014
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annual
ticino
visarte
società delle arti visive svizzera
gruppo regionale ticinese
014
editoriale
Ecco la nuova copia dell’Annual, fresca di stampa, che riassume l’anno 2014
di Visarte Ticino nella sua totalità. Sono 365 giorni che vogliamo poter condividere con entusiasmo con chi ama l’arte e difende la cultura, quella vera!
Gli artisti sono come sempre stati attivi e partecipi ai vari eventi proposti.
Scoprirete, leggendo e sfogliando queste pagine, che abbiamo avuto svariati
momenti espositivi alla galleria “Art...OnPaper – 20 th century art books” di
Paradiso, dove i soci hanno potuto dialogare con gli spazi in una personale
e totale libertà espressiva. In occasione dell’abituale e sempre apprezzata
Weihnachtsausstellung (mostra di fine anno) gli artisti invece hanno potuto
incontrarsi attorno al tema dell’identità.
L’arte e la cultura sono, infatti, rappresentazioni preziose della nostra identità.
Sono parole che si rivelano essere le uniche attuali, vere difese da un
mondo che si sta appiattendo, che rischia sempre più di limitare l’espressione
individuale a favore di una massa anonima veicolata e veicolante. L’artista ha
il dovere di rispondere con la propria arte e la propria libertà d’espressione
a queste silenti aggressioni. Chi ama la cultura deve spronare per il dialogo,
l’innovazione e per la continua ricerca!
“Non riesco a capire perché le persone siano spaventate
dalle nuove idee. A me spaventano quelle vecchie.”
John Cage
Gli artisti devono trovare nuovi percorsi in un ambiente in continuo mutamento,
il quale certe volte confonde e porta a pensare di trovarsi in un vicolo cieco...
invece, come qualsiasi altro vero cammino, questo si rivela essere cangiante
e si rinnova continuamente rivelando nuove vie e inaspettate sorprese.
Perciò, lanciamoci in nuove avventure creative senza timore. Ora, come non
mai, sappiamo infatti che la cultura è cibo, la cultura è nutrimento per l’anima.
Che si possa dunque continuare con altri anni pieni di soddisfazioni e di
progetti costruttivi per tutti!
Il Comitato
visarte
società delle arti visive svizzera
gruppo regionale ticinese
014
visarte
annual
12
18
26
38
maggio–dicembre 2014
visarte da Art...OnPaper – 20th century art books
Segretariato
via Cantonale 39
6963 Lugano-Pregassona
t+f +41 91 940 15 65
[email protected]
Un particolare grazie al comitato
di Visarte (Jean-Marie Reynier,
Michele Balmelli, Aymone Poletti,
Gianluigi Susinno, Philipp Vogt),
a Carolina Somazzi (segretariato),
a John Dupuy per la galleria Art...OnPaper,
David Cuciz (per l’aiuto durante l’allestimento),
a Francine Mury per l’organizzazione della
Weihnachtsausstellung e Mara Folini
per il Museo Comunale d’Arte Moderna,
Casa Serodine, Ascona.
Ringraziamo gli artisti e i fotografi
che hanno collaborato fornendo
il materiale richiesto.
2
50
60
66
Brigitte Allenbach
Christina Kaeuferle Gallo
11 – 20 dicembre
François Bonjour
Gabi Fluck
27 novembre – 6 dicembre
Romeo Manzoni
Gianni Poretti
6 – 22 novembre
Veronica Branca Masa
Raffaella Ferloni
16 ottobre – 1 novembre
Sara Pellegrini
Stefano Spinelli
4 – 20 settembre
Francine Mury
Sandra Snozzi
26 giugno – 12 luglio
014
8
25 settembre – 11 ottobre
Felicita Bianchi Duyne
Hans Kammermann
Eftim Eftimovski
Sergio Morello
sommario
5 – 21 giugno
Vincent Gregory
Rosita Peverelli
15 – 31 maggio
ticino
74
82 Museo Comunale d’Arte Moderna, Casa Serodine, Ascona
Identità – Weihnachtsausstellung, mostra di fine anno di Visarte Ticino
21 dicembre 2014 – 18 gennaio 2015
88
Luoghi in cerca di identità
Gibellina – Dalle ceneri,… una rinascita e una nuova identità
anche in nome dell’arte
92 L’identità di un luogo
Beauduc: spazio immaginario tra cielo, mare e sabbia
98
Coming soon
Expo Milano – Nutrire il pianeta, energia per la vita
Con il sostegno di
In copertina:
il virus Ebola, che ha allarmato il mondo nel 2014
Coordinamento e stesura testi Aymone Poletti, Gianluigi Susinno
Grafica
Gianluigi e Marina Susinno
Susinno Design SA, 6900 Lugano
Stampa
Fontana Print, 6963 Lugano-Pregassona
© visarte, 2014
www.visarte-ticino.ch
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gruppo regionale ticinese
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maggio–dicembre 2014
serie di mostre negli spazi della galleria
Art...OnPaper – 20th century art books
La Galleria Art...OnPaper – 20 th century art books di John e Daniela Dupuy, attiva
dal 1998, diventa il nuovo luogo di incontro per le mostre di Visarte: situata a Paradiso
nei pressi dell’omonima libreria attiva dal 1995, si sviluppa su di un unico
spazio a base trapezoidale.
L’originalità progettuale e la struttura rastremata dell’area espositiva si prestano
ad interessanti giochi di prospettive creando linee di fuga dinamiche e asimmetriche
a livello delle pareti.
Ciò crea un’area non semplice, ma di carattere, a disposizione degli artisti coinvolti.
Le due colonne presenti su di un lato pongono delle sfide dal punto di vista visivo
che possono tuttavia essere tradotte in una gradevole soluzione
di continuità dello spazio.
Le esposizioni, dalla breve durata, vengono interamente gestite e organizzate
concettualmente dagli artisti stessi in una piena libertà d’espressione, e la particolare
conformazione della galleria pone lo spettatore nella condizione di dovere e poter
cambiare spesso angolazione per avere una visione comprensiva delle opere in un gioco
sottile di dialoghi e di rimandi.
“L’architettura è l’arte di sprecar spazio”
Philip Johnson
P
Autosilo
Palazzo
Mantegazza
Paradiso
P
4
Autosilo
comunale
5
Galleria Art...OnPaper – 20 th century art books
15 –
31
maggio
Vincent Gregory
Rosita Peverelli
Forze cicliche in dialogo tra migrazioni e volumi silenti
Rosita Peverelli presenta sculture in gesso e pietra, Vincent
Gregory pittura in tecnica mista su tela.
Due artisti, di percorsi e generazioni diverse, una Associazione, la Visarte Ticino, che ospita, e genera intesa. Tra un
artista “selvatico” Vincent Gregory sopranominato “il Pinguino”
che non appartiene all’associazione e Rosita Peverelli
riversa d’avventure in più laboratori, che ne è socia da anni.
Moti roteanti in Vincent, tensioni che cercano un centro in
Rosita, entrambi eludono l’epicentro, l’origine per ritrovare processi simbolici e collettivi, spunto d’ogni possibile lettura.
L’Io, l’individuo, reso nelle porzioni di sfera di Rosita, è in
contrappunto nella presenza del numero dei soggetti nelle
migrazioni di Gregory, per divenire una realtà che cattura
considerazione tra visione e relazione umana.
Nella Peverelli ferite alate, slittamenti di piani, geometrie
riassunte nella circolarità composita, divengono volumi,
dove il pieno e il vuoto uniscono una stessa natura di
nesso e unicità.
La superficie intesa come tempo e luogo dell’universale.
In Rosita intesa come durata del silenzio, in Vincent permanenza tra movimento e ritmo.
Un meditare tramite il fare per generare una visione tra
tensioni interiori e fasi di migrazione, moti che muovono
dall’interno l’inattuabilità delle emozioni per ricondurci al
senso tramite i sensi.
Visione di volumi quasi puri in Rosita Peverelli, dialogo di
geometrie quasi euclidee,
ripetizione dei soggetti tra ironia e minime varianti formali,
in Vincent Gregory.
In un caso un’energia raccolta e nell’altro l’indicativa accettazione di un passaggio, in ambedue arene di difficoltà, riconosciute e traslate, trasformate in principio aperto.
Per entrambi un passare tra un essere e l’altro, l’io-tu come
appartenenza.
Apparizioni, rivelazioni di luce e ombre svelati alla coscienza,
come argine e possibilità dell’agire umano.
È la necessita d’essere soglia, che ognuno potrebbe vivere, sembrano dirci gli autori, prossimità del continuo operare per ridurre distanza, designare il tempo come memento,
considerarlo come luogo d’incontro/unione e non distacco
prepotenza e lontananza.
Territorio da riqualificare, riconsiderare come sostanza d’ogni
agire, habitat, luogo che ospita essenza interiore, spazio del
riconoscimento e del rispetto, corpo come stanza del cuore.
Rosita Peverelli
Volume silente
2014
marmo di Carrara 1/3
6
In alto:
Vincent Gregory
Spirale
2014
inchiostri e gouache
con finale acrilico su tela
80 x 80 cm
Rosita Peverelli
Volume silente
2014
marmo di Carrara 1/3
presente in mostra in gesso
7
Vincent Gregory
Spiagge
2014
inchiostri e gouache
con finale acrilico su tela
100 x 100 cm
8
Vincent Gregory
Onde 2
2014
inchiostri e gouache
con finale acrilico su tela
100 x 100 cm
9
Sorti d’eterne migrazioni creaturali, popolano e scandiscono
l’inammissibile consumare dell’oggi.
I becchi chiusi di Vincent restituiscono leggibilità all’eroico
uccello, mute aggregazioni spinte da impossibilità? un muoversi di massa dettato dal sistema? moti disperati per fame,
imposti dall’ingordigia dei più, metafore di periodici avvenimenti? Interrogativi sugellati nel fare di Vincent.
Eppure paiono fare da timone i becchi al corpo, in ricerca di
nuovo verso?
Creature che cercano direzione come ultima speranza?
Stare lontani dal proprio luogo spesso è abbaglio eppure è
viatico di molti… oggi quasi condizione.
Se in Vincent una dimensione si perpetua nella ricerca della
coloritura pianificata da velature leggerissime e delicate come
respiri, spesso con rapporti tonali avvincenti e sorprendenti.
In Rosita un bianco investe di silente luce assorta, ci conduce
in una dimensione quasi intimista del intervallo e della sospensione. Come a chiedere comprensione, compresenza.
Tele di buon formato per Vincent, dove pennello e colori ad acqua successivamente fissati ad acrilico, scandiscono appartenenze cosmiche, cellule intricate all’inverosimile, porzioni d’in
finibile continuità...sostanze che uniscono l’intero creaturale.
Sculture come pianeti bianchi, in gesso, di Rosita pur attendendo la realizzazione in pietra, danno indizio d’astri riconcepiti. Sembrano riconfermare orbite e
moti occultati del sé come regno, ridimensionamento di sorde lenti, accettate nella loro misteriosa presenza, data
l’opacità della chimica del gesso. Scultura levigata e ricercata nella sua bianca essenza, come compresenza d’ogni
passaggio, pareti e sagome di strutture
aperte, misurate armonie contrapposte.
Rosita Peverelli
Volume silente
2014
marmo di Carrara 1/3
presente in mostra in gesso
10
A destra:
Rosita Peverelli
Volume silente
2014
marmo di Carrara 1/3
Vincent Gregory
Onde 1
2013
inchiostri e gouache
con finale acrilico su tela
100 x 100 cm
Rosita Peverelli
Volume silente
2014
marmo di Carrara 1/3
presente in mostra in gesso
Prendono altra vita nella luce intrinseca
della pietra, alcuni esempi in marmo di Carrara in mostra ne danno testimonianza, e
saranno futuro nucleo significativo.
Un dialogo tra pittura e scultura, dove in
entrambi considerata è la dimensione del
cerchio, della spirale, dell’arco. Simboli e
tensioni, forse testimoni lineari del nostro
incedere, da sempre.
Sembrano tracce di due aste di compasso,
transizioni da un passo all’altro, per non generare caduta.
Ed è già dialogo tra presente e passato, soluzione d’equilibrio dove l’uno all’altro sempre fa ritorno, referente il centro
per incedere dall’io al tu, dall’altro al diverso, dalla natura
alla memoria storica, per riconoscersi umani e persone,
natura e cultura.
Metafora di un mondo riconsiderato, dove l’ascolto è accolto
perché tesse e leviga esistenza.
Dalla psiche all’anima, visibile ed invisibile, sono le azioni
interiori qui esposte e concertate dai due artisti in dialogo
con le relative espressioni, che generano intesa.
Percorsi operativi diversi e autonomi, confermano la necessità di ricerca tra materia e visione, per essere, stare, e fare
per generare ancora pensiero.
di Loredana Müller Donadini
11
Galleria Art...OnPaper – 20 th century art books
5–
21
giugno
Eftim Eftimovski
Sergio Morello
In questa mostra, troviamo un senso
espositivo che vuole porsi non solo in un
dialogo “fra” gli artisti, ma anche “con”
il pubblico, per stimolarlo in un discorso
che diventa in questo caso di contrapposizione e di bilanciamenti.
Nell’esposizione precedente, fra Vincent
Gregory e Rosita Peverelli, il pubblico aveva notato una fusione anche di situazioni,
fra le diverse opere dei due artisti, …
Lo spettatore si muoveva infatti nello spazio, attorniato dalle
sculture di Rosita per porsi in seguito di fronte alle tele di
Vincent. Ne era nata una reciproca appartenenza.
Sergio Morello davanti alle sue opere
Qui invece troviamo due dimensioni che si specchiano e che
sviluppano un proprio discorso intimo. Troviamo da un lato
le tavole policromatiche di Sergio Morello che si espandono
attraverso la ricerca della cromatura articolata con rapporti
tonali accesi e arditi.
Sergio Morello lavora con calibrazione metodica: l’acrilico su
tavola riprende il tema della stratificazione e c’è un ricordo
delle velature delle icone. Troviamo in alcuni casi 10 strati
di velature di bianco e i segni sul supporto sono dovuti al
riaffiorare del precedente gesto pittorico.
La corda nel suo lavoro affronta il tema della ricucitura e mette in discussione il discorso della manualità e del fare… che
si trasforma in gesto simbolico perché nel suo percorso,
Sergio Morello ha sempre levato e messo, tagliato e ricucito.
Dall’altro lato abbiamo Eftim Eftimovski che approfondisce
il suo percorso artistico attraverso un’estrosità della materia tattile dove la ruggine e il vissuto diventano protagonisti paralleli di un proprio argomento personale. L’uomo,
per Eftim, rimane personaggio e protagonista, testimone e
vero interprete quale centro del discorso di confronto profondo fra artista e spettatore.
Eftim Eftimovski lavora sempre con un’incredibile freschezza narrativa, che si sviluppa attraverso mille sfaccettature, che vengono costantemente filtrate per offrire
al pubblico immagini a più livelli di interpretazione. L’opera, di conseguenza, si rivela come portatrice di una storia intima, concepita come parte distinta di un “tutto”
ampio e articolato. Gli elementi ricorrenti, tratti da scene di vita o da valutazioni personali e aneddotiche sul
divenire, si presentano come preziose istantanee di una
poetica del vissuto. Le sue sculture/installazioni in ferro
si delineano lungo una linea monocromatica in un raffinaA sinistra:
Sergio Morello
Nudo matissiano
2011
legno e corda
90 x 150 cm
12
In alto:
Eftim Eftimovski
attorniato dalle
sue opere
(composizione
di tecniche miste)
to discorso di contrasto con le opere di Sergio Morello.
E qui si ritrovano i due artisti che, usciti dalla costrizione del
supporto hanno affrontato nella loro vita diverse tematiche
legate al moto, alla geografia, al viaggio, inteso come vero
“passaggio”…
Sono due mondi opposti, di pieni e di vuoti, che si toccano in un certo qual modo: troviamo infatti un fil rouge
che parte dalla tavola di Sergio Morello, graffiata, colorata, spatolata, ritagliata e ricucita, per arrivare al metallo di Eftim Eftimovski, fuso, riusato, lasciato in balia del
tempo oppure ai quadri, sempre di Eftim, che diventano
rielaborazioni e piccole installazioni cariche di intrinseca
poesia dove la cornice, ricordiamolo, è parte integrante
dell’opera.
Elementi soggettivi e considerazioni intellettuali si mescolano perciò ad altri fattori complessi, in modo da suggerire
diverse possibili chiavi di lettura delle opere: partendo, dal
“piccolo”, i singoli dettagli si snodano lungo questa trama
articolata. per creare un intreccio personale di dialogo e di
coinvolgimento, come detto, con il pubblico, mai indifferente
a questa varietà di narrazioni d’arte.
Trascrizione del discorso di presentazione di Aymone Poletti
13
Eftim Eftimovski
Uomo con bicicletta
2014
Ferro
Sotto:
sculture in ferro
A sinistra:
Eftim Eftimovski
davanti ad una sua scultura
In alto, da sinistra a destra,
dall’alto al basso:
Sergio Morello
Orizzonte nuovo
2014
acrilico e corda su tavola
70 x 90 cm
Sergio Morello
Horizon 5
2012
acrilico su tavola
70 x 90 cm
14
Sergio Morello
Orizzonte carminio
2013
acrilico e corda su tavola
70 x 90 cm
Sergio Morello
Orizzonte nuovo
2014
acrilico e corda su tavola
70 x 90 cm
Alle pagine 16-17:
Sergio Morello
Monte Generoso
2011
acrilico su compensato
90 x 150 cm
15
16
17
Galleria Art...OnPaper – 20 th century art books
26
giugno –
12
luglio
Francine Mury
Sandra Snozzi
Francine Mury
“4344”
2010
olio su tela
200 x 200 cm
18
Nell’esposizione precedente, quella di Sergio Morello e di Eftim
Eftimovski gli spettatori avevano potuto confrontarsi con una
distinzione evidente tra le parti, ad una cesura e contrapposizione netta tra i due mondi creativi che si presentavano tali a
monologhi… in questo caso invece lo spettatore percepisce
una fusione anche di situazioni e un discorso di continuità fra
le diverse opere delle due artiste, due presenze che si amalgamano e che non si esprimono in una concezione espositiva di
contrasto, bensì di combinazione narrativa. Francine e Sandra
hanno deciso di presentare un sunto della nozione della
vita e della conseguente ciclicità degli elementi vitali.
Foto Carla Muttoni
In questa mostra, ritroviamo ancora una volta un delinearsi
espositivo complesso che vuole porsi in dialogo con il pubblico, per stimolarlo in un confronto che diventa, in questo
caso, di bilanciamenti e di esortazioni ad una reazione da
parte dello stesso.
Ricordo che per queste esposizioni sono gli artisti che decidono quali opere proporre in una piena libertà d’espressione. E questa totale libertà è una ricchezza perché il pubblico può cogliere il senso più intimo del pensiero di chi si
mette in mostra diventando parte dell’evento e elemento di
interazione ulteriore con le scelte proposte.
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Francine Mury
samsara
2014
stampe digitale
13 x 18 cm
Sandra Snozzi
Dettaglio installazione
Cavallini - Omaggio a Tranquillo
2014
collage con carta, cartone, velina, acquarello,
resina, accessori (6 elementi)
100 x 70 cm
Foto Carla Muttoni
Foto CarlaMuttoni
Sandra Snozzi ha come filo conduttore l’animale.
I suoi sono animali rafforzati da puntuali valori espressivi e
simbolici perché Sandra, nel suo esprimersi, è costantemente
stimolata “dal bisogno di scoperta e conoscenza del significato
dell’animale nel quale lei identifica l’arcàico vivente”.
Francine Mury ha come fil rouge la natura vegetale e la geometria che vi si crea. Per il suo personale discorso, lei lavora
con diverse tecniche quali la monotipia, l’incisione, la tempera e l’olio. La sua opera più grande (una tela di 2 metri e venti
per 2 metri e venti) paradossalmente descrive il più piccolo
20
e remoto elemento esposto: presenta infatti un microcosmo
ancestrale… praticamente quell’attimo particolare in cui tutto vibra prima di prendere una forma. Sandra sviluppa una
speciale tecnica di carta macerata e di stratificazioni velate,
e parte, nei suoi delicati cavalli, dalla ricerca del significato
dell’essere animale, e cioè approfondisce la tematica dell’animalità dell’uomo e dell’umanità dell’animale stesso. Il legame
con il nonno veterinario e l’eredità di tutti i suoi strumenti chirurgici riaffiora in questo discorso articolato. L’artista analizza
elementi che fanno parte della coscienza collettiva, dell’uomo
e dei suoi simboli fra i quali il concetto complesso dell’Uroboro:
il serpente che si mangia la coda, che, ricreandosi continuamente, rappresenta la natura ciclica delle cose.
Quest’elemento diventa cerchio, e anche feto, stando alla
base di tutta la produzione dell’artista, quale rappresentazione dell’eterno ritorno e rinnovamento.
sinistra:
Sandra Snozzi
Dettaglio installazione
Cavallini - Omaggio a Tranquillo
2014
scultura in tecnica mista,
carta, resine, acquarello,
boccale di vetro (4 elementi);
30 x 30 x 20 cm
In alto:
Sandra Snozzi
Dettaglio installazione
Cavallini - Omaggio a Tranquillo
2014
scultura in tecnica mista,
carta, resine, crine
110 x 40 x 20 cm
21
Sandra Snozzi ritratta da Carla Muttoni
24
Francine Mury
“4526”
2012
monoprint
70 x 90 cm
Francine Mury
“4539”
2012
monoprint
70 x 90 cm
La ciclicità delle cose si presenta anche nell’elemento narrativo, vegetale e arboreo di Francine Mury.
I suoi sono preziosi paesaggi sospesi tra microcosmo e macrocosmo, tra minerale e biologico, organico e inorganico.
Troviamo trame che oscillano, punti di equilibrio che danzano
per una sorta di vertigine di rimandi, meditativa e introspettiva.
Ecco perciò un discorso arcaico dove il tutto è un simbolo,
una metafora, un modo di approcciarsi verso un argomento
così vasto e delicato. Delicato come l’elemento strutturale
della carta. Carta, appunto, che Francine Mury e Sandra
Snozzi riescono a trasformare in ricchi assemblaggi, ed elementi vivi di sovrapposizioni di velature.
Lasciamoci dunque guidare da questi discorsi di fusione,
tra la meraviglia di scoprire tracce e reperti della nostra
condizione umana e la sommessa rievocazione di luoghi
interiori, silenziosi e della memoria.
Trascrizione del discorso di presentazione
di Aymone Poletti
Francine Mury
Giardino di Livia
2010
acquatinta e tempera
40 x 40 cm
Francine Mury
Giardino di Livia
2010
acquatinta
40 x 40 cm
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4–
20
settembre
Felicita Bianchi Duyne
Hans Kammermann
Non sono un critico d’arte, solo un appassionato di arte.
Quindi non elencherò i molti pregi della pittura di Felicita
Bianchi Duyne: critici autorevoli hanno già scritto di come le
sue opere siano raffinate e colte, come sia sapiente e originale l’uso e l’accostamento di materiali sorprendenti e di colori diversi (spesso nati dalle sue mani nel piccolo atelier di
Ponte Capriasca). O come nei suoi quadri si intuiscano fiori
e vari reperti di vegetazione, selezionati appiattiti e applicati
con delicatezza sulla tela, per poi scomparire (o quasi) sotto
sottili strati di colore e di sabbia. Sabbia che l’artista porta
26
con sé da isole, deserti e mondi lontani, e che costituiscono
il giardino fertile e poetico delle sue opere. O, infine, di come
il confronto con la natura e una personalissima rielaborazione
artistica della stessa sia la fonte d’ispirazione principale della
sua ricerca, ormai pluridecennale e in continuo approfondimento, lontana da mode e modelli.
Io proverò a parlarvi d’altro: di come ho conosciuto, o meglio
scoperto la pittura di Felicita nell’affollatissimo mercato di
Olgji, una cittadina nell’estremo lembo occidentale della sterminata Mongolia, al confine con Russia Cina e Kazakhistan. È
in quella specie di suk di matrice kazaka, un intrigo di viuzze
e casine di lamiera che fungono da negozi, che ho visto per
la prima volta, dal vivo, i suoi racconti pittorici. Lamiere percorse dal tempo, corrose da sole, vento e pioggia, arrugginite
o sbiadite, che si propongono quali autentiche opere d’arte
informali. Glielo dissi quando la conobbi, qualche anno fa, e
Felicita mi confidò di averla visitata anche lei, quella cittadina
ai confini del mondo, e di essersi immersa e persa con piacere in quel dedalo inconsapevolmente artistico.
Ora, di fronte a questi suoi quadri recenti, ritrovo quel mondo lontano, e soprattutto la capacità dell’artista di reinventare la natura e gli effetti che essa ha sui materiali più umili
e semplici che ci circondano, quelli vivi e quelli privi di vita,
dei quali spesso nemmeno ci accorgiamo. Poi, certo, nelle
sue tele riconosco tracce di alcuni pittori che anch’io amo
molto: da Rothko, e da alcuni suoi colleghi dell’espressionismo astratto americano, ad Antoni Tapies, da Alberto Burri
a Cy Twombly, da Franz Kline a Pierre Soulages. Ma queste
presenze non sono mai influenze, né tanto meno rivisitazioni: sono comprensione e elaborazione colta di emozioni e
percorsi pittorici di straordinaria qualità, di cui l’artista ha
saputo fare tesoro.
In una delle tele esposte, la numero cinque, mi pare ci sia
tutto il mondo artistico di Felicita, e la riprova del suo talento: un dipinto che ci riporta e illustra un fiore, un elemento
naturale tra i più belli e delicati, che la pittrice rielabora ed
arricchisce da un punto di vista squisitamente pittorico. Poi,
con un gesto audace ma consapevole, rischioso ma sapiente, immediato e senza via di ritorno, forti e larghe pennellate
nere aggrediscono la tela e la trasformano in un riuscitissimo microcosmo in cui grazia e forza, equilibrio e coraggio si
fondono e si confondono. Pittura allo stato puro.
In altre tele l’artista non ha paura di sfigurare l’eleganza
del suo dipinto con l’incursione violenta di chiodi che ne
27
Felicita Bianchi Duyne, da sinistra a destra, dall’alto al basso:
Gigli in ombra
2014
91 x 91 cm
28
Nudo femminile
2012
51 x 51 cm
Papavero
2014
51 x 51 cm
Giglio Tra giglio e papavero
2014
2014
51 x 51 cm
51 x 51 cm
Traccia di bocciolo
2014
51 x 51 cm
Iris
2014
91 x 64 cm
Tutte le opere sono realizzate con tecniche miste
a base di calce e pigmenti naturali
su tavole di OSB o MDF inquadrate dall’artista
29
Felicita Bianchi Duyne
Frammenti di magnolia
2012
41 x 121 cm
Felicita Bianchi Duyne
Mediterraneo
2014
91 x 64 cm
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graffiano e ne sfregiano la superficie, in realtà arricchendone il racconto. Altre due tele, recentissime, aprono poi una
finestra sulla vita stessa della pittrice, che da qualche anno
trascorre parecchio del suo tempo in Calabria: e così il cielo
e il mare mediterranei si insinuano nelle sue tele e un blu
dirompente, quasi rothkiano, si affaccia nella sua pittura,
luminoso e benvenuto.
A me sembra che una delle componenti più significative
dell’arte alta e nobile sia proprio la capacità di osare e di
rischiare, di rimettere tutto in discussione, a partire dalle
proprie convinzioni e dalle proprie capacità. Solo così l’artista regala a se stesso la libertà e allo spettatore il piacere
e il privilegio di viaggiare, grazie alle sue opere, nel tempo
e nello spazio.
La pittura dovrebbe permetterci di vedere per capire, rappresentare la ricerca della novità, della diversità, del cambiamento quale fonte di progresso e di civiltà. Essa è la
forma d’arte più indicata per superare l’occasionalità, l’insignificanza, l’inconsistenza di gesti frettolosi e inconcludenti,
il disprezzo delle forme, l’inesistenza dei contenuti. Per resistere alla dilagante “civiltà mediatica”, nella quale sembra
che tutto debba essere virtuale, digitale, immediatamente e
banalmente fruibile.
Le opere di Felicita Bianchi non hanno fretta, quindi dureranno nel tempo: sono una preziosissima finestra incantata sul
mondo e, soprattutto, sulle nostre anime. Dai suoi quadri traspaiono armonia e serenità: essi sono l’annuncio di un mondo
possibile nel quale natura e cultura si fondono.
Qualche giorno fa Felicita mi ha ricordato una frase di Henri-Frédéric Amiel, filosofo e poeta svizzero del diciannovesimo secolo, una frase che ama molto: “Un paysage est un
état d’âme”. Di fronte alle sue opere, a me sembra di poter
dire che uno stato d’animo è un paesaggio. Se ne sappiamo
cogliere la visione, la verità interiore e la poesia che essa
contiene, rimarrà in noi e contribuirà a fare di noi esseri
umani migliori.
di Matteo Bellinelli
31
Hans Kammermann
sine loco #13#
1998
27 x 18 cm
Hans Kammermann
Presenza in giardino velato
tecnica mista
2014
50 x 50 cm
32
Opera aperta
La figura diventa il tema costante di una “opera aperta” di
grande potere evocativo, che esprime l’emozione nel suo
divenire. La sua pittura si allontana dall’espressionismo
astratto; mantiene una sottile gestualità per avvicinarsi a
un mondo che lo affascina, che è quello dell’espressione
popolare, nel quale si ritrovano scritte murali, riferimenti mitologici, evocazioni che si combinano edificando una sorta
di universo senza tempo, in cui il passato e il presente si
ritrovano sulla tela. L’obiettivo di questo ampio e lungo viaggio consiste nel riuscire ad entrare nell’animo, ossia nella
dimensione interiore della figura e quindi dell’uomo di oggi.
Capire il suo psicodramma nell’avvertire che mentre la natura è umiliata anche l’uomo viene banalizzato, non considerato come gli compete. Con il risultato che, sull’altare della
cosiddetta funzionalità, viene degradato il versante umanistico della vita, ossia il suo valore.
Hans Kammermann
sine loco #84#
2014
30 x 25 cm
“Questo è il mio lavoro di oggi. Nel quadro mi interessa il dialogo tra le figure, come si raccontassero delle storie. Perché il
quadro è come uno specchio dove ognuno collaborando con
il pittore, ritrova le sue storie. Il quadro è aperto e muove la
fantasia di chi guarda”. E il sud, perché questa continua fuga
e poi questa scelta definitiva del sud?
“Per fuggire dalla rigidità del nord. Mi piace la malinconia del
paesaggio ma ancora di più la socialità, la gente che parla,
che comunica, che coinvolge e non costruisce muri. In Italia
e Ticino ho trovato apprezzamento, apertura, accoglienza,
guardano cosa fai e non come vivi”.
Tratto da “I Giardini Incantati” di Dalmazio Ambrosioni
33
Dall’alto al basso:
Hans Kammermann
Sine loco #8#
25,5 x 35,5 cm
Sine loco #22#
1998
24,5 x 35,5 cm
Hans Kammermann
Sine loco #80#
2014
36 x 49,5 cm
34
Sine loco #71#
2014
28,5 x 40 cm
35
36
37
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25
settembre –
11
ottobre
Sara Pellegrini
Stefano Spinelli
La particolare tipologia espositiva pone lo
spettatore in una situazione percettiva di fusione di situazioni. Troviamo elementi distribuiti un po’ ovunque nello spazio che non si esprimono in una concezione
espositiva di contrasto bensì di combinazione e amalgama. In un teatro di apparenze e di scene artefatte dal
leggero gusto spiazzante, il pubblico diventa, come lo è
spesso, parte dell’opera stessa e si muove nello spazio
e riempie i vuoti animandoli in un gioco di nuovi equilibri
contestualizzanti.
Gli artisti lavorano contrapponendo il supporto al loro concetto d’arte: un’operazione di aggiunta rispetto all’intensità
del segno stesso. Un segno del tempo, un segno filtrato da
una lente, per Stefano Spinelli... un segno o una scritta su
un oggetto o su un vetro, per Sara Pellegrini.
Il filo conduttore è l’ambiente, decorticato e
quasi radiografato per diventare elemento di
percorso sia mentale sia visivo/tattile.
Un paesaggio sospeso dall’incantesimo della narrazione tra
estensioni, degrado ed elementi di disturbo.
Stefano Spinelli porta immagini di dettaglio, nello specifico
frazioni e particolari di quello che fu l’Ostello della Casa del
Sole di Neggio. La sua serie fotografica realizzata con il contributo di Giorgia Franchini prende il titolo “Sulle tracce del
dubbio”. Si tratta di affrontare la tematica della decadenza
attraverso ingrandimenti fotografici abbinati a testi di libri
gialli o noir, applicando un lavoro di indagine.
Un fine strumento d’indagine della realtà (come lo è l’oggetto della fotografia) e l’arte del narrare un enigma, un mistero,
s’incontrano, dunque, per dar vita a questa serie d’immagini in
A sinistra:
Sara Pellegrini
Dalla C (culla) alla B (bara)
(c’est le ton qui fait
la musique)
filo di ferro, filo di cotone,
ricamo con capelli su tela
30 x 30 cm
Al centro:
Sara Pellegrini
Cuore
tipp-ex bianco
su sasso
Ø ca 5-6 cm
Sopra:
Sara Pellegrini
Foto ritratti
stampa su tela,
pittura acrilica
tiratura unica
16 x 18 cm
In alto:
Sara Pellegrini
Amori amari
filo di cotone su tela
30 x 30 cm
A sinistra:
Le gouffre (l’abisso)
2014
bende di gesso,
cono di legno,
specchio
38
39
Sara Pellegrini
Dalla serie La Casa
Gabinetto
2011
bende di gesso,
specchio
40
cui paradossalmente è l’ombra dell’incertezza che predomina.
Testo e figura vengono qui posti in una relazione arbitraria per
far sì che dall’impatto tra queste due energie per lo più silenti
a causa dello spazio stesso, nello spettatore si possano aprire
nuove risonanze, inconsuete e interpellanti.
Questa fusione svela, o semplicemente indica, diverse possibili soluzioni interpretative, diversi percorsi oltre a quello che
la realtà ci propone nella sua totale e disarmante evidenza.
Quasi come fossero tavole analitiche, ritroviamo la sommessa rievocazione dei paesaggi interiori della memoria e del
ricordo. “Ricordo” e “indagine” che diventano elementi ricorrenti anche nel lavoro di Sara Pellegrini.
L’istallazione di Sara si lega infatti ad un concetto di domesticità e presenta alcuni tra i mobili dell’opera “La Casa“ unitamente ad una serie di quadri e di oggetti che ci rimanda
alla nostra vita quotidiana. Il tema ruota sempre attorno alla
stessa ricerca: il tentativo di conoscenza del nostro “IO” più
intimo identificato bene dal corpo fisico e dagli oggetti di cui
noi ci attorniamo. L’indagine si rivolge al nostro concetto personale di familiarità. La casa e i suoi “mobili” diventano così
una proiezione dei nostri pensieri più profondi, il più delle
volte nascosti anche a noi stessi. Ci sono rimandi provocatori, ci sono rimandi ludici e altri di personale interrogazione…
Il linguaggio scritto, ricamato talora addirittura con i capelli,
aiuta a decifrare più facilmente o direttamente l’opera.
In altri casi, alcuni dei materiali usati sono per esempio
delle bende di gesso con cui si avviluppano gli oggetti per
farli assomigliare ad una tela dipinta: questo permette un
estraniamento dal loro uso primario e induce a meditare
sul loro lato simbolico.
Il tutto è sempre da prendere come un simbolo infatti, come
una metafora. Lo sguardo spazia così come la mano, impregnandosi d’una tattilità nitida e persistente dove la ricerca
interiore è sempre la vera protagonista.
Trascrizione del discorso di presentazione di Aymone Poletti
41
Sara Pellegrini
Telefonini
2011
bende di gesso,
e corda bianca
per arrosto, testo
42
43
Stefano Spinelli
Dalla serie Sulle tracce del dubbio
fotografia digitale, stampe a getto d’inchiostro
2014
44
Sara Pellegrini
Dalla serie La Casa
Tavolo Le gouffre
(l’abisso)
2014
bende di gesso,
cono di legno,
specchio
45
Stefano Spinelli
Dalla serie Sulle tracce del dubbio
fotografia digitale, stampe a getto d’inchiostro
2014
dimensioni variabili
46
47
Sulle tracce del dubbio
Serie fotografica realizzata da Stefano Spinelli, con il fattivo contributo di Giorgia Franchini (2014)
48
“L’ambito del possibile è quasi infinito, quello del reale
è molto limitato, perché di tutte le possibilità è sempre
una soltanto quella che si può trasformare in realtà.
Il reale è solo un caso particolare del possibile,
e per questo è anche concepibile in modo diverso.
Ne consegue che, per poterci addentrare nel possibile,
dobbiamo trasformare il concetto del reale”.
Friedrich Dürrenmatt, Giustizia
Le immagini sono state scattate all’interno di una pensione
in abbandono. Si tratta perlopiù di dettagli del luogo, di indizi - come in una vicenda d’investigazione - atti a ricostruire, o
evocare, un contesto più generale, legato allo spazio ritratto,
ma anche a quanto in esso vi è accaduto o potuto accadere.
Indizi che ricalcano il reale - lo citano -, ma che pure lo trasfigurano, e che nell’assumere una propria individuale esistenza rientrano ambiguamente, ma a parte intera, nel gioco
della realtà.
Un fine strumento d’indagine della realtà come la fotografia e
l’arte del narrare l’enigma s’incontrano per dar vita a questa
serie d’immagini in cui paradossalmente è l’ombra dell’incertezza che predomina.
Testo e figura vengono qui posti in una relazione arbitraria
per far sì che dall’impatto tra queste due energie, dall’avvolgersi tra loro, nello spettatore si possano aprire nuove
risonanze, inconsuete, interpellanti.
Per così svelare, o semplicemente indicarci - come più sopra
Dürrenmatt ci suggerisce - altre possibili soluzioni, diversi percorsi oltre a quello che nella sua evidenza la realtà ci propone.
I testi utilizzati sono stati tratti dai seguenti
romanzi d’investigazione:
P. Boileau e T. Narcejac, La donna che visse due volte
G. Carofiglio, Una mutevole verità
R. Chandler, Addio mia amata e Il lungo addio
F. Dürrenmatt, Giustizia
U. Eco, Il nome della rosa
F. Glauser, Il tè delle tre vecchie signore
E. A. Poe, I delitti della via Morgue
L. Sciascia, Todo Modo e Il contesto - una parodia
49
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16
ottobre –
1
novembre
Veronica Branca Masa
Raffaella Ferloni
In quest’esposizione appare un dialogo fra due mondi opposti, che, come si sa, alla fine possono attrarsi. Il variopinto
rumore urbano da un lato e il gesto silente e lineare dall’altro.
Raffaella Ferloni dispone le opere sulle pareti con una costruzione su vari livelli, in cui i dipinti sono talora accostati,
talora giustapposti negli angoli, o addirittura si trovano per
terra. L’artista presenta questa totalità come un vero e proprio allestimento unico, che va a riprendere la composizione
delle grafic novel.
Raffaella Ferloni si nutre delle immagini di massa trasposte,
di tele riciclate e rielaborate (per esempio del suo periodo
berlinese) dove il filo conduttore è un discorso che troviamo
anche nella street art, un porsi in relazione con l’ambiente
urbano, decorticato e quasi radiografato per diventare elemento di percorso sia mentale sia analitico.
Raffaella presenta un palpabile flusso di immagini dal 2001 a
50
oggi, Si parte dalla montagna e si finisce con le centrali nucleari, passando da ricreazioni di “stop frame” video su tela e altre
autodefinite icone moderne prese liberamente da internet, da
scene vissute o da riviste. Un paesaggio sospeso tra decadenza e aneddoti spiazzanti.
La pittrice diventa il commentatore esterno e imparziale del
quotidiano, e, come è stato scritto, la sua è l’elegia del nostro mondo trans/post-urbano, un mondo determinato dalla
precarietà e dalle solitudini scarne della marginalità urbana.
Troviamo un “mobìle” per terra, ludico e metaforico, inteso
come il gioco “memory”.
È intitolato “carpe diem”… quasi a narrare la nostra condizione in un mondo che spesso non ci appartiene più.
È un linguaggio di massa, ma proprio per questo è universale anche se fatto di sola apparenza. Visioni di fittizia quotidianità sono il risultato di una costruzione, dove la naturalezza è solo posa, pura finzione, e dove ogni dettaglio, anche il
più banale, è artifizio.
Ecco, la massa, il colorato, l’aggressivo il decadente sono
in contrapposizione con la purezza dell’elemento, lineare ed
essenziale.
Il silenzio della forma, dunque, razionale e nitida.
Veronica Branca Masa si astrae con le sue sculture, portando un linguaggio contrastato di purezza rigorosa.
Perché Veronica Branca Masa predilige l’isolamento creativo
alla massa, al mucchio, alla collettività.
Bisogna in questo caso considerare il percorso creativo
dell’artista che, a partire dal 1987, ha deciso di spostarsi
da Ranzo a Carrara, dove ha aperto il suo atelier ai piedi delle cave di marmo bianco, materiale da lei privilegiato nella
sua costante ricerca.
La sua, dunque, diventa un’esigenza fondamentale: infatti
nell’atelier, in questo luogo di totale isolamento, Veronica
Branca-Masa può staccarsi completamente dal mondo e rimanere sola con il suo lavoro. Si istaura così un contatto
diretto, fisico, con la materia. È un rapporto privilegiato reso
possibile dal taglio e dalla lavorazione personale della pietra,
senza alcun intervento di terzi. La spazialità e il tempo hanno
A sinistra:
Raffaella Ferloni
She’s
2001
tecnica mista
su carta riciclata
105 x 110 cm
A destra:
Raffaella Ferloni
I’ve kissed
2006
tecnica mista
su foglio di legno
60 x 110 cm
A sinistra:
Veronica Branca Masa
Luogo abitato dal vento 01
2014
marmo
30 x 27 x 36,5 cm
Sopra:
Veronica Branca Masa
Luogo abitato dal vento 03
2014
marmo
57 x 18 x 32 cm
51
Raffaella Ferloni
Carpe diem
2006
Memory (installazione).
Riproduzione digitale, 72 pezzi
20 x 20 cm
52
53
Veronica Branca Masa
Pagine bianche scritte dal tempo 9/10
2008
marmo
44 x 30 x 20 cm
54
55
Sotto:
Raffaella Ferloni
Inner room, Minotauro
2013
tecnica mista su tela
50 x 70 cm
A destra:
Raffaella Ferloni
Nina mermaid
2014
tecnica mista su tela
50 x 70 cm
A destra:
Raffaella Ferloni
What’s love?
2012
tecnica mista
su cartone telato
30 x 30 cm
Raffaella Ferloni
Fantasma, Minotauro
2014
tecnica mista
su cartone telato
40 x 30 cm
56
un ruolo importante nella ricerca di Veronica, e quest’anno soprattutto, è lo “spazio abitato dal vento” che diventa
argomento fondamentale. In questa esposizione si crea un
percorso sensibile, anche grazie alla presentazione di alcune sue tecniche miste e stampe a secco, atte a valorizzare
un preciso discorso d’insieme. Si tratta di trovare la giusta
interconnessione e calibrazione, tra i vari piani compositivi,
di questi elementi attrattori e ordinatori dotati di una forte
valenza armonica.
Nelle sculture, si parte dunque dal mettere in risalto quell’
evidente compresenza di parti lavorate secondo le tradizionali tecniche di levigatura e lucidatura, con parti lasciate
completamente grezze, così come erano presenti nel blocco
al momento del suo prelevamento.
Veronica Branca-Masa mette infatti in luce uno “stato primor-
diale”, evidenziato dall’inclusione di queste parti “naturali”
della pietra, non trasformate dalla mano dell’artista.
Si giunge così alla complessa esemplificazione dell’entità del “vuoto” che diventa co-protagonista dell’elemento
scultoreo.
Nelle carte questa caratteristica prende forma con la calibrazione di colori e punti luce in un discorso di tratti e
di segni,… segni che danzano così come lo fanno alcune
piccole sculture che non rimangono statiche bensì vibrano
sospese ed eteree.
Nella ressa urbana, le sue diventano quindi architetture rigorose, mosse da un silente dialogo spaziale.
Trascrizione del discorso di presentazione di Aymone Poletti
57
In alto, da sinistra a destra:
Raffaella Ferloni
Featured content
2008
tecnica mista su tela
145 x 120 cm
Wearing kilt
2004
tecnica mista su tela
70 x 60 cm
Young Serbian Couple
2008
tecnica mista su tela
50 x 40 cm
A sinistra:
Collant
2004
tecnica mista su tela
60 x 70 cm
58
Veronica Branca Masa
Ciclo sul tema della danza 03
2006
marmo
50 x 102 x 60 cm
59
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6–
22
novembre
Romeo Manzoni
Gianni Poretti
Romeo Manzoni, intraprende il suo percorso partendo dalla
fotocomposizione e dispone le opere sulle pareti con una
costruzione su vari livelli di interpretazione, in cui i soggetti sono talora accostati o sovrapposti. L’artista riprende la
composizione dei manifesti di contestazione e affronta argomenti delicati e controversi, per lo più di disturbo, attraverso
diversi campi di lettura.
Romeo Manzoni, nelle sue tele e nelle sue sculture, si nutre delle immagini di massa trasposte, dove il filo conduttore
è un discorso metropolitano
dove esiste un porsi in relazione con l’ambiente urbano,
e con gli oggetti.
Il recupero del materiale di
scarto che si trasforma in protagonista nelle sue sculture
in legno, gli permette di farsi commentatore esterno del
quotidiano della marginalità
urbana.
Gianni Poretti propone invece, per questa mostra, numerose opere nate preva -
lentemente tra il 2013 e il 2014. Oltre alla natura del
vetro, il metallo è sempre stato presente nelle realizzazioni dell’artista, ma l’elemento aggiuntivo della rete, che
genera e che forma, è un principio nuovo nel percorso
creativo di Poretti.
Le figure che ritroviamo in questi ultimi anni vanno ad arricchire un suo cammino di indagine nel vetro che era stato
ed è prevalentemente astratto… la figura però viene intesa
come una specie di ritorno alle origini, di quando infatti in
principio Poretti si esprimeva attraverso la pittura (a partire dagli anni ‘60).
Abbiamo quindi un prezioso discorso di
continuità nella sua produzione e nella
sua personale analisi artistica.
Egli esamina nelle opere il processo
della trasformazione della materia, e
partendo da lì e fondendo il vetro con
ossidi e metalli, Poretti lavora raffigurando simbolicamente i processi fisicochimici della formazione del cosmo.
La formazione del cosmo è vita e la vita
è coppia. Da qui abbiamo dunque il passaggio dall’astratto alla rappresentazione di individui,… un passaggio profondo
che è praticamente costituito da discorsi graduali ed ininterrotti. E questa caratteristica porta ad
una ricercata calibrazione in un discorso di materia cangiante, dove domina la regola dell’essenzialità.
Sopra:
Fresco d’alba
2010
digital art (fotopittura)
36 x 36 cm
A destra:
Enigma
2010
digital art (fotopittura)
40 x 38 cm
Sotto:
opere di Gianni Poretti
In alto:
Gianni Poretti
Lamina, 3p. III
2014
fusione vetro metallo
A sinistra, un momento
della mostra
60
61
Romeo Manzoni
Sublime
2014
digital art (fotopittura)
68 x 58 cm
Sopra:
Romeo Manzoni
Il dominatore
2013
fotopittura su carta
43 x 54 cm
Romeo Manzoni
Disgregazione dei valori
2014
acrilico su tavola di legno
90 x 81 cm
62
Le “facce di pietra” di guerrieri antichi, che ricordano vagamente l’arte precolombiana scolpita nella dura pietra, simboleggiano i politici di oggi incapaci di dialogare arroccati nelle loro
ideologie e che non accettano il volere del popolo… parlano,
parlano e parlano senza dire niente. L’inquietante predatore,
non odia mai la sua vittima, mentre l’uomo è l’unico essere
vivente sulla terra che sa odiare i suoi simili.
“Disparità di valori” è un’opera che fa una domanda: vale di più
la vita umana, o quella di un pesciolino rosso?
Quando troveremo il vaccino contro l’indifferenza e l’intolleranza avremo la risposta, ma al momento questa è utopia.
“Nicchia di sopravvivenza”, sono figure che si innalzano verso
la luce alla disperata ricerca della propria nicchia, ma nascono tutte dallo stesso ceppo dallo stesso Humus e si sentono
tristemente soli.
“Le pecore bianche”, opera dal chiaro riferimento simbolico, è
la logica continuazione dell’opera “facce di pietra”, l’estrema
conseguenza. Gli oggetti che da inutili (trovati nei rifiuti ingom-
branti) riacquistano un nuovo significato e danno l’esatta idea
del neosimbolismo intrinseco ad esse. Ad esempio, ogni tre
secondi, nel mondo viene venduta una Biro, ma non è dato di
sapere quante invece ne vengono gettate o distrutte. Questo
dimostra che quello che costruisce l’uomo è sempre effimero.
Bocca di rosa, come la canzone di Fabrizio De Andrè che porta
all’estremo la ragione dell’individualismo, cioè una mediazione di una visione del mondo a quel momento attuale fondamentamente irrazionalista soggettivista e moralista, quì
rivolto al significato più intenso del testo così come altri cantautori, Lucio Dalla, Vasco Rossi e altri ancora.
Il “dominatore” qui rappresentato da uno spaventapasseri spiega che la natura deve essere fruibile da tutti, naturalmente con
intelligenza.
L’uomo non può cambiare a piacimento le leggi naturali ed
ergersi da dominatore assoluto di tutti e di tutto.
di Romeo Manzoni
63
Sopra:
Gianni Poretti
Lamina 1p. I
2013
fusione vetro metallo
Gianni Poretti
Lamina, 2p. I
2014
fusione vetro metallo
64
A sinistra:
Gianni Poretti
Bloc 2p. I
2013
fusione vetro metallo
65
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27
novembre –
6
dicembre
François Bonjour
Gabi Fluck
Gabi Fluck, artista nata in Germania e residente a Sigirino,
ex grafica di professione e attiva per anni anche come illustratrice, in questa mostra, che per quello che la concerne,
ha intitolato “ChiaroScuro”, espone così come li vedete da
sinistra a destra, tre generi di lavori: temi astratti, disegni,
e piccole sculture.
Secondo Gabi i suoi quadri dal tema astratto vengono concepiti come una sintesi nella quale confluiscono vari elementi
simbolici e in cui prevale la gioia per la ricerca della forma e
del colore e in cui emerge l’aspetto ludico del suo fare arte.
Queste opere si caratterizzano per l’utilizzo di varie tipologie di materiale, tra cui: pigmenti, fili di ferro e altro ancora,
spesso ritrovati casualmente, come del vecchio e malconcio
cartone, recuperato in cantina, sotto i pneumatici per la neve,
e da lei definito “splendidamente ammuffito”.
Vi sono poi i disegni in bianco e nero, dove prevale invece la
linea e l’immediatezza del gesto. Qui l’artista lavora rapidamente, con gessetti, carboncini, matite litografiche, e pastelli;
spesso Gabi utilizza direttamente i propri polpastrelli, generando così quello che viene da lei definito il “felice sguazzare,
tra neri, grigi e altre infinite sfumature”.
In questi disegni vengono a galla soprattutto i lati oscuri e
nascosti dell’uomo; l’umanità viene infatti vista come una
“scheggia impazzita” - titolo di una delle opere - dove troviamo
delle anime erranti, perennemente alla ricerca di un qualcosa.
Opere, queste, popolate da presenze oscure, demoni inquietanti, talvolta sornioni. Troviamo però anche ritratti di donne,
altro tema prediletto dall’artista: in genere figure ironiche, in
grado di sorridere di sé stesse e di prendersi in giro bonariamente. Soggetti in cui ritroviamo una certa dualità, perché,
come dice l’artista, la vita è un “barcamenarsi tra gioia e
dolore, spensieratezza e riflessione, tra luce e buio”.
Infine, troviamo le piccole sculture, da lei definite come
“silenziosi giardini immaginari”, o “disegni nello spazio”.
Queste ultime opere sono concepite come delle piccole presenze fragili, che traggono ispirazione dalla natura (piante e
altri vegetali ancora), dallo stupore e dalla gioia per tutto ciò
che silenziosamente si forma dal nulla e che cresce rapidamente. Anche in questo caso vengono utilizzati materiali semplici, resti effimeri che, ancora una volta, sono però in grado di
generare qualcosa di nuovo e inusuale ai nostri occhi.
Un breve cenno finale sui titoli che Gabi da ai propri lavori.
Racconta che ogni titolo infatti si modifica sempre nel corso
dell’opera: quello che ad esempio all’inizio era nato come
“una casa rosa nella palude marina” alla fine diventa “una
galleggiante città spensierata”.
Secondo l’artista è vero che il titolo ricopre una certa importanza, in quanto offre la possibilità di orientare lo spettatore ma
non deve però privarlo del tutto della sua innata capacità di fantasticare. Ognuno quindi osservando queste opere può trovare
il proprio “altrove”, può cioè conoscere (o ri-conoscere) qualcosa della propria anima... e forse attribuirgli un proprio titolo.
Gabi Fluck
Silenziosa crescita
Chiodo arrugginito, fili di rame,
argento e filo di ferro rosso, vegetali,
spugna di mare su legno pitturato
2013
28 x 18 cm
66
In alto:
François Bonjour
Taglio 1
2014
tecnica mista su tela
50 x 50 cm
In alto:
Gabi Fluck
Trittico di donnine
Lei suona il tamburo / Felice con il cono gelato e la frutta / Con il ventaglio
2014
collage, pastello e carboncino su carta
43 x 20 cm
Sopra:
Il mondo, una scheggia impazzita
2014
carboncino su carta
27 x 22 cm
67
François Bonjour, originario del canton Neuchâtel, vive a Dino
ed è un artista con un percorso espositivo che varca ormai
i nostri confini.
Da anni, indaga con il suo fare, l’universo della scrittura e
dei segni. Accanto alla componente materica si aggiunge la
presenza marcata e costante della scrittura, con messaggi
che avvolgono le immagini e invadono spesso anche la superficie del vetro e del plexiglas creando segni e ombre che
possono essere interpretati liberamente.
La materia polverosa delle cataste di lettere cadute prende
corpo anche nel volume plastico costituito da materiali come la carta, il cartone o il legno e da immagini strappate ai
giornali e incollate come manifesti abbandonati.
Bonjour con le sue opere ci suggerisce che i libri, è importante e bello non solo leggerli, ma anche toccarli, annusarli,
smembrarli, tagliarne alcune pagine per poi ricucirli secondo
un nuovo disegno, un nuovo spazio, dandogli insomma una
possibilità alternativa di vita.
Opere che come fogli da volumi ritrovati di una biblioteca immaginaria, tenuti insieme da legature che ne ricompongono
il significato originale, eleggono il suo autore ad essere considerato una sorta di archeologo del contemporaneo.
Potremmo dire custode silente e specialista di un luogo non
molto lontano ma bruciato in fretta dalla tecnologia e dal
paradiso virtuale di chi legge i libri stampati nell’etere, e che
tende a dimenticarsi l’odore della carta e degli inchiostri.
In bilico fra la logica un po’ dadaista dell’object trouvé e
un ricordo della poesia visiva degli anni Sessanta, le sue
opere ci restituiscono reperti, strumenti che nel salvarsi
68
si salvano dall’oblio, ma anche dalla costrizione delle idee
e del pensiero.
pagine che diventano pezzi rari e, allo stesso tempo, elementi di un nuovo racconto dove la realtà si mescola alla
rappresentazione e la vita all’immagine.
Bonjour preleva la vita e la innesta nei libri... le sue pagine
salvate dal silenzio sono testimonianza di un profondo percorso di ricerca artistica in continua evoluzione e diventano
a loro volta supporto di una pittura delicata che traccia storie su storie, parole su parole mettendo loro le ali e donandoci una diversa prospettiva, libero di pensare il nuovo, libero di ridipingere il destino in un viaggio iniziatico che recide,
redime e libera il pensiero.
Liberamente tratto da un testo di Chiara Gatti
In alto da sinistra:
Nella pagina accanto, dall’alto:
François Bonjour
Allevamento e soffio
2014
tecnica mista su tela
100 x 100 cm
François Bonjour
Permutazioni in movimento
2014
tecnica mista su tela
100 x 100 cm
Interstizio del pensiero
2014
tecnica mista su tela
100 x 100 cm
Statement. Fuga
2014
tecnica mista su tela
100 x 300 cm
69
Gabi Fluck
Sogno draghi
collage, pastello, carboncino e china su carta
2014
15 x 15 cm
70
Dall’alto al basso:
Dall’alto al basso:
Gabi Fluck
Giochi infantili
2014
collage di carte con pigmenti,
matita e pigmenti su carta d’acquarello
32 x 25 cm
Gabi Fluck
Il demone della casa
2014
collage di carta con pigmenti, acquarello,
matita e china rosso su carta d’ acquarello
15 x 15 cm
Gioia arancione
2014
collage con carta con pigmenti,
filo di rame, corteccia bianca
su carta d’acquarello
15 x 15 cm
Le vie della vita
2014
collage di carta con pigmenti,
filo di rame, corteccia bianca, buchi
su carta d’acquarello,
20 x 20 cm
71
Nella pagina accanto:
François Bonjour
Messaggi senza titolo
2014
25 x 25 cm
72
François Bonjour
Senza titolo
2013
tecnica mista su carta
78 x 58 cm
73
Galleria Art...OnPaper – 20 th century art books
11 –
20
dicembre
Brigitte Allenbach
Christina Kaeuferle Gallo
Christina Käuferle Gallo nasce a Dessau (D), (città nota per
aver ospitato la sede del Bauhaus, scuola d’arte e di architettura), cresce in Germania a Erfurt (Turingia), vive in Svizzera dal 1964 e lavora fra la Svizzera e il Piemonte.
Uno dei più importanti pittori svizzeri del 20° secolo, Ferdinand Gehr, morto nel 1996, all’età di più di 100 anni, negli
anni 80, in occasione di una visita di Christina Käuferle nel
suo atelier ad Allstätten (SG), le disse di essere sempre più
convinto che “l’essenziale è qualcosa di molto semplice”.
Si riferiva alla possibilità di trasformare importanti contenuti
spirituali e filosofici in forma creativa.
Quelle parole la colpirono e influenzarono molto la sua visione dell’arte e il suo lavoro futuro.
In quest’ottica il direttore del Museo Cantonale di Olten,
Peter Killer sostenne in seguito che non gli era del tutto
chiaro quanto della saggezza e vitalità di Gehr sia stata trasferita nell’arte di Cristina Kauferle, ma a suo parere, i dipinti e le installazioni di Christina, rispecchiavano la volontà
dell’artista di opporsi con chiarezza e decisione ad un mondo dove i contrasti convivono, dove il colore svanisce e la
mancanza di cultura diviene abitudine.
Da un lato la struttura deliberatamente progettata e pensata
ritmicamente, dall’altro la misteriosa formulazione che viene
dalla natura, affascinano Christina nella stessa misura.
Logica e caso coesistono nel suo lavoro senza problemi.
Quello che ha visto ed ha creato nel deserto, quello che percepisce e scopre durante le passeggiate quotidiane, sono
parti indispensabili e costanti del suo fare arte.
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Nel conciliare le contraddizioni, è attiva in divese discipline:
disegno, pittura e installazioni coesistono in egual misura. La
rigida e ascetica convinzione di Ferdinand Gehr è messa in
rilievo nei disegni che lei esegue in prevalenza a carboncino.
“Tutto ciò che in un quadro è superfluo, lo rovina”, dichiarava Matisse oppure “l’arte vera è l’arte del tralasciare” diceva
Oskar Kokoschka, ed in connessione alla ricerca della riduzione o semplificazione che collochiamo i disegni di Christina.
Gli effetti dell’arte sono dunque maggiori se i mezzi usati
sono più semplici?
Certamente dice Christina, perché questo è il più alto obiettivo
dell’arte: esprimere l’essenziale.
“Più i mezzi sono semplici, più è garantito l’effetto finale...
nell’arte è giunto il momento di esprimere l’essenziale, tutto
ciò che non è essenziale non appartiene all’arte” diceva lo
scultore Auguste Rodin.
I suoi dipinti sono invece “spazi colorati” in cui l’osservatrice
o l’osservatore possono immergersi.
Sculture in carta pesta
di Brigitte Allenbach
A sinistra:
Saltelli sereni
2014
In primo piano:
Grosshans
2013
Sopra:
Cristina Käuferle Gallo
Tracce di polvere
acrilico e carboncino su tela
In alto a destra:
Volo
2014
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Cristina Käuferle Gallo
Serie Spazio grigio
2000/2001
acrilico su tela
90 x 90 cm
Cristina Käuferle Gallo
Serie Spazio giallo
2000/2001
acrilico su tela senza telaio
150 x 120 cm
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La lineare razionalità del mondo tedesco si manifesta nei
disegni, l’amore per il Sud invece traspira nei suoi acquerelli
e nella sensualità della sua pittura.
Cristina dice: “I dipinti nascono spesso dopo l’interpretazione
di allestimenti. Si potrebbe pensare ad una necessità di liberarmi ed essere pronta a nuove avventure. Le installazioni o
gli allestimenti hanno invece il preciso scopo di far riflettere
su questioni critiche del nostro tempo e sull’ambiente”.
Osservando le sue realizzazioni si possono trovare concetti
per spazi chiusi ed aperti che meravigliano per la loro semplicità per i quali lei sceglie consapevolmente materiali
elementari e semplici, applicandoli con parsimonia, lasciando sperimentare all’osservatore una nuova sensazione e
una nuova dimensione dello spazio.
La costante ricerca del suo lavoro è dunque riassunta nelle
parole “Perché l’essenziale è qualcosa di molto semplice”.
Liberamente tratto da “Perché l’essenziale è qualcosa
di molto semplice” di Peter Killer, direttore del Museo d’Arte
di Olten
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Brigitte Allenbach
Crescita
2009
alabastro
Anni fa, parlando del lavoro fisico molto impegnativo sulla
pietra, ho detto scherzando che in età avanzata avrei cambiato materiale e sarei andata avanti lavorando in cartapesta. Nel 2013 in un corso da Vaklav Elias ho conosciuto
meglio questa tecnica, che mi era sempre piaciuta e ne ho
preso gusto. La cartapesta viene usata nel teatro e nelle decorazioni, perciò ha un tocco effimero e invita alla creazione
di opere comiche o meno serie.
Le mie opere in pietra crescono molto lentamente su progetti ben pensati e studiati. Non si intraprende un tale lavoro
senza avere prima una meta rilevante.
Con la cartapesta,
invece, ho trovato un mezzo per lavorare in grande e con più
velocità. Ne escono delle opere meno serie, allegre e spontanee. Finché mi sarà possibile, la pietra continuerà ad occuparmi e ad affascinarmi, ma ammetto che ho cominciato
a divertirmi molto con questi materiali di scarto: la vecchia
carta di giornale con le sue foto colorate.
di Brigitte Allenbach-Stettbacher
Christina Kaeuferle Gallo
Backzeit
2014
tecnica mista su carta
40 x 50 cm
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Brigitte Allenbach
Il successore
2013
marmo e alabastro
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Cristina Käuferle Gallo
Serie Spazio terra e Spazio notte
2014
acrilico e carboncino su tela
70 x 70 cm
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Nella pagina accanto,
in primo piano le sculture
di Brigitte Allenbach
e sulle pareti le opere
di Cristina Käuferle Gallo
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Identità
visarte
società
delle arti
visi
gruppo
regionale ve svizzera
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mostra di fine anno di Visarte Ticino
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– 18 ge bre 2014
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Casa Se 2015
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Ascona
Orari d’ap
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Ve – Sa –
14:0 0 – Do
17:0 0
“(...) Perciò la posizione dell’emigrante non è più unicamente quella di una categoria di persone
strappate al loro ambiente d’origine, ma ha acquisito valore esemplare. È lui la prima vittima
della concezione “tribale” dell’identità. Se c’è una sola appartenenza che conti, se bisogna
assolutamente scegliere, allora l’emigrante si trova scisso, combattuto, condannato a tradire
la sua patria d’adozione, tradimento che vivrà inevitabilmente con amarezza e con rabbia.
Prima di diventare un immigrato, si è un emigrato; prima di arrivare in un paese, si è dovuto
abbandonarne un altro, e i sentimenti di una persona verso la terra che ha abbandonato
non sono mai semplici. Se si è partiti, vuol dire che si sono rifiutate delle cose: la repressione,
l’insicurezza, la povertà, la mancanza di orizzonti. Ma è frequente che tale rifiuto sia
accompagnato da un senso di colpa (...)”
“L’identità non è data una volta per tutte, si costruisce e si trasforma durante tutta l’esistenza.
Da “L’identità” di Amin Maalouf
In collaboraz
ione con
sign.com
21 dicembre 2014 – 18 gennaio 2015
Museo Comunale d’Arte Moderna
Casa Serodine, Ascona
identità
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Novità 2014 - Pr o di master di un ar tista
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L’identità, dal latino Identitas, è
ciò che rende le persone o le cose riconoscibili in maniera definitiva. Si tratta
di caratteristiche che ci rendono “quello che siamo” e che definiscono in maniera inequivocabile la nostra natura,
la nostra unicità e originalità.
Nel mondo contemporaneo l’identità assume un significato sempre più
importante nel momento in cui siamo
confrontati con l’era della comunicazio-
82
Pr
ne universale e delle frontiea
uola d’ar te svizzer
ticinese di una sc
re aperte: si discute allora di
furti di identità, di identificazione delle persone, di identità cultu- Dove le realtà globalizzate premono per
rale e nazionale, di perdita del senso l’omogeneizzazione e all’abbattimento
di identità individuale. La reazione può delle differenze in favore di standard riessere una “fuga in avanti” verso un’i- conosciuti, la tecnologia paradossalmendentificazione con realtà percepite co- te esalta l’unicità dell’individuo portato
me più forti o una difesa ad oltranza ad esprimere il proprio essere diverso
del proprio essere contro ogni spinta mediante la creazione di “contenuti” da
condividere tramite social network. È il
all’assimilazione o alla diluizione.
ritorno, quindi, a ciò che nel bene e/o
nel male ci rende unici, espresso e reso
pubblico a reclamare un’eccezionalità
controcorrente in un mondo tendente
all’appiattimento culturale.
Quando ci affacciamo alla tematica
dell’identità, percepiamo quanto questa riguardi l’individuo, la sua storia ed
il suo passato. Affrontiamo la questione della sfera intima, impalpabile quanto presente, e delicata. Il tutto sottilmente si riflette nella collettività e in
tutta una serie di avvenimenti che si
riflettono e ci riflettono, proiettandoci
in un quotidiano già futuro, che consegneremo alle nuove generazioni.
L’identità è la nostra coscienza personale e collettiva, attraversa la vita di
ognuno di noi, a livello familiare, culturale e sociale.
L’identità è un fattore contaminante, legato al nostro corpo, alla nostra storia,
alla nostra memoria. Quello che viviamo
noi, con il nostro personale e particolarissimo filtro che crea risposte alle relazioni e alle esperienze, pur nella sua
unicità, in una continua trasformazione
condivisa, è sempre più intrecciato in
una rete di relazioni che andiamo ad
alimentare continuamente.
L’identità è l’amalgama complesso di
lingue, di culture, di ricordi e di esperienze, di conflitti, di scambi di idee e
visioni di sé e del mondo.
È una ricchezza ed è una dimensione
a cui si accede intuitivamente, attraverso la sensibilità estetica, con un
lavoro di attento ascolto di sé e della
propria storia.
La società contemporanea si muove
verso una stilizzazione degli usi e costumi e spesso sono presenti disturbi
identitari: identità “liquide”, mal definite, identità alienate, frutto della definizione di altri, identità rigide, difensive,
che imprigionano la vita.
Bisogna avere il coraggio di appropriarsi della propria identità costituita da punti in comune e da differenze
con chi ci circonda. Per definirci e distinguerci è fondamentale lo sguardo
dell’altro, che ci definisce come entità permettendoci di vederci riflessi nei suoi occhi. Vedere nell’occhio
dell’altro sé stessi, il proprio sentire, le proprie emozioni, le proprie visioni di mondo, e non una chiusura
o paura. La curiosità, l’ascolto o la
condivisione sono impossibili senza
l’apertura alla differenza, cioè alla dimensione dell’oltre, quella dimensione che ci pone in contatto con una
realtà che ci pervade e ci completa.
Pierluigi Alberti
Leonardo Pecoraro
Brigitte Allenbach Stettbacher
Sara Pellegrini
Judit Aszalos
Regula Perfetti
Marco Balossi
Margaret Perucconi
Felicita Bianchi Duyne
Sergio Piccaluga
François Bonjour
Gianni Poretti
Jean-­Marc Bühler
Marco Prati
Dario Cairoli
Fabiola Quezada
Daniele Cleis
Regine Ramseier
Raffaella Ferloni
Jacqueline Real Butler
Gabi Fluck
Sandra Snozzi
Laura Fumagalli
Gianluigi Susinno
Aurora Ghielmini
Antonio Tabet
Anna Kammermann
Hanspeter Wespi
Hans Kammermann
Flavia Zanetti
Christina Käuferle Gallo
Christine Lifart
Antonio Lüönd
Romeo Manzoni
Tazio Marti
Gabriela Maria Müller
Bubi Willy Nussbaum
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Luoghi in cerca di identità
Gibellina
Dalle ceneri,… una rinascita
e una nuova identità
anche in nome dell’arte
Gibellina è un comune italiano di poco meno di 4300 abitanti della provincia di Trapani, in Sicilia. Il centro abitato
attuale, noto anche come “Gibellina Nuova” è sorto dopo il
terribile terremoto del Belice del 1968 in un sito che in linea
d’aria dista circa 11 km dal precedente. Il vecchio centro, distrutto dal sisma, è stato abbandonato ed è oggi noto come
“Gibellina Vecchia”.
Per la ricostruzione della cittadina, il Sindaco della città,
Ludovico Corrao ebbe all’epoca l’illuminata idea di “umanizzare” il territorio, chiamando a Gibellina numerosi artisti di fama mondiale come Pietro Consagra e Alberto
Burri per contribuire, con le loro opere, a dare uno stimolo
diverso e utopico alla rinascita del paese e della regione.
Alberto Burri si rifiutò di inserire una sua opera nel nuovo
contesto urbano che si stava costruendo e realizzò invece un “Grande Cretto” nella vecchia Gibellina, a memoria
del sisma che la distrusse. Un’opera monumentale che
divenne il simbolo della cittadina stessa. All’appello del
Sindaco risposero, altresì Mario Schifano,
Andrea Cascella, Arnaldo Pomodoro, Carla
Accardi, Mimmo Paladino, Franco Angeli, Leonardo Sciascia. La città divenne subito un
immenso laboratorio di sperimentazione e
pianificazione d’arte, in cui artisti e opere
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di valore rinnovarono lo spazio urbano secondo una nuova
prospettiva originale e innovativa, grazie, inoltre, ad una ricostruzione che portava la firma di architetti quali Francesco
Venezia, Giuseppe Samonà, Vittorio Gregotti, Alessandro
Mendini, Ludovico Quaroni.
Ghibellina è stata ricostruita in uno slancio utopico che però
a distanza di anni ha mostrato i suoi limiti, le sue debolezze
e le sue difficoltà di realizzazione. Oltretutto, ogni idea utopica ha naturalmente un suo costo. E spesso ci si dimentica
che la cultura genera ben oltre la mera entrata “monetaria”.
La cultura e l’arte devono formare e sensibilizzare le generazioni. Ma certe arti riescono ancora
tutt’ora ad avvicinarsi al pubblico
rendendolo veramente partecipe?
Il Museo d’Arte Contemporanea a
Gibellina, da sempre attento alle
nuove tendenze, si è posto come
elemento di aggregazione e di stimolo in un ambiente che ha come
rischio più grosso la parcellizzazione delle iniziative e l’isolamento culturale. Fin dal suo esordio, avvenuto nel 1980, grazie alla donazione
Nino Soldano, il museo di Gibellina ha ospitato una ricca
collezione che contiene ad oggi più di 1800 opere fra dipinti
originali, grafiche, sculture. Le opere sono collocate all’interno della sede del museo e lungo le vie cittadine: questo percorso esterno fa da legante con il piano urbanistico stesso
trasformando il tutto in una mostra “en plein air”.
Ghibellina è un museo a cielo aperto che negli ultimi anni
ha meritato, per i suoi progetti educativi, il premio dell’Inter-
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Gibellina – dalle ceneri,… una rinascita
e una nuova identità anche in nome dell’arte
national Council of Museums nel 2011 e un premio dall’Associazione Nazionale Critici per il teatro nel 2012. Gibellina
poi è tornata tristemente sulle pagine di cronaca dei giornali
nell’estate del 2011, a causa dell’uccisione del Senatore
Corrao. E ci è tornata anche nel 2013 per via dell’annunciata
chiusura del museo e della biblioteca della Fondazione Orestiadi, fondata dallo stesso Corrao nel 1992.
Negli ultimi anni il contributo della regione Sicilia, che serviva a pagare il museo e il Festival delle Orestiadi (le mostre, le residenze, la didattica, la sede distaccata di Tunisi, il funzionamento delle strutture, la manutenzione delle
opere, gli stipendi ai dipendenti) si è più che dimezzato
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creando un vuoto e rendendo evidente un malessere intrinseco all’identità del luogo stesso.
Nasce dunque spontanea la domanda: Gibellina è veramente
vivibile?
Le critiche spesso piovono da più parti… si pensi che già nel
2008 lo scenario proposto da Stefano Boeri, architetto e direttore di «Abitare», era volutamente provocatorio e inquietante:
«Gibellina, con le sue piazze e i suoi porticati grandiosi, è la
dimostrazione concreta del fallimento e della presunzione di
cui può essere capace l’architettura italiana. Tranne il Cretto di
Alberto Burri tutto il resto è invivibile, vuoto, decadente».
Ci sarà pure un modo per salvarla se non privatizzando gli
spazi pubblici? In poche parole si tratta di rivedere il concetto di questa “piccola Brasilia in miniatura” che ha gli stessi
problemi della città creata sull’altopiano del Planalto Central,
tra il 1956 e il 1960, da Oscar Niemeyer visto che è diventata un insediamento urbano fin troppo pianificato per poter
essere davvero vissuto dalla popolazione.
Ma anche quello che è vivibile soffre della mancanza di fondi. Da anni si continua ad assistere alla soppressione di
sussidi: le istituzioni chiudono, si fermano, tagliano, muoiono, poi magari rinascono, in un altro modo e con un altro
nome, finché non si fermano di nuovo. Impedendo così al
pubblico di abituarsi alla loro presenza e alla loro frequentazione, di comprenderne l’importanza e di crescere insieme
al proprio patrimonio.
Vivere Ghibellina è un’esperienza particolare. Come scrisse
Dominique Fernandez in un suo articolo del 1987 “L’insieme
lascia un’impressione di pulizia un po’ insolita, come se il
paese non fosse veramente abitato.
Pochissimi negozi, ma, di tanto in tanto, un’opera d’arte di cemento o di metallo. Una sfera tutta bianca segnala la chiesa;
una freccia di cemento munita di pinne multicolori rappresenta una torre; qui c’è il monumento ai morti, porta a due battenti, sormontata da una mezzaluna e aperta sul nulla; là un
edificio a forma di chiocciola, metà bar, metà casa del popolo;
più lontano si stagliano, con la loro bizzarra silhouette, delle
forme astratte senza finalità pratica: una spirale spaccata,
delle stele nere, una “tavola dell’alleanza”, isolata e misteriosa. È bello? È brutto? Porsi questo tipo di domanda significherebbe condannarsi a non capire niente di ciò che è l’originalità
di Gibellina. Finita l’epoca del Liberty, l’arte moderna non era,
per così dire, all’epoca ancora penetrata in Sicilia.”
E ancora “Gli abitanti di Gibellina Nuova dicono “Abito vicino
alla scultura di Pomodoro. Ci vediamo alla stella...”. Infatti,
se è vero che i direttori dei lavori sono venuti dal continente, è anche vero che la popolazione, dimostratasi tutt’altro
che passiva, ha collaborato all’impresa di ricostruzione.
Poiché tutti a Gibellina si sentivano coinvolti nell’avventura,
è sorto un artigianato d’arte, proprio com’era avvenuto all’epoca del Rinascimento italiano. È stata una felice interazione: una società rurale ha dimostrato che poteva interessarsi
a valori diversi da quelli proposti dai giornali e dalla televisione e, viceversa, l’avanguardia dell’architettura, della scultura
e del design, rinunciando ai giochi di stile gratuiti, ha contribuito a segnare questo paese e a ridargli un’identità.
Achille Bonito Oliva, uno dei più importanti critici d’arte italiani, ha definito Gibellina “una delle realtà più importanti della Sicilia”. Alessandra Mottola Molfino, museologa e
storica dell’arte, già direttore centrale
della Cultura e Musei del comune di
Milano e presidente di Italia Nostra,
ha detto che la fondazione Orestiadi
“è un centro di contatti artistici contemporanei ormai conosciuto nel mondo” e che “l’allestimento, le collezioni
e il percorso del museo sono davvero
unici ed estremamente originali: è una
proposta continua di riflessioni e di
provocazioni sulla nostra identità mediterranea che mai privilegia l’aspetto
cronologico, geografico o tipologico”.
Dunque, nonostante la crisi, Ghibellina resiste nel nome della sua nuova
identità: resiste alle intemperie burocratiche, alle burrasche organizzative
e al deserto della ricerca di fondi,…
resiste come lo ha sempre fatto e come lo farà sempre la terra fiera dalla
quale nasce.
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L’identità di un luogo
Beauduc:
spazio immaginario tra cielo, mare e sabbia
Ho scoperto Beauduc durante la preparazione di un viaggio
in Camargue, dove avevo intenzione di recarmi a fotografare
l’area di confine del parco naturale, costituito di realtà industriali legate alle attività portuali.
Da Salin de Giraud con l’aiuto di una cartina 1:150.000 abbiamo percorso i 14 km di strada sterrata che portano a Beauduc.
Ci troviamo nella parte occidentale del delta del Rodano, nel
cuore del parco naturale Regionale della Camargue.
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I 14 km di strada rimangono indimenticabili, non solo per la
dura prova di guida alla quale si è sottoposti per salvare auto
e schiena, ma soprattutto per il paesaggio attraversato, un
paesaggio dallo spazio infinito, uno spazio senza tempo, metafisico, immerso nel suono del vento che in questa tavola
trova poco ad impedirne la sua corsa verso il mare.
Una sottile linea scura, che sembra disegnata dalla punta di
una matita, separa il cielo dalla terra e dal mare.
Difficile da documentare è l’odore che si percepisce, un odore che impari a riconoscere da lontano quando ritorni e che
è l’insieme di acque stagnanti e salsedine. Un aroma che
viene memorizzato e che resta indelebile in quella parte del
cervello adibito a questo scopo.
Dopo aver fatto il pieno di questo inebriante spazio e dei
suoi aromi, si arriva ad una spiaggia selvaggia, dove lasciamo l’auto in quello che sembra un parcheggio naturale di
sabbia compatta e cerchiamo di orientarci alla ricerca di
quello che dovrebbe essere un villaggio. Le dune fanno da
cornice a grandi distese di sabbia umida, dove è evidente il
continuo mutamento dettato dalle acque del mare – dal quale
la terra emerge appena - e dal capriccio del vento.
Constatato che le distanze sono difficili da stabilire e quello
che appare a poche centinaia di metri sembra di fatto irraggiungibile, riprendiamo l’auto, e imitando gli altri, percorriamo quelle che sembrano strade, vie improvvisate a seconda
della presenza o meno di acqua, di cui restano aloni di
acquitrini che preferiamo aggirare.
Le prime costruzioni che incontriamo fanno parte di Beauduc
Nord, un nucleo nato negli anni ‘70 attorno a due ristoranti
gestiti da ex pescatori che hanno reso celebre il posto, forse
un po’ troppo dato che a metà degli anni ‘90 era possibile
imbattersi in personalità del calibro di Jack Nicholson portato qui da Roman Polanski.
Non cercate Chez Juju e Chez Marc et Mireille - questi i nomi
dei due ristoranti - che sono stati distrutti nel 2004 dalle autorità, intervenute per “ridimensionare” il fenomeno Beauduc.
Beauduc ci appare come uno strano villaggio, costituito di
abitazioni precarie, senza fondamenta, improvvisate, fatte di
roulotte demodé affiancate da costruzioni formate da materiali riciclati, teloni, assi di legno inchiodate tra loro grossolanamente. Sembrano più capanne costruite da bambini che
case. A qualche casa/capanna vengono aggiunti abbellimenti,
93
Beauduc: spazio immaginario tra cielo mare e sabbia
bandiere, targhe con un nome bizzarro e suggestivo, conchiglie o altro materiale trovato lungo la spiaggia, e che comunque rispecchia il gusto e la personalità dei proprietari.
Davanti ad una capanna, sopra ad un pavimento fatto di
assi, un divano ad angolo in finta pelle posto all’esterno direttamente sotto il cielo. Davanti ad un’altra casa, un pianoforte – in pessimo stato - anch’esso lasciato sotto le intemperie. In effetti camminando per Beauduc è un po’ come
trovarsi in un set felliniano, con la differenza che qui non si
tratta di un set costruito ad-hoc. Può anche succedere di
imbattersi tra le dune con un ragazzo che con un cappello
in testa suona indisturbato un sax.
Si contano circa 500 capanne, ma sono solo una decina le
famiglie che vengono qui durante tutto l’arco dell’anno.
La storia di Beauduc ha inizio nel secondo dopo guerra, negli anni ‘50, quando le vecchie capanne di giunchi costruite
dai pescatori, già a partire dal secolo precedente, vengono
gradualmente trasformate al fine di renderle accoglienti per
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un soggiorno della durata di un fine settimana o per una
vacanza, a costi contenuti, in un paradiso a pochi passi dal
mare. Il processo di trasformazione continua negli anni attirando sempre più persone, per lo più lavoratori delle vicine
saline e pensionati. Tutti si conoscono, si aiutano reciprocamente, i bambini sono liberi di correre, si organizzano
attività comuni, giochi di società ai quali tutti partecipano.
Incurante della legge, senza permessi di costruzione né
nessuna autorizzazione, Beauduc vive in autarchia senza
elettricità né acqua potabile. Sole, mare, natura e libertà,
come scrive Laurence Nicolas, antropologa originaria di
queste parti: “... Nasce allora la sensazione del ritorno alla
vita selvaggia, l’idea di un mitico paradiso perduto, o ancora
la nostalgia delle origini in cui la cultura si concilia con la natura e fa a meno della mediazione tecnica...”
Beauduc è organizzato in tre aree sviluppatisi nel corso del
tempo. Le Sablons rappresenta un po’ il cuore, la parte storica e in un certo senso più importante. Creato tra il 1950
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Beauduc: spazio immaginario tra cielo mare e sabbia
e il 1979 le costruzioni che lo costituiscono sono più solide
e “sicure”. Immaginando di vederlo dall’alto appare come
un’isola, sulle cui sponde si sviluppano le abitazioni che
lasciano alle proprie spalle uno spiazzo dove si svolgono le
attività che coinvolgono i cabaniere. In effetti se le strade
fossero asfaltate, parrebbe di camminare per un normalissimo villaggio fatto di casette ad un piano, dalle quali spiccano
pannelli solari e parabole per la ricezione TV.
Un’altro nucleo, che abbiamo già incontrato, è Beauduc Nord
situato all’ingresso di tutto il sito ed è infatti il primo in cui
ci si imbatte arrivando dalla strada. Infine Beauduc Plages
costituito in gran parte da roulotte raccolte attorno a “la Cabane de l’indien” - che svetta al centro come un campanile
- costruita negli anni 70 da un ragazzo del Madagascar. Si
tratta della parte più recente e anche la più problematica
trovandosi a ridosso del mare. Le cabanes qui sono praticamente nell’acqua in un contesto anarchico, legato ad un’occupazione prevalentemente estiva e temporanea.
Beauduc non è riconosciuto dalle autorità e a partire dalla
fine degli anni 60 (il parco viene istituito nel 1970) si sono
svolti processi e ricorsi all’interno delle aule dei tribunali. Il
1997 vede le associazioni dei cabaniere perdere nei confronti delle autorità statali che sanciscono l’abbattimento
delle cabanes. Ad Arles nello stesso anno viene organizzata
una grande manifestazione a difesa di Beauduc. Il ministro
della Cultura proclama in modo estremamente inatteso il
carattere patrimoniale e legittimo della pratica dei cabaniere
a Beauduc.
Questo porta ad un blocco temporaneo della situazione.
In effetti non si può ignorare l’aspetto abusivo di Beauduc,
costruito sul demanio marittimo e per di più all’interno di un
parco naturale dove non è possibile edificare. Eppure, allo
stesso tempo, non si può non restare colpiti dalla sua essenza di laboratorio sociale di un vivere alternativo, basato
su principi diversi e che mettono tutti sullo stesso piano.
È questo l’aspetto che più di altri emerge nella ricerca della
storia di Beauduc (per approfondimenti Paul Minvielle “La
gestion d’un grand site camarguais: les cabanes de Beauduc”).
Quello che vede una piccola comunità che da oltre 40 anni
caparbiamente difende la propria storia, e che trova l’appoggio
da tutta la popolazione locale, dalle guardie del parco, da
uomini politici e artisti.
Diverse sono le attività svolte dall’ASPB (Association de Sauvegarde du Patrimoine de Beauduc), una delle associazioni
più attive di cabaniere nata già alla fine degli anni 60. Distribuzione di opuscoli e installazione di pannelli informativi che
invitano i visitatori ad attenersi a regole di buon uso del luogo; eliminazione dei relitti, istituzione di un pronto soccorso,
aiuto ai turisti in difficoltà, installazione di una cisterna per
prevenire incendi, operazioni di rimboschimento, raccolta dei
rifiuti, piccoli lavori di manutenzione alla viabilità.
Il tessuto associativo è la garanzia principale della gestione
del sito da parte dei suoi occupanti.
Durante il periodo estivo, Beauduc è meta di kitesurfer - grazie al vento che non manca mai - che arrivano da tutta Europa
e che riempiono il cielo di vele colorate.
Insieme ai cabaniere condividono lo spirito di libertà del posto, alloggiando con tende e piccoli caravan lungo la spiaggia.
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Il lavoro fotografico
La mia attenzione fotografica è stata attratta per lo più
dai nuclei più recenti, Beauduc Nord e Beauduc Plages,
che presentano maggiori contraddizioni e problematiche,
nonché una strana aura misteriosa, alimentata dall’assenza di persone. A tratti sembra di camminare attraverso un
luogo dove fino a poche ore prima c’erano persone, che a
seguito di un evento sconosciuto sono fuggite lasciando in
sospeso il tempo.
Sospesa come la storia che sembra in attesa di nuovi eventi
che chiariscano il futuro di Beauduc.
di Domenico Scarano
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coming soon
“Mangiare è uno dei quattro scopi della vita.
Quali siano gli altri tre nessuno lo ha mai saputo.”
Proverbio cinese
Nutrimenti culturali
Nutrire il pianeta,
energia per la vita
Expo Milano 2015 è l’Esposizione Universale che l’Italia
ospiterà dal primo maggio al 31 ottobre 2015 e sarà il più
grande evento mai realizzato sull’alimentazione e la nutrizione. Per sei mesi Milano diventerà una vetrina mondiale in
cui i Paesi mostreranno il meglio delle proprie tecnologie per
dare una risposta concreta a un’esigenza vitale: riuscire a
garantire cibo sano, sicuro e sufficiente per tutti i popoli, nel
rispetto del Pianeta e dei suoi equilibri. Un’area espositiva di
1,1 milioni di metri quadri, più di 140 Paesi e Organizzazioni
internazionali coinvolti, oltre 20 milioni di visitatori attesi.
Sono questi i numeri dell’evento internazionale più importante che si terrà a Milano.
Expo Milano 2015 sarà la piattaforma di un confronto di
idee e soluzioni condivise sul tema dell’alimentazione, stimolerà la creatività dei Paesi e promuoverà le innovazioni
per un futuro sostenibile. Ma non solo. Expo Milano 2015 offrirà a tutti la possibilità di conoscere e assaggiare i migliori
piatti del mondo e scoprire le eccellenze della tradizione
agroalimentare e gastronomica di ogni Paese. Per la durata
della manifestazione, la città di Milano e il Sito Espositivo saranno animati da eventi artistici e musicali, convegni,
spettacoli, laboratori creativi e mostre.
Scrivere di alimentazione, alla vigilia di expo 2015, è un’impresa complessa che non si può ridurre a poche righe di
testo. Si possono però accennare ad alcune considerazioni
che andranno in seguito sviluppate personalmente da chi si
armerà di curiosità e pazienza…
Il linguaggio del cibo è un codice complesso che coinvolge
etica, simbologia, ritualità e si figura come espressione di
un’identità a volte personale, ma soprattutto di gruppo.
Ne deriva come conseguenza che il processo conoscitivo,
operato sulle abitudini alimentari di un popolo, può rivelarsi
in realtà molto coinvolgente, gettando luce su altri aspetti
legati alla sua storia, alle sue credenze religiose, alla sua
cultura e, naturalmente alla sua arte.
Al di là del fatto che la cucina in generale ed il mangiare
accomunano tutti, il rito del nutrirsi costituisce parte dell’essenza di una civiltà.
Dalla tavola, dal modo di mangiare, dalla maniera di preparare gli alimenti, il cibo, le spezie, le bevande, le usanze...
l’alimentazione è un fondamentale elemento costitutivo del
nostro patrimonio culturale.
Mangiare e bere insieme vuol dire celebrare la vita e le ricette tramandate ne sono la testimonianza.
Parlare di cibo significa fare riferimento ad una cultura, a
delle abitudini, ad uno stile di vita.
Ogni paese ha il suo modo di alimentarsi, di usare certi prodotti piuttosto che altri. Così, attraverso il cibo noi possiamo
scoprire la storia di un paese, di diverse tradizioni e di identità alle quali le persone fanno riferimento. La gastronomia
si presenta come un’area del sapere dove possono coesistere discipline differenti.
Il tema dell’alimentazione implica una pluralità di esperienze
nell’ambito storico, antropologico, sociologico, letterario,
artistico, a cui oggi gli studiosi stanno riservando crescenti
attenzioni, incrociando le proprie competenze con quelle
di economisti, tecnici della produzione, dietologi, cuochi e
gastronomi.
Il rapporto tra cibo e uomo non è mai stato esclusivamente
funzionale ad una pura esigenza fisiologica, né il consumo alimentare è stato dettato esclusivamente da motivi economici.
Si è sempre arricchito di valori e di comportamenti celebrativi, rituali, spettacolari. La marcia della civiltà dell’uomo è
parallela alla civiltà della tavola. Quello che caratterizza una
terra ed un popolo è anche la sua tradizione culinaria e le
sue abitudini alimentari.
Il cibo è condivisione e simbolo e ogni volta che affrontiamo
un alimento ricordiamo che non è solo frutto dell’agricoltura o
dell’industria ma anche dell’elaborazione di secoli di storia.
Il cibo può anche facilmente andare oltre al suo significato
più profondo: diventa in questo caso merce di scambio e
valore. Ed il cibo crea un valore anche perché instaura delle atmosfere, delle relazioni fra le persone e crea fra di loro
una comunicazione.
Un pranzo non sarà mai un semplice atto durante il quale ci si
alimenta: sarà sempre molto di più… un linguaggio... un’arte!
Il tema del convivio, del vivere insieme, è un’occasione per
penetrare nel vivo delle culture.
Si può parlare sia di nutrimento ”fisico” sia di nutrimento
intellettuale: Roland Barthes ha definito il comportamento
alimentare, come “un sistema di comunicazione in cui la circostanza assume maggiore peso della sostanza e la funzione
sociale dell’alimento è più forte del suo valore nutritivo.”
I cibi, non sono, infatti, solo sostanze: sono anche “istituzione” e come tali implicano, fatalmente, immagini, sogni,
tabù, scelte e valori intellettuali.
Annibale Carracci, Il mangiafagioli, 1584-1585, olio su tela, 57 × 68 cm
Diventano elemento di disparità sociale, con piatti preconfezionati e malnutrienti, geneticamente modificati, dall’alto
consumo di energia grigia, in contrapposizione ai più raffinati prodotti di nicchia, rari, costosi e a volte, solo a volte,
a chilometro 0. Gli alimenti sono, inoltre, lo specchio dei
nostri tempi: contro uno sfruttamento indiscriminato di pesticidi e di risorse, le possibili risposte sono manifestazioni
artistiche (e non) di critica sociale, dove il cibo (e soprattutto
le sue componenti) si rivela essere un “nostro sconosciuto”.
Riflettiamo dunque bene a questo analfabetismo dilagante
che subiamo sempre più nel nostro modo di nutrirci perché,
come asseriva già il filosofo Feuerbach... “Noi siamo quello
che mangiamo”.
“Il segreto per vivere a lungo è:
mangiare la metà, camminare il doppio,
ridere il triplo e amare senza misura”
Proverbio cinese
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fragilità
Cosa nasconde la scatola contenente
l’omaggio d’artista 2014?
In ogni scatola si trova un piccolo elemento intitolato FRAGILITÀ,
variante del progetto FRAGILE dell’artista Aymone Poletti.
Si tratta di piccoli pezzi di gusci di uova che sono stati “lavorati” e modificati da agenti esterni,
quali acidi, sali e inchiostri giapponesi.
Il guscio si traduce in metafora: così sottile e leggero, ci rappresenta e si riflette nel significato della fragilità umana,
della nostra società, dei nostri valori, delle nostre sicurezze e del nostro corpo.
Varie aggressioni esterne, quali l’arroganza, la violenza, la povertà, la malattia, si accaniscono su corpi già deboli,
continuamente sollecitati...
Ma da queste aggressioni può nascere una nuova forza interiore, capace di reagire.
E come questi piccoli pezzi di gusci così fragili (che vengono costantemente assaliti da fattori esterni per diversi giorni,
per poi subire trasformazioni e diventare nuovi elementi più forti e luminosi), anche le persone possono e devono rispondere
alle avversità reagendovi, superandole e riuscendo pure a trarne forza e bellezza.
Il tempo, elemento fondamentale d’azione legato alla formazione dei rilievi della terra, modifica, anche in questo caso,
la natura dei gusci, creando nuove prominenze e, di conseguenza, nuovi rilievi e profili inattesi, brillanti ed imprevisti.
“Tutti gli uomini si nutrono,
ma pochi sanno distinguere i sapori”
Confucio
www.visarte-ticino.ch
Finito di stampare nel mese di marzo 2015 dalla tipografia Fontana Print SA, 6963 Lugano-Pregassona
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Artista
è soltanto chi sa fare
della soluzione un enigma.
Karl Kraus
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