Due tipologie di incipit
Gérard Genette, Nuovo discorso del racconto (1983):
“Se opponiamo grossolanamente due tipi di incipit, il tipo A
che suppone il personaggio ignoto al lettore, lo considera in un
primo momento dall’esterno assumendo in un certo senso tale
ignoranza, poi lo presenta formalmente [...], e il tipo B che lo
suppone di primo acchito già noto, designandolo
immediatamente col cognome, o col nome, o addirittura con
un semplice pronome personale o con l’articolo determinativo
“familiarizzante”, possiamo osservare nella storia del romanzo
moderno un’evoluzione significativa, che consiste grosso
modo in un passaggio dal tipo A, dominante fino a Zola
escluso […], al tipo B [...]. L’uso del tipo B è lampante del XX
secolo nei romanzi come Ulysses, il Processo o il Castello”
(57-58).
Il punto di vista
• Si tratta della prospettiva da cui la storia viene
osservata e comunicata al lettore
• E’ uno strumento di regolazione dell’informazione
narrativa, cioè seleziona le informazioni che il narratore
decide di trasmetterci
Il punto di vista
Opzioni narrative fondamentali:
• Narrazione onnisciente (focalizzazione zero secondo
Genette): il narratore dispone di un livello di sapere
superiore ai personaggi (N>P)
• Prospettiva ristretta (focalizzazione interna): il
narratore dispone di un livello di sapere uguale a quello
del personaggio (N=P)
• (Focalizzazione esterna: il narratore dispone di un
livello di sapere inferiore ai personaggi: N<P)
Un nuovo sistema di coordinate
Alcune “rivoluzioni” tra Otto e Novecento:
 Ambito politico-sociale
–1896-1908: Seconda rivoluzione industriale
–1914-18: Grande guerra
–1917: Rivoluzione d’Ottobre
 Scienza e filosofia:
–1899: Freud pubblica L’interpretazione dei sogni
–1905: Einstein formula la teoria della relatività ristretta (a
cui seguirà, nel 1916, la teoria della relatività generale)
–1903-1911: Planck sviluppa la teoria dei quanti
–1900-01: Husserl pubblica le Ricerche logiche (e nel 1913
le Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia
fenomenologica)
Un nuovo sistema di coordinate
 Campo della tecnica e delle invenzioni tecnologiche:
–Tra fine 800 e primi anni del 900, Marconi inventa la radio,
e in generale si sviluppano le telecomunicazioni (telegrafo,
telefono ecc.)
–Negli stessi anni, i fratelli Lumière inventano il cinema;
–Grande sviluppo dei trasporti: auto, aereo, grandi
transatlantici ecc.
Un nuovo sistema di coordinate
Stephen Kern, Il tempo e lo spazio: La percezione del mondo
tra Otto e Novecento (The Culture of Time and Space 18801918, 1983):
“Nel periodo che va dal 1880 allo scoppio della prima guerra
mondiale una serie di radicali cambiamenti nella tecnologia e
nella cultura creò nuovi, caratteristici modi di pensare e di
esperire lo spazio e il tempo. Innovazioni tecnologiche che
comprendono il telefono, la radiotelegrafia, i raggi X, il cinema,
la bicicletta, l’automobile e l’aeroplano posero il fondamento
materiale per questo nuovo orientamento; sviluppi culturali
indipendenti quali il romanzo del ‘flusso di coscienza’, la
psicoanalisi, il cubismo e la teoria della relatività plasmarono
direttamente la coscienza: il risultato fu una trasformazione
delle dimensioni della vita e del pensiero” (p. 7).
Un nuovo sistema di coordinate
Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento (1971):
“Le prime origini della pittura cubista cadono suppergiù negli
stessi anni, i primi di questo secolo, in cui Planck formula la teoria
dei quanta, Einstein trasformando l’equazione di MichelsonMorley scrive le equazioni della relatività e Freud porta la
psicologia del profondo a quella tappa decisiva che è
rappresentata dal libro sull’interpretazione dei sogni. Sono
altrettanti avvenimenti che sfaccettano e significano, nei loro
campi diversi e rispettivi, quello che [si può chiamare] un nuovo
sistema di coordinate dell’uomo nel mondo, una nuova percezione
che l’uomo ha della struttura e quindi un nuovo sentimento e
giudizio del mondo, e del proprio essere ed esserci nel mondo. E
senza dubbio, nella misura in cui si è davvero stabilito un nuovo
sistema di coordinate, se ne debbono riscontrare gli effetti anche
in letteratura, e tanto più nel romanzo” (pp. 3-4).
Un nuovo sistema di coordinate
Mario Lavagetto, Svevo e la crisi del romanzo europeo (2000):
“Il secolo [...] nasce in modo fortemente traumatico, grazie a
una cesura radicale dopo la quale “niente sarà più come prima”
e i confini del possibile e dell’impossibile risulteranno
drasticamente modificati. È come se lungo un arco molto ampio
– che va dalla musica alla filosofia, dalla fisica al romanzo –
fossero stati predisposti dei detonatori che, in rapida sequenza,
innescheranno formidabili esplosioni destinate a rivoluzionare i
presupposti, i riferimenti e le condizioni stesse di lavoro; a
trasformare il modo in cui i singoli pensano se stessi e il mondo
che li circonda” (251).
Un nuovo sistema di coordinate
Erich Auerbach, Mimesis (1946):
“I cambiamenti veloci produssero una confusione tanto
maggiore, in quanto non era possibile abbracciarli nel loro
insieme; essi si manifestarono contemporaneamente in molte
singole sfere della scienza, della tecnica e dell’economia,
cosicché nessuno, neanche coloro che ne erano a capo,
poterono prevedere e giudicare le situazioni nuove che ne
risultarono. […] dappertutto nel mondo sorsero crisi di
adattamento, si accumularono e si fecero minacciose,
condussero a quegli sconvolgimenti che non abbiamo ancora
superato” (II,334).
Un nuovo sistema di coordinate
Robert Musil, L’uomo senza qualità (1930-33):
“Dalla mentalità, liscia come un olio, degli ultimi due decenni del
diciannovesimo secolo era insorta improvvisamente in tutta l’Europa
una febbre vivificante. Nessuno sapeva bene cosa stesse nascendo;
nessuno avrebbe potuto dire se sarebbe sorta una nuova arte, un uomo
nuovo, una nuova morale o magari un nuovo ordinamento della società.
Perciò ognuno ne diceva quel che voleva. Ma dappertutto si levavano
uomini a combattere contro il passato. […] Erano diversissimi fra loro,
e il contrasto fra i loro scopi non avrebbe potuto essere maggiore. Si
amava il superuomo, e si amava il sottouomo; si adorava il sole e la
salute, e si adorava la fragilità delle fanciulle malate di consunzione; si
professava il culto dell’eroe e il culto socialista dell’umanità; si era
credenti e scettici, naturisti e raffinati, robusti e morbosi […] Chi avesse
voluto scomporre e anlizzare quel periodo avrebbe trovato un nonsenso,
qualcosa come un circolo quadrato fatto di ferro ligneo, ma in realtà
tutto si era amalgamato e aveva un senso baluginante” (61-62).
Un nuovo sistema di coordinate
Franz Marc, Vassily Kandinsky, Il cavaliere azzurro (Der Blaue
Reiter, 1912):
“Si apre, anzi si è già aperta, una grande stagione: il risveglio
spritituale […] Siamo sulla soglia di una delle più grandi epoche
che l’umanità abbia mai vissuto, l’epoca della grande spiritualità.
[…] Rispecchiare gli avvenimenti artistici direttamente connessi a
questa svolta e i fatti necessari a illuminarli anche in altri campi
della vita spirituale, è il nostro primo e massimo obiettivo” (249).
“Noi ci avventuriamo in nuove terre e viviamo una grande,
sconvolgente esperienza: scopriamo che tutto è ancora intatto,
inespresso, vergine, inesplorato. Il mondo si apre dinanzi a noi in
tutta la sua purezza: i nostri passi tremano. Se vogliamo osare e
camminare, dobbiamo tagliare il cordone ombelicale che ci unisce
al passato materno.
Il mondo partorisce un’età nuova” (259).
Un nuovo sistema di coordinate
Virginia Woolf, Bennett and Mrs Brown (1924): individua una
“frattura generazionale” tra i romanzieri della sua generazione
(georgiani) e quelli della generazione precedente (edoardiani):
“Nel o intorno al dicembre 1910 la natura umana è cambiata
[…] Tutte le relazioni umane sono mutate – quelle tra padroni e
servi, mariti e mogli, genitori e figli. E quando le relazioni
umane cambiano, c’è un contemporaneo cambiamento nella
religione, nel comportamento, nella politica, e nella letteratura.
[…] E così si è iniziato a fracassare e a distruggere. È ciò che
sentiamo tutto intorno anoi, nelle poesie e nei romanzi e nelle
biografie, perfino negli articoli di giornale e nei saggi, il rumore
di rottura e di crolli, di rovina e distruzione. […] I segni di tutto
questo sono evidenti ovunque. La grammatica è violata; la
sintassi disintegrata […]”.
Contro il Naturalismo, per una poetica nuova
I presupposti del realismo e del naturalismo ottocentesco
vengono contestati:
1) Non esiste una realtà “oggettiva” (soggettivismo e
relativismo)
Contro il Naturalismo, per una poetica nuova
2) Cambia la gerarchia tra fenomeni significativi e fenomeni
“insignificanti”
Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento:
“L’oggetto [...], per il romanzo tradizionale, prenovecentesco,
non può, non deve mai essere insignificante; se lo assume e lo
rappresenta è proprio perché è in qualche modo significativo o
utilmente significativo: porta il suo contributo”
Contro il Naturalismo, per una poetica nuova
2) Cambia la gerarchia tra fenomeni significativi e fenomeni
“insignificanti”
Umberto Eco, Le poetiche di Joyce: “Il principio dell’essenziale
[...] fa sì che nel romanzo tradizionale non si dica affatto che il
protagonista si è soffiato il naso, a meno che questo atto “conti”
qualcosa al fine dell’azione. Se non conta è un atto
insignificante, romanzescamente “stupido”. Ora, con Joyce [sta
parlando di Ulisse] abbiamo l’assunzione di pieno diritto di tutti
gli atti stupidi della vita quotidiana quale materia narrativa. [...]
ciò che prima era inessenziale diventa centro dell’azione, nel
romanzo non accadono più grandi cose importanti, ma
accadono tutte le piccole cose, senza mutuo legame, nel flusso
incoerente del loro sopravvenire, i pensieri come i gesti, le
associazioni di idee come tutti gli automatismi del
comportamento” (71-72)
Contro il Naturalismo, per una poetica nuova
2) Cambia la gerarchia tra fenomeni significativi e fenomeni
“insignificanti”
Erich Auerbach, Mimesis: “Ai tempi nostri si è avuto uno
spostamento di accento; molti scrittori rappresentano i piccoli
fatti insignificanti per amore dei fatti stessi, o piuttosto quale
fonte di motivi, di penetrazione prospettica in un ambiente, in
una coscienza o nello sfondo del tempo; essi hanno rinunciato a
rappresentare la storia dei loro personaggi con la pretesa di una
compiutezza esteriore, conservando la successione cronologica
e concentrando tutta l’attenzione sulle importanti svolte
esteriori del destino. Il romanzo gigantesco di James Joyce,
un’opera enciclopedica, specchio di Dublino, dell’Irlanda,
specchio anche dell’Europa e dei suoi millenni, ha per cornice
la giornata esteriormente insignificante d’un professore di
ginnasio e d’un agente di avvisi pubblicitari”.
Contro il Naturalismo, per una poetica nuova
2) Cambia la gerarchia tra fenomeni significativi e fenomeni
“insignificanti”:
“Esso comprende meno di 24 ore della loro vita, simile al
romanzo To the Lighthouse di Virginia Woolf, che rappresenta
parti di due giorni molto distanti nel tempo [...]. Proust
rappresenta giornate e ore singole di epoche diverse, però alle
svolte esteriori del destino, che frattanto hanno colpito i
personaggi del romanzo, si accenna soltanto occasionalmente o
retrospettivamente o con anticipazioni, senza che in esse sia
posta la mira del racconto; spesso devono essere completate dal
lettore; il modo in cui nel testo citato si parla della morte del
padre, cioè occasionalmente, per accenni o anticipazioni, ne è
un buon esempio”.
Contro il Naturalismo, per una poetica nuova
2) Cambia la gerarchia tra fenomeni significativi e fenomeni
“insignificanti”:
“Questo spostamento del centro di gravità esprime quasi uno
spostamento di fiducia; si attribuisce meno importanza alle
grandi svolte esteriori e ai colpi del destino, come se da essi
non possa scaturire nulla di decisivo per l’oggetto; si ha fiducia
invece che un qualunque fatto della vita scelto casualmente
contenga in ogni momento e possa rappresentare la somma dei
destini; si ha fiducia maggiore nelle sintesi, ottenute con
l’esaurire un fatto quotidiano, piuttosto che nella trattazione
completa in ordine cronologico” (II,331-32).
Contro il Naturalismo, per una poetica nuova
2) Si cerca di rappresentare una “seconda realtà”:
Cfr. Luigi Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore
(1925). Una prima versione esce nel 1916, con il titolo Si gira.
“C’è un oltre in tutto”
Contro il Naturalismo, per una poetica nuova
2) Si cerca di rappresentare una “seconda realtà”:
Debenedetti, Il romanzo del Novecento: “I Quaderni sono
proprio il romanzo in cui la liquidazione del naturalismo viene
effettuata nel modo più fermo. Si direbbe che la vicenda stessa,
che l’affabulazione di quel romanzo, per una specie di
condensazione inconscia di motivi che l’autore viveva, ma
forse non si proponeva di esprimere in quella forma, delineino
simbolicamente il destino di morte del naturalismo. Si ricorderà
infatti che Serafino, il protagonista, si ribella di continuo alla
sua sorte di operatore, di uomo che gira la manovella della
macchina da ripresa, cioè di strumento passivo che fotografa la
vita e i suoi drammi come altrettanti “dal vero”: quel “dal
vero”, appunto, che fu la prima ambizione del verismo, e gli
diede addirittura il nome italiano”.
Contro il Naturalismo, per una poetica nuova
2) Si cerca di rappresentare una “seconda realtà”:
“E l’epilogo del romanzo è che Serafino, dopo avere
eroicamente fotografato un catastrofico dal vero, è colpito da un
trauma che gli toglie l’uso della parola. Nella sua carica di
simbolo e di allusione, la vicenda dei Quaderni arriva dunque a
dirci che il naturalismo diventa muto, inservibile” (451-52)
Contro il Naturalismo, per una poetica nuova
2) Si cerca di rappresentare una “seconda realtà”:
Debenedetti, Il romanzo del Novecento
“Il compito è di vedere “che cosa si nasconde dietro le cose”.
Una seconda realtà, per dirla in breve, più profonda e stabile e
vera di quella vistosamente e sensibilmente presentata dalla
loro apparenza” (295).
Nuove strutture del romanzo
1) Tende a sparire la figura autorevole del narratore
“onnisciente”
2) L’intreccio tradizionale viene destrutturato
3) L’orologio del romanzo “si rompe” e subentra una
temporalità soggettiva e relativa, una durata interiore
4) L’identità del personaggio entra in crisi
5) Si sperimentano nuove tecniche di rappresentazione della
vita interiore (monologo interiore, stream of consciousness)
James Joyce
Nasce a Dublino il 3 feb. 1882, primo
dei dieci figli di John Stanislaus Joyce
e di Mary Jane Murray
James Joyce
 La sua formazione scolastica avviene per lo più in ambienti
religiosi:
– 1888-91: Frequenta il Clongowes Wood College, un
prestigioso collegio di gesuiti nella contea di Kildare.
– 1892-99: Si trasferisce in una scuola secondaria cattolica
meno prestigiosa, retta sempre dai gesuiti, il Belvedere
College di Dublino.
– 1899-1902: Si iscrive allo University College, l’università
cattolica di Dublino. Impara diverse lingue, tra cui francese,
tedesco, italiano. Legge di tutto, dai classici antichi ai
moderni, e si distingue per una cultura enciclopedica. Si
appassiona all’opera di Ibsen (a Ibsen dedica uno dei suoi
primi articoli, pubblicato su una rivista prestigiosa).
James Joyce
 Fine del 1902: Dopo la laurea, si trasferisce a Parigi con il
pretesto di studiare medicina.
 Alcuni mesi dopo viene richiamato a Dublino per una grave
malattia della madre, che dopo una lunga agonia muore il 14
agosto 1903.
 A Dublino ritrova i vecchi compagni dell’università, con cui
stringe forti amicizie che dureranno tutta la vita.
 Conosce Nora Barnacle,
con la quale ha il primo appuntamento
il 16 giugno 1904 (cfr. Ulysses).
James Joyce
Incomincia a inserirsi nell’ambiente letterario dublinese, e
scrive i suoi primi lavori:
– Prime novelle dei futuri Dubliners;
– Un breve testo – via di mezzo tra un saggio e un racconto –
steso di getto nella notte del 7 gennaio 1904: A Portrait of the
Artist.
James Joyce
 8 ottobre 1904: Fugge con Nora diretto a Zurigo, dove ha
trovato un impiego come insegnante di inglese. Ma il posto in
realtà non c’è, e iniziano vari trasferimenti:
 Fine ottobre 1904: Si stabilisce a Pola, dove insegna per
alcuni mesi;
 Marzo 1905: Si stabilisce a
Trieste, dove resterà circa dieci
anni (a parte brevi soggiorni a
Roma e Dublino); vi rimarrà fino
allo scoppio della guerra; qui
nasceranno i suoi due figli;
conoscerà Svevo.
La genesi del Portrait
Dal Portrait of the Artist allo Stephen Hero
 7 gennaio 1904: Saggio-racconto, A Portrait of the Artist.
 Inizio febbraio 1904: Decide di sviluppare alcuni nuclei del
saggio e di scrivere un romanzo autobiografico
 Diario di Stanislaus Joyce: “Ha deciso di trasformare il suo
saggio in un romanzo. [...] Io ho suggerito come titolo quello stesso
del saggio, ‘Ritratto dell’artista’, e questa sera, seduto in cucina,
Jim mi ha detto la sua idea del romanzo. Deve essere quasi
autobiografico, e naturalmente, venendo da Jim, satirico. Ci mette
dentro moltissimi suoi conoscenti e i gesuiti con cui è stato in
contatto. Non credo che farà loro piacere. Non ha deciso il titolo, e
ancora una volta sono stato io a suggerirne la maggior parte.
Finalmente ha accettato un mio titolo: ‘Stephen Hero’, dal nome di
Jim nel libro: Stephen Daedalus. Il titolo, al pari del libro, è
satirico”. [Il titolo ricalca una ballata settecentesca inglese, Turpin
Hero, che celebra in chiave eroicomica le gesta di un famoso
fuorilegge, Dick Turpin].
La genesi del Portrait
Stephen Hero
 1904: Inizia a scrivere il libro a Dublino e continua la stesura
durante le tappe dei suoi spostamenti, tra Zurigo, Pola e
Trieste;
 Lavora fino al giugno 1905, quindi interrompe la stesura e lo
lascia incompiuto;
 Il romanzo aveva assunto enormi
proporzioni (circa 1000 pagine), ma è in
gran parte perduto, probabilmente
distrutto dallo stesso Joyce:
sopravvivono solo alcuni frammenti e i
capp. 16-26;
 La prima edizione postuma esce nel
1946.
La genesi del Portrait
Dallo Stephen Hero al Portrait
 Dopo avere interrotto la stesura del romanzo, si dedica ai
racconti dei Dubliners (1905-07), che incomincia a pensare di
raccogliere in un volume organico (uscirà nel 1914);
 Settembre 1907: Dopo avere scritto l’ultimo racconto dei
Dubliners, decide di riscrivere il romanzo autobiografico, con
il titolo A Portrait of the Artist as a Young Man;
 1907-1912: scrive i primi tre capitoli; 1912-1915: gli altri
due;
 1911: In una crisi di sconforto, getta nella stufa il
manoscritto, e solo l’intervento dei familiari salva i fogli dalle
fiamme;
La genesi del Portrait
Dallo Stephen Hero al Portrait
 1914-1915: Grazie all’interessamento di Pound, il romanzo
viene pubblicato a puntate sulla rivista londinese “The Egoist”
(2 feb. 1914–10 set. 1915);
 Fine 1916: Il romanzo viene
ripubblicato in volume
(Huebsch, New York).
Prima ed. inglese, 1917
Prima ed. americana, 1916
La struttura del Portrait
Nel processo di elaborazione, i capitoli diventano cinque,
ognuno dedicato a una fase ben precisa della vita del
protagonista:
1) Infanzia
2) Adolescenza e scoperta del sesso
3) Crisi religiosa
4) Scoperta della vocazione artistica
5) Università e sviluppo della riflessione estetica
La struttura del Portrait
Albert Thibaudet, L’esthétique du roman:
“Il romanziere autentico crea i suoi personaggi con le
direzioni infinite della sua vita possibile, il romanziere fasullo
li crea con la linea unica della sua vita reale. Il vero romanzo è
come un’autobiografia del possibile. [...] Se [i romanzieri]
prendono a soggetto della loro opera l’esperienza reale, essa si
riduce in cenere, diventa un fantasma sotto la mano che la
tocca. [...] Il genio del romanzo fa vivere il possibile, non fa
rivivere il reale” (p. 12)
La struttura del Portrait
Nel romanzo si intrecciano due modelli narrativi:
– Il Romanzo di formazione, o Bildungsroman (domina nei
primi capitoli)
– Il Romanzo dell’artista, o Kunstlerroman (domina negli
ultimi capitoli)
Joyce, Portrait, cap. I (ed. Mondadori, p. 46)
Stephen closed his eyes and held out in the air his trembling
HAND with the palm upwards. He felt the prefect of studies
touch it for a moment at the fingers to straighten it and then the
swish of the sleeve of the soutane as the pandybat was lifted to
strike. A hot burning stinging tingling blow like the loud crack of
a broken stick made his trembling HAND crumple together like
a leaf in the fire: and at the sound and the pain scalding tears
were driven into his eyes. His whole body was shaking with
fright, his arm was shaking and his crumpled burning livid
HAND shook like a loose leaf in the air. A cry sprang to his lips,
a prayer to be let off. But though the tears scalded his eyes and
his limbs quivered with pain and fright he held back the hot
tears and the cry that scalded his throat.
- Other HAND! shouted the prefect of studies.
Stephen drew back his maimed and quivering right arm and held
out his left HAND. The soutane sleeve swished again as the
pandybat was lifted and a loud crashing sound and a fierce
maddening tingling burning pain made his HAND shrink
together with the palms and fingers in a livid quivering mass.
The scalding water burst forth from his eyes and, burning with
shame and agony and fear, he drew back his shaking arm in
terror and burst out into a whine of pain. His body shook with a
palsy of fright and in shame and rage he felt the scalding cry
come from his throat and the scalding tears falling out of his
eyes and down his flaming cheeks.
- Kneel down, cried the prefect of studies.
Stephen knelt down quickly pressing his beaten HANDS to his
sides. To think of them beaten and swollen with pain all in a
moment made him feel so sorry for them as if they were not his
own but someone else's that he felt sorry for. And as he knelt,
calming the last sobs in his throat and feeling the burning
tingling pain pressed into his sides, he thought of the HANDS
which he had held out in the air with the palms up and of the
firm touch of the prefect of studies when he had steadied
the shaking fingers and of the beaten swollen reddened mass of
palm and fingers that shook helplessly in the air.
Valery Larbaud, conferenza su Joyce, 1921
“Veniamo sempre più trasportati all’interno del pensiero dei
personaggi; vediamo questi pensieri che si formano, li
seguiamo, assistiamo all’arrivo di sensazioni alla coscienza, ed
è attraverso ciò che pensa il personaggio che impariamo chi è,
ciò che fa, dove si trova e ciò che accade intorno a lui”.
Joyce, La dottrina dell’epifania
Portrait, cap. 5: Durante una conversazione con un compagno
d’università, Lynch, Stephen espone una complessa teoria
estetica, articolata in cinque argomenti principali:
1) L’autonomia dell’arte;
2) La natura dell’emozione estetica;
3) L’oggettività e l’impersonalità dell’opera d’arte;
4 )La suddivisione delle forme artistiche nei tre generi, lirico,
epico e drammatico;
5) Il problema della bellezza (dal quale si sviluppa la dottrina
dell’epifania)
Joyce, La dottrina dell’epifania
“Aquinas says: AD PULCHRITUDINEM TRIA
REQUIRUNTUR INTEGRITAS, CONSONANTIA,
CLARITAS. I translate it so: THREE THINGS ARE
NEEDED FOR BEAUTY, WHOLENESS, HARMONY, AND
RADIANCE. Do these correspond to the phases of
apprehension? Are you following?”
Joyce, La dottrina dell’epifania
1. Integritas:
“What is audible is presented in time, what is visible is
presented in space. But, temporal or spatial, the esthetic image
is first luminously apprehended as selfbounded and
selfcontained upon the immeasurable background of space or
time which is not it. You apprehended it as ONE thing. You
see it as one whole. You apprehend its wholeness. That is
INTEGRITAS”.
Joyce, La dottrina dell’epifania
2. Consonantia:
“-Then, said Stephen, you pass from point to point, led by its
formal lines; you apprehend it as balanced part against part
within its limits; you feel the rhythm of its structure.[…]
Having first felt that it is ONE thing you feel now that it is a
THING. You apprehend it as complex, multiple, divisible,
separable, made up of its parts, the result of its parts and their
sum, harmonious. That is CONSONANTIA”.
Joyce, La dottrina dell’epifania
3. Claritas:
“-The connotation of the word, Stephen said, is rather vague.
Aquinas uses a term which seems to be inexact. It baffled me
for a long time. It would lead you to believe that he had in
mind symbolism or idealism, the supreme quality of beauty
being a light from some other world, the idea of which the
matter is but the shadow, the reality of which it is but the
symbol. I thought he might mean that CLARITAS is the
artistic discovery and representation of the divine purpose in
anything or a force of generalization which would make the
esthetic image a universal one, make it outshine its proper
conditions. But that is literary talk”.
Joyce, La dottrina dell’epifania
3. Claritas (=Quidditas):
“I understand it so. When you have apprehended that basket as
one thing and have then analysed it according to its form and
apprehended it as a thing you make the only synthesis which is
logically and esthetically permissible. You see that it is that
thing which it is and no other thing. The radiance of which he
speaks in the scholastic QUIDDITAS, the WHATNESS of a
thing. This supreme quality is felt by the artist when the
esthetic image is first conceived in his imagination. The mind
in that mysterious instant Shelley likened beautifully to a
fading coal. The instant wherein that supreme quality
of beauty, the clear radiance of the esthetic image, is
apprehended luminously by the mind which has been arrested
by its wholeness and fascinated by its harmony is the luminous
silent stasis of esthetic pleasure”.
Joyce, La dottrina dell’epifania
James Joyce, Stephen Hero:
“Ora veniamo alla terza qualità. Per molto tempo non sono
riuscito a capire che cosa intendesse l’Aquinate. Si serve di
una parola figurativa (cosa molto insolita in lui) ma io sono
arrivato a comprenderla. Claritas è quidditas. Dopo che con
l’analisi s’è scoperta la seconda qualità, la mente compie la
sola sintesi logicamente possibile e scopre la terza qualità.
Questo è il momento ch’io chiamo epifania. Dapprima noi
riconosciamo che l’oggetto è un’unica cosa integrale, poi
riconosciamo che è una struttura organizzata e composita, una
cosa in fatto: finalmente, quando la relazione tra le parti è
perfetta, riconosciamo che è quella cosa che è. La sua anima,
la sua identità, balzano fuori a noi dai veli dell’apparenza.
L’anima dell’oggetto più comune ci appare radiante. L’oggetto
compie la sua epifania” (211).
Joyce, La dottrina dell’epifania
James Joyce, Stephen Hero:
“[Stephen] passava una sera nebbiosa per Eccles’ Street quando
un incidente insignificante lo spinse a comporre alcuni ardenti
versi che intitolò: “La Villanella della Tentatrice”. Una signorina
stava ritta sui gradini di una di quelle scuore case di mattoni che
sembrano l’incarnazione della paralisi irlandese. Un giovanotto
s’appoggiava alla ringhiera arrugginita del recinto davanti alla
casa. Stephen passando udì un frammento di colloquio da cui
ricevette una impressione così acura da colpirlo.
La Signorina (modulando discretamente): “Oh sì… sono
stata… in… chie… sa…”.
Il Giovane (sussurrando impercettibilmente): “Io…” (ancora
più impercettibilmente) “io…”.
La Signorina (piano): “Oh… ma voi sie… te… mol… to…
cattivo”.
Joyce, La dottrina dell’epifania
James Joyce, Stephen Hero:
“Questa banale scenetta lo fece pensare alla possibilità di
raccogliere insieme molti di quei momenti in un libro d’epifanie.
Per epifania intendeva Stephen un’improvvisa manifestazione
spirituale, o in un discorso o in un gesto o in un giro di pensieri,
degni di essere ricordati. Stimava cosa degna per un uomo di
lettere registrare queste epifanie con estrema cura, considerando
ch’erano attimi assai delicati ed evanescenti”.
Joyce, La dottrina dell’epifania
James Joyce, Stephen Hero:
“[...] e disse a Cranly che l’orologio del Ballast Office era capace
di comunicare un’epifania. Cranly interrogò con lo sguardo
l’inscrutabile quadrante del Ballast Office con un’aria non meno
inscrutabile”. “Sì” disse Stephen. “Io gli passo davanti di tanto in
tanto, me ne ricordo, mi riferisco ad esso, gli do un’occhiata: è
soltanto un pezzo dell’arredamento di una strada di Dublino: poi
tutto a un tratto ecco ch’io lo vedo, e lo ravviso per quello che è:
un’epifania”.
“Che vuoi dire?”
“Immagina che gli sguardi che gli dò siano come il frugare nel
buio di un occhio spirituale il quale cerca di mettere a fuoco la
sua visione, e nel momento che questo fuoco è raggiunto, ecco,
l’oggetto è epifanizzato. È appunto con l’epifania che si tocca il
terzo, il supremo stadio della bellezza””.
Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento
“Notiamo fin d'ora che le epifanie, questo sentimento di
epifania, costituiscono il metodo narrativo di Joyce. […]Noi
che viviamo in un paese dove questo evento della vita di Gesù
è molto familiare ed annualmente festeggiato non abbiamo
bisogno di arrivare alla didascalica pedanteria di Tindall che
ricorda come l’Epifania cada il sei gennaio e commemori
l’arrivo dei tre Re Magi ad una mangiatoia dove “mentre
videro nient’altro che un bambino, videro qualcosa d’altro”. Ci
importa questo fenomeno di seconda vista per cui la cosa,
percepita nell’oggettività materiale, naturale del suo apparire,
invita a scorgere ed effettivamente fa scorgere qualche cosa
d’altro” (288).
Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento
“A noi importa di mettere in luce un altro aspetto di questa
poetica delle epifanie: e proprio ai fini della grande svolta
compiuta dal romanzo nel Novecento, svolta constatabile nei
più autorevoli capostipiti del nuovo romanzo. […] Fino agli
albori del nostro secolo si erano visti tanti tipi di romanzo, che
prendono vari nomi: naturalista, psicologico, simbolisa, per
esempio. Ma tutti condividono un carattere comune: il
romanzo è una verifica di una certa ipotesi o idea del
romanziere circa i decorsi e i comportamenti della vita,
verifica ottenuta mediante gli sviluppi e lo scioglimento di una
vicenda, o mediante la registrazione di ciò che uno o più
personaggi sono costretti a fare o a subire. […]”+
Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento
“Gli oggetti, fatti, eventi, apparizioni umane, momenti e
aspetti della natura, che si affollano a dare consistenza alla
stoffa del romanzo, non contano per il significato specifico di
ciascuno, quanto per il contributo che essi portano alla
verifica; insomma, per la loro funzionalità nella vicenda o
nella costruzione del personaggio”.
Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento
“[…] Invece lo Stefano di Joyce […] si sente colpito da fatti
per sé insignificanti, che, in quanto non servono, e perciò si
epifanizzano, arrivano a un potere manifestante. […] Ma che
cosa viene manifestato? Stefano dice: claritas è quidditas.
Quiddità è anch’essa una parola della scolastica (con cui
Dante ci ha resi familiari) e significa la qualità essenziale, il
quid, per cui una cosa è quella che è. La claritas sarebbe
dunque quel raggiungimento artistico, grazie al quale la cosa
rivela, attraverso la sua rappresentazione, la propria qualità
essenziale. […] Ma l’esempio dell’epifania [quello dei due
ragazzi che dialogano] è dato con un’apparizione
insignificante. Insignificante soprattutto perché non entra nella
storia di Stefano”(291,293).
Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento
“L’altro esempio di epifania è quello dell’orologio della
Dogana, che solitamente, cioè quando non si epifanizza,
appare a Stefano come un pezzo dell’’ammobiliamento di
Dublino’, di questa città immersa nella ‘paralisi irlandese’ […]
Anche in questo secondo esempio, un’apparizione
insignificante, perché non entra in rapporto con nulla o
nessuno che le dia un significato. E’ fuori di qualunque
contesto drammatico o narrativo” (293-94).
Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento
“Attraverso quel momento labile, il narratore ha toccato
l’eterno, o almeno qualcosa che è al di fuori della transitorietà.
Nella scheggia di una piccola storia umana, appena intravvista,
ha afferrato un’essenza etxtratemporale. […] Ha ghermito un
aspetto del tempo eterno, irrelativo, fuori di ogni misurazione,
perché sempre uguale a se stesso, e ha perduto il tempo della
clessidra e dell’orologio, ch’era quello specifico della
narrativa tradizionale. Tutto questo dipende dall’aver sentito
che le cose dicono qualcos’altro da ciò che è scritto nella loro
immediata presenza; e che quell’altro, quel segreto, quella
realtà seconda è la sola qualità che le renda degne di essere
raffigurate. […] Il compito è di vedere “che cosa si nasconde
dietro le cose”. Una seconda realtà, per dirla in breve, più
profonda e stabile e vera di quella vistosamente e
sensibilmente presentata dalla loro apparenza” (294-95).
Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento
“Come recuperare e riscattare quel passato? Come trovare il
senso della propria vita? Qui Proust fa la grande scoperta, ha
la grande rivelazione: certi attimi, epifanizzandosi,
epifanizzano il passato. Abbandoniamo la parola di Joyce,
sostituiamola con quella trovata da Proust a battezzare quegli
attimi rivelatori, il fenomeno grazie a cui si rivelano. Proust li
chiama ‘intermittenze del cuore’” (297).
Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento
“ Ecco dunque cos’è un’intermittenza del cuore: un risorgere del
tempo perduto, di un tratto del tempo perduto, grazie all’opera –
meglio la si chiamerebbe intercessione – della memoria
involontaria stimolata da una sensazione, da un oggetto, che
talvolta con quelle immagini, con la viva e folta anima di quelle
immagini, ha poca somiglianza, poche analogie, spesso
puramente casuali. Le intermittenze del cuore sono il metodo
narrativo di Proust in una maniera anche più evidente di quanto
le epifanie lo siano per Joyce. A quella prima parte del romanzo,
dedicata per quasi una metà a evocare i giorni di Combray,
Proust voleva dare addirittura il titolo: Giardini in una tazza di
tè, tanto quella risurrezione gli pareva autrice e conduttrice di
tutto il racconto. Ma tutto intero il romanzo, costellato di simili
risurrezioni minori, si può scandire in un succedersi di
intermittenze del cuore che ricuperano la materia narrativa”
Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento
“Ne concludiamo che i due grandi romanzieri che inaugurano
il romanzo del Novecento e gli danno l'impronta (fino a loro si
erano vedute repliche del romanzo precedente) perseguono,
per vie diverse, analoghi metodi di conoscenza della realtà con
cui tessono e costruiscono le loro narrazioni. L’analogia tra
epifanie e intermittenze del cuore mi pare, dopo quanto
abbiamo detto, innegabile. Le une e le altre stabiliscono che la
rappresentazione delle cose ha valore, interesse poetico
narrativo solo in quanto quella rappresentazione riveli la
quiddità o l'anima infusa nelle cose, come avrebbe detto Joyce,
il segreto che costituisce la verità permanente delle cose, come
avrebbe detto [ ... ] Marcel Proust” (300).
Franco Moretti, Il romanzo di formazione
“In un episodio di iniziazione e rinascita […] l’epifania redime
l’insensatezza del passato, rivelando che la gioventù di Stephen
aveva sempre avuto uno scopo segreto – la scoperta della sua
‘anima’ di artista – e che lo ha finalmente raggiunto. Davvero,
non c’è conclusione migliore per l’ambizioso Künstlerroman del
giovane Joyce. / Tranne che, come sappiamo, il Ritratto
continua, e il capitolo seguente, paragonato a tutti quelli che lo
precedono, è stranamente piatto e privo di scopo. Né visioni né
rinascite, qui, ma chiacchiere oziose per passare il tempo; niente
istituzioni traumatizzanti, ma una quotidianità banale; il veggente
è diventato un giovane pedante, che nell’epifania vede solo un
gustoso indovinello filologico. Comunque lo si guardi, questo
quinto capitolo sembra avere la funzione, meramente negativa, di
invalidare ciò che fino a quel punto era stato proposto come il
senso del romanzo” (269-70).
Virginia Woolf
 Nasce a Londra il 25 gennaio 1882:
– Padre: Leslie Stephen, critico e storiografo, tra le altre
cose fondatore del Dictionary of National Biography;
– Madre: Julia Duckworth (nata Jackson); quando sposa
Stephen nel 1878 è alla sua seconda esperienza di
matrimonio: vedova con tre figli; dal secondo matrimonio
avrà altri quattro figli – Virginia sarà la terza.
 L’infanzia è scandita da esperienze traumatiche e da una
catena di lutti che la segneranno profondamente:
– 1895: Muore la madre, e in questa occasione ha la sua
prima crisi nervosa;
– La sorellastra Stella prende il posto della madre, ma lei
stessa muore due anni dopo;
– 1904: Muore il padre, dopo una lunga malattia.
Virginia Woolf
Dopo la morte del padre, l’avventura intellettuale di V. Woolf
entra nel vivo:
 Già negli anni precedenti, grazie al fratello Thoby, era entrata
in contatto con alcuni intellettuali di spicco della cultura inglese;
 1904: Si trasferisce con i due fratelli – Thoby e Adrian – e con
la sorella Vanessa nel quartiere di Bloomsbury, e dà vita a una
sorta di cenacolo di artisti e di intellettuali – conosciuto come
“gruppo di Bloomsbury”;
 1905: Nuovo lutto familiare: muore anche il fratello Thoby, di
tifo;
 1912: Sposa uno dei membri del gruppo, Leonard Woolf, noto
intellettuale, scienziato politico; con lui darà vita (1917) a una
casa editrice – la “Hogarth Press” – che pubblicherà, oltre agli
stessi libri della Woolf, varie opere dei maggiori scrittori
modernisti (T.S. Eliot, Forster, Mansfield ecc.)
Virginia Woolf
In questo periodo incomincia a dedicarsi alla narrativa:
 1913: Esce il suo primo romanzo, The Voyage Out;
 1920: Secondo romanzo, Night and Day;
 1921: Raccolta di racconti, Monday or Tuesday;
 1922: Altro romanzo, Jacob’s Room, che era stato iniziato
nel 1920;
 1923: Inizia a lavorare a uno dei suoi capolavori, Mrs
Dalloway, che uscirà nel 1925.
Virginia Woolf
La produzione narrativa è accompagnata anche da una
consistente produzione critica:
 1913: Inizia a tenere un diario in cui annota riflessioni sulla
scrittura (pubblicato parzialmente nel 1953, con il titolo A
Writer’s Diary, Diario di una scrittrice);
 1917: Inizia a collaborare con il “Times Literary
Supplement”, per il quale scrive articoli e recensioni;
 1918: Legge il manoscritto dell’Ulisse di Joyce;
 1923: Pubblica Mr Bennett and Mrs Brown;
 1925: Esce una raccolta di saggi, The Common Reader.
To the Lighthouse: Ideazione
(Citazioni tratte dal Diario di una scrittrice)
Giovedì 14 maggio 1925: “Ora sono tutta tesa verso il desiderio
di abbandonare il giornalismo e mettermi al lavoro su To the
Lighthouse. Sarà piuttosto corto; vi sarà un ritratto completo di
papà; e della mamma; e poi St. Ives; e l’infanzia; e tutte le solite
cose che cerco di metterci dentro: vita, morte, ecc. Ma il centro è
il personaggio di papà, seduto in barca, che recita ‘Noi perimmo,
ciascuno era solo’, mentre schiaccia uno sgombro morente” (p.
119).
To the Lighthouse: Ideazione
Domenica 14 giugno 1925: “Ho escogitato, forse anche troppo
chiaramente, tutto To the Lighthouse” (p. 121)
Sabato 27 giugno 1925: “Mentre cerco di scrivere, continuo a
costruire To the Lighthouse: per tutto il libro si deve sentire il
mare. Ho l’idea di inventare un nome nuovo per i miei libri, che
sostituisca ‘romanzo’. Un nuovo… di Virginia Woolf. Ma che
cosa? Elegia?” (p. 123)
To the Lighthouse: Ideazione
Lunedì 20 luglio 1925: “[…] ho un desiderio superstizioso di
cominciare To the Lighthouse il primo giorno a Monk’s House.
Credo che lo finirò nei due mesi laggiù. La parola ‘sentimentale’
mi sta sullo stomaco […] Ma questo tema potrebbe essere anche
sentimentale; padre madre bambina in giardino; la morte; la gita
in barca al faro. Credo però che una volta cominciato lo
arricchirò di mille cose diverse; lo addenserò; gli darò fronde e
radici che ora non distinguo. Potrebbe contenere tutti i
personaggi riassunti; e la fanciullezza; e poi questa cosa
impersonale, che gli amici mi sfidano a raggiungere, il
trascorrere del tempo e la conseguente soluzione di continuità nel
mio disegno. Quel passaggio (immagino il libro in tre parti: 1.
alla finestra del salotto; 2. sette anni trascorsi; 3. il viaggio)
m’interessa moltissimo” (p. 123-24)
Giovedì 30 luglio 1925: “Penso di poter fare qualcosa, in To the
Lighthouse, per analizzare le emozioni con finezza ancora
maggiore. Penso di lavorare in quella direzione” (p. 125)
To the Lighthouse: Stesura
Sabato 5 settembre 1925: “Ho dato ugualmente un avvio rapido e
rigoglioso a To the Lighthouse – ventidue pagine di fila in meno
di due settimane” (p. 125)
Martedì 23 febbraio 1926: “Sono sbattuta come una vecchia
bandiera dal mio romanzo: To the Lighthouse. […] adesso scrivo
più rapida di quanto ho scritto in tutta la mia vita […] Credo sia
la prova che mi trovo sulla strada giusta […] Ci vivo dentro, e
risalgo alla superficie piuttosto confusamente, spesso incapace a
quel che devo dire […] È che sento di poter buttare fuori tutto,
ora; e ‘tutto’ è un affollarsi, un peso, una confusione nella mente”
(pp. 129-30)
To the Lighthouse: Stesura
Venerdì 30 aprile 1926: “Ieri ho terminato l’ultima parte di To the
Lighthouse, e oggi ho cominciato la seconda. Non so come
metterla insieme, ecco il pezzo più difficile e astratto: devo
rappresentare una casa vuota, nessun personaggio umano, il
passare del tempo, tutto senz’occhi e senza lineamenti, nessun
punto d’appoggio […] Quando nel leggo un pezzetto mi sembra
baldanzoso; va condensato, ma non molto di più” (pp. 133-34)
Martedì 25 maggio 1926: “Ho finito – buttato giù – la seconda
parte di To the Lighthouse” (p. 134)
Venerdì 3 settembre 1926: “Il romanzo è in vista della fine, ma
questa, misteriosamente, non s’avvicina. Scrivo di Lily sul prato;
ma se si tratti della sua ultima apparizione, questo non lo so. […]
In questo momento sono alla ricerca di un finale. Il problema è
come avvicinare Lily e il signor R. e creare una comunanza di
interessi alla fine. Mi gingillo con varie idee […]” (p. 146)
To the Lighthouse: Revisione e pubblicazione
Lunedì 13 settembre 1926: “Oh che sollievo svegliarsi e pensare
è fatta: sollievo e delusione, suppongo. Sto parlando di To the
Lighthouse” (p. 148)
Martedì 23 novembre 1926: “Sto rifacendo sei pagine al giorno
di To the Lighthouse. […] La mia opinione attuale è che sia di
gran lunga il migliore dei miei libri” (p. 150)
Venerdì 14 gennaio 1927: “Ho terminato in questo momento la
sfacchinata finale. Ora è completo e pronto per la lettura di
Leonard, lunedì prossimo. Così l’ho scritto in un anno meno
qualche giorno e ringrazio il cielo di esserne fuori di nuovo. Dal
25 ottobre non ho fatto che rivederlo e ricopiarlo (certe parti fino
a tre volte) e senza dubbio dovrei lavorarci ancora; ma non ci
riesco. Lo sento come un libro duro e muscoloso” (p. 151)
To the Lighthouse: Revisione e pubblicazione
Domenica 23 gennaio 1927: “Be’, Leonard ha letto To the
Lighthouse e dice che è di gran lunga il mio miglior libro e che
è un ‘capolavoro’” (p. 151)
Domenica 1 maggio 1927: “E poi ricordo che il mio libro sta
per uscire” (p. 155)
Giovedì 5 maggio 1927: “Uscito il libro” (p. 155)
To the Lighthouse: Autobiografismo
28 novembre 1928:
“Compleanno di papà. Avrebbe avuto 96 anni, sì, 96 anni
oggi; e avrebbe potuto avere 96 anni come altre persone che
abbiamo conosciuto; ma per fortuna non è stato così. La sua
vita avrebbe distrutto completamente la mia. Che sarebbe
avvenuto? Niente scrivere, niente libri: inconcepibile. Una
volta pensavo ogni giorno a lui e alla mamma; ma scrivere To
the Lighthouse li ha placati nel mio spirito. Ed ora egli torna, a
volte, ma in un modo diverso. (Credo che sia vero; che io fossi
morbosamente ossessionata da entrambi, e che scrivere di loro
fosse un atto necessario). Ora ritorna piuttosto come un
contemporaneo” (p. 188).
To the Lighthouse: Autobiografismo
Lettera di Vanessa, 11 mag. 1927: “A me sembra che tu abbia
tracciato un ritratto della mamma che le somiglia più di quanto
avrei creduto possibile. È quasi doloroso vedersela risuscitare
davanti. Sei riuscita a far sentire la straordinaria bellezza del suo
carattere […]. È stato come incontrarla di nuovo, ormai adulti e
su un piano di parità. Essere riuscita a vederla in questo modo a
me sembra un’impresa creativa che ha del miracoloso […].
L’immagine che dai di lei sta in piedi da sola e non solo perché
evoca ricordi. Mi sento eccitata e turbata e trascinata in un altro
mondo come lo si è solo da una grande opera d’arte”.
Diario, Lunedì 16 maggio 1927: “Nessa entusiasta: uno
spettacolo sublime, quasi sconvolgente. Dice che è un
sorprendente ritratto della mamma; io una suprema ritrattista; ci
ha vissuto dentro; la risurrezione dei morti le è parsa quasi
dolorosa” (p. 156)
Auerbach, Mimesis (dall’ultimo cap.: Il calzerotto marrone)
“Dalla nostra analisi del brano risultano alcune caratteristiche
di stile che vogliamo precisare. L’autore, quale narratore di
fatti obiettivi, passa quasi completamente in secondo piano;
quasi tutto ciò che è detto, è il riflesso nella coscienza dei
personaggi. […] Non veniamo neanche a conoscere quello che
la Woolf sa del carattere della signora Ramsay, ma il riflesso di
questo su diversi personaggi: sul signor Bankes, […] sulla
gente che fa congetture su di lei. Cosicché non sembra esistere
fuori dal romanzo stesso nessun punto dal quale vengono
osservati gli uomini e gli avvenimenti e neanche una realtà
obiettiva diversa da quella soggettiva della coscienza dei
personaggi” (317-18).
Auerbach, Mimesis (dall’ultimo cap.: Il calzerotto marrone)
“Caratteristica fondamentale della maniera di Virginia Woolf
è che essa non tratta soltanto di un solo oggetto e delle
impressioni del mondo esterno sulla coscienza di questo, ma di
molti soggetti, che cambiano spesso. In questo senso appaiono
nel nostro capoverso la signora Ramsay, ‘people’, il signor
Bankes, ogni tanto per pochi attimi James, la domestica
svizzera di riflesso e i senza nome che fanno le loro
supposizioni sulla lacrima. Dalla molteplicità dei soggetti si
deduce che si tratta dell’esplorazione di una realtà obiettiva e
precisamente qui della ‘vera’ signora Ramsay.
Auerbach, Mimesis (dall’ultimo cap.: Il calzerotto marrone)
Questa, a dir vero, è un mistero e lo resta per principio, ma
viene quasi accerchiata dalle varie coscienze (compresa la sua)
convergenti su di lei; si tenta di avvicinarla da molte parti –
fino al limite concesso alle possibilità umane della conoscenza
e dell’espressione. L’intento di avvicinarsi a una vera realtà
obiettiva con l’aiuto di molte impressioni soggettive avute da
molte persone (e in momenti diversi), è una caratteristica
essenziale del procedimento moderno qui trattato” (319-20).
Auerbach, Mimesis (dall’ultimo cap.: Il calzerotto marrone)
“In modo sorprendente, del tutto insolito in epoche
precedenti, il contrasto risalta così fra la breve spanna di
tempo dell’azione esteriore e la ricchezza dei fatti interiori
comprendenti un mondo intero. Le caratteristiche nuove del
procedimento sono queste: un movente occasionale che
provoca i movimenti interiori; un’espressione naturale […] dei
medesimi nella loro libertà non limitata da nessuna intenzione,
senza un preciso indirizzo del pensiero; il dar spicco al
contrasto fra tempo ‘esteriore’ e ‘interiore’.
Auerbach, Mimesis (dall’ultimo cap.: Il calzerotto marrone)
Tutte e tre queste caratteristiche hanno qualche cosa in
comune, in quanto tradiscono l’atteggiamento dello scrittore:
questi si abbandona a un caso qualunque della realtà in misura
molto maggiore di quanto fosse avvenuto prima nelle opere
realistiche, e anche se, come naturale, egli ordina e stilizza il
materiale che la realtà gli offre, ciò non succede in modo
razionale e con l’intenzione di portare a compimento secondo
un piano preordinato una concatenazione di fatti esteriori”
(321-22).
Auerbach, Mimesis (dall’ultimo cap.: Il calzerotto marrone)
“Ambedue le digressioni sono tentativi di cogliere una realtà
più vera, più reale – mentre il fatto che le provoca sembra del
tutto occasionale ed è povero di contenuto. […] Comunque è
di importanza decisiva che un fatto esteriore insignificante
provochi immagini o serie di immagini che si allontanano da
esso per muoversi liberamente nella profondità del tempo. […]
La tecnica particolare di Virginia Woolf, come risulta dal
nostro testo, consiste in ciò, che la realtà esteriore obiettiva,
rappresentata direttamente dall’autore, e che appare come un
fatto sicuro, il misurare il calzerotto, non è che un movente,
anche se non del tutto occasionale; importante è solo quanto
da esso è provocato, che non è visto direttamente, ma di
riflesso, e che non è legato al filo dell’azione esteriore” (32425).
V. Woolf, Modern Fiction (1919)
– In questo saggio, V. Woolf In cui critica la generazione dei
romanzieri inglesi immediatamente precedenti (gli
“edoardiani”), che definisce “materialisti”;
– Si riferisce in particolare a Bennett, Wells e Galsworthy;
– In generale, manifesta l’esigenza di segnare una svolta, di
rinnovare gli strumenti espressivi e di tendere verso nuovi
obiettivi artistici (cfr. anche Bennett e Mrs Brown, 1923).
V. Woolf, Modern Fiction (1919)
“La vita sfugge [Life escapes]; e senza la vita null’altro vale
la pena. Servirci di questa figura retorica equivale a una
confessione d’insicurezza ma la questione migliora di poco se
parliamo, come in genere fanno i critici, di realtà. Pur
riconoscendo l’incertezza in cui si dibatte la critica letteraria,
vogliamo arrischiarci a sostenere che il romanzo oggi più in
voga elude anziché cogliere la cosa che cerchiamo [the thing
we seek]. Vita o spirito, verità o realtà [life or spirit, truth or
reality], chiamiamola come si vuole, questa cosa, che è
essenziale [this, the essential thing], si è dissolta o è andata
troppo oltre, e rifiuta di lasciarsi ancora imbrigliare nella veste
inadatta che sola sappiamo fornirle. […]”
V. Woolf, Modern Fiction (1919)
“Gran parte dell’enorme fatica compiuta per dimostrare la
solidità, la verosimiglianza del racconto [the solidity, the
likeness to life] è non solo fatica sprecata, ma fatica inutile al
punto da oscurare e annullare la luminosità dell’idea originale.
E’ come se lo scrittore fosse costretto […] a provvedere
all’intreccio, alla commedia, alla tragedia, alla storia d’amore
e a un’atmosfera di probabilità capace di imbalsamare
l’insieme in modo tanto perfetto che, se tutti i personaggi
dovessero acquistare vita, si troverebbero vestiti fino
all’ultimo dettaglio secondo la moda del momento. Il tiranno è
ubbidito; il romanzo scritto a regola d’arte. Ma a volte, sempre
più spesso col passar del tempo, mentre le pagine si riempiono
veloci nel solito modo, intuiamo un dubbio fugace, uno
spasimo di ribellione. E’ così la vita? E’ così che devono
essere i romanzi?”.
V. Woolf, Modern Fiction (1919)
“Fermatevi a osservarla: la vita è molto diversa da ‘così’ [life,
it seems, is very far from being ‘like this’]. Esaminate per un
momento una mente qualsiasi in un giorno qualsiasi. Riceve
una miriade di impressioni – banali, fantastiche, evanescenti o
incise con l’acutezza di una punta d’acciaio, che piovono da
ogni parte, come un diluvio incessante di atomi [an incessant
shower of innumerable atoms]; e mentre cadono, mentre
assumono la forma di vita del lunedì o del martedì, l’accento si
posa in modo sempre differente; il momento essenziale [the
moment of importance] non si è verificato qui, ma lì”.
V. Woolf, Modern Fiction (1919)
“Col risultato che se lo scrittore fosse un uomo libero e non
uno schiavo, se potesse scrivere quel che vuole e non quel che
deve, se potesse basare la sua opera su quel che sente e non
sulle convenzioni, non ci sarebbe intreccio, non ci sarebbe
commedia, tragedia, storia d’amore o catastrofe nel consueto
stile […] La vita non è una serie di lanterne disposte in modo
simmetrico; la vita è un alone luminoso, un involucro
trasparente [life is a luminous halo, a semi-transparent
envelope] che ci avviluppa da quando cominciamo ad aver
coscienza fino alla fine”
V. Woolf, Modern Fiction (1919)
“Ci sembra pressappoco questa la definizione della qualità che
distingue l’opera di molti giovani scrittori, tra i quali James
Joyce è il più bravo [the most notable], da quella dei loro
predecessori. Costoro cercano di avvicinarsi di più alla vita e
di conservare con maggiore sincerità e precisione ciò che li
interessa e li emoziona anche se, per farlo, debbono respingere
molte delle convenzioni comunemente accettate da un
romanziere. Registriamo quindi gli atomi mentre cadono sulla
mente nell’ordine in cui cadono, tracciamo il disegno, per
quanto sconnesso e incoerente in apparenza, che ogni visione,
ogni avvenimento segna sulla coscienza. Rifiutiamoci di dar
per scontato che ci sia più vita [that life exists more fully ] in
quanto è generalmente ritenuto grandioso che in quanto è
generalmente ritenuto modesto”.
V. Woolf, Modern Fiction (1919)
“Per i moderni ‘quello’, il punto d’interesse [‘that’, the point
of interest], molto probabilmente risiede nei meandri oscuri
della psicologia. Subito l’accento cade in modo un po’ diverso;
si pone l’enfasi si una cosa fino a oggi ignorata; diventa
necessario un differente contorno per la forma, difficile per
noi, incomprensibile per i nostri predecessori”.
V. Woolf, Modern Fiction (1919)
“Chiunque abbia letto il Portrait of the Artist as a Young Man
o un’opera che promette di essere più interessante, Ulysses,
ora in parte pubblicata sulla ‘Little Review’, avrà azzardato
una teoria simile riguardo alle intenzioni di James Joyce.
Quanto a noi, davanti a quel frammento, vogliamo arrischiare
un’ipotesi piuttosto che un’affermazione; qualunque sia
l’intenzione dell’opera completa, non si può dubitare della sua
assoluta sincerità. Per quanto difficile o sgradevole lo si possa
giudicare, il risultato è innegabilmente rilevante”.
V. Woolf, Modern Fiction (1919)
“In contrasto con coloro che abbiamo definito materialisti
[cioè i romanzieri della generazione precedente], Joyce è
spirituale; a lui interessa a qualunque costo rivelare le
oscillazioni di quella fiamma interiore [the innermost flame]
che lancia messaggi attraverso il cervello, e, pur di tenerla
viva, trascura con estremo coraggio tutto quanto gli pare
accidentale, che si tratti di probabilità, di coerenza o
comunque di uno di quei pali indicatori che, da generazioni,
puntellano la mente del lettore, sollecitata a immaginare ciò
che non può toccare e nemmeno vedere”.
Moments of being
Diario, 19 giugno 1923:
“Non ho il dono di questa realtà... Io disincarno, e fino a un
certo punto volontariamente, perché non mi fido della realtà,
del suo basso prezzo. Voglio andare oltre. Ma ho il potere di
esprimere la vera realtà?” [I haven’t that ‘reality’ gift. I
insubstantise, wilfully to some extent, distrusing reality - its
cheapness. But to get further. Have I the power of conveying
the true reality?]
“Se scrivo è per andare verso le cose centrali”
Moments of being
Diario, 27 febbraio 1926:
“Perché non esiste una scoperta, nella vita? Qualcosa su cui
si possa mettere le mani e dire: ‘Eccolo’? […] Poi (mentre ieri
sera passavo per Russel Square) vedo montagne nel cielo: le
grandi nubi; e la luna che è sorta sulla Persia; ho la grande e
stupefacente sensazione di qualche cosa, lassù, che è ‘quello’,
‘la cosa’. Non mi riferisco alla bellezza, non esattamente. È
che la cosa basta in se stessa: soddisfacente, compiuta. È la
sensazione della mia straordinarietà, di me che cammino sulla
terra: dell’infinita stranezza della condizione umana […] Mi
accade spesso di imbattermi in questo ‘qualcosa’ e mi sento
allora in perfetta pace”.
Moments of being
Da un saggio su J. Conrad, recensione a Lord Jim (1917):
“Quello che ci colpisce è il modo in cui funziona la mente di
Conrad; egli ha un “momento di visione” [a moment of vision]
in cui vede le persone come se non le avesse mai viste prima;
descrive questa visione, e anche noi ne siamo folgorati”.
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