Paccagnini, E.
VEROSIMILI INVENZIONI DI UN CRONISTA
di Ermanno Paccagnini,
prefazione all’edizione «Corriere della Sera – I grandi romanzi italiani»,
n. 22, 2003
1. Non ci si crederà, ma davvero Don Camillo è stato un regalo di Natale. Per certi aspetti,
un regalo un po’ forzato, dettato dalle circostanze. Ma è pur vero che è proprio tale aspetto a
farne, a suo modo, un piccolo miracolo natalizio.
Per raccontarla con un certo ordine. Tutto ha inizio nel dicembre 1945, allorché su sollecitazione di Angelo Rizzoli, insieme a Giovanni Mosca e Giacinto « Giaci» Mondaini Giovannino
Oliviero Giuseppe Guareschi fonda il «Candido», un «settimanale del sabato che — come ricorderà
scherzosamente lo scrittore in un opuscolo pubblicitario riprodotto a p. 260 dello zibaldone autobiografico Chi sogna nuovi gerani? — va alle stampe il venerdì e viene messo in vendita il martedì
portando la data della domenica susseguente». Il foglio, privo di una vera e propria redazione e di
fatto compilato nella quasi totalità da Guareschi e Mosca, i quali, oltre a stendere i testi, preparano pure illustrazioni e relative battute e didascalie, ha un carattere umoristico ed è schierato a «destra nel modo più deciso e inequivocabile; contrario alle innovazioni rivoluzionarie quali la riforma agraria, le aberrazioni dello statalismo, l’istituzione delle Regioni, la riforma dell’onestà, l’eliminazione
del pudore, la soppressione della dignità personale e nazionale e la parificazione dei diritti fra galantuomini e manigoldi. Pertanto, non potendo comprendere i vantaggi dell’opportunismo, «Candido» è spesso
inopportuno e importuno e sempre anticonformista. È, in definitiva, un vero “fogliaccio”». Ed è questo lo
spirito con cui il «fogliaccio » si avvicina alle elezioni per l’Assemblea costituente e al referendum su monarchia e repubblica del 2 giugno 1946.
Uno spirito che suggerisce a Guareschi la creazione di una serie di racconti sotto il titolo di
«Gazzettino di Roccapezza», dal nome del paesino di poche anime che sorge in cima a un cocuzzolo, e nel quale già cala la sua felice intuizione: far scontrare le due figure emblematiche di
un piccolo abitato: l’arciprete, un pretone di nome don Patirai, e Peppone detto Lenin, capopopolo comunista di professione fabbro. Un racconto che però regge per sole quattro puntate,
anche perché si tratta di personaggi in cui Guareschi fatica a riconoscersi e che avverte lontani:
sono ancora figure grezze, soprattutto quanto a umanità, perché don Patirai non è meno disumano e senza cuore del suo antagonista. E sente lontana anche la collocazione geografica, da
paesino di montagna «in mezzo alle capre», che, come il Puntarossa da «cartolina illustrata» nel
quale c’è davvero «poco da stare allegri», può al limite servire non tanto da ambientazione di
storie, quanto — come ben sa il lettore di queste vicende di Don Camillo — da luogo in cui esiliare per qualche tempo l’avversario di Peppone. Scontentezza dunque; ma con la soluzione di
là da venire anche come ambientazione geografica, se nei numeri seguenti del «Candido» le
nuove vicende che hanno al centro sempre un prete, questa volta di nome don Candido, si
svolgono a Trebilie, ancora una volta un paesino di montagna. Sembra davvero che a non far
funzionare i protagonisti sia quasi l’aria del luogo. Di qui una ricerca insistita, entro comunque
un progetto ben preciso che Guareschi stesso va disegnando all’amico Giuseppe Marotta per
chiedergli una prefazione all’eventuale futuro volume. Impegno cui Marotta fraternamente si
sottrae («Dacci sotto Giovannino. Una mia prefazione? Non scherziamo, so quel che valgo. Un parere
fraterno sì, la correzione delle bozze magari...»), pur sostenendolo e sollecitandolo («tu non allinei parole ma cose»).
La insoddisfacente ricerca porta così Guareschi all’antivigilia di Natale, allorché «a causa delle
feste bisogna finire il lavoro prima del solito. Bisogna "anticipare”. Oltre a compilare il “Candido” scrivo
dei raccontini per “Oggi” e così questa antivigilia mi trovo, come al solito, nei guai fino agli occhi: è già sera e io non ho ancora scritto il pezzo che manca per completare l’ultima pagina del “Candido”. Sono appena riuscito a scrivere, nel pomeriggio, il pezzetto per “Oggi” che è già stato composto e messo in pagina.
“Bisogna chiudere subito il “Candido!” mi dice il proto. Allora faccio cavar fuori il pezzetto da “Oggi”, lo
faccio ricomporre e lo butto dentro “Candido”. “Sia come Dio vuole!” esclamo. Poi, siccome per l’altro settimanale c’è ancora una mezz’ora di tempo, scribacchio una storiella qualsiasi e tappo anche quel buco rimasto. E Dio ha voluto che succedesse quello che è successo. Infatti, il primissimo racconto di “Mondo piccolo” è il raccontino che avevo destinato a “Oggi”. E che, se fosse uscito in quella sede, sarebbe finito lì,
come tutti gli altri raccontini, e non avrebbe avuto nessun seguito. Invece, appena l’ho pubblicato su “Candido” mi arrivano tante e poi tante lettere da parte dei miei ventiquattro lettori che scrivo un secondo episodio sulle vicende dei due personaggi della Bassa »(Don Camillo e il suo gregge, pp. XII-XIII).
E le date sono lì: a ricordare che il primo racconto, intitolato Don Camillo (e che in volume
diventerà «Peccato confessato), esce sui n. 52 del 28 dicembre 1946 del Candido presentando il
protagonista «arciprete» come «un gran brav’uomo» (espressione espunta in volume), alle prese con un Peppone già ben delineato, ma solo capopopolo e non ancora sindaco (lo diverrà solo con le elezioni raccontate qui in Scuola serale, anche se poi:, in qualche storia degli anni
Cinquanta come ad esempio ’99 classe di ferro, risulterà invece già sindaco nel novembre
1945). E anche il paese ha un nome, sul giornale: Ponteratto, destinato a scomparire nella ripresa in volume, ove le tre storie che fungono da introduzione scelgono quale ambientazione
non un preciso luogo, ma un «puntino nero che si muove, assieme ai suoi Pepponi e ai suoi
Smilzi:, in su e in giù lungo il fiume per quella fettaccia di terra che sta tra il Po e
l’Appennino». Al capopopolo comunista Guareschi dedica invece il racconto successivo, Peppone, apparso dopo un breve intervallo, e su sollecitazione dei lettori:, sui n. 2 dell’il gennaio
1947: ma si tratta di un Peppone fuori tema, con il futuro sindaco alle prese col fascista Giacomino in una interminabile partita a scopa iniziata nel 1930, in veste di perseguitato politico, e
proseguita sino al 26 luglio 1946, a ruoli invertiti, ma dove egli risulta comunque sempre perdente. Una storia fuori tempo e anche fuori luogo, dato che Peppone abita a Trepicchi, paese
diverso da quello di don Camillo, personaggio peraltro assente nel racconto in questione: e sono probabilmente queste le ragioni per cui, allestendo nel 1948 il volume Don Camillo - Mondo piccolo, Guareschi decide di lasciarlo perdere. E, però, è comunque un racconto a suo modo importante: proprio perché sottolinea come i personaggi e le vicende di questa saga destinata a durare vent’anni, dal 28 dicembre 1946 al 20 dicembre 1966 (ultima puntata su «Oggi»: Tutti i salmi finiscono in gloria), vengano rifiniti gradualmente. Un esempio può essere costituito dal cognome di Peppone che, prima di essere definitivamente siglato come Bottazzi, nei
due primi manifesti murali firmati in qualità di sindaco che compaiono nella versione giornalistica dei racconti figura in febbraio come Bottacci e in marzo come Bergoni. Lo stesso dicasi dei
suoi baffi: che sono accennati per la prima volta solo in un racconto del 16 novembre 1947,
Conflitto.
Ma un’ulteriore riprova di tale procedere graduale nella definizione di storie e personaggi è
nel fatto che in alcuni dei primi racconti Guareschi si trova a recuperare situazioni proposte
nelle precedenti storie del Gazzettino di Roccapezza: e se in Sciopero generale si limita a regalare a uno dei rossi di Peppone il soprannome Patirai, in Il battesimo è la disputa tra Peppone
e don Camillo per chiamare il figlio Lenin (siglata da un «Vallo a far battezzare in Russia») a
riprendere quella tra don Pa-tirai e il socialfusionista Grimpa (sul Candido n. 18 del 4 maggio
1946): che, volendo chiamare il figlio Stalingrado, otteneva dall’arciprete un analogo «Vallo a
battezzare alla Camera del Lavoro».
2. Ma, rispetto al passato, la vera novità della serie Don Camillo è l’introduzione del terzo
protagonista: il Cristo in Croce. Un terzetto a proposito del quale Guareschi gioca anche di accostamenti, come quando scrive che «si tratta di due personaggi veri: non due, ma venti o quaranta preti e venti o quaranta comunisti concentrati in due personaggi. I quali due personaggi:, poi:, sono un personaggio unico: io. Anche il Cristo sono io perché, come è chiaro, la voce
del Cristo non è che la voce della mia coscienza »; espressione, quest’ultima, che il lettore può
trovare ribadita proprio al termine delle sue tre storie introduttive. E davvero si tratta di personaggi che Guareschi accompagna nel tempo, come protagonisti di 346 racconti (cui vanno
aggiunte quelle storie scritte appositamente per le trasposizioni cinematografiche). Personaggi
che mutano col mutare dei tempi:, sempre portatori di quelle loro complementari passioni insieme simili se pur di segno opposto, ufficialmente radicali e quasi succubi degli slogan e dei
comportamenti dettati dalle opposte appartenenze ideologiche; in realtà con ampi margini di
discrezionalità umana nel loro ammiccante e amicale ritrovarsi anche nel corso dei più violenti
scontri delle prime storie; con progressivo ammorbidimento nel corso degli anni:, in sintonia
con quanto accade anche nella battaglia politica. Ove comunque proprio in quel loro discreto,
reciproco rispetto, in quel loro patteggiare segreto, nel privato, nel 1977 in un celebre saggio
Gianfranco Vené ha letto « la favolosa intuizione di collocare l’incontro e la collaborazione di
cattolici e marxisti entro l’area piccolo-borghese»; quasi una sorta di precedente del «compromesso storico», da cui però lo distanzia la modalità dell’incontro: non politico, ma umano, dettato cioè da rispetto, stima, simpatia e anche affetto reciproco.
Personaggi-tipo, dunque, don Camillo e Peppone. Verrebbe da dire: un solo personaggio,
dato che si tratta a ben vedere di due facce della medesima medaglia, salvo che per il dato culturale, essendosi Peppone fermato alla terza elementare: e però ignorante si, ma non stupido,
pur con quel pizzico di furbizia in meno rispetto a don Camillo che lo fa quasi sempre soccombente, pur senza astio e, anzi, talora con un senso di liberazione. E per quanto stilizzati, come si
addice all’assunzione di personaggi-simbolo secondo le regole della tradizione comica classica
degli «uguali e contrari» o dei «gemelli rivali», don Camillo e Peppone, in ossequio al principio
della verosimiglianza, sono soprattutto persone più che eroi:, con qualche macchietta e non
senza pizzichi di paura. E se coltivano strenuamente la difesa sino alla faziosità delle proprie
posizioni (si pensi anche solo alla corruzione dell’arbitro per la partita di calcio), eccoli non di
rado ritrovarsi anche affiancati in una stessa battaglia, dapprima in montagna come partigiani
della medesima formazione, e successivamente, più in generale, contro l’imperversante stupidità; e con la costante conseguenza che le azioni dell’uno provocano sempre nell’altro una reazione di uguale carattere ed equivalente misura. Con Peppone che può anche calpestare quelle
leggi che come sindaco dovrebbe far rispettare, ma sempre capace di arrestarsi di fronte alle
leggi di ordine superiore, alla legge morale naturale, ai principi universalmente accolti come
sani e onesti e ai valori di umanità: con la conseguente costante decisione di optare sempre per
la voce della coscienza, così rimarcando lo iato tra persona e apparato, base e vertice comunista, quando si tratta di decidere tra direttiva di partito e scelta da galantuomo. E con don Camillo costantemente riportato alla ragione da quella oggettivazione della voce della coscienza
che è la voce di un Cristo insieme bonario, anche scherzoso, ma intransigente sui principi di
fondo che è poi la voce mediana tra le intransigenze di don Camillo e Peppone nella quale va
rinvenuta la voce dello stesso autore.
A sottolineare tale aspetto di medaglia a due facce, dove don Camillo, per dirla con Guareschi, è semmai «solo la bella copia di Peppone», concorrono inoltre i dati fisici, cronologici e
anche di una rudimentale psicologia: con un don Camillo dalle «gesta che sapevano di omerico
e di fanciullesco insieme», «sempre umane e dignitosamente sacerdotali», da «prete non clerica-
le»; e un Peppone a sua volta dalle gesta rodomontiche e insieme ingenuamente fanciullesche,
e, come gli riconosce l’avversario, dignitosamente comuniste: rosso sì, ma galantuomo. Simili lo
sono persino fisicamente, se solo ci si sforza di dimenticare l’interpretazione di Fernandel —
nei cui tratti somatici peraltro Guareschi stesso non riconosceva « la minima somiglianza » con
quelli del suo prete (avrebbe persino voluto Cervi come don Camillo in una progettata ripresa
teatrale) — e si guardano invece le vignette con cui lo stesso Guareschi ha illustrato il volume.
Identici infine anche per età: perché se nel racconto Autunno si penserebbe a un don Camillo
appena più anziano, partecipando entrambi sì alla prima guerra mondiale, ma con Peppone
strappato alla famiglia «che ero ancora un ragazzo» e un don Camillo volontario per sostenere
religiosamente i soldati e amministrare l’Olio Santo ai moribondi:, in tre più tardi racconti degli anni Cinquanta non solo risultano essere della medesima età (Importanza di essere in lista,
sul Candido n. 18 del 3 maggio 1953), ma viene fornito anche il dato anagrafico: che ascrive i
due vispi, forzuti e irascibili quarantasettenni del primo Don Camillo alla «classe di ferro» 1899
(’99, classe di ferro e Lambrusco con Garibaldi, rispettivamente sui Candido del 15 novembre
1953 e dell’8 aprile 1956).
Personaggi-perno: attorno ai quali ruota un piccolo universo umano da «paese strampalato
», che si presenta al lettore con tutto il suo viluppo di odi e amori viscerali, speranze e disillusioni, debolezze, tenerezze e difficoltà quotidiane, in cui comicità e dramma s’intrecciano continuamente depositandosi catarticamente nel lieve tocco umoristico di Guareschi. Un tocco talora venato di malinconia, e intriso di quella sapienzialità propria di misto tra razionalità e buon
senso e di rispetto per i dettami della tradizione che egli ama riconoscere nella pur zuccona
gente di campagna; nella quale anche il colore politico rosso è vissuto con una carnalità che lo
rende umano e «naturale», se confrontato con quello intellettualizzato e artificioso dei comunisti di città.
3. Storie di un anno, quelle che nel 1948 Guareschi riunisce qui:, in Don Camillo - Mondo
piccolo. Storie di un anno, che «vivono in un determinato clima e in un determinato ambiente.
Il clima politico italiano dal dicembre del 1946 al dicembre del 1947. La storia insomma di un
anno di politica». Un anno che Guareschi segue e registra da cronista, sui Candido, e che spesso traduce in racconto addirittura nel numero successivo. Non si tratta qui tanto di vedere ciò
che di autobiografico può riscontrarsi (anche se è noto che per il personaggio della Maestra
vecchia si ispira alla madre, per cinquant’anni insegnante alla Bassa); quanto piuttosto di sottolineare come molti dei racconti di Don Camillo si muovano proprio a ridosso del tempo, «seguendo diligentemente la situazione politica dei nostro Paese», sicché, come l’autore ebbe a
scrivere ad Angelo Rizzoli, «ognuno di essi rappresenta, in sintesi, l’umore politico della settimana in Italia».
In tal senso, per quanto dissacratorio possa apparire, considerando il suo conservatorismo
filomonarchico e accesamente anticomunista, è un fatto che pur nel paradosso narrativo spesso
adottato, e pur con quanto di eccessivo e sanguigno proprio perché giocato sui dualismo antagonistico, con queste sue storie Guareschi rientra a pieno titolo in quel filone di attenzione alla
realtà che, in un contesto ideologico di sinistra, ha fatto parlare di neorealismo; ma la cifra di
partenza resta comunque la stessa che ad esempio, su altro versante, si può rinvenire nel romanzo di Enzo Bettiza La campagna elettorale: la coeva realtà « elettorale» resa efficacemente e
«pienamente» al modo di «una sagra buffonesca» (e sono parole di Montale), puntando sul
grottesco acceso da un disilluso sguardo interno a una sezione del PCI («scrivo quello che ho
visto»). Perché quelle di Guareschi sono sì fotografie del tempo, dal taglio che svaria
dall’umoristico al patetico, dall’eroicomico al satirico, e anche al malinconico; ma sono fotogra-
fie che spesso riproducono situazioni particolari e fatti reali. Talora possono anche suonare più
generiche, come i richiami al referendum del 1946, all’amnistia promulgata da Togliatti il 22
giugno dello stesso anno o alla chiacchieratissima vicenda dell’oro di Dongo cui pare rifarsi Il
tesoro. Ma non pochi sono i racconti costruiti su circostanze contingenti; che danno ragione a
Guareschi quando ricorda che «i fatti raccontati sono realmente accaduti. Un po’ da ogni parte,
si capisce. oppure sono inventati. Ma i più veri sono quelli inventati perché dopo che io li avevo inventati; sono realmente accaduti e, spesso, in modo inverosimile». Così la vicenda del taglio delle viti da parte dei braccianti in sciopero raccontata in Spedizione punitiva, apparso sul
Candido del 12 aprile 1947, traduce narrativamente un fatto analogo accaduto pochi giorni
prima e raccolto dal cronista Guareschi sul Candido del 5 aprile. Lo stesso dicasi del racconto
L’uovo e la gallina (n. 17, 26 aprile 1947), variazione narrativa su una notizia registrata sul
numero 16 del 19 aprile; un numero, quest’ultimo, su cui si poteva leggere Articolo 7, titolo originario di La bomba e dedicato alla discussione sull’articolo che regolava i rapporti StatoChiesa, col riconoscimento dei Patti Lateranensi del 1929: articolo definitivamente approvato il
25 marzo 1947. E non è finita: per TI comizio (n. 26, 28 giugno) lo spunto è fornito da una serie di episodi accaduti proprio nei giorni precedenti e aventi per oggetto la polemica e le intimidazioni contro i liberali fomentate da Togliatti, e di cui Guareschi stesso aveva dato notizia
nei numeri 23 e 25 del giornale. Per Sciopero generale del 14 settembre il riferimento era invece alle agitazioni e agli scioperi dei braccianti agricoli che avevano contrassegnato l’estate del
1947, e terminati proprio nel mese di settembre. Quanto infine a La festa (n. 41 del 12 ottobre), l’oggetto della satira era costituito dalle varie feste dell’Unità in corso, su cui egli si era
soffermato sul Candido n. 37 e n.
39. E si potrebbe ancora proseguire. Magari ricordando che sul settimanale non è risparmiato neppure il Giro d’Italia, con tanto di contrasto Peppone-don Camillo anche a proposito di
Coppi e Bartali (con don Camillo curiosamente partigiano del rosso Coppi e soprattutto ostile
al toscanaccio dell’Azione Cattolica): un racconto che costituiva la seconda parte di Passa il Giro, di cui il volume riprende la sola prima parte col titolo La processione.
4. Il che porta allora a riflettere su come Guareschi abbia allestito questo volume, palesemente dettato da una volontà di narrazione compatta, che impone anche l’esclusione di racconti pur apparsi sui Candido.
La scelta ha motivazioni ben precise: non appesantire il volume proponendo racconti che
presentino situazioni narrative simili ad altre già narrate in precedenza. Come nel caso di Tragedia, in cui si narra del pentimento di Peppone, convinto di aver ucciso un avversario, e che
ricorda Notturno con campane. Oppure Il Biondo, che come Il tesoro propone la sostituzione
di una salma nel corso di un funerale. O Democrazia, racconto della rivincita della partita tra
Dynamos e Gagliarda narrata in La disfatta.
Un caso del tutto particolare è invece costituito dai tre racconti conclusivi. Originariamente,
il Candido concludeva l’annata 1947 con cinque racconti disposti in suite, nei quali si narrava
di un omicidio che, fatto passare per suicidio, era invece svelato da don Camillo il quale decideva di seppellire il morto con funerali religiosi: con tanto di proteste e anche attentati nei suoi
confronti. Di questi cinque racconti Guareschi lascia cadere il secondo, Carta canta (Candido n.
48, 30 novembre 1947), con le reprimende del vescovo e la decisione di don Camillo di fondare un giornale, La Campana, col quale difendersi (ed è il «giornaletto» che il lettore si trova
stranamente e improvvisamente tra le mani nel racconto La paura continua). Allo stesso modo
fa cadere il quinto, Ti cerchio si ruppe (n. 52 del 28 dicembre 1947), che vede lo smascheramento dell’omicida: un racconto cruento che raccoglierà da solo in Don Camillo e il suo
gregge. Abbandoni che rivestono un triplice aspetto: innanzitutto di tradurre la suite in tre
racconti che si presentano di fatto come autonomi, quindi, di rispettare il calendario: quella dichiarata annualità che porta in Don Camillo i racconti ospitati sui Candido dal n. 52 del 28 dicembre 1946 al n.] 51 del 21 dicembre 1947; infine la volontà di terminare il libro nel segno
natalizio, dandogli un finale « umano e conclusivo».
La compattezza del volume è poi riscontrabile anche nella disposizione dei racconti: che per
metà, sino a «Il comizio» , osserva rigorosamente la successione cronologica della loro apparizione sulla rivista, mentre a partire da lì Guareschi apporta uno scivolamento verso il basso di
cinque storie, meno impegnate sul versante cronologico (Cinque più cinque, La maestra vecchia, 11 cane, Quelli di città, Il pittore, La festa). Quanto poi alla precisa volontà di creare un
testo che operi al tempo stesso come suite di racconti ma anche come romanzo a episodi (sia
pure nella loro qualità di variazioni sul codificato schema di provocazione-scontro-vittoria:
spesso di don Camillo; talora di Peppone; altre volte di entrambi contro gli altri e soprattutto
per il bene della comunità e della civile convivenza), Guareschi ne affida l’inquadramento allo
scritto introduttivo «Qui, con tre storie e una citazione, si spiega il mondo di Mondo piccolo», nel quale,
come l’autore stesso avvertiva nel risvolto di copertina della prima edizione, «il lettore troverà
tutto quanto può servire per ambientare e, in un certo senso, giustificare i racconti stessi». Ed è
proprio in queste storie che il lettore è avvertito del tono favolistico e persino magico che ritroverà nei racconti di Don Camillo: un universo favolistico che comunque restava intriso di realtà
(almeno di quella realtà schematizzata in bipolarismo della contrapposizione politica appartenente alla visione popolare sì del tempo, ma non certo di quel solo periodo); e che
un’affabulazione cordiale situava in una sorta di paradiso terrestre del buon cuore e dei buoni
e pur sanguignamente reali sentimenti, coincidente non con un paese, ma con un territorio a
suo modo unico: quel «mondo piccolo» della Bassa che inizia da Piacenza, dove « comincia »
davvero il Po, e si distende lungo il corso del fiume, dove «possono succedere cose che da altre parti
non succedono». Che è poi un’espressione, quest’ultima, a ben vedere, che dice anche del filone
di appartenenza narrativa del Don Camillo: quella linea che viene dal racconto ciclico popolare
che affonda le proprie radici nella tradizione novellistica dei cantari, nell’affabulazione orale, e
in quel raccontare popolaresco che miscela l’arguzia del piovano Arlotto con la grazia e la semplicità dei Fioretti.
E a dichiararlo è proprio la patina linguistica, che, tra i altro, nei passaggio dal giornale al libro, conosce solo lievi adattamenti senza tradimenti stilistici. Geno Pampaloni ha parlato giustamente di racconti dalla «scrittura elementare e senza pretese, un’eloquenza emotiva e canora, ma non
privi di una loro cordialità, di un intimo senso di generosità, nella semplificazione paesana e contadina
delle situazioni».
Aldilà delle battute guareschiane sul proprio ricorso a sole duecento o cinquecento parole, il
suo resta il lessico del cronista tendente alla colloquialità; il quale poggia pertanto su uno stile
medio che aderisce al linguaggio parlato, senza mai cadere nella volgarità o nel dialettalismo
puro, pur conservando con una certa abbondanza modi di dire settentrionali in genere, e propri dell’area parmigiana in particolare, con anche locuzioni proverbiali che hanno il compito di
conferire alla narrazione immediatezza espressiva. Come egli stesso ha confessato a Beppe
Gualazzini, « le parole che faccio dire ai miei personaggi prima le penso in dialetto e, se funzionano in dialetto, bene, se non funzionano, allora neppure le traduco in italiano; ne cerco altre.
Il dialetto non sopporta sciocchezze, fronzoli; è immediato, pratico e più schietto». E del resto i
racconti poggiano prevalentemente su un quasi costante impiego dei discorso diretto, intervallato da squarci di divagazioni e descrizioni paesaggistiche, con i vari personaggi che si autopresentano proprio attraverso il dialogo, mancando in Don Camillo una vera introspezione
psicologica. Le stesse descrizioni dei personaggi non sono mai dettagliate: o avvengono ricorrendo a similitudini, o sono, più che linguistiche, prevalentemente grafiche, stretta eredità del
disegnatore-caricaturista Guareschi che traduce l’immagine in parole, si tratti di Don Camillo e
Peppone come dello Spiccio o dello Spocchia.
5. Il vero problema per Guareschi era semmai un altro: non tanto il modo di parlare di don
Camillo e Peppone, quanto l’espressività del Cristo. «E proprio il Cri-sto che mi mette più in
imbarazzo quando scrivo del Mondo piccolo. E quello che più mi riesce difficile far
parlare. Per il Cristo, per ciò che può e deve dire, non è abbastanza immediato e pratico e
schietto nemmeno il dialetto. » E qui sta però la soluzione. Quella di un Cristo che nel suo parlare giocoso e alla buona recupera la tradizione dei Vangeli apocrifi, ma che resta ben fissato
sulla parola e sullo spirito dei quattro Vangeli canonici quando affronta temi sostanziali. Al
punto non solo di richiamarsi o di parafrasare espressioni evangeliche; addirittura, di riprenderle alla lettera, come accade nel racconto La paura continua, con Cristo che pronuncia le
medesime espressioni registrate da san Matteo nel capitolo XIII, versetto 15, del suo Vangelo.
E, in una fase storica in cui la radicalità paesana e campanilistica dei contrasti in cui si riproduceva lo storico antagonismo comunismo-occidente è venuta meno, è proprio il messaggio di
questo Cristo, non tanto alter ego di don Camillo quanto piuttosto della coscienza del politicamente apolide e anarchica-mente sentimentale Guareschi a rappresentare probabilmente la linea di costante contemporaneità di un libro, che pure è passato attraverso una serie di letture
comunque sempre parziali: si trattasse degli anatemi della sinistra contro l’autore reazionario e
anticomunista delle elezioni dei 1948; della sua assunzione ad anticipatore dei compromesso
storico; persino, come accade oggi, della elevazione di Peppone a «teologo» da parte di presuli
quali Biffi e Maggiolini.
Ed è la lezione del «senza odio» e «contro l’odio». Per dirla con le parole della raccomandazione rivolta da Cristo a don Camillo, è l’invito a rimanere sempre « nella legalità», perché, «se
per far capire a uno che sbaglia tu lo stendi con una schioppettata, mi vuoi dire a che scopo io
mi sarei fatto mettere in croce?». È la lezione dei rispetto nei confronti dell’altro: che ammette
anche la presa in giro, che però non si traduce mai in scherno; e della capacità di sorridere affettuosamente e comprensivamente delle stupidaggini e delle debolezze umane, superando i
risentimenti personali. E però, quale che sia comunque l’aspetto che più colpisce i lettorispettatori del teatrino da camera recitato da Peppone e don Camillo col basso continuo del Cristo, il vero miracolo di questo autore, per decenni volutamente ignorato dalle storie letterarie e
dagli intellettuali «trinariciuti», oranghi dai tre buchi nel naso per meglio sentire la puzza del
popolaresco, è la diffusione conosciuta da questo suo «mondo piccolo» in tutto il mondo. Con
oltre venti milioni di copie vendute all’estero. Una media di ottantamila copie all’anno di sue
opere smerciate in Italia. Con traduzioni anche in arabo, vietnamita, cingalese, tailandese. Con
lettori rintracciati persino tra gli eschimesi. E non può essere, allora, solo un caso che, in un referendum giocoso lanciato da «Tutto-libri» nel 1988 nel quale si chiedeva agli oltre diecimila
partecipanti di indicare quale fosse il personaggio dei romanzi italiani e stranieri degli ultimi
cento anni più amato dagli italiani, al primo posto, con ben oltre il doppio di preferenze rispetto al secondo classificato, e con motivazioni quali «umano, vero, sincero, di disarmante candore» e persino «attuale», risultasse alfine proprio lui: quella «gran macchina di carne», dalle «enormi spalle», di nome don Camillo.
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