la Capitanata
Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia
BOLLETTINO D'INFORMAZIONE
della
Biblioteca Provinciale di Foggia
Anno X (1972)
n. 1-3 (gen.-giu.)
La nuova “Provinciale,,
Sistemazione dei fondi e distribuzione dei servizi
La nuova Sede della Biblioteca Provinciale di Foggia, progettata con
una ricettività di circa 500.000 volumi, è situata al centro della zona degli
studi comprendente il Palazzo degli Studi, i tre Licei e gli Istituti tecnici,
sulla Tangente Meridionale, all'incrocio con il viale Giuseppe Di Vittorio.
Tale Tangente, a tre ampie corsie, sarà l'arteria di scorrimento posta a cardine del nuovo Piano Regolatore della città.
La superficie interamente coperta è di 16.000 mq., sviluppantesi su
quattro piani:
- piano a quota -1,75, dove è sistemato il magazzino generale dei libri
e dei periodici, per complessivi 200.000 volumi. È servito da montacarichi,
da nastri trasportatori e da posta pneumatica. A tale quota sono anche il
magazzino e gli uffici del Centro Rete del Sistema Bibliotecario della Provincia di Foggia, che alimenta cinquantatré Biblioteche civiche costituite
nell'anno 1969; le centrali termiche e di condizionamento; la sala legatoria e
di restauro;
- piano a quota + 1,30. Attraverso una comoda scalea
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si accede al piano delle consultazioni generali, alla sala delle bibliografie e ai
fondi speciali (manoscritti, cinquecentine, fondo « Puglia e Capitanata »,
fondi « Zingarelli », « Fraccacreta », « Vocino », « Fajella », « Saponaro », «
Caggese », ecc.);
- piano a quota + 4,25. Vi si accede attraverso una piazzetta coperta
che disimpegna l'atrio dell'auditorium. Dall'atrio principale si accede alla Sala
Cataloghi, alla sala pubblica a scaffali aperti per adulti (86 posti a sedere e
12.000 volumi classificati con la D.D.C.); a un nucleo di uffici, al bar e
fumoir, alla sala mostre e alla biblioteca dei ragazzi. Qui i libri sono distinti
per gruppi di età e nei settori di « narrativa », « informazione » e « studio ».
Accanto a tale biblioteca è sistemato un fondo di libri di pedagogia, psicologia, letteratura per l'infanzia, pedagogia e didattica della lettura;
- piano a quota + 7,40, che accoglie le sale di consultazione e di studio e comprende anche i periodici scientifici relativi alle singole materie.
Quest'ultimo criterio risponde alla esigenza sempre più presente, anche negli istituti bibliotecari, di organizzare lo studio e la ricerca sulla base di dipartimenti e settori scientifici omogenei e complementari ad un tempo. Le
sale di lettura possono ospitare, in questa sezione, oltre duecento posti a
sedere.
La Biblioteca è fornita di impianti tecnici modernissimi, quali: il gabinetto di riproduzione e stampa per microfilms; la sala di reprografia; un
auditorium per duecento posti a sedere, dotato di impianti di traduzione
simultanea, e di fonoriproduzione; un laboratorio linguistico; un impianto
di controllo televisivo a circuito chiuso, completo di telecamere fisse e mobili, di monitors di controllo comunicanti con un tavolo di regia e di apparecchi di registrazione in ampex; discoteca, nastroteca, aparecchi audiovisivi
(cineproiettore, diaproiettore, epidiascopio, registratori, ecc.).
A completamento delle rete di servizi tecnici si sta studiando, in collaborazione con ricercatori della I.B.M., la possibilità di avviare un programma che impegni un elaboratore elettronico nelle operazioni di sistemazione, catalogazione e classificazione del materiale librario, oltre che nella
compilazione di un catalogo a stampa e nelle operazioni di ricerca bibliografica automatizzata; e ciò per favorire lo snellimento nei
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momenti cruciali della sperimentazione e della ricerca scientifica.
La nuova Biblioteca è stata progettata per assolvere in modo adeguato due importanti funzioni: quella di biblioteca pubblica e di centro di animazione culturale che alimenta una rete di biblioteche di quartiere e un circuito di biblioteche comunali situate in tutta la provincia; e quella di biblioteca di ricerca, in vista della auspicata realizzazione della Università Dauna.
A tale scopo non solo la Biblioteca è stata dotata e si sta dotando di
personale qualitativamente e quantitativamente idoneo, ma ha chiesto e ottenuto che nel bilancio 1972 dell'Amministrazione Provinciale fossero previsti 140 milioni per acquisto di libri e di riviste e ben 500 milioni del quinquennio 1971-1976.
Tali somme permetteranno di completare l'acquisto di opere fondamentali di consultazione e di studio in ogni settore e particolarmente in quelli delle
letterature classiche, della archeologia, della storia antica e della filologia romanza. Sono questi ultimi alcuni dei settori da cui già oggi la Provinciale di
Foggia riceve lustro e stimolo al completamento delle collezioni. Basti pensare
al fondo « Nicola Zingarelli », ricco di testi preziosissimi oltre che di una raccolta dantesco-petrarchesca (circa duemila pezzi) che poche biblioteche possono vantare; sezioni di letteratura provenzale, di linguistica e letteratura francese,
di letteratura spagnola; e una sezione comprendente collezioni di periodici ormai introvabili o di rilevantissima importanza, che si è avuto cura di completare
e di aggiornare.
L'importanza della biblioteca « Zingarelli » è nota a studiosi e ricercatori, quali i professori Vallone, Sansone, Tondo, dell'Aquila, Bronzini che
hanno pubblicato studi su materiale inedito posseduto dalla Provinciale.
Altro fondo di notevolissimo interesse e di grande valore scientifico è
quelo del prof. Angelo Fraccacreta. La serietà dello studioso, la sua profonda preparazione e l'amore vivissimo per la sua terra, possono far subito intuire l'importanza del fondo, che oltre a comprendere seimila volumi di economia politica e scienza delle finanze, storia economica e statistica, raccoglie
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libri e opuscoli rari sulla questione meridionale e sulla Capitanata e una
collezione ricchissima di periodici che vanno da « La Riforma Sociale » a
« The Economic Journal », al « Giornale degli Economisti »; dalla « Review of the Economic Conditions in Italy » alla « Revue Economique
Internationale » a « Le Musée Social »; da « The world's work » a « The
American Economic Review » alla « Revue d'Histoire Economique Sociale »; dal « Bollettino dell'emigrazione » alla « Revue d'Economie politique ».
A complemento e quale completamento di tale fondo la Biblioteca
ha acquistato dal prof. Luigi Saponaro, ordinario di Ragioneria e giornalista, deceduto recentemente a Foggia, una raccolta ricca della collana
completa dei classici di economia politica pubblicata nelle varie serie;
della collana di sociologi e di economisti, della « Biblioteca dell'Economista » della « Nuova Biblioteca dell'Economista » e degli « Annali di
Economia ». Si aggiungano oltre duemila volumi di tecnica bancaria, ragioneria, estimo, diritto finanziario, diritto fallimentare, organizzazione
aziendale. Completano tale fondo la sezione di storia e di politica, ricca
di testi rari e preziosi; una
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sezione di studi locali e una ricca e aggiornata raccolta di periodici « Consulente delle aziende », « Mondo economico », « Rassegna economica », « Monete e credito », « Diritto fallimentare », « Studi di mercato », « Etudes economiques de l'OCDES », « International Monetary Fund »...).
Particolare rilevanza trovano nei fondi « Fraccacreta » e « Saponaro »
i problemi economici connessi all'agricoltura. È questo un settore di particolare interesse per una provincia che trova nella agricoltura la fonte del
suo reddito e per una città dotata di istituti di alta specializzazione agraria e
zootecnica; un settore che costituisce, insomma, la base naturale di una attività di ricerca in presenza di tutti gli strumenti e di tutti i corredi necessari
per una sana attività scientifica e per una proficua sperimentazione.
Notevolissimo e prezioso per lo studio storico, economico, sociologico, di storia del diritto è il fondo « Dogana », posseduto dalla Biblioteca e
relativo alla intera pubblicistica esistente su quel complesso istituito che è «
la Dogana delle pecore » di Foggia.
La fonte primaria per tali studi è nei documenti posseduti dall'Archivio di Stato di Foggia, che si appresta a migliorare la sua organizzazione e i
suoi uffici con il trasferimento in una sede idonea messa a disposizione dalla Provincia. Sarà possibile dare vita all'auspicato « Istituto Superiore di studi doganali » che consentirà di sciogliere tanti nodi storici ed economici che
sono alla base del nostro difficile e laborioso progresso. L'immensa massa
di documenti della « Dogana » offre, a latere, la possibilità di studi linguistici, antropologici e di storia del Risorgimento e del brigantaggio; fenomeni,
questi ultimi, da cui non si può prescindere quando si voglia fare la storia
del nostro Mezzogiorno.
Altri fondi di particolare importanza sono:
- il « Caggese », di natura storico-giuridica, ricco della collana delle
fonti per la storia d'Italia, di una serie di statuti municipali e di studi sui
Comuni italiani;
- il « Canelli », riguardante il diritto e la bonifica agraria;
- il « Fajella », contenente opere di carattere artistico e archeologico;
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- il « Bellucci », relativo ai testi della Biblioteca « Apulia » e ad alcuni
manoscritti inediti sulla cultura pugliese.
Un settore ricco delle opere fondamentali e che, opportunamente
completato costituirà l'ossatura del nuovo istituto, è quello delle opere di
consultazione e di bibliografia.
Il fondo centrale della Biblioteca dei ragazzi, studiato in collaborazione con l'Istituto di Pedagogia della Facoltà di Magistero di Bari, con il
Centro Didattico Nazionale di Firenze, con la Commissione Nazionale di
Studio sui problemi relativi alle biblioteche per ragazzi, costituita in seno
all'Associazione Italia Biblioteche, con l'Ente Nazionale per le Biblioteche
Popolari e Scolastiche, è stato particolarmente curato in vista di una sperimentazione in ambito pedagogico e in quello della didattica della lettura.
Esso prevede incontri e collaborazione anche a livello scolastico e dei
Centri di Servizi Culturali istituiti in città dalla Cassa per il Mezzogiorno.
Accanto al fondo di letteratura ber l'infanzia, ricchissimo di albi e di
periodici, è stato predisposto un fondo di testi pedagogici, di psicologia e di
pedagogia sociale. Sarà quest'ultimo fondo lo strumento di una serie di iniziative nei confronti del mondo della scuola, opportunamente studiato in
una monografia (« L'istruzione pubblica in Capitanata ») curata dalla Biblioteca Provinciale.
Una menzione particolare meritano:
- un fondo tuttora inesplorato che raccoglie opere del Seicento e del
Settecento che potrà costituire occasione per interessanti e stimolanti ricerche;
- il laboratorio linguistico con annesso reparto di letterature comparate, che sarà arricchito di tutte le collezioni in lingua originale;
- l'auditorium che con le sue modernissime attrezzature tecniche, ha
tutte le carte in regola per diventare il luogo ideale della città per incontri,
dibattiti e convegni ad alto livello.
Un discorso a parte meriterebbe l'attività editoriale svolta dalla Biblioteca Provinciale di Foggia. Qui basti citare « La Capitanata », una rivista
che si pubblica da dieci anni, A. Vallone « Studiosi di Dante in Puglia »,
Biancofiore-Marin-Par6
langeli « Daunia antica », il « Catalogo della 1a Mostra Bibliografica del Gargano », A. Celuzza « La lettura pubblica in Capitanata », il « Libro rosso della città di Foggia » e i « quaderni » de « La Capitanata », edizioni distinte
tutte con la consulenza grafica di Mario Simone.
Un cenno, per chiudere, sulla collezione di periodici correnti che
pervengono regolarmente alla « Provinciale » e che abbracciano tutti i settori fino a toccare il numero complessivo di 1.265 testate, comprese quelle
cessate.
Nonostante la complessità di compiti che la nuova Biblioteca sarà
chiamata ad assolvere sul duplice piano della pubblica lettura e della ricerca
scientifica, la modernità delle strutture e delle attrezzature tecniche, i cospicui mezzi finanziari messi a disposizione, il continuo aggiornamento professionale dei bibliotecari costituiscono la più ampia garanzia per il tanto
auspicato progresso culturale della Provincia dauna.
ANGELO CELUZZA
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La figura sociale del bibliotecario
(Appunti per una ridefinizione del ruolo)
Uno dei temi più scottanti di tutta la problematica relativa alla organizzazione bibliotecaria del nostro paese è, da sempre, quello della formazione del personale. D'altra parte, le carenze della « Scuola speciale per archivisti e bibliotecari », dei corsi universitari e di quelli (famigerati ormai) di
Soprintendenza e ministeriali non sono che un aspetto del più generale
scollamento in atto, da più di trent'anni, nelle strutture educative e della
divaricazione di queste dalla realtà viva, in continua evoluzione del mondo «
esterno ».
Durante il periodo fascista, destinate le biblioteche a fare da cassa di
risonanza e da canale di distribuzione della propaganda del regime e, perciò,
eliminato ogni pur tenue rapporto con il pubblico dei lettori (la ristretta
élite ammessa ai livelli più alti dell'istruzione e, quindi, in grado di fornire
utenti; o i « paria » delle biblioteche popolari 1, costretti a subire, anche in biblioteca come altrove, la tutela di « chi ne sa di più » e ai livelli più grotteschi e volgari la propaganda) 2,
1 Sulle origini, sulle finalità e sulle direttive in materia cfr. A. SQUASSI, La
biblioteca popolare, Milano, Mondadori, 1935.
2 Un interessante e non convenzionale (perché « volutamente politico »),
tentativo di definizione del ruolo attribuito, nella storia unitaria del nostro paese, al
sistema bibliotecario è quello dovuto ad ARMANDO PETRUCCI, Biblioteche e
cultura di classe: un'alternativa all'obiettività, in Provincia di Firenze, I beni culturali 1967-71. Atti dell'incontro tenutosi in Palazzo Riccardi il 15 aprile 1971
(ciclostilato), pp. 162-195.
« In una società capitalistica di tipo avanzato il sistema bibliotecario pubblico costituisce (o può costituire) di per se stesso uno degli strumenti culturali sussidiari adoperati dai ceti dominanti in generale e in particolare dai gruppi politici
dirigenti per la diffusione ed il consolidamento della cultura ufficiale e perciò stesso per la creazione ed il mantenimento del consenso. Se, come è accaduto e accade
in Italia, esso non è riuscito nel passato e non riesce oggi a svolgere
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il problema della formazione professionale era ridotto all'essenziale: sapere
di latino o di greco, di paleografia e sempre in modo da potersi aggirare da «
competenti » negli angoli più polverosi del proprio lavoro, da mettere a tacere il sospetto del « diverso altrove » e, quindi, la eventualità di accennare a
sottrarsi alla strumentalizzazione del regime.
Il dopoguerra è stato certamente, anche per il mondo delle biblioteche, un momento di grandi speranze, alimentate dalle novità che giungevano da altri paesi e da altri settori della vita nazionale. Ben presto, però, forti
resistenze a uno sviluppo in senso democratico delle strutture bibliotecarie,
come di tutto il sistema culturale, del resto (allora come e più di oggi) paurosamente carente sul piano tecnico-scientifico e su quello dell'assetto organizzativo, vennero, per ragioni e interessi diversi (apparentemente), ma
comunque coincidenti, da più parti. In prima linea è sempre stato il potente
apparato centrale, rintanato nei Ministeri e preoccupato di conservare, comunque e dovunque, il proprio potere e la propria presenza. Accanto a questo, i
gruppi politicamente dominanti, che avviavano allora, sia pure in maniera
rozza e non completamente consapevole, quel processo di formazione e
gestione della informazione e del consenso, che avrebbero successivamente
condotto ben oltre (e con altra consapevolezza e raffinata « modernità ») in
tutti i settori della vita pubblica. In posizione subordinata ora all'uno ora
all'altro sono stati gran parte degli stessi bibliotecari 3, legati all'establishment
dalla stessa (fatte le debite proporzioni) volontà egemonica e, comunque,
contenti di un ruolo dipendente e subalterno o semplicemente preoccupati
di dover aprire le porte all'esterno e, perciò, di dover effettuare spericolati
recuperi, sul piano culturale e psicologico, indirizzati, finalmente, più agli
intein modo soddisfacente tale funzione, ciò è dovuto non al fatto che non si sia a più
riprese tentato di imporgliela, ma alle sue insufficienze strutturali ed alla sua scarsa
disponibilità, pubblica », ibid., p. 162.
3 Sarebbe, a questo proposito, estremamente interessante ripercorrere la storia dell'A.I.B. (Associazione Italiana Biblioteche), la sua sostanziale inerzia e la sua
subordinazione (nonostante sporadici « angoli di coscienza ») negli anni del fascismo e nei primi lustri del dopoguerra; gli sforzi compiuti, particolarmente nell'ultimo decennio, per darsi una posizione autonoma e originale.
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ressi e ai bisogni dei lettori (effettivi ed esclusi) che alla solipsistica cultura
di raffinatissimi hobbies 4. In questo disegno e nel quadro complessivo dei
ritardi della nostra realtà bibliotecaria va inserito il ruolo affidato e giocato
nel passato e fino ad oggi dai problemi (mai risolti, perché male affrontati)
della formazione e della qualificazione dei bibliotecari, costantemente in
bilico tra corsi, concorsi e programmi (ineluttabilmente, sembra, votati a
scontare ritardi di contenuti e a essere contestati da tutti) e la realtà più viva
che preme alle porte degli istituti con una domanda articolata, precisa e esigente cui non può certo dare risposta il vecchio bibliotecario « erudito » di
un tempo, né un generico orecchiante di mode culturali.
Tutte le nostre biblioteche sono piene di gente che va alla faticosa ricerca della propria identità culturale e sociale, di bibliotecari « fuori chiave »
che trasmettono agli istituti le incertezze, le frustrazioni e le approssimative
operazioni di recupero del terreno perso che, viceversa, aumenta sempre
inesorabilmente.
E il fenomeno si aggrava nell'ambito delle biblioteche pubbliche (che
qui si tengono particolarmente presenti), i cui operatori vengono tuttora
modellati (anche se, per fortuna, quasi mai vi si riesce completamente) sul
tipo di bibliotecario umanistico-sapiens che se può talora trovare delle giustificazioni (per altro parziali almeno quanto la sua formazione professionale) in molte delle biblioteche di conservazione e di tradizione, diventa un
pesce fuor d'acqua, quando non una palla al piede, nell'ambito delle biblioteche pubbliche.
A risolvere questo problema centrale della formazione del personale delle biblioteche è chiamato lo Stato come responsabile della Scuola speciale per
archivisti e bibliotecari e della qualificazione in genere dei propri dipendenti;
ma anche gli Enti Locali, Regioni in testa 5, cui spetta il compito
E' comprensibile, in tale contesto, come, per quasi due decenni, sia apparsa (sui due fronti) « rivoluzionaria » la battaglia intorno al concetto di biblioteca
pubblica.
5 Il trasferimento alle Regioni delle competenze in materia di biblioteche e
musei di enti locali è avvenuto con D.P.R. n. 3 del 14 gennaio 1972.
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di scrollare di dosso alle strutture bibliotecarie pubbliche la polvere accumulata negli anni per immobilismo o per « simpatia » e di favorire una presa
più diretta sulla realtà culturale politica e sociale. Ma, d'altra parte, le esperienze del passato, vicende anche più recenti, (alludiamo, per esempio, ad
alcune contestazioni di corsi ministeriali prontamente riassorbite), la situazione di permanente inefficienza scientifica e pratica della « Scuola speciale
» e di gran parte delle nostre strutture universitarie, le difficoltà finanziarie
croniche in cui versano gli Enti Locali, la scarsa organicità e omogeneità di
interventi, che pure ci sono e anche con frequenza, da parte degli stessi,
tutto questo ricaccia fatalmente il discorso al primo momento, quello individuale, dei soggetti della vicenda: i bibliotecari. Questi devono, infatti, oggi
più che mai, farsi carico di uscire finalmente da una specificità, reale o presunta poco importa, certamente in via di ridefinizione complessiva, che per
troppo tempo non ha consentito, programmaticamente e al di là di apparenti ridipinture di facciata, un confronto (o uno scontro?) con la complessa
realtà della società, dei suoi problemi, delle sue contraddizioni e dei suoi
conflitti, delle sue articolazioni (istituzionali e non) sul piano politico, economico e culturale. Quella che deve essere la acquisizione fondamentale e,
insieme, il punto di partenza di ogni ridiscussione sulla professionalità e sul
ruolo è che questo e quella non si recuperano (o non si costruiscono in modo autonomo e originale) « sequestrando » le strutture culturali e sottraendole chissà ancora per quanto alla fruizione e alla gestione da parte dei ceti
subalterni, in nome, appunto, di una presunta astratta specificità rispetto ai
problemi della società nel suo complesso (come sostanzialmente è stato
fino a oggi); o in nome e per conto di una « neutralità » sempre più sospetta, in tempi di manipolazioni a livello planetario della informazione e, più in
generale, della scienza, (come potrebbe accadere e in parte già accade oggi,
nonostante o, meglio grazie proprio a calcolate concessioni al « sociale »).
Non si tratta, d'altra parte, di fare da notai a un processo di democratizzazione che, sia pure con tante lentezze e difficoltà, si fa strada anche nell'ambito della organizzazione della cultura; quel che si chiede
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a ogni operatore culturale, ma più in generale agli intellettuali, è di partecipare in prima persona, di contribuire concretamente a quel processo, ritrovando nell'ambito di esso (eccoci al punto) la specificità del ruolo, della
professione, i modi e i contenuti tecnico-scientifici di essi. Ogni scelta che
non vada in questa direzione, per quanto possa ammantarsi di neutralità e
affogare nella « onestà intellettuale », sarà oggettivamente una scelta di conservazione dello status quo.
Considerazioni come quelle che precedono consentono, a nostro parere, di assumere un'ottica particolare (e la sola giusta) di fronte ai singoli
problemi: le scuole professionali, l'editoria specializzata, il problema della
qualificazione e dell'aggiornamento..., soprattutto perché costituiscono la
sola possibilità di ricondurre a unità il discorso che, altrimenti, rischia di
continuare a rompersi in mille rivoli, in tanti vicoli senza una uscita politico-culturale e di risultare paralizzante rispetto alla prospettiva di risultati
concreti, a breve e lungo termine e nella direzione chiarita. Sono, d'altra
parte, l'unica strada per tentare di salvarsi dalle secche del tecnicismo e,
quindi, in ultima analisi, di orientarsi verso scelte e prefigurare linee di intervento complessivo, su diversi piani, che tengano conto delle varie sfaccettature della realtà di fatto.
A tutt'oggi un diverso orientamento ha prodotto, in una situazione
caratterizzata da ritardi e insufficienze a tutti i livelli, linee di tendenza e
scelte di ripiego, subordinate e parassitarie nei confronti di situazioni e scelte affatto diverse (sia sul piano specifico e dal punto di vista dello stadio di
sviluppo delle strutture culturali e sia su quello generale della realtà sociopolitica) o una corsa affannata alla ricerca episodica, frammentaria e scoordinata di strade diverse e originali che, se vengono talora individuate e seguite in singole e particolarissime esperienze, non hanno la capacità e la
forza di presentarsi, proprio in assenza di un momento comune di riflessione, di confronto e di coordinamento, in termini univocamente esemplari
per tutto il territorio nazionale, così squilibrato anche nel settore delle strutture culturali.
D'altra parte, un secolo di parcellizzazione del lavoro (e dell'uso pubblico) ha prodotto all'interno degli istituti e
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dell'organizzazione (!) a livello nazionale una situazione (un'atmosfera) alienante in cui prosperano l'isolamento, l'ignoranza dei problemi (anche di
quelli più vicini), la difficoltà, l'impossibilità di costruire uno schieramento
compatto che affronti tutte le questioni nel loro complesso 6.
Queste sono le condizioni oggettive su cui va ad innestarsi una risposta tipica della realtà, non solo bibliotecaria, italiana, una pseudo-soluzione
che non fa che aggravare la situazione e allontanare le prospettive di esiti
positivi e avanzati: la fuga, a livello individuale, verso la ricerca autodidattica. Questa finisce poi per fungere da prezioso lubrificante dei singoli ingranaggi del (distorto) meccanismo, il quale ritrova e riproduce al proprio interno le condizioni che lo consolidano nell'immobilismo. E questo avviene
in maniera abbastanza visibile quando la scelta va verso l'erudizione o le «
grandi sistemazioni teoriche »; ma è altrettando verificabile, anche se non
molto appariscente, nel caso di « vocazioni » anomale e aggiornate.
Cerchiamo di chiarire esemplificando.
E' abbastanza scontato che il pane quotidiano di ogni autodidatta che
si rispetti è il libro, particolarmente quando a... pasteggiare è un bibliotecario. Orbene, è altrettando noto che uno dei settori in cui più pesanti si fanno le nostre carenze e più accentuata la nostra dipendenza dall'estero è
quello della letteratura specializzata, dovunque ritenuta e utilizzata come
strumento per la conoscenza dei problemi, per il confronto di idee a livello
scientifico e politico-culturale, ma qui da noi usato sempre come spazio
privilegiato per ricerche e indagini erudite (anche importanti, se si vuole) e
mai come occasione per la chiarificazione del momento politico (pubblico)
della professione, dell'uso delle strutture, della stessa ricerca teorica. E' così
che, nonostante qualche segno positivo, proveniente d'altra parte sempre
più spesso dall'ana6 Si deve rilevare, a questo proposito, la più grave carenza dell'Associazione
Italiana Biblioteche, incapace fino ad oggi del salto (qualitativo e quantitativo) che
consentirebbe una rappresentatività effettiva, vasta e libera da ogni sospetto di
corporativismo e, per ciò stesso, l'assunzione di un ruolo (tecnico e politico) originale.
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lisi di un quadro di riferimento più generale (« politica culturale ») 7, i nostri
bibliotecari sono costretti ad « emigrare », se intendono sfuggire alle angustie dell'erudizione e maneggiare strumenti concreti di analisi di ricerca e di
intervento.
L'incontro con la letteratura professionale straniera e poi la successiva e abituale frequentazione della stessa diventano una sorta di permanente
esaltante pascolo abusivo che, quando non provoca irreversibili frustrazioni, conduce a pericolosi sbandamenti e illusionistiche confusioni di piani.
Facciamo un caso concreto: quello di un tema (rapporti tra mezzi di
comunicazione di massa, biblioteche e educazione) e di un libro, B. J. ENRIGHT, New media and the library in education 8 , particolarmente stimolanti e
attuali.
Gli scopi del volume sono chiari fin dalla prefazione: esaminare i vari
punti di vista sul ruolo della biblioteca nei confronti dei nuovi media e rispetto al
tema dell'educazione; « richiamare l'attenzione dei bibliotecari sulla esigenza di
discutere i problemi posti dai nuovi media e fissare una strategia della biblioteca
appropriata a ogni particolare situazione educativa » 9; sottolineare l'utilità di un
riesame delle operazioni correnti in biblioteca e i problemi connessi all'organizzazione: catalogazione e classificazione dei materiali, gestione tecnica e economica degli stessi; riorganizzazione e riqualificazione del personale, esigenze degli utenti...
Si tratta, come si vede, di temi, già questi, di grande interesse anche
per il lettore italiano, solo che si voglia aprire per tempo gli occhi su di essi
e sui ritardi, anche per questo specifico problema, della nostra letteratura
tecnico-professionale, che sono insieme causa e effetto del ritardo con cui
concrete esperienze di utilizzazione e gestione di media cominciano ad aversi nell'ambito degli istituti bibliotecari italiani.
7 Si vedano su questo tema: Politica culturale? Studi, materiali, ipotesi, a cura di
Giovanni Bechelloni, Bologna, Guaraldi, 1970; Presente imperfetto 1972, a cura di
Italo Moscati e Paolo Donat-Cattin, Bologna, Guaraldi, 1971; Contro l'industria culturale. Materiali per una strategia socialista, Bologna, Guaraldi, 1971; Le autonomie locali e
la politica culturale, a cura di Massimo Modica, Roma, Il Comune Democratico,
1972.
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E' infatti vero, particolarmente per il nostro paese, che i materiali audiovisivi, le loro potenzialità (positive e negative) non sono state sufficientemente analizzate; mentre meno vera, più lontana (o lontanissima?) nel
tempo è la prospettiva, altrove considerata estremamente reale e già concretamente in atto, di dovere smettere di pensare alle biblioteche come strumenti operanti anche nel futuro come tali e di dovere cominciare a lavorare
intorno al progetto di strutture più complesse e articolate, « learning resource centres », « multi-media centres », affidate a non bibliotecari. Molto
spazio viene dedicato da Enright anche ai problemi, ai risultati fin qui acquisiti, alle prospettive della applicazione generalizzata delle nuove tecnologie ai processi educativi, alla integrazione del materiale non librario in un
tutto unitario con i fondi librari e ad altri temi ancora.
E' difficile sfuggire alla suggestione di un ventaglio di « proposte »
tanto vario, articolato e interessante. E questo, ripetiamo, particolarmente
per il lettore (e il bibliotecario) italiano; il quale, però, sarà nella strana posizione di apprendere nozioni e modalità di intervento nei confronti di una
situazione soltanto immaginabile come possibile nella sua realtà concreta.
Tutti i problemi affrontati da Enright sono infatti reali e realisticamente
posti rispetto a una situazione di fatto (quella anglosassone) che non può
assolutamente costituire un termine di raffronto per la nostra. E non soltanto per la intuitiva ragione che in quei paesi, (e in quasi tutti gli altri) esiste una articolatissima rete di istituti bibliotecari da noi pressocché inesistente; e che, quindi il problema dell'impatto con i mass-media è lì talmente
concreto, attuale e incalzante (anche se affrontato con eccezionale tempestività) 10, da mettere in crisi non soltanto la figura del biLondon, Clive Bingley, 1972.
B. J. ENRIGHT, op. cit., p. 7.
10 Basti rilevare, per sincerarsene, che la rivista « Library Assistant » pubblicava nel 1921 un articolo di G. P. JONES, The Cinema, the School, and the Public
Library; e « Library World », in un numero del 1921, un contributo di M. J. WRIGLEY dal titolo The film in its relation to the library: A neglected educational
agency; e uno di H. A. SHARP, apparso nel 1922, e che si
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bliotecario, ma anche la sopravvivenza della biblioteca in quanto tale, mentre qui da noi faticano a farsi strada, per non citare che un caso, nelle stesse
biblioteche dei ragazzi i comics... che pure sono fatti di carta (e hanno molto
poco del « new medium » di cui parla Enright).
Il pericolo più rilevante, in effetti, risiede altrove ed è legato a una
premessa sostanzialmente esatta. Si dice: la nostra situazione è arretrata,
abbiamo bisogno di studiare le situazioni e le esperienze altrui. Fin qui tutto
bene (e utile). Ma questa non è che la premessa, appunto, di un discorso
che fa discendere poi da quella arretratezza e da questi confronti o l'immobilismo: « aspettiamo di essere nelle stesse condizioni »; o la « suggestiva »
esigenza, avvertita come necessità impellente, di applicare modelli di intervento apparentemente tecnico-organizzativi, ma sostanzialmente politicoculturali, elaborati altrove e strettamente funzionali ad altri (perché più avanzati e diversamente determinati sul piano storico, anche se riconducibili
al medesimo modello di assetto economico-sociale) contesti. E' questa diversità, d'altra parte, che garantisce la credibilità del discorso sulla razionalizzazione e sullo ammodernamento del sistema (o meglio sulla gestione autoritaria e dall'interno dell'uno e dell'altra) 11.
occupava di Some further uses of gramophones in public library; e gli esempi potrebbero
continuare.
11 Un esempio abbastanza chiarificatore di ciò che è nelle intenzioni e negli
effetti di un'azione che risponda alla logica qui descritta e nell'intervento « straordinario sul fattore umano » messo in atto dalla Cassa per il Mezzogiorno a partire
dal 1967 su un piano predisposto dal FORMEZ (Centro di Formazione e Studi per
il Mezzogiorno) e attraverso vari enti gestori dei Centri di Servizi Culturali. Detto
intervento si è fin dall'inizio qualificato come il corrispettivo, a livello ideologico,
del tentativo di razionalizzare e funzionalizzare agli interessi del Nord e della stessa
programmata industrializzazione del Mezzogiorno lo sfruttamento delle risorse
economiche e umane « reperibili in loco ». E questo nonostante che in un primo
momento l'azione si presentasse con caratteri di apertura e disponibilità. Tanto è
vero che non si fecero attendere molto la chiusura dei Centri « più aperti e disponibili », la restrizione dell'area e dell'autonomia di azione (con un radicale accentramento delle decisioni), il collegamento sempre più diretto (e sempre piú dipendente) dall'industria editoriale. I criteri ispiratori e le finalità dell'« intervento Cassa
» hanno, d'altra parte, fatto strada in un ambito più vasto. Ed ecco una prova assolutamente non equivoca: « Ecco dunque un altro compito specifico delle biblioteche pubbliche nelle zone depresse: ampliare cioè, sulla
17
Non si vuole certo dire, per concludere su questo punto (« dalla nevrosi autodidattica alla sua strumentalizzazione »), che... la lettura di qualche
libro straniero sia all'origine di tutti i mali che ci affliggono; ma è che a questo tipo, d'altra parte nemmeno tanto marginale, di dipendenza corrispondono, come abbiamo più volte accennato ed è a tutti noto, una situazione
psicologica (individuale) e politico-culturale-organizzativa estremamente
idonea a favorire l'instaurarsi di processi quale quello sommariamente descritto.
***
Fatalmente, la situazione generale dell'organizzazione bibliotecaria
nel suo complesso si ripercuote (lo notavamo
base di qualcosa di piú valido che le canzonette, le partite di calcio e le lotterie, gli
orizzonti culturali delle popolazioni più depresse, che sono sempre le più isolate,
uniformandoli alle dimensioni nazionali, per favorire l'integrazione di quanti, abbandonando il paese di origine si trasferiranno in altre sedi », PIETRO ROSELLI,
Le biblioteche nei comuni delle zone agricole, in Biblioteche per ogni Comune. Atti del
Convegno Nazionale, Bologna, 24-26 marzo 1969. Roma, Ente Nazionale Biblioteche Popolari e Scolastiche, 1969, p. 112.
« Attività che costituirebbero una perdita nel linguaggio tecnico del bilancio
(riforme, istruzione, centri di ricerca, assistenza) producono viceversa la loro quota
di profitto sul piano della stabilità sociale. Questo può spiegare come mai, accanto
ai costanti tentativi di razionalizzazione di certe sfere improduttive (ad esempio,
della circolazione) diretti a ridurne al minimo le spese, si possano elencare numerosi esempi di moltiplicazione e allargamento di altri centri, ugualmente improduttivi, a puro scopo di controllo ideologico. Il proliferare degli enti culturali collegati
alla Cassa del Mezzogiorno, per citarne uno, non può giustificarsi dal punto di vista della razionalità amministrativa o produttiva e neppure in base al contenuto dei
programmi: la funzione degli enti non è di migliorare il livello culturale del Meridione quanto di tenere occupati un certo numero di intellettuali in ruoli subalterni
e ossificati di cauto riformismo ». SIMONETTA PICCONE-STELLA, Intellettuali e
capitale nella società italiana del dopoguerra, Bari, De Donato, 1972, p. 183.
Una breve ma chiara analisi dell'intervento della « Cassa » nel settore culturale si deve a PIERO CASTELLO, Un caso di politica culturale dello Stato. Appunti
sui Centri di Servizi Culturali nel Mezzogiorno, in Politica culturale?, cit., pp. 208-223.
Per una esemplare « testimonianza » sullo stesso tema cfr. MARIO SIMONE, Le
biblioteche della Cassa, in « la Capitanata - Rassegna di vita e di studi della Provincia
di Foggia », VIII (1970), n. 1-6 (gennaio-giugno), parte seconda, pp. 84-86.
18
all'inizio) sui programmi dei corsi di formazione e di aggiornamento, le cui
insufficienze (quantitative, metodologiche, di contenuto,...) vengono tanto
più avvertite e sottolineate in quanto ai corsi stessi si continua pervicacemente e giustamente a guardare come a un momento fondamentale (nella
misura in cui siano occasione di acquisizione di conoscenze e di confronto)
della più vasta battaglia per la modificazione in senso positivo della situazione. E questa consapevolezza è già una risposta, sempre più diffusa, un
rifiuto dell'alternativa: immobilismo-erudizione/aggiornamento autodidattico.
Le sollecitazioni e i fermenti di questi ultimi tempi hanno prodotto
anche in questo ambito, tentativi più o meno riusciti, ma comunque sempre
episodici e isolati tra loro, di adeguamento e di riformulazione.
Anche per il mondo delle biblioteche gli anni '68-'70 sono stati anni
inquieti, pieni di fermenti e di sussulti, di spinte verso il rinnovamento e
tentativi, sempre o quasi sempre riusciti, di riassorbire tutto (o almeno, le
parti più « visibili », più « appariscenti » e « pericolose »).
Il tutto giunse a comprendere la occupazione di biblioteche da parte
di studenti e lavoratori (Milano) e la contestazione totale, protagonisti tutti i
partecipanti, di un corso ministeriale di « qualificazione tecnica per bibliotecari di 3a classe » (Roma). Si trattò di due episodi estremamente significativi,
che, pur avendo come protagonisti gruppi diversamente (almeno in apparenza) interessati alle vicende delle biblioteche, andavano entrambi inquadrati in uno stesso ambito e ricondotti ad un'unica esigenza di base: aprire
le strutture, la professione e tutti i problemi in qualche modo connessi a
questi al confronto con il mondo esterno, con la società, con (tutti) gli
utenti. Qualcuno si illuse che stesse per essere travolto dalle fondamenta un
modo di intendere la biblioteca e la figura del bibliotecario. E certo non si
può negare che da parte di molti operatori si sia avviato e consolidato un
processo di ripensamento, di ridiscussione e che qualche effetto di ciò si sia
avvertito nello stesso assetto degli istituti. Dove, invece, la « restaurazione »
è stata pressoc19
ché totale è nel settore dei corsi ministeriali 12. Già l'anno successivo a quello (1969) in cui il corso fu aperto e subito chiuso da un documento, sottoscritto da allievi e docenti, che poneva in discussione alla radice i corsi stessi, ne fu riproposto (e tenuto regolarmente!) uno che avrebbe dovuto rispondere alle aspettative create dagli avvenimenti dell'anno precedente, ma
che, al contrario, riproduceva lo stesso modello (nonostante la apparente
accettazione di una richiesta di natura tecnica - il carattere monografico del
corso - assolutamente marginale se, come avvenne, isolata da un contesto
più vasto e sostanziale di richieste). Il processo di assorbimento delle spinte
andò avanti, i corsi continuarono (e continuano) ad essere quello che sono
sempre stati 13, anche se oggi l'istituzione dell'ordinamento regionale e il
trasferimento ai nuovi enti elettivi delle competenze in materia di biblioteche, sembrano aver creato un clima di irrequietezza « in alto loco », agitato
da malcelati tentativi di creare o conservare più o meno estese « riserve di
caccia » 1 4 .
Altrimenti « movimentato » risulta il panorama dei corsi gestiti in
questi ultimi mesi a livello periferico (da Sistemi Bibliotecari, da Regioni,...),
a ulteriore conferma che anche il rinnovamento dei settori culturali passa
attraverso il deUna prova, d'altro canto, della disponibilità, dell'apertura, della sensibilità dei nostri governanti sta tutta nel fatto che la legge che regola la formazione del
personale delle biblioteche (« popolari ») risale al 1935 (R. D. n. 1240 del 3 giugno).
1 3 La novità più rilevante resta... la dizione usata per quelli che erano stati i
« colloqui ed eventuali prove per l'accertamento del profitto », divenuti poi un «
colloquio informativo sulle tendenze professionali » (?!).
1 4 Va inquadrato in quest'ambito il convegno del marzo 1972 sul tema « La
biblioteca pubblica-centro di cultura », organizzato dal Ministero della P.I., Direzione Generale Accademie e Biblioteche. Difficile trovare un argomento, un tema,
un problema che non fossero nel programma di quel convegno. C'era di tutto: dall'educazione popolare, all'educazione permanente, all'autoeducazione; dai gruppi
d'interesse ai gruppi d'età ai gruppi ...tradizionalmente trascurati; dalle mostre di
libri antichi alle inchieste,... Insomma, si è trattato (almeno nelle intenzioni) di un
corso che ha tentato di essere... tutti i corsi non fatti (e fino a oggi).
Sul convegno v. La Biblioteca pubblica-centro culturale e G I A N N I
B A R A C H E T T I , In margine ad un c onv egno, in « Associazione Italiana Biblioteche. Bollettino d'informazioni », XII (1972), n. 1 (gennaio-marzo), pp. 42-44 e
44-46.
12
20
centramento e la partecipazione democratica dei diretti interessati. Al centro di questo fermento sono gli Enti Locali, le biblioteche da questi gestite,
i bibliotecari di questi istituti, perché più direttamente coinvolti nelle singole realtà, e perciò più in grado di sfuggire all'alienazione, alla parcellizzazione del lavoro, a patto che a questo si contrapponga una precisa presa di coscienza (politica e culturale) del proprio ruolo, dei contenuti e degli orientamenti metodologici da dare al proprio lavoro.
Tutte le difficoltà che, anche in questo caso, si possono individuare,
tutte le incertezze, le insufficienze, tutta la episodicità e la disarticolazione e
la disparità di orientamenti e di intervento (e come potrebbe non esserci
tutto questo dopo i molti e molti decenni di immobilismo e di fronte alle
resistenze che, a livello centrale e anche localmente, il processo in atto tuttora incontra, a mano a mano che il discorso si fa più chiaro, più chiari gli
obiettivi e le strategie?) possono essere superati solo nella misura in cui i
problemi della formazione e della qualificazione del personale vengono sottratti alla trappola del corporativismo e rimessi in circolo insieme agli altri
problemi delle strutture bibliotecarie e della organizzazione culturale in genere, come problemi di tutti i cittadini, di tutti i lavoratori, perché destinati
a giocare un ruolo determinante sulla destinazione, sull'uso, sulla proprietà
delle strutture stesse.
Utili indicazioni vengono in questo senso dall'approvazione da parte
della Regione Emilia-Romagna della Legge in materia di « corsi per operatori di musei e biblioteche e di addetti alle attività di conservazione dei beni
culturali ».
Di grande interesse alcune affermazioni contenute nella relazione: «
Riguardo al rilevamento, alla catalogazione e alla memorizzazione dei beni
culturali, le campagne che l'assessorato intende promuovere costituiranno
senza dubbio una occasione preziosa per la sperimentazione dei nuovi indirizzi didattici da dare alla preparazione professionale. Si tratta di avviare in
concreto l'applicazione del lavoro sul campo, come metodo che permetta la
identificazione funzionale del momento teorico dell'apprendimento con
quello pratico »; « La
21
necessità per la Regione di gestire direttamente i corsi, soprattutto in questa
fase di avvio, deriva dalla opportunità di fondare una metodologia unificante che impedisca la parcellizzazione delle singole iniziative di impostazione
didattico-formativa... Ciò non toglie la possibilità di attuare corsi residenziali presso sedi periferiche, sulla base delle necessità che emergeranno di volta
in volta a livello provinciale, comprensoriale e comunale »; « L'art. 2 si limita a prefigurare alcune linee metodologiche fondamentali, evitando a ragion
veduta indicazioni più precise. Il carattere sperimentale dei corsi e la loro
funzionalità globale rispetto agli indirizzi programmatici di tutta la futura
attività promozionale che la Regione sarà chiamata a svolgere, non possono
permettere, infatti, la precostituzione di schemi definitivi ».
Siamo di fronte, come si vede, a una impostazione problematica, aperta a ulteriori contributi e chiarificazioni, di tutta una vasta area di questioni culturali (tecnico-pratiche e teoriche); estremamente qualificanti e
positivi ci sembrano alcuni punti fermi quali quelli riportati. Ma ciò che caratterizza in modo determinante questo intervento della Regione EmiliaRomagna e che ci preme soprattutto sottolineare è il contesto unitario in
cui tutti i problemi dei beni e delle istituzioni culturali vengono inquadrati e
affrontati.
E' questa la sola strada possibile per restituire alla generalità dei cittadini e dei lavoratori il patrimonio culturale, dovunque esso si trovi: in un
museo 15, in una biblioteca, in
15 Una radicale messa in discussione del museo in quanto tale, delle sue
strutture, del suo ruolo sul piano ideologico venne dal « maggio francese ». Successivi apporti e nuove acquisizioni hanno conferito a quel discorso maggiore articolazione e una reale capacità di porsi con carattere di concreta alternatività rispetto
alla situazione di fatto.
Su questo tema cfr. GIOVANNI BECHELLONI, Le condizioni sociali
della democratizzazione della cultura. Dal museo-tempio al museo-centro culturale, nota introduttiva a PIERRE BORDIEU e ALALA DARBEL, L'amore dell'arte. Le leggi della diffusione culturale. I musei d'arte europei e il loro pubblico,
Bologna, Guaraldi, 1972, pp. VII-XXVII. Così Bechelloni, analizzando le funzioni
sociali del museo d'arte, vi riassume le sue principali caratteristiche: « a. Separazione. Il museo ha teso, nel suo processo di crescita e di sviluppo fino alle recenti
contestazioni, ad accentuare il suo carattere di corpo separato rispetto alla vita... b.
Neutralizzazione. Ma il museo... assolve anche a un'altra funzione... ed è quella di
consacrare l'opera
22
un archivio 16 o, più in generale, sul territorio. « Le direttrici fondamentali di
questo disegno di globale recupero dei beni culturali, volto ad identificare in
concreto il momento della conservazione con quello della gestione sociale, si
individuano nei settori privilegiati del bilancio... ».
La saldatura tra la visione globale dell'oggetto di una tutela dinamica,
della valorizzazione, dell'uso e della disponibilità pubblica effettiva, e il
momento globale soggettivo (gestione sociale con vari livelli di specificazione) può consentire di imboccare, alla fine, la strada della ricomposizione
unitaria dei due momenti distinti in cui, da secoli, nella realtà della storia
occidentale, si sostanziano la produzione culturale da una parte e la fruizione (consumo) dall'altro. Ma questa è la strada per rispondere anche a una
preoccupazione e a un equivoco sempre più emergenti tra i bibliotecari del
d'arte confermandole la legittimità solo quando il potere di provocazione e l'impatto sovversivo dell'opera è ormai venuto meno, o per l'usura del tempo o perché
tale potere aveva nella destinazione o nel contesto originario ma tale potere perde
nel contesto « museo »... c. Trasmissione della cultura. Il museo è inoltre parte del
sistema culturale contribuendo alla produzione, diffusione e conservazione della
Cultura, con la c maiuscola, cioè l'ideologia dominante... d. Istanza di produzione e
legittimazione dei valori. ...Il museo d'arte è l'anello di congiunzione tra creazione e
mercato... Questo aspetto mercantile... è essenziale al fine di incentivare, legittimandola, la produzione di determinati valori, i più consoni a essere inseriti nel museo così come si è venuto costituendo e così come viene concepito da chi lo gestisce, consapevolmente o inconsapevolmente, per conto della classe dominante, e
non di altri. e. Istanza di sacralizzazione. Il museo infine diviene - nel linguaggio dei
suoi officianti: studiosi, amministratori e politici - il santuario di una nuova religione che
si sostituisce alla religione tradizionale carente nelle sue funzioni dì consolazione e di rassegnazione umanistica » P. Gaudibert, ibid., pp. XV-XVIII.
16 Il caso degli archivi di Stato è particolarmente emblematico del modo di
pensare le strutture culturali nel nostro paese. La dipendenza di questi importanti
istituiti dal Ministero degli Interni e la situazione in cui gli stessi versano (per mancanza di fondi, di personale, di indirizzi moderni e, in ultima analisi, di volontà
politica) sono le solide basi su cui poggia la sostanziale «segretezza » che circonda
tuttora una massa tra le più rilevanti (dal punto di vista quantitativo e qualitativo)
di dati, informazioni e fonti culturali. Sono molti, comunque, anche in questo settore, i segni che preannunciano come ormai non piú eludibili o rinviabili un rapido
ammodernamento degli istituti e la loro « apertura » all'esterno e a un ventaglio di
temi e problematiche culturali più ampio di quello (strettamente storiografico) che
il Bonaini aprì alla storia unitaria dei nostri archivi.
23
le biblioteche pubbliche e dei piccoli centri in particolare, i quali vedono
sempre più confusi i contorni del proprio lavoro, caricato delle più disparate e indifferenziate incombenze (« il bibliotecario deve essere tutto, fare
tutto? »); fatto che spinge il singolo, magari imbottito di nozioni e suggerimenti sulle modalità e sulle tecniche di « intervento culturale » da parte di
istituti e enti specializzati, a figurarsi la collettività come uno spettro informe ma soprattutto esigente o come una immensa scolaresca da indottrinare.
La gestione sociale, d'altro canto, non può essere considerata un sistema attraverso il quale il bibliotecario delega, in maniera totale e irreversibile, la propria strumentazione tecnica e il proprio ruolo, in una sorta di palingenesi
del politico tout court. Al contrario, la sua presenza e la sua partecipazione a
quello che è un processo e non uno stato definitivo, deve avere, proprio in
nome di quella « obiettività » cui tanto spesso ci si richiama, la funzione di
riequilibrare, sì sul piano tecnico, ma, in fin dei conti, su quello politicoculturale soprattutto, una situazione di squilibrio determinatasi storicamente
a favore di ristrette minoranze e avvalorata e protetta per secoli dalla compiacente « neutralità » dei tecnici e degli intellettuali.
E' perfino superfluo a questo punto sottolineare la fondamentale rilevanza che questo discorso e quello sulla gestione sociale acquistano per il
Mezzogiorno, per una realtà in cui continua ad assumere un carattere avanzato la battaglia perché « democrazia » smetta di essere un vocabolo sfrangiato dai mille (falsi) significati, la sopravvivenza allusiva di una realtà mai
concretamente avvertita, perché sempre rapinata. Lo sforzo per la elaborazione e la concreta attuazione nel Sud delle forme originali da dare alla gestione democratica nel settore culturale è parte integrante di un più vasto
impegno che vada verso la democratizzazione delle scelte economiche e
sociali, sia attraverso i tradizionali istituti della partecipazione, sia attraverso
quelli che la concreta prassi riuscirà a individuare e a darsi.
Utili indicazioni per il tema qui in esame (in cui vanno, purtroppo,
registrati ritardi da parte delle forze politiche, sindacali e culturali democratiche, non ancora giunte alla chiara
24
individuazione di un progetto politico-culturale alternativo al circolo chiuso
vittimismo-emarginazione-integrazione e di accertare e recuperare, sul piano delle analisi e delle indicazioni operative, la « specificità » del problema nei
confronti del Sud, che, d'altro canto, non può essere aggredita « a parte »,
ma nell'ambito di una strategia complessiva e organica) vengono « a contrario » dall'azione dei Centri di Servizi Culturali, i quali non sono andati al di
là di una fornitura di servizi, appunto, e di una gestione burocratica e
frammentaria dell'intervento, per non essere riusciti a collegarsi in modo
organico con le esigenze e le prospettive del quartiere e del comprensorio;
laddove proprio nella capacità di sfuggire alla logica neocolonialistica e del «
corpo separato » sarebbe stato possibile il recupero in senso positivo del
programma di intervento e, in fin dei conti, il rovesciamento della logica cui
lo stesso si ispirava.
Non sono stati affrontati in queste pagine problemi teorici ed epistemologici. Si è fatto ad essi riferimento nella misura in cui (e nella convinzione che, comunque, essi) denunciano, rivelano, preannunciano concezioni e situazioni politico-culturali complessive, che sono il terreno su cui
dovrà essere avviato ogni ripensamento (certamente indilazionabile) delle
stesse basi teoriche di quel complesso di concetti, di nozioni, di ipotesi che
va sotto il nome di biblioteconomia. La necessità di questo radicamento è
tanto più urgente e pregiudiziale quanto più si fa strada, anche in questo
campo, una sorta di fideismo tecnocratico che ipotizza e sogna soluzioni
buone per tutte le latitudini, convinto di progettare la democrazia planetaria
e sempre sull'orlo di dare una mano al tentativo di reductio ad unum delle
scelte e delle decisioni di ciascuno.
GUIDO PENSATO
25
La terra Garganica
nella poesia di Joseph Tusiani
Contributo critico bibliografico
CURRICULUM
1. Chi a San Marco in Lamis, nel Gargano, conobbe Joseph (una volta Giuseppe) Tusiani, studente nel paese natale, poi nella vicina San Severo,
poi all'università di Napoli, ricorderà come egli mostrasse fin dagli anni
giovanili una precocità di ingegno che era qualcosa di più che non la bravura del « primo della classe ». Era, una capacità notevole di parola, negli anni
in cui, per lo più, le parole si apprendeva ad usarle, e per una comune parlata quotidiana, non ancora per fini d'arte.
Tra San Marco e San Severo egli fece i suoi primi studi, ed i primi,
scolastici, esperimenti di poesia. All'università di Napoli si laureò in lettere «
summa cum laude », sostenendo con Cesare Foligno una tesi sul poeta inglese William Wordsworth. Era il 1947.
Lo stesso anno egli parte per l'America, e qui, a New York, raggiunge
e, per la prima volta vede, il padre, esule del regime fascista. Comincia la
carriera universitaria, non sempre lieve, non sempre dolce. Il Tusiani insegna letteratura italiana in vari « colleges » nuovaiorchesi, ed in uno di essi, il
College of Mount Saint Vincent, si stabilizza, diviene preside di facoltà per
il settore italiano, raggiunge il massimo grado accademico (« full professor
»).
Intanto pubblica volumetti di poesia in italiano. E dopo diversi anni è
in grado di scrivere poesia in inglese. Il suo battesimo di poeta di lingua
inglese può considerarsi la vincita del premio Greenwood, di Londra, per il
1956 (traguardo pri26
27
ma d'allora mai raggiunto da concorrenti americani), con l'ode M'ascolti tu,
mia terra?, che in inglese si chiama The Return (« Il ritorno »). Dopo di allora pubblica varie poesie in diversi giornali anglosassoni. E più tardi entra a
far parte dei direttivi della Società poetica d'America e della Società poetica
cattolica d'America. Del 1962 è una prima raccolta di cinquanta poesie, dal
titolo Rind and All (letteralmente: « Con tutta la scorza »); ed altrettante
sono in The Fifth Season (« La quinta stagione »), del 1964.
Dal 1960 in poi, va svolgendo una cospicua attività di traduzione della letteratura italiana in inglese.
Attualmente insegna al Lehman College della City University of New
York.
TRAPASSO GEOGRAFICO E STORICO
2. Nel considerare la poesia di Joseph Tusiani, non si può trascurare
un evento notevole: il suo « trapianto » in terra ben diversa da quella d'origine. Cambiamento non provvisorio ma definitivo di ambiente, di lingua e
di civiltà, ed avvenuto quando già la persona s'avviava a maturare le proprie
facoltà. Cosicché per taluni aspetti, per esempio la lingua, si trattò di ricominciare quasi da principio.
Rispetto all'argomento che ci siamo prefissi, di questo trapasso geografico e sociale ci interessa un risvolto che ha natura emotiva: in conseguenza del distacco, la propria terra diventa ricordo. Questo è un primo
punto da fissare. Infatti, nei primi scritti poetici, anteriori alla partenza, e
nati nella realtà concreta e vicina della terra garganica, non si può dire che
questa abbia spicco, e fisionomia già definita.
Possiamo, sì, trovarvi quegli aspetti di vita montana e campestre, o
quegli episodi paesani, ai quali il giovane fu più vicino, o nei quali addirittura visse: riti religiosi, come la distribuzione del cero della Candelora, la processione sammarchese del venerdì santo; lo spettacolo della gente al sole
nei pomeriggi primaverili, il ruzzo dei monelli per le strade, la visione delle
campagne assolate e pervase dal frinire delle cicale, il
28
convento di San Matteo, la croce del Celano 1, la povertà del bimbo scalzo
sulla neve e del vecchio rugoso, e la fame di ambedue, l'andare affannoso di
bambini dal bosco al paese con la fascina « sul muscolo » 2. E senza dubbio
questi sono tratti che resteranno molto vicini al cuore del poeta. Bisogna
però dire che nelle prime raccolte essi non risaltano, e non offrono ancora
una immagine della terra garganica densa e fortemente sentita. Le ragioni di
ciò sono facili a desumersi, tenuto conto che chi scrive è il ventenne che sta
svolgendo il suo tirocinio di poesia, piuttosto che creare: da un lato abbiamo l'incompiutezza del pensare e del sentire, cosa che porta il poeta in erba
a pensare e sentire ricalcando formule artistiche e morali assorbite negli
ambienti in cui egli si formò, principalmente gli ambienti di studio. Vedi,
per esempio, il fervore religioso di alcuni fra i primi componimenti: esso è
certamente sincero, nel giovane che vuole esprimerlo poeticamente, ma il
difetto è nel non ancora solido terreno di riflessione personale; col maturare, quel fervore attenuerà i propri toni, si farà meditazione, problema, angoscia, e talora estremo slancio di fede. Simile discorso può esser fatto per lo
stile, fin dal principio desunto dalle letture scolastiche: stile che, superando
le moderne esperienze novecentesche, si riallaccia a forme pascoliane e
dannunziane, e ad una tradizione retorica di stampo carducciano. Ed è stile
che, nel tempo, si raffinerà, perdendo la patina dell'oratoria ed avvicinandosi ad una forma meno ricercata, ma nel contempo conserverà una impronta
« classica » e tradizionale (nell'equilibrio verbale, nella musicalità, nelle stesse forme metriche) trasparente anche dai componimenti in lingua inglese.
3. È dunque col diventar memoria che l'immagine della terra garganica nella poesia di Joseph Tusiani acquista densità e fisionomia propria. Ed è
con la maturità del poeta che la memoria acquista un senso preciso, come
vedremo, ed attinge livello d'arte compiuta.
Il ricordo, che per propria natura può diventare fin troppo facile materia di poesia, nel Tusiani ben presto si
1
2
Cfr. Flora, pp. 17, 33, 25, 51, 60, 44.
Cfr. Amore e morte. pp. 5, 11, 26.
29
svincola dalla sfera del puro sentimento, per caricarsi di tutti i sensi di cui la
meditazione del poeta lo arricchisce. Nella raccolta Petali sull'Onda (finita di
stampare nell'agosto del 1948 - il Tusiani era emigrato nella seconda metà
dell'anno precedente) forse ancora si può trovare qualche brano in cui è
vivo il senso del distacco recente, e la lontananza parla con accenti musicali
ed accorati. Lo stesso titolo è indicativo: i versi contenuti nel volumetto
sono petali affidati all'onda dell'Atlantico che raggiungano il paese natale.
Non si rinviene, in tale raccolta, accenno specifico alla terra garganica; la
nostalgia si dirige piuttosto ad una Italia vaga e lontana, in cui la natura
splende, e forse ancora rosseggia dalle piaghe fresche della guerra 3.
I brani raccolti in Petali sull'Onda furono scritti alcuni prima altri dopo la partenza per l'America. Il volumetto seguente (Peccato e Luce, 1949)
segna già, mi sembra, un progresso, sia dal punto di vista formale sia da
quello sostanziale. L'espressione si va misurando, e l'eloquenza, seppure
non scompare, si tempera. Il contenuto va arricchendosi di pensiero, e la
stessa sensibilità poetica lentamente matura, nel lavoro di meditazione. Mi è
parso di trovare qui più chiari alcuni spunti che saranno in poesie posteriori, inglesi. Fra i temi, accanto a quello religioso, torna il ricordo della propria terra, che qui è già meglio delineato e rispondente al sentire del poeta.
Nella lirica « L'Esule » (Peccato e Luce, pp. 26-27) abbiamo in germe
dei motivi collegati alla terra garganica, i quali torneranno più tardi approfonditi e completati: l'immagine d'una splendida natura e della vita montana:
...Io sogno primavera, e affiora
Sovra l'intimo ma.°e il lembo estremo
D'una terra incantata nell'aurora,
E trema nel silenzio la tua voce,
E il suono è in essa di lontani armenti
Sparsi su le colline nostre.
(vv. 7-12);
3
Cfr. Petali sull'Onda, pp. 5, 11, 26.
30
31
il mattino, segno di vita fisica e spirituale, sorgente sulla montagna:
...E' l'alba,
Questa, che accenna a Primavera. E' 'l lieve
Riso del dì novello che da un fiore
Lontan si sfoglia su le nostre case,
Che il Convento protegge, alto e severo.
E il sol dilaga infine, e forte erompe
Dalle gemme e dai nidi e giú dal fine
Acror del timo il canto della vita.
(vv. 12-19);
la notte, che è buio nella natura e buio nell'anima:
... Ma con l'ali diacce
Scende la notte e muore in essa il sogno.
Oh greve il nero della notte sulle
Palpebre schiuse! Io solo qui rimango,
E il tintinno non odo de' lontani
Armenti sovra i nostri colli.
(vv. 20-25);
la consapevolezza di non essere più parte della terra d'origine, d'esserne
sradicato per sempre:
...Sorge il nuovo sole,
Ma non rivedo accendersi la gloria
Del Campidoglio. Sboccian le campane
All'aria mattutina, ma non più
M'affaccio ad innaffiar le roselline
Sul davanzal della finestra mia.
(vv. 26-30);
la terra natale sentita come principio purificante, contrapposto alla inquietudine d'un mondo più ampio:
C'era la guerra intorno, e brulicava
Fervido il sangue, e nella colpa immane
Del mondo io pur sentivami innocente
Al miracol del sole nell'azzurro;
Qui mi sento colpevole e bruttato
Della morte di tutti a ogni tramonto.
(vv. 32-37)
32
S'intravede già la dimensione di simbolo che la montagna natale va assumendo. E si può dire che i brani sopra riportati chiudano in germe l'ode
M'ascolti tu, mia Terra?, che è la espressione lirica perfetta del ricordo garganico nella poesia del Tusiani.
I RICORDI
dice:
4. In un brano delle Odi Sacre (1957) il Tusiani così
Ebbi, fanciullo, sol la visione
Di bimbi scalzi e d'uomini digiuni,
Precoci più del sole
Ad aspettar che li menasse ai campi
Per carità della digiuna prole.
Numeravan, segnandosi, le note
Del primo campanile,
E sulla loro povertà rideva
Il cielo dell'aprile 4 .
Possiamo dire che qui siano espressi, impliciti e stretti in una inscindibile unità, gli aspetti della terra garganica che più sono rimasti impressi
nella memoria del poeta. Semplificandoli, e togliendoli alla loro unità, li riduciamo ai seguenti: la povertà della gente (« uomini digiuni »), la religiosità
(« Numeravan, segnandosi »), la vita campestre e montana (« ...che li menasse
ai campi »), il paesaggio naturale (« il cielo dell'aprile »).
5. Fortemente sentito è quel lato del ricordo che abbiamo elencato
per primo: la povertà.
È la povertà del gruppo sociale più disagiato in un paese estremamente provinciale, e potremmo dire dimenticato, come poteva essere San
Marco fra le due guerre; la povertà di bambini affamati, e di vecchi languenti dall'inedia; la povertà di contadini stremati dalla quotidiana lotta per la
sopravvivenza. E, per il poeta, la propria antica povertà, superata e scomparsa nella vita esterna, ma non cicatrizzata nella sua sensibilità.
4
Odi Sacre: «Il Risorto», vv. 47-55.
33
Il tema della povertà della propria gente è rintracciabile fin dai versi
primi, anteriori alla partenza. In una lirica di Amore e morte (1946) si legge di
un bimbo che va scalzo sulla neve, o sul selciato ardente, accattando il pane, gli occhi saturi di un dolore longevo; ma non incontra carità, e lo trovan
morto un mattino d'agosto, in un gran portone. E poi è un vecchio, che
contende ad un cane un osso mezzo rosicchiato, e che muore con la bisaccia vuota: « sognava il pane nella notte diaccia » 5. Queste figurazioni usate
dal poeta principiante lasciano il dubbio che egli le abbia assunte dalla tradizione letteraria, o da certa retorica dei buoni sentimenti diffusa nelle nostre scuole in un tempo ancora non lontano. Ma visto il senso di quelle figurazioni - una squallida povertà - e visto che tale senso permane nel tempo, bisogna concludere che è sincero almeno il primo impulso del giovane
poeta verso tale condizione della sua gente.
Legato al tema della povertà, e quasi simbolo di essa, s'incontra un
motivo costante: il pane. La povertà è prima di tutto mancanza dell'elemento base, del pane. Seguiamo il motivo del pane dalle prime raccolte fino ai
versi più recenti, in inglese: è il pane ancora in chicchi, nella spiga turgida 6;
il pane che la nonna spezzava al bimbo 7; il pane scarso alla mensa del contadino 8; il pane che il poeta, bimbo, non aveva, simile all'uccello senza briciole 9; oppure, in quanto mezzo necessario alla sopravvivenza, esso è la
pastura per gli armenti della montagna garganica 10.
6. Nel quadro di questo mondo povero, alla fame di pane si associa
un sentimento religioso elementare, legato allo stato di indigenza delle persone.
La religiosità, che nell'uomo staccatosi dalla montagna è divenuta
problematica ed oscillante dal dubbio, rimane semplice, fra gli abitanti di
quella montagna, e priva delle croste della meditazione. Rimane essenzialmente fede diretta, a cui
Amore e morte: « Sogno d'estate », vv. 73-94.
Peccato e Luce: « Il Canto delle Spighe », vv. 44-47.
7 Lo Speco Celeste: « Lo Speco », vv. 46-47.
8 Melos Cordis: « Messoribus Dauniis », v. 8.
9 Rind and All: « San Marco In Lamis », vv. 17-20.
10 M'ascolti tu, mia Terra?, vv. 75-77.
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6
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35
che il cuor non è stagione e non è il corpo
uccello migratore: il prossim'anno
mi darà l'ale la pietà d'un falco,
mi farà polline un sereno aprile.
Sì, tornerò per Santo Matteo,
quando il largo del piano si riempie
di villici e d'armenti e di speranze
e sono intorno parole e belati
e onnipresente sole. E, se mai l'onda
il volo m'affatichi coi suoi spruzzi
alati, io giungerò con la mia fede
tre giorni prima di Santo Michele,
quando la Compagnia cinge cordiglio
e scalza parte al cielo della roccia.
Presto, si cerchi un asino che salga
il rupestre sentiero! E non sia questo
che mille giri intorno all'aia han quasi
accecato, né quello che il groppone
ha d'osso e pelle e putrido di piaghe
e sta su quattro zampe come sopra
ciglio d'abisso e par che gli rimanga
appena forza di schiacciar la mosca
dal sangue, con la coda e con un lagno.
(Lo Speco Celeste, « La Compagnia », vv. 8-35)
C'è, in questi versi, il ricordo di una retorica tradizionale nella quale il
poeta ha svolto il proprio tirocinio; ma direi schietto il fervore. La fantasia
pare esaltata, la parola turbina e sgorga prorompente, come senza controllo,
e si dispone secondo il fervore dei sentimenti del poeta.
L'arciprete guida la compagnia; gli occorre la cavalcatura:
Anche un'asina, presto!, purché buona
sia ad inerpicarsi su le balze:
ché l'Arciprete ha tutto bianco il capo
pel sole di settanta primavere
e parrà proprio il Cristo che riviene
il giorno delle palme e degli olivi.
Si partirà domani, a mattutino,
con l'ultim'astro che non vuol perire.
A mattutino, la corolla sogna
e la campana canta: canto e sogno
s'intessono nell'ora, mezzo astrale
e mezzo umana, e chiama la campana
ancora e, con la gente che s'avvia
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silente, par che andare il gregge voglia
incontro al suono, sì l'invito è chiaro.
Son qui tutti i segnati? Bianco d'alba
e d'anni, l'Arciprete, con l'ausilio
di sei braccia, sull'asina è montato,
e gli van dietro, tutti, verso il Monte.
(Id., 36-54)
La partenza è accompagnata dal canto; e il verso acquista un ritmo
blandente di litania. Fra i pellegrini, uno tace; è il poeta, che, presente con il
pensiero e con l'anima, non ricorda l'inno di una volta (affiora la consapevolezza del distacco):
Sono gli uccelli meno di trecento
(i primi son migrati) e son le capre
men di dugento (l'altre l'han vendute
il dì di San Matteo che ha il viso moro)
e son le stelle men di cinque (il giorno
è sulla vetta ormai ridente cosa):
ma quattrocento, quattrocento e uno
sono i segnati che or cantando vanno
(e l'uno tace, lungo lo starale,
ché non rammenta l'inno glorioso):
La spada di Santo Michele
è tutta d'oro, è tutta d'oro.
Lo scudo di Santo Michele
è tutto aurora, è tutto aurora.
Il viso di Santo Michele
è come il sole, è come il sole.
La mano di Santo Michele
è di viole, è di viole.
Il piede di Santo Michele
è terribile e forte.
Santo Michele Arcangelo,
salvaci dalla morte!
(id., vv. 55-76)
La fila dei romei esce alla campagna, ed ognuno ha negli occhi il sole
che nasce. Cresce il giorno, e la polvere si fa calda sotto i piedi scalzi. A
mezzodì si sosta:
E va per miglia e miglia la mia gente
e l'anima mia stanca l'accompagna.
Sotto gli olivi, come Cristo affranto,
37
or posan tutti e l'Arciprete è sceso
dall'asina e carezza ogni fanciullo
e dice che la via s'è dimezzata:
ed egli ha letto i libri ed i vangeli
e pensa ai sette pesci ed ai tre pani.
In mezzo ai cerri fanno campolata,
nel mezzodí di fiamma, i pellegrini:
ché anche la cicala è stanca e posa
sul ramo eccelso fra la terra e il sole.
(id., vv. 85-96)
La fantasia, amorosa ed accesa dall'ispirazione, giunge a vedere delle
particolarità che sono emblematiche di tutta una condizione di vita: l'umile
pancotto, cibo dei pellegrini: i tozzi gonfi d'acqua e profumati d'aglio e d'alloro, l'olio crudo che fila da un'oliera singolare e disusata, ormai - un corno
bovino:
Questo che odora è il pan cotto con l'aglio
fresco del campo e, rara leccornìa,
c'è pur fronda di lauro nel paiuolo:
ed ecco l'olio crudo che sottile
esce dal corno e biondo dora i tozzi
cresciuti nel bollire: a Dio sia grazia
pel frutto dell'olivo e del frumento! 12
(id., vv. 97-103)
Nel meriggio caldo la cicala si desta, e bisogna andare. Vanno scalzi, i
pellegrini, per preservar le scarpe. Questo improvviso scoprir la povertà
della propria gente, in mezzo al fervore evocativo, fa il poeta memore d'una
persona ch'egli amò - la nonna:
Portano molti a tracolla le scarpe
e le pianelle di panno e di cuoio,
ché, se la roccia aguzza le consuma,
esse non sono più nuove per Natale;
e, nonna, nonna, tu non hai pianella
al piede e già la pelle è crepe e sangue,
né sulla testa il fazzoletto è doppio,
ed è quadruplice il raggio del sole:
seppe il tuo capo il cercine di tela
12
Nel testo a stampa troviamo il refuso « olio » per « olivo ».
38
in anni lunghi, e un po' delle tue carni
ognun s'è preso, o nonna, perché avevi
un figlio da sfamare e da vestire
e da far grande per la morte in guerra:
ed or non hai più carni che mai possa
il sole incenerire: hai solamente
la tua ferita e l'ombra di tuo figlio
(id., vv. 112-127)
Il dì s'avvia a finire, quando giungono alle falde del monte; la meta
d'un giorno di cammino è prossima:
Ora dal grembo profondo del bosco
un accenno di brezza viene e ventila
alla fronte che brucia la speranza
del vespro prossimo: o madre, mia terra,
è così cupo il tuo sguardo di fiamma
che, se pur taccia questo lume d'oro,
noi penseremo a un astro che s'è spento
dieci millenni or sono e in ciel s'indugia
come, finito l'olio, fuma ancora
sul nostro altare il lucignolo breve.
Ecco, solenne l'Arciprete scende
dall'asina, ed in ogni umano sguardo
è un'ansia che splende. Ecco, sul Monte,
il fiotto fievole e fiero del vespero!
L'Arcangelo sta lì.
(id., vv.136-150)
Nella trama « narrativa » di una costumanza religiosa il poeta inserisce i propri ricordi, gli aspetti, le figure, perfino le cose, che più sono radicate nella sua memoria e nel suo amore. E se il discorso è tenuto su un costante registro di eloquenza un po' sonora, non mi sembra, come dicevo,
che questo comprometta la felicità del momento poetico.
7. In quanto è stato detto fino a questo punto si può rintracciare
molto degli altri due aspetti della terra garganica che abbiamo individuato:
la vita campestre e montana, e il paesaggio naturale. Ma, per completare
l'analisi che stiamo conducendo, in breve consideriamoli isolatamente.
Una scena dei campi che ritorna più d'una volta è la mietitura, e si
capisce perché: essa è vicina al motivo del pane.
39
Il grano è futuro pane, la mietitura è l'operazione che ha per risultato il pane. Così essa è vista già in Amore e Morte, del 1946 (« Sogno d'estate », vv.
46-66), e torna, in toni diversi, nella raccolta di carmi latini Melos cordis, del
1955 (« Messoribus Dauniis », p. 23), e nei versi dialettali di Làcreme e sciure,
dello stesso anno (« La metenna », pp. 6-7).
Si nota anche, per il suo ripetersi, la figura del contadinello che porta
il fascio sulle spalle. Ed anche questa si integra in un mondo di povertà
contadina, dove la fatica è fatica per la sopravvivenza del proprio corpo. Ma
colpisce di più una immagine insistente, e direi quasi enigmatica nella sua
solitudine e nel suo silenzio: quella del pastore. È per lo più giovane, talora
fanciullo; è solo con il suo armento, per mezzo alle rocce e all'erba della
montagna. Pare che racchiuda, nella sua impassibilità, il segreto di cose insondabili, che inutilmente il poeta si sforza di perseguire con la parola. È lui
che all'alba sembra carpire tutto il senso della nuova luce solare, di cui si
veste e si scalda:
sta presso il gregge il pastorel silente,
lieto di regger sull'aperta mano
un cielo d'oro e per la prima volta –
fatto da te, sua madre, madre nostra –
un vestito di raggi.
(M'ascolti tu, mia Terra?, vv. 39-43)
Egli ascolta dall'antenato - quasi biblico patriarca - la storia della vita
che si perpetua; e al cader della notte dorme sulla pietra, chiudendo nel
sonno l'accettazione di un destino:
...veglia lontano e canta
una fiaba di vita un vecchio, e ascolta
un pastorello, ed è religione
questo silenzio della giovinezza
al detto del profeta. Il mare tace,
anch'esso, ad ascoltare, e ancora un poco
il vecchio canta, e sulla stessa pietra,
che serve da giaciglio,
nella mobile notte sono immoti
il bianco capo e i lievi ricci biondi.
(id., vv. 56-65)
40
si alimentano la speranza per le necessità di questa vita, e il pensiero di una
pace nella vita avvenire. Così il poeta vede questo aspetto della propria terra; e lo esprime rievocando quegli atti di venerazione, o quelle costumanze
di origine sacrale, a cui egli stesso fu abituato fin da piccolo.
Già nelle prime raccolte si accenna a riti dal sapore paesano; per esempio, le processioni con i simulacri della Vergine e dei santi; e non mancano i versi dedicati alle ricorrenze liturgiche 11. Qui c'è rappresentazione di
cose religiose, ma non ancora un proprio sentimento religioso. Questo sorge quando cominciano gli interrogativi (principalmente sul rapporto tra il
divino e l'umano, tra il bene e il male, tra l'Angelo e Satana). Ma allora la
religiosità diventa problema più vasto, e l'immagine della terra originaria
trapela appena, pur se non scompare mai nella coscienza del poeta. Così è
per le raccolte Peccato e Luce (1949) e soprattutto per le Odi Sacre (1957).
E pure in questa mutata condizione spirituale, il Tusiani raggiungeva,
con Lo Speco Celeste (1956), un felicissimo connubio tra la rievocazione del
proprio ambiente d'origine, e il sentimento religioso. Sembra che in questa
raccolta, frutto di un momento poetico notevole, la memoria della lontana
montagna nasca freschissima, particolareggiata, estremamente concreta,
tanto da travolgere il dubbio e rinvigorire la fede antica: il fervore (religioso, verbale) è equilibrato da un gradito realismo, che giunge fino all'uso di
espressioni e toponimi locali (« campolata », « Noce del Passo », « Starale »).
Lo « speco celeste » è la grotta garganica in cui è venerato San Michele, a Monte Sant'Angelo; e il volumetto prende lo spunto da un pellegrinaggio sammarchese alla grotta. Il brano centrale, intitolato « La Compagnia »,
rappresenta la partenza e il viaggio, subito dopo la festività paesana di San
Matteo, in settembre:
lo tornerò per Santo Matteo,
che, nel salir la via delle giumente,
esausto cadde, eppur non diede sangue
il ginocchio vercosso ma un'impronta
incise al masso glabro: e non mi dite
11
Cfr. Flora, pp. 17, 33, 56, 60, 61.
41
8. Lo scenario in cui si configurano questi ricordi è il paesaggio della
montagna garganica. Può essere che l'occhio si estenda fino ad abbracciare
il Tavoliere biondeggiante di grano; ma è per lo più quella « fatale montagna
» che dà il sottofondo alle rievocazioni liriche: essa è sempre splendida, nelle sue rocce, nei fili d'erba, nei boschi frondosi; è vista nel mutare della luce, alle varie ore del giorno, e nel mutare dei colori, con le stagioni.
Credo di poter dire che il sentimento vivo della natura, in Tusiani
molto spesso rappresentata con forti toni di colore, sia a lui venuto dall'abito a contemplare il paesaggio garganico, e a viverci, durante gli anni italiani,
che furono poi quelli in cui si formarono i germi della sua sensibilità. Infatti, perfino nei primi versi, pubblicati quand'egli era appena diciannovenne
(il poemetto Amedeo di Savoia, 1943), può sorprendere il senso delle tonalità,
chiare, sfumate, cupe:
Ride di luci nella notte il cielo
Mentre, dal sonno placido cullati,
Taccioni i clivi. Tremano le stelle
Vivide e immense, e agli ultimi orizzonti
Placido muore lo splendor, sui campi
Cheti ridendo e sulle turgide onde
Del crespo mar.
(Amedeo di Savoia, vv. 1-7)
...Il vento
Giungéa portando da lontano prode,
Con un odor fresco di lido, un soffio
Vanente di memorie assai remote.
La selva ondava tutta, ed un mistero
Nel fondo della notte tenebroso Penetrava ne' cuor...
(id., vv. 244-249)
Vennero da vicino e da lontano,
Dalle sponde frugifere e dai larghi
Stagni limosi e putridi, ove ronza
Accidiosa la mosca del sonno.
(id., vv. 466-469)
anche essendo, questi, versi chiaramente di scuola, e di poeta in erba.
Nei versi della maturità, alla evocazione del paesaggio si
42
affianca il trasformarsi di alcuni fenomeni naturali in simbolo. L'alba che
segue al buio notturno, e riporta la visione chiara degli oggetti, e risveglia la
vita, è segno di rinascita spirituale, dopo l'errore, e segno premonitore di
una qualche rinascita, dopo il finire del corpo. Per converso, l'attenuarsi del
giorno, e il suo entrare nelle tenebre, ricorda la perdita di una qualunque
luce di discernimento, e l'avvicinarsi della morte. Che questo apparato di
simboli venga associato ala terra d'origine è significativo, perché denuncia
una nuova dimensione assunta dal ricordo della propria terra; dimensione in
cui la memoria dei fatti esterni non è più soltanto lirica, ma viene a riflettere
tutta la condizione intellettuale e morale del poeta.
Prima di passare a questo nuovo aspetto, vediamo brevemente una
raccolta che è garganica fin nella lingua usata.
9. Làcreme e sciure, del 1955, comprende venti poesie del Tusiani, in vernacolo. Si troveranno qui gli stessi temi e gli stessi motivi lirici che siamo venuti
considerando: la mietitura e il pane, il bambino col fascio, il pastore che nel suo
sguardo domina l'altura di Castelpagano, il convento di San Matteo, le fiaccolate tradizionali del Venerdì santo, i « sepolcri » compiuti seguendo il simulacro
dell'Addolorata. Ma c'è anche qualcosa di più, difficile - se non impossibile - a
trovarsi negli altri versi dedicati alla propria terra. È una sottile vena di buonumore, di arguzia popolana, che trapela qua e là e si fa sorriso. Una scena agreste
di mietitura, rivissuta in questo spirito leggero, fa dimenticare il suo senso «
drammatico » - che abbiamo visto - di processo verso il pane: la mietitrice mostra di eludere la corte del giovane che falcia insieme a lei, ma in fondo ne è
compiaciuta:
- E l'ha sapute, cumpà, che 'Ntunetta
la cuscetricia ha rumaste lu zite?
Facce mie, prima iè gghiuta a braccette
e mo ce uasta tutte lu cummite.
- Cummà, non sacce nente. Sule sacce
che i' te vogghie bene e me vi' 'nzonne,
e quanne non te vede i' so pacce
e non raggione, corpe lu... paponne.
(« La metenna », vv. 25-32)
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Anche il motivo del pane si allevia, e non fa più pensare ad una triste
realtà di indigenza, ma piuttosto alla alacrità salutare del lavoro compiuto
per ottenere l'alimento:
La campagna tutta d'ore
vò trecente meteture.
Iuna, duva, duva e treia,
faveceia, faveceia.
La metenna iè fenuta
e la state ienn'asciuta.
'Nnturne 'nturne la maiesa
lu cavadde pesa pesa,
e la forca la spatreia
quessa regghia e ventileia.
'Nnzacca 'nzacca quissu rane,
'nzacca forte e 'nzacca chiane,
e chiamate nu traine:
ima ì allu muline 12bis .
Direi che i risultati più attraenti, in questa raccolta dialettale, siano
proprio laddove i vari temi sentiti dal poeta vengano irraggiati dall'arguzia
popolaresca, o siano espressi attraverso forme semplici, come nella filastrocca appena citata.
Meno evidente è il tono lirico. Si direbbe che il Tusiani riesca in pieno quando vive nelle cose della sua terra dette nel dialetto della sua terra,
più che quando effonda il sentimento proprio su quelle cose, oppure quando voglia in esse mettere un'idea che dia loro un senso morale. Di fronte a
tale esito mi chiedo se sia il poeta a trovarsi a disagio nella espressione di un
contenuto più meditato, o sia il dialetto sammarchese a prestarsi poco per
un tipo di espressione filosofica e morale, dai fondamenti più ragionati e
consapevoli di quanto non siano nella ereditaria frase proverbiale e sentenziosa.
12bis Rendo in italiano i due brani, che sono scritti nel vernacolo di San Marco in Lamis. Il primo dice: « E l'hai saputo, compare, che Antonietta, la sarta, ha
lasciato il fidanzato? Che vergogna! Prima ci è andata a braccetto, e adesso si guastano tutti i piani. - Comare, non so niente. So soltanto che ti voglio bene, e mi
vieni in sogno, e quando non ti vedo, io divento pazzo e non ragiono, corpo d'un...
papònno (= orco, nel dialetto locale) ». (« La mietitura »).
Il secondo brano dice: « La campagna tutta dorata vuole trecento mietitori.
Uno, due, due e tre, falcia, falcia. La mietitura è finita, e l'estate è passata. Il cavallo
gira in tondo e trebbia il grano, e la forca sparge all'aria la pula. Insacca, insacca
questo grano, insacca forte e insacca piano; e fate venire un carro, per andare al
mulino ». (« La pagnotta »).
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In ulteriori componimenti dialettali (inediti), si andrà sviluppando
questo contenuto di idee. E forse quanto è guadagnato di più consapevole
umanità, è attenuato in freschezza di sentimento e di espressione.
TRASFIGURAZIONE
10. Una volta considerati gli aspetti prevalenti del ricordo garganico
nella poesia del Tusiani, è da vedere l'evoluzione che essi subiscono col maturare della sensibilità e della riflessione. Perché abbiamo già accennato che
la terra d'origine non resta materia di ricordo puro e sentimentale, ma assume valori emblematici, alla luce dei problemi umani e cosmici che si delineano sempre più netti nella mente del poeta.
11. Nel seguente brano, inedito, del 1959, composto dal Tusiani direttamente in italiano, traspare il lavorio dell'idea, che fa delle cose emblemi di
una realtà interiore vagheggiata dal poeta. Il ricordo si rivolge, qui, ad uno
spettacolo naturale, l'alba; una delle albe sul monte Gargano. E il principio
della luce, se pur remoto nel ricordo, fa scordare la paura della notte e del
buio, e sembra tacitamente risolvere il contrasto fra l'eternità carpita in riflessi fuggevoli dalla mente, e la caducità fatale di quella mente. L'armonia
della montagna che s'illumina è un punto d'arrivo, in cui il fermento intellettuale ed emotivo si placa nel riconoscimento di un destino di luce e di
gioia:
E' la mia gioia un esile ricordo
Che docile s'impiglia in un residuo
D'alba remota in cui trovano accordo
L'eterno e il breve palpito individuo.
Quasi mi par che il folgorare occiduo
Mai non sia stato, ora che tutta scordo
L'ombra vissuta dallo sguardo assiduo
E più non sento il tempo cader sordo.
Tutta la dolce antica luce è viva
E nel cupo di me la mattino
E l'anima in viaggio or ecco arriva
Ove il sogno s'accende di destino
E sulla vetta eternamente estiva
In gioia si conchiude il mio cammino.
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Quanto di concreto si può trovare è appena un cenno ad una « alba
remota » (che dice la perdita e la lontananza); ad un « folgorare occiduo »
(lo scendere della sera, e del timore); ad una « vetta estiva » (sede di splendore e di conforto). Il resto del sonetto si può considerare idea: dell'eterno
e del caduco (« l'eterno e il breve palpito individuo »); del dubbio e del timore (« l'ombra vissuta dallo sguardo assiduo »), del rischiararsi dell'anima
alla luce di valori antichi, e, forse, oscillanti (« nel cupo di me si fa mattino
»).
Come si vede, l'idea compenetra e quasi dissolve le cose ricordate. Se
non sapessimo in partenza che l'alba è un'alba garganica, non sarebbe facile
scoprirlo, e forse mancheremmo di cogliere tutto il valore di quella scena in
quella terra. La commistione di concretezza ed intellettualità è un tratto fra i
più notevoli - spesso felici - della poesia matura del Tusiani; non di rado
essa porta l'espressione al limite dell'oscurità, sicché l'interpretazione di
molti brani richiede la nozione della « chiave », o, diciamo, del « meccanismo » emotivo secondo cui il poeta si esprime.
E pure in tale severo lavoro di riflessione, l'autore non rinuncia al
senso del concreto, e sa dare alla frase la seduzione dei colori. Di passaggio,
si noterà, nei primi otto versi del sonetto dato, lo spesseggiare di un tono
cupo (la notte, il buio) suggerito dalla frequenza di vocali scure (basta guardare anche solo le rime, folte di « o » e di « u »), a cui si oppone, nella seconda parte, la luce (frequenza di vocali chiare - le rime hanno tutte una « i
» tonica).
12. Il valore significativo della notte riappare nel brano, che traduco
dall'inglese, « Quando era la sera »:
Nella mia terra, Dio, il contadino
Conosce il vento ed il sole e la zolla,
Sì che il virgulto non ha alcun timore
D'essere trasmutato dal natale
Suo cespo ad altro solco.
E tu, hai misurato tutta l'ombra
Che possa riparare il mio lamento?
E puoi antivedere una tempesta
Che mi sgretoli dentro
Eppure non mi scuota nella fede
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Che un mattino di pace poi ritorni?
In quest'ora la brezza
Veniva a carezzarmi sulla fronte:
Ed hai pensato tu
Ad una nota, o nuova, oppure a un cielo
Che mi faccia scordare un coltro chiaro?
Era felicità
In quella terra unica
Ricever le fragranze della sera,
Quando era la sera
Un alito celeste, ed un respiro
Di vita nuova cominciante all'alba –
Non il presente simbolo
D'una morte incombente 13 .
Qui l'osservazione è più circostanziata. Ricompare un ambiente caro
(il campo e la zolla; il contadino, che ha cura delle sue creature vegetali; l'aratro lucente che apre i solchi; il profumo campestre dell'ora serale), opposto ad una presente condizione di dubbio che fa smarrire, e fa temere l'approssimarsi della notte. Esplicitamente è dichiarata la natura simbolica della
notte: morte, come perdita fisica della vita, e come smarrimento dell'anima.
Ancora una volta questa simbologia è legata al ricordo della propria terra.
13. Possiamo fissare, perciò, un primo « valore lirico » che il poeta attribuisce alla lontana terra d'origine: un senso di chiarezza interiore che è
fonte di sicurezza e di serenità.
Nella seguente « Ode per un poeta illetterato » (1964) la terra lontana
è vista attraverso la memoria di una figura dominante: la figura della nonna,
l'unica chiaramente, e caldamente, identificata, nei ricordi garganici del poeta. Il motivo di questa preminenza è spiegato, con parola semplificata e corrente, nello stesso brano. Traduco:
Mia nonna si esprimeva con parabole:
non sapeva né leggere né scrivere.
Per farmi rincasar prima di sera
mi portava ad esempio la gallina
che va nella sua stia alle prime ombre,
13 Leggo la lirica (« When Evening Was ») su un ritaglio che non reca menzione del giornale da cui è tratto, e non ha data.
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o - spirito dei monti? - mi ammoniva:
chi nella notte va, va con la morte.
Non era andata a scuola, ad imparare,
ché in quegli anni era scuola l'indigenza.
La sola cosa scritta di suo pugno
sopra un pezzo di carta fu una croce –
un uomo in uniforme, scuro in volto,
le portava la mano - fu una croce,
con la quale accusava ricevuta
di ciò che rimaneva di suo figlio:
una lettera che non fu spedita,
un ,rosario, una foto insanguinata.
Fu la nonna a plasmare quei miei giorni,
senza sapere affatto di sintassi.
Ad ogni pane - duro, e delizioso –
mi diceva che Cristo fu più povero.
Ad ogni secchio fresco attinto al pozzo
mi diceva che Dio fece l'acqua.
Se avevo ancora fame, ripeteva
che una piccola bocca ingoia un trono;
se avevo ancora sete, ripeteva:
sul campo di battaglia non c'è acqua.
E non avevo visto ancor pastori
o greggi, eppure già li conoscevo,
perché all'irrompere dell'acre tuono
sempre udivo pregar dalle sue labbra:
« Corri, agnellino; corri, pastorello:
una caverna può farvi da mamma ».
Ella era così saggia, e così triste,
che mi domando cosa mai potesse
averla fatta cosi triste e saggia.
Eppure nulla faccio, nulla sento,
che non mi leghi ad un'antica perdita,
o non mi porti ad un'angoscia antica.
Ella moriva, me quattordicenne;
or, quarantenne, so che vive ancora 14 .
Più che il motivo finale (il permanere di quegli insegnamenti in fondo
alla coscienza) ci interessa la disposizione del poeta a collegare alla propria
montagna ed ai suoi abitanti una capacità naturale di saggezza, che non
proviene dal lavoro
« Ode to an Illiterate Poet », in « Spirit »(New York), November
1964, pp. 137-138.
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mentale, né dalla considerazione dei fatti grandi del mondo, ma dalla osservazione di cose umili che sono intorno; attraverso le quali la gente della
montagna (qui, la nonna) coglie il significato riposto e immutabile delle cose stesse.
Isoliamo dunque un secondo « valore lirico », che è una saggezza
spontanea di gente primitiva.
La fede, ugualmente primitiva ed immeditata, è tema specifico di una
poesia intitolata Tredici al giorno (a Sant'Antonio di Padova). Il poeta parla al
santo, ricordando i giorni della infanzia, quando, dinanzi alla sua statua, la
nonna gli insegnava a pregarlo, perché era un santo miracoloso: faceva tredici miracoli al giorno! Stupefatto, il bimbo giungeva le mani, ed era sicuro
che, fra tanti miracoli, era ben poca cosa per il santo fargliene uno, quello
del pane quotidiano. Traduco:
Tu forsi sorridevi a lei e a me
ginocchioni dinanzi alla tua statua
quasi senza guardare l'Ostia Sacra:
oh, non fu certo gran peccato - allora
non sapevamo di latrìa o dulía,
ma solo che ogni giorno tu facevi
ben tredici miracoli - e per noi
ci volevano tutti. Primo, il pane.
Ebbene, Sant'Antonio, il tempo è andato
Ed ora so perché tu porti un giglio,
e ti scolpiscono col Bimbo in braccio.
Pure, vorrei saper molto di meno
e credere di più - treenne, allora
nella piccola chiesa di montagna
tredici volte a te m'inginocchiavo;
e tornavo, sicuro del mio pane 15 .
Il dubbio che segue allo studio e alla riflessione, e che intacca la
schiettezza di una fede assorbita fin dalla nascita col pane di ogni giorno, è
cosa non nuova, nella tradizione letteraria, ed è esperienza intellettuale e
morale comune a molti moderni. Né il poeta vuole condannare, qui, un atteggiamento
« Thirteen Each Day - To saint Anthony of Padua », vv. 13-20 e 33-40, da
Rind and All, pp. 47-48.
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di scepsi - anzi, lo considera momento ineluttabile. La fede semplice della
propria terra è vista come anteriore a tale momento, ed è sentita non come
frutto di mentalità acquisita in un dato ambiente in date circostanze storiche, ma è fede che sprofonda nel cuore e diventa da un lato speranza di
vita, dall'altro intenso sentimento di umanità (due connotazioni che abbiamo già trovato riunite nella figura della nonna).
14. La perdita del tempo della propria vita, e la morte, sono temi notevoli nell'intera poesia del Tusiani. Ed anch'essi ricompaiono collegati al
ricordo della propria terra; particolarmente in una lirica di Rind and All
(1962) intitolata « San Marco in Lamis ».
Il punto d'incontro fra il pensiero del morire e il paese natale è segnato dal camposanto del paesello. Il poeta vede tutta la piccola, circoscritta
vita del borgo gravitare attorno a quel « pezzo di terra consacrata », a cui
tendono tutti gli abitanti. Essi non si chiedono perché debbano finirvi sanno solo che è così; né è timore l'avvicinarsi, con gli anni, a quella dimora
- essa non pare che la naturale conclusione della vita.
Riporto l'intera lirica in una traduzione dell'autore stesso, abbozzata,
poi non più ripresa:
Il camposanto lì, su quel pendìo consunto
Ventilato dall'erba e profumato
Di timo, è assai più vasto del paese –
Una distante terra, solenne, fatale.
Cipressi scuri (Italia è quella terra),
Muti miranti al cielo,
Più non isperan resurrezione,
Sì fonde nella roccia han le radici.
Lì ogni sera, allora che la luna
Non può spiar tra nuvole e tra boschi,
Un usignolo, che per te non osa
Cantare, canta sopra quelle croci,
Rustiche, rotte da rugiada. Ed io,
Fanciullo, udii quel canto,
E fu allor che la morte immaginai
Quale uccello nel folto delle foglie.
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Aveva quell'uccello più di me
Briciole? Anch'io - rammento - allor cantavo;
Ma per noi due, dopo l'istesso canto,
Non v'era affatto pane.
Poi sorgeva il mattino: oh rosa, rosa
Di Dio per me, trasumanato d'incanto;
Squallidi muri, e cielo e mar festivi:
Dolce equilibrio ancora.
Giovine mar sognavo, e trapuntato
Di vele, e bianco e rosa e verde e azzurro e oro:
La meraviglia aggiungendo ogni tinta
Novella di lucenti cose non vere.
E divenivo immemore di striduli
Campani di capre lungo la strada;
Di mani inaffianti basilico sui davanzali;
Di corde di bucato sgocciolante
Al nuovo sole; di voci mattiniere
E magiche di vecchi venditori;
E d'asini leggeri verso il monte;
E d'una folla sciamante di bimbi a scuola;
E d'uccelli, oh uccelli festivi nell'umile
Settimana. Ero immemore d'ogni cosa;
Eppure il dolce, oh dolce romorio
Di tutte quelle gioiose
Ore primaverili era famiglia,
Era canto da udire ed amare,
Sebbene perduto in nuova meraviglia
Di canto ancor non nato fosse l'orecchio.
Ora so perché tutta quella vita
Come onda intorno a inabissata pietra
Dovesse svolgersi intorno a un camposanto,
L'unico mondo noto
Ai miei pastori, e da essi guardato
Quando vicino vi passavan lenti
Con la greggia non propria,
Sotto la tenda del cielo
E la scorta pietosa del riso del sole.
Adesso, sì, comprendo
Perché senza risponder, senza chiedere,
Essi debbano andare,
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Andare ancora intorno alla montagna
Finché il pendio dall'erba ventilato
Per sempre li raccolga e nel suo petto
Chiuda il supremo ed unico sperare.
E dimmi, pastorello: è dunque vero
Che tu pur devi andare,
Come tuo padre, da una cima all'altra,
E a casa poi posare?
O vecchierella fragile ed asciutta,
Ed è vero che devi ancor filare
La tua lana un altr'anno
Per poterti comprare
Finalmente una bara e andar lassù in pace,
Senza lasciare né nome né debito?
Nascere e crescer figli e poi dormire
Lassù: ecco la gloria.
Il camposanto lì, su quel pendio consunto
Ventilato dall'erba e profumato
Di timo, è assai piú vasto del paese –
Una distante terra, solenne, fatale.
Non rasegnazione, perché nel pastore, nella vecchierella che fila, non
è la nozione di cose più grandi, da cui quel mondo limitato è per sempre
escluso; non è un messaggio di rassegnazione (e tanto meno un ideale di
vita) che il poeta vuol suggerire. Gli importa, invece, constatare la naturalezza con cui sono accettati un evento, che travaglia invece la sua mente, ed
una vita circoscritta, nei cui limiti egli più non potrebbe rientrare, eppure vi
trova la nozione del senso ultimo delle cose.
15. La terra originaria è dunque trasfigurata a sede di una chiarezza
interiore che è sorgente di serenità e non fa vacillare di fronte al pensiero
della morte; sede di saggezza connaturata, e non acquisita con la riflessione;
luogo, infine, di fede schietta e primitiva, che nel vivere quotidiano si tramuta in speranza e in senso profondo di umanità.
Così il poeta che torna ritrova la propria montagna, nella ode M'ascolti tu, mia Terra?, che è del 1954 (in tale anno, al53
meno, fu composta; dopo la vincita del premio Greenwood, a Londra nel
1956, fu pubblicata in versione italiana dello stesso autore, fra i quaderni del
« Gargano »).
Il componimento è impostato su due termini di confronto: la montagna, e l'uomo che vi torna, quasi figliol prodigo. L'uomo torna alla sua
montagna dopo lunghi anni, nei quali ha sofferto e conosciuto il male. Ma
qui, sulle immobili pendici della sua infanzia, ritrova parte del proprio antico essere, immacolato:
Terra natale, io non ho mai sofferto,
io non ho pianto e non son mai partito,
se alla mesta pupilla,
che ti ritrova, tu sei bella ancora
e sei materna. Forse per selvaggi
mari avanzò la sola mia paura;
forse per venti e per valli e per sere
illuni procedé, sempre sgomento,
il mio pensier soltanto;
ma l'anima, qual sangue tra le vene,
passò per tue radici eternamente
e l'uomo restò bimbo e fu sereno.
(M'ascolti tu, mia Terra?, vv. 1-12)
ta:
La terra pure ha subìto offese, dall'uomo e dal tempo; ma è immuta... Ha ròso il vento
e portato nell'onda
un masso di tua roccia, e sette inverni
han gravato i tuoi fianchi seppellendo
nelle nevi i tuoi fiori, e sette aprili
hanno ferito di gioia il tuo grembo,
ed hai sofferto lacerazioni
d'uomo e schianto di nembo.
Eppur sei buona ancora e sei materna...
(id., vv. 145-153)
Ma l'uomo no; attraverso le innumerevoli vicende di una vita, egli è
mutato, la sua fiducia è incrinata, la sua originaria bontà si è venata di umori
grevi; le estese cognizioni acquisite gli hanno instillato un tremore dell'esistenza. La montagna è ferma nella sua ignoranza del « mondo sotto il sole »;
ma quella fissità, quella assenza di strutture che rendano complessa
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l'originaria costituzione, sembra celare il segreto che il poeta invano ha cercato, vagando per il mondo, o trivellando nel proprio intelletto:
Tu non conosci il mondo sotto il sole,
o severa montagna
che amo. Or, di noi due,
io non so dire chi più sappia o valga:
io, che ho appreso il soffrire de' fratelli,
o tu, che, sotto la pioggia che bagna
e rode, all'alba nuova ancor possiedi
l'innocenza di ieri.
Io non lo so, perché sapere il male
è forse un po' dimenticare il bene.
(id., vv. 112-121)
Affiora, nell'immagine della montagna, la dimensione di simbolo: essa rappresenta ciò che per l'uomo è bene; essa è il bene, quasi, allo stato puro
- quasi lo stesso principio del bene, materializzato. Perciò non ha bisogno
di conoscenze, né di esperienza: esiste per sé; e deve essere conosciuta, e
non conoscere. Perciò resta immutata, immune dai travagli sofferti e dalle
offese subìte.
E, aggiungerei, non il bene astratto, universale, e perciò privo di connotazioni. La montagna rappresenta il bene materno, della madre che dà alla
luce le proprie creature, e le nutre, mentre sono in vita:
...E so che dentro
il tuo marmoreo cuore è la speranza
di nuov'erbe e d'uccelli e di pastori,
è la stessa preghiera che non manchi
domani il dolce volo e la pastura
ad ogni tua novella creatura.
(id., vv. 72-77)
(pur trasfigurato, qui è presente alla coscienza del poeta il motivo del pane,
cioè della sopravvivenza fisica in un mondo povero); e, ancora, che le alimenta di speranza. Essa, infatti, accoglie il figlio ritornato, e gli dona la gloria di una nuova alba (anche in questo caso, simbolicamente, il rinascere
nella luce di una agognata verità):
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... Io sento ch'è segno d'aurora
questo brusio tra le cime, quest'alito
caldo di rosa ch'è luce e ch'è suono
sopra la vetta più grande, su tutte
le vette. Io ti conosco,
fremer di cento cerri, canto d'arpa
timida e tinnula, o,a che ogni sogno
sembra finire in colore, e il colore
sembra mutarsi in cuore
d'uomo. Correte, accorrete alla festa
del monte che si dora,
della foresta che bella si desta
al giorno! E' tardi già: quel che fu oro
è croco, e cresce già sopra la crosta
glabra un filo di bianchissimo crespe,
e in un mar di candore la notte è naufragata,
e in tutta questa luce il mio dolore.
(id., vv. 168-184)
E questa ode rappresenta l'espressione perfetta, come dicevo, del ricordo garganico nella poesia del Tusiani. Ma direi che essa abbia anche un
valore letterario più vasto. La parola, educata attraverso studi di stampo
classico, si è notevolmente equilibrata (non si può dire che qui vi sia retorica, e nemmeno oratoria), attenuandosi, per lasciar trasparire limpido il sentimento del poeta. Quasi magicamente le idee, che abbiamo cercato di portare alla luce nella nostra analisi, si fondono e si esprimono con lo snodarsi
delle immagini. E questo - sia permesso dire - sopravviene solo in momenti
altamente lirici, e rari.
16. Nel ricordo della propria terra rientrano dunque temi più generali
(principalmente il dibattito fra il bene e il male, e la compresenza di questi
due principi nell'essere umano; la ricerca di un senso ultimo delle cose e
della propria vita; il contrasto tra fede e razionalità; il motivo del tempo che
si consuma), che sono attribuibili all'intera poesia del Tusiani.
Bisogna dire che il ritorno, nel ricordo, a quella terra porta sempre un
riflesso lontano di speranza; lontano tanto che pare impossibile carpirlo;
porta, insomma, il sapore di cose buone, e perdute. In modo che la « nostalgia » che il poeta può provare ha un suo profilo preciso: è nostalgia dei
valori
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collegati al complesso mondo dell'infanzia; i quali valori, una volta usciti da
quel mondo, non possono continuare a sorreggere l'uomo, navigato nelle
molteplici vicende della propria esistenza, e che ad essi non può ritornare
con la primitiva adesione - se non forse in poesia.
Così filtrato, il ricordo della terra garganica rimane fino in poesie recenti. Come in questo Tramonto (1971): il decadere della vita contemplato in
grinzosi anziani seduti al sole, ed il calare di quel sole, con tutta la tristezza
che l'associazione dei due spettacoli genera, riconducono la mente ad un
pendio di montagna familiare, dove balena, inafferrabile e presto persa, una
visione di speranza. Traduco:
Ma dovrò vivere vent'anni ancora
e soffrir venti secoli di pena
per saper che visione di speranza
mi può far breve un'esistenza annosa,
e dolce questo raggio su un pendio
dove il pensiero si ferma, e il tremore.
Maestosa tristezza c'è nel sole,
se ho smesso di guardare verso il mare
ogni tinta sfumarsi, e mi son chiesto
che cosa diverrà di te e di me,
e cosa forse resta di noi due:
di me e di te, cara vita passata 16 .
COSMA SIANI
16 « Sunset: A Reflection », vv. 19-30, in The Diamond Anthology, edited by C.
Angoff., G. Davidson, H. Hill, A. M. Sullivan. New York, Barnes and Co., 1971, pp.
250-251.
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BIBLIOGRAFIA
17. Elenco i principali lavori del Tusiani:
Poesia:
Amedeo di Savoia, Poemetto in isciolti. Pref. del P. Ciro Soccio, Santa Agata
di Puglia, Tip. « Casa del S. Cuore », 1943.
Flora (liriche). New York, Prompt Press, 1946.
Amore e morte (liriche). San Marco in Lamis, Tip. G. Caputo, 1946.
Petali sull'Onda Poesie. New York, Euclid Publishing Co., 1948.
Peccato e Luce (liriche). Pref. di Cesare Foligno. New York, The Venetian
Press, 1949.
Làcreme e sciure (poesie in vernacolo garganico). Pref. di T. Nardella.
Pubblicato dalla Società di Cultura « M. De Bellis » di San Marco in
Lamis. Foggia, Stab. Tip. Cappetta, 1955.
Melos Cordis (poesie in latino). New York, The Venetian Press, 1955.
Lo Speco Celeste (odi). Siracusa-Milano, Ed. Ciranna, 1956.
Odi Sacre. Pref. di A. Galletti. Siracusa-Milano, Ed. Ciranna, 1957.
M'ascolti tu, mia Terra? Ode al Gargano. Quaderni de « Il Gargano », n. 5,
Foggia, Stab. Tip. Cappetta, s. d. (1957).
Rind and All. Fifty Poems. New York, The Monastine Press, 1962.
The Fifth Season. Poems. New York, Obolensky, 1964.
Numerose altre poesie, per la maggioranza in inglese, sono sparse
in vari periodici anglosassoni.
Prosa:
Dante in Licenza (romanzo). Verona, Ed. Nigrizia, 1952.
Envoy from Heaven (romanzo). New York, Obolensky, 1965. Tradotto in
italiano col titolo: Dal cielo « inviato speciale ». Trad. Adriana Valente.
Roma, Ed. Presenza, 1966.
Dante's Inferno. As told for young people. New York, Obolensky, 1965.
Dante's Purgatorio. As told for young people. New York. Astor-Honor,
1968.
58
Quarrel in a Cemetery (« Lite al cimitero » - novella), in « La Parola del
Popolo » (Chicago), Luglio-Agosto 1971, pp. 109-112.
Traduzioni:
Wordsworthiana (poesie del Wordsworth tradotte in italiano). Intr. Di
Alfredo Galletti. New York, The Venetian Press, 1952.
The Complete Poems of Michelangelo. New York, Noonday Press, 1960.
Testo adottato dall'UNESCO.
Lust and Liberty. The Poems of Machiavelli. New York, Obolensky, 1963.
T. TASSO, Jerusalem Delivered (« Gerusalemme liberata »), Rutherford,
Fairleigh Dickinson U. P., 1970.
G. BOCCACCIO, Nymphs of Fiesole (« Ninfale fiesolano »), Rutherford,
Fairleigh Dickinson U. P., 1971.
T. TASSO, The Tears of the Blessed Virgin - The Tears of Christ (« Le
lagrime della Beata Vergine - Le lagrime di Cristo »), in « Italian
Quarterly », XV: 57, pp. 87-99.
Italian Poets of the Renaissance (antologia). New York, Baroque Press,
1971.
The age of Dante (antologia). New York, Baroque Press, 1974.
From Marino to Marinetti (antologia). New York, Baroque Press, 1974.
Saggi:
La poesia amorosa di Emily Dickinson. New York, The Venetian Press,
1950.
Poesia missionaria in Inghilterra e in America. Storia critica e antologica.
Verona, Editrice Nigrizia, 1953.
Sonettisti americani. Intr. di Frances Winwar. Chicago, Division
Typesetting Co., 1954.
David Gray and Sergio Corazzini: a Parallel, in « English Miscellany » - A
Symposium of History Literature and the Arts, Editor M. Praz,
Roma, Ed. di Storia e Letteratura, 1958, pp. 315-328.
The Translating of Poetry, in « Thought » (New York), Autumn 1963, p.
375-390.
Influenza cristiana nella poesia negro-americana (con una antologia di poeti
negri tradotti dallo stesso autore). Bologna, Ed. Nigrizia, 1971.
Inoltre, i volumi di traduzioni sopra elencati contengono ampi saggi
introduttivi.
18. Dopo aver anzitutto rimandato al volume Who's Who in America
(A Biographical Dictionary of Notable Living Men and Women) MarquisWho's Who, Inc., Chicago, I11., s.v. TUSIANI Joseph, dò, qui di seguito,
una serie di sfritti critici sull'opera del Tusiani. Utile sarà, intanto, leggere le
prefazioni di C. Foligno a Peccato e Luce e di A. Galletti alle Odi Sacre.
59
Si possono poi vedere:
P. BARGELLINI, Pian dei Giullari, Firenze, Vallecchi, 1951 (3a ed. 1965),
vol. 3, p. 401. G. D'ADDETTA, Giornali e giornalisti garganici,
Quaderni de « Il Gargano », n. 1, Foggia, Cappetta, 1952, p. 42. «
Il Foglietto » (Foggia), anno XLII (nuova serie), n. 20. P.
SORRENTI, La Puglia e i suoi poeti dialettali, Bari, De Tullio, 1962, p.
265. T. NARDELLA, Il vernacolo non muore, nel numero unico locale
« Impegno », (San Marco in Lamis, 20 sett. 1964, pp. 28-30; è
riportata una poesia inedita, in vernacolo). N. FIORELLI, Un
romanzo su Dante di Giuseppe Tusiani, in « Il Progresso ItaloAmericano », 23 maggio 1965, p. 3. C. BASIM, Raccolta di critiche e
cronache d'arte, Roma 1971, pp. 235-239 e pp. 255-256. C. SIANI,
Joseph Tusiani traduttore del Tasso, in « La Parola del Popolo »
(Chicago), n. 113, Sett.-Ott. 1972, pp. 57-59. C. SIANI, Intervista
con J. Tusiani, in « Stampa di Puglia » (Foggia), 7.XI. 1973, p. 5.
Su Sonettisti americani si diffondo L. Fiumi, in « Corriere Mercantile »
(Genova), 10 ago. 1954, p. 3; C. Foligno nell'elzeviro Duro a morire in « Il
Mattino », 17 sett. 1954, p. 3 e A. Galletti, in « La Fiera Letteraria », 3
ott. 1954, p. 5.
La traduzione delle poesie di Michelangelo è recensita in « Spirit »
(P. E. Memmo Jr.), January 1961, pp. 179-182, e in « Cesare Barbieri
Courier », III, pp. 21-23.
Recensioni di Rind and All sono in « Spirit » (A. M. Sullivan), July
1962, pp. 88-91, e in « The Catholic World » (B. M. Kelly), May 1962,
pp. 125-126.
Lust and Liberty, la traduzione inglese di tutti i versi di Machiavelli,
è recensito in « The Catholic World » (R. J. Iannucci), Dec. 1963, e in «
Italica » (A. Paolucci), September 1964, pp. 343-345.
Recensione di The Fifth Season è in « Spirit » (J. Duffy), January
1965, pp. 176-178.
Sul romanzo Envoy from Heaven, oltre al già citato, vasto articolo di
N. Fiorelli, troviamo una recensione in « The Catholic World » (A.
Duprey), 1965, pp. 408-410.
La versione inglese della Gerusalemme si trova recensita in: « Forum
Italicum » (P. F. Angiolillo), 1970, pp. 613-616; « Annali » dello Ist.
Univ. Orientale di Napoli, sez. germanica (F. Ferrara), 1970, pp. 340342; « Italian Quarterly » (W. J. Kennedv), XV: 58-59, pp. 99100; «
Renaissance Quarterly » (C. P. Brand), Spring 1972, pp. 89-91; « Italica »
(K. J. Atchity), Summer 1972, pp. 257-259; « Studi Tassiani » (C. Siani),
1972, pp. 169-176.
Sulla traduzione dei poeti italiani del Rinascimento si trovano
recensioni in « Italian Quarterly » (W. J. Kennedy), XVI: 62-63, pp. 138142; « Italica » (F. Cerreta), Autumn 1973, pp. 449-451; « Renaissance
Quarterly » (T. Bergin), Autumn 1973, p. 345-347; e, sulle tre antologie,
C. Siani, 7 secoli di poesia italiana in inglese, in « Stampa di Puglia », 17 luglio
1974, p. 4.
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Stampatori e librari a Foggia
dal 1645 al 1741
SOMMARIO: Premessa; I - Lorenzo Valerii stampatore dal 1645 al 1646; II Novello De Bonis stampatore nel 1669; III - Giacomo Migliaccio libraro verso
gli anni 1694-1726; IV - Gaetano Russo libraro nel 1741; - Nicola Giannino legatore di libri nel 1741; Indice degli Scrittori; Bibliografia.
PREMESSA
Spinto dall'amore per la storia della cultura in Provincia di Foggia fin
dalle sue origini, spesso ho raccolto notizie da pubblicazioni e da documenti inediti degni di essere studiati.
Così presento ora in queste pagine quanto mi è stato possibile apprendere
sull'attività degli Stampatori: Lorenzo Valerii e Novello De Bonis, dei Librari: Giacomo Migliaccio e Gaetano Russo di un Legatore di libri: Nicola
Giannino e di un Incisore: F. P., operanti a Foggia dal 1645 al 1741.
Alle brevi notizie sugli Stampatori, segue un cenno bio-bibliografico sugli
Scrittori, quindi la trascrizione in ordine cronologico delle edizioni foggiane con
le caratteristiche tipografiche.
Per ogni singola edizione ritrovata ho creduto opportuno dare notizia degli scritti, per lo più poesie encomiastiche, in latino o italiano, di altri Autori,
nella maggior parte foggiani o della Provincia, inseriti all'inizio o alla fine dell'opera. Ciò per facilitare future e auspicabili ricerche sulla personalità di questi
ormai dimenticati o poco noti nostri Poeti e Scrittori del passato.
Delle edizioni foggiane viene dato inoltre il numero degli esemplari ritrovati, specificando le Biblioteche, che li possiedono, e le relative collocazioni attuali.
Riporto, infine, la bibliografia delle singole edizioni foggiane ritrovate e
non ritrovate, per offrire già un materiale bibliografico a chi vorrà
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interessarsi di una di quelle opere e della sua fortuna nel tempo fino a noi nei settori di
studi relativi alle materie trattate da quelle edizioni.
Sono queste, ripeto, brevi notizie, che, incoraggiato dall'ottimo amico Dott. Angelo Celuzza, Direttore della Biblioteca Provinciale di Foggia, offro a quanti amano la
storia della nostra cultura. Spero, pertanto, che altri vorranno approfondire l'argomento
con uno studio più accurato, ricercando altre e più proficue notizie.
I - Lorenzo VALERII, stampatore
Nato a Roma nel 1588, morto a Trani il 28 giugno 1656.
Si ha una vasta bibliografia su Lorenzo Valerii stampatore romano.
Riassumendo, però, le notizie che si possiedono, si può dire che Lorenzo
Valerii, nato a Roma nel 1588, si trasferì nel 1619 a Trani, dove si sposò
con Livia Pascarellis e pose le basi della sua industria tipografica.
Fu, quindi, operante a Trani dal 1622 al 1635 e contemporaneamente
a Brindisi nel 1627, a Montefusco (Avellino) nel 1636 e 1641, nuovamente a
Trani dal 1637 al 1645, a Foggia dal 1645 al 1646, a Barletta nel 1647, nuovamente a Trani dal 1647 al 1656 e contemporaneamente a Bari in società
con Francesco Zannetti dal 1655 al 1656 1, anno della sua morte avvenuta
in Trani.
Non mi è stato possibile approfondire l'argomento per comprendere
perché Lorenzo Valerii nel 1645 trasferì la sua Tipografia a Foggia; dove
rimase per due anni, stampando le seguenti quattro edizioni: 1) Flavii IUNII, Centum Veneres, Fogiae, 1645; 2) Hyacinthi DE ALPHERIO, Opus, de
modo consultandi, Fogiae, 1646; 3) Recupido MACCHIARELLA, Il salvato
Pupillo, Foggia, 1646; 4) Johannis Mariae SFORTIAE, Selectiora de transnaturali Philosophia, Fogiae, 1646.
Una ipotesi potrebbe essere la fortuna di Foggia in quegli anni, che
vide un buon numero di discreti professionisti riunirsi in un'associazione
culturale, denominata « Accademia dei Volubili di Foggia ». Infatti le Centum
Veneres, di Flavio GIUGNO, furono pubblicate a Foggia nel 1645 per volere del Professore dottore medico fisico Carlo Ciccarello « Julianensis » Accademico Volubile di Foggia; Giacinto ALFIERI, autore dell'Opus, de modo
consultandi, pubblicata a Foggia nel 1646, era Dottore fisico e Accademico
Volubile di Foggia e in questa
1 Antonio GAMBACORTA, Stampatori e Librari a Bari nei secoli XVIXVIII, Tesi di laurea, 1969-1970, Facoltà di Lettere dell'Università degli Studi,
Bari.
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edizione è inserita una bella poesia di « Matteo ROMANO Secretario dell'Accademia de' Volubili di Foggia ». L'Aldimarte sotto il nome di Volubile è il
titolo di uno dei romanzi del Padre Giovanni Maria SFORZA dell'Ordine
dei Frati Minori Conventuali Francescani e Reggente lo Studio Ginnasio di
Foggia e autore dell'opera Selectiora de transnaturali Philosophia, non ritrovata,
ma stampata a Foggia nel 1646 2.
Flavio GIUGNO (Flavius IUNIUS), medico e poeta.
Dal frontespizio delle Centum Veneres, unica opera a me nota, si apprende che Flavio GIUGNO è « Andriensis ». Non ho avuto tempo ed occasione di chiarire le varie discordanti notizie della sua vita; e perciò mi limito a dire che si conoscono per ora esemplari delle seguenti quattro edizioni delle sue Centum Veneres:
a) FLAVII IVNII / ANDRIENSIS / CENTVM VENERES; / SIVE
/ LEPORES. / AD / ILLVSTRISSIMVM DOMINVM / DON FRANCISCVM TVFVM / MARII FILIVM. // FLORENTIAE. / Apud Volckmarum Timan, Germanum. MDCIII. / Superiorum permissu.
b) L'edizione stampata da Lorenzo Valerii a Foggia nel 1645.
c) ERATO, / SEV / CENTVM VENERES. / FLAVIO IVNIO /
CONSVMATAE PERITIAE MEDICO / AVTHORE. / Solertia exindè.
Studio, / Io: Baptistae Iunij Flaui Filij I. C. / Lycien. Patritij. / Formam in
lepidiorem exculta. / Hetrusco demum Carmine. / Per Laelium Iunium Authoris
ex Filio / Nepotem Graphicè Inuersae. / Ad Ilustrissimà Lupiarum Ciuitatem / eiusque Inclytam Tràsformatorum / ACADEMIAM. // Florentiae,
& denuò Lycij 1685. / Apud Petrum Michaelem, Sup. permissu.
d) L'edizione stampata da Michael Richey ad Amburgo nel 1714. Cfr.
D. E. RHODES, A. LVIII (1956), p. 129.
Ho chiesto all'amico Dott. Benedetto Ronchi, Direttore della Biblioteca
Comunale di Trani, una conferma a quanto andavo argomentando, ed egli amichevolmente mi ha detto: « Il fatto che, per l'anno 1646, si conoscano di Lorenzo Valerii
solo edizioni foggiane, potrebbe essere sufficiente per dimostrare che in quello anno
il Tipografo romano trasferì i suoi Torchi nel Capoluogo dauno.
E, fino a quando non verranno fuori opere stampate a Trani nel 1646, una tale tesi non potrà essere confutata ».
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1. - FLAVII IUNII / ANDRIENSIS / CENTVM VENERES, /
SIVE / LEPORES. / In hac secunda Editione purgati à Carolo / Ciccarello Artium Medicinae / Professore.
[Marca tipografica: Idra a sette teste, con motto: « SVPREMO FINE », e
sigla: « L(aurentius) V(alerius) R(omanus) »].
FOGIAE, M.DC.XLV. / Ex Typographia Laurentij Valerij, /
Superiorum Permìssu.
mm. 129 per 95, cc. 8 nn., pp. 1-104, c. 1 nn.
Contiene anche: Epigramma, in latino, del fiorentino Orazio CALANDRIO ; Dedica a D. Adriano Brancia Duca di Roseto, del dottor fisico e accademico volubile Carlo CICCARELLO « Julianensis »; Reimprimatur, di « Andreas DE ROGERIO Archipresbiter Fogiae Deputatus » ; Epigrammi (due), in latino, di « Pauli Francisci NUZZI Altamuràtis Presbiteri
»; Epigramma, in latino, di D. Vincenzo SAVINELLA di Corato; Epigramma, in latino, di « Curtii SCALECTII »; Prefazione, in latino, dell'accademico unito Pandolfa STUFA; Epigramma, in latino, di « D. Joseph VENTURINI Canonici Sypontini ».
Esemplari: 1°) BARI, Biblioteca Nazionale « Sagarriga Visconti
Volpi » (collocazione: 64-A-58. A penna: « Can.co D. Riccardo de Cicco
Appart.e alla Chiesa SS.a Annunciata ». Precedente segnatura a matita: «
C-1-9 ». Copertina in pergamena); 2°) GRUMO APULA (Bari), Biblioteca Comunale « Beniamino D'Amato » (collocazione: 9859. A penna «
Alessandro Rainaldi ». Proviene dalla donazione di Beniamino D'Amato); 3°) NAPOLI, Biblioteca della Società di Storia Patria (collocazione:
S.B.N. IV-F-6); 4°) G. BELTRANI, Vol. IX (1892), p. 373 num. 39, indica un esemplare in « BARI, Biblioteca D'Addosio, collocazione Q-1-30
», che però non sono riuscito a rintracciare.
Bibliografia: F. IUNII, 1645; N. TOPPI, 1678, p. 87; F. IUNIO,
1685; F. IUNII, 1714; R. COLAVECCHIA, 1772, T. II, p. 77; B.
CHIOCCARELLO, 1780, T. I, p. 169; R. D'URSO, 1842, p. 195; R. O.
SPAGNOLETTI, 1891, pp. 38-39; G. BELTRANI, Vol IX (1892), pp.
373-375 num. XXXIX; R. D'ADDOSIO, 1894, p. 305; C. VILLANI,
1904, pp. 445, 449; G. FUMAGALLI, 1905 (1966), p. 156; R. ZAGARIA, 1929, pp. 79-80; R. ZAGARIA, A. VIII (1937), pp. 167-177; D. E.
RHODES, A. LVIII (1956), p. 129; A. CATERINO, 1961, p. 56 num.
III, p. 90 num. 227.
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Giacinto ALFIERI (Hyacinthus DE ALPHERIO), dottore fisico.
Giacinto Alfieri è nato a Deliceto (olim Iliceto), in provincia di Foggia, negli ultimi anni del XVI o nei primi del XVII secolo. Verso il 16281632 era nella sua giovanile età. Infatti il dott. Carlo Ciccarello, nella sua
presentazione « ad lectorem », scrive: « Praetereo alios duos libros multis
non ab hinc (1646) annis ab eodem Authore (Hyacinthus DE ALPHERIO)
sua iuvenili aetate, maxima cum eius gloria in lucem aeditos, alterum de
Peste (De peste..., Typ. Aegidii Longi, Neapoli, 1628), alterum vero de
Calculo, et dolore Nephritico (De praeservatione a colculis..., Ex Typ. Aegidii Longhi, Neapoli, 1632) inscriptos, qui Bibliothecis Neapoli venales extant ».
Dottore fisico e Socio dell'Accademia dei Volubili di Foggia, nel 1646
pubblica la sua terza opera:
2. - HYACINTHI DE ALPHERIO / DOCTORIS PHISICI / ACADEMICI FOGIENSIS VOLVBILIS / OPVS, / DE MODO CONSVLTANDI, / siue vt Vulgus vocat Collegiandi, / In quo non modò variae,
vagaeq(ue) Medicae quaestiones, verùm omnium scientiarum nonnullae / ad
opus spectantes examinantur, / Vnde Physicis pernecessarium, coeterisq(ue) scientificis non / inutile existimandum.
[Stemma di Carlo Guevara Duca di Bovino con le parole « BVEN LADRON » due volte ed il motto: « ANTES MORIR QVE ENCVÇIAR EL BIVIR
» *] .
FOGIAE, Ex Typographia Laurentij Valerii, anno Domini
M.DC.XLVI. / DE CONSENSV DD. SVPERIORVM.
cc. 8 nn., pp. 1-195. Edizione ricca di fregi e lettere ornate.
Contiene anche: Dedica a « D. Carolo De Guevara Bibinensium Duci, Magno Regio Siniscalco », in latino, (Fogiae, idibus Iunij 1646) ; Saluto,
in latino, di Carlo GUEVARA Duca di Bovino; Presentazione, in latino, di
« Carolus CICCARELLUS Iulianensis Medicus Physicus »; Imprimatur, di
Onofrio GILIBERTO (Neapoli, die 20. Februarij 1646), di « Fr. Thomas
ANGIULLO Nucensis Baccalaurius Ord. Praed. ac Prior S. Dominici Foggiensis » (Foggiae, die 10. Maij 1646) e di « Andreas DE ROGGERIO Archipresbyter Foggiae Deputatus » ; Poesie (tre), in latino, di « Donatus ZIZZI Presbyter Ilicetanus » ; Hexasticon, in
vivere.
* Sic per: Antes morir que ensuciar el vivir = piuttosto morire che insozzare il
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latino, di « D. Vincentii SAVINELLAE a Corato »; Poesia, di « Matteo
ROMANO Secretario dell'Accademia de' Volubili di Foggia »; Sonetto, di
« D. Donato ZIZZI da Ilicito » ; Sonetto, di « D. Giuseppe FORMOSA
d'Ilicito »; Errata corrige, in latino.
Esemplare: 1°) LONDON (G.B.), British Museum (collocazione:
776.1.2).
Bibl.: N. TOPPI, 1678, p. 106; G. M. MAZZUCHELLI, 1753,
Vol. I, P. I, p. 476; B. CHIOCCARELLO, 1780, T. I, p. 221; E. D'AFFLITTO, 1782, pp. 233-234 num. CXIX; G. BELTRANI, Vol. IX
(1892), p. 375 num. XLII; C. VILLANI, 1890, p. 7; C. VILLANI, 1904,
pp. 22-23; D. E. RHODES, A. LVIII (1956), p. 130 num. 2; D. E.
RHODES, A. LXI (1959), pp. 53-54; A. CATERINO, 1961, p. 57 num.
115; P. SORRENTI, 1965, p. 66; R. FRATTAROLO, 1967, p. 68; M.
LARATRO, A. VI (1968), P. I, p. 161.
Recupido MACCHIARELLA, commediografo.
Niccolò Toppi, nel 1678, è il primo a dare notizia della seguente
edizione foggiana, ancora introvabile, forse per qualche errore nella trascrizione del nome dell'autore « Recupido Macchiarella, di Sanseverino,
Diocesi di Salerno ». Infatti di questo commediografo non si ha altra
notizia.
3. - RECUPIDO MACCHIARELLA, di Sanseverino, Diocesi di
Salerno, diede alla stampa:
il salvato Pupillo, commedia,
in Foggia, appresso Lorenzo Valerii, 1646, in 12° », cfr. N. TOPPI,
1678, p. 336.
Edizione non ritrovata.
Bibl.: N. TOPPò, 1678, p. 336; F. S. QUADRIO, 1744, Vol. III,
Libro II, p. 105; G. BELTRANI, Vol. IX (1892), p. 375 num. XLI ; D.
E. RHODES, A. LVIII (1956), p. 130 num. 3; A CATERINO, 1961, p.
57 num. 116; R. FRATTAROLO, 1967, p. 68; M. LARATRO, A. VI
(1968), P. I. p. 161.
Giovanni Maria SFORZA (Johannes Maria SFORTIA), dell'Ordine dei Frati
Minori Conventuali Francescani, Dottore e Maestro di « Artium et Sacrae Theologiae ».
Giovanni Maria Sforza è nato a Palagiano, in provincia di Taranto,
nei primi anni del secolo XVII; si hanno sue notizie dal 1646 al 1664.
Vestì l'abito dell'Ordine dei Frati Minori Conventuali Francescani
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e fu Padre, Maestro di « Artium et Sacrae Theologiae », Definitore perpetuo
della Provincia monastica di San Nicola e Reggente lo Studio Ginnasio di
Foggia, dove abbiamo testimonianza risiedeva il 30 gennaio 1655; mentre il
24 marzo 1660 era a Lecce.
Nella sua opera: Scotum corroboratum ex contradictionibus Scholae adversae...,
Typ. P. Michaelis, Lycii, 1661, pubblica il seguente catalogo di sue « Opera
edita in lucem : - Romanzi: L'Aldimarte sotto il nome di Volubile. L'Eromilia ravvisata. Il decollato innocente. La Dorosolinda. Il Pellegrino. La Floridea, (Tip. C. Cavallo, Napoli, 1658). L'Apostolo di Iapigia discorso panegirico sopra il glorioso Sant'Orontio, (Appresso P. Micheli, Lecce, 1660). Selectiora de Physico auditu. Selectiora de transnaturali Philosophia, (Typ. Laurentii Valerii, Fogiae, 1646). Tractatus
de caelo et mundo. Scotus jurista, (Typ. P. Michaelis, Lycii, 1659).
E dice che nel 1661 aveva inoltre le seguenti opere inedite: - Tractatus
de ortu, et interitu. Tractatus de anima. L'Adriano, che seguita l'Aldimarte. La Chiave
della Dorosolinda.
Nel catalogo delle sue opere non riporta le: Meteorologicae lucubrationes ex
Aristotelis Meteororum libris, desumptae ad mentem subtilissimi Doctoris Ioannis Duns
Scoti. Authore P.M. Io: Maria SFORZA, Typis C. Cavalli, Neapoli, 1655;
mentre allo stesso catalogo possono essere aggiunti gli: Aphorismi pro confessariorum aliorumque utilitate, ex quatuor Scoti Sententiarum libris colletti. Authore Fr.
Ioanne Maria SFORTIA, Apud Petrum Michaelem, Lycii, 1664.
4. - « Selectiora de transnaturali Aristotelis Philosophia ad mentem Doctoris subtilis, Opus Johannis Mariae SFORTIAE 3.
Fogiae, Typis Laurentii Valerii, 1646 », cfr. G. BELTRANI, Vol. IX
(1892), p. 375 num. XL.
Edizione non ritrovata.
Bibl.: J. H. SB AR ALEAE, (1806, p. 439), 1921, P. I I (I - Q),
p. 101; G. B ELT R ANI , Vol. I X (1892), p. 375 num. XL; L.
WADDI NGUS, 1906, p. 144; A. CAT ER I NO, 1961, p. 58 num.
120; R . FR AT T AR OLO, 1967, p. 68.
3 Secondo il suddetto catalogo delle opere fino al 1 6 6 1 , riportato dallo stesso
Giovanni Maria Sforza, il titolo di quest'opera dovrebbe essere invece: Selectiora de
transnaturali Philosophia.
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71
II - Novello DE BONIS, stampatore
Operante a Napoli e a Foggia, notizie dal 1660 al 1688.
Antonio Caterino, nel 1961, scrive: « A Foggia operò il tipografo
Novello De Bonis, sul conto del quale, però, non si hanno sufficienti notizie ».
Di Novello De Bonis, comunque, sappiamo che già nel 1660 stampava a Napoli. Nel 1669 si trasferisce a Foggia, dove stampa le tre edizioni: 1)
Domenico Antonio GUELFONE, Orazione ...per la Festa dell'Icona Vetera, In Foggia, 1669; 2) Francesco Antonio MATTEI, Della scherma napoletana, Discorso primo, In Foggia, 1669 ( ? ), 3) Francesco Antonio MATTEI,
D'ella scherma napoletana, Discorso primo (seconda impressione) e Discorso
secondo, In Foggia, 1669. Poi torna a Napoli, dove stampa numerose edizioni dal 1670 (La falsa Astrologia, di Rafaele TAURO Bitontino) al 1688 (La
Incoronata, poema sacro, di Matteo ROMANO, già incontrato nel 1646, quale « Secretario della Accademia de' Volubili di Foggia »).
Riporto, intanto, una notizia dell'attività di questo Stampatore, letta
nella sua comunicazione: « Lo Stampatore a chi legge », pubblicata nella «
seconda impressione » Della scherma napoletana di F. A. MATTEI, del
1669. Egli scrive: « ... Se per l'addietro (amicissimo mio Lettore) co'l darti
alle mani Opre sì varie de' famosissimi ingegni, hò supposto render la tua brama in qualche segno giuliva: Hoggi sì, ch'Io non dubito d'havertila arricchire
pienamente di giubilo; avvegnache son à presentarti una Gioia, che non hà
prezzo... ».
Domenico Antonio GUELFONE, Monaco Celestino dell'Ordine di San Benedetto, oratore e poeta.
Domenico Antonio Guelfone è nato a Foggia ed è stato « Monaco
Celestino dell'Ordine di San Benedetto ».
Oratore e poeta, il 15 agosto 1669, per la Festa di Santa Maria dell'Icona Vetera, tenne nella Chiesa Maggiore di Foggia l'Orazione, che fu nello
stesso anno stampata a Foggia da Novello De Bonis.
5. - ORAZIONE / DEL MOLTO REVER(ENDO) PAD(RE) /
D(ON) DOMENICO ANTONIO / GUELFONE DA FOGGIA, / Monaco Celestino dell'Ordine di S. Benedetto. / Detta l'Anno
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M.DC.LXIX. nella Chiesa Maggiore / della Città di FOGGIA, per la Festa
dell'ICONA / VETERA, cioè d'vna antichissima Immagine / di N(ostra)
Signora MARIA sotto il detto titolo / Protettrice di detta Città, che si celebra li / 15. Agosto. // DEDICATA / All'Illustriss. Sig. / GIO: GIROLAMO / DE PHILIPPO / Barone di Miano, e Mianello, Consigliere, e / Presidente della Regia Camera, e / Gouernatore Generale della / Dohana di
Puglia. //
[Fregio di quattro vasetti con fiori]
In Foggia, Per Nouello de Bonis. M.DC.LXIX. /Con Licenza de' SS.
Superiori.
mm- 193 per 138, cc. 28 nn., pp. 1-40 (l'ultima con l'incisione raffigurante la Madonna con Gesù Bambino).
Contiene anche: Prefazione, di Giuseppe TAFURI e Domenico
STANCO; Poesie (quattro), in latino, e Sonetti (quindici), di « D. Donati ZIZI Canonici Ilicetani »; Elegia ed Epigramma, in latino, di « D. Dominici
VERDERESIJ Canonici Fogiani S(acrae) T(heologiae) Profess. »; Decasticon,
in latino, dell'« U.I.D. Donati Antonij MEULA Fogiani »; Poesie (sette), in
latino, di « D. Joseph Nicolaus PRETIOSA »; Epigrammi (due), in latino, di
« D. Honufrij NUZZI »; Ode ed Epigrammi (due), in latino, del « Clerici
Francesci DOLPHI à Fogia » ; Epigramma ed Elegia, in latino, del « Clerici
Josephi LONGHI »; Poesia, in latino, di « D. Joseph QUINTO Sacerdotis »;
Epigramma, in latino, di « D. Nicolai SACCHETTI Fogiani »; Epigramma, in
latino, di D. Bartholomaei DE ANGELIS Fogiani »; Epigramma, in latino, di
« D. Joseph DE ANGELIS Fogiani » ; Sonetto, del « Sig. Abbate Giuseppe
Francesco LOMBARDI Canonico di Foggia » ; Sonetto, del « Sig. D. Gio
Tomaso ROTONDI »; Sonetti (due), del « Sig. Andrea VRGNANI »; Sonetto,
del « P. D. Andrea Telera Chierico Regolare ».
Esemplari: 1°) LUCERA (Foggia), Biblioteca Comunale (collocazione:
5007-22-2 Stilla prima carta a penna: «M.se Scassa»); 2°) BARI, Biblioteca Famiglia Gambacorta (Alcune annotazioni a penna e sul frontespizio: « L'Autore a D.
Vito Gambacorta de' M.si di Celenza »); 3°) NAPOLI Biblioteca della Società di
Storia Patria (collocazione: S.B.N. XV-E-9).
Bibl.: C. VILLANI, 1890, p. 9; C. VILLANI, 1904, p. 48; A. CATERINO, 1961, pp. 77-78 num. 190; M. LARATRO, A. VI (1968), P. I,
p. 161.
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Francescantonio MATTEI (Franciscus Antonius MATTHEIS), scrittore di scherma
e poeta.
Francescantonio Mattei ci è noto per mezzo della sua opera Della
scherma napoletana, stampata da Novello De Bonis nel 1669 a Foggia; e forse
per questo Niccolò Toppi, nel 1678, lo disse foggiano. Egli comunque data
e firma la dedica dell'opera a Don Giovanni D'Avalos Principe di Troia: «
Troia 16. di Luglio 1669. Di V.E. Deuotiss. et Obblig. Ser(vo) vero Francesc'Antonio Mattei ».
Nella premessa, « Lo Stampatore a chi legge », è scritto: « ...L'Auttore
per incontrare assai più le tue soddisfattioni, che per secondar le mie istanze, si è affaticato purgare il primo Discorso, et esporlo al Torchio (della Stampa) con l'emenda degl'errori occorsi nella impressione, colla corretione di
diuerse parole, et abbellimento di molti periodi; Di modo che se il mentouato Discorso (primo) sarà peruenuto in tuo potere diuiso dal (Discorso) secondo, contentati di condannarlo per sempre alle fiamme, e compatisca cordialmente l'Auttore ; Conciosiache come aborto dell'ingegno, et in abozzo
diedelo a chi glelo chiese, e poscia contro sua voglia fù mandato alla luce
dal medesimo comandante. In segno d'vn affetto reciproco, altro Io non
chiedo, che l'essermi ammesse dalla tua cortesia le cennate discolpe, di che
in nome dell'Auttore istantemente la priego, et ad esser vn pò restio nel
censurarmi di botto, se per sorte t'inciamperai in qualche errore... ».
Gli esemplari attualmente reperibili appartengono alla « seconda impressione », cioè all'opera completa del Discorso primo e del Discorso secondo.
6. - DELLA / SCHERMA / NAPOLETANA / DISCORSO PRIMO, / Doue / SOTTO IL TITOLO DELL'/IMPOSSIBILE POSSIBILE
/ SI PROVA CHE LA SCHERMA / Sia Scienzia, e non Arte. / Si danna le
vere Norme di spada, e / Pugnale. / DEL SIGNOR / FRANCESCO ANTONIO / MATTEI / SECONDA IMPRESSIONE.
[Fregio con al centro vasetto e fiori]
IN FOGGIA, / Per Nouello de Bonis. M.DC.LXIX. / Con Licenza
de' SS. Superiori.
- DELLA / SCHERMA / NAPOLETANA, / DISCORSO SECONDO, / DOVE / SI DANNO LE VERE NORME / DI SPADA SOLA / DEL SIGNOR / FRANCESCO ANTONIO / MATTEI.
[Fregio di tre vasetti e fiori]
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IN FOGGIA, / Per Nouello de Bonis, M.DC.LXIX. / Con Licenza de’ SS.
Superiori.
mm. 148 per 90, cc. 20 nn., pp. 1-70 (Discorso Primo), pp. 73-136 (Discorso Secondo), c. 1 nn. Alla c. 2 nn. bella incisione, raffigurante un Angelo con
palma e tromba, un Guerriero, Stemma gentilizio e le iniziali dell'incisore:
F. P.
Contiene anche: Dedica a Don Giovanni D'Avalos Principe di Troia
(Troia 16. di Luglio 1669) ; « L'Autore a chi legge » ; « Lo Stampatore a chi
legge »; Sonetti (tre), di Francesco Antonio MATTEI; Epigramma, in latino, e
Sonetti (tre), di « D. Francesci MARINI V.I.D.» Sonetto, del « Caualier (Giuseppe) ARTALE »; Sonetti (due), del « Dottor Sig. Gio. Domenico IANNELLI »; Sonetto, di Carlo NENGIA; Sonetto, di Francesco RUGGIERO ;
Sonetto, di Tomaso PAGANO; Hexasticon, in latino, e Sonetto, di Gio. Giacomo LAUAGNA; Sonetto, del Dott. Isidoro CALISTO ; Poesie (due), in
latino, e Sonetti (due), del Dottor Domenico SURRENTINI ; Epigramma, in
latino, di « D. Ignatii FVSCHI V.I.D. Archipresbyteri S(ancti) Thomae Apostoli Ciuitatis Foggiae »; « D. Ignatius FUSCUS Archipresbyter Divi
Thomae videat, et referat. / Datum Foggiae die 26. Julij 1669. / D. Io. Baptista DE ANGELIS Vic. Generalis ».
Esemplari: 1°) LUCERA (Foggia), Biblioteca Comunale
(collocazione: 8769-35-5. Esemplare mutilo delle prime 4 cc.nn. e cioè
mancante dell'incisione e del frontespizio ed anche delle pp. 15-16.
Proveniente dal Convento dei Minori Osservanti); 2°-4°) NAPOLI,
Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III» (collocazioni: XLIV-1-83,
esemplare proveniente dalla Biblioteca del Museo della Certosa di San
Martino di Napoli, ex collocazione 11.a.121 ; B. Prov. V-251, esemplare
mutilo delle prime 3 cc.nn. e cioè mancante dell'incisione, proveniente dalla
Biblioteca Provinciale di Napoli, Fondo Pizzofalcone, ex collocazione 98H; XXXV-A-24, esemplare mutilo delle prime 3 cc.nn. e cioè mancante
dell'incisione); 5°) NAPOLI, Biblioteca della Società di Storia Patria
(collocazione: S.B.N. I-E-17. Sulla c. 2 nn., a penna: « Michael Roglieri »).
Bibl.: N. TOPPI, 1678, p. 98; L. GIUSTINIANI, 1793, p. 185; C.
VILLANI, 1890, p. 51; C. VILLANI, 1904, p. 600; G. FUMAGALLI,
1905, (1966), p. 156 D. E. RHODES, A. LVIII (1956), p. 130 num. 4; A.
CATERINO, 1961, p. 78 num. 192; R. FRAT'TAROLO, 1967, p. 68.
76
III - Giacomo MIGLIACCIO, libraro
Residente a Foggia verso gli anni 1694-1726.
Leggendo Giovanni ROSSI, Della vita di Mons. Emilio Giacomo Cavalieri Vescovo di Troia, Presso Carlo Salzano e Francesco Castaldo Soci, Napoli, 1741, a pagina 321, ho trovato la seguente notizia: Mons. Emilio Giacomo Cavalieri Vescovo di Troia (1694-1726) cercava sempre di combattere
ogni azione deleteria dell'« amor profano »; un esempio possiamo leggere «
nella Relazione del Signor Giacomo MIGLIACCIO Librajo in Foggia.
Dice questi, che in tempo della gran Fiera, che nel mese di Maggio in
quella Città (di Foggia) con concorso grande di Mercadanti si fa, temendo
che fra de' libri, i quali vi si portano a vendere, vi capitassero di que' tanti,
che scritti a dettatura del sozzo Asmodeo, tanto han corrotto, e seguitano a
corrompere la Gioventù Cristiana, era chiamato dal nostro Vescovo, ed
ordinavagli, che visitasse le Librerie, che si esponevano venali, e se vi trovasse libri da recar danno, ce lo avvisasse; e che una volta ritrovò una quantità grande di Pastorfidi (opera che hà date al Lupo infernale tante anime a
divorare); ed egli tosto che seppe, adunatili tutti, dissegli: - pagateli di mio
denaro, per non far restare quei poveri rivenditori con danno; ma avvisate loro,
che non mai più di questi e simili quà ne portino; perché altrimenti perderanno la
spesa. Cosí e' fece, e recatigli a lui, li buttò ad ardere tutt'insieme nel fuoco; e
facendosi quegli maraviglia di tanto danajo volontariamente perduto: - Giacomo mio, dissegli, questo danajo, che voi chiamate perduto, mi ha ricomprato
prima di perderle le Anime di quei poveri giovani, e forse ancora di Religiose claustrali, che tal libri leggendo, con offesa grande di Dio, si sarebbero rovinate ».
IV - GAETANO RUSSO, libraro
Nato verso il 1709, residente a Foggia nel 1741.
Di Gaetano Russo fu Michele, libraro a Foggia nel 1741, ho trovato
la seguente inedita notizia:
« Fuoco num. 785. Gaetano Russo, quondam Michele, Libraro, d'anni
32.
Chiara di Maria, moglie, d'anni 40; Marianna, figlia, d'anni 7; Isabella,
figlia, d'anni 5; Giuseppe, figlio, d'anni 1.
77
Testa, once 1. Industria, once 14.
Esercita l'industria di vendere libri, valutato il lucro in annui ducati
trenta, sono once 100.
In tutto sono once 114.
Abita in Casa a' pigione. Non possiede altri beni », Catasto onciario di
Foggia dell'anno 1741, fol. 104. Archivio di Stato, Napoli, Vol. 7040.
V. - Nicola GIANNINO, legatore di libri
Nato a Napoli, residente a Foggia nel 1741.
Di Nicola Giannino fu Giuseppe, legatore di libri a Foggia nel 1741,
ho trovato la seguente inedita notizia:
« Forastieri abitanti laici a Foggia.
Fuoco num. 2556. Nicola Giannino di Napoli, quondam Giuseppe,
Legalibri, (nota posteriore a margine: « morto »).
Laura D'Alfonzo, moglie, d'anni 30; Raffaele, figlio, d'anni 9; Isabella, figlia, d'anni 6 ; Vincenzo, figlio, d'anni 1.
Possiede una baracca, avanti il Regio Epitaffio, attigua a quella che
possiede per metà con Vittoria Turto Socera, colla rendita di carlini ventotto. Controposti alla sua abitazione », Catasto onciario di Foggia dell'anno
1741, fol. 477v. Archiviol di Stato, Napoli, Vol. 7040.
ANTONIO GAMBACORTA
78
INDICE DEGLI SCRITTORI
Gli Scrittori preceduti dal segno (*) sono gli Autori di alcune poesie o prose pubblicate all'inizio o alla fine di Opere altrui precedute dallo
stesso segno (*).
I numeri e le date rimandano all'elenco delle « Edizioni foggiane
del secolo XVII ».
ALFIERI (DE ALPHERIO) Giacinto, nato a Deliceto (Foggia), notizie
dal 1628 al 1646, Dottore fisico, Accademico Volubile di Foggia,
poeta: 2 (1646).
*
ANGIULLO Tommaso, nato a Noci (Bari), Padre e Priore di San
Domenico a Foggia nel 1646, notizie fino al 1656: *2 (G. ALFIERI, 1646).
*
ARTALE Giuseppe, « Arctorii in Sicilia natus », notizie dal 1660,
morì nel 1679, Cavaliere, Principe dell'Accademia degli Erranti di
Napoli, commediografo e poeta: * 6 (F. A. MATTEI, 1969).
*
CALANDRIO Orazio, fiorentino, poeta in latino: * 1 (G. GIUGNO, 1645).
*
CALISTO Isidoro, notizie nel 1669, poeta: * 6 (F. A. MATTEI,
1669).
*
CICCARELLO Carlo, « Julianensis », notizie dal 1645 al 1646, Dottore fisico, Accademico Volubile e Rettore della Confraternita dei
Morti di Foggia: * 1 (F. GIUGNO, 1645); * 2 (G. ALFIERI, 1646).
*
DE ANGELIS Bartolomeo, nato a Foggia, notizie dal 1631 al 1669,
Avvocato e poeta in latino: * 5 (D. A. GUELFONE, 1669).
*
DE ANGELIS Giovanni Battista, Vicario Generale della Chiesa
Maggiore di Foggia nel 1669: * 6 (F. A. MATTEI).
*
DE ANGELIS Giuseppe, nato a Foggia, notizie nel 1669, poeta in
latino: * 5 (D. A. GUELFONE, 1669).
*
DE BONIS Novello, notizie dal 1660 al 1688, stampatore: * 6 (F.
A. MATTEI, 1669).
*
DE ROGERIO Andrea, notizie dal 1645 al 1646, Arciprete di Foggia: * 1 (F, GIUGNO, 1645); * 2 (G. ALFIERI, 1646).
*
DOLFI (DOLPHI) Francesco, nato a Foggia, notizie nel 1669,Chierico, poeta in latino: * 5 (D. A. GUEI,FONE, 1669).
*
FORMOSA Giuseppe, nato a Deliceto (Foggia), notizie nel 1646,
poeta: * 2 (G. ALFIERI, 1646).
79
*
FUSCO (FUSCUS, FUSCHI) Ignazio, notizie nel 1669, Arciprete di
San Tommaso Apostolo di Foggia, « U.I. Doctor », poeta in latino: *
6 (F. A. MATTEI, 1669).
*
GILIBERTO Onofrio, natoa Solofra ( Avellino), notizie dal 1644 al
1664, Dottore e commediografo: * 2 (G. ALFIERI, 1646).
GIUGNO (IUNIUS) Flavio, nato ad Andria (Bari), notizie dal 1603, morto verso il 1621, Medico e poeta in latino: 1 (1645).
*
GUEVARA Carlo, notizie nel 1646, Duca di Bovino (Foggia): * 2
(G. ALFIERI, 1646).
GUELFONE Domenico Antonio, nato a Foggia, notizie nel 1669, Monaco Celestino dell'Ordine di San Benedetto, oratore: 5 (1669).
*
JANNELLI (GIANNELLI) Gio. Domenico, notizie nel 1669, Dottore e poeta: * 6 (F. A. MATTEI, 1669).
*
LAVAGNA Gio. Giacomo, nato a Napoli, notizie dal 1669 al 1671,
giureconsulto e poeta: *6 (F. A. MATTEI, 1669).
*
LOMBARDI Giuseppe Francesco, notizie nel 1669, Abate, Canonico di Foggia, poeta: * 5 (D. A. GUELFONE, 1669).
*
LONGO (LONGHI) Giuseppe, notizie nel 1669, Chierico e poeta
in latino: * 5 (D. A. GUELFONE, 1669).
MACCHIARELLA Recupido, nato a Sanseverino (Salerno), notizie nel
1616, commediografo: 3 (1646).
*
MARINI Francesco, notizie nel 1669, « U.I. Doctor », poeta in
latino e italiano: * 6 (F. A. MATTEI, 1669).
MATTEI Francesco Antonio, residente a Troia (Foggia) nel 1669, scrittore di scherma e poeta: 6(1669).
*
MEULA Donato Antonio, nato a Foggia, notizie nel 1669, « U.I.
Doctor » e poeta in latino: * 5 (D. A. GUELFONE, 1669).
*
NENGIA Carlo, notizie nel 1669, poeta: *6 (F. A. MATTEI, 1669).
*
NUZZI Paolo Francesco, nato ad Altamura (Bari), notizie nel 1645,
« Altamurâtis Presbiter », poeta in latino: * 1 (F. GIUGNO, 1645).
*
NUZZI Onofrio, notizie nel 1669, poeta in latino: * 5 (D. A.
GUELFONE, 1669).
*
PAGANO Tommaso, notizie nel 1669, poeta: * 6 (F. A. MATTEI,
1669).
*
PREZIOSA (PRETIOSA) Giuseppe Nicola, notizie nel 1669, poeta
in latino: * 5 (D. A. GUELFONE, 1669).
80
*
QUINTO Giuseppe, notizie nel 1669, Sacerdote e poeta in latino:
* 5 (D. A. GUELFONE, 1669).
*
ROGERIO, ROGGERIO (DE), cfr. DE ROGERIO Andrea.
*
ROMANO Matteo, notizie dal 1630 al 1688, Segretario dell'Accademia dei Volubili di Foggia nel 1646, poeta: * 2 (G. ALFIERI,
1646).
*
ROTONDI Gio. Tommaso, notizie nel 1669, poeta: * 5 (D. A.
GUELFONE, 1669).
*
RUGGIERO Francesco, notizie nel 1669, poeta: * 6 (F. A. MATTEI, 1669).
*
SACCHETTI Nicola, nato a Foggia, notizie nel 1669, poeta in latino: * 5 (D. A. GUELFONE, 1669).
*
SAVINELLA Vincenzo, nato a Corato (Bari), notizie dal 1645 al
1646, poeta in latino: * 1 (F. GIUGNO); * 2 (G. ALFIERI,
1646).
*
SCALETTIO (SCALECTIUS) Curzio, notizie nel 1645, poeta in
latino: * 1 (F. GIUGNO, 1645).
SFORZA (SFORTIA) Giovanni Maria, nato a Palagiano (Taranto), notizie dal 1646 al 1664, Padre dell'Ordine dei Frati Minori Conventuali Francescani, Dottore e Maestro di « Artium et Sacrae Theologiae » : 4(1646).
*
SORRENTINI (SURRENTINI) Domenico, notizie nel 1669, Dottore e poeta: * 6 (F. A. MATTEI, 1669).
*
STANCO Domenico, notizie nel 1669: * 5 (D. A. GUELFONE,
1669).
*
STUFA (STUPHA) Pandolfo, notizie nel 1603, Accademico Unito: * 1 (F. GIUGNO, 1645).
*
TAFURI Giuseppe, notizie nel 1669: * 5 (D. A.,GUELFONE,
1669).
*
TELERA Andrea, notizie nel 1669, Chierico Regolare e poeta: *
5 (D. A. GUELFONE, 1669).
*
VRGNANI Andrea, notizie nel 1669, poeta: * 5 (D. A. GUELFONE, 1669).
*
VENTURINI Giuseppe, notizie nel 1645, Canonico Sipontino,
poeta in latino: * 1 (F. GIUGNO, 1645).
*
VERDERESIO Domenico, notizie nel 1669, Canonico Foggiano,
Teologo e poeta in latino: * 5 (D. A. GUELFONE, 1669).
*
ZIZZI Donato, nato a Deliceto (Foggia), notizie dal 1646 al
1669, « Presbyter et Canonicus Ilicetanus », poeta in latino e
italiano: * 2 (G. ALFIERI, 1646); * 5 (D. A. GUELFONE,
1669).
81
BIIBLIOGRAFIA
Giovanni BELTRANI, Lorenzo Valerii Tipografo romano in Puglia durante il
secolo XVII, in « Rassegna Pugliese », Trani, A. IX (1892).
Antonio CATERINO, La Puglia nella Storia della Stampa nei secoli XVIXVIII, Ed. A. Cressati, Bari, 1961.
Bartholomeo CHIOCCARELLO, De Illustribus Scriptoribus... in Regno Neapolis, Ex Officina V. Ursini, Neapoli, 1780, T. I.
Riccardo COLAVECCHIA, Andria, in Cesare ORLANDI, Delle Città di
Italia, Stamp. M. Riginaldi, Perugia, 1772, T. II.
Raffaele D'ADDOSIO, 340 Illustri Letterati ed Artisti della Provincia di Bari,
Tip. Avellino, Bari, 1894.
Eustacchio D'AFFLITTO, Memorie degli Scrittori del Regno di Napoli, Stamp.
Simoniana, Napoli, 1782.
Riccardo D'URSO, Storia della città di Andria, Tip. Varana, Napoli, 1842.
Renzo FRATTAROLO, La stampa in Italia fra i secoli XV e XVI ed altri saggi,
Edizioni dell'Ateneo, Roma, 1967.
Giuseppe FUMAGALLI, Lexicon Typographicum Italiae, Ed. L. S. Olschki,
Florence, 1905, (ristampa xerografica, 1966).
Antonio GAMBACORTA, Il più antico Tipografo a Bari, in « La Gazzetta del
Mezzogiorno », Quotidiano di Bari, A. LXXVI (1963), N. 120 (3
maggio), p. 7.
Antonio GAMBACORTA, Stampatori e Librari a Bari nei secoli XV-XVIII,
Tesi di laurea, 1969-1970, Facoltà di Lettere dell'Università degli
Studi, Bari.
Antonio GAMBACORTA, Il primo Stampatore e un Libraro di Bitonto a Bari,
in « Bontontum », Notiziario di Bitonto, A. III (1971), N. 1. Ristampato in « Il Salotto Culturale », Giornale di Bari, A. XIV (1971),
N. 26.
Antonio GAMBACORTA, Per la Storia della Stampa a Lecce nel secolo XVIII,
in « La Zagaglia », Rivista di Lecce, A. XIV (1972), N. 54.
82
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Napoli, Stamp. V. Orsini, Napoli, 1793.
Flavii IUNII, Centum Veneres, Ex Typographia L. Valerii, Foggae, 1645.
Flavii IUNII, Centum Veneres, Ed. Michael Richey, Amburgo, 1714.
Flavio IUNIO, Erato, seu Centum Veneres, Florentiae, & denuò Lycii, Apud
P. Michaelem, 1685.
Marco LARATRO, La «Settimana della lettura » a Foggia, in « La Capitanata », Rassegna di Foggia, A. VI (1968), Parte 1- pp. 159-161.
Giammaria MAZZUCHELLI, Gli Scrittori d'Italia, Presso G. Bossini, Brescia, 1753, Vol. I, P. I.
Francesco Saverio QUADRIO, Della storia e della ragione d'ogni poesia,
Stamp. F. Agnelli, Milano, 1744, Vol. III, Libro II.
Dennis E. RHODES, The Early Bibliography of Southern Italy: Foggia, in «
La Bibliofilia », Rivista di Firenze, A. LVIII (1956), LXI (1959).
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Ed. A. Nardecchia, Romae, 1921, P. II (I-Q).
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Trani, 1891.
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Carlo VILLANI, Daunia inclyta, Tip. F.lli Orfeo, Napoli, 1890.
Carlo VILLANI, Scrittori ed Artisti Pugliesi, Ed. V. Vecchi, Trani, 1904.
Fr. Lucas WADDINGUS, Scriptores Ordinis Minorum..., Editio novissima,
Ed. A. Nardecchia, Romae, 1906.
Riccardo ZAGARIA, San Riccardo nella leggenda, nella storia, nella poesia
popolare e nella letteratura, Tip. F. Rossignoli, Andria, 1929.
Riccardo ZAGARIA, Flavio Giugno, in « Japigia ». Rivista di Bari, A. VIII
(1937).
83
INDICE DELLE TAVOLE
1. BARI, Biblioteca Nazionale: Frontespizio delle Centum Veneres, di Flavio
GIUGNO, 1645.
2. LONDON (G. B.), British Museum: Frontespizio dell'Opus, de modo
consultandi, di Giacinto ALFIERI, 1646.
2. LONDON (G. B.), British Museum: Poesia di Matteo ROMANO, premessa all'Opus, de modo consultandi, di Giacinto ALFIERI, 1646.
5. LUCERA, Biblioteca Comunale: Frontespizio dell'Orazione... per la Festa dell'Icona Vetera, di Domenico Antonio GUELFONE, 1669.
5. LUCERA, Biblioteca Comunale: Madonna con Gesù Bambino, incisione, dall'Orazione... per la Festa dell'Icona Vetera, di Domenico Antonio
GUELFONE, 1669.
6. NAPOLI, Biblioteca Nazionale a «Vittorio Emanuele III» : Incisione,
dalla Della scherma napoletana, Discorso primo, seconda impressione, di
Francesco Antonio MATTEI, 1669.
6. LUCERA, Biblioteca Comunale: Frontespizio della Della scherma natoletana, Discorso secondo, di Francesco Antonio MATTEI, 1669.
84
la Capitanata
Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia
★ Hanno collaborato a questo fascicolo: dott. ANGELO CELUZZA, direttore della Biblioteca prov.le di Foggia; dott. GUIDO PENSATO, vice direttore della stessa Biblioteca; prof. COSMA SIANI; dott. ANTONIO GAMBACORTA; LUIGI MANCINO.
SOMMARIO
ANGELO CELUZZA: La nuova « Provinciale ». Sistemazione dei
fondi e distribuzione dei servizi
1
GUIDO PENSATO: La figura sociale del bibliotecario (Appunti per
una ridefinizione del ruolo)
9
COSMA SIANI: La terra garganica nella poesia di Joseph Tusiani.
Contributo critico-bibliografico
26
ANTONIO GAMBACORTA: Stampatori e librari a Foggia dal 1645
al 1741
61
LUIGI MANCINO: Bibliografia come provocazione. Il Risorgimento
a Manfredonia
85
SCHEDARIO - 1) Fondo « Regno di Napoli-Puglia-Capitanata »
posseduto dalla Biblioteca provinciale; 2) Nuove accessioni
88
la Capitanata
Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia
BOLLETTINO D'INFORMAZIONE
della
Biblioteca Provinciale di Foggia
Anno X (1972)
Parte Seconda
n. 4-6 (lug.-dic.)
La biblioteca senza qualità
Anche dopo avere sottratto alle mani dissacratorie dei maniaci di trasgressioni e metafore il catalogatore di navi Omero o, magari, le esorbitanti
e terroristiche elencazioni di Leporello («Madamina, il catalogo è questo »),
restano pur sempre impressionanti, per numero e peso specifico, le parole
d'ordine all'attivo del catalogo dei catalogatori.
Tutti bibliotecari, e se per avventura o per segreta, « perversa » vocazione non è dato sapere: Aristotele come Leibniz, Joyce come Bataille, Borges come Montale e Pirandello-Mattia Pascal, Kant come De Gasperi e
Mao-tse-tung. Meno frequente, tuttavia, è che della prassi bibliologica di
così illustri rappresentanti ci resti qualche significativa documentazione.
Così è stato, invece, per colui che è, forse, il più « inedito » dei compilatori di schede/referti clinici del nostro tempo: l'ingegnere-psicologoromanziere Robert Musil, aiuto bibliotecario dal 1911 al 1914 del Politecnico di Vienna 1.
Dalla nebbiolina fumigosa della Cacania imperial-regia dell'Uomo senza
qualità emerge d'un tratto la rotonda petulanza del maggior generale Stumm
von Bordwher ed occupa il titolo singolare del §100: « Il
1 Cfr. G. ZAMPA, Rilke, Kafka, Mann. Letture e ritratti tedeschi. Bari, De Donato, 1965, p. 225.
123
generale Stumm penetra nella Biblioteca Nazionale e accumula esperienze
sui bibliotecari, sugli inservienti di biblioteca e l'ordine sprituale » 2.
Il fine immediato di tale penetrazione « nelle linee nemiche » dello
inviato speciale del Ministero della Guerra cacanese tra i propugnatori dell'Azione Parallela, come ricordano i lettori del romanzo, era quello di mettere
ordine - specialità dei militari - nella selva delle idee dello spirito contemporaneo: ove possibile, solo dopo che si fosse fatto anche un catalogo o un
catasto delle ideologie.
Accompagnato da un bibliotecario messosi cortesemente a disposizione, dunque, Stumm inizia un'allucinante passeggiata lungo le interminabili file di scaffali della Biblioteca.
La « precisa conoscenza della forza nemica », però, si rivela praticamente impossibile a raggiungersi, anche dal meglio intenzionato dei neofiti
dell'enciclopedismo, quando è costretto a calcolare che duemila anni sarebbero necessari solo per esaurire la ricognizione dei settecentomila volumi
già passati in rassegna: e l'arca del sapere catalogato - apprende Stumm dal
suo compagno di « sfilata » - ne contiene ben tre milioni e mezzo.
« In quel momento mi son fermato su due piedi » - confessa Stumm
ad Ulrich, il protagonista del romanzo, cui il generale narra la sua avventura
3 - « e tutto l'universo mi è sembrato un grande imbroglio. Adesso che mi
sono calmato, ti dico e ti ripeto: qui c'è qualcosa di profondamente sbagliato! » 4.
Sottolineata, nell'immediato, la prima insorgenza dell'insoddisfazione
del bonario generale, preferiamo attendere il seguito della sgomenta confessione, prima di iniziare una qualsiasi « interpretazione ».
Alle premure « sistematiche » del bibliotecario, che offre intere classi
e discipline (Storia della guerra, Etica teologica) per specificare in
R. MUSIL., L'Uomo senza qualità. Torino, Einaudi, 1962, p. 445 e segg.
Il dialogo è, in effetti, un monologo. Malgrado questa ipotesi interpretativa possa apparire ardita, ci sembra che il personaggio del generale sia il risultato di una « Verdoppelung », di uno sdoppiamento di Musil stesso, di cui
Ulrich è la traduzione autobiografica, come è per numerosi altri personaggi
dello scrittore moravo. E' noto che Musil intraprese, tra le altre, la carriera militare, abbandonata ben presto, per seguire la vocazione « letteraria ». Alla luce
di una tale circostanza, Stumm si rivela essere da un lato uno dei fantasmi di
sé, di cui Musil si libera oggettivandoli; dall'altro si dà come occasione della
ossessionata riproposizione della tematica fondativa che Musil perseguiva dai
tempi del Toerless, l'archetipo indiretto dell'Uomo senza qualità.
4 R. MUSIL, L'uomo senza qualità, op. cit., p. 446.
2
3
124
qualche modo le richieste universali del gallonato visitatore, questi oppone,
imprudentemente, la sua ineludibile preoccupazione: vuole proprio una raccolta di tutte le grandi idee dell'umanítà. Provocato sul suo terreno, il nume
del luogo, a questo punto, non può che sfoderare le armi migliori.
« Sai - racconta Stumm - evidentemente nei miei occhi c'era una tale
sete di sapere, che quel tipo ha avuto paura di essere spremuto come un
limone: gli dico ancora qualcosa come di orari ferroviari che devono permettere di
stabilire fra i pensieri ogni collegamento e coincidenze a volontà; allora si fa d'una gentilezza addirittura inquietante e mi propone di condurmi nella stanza del
catalogo e di lasciarmici solo, quantunque veramente sia proibito, perché
dev'essere usata solo dai bibliotecari. Dunque eccomi proprio nel sancta sanctorum della biblioteca. Posso dirti che mi sembrava d'essere entrato nell'interno di un cervello, tutt'intorno nient'altro che scaffali con le loro celle di
libri, e dappertutto scalette per arrampicarsi, e sui leggii e sulle tavole mucchi di cataloghi e di bibliografie, insomma tutto il succo della scienza,
nemmeno un vero libro da leggere, ma soltanto libri su libri; c'era per davvero odore di fosforo cerebrale, e non credo di illudermi se dico che avevo
davvero l'impressione di essere arrivato a qualcosa! Ma naturalmente, quando l'uomo fa per lasciarmi solo, mi sento un non so che di strano, una specie di angoscia, sì, rispetto e angoscia. Il bibliotecario sale su per una scaletta come una scimmia e si getta su un libro come se avesse già preso la mira
di sotto, proprio quel libro lì, lo porta giù e dice: - Signor Generale, ecco
qui per lei una bibliografia delle bibliografie - tu lo sai cos'è? bé; l'elenco
alfabetico degli elenchi alfabetici dei titoli di quei libri e lavori che sono stati pubblicati negli ultimi cinque anni, intorno al progresso dei problemi etici, ad esclusione della teologia morale e della letteratura amena... insomma
mi spiega qualcosa di simile e sta per svignarsela. Ma io faccio ancora in
tempo ad agguantarlo per la giacchetta. - Signor bibliotecario - esclamo - lei
non può piantarmi in asso senza rivelarmi come fa a raccapezzarsi in questo... - be' sono stato incauto, ma la mia impressione era quella, - ... in questo manicomio. -.
« Signor generale - lei vuol sapere come faccio a conoscere questi libri
uno per uno? Ebbene, glielo posso dire: perché non li ho mai letti! ». Ti dico io,
per poco non m'ha preso un colpo! Ma lui, vedendo il mio sbigottimento, s'è
spiegato meglio. Il segreto di tutti i bravi bibliotecari è di non leggere mai, dei
libri a loro affidati, se non il titolo
125
e l'indice. - Chi si impiccia del resto, è perduto come bibliotecario! - m'istruisce - Non potrà mai vedere tutto l'insieme!
Glielo chiedo senza fiato: - Dunque lei non legge mai nessuno di
questi libri?
- Mai, tranne i cataloghi.
- Ma lei non è laureato?
- Certo. Sono anche docente universitario. Libero docente di scienza bibliotecaria. E' una scienza in sé e per sé, - egli dichiara. - Quanti crede che
siano, signor generale, i sistemi secondo i quali si dispongono i libri, si ordinano i titoli, si correggono gli errori di stampa e i dati sbagliati sui frontespizi, eccetera eccetera? » 5.
Piantato, finalmente, in asso dal bibliotecario, dopo una lezione di
biblioteconomia sbrigativa quanto trionfalistica, l'unico soccorritore che
incontri lo sbigottito generale è un vecchio inserviente, che la lunga «prassi»
del dialogo coi frequentatori della Biblioteca ha costretto a conoscere il contenuto dei libri custoditi. « E ora ho dovuto convincermi» - conclude il racconto e il paragrafo Stumm von Bordwehr - che i soli uomini che posseggano un ordine spirituale a tutta prova sono gli inservienti di una biblioteca...
Caro camerata, adesso ti faccio la proposta più straordinaria: immagina, ora,
l'ordine. O meglio, immagina prima una grande idea, poi una più grande,
poi una più grande ancora, e sempre di più; e su questo esempio figurati un
ordine sempre maggiore. In principio è grazioso come la stanzetta di una
vecchia signorina e pulito come una scuderia militare; poi diventa grandioso
come lo spiegamento di una brigata; poi pazzesco, come quando si esce di
notte dal Casino e si comanda alle stelle: Universo, attenti! Per fila destra!
Possiamo anche dire che in principio l'ordine è come un coscritto che tartaglia con le gambe, e tu gli insegni a camminare; poi, come quando sogni di
saltare i turni e di essere promosso ministro della guerra; ma alla fine prova
a immaginarti soltanto un ordine completo, universale, un ordine di tutta
l'umanità, in una parola un ordine civile perfetto; ebbene, io sostengo che
questa è la morte di freddo, la rigidità cadaverica, un paesaggio lunare, una
epidemia geometrica.
Ne ho parlato col mio inserviente di biblioteca. Mi ha suggerito di
leggere Kant o qualcosa di simile, sul limite dei concetti e della facoltà conoscitiva. Ma io, in fondo, non voglio più leggere nulla. Sento in me un'impressione così curiosa: intendo finalmente perché noi militari,
5
R. MUSIL, L'uomo senza qualítà, op. cit., p. 447.
126
che abbiamo il massimo dell'ordine, dobbiamo essere pronti, in pari tempo,
a dare la nostra vita quando che sia. Ma non posso spiegare perché. In qualche modo l'ordine si trasforma in un bisogno di morte » 6.
Il più grave errore in cui incorrerebbe la lettura « immediata » di queste pagine tragicamente ironiche di Musil 7 sarebbe quello di leggerle nella
chiave più superficialmente « anarchica », apologetica del caos e della sovversione di ogni forma, logica o storica o culturale che sia: in ciò, magari,
invocando a conforto le origini espressionistiche, in senso generico, della
formazione letteraria musiliana. Nel far ciò, si perderebbe quel che, invece,
costituisce lo specifico del significato culturale della esperienza di « saggismo » dello scrittore di Klagenfurt.
Ingegnere, laureato in filosofia, sotto la guida di Carl Stumpf, con
una tesi sulle teorie di Ernst Mach 8, inventore persino di un cromatografo
(il « Variationskreisel »), Musil non appartiene alla schiera di «critici della
scienza» di stampo neoromantico, irrazionalistico-decadente, che magari,
come lo Spengler o il Klages che è all'origine del personaggio di Meingast,
mascherano, dietro una pseudo-conoscenza delle discipline scientifiche e il
preteso superamento del « positivismo della ragione » in una Superscienza
metafisica, la propria sostanziale estraneità all'« ethos » del discorso della
scienza.
Il problema di Musil-Ulrich, che ha la sua « sdoppiata» parodia tragica nel peregrinare di Stumm tra i meandri del Labirinto della Cultura, per
altro verso, non si può neanche far coincidere con la omerica rassegna
mnestica della « Biblioteca di Babele » che Jorge Luis Borges ripete in una
amorevole e insieme desolata rimuginazione del sempre identico 9.
R. MUSIL, L'uomo senza qualità, op. cit., p. 449-450.
Nei « Diari », Musil ha scritto: « L'ironia deve contenere un minimo di sofferenza, altrimenti non è che arroganza e spirito di superiorità » (Cfr. S. Checconi,
Musil, Firenze, La Nuova Italia, 1969, p. 3).
8 R. MUSIL, Sulle teorie di Mach, Milano, Adelphi, 1973. Allievo di Stumpf,
non a caso, fu anche l'altro « filosofo-scienziato » moravo, Edmund Husserl, che
proprio a Stumpf dedicò le Ricerche Logiche.
9 JORGE LUIS BORGES, Finzioni, La biblioteca ili Babele, Torino, Einaudi,
1971.
Anche il grande scrittore argentino, bibliotecario della Nazionale di Buenos
Aires - com'è noto - è uomo di profonde frequentazioni scientifiche. Chi ha letto «
Aleph » non può non pensare ai transfiniti cantoriani, oltre che alla Kabbala, così
come il Labirinto di Minosse, « tema chiave » di tanta parte della
6
7
127
La « crisi delle scienze » che l'autore de « L'uomo senza qualità »
prende a tema anche dalla speciale angolatura del paragrafo qui considerato,
è ben altra: con una « vecchia » parola, è una crisi di fondazione.
Non si può comprendere cosa sia l'Ordine geometricamente epidemico che spaventa Stumm von Bordwehr, se non si ripensa alla grande crisi
dei fondamenti che colse la matematica tra '800 e '900. L'antinomia di Russell-Frege, i primi tentativi di « terapia » logicomatematica dello Scacco della
Ragione e la proposta apparentemente conclusiva di ristrutturazione della
validità dei suoi fondamenti logici attraverso la teoria della dimostrazione
hilbertiana, sono le tappe più « clamorose » che non si possono tacere, nell'evidenziare il retroterra problematico dello « scienziato » Musil.
L'amico di Von Mises e degli scienziati-filosofi del « Circolo di Vienna » non poteva negare a se stesso che la cultura del nostro tempo è la Cultura « assiomatica », la cultura che ha svuotato di ogni contenuto intuitivopsicologico immediato le discipline con cui pur tuttavia si producono macchine ed aeroplani, in sede di applicazione, ma che, viste « in sé e per sé », si
dispongono come lunghe, « vuote » catene di deduzioni e derivazioni simboliche.
In questa chiave di lettura, il buon vecchio Stumm può ben spaventarsi della abnorme disparità che separa il « suo » Ordine da quello « cinicamente » sintattico del Gran Bibliotecario. Il recente Sciamano della nuova
Cultura si è insediato al posto dei vecchi titolari dello Ordine nel tempio
tradizionale dello Spirito: ormai, la novità scandanarrativa borgesiana, è dallo stesso scrittore ricondotto al problema del leibniziano
labirinto del continuo ed ai paradossi di Zenone. Per una brillante ed efficace guida al «
background » culturale dei « romanzi gialli » paradossali di Borges, rinviamo a Gérard
Genot, Borges, Firenze, La Nuova Italia, 1969, oltre che a Guglielmo Forni, Il soggetto e
la storia, Bologna, Il Mulino 1972, pp. 183-201. Non ci sembra un caso, infine, che anche un altro ingegnere-scrittore, Carlo Emilio Gadda, abbia scelto la formula del « romanzo poliziesco » per oggettivare letterariamente la propria passione per le « anormalità » (i paradossi, in senso stretto) della cultura scientifica contemporanea (in uno, della
ragione del nostro tempo). La presenza strutturalmente necessaria di un inquisito (perché fuori della norma-ovvietà) e di un inquisitore-investigatore, in tal genere di « romanzesco », è per lo meno metaforicamente omologa alla situazione dello spirito critico (criticista) che indaga i confini della ragione. Che, poi, sia addirittura Kant ad aver
invocato la « polizia » della Disciplina intellettuale nel Tribunale della Ragione è circostanza non casuale: sia Borges, attraverso Schopenhauer, sia Gadda, attraverso Martinetti, ne furono appassionati frequentatori.
128
losa è già diventata tradizione, si è codificata, l'alienazione-svuotamento dei
contenuti è stata perfezionata.
Se Stumm insegue ancora l'Ordine come esaustione in Idea dei concetti
dell'intelletto, gli serve solo il vecchio Kant: non a caso, con la sua « pratica »
quotidiana, il vecchio inserviente gli consiglia la «Ragion Pura », come il professorino di matematica aveva già fatto con l'altro « sdoppiamento » di MusilUlrich: il giovane Toerless.
Il nuovo tema, all'altezza del nostro tempo, è ormai un altro: anche se
per la tangente (di qui, lo stile « ironico »), Stumm lo intravvede, facendo
drammaticamente da ponte, nella « biografia » musiliana, tra la prima problematizzazione giovanile e la maturità di Ulrich. Se lo scacco della Ragione « criticista » si convertiva dialetticamente nella attivistica, « protestantica » consolazione pratica, qui - nel regno che dovrebbe essere della raggiunta, compiuta
sistemazione « scientifica » e razionale del sapere - i vertici supremi dell'attività
intellettuale dell'uomo fanno scorrere i brividi lungo la schiena: e sono brividi
premonitori di morte. Chi vuole uscire dal seminato - trattandosi di Musil e
non di Sartre - pensi pure alla accettazione heideggeriana di un tale stato di cose e si ricordi dell'estremo masochismo dell'« essere per la morte ».
Noi preferiamo ricordare che, a Musil, Kant non era mai piaciuto (diversamente che ad Heidegger), e che anzi, già studiando all'università le opere del
suo maestro di psicologia, doveva aver trovato, in funzione antikantiana, il passo che segue:
« Noi vogliamo, ora, considerare questa definizione 10 per quanto concerne lo spazio. Soprattutto, sarà necessario sapere se lo spazio debba designare o designi solamente un Ordinamento del molteplice delle apparizioni ovvero
qualcosa di più. ... Quest'ultima opinione è, senza dubbio, quella giusta.
Non esiste nessun ordinamento o relazione senza un contenuto positivo, assoluto,
che gli stia a fondamento, ed è esso che fa sì che qualcosa possa essere ordinato. Perché
e come noi potremmo, altrimenti, distinguere un ordinamento da un altro? Noi
possiamo ordinare una Biblioteca secondo la grandezza dei libri, secondo il colore della
copertina, secondo la data di pubblicazione, ordinarla per materie,
Si tratta della definizione kantiana delle intuizioni pure dell'estetica trascendentale, contrapposte come ordinamento-cosmos al mero caos della materia delle sensazioni.
10
129
ecc...: l'importante è che, per poter distinguere un ordinamento da un altro,
noi dobbiamo riconoscere un contenuto specifico, in riferimento al quale abbia possibilità di verificarsi l'ordinamento. In tal modo, anche lo spazio non
è un mero ordine, ma quel qualcosa in virtù del quale l'ordine spaziale - l'essere uno accanto all'altro dei contenuti - si distingue dagli altri ordinamenti.
...Non ci si può rappresentare lo spazio senza le qualità, come, per
esempio, la spazio visivo senza il colore, o il senso del gusto senza sensazioni tattili. Chi voglia veramente seguire il dettato kantiano, e cioè tener da
parte tutte le qualità, non si vedrà di fronte allo spazio, ma al Nulla » 11.
D'un sol tratto siamo così ricondotti, quasi a spintoni, nel « Sancta
sanctorum » della Biblioteca di Cacania.
L'insegnamento del passo della vecchia (solo nella data) critica di
Stumpf ai kantiani di sempre, bibliotecari e non, è prezioso.
Quel che vale per lo spazio, vale per qualsiasi altro concetto/significato che si voglia ottenere « ordinando » il mondo dei fenomeni/testimonianze culturali.
…Non si può pervenire ad alcuna « classificazione » in concetti/classi (quella russelliana inclusa) se non attraverso tana attività relazionale12 che si fondi su un contenuto intuitivo, su una base semantica di riferimento 13 che « incarni » la rete sintattica delle strutture formali: e ciò
11 CARL STUMPF, Ueber den psychologischen Ursprung der Raumvorstellung,
Leipzig, Hirzel Verlag, 1873, pp. 14-15.
1 2 Nel lessico husserliano: «costituzione d'essenza».
1 3 Attraverso Stumpf, il tema della fondazione intuitiva delle essenze/significati passa, con peso decisivo, nella costituzione del pensiero fenomenologico e, segnatamente, della « grammatica logica » husserliana. (Cfr. C. STUMPF,
op. cit., passim; E. HUSSERL , Ricerche logiche, vol. II, Milano, Il Saggiatore,
1968). Dopo una lunga fase di « incomprensioni » critiche, di ascendenza neokantiana ed esistenzialistica (fino a Merleau-Ponty), in questa direzione convergono
oggi, da piú parti, le proposte di un nuovo trascendentalismo semantico che le correnti piú avanzate della filosofia del linguaggio, della logica ed anche delle scienze
naturali vanno elaborando. Cfr. U. ECO, Is the presemi King o/ I rance a bachelor?
In VERSUS, Quaderni di studi semiotici, n. 7, pp. 44 e segg.; D. PARISI, Il linguaggio come processo cognitivo, Torino, Boringhieri, 1972; G. PIANA, Hasserl,
Schlick e Wittgenstein sulle cosiddette «proposizioni sintetiche a priori», in AUT-AUT,
n. 122; E. AGAZZI, Temi e problemi di filosofia della fisica, Milano, Manfredi,
1969. Per una critica dell'apriorismo kantiano e per i rapporti tra «Sintassi e scienza
nuova», cfr. G. SEMERARI, La lotta per la scienza, Milano, Silva, 1965, pp. 17 e
segg. e pp. 66-95.
130
essa faccia non quale « caotico » contenuto, condannato - secondo il pregiudizio criticista - alla « plebea » insignificanza della sensazione informazione, ma quale condizione materiale di possibilità dell'instaurarsi dell'ordine
formale stesso.
Il bibliotecario che non ha letto i libri ordinati, non « ordina », in pratica, un bel nulla, almeno nel senso forte del termine. La scienza « in sé per
sé », la sua assiomatizzazione del Libro, è appunto solo lo spettro della
scienza, che vive parassitariamente - ed in modo alienato - della prassi culturale che si costituisce, geneticamente, « altrove », tra i suoi inservienti, tra
gli effettivi « ordinatori ». Egli ne è, al massimo, il fiore all'occhiello, desolatamente « assiomatico », come una sterile e ordinata esposizione di formalismi sempre esposti allo spettro immanente dello scacco antinomico che
tocca a tutti i catalogatori di cataloghi 14.
Non meraviglia, a questo punto, che la « critica musiliana delle scienze », lungi dal consentire spazi di manovra ad « irrazionalismi biblioteconomici », possa fare da correlato epistemologico/letterario alle parole di
uno tra i più insospettabilmente « scientifici » dei bibliotecari di professione:
« Lo sviluppo delle implicazioni logiche connesse con la scelta del
principio di autore ha condotto il catalogo per autori ad estendere i propri
adempimenti, fino a precisare l'identità del documento non solo a scopo di identificazione, ma come un fine a sé; piuttosto che rivolgersi al perfezionamento
dei fini di recupero, generazioni di bibliotecari hanno speso energie ed ingegno nella descrizione bibliografica del documento. Ma a tale equivoco si è
giunti, non solo per essere stati coinvolti da un impegno sproporzionato in
una direzione non sempre necessaria e voluta, ma anche per una non ben
definita, e tempestiva, distinzione fra significato, compiti e finalità rispettivamente
dei cataloghi di biblioteca e delle bibliografie...
Non di rado il catalogatore, non sapendo con chiarezza od avendo
dimenticato la funzione e il senso dei cataloghi di una biblioteca, si lascia infettare dalle ambizioni di poter raggiungere una « scheE' estremamente suggestivo che il massimo logico contemporaneo (con
Kurt Goedel), l'americano Paul Cohen, nella esposizione « intuitiva » della sua
grande dimostrazione della indipendenza dell'ipotesi cantoriana del continuo, abbia
illustrato l'antinomia russelliana con l'esempio del catalogo di tutti i cataloghi che
non registrano se stessi. La si veda in « Le Scienze », Anno I, Fasc. I, 1968, pag. 90.
14
131
datura » esemplare, al livello dei modelli o superiore ad essi, col risultato,
dissipatorio e nefasto, di costruire un catalogo che, invece di rappresentare
un ponte di collegamento fra i fondi librari di una biblioteca e i suoi lettori,
si erge impenetrabile e macchinoso quasi una barriera di separazione » 15 .
Non si poteva dir meglio, infezioni comprese (Stumm diceva: " epidemia geometrica "!).
Essenziale è che il nuovo bibliologo, quindi - esperto, se possibile,
anche di teoria dell'informazione 16 - sappia riconoscere, nelle apparenze
dell'Ordine esteriore (che va conservato, ma con la coscienza della sua finalità specifica), il suo possibile decadere a semantico disordine da sterilizzazione,
ad eccesso di entropia, in cui sarebbe inevitabile veder annegare ogni funzionalità comunicativa della struttura bibliotecaria. Il vero ordine, la negentropia di Schroedinger e Wiener, la « imprevedibilità » informazionale che
costa lavoro alla prassi intersoggettiva di costituzione dei significati, non
può nascere dalla amministrazione del Codice ereditato, biologicomorfogenetico 17 o antropologico-culturale che sia. Si chiami intenzionalità
o progetto teleonomico, la struttura della costituzione dei nuovi significati,
dell'apertura alla sfera dell'eventualità storico-temporale 18, passa per le vie
malsicure, certo, ma vivificatrici, della comunicazione effettivamente speALFREDO SERRAI, Biblioteconomia come scienza. Introduzione ai problemi e alla metodologia, Firenze, Olschki editore, 1973, pag. 83.
Anche il titolo di questo importante lavoro è, per noi, significativo:
sembra di leggervi lo spirito della « crisi dei fondamenti », che del resto programmaticamente - esso intende inaugurare negli studi biblioteconomici;
se ciò avviene con settanta anni di ritardo, non è certo colpa dell'Autore, che
fa anzi del suo meglio per recuperare il tempo perduto.
16 Ben diverso, dunque, dallo Schneider che deve aver ossessionato
l'apprendistato della mente poco « catalogica » del Musil autobibliotecario.
Per la fortuna del piú diffuso « Handbuch der Bibliographie » tedesco, cfr.
Rudolf Blum, Bibliographia, Frankfurt am Main, Bucbhändler-Vereinigung
GMBH, 1969, pp. 1196-1199 e passim.
17 Per considerazioni che tengono acutamente conto dei risultati della
moderna biologia molecolare del « caso e della necessità » in sede di psicanalisi della cultura, cfr. F. Fornari, Codice culturale e codice dell'io, in Tempi Moderni, n. 13, gennaio-marzo 1973, pp. 39 e sgg.
18 Per le decisive riflessioni sul senso « utopico » della possibilità, che
sono la chiave per nulla idealistica, ma « ipotetico-deduttiva » dalla filosofia
musiliana della civiltà, cfr. R. MUSIL , L'uomo senza qualità, Torino, Einaudi,
1962, pp. 12 e segg.
15
132
rimentale che gli uomini in carne ed ossa instaurano fuori e dentro la Biblioteca di Cacania: solo gli uomini sospettosi di valori e criteri di valore precostituiti, - aperti, senza dogmatismi, alla costruzione dell'Ordine Nuovo 19,
possono combattere il pericolo immanente della Morte della comunicazione, dell'entropia dello « spirito », dando un volto storico alla biblioteca/
semioteca, che si dovranno sempre sforzare di mantenere senza metafisiche, definitive, cadaveriche « qualità ».
RAFFAELE GIAMPIETRO
Che non avvenga per seriale sommatoria, ma il piú possibile nelle modalità del « gruppo in fusione », - per usare un'efficace opposizione della « Critique »
sartriana. Il riferimento più pertinente, qui, è, tuttavia, al « giovane Gramsci », che
significativamente (e quasi negli stessi anni della redazione di queste pagine dell'U.S.Q.) contrapponeva, al burocratismo totalitario, l'organizzarsi dal basso della
volontà generale: e ciò « non aritmeticamente, ma morfologicamente ». (Cfr. A.
GRAMSCI, L'ordine nuovo, 1919-20, Torino, Einaudi, 1954, pag. 150).
Si rammentino le ultime parole di Stumm: « un ordine civile perfetto », « un
ordine di tutta l'umanità », che assomiglia alla « morte di freddo », a un « paesaggio
lunare »: lo spettro comune, per Musil come per Gramsci, è la pseudoricomposizione alienata, nelle « istituzioni totali », delle coscienze e delle pratiche atomizzate
dalla moderna divisione del lavoro.
19
133
APPENDICE
L'UOMO MATEMATICO
di ROBERT MUSIL (1913)*
Una delle tante insensatezze che corrono sul conto della matematica, per ignoranza della sua essenza, è nel fatto che si suol chiamare i generali importanti i « matematici del campo di battaglia ».
La verità è che il loro calcolo logico non può andare oltre la sicura
semplicità delle quattro operazioni, se non vuol provocare una catastrofe.
La necessità improvvisa di un processo deduttivo, che fosse anche
solo moderatamente complicato e non evidente, come la soluzione di una
semplice equazione differenziale, vedrebbe consegnati alla morte, nel frattempo, senza speranza, migliaia di soldati.
* (dai « Tagebücher, Essays und Reden », pp. 592-596, Frankfurt am Main,
Suhrkamp, 1968. Traduzione di Raffaele Giampietro).
Le pagine che seguono fanno da ponte tra la tematica « bibliologica » del
paragrafo 100 dell'U.S.Q. e « La biblioteca senza qualità ».
Sovente, in coloro che, per dirla con Merleau-Ponty, lavorano a chiarire
ed esplicitare, piú che il pensiero altrui, la sua « ombra » (i significati - vale a dire
- che nemmeno quel pensiero aveva direttamente rivelati), è quasi doveroso l'insorgere di penosi complessi di colpa, residuo, magari, di un vecchio ideale di «
oggettività ». Di qui l'esigenza di ridurre al minimo i sospetti di arbitrio e la proposta di un testo, quale questo tratto dai « Diari » musiliani, che mi sembra bene
« confermare » per lo meno le linee di fondo della direzione di lettura che preferisco. Se qualcuno obietterà che è ben strano un « commento » fatto fare
all’Autore al suo commentatore, si potrà sempre rispondere che ormai da un bel
pezzo la Letteratura è Critica/ l'Ermeneutica: chi potrebbe separare col coltello il
Testo dalla sua Tradizione?
Il rapporto con « La biblioteca senza qualità », d'altra parte, è qui fin
troppo evidente: basta leggere il primo periodo e si trova il ritratto « generalizzato » di Stumm. Quanto al bibliotecario, lo si legga pure nel matematico logicosimbolico, teorico della scienza « in sé e per sé ».
Ancora una volta, infine, il filo conduttore è nel tema dello « Spirito » unificante Ordine-Sintassi e Poesia-semantica, nell'auspicio « utopistico » (alla
Mannheim, come minimo) di una Età di Ricostruzione che sappia di nuovo amare i suoi poeti, pur non rinnegando, irrazionalisticamente, la - Civiltà delle macchine. (N.d.t.).
134
Ciò non si dice contro l'ingegno dei generali, ma a causa della natura
tutta propria della matematica. Si dice che essa sia il massimo dell'economia
del pensiero, e questo è ben vero 1.
Ma è il pensiero stesso che è, per altro verso, una cosa sfuggente e
poco sicura.
Anche se è forse cominciata come un mero risparmio biologico, da
qualche tempo si è diffusa una complicata ansia di risparmiare, cui importa
così poco di rinviare, in pratica, alle calende greche il vero guadagno, come
all'avaro poco importa la sua miseria, voluttuosamente prolungata fino all'inverosimile.
Un processo che, in generale, non si potrebbe mai completare, come
il contare una serie infinita, in certe condizioni favorevoli la matematica
rende possibile portarlo a compimento in pochi istanti. Anche complicati
calcoli logaritmici, persino le integrazioni, tutto si può fare, generalmente,
con la calcolatrice: il lavoro necessario per tali questioni, oggi, si limita all'allineamento delle cifre del problema e a girare una manovella o qualcosa
di simile.
L'usciere di un cattedratico può, così, bandire dal mondo problemi
per la cui soluzione il suo professore, ancora due secoli fa, sarebbe dovuto
correre dal signor Newton a Londra o dal signor Leibniz ad Hannover.
Ed anche per il numero, naturalmente mille volte più grande, di problemi matematici non ancora risolubili con le macchine, si può chiamare la
matematica un apparato ideale 2 dello spirito, con il fine e l'effetto di prefigurare, in linea di principio, tutti i casi possibili in generale.
E' questo il trionfo dell'organizzazione spirituale.
Quel che abbiamo è proprio che la vecchia strada di campagna spirituale, con tutti i suoi pericoli atmosferici e la possibilità di venir derubati, si
fa qui sostituire dal vagone-letto dello spirito.
Siamo di fronte ad una vera e propria « economia » scientifica e conoscitiva.
Ci si è chiesto, tuttavia, quanti di questi possibili casi vengano anche
effettivamente utilizzati. Ci si è anche domandato quante vite umane, quanto danaro, quante ore di produzione, quante ambizioni siano state impiegate nella storia di questo inaudito metodo di risparmio, quante, ancor oggi, vi
siano investite o vi siano necessarie: con
E' evidente, qui, la presenza della concezione empiriocriticista della matematica. Si è gia ricordato che, proprio con una tesi su Mach, Musil si era laureato
con Stumpf, in filosofia, dopo gli studi di ingegneria. (N.d.T).
2 « Idealapparatur » è il termine del testo musiliano. Assai simile - Vestito di
Idee (Ideenkleid) - è quello husserliano, che definisce i risultati categoriali, i significati da ricondurre alla matrice fondativa delle operazioni intenzionali costitutive.
(N.d.t.).
1
135
il che non si dimentica, di nuovo, quel che si è già guadagnato. Si è cercato,
quindi, di misurare l'utilizzazione pratica che se ne fa.
Ma anche in tal caso questo apparato complesso e minuzioso si rivela
ancora vantaggioso e, letteralmente, incomparabile.
Tutta la nostra civiltà è nata col suo aiuto, né conosciamo altri strumenti. I bisogni, cui esso provvede, li soddisfa in pieno e la sua dilagante
onnipresenza è di quei fatti che sono unici e indiscutibili.
Solo nel caso che non si guardi all'utilità immediata, ma, nel seno della matematica stessa, alla relazione tra le sue componenti non utilizzate, si
nota l'altro, autentico aspetto di questa scienza 1.
Esso non è concepito per fini immediati, ma è non-economico e
tormentoso.
L'uomo comune non se ne serve molto più che non faccia già alla
scuola elementare; l'ingegnere se ne serve solo per quanto ne incontra nei
formulari di un volume tascabile di tecnologia; lo stesso fisico lavora, di
solito, con strumenti matematici poco sofisticati 2. Se qualche volta costoro
se ne servono in modo diverso, sono abbandonati, per lo più, a se stessi,
poiché i matematici, di simili lavori di applicazione, si interessano ben poco.
Avviene così che, per certe importanti branche della matematica, gli
specialisti siano dei non-matematici.
Di contro, ci sono innumerevoli campi che sono riservati ai soli matematici: è come un prodigioso plesso di terminazioni nervose che si sia
raccolto nei punti d'uscita di pochi muscoli 3.
1 L'allusione è già, a questo punto, alle « questioni dei fondamenti », che
toccano la « organizzazione spirituale » matematica.
Si ricorderà come Stumm parlasse di « orari ferroviari » delle vie dello spirito: il riscontro è ora con la via sintattica alla fondazione, tentata nella prima fase di
attività del Circolo di Vienna, cui Musil era vicino. Sarà una celebre opera di Carnap a portare, non a caso, il titolo emblematico: « La costruzione logica del mondo
» (Der logische Aufbau der Welt). (N.d.t.).
2 Il che è rigorosamente vero, almeno fino ad Einstein o alla meccanica
quantistica. Non a caso le entità « paradossali » che originarono la prima fase della
« Grundlagenkrisis » - dalla curva di Peano-Weierstrass alla classe - « monstre » di
Russell - non toccavano la funzionalita immediata della prassi di calcolo: di qui,
infatti, venne un « alibi » di qualche consistenza alle prime proposte intuizionistiche di « amputazione » della « inutilmente pericolosa » matematica cantoriana.
(N.d.t.).
3 Su questa « divisione del lavoro » tra « tecnico ingegnoso » e riflessione «
critico-conoscitiva » (che in Musil, tra breve, chiamerà in causa anche la « poesia »),
cfr. E. HUSSERL, Ricerche Logiche, Milano, Il Saggiatore, 1968, pp. 256-8.
Che Husserl fosse ben noto a Musil è testimoniato, inequivocabilmente, da
una densa « Notiz zu Husserl » degli stessi « Diari » da cui sono tratte queste pagine. Cfr. R. MUSIL., Tagebücher, Essays und Reden, Frankfurt am Main, Suhrkamp,
1968, pp. 103. (N.d.t.).
136
In qualche luogo, all'interno, lavora, da solo, il matematico, e la sua
finestra non dà sull'esterno, ma sugli spazi accanto. E' uno specialista, poichè nessun genio, da solo, è più in grado di dominare il tutto. Egli è convinto che quel che si sforza di ottenere, un bel giorno produrrà anche un profitto liquidabile nella pratica, ma non è questo a spronarlo: lui è al servizio
della Verità, vale a dire al servizio del suo Destino, non del suo scopo 1.
Anche se il risultato, dopo un millennio, dovesse essere « economico
», oggi come oggi esiste, per lui, solo la passione disinteressata. La matematica è un lusso intrepido della pura ragione, uno dei pochi che oggi ci si
concede.
Anche alcuni filologi vanno in cerca di cose la cui utilità non vedono essi
stessi, e ancor più di loro i collezionisti di francobolli e i raccoglitori di cravatte.
Ma questi sono ghiribizzi e manie innocenti, che si tengono lontani dalle gravi
circostanze della nostra vita, mentre la matematica ricomprende - è innegabile alcune delle più appassionanti e avvincenti avventure dell'esistenza umana.
Si aggiunga un piccolo esempio: si può dire che noi viviamo completamente dei risultati di questa scienza (risultati, peraltro, ad essa del tutto
indifferenti).
Noi cuociamo il nostro pane, costruiamo le nostre case e spingiamo i
nostri mezzi di trasporto servendoci di essa.
Con la mera eccezione di un pò di mobili, vestiti, scarpe e figli, che
ancora facciamo a mano, tutto ricaviamo con l’intervento dei calcoli matematici.
L'intera esistenza che ci scorre innanzi, tumultuosa ed affannata, non
solo dipende dalla matematica per essere interpretata, ma ne è effettivamente originata per la sua stessa sopravvivenza.
I pioneri della matematica, infatti, da certi fondamenti avevano ottenuto rappresentazioni utilizzabili, donde derivarono conseguenze logiche,
metodi di calcolo e risultati di cui si impadronirono i fisici per ottenere
nuove conquiste: alla fine, vennero i tecnologi, ne mutuarono i meri risultati, aggiunsero nuovi calcoli e ne risultarono le macchine.
All'improvviso, però, dopo che tutto era stato portato a piena e
splendida realizzazione, se ne vennero di nuovo i matematici - razza di uomini sempre lì ad almanaccare sui puri fondamenti - e dissero che qualcosa
non era assolutamente in ordine nei fondamenti dell'intero edificio.
Viene in mente, qui, l'appassionato « Non ignorabimus! » di David Hilbert,
opposto allo « scetticismo » di Du Bois-Reymond. Cfr., per Hilbert, C. CELLUCCI
(a cura di), La filosofia della matematica, Bari, Laterza, 1967, p. 183; per Du BoisReymond, cfr. E. Du BOIS-REYMOND, I confini della conoscenza della natura, a cura di
Vincenzo Cappelletti, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 47. (N.d.t.).
1
137
Effettivamente, andarono alle basi e trovarono che l'intera costruzione galleggiava per l'aria 1.
Eppure, le macchine correvano!
Si deve assumere che la nostra esistenza è uno smorto fantasma; noi
la viviamo, ma - in senso proprio - solo sulla base di un errore 2 , senza cui
essa non avrebbe avuto origine.
Non c'è nessun'altro che sia dotato, oggi, di fantasia come ne è il matematico. Il matematico sopporta questo scandalo dell'intelletto in modo
esemplare: vale a dire, con fiducia orgogliosa nella diabolica pericolosità del
suo intelletto.
Potrei fornire ancora altri esempi, come il caso dei fisici matematici
che, d'un colpo, ti vengono a negare selvaggiamente la datità effettiva dello
spazio e del tempo: e questo - lo si deve pur dire - fanno non con l'aria sognante con cui, da un pezzo, talora hanno preso a farlo anche i filosofi (il
che - come ognun sa - è scusabile, per essere nella loro vocazione). Essi lo
hanno fatto, invece, con fondamenti, che emergevano all'improvviso, ed
erano terribilmente fededegni: il tutto, mentre circolavano le automobili.
Credo che ciò basti, per far vedere che razza di gente sia questa. Noi
altri, dopo l'epoca dell'illuminismo, abbiamo lasciato perdere ogni forza
d'animo 3. Un piccolo fallimento è riuscito a farci abbandona« Das ganze Gebäude in der Luft stehe »: sono quasi le stesse parole usate
per il problema degli immaginari, nel capitolo-chiave del « Törless » sull'infinito.
Ciò si noti a comprova del peso decisivo di questi temi nella stessa motivazione
musiliana a diventare « poeta » - parallela a quella che spinse il matematico Husserl
a diventare filosofo. (Cfr. E. HUSSERL, Logica formale e trascendentale, Bari, Laterza, 1966, paragrafo 31 ed E. HUSSERL, Philosophie der Arithmetik, Den Haag, Nijhoff, 1970, pag. 6, sulla « Metaphsysik des Kalküls » e il « passaggio computistico
per l'immaginario » di Hermann Hankel). (N.d.t.)
Per il « Törless » e il ponte che si regge « aereo », cfr. R. MUSIL, I turbamenti del giovane Törless, Torino, Einaudi, 1967, pp. 166 e sg. (N.d.t.).
2 L' « assunzione » di Musil è, per così dire, metodologica, non « metafisica
»: equivale ad un prendere sul serio, senza frettolose autoconsolazioni o isterici
irrazionalismi, lo stato delle cose « critico ». Non credo si possa dubitare - e, del
resto, il seguito della pagina lo conferma - che qui l' « ethos » fondativo musiliano
nulla ha a che vedere con ciò che oggi - nella scia di un torbido heideggerismo - la
cultura della linea Lacan-Derrida-Vycinas va proponendo. Per Derrida e Lacan, cfr.
le limpide osservazioni che sono in U. ECO, La struttura assente, Milano, Bompiani,
1968, pp. 323 e sgg. Per Vycinas, cfr. F. FANIZZA, L'alternativa scientifica,
Manduria, Lacaita, 1969, pp. 150-6. (Nd.t.).
3 « Noi, ora, siamo ben certi che il razionalismo del XVIII secolo, il suo
modo di cercare un terreno su cui l'umanità europea potesse radicarsi, era un' «
ingenuità ». Ma con la rinuncia a questo razionalismo ingenuo, il quale, sviluppato
conseguentemente, risulta addirittura controsenso, occorre forse rinunciare anche
al senso autentico del razionalismo?
1
138
re l'intelletto ed ora lasciamo via libera ad ogni insulso fanatico 1 che si
metta a dileggiare il pathos di un D'Alembert o il razionalismo di Diderot.
Noi piagnucoliamo di sentimenti in antitesi all'intelletto e dimentichiamo che il sentimento, senza l'intelletto - fatte le debite eccezioni - è
cosa che non vale un soldo.
Abbiamo in tal modo mandato in rovina la nostra poesia, al punto
che, dopo aver letto l'uno dopo l'altro due romanzi tedeschi, se ne potrebbe fare l'integrale, non fosse che al fine di snellirli un po'.
Non si obietti, qui, che i matematici, fuori del loro campo, sono teste deboli o banali, dal momento che è proprio la loro beneamata logica a
piantarli in asso, non altro.
Arrivati a quel punto, non è più cosa per loro ed essi fanno, nel loro campo, quel che noi dovremmo fare per il nostro 2 .
In ciò consiste l'insegnamento considerevole, la esemplarità della
loro esistenza: essi sono un modello analogico per gli uomini dello spirito
avvenire.
Qualora, attraverso la celia che qui si è imbastita sull'essenza della
matematica, si riflettesse una qualche serietà, si potrebbero recepire, con
bella ponderatezza, le conclusioni che seguono. Ci si lamenta che al nostro tempo sia venuta meno la Cultura (Kultur).
Ciò vuol dire molte cose, ma nel suo fondamento, la cultura era
sempre una unitarietà ottenuta attraverso la religione o le forme di organizzazione sociale o l'arte.
Ora, quanto a forme sociali, siamo in soprannumero; per le religioni
è lo stesso: cosa che, peraltro, si può qui solo esprimere, ma non dimostrare. Quanto all'arte, siamo la prima epoca che non possa amare i suoi
poeti.
E che dire di un serio chiarimento di quell'ingenuità, del suo controsenso, e
che dire della razionalità di quell'irrazionalismo che è tanto celebrato e che oltretutto si vuole da noi? Non è forse chiamato, se gli prestiamo orecchio, a convincerci a procedere razionalmente e a perseguire una fondazione razionale? O la sua
irrazionalità non è per caso, in definitiva, un'angusta e cattiva razionalità, peggiore
di quella del vecchio razionalismo? Non è forse addirittura la cattiva razionalità
della « ragione pigra », che si sottrae alla lotta per il chiarimento dei dati ultimi e
dei fini e dei mezzi che essi suggeriscono in un modo definitivamente e veramente
razionale? » (E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia
trascendentale, Milano, il Saggiatore, 1961, pag. 45). (N.d.t.)
1 « Die Schwärmer » (I fanatici) è anche il titolo della maggiore opera teatrale del « giovane » Musil, luogo di incubazione, con il « Törless » e alcuni racconti,
della tematica « utopica » dell'U.S.Q. (N.d.t.).
2 Lo scacco della ragione apre a una nuova, ineludibile esigenza di fondazione rigorosa (streng), che funge in modo « esemplare » per una universale considerazione (ri-considerazione) dei significati e dei valori: per un nuovo trascendentalismo, insomma, genetico-sperimentale. (N.d.t.)
139
Ciò malgrado, nella nostra età non solo sono in giro energie spirituali come non ce ne sono mai state in precedenza, ma c'è anche una unanimità ed unitarietà dello spirito come mai ve ne fu 1 .
E' da stolti affermare che tutto ciò porti ad un mero sapere, poiché
il fine vero è, già da un pezzo, il pensiero.
Con le sue aspirazioni alla profondità, all'originalità, alla novità, esso si definisce, provvisoriamente, ancora entro i confini di ciò che è esclusivamente razionale e scientifico.
Ma questo intelletto pur si espande e, non appena giungerà nel
campo del sentimento, diventerà spirito.
Compiere questo passo è affare dei poeti 2 .
Allo scopo, essi non dispongono di alcun metodo da insegnare che so io, psicologia o altro -: hanno solo aspirazioni.
Ma essi fronteggiano senza speranza la loro condizione e si consolano imprecando: così che, quando i contemporanei non riescono nemmeno a ricondurre alla dimensione dell'uomo il loro livello di pensiero,
riescono, pur tuttavia, a sentire che cosa mai ci sia là, sotto quel loro livello.
R. G.
Se da un lato, dunque, si rifiuta qualsiasi terapia « ideologica » che venga « dall'alto », non si fanno concessioni a sfiducie irrazionalistiche verso una sempre possibile
sua ricostituzione « dal basso », per usare un'altra, efficace indicazione husserliana.
(N.d.t.)
2 Piú tardi verrà Heidegger a chiedere: « Wozu Dichter? ». - Qui, però, non c'è
alcun odio « umanistico » per la Tecnica: piú probabile e probante, perciò, è veder invece l'ambizione ad un superamento, in senso autenticamente contemporaneo, della
opposizione - tipica nel vecchio trascendentalismo (fino a Dilthey) - di intelletto fisicomatematico e razionalità pratico/sentimentale: in una prospettiva fondativa/« poetica »
in senso forte di unificazione razionale delle culture. « Poeta » di tal genere, del resto,
Musil voleva essere e fu. (N.d.t.)
1
140
Riletture. Carlo Cattaneo
PARTE PRIMA
SOMMARIO: 1. Tra rivoluzione e riformismo. - 2. I motivi di una scelta.
1. Tra rivoluzione e riformismo.
Molti studiosi del Risorgimento si sono posti il quesito se Cattaneo
fosse o meno un rivoluzionario. Al quesito, in linea di massima, è stata data
una risposta negativa. Cattaneo, infatti, non può essere considerato un rivoluzionario, sia per il suo temperamento, incline più allo studio e alla meditazione che all'azione diretta, sia per la sua formazione positivista, così lontana da quegli slanci e da quei moti dello spirito che sono il pane quotidiano
di ogni rivoluzione e che furono, viceversa, alla base del pensiero etico e
della attività politica di Giuseppe Mazzini. Tuttavia, anche se si nega a Cattaneo la qualifica di rivoluzionario, bisogna tenere nella giusta considerazione la parte che egli ebbe nella rivoluzione milanese del '48. Ironicamente
è stato osservato che il meno rivoluzionario dei grandi del Risorgimento,
Cattaneo, si trovò al centro del più interessante moto dell'epoca, mentre
l'unico, vero, rivoluzionario del tempo, Mazzini, non riuscì mai a capeggiare
personalmente una rivolta 1. Ma Cattaneo, in fondo, anche se per una volta
si trovò nell'occhio del tifone, non aderì mai veramente né a quella, né ad
altre rivoluzioni, perché non percepì, in tutta la loro vastità, l'importanza
politica e il significato etico delle rivoluzioni. A quattro anni dai moti del
'48, in una lettera a Pisacane, e con chiaro riferimento a Mazzini in esilio a
Londra, scriveva: « Li incorreggibili di Londra non s'accorgono che un intervallo di tre anni ha già mutato totalmente le cose materiali, che qualunque siffatta impresa, se potesse riuscire, non sarebbe altro che una calamità.
Ma essi hanno la dottrina del martirio, stolta e scellerata, e sciupano carte,
che,
1 Cfr. ALESSANDRO LEVI, Il positivismo politico di Carlo Cattaneo, Bari, Laterza, 1929, p. 65.
141
giuocate a luogo e tempo, avrebbero potuto essere preziose. Dai professori
di rivoluzioni, non s'intende come le rivoluzioni e le stagioni non sono al
comando dell'individuo, e si pretende farle nascere a forza, e quando poi
son nate non si sa volgerle a profitto, ma si danno da condurre a principi e
papi » 2.
In ciò che scriveva a Pisacane, insieme al rifiuto addirittura viscerale
della rivoluzione e dei rivoluzionari, ci sono almeno un paio di considerazioni interessanti. Da una parte che « le rivoluzioni non sono al comando
dell'individuo », e che cioè senza una autentica forza di popolo esse non
potranno mai nascere e concludersi vittoriosamente; dall'altra che le rivoluzioni colgono il frutto più sostanzioso non tanto nel successo della rivolta
armata, ma piuttosto dopo, nel tempo della pace, nella lenta e paziente opera di ricucitura e ricostruzione del tessuto sociale lacerato dalla lotta. Affidare poi a « principi e papi » la guida delle rivoluzioni significava davvero
abdicare a quanto in esse vi era di vivo e di innovatore, a tutto ciò che poteva mutare dalle fondamenta la società. Tutto sommato, intorno alla rivoluzione, il riformista, il cauto progressista, l'antirivoluzionario Cattaneo,
anticipava ciò che, con ben altre ragioni e più tesa passione, avrebbe poi
detto Marx.
2. I motivi di una scelta.
Il rifiuto della rivoluzione da parte di Cattaneo, acquista maggiore significato nel confronto col rivoluzionarismo di Mazzini. Per il grande rivoluzionario genovese « la rivoluzione non è mai determinata da interessi materiali, bensì da una religione o da una filosofia: è un « novus ordo » che
incomincia, è una dichiarazione di guerra a morte tra due principii, è un
problema d'educazione sostituito all'antico: è l'avvenire di contro al passato,
anche senza che il presente offra un nesso, una giuntura fra i due » 3.
All'esaltazione mistica e alla forte carica ideale di Mazzini fa riscontro
l'opinione realistica di Cattaneo: « ...tutti quei mutamenti che noi con ampolloso vocabolo appelliamo rivoluzioni, non sono più che la disputata
ammissione d'un ulteriore elemento sociale, alla cui presenza non si può far
luogo senza una pressione generale, e una lunga oscilla2 CARLO CATTANEO, Lettera a Carlo Pisacane, in "Risorgimento italiano",
rivista storica, I, 1903, p. 306.
3 LEVI, op. cit., p. 66.
142
zione di tutti i poteri condividenti, tanto più che il nuovo elemento si affaccia sempre coll'apparato d'un intero sistema e d'un intero mutamento
di scena, e colla minaccia d'una sovversione generale; e solo a poco a poco si va riducendo entro i limiti della sua stabile ed effettiva potenza; poiché indarno conquista chi non ha forza di tenere. Laonde quando l'equilibrio sembra ristabilito, e le parti sono conciliate, e l'acquistante assume il
nuovo atteggiamento di possessore e talora si fa lecito di sdegnare tutti i
principi che lo condussero alla vittoria, pare incredibile che per giungere a
così parziale innovazione, tutto il consorzio civile debba avere sofferto
così dolorose angosce » 4 .
Dalla lettura di questo brano si capisce bene come Cattaneo si rendesse conto che il complesso gioco delle forze sociali poteva alla fine imbrigliare qualsiasi rivoluzione. E coerentemente egli non credeva al successo di una rivoluzione, e soprattutto alla sua tenuta nel tempo, se non
fosse stata adeguatamente preceduta e sorretta da un accurato lavoro preparatorio, capace di incidere profondamente nella società. Bisogna concludere, quindi, che, se è vero che Cattaneo, da moderato e riformista
qual'era, preferiva, ad una rivoluzione sia pure vittoriosa, la via di un cauto e ben programmato sviluppo, è pur vero che egli aveva capito della rivoluzione molto più di quanto non avessero capito tanti rivoluzionari. E
lo dimostra ciò che scrisse a proposito dei moti milanesi del '48, che non
giudicò mai come un « mouvement avorté », ma piuttosto come la prova
generale d'una futura e più vasta rivoluzione, italiana ed europea, che prima o poi sarebbe scoppiata e avrebbe apportato « à la cause de la libertè e
du progrès toutes les forces d'une grande nation ». Il che sta ad indicare
come Cattaneo abbia saputo acutamente meditare intorno alla rivoluzione
del '48, sia sul piano storico che su quello etico.
Sul piano storico egli aveva compreso benissimo che i moti del '48,
milanesi, italiani ed europei, non erano stati occasionali esplosioni di violenza, ma legati tra loro da una sottile ed ancora oscura logica erano stati
piuttosto le prime avvisaglie di una complessa svolta storica cui l'Europa
da tempo si preparava. E la reazione, che si scatenò dopo il '46 non era
che l'ultima prova di forza, l'ultima zampata, e l'ultimo grido di furore e di
dolore, di una società che ormai cedeva dappertutto e dappertutto aveva
consumato fino in fondo la propria linfa vitale. La rivoluzione era perduta, ed egli stesso ne pagava lo scotto con l'esilio,
4 CARLO CATTANEO, Considerazioni sul principio della filosofia, in "Opere edite e inedite", vol. VI, Firenze, Le Monnier, 1892, pp. 133-134.
143
ma il suo ottimismo positivistico ne usciva trionfante, la sua fede illuministica nel progresso dell'uomo era più forte che mai. Superato il contraccolpo della sconfitta e dell'esilio, poteva anche lasciarsi andare; sul fertile suolo
francese, sempre nostalgico dei sacri principi dell'89, a teorizzazioni di carattere etico, e distinguere tra insurrezione e rivoluzione, considerando l'una
sterile e gratuita, estremamente ricca e feconda l'altra se inserita in un più
vasto processo storico e morale.
Così si può dire, anche se sottovoce e con molta prudenza, che se
Cattaneo perdette la rivoluzione, la rivoluzione non perdette Cattaneo. E il
suo dialogo con essa, iniziato anni addietro in sordina, e forse del tutto incosciamente, con i primi aneliti alla libertà e alla verità, ma fiorito prepotentemente nel vivo della realtà di quelle cinque deliranti giornate milanesi,
continuò in lui per tutta la vita, inducendolo a riflettervi, a scriverne, e ad
approfondirne i temi, in una progressiva presa di coscienza e in una sofferta
e continua altalena di attrazione e repulsione.
Nel 1862, forse già in fase di una prima amara verifica dei risultati del
Risorgimento, analizzava la rivoluzione francese e scriveva che essa « fin dal
principio del secolo scorso era profondamente penetrata nel seno della società, prima assai che assumesse il nome di rivoluzione, e si manifestasse
con la forza del popolo, e si consacrasse con una nuova legislazione. Non è
la volontà dell'uomo che fa le rivoluzioni; né la volontà dell'uomo le può
reprimere; quando si sono incarnate nelle viscere della società, è forza che
vengano alla luce, e s'insignoriscano delle leggi » 5. E nel marzo dello stesso
anno sviluppava questi concetti, andando alla ricerca, senza trovarla, di una
suprema volontà di rottura rivoluzionaria nella società del Mezzogiorno. «
Voi avete il vizio - scriveva a Bertani - di pensare più ai solfanelli che non
alla legna, e in Napoli avevate appunto un mazzo di solfanelli sopra un
monte di sassi. In mezzo a popoli malcontenti è facile dar l'ultima spinta ad
una rivoluzione; Palermo nel 1848 poté farla anche senza i mille. Ma se non
vi è nulla di più che il popolo malcontento, la rivoluzione diviene in pochi
mesi una nuova forma di malcontento, e nulla più » 6.
5 CARLO CATTANEO, Scritti politici ed epistolario, vol. III, Firenze,
Barbera, 1901, p. 322.
6 CARLO CATTANEO, Lettera ad Agostino Bertani, in " Scritti politici
ed Epistolario ", Firenze, Barbera, 1894, p. 359.
144
PARTE SECONDA
SOMMARIO: 1. Libertà e verità. - 2. Il rifiuto del socialismo. - 3. I due ideali.
- 4. Libertà e repubblica.
1. Libertà e verità.
Cattaneo si dimostrò, dunque, sempre contrario ad una soluzione rivoluzionaria del problema unitario, e nelle sue scelte politiche fu fondamentalmente un moderato ed un riformista. Viceversa, nella esposizione
della sua filosofia politica, assunse non di rado toni accesi e radicali. Cattaneo, che spesso si compiacque di distinguersi dagli altri, prendeva con questo duplice atteggiamento le distanze sia rispetto al rivoluzionarismo mazziniano, sia rispetto al tiepido programma dei moderati. Fu radicale perché,
come dice Bobbio, « accetta e propugna integralmente e senza riserve quella
idea liberale, la cui applicazione i progressi della scienza sembrano aver reso
inevitabile; in quanto è convinto che il progresso della scienza e il progresso
della libertà siano tanto intimamente legati da non potersi separare senza
uccidere lo stesso progresso. Il che egli compendia nel motto, assunto a
simbolo della sua convinzione e della sua lotta: « libertà e verità » 1.
Dunque, libertà e verità sono, per Cattaneo, i massimi valori di ogni
ideologia politica, ma, egli avverte, non potrà mai essere autenticamente
liberale chi è ancora fermo alla soluzione di problemi metafisici. In questo
caso la libertà non potrà mai assurgere a livello di valore assoluto, resterà
invece sempre un bene strumentale. Cattaneo, alla luce della sua cultura
illuministica, considera la libertà non come un episodio della vita associata,
ma piuttosto come il più alto valore civile e la più solida forza morale. Ogni
tentativo di progresso e di riscatto sociale, disancorato da questo valore, è
destinato a rimanere una pura aspirazione. Daltro canto la ferma coscienza
del valore civile della libertà e la totale assenza di interessi metafisici non
indussero mai Cattaneo a trasformare la sua concezione del liberalismo in
una sorta di dogmatica religione della libertà, errore nel quale, sulla scorta
anche di motivazioni passionali, incorsero molti pensatori del romanticismo. Nessuna retorica inquinò mai la purissima idea che Cattaneo ebbe della libertà, che fu sempre pensata come « l'esercizio della ragione » 2.
1 NORBERTO BOBBIO, Una filosofia militante, "Studi su Carlo Cattaneo",
Torino, Einaudi, 1971, p. 12.
2 CARLO CATTANEO, Lettera a P. Maestri del gennaio 1856, in " Scritti
politici ed Epistolario " , vol. II, Firenze, Barbera, 1894, p. 66.
145
Il suo liberalismo, al fondo di ogni analisi, deve essere considerato
come una ideologia produttrice di una sempre più vasta libertà, che a sua
volta costituirà una forma di moltiplicatore del progresso e dei valori civili.
« Le menti libere - dice Cattaneo - sono in eterno moto; non possono essere unanimi se non nella verità. Val più il dubbio d'un filosofo che tutta la
morta dottrina d'un mandarino o d'un frate... Dall'attrito perpetuo delle
idee s'accende ancora oggidì la fiamma del genio europeo » 3.
In nome della libertà, della purezza cristallina di questa idea, Cattaneo
finì col litigare con tutti: con i moderati, con i rivoluzionari, e con tutta quel
compatto e potente settore politico che ruotava intorno a Casa Savoia, d'Azeglio e Cavour primi fra tutti. Anche con Mazzini i suoi rapporti furono burrascosi. Sebbene ammirasse l'alta moralità del genovese e la vasta opera di riformatore della coscienza nazionale, egli lo avversò per due motivi. Da una parte,
per il fanatico unitarismo, nel quale vedeva come una specie di pericolosa forzatura che avrebbe inevitabilmente finito col comprimere la libertà dei costumi
e l'autonomo sviluppo delle varie regioni; dall'altra, perché vedeva nella incessante spinta rivoluzionaria di Mazzini un elemento di violenza endemica che,
dilagando senza freno, avrebbe compromesso proprio quella libertà per la quale lo stesso Mazzini si batteva.
Opinione alquanto azzardata e forse dettata più dal ricordo degli
scontri col rivoluzionario genovese che, da una serena e lucida analisi dell'azione politica mazziniana. « La sua fede era dittatoria, cesarea, napoleonica » 4 scriverà a proposito di Mazzini, ma poi, appena qualche pagina più in
là, ne farà l'elogio: « egli fu il precursore del Risorgimento » 5. Anche Cattaneo, malgrado il sostegno di una lucida intelligenza e di una cultura razionale, non riuscì a sottrarsi, nei riguardi di Mazzini, a quel complesso sentimento di amore-odio, attrazione-repulsione, che fu comune a molti uomini del
Risorgimento.
Ritornando al problema della libertà cattaneana, bisogna aggiungere
che essa non si cristallizzò mai in una astratta teoria. La conoscenza della
vita e l'analisi minuta dei fatti lo spinsero sempre a sottolineare i risvolti
CARLO CATTANEO, Le origini italiane illustrate coi libri sacri dell'antica Persia, in
Scritti letterari, artistici, linguistici e vari, vol. II, Firenze, Le Monnier, 1848, pp. 291-292.
4 CARLO CATTANEO, Scritti politici ed epistolario, vol. I, Firenze, Barbera,
1892, p. 249.
5 CARLO CATTANEO, ibidem, p. 262.
3
146
pratici dei problemi rendendo questi sempre vivi ed attuali e sfuggendo ai
pericoli di una arida teorizzazione.
La questione economica fu uno dei terreni più fertili per l'esaltazione
della libertà. Il libero scambio e la proprietà, il « promuovimento della piena
e libera proprietà » 6, sono considerati da Cattaneo come la base di ogni
sana economia, sia pubblica che privata.
2. Il rifiuto del socialismo.
Nei riguardi delle prime teorie socialiste, che minacciavano il suo
cauto programma riformistico, il giudizio cattaneano è duro e senza appello. Del nascente socialismo egli colse solo l'aspetto utopistico, il lato più
fragile e più facilmente criticabile, e, come accadde a molti, pur generosi,
pensatori dell'800, non ne capì il significato di riscatto universale che andava molto al di là dei limitati problemi nazionali e politici.
Più concretamente, non capì, che il sia pure utopistico socialismo dell'epoca era la prova che il proletariato internazionale premeva dal fondo della
storia e si accingeva a proporsi come grande forza politica e grande alternativa
storica, con cui l'establishment dei decenni futuri avrebbe dovuto misurarsi.
Di lì a pochi anni il socialismo avrebbe abbandonato per sempre le
innocue vie dell'utopia per imboccare quelle meno esotiche, ma più realistiche, del socialismo scientifico. Cattaneo invece liquidò il problema come
una pericolosa teoria che avrebbe demolito « la ricchezza senza riparare alla
povertà; e sopprimendo fra gli uomini la eredità e per conseguenza la famiglia, avrebbe ricacciato il lavorante nella abiezione delli antichi schiavi, senza natali, e senza amore » 7.
Giudizio che, in un acuto osservatore della realtà come Cattaneo, si
può giustificare solo attribuendolo alle scarse informazioni di cui egli, isolato nell'esilio di Lugano, disponeva sul proletariato europeo, e in particolare
su quello inglese e francese; o considerando che il socialismo utopistico di
un Proudhom e di un Saint-Simon era ancora fermo alle buone intenzioni e
alle grandi speranze, senza potersi ancora avvalere di quelle severe basi
scientifiche e di quella lucida analisi politica che sarebbero state in seguito
elaborate da Marx e da Engels.
6
CARLO CATTANEO, Saggi di economia rurale, Torino, Einaudi, 1939, p.
201.
7 CARLO CATTANEO, Scritti completi, vol. I, Milano, edizioni del Risorgimento, 1925, p. 100.
147
3. I due ideali.
Ma dove l'ideale cattaneano della libertà rifulge in tutta la sua severa
etica e si fa nutrimento primario del suo pensiero, è nella analisi del problema politico. Cattaneo respinge ogni forma di dittatura e di dispotismo.
Sintetizza il suo rifiuto nella famosa massima: « O l'ideale asiatico, o l'ideale
americano », indicando l'America come matrice di quelle libertà, che attraverso la grande rivoluzione dell'89 si diffusero in tutta l'Europa, e l'Asia
come la mitica patria di ogni tirannia e di ogni costrizione della coscienza
individuale.
Alla monarchia preferisce senza tentennamenti la repubblica, considerando i monarchi europei come una casta a sé, supernazionale e antinazionale, legati strettamente gli uni agli altri da interessi particolari, e del tutto avulsi dalla vita dei popoli su cui governano. « ...Le famiglie regnanti dirà Cattaneo - son tutte straniere. Non vogliono essere di nessuna nazione;
si fanno interessi a parte, disposte sempre a cospirare colli stranieri contro i
loro popoli » 8. Il che significa che alla base di ogni monarchia vi è una concezione dispotica del potere, mentre repubblica è sinonimo di libertà, non
di una libertà dogmatica e mistica, ma di una libertà cosciente del proprio
valore civile e razionale.
Lungo la stessa direttrice, civile e razionale, fiorisce il suo nazionalismo che non fu mai una forza deviante, causa di pericolose e meschine
chiusure verso gli altri popoli, ma fu semmai uno stimolo allo studio e alla
comprensione delle altre nazionalità. « Se non è lodevole che la gioventù
nostra - scrive Cattaneo - adori le cose straniere, è assai più turpe che al
tutto le ignori » 9. In Cattaneo il nazionalismo politico e il cosmopolitismo
culturale si incontrano e si fecondano a vicenda sul piano comune della libertà, che di entrambi è matrice.
4. Libertà e repubblica.
Sul problema più specifico e più concreto dell'unità nazionale, il sentimento della libertà si fa in Cattaneo ancora più netto e determina tutto il
suo atteggiamento politico. Prima e dopo il '48, in un momento in cui molte
forze politiche cominciavano a guardare al Piemonte e
8 CARLO CATTANEO, L'insurrezione di Milano del 1848, in Tutte le opere, vol.
IV, Milano, Mondadori, 1967, p. 509.
9 CARLO CATTANEO, Il Don Carlos di Schiller e il Filippo d'Alfieri, in Scritti letterari, artistici, linguistici e vari, vol. I, Firenze, Le Monnier, 1948, p. 59.
148
a Casa Savoia come occasione di stimolo e di fusione di tutte le forze risorgimentali, Cattaneo non esita sulla strada da seguire. La sua scelta resta fedele ai due concetti fondamentali della libertà e della repubblica. Dopo il
'48 scriverà nelle « Memorie dell'Insurrezione di Milano » una violenta requisitoria contro Casa Savoia e la politica di Carlo Alberto. Da questo momento Cattaneo è volontariamente tagliato fuori dal Risorgimento italiano.
Ma il rifiuto di riconoscere il Piemonte come Stato-guida dell'indipendenza
nazionale non è determinato solo dal più generale rifiuto di ogni monarchia.
Questo è anzi il motivo meno importante. Vi sono ragioni più profonde,
che si riallacciano sia alla convinzione che il carattere nazionale degli italiani
fosse essenzialmente repubblicano, sia alla coscienza vivissima che egli ebbe
fin dall'inizio della natura egemonica della politica piemontese. « Tutte le
istituzioni in Italia - scrive a proposito del carattere repubblicano degli italiani - hanno da tremila anni una radice di repubblica; le corone non vi ebbero mai gloria. Roma, l'Etruria, la Magna Grecia, la Lega di Pontida, Venezia, Genova, Amalfi, Pisa, Firenze, ebbero dal principio repubblicano
gloria e potenza. Mentre in Francia il vocabolo di repubblica suona tuttavia
straniero, nella istoria d'Italia risplende ad ogni pagina; s'intreccia alle memorie del patriziato e della chiesa; sta nelle tradizioni delle genti più appartate. Gridar la repubblica nelle valli di Bergamo o del Cadore è così naturale
come gridar in Vandea viva il re! » 10.
Analisi storica che lascia perplessi. Affermare, infatti, che in Francia,
patria della costituzione di Robespierre, « il vocabolo di repubblica suona
straniero », o attribuire virtù repubblicane al regime oligarchico, e quanto
mai dispotico di Venezia, significa forzare il senso della storia. Il richiamo,
poi, ai vecchi miti di Roma, dell'Etruria e della Magna Grecia è più un'affermazione retorica che una considerazione di carattere scientifico. E questo sorprende davvero in un pensatore realistico e rigoroso come Cattaneo.
Ma ciò che è più interessante, e ancora oggi attuale per le conseguenze storico-politiche che ne sono scaturite, nel complesso rifiuto cattaneano
del Piemonte, è dato dalla considerazione che lo Stato, il quale pretendeva
di assumersi la gestione del Risorgimento, era molto più arretrato, sia per
strutture politiche e amministrative che per tradizioni culturali, di molte
altre regioni italiane, e in particolare della Lom10 CARLO CATTANEO, L'insurrezione di Milano del 1848, in Tutte le opere, vol.
IV, Milano, Mondadori, 1967, p. 540.
149
bardia e della Toscana. In questo Cattaneo vedeva giusto. Sul Piemonte,
malgrado la vicinanza della Francia illuministica e rivoluzionaria, aveva
sempre deleteriamente influito l'isolamento culturale imposto da Casa Savoia ed attuato con piemontese precisione da una delle più grette burocrazie d'Italia. Sulla Lombardia, per vie più dirette, e sulla Toscana, sia pure
per vie più articolate, aveva invece beneficamente influito la buona amministrazione austriaca, che traeva la sua tradizione di correttezza e di efficienza
dalle grandi riforme illuministiche di Maria Teresa e dell'età giuseppina.
Cattaneo, da fine conoscitore di cose lombarde, sapeva bene tutto questo e
vedeva con orrore come molti milanesi via via abbracciassero la causa sabauda. Egli, invece, si trovò in modo del tutto naturale tra le fila del cosiddetto partito progressista che, se mirava all'indipendenza, mirava anche alla
libertà, e voleva raggiungere l'una e l'altra non attraverso un'annessione pura e semplice, ma attraverso grandi e graduali riforme.
Indipendenza, dunque, ma prima di tutto libertà, perché « la libertà è
pianta di molte radici » 11. Da sola l'indipendenza poteva risolversi soltanto
in un cambio di padroni. Cattaneo vide lucidamente questo pericolo; il pericolo che dalla servitù sotto gli Asburgo si passasse alla servitù sotto i Savoia, con l'aggiunta di una pericolosa egemonia sabauda sull'Italia. A questo
tipo di equivoca indipendenza, egli preferì fin dall'inizio della sua milizia
politica la libertà, appunto perché « pianta di molte radici », e perché matrice inevitabile di indipendenza autentica, di sviluppo civile, di progresso economico, di una democrazia cioè non cristallizzata in formule, ristretta in
istituzioni assembleari più o meno allargate, ma ampiamente articolata nelle
coscienze e nei sentimenti di tutti i cittadini.
Questo ribaltamento dei valori risorgimentali, prima la libertà e poi
l'indipendenza, e non viceversa come indicava Mazzini, fa di Cattaneo uno
tra i più coraggiosi e tra i più originali pensatori del Risorgimento. Se fosse
stato capace di andare più in là di questi risultati, e di spingersi alla scoperta
di più ampi e profondi significati della libertà, avvicinandosi, con la sua solida intelligenza razionale e la sua integrità morale, ai problemi delle masse
proletarie, Cattaneo forse avrebbe potuto superare il limite borghese ed
illuministico della sua ricerca e oggi, a cento anni dalla sua morte, sarebbe
forse ricordato come un pensatore di ben altra statura.
11 CARLO CATTANEO, prefazione al volume IV del "Politecnico'", in
Scritti politici ed epistolario, Firenze, Barbera, 1892, vol. I.
150
Fu un'occasione mancata, ma fu un'occasione mancata da tutti i
pensatori del Risorgimento, che, a sua volta, fu la grande occasione mancata di ribaltare anzitempo certi rapporti di forza, di distruggere certi centri di potere, soprattutto nel Mezzogiorno, e di trasformare un Paese, che
non era ancora uscito del tutto dal feudalesimo, in una nazione moderna e
democratica.
Ma questo è un discorso a parte, un discorso difficile a farsi, perché
la storia è quella che è, o meglio quella che è stata, e se anche qualche
pensatore più acuto degli altri avesse capito il fondo di ogni problema,
sarebbe stato travolto dalla realtà circostante. Perché « la storia non è
prodotta / da chi la pensa e neppure / da chi l'ignora » e in ogni caso «
non è magistra / di niente che ci riguardi. / Accorgersene non serve / a
farla più vera e più giusta » 12 .
12 EUGENIO MONTALE, La storia, in Satura, Milano, Mondadori,
1971, pp. 51-52.
151
PARTE TERZA
SOMMARIO: 1. Una scelta ideologica. - 2. Mancata aderenza alla realtà. –
3. Ipotesi di federazione europea. - 4. Genesi della teoria federalistica. - 5. Sconfitta politica dell'idea federativa. - 6. La guerra del '59 e la
polemica con Mazzini. - 7. La riforma cattaneana dell'esercito. - 8. Il
contributo di Cattaneo alla organizzazione del nuovo stato. - 9. Giudizio sul federalismo cattaneano.
1. Una scelta ideologica.
Uno dei punti più noti del pensiero cattaneano è la cosiddetta teoria
federalistica, teoria che è intimamente legata sia al problema morale della
libertà che alla forma repubblicana da dare al nuovo stato unitario. La libertà, il federalismo e la repubblica trovano poi una loro profonda unità morale di fronte ad un problema ben più vasto ed articolato, il progresso dell'uomo, che giustifica in sé sia le esistenze individuali, sia il flusso della storia nel suo divenire. « Libertà è repubblica - dice Cattaneo - e repubblica è
pluralità, ossia federazione...1 ... Il federalismo è la teorica della libertà » 2.
« Repubblica - scrive al riguardo Bobbio - diventa il termine unitivo
tra libertà e federazione; ma mentre la premessa e la conclusione sono elementi essenziali, il termine medio, essendo al servizio di quelli, è secondario. Voglio dire come il Cattaneo, liberale e federalista per convinzione e
quindi per essenza, è repubblicano per reazione e quindi per accidente, tanto da ammettere, per un verso, il federalismo in seno all'impero asburgico, e
da condannare, per altro verso, la repubblica accentrata dei francesi o dei
mazziniani » 3. Giudizio che può indurre a ritenere che Cattaneo avrebbe
anche potuto adattarsi alla monarchia se questa si fosse a sua volta adattata
ad esistere come pura espressione in uno stato autenticamente liberale ed
ampiamente federativo. Ma questa, in fondo, è solo un'ipotesi, non confortata da alcuna esplicita dichiarazione dello studioso lombardo, il quale aveva
chiaramente intuito fin dal '48 la vocazione autocratica di Casa Savoia. Recenti studi, d'altronde, hanno dimostrato che Vittorio Emanuele cercò
spesso di svincolarsi dalla tutela del Parlamento e, in più occasioni, osteggiò
proprio quei valori
1 CARLO CATTANEO, Lettera all'ing. Tentolini del 24 aprile 1852, in Epistolario, vol. II, Firenze, Barbera, 1952, p. 157.
CARLO CATTANEO, Lettera a L. Frapolli del 5 novembre 1851, in Epistolario, vol. II, Firenze, Barbera, 1952, p. 122.
3 NORBERTO BOBBIO, Una filosofia militante, Studi su Carlo Cattaneo,
Torino, Einaudi, 1971, p. 20.
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costituzionali che pur aveva accettato come base ideologica dello stato unitario 4. Questi studi hanno d'altra parte fatto giustizia di molta oleografia
post-unitaria. Il cosiddetto costituzionalismo di Casa Savoia solleva oggi
ormai diverse perplessità.
Ritornando alla teoria federalistica conviene ricordare che essa fu accusata fin dall'inizio di municipalismo deteriore e di conservatorismo. Norberto Bobbio 5 , ha ampiamente spiegato come tale accusa fosse in gran parte infondata perché, anche se il federalismo cattaneano aveva in sé una
componente di orgoglio municipalistico, questa assolveva, tutto sommato,
ad una « funzione solamente stimolatrice » 6 ed era neutralizzata, nei suoi
risvolti conservatori, dalla solida base liberale sulla quale poggiava l'intera
teoria politica cattaneana. Si trattò, quindi, è sempre Bobbio che parla, non
di una scelta strumentale, votata alla difesa di particolarismi regionali, ma di
una scelta ideologica, di fronte alla quale perdevano valore gli aspetti storici,
geografici ed economici del problema, mentre acquistava sostanza ideologica e politica la convinzione cattaneana per cui « lo stato unitario, in quanto
tale, non può non essere autoritario, e quindi cesareo e dispotico, perché la
unità, è, di per se stessa, soffocatrice delle autonomie, della libera iniziativa,
in una parola della libertà, e solo la pluralità dei centri politici o meglio l'unità articolata e non indifferenziata, l'unità nella verità e non già l'unità senza distinzioni, sono l'unica reale garanzia della libertà, l'unico ambiente in
cui può prosperare la società nella direzione del progresso civile » 7.
2. Mancata aderenza alla realtà.
Il federalismo fu quindi per Cattaneo una scelta ideologica di carattere generale e non uno strumento politico ispirato da esigenze tattiche. Si
tratterebbe semmai di verificare in che modo e in quale misura l'ideologia
federalistica avrebbe potuto aderire alla realtà politica del tempo e quale
contributo avrebbe potuto dare sia al processo unitario, sia al nuovo stato
che da esso sarebbe nato.
Il problema, in fondo, è nel tentare, in via di ipotesi, di capire da quali forze dello schieramento politico la teoria federalistica poteva essere assunta come base ideologica di lotta. Escluso il proletariato urbano,
4
1972.
cfr. DENIS MACK SMITH, Vittorio Emanuele II, Bari, Laterza,
cfr. NORBERTO BOBBIO, op. cit., p. 20 e seg.
NORBERTO BOBBIO, op. cit., p. 21.
7 NORBERTO BOBBIO, ibidem, p. 21.
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ancora in via di formazione, escluse le masse contadine, forze passive e latenti 8, confinate da secoli in un ghetto culturale e politico, esclusa anche
buona parte della piccola e media borghesia, chiuse nella rete dei propri
interessi e incapaci di recepire lo spirito dei tempi nuovi, restavano a fronteggiarsi sulla scena politica la vecchia classe dirigente, la fazione sabauda, e
i gruppi patriottici che, con varie sfumature e diversa intensità, si ispiravano
a Mazzini. Tutto sommato, nessuna di queste forze poteva abbracciare la
causa federalistica. La vecchia classe dirigente, composta dalla nobiltà, dalle
gerarchie ecclesiastiche e dall'alta borghesia, aborriva in toto qualsiasi teoria
che si collegasse all'ideale unitario; i sabaudi, dal canto loro, guardavano al
federalismo come ad una grave minaccia alle mira espansionistiche ed egemoniche del Piemonte; i patrioti, a loro volta, lo giudicarono come un pericolo ed un freno per la causa unitaria.
Il federalismo cadde così nel vuoto per la mancanza di una vera base
politica e dimostrò in fondo la sua scarsa aderenza alla realtà italiana del
tempo. In seguito, fatta l'unità, dimostrò un'aderenza ancora minore, quando ci si trovò di fronte alla necessità di dover eliminare ogni pericolo centrifugo e di rafforzare, anche autoritariamente, le strutture del nuovo stato.
Ci sarebbe, invece, da chiedersi quale uso avrebbero fatto della teoria federalistica, una volta sfuggita dalle mani purissime del suo autore, proprio
quelle classi politiche spazzate via dall'ondata unitaria. E' pensabile che i
vecchi notabili avrebbero saputo sapientemente trasformare la più avanzata
teoria politico-economica dell'epoca in un deteriore strumento di conservazione, per salvare il salvabile ed attuare un'esemplare riforma gattopardesca.
E' solo un'ipotesi, naturalmente, ma una ipotesi che assume una certa credibilità se solo si pensa a ciò che accadde a Napoli dopo l'unità, dove i democratici, che erano stati fervidi sostenitori del processo unitario, finirono
col trovarsi all'opposizione, a fronte dei conservatori che si assunsero il
ruolo di sostenitori del nuovo stato, proprio perché videro in esso l'occasione per perpetuare i vecchi privilegi del regno borbonico.
Il federalismo fu forse danneggiato da un eccesso di perfezionismo e
dal prevalere della ideologia sulla prassi politica. Gli anni decisivi del Risorgimento, il '59 e il '60, furono invece proprio il trionfo dell'improvvisazione
geniale, dell'avventurismo fortunato, della capacità politica di mutare rapidamente indirizzi ed orientamenti. La stessa conquista del
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cfr. ANTONIO GRAMSCI, Sul Risorgimento, Roma, Editori Riuniti,
1972.
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Sud, che non era del tutto nei programmi di Cavour e di Vittorio Emanuele,
cioè delle forze attive che avevano assunto la gestione del Risorgimento, fu
un capolavoro di destrezza, di rapidità e di spregiudicatezza. In questo turbinoso intrecciarsi di fatti militari, di convulsi contatti diplomatici, di rapidi
slittamenti di fronti politici e di opinioni personali, le razionali, illuministiche, perfezionistiche teorie del pensatore lombardo si trovarono come i
proverbiali vasi d'argilla tra i vasi di ferro. Cattaneo finì col parlare un linguaggio incomprensibile, che richiedeva tempo e meditazione, in un tempo
in cui non era possibile meditare, un tempo in cui la vita era più che mai «
un racconto pieno di rumore e di furore » 9 e bisognava fare presto, « faire
vite » secondo una espressione attribuita a Napoleone.
3. Ipotesi di federazione europea.
Tanto forte era la base ideologica del federalismo che Cattaneo finì
per estendere il suo discorso a tutta la situazione europea. Di conseguenza
avversò sempre l'accentramento politico-amministrativo dei grandi stati
unitari. A proposito della Francia, che aveva ereditato il centralismo giacobino e napoleonico, scriverà che « finché i dipartimenti non si trasformeranno in cantoni con amministrazioni proprie, la libertà in Francia sarà
sempre un assurdo, perché chi aspetta gli ordini da Parigi, non è libero a
Versailles » 10.
Esaminò i mali dell'impero austriaco, vaticinandone una rapida fine
se non si fosse dato un ordinamento federale. La fine non fu poi così rapida
come Cattaneo aveva previsto, ma tuttavia si verificò anche per i motivi da
lui enunciati. In effetti, ammonita dai moti del '48, l'Austria tentò di darsi
una parvenza di ordinamento federale attirando nell'area del potere il maggiore dei popoli soggetti, gli Ungheresi. Ma il nuovo corso si arrestò subito.
La maggioranza dei sudditi rimase ai margini del potere. Cechi, croati, polacchi, italiani, si sentirono sempre meno integrati nello stato asburgico e
iniziarono dall'interno un implacabile processo di corrosione, che fu una
delle cause determinanti del crollo morale e politico dell'impero 11.
Nell'ipotizzata federazione austriaca Cattaneo contemplò anche
9
cfr.. WILLIAM SHAKEASPEARE, Mac Beth, atto V, scena V.
CARLO CATTANEO, Scritti politici, vol. II, Firenze, Le Monnier, 1964,
10
p. 449.
11 cfr. WOLFGANG J. MOMMSEN, L'età dell'imperialismo, Milano, Feltrinelli, 1970.
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il Lombardo-Veneto, il che non deve stupire anzitutto perché l'idea di una
federazione guidata dall'Austria fu elaborata prima del '48, quando cioè
l'unità d'Italia era ancora un progetto informe, e poi perché la logica federativa di Cattaneo non tenne mai in gran conto i particolarismi nazionalistici nel tentativo di ipotizzare una superiore unità europea. Ciò che può
stupire, invece, è piuttosto l'affermazione secondo cui il legame con l'Austria avrebbe fatto compiere al Lombardo-Veneto il primo passo verso
l'indipendenza. Stupisce perché un'indipendenza, nata da un patto federativo ed anzi a causa di questo, avrebbe costituito il fallimento di tutta l'ideologia cattaneana e la più secca smentita all'ipotesi che la federazione
non divide, ma unifica.
4. Genesi della teoria federalistica.
Ma in che modo nacque e si consolidò il pensiero federalistico di
Cattaneo? Attraverso quali strutture di pensiero si trasformò da idea informe in articolata proposta politica? Sono interrogativi ai quali ancora
oggi è difficile dare una risposta definitiva, perché essa va ricavata da una
impressionante mole di documenti, che vanno dalle opere fondamentali di
Cattaneo agli innumerevoli articoli, fino alla fitta e minuta corrispondenza.
Alle spalle della prima idea federalistica vi è certamente quella
congerie di studi e di esperienze ai quali per anni accanitamente Cattaneo
si dedicò. Questo metodo, fondamentalmente illuministico, se rompeva
l'unità della ricerca e costituiva anche un elemento di dispersione, aveva
tuttavia il vantaggio di penetrare la realtà attraverso mille canali,
mostrando come essa fosse ad un tempo duttile e multiforme, pronta a
mutare di tono e significato. Da questa fondamentale esperienza dello
spirito Cattaneo dovette trarre quella sua avversione alla unicità, che poi
calò in ogni idea politica e morale. Bobbio, analizzando la nascita e lo
sviluppo del federalismo cattaneano, ha ritenuto di poter distinguere « tre
diversi momenti, ciascuno dei quali ha i propri caratteri. Nella prima fase,
che va sino al '48, il concetto federalistico si dispiega in una ideologia
normativa per una generale politica europea: nella fase intermedia; che
comprende gli anni fra il '48 ed il '60, l'idea federalistica, ormai maturata,
viene applicata principalmente al problema della guerra di insurrezione
nazionale; nell'ultima fase, dopo il '60, si trasforma in principio generatore
di riforme militari e amministrative del
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nuovo stato italiano. Sono tre diversi aspetti di un'unica idea, che si adatta
al turbinoso e rapido svolgersi degli eventi » 12.
Il primo periodo, che, sulla scorta della interpretazione di Bobbio,
possiamo definire della fase europea, può essere considerato come una delle
tante utopie fiorite nel periodo post-illuministico. Alla base, come in tutte
le costruzioni utopistiche, manca una severa indagine della società e della
realtà politica del tempo. Solo la mancata verifica delle cose poteva indurre
a ipotizzare la costituzione degli Stati Uniti di Europa. Il cosmopolitismo
culturale, al quale questa prima fase federalistica si ispira, e il generico umanitarismo sociale, in voga all'epoca di Cattaneo, erano in fondo due modi
per eludere i reali problemi del tempo. Il cosmopolitismo culturale, che era
stato una delle caratteristiche essenziali dell'Illuminismo, e che nel '700 aveva svolto una importante funzione di rottura di certi schemi mentali, non
aveva ormai più significato in una Europa, in cui le nazioni, sulla scorta della prima gloriosa esperienza nazionale della rivoluzione dell'89, si attestavano ormai le une contro le altre, esaltate dalla scoperta del proprio genio nazionale e animate dalla volontà di primeggiare. Per altro verso, l'umanitarismo sociale, dopo un primo atteggiamento di sospetto e di paura da parte
della classe dirigente, fu considerato come un episodio ai margini della vera
lotta politica e, tutto considerato, innocuo.
Eppure di questa prima fase del federalismo cattaneano è interessante
segnalare sia la critica al centralismo dell'impero austriaco, sia la proposta
unità degli Stati europei; unità che, se in quel tempo era fuori da ogni realtà,
ha, da allora in poi, trovato sempre maggior credito fino ad essere oggi, anche se in minima parte, realizzata. I due nuclei di pensiero non sono distaccati l'uno dall'altro, ma scorrono paralleli e trovano la loro unità nella teoria
federalistica. Nella condanna del centralismo austriaco, che è tra le cause
principali della decadenza dell'impero asburgico, c'è già l'idea di una federazione tra gli Stati europei. « O l'autocrata d'Europa, o gli Stati Uniti d'Europa » 13 dice Cattaneo sintetizzando i due problemi, e poi sviluppandoli aggiunge: « quel giorno che l'Europa potesse, per consenso repentino, farsi
tutta simile alla Svizzera, tutta simile all'America, quel giorno ch'ella si scrivesse in fronte Stati Uniti d'Europa, non solo ella si trarrebbe da questa
luttuosa necessità
N. BOBBIO, op. cit., pp. 25-26.
CARLO CATTANEO, Considerazioni al I volume dell'« Archivio triennale, in Scritti politici ed epistolario, vol. I, Firenze, Barbera, 1892, p. 249.
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delle battaglie, degli incendi e dei patiboli, ma ella avrebbe lucrato cento
mila milioni » 14.
Siamo ancora al federalismo come grande ipotesi di pace europea.
Perché esso si fosse svestito dei paludamenti dell'utopia illuministica e si
fosse calato più sommessamente nella realtà italiana, « occorreva - a dirla
con Bobbio - una esperienza politica nuova e fortissima, quale fu il fallimento dell'insurrezione lombarda malgrado, o come egli (Cattaneo) sostenne, a causa dell'intervento piemontese » 15.
Il giudizio di Cattaneo sul Piemonte fu, come è noto, durissimo. Le
mire egemoniche dello stato sabaudo furono, secondo il pensatore lombardo, la causa principale della sconfitta nella prima guerra di indipendenza. La leadership del Piemonte, mentre limitò il contributo degli altri stati
italiani, timorosi che una soluzione vittoriosa del conflitto si potesse risolvere a loro svantaggio, frenò lo slancio delle stesse masse popolari che
videro nelle annessioni solo un cambio di padroni. L'analisi dei fatti del
'48 portò Cattaneo a concludere che l'unità si poteva fare solo con la repubblica e con il federalismo, e lo indusse a prendere posizione sia contro
Casa Savoia, sia contro l'unitarismo accentratore dei mazziniani.
Non fu antiunitario, come poi da qualcuno fu detto, fu invece antifusionario, e lo disse chiaramente quando ammoni che bisognava « contrapporre la federazione alla fusione e non all'unità, e mostrare che un
patto fra popoli liberi è la sola via che può avviarli alla concordia e alla
unità: ma ogni fusione conduce al divorzio, all'odio » 16.
5. Sconfitta politica dell'idea federativa.
Naufragate a Novara le speranze del '48, si fece rapidamente strada
la convinzione che un patto federativo tra i vari stati italiani non potesse
portare a nulla di conclusivo. Giusta o sbagliata che fosse tale opinione,
nella realtà delle cose l'idea federativa usciva da quella prova sconfitta per
sempre. L'indipendenza italiana prendeva da quel momento la via dell'unità d'azione indicata da Casa Savoia. Molti convinti federalisti e anche molti mazziniani, soprattutto per l'abile e tenace opera di ricucitura politica
operata da Cavour, mutarono man mano opinione.
CARLO CATTANEO, ibidem, p. 275.
N. BOBBIO, op. cit., p. 27.
16 CARLO CATTANEO, lettera a G. Ferrari del 27 ottobre 1951, in Epistolario, vol. II, Firenze, Barbera, 1952, p. 39.
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Chi non mutò opinione fu Cattaneo, che, esiliato in Lugano, approfondì ed affinò i temi della teoria federalistica. Gli stati ai quali d'ora in
poi si ispirò furono la Confederazione Svizzera e gli Stati Uniti d'America.
« Solo al modo della Svizzera e degli Stati Uniti - scriverà in quel tempo può accoppiarsi unità e libertà » 17 . E, a chi gli faceva notare che uno stato
federale si confaceva solo a popoli diversi per lingua e per tradizioni e che
adattarlo ad una nazione già di per sé unificata da una somma di valori
comuni significava sovrapporre una divisione artificiale ad una unità sostanziale, ribatteva che non sempre dall'unità della lingua e dei costumi
nasceva l'unità degli ordinamenti statali. « No, qualunque sia la comunanza dei pensieri e dei sentimenti che una lingua propaga tra le famiglie e le
comuni, un parlamento adunato in Londra non farà mai contenta l'America; un parlamento adunato in Parigi non farà mai contenta Ginevra; le
leggi discusse in Napoli non risusciteranno mai la giacente Sicilia, né una
maggioranza piemontese si crederà in debito mai di pensar notte e giorno
a trasformar la Sardegna, o potrà rendere tollerabili tutti i suoi provvedimenti in Venezia o in Milano » 18.
A proposito dell'Italia, poi, anche se non espose mai organicamente
la sua teoria, venne in effetti, dal '48 in poi, fin dopo l'unità, chiarendo ed
approfondendo le sue idee in tutta una serie di scritti, saggi, articoli, lettere agli amici, finché non gli uscì della penna quell'espressione, « Stati Uniti
di Italia », che restò un poco come l'etichetta di tutta la sua fede federalistica.
Lungi dal ritenere che il '48 avesse segnato la sconfitta definitiva
della via federale all'unità, dal suo esilio di Lugano, Cattaneo continuò a
spiegare che « se la guerra del '48 era fallita, perché non vi avevano concorsi popoli liberi, ma principi inetti, aveva per lo meno dimostrato che
quel che di alto e di provvido si poteva compiere era stato compiuto non
dai principi ma dai popoli. Milano insorta, Roma Repubblicana, Venezia
ultimo baluardo dell'indipendenza » 19. E nel 1851, continuando nell'analisi
dei motivi che avevano condotto alla sconfitta del '48 e riaffermando ancora una volta la perenne validità della guerra federale, si chiedeva come
mai si fosse scritto « che la guerra del 1848 fu guerra federale? Fra tutti
quelli che comandavano allora li eserciti chi segnò
17 CARLO CATTANEO, Per la Sicilia, in Scritti politici ed epistolario, vol. I,
Firenze, Barbera, 1892, p. 142.
18 CARLO CATTANEO, Proetnio al III volume dell'Archivio triennale in
Scritti politici ed epistolario, vol. I, Firenze, Barbera, 1892, pp. 403-404.
19 N. BOBBIO ,op. cit., p. 33.
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questo patto federale? E quando? E dove? E in che termini? » 20 , dichiarandosi poi polemicamente convinto che « la guerra del 1848 fu intrapresa
senza patto da chi l'ha guidata e non fu federale » 21 e rimbeccando con
asprezza Mazzini che insisteva nel chiamare guerra federale quella del
1848 e consigliava di non ripetere l'infausto esperimento.
In effetti, per quanto Cattaneo si sforzasse di dimostrare il contrario, la guerra del '48 era stata guerra federale ed anche per questo, oltre
che per l'inconsistenza militare del Piemonte, era stata perduta. Si sa come
andarono le cose: gli alleati si tennero sempre ben lontani dalla linea del
fuoco e, tranne qualche reparto che poi disertò e si diede alla guerriglia,
ritornarono a casa senza aver sparato un sol colpo. Malgrado questo, Cattaneo aveva, per altro verso, ragione quando rifiutava il valore di un patto
stretto solo a livello di prìncipi e aggiungeva che un vero patto federale
non era un mero documento diplomatico, ma piuttosto il frutto di una
intensa passione popolare. Ciò comportava di necessità che i popoli facessero da soli, che mettessero da parte i prìncipi e si costituissero in eserciti
popolari. Cattaneo forse non si rendeva conto che, nel momento in cui
parlava di « guerra di popolo » e di « nazione armata », il suo cauto riformismo liberale andava in frantumi ed egli finiva con l'attestarsi su posizioni profondamente rivoluzionarie, tali da affiancarsi ed in un certo senso da scavalcare lo stesso Mazzini, del quale aveva sempre condannato
l'accanito rivoluzionarismo.
6. La guerra del '59 e la polemica con Mazzini.
Gli anni che seguirono furono quelli che poi si dissero del glorioso
decennio di preparazione. Sulla scena politica dominava incontrastata la
figura di Cavour. Dall'esilio di Lugano la voce di Cattaneo giungeva come
un'eco sempre più stanca. Scoppiata la guerra del '59, egli assunse una
cauta posizione di appoggio al Piemonte, sostenendo che « ogni qualvolta
si offra un caso di guerra giova sempre ai popoli scendere in campo... se
non possono avere la guerra per la libertà, ebbene, frattanto, abbiano la
guerra per la guerra » 22.
20 CARLO CATTANEO, Lettera a L. Frapolli del 5 novembre 1851, in
Epistolario, voi. II, Firenze, Barbera, 1952, p. 122.
21 CARLO CATTANEO, Lettera a G. Ferrari del 29 ottobre 1951, in Epistolario, vol. II, Firenze, Barbera, 1952, p. 113.
22 CARLO CATTANEO, Lettera ad A. Bertani in Epistolario, vol. III, Firenze, Barbera, 1954, p. 136.
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Questa volta il disaccordo con Mazzini fu netto e completo. Mazzini, a differenza di quanto aveva predicato nel '48, sosteneva che i repubblicani non dovessero appoggiare la guerra. L'alleanza del Piemonte con
Napoleone fu poi un'altra occasione di polemica tra i due. Cattaneo vedeva, con un errore di valutazione storica e politica, nell'imperatore francese
il continuatore delle tradizioni repubblicane e bonapartiste, soddisfatto tra
l'altro della proposta napoleonica di fare dell'Italia una federazione di stati, e inspiegabilmente sorvolando, lui laico e liberale di vecchia fede, sul
particolare che a capo di questa federazione vi dovesse essere il Pontefice.
Mazzini, invece, considerò la cosa con maggiore lucidità e giudicò l'intervento francese come una ennesima dimostrazione della volontà imperialistica della Francia e come un tentativo di porre un'ipoteca sul futuro stato
italiano.
Dopo l'unità, ebbe inizio la terza fase del federalismo cattaneano.
Dal 1860 in poi, svuotatisi di significato quei temi politici che avevano
preceduto e accompagnato l'unificazione, Cattaneo concentrò il suo lavoro di studioso nel tentativo di dare il proprio contributo all'organizzazione
del nuovo stato. La rinuncia alla parte più importante della sua dottrina
non ebbe tuttavia per Cattaneo mai il sapore di una abdicazione. Fu semmai frutto del suo realismo politico. Di certo Cattaneo si rese conto che,
viste com'erano andate le cose, per alcuni decenni di federalismo in Italia
non se ne sarebbe più parlato. Si trattava ora, in un supremo tentativo di
sopravvivenza, di conservare per gli Italiani del futuro la fede federalistica, tramandandola intatta in tutta la sua purezza etica come l'unica e autentica « teorica della libertà » e di adoperarsi affinché almeno una parte
delle sue idee si fosse rifusa nell'organizzazione del nuovo stato. La sua
attenzione di studioso si concentrò così sui due temi che gli parvero più
importanti: la riforma dell'esercito e l'organizzazione amministrativa.
7. La riforma cattaneana dell'esercito.
L'ideale militare cattaneano può essere sintetizzato in questa sua
stessa formula: « militi tutti, soldato nessuno » 23. Una formula che opportunamente interpretata e sviluppata contiene in nuce tutta la problematica
militare di Cattaneo.
23 CARLO CATTANEO, Considerazioni al I volume dell'Archivio triennale,
in Scritti politici ed epistolario, vol. I, Firenze, Barbera, 1892, p. 275.
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Da una parte, « soldato nessuno », egli si oppone ai grandi eserciti
stanziali che, mentre sono dispendiosissimi per le nazioni e fertile campo di
equivoche manovre politiche e diplomatiche, sono anche privi di vero spirito combattentistico e costituiscono, nello stesso tempo, un costante pericolo di aggressione fra gli stati; dall'altra, « militi tutti », sostiene la validità di
un esercito popolare, il quale, mentre comporta un minore impegno finanziario e per sua natura una maggiore volontà di combattere, sia anche la
somma delle virtù civili e morali del popolo che lo ha espresso. Un esercito
così concepito, osserva Cattaneo, non si sarebbe mai prestato a guerre imperialistiche o a pericolose manovre politiche, avrebbe viceversa sviluppato,
in una guerra di difesa e di liberazione nazionale, una potenza e un impeto
sconosciuti ai militari di professione. Ed ancora, dice Cattaneo, l'esercito
non dovrà essere un corpo estraneo nel contesto della nazione, ma dovrà
essere in piccolo la nazione stessa. Sarà opportuno, pertanto, introdurre
l'addestramento militare in tutte le scuole, le quali « devono preparare la
adolescenza al fine supremo di tutti i nostri pensieri: la difesa della patria.
Tutte le scuole devono avere aspetto militare » 24 .
8. Il contributo di Cattaneo alla organizzazione del nuovo stato.
Il fallimento dell'ideologia federalistica non comportò solo l'avvento
di un sistema statale centralizzato, ricalcato sugli schemi giacobini e napoleonici, ma contribuì anche al profilarsi di un pericolo ben maggiore: la cosiddetta piemontizzazione dell'Italia, fenomeno molto simile ad un vero e
proprio processo di colonizzazione e di acculturazione dei territori annessi.
Il tentativo di piemontizzare l'Italia riuscì solo in parte, o forse non riuscì
affatto, sia per la vitalità culturale dei piemontizzandi, sia perché i rappresentanti del governo sabaudo, che rapidamente si insediarono ai vertici della
burocrazia e della direzione politica, non possedevano né la preparazione
necessaria ad un compito così complesso, né quella duttilità mentale, indispensabile per il buon esito dell'operazione. I piemontesi, tutto sommato,
non seppero vendere la propria mercanzia, e, dovunque, andarono si lasciarono dietro una scia di rancori e di antipatie che rimase proverbiale.
« Il Piemonte - faceva acutamente osservare Cattaneo - essendo
24 CARLO CATTANEO, La nuova legge del pubblico insegnamento, in Scritti letterari, artistici, linguistici e vari, vol. II, Firenze, Le Monnier, 1448, p. 370.
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il solo centro organizzato e vivente, è più forte di tutta la massa; padroneggia; prodiga; abusa; rende odiosa ai popoli l'idea nazionale; finirà col far
sospirare il passato. Per raffrenarlo e bilanciarlo, bisogna dar vita libera agli
altri centri. Bisogna, nel nome della concordia e della vera unità libera e
morale, costituirsi protettori delle autonomie » 25.
Era il naturale sviluppo di chi sapeva che il nucleo maggiore delle
proprie idee era stato sconfitto dai fatti, ma che nello stesso tempo, almeno
a livello di studi e di proposte teoriche, non voleva essere del tutto emarginato dalla vita politica. Cattaneo in sostanza, mentre verificava nella realtà
la sconfitta del federalismo, ne tentava il recupero riproponendolo su basi
più aderenti alla nuova realtà. Fu un'operazione di grande coraggio e insieme di grande onestà morale. La sua polemica si diresse soprattutto contro i
vari progetti di legge comunale e provinciale, e contro il tentativo, poi riuscito, di estendere a tutto il Regno un'unica legislazione.
Dalle pagine del « Politecnico », che aveva ripreso a pubblicare con
nuovo fervore non appena rientrato a Milano dall'esilio svizzero, spiegò a
più riprese i pericoli che questa operazione comportava. In primo luogo,
osservava Cattaneo, nelle abrogate legislazioni degli ex-stati italiani vi erano
spesso norme e consuetudini più moderne ed efficienti delle leggi piemontesi, per cui l'estensione indiscriminata di queste avrebbe semmai prodotto
un regresso e non un progresso; in secondo luogo le esigenze delle varie
regioni erano così particolari e peculiari da non poter essere adeguatamente
soddisfatte da una legislazione unificata. « Il mio voto - scriveva Cattaneo
già nel 1859 con esemplare preveggenza - è che ogni stato d'Italia muti la
sua legislazione e amministrazione da sé medesimo, e solo in quanto possa
sostituirvi delle leggi assolutamente ed evidentemente migliori » 26. Era già
quasi un progetto di organizzazione regionale, progetto che è rimasto per
cento anni nella coscienza della classe politica italiana come una presenza
sopita, ma sempre pronta a rivivere.
Tuttavia il fulcro dell'azione per una riorganizzazione democratica e
liberale dello stato fu individuata da Cattaneo nell'attività politica del Comune. « I comuni sono la nazione - scriveva a commento della legge
CARLO CATTANEO, Lettera ad A. Bertani del maggio 1862, in Epistolario, vol. IV, Firenze, 1956, p. 56.
26 CARLO CATTANEO, Lettera a Gino Duelli del 10 luglio 1859, in Epistolario, vol. III, Firenze, Barbera, 1954, p. 171.
25
163
comunale e provinciale - nel più intimo della sua libertà » 27.
Il Comune rappresentò per Cattaneo oltre che uno strumento politico dal quale non si poteva prescindere per un armonico sviluppo economico di tutto il Paese, anche il primo elemento dialettico di quella «
teorica della libertà », per cui egli aveva speso tutte le sue energie di pensatore e la sua passione di patriota. Come l'esercito nazionale e popolare
doveva nascere sui banchi delle scuole, così la libertà, la democrazia, e le
virtù civili, dovevano nascere nei consigli comunali, sia in quelli dei grandi
agglomerati urbani, sia in quelli dei piccoli paesi sperduti fra le montagne
del Sud.
9. Giudizio sul federalismo cattaneano.
Il federalismo cattaneano si è portato dietro, in questi cento anni di
ripensamento della storia risorgimentale, l'accusa di essere una teoria fondamentalmente antiprogressista. Questa accusa, anche se è stata poi ampiamente forzata e strumentalizzata dalla cultura ufficiale di ispirazione,
sabauda, contiene una parte di verità. Ma è giusto sottolineare che se il
federalismo volgeva lo sguardo al passato, era anche tanto in anticipo sulle ragioni del tempo e tanto proiettato nel futuro da non poter essere veramente capito.
Passati e recenti studi hanno approfondito il problema del doppio
volto del federalismo e ne hanno lucidamente fissato i termini 28. Quando
Cattaneo parla degli Stati Uniti d'Italia, lo fa con lo sguardo volto alla civiltà dei Comuni, allo splendore economico e culturale della Venezia dei
Dogi e della Firenze dei Medici. In questo è certamente l'aspetto deteriore
e antiprogressista della sua analisi storico-politica, anzitutto perché la sua
« teorica della libertà » avrebbe difficilmente trovato diritto di cittadinanza
in strutture statali del genere, e poi perché questo tipo di analisi del passato stava a dimostrare una imperfetta intelligenza del proprio tempo.
L'800, in parte nella prima metà, e maggiormente nella seconda, avrebbe registrato invece il trionfo delle grandi compagini nazionali fortemente centralizzate. Gli Stati europei, sbarazzatisi di quei residui di forze
centrifughe che nei secoli precedenti avevano fatto tremare il potere dei
monarchi, si accingevano a cimentarsi nella grande avventura
27 CARLO CATTANEO, Sulla legge comunale e provinciale, in Scritti politici,
vol. IV, Firenze, Le Monnier, 1964, p. 422.
164
imperialistica e colonialistica. Se la Francia, subito dopo la rivoluzione, cioè
in un momento di intenso travaglio politico e morale, era riuscita a tenere a
bada e a vincere gli eserciti coalizzati di mezza Europa, lo doveva anche alla
rigida direzione politica della capitale. Le vittorie napoleoniche e, mezzo
secolo dopo, il trionfo della Prussia di Bismarck, sia all'interno della nazione germanica, sia all'esterno contro l'Austria e la Francia, sarebbero nati
anche dal rigido centralismo della guida politica. Uno stato federale, pur
volendo prescindere dai problemi di politica interna, sarebbe stato fatalmente emarginato nella grande competizione a livello internazionale. Tutto
questo sfuggì a Cattaneo. Nella sua ansia di teorizzare sulla libertà e sulla
democrazia, gli sfuggì l'aspetto più saliente della sua epoca, che cioè l'Europa già da tempo si avviava lungo la via della più spietata competizione politica ed economica: una competizione che si sarebbe tragicamente risolta
solo nei primi decenni del '900, e che sarebbe stata chiamata l'età dell'imperialismo.
Tuttavia oggi è chiaro, ed è in questo che il federalismo si proietta
utilmente nel futuro per giungere ancora vivo fino a noi, che tutto ciò che,
in questo complesso processo di assestamento degli stati nazionali, l'Europa
acquistava in splendore economico e in potere politico, veniva pagato in
termini di democrazia e di libertà. Quando più le nazioni acquistavano coscienza della propria sostanza nazionale, tanto meno sviluppavano, al di là
dei più o meno demagogici suffragi universali, all'interno delle proprie
strutture politiche ed amministrative, quella che oggi viene chiamata democrazia diretta.
E questa democrazia di base, il potere decisionale assunto da ogni
singolo cittadino, rappresenta la parte più cospicua dell'intero messaggio
etico-politico di Cattaneo. Rappresenta proprio quella parte proiettata nel
futuro, che ieri non fu capita e che oggi viene ampiamente recuperata nella
costruzione di una nuova società.
ROSARIO MICHELINI
28
cfr. N. BOBBIO, op. cit., p. 43 e segg.
165
Relazione tecnica sullo sviluppo
del Gargano *
Ipotesi
L'abbandono del Gargano è espressione delle nuove esigenze che
scaturiscono dal confronto fra la scala dei valori tradizionali (anche economici) della cultura locale in disintegrazione, e la nuova scala di valori proposta dalla civiltà industriale, scala accettata e suggerita da strumenti d'informazione, fra i quali i mass-media (cioè i mezzi di informazione di massa,
quali la televisione, il cinema, i giornali, ecc.) svolgono un ruolo importante.
1°) Gli abitanti del Gargano desiderano in percentuale sensibile abbandonare il
luogo dove vivono ed il lavoro che fanno.
Il Gargano, posto sul fianco orientale della penisola italiana, formato
da una montagna solitaria fra la vasta pianura del Tavoliere di Puglia e il
mare Adriatico, per la sua posizione geografica è rimasto per millenni come
avulso dal retroterra.
I suoi ridottissimi collegamenti iniziali con il resto del mondo, si
(*) L'indagine sociologica che pubblichiamo, fu effettuata nel 1965 per incarico degli Istituti di Sociologia delle Università di Bonn e di Padova.
Pure essendo attualmente alcune cose mutate, riteniamo utile darla alle
stampe per il valore prevalentemente documentario che essa rappresenta e per l'interesse che potrà avere in futuro, essendo - se non erriamo - l'unico studio d'insieme esistente sull'argomento.
Fu abbondantemente utilizzata nel volume « La montagna del sole » a
cura dei professori G. EISERMANN e S. ACQUAVIVA (Il Gargano: rottura dell'isolamento e influenza dei mezzi di comunicazione di massa in una società in transizione. Ed. di
Comunità - Studi e ricerche di scienze sociali - Milano 1971), che alla loro opera hanno
dato lo stesso titolo della monografia dell'autore del presente lavoro, vincitrice del
Premio letterario « Gargano » 1954 e pubblicata :n due edizioni dall'EPT di Foggia.
166
svolgevano preminentemente attraverso le coste, per l'assoluta mancanza di
strade.
Unico punto di richiamo e di attrazione fu, nell'era pagana, il tempio
di Calcante, ubicato su un'altura del versante meridionale, dove s'invocavano gli oracoli.
Verso il 500, a tale culto si sostituì quello di S. Michele Arcangelo,
che diede poi origine al faticoso sorgere di Monte Santangelo, che richiamò
e richiama tuttora numerosi visitatori.
Ma rimasto senza strade rotabili fino al 1865, solo dopo tale epoca ha
avuto inizio il suo inserimento, non ancora completo, nella vita nazionale.
Fino al principio del secolo in corso, erano rari i casi di trasferimenti
definitivi da parte dei suoi abitanti. Si riducevano a pochi professionisti che
abbracciavano le carriere statali, mentre tutti gli altri rimanevano in paese,
dove erano numerosi i nuclei degli appartenenti alle diverse professioni.
La migrazione invece, per la maggior parte temporanea, ha avuto un
certo sviluppo con quella verso l'America del nord. Ma il fenomeno è rimasto circoscritto ad una bassa percentuale dell'intera popolazione ed aveva
prevalentemente lo scopo di un limitato guadagno per lo acquisto della casa
e del campicello; si tornava poi al paese d'origine, al quale i garganici si sentivano fortemente legati.
Fu con la prima guerra mondiale che il tradizionale isolamento del
Gargano e dei suoi abitanti, accusò rilevanti sintomi di rottura. Il richiamo
alle armi di molti suoi abitanti, le informazioni personali ed attraverso la
stampa che giungevano sempre più frequenti, la permanenza oltre il perimetro del Promontorio specialmente dei giovani per gli obblighi militari, determinarono la conoscenza di più vasti orizzonti di vita, ed ebbe così inizio
il processo collettivo di raffronto e d'indagine, sviluppatosi poi con sempre
maggiore ampiezza.
Cominciarono ad abbandonarsi gli usi ed i costumi locali, e s'impose
in tutti i ceti l'aspirazione ad allinearsi con il resto del mondo, favorita dai
mezzi materiali di comunicazioni e da quelli d'informazione anche attraverso l'etere, in progressivo sviluppo.
La politica autarchica e nazionalistica del regime fascista, contenne il
fenomeno. E la lotta all'urbanesimo ed alle migrazioni interne, disciplinate
anche da provvedimenti legislativi, ne vietarono l'ampliarsi.
Però subito dopo la seconda guerra mondiale, il fenomeno esplose
virulentemente e determinò il crollo di una tradizione millenaria, seb167
bene le sopravvivenze nei meno giovani siano tuttora considerevoli.
Non che i giovani non amino la propria terra garganica, alla quale rivanno spesso con nostalgico ed accorato rimpianto, ed alla quale tornano
con letizia per trascorrervi le ferie. Ma il desiderio di una vita nuova, di lavoro più redditizio, del soddisfacimento di più progredite esigenze, determinano in essi il desiderio di evasione, per cui una sensibile percentuale
aspira ad abbandonare - anche definitivamente - il luogo d'origine e a svolgere un'attività diversa da quella - prevalentemente agricola - la sola - allo
stato - esistente in loco, che d'altra parte non può assicurare che scarsissimi
ed aleatori redditi, per la crisi in cui si dibatte questa branca della economia
italiana. Tale crisi e l'assenza totale di industrie, determina un livello di vita
molto basso nella generalità della popolazione, per cui anche i neolaureati si
allontanano dai luoghi di origine e l'intellettualità nei paesi è ridotta a pochi
anziani liberi professionisti e circoscritta agli insegnanti elementari ed ai
docenti delle scuole medie.
Non si può quindi affermare che questo desiderio di abbandonare il
Promontorio e il lavoro che su di esso si svolge, da parte degli abitanti, abbia un substrato preminentemente psicologico. E' invece per la gran parte
determinato da ragioni economiche, per un migliore avvenire personale e
dei componenti i nuclei familiari, al quale i garganici - sostanzialmente saggi
e parchi - aspirano.
2°) Il concetto del punto 1°), mostra la sua validità in presenza di una disintegrazione del contesto culturale in senso lato, quale rifiuto dei valori di gruppo della cultura
garganica.
Siamo dunque ora in presenza di una vera disintegrazione del contesto culturale garganico che se origina da fattori preminentemente economici, si esplica e si manifesta nell'abbandono delle tradizioni e delle credenze
popolari, della moralità e dei costumi di un tempo, e in concezioni meno
fatalistiche della millenaria ed unica religione (la cattolica) della zona, ma
con criteri più aderenti ai nuovi indirizzi.
Inoltre altre credenze religiose si son fatto strada nella popolazione e
sono sorti, in alcuni paesi, nuclei - sia pure non molto numerosi - di evangelisti ed anche (a San Nicandro) di seguaci dell'ebraismo. Ciò non significa
che la religiosità popolare abbia subito profonde incrinature o che sia in
sfacelo il sentimento religioso dei garganici. Dimostra però una più moderna maniera di concepire l'Ente supremo con l'abbandono del misticismo
medioevale che era sopravvissuto, permeato
168
molte volte di superstizioni paganeggianti, una più razionale interpretazione
dei riti, un accostamento più umano degli esseri terreni alla divinità.
Tutto questo non ha però diminuita - se non in misura trascurabile la frequenza ai templi e l'accostamento ai Sacramenti, sebbene sia ormai
esiguo, in tutti i paesi garganici, il numero dei ministri di culto, e le vocazioni per la vita sacerdotale siano in grande ribasso. Ma qualitativamente tali
vocazioni sono di gran lunga preferibili, perché veramente pure, a quelle dei
tempi passati, quando si riteneva un onore avere un prete nella famiglia,
senza andare tanto per il sottile, anche come conquista di un maggior benessere economico per i privilegi di cui il ceto godeva.
I giovani, pur non rinnegando totalmente la validità dei valori morali
tradizionali, preferiscono l'allineamento con gli usi e costumi europei. Ed il
contrasto fra le concezioni di vita dei genitori e quello dei figli, si accentua
sul Gargano sempre di più, e alla rigida e patriarcale autorità paterna tradizionale, si sostituisce, via via, una libertà ribelle, ed alle volte sconsiderata,
dei membri delle famiglie.
Anche il comportamento della donna ha subìto sostanziali modifiche
sia nella foggia del vestire che nella concezione del vivere.
Fino al primo decennio del secolo in corso, era d'obbligo nel popolo
la foggia locale, attenuata però rispetto a quella dei secoli precedenti. E si
distingueva facilmente una popolana da una appartenente alla borghesia che
seguiva la moda.
Poi la prima guerra mondiale scardinò tale uso ed anche le donne del
popolo cominciarono ad aggiornarsi. Tale tendenza si è sempre più affermata ed attualmente non è possibile distinguere - dal modo di vestire - la
classe sociale alla quale una donna appartiene.
E tante volte non è neanche possibile tale distinzione dal linguaggio,
per il diffondersi della cultura e l'abbandono del vernacolo.
Circa la concezione di vita, si è fatta strada la parità dei due sessi, per
cui non si assiste più alla supina sottomissione della donna all'uomo.
La donna sul Gargano non ha ancora la completa libertà di cui gode
comunemente nelle altre regioni. Però può uscire sola col fidanzato di giorno - cosa impossibile nel passato - viaggiare sola, guidare la macchina, procurarsi un lavoro anche lontano dalla famiglia.
Questo disintegrarsi dalla cultura garganica tradizionale, è - senza
dubbio - determinato da una maggiore conoscenza della società industriale
che assorbe, in sempre crescente misura, i transfughi dal Gargano,
169
attratti dal miraggio di un lavoro meno pesante di quello agricolo, più redditizio e con maggiore sicurezza di continuità, e quindi dalle possibilità di indipendenza e di distacco dagli originali aggregati.
Questo desiderio di libertà e di indipendenza è forse l'unico elemento
psicologico che contribuisce alla disintegrazione del contesto culturale tradizionale, in netto contrasto al lungo stato di soggezione e di contenimento
rigido degli impulsi e delle aspirazioni giovanili.
3°) Conseguentemente, sulla decisione delle popolazioni garganiche, influisce in modo sensibile la conoscenza reale della scala dei valori (ed economicamente dei consumi e dei
redditi) della società industriale.
Indubbiamente tale disintegrazione dei valori della cultura garganica
in atto, trova la sua base nella conoscenza della scala dei valori della società
industriale.
L'unica fonte di reddito e di occupazione, e di produzione di ricchezza è ancora oggi rappresentata sul Gargano dall'agricoltura. Una agricoltura
povera, collinare, fortemente minata dalle inclemenze stagionali e dallo
squilibrio fra i prezzi di costo e quelli di vendita dei prodotti.
Anche l'altra attività, quella marinara della pesca e del commercio
marittimo, che per le popolazioni costiere rappresentava un rilevante settore d'impiego, è in sfacelo per la mancanza di porti che possano offrire sicuro rifugio ai motopescherecci che hanno sostituite le vecchie barche a vela,
con maggiore possibilità di pescato e di trasporti a più ampio raggio ed a
più basso costo.
L'agricoltura e il mare erano una volta le fonti di reddito che soddisfacevano le modeste esigenze dei garganici. Esigenze che si limitavano al
soddisfacimento dei bisogni essenziali di nutrimento e di alloggio: il primo
assicurato dal grano, dai legumi e dalle verdure, mentre solo poche volte
l'anno, nelle grandi solennità, sui deschi appariva la carne e il vino. Il secondo formato, nella gran parte dei casi, da un solo vano dove si accalcava
tutta la famiglia - molte volte numerosa - per soddisfare tutte le necessità di
vita e di riposo.
Dopo il 1865, i rari mezzi di trasporto, lenti, di limitata capacità e costosi, che percorrevano le poche strade del Gargano, portavano soltanto
l'eco di quanto avveniva al di là delle ultime pendici del Promontorio.
170
L'autolinea istituita nel 1912 e lo sviluppo della stampa quotidiana,
rappresentarono un mezzo di informazione di maggiore celerità e di indubbia influenza. Però l'analfabetismo costituiva una forte remora alla conoscenza di valori diversi dai tradizionali ed una percentuale imponente della
popolazione rimase ignara delle vette che man mano l'industria raggiungeva
e la scienza conquistava.
Un risveglio si ebbe con la lotta tenace ingaggiata contro l'analfabetismo, con la costruzione della ferrovia garganica e con la istituzione di diverse autolinee.
Così per il popolo del Gargano ebbe inizio l'inserimento nella comunità nazionale e la conoscenza della civiltà industriale, che nel nord si sovrapponeva a quella agricola, cominciò a diffondersi nella massa. Una diffusione ancora lenta, capace però di stimolare le prime aspirazioni di evasione
e fecondare germi latenti di ribellione ad una esistenza grama che si tramandava da secoli.
E dato che in quel periodo altre emigrazioni - né interne né all'estero
- erano possibili, diversi garganici seguirono la via dello impero etiopico unica meta consentita - dove alcuni sono rimasti anche dopo l'abbandono,
da parte italiana, di quei territori.
4°) Se l'influenza esercitata dal rapporto fra gli schemi di riferimento e di confronto individuati attraverso la dimostrazione della validità dei punti 2°) e 3°) è sensibile, quali mezzi d'informazione hanno operato ed operano la trasformazione (1 - I
mezzi di comunicazione di massa - radio, tv, ecc. - 2 - I mezzi d'informazione umana, da individuo a individuo - 3 - Le notizie ottenute attraverso
l'emigrazione).
Il periodo bellico 1940-43, e le conseguenti sofferenze della disfatta,
acuirono l'aspirazione di nuove mete, mentre gravi agitazioni si verificavano
per la disoccupazione di massa che affliggeva la popolazione.
In quel tormentato periodo, nella incapacità di assorbimento del
bracciantato da parte dell'agricoltura, venute meno le leggi che limitavano i
trasferimenti da Comune a Comune, si assistette alle prime avventurose
migrazioni principalmente verso il nord.
All'inizio le notizie si diffusero attraverso i mezzi di informazione umana, da individuo a individuo. Gli emigrati chiamarono poi parenti ed amici
presso le aziende industriali dove erano occupati. Cominciò il travaso dei risparmi verso le famiglie rimaste nei paesi e il benessere - se pure relativo ma
rilevante se paragonato alla precedente miseria
171
- cominciò a diffondersi. Fra le prime spese che si ritenne di fare comunemente, fu quella di un apparecchio radio per seguire celermente gli avvenimenti e sentire i programmi specialmente di musica leggera.
In un decennio, fra il 1955 e il 1964, vi è stato sul Gargano un incremento, sulla utenza degli apparecchi radio, che si aggira intorno al
170% (1955 = 100) ed è quindi da desumersi che tale mezzo di informazione abbia notevolmente operato sulla massa.
Non lo stesso può dirsi della stampa che sebbene abbia registrato
un incremento negli abbonamenti e nella vendita di copie di giornali, come mezzo d'informazione resta notevolmente al di sotto dello sviluppo
raggiunto nel numero degli apparecchi radio. I giornali sono letti prevalentemente dalla intellettualità locale e dall'artigianato; il rimanente popolo
si limita per la maggior parte e specialmente nel settore giovanile all'acquisto della stampa di bassa cultura.
L'emigrazione, dopo il suo incerto inizio ed il conseguente sviluppo
verso le città specialmente del nord, cominciò a mirare a mete più lontane
e raggiunse il suo acme con la richiesta di mano d'opera da parte delle nazioni industrialmente più progredite, come la Germania, la Svizzera e la
Francia, sebbene rilevanti correnti si dirigano verso l'Australia e il Canadà.
Ed assistiamo attualmente ad un vero esodo di unità lavorative, determinato da diversi fattori: condizioni economiche, ricerca di modelli di vita
nuovi, presa di coscienza delle proprie condizioni, realtà culturali (come la
televisione). Tale esodo, mentre contribuisce al progresso economico della comunità garganica, propone d'altra parte gravi problemi d'indole
psicologica e morale.
L'emigrato sente fortemente la nostalgia della propria terra alla quale volentieri ritorna sempre che gli si offre la possibilità. E questo forzato
distacco non contribuisce a stimolare simpatie verso le correnti politiche
dominanti, alle quali si fanno risalire le responsabilità di una politica economica non conforme alle necessità del popolo.
D'altra parte, specialmente quando è il capo famiglia ad emigrare, i
nuclei famigliari risentono fortemente della sua assenza. E si assiste alle
volte ad una vera disintegrazione di quest'organismo che è a base di ogni
organizzazione sociale e che tradizionalmente e - riteniamo - insostituibilmente rappresenta il fondamento di tutte le convivenze nazionali. La
moralità delle donne che rimangono per lunghi periodi senza poter soddisfare le esigenze sessuali, traballa e cede. Ed alle volte si sente parlare, in
sordina, di procurati aborti e di pratiche illecite per nascondere le infedeltà ai mariti lontani. Per cui, in definitiva,
172
serpeggia uno stato di acredine nei confronti dei governi che non sanno far
sorgere nuovi posti di lavoro atti a consentire di raggiungere in loco i risultati economici che l'emigrazione procura. I quali alle volte creano altrove
nuove famiglie e non ritornano più a quelle d'origine.
5° Giudizio sui principali programmi predisposti dal Governo per la soluzione
dei problemi del Gargano.
Alle sfere politiche governative non è sfuggito tale stato d'animo delle masse, ma finora non si è provveduto a predisporre programmi tali che
possano fronteggiare la situazione. E non è facile.
Ma i problemi del Gargano presentano gli aspetti più disparati e interessano i settori più vari.
Limitandoci ai principali li esamineremo succintamente.
In primo piano sono quelli attinenti all'agricoltura ed alla zootecnia.
L'agricoltura è stata sempre povera perché praticata su terreni collinari,
essendo di estensione ridottissima le poche pianure.
Dal principio del nostro secolo, la fame di terra di una popolazione
sempre in incremento, diede l'avvio al disboscamento per destinarne i terreni alle culture prevalentemente erbacee. Ebbe così inizio il dilavamento
dei dorsi collinari ed agli allevamenti - essenzialmente bradi - venne a mancare l'estensione necessaria per la sopravvivenza.
Con il passare degli anni la situazione si è sempre più aggravata ed
oggi questo settore importantissimo si presenta nelle condizioni più disastrose che si possano immaginare.
I dorsi collinari, ormai sterili, sono stati abbandonati e gli allevamenti
sono ridotti a proporzioni irrisorie, ostacolati anche dalla vecchia piaga dell'abigeato, che nessun Governo è riuscito mai ad eliminare totalmente.
Dal centro si è cercato di correre ai ripari favorendo l'ammodernamento delle aziende agricole e la loro ricostituzione su estensioni meno ridotte delle attuali. Si è cercato anche di favorire la meccanizzazione con
contributi statali e la creazione della piccola proprietà contadina. Ma i risultati non hanno in nessun modo arginato l'esodo dalle campagne che prosegue a ritmo costante. E non potevano incidere decisivamente non solo per
il grande frazionamento della proprietà terriera ma anche per il difficile e
quasi impossibile impiego dei mezzi meccanici sulla gran parte del comprensorio garganico, aspro e dirupato.
D'altra parte si è trattato di provvedimenti a carattere generale,
173
senza tener conto delle difficoltà dell'agricoltura collinare alle quali le
provvidenze, proficue per la pianura, non sono applicabili.
Anche la zootecnia non ha trovato sollievo nei contributi statali perché, specie per gli allevamenti bovini, manca la possibilità di procurarsi i
mangimi a basso costo con una produzione in economia. Per la mancanza
di acqua non è possibile la cultura di prati artificiali che consentano diversi tagli di erbe foraggiere. Pertanto ogni allevamento deve tuttora fondarsi
sul pascolo brado, che trova difficoltà gravi sia nell'enorme spezzettamento della proprietà, sia nella trasformazione di molti terreni sottratti così al
pascolo, sia infine nella difficoltà di reperire personale che voglia dedicarsi a tale attività. Né si può registrare una decisa azione volta al miglioramento dei pascoli esistenti allo scopo di sostituire con la qualità la quantità di estensione disponibile.
Inoltre - ed è forse questo il fattore più importante - negli agricoltori e negli allevatori, è venuta meno la fiducia nell'avvenire di tali branche
della economia nazionale. E si assiste al fenomeno che anche i coltivatori
diretti abbandonano i propri fondi ed emigrano all'estero. Dal che deriva
che molti campi risultano incolti mentre fino a quando la emigrazione non
aveva assunto le proporzioni attuali, si cercava di utilizzare ogni angolo di
terra. E sono ancora visibili i terrazzamenti in alcune zone (specie all'agro
di Monte S. Angelo), dove si trasportava la terra da località in cui abbondava per fecondare la roccia.
Un altro dei principali problemi del Gargano è rappresentato dalla
povertà della rete viaria. Si notano ancora vaste sacche impervie, accessibili
solo a piedi o a dorso di mulo, e in gran parte sconosciuto dagli stessi abitanti del Promontorio.
Anche in tale settore gli interventi statali sono stati inadeguati nel
modo più assoluto. E lo dimostra con palmare evidenza il fatto che una
strada - la Cagnano Varano / San Giovanni Rotondo - dopo circa un secolo dal suo inizio, non è stata ancora completata. Anche la televisione, su
tale nostra disavventura, ha trasmesso, tempo addietro, un servizio filmato.
Il tronco ferroviario, costruito verso il 1930 ed entrato in funzione il 15
novembre 1931, con un tracciato che permette solo velocità ridotte per le
strette curve che presenta, e con un capolinea in aperta campagna nella
piana di Calenella, è rimasto fermo a quello che era al momento della costruzione, senza che le istanze di ammodernamento siano state accolte. Il
prolungamento fino a Vieste ed oltre, per l'eccessivo costo
174
di costruzione con indispensabili trafori e la certezza di una gestione passiva, non è attuabile. Che anzi una forte corrente di opinione pubblica la vorrebbe limitata a Rodi, fin dove si dimostra utile ed anche attiva specialmente per l'afflusso dei bagnanti nel periodo estivo. E sarebbe ancora più frequentata se fosse adeguatamente ammodernata perché il percorso si potrebbe compiere in minor tempo. Il tratto Rodi-Calenella registra pochissimi viaggiatori, mentre ostacola fortemente lo sviluppo della riviera.
Anche per i porti vi è stasi assoluta, non essendo fornito tutta la costa
garganica e le isole Tremiti neanche di un solo porto rifugio. Tutte le istanze sono rimaste inascoltate, sebbene innumerevoli volte ripetute specialmente quando questa incresciosa situazione determina naufragi e vittime.
Anche la situazione igienica dei centri abitati lascia ancora a desiderare,
pur dovendosi riconoscere che nell'ultimo dopo guerra si sono riscontrati
interventi statali in questo settore, che rimane però ancora deficitario per
l'insufficienza di reti fognanti e di dotazione di acqua corrente. Quello dell'acqua poi è un grosso problema, non essendo più l'acquedotto pugliese in
grado di soddisfare le utenze. Queste d'altra parte sono aumentate in modo
impressionante e la quantità d'acqua convogliata alle sorgenti del Sele, non
può più soddisfare i bisogni di una popolazione fortemente incrementata e
con esigenze maggiori di mezzo secolo addietro. Però almeno in parte il
problema si poteva risolvere utilizzando le poche sorgenti del Gargano ed
anche gli strati imbriferi costieri. Ma finora l'Ente Acquedotto Pugliese nessun provvedimento ha adottato per cui la erogazione dell'acqua si riduce a
poche ore al giorno. E tale deficienza d'acqua rappresenta una remora della
massima importanza per il promettente sviluppo turistico in atto.
Si parla da tempo di immissione nelle condotte principali delle acque
del fiume Calore, ma finora nulla di positivo è stato fatto. Alcuni Comuni
del Gargano, come Vico, Ischitella e Rodi, potrebbero probabilmente essere autosufficienti se si provvedesse all'imbrigliamento delle sorgenti esistenti negli agri di tali centri. Si avrebbe un alleggerimento della pesante situazione - seppure di carattere locale - ed altri paesi del Gargano potrebbero
beneficiare di una maggiore erogazione da parte dell'acquedotto pugliese.
Ma il problema è tuttora in fase di esame pur presentando carattere d'urgenza.
Un altro grave problema è rappresentato dal progressivo disfacimento
del nostro patrimonio artistico ed archeologico che sta andando
175
in rovina, o scomparendo.
I monumenti da salvaguardare sono di rilevante interesse sia artistico che storico. Eppure non si trovano i fondi per provvedere alle necessarie cure e restauri. I castelli, le abbazie, le torri di difesa ecc., ogni giorno
perdono una pietra e si assiste impotenti al loro disfacimento.
Anche l'archeologia è abbandonata totalmente ad eccezione di qualche limitata iniziativa di isolati archeologi.
Eppure la terra garganica rinserra un patrimonio del massimo valore se si pensa alla grotta di Paglicci che recentemente ha mostrato le immagini grafitiche più antiche d'Italia, risalenti a ventimila anni addietro. E
sono dappertutto testimonianze della civiltà preistorica che arriva fino al
paleolitico.
Per cui non si può asserire che il Gargano abbia avuto dal Governo
quelle particolari provvidenze alle quali avrebbe diritto, né che si siano
formulati programmi atti a incrementare l'economia della zona ed arrestare l'emorragia in atto delle forze di lavoro. Ha beneficiato in qualche modo solo delle provvidenze governative di carattere generale.
6°) Programmi predisposti dai diversi enti locali (Consorzio generale di bonifica di Capitanata, Consorzio di Bonifica Montana del Gargano, Comuni, Provincia).
Un movimento locale, sorto ad iniziativa di pochi uomini, diede vita
nel 1947 all'Associazione per la Rinascita Garganica, costituitasi in Rodi il
13 aprile di quell'anno. Tale associazione, specialmente attraverso il suo
organo di stampa « IL GARGANO » agita i problemi del Promontorio e
fa da stimolo agli enti centrali e locali per la loro soluzione. Costituì nel
1951 il Consorzio Dauno per la valorizzazione turistica ed economica del Gargano allo
scopo di beneficiare dei provvedimenti di cui all'art. 7 della legge istitutiva
della Cassa per il Mezzogiorno. E successivamente, nel 1956, riuscì a costituire anche il Consorzio di Bonifica Montana del Gargano in applicazione della
legge generale sulle bonifiche montane.
Il primo ente, dopo un periodo di discreta attività durante il quale
provvide alla costruzione di alcune opere pubbliche specialmente nei Comuni di San Giovanni Rotondo, Manfredonia, Monte S. Angelo e Peschici, segna ora il passo in attesa che siano disposti i finanziamenti delle opere progettate, da parte della Cassa per il Mezzogiorno. Ha un vastissimo
programma di opere infrastrutturali, specialmente viarie, on176
de consentire la valorizzazione di tutto il Promontorio, di riconosciuta ed
integrale preminente vocazione turistica.
Il Consorzio di Bonifica Montana del Gargano, ha fin qui potuto
disporre di circa cinque miliardi di finanziamenti di opere pubbliche, erogati per la maggior parte dalla Cassa per il Mezzogiorno e per il rimanente
dal Ministero dell'Agricoltura e Foreste. Ha così potuto realizzare diverse
opere stradali e rimboschire alcuni limitati comprensori, oltre che iniziare
la disciplina di acque a carattere torrentizio.
Il programma di bonifica montana di tale ente, è senza dubbio degno di rilievo. Ma non potrà essere condotto a termine per le limitazioni
dei finanziamenti che la Cassa per il Mezzogiorno si è imposta. Questo
grande organismo, infatti, ha nel suo programma di rilancio, interventi
massicci nel settore agricolo solo in quei comprensori dove sono già in
avanzata costruzione opere valide per la irrigazione di vaste zone. Questo
è in atto nel Tavoliere con la diga di Occhito che sarà alimentata dalle acque dell'Ofanto e che potrà provvedere alla irrigazione di buona parte della pianura dauna, mentre nel Gargano simili opere non sono previste. Pertanto le erogazioni al Consorzio di bonifica montana subiranno se non un
arresto totale, certamente un forte ridimensionamento e l'opera iniziata
non potrà essere proseguita. E chi sa se e quando sarà possibile riprendere
il cammino.
Il Consorzio Generale di Bonifica di Capitanata, che riunisce in se tutti i
consorzi dei diversi bacini, opera sulle estremi pendici dell'acrocoro garganico e più che altro nei comprensori dei laghi di Lesina e di Varano. Ma
a parte il fatto che la pluralità di enti non giova ad un coordinato sviluppo
del Promontorio (mentre esso nei suoi naturali confini storici delineati dai
fiumi Candelaro e Fortore doveva essere riunito sotto l'unica competenza
del Consorzio di bonifica montana), diverse opere eseguite dal Consorzio
Generale di Bonifica (banchinaggio del Varano e relative colmate perimetrali, irrigazione della piana di Carpino, ecc.), sono state tanto erroneamente realizzate da essersi risolte in un inutile dispendio di circa un miliardo di lire, senza che i lavori in oggetto siano risultati efficienti o addirittura compiuti.
Ora questo Consorzio è in fase di riordinamento per la disorganizzazione interna verificatasi e quindi la sua attività sul Gargano è quasi nulla.
Nei programmi dei Comuni, si nota un'aspirazione costante per la soluzione dei problemi locali in tutti i campi. Ma le fazioni politiche in contrasto, i dissestati bilanci comunali, la difficoltà di ottenere
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finanziamenti specialmente in questo periodo congiunturale, i costi delle
opere, ne ritardano l'attuazione.
L'Amministrazione Provinciale si dibatte fra crisi politiche ricorrenti
per mancanza di una maggioranza precostituita, che ne intralciano la funzionalità. Ma nei limiti del possibile, opera particolarmente per la manutenzione, il miglioramento e l'accrescimento della rete viaria del Gargano.
Recentemente ha anche appaltato la costruzione di alcune nuove ed utili
arterie.
7°) Prospettive di sviluppo della zona nel settore agricolo, commerciale, artigianale, industriale e turistico.
Dopo quanto abbiamo rilevato circa il desiderio di una sensibile
percentuale degli abitanti del Gargano di abbandonare il Promontorio anche permanentemente e di dedicarsi ad attività diverse da quelle abituali,
quale conseguenza del rifiuto dei valori di gruppo della cultura garganica
derivante da una maggiore conoscenza dei valori della società industriale,
e le cause che lo determinano, esaminiamo brevemente le prospettive di
sviluppo della zona nei diversi settori: agricolo, commerciale, artigianale,
industriale e turistico.
Settore agricolo - Perché questo settore potesse riattirare nella propria
sfera l'interesse di coloro che lo hanno abbandonato per preferirgli quello
industriale, si dovrebbe - in linea generale - verificare l'equiparazione dei
redditi. Dovrebbe cioè l'agricoltura essere messa in condizioni tali che ai
suoi prodotti fosse possibile applicare quelle maggiorazioni percentuali fra
il costo di produzione e quello di vendita, che rappresentassero l'utile netto dell'impresa, depurato delle retribuzioni per la mano d'opera uguali a
quelle che l'industria è in grado di corrispondere. Solo così sia gli imprenditori agricoli che gli operai, sarebbero invogliati a riprendere questa attività, difficile anche per le variazioni atmosferiche che molte volte distruggono gli sforzi di lunghi periodi. E bisognerebbe anche e soprattutto ricreare la fiducia negli operatori economici, fiducia ora minata dalla incertezza sul concetto della proprietà che esperienze tentate e risultate controproducenti (come la riforma agraria) hanno distrutto.
Inoltre l'appartenenza dell'Italia al Mercato Comune, limita le possibilità di una politica economica agraria indipendente e non dà modo di
poter svolgere un'azione protezionistica per i prodotti italiani.
178
In particolare per quanto riguarda l'agricoltura garganica, povera
perché collinare e limitatamente suscettibile a nuove forme di conduzione
più economiche per l'apporto della meccanizzazione, si dovrebbe seguire
un processo particolare di esenzione quasi totale da imposte e tasse per un
certo periodo occorrente al rilancio e di sovvenzioni nelle annate di deficiente raccolto, si dovrebbe consociarla agli allevamenti agevolando la
costituzione di medie proprietà e il miglioramento dei pascoli, si dovrebbero adottare severissime norme per la punizione dell'abigeato.
Riducendo le zone utilizzabili per le diverse culture a quelle che
presentano certezza di reddito per particolare ubicazione e vocazione.
tutto il resto al di sopra dei 400 metri di altitudine, dovrebbe essere destinato a rimboschimento o ricostituzione di boschi degradati, per rendere
possibile - dopo un adeguato periodo - di sviluppare le attività silvopastorali. Del resto il Gargano è stato fin dall'antichità ricoperto quasi
totalmente di essenze legnose e i boschi e gli allevamenti rappresentavano
le fonti maggiori di ricchezza, oltre all'ulivo che cresce spontaneo sulle
sue balze fino ad una altimetria di 400 metri.
Nelle condizioni attuali, ci sembra estremamente improbabile che
questo settore possa avere uno sviluppo a breve scadenza, pur avendo in
potenza la possibilità di incidere beneficamente sulla economia nazionale,
tributaria dell'estero sia per legnami che per carne.
Menzione particolare meritano tre culture largamente sviluppate
sulle pendici più basse delle nostre colline e nelle limitate pianure.
L'olivo innanzi tutto, che rappresenta il maggior prodotto del Gargano. Investe circa ventimila ettari e la cultura e raccolta e trasformazione
del prodotto, assorbe rilevante mano d'opera sia maschile che femminile.
Però l'olio d'oliva è fortemente minato da quello di semi che si produce a
costo inferiore per cui si prevede l'antieconomicità di tale coltivazione. Da
ciò è derivata la sfiducia nella redditività anche di tale branca, che presenta sintomi preoccupanti di abbandono.
Gli agrumi ricoprono limitati comprensori costieri delle zone ove è
possibile l'irrigazione. Ma la qualità tardiva e giallina non è più richiesta e
si dovrebbe procedere a sostituirla con varietà diverse, in grado di poter
sostenere la concorrenza della produzione dei molti nuovi impianti sia in
Italia che all'estero. Ma gli agrumicultori, sfiduciati ed in condizioni economiche veramente precarie, non hanno la possibilità di assecondare tale
rivoluzionamento che potrà offrire un reddito solo fra 15-20 anni; e anche
gli agrumeti sono trascurati e si avviano a
179
rapido disfacimento, mentre potrebbero assorbire buona parte della mano
d'opera specialmente dei Comuni di Vico, Rodi, Ischitella ed anche, ma in
minore misura, di Vieste.
Le limitate pianure costiere di San Nicandro, Carpino, Ischitella, Peschici, Vieste e Manfredonia, si trovano in condizioni migliori perché suscettibili di una intensiva coltivazione ortofrutticola, utilizzando le acque
del sottosuolo per l'irrigazione. E per queste zone non dovrebbe essere difficile una redditività confortevole, dato anche il ristretto ciclo occorrente
per la produzione.
Né esiste o si prospetta la possibilità del sorgere di industrie - sia pure di modeste proporzioni - per la trasformazione e lavorazione dei prodotti
dell'agricoltura, per il carattere e la mentalità dei garganici, formatisi in tanti
secoli su basi esclusivamente agricole.
L'unica trasformazione di prodotti esistente, è quella della molitura
delle olive per la estrazione dell'olio. Gli oleifici però - salvo poche eccezioni - hanno carattere e dimensioni agricole e si limitano alla lavorazione
del prodotto aziendale o di quello per conto terzi, senza esporsi all'alea di
acquisto di materia prima per la trasformazione e lavorazione con propositi
e concetti industriali. E' una limitata attività stagionale per i bisogni della
produzione locale.
Concludendo, le prospettive nel campo agricolo non sono rosee e
possono offrire solo una ristretta riserva di occupazione del bracciantato,
come misura di ripiego ma senza eccessiva influenza sul richiamo di coloro
che hanno conosciuto le possibilità che offre l'industria.
Settore commerciale - Il commercio non ha mai avuto sul Gargano un
considerevole sviluppo. Per quanto riguarda quello all'ingrosso, era praticato da modesti operatori nel campo oleario in particolar modo, e in quelli dei
cereali e delle leguminose, nonché di altri prodotti agricoli minori (agrumi,
mandorle ecc.). Con la istituzione degli ammassi garentiti dallo Stato e delle
crisi ricorrenti, tale forma di attività è scomparsa del tutto, e il commercio si
riduce a quello che si pratica nelle botteghe, cioè al piccolo negozio al minuto.
Non riteniamo che vi siano prospettive di miglioramento, dato che le
infinite possibilità di trasporto economico agevolano le grandi ditte delle
città che possono praticare migliori condizioni per il volume d'affari che ad
esse affluisce. D'altra parte tutti i centri sono forniti di un numero forse
eccessivo di negozi con capacità sufficiente per i bisogni locali.
180
Tale settore occupa generalmente i famigliari del titolare e le condizioni economiche di coloro che vi si dedicano sono soddisfacenti, particolarmente per le migliorate possibilità d'acquisto nella popolazione, dipendenti sia dalle rimesse degli emigrati, sia dalla vasta politica previdenziale
adottata dal Governo.
Settore artigianale - L'artigianato locale si dedicava in altri tempi alla
produzione di manufatti veramente pregiati che costituivano un vanto per
la zona. Ne è dimostrazione la grande quantità di oggetti antichi dei quali i
commercianti forestieri hanno fatto incetta in questo ultimo decennio e che
seguitano ancora ad acquistare, per quanto ormai le scorte siano ridottissime.
Attualmente anche il settore artigianale ha subìto l'influsso della meccanizzazione e l'artigianato vero è in forte e rapida decadenza, aspirando ad
essere assorbito dalla piccola industria della quale comincia a presentare la
fisionomia.
Quindi in tale settore non solo non si può prevedere uno sviluppo,
ma si assiste ad una celere scomparsa della categoria dei veri artigiani, attratti dai più facili guadagni delle produzioni in serie (anche limitate) con
l'ausilio delle macchine.
Pure essendo buone le condizioni economiche di tale categoria, si assiste però anche in essa a diserzioni verso l'emigrazione particolarmente fra
i giovani.
Settore industriale - Il Gargano è caratterizzato dalla quasi assoluta
mancanza di industrie, ad eccezione di modeste imprese sorte e sviluppatesi
in questo ultimo ventennio.
Una sola vera industria prospera ad Apricena e riguarda la estrazione
e lavorazione della pietra, molto pregiata, che fornisce il sottosuolo. Esistono diversi stabilimenti capaci di assorbire tutta la mano d'opera locale e tale
industria costituisce la vera ricchezza di quella cittadina, ubicata sulle prime
pendici del Gargano. Recentemente è sorto anche uno stabilimento per la
produzione di calce idrata, del quale però non si conosce la capacità di produzione.
A Cagnano vi sono due modesti impianti per la produzione del pesce
marinato e di carciofi e piselli in iscatola. Hanno carattere stagionale ed appartengono a ditte romagnole. Vi sono anche due cave di tufo di modeste
proporzioni.
Bisogna poi saltare a Vieste dove già da diversi anni sono in funzione
uno stabilimento per la estrazione dell'olio al solfuro ed un altro
181
per la marinazione del pesce, entrambi a carattere stagionale, e di limitata
capacità.
A Manfredonia vi è una piccola fabbrica per la produzione di mattoni
di conglomerato cementizio per pavimenti.
Nell'agro di Monte S. Angelo è in piena attività, in contrada Cassano,
una cava di arena molto pregiata, di un candore sorprendente, particolarmente adatta per l'intonaco. Manda il suo prodotto anche fuori del Gargano. Non si conosce la sua capacità di assorbimento di mano d'opera.
Per la lavorazione del legno esiste un solo stabilimento, in contrada
Mandrione sulla statale 89 fra Peschici e Vieste, che circoscrive la sua attività al prodotto della foresta d'Umbra. E' di proprietà dello Stato, come la
foresta, e di limitata capacità.
Nell'agro di San Giovanni Rotondo, infine, è tuttora attiva la miniera di
bauxite gestita dalla Montecatini. Il minerale viene trasportato a Manfredonia da dove, via mare, s'inoltra a Porto Marghera. Fornisce la maggiore
quantità di tale minerale all'Italia, dopo la perdita dell'Istria in seguito allo
sfortunato esito della seconda guerra mondiale. Occupa qualche centinaio
di operai ed ogni tanto la società concessionaria minaccia la chiusura, avendo la possibilità di rifornirsi della stessa materia prima dalla Iugoslavia
a più basso costo.
Come si nota facilmente la situazione nel settore dell'industria sul
Gargano, è assolutamente deficitaria ed incapace di assorbire la rilevante
massa di unità lavorative disponibili, che trovano sbocco nella emigrazione.
Si parla però di due importanti stabilimenti che devono sorgere nelle adiacenze di Manfredonia ad iniziativa di grandi industrie nazionali.
Altre prospettive non esistono nel momento attuale, né programmaticamente sono previste altre iniziative.
Eppure la produzione legnosa del Promontorio potrebbe dar vita
ad una discreta industria che utilizzasse tale materiale, e se dalla bauxite
fosse estratto in loco l'alluminio, tale metallo potrebbe alimentare l'industria dei residuati. La questione è stata portata finanche in Parlamento ad
opera di coraggiosi rappresentanti politici ma la situazione non ha subito
variazioni e la bauxite garganica seguita a percorrere centinaia di miglia
marine, giungendo a Porto Marghera gravata delle rilevanti spese di trasporto.
Allo stato dunque nessuna prospettiva di sviluppo del settore indu182
striale si delinea all'orizzonte (ad eccezione di quanto si è detto per Manfredonia) e l'economia del Promontorio seguita a rimanere preminentemente
agricola.
D'altra parte bisogna riconoscere che manca nei garganici lo spirito associativo e la posizione geografica dello Sperone d'Italia lo ha sempre tenuto al
di fuori delle grandi vie di comunicazione, mentre è stata ed è tuttora gravemente deficitaria la situazione delle infrastrutture specialmente viaria.
Settore turistico - In questo campo invece assistiamo ad una vera esplosione di iniziative, specialmente per quanto riguarda la fascia costiera.
Il movimento ebbe inizio circa quindici anni fa, e di cammino ne è
stato percorso se si pensa che di fronte alla ricettività quasi nulla di tre lustri addietro, ora tutti i centri sono dotati di discreti alberghi. Sulla riviera
poi il progresso è notevolissimo.
E' in atto una massiccia valorizzazione dei cento chilometri circa di
spiaggia del periplo garganico, da Maletta a Siponto, con varia fortuna e
intensità.
Uno sviluppo particolare ha registrato la riviera di San Menaio, dove
però si sta costruendo troppo intensamente e senza un piano regolatore.
Quì la ricettività può contare su alcuni alberghi e pensioni, oltre che su numerose case e appartamenti che si fittano per la stagione estiva. Tale periodo dell'anno richiama una folla di villeggianti che specialmente nel mese di
agosto occupa tutti i posti disponibili, apportando movimento e benessere.
Anche i centri di Rodi, Peschici e Vieste sono discretamente frequentati, sebbene il turismo odierno preferisca un più diretto contatto con la
natura.
L'incremento alberghiero è aiutato anche dai cacciatori che numerosi
si riversano sul Gargano quando la caccia è aperta specialmente di inverno.
Però resta sempre il problema di un prolungamento della stagione di affluenza e si dovrebbe svolgere una politica atta a determinare la frequenza
dei turisti anche nei mesi di giugno e settembre, sussistendo le possibilità
climatiche e di convenienza per i prezzi di bassa stagione.
Inoltre, alle modeste iniziative di carattere privato e famigliare, fanno
riscontro quelle di pura marca industriale, come le città per ferie di Manacore e di Campi.
La prima - sorta ad iniziativa della CITE, Compagnia Italiana
183
Turismo Europeo - dopo un promettente inizio e la costruzione di un grande e moderno albergo (il Gusmai), ha subìto un arresto per le difficoltà in
cui è venuto a trovarsi il gruppo finanziario interessato.
La seconda invece ha realizzato a Pugnochiuso, al cospetto di una cala veramente incantevole, un complesso alberghiero di 200 camere, tutte
con bagno e con vista diretta sul mare, capace di 300 posti letto, fornito di
tutte le più moderne attrezzature, che ha iniziato l'esercizio il 1° agosto
1965 ed ha registrato il massimo successo. Sono stati anche eretti alcuni
villini prefabbricati ed è in programma la costruzione di altri quattro grandi
alberghi e di mille casette, nel comprensorio di circa tremila ettari, con sedici chilometri di costa. Il tutto è di appartenenza dell'ENI-SNAM.
Se il programma sarà totalmente realizzato, come tutto fa ritenere, il
Gargano, entro pochi anni, sarà in grado di soddisfare all'afflusso turistico
in sempre crescente sviluppo che nei due centri degli altipiani di Monte S.
Angelo e San Giovanni Rotondo ha carattere e scopi preminentemente religiosi con frequenze che non accennano ad arrestarsi. Si ritiene pertanto che
per la sua particolare ed integrale vocazione turistica, il Gargano debba
fondare la sua economia avvenire sul turismo, specialmente se la valorizzazione costiera in atto investirà anche l'altipiano e si potrà formulare un
completo, programma di integrazione mare-monte, utilizzando i boschi e le
meraviglie paesaggistiche collinari. E' certo che l'albero-rifugio della foresta
d'Umbra registra molto spesso l'esaurito nel periodo primavera-estate. Altre
similari iniziative avrebbero certamente la stessa fortuna.
Nel settore del turismo dunque, le prospettive sono promettenti, anche se attualmente preoccupano alcune deficienze come le infrastrutture
viarie e la carenza d'acqua. Ma tali prospettive non deluderanno se si saprà
conservare al Gargano il suo fascino e si saprà arrestare la colata di cemento che altrove ha deturpato zone dotate, in origine, di grandi attrattive. Per
questo occorre - ora che si è ancora in tempo - una politica, da parte degli
organi responsabili, non solo di salvaguardia del paesaggio, che rappresenta
la vera ricchezza del Gargano, ma anche di opere pubbliche che ne mettano
in valore la dovizia di bellezze naturali delle quali è dotato. Imponenti lavori
pubblici richiamerebbero in patria una buona aliquota di emigrati che successivamente potrebbero trovare impiego sia negli impianti turistici che in
una migliorata agricoltura.
Certo è che il Gargano è stato individuato dalle sfere governative
come polo turistico di interesse nazionale. Il che conferma la grande
184
importanza che alla zona si attribuisce anche nel quadro di questa branca
della economia italiana, alla quale sono rivolte le attenzioni del Governo per
il contributo massiccio che conferisce particolarmente nel campo finanziario.
Tutto quindi conferma la validità della nostra opinione circa le favorevoli prospettive del settore turistico per il Gargano, che dovrebbe diventare una zona di grande richiamo del turismo nazionale ed internazionale. E
questo è tanto più importante in quanto che è noto che il movimento dei
forestieri ha un suo vero aspetto sociale perché non va considerato solo per
quanto di benessere esso determina nella società nazionale come produttore
di redditi, eccitatore di consumi e quindi promotore di sviluppo di altri settori economici, ma anche come mezzo di trasferimento di ricchezze da regioni più provvedute a regioni più povere e come strumento di occupazione
operaia; ed anche sotto il profilo della pacifica convivenza fra i popoli e
come conquista di questa nostra umanità ossessionata dal dinamismo produttivo dell'automazione, dal materialismo assai diffuso nella vita moderna.
8°) Il piano del « Parco Nazionale del Gargano ».
Ad iniziativa della Cassa per il Mezzogiorno e con la collaborazione
di « Italia nostra », una équipe di architetti ha studiato il comprensorio del
Gargano e redatto uno studio per la tutela del paesaggio. Tale studio è stato
determinato dai nuovi criteri che informano il programma della Cassa, sulla
convenienza di massicci interventi concentrati in poche zone a spiccata vocazione turistica.
Al Gargano è stato riconosciuta tale vocazione ed è stato prescelto
come zona campione, solo limitatamente compromessa da insediamenti
turistici incontrollati e suscettibile quindi di interventi tali da farne un polo
turistico di interesse nazionale.
Certo è che il Gargano è una regione varia come un continente, capace di offrire tutte le attrattive e soddisfare tutte le esigenze, e in molte zone
ancora vergine da contaminazioni che ne deturpino il paesaggio dalle infinite visuali.
Il piano presentato dalla équipe di architetti, e discusso con l'intervento dei più qualificati rappresentanti degli enti provinciali e dei Comuni
garganici in un seminario tenuto a Napoli presso la sede del FORMEZ nel
decorso gennaio, si preoccupa essenzialmente della tutela del paesaggio che
costituisce la vera ricchezza del Promontorio garga185
nico, e prospetta « una nuova utilizzazione di tale ricchezza che non sia il
tentativo di applicare al Gargano modi e forme generiche, valide dovunque,
come finora è stato fatto in tutti i settori, ma che si basi proprio sul riconoscimento delle specifiche caratteristiche che esso presenta, di ciò che possiede di unico, di eccezionale, di tipico ed esclusivo ». Si propone quindi la
costituzione del « Parco Nazionale del Gargano » che deve comprendere
tutto l'acrocoro montuoso nei suoi confini naturali e tradizionali, che divide
in cinque zone.
La prima zona, costituita da quelle aree che si riterrà di dover lasciare
allo stato assolutamente naturale, nella quale l'uomo non dovrà mai intervenire.
La seconda riguarderà aree che si possono definire di riserva generale
ed è quella che più si avvicina alla configurazione degli attuali parchi nazionali. Anche qui la natura sarà lasciata a se stessa ma non in modo assoluto.
L'opera dell'uomo curerà che le piante non si ammalino, si elimineranno
quelle morte, si interverrà per mantenere nel terreno, nei corsi d'acqua ecc.,
le condizioni per la migliore conservazione della flora esistente.
La terza zona sarà formata dalle aree di reintegrazione, ossia quelle vaste estensioni della parte centrale del Gargano che un tempo erano ricoperte di boschi ed oggi sono aride e dilavate, non offrendo alcuna alternativa di
utilizzazione agricola. Per tale zona occorreranno opere di imbrigliamento,
colture transitorie per la ricostituzione di humus, regolarizzazione del regime idrico, opere di rimboschimento secondo molteplici scopi.
Queste prime tre zone si potrebbero raggruppare sotto la comune
denominazione di zone naturali, in quanto in esse è la natura che domina nettamente.
La quarta zona poi comprende le aree agricole: evidentemente non tutte quelle che sono oggi agricole, ma quelle in cui si riscontrerà un rapporto
investimento-reddito conveniente.
La quinta zona, infine, dovrà essere costituita da aree agricole analoghe
a quelle della quarta, ma situata in posizione di particolare valore paesaggistico e quindi da sottoporsi a vincolo per la conservazione degli elementi di
base del paesaggio attuale.
Per le prime due zone vi sarebbe la possibilità di ubicare pochi nuclei
turistici nelle aree marginali di rimboschimento a cedro, mentre nella terza
si presenteranno i casi più interessanti da un punto di vista urbanistico e
architettonico, e sarà - per la terza come per le prime
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due zone - l'enorme estensione e bellezza a disposizione di tutti a costituire
l'elemento più interessante e tipico.
« L'ubicazione dei nuclei turistici - precisa la relazione - deve tener
conto delle possibilità di mobilità che sono la condizione essenziale per realizzare il godimento delle varie zone, e la interscambiabilità mare-monte
deve rendere del tutto indifferente lo scegliere la propria residenza estiva
nell'uno e nell'altro posto ». Così il piano prospetta e propone la integrale
valorizzazione turistica di tutto il Promontorio, ed è in questo forse la sua
originalità e il suo maggior pregio.
Dopo aver affermato che « la viabilità nel Gargano è in condizioni
quasi preistoriche a tutti i livelli » (certo esagerando), il piano programma
una vasta rete di strade con grandi arterie di adduzione, con diramazioni
minori per i collegamenti interni e trasversali di collegamento mare-monte.
Nelle sue linee generali, il piano è senza dubbio accettabile, perché
redatto con ampiezza di vedute e con la visuale costante di risolvere integralmente il problema turistico e valorizzativo del Gargano.
Qualche riserva si deve fare circa la estensione e la delimitazione delle diverse zone, nonché relativamente alla eccessiva preoccupazione di tutela del paesaggio. Questo concetto è giusto e sano, ma non deve raggiungere
livellli parossistici.
Altro rilievo di carattere pratico riguarda la enorme spesa globale che richiederebbe l'attuazione integrale del piano, anche se graduata nel tempo, in
relazione alle possibilità finanziarie dello Stato italiano e degli enti provinciali e
locali che dovrebbero contribuire. Ma nella fase di progettazione, alla quale si
dovrebbe passare, saranno possibili quelle modifiche e quei ritocchi che una
visione meno poetica e più aderente alla realtà potrà consigliare, sia per quanto
riguarda la individuazione e delimitazione delle diverse zone, che relativamente
alle opere da realizzare, nonché al numero ed alla ubicazione dei nuclei turistici.
9°) Stato attuale dell'istruzione e della cultura e previsioni per il futuro.
La cultura popolare ha senza dubbio registrato un notevole incremento e l'indice dell'analfabetismo è ridotto a bassissime percentuali.
Tali positivi risultati si devono non solo alla lotta ingaggiata dallo Stato contro l'analfabetismo ma anche ad altri fattori di diversa origine.
In tutti i centri garganici esistono - oltre alle elementari - scuole
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medie inferiori (la scuola d'obbligo) e in quelli più popolosi anche scuole
medie superiori.
Questi provvedimenti governativi hanno portato non solo ad un notevole miglioramento della edilizia scolastica ma anche ad una imponente
diffusione della cultura, essendosi offerto alle classi meno abbienti la possibilità di istruire la propria prole con minima spesa.
Ma alle provvidenze statali, vanno aggiunti fattori estranei, come la
convinzione diffusasi nel popolo della inferiorità sociale delle persone niente o poco istruite, il bisogno di cultura per la qualificazione professionale, la
diffusione della stampa e l'influenza decisiva delle trasmissioni radio e televisive che arrivano ormai nell'80% delle famiglie garganiche.
Si è finalmente compreso anche sul Gargano che in una società progredita come l'attuale, considerata non solo nella cerchia nazionale ma anche nel maggior perimetro degli altri Stati conosciuti attraverso l'emigrazione, è fattore fondamentale di vita una istruzione adeguata alle proprie facoltà intellettive ed alle mete che nei diversi campi si vogliono raggiungere. Per
questo in ogni famiglia cerca di istruire i figli che, per le migliorate condizioni economiche generali, non vanno più avviati al lavoro in tenera età,
onde contribuire al sostentamento del nucleo familiare. E non sono rari i
casi di giovani appartenenti ai ceti più modesti che si elevano fino alla laurea ed a promettenti carriere, proprio in applicazione della esatta convinzione popolare di superiorità sociale dei più colti.
Ma a questo fattore psicologico di spinta verso la cultura, si aggiunge
anche quello del bisogno di istruzione per la qualificazione nei diversi mestieri senza della quale non è possibile ottenere posti remunerativi nella società industriale che si sviluppa sempre più.
Con l'aumento della istruzione, anche la stampa ha potuto influire
positivamente all'elevazione culturale, non solo la periodica ma anche quella
di carattere letterario e scientifico.
Ma sia alla formazione del fattore psicologico che a quella dei fattori
pratici, è stato di grande impulso l'influenza della radio e della televisione
che informano ed educano senza bisogno di applicazione particolare, impegnando l'organo uditivo da solo o congiunto con quello visivo. Tali mezzi
hanno non soltanto informato ed educato ma hanno anche suscitato e determinato conoscenze ed aspirazioni prima ignote. Ed è piuttosto frequente
sentir parlare, anche i meno provveduti, di quanto è stato per radio e per
televisione comunicato e trasmesso, e sulle
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vie e possibilità che sono perseguibili. Come si verifica anche sentire giudizi
su trasmissioni di programmi culturali, letterari e specialmente teatrali, prima del tutto sconosciuti alla gran massa della popolazione.
In base a queste constatazioni di fatto, e nella quasi certezza che il
movimentto informativo non solo non si arresterà ma avrà maggiore sviluppo, è facilmente prevedibile un incremento della istruzione e della cultura. Vi è il pericolo che gli elementi meno provveduti di facoltà intellettuali,
raggiunto un modesto livello di istruzione non si adattino a lavori materiali
ma pretendano dalla società il posticino negli uffici, diventando così un peso per la collettività per il loro mantenimento. Ma ogni medaglia ha il suo
rovescio e con una opportuna azione si potrà forse contenere questo lato
negativo del diffondersi della istruzione.
10°) Giudizio sulla influenza dei mezzi d'informazione di massa sullo sviluppo
e l'evoluzione sociale, economica e culturale del Gargano.
Da quanto si è rilevato fin qui, emerge con grande evidenza il decisivo apporto dei mezzi di informazione sulla disintegrazione dei valori locali
tradizionali e sulla conseguente evoluzione sociale, economica e culturale
del Gargano.
Nei punti 1°), 2°) e 3°) si è sottolineata la lenta trasformazione della
società garganica nel periodo in cui l'informazione era limitata ai mezzi materiali e le comunicazioni circoscritte e quasi primordiali.
Nel punto 4°) si è rilevato l'incremento notevolissimo degli apparecchi radio e si è desunto che tale mezzo d'informazione ha costituito un fattore di grande importanza sul diffondersi della conoscenza.
Nel punto 9°) infine si è messo in evidenza l'influenza decisiva delle
trasmissioni radio e televisive sull'incremento della istruzione e della cultura.
Se quindi tutto questo è indiscutibilmente vero, come i fattori confermano, se al lento evolversi di una società avulsa geograficamente dalla
comunità nazionale è seguito una trasformazione quasi vertiginosa nelle
concezioni di vita, di costumi e di cultura pur rimanendo quasi stazionarie
le comunicazioni ed i trasporti di massa, se alla povera vita di tutta una popolazione frazionata in 18 centri abitati si è sostituito un relativo benessere
per cui è scomparsa la miseria tradizionale, una causa deve pure esistere
perché i fatti umani non sorgono e non si sviluppano dal nulla.
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E questa causa, questo fattore non unico ma di grande rilievo ed alle
volte determinante, va individuato nella influenza dei mezzi di massa (radio
e televisivi in modo particolare), sulla informazione e sulla istruzione.
San Menaio, 11 ottobre 1965
GIUSEPPE D'ADDETTA
la Capitanata
Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia
★ Hanno collaborato a questo fascicolo: dott. RAFFAELE GIAMPIETRO, aiuto-bibliotecario della « Provinciale » di Foggia; dott. ROSARIO MICHELINI, dell'Ufficio Stampa Amm.ne Prov.le di Napoli; avv. prof.
GIUSEPPE D'ADDETTA; LUIGI MANCINO, per la parte editoriale.
SOMMARIO
RAFFAELE GIAMPIETRO: La biblioteca senza qualità
123
ROSARIO MICHELINI: Riletture. Carlo Cattaneo
141
GIUSEPPE D'ADDETTA: Ipotesi sullo sviluppo del Gargano. Relazione tecnica
166
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