Dante Piazza
Raccolta di scritti
per i 150 anni dall’unit• d’Italia
Indice
Pag.
Centocinquanta anni
3
Le grida e i bravi di A. Manzoni
5
Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria
7
La Camera di Commercio di Firenze
48
Carlo Pisacane
49
La spigolatrice di Sapri di Luigi Mercantini
62
Il primo parlamento italiano
65
Legge 15 agosto 1863 "… per la repressione del brigantaggio nel Meridione"
67
Italiani che mascalzoni
68
Centocinquanta anni
Cosa unisce un popolo ? La lingua, i costumi, la storia comune.
Cosa lo divide ? Guerre di secessione, miseria e ricchezza, arroganza, ignoranza propria e quella
dei superuomini (intellettuali, politici e condottieri).
Il popolo italiano • forse l’unico al mondo che, da oltre duemila anni, sotto varie forme, parla la
stessa lingua, paga i tributi ed ha gli stessi diritti civili. Nell’89 a.C. lo status ed i diritti del civis
romanus furono estesi a tutte le popolazioni italiche e nel 49 a.C. anche ai Cisalpini (1).
Da sempre • divisa in fazioni e partiti diversi e sempre per gli stessi motivi: plebe e patrizi, guelfi e
ghibellini, bianchi e neri, polentoni e terroni, interisti e milanisti.
Nell’epoca della globalizzazione, gli italiani non sono uniti solo in occasione dei campionati
mondiali di calcio. Li uniscono la musica, il teatro, le opere d’arte nelle cittƒ, nelle piazze, nei
musei, nelle biblioteche.
Chi va all’estero pu„ constatare che, fino alla quarta generazione, i figli degli emigranti parlano
l’italiano, vivono delle nostalgie dei loro nonni ed in parlamento siedono i loro rappresentanti.
Quali sono i meriti degli ultimi centocinquant’anni di unione politica ed amministrativa ?
Eliminazione delle barriere doganali interne, moneta unica, alfabetizzazione, diritti sociali, rete dei
trasporti, sviluppo economico, costruzione dell’Europa.
Di chi • il merito di tutto questo ? Di tutte le generazioni, che si sono succedute negli ultimi
duecento anni, anche se la storia cita solo pochi nomi di intellettuali, di politici e di condottieri.
Ricordiamo i patrioti del risorgimento (i cinque fratelli Cairoli, le vittime delle cinque giornate di
Milano e delle dieci giornate di Brescia, i trecento di Pisacane, le vittime delle imprese garibaldine,
ecc.).
Ricordiamo le vittime delle repressioni della destra storica contro le istanze sociali (i briganti
meridionali, gli 80 morti ed i 450 feriti del 1898 del gen. Bava Beccaris, ecc.).
Ricordiamo i milioni di soldati italiani, caduti delle guerre degli ultimi centocinquant’anni, sepolti
nei sacrari di tutte le cittƒ italiane e nei cimiteri di guerra in Italia ed all’estero (Redipuglia, Libia,
Etiopia, Russia, ecc.).
Teschi di defunti per ferite craniche, fine sec. XIX, Centro Militare di Medicina Legale, Firenze.
Istituto e Museo di Storia della Scienza ed i centomila caduti di Redipuglia
1
) Cfr C. Nicolet "Il mestiere di cittadino nell' antica Roma", Editori riuniti, 1982; Cicerone "De legibus" II e “Pro
Archia" 8-11; G. Clemente "Guida alla storia romana" Mondadori, 1977
Ricordiamo le vittime del fascismo, dell’occupazione nazista e della guerra di liberazione
(Matteotti, Gramsci, i deportati politici e delle leggi razziali, i fratelli Cervi, i collaborazionisti
delle opposte fazioni della guerra civile ed i cittadini inermi, vittime delle rappresaglie).
Ricordiamo le migliaia di vittime del lavoro (nelle miniere di zolfo in Sicilia, nelle miniere di
carbone in Sardegna, nelle industrie chimiche, nei cantieri, ecc.).
Ricordiamoci di tutti i nostri avi, che, per generazioni, hanno lavorato, sofferto e sono morti per
quello che noi siamo oggi. Non facciamoli rivoltare nella tomba con i nostri snobbismi di italiani
evoluti (mass-media, autovetture, telefonini, computer, televisori, ecc.), che con le loro finzioni
ottenebrano la realtƒ.
Le grida e i bravi di A. Manzoni
Questa specie, ora del tutto perduta, era allora floridissima in Lombardia, e giƒ molto antica. Chi
non ne avesse idea, ecco alcuni squarci autentici, che potranno darne una bastante de' suoi caratteri
principali, degli sforzi fatti per ispegnerla, e della sua dura e rigogliosa vitalitƒ.
Fino dall'otto aprile dell'anno 1583, l'Illustrissimo ed Eccellentissimo signor don Carlo d'Aragon,
Principe di Castelvetrano, Duca di Terranuova, Marchese d'Avola, Conte di Burgeto, grande
Ammiraglio, e gran Contestabile di Sicilia, Governatore di Milano e Capitan Generale di Sua
Maestƒ Cattolica in Italia, pienamente informato della intollerabile miseria in che • vivuta e vive
questa cittƒ di Milano, per cagione dei bravi e vagabondi, pubblica un bando contro di essi.
Dichiara e diffinisce tutti coloro essere compresi in questo bando, e doversi ritenere bravi e
vagabondi... i quali, essendo forestieri o del paese, non hanno esercizio alcuno, od avendolo, non lo
fanno... ma, senza salario, o pur con esso, s'appoggiano a qualche cavaliere o gentiluomo, officiale
o mercante... per fargli spalle e favore, o veramente, come si pu„ presumere, per tendere insidie ad
altri... A tutti costoro ordina che, nel termine di giorni sei, abbiano a sgomberare il paese, intima la
galera a' renitenti, e dƒ a tutti gli ufiziali della giustizia le pi† stranamente ampie e indefinite
facoltƒ, per l'esecuzione dell'ordine.
Ma, nell'anno seguente, il 12 aprile, scorgendo il detto signore, che questa Cittƒ • tuttavia piena di
detti bravi... tornati a vivere come prima vivevano, non punto mutato il costume loro, n‡ scemato il
numero, dƒ fuori un'altra grida, ancor pi† vigorosa e notabile, nella quale, tra l'altre ordinazioni,
prescrive: Che qualsivoglia persona, cosˆ di questa Cittƒ, come forestiera, che per due testimonj
consterƒ esser tenuto, e comunemente riputato per bravo, et aver tal nome, ancorch‡ non si
verifichi aver fatto delitto alcuno... per questa sola riputazione di bravo, senza altri indizj, possa dai
detti giudici e da ognuno di loro esser posto alla corda et al tormento, per processo informativo... et
ancorch‡ non confessi delitto alcuno, tuttavia sia mandato alla galea, per detto triennio, per la sola
opinione e nome di bravo, come di sopra. Tutto ci„, e il di pi† che si tralascia, perch‡ Sua
Eccellenza • risoluta di voler essere obbedita da ognuno.
All'udir parole d'un tanto signore, cosˆ gagliarde e sicure, e accompagnate da tali ordini, viene una
gran voglia di credere che, al solo rimbombo di esse, tutti i bravi siano scomparsi per sempre. Ma
la testimonianza d'un signore non meno autorevole, n‡ meno dotato di nomi, ci obbliga a credere
tutto il contrario. ‰ questi l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Juan Fernandez de Velasco,
Contestabile di Castiglia, Cameriero maggiore di Sua Maestƒ, Duca della Cittƒ di Frias, Conte di
Haro e Castelnovo, Signore della Casa di Velasco, e di quella delli sette Infanti di Lara,
Governatore dello Stato di Milano, etc.
Il 5 giugno dell'anno 1593, pienamente informato anche lui di quanto danno e rovine sieno... i bravi
e vagabondi, e del pessimo effetto che tal sorta di gente, fa contra il ben pubblico, et in delusione
della giustizia, intima loro di nuovo che, nel termine di giorni sei, abbiano a sbrattare il paese,
ripetendo a un dipresso le prescrizioni e le minacce medesime del suo predecessore. Il 23 maggio
poi dell'anno 1598, informato, con non poco dispiacere dell'animo suo, che... ogni dˆ pi† in questa
Cittƒ e Stato va crescendo il numero di questi tali(bravi e vagabondi), n‡ di loro, giorno e notte,
altro si sente che ferite appostatamente date, omicidii e ruberie et ogni altra qualitƒ di delitti, ai
quali si rendono pi† facili, confidati essi bravi d'essere aiutati dai capi e fautori loro... prescrive di
nuovo gli stessi rimedi, accrescendo la dose, come s'usa nelle malattie ostinate. Ognuno dunque,
conchiude poi, onninamente si guardi di contravvenire in parte alcuna alla grida presente, perch‡,
in luogo di provare la clemenza di Sua Eccellenza, proverƒ il rigore, e l'ira sua... essendo risoluta e
determinata che questa sia l'ultima e perentoria monizione.
Non fu per„ di questo parere l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Pietro
Enriquez de Acevedo, Conte di Fuentes, Capitano, e Governatore dello Stato di Milano; non fu di
questo parere, e per buone ragioni. Pienamente informato della miseria in che vive questa Cittƒ e
Stato per cagione del gran numero di bravi che in esso abbonda... e risoluto di totalmente estirpare
seme tanto pernizioso, dƒ fuori, il 5 decembre 1600, una nuova grida piena anch'essa di severissime
comminazioni, con fermo proponimento che, con ogni rigore, e senza speranza di remissione, siano
onninamente eseguite. Convien credere per„ che non ci si mettesse con tutta quella buona voglia
che sapeva impiegare nell'ordir cabale, e nel suscitar nemici al suo gran nemico Enrico IV;
giacch‡, per questa parte, la storia attesta come riuscisse ad armare contro quel re il duca di Savoia,
a cui fece perder pi† d'una cittƒ; come riuscisse a far congiurare il duca di Biron, a cui fece perder
la testa; ma, per ci„ che riguarda quel seme tanto pernizioso de' bravi, certo • che esso continuava a
germogliare, il 22 settembre dell'anno 1612.
In quel giorno l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Giovanni de Mendozza,
Marchese de la Hynojosa, Gentiluomo etc., Governatore etc., pens„ seriamente ad estirparlo. A
quest'effetto, spedˆ a Pandolfo e Marco Tullio Malatesti, stampatori regii camerali, la solita grida,
corretta ed accresciuta, perch‡ la stampassero ad esterminio de' bravi. Ma questi vissero ancora per
ricevere, il 24 decembre dell'anno 1618, gli stessi e pi† forti colpi dall'Illustrissimo ed
Eccellentissimo Signore, il Signor Don Gomez Suarez de Figueroa, Duca di Feria, etc.,
Governatore etc. Per„, non essendo essi morti neppur di quelli, l'Illustrissimo ed Eccellentissimo
Signore, il Signor Gonzalo Fernandez di Cordova, sotto il cui governo accadde la passeggiata di
don Abbondio, s'era trovato costretto a ricorreggere e ripubblicare la solita grida contro i bravi, il
giorno 5 ottobre del 1627, cio• un anno, un mese e due giorni prima di quel memorabile
avvenimento.
N‡ fu questa l'ultima pubblicazione; ma noi delle posteriori non crediamo dover far menzione,
come di cosa che esce dal periodo della nostra storia. Ne accenneremo soltanto una del 13 febbraio
dell'anno 1632, nella quale l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, el Duque de Feria, per la
seconda volta governatore, ci avvisa che le maggiori sceleraggini procedono da quelli che
chiamano bravi. Questo basta ad assicurarci che, nel tempo di cui noi trattiamo, c'era de' bravi
tuttavia.
Dei Delitti e delle Pene
di Cesare Beccaria
(1763)
[e-text a cura di Claudio Paganelli. Tratto dalla edizione 1973 U. Mursia & C., a cura di Renato
Fabietti, collana GUM Grande Universale Mursia. ISBN assente ]
A chi legge
Alcuni avanzi di leggi di un antico popolo conquistatore fatte compilare da un principe che
dodici secoli fa regnava in Costantinopoli, frammischiate poscia co' riti longobardi, ed involte in
farraginosi volumi di privati ed oscuri interpreti, formano quella tradizione di opinioni che da
una gran parte dell'Europa ha tuttavia il nome di leggi; ed • cosa funesta quanto comune al dˆ
d'oggi che una opinione di Carpzovio, un uso antico accennato da Claro, un tormento con
iraconda compiacenza suggerito da Farinaccio sieno le leggi a cui con sicurezza obbediscono
coloro che tremando dovrebbono reggere le vite e le fortune degli uomini. Queste leggi, che sono
uno scolo de' secoli i piŠ barbari, sono esaminate in questo libro per quella parte che risguarda il
sistema criminale, e i disordini di quelle si osa esporli a' direttori della pubblica felicitƒ con uno
stile che allontana il volgo non illuminato ed impaziente. Quella ingenua indagazione della
veritƒ, quella indipendenza delle opinioni volgari con cui • scritta quest'opera • un effetto del
dolce e illuminato governo sotto cui vive l'autore. I grandi monarchi, i benefattori della umanitƒ
che ci reggono, amano le veritƒ esposte dall'oscuro filosofo con un non fanatico vigore, detestato
solamente da chi si avventa alla forza o alla industria, respinto dalla ragione; e i disordini
presenti da chi ben n'esamina tutte le circostanze sono la satira e il rimprovero delle passate etƒ,
non giƒ di questo secolo e de' suoi legislatori.
Chiunque volesse onorarmi delle sue critiche cominci dunque dal ben comprendere lo scopo a
cui • diretta quest'opera, scopo che ben lontano di diminuire la legittima autoritƒ, servirebbe ad
accrescerla se piŠ che la forza pu„ negli uomini la opinione, e se la dolcezza e l'umanitƒ la
giustificano agli occhi di tutti. Le mal intese critiche pubblicate contro questo libro si fondano su
confuse nozioni, e mi obbligano d'interrompere per un momento i miei ragionamenti
agl'illuminati lettori, per chiudere una volta per sempre ogni adito agli errori di un timido zelo o
alle calunnie della maligna invidia.
Tre sono le sorgenti delle quali derivano i principii morali e politici regolatori degli uomini. La
rivelazione, la legge naturale, le convenzioni fattizie della societƒ. Non vi • paragone tra la prima
e le altre per rapporto al principale di lei fine; ma si assomigliano in questo, che conducono tutte
tre alla felicitƒ di questa vita mortale. Il considerare i rapporti dell'ultima non • l'escludere i
rapporti delle due prime; anzi siccome quelle, bench‡ divine ed immutabili, furono per colpa
degli uomini dalle false religioni e dalle arbitrarie nozioni di vizio e di virtŠ in mille modi nelle
depravate menti loro alterate, cos‹ sembra necessario di esaminare separatamente da ogni altra
considerazione ci„ che nasca dalle pure convenzioni umane, o espresse, o supposte per la
necessitƒ ed utilitƒ comune, idea in cui ogni setta ed ogni sistema di morale deve
necessariamente convenire; e sarƒ sempre lodevole intrappresa quella che sforza anche i piŠ
pervicaci ed increduli a conformarsi ai principii che spingon gli uomini a vivere in societƒ.
Sonovi dunque tre distinte classi di virtŠ e di vizio, religiosa, naturale e politica. Queste tre classi
non devono mai essere in contradizione fra di loro, ma non tutte le conseguenze e i doveri che
risultano dall'una risultano dalle altre. Non tutto ci„ che esige la rivelazione lo esige la legge
naturale, n‡ tutto ci„ che esige questa lo esige la pura legge sociale: ma egli • importantissimo di
separare ci„ che risulta da questa convenzione, cio• dagli espressi o taciti patti degli uomini,
perch‡ tale • il limite di quella forza che pu„ legittimamente esercitarsi tra uomo e uomo senza
una speciale missione dell'Essere supremo. Dunque l'idea della virtŠ politica pu„ senza taccia
chiamarsi variabile; quella della virtŠ naturale sarebbe sempre limpida e manifesta se
l'imbecillitƒ o le passioni degli uomini non la oscurassero; quella della virtŠ religiosa • sempre
una costante, perch‡ rivelata immediatamente da Dio e da lui conservata.
Sarebbe dunque un errore l'attribuire a chi parla di convenzioni sociali e delle conseguenze di
esse principii contrari o alla legge naturale o alla rivelazione; perch‡ non parla di queste. Sarebbe
un errore a chi, parlando di stato di guerra prima dello stato di societƒ, lo prendesse nel senso
hobbesiano, cio• di nessun dovere e di nessuna obbligazione anteriore, in vece di prenderlo per
un fatto nato dalla corruzione della natura umana e dalla mancanza di una sanzione espressa.
Sarebbe un errore l'imputare a delitto ad uno scrittore, che considera le emanazioni del patto
sociale, di non ammetterle prima del patto istesso.
La giustizia divina e la giustizia naturale sono per essenza loro immutabili e costanti, perch‡ la
relazione fra due medesimi oggetti • sempre la medesima; ma la giustizia umana, o sia politica,
non essendo che una relazione fra l'azione e lo stato vario della societƒ, pu„ variare a misura che
diventa necessaria o utile alla societƒ quell'azione, n‡ ben si discerne se non da chi analizzi i
complicati e mutabilissimi rapporti delle civili combinazioni. S‹ tosto che questi principii
essenzialmente distinti vengano confusi, non v'• piŠ speranza di ragionar bene nelle materie
pubbliche. Spetta a' teologi lo stabilire i confini del giusto e dell'ingiusto, per ci„ che riguarda
l'intrinseca malizia o bontƒ dell'atto; lo stabilire i rapporti del giusto e dell'ingiusto politico, cio•
dell'utile o del danno della societƒ, spetta al pubblicista; n‡ un oggetto pu„ mai pregiudicare
all'altro, poich‡ ognun vede quanto la virtŠ puramente politica debba cedere alla immutabile
virtŠ emanata da Dio.
Chiunque, lo ripeto, volesse onorarmi delle sue critiche, non cominci dunque dal supporre in me
principii distruttori o della virtŠ o della religione, mentre ho dimostrato tali non essere i miei
principii, e in vece di farmi incredulo o sedizioso procuri di ritrovarmi cattivo logico o
inavveduto politico; non tremi ad ogni proposizione che sostenga gl'interessi dell'umanitƒ; mi
convinca o della inutilitƒ o del danno politico che nascer ne potrebbe dai miei principii, mi faccia
vedere il vantaggio delle pratiche ricevute. Ho dato un pubblico testimonio della mia religione e
della sommissione al mio sovrano colla risposta alle Note ed osservazioni; il rispondere ad
ulteriori scritti simili a quelle sarebbe superfluo; ma chiunque scriverƒ con quella decenza che si
conviene a uomini onesti e con quei lumi che mi dispensino dal provare i primi principii, di
qualunque carattere essi siano, troverƒ in me non tanto un uomo che cerca di rispondere quanto
un pacifico amatore della veritƒ.
INTRODUZIONE
Gli uomini lasciano per lo piŠ in abbandono i piŠ importanti regolamenti alla giornaliera
prudenza o alla discrezione di quelli, l'interesse de' quali • di opporsi alle piŠ provide leggi che
per natura rendono universali i vantaggi e resistono a quello sforzo per cui tendono a condensarsi
in pochi, riponendo da una parte il colmo della potenza e della felicitƒ e dall'altra tutta la
debolezza e la miseria. Perci„ se non dopo esser passati framezzo mille errori nelle cose piŠ
essenziali alla vita ed alla libertƒ, dopo una stanchezza di soffrire i mali, giunti all'estremo, non
s'inducono a rimediare ai disordini che gli opprimono, e a riconoscere le piŠ palpabili veritƒ, le
quali appunto sfuggono per la semplicitƒ loro alle menti volgari, non avvezze ad analizzare gli
oggetti, ma a riceverne le impressioni tutte di un pezzo, piŠ per tradizione che per esame.
Apriamo le istorie e vedremo che le leggi, che pur sono o dovrebbon esser patti di uomini liberi,
non sono state per lo piŠ che lo stromento delle passioni di alcuni pochi, o nate da una fortuita e
passeggiera necessitƒ; non giƒ dettate da un freddo esaminatore della natura umana, che in un sol
punto concentrasse le azioni di una moltitudine di uomini, e le considerasse in questo punto di
vista: la massima felicit€ divisa nel maggior numero. Felici sono quelle pochissime nazioni, che
non aspettarono che il lento moto delle combinazioni e vicissitudini umane facesse succedere
all'estremitƒ de' mali un avviamento al bene, ma ne accelerarono i passaggi intermedi con buone
leggi; e merita la gratitudine degli uomini quel filosofo ch'ebbe il coraggio dall'oscuro e
disprezzato suo gabinetto di gettare nella moltitudine i primi semi lungamente infruttuosi delle
utili veritƒ.
Si sono conosciute le vere relazioni fra il sovrano e i sudditi, e fralle diverse nazioni; il
commercio si • animato all'aspetto delle veritƒ filosofiche rese comuni colla stampa, e si • accesa
fralle nazioni una tacita guerra d'industria la piŠ umana e la piŠ degna di uomini ragionevoli.
Questi sono frutti che si debbono alla luce di questo secolo, ma pochissimi hanno esaminata e
combattuta la crudeltƒ delle pene e l'irregolaritƒ delle procedure criminali, parte di legislazione
cos‹ principale e cos‹ trascurata in quasi tutta l'Europa, pochissimi, rimontando ai principii
generali, annientarono gli errori accumulati di piŠ secoli, frenando almeno, con quella sola forza
che hanno le veritƒ conosciute, il troppo libero corso della mal diretta potenza, che ha dato fin
ora un lungo ed autorizzato esempio di fredda atrocitƒ. E pure i gemiti dei deboli, sacrificati alla
crudele ignoranza ed alla ricca indolenza, i barbari tormenti con prodiga e inutile severitƒ
moltiplicati per delitti o non provati o chimerici, la squallidezza e gli orrori d'una prigione,
aumentati dal piŠ crudele carnefice dei miseri, l'incertezza, doveano scuotere quella sorta di
magistrati che guidano le opinioni delle menti umane. L'immortale Presidente di Montesquieu ha
rapidamente scorso su di questa materia. L'indivisibile veritƒ mi ha forzato a seguire le tracce
luminose di questo grand'uomo, ma gli uomini pensatori, pe' quali scrivo, sapranno distinguere i
miei passi dai suoi. Me fortunato, se potr„ ottenere, com'esso, i segreti ringraziamenti degli
oscuri e pacifici seguaci della ragione, e se potr„ inspirare quel dolce fremito con cui le anime
sensibili rispondono a chi sostiene gl'interessi della umanitƒ!
Cap.1
ORIGINE DELLE PENE
Le leggi sono le condizioni, colle quali uomini indipendenti ed isolati si unirono in societƒ,
stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e di godere una libertƒ resa inutile dall'incertezza
di conservarla. Essi ne sacrificarono una parte per goderne il restante con sicurezza e tranquillitƒ.
La somma di tutte queste porzioni di libertƒ sacrificate al bene di ciascheduno forma la sovranitƒ
di una nazione, ed il sovrano • il legittimo depositario ed amministratore di quelle; ma non
bastava il formare questo deposito, bisognava difenderlo dalle private usurpazioni di ciascun
uomo in particolare, il quale cerca sempre di togliere dal deposito non solo la propria porzione,
ma usurparsi ancora quella degli altri. Vi volevano de' motivi sensibili che bastassero a
distogliere il dispotico animo di ciascun uomo dal risommergere nell'antico caos le leggi della
societƒ. Questi motivi sensibili sono le pene stabilite contro agl'infrattori delle leggi. Dico
sensibili motivi, perch‡ la sperienza ha fatto vedere che la moltitudine non adotta stabili principii
di condotta, n‡ si allontana da quel principio universale di dissoluzione, che nell'universo fisico e
morale si osserva, se non con motivi che immediatamente percuotono i sensi e che di continuo si
affacciano alla mente per contrabilanciare le forti impressioni delle passioni parziali che si
oppongono al bene universale: n‡ l'eloquenza, n‡ le declamazioni, nemmeno le piŠ sublimi veritƒ
sono bastate a frenare per lungo tempo le passioni eccitate dalle vive percosse degli oggetti
presenti.
Cap.2
DIRITTO DI PUNIRE
Ogni pena che non derivi dall'assoluta necessitƒ, dice il grande Montesquieu, • tirannica;
proposizione che si pu„ rendere piŠ generale cos‹: ogni atto di autoritƒ di uomo a uomo che non
derivi dall'assoluta necessitƒ • tirannico. Ecco dunque sopra di che • fondato il diritto del
sovrano di punire i delitti: sulla necessitƒ di difendere il deposito della salute pubblica dalle
usurpazioni particolari; e tanto piŠ giuste sono le pene, quanto piŠ sacra ed inviolabile • la
sicurezza, e maggiore la libertƒ che il sovrano conserva ai sudditi. Consultiamo il cuore umano e
in esso troveremo i principii fondamentali del vero diritto del sovrano di punire i delitti, poich‡
non • da sperarsi alcun vantaggio durevole dalla politica morale se ella non sia fondata su i
sentimenti indelebili dell'uomo. Qualunque legge devii da questi incontrerƒ sempre una
resistenza contraria che vince alla fine, in quella maniera che una forza bench‡ minima, se sia
continuamente applicata, vince qualunque violento moto comunicato ad un corpo.
Nessun uomo ha fatto il dono gratuito di parte della propria libertƒ in vista del ben pubblico;
questa chimera non esiste che ne' romanzi; se fosse possibile, ciascuno di noi vorrebbe che i patti
che legano gli altri, non ci legassero; ogni uomo si fa centro di tutte le combinazioni del globo.
La moltiplicazione del genere umano, piccola per se stessa, ma di troppo superiore ai mezzi che
la sterile ed abbandonata natura offriva per soddisfare ai bisogni che sempre piŠ
s'incrocicchiavano tra di loro, riun‹ i primi selvaggi. Le prime unioni formarono necessariamente
le altre per resistere alle prime, e cos‹ lo stato di guerra trasportossi dall'individuo alle nazioni.
Fu dunque la necessitƒ che costrinse gli uomini a cedere parte della propria libertƒ: egli •
adunque certo che ciascuno non ne vuol mettere nel pubblico deposito che la minima porzion
possibile, quella sola che basti a indurre gli altri a difenderlo. L'aggregato di queste minime
porzioni possibili forma il diritto di punire; tutto il di piŠ • abuso e non giustizia, • fatto, ma non
giƒ diritto. Osservate che la parola diritto non • contradittoria alla parola forza, ma la prima •
piuttosto una modificazione della seconda, cio• la modificazione piŠ utile al maggior numero. E
per giustizia io non intendo altro che il vincolo necessario per tenere uniti gl'interessi particolari,
che senz'esso si scioglierebbono nell'antico stato d'insociabilitƒ; tutte le pene che oltrepassano la
necessitƒ di conservare questo vincolo sono ingiuste di lor natura. Bisogna guardarsi di non
attaccare a questa parola giustizia l'idea di qualche cosa di reale, come di una forza fisica, o di un
essere esistente; ella • una semplice maniera di concepire degli uomini, maniera che influisce
infinitamente sulla felicitƒ di ciascuno; nemmeno intendo quell'altra sorta di giustizia che •
emanata da Dio e che ha i suoi immediati rapporti colle pene e ricompense della vita avvenire.
Cap.3
CONSEGUENZE
La prima conseguenza di questi principii • che le sole leggi possono decretar le pene su i delitti,
e quest'autoritƒ non pu„ risedere che presso il legislatore, che rappresenta tutta la societƒ unita
per un contratto sociale; nessun magistrato (che • parte di societƒ) pu„ con giustizia infligger
pene contro ad un altro membro della societƒ medesima. Ma una pena accresciuta al di lƒ dal
limite fissato dalle leggi • la pena giusta piŠ un'altra pena; dunque non pu„ un magistrato, sotto
qualunque pretesto di zelo o di ben pubblico, accrescere la pena stabilita ad un delinquente
cittadino.
La seconda conseguenza • che se ogni membro particolare • legato alla societƒ, questa •
parimente legata con ogni membro particolare per un contratto che di sua natura obbliga le due
parti. Questa obbligazione, che discende dal trono fino alla capanna, che lega egualmente e il piŠ
grande e il piŠ miserabile fra gli uomini, non altro significa se non che • interesse di tutti che i
patti utili al maggior numero siano osservati. La violazione anche di un solo, comincia ad
autorizzare l'anarchia. Il sovrano, che rappresenta la societƒ medesima, non pu„ formare che
leggi generali che obblighino tutti i membri, ma non giƒ giudicare che uno abbia violato il
contratto sociale, poich‡ allora la nazione si dividerebbe in due parti, una rappresentata dal
sovrano, che asserisce la violazione del contratto, e l'altra dall'accusato, che la nega. Egli •
dunque necessario che un terzo giudichi della veritƒ del fatto. Ecco la necessitƒ di un magistrato,
le di cui sentenze sieno inappellabili e consistano in mere assersioni o negative di fatti
particolari. La terza conseguenza • che quando si provasse che l'atrocitƒ delle pene, se non
immediatamente opposta al ben pubblico ed al fine medesimo d'impedire i delitti, fosse
solamente inutile, anche in questo caso essa sarebbe non solo contraria a quelle virtŠ benefiche
che sono l'effetto d'una ragione illuminata che preferisce il comandare ad uomini felici piŠ che a
una greggia di schiavi, nella quale si faccia una perpetua circolazione di timida crudeltƒ, ma lo
sarebbe alla giustizia ed alla natura del contratto sociale medesimo.
Cap.4
INTERPETRAZIONE DELLE LEGGI
Quarta conseguenza. Nemmeno l'autoritƒ d'interpetrare le leggi penali pu„ risedere presso i
giudici criminali per la stessa ragione che non sono legislatori. I giudici non hanno ricevuto le
leggi dagli antichi nostri padri come una tradizione domestica ed un testamento che non lasciasse
ai posteri che la cura d'ubbidire, ma le ricevono dalla vivente societƒ, o dal sovrano
rappresentatore di essa, come legittimo depositario dell'attuale risultato della volontƒ di tutti; le
ricevono non come obbligazioni d'un antico giuramento, nullo, perch‡ legava volontƒ non
esistenti, iniquo, perch‡ riduceva gli uomini dallo stato di societƒ allo stato di mandra, ma come
effetti di un tacito o espresso giuramento, che le volontƒ riunite dei viventi sudditi hanno fatto al
sovrano, come vincoli necessari per frenare e reggere l'intestino fermento degl'interessi
particolari. Quest'• la fisica e reale autoritƒ delle leggi. Chi sarƒ dunque il legittimo interpetre
della legge? Il sovrano, cio• il depositario delle attuali volontƒ di tutti, o il giudice, il di cui
ufficio • solo l'esaminare se il tal uomo abbia fatto o no un'azione contraria alle leggi?
In ogni delitto si deve fare dal giudice un sillogismo perfetto: la maggiore dev'essere la legge
generale, la minore l'azione conforme o no alla legge, la conseguenza la libertƒ o la pena.
Quando il giudice sia costretto, o voglia fare anche soli due sillogismi, si apre la porta
all'incertezza.
Non v'• cosa piŠ pericolosa di quell'assioma comune che bisogna consultare lo spirito della
legge. Questo • un argine rotto al torrente delle opinioni. Questa veritƒ, che sembra un paradosso
alle menti volgari, piŠ percosse da un piccol disordine presente che dalle funeste ma rimote
conseguenze che nascono da un falso principio radicato in una nazione, mi sembra dimostrata.
Le nostre cognizioni e tutte le nostre idee hanno una reciproca connessione; quanto piŠ sono
complicate, tanto pi† fa numerose sono le strade che ad esse arrivano e partono. Ciascun uomo
ha il suo punto di vista, ciascun uomo in differenti tempi ne ha un diverso. Lo spirito della legge
sarebbe dunque il risultato di una buona o cattiva logica di un giudice, di una facile o malsana
digestione, dipenderebbe dalla violenza delle sue passioni, dalla debolezza di chi soffre, dalle
relazioni del giudice coll'offeso e da tutte quelle minime forze che cangiano le apparenze di ogni
oggetto nell'animo fluttuante dell'uomo. Quindi veggiamo la sorte di un cittadino cambiarsi
spesse volte nel passaggio che fa a diversi tribunali, e le vite de' miserabili essere la vittima dei
falsi raziocini o dell'attuale fermento degli umori d'un giudice, che prende per legittima
interpetrazione il vago risultato di tutta quella confusa serie di nozioni che gli muove la mente.
Quindi veggiamo gli stessi delitti dallo stesso tribunale puniti diversamente in diversi tempi, per
aver consultato non la costante e fissa voce della legge, ma l'errante instabilitƒ delle
interpetrazioni.
Un disordine che nasce dalla rigorosa osservanza della lettera di una legge penale non • da
mettersi in confronto coi disordini che nascono dalla interpetrazione. Un tal momentaneo
inconveniente spinge a fare la facile e necessaria correzione alle parole della legge, che sono la
cagione dell'incertezza, ma impedisce la fatale licenza di ragionare, da cui nascono le arbitrarie e
venali controversie. Quando un codice fisso di leggi, che si debbono osservare alla lettera, non
lascia al giudice altra incombenza che di esaminare le azioni de' cittadini, e giudicarle conformi o
difformi alla legge scritta, quando la norma del giusto e dell'ingiusto, che deve dirigere le azioni
s‹ del cittadino ignorante come del cittadino filosofo, non • un affare di controversia, ma di fatto,
allora i sudditi non sono soggetti alle piccole tirannie di molti, tanto piŠ crudeli quanto • minore
la distanza fra chi soffre e chi fa soffrire, piŠ fatali che quelle di un solo, perch‡ il dispotismo di
molti non • correggibile che dal dispotismo di un solo e la crudeltƒ di un dispotico •
proporzionata non alla forza, ma agli ostacoli. Cos‹ acquistano i cittadini quella sicurezza di loro
stessi che • giusta perch‡ • lo scopo per cui gli uomini stanno in societƒ, che • utile perch‡ gli
mette nel caso di esattamente calcolare gl'inconvenienti di un misfatto. Egli • vero altres‹ che
acquisteranno uno spirito d'indipendenza, ma non giƒ scuotitore delle leggi e ricalcitrante a'
supremi magistrati, bens‹ a quelli che hanno osato chiamare col sacro nome di virtŠ la debolezza
di cedere alle loro interessate o capricciose opinioni. Questi principii spiaceranno a coloro che si
sono fatto un diritto di trasmettere agl'inferiori i colpi della tirannia che hanno ricevuto dai
superiori. Dovrei tutto temere, se lo spirito di tirannia fosse componibile collo spirito di lettura.
Cap.5
OSCURITA` DELLE LEGGI
Se l'interpetrazione delle leggi • un male, egli • evidente esserne un altro l'oscuritƒ che strascina
seco necessariamente l'interpetrazione, e lo sarƒ grandissimo se le leggi sieno scritte in una
lingua straniera al popolo, che lo ponga nella dipendenza di alcuni pochi, non potendo giudicar
da se stesso qual sarebbe l'esito della sua libertƒ, o dei suoi membri, in una lingua che formi di un
libro solenne e pubblico un quasi privato e domestico. Che dovremo pensare degli uomini,
riflettendo esser questo l'inveterato costume di buona parte della colta ed illuminata Europa!
Quanto maggiore sarƒ il numero di quelli che intenderanno e avranno fralle mani il sacro codice
delle leggi, tanto men frequenti saranno i delitti, perch‡ non v'ha dubbio che l'ignoranza e
l'incertezza delle pene aiutino l'eloquenza delle passioni.
Una conseguenza di quest'ultime riflessioni • che senza la scrittura una societƒ non prenderƒ mai
una forma fissa di governo, in cui la forza sia un effetto del tutto e non delle parti e in cui le
leggi, inalterabili se non dalla volontƒ generale, non si corrompano passando per la folla
degl'interessi privati. L'esperienza e la ragione ci hanno fatto vedere che la probabilitƒ e la
certezza delle tradizioni umane si sminuiscono a misura che si allontanano dalla sorgente. Che se
non esiste uno stabile monumento del patto sociale, come resisteranno le leggi alla forza
inevitabile del tempo e delle passioni?
Da ci„ veggiamo quanto sia utile la stampa, che rende il pubblico, e non alcuni pochi, depositario
delle sante leggi, e quanto abbia dissipato quello spirito tenebroso di cabala e d'intrigo che
sparisce in faccia ai lumi ed alle scienze apparentemente disprezzate e realmente temute dai
seguaci di lui. Questa • la cagione, per cui veggiamo sminuita in Europa l'atrocitƒ de' delitti che
facevano gemere gli antichi nostri padri, i quali diventavano a vicenda tiranni e schiavi. Chi
conosce la storia di due o tre secoli fa, e la nostra, potrƒ vedere come dal seno del lusso e della
mollezza nacquero le piŠ dolci virtŠ, l'umanitƒ, la beneficenza, la tolleranza degli errori umani.
Vedrƒ quali furono gli effetti di quella che chiamasi a torto antica semplicitƒ e buona fede:
l'umanitƒ gemente sotto l'implacabile superstizione, l'avarizia, l'ambizione di pochi tinger di
sangue umano gli scrigni dell'oro e i troni dei re, gli occulti tradimenti, le pubbliche stragi, ogni
nobile tiranno della plebe, i ministri della veritƒ evangelica lordando di sangue le mani che ogni
giorno toccavano il Dio di mansuetudine, non sono l'opera di questo secolo illuminato, che
alcuni chiamano corrotto.
Cap.6
PROPORZIONE FRA I DELITTI E LE PENE
Non solamente • interesse comune che non si commettano delitti, ma che siano piŠ rari a
proporzione del male che arrecano alla societƒ. Dunque piŠ forti debbono essere gli ostacoli che
risospingono gli uomini dai delitti a misura che sono contrari al ben pubblico, ed a misura delle
spinte che gli portano ai delitti. Dunque vi deve essere una proporzione fra i delitti e le pene.
‰ impossibile di prevenire tutti i disordini nell'universal combattimento delle passioni umane.
Essi crescono in ragione composta della popolazione e dell'incrocicchiamento degl'interessi
particolari che non • possibile dirigere geometricamente alla pubblica utilitƒ. All'esattezza
matematica bisogna sostituire nell'aritmetica politica il calcolo delle probabilitƒ. Si getti uno
sguardo sulle storie e si vedranno crescere i disordini coi confini degl'imperi, e, scemando
nell'istessa proporzione il sentimento nazionale, la spinta verso i delitti cresce in ragione
dell'interesse che ciascuno prende ai disordini medesimi: perci„ la necessitƒ di aggravare le pene
si va per questo motivo sempre piŠ aumentando.
Quella forza simile alla gravitƒ, che ci spinge al nostro ben essere, non si trattiene che a misura
degli ostacoli che gli sono opposti. Gli effetti di questa forza sono la confusa serie delle azioni
umane: se queste si urtano scambievolmente e si offendono, le pene, che io chiamerei ostacoli
politici, ne impediscono il cattivo effetto senza distruggere la causa impellente, che • la
sensibilitƒ medesima inseparabile dall'uomo, e il legislatore fa come l'abile architetto di cui
l'officio • di opporsi alle direzioni rovinose della gravitƒ e di far conspirare quelle che
contribuiscono alla forza dell'edificio.
Data la necessitƒ della riunione degli uomini, dati i patti, che necessariamente risultano dalla
opposizione medesima degl'interessi privati, trovasi una scala di disordini, dei quali il primo
grado consiste in quelli che distruggono immediatamente la societƒ, e l'ultimo nella minima
ingiustizia possibile fatta ai privati membri di essa. Tra questi estremi sono comprese tutte le
azioni opposte al ben pubblico, che chiamansi delitti, e tutte vanno, per gradi insensibili,
decrescendo dal piŠ sublime al piŠ infimo. Se la geometria fosse adattabile alle infinite ed oscure
combinazioni delle azioni umane, vi dovrebbe essere una scala corrispondente di pene, che
discendesse dalla piŠ forte alla piŠ debole: ma basterƒ al saggio legislatore di segnarne i punti
principali, senza turbar l'ordine, non decretando ai delitti del primo grado le pene dell'ultimo. Se
vi fosse una scala esatta ed universale delle pene e dei delitti, avremmo una probabile e comune
misura dei gradi di tirannia e di libertƒ, del fondo di umanitƒ o di malizia delle diverse nazioni.
Qualunque azione non compresa tra i due sovraccennati limiti non pu„ essere chiamata delitto, o
punita come tale, se non da coloro che vi trovano il loro interesse nel cos‹ chiamarla. La
incertezza di questi limiti ha prodotta nelle nazioni una morale che contradice alla legislazione;
piŠ attuali legislazioni che si escludono scambievolmente; una moltitudine di leggi che
espongono il piŠ saggio alle pene piŠ rigorose, e per„ resi vaghi e fluttuanti i nomi di vizio e di
virt•, e per„ nata l'incertezza della propria esistenza, che produce il letargo ed il sonno fatale nei
corpi politici. Chiunque leggerƒ con occhio filosofico i codici delle nazioni e i loro annali,
troverƒ quasi sempre i nomi di vizio e di virt•, di buon cittadino o di reo cangiarsi colle
rivoluzioni dei secoli, non in ragione delle mutazioni che accadono nelle circostanze dei paesi, e
per conseguenza sempre conformi all'interesse comune, ma in ragione delle passioni e degli
errori che successivamente agitarono i differenti legislatori. Vedrƒ bene spesso che le passioni di
un secolo sono la base della morale dei secoli futuri, che le passioni forti, figlie del fanatismo e
dell'entusiasmo, indebolite e rose, dir„ cos‹, dal tempo, che riduce tutti i fenomeni fisici e morali
all'equilibrio, diventano a poco a poco la prudenza del secolo e lo strumento utile in mano del
forte e dell'accorto. In questo modo nacquero le oscurissime nozioni di onore e di virtŠ, e tali
sono perch‡ si cambiano colle rivoluzioni del tempo che fa sopravvivere i nomi alle cose, si
cambiano coi fiumi e colle montagne che sono bene spesso i confini, non solo della fisica, ma
della morale geografia.
Se il piacere e il dolore sono i motori degli esseri sensibili, se tra i motivi che spingono gli
uomini anche alle piŠ sublimi operazioni, furono destinati dall'invisibile legislatore il premio e la
pena, dalla inesatta distribuzione di queste ne nascerƒ quella tanto meno osservata contradizione,
quanto piŠ comune, che le pene puniscano i delitti che hanno fatto nascere. Se una pena uguale •
destinata a due delitti che disugualmente offendono la societƒ, gli uomini non troveranno un piŠ
forte ostacolo per commettere il maggior delitto, se con esso vi trovino unito un maggior
vantaggio.
Cap.7
ERRORI NELLA MISURA DELLE PENE
Le precedenti riflessioni mi danno il diritto di asserire che l'unica e vera misura dei delitti • il
danno fatto alla nazione, e per„ errarono coloro che credettero vera misura dei delitti l'intenzione
di chi gli commette. Questa dipende dalla impressione attuale degli oggetti e dalla precedente
disposizione della mente: esse variano in tutti gli uomini e in ciascun uomo, colla velocissima
successione delle idee, delle passioni e delle circostanze. Sarebbe dunque necessario formare non
solo un codice particolare per ciascun cittadino, ma una nuova legge ad ogni delitto. Qualche
volta gli uomini colla migliore intenzione fanno il maggior male alla societƒ; e alcune altre volte
colla piŠ cattiva volontƒ ne fanno il maggior bene.
Altri misurano i delitti piŠ dalla dignitƒ della persona offesa che dalla loro importanza riguardo
al ben pubblico. Se questa fosse la vera misura dei delitti, una irriverenza all'Essere degli esseri
dovrebbe piŠ atrocemente punirsi che l'assassinio d'un monarca, la superioritƒ della natura
essendo un infinito compenso alla differenza dell'offesa.
Finalmente alcuni pensarono che la gravezza del peccato entrasse nella misura dei delitti. La
fallacia di questa opinione risalterƒ agli occhi d'un indifferente esaminatore dei veri rapporti tra
uomini e uomini, e tra uomini e Dio. I primi sono rapporti di uguaglianza. La sola necessitƒ ha
fatto nascere dall'urto delle passioni e dalle opposizioni degl'interessi l'idea della utilit€ comune,
che • la base della giustizia umana; i secondi sono rapporti di dipendenza da un Essere perfetto e
creatore, che si • riserbato a s‡ solo il diritto di essere legislatore e giudice nel medesimo tempo,
perch‡ egli solo pu„ esserlo senza inconveniente. Se ha stabilito pene eterne a chi disobbedisce
alla sua onnipotenza, qual sarƒ l'insetto che oserƒ supplire alla divina giustizia, che vorrƒ
vendicare l'Essere che basta a se stesso, che non pu„ ricevere dagli oggetti impressione alcuna di
piacere o di dolore, e che solo tra tutti gli esseri agisce senza reazione? La gravezza del peccato
dipende dalla imperscrutabile malizia del cuore. Questa da esseri finiti non pu„ senza rivelazione
sapersi. Come dunque da questa si prenderƒ norma per punire i delitti? Potrebbono in questo
caso gli uomini punire quando Iddio perdona, e perdonare quando Iddio punisce. Se gli uomini
possono essere in contradizione coll'Onnipossente nell'offenderlo, possono anche esserlo col
punire.
Cap.8
DIVISIONE DEI DELITTI
Abbiamo veduto qual sia la vera misura dei delitti, cio• il danno della societ€. Questa • una di
quelle palpabili veritƒ che, quantunque non abbian bisogno n‡ di quadranti, n‡ di telescopi per
essere scoperte, ma sieno alla portata di ciascun mediocre intelletto, pure per una maravigliosa
combinazione di circostanze non sono con decisa sicurezza conosciute che da alcuni pochi
pensatori, uomini d'ogni nazione e d'ogni secolo. Ma le opinioni asiatiche, ma le passioni vestite
d'autoritƒ e di potere hanno, la maggior parte delle volte per insensibili spinte, alcune poche per
violente impressioni sulla timida credulitƒ degli uomini, dissipate le semplici nozioni, che forse
formavano la prima filosofia delle nascenti societƒ ed a cui la luce di questo secolo sembra che ci
riconduca, con quella maggior fermezza per„ che pu„ essere somministrata da un esame
geometrico, da mille funeste sperienze e dagli ostacoli medesimi. Or l'ordine ci condurrebbe ad
esaminare e distinguere tutte le differenti sorte di delitti e la maniera di punirgli, se la variabile
natura di essi per le diverse circostanze dei secoli e dei luoghi non ci obbligasse ad un dettaglio
immenso e noioso. Mi basterƒ indicare i principii piŠ generali e gli errori piŠ funesti e comuni
per disingannare s‹ quelli che per un mal inteso amore di libertƒ vorrebbono introdurre l'anarchia,
come coloro che amerebbero ridurre gli uomini ad una claustrale regolaritƒ.
Alcuni delitti distruggono immediatamente la societƒ, o chi la rappresenta; alcuni offendono la
privata sicurezza di un cittadino nella vita, nei beni, o nell'onore; alcuni altri sono azioni
contrarie a ci„ che ciascuno • obbligato dalle leggi di fare, o non fare, in vista del ben pubblico. I
primi, che sono i massimi delitti, perch‡ piŠ dannosi, son quelli che chiamansi di lesa maestƒ. La
sola tirannia e l'ignoranza, che confondono i vocaboli e le idee piŠ chiare, possono dar questo
nome, e per conseguenza la massima pena, a' delitti di differente natura, e rendere cos‹ gli
uomini, come in mille altre occasioni, vittime di una parola. Ogni delitto, bench‡ privato, offende
la societƒ, ma ogni delitto non ne tenta la immediata distruzione. Le azioni morali, come le
fisiche, hanno la loro sfera limitata di attivitƒ e sono diversamente circonscritte, come tutti i
movimenti di natura, dal tempo e dallo spazio; e per„ la sola cavillosa interpetrazione, che • per
l'ordinario la filosofia della schiavit†, pu„ confondere ci„ che dall'eterna veritƒ fu con immutabili
rapporti distinto.
Dopo questi seguono i delitti contrari alla sicurezza di ciascun particolare. Essendo questo il fine
primario di ogni legittima associazione, non pu„ non assegnarsi alla violazione del dritto di
sicurezza acquistato da ogni cittadino alcuna delle pene piŠ considerabili stabilita dalle leggi.
L'opinione che ciaschedun cittadino deve avere di poter fare tutto ci„ che non • contrario alle
leggi senza temerne altro inconveniente che quello che pu„ nascere dall'azione medesima, questo
• il dogma politico che dovrebb'essere dai popoli creduto e dai supremi magistrati colla
incorrotta custodia delle leggi predicato; sacro dogma, senza di cui non vi pu„ essere legittima
societƒ, giusta ricompensa del sacrificio fatto dagli uomini di quell'azione universale su tutte le
cose che • comune ad ogni essere sensibile, e limitata soltanto dalle proprie forze. Questo forma
le libere anime e vigorose e le menti rischiaratrici, rende gli uomini virtuosi, ma di quella virtŠ
che sa resistere al timore, e non di quella pieghevole prudenza, degna solo di chi pu„ soffrire
un'esistenza precaria ed incerta. Gli attentati dunque contro la sicurezza e libertƒ dei cittadini
sono uno de' maggiori delitti, e sotto questa classe cadono non solo gli assassinii e i furti degli
uomini plebei, ma quelli ancora dei grandi e dei magistrati, l'influenza dei quali agisce ad una
maggior distanza e con maggior vigore, distruggendo nei sudditi le idee di giustizia e di dovere,
e sostituendo quella del diritto del piŠ forte, pericoloso del pari in chi lo esercita e in chi lo
soffre.
Cap.9
DELL'ONORE
V'• una contradizione rimarcabile fralle leggi civili, gelose custodi piŠ d'ogni altra cosa del corpo
e dei beni di ciascun cittadino, e le leggi di ci„ che chiamasi onore, che vi preferisce l'opinione.
Questa parola onore • una di quelle che ha servito di base a lunghi e brillanti ragionamenti, senza
attaccarvi veruna idea fissa e stabile. Misera condizione delle menti umane che le lontanissime e
meno importanti idee delle rivoluzioni dei corpi celesti sieno con piŠ distinta cognizione presenti
che le vicine ed importantissime nozioni morali, fluttuanti sempre e confuse secondo che i venti
delle passioni le sospingono e l'ignoranza guidata le riceve e le trasmette! Ma sparirƒ l'apparente
paradosso se si consideri che come gli oggetti troppo vicini agli occhi si confondono, cos‹ la
troppa vicinanza delle idee morali fa che facilmente si rimescolino le moltissime idee semplici
che le compongono, e ne confondano le linee di separazione necessarie allo spirito geometrico
che vuol misurare i fenomeni della umana sensibilitÄE0…. E scemerƒ del tutto la maraviglia
nell'indifferente indagatore delle cose umane, che sospetterƒ non esservi per avventura bisogno
di tanto apparato di morale, n‡ di tanti legami per render gli uomini felici e sicuri.
Quest'onore dunque • una di quelle idee complesse che sono un aggregato non solo d'idee
semplici, ma d'idee parimente complicate, che nel vario affacciarsi alla mente ora ammettono ed
ora escludono alcuni de' diversi elementi che le compongono; n‡ conservano che alcune poche
idee comuni, come piŠ quantitƒ complesse algebraiche ammettono un comune divisore. Per
trovar questo comune divisore nelle varie idee che gli uomini si formano dell'onore • necessario
gettar rapidamente un colpo d'occhio sulla formazione delle societƒ. Le prime leggi e i primi
magistrati nacquero dalla necessitƒ di riparare ai disordini del fisico dispotismo di ciascun uomo;
questo fu il fine institutore della societƒ, e questo fine primario si • sempre conservato, realmente
o in apparenza, alla testa di tutti i codici, anche distruttori; ma l'avvicinamento degli uomini e il
progresso delle loro cognizioni hanno fatto nascere una infinita serie di azioni e di bisogni
vicendevoli gli uni verso gli altri, sempre superiori alla providenza delle leggi ed inferiori
all'attuale potere di ciascuno. Da quest'epoca cominci„ il dispotismo della opinione, che era
l'unico mezzo di ottenere dagli altri quei beni, e di allontanarne quei mali, ai quali le leggi non
erano sufficienti a provvedere. E l'opinione • quella che tormenta il saggio ed il volgare, che ha
messo in credito l'apparenza della virtŠ al di sopra della virtŠ stessa, che fa diventar missionario
anche lo scellerato, perch‡ vi trova il proprio interesse. Quindi i suffragi degli uomini divennero
non solo utili, ma necessari, per non cadere al disotto del comune livello. Quindi se l'ambizioso
gli conquista come utili, se il vano va mendicandoli come testimoni del proprio merito, si vede
l'uomo d'onore esigerli come necessari. Quest'onore • una condizione che moltissimi uomini
mettono alla propria esistenza. Nato dopo la formazione della societƒ, non pot‡ esser messo nel
comune deposito, anzi • un instantaneo ritorno nello stato naturale e una sottrazione momentanea
della propria persona da quelle leggi che in quel caso non difendono bastantemente un cittadino.
Quindi e nell'estrema libertƒ politica e nella estrema dipendenza spariscono le idee dell'onore, o
si confondono perfettamente con altre: perch‡ nella prima il dispotismo delle leggi rende inutile
la ricerca degli altrui suffragi; nella seconda, perch‡ il dispotismo degli uomini, annullando
l'esistenza civile, gli riduce ad una precaria e momentanea personalitƒ. L'onore • dunque uno dei
principii fondamentali di quelle monarchie che sono un dispotismo sminuito, e in esse sono
quello che negli stati dispotici le rivoluzioni, un momento di ritorno nello stato di natura, ed un
ricordo al padrone dell'antica uguaglianza.
Cap.10
DEI DUELLI
Da questa necessitƒ degli altrui suffragi nacquero i duelli privati, ch'ebbero appunto la loro
origine nell'anarchia delle leggi. Si pretendono sconosciuti all'antichitƒ, forse perch‡ gli antichi
non si radunavano sospettosamente armati nei tempii, nei teatri e cogli amici; forse perch‡ il
duello era uno spettacolo ordinario e comune che i gladiatori schiavi ed avviliti davano al
popolo, e gli uomini liberi sdegnavano d'esser creduti e chiamati gladiatori coi privati
combattimenti. Invano gli editti di morte contro chiunque accetta un duello hanno cercato
estirpare questo costume, che ha il suo fondamento in ci„ che alcuni uomini temono piŠ che la
morte, poich‡ privandolo degli altrui suffragi, l'uomo d'onore si prevede esposto o a divenire un
essere meramente solitario, stato insoffribile ad un uomo socievole, ovvero a divenire il bersaglio
degl'insulti e dell'infamia, che colla ripetuta loro azione prevalgono al pericolo della pena. Per
qual motivo il minuto popolo non duella per lo piŠ come i grandi? Non solo perch‡ • disarmato,
ma perch‡ la necessitƒ degli altrui suffragi • meno comune nella plebe che in coloro che, essendo
piŠ elevati, si guardano con maggior sospetto e gelosia.
Non • inutile il ripetere ci„ che altri hanno scritto, cio• che il miglior metodo di prevenire questo
delitto • di punire l'aggressore, cio• chi ha dato occasione al duello, dichiarando innocente chi
senza sua colpa • stato costretto a difendere ci„ che le leggi attuali non assicurano, cio•
l'opinione, ed ha dovuto mostrare a' suoi concittadini ch'egli teme le sole leggi e non gli uomini.
Cap.11
DELLA TRANQUILLITA' PUBBLICA
Finalmente, tra i delitti della terza specie sono particolarmente quelli che turbano la pubblica
tranquillitƒ e la quiete de' cittadini, come gli strepiti e i bagordi nelle pubbliche vie destinate al
commercio ed al passeggio de' cittadini, come i fanatici sermoni, che eccitano le facili passioni
della curiosa moltitudine, le quali prendono forza dalla frequenza degli uditori e piŠ dall'oscuro e
misterioso entusiasmo che dalla chiara e tranquilla ragione, la quale mai non opera sopra una
gran massa d'uomini.
La notte illuminata a pubbliche spese, le guardie distribuite ne' differenti quartieri della cittƒ, i
semplici e morali discorsi della religione riserbati al silenzio ed alla sacra tranquillitƒ dei tempii
protetti dall'autoritƒ pubblica, le arringhe destinate a sostenere gl'interessi privati e pubblici nelle
adunanze della nazione, nei parlamenti o dove risieda la maestƒ del sovrano, sono tutti mezzi
efficaci per prevenire il pericoloso addensamento delle popolari passioni. Questi formano un
ramo principale della vigilanza del magistrato, che i francesi chiamano della police; ma se questo
magistrato operasse con leggi arbitrarie e non istabilite da un codice che giri fralle mani di tutti i
cittadini, si apre una porta alla tirannia, che sempre circonda tutti i confini della libertƒ politica.
Io non trovo eccezione alcuna a quest'assioma generale, che ogni cittadino deve sapere quando
sia reo o quando sia innocente. Se i censori, e in genere i magistrati arbitrari, sono necessari in
qualche governo, ci„ nasce dalla debolezza della sua costituzione, e non dalla natura di governo
bene organizzato. L'incertezza della propria sorte ha sacrificate piŠ vittime all'oscura tirannia che
non la pubblica e solenne crudeltƒ. Essa rivolta gli animi piŠ che non gli avvilisce. Il vero tiranno
comincia sempre dal regnare sull'opinione, che previene il coraggio, il quale solo pu„ risplendere
o nella chiara luce della veritƒ, o nel fuoco delle passioni, o nell'ignoranza del pericolo.
Ma quali saranno le pene convenienti a questi delitti? La morte • ella una pena veramente utile e
necessaria per la sicurezza e pel buon ordine della societƒ? La tortura e i tormenti sono eglino
giusti, e ottengon eglino il fine che si propongono le leggi? Qual • la miglior maniera di
prevenire i delitti? Le medesime pene sono elleno egualmente utili in tutt'i tempi? Qual influenza
hanno esse su i costumi? Questi problemi meritano di essere sciolti con quella precisione
geometrica a cui la nebbia dei sofismi, la seduttrice eloquenza ed il timido dubbio non posson
resistere. Se io non avessi altro merito che quello di aver presentato il primo all'Italia con qualche
maggior evidenza ci„ che altre nazioni hanno osato scrivere e cominciano a praticare, io mi
stimerei fortunato; ma se sostenendo i diritti degli uomini e dell'invincibile veritƒ contribuissi a
strappare dagli spasimi e dalle angosce della morte qualche vittima sfortunata della tirannia o
dell'ignoranza, ugualmente fatale, le benedizioni e le lagrime anche d'un solo innocente nei
trasporti della gioia mi consolerebbero dal disprezzo degli uomini.
Cap.12
FINE DELLE PENE
Dalla semplice considerazione delle veritƒ fin qui esposte egli • evidente che il fine delle pene
non • di tormentare ed affliggere un essere sensibile, n‡ di disfare un delitto giƒ commesso. Pu„
egli in un corpo politico, che, ben lungi di agire per passione, • il tranquillo moderatore delle
passioni particolari, pu„ egli albergare questa inutile crudeltƒ stromento del furore e del
fanatismo o dei deboli tiranni? Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo che non
ritorna le azioni giƒ consumate? Il fine dunque non • altro che d'impedire il reo dal far nuovi
danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque e quel metodo
d'infliggerle deve esser prescelto che, serbata la proporzione, farƒ una impressione piŠ efficace e
piŠ durevole sugli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo.
Cap.13
DEI TESTIMONI
Egli • un punto considerabile in ogni buona legislazione il determinare esattamente la credibilitƒ
dei testimoni e le prove del reato. Ogni uomo ragionevole, cio• che abbia una certa connessione
nelle proprie idee e le di cui sensazioni sieno conformi a quelle degli altri uomini, pu„ essere
testimonio. La vera misura della di lui credibilitƒ non • che l'interesse ch'egli ha di dire o non
dire il vero, onde appare frivolo il motivo della debolezza nelle donne, puerile l'applicazione
degli effetti della morte reale alla civile nei condannati, ed incoerente la nota d'infamia
negl'infami quando non abbiano alcun interesse di mentire. La credibilitƒ dunque deve sminuirsi
a proporzione dell'odio, o dell'amicizia, o delle strette relazioni che passano tra lui e il reo. PiŠ
d'un testimonio • necessario, perch‡ fintanto che uno asserisce e l'altro nega niente v'• di certo e
prevale il diritto che ciascuno ha d'essere creduto innocente. La credibilitƒ di un testimonio
diviene tanto sensibilmente minore quanto piŠ cresce l'atrocitƒ di un delitto o l'inverisimiglianza
delle circostanze; tali sono per esempio la magia e le azioni gratuitamente crudeli. Egli • piŠ
probabile che piŠ uomini mentiscano nella prima accusa, perch‡ • piŠ facile che si combini in
piŠ uomini o l'illusione dell'ignoranza o l'odio persecutore di quello che un uomo eserciti una
potestƒ che Dio o non ha dato, o ha tolto ad ogni essere creato. Parimente nella seconda, perch‡
l'uomo non • crudele che a proporzione del proprio interesse, dell'odio o del timore concepito.
Non v'• propriamente alcun sentimento superfluo nell'uomo; egli • sempre proporzionale al
risultato delle impressioni fatte su i sensi. Parimente la credibilitƒ di un testimonio pu„ essere
alcuna volta sminuita, quand'egli sia membro d'alcuna societƒ privata di cui gli usi e le massime
siano o non ben conosciute o diverse dalle pubbliche. Un tal uomo ha non solo le proprie, ma le
altrui passioni.
Finalmente • quasi nulla la credibilitƒ del testimonio quando si faccia delle parole un delitto,
poich‡ il tuono, il gesto, tutto ci„ che precede e ci„ che siegue le differenti idee che gli uomini
attaccano alle stesse parole, alterano e modificano in maniera i detti di un uomo che • quasi
impossibile il ripeterle quali precisamente furon dette. Di piŠ, le azioni violenti e fuori dell'uso
ordinario, quali sono i veri delitti, lascian traccia di s‡ nella moltitudine delle circostanze e negli
effetti che ne derivano, ma le parole non rimangono che nella memoria per lo piŠ infedele e
spesso sedotta degli ascoltanti. Egli • adunque di gran lunga piŠ facile una calunnia sulle parole
che sulle azioni di un uomo, poich‡ di queste, quanto maggior numero di circostanze si adducono
in prova, tanto maggiori mezzi si somministrano al reo per giustificarsi.
Cap.14
INDIZI, E FORME DI GIUDIZI
Vi • un teorema generale molto utile a calcolare la certezza di un fatto, per esempio la forza
degl'indizi di un reato. Quando le prove di un fatto sono dipendenti l'una dall'altra, cio• quando
gl'indizi non si provano che tra di loro, quanto maggiori prove si adducono tanto • minore la
probabilitƒ del fatto, perch‡ i casi che farebbero mancare le prove antecedenti fanno mancare le
susseguenti. Quando le prove di un fatto tutte dipendono egualmente da una sola, il numero delle
prove non aumenta n‡ sminuisce la probabilitƒ del fatto, perch‡ tutto il loro valore si risolve nel
valore di quella sola da cui dipendono. Quando le prove sono indipendenti l'una dall'altra, cio•
quando gli indizi si provano d'altronde che da se stessi, quanto maggiori prove si adducono, tanto
piŠ cresce la probabilitƒ del fatto, perch‡ la fallacia di una prova non influisce sull'altra. Io parlo
di probabilitƒ in materia di delitti, che per meritar pena debbono esser certi. Ma svanirƒ il
paradosso per chi considera che rigorosamente la certezza morale non • che una probabilitƒ, ma
probabilitƒ tale che • chiamata certezza, perch‡ ogni uomo di buon senso vi acconsente
necessariamente per una consuetudine nata dalla necessitƒ di agire, ed anteriore ad ogni
speculazione; la certezza che si richiede per accertare un uomo reo • dunque quella che
determina ogni uomo nelle operazioni piŠ importanti della vita. Possono distinguersi le prove di
un reato in perfette ed in imperfette. Chiamo perfette quelle che escludono la possibilitƒ che un
tale non sia reo, chiamo imperfette quelle che non la escludono. Delle prime anche una sola •
sufficiente per la condanna, delle seconde tante son necessarie quante bastino a formarne una
perfetta, vale a dire che se per ciascuna di queste in particolare • possibile che uno non sia reo,
per l'unione loro nel medesimo soggetto • impossibile che non lo sia. Notisi che le prove
imperfette delle quali pu„ il reo giustificarsi e non lo faccia a dovere divengono perfette. Ma
questa morale certezza di prove • piŠ facile il sentirla che l'esattamente definirla. Perci„ io credo
ottima legge quella che stabilisce assessori al giudice principale presi dalla sorte, e non dalla
scelta, perch‡ in questo caso • piŠ sicura l'ignoranza che giudica per sentimento che la scienza
che giudica per opinione. Dove le leggi siano chiare e precise l'officio di un giudice non consiste
in altro che di accertare un fatto. Se nel cercare le prove di un delitto richiedesi abilitƒ e
destrezza, se nel presentarne il risultato • necessario chiarezza e precisione, per giudicarne dal
risultato medesimo non vi si richiede che un semplice ed ordinario buon senso, meno fallace che
il sapere di un giudice assuefatto a voler trovar rei e che tutto riduce ad un sistema fattizio
imprestato da' suoi studi. Felice quella nazione dove le leggi non fossero una scienza! Ella •
utilissima legge quella che ogni uomo sia giudicato dai suoi pari, perch‡, dove si tratta della
libertƒ e della fortuna di un cittadino, debbono tacere quei sentimenti che inspira la
disuguaglianza; e quella superioritƒ con cui l'uomo fortunato guarda l'infelice, e quello sdegno
con cui l'inferiore guarda il superiore, non possono agire in questo giudizio. Ma quando il delitto
sia un'offesa di un terzo, allora i giudici dovrebbono essere metƒ pari del reo, metƒ pari
dell'offeso; cos‹, essendo bilanciato ogni interesse privato che modifica anche involontariamente
le apparenze degli oggetti, non parlano che le leggi e la veritƒ. Egli • ancora conforme alla
giustizia che il reo escluder possa fino ad un certo segno coloro che gli sono sospetti; e ci„
concessoli senza contrasto per alcun tempo, sembrerƒ quasi che il reo si condanni da se stesso.
Pubblici siano i giudizi, e pubbliche le prove del reato, perch‡ l'opinione, che • forse il solo
cemento delle societƒ, imponga un freno alla forza ed alle passioni, perch‡ il popolo dica noi non
siamo schiavi e siamo difesi, sentimento che inspira coraggio e che equivale ad un tributo per un
sovrano che intende i suoi veri interessi. Io non accenner„ altri dettagli e cautele che richiedono
simili instituzioni. Niente avrei detto, se fosse necessario dir tutto.
Cap.15
ACCUSE SEGRETE
Evidenti, ma consagrati disordini, e in molte nazioni resi necessari per la debolezza della
constituzione, sono le accuse segrete. Un tal costume rende gli uomini falsi e coperti. Chiunque
pu„ sospettare di vedere in altrui un delatore, vi vede un inimico. Gli uomini allora si avvezzano
a mascherare i propri sentimenti, e, coll'uso di nascondergli altrui, arrivano finalmente a
nascondergli a loro medesimi. Infelici gli uomini quando son giunti a questo segno: senza
principii chiari ed immobili che gli guidino, errano smarriti e fluttuanti nel vasto mare delle
opinioni, sempre occupati a salvarsi dai mostri che gli minacciano; passano il momento presente
sempre amareggiato dalla incertezza del futuro; privi dei durevoli piaceri della tranquillitƒ e
sicurezza, appena alcuni pochi di essi sparsi qua e lƒ nella trista loro vita, con fretta e con
disordine divorati, gli consolano d'esser vissuti. E di questi uomini faremo noi gl'intrepidi soldati
difensori della patria o del trono? E tra questi troveremo gl'incorrotti magistrati che con libera e
patriottica eloquenza sostengano e sviluppino i veri interessi del sovrano, che portino al trono coi
tributi l'amore e le benedizioni di tutti i ceti d'uomini, e da questo rendano ai palagi ed alle
capanne la pace, la sicurezza e l'industriosa speranza di migliorare la sorte, utile fermento e vita
degli stati?
Chi pu„ difendersi dalla calunnia quand'ella • armata dal piŠ forte scudo della tirannia, il
segreto? Qual sorta di governo • mai quella ove chi regge sospetta in ogni suo suddito un nemico
ed • costretto per il pubblico riposo di toglierlo a ciascuno?
Quali sono i motivi con cui si giustificano le accuse e le pene segrete? La salute pubblica, la
sicurezza e il mantenimento della forma di governo? Ma quale strana costituzione, dove chi ha
per s‡ la forza, e l'opinione piŠ efficace di essa, teme d'ogni cittadino? L'indennitƒ
dell'accusatore? Le leggi dunque non lo difendono abbastanza. E vi saranno dei sudditi piŠ forti
del sovrano! L'infamia del delatore? Dunque si autorizza la calunnia segreta e si punisce la
pubblica! La natura del delitto? Se le azioni indifferenti, se anche le utili al pubblico si chiamano
delitti, le accuse e i giudizi non sono mai abbastanza segreti. Vi possono essere delitti, cio•
pubbliche offese, e che nel medesimo tempo non sia interesse di tutti la pubblicitƒ dell'esempio,
cio• quella del giudizio? Io rispetto ogni governo, e non parlo di alcuno in particolare; tale •
qualche volta la natura delle circostanze che pu„ credersi l'estrema rovina il togliere un male
allora quando ei sia inerente al sistema di una nazione; ma se avessi a dettar nuove leggi, in
qualche angolo abbandonato dell'universo, prima di autorizzare un tale costume, la mano mi
tremerebbe, e avrei tutta la posteritƒ dinanzi agli occhi.
‰ giƒ stato detto dal Signor di Montesquieu che le pubbliche accuse sono piŠ conformi alla
repubblica, dove il pubblico bene formar dovrebbe la prima passione de' cittadini, che nella
monarchia, dove questo sentimento • debolissimo per la natura medesima del governo, dove •
ottimo stabilimento il destinare de' commissari, che in nome pubblico accusino gl'infrattori delle
leggi. Ma ogni governo, e repubblicano e monarchico, deve al calunniatore dare la pena che
toccherebbe all'accusato.
Cap.16
DELLA TORTURA
Una crudeltƒ consacrata dall'uso nella maggior parte delle nazioni • la tortura del reo mentre si
forma il processo, o per constringerlo a confessare un delitto, o per le contradizioni nelle quali
incorre, o per la scoperta dei complici, o per non so quale metafisica ed incomprensibile
purgazione d'infamia, o finalmente per altri delitti di cui potrebbe esser reo, ma dei quali non •
accusato.
Un uomo non pu„ chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, n‡ la societƒ pu„ toglierli la
pubblica protezione, se non quando sia deciso ch'egli abbia violati i patti coi quali le fu
accordata. Quale • dunque quel diritto, se non quello della forza, che dia la podestƒ ad un giudice
di dare una pena ad un cittadino, mentre si dubita se sia reo o innocente? Non • nuovo questo
dilemma: o il delitto • certo o incerto; se certo, non gli conviene altra pena che la stabilita dalle
leggi, ed inutili sono i tormenti, perch‡ inutile • la confessione del reo; se • incerto, e' non devesi
tormentare un innocente, perch‡ tale • secondo le leggi un uomo i di cui delitti non sono provati.
Ma io aggiungo di piŠ, ch'egli • un voler confondere tutt'i rapporti l'esigere che un uomo sia
nello stesso tempo accusatore ed accusato, che il dolore divenga il crociuolo della veritƒ, quasi
che il criterio di essa risieda nei muscoli e nelle fibre di un miserabile. Questo • il mezzo sicuro
di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti. Ecco i fatali inconvenienti di
questo preteso criterio di veritƒ, ma criterio degno di un cannibale, che i Romani, barbari
anch'essi per piŠ d'un titolo, riserbavano ai soli schiavi, vittime di una feroce e troppo lodata
virtŠ.
Qual • il fine politico delle pene? Il terrore degli altri uomini. Ma qual giudizio dovremo noi dare
delle segrete e private carnificine, che la tirannia dell'uso esercita su i rei e sugl'innocenti? Egli •
importante che ogni delitto palese non sia impunito, ma • inutile che si accerti chi abbia
commesso un delitto, che sta sepolto nelle tenebre. Un male giƒ fatto, ed a cui non v'• rimedio,
non pu„ esser punito dalla societƒ politica che quando influisce sugli altri colla lusinga
dell'impunitƒ. S'egli • vero che sia maggiore il numero degli uomini che o per timore, o per virtŠ,
rispettano le leggi che di quelli che le infrangono, il rischio di tormentare un innocente deve
valutarsi tanto di piŠ, quanto • maggiore la probabilitƒ che un uomo a dati uguali le abbia
piuttosto rispettate che disprezzate.
Un altro ridicolo motivo della tortura • la purgazione dell'infamia, cio• un uomo giudicato
infame dalle leggi deve confermare la sua deposizione collo slogamento delle sue ossa.
Quest'abuso non dovrebbe esser tollerato nel decimottavo secolo. Si crede che il dolore, che •
una sensazione, purghi l'infamia, che • un mero rapporto morale. ‰ egli forse un crociuolo? E
l'infamia • forse un corpo misto impuro? Non • difficile il rimontare all'origine di questa ridicola
legge, perch‡ gli assurdi stessi che sono da una nazione intera adottati hanno sempre qualche
relazione ad altre idee comuni e rispettate dalla nazione medesima. Sembra quest'uso preso dalle
idee religiose e spirituali, che hanno tanta influenza su i pensieri degli uomini, su le nazioni e su i
secoli. Un dogma infallibile ci assicura che le macchie contratte dall'umana debolezza e che non
hanno meritata l'ira eterna del grand'Essere, debbono da un fuoco incomprensibile esser purgate;
ora l'infamia • una macchia civile, e come il dolore ed il fuoco tolgono le macchie spirituali ed
incorporee, perch‡ gli spasimi della tortura non toglieranno la macchia civile che • l'infamia? Io
credo che la confessione del reo, che in alcuni tribunali si esige come essenziale alla condanna,
abbia una origine non dissimile, perch‡ nel misterioso tribunale di penitenza la confessione dei
peccati • parte essenziale del sagramento. Ecco come gli uomini abusano dei lumi piŠ sicuri
della rivelazione; e siccome questi sono i soli che sussistono nei tempi d'ignoranza, cos‹ ad essi
ricorre la docile umanitƒ in tutte le occasioni e ne fa le piŠ assurde e lontane applicazioni. Ma
l'infamia • un sentimento non soggetto n‡ alle leggi n‡ alla ragione, ma alla opinione comune. La
tortura medesima cagiona una reale infamia a chi ne • la vittima. Dunque con questo metodo si
toglierƒ l'infamia dando l'infamia.
Il terzo motivo • la tortura che si dƒ ai supposti rei quando nel loro esame cadono in
contradizione, quasi che il timore della pena, l'incertezza del giudizio, l'apparato e la maestƒ del
giudice, l'ignoranza, comune a quasi tutti gli scellerati e agl'innocenti, non debbano
probabilmente far cadere in contradizione e l'innocente che teme e il reo che cerca di coprirsi;
quasi che le contradizioni, comuni agli uomini quando sono tranquilli, non debbano moltiplicarsi
nella turbazione dell'animo tutto assorbito nel pensiero di salvarsi dall'imminente pericolo.
Questo infame crociuolo della veritƒ • un monumento ancora esistente dell'antica e selvaggia
legislazione, quando erano chiamati giudizi di Dio le prove del fuoco e dell'acqua bollente e
l'incerta sorte dell'armi, quasi che gli anelli dell'eterna catena, che • nel seno della prima cagione,
dovessero ad ogni momento essere disordinati e sconnessi per li frivoli stabilimenti umani. La
sola differenza che passa fralla tortura e le prove del fuoco e dell'acqua bollente, • che l'esito
della prima sembra dipendere dalla volontƒ del reo, e delle seconde da un fatto puramente fisico
ed estrinseco: ma questa differenza • solo apparente e non reale. ‰ cos‹ poco libero il dire la
veritƒ fra gli spasimi e gli strazi, quanto lo era allora l'impedire senza frode gli effetti del fuoco e
dell'acqua bollente. Ogni atto della nostra volontƒ • sempre proporzionato alla forza della
impressione sensibile, che ne • la sorgente; e la sensibilitƒ di ogni uomo • limitata. Dunque
l'impressione del dolore pu„ crescere a segno che, occupandola tutta, non lasci alcuna libertƒ al
torturato che di scegliere la strada piŠ corta per il momento presente, onde sottrarsi di pena.
Allora la risposta del reo • cos‹ necessaria come le impressioni del fuoco o dell'acqua. Allora
l'innocente sensibile si chiamerƒ reo, quando egli creda con ci„ di far cessare il tormento. Ogni
differenza tra essi sparisce per quel mezzo medesimo, che si pretende impiegato per ritrovarla. ‰
superfluo di raddoppiare il lume citando gl'innumerabili esempi d'innocenti che rei si
confessarono per gli spasimi della tortura: non vi • nazione, non vi • etƒ che non citi i suoi, ma
n‡ gli uomini si cangiano, n‡ cavano conseguenze. Non vi • uomo che abbia spinto le sue idee di
lƒ dei bisogni della vita, che qualche volta non corra verso natura, che con segrete e confuse voci
a s‡ lo chiama; l'uso, il tiranno delle menti, lo rispinge e lo spaventa. L'esito dunque della tortura
• un affare di temperamento e di calcolo, che varia in ciascun uomo in proporzione della sua
robustezza e della sua sensibilitƒ; tanto che con questo metodo un matematico scioglierebbe
meglio che un giudice questo problema: data la forza dei muscoli e la sensibilitƒ delle fibre d'un
innocente, trovare il grado di dolore che lo farƒ confessar reo di un dato delitto.
L'esame di un reo • fatto per conoscere la veritƒ, ma se questa veritƒ difficilmente scuopresi
all'aria, al gesto, alla fisonomia d'un uomo tranquillo, molto meno scuoprirassi in un uomo in cui
le convulsioni del dolore alterano tutti i segni, per i quali dal volto della maggior parte degli
uomini traspira qualche volta, loro malgrado, la veritƒ. Ogni azione violenta confonde e fa
sparire le minime differenze degli oggetti per cui si distingue talora il vero dal falso.
Queste veritƒ sono state conosciute dai romani legislatori, presso i quali non trovasi usata alcuna
tortura che su i soli schiavi, ai quali era tolta ogni personalitƒ; queste dall'Inghilterra, nazione in
cui la gloria delle lettere, la superioritƒ del commercio e delle ricchezze, e perci„ della potenza, e
gli esempi di virtŠ e di coraggio non ci lasciano dubitare della bontƒ delle leggi. La tortura • stata
abolita nella Svezia, abolita da uno de' piŠ saggi monarchi dell'Europa, che avendo portata la
filosofia sul trono, legislatore amico de' suoi sudditi, gli ha resi uguali e liberi nella dipendenza
delle leggi, che • la sola uguaglianza e libertƒ che possono gli uomini ragionevoli esigere nelle
presenti combinazioni di cose. La tortura non • creduta necessaria dalle leggi degli eserciti
composti per la maggior parte della feccia delle nazioni, che sembrerebbono perci„ doversene
piŠ d'ogni altro ceto servire. Strana cosa, per chi non considera quanto sia grande la tirannia
dell'uso, che le pacifiche leggi debbano apprendere dagli animi induriti alle stragi ed al sangue il
piŠ umano metodo di giudicare.
Questa veritƒ • finalmente sentita, bench‡ confusamente, da quei medesimi che se ne
allontanano. Non vale la confessione fatta durante la tortura se non • confermata con giuramento
dopo cessata quella, ma se il reo non conferma il delitto • di nuovo torturato. Alcuni dottori ed
alcune nazioni non permettono questa infame petizione di principio che per tre volte; altre
nazioni ed altri dottori la lasciano ad arbitrio del giudice: talch‡ di due uomini ugualmente
innocenti o ugualmente rei, il robusto ed il coraggioso sarƒ assoluto, il fiacco ed il timido
condannato in vigore di questo esatto raziocinio: Io giudice dovea trovarvi rei di un tal delitto; tu
vigoroso hai saputo resistere al dolore, e per‚ ti assolvo; tu debole vi hai ceduto, e per‚ ti
condanno. Sento che la confessione strappatavi fra i tormenti non avrebbe alcuna forza, ma io vi
tormenter‚ di nuovo se non confermerete ci‚ che avete confessato.
Una strana conseguenza che necessariamente deriva dall'uso della tortura • che l'innocente •
posto in peggiore condizione che il reo; perch‡, se ambidue sieno applicati al tormento, il primo
ha tutte le combinazioni contrarie, perch‡ o confessa il delitto, ed • condannato, o • dichiarato
innocente, ed ha sofferto una pena indebita; ma il reo ha un caso favorevole per s‡, cio• quando,
resistendo alla tortura con fermezza, deve essere assoluto come innocente; ha cambiato una pena
maggiore in una minore. Dunque l'innocente non pu„ che perdere e il colpevole pu„ guadagnare.
La legge che comanda la tortura • una legge che dice: Uomini, resistete al dolore, e se la natura
ha creato in voi uno inestinguibile amor proprio, se vi ha dato un inalienabile diritto alla vostra
difesa, io creo in voi un affetto tutto contrario, cioƒ un eroico odio di voi stessi, e vi comando di
accusare voi medesimi, dicendo la verit€ anche fra gli strappamenti dei muscoli e gli slogamenti
delle ossa.
Dassi la tortura per discuoprire se il reo lo • di altri delitti fuori di quelli di cui • accusato, il che
equivale a questo raziocinio: Tu sei reo di un delitto, dunque ƒ possibile che lo sii di cent'altri
delitti; questo dubbio mi pesa, voglio accertarmene col mio criterio di verit€; le leggi ti
tormentano, perch„ sei reo, perch„ puoi esser reo, perch„ voglio che tu sii reo.
Finalmente la tortura • data ad un accusato per discuoprire i complici del suo delitto; ma se •
dimostrato che ella non • un mezzo opportuno per iscuoprire la veritƒ, come potrƒ ella servire a
svelare i complici, che • una delle veritƒ da scuoprirsi? Quasi che l'uomo che accusa se stesso
non accusi piŠ facilmente gli altri. ‰ egli giusto tormentar gli uomini per l'altrui delitto? Non si
scuopriranno i complici dall'esame dei testimoni, dall'esame del reo, dalle prove e dal corpo del
delitto, in somma da tutti quei mezzi medesimi che debbono servire per accertare il delitto
nell'accusato? I complici per lo piŠ fuggono immediatamente dopo la prigionia del compagno,
l'incertezza della loro sorte gli condanna da s‡ sola all'esilio e libera la nazione dal pericolo di
nuove offese, mentre la pena del reo che • nelle forze ottiene l'unico suo fine, cio• di rimuover
col terrore gli altri uomini da un simil delitto.
Cap.17
DEL FISCO
Fu giƒ un tempo nel quale quasi tutte le pene erano pecuniarie. I delitti degli uomini erano il
patrimonio del principe. Gli attentati contro la pubblica sicurezza erano un oggetto di lusso. Chi
era destinato a difenderla aveva interesse di vederla offesa. L'oggetto delle pene era dunque una
lite tra il fisco (l'esattore di queste pene) ed il reo; un affare civile, contenzioso, privato piuttosto
che pubblico, che dava al fisco altri diritti che quelli somministrati dalla pubblica difesa ed al reo
altri torti che quelli in cui era caduto, per la necessitƒ dell'esempio. Il giudice era dunque un
avvocato del fisco piuttosto che un indifferente ricercatore del vero, un agente dell'erario fiscale
anzi che il protettore ed il ministro delle leggi. Ma siccome in questo sistema il confessarsi
delinquente era un confessarsi debitore verso il fisco, il che era lo scopo delle procedure
criminali d'allora, cos‹ la confessione del delitto, e confessione combinata in maniera che
favorisse e non facesse torto alle ragioni fiscali, divenne ed • tuttora (gli effetti continuando
sempre moltissimo dopo le cagioni) il centro intorno a cui si aggirano tutti gli ordigni criminali.
Senz'essa un reo convinto da prove indubitate avrƒ una pena minore della stabilita, senz'essa non
soffrirƒ la tortura sopra altri delitti della medesima specie che possa aver commessi. Con questa
il giudice s'impadronisce del corpo di un reo e lo strazia con metodiche formalitƒ, per cavarne
come da un fondo acquistato tutto il profitto che pu„. Provata l'esistenza del delitto, la
confessione fa una prova convincente, e per rendere questa prova meno sospetta cogli spasimi e
colla disperazione del dolore a forza si esige nel medesimo tempo che una confessione
stragiudiziale tranquilla, indifferente, senza i prepotenti timori di un tormentoso giudizio, non
basta alla condanna. Si escludono le ricerche e le prove che rischiarano il fatto, ma che
indeboliscono le ragioni del fisco; non • in favore della miseria e della debolezza che si
risparmiano qualche volta i tormenti ai rei, ma in favore delle ragioni che potrebbe perdere
quest'ente ora immaginario ed inconcepibile. Il giudice diviene nemico del reo, di un uomo
incatenato, dato in preda allo squallore, ai tormenti, all'avvenire il piŠ terribile; non cerca la
veritƒ del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia, e crede di perdere se non vi riesce,
e di far torto a quella infallibilitƒ che l'uomo s'arroga in tutte le cose. Gl'indizi alla cattura sono in
potere del giudice; perch‡ uno si provi innocente deve esser prima dichiarato reo: ci„ chiamasi
fare un processo offensivo, e tali sono quasi in ogni luogo della illuminata Europa nel decimo
ottavo secolo le procedure criminali. Il vero processo, l'informativo, cio• la ricerca indifferente
del fatto, quello che la ragione comanda, che le leggi militari adoperano, usato dallo stesso
asiatico dispotismo nei casi tranquilli ed indifferenti, • pochissimo in uso nei tribunali europei.
Qual complicato laberinto di strani assurdi, incredibili senza dubbio alla piŠ felice posteritƒ! I
soli filosofi di quel tempo leggeranno nella natura dell'uomo la possibile verificazione di un tale
sistema.
Cap.18
DEI GIURAMENTI
Una contradizione fralle leggi e i sentimenti naturali all'uomo nasce dai giuramenti che si
esigono dal reo, acciocch‡ sia un uomo veridico, quando ha il massimo interesse di esser falso;
quasi che l'uomo potesse giurar da dovero di contribuire alla propria distruzione, quasi che la
religione non tacesse nella maggior parte degli uomini quando parla l'interesse. L'esperienza di
tutt'i secoli ha fatto vedere che essi hanno piŠ d'ogni altra cosa abusato di questo prezioso dono
del cielo. E per qual motivo gli scellerati la rispetteranno, se gli uomini stimati piŠ saggi l'hanno
sovente violata? Troppo deboli, perch‡ troppo remoti dai sensi, sono per il maggior numero i
motivi che la religione contrappone al tumulto del timore ed all'amor della vita. Gli affari del
cielo si reggono con leggi affatto dissimili da quelle che reggono gli affari umani. E perch‡
comprometter gli uni cogli altri? E perch‡ metter l'uomo nella terribile contradizione, o di
mancare a Dio, o di concorrere alla propria rovina? talch‡ la legge, che obbliga ad un tal
giuramento, comanda o di esser cattivo cristiano o martire. Il giuramento diviene a poco a poco
una semplice formalitƒ, distruggendosi in questa maniera la forza dei sentimenti di religione,
unico pegno dell'onestƒ della maggior parte degli uomini. Quanto sieno inutili i giuramenti lo ha
fatto vedere l'esperienza, perch‡ ciascun giudice mi pu„ esser testimonio che nessun giuramento
ha mai fatto dire la veritƒ ad alcun reo; lo fa vedere la ragione, che dichiara inutili e per
conseguenza dannose tutte le leggi che si oppongono ai naturali sentimenti dell'uomo. Accade ad
esse ci„ che agli argini opposti direttamente al corso di un fiume: o sono immediatamente
abbattuti e soverchiati, o un vortice formato da loro stessi gli corrode e gli mina insensibilmente.
Cap.19
PRONTEZZA DELLA PENA
Quanto la pena sarƒ piŠ pronta e piŠ vicina al delitto commesso, ella sarƒ tanto piŠ giusta e tanto
piŠ utile. Dico piŠ giusta, perch‡ risparmia al reo gli inutili e fieri tormenti dell'incertezza, che
crescono col vigore dell'immaginazione e col sentimento della propria debolezza; piŠ giusta,
perch‡ la privazione della libertƒ essendo una pena, essa non pu„ precedere la sentenza se non
quando la necessitƒ lo chiede. La carcere • dunque la semplice custodia d'un cittadino finch‡ sia
giudicato reo, e questa custodia essendo essenzialmente penosa, deve durare il minor tempo
possibile e dev'essere meno dura che si possa. Il minor tempo dev'esser misurato e dalla
necessaria durazione del processo e dall'anzianitƒ di chi prima ha un diritto di esser giudicato. La
strettezza della carcere non pu„ essere che la necessaria, o per impedire la fuga, o per non
occultare le prove dei delitti. Il processo medesimo dev'essere finito nel piŠ breve tempo
possibile. Qual piŠ crudele contrasto che l'indolenza di un giudice e le angosce d'un reo? I
comodi e i piaceri di un insensibile magistrato da una parte e dall'altra le lagrime, lo squallore
d'un prigioniero? In generale il peso della pena e la conseguenza di un delitto dev'essere la piŠ
efficace per gli altri e la meno dura che sia possibile per chi la soffre, perch‡ non si pu„ chiamare
legittima societƒ quella dove non sia principio infallibile che gli uomini si sian voluti
assoggettare ai minori mali possibili.
Ho detto che la prontezza delle pene • piŠ utile, perch‡ quanto • minore la distanza del tempo
che passa tra la pena ed il misfatto, tanto • piŠ forte e piŠ durevole nell'animo umano
l'associazione di queste due idee, delitto e pena, talch‡ insensibilmente si considerano uno come
cagione e l'altra come effetto necessario immancabile. Egli • dimostrato che l'unione delle idee •
il cemento che forma tutta la fabbrica dell'intelletto umano, senza di cui il piacere ed il dolore
sarebbero sentimenti isolati e di nessun effetto. Quanto piŠ gli uomini si allontanano dalle idee
generali e dai principii universali, cio• quanto piŠ sono volgari, tanto piŠ agiscono per le
immediate e piŠ vicine associazioni, trascurando le piŠ remote e complicate, che non servono
che agli uomini fortemente appassionati per l'oggetto a cui tendono, poich‡ la luce dell'attenzione
rischiara un solo oggetto, lasciando gli altri oscuri. Servono parimente alle menti piŠ elevate,
perch‡ hanno acquistata l'abitudine di scorrere rapidamente su molti oggetti in una volta, ed
hanno la facilitƒ di far contrastare molti sentimenti parziali gli uni cogli altri, talch‡ il risultato,
che • l'azione, • meno pericoloso ed incerto.
Egli • dunque di somma importanza la vicinanza del delitto e della pena, se si vuole che nelle
rozze menti volgari, alla seducente pittura di un tal delitto vantaggioso, immediatamente
riscuotasi l'idea associata della pena. Il lungo ritardo non produce altro effetto che di sempre piŠ
disgiungere queste due idee, e quantunque faccia impressione il castigo d'un delitto, la fa meno
come castigo che come spettacolo, e non la fa che dopo indebolito negli animi degli spettatori
l'orrore di un tal delitto particolare, che servirebbe a rinforzare il sentimento della pena.
Un altro principio serve mirabilmente a stringere sempre piŠ l'importante connessione tra 'l
misfatto e la pena, cio• che questa sia conforme quanto piŠ si possa alla natura del delitto.
Questa analogia facilita mirabilmente il contrasto che dev'essere tra la spinta al delitto e la
ripercussione della pena, cio• che questa allontani e conduca l'animo ad un fine opposto di quello
per dove cerca d'incamminarlo la seducente idea dell'infrazione della legge.
Cap.20
VIOLENZE
Altri delitti sono attentati contro la persona, altri contro le sostanze. I primi debbono
infallibilmente esser puniti con pene corporali: n‡ il grande n‡ il ricco debbono poter mettere a
prezzo gli attentati contro il debole ed il povero; altrimenti le ricchezze, che sotto la tutela delle
leggi sono il premio dell'industria, diventano l'alimento della tirannia. Non vi • libertƒ ogni qual
volta le leggi permettono che in alcuni eventi l'uomo cessi di esser persona e diventi cosa:
vedrete allora l'industria del potente tutta rivolta a far sortire dalla folla delle combinazioni civili
quelle che la legge gli dƒ in suo favore. Questa scoperta • il magico segreto che cangia i cittadini
in animali di servigio, che in mano del forte • la catena con cui lega le azioni degl'incauti e dei
deboli. Questa • la ragione per cui in alcuni governi, che hanno tutta l'apparenza di libertƒ, la
tirannia sta nascosta o s'introduce non prevista in qualche angolo negletto dal legislatore, in cui
insensibilmente prende forza e s'ingrandisce. Gli uomini mettono per lo piŠ gli argini piŠ sodi
all'aperta tirannia, ma non veggono l'insetto impercettibile che gli rode ed apre una tanto piŠ
sicura quanto piŠ occulta strada al fiume inondatore.
Cap.21
PENE DEI NOBILI
Quali saranno dunque le pene dovute ai delitti dei nobili, i privilegi dei quali formano gran parte
delle leggi delle nazioni? Io qui non esaminer„ se questa distinzione ereditaria tra nobili e plebei
sia utile in un governo o necessaria nella monarchia, se egli • vero che formi un potere
intermedio, che limiti gli eccessi dei due estremi, o non piuttosto formi un ceto che, schiavo di se
stesso e di altrui, racchiude ogni circolazione di credito e di speranza in uno strettissimo cerchio,
simile a quelle feconde ed amene isolette che spiccano negli arenosi e vasti deserti d'Arabia, e
che, quando sia vero che la disuguaglianza sia inevitabile o utile nelle societƒ, sia vero altres‹ che
ella debba consistere piuttosto nei ceti che negl'individui, fermarsi in una parte piuttosto che
circolare per tutto il corpo politico, perpetuarsi piuttosto che nascere e distruggersi
incessantemente. Io mi ristringer„ alle sole pene dovute a questo rango, asserendo che esser
debbono le medesime pel primo e per l'ultimo cittadino. Ogni distinzione sia negli onori sia nelle
ricchezze perch‡ sia legittima suppone un'anteriore uguaglianza fondata sulle leggi, che
considerano tutti i sudditi come egualmente dipendenti da esse. Si deve supporre che gli uomini
che hanno rinunziato al naturale loro dispotismo abbiano detto: chi sar€ pi• industrioso abbia
maggiori onori, e la fama di lui risplenda ne' suoi successori; ma chi ƒ pi• felice o pi• onorato
speri di pi•, ma non tema meno degli altri di violare quei patti coi quali ƒ sopra gli altri
sollevato. Egli • vero che tali decreti non emanarono in una dieta del genere umano, ma tali
decreti esistono negl'immobili rapporti delle cose, non distruggono quei vantaggi che si
suppongono prodotti dalla nobiltƒ e ne impediscono gl'inconvenienti; rendono formidabili le
leggi chiudendo ogni strada all'impunitƒ. A chi dicesse che la medesima pena data al nobile ed al
plebeo non • realmente la stessa per la diversitƒ dell'educazione, per l'infamia che spandesi su di
un'illustre famiglia, risponderei che la sensibilitƒ del reo non • la misura delle pene, ma il
pubblico danno, tanto maggiore quanto • fatto da chi • piŠ favorito; e che l'uguaglianza delle
pene non puÄF2• essere che estrinseca, essendo realmente diversa in ciascun individuo; che
l'infamia di una famiglia pu„ esser tolta dal sovrano con dimostrazioni pubbliche di benevolenza
all'innocente famiglia del reo. E chi non sa che le sensibili formalitƒ tengon luogo di ragioni al
credulo ed ammiratore popolo?
Cap.22
FURTI
I furti che non hanno unito violenza dovrebbero esser puniti con pena pecuniaria. Chi cerca
d'arricchirsi dell'altrui dovrebbe esser impoverito del proprio. Ma come questo non • per
l'ordinario che il delitto della miseria e della disperazione, il delitto di quella infelice parte di
uomini a cui il diritto di proprietƒ (terribile, e forse non necessario diritto) non ha lasciato che
una nuda esistenza, ma come le pene pecuniarie accrescono il numero dei rei al di sopra di quello
de' delitti e che tolgono il pane agl'innocenti per toglierlo agli scellerati, la pena piŠ opportuna
sarƒ quell'unica sorta di schiavit† che si possa chiamar giusta, cio• la schiavit† per un tempo
delle opere e della persona alla comune societƒ, per risarcirla colla propria e perfetta dipendenza
dell'ingiusto dispotismo usurpato sul patto sociale. Ma quando il furto sia misto di violenza, la
pena dev'essere parimente un misto di corporale e di servile. Altri scrittori prima di me hanno
dimostrato l'evidente disordine che nasce dal non distinguere le pene dei furti violenti da quelle
dei furti dolosi facendo l'assurda equazione di una grossa somma di denaro colla vita di un
uomo; ma non • mai superfluo il ripetere ci„ che non • quasi mai stato eseguito. Le macchine
politiche conservano piŠ d'ogni altra il moto concepito e sono le piŠ lente ad acquistarne un
nuovo. Questi sono delitti di differente natura, ed • certissimo anche in politica quell'assioma di
matematica, che tralle quantitƒ eterogenee vi • l'infinito che le separa.
Cap.23
INFAMIA
Le ingiurie personali e contrarie all'onore, cio• a quella giusta porzione di suffragi che un
cittadino ha dritto di esigere dagli altri, debbono essere punite coll'infamia. Quest'infamia • un
segno della pubblica disapprovazione che priva il reo de' pubblici voti, della confidenza della
patria e di quella quasi fraternitƒ che la societƒ inspira. Ella non • in arbitrio della legge. Bisogna
dunque che l'infamia della legge sia la stessa che quella che nasce dai rapporti delle cose, la
stessa che la morale universale, o la particolare dipendente dai sistemi particolari, legislatori
delle volgari opinioni e di quella tal nazione che inspirano. Se l'una • differente dall'altra, o la
legge perde la pubblica venerazione, o l'idee della morale e della probitƒ svaniscono, ad onta
delle declamazioni che mai non resistono agli esempi. Chi dichiara infami azioni per s‡
indifferenti sminuisce l'infamia delle azioni che son veramente tali. Le pene d'infamia non
debbono essere n‡ troppo frequenti n‡ cadere sopra un gran numero di persone in una volta: non
il primo, perch‡ gli effetti reali e troppo frequenti delle cose d'opinione indeboliscono la forza
della opinione medesima, non il secondo, perch‡ l'infamia di molti si risolve nella infamia di
nessuno.
Le pene corporali e dolorose non devono darsi a quei delitti che, fondati sull'orgoglio, traggono
dal dolore istesso gloria ed alimento, ai quali convengono il ridicolo e l'infamia, pene che
frenano l'orgoglio dei fanatici coll'orgoglio degli spettatori e dalla tenacitƒ delle quali appena con
lenti ed ostinati sforzi la veritƒ stessa si libera. Cos‹ forze opponendo a forze ed opinioni ad
opinioni il saggio legislatore rompa l'ammirazione e la sorpresa nel popolo cagionata da un falso
principio, i ben dedotti conseguenti del quale sogliono velarne al volgo l'originaria assurditƒ.
Ecco la maniera di non confondere i rapporti e la natura invariabile delle cose, che non essendo
limitata dal tempo ed operando incessantemente, confonde e svolge tutti i limitati regolamenti
che da lei si scostano. Non sono le sole arti di gusto e di piacere che hanno per principio
universale l'imitazione fedele della natura, ma la politica istessa, almeno la vera e la durevole, •
soggetta a questa massima generale, poich‡ ella non • altro che l'arte di meglio dirigere e di
rendere conspiranti i sentimenti immutabili degli uomini.
Cap.24
OZIOSI
Chi turba la tranquillitƒ pubblica, chi non ubbidisce alle leggi, cio• alle condizioni con cui gli
uomini si soffrono scambievolmente e si difendono, quegli dev'esser escluso dalla societƒ, cio•
dev'essere bandito. Questa • la ragione per cui i saggi governi non soffrono, nel seno del
travaglio e dell'industria, quel genere di ozio politico confuso dagli austeri declamatori coll'ozio
delle ricchezze accumulate dall'industria, ozio necessario ed utile a misura che la societƒ si dilata
e l'amministrazione si ristringe. Io chiamo ozio politico quello che non contribuisce alla societƒ
n‡ col travaglio n‡ colla ricchezza, che acquista senza giammai perdere, che, venerato dal volgo
con stupida ammirazione, risguardato dal saggio con isdegnosa compassione per gli esseri che ne
sono la vittima, che, essendo privo di quello stimolo della vita attiva che • la necessitƒ di
custodire o di aumentare i comodi della vita, lascia alle passioni di opinione, che non sono le
meno forti, tutta la loro energia. Non • ozioso politicamente chi gode dei frutti dei vizi o delle
virtŠ de' propri antenati, e vende per attuali piaceri il pane e l'esistenza alla industriosa povertƒ,
ch'esercita in pace la tacita guerra d'industria colla opulenza, in vece della incerta e sanguinosa
colla forza. E per„ non l'austera e limitata virtŠ di alcuni censori, ma le leggi debbono definire
qual sia l'ozio da punirsi.
Sembra che il bando dovrebbe esser dato a coloro i quali, accusati di un atroce delitto, hanno una
grande probabilitƒ, ma non la certezza contro di loro, di esser rei; ma per ci„ fare • necessario
uno statuto il meno arbitrario e il piŠ preciso che sia possibile, il quale condanni al bando chi ha
messo la nazione nella fatale alternativa o di temerlo o di offenderlo, lasciandogli per„ il sacro
diritto di provare l'innocenza sua. Maggiori dovrebbon essere i motivi contro un nazionale che
contro un forestiere, contro un incolpato per la prima volta che contro chi lo fu piŠ volte.
Cap.25
BANDO E CONFISCHE
Ma chi • bandito ed escluso per sempre dalla societƒ di cui era membro, dev'egli esser privato
dei suoi beni? Una tal questione • suscettibile di differenti aspetti. Il perdere i beni • una pena
maggiore di quella del bando; vi debbono dunque essere alcuni casi in cui, proporzionatamente a'
delitti, vi sia la perdita di tutto o di parte dei beni, ed alcuni no. La perdita del tutto sarƒ quando il
bando intimato dalla legge sia tale che annienti tutt'i rapporti che sono tra la societƒ e un
cittadino delinquente; allora muore il cittadino e resta l'uomo, e rispetto al corpo politico deve
produrre lo stesso effetto che la morte naturale. Parrebbe dunque che i beni tolti al reo dovessero
toccare ai legittimi successori piuttosto che al principe, poich‡ la morte ed un tal bando sono lo
stesso riguardo al corpo politico. Ma non • per questa sottigliezza che oso disapprovare le
confische dei beni. Se alcuni hanno sostenuto che le confische sieno state un freno alle vendette
ed alle prepotenze private, non riflettono che, quantunque le pene producano un bene, non per„
sono sempre giuste, perch‡ per esser tali debbono esser necessarie, ed un'utile ingiustizia non
pu„ esser tollerata da quel legislatore che vuol chiudere tutte le porte alla vigilante tirannia, che
lusinga col bene momentaneo e colla felicitƒ di alcuni illustri, sprezzando l'esterminio futuro e le
lacrime d'infiniti oscuri. Le confische mettono un prezzo sulle teste dei deboli, fanno soffrire
all'innocente la pena del reo e pongono gl'innocenti medesimi nella disperata necessitƒ di
commettere i delitti. Qual piŠ tristo spettacolo che una famiglia strascinata all'infamia ed alla
miseria dai delitti di un capo, alla quale la sommissione ordinata dalle leggi impedirebbe il
prevenirgli, quand'anche vi fossero i mezzi per farlo!
Cap.26
DELLO SPIRITO DI FAMIGLIA
Queste funeste ed autorizzate ingiustizie furono approvate dagli uomini anche piŠ illuminati, ed
esercitate dalle repubbliche piŠ libere, per aver considerato piuttosto la societƒ come un'unione di
famiglie che come un'unione di uomini. Vi siano cento mila uomini, o sia ventimila famiglie,
ciascuna delle quali • composta di cinque persone, compresovi il capo che la rappresenta: se
l'associazione • fatta per le famiglie, vi saranno ventimila uomini e ottanta mila schiavi; se
l'associazione • di uomini, vi saranno cento mila cittadini e nessuno schiavo. Nel primo caso vi
sarƒ una repubblica, e ventimila piccole monarchie che la compongono; nel secondo lo spirito
repubblicano non solo spirerƒ nelle piazze e nelle adunanze della nazione, ma anche nelle
domestiche mura, dove sta gran parte della felicitƒ o della miseria degli uomini. Nel primo caso,
come le leggi ed i costumi sono l'effetto dei sentimenti abituali dei membri della repubblica, o sia
dei capi della famiglia, lo spirito monarchico s'introdurrƒ a poco a poco nella repubblica
medesima; e i di lui effetti saranno frenati soltanto dagl'interessi opposti di ciascuno, ma non giƒ
da un sentimento spirante libertƒ ed uguaglianza. Lo spirito di famiglia • uno spirito di dettaglio
e limitato a' piccoli fatti. Lo spirito regolatore delle repubbliche, padrone dei principii generali,
vede i fatti e gli condensa nelle classi principali ed importanti al bene della maggior parte. Nella
repubblica di famiglie i figli rimangono nella potestƒ del capo, finch‡ vive, e sono costretti ad
aspettare dalla di lui morte una esistenza dipendente dalle sole leggi. Avezzi a piegare ed a
temere nell'etƒ piŠ verde e vigorosa, quando i sentimenti son meno modificati da quel timore di
esperienza che chiamasi moderazione, come resisteranno essi agli ostacoli che il vizio sempre
oppone alla virtŠ nella languida e cadente etƒ, in cui anche la disperazione di vederne i frutti si
oppone ai vigorosi cambiamenti?
Quando la repubblica • di uomini, la famiglia non • una subordinazione di comando, ma di
contratto, e i figli, quando l'etƒ gli trae dalla dipendenza di natura, che • quella della debolezza e
del bisogno di educazione e di difesa, diventano liberi membri della cittƒ, e si assoggettano al
capo di famiglia, per parteciparne i vantaggi, come gli uomini liberi nella grande societƒ. Nel
primo caso i figli, cio• la piŠ gran parte e la piŠ utile della nazione, sono alla discrezione dei
padri, nel secondo non sussiste altro legame comandato che quel sacro ed inviolabile di
somministrarci reciprocamente i necessari soccorsi, e quello della gratitudine per i benefici
ricevuti, il quale non • tanto distrutto dalla malizia del cuore umano, quanto da una mal intesa
soggezione voluta dalle leggi.
Tali contradizioni fralle leggi di famiglia e le fondamentali della repubblica sono una feconda
sorgente di altre contradizioni fralla morale domestica e la pubblica, e per„ fanno nascere un
perpetuo conflitto nell'animo di ciascun uomo. La prima inspira soggezione e timore, la seconda
coraggio e libertƒ; quella insegna a ristringere la beneficenza ad un piccol numero di persone
senza spontanea scelta, questa a stenderla ad ogni classe di uomini; quella comanda un continuo
sacrificio di se stesso a un idolo vano, che si chiama bene di famiglia, che spesse volte non • il
bene d'alcuno che la compone; questa insegna di servire ai propri vantaggi senza offendere le
leggi, o eccita ad immolarsi alla patria col premio del fanatismo, che previene l'azione. Tali
contrasti fanno che gli uomini si sdegnino a seguire la virtŠ che trovano inviluppata e confusa, e
in quella lontananza che nasce dall'oscuritƒ degli oggetti s‹ fisici che morali. Quante volte un
uomo, rivolgendosi alle sue azioni passate, resta attonito di trovarsi malonesto! A misura che la
societƒ si moltiplica, ciascun membro diviene piŠ piccola parte del tutto, e il sentimento
repubblicano si sminuisce proporzionalmente, se cura non • delle leggi di rinforzarlo. Le societƒ
hanno come i corpi umani i loro limiti circonscritti, al di lƒ de' quali crescendo, l'economia ne •
necessariamente disturbata. Sembra che la massa di uno stato debba essere in ragione inversa
della sensibilitƒ di chi lo compone, altrimenti, crescendo l'una e l'altra, le buone leggi
troverebbono nel prevenire i delitti un ostacolo nel bene medesimo che hanno prodotto. Una
repubblica troppo vasta non si salva dal dispotismo che col sottodividersi e unirsi in tante
repubbliche federative. Ma come ottener questo? Da un dittatore dispotico che abbia il coraggio
di Silla, e tanto genio d'edificare quant'egli n'ebbe per distruggere. Un tal uomo, se sarƒ
ambizioso, la gloria di tutt'i secoli lo aspetta, se sarƒ filosofo, le benedizioni de' suoi cittadini lo
consoleranno della perdita dell'autoritƒ, quando pure non divenisse indifferente alla loro
ingratitudine. A misura che i sentimenti che ci uniscono alla nazione s'indeboliscono, si
rinforzano i sentimenti per gli oggetti che ci circondano, e per„ sotto il dispotismo piŠ forte le
amicizie sono piŠ durevoli, e le virtŠ sempre mediocri di famiglia sono le piŠ comuni o piuttosto
le sole. Da ci„ pu„ ciascuno vedere quanto fossero limitate le viste della piŠ parte dei legislatori.
Cap.27
DOLCEZZA DELLE PENE
Ma il corso delle mie idee mi ha trasportato fuori del mio soggetto, al rischiaramento del quale
debbo affrettarmi. Uno dei piŠ gran freni dei delitti non • la crudeltƒ delle pene, ma l'infallibilitƒ
di esse, e per conseguenza la vigilanza dei magistrati, e quella severitƒ di un giudice inesorabile,
che, per essere un'utile virtŠ, dev'essere accompagnata da una dolce legislazione. La certezza di
un castigo, bench‡ moderato, farƒ sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro
piŠ terribile, unito colla speranza dell'impunitƒ; perch‡ i mali, anche minimi, quando son certi,
spaventano sempre gli animi umani, e la speranza, dono celeste, che sovente ci tien luogo di
tutto, ne allontana sempre l'idea dei maggiori, massimamente quando l'impunitƒ, che l'avarizia e
la debolezza spesso accordano, ne aumenti la forza. L'atrocitƒ stessa della pena fa che si ardisca
tanto di piŠ per ischivarla, quanto • grande il male a cui si va incontro; fa che si commettano piŠ
delitti, per fuggir la pena di un solo. I paesi e i tempi dei piŠ atroci supplicii furon sempre quelli
delle piŠ sanguinose ed inumane azioni, poich‡ il medesimo spirito di ferocia che guidava la
mano del legislatore, reggeva quella del parricida e del sicario. Sul trono dettava leggi di ferro ad
anime atroci di schiavi, che ubbidivano. Nella privata oscuritƒ stimolava ad immolare i tiranni
per crearne dei nuovi.
A misura che i supplicii diventano piŠ crudeli, gli animi umani, che come i fluidi si mettono
sempre a livello cogli oggetti che gli circondano, s'incalliscono, e la forza sempre viva delle
passioni fa che, dopo cent'anni di crudeli supplicii, la ruota spaventi tanto quanto prima la
prigionia. Perch‡ una pena ottenga il suo effetto basta che il male della pena ecceda il bene che
nasce dal delitto, e in questo eccesso di male dev'essere calcolata l'infallibilitƒ della pena e la
perdita del bene che il delitto produrrebbe. Tutto il di piŠ • dunque superfluo e perci„ tirannico.
Gli uomini si regolano per la ripetuta azione dei mali che conoscono, e non su quelli che
ignorano. Si facciano due nazioni, in una delle quali, nella scala delle pene proporzionata alla
scala dei delitti, la pena maggiore sia la schiavit† perpetua, e nell'altra la ruota. Io dico che la
prima avrƒ tanto timore della sua maggior pena quanto la seconda; e se vi • una ragione di
trasportar nella prima le pene maggiori della seconda, l'istessa ragione servirebbe per accrescere
le pene di quest'ultima, passando insensibilmente dalla ruota ai tormenti piŠ lenti e piŠ studiati, e
fino agli ultimi raffinamenti della scienza troppo conosciuta dai tiranni.
Due altre funeste conseguenze derivano dalla crudeltƒ delle pene, contrarie al fine medesimo di
prevenire i delitti. La prima • che non • s‹ facile il serbare la proporzione essenziale tra il delitto
e la pena, perch‡, quantunque un'industriosa crudeltƒ ne abbia variate moltissimo le specie, pure
non possono oltrepassare quell'ultima forza a cui • limitata l'organizzazione e la sensibilitƒ
umana. Giunto che si sia a questo estremo, non si troverebbe a' delitti piŠ dannosi e piŠ atroci
pena maggiore corrispondente, come sarebbe d'uopo per prevenirgli. L'altra conseguenza • che la
impunitƒ stessa nasce dall'atrocitƒ dei supplicii. Gli uomini sono racchiusi fra certi limiti, s‹ nel
bene che nel male, ed uno spettacolo troppo atroce per l'umanitƒ non pu„ essere che un
passeggiero furore, ma non mai un sistema costante quali debbono essere le leggi; che se
veramente son crudeli, o si cangiano, o l'impunitƒ fatale nasce dalle leggi medesime.
Chi nel leggere le storie non si raccapriccia d'orrore pe' barbari ed inutili tormenti che da uomini,
che si chiamavano savi, furono con freddo animo inventati ed eseguiti? Chi pu„ non sentirsi
fremere tutta la parte la piŠ sensibile nel vedere migliaia d'infelici che la miseria, o voluta o
tollerata dalle leggi, che hanno sempre favorito i pochi ed oltraggiato i molti, trasse ad un
disperato ritorno nel primo stato di natura, o accusati di delitti impossibili e fabbricati dalla
timida ignoranza, o rei non d'altro che di esser fedeli ai propri principii, da uomini dotati dei
medesimi sensi, e per conseguenza delle medesime passioni, con meditate formalitƒ e con lente
torture lacerati, giocondo spettacolo di una fanatica moltitudine?
Cap.28
DELLA PENA DI MORTE
Questa inutile prodigalitƒ di supplicii, che non ha mai resi migliori gli uomini, mi ha spinto ad
esaminare se la morte sia veramente utile e giusta in un governo bene organizzato. Qual pu„
essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello
da cui risulta la sovranitƒ e le leggi. Esse non sono che una somma di minime porzioni della
privata libertƒ di ciascuno; esse rappresentano la volontƒ generale, che • l'aggregato delle
particolari. Chi • mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l'arbitrio di ucciderlo? Come
mai nel minimo sacrificio della libertƒ di ciascuno vi pu„ essere quello del massimo tra tutti i
beni, la vita? E se ci„ fu fatto, come si accorda un tal principio coll'altro, che l'uomo non •
padrone di uccidersi, e doveva esserlo se ha potuto dare altrui questo diritto o alla societƒ intera?
Non • dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale essere non pu„, ma •
una guerra della nazione con un cittadino, perch‡ giudica necessaria o utile la distruzione del suo
essere. Ma se dimostrer„ non essere la morte n‡ utile n‡ necessaria, avr„ vinto la causa
dell'umanitƒ.
La morte di un cittadino non pu„ credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando anche
privo di libertƒ egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza della
nazione; quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma di
governo stabilita. La morte di qualche cittadino divien dunque necessaria quando la nazione
ricupera o perde la sua libertƒ, o nel tempo dell'anarchia, quando i disordini stessi tengon luogo
di leggi; ma durante il tranquillo regno delle leggi, in una forma di governo per la quale i voti
della nazione siano riuniti, ben munita al di fuori e al di dentro dalla forza e dalla opinione, forse
piŠ efficace della forza medesima, dove il comando non • che presso il vero sovrano, dove le
ricchezze comprano piaceri e non autoritƒ, io non veggo necessitƒ alcuna di distruggere un
cittadino, se non quando la di lui morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal
commettere delitti, secondo motivo per cui pu„ credersi giusta e necessaria la pena di morte.
Quando la sperienza di tutt'i secoli, nei quali l'ultimo supplicio non ha mai distolti gli uomini
determinati dall'offendere la societƒ, quando l'esempio dei cittadini romani, e vent'anni di regno
dell'imperatrice Elisabetta di Moscovia, nei quali diede ai padri dei popoli quest'illustre esempio,
che equivale almeno a molte conquiste comprate col sangue dei figli della patria, non
persuadessero gli uomini, a cui il linguaggio della ragione • sempre sospetto ed efficace quello
dell'autoritƒ, basta consultare la natura dell'uomo per sentire la veritƒ della mia assersione.
Non • l'intensione della pena che fa il maggior effetto sull'animo umano, ma l'estensione di essa;
perch‡ la nostra sensibilitƒ • piŠ facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate
impressioni che da un forte ma passeggiero movimento. L'impero dell'abitudine • universale
sopra ogni essere che sente, e come l'uomo parla e cammina e procacciasi i suoi bisogni col di lei
aiuto, cos‹ l'idee morali non si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse. Non •
il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato
esempio di un uomo privo di libertƒ, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue
fatiche quella societƒ che ha offesa, che • il freno piŠ forte contro i delitti. Quell'efficace, perch‡
spessissimo ripetuto ritorno sopra di noi medesimi, io stesso sar‚ ridotto a cos… lunga e misera
condizione se commetter‚ simili misfatti, • assai piŠ possente che non l'idea della morte, che gli
uomini veggon sempre in una oscura lontananza.
La pena di morte fa un'impressione che colla sua forza non supplisce alla pronta dimenticanza,
naturale all'uomo anche nelle cose piŠ essenziali, ed accelerata dalle passioni. Regola generale:
le passioni violenti sorprendono gli uomini, ma non per lungo tempo, e per„ sono atte a fare
quelle rivoluzioni che di uomini comuni ne fanno o dei Persiani o dei Lacedemoni; ma in un
libero e tranquillo governo le impressioni debbono essere piŠ frequenti che forti.
La pena di morte diviene uno spettacolo per la maggior parte e un oggetto di compassione mista
di sdegno per alcuni; ambidue questi sentimenti occupano piŠ l'animo degli spettatori che non il
salutare terrore che la legge pretende inspirare. Ma nelle pene moderate e continue il sentimento
dominante • l'ultimo perch‡ • il solo. Il limite che fissar dovrebbe il legislatore al rigore delle
pene sembra consistere nel sentimento di compassione, quando comincia a prevalere su di ogni
altro nell'animo degli spettatori d'un supplicio piŠ fatto per essi che per il reo.
Perch‡ una pena sia giusta non deve avere che quei soli gradi d'intensione che bastano a
rimuovere gli uomini dai delitti; ora non vi • alcuno che, riflettendovi, scieglier possa la totale e
perpetua perdita della propria libertƒ per quanto avvantaggioso possa essere un delitto: dunque
l'intensione della pena di schiavit† perpetua sostituita alla pena di morte ha ci„ che basta per
rimuovere qualunque animo determinato; aggiungo che ha di piŠ: moltissimi risguardano la
morte con viso tranquillo e fermo, chi per fanatismo, chi per vanitƒ, che quasi sempre
accompagna l'uomo al di lƒ dalla tomba, chi per un ultimo e disperato tentativo o di non vivere o
di sortir di miseria; ma n‡ il fanatismo n‡ la vanitƒ stanno fra i ceppi o le catene, sotto il bastone,
sotto il giogo, in una gabbia di ferro, e il disperato non finisce i suoi mali, ma gli comincia.
L'animo nostro resiste piŠ alla violenza ed agli estremi ma passeggieri dolori che al tempo ed
all'incessante noia; perch‡ egli pu„ per dir cos‹ condensar tutto se stesso per un momento per
respinger i primi, ma la vigorosa di lui elasticitƒ non basta a resistere alla lunga e ripetuta azione
dei secondi. Colla pena di morte ogni esempio che si dƒ alla nazione suppone un delitto; nella
pena di schiavit† perpetua un sol delitto dƒ moltissimi e durevoli esempi, e se egli • importante
che gli uomini veggano spesso il poter delle leggi, le pene di morte non debbono essere molto
distanti fra di loro: dunque suppongono la frequenza dei delitti, dunque perch‡ questo supplicio
sia utile bisogna che non faccia su gli uomini tutta l'impressione che far dovrebbe, cio• che sia
utile e non utile nel medesimo tempo. Chi dicesse che la schiavit† perpetua • dolorosa quanto la
morte, e perci„ egualmente crudele, io risponder„ che sommando tutti i momenti infelici della
schiavit† lo sarƒ forse anche di piŠ, ma questi sono stesi sopra tutta la vita, e quella esercita tutta
la sua forza in un momento; ed • questo il vantaggio della pena di schiavit†, che spaventa piŠ chi
la vede che chi la soffre; perch‡ il primo considera tutta la somma dei momenti infelici, ed il
secondo • dall'infelicitƒ del momento presente distratto dalla futura. Tutti i mali s'ingrandiscono
nell'immaginazione, e chi soffre trova delle risorse e delle consolazioni non conosciute e non
credute dagli spettatori, che sostituiscono la propria sensibilitƒ all'animo incallito dell'infelice.
Ecco presso a poco il ragionamento che fa un ladro o un assassino, i quali non hanno altro
contrappeso per non violare le leggi che la forca o la ruota. So che lo sviluppare i sentimenti del
proprio animo • un'arte che s'apprende colla educazione; ma perch‡ un ladro non renderebbe
bene i suoi principii, non per ci„ essi agiscon meno. Quali sono queste leggi ch'io debbo
rispettare, che lasciano un cos… grande intervallo tra me e il ricco? Egli mi nega un soldo che li
cerco, e si scusa col comandarmi un travaglio che non conosce. Chi ha fatte queste leggi?
Uomini ricchi e potenti, che non si sono mai degnati visitare le squallide capanne del povero,
che non hanno mai diviso un ammuffito pane fralle innocenti grida degli affamati figliuoli e le
lagrime della moglie. Rompiamo questi legami fatali alla maggior parte ed utili ad alcuni pochi
ed indolenti tiranni, attacchiamo l'ingiustizia nella sua sorgente. Ritorner‚ nel mio stato
d'indipendenza naturale, vivr‚ libero e felice per qualche tempo coi frutti del mio coraggio e
della mia industria, verr€ forse il giorno del dolore e del pentimento, ma sar€ breve questo
tempo, ed avr‚ un giorno di stento per molti anni di libert€ e di piaceri. Re di un piccol numero,
corregger‚ gli errori della fortuna, e vedr‚ questi tiranni impallidire e palpitare alla presenza di
colui che con un insultante fasto posponevano ai loro cavalli, ai loro cani. Allora la religione si
affaccia alla mente dello scellerato, che abusa di tutto, e presentandogli un facile pentimento ed
una quasi certezza di eterna felicitƒ, diminuisce di molto l'orrore di quell'ultima tragedia.
Ma colui che si vede avanti agli occhi un gran numero d'anni, o anche tutto il corso della vita che
passerebbe nella schiavit† e nel dolore in faccia a' suoi concittadini, co' quali vive libero e
sociabile, schiavo di quelle leggi dalle quali era protetto, fa un utile paragone di tutto ci„
coll'incertezza dell'esito de' suoi delitti, colla brevitƒ del tempo di cui ne goderebbe i frutti.
L'esempio continuo di quelli che attualmente vede vittime della propria inavvedutezza, gli fa una
impressione assai piŠ forte che non lo spettacolo di un supplicio che lo indurisce piŠ che non lo
corregge.
Non • utile la pena di morte per l'esempio di atrocitƒ che dƒ agli uomini. Se le passioni o la
necessitƒ della guerra hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi moderatrici della
condotta degli uomini non dovrebbono aumentare il fiero esempio, tanto piŠ funesto quanto la
morte legale • data con istudio e con formalitƒ. Parmi un assurdo che le leggi, che sono
l'espressione della pubblica volontƒ, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettono uno
esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio.
Quali sono le vere e le piŠ utili leggi? Quei patti e quelle condizioni che tutti vorrebbero
osservare e proporre, mentre tace la voce sempre ascoltata dell'interesse privato o si combina con
quello del pubblico. Quali sono i sentimenti di ciascuno sulla pena di morte? Leggiamoli negli
atti d'indegnazione e di disprezzo con cui ciascuno guarda il carnefice, che • pure un innocente
esecutore della pubblica volontƒ, un buon cittadino che contribuisce al ben pubblico, lo
stromento necessario alla pubblica sicurezza al di dentro, come i valorosi soldati al di fuori. Qual
• dunque l'origine di questa contradizione? E perch‡ • indelebile negli uomini questo sentimento
ad onta della ragione? Perch‡ gli uomini nel piŠ secreto dei loro animi, parte che piŠ d'ogn'altra
conserva ancor la forma originale della vecchia natura, hanno sempre creduto non essere la vita
propria in potestƒ di alcuno fuori che della necessitƒ, che col suo scettro di ferro regge l'universo.
Che debbon pensare gli uomini nel vedere i savi magistrati e i gravi sacerdoti della giustizia, che
con indifferente tranquillitƒ fanno strascinare con lento apparato un reo alla morte, e mentre un
misero spasima nelle ultime angosce, aspettando il colpo fatale, passa il giudice con insensibile
freddezza, e fors'anche con segreta compiacenza della propria autoritƒ, a gustare i comodi e i
piaceri della vita? Ah!, diranno essi, queste leggi non sono che i pretesti della forza e le meditate
e crudeli formalit€ della giustizia; non sono che un linguaggio di convenzione per immolarci con
maggiore sicurezza, come vittime destinate in sacrificio, all'idolo insaziabile del dispotismo.
L'assassinio, che ci vien predicato come un terribile misfatto, lo veggiamo pure senza
ripugnanza e senza furore adoperato. Prevalghiamoci dell'esempio. Ci pareva la morte violenta
una scena terribile nelle descrizioni che ci venivan fatte, ma lo veggiamo un affare di momento.
Quanto lo sar€ meno in chi, non aspettandola, ne risparmia quasi tutto ci‚ che ha di doloroso!
Tali sono i funesti paralogismi che, se non con chiarezza, confusamente almeno, fanno gli
uomini disposti a' delitti, ne' quali, come abbiam veduto, l'abuso della religione pu„ piŠ che la
religione medesima.
Se mi si opponesse l'esempio di quasi tutt'i secoli e di quasi tutte le nazioni, che hanno data pena
di morte ad alcuni delitti, io risponder„ che egli si annienta in faccia alla veritƒ, contro della
quale non vi ha prescrizione; che la storia degli uomini ci dƒ l'idea di un immenso pelago di
errori, fra i quali poche e confuse, e a grandi intervalli distanti, veritƒ soprannuotano. Gli umani
sacrifici furon comuni a quasi tutte le nazioni, e chi oserƒ scusargli? Che alcune poche societƒ, e
per poco tempo solamente, si sieno astenute dal dare la morte, ci„ mi • piuttosto favorevole che
contrario, perch‡ ci„ • conforme alla fortuna delle grandi veritƒ, la durata delle quali non • che
un lampo, in paragone della lunga e tenebrosa notte che involge gli uomini. Non • ancor giunta
l'epoca fortunata, in cui la veritƒ, come finora l'errore, appartenga al piŠ gran numero, e da questa
legge universale non ne sono andate esenti fin ora che le sole veritƒ che la Sapienza infinita ha
voluto divider dalle altre col rivelarle.
La voce di un filosofo • troppo debole contro i tumulti e le grida di tanti che son guidati dalla
cieca consuetudine, ma i pochi saggi che sono sparsi sulla faccia della terra mi faranno eco
nell'intimo de' loro cuori; e se la veritƒ potesse, fra gl'infiniti ostacoli che l'allontanano da un
monarca, mal grado suo, giungere fino al suo trono, sappia che ella vi arriva co' voti segreti di
tutti gli uomini, sappia che tacerƒ in faccia a lui la sanguinosa fama dei conquistatori e che la
giusta posteritƒ gli assegna il primo luogo fra i pacifici trofei dei Titi, degli Antonini e dei
Traiani.
Felice l'umanitƒ, se per la prima volta le si dettassero leggi, ora che veggiamo riposti su i troni di
Europa monarchi benefici, animatori delle pacifiche virtŠ, delle scienze, delle arti, padri de' loro
popoli, cittadini coronati, l'aumento dell'autoritƒ de' quali forma la felicitƒ de' sudditi perch‡
toglie quell'intermediario dispotismo piŠ crudele, perch‡ men sicuro, da cui venivano soffogati i
voti sempre sinceri del popolo e sempre fausti quando posson giungere al trono! Se essi, dico,
lascian sussistere le antiche leggi, ci„ nasce dalla difficoltƒ infinita di togliere dagli errori la
venerata ruggine di molti secoli, ci„ • un motivo per i cittadini illuminati di desiderare con
maggiore ardore il continuo accrescimento della loro autoritƒ.
Cap.29
DELLA CATTURA
Un errore non meno comune che contrario al fine sociale, che • l'opinione della propria
sicurezza, • il lasciare arbitro il magistrato esecutore delle leggi d'imprigionare un cittadino, di
togliere la libertƒ ad un nemico per frivoli pretesti, e di lasciare impunito un amico ad onta
degl'indizi piŠ forti di reitƒ. La prigionia • una pena che per necessitƒ deve, a differenza
d'ogn'altra, precedere la dichiarazione del delitto, ma questo carattere distintivo non le toglie
l'altro essenziale, cio• che la sola legge determini i casi nei quali un uomo • degno di pena. La
legge dunque accennerƒ gl'indizi di un delitto che meritano la custodia del reo, che lo
assoggettano ad un esame e ad una pena. La pubblica fama, la fuga, la stragiudiciale confessione,
quella d'un compagno del delitto, le minaccie e la costante inimicizia con l'offeso, il corpo del
delitto, e simili indizi, sono prove bastanti per catturare un cittadino; ma queste prove devono
stabilirsi dalla legge e non dai giudici, i decreti de' quali sono sempre opposti alla libertƒ politica,
quando non sieno proposizioni particolari di una massima generale esistente nel pubblico codice.
A misura che le pene saranno moderate, che sarƒ tolto lo squallore e la fame dalle carceri, che la
compassione e l'umanitƒ penetreranno le porte ferrate e comanderanno agl'inesorabili ed induriti
ministri della giustizia, le leggi potranno contentarsi d'indizi sempre piŠ deboli per catturare. Un
uomo accusato di un delitto, carcerato ed assoluto non dovrebbe portar seco nota alcuna
d'infamia. Quanti romani accusati di gravissimi delitti, trovati poi innocenti, furono dal popolo
riveriti e di magistrature onorati! Ma per qual ragione • cos‹ diverso ai tempi nostri l'esito di un
innocente? Perch‡ sembra che nel presente sistema criminale, secondo l'opinione degli uomini,
prevalga l'idea della forza e della prepotenza a quella della giustizia; perch‡ si gettano confusi
nella stessa caverna gli accusati e i convinti; perch‡ la prigione • piuttosto un supplicio che una
custodia del reo, e perch‡ la forza interna tutrice delle leggi • separata dalla esterna difenditrice
del trono e della nazione, quando unite dovrebbon essere. Cos‹ la prima sarebbe, per mezzo del
comune appoggio delle leggi, combinata colla facoltƒ giudicativa, ma non dipendente da quella
con immediata podestƒ, e la gloria, che accompagna la pompa, ed il fasto di un corpo militare
toglierebbero l'infamia, la quale • piŠ attaccata al modo che alla cosa, come tutt'i popolari
sentimenti; ed • provato dall'essere le prigionie militari nella comune opinione non cos‹
infamanti come le forensi. Durano ancora nel popolo, ne' costumi e nelle leggi, sempre di piŠ di
un secolo inferiori in bontƒ ai lumi attuali di una nazione, durano ancora le barbare impressioni e
le feroci idee dei settentrionali cacciatori padri nostri.
Alcuni hanno sostenuto che in qualunque luogo commettasi un delitto, cio• un'azione contraria
alle leggi, possa essere punito; quasi che il carattere di suddito fosse indelebile, cio• sinonimo,
anzi peggiore di quello di schiavo; quasi che uno potesse esser suddito di un dominio ed abitare
in un altro, e che le di lui azioni potessero senza contradizione esser subordinate a due sovrani e
a due codici sovente contradittori. Alcuni credono parimente che un'azione crudele fatta, per
esempio, a Costantinopoli, possa esser punita a Parigi, per l'astratta ragione che chi offende
l'umanitƒ merita di avere tutta l'umanitƒ inimica e l'esecrazione universale; quasich‡ i giudici
vindici fossero della sensibilitƒ degli uomini e non piuttosto dei patti che gli legano tra di loro. Il
luogo della pena • il luogo del delitto, perch‡ ivi solamente e non altrove gli uomini sono sforzati
di offendere un privato per prevenire l'offesa pubblica. Uno scellerato, ma che non ha rotti i patti
di una societƒ di cui non era membro, pu„ essere temuto, e per„ dalla forza superiore della
societƒ esiliato ed escluso, ma non punito colle formalitƒ delle leggi vindici dei patti, non della
malizia intrinseca delle azioni.
Sogliono i rei di delitti piŠ leggieri esser puniti o nell'oscuritƒ di una prigione, o mandati a dar
esempio, con una lontana e per„ quasi inutile schiavit†, a nazioni che non hanno offeso. Se gli
uomini non s'inducono in un momento a commettere i piŠ gravi delitti, la pubblica pena di un
gran misfatto sarƒ considerata dalla maggior parte come straniera ed impossibile ad accaderle;
ma la pubblica pena di delitti piŠ leggeri, ed a' quali l'animo • piŠ vicino, farƒ un'impressione
che, distogliendolo da questi, l'allontani viepiŠ da quegli. Le pene non devono solamente esser
proporzionate fra loro ed ai delitti nella forza, ma anche nel modo d'infliggerle. Alcuni liberano
dalla pena di un piccolo delitto quando la parte offesa lo perdoni, atto conforme alla beneficenza
ed all'umanitƒ, ma contrario al ben pubblico, quasi che un cittadino privato potesse egualmente
togliere colla sua remissione la necessitƒ dell'esempio, come pu„ condonare il risarcimento
dell'offesa. Il diritto di far punire non • di un solo, ma di tutti i cittadini o del sovrano. Egli non
pu„ che rinunziare alla sua porzione di diritto, ma non annullare quella degli altri.
Cap.30
PROCESSI E PRESCRIZIONE
Conosciute le prove e calcolata la certezza del delitto, • necessario concedere al reo il tempo e
mezzi opportuni per giustificarsi; ma tempo cos‹ breve che non pregiudichi alla prontezza della
pena, che abbiamo veduto essere uno de' principali freni de' delitti. Un mal inteso amore della
umanitƒ sembra contrario a questa brevitƒ di tempo, ma svanirƒ ogni dubbio se si rifletta che i
pericoli dell'innocenza crescono coi difetti della legislazione.
Ma le leggi devono fissare un certo spazio di tempo, s‹ alla difesa del reo che alle prove de'
delitti, e il giudice diverrebbe legislatore se egli dovesse decidere del tempo necessario per
provare un delitto. Parimente quei delitti atroci, dei quali lunga resta la memoria negli uomini,
quando sieno provati, non meritano alcuna prescrizione in favore del reo che si • sottratto colla
fuga; ma i delitti minori ed oscuri devono togliere colla prescrizione l'incertezza della sorte di un
cittadino, perch‡ l'oscuritƒ in cui sono stati involti per lungo tempo i delitti toglie l'esempio della
impunitƒ, rimane intanto il potere al reo di divenir migliore. Mi basta accennar questi principii,
perch‡ non pu„ fissarsi un limite preciso che per una data legislazione e nelle date circostanze di
una societƒ; aggiunger„ solamente che, provata l'utilitƒ delle pene moderate in una nazione, le
leggi che in proporzione dei delitti scemano o accrescono il tempo della prescrizione, o il tempo
delle prove, formando cos‹ della carcere medesima o del volontario esilio una parte di pena,
somministreranno una facile divisione di poche pene dolci per un gran numero di delitti.
Ma questi tempi non cresceranno nell'esatta proporzione dell'atrocitƒ de' delitti, poich‡ la
probabilitƒ dei delitti • in ragione inversa della loro atrocitƒ. Dovrƒ dunque scemarsi il tempo
dell'esame e crescere quello della prescrizione, il che parrebbe una contradizione di quanto dissi,
cio• che possono darsi pene eguali a delitti diseguali, valutando il tempo della carcere o della
prescrizione, precedenti la sentenza, come una pena. Per ispiegare al lettore la mia idea,
distinguo due classi di delitti: la prima • quella dei delitti atroci, e questa comincia dall'omicidio,
e comprende tutte le ulteriori sceleraggini; la seconda • quella dei delitti minori. Questa
distinzione ha il suo fondamento nella natura umana. La sicurezza della propria vita • un diritto
di natura, la sicurezza dei beni • un diritto di societƒ. Il numero de' motivi che spingon gli uomini
oltre il naturale sentimento di pietƒ • di gran lunga minore al numero de' motivi che per la
naturale aviditƒ di esser felici gli spingono a violare un diritto, che non trovano ne' loro cuori ma
nelle convenzioni della societƒ. La massima differenza di probabilitƒ di queste due classi esige
che si regolino con diversi principii: nei delitti piŠ atroci, perch‡ piŠ rari, deve sminuirsi il tempo
dell'esame per l'accrescimento della probabilitƒ dell'innocenza del reo, e deve crescere il tempo
della prescrizione, perch‡ dalla definitiva sentenza della innocenza o reitƒ di un uomo dipende il
togliere la lusinga della impunitƒ, di cui il danno cresce coll'atrocitƒ del delitto. Ma nei delitti
minori scemandosi la probabilitƒ dell'innocenza del reo, deve crescere il tempo dell'esame e,
scemandosi il danno dell'impunitƒ, deve diminuirsi il tempo della prescrizione. Una tal
distinzione di delitti in due classi non dovrebbe ammettersi, se altrettanto scemasse il danno
dell'impunitƒ quanto cresce la probabilitƒ del delitto. Riflettasi che un accusato, di cui non consti
n‡ l'innocenza n‡ la reitƒ, bench‡ liberato per mancanza di prove, pu„ soggiacere per il
medesimo delitto a nuova cattura e a nuovi esami, se emanano nuovi indizi indicati dalla legge,
finch‡ non passi il tempo della prescrizione fissata al suo delitto. Tale • almeno il temperamento
che sembrami opportuno per difendere e la sicurezza e la libertƒ de' sudditi, essendo troppo facile
che l'una non sia favorita a spese dell'altra, cosicch‡ questi due beni, che formano l'inalienabile
ed ugual patrimonio di ogni cittadino, non siano protetti e custoditi l'uno dall'aperto o mascherato
dispotismo, l'altro dalla turbolenta popolare anarchia.
Cap.31
DELITTI DI PROVA DIFFICILE
In vista di questi principii strano parrƒ, a chi non riflette che la ragione non • quasi mai stata la
legislatrice delle nazioni, che i delitti o piŠ atroci o piŠ oscuri e chimerici, cio• quelli de' quali
l'improbabilitƒ • maggiore, sieno provati dalle conghietture e dalle prove piŠ deboli ed
equivoche; quasich‡ le leggi e il giudice abbiano interesse non di cercare la veritƒ, ma di provare
il delitto; quasich‡ di condannare un innocente non vi sia un tanto maggior pericolo quanto la
probabilitƒ dell'innocenza supera la probabilitƒ del reato. Manca nella maggior parte degli
uomini quel vigore necessario egualmente per i grandi delitti che per le grandi virtŠ, per cui pare
che gli uni vadan sempre contemporanei colle altre in quelle nazioni che piŠ si sostengono per
l'attivitƒ del governo e delle passioni cospiranti al pubblico bene che per la massa loro o la
costante bontƒ delle leggi. In queste le passioni indebolite sembran piŠ atte a mantenere che a
migliorare la forma di governo. Da ci„ si cava una conseguenza importante, che non sempre in
una nazione i grandi delitti provano il suo deperimento.
Vi sono alcuni delitti che sono nel medesimo tempo frequenti nella societƒ e difficili a provarsi, e
in questi la difficoltƒ della prova tien luogo della probabilitƒ dell'innocenza, ed il danno
dell'impunitƒ essendo tanto meno valutabile quanto la frequenza di questi delitti dipende da
principii diversi dal pericolo dell'impunitƒ, il tempo dell'esame e il tempo della prescrizione
devono diminuirsi egualmente. E pure gli adulterii, la greca libidine, che sono delitti di difficile
prova, sono quelli che secondo i principii ricevuti ammettono le tiranniche presunzioni, le quasiprove, le semi-prove (quasi che un uomo potesse essere semi-innocente o semi-reo, cio• semipunibile e semi-assolvibile), dove la tortura esercita il crudele suo impero nella persona
dell'accusato, nei testimoni, e persino in tutta la famiglia di un infelice, come con iniqua
freddezza insegnano alcuni dottori che si danno ai giudici per norma e per legge.
L'adulterio • un delitto che, considerato politicamente, ha la sua forza e la sua direzione da due
cagioni: le leggi variabili degli uomini e quella fortissima attrazione che spinge l'un sesso verso
l'altro; simile in molti casi alla gravitƒ motrice dell'universo, perch‡ come essa diminuisce colle
distanze, e se l'una modifica tutt'i movimenti de' corpi, cos‹ l'altra quasi tutti quelli dell'animo,
finch‡ dura il di lei periodo; dissimile in questo, che la gravitƒ si mette in equilibrio cogli
ostacoli, ma quella per lo piŠ prende forza e vigore col crescere degli ostacoli medesimi.
Se io avessi a parlare a nazioni ancora prive della luce della religione direi che vi • ancora
un'altra differenza considerabile fra questo e gli altri delitti. Egli nasce dall'abuso di un bisogno
costante ed universale a tutta l'umanitƒ, bisogno anteriore, anzi fondatore della societƒ medesima,
laddove gli altri delitti distruttori di essa hanno un'origine piŠ determinata da passioni
momentanee che da un bisogno naturale. Un tal bisogno sembra, per chi conosce la storia e
l'uomo, sempre uguale nel medesimo clima ad una quantitƒ costante. Se ci„ fosse vero, inutili,
anzi perniciose sarebbero quelle leggi e quei costumi che cercassero diminuirne la somma totale,
perch‡ il loro effetto sarebbe di caricare una parte dei propri e degli altrui bisogni, ma sagge per
lo contrario sarebbero quelle che, per dir cos‹, seguendo la facile inclinazione del piano, ne
dividessero e diramassero la somma in tante eguali e piccole porzioni, che impedissero
uniformemente in ogni parte e l'ariditƒ e l'allagamento. La fedeltƒ coniugale • sempre
proporzionata al numero ed alla libertƒ de' matrimoni. Dove gli ereditari pregiudizi gli reggono,
dove la domestica potestƒ gli combina e gli scioglie, ivi la galanteria ne rompe secretamente i
legami ad onta della morale volgare, il di cui officio • di declamare contro gli effetti, perdonando
alle cagioni. Ma non vi • bisogno di tali riflessioni per chi, vivendo nella vera religione, ha piŠ
sublimi motivi, che correggono la forza degli effetti naturali. L'azione di un tal delitto • cos‹
instantanea e misteriosa, cos‹ coperta da quel velo medesimo che le leggi hanno posto, velo
necessario, ma fragile, e che aumenta il pregio della cosa in vece di scemarlo, le occasioni cos‹
facili, le conseguenze cos‹ equivoche, che • piŠ in mano del legislatore il prevenirlo che
correggerlo. Regola generale: in ogni delitto che, per sua natura, dev'essere il piŠ delle volte
impunito, la pena diviene un incentivo. Ella • proprietƒ della nostra immaginazione che le
difficoltƒ, se non sono insormontabili o troppo difficili rispetto alla pigrizia d'animo di ciascun
uomo, eccitano piŠ vivamente l'immaginazione ed ingrandiscono l'oggetto, perch‡ elleno sono
quasi altrettanti ripari che impediscono la vagabonda e volubile immaginazione di sortire
dall'oggetto, e costringendola a scorrere tutt'i rapporti, piŠ strettamente si attacca alla parte
piacevole, a cui piŠ naturalmente l'animo nostro si avventa, che non alla dolorosa e funesta, da
cui fugge e si allontana.
L'attica venere cos‹ severamente punita dalle leggi e cos‹ facilmente sottoposta ai tormenti
vincitori dell'innocenza, ha meno il suo fondamento su i bisogni dell'uomo isolato e libero che
sulle passioni dell'uomo sociabile e schiavo. Essa prende la sua forza non tanto dalla sazietƒ dei
piaceri, quanto da quella educazione che comincia per render gli uomini inutili a se stessi per
fargli utili ad altri, in quelle case dove si condensa l'ardente giovent†, dove essendovi un argine
insormontabile ad ogni altro commercio, tutto il vigore della natura che si sviluppa si consuma
inutilmente per l'umanitƒ, anzi ne anticipa la vecchiaia.
L'infanticidio • parimente l'effetto di una inevitabile contradizione, in cui • posta una persona,
che per debolezza o per violenza abbia ceduto. Chi trovasi tra l'infamia e la morte di un essere
incapace di sentirne i mali, come non preferirƒ questa alla miseria infallibile a cui sarebbero
esposti ella e l'infelice frutto? La miglior maniera di prevenire questo delitto sarebbe di
proteggere con leggi efficaci la debolezza contro la tirannia, la quale esagera i vizi che non
possono coprirsi col manto della virtŠ.
Io non pretendo diminuire il giusto orrore che meritano questi delitti; ma, indicandone le
sorgenti, mi credo in diritto di cavarne una conseguenza generale, cio• che non si pu„ chiamare
precisamente giusta (il che vuol dire necessaria) una pena di un delitto, finch‡ la legge non ha
adoperato il miglior mezzo possibile nelle date circostanze d'una nazione per prevenirlo.
Cap.32
SUICIDIO
Il suicidio • un delitto che sembra non poter ammettere una pena propriamente detta, poich‡ ella
non pu„ cadere che o su gl'innocenti, o su di un corpo freddo ed insensibile. Se questa non farƒ
alcuna impressione su i viventi, come non lo farebbe lo sferzare una statua, quella • ingiusta e
tirannica, perch‡ la libertƒ politica degli uomini suppone necessariamente che le pene sieno
meramente personali. Gli uomini amano troppo la vita, e tutto ci„ che gli circonda li conferma in
questo amore. La seducente immagine del piacere e la speranza, dolcissimo inganno de' mortali,
per cui trangugiano a gran sorsi il male misto di poche stille di contento, gli alletta troppo perch‡
temer si debba che la necessaria impunitƒ di un tal delitto abbia qualche influenza sugli uomini.
Chi teme il dolore ubbidisce alle leggi; ma la morte ne estingue nel corpo tutte le sorgenti. Qual
dunque sarƒ il motivo che tratterrƒ la mano disperata del suicida?
Chiunque si uccide fa un minor male alla societƒ che colui che ne esce per sempre dai confini,
perch‡ quegli vi lascia tutta la sua sostanza, ma questi trasporta se stesso con parte del suo avere.
Anzi se la forza della societƒ consiste nel numero de' cittadini, col sottrarre se stesso e darsi ad
una vicina nazione fa un doppio danno di quello che lo faccia chi semplicemente colla morte si
toglie alla societƒ. La questione dunque si riduce a sapere se sia utile o dannoso alla nazione il
lasciare una perpetua libertƒ di assentarsi a ciascun membro di essa.
Ogni legge che non sia armata, o che la natura delle circostanze renda insussistente, non deve
promulgarsi; e come sugli animi regna l'opinione, che ubbidisce alle lente ed indirette
impressioni del legislatore, che resiste alle dirette e violente, cos‹ le leggi inutili, disprezzate
dagli uomini, comunicano il loro avvilimento alle leggi anche piŠ salutari, che sono risguardate
piŠ come un ostacolo da superarsi che il deposito del pubblico bene. Anzi se, come fu detto, i
nostri sentimenti sono limitati, quanta venerazione gli uomini avranno per oggetti estranei alle
leggi tanto meno ne resterƒ alle leggi medesime. Da questo principio il saggio dispensatore della
pubblica felicitƒ pu„ trarre alcune utili conseguenze, che, esponendole, mi allontanerebbono
troppo dal mio soggetto, che • di provare l'inutilitƒ di fare dello stato una prigione. Una tal legge
• inutile perch‡, a meno che scogli inaccessibili o mare innavigabile non dividano un paese da
tutti gli altri, come chiudere tutti i punti della circonferenza di esso e come custodire i custodi?
Chi tutto trasporta non pu„, da che lo ha fatto, esserne punito. Un tal delitto subito che •
commesso non pu„ piŠ punirsi, e il punirlo prima • punire la volontƒ degli uomini e non le
azioni; egli • un comandare all'intenzione, parte liberissima dell'uomo dall'impero delle umane
leggi. Il punire l'assente nelle sostanze lasciatevi, oltre la facile ed inevitabile collusione, che
senza tiranneggiare i contratti non pu„ esser tolta, arrenerebbe ogni commercio da nazione a
nazione. Il punirlo quando ritornasse il reo, sarebbe l'impedire che si ripari il male fatto alla
societƒ col rendere tutte le assenze perpetue. La proibizione stessa di sortire da un paese ne
aumenta il desiderio ai nazionali di sortirne, ed • un avvertimento ai forestieri di non
introdurvisi.
Che dovremo pensare di un governo che non ha altro mezzo per trattenere gli uomini,
naturalmente attaccati per le prime impressioni dell'infanzia alla loro patria, fuori che il timore?
La piŠ sicura maniera di fissare i cittadini nella patria • di aumentare il ben essere relativo di
ciascheduno. Come devesi fare ogni sforzo perch‡ la bilancia del commercio sia in nostro favore,
cos‹ • il massimo interesse del sovrano e della nazione che la somma della felicitƒ, paragonata
con quella delle nazioni circostanti, sia maggiore che altrove. I piaceri del lusso non sono i
principali elementi di questa felicitƒ, quantunque questo sia un rimedio necessario alla
disuguaglianza, che cresce coi progressi di una nazione, senza di cui le ricchezze si
addenserebbono in una sola mano. Dove i confini di un paese si aumentano in maggior ragione
che non la popolazione di esso, ivi il lusso favorisce il dispotismo, s‹ perch‡ quanto gli uomini
sono piŠ rari tanto • minore l'industria; e quanto • minore l'industria, • tanto piŠ grande la
dipendenza della povertƒ dal fasto, ed • tanto piŠ difficile e men temuta la riunione degli
oppressi contro gli oppressori, s‹ perch‡ le adorazioni, gli uffici, le distinzioni, la sommissione,
che rendono piŠ sensibile la distanza tra il forte e il debole, si ottengono piŠ facilmente dai pochi
che dai molti, essendo gli uomini tanto piŠ indipendenti quanto meno osservati, e tanto meno
osservati quanto maggiore ne • il numero. Ma dove la popolazione cresce in maggior
proporzione che non i confini, il lusso si oppone al dispotismo, perch‡ anima l'industria e
l'attivitƒ degli uomini, e il bisogno offre troppi piaceri e comodi al ricco perch‡ quegli
d'ostentazione, che aumentano l'opinione di dipendenza, abbiano il maggior luogo. Quindi pu„
osservarsi che negli stati vasti e deboli e spopolati, se altre cagioni non vi mettono ostacolo, il
lusso d'ostentazione prevale a quello di comodo; ma negli stati popolati piŠ che vasti il lusso di
comodo fa sempre sminuire quello di ostentazione. Ma il commercio ed il passaggio dei piaceri
del lusso ha questo inconveniente, che quantunque facciasi per il mezzo di molti, pure comincia
in pochi, e termina in pochi, e solo pochissima parte ne gusta il maggior numero, talch‡ non
impedisce il sentimento della miseria, piŠ cagionato dal paragone che dalla realitƒ. Ma la
sicurezza e la libertƒ limitata dalle sole leggi sono quelle che formano la base principale di
questa felicitƒ, colle quali i piaceri del lusso favoriscono la popolazione, e senza di quelle
divengono lo stromento della tirannia. Siccome le fiere piŠ generose e i liberissimi uccelli si
allontanano nelle solitudini e nei boschi inaccessibili, ed abbandonano le fertili e ridenti
campagne all'uomo insidiatore, cos‹ gli uomini fuggono i piaceri medesimi quando la tirannia gli
distribuisce.
Egli • dunque dimostrato che la legge che imprigiona i sudditi nel loro paese • inutile ed
ingiusta. Dunque lo sarƒ parimente la pena del suicidio; e perci„, quantunque sia una colpa che
Dio punisce, perch‡ solo pu„ punire anche dopo la morte, non • un delitto avanti gli uomini,
perch‡ la pena, in vece di cadere sul reo medesimo, cade sulla di lui famiglia. Se alcuno mi
opponesse che una tal pena pu„ nondimeno ritrarre un uomo determinato dall'uccidersi, io
rispondo: che chi tranquillamente rinuncia al bene della vita, che odia l'esistenza quaggi†, talch‡
vi preferisce un'infelice eternitƒ, deve essere niente mosso dalla meno efficace e piŠ lontana
considerazione dei figli o dei parenti.
Cap.33
CONTRABBANDI
Il contrabbando • un vero delitto che offende il sovrano e la nazione, ma la di lui pena non
dev'essere infamante, perch‡ commesso non produce infamia nella pubblica opinione. Chiunque
dƒ pene infamanti a' delitti che non sono reputati tali dagli uomini, scema il sentimento d'infamia
per quelli che lo sono. Chiunque vedrƒ stabilita la medesima pena di morte, per esempio, a chi
uccide un fagiano ed a chi assassina un uomo o falsifica uno scritto importante, non farƒ alcuna
differenza tra questi delitti, distruggendosi in questa maniera i sentimenti morali, opera di molti
secoli e di molto sangue, lentissimi e difficili a prodursi nell'animo umano, per far nascere i quali
fu creduto necessario l'aiuto dei piŠ sublimi motivi e un tanto apparato di gravi formalitƒ.
Questo delitto nasce dalla legge medesima poich‡, crescendo la gabella, cresce sempre il
vantaggio, e per„ la tentazione di fare il contrabbando e la facilitƒ di commetterlo cresce colla
circonferenza da custodirsi e colla diminuzione del volume della merce medesima. La pena di
perdere e la merce bandita e la roba che l'accompagna • giustissima, ma sarƒ tanto piŠ efficace
quanto piŠ piccola sarƒ la gabella, perch‡ gli uomini non rischiano che a proporzione del
vantaggio che l'esito felice dell'impresa produrrebbe.
Ma perch‡ mai questo delitto non cagiona infamia al di lui autore, essendo un furto fatto al
principe, e per conseguenza alla nazione medesima? Rispondo che le offese che gli uomini
credono non poter essere loro fatte, non l'interessano tanto che basti a produrre la pubblica
indegnazione contro di chi le commette. Tale • il contrabbando. Gli uomini su i quali le
conseguenze rimote fanno debolissime impressioni, non veggono il danno che pu„ loro accadere
per il contrabbando, anzi sovente ne godono i vantaggi presenti. Essi non veggono che il danno
fatto al principe; non sono dunque interessati a privare dei loro suffragi chi fa un contrabbando,
quanto lo sono contro chi commette un furto privato, contro chi falsifica il carattere, ed altri mali
che posson loro accadere. Principio evidente che ogni essere sensibile non s'interessa che per i
mali che conosce.
Ma dovrassi lasciare impunito un tal delitto contro chi non ha roba da perdere? No: vi sono dei
contrabbandi che interessano talmente la natura del tributo, parte cos‹ essenziale e cos‹ difficile
in una buona legislazione, che un tal delitto merita una pena considerabile fino alla prigione
medesima, fino alla servit†; ma prigione e servit† conforme alla natura del delitto medesimo. Per
esempio la prigionia del contrabbandiere di tabacco non dev'essere comune con quella del sicario
o del ladro, e i lavori del primo, limitati al travaglio e servigio della regalia medesima che ha
voluto defraudare, saranno i piŠ conformi alla natura delle pene.
Cap.34
DEI DEBITORI
La buona fede dei contratti, la sicurezza del commercio costringono il legislatore ad assicurare ai
creditori le persone dei debitori falliti, ma io credo importante il distinguere il fallito doloso dal
fallito innocente; il primo dovrebbe esser punito coll'istessa pena che • assegnata ai falsificatori
delle monete, poich‡ il falsificare un pezzo di metallo coniato, che • un pegno delle obbligazioni
de' cittadini, non • maggior delitto che il falsificare le obbligazioni stesse. Ma il fallito innocente,
ma colui che dopo un rigoroso esame ha provato innanzi a' suoi giudici che o l'altrui malizia, o
l'altrui disgrazia, o vicende inevitabili dalla prudenza umana lo hanno spogliato delle sue
sostanze, per qual barbaro motivo dovrƒ essere gettato in una prigione, privo dell'unico e tristo
bene che gli avanza di una nuda libertƒ, a provare le angosce dei colpevoli, e colla disperazione
della probitƒ oppressa a pentirsi forse di quella innocenza colla quale vivea tranquillo sotto la
tutela di quelle leggi che non era in sua balˆa di non offendere, leggi dettate dai potenti per
aviditƒ, e dai deboli sofferte per quella speranza che per lo piŠ scintilla nell'animo umano, la
quale ci fa credere gli avvenimenti sfavorevoli esser per gli altri e gli avantaggiosi per noi? Gli
uomini abbandonati ai loro sentimenti i piŠ obvii amano le leggi crudeli, quantunque, soggetti
alle medesime, sarebbe dell'interesse di ciascuno che fossero moderate, perch‡ • piŠ grande il
timore di essere offesi che la voglia di offendere. Ritornando all'innocente fallito, dico che se
inestinguibile dovrƒ essere la di lui obbligazione fino al totale pagamento, se non gli sia concesso
di sottrarvisi senza il consenso delle parti interessate e di portar sotto altre leggi la di lui
industria, la quale dovrebb'esser costretta sotto pene ad essere impiegata a rimetterlo in istato di
soddisfare proporzionalmente ai progressi, qual sarƒ il pretesto legittimo, come la sicurezza del
commercio, come la sacra proprietƒ dei beni, che giustifichi una privazione di libertƒ inutile fuori
che nel caso di far coi mali della schiavit† svelare i secreti di un supposto fallito innocente, caso
rarissimo nella supposizione di un rigoroso esame! Credo massima legislatoria che il valore
degl'inconvenienti politici sia in ragione composta della diretta del danno pubblico, e della
inversa della improbabilitƒ di verificarsi. Potrebbesi distinguere il dolo dalla colpa grave, la
grave dalla leggiera, e questa dalla perfetta innocenza, ed assegnando al primo le pene dei delitti
di falsificazione, alla seconda minori, ma con privazione di libertƒ, riserbando all'ultima la scelta
libera dei mezzi di ristabilirsi, togliere alla terza la libertƒ di farlo, lasciandola ai creditori. Ma le
distinzioni di grave e di leggero debbon fissarsi dalla cieca ed imparzial legge, non dalla
pericolosa ed arbitraria prudenza dei giudici. Le fissazioni dei limiti sono cos‹ necessarie nella
politica come nella matematica, tanto nella misura del ben pubblico quanto nella misura delle
grandezze. proprietƒ dei beni, che giustifichi una privazione di libertƒ inutile fuori che nel caso di
far coi mali della schiavit† svelare i secreti di un supposto fallito innocente, caso rarissimo nella
supposizione di un rigoroso esame! Credo massima legislatoria che il valore degl'inconvenienti
politici sia in ragione composta della diretta del danno pubblico, e della inversa della
improbabilitƒ di verificarsi. Potrebbesi distinguere il dolo dalla colpa grave, la grave dalla
leggiera, e questa dalla perfetta innocenza, ed assegnando al primo le pene dei delitti di
falsificazione, alla seconda minori, ma con privazione di libertƒ, riserbando all'ultima la scelta
libera dei mezzi di ristabilirsi, togliere alla terza la libertƒ di farlo, lasciandola ai creditori. Ma le
distinzioni di grave e di leggero debbon fissarsi dalla cieca ed imparzial legge, non dalla
pericolosa ed arbitraria prudenza dei giudici. Le fissazioni dei limiti sono cos‹ necessarie nella
politica come nella matematica, tanto nella misura del ben pubblico quanto nella misura delle
grandezze.
Con quale facilitƒ il provido legislatore potrebbe impedire una gran parte dei fallimenti
colpevoli, e rimediare alle disgrazie dell'innocente industrioso! La pubblica e manifesta
registrazione di tutt'i contratti, e la libertƒ a tutt'i cittadini di consultarne i documenti bene
ordinati, un banco pubblico formato dai saggiamente ripartiti tributi sulla felice mercatura e
destinato a soccorrere colle somme opportune l'infelice ed incolpabile membro di essa, nessun
reale inconveniente avrebbero ed innumerabili vantaggi possono produrre. Ma le facili, le
semplici, le grandi leggi, che non aspettano che il cenno del legislatore per ispandere nel seno
della nazione la dovizia e la robustezza, leggi che d'inni immortali di riconoscenza di
generazione in generazione lo ricolmerebbero, sono o le men cognite o le meno volute. Uno
spirito inquieto e minuto, la timida prudenza del momento presente, una guardinga rigidezza alle
novitƒ s'impadroniscono dei sentimenti di chi combina la folla delle azioni dei piccoli mortali.
Cap.35
ASILI
Mi restano ancora due questioni da esaminare: l'una, se gli asili sieno giusti, e se il patto di
rendersi fralle nazioni reciprocamente i rei sia utile o no. Dentro i confini di un paese non
dev'esservi alcun luogo indipendente dalle leggi. La forza di esse seguir deve ogni cittadino,
come l'ombra segue il corpo. L'impunitƒ e l'asilo non differiscono che di piŠ e meno, e come
l'impressione della pena consiste piŠ nella sicurezza d'incontrarla che nella forza di essa, gli asili
invitano piŠ ai delitti di quello che le pene non allontanano. Moltiplicare gli asili • il formare
tante piccole sovranitƒ, perch‡ dove non sono leggi che comandano, ivi possono formarsene
delle nuove ed opposte alle comuni, e per„ uno spirito opposto a quello del corpo intero della
societƒ. Tutte le istorie fanno vedere che dagli asili sortirono grandi rivoluzioni negli stati e nelle
opinioni degli uomini. Ma se sia utile il rendersi reciprocamente i rei fralle nazioni, io non ardirei
decidere questa questione finch‡ le leggi piŠ conformi ai bisogni dell'umanitƒ, le pene piŠ dolci,
ed estinta la dipendenza dall'arbitrio e dall'opinione, non rendano sicura l'innocenza oppressa e la
detestata virtŠ; finch‡ la tirannia non venga del tutto dalla ragione universale, che sempre piŠ
unisce gl'interessi del trono e dei sudditi, confinata nelle vaste pianure dell'Asia, quantunque la
persuasione di non trovare un palmo di terra che perdoni ai veri delitti sarebbe un mezzo
efficacissimo per prevenirli.
Cap.36
DELLA TAGLIA
L'altra questione • se sia utile il mettere a prezzo la testa di un uomo conosciuto reo ed armando
il braccio di ciascun cittadino farne un carnefice. O il reo • fuori de' confini, o al di dentro: nel
primo caso il sovrano stimola i cittadini a commettere un delitto, e gli espone ad un supplicio,
facendo cos‹ un'ingiuria ed una usurpazione d'autoritƒ negli altrui dominii, ed autorizza in questa
maniera le altre nazioni a far lo stesso con lui; nel secondo mostra la propria debolezza. Chi ha la
forza per difendersi non cerca di comprarla. Di piŠ, un tal editto sconvolge tutte le idee di morale
e di virtŠ, che ad ogni minimo vento svaniscono nell'animo umano. Ora le leggi invitano al
tradimento, ed ora lo puniscono. Con una mano il legislatore stringe i legami di famiglia, di
parentela, di amicizia, e coll'altra premia chi gli rompe e chi gli spezza; sempre contradittorio a
se medesimo, ora invita alla fiducia gli animi sospettosi degli uomini, ora sparge la diffidenza in
tutt'i cuori. In vece di prevenire un delitto, ne fa nascer cento. Questi sono gli espedienti delle
nazioni deboli, le leggi delle quali non sono che istantanee riparazioni di un edificio rovinoso che
crolla da ogni parte. A misura che crescono i lumi in una nazione, la buona fede e la confidenza
reciproca divengono necessarie, e sempre piŠ tendono a confondersi colla vera politica. Gli
artificii, le cabale, le strade oscure ed indirette, sono per lo piŠ prevedute, e la sensibilitƒ di tutti
rintuzza la sensibilitƒ di ciascuno in particolare. I secoli d'ignoranza medesimi, nei quali la
morale pubblica piega gli uomini ad ubbidire alla privata, servono d'instruzione e di sperienza ai
secoli illuminati. Ma le leggi che premiano il tradimento e che eccitano una guerra clandestina
spargendo il sospetto reciproco fra i cittadini, si oppongono a questa cos‹ necessaria riunione
della morale e della politica, a cui gli uomini dovrebbero la loro felicitƒ, le nazioni la pace, e
l'universo qualche piŠ lungo intervallo di tranquillitƒ e di riposo ai mali che vi passeggiano
sopra.
Cap.37
ATTENTATI, COMPLICI, IMPUNITÄ
Perch‡ le leggi non puniscono l'intenzione, non • per„ che un delitto che cominci con qualche
azione che ne manifesti la volontƒ di eseguirlo non meriti una pena, bench‡ minore
all'esecuzione medesima del delitto. L'importanza di prevenire un attentato autorizza una pena;
ma siccome tra l'attentato e l'esecuzione vi pu„ essere un intervallo, cos‹ la pena maggiore
riserbata al delitto consumato pu„ dar luogo al pentimento. Lo stesso dicasi quando siano piŠ
complici di un delitto, e non tutti esecutori immediati, ma per una diversa ragione. Quando piŠ
uomini si uniscono in un rischio, quant'egli sarƒ piŠ grande tanto piŠ cercano che sia uguale per
tutti; sarƒ dunque piŠ difficile trovare chi si contenti d'esserne l'esecutore, correndo un rischio
maggiore degli altri complici. La sola eccezione sarebbe nel caso che all'esecutore fosse fissato
un premio; avendo egli allora un compenso per il maggior rischio la pena dovrebbe esser eguale.
Tali riflessioni sembreran troppo metafisiche a chi non rifletterƒ essere utilissimo che le leggi
procurino meno motivi di accordo che sia possibile tra i compagni di un delitto.
Alcuni tribunali offrono l'impunitƒ a quel complice di grave delitto che paleserƒ i suoi compagni.
Un tale spediente ha i suoi inconvenienti e i suoi vantaggi. Gl'inconvenienti sono che la nazione
autorizza il tradimento, detestabile ancora fra gli scellerati, perch‡ sono meno fatali ad una
nazione i delitti di coraggio che quegli di viltƒ: perch‡ il primo non • frequente, perch‡ non
aspetta che una forza benefica e direttrice che lo faccia conspirare al ben pubblico, e la seconda •
piŠ comune e contagiosa, e sempre piŠ si concentra in se stessa. Di piŠ, il tribunale fa vedere la
propria incertezza, la debolezza della legge, che implora l'aiuto di chi l'offende. I vantaggi sono il
prevenire delitti importanti, e che essendone palesi gli effetti ed occulti gli autori intimoriscono il
popolo; di piŠ, si contribuisce a mostrare che chi manca di fede alle leggi, cio• al pubblico, •
probabile che manchi al privato. Sembrerebbemi che una legge generale che promettesse la
impunitƒ al complice palesatore di qualunque delitto fosse preferibile ad una speciale
dichiarazione in un caso particolare, perch‡ cos‹ preverrebbe le unioni col reciproco timore che
ciascun complice avrebbe di non espor che se medesimo; il tribunale non renderebbe audaci gli
scellerati che veggono in un caso particolare chiesto il loro soccorso. Una tal legge per„
dovrebbe accompagnare l'impunitƒ col bando del delatore... Ma invano tormento me stesso per
distruggere il rimorso che sento autorizzando le sacrosante leggi, il monumento della pubblica
confidenza, la base della morale umana, al tradimento ed alla dissimulazione. Qual esempio alla
nazione sarebbe poi se si mancasse all'impunitƒ promessa, e che per dotte cavillazioni si
strascinasse al supplicio ad onta della fede pubblica chi ha corrisposto all'invito delle leggi! Non
sono rari nelle nazioni tali esempi, e perci„ rari non sono coloro che non hanno di una nazione
altra idea che di una macchina complicata, di cui il piŠ destro e il piŠ potente ne muovono a lor
talento gli ordigni; freddi ed insensibili a tutto ci„ che forma la delizia delle anime tenere e
sublimi, eccitano con imperturbabile sagacitƒ i sentimenti piŠ cari e le passioni piŠ violente, s‹
tosto che le veggono utili al loro fine, tasteggiando gli animi, come i musici gli stromenti.
Cap.38
INTERROGAZIONI SUGGESTIVE, DEPOSIZIONI
Le nostre leggi proscrivono le interrogazioni che chiamansi suggestive in un processo: quelle
cio• secondo i dottori, che interrogano della specie, dovendo interrogare del genere, nelle
circostanze d'un delitto: quelle interrogazioni cio• che, avendo un'immediata connessione col
delitto, suggeriscono al reo una immediata risposta. Le interrogazioni secondo i criminalisti
devono per dir cos‹ inviluppare spiralmente il fatto, ma non andare giammai per diritta linea a
quello. I motivi di questo metodo sono o per non suggerire al reo una risposta che lo metta al
coperto dell'accusa, o forse perch‡ sembra contro la natura stessa che un reo si accusi
immediatamente da s‡. Qualunque sia di questi due motivi • rimarcabile la contradizione delle
leggi che unitamente a tale consuetudine autorizzano la tortura; imperocch‡ qual interrogazione
piŠ suggestiva del dolore? Il primo motivo si verifica nella tortura, perch‡ il dolore suggerir€ al
robusto un'ostinata taciturnitƒ onde cambiare la maggior pena colla minore, ed al debole
suggerir€ la confessione onde liberarsi dal tormento presente piŠ efficace per allora che non il
dolore avvenire. Il secondo motivo • ad evidenza lo stesso, perch‡ se una interrogazione speciale
fa contro il diritto di natura confessare un reo, gli spasimi lo faranno molto piŠ facilmente: ma gli
uomini piŠ dalla differenza de' nomi si regolano che da quella delle cose. Fra gli altri abusi della
grammatica i quali non hanno poco influito su gli affari umani, • notabile quello che rende nulla
ed inefficace la deposizione di un reo giƒ condannato; egli • morto civilmente, dicono
gravemente i peripatetici giureconsulti, e un morto non • capace di alcuna azione. Per sostenere
questa vana metafora molte vittime si sono sacrificate, e bene spesso si • disputato con seria
riflessione se la veritƒ dovesse cedere alle formule giudiciali. Purch‡ le deposizioni di un reo
condannato non arrivino ad un segno che fermino il corso della giustizia, perch‡ non dovrassi
concedere, anche dopo la condanna, e all'estrema miseria del reo e agl'interessi della veritƒ uno
spazio congruo, talch‡ adducendo egli cose nuove, che cangino la natura del fatto, possa
giustificar s‡ od altrui con un nuovo giudizio? Le formalitƒ e le ceremonie sono necessarie
nell'amministrazione della giustizia, s‹ perch‡ niente lasciano all'arbitrio dell'amministratore, s‹
perch‡ danno idea al popolo di un giudizio non tumultuario ed interessato, ma stabile e regolare,
s‹ perch‡ sugli uomini imitatori e schiavi dell'abitudine fanno piŠ efficace impressione le
sensazioni che i raziocini. Ma queste senza un fatale pericolo non possono mai dalla legge
fissarsi in maniera che nuocano alla veritƒ, la quale, per essere o troppo semplice o troppo
composta, ha bisogno di qualche esterna pompa che le concilii il popolo ignorante. Finalmente
colui che nell'esame si ostinasse di non rispondere alle interrogazioni fattegli merita una pena
fissata dalle leggi, e pena delle piŠ gravi che siano da quelle intimate, perch‡ gli uomini non
deludano cos‹ la necessitƒ dell'esempio che devono al pubblico. Non • necessaria questa pena
quando sia fuori di dubbio che un tal accusato abbia commesso un tal delitto, talch‡ le
interrogazioni siano inutili, nell'istessa maniera che • inutile la confessione del delitto quando
altre prove ne giustificano la reitƒ. Quest'ultimo caso • il piŠ ordinario, perch‡ la sperienza fa
vedere che nella maggior parte de' processi i rei sono negativi.
Cap.39
DI UN GENERE PARTICOLARE DI DELITTI
Chiunque leggerƒ questo scritto accorgerassi che io ho commesso un genere di delitti che ha
coperto l'Europa di sangue umano e che ha alzate quelle funeste cataste, ove servivano di
alimento alle fiamme i vivi corpi umani, quand'era giocondo spettacolo e grata armonia per la
cieca moltitudine l'udire i sordi confusi gemiti dei miseri che uscivano dai vortici di nero fumo,
fumo di membra umane, fra lo stridere dell'ossa incarbonite e il friggersi delle viscere ancor
palpitanti. Ma gli uomini ragionevoli vedranno che il luogo, il secolo e la materia non mi
permettono di esaminare la natura di un tal delitto. Troppo lungo, e fuori del mio soggetto,
sarebbe il provare come debba essere necessaria una perfetta uniformitƒ di pensieri in uno stato,
contro l'esempio di molte nazioni; come opinioni, che distano tra di loro solamente per alcune
sottilissime ed oscure differenze troppo lontane dalla umana capacitƒ, pure possano sconvolgere
il ben pubblico, quando una non sia autorizzata a preferenza delle altre; e come la natura delle
opinioni sia composta a segno che mentre alcune col contrasto fermentando e combattendo
insieme si rischiarano, e soprannotando le vere, le false si sommergono nell'oblio, altre, mal
sicure per la nuda loro costanza, debbano esser vestite di autoritƒ e di forza. Troppo lungo
sarebbe il provare come, quantunque odioso sembri l'impero della forza sulle menti umane, del
quale le sole conquiste sono la dissimulazione, indi l'avvilimento; quantunque sembri contrario
allo spirito di mansuetudine e fraternitƒ comandato dalla ragione e dall'autoritÄE0… che piŠ
veneriamo, pure sia necessario ed indispensabile. Tutto ci„ deve credersi evidentemente provato
e conforme ai veri interessi degli uomini, se v'• chi con riconosciuta autoritƒ lo esercita. Io non
parlo che dei delitti che emanano dalla natura umana e dal patto sociale, e non dei peccati, de'
quali le pene, anche temporali, debbono regolarsi con altri principii che quelli di una limitata
filosofia.
Cap.40
FALSE IDEE DI UTILITÄ
Una sorgente di errori e d'ingiustizie sono le false idee d'utilitƒ che si formano i legislatori. Falsa
idea d'utilitƒ • quella che antepone gl'inconvenienti particolari all'inconveniente generale, quella
che comanda ai sentimenti in vece di eccitargli, che dice alla logica: servi. Falsa idea di utilitƒ •
quella che sacrifica mille vantaggi reali per un inconveniente o immaginario o di poca
conseguenza, che toglierebbe agli uomini il fuoco perch‡ incendia e l'acqua perch‡ annega, che
non ripara ai mali che col distruggere. Le leggi che proibiscono di portar le armi sono leggi di tal
natura; esse non disarmano che i non inclinati n‡ determinati ai delitti, mentre coloro che hanno
il coraggio di poter violare le leggi piŠ sacre della umanitƒ e le piŠ importanti del codice, come
rispetteranno le minori e le puramente arbitrarie, e delle quali tanto facili ed impuni debbon
essere le contravenzioni, e l'esecuzione esatta delle quali toglie la libertƒ personale, carissima
all'uomo, carissima all'illuminato legislatore, e sottopone gl'innocenti a tutte le vessazioni dovute
ai rei? Queste peggiorano la condizione degli assaliti, migliorando quella degli assalitori, non
iscemano gli omicidii, ma gli accrescono, perch‡ • maggiore la confidenza nell'assalire i
disarmati che gli armati. Queste si chiaman leggi non prevenitrici ma paurose dei delitti, che
nascono dalla tumultuosa impressione di alcuni fatti particolari, non dalla ragionata meditazione
degl'inconvenienti ed avantaggi di un decreto universale. Falsa idea d'utilitƒ • quella che
vorrebbe dare a una moltitudine di esseri sensibili la simmetria e l'ordine che soffre la materia
bruta e inanimata, che trascura i motivi presenti, che soli con costanza e con forza agiscono sulla
moltitudine, per dar forza ai lontani, de' quali brevissima e debole • l'impressione, se una forza
d'immaginazione, non ordinaria nella umanitƒ, non supplisce coll'ingrandimento alla lontananza
dell'oggetto. Finalmente • falsa idea d'utilitƒ quella che, sacrificando la cosa al nome, divide il
ben pubblico dal bene di tutt'i particolari. Vi • una differenza dallo stato di societƒ allo stato di
natura, che l'uomo selvaggio non fa danno altrui che quanto basta per far bene a s‡ stesso, ma
l'uomo sociabile • qualche volta mosso dalle male leggi a offender altri senza far bene a s‡. Il
dispotico getta il timore e l'abbattimento nell'animo de' suoi schiavi, ma ripercosso ritorna con
maggior forza a tormentare il di lui animo. Quanto il timore • piŠ solitario e domestico tanto •
meno pericoloso a chi ne fa lo stromento della sua felicitƒ; ma quanto • piŠ pubblico ed agita una
moltitudine piŠ grande di uomini tanto • piŠ facile che vi sia o l'imprudente, o il disperato, o
l'audace accorto che faccia servire gli uomini al suo fine, destando in essi sentimenti piŠ grati e
tanto piŠ seducenti quanto il rischio dell'intrapresa cade sopra un maggior numero, ed il valore
che gl'infelici danno alla propria esistenza si sminuisce a proporzione della miseria che soffrono.
Questa • la cagione per cui le offese ne fanno nascere delle nuove, che l'odio • un sentimento
tanto piŠ durevole dell'amore, quanto il primo prende la sua forza dalla continuazione degli atti,
che indebolisce il secondo.
Cap.41
COME SI PREVENGANO I DELITTI
‰ meglio prevenire i delitti che punirgli. Questo • il fine principale d'ogni buona legislazione,
che • l'arte di condurre gli uomini al massimo di felicitƒ o al minimo d'infelicitƒ possibile, per
parlare secondo tutt'i calcoli dei beni e dei mali della vita. Ma i mezzi impiegati fin ora sono per
lo piŠ falsi ed opposti al fine proposto. Non • possibile il ridurre la turbolenta attivitƒ degli
uomini ad un ordine geometrico senza irregolaritƒ e confusione. Come le costanti e
semplicissime leggi della natura non impediscono che i pianeti non si turbino nei loro movimenti
cos‹ nelle infinite ed oppostissime attrazioni del piacere e del dolore, non possono impedirsene
dalle leggi umane i turbamenti ed il disordine. Eppur questa • la chimera degli uomini limitati,
quando abbiano il comando in mano. Il proibire una moltitudine di azioni indifferenti non •
prevenire i delitti che ne possono nascere, ma egli • un crearne dei nuovi, egli • un definire a
piacere la virtŠ ed il vizio, che ci vengono predicati eterni ed immutabili. A che saremmo ridotti,
se ci dovesse essere vietato tutto ci„ che pu„ indurci a delitto? Bisognerebbe privare l'uomo
dell'uso de' suoi sensi. Per un motivo che spinge gli uomini a commettere un vero delitto, ve ne
son mille che gli spingono a commetter quelle azioni indifferenti, che chiamansi delitti dalle
male leggi; e se la probabilitƒ dei delitti • proporzionata al numero dei motivi, l'ampliare la sfera
dei delitti • un crescere la probabilitƒ di commettergli. La maggior parte delle leggi non sono che
privilegi, cio• un tributo di tutti al comodo di alcuni pochi.
Volete prevenire i delitti? Fate che le leggi sian chiare, semplici, e che tutta la forza della nazione
sia condensata a difenderle, e nessuna parte di essa sia impiegata a distruggerle. Fate che le leggi
favoriscano meno le classi degli uomini che gli uomini stessi. Fate che gli uomini le temano, e
temano esse sole. Il timor delle leggi • salutare, ma fatale e fecondo di delitti • quello di uomo a
uomo. Gli uomini schiavi sono piŠ voluttuosi, piŠ libertini, piŠ crudeli degli uomini liberi. Questi
meditano sulle scienze, meditano sugl'interessi della nazione, veggono grandi oggetti, e
gl'imitano; ma quegli contenti del giorno presente cercano fra lo strepito del libertinaggio una
distrazione dall'annientamento in cui si veggono; avvezzi all'incertezza dell'esito di ogni cosa,
l'esito de' loro delitti divien problematico per essi, in vantaggio della passione che gli determina.
Se l'incertezza delle leggi cade su di una nazione indolente per clima, ella mantiene ed aumenta
la di lei indolenza e stupiditƒ. Se cade in una nazione voluttuosa, ma attiva, ella ne disperde
l'attivitƒ in un infinito numero di piccole cabale ed intrighi, che spargono la diffidenza in ogni
cuore e che fanno del tradimento e della dissimulazione la base della prudenza. Se cade su di una
nazione coraggiosa e forte, l'incertezza vien tolta alla fine, formando prima molte oscillazioni
dalla libertƒ alla schiavit†, e dalla schiavit† alla libertƒ.
Cap.42
DELLE SCIENZE
Volete prevenire i delitti? Fate che i lumi accompagnino la libertƒ. I mali che nascono dalle
cognizioni sono in ragione inversa della loro diffusione, e i beni lo sono nella diretta. Un ardito
impostore, che • sempre un uomo non volgare, ha le adorazioni di un popolo ignorante e le
fischiate di un illuminato. Le cognizioni facilitando i paragoni degli oggetti e moltiplicandone i
punti di vista, contrappongono molti sentimenti gli uni agli altri, che si modificano
vicendevolmente, tanto piŠ facilmente quanto si preveggono negli altri le medesime viste e le
medesime resistenze. In faccia ai lumi sparsi con profusione nella nazione, tace la calunniosa
ignoranza e trema l'autoritƒ disarmata di ragioni, rimanendo immobile la vigorosa forza delle
leggi; perch‡ non v'• uomo illuminato che non ami i pubblici, chiari ed utili patti della comune
sicurezza, paragonando il poco d'inutile libertƒ da lui sacrificata alla somma di tutte le libertƒ
sacrificate dagli altri uomini, che senza le leggi poteano divenire conspiranti contro di lui.
Chiunque ha un'anima sensibile, gettando uno sguardo su di un codice di leggi ben fatte, e
trovando di non aver perduto che la funesta libertƒ di far male altrui, sarƒ costretto a benedire il
trono e chi lo occupa
Non • vero che le scienze sian sempre dannose all'umanitƒ, e quando lo furono era un male
inevitabile agli uomini. La moltiplicazione dell'uman genere sulla faccia della terra introdusse la
guerra, le arti piŠ rozze, le prime leggi, che erano patti momentanei che nascevano colla
necessitƒ e con essa perivano. Questa fu la prima filosofia degli uomini, i di cui pochi elementi
erano giusti, perch‡ la loro indolenza e poca sagacitƒ gli preservava dall'errore. Ma i bisogni si
moltiplicavano sempre piŠ col moltiplicarsi degli uomini. Erano dunque necessarie impressioni
piŠ forti e piŠ durevoli che gli distogliessero dai replicati ritorni nel primo stato d'insociabilitƒ,
che si rendeva sempre piŠ funesto. Fecero dunque un gran bene all'umanitƒ quei primi errori che
popolarono la terra di false divinitƒ (dico gran bene politico) e che crearono un universo
invisibile regolatore del nostro. Furono benefattori degli uomini quegli che osarono sorprendergli
e strascinarono agli altari la docile ignoranza. Presentando loro oggetti posti di lƒ dai sensi, che
loro fuggivan davanti a misura che credean raggiungerli, non mai disprezzati, perch‡ non mai
ben conosciuti, riunirono e condensarono le divise passioni in un solo oggetto, che fortemente gli
occupava. Queste furono le prime vicende di tutte le nazioni che si formarono da' popoli
selvaggi, questa fu l'epoca della formazione delle grandi societƒ, e tale ne fu il vincolo necessario
e forse unico. Non parlo di quel popolo eletto da Dio, a cui i miracoli piŠ straordinari e le grazie
piŠ segnalate tennero luogo della umana politica. Ma come • proprietƒ dell'errore di
sottodividersi all'infinito, cos‹ le scienze che ne nacquero fecero degli uomini una fanatica
moltitudine di ciechi, che in un chiuso laberinto si urtano e si scompigliano di modo che alcune
anime sensibili e filosofiche regrettarono persino l'antico stato selvaggio. Ecco la prima epoca, in
cui le cognizioni, o per dir meglio le opinioni, sono dannose.
La seconda • nel difficile e terribil passaggio dagli errori alla veritƒ, dall'oscuritƒ non conosciuta
alla luce. L'urto immenso degli errori utili ai pochi potenti contro le veritƒ utili ai molti deboli,
l'avvicinamento ed il fermento delle passioni, che si destano in quell'occasione, fanno infiniti
mali alla misera umanitƒ. Chiunque riflette sulle storie, le quali dopo certi intervalli di tempo si
rassomigliano quanto all'epoche principali, vi troverƒ piŠ volte una generazione intera sacrificata
alla felicitƒ di quelle che le succedono nel luttuoso ma necessario passaggio dalle tenebre
dell'ignoranza alla luce della filosofia, e dalla tirannia alla libertƒ, che ne sono le conseguenze.
Ma quando, calmati gli animi ed estinto l'incendio che ha purgata la nazione dai mali che
l'opprimono, la veritƒ, i di cui progressi prima son lenti e poi accelerati, siede compagna su i
troni de' monarchi ed ha culto ed ara nei parlamenti delle repubbliche, chi potrƒ mai asserire che
la luce che illumina la moltitudine sia piŠ dannosa delle tenebre, e che i veri e semplici rapporti
delle cose ben conosciute dagli uomini lor sien funesti?
Se la cieca ignoranza • meno fatale che il mediocre e confuso sapere, poich‡ questi aggiunge ai
mali della prima quegli dell'errore inevitabile da chi ha una vista ristretta al di qua dei confini del
vero, l'uomo illuminato • il dono piŠ prezioso che faccia alla nazione ed a se stesso il sovrano,
che lo rende depositario e custode delle sante leggi. Avvezzo a vedere la veritƒ e a non temerla,
privo della maggior parte dei bisogni dell'opinione non mai abbastanza soddisfatti, che mettono
alla prova la virtŠ della maggior parte degli uomini, assuefatto a contemplare l'umanitƒ dai punti
di vista piŠ elevati, avanti a lui la propria nazione diventa una famiglia di uomini fratelli, e la
distanza dei grandi al popolo gli par tanto minore quanto • maggiore la massa dell'umanitƒ che
ha avanti gli occhi. I filosofi acquistano dei bisogni e degli interessi non conosciuti dai volgari,
quello principalmente di non ismentire nella pubblica luce i principii predicati nell'oscuritƒ, ed
acquistano l'abitudine di amare la veritƒ per se stessa. Una scelta di uomini tali forma la felicitƒ
di una nazione, ma felicitƒ momentanea se le buone leggi non ne aumentino talmente il numero
che scemino la probabilitƒ sempre grande di una cattiva elezione.
Cap.43
MAGISTRATI
Un altro mezzo di prevenire i delitti si • d'interessare il consesso esecutore delle leggi piuttosto
all'osservanza di esse che alla corruzione. Quanto maggiore • il numero che lo compone tanto •
meno pericolosa l'usurpazione sulle leggi, perch‡ la venalitƒ • piŠ difficile tra membri che si
osservano tra di loro, e sono tanto meno interessati ad accrescere la propria autoritƒ, quanto
minore ne • la porzione che a ciascuno ne toccherebbe, massimamente paragonata col pericolo
dell'intrapresa. Se il sovrano coll'apparecchio e colla pompa, coll'austeritƒ degli editti, col non
permettere le giuste e le ingiuste querele di chi si crede oppresso, avvezzerƒ i sudditi a temere
piŠ i magistrati che le leggi, essi profitteranno piŠ di questo timore di quello che non ne guadagni
la propria e pubblica sicurezza .
Cap.44
RICOMPENSE
Un altro mezzo di prevenire i delitti • quello di ricompensare la virtŠ. Su di questo proposito
osservo un silenzio universale nelle leggi di tutte le nazioni del dˆ d'oggi. Se i premi proposti
dalle accademie ai discuopritori delle utili veritƒ hanno moltiplicato e le cognizioni e i buoni
libri, perch‡ non i premi distribuiti dalla benefica mano del sovrano non moltiplicherebbeno
altres‹ le azioni virtuose? La moneta dell'onore • sempre inesausta e fruttifera nelle mani del
saggio distributore.
Cap.45
EDUCAZIONE
Finalmente il piŠ sicuro ma piŠ difficil mezzo di prevenire i delitti si • di perfezionare
l'educazione, oggetto troppo vasto e che eccede i confini che mi sono prescritto, oggetto, oso
anche dirlo, che tiene troppo intrinsecamente alla natura del governo perch‡ non sia sempre fino
ai piŠ remoti secoli della pubblica felicitÄE0… un campo sterile, e solo coltivato qua e lƒ da
pochi saggi. Un grand'uomo, che illumina l'umanitƒ che lo perseguita, ha fatto vedere in dettaglio
quali sieno le principali massime di educazione veramente utile agli uomini, cio• consistere
meno in una sterile moltitudine di oggetti che nella scelta e precisione di essi, nel sostituire gli
originali alle copie nei fenomeni s‹ morali che fisici che il caso o l'industria presenta ai novelli
animi dei giovani, nello spingere alla virtŠ per la facile strada del sentimento, e nel deviarli dal
male per la infallibile della necessitƒ e dell'inconveniente, e non colla incerta del comando, che
non ottiene che una simulata e momentanea ubbidienza.
Cap.46
DELLE GRAZIE
A misura che le pene divengono piŠ dolci, la clemenza ed il perdono diventano meno necessari.
Felice la nazione nella quale sarebbero funesti! La clemenza dunque, quella virtŠ che • stata
talvolta per un sovrano il supplemento di tutt'i doveri del trono, dovrebbe essere esclusa in una
perfetta legislazione dove le pene fossero dolci ed il metodo di giudicare regolare e spedito.
Questa veritƒ sembrerƒ dura a chi vive nel disordine del sistema criminale dove il perdono e le
grazie sono necessarie in proporzione dell'assurditƒ delle leggi e dell'atrocitƒ delle condanne.
Quest'• la piŠ bella prerogativa del trono, questo • il piŠ desiderabile attributo della sovranitƒ, e
questa • la tacita disapprovazione che i benefici dispensatori della pubblica felicitƒ danno ad un
codice che con tutte le imperfezioni ha in suo favore il pregiudizio dei secoli, il voluminoso ed
imponente corredo d'infiniti commentatori, il grave apparato dell'eterne formalitƒ e l'adesione dei
piŠ insinuanti e meno temuti semidotti. Ma si consideri che la clemenza • la virtŠ del legislatore
e non dell'esecutor delle leggi; che deve risplendere nel codice, non giƒ nei giudizi particolari;
che il far vedere agli uomini che si possono perdonare i delitti e che la pena non ne • la
necessaria conseguenza • un fomentare la lusinga dell'impunitƒ, • un far credere che, potendosi
perdonare, le condanne non perdonate siano piuttosto violenze della forza che emanazioni della
giustizia. Che dirassi poi quando il principe dona le grazie, cio• la pubblica sicurezza ad un
particolare, e che con un atto privato di non illuminata beneficenza forma un pubblico decreto
d'impunitƒ. Siano dunque inesorabili le leggi, inesorabili gli esecutori di esse nei casi particolari,
ma sia dolce, indulgente, umano il legislatore. Saggio architetto, faccia sorgere il suo edificio
sulla base dell'amor proprio, e l'interesse generale sia il risultato degl'interessi di ciascuno, e non
sarƒ costretto con leggi parziali e con rimedi tumultuosi a separare ad ogni momento il ben
pubblico dal bene de' particolari, e ad alzare il simulacro della salute pubblica sul timore e sulla
diffidenza. Profondo e sensibile filosofo, lasci che gli uomini, che i suoi fratelli, godano in pace
quella piccola porzione di felicitƒ che lo immenso sistema, stabilito dalla prima Cagione, da
quello che •, fa loro godere in quest'angolo dell'universo.
Cap.47
CONCLUSIONE
Conchiudo con una riflessione, che la grandezza delle pene dev'essere relativa allo stato della
nazione medesima. PiŠ forti e sensibili devono essere le impressioni sugli animi induriti di un
popolo appena uscito dallo stato selvaggio. Vi vuole il fulmine per abbattere un feroce leone che
si rivolta al colpo del fucile. Ma a misura che gli animi si ammolliscono nello stato di societƒ
cresce la sensibilitƒ e, crescendo essa, deve scemarsi la forza della pena, se costante vuol
mantenersi la relazione tra l'oggetto e la sensazione.
Da quanto si • veduto finora pu„ cavarsi un teorema generale molto utile, ma poco conforme
all'uso, legislatore il piŠ ordinario delle nazioni, cio•: perch„ ogni pena non sia una violenza di
uno o di molti contro un privato cittadino, dev'essere essenzialmente pubblica, pronta,
necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a' delitti, dettata dalle
leggi.
La Camera di Commercio di Firenze
Le origini
La Camera di Commercio di Firenze, cerniera reale fra sistema delle imprese ed enti locali
territoriali (Provincia e Comune), nasce nella Toscana del 1700 in un periodo in cui l’economia
sembrava sprofondare in una fase di stagnazione quasi senza via d’uscita. I prodotti delle
manifatture toscane cedevano sempre pi† il passo di fronte all'agguerrita concorrenza dei Paesi
dell'Europa nord-occidentale. Tale crisi era connessa a molteplici fattori come la scarsa
disponibilitƒ di capitali, la disomogeneitƒ del Granducato che comportava differenze di
legislazione economica fra le varie province (con annessi intralci derivanti dall'esistenza di
numerose dogane interne e relativi pedaggi, che si andavano ad
aggiungere alle giƒ numerose tasse e balzelli), i molti privilegi
goduti da Firenze rispetto al resto del territorio.
Ma soprattutto era la persistenza del sistema corporativo
medievale delle "Arti" che ingabbiava l'intero tessuto economico in
un groviglio di giurisdizioni e di regole spesso in conflitto fra loro.
Appariva con sempre maggiore evidenza alle menti pi† aperte, che
si occupavano di economia e della cosa pubblica, come il sistema
delle corporazioni che costituiva un potente freno per il libero dispiegarsi delle forze produttive. Il
Granduca Pietro Leopoldo, salito al trono appena diciottenne nel 1765 ed
educato alle idee del liberismo economico, prest„ subito grandissima attenzione
ai problemi dell'economia e dello sviluppo inaugurando, dopo una fase
preparatoria di indagini conoscitive, una stagione di riforme economiche
particolarmente innovative. L'azione riformatrice di Pietro Leopoldo pu„ essere
vista sostanzialmente come uno sforzo volto alla semplificazione della vita
economica e alla realizzazione delle migliori condizioni per la sua libera
espressione.
‰ in questo quadro che nasce, prima in Italia, la Camera di Commercio di Firenze. Con
motuproprio del 1• febbraio 1770 Pietro Leopoldo abolˆ le varie Magistrature fiorentine che
avevano giurisdizione sui diversi mestieri e ne riunˆ le competenze nella nuova "Camera di
Commercio Arti e Manifatture di Firenze".
La Camera oggi
La Camera di commercio di Firenze fa parte del sistema camerale italiano ed opera come
attore di una rete di relazioni istituzionali coinvolto nelle strategie generali e nelle azioni di
intervento nel territorio provinciale di sua competenza per favorire la promozione, lo sviluppo e la
tutela del mercato. I rapporti di stretta collaborazione coinvolgono infatti non solo i soggetti
afferenti al sistema camerale, ma anche soggetti pubblici e privati del territorio (Regione,
Provincie, Comuni, Universitƒ, Associazioni di categoria, ecc.).
Uno dei principali elementi di innovazione della riforma del 1993 riguarda il
riconoscimento normativo del ŽSistema Camerale•, di cui fanno parte Unioncamere con le sue
strutture di sistema, le Camere di commercio sul territorio italiano, le Camere di commercio
italiane all’estero, quelle estere in Italia, le Aziende Speciali, le Unioni regionali, le societƒ
partecipate, i consorzi e le associazioni.
CARLO PISACANE
LA VITA, LE OPERE, L'AZIONE RIVOLUZIONARIA
Cenni storici di LUIGI FABBRI
ROMA-FIRENZE
F. SERANTONI, Editore 1904.
BIBLIOGRAFIA
Carlo Pisacane: Testamento Politico. – Ancona, 1880.
Carlo Pisacane: Saggi storici, politici, militari sull'Italia.– Genova, 59-60.
Venosta Felice: Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera o la Spedizione di Sapri. – Milano, 1876.
Saverio Merlino: Carlo Pisacane. – Milano, 1878.
Carlo Pisacane: Saggio sulla rivoluzione. – Bologna, 1894.
CARLO PISACANE
I.
Questo eroe dell'azione e del pensiero occupa un posto che non gli spetta nella storia
contemporanea, almeno in quella storia conosciuta per tale dai pi†, illustrata ed insegnata nelle
nostre scuole e scritta nei libri che hanno maggiore diffusione. Ci„ fa sˆ che di Carlo Pisacane si
sappia da tutti il nome, da pochi la vera essenza; – da molti si sappia come visse, che cosa fece e
come morˆ; da quasi nessuno come pens„, perch• agˆ e quale idea lo conducesse a morire sotto i
colpi ignobili dei villani nei dintorni di Sapri.
Carlo Pisacane, che Victor Hugo disse pi† simpatico ancora di Garibaldi, ha dettato ai poeti
romantici e patriottici versi gentili ed a qualcuno ha fatto anche tentare il poema; la sua figura •
stata idealizzata, n• questo • un male. Chi non ricorda i facili e leggiadri versi del Mercantini?
Dagli occhi azzurri e dai capelli d'oro
Un giovin camminava in mezzo a loro....
Ma, nascosto entro la nube dell'idealismo patriottico, il Žbel capitano• dei trecento caduti a
Sapri, una delle Termopili della unificazione d'Italia, ai nostri tempi di positivismo e di ricerche
scientifiche, non appaga pi† completamente il nostro desiderio di sapere. Nonostante, c'• come una
congiura – c'• stata, almeno, rotta appena da qualche tentativo mal riuscito – per non lasciar fuggire
l'eroe dalla sua nube di poesia e di romanticismo; se pure non si vuol tener conto che gli amici delle
odierne istituzioni, cosˆ maniaci nel voler ingombrare tutte le piazze ed i trivi del bel Paese con
statue erette a quanti, bene o male, prepararono ad essi la cuccagna del potere, che questi uomini,
dico, di Carlo Pisacane hanno taciuto quanto pi† era loro possibile, e pi† hanno taciuto di ci„ che di
fronte ai lavoratori del braccio e della mente • dell'eroe di Sapri il monumento imperituro: il suo
pensiero.
La poesia e la leggenda • dimenticata presto; la vita materiale, sia pure eroica, d'un uomo
perde coll'andar del tempo sempre pi† la sua importanza agli occhi dei futuri. Ci„ che resta • l'idea
che ha fatto vibrare la poesia, che ha dato anima all'azione dell'eroe; e la vita dell'eroe e la poesia
che la circonda a un sol patto conservano imperitura la freschezza dei ricordi e dell'entusiasmo
dinanzi ai posteri, a patto che se ne scorga chiara la relazione col pensiero che ha guidato l'eroe sul
suo cammino terreno; e che questo pensiero contenga in s• una promessa ed una speranza
precorritrice dei tempi.
Eroe e martire della rivoluzione politica, Carlo Pisacane fu anche uno dei pi† grandi
precursori della rivoluzione sociale, uno dei primi che alle odierne aspirazioni delle societƒ umane
hanno dato una base ed un contenuto positivo. Come italiani dobbiamo essergli riconoscenti per ci„
che ha fatto onde non fossimo pi† sottoposti alla ferula borbonica, al mordacchio papalino ed al
bastone tedesco; come uomini che combattono per la fratellanza internazionale dei popoli, per la
vera uguaglianza economica e per la libertƒ integrale di tutti, anche maggiore riconoscenza gli
dobbiamo; a lui, che mentre ci insegnava con l'esempio come si lotta e si muore per una idea, ci
dettava fin da allora le prime parole della nostra idea socialista e libertaria.
Guardiamo dunque a Carlo Pisacane, come a Maestro del pensiero e dell'azione.
Carlo Pisacane nacque a Napoli il 22 agosto 1818 dal Duca Gennaro di San Giovanni e da
Niccolina Basile De Luna. Avendo perduto all’etƒ di 6 anni il padre, sette anni dopo la morte di
questo fu rinchiuso in collegio (1831), e precisamente nel Collegio Militare della Nunziatella.
Qui si distinse subito per il suo ingegno svegliato, specialmente nelle matematiche, ci„ che
rivelava la praticitƒ insieme e l'acutezza della sua mente. Ancora collegiale, per quattro anni visse
alla Corte di Napoli, come paggio del Borbone, rimanendo per„ sempre di costumi morigerati ed
alteri. Nell'anno 1839, dopo aver superati splendidamente gli esami, uscˆ di collegio. Aveva 21 anni.
Fra i suoi concittadini salˆ presto a una certa rinomanza come ingegnere, sopratutto
ingegnere militare; ed il governo lo adibˆ alla costruzione della ferrovia fra Napoli e Caserta. Dopo
un certo tempo partˆ per gli Abruzzi, dove pass„ un circa 15 mesi; e ritornato quindi a Napoli, fu
promosso dall'autoritƒ militare al grado di sottotenente.
Qui la sua vita trascorse senza incidenti notevoli, se ne togli che una sera nel rincasare venne
assalito e ferito a morte da un ladro che tentava derubarlo. Guarito, ebbe dal capitano Gonzales
incarico di andare a dirigere la costruzione di una strada all'Antignano.
Intanto, da qualche tempo la sua attenzione era stata richiamata sugli avvenimenti politici
che si andavano succedendo; e la sua mente non poteva non occuparsi delle questioni pi† urgenti in
quel tempo. Il suo temperamento, la educazione ed istruzione che si era andata man mano
impartendo da s• stesso, non tardarono a fargli accettare le idee politiche pi† avanzate, a farne in
una parola un rivoluzionario. Cosˆ si svilupp„ in lui il desiderio d'una patria unita e della libertƒ,
insieme ad un
odio profondo per il regime Žpaterno• dei Borboni. Fu cosˆ che, desideroso, come sempre si
dimostr„ in seguito, di essere coerente a s• stesso, l'8 febbraio 1847 rinunci„ al suo impiego ed al
suo grado ed emigr„ a Londra.
Prima di seguirlo nella via avventurosa e battagliera dell'esilio dobbiamo accennare alla
parte intima ed affettiva della vita di Carlo Pisacane. Egli fin dall'etƒ di 12 o 13 anni, prima cio• di
entrare in collegio, s'era invaghito d'una fanciulla sua coetanea; e quando uscˆ la trov„ giƒ sposata.
Ci„ non valse agli occhi suoi, ed anzi il tempo aveva raddoppiato il suo amore, che, condiviso dalla
donna amata con pari intensitƒ, spinse questa a lasciare il marito per seguire l'amante. Noi non
faremo certo i puritani a questo proposito. Si sa come in quel tempo, e in certi ambienti anche
presentemente, si combinavano i matrimoni: la donna quasi sempre era gettata nelle braccia e sul
letto d'un uomo prima d'allora appena conosciuto e quasi mai amato. Questa donna aveva quindi il
diritto di ribellarsi ad una unione che era stata forse un mercato, alla quale non era in grado di
consentire scientemente. Di questo diritto si valse la signora D. che divenne da allora in poi la fida
compagna di Carlo Pisacane, da cui ebbe una figlia, Silvia, adottata dopo la morte del padre e della
madre da Giovanni Nicotera.
Questa donna seguˆ Pisacane dappertutto, nella buona e nell'avversa fortuna, sua
consolatrice.
E il nostro rivoluzionario, rimanendo a lei fedele fino alla morte, dimostr„ con l'esempio la
superioritƒ della unione libera determinata dall'amore, sulla unione legale forzata basata in interessi
estranei al sentimento.
Dopo breve soggiorno a Londra, Carlo Pisacane partˆ per Parigi, dove sollecit„ il permesso
di entrare nella legione straniera per addestrarsi alla vita militare, in vista degli avvenimenti che da
un giorno all'altro potevano richiamarlo in Italia. Bisogna ricordare che a quel tempo, non risolta
ancora per tutte le nazioni europee la questione politica, questa incombeva su tutti e ne determinava
le attitudini. In un tempo in cui dalla sorte delle armi dipendevano molti problemi, anche
nell'interesse della libertƒ era duopo essere alle armi addestrati per non essere inadatti anche in
tempo di guerra a fare il proprio dovere rivoluzionario.
Entrato Pisacane nella legione straniera come sottotenente, il 5 dicembre 1847 fu mandato in
Africa a combattere contro gli Arabi. E quivi si distingueva pel suo valore e coraggio, quando gli
avvenimenti d'Italia lo richiamarono in patria. Il 12 gennaio 1848 Palermo era insorta, e l'11
febbraio susseguente il Borbone era costretto a largire al popolo la Costituzione. Tutta l'Italia era in
fiamme – anzi tutta Europa – e Carlo Pisacane non poteva certo rimanere in Africa ad azzuffarsi
cogli Arabi, che alla fin dei conti combattevano anch'essi per la propria libertƒ.
Ottenuto il congedo, egli torn„ in Italia mentre si preparava la guerra contro l'Austria. Corse
a Milano, e subito si arruol„ fra i volontari della legione Borra, coi quali combatt‡, poi
valorosamente nel Tirolo. A Milano conobbe Carlo Cattaneo e gli altri animosi eroi delle Cinque
Giornate; e fu per incarico appunto del Cattaneo ch'egli scrisse in quel tempo la sua memoria sul
Momentaneo ordinamento dell'esercito lombardo del 1848, in cui mostr„ fin da allora l'estensione e
la profonditƒ delle sue cognizioni e vedute tecniche in materia guerresca e rivoluzionaria.
Ma intanto a Napoli il Borbone affogava nei giorni luttuosi del 14 e 15 maggio la
Costituzione nel sangue. Ogni alito di libertƒ fu soffocato in tutto il reame con le stragi del giugno
in Calabria e con quelle del settembre in Sicilia, la cui resistenza ultima fu vinta. A Milano pel
tradimento dei moderati e dei monarchici tornarono gli Austriaci, vinti giƒ dalla rivoluzione, ma
vincitori d'un esercito regio da cui lo spirito rivoluzionario era bandito.
Carlo Pisacane si rifugi„ in Svizzera. Qui per la prima volta egli vide e conobbe Giuseppe
Mazzini, che gli pose subito grande stima, malgrado il disaccordo evidente di metodi e di idee fra i
due uomini. Desideroso di moto e di lotta sul campo dell'azione, sulla fine del 1848 Pisacane entr„
in Piemonte per arruolarsi nell'esercito sardo, che doveva continuare la guerra all'Austria.
Ma non appena si seppe della sollevazione di Roma del febbraio 1849, egli prese congedo e
vol„ a Roma a portare alla giovine repubblica l'aiuto del suo polso d'acciaio, del suo ingegno e della
sua esperienza nelle cose di guerra, su cui aveva fatti seri e profondi studi. Infatti dal governo
repubblicano fu subito nominato membro della Commissione di guerra; e come tale egli fu che
diede il migliore ordinamento alle milizie rivoluzionarie di Roma. Per„ desideroso come sempre di
unire l'azione al pensiero ed al consiglio, l'esser egli uno dei capi tecnici dell'esercito dei volontari
non gl'impedˆ di combattere a fianco di Garibaldi di persona con l'armi alla mano, e di prender parte
a quasi tutti gli scontri col nemico.
Giuseppe Mazzini gli continu„ anche allora la sua stima, bench‡ fosse l'avversario accanito
che tutti sanno delle idee razionaliste e socialiste del Pisacane; e lo fece colonnello. A proposito di
Garibaldi, non torna inopportuno riferire il pensiero del nostro Pisacane, pensiero di positivista e di
libertario, sull'entusiasmo dei volontari per l'Eroe dei due mondi. ŽGuai – egli diceva – allorch‡ le
masse giungono a credere all'infallibilitƒ ed inviolabilitƒ d'un uomo! Guai allorch‡ le masse si
avvezzano alla fede e non alla ragione! • questo il segreto sul quale fino ad ora si • basata la
tirannide, che ha trovato facile la strada nel conseguimento dei suoi disegni; dappoich• il pensare •
fatica dalla quale rifuggono le moltitudini corrive sempre al credere.•
Vinta la repubblica romana dalle armi francesi mandate dal Bonaparte, Carlo Pisacane fu
prima imprigionato e quindi espulso da Roma. Ed egli se ne and„ in Svizzera, a Losanna, da dove
collabor„ assiduamente nel giornale che Giuseppe Mazzini ed altri avevano fondato colƒ, L'Italia
del Popolo. In questo giornale egli svolse le sue idee contro gli eserciti assoldati e permanenti, e sui
fatti di Roma dal punto di vista militare. Dopo tre mesi di permanenza in Svizzera pass„ per
Londra; e fu appunto a Londra che, datosi con maggior ardore agli studi delle questioni sociali,
approfondˆ le sue idee in proposito ed accentu„ ancor pi† la differenza delle opinioni sue da quelle
di Mazzini e dei patrioti italiani.
Torn„ quindi daccapo nel 1850 in Svizzera, e and„ questa volta a Lugano, dove scrisse la
sua memoria sulla Guerra combattuta in Italia nel 1848-49. In quest'opera le sue idee rivoluzionarie
ed antiautoritarie si determinano ancor pi†: in essa dice che non bisogna avere alcuna fiducia nei
prˆncipi e nella diplomazia per il trionfo della libertƒ, e combatte il principio della disciplina che
suole essere imposta ai militari. Fedele ai suoi principi razionalisti e socialisti, sostiene che Žla
miseria e la religione sono i primi ausiliari dei despoti•, che Žnon si salvano le nazioni marciando
alla guerra sotto l'insegna del privilegio e del cattolicesimo•, che Žla religione • l'ostacolo pi†
potente che si opponga al progresso dell'umanitƒ.•
Sulla fine del 1850 Carlo Pisacane torn„ in Italia, recandosi a Genova, dove, prima di
ottenere il permesso di soggiornarvi liberamente, dovette restare per qualche tempo nascosto;
ottenuto questo permesso si diede con maggiore entusiasmo allo studio indefesso dei problemi
politici e sociali, che gli erano prediletti e non aveva mai abbandonati. Per essere anzi pi† tranquillo
si ritir„ ad abitare sul vicino colle di Albaro, in una specie di romitaggio.
Intanto, nel 1851, l'editore G. Pavesi gli pubblicava la sua opera scritta a Lugano, La guerra
combattuta in Italia nel 1848-49.
Logico, franco, integro, d'una fedeltƒ a tutta prova alle sue idee, non arrest„, come molti
fanno, la coerenza con queste al di fuori della sua vita intima, ma la mantenne anche dentro l'ambito
della propria famiglia.
Quando nel 1853 gli nacque la sua bambina, non volle battezzarla, e solo ne fece una
notifica per atto notarile al solo scopo di non privare la figlia dei diritti suoi dinanzi alle leggi civili.
Fu nel suo romitaggio di Albaro che Carlo Pisacane scrisse l'opera pi† importante della sua
vita che complet„ nel 1855, e cio• i Saggi storici-politici-militari sull'Italia, libro che si divide in
quattro parti:
1• Cenni storici.
2• Cenni storici-militari.
3• La rivoluzione.
4• Ordinamento dell'esercito italiano.
Il libro non trov„ subito editori, e solo fu pubblicato quando l'eroica morte del suo autore
richiam„ la generale attenzione sul suo nome, nel 1858-1860. Oltre questo libro, e l'altro accennato
sopra, Pisacane ha scritto altre cose di minore importanza, fra cui una polemica col generale
Rosselli sui fatti militari di Roma del ‘49 nel giornale La voce della libert€, uno scritto per
combattere le pretensioni della famiglia Murat al trono di Napoli, ŽItalia e Murat• nel n. 225 del
Diritto, ed un altro scritto ŽMurat e i Borboni• pubblicato nel n. 263 dell'Italia e Popolo.
Mentre il pensatore elaborava le idee, l'uomo d'azione non rimaneva ozioso. Carlo Pisacane
continu„ sempre a mantenersi in relazione coi suoi amici politici, specialmente col Comitato
Nazionale di Napoli e col barone Giovanni Nicotera che risiedeva allora in Torino. Quando credette
opportuno il momento di seguir pi† dappresso gli avvenimenti, lasci„ Albaro (1856) e torn„ a
Genova.
II.
Prima di seguire la vita del nostro rivoluzionario fino al suo epilogo, al sacrificio generoso
di se stesso sull'altare della libertƒ, all'ultimo martirio, arrestiamoci un istante a considerare la sua
opera di pensatore e di filosofo.
Nel 1856, quando lasci„ il romitaggio di Albaro, la elaborazione delle sue idee era in certo
modo compiuta.
Da allora fino alla morte, e non vi fu intervallo che di pochi mesi, tutta la sua energia la dette
all'azione, fedele al suo principio che la miglior predicazione si fa con l'esempio, che la miglior
propaganda • quella che si fa col fatto. A proposito della propaganda col fatto egli scriveva appunto
che Žla sola opera che pu„ fare un cittadino per giovare al paese, • quella di cooperare alla
rivoluzione materiale.... Il lampo della baionetta di Agesilao Milano fu una propaganda pi† efficace
di mille volumi scritti dai dottrinari.• (Testamento Politico). Seguendo questo suo concetto egli
s'avvi„ al sacrificio.
Per comprendere, ripeto, l'importanza dell'azione di Pisacane, occorre saperne il pensiero.
Ed il pensiero suo egli disse sopratutto nelle due opere principali da lui scritte e da noi sopra citate:
La guerra combattuta in Italia nel 1848-49, e i Saggi storici-politici-militari.
Di queste due opere, certo gran parte non • pi† di attualitƒ. Molte cose hanno perduto
d'interesse, parecchie sono state smentite da una susseguente esperienza.
Com'era naturale, si riscontra in esse una evidente contraddizione fra il teorico che vede
tempi ancora lontani e l'uomo d'azione costretto a maneggiare armi non sue, ad accettar
temporaneamente metodi non approvati. Cosˆ, egli nimicissimo delle s•tte e delle congiure, dov•
congiurare ed insegnare agli altri a congiurare; nemico del militarismo, fu per quasi tutta la sua vita
un militare e scrisse opere di guerra e di milizia; nemico d'ogni principio d'autoritƒ, fu autoritƒ egli
stesso e capitano d'uomini anco andando a morire; negatore del patriottismo ed internazionalista,
combatt• tutta la sua vita per la liberazione della patria contro lo straniero.... Ma la contraddizione •
pi† apparente che reale; e fu in ogni modo contraddizione dei tempi, non dell'uomo, causata dal
fatto che mentre altre nazioni avevano conquistata l'unitƒ patria e s'erano quindi date ad elaborare le
nuove idee del socialismo e di emancipazione del quarto stato, in Italia c'era ancora il terzo stato
schiavo, c'era ancora il principio di nazionalitƒ da riaffermare. ŽRipassin l'Alpe e tornerem fratelli!•
gridava fra un momento e l'altro di paura il buon Manzoni.
E Carlo Pisacane subˆ l'imposizione dei tempi, mai per„ lasciando di affermare le sue idee,
e, individualmente, mai ad esse facendo oltraggio con la menzogna.
Come dice il Colajanni Žera, a giudizio di Pisacane, utile, era necessario che si
sperimentasse la vanitƒ della ricostituzione della nazione!• E soddisfacendo alla vanitƒ del suo
tempo, seppe combattere e morire, insegnando come si sarebbe dovuto combattere e morire per le
idee da lui, fra i primissimi in Europa, enunciate in una forma razionale e scientifica.
Queste idee, sparse un po' dappertutto nei suoi libri ed articoli di giornali, sono in special
modo condensate ed esposte ampiamente e difese nella terza parte dei suoi Saggi, precisamente in
quello che ha per titolo: La rivoluzione.
1 Il Saggio sulla rivoluzione ai tempi nostri, in cui in Italia si sente il bisogno di ricorrere
agli stranieri per attingerne idee e metodi di lotta, merita di essere additato come il libro in cui sono,
alcune adombrate ed altre sviluppate, tutte le idee moderne di filosofia della storia, di socialismo e
di rivoluzione sociale. Non che una veritƒ non sia ugualmente tale se importata dall'estero invece
che rivelata la prima volta al di qua delle Alpi. Ma a me sembra che sia una cosa molto poco
Žscientifica• presentare per nuova una teoria giƒ vecchia, e aspettare ch'essa ci venga in forma
astrusa non consentanea alla indole del nostro ingegno, tradotta e debitamente condensata e ridotta
in pillole dal di fuori, quando in forma migliore e pi† consentanea alle nostre menti meridionali
potremmo apprenderla da un libro di penna italiana, sol che ci affannassimo a scartabellare qualche
catalogo delle nostre biblioteche.
Chi legge il saggio sulla Rivoluzione del Pisacane 2 prova una grande soddisfazione unita a
sorpresa, quella sorpresa che faceva gridare di gioia: Eureka! Eureka! Ho trovato gli scritti di
Pisacane! al nostro Carlo Cafiero, che ritrovava nel libro d'un italiano le idee da lui in parte esposte
poco prima nel suo compendio del Capitale di Marx, il primo compendio dell'opera del pensatore
tedesco che si sia fatto in Italia.
Infatti, il concetto marxista della massima importanza della questione economica in rapporto
alla minima di quella politica, si trova affermato e delucidato in Pisacane allo stesso modo se non
pi† che nei libri di Carlo Marx e dei marxisti. L'interpretazione materialistica della storia •
sviluppata (non importa che le parole materialismo storico non vi sieno pronunciate, dal momento
che ce n'• l'idea) nel Saggio sulla rivoluzione pi† che non sia accennata nel celebre Manifesto dei
comunisti di Marx e di Engels. Perfino la teoria della concentrazione del capitale, ormai dimostrata
inesatta e che ha fatto tanto furore fino a poco tempo fa, e della miseria crescente, • detta da
Pisacane in pagine che, afferma il Colajanni, sembrano stralciate da Henry George. Cosˆ la stessa
modernitƒ di idee in Pisacane si riscontra quando scrive 3 della fatalitƒ delle rivoluzioni, della
minima influenza della propaganda delle idee e della massima pressione dei bisogni. Pisacane, pur
professando la massima stima, affetto e rispetto per Giuseppe Mazzini, molto prima di Michele
Bakounine critic„ aspramente le dottrine del Maestro repubblicano ligure, sopratutto le idee
religiose ed i metodi autoritari.
ŽNel Saggio sulla rivoluzione, infine, – continua a dire Napoleone Colajanni nella
prefazione succitata – si rinviene nettamente delineata la teoria anarchica col considerare il governo
come un'ulcera, nel ritenere che una societƒ si livella da s• e che la libertƒ non si apprende dagli
educatori; nel combattere le leggi perch‡ riescono sempre a beneficio dei privilegiati che le fanno,
nel giudicare che dev'essere spontanea la reciproca limitazione tra i diritti di tutti e legittima la
soddisfazione di tutti i bisogni e delle inclinazioni di tutti; nel propugnare la formula: Libert€ e
Associazione da sostituirsi a quella mazziniana: Dio e Popolo, e all'altra francese: Libert€,
Uguaglianza e Fratellanza, che ai tempi di Pisacane erano in onore tra i rivoluzionari italiani.• (Op.
cit., pag. VII, VIII).
Di mettere in luce le idee rivoluzionarie, razionalistiche, socialiste e libertarie di Carlo
Pisacane aveva in animo, prima che la malattia tremenda che lo condusse al manicomio e quindi
alla tomba lo assalisse, il nostro Carlo Cafiero. Altri ne han parlato pi† o meno, fra cui gli amici
Saverio Merlino in un opuscolo pubblicato a cura della Plebe in Milano nel 1878 (se non erro),
Domenico Spadoni in un articolo o due della Critica Sociale di Milano di qualche anno fa, Niccol„
Converti in diverse puntate della Questione Sociale di Paterson del 1895-96. Questo, senza parlare
di altri autori, di altri articoli di giornali e di riviste in Italia e all'estero. Manca per„ ancora lo studio
coscienzioso, che senza settarismo rimetta ancor pi† in onore la figura del Pisacane, come filosofo
oltre e pi† che come eroe. Tale studio ci mostrerebbe Carlo Pisacane come uno dei pi† grandi ed
acuti precursori della rivoluzione, come il primo pensatore e teorico del socialismo anarchico. Egli
infatti, lungi dalle astruserie metafisiche e paradossali di Max Stirner come dal confusionismo e dal
praticismo opportunista di G. P. Proudhon, fu il primo a fare una critica ragionata del principio
d'autoritƒ e del privilegio di proprietƒ individuale, che coonest„ l'idea della libertƒ individuale a
quella della socializzazione del capitale, che vedendo inseparabile la questione politica da quella
economica, disse non potervi essere libertƒ laddove c'• privilegio, e che pi† forte e pi† nocivo dei
privilegi • quello che fa dei pochi i padroni di tutto, e dei molti i servi di pochi.
Un altro dei suoi meriti • quello di essere stato molto meno unilaterale di molti socialisti
venuti dopo e che si sono chiamati da s• stessi scientifici. Pi† scientifico di tutti, e meno dogmatico,
2
) Questa parte dei Saggi del Pisacane • stata ripubblicata nel 1894 dalla libreria Treves di Bologna, con una prefazione
di N. Colajanni sotto il titolo: Saggi sulla rivoluzione. L'edizione • esaurita. Perch‡ qualche coraggioso editore non ne
fa una edizione nuova?
3
) Prefazione di N. Colajanni al Saggio sulla rivoluzione. (Libreria Treves, Bologna, p, VII)..
assegnando a ciascuno dei problemi che agitano il pensiero contemporaneo il suo valore, non
trascur„ a profitto di uno solo tutti gli altri lati della questione sociale. Cosˆ, dando al lato
economico della questione la pi† grande importanza, non trascur„ il lato politico, e disse che
l’uguaglianza economica non avrebbe potuto essere garantita che da una eguaglianza radicale in
politica, e cio• dalla libertƒ individuale, non inceppata da leggi o governi, di ciascun associato.
Lungi dal trascurare la questione religiosa, ne afferm„ la grande importanza, ed ateo egli
stesso, cerc„ di dimostrare la iniquitƒ di tutte le religioni, e sopratutto quella del cattolicesimo.
Molta parte del primo capitolo del suo libro su La Rivoluzione intende a demolire l'ipotesi religiosa
e deista della creazione. Nonostante, il suo ateismo non • una specie di bigottismo a rovescio come
quello di molti nostri anticlericali, e non • neppure l'apriorismo dogmatico di molti materialisti alla
B’chner.
Da buon positivista egli non immagina, non afferma a priori. Sentite: ŽChi ha creato il
mondo? Nol so. Di tutte le ipotesi la pi† assurda • quella di supporre l'esistenza di un Dio, e l'uomo
creato a sua immagine; questo Dio, l'uomo l'ha creato ad immagine propria, e ne ha fatto il Creatore
del mondo; e cosˆ una particella • diventata creatrice del tutto.•
Sviscerando la storia e interrogandone la filosofia, Carlo Pisacane rintraccia le origini
religiose di tutte le tirannie e di tutti i privilegi, dimostra la enorme influenza perniciosa di tutte le
religioni, e, preludendo agli ultimi moderni studi critici sul cristianesimo, nega che questo abbia
portato alcun beneficio all'umanitƒ, smentendone altresˆ la leggenda d'una origine libertaria ed
egualitaria.
ŽSe qualche aspirazione alla fratellanza v'• stata, dice Pisacane, l'avvenire immaginato dai
cristiani in tale aspirazione sarebbe stata la trasformazione del mondo in un convento.... Per contro
le dottrine dei moderni socialisti, fra le loro massime, non avvenne alcuna che dissolva o avvilisca;
gli uomini oggi si associano non giƒ per pregare e soffrire, ma per prestarsi vicendevole aiuto,
lavorando per acquistare maggior prosperitƒ e per combattere; l'aspirazione del socialismo non •
quella di ascendere in cielo, ma di godere sulla terra. La differenza che passa tra esso e il Vangelo •
la stessa che si riscontra fra la rigogliosa vita di un corpo giovine, ed il rantolo di un moribondo.•
(Saggio sulla rivoluzione. Edizione citata, pag. 69-70).
Come si vede, Carlo Pisacane non sottintende la sua fede socialista; socialista si dichiara ed
il socialismo difende a spada tratta. Giƒ nella prima parte dei suoi saggi (Cenni storici) aveva
affermato che Žla proprietƒ, primo errore dell'umano istinto, era la pi† potente, se non la sola
cagione della cancrena sociale.• E prima ancora, nel libro La guerra combattuta in Italia nel 184849, aveva detto che Žil progresso mira ad uguagliare tutte le classi, ed a proclamare la sovranitƒ del
diritto•.... nel senso di un Žsocialismo fondato sull'utile di ciascuno, e non sull'abnegazione e sul
sacrificio....• Nella medesima opera egli aveva giƒ fatto il processo alla borghesia 43 nel modo pi†
severo, ma sempre sopra un terreno eminentemente scientifico. La frase celebre di Prampolini ŽLa
miseria non nasce dalla malvagit€ dei capitalisti,• con quel che segue di buono, ma non con
l'ultima illazione pessima, era stata giƒ detta da Carlo Pisacane nel La guerra combattuta: ŽEgli •
una veritƒ incontrastabile, che i mali delle nazioni non dipendono dagli uomini, i quali non sono che
i frutti delle loro costituzioni sociali, e da cui non bisogna attendere un'abnegazione sinora sognata
per mancanza di principi.• In qualche modo si direbbe che Pisacane precorre il venturo socialismo
marxista anche nelle sue esagerazioni fataliste.
Cosˆ pure egli enuncia la teoria della lotta di classe applicata alla storia nel modo pi†
moderno, seguendo l'evoluzione del proletariato nella triplice fase della schiavit†, del servaggio e
del salariato, proclamando la necessitƒ che anche quest'ultimo giogo sia scosso e che gli operai
4
) Ecco il giudizio che Pisacane dƒ della borghesia: La borghesia, impotente per sƒ medesima, in Europa ƒ tirannica ove
regna, e demagoga ove ƒ serva. (LA GUERRA COMBATTUTA, ecc.).
inalzino la bandiera che sventol„ a Lione nel 1833, su cui era scritto: Vivre en travaillant, ou mourir
en combattant, il motto cio• che Filippo Turati ha tradotto nel suo inno col ritornello: O vivremo del
lavoro, O pugnando si morr€.
Affermando che Žl'Italia non ha altra speranza che nella grande rivoluzione sociale• (Saggio
sulla rivoluzione, edizione citata, pag. 265) Carlo Pisacane si augurava che sorgesse anche nel
nostro paese un partito socialista, che della coscienza dei propri mali sorta nel popolo si facesse
bandiera. Scopo dell'azione di questo partito avrebbe dovuto essere, come appare evidente da tutto
il complesso dell'opera del Pisacane, il socialismo anarchico.
Giƒ, ne La Guerra combattuta in Italia negli anni 1948-49, egli aveva detto che Žl'era nuova
verso cui ci avviciniamo a gran passi, ridurrƒ l'immensa e putrida macchina governativa alla sua pi†
semplice espressione; il popolo non delegherƒ pi†, n• potere, n• volere.... Il genio • destinato a
servire il popolo coi suoi lumi, ed ottenere non altro compenso che l'accettazione delle sue idee.•
Ed il tipo di societƒ verso cui secondo Pisacane gli uomini devono avvicinarsi •.... Žquella in
cui ciascuno fosse nel pieno godimento dei propri diritti, che potesse raggiungere il massimo
sviluppo di cui sono suscettibili le proprie facoltƒ fisiche e morali, e giovarsi di esse senza la
necessitƒ o d'umiliarsi innanzi al suo simile, o di sopraffarlo; quella societƒ, insomma, in cui la
libertƒ non turbasse l'eguaglianza; quella in cui in ogni uomo il sentimento fosse d'accordo con la
ragione; e in cui niuno fosse mai costretto di operare contro i dettati di questa, o soffocare gli
impulsi di quello. In tal caso l'uomo manifesterebbe la vita in tutta la sua pienezza....• (Saggio sulla
rivoluzione, edizione citata, pag. 2).
Or che cosa • questa se non l'anarchia degli anarchici odierni? Con i quali Carlo Pisacane va
molto d'accordo, per esempio, nella critica al matrimonio ed all'attuale organizzazione della
famiglia. ŽTutte le leggi, egli dice, sono scaturite dalle dipendenze che la violenza e l'ignoranza
stabilˆ fra gli uomini; ed in tal guisa il matrimonio risult„ dai ratti, che i pi† forti fecero delle pi†
belle, per usurparne il godimento. La natura, per contro, sottopone l'unione dei sessi alla sola legge
dell'amore, e se un'altra regola, qualunque siasi, interviene, l'unione cangiasi in contratto, in
prostituzione.... L'amore adunque, nel nostro patto sociale, sarƒ la sola condizione richiesta a
rendere legittimo il congiungimento dei due sessi.• (Saggio sulla Rivoluzione, ed. cit., pag. 241).
Cosˆ, comune agli anarchici socialisti, Pisacane ha la relazione e filiazione che egli stesso
trova delle sue teorie dalle idee dell'utopista Fourier; comune cogli anarchici ha il concetto della
rivoluzione e della espropriazione, la critica al suffragio universale (che chiama amara delusione),
al parlamentarismo ed al costituzionalismo.
Ai repubblicani egli dice parole che sembrerebbero tolte ad un giornale socialista di oggi:
Ž.... i repubblicani dicono di non accettare il formalismo, ma combattono il comunismo, temono
dichiararsi socialisti, propugnano il vangelo, in una parola niegano la rivoluzione, e vogliono la
rivoluzione. Quali sono le riforme da essi desiderate? Si ignora, l'ignorano essi medesimi, e
pretendono che il popolo, per conquistare questo futuro incognito, compia la rivoluzione, ed attenda
che Iddio comunichi le tavole della legge ad un nuovo Mos•.• (La guerra combattuta, ecc.).
Chiama Žstrano ed assurdo argomento • quello dei dottrinari che sostengono Žche bisogna educarsi
al vivere libero, ottenere la libertƒ per gradi e non per salti, ed accettare una mezzana libertƒ come
sgabello all'intera, come pegno di migliore avvenire.• (Saggio sulla Rivoluzione, ediz. cit., pag. 93).
ŽLa libertƒ non ammette restrizioni di sorta alcuna, n• fa d'uopo d'educazione o di tirocinio
per gustarla; essa • sentimento innato nell'umana natura.• (Idem, pag. 98).
Si dichiara contrario alle dittature rivoluzionarie (Idem, pag. 197 e seguenti), e parlando
degli eroi delle rivoluzioni, da buon positivista sostiene che non questi fanno i loro tempi, ma sono i
tempi, le circostanze e l'ambiente che creano gli eroi.
Insomma, i libri del Pisacane sono una vera e propria miniera di idee per il socialista, per
l'anarchico, per il rivoluzionario, per il sociologo. E – insisto nel notarlo – non si tratta di idee
utopistiche fondate sul sentimento pi† che sulla ragione; non si tratta di concezioni astratte d'un
immaginoso e generoso riformatore di uomini, come potevano essere i Moro, i Campanella, i SaintSimon, i Fourier, gli Owen, i Cabet, ecc., ma di tutta una serie di osservazioni, di argomentazioni e
di illazioni solide, positiviste e scientifiche, che il lettore, sorpreso, trova di aver lette e sentite mille
volte in forma meno concisa e meno chiara, da autori vissuti parecchio dopo il Pisacane, pi† di
questo saliti in fama di scienziati del socialismo.
Certo, molte idee da Carlo Pisacane appena accennate, sono state poi ampliate e precisate
meglio, incanalate per vie da lui non prevedute, per le diverse condizioni politiche dell'Italia di
allora e per l'assenza di un partito socialista, e sopratutto per l'assenza del proletariato come classe
militante. Ci„ spiega le contraddizioni del nostro autore, quando dalle idee volendo passare a dar
consigli pratici, come nel capitolo ultimo, non sa spastoiarsi di tutte quelle medesime istituzioni che
ha criticato tanto aspramente.
Ma questo • naturale in un precursore a cui mancava la collaborazione della pi† piccola
minoranza, che non aveva sotto gli occhi e sotto mano l'elemento principale per un'azione
veramente socialista, il proletariato, e su cui influivano potentemente le condizioni politiche
diversissime del proprio paese, le quali esigevano attenzioni ed azioni politiche pi† che sociali.
Eppoi si sa bene che c'• sempre incertezza in sul primo elaborarsi d'una idea; e Carlo Pisacane fu il
primo (e forse il solo veramente originale, prima di Antonio Labriola) in Italia, e dei primi in
Europa, a dare al socialismo un contenuto scientifico e veramente rivoluzionario. Forse che lo
stesso Marx, lo stesso Bakounine, e tutti gli internazionalisti della prima ora, autoritari e libertari,
non vagarono in principio in una quantitƒ di incertezze, maggiori anche di quelle di Pisacane, prima
di formulare un completo ed organico programma di azione? E c'• del resto anche oggi questo
programma? ‰ lecito dubitarne.
Ma Carlo Pisacane ha elaborata una dottrina pi† che un programma, ed un programma
massimo pi† che un programma minimo. Una azione socialista era allora impossibile, e per aprire a
questa la via c'era bisogno dell'azione rivoluzionaria politica. Carlo Pisacane comprendeva bene
questa necessitƒ, e non si ritir„ perci„ sul Monte Sacro a sognare il socialismo e ad aspettare che il
tempo venisse di poter agire socialisticamente. Egli agˆ con gli altri rivoluzionari politici italiani
perch• questo tempo arrivasse pi† presto, ed agˆ in modo da insegnare con l'esempio ai socialisti
d'oggi come si combatte e si muore per una idea.
Abbiamo visto come Carlo Pisacane fu un filosofo ed uno scienziato del socialismo; or
vediamo come seppe essere un eroe della rivoluzione.
III.
Ritornato Carlo Pisacane nel 1856 dal romitaggio di Albaro in Genova, dagli studi scientifici
e sociali all'azione rivoluzionaria politica, molti stenti dovette durare per campare la vita. Insegnava
privatamente matematiche, e non erano molto numerose le lezioni trovate, tanto che dovette, si pu„
dire, soffrire letteralmente la fame, insieme alla sua compagna ed alla figliuola.
Mantenutosi sempre in relazione coi comitati rivoluzionari di Torino e di Napoli, queste
relazioni fece pi† vive; e sui primi di maggio del 1857 si rec„ di persona in Torino a trovare
Giovanni Nicotera, per proporgli senz'altro una spedizione insurrezionale nel Napoletano.
A viva voce e per lettera, sentito anche il parere dei lontani, fu presto tutto combinato. Sorta
una idea, Pisacane non tergiversava affatto prima di porla in azione, e correva dritto alla m•ta. Fu
stabilito che Carlo Pisacane, per essere del paese e sopratutto per le sue cognizioni tecniche e
militari, avesse il comando supremo della spedizione. Egli infatti si mise subito all'opera, recandosi
clandestinamente a Napoli, dove si abbocc„ con gli amici pi† fervorosi del Comitato nazionale, fra i
quali ricordiamo Giuseppe Fanelli, il futuro internazionalista amico di Bakounine; e tutti gli
assicurarono che uno sbarco sul suolo di Napoli di emigrati politici sarebbe stato seguito da una
insurrezione generale. Vedremo poi come questa assicurazione fosse avventata e fallace.
Tornato a Genova, Pisacane fiss„ la partenza della spedizione per i lidi partenopei per il
giorno 13 giugno 1857. Come si vede, non aveva perduto tempo. Ma un contrattempo fece
rimandare di qualche giorno la partenza dei volontari; Rosolino Pilo, l'eroe della rivoluzione
siciliana che doveva morire vicino a Palermo nel 1860 a capo dei picciotti insorti in aiuto di
Garibaldi, incaricato di portare in alto mare una barca di armi, fu sorpreso da una tempesta, e
costretto a gettare il prezioso carico in acqua a poche miglia da Genova. Dopo questo fatto Enrico
Cosenz si rifiut„ di prender parte all'impresa, come aveva promesso; e allora Pisacane col
passaporto di quegli ritorn„ daccapo in Napoli per concertarsi meglio, e non far avvenire un moto
fuori tempo. Ne ritorn„, dopo aver prese tutte le precauzioni e aver tutto provveduto, celeremente, e
stabilˆ insieme agli altri di partire da Genova di nuovo con i volontar“ della spedizione, il 25 giugno,
dieci giorni dopo aver lasciato Napoli.
Alla vigilia della partenza, il 24, Carlo Pisacane scrisse il suo testamento politico, in cui
dichiarava di credere Žche il socialismo, nella formula libert€ e associazione, sia il solo avvenire
non lontano dell'Italia e forse dell'Europa.• Affermava in esso di non aver alcuna fiducia per il
risorgimento d'Italia nei regimi costituzionali, neppure in quello del Piemonte, che anzi credeva pi†
dannoso all'Italia di quello borbonico. Vantava altresˆ la superioritƒ dei fatti sulle idee: ŽLe idee
risultano dai fatti, non questi da quelle, ed il popolo non sarƒ libero quando sarƒ educato, ma sarƒ
educato quando sarƒ libero.• E da questo concetto deriva la superioritƒ della propaganda coi fatti,
cui abbiamo accennato pi† sopra, e la necessitƒ della iniziativa rivoluzionaria individuale con
queste parole: ŽAlcuni dicono che la rivoluzione deve farla il paese; ci„ • incontestabile. Ma il
paese • composto di individui, e poniamo il caso che tutti aspettassero il paese senza far nulla, la
rivoluzione non scoppierebbe mai; invece se tutti dicessero: la rivoluzione dee farla il paese di cui
io sono una particella infinitesimale, epper„ ho anche la mia parte infinitesimale da compiere, e la
compio, la rivoluzione sarebbe immediatamente gigante• 5.
Diceva essere sua opinione che la spedizione sarebbe riuscita, ma che in caso contrario
disprezzava coloro che avrebbero detto folle il suo tentativo, poich• nessuno farebbe nulla di ardito
se prima aspettasse l'approvazione delle maggioranze; e concludeva di trovar premio solo dalla
propria coscienza, e dal cuore dei suoi amici e cooperatori; e che del resto, se nessun bene fosse
venuto all'Italia dal suo sacrificio, sarebbe stata sempre una gloria per lei aver trovata gente
volenterosa d'immolarsi al suo avvenire.
Finalmente, il 25 giugno 1857, Carlo Pisacane, Giovanni Nicotera, Battistino Falcone ed
altri ventidue s'imbarcarono in Genova sul piroscafo Cagliari, diretto in Tunisia, toccando la
Sardegna: e si imbarcarono alla chetichella, come passeggeri che non si conoscessero l'un l'altro.
Per„, appena lontani dal lido, a un segno convenuto si lanciarono tutti sui marinai e sul capitano, li
fecero prigionieri con la forza e li rinchiusero sotto coperta. Si unˆ a loro, bench• non fosse della
partita, anche qualche passeggero, e perfino un cameriere del piroscafo.
Nominato capitano uno dei loro, a 20 miglia dalla spiaggia si aspettava Rosolino Pilo che
doveva anche questa volta con una barca portare un carico di armi ai volontari. Ma sventuratamente
una folta nebbia impedˆ a Pilo di vedere il piroscafo, finch• s'imbatt• nella sua barca un piroscafo
del governo sardo, l'Ichnusa, che la cattur„. I congiurati in alto mare, capito che non v'era pi† da
sperare su quell'aiuto, vollero proseguire lo stesso: ŽImpareranno i moderati – disse Pisacane –
come poche anime generose sappiano iniziare grandi fatti, armati d'un pugnale soltanto.•
5
) Questo Testamento Politico di C. Pisacane ha avuto una infinitƒ di edizioni in Italia ed • conosciutissimo. Perci„ mi
sembra inutile ripubblicarlo intero. Esso • stato inserito in fondo al Saggio sulla Rivoluzione (edizione citata) a pag.
266, ed • stato pubblicato, per ci„ che ricordo io, nella vita di Carlo Pisacane dall'on. Felice Visconti Venosta,
senatore del Regno, e poi a cura del Lucifero in Ancona, e dell'Uguaglianza sociale in Marsala.
Fortuna volle per„ che, navigando verso Ponza, si scoprisse che nel naviglio c'era giƒ una
cassa di schioppi da caccia diretti a un armaiuolo di Tunisi. Figuratevi l'allegrezza dei volontari! Per
tutto il viaggio, da allora, non fecero che fabbricar cartucce e fonder palle adatte a quei fucili, che,
naturalmente, credettero bene di appropriarsi come diritto di guerra.
Il giorno 27 giunsero a Ponza, isola dell'arcipelago napoletano, in cui il governo borbonico
teneva relegati molti condannati politici. Oggi in un muro dell'unica strada dell'isola si possono
leggere in una lapide alcuni nomi di quei relegati. Il governo italiano non ha voluto in questo esser
da meno del governo borbonico, ed anche lui ha mandato a pi† riprese a Ponza ed in altre isole del
meridionale, relegati col nome di coatti, i socialisti e gli anarchici che con la loro azione politica lo
disturbavano.
Ma torniamo a Pisacane ed ai suoi amici. Questi, giunti nella rada di Ponza, con un'astuzia
attirarono a bordo ed imprigionarono il capitano di porto e qualche altra autoritƒ del luogo pi†
ingenua. Quindi in quattordici scesero a terra, assaltarono e disarmarono il porto doganale e la
guardia dei veterani. I 300 soldati di fanteria che erano nell'isola di guardia, non sapendo di tanta
inferioritƒ di numero, si arresero quasi senza colpo ferire. Pisacane impose loro la consegna delle
chiavi delle prigioni, e quindi corse a liberare tutti i prigionieri politici, un migliaio circa. Uno di
questi, per ricompensa si fece traditore dei suoi liberatori. Si chiamava De Leo.
Istig„ gli altri suoi condetenuti a non seguire Pisacane, che li aveva giƒ tutti ingaggiati, e
riuscˆ a distoglierne da lui quasi seicento. E mentre Pisacane e i suoi compagni stavano per partire
con gli altri quattrocento rimasti fedeli, il De Leo sur una barca si rec„ a Gaeta ad avvertire le
autoritƒ borboniche.
Intanto, nella notte, il piroscafo Cagliari con i rivoluzionari faceva strada verso il
continente, e vi giunse innanzi che il giorno sorgesse. Carlo Pisacane ed i suoi sbarcarono
precisamente dove s'era convenuto col comitato di Napoli, vicino al villaggio di Sapri. Qui per„
nessuno li aspettava; i soccorsi promessi non vennero, e nessuno rispose al loro appello di libertƒ.
Venuto il giorno, gli abitanti in cui si imbattevano fuggivano spaventati, e dopo aver aspettato tutta
la giornata del 28 pernottarono a Sapri, donde partirono l'indomani internandosi.
A mezzodˆ del giorno 24 i volontar“, che ormai possiamo chiamare i volontar“ della morte,
giungevano a Torraca.
Niun volto amico neppur qui: attorno a loro silenzio, paura, abbandono, fuga. Perfino il
barone Gallotti, che si sapeva liberale, corse dalle autoritƒ a scagionarsi d'ogni solidarietƒ coi
rivoluzionari sbarcati a Sapri.
Giunti a Padula, un altro paesetto, il 30 giugno, la cosa si ripet•: la gente fuggˆ atterrita o si
nascose, come fossero arrivati i briganti, tanta era l'ignoranza di quella popolazione ed il loro
feticcio attaccamento ai Borboni.
Intanto il governo, avvertito, spediva battaglioni su battaglioni sui passi degli insorti,
cercando di attorniarli. Contemporaneamente la guardia urbana di Sapri, di Torraca e di altri paesi
dei dintorni si arm„ contro gli sbarcati dal Cagliari. Il Cagliari presto veniva raggiunto dalle navi
borboniche e catturato, e presine prigioni tutti i marinai e le persone rimastevi.
Abbiamo detto della guardia urbana; ma non si creda che questa fosse qualche cosa come la
guardia civica o nazionale, che si istituiva durante le rivoluzioni del '48 nelle varie cittƒ d'Italia. Era
essa una guardia civica a rovescio, composta di tutti gli oziosi e le canaglie de' var“ luoghi, assoldati
dalla polizia in servizio della reazione.
Era gente brutale, manesca, analfabeta, ignorante, quasi sempre rea di delitti comuni,
attaccata ai Borboni come l'ostrica allo scoglio. Circa 800 di queste guardie urbane, insieme a 200
gendarmi, s'imbatterono il 1• luglio con i rivoluzionar“, e attaccarono battaglia con essi. I
rivoluzionar“ ebbero la vittoria, sbandando, dopo uno scontro accanito, le guardie e i gendarmi
borbonici.
Malgrado la vittoria per„, gli insorti erano in tristi condizioni; stanchi e trafelati dopo tre
giorni di cammino, e dopo un combattimento, non potevano trovar modo di riposarsi e tanto meno
di rifocillarsi. Mancava loro pane ed acqua; e niuno voleva darne. Tutte le porte venivano ad essi
chiuse in faccia; e forse • deplorevole che i rivoluzionar“ non si prendessero con la forza ci„ che
loro veniva negato, chiesto con le buone e col denaro alla mano. La sete sopratutto che soffrirono fu
terribile.
Mentre dopo la vittoria essi riposavano alla meglio sotto gli alberi, giunsero altre truppe
nemiche. Questa volta erano otto compagnie regolari di Cacciatori borbonici, comandati dal tenente
colonnello Ghio, il medesimo che nel '60 doveva ignominiosamente fuggire davanti a Garibaldi.
Per giudicare dell'entitƒ delle forze giunte all'improvviso sugli insorti, basterƒ dire che
ciascuna compagnia Napoletana si componeva di 150 o 160 uomini. Mille e duecento soldati
regolari e bene armati, contro appena trecento volontari (che tanti eran rimasti) con
munizioniscarsissime e con poveri fucili da caccia! Era il principio della fine....
La battaglia dur„ pi† di due ore, ma alla fine mancarono le cartucce ai volontari, e si dovette
pensare ad una risoluzione disperata. O internarsi ancora nei monti, o morire battendosi alla meglio
fino all'ultimo. Carlo Pisacane era del secondo parere, ma Nicotera lo dissuase, persuadendolo
invece a battere in ritirata e ripiegare con gli altri verso il Cilento. Cosˆ cominci„ la dolorosa ritirata
– il Calvario! Nell'attraversare Padula il volgo si scagli„ contro di loro, assalendoli di fianco, a
tergo, gettando sul loro capo pietre e masserizie dalle finestre, uccidendone alcuni, altri facendone
prigionieri, e assassinando anche cinque di questi. Il manipolo di generosi, assottigliato giƒ nei
precedenti scontri, si assottigli„ cosˆ anche di pi†; erano rimasti in 96 da 400, attorno a Pisacane,
Nicotera e Falcone.
Percorsero insieme, internandosi ancora, la pianura, e giunsero alle falde delle montagne di
Buonabitacolo. Ahi! che non fu abitacolo buono per quei generosi! Stanchi, digiuni, assetati, tutti
negavano loro asilo, acqua, pane. Smarriti, non sapevano ove andare; e solo un pastore si offerse
loro a guidarli verso il villaggio di Sanza. Credete voi che vi andassero per ottenerne ristoro
materiale? No! Ancora la speranza di far insorgere quelle terre non era spenta in loro, e di nuovo
baldanzosi, bench• pochi e disarmati, entrarono il 2 luglio nel villaggio di Sanza a bandiere
spiegate, Carlo Pisacane alla testa, gridando a gran voce: Viva l'Italia! Viva la liberta!
Ma miglior sorte neppur qui doveva loro toccare. Il popolaccio del luogo, mentre gli altri si
nascondevano, tutt'altro che seguirli, si scagli„ pur esso furibondo contro gli sventurati. Si armarono
in un batter d'occhio di scuri, di forche, di falci e di bastoni, e li rincorsero fuori del villaggio,
guidati dai preti e dai frati; e pi† furenti di tutti eran le donne!
L'ultima carneficina cosˆ cominci„. Alcuni degli ex relegati di Ponza si dispersero, cercando
di sfuggire all'eccidio correndo via per la campagna e per i monti. Non rimasero che in dodici
attorno Pisacane, Nicotera e Falcone. La strage continu„ su loro. Falcone presto cadde in un lago di
sangue, e Carlo Pisacane, circondato da ogni parte, giƒ ferito, fu mortalmente colpito da un fendente
di scure, e tutti gli altri villani gli si lanciarono sopra finendolo a colpi di forche e di falci.
Cosˆ l'eroe finˆ la sua vita gloriosa e laboriosa, spesa tutta nel pensiero e nell'azione per la
libertƒ, a soli 32 anni, il 2 luglio 1857.
Che cosa avvenne poi? Giovanni Nicotera stava per raccogliere e trascinar via il cadavere di
Carlo Pisacane, quando una palla lo ferˆ alla destra ed altri colpi di scure lo stramazzarono a terra.
Egli fu preso prigione, insieme agli altri, e trascinato via ignudo, fra gli insulti, le beffe, gli sfregi
della plebaglia. Si fece contro loro e i complici e pretesi tali un gran processo a Salerno. Poche
furono le assoluzioni, e molte le condanne pi† feroci. Giovanni Nicotera si port„ valentemente in
quel processo; con l'astuzia salv„ dalla condanna i pochi che infatti furono assolti, ed al Procuratore
fiscale che lo tacci„ di mentitore, ricacci„ in gola l'insulto scaraventandogli contro in piena udienza
il calamaio di ferro del cancelliere.
Notiamo con rammarico questo contegno fiero del Nicotera; poich• pensiamo che molti anni
pi† tardi, liberato dalla prigionia perpetua nel fosso di Favignana, cui l'aveva condannato il
Borbone, e giunto al potere a capo dell'Italia una, cambi„ siffattamente di pensiero e di sentimento
da minacciare a una commissione operaia di lanciare la cavalleria sulle donne ed i fanciulli dei
lavoratori, durante la manifestazione del Primo Maggio. Indegno davvero quel giorno si rese d'aver
adottata ed ospitata in sua casa la figlia del socialista e rivoluzionario mortogli a fianco a Sanza! A
tanto pu„ giungere l'influenza pervertitrice e corruttrice del potere!
La compagna di Carlo Pisacane morˆ qualche tempo dopo del suo amico. Il primo che and„,
• bene ricordarlo, ad annunziarle che il padre della figlia sua era stato ucciso, fu un giudice del
governo sardo, recatosi a perquisirne la casa insieme al vice console del governo borbonico al
quale, con atto di poliziesca deferenza, fu fatta prender visione di tutte le carte rimaste in casa del
Pisacane.
E veritƒ storica vuol che si dica che chi quel giorno tratt„ pi† gentilmente e umanamente la
vedova desolata, e la confort„ di buone parole, fu il funzionario borbonico; per sola intercessione
del quale, anzi, il villano giudice sardo non sfratt„ in nome del governo piemontese dalla casa
dell'eroe la sua compagna e la figlia.
Or l'iniquitƒ dei tempi ha voluto che il desiderio di Carlo Pisacane non si sia avverato, che il
risorgimento d'Italia non sia avvenuto com'ei voleva. Pensi la generazione che sorge a realizzare
dell'eroe di Sapri l'altro ideale, quello che preconizzava non lontano, per gli uomini affratellati di
tutte le patrie, un avvenire di vero benessere e di integrale libertƒ.
La spigolatrice di Sapri
di Luigi Mercantini 1857
Eran trecento: eran giovani e forti:
E son morti!
Me ne andava al mattino a spigolare
Quando ho visto una barca in mezzo al mare:
Era una barca che andava a vapore,
E issava una bandiera tricolore.
All’isola di Ponza si • fermata,
‰ stata un poco, e poi s’• ritornata;
S’• ritornata, e qui • venuta a terra;
Sceser con l’armi, e a noi non fecer guerra.
Eran trecento: eran giovani e forti:
E son morti!
Sceser con l’armi, e a noi non fecer guerra,
Ma s’inchinaron per baciar la terra:
Ad uno ad uno li guardai nel viso;
Tutti aveano una lagrima ed un sorriso:
Li disser ladri usciti dalle tane,
Ma non portaron via nemmeno un pane;
E li sentii mandare un solo grido:
— Siam venuti a morir pel nostro lido! —
Eran trecento: eran giovani e forti:
E son morti!
Con gli occhi azzurri e coi capelli d’oro
Un giovin camminava innanzi a loro;
Mi feci ardita, e presol per la mano,
Gli chiesi: — Dove vai, bel capitano?
Guardommi, e mi rispose: — O mia sorella,
Vado a morir per la mia Patria bella!—
Io mi sentii tremare tutto il core,
N• potei dirgli: — V’aiuti il Signore!—
Eran trecento: eran giovani e forti:
E son morti!
Quel giorno mi scordai di spigolare,
E dietro a loro mi misi ad andare:
Due volte si scontrar con li gendarmi,
e l’una e l’altra li spogliar dell’armi:
Ma quando f•r della Certosa ai muri,
S’udirono a suonar trombe e tamburi;
E tra il fumo e gli spari e le scintille
Piombaron loro addosso pi† di mille.
Eran trecento: eran giovani e forti:
E son morti!
Eran trecento, e non voller fuggire;
Parean tremila e vollero morire:
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Ma vollero morir col ferro in mano,
E innanzi ad essi correa sangue il piano.
Finch• pugnar vid’io, per lor pregai;
Ma un tratto venni men, n‡ pi† guardai...
Io non vedeva pi† fra mezzo a loro
Quegli occhi azzurri e quei capelli d’oro!...
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Eran trecento: eran giovani e forti:
E son morti!
Afghanistan 2006 -2010
2006
Missione ISAF, Afghanistan
5 maggio, "Musay Valley"
2 alpini uccisi dallo scoppio di un ordigno al passaggio del loro convoglio:
1. Manuel Fiorito, Tenente, 2– Reggimento Alpini.
2. Luca Polsinelli, Maresciallo Ordinario, 9– Alpini.
2 luglio, Herat: Muore durante la Missione PRT della NATO a seguito di un attacco
cardiaco:
3. Carlo Liguori, Tenente Colonnello.
21 settembre, Kabul: Per un incidente stradale cade:
4. Giuseppe Orlando, Primo caporale maggiore, 2– Reggimento Alpini;
26 settembre, a sud di Kabul: 2 alpini coinvolti nello scoppio di un ordigno, azionato
probabilmente a distanza, al passaggio del loro convoglio; uno perisce immediatamente, l'altro
spirerƒ a Roma il 30 settembre.
5. Giorgio Langella, Caporal Maggiore Capo, 2– Reggimento Alpini.
30 settembre, Ospedale Militare del Celio, Roma: A seguito dell'attentato subito il 26
settembre precedente, cade per le gravi ferite riportate:
6. Vincenzo Cardella, Primo caporale maggiore 2– Reggimento Alpini.
2007
Missione ISAF, Afghanistan
24 novembre, Paghman, Afghanistan: A seguito di una strage ad opera di un kamikaze, durante la
cerimonia d’inaugurazione del ponte sul fiume a Paghman – circa 25 km a nord-ovest di Kabul
(Afghanistan), muore:
7. Daniele Paladini, Primo maresciallo, 2† Reggimento Genio Pontieri, Piacenza.
2008
Missione ISAF, Afghanistan
13 febbraio, Rudbar: A seguito di uno scontro a fuoco durante una distribuzione di viveri alla
popolazione locale, decede:
8. Giovanni Pezzulo, Primo maresciallo, CIMIC Group South, Motta di Livenza.
2009
Missione ISAF, Afghanistan
14 luglio, 50 km N/E di Farah: A seguito dello scoppio di un ordigno IED al passaggio del suo
convoglio decede:
9. Alessandro Di Lisio, Primo Caporal Maggiore, 8• Reggimento Genio Guastatori Paracadutisti
"Folgore"
17 settembre, Kabul: A seguito di un attacco suicida ad un convoglio diretto all'aeroporto della
capitale afgana, sono deceduti:
10. Roberto Valente, Sergente Maggiore, 187• Reggimento della "Folgore".
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11. Matteo Mureddu, Caporal Maggiore, 186• Reggimento della "Folgore".
12. Andrea Fortunato, Tenente, 186• Reggimento della "Folgore".
13. Davide Ricchiuto Primo Caporal Maggiore, 186• Reggimento della "Folgore".
14. Gian Domenico Pistonami, Primo Caporal Maggiore, 186• Reggimento della "Folgore".
15. Massimiliano Randino, Primo Caporal Maggiore, 183• Reggimento NEMBO della "Folgore".
15 ottobre, tra Herat e Shindad: A seguito di un incidente stradale, per il ribaltamento
dell'autoblindato "Lince", durante uno spostamento operativo, • deceduto:
16. Rosario Ponziano (25 anni), Primo caporal maggiore, 4• Reggimento Alpini Paracadutisti.
2010
17 maggio attentato a Bala Murghab. Nell'attacco sono morti due militari italiani e due sono rimasti
feriti. Sono morti nell’attentato:
17. Massimiliano Ramad† sergente, 33 anni, di Velletri,
18. Luigi Pascazio caporalmaggiore, 25 anni, della provincia di Bari. Era figlio di un poliziotto.
Il padre del militare ha appreso la notizia in questura a Bari.
I feriti sono:


la soldatessa Cristina Buonacucina, caporale del 32.esimo reggimento Genio "Taurinense",
originaria di Foligno.
Gianfranco Scir•, 28 anni, di Casteldaccia, un comune in provincia di Palermo.
Il primo parlamento italiano
(27 gennaio 1861)
Si svolge il primo turno delle elezioni dei deputati del primo Parlamento nazionale. Cavour, infatti,
ha compreso perfettamente l'urgenza della convocazione di una Camera che rappresenti l'intero
Paese e che sia in grado di proclamare solennemente il nuovo Regno.
Le elezioni politiche per la prima Camera (il Senato • di nomina regia) si svolgono sulla base della
Legge Sarda del 17 Marzo 1848 n. 680, in base alla quale hanno diritto al voto i cittadini maschi
alfabetizzati che godano dei diritti civili e politici, che abbiano compiuto 25 anni e che paghino un
annuo censo di imposte che va dalle 40 lire del Piemonte alle 20 della Liguria.
Oltre al censo, comunque, sono ammesse al voto categorie di elettori in base a requisiti di capacitƒ,
come professori di universitƒ, magistrati, ufficiali.
Inoltre, la legge, per allargare ancora il diritto elettorale, aggiunge un'altra categoria: possono
essere elettori, se possiedono la metƒ del censo richiesto, i laureati, i notai esercenti e gli ufficiali in
pensione. Infine, la legge consente l'iscrizione nelle liste di commercianti, industriali, artigiani i
quali, non pagando particolari imposte dirette relative alle loro attivitƒ, ne sarebbero altrimenti
esclusi. Su una popolazione di 22.182.377 abitanti, gli elettori per i 443 deputati sono 418.696
(1,9%).
Il sistema elettorale • fondato sul collegio uninominale a due turni francese. Si ricorre al secondo
turno quando nessuno dei candidati abbia ottenuto, al primo turno, pi† di un terzo dei voti rispetto
al numero degli iscritti nel Collegio e pi† della metƒ dei suffragi dati dai votanti, esclusi i voti nulli.
Nel ballottaggio si vota per uno dei due candidati che hanno riportato pi† voti al primo turno. E'
eletto chi riporta la maggioranza semplice, senza altra condizione.
Nel gennaio 1861 si tennero le elezioni per il primo parlamento unitario. Su quasi 26 milioni di
abitanti, il diritto a votare fu concesso dai nuovi governanti solo a 419.938 persone (circa l'1,8%),
sebbene soltanto 239.583 si recassero a votare; alla fine i voti validi si ridussero a 170.567, dei quali
oltre 70.000 erano di impiegati statali. Vengono eletti 85 fra principi, duchi e marchesi, 28 ufficiali,
72 fra avvocati, medici ed ingegneri.
Con la prima convocazione del Parlamento italiano del 18 febbraio 1861 e la successiva
proclamazione del 17 marzo, Vittorio Emanuele II • il primo re d'Italia nel periodo 1861-1878.
forse pot• dirsi con maggiore veritƒ; una goccia di senno in un mar d'inchiostro.
Memorie per la storia de' nostri tempi dal Congresso di Parigi nel 1856 ai primi giorni del
1863 (pag. 62-64) di Giacomo Margotti
I LAVORI DEL PRIMO PARLAMENTO ITALIANO (Pubblicatoti 16 luglio 1861)
La Camera dei Deputati si • dato vacanza. Un gran numero di Deputati per„ giƒ da lungo tempo
pigliato le sue vacanze, giacch‡ di 443 Deputati quasi una metƒ non si curava guari dei lavori della
Camera ; e le ultime due votazioni del 13 di luglio furono fatte l'una da 232 votanti, e l'altra da 212.
La qual cosa dimostra, se non altro, quanta importanza annettano i nostri onorevoli al loro mandato
di rappresentanti del popolo italiano.
Eppure a vedere quanto chiasso si faceva di questo Primo Parlamento italiano di quest'Assemblea
dei rappresentanti dell'Italia rigenerala, di questa riunione, dalla quale doveano scaturire tanti beni,
quanti furono i mali usciti dal vaso di Pandora, ognuno avrebbe detto che ogni Deputato, non che a
dovere, si sarebbe recato a sommo onore d'assistere puntualmente alle tornate. Ma oh stupore! Una
gran parte, dopo aver assistito a qualche discussione, 89 n'and„ pei fatti suoi, ed altri appena
prestato giuramento, se ne fuggirono. Riserbandoci ad esaminare altra volta i principali lavori del
Primo Parlamento Italiano, oggi ci contenteremo d'una semplice occhiata al complesso dei
medesimi, dandone qui sotto un elenco.
Da questo risulta che la Camera aperta il 18 febbraio, e chiusa il 13 luglio ebbe un lavoro di cinque
mesi, ossia circa 150 giorni. Le tornate furono in tutto 109: le leggi approvate 83. Questo numero
di leggi non • poca cosa, avuto riguardo alle 109 tornate. Le leggi non si possono improvvisare
come un sonetto od un madrigale. Ma se invece di guardare al numero, guardate al peso delle leggi
votate, troverete che il Parlamento Italiano non diede grandi prove n‡ di senno politico, n• di
pratica di amministrazione, ne di tattica parlamentare. Se togliete due o tre leggi, tutte le altre sono
tali che, se non fosse stata la parlantina degli onorevoli e la smania di recitare ciascuno il suo
discorsetto per aver l'onore di far la sua comparsa sulla Gazzetta Ufficiale, potevano votarsi a
quattro, a sei, a dieci per seduta, come fa lodevolissimamente il Senato.
Recandovi in mano quel gran volumaccio che sono giƒ le discussioni della Camera di oltre ad un
migliaio di pagine, vi sembrerƒ che debbansi lƒ contenere tesori di sapienza politica, finanziaria,
militare, amministrativa, giudiziaria. Eppure non mai forse pot• dirsi con maggiore veritƒ; una
goccia di senno in un mar d'inchiostro. E meno male se fra tante inutili frasche non si trovassero di
molte e molte empietƒ e bestemmie fino a far il panegirico della Convenzione francese, e
proclamare che il Dio di Pio IX non • il Dio dell'Italia!! In sostanza, ogni cosa ben considerata, il
principale lavoro del Parlamento fu votare spese sempre maggiori, ed un imprestito di 750 milioni.
Di fatto tra nuove pensioni, sussidii per questa o per quell'altra opera, concessioni di strada ferrate
sempre a carico pi† o meno grande dell'erario, maggiori spese sui bilanci passati, ed altre leggi
portanti un nuovo gravame sull'erario, troverete che se non abbiamo un nuovo peso di 500 milioni
quanto il ministero ne vuole per l'imprestito, non n'andremo forse lontani. Questa • la parte
principale dei lavori. In sostanza il primo Parlamento italiano esercit„ come in generale gli altri
Parlamenti passati il suo uffizio, che • di votar danari a carico del popolo e a vantaggio di chi si
trova avere il mestolo in mane
Eppure quante cose non aveva da fare questo primo Parlamento italiano? Basti il dire che esso
aveva da fare l'Italia! Finora la rivoluzione non fece che disfare l'Italia. E' questo il compito della
rivoluzione: rovinare tutto ci‚ che esiste. Rivoluzione • distruzione. La parte che toccava al
Parlamento era di riedificare ci„ che fu distrutto. Aveva da riedificare la magistratura e riordinare i
tribunali.
Domandate a qual volete dei magistrati, specialmente delle provincie annesse, se egli sa che cosa si
dica e che cosa si faccia in quella farragine di codici nuovi e codici antichi; di leggi che derogano,
abrogano e rimettono in vigore questo o quell'altro provvedimento? Chiedete a giurisperiti se
possano cavare un costrutto da quest'ammasso di legislazione ove il vecchio ed il nuovo formano
un intruglio da non capirne un acca? Bisognava riedificare l'amministrazione, tanto centrale,
quanto provinciale. Chi ne capisce ora di tutto questo laberinto, che sono i dicasteri del ministero!
Andate a chiedere qualche cosa al primo ministro che incontrate; e vedrete che egli vi dirƒ: Non ƒ
di nostra competenza; tocca al ministero della guerra. Andate al ministero della guerra, e lƒ vi
risponderanno: Che cosa c'entra qui il ministero di guerra? Andate dal ministro dell'interno.
Vi recate al ministero dell'interno e vi ridono sulla faccia, dicendovi che quell'affare
evidentemente spetta al ministro di grazia e giustizia. Da questo siete rimandati al ministro sopra
l'istruzione pubblica, il quale vi manda da quello dei lavori pubblici, in caso che in tutto questo
salire e scendere dˆ scale non abbiate rinnegata la pazienza, e mancato tutti i ministri a quel paese,
vedrete che il ministro sopra i lavori pubblici vi manderƒ da capolino al segno, cio• vi inviterƒ a
recarvi dal primo ministero d'onde avete cominciato le stazioni della Via Crucis.
E se le cose vanno in questa guisa a Torino, pensate che sarƒ di Milano, di Firenze, di Modena e di
Napoli!!i Eppure che cosa si fece dal Parlamento per riordinare questo caos?
Bisognava riordinare le finanze collo stabilire in modo equo e giusto le imposte in tutto lo Stato.
Ora chi paga le imposte non • che il Piemonte e la Lombardia, e qualche po' le provincie dell'Italia
centrale. Quanto a Napoli • inteso che non paga un soldo; anzi ci divora i milioni ; e un giornale
faceva i calcoli che le spese nel regno di Napoli ascendono a 800 mila franchi al giorno ! Che cosa
si fece per dare assetto a questa parte importantissima e fondamentale dello Stato? Nulla, ma
proprio nulla.
Con ci„ non diciamo che la Camera abbia fatto male a non votare imposte, anzi troviamo che
questa • la sola buona decisione che abbia preso. Si dirƒ che il votare spese senza pensare al modo
di supplirvi se non per via d'imprestiti, ed anche questi insufficienti, • il vero Diodo di andar
difilato alla bancarotta, come ebbe a dichiarare il conte di Cavour. — Ma noi non entriamo a
discutere questo punto. Diciamo solo che il non avere nuove imposte • un vantaggio.
Vi era da riordinare la pubblica sicurezza non tanto nel reame di Napoli, dove ci vuoi altro che una
legge votata della Camera per ricondurvela, quanto in tutto il paese; giacch• ladri, grassatori,
assassini e simigliante genia si moltiplica in modo spaventoso. E la Camera ciarl„ molto della
pubblica sicurezza in Napoli, dove il ministro Minghetti confess„ che • molto compromessa: ma
non diede il menomo provvedimento per guarentire la vita e gli averi dei cittadini.
Insomma v'era tutto a riordinare, e la Camera non fece nulla; forse sgomentata appunto dal troppo
da fare. La Camera vot„ molte leggi, ma quasi tutte di poca importanza pel vantaggio del paese:
chiacchier„ moltissimo, ma non disse gran cosa di buono: fece molto chiasso per rifare l'Italia, ma
non riuscˆ a nulla.
Legge 15 agosto 1863 "… per la repressione del brigantaggio nel Meridione"
(oggi trasferito anche in alta Italia)
Legge Pica, promulgata dal governo Minghetti (Fonte: Atti parlamentari. Camera dei Deputati)
" Art.1: Fino al 31 dicembre nelle province infestate dal brigantaggio, e che tali saranno dichiarate
con decreto reale, i componenti comitiva, o banda armata composta almeno di tre persone, la quale
vada scorrendo le pubbliche strade o le campagne per commettere crimini o delitti, ed i loro
complici, saranno giudicati dai tribunali militari;
Art.2: I colpevoli del reato di brigantaggio, i quali armata mano oppongono resistenza alla forza
pubblica, saranno puniti con la fucilazione;
Art.3: Sarƒ accordata a coloro che si sono giƒ costituiti, o si costituiranno volontariamente nel
termine di un mese dalla pubblicazione della presente legge, la diminuzione da uno a tre gradi di
pena;
Art.4: Il Governo avrƒ inoltre facoltƒ di assegnare, per un tempo non maggiore di un anno, un
domicilio coatto agli oziosi, ai vagabondi, alle persone sospette, secondo la designazione del
Codice Penale, nonch‡ ai manutengoli e camorristi;
Art.5: In aumento dell'articolo 95 del bilancio approvato per 1863 • aperto al Ministero dell'Interno
il credito di un milione di lire per sopperire alle spese di repressione del brigantaggio.
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