Associazione Teatrale
associata
Pescara Colli
Domenica 18 aprile 2010
L’Associazione Teatrale PerStareInsieme, nel ringraziarvi per la partecipazione a questo
importante appuntamento culturale che propone, vi augura una buona giornata con la
speranza che il programma che è stato predisposto sia di vostro gradimento.
Questo semplice opuscolo per le notizie generali sui luoghi da visitare, sul programma e su
quanto ci è sembrato utile sottoporre alla vostra attenzione.
Affinché possa essere garantita una buona riuscita dell’evento, è necessario attenersi agli
orari ed al programma sotto riportati. Per qualsiasi informazione ed esigenza rivolgersi a
Gianni (cell. 3357691590) o a Ferdinando (cell. 3401483349). Grazie e buona giornata a
tutti.
PROGRAMMA
Ore 7,00 – Ritrovo – Via Di Sotto (davanti alle Poste)
Ore 10,30 circa – Arrivo a Roma (Santuario Madonna del Divino Amore)
Ore 11,00 – Partecipazione alla S. Messa. Visita alla Basilica e ai luoghi del santuario.
Pranzo al sacco (individuale o condiviso) presso Casa del Pellegrino.
Ore 14,00 – Trasferimento in pullman al centro storico (Piazza di Spagna). Pomeriggio libero.
Ore 16,30 – Al botteghino del Teatro Eliseo per ritirare i biglietti
Ore 17,00 – Inizio spettacolo
Ore 19,00 – Termine spettacolo
Ore 19,30 circa – Partenza per Pescara
Ore 23,00 circa – Rientro a Pescara
Note: il programma non è modificabile se non per cause di forza maggiore (es. condizioni
atmosferiche sfavorevoli). Prevista una sosta in autostrada.
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Storia
La storia del Santuario è davvero inconsueta. Non è
legata ad una apparizione della Madonna, ma ad una
antica immagine della Vergine in trono con in
braccio Gesù Bambino, sovrastati entrambi dalla
colomba simbolo dello Spirito Santo (di qui il titolo
di Madonna del Divino Amore). Il dipinto era posto
su una delle torri di cinta di un antico castello, il
castello dei Leoni (da cui la degenerazione in Castel
di Leva), che nel 1740, anno del primo miracolo,
appariva già diroccato, forse distrutto da un
terremoto.
Un giorno di primavera del 1740, un viandante,
probabilmente un pellegrino diretto a San Pietro, si
smarrisce per quegli squallidi e deserti sentieri di
campagna nei pressi di Castel di Leva, una dozzina
di chilometri a sud di Roma. Smarrirsi per quelle terre, significava essere esposti non solo
alle intemperie, ma anche al rischio di cadere vittima in qualche imboscata tesa da briganti
e banditi. Avendo però scorto alcuni casali e un castello diroccato in cima ad una collina, il
viandante vi si dirige nella speranza di ottenere qualche informazione utile per rimettersi
sulla giusta strada. Ma proprio mentre sta per fare ingresso nel castello viene assalito da
una muta di cani rabbiosi. Le belve inferocite lo circondano e sembrano non offrirgli via di
scampo. Impaurito, anzi letteralmente terrorizzato, il poveretto alza lo sguardo e si accorge
che sulla torre, c’è un’immagine sacra. È la Vergine con il Bambino, sovrastata dalla
colomba dello Spirito Santo, che è il Divino Amore. Come un naufrago che si aggrappa
alla sua scialuppa, con tutta la forza di cui è capace, urla: «Madonna mia, grazia!».
È un attimo. Le bestie, che ormai gli sono addosso, di colpo si fermano. Sembra quasi che
obbediscano mansuete ad un ordine misterioso. Al richiamo di quell’urlo disperato i
pastori che sono nei pressi accorrono e, dopo avere ascoltato quell’incredibile racconto,
rimettono il pellegrino sulla strada per Roma. Di quell’uomo non si saprà mai il nome.
Sappiamo con certezza, invece, che non stette zitto, ma raccontò per filo e per segno tutto
quello che gli era accaduto a chiunque incontrasse o dovunque andasse. Tanto che quel
luogo, Castel di Leva, come riportano le cronache del tempo, divenne assai famoso: «Non
si distingueva più il giorno dalla notte e continuamente era un accorrere di pellegrini
sempre più devoti e numerosi, che ricevevano numerose grazie».
L’eco di quanto era accaduto e il concorso di pellegrini, furono tanto vasti da spingere ben
presto la gerarchia ecclesiastica a volerci vedere chiaro. Il Cardinale Vicario si recò in
visita a Castel di Leva. Si decise, per volontà della Sacra Rota di far restare l’immagine
sacra nello stesso luogo del ritrovamento, ma staccata dalla torre ormai diroccata e
collocata in una chiesa che sarebbe stata costruita con le offerte dei pellegrini che già
numerosi si recavano in quel luogo.
2
La chiesa fu costruita in un solo anno ed
in essa venne solennemente collocata
l’effigie della Madonna il 19 aprile,
lunedì di Pasqua 1745. Le cronache del
tempo annotano una gigantesca folla di
romani e di abitanti dei Castelli, con
tanto di gonfaloni e di confraternite, che
fece da corona al carro che trasportò la
prodigiosa effigie dalla chiesetta di Santa
Maria ad Magos al Santuario appena
eretto. Per l’occasione papa Benedetto
XIV
concesse
ai
partecipanti
l’indulgenza plenaria, che potevano
lucrare anche coloro che avessero visitato
l’immagine in uno dei sette giorni
seguenti quello del trasferimento. Il
Santuario divenne rapidamente il centro
di una fervente pietà popolare e quindi
meta di numerosi pellegrinaggi. Era
dunque necessario approntare l’assistenza spirituale a quanti arrivavano fino al
Santuario di Castel di Leva per confessarsi e comunicarsi. Decine di ordini religiosi
furono interpellati, ma nessuno se la sentì di affrontare un tale incarico in un posto
così isolato ed esposto continuamente alle malefatte dei banditi. L’assistenza ai
pellegrini fu così affidata dapprima a un sacerdote-custode e il Santuario otterrà così il
suo primo viceparroco, con l’obbligo della residenza, soltanto nel 1802.
I fedeli si recavano al Divino Amore soltanto in occasione delle festività maggiori e
dei grandi pellegrinaggi. A riportare l’attenzione sul Santuario furono, nel 1840, i
festeggiamenti per il centenario del primo miracolo. Per l’occasione si restaurarono la
chiesa e l’altare. La stessa via Ardeatina venne sistemata. I festeggiamenti iniziati il 7
giugno 1840, domenica di Pentecoste, si protrassero per una settimana. I pellegrini
continuavano ad accorrere, ma al fenomeno di autentica devozione popolare, ad un
certo punto, se ne sovrappose un altro: quello delle cosiddette «madonnare». Si
trattava di popolane romane, per lo più erbivendole e lavandaie, che festeggiavano la
loro particolare festa annuale proprio nel lunedì di Pentecoste presso i vicini Castelli
Romani. Siccome la festa della Madonna del Divino Amore avveniva il giorno di
Pentecoste, esse avevano di rito una sosta davanti al Santuario, dove provocavano un
gran baccano, per poi ripartire all’alba del giorno successivo. Tutto questo aveva finito
per ingenerare un certo equivoco tra «madonnare», il cui spirito gaudente non
testimoniava certo un senso di devozione, e Divino Amore. A questo tono di ridicolo,
che durò per decenni, si aggiungeva poi il disagio per la presenza di venditori di cibi
che si sistemarono stabilmente al Divino Amore: le bancarelle di porchetta, di
pecorino, di fave e di vino vennero sistemate proprio a ridosso della chiesetta. Il
pellegrinaggio al Santuario di Castel di Leva diventava l’occasione, quando non il
sinonimo, di gita «fuori porta».
3
Il voto di Roma
4 giugno 1944: l’esercito nazista abbandona senza opporre resistenza la Città eterna,
mentre le forze alleate vi entrano per Porta San Giovanni e per Porta Maggiore, accolte dai
romani con straordinarie manifestazioni di esultanza. Dopo quasi nove mesi di
occupazione, Roma è salva, intatta. Contro ogni previsione non è stata versata una sola
goccia di sangue. Il pericolo è scampato. È dissolta la paura che incombeva come una
nuvola minacciosa: l’incubo che si potesse assistere
ad un assedio, ad una battaglia estenuante, ad una
carneficina; che si potessero ripetere e moltiplicare i
lutti e le distruzioni iniziati con il tremendo
bombardamento del luglio del 1943, che fece terra
bruciata nel popolare quartiere di San Lorenzo. E
per il popolo romano, disorientato e ridotto
praticamente alla fame, la liberazione incruenta
della città ha una, e una sola artefice: la Santa
Vergine del Divino Amore. A migliaia, obbedendo
al suggerimento di papa Pio XII l’avevano
implorata, facendo un voto solenne per la salvezza
dell’Urbe. Si erano stretti in preghiera, proprio in
quelle ore drammatiche e cruciali, nella chiesa di Sant’Ignazio di Loyola, nel centro di
Roma, dove la cara e familiare immagine della Madonna del Divino Amore era stata
trasportata dal Santuario di Castel di Leva. Il 28 maggio ha così inizio l’ottavario della
Pentecoste e la novena della Madonna del Divino Amore. I romani accolgono l’invito
immediatamente. L’affluenza è così massiccia – La Civiltà Cattolica riferisce di 15.000
comunioni distribuite quotidianamente – che la basilica di San Lorenzo in Lucina non è
più sufficiente a contenere le folle imploranti e l’immagine della Madonna viene quindi
trasferita nella più ampia chiesa di Sant’Ignazio. Il 4 giugno, lo stesso giorno in cui
termina l’ottavario, si decide la sorte di Roma. Tutto sembra preludere ad un’aspra
battaglia «casa per casa». I tedeschi, determinati ad una forte resistenza, presidiano la città
e hanno già minato i ponti del Tevere per coprirsi l’eventuale ritirata. Dall’altra parte, il
generale alleato Harold George Alexander ha deciso che i suoi duemila carri armati
avrebbero inseguito il nemico fino alla distruzione di Roma. Alle 18 nella chiesa
gremitissima, rispondendo all’invito di Pio XII, viene letto il testo del voto dei romani alla
Vergine perché alla città vengano risparmiati gli orrori della guerra. Per contro, i fedeli
promettono di correggere la propria condotta morale, di rinnovare il Santuario e di
realizzare un’opera di carità a Castel di Leva. Il voto viene espresso in gran fretta, per via
del coprifuoco che sarebbe scattato alle 19. Pio XII, intanto, che avrebbe voluto
partecipare personalmente alla preghiera, viene avvertito di non lasciare il Vaticano, per
non essere deportato. A leggere il voto, in luogo del Papa, è il camerlengo dei parroci,
padre Gremigni, che poi diventerà vescovo di Novara. Quasi contemporaneamente,
l’ordine di resistenza viene revocato. I tedeschi lasciano la città e le truppe alleate vi fanno
il loro ingresso, alle 19.45, senza colpo ferire. Il prodigio della salvezza di Roma, tanto
implorato, si è compiuto. Lo strano modo in cui cessarono le ostilità stupì anche il primo
ministro inglese Winston Churchill, il quale, nel suo memoriale Da Teheran a Roma,
annotò che «la conquista era avvenuta in modo imprevisto».
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IL DIVINO AMORE: UN SANTUARIO POPOLARE
Per gli abitanti di Roma (e del Lazio in generale) il Santuario della Madonna del Divino
Amore rappresenta un po' quello che per abruzzesi è il Santuario di San Gabriele. Infatti
la tradizione devozionale ha da sempre stabilito un forte legame tra la devozione mariana
e le vicende del santuario. L'ultimo esempio, in ordine di tempo, può essere la visita di
Papa Giovanni Paolo II il 4 luglio 1999 che nell'occasione pronunciò una semplice, ma
significativa supplica («Fa’, o Madre nostra, che nessuno passi mai da questo Santuario
senza ricevere nel cuore la consolante certezza del Divino Amore. Amen»). Da ricordare
anche il voto di Roma durante l'occupazione tedesca del 1944. Quindi può ben dirsi un
santuario popolare, dando all'aggettivo quel giusto e ricco significato di vicinanza della
spiritualità alle più intime e semplici esigenze dei fedeli.
TRE ESEMPI (tra letteratura e spettacolo) della devozione popolare al Santuario.
La devozzione der Divin’Amore
Le notti di Cabiria
Dimenica de llà Rinzo, Panzella,
io, Roscio e le tre fijje der tintore
vòrzimo annà a fà un sciàlo in carrettella
a la madonna der divinamore.
Che t’ho da dí, Sgrignappola? co cquella
solina llà che t’arrostiva er core,
eccheme aritornà la raganella,
ecco arincappellasse er rifreddore.
Credime, cocca mia, ma dda cristiano
ce direbbe aresie: ch’è ’na miseria
d’avé a stà sempre co ppilucce in mano.
Mó er zemplicista me dà ’na materia
appiccicosa: e un medico brugnano
lo ssciroppo de radica d’arteria.
In uno dei suoi film più famosi, Fellini
inserisce la scena della prostituta, Cabiria, che
con alcune sue compagne si accoda da Roma
ad una processione
verso il Santuario
dove invoca con
fervore la grazia di
cambiar vita.
Cabiria è interpretata
da un grande
Giulietta Masina.
Il film, del 1957,
prese l’Oscar come
miglior Film
straniero e ben 6
Nastri d’Argento.
G.Gioachino Belli (1831)
Il Marchese del Grillo
Film del 1981 di Mario Monicelli con Alberto Sordi
Nel corso del film ci sono due riferimenti al Santuario. Il primo quando il marchese, dopo
aver mostrato, all’ufficiale francese che l’accompagna, di apprezzare l’inno della
Marsigliese, si rammarica per quello pontificio (“Noi che ci-avemo, Noi vogliam Dio,
Vergin Maria… ’ndo’ ci-annamo a la Madonna del Divin’Amore?”). Il secondo quando,
recatosi a palazzo con ospiti francesi, non trova nessun familiare a tavola, neanche il
canonico zio che ”è andato col quadro della Vergine Quartina al Divin’Amore”.
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Costruito inizialmente in legno e dedicato a spettacoli di varietà con il
nome di Arena Nazionale, negli anni assunse sempre più importanza, fino a subire
un rifacimento nel 1938 che ne decretò l'aspetto attuale. Dal 1979 ampliò l'offerta
artistica con gli spettacoli proposti nel ridotto Piccolo Eliseo, intitolato a
Giuseppe Patroni Griffi, ex direttore artistico del teatro. L'Arena Nazionale nacque
nella primavera del 1900 come teatro in legno, aperto, sito sulla terrazza di
Palazzo Rospigliosi. Il nome fu scelto in onore della nuova via, omonima, che
sorse per volontà del monsignore Francesco Saverio De Merode. Dedito agli
spettacoli di varietà, nell'arco di sei anni si decise di farne un teatro in muratura
su progetto dell'ingegner Serafini Amici, col primato di essere appunto stato il
primo teatro del novecento romano costruito interamente in cemento armato,
materiale del tutto nuovo. Il nome assunto dal teatro fu Teatro Apollo. Nel 1912 lo
spazio che costituiva lo spazioso ridotto del Teatro Apollo fu staccato e reso
indipendente, scelta forse operata per coprire alcuni costi di gestione. Mentre il
teatro cambiò ancora nome, diventando il Cines, la piccola sala ormai
indipendente prese il nome di Sala Apollo ma non fu teatro, bensì un locale
notturno. Dopo due anni la facciata su via Nazionale viene ridisegnata in uno stile
che coniuga il liberty con l'austera tradizione dei palazzi in stile piemontese: il
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rifacimento del teatro sacrificò però degli spazi vitali per la comodità dello stesso
accelerando il processo di trasformazione quasi radicale del Cines in sala
cinematografica. Saltuariamente, però, sopravvisse la prosa. Il nome mutò nel
corso della grande guerra in Gran Cinema.
La fine della grande guerra vide un nuovo cambio di nome, trasformando
il Gran Cinema nell’attuale Teatro Eliseo. La produzione era diversificata:
inizialmente operette, quindi stagioni liriche e poi ancora prosa. Lo stile del teatro
andò sempre più affinandosi, acquisendo eleganza e ricercatezza negli arredi
interni e nella gestione. Per conquistare gli incentivi statali da parte del regime,
nel 1923, venne fondata da Lucio D’Ambre, Mario Fumagalli e Santi Severino una
compagnia, il Teatro degli Italiani, il cui scopo era quello di valorizzare la
drammaturgia italiana. Il tentativo fallì per la mancata erogazione dei sussidi e
tornò all’operetta mista alla prosa.
Nel 1038 avvenne un ulteriore rifacimento ad opera di Luigi Piccinato, che
trasformò l’Eliseo donandogli una forma più moderna e magnifica, molto simile
all’attuale. Nel rifacimento delle gallerie, tuttavia, non si tenne conto dell’eccessiva
angustia dei posti nelle balconate, penalizzate ulteriormente da un corrimanodi
sicurezza che inficiava la visione della scena. L’allargamento dello spazio destinato
agli spettatori duplicò la capienza del teatro (da circa 600 a 1300 posti, ridotti poi
nuovamente a 1000 per la scarsa visibilità dei
laterali alti), mentre operazioni di ampio
respiro sullo spazio scenico permisero
l’introduzione di nuovi macchinari ed un
allargamento del boccascena di due metri,
portandola ai 12 metri attuali. La particolarità
che destò più critiche dai contemporanei fu la
totale abolizione di palchi d’onore in epoca di
monarchia e regime.
Per due anni vi si insediò una
compagnia teatrale diretta da Pietro Sharoff,
e negli anni successivi il teatro produsse
spettacoli in proprio. Nel 1979 si riconquistò
lo spazio del Piccolo Eliseo, dove iniziarono ad
essere rappresentate regolari stagioni di
prosa in uno spazio destinato ad accogliere
300 spettatori. Nel 1982 Giancarlo Capolei
ristrutturò l’Eliseo riducendo i posti agli attuali 956 ed ammodernando gli impianti,
donandogli l’attuale forma. La scomodità dei laterali alti, in particolare della I e
della II balconata, vennero in parte risolti: tuttora però persiste un problema di
visibilità che abbassa il prezzo dei biglietti in corrispondenza dei settori a visibilità
ridotta. Attualmente il Teatro Eliseo e il Piccolo Eliseo Patroni Griffi hanno
un cartellone regolare che spazia dalla prosa classica alla contemporanea,
confermandosi tra i teatri più frequentati.
Da Wikipedia.
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DA VEDERE IN ZONA
1. Piazza di Spagna – Così chiamata dal palazzo sede dell’ambasciata
spagnola presso la Santa Sede. Su di essa si staglia la monumentale
scalinata (135 gradini) di Trinità dei Monti. Al centro della piazza la
celebre fontana La Barcaccia, opera di Bernini. All'angolo destro della
scalinata vi è la casa del poeta inglese John Keats. All'angolo sinistro
c'è, invece, la sala da tè Babington's fondata nel 1893. (700 m – 8 min)
2. Fontana di Trevi – Settecentesca fontana dallo stile tra il classicheggiante
e il barocco. È opera di Nicolò Salvi. È l’elemento terminale dell’
acquedotto Vergine costruito per volere di Augusto. (600 m. - 6 min)
3. Piazza Barberini – Fontana del Tritone opera del Bernini e Fontana delle
Api. Da qui si dirama la famosa Via Veneto. (200 m – 2 min.)
4. Via delle Quattro Fontane – Chiesa di S. Carlo, realizzata dal Borromini
(1634-1644) è uno dei capolavori dell’architettura barocca. Non è
visitabile l’interno. Quattro artistiche fontane ai 4 angoli della piazza che
è il punto di raccordo di 3 diversi rioni del comune di Roma. (400 m – 6
min)
5. Piazza del Quirinale – Palazzo omonimo, sede della Presidenza della
Repubblica dal 1946. Fu residenza estiva dei papi fino al 1870, poi
residenza del re d’Italia. Sulla piazza le statue dei Dioscuri, colossi in
marmo che fin dall'antichità adornano il Colle: sono copie romane di un
gruppo in bronzo di Fidia e Prassitele il Vecchio. Nelle vicinanze la
Chiesa di S.Andrea al Quirinale, stupendo esempio di arte barocca. (250
m – 3 min)
Per informazioni artistiche ed architettoniche rivolgersi a Federica, per gli
aneddoti sui monumenti e le piazze chiedere a Ferdinando, per tutto il
resto domandare a Gianni.
Ogni tanto uno sguardo all’orologio per trovarsi puntuali davanti al teatro
alle ore 16,30 per ritirare i biglietti.
L’ingresso del Teatro Eliseo è situato in Via Nazionale 183 di fronte alla
Banca d’Italia
Tra parentesi distanza e tempo percorrenza con la tappa successiva
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TRE IMPORTANTI FONTANE e un monumento
La fontana di Trevi è certamente la più scenografica e la più nota tra le fontane
di Roma e costituisce la mostra dell'Acqua Vergine, proveniente dalle sorgenti di Salone,
all'ottavo miglio della via Collatina. Marco Vipsanio Agrippa condusse a Roma
l'acquedotto nel 19
a.C., per alimentare
le Terme da lui
costruite nella zona
subito a nord del
largo Argentina, tra
corso
Vittorio
Emanuele II e
piazza di S. Chiara.
Leggendaria
l'origine del nome
Vergine
che,
secondo Frontino,
sarebbe stato dato
dallo
stesso
Agrippa in ricordo di una fanciulla (in latino virgo) che indicò il luogo delle sorgenti ai
soldati che ne andavano in cerca. Secondo altri fu invece un rabdomante a scovare le
sorgenti inutilmente ricercate da Agrippa e quindi il nome deriverebbe da virga, ossia la
verga adoperata per le ricerche dell'acqua. Ma forse l'origine del nome potrebbe derivare
dalla purezza e dalla leggerezza delle acque prive di calcare. In quella che sarà poi
l'odierna piazza di Trevi, Agrippa alzò una mostra consistente in un alto muraglione, cui
erano addossate tre vasche di raccolta. La fontana restò così fino al 1453, allorché Niccolò
V, dopo opportuni lavori di riallacciamento dell'acqua alle sorgenti di Salone, diede
incarico a Leon Battista Alberti di restaurare la fonte: in questa occasione furono tolte le
tre vasche e sostituite con un unico vascone. La fontana iniziò a chiamarsi "di Trejo"
perché situata nella località detta "dello Trejo", in riferimento al Trivio (cioè l'incrocio di
tre vie) che corrispondeva all'attuale piazza dei Crociferi: il passo da "Trejo" a "Trevi" fu
breve. Ma la fontana iniziò a prender corpo con Urbano VIII, il quale, volendone fare una
grandiosa, incaricò del progetto il Bernini. Questi presentò diversi progetti, tutti
costosissimi, a causa dei quali papa Barberini aumentò talmente le tasse sul vino che
Pasquino si mise a parlare: "Per ricrear con l'acqua ogni romano di tasse aggravò il vino
papa Urbano". Ma papa Urbano VIII fece di peggio: dette al Bernini un permesso scritto
per demolire "...un monumento antico, di forma rotonda, di circonferenza grandissima e di
bellissimo marmo presso S.Sebastiano, detto Capo di Bove...", vale a dire la tomba di
Cecilia Metella. Ma stavolta i romani fecero il muso duro e Bernini si dovette accontentare
di quel che aveva già smantellato (e non era poco). Urbano VIII e Bernini morirono senza
che la fontana fosse stata ultimata: in quel periodo era soltanto un grosso lavatore con un
vascone dinanzi e niente più. Quasi un secolo dopo, papa Clemente XII (1730-1740)
decise di sostituirla con una fontana monumentale e, a tale scopo, invitò i migliori artisti
dell'epoca a presentargli i progetti. Tra tutti i bozzetti inviati, fu scelto quello del romano
Nicola Salvi, di evidente ispirazione berniniana. L'artista si mise al lavoro nel 1733, ma, ad
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opera quasi ultimata, morì prematuramente: il successore, Giuseppe Pannini, terminò la
mostra. Clemente XIII inaugurò la fontana nel 1762, così come la vediamo oggi. La
grande fontana copre tutto il lato minore di palazzo Poli per una larghezza di 20 metri su
26 di altezza. Il prospetto ha nel mezzo un arco trionfale formato da un ordine di quattro
colonne corinzie sormontate da un grandioso attico, a sua volta sovrastato dallo stemma di
Clemente XII. Lo stemma, scolpito in marmo, è coronato da una balaustra con quattro
statue che simboleggiano le quattro stagioni. Nel fronte dell'architrave è l'iscrizione:
"CLEMENS XII PONT. MAX. / AQUAM VIRGINEM / COPIA ET SALUBRITATE
COMMENDATAM / CULTU MAGNIFICO ORNAVIT / ANNO DOMINI
MDCCXXXV PONT. VI". Al centro di una base rocciosa ricca di scogli e di figure dello
scultore Maini, si erge imponente la statua di "Oceano" sopra un carro a conchiglione
trainato da due cavalli marini, guidati da altrettanti tritoni. I cavalli, uno placido e l'altro
agitato, simboleggiano i due aspetti del mare. Le due statue nelle nicchie laterali
raffigurano "Abbondanza" (a sinistra) e "Salubrità" (a destra), mentre i bassorilievi
sovrastanti ricordano uno la leggenda di Agrippa che approva il progetto dell'acquedotto e
l'altro la vergine romana che indica ai soldati assetati le sorgenti dell'acqua. Lungo il piano
stradale vi è la grande vasca a bordi rialzati simboleggiante il mare. Diverse le leggende e
gli aneddoti legati alla fontana di Trevi: il più conosciuto è la credenza che, gettando un
soldino nella fontana, rigorosamente di spalle, si ritorni a Roma. Più romantico l'uso di far
bere l'acqua della fontana al fidanzato che parte per il servizio militare o per lavoro e
spezzare poi il bicchiere, in modo che l'uomo non possa più dimenticarsi né di Roma né
della fidanzata. Si narra che il grosso vaso posto alla destra della fontana (per chi guarda) e
soprannominato "asso di coppe", sia stato collocato lì dallo stesso Salvi, affinché un
barbiere, che lo disturbava con le sue continue critiche, non potesse più vedere i lavori.
Nella piazza si trova anche una delle più famose "Madonnelle" di Roma, quelle bellissime
edicole mariane sparse lungo le strade e che sono una preziosa testimonianza di una
tradizionale fede popolare. La loro origine si ricollega alla religione romana antica, dalla
quale il Cristianesimo ha tratto spunto: piccoli tempietti o "aediculae" venivano infatti
eretti agli incroci delle vie o nei crocicchi di campagna in onore dei Lares Compitales, le
divinità che proteggevano i viandanti. Durante il Medioevo, nel Rinascimento e più ancora
dopo la Controriforma, le edicole mariane si diffusero in tutti gli angoli della città, tanto
che nel più ampio catalogo che di esse fu redatto (quello di Alessandro Rufini della metà
dell'Ottocento) ne erano elencate ben 1421. Questa di piazza di Trevi è posizionata così in
basso da non poter passare inosservata. La Vergine dipinta sul muro (scarsamente visibile,
in verità, a causa del vetro che la riveste) è circondata da una raggiera di stucco stellata.
Due angeli poggianti su un piedistallo sostengono una ghirlanda. È presente anche il
baldacchino e il solito lampioncino con eleganti volute in ferro battuto. Proprio perché
espressione di arte popolare, l'autore, come per la maggior parte delle "Madonnelle", è
anonimo, probabilmente un umile artigiano: solo raramente sono state eseguite da qualche
artista più rinomato.
Le Quattro Fontane, contrariamente al solito, vennero fatte edificare a spese di privati
all'incrocio fra via Pia (oggi via XX settembre) e la Via Felice (oggi via Quattro Fontane)
laddove solenne si innalza oggi la facciata del San Carlino Borrominiano, in prospettiva
dei Dioscuri da una parte, del S. Bernardo e la lontanissima Porta Pia dall'altra. Siamo nel
periodo di Sisto V e di Domenico Fontana, ma il pontefice, in questa occasione, degradò il
suo architetto a semplice fornitore di materiali. Con uno scritto del 1589, gli ordinò di
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consegnare ad un certo Muzio Mattei, cinque pezzi di
peperino che provenivano dal distrutto Settizonio, ovvero
quell'edificio che si trovava alle pendici del Palatino
eretto da Settimio Severo. L'idea e la messa in opera di
queste fontane si devono a Muzio Mattei, lo stesso
personaggio che riuscì a far costruire (secondo la
leggenda) davanti al suo palazzo, la fontana delle
Tartarughe che sarebbe stata altrimenti destinata a piazza
Giudea. In realtà, il Mattei aveva fatto realizzare solo tre
delle quattro fontane. La quarta la dobbiamo ad un certo
Giacomo Gridenzoni. Si tratta di quella dalla parte di
palazzo Barberini, costruita nel 1593, erroneamente
attribuita a Pietro da Cortona. E' costituita, come le altre,
da una mezza vasca addossata all'edificio sormontata da una statua sdraiata con aria
pacifica e sonnacchiosa, che rappresenta la Fedeltà,ma molti la identificano come Diana.
Ella è fiancheggiata da un simbolico cane e appoggiata ad un trimonzio (simile a quello
dello stemma sistino), ha come sfondo una bella finestra con ornati vegetali. La
caratteristica principale delle quattro fontane è costituita dagli sfondi scenografici
retrostanti le figure semiadagiate che le adornano. Le tre fontane realizzate dal Mattei
furono costruite nel 1588 e rappresentano rispettivamente l'Arno, all'angolo dell'ex palazzo
Mattei (ora Del Drago) dalla riccioluta capigliatura cui fanno da sfondo della canne simili
alle piante di papiro (da cui l'ipotesi che il fiume in realtà sia il Nilo) e un leone, l'emblema
fiorentino. Il Tevere posto di fronte alla precedente, all'angolo con la chiesa di S. Carlo
alle Quatto Fontane, è rappresentato anch'esso con la folta capigliatura canuta e fluente,
sostiene una grande cornucopia ricolma di frutta. Sullo sfondo una lupa, non bella in verità
e una fitta vegetazione, la chioma dell'albero in primo piano che si confonde riportandoci
ad antiche concrezioni calcaree di grotte nascoste. Infine la Fortezza rappresentata da una
prosperosa Giunone posta, guardando Trinità dei Monti, sulla sinistra, colta con il capo
reclinato in cui fra i capelli si scorge una corona, e si appoggia su un docile leone che le si
sottomette e versa acqua nella vasca sottostante. Lo sfondo simile a quello della statua del
Tevere è lussureggiante dominato da una snella palma,mentre nell'estremità sinistra si
agita insolito un vociante palmipede.
La fontana della Barcaccia è una celebre fontana di Roma, situata in Piazza
di Spagna ai piedi della scalinata di Trinità dei Monti, che deve il suo nome alla sua forma
di barcone che affonda.
L'opera, del 1627, fu realizzata da Pietro Bernini, che
lavorò aiutato anche dal figlio Gian Lorenzo su
commissione del Papa Urbano VIII. Pare che la sua
particolare forma sia stata ispirata dalla presenza sulla
piazza di una barca, portata fin lì dall'alluvione del
Tevere del 1598.
La sua realizzazione comportò il superamento di
alcune difficoltà tecniche, dovute alla bassa pressione
dell'acquedotto dell'acqua Vergine in quel particolare
luogo, che non permettevano la realizzazione di
zampilli o cascatelle.
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Il Bernini tuttavia risolse l'inconveniente ideando la fontana a forma di barca
semisommersa in una vasca posta leggermente al di sotto del piano stradale, con fontanelle
di acqua (perfettamente potabile) da poppa e da prua.
Completano la Barcaccia le decorazioni a forma di soli e api dello stemma della famiglia
del Papa committente, i Barberini.
Allo stesso Bernini, si deve anche l’ideazione di un fontanile ad uso dei viandanti
collocato in origine sulla piazza, in angolo con la via Sistina, noto come Fontana delle Api
(oggi sull’inizio di via Veneto)
Le due statue virili della piazza del Quirinale raffigurano i Dioscuri, mentre trattengono
per le briglie i cavalli scalpitanti, secondo uno schema iconografico raro che compare
dall’età severiana (III sec. d.C.).La Fontana del Tritone, situata a Roma in
Piazza Barberini, è opera di Gian Lorenzo Bernini, a cui fu commissionata dal Papa
Urbano VIII Barberini, nell'ambito dei lavori
complessivi di sistemazione di Palazzo Barberini
e della zona a cui questo palazzo si affacciava.
Fu realizzata tra il 1642 e il 1643, in
concomitanza con la conclusione dei lavori che
interessavano Palazzo Barberini. La fontana è
stata realizzata interamente con il travertino e
rappresenta un Tritone, inginocchiato su di una
conchiglia sorretta da quattro delfini, nell'atto di soffiare dentro una conchiglia, da cui
sgorga l'acqua della fontana, che si raccoglie in una vasca dalle linee curve. Tra le code dei
delfini sono visibili le api, stemma di famiglia dei Barberini, e le chiavi, stemma dei
pontefici, e quindi di Urbano VIII committente dell'opera. Le piccole colonne che
circondano la fontana sono aggiunte ottocentesche, quando la piazza iniziava ad essere
trafficata.Un tempo la fontana era nota tra i romani come la fontana del Tritone sonante a
causa dell'acuto sibilo che emetteva l'altissimo zampillo che un tempo usciva dalla
conchiglia. La fontana è stata sottoposta a diversi restauri, l'ultimo dei quali in ordine di
tempo, risale al 1998.
I Dioscuri (Castore e Polluce) Le sculture della Piazza
del Quirinale, probabilmente pertinenti al cosiddetto
Tempio di Serapide, furono riutilizzate sempre sul colle
nelle terme di Costantino, in occasione dei rifacimenti
successivi al terremoto del 443 d.C. L’interesse per i due
gruppi scultorei si riaccese nel Quattrocento, quando papa
Paolo II fece realizzare tra il 1469 e il 1470 un primo
parziale restauro dei due colossi. E’ però nel secolo
successivo con Sisto V che le sculture, inserite nel
programma di ampliamento e abbellimento della piazza,
furono oggetto di un restauro completo eseguito nel 1585 e
furono trasferite ai lati di una vasca marmorea a costituire
uno sfondo monumentale per l’asse viario proveniente da
Porta Pia. Fu infine Pio VI nel 1786 a collocare il gruppo scultoreo nella posizione attuale,
ai lati dell’obelisco proveniente dal Mausoleo di Augusto, mentre nel 1818 Pio VII fece
sostituire la vasca originaria con una conca di granito proveniente dal Foro Romano.
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Luigi Pirandello,
secondo di sei figli, nasce la sera del 28 giugno 1867 ad
Agrigento. Nel 1894 comincia a dedicarsi alla
narrativa con racconti e romanzi d’ambiente
piccolo-borghese nei quali prevalgono ancora
i
canoni naturalistici (L’esclusa). Nel 1903, in
seguito al dissesto economico dell’azienda
paterna e alla malattia della moglie, è
costretto ad intensificare il proprio lavoro e
scrive il romanzo Il fu Mattia Pascal che
segna l’apparizione del primo personaggio
pirandelliano, concepito fuori d’ogni
giustificazione veristica. Tra il 1905 e il 1915
porta a maturazione quello sconcertante
dissolvimento del personaggio che culminerà
in
Uno,nessuno
e
centomila.
Contemporaneamente, si apre per Pirandello
la
grande avventura teatrale che lo porta nel
giro di pochi anni alla fama internazionale.
Nelle novelle (poi raccolte con il titolo
definitivo di Novelle per un anno) sono già
presenti i più intensi temi del teatro
pirandelliano: la dolente visione del mondo, il gioco tra finzione e realtà, il dramma
dell’essere e dell’apparire. Dopo le commedie in dialetto siciliano (Lumìe di Sicilia, Liolà, Il
berretto a sonagli) l’autentica proiezione drammatica si rivela appieno nel 1916 con
Pensaci Giacomino!, Così è (se vi pare) e con Il piacere dell’onestà (1917). Seguono a
ritmo travolgente Ma non è una cosa seria (1918), Il gioco delle parti, L’uomo, la bestia e
la virtù (1919), Tutto per bene e infine Come prima, meglio di prima (1920) che vale allo
scrittore il primo successo di pubblico. Nel 1921 con Sei personaggi in cerca d’autore e
nel 1922 con Enrico IV si apre la grande stagione pirandelliana che prosegue con Vestire
gli ignudi (1922), L’uomo dal fiore in bocca e La vita che ti diedi (1923), Ciascuno a suo
modo (1924), fino alle ultime produzioni I giganti della montagna (1932, dramma
incompiuto e ritenuto unanimemente dalla critica come quello artisticamente più valido)
e Non si sa come (1934). Dal 1929 fa parte dell’Accademia d’Italia e nel novembre del
1934 riceve il premio Nobel per la letteratura. L’apparizione di Pirandello può essere
considerato l’avvenimento principale nella storia del teatro italiano del Novecento e uno
degli avvenimenti chiave del teatro europeo contemporaneo. Il palcoscenico non è più la
scatola magica per fornire un’illusione di fronte a un pubblico partecipante. Su questo
nuovo palcoscenico, libero da ogni inutile elemento di distrazione o di abbellimento,
Pirandello istruisce il suo processo alla società contemporanea, alle sue ipocrisie, alle sue
menzogne, alle sue violenze, alle sue assurdità. Tutta la sua opera è imperniata sul
problema della personalità: l’uomo non è sempre quello che crede di essere, né quello
che altri credono che sia.
Muore a Roma di polmonite alle ore 8,55 del 10 dicembre 1936.
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Alcuni giudizi critici su Pirandello
SILVIO D’AMICO: [Il] “più singolare dei fenomeni apparsi nella vita teatrale italiana,
se non europea, della nostra età” [che] “di colpo diventa il più famoso drammaturgo
dell’ora”. NATALINO SAPEGNO: “Il suo nome acquistò quasi d’un tratto risonanza
non solo italiana, ma europea e mondiale, nell’ultimo ventennio della sua vita, da
quando cioè egli si venne dedicando con maggior impegno e prevalentemente al teatro,
con una originalità di temi, di impostazioni e di procedimenti tecnici, che si imponeva al
pubblico costringendolo ad evadere dal solito repertorio di schemi convenzionali, e
insieme con un vigore patetico ben più forte e persuasivo a paragone degli scenari
artificiosi ed estetizzanti di un D’Annunzio.[…] L’umorismo mette allo scoperto le
ipocrisie dei rapporti umani e la solitudine senza scampo dell’individuo. […] Senza il suo
esempio, non si spiega gran parte del teatro moderno, non tanto italiano, quanto
europeo ed americano”.
GIOVANNI MACCHIA: “Il pubblico non doveva essere concepito come una massa
inerte, senza volto, che seguite le alterne vicende del dramma, alla fine emetteva il suo
verdetto. Per Pirandello il pubblico esisteva nella realtà e nella coscienza del drammaturgo.
[…] E nei momenti più alti della sua produzione […] finì per convincersi che ormai il
pubblico non doveva essere lasciato in pace. Fu una delle ragioni del suo successo. Oltre
la quarta parete ormai sfondata, lo spettaore, del tutto sveglio, pensava. Il teatro era
dunque un tribunale, ma un tribunale cui lo spettatore era ammesso a partecipare, cosi
che alcuni registi, recentemente, nelle pièces più problematiche, hanno preso l’estrema
decisione di trasportare come in un dibattimento il pubblico tra gli attori, parte di tutto
l’insieme. […] Il pubblico, da lui poco vezzeggiato, anzi maltrattato, messo dinanzi a
spettacoli che non indicavano soluzioni, e ove, a differenza dei drammi gialli, alla fine non
si riusciva a vedere da che parte fosse il colpevole, e gli enigmi restavano enigmi,
spettacoli che alla fine procuravano un malessere vago, quel pubblico, dunque, al
contrario di ogni aspettativa, non disertò le sale per assistere a spettacoli più eccitanti o
più mansueti, o che almeno elargissero sicurezza e fiducia. […] Cos’era accaduto in quel
pubblico, fatto anche di gente comune, di brava gente, forse non dotata di molta cultura,
e che non amava ascoltare sulla scena i bei versi, in sogni o in misteri, ma parole dimesse,
povere, a volte stridule e disaccordate, dette e non recitate da personaggi che quasi non
sapevano esprimersi? Forse, dietro tante confuse parole che non riusciva bene a capire,
concetti, interrogativi, sarcasmi,l artifici dialettici, quella gente ritrovava un nuovo modo di
far teatro, qualcosa che non aveva mai visto, una vaga idea del mondo, o una concezione
buia dell’esistenza, assai simile a quella che essa viveva nelle proprie case, spesso visitate
dalla follia, ove la personalità alterata, appariva addirittura inafferrabile? Forse quel
pubblico aveva provato nella sua vita, senza ben rendersene conto, gli stessi incubi, le
stesse ossessioni e infinite crudeltà e dolori? Si riusciva a vedere qualcosa, ma come in
uno specchio opaco. Non era la tragedia, l’assassinio o il sangue. L’angoscia era più
profonda. quel teatro certo non sollevava, non purificava l’animo. Eppure l’onestà del
drammaturgo nel non progettare alcuna soluzione tragica riusciva a dare stranamente un
certo conforto, una certa consolazione. E a poco a poco quel pubblico occupò le platee
d’Europa e le occupa ancora”.
15
Le vicende familiari e Il piacere dell’onestà
«Al centro dei drammi e delle commedie in tre atti vi sono quasi sempre
complicazioni familiari, rapporti deviati e raddoppiati entro lo schema di partenza
del“triangolo”: i personaggi si muovono all’interno della contraddizione tra i loro sentimenti
e la posizione richiesta dai rispettivi ruoli vissuti nel rapporto matrimoniale; e
dall’assunzione di questa contraddizione sorgono situazioni artificiose e paradossali. […] La
commedia […] che presenta una delle prime tra le situazioni paradossali che caratterizzano
questo teatro, Pensaci, Giacomino!, animata da uno spregiudicato cinismo che fece
scandalo, con la vicenda del vecchio professore che, per beffare lo Stato, prende per moglie
una giovane dotata di amante e di figlio, a cui toccherà la sua pensione. Capolavoro di
impetuosa aggressività, basato sull’accerchiamento che i personaggi dei protagonisti, il
signor Ponza e la suocera la signora Frola, subiscono dalla società di un’intera cittadina, alla
ricerca della vera natura di un personaggio che si rivela inafferrabile, è Così è (se vi pare),
del 1917: con un furore che sa di inchiesta giudiziaria, tutti cercano di sapere se la moglie
del signor Ponza è ancora la figlia della signora Frola, o è un’altra donna subentrata alla
morte di quella, mentre ciascuno dei due la definisce secondo le proiezioni della presunta
follia dell’altro; individuata e costretta a venire in scena, la donna vi appare velata,
affermando di consistere solo nell’immagine che di lei hanno gli altri (con la celebre battuta
“Per me, io sono colei che mi si crede”). Ne Il piacere dell’onestà (1917), il personaggio di
Baldovino si impone con un estremistico compiacimento della legalità, muovendo da una
situazione tutta irregolare i immorale; prestatosi a sposare una donna solo per coprire il
concepimento di un figlio illegittimo, egli si cala fino in fondo nel suo nuovo ruolo di marito,
pretendendo un rispetto totale delle forme e l’allontanamento dell’amante su richiesta del
quale ha sposato la donna. Ma non è una cosa seria (1918) si svolge sul caso di un
matrimonio fatto per mera scommessa, in cui il ruolo matrimoniale modifica alla fine la
situazione di indifferenza del marito verso la moglie.
Il capolavoro di questa prima fase del tetro pirandelliano è certamente Il giuoco
delle parti (1918) dominato da Leone Gala, personaggio che vive il distacco dalla vita e la
rinuncia ai sentimenti in una geometrica e astratta crudeltà. Separato dalla moglie Silia, ma
continuando a sostenere formalmente la parte del marito, egli viene costretto da questo
stesso ruolo a sfidare a un duello all’ultimo sangue un tale che ha offeso Silia, che in tal
modo spera di sbarazzarsi definitivamente di lui: ma, fedele mal carattere tutto formale del
suo ruolo, egli costringe a sua volta l’amante della moglie a prendere il suo posto nel duello,
nel quale resta ucciso. Il dramma è dominato da un effetto di vertiginosa astrazione,
nell’assoluta e mortale estraneità tra la cerebralità del marito e la corporeità irrazionale
della moglie. Oltre all’artificioso viluppo erotico e familiare de L’innesto(1919), va ancora
ricordato lo scatenato “apologo” comico de L’uomo, la bestia e la virtù (1919) che si pone
come la parodia di un rito di fecondazione […] con la costruzione di un inganno che
costringe un marito, indifferente alla moglie, ad esercitare le funzioni del suo ruolo, per
nascondere un concepimento frutto del rapporto di questa con l’amante».
Giulio Ferroni, Storia della letteratura italiana, il Novecento,ed. Einaudi, pp.155-156
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Due giudizi critici su Il piacere dell’onestà
Allo scopo di sottrarsi a una vita di dissipazione e traviamenti e di crearsi una situazione tale
che (marito di una signora per bene) egli sia obbligato da essa a vivere onestamente, Baldovino,
protagonista del Piacere dell'onestà, sposa Agata che Fabio ha resa madre e che non può sposare
perché ammogliato. Ma pone bene le mani avanti: onesto lui, onesti tutti! Agata e Fabio continuino
pure ad amarsi, se vogliono, ma rispettino rigidamente lui, non lui Baldovino, ma lui onesto marito di
una signora per bene, salvino scrupolosamente le apparenze non solo di fronte agli altri, ma di fronte a
lui stesso. Così, se cattiva azione ci sarà, non la farà lui, la faranno loro. In tal modo Baldovino si
costruisce una onestà perfetta, e vive non più come uomo, ma come forma artificiale e costruita di
onestà. L'onestà di Baldovino ha come effetto immediato l'onestà anche formale di Agata: non volendo
ingannarlo, essa interrompe ogni rapporto con Fabio. Ella non potrà più essere di Fabio se prima
Baldovino non lasci la casa. Fabio ordisce una rete per indurre Baldovino a commettere un furto: allora
egli lo svergognerà e caccerà di casa. Ma Baldovino che ha scoperto il raggiro accetta di passare per
ladro e di andarsene a patto che a rubare non sia lui, ma Fabio. In un secondo momento, invece, è
proprio lui che spontaneamente si mette in condizione di passare da ladro: egli si è accorto di amare
Agata, e quest'amore, ponendolo dinanzi a lei uomo contro donna, e non più maschera di marito contro
maschera di moglie, gli fa comprendere la necessità di partire. L'amore uccide in lui la maschera del
marito. Ma Agata che anch'ella l'ama lo seguirà anche come ladro. Allora egli rimane. La forma
dell'onestà ha ucciso in Agata l'amante e creato in lei la moglie, sul serio e non da burla. La Vita ha
incenerito la Forma in cui la si era costretta e ne ha creato una nuova e superiore.
ADRIANO TILGHER
« Il piacere dell’onestà » di Pirandello al Carignano.
Luigi Pirandello è un « ardito» del teatro. Le sue commedie ,sono tante bombe a mano che scoppiano nei
cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità, rovine di sentimenti, di pensiero. […] Così avviene nei
tre atti del Piacere dell’onestà. Il Pirandello vi rappresenta un uomo che vive la vita pensata, la vita come
programma, la vita come « pura forma ». Non è un uomo comune questo Angelo Baldovino. È stato un
briccone, è un relitto, secondo le apparenze. Non è, in verità, che un uomo verso il quale la società ha avuto il
torto di essere tale per cui la « pura forma » è in realtà adeguata al resto della realtà. Il Baldovino si innesta
nella commedia in un ambiente favorevole e vive la sua vita. Diventa il marito legale di una nobile signorina
che è stata resa madre da un uomo ammogliato. Accetta la parte, ponendosi degli obblighi di onestà, e
ponendone agli altri, e sviluppa il suo pensiero. Diventa subito ingombrante: il suo pensiero si realizza per sé,
ma scombussola tutto l’ambiente e arriva a questo punto morto preveduto dal Baldovino, ma paradossale per
gli altri; è necessario che il marchese Fabio, il seduttore, diventi ladro, perché la « pura forma » si sviluppi in
tutta la sua logica, e Baldovino appaia essere il ladro, pur rimanendo accertato per tutti gli interessati che il
vero ladro è il marchese, e che non impunemente si accettano dei contratti in cui la logica e la volontà uno
deciso a rispettarla, sono elementi essenziali. Arrivati a questo punto di scomposizione e di dissoluzione
psicologica, la commedia ha uno svolto pericoloso, e un po’ confuso. Le reazioni sentimentali hanno il
sopravvento: la bricconeria effettiva del marchese Fabio prende un risalto di una evidenza umoristica
catastrofica, e la moglie putativa diventa moglie effettiva e appassionata del Baldovino, che non è un briccone
un galantuomo, ma solo un uomo che vuole essere l’uno e l’altro, e sa essere effettivamente galantuomo,
lavoratore, perché queste parole non sono che attributi contingenti di un assoluto che solo il pensiero e la
volontà creano e alimentano.
La commedia di Pirandello ha avuto un crescendo di applausi, dovuto alla virtù di persuasione insita nel
processo fantastico dell’intreccio. Ruggero Ruggeri sosteneva la parte del Baldovino, la Vergani quella della
signorina, poi signora Agata Baldovino, il Martelli quella del marchese Fabio. Col Pettinello e la Mosso
presentarono un insieme interpretativo ottimo, ciò che contribuì a far rilevare meglio il dialogo serrato e pieno
di scorci della commedia.
ANTONIO GRAMSCI (29 novembre 1917)
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Il cast dello spettacolo è di indubbio valore
artistico: interpreti di prestigio, sontuosa
interpretazione di Leo Gullotta che dà vigore ad
un difficile personaggio quale è Angelo Baldovino.
Misurata ed efficiente la regia. Molto da
apprendere per quanto riguarda costumi di scena,
luci e scenografie: è un’occasione buona per far
tesoro di quanto si vede e si ascolta. Una nota a
parte meritano le musiche originali di Germano
Mazzocchetti, socio onorario della nostra
associazione, che sottolineano tutti i momenti più
significativi della commedia con perizia tecnica e
garbo, accrescendo la recitazione di quel pathos di cui ne è già carica di suo.
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Due recensioni dello spettacolo
Il Messaggero, 18 ottobre 2008 - Esplode come l'uragano il "Piacere dell'onestà"
C'è da credere (dopo aver ricevuto in regalo da Leo Gullotta, all'Eliseo di Roma, un
Pirandello di gran rango) che il teatro italiano, in tempo di vessazioni e di peste, si stia
"vendicando" a colpi di bellezza. […] Il testo […] può definirsi verboso, iperargomentato,
poco "recitabile". In realtà, si tratta forse di un copione cui serve il grimaldello capace di
scardinarlo, di tradurlo in viva, vibrante evidenza teatrale. L'arnese da scasso, nel caso
dell'allestimento dell'Eliseo, è proprio Gullotta, protagonista esemplare, nei panni di
Angelo Baldovino, in un crescendo di lucidità, di titanica voglia d'imporre alla platea il
sapore di una virtù difficile, l'onestà, ieri come oggi oltraggiata senza ritegno. Il regista
esalta, con ragione, il momento interpretativo (che Leo sorregge con bravura
entusiasmante, vocale e gestuale) isolando il mondo conformista in una casetta
trasparente, dentro il bosco dell'inconscio, regno della Natura e delle sue manifestazioni.
Lascia così a Baldovino, persona eticamente disinvolta fino al momento di sposare una
donna messa incinta dall'ammogliato marchese Colli, la possibilità di esplodere nella selva
come l'uragano, cioè "naturalmente". L'ometto, accettando di farsi garante dell'Onestà,
esplode fra gli ipocriti e i maneggioni al pari della tempesta, li tortura, li incalza con la furia
e l'acribìa dei neofiti. E mentre essi faticano a camminare sul tappeto erboso, come respinti
dal ferro rovente della probità, esperisce fino in fondo quel valore disatteso, ricevendone
lavacro spirituale, rispetto, prospettive di futuro. […] RITA SALA
Repubblica — 10 ottobre 2008 pagina 16 sezione: ROMA
Immaginate i prestanome nella giungla degli affari, i matrimoni fittizi per dare una
nazionalità alle straniere, i transfert d' identità. A uno come Pirandello già nel primo '900
piacque studiare i meccanismi delle alterazioni di facciata, di nome o di ruolo degli esseri
umani. Lo fece nel 1904 nel romanzo Il fu Mattia Pascal, e ad altro titolo analizzò l'
integrazione in una parte altrui con la novella Tirocinio, ricavandone la commedia Il piacere
dell'onestà battezzata da Ruggeri nel 1917. Ora questo testo sulla compravendita dell'
onere di maritare una donna che è stata messa incinta da chi non può sposarla perché
irrimediabilmente solo separato, con sfibrante (e toccante) fedeltà al compito famigliare ad
opera del consorte "ingaggiato", è uno spettacolo che da martedì 14 avrà per protagonista
Leo Gullotta al teatro Eliseo, in una messinscena di Fabio Grossi, con cast in cui figurano
Martino Duane, Paolo Lorimer, Mirella Mazzeranghi e Marta Richeldi. «Pirandello non è un
classico, ma un contemporaneo - commenta Gullotta - perché drammatizza un consenso
(quello di Baldovino, disposto per contratto a sposare la donna-madre Agata e a fungere da
marito-padre), una scelta che ha a che fare con una manipolazione, dove c' è di fondo la
solitudine onesta di un uomo, una solitudine da reputare un valore aggiunto». Conta il
luogo. «Tutto avviene in una casa borghese ricca ma superficiale». Conta il tipo di onestà.
«è come una casa di cristallo in cui non puoi nascondere nulla». Conta la misura. «Un
Pirandello senza nessun trespolo recitativo, ristrutturato in due atti, senza i "codesto"».
Conta anche un Gullotta attore più asciutto. «Pirandello ho cominciato a frequentarlo a
Catania 47 anni fa, allo Stabile. E dopo esperienze di dramma, di commedia, di cinema e di
varietà, da cinque anni ho sentito di voler essere più utile col mio lavoro in un mondo che si
disfa. E allora...». RODOLFO DI GIAMMARCO
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Nell’ambito delle attività sociali e culturali della Parrocchia di S. Giovanni Battista e S.
Benedetto Abate di Pescara Colli si è legalmente costituita a maggio 2008 l’Associazione
Teatrale “PerStareInsieme”. È un’associazione senza scopi di lucro, rivolta in modo
particolare ai parrocchiani ed ha come finalità quella di creare fra i suoi componenti un
positivo clima di condivisione di esperienze che conduca alla scoperta dell’importanza dello
stare bene insieme.
Obiettivi: - fruizione dei migliori spettacoli teatrali rappresentati sul territorio;
- analisi e la comprensione del linguaggio e delle tecniche teatrali;
- allestimento di spettacoli teatrali dialettali e in lingua.
Commedie e spettacoli rappresentati dal luglio 2008 ad oggi
Recital natalizio (4 repliche, 800 spettatori)
Lu ziprete – da Eduardo Scarpetta (4 repliche, 580 spettatori)
La cantata dei pastori – da Andrea Perrucci (2 repliche, 300 spettatori)
Lu diavule e l’acqua sande – da Camillo Vittici (5 repliche,1290 spettatori)
La condanna dell’Innocente – di Alberto Cinquino (7 repliche, 700 spettatori)
…e volò libero – di Carmine Ricciardi (1 replica, 250 spettatori) a Sturno (AV)
Titillo – da E. Scarpetta (4 repliche, 1310 spettatori)
La fattura – di Evaldo e Isabella Verì (4 repliche, 1610 spettatori)
Natale in casa Bongiorno di C. Natili e C.Giustini (2 repliche, 350 spettatori)
Per la stagione estiva 2010 sono in allestimento Lu ziprete, e la nuova commedia Lu
testamente di Michele Ciulli.
Prossimo appuntamento giovedì 1 giugno 2010 in occasione della Sagra.
Altre attività culturali
Cineforum sul film La strada di Federico Fellini
Gita a Roma per lo spettacolo La strada con Venturiello e Tosca
Visione degli spettacoli teatrali proposti dal Teatro Comunale di Città Sant’Angelo, di Atri, di
Pescara.
Incontro di approfondimento sulla drammaturgia pirandelliana con particolare riferimento a
Il piacere dell’onestà.
Partecipazione alla Settembrata Abruzzese con lo spettacolo La fattura.
Partecipazione alla Settembrata Abruzzese con lo spettacolo La fattura.
Attività sociali
Destinazione dell’incasso netto di uno spettacolo in beneficienza ad una famiglia aquilana
colpita dal terremoto.
Rappresentazione gratuita de Lu diavole e l’acqua sande a favore dell’AISLA
Info: Associazione Teatrale “PerStareInsieme”
Via Di Sotto n. 135/20 – 65125 Pescara Colli
e-mail: [email protected]
Carmine Ricciardi (presidente) 3489353713
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Roma - PerStareInsieme