della scuola per punizione obbligavano noi bambini a
metterci in ginocchio sopra i ceci posti sul pavimento.
Il davanzale
…ai tempi della scuola elementare ricordo tanti recipienti sul davanzale della finestra della classe con dell’ovatta bianca in cui seminavamo i semi. Era bello vederli crescere!
Il premio
…il ricordo più bello è che dopo aver lavorato in campagna si andava
a cavalcare come premio.
Profumi
...ricordo le piante in fiore e il profumo che si sentiva per l’aria.
…ricordo il profumo e il calore del focolare domestico.
Gli uccellini
…il grano si metteva in un sacco a spalla e con la mano veniva sparso
per il terreno. Quando si svuotava io ero addetto al riempimento…
Ciò che più mi piaceva era vedere gli uccellini e i colombini che facevano festa.
Odore di legumi
…l’odore di fave e piselli freschi mi fa ricordare quando passavo interi pomeriggi a sgranarli per preparare le provviste.
La provvista
…ricordo quando mia madre esortava mio padre a seminare per
tempo il grano per avere una buona provvista in casa.
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Stupore
…un giorno un mio caro amico mi invitò a pranzo. Mangiammo ceci
e io mi stupii nel vedere suo padre condirli con molto olio… erano
veramente pochi quelli che potavano permettersi un tale lusso!
Speranza
…noi eravamo nove fratelli e i miei genitori si impegnavano tantissimo nel lavoro dei campi con la speranza di avere un raccolto sufficiente per poterci sfamare.
Attesa
…è l’attesa il ricordo più bello… l’attesa di veder crescere le piantine
per raccogliere poi i loro frutti.
Lo spaventapasseri
…per spaventare gli uccelli costruivamo uno spaventapasseri con
vecchi abiti… mi divertiva tanto farlo…
…lo chiamavamo “coppola rossa” per il buffo cappello che aveva in
testa.
“Se vuoi sapere la mia cumare, abita
in via porta di mare,
pasta e pasuli, cucuzza e patate,
sotta mi firmu, saluti e salate”
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