la Capitanata
Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia
BOLLETTINO D'INFORMAZIONE
della
Biblioteca Provinciale di Foggia
Anno - XXIV
Gennaio - Giugno '87 - Parte I
LA STORIOGRAFIA SIPONTINA
Matteo Spinelli da Manfredonia
I secoli XVII e XVIII segnano i momenti più rilevanti della Storiografia
sipontina; e ciò per merito del Sarnelli e dello Spinelli. Ma mentre sul primo, di
recente, abbiamo avuto dei notevoli studi per evidenziarne l'erudizione, il pensiero religioso e la lingua usata1, sul secondo, finora, è stato scritto poco o
niente. Preliminarmente, quindi, necessita una sua opportuna conoscenza per
quanto è possibile rilevare e dai suoi stessi scritti e dai documenti giunti sino a
noi.
Matteo Spinelli nasce a Manfredonia, il 30 agosto 17312, da Michele e
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1 - Sul Sarnelli sono apparsi i saggi di: TATEO, Francesco, Pompeo Sarnelli fra
storiografia ed erudizione, Archivio Storico Pugliese, XXV, gen.-dic. 1977, pp. 203/227;
PINTO, Giovanni, Il pensiero religioso di Pompeo Sarnelli, ibidem, pp. 229/253; VALENTE, Vincenzo, La lingua napoletana di Pompeo Sarnelli, ibidem, pp. 255/265.
2 - Libro dei Battezzati della chiesa di S. Lorenzo di Manfredonia, Libro n. 15, fol.
37: "Li 2 settembre 1731, il Primicerio Sig(no)re D. Nicolò De Benedictis Primicerio
Sipontino ha battezzato il figlio dei coniugi Michele Spinelli Sipontino, e di Antonia
Ruggiero della Terra di Carpino, nato il 30 agosto giorno di giovedì ad hore 2 della
notte, l'ha imposto il nome Matteo Paolo Nicolò; Il Compadre è stato Egidio Bonfiglio
della Terra di S. Gio(vanni) Rotondo figlio di Gaetano, e di /.../ Vita e /.../ esso Pro curatorio nomina Nicolò Lepore Sipontino e con /.../ Teresa Fusillo Sipontina figlia
delli /.../ Giovanni di Monte S. Angelo, e Grazia dello Bianco di Carpino, la Mammana
la vipera Antonia Nardillo Sipontina /.../ Onde in fede /.../ Manfredonia /.../ v.
Can(oni)co Palma vicario Curato sipontino.
1
da Antonia Ruggiero; l'abitazione di Matteo, così come appare dallo Stato delle
anime del 1780, è posta nel quartiere Moschillo e, in particolare, nel palazzo
Delli Santi 3.
La famiglia Spinelli di Manfredonia è originaria da Giovinazzo, da dove,
nel 1690, un Lorenzo, a seguito di un duello, vi emigra. Da Lorenzo nasce Michele e da questi Lorenzo e Matteo 4.
Matteo, verosimilmente, deve compiere i primi studi a Manfredonia,
presso il locale Seminario (tenuto dagli Scolopi) o presso qualche dotto sacerdote sipontino, considerata la buona conoscenza che egli ha dei costumi ecclesiastici. Devono seguire, poi, i corsi universitari e la frequenza di Studi forensi a
Napoli, dove si laurea in legge e dove si forma alla lezione lasciatavi dal Giannone.
Deve esercitare l'avvocatura a Manfredonia, con frequenti viaggi a Lucera e nella città partenopea, non disdegnando, come pure egli sottolinea, di fare
sortite, per motivi di studio, a Roma e in altri centri culturali italiani5.
A Manfredonia lo Spinelli si impegna anche nella vita amministrativa
della città, coprendo, in diversi periodi, la funzione di Eletto (Consigliere comunale) 6.
La formazione giovanile e l'attività forense e pubblica lo portano, naturalmente, ad interessarsi delle questioni e della storia sipontina che egli ha
modo di scrivere in 4 Tomi, ancora inediti. Trattasi, in vero, delle Memorie storiche dell'Antica e Moderna Siponto, Ordinatamente disposte
____________
3 - L'estensore dello stesso Stato delle anime, d. Andrea Pomella, vicario sipontino, gli accredita, erroneamente, 41 anni e lo fa sposato con la signora Geremia
Mirabella di Barletta, di anni 34, figlia di Domenico e di Angela Izzi di Cerignola.
4 - Contrariamente a Matteo, che non lascia figli, Lorenzo ne ha molti; tra gli
altri si ha quel Michele che continuerà l'opera dello zio. Michele, a quanto è dato sapere
dallo stesso, viene nominato Cavaliere dell'ordine Militare di S. Giorgio e si distingue
nelle campagne napoleoniche tanto da meritare da Napoleone Bonaparte l'imperiale
medaglia di S. Elena nella sua qualità di Ufficiale delle antiche guardie reali.
5 - Nel 1775 è a Roma, dove rileva l'iscrizione dell'arcivescovo Ginnasio, nel
1777 dimora a Venezia e qui rileva le iscrizioni delle famiglie sipontine: De Fortia e
Carrara. E' probabile che da Venezia si sia recato anche a Padova.
6 - Cfr. Conclusioni Decurionali, nell'archivio comunale di Manfredonia, anni
1768, 1772, 1773, 1786 e 1797; mancano le Conclusioni dal 1736 al 1768.
2
in Forma d'Annali Colle notizie delle convivine Regioni e dell'Istoria chiesastica, e Profana7 .
La scrittura dei tomi è di facile lettura, lo stile risente ancora degli influssi
tardo secenteschi, appesantito all'inizio, ma vivace e sanguigno verso la fine.
Lo Spinelli, anche se non si dichiara giacobino, pur tuttavia manifesta le
sue letture giannoniane, specie quando inveisce contro il clero e, in particolare,
contro l'arcivescovo sipontino Tommaso Francone (1777-1799). Egli, in definitiva, appare come un legittimista e condanna le varie forme di monopolio e le
spoliazioni perpetrate ai danni del Patrimonio universale cittadino (demanio) da
parte di alcuni componenti le famiglie più notevoli di Manfredonia, interessate
pure all'amministrazione della cosa pubblica locale (Università), per pretesi debiti non soddisfatti da questa.
E le pagine più belle e più sincere sono proprio quelle nelle quali il suo
stile si fa più passionale e quando gli avvenimenti sono più recenti; come dire:
la perdita del feudo Ramatola, le conseguenze del sacco turchesco, il duello
nella piazza della Maddalena e l'uccisione del Governatore della città, la ribellione
delle panificatrici a seguito della mancata rielezione del sindaco Andrea da Urruttia.
La documentazione storica spinelliana è più degna di attenzione, quindi,
quando l'autore esamina gli avvenimenti che gli sono coevi, anche se non disdegna di fare riferimenti bibliografici per altri periodi storici.
Le Memorie dello Spinelli, così, segnano, come si è detto, un punto fondamentale nella storiografia locale, distaccandosi dal vecchio filone clericoagiografico, per inserirsi nella concezione laica e illuministica, sullo schema del
Giannone, appunto, anche se non esenti da manchevolezze e da alcuni luoghi
comuni, tipici dell'epoca.
Oltre a questi meriti, le Memorie, con i relativi richiami bibliografici, ci
consentono di dare, anche, uno sguardo, se pure sommario, sulla storiografia
sipontina a tutto il ‘700.
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7 - datata dal 1783 (primo tomo) al 1785 (secondo, terzo e quarto tomo). Il
tempo speso, però, dallo Spinelli per redigere e rifinire la sua opera va al di là di quei
tre anni. La Mappa Sipontina, infatti, facente parte del 4° tomo e commissionatagli
dal Consiglio comunale di Manfredonia, reca la data del 1787; tutti e quattro i tonti,
poi, contengono note, aggiunte e postille senz'altro posteriori al 1785 e, infine, sempre nel 4° tomo, sono inserite delle opere a stampa, una delle quali porta la data del
1793, con annotazioni manoscritte dello stesso Spinelli.
3
Frontespizio del 1° tomo di M. Spinelli (Civiche Biblioteche di Manfredonia – Foto di
Giuseppe Furio)
4
La “cornucopia” di N. Perrotto (Civiche Biblioteche di Manfredonia) – Foto di
Giuseppe Furio.
5
E il problema della storiografia sipontina è un tema che in questi ultimi
anni si va facendo sempre più vivace ed interessante, qui da noi, per cui essa è
meritevole di una opportuna e particolare analisi.
Dal IX al XVII secolo
Entrando, pertanto, nell'ordine di questa analisi, va detto che già dal IX
secolo è attiva a Siponto una Scuola di studi rabbinici; ma non sappiano se la
stessa abbia o meno prodotto studi storici, e giudaici e sipontini. Al IX e all'XI
secolo vengono datate, poi, le due Vite di S. Lorenzo, curate dal Beatillo, e
pubblicate, nel 1658, negli Acta Sanctorum dei Bollandisti8.
Sappiamo pure che, nel XII secolo, è attivo a Montecassino un Sipontinus
monacus, autore di un Codice miniato in caratteri longobardi beneventani; ma è
proprio Matteo Spinelli che ci dà notizie più abbondanti sulle opere redatte a
Siponto. Egli, infatti, accenna ad un Libro Magno (o Registro della Chiesa Sipontina), manoscritto di cui si son perse le tracce, così come per il Breviarium o Kalendarium.
All'arcivescovo sipontino Ugone (1195-1216), originario di Troia in Capitanata, viene attribuito il Memoriale Sipontino, andato pur esso perduto; e nessuna traccia si ha delle Miscellanea. Memorie Antiche Sipontine di Niccolò Perrotto,
anche lui arcivescovo sipontino (1458-1480)9. A sua volta, poi, il Perrotto,
dotto umanista, discepolo del Bessarione10 , cita un Chronicon Episcoporum Ecclesiae Sipontina che il Bellucci non sa se considerare un'opera a sé, oppure da co nfondersi con il Libro Magno o con il Memoriale 11.
Per suo conto, lo stesso Bellucci ha modo di scrivere che: "...Fra le carte
del marchese Tontoli di Manfredonia era un manoscritto con questo titolo:
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8- BOLLANDUS JOANNES, HENSCHENLUS GODEFRIDUS, Acta
Sanctorum. De S. Laurentio Episcopo Sipontino in Apulia, Venezia, Meursium, 1658, Tomo
II, pp. 56/63.
9 - Dalle quali lo Spinelli riporta, specie nel l ° tomo, frequentemente dei brani.
Del Perrotto si conserva, però, presso le Civiche Biblioteche di Manfredonia, l'opera:
Cornucopiae. Sive linguae latinae contentarij, diligentissime recogniti atq. ex archilypo emendati,
Venezia, Aldi ed Andreae Asulani, 1527.
10 - Illustre umanista, pure arcivescovo sipontino dal 1447 al 1449.
11 - BELLUCCI MICHELE, Siponto, Rassegna Pugliese, XII, 1905, p. 192.
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Notizie dell'antica Siponto trascritte dagli Annali Sipontini e scritte da Don Metro Rugitino, prete sacerdote della medesima Città, l'anno del Salvatore 1127”12.
Altre memorie, soprattutto epigrafiche, continua il Bellucci, vengono raccolte da padre Giammaria Pellanegro, dell’ordine teutonico di S. Leonardo di
Siponto, dal titolo: Raccolta degli antichi monumenti di Siponto13.
A Troia, città di origine del Pellanegro, opera il notaio sipontino Pietrantonio Rosso, autore del Ristretto dell'Istoria della Città di Troja e sua Diocesi dall'origine delle medesime al 154814, recante, tra l’altro, un intero capitolo sugli avvenimenti disastrosi legati all’assedio di Manfredonia da parte dei soldati del Lautrec.
Altra opera di cui si son pure perse le tracce, e che il Bellucci, contrariamente allo Spinelli che dichiara di averla vista edita15, la fa solo
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12 - Ibidem. Il B. aggiunge: “Subì la sorte dei precedenti (cioè, è andato perduto,
n.d.r.): ho i miei dubbi su la data e sul nome del compilatore...”
13 - Ibidem. Sul Pellanegro si conosce poco, salvo quanto dettato sempre dallo
Spinelli; SPINELLI M. op.cit. tomo 1°, p. 60: “L’opera da lui scritta si intitola: Antiche
Memorie di Siponto e suo distretto” edito nel 1640”. Secondo lo stesso Spinelli le ragioni di
questa opera vengono illustrate dal Pellanegro nel modo seguente: “Ho desiderato vedere
l’antica Cività di Siponto nell’antico stato, la quale, secondo la Memoria fatta dal mio concivitatino Ugone Cardinale Arcivescovo Sipontino”.
14 - Pubblicata dal 1904 al 1907 sulla Rassegna Pugliese, a cura di Nicola Beccia; da
poco riedita, in forma anastatica, dal Comune di Troia.
15 - Sull’Anciulli lo Spinelli così scrive: “F. Tommaso Anciulli, Bacelliere
dell’ordine Domenicano (scrisse) L'Istoria dell'antica e moderna Siponto (edita nel 1643) per
incubenza dell’arciv. Antonio Marulli. Il frontespizio dell’opera è il seguente:
F. Thome Anciulli
Ordinis Praedicatorum
Cognitiorum Praesciptio.
Que incipit ab Anno conditae Romae.
Usque adderam nostrac salutis 1643
Ex jussu Ill.mi et R.nti D.ni
Archiepi Sipontini
Ad futuram Sipontinorum memor.
Constructa
Anno D.ni 1643”
Lo Spinelli aggiunge che l’Anciulli, nel 1635, fu Priore nel convento dei Domenicani di Manfredonia e, sulla scorta dello stesso Anciulli, cita pure l'Antico Registro della chiesa
Sipontina che il padre domenicano avrebbe transunto dal Memoriale della Famiglia Vischi.
Altro autore citato dallo Spinelli è il Pergamo che, pare, abbia riportato le iscrizioni della Sala
dell’antico Senato Sipontino, ove erano scolpiti, appunto, i simulacri dei duci sipontini,
imperatori, regnanti in Roma e in Napoli. In merito cfr. SPINELLI M., op. cit., Tomo 1°,
p. 136.
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manoscritta, è quella curata, nel 1643, dal padre domenicano Tommaso Maria
Anciulli, dal titolo: Annales Sipontini.
Per quanto attiene, infine, gli antichi manoscritti sipontini ci pare utile aggiungere alcune note del D’Aloe in merito al primo vescovo sipontino S. Giustino. Il D’Aloe, parlando del martirologio romano compilato da Filippo Ferrari, generale de' Serviti, dichiara che questi, nelle note, aggiunge: “Justini ep. ex tabulis Ecclesiae Manfredoniensis quae Sipontinae successit. Queste tavole e dittici della Chiesa di Manfredonia non più esistono, ma dobbiamo supporli esistenti al tempo
del Ferrari, che certamente dovrebbe averne la notizia avanti l’anno 1620”16.
Edite, invece, e giunte sino a noi sono le opere di Celestino Telera, di
Gabriele Tontoli, di Pompeo Sarnelli e di Marcello Cavaglieri.
Al Telera, in vero, si devono due opere a stampa sulla storia dei Celestini, in cui si fa cenno anche del concittadino Pietro Santucci17.
Al Tontoli si devono le Memoriae diversae Metropolitanae Ecclesiae Sypontinae
et Collegiatae Ecclesiae Terrae Montis S. Angeli Sypontinae Diocesis e la Collectio iurium
Ecclesiae Garganicae, contra Sypontinam18.
Il Sarnelli è l’autore della Cronologia de' Vescovi ed Arcivescovi Sipontini, edita a
Manfredonia presso la Stamperia arcivescovile, nel 168019.
La Cronologia è l’opera più conosciuta della storiografia locale e, per molti
aspetti, ancora oggi essenziale per la conoscenza delle vicende del
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16 - D’ALOE STANISLAO, Storia profana e sacra dell'antica Siponto e della metropolia
di Manfredonia, Napoli, Tornese, 1877, p. 111.
17 - Trattasi del S. Petri Celestini PP.v. opuscola omnia, ab eodem Sanctissimo Patre e Divinis Scripturis Sacris Canonibus SS. Patrum, Sapientumque sententiis collecta, et elaborata dum in
Sancta Eremo vitam transigent: nunc primum ad chirografica exempiaria restitata et in lucem edita per
O.R.P.D. Coelestinum Teleram Sipontinum S.T.D.). et Abbatem Coelestium. Neapoli, ex typis
Octarii Beltrani, 1640, e delle Historie Sagre degli Uomini illustri per santità della Congregatione
de Celestini. Dell'Ordine di S. Benedetto. Raccolte e descritte da D. Celestino Telera da Manfredonia
già Abbate Deffinitore e poi Abbate Generale della medesima Congregatione, Bologna, Giacomo
Monti, 1648.
18 - Edite entrambe in Roma, da Nicola Angelo Tinassio, rispettivamente, nel
1654 e nel 1655.
19 - L’opera è stata riedita, in forma anastatica, nel 1986, a cura del Centro Documentazione Storica di Manfredonia.
8
nostro vescovado, anche se, come scrive il Bellucci, non esente da gonfiature e
da svarioni.
Il Pellegrino al Gargano è l’opera, in due tomi, del Cavaglieri (1649-1705)20,
con peculiari caratteristiche agiografiche e di erudizione sul culto Michaelico.
Sia il Sarnelli che il Cavaglieri sono presenti giovanissimi a Manfredonia,
al seguito del cardinale arcivescovo Orsini (1675-1680), al quale si deve
l’impulso determinante per la conservazione delle memorie e la ripresa degli
studi storici locali, dando alle stampe egli stesso molti suoi atti21 e ristampando,
nel 1679, gli atti del Sinodo provinciale sipontino tenuto dall’altro cardinale arcivescovo, Tolomeo Gallio (1562-1573)22.
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20 - I titoli per intero sono: Il Pellegrino al Gargano. Ragguagliato dalla possanza beneficante di San Michele Nella sua Celeste Basilica Dal Padre Fra’ Marcello Cavaglieri da Bergamo
Dell’Ordine de' Predicatori; il 1° tomo è edito a Macerata, nel 1680, per i tipi di Giuseppe
Piccini; il 2° tomo è edito a Napoli, nel 1690, per i tipi di Carlo Porsile. Nel 2° tomo vi è:
“Con l’aggiunta del Primo Sermone Pastorale dell’Autore, fatto poi: vescovo di Gravina”.
Ambedue i tomi sono stati riediti, a cura di Michele Melillo, nel 1986 e nel 1987, e apparsi
in Lingua e Storia in Puglia, in volumi doppi, recanti i numeri 29-30 e 31-32. Lo stesso
Melillo sta per dare alle stampe uno studio critico sul Cavaglieri, accentuandone
l’erudizione e le fonti bibliografiche.
21 - Methodus Sinodi Diocesanae rite ac. recte peregendae sub Emin.mo Domino Fr. Vincentio M. Orsino. Archiep. Sipontino A. 1678, Trani, ex tipogr. Haeredum Valerii, 1678;
- Acta Sinodi diocesanae S. Ecclesiae Sipontinae a Fr. Vincentio M. Orsino, Archiep. Sipontino celebrate diebus 20,31 maii et prima jiunii 1678, Maceratae, ex tipogr. Ios. Piccini, 1678;
- Appendix Sinodi S. Ecclesiae Sipontinae a Fr. Vincentio M. Ursino... celebrate 1678, Maceratae, ex tipogr. Jos. Piccini, 1679;
- Catalogo Universale degli obblighi perpetui di Messe in tutta la diocesi Sipontina, Trani,
Valerij, 1678;
- Catalogus omnium sacrarum Reliquiarum quae conservantur in Metropolitana Ecclesiae Sipontina decurtius depositae ab Emin.mo et Rev. Dom. Card. Ursino Archiep. Sipont. sub die 7 jianuari 1680, Siponti, ex Archiepiscopali Tipographia, MDCLXXX;
- Epistola di avvertimenti pastorali al clero e popolo della Città e Diocesi di Siponto, lasciati
dal Cardinale Fr. Vincenzo Maria Orsini Romano, loro arcivescovo in occasione della traslazione e
partenza sua dalla Chiesa Sipontina alla Cesenatense, Manfredonia, nella Stamperia Arcivescovile, 1680.
Queste due ultime opere, con la Cronologia del Sarnelli, sono le uniche, finora conosciute, edite dalla Stamperia Arcivescovile di Manfredonia.
22 - Constitutiones et decreta Provincialis Synodi Sipontinae, edite a Venezia, da Juncta,
nel 1564; l’edizione dell’Orsini è datata Macerata, per i tipi di Giuseppe Piccini, 1679.
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Nel ‘700 e nella prima metà dell’’800
La storiografia del ‘700 è molto scarna, così come quella della prima
metà dell’’800; nel XVIII secolo, oltre alla presenza fondamentale di Matteo
Spinelli, dobbiamo registrare: l’Italia Sacra dell’Ughelli (emendata dal Coleti), del
1721, nella quale si tratta pure della Chiesa sipontina 23; Luca Brencola, sipontino, economista della Dogana delle pecore di Foggia, con un saggio sulla stessa
dogana 24; Francesco Rivera, arcivescovo sipontino (1742-1777), al quale si deve
il riaffidamento dell’insegnamento nel Seminario ai padri Scolopi, autore di un
Officium S. Laurenti 25 e di un Officium S. Michaelis Archangeli 26; Tommaso Maria
Francone, che indice e pubblica gli atti di un Sinodo, poco noto, del 178427.
Nella prima metà dell’’800 si hanno le riassunzioni di Michele Spinelli delle
opere dello zio e, in particolare, le aggiunte ed il commento critico alla Cronologia
del Sarnelli, pure esse inedite28.
Non sono degni di rilievo, per quanto qui ci interessa, i contributi di
Gian Tommaso Giordani e di Francesco Paolo Bozzelli, il cui romanzo storico,
La strega di Siponto, pare sia andato irrimediabilmente perduto.
Mette conto aggiungere che in questo periodo opera come arcivescovo
sipontino Vitangelo Salvemini (1832-1854), autore di una Lettera pastorale, del
1832, e delle Officia Sanctorum in metropolitana Ecclesiae Sipontina eiusque diocesi 29.
____________
23 - UGHELLI FERDINANDO, Italia sacra, Venezia, Coleti, 1725, tomo 7°, pp.
810/865.
24 - BRENCOLA LUCA, De jurisditione regiae Dohanae menae pecudum Apuliae opus,
usque nunc a nemine elaboratum, et nunc primum in lucem editum opprime omnibus necessariun, iudicibus, advocatis, et procuratoribus, necnon Baronibus, eorumque officialibus, et aliis, ... Napoli (?),
Minoun, 1727.
25 - RIVERA FRANCESCO, Officium S. Laurenti, Napoli, de Bonis e Terres,
1746.
26 - RIVERA FRANCESCO, Offlicium S. Michaelis Archangeli, Napoli, Migliaccio,
1749.
27 - Synodus Sipontina habita die XI et XII mensis maii anni MDCCXXXIV ab
excellentiss. et reverendiss. Domino D. Thoma M. Francone patricio neapolitano el sipontinae ecclesiae
archiepiscopo, Neapoli, apud Josephum de Bisogno, 1785. in: DE NADRO SILVINO,
Sinodi Diocesani Italiani. Catalogo bibliografico degli atti a stampa 1534-1878, Città del Vaticano,
Biblioteca Apostolica Vaticana, 1960, p. 442, 1602.
28 - Manoscritti, come quelli di Matteo Spinelli, depositati nelle Civiche Biblioteche
di Manfredonia.
29 - Napoli, Tipografia Simoniana, 1842.
10
Le Officia contengono pure le antifone e la vita metrica dell’Officio di S. Lorenzo.
Nel tormentato clima del ’48 l’arcivescovo Salvemini vi rimane coinvolto; e datano, appunto, a questi anni un libello contro di lui, la sua smentita, una
lettera di alcuni canonici sipontini e la conseguente autodifesa del presule30.
La seconda metà dell’’800
Giungiamo, così, alla seconda metà del sec. XIX per vedere edito, nel
1851, a Napoli, nella Stamperia Reale, a cura di Agostino Gervasio: Una nuova
iscrizione altomedievale da Siponto; subito dopo, nel 1857, ancora a Napoli, nella
Stamperia del Vaglio, Daniele Maria Zigarelli pubblica il Cenno storico della chiesa
Metropolitana di Manfredonia, ma che nulla aggiunge a quanto già conosciuto.
Intanto, nel 1856, Francesco Prudenzano, sempre a Napoli, per i tipi di
Rondinella, dà alla luce un romanzo storico, ambientato nel ‘600: Viscardo da
Manfredonia, sullo stilema narrativo dei tardo romantici italiani.
Nel 1866 il Cappelletti, su Chiese d'Italia 31 scrive il saggio: Siponto, oggidì
Manfredonia Chiesa Arcivescovile con l’Amministrazione di Viesti; e, nel 1877, poi, Stanislao D’Aloe pubblica la Storia profana e sacra dell’antica Siponto e della Metropolia di
Manfredonia, opera incompleta,
____________
30 - A. S. Santità Pio IX P.M., a Sua Maestà, al Ministero, alle Camere ed a tutte le Potestà provinciali del Regno di Napoli, S.n.t. (ma 1849);
La falsità confutata con la verità, S.n.t. (ma 1849);
PRENCIPE ANTONIO, FRATTAROLO GIACINTO, CATANESE VINCENZO: A Sua Santità Pio IX, a Sua Maestà Ferdinando II, re del Regno delle Due Sicilie
P.F.A., agli eccel. Ministeri degli affari ecclesiastici e di polizia, agli eminen. sig. Cardinali prefetto
della Congregazione del Concilio e dei Vescovi e Regolari. Al signor Intendente della Provincia di Capitanata, e a tutte le Potestà eccl., civili e militari del Regno, S.I., Tip. Banzoni, s.d. (ma 1849);
SALVEMINI VITANGELO, Esame di un libello contro l’Arcivescovo di Manfredonia
indirizzato a Sua Eccellenza il Ministro Segretario di Stato degli affari ecclesiastici, S.I., Tip. Società Filomatica, s.d. (ma 1849).
Per quanto sopra riportato cfr. SIMONE MARIO, Bibliografia del 1848 Dauno, Archivio Storico Pugliese, I, 1948, fasc. II, pp. 8 e segg.
31 - In Chiese d'Italia XX, Venezia, 1866.
11
ma che ha il merito di aver dato un buon contributo e sulla conoscenza delle
antichità sipontine e, vieppiù, per alcune indicazioni sulla nascita di Manfredonia.
Per il D’Aloe la fondazione della città è da ricondursi al 1263, come da datum Orte, documento, del resto, già noto e trascritto dallo Spinelli nelle sue Memorie.
Scarsa importanza hanno le Reminiscenze ed appunti storici. Siponto e Manfredonia del Cattabeni32 e l’Escursione scientifica al Gargano. Bozzetti e profili storici del
Moretti33; quest’ultimo lavoro altro non è che una succinta descrizione, per
motivi didattici, del territorio sipontino.
La serie delle pubblicazioni continua; nel 1893, a cura di Ambrogio
Amelli, si rilevano gli Acta Synodi Sipontinae e, nel 1898, Vincenzo Moscati dà alle
stampe, per la tipografia Tiberina di Roma, la monografia: Francesco Rivera. Arcivescovo di Manfredonia.
Ed in tema di presuli sipontini va pur detto che, nello scorcio di questi
50 anni, si hanno lettere pastorali, statuti ed atti degli arcivescovi Vincenzo Taglialatela (1854-1879)34; Beniamino Feuli (1880-1884)35 e Ferdinando Pizza (18841897)36.
I primi decenni del ‘900 e la documentazione storica sipontina
All’inizio del nuovo secolo, nel 1900, il Padalino pubblica, per la Tipografia Economica di Foggia, Siponto-Manfredonia, una sorta di itinerario nelle
nostre contrade, ma più sognante che storico.
Ora, se il XIX secolo si presenta un pò scarno di apporti storiografici i
primi decenni del ‘900 ci danno, invece, un primo e notevole contributo
____________
32 - Edite ad Ancona, nel 1885, per lo Stabilimento tipografico Sarzani.
33 - Edita a Foggia, nel 1893, da Pistocchi.
34 - Lettera pastorale del 1854 e gli Statuti della Pia Unione del SS. ed Immac. Cuore di
Maria SS., editi a Napoli, nel 1874.
35 - Per il Feuli ricordiamo: Lettera Pastorale, Roma, Tipografia Poliglotta De Propaganda Fide, 1880; Metodo per le conferenze dei casi morali e liturgici, Benevento, De Martini,
1880; Istruzioni per la sacra visita pastorale, Benevento, De Martini, 188l; Circolare pei confessori
con la tabella dei casi riservati, Benevento, De Martini, 1881; Il Seminario Sipontino, Roma,
Tipografia della S.C. de Propaganda Fide, 1882.
36 - Lettera pastorale, Foggia, Tipogr. Dell’Unione, 1891.
12
documentaristico per la compilazione storiografica su Siponto, su Manfredonia
e sul loro vescovado.
E proprio nel 1903 si ha il Quaternus de excadenciis fredericiano 37 (databile
al 1249), contenente anche una cospicua documentazione sulla Siponto tardo
sveva.
Il 1905 il Bellucci pubblica sulla Rassegna Pugliese un articolo su Siponto,
con indicazioni sulle origini della città, sul suo nome e, come già detto, sulla sua
bibliografia storica.
In questo stesso periodo di tempo, sulla Rassegna Italiana, appare pure il
saggio di Annibale de la Grennelais jr. su Luigi De La Grennelais martire del 1799
38 . Si tratta del figlio del castellano di Manfredonia, giustiziato il 1800, perché al
seguito dell’ammiragio Caracciolo e attivo partecipante ai moti partenopei di
fine ‘700.
Ed è con il Marchianò e con il Camobreco che la storiografia sipontina
si arricchisce ancor più di validi supporti documentaristici.
Michele Marchianò, su commissione del sindaco Capparelli, trascrive e
pubblica una raccolta di privilegi concessi da Carlo V alla nostra città; essi fanno
seguito ad esplicite richieste municipali, per cui e le richieste e gli stessi privilegi
illustrano efficacemente la situazione venutasi a creare a Manfredonia, nella prima metà del ‘500, a seguito dell’invasione delle armate amiche spagnole per
fronteggiare l’assedio di quelle del Lautrec39.
Francesco Camobreco, a sua volta, per l’Istituto ltalo-Prussiano, cura la
trascrizione di buona parte dei documenti della badia di S. Leonardo di Siponto (dal XII sec. a tutto il 1499)40. L’opera, nel passato, è stata poco utilizzata
e solo di recente è oggetto di studi sistematici, specie a livello universitario (tesi
di laurea). Il complesso dei documenti editi, infatti, costituisce una fonte insostituibile per qualsivoglia ricerca, e non solo storica, su Siponto, su Manfredonia, sulla omonima badia, sul Gargano e sulla Capitanata.
____________
37 - AMELLI AMBROGIO (a cura di), Quaternus de Excadenciis el Revocatis Capitanatae de mandato Imperialis maiestatis Frederici secundi, Montecassino, 1903.
38 - Rassegna Italiana, Napoli, IX, 1901, fasc. 7-8, pp. 1/7.
39 - MARCHIANÒ MICHELE (a cura di), Per la storia di Manfredonia, Vecchi, Trani, 1903.
40 - CAMOBRECO FRANCESCO (a cura di), Regesto di S. Leonardo di Siponto,
Leoscher, 1913.
13
Michele Bellucci e Luigi Pascale
Continua, ancora, l’attività di Michele Bellucci, vera cariatide della moderna storiografia locale, con saggi ed articoli su varie riviste, a carattere provinciale e regionale. La sua azione, però, meglio si compendia nella redazione di
schede, molte delle quali pubblicate postume o inedite.
La produzione del Bellucci è così vasta da meritarne una trattazione particolareggiata; cosa, in vero, parzialmente effettuata dai figli, specie con la monografia, dedicatagli nel 1961, La vita e le opere di Michele Bellucci 41, alla quale si
rimanda per gli opportuni approfondimenti. Qui va detto che nella stessa monografia vi sono alcuni saggi dell’illustre storico e musicista, riguardante la locale
epigrafia, la vita di S. Lorenzo Maiorano, gli Statuti Municipali di Manfredonia,
ecc.
E si giunge a Luigi Pascale che dà alle stampe L'antica e la nuova Siponto,
prima nel 1912, con la Tipografia Moretti di Torino, e poi, nel 1932, con Conti-Rifredi di Firenze. La seconda edizione, più ampliata, contiene anche altri
saggi del Pascale e, pertanto, più interessante. Assume ancora ora importanza e
riferimento la catalogazione di molto materiale archeologico e numismatico, dal
Pascale amorevolmente raccolto, e che doveva costituire il fondo iniziale per
l’allora costituendo Museo Civico.
Va ammesso che, dal punto di visa storiografico, l’opera del Pascale risente della lettura spinelliana, anche se non esente da contributi originali, specie
per quanto attiene alcuni illustri uomini locali, come il Santucci ed il Telera42, od
anche Vettor Pisani (l’ammiraglio veneziano morto nelle acque del golfo sipontino), al quale viene dedicato un saggio in collaborazione con Antonio Radogna 43.
All’opera del Pascale, comunque, va ascritto il merito di essere stata la
prima pubblicazione divulgativa, a scopo popolare, di una certa consistenza;
sulla stessa si sono esercitate, poi, nel tempo, le letture di chiunque ha voluto
interessarsi della nostra storia locale.
____________
41 - Edita in Roma, S.n.t.
42 - Pascale Luigi, I due abbati celestini Pietro Santucci e Celestino Telera di Manfredonia,
Campobasso, Colitti, 1923.
43 - RADOGNA ANTONIO, PASCALE LUIGI, L'Ammiraglio Vittore Pisani in
Manfredonia. Anni 1324-1380, Manfredonia, Bilancia, 1929.
14
Al Radogna vanno assegnati anche alcuni opuscoli sulle vicende del l°
conflitto mondiale a Manfredonia44.
All’attività episcopale dell’arcivescovo Pasquale Gagliardi (1887-1929)
vanno accreditati numerosi atti a stampa, per i quali, così come per i suoi successori (Cesarano e Vailati), andrebbe dedicata una opportuna e doverosa analisi particolareggiata; qui appresso ci limiteremo a citare solo quelli di non squisito carattere ecclesiale.
Mario Simone
Inizia, intanto, la sua attività di pubblicista Mario Simone (Marius Sipontinus) che ha modo di curare: Manfredonia e il Gargano. Pagine di storia regionale e d'arte 45, uno zibaldone sulla storia e sull’arte a Manfredonia, a Monte S. Angelo e a
Pulsano, con la fattiva collaborazione di Giovanni Tancredi e di Nicola Quitadamo.
L’attività del Simone è continua ed infaticabile, fino alla morte, con la ricerca e la catalogazione di tutto il materiale bibliografico e documentaristico
che possa essere utile non solo per la storiografia, ma, e soprattutto, per la sua
vocazione di raffinato editore.
Così come per il Bellucci, anche per il Simone il materiale inedito, depositato presso la Biblioteca Provinciale di Foggia, abbisogna di una accurata sistemazione e di essere recepito in loco, per poi essere doverosamente pubblicato.
____________
44 - RADOGNA ANTONIO, Manfredonia nell'ora che volge, “Il Gargano e la guerra, Maggio 1915 - Maggio 1916”; numero unico illustrato a beneficio della C.R.I., Lucera,
Pesce, 1916, pp. 28/33;
RADOGNA ANTONIO, Il primato di Manfredonia nella grande guerra di redenzione
italica, Foggia, Cardone, s.d. (ma 1923);
RADOGNA ANTONIO, La celebrazione della Vittoria a Manfredonia, Manfredonia,
Bilancia, 1927.
45 - Manfredonia, Bilancia, 1925. Nell’opuscolo vi figurano: SIMONE MARIO:
Dalle rovine del passato alla luce dell'avvenire; BELLUCCI MICHELE, Manfredonia; SIMONE
MARIO, I monumenti dell'antica e della nuova Siponto; BARBONI MATTEO, Manfredonia
dell'avvenire; QUITADAMO NICOLA, Cenni dell'antichissima badia di Pulsano; TANCREDI
GIOVANNI, il castello e la Signoria dell'Onore di Monte S. Angelo.
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Un grosso contributo storiografico del Simone, ad esempio, riguarda il
Risorgimento, con la raccolta del materiale con il quale ha dato corpo, nel 1948,
alla Mostra storica del 1848 in Capitanata - Catalogo, seguito dalla Bibliografia del
1848 dauno46. Il Catalogo e la Bibliografia contengono Schede ed utili riferimenti per
lo studio della Carboneria a Manfredonia.
Altri esempi di saggi del Simone sono: La Capitanata eretta a Provincia dello
Stato Italiano (nel Centenario 1861-1961)47; Il Consiglio Provinciale del 186148, 19211971. Repubblicanesimo di Manfredonia49.
Non sono mancati, anche nel Simone, interessi di carattere letterari, come
il romanzo storico: Odio e olivo. Storia pugliese del 1820 50, ambientato a Manfredonia e sul Gargano.
Gli insigni monumenti di Siponto e di Manfredonia
Data al 1928 l’altra divulgazione popolare, dal titolo: Manfredonia e l'antica
Siponto, curata da Giusppe Rasi per la Sonzogno di Milano, nella collana Le cento
città d'Italia.
Ma un discorso a parte meritano, per il primo cinquantennio del ‘900, i
contributi dati per la conoscenza storica, iconografica e cultuale di S. Maria di
Siponto e di altri monumenti cittadini; si hanno, così: Il Tempio di S. Maria Maggiore di Siponto, di Carmine Capuano 51; La Madonna dagli occhi sbarrati, di Alfredo
Petrucci52 , argomento poi ampliato ed inserito nell’opera più generale e di più
ampio respiro letterario ed artistico, Cattedrali di Puglia, edito dalla Bestetti di
Roma, nel 1962; ed, infine, La Madonna di Siponto, di Raffaele Di Sabato 53 che
cura, pure, il saggio La basilica di S. Maria Maggiore di Siponto 54. Per questo autore va aggiunto
____________
46 - Archivio Storico Pugliese, I, 1948, op.cit.
47 - Foggia, S.E.D., 1961.
48 - Foggia, S.E.D., 1967.
49 - Napoli-Foggia-Bari, C.E.S.P., 1972.
50 - Foggia, S.E.D., 1936.
51 - Trani, Vecchi, 1909.
52 - Foggia, Pilone, 1925.
53 - Foggia, Ediz. de “Il Rinnovamento”, 1935.
54 - Le Vie d’Italia, 1939.
16
che la sua attività di pubblicista l’ha portato ad interessarsi anche di alcuni aspetti
della Siponto antica.
L’azione divulgativa svolta dal Capuano, dal Patrucci e dal Di Sabato
trova il suo sostrato essenziale nelle pubblicazioni curate dal Bertaux55 e dal
Bernich56, nel 1899, e dall’Avena 57, nel 1902, ai quali si devono ampi studi critici
sull’insigne monumento preromanico sipontino.
Un interessante, ma poco conosciuto, contributo sugli scavi di Siponto
proviene da Rosario Labadessa58 che li ha curati in occasione delle opere di
bonifica delle paludi sipontine.
Altro particolare elemento di interesse storico-artistico-documentaristico
è il castello, sul quale è notevole il contributo dato dall’Abatino, con Il Castello di
Manfredonia59 e, soprattutto, dallo Sthamer60 e dall’Haseloff61. Semplicemente
divulgativo è, invece, il contributo dato dalla Tammeo, con Il Castello di Manfredonia62.
Gli ultimi decenni della prima metà del '900
Ritornando ai temi della storiografia locale, vera e propria, vanno sottolineati, in materia di vescovi sipontini, il contributo monografico di Giovanni
Mercati: Per la cronologia della vita e degli scritti di Niccolò Perrotti. Arcivescovo di Siponto63, e in materia di eventi bellici, la pubblicazione del La Cava in merito al sacco turchesco del 162064, con lo studio
____________
55 - BERTAUX EMILE, L’Italie inconnue (voyages dans l’ancine royaume de
Naples), in Le Tour du Monde, Parigi, 1888-89, III, p. 176.
56 - BERNICH E. La cattedrale di Siponto, in L'uovo di Colombo, Bari, 1899, II, n. 25.
57 - AVENA ADOLFO, Monumenti dell'Italia meridionale, Roma, Officina Poligrafica Romana, 1902, pp. 109 e segg.
58 - LABADESSA ROSARIO, Gli scavi di Siponto, Japigia, IX, 1938.
59 - Trani, Vecchi, 1902.
60 - STHAMER EDUARD, Die Bauten der Hohenstaufen in Unteritalien, Leipzig,
1912, pp. 1331/168.
61 - HASELOFF ARTHUR, Die Baulen der Hohenstaufen in Unteritalien, Leipzig,
1921, pp. 387/ 407.
62 - TAMMEO CARMELA, Il castello di Manfredonia, Bari, Pensini, 1931.
63 - Roma, Biblioteca Vaticana, 1925.
64 - LA CAVA ALFONSO, il sacco turchesco di Manfredonia del 1620, Archivio Storico per le Province Napoletane, LXV, pp. 66/104.
17
delle due relazioni anonime sullo stesso sacco, conservate nella Biblioteca
dell’Archivio Storico per le Province Napoletane di Napoli.
Queste due relazioni (attribuite ai canonici sipontini dell’epoca) furono
riprese e trascritte dal Simone ne La ‘presa di Manfredonia dai Turchi nell’anno 1620’
65 .
Il saggio di Alfonso La Cava si dimostra ben sviluppato, ricco di riferimenti bibliografici, con utili indicazioni sul periodo storico prima e dopo il sacco. Ed anche questo altro lavoro ci pare fondamentale per tessere un discorso
più completo su quell’avvenimento che, ancor oggi, continua ad interessare studiosi locali e non.
Non vanno trascurate altre felici pubblicazioni che accrescono, vieppiù,
la già ponderosa Biblioteca Storica Sipontina; ci riferiamo a Giovanni Antonucci,
con L'Arcivescovato di Siponto, apparso su Samnium, nel 1937; a Francesco Giordani, con Francesco Paolo Bozzelli, edito dalla S.E.D. di Simone, nel 1940; a
Tommaso Leccisotti, con Due monaci cassinesi arcivescovi di Siponto, in Japigia, del
1944.
Questi due ultimi lavori illustrano efficacemente la personalità del filosofo-politico sipontino e la figura del vescovo Gerardo, attivo nell’XI secolo, e
sul quale, in definitiva, si impernia la riproposizione della Civitas Christiana Sipontina.
Silvestro Mastrobuoni
E chiudiamo lo scorcio di tempo a cavallo delle due metà di secolo con
i contributi di Silvestro Mastrobuoni.
Egli inizia a scrivere prima sul Bollettino dell’Archidiocesi di Manfredonia, Vita Cattolica, e poi con monografie, come: Ai margini della Storia sipontina66;
Il culto della Madonna di Siponto67; Cronotassi e Blasonario dei vescovi ed arcivescovi sipontini68; La Chiesa sipontina e i suoi rapporti con le altre Chiese della regione AppuloSannita69; S.
____________
65 - La Capitanata, IX, 3-4 mag.-ag. 1971, pp. 161/171.
66 - Manfredonia, Tipografia Sipontina, 1938.
67 - Manfredonia, Bilancia, 1941.
68 - Benevento, Fallarino, 1943.
69 - Benevento, Fallarino, 1943.
18
Leonardo di Siponto70 e Manfredonia e la sua patrona nella storia, nel culto, nella pietà 71,
oltre ad opuscoli varii, sugli stessi argomenti, a scopo didattico.
L’opera del Mastrobuoni conclude un periodo quanto mai importante
per la nostra storiografia, che è poi quello fondamentale, sul quale, va pur detto, le nuove generazioni si sono formate e hanno tratto gli spunti e le motivazioni per ricerche più particolareggiate e settoriali.
Al Mastrobuoni va dato il grande merito di essere stato il promotore
della ripresa degli scavi archeologici a Siponto, della cui testimonianza ha compilato l’opuscolo: Antichità Sipontine, del 1955, completando e dando maggiore
corpo a quanto già edito dal Labadessa.
L’opera storica del Mastrobuoni sulla Chiesa sipontina, anche se in parte
risente delle letture sarnelliane e spinelliane, ha il merito di averne proseguita la
Cronologia, con il corredo di opportuni rimandi bibliografici. E proprio quel
corredo, unitamente allo studio del Regesto, all’esame e all’analisi delle iscrizioni
della badia di S. Leonardo hanno consentito al Mastrobuoni, prima con articoli
su fogli locali, e poi con la monografia su S. Leonardo di Siponto, appunto, di
scrivere l’opera sua migliore, per rigore metodologico e per capacità di sintesi.
I “Quaderni” dell'A.A.S.T. di Manfredonia, Nicola De Feudis e Antonio Ferrara
Alla collaborazione, alla lezione e all’incentivo dei Maestri del primo ‘900,
come il Bellucci, il Pascale, il Mastrobuoni e il Simone, si deve l’attuale produzione storiografica sulla nostra città, che sta raggiungendo mete ragguardevoli, e
per quantità e per contributi.
E, proprio in collaborazione con il Mastrobuoni, Nicola De Feudis
pubblica, per l’E.P.T. di Foggia, il quaderno: Manfredonia (Siponto-S. Leonardo),
del 1957; a questo esordio seguono alcuni articoli su foglietti locali (in merito al
castello e alle consuetudini municipali) e il saggio, del
____________
70 - Foggia, S.E.D., 1960.
71 -Foggia, S.E.D., 1967.
19
Bibl. Apost. Vaticana. Vat. lat. 5949, c. 2312.
20
1967, S. Domenico e la cappella de “La Maddalena”72. Ma dove l’opera di questo
storico, puntuale e documentato, fine conoscitore dell’arte, e artista della fotografia egli stesso, meglio si realizza, è nei Quaderni dell’A.A.S.T. di Manfredonia;
si tratta, in vero, di: Manfredonia. Tra ‘700-‘800. La Città 73; Manfredonia. Tra ‘700’800. Il territorio74 e.. Andar per masserie75.
I due Quaderni, ricchi di corredo fotografico dell’autore (che ha raccolto
una corposa fototeca), sono delle pregevolezze e per forma e per sintesi storica; l’ultimo lavoro, poi, è lo spaccato del ricco patrimonio artistico, monumentale ed ambientale della plaga sipontina, un invito suadente a fare delle cavalcate per le nostre contrade, in riva al mare, nel Tavoliere e sulla montagna.
Ogni masseria viene opportunamente visualizzata, con la trascrizione di una
scheda e di un itinerario circa la sua ubicazione, la sua superficie, la proprietà,
l’utilizzo e quanto altro necessario per farne un utile uso agro-turistico.
E visto ch abbiamo accennato ai Quaderni della locale Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo, ci preme sottolineare la felice stagione della loro
produzione.
I Quaderni sono 10, di cui il 6° e il 10° del De Feudis (già citati), il 2° di
Ferri-Nava76, il 3° di Vailati-Della Malva, il 7° di Di Turo, il 5° e l’8° di Ferrara,
il 1°, il 4° e il 9° di Serricchio, dei quali appresso diremo.
La collana ha riscosso successo e plauso, in particolare per
l’impostazione editoriale e divulgativa, riuscendo a sviluppare un discorso corale su tutta la problematica storiografica locale.
E’ chiaro che l’iniziativa non poteva esaurirsi solo in quei quaderni; ma
ancora una volta, la mancanza degli opportuni finanziamenti ha anchilosato un
conato culturale qualificante e di vasto respiro.
Con Antonio Ferrara, anche egli attivo collaboratore del Mastrobuoni, ci
troviamo di fronte ad un caso che, a prima vista, sa di eccezionale se non sapessimo che egli ha coltivato sin dalla verde età gli studi storici.
____________
72 - La Capitanata, V, 4-6, lu.-dic. 1967.
73 - Quaderno n. 6 dell’AAST Manfredonia, Foggia, Leone, s.d..
74 - Quaderno n. 10 dell’AAST Manfredonia, Foggia, Grafsud, 1978.
75 - Milano, Edizioni E.T., 1980.
76 - FERRI SILVIO, NAVA MARIA LUISA, Stele daunie, Foggia, Leone, s.d.
21
Inizia, infatti, giovanissimo, come pubblicista, ma solo a tarda età dà alle
stampe la sua vasta produzione. L’esordio, come saggista, avviene nel 1930,
con: Il cardinale Orsini Benedetto XIII nella vita e nelle opere del suo arcivescovado sipontino77; molto tempo dopo si ha l’altro saggio su S. Leonardo di Siponto e Don Mastrobuoni78. Ottantenne, poi, dà il meglio di sé, con ampia spazialità di argomenti, come: Il Duomo di Manfredonia e il campanile dell'Orsini79; Il castello e la cinta della
piazza di Manfredonia80; Manfredonia. 8 chiese e l'Episcopio fra gotico e barocco81; Gli
Svevi e Manfredi fondatore di Manfredonia82; Manfredonia. Notabili e palazzi tra vita e
arte83 (per questo lavoro utilizza molte schede del Bellucci); Siponto. L'antica chiesa,
le mura, la città sepolta84.
Giuseppe Antonio Gentile, Michele Magno, Berardino Tizzani e Vincenzo Gennaro Valente.
Con impostazione dichiaratamente didattica, Giuseppe Antonio Gentile
dà alle stampe: Manfredonia. Testimonianze vecchie e nuove, la prima edizione nel
197085 e la seconda, ampliata e con un corredo folclorico, nel 197986, e la Storia
dell'antica Siponto (1200 a.C.-1255 d.C.)87. Le due opere, munite di buoni spunti
bibliografici, possono essere utilizzate anche per specifci riferimenti monografici e costituiscono una continuità ideale con quelle dello Spinelli e del Pascale.
Anche Michele Magno pare giunto alla storiografia solo in età avanzata,
ma così non è, in quanto si conoscono molti suoi interventi sin dagli anni
____________
77 - Manfredonia, Bilancia, 1930.
78 - La Capitanata, VIII, 3-4, mag-ag. 1968.
79 - Quaderno n. 5 dell’AAST Manfredonia, Foggia, Leone, s.d. (ma 1975).
80 - Quaderno n. 8 dell’AAST Manfredonia, Foggia, Grafsud, 1978.
81 - Foggia, Atlantica, 1979.
82 - Foggia, Atlantica, 1979.
83 - Foggia, Atlantica, 1980.
84 - Foggia, Atlantica, 1980.
85 - Trento, Litografia Velox, 1970.
86 - Tipografia dell’Abbazia di Casamari (Frosinone), 1979.
87 - Tipografia dell’Abbazia di Casamari (Frosinone), 1974.
22
‘50. In questo autore va apprezzato il sincretismo tra impegno politico e capacità di documentazione dialettica; e proprio questa documentazione l’ha portato, a parer nostro, agli studi storici.
Le opere del Magno hanno la capacità di illustrare un particolare periodo storico della nostra città, ma anche della Capitanata e della Puglia, il ‘900,
con una chiave di lettura convincente e coerente, impostata sotto l’aspetto politico e laico. Le lotte del proletariato sipontino e pugliese sono un ulteriore contributo alla storiografia meridionale moderna, che non può più vedere come
protagonisti solo le classi abbienti, ma anche quelle soccobenti; classi, queste,
che il Magno fa assurgere a dignità di soggetti di storia.
Copiosi i suoi interventi parlamentari88, che andrebbero raccolti in appositi volumi; a noi qui preme ricordare: Lotte sociali e politiche a Manfredonia (fino al
Fascismo)89; La Capitanata dalla pastorizia al capitalismo agrario (1400-1900)90; Non
bastano le risorse senza programmazione91; Galantuomini e proletari in Puglia. Dagli albori
del Socialismo alla caduta del Fascismo92; Vent'anni di vita Manfredoniana93; la Puglia tra
lotte e repressioni (1944/1963)94 e, infine, Michele Lanzetta95.
Al Magno ci piace accostare, per impegno politico e per attività di pubblicista, Berardino Tizzani, teso a dibattere problematiche locali e provinciali,
specie su La Capitanata. Cultore di studi socio-politici, ha avuto modo di raccogliere un’imponente biblioteca sul movimento popolare cattolico; il Tizzani si
è dimostrato, pure, storico dell’arcivescovo Cesarano e, pare, appena possibile,
che darà alle stampe una monografia sull’altro arcivescovo sipontino, Gagliardi,
e sui suoi rapporti con Padre Pio.
____________
88 - MAGNO MICHELE, La miniera di bauxite del Gargano, 1950; Tutti uniti per la
rinascita del Gargano, 1952; Il problema stradale, 1956; Per la difesa e la rinascita dell'agricoltura
pugliese, 1956; La lotta dei braccianti dei Mezzogiorno per l'imponibile e il progresso agricolo, 1959.
89 - Napoli-Foggia-Bari, C.E.S.P., 1973.
90 - Roma, C.R.S., 1975. Ristampato, a cura di Area, nel 1988.
9 - Nuovapuglia, III, 23 maggio 1975.
92 - Foggia, Bastogi, 1984.
93 - Roma, Salemi, 1897.
94 - Bari, Levante editori, 1988.
95 - Manfredonia, Prencipe, 1988.
23
Del Tizzani citiamo: La pesca e i suoi problemi nel compartimento di Manfredonia96; Testimonianze sipontine per mons. Cesarano97; A dieci anni dalla scomparsa. Ricordo
di mons. Cesarano98.
Sull’arcivescovo Cesarano non ci dispiace segnalare pure i contributi di
Giosué Fini: Andrea Cesarano (1880-1969)99 e Nel X Anniversario dell'incoronazione
della B. Vergine di Siponto. Ricordo di Giovanni XXIII100.
Altro esempio di longeva capacità di pubblicista ci proviene da Vincenzo
Gennaro Valente (così come il Ferrara e come lui scomparso da poco). Egli, se
pure attivo a Roma, ha conservato indissolubile il contatto con la sua città
d’origine. Di questo autore abbiamo apprezzato, tra l’altro, la cura nella ricerca
bibliografica e folclorica, specie nelle opere: La leggenda garganica, del 1977, L'antica Siponto, del 1979, Manfredonia. Storia della città di Manfredi (prima edizione del
1980 e seconda edizione del 1986); tutte le opere sono state edite in Roma per i
tipi di Manzella.
Cristanziano Serricchio, Matteo Di Turo ed una concezione tomistica della storia sipontina
Per Cristanziano Serricchio il discorso è molto più complesso; questo
delicato ed affermato poeta, sipontino per adozione, ha dato alle stampe, da
circa trent’anni, numerosi saggi e monografie, anche di natura specificatamente
storica, epigrafica ed archeologica. Le sue tesi ed i suoi contributi vengono apprezzati dai maggiori storici meridionali contemporanei e lo vedono occupare,
a giusta ragione, uno spazio di prestigio nell’ambito dell’Archivio Storico Pugliese.
L’analisi settoriale delle singole problematiche affrontate dal Serracchio
sottende un discorso di tendenza globale; egli punta a mettere in luce
____________
96 - Foggia, S.E.D., 1966.
97 - Napoli, Tipografia Laurenziana, 1971.
98 - Dimensioni Sud, I, 2 dic. 1979.
99 - Roma, Edizioni Oikoumenikon, s.d.
100 - Vita Cattolica (n.s.), II, 4 lug.-ag. 1965.
24
aspetti controversi, o poco noti, o semplicemente abbozzati, dai nostri cronisti
del ‘600 e del ‘700.
E qui va fatta una digressione; con il materiale bibliografico e documentaristico che già oggi abbiamo a disposizione non è più pensabile stilare in un
solo volume la storia di una città, come quella sipontina, che presenta, e ancor
più prospetta, vastità temporale e spaziale per le molteplici implicazioni che le
sono insite (archeologiche, epigrafiche, monumentali, economiche, amministrative, sociali, religiose, letterarie, ecologiche e paesaggistiche, ecc.), per cui sono
maturi i tempi per un progetto, a più mani, per una pubblicazione tomistica della
stessa. Esempio ne abbiamo avuto con i Quaderni dell’AAST di Manfredonia. E
una bozza di tale progetto può essere individuata nella coraggiosa iniziativa posta in atto dalle Edizioni del Golfo, nel 1988, con Il Gargano. Storia-Arte-Natura.
Ed ecco alcuni esempi della copiosa produzione del Serricchio: G.T.
Giordani e il liberalismo dauno nel 1820101; sullo stesso tema si ha pure: L'impegno
politico e letterario-sociale di Gian Tommaso Giordani nella “Biografia ” di P. Antonio da
Rignano102; Siponto, un'antica città da scoprire e valorizzare, del 1969; Manfredi e la fondazione di Manfredonia103; Note sulle origini del Cristianesimo a Siponto104; Note su Siponto antica105; Una nuova iscrizione sipontina, del 1976; Iscrizioni romane, paleocristiane e
medievali di Siponto106; Due nuove iscrizioni altomedievali di Siponto, del 1978; La cattedrale di S. Maria di Siponto in base alla documentazione epigrafica e letteraria107; Manfredonia tra nuovo e antico. La porta del sole, del 1985; Il sacco turco di Manfredonia nel
1620 in una relazione inedita108; La cattedrale di S. Maria Maggiore di Siponto e la sua
icona109; riedito nell’Archivio Storico Pugliese110.
____________
101 - Napoli-Foggia-Bari, C.E.S.P., 1961.
102 - Archivio Storico Pugliese, XVII, 1974, pp. 583/600.
103 - Archivio Storico Pugliese, XXV, 1972, fasc. III-IV, pp. 483/509; riedito poi,
come Quaderno n. 1 dell’AAST di Manfredonia, Foggia, Leone, s.d.
104 - Rassegna di Studi Dauni, 1, 1, ott.-dic. 1974, pp. 51/58.
105 - Quaderno n. 4 dell’AAST di Manfredonia, Foggia, Leone, 1976.
106 - Quaderno n. 9 dell’AAST di Manfredonia, Foggia, Grafsud, 1978.
107 - Vita Diocesana, XX, 4 ott.-dic. 1983.
108 - Archivio Storico Pugliese, XL, 1987, pp. 196/255.
109 - Manfredonia, Prencipe, 1987.
110 - Archivio Storico Pugliese, XLI, 1986, pp. 69/100.
25
Matteo Di Turo, proficuo fondatore e direttore di fogli e periodici locali, si è segnalato con due eccellenti monografie: Il triduo della mezzaluna nella Manfredonia del seicento111 e Il ministro Bozzelli112. Sia la prima che la seconda opera
sono state precedute da saggi su alcuni quotidiani e mensili, per essere riprese e
ancor meglio sviluppate; la prima per approfondire la figura della Beccarini e di
suo figlio Ottomano, la seconda, con uno studio critico, per puntualizzare il
pensiero del nostro filosofo sensista.
Le stesse monografie sono pregevoli per l’agilità dello stile e per le accorate riflessioni, esposte dal Di Turo; per il Bozzelli, in particolare, c’è il tentativo,
riuscito, di rivalutarne l’azione politica, proprio nel contesto del ’48 e risorgimentale, allorquando il clima di spietata inquisizione pseudo patriottarda ha
portato anche al linciaggio morale ed economico; linciaggio che lo fa assurgere
a dignità di eroe del meridionalismo e del malgoverno sabaudo.
Solo da poco, in effetti, la storiografia sul liberalismo meridionale e sui
Borboni sta rivedendo le sue posizioni; e il Di Turo, appunto, fa tesoro di questa rilettura.
Anche il Di Turo si è cimentato con la narrativa storica e ha dato alle
stampe un racconto didattico sul figlio di Giacometta Beccarini: Osman. Il frate
che non fu sultano113.
Mons. Valentino Vailati e la tradizione culturale della Chiesa sipontina.
Con monsignor Valentino Vailati continua la tradizione culturale e storica
dei presuli sipontini, per cui egli ben si colloca nella schiera di quanti benemeriti
l’hanno preceduto.
Il Vailati, oltre alla pubblicazione, in collaborazione con il Della Malva114,
in merito alla cronologia dei vescovi sipontini e vestani (sullo
____________
111 - Quaderno n. 7 dell’AAST di Manfredonia, Foggia, Leone, 1977.
112 - Manfredonia, Prencipe, 1986.
113 - Manfredonia, Edizioni del Golfo, 1989.
114 - VAILATI VALENTINO, DELLA MALVA MARCO, L’Archidiocesi di
Manfredonia e la Diocesi di Vieste. Guida Storica Anno Santo 1975, Quaderno n. 3 dell’AAST
di Manfredonia, Foggia, Leone, 1975.
26
stilema sarnelliano), ha saputo dare una nuova impronta al bollettino, Vita Diocesana; lo stesso bollettino si dimostra, ora, non come un asettico inventario
dell’attività curiale, bensì come una rivista essa stessa storica; e questa caratteristica le proviene per i contenuti prettamente diocesani, per la corrispondenza e la
pubblicazione degli Atti dei Pontefici, per le Lettere pastoriali, che vi hanno totale
spazio e, soprattutto, per i contributi di ricerca bibliografica e storica, alla quale
lo stesso presule non si sottrae. E qui di seguito citiamo alcuni esempi della sua
vasta produzione: Relazione sullo svolgimento delle indagini previe alla causa di beatificazione di P. Pio da Pietralcina, sacerdote professo dell’ordine F.M. Cappuccini115; A ricordo
del terzo cenetenario dell’ingresso in Manfredonia dell’arcivescovo card. Vincenzo M. Orsini
poi papa Benedetto XIII116; Discorso per la chiusura dell'anno centenario della conversione di
S. Camillo de Lellis in Manfredonia117; Nota storica sull'arcivescovo sipontino card. Vincenzo M. Orsini (Benedetto XIII)118; Storia civile del tempo in cui visse il vescovo di Siponto S.
Lorenzo119; Lettera per l'indizione del Sinodo Diocesano di Manfredonia e Vieste120;
L'Episcopato di mons. Feuli (1880-1884)121.
Contributi di più squisita fattura bibliografica sono, poi: L'Archivio storico
arcivescovile122; Raccolta di Sinodi conservati nella Biblioteca Arcivescovile di Manfredonia123; Sussidio d'Archivio per la storia dell'episcopato di mons. Pasquale Gagliardi124;
L'Archivio Storico Arcivescovile di Manfredonia. Fondo dei Celestini di Monte S. Angelo
125 ; L'archivio Storico Arcivescovile126 .
Vasta, dunque, l’attività del Vailati che, oltre ad una pastorale impegnata
(sta curando atti di grande portata storica: la causa di beatificazione di
____________
115 - Vita Diocesana, X, 1, gen-mar. 1973, pp. 12/14.
116 - Ibidem, XII, 2, apr.-giu. 1975, pp. 3/10.
117 - Ibidem, XIII, 1, gen.-mar. 1976, pp. 7/10.
118 - Ibidem, XIII, 2, apr.-giu. 1976, pp. 30/32.
119 - Ibidem, XVI, 1, gen.-mar. 1979, pp. 38/39.
120 - Ibidem, XXII, 4, ott.-dic., 1985, pp. 9/20.
121 - Ibidem, XXVI, 1 gen-mar. 1989, pp. 52/53.
122 - Ibidem, XV, 3, lu.-sett. 1978, pp. 40/44.
123 - Ibidem, XXIV, 1, gen.-mar. 1987, pp. 45/46.
124 - Ibidem XXIV, 3, lu.-sett. 1987, pp. 41/43.
125 - Ibidem, XXIV, 4, ott.-dic. 1987, pp. 54/56.
126 - Ibidem, XXV, 3, lu.-sett. 1988, pp. 39/44.
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P. Pio e il Sinodo Diocesano), lo ha visto ricostruire e la Biblioteca e l’Archivio
arcivescovile; egli vi lavora di persona per sistemare carte e per catalogare libri.
Sulla “Fondazione” di Manfredonia
A fianco della pubblicistica di studiosi locali fa pure riscontro un notevole contributo di eminenti storici meridionali, per cui la storiografia sipontina
si vede, oggi, arricchita di un patrimonio veramente consistente; patrimonio sul
quale si può già ritessere una nuova analisi od anche sviluppare, opportunamente, discorsi particolari e generali. A ciò va aggiunto che l’analisi a livello locale sta utilizzando opportuni sussidi documentaristici, così che la ricerca, oltre
ad avere il suo naturale supporto di certezza sorica, non si indirizza più come
fenomeno isolato, fine a se stesso, ma si incanala in un contesto più ampio, sia a
livello comprensoriale che regionale e meridionale.
Come contributo di storici professionisti, specie sulla fondazione di Manfredonia, ci pare opportuno dare la precedenza a quanto edito da Pier Fausto
Palumbo che, proprio agli inizi di questa seconda metà di secolo, ha curato: La
fondazione di Manfredonia127; Per la fondazione di Manfredonia128; Nascita di una città:
Manfredonia (un centenario 1263-1963)129.
Il contributo di conoscenza dato dal Palumbo, sulla mai estinta discussione della nascita di Manfredonia, merita attenta riflessione, specie quando egli
afferma che il disegno manfredino viene ripreso e sviluppato, vieppiù, dagli
Angioini, riproponendo la vera vocazione socio-politico-commerciale della
nostra città, quale frutto di una insospettata politica
____________
127 - Archivio Storico Pugliese, VI, 1953, pp. 371/407.
128 - Archivio Storico Pugliese, IX, 1956, pp. 173/174.
129 - Studi Meridionali (2.a serie), IV, I, 1963, pp. 367/371. Su questo argomento
buoni sussidi bibliografici si possono rilevare da Matteo Spinelli da Giovinazzo, da Rico rdano Malispini, da Giovanni Villani e da fra’ Salimbene da Parma. Qui ne citiamo qualche
edizione: SPINELLI MATTEO (da Giovinazzo), Annali (o Notamenti), Napoli, Dura,
1872; MALISPINI RICORDANO, Storia fiorentina, Livorno, Masi, 1830; VILLANI
GIOVANNI, MATTEO E FILIPPO, Croniche, Milano; SALIMBENE DE ADAM, Cronica, Bari, Laterza, 1966.
28
lungimirante di Carlo I d’Angiò; politica che proprio nello sviluppo di Manfredonia accentua la sua diversificazione comportamentale in Puglia e nel Regno di
Napoli.
Anche Francesco Giunta pone alle stampe un importante saggio su
Manfredi e Manfredonia130, ricalcando sempre il ruolo vocazionale della nuova
città.
Al Magli si deve, poi, una esauriente trattazione sull’attività di Manfredi in
materia di monetazione, gettando altra luce su quelle vocazioni, con Manfredi e la
zecca di Manfredonia131.
Abbastanza originale e, pertanto, oggetto di doverosa riflessione, è la tesi
sostenuta da Giuseppe De Troia nel volume: Dalla distruzione di Siponto alla fortificazione di Manfredonia132.
Il De Troia, in definitiva, argomenta sulla possibilità di individuare già un
primo nucleo abitativo nell’attuale Manfredonia, sin dal XII secolo; del resto, su
questa eventuale possibilità alcuni studiosi locali (per tutti il Serricchio) non si
sono fatti cogliere di sorpresa. Alcuni di questi studiosi nutrono, in effetti, delle
perplessità su come finora è stato interpretato il datum Orte. Il discorso è quanto
mai interessante ed altre ricerche o altre analisi, con diversa angolazione, potrebbero riservare anche delle sorprese.
Il contributo degli storici accademici
Abbiamo accennato ad alcuni scritti di storici accademici, come il Palumbo, qui ne specifichiamo ancor più il relativo contributo.
Un’accentuazione particolare sull’attività dei vescovi e della Chiesa sipontina viene dato da: Benedetto Cignitti, con Lorenzo vescovo di Siponto133; Michelangelo Cagiano da Azevedo, con Le due “Vite” del vescovo Lorenzo e il mosaico delle
“città” di Siponto134; Nuove note su
____________
146/7.
130 - Annali della facoltà di Magistero (1963-1966), Palermo, IV-VII, pp. 3/29.
131 - Archivio Storico Pugliese, V, 1953, pp. 68/120.
132 - Foggia, Schena, 1987.
133 - Biblioteca Sanctorum, Istit. Giovanni XXIII, P.U.L, Roma, 1967, Vol. 8° pp.
134 - Vetera Christianorum, XI, 1974, fasc. I, pp. 141/151.
29
Santa Maria di Siponto135; Puglia e Adriatico in età tardo antica136; Francesco Tateo,
con L’umanista Niccolò Perrotti, vescovo di Siponto137; Mario Parisano, con La Chiesa
di Siponto nei secoli XI e XIII138; Giovanni Corsi, con Giovanni Alfonso Puccinelli,
Patrizio Lucchese. Arcivescovo di Manfredonia (1652-1658)139.
Per la Siponto antica e medievale non vanno sottaciuti i contributi di:
Michele Fuiano, con La città di Siponto nei secoli XI e XII140; Adolfo Chieffo con
Siponto141; Marina Mazzei, con Siponto antica 1142; Gaetano Lavermicocca, con
Siponto antica 2143; Emilio Benvenuto, con Siponto dauna dai primordi al dominio
romano144; Letizia Pani Ermini, con Il sarcofago altomedievale di Siponto145.
E né mancano altri temi, alcuni già sviluppati, altri nuovi; si hanno così:
Giovanni Mongiello, con Il castello e le mura di Manfredonia146; Ugo Iarussi, con
La torre del Fico di Manfredonia147; Doroteo Forte, con Motivi francescani nella storia
di Manfredonia148; I primi insediamenti Francescani nell’archidiocesi sipontina149; Ultimi
restauri a S. Maria in Manfredonia150 Teresa Olivari Binaghi, con La Madonna dagli
occhi sbarrati in S. Maria di Siponto151; Arnaldo Venditti, con La chiesa di S. Maria
di
____________
135 - Vetera Christianorum, XV, 1978, fasc. I, pp. 85/93.
136 - Puglia Paleocristiana, II, Bari, Edipuglia, 1979, pp. 71 e segg.
137 - Foggia, Quaderno dell’Amministrazione Provinciale, 1975.
138 - Nicolaus, Bari. IV, fasc. I, pp. 249/254.
139 - Atti dell’Accademia Lucchese di Scienze Lettere ed Arti, Nuova II serie, Tomo XIII (1980), pp. 49/115.
140 - Nuova Rivista Storica, L., fasc. I-II, 1966.
141 - Quaderno dell’E.P.T. di Foggia.
142 - Foggia, Leone, s.d. (ma 1986).
143 - Foggia, Leone, s.d. (ma 1986).
144 - Foggia, Centro Culturale Francescano “Immacolata”, 1967.
145 - Vetera Christianorum, XI, 1974, fasc. 2, pp. 359 e segg.
146 - Castellum, Riv. dell’istit. dei castelli, Roma, Castel S. Angelo, 1957, la serie, n.
5, pp. 49/60.
147 - Foggia, Amministrazione Provinciale, 1972.
148 - Bari-Roma, Favia, 1963.
149 - Vita Diocesana, XVI, 2, apr.-giu. 1979, pp. 34/40; XVI, 3, lu-sett. 1979, pp.
26/35.
150 - Foggia, Remegraf, 1985.
151 - Annali dell’Università di Lecce, Facoltà di Lettere e Filosofia, IV, 1967-68-69,
pp. 123/125.
30
Siponto152; Architettura a cupola in Puglia. II. La chiesa di S. Leonardo di Siponto153;
Umberto Caldora, con L’introduzione della stampa in Calabria. Ottaviano Salomone di
Manfredonia e la prototipografia di Cosenza154; Michele Vocino, con Il porto della Puglia Dauna155; Giuseppe Coniglio, con Ebrei e cristiani novelli a Manfredonia nel
1534156.
Negli studi di quest’ultimo autore, e in particolare sul ‘500, si riscontrano
molte implicazioni politico-commerciali che riguardano Manfredonia e che
meritano opportuna lettura157.
I nuovi contributi documentaristici
E la disamina continua con altre puntualizzazioni sul tema del sacco turchesco, come Vincenzo Saletta: Il saccheggio di Manfredonia (16-18 agosto 1620)158;
o come la pubblicazione del manoscritto di Antonio Nicastro del ‘600, ovvero;
Relazione della presa di Manfredonia da’ Turchi, curata da Mario Giorgio per
“Sintesi” del marzo 1987.
Questa relazione è stata pure studiata dal Serricchio che la confronta con
le altre due anonime (di cui si è detto); come si vede, il tema è lontano
dall’esaurirsi.
Registriamo, poi, i contributi di Osvaldo Sartori, con “Veneciani” e
“Zenovesi” a Manfredonia159 (trattasi di un conflitto tra Veneziani e
____________
152 - Napoli Nobilissima, Napoli, mag.-giu. 1966, pp. 105/125.
153 - Napoli Nobilissima, Napoli, VI, sett-dic. 1967, pp. 191/202.
154 - Calabria Nobilissima, Cosenza, IX, 8, 1953, pp. 172/193. Sempre su Salomone si ha un saggio pure di Michele Bellucci: Stampatori dauni dell‘400. Salomone e Minuziano, Comune di Foggia, Bollettino mensile di statistica, giugno, 1939.
155 - La Capitanata, IX, 3-4 mag.-ag. 1971, Parte I, pp. 150 e segg.
156 - Archivio Storico Pugliese, XXI, 1968, pp. 63/69,
157 - Qui vanno ricordati: CONIGLIO GIUSEPPE, Il regno di Napoli al tempo di
Carlo V, Napoli, Ediz. Scient. ital., 1951; Il Viceregno di Napoli nel sec. XVII, Roma, ediz. di
Storia Letter., 1955; Visitatori del viceregno di Napoli, Documenti e Monografie, vol. 38°,
Bari, Tipogr. del Sud, 1978; Documenti d’interesse meridionale nella Biblioteca della Accademia de
la historia di Madrid, Studi Storici Meridionali, II, ge.-dic. 1982,
158 - Studi Meridionali, VI, fasc. II-III, 1973, pp. 37/45.
159 - La Capitanata, IX, 3-4 mag.-ag. 1971, Parte I, pp. 156 e segg.
31
Genovesi svoltosi, a fine ‘300, nel porto di Manfredonia); di Aldo Pecora, con
Manfredonia e il suo territorio160 (un profilo socio-geografico della città); di Antonio Gambacorta, con Per la storia dell’arte a Manfredonia161 (visualizzazione di alcune tele site nella chiesa dei Cappuccini di Manfredonia); di Ermanno Bellucci,
con Michele Bellucci nel ventennale della sua morte162; con Mario Bellucci, con Lira
musicale di Manfredonia163. L’opera di Mario Bellucci, unica nel suo genere per
Manfredonia, è una completa analisi della tradizione musicale sipontina che
vanta, pure, quel Francesco Mazza, autore de Il secondo libro de’ madrigali a cinque
voci, edito a Venezia, nel 1584164.
Una grossa possibilità di documentazione e di riferimenti storici ci viene
offerta dalle due grandi iniziative degli Archivisti napoletani, con le collezioni: I
Registri della Cancelleria Angioina e le Fonti Aragonesi. Per queste ultime, e in particolarenel 6° volume, Catello Salvati ha avuto modo di pubblicare dei documenti che riguardano direttamente Manfredonia; si tratta di: Copia quaterni Bernardi de Anghono Mag. Actorum penes Mag. portulanum Apulie de tractis extractis... a
portibus civit. Manfridonia, Baroli, etc. A. V. Ind. (1486-1487) e Conto della fabbrica e
fosso di Manfredonia (1487-1491). Da questi documenti si può conoscere la consistenza ed il numero dei mercanti, degli armatori e delle navi, nonché i prezzi
delle mercanzie che vengono negoziate od estratte da Manfredonia, oltre alla
relativa attività artigianale, in un delicato ed importante periodo storico della
vita socio-commerciale sipontina.
Nel Codice Diplomatico del Monastero benedettino di S. Maria di Tremiti (10551237), curato da Armando Petrucci,165 sono molti i documenti che si riferiscono alla attività socio-religiosa del vescovado sipontino nell’XI e nel XII secolo.
____________
160 - Rivista Geografica Italiana, LXVII, fasc. 8, sett. 1960. In merito alle indagini
geografiche sul territorio sipontino vanno ricordati i contributi del Bissanti, ai quali si rimanda per il particolare contenuto scientifico degli stessi.
161 - Lingua e Storia in Puglia, 4, 1976, pp. 139/142.
162 - Albano Laziale, Centro Studi “Michele Bellucci”, s.d. (ma 1964).
163 - Frascati, Tipogr. Laziale, s.d. A questo autore vanno accreditati altri saggi sui
musicisti e sulle tradizioni folcloristiche sipontine, pubblicati nel 1937 e 1938.
164 - Anche per quest’altra forma di espressione artistica sipontina andrebbe redatta un’apposita bibliografia, utilizzando, tra l’altro, anche le Schede del Bellucci.
165 - Roma, 1960.
32
Antonio Ventura, poi, riportando alla luce un manoscritto depositato
presso la Biblioteca Provinciale di Foggia, ha pubblicato: Il paesaggio agrario in
Capitanata in una visita pastorale a S. Leonardo di Siponto del 1693166 e Il patrimonio
dell’abbazia di S. Leonardo di Siponto167a. Un’altra visita pastorale (fine ‘600) alla
stessa abbazia è stata trascritta ed edita a cura del Nardella167b.
Gli Indici bibliografici
L’opera del Ventura, che va assumendo sempre più tonalità documentaristiche di buon livello, supportata da rigorosa ricerca bibliografica, dà un ulteriore contributo per la conoscenza, e religiosa e economica, della badia di S.
Leonardo.
E sempre al Ventura si devono molti Indici bibliografici che riguardano
pure autori sipontini.
E in materia di bibliografia vanno segnalati: Maria Altobella Galasso, con
l’Itinerario bibliografico per le tradizioni popolari di Capitanata-Testi della Biblioteca Provinciale di Foggia168; Pasquale Caratù e Pasquale Piemontese, con Saggio di bibliografia
per la Puglia169. In ambedue questi lavori ampio spazio è riservata alla produzione locale sipontina.
Si hanno pure: Luigi Mancino, con Bibliografia come provocazione. Il Risorgimento a Manfredonia170; Michele Melillo, con Rassegna di bibliografia sipontina171; Mario Simone, con Daunia Bibliografica172; Pasquale Vescera, con Bibliografia del can.
don Silvestro Mastrobuoni 173.
Da tutti questi contributi, e da altri di più vasto respiro regionale, molto
si può attingere per un’ipotesi di Bibliografia sipontina.
____________
166 - Rassegna di Studi Dauni, III, 1-4, 1977, pp. 31/44.
167a - Foggia, Amministrazione Provinciale, 1978.
167b - Nardella Tommaso, La Capitanata in una relazione per visita canonica di fine seicento, Rassegna di Studi Dauni, III, 1-2, 1976, pp. 81 e segg.
168 - La Capitanata, XX, lu-dic. 1983, Parte II
169 - Lingua e Storia in Puglia, 10, 1980.
170 - La Capitanata, X, 1-3 gen-giu. 1972, Parte II.
171 - Lingua e Storia in Puglia, 27, 1985.
172 - La Biblioteca Provinciale di Foggia, I, 2, mag.-giu. 1962.
173 - Vita Diocesana, XXI, 1 gen.-mar. 1984, pp. 58/60.
33
E prima di chiudere questo argomento ci piace ritornare sul Melillo, per
i suoi meriti in materia di studio e di catalogazione del nostro dialetto 174, e accennare ad Angelo Celuzza che ha curato il pregevole volume: Mario Simone, una
vita per la cultura175, nel quale viene svolto oltre che la bibliografia, anche un
primo stralcio delle schede inedite dello stesso Simone.
La nuova storiografia sipontina
E arriviamo, così, alla nuova chiocciolata dei pubblicisti storici sipontini;
l’indirizzo che la ricerca oggi va prendendo, qui da noi (e lo ribadiamo), è eminentemente documentaristico. E, in questo senso, è veramente lodevole
l’iniziativa presa dal Comune di Manfredonia, nel 1974, su istanza
dell’instancabile Simone, di pubblicare il Libro Rosso dell'Università di Manfredonia,
a cura di Pasquale Di Cicco. Questi, opportunamente, e nella presentazione e
nelle note, correda la pubblicazione con rimandi e con l’esposizione di molti
altri documenti, coevi, tratti dall’Archivio di Stato di Foggia.
E su questa scia si hanno le recenti adduzioni di Pasquale Caratù, con il
Libro d'Apprezzo delli territori e vigne di Manfredonia (1741)176 e di Tommaso Prencipe, con L’Onciario di Manfredonia (1749)177. E per conoscere più da vicino la
vita amministrativa sipontina non mancano opuscoli dei vari Sindaci e Commissari straordinari (specie della prima metà del secolo) che si sono avvicendati
su Palazzo S. Domenico (sede municipale), tanto da costituire un vero e proprio corpus che andrebbe opportunamente visionato e catalogato.
Per suo conto, Pasquale Vescera ha avuto modo di dare prova proficua
del suo soggiorno a Manfredonia con il primo saggio su: Il fondo del
____________
174 - MELILLO MICHELE: La collocazione di una parlata (di quella di Manfredonia ad
esempio) nel sistema linguistico italiano, Lingua e Storia in Puglia, 23, 1984; Toponomastica ed
onomastica nell'area sipontina (e dintorni), Lingua e Storia in Puglia, 26, 1984.
175 - Foggia, Amministrazione Provinciale, 1977.
176 - Foggia, Atlantica, 1984.
177 - Foggia, Atlantica, 1985.
34
monastero di S. Pietro Celestino della città di Manfredonia178.
Antonio Angellilis, poi, ha curato la trascrizione e la pubblicazione della
Statistica elementare di Puglia (24 agosto 1814)179, riguardante, ovviamente, Manfredonia. Lo stesso Angelillis sta per dare alle stampe un lavoro di demografia
storica su Manfredonia, rielaborando la sua pregevole tesi di laurea.
Ed anche per le tesi di laurea, riguardandi i vari aspetti della realtà storico-culturale di Manfredonia, andrebbe operata un’accurata silloge a livello di
Istituzione pubblica.
A Nunzio Tomaiuoli vanno assegnati, specie in materia storico-artistica,
degli ottimi saggi ed interventi sul castello e sui monasteri cittadini: Il castello e la
cinta muraria di Manfredonia nei documenti del XVIII sec.180; Il monastero dei Celestini di
Manfredonia. Il monastero di S. Benedetto delle monache celestine di Manfredonia181; Castello. Museo nazionale (in collaborazione con la Mazzei)182.
Ad Enzo D’Onofrio va riconosciuta un’intensa pubblicistica tesa alla
valorizzazione turistica del nostro territorio e del nostro patrimonio artistico ed
archeologico, non priva di essenzialità storica, come: I problemi del nostro turismo183; Manfredonia. Turismo e Cultura184; Manfredonia e la sede di APT185.
In fine, e per completezza bibliografica, non possiamo tacere dei contributi dati da chi qui scrive; ovvero: L'Arcivescovo Gerardo a Siponto186;
____________
178 - Lingua e Storia in Puglia, 13, 1981. Al Vescera vanno pure assegnate le noti:
Inaugurazione della Mostra Documentaria-fotografica nel 50° di fondazione del Seminario arcivescovile di Manfredonia, Vita Diocesana, XX, 1, 1983, pp. 43/47; L'icone della cappella del Seminario
di Manfredonia, Vita Diocesana, XX, 3, 1989, pp. 39/43; Seminario Arcivescovile della Santa
Chiesa di Manfredonia e Vieste, Manfredonia, Centro Apostolico Tecnico, 1983; Il Crocifisso di
S. Leonardo, Foggia, Cappetta, s.d. (ma 1985).
179 - Manfredonia, Edizioni del Golfo, 1989,
180 - Foggia, Atlantica, 1984.
181 - Insediamenti Benedettini in Puglia, vol. 2°, Galatina, Congedo, pp. 143/160.
182 - Foggia, Grafiche Gercap, 1987.
183 - Gargano Studi, III, 1980, pp. 3/7.
184 - Documenti/1, a cura dell’AAST Manfredonia, Milano, Edizioni ET. 1982.
185 - Documenti/3 a cura dell’AAST Manfredonia, Milano, Edizioni ET, 1987.
186 - Rivista Storica dei Comuni, II, 7-8, 1981, pp. 35/39.
35
Guglielmo da Siponto187; Andrea de Urruttia nel 1774. I moti popolari a Manfredonia188;
La cappella della Maddalena189; L'Arcivescovo Ugone190; Giornali, giornalisti e pubblicisti
a Manfredonia191; Gli Ebrei a Manfredonia192; Contributo alla conoscenza della società
sipontina nell'alto medioevo193; Il porto di Siponto e di Manfredonia194; Sui primi insediamenti ebraici a Siponto195; Il vescovado sipontino ai tempi di S. Gregorio Magno196; Il carnevale sipontino197; Manfredonta tra mito e realtà198.
Pasquale Ognissanti
____________
187 - Rivista Storica dei Comuni, III, 1, 1982, pp. 7/14.
188 - Rivista Storica dei Comuni, III, 2, 1982, pp. 3/22.
189 - Rivista Storica dei Comuni, III, 4, 1982, pp. 23/30.
190 - Vita Diocesana, XXI, 3, lu-sett. 1984, pp. 32/36.
191 - La Capitanata, XVII-XVIII-XIX, 1980-1982, Parte II, pp. 70/80.
192 - Ibidem, pp. 81/94.
193 - La Capitanata, XXI-XXII, 1984-1985, Parte I, pp. 63/74; riedito, poi, in Accademia e Biblioteche d’Italia (di Renzo Frattarolo), LVI, 1, gen.-mar. 1988, pp. 32/42.
194 - La Capitanata, XXI-XXII, 1984-1985, Parte II, pp. 9/51.
Sul tema del porto di Manfredonia sono interessanti i contributi di:
GRASSI GIUSEPPE, Pel Porto di Manfredonia, Foggia, De Nido, 1905;
Pro Porto di Manfredonia, voti del Consiglio Comunale al Parlamento Nazionale e al Governo del Re, Lucera, Frattarolo, 1906;
Per la sistemazione del Porto di Manfredonia, C.C.I. di Foggia, Foggia, De Nido, 1919;
Per l'esclusione dei porti della Capitanata (Manfredonia, Rodi, Vieste, Varano) dal disegno di
legge proposto da S.E. il Ministro dei LL.PP., Foggia, De Nido, 1919;
OCCHIONERO RAFFAELE, Rinascita di Manfredonia marittima, Manfredonia,
Bilancia, 1953.
195 - La Capitanata, XXIII, 1985-1986, Parte I, pp. 93/102.
196 - Ibidem, pp. 109/134.
197 - Documenti/2, a cura dell’AAST Manfredonia, Milano, Edizioni ET, 1983.
198- Il Gargano. Storia-Arte -Natura, Manfredonia, Edizioni del Golfo, 1988, pp.
29/44. Nello stesso volume vi sono pure i contributi di:
MAZZEI MARINA, Aspetti di Archeologia del territorio Sipontino, pp. 20/28.
TOMAIUOLI NUNZIO, I monumenti, pp. 45/66.
MAGNO MICHELE, Manfredonia, ieri e oggi, pp. 67/73;
DE FEUDIS NICOLA, Le masserie, pp. 73/74.
36
UNA GIURISDIZIONE SPECIALE NEL REGNO
DI NAPOLI: IL TRIBUNALE DELLA DOGANA
DELLE PECORE DI PUGLIA (SECC. XV-XIX)
A Ugo Jarussi
Del plurisecolare e ben noto istituto della Dogana della mena delle
pecore di Puglia pare opportuno in questa sede rammentare, a mero scopo
introduttivo, gli aspetti fondamentali, rinviando per maggiori ragguagli oltre che
alla nutrita bibliografia in argomento e alle tante allegazioni forensi, manoscritte
e a stampa rinvenibili in varie sedi di conservazione, innanzitutto alla copiosa
documentazione originale che è nell’Archivio di Stato di Foggia1.
____________
1 - Gli studi più completi sulla istituzione doganale furono elaborati nei secoli
XVII e XVIII da uomini di legge: MARCANTONIO CODA, Breve discorso del principio,
privilegi et instruttioni della Regia dohana della mena delle pecore in Puglia, Napoli 1666 e Trani
1698; STEFANO DI STEFANO, La ragion pastorale, over comento su la Prammatico LXXIX
de officio Procuratoris Caesaris, voll. 2, Napoli 173l; FRANCESCO NICOLA DE
DOMINICIS, Lo stato politico ed economico della Dogana della mena delle pecore di Puglia esposto
alla Maestà di re Ferdinando IV, voll. 3, Napoli 178l; ANDREA GAUDIANI, Notizie per il
buon governo della Regia Dogana della mena delle pecore di Puglia, a cura di P. di Cicco, Foggia,
1981. Ad essi si rifanno proficuamente tutti gli autori di epoca successiva, fra i quali vanno
ricordati ANGELO CARUSO, Fonti per la storia della provincia di Salerno. L’archivio della
Dohana menae pecudum, in Rassegna storica salernitana, 13 (1952); DORA MUSTO, La Regia
Dogana della mena delle pecore di Puglia, in Quaderni della Rassegna degli Archivi di Stato n. 28,
Roma 1964; RAFFAELE COLAPIETRA, La Dogana di Foggia. Storia di un problema
economico, Bari S. Spirito 1972 e JOHN A. MARINO, Pastoral Economics in the Kingdom of
Naples, Baltimora 1988.
Al Di Stefano, prima avvocato della Generalità dei locati poi governatore doganale
(1735-1737), si devono anche molte allegazioni, parecchie delle quali si conservano presso
la Biblioteca Nazionale di Bari, qualcuna nell’Archivio di Stato di Foggia. Sull’archivio
doganale, impoverito ormai della sua più antica documentazione ma di entità ancora
cospicua (oltre 175.000 pezzi relativi agli anni 1536-1806), cfr., il mio Fonti per la storia della
Dogana delle pecore nell'Archivio di Stato di Foggia, in Mélanges de l'Ecole Francaise de Rome,
Moyen Age-Temps modernes, t. 100, 1988, 2 (La transumance dans les pays méditerranées du XV^
au XIX siécle), pp. 937-946.
37
Conquistato il regno di Napoli, dopo la lunga guerra con Renato
d’Angiò (1435-1442) che aveva avuto Abruzzo e Puglia per teatro principale,
Alfonso I d’Aragona volle riorganizzare su basi più solide la dohana pecudum,
l’istituzione di grande rilievo fiscale che amministrava i pascoli del Tavoliere e
che, sovrintendendo alla transumanza annuale delle greggi dall’Abruzzo, dal
Molise e da altre province, regolava la più antica industria meridionale2. Il
primo ed il più fedele esecutore della politica economica alfonsina relativa ai
pascoli pugliesi ed al loro utilizzo, dopo la crisi per le guerre ed i disordini, fu il
catalano Francesco Montluber, cui il privilegio sovrano del 1 agosto 1447, da
Tivoli, attribuì ampi poteri3.
Questi negli anni in cui esercitò la carica di doganiere (1447-1459)
delineò una struttura organizzativa del restaurato istituto che in buona sostanza
era destinata a conservare vivace funzionalità sino ai primi anni del XIX secolo,
vale a dire sino alla estrema fase crepuscolare della Dogana.
____________
2 - Nella sua essenza la Dogana delle pecore è istituzione molto remota, le cui
tracce più sicure ed antiche possono trovarsi già nel IV secolo a.C. e le vicende seguirsi in
una lunga e secolare successione: cfr. VITTORIO CIANFARANI, Culture adriatiche d’Italia.
Antichità tra Piceno e Sannio prima dei Romani, Roma, 1970; e specialmente: Di STEFANO,
cit., I, pp. 3-28, 31; DE DOMINICIS, cit., I, pp. 48-55; I.L.A. HUILLARD
BREHOLLES, Historia diplomatica Friderici II, Paris 1852-1858, VI, pp. 157-59 (per le due
costituzioni, attribuite con incertezza, “Pervenit ad aures nostri culminis” e “Cum per
partes Apuliae”); NICOLA VIVENZIO, Considerazioni sul Tavoliere di Puglia, Napoli 1796,
pp. 52-58 (per la lettera della regina Giovanna II d’Angiò del 18 settembre 1429 a Nucio
de Fonte di Aquila e a Giovanni Onofrio Amici di Sulmona, preposti alla mena delle
pecore di Puglia); MARINELLA PASQUINUCCI, La transumanza nell'Italia romana, in E.
GABBA, M. PASQUINUCCI, Strutture agrarie e allevamento transumante nell'Italia romana
(III-I a.C.), Pisa 1979; EMILIO GABBA, La transumanza nell'Italia romana. Evidenza e
problemi. Qualche prospettiva per l'età altomedioevale, in Settimane di studio del Centro Italiano di
studio sull'Alto Medio Evo, XXX (L'uomo di fronte al mondo animale nell'Alto Medio Evo), 7-13
aprile 1985.
3 - Il Montluber, familiare del primo sovrano aragonese di Napoli, commissario
della Dogana già nel 1444, ne viene nominato doganiere a vita nel 1447. Il privilegio
alfonsino non ci è pervenuto in originale. La sua prima trascrizione è offerta dal Coda, cit.,
pp. 4-9, ed è riportata integralmente da vari altri autori doganali (LUCA BRENCOLA, De
iurisdicione Regiae Dohanae Menae pecudum Apuliae, Neapoli 1727; DE DOMINICIS, cit., I,
pp. 26-30; MANFREDI PALUMBO, Tavoliere e sua viabilità. Documenti an. 1440-1875,
Napoli 1923, pp. 68-72; NICOLA DE MEIS, Nel Tavoliere, Napoli 1923, pp. 26-30.
38
Per potersene annualmente distribuire i pascoli, tutto il Tavoliere fiscale
venne ripartito in vari settori, detti comunemente locazioni, differenti fra loro
per grandezza e per bontà di erbaggi. Ognuna delle locazioni, sulla base della
sua stima, poteva accogliere un certo numero di pecore appartenenti ai pastori
(locati) originari di una determinata contrada (nazione)4, e si divideva a sua volta
in parti di diversa estensione, chiamate poste, per il pascolo ed il ricovero degli
animali e per le varie attività dell’industria pastorale5.
Dando al Tavoliere questo nuovo assetto il Montluber non tralasciò di
riserbare una parte di territorio stabilmente alla semina, pur condizionandola
con certi vincoli a favore della pastorizia.
Già nel XV secolo, essendo cresciuto il concorso delle greggi e con esso
la richiesta di pascoli, fu necessario aggregare altri terreni alle antiche locazioni.
Da allora la pastorizia transumante poté esercitarsi su un complesso di fondi
eterogenei (locazioni, erbaggi straordinari soliti, erbaggi straordinari
____________
4 - Originariamente le locazioni erano 43, alcune delle quali, in numero di 23, si
dicevano “ordinarie, generali o dei poveri”, le altre “aggiunte, particolari o dei ricchi”.
Distinte sino alla metà del Cinquecento, furono riunite fra loro nel 1588 e nella prima
metà del Settecento si ridussero a 21. Cfr. COLAPIETRA, cit., pp. 25-26; PALUMBO, cit.,
p. 3.
Sul numero di animali che potevano pascolare nelle singole locazioni,
sull’estensione e qualità di queste e sulle pensioni pagate dalla R. Corte agli antichi
proprietari dei territori: ANNIBALE MOLES, Decisiones Supremi Tribunalis Regiae Camerae
Summariae Regni Neapolis, Neapoli 1718, pp. 108-110; PALUMBO, cit., p. 103. V. anche il
mio La Dogana delle pecore di Foggia. Elementi per una pianta generale del Tavoliere, in Quaderni di
Foggia a cura del Comune, 5, Foggia 197 1, pp. 13 - 20.
5 - Secondo il Di Stefano (cit., II, p. 30) le poste temporanee e stabili del Tavoliere
erano 352, ma per Agatangelo della Croce, agrimensore di Vastogirardi e compilatore nel
XVIII secolo di un atlante dei territori doganali (Archivio di Stato di Foggia – d’ora in poi
ASFg - Dogana delle pecore di Puglia, s. I, 21), esse arrimontavano ad oltre 500.
Alcuni locati, feudatari o enti ecclesiastici, si videro riconoscere il diritto di disporre
ogni anno sempre dei medesirni pascoli (poste fisse), contro l’ordine della R. Camera della
Sommaria del 31 luglio 1579. Per l’origine di tali poste, per un loro elenco e loro
possessori; cfr. SALVATORE GRANA, lstituzioni delle leggi della Regia Dogana di Foggia,
Napoli 1770, pp. 139-153; DE DOMINICIS, cit., III, pp. 31-41.
39
insoliti, ed altri tipi ancora), che in parte erano di completa spettanza fiscale (le
terre di Regia Corte), in parte di dominio diretto di feudatari, di università, di
cleri6.
Il Tavoliere a pascolo, con una continenza discontinua di circa 9000
carra, era ritenuto capace di offrire alimento sufficiente per sei mesi d’inverno a
circa 1.200.000 pecore (il possedibile)7 che vi si portavano percorrendo vie
particolari ed apposite, i tratturi, le quali nei tempi antichissimi furono semplici
piste battute, prive di ogni delimitazione, poi ebbero un’ampiezza determinata e
fissata in perpetuo (almeno 60 trapassi=metri 111).
Fra i molti tratturi che, come una grande raggiera, confluivano a Foggia,
i più importanti per lunghezza e densità di traffico erano tre che, prendendo
nome dai paesi terminali allacciati, si dissero: Aquila-Foggia, Celano-Foggia,
Pescasseroli-Candela.
Spesso oggetto di illegittime occupazioni, con seminati ed anche con
manufatti edilizi che rendevano difficoltoso o addirittura impedivano il
passaggio delle morre transumanti, al ripristino del loro status quo le autorità
doganali provvedevano con periodiche operazioni di verifiche, di misurazioni e
di apposizione di nuovi titoli confinari (le c.d. reintegre) che potevano
interessare l’intera rete o solo porzione di essa, e multando pesantemente gli
usurpatori, in genere i frontisti8.
____________
6 - Sui terreni concessi in uso perpetuo alla R. Corte per i bisogni della pastorizia, il
proprietario titolare del dominio diretto continuava ad esercitare il c.d. diritto di statonica,
ossia la facoltà di utilizzo dell’erbaggio estivo dal 9 maggio al 29 settembre, mentre i
pastori avevano l’uso dell’erbaggio invernale (vernotica). Altra cosa era invece la
statonichetta, e cioè il diritto abusivamente introdotto dai subalterni della Dogana di
fittare i regi pascoli dal 29 settembre al tempo della ripartizione generale.
Cfr. NUNZIO FEDERICO FARAGLIA, Relazione a S.E. il Ministro dell'Interno
intorno all'Archivio della Dogana delle pecore e del Tavoliere di Puglia in Foggia, Napoli, 1903, p.
16; DI STEFANO, cit., I, p. 263.
7 - DI STEFANO, cit., I, p. 26.
8 - Il DI STEFANO (I, pp. 119-121) distingue i tratturi in prinicipali, propri e fissi
(così i tre menzionati nel testo) e casuali ed amovibili e li annovera fra le regalie del
Principe, per cui non perdevano la loro natura di strade regie anche quando attraversavano
territori baronali.
40
Lungo i tratturi esistevano i riposi laterali, costituiti da pascoli che la
Regia Corte forniva ai pastori per la breve sosta.
Altra cosa erano invece i riposi generali, dove gli animali transumanti si
fermavano in attesa del permesso di entrata nelle locazioni: il Saccione, dal
fiume Fortore al fiume Sangro, le Murge e la Montagna dell’Angelo, stabilito
da Ferrante I d’Aragona con i demani da Apricena a Vieste9.
I pastori corrispondevano per l’uso degli erbaggi, ma anche quale
corrispettivo dei privilegi, delle comodità ed agevolazioni concessi dalla
Dogana al loro ceto, una fida di 132 ducati per ogni 1000 pecore. E sino alla
seconda metà del XVI secolo l’esazione della fida dipese realmente dalla conta
degli animali, eseguita nei riposi generali da apposite squadre di numeratori.
Ma nel 1553 tale sistema fu abolito, venendo permesso ai pastori,
desiderosi di avere pascoli maggiori di quelli spettanti per il numero dei capi
posseduto, di aumentare idealmente questo numero, accollandosi in
corrispondenza l’onere del maggiore esborso. Il nuovo criterio, vantaggioso
anche per la Regia Corte, fu detto professazione volontaria10.
____________
Sui tratturi del Tavoliere e loro antiche reintegre, temi di rinnovato interesse di
studio in questi ultirni tempi; L'Archivio del Tavoliere diPuglia, a cura di P. di Cicco e D.
Musto, IV, Roma 1984, pp. 5-24 e il mio La transumanza egli antichi tratturi del Tavoliere,
inRegione Puglia, Ass. alla P.I. e Cultura, Profili della Daunia antica (Quaderni del Centro
Distr. FG/33, 11), Foggia 1986, pp. 205-217.
9 - Nei riposi generali (il più vasto di essi era il Saccione e tutti avevano erbaggi
scadenti) si effettuava le numerazione (conta) degli animali, fase indispensabile per la
determinazione della fida da addebitarsi ai singoli locati, e la cui entità, tranne casi
eccezionali, non subiva scomputi, anche se le greggi nel corso dell’inverno venivano
decimate da morie o assottigliate dai rigori del tempo o dalla caduta delle nevi. Per l’uso
dei riposi, sia generali sia laterali, la Dogana non percepiva alcun diritto. Cfr. DI
STEFANO, cit., I, p. 142; DE DOMINICIS, cit., I, pp. 221-248; GRANA, cit., p. 14; DE
MEIS, cit., pp. 74-75.
10 - Sulla professazione che si faceva a Foggia e che si basava anche sulle pecore
ideali e finte (o in erba o in alia) e non solo su quelle reali ed esistenti: DI STEFANO, cit.,
I, pp. 229-25l; DE DOMINICIS, cit., I, pp. 113, 385-386; GAUDIANI, cit., pp. 225-235;
JOHN A. MARINO, Professazione voluntaria e pecore in aerea. Ragione economica e meccanismi di
mercato nella Dogana di Foggia del secolo sedicesimo, in Rivista storica italiana, a. XCIV (1982),
pp. 5-43. Una sua chiara definizione è in GRANA, cit., p. 85. Cfr. anche DOMENICO
MARIA CIMAGLIA, Ragionamento
41
La complessa gestione del Tavoliere a pascolo ed a coltura esigeva
l’impegno e le fatiche di parecchi pubblici ufficiali, alla testa dei quali era il
doganiere o governatore che il Brencola, patrizio sipontino, autore di una
monografia sulla giurisdizione doganale, definisce il regolo della Dogana. Egli,
fin dal XV secolo, assieme all’uditore ed al credenziere, formerà il tribunale
speciale dei locati e dei massari di campo, presso il quale sarà attivo anche
l’avvocato dei poveri fin dai tempi più antichi11.
L’uditore, giudice ordinario delle cause doganali che non toccavano i
diretti interessi fiscali, era di nomina regia e durava in carica per un triennio; il
credenziere, avvocato e procuratore del fisco, aveva anche notevoli attribuzioni
in tema di distribuzione ed assegnazione di pascoli e di esazione di fida.
Funzionari minori dell’organizzazione doganale erano il cassiere o
percettore che incassava i versamenti fatti dai pastori; il libro maggiore che
formava il registro di esazione, in cui si annotavano i pagamenti avvenuti, e che
rilasciava ai pastori il bollettino in cui si segnavano l’origine e la quantità del
debito eventuale; il mastrodatti con funzioni varie, fra cui preminente
____________
dell'avvocato dei poveri D.M.C. sull'economia che la Regia Dogana di Foggia usa co’ possessori
armentari e con gli agricoltori che profittano de' di lei campi, Napoli 1783, pp. 28-31;
FARAGLIA, cit., pp. 34-35.
11 - Dopo le direttive generali contenute nel diploma del 1447, il doganiere ebbe
altre particolari istruzioni che tendevano a precisare le attribuzioni del suo ufficio, come nel
1470 e nel 1480, con privilegi di Ferrante I d’Aragona.
Il doganiere, residente a Lucera sino al 1468 e poi a Foggia, ebbe anche poteri
amministrativi molto estesi che, con il passare degli anni, divennero sempre più ampi. Dal
1583 il suo ufficio cominciò ad essere venale, e tale rimase sino alla prima metà del 600.
Dopo il Montluber, per circa un quarantennio il doganiere rimase unico giudice del
tribunale della Dogana: nel 1483 ebbe un collaboratore nella persona dell’uditore, che era
un giudice ordinario.
A partire dal 1536, per le impegnative incombenze connesse alla carica di
credenziere, si ebbe, uno sdoppiarnento e da allora funzionarono in Dogana due
credenzieri, uno per la parte econornica, l’altro per quella giuridica.
Sull’avvocato dei poveri: DI STFFANO, cit., II, pp. 487-488; DE DOMINICIS,
cit., III, p. 341.
42
quella di conservatore dell’archivio doganale; i cavallari, addetti all’assistenza dei
pastori durante la calata dai monti ai piani del Tavoliere e durante il loro
ritorno in patria, e con compiti anche giudiziari.
Svolgevano un’attività strettamente congiunta alla Dogana, pur restando
al di fuori dell’organismo, i pesatori di lana delle tre paranze di Aquila, Sulmona
e Casteldisangro, addetti alle importanti operazioni dell’infondicatura e
sfondicatura delle lane nei magazzini di Foggia, ed i compassatori o regi
agrimensori, che erano tecnici di fiducia della Dogana ed i soli abilitati alla
misurazione dei pascoli, delle terre a coltura, dei tratturi del Tavoliere.
Una posizione a se stante nell’organizzazione doganale ebbe il
luogotenente della Doganella d’Abruzzo, creato nel 500 per la gestione dei
pascoli demaniali fra i fiumi Tronto e Pescara e tra il Sangro ed il Trigno, in cui,
per deroga al divieto del pascolo fuori del Tavoliere, ebbero facoltà di pascere
alcune greggi abruzzesi e marchigiane12.
Tutta l’organizzazione, sinora accennata per linee molto generali, traeva
origine direttamente o meno dal privilegio alfonsino del 1447 che apportò
radicali innovazioni nel mondo della transumanza meridionale.
Esso imponeva ai pastori del regno l’obbligo di calare ogni anno con le
loro greggi ai pascoli del Tavoliere, offrendo in cambio l’impegno della Regia
Corte, e quindi della Dogana, circa la fornitura di erbaggi adeguati al bisogno,
la protezione durante il viaggio da e per i luoghi di provenienza, i percorsi
____________
12 - Sulla Doganella, oltre ciò che ne scrivono gli autori doganali “classici”, cfr.
PAOLA PIERUCCI, L'attività pastorizia dell'Abruzzo citra al tempo di Margherita d'Austria, in
Margherita d'Austria e l'Abruzzo, Atti del Convegno di studi storici, Ortona, Palazzo
Farnese, 20-21 febbr. 1982 (Ortona, Associaz. archeol. frentana, 1983) pp. 47-52; IDEM,
Le Doganelle d'Abruzzo: struttura ed evoluzione di un sistema pastorale periferico, in Mélanges de
l’Ecole Francaise de Rome, Moyen age-temps modernes, cit., pp. 893-908.
43
riservati e sgombri da ogni impedimento, l’esenzione da dazi, gabelle, diritti di
passi e di ponti, regi, baronali o universali, le facilitazioni di pagamento della
fida, la garanzia di vendita delle lane, il sale per gli animali a prezzo ridotto, la
detenzione di armi. E, infine, elemento importantissimo, prometteva loro un
foro privilegiato, con l’esenzione da ogni altro giudice che non fosse quello
doganale.
Al di là delle interessate e contrastanti interpretazioni che spesso se ne
fecero nel corso di più secoli, la lettera della norma sovrana era chiara in
propostito:
“...et quia inter conductores dictae menae, pastores, gregarios, et
patronos dictarum pecudum et aliorum animaliorum solent rixae, et
controversiae diversarum causarum saepius evenire, de quibus rixis,
controversiis et causis nos tantum cognoscere volumus, propterea vos
praedictum Franciscum iudicem, gubernatorem et capitaneum super dictis
conductoribus, pastoribus, gregariis et patronis, et super eorum rixis et
controversiis statuimus, ac etiam ordinamus cum plena iurisdictione civili et
criminali, mero et mixto imperio, ac gladii potestate...”.
Queste parole fissavano risolutamente il principio della derogatio fori,
facendo del Montluber e, dopo di lui, degli altri doganieri il solo titolare del
pieno ed effettivo potere giurisdizionale sui locati, l’unico competente giudice
delle cause pastorali in maniera esclusiva e generale, cum plena iurisdictione civili et
criminali, mero et mixto imperio, ac gladii potestate, con il potere cioè di infliggere
anche le più gravi pene corporali.
Nel tempo qualche nuova norma, ma in particolare la dottrina e la
giurisprudenza precisarono i caratteri e la portata del privilegio del 1447 a
favore dei pastori, e quindi anche l’ambito d’azione del Tribunale doganale.
Al doganiere di Foggia si attribuiva in effetti una giurisdizione tutta
speciale, non ristretta alla sola Puglia, i cui caposaldi
44
consistevano nel non avere limiti territoriali, riguardando certum genus personarum,
per cui in qualunque parte del regno stessero sudditi di Dogana, colà arrivava la
giurisdizione della Dogana; nella competenza su ogni tipo di controversia in cui
era coinvolto il locato, e quindi non solo su quelle per materia doganale;
nell’essere stata concessa con clausola privativa ed abdicativa, per cui si faceva
inammissibile la competenza di altro giudice; ed infine nella possibilità di
esercizio non secondo il rito comune ed ordinario, ma con rito tutto
sommario 13.
Inoltre essa non si configurava come una graziosa concessione sovrana,
ma come una precisa componente del contratto oneroso ed obbligatorio
instaurato del primo re aragonese con i pastori.
Il foro speciale con sede a Foggia, che nei primi tempi si chiamò Regia
Audientia Menae pecudum, venne subito a rappresentare un forte elemento di
disturbo nel mondo giuridico di allora, già ricco di giurisdizioni ordinarie e
speciali, dalla precaria e contrastata convivenza, e nella società, in cui molto
diffuso era il privilegio.
Si aggiungeva infatti al Sacro Regio Consiglio, istituito di recente, alla
Gran Corte della Vicaria, ed alla Regia Camera
____________
13 - A parte la citata monografia del Brencola dedicata al viceré Cardinale d’Althann,
pagine fondamentali sulla giurisdizione della Dogana sono nelle opere già più volte
segnalate del Di Stefano, (II pp. 249-456), De Dominicis (III, pp. 283-358) e Gaudiani
(pp. 285-311); di grande interesse risultano la risoluzione sovrana del 28 giugno 1760
(ASFg., Dogana delle pecore, s. I, vol. 8, e. 167 r.), già edita dal De Dominicis (III, pp. 323324), e la memoria inviata due mesi dopo dal fiscale della Dogana all’avvocato del Real
Patrimonio (riportata in Appendice).
Della derogatio fori usufruiva non solo il locato, ma ogni suo dipendente, come
pure chiunque altro conduceva un’attività collegata in qualche modo all’industria pastorale.
Difatti, al n. 14 dei Banni, ordini e comandamenti fatti dal doganiere Fabrizio di Sangro il
7 febbraio 1574 si legge che il doganiere era il giudice esclusivo per i “patronali di pecore, et
altri bestiami di Dogana, Gargari, Pastori, Buttari, Giomentari, Baccari, et altri ministri che
servono alle masserie di detti bestiami, bassettieri, calzolari, pastori, Panettieri, Bardari,
Tavernari, Vetturini, et altri traficanti, che seguitano detta Dogana, al calare et al salire”.
Il Di Stefano (II, pp. 380-400) menziona tutti quelli che direttamente o
indirettamente erano da considerarsi doganati, e quindi sudditi del foro speciale.
45
della Sommaria, che erano i più elevati organi giudiziari del regno, alle Regie
Udienze operanti in ogni provincia quali tribunali di primo e di secondo grado,
ed alla miriade di corti baronali e di giudicati regi.
Rimaneva soggetto alla sola Sommaria, che aveva poteri d’intervento nei
confronti del giudicato doganale solo in casi di gravame per motivi di
legittimità, mai per motivi di merito, e con l’ampiezza delle sue attribuzioni
faceva ombra ad ogni altro tribunale ordinario e speciale, diminuendone
l’autorità14.
Il Doganiere era tenuto a difendere ex officio il privilegio dei locati contro
ogni altro giudice: sui conflitti di competenza decideva il Collaterale. A questo
Consiglio, per cedola di Filippo II del 1596, essendo viceré l’Olivares, la
Sommaria doveva rapportare ogni venerdì del mese sullo stato della Dogana 15.
Il doganiere inoltre rivedeva in seconda istanza le sentenze del
luogotenente d’Abruzzo, finché la Doganella non divenne autonoma, e del
luogotenente di Basilicata, e riceveva i ricorsi contro i giudicati dei cavallari e
degli ufficiali di residenza16.
I baroni, che esercitavano giurisdizione in grandissima parte delle città,
terre e casali, si sentivano in particolare danneggiati non solo nel potere, ma
anche nelle entrate e proventi17.
____________
14- Sull’organizzazione giudiziaria del Regno di Napoli, le magistrature citate nel
testo, loro composizioni ed attribuzioni: GIUSEPPE MARIA GALANTI, Della descizione
geografica e politica delle Sicilie, a cura di F. Assante e D. Demarco, voll. 2, Napoli 1969, I, pp.
147-166; RAFFAELE PESCIONE, Corti di giustizia nell'Italia meridionale (dal periodo
normanno a l'epoca moderna), Napoli 1924; RAFFAELE AJELLO, Il problema della riforma
giudiziaria e legislativa nel Regno di Napoli durante la prima metà del secolo XVIII, Napoli 1968;
VITTOR IVO COMPARATO, Uffici e società a Napoli (1600-1647). Aspetti dell'ideologia del
magistrato nell'età moderna, Firenze, 1974.
15 - DI STEFANO, cit., I, p. 86; II, pp. 266-276.
16 - DI STEFANO, cit., II, pp. 312, 355; PESCIONE, cit., p. 525.
17 - Nel parlamento convocato prima a Benevento poi a Napoli in febbraio 1443,
Alfonso d’Aragona, in cambio dei riconoscimento per proprio successore del figlio
naturale Ferdinando e di una forte somma a titolo di sovvenzione, estese a tutti i baroni il
privilegio, prima concesso
46
Di qui i continui attacchi contro il tribunale della Dogana e i rapporti
frequentemente tesi fra questo e le altre magistrature giudiziarie.
I contrasti si conclusero quasi sempre con la vittoria delle tesi sostenute
dalla Dogana, verso cui il potere regio assunse generalmente una posizione
favorevole18.
Invero troppi interessi fiscali erano connessi all’istituzione foggiana
perché se ne potesse volere una crisi della potestà giurisdizionale; e molti
convenivano che l’esercizio di tale potestà rappresentava la base fondamentale
della Dogana, e che era necessario che i locati potessero attendere con
tranquillità alla propria industria, senza rischio di essere tratti davanti ad altri
giudici.
Già nel 1470, su richiesta del ceto interessato, re Ferrante concesse la
conferma del privilegio alfonsino, stabilendo “che niuno Officiale possa
procedere contro pecorari, et homini di Dohana salvo che ipso Dohanero, o
vero soi Officiali” 19.
Dopo il crollo del dominio aragonese e quando venne a Napoli Carlo
V, all’imperatore i locati chiesero di essere giudicati solo dal tribunale doganale
e in appello dalla Camera della Sommaria, con esclusione di ogni altro giudice.
Chiesero
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solo ad alcuni di essi, di amministrare giustizia entro i confini del proprio feudo, anche
con i poteri consentiti dalle quattro lettere arbitrali promulgate da Roberto d’Angiò.
Per questa e per altre notizie sulla giurisdizione baronale: PESCIONE, cit., pp.
349-354.
Secondo il Pescione è appunto al malgoverno fatto dai baroni che si connette la
fondazione del tribunale della Dogana e dei tribunali della seta e della lana (cit., pp. 44).
Con la concessione ai baroni delle I e delle II cause si rovinò la Gran Corte della Vicaria e,
secondo alcuni giureconsulti, il re Alfonso I meritò l’inferno. Ma i sovrani successori
accrebbero addirittura le concessioni (DI STEFANO, cit. II, p. 284).
18 - Può dirsi che in una sola circostanza le posizioni sostenute dalla Dogana in
campo giurisdizionale non riscossero pieno successo, e fu in relazione alla competenza
sulle lettere di cambio, a lungo dibattuta tra la magistratura foggiana e il Consiglio
Collaterale. Cfr. in proposito il mio La Suddelegazione dei cambi presso la Dogana di Foggia, in
Quaderni di “La Capitanata” 10, Foggia 1970.
19 - Per il testo dei privilegi di re Ferrante del 5 dicembre 1470 e del 17 dicembre
1480: CODA, cit., pp. 16-18, 20-22; DE DOMINICIS, cit., I, pp. 76- 83.
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inoltre che, quando ci fossero state indebitamente intromissioni di altri giudici,
questi venissero obbligati a trasmettere alla Dogana tutti gli atti processuali, e
gratis. Il placet imperiale fu accordato da Castelnuovo con privilegio del 11
febbraio 153620. Ed in quello stesso periodo si ristabiliva in Dogana l’ufficio di
uditore, che era rimasto scoperto per più anni21.
Ma l’opposizione al foro privilegiato non cessava e corti regie e baronali
non sempre rispettavano l’obbligo di rimettere alla Dogana i processi già
avviati oppure disconoscevano la competenza di questa, ora per ragione di
materia, ora di luogo, ora di persona.
Per cui il 30 settembre 1550 il viceré Toledo dovette ribadire che “sopra
gl’officiali et huomini di ... Dohana ... nessuno altro officiale puote né deve
conoscere, eccetto esso magnifico dohaniero”22.
Le diatribe, mai del tutto spente, sul foro dei pastori ricevettero nuovo
alimento dal cap. 28 della prammatica (detta appunto dei 28 capitoli) emanata il
30 luglio 1574 dal viceré cardinale di Granvela, a seguito dell’esame che dello
stato della Dogana l’anno precedente aveva fatto il doganiere Fabrizio di
Sangro con Francesco Revertera e Annibale Moles, l’uno luogotenente, l’altro
presidente della Sommaria23.
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20 - De Dominicis, cit., III, p. 284; Coda, cit., p. 27 (Capitoli, Gratie et confirmationi
di gratie, che si dimandano alla Cesarea Maestà per parte della Dohana della mena delle pecore di
Puglia, e delli huomini di essa. Cap. 1).
21 - Vacando il posto e tardando la nuova nomina, era invalsa spesso l’abitudine
di surrogare l’uditore con altro funzionario, come il r. governatore di Foggia. Ma i pastori
non gradirono la novità e protestarono, lamentando la confusione della giurisdizione che
ne derivava, e così, regnando Carlo V, fu rinnovato l’ordine di eleggere il giudice particolare
delle controversie dei pastori e stabilito che egli restava in carica per un biennio.
Nel 1593, su ricorso del doganiere marchese di Padula, la Sommaria proibì
tassativamente al governatore di Foggia di ingerirsi negli affari di Dogana ed all’uditore di
fare deleghe (DE DOMINICIS, cit., III, p. 336).
22 - GAUDIANI, cit., p. 289.
23 - Il cap. 28 della prammatica, che era stata stesa dal Revertera e dal Moles e poi
firmata anche dai reggenti Salernitano e Salazar, recitava testualmente: “che nessun’ officiale
maggiore
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Difatti, il capitolo in questione, mentre riconfermava la giurisdizione del
doganiere, nel contempo la limitava sensibilmente.
Il tribunale foggiano restava giudice competente per ogni tipo di causa
dei locati e questi, se rei e convenuti, continuavano a trarre innanzi ad esso
anche gli estranei e non sudditi. Ma tale competenza aveva la durata del solo
anno pastorale che andava, come si soleva dire, dall’uno all’altro Angelo (cioè
dal 29 settembre al 8 maggio), cessando invece nei tempi seguenti.
D’estate, quando i locati si trovavano nei paesi di origine, potevano citare
in forza del loro privilegio avanti al proprio tribunale gli estranei solo per
questioni riguardanti esclusivamente l’esercizio pecorino, per dirla con un autore
doganale del Seicento.
Era questa una vittoria per i baroni e, secondo voce, essi dovevano
andare grati principalmente al Revertera che allora
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o minore, regio o baronale, s’abbia in modo alcuno ad intromettere directe val indirecte
nella giurisdizione di esso magnifico Doganiere, il quale assolutamente ha da conoscere gli
uomini d’essa Dogana per qualsivoglia causa civile, criminale o mista, per qualsivoglia
delitto per enorme che sia, in modo tale che non solo non possano essere chiamati, né
convenuti avanti d’altro Tribunale che del detto magnifico Doganiero per nessuna sorte di
cause, come sopra s’è detto, ma anco che essi e ciascuno di loro possano, e possa per
qualsivoglia causa civile, criminale e mista traere avanti di detto magnifico Doganiere, e suo
Luogotenente, ed officiale tutte e qualsivoglia persone, quantumvis privilegiate che siano,
durante il tempo, da che detta Dogana si muove dalle montagne di Abruzzo sinché
ritorna in esse, e quelli ancora tutti, che restassero in Puglia per servizio, o negozio
pertinenti a Dogana; però l’estate, ritornati che saranno in Abruzzo, detti di Dogana
debbiano godere l’istessi privilegi, quanto a non esserno tratti per le cause, come di sopra;
verum circa il trahere non lo possano, se non in cose tantum toccanti a Dogana; ben vero
in assenza di detti oficiali di Dogana, l’altri oficiali delle Terre, e luoghi demaniali di Baroni,
in la giurisdizione de’ quali essi di Dogana delinquissero, possano procedere
all’inquisizione, ed etiam, bisognando, e ricercandolo il caso, alla cattura, con avvisarne
però subito detto magnifico Doganiero, e suoi Luogotenenti, ed oficiali più propinqui,
che si troveranno, acciò possino mandare per essi e detti oficiali ce li debbiano
incontanente rimettere, e consegnare una cogli atti, e processi originali a semplice richiesta
di esso magnifico Doganiere, o del suo Luogotenente, con fede dell’uno e l’altro, insieme
ancora con loro armi, animali e robe che li fussero state tolte; per la qual remissione non si
abbia da pagare cos’alcuna, né per via di portello, né per altra qualsivoglia causa, conforme
alli bandi regi, detti da noi , etiam che spontaneamente volessero pagare; il che volemo, ed
ordinamo, che cosi inviolabilmente si debba osservare” (DI STEFANO, cit., II, p. 258).
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era divenuto anch’egli un grande feudatario, avendo comprato la terra di
Salandra e vari feudi in Basilicata24.
La Dogana si mosse in difesa delle sue prerogative ed ottenne una
decisione del Collaterale che le riconosceva la completa potestà giurisdizionale,
mentre il molto discusso capitolo vicereale nessuna osservanza riceveva e, anzi,
secondo il Moles, s’estingueva con la morte del Revertera25.
Logico era, d’altronde, che la questione si risolvesse in tal maniera, una
volta che a livello politico veniva accettato il principio ispiratore del foro
speciale, cioè l’intento di sottrarre il locato a rischi che potevano avere incidenza
negativa sulla sua attività, interessante per il fisco, rischi che erano ben
prevedibili se egli fosse stato soggetto ad un giudice in inverno, ad un altro in
estate.
Il locato esercitava la sua attività in tutte le stagioni, sia quando svernava
con il proprio gregge nel Tavoliere sia quando era nel luogo originario e poi,
nel suo caso, estate ed inverno erano termini alquanto elastici26.
Né maggiore soddisfazione e miglior esito ebbe qualche anno più tardi il
tentativo dei baroni per ottenere che restassero esclusi dalla giurisdizione del
doganiere i cosiddetti locati fittizi, cioè coloro che non possedevano realmente
pecore ma che pagavano ugualmente una fida per avvalersi del privilegio
alfonsino e non essere giudicati da corti feudali.
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24 - “...i baroni, sostenuti dal Reggente Revertera, sorpresero la diligenza del Vicerè
Cardinale di Granvela per farlo limitare, colla nuova sofistica distinzione del tempo...”
(DE DOMINICIS, cit., III, p. 284). V. anche DI STEFANO, cit., p. 260.
25 - Il capitolo 28 non venne mai osservato, sia per difetto di potestà del Granvela
(il viceré non poteva modificare quanto il sovrano aveva convenuto con contratto
oneroso), sia per sospetto del compilatore (il Revertera divenuto feudatario). Esso fu
comuque revocato dalla prammatica LXXIX del 1688, il cui cap. 38. richiama il cap. XIV
dei bandi di Fabrizio di Sangro (DI STEFANO, cit., II, pp. 259-60, 266);
26 - DI STEFANO, cit., II, p. 289. Anche agli affidati della Dogana del Patrimonio
di San Pietro il privilegio del foro era concesso sia d’estate che d’inverno (p. 303).
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Il Consiglio Collaterale, infatti, respinse anche questo tentativo dannoso
per le entrate doganali con decisione del 8 agosto 1579.
Perseguendo un’analoga politica, venti anni dopo, nel 1599 la Sommaria
stabiliva che nessun valore potevano avere le rinunce alla giurisdizione propria,
imposte ai locati dagli ufficiali baronali all’atto della stipula di istrumenti27.
La magistratura foggiana e la Generalità dei locati rimasero sempre
molto vigili, attente ed attive nel fronteggiare ogni attacco portato contro il
foro privilegiato voluto da re Alfonso, sempre memori delle parole di Fabrizio
di Sangro al viceré Montejar che “... la mena delle pecore di Puglia dopo l’erba,
niun’altra cosa la mantiene e conserva, se non la giurisdizione ed il giusto
favore” 28.
Dal 1615 al 1661 i pascoli del Tavoliere furono regolati non con la
professazione volontaria, ma con la transazione o vivere per situazione, nuovo
sistema ideato e fatto attuare per la prima volta dal luogotenente della R.
Camera Berardino di Montalvo, marchese di San Giuliano 29.
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27 - ASFg, Dogana delle pecore, s. I, vol. 3, c 13.
28 - DI STEFANO, cit., II, p. 251.
29 - Dopo la grande moria del 1611-12, che falcidiò le masserie armentizie di quasi
tutte le locazioni (si sottrassero solo Candelaro e Cave, le cui pecore erano nel riposo di
Monte Santangelo), la professazione divenne relativamente volontaria e non più tale da
soddisfare i bisogni erariali. Di qui la riforma progettata dal Montalvo, il cui scopo
principale era quello di garantire alle casse erariali una somma annua determinata, rivestita
di tutti i caratteri della sicurezza, che non ricevesse pregiudizio da qualsiasi fatto dei locati o
situazione della pastorizia negli anni futuri. Accettando la proposta, il ceto dei locati, in
cambio della cessione di tutti gli erbaggi (locazioni e ristori), si impegnò a dare alla R.
Corte annualmente ducati 182.000 per un numero di 2.000.000 di pecore e riconobbe a
beneficio esclusivo della stessa l’affitto di terre a coltura limitatamente a 833 carra.
L’accordo, per la durata di 5 anni, venne preso con pubblico istrumento per mano
del notaio Scipione Petreo di Foggia il 25 novembre 1615. Nella circostanza la Generalità
dei locati stabilì anche un donativo annuo di 10.000 ducati per S.M., per tutto il
quinquennio.
DI STEFANO, cit., I, pp. 233,488; DE DOMINICIS, cit., II, pp. 3-45. V. anche:
ASFg, Dogana delle pecore, s. I, vol. 2, cc. 174t-178r.
51
Nei patti previsti dal nuovo sistema i locati fecero sempre inserire una
clausola che significava la conferma del privilegio del foro30.
Questo poi, secondo la Sommaria partecipava alla R. Udienza di Lucera
in giugno 1616, si intendeva esteso anche ai figli, ai servi e alla famiglia in
generale del locato 31.
Negli anni seguenti altre provvisioni della Sommaria, provocate da casi
concreti di contestazione della competenza del tribunale foggiano, decidevano a
favore di questo e precisavano ulteriormente l’ambito della sua speciale
giurisdizione.
Veniva così a stabilirsi che il privilegio dei locati derogava e superava
quello concesso dall’imperatore Costantino a vedove, pupilli e persone
miserabili, quelli a favore dei Capuani, Cosentini, delle Arti della seta e della lana
e, sia pure nel dissenso di parte della dottrina giuridica, persino il privilegio della
regina Giovanna II concesso ai Napoletani nel 1420, per il quale i cittadini della
capitale traevano e non potevano essere tratti, come si diceva32.
Si affermava il principio che gli altri giudici erano incompetenti nei
confronti dei locati, come i giudici secolari lo erano nei confronti dei chierici e
si riconosceva al tribunale doganale la
____________
30 - Altre transazioni fraistituto doganale e locati si ebbero nel 1618, 1626, 1636 e
1642 (DI STEFANO, cit., II, pp. 233-234).
Nella transazione rinnovata nel 1626 si domandò per gli ufficiali di Dogana la
facoltà, già altra volta concessa, di procedere alla carcerazione degli ufficiali regi e baronali
che non obbedivano alle ortatorie del tribunale e venne ancora accordata (DE
DOMINICIS, cit., III, p. 286).
Già nel 1601 la Sommaria aveva ordinato che, in caso di inosservanza delle sue
ortatorie, il governatore doganale scassinasse le carceri altrui. In effetti le lettere della
Dogana e della Sommaria ai tribunali pari, per quanto chiamate ortatorie, se trattavano di
locati, avevano forze di inibitorie (DI STEFANO, cit., II, pp. 273, 275).
31 - ASFg, Dogana delle pecore, s. I, vol. 2, c. 164.
Restavano escluse dal privilegio le figlie sposate, lo mantenevano invece le vedove
dei locati, finché serbavano lo stato vedovile (DI STEFANO, cit., II, pp. 381, 384, 402).
32 - GAUDIANI, cit., pp. 293-294.
52
potestà di procedere, come ogni altro tribunale regio, anche contro i rei di
delitti di campagna, se commessi da doganati33.
Scriverà il Di Stefano che il privilegio sul foro dei pastori faceva tanto
strepito nelle scuole e nei tribunali da essere assomigliato alla cerva di Cesare34.
Alle ortatorie doganali, cioè alle lettere di richiesta ad altro giudice,
superiore o uguale, di citare o di rimettere un suo suddito al magistrato
richiedente, mai il Sacro Regio Consiglio e la Gran Corte della Vicaria avevano
fatto opposizione. Riluttanze invece continuavano ad aversi da parte delle Regie
Udienze, prima fra tutte quella di Capitanata con sede in Lucera.
E il Collaterale nel 1614, e il duca d’Alba nel 1625 imposero il rispetto di
dette ortatorie, ma poi fu necessario che anche nel 1638, il viceré del tempo,
duca di Medina de la Torre, ribadisse questo punto 35.
Nel settembre 1657 un arresto del reggente de Marinis, presidente della
Sommaria, per viam legis condendae stabiliva che R. Dohanam menae pecudum Apuliae
in prima instantia cum subditis suis active et passive cognitionem habere omnium causarum
civilium criminalium et mixtarum, privative quoad omnes alios iudices, tam inferiores quam
superiores, etiam cum derogatione legis unicae: in sostanza, il privilegio del foro dei
locati escludeva nel primo grado la stessa giurisdizione della Sommaria.36.
Ed appena un mese prima si era definitivamente stabilito che per godersi
la protezione di quel privilegio fosse necessario
____________
33 - DI STEFANO, cit., II, p. 279; DE DOMINICIS, cit., III, 287.
34 - DI STEFANO, cit., II, p. 252.
35 - GAUDIANI, cit., pp. 295-298, in cui fra l’altro si ricordano episodi di
applicazione di questo principio, relativi agli anni 1690 e 1692.
36 - DI STFFANO, cit., II, p. 262; GAUDIANI, cit., p. 291.
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dichiarare in Dogana anche soltanto 20 pecore vere ed effettive37.
La pubblicazione postuma (1665) dell’opera di Costantino Cafaro, con
la sua questio XV rinverdisce la discussione sulla validità del privilegio alfonsino
per l’intero anno.
Questo autore ed i suoi seguaci (Altimati, Mucci, Ageta, di Costanzo,
Giannelli, Iorio, Riccio Pepoli sono quelli che si fanno “a guisa di pecore trarre
nel pecoreccio del mentovato Cafaro”, verrà rilevato con scherno dal Di
Stefano) sostengono che solo in inverno i locati godono del pieno privilegio del
foro, e in estate solo nelle cause che procedono dalla pastorizia.
La polemica resta a livello dottrinario e ancora una volta il controverso
capitolo 28 del Granvela riceve nuove interpretazioni, favorevoli o contrarie al
foro doganale o alla giurisdizione baronale. In particolare la tesi del Cafaro
viene confutata con due lavori da Francesco Giuseppe de Angelis di Scanno,
più volte deputato della Generalità dei locati38.
Ma nella realtà quotidiana il magistrato foggiano non ammette alcuna
limitazione giurisdizionale e continua ad affidare ai suoi cavallari, ordinari e
straordinari, indagini e pratiche processuali e ad inviare in ogni terra e luogo di
dimora dei locati i suoi commissari, o il suo ufficiale di residenza per le cause
che possono avvenire in tempo d’estate e che, essendo di poco conto, non
conviene rimettere a Foggia39.
Si giungeva così all’anno 1688, in cui sotto la data del 22 dicembre, il
viceré Pietrantonio d’Aragona emanò la famosa prammatica LXXIX de officio
Procuratoris Caesaris, detta dei
____________
37 - DI STEFANO, cit., II, p. 255. Lo stesso autore informa che nei tempi
precedenti, per l’arresto 684 del reggente de Marinis, potevano godere il privilegio del foro
solo coloro che professavano in Dogana non meno di 400 pecore di relazione, senza
corpo, senso, moto, figurate in aria, pagando 3 ducati a centinaio. Nello Stato della Chiesa
erano richiesti 30 animali minuti e 10 grossi, muli e cavalli esclusi.
38 - DI STFFANO, cit., II, p. 268.
39 - GAUDIANI, cit., p. 303.
54
49 capitoli, la quale, secondo Di Stefano, che poi ne sarà il più dotto
commentatore, fu pubblicata apposta per far argine alla scuola del Cafaro40.
Il capitolo 38 di questa prammatica, dedicato al foro dei locati e, per
estensione, anche dei massari di campo e degli affittatori di terre salde, ne
riconosceva la giurisdizione privilegiata ed incondizionata, senza limiti per
materia, tempo e luogo, con richiamo espresso al capitolo XIV dei bandi del
doganiere Fabrizio di Sangro41.
I principi sostenuti per tanti anni dalla Dogana, da molti subìti e non
accettati, trovavano la piena affermazione.
Da allora in poi questa prammatica, assieme al privilegio di Alfonso,
rappresenterà il punto di riferimento normativo nelle cause trattate dal tribunale
speciale e nell’opposizione agli altri tentativi che ancora nel XVIII secolo si
avranno per restringerne le attribuzioni.
____________
40 - La Generalità dei locati, vedendo non pienamente osservato il privilegio del
suo foro ed allarmata dalla pubblicazione del libro del Cafaro, aveva fatto ricorso al
sovrano in Spagna. A seguito di real carta, il viceré dapprima inviò a Foggia il luogotenente
della Sommaria, marchese Giovanni di Centellas, per porre rimedio ai vari abusi che si
avevano in Dogana, e poi pubblicò la prammatica, di cui furono estensori i reggenti
Capece Galeota, Carrillo, de Navarra, Capobianco e Ortiz-Cortes (DI STEFANO, cit., II,
p. 266; Nuova collezione delle prammatiche del regno di Napoli, a cura di Lorenzo Giustiniani, t.
X, Napoli 1804, pp. 419-430).
41 - “Perché da Sua Maestà, che Iddio guardi, ne viene incaricata l’osservanza della
prerogativa del foro a locati, sudditi, ed altri uomini, soggetti alla Regia Dogana, nel che
intendiamo, che non vi sia stata tutta l’attenzione che si richiede e che, nonostante nel Cap.
14 de’ bandi fatti in tempo del Doganiere Fabrizio di Sangro si ordina che non si possono
chiamare in giudizio i fidati di Dogana da qualsivoglia Tribunale, eccetto che da detta Regia
Dogana e ch’essendo pigliata informazione da altri officiali contro di essi, debbano quelle
trasmettere gratis; poiché non hanno lasciato d’ingerirsi nelle cause di detti fidati, diversi
Tribunali del Regno, senza riguardo che sia solamente la Dogana, o la Regia Camera loro
giudici competenti. E convenendo in ciò dare opportuno rimedio, ordiniamo a tutti e
singoli officiali di questo Regno, così Regi come Baronali, e particolarmente al Sacro
Consiglio, G. Conte della Vicaria, e Regie Udienze Provinciali che nell’avvenire non
s’ingeriscano nelle cause de’ locati, tanto criminali, come civili e miste, ma lascino che in
quelle proceda la R. Dogana, e suoi Ministri respective, e che osservino puntualmente
l’ortatorie, che loro saranno spedite per la remissione di dette cause, rimettendo gratis
l’informazioni, che forse avessero pigliato nella forma, che sta ordinato di sopra” (Cap.
38). (DI STEFANO, cit., II, pp. 249 e 266).
55
Anche questi tentativi, così come i precedenti, saranno tutti destinati al
fallimento, e la competenza doganale sarà affermata nei confronti del foro
militare e dei particolari giudici delegati che nel Settecento si moltiplicarono nel
regno per la più facile risoluzione delle vertenze (Governatore
dell’arrendamento del sale, Delegati della Nazione veneziana, della Religione di
Malta, dell’arrendamento delle carte da gioco)42.
L’osservanza della prammatica LXXIX viene ribadita al tempo del
viceregno austriaco, con cedole reali di Carlo VI da Vienna nel 1722 e 1724; al
tempo del regno indipendente un dispaccio generale in data 9 maggio 1743 di
Carlo III conferma la privativa giurisdizione nella sua forma più ampia e
Ferdinando IV con determinazione del 15 giugno 1769, essendosi verificato
qualche caso di inosservanza, prescrive l’esatta esecuzione degli ordini del
genitore43.
In effetti, il tribunale dei locati eserciterà le sue attribuzioni con pienezza
di poteri sino all’ultimo momento di vita della Dogana stessa, fino al 1806,
quando la nota legge del 21 maggio, decretando la fine dell’istituzione foggiana,
trasferirà la sua speciale giurisdizione alla magistratura ordinaria.
Pasquale di Cicco
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42 - DE DOMINICIS, cit., III, pp. 294-295.
43 - Il regio governatore di Bisceglie, mostratosi riluttantead obbedire alle ortatorie
doganali, viene rimosso dall’impiego (DE DOMINICIS, cit., III, p. 291).
56
Appendice
Signor mio padrone obligatissimo.
Informata La Maestà del Re N.S. della competenza sorta tra questa Regia Doana, e l’Udienza dell’Aquila per la causa delle violenze fatte ad alcuni cittadini di Lecce da alcuni cittadini di Gioia de quali alcuni erano locati, ed altri
non locati, si benignò prevenire questo Tribunale con sua real carta della data
delli otto del passato mese di maggio di questo corrente anno, spedita (per) la
sua Real Secretaria di Stato ed Azienda, aver sovranamente risoluto che la Camera di S. Chiara inteso il Fisco del Real Patrimonio e della G. C. informata
l’avesse col suo parere, secondo le leggi e l’osservanza.
Con altra real carta dell’istessa Secretaria d’Azienda de 28 giugno prossimo passato si degnò fare inteso quest’istesso Tribunale, che dopo d’avere inteso il dettame della Camera di S. Chiara, toccante la cennata competenza giurisdizionale, avea risoluto che tanto in questa, quanto in ogni altra causa, questa
Regia Doana come giudice competente delli soli locati, dovesse procedere e far
giustizia contro quelli rei, che erano suoi locati, e che l’Udienza dell’Aquila proceduto avesse contro quelli rei, che non erano locati di questa Doana, alla quale
ciò fusse stato di regola e governo.
Non dubito punto, anzi che son troppo sicuro, che V.S. avrà sostenuto
col solito suo valore le raggioni di questo Fisco doanale non che della Generalità de locati, e quindi altro non rimane, se non se venerare, ed eseguire le sovrane reali determinazioni non ostanteché essendo la legge generalissima viene a
distruggersi da fondamenti il privilegio de locati, con notabilissimo interesse del
Regio Erario. Ma comeché per potersi ciecamente eseguire i veneratissimi reali
ordini, si presentano a questo Tribunale alcune difficultà, che han di bisogno di
dilucidazione, affinché tanto nell’espressata causa, quanto in ogni altra simile
abbia in avvenire la norma come debba procedere in esecuzione de sovrani
ordini, che però sostenendo io debolissimamente, e per sola real clemenza di
S.M., e sua sovrana munificenza, le parti di avvocato fiscale di questa Regia
Doana, ho stimato atto indispensabile di mia precisa obligazione farle a V.S.
presente per riceverne suo saviissimo sentimento per mio regolamento.
Pria però di passare alla sua intelligenza le difficultà, che s’incontrano
nell’esecuzione della sovrana determinazione, non voglio mancare per
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disimpegno della mia carica accennare a V.S. le chiare raggioni, che assistono a
questo Fisco doanale, ed il notabilissimo interesse che ne addiviene al Regio
Erario come interessato al servizio del Re N.S..
E sebbene ciò a prima vista sembra io presuma interpretare i sovrani
oracoli, che devo solamente venerare e ciecamente eseguire, pur tutta volta non
credo affatto d’incorrere in una simile taccia, a motivo che non essendo la regia
legge emanata di moto proprio di S.M., onde non converrebbe affatto interpretarla, ma precedente il dettame della Real Camera di S. Chiara che dovea
informare la M.S. secondo le leggi e l’osservanza, e quantunque credo bene che
quei sapientissimi ministri che la compongono abbiano avuto presenti e le leggi
e l’osservanza, nulla di manco non avendo avuto presenti le Istruzioni doanali,
dalle quali a chiare note si rileva e le leggi sulle quali è fondata questa Regia Doana e l’inconcussa osservanza sempre favorevole alla medesima anche precedente consulta dell’istessa Real Camera in termini terminanti, e sopra
l’istessisimo articulo, perciò mi prendo la libertà di rappresentare a V.S. colla
mia debolezza, affinché se mai li venisse l’apertura di farle nuovamente presenti
a quel Supremo Tribunale della Camera di S. Chiara, poss’aver sotto l’occhio
senza molto suo incomodo le raggioni di questo Fisco doanale, così per legge,
come per l’osservanza, giusta gli ordini di S.M..
Prima però d’entrare alla dissamina delle pretenzioni dell’Udienza
dell’Aquila, dedotte per l’espressata causa tra i cittadini di Gioia notorii locati di
questa Regia Doana, e quelli di Lecce, è di bene per non mancare al mio officio, ch’è di procurare sempre l’accrescimento di questo Real Patrimonio, farli
presente che la base fondamentale su di cui s’appoggia questa Doana, ella è il
privilegio del foro, il quale, siccome rappresentò nell’anno 1576 Fabrizio di
Sangro, allora Doaniero al Marchese di Montesciar Viceré di quel tempo, assolutamente si mantiene colla sola prerogativa del foro, avvengache la maggior
parte de locati, e specialmente quei di Montepeloso, ed i padroni delle pecore,
che rimangono nelle quattro Provincie, senza ricevere né erba, né sale, né altro,
e molti affittatori di terre salde senza coltivare le terre della Regia Corte, pagano
in beneficio del Real Erario molte migliaia e migliaia di ducati per godere semplicemente il privilegio di questo foro.
Ed affinché si conosca maggiormente questa verità, basta solo riguardarsi l’origine di tal privilegio fin dal tempo de re Alfonso primo d’Aragona, il
quale volendo introdurre, o in miglior forma situare questo Real Patrimonio,
invitò a calare nella Puglia i padroni degli animali, con determinato
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pagamento, promettendoli il privilegio del foro, per cui fossero esenti da tutte
le altre giurisdizioni, e che solamente la Regia Doana, colle clausole privative, ed
abdicative avesse conosciute le loro cause attive, passive, e miste, tantoché
avendo i locati adempito dalla loro parte, anzi essendo obbligati di calare nel
Tavoliere della Puglia, il privilegio è passato in contratto ultro, citroque obligatorio, siccome per appunto lo dichiarò sollennemente la Maestà del Re Carlo
N.S. gloriosissimo Monarca delle Spagne, con sua real carta della data de 9
maggio 1743, registrata nel sesto tomo delle Istruzzioni doanali a c. 379 diretta
alla Regia Udienza di Lucera, ivi: Teniendo muy presente el Rey quanto importa a su
Real Servicio, que se mantenga en su devido vigor, y sistema el privilegio del Fuero que en
establecimiento, y erecion de la Aduana de Foxa, se concedio a sus locados, fiados, y subditos,
el qual despues ha sido confermado por varias leyes, istruciones, ordenes reales, y pragmaticas
por aver sido Fuero que se les concedio en virtud de contracto, por las obligaciones a que se
sugetaron. L’unico motivo di concedersi una tal prerogativa di foro dal re Alfonso, egli si fu il considerarsi esser questa la base ed il fondamento del suo Real
Patrimonio, poiché richiedendo la vita de locati, e la di loro industria, quiete et
tranquillità d’animo, in niun conto avrebbero potuto conseguirla coll’esser soggetti a diversi giudici, e magistrati, per cui distratti dalla di loro industria certamente l’avrebbero abbandonata con notabile diminuzione della sua corona,
mentre all’opposto collo stabilimento di quella oltre del giovamento che ha
recato e tuttavia reca al publico coll’ubertà dell’annona di questo Regno, venne
a situarsi la maggiore, la più considerevole, e la più esplicita rendita del Regio
Erario.
A questo sol fine stimò quel sapientissimo re concedere il privilegio del
foro non solamente a’ locati, ma a tutte le persone attinenti alla Regia Doana,
alla gente del loro servizio, come gargari, conduttori, pastori, mercanti, fattori,
ed a chiunque altro così in genere che in specie, conduce o fa condurre a fidare
li suoi animali, o sia regnicolo, o forastiere, siccome a chiare note si legge dal
privilegio diretto a Francesco Montluber primo Doaniere dell’anno 1447 trascritto da Coda, tenendosi sempre la mira da quel prudentissimo Re che se mai
la prerogativa del foro venisse a rallentarsi dall’antica osservanza col soggiacere i
locati e la gente del loro servizio alle molestie de giudici ordinarii, poco bonaffetti per lo più di tutti quei che ne sono esenti, distraendosi dalla loro industria,
sarebbe indubitatamente seguita la rovina di detto suo Real Patrimonio, siccome infatti l’esperienza ha dimostrato ne’ tempi passati, che quante volte o per
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ingiuria, o per poca prattica delle cose doanali, o per altro fine si è tenuto a vile
questo privilegio, cadendo immediatamente in precipizio l’industria, ha dovuto
ricorrersi col pronto rimedio. Così per appunto accadde nell’anno 1575, onde
il Doaniero di quel tempo D. Fabrizio di Sangro, precedente ordine del Viceré
e dell’abolito Collateral Conseglio, fu obbligato publicar banni ed istruzioni, e
nel cap. 14 inculcò l’osservanza del privilegio del foro con doversi trasmettere
gli atti gratis da tutt’i Tribunali.
Sortì l’istessa sciaura nell’anno 1657, in cui videsi quasi annichilita questa
industria, per essersi posto in controversia dalla sottigliezza de Dottori se il privilegio conceduto a’ locati fosse derogativo ad ogni altro, e precisamente a
quello che si trova in corpore iuris concesso alle vedove, pupilli, ed altre persone
miserabili, nella Leg. unica Cod. quan. Imp. etc. Trattandosi questo punto nella Regia Camera sinodalmente con generale arresto fu deciso a 12 settembre 1657
che la Regia Doana nelle prime istanze con i suoi sudditi active et passive avesse
la cognizione di tutte le loro cause privative ad ogni altro giudice, così superiore, che inferiore, anche colla derogazione alla Leg. unica, siccome vien rapportato dal regente de Marinis nell’arresto 699 e nella decisione 526 del regente
Revertera.
Finalmente essendo cresciuti gli abusi contro la forma ed osservanza di
tal privilegio, e per conseguenza i gravi pregiudizi del Real Patrimonio per darvisi il convenevole riparo, precedente real carta del 1668 fu emanata la regia
prammatica, ch’è la 79 de offic. Proc. Caes., e nel cap. 38 fu espressamente dichiarato, che per non esservi stata tutta l’osservanza nella prerogativa del foro conceduta alli locati, ed altri uomini soggetti alla Doana, per darsi opportuno rimedio si ordinò l’osservanza di detto privilegio, e che né il Sacro Consiglio, né
la G.C. della Vicaria, né le Regie Udienze si dovessero inserire nelle loro cause,
ma che dovessero puntualmente osservare le ortatorie della Doana, con trasmettere gli atti gratis, e sebbene dalli Baroni del Regno si fusse tentato recar
pregiudizio a quanto veniva disposto in questa prammatica con tre cedole del
governo passato, due dirette al Viceré Principe di Sulmona in data 22 maggio, e
la terza al Viceré Cardinal d’Althan de 4 luglio dell’anno 1722, pure ciò non
ostante ne fu ordinata l’inviolabile osservanza ed esecuzione.
Da quanto finora ho debolmente raccolto, notissimo peraltro a V.S.,
comprende ad evidenza con quanta cura i Re predecessori, i Viceré, ed i Supremi Tribunali di questo Regno abbiano cercato mantenere nel suo vigore la
prerogativa di questo foro, come unico fondamento e legame di
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questo Real Patrimonio, senza di cui andarebbe certamente in rovina la più bella
e considerevole rendita, che abbia il Regio Erario, e l’annona di questo Regno.
Ciò posto entro nella dissamina dell’articolo, se i locati abbiano il privilegio di
trarre i non sudditi a questo foro doanale, così per legge come per l’osservanza,
giusta gli ordini distribuiti da S.M. alla Camera di S. Chiara.
La legge fondamentale della prerogativa del foro conceduta alli locati fu
sollennemente stabilita ex certa scientia dal Re Alfonso primo nel privilegio conceduto a medesimi, che consignò al primo Doaniero Francesco Montluber
sotto la data dal primo agosto 1447.
Conobbe quel sapientissimo Re la necessità indispensabile di concederli
tal prerogativa, o fussero attori o fussero rei, tanto per l’aumento del suo Real
Erario, quanto per l’utile e vantaggio di tutto il Regno e perciò volle costituirsi
egli stesso giudice de locati con quelle parole de quibus rixis, controversiis, et causis
Nos tantum cognoscere volumus, e quindi delegò l’esercizio al solo Doaniero di poter
conoscere tutte le cause, civili, criminali, e miste colla clausola privative, et abdicative, col mero e misto imperio, et gladij potestate di poter condannare all’ultimo
supplicio i rei.
Ed eccone le precise parole: Et quia inter Conductores dicte mene Pastores,
Gargarios, et Patronos dictarum pecudum, et aliorum animalium solent rixe et controversie
diversarum causarum saepius evenire, de quibus rixis, et controversiis, et causis Nos tantum
cognoscere volumus propterea vos prefatum Franciscum Iudicem, Gubernatorem, et Capitaneum super dictis Conductoribus, Gargariis, et Patronis, et super eorum rixis, et controversiis
statuimus, ac etiam ordinamus cum plena iurisdictione civili, et criminali, mero et mixto imperio, et gladii potestate, et que emolumenta, et proventus exinde esecutura vobis acquirantur,
itaquod nullus preter Vos de dictis hominibus et Dohana, et casibus quibusvis emergentibus
inter eos se modo aliquo intromictat, etiam si per aliquos ausu temerario inductos, dicta Dohana fuerit depredata, seu damnificata, possitis, et valeatis depredantes, et malefacientes punire,
et castigare in personis, rebus, et bonis, eosque affligere, et suspendere, et ultimo supplicio condemnare, de quo vobis plenam auctoritatem super hoc licentiam tribuimus, quibuscumque cedulis, seu scripturis licteris factis per Nos de dicto officio mene pecudum, quibuscumque hominibus
et personis forte contrariis, nullatenus obstitutis, quae si forte reperiuntur nullius esse volumus
roboris, et momenti. Mandantes de nostra certa scientia, sub poenis supra contentis etc.
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Qualora volessi avvalermi di cognetture, appoggiate però all’autorità de
Dottori, potrei far conoscere la costante risoluzione del legislatore, di volere la
giurisdizione della Doana nelle cause de locati privativa ed abdicativa, per la
parola tassativa espressata dal privilegio tantum, anzi che per essere stata conceduta ad un particular Magistrato sopra certo genere di persone, è comunque
sentimento de Dottori, siccome V.S. mi ave ammaestrato, d’intendersi sempre
giurisdizione privativa, ed abdicativa, e molto più nel caso nostro per l’utilità,
che ne risulta al Regio Erario, ed all’annona di questo Regno, che i locati, e massari di campo in tutte le loro cause siano conosciuti da un solo giudice, per non
essere distratti dalla loro industria.
Oltreache per quelle parole espressate nel privilegio: quibuscumque cedulis,
seu scripturis factis per Nos de dicto officio mene pecudum, quibuscumque hominibus, et personis forte contrariis, nullatenus obstitutis, quae si forte reperiuntur nullius esse volumus roboris,
et momenti, chiaramente si desume esser stata conceduta la giurisdizione alla Doana colla clausola privativa, e per conseguenza tutti gli altri giudici sono incompetenti con li sudditi di Doana; e ciò si conferma dall’altre parole del privilegio:
Nos tantum cognoscere volumus, e poco dopo: itaquod nullus preter Vos, escludendo
ogni altro colla tassata parola tantum, e con la parola universale nullus. Siccome
per appunto fu ordinato dalla Regia pram. 79 de offic. Proc. Caes. nel § 38, ove si
leggono le seguenti parole: Poiché non hanno lasciato d'inserirsi nelle cause di detti fidati
diversi Tribunali del Regno, senza riguardo che sia solamente la Doana, e la Regia Camera
loro giudici competenti... ordiniamo a tutti, e singoli officiali di questo Regno così regii, come
baronali, e particularmente al S.C., G.C. della Vicaria, e Regie Udienze Provinciali, che
nell'avvenire non s'inseriscano nelle cause de locati; quindi la parola solamente espressata
nella prammatica porta seco essere la giurisdizione della Doana privativa ed
abdicativa.
È sì potente ed amplo il privilegio del foro doanale, che in prima istanza
non solo procede privatamente quoad omnes alios iudices, ma ben anche a riguardo
della suprema autorità della Regia Camera, siccome fu disposto dal Cardinal de
Granvela nel cap. 18 de Capitoli decreti et ordini, e fu dalla medesima Regia
Camera deciso a’ 12 settembre 1657, ove espressamente si ordinò non doversi
ammettere contro la Doana elezzione di foro, anche se si facesse da essa Regia
Camera, con la seguente decretazione: Regiam Dohanam mene pecudum Apuleae in
prima instantia cum subditis suis
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active, et passive cognitionem habere omnium causarum, civilium, criminalium, et mixtarum,
privative quoad omnes alios iudices, tam inferiores, quam superiores, etiam cum derogatione
Legis unice Cod. quan. Imp. pup., et vid. etc., della quale derogatoria si è fatta nel
principio da me menzione. Tal decreto fu emanato sollennemente dalla Regia
Camera per dare una certa ed indubitata legge da osservarsi da allora innanzi in
seguela delle moltissime giudicature fatte dalla stessa Regia Camera sull’istessa
pendenza di elezzione di foro, che per brevità tralascio.
Senza però servirci di argumenti, e senza investigare le regole da Dottori
prescritte note a V.S., si conosce la giurisdizione della Dohana essere privativa
ed abdicativa a troppo chiare note perché tale la dichiarò espressamente
l’istesso legislatore, il re Alfonso.
Egli dice: Nullus preter Vos de dictis hominibus etc., per la forza delle quali
parole rimanendo ogni altro giudice affatto incompetente, né per consenso, né
per voluntà dell’istessi sudditi può estendersi o prorogarsi ad altri, a guisa del
foro de chierici, a cui questo privilegio vien paragonato, siccome dopo Capece
nella dec. 122 fondò de Franchis nella dec. 417 n. 8, ed il consigliero Fabbio
d’Anna cons. 107 n. 6 ed Antonio Bar. controv. 19, quindi siccome i chierici
non possono rinunciare al di loro foro, così i locati non possono in verun
modo rinunciarlo, siccome fu disposto nel cap. 38 della menzionata pram. 79,
anzi che qualora non vogliono servirsene, come rei e non osservanti delle leggi
sogliono esser castigati; così per appunto dal Reg. D. Sebastiano de Cotes Governatore della Doana fu pratticato facendo sotto li 15 di decembre 1686 publicar banno, con cui ordinò che accudendo qualche locato fuori della Regia
Doana ed innanzi ad altro giudice, s’intendesse subito incorso nella pena di ducati 300 giusta le regie istruzioni, ed altre pene arbitrarie, oltre della nullità degli
atti, siccome si legge nel terzo tomo delle Istruzzioni doanali a c. 282.
Il ius che hanno i locati di traere i non sudditi non solamente si deduce
dalle geminate clausole privative di cui ha voluto servirsi il Principe, per dare a
questo Tribunale solamente la cognizione di tutte le cause de locati, tra le quali
vengono per la forza delle parole comprese, così per le passive, come l’attive,
ma ben anche sta fondato sulla raggione e sulla causa finale della legge, cioè di
non abbandonare i locati la loro industria, dalla quale molto più verrebbero a
distrarsi, siccome attori, seguitando il foro dei rei, se dovessere in più luoghi
accudire a diversi magistrati.
Ma a che andare rintracciando cognetture ed argumenti, quandoché
l’istesso re Alfonso ha voluto espressamente determinare questo articulo
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colle parole espressisime che è forza ripetere: Etiamsi per aliquos ausu temerario
inductos, dicta Doana fuerit depredata seu damnificata, possitis, et valeatis depredantes, et
malefacientes punire et castigare; colle quali parole ordinandosi dal legislatore che
questa Doana non solo sia privativamente giudice dei suoi suditi, quando sono
rei, ma parimenti se fussero attori o querelanti contro quei che li rubassero, depredassero, o dannificassero, si conosce a chiare note la volontà del Principe di
concedere a locati il ius di traere al proprio foro anche i non sudditi.
L’istesso chiaramente volle spiegare il Tribunale della Regia Camera
nell’anno 1657 con generale arresto, riferito dal reggente de Marinis
nell’osservazione alla decisione 526 di Revertera, ordinando che i sudditi di questa Regia Doana in tutte le loro cause attive e passive, civili, criminali, e miste,
privativamente ad ogni altro giudice, così inferiore, che superiore, fossero conosciuti da questo Tribunale, anche colla derogazione della legge siccome di
sopra abbiamo espressato.
Si considerò verosimilmente da quel supremo Senato, che uniformandosi il privilegio de locati alla disposizione del ius comune nella Leg. si quis Codic. ubi
caus. Fisc. leg. cum aliquid cod. eod. tit., da cui si ha che nelle cause de conduttori del
Fisco il solo procuratore di Cesare sia giudice competente, ed essendo stato
conceduto il privilegio dal Principe de certa scientia, per causa onerosa e con potestà di trarre anche i non sudditi, con sì rigorose clausole privative in riguardo
di una industria (utile) al Regio Erario ed al publico, affinché i locati col soggiacere a diversi magistrati non l’abandonassero, giustamente a qualunque altro
dovea preferirsi il loro privilegio.
Questo privilegio de locati di potere traere anche i non locati a questa
Regia Doana, giammai per lo passato è stato posto in contesa, né prima, né
dopo la publicazione della Regia pram. 79, né dopo il decreto generale della
Regia Camera, anche a riguardo delli non sudditi privilegiati, siccome l’attesta
de Angelis de delict. et pen, nella par. 2 cap. 8 n. 80 et seq.; solamente è rimasto a
disputarsi l’articulo rispetto alli cittadini napoletani, i quali tanto in vigore de rito
301, quanto degli amplissimi loro privilegi, e moltiplicate grazie conceduteli dal
serenissimo Re della Casa d’Aragona hanno il ius di traere.
E pure da gravissimi Autori non si é dubitato di affermare che il privilegio de locati debba esser preferito a quello de Napoletani, siccome tra questi
affermò Danza de pugn. doct. tom. 2 ver. de elect. For. cap. 5 n. 1 et seq., ed il reg.
de Marinis nell’osservazione 526 del reg. Revertera il
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quale, dopo aver fondato che qualora si concede il privilegio ad un certo genere di persone, nelle di cui cause possa un sol giudice, e non altri procedere, allora s’intende tolta la giurisdizione che ad altri era conceduta, ed appunto adduce
in esempio quelli della Doana colle seguenti parole: Prout est iurisdictio concessa
Dohanerio Regiae Dohanae menae Apuleae, huic enim cum in certum genus personarum concessa est iurisdictio espressis verbis, fuit dictum, ut non aliter nisi ipse solus possit subditos suos
cognoscere, et non solum passive, nimirum ut subditus Dohanae, sed etiam active, et sic quando
subditi agunt, cum illis enim limitatur regula, ut actor teneatur sequi forum rei, nam ad eorum iudicem, et sic ad Regiam Dohanam trahunt quamlibet personam, etsi alterius fori, et
quantumvis privilegiatam, etiam Neapolitanos.
E l’istesso afferma il citato de Angelis ubi supra, conchiudendo: Locati
trahunt, et non trahuntur omni tempore, et pro omnibus causis Regia Dohana cognoscit... Et
qui secus defendere procurant, disputant cum Anaxagora de albedine nivis.'
E così parimente vien confirmato da Giambattista Toro nel Compendio
delle decisioni tom. 1 lit. N., ove afferma: Neapolitani qui sunt exempti ab omnibus Regni Tribunalibus vigore suorum privilegiorum, quia trahunt et non trahuntur, an idem ius
militet in Regia Dohana Menae pecudum, cuius Dohanerius merum, et mixtum imperium
habet a Rege, fuit iudicatum contra Neapolitanos.
Secondo questa dottrina è stata l’inveterata prattica che i locati abbiano
tratti al di loro foro doanale i Napoletani, quantunque privilegiatissimi; e vagliami per mille esempii, che potrei adducere, la sovrana real decisione di S.M.
emanata a 5 maggio 1751 con real carta, che si conserva nel sesto tomo
dell’Istruzzioni doanali a c. 494.
Pretese il Principe di S. Severo che in tutte le cause appartenti alla sua Casa, ed alli suoi interessi avesse proceduto il Tribunale della Camera della Summaria, e dalla M.S. fu ordinato che in tutte le cause patrimoniali della Doana di
Foggia, come sono tutte quelle che riguardano al Tavoliere della Puglia, il giudice privative, quoad alios, fusse l’istesso Tribunale di Doana, con dar solamente
luogo all’appellazione alla Regia Camera: Aunque sean Cavalleros Napolitanos abitantes en esta Capital, por ser esta la practica, que siembre se ha observado, y que presentemente se observa, de cuya practica non conviene retrocederse; siendo lo mismo, que contravenir a
las leyes fondamentales de la Regia Dohana de Foxa, y el gravissimo danno, que redundaria a
las Reales rentas, pero quando se trata de causas
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no patrimoniales de la Aduana, pero de causas entre privados, como son cavalleros, u otros
Napolitanos, y locados, pues toda via esta indeciso qual privilegio sea mayor si el de locados, o
el de Napolitanos, segun se practica en las dichas causas, que proceda tambien en la primera
instancia la Regia Camera.
E sebbene siasi questo articulo deciso dalla Maestà del Re Cattolico (che
Iddio sempre feliciti e conservi) allorché felicemente governava questi Regni
con real carta spedita per la Real Segretaria di Stato, ed Azienda della data de
13 dicembre dell’anno 1758, nella quale sovranamente dispose che alli veri locati di locazioni effettive e coltivatori di terre della Regia Corte se li mantenessero senza la minor novità salvi ed illesi i di loro privilegii per tutto il Regno, e che
fussero solamente soggetti alla Doana di Foggia ed al Tribunale della Camera
in tutte e qualsivogliano cause (si notino di grazia queste ultime espressioni), e
così parimenti dispose, che per non inferirsi pregiudizio al privilegio delli Napoletani di uscire fuori del di loro domicilio a litigare, che la Camera fusse suo
Tribunale competente, e nella medesima si trattassero le di loro cause, col dippiù che in quello viene ordinato, e ciò in conseguenza dell’esposto fatto
dall’istessa Regia Camera con sua rappresentanza del 31 maggio dell’istesso anno, e della consulta della Real Camera de 27 novembre antecedente; ed ecco
provato ad evidenza il privilegio del foro doanale, e che i locati trahunt, et non
trahuntur neppure dai privilegiati, anche Napoletani, atteso ha delegato per le
cause di questi non già il di loro giudice ordinario, come sarebbe la G.C. della
Vicaria, ma bensì la Regia Camera giudice anche competente di essi locati, sebbene in seconda istanza, e ciò fu solamente risoluto per mantenere anche illeso il
privilegio de Napoletani e senza pregiudicarsi quello de locati.
Se dunque il privilegio del foro de locati è di tanta forza ed efficacia, che
traggono al proprio foro i privilegiati stessi, come sono i Napoletani, le vedove, li pupilli, e le persone miserabili, come si può mettere in dubbio che possano traere i non sudditi, che non sono privilegiati?
Il privilegio della prerogativa del foro conceduta ampiamene a locati dal
re Alfonso primo fu con altro privilegio della gloriosa memoria dell’imperator
Carlo quinto confirmato sotto la data del 6 febraio 1536, nel quale si ravvisa la
seguente decretazione nel cap. 1: Placet Cesareae Maestati, quod causae civiles et criminales officialium et hominum ipsius Dohanae tractentur coram iudicibus, qui de illis actenus
cognoscere consueverint, iuxta privilegia et consuetudines dictae Dohanae, et quod in hoc nulla
innovatio fiat.
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Ambedue questi privilegi furono a 6 giugno dell’anno 1577 dalla felice
memoria del re Filippo secondo sollennemente confirmati con altro privilegio
registrato in Napoli in Privil. 30 fol. 50, ove dopo avere inserito de verbo ad verbum i cennati privilegi del re Alfonso, dell’imperator Carlo quinto così soggiugne: Tenore igitur presentium de certa scientia, regia auctoritate nostra deliberata et consulto
motu proprio, ac Sacri Nostri Supremi Consilii accedente deliberatione, prefata et praeinserta
privilegia, gratias, immunitates, exemptiones, ac omnia, et singula alia in eis contenta per
praedictos Retroreges predecessores nostros praedictis hominibus concessa, quatenus iam fuerint,
et sunt in eorum possessione a prima eius linea usque ad ultimam, in omnibus suis punctis et
articulis laudamus, approbamus, ratificamus, et confirmamus nostraeque huiusmodi laudationis, ratificationis, et confirmationis praesidio roboramus, et validamus, e poco dopo: Nullumque in judiciio, aut extra sentiat impugnationis obiectum, incomodum, aut detrimentum,
sed in suo robore et firmitate perseveret.
Alla perfine tutt’i cennati reali privileggi furono dalla real munificenza
della Maestà del Re Cattolico N.S. confirmati senz’alcuna eccezione o riserba,
ed autentica col real decreto de 10 maggio 1747 rubricato di sua propria real
mano nel cap. 21, ivi: quiero, mando y es mi firme, y determinada voluntad, que se mantengan, y puntualmente se observen todos los privilegios, franquizias, y immunidades conzedidas
a los locados expressados en las pragmaticas, y concessiones que les han hecho los passados
sennores Reyes mis antecessores, y yo he tenido por bien de confirmarlos, y ahora con este mi
Real decreto les ratifico.
L’osservanza di queste leggi, o sia l’esecuzione de cennati privileggi, è
stata sempre sin dal suo nascere ferma, costante, ed inconcussa a favore de locati, e non ammette esitazione alcuna, tanto vero che nell’anno 1550 essendo
viceré D. Pietro di Toledo, precedente ordine del Re, furono spedite provisioni
dall’abolito Collateral Consiglio, ordinantino che in vigore de cennati privilegi,
provisioni dell’istesso Collaterale, e della Regia Camera della Summaria, niuno
s’intromettesse nelle cause così civili, che criminali de locati, coll’espressa condizione che si dovessero rimettere al Doaniero, ad ogni sua richiesta incontinente,
con li processi ed atti senz’aspettare altro ordine seu consulta di S.M. (sono le
precise parole), stante la Doana è giudice loro competente.
Siccome parimenti fu ordinato da S.M. Cattolica a 9 maggio 1743 con
real carta per la Secretaria di Stato ed Azienda, diretta alla Regia Udienza
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di Lucera, che avesse puntualmente ubedito alle ortatorie cosi della Regia Doana, come de suoi luogotenenti e nel caso non li sembrasse non essere debitamente spedite, lo rappresentasse a S.M., o al Tribunale della Regia Camera, per
ricevere li ulteriori ordini, rimettendo intratanto gli atti, senza impedire
l’esecuzione delle ortatorie, e cosí avesse fatto anco osservare dalli governadori
delle Corte regie e baronali, affinché in questa forma si osservasse, e mantenesse
inviolabilmente l’enunciato foro doanale, che sta conceduto per causa onerosa,
dal che ne ridonda tanto utile alla Reale Azienda.
E così ancora con appuntamento della Regia Camera nel giorno 17 decembre 1755 fu stabilito ed ordinato a D. Francesco Mastellone, allora Avvocato Fiscale dell’Udienza di Chieti per l’omicidio accaduto in persona di Donato Cedra della terra di Casteldelmonte, locato ordinario di questa Regia Doana, e non solo che avesse subito trasmesso gli atti con il carcerato, e che in avvenire si astenesse d’ingerirsi in cause dove vi era interesse de locati, ma benanche in qualunque caso che occorreva in avvenire, qualora avesse ricevuto ordini
dal Presidente Governatore, subito l’avesse ubedito, e poi avesse riferito alla
Regia Camera li motivi che forsi aveva in contrario, ma che fra tanto non avesse ritardato l’esecuzione degli ordini del Tribunale di Doana, del quale appuntamento ne fu partecipato il Presidente Governatore con carta del sig. Marchese Luogotenente de 20 del suddetto mese ed anno, che si conserva nel 7° tomo
delle Istruzioni a c. 12.
Dal Cardinale di Granvela viceré di questo Regno, zelantissimo del governo della Doana, per il governo della medesima, nelli suoi Capitoli, ordini, e
decreti fatti sotto la data del 30 luglio 1574, dimostra nel cap. 28 di quanta necessità sia l’osservanza della giurisdizione di essa Doana, con queste espressioni:
Item perché con difficultà si potranno osservare i privilegi, ed ordini delle immunità, e prerogative predette concesse ad essi fidati, ed all'istessa Doana per ben governarsi, quando non se li
conservi, ed osservi ancora la giurisdizione concessa per li retro Re di questo Regno al detto
magnifico Doaniero ed ad essa Doana, confirmate poi continuamente; e quindi espressamente
ordina, e comanda che niuno si debba in modo alcuno intromettere directe, vel indirecte nella
giurisdizione di esso magnifico Doaniero, il quale assolutamente dovea conoscerli per qualsivoglia causa, civile, criminale, o mista, e per qualsivoglia delitto per enorme, che fusse.
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Tanto è ciò vero, che la Regia Doana deve procedere per qualunque
enorme delitto, che dal cardinale Zapatta viceré di questo Regno sotto la data
delli 27 maggio 1622 con suo dispaccio registrato nel secondo tomo delle
Istruzzioni doanali ordinò che la Regia Doana per i delitti di campagna avesse
proceduto anche ad modum belli; e quantunque dal Conte di Lemos nell’anno
1600 si era ordinato che dalla Doana non si poteva procedere per li delitti di
campagna anche che fossero sudditi di Doana, pure con provisioni del Collaterale della data de 20 ottobre di detto anno fu rivocato, ed espressamente comandato che non ostante detto ordine potesse e dovesse procedere contro i
delinguenti inquisiti di delitti di campagna, in tempo che si regge Doana, conforme tutti gli altri Tribunali di questo Regno.
Ed il Duca d’Alcalà in conformità di altro dispaccio del Duca d’Alva
sotto la data de 13 aprile 1630 incaricò l’istesso alla Doana con queste parole:
Aviendo paresido conveniente guardar a esta Regia Aduana todas las prerogativas, y preeminentias, que les stan dadas, tengo por bien, que en conformidad de las ordenes del Duque
d'Alva, proceda de justicia este Tribunal contro los delinguentes de campagna, conossiendo
todos los que toccaren a su jurisdicion, y a V.S. lo encargo, que en esta conformidad lo agais;
ed in seguela di ciò nel medesimo anno l’istesso Viceré concesse la delegazione
all’Uditore della Doana, per alcuni banniti carcerati che avevano rubato i locati,
ove espressa ch’essendo giusto che si fossero castigati con tutto vigore, perciò
ne delegava il conoscimento alla Doana, che avesse proceduto di giustizia sino
alla sentenza, ma che pria d’eseguirla l’avessero rappresentato i motivi, per ordinarsi il dippiù che conveniva, concedendoli anche la facoltà della breviazione
del termine d’un mese alla forgiudica contro gl’inquisiti assenti, dispensando alla
costituzione del Regno.
E sebbene possa oppormisi che con dispaccio del 14 novembre 1720
dal Viceré di quel tempo Cardinale de Schrattembach si fusse tolta la delegazione, che pria si osservava per i delitti commessi con armi di fuoco, non
ostante le rappresentanze fatte dall’olim Credenzieri della Doana nell’anno antecedente, per le opposizioni che si fecero dall’Uditore di essa stessa Doana D.
Giuseppe Correale, sul motivo che dalle regie prammatiche era stata conceduta
tal delegazione solamente alla G.C. della Vicaria, ed alle Regie Udienze Provinciali, pure dall’istesso dispaccio si osserva a chiare note che il motivo si fu per
non pregiudicarsi al privilegio de locati, con privarli dell’appellazione al Tribunale della Camera e ne seguiva anche
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l’interesse, che potea risultare al Real Patrimonio, qualora li locati si vedevano
spogliati de loro privilegii, dovendo essere riconosciuti dalla Regia Camera privativamente in grado d’appellazione.
Ed eccone le precise parole, che giova registrarle: y tambien porque ademas
del peryuhjzio, que se haria a los locados, de pribarlos de la appellacion al Tribunal de la
Camera, se seguiria el agravio del interes que podria resultar al R. Patrimonio, quando los
dichios locados se viesen despoxados de sus privileghios, para ser reconoscidos de esta regia Camera privativamente en grado de appellacion de decretos o sentencias de esa Regia Aduana de
Foxa; che però dall’esser stata privata questa Doana della delegazione per i delitti commessi con armi di fuoco, viene a corroborarsi l’amplissimo privilegio
de locati, affinché non venissero privi del privilegio dell’appellazione, siccome
ne sarebbero stati privi, qualora da questa regia Doana si fosse proceduto ex
delegatione, omni appellatione remota.
Si pretese benanche ne tempi passati da alcune Udienze del Regno, ed in
particulare da quella di Capitanata, che qualora questa Doana volea pretendere
remissioni di cause, avesse dovuto comparire in forma giudiziaria con presentar
procura e privilegi, onde dalla Generalità de locati se n’ebbe ricorso dalla Regia
Camera nell’anno 1583, dalla quale furono spedite provisioni, che giova riferir
le precise parole dell’ordinativo: Volendo debitamente provedere sopra di ciò, atteso come
ben sapete, e vi dovete ricordare per più altre provisioni ed ordini di questa Regia Camera, con
lamentazione ancora di detto spettabile Doaniero data a S.E. con memoriali che furono rimessi a questa Regia Camera, sta previsto ed a voi ordinato di dover rimettere le cause di doanati,
e sudditi di quella a detto Regio Doaniero, il quale vi dichiaramo che non è obligato aver da
voi rimesse a lui le cause de doanati, e sudditi di detta Regia Doana, con aver da comparire
per procuratore avanti di voi a domandare la remissione, ma basta l’ortatoria di esso spettabile Doaniero, e che dica e faccia fede che li carcerati e persone o cause, che dice che se li rimettono, sono di doanati, ed officiali di Doana, e di persone suddite di essa Doana la quale tiene
anche autorità di traere, e procedere ad istanza de doanati, e sudditi di quella contro altri non
doanati, e voi dovete ubedire gli ordini di questa Regia Camera; che però vi dicemo, ed ordinamo etc..
Dalli enunciati ordini della Regia Camera a chiare note apparisce la facoltà che ha questa Doana di traere i non doanati, siccome fu anche confirmato, precedente ordine del Duca d’Alva viceré di questo Regno
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diretto all’istessa Regia Camera con altre provisioni spedite a 18 dell’istesso mese ed anno coll’inserta forma dell’enunciate provisioni del 1583, registrate in
Reg. Par. 42, f. 117, e nelle Istruzzioni doanali fol. 135. E finalmente con termini più espressivi e massime più sode, fu ordinato nel 1721 dal viceré di quel
tempo il Principe di Sulmona con suo dispaccio diretto alla Doana colla data
de 21 novembre registrato nel 4° tomo dell’Istruzioni.
Egli il Viceré con altro dispaccio de 18 dell’istesso mese ed anno avea
ordinato che nella causa contro Antonio Iella, ed altri della terra di Capracotta
per la rissa accaduta con li custodi dell’agente del Duca di Vastogirardi avesse
proceduto la Doana solamente contro i suoi sudditi, e l’Udienza di Lucera
contro i non sudditi, ma avendo con riflessione (sono le proprie parole del dispaccio) considerato quanto individualmente la Doana l’avea fatto presente con
sua relazione, ordinò che cedesse a questa Doana il procedimento contro li non
sudditi, e ne adduce la raggione; Por ser inseparable el yuhizio de tal causa, y toccar a
esa Aduana de ella aun contra los que no son sus subditos, en virtud de Reales privileghios,
despacos de mis antecessores, provisiones del Cons. Collat. del Tribunale de la Camera, y
Istruciones Aduanales; pues en caso de gravamen, tienen l’appellacion al Tribunal de la Camera segun por lo passado se ha practicado inconcussamente, para que no sigua con la division
de las causas, en che yntervienen locados, y dependientes del Fuero de la Aduana de Foxa,
peryuhizio minimo al Ces. R. Patrimonio de S.M.C.C., e ne dà il motivo: Siendo de nuestra comun obligazion la observancia de los Reales privilegios, y Fuero, que produce tantos
beneficios al R. Patrimonio, y su manutencion, y aumento en quanto fuere possibile, con el mas
attento zelo, y desvelo, por lo que en ello se interesa el servicio de S.M.C.C., e quindi conclude che avesse proceduto il Tribunale di Doana: Contra los subditos, y no subditos
de esa Aduana, preveniendose a la Audiencia de Lucera, que se contenga, y se modere en opponerse a las causas, en que intervengan subditos contra no subditos de la Aduana, para evitar toda contencion en lo venidero.
Ma a che fine intrattenerci a trascrivere ordini, e dispacci del Viceré,
quandoché hanno i locati a favore loro la troppo gloriosa cedola dell’imperator
Carlo VI fatta in Vienna di motu proprio a 4 luglio 1722, diretta al viceré Cardinal
d’Althan?
Li deputati de Capitoli, e privilegii di questo Regno per mezzo del viceré
Principe di Sulmona ebbero ricorso a quella Imperial Maestà, domandando
71
la confirma del cap. 28 delle Istruzzioni della Regia Doana spedite nell’anno
1574 toccante alla distinzione delli tempi, e casi nelli quali la Regia Doana, e li
Baroni del Regno dovendo procedere al conoscimento delle cause de locati; e
con dispaccio de 22 maggio dell’anno 1721 fu prevenuto quel Viceré ed ordinato che si continuasse l’inviolabile osservanza della pram. 79 de of. pro. Caes.
pubblicata a favore, e per l’indennità del privilegio del foro conceduto alli locati, che si dovesse osservare indifettibilmente; ed avendo l’istessa Cesarea Maestà
presentito che dal baronaggio se l’intendea fare nuova rappresentanza delli pregiudizi che supponea ricevere dai suoi vassalli, con esimersi dalla sua giurisdizione, facendosi locati della Regia Doana; e comeché qualunque novità contraria all’antichi privilegii di essa Doana potea partorire grandissimi inconvenienti,
consistendo la sussistenza della medesima nel privilegio del foro, ed altri conceduti per li Re predecessori, di sortaché quante volte cessasse, o si coartasse il
suddetto privilegio del foro, cessarebbe certamente questo membro de locati
considerevole alla reale Azienda, e ne assegna la raggione: Respecto a que muchios
sin recivir yerbas, ni sapar el ganado professan voluntariamente por gozar del privilegio y eximerse de las gravissimas extursiones, que padecen de los barones, pagando a la Aduana por
cada mil pecoras cien ducados, y aun ciento, y trienta y dos, lo que prattican no solo los seclares, si no tambien las iglesias, ecclesiasticos, y monasterios, que por el mismo motivo se han
hecho subditos de ella, por tener algun reparo contra las violencias, que segun se tiene entendido
por cierto executan los dichos barones, y abusando de la jurisdicion, que le fue concedida, affinque fuessen defensores de sus vassallos, y como tutores los mantuiessen en paz y iusticia etc.. E
dopo d’aver reassunto tutte le pretenzioni del baronaggio, conchiude, es querer
prohivir a mi Suprema Sovrania la concession de privilegios, majormente siendo el de la
Aduana tan antiquo, y anterior a la iurisdicion concedida a los barones, que tacitamente obtuvieron sus Feudos de vaso de esta ley.
E finalmente avendo ordinato al Viceré, che unitamente al Conseglio
Collaterale attendessero seriamente al più efficace e pronto rimedio de mali e
grav’inconvenienti, che per parte de baroni si procurava causare in detrimento
della Regia Doana, facessero osservare inviolabilinente il foro, ed il privilegio di
quella, nella conformità che col cennato imperial dispaccio de 22 maggio avea
ordinato e prescritto, qual cedola vien registrata nel tomo 4 delle Istruzioni doanali a c. 123.
Intralasciando dunque di tessere un lunghissimo catalogo di cento, e mille
provisioni dell’abolito Collateral Consiglio e della Regia Camera e
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di ordini de Viceré pro tempore di questo Regno, che confirmano ad evidenza la
giurisdizione privativa ed abdicafiva di questa Doana, e di traere a se anche i
non sudditi, mentre mi renderei troppo prolisso e stucchevole, e mi abusarei
della sufferenza di V.S.; che però trasandando gli antichi ordini, e prammatiche
mi restringerò solamente a quelle de tempi nostri, dal principio del felicissimo
governo di questi Regni dell’invittissimo Re Cattolico sin’oggi, per corroborare
l’assunto della prerogativa del foro doanale, così per legge, come per
l’osservanza.
Mi si permetta però di adducere solamente due sinodali decisioni fatte
non molto lontano da tempi nostri, cioè nel 1690 e 1692, che casualmente ho
ritrovato nell’archivio di questa Regia Doana i processi originali, perché sono
troppo valevoli al caso nostro, e dalle medesime si ravvisa quanto è potente la
prerogativa del foro di questa Regia Doana.
Nell’anno 1690 la Regia Udienza di Lucera carcerò un guardiano della
Casa d’Orta, patentato di Doana, e dopo d’essere stato condannato da
quell’Udienza in galera, ed ivi rimesso, fu restituito alla Doana, che allora veniva
governata per la seconda volta da D. Adriano Ulloa Reggente di Cancelleria.
Nell’anno 1692 ritrovavasi inquisito nella Regia Udienza dell’Aquila Giuseppe Iannessa di Bugnara ordinario locato di Doana, per causa di protezzione
de banniti, e di partecipazione di furti da medesimi commessi, e procedendo la
medesima Udienza come special delegata del Viceré Conte di S. Stefano, fu
condannato alli 13 settembre del 1692 in galea per anni sette, ed in seguela degli
ordini del Viceré fu rappresentata la suddetta condanna al medesimo con relazione de 19 dell’istesso mese, ed anno. E comeché dal cennato Vicerè con suo
dispaccio de 17 dell’istesso mese ed anno si era ordinato che non ostanti gli
antecedenti suoi ordini di dover procedere con special delegazione in detta causa avesse rimesso i carcerati e gli atti alla Doana, perciò replicò l’Udienza che
nell’espressata causa avea proceduto ad modum belli, ed avea già condannato il
Iannessa in galea e liberati altri rei ed altri rimessi alla Corte locale di Bugnara.
Ciò non ostante da quel zelantissimo Viceré per non recar pregiudizio alcuno al
privilegio doanale, ordinò con dispaccio de 9 ottobre di detto anno, que sin embargo de aver condannato Ioseph Ianesa lo estregue a la Aduana de Foxa con el proceso,
practicandose la forma, que se vuole en tales caso. Rimesso il carcerato Iannessa cogli
atti, si procedé dalla Doana nuovamente al costituto del carcerato Iannessa, alle
difese, ed a quanto si conveniva per la spedizione della causa, per essere stati
fatti gli atti e condannato il
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Iannessa da giudice incompetente, fu finalmente sotto li 12 del mese di ottobre
dell’anno 1693 liberato in forrna il Iannessa, novis supervenientibus indiciis, ed a 27
ottobre dell’istesso anno fu escarcerato.
Passo adunque a riferire le decisioni de tempi nostri.
Nell’anno 1737 a 29 ottobre fu risolto dalla prefata Maestà del Re Cattolico con sua real carta spedita per la Secretaria di Stato ed Azienda, che ne
giudizi ne quali s’ha da convenire qualche debitore, soggetto per raggione
d’officio, impiego o servizio a diverse giurisdizioni, fra le quali vi sia la militare,
debba esser questa sempre preferita, onde la causa abbia ad agitarsi avanti il
giudice competente per raggione di milizia, con procedere l’Uditor Generale
dell’Esercito.
Stimò questo Tribunale di Doana rappresentare alla M.S. non solo i pregiudizi che si recavano all’amplissimi privilegi de locati, ma benanche
l’inconvenienti che ne nascevano, qualora avessero dovuto convenire i loro debitori nel foro militare; ed in vista di tale rappresentanza fu con altra real carta
de 16 novembre dell’istesso anno rivocata la cennata legge, ordinando espressamente che questo Tribunale mantenesse le sue esenzioni, foro, e preeminenza
senz’alcuna diminuzione o interruzione, nella maniera appunto che sino allora si
era praticato ed eseguito, senza far uso del real ordine antecedente ne casi, che
in quello si esprimevano, come apparisce dal 5 tomo delle Istruzzioni a c. 45 ad
51.
Nel 1738 con altra real carta spedita per l’istessa Secretaria, che si conserva nel medesimo quinto tomo a c. 123 ad 130, tra l’altre cose fu ordinato che
rispetto alla controvenzione dei banni proibitivi di non potersi metter fuoco alle
restoppie se non dopo i 15 d’agosto, questa Regia Doana avesse proceduto
contro ciascheduno controveniente locato, o non locato, appartenendo privativamente alla medesima il conoscimento, giusta il disposto della prammatica 79
de offic. Proc. Caes. al § 31.
Nell’istesso anno avendo la Real Camera di S. Chiara alli 5 del mese di
luglio, ad istanza dell’Università della terra di Cercello, ordinato che i baglivi
della terra suddetta si fossero serviti di loro raggione rispetto all’esecuzione
reale tantum per li danni commessi dalli locati con i di loro animali, così per la
pena, come per il danno, stimò questa Regia Doana sospendere l’esecuzione di
tal decreto e farne relazione alla M.S., ed in vista della medesima con real carta
de 8 ottobre dell’istesso anno, per la medesima real Secretaria d’Azienda fu
ordinato che questa Regia Doana non avesse data esecuzione ad altri ordini, se
non che a quelli del Re e della Camera della Summaria, e facesse osservare
esattamente le reali Istruzzio74
ni per il buon regolamento dell’istessa Doana, con avere benanche ordinato alla
Camera di S. Chiara che in tutte le dipendenze de locati lasciasse procedere il
Tribunale di Doana, e che da allora in avanti non portasse a spedir provisioni,
né ad intromettersi in tutto ciò, che apparteneva alla Doana, suoi locati, e sudditi, senza dar prima conto alla prefata Maestà.
Nel 1739 ritrovavasi carcerato Bartolomeo di Silvestro, scrivano
estraordinario della Regia Doana, nell’Udienza di Montefusco per l’omicidio
accaduto nell’anno 1733 in persona di Sabato Calvano, e per l’informazione
presane alla Doana, non solo non risultava reo il suddetto scrivano, ma bensì
offeso, ed essendosi spedita ortatoria a quella Udienza per la trasmissione del
carcerato e degli atti, non volle ubedire, e ne fece rappresentanza a S.M., in vista
della quale fu ordinato a 21 novembre del detto anno 1739 che l’Udienza di
Montefusco senza il minor ritardo avesse data esecuzione all’ortatoria della Doana, con rimetterli il carcerato e gli atti, soggiungnendo in essa real carta: y que
por lo venidero no cometa tales atentados contra los subditos de esa Aduana, y de siempre
prompta execucion a las demas ortatorias, que por otras causas, y motivos se le dirigieron por
ella, che si conserva nell’istesso tomo 5 a c. 335.
Interrompo la cronologia de tempi, per riportare nella fine di questa mia
rappresentanza la solenne decisione fatta dalla prefata Maestà in termini terminanti nell’anno 1739, per avvalermene pro coronide, perché dat gladium ad radicem, e
passo all’anno 1740.
Fu ordinato a 25 febraio del suddetto anno per l’istessa Real Secretaria a
supplica di Giovan Federico Kelner suddito della regia Doana, e debitore di un
suddito della nazione olandese e di un’altro della nazion veneta che pretendevano molestarlo avanti alli rispettivi delegati delle di loro nazioni, fu ordinato che
avesse proceduto questo Tribunale, non ostante di essere i creditori forastieri,
siccome si ravvisa dalla real carta, che si conserva nel detto tomo 5 a c. 297.
A 29 maggio dell’istesso anno 1740 fu benanche ordinato all’Udienza di
Lucera che subito avesse rimesso a questa Regia Doana il carcerato notar Giovanni de Filippo, inquisito di mandato nell’omicidio in persona di Michele
Martelli, assieme con tutti gli atti, e che per l’avvenire avesse puntualmente osservato le ortatorie della Doana, senza perturbar con pretesti la giurisdizione
della medesima, qual real carta si ravvisa nello stesso tomo 5 a c. 317.
Convenne a notizia di S.M., che dalla Regia Doana era stato restituito il
riferito carcerato notar Giovanni de Filippo all’istessa Udienza di Lucera
75
a semplice istanza della medesima, e senza precedente altra formalità; ne domandò conto all’istessa Doana con real carta de 12 agosto dell’istesso anno, ed
ordinò che subbito avesse riferito con qual ordine avea restituito il carcerato alla
predetta Udienza, con rimetterli anche copia dell’ordini, per passarlo alla reale
intelligenza. Riferì questo Tribunale, che dal Caporota di quell’Udienza fu prevenuto l’Uditore di questa regia Doana, che dalla prefata Maestà con real carta
de 16 del mese di luglio per la real Secretaria di Stato, e di Giustizia era stato
ordinato ad essa Udienza che, attenta la special delegazione con cui stava procedendo nella causa del mentovato de Filippo, avesse continuato a procedere,
non ostanti qualsivogliano ordini avuti in contrario, per il di cui effetto fu restituito, e rimesso il carcerato suddetto all’Udienza di Lucera. In vista della quale
rappresentanza fu con altra real carta de 25 agosto per l’istessa Secretaria
d’Azienda ordinato a questa Doana, che per l’avvenire in simiglianti casi avesse
dovuto attendere gli ordini di S.M. per il canale della Secretaria di Stato, ed
Azienda.
E fattosi nuovamente presente a S.M. quanto occorreva su tal pendenza
intorno al carcerato suddetto de Filippo, ordinò con real carta de 29 settembre
dell’istesso anno che in tal causa proceduto avesse l’Udienza di Lucera, ma che
ciò s’intendeva per special delegazione, che per quella sol volta li concedeva la
M. S., sin que sirva de exemplar para otras causas de locados, y sin que se entienda en nadaperiudicado el Fuero Aduanal pues quiere y es su real voluntad, se mantenga en su fuerza,
vigor, y observancia, y que la mencionada Audiencia execute en lo venidero las ortatorias que
le expediere ese Tribunal a favor del Fuero de sus subditos, siccome apparisce nell’istesso
5 tomo a c. 337 ad 339, et 351.
Nell’istesso anno 1740 accadde un furto in questa Città nel fondaco di
Lonardo Mazza e Francesco Filiasi sudditi di questa Doana, ed essendosi carcerati alcuni rei da un subalterno della medesima che ne stava accapando
l’informazione, furono i rei suddetti dal Preside di Lucera violentemente fatti
consignare dal subalterno; quindi interato S.M. del successo, ordinò che questo
Tribunale di Doana avesse proceduto, con ordine espresso all’Udienza di rimettere absolutamente y sin retardo, ni replica los authos y los presos, y que en lo venidero no
se intrometa la expressada Audiencia ex semesantes dependencias, majormente donde hai resoluciones de S.M., como es la que resulto' de la causa de D. Francisco Musto (che da me si
rapportarà nell’ultimo, siccome di sopra ho accennato). E rispetto al punto
della violenza usata allo scrivano di questa Doana, ordinò alla medesima
76
che avesse liquidato con documenti la condotta del Preside e del Caporota,
togliendo i rei dalle mani del subalterno, e darne conto alla M.S., affinché avesse
potuto pretendere altri provvedimenti.
Nell’istesso anno 1740 accadde in S. Marco in Lamis un tumulto, e
diversi omicidii per una protesta che vollero fare quei cittadini contro D.
Francesco Freda, per causa della prelazione dell’affitto di quelle rendite abadiali.
Ne prese l’informazione tanto l’Uditore di questa Doana, quanto il Caporota
dell’Udienza di Lucera; ed essendosi spedite dalla Doana le lettere ortatoriali
alla suddetta Udienza, affinché si fosse astenuta di procedere ed avesse rimessi
gli atti, non volle ubedire, ed essendosi fatta rappresentanza a S.M., così dalla
Doana, come dal Tribunale di Lucera, fu ordinato dalla M.S., in vista dell’una e
dell’altra rappresentanza, che tanto nella causa del tumulto, quanto per gli
omicidii avesse proceduto il Tribunale di questa Doana, e rimesso li rei con gli
atti, che avea formati, come dal dispaccio originale a c. 329 ad 331 di tomo 5.
Nel 1742 ad istanza dell’Università della terra di Colledimezzo fu spedita
dal S.C. un’ortatoria alla Regia Doana, pretendendo procedere per gli eccessi
commessi dalli naturali di detta terra contro il barone Francischelli e Nicola
Ferraro suo guardiano, sul motivo di ritrovarsi introdotta in esso S.C. la causa
de confini de territorii tra Montazzoli e Colledimezzo; fu ordinato dalla prefata
Maestà a 28 settembre di detto anno con real carta spedita per la Real
Secretaria d’Azienda, che si conserva in detto 5 tomo a c. 488, che rispetto alla
causa de confini proceduto avesse il S.C., e rispetto alla causa degli eccessi
commessi contro il suddetto Barone e suo guardiano avesse proceduto la Regia
Doana, e ne fu rimesso ordine corrispondente allo stesso Sacro Consiglio.
Nell’anno 1744 essendo accaduto un omicidio in persona di Vito
Ricciardi nella Città di Monteverde, ed accapatasi l’informazione dall’Udienza di
Montefusco, vennero in quella rubricati molti rei, onde pretese l’Udienza che
per l’omicidio suddetto avesse dovuto procedere questa Doana contro il
suddito della medesima, e rispetto agli altri rei non sudditi essa Udienza, e
perciò non volle ubedire all’ortatoria della Regia Doana. Se ne fece
rappresentanza così da essa Doana, come dall’Udienza al signor Luogotenente
generale del Regno in quel tempo, e dal medesimo con carta de 15 aprile di
detto anno ordinò che l’Udienza di Montefusco avesse rimesso a questo
Tribunale di Doana la causa di tutt’i delinguenti, per appartenerne alla
medesima la cognizione, siccome apparisce dal dispaccio sistente nel sesto
tomo delle Istruzioni a c. 32.
77
Così parimenti dall’istesso signor Luogotente generale fu ordinato con
carta del 27 marzo dell’istesso anno che per il furto accaduto in casa di
Giambattista Properzio avesse proceduto la Regia Doana, e che l’Udienza
dell’Aquila avesse ubedito senza la minor replica ed intermissione di tempo
all’ortatoria che spedita l’avea per detta causa, registrata a c. 41 ad 43 dicti
thomi 6.
Nell’anno 1745 pretese l’istessa Udienza dell’Aquila, che presa avea
l’informazione contro D. Nicola Trasmundo locato della Regia Doana, che
contro il suddetto Trasmundo avesse dovuto procedere la Doana, e quella
Udienza contro gli altri rei non locati; ordinò S.M. con real carta de 29 giugno
che l’espressata Udienza avesse rimesso gli atti originali al Tribunale di Doana,
para que el mismo proceda en esta causa contra todos los reos, dicti thomi 6 Istructionum
a c. 60.
Nel 1746 agitandosi litigio tra D. Giuseppe Giordano della Città di
Lucera con D. Francesco suo figlio per l’assegnazione di 60 salme di territorio
fatta a beneficio del detto D. Francesco contemplatione matrimonii, si pretendeva
dall’Udienza di Lucera come giudice privativo delle cause de territorii che si
distribuiscono tra i cittadini di Lucera di dover procedere nella causa suddetta,
non ostante che il D. Giuseppe Giordano fusse locato della Doana; pur tutta
volta fu con real carta de 31 agosto di detto anno ordinato che avesse
proceduto la Doana, alla quale stava soggetto il D. Giuseppe come locato, e
che l’Udienza di Lucera, nel caso che si dovesse fare esecuzione sopra li
suddetti territorii, interponesse il suo braccio, allorché sarebbe stato giudicato
dalla Doana, dicti thomi 6 Istructionum a c. 123.
Questa sovrana real determinazione fu confirmata nell’anno 1747 a 12
aprile con altra real carta registrata nell’istesso tomo a c. 197.
Agitavasi litigio tra D. Pasquale e D. Francesco Paolo de Nicastro
ambedue locati della Regia Doana, per lo fitto di un carro di mezzana, ed
avendo declinato il foro il D. Francesco Paolo nella regia Udienza di Lucera,
pretendeva la medesima di procedere come giudice privativo de sudetti
territorii, ed essendosene fatta rappresentanza così dall’Udienza come dalla
Doana, fu ordinato che si osservasse puntualmente la real determinazione de 31
agosto del 1746, pocanzi riferita, ed in conseguenza proceduto avesse la Regia
Doana, colla prevenzione di essersi spedito il corrispondente all’Udienza, e
passato l’avviso necessario alla Secretaria di Stato, Giustizia, e Grazia, ed alla
Camera Reale di S. Chiara.
E’ così potente il privilegio del foro doanale, che sebbene nelle cause
indrotte ne rispettivi tribunali de locati o sudditi di questa Doana, pria di
78
farsi locati o sudditi della medesima, ne appartenga la cognizione alli stessi
rispettivi tribunali, pur tutta volta qualora si tratta di esecuzione personale
contro tali locati e sudditi di Doana, devono domandare il braccio ad essa
Doana, siccome fu ordinato dalla M.S. con real carta de 14 settembre di detto
anno 1746 per l’istessa Real Secretaria d’Azienda.
Nell’istesso anno con altra real carta de 12 ottobre fu ordinato al
Governatore di Serra Capriola, il quale procedeva con ordine di S.M. spedito
per Secretaria di Stato, Giustizia, e Grazia contro il razionale ed altre persone
applicate al servizio del monistero di S. Maria in Valle, notorio locato di questa
Doana, che rimettesse tutti gli atti alla medesima, affinché avesse proceduto
nelle riferite cause, e ne adduce il motivo: Cuyo Fuero non puede variarse por sus
privilegios, los quales se ha dignado confirmar SM. en el ultimo Plan, que mandò formar, y
por consecuencia en negocios, que partenencen a los locados, y sus dependientes, deven
distribuirse las ordenes por esta Secretaria de Estado, y de despacho de Hazienda de mi
cargo, reg. a c. 178 dicti thomi 6.
Pretese il canonico D. Michele Politi esser sodisfatto intieramente d’alcuni
erbaggi venduti a D. Antonio Santomasi ed al canonico D. Ferdinando suo
fratello, locati della Regia Doana; ne ricorse nella R. Nunziatura contro detto
canonico D. Ferdinando Santomasi, ed avendone avuto ricorso da S.M. il D.
Antonio fratello del detto canonico Santomasi, fu ordinato con real carta de 20
aprile 1746, reg. a c. 218 dicti thomi 6, che la Regia Doana avesse proceduto
nell’espressata causa, e che insinuasse al canonico Politi che, sotto pena del
sfratto dal Regno e della reale indignazione, si astenesse di molestare il riferito
canonico Santomasi nel Tribunale della Nunziatura, e che dovesse deducere le
sue raggioni nella Doana, che era il giudice competente.
Nel 1747 l’Udienza di Matera, precedente ortatoria di questa Regia
Doana, rimise l’informazione che si era accapata da un suo subalterno contro
Nicola e Girardo Garzilli della terra di Forenza, sudditi di essa Doana, per il
furto considerevole fatto al sacerdote D. Nicola de Iasi, ed essendo stati
dichiarati innocenti li suddetti Garzilli da essa Doana, quindi pretese l’Udienza
di Matera la restituzione degli atti per poter procedere contro gli altri rei
rubricati non sudditi di Doana; ed essendosi rappresentato a S.M., tra gli altri
motivi, che quando nelle cause vi sono sudditi di Doana e non sudditi, ne spetta
la cognizione quoad omnes all’istessa Doana, siccome dichiarato avea la M.S. nella
causa d’omicidio di Vito Ricciardi e del Marchese Trasmundi sudditi di Doana,
ed altri che non
79
erano sudditi, siccome pocanzi ho anche riferito, fu ordinato con real carta del
primo gennaio di detto anno che questo Tribunale di Doana avesse seguitato a
procedere e l’Udienza di Matera non si fosse ingerita, non ostante che veniva
nell’informazione rubricato il subalterno dell’istessa Udienza, che preso ne avea
l’informazione, come dal detto tomo 6 a c. 186 ad 188.
Nell’anno 1748 procedendo il signor Consigliero Marchese Fragianni,
come delegato della Religione di Malta nella causa d’alcuni sudditi di Doana,
per lo fitto d’alcune terre del baliaggio di Venosa appartenente all’istessa
Religione, ordinò S.M., che privativamente apparteneva a questo Tribunale, e
quindi il suddetto Delegato non avesse proceduto e trasmessi gli atti all’istessa
Doana, come apparisce dalla real carta de 31 di gennaio di detto anno, che si
conserva nel sesto tomo fol. 314.
E di vantaggio quantunque fusse terminata la suddetta lite, e si fusse
stipulato istrumento del fitto di dette terre a beneficio di Pietro Durante ed
altri, onde pretendeva il Delegato della Religione Gerosolimitana procedere al
fitto delle massarie di campo del baliaggio suddetto, pur tutta volta con altra
real carta de 16 maggio dell’istesso anno 1748, che si conserva nell’istesso tomo
a c. 335, fu ordinato che il Tribunale di Doana avesse seguitato a procedere in
tal causa, con dar luogo alli gravami della Regia Camera.
Nell’istesso anno 1748 pretese la Corte della Città di Molfetta voler
procedere nella causa del furto fatto da Giovanni Majorani di Terlizzi contro i
correi non sudditi di Doana; fu con ordine della Regia Camera de 18 maggio
di detto anno, che si conserva a c. 334 thomi 6, stabilito che la Doana avesse
proceduto anche contro i correi non sudditi.
Nel 1749 con real carta de 8 gennaio fu ordinato al signor Marchese
Danza, delegato dell’arrendamento delle carte, ed al suddelegato del medesimo,
l’Avvocato Fiscale dell’Udienza di Montefusco, che non avesse proceduto nella
causa vertente tra alcuni commissarii dell’istesso arrendamento con alcuni locati
di questa Doana, e che avessero rimesso gli atti alla medesima, affinché avesse
proceduto e fatto giustizia.
Nel mese di dicembre dell’anno 1748, intesa S.M. del scandaloso
attentato commesso nella Città di Lucera da alcuni naturali di quella, coll’aver
procurato di sforzare e violentare la porta della casa d’un’onesta donna maritata
per insultarla nell’onore, si degnò comandare che questo Tribunale di Doana
avesse proceduto contro coloro che erano soggetti al foro doanale, e l’Udienza
di Lucera contro gli altri soggetti alla giurisdi80
zione ordinaria, comunicandosi vicendevolmente gli atti, ed indi dar conto della
decisione.
Si rappresentò da questa Doana alla M.S., che in virtù degli amplissimi
privilegi de locati avea questo Tribunale di Doana la privativa giurisdizionale di
conoscere e procedere anche contro i non sudditi, qualora vi fusse un solo
suddito inquisito; quindi la M.S. con real carta de 15 gennaio dell’anno 1749,
che si conserva nell’istesso tomo a c. 373, risolvé sovranamente ed ordinò che si
mantenessero ed osservassero alli locati puntualmente i privilegi, e che per
conseguenza questa Doana avesse proceduto in tutta l’enunciata causa così
contro i suoi sudditi, come contro coloro che non erano sudditi, senza dividersi
il conoscimento della medesima, e per la Real Secretaria d’Azienda furono
spediti gli ordini corrispondenti così alla Secretaria di Stato, e Giustizia, come
all’Udienza di Lucera.
Nell’istesso anno 1749 si pretese dall’Udienza dell’Aquila dover
procedere contro alcuni locati inquisiti nella medesima d’indebito arresto, ed
altro seguito nelle persone del Governatore, e Sindaco, intempoché per colà
passava un regimento svizzero, ed i rubricati locati si ritrovavano
amministratori dell’Università di Roccaraso loro padria, sul motivo che i rei
avendo delenguito intuitu officii dovevano essere solamente riconosciuti dalla
medesima Udienza loro giudice competente, e soprattutto perché essa Udienza
procedeva in tal causa precedente dispaccio di S.M. per la Real Secretaria di
Stato, Guerra, e Marina in data de 27 settembre 1747, e con altra real carta a
ricorso del detto Governatore di Pesco Costanzo in data de 2 del mese di
febraio per l’istessa Secretaria era stato ordinato alla medesima Udienza che
avesse riferito lo stato della causa suddetta. Ed essendosi tutto ciò distintamente
rappresentato alla M.S. da questa Doana, fu ordinato con real carta de 9 aprile
di detto anno per la sua Real Secretaria di Stato e di Azienda che la Doana
procedesse in questa causa, e che l’Udienza dell’Aquila non s’inserisse affatto in
essa, e senza ulterior dilazione rimettesse gli atti alla medesima, dicti thomi 6 a c.
385 ad 389.
Similmente nel detto anno 1749 pretese l’Udienza di Matera dover
procedere nella causa del tumulto accaduto nella Città di Pesticci, e tra gli altri
motivi, perché procedeva come special delegata di S.M., in virtù di real
dispaccio della Secretaria di Stato, Giustizia, e Grazia, ma ciononostante fu dalla
M.S. ordinato con real carta de 6 aprile di detto anno che la Doana avesse
proceduto, e se ne passarono gli ordini corrispondenti alla Secretaria di
Giustizia con altra real carta dell’istessa data, nella quale
81
viene espressato: queriendo el Rey absolutamente, que se observen inviolablemente los
amplissimos privilegios onerosos, que estan concedidos, y gosan los subditos, y locados de la
Aduana de Foxa; ha resuelto ecc. in dicto 6 thomo a c. 391.
Nel medesimo anno 1749 pretese l’Udienza di Montefusco voler
procedere nella causa dell’omicidio in persona di Pietro Messere, commesso da
Alesandro Savinetti suddito della Doana, e Domenico Carpentiero non suddito
di essa Doana, che ritrovavasi carcerato in quel Tribunale, tra perché il Savinetti
come fratello di Nicola Savinetti affittatore di terre salde, non dovea godere la
prerogativa del foro doanale, come altresì perché il Carpentiero per essersi
fatto affittatore di terre salde dopo commesso l’omicidio, ma dalla M.S. fu
ordinato che, costando che il suddetto Savinetti coabitava e viveva in
communità col Nicola suo fratello, avesse proceduto la Doana, anche rispetto
al carcerato Carpentiere, per il motivo (sono le parole del dispaccio) y los
Subditos de esa Aduana tienen la prerogativa de tirar a si los demas complices, aunque no
sean subditos de la misma, e perciò l’Udienza avesse rimesso gli atti col carcerato, a
c. 418 dicti thomi 6.
Per l’istesso motivo nell’anno 1750 pretese l’Udienza dell’Aquila
procedere contro Giuseppe Minutolo e Marc’ Antonio de Biase, sudditi della
Doana, per alcuni maltrattamenti fatti unitamente con Francesco de Vita
suddito della medesima, in persona di Donato Musillo, e dalla prefata Maestà
con real carta de 4 marzo di detto anno sovranamente (si) ordinò che la Doana
avesse proceduto, e l’Udienza a tenore dell’ortatoria speditali avesse rimesso gli
atti, a c. 437 dicti thomi 6.
Ritrovandosi nella Città di Corigliano di Calabria Citra molti sudditi di
Doana, ebbe ricorso il Duca nell’Udienza di Cosenza, esponendo voler essere
inteso qualora i naturali di Corigliano avessero presentato ortatoria della Regia
Doana, e così dall’Udienza fu ordinato; ma uniformandosi S.M. al dettame
della Doana dissapprovò la suddetta decretazione dell’Udienza, come
pregiudiziale alli privilegi doanali, ed ordinò all’Udienza che per l’avvenire dasse
la dovuta osservanza alle inibitorie della Doana, ed incontrandovi qualche
riparo l’avesse dovuto partecipare al Presidente Governatore, per darsi dal
medesimo la providenza conveniente, como practican todas las demas Audiencias del
Regno, y como siempre se ha accostumbrado, come apparisce dalla real carta de 26
Agosto di detto anno, a c. 460 dicti thomi 6.
La prerogativa del foro doanale è stata così inviolabile, che anche
qualora S.M.C. avesse stimato per giusti motivi che avesse proceduto
82
qualche tribunale superiore contro de locati, ha ordinato che dall’istessa Doana
si spedisse la delegazione in persona di altro ministro, siccome per appunto
nell’anno 1751 a 3 di settembre fu ordinato che nella causa dei fratelli Iaziolla
locati col Marchese di Torrecuso, in considerazione delle particulari circostanze
che concorrevano in quel caso avesse proceduto il consigliero de Gennaro, e
che la Doana avesse spedita la delegazione in persona del riferito consigliero, e
nell’istessa causa fu ordinato a 23 ottobre dell’istesso anno che la delegazione si
fosse spedita dal Tribunale di Doana colla clausola di darsi luogo appellazione
alla Camera della Summaria dispensando S.M. per esta vez, y sin que sirva de
exemplar a la formalidad de darse la appellacion en esa misma Aduana, quali reali carte
sono inserite nel detto 6 tomo a c. 506 ad 509.
E così parimenti fu ordinato nell’anno 1751 che la Doana avesse spedita
la delegazione all’Udienza di Salerno, acciò avesse proceduto contro alcuni di
Lauria rei della devastazione del bosco di Pruno, con dar luogo all’appellazione
della stessa Doana, ut a c. 493 dicti thomi 6.
E finalmente con altra real carta de 28 settembre 1754, spedita per la
Real Secretaria di Stato, Grazia, e Giustizia, reg. a c. 558 dicti thomi 6, fu
similmente ordinato alla Doana che avesse spedita la delegazione al Preside di
Trani acciò intendendosela con quel Vescovo, avesse procurato di togliere i
scandali che commettevano alcuni individui della terra di Fasano, tra quali vi
erano anche locati che tenevano scandalose prattiche.
E finalmente per il tumulto nella terra di Pescasseroli con omicidi e ferite
tra i naturali della suddetta terra non sudditi di Doana ed i locati di quella di
Gioia nell’anno 1759, fu delegato specialmente al Fiscale dell’Udienza
dell’Aquila che avesse presa l’informazione ed avesse date le provvidenze
convenienti e dopo avessero rimesso gli atti alla Doana, acciò avesse proceduto
e fatto giustizia, siccome fu eseguito, ed attualmente si trova procedendo la
medesima non solo contro tutt’i rei non locati, ma benanche contro i militari di
diversi regimenti, che si trovavano di guarnizione nel castello dell’Aquila, ed
accompagnavano le pecore de locati di Gioia, che calavano al Tavoliere della
Puglia, e passavano per il territorio di Pescasseroli con ordine della Doana,
motivo per il quale ne accadde il tumulto, la resistenza, gli omicidii e le ferite,
siccome si riscontra dal processo sistente in Doana.
Sebbene in virtù di regia prammatica emanata dalla Maestà Cattolica si
fusse ordinato che per le cause d’usuraria pravità avessero proceduto le
rispettive Udienze come delegate speciali della M.S., ed indi con altra
83
prammatica avesse ordinato che le medesime Udienze avessero proceduto
come suddelegate della Gran Corte della Vicaria, pur tutta volta con real carta
de 5 settembre 1753, reg. a c. 642 dicti thomi 6, ordinò che nelle cause de
locati, aunque sean de usura, deve proceder la misma Aduana.
Nel 1754 essendo stati maltrattati i subaffittatori del jus prohibendi del
tabacco da alcuni naturali di Caggiano sudditi della Doana, nell’atto che
visitavano il convento de P.P. Riformati di quella terra per controbanni e per la
numerazione delle piante dell’erba santa, fu ordinato con real carta de 22
settembre al Preside di Salerno che non avesse proceduto nell’espressata causa e
che osservasse le lettere ortatoriali della Doana, reg. a c. 559 dicti thomi 6.
Quantunque dalla Maestà Cattolica fussero stati stabiliti due
Luogotententi generali nella Doanella d’Apruzzo, e due Ministri, uno
dell’Udienza dell’Aquila e l’altro di quella di Chieti, per tutti l’interessi e cause
delle Doanelle, pur tutta volta con due reali carte dell’istessa data de 26 luglio
1758 ordinò S.M., che concorrendo in un’istessa causa locati della Regia Doana
di Foggia ed altri soggetti alla Doanella, dovea esser preferita la Doana di
Foggia alla Doanella d’Apruzzo, e che queste doveano rimettere gli atti alla
stessa Doana, affinché avesse proceduto e fatto giustizia, a c. 95 ad 98 thomi 7.
Finalmente qui mi cade in acconcio riferire la sinodale decisione fatta
dalla prefata Maestà Cattolica alli 4 settembre dell’anno 1739, in virtù di reali
carte che si conservano nel quinto tomo delle Istruzioni Doanali a c. 186 ad
220.
Pretese l’Udienza di Lucera spettare a quel tribunale la cognizione della
causa dell’inquisiti d’intelligenza, istigazione, e mano avuto nel colpo
d’archibuggiata tirato dal laico fra Giuseppe di S. Marco a D. Francesco Mosti,
e quantunque dalla Regia Doana se li fussero spedite le lettere ortatoriali ad
istanza di Giuseppe e Nicolo Lombardo conduttori di terre salde della Regia
Corte, in osservanza delle medesime fu rimessa la copia del processo, ma non
già l’originale informazione, sul motivo che dovea procedere contro gli altri rei
presenti ed assenti non sudditi della Regia Doana. Dal che ebbe motivo la
Doana di rappresentarlo a S.M., e così parimenti ne fu fatta rappresentanza
dall’istessa Udienza, la quale si raggirava a tre capi, il primo, che il privilegio
dovea godersi da soli locati descritti ne libri di questo Patrimonio, e non già
dalle mogli ed altri della di loro famiglia; il secondo, che il locato non abbia il
privilegio di traere i non sudditi; ed il terzo, che potea procedere l’Udienza in
contumaciam
84
contro il locato inquisito, il quale volendo domandare la remissione della causa
dovea presentarsi carcerato.
Stimò la santa mente della Maestà Cattolica con sua real carta spedita per
la Real Secretaria di Stato ed Azienda della data de 4 aprile sovranamente
risolvere che si sentisse questo Tribunale di Doana acciò avesse rappresentato
quel che l’occorreva sopra l’assunto, per indi passarsi unitamente colla relazione
di Lucera alla Real Camera di S. Chiara, affinché in vista di ambedue relazioni
l’avesse informato col suo parere.
In seguela di tal real ordine fu da ministri, che degnamente presedevano
in questo Tribunale, rappresentato diffusamente quant’occorreva intorno alle
prerogative del foro doanale, evacuando ad evidenza i motivi addotti
dall’Udienza di Lucera, ed essendosi trasmesse le cennate relazioni alla Real
Camera di S. Chiara, avendo inteso il dettame della medesima, ed avendo
avuto benanche presente la M.S. gli ordini che avea distribuiti la Regia Camera
della Summaria sopra le rappresentanze del Tribunale della Doana e
dell’Udienza di Lucera per la competenza di procedere nell’espressata causa e
sopra le istanze fatte dalli Deputati dei locati per la conservazione ed osservanza
del foro doanale, e la consulta fatta dall’istessa Camera della Summaria alli 10
luglio, con li motivi per i quali dovea procedere la Doana, fu dalla prefata
Maestà ordinato che il Tribunale di Doana avesse proceduto e fatto giustizia ad
istanza dell’espressato D. Francesco Mosti contro tutti gl’inquisiti e carcerati,
come altresì contro li rei d’intelligenza, istigazione, e cooperazione del delitto
dell’archibuggiata tirata dal laico francescano al suddetto Mosti, e che l’Udienza
di Lucera avesse rimesso gli atti originali alla medesima.
Dalla suddetta sovrana real determinazione emanata precedente consulta
della Real Camera di S. Chiara e della Regia Camera della Summaria è venuto a
confirmarsi il privilegio del foro doanale, che non solo debba godersi dalli soli
locati descritti ne libri di questo Patrimonio, ma benanche dalle mogli ed altri
della loro famiglia; che i locati abbiano il privilegio di traere i non locati; e che
non sia punto necessario che il locato inquisito e contumace per domandare la
remissione della causa debba presentarsi carcerato, ma colle sole lettere
ortatoriali della Doana debbasi rimettere, a riserva però dell’inquisiti d’omicidio,
che non possono domandare la remissione se non saranno costituiti nelle
carceri formali, o dell’Udienza, o dell’istessa Doana, tanto in seguela della regia
prammatica del Cardinal d’Althan, quanto in virtù di real carta spedita per la
Real Secretaria di Stato, Grazia, e Giustizia nel 1741 all’Udienza di Montefusco
diretta.
85
Ed ecco, se l’avviso non m’inganna, provato ad evidenza che tanto per
legge, quanto per l’inconcussa osservanza, dall’elezzione della regia Doana
fin’oggi, non solo deve la medesima procedere contro i non locati nella causa
delle violenze commesse contro alcuni cittadini di Lecce da alcuni di quella di
Gioia, de quali alcuni sono locati, ed altri non locati, ma benanche in ogni altra
causa simile, purché sia del real aggrado di S.M., alla quale s’appartiene l’assoluta
e plenaria potestà e regalia di concedere i privilegi ed esenzioni, ampliarli,
restringerli, o pure affatto abolirli.
Il motivo principale, che ho avuto in incomodare V.S., egli è stato per
essere illuminato nelle difficoltà che possono occorrere nell’esecuzione de
veneratissimi sovrani ordini, così nell’espressata causa de’ cittadini della terra di
Lecce con quelli di Gioia, come in ogni altra simile.
Che però si compiacerà prendersi l’incomodo di darmi i suoi savii
ammaestramenti, vale a dire, se la generale determinazione sovranamente
stabilita da S.M. non solo nelle cause criminali, qualora vi siano locati e non
locati, o benanche nelle cause civili abbia d’aver luogo, giacché concorrono li
stessi motivi che han mosso la santa mente della M.S. a così ordinare tanto nelle
une, quanto nelle altre, e se ricorrendo per causa civile, o querelando un locato i
non sudditi ci dobbiamo astenere di spedire ortatorie, ed ordinare
informazioni, o pure procedere sintantoché ci costi che i querelati non siano
sudditi, o pure debbano opponere la declinatoria del foro avanti alli giudici
competenti.
Inoltre dovendosi da questa Regia Doana procedere solamente contro i
locati così nell’espressata causa, come in altre simili, debba spedire le ortatoriali
per la trasmissione degli atti originali, o della copia di essi, ed in questo caso per
potersi procedere a quanto conviene di giustizia, sa V.S. molto bene che vi
sarebbe di bisogno di special dispensa di S.M. per abilitare la Doana a
procedere colla copia degli atti.
Finalmente se qualora accaderanno consimili cause tra locati e non locati,
debbansi accapare due informazioni, cioè una da questo Tribunale di Doana
per quello riguarda a suoi sudditi, e l’altra dalle rispettive Udienze rispetto alli
non sudditi di Doana, o pure debbasi ricevere l’informazione da un solo
Tribunale, e se sia preferito questo di Doana a quello dell’Udienza, o pure si dia
luogo alla prevenzione, ed indi rimettersi all’altro la copia, qualora ne farà la
premura di procedere, affinché non accada disordine di accaparsi due diverse
informazioni, e forsi tra loro contrarie, dal che ne potrebbe addivenire che ne
seguissero anche difformi le giudicature, motivo per il quale non si permette
dalle leggi di dividersi la continenza
86
delle cause, per li testi a V.S. ben noti in Leg. nulli prorsus 10 Cod. de Iud., e nella L.
l. e 2 § de quibus rebus ad eundem Iudicem eatur, e ne assegna il motivo Dionisio
Gothofredo nella suddetta L. 1 Lit. N §, quibus rebus etc. quia dissonum esset rem
apud diversos Iudices agitari, ne diversae oriantur sententiae, et unus Iudex condemnaret, alter
absolveret, et contrariae sententiae ferrentur in una eademque causa; e sebbene siasi
fortamente contravertito da Dottori, se gli espressati testi abbiano luogo nelle
cause criminali, e più tosto sia stata abbracciata la sentenza contraria, siccome
apparisce dalla decis. 426 del presidente de Franchis, nulla però di meno una tal
controversia non ha luogo nella Gran Corte della Vicaria, la quale per le
amplissime preeminenze che ella tiene, non divide le cause, quantunque
criminali, siccome rapporta deciso Capece nella dec. 122 in fin. ove sebbene
parli della Gran Corte di Palermo, pur tutta volta non v’è dubbio alcuno che la
nostra Gran Corte gode le stesse preeminenze, come ponderò il reggente S.
Felice nella decisione 358 n. 42, il che credo che maggiormente dovrebbe aver
luogo in questa Regia Doana, e per li suoi amplissimi privilegi, e per le
giudicature da tempo emanate, e per le replicate sovrane reali determinazioni di
sopra riferite.
Che però attendendo i suoi savii ammaestramenti per mia condotta, che
debolmente ho l’onore di difendere le raggioni fiscali e di questo Real
Patrimonio, desideroso sempre de suoi riveriti comandamenti, con perfetta
stima mi raffermo immutabilmente.
Di V.S. devotissimo obligatissimo servitore vero.
Carlo Maria Valletta
Foggia, lì 31 agosto 1760
Sig. marchese D. Carlo Mauri Avvocato fiscale del Real Patrimonio.
(ASFg, Dogana delle pecore, s. I, vol. 8, cc. 178 r. - 196 r.).
87
IL MOVIMENTO COOPERATIVO IN CAPITANATA
(1875-1915): NASCITA E SVILUPPO
DELLA COOPERAZIONE
IN UN'AREA DEL MEZZOGIORNO
1 - INTRODUZIONE
Che cos’è la cooperazione?
La domanda a prima vista può sembrare di facile risposta ma invece
rappresenta il punto di partenza per penetrare dentro una realtà di difficile approccio metodologico ed interpretativo.
Di fronte, infatti, non abbiamo solo il tentativo, storicamente iniziatosi in
Italia a partire dalla seconda metà dell’800, «di correggere e/o contrastare il
tipo di sviluppo impresso alla società del capitalismo per porre proprie finalità
alla soluzione del rapporto fra le diverse classi e allo sviluppo economico, per
renderli meno ingiusti socialmente [ ... ]»1, ma anche uno dei modelli organizzativi
possibili dei rapporti di produzione.
La cooperazione - cioé - non può essere fatta rientrare, se non a rischio
di stravolgenti e forzature, nella nozione classica di impresa in una società capitalistica, né tantomeno in quella di istituto preparatorio o complementare ad
una economica socialista2.
____________
1 - S. NARDI, Per la conoscenza storico-sistematica della cooperazione in F. FABBRI (a
cura di), Il movimento cooperativo nella storia d'Italia 1854-1975, Milano, Fertrinelli, 1979, pp.
693-708, p. 695.
2 - «La coopererazione è dunque individualista o socialista?
Essa è di fatto universalista e vuole riuscire a produrre e a scambiare i beni economici nella migliore delle condizioni e col minimo di attriti in qualunque regime e in qualsiasi mercato avendo per fine l’uomo e i suoi bisogni»: cfr. “Introduzione” di B. RIGUZZI a B. RIGUZZI-R. PORCARI, La cooperazione operaia in Italia, seconda ed. riveduta
ed ampliata, Milano “La Fiaccola”, 1946, p. 9
89
E questo perché esistono delle serie difficoltà «nell’affrontare una problematica tutt’affatto particolare, nella quale si compenetra e si realizza il momento politico - ideologico con l’esercizio economico in quanto impresa», ma
anche «dubbi, ognora insorgenti, sulla collocazione della storia del movimento
cooperativo in bilico tra l’economica, la sociale e la politica»3.
Un problema questo che per le sue caratteristiche rimanda, se si vuole
giustamente comprendee il movimento cooperativo in Italia, al sistema di rapporti che sono intercorsi (e che ancora intercorrono) tra le ideologie e la cooperazione e al modo in cui questi due momenti sono entrati in relazione nel corso
dello sviluppo dell’associazionismo nel nostro paese.
Ora, nella cooperazione si è sempre vista proprio «quella istituzione in
grado di correggere o addirittura di sostituire le strutture della società borghese-capitalistica [ ... ]»: ne è venuta fuori, anziché una interpretazione dei meccanismi interni e dei modi di sviluppo della società cooperativa, un vero e proprio
«modello di comportamento morale»4.
Tra i diversi problemi che si sono creati, uno dei più importanti è sicuramente quello della mancanza di analisi storiografiche in grado di restituire
piena autonomia all’argomento. Non mancano certo ottimi lavori e ricerche
importanti5, ma si vuole soffermare l’attenzione sul fatto che la storiografia ha
studiato il movimento cooperativo in maniera derivata, nel senso di non vedere
nella cooperazione una realtà autonoma nell’ambito dello sviluppo della società,
ma solo un aspetto di problematiche più generali, che di volta in volta sono
state lo sviluppo del movimento operaio, la questione contadina, e così via.
Questo non significa che sia un tipo di approccio metodologico sbagliato. Infatti ormai «è generalmente ammesso che la nascita della cooperazione
italiana rappresenta, nella storia del movimento operaio, l’anello di congiunzione che segna il trapasso dalle organizzazioni corporative e di mutuo soccorso a
quelle di resistenza e sindacali»6. Però ciò comporta non solo una subalternità
rispetto ad un processo di ben maggior peso, ma
____________
3 - S. NARDI, op. cit., p. 695.
4 - Cfr. Ibid, p. 696: il corsivo è mio.
5 - Si veda, tra tutti, il già citato volume a cura di Fabio Fabbri, la cui pubblicazione
è legata a motivi celebrativi (i 90 anni della Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue) ma
che è riuscito a dare una visione d’insieme del fenomeno cooperativo attraverso un taglio
storiografico tanto settoriale quanto geografico.
6 - S. NARDI, op. cit., p. 698.
90
soprattutto l’appiattimento su modelli interpretativi incapaci di pervenire ad una
conoscenza del tutto esauriente di un fenomeno per sua natura “diffidente”
verso approcci di tipo totalizzante7.
Resta però sempre da chiarire il perché la produzione scientifica esistente
non è riuscita, al di là dei reali meriti di sintesi storica, a raggiungere dei risultati
stimolanti dal punto di vista di una generale ricostruzione del fenomeno cooperativo. L’analisi sommaria di alcune delle tendenze interpretative che si possono
riscontrare nella storiografia del movimento cooperativo in Italia, può sicuramente portare nuova luce sulla questione8.
L’indirizzo che forse ha meno valenza sul piano storiografico, a causa del
suo carattere di “ovvietà”, è sicuramente quello che fa leva sulle specificità della
realtà nazionale in un dato momento storico. Questo però, non significa altro
che affermare l’esistenza di peculiarità nello sviluppo della società borghesecapitalistica in Italia in rapporto ad esperienze di altri paesi: il pericolo è di non
comprendere un movimento che, nato in una particolare situazione economica
e politica, è passato attraverso diverse condizioni tanto politico-istituzionali
quanto economico-sociali.
Esiste poi un indirizzo che, partendo dal concetto di cooperazione nella
sua accezione più largha, vede le origini del movimento cooperativo nelle comunità rurali e di villaggio. Vi è quindi un tentativo di creare una continuità nelle
realtà associative più diverse, dalle prime comunità, passando per le corporazioni, fino alle moderne forme mutualistiche e cooperative9. Il pericolo, in questo caso, è rappresentato proprio dal non
____________
7 - Bisogna sempre considerare che, essendo il movimento socialista e il movimento cattolico le forze popolari a cui la cooperazione ha fatto più spesso riferimento, è inevitabile che l’associazionismo sia studiato in funzione della storia di queste due grandi realtà
di massa dell’Italia post-unitaria. Ma è altrettanto inevitabile che le carenze della storiografia lasciando, «sostanzialmente nell’ombra le strutture base - tra cui quelle cooperativistiche
- sulle quali i due movimenti sono cresciuti, non hanno certo favorito lo sviluppo degli
studi sulla cooperazione»: Z. CIUFFOLETTI, Dirigenti e ideologie del movimento cooperativo in
G. SAPELLI (a cura di), Il movimento cooperativo in Italia. Storia e problemi, Torino, Einaudi,
1981, pp. 89-189, p. 89.
8 - Si seguiranno le considerazioni svolte da S. NARDI, op. cit., pp. 697-699 (a cui
si rimanda per la bibliografia generale), l’autore che più di ogni altro ha inquadrato la questione nei giusti termini, dando, nel suo saggio, un contributo decisivo allo sviluppo di
una storiografia che vuole aspirare all’esatta comprensione della cooperazione.
9 - Ad interpretazioni di questo tipo sono ricorsi anche due autori inglesi: l’origine
della cooperativa è rintracciata nelle “corporazioni religiose e nelle gilde artigiane”; le società
di mutuo soccorso rappresenterebbero “i legami intermedi” tra le istituzioni medievali e le
moderne società cooperative: cfr. E. TOPHAM E J.A. HOUGH, Il movimento cooperativo in
Gran Bretagna, trad. it. Roma, edizioni de “La Rivista della Cooperazione”, 1949, pp. 1416.
91
considerare che la cooperazione è nata in un particolare periodo, quello
della formazione di una moderna società capitalistica e come tale risente di tutte
le problematiche inerenti ad essa, non ultima quella del rapporto con l’allora
nascente movimento operaio organizzato.
Veniamo ai due ultimi indirizzi, che sono quelli che più di tutti hanno influenzato e influenzano tuttora la storiografia. Innanzitutto quello che analizza le
problematiche della cooperazione entro l’ambito della storia del movimento
operaio. A parte le considerazioni generali già espresse sulla non autonomia
degli studi sulla cooperazione in un ambito di questo tipo, resta il fatto che lo
sviluppo dell’associazionismo in Italia è frutto anche degli sforzi di settori economico-sociali che non possono essere fatti rientrare nella definizione di movimento operaio (vedi le cooperative di produzione artigiana e le cooperative
di categorie come gli impiegati statali), ed è stato influenzato da ideologie che
spesso erano in netto contrasto con il movimento socialista, come quella liberale e quella cattolica.
Infine, l’ultimo indirizzo prevalente è quello che si concentra sull’aspetto
tecnico-aziendale della cooperazione. In questo modo però viene messo da
parte proprio l’aspetto più significativo e di maggior importanza storica, quello
di un movimento che racchiude al suo interno degli ideali di dignità umana e
coscienza sociale e che, soprattutto, ricerca una “redenzione” sociale e politica,
prima che economica. Inoltre bisogna tenere presente le difficoltà esistenti in
Italia per studiare la cooperazione sul versante economico-finanziario perché
«per far questo occorrerebbero vaste risorse documentarie che, allo stato attuale, non sono disponibili o, quando lo sono, non consentono di operare la
scelta di un campione abbastanza significativo per evincere dagli studi particolari un modello esplicativo che si fondi su un processo di generalizzazione non
arbitrario»10.
Riassumendo, «si può dire che gli elementi che storicamente confluiscono
e specificano la cooperazione italiana sono dati dalla tipicità della problematica
relativa alla formazione della società borghese-capitalistica italiana, cioè il tempo
e il luogo specifico dell’accadere del fatto cooperativo, delle ideologie e degli
aspetti economici, in quanto la cooperazione come idea o ideologia più esistere
solo se esiste come impresa»11. Nell’aver
____________
10 - G. SAPELLI, La cooperazione come impresa: mercati economici e mercato politico in
G. SAPELLI (a cura di), op. cit., pp. 253 - 349, p. 253.
11 - S. NARDI, op. cit., p. 699.
92
considerato o privilegiato uno solo di questi elementi risiede l’errore degli indirizzi sopra citati e la causa maggiore della situazione in cui versa la storiografia
sulla cooperazione oggi in Italia.
Ad una non completamente chiara scelta metodologica fa da contrappunto l’enorme difficoltà nella fissazione di un quadro di riferimento statistico
quantitativamente e (soprattutto) qualitativamente idoneo ad un campo di ricerca così ricco e stimolante.
Il problema è essenzialmente di natura “ideologica”, nel senso di una
cooperazione che ha dovuto subire, fin dalle sue origini, continui attacchi (verbali ma anche, come nel periodo fascista, “fisici”) e tentativi di cooptazione da
parte di quei settori della classe dominante desiderosi di esorcizzare a tutti i costi una realtà che vedevano diversa e scasamente inquadrabile all’interno
dell’ideologia borghese-capitalistica.
Il perché di questo “modello culturale” che cercava di “diluire” la specificità e l’atipicità cooperativa annullandole nella impresa tout court era già stato
chiaramente individuato, un secolo fa, da uno dei masismi conoscitori e propugnatori della cooperazione nell’Italia liberale: Ugo Rabbeno. Secondo lo studioso, le società cooperative di produzione
«accennavano a voler esercitare l’industria in modo
diverso da quello che prevaleva e che era creduto
ottimo; annunciavano l’idea di voler sopprimere il
salario e di porre la direzione [ ... ] dell’industria in
mano a degli operai. Ora tutto questo turbava maledettamente gli economisti [ ... ]. Quando in Francia si
cominciò a parlare di associazioni produttive [ ... ]
era l’ora delle “armonie” di Bastiat. E questo
“ordinamento armonico” lo si credeva e lo si valutava assoluto, immutabile; e guai a chi osasse toccarlo!»12.
E uno dei mezzi usati per “esorcizzare” l’atipicità cooperativa può essere
considerato proprio il non aver studiato la cooperazione dal punto di vista
“sociale”: in tutte le statistiche ufficiali consultate per il periodo considerato, non
esiste alcun tipo di classificazione delle società per categorie di soci, ne’ l’analisi
del peso economico da loro esercitato all’interno delle singole società13.
____________
12 - U. RABBENO, Le società cooperative di produzione. Contributo allo studio della questione operaia, Milano, Dumolard, 1889, p. 445.
13 - La conferma si può trovare nel fatto che solo le statistiche riguardanti le banche
popolari contengono questo tipo di analisi: le società cardini del tentativo, caro alle classi
dominanti liberali, di controllare le spinte “popolari” del movimento cooperativo (cfr.
infra), le società meno cooperative di tutte, sono le uniche studiate e classificate come tali!
93
Ancora oggi questo modello culturale fa sentire il priprio peso ed è sicuramente tra le cause della mancanza di informazioni e rilevazioni unitarie della
realtà associativa attuale14. Una mancanza che «raggiunge aspetti grotteschi»15,
come la scomparsa della voce “soci” dalle statistiche ufficiali (indice evidente
della “confusione” tra società ordinarie, cioè società di capitali e, cooperative,
società di persone) o la non completa conoscenza di tutte le cooperative esistenti in Italia16.
Ma inevitabilmente, tutti questi problemi metodologici e statistici, calati
nell’ambito di una ricerca a livello locale, possono non solo assumere aspetti
diversi, ma accentuarsi in rapporto a specifiche difficoltà. E questo è il caso
della Capitanata. Si cercherà, perciò, di analizzare brevemente gli ostacoli ni contrati nel tentativo di delineare la storia del movimento cooperativo nella
provincia.
Un primo ordine di problemi riguarda la periodizzazione.
Se il 1875 è l’anno della fondazione della prima cooperativa della Capitanata17 (tenendo presente che con la “prima” si vuole intendere quella la cui
esistenza è stata rintracciata per prima da fonti ufficiali)18, la scelta
____________
14 - Questo è un fatto che viene riscontrato anche a livello d’indagine ufficiale: un
«elemento significativo [ ... ] è quello concernente l’estremo scoordinamento dei dati reperibili nel nostro paese in tema di cooperazione»: REGIONE PUGLIA. ASSESSORATO
AL LAVORO E COOPERAZIONE, Indagine conoscitiva sullo stato della cooperazione in
Puglia, Palo del Colle, Liantonio Editrice, 1985, p. 7.
15 - R. STEFANELLI, L'agricoltura nella crisi italiana, Roma, Editrice Sindacale Italiana 1974, p. 75.
16 - Si vedano, in proposito, le due statistiche ufficiali compilate a cura della Direzione Generale della Cooperazione presso il Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale: Il movimento cooperativo in Italia. Dati statistici relativi alla consistenza, alle iscrizioni e cancellazioni delle società cooperative nei registri prefettizi dall'anno 1951 al 1959, Roma, “La Rivista
della Cooperazione”, 1960 e Il movimento cooperativo in Italia. Dati statistici relativi alla consistenza, alle iscrizioni e cancellazioni delle società cooperative nei registri prefettizi dall'anno 1965 al
1969, Roma, “La Rivista della Cooperazione”, 1970.
17 - Si tratta della Banca dell'Associazione Operaia di Cerignola: cfr. F. VIGANO’, Resoconto di 160 banche popolari italiane e movimento cooperativo in Italia e all'estero del 1875, 1876 e
1877, Milano, Battezzati, 1878, pp. 26-27. Sebbene delle società non si ha più notizia, in
questo caso (cfr. nota seguente) Viganò risulta essere una fonte attendibile: la Banca di
Cerignola era tra le “Banche notate nel Bollettino delle Banche di Credito Ordinario”.
18 - Viganò riportava una non meglio identificata società di Foggia nel suo elenco
di cooperative esistenti in Italia nel 1865, ma di quella società non esistono altre notizie:
l’elenco, pubblicato in F. VIGANO’, Banques Populaires, Milano, 1865, è ora riportato in
W. Briganti (a cura di), Il movimento cooperativo in Italia 1854-1925, Roma-Bologna, Editrice
Cooperativa-Edizioni A.P.E., 1976, pp. 40-44.
94
di far concludere l’ambito cronologico della ricerca allo scoppio della I Guerra
Mondiale è stato dettato tanto da considerazioni generali, quali la particolare
situazione creata dagli eventi bellici con tutto quello che essa ha comportato
all’interno del movimento cooperativo nazionale19, quanto (e soprattutto) da
esigenze legate alla realtà locale.
Nel 1915 esistevano nella provincia 92 cooperative. La mancanza di statistiche post-belliche per alcuni settori costringe a prendere in considerazione
solo le banche popolari e le cooperative di produzione e lavoro per le quali si
hanno a disposizione dati quantitativi, sebbene riferiti agli inizi del periodo fascista20. Ora, su 63 cooperative facenti parte dei due settori considerati esistenti nel
1915, solo 23 (cioè il 36,5%) risultavano ancora in attività nel dopoguerra.
Questo alto indice di “mortalità” (il 63,5%) la dice lunga sull’azione di
“cesura” cronologica svolta dalla I Guerra Mondiale: non a caso, nel primo
studio ufficiale dedicato alla cooperazione nel dopoguerra, la provincia di Foggia non risulta mai menzionata21.
____________
19 - Generalmente parlando, da una parte ci fu una sempre maggiore integrazione
del movimento cooperativo con le strutture dello Stato, cosa che lo portò, in ultima analisi, a dipendere dalle sue scelte di politica economica; dall’altra, la completa ristrutturazione
verticale della Lega Nazionale della Cooperative, attraverso la creazione delle federazioni
nazionali di categoria: cfr. M.S. ONOFRI, La Lega negli anni della Prima Guerra Mondiale in
F. FABBRI (a cura di), op. cit., pp. 223-248.
20 - Cfr. ASSOCIAZIONE TRA LE BANCHE POPOLARI COOPERATIVE
IN ITALIA, Cenni statistici sugli istituii di credito legalmente costituiti con la forma di società
anonima esistenti nel regno al 1° gennaio 1922, Roma, 1923 e ISTITUTO NAZIONALE DI
CREDITO PER LA COOPERAZIONE, Annuario della cooperazione di produzione e lavoro
1919-1923, Roma, 1925: i due settori rappresentavano, però, complessivamente, il 67,9%
di tutte le cooperative censite nella provincia di Foggia nell’arco cronologico studiato (108
su 159).
21 - Cfr. LEGA NAZIONALE DELLE COOPERATIVE. UFFICIO STATISTICO, Il movimento cooperativo in Italia, Como, 1920. Delle altre 29 cooperative esistenti nel
1915 di sicuro si può dire che 3 (2 cooperative di consumo e una distilleria cooperativa) si
sciolsero per decorrenza di durata nel corso della guerra, mentre dei 9 consorzi agrari 6
erano sicuramente esistenti nel periodo post-bellico: cfr. FFDERAZIONE ITALIANA
DEI CONSORZI AGRARI, Convegno dei consorzi agrari ed enti affini dell'Italia meridionale,
Napoli, 4 ottobre 1926, pp. 7-8, p. 10.
L’uso di una fonte così “lontana” è dipeso dalla impossibilità di consultare la statistica stilata dalla Federazione nel 1921 (FEDERAZIONE ITALIANA DEI CONSORZI
AGRARI, I consorzi agrari italiani e le società affini. Note statistiche, 1919-1920 Roma, 1921): il
volume, infatti, non risulta nel catalogo delle due biblioteche nazionali di Firenze e Roma
ed è “scomparso” dalla biblioteca del Ministero di Agricoltura e Foreste. Considerando
anche i consorzi, le società in attività dopo la I Guerra Mondiale salgono a 29, cioè il 40,3%
delle 72 esistenti nel 1915.
95
Il secondo, e più importante, ordine di problemi riguarda le fonti. E’ quì
che alle difficoltà di poter disporre, a livello nazionale, di studi statistici adeguati
alla realtà cooperativa in quanto realtà sociale ed economica “diversa”, si sommano gli enormi problemi legati alla possibilità di integrare le insufficienti fonti
nazionali con dati reperiti a livello locale.
Se centrale nell’analisi storica deve essere «la consistenza del movimento
cooperativo sia come soci e imprese nei diversi settori, sia come entità economiche prodotte in rapporto alle disposizioni territoriali, al mercato e alle classi
sociali»22, la disponibilità di fonti alternative ed integrative diventa, a questo
proposito, indispensabile alla reale conoscenza del fenomeno cooperativo nella
sua integrità, del “meccanismo sociale della cooperazione”.
Da non molto tempo, gli studiosi del movimento cooperativo hanno
iniziato ad usare sistematicamente il Bollettino Ufficiale delle Società per Azioni. Cooperative (d’ora in avanti designato con la sigla BUSA) pubblicato a partire dal
1883 dal Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio (MAIC) e, successivamente, da altri ministeri23. Sul BUSA sono riportati integralmente gli atti costitutivi (fino al 1935), i verbali o gli estratti dei verbali delle assemblee (generali
e straordinarie), oltre ai bilanci di esercizio delle singole cooperative (secondo il
Codice di Commercio del 1882 infatti, le società coopertive erano soggette alle
stesse norme riguardanti la pubblicazione degli atti a cui erano soggette le società ordinarie).
E’ questa l’unica fonte a stampa disponibile in Italia per conoscere la
struttura interna delle cooperative, cioè la composizione sociale, e la vera natura
della loro attività, spesso non chiaramente individuabile dalla denominazione
ufficiale, cioè, in ultima analisi, la collocazione all’interno dell’economia e della
società.
C’è, poi, il tentativo di recuperare il patrimonio archivistico statale.
All’Archivio Centrale di Stato e a quelli provinciali e comunali, si sono affiancati
gli archivi dei Tribunali, prinicipalmente il “Registro delle Imprese” tenuto presso la Cancelleria Commerciale, gli archivi delle
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22 - S. NARDI, op. cit., p. 708.
23 - Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio (1883-1920), Ministero
dell’Economia Nazionale (1925-1929), Ministero delle Corporazioni (1929-1943), Ministero dell’Industria, del Commercio e del Lavoro (1944-1946) e Ministero del Lavoro e della
Previdenza Sociale (1947-).
Il BUSA presenta due lacune: 1921-1924 e 1943-1944.
96
Camere di Commercio e gli archivi del Ministero del Lavoro, principalmente
lo “Schedario Generale della Cooperazione” presso l’Ufficio Provinciale del
Lavoro e della Massima Occupazione - Sezione Cooperative.
La possibilità di disporre di tutte le fonti citate rappresenta l’unico modo
per arrivare ad avere un quadro abbastanza completo delle singole cooperative
e del loro rapporto con le diverse realtà interne ed esterne, anche se spesso questo quadro risulta statico come, ad esempio, la distribuzione dei soci per categorie, conosciuta solo all’atto costitutivo e non durante tutto l’arco di vita della
società.
Si comprende così quali tipi di problemi possono sorgere quando qualcuna di queste fonti viene a mancare. E’ questo il caso della provincia di Foggia.
Il censimento del movimento cooperativo in Capitanata è stato effettuato pressoché interamente con i dati desunti dal BUSA. Non è stato possibile, infatti,
consultare, tra le fonti integrative più importanti, né lo “Schedario Generale
della Cooperazione”, né il “Registro delle Imprese” 24, mentre una parte rilevante del “Fondo Prefettura” dell’Archivio di Stato di Foggia (d’ora in avanti
designato con la sigla ASF) è andata persa a causa degli avvenimenti bellici.
Questo ha comportato l’impossibilità, da una parte, di verificare o integrare
alcune lacune nei dati del BUSA e di conoscere, per la maggior parte delle cooperative, la data esatta di cessazione dell’attività (non sempre facilmente individuabile, neanche per mezzo del BUSA), dall’altra di ricostruire il tipo di rapporto che le società avevano instaurato con i pubblici poteri, ricostruzione che
per le cooperative di produzione e lavoro sarebbe stato possibile effettuare
partendo dalla consultazione del Registro Prefettizio, al quale la legge li obbligava ad iscriversi per poter partecipare agli appalti pubblici.
Con lo sfoglio di alcuni giornali locali e con i pochi dati reperiti presso
ASF si è cercato di sopperire ad alcune di queste mancanze. Quello che ne viene fuori è, nonostante tutto, un quadro che permette di valutare con una qualche “tranquillità” il peso e il ruolo che il movimento cooperativo ha avuto
all’interno della realtà locale.
____________
24 - Chi scrive ha fatto numerosi tentativi, diretti o indiretti, presso gli uffici co mpetenti per cercare di avere visione delle fonti suddette e, per un motivo o per l’altro, ne ha
ricevuto sempre risposta negativa.
97
2. LA COOPERAZIONE IN CAPITANATA (1875-1915): ANALISI
DELLE STRUTTURE ASSOCIAZIONISTICHE
Sin dalla nascita, il movimento cooperativo in provincia di Foggia si è
contraddistinto per il suo carattere di “atipicità”, rispetto non solo alla relatà
nazionale ma anche a quella regionale. Infatti, se furono cooperative di consumo le prime società ad essere costituite tanto in Italia (il Magazzino di Previdenza
dell’Associazione Generale degli Operai di Torino è del 1854) quanto in provincia di Bari25 e di Lecce26, in Capitanata la cooperazione prese subito la forma di credito popolare e cooperativo.
Questo non rappresenta solo un fatto simbolico. La conferma si ha analizzando la Cronologia delle Società cooperative esistenti in Capitanata secondo l'anno di
fondazione: 1875-191527: sui 34 comuni interessati alla nascita di una realtà cooperativa, in ben 24, cioè nel 70,6% dei casi, la pirma società a sorgere fu una banca popolare, una percentuale che sale al 76,5% considerando le 2 casse rurali e,
quindi, il settore del credito popolare e cooperativo nel suo complesso.
Si può parlare, perciò, di una vera e propria “polarizzazione” del movimento cooperativo foggiano intorno al settore del credito, una polarizzazione
che risulta sorpattutto nel periodo delle origini e in rapporto ad altre realtà regionali:
____________
25 - «Già nell’ottobre del 1861 era sorta a Bari, per iniziativa dell’Associazione Filantropica degli operai baresi, società promossa dai mazziniani, un magazzino di consumo annesso ai locali della stessa associazione»: E. MAZZOCCOLI, Appunti sul processo di
formazione del movimento cooperativo nel Barese (1861-1908) in “Movimento Cooperativo”,
Anno VIII, n. 3-4, maggio-giugno-luglio-agosto 1962, pp. 306-330, p. 307.
26 - La prima società di cui si ha notizia, nel 1870, è un magazzino cooperativo a
Brindisi: cfr. C.G. DONNO, Mutualità e cooperazione in Terra d’Otranto (1870-1915), Lecce,
Milella, 1982 (d’ora in avanti DONNO), pp. 62-63.
27 - Cfr. APPENDICE II
98
Ma se tecnicamente le banche popolari erano cooperative (ammettevano, infatti, il “voto per testa” e non per azioni), esse hanno rappresentato, nella
storia del movimento cooperativo italiano, una “rottura” rispetto alle esigenze
che spingevano generalmente gli strati più deboli e più poveri della società ad
associarsi tra loro. Vero e proprio coagulo delle iniziative portate avanti dalla
borghesia liberale per incanalare le istanze presenti nel movimento cooperativo
in un disegno di equilibrio socio-politico generale, il credito popolare andò
sempre più specificando il proprio come un ruolo di “rastrellamento” delle
risorse che potessero servire a consolidare una borghesia in ascesa29.
Perciò, si è preferito analizzare i due settori più strettamente popolari, i
quali permettono di mettere in evidenza la peculiarità di un movimento cooperativo poco sviluppato e, in ultima analisi, arretrato.
____________
28 - Fonte: BUSA per FOGGIA e DONNO, p. 65 per Lecce. Si tenga presente che
il termine iniziale per Foggia è il 1875, mentre per Lecce è il 1885.
Per la distribuzione geografica nella provincia di Foggia, cfr. APPENDICE III.
29 - Secondo Rabbeno, lo sviluppo delle banche popolari aveva rappresentato un
fattore ostacolante o ritardante (seppure indirettamente) della nascita delle cooperative di
consumo: cfr. U. RABBENO, La cooperazione in Italia. Saggio di sociologia economica, Milano,
Dumolard, 1886, pp. 23-25.
99
LA COOPERAZIONE DI CONSUMO
Prima di tutto, bisogna sottolineare il ritardo del suo apparire nella provincia30. E’ in questo caso, più che in ogni altro, si può trovare conferma
all’ipotesi di uno stretto rapporto tra strutturare associazionistiche precedenti e
nascita del movimento cooperativo.
Dal Magazzino di Previdenza di Torino, la cooperativa di consumo è stata
spesso diretta emanazione delle Società di Mutuo Soccorso 31 che cercarono,
anche attraverso essa, di costruire le prime “reti protettive” in un periodo in cui,
soprattutto in alcune zone dell’Italia settentrionale, l’incipiente sviluppo capitalistico iniziava a far sentire le sue contraddizioni.
Ma, proprio un tessuto mutualistico ed associativo “forte” mancava in
Capitanata, anche se quello esistente era abbastanza diffuso geograficamente32.
La conferma si ha soprattutto dall’analisi delle singole SMS fatta da Franco
Mercurio: in nessuna società da lui studiata, i dati a disposizione riferiscono di
tentativi di impiantare magazzini di previdenza o di consumo33.
Comunque, le prime statistiche ufficiali sulle società cooperative di consumo in Italia fotografavano, per la Puglia, una situazione di scarca consistenza
numerica:
____________
30 - La prima cooperativa di consumo in Capitanata fu la Società Cooperativa di Consumo sorta a Vico del Gargano nel 1892: cfr. BUSA.
31 - D’ora in avanti denominate con la sigla SMS
32 - Al 1885, già 44 comuni (su 53, l’83%) avevano visto sorgere una SMS: cfr. F.
MERCURIO, Le organizzazioni proletarie di Capitanata. Dalle Società di Mutuo Soccorso ai Fasci
Operai in “La Capitanata”, n. 1-6, gennaio-dicembre 1978-1979, parte prima, pp. 139-200,
Tav. 1, p. 145.
33 - Cfr. ibid: questo poi non vuol dire che non vi furono cooperative di consumo
create da SMS, ma vuole solo essere l’indicazione di una tendenza generale.
100
NOTE:
(a) Per le società di Foggia, cfr. BUSA.
(b) Un società aveva cessato l’attività per delibera dei soci, mentre un’altra, fondata nel 1893, aveva funzionato solo per pochi mesi.
(c) La società di Gallipoli, fondata nel 1889, aveva cessato l’attività per aver
esaurito il capitale in imprese arrischiate.
(d) al 31/12/1893.
(e) 2 erano agricole.
La provincia di Foggia era quella in cui la cooperazione di consumo non
solo era meno sviluppata, ma anche dal punto di vista economico partiva in
ritardo.
Nonostante la forzatura metodologica, è sembrato utile mettera a confronto due bilanci d’esercizio delle uniche società di consumo legalmente riconosciute in Puglia: da una parte quello al 31/12/1888 della Società dei Magazzini
Cooperativi di Gallipoli (Lecce) e, dall’altra, quello al 31/12 1892 della Società Cooperativa di Consumo di Vico del Gargano:
____________
34 - Elaborazione su dati tratti da MAIC. DIREZIONE GENERALE DELLA
STATISTICA, Sulle associazioni cooperative in Italia. Saggio statistico, Roma, 1890 e IDEM,
Società cooperative di consumo al 31 dicembre 1895, Roma, 1897.
Nel 1895 esistevano, in tutt’Italia, 1013 cooperative di consumo: ibid.
101
La debolezza economica della cooperativa di Vico era evidente: le
279,50 lire versate rappresentavano solo il 18,3% dell’intero capitale sottoscritto, che ammontava a L. 1522.50. Ma è il bilancio successivo a svelare la debolezza della società: se da un lato il versato rappresentava ancora una quota minima di quello sottoscritto (291 lire su di un totale di L. 1450), dall’altra la cooperativa aveva già accumulato un disavanzo di 238,47 lire. Non solo, ma dal
bilancio risulta una somma molto elevata, per le condizioni economiche della
società, da avere da debitori per merci a credito (1786,55 lire)36: non può meravigliare, perciò, che l’Assemblea straordinaria del giugno 1897 votò
all’unanimità lo scioglimento anticipato della società, a causa della perdita di
oltre la metà del capitale sottoscritto 37.
L’analisi delle 22 cooperative di consumo per le quali si dispone dello
statuto (sulle 23 censite)38 permette di evidenziare quella che può essere
____________
35 - FONTI: per Gallipoli, cfr. MAIC. Sulle associazioni. cit.: per Vico cfr. BUSA,
Anno XI (1893), fasc. XI, pp. 299-300: per la compilazione della tabella si è utilizzato lo
schema del MAIC.
36 - Cfr. BUSA, Anno XIII (1895), fasc. XII, p. 238.
37 - Cfr. BUSA, Anno XV (1897), fasc. XXXV, pp. 55-57: stranamente, però, la
cooperativa risultava ancora censita in LEGA NAZIONALE DELLE COOPERATIVE
ITALIANE [LNCI], Statistica delle società cooperative esistenti nel 1902, Milano, 1903, pp.
120-121.
38 - La Società Cooperativa di Consumo di Margherita di Savoia risulta solo nell’elenco
delle cooperative esistenti nel 1915 in LNCI, Annuario statistico 1916 delle società cooperative
102
considerata la caratteristica maggiore della cooperazione di consumo in Capitanata: l’estrema varietà dei sistema di vendita applicati dalle diverse società.
Per una cooperativa di consumo il tipo di sistema usato è un dato assolutamente rilevante. L’adozione di uno o dell’altro, può essere una chiave interpretativa della reale natura della società, della sua forza e della sua debolezza.
Ecco come effettuavano la vendita le cooperative di consumo della Capitanata:
____________
esistenti in Italia escluse quelle che hanno per scopo prinicipale l'esercizio del credito, Como, 1917
[d’ora in avanti LNCI, Annuario 1916].
39 - Manca la Società di Previdenza con Magazzino Cooperativo di S. Severo, la quale era
più specificatamente una cooperativa mista di consumo.
103
Bisogna sottolineare essenzialmente due caratteristiche: da una parte una
sola cooperativa, i Magazzini Cooperativi di Consumo di Monte S. Angelo, utilizzava
per intero il “sistema rochdale” 40; dall’altra la bassa percentuale (il 33,3%) di
cooperative che applicava il ristorno, cioè la distribuzione degli utili in ragione
degli acquisti effettuati, uno dei mezzi più importanti per rafforzare tanto i legami tra i soci e la cooperativa, quanto la stabilità della base sociale.
Analizzando la cooperazione di consumo in Capitanata, tanto il sistema
rochdale quanto il ristorno sono stati usati come “indici di modernità” delle
singole società e del settore nel suo insieme. Ora, questo è totalmente vero solo
in teoria, nella pratica applicazione un pò meno. Ma, in generale, se il ristorno
era (ed è) uno dei criteri alla base della diversità della società cooperativa rispetto quella ordinaria in quanto consente ai soci di realizzare «un vantaggio
economico in ragione essenzialmente del volume di “occasioni di incremento”
rispettivamente fornito all’impresa [ ... ]»41, quello rochdale era un sistema che
aveva bisogno di essere verificato caso per caso, in base alle singole realtà locali.
O, per dire meglio, il sistema rochdale da solo non garantiva una maggiore
stabilità della base sociale o un legame più stretto tra i soci e la cooperativa.
Il caso dei Magazzini Cooperativi di Consumo di Monte S. Angelo è, a questo
proposito, illuminante.
Istituita nel 1900 dalla Società Mista di Mutuo Soccorso “Principessa Elena” la
società era, in effetti, una via di mezzo tra la cooperativa di consumo di tipo
“piemontese” 42 e la cooperativa rochdaliana. Se da una parte, infatti, ammetteva come soci effettivi solo quelli della SMS, stabiliva che il presidente di questa
doveva essere anche presidente della
____________
40 - Dal nome della cittadina inglese dove, nel 1844, nacque la prima cooperativa di
consumo, il sistema prevedeva le vendite a prezzi correnti ed aperte a tutti, mentre gli utili
erano divisi in due parti, l’una a pagare gli interessi agli azionisti, l’altra distribuiva agli
acquirenti in proporzione degli acquisiti fatti.
41 - P. VERRUCOLI, La società cooperativa, Milano, Giuffrè, 1958, p. 64.
Bisogna considerare che sebbene non realizzi una perfetta giustizia retributiva, il ristorno non attua nessun tipo di criterio capitalistico: proprio per questo motivo,
l’impronta più o meno “capitalistica” della cooperazione può derivare da sistemi legislativi
in cui sia o non contemplato: cfr. ibid. pp. 75 e ss.
42 - Le sue caratteristiche maggiori erano la vendita a prezzo di costo e ai soli soci,
la devoluzione degli utili alla società operaia madre e una forte presenza di soci onorari.
104
cooperativa e assegnava il 5% degli utili alla società madre, dall’altra una parte
degli utili, seppur minima (solo il 10%), veniva distribuita in ragione degli acquisti43.
Ma, analizzando meglio la struttura della società ed il suo corpo sociale,
si scopre che essa aveva poco del magazzino di consumo creato per difendere
le deboli economie di ceti popolari minacciate dal carovita e dagli speculatori.
Tra i 41 soci che si costituirono, tutti “gentiluomini, possidenti ed artigiani”, vi
erano alcuni esponenti della ricca borghesia cittadina (5 professionisti, 2 possidenti e un sacerdote), una borghesia strettamente collegata con le autorità locali44. Il capitale della società, formato da 371 azioni sottoscritte, era praticamente
tutto nelle mani di poci soci: basti pensare che 9 persone possedevano 255
azioni, il 68,7% dell’intero capitale, mentre 25 soci avevano sottoscritto meno di
10 azioni.
Il dato è molto significativo soprattutto perché lo statuto, da una parte,
assegnava al capitale un dividendo molto alto, il 60% (come alto era il numero
massimo di azioni, 200), dall’altra stabiliva la non eleggibilità di tutti quei soci
che avessero sottoscritto meno di 25 azioni. Considerando che solo 9 soci godevano delle caratteristiche previste dallo statuto, si comprende bene come la
“teoricamente” più moderna cooperativa di consumo della Capitanata fosse in
realtà una società nata per gli interessi di un ristretto nucleo di ricca borghesia45.
Ma il dato sicuramente più interessante che emerge dallo studio della cooperazione di consumo in Capitanata è quello che riguarda la concentrazione,
non tanto quantitativa quanto piuttosto qualitativa, di due nuclei di società con
caratteristiche di classe in due zone opposte (geograficamente ed economicamente) della provincia, l’analisi dei quali fornisce uno spaccato molto significativo del movimento cooperativo foggiano.
____________
43 - Cfr. Atto costitutivo in BUSA. Anno XIX (1901), fasc. XII, pp. 149-157.
Per le notizie che seguono, cfr. Statuto ibid, pp. 151-157.
44 - «Ieri sera coll’intervento delle autorità cittadine e gran numero di soci ebbe
luogo l’inaugurazione della nuova sede della Società di Mutuo Soccorso “ReginaElena”»:
“Il Foglietto”, Anno III - n. 167, 1 marzo 1897.
45 - La cooperativa ebbe vita breve. L’ultima rilevazione statistica che la dava per
esistente era quella della Lega del 1902 (LNCI, Statistica... cit... pp. 120-121): non comparendo nella statistica MAIC del 1906, si può dedurre che la società si sia sciolta tra il 1904 e
il 1906, dato che nell’Archivio Comunale di Monte S. Angelo sono contenute alcune
“notizie sulla Cooperativa di Consumo” riportanti la data del 1904. Purtroppo la loro
visione non è stata possibile: il pessimo stato degli archivi comunali di alcuni tra i maggiori centri della provincia di Foggia ha rappresentato, un ulteriore ostacolo ad una conoscenza più completa del movimento cooperativo in Capitanata.
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La zona dove la cooperazione di consumo attecchì maggiormente fu il
Subappennino. Sono qui, infatti, gli unici 4 comuni della Capitanata (Carlantino,
Celenza Valfortore, S. Marco La Catola e Volturara Appula) in cui la prima
cooperativa a sorgere fu una società di consumo, una percentuale dell’11,8 rispetto ai 34 comuni interessati alla nascita di una cooperativa e che rappresenta
l’unica nota di diversità nella cronologia di un movimento cooperativo nettamente dominata dalle banche popolari (cfr. APPENDICE II). Non solo, ma in
questi 4 comuni le società di consumo rappresentarono anche l’unica realtà cooperativa a sorgere.
Costituite tra il 1902 e il 1913, le 6 cooperative del Subappennino (alle 4
citate nella Cronologia bisogna aggiungere la cooperativa di Deliceto e un’altra
società sorta a Celenza Valfortore nel 1911) furono la conseguenza diretta di
una situazione economico-sociale molto particolare, ben fotografata da Presutti
nell’Inchiesta del 1909. Proprio qui
«Quantunque, per il fatto che domina il piccolo affitto e che si estende sempre più la piccola priprietà
coltivatrice, non vi sia un terreno propizio alle Leghe
di resistenza, il contadino tende più che in passato ad associarsi»
Non può meravigliare, perciò, se
«Principalmente nei paesi di emigrazione […] in provincia di Foggia [...] si sono sviluppate [...] cooperative di consumo tra contadini»46
La loro caratteristica maggiore era quella di essere promosse dalle leghe
o dai circoli socialisti locali, unico esempio (con le cooperative di S. Giovanni
Rotondo, che rappresenta l’altra zona da analizzare: cfr. infra) di società di consumo con una certa fisionomia di classe, anche se a volte delineata più a livello
di composizione sociale che di strutturazione della società.
Soprattutto 2 sono le cooperative su cui è opportuno soffermarsi brevemente.
Una è la Cooperativa di Consumo Sempre Avanti, sorta a Deliceto nel 1904 e
promossa dalla locale Lega dei contadini e dal Circolo Socialista47.
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46 - Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle provincie meridionali e nella Sicilia, Vol. III, Le Puglie, Tomo I, Relazione del Delegato Tecnico Prof. Errico Presutti,
Roma, 1911 [d’ora in avanti PRESUTTI], p. 545: il corsivo è mio. Carlantino (1851 abitanti), Celenza Valfortore (3491 abitanti), S. Marco La Catola (4229 abitanti) e Volturara
Appula (2649 abitanti) avevano una percentuale di emigrazione nel 1907 che era, rispettivamente, del 7.18 del 4.07, del 4.21 e del 7.78, tra le più alte della provincia (Carlantino e
Volturara rappresentavano i due comuni con maggiore emigrazione): cfr. ibid., pp. 650 e
ss.
47 - Cfr. Atto costitutivo in BUSA, Anno XXII (1904), fasc. XLIX, pp. 149-162.
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La società aveva caratteristiche di classe molto accentuate e dovette nascere soprattutto come strumento ausiliario dell’attività della Lega. I 144 contadini che
si costituirono, infatti, si erano dati uno statuto in cui soci della cooperativa potevano essere solo gli iscritti alla Lega e al Circolo, ben il 15% degli utili erano
riservati alla “propaganda e peraltro miglioramento del proletariato” e in cui
una norma contemplava l’espulsione di quei soci che avessero acquistato più di
una volta merci per persone estranee alla cooperativa48.
L’altra è la Società Anonima Cooperativa di Consumo di S. Marco La Catola,
l’unica per la quale si conosce la “spinta” alla nascita: secondo Presutti, infatti, la
cooperativa fu costituita dai contadini per rompere la coalizione dei venditori
comunali che mantenevano alti i prezzi49. Lo statuto non presentava particolarità, ma il fatto di essere l’unica cooperativa di consumo del Subappennino ad
essere federata alla Lega Nazionale delle Cooperative, le conferisce uno status
particolare50.
Ma, soprattutto a S. Giovanni Rotondo la cooperazione di consumo
ebbe la capacità di mobilitare i ceti popolari intorno a società con caratteristiche
di classe molto accentuate.
Nel comune del Tavoliere, su 4 cooperative costituite, ben 3 erano cooperative di consumo, la cui caratteristica comune era la filiazione diretta dalla
Lega o dal Circolo Operaio e la composizione sociale assolutamente popolare.
Basti pensare che sui 166 soci complessivi che si costituirono nelle tre società tra
il 1904 e il 1908, ben 148 (l’89,1%) appartenevano alla classe lavoratrice: 87 erano i lavoratori rurali (83 contadini 1 piccolo agricoltore 1 bracciante e 2 pastori), mentre 61 erano lavoratori urbani51
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48 - Cfr. Statuto ibid, pp. 152-160.
49 - Cfr. PRESUTTI, p. 545. Secondo l’atto costitutivo, su 90 soci i lavoratori agricoli erano 74, di cui 71 coloni, 2 contadini (tira cui una donna) e 1 bracciante: cfr. BUSA,
Anno XX (1902), fasc. XL, pp. 3-11.
50 - Cfr. APPENDICE V.
51 - Cfr. Atti costitutivi in BUSA: Cooperativa di Consumo (1904), Anno XXII
(1905) fasc. VII, pp. 3-9; Cooperativa di Consumo e Previdenza (1906), Anno XXIV (1906)
fasc. XXXVI, pp. 196-206; Unione Cooperativa fra Operai e Contadini (1908), Anno XXVI
(1908), fasc. XLIV, pp. 58-70. A questa cifra vanno aggiunti i 9 piccoli negozianti (fornai,
macellai), mentre i rimanenti 5 soci erano così distribuiti: 2 guardiani, 2 orefici, 1 sacerdote.
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Come si può vedere, l’elemento borghese era del tutto assente nelle cooperative di S. Giovanni Rotondo, dato che le rendeva le più schiettamente
popolari dell’intero settore di consumo della Capitanata. Gli statuti sancivano
chiaramente questo carattere, e vale la pena analizzarli (brevemente) uno per
uno.
La Cooperativa di Consumo fu la prima ad essere costituita. Nata nel 1904
presso la Lega di resistenza dei contadini, ammetteva come soci solo contadini ed
operai, aveva un taglio azionario bassissimo (L. 3) e non ammetteva la delega
per le assemblee. La vendita era fatta ai soli soci e a scopo di beneficenza per
poter usufruire delle disposizioni legislative che esentavano dal dazio consumo
le cooperative con scopi simili, mentre il ristorno era applicato ai 2/3 degli utili.
La società, alla scadenza dei 10 anni previsti, si ricostituì nel maggio 1914,
con uno statuto che presentava due novità di rilievo: da una parte la base sociale veniva allargata anche alle “altre classi povere”, dall’altra scompariva il ristorno, sostituito da una completa destinazione degli utili alla riserva52.
La Cooperativa di Consumo e Previdenza del 1906 era quella che aveva sottoscritto il programma più ambizioso. Costituita da 28 lavoratori urbani presso il
Circolo Operaio, aveva come scopo principale la “mutua beneficienza” ma
contemplava anche sussidi giornalieri per i soci ammalati (riconosciuti bisognosi
dal Consiglio d’Amministrazione e alla condizione di essere abituali consumatori dei magazzini sociali) e la formazione di fondi di previdenza e di pubblica
utilità. Il corpo sociale era circoscritto ai soli abitanti del comune purché «ritraggono dal proprio lavoro il loro sostentamento» e, per garantire una maggiore
partecipazione alla vita sociale, non era ammessa la delega per le assemblee. A
completare la fisionomia, per così dire, “difensivistica” della società, si erano le
disposizioni che assegnavano l’80% degli utili al “Fondo Previdenza”, un fondo
che, al principio previsto solo per i soci bisognosi o ammalati, sarebbe diventato godibile da parte di tutti i soci una volta rafforzata economicamente la
società53.
Ma l’ambizioso progetto non deve essere stato attuato. Costituitasi con
un capitale sottoscritto di L. 840 di cui il versato ammontava a sole L. 140, la
cooperativa ancora nel 1910 aveva L 516 di capitale versato, mentre
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52 - Cfr. BUSA, Anno XXXII (1914), fasc. XLIV, pp. 112-114.
53 - Cfr. Statuto in Atto costitutivo cit., pp. 197-205.
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risultava l’unica delle 6 Cooperative censite nella provincia di Foggia per la
quale non si disponeva dei dati delle vendite durante l’anno 54 .
L’ultima in ordine di costituzione fu la Unione Cooperativa fra Operai e Contadini, costituita da 102 soci nel 1908 presso la Lega Popolare di Miglioramento.
Nessuna disposizione statuaria era prevista per delimitare il corpo sociale, anche
se tutto andava in quella direzione: la presenza di azioni di piccolo taglio (L. 2),
il visto del Presidente della Lega per essere ammesso come socio, la preferenza
data ai piccoli sottoscrittori (i grandi avrebbero potuto sottoscrivere azioni solo
dopo l’esaurimento della potenzialità economica degli azionisti minori). Il collegamento con la Lega, era sancito a livello ufficiale con la norma che ammetteva
di diritto a far parte della cooperativa il Presidente e il segretario della Lega
stessa55.
Il carattere popolare della cooperazione di consumo di S. Giovanni
Rotondo è un dato acquisito. Resta da verificare poi, quanto realmente queste
società incidessero sulla realtà economica locale, così come sarebbe molto interessante poter analizzare il ruolo economico avuto dalle cooperative di consumo nell’area subappenninica in presenza di una realtà sociale particolare. I dati a
disposizione non lo consentono. Si può solo sottolineare, a conferma della
scelta fatta, che le 5 società per le quali disponiamo di dati al 1905 appartengono tutte alle 2 zone analizzate56.
Quello che, invece, i dati consentono di affermare è tanto una scarsa
consistenza numerica quanto (e soprattutto) una “debolezza” economica della
cooperazione di consumo in Capitanata, come emerge dall’analisi della situazione regionale:
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54 - Cfr. MAIC. ISPETTORATO GENERALE DEL CREDITO E DELLA
PREVIDENZA, Elenco delle società cooperative legalmente costituite esisenti nel Regno al 31 dicembre 1902 escluse quelle che hanno per oggetto principale l'esercizio delle assicurazioni e del credito,
Roma, 1904, p. 64.
55 - Cfr. Statuto in Atto costitutivo cit., pp. 61-69.
56 - Cfr. LNCI, Annuario 1916, pp. 786-787. Le società esistenti erano: L’Avvenire di
Carlantino, la Fratellanza di Celenza Valfortore, la Società Anonima Cooperativa di Consumo di
S. Marco La Catola e due di S. Giovanni Rotondo, l'Unione Cooperativa fra operai e contadini e
la Cooperativa di Consumo.
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Ma non basta. Solo cinque anni dopo, caso unico in tutta la regione, la situazione
economico-finanzi aria era peggiorata:
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57 - MAIC. DIREZIONE GENERALE DEL CREDITO E DELLA PREVIDENZA, DELLA COOPERAZIONE E DELLE ASSICURAZIONI SOCIALI, Società
cooperative legalmente riconosciute esistenti nel Regno al 31 dicembre 1910 escluse quelle che hanno per
scopo principale l’esercizio del credito, Roma, 1911, pp. CIV-CV.
58 - Cfr. LNCI, Annuario 1916, p. 1317.
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LA COOPERAZIONE DI PRODUZIONE E LAVORO
I dati sulla costituzione delle cooperative di produzione e lavoro in Capitanata confermano chiaramente la tendenza generale generalmente riscontrata
a livello nazionale: nato tardi rispetto agli altri tentativi cooperativi delle classi
popolari, il settore si sviluppò enormemente a partire dall’inizio del periodo
giolittiano, periodo in cui le condizioni politico-economiche generali erano
molto favorevoli allo sviluppo della cooperazione59. Non solo, ma l’azione
normativa di Giolitti, che si esplicò nei riguardi della cooperazione soprattutto
con le importantissime leggi del 1909 e del 191160, creò nuove condizioni di
crescita dando nuova spinta al settore.
Per la Capitanata tutto questo sembra essere ancora più vero, soprattutto
considerando che la debolezza delle strutture associazionistiche cooperative
esistenti rendeva spesso necessari intenventi “esterni” a favorirne la crescita. Si
consideri la distribuzione delle cooperative di produzione e lavoro nella provincia secondo l’anno di costituzione:
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59 - Cfr. A. PEPE, La cooperazione in età giolittiana (1900-1914) in F. FABBRI (a cura di), op cit., pp. 119-222.
60 - La legge 25 giugno 1909, n. 422 sanciva la possibilità per le cooperative di produzione e lavoro di riunirsi in consorzi (ai quali era riconosciuta la personalità giuridica)
per l’assunzione di appalti sino a 2 milioni di lire.
Il R.D. 12 febbraio 1911, n. 278 rappresentava il nuovo regolamento delle cooperative e dei consorzi. Tra le norme più importanti, l’introduzione di uno dei principi cardine
del cooperativismo, quello della “porta aperta”, ossia la garanzia e la tutela offerta a terzi,
che avessero i requisiti per entrare a far parte della società, di poter partecipare alla società
stessa.
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La tabella non ha bisogno di spiegazioni, con il 80,9% di tutte le cooperative della provincia che si costituirono dopo 1908. Ma il dato più significativo, a conferma della spinta data dalle disposizioni legislative giolittiane, è quello
che considera le cooperative costituitesi dopo il 1911: ben 36 società (l’88,6%
delle 44 costituite dopo il 1909), infatti, vennero fondate tra il 1912 e il 1915,
con una percentuale sul totale delle cooperative di produzione e lavoro censite
nell’arco cronologico considerato del 52,9%62.
Sarebbe necessaria, perciò, l’esatta conoscenza dei “rapporti pubblici” instaurati dalle cooperative di produzione e lavoro. Ma, a questo proposito, la
disponibilità dei dati è veramente sconfortante: per l’intero settore della provincia di Foggia (68 società) è stato possibile rintracciare notizie solo
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61 - Fonte: BUSA.
Per le categorie, cfr. APPENDICE I.
62 - Per la distribuzione geografica Cfr. APPENDICE IV. Anche nel leccese è il periodo 1908-1914 quella di maggior sviluppo: Cfr. DONNO, pp. 70 e ss.
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sulla concessione di un appalto, mentre si dispone di informazioni generali o di
seconda mano per 4/5 casi. Si cercherà, comunque, con una (evidente) forzatura metodologica, di azzardare qualche ipotesi interpretativa generale.
Il ritardo con cui la cooperazione di produzione e lavoro prese piede in
Capitanata non fu solo un fatto cronologico. Fino al 1908, nonostante
l’esistenza di un discreto numero di cooperative localizzate principalmente nei
grossi centri del Tavoliere (cooperative di muratori, soprattutto, si contavano a
Foggia, Cerignola, Manfredonia e S. Severo), il settore nel suo complesso non
sembra avere nell’economia generale della provincia alcun peso. Nella arretratezza dell’Italia meridionale e nella Puglia in particolare, la Capitanata spiccava
per assenza:
Ma, partendo dall’analisi dell’unico appalto concesso ad una cooperativa
per il quale si dispone di notizie complete, si cercherà di inquadrare il ruolo
avuto dalla società di produzione e lavoro nella provincia.
La cooperativa per la quale esiste la documentazione è L’Edilizia di S.
Severo, una società che si costituì nel 1908 tra 15 muratori con lo scopo di
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63 - Cfr. M. DEGL’INNOCENTI, Storia della cooperazione in Italia. La Lega Nazionale delle Cooperative 1886-1925, Roma, Editori Riuniti, 1977, pp. 213-215: l’importo degli
appalti delle cooperative pugliesi rappresentava soltanto lo 0,1% di quello totale per
l’Italia, che ammontava a L. 56.467.419,72, concentrato per l’86,2% nelle regioni settentrionali.
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«unire i lavoratori perché assumano direttamente le imprese edilizie»64. A
meno di un anno dalla sua fondazione, nel marzo 1909, in seguito a trattativa
privata firmava un contratto con il comune di S. Severo per la sistemazione di
P.zza Bruno (una piazza centrale delle città) e delle strade adiacenti.
Quello che va subito sottolineato è, però, il fatto che la società era riuscita ad aggiudicarsi l’appalto (del valore di lire 10.101,97) solo ricorrendo al
ribasso del 10% e rinunciando al 10% assegnato per i lavori commissionati ma
che il comune si riservava di non eseguire.
I lavori, iniziati nell’aprile, subirono un certo ritardo per cause che lo stesso Comune valutò indipendenti dalla cooperativa (e lo indussero a non applicare le sanzioni previse dalla legge), come, ad esempio, nel caso dello spargimento del brecciame usato per completare la massicciata, prorogato a causa
delle forti piogge.
Al termine dei lavori poi, nel maggio 1910, lavori valutati «generalmente
buoni», la cooperativa ricevette come utili finali la somma di lire 1642,4665.
Non si dispone dei dati per gli altri due appalti concessi nella provincia
di Foggia dei quali si hanno notizie: uno era stato concesso alla Cooperativa di
Muratori per Imprese di Costruzioni di Ascoli Satriano e riguardava la manutenzione
di tre strade esterne comunali per il quinquennio 1911 - 1915, l’altro interessava
i lavori di sistemazione di P.zza Umberto I di Candela ed era stato affidato alla
locale Società Anonima Cooperativa di Costruzione tra Capi-Mastri, Manovali e Affini66.
Sicuramente però non dovevano essere stati i soli: tra il 1910 e il 1912
l’amministrazione dei lavori pubblici concesse due appalti a cooperative nella
provincia di Foggia per un ammontare complessivo di lire 335.352,6067.
Non è possibile, perciò affermare se il ribasso d’asta fosse una
“necessità” generalizzata. Certo è che anche in un altro caso conosciuto, la già
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64 - Cfr. Statuto in Atto costitutivo in BUSA, Anno XXVI (1908), fasc. XXXVI,
pp, 46-56, pp. 47-53, p. 48.
65 - ARCHIVIO STORICO DEL COMUNE DI S. SEVERO, Categoria X, Classe 1, busta XXVIII, fasc. 4.
Da notare che l’appalto per la sistemazione della piazza fu l’unico concesso nel
comune di S. Severo per il secondo semestre del 1909: Cfr. ibid, Categoria XI, Classe I, fasc.
9, n. 339.
66 - Cfr. ASF. SOTTO PREFETTURA DI BOVINO (1860-1828), Busta 21, fasc.
16.
67 - Cfr. M. DEGL’INNOCENTI, op. cit., p. 298: da notare che la provincia di
Foggia superava quella di Bari per l’importo degli appalti ma non per il loro numero (Bari
aveva 6 appalti pari a lire 158.249).
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citata cooperativa tra muratori di Candela fu costretta a licitare al ribasso 68.
Comunque, l’impressione generale che si ricava è quella di un intreccio tra problemi legati ad una situazione economico-sociale non particolarmente favorevole allo sviluppo della cooperazione di produzione e lavoro e “ritardi” (o limiti) di un settore che non riusciva a proporsi come valido partner economico.
Non mancano esempi di cooperative che persero l’assunzione di lavori
per una certa incapacità di fondo di valutare determinate situazioni. Caso limite,
ma senza dubbio significativo, soprattutto per le conseguenze che comportò a
livello locale, fu quello della Società Cooperativa Agricola di Lavoro e Produzione “I
Pionieri” di Margherita di Savoia69.
Vale la pena soffermarsi un pò più a lungo sulla vicenda in quanto fotografa in modo abbastanza chiaro una situazione generale che, sebbene non dovesse essere prerogativa della sola Margherita di Savoia, in quella città si dimostrò molto favorevole alla nascita di strutture cooperative70.
A Margherita (sede di una salina regia) la raccolta del sale era affidata ad
un appaltatore.
«L’ingegnere Mazzolenis, direttore di questa salina,
tentò di distribuire direttamente ai lavoratori le 10 e
più mila lire di utile netto che l’appaltatore intascava
annualmente sopprimendo l’appaltatore e dando agli
operai non ciò che loro ricevevano dall’appaltatore
(50-55 centesimi il mc) ma ciò che l’appaltatore riceveva dalla salina (70 cent. al mc)».
Il risultato fu che a
«un appaltatore successe una quantità di appaltatori,
perché la gente ignorante è abituata a subire la camorra e invece di trattare direttamente, si raggruppò
in diverse squadre e ciascun capo squadra diventò un
cottimista».
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68 - Cfr. Un appalto all'amichevole per la comodità del Signor Sindaco in “Il Foglietto”,
Anno XVI - n. 1487, 23 gennaio 1913: la cooperativa, però, alla fine si ritirò dalla gara.
69 - Ecco uno dei casi più “classici” della confusione che può creare la denominazione delle singole società cooperative. Infatti la società, costituita nel 1910 tra 46 contadini
e con uno statuto molto simile a quello delle cooperative di produzione e lavoro agricole,
era in realtà una cooperativa di produzione e lavoro mista. La cosa doveva essere talmente
evidente che anche la stessa Lega non cadde nell’errore, classificandola “cooperativa mista”
(categoria II, sezione XVII): Cfr. LNCI, Annuario 1916, p. 169 e pp. 788-789.
70 - Basti pensare che su 13 cooperative costituitesi nel comune di Margherita di
Savoia, con Manfredonia la quarta città in Capitanata per numero di cooperative dopo S.
Severo (18), Foggia e Cerignola (16 a testa), ben 11 erano cooperative di produzione e lavoro, di cui 8 classificate come miste (7.2): Cfr. APPENDICE IV.
115
Quando poi si costituì la cooperativa, anch’essa chiese il suo lotto,
«ma dette pessima prova, tanto vero che, ad evitare
attriti fra soci, la direzione delle saline concesse (autorizzata dal Ministero) duecento lire in più di quelle
che avevano contrattate».
Perciò, quando per il raccolto del sale nel 1912
«la cooperativa chiese L. 1,30 il mc, mentre altri cottimisti avevan chiesto L. 0,65 per i campi vicini e L.
0,70 per i campi lontani [ ... ] il Ministero, trovando
esagerate le pretese della cooperativa - e ricordandosi delle colpe dell’anno scorso - ordinò che i lavori
fossero dati ai migliori offerenti e la cooperativa venisse esclusa».
La cosa creò parecchia tensione perché, essendo giunta da Roma la conferma, da parte del Presidente della cooperativa, dei lavori, si pensò ad un dispetto del direttore, soprattutto considerando il fatto che il brigadiere dei carabinieri non aveva letto ai soci della cooperativa la lettera dello stesso in cui era
spiegata tutta la faccenda. Ma
«ciò ignorando la cooperativa [ ... ] si fe’ indurre da
quattro o cinque [ ... ] a chiedere l’impossibile e cioè:
1. l’esclusività del lavoro, cioè il monopolio
dell’ammassamento, per quindi obbligare gli altri che
chiedessero lavoro a iscriversi alla cooperativa (e
questo è antidemocratico); 2. la sospensione dei lavori della raccolta, lavori che neanche il Ministero
delle finanze si sente in diritto di sospendere […]»71.
Come si è potuto notare, il caso di Margherita è molto emblematico.
Anche in una situazione “favorevole” una cooperativa di produzione e lavoro
stentava a crescere: basti considerare che nel 1915 il patrimonio complessivo
(capitale versato e fondo di riserva) di quattro cooperative di Margherita di
Savoia (I Pionieri, G. Garibaldi, Stella d'Italia e la Società Anonima Cooperativa di Lavoro tra i Figli degli Operai ai Sali) era di appena lire 2724,4072.
Ma, la “arretratezza” del settore da sola non basta a spiegare un (presunto) scarso peso degli appalti e, più in generale, dei pubblici rapporti
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71- Cfr. Eccidio e sciopero ad oltranza a Magherita di Savoia in “Il Foglietto”, Anno
XV- n. 63, 22 agosto 1912. La tensione accumulatasi, però, nonostante i dirigenti della
cooperativa, accortisi dell’errore, si affrettarono a ritornare sui propri passi, scoppiò in tumulti provocati dall’eccessivo “zelo” delle guardie di finanza preposte alla sicurezza delle
saline. La violenza degli scontri provocò, poi, l’immediata reazione della popolazione che
rispose con lo sciopero generale.
72 - Cfr. LNCI, Annuario 1916, pp. 788-789.
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nella vita della cooperazione di produzione e lavoro. La questione, infatti, investiva tutta una serie di responsabilità non tanto (o non solo) a livello nazionale73,
ma quanto soprattutto a livello locale, a livello di quella «borghesia di Capitanata che è un anacronismo, un feroce, anacronismo, anche il Medioevo arrossirebbe di lei!»74.
Gli ostacoli frapposti alla cooperazione da parte di una borghesia desiderosa di contrastare o, dove questo non era possibile, di controllare le forme
autonome di organizzazione delle classi popolari, non rappresenta certo una
novità. Ma questa “contrapposizione” faceva sentire maggiormente il suo peso
proprio nelle zone in cui queste forze autonome facevano fatica ad impiantarsi.
La Capitanata era senza dubbio una di queste zone.
I modi di intervento erano parecchi. Ad Ascoli Satriano, per esempio,
dove la locale cooperativa di muratori aveva «saputo co’ soli suoi mezzi provvedere alla disoccupazione ond’è travagliata la classe lavoratrice [ ... ], eseguendo parecchi lavori ed occupando in essi il maggior numero possibile di senza
pane», la borghesia cittadina tentò di correre ai ripari con mezzi “legali”: una
mozione presentata al Sindaco, «nella quale si chiede ragione del perché in periodi di disoccupazione i lavori municipali siano stati affidati proprio alla sullodata cooperativa»75.
A S. Severo, invece, dove la «cooperativa fra muratori “La Edilizia” ha
sconcertato gli appaltatori mediatori» si cercò di contrastare l’associazione sul
suo stesso terreno (anche se con esiti negativi): gli appaltatori, infatti, «per combatterla pensarono di costruirne un’altra, ma con forti capitali pignorati. Era
tutto pronto, mancavano solamente i soci, i quali vennero ma... per buttare
tutto a mare»76.
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73 - Non è il caso in questa sede di analizzare gli aspetti “settentrionalistici” della
politica giolittiana e la loro presa, anche a livello teorico, all’interno del movimento socialista, quel “connubio” che Gramsei (come Arturo Labriola e Salvemini) individuava nel
«riformismo-cooperative-lavori pubblici»: Cfr. A. GRAMSCI, Sul Risorgimento, Torino,
Einaudi, 1964, p. 98.
74 - Cfr. Il processo di Sansevero. Buona propaganda (contro contadini organizzati e attivisti
socialisti) in “Il Foglietto”, Anno X - n. 65,15 agosto 1907.
75 - La cooperativa muratori in “Il Foglietto”, Anno XVI - n. 1502, 16 marzo 1913.
Si consideri che la Cooperativa di Muratori per Imprese di Costruzioni di Ascoli Satriano era sorta
nel 1908, con una chiara impronta classista facilmente individuabile dal suo statuto. La
società, infatti, prevedeva sia sussidi per i soci in caso di malattiva o di “assoluta indigenza” sia una biblioteca circolante ed una scuola pratica per istruire i soci al mestiere che sercitavano. In più, la società, già per statuto, si federava alla Lega: Cfr. Statuto in Atto costitutivo in BUSA, Anno XXVII (1909), fasc. 6, pp. 144-160, pp. 146-159.
76 - I piccoli capitalisti muratori alla riscossa in “La Bandiera Socialista”, Nuova Serie,
21 febbraio 1909: il giornale era l’organo della sezione socialista di S. Severo.
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Il caso di Candela, infine, dimostra come il semplice tentativo di far nascere (o rinascere) una cooperativa creasse seri problemi alle classi dirigenti locali. Nel 1905 era sorta una cooperativa fra muratori che, però, formata a scopo puramente politico, non aveva avuto praticamente vita. Nel 1912, a causa
della propaganda di Antonio Rotola, democratico, articolista de “Il Foglietto”,
la cooperativa si ricostituì.
«Quando qui si conobbe che la cooperativa, costituita fin dal 1905, si destava dal suo lungo letargo e
prendeva la sua vera fisionomia subito corse la domanda: - ma come il risveglio? Ma chi la desta dal
sonno pacifico? […] Le autorità [ ... ] capirono che
sfuggiva loro la facile preda e non vollero rimanere
inerti e si dettero un gran da fare per impedire il risorgere della cooperativa. Degli emissari corsero da
ogni dove, si fece un lungo parlare di lavoro a milioni che il governo stava preparando, si mise in
moto l’autorità prima del collegio, si finse pure che si
ignorava l’esistenza della cooperativa del 1905, e che
si intendeva costituirne una, e la più larga copia di
promesse veniva fatta. I tentativi escogitati rimasero
infruttuosi»77.
Cosi, rendendosi conto di aver sbagliato strada, passarono alla controffensiva. Prima provarono con le calunnie. Poi un grosso appaltatore del luogo
si infiltrò nella cooperativa. Chiesta ed ottenuta la possibilità di diventare socio,
venne anche nominato membro del Consiglio d’Amministrazione a causa della
sua notevole esperienza. Il suo fu un tentativo continuo di convincere la cooperativa a chiedere i favori del Sindaco e dell’Amministrazione. Ma la cooperativa
non si fece imbrigliare nella rete tesa. Ecco come racconta uno di questi tentativi lo stesso Antonio Rotola:
«Un bel giorno [l’appaltatore] annunciò che il Sindaco voleva venire alla cooperativa a tenere un discorso... Ma che discorso! La cooperativa è una società
di produzione e lavoro; che cosa ci ha da vedere il
discorso di un Sindaco? - Vedranno, vedranno, i lavori pioveranno, la moneta affluirà, quante porte saranno aperte... Ma che! La dignità sovra tutto, e
quindi niente discorsi di Sindaco»78.
Il metodo della calunnia non era una prerogativa della borghesia foggiana. Anche a Taranto, «dove il proletariato [ ... ] lavora tenacemente colle sue
organizzazioni di lavoro a dare il crollo agli affaristi grandi e piccoli»,
____________
1912.
77 - Per asservire una cooperativa in “Il Foglietto”, Anno XV - n. 98, 22 dicembre
78 - Ibid.
118
gli «speculatori, i quali si vedono di giorno in giorno mancare il terreno, hanno
[…] nei giorni scorsi avanzato un reclamo al Ministero avanzando calunnie a
carico dei lavori organizzati»79.
Ma sicuramente la strada maestra intrapresa dalla borghesia per contrastare le classi popolari che cercavano nella cooperazione di produzione e lavoro
una qualche forma di emancipazione sociale, fu quella degli ostacoli frapposti
alla giusta applicazione delle varie normative sugli appalti. La Commissione
Provinciale di Vigilanza, creata con il R.D. 17/ 3/1907, n. 146, non brillò per
obiettività: alle cooperative, alle quali la legge dava la precedenza sulla aggiudicazione degli appalti, furono sollevati molti “cavilli” di natura giuridica che,
sommati ad inesperienza ed ignoranza, possono spiegare la poca consistenza
degli appalti nella provincia (ma, in generale, in tutta la Puglia).
Sicuramente a questi cavilli si riferivano, durante un comizio tenuto a Cerignola nel settembre del 1912, Antonio Misceo, capo-lega e presidente della
Società Cooperativa Agricola di Lavoro e Produzione, e Giuseppe Di Vittorio, Segretario del Circolo Giovanile Socialista, quando parlavano di «opera deleteria della burocrazia», alla quale i due rappresentanti socialisti facevano risalire la responsabilità del fallimento delle aste per l’appalto dei primi lotti dei lavori di arginamento dell’Ofanto 80.
Si è cosi entrati nel vero e proprio regno delle congetture. Il settore di
produzione e lavoro agricolo paga, infatti, un prezzo durissimo alla mancanza
di dati: quasi nessun bilancio publicato, nessuna notizia (quantitativa o qualitativa) di una qualche rilevanza sul ruolo economico svolto, rilevamenti statistici a
livello nazionale che non tengono conto della reale struttura delle singole società. In una situazione del genere, più che per tutte quelle precedenti, la strada
obbligatoria è quella dell’analisi di alcune realtà particolari.
Un primo dato bisogna subito mettere in evidenza. Delle 14 cooperative
di produzione e lavoro agricole costituitesi in Capitanata, solo 4 furono diretta
emanazione di leghe socialiste, mentre una era stata costituita tra i braccianti
aderenti al Fascio operaio cattolico. Il dato non deve meravigliare: se le particolari condizioni del mercato della manodopera e l’aspra
____________
79 - La cooperazione a Taranto in “La Cooperazione Italiana”, Anno XVII - n. 525,8
agosto 1903.
80 - Cfr. “Il Foglietto”, Anno XV - n. 66, 1 settembre 1912: a conclusione del co nvegno fu votato un ordine del giorno, col quale si fecero voti «che il Governo conceda gli
appalti a trattativa privata in modo da ottenere la esecuzione dei lavori per i primi mesi di
settembre».
119
resistenza dei proprietari aveva favorito il sorgere rapido di leghe,
nell’«animo dei contadini non albergano pensieri di collettivismo o di profonde
rivoluzioni economiche e sociali. Essi non vedono che la disoccupazione e
l’aumento dei salari»81.
Lo sciopero, fatto alla vigilia dei periodi di intensi lavori agricoli, era
un’arma che incideva maggiormente in una relatà, come quella foggiana, con
altissime percentuali di salariati agricoli, fissi ed avventizi (ben il 69% nel 1901)82.
Questo i proprietari lo avevano capito, tant’è vero che «lottano allargando,
quanto è più possibile, l’uso delle macchine agrarie, restringendo i lavori, sostituendo sulla più larga scala le donne agli uomini nelle lavorazioni, ritardandoli
fino al periodo, in cui, essendovi minor richiesta di manodopera, le mercedi
sono più basse»83.
Il sistema, in qualche modo, funzionò. Causa anche una situazione economica che stava peggiorando (siccità, crisi vinicola), nel 1907-8 in tutta la provincia vi fu un generale riflusso delle lotte, contraddistinto dalla diminuizione
degli scioperi e dalle prime defenzioni all’interno delle leghe (ad esempio, quella
di S. Severo perderà più della metà dei soci fra il 1909 e il 1910)84.
Si può azzardare l’ipotesi di uno stretto rapporto tra crisi dei tradizionali
sistemi di lotta e nascita delle cooperative, soprattutto se si guarda al dato cronologico: tutte le cooperative di produzione e lavoro agricole in Capitanata
sorgono a partire dal 1908, e in zone da sempre all’avanguardia nelle lotte dei
primi anni del ‘900 (Cfr. APPENDICE IV).
Ma rimane il dato di fatto di una cooperazione di produzione e lavoro
agricola poco consistente in una zona in cui, teoricamente, vi erano tutte le condizioni per il suo sviluppo.
Teoricamente, perché, ad esempio, era la particolare struttura sociale
delle campagne foggiane ad ostacolare l’adozione di uno dei mezzi più efficaci
di lotta adottati dal proletariato agricolo di vaste zone d’Italia: l’affittanza collettiva. Infatti, nonostante che in tutta la Puglia, solo qualche contadino «intelligente
in prov. di Foggia pensa alla eliminazione degli intermediari, i grossi affittuari,
vagheggiando di entrare in contatto diretto con i proprietari, mediante affittanze collettive»85, questa particolarissima
____________
81 - PRESUTTI, p. 602.
82 - Cfr. ibid, pp. 280-281.
83 - Ibid, p. 665.
84 - Cfr. G. DE FAZIO, Lotte contadine e socialismo in Capitanata 1900-1913, Bari,
Adda, 1974, p. 44.
85 - PRESUTTI, p. 602.
120
cooperativa non ebbe nessunissimo tipo di applicazione in Capitanata. Certo, a
livello teorico, era la soluzione richiesta da più parti.
«Il problema economico del Mezzogiorno è tutto o
massimamente [ ... ] in ciò: risollevare l’agricoltura [
... ]. Bisogna, dunque, avvicinare la terra a chi lavora,
concedendo ad associazioni cooperative di contadini
i latifondi [ .... ]»86.
Non solo, ma tutte le cooperative agricole di produzione e lavoro, tra gli
scopi sociali, prevedevano l’acquisto o il fitto di “terreni per essere coltivati o
goduti per conto sociale” 87.
Ma, in pratica, nella provincia di Foggia non vi è stato (o, almeno, non si
conosce) nessun caso di una qualunque forma di affittanza88. Le grandi aziende
a salariati, che avrebbero dovuto costituire uno stimolo alla loro costituzione
(vedi Emilia e Mantovano), avevano però in Capitanata una propria particolare
fisionomia, legata soprattutto all’alta percentuale di braccianti avventizi che vi
trovavano lavoro. Se l’esperienza dell’Italia settentrionale e della Sicilia dimostrava che la principale ragione economica della formazione di affittanze collettive «fu lo squilibrio sempre maggiore determinato fra la disponibilità di terreno coltivabile e le unità lavoratrici presenti localmente e che [ ... ] non potevano
essere utilizzate»89, condizioni simili non sembrano aver prodotto lo stesso risultato in Capitanata.
La questione è molto ampia ed investe problematiche diversissime, che
meriterebbero una trattazione separata e sistematica. Allo stato attuale delle ricerche, non è possibile neanche affermare con sicurezza se, al di là dei proclami
e dei programmi, le cooperative agricole della Capitanata ebbero un ben preciso “ruolo sociale”, dato che quello economico non è valutabile pienamente.
Con questo non si vuole disconoscere l’importanza delle cooperative come
mezzo di aggregazione dei ceti popolari e rurali, ma solo porre alcuni interrogativi di fondo.
Sono interrogativi che nascono dall’analisi di un particolare avvenimento
che, sebbene circoscritto, acquista un preciso valore simbolico. La più
____________
1907.
86 - I latifondi e le cooperative dei contadini in “Il Foglietto”, Anno X - n. 67,25 agosto
87 - Da notare due cose: la prima è che tutti gli Statuti erano praticamente uguali (8
società sulle 11 per le quali si dispone dello Statuto); la seconda che in nessuna società il
prendere in fitto terreni era il primo scopo: solitamete infatti veniva dopo quello di
“assumere per proprio conto lavori pubblici e privati”.
88 - Cfr. FEDERAZIONE ITALIANA DEI CONSORZI AGRARI, Inchiesta
sulle affittanze collettive in Italia, Piacenza, 1906 e U. SORBI, Le Cooperative Agricole per la
condizione dei terreni in Italia, Roma, Edizioni de “La Rivista della Cooperazione”, 1955.
89 - U. SORBI, op. cit., p. 16.
121
grande cooperativa agricola di produzione e lavoro della provincia, infatti, fu implicata in grosse polemiche che investivano la sua autonomia e la sua
immagine.
Costituita nel 1910 da 31 contadini, la Società Cooperativa Agricola di Lavoro
e Produzione di Cerignola nasceva nel più grande agro di tutta la provincia di
Foggia, nella zona all’avanguardia in tutte le lotte agrarie dei primi anni del ‘900.
Diretta emanazione della locale lega dei contadini, la più numerosa dell’intera
provincia (circa 6000 soci)90, la cooperativa non faceva nessun accenno particolare nello statuto a questo suo rapporto, forse per non creare problemi di
“immagine”: la conferma si trova nella messa in evidenza del fatto che la «associazione non si occupa che di questioni di lavoro e rifugge da ogni ingerenza
politica e religiosa nelle sue deliberazioni »91.
Presidente era lo stesso Presidente della lega, il già ricordato Antonio Misceo, uno dei massimi rappresentanti del leghismo in Capitanata. E proprio
Misceo fu il primo ad essere chiamato in causa dall’anonimo articolista de “Il
Foglietto” che, nell’aprile 1912, accusò la cooperativa, «la massima organizzazione operaia di Cerignola», di essere sotto la protezione politica dell’on. Maury, deputato salandrino 92.
L’articolo scatenò un’ondata di polemiche, di accuse e di smentite che
investirono il paese per circa tre mesi. Brevemente, le accuse rivolte alla cooperativa riguardavano il ruolo avuto dall’onorevole Maury tanto nella
“miracolosa” (per la brevità del tempo) iscrizione della stessa nel registro prefettizio, quanto (e soprattutto) nell’aggiudicazione di certi lavori concessi dal
Ministero delle Finanze93.
La polemica fu tanto violenta da costringere la CdL di Cerignola, il 1°
maggio, a stampare «un numero unico in cui viene riportato un ordine del
giorno, proposto dal suo segretario Di Serio e votato dal Comitato direttivo
dei contadini, col quale si fa obbligo ai dirigenti di non appoggiarsi più a deputati borghesi, anche quando si esibissero, spontaneamente, perché agiscono
con scopo opportunistico»94.
Ma le accuse aumentarono. Ora investivano anche Giuseppe Di Vittorio,
giovanissimo segretario del Circolo Giovanile Socialista, accusato di aver
____________
90 - Cfr. PRESUTTI, p. 609.
91 - Cfr. Statuto in Atto Costitutivo in BUSA, Anno XXVIII (1910), fasc. LII,
pp. 76-86, p. 77.
92 - Il connubio social-mauriano in “Il Foglietto”, Anno XV - n. 26, 4 aprile 1912.
93 - Cfr. Fanno i sornioni in “Foglietto”, Anno XV - n. 30, 21 aprile 1912.
94 - Aria netta... Le capriole dell'on. Maury in “Foglietto”, Anno XV - n. 35,12 maggio 1912.
122
concordato (insieme a Misceo) con Maury la messa in opera di alcune agitazioni
a favore di un qualche intervento pubblico contro la fillossera (che avrebbero
favorito i proprietari dei vigneti “malati” con la loro opera di denuncia) in
cambio del lavoro di scasso di alcuni vigneti95.
Misceo cercò di difendersi dalle accuse dando una propria visione dei
fatti che rendeva il rapporto con Maury solo un fatto occasionale96. Anche Di
Vittorio mandò una lettera al giornale per dare la sua versione dei fatti. Ma,
riuscì solo a far passare il suo coinvolgimento come un errore, «una necessità di
ambiente», come lui stesso lo definì97.
Non c’è, nella lettera, nessun tentativo di difendersi dalle accuse, ben più
gravi, sulla combutta per le agitazioni “anti-fillosseriche”, un’accusa che, tra
l’altro, nessuno cercò di circoscrivere o di spiegare.
Le polemiche si chiusero, almeno a livello ufficiale, con un Convegno
delle organizzazioni operaie di Cerignola in cui «i continui rapporti avuti dalla
cooperativa dei contadini con l’on. Maury» erano da addebitarsi soprattutto
all’uomo politico, «che cercava di speculare sulla buona fede dei contadini per
potersi costituire un più forte piedistallo elettorale»98.
Sicuramente è troppo poco per trarne conclusioni. Certo è che se la
maggiore cooperativa agricola di produzione e lavoro (non solo per numero
dei soci, ma soprattutto per i collegamenti con il più forte proletariato organizzato della provincia) foggiana aveva bisogno di appoggi per ricevere in concessione qualche lavoro, deve (almeno) significare che la situazione economicosociale non era particolarmente favorevole alle cooperative. E non solo a quelle
agricole.
Si osservi la situazione dell’intero settore di produzione e lavoro nel
1915:
____________
1912.
95 - Ibid.
96 - Polemiche fra socialisti e lavoratori in “Il Foglietto”, Anno XV - n. 35, cit.
97 - Polemiche socialiste a Cerignola in “Il Foglietto”, Anno XV - n. 37, 19 maggio
98 - Convegno socialista a Cerignola. L'accordo raggiunto in “Il Foglietto”, Anno XV n. 45, 16 giugno 1912.
123
Nonostante uno sviluppo numerico da non sottovalutare il settore nel
suo complesso non aveva una consistenza economica particolarmente forte, sia
in termini assoluti che relativamente alla realtà regionale. Solo il settore delle
società agricole era maggioritario rispetto alla Puglia ma, tutto sommato, aveva
scarso peso, sia in termini di soci, sia in termini economici, nonostante un importo degli affari maggiore di quello delle cooperative di produzione e lavoro
industriali99.
____________
99 - Non deve trarre in inganno il fatto che l’ammontare dell’importo degli affari
risultasse maggiore per le cooperative di produzione e lavoro agricole rispetto a quello
delle cooperative industriali: si tenga presente infatti che la sola Società Cooperativa Agricola
di Cerignola contribuiva con lire 200.000 al totale dell’importo (il 55,9%): Cfr. LNCI, Annuario 1916, pp. 791-792.
124
UNA NOTA CONCLUSIVA
L’aspetto “dimesso” della ricerca non è solo la conseguenza dell’estrema
frammentarietà dei dati e delle fonti a disposizione. Una, anche se pur minima,
parte di “colpa” deve essere assegnata ad una precisa scelta metodologica, opinabile finché si vuole, ma che è sembrata la più adatta al tipo di dati a disposizione: l’analisi della cooperazione in provincia di Foggia è stata, soprattutto,
analisi delle sue strutture, delle sue realizzazioni pratiche.
Il “censimento” (in certi casi asettico) del movimento cooperativo in
Capitanata era il primo passo da compiere. Era necessario per aprire la strada a
nuovi tentativi di ricerca.
Stefano d’Atri
125
APPENDICE I
TABELLA DI CLASSIFICAZIONE MINISTERIALE PER SETTORE
E CATEGORIA DI ATTIVITA’
1
1.1
1.2
1.3
1.4
1.5
1.6
1.7
1.8
1.9
1.10
1.11
1.12
1.13
1.14
2
2.1
2.2
2.3
2.4
2.5
2.6
2.7
2.8
2.9
2.10
2.11
2.12
2.13
2.14
2.15
2.16
Cooperative di consumo
Vendita di generi alimentari
Vendita di generi di abbigliamento
Vendita di articoli di arredamento
Vendita di prodotti meccanici, elettrici
Vendita di articoli di cancelleria, giornali
Vendita di prodotti chimici e sanitari
Vendita di materiale di costruzione
Vendita di combustibili
Attività ricreative
Attività sanitarie
Attività assicurative e finanziarie
Distribusione di energia elettrica, gas e acqua
Vendita di più generi
Vendita di prodotti ortofrutticoli
Cooperative di produzione e lavoro
Estrazione di minerali
Produzione di derrate alimentari
Panificazione e pastificazione
Macellazione del bestiame e lavorazione delle carni
Produzione di bevande (escluse cantine sociali e distillerie)
Produzione e lavorazione delle pelli
Produzione tessuti
Produzione di generi di vestiario, arredamento
Lavorazione del legno, sughero e affini
Produzione e lavorazione della carta e attività editoriali
Attività fono-foto-cinema-tipografia
Lavorazione meccanica e metallurgica
Trasformazione di minerali non metalliferi
Produzioni chimiche
Costruzioni edili, stradali
Insallazione impianti, produzione e trasporto energia elettrica
126
2.17
2.18
2.19
2.20
2.21
2.22
2.23
2.24
3
3.1
3.2
3.4
3.5
3.6
3.7
3.8
3.9
3.10
3.11
3.12
3.13
3.14
3.15
3.16
3.17
3.18
3.19
3.20
3.21
4
4.1
4.2
5
5.1
5.2
5.3
5.4
5.5
Servizi telegrafici, postali, telefonici
Igiene, pulizia e servizi vari
Attività culturali, artistiche, ricreative
Attività legali, commerciali, tecniche
Produzione e lavoro con attività commerciali
Agricole
Trasporto
Pesca
Cooperative agricole
Lavorazione della terra
Agricolo-silvo-forestale
Lavorazione delle uve
Produzione di acquaviti e liquori
Produzione di olio di olive, di semi
Produzione di conserve
Raccolta, trasformazione, conservazione e vendita ortofrutticoli
Filatura, molitura di cereali
Allevamento e selezione del bestiame
Coltivazione ed essicazione dei bozzoli
Coltivazione delle foglie di tabacco
Gestione dei granai
Vendita di prodotti agricoli
Esercizio di macchine agricole
Acquisto e vendita di materiale per l’attività agricola
Attività varie (mutua assistenza, servizi ai soci)
Allevamento di animali da cortile e vendita prodotti
Miglioramenti fondiari, lavorazione e vendita prodotti dei soci
Coltivazione e prima lavorazione del cotone
Servizi collettivi per la riforma fondiaria
Cooperative di edilizia per abitazione
Costruzione di abitazioni per i soci
Costruzione di abitazioni per i braccianti agricoli
Cooperative di trasporto
Trasporto terrestre con mezzi meccanici
Trasporto terrestre con veicoli a trazione animale
Trasporto marittimo ed aereo
Trasporto lacuale e fluviale
Facchinaggio
127
5.6
6
6.1
6.2
6.3
6.4
6.5
6.6
7
7.1
7.2
7.3
7.4
7.5
7.6
7.7
7.8
7.9
7.10
7.11
7.12
Carico e scarico
Cooperative per la pesca
Acquisto, vendita e manutenzione attrezzi pesca e gestione magazzini
Costruzione, acquisto, riparazione, manutenzione scafi e motori
Vendita dei prodotti della pesca
Allevamenti ittico in acque marine
Pesca e allevamento ittico in acque interne
Esercizio della pesca
Cooperative miste
Consumo
Produzione lavoro
Agricole
Edilizie
Trasporti
Pesca
Miste
Credito-casse rurali
Credito-banche popolari
Credito-assicurazioni
Credito-garanzia fra artigiani
Mutue
Nota:
La classificazione ministeriale è stata utilizzata per semplificare il lavoro di catalogazione. Ma dall’analisi dei vari statuti è risultato spesso che una cooperativa
classificata in un modo dalle statistiche ufficiali, spesso svolgeva la propria attività in un settore diverso da quello attribuitole.
Le cooperative censite sono state raggruppate, nel corso del lavoro, in 6 grandi
settori, formati dall’unione delle seguenti categorie:
CREDITO:
CONSUMO:
PRODUZIONE E LAVORO :
AGRICOLE:
EDILIZIE:
VARIE:
7.8,7.9
1,7.1
2, 5.5, 5.6, 6.6
3
4
2.20, 5.1, 5.3, 7.6
128
LA CHIESA E IL CONTROLLO SOCIALE
TRA IL XVI E IL XVIII SECOLO
E’ difficile, in un breve studio, affrontare una disamina esaustiva su ciò
che la Chiesa ha rappresentato nella storia della nostra società e analizzare il
controllo sociale e la sua applicazione.
Saranno per questo solo tratteggiate alcune considerazioni sulle strutture
e sulla “economia” del controllo erette dalla Chiesa nell’arco temporale che va
dal XVI al XVIII secolo.
Quando, usualmente si parla di controllo sociale, si intende una forma
“globale” ed organizzata di sorveglianza e di acquisizione del consenso. Nei
secoli considerati, la Chiesa, per la sua rigida e gerarchica struttura, assolve,
compiutamente a questi compiti.
E’ da ricordare, tuttavia, che secondo recenti studi storiografici, la società
è capace di rispondere con meccanismi propri a quell’autoritarismo generale
che M. Foucault indentifica seguendo la linea rossa che lega i vari sistemi di
controllo messi in atto dal potere.
La Chiesa usa due diversi strumenti per esercitare la sua azione: da una
parte l’apparato di deterrenza e repressione costituito dal tribunale
dell’Inquisizione, istituto da Paolo III nel 1542 per arginare la diffusione della
Riforma, dall’altra un sistema burocratico di rilevazione e registrazione che
spesso si intreccia con quello statale.
La pratica dei Censimenti, fin dagli inizi del ‘500, diventa funzionale, da
parte del potere statale, ad un controllo, oltre che anagrafico, fiscale e di ordine
pubblico.
Parallelamente a questo sistema, dopo il Concilio di Trento, la Chiesa
organizza gli stati d’anime e i registri parrocchiali (battesimo, matrimonio,
morte) che costituiscono un tipo di rilevazione preciso concernente la
135
descrizione delle famiglie, l’annotazione dei fedeli malati, l’enumerazione delle
vedove, dei separati, degli indigenti, dei parrocchiani non osservanti.
In questo periodo l’autorità ecclesiastica si occupa anche del rilascio di
“patenti” alle famiglie che si trasferiscono in altre parrocchie, in cui si garantisce
l’onestà e l’osservanza dei precetti della Chiesa dei componenti della famiglia
stessa.
Non ci sorprende che queste fonti e questi metodi di rilevazione, così
precisi, siano stati in seguito utilizzati dall’autorità civile a Foggia (a Milano, Venezia, Parma). Un chiaro esempio ci viene dallo Stato Veneziano dove è affidata ai parroci, dopo il periodo napoleonico, la cura dell’Anagrafe di famiglia.
Si passa così progressivamente da una utilizzazione di questi dati locale
ed individuale, ad una globale statistica che indica una trasformazione dello
Stato in senso “moderno”.
In certi casi la Chiesa amministra direttamente e in simbiosi con le istituzioni statali alcune pratiche del potere, come la gestione dei processi civili (in
casi di stupro, adozioni controversie, delitti contro la morale, ecc.), la risoluzione di casi di coscienza, la stesura dei testamenti in assenza del notaio, e così via.
La funzione regolatrice dei conflitti da parte della Chiesa è molto importante perché pone l’istituzione ecclesiastica su un piano superiore e oggettivo
del conflitto stesso (in alcune zone d’Italia veniva celebrato il rito della riconciliazione). Un soggetto determinante per l’applicazione delle pratiche di controllo è il parroco: egli è impegnato nella redazione dei registri parrocchiali, degli stati delle anime e delle patenti, ma il suo ruolo più importante è quello della
formazione del consenso attraverso un livello primario di conformazione e uno
secondario di indicazione della diversità.
L’omelia è il luogo in cui egli esercita con forza la salvaguardia della cultura e della morale dominante.
Non può essere inoltre trascurata la funzione rituale e simbolica di determinate manifestazioni che completano l’organizzazione del consenso.
Un chiaro esempio di affermazione dell’autorità in un contesto rituale è
la processione: emblematica quella del Corpus Domini a Napoli, in occasione
della quale l’autorità civile ed ecclesiastica è compiutamente rappresentata attraverso una precisa collocazione spaziale dei partecipanti che riproduce esattamente la reale gerarchia del potere.
Infine conviene considerare l’esigenza di una maggiore produzione di
esempi di santità “personale” (l’importanza dei Santi nella religione popolare).
136
Gli studi sulla santità, solo di recente approfonditi, impediscono di delineare un modello metodologico generale, ma si è accertato che, nel periodo
della Controriforma, alcuni modelli di santità son proposti come modelli di
comportamento.
La figura del Santo si presenta quindi duplice: da una parte espressione
del Divino, dall’altra operatore sociale nell’ambito della comunità con la sua
funzione di pacificatore dei conflitti interni e rassicuratore verso i pericoli non
solo esterni.
L’appropriazione, in questi secoli, simbolica e reale del Santo è appannaggio delle classi dominanti e complementare al loro potere economico e politico.
Giovanni Sardaro
137
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P. DESIDERI, Il culto dei Santi, in “Quaderni Storici” 57/a. 1984.
Per il Seicento e Settecento tutte le notizie sono tratte dai registri parrocchiali di
sepoltura.
Per l’Ottocento preunitario la serie di notizie relative a Foggia, Cerignola, Lucera, Troia, sono ricavate dallo spoglio dei registri parrocchiali di sepoltura
conservati negli archivi delle parrocchie o nell’archivio della Curia delle rispettive cittadine.
G. Sardaro
139
MICHELE URRASIO
E “LA METAFORA DELLA PAROLA”
Credo sia necessario, giunti ormai alla settima raccolta di Michele Urrasio, riprendere il discorso che feci alcuni anni fa su un autore al quale mi legano
non solo antichi e saldi vincoli d’amore per la comune terra d’origine (entrambi
siam nati e cresciuti ad Alberona, in provincia di Foggia) ma soprattutto la convinzione della straordinaria qualità di questa poesia che, attraverso una strenua
passione di quasi un trentennio, sembra aver trovato risorse imprevedibili
nell’ordine dell’approfondimento della verità: per questo appare ardua e richiede pazienza critica.
Non è sicuramente, infatti, con poche rapide battute che possiamo illuderci di delimitare un’area lirica che esige tempo e spazio molto più ampi e di
riconoscere meglio quella che è stata e resta la funzione di Urrasio in una storia
come quella della poesia pugliese (e nazionale in senso lato) del Novecento, così
ricca di invenzioni e di soluzioni che superano di gran lunga il quadro particolare. Semmai va osservato che in quest’alveo Urrasio si è conquistato un posto
importante, subito dopo i grandi della generazione cosiddetta ermetica e postermetica (Fallacara, Comi, Carrieri ed altri poeti dell’area salentina), scoprendo
qualcosa che non era stato sufficientemente affrontato.
La metafora della parola si innesta direttamente sul tronco dell’ultima opera
poetica di Urrasio, Il segmento dell'esistenza (Foggia, Bastogi, 1983, con prefazione
di G. BARBERI SQUAROTTI), mostrando una maggiore scioltezza che peraltro non tradisce l’intensità e la complessità di quel tipo di vocazione: ci sono
ancora alcuni temi, alcune cadenze e ritmi che
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costituivano la grande novità di quel libro, ma si ha ora l’impressione di una
maggiore trasparenza, di una più ricca libertà di movimento, e questo può essere facilmente spiegato e giustificato con il dato dell’urgenza, dell’ansia di fronte
ad avvenimenti sempre più incalzanti che conducono quasi inevitabilmente alla
catastrofe.
Si vuol dire, in fondo, che l’attuale sua “ripresa” poetica ma anche i vari
traguardi delle raccolte pubblicate in precedenza testimoniano di una tenace
fedeltà vincolata alla ratio e ci mostrano un poeta ben saldo nelle sue certezze;
egli, comunque, sembra essere di gran lunga più insidiato nelle sue speranze, più
esposto, più ansioso, più turbato di fronte ai mille segni di sommovimento e di
sconvolgimento del nostro tempo (poc’anzi abbiam parlato, forse esagerando
un pò di “catastrofe”). Alla dissipazione drammatica dei nostri giorni egli contrappone l’esigenza di una sintassi lucidamente organizzata, in cui la parola si
assesta nuda e certa, rispondendo anzitutto al bisogno d’impegnarsi, che equivale anche al suo contributo di certezza e di confronto.
Insomma, l’esigenza di chiarezza concettuale e morale, perseguitata per
alcuni decenni con tanta caparbietà da Urrasio, si è tradotta e realizzata in chiarezza espressiva, definitivamente, in questa Metafora della parola: il poeta si è reso
vigile contro ogni artificio formale e stilistico, mostrando amore per la frase
intera e distesa, il verso modellato, il periodo ritmico compiuto.
Con questa operazione si comprende non solo il valore del messaggio di
Urrasio ma anche il valore semantico della poesia in senso lato, suggerito proprio dal titolo, La metafora della parola appunto. Il linguaggio della poesia, si sa, si
fonda, strutturalmente parlando, su un meccanismo dotato di una duplice azione: posizione dello scarto e sua successiva riduzione. Ciò che si infrange con
tanta sistematicità nella poesia è solo il codice della comunicazione prosastica o
del linguaggio ordinario, che i linguisti chiamano “denotativo”, opposto a
quello “connotativo”, scaturito dalla soggettività e dall’affettività. La poesia segna la morte del linguaggio ordinario, per ricostruire col testo un universo di
significati su un piano superiore, grazie all’intervento della pura soggettività e del
suo principale strumento di manifestazione che è la “metafora”. Da qui si origina, secondo molti, l’improponibilità della poesia contemporanea sul piano
dell’esplicazione logica. La semanticità della parola sarebbe come sospesa tra
comprensione e incomprensione. Eppure la fede nella parola, in Urrasio come
in tanti altri validi poeti del nostro Novecento, tesa a scavare dura e pesante
come roccia
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ma, nello stesso tempo, capace di divenire incorporea e di innalzarsi, è costante
ed infinita.
Non esiterei, per questo, a sottolineare il carattere di “modernità” della
poesia urrasiana, carattere che si palesa e si afferma già nelle prime raccolte ma
che ora, in questa silloge della piena maturità, si impone all’attenzione di tutti,
ché risulta essere libera da suggestioni ermetiche, che pure qua e là, specie nei
suoi primi libri, erano sotterraneamente operanti.
In quest’ultima raccolta la ricerca linguistica di Urrasio corrisponde
all’urgenza di una ricchezza interiore da esprimere, perciò egli rifiuta ogni scaltrita sottigliezza espressiva come ogni macerata reticenza e continua, con tono
franco e convinto, a leggersi ininterrottamente, a conoscersi in ciò che il mondo
gli offre: non è un caso che le sue meditazioni molte volte nascano come epiloghi essenziali dei suoi viaggi. Da qui scaturisce la riassuntività gnomica e pregnante di molti versi, che costituisce uno dei tratti caratteristici del tessuto poetico urrasiano.
Un risultato di misura esemplare sia sotto il profilo contenutistico che
sotto quello formale è raggiunto nel poemetto di apertura al volume, Lungo
rotte impossibili, dove tutti i motivi presenti nell’invenzione poetica di Urrasio
compongono il sostrato di un discorso di solida struttura, in cui il realismo dei
particolari si decanta nella sfumatura di toni estremamente rarefatti ma di piena
trasparenza e godibilità per la lettura.
A confermare questa sua ansia di una sensibilità lirica e drammatica insieme non è solo il poemetto d’apertura, ma tutte le varie altre sezioni del libro
che stiamo esaminando; soprattutto affiora, in una visione complessiva,
l’intensità di una passione morale che illumina di sé, di volta in volta, la ricchezza
del lessico, che si accompagna alla varietà dei timbri e dei toni.
Ma leggiamola tutt’intera questa raccolta, magari affidandoci alla cifra
dell’insicurezza, al tentativo di voler chiarire, anzitutto a noi stessi, le ragioni sia
di una struttura così bene organata e compatta sia l’asciuttezza e significatività di
un linguaggio che arriva fino al cuore. Leggiamola anche con l’idea di cogliervi i
segni e gli indizi di un’ansietà che, senza intaccare le certezze, rende più franto, o
più diviso, il discorso, moltiplicandone gli approcci e i versanti.
E, si badi bene, anche quando Urrasio sembra affascinato e conquiso da
sollecitazioni occasionali, scalfendo così un pò l’omogeneità del suo discorso,
occorre, anche allora, recuperarlo lungo l’itinerario d’una intenzione organica ed
occorre saper riconoscere la sua volontà di costruirsi secondo un continuum, una
storia unitaria, che resta la sua conquista
143
migliore e il segno più evidente, in questa Metafora della parola, della sua autenticità.
In tal senso diventa emblematica la serie iniziale di Lunghe rotte impossibili,
come abbiamo poc’anzi notato, ma anche tutte le altre sezioni del libro (Il segno
e l'enigma, Il respiro dell'arnia, La variegata monotonia, La filigrana del nulla, Occasioni
razionali): tutto va letto distesamente, come un unico discorso per gradi e per
capitoli, rispettando la disposizione del poeta a meditare, la sua pazienza di riflettere e di riflettersi; soprattutto è necessario disporsi a cogliere, dietro la già
avvertita autunnale malinconia degli anni, dietro il rovello delle apprensioni individuali e storiche, una ostinata volontà di proporci soluzioni o ancoraggi di
speranza, segno verace dell’umanità e della modernità di questo schivo cantore
della Daunia.
Nel poemetto Lungo rotte impossibili Urrasio pare voglia suggerirci che la
storia dell’uomo non si esaurisce nello spazio della sua esistenza, ma si rivela
come il risultato del tempo che scandisce il respiro, l’ansia, l’aspirazione alla
conquista di generazioni e generazioni, scrutate nel loro “fatale andare”: un itinerario di conquiste e di cadute, di errori e di ravvedimenti, di sogni e di speranze disattese; un itinerario che spesso, seguendo un disegno del tutto imprevedibile, ci porta lontani dal nostro mondo, dalle nostre origini, tanto da ritrovare il segno delle nostre radici proprio quando si è costretti a percorrere altre
strade, a battere altri lidi.
Ma è proprio in questo peregrinare che scopriamo un’identità diacronica,
la consapevolezza critica cioè d’essere uomini veri, che si fan carico di tutte le
incertezze di quanti ci hanno preceduti lottando, per aprirci un varco su un
domani migliore. Spesso questa lotta è risultata vana, per cui, sopraffatti da una
sorte crudele (“...Nel groviglio delle dune cadde / il vento e i simboli abbattuti/ si eressero — inutili barriere —/ ai nostri passi” 1, I), fummo costretti a
iniziare il nostro viaggio per evitare che il silenzio riempisse totalmente la nostra
esistenza. E l’avventura inizia tra la fragilità del tempo, a volte tempestoso, a
volte in agguato, e i lidi cui approdiamo, che si presentano come terre aride,
poverissime, cariche di lunghi rimpianti, di una storia, in fondo, le cui istanze
attendono ancora di essere risolte o di avere almeno una risposta confortante
ed umana. In queste plaghe non siamo che numeri di comodo, sillabe vuote,
che inspiegabili eventi avviluppano nelle maglie di un disegno che mira al conforto, alla parità, ma che non raccoglie se non lutti, ingiustizie, proteste e scontenti.
Per ritrovare serenità - avverte ancora il poeta - non resta da fare altro
che dimenticare, dissolvere nel nulla quanto dì più caro riempie la nostra
144
esistenza. Dobbiamo sforzarci di realizzare la nostra imperturbabilità, ma il desiderio di condensare in poche battute ciò che siamo stati (il colore degli occhi
che inventarono il nostro destino, le mani che graffiarono i monti per rendere
agevole il nostro cammino), torna dal fondo della coscienza cosmica a ripercorrere e a riaprire i nostri solchi, a ripetere le sillabe che rimbalzano dalle rughe
del nostro satellite, per farsi nomi, stele, proiezioni nel futuro, speranze il più
delle volte deluse (“... E noi / lucidi di pioggia e di silenzio, / aspettavamo le
estati e il calore / la carezza e il perdono. / Invano. “ - 3, I).
Rinnegarsi è impossibile, poiché si è costretti a misurarsi con il tempo, il
cui rapporto, inversamente proporzionale al suo scorrere, dilata la nostra ricerca, le nostre aspirazioni, mentre affonda nelle “sabbie dei giorni” il profilo del
nostro Promontorio, l’approdo sospirato, dopo il lungo vagabondare,
nell’oceano delle età.
Spesso le nostre attese sono tradite e il silenzio torna a ingigantirsi nella
memoria, nell’immaginazione, ma anche negli attimi vissuti con il fiato sospeso,
con il timore di chi attende e non sa, di chi cerca e non trova (“ ... Oltre il giuoco / dell’orizzonte che celava di speranze / i nostri sguardi non riaffioravano /
isole, né terre nella memoria” - 4, I). Silenzio soltanto o, peggio ancora, dubbio
che non tarda ad insinuarsi, subdolo e discreto, nelle incertezze e nei fremiti
della nostra solitudine, tra spiragli di luce, per ridurla ad ombra, a negazione di
pur legittime aspirazioni e realizzazioni.
Al di là di ogni attesa non rimane che “un lungo richiamo”, pronto a rimontare le dimensioni del tempo, le tappe della nostra storia, a riservarci, in
ultima analisi, quel grumo di speranza che accomuna età ed intelletti con
l’intento di rendere sicuro il prosieguo del nostro viaggio: un viaggio appena
intrapreso, sebbene scandito da precedenti millenni, interrotto solo da qualche
sosta, per dare al poeta e ai suoi compagni il tempo di approdare allo scoglio
dove tentare di vivere una nuova, ritentata avventura. Un momento di sosta,
dunque, non del tutto riposante però. Qui la metafora di questa moderna odissea prende quota e lo scavo che il poeta fa nel proprio subcosciente diventa
severo, più pretenzioso.
Ripercorso l’itinerario dell’entrotempo, Urrasio concentra la sua attenzione sul suo destino di uomo, sul senso della sua esistenza. Sa bene di aver
perduto la coincidenza e di tentare “rotte impossibili”, ma accetta di affrontare
ugualmente il proprio destino, vivendone fino in fondo gli scompensi e le asperità, per cercare di riannodare il filo esistenziale che “si era spezzato da tempo”.
Soffre del suo presente il “mare di incertezze” nel
145
quale è costretto a navigare, il “taglio dell’indifferenza” che caratterizza il modus
vivendi attuale, cerca, con tutta la forza che gli resta, di difendere i valori in cui
crede, di salvaguardare la propria identità dal rischio della dimenticanza e del
disinteresse; per questo egli è costretto a seguire, ad inseguire anzi, “rotte impossibili”, itinerari che non danno la certezza dell’approdo, né promettono soste durature. Unico conforto è di attendere che la “verità misuri i nostri giorni”,
che la luce fughi le ombre e i dubbi, illuminando di nuove certezze le scadenze
cui si va incontro, senza timore di essere schiacciati dalla loro tragica realtà. Sono momenti, come si può notare, estremamente dolorosi, se il bilancio segna
sempre cifre al passivo e se del nostro esistere non sopravvivono che i segni di
uno sfacelo che annulla la dignità degli esseri umani e la proiezione del tempo
aperto a nuove avventure.
Questa constatazione così amara (“Tralci di generazioni stellari
/approdammo anche noi /al nostro scoglio, /ma non ci fu dato vivere” - 5, I)
deve spingerci non certo ad abbandonare i remi o a deporre le armi, per attendere passivamente la spinta del vento liberatore, ma deve abituarci a lottare
contro noi stessi e contro le avversità della vita, per farci ritrovare “rinnovati”
dalla forza del nostro volere, dall’ardire di impugnare gli estremi “di un disegno
crudele”.
Lungo rotte impossibili è un poemetto scavato nella memoria alla ricerca
della propria dimensione, vista come summa di esperienze generazionali, come
tralcio di silenzi stellari, come risultato di sofferenze che convergono nello spazio ristretto di ogni uomo, indicandone il paziente e il profeta; come il raccordo, infine, da cui si diramano altre uscite, ma dove, soprattutto, confluiscono “i
solchi / tracciati a fatica lungo i nostri /monti”: solchi di ricerche, di analisi affannose di barlumi colti ad ogni indizio, nella speranza che possano diventare
fuochi, luce e certezza che “non tutto si scioglierà nel nulla”. Un “non tutto”
che, pur attraverso la negazione e il fallimento dell’azione umana, vuole insegnarci a vivere e a lottare.
Ne Il segno e l'enigma, secondo “momento” di questa raccolta poetica, Urrasio è alla ricerca della verità, tenta cioè di conoscere se i suoi “segni” hanno un
valore reale e se il colloquio aperto con il mondo può restare senza interlocutori. Mentre lo spazio e il tempo si restringono, il poeta si arricchisce di altre dimensioni: diventa il “prodotto di più vite” in cui convergono gli affetti e le voci, gli echi e le proiezioni, le assenze e il desiderio di ritrovare il proprio equilibrio. Per semplificare questo concetto, basta esaminare solo qualche lirica.
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In Quando il pensiero dell’eterno, ad esempio, il poeta sostiene che la vita allarga i propri confini quando tenta di proiettarsi nell’infinito e nell’eterno: le
memorie si dissolvono e lo spazio a noi riservato si carica di interrogativi e di
inquietudini che traspaiono nel “dubbio se l’entrotempo [il passato] e il dopo [il
futuro] saranno ancora nostri”. Si insinua il desiderio della sopravvivenza, che
però presto si dilegua di fronte alla constatazione che il nostro viaggio è così
labile da lasciare appena qualche scia che “rasentiamo da sempre, inosservati”.
Così anche nella poesia I segni più certi, dove Urrasio si auspica che le sue
parole sopravvivano nel tempo, per quanto egli si renda conto che esse sono
labili e incerte a confronto dei “segni” che altri ascrivono a loro favore. Il vivere per gli altri, come fanno le madri, riduce i versi a “fragili sillabe raccolte/a
caso in un groviglio/di suoni indecifrabili”, minacciandone la sopravvivenza.
Il solo mezzo che può tenere in vita affetti ed amicizie - aggiunge il
poeta in Con il brusio delle sillabe - è il colloquio: la mancanza di comunicazione
rende grigia la vita, accentua la solitudine, rende più profondo il solco che divide e spezza la solidarietà umana. In tale stato “nessuno colmerà / la solitudine
che minaccia / le nostre ore” e persino le memorie più care e i volti più amati
saranno testimonianza di un passato inutile, che facilmente si dileguerà nel nulla.
Soltanto oltre i termini della vita umana e terrena - conclude Urrasio in
Dove il tracciato della vita - potrà avere fine il nostro esilio, questa forza che ci
spinge altrove, disperdendo ogni nostra energia e ogni nostro affetto: cadrà
così per sempre anche l’agguato del dolore e sarà il poeta ad attendere, “dentro
il respiro eterno”, che la sua razza, la sua generazione si ricompongano, quietando la sua ansia di dimensioni atemporali e infinite.
Nel terzo “tempo” di questa raccolta, Il respiro dell'arnia, la riflessione del
poeta è rivolta ai numerosi eventi che, inevitabili e sconcertanti, sconvolgono la
vita umana. La partenza dei figli, l’assenza della persona amata, il ricordo delle
dolcezze vissute suscitano ansie profonde, sentimenti insueti, che si caricano di
significato allorché si dà uno sguardo al proprio passato per tracciarne un bilancio. L’ispirazione insegue il poeta che non fa fatica a fissare sulla carta le sue
emozioni; difficile è stato semmai ordinarle, lasciarle decantare in un angolo,
per evitare di non sceglierne l’essenza, quella parte cioè che sa diventare poesia,
oltre che confidenza e lamento umani.
I ricordi si affollano alla mente e ci si accorge - dice Urrasio in L'ultimo
accordo - che qualcosa ha spezzato “l’anello/che salda il nostro
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equilibrio”: si cerca di rivivere l’attimo, di rivedere l’ultima curva dove i binari,
“le parallele del tempo”, hanno staccato da noi una parte di noi stessi.
C’è da osservare, inoltre, che il poeta vorrebbe distruggere a volte tutto il
suo passato: da qui quel desiderio, così bene riassunto in Vorrei, di rivisitare la
propria vita, evitando incertezze ed errori per il futuro. Pensando a ciò che si è
e alle proprie incapacità, ci si accorge che basta un attimo di raccoglimento e di
silenzio per valutare tutto quanto si è avuto e chiudere in parità il proprio bilancio.
Di tutte le dolcezze vissute - conclude Urrasio in Dei tuoi abbandoni — resta soprattutto il ricordo che si acuisce nel silenzio e nella solitudine. Non c’è
rifugio, infatti, che possa isolarci o che possa costituire come un riparo ai nostri
affanni: anche le pareti diventano schermi, su cui tornano, prepotenti e severe, le
immagini del passato (nella poesia immediatamente precedente Urrasio paragona la sua dimora a un’arnia, nella quale è costretto a muoversi in attesa che la
sua, e la nostra anche, inquietudine si plachi e la sua voce diventi serena: “La
nebbia discesa improvvisa / a cancellare il tuo volto, / ha disperso il respiro
dell’arnia / dove raccogli paziente / il volgere dei tuoi giorni...” - Nei raggiri del
vento). Sono pochi gli attimi di conforto e di distensione.
Purtroppo il nostro destino è di trascinarci, stanchi e delusi, tra volti che
spesso ignorano la nostra pena. “... Una stanchezza infinita / si accompagna al
mio lento / incedere tra volti / muti al richiamo del tempo” - Dei tuoi abbandoni.
L’insoddisfazione di essere testimoni impotenti del proprio tempo non
tarda a trovare un’eco incisiva anche in un’altra lirica, Più non basta, in cui l’autore
fa notare come le voci, i motivi e i ritorni che riscontriamo nei cicli delle stagioni, eternamente puntuali, non ci soddisfano più: eppure tante volte ci siamo
stupiti e li abbiamo ammirati! Ora l’aria, il silenzio, il mutare delle primavere
non appagano più le nostre esigenze e tendiamo lo sguardo al di là dello
“spazio breve / delle cifre”. Ma vano è il nostro sforzo, dal momento che non
è dato conoscere altro che le nostre misere storie: anche il futuro è protetto dal
velo “dell’incerto” che grava, come lama tagliente, sulle nostre attese.
La variegata monotonia, quarto “tempo” di questa nuova raccolta, comprende poesie che vanno dalla riflessione alla celebrazione di un evento, dalla
constatazione suggerita dall’esperienza della vita al desiderio, mai completamente pago, di trovare compagni di viaggio. Una poesia
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dai toni “variegati” appunto. Non mancano versi in cui il poeta tenti di fare un
bilancio della sua vita (In bilico, Che cosa posso ancora, La tenda sollevata) o cerchi di
ritrovare la propria identità tra tanta incoerenza e inutili parole.
A darci la misura esatta del nostro sapere, della nostra cultura - osserva
in La presunta certezza - è l’età matura; ma, a farci ricredere su questo, a farci intendere il valore reale delle nostre parole e dei nostri gesti, basta la parola, disarmante e illuminante, di un bimbo: “La presunta certezza di sapere, / strappata a pochi titoli corrosi, / urta contro la tua disarmante innocenza”.
In Che cosa posso ancora c’è, poi, il rimpianto di non potersi più stupire
come un tempo, di non avere più i facili entusiasmi giovanili. Ora egli ha una
visione più chiara, e dunque più amara, del mondo, ha la misura esatta degli
eventi e delle cose (lo spazio si restringe, le illusioni cadono, i desideri si dissolvono “in un deserto d’aria”, dirà In bilico). Come per l’agave, in lui resta ben
saldo quel filo misterioso che lo lega agli affetti, alle radici: “... Non sopravvive
che la generosità / del povero che cede / felice il suo nulla, / la trasparenza
dell’oliva / matura, il gioco delle parole / inchiodato al travaglio della coesione”.
Anche il “furore”, la necessità di arrabbiarsi, il desiderio di gareggiare e
di vincere appartengono al passato - insiste ancora il poeta in Quella dei furori
accesi - e vengono “dissolti nella lusinga / del silenzio”, ché il presente incede
con ben altre cadenze: ha interessi e inquietudini che ignorano le età e le memorie. L’ansia solamente sopravvive unitamente alla speranza di continuare a
“rifiorire / al primo cenno del vento”.
La filigrana del nulla è una sezione in cui il poeta studia e misura se stesso
attraverso motivi che lo riguardano non certo singolarmente, ma piuttosto come componente di una razza, come testimone del proprio tempo, come cellula
di un organismo che cerca “altrove” o al di là dei propri confini una dimensione nuova. In questo fermento di tentativi, di deboli approcci, il poeta, quasi, per
contrasto, trova la forza di confessare i propri timori, le proprie incertezze, di
inseguire l’ansia di scandaglio dell’imprevedibile, pur sapendo bene che dietro il
vetro opaco della vita non ci sono che ombre e ipotesi, difficilmente interpretabili.
In All’alt del semaforo guasto egli osserva che si è testimoni impotenti del
proprio tempo, costretti a registrare le assurdità e gli scompensi di un mondo,
come quello attuale, che rivela incoscienza e superficialità (“... testimone inopportuno seguo / dagli spalti del tempo consumarsi / la
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foglia e l’uomo cedere / al peso della nostra incoscienza”). La nostra piccola
cronaca trova agganci e conferme nelle notizie che riempiono le prime pagine
dei quotidiani, attenti a denunciare il sequestro della nave, gli scandali, le ingiustizie, ecc. Il poeta, a dispetto di tanto assurdo clamore, vorrebbe scrivere nel
tempo il nome di chi soffre in silenzio e in silenzio vive la sua storia (“ ... Se
potessi - ma non me n’è dato / privilegio - inciderei il tuo nome /nel silenzio:
troppo dura/è la stele per essere scalfita / dal soffio lieve del nostro passaggio”).
L’attaccamento alla terra è uno dei motivi più fortemente sentiti da Urrasio; egli, però, non lo limita alla stretta del ricordo o alla tematica ormai scontata e superata del meridionalismo tout court, ma ne comprende e ne decanta le
ragioni di fondo, guardando all’uomo e ai suoi travagli, per scoprire meglio la
propria identità.
In Il nostro altrove e in Cedere non era il nostro forte il poeta affronta con ferma voce poetica questo tema, sottolineando come l’amore dell’uomo per la
propria terra è profondo; eppure il desiderio di scoprire spazi e mondi nuovi
lo spinge a superare l’orizzonte e a proiettarsi nell’atmosfera: l’uomo vinse la
forza di gravità, la paura, il disagio di non essere più padrone del proprio peso,
del proprio corpo e vide franare la terra, oltre i confini del tempo, nel regno
dei silenzi. Ma il nostro “male di vivere”, forte oltre ogni misura, ci riportò nei
nostri “tratturi”, per farci riscoprire vivi tra tanti problemi e sofferenze.
L’occasionalità, auspicata vari anni fa da Mario Sansone per la poesia di
Urrasio, si rivela in tutta la sua efficacia nell’ultima parte di questa raccolta, intitolata appunto Occasioni razionali, dove compaiono poesie suggerite da immagini
improvvise e inattese (Si legga, ad esempio, Al girasole solitario, il cui “ ... occhio
/ rompe il crepitare dell’aria, / il battere monotono del silenzio”. Il girasole,
nato per caso sui margini di un fosso o lungo un pendio, non è che l’immagine
della solitudine che ci devasta: esso è anche un monito ad avere coraggio, a superare i momenti difficili, i punti morti, l’agguato della disperazione. Il suo tenace modo di cercare la luce è un invito a cogliere anche il più esile segno di
speranza, per continuare a difendere le nostre origini, i nostri valori in un presente difficile e rissoso. Corre facile qui il pensiero all’uorno quasimodiano
“trafitto da un raggio di sole” che riceve il privilegio dell’attimo fuggente di
luce come un dono, senza tuttavia rincorrerlo; in Urrasio, invece, il girasole è
costretto a volgersi quotidianamente su se stesso per appagare la sua sete di
luce, che in questo caso va vista con un significato metaforico
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ben più ampio e profondo: quel bisogno equivale alla proiezione dell’uomo nel
tempo nell’affannosa ricerca di una certezza, della propria ricerca esistenziale);
dal ricordo che riaffora alla mente dopo anni di assenza; dall’urgenza di esternare qualche considerazione da tempo maturata o di rendere omaggio a nomi
che hanno segnato, in qualche modo, il nostro destino.
Sono versi, questi delle Occasioni razionali, che conservano una loro forza
d’urto, ché sono scavati in interiore homine, ché sono sofferti e selezionati e perché, alfine, sono stati scelti tra tanti altri che pure avrebbero avuto un loro motivo di essere.
Le orme del passero sulla neve - osserva il poeta in Il messaggio cuneiforme,
fornendo così a se stesso un’occasione di canto e a noi un motivo di riflessione
- riportano alla memoria inverni ormai trascorsi, sofferenze patite da uomini
coraggiosi e tenaci, semplici e saggi, amati senza altri motivi che per la loro capacità di lottare e di tacere; ricordano, inoltre, le stagioni trascorse con tracce
indelebili, che sembrano ora riaffiorare dalla neve, il cui candore è l’unico segno
che la vita continua, che l’esistenza non è memoria, anche se noi, scampati al
naufragio, ci ritroviamo, smarriti e delusi, quasi stranieri in un mondo che non
ci appartiene: “ ... Il candore /che riveste le ombre del mondo, / i nostri sogni,
è il segno certo / della vita rapita alla memoria, / la calma scampata al naufragio / che ci sorprese smarriti / su altre rive”.
Nell'intrico dell'aria è annunciato l’arrivo della buona stagione, evento che,
sempre, ci rallegra confortandoci. Esso diventa triste, acquista cadenze drammatiche solo quando l’uomo tenta di distruggere ciò che la natura vuole sottrarre alla morte: “...Sulle ali di un vento maligno / il volto minaccioso della nube /
trafigge la nostra ebbrezza / con oscure ipotesi di morte” (E’ evidente
l’allusione al triste episodio di Chernobyl, avvenuto nella primavera del 1986).
Sono tutti questi elementi, di cui si è data qui una cospicua esemplificazione, che compongono il carattere di complessa modernità della poesia di
Michele Urrasio, la cui inquieta spiritualità contiene sempre una problematica
umana, un discorso fermo e chiaro, rivolto fraternamente a tutti.
Giuseppe De Matteis
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BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE POETICHE
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1965;
IDEM, Ancora un giorno, Prefazione di G. DE MATTEIS, Lucera, Catapano,
1970;
IDEM, Nel visibile e oltre, Prefazione di G. DE MATTEIS, ivi, 1974;
IDEM, Dal fondo dei Dolmen, Prefazione di M. SANSONE, Quarto d’Altino, Rebellato, 1977;
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MICHELE URRASIO è nato ad Alberona (Foggia) nel 1937, ma vive ed insegna a Lucera
da molti anni. E’ giornalista-pubblicista; collabora a vari quotidiani e a riviste letterarie; è
anche redattore capo del periodico culturale-letterario «Opinioni libere» e direttore del
mensile di cultura e attualità «Tholus».
157
PRESENTE STORICO O DELLA “TEMPORANEA ETERNITA’”: LA RIPETIZIONE, LA VARIAZIONE E L'OSSIMORO
NELLA POESIA DI RAFFAELE ANTINI*
1. Le modalità stilistiche di più ampia diffusione nella raccolta Presente storico di Raffaele Antini appaiono quelle della ripetizione, da una parte, e della
variazione e dell’antitesi, dall’altra.
Le formule ripetitive si diramano a tutti i livelli del testo poetico: da
quello fonico a quello lessicale, da quello sintattico a quello strutturale, investendo un campo estesissimo di applicazioni.
Quasi mai, però, la reiterazione appare come un puro raddoppiamento,
una pura procedura duplicativa, poiché essa è spesso portatrice di un sinuoso
elemento di variazione, di rettifica, se non di contrasto e di opposizione tra i
membri replicati.
La tessitura fonica delle composizioni è così fitta e stratificata, così variamente, e quasi accanitamente, modulata da rappresentare, a volte, una sorta
di autonoma proliferazione-gemmazione, una sorta di fenomeno di autogenesi,
del “significante”, di indipendente (dal livello del “significato”) o parallelo meccanismo musicale, di straordinaria cadenza politonale, slegato dalla semplice
mimesi onomatopeica del referente, e veicolo di ulteriore senso, di raddoppiamento semantico del “contenuto”.
I fenomeni fonici si realizzano quasi totalmente sul piano allitterativo (in
senso esteso) e paronomasico, mentre, correlativamente, è quasi del tutto assente il procedimento della rima, i cui pochissimi esempi, inoltre, sono irregolari, quasi sempre all’interno dei versi, e, quindi, non in posizione canonica.
____________
*La sezione 2. del presente saggio è apparsa come postfazione a Presente storico,
Forlì, Ed. Forum, 1989, e viene presentata in questa sede con alcune correzioni rispetto al
precedente testo.
159
E’ anche da osservare che la proporzione tra le modalità foniche muta
passando dalla prima sezione della raccolta (in cui è più marcata la presenza dei
fenomeni allitterativi e paronomasici) alla seconda ed alla terza parte (in cui è
più accentuata la ricorrenza delle rime, peraltro sempre abbastanza scarse).
Inoltre, anche la struttura compositiva, a livello sintattico, subisce delle variazioni, presentando maggiore complessità ed articolazione nella seconda e, soprattutto, nella terza sezione, così che si manifesta l’interdipendenza tra il fenomeno
della diradazione della tessitura fonica e quello della maggiore saldezza
dell’architettura sintattica (e concettuale).
1.1. Il catalogo delle replicazioni fonetiche è molto ampio, e di esse si
darà una veloce esemplicazione. Proprio ad apertura di libro si nota nel sintagma “L’aTTimo alla riDDa rapiTo - e fioTTa / inTanTo una conTesa Di opposTi...” (L’attimo) il martellante ritorno delle occlusive dentali /d/e/t/ (12 occorrenze su 54 fonemi) che, insieme alle altre occlusive p/e/c/ed alla vibrante /r/
(Ridda Rapito), scandiscono il ritmo duro ed incidente che sottolinea la linea
semantica di opposizione e di contrasto, resa esplicita, a livello lessicale, dal sintagma “contesa di opposti”.
La prima delle Due piccole elegie è costellata della presenza ossessiva del fonema /t/, che spesso si coniuga con i suoni vocalici /e/ed/i/, la cui irradiazione si diparte dal centro emotivo costituito dalle voci pronominali e possessive
di 2a persona singolare che, egualmente, gremiscono la composizione: “MolTe
presenze ha desTaTo la Tua venuTa / e molTi oggeTTi io frugo vanamenTe
per Te...” (10 occorrenze su 68 fonemi); “segni sono TuTTi del morTale passaggio, dal Tuo/all’alTrui. Mi resTano le figure degli oggeTTi. Te li / odio, Te
li amo, caro; miei specchi, Te li/vedo” (12 occorrenze su 114 fonemi), in una
sorta di sillabazione amorosa, di vertigine vocativa rivolta al “figlio lontano”.
(Di passaggio è da notare che la ricorrenza della sorda occlusiva /t/ evoca
spesso, ma non sempre, nella raccolta, l’evento della morte o, come in questo
caso, la situazione di lontananza e di distacco, quasi di “piccola morte”, richiamata, peraltro, sul piano lessicale dalla serie semantica: “fine”, “scomparsa” e la
replicazione di “mortale”).
Jeux presenta una straordinaria tessitura fonica (e musicale: non per nulla
ricorrono in sottofondo memoriale ed allusivo i titoli di composizioni musicali
di Ravel, Debussy e Stravinsky).
Dalla irradiazione omofonica del 1° verso (“Jeux d’eau feux”), che appare come una triplice ondata di echi dilungati e diffusi, alle paronoma160
sie “bRILLò - pRILLi - pRILLasti, SANA - inSANA e FORMe – sFORMa”, dalla catena delle allitterazioni (che sciamano in costellazione densissima
nell’8° verso: “iL nuLLa priLLi, priLLasti” - 7/1/su 22 fonemi - e che scandiscono il 10° verso: “si estingue lo strano Feu; Fu impressione Fu”. - in cui la
ricorrenza martellante della spirante /f/ si somma all’incidenza della rima tronca in /u/ e della sibilante /s/) ai poliptoti “rotola – rotolante” e, ancora, “prilli
– prillasti” (che insistono su un piano contiguo a quello fonico): l’ordito fonoritmico appare gremito e pluristratificato, con molteplici fili che si intersecano e
si sovrappongono, mentre alcuni nuclei fonici (i già citati /f/ed /l/) sono in
antitesi e dissonanza con altre cellule foniche aggregate in versi contigui. E’ da
rilevare la ricorrenza della /t/ in “... roTola, roTolanTe. Ah / già brillò il TuTTo e Tu...”, con l’ulteriore procedura percussiva Tu - Tu rieccheggiata a distanza dalla rima Tu - fu, che appare come una sorta di pietra tombale, di dissoluzione e di perdita definitiva e totale, contrapposte alla brillante levità di Jeux.
Per di più, la dissonanza fonica viene a spostarsi, raddoppiando il suo peso, sul
piano delle figure logiche (che si dispiegano nella serie di antitesi, ossimori, rettifiche, svolgimenti: “eau-feux, intrigo-pace, tutto-nulla, vane-forme-sforma, sana-insana”, con la sottolineatura della rima) e della dialettica temporale presente-passato (“brillò-prilli-prillasti; si estingue-fu”).
I versi iniziali di Primavera hanno come epicentro fonico la parola tematica della composizione: “primavera”, appunto, da cui si irradiano tre linee di
forza allitterativa: la prima, rappresentata dalla nasale /m/, orientata all’indietro,
la seconda, individuabile nella spirante /v/, che realizza la diffusione fonica in
avanti, mentre il terzo nucleo allitterativo, costituito dalla occlusiva dentale /d/,
rappresenta uno svolgimento fonico, originato dall’espansione attributiva di
“primavera”: “insidiosa”, che si dirama in sottili mutamenti paronomasici:
“invidiosa – livida” (nei quali entra in collisione con la deriva allitterativa della
/v/), riecheggiando e rifrangendosi anche nel 3° verso: “Mote, MiasMi riMesta
la luce / di priMaVera insidiosa. InVidiosa, liVida / per il passo di danza in cui
conduci”. Un’altra linea di forza allitterativa (/pr/), originata dalla replicazione
anaforica di “primavera”, si dirama, con la mediazione del poliptoto (perdiperduta), fino alla fine della composizione, sovrapponendosi alla linea di opposizione-confluenza semantica tra la luce e il buio, col quale l’io lirico si identifica
( e la cui situazione è sottolineata dalla triplicazione “a me” a contatto e a distanza): “di Primavera. .. / ... la Perdi . Perduta /Primavera, e Perché ti chini a
me, a me / Per Parole, a me che sono buio?”.
161
La composizione (Cos’è lo scampanio) è organizzata dal punto di vista fonico come un’aggregazione multipla e una condensazione pluristratificata di fonemi allitteranti, di modo che tra i vari livelli del testo si determina una sorta di
attrito fonico di nuclei sonori in opposizione, ma anche si realizzano la variazione e lo svolgimento, in quanto alcune cellule foniche in posizione subordinata rispetto alle dominanti all’interno di un verso vengono recuperate e moltiplicate nei versi successivi.
Nei primi due versi le cellule foniche prevalenti sono la sibilante /s/ (7
occorrenze) e l’occlusiva velare /c/ (6 occ.), spesso coniugate colle vocali
aperte o semiaperte /a/ (6 occ.) ed /o/ (7 occ.), che si irradiano dalla parolatema “scampanio”: “CoS’è lo SCampanio ChiaSSoSo /Che ha SCatenato le ire
oSCure”; nel terzo e nel quinto verso sono dominanti le occlusive dentali /d/e/
t/(di cui si individua un’anticipazione in “scatenato” del v. 2): “Di TanTi Dei?
Lo uDimmo TuTTi /... / Da quell’onDa D’urTo, Da suoni e sTrali” (da notare nel v. 5 il martellante ritorno della sillaba /da/), mentre nel v. 4 (“iN SileNzio, SoMMerSi”) viene realizzata la deriva fonica della sibilante /s/ dei vv. 1-2
(che si prolunga anche nel v. 5) e delle nasali /n/ ed /m/, già anticipate nel v. 3
(“taNti”, “udiMMo”), che sciamano nella seconda strofa spesso in posizione di
raddoppiamento: “fuMMo”, “salvaMMo”, “dispoNeMMo”.
Sono da notare nei vv. 8-9 i dilungati valori fonosimbolici suscitati dalla
connessione della /n/ (7 occ.) e della scura, chiusa vocale /u/ (7 occ.): “Ma
Nell’aria UN sUoNo dUrò a lUNgo, / UN sUoNo lUNgo”.
Il meccanismo di moltiplicazione e variazione a livello fonico viene realizzato anche sul piano lessicale, con il recupero nella seconda strofa, ma con
modalità grammaticali diverse e rettifiche semantiche, dei lessemi “silenzio” e
“suono” introdotti nella prima strofa (è anche da sottolineare la posizione di
inquadramento - o ciclo - di “silenzio” e l’epanafora di “suono lungo”).
Altro notevole fenomeno allitterativo è quello individuabile nei primi due
versi di Nomi: “TuTTi anDaTi. Il Tempo / ha Tre lanceTTe o quaTTro sul
quaDranTe” la cui forza fonica, centrata sulla /t/ della parola tematica
“tempo” si diffonde in lenta deriva per altri 6 versi finché non collide con
l’altro nucleo fonico fortemente connotato dei versi 9-10, che si irradia dalla
parola-tema “nomi”: “Borges, ReNato, e NoMi che iNdoviNi /Nella Nebbia,
Nel piaNto o Nel coMputer”, la cui progressione fonica, scandita dalla nasale
/n/ e dalla triplicazione della preposizione, sembra un lungo singhiozzo per il
ritmo lento della ricorrente sillaba /ne/. Il secondo nucleo
162
tematico, da cui deriva anche il titolo della composizione, “Nomi” (che si riferisce ai morti testimoni, alle presenze amiche di Borges e di Renato Mantino, per
aspetti diversi care ad Antini) convoglia, per la sua valenza emotiva e semantica,
accentuati fenomeni di replicazione e di variazione anche a livello lessicale: innanzitutto la replicazione della parola-tema, poi le raffinate procedure paronomasiche: “... nomi che indovini / ... / nomi di sassi e d’astri, nomi disastro”
(“disastro” risulta evidentemente dall’innesto dei precedenti termini “DI SASsi”
e “ASTRi”), infine la duplicazione di “Occidente” con la variazione quasi ossimorica degli attributi: “insano-piano” che presentano, d’altra parte, la caratteristica omofonica della rima. Anche il primo nucleo tematico: il “tempo” aggrega fenomeni lessicali replicativi soggetti a variazioni, rettifiche e dislocazioni: il
sintagma “ha tre lancette o quattro sul quadrante/improbabile...” dei versi 2-3 viene
ripetuto e trasformato nei vv. 3-4: “ ... Ho tre più o meno o quattro/frecce...” e
nel verso 15: “lancetta appena mobile, improbabile”.
Altri esempi di una estesa disseminazione fonetica possono essere individuati nella composizione All'inconsolato lamento dei pianeti che presenta nel primo
periodo 19 occorrenze della /t/ e 10 della /d/, su 159 fonemi, che eccedono
nettamente la frequenza standard (nel quarto verso addirittura la /t/ ricorre ben
11 volte: “perché la viTa TuTTa sia mosTraTa, TuTTa l’aTTesa”, e la sua forza
percussiva viene evidenziata dalla presenza di ben tre doppie e dalla ripetizione
quasi a contatto “tutta... tutta”), e nel quarto verso di Tu ed io, in cui le occorrenze della /t/ sono 7: “di TuTTI gli aTTi che si compiono incauTamenTe”, che
costituiscono la deriva fonica del primo verso: “Quando nella noTTe un Tramestio di membra” nel quale è evidente la triplicazione dei nuclei fonici: della /t/
appunto, ma anche della /n/ (4 occ.) e della /m/ (3 occ.).
1.2.1. Passando ad esaminare le modalità delle figure sintattiche (o
dell’ordine), bisogna sottolineare le stesse caratteristiche, già rilevate per le figure
foniche, dell’altissima frequenza, della complessità e della variazione o, addirittura, dell’opposizione semantica delle strutture “ripetitive” della raccolta.
Le prime modalità da esemplificare sono quelle delle ripetizioni a contatto che, sebbene siano istituzionalmente procedure di intensificazione, sono
spesso portatrici in Antini di elementi di rettifica di variazione semantica.
La replicazione a contatto (geminatio) è presente ampiamente nella raccolta: “l’altra, l’altra che sempre urge e urla di lontano” (L’attimo), in
163
cui la replicazione, ad apertura di verso, viene condotta sul piano
dell’esplicazione e dello svolgimento; “ ... e lui che gira, e gira solo” (L'amico
assente), in cui viene attuata una puntualizzazione (ed una progressione semantica); “... trama / sulla trama del velo, rete su rete...” (Presente storico), in cui appaiono i motivi della sovrapposizione e della diversificazione; “perché quel che
fui... / e quel che sono è triste, triste / tranne per quell’attimo in cui brilla / riflesso.” (Riflesso), in cui l’iterazione (“triste, triste”) si sviluppa in senso correttivo
o limitativo, ed è correlata ad una ripetizione anaforica (“quel... / quel”) che
egualmente si svolge come variazione o contrasto sul piano temporale (passatopresente); inoltre, lo svolgimento o il cambio di significato del lessema
“tempo”, e la puntualizzazione semantica sono evidenti, rispettivamente, nel
sintagma: “... il tempo, il tempo che si fissa” - oltre che nell’altra replicazione
con interposizione” ... un tempo, lo strappa al tempo” - (Quando gli occhi sono
mari); e in “ ... a morire, a morire nel cielo dei tralicci” (La Luna di Federico); “sul
litorale caldo della ragione, della ragione / che ha smesso tutti i sentieri ed ogni
costrutto” (Naufragio).
Solo in pochi casi il raddoppiamento a contatto appare come una semplice intensificazione di senso: “non so, non so davvero...” (Se nella memoria
d'uno); “ ... m’interroga... la voce, la voce” (Due piccole elegie, II); “Indago, indago
... / ... / ... è breve, è breve.” (La fine); “ ... a me, a me” (Primavera), presentando, tuttavia, qualche variazione, non fosse altro che nella pronuncia espressiva.
La replicazione a contatto appare nella raccolta anche in formulazione
tripla o quadrupla, come avviene in Tu ed io: “ciò che guardano è oltre, e oltre
c’è un oltre / oltre cui non si giunge...” , in cui i 4 membri replicati (gli ultimi
due in posizione di anadiplosi, a chiusura e ad apertura di verso) rappresentano
le ondate progressive di un continuo superamento o scavalcamento semantico
fino all’invalicabile ostacolo finale; ed in Il mattino: “... il non vederci / ti confina
alla meta, alla Meta. E la Meta / non è luce, né scamiciarsi né donne. Né maggio, /è Meta...”, in cui appare l’estensione semantica segnata dalla maiuscola e
l’esplicazione indotta dalla doppia negazione (con l’ulteriore deriva della replicazione a distanza).
L’altra modalità di raddoppiamento a contatto è rappresentata
dall’anadiplosi (in cui la vicinanza sintattica è allontanata artificialmente dalla divisione metrica) che si può individuare in L'attimo: “... batte, / batte come stoino il corpo...”; in Due schizzi: “ ... la luce / luce di sbieco...”; in “... segni: / segni
sono tutti del mortale passaggio...” (Due piccole elegie,
164
I); nel già citato “…oltre/oltre cui non si giunge…”, in Tu ed io (nella cui sequenza è anche presente, per il cambiamento semantico della parola replicata, la
figura dell’anaclasi); in “ ... un vano astratto al corpo.// E il corpo da quel
punto dilaga...” (Naufragio), in cui il contatto, allontanato dalla divisione metrica
della strofa e da quella sintattica della frase, si svolge semanticamente in un altro
territorio di discorso.
1.2.2. Estesissimo è il catalogo delle replicazioni a distanza: sia quelle in
cui il contatto tra le parole ripetute viene allontanato per l’interposizione di un
lessema, sia quelle in cui la distanza risulta progressivamente maggiore: e
all’interno delle composizioni, e in posizione esterna: all’inizio (anafora) o a
chiusura (epifora) dei versi.
Guazzo presenta, dando ragione al titolo, una composizione pittorica di
pochi elementi cromatici e semantici sovrapposti e variamente accostati, e una
trama fittissima di replicazioni a distanza: la parola tematica “luce” ricorre ben 5
volte (4 in anafora), ed è in connessione più o meno stretta con attributi, ad essa
riferibili, disposti in una lunga serie sinonimica (in senso lato): “candidi, bianco,
limpidi, diffusa, riflessa”. (E’ anche da notare il collegamento ossimorico con
l’acqua, deducibile dalla metafora “zampilli di luce”). Altri lessemi ricorrenti
nella composizione sono: “tavoli”, il cui raddoppiamento appare all’inizio ed
alla fine diversi abbastanza distanziati (in posizione di epanadiplosi, o ciclo);
“commensali”, la cui triplicazione presenta un disegno particolare (anafora posizione centrale - quasi epifora); “parole”, la cui triplicazione assume una figurazione diversa da quella precedente, presentando un accostamento quasi a
contatto (e lo svolgimento semantico dettato dalla comparazione) tra i primi
due termini e un collegamento epiforico-anaforico tra il secondo e il terzo (“si
scambiavano parole, credo; parole / assai simili a limpide bolle. / C’erano
commensali: sì, bigiognoli, / e parole...”).
La composizione riscatta la sua staticità con sfumate, sottili variazioni tonali e tematiche, attuate con una tecnica di accostamenti di notazioni di oggetti,
e con procedure sintattiche di tipo paratattico e folgoranti ellissi, e, tuttavia,
l’inserimento nella dimensione del passato e lo straordinario rilievo dei valori
luministici collocano la scena in una zona di perfezione intoccabile, nella definizione memoriale di un tempo assoluto e vitale.
Anche la composizione Se nella memoria d’uno è giocata sull’aggregazione,
la ripetizione accanita e la variazione di pochi elementi lessicali e figurali che sono organizzati in serie plurime di replicazioni a distanza: il lessema “memoria”
presenta il fenomeno ripetitivo di più rilevante
165
ampiezza in quanto ricorre ben 6 volte (3 in posizione di epifora e 3 di quasi
epifora) ed è inserito in un campo semantico che contiene anche i lessemi:
“ricordo”, “rammemorare” (anch’essi in posizione epiforica) e “dimenticare
(che rima col precedente); se poi si tien conto che “memoria” ricorre nei versi
estremi della composizione e che l’ultimo verso presenta in concentrazione figurale una metafora (“trottola”), una bellissima paronomasia, nonché rima derivata (“diurna di diuturna” elementi organizzati in figura di chiasmo, col suggello finale di “memoria” (“... trottola diurna di diuturna memoria”), bisogna
affermare che la parola tematica appare ossessivamente dominante nella composizione. Le altre serie replicative sono costituite da “prati” (2 volte in epifora,
e una volta in posizione interna al verso), “bandolo” (un membro centrale e
l’altro anaforico), “d’aver visto” (2 occorrenze in posizione anaforica ed interna), “davvero” (2 unità interne), ed, infine, “non so” che presenta un disegno
perfettamente bilanciato, con 4 membri disposti: 2 in anafora, uno a contatto,
uno in epifora, il che configura l’ulteriore modalità dell’epanadiplosi o ciclo.
Nella composizione, inoltre, compaiono meccanismi disgiuntivi, a livello microgrammaticale, e di scomposizione dei sintagmi e di nuove aggregazioni dei
membri degli stessi: “prati” e vicoli”, in un primo tempo legati dalla congiunzione, poi inseriti in un sintagma di disgiunzione (“ ... prati / o vicoli...”) e allontanati dalla divisione metrica del verso, vengono inseriti in sintagmi separati,
ciascuno dei quali di disegno disgiuntivo (“vicoli o sogni, memorie o prati”)
con l’ulteriore allontanamento dei due lessemi prima uniti, collocati l’uno
all’inizio, l’altro a chiusura del verso.
Tutte le modalità predette evidenziano il filo dialettico che attraversa
tutto il campo tematico (e temporale) della composizione: la memoria personale e quella collettiva dell’umanità, ed, ancora, l’impossibilità della vanificazione
memoriale del tempo sostanziale, che si diffonde in ondate successive, in cerchi
concentrici dal centro profondo alla riva della psiche, e la dialettica passatopresente-futuro (indotta dal sistema dei tempi verbali).
La linea dialettica e dinamica (di svolgimento e variazione) è evidentissima in Alba, in quanto vengono visualizzati nella ‘topografia’ della composizione
i movimenti (ed i rapporti) di luce e buio. Nei primi 3 versi il “buio” (6 occorrenze complessive, oltre ai lessemi “nel fondo” - 3 volte - e “notte” che fanno
parte dello stesso campo semantico di oscurità) si accampa con la triplice presenza anaforica (rafforzata dalla replicazione a contatto, nel 3° v., e dall’altra
epifora, nel 5° v., di “fondo”) mentre la
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“luce” è relegata in epifora; progressivamente il “buio” indietreggia nel centro
dei versi fino alla quasi epifora finale, mentre la “luce” (4 occorrenze complessive oltre ai lessemi “illumini” e “rifletti”, semanticamente affini) avanza gradatamente dalle posizioni epiforiche del 4° (5°) e 8° verso, affermandosi
nell’anafora, anzi nello spazio totale del verso 9° (legata significativamente con
l’anadiplosi al verso precedente), e nell’anafora pronominale (“che”) dell’ultimo
verso (“che, calma, le mille ampolle del buio ricolma”), realizzando anche sul
piano metaforico e su quello omofonico (delle due quasi rime che, in uno
schema simmetrico, replicano fonicamente le parti esterne del verso riferite alla
luce: “calma ... ricolme”, e quelle intermedie: “ ... mille ampolle...” che rimandano all’oscurità) la supremazia sul “buio” (che il verbo “ricolma”, in posizione di
inversione sintattica, evidenzia puntualmente).
L’accanita, ossessiva ripetizione della parola tematica “rosa” (presente
anche nelle variazioni flessive della lingua latina e transcodificatorie) delinea nella
composizione Verso il centro della Rosa una sorta di rosa verbale, una imitazione
della struttura della rosa realizzata con la disposizione stratigrafica delle parole.
La ricorrenza del lessema “rosa” per ben 12 volte viene articolata in quasi tutte
le figure replicative: dai poliptoti (la declinazione latina del nominativo-genitivo:
“rosa rosae”, e la relativa transcodificazione in italiano: “rosa della rosa”) alla
ulteriore declinazione latina in anadiplosi (“ ... Rosa rosae / rosae...”), dalla triplicazione delle anafore alle 5 epifore, dalle tre epanadiplosi, che realizzano il
cortocircuito tra l’inizio e la fine dei versi, al ciclo massimo istituito tra l’inizio e
la fine della composizione, che chiude in circolo il discorso. Nella costellazione
delle ‘figure’ si rivela il disegno di una dilungata metafora sintattica, s’intravede
la parvenza di un centro miracoloso con i numerosi petali-parole che vengono
convogliati, appunto, verso un centro illusorio e mitico (“ ... Non c’è che un
segno / per cui mirare al punto / intorno al quale tutto si svolge / e che non
c’è, ma è un segno / che non si vede...”: da notare è la replicazione negativa che
sottolinea l’illusorietà della figurazione, del ‘segno’, appunto, che appare in duplicazione epiforica).
1.2.3. Accanto alle replicazioni anaforiche ed epiforiche, altre modalità di
raddoppiamento a distanza assumono rilievo nella raccolta: sono quelle
dell’epanadiplosi (o ciclo) ed, in una prospettiva di maggiore ampiezza o distanza dei segmenti replicati, della ripetizione di interi versi (o di parti estese di
essi), e del riecheggiamento testuale da una composizione ad un’altra, modalità
sempre articolate in funzione dell’espansione, variazione (o contraddizione) semantica.
167
Per quanto riguarda l’epanadiplosi, si aggiungono agli esempi già dati
precedentemente, di passaggio, quelli tratti da Due schizzi, Tempo II: nei vv. 1-6
della prima parte (“ribelle / cirro e cirro bizzarro / di generosa nuvola, e cirro
vano / fondo di vita forse / in cui per tratti di canzona andare / e minuto cirro”) l’epanadiplosi (la replicazione di “cirro” all’inizio del 2° verso ed alla fine
del 6°) si complica con la ripetizione a contatto e con il chiasmo: “ribelle/cirro
e cirro bizzarro” (con i due aggettivi esterni e i due sostantivi interni), con la
sinonimia cirro-nuvola (e, sul piano fonico, con la potente carica allitterativa
della vibrante /r/). Nei versi 5-7 della seconda parte (“vanno / gelano forse /
(forse non vanno)” l’epanadiplosi di “vanno”, che scocca tra l’inizio del 5° verso e la fine del 7°, si innesta nell’anadiplosi di “ ... forse / (forse...”, rovesciando
l’affermazione nella negazione di “non vanno”.
La ripetizione a distanza di interi versi (o segmenti consistenti di essi) viene attuata in Il mattino: “... lo scamiciarsi delle donne / ... / ... né scamiciarsi né
donne... /... /... si scamiciavano donne” (con la consueta tecnica di variazioni,
scomposizioni e rovesciamenti semantici e temporali); in L’esatto punto del presente: “Prendiamo un punto ad esempio / ... / prediamo il punto”; in Presente degli
specchi: "E lì s’incarna il mondo / comunque / o s’incarnò o s’incarnerà / di sé
amante / ... / è lì che s’incarna / assai amante di sé” (con i soliti innesti e variazioni e con l’introduzione della dialettica presente-passato- futuro); ed in Tra
ombre viaggiando: “infine e per sempre / ... /le fissammo infine e per sempre”.
Addirittura il sintagma “infine e per sempre” è riecheggiato, da poesia a poesia,
nella composizione Presente degli specchi (che insieme a L’esatto punto del presente e al
predetto Tra ombre viaggiando costituisce il trittico Preparativi per il viaggio).
1.2.4. Si farà ora velocemente cenno all’espansione sinonimica attuata
nella raccolta, in funzione della progressione o del martellamento semantico (e
fonico); si notino, ad esempio, le sequenze: “ ... nebbie, caligini, veli” (oltre ai già
esaminati campi lessicali contrapposti centrati su “voce” e “silenzio”), in Sopra
una piana colma di nebbie; “...t’illumini, abbacini” (con variazione di senso), in
Quella prigione di luce; ... risacche, sciabordii, riflussi”, in All’inconsolato lamento dei
pianeti; ... dilaga, mareggia” e “ ... spiaggia ... litorale”, in Naufragio.
1.2.5. La funzione ripetitiva viene anche attivata (pur nella variazione lessicale e semantica degli enunciati) col ricalco del profilo sintattico delle frasi, sia
per il riecheggiamento a distanza della stessa cadenza intonativa
168
- con la reiterazione e l’intensificazione delle stesse strutture microgrammaticali,
spesso collocate nell’evidenza della posizione anaforica - (“Poiché parole più non
aprono i segni / ... / ... poiché parole / ... /più non si danno... / ... /poiché parole
l’animo più non inquieta...”, in Il bacio, in cui si sommano la replicazione sintattica e quella lessicale; “non so se dire che ricordo / ... / non so, non so davvero se
potrò / mai dimenticare... / ... non so / se potrò mai confessare di rammemorare”, in Se nella memoria d'uno, in cui s’evidenzia anche la serie delle progressive
variazioni lessicali), sia per la replicazione a contatto, martellante, della pronuncia
interrogativa delle frasi, che rivela l’accanita inquisizione dell’ ‘io lirico’ sulla propria identità e sul significato della sua presenza sulla scena del mondo (cfr. “Chi
parla di vento? E insinua dialoghi / nell’etere? Forse un mio moto inconsapevole / nel sonno, il tradimento oscuro della mente / slittata nella nebbia a un
tratto?... / ... / Lapsus? / Epifanie? O minacce, forse, fosche intimidazioni /
del sonno stesso, che per essere colmo / di sé mi nega, mi estrania da sé, mi
strema / nella veglia di domande? Ed è una voce / la mia che bisbiglia i nomi
delle voci, delle ingerenze / vocianti, purgatoriali, in cerca d’eco?”, in Le voci; la
triplice interrogazione che esaurisce totalmente la prima strofa di Diario; e l’altra
serie interrogativa di Quando gli occhi sono mari, di cui si parlerà in seguito: “Ma tu
chi sei? Tu sei? O non sei altro che l’altro di te in cui mi specchio?”).
1.3. Tra le figure logiche, quelle che ricorrono maggiormente nella raccolta sono l’antitesi e l’ossimoro che, con la loro carica bivalente, o polivalente,
provocano spesso il cortocircuito concettuale e logico, ma anche temporale,
figurativo ed, ancora più in profondità, tra diverse manifestazioni psicologiche,
esistenziali, e raffigurazioni del mondo e della realtà.
Il primo dei Due schizzi (nella sezione Tempo I) prospetta un quadro di
opposizioni spaziali e contrasti cromatici (luce-buio, bianco-nero) che si rivelano nell’anadiplosi, già ricordata: “ ... la luce / luce di sbieco...” (che presenta un
cambiamento del punto di vista o prospettico: “di sbieco”), nell’antitesi “ ...
offro e ripiglio”, nell’epifora (con poliptoto) “ ... buia / ... bui” (che si colloca
in posizione contrapposta al predetto binomio luminoso, configurando
un’antitesi potenziata), e nella replicazione quasi a contatto “strappata dai metrò,
velocemente, dai metrò bui”, in cui si evidenzia il processo di allontanamento,
la dialettica vicino-lontano.
Anche il secondo dei Due schizzi, Tempo I, presenta le caratteristiche dinamiche e oppositive del primo, incentrandosi sulla quadruplicazione
169
del lessema “alba” (che ricorre in triplicazione quasi a contatto: all’inizio, al centro ed alla fine del primo verso, ed inoltre alla fine del 3° verso) e svolgendosi
attraverso tutta una serie di figure: raddoppiamenti, combinazioni, contrasti
(l’opposizione spaziale sopra-sotto, la replicazione quasi epiforica di “acqua”, il
poliptoto “morti-muore”, il chiasmo “... morti verbi ad erbe marce...” e la
metafora massima “... l’acqua alba”) per mezzo delle quali procedure si realizza
l’indentificazione tra l’alba e l’acqua per cui la fenomenologia connotativa di
discesa spaziale (“sotto l’acqua”) e di decadenza, disfacimento e morte
(“morti/marce”) del secondo termine (“acqua”) viene assunta anche dal primo,
che viene poi investito anche sul piano denotativo della definizione della sparizione (“muore”). In tal modo nella metafora massima acqua-alba confluiscono
le due serie del dinamismo e dell’antitesi (ascesa-discesa e luce-oscurità).
La struttura, fin troppo accanitamente architettata, delle 2 composizioni è
la dimostrazione più evidente delle procedure di raddoppiamento e di antitesi:
in particolare, le modalità di replicazione vengono attuate in funzione ossimorica, affinché l’antitesi risulti potenziata, moltiplicata in una serie di echi o di rimandi speculari.
Anche La Sala presenta una fitta trama di ossimori e di antitesi, e di
campi lessicali in collisione, legati strettamente ai fenomeni reiterativi i quali, in
tal modo, addensano e sottolineano la funzione oppositiva o dialettica: dagli
ossimori “ ... pace cantata...”, “...tu vai vien via” e “... muori viva”, che sigillano
in apertura e in chiusura (della prima strofa e totale) la composizione, alle pluristratificazioni lessicali: “pace” (che ricorre 2 volte), “silenzi” (3 volte), “muta”
collocate in antonimia all’altra serie: “voce” (2 volte), “cantata”, “richiamo”,
“udito”, “cantore”, “odi”; infine, è da segnalare la contrapposizione attuata con
forme negative che segna totalmente la 2ª strofa: la serie “ ... più non traversa”,
“...ti sottrasse…”, più non odi…” si collega strettamente all’ossimoro già ricordato, “…e muori viva” il cui ultimo termine (“viva”) ripete, in epifora conclusiva, l’anafora iniziale della strofa. La presenza nella composizione di fenomeni
di replicazione fonica (la frequenza altissima - 9 volte – del fonema /v/ negli
ultimi 4 versi, con le allitterazioni percussive iniziali nonché l’anagramma nel
sintagma VAI VIen VIA, che sottolinea l’antitesi vai-vien raddoppiata dal
cambio di persona) si pone così in funzione di rispecchiamento delle modalità
logiche e sintattiche.
2. La costante formale del libro di Raffaele Antini appare, dunque, la replicazione a tutti i livelli: da quello fonico a quello sintattico e logico, ma
170
l’addensarsi fittissimo delle modalità ripetitive, che formano una sorta di costellazione fonica e lessicale, procede per lente, costanti variazioni, si dirama in
articolatissime sequenze contrappuntistiche, mentre egualmente rilevante è la
tensione antitetica e dialettica dei testi. Queste modalità stilistiche trovano corrispondenza ed espansione nella tessitura tematica delle composizioni, in quanto
la ripetizione, la variazione e l’antitesi investono tutto l’orizzonte comunicativo
della raccolta e ne modulano le ragioni profonde, l’organizzazione semantica, la
visione della realtà.
Il nucleo centrale del mondo poetico di Antini è costituito dal rapporto
dialettico ed ossimorico tra il tempo circolare (ciclico e mitico) e quello lineare
(storico) le cui rispettive modalità di manifestazione sono quelle della ripetizione, della ricorrenza, e quelle dello sviluppo e della variazione.
Ma il meccanismo delle due contrapposte misure temporali è più complesso, in quanto anche nel tempo ciclico sono individuabili mutamenti (e travestimenti) che increspano, talvolta, la sostanza profonda del fenomeno, mentre il
dinamismo del tempo lineare è scandito nella ripetizione delle singole frazioni
temporali.
I motivi tematici e figurativi che si accampano nella raccolta sono modulati secondo le procedure della ripetizione, della variazione e dell’antitesi, rispecchiando la grande metafora (dialettica) del tempo. La caratteristica sostanziale della ricorrenza (e circolarità) è presente nelle arditissime costruzioni e fantasie letterarie, nelle rappresentazioni oniriche, nelle figurazioni ‘mitiche’ femminili ed infantili (che pure, talvolta, sono attraversate da un’increspatura di movimento e di mutamento): tutte manifestazioni che si pongono in rapporto antitetico o dialettico con gli eventi e le sequenze della realtà e della storia, governati dalla legge dello svolgimento e della progressione, ma attratti, talvolta, nelle
traiettorie della ricorsività. (E’ evidente che la dialettica tra le due diverse prospettive temporali - e figurali - si propaga all’interno di ciascuna di esse).
Le altre figure tematiche: la situazione di specularità, la rappresentazione
teatrale e lo scambio pronominale presentano i caratteri di ripetizione sdoppiamento e di alternativa-variazione, attivando i meccanismi della finzione, del
parallelismo e dell’antitesi con la vita.
La poesia di Antini è, quindi, il teatro, il centro mentale e strategico, di
una collisione dialettica apertissima e vitale (o mortale?) tra il tempo lineare
(progressivo, storico) e quello circolare (mitico), dialettica che è luminosamente
rivelata dal bellissimo ossimoro “temporanea eternità” (Riflesso).
171
Le due prospettive antropologiche e psicologiche, che si incentrano sulle
due modalità temporali, si accampano in una lotta accanita, in una guerra di
posizione e di movimento, dando luogo ad accecanti dissonanze, a visioni dialettiche: la prospettiva storica appare spesso revocata in dubbio di fronte alla
sequenza sostanziale del tempo circolare. La progressione del tempo lineare,
frazionata negli innumerevoli lampi del presente, viene contemplata nel momento stesso del suo apparire già nell’evidenza della morte e della dissoluzione.
Illuminante è già il titolo, felicemente ambiguo, della raccolta, che realizza
una figurazione ossimorica: presente storico, da interpretarsi (con cautela) o
come l’affiorare e condensarsi della storia individuale e collettiva in una linea
continua e invariabile che si identifica o si dilunga nel presente, o come
l’immagine intravista e quasi scomparsa del presente, il suo guscio vuoto, privo
di sostanza vitale, retrocesso, precipitato nel tempo.
In questa dialettica temporale, la memoria appare, da un lato, come procedimento di archiviazione, certificazione di morte degli avvenimenti passati, e
‘ripetizione’, in quanto continuo riappropriarsi della morte. In Riflesso, la memoria ha proprio la funzione della definitiva attestazione della implacabilità del
tempo, della sua potenza devastatrice ed annientatrice: “Allunga dita affusolate
tra i compagni / d’un tempo, li snida dalle rocce del mio cuore / passandoli
nella più triste rassegna; / me ne contraddice i tratti; ne giudica / e ne equivoca
la ferma attendibilità. / Non ho difese, e non ne cerco neppure, / contro questo assalto...”. E’ da notare che tutta la composizione presenta un lessico bellico
che sottolinea la inesorabilità della guerra scatenata dal tempo (“passare in rassegna”; “con armi”; “non ho difese”; “assalto”; “soccombo”; “rifugio”), i cui
effetti vengono anche evidenziati dalla contrapposizione dei tempi verbali:
“perché quel che fui, tra i compagni, è scomparso /e quel che sono è triste, triste”.
D’altra parte, però, la memoria è l’attualità dell’essere, l’eterno presente,
la vitalità e la totalità dell’esperienza rifluente nell’esistenza.
La globalità temporale è attualizzata dalla ‘memoria inconscia’, legata alle
profondità, al fiume oscuro dell’essere (e che, in qualche modo, si spinge a
comprendere la memoria della stirpe, la memoria collettiva -come è già stato
notato nella sezione 1.2.2., a proposito della composizione Se nella memoria
d’uno); è la memoria che sboccia nel sogno: nelle visioni oniriche ma anche nelle
fantasie poetiche, nelle architetture letterarie e
172
nelle raffigurazioni mitiche, e che si estende in quello che la psicologia contemporanea (Schneider), utilizzando la concezione einsteiniana del tempo come
quarta dimensione dello spazio, ha definito “il tempo-spazio”, il continuum quadridimensionale legato ai meccanismi primari della psiche (E’ veramente
straordinario che Antini giunga, per penetrazione poetica, alla stessa formulazione della connessione spaziotemporale: “prendiamo il punto / pencolante /
tra un dove e un quando / dove nel dove non puoi non leggere dei quando”,
in L’esatto punto del presente).
L’ambivalenza caratterizza anche l’essenza del presente. Il momento che
fugge può apparire potentemente suggestivo (cfr. la balenante immagine della
“gioiosa giovinezza” che “tutta si scamicia”), può rivelare la carica di attrazione
e di vertigine che agisce sul soggetto lirico, anche se la memoria annientatrice,
antagonista del momento presente, può dissolvere la bellezza che fluisce (“ ... la
memoria / si accanisce con armi inedite al mio balcone, / mi sottrae diorama e
panorama / mi priva d’una bella chioma d’albero, del mare / che sempre
ammicca con ironia, / del viavai delle fanciulle che si cullano / nella grazia della
loro temporanea eternità.”, in Riflesso), ed anche se la prefigurazione delle
“colme estati” viene vanificata ed annientata, per cui la “stagione / che ci appartenne a maggio, con rose e tutto, / ... a giugno già declina nella notte, principiando” (Stagione).
Ma altre volte gli eventi del presente sono vissuti come aggressione e
violenza fisica e psichica, come “urlo e furore” o, almeno, come confusione,
caos, inessenzialità.
Anche il ritmo del tempo viene attratto nella prospettiva dialettica o antitetica: esso è soggetto alle opposte sollecitazioni della fluidità, della vorticosità,
da una parte, e, dall’altra, del rallentamento e quasi dell’immobilità (situazione
resa nel raddoppiamento etimologico: “ ... E’ un viaggiare lento, rallentato / ad
arte da un dio...”, in Naufragio, e nell’ossimoro: “ ... viaggiare, in sosta, sulla slitta
del tempo.”, nella composizione inaugurale di Tempo II).
Quando viene immesso nella dimensione della totalità dell’esistere, della
dilatazione mitica, il movimento temporale è solo apparente, è soggetto a ciclici
ritorni: “... enumera risacche sciabordii riflussi /ed altri apparenti modi del
moto escogita / perché la vita tutta sia mostrata...” (All’inconsolato lamento dei pianeti), così che la linearità si trasforma in circolarità.
D’altra parte, la vorticosità, la violenta accelerazione dei ritmi temporali
possono condurre al black out totale per una sorta di cortocircuito
173
esistenziale e di civiltà, come appare in Nomi. In questa composizione la compresenza (e la dialettica) delle due prospettive temporali è evidentissima, rispecchiando le modalità formali esaminate in precedenza. Il “sentimento” della
morte e della forza annientatrice “del tempo” viene vissuto con profondo strazio, ponendosi in antitesi con il tema della mitica figura femminile (che incarna
la pienezza, anche fisica, della vita) che sarebbe stata ardentemente appetita dai
“complici assenti”, e contro la quale si indirizza la ‘vendetta’ (“... Ho tre più o
meno o quattro / frecce per colpire”) dell’io lirico diviso e dilaniato tra le opposte visioni della totalità vitale e della egualmente totale irrevocabilità della
morte. In questa dimensione esistenziale è impossibile trovare un punto di riferimento: i parametri temporali sono vorticosamente dilatati e moltiplicati (“... Il
tempo /ha tre lancette o quattro sul quadrante / improbabile...”), risultano, alla
fine, impazziti, illogici, bloccati (“lancetta appena mobile, improbabile”) e condizionati dalla follia e dalla violenza della civiltà occidentale (“Occidente insano”
e, ironicamente, “piano”) che, pure, rappresenta lo scenario sostanziale
dell’esistenza.
La raffigurazione della morte appare nodale, centrale nell’universo tematico di Presente storico (ed, in modo anche più marcato, della raccolta parallela
Natura di pronome), si colloca al punto di confluenza o di intersezione delle due
diverse visioni del tempo, evidenziando il paradosso logico dell’estrapolazione
dell’evento luttuoso dal continuum temporale nell’ellissi o nella circolarità della
memoria (mitica), di modo che il principio dell’assenza diventa ricordo di una
presenza ricorrente, e, tuttavia, la carica di dolore e di strazio che accompagna
la nominazione dell’evento della ‘scomparsa’ potenzia l’ineluttabilità del tempo
storico.
Il tema del tempo e della “memoria incessante”, legato alla figurazione
della morte, è implacabilmente latente, presente e nascosto insieme; è l’idea ossessiva e sempre allontanata e rimossa che trova strade e varchi inattesi, imprevedibili per manifestarsi: è presente nella nominazione degli assenti (come si è
visto, in Nomi), nella prefigurazione del mortale pericolo (Tu ed io), nella situazione di distacco dal figlio (Due elegie).
Le fantasie letterarie, le figurazioni mitiche femminili (o infantili), le avventure oniriche riconducono fatalmente alla dimensione dell’infanzia, dello
spazio protetto e riparato (in opposizione allo spazio esterno, e nemico, del
mondo), al recupero di un tempo totale, alla riconversione del tempo lineare in
tempo circolare (o, se si vuole, alla inversione di direzione della freccia del tempo nel tentativo di allontanare o esorcizzare la morte).
174
La vita speculare, la scena teatrale, il balletto pronominale hanno la funzione di
uscire dalla ‘corporeità’, di costruire un ‘doppio’ illusorio e protetto dalla vita.
Bisogna a questo punto avvertire che le modalità stilistiche ed i nuclei
tematici individuati ed esposti, per comodità d’analisi, quasi sempre separatamente, a livello di descrizione molecolare, presentano nei testi collegamenti e
interazioni fittissime ed illuminanti che certificano la globalità vitale e la profonda dialettica delle composizioni, di un paio delle quali si proporrà una lettura
complessiva per documentare la precisione e la complessità del funzionamento
stilistico-semantico della poesia di Antini.
La concentrazione e il rispecchiamento dei moduli stilistici e delle componenti tematiche del testo Quando gli occhi sono mari fondano un sistema semantico coerente e bilanciato.
La replicazione accanita dei lessemi “tempo”, simmetricamente collocati
nella fascia centrale della composizione (nel 4° v. la ripetizione a contatto con
ripresa esplicativa: “ ... il tempo, il tempo che si fissa / entro battiti di morte e
temperate forme”; nell’8° la ripetizione a distanza con valore negativo o antitetico al precedente: “...non ha tempo...”; nell’11° v. la ripetizione quasi a contatto
con valore egualmente oppositivo tra i due termini: “ ... un tempo, lo strappa al
tempo”) presenta il motivo temporale nella diversità delle sue attribuzioni e
manifestazioni, coniugandolo strettamente ai temi della morte, della figurazione
mitica, dell’amore, dello specchio e dello scambio pronominale.
La risonanza psichica dell’immagine femminile (la cui durata “oltre i
giorni e le parole” è rispecchiata nella ricorrenza allitterativa “...Di Lei L’oDore
Dura”) rivela per contrasto il tempo progressivo che si svolge “entro battiti di
morte, il tempo che ristabilisce la sua funzione distruttiva e mortale in opposizione alla dimensione protettiva, nutritiva ed atemporale della mitica figura
femminile-materna (“Ecco si muore, senza più quel seno. E’ amore /quello che
dunque un po’ fremendo viene. /E’ amore e non ha tempo. Viene / lieve
sull’ala dell’aliante, svola / su basse nuvole e poi stacca / ritmicamente un tempo, lo strappa al tempo / che ci contenne, ci preme...”) la cui forza salvifica
(evidenziata dal raddoppiamento epanaforico di “E’ amore” ed epiforico di
“viene”) si oppone alla distruttività della morte (sottolineata dalla figura etimologica “morte-muore”). E’ la sintonia con la mitica immagine, è l’amore - nel
senso più ampio - che può affrancare col suo volo dalla prigione del tempo (e
la gremita serie
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allitterativa “Lieve suLL’aLa deLL’aLiante, svoLa” - in cui appare la diffusione della sillaba radicale del volo, il quale anche dal punto di vista lessicale aggrega un ampio campo semantico: “ali, lieve, aliante, svola”, avvalorato dalla figura
etimologica “ala-aliante” - sottolinea il movimento ascensionale), che può staccare un tempo ritmico, ciclico, dalla linea temporale che si prolunga dal passato
al presente (come le forme verbali “contenne-preme”, legate, tra l’altro,
dall’assonanza e dalla sinonimia, segnalano).
Infine, il tema del rispecchiamento, coniugato allo scambio pronominale
(lei-tu), si svolge attraverso la serie delle replicazioni dei segmenti testuali (e della
pronuncia interrogativa) e delle progressive variazioni ed antitesi: la domanda
sull’identità della figura mitica (“Ma tu chi sei?”) si trasforma in quella (“ ... Tu
sei?”) sulla sua esistenza — con la variazione del significato del verbo essere - e
poi nel dubbio (“…O non sei / altro che l’altro di te in cui mi specchio?”) che ella
non sia che il riflesso di un alter ego, in cui l’io lirico si rispecchia (e il profilo della
serie speculare fonico-sintattico-lessicale fa balenare, sul piano tematico, un rimando di specchi all’infinito).
Un altro testo in cui si manifestano in modo marcato la dialettica (e la
contaminazione) tra le diverse prospettive ed emergenze temporali, e il rispecchiamento o il collegamento delle figure del significante e di quelle del significato è Pioggia.
La fin troppo accanita volontà costruttiva fa sì che il testo diventi quasi il
pretesto di riprese contrappuntistiche, di motivi che si alternano e alla fine si
congiungono dando origine alle folgoranti metafore del “tempo-pioggia” e del
“filante tempo”. Le tre linee dei “fili”, della “pioggia” e del “tempo”, attraverso le replicazioni e le variazioni, alla fine si fondono, disegnando un quadro di
dilatazione temporale e spaziale.
L’effetto fonico (la gremita ricorrenza allitterativa della liquida /1/ per
22 volte e della dentale /t/ per 26 volte, sui 252 fonemi della composizione,
per cui i due fonemi totalizzano una frequenza altissima: 1/5 sul totale),
l’accanita replicazione delle parole tematiche: “fíli” (5 volte), “filante”, “tempo”
(4 volte), “pioggia” (2 volte), “umido” (2 volte) appaiono come l’equivalente
fonico-sintattico, come una straordinaria metafora ritmica, dell’aspetto visivofigurativo (“FiLi sgomitoLa da tempo La pioggia, di naiLon./L’intrico fitto
ha inghiottito umidi giorni /e bevuto cicaLanti notti dagLi occhioni Lucenti.
/Ma soLo fiLi di naiLon durano. FiLi esiLi./(Dove s’è ceLata L’attività? Tra i
fiLi /sparita, negata dai fiLi? È’ iL tempo umido / che ce La sottrae, iL tempo-pioggia, iL fiLante tempo?)”).
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A sua volta, la figurazione è slegata dal dato puramente referenziale, dal
fenomeno naturalistico, così che viene realizzata con la tessitura fonico-sintattica,
come in laboratorio, una struttura artificiale, una straordinaria architettura letteraria (cfr. il riferimento alla sostanza sintetica: il nailon in cui è mutata la pioggia).
Viene attuata, insomma, una sorta di trasmutazione alchimistica: la naturalità è trasformata in artificiosità, in sinuosa mitologia poetica la quale inghiotte,
cancella il tempo dell’attività quotidiana (ma con qualche rimpianto o esitazione,
individuabili nella forma interrogativa), blocca il movimento del presente e lo
sostituisce con una dimensione totale, dilatata del tempo, attuata per mezzo del
rallentamento, della sospensione temporale.
Un altro esempio di elaboratissima costruzione di fantasia poetica, di invenzione e di illusione dell’oggetto letterario, è rappresentato da Verso il centro
della Rosa.
E’, per dirla pasolinianamente, una “poesia in forma di rosa”, una figurazione linguistica e letteraria, una sorta di onomatopea visiva, che inventa e
replica la gremita struttura della rosa sul piano gremitissimo dei raddoppiamenti lessicali e delle immagini letterarie, ma i riferimenti, i riecheggiamenti di
luoghi letterari sono tutti impliciti, vengono tutti riassorbiti senza residui nella
‘forma letteraria’ (da Dante ad Eco, da Eliot al rilkiano “innumerevole fiore ...
corpo fatto sol di luce”, Sonetti ad Orfeo, VI, II parte). Si può affermare che la
letteratura della citazione, che caratterizza le precedenti raccolte di Antini fino a
Gli Arcadimenti, si è tramutata in pronuncia espressiva, in assoluta modulazione
letteraria.
La figurazione mitica che “ci giunge... dal tempo della rosa” (che presuppone, appunto, una inversione temporale, un’uscita dalla tangente del tempo
storico) è avvalorata e sostenuta da un’altra figura miracolosa, mistica o mitica
(“il bambino venuto dagli astri / e che coabita / ora nel giardino con me, o
con la vita / e mi contiene...”), una sorta di Gesù bambino o, almeno, un emblema di innocenza e dell’eterna fanciullezza, con la capacità di vedere la vita
con occhi ingenui (in cui è, forse, ravvisabile anche l’accenno al “fanciullino”
pascoliano), che evoca uno scenario di sospensione del tempo.
Sul piano del mito (di una mitologia personale, ma anche di proiezione
collettiva) campeggia la raffigurazione di un’entità femminile nella quale confluiscono molteplici connotazioni e proiezioni psicologiche.
Questa mitica figura femminile che ricorre nelle pagine della raccolta appare quasi l’archetipo della donna, della femminilità in senso esteso, che
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comprende anche la figura protettiva ed amorosa della madre, e forse è anche
la proiezione della poesia. Verso questa immagine l’io lirico assume una posizione di ambivalenza, essendo soggetto alle due forze contrapposte
dell’avvicinamento e dell’allontanamento, dell’attrazione e del riserbo o del distacco. Così avviene, per esempio, in Sopra una piana colma di nebbie (“mi tiro da
una parte... e lascio / un vuoto fedele e caro tra me e lei”) in cui si realizza
l’identificazione tra una città (Modena, slegata però dall’individuazione puramente referenziale) e una signora dalle “benevole braccia” (la presenza affettuosa e protettiva). La composizione che, all’inizio, prospetta l’identificazione con
assoluta precisione e coincidenza (“ ... tenera signora città”), lascia poi intravedere l’autonomia dei due termini della connessione, pur non attuando la disgiunzione tra essi (“Se sia città... o sia signora / ... non posso... / dire...”), prefigurando, comunque, per la città uno spazio interno, protettivo ed accogliente,
opposto allo spazio esterno, nemico o indifferente (“ ... una piana colma di
nebbie, caligini, veli”). Altre figure mitiche femminili, con il loro potere di attrazione in una sfera di atemporalità e di profonda risonanza psichica, sono presenti in alcuni luoghi della raccolta: (Ma è pavesianamente), Allo specchio, Gioiosa giovinezza, La Sala (oltre ai già toccati Nomi e Quando gli occhi sono mari).
Nella prima composizione sono evidenti lo stretto collegamento tra
mito e letteratura, in quanto la figura femminile appare nell’alone degli echi pavesiani e zanzottiani (La Beltà), e la duplicità della situazione: la ricerca e la dissolvenza.
La figura femminile della Sala, evocata in un’atmosfera rarefatta tra il
balenìo delle “vaganti luci” e l’eco di sfumati suoni e voci, e fluente
nell’evanescenza (delineata dal ricorrente lessico di negazione: “non traversa...
nell’immoto ... ti sottrasse... non odi ... muori”), si inserisce quasi in una dimensione teatrale, si muove su una scena allusiva e astratta o in incantato mondo
sognato.
La vicenda onirica rappresenta, ovviamente, la regressione, l’inserimento
nella dimensione dell’inconscio (la “coscienza degradata”, nell’espressione della
lirica Presente storico), nella cronologia circolare della profondità dell’essere. Il
sogno appare a volte come una fuga, un riparo (non sempre sicuro) dalla violenza del tempo e della memoria cosciente (cfr. “Dopo gli assidui, inutili ripari
/ nei labirinti vaghi del sogno, la memoria / si accanisce con armi inedite al
mio balcone” in Riflesso), a volte come l’immissione in una dimensione temporale non legata alla progres178
sione implacabile, ma aperta a inversioni folgoranti, a lunghissimi flash-back, a
identificazioni straordinarie (in cui vengono annullate la linearità cronologica e la
diversità delle condizioni psicologiche ed esistenziali).
Ciò appare, con la massima evidenza, nella situazione onirica rappresentata in Presente storico, in cui si realizza l’identificazione tra l’io ‘narrante’ (“ ...
adulto /mummificato, livido /e di nostra vecchia conoscenza...”), retrocesso,
nel sogno, all’età preadolescenziale (“ ... fanciullo mummificato, livido / e di
nostra vecchia conoscenza...”), e il figlio, preadolescente nel presente della
composizione, in una sorta di sovrapposizione di “ ... trama / sulla trama del
velo, rete su rete...”.
Come lo spazio onirico, anche il teatro è un ‘luogo’ privilegiato nella
poesia di Antini. L’evento scenico è la ripetizione della vita (o, meglio, della ‘vita
della fantasia’), ma anche la sua straordinaria differenza. E’ la rappresentazione
di atti, gesti, emozioni slegati dalla connessione di esistenza, dal fluire del tempo,
dalla collocazione nello spazio della realtà e immessi nell’astrazione del tempo e
dello spazio illusori.
Dalla creazione della nuova dimensione spazio-temporale proviene il
gioco delle ellissi e delle inversioni temporali e quello delle finzioni spaziali. La
dialettica tra il tempo e lo spazio diegetici ed extradiegetici, ossia tra le dimensioni della storia rappresentata e quelle della rappresentazione scenica, è - come
si afferma in All’inconsolato lamento dei pianeti – “l’abile rito della ribalta”, ripetizione e rispecchiamento ma anche allontanamento dell’evento (resi anche dal
punto di vista fonico dal quasi perfetto anagramma ABiLe RITo - RIBALTa).
Anche lo specchio, come il teatro, è il riflesso, il ‘doppio’ della vita: è il
luogo dell’immagine virtuale, dell’annullamento della corporeità, ma anche della
sorpresa e della rivelazione dell’io di fronte al mondo parallelo dell’immagine
riflessa. Il soggetto assume un duplice atteggiamento: il primo, di ricerca o di
individuazione della propria identità di fronte ad uno strumento che rimanda,
oggettivandola, l’immagine. “O specchio specchio! Chi dunque? Son io” interpella la voce recitante di Allo specchio, alla ricerca di un riferimento stabile, di una
risposta che non viene (e i fenomeni di duplicazione sintattica: il vocativo speculare, la doppia interrogazione con scambio pronominale, oltre all’allusione
ironica alla favola di Biancaneve: “Specchio delle mie brame, chi è la più bella
del reame?”, sottolineano il rispecchiamento, l’inquisizione e la retrocessione nel
mondo infantile).
La seconda prospettiva del soggetto lirico è quella della fuga di fronte
all’invadenza, alla brutalità del tempo (e della memoria del tempo), del
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“naufragio” in uno spazio intemporale ed illusorio, in un “riflesso” del fluire
della vita: “ora soltanto mi accorgo che infilarsi/ dentro uno specchio è l’ultimo
/ atto di salvataggio nella peregrinazione” (Riflesso).
Nello ‘scenario’, delineato dalla poesia di Antini, di fluidità delle prospettive temporali, dell’accelerazione o rallentamento dei ritmi storici,
dell’evanescenza delle collocazioni spaziali (si è già notato che Antini non descrive luoghi: le città, i panorami appaiono come spazi ‘astratti’, sono riconducibili
ad una topografia puramente mentale), delle incertezze esistenziali e ‘culturali’, è
naturale che le forme pronominali diventino gli indicatori più sensibili della situazione del ‘mondo rappresentato’. (A margine, e resistendo alla tentazione di
approfondire qui ulteriormente il complesso problema, si vuole rammentare
almeno che la seconda raccolta di Antini, Gioconda & Io, accampa sin dal titolo,
come protagonista, il pronome di 1? persona singolare, e che un’altra sua plaquette, pubblicata quasi contemporaneamente e per molti versi complementare a
Presente storico, è sintomaticamente intitolata Natura di pronome).
I pronomi - come afferma E. Benveniste - sono “segni ‘vuoti’ ... che diventano ‘pieni’ non appena un parlante li assume in ogni situazione del suo discorso... E’ identificandosi come persona unica che pronuncia io che ciascun
interlocutore si pone alternativamente come ‘soggetto’ “. (Cfr. “La natura dei
pronomi”, in Problemi di linguistica generale. Milano, Il Saggiatore, 1971, pp. 304305).
Lo scambio delle forme pronominali di 1a e 2a persona singolare denota, quindi, la crisi della soggettività, la fluttuazione o evanescenza dell’ego: il ‘tu’
diventa nient’altro che la proiezione labile ed evanescente dell’ ‘io’, privato della
sua consistenza e durata, dissolto quasi nel flusso e nella metamorfosi del tempo, non inseribile durevolmente nelle coordinate storiche e spaziali.
Alla luce di queste osservazioni può essere compreso il valore, nella raccolta, degli indicatori pronominali che prospettano il rovesciamento tu-io, in
quanto l’io si sdoppia nel tu (“ti sorprende”, “io a volte inclino a un verso”, “io
che mi perdo”, in Tu ed io), l’incapacità - o indifferenza- ad identificare
l’appartenenza del corpo all’io parlante (“il corpo, mio forse, che si srotola...”,
in L’attimo), l’interscambiabilità o confluenza della destinazione della comunicazione (“ ... là dove lui /a tratti si confessa/ con un tale, che sia io / o lui non è
importante ed anzi è uguale.”, in L’Amico assente), la fluidità dell’esperienza non
riconducibile ad un soggetto ben definito (“…E si agita / lietamente il destino
delle trasformazioni. / E non
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hai più sonno. Indaghi”, in Il mattino, l’interrogarsi sulla propria identità (“ ... Chi
dunque? Son io?”, in Allo specchio; “Ma tu chi sei? Tu sei? O non sei / altro che
l’altro di te in cui mi specchio?”, in Quando gli occhi sono mari, in cui è decisivo il
rispecchiamento pronominale).
E’ evidente lo scacco di un pallido ‘io’, fantasma vagante nelle zone più
rarefatte e lontane dell’esistere, fluttuante in una sorta di limbo della condizione
umana e continuamente attratto dai vaporosi e biancheggianti paradisi
dell’infanzia, dal mondo illusorio degli specchi, dalla vertigine nebulosa del sogno, dagli intricati sentieri dell’inconscio personale (e collettivo).
Sulla ‘scena’ del mondo si muove un ‘io’ alienato, disperso, ‘inondato’
dagli oggetti, sollecitato dai crudeli meccanismi della ‘civiltà tecnologica’, e immesso nella vorticosa, pluviale foresta del linguaggio in cui vive e rivela la frattura e la nevrosi, l’attrazione e la repulsione del nostro tempo.
Luigi Paglia
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LA TAVOLA DI TRINITAPOLI
Ordinamento fiscale di Valentiniano I - (365-375 d.C.)
La “Tavola” in marmo pregiato fu rinvenuta verso il 1968/69 durante i
lavori di scasso per l’impianto di un vigneto in contrada “Chiavicella Grande”
in prossimità della Stazione Ferroviaria di Candida (tratta Bari-Foggia) in una
necropoli a circa metà dell’ampia strada che congiungeva il sito Salapia Romana
(Monte di Salpi) con Canusium, centro della “Civitas Canusinorum”, ad un
terzo di distanza circa da Monte di Salpi ed a due terzi dalla collina di Canosa,
recentemente chiamata “Città Dauna” per gli innumerevoli ritrovamenti archeologici della civiltà dauna.
L’iscrizione, per quello che è dato sapere, copriva una tomba terragna
con la parte iscritta rivolta verso l’interno, il che ne ha permesso la conservazione fino al momento del rinvenimento. Ritrovata frantumata in cinque pezzi, la
“Tavola” fu consegnata alle Autorità Comunali, che l’affissero nell’androne vano scala dell’antico palazzo della sede comunale, storicamente noto come la
“fabbrica più antica” del feudale Casale della SS. Trinità (chiamato Trinitapoli
dal 1862 per Regio Decreto) che tra il tredicesimo e quattordicesimo secolo
costituiva un “allibergo”, munito di torre di guardia per avvistamento e difesa
del Borgo dai pirati Saraceni, appartenente al feudatario Ottavio Affaitati, che
vi teneva anche una ricca guarnigione di soldati. Ampliato nel 1400 all’epoca dei
Conti della Marra, il “castello della Trinità” passò nel sedicesimo secolo alle
dipendenze della giurisdizione dei Cavalieri di Malta e divenne libero da vincoli
feudali nel 1798.
La foto visualizza l’epoca dell’affissione della “Tavola” in tale sede. “La
Tavola” fu affidata per la pulizia ad un muratore del posto, che non
183
184
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trovò di meglio che sottoporre la preziosa lastra ad un disastroso lavoro di
smerigliatura meccanica.
Com’era organizzata l’Amministrazione pubblica dell’APULIA CALABRIA nel IV - V Secolo d.C.? Di ciò si parlò durante la conferenza tenuta
nell’Archeoclub di Trinitapoli nell’anno 1983 dal Prof. Francesco Grelle
dell’Università di Bari, che trattò il tema “La Tavola di Trinitapoli; Ordinamento fiscale di Valentiniano I”.
L’oratore confessò che “la lettura dell’epigrafe sembrava all’inizio veramente disperata. La lastra, ben pulita da mano inesperta, ha assunto nella sua
superficie originaria un andamento quasi ondulare.
Si sono salvate alcune “isole”, come lo sperone superiore, forse lì il muratore non arrivava o ha insistito poco, il risultato è che oggi della pietra, a prima vista, si può leggere poco o niente. Lavorando con centinaia di fotografie,
calchi in carta e calco plastico, abbiamo (Io e il collega Andrea Giardina
dell’Università di Palermo) recuperato il settantacinque per cento (75%) del testo originario e, dal momento che abbiamo individuato i caratteri, il contesto,
l’epoca, lo stile e l’andamento del discorso, possiamo procedere a soddisfacenti
integrazioni anche per il restante venticinque per cento (25%), che non riusciamo a leggere”.
L’iscrizione è annoverata come una delle più importanti dell’epigrafia
della APULIA et CALABRIA. Si pensa, a dire degli studiosi, che sia la più ampia dell’intera regione su supporto litico ed è seconda per lunghezza all’Albo
Canusino e l’iscrizione della Lex Municipii Tarentini, che però sono incise su bronzo.
Dal punto di vista della storia costituzionale ed amministrativa del tardo
Impero è uno dei documenti epigrafici più interessanti, perché ci conserva una
“Costituzione”, una legge imperiale non pervenutaci neppure mediante il Codice Teodosiano.
In base al profilo della storia specifica del territorio, poi, la “Tavola” ci
permette di chiarire che quest’ultimo, e più in generale, quello delle Province
dell’Italia Meridionale, era organizzato in “pagi”, sottoposti a “praepositi pagorum”.
Secondo l’indagine culturale condotta dal Prof. Francesco Grelle
dell’Istituto di Diritto Romano dell’Università degli Studi di Bari, pubblicata su
“L’Ercole Francaise, de Rome Tome 95-1983- “l’scrizione proviene dal centro
urbano di Canusium e deve essere arrivata nella zona di ritrovamento dal settimo al quattordicesimo secolo, perché è il periodo in cui quest’area conosce
un’occupazione delle campagne che può aver
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giustificato la riutilizzazione della pietra per coprire una tomba campestre. La
lastra a forma di rettangolo cuspidato verso l’alto misura al vertice m. 1,40;
lungo i lati minori m. 0,75; e lungo gli spigoli verticali m. 1,28 e m. 1,20.
Lo spessore è variabile da cm. 5 a cm. 3. - A seguito della pulizia la
“Tavola” ha assunto nella sua superficie originaria, un andamento quasi ondulare. - La lastra è coperta per due terzi dalla scrittura. Avanzano in basso 44-45
cm. che non sono stati erosi dallo smerigliatore, ma erano cosi in origine, privi
di segni.
Il discorso, che si ha davanti, pare, sia la parte finale della “Costituzione”
e, dal momento che non si può immaginare una lastra più alta di questa preziosa lapide, si deve pensare che la “Tavola” ritrovata è solo una di quelle che in
origine contenevano l’intera legge. - Il testo complessivo, che si riporta a parte,
è di 34 righi di diversa lunghezza, comprendenti dalle 65 alle 75 lettere, posti
sullo sperone dei primi cinque righi si sono potuti recuperare solo pochi frammenti. Dalla quinta alla nona-decima riga abbiamo un primo brano di lettura. Si
parla di “praeposti pagorum”, cioè si dice sostanzialmente che i preposti ai pagi e i
loro collaboratori ai granai dovranno preparare dei registri attraverso i quali si
possa fare un’ulteriore documentazione da inviare al Governatore, che serva a
controllare quanto ciascun contribuente ha pagato ed in quale forma (denaro e
derrate).
Per la prima volta si riesce a sapere anche in Italia della esistenza dei
“pagi”.
Infatti i preposti ai pagi erano conosciuti in Egitto, in Oriente, ma non
da noi; si riteneva che qui non avessero trovato spazio nell’organizzazione amministrativa; ora si sa da questa “Tavola”, che essi esistevano anche da noi e in
tal modo i Romani lottavano contro l’evasione fiscale.
Il testo, che doveva essere sottoposto anche ad una indagine termofotografica presso il CNR (Centro Nazionale Ricerche), come assicurato, all’epoca,
dall’Ispettrice Maria Luisa Nava, della Soprintendenza di Foggia, ci dice poi che
il Governatore della Provincia, ricevuti i registri (trasferiti con un documento
scritto all’Ufficio competente dal “Tabularius civitatis” - archivista o segretario
generale -, doveva girare per i pagi ad ispezionare se vi fossero state disfunzioni
tra la riscossione delle imposte ed il loro versamento all’Ufficio del Governatore e questa è un’altra novità: l'adventus, l’ispezione.
Il testo continua dicendo che “I Governatori delle Province, ricevuta
questa informazione, comunicano il giorno ed il luogo della loro ispezione,
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interroghino attentamente ciascun contribuente e controllino le ricevute di pagamento, affinché non sia possibile che una qualche parte del tributo venga nascosto.
O Prodo, rendi immediatamente pubblico questo provvido decreto dei
luoghi più frequentati di ciascuna città.
Con questo rimedio si provvederà ad eliminare quelle frodi che così
ampiamente si sono diffuse a causa delle perfidia degli esattori e degli Uffici
che si lasciano corrompere.
Eliminata la corruzione, immediatamente venga calcolato ciò che il contribuente ha versato nel granaio pubblico.
Non vengano mai sottratti gli arretrati d’imposta, a nessuno venga imposto il gravarne di un altro, ma sotto ciascun nome di contribuente risulti chiaramente attraverso i registri nominativi quelle che per le vecchie annate non è
stato pagato”.
Quindi la parte finale o “clausola di pubblicazione” è quella con il vocativo della persona cui è affidato il compito di divulgazione: “O Prodo...”.
Ma chi era questo Prodo?
Certamente un Prefetto del Pretorio o Prefetti del Pretorio.
Con questo nome tra il IV° e V° secolo conosciamo solo Petronio Probo, che ha tenuto più a lungo la carica di Prefetto in Italia tra il 365 e il 372 d.C.
(una prima vola) e per altre volte, ma in periodi brevi, intorno al 380.
Approssimativamente, questa “Costituzione” della ‘Tavola” di Trinitapoli va ricondotta alla prima Prefettura secondo gli studiosi Professori Grelle e
Giardina, perché tutta la normativa su di essa predisposta si inserisce in un disegno generale di riorganizzazione dell’Ordinamento fiscale, che si conosce nella
sua generalità attraverso il Codice Teodosiano, attribuibile, appunto, a Valentiniano I e databile tra il 365 e il 375 d.C..
Certo la “Costituzione” ci permette d’integrare ed ampliare le nostre conoscenze sul tipo di struttura economica della zona, perché se essa è esposta
con tanta cura sul marmo, (altre lo erano su legno e su stoffa), vuol dire che
l’utilità della stessa, la funzione sul territorio era enorme. Si parla di “Horrea
publica”, pubblici granai, il che fa supporre che l’economia prevalente della
zona ruotasse intorno al grano!
Il testo si chiude con alcune righe sulle quali la mano inesperta del muratore ha completato il disastroso lavoro di smerigliatura meccanica. Si può
però asserire che accennava alle punizioni che si prevedevano. Ci si
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aspettava l’indicazione della data che non c’è, ma si può pensare che la data fosse incisa in testa alla Legge, nella Tavola che non è stata rinvenuta. Questo Testo
apre un considerevole spazio di riflessione sulle vicende di quest’area del Basso
Impero.
Ci si può chiedere, per esempio, se anche l’organizzazione ecclesiastica
dei primordi non abbia conservata anch’essa delle tracce di
quest’organizzazione dei pagi.
Ma sono tutte ipotesi, studi da approfondire, stimoli per indagini e ricerche storiche che provengono da questa “Tavola di Trinitapoli”, ora custodita
dall’Archeoclub d’Italia, sede di Trinitapoli, e allocata nel Deposito di materiali
e reperti Archeologici attualmente esistente presso il Villaggio del Fanciullo di
Trinitapoli. La “Tavola” è sistemata su un supporto, all’uopo costruito, che ne
consente una completa visualizzazione ed è richiesta da studiosi di tutto il mondo; recentemente anche dall’Accademia Pugliese delle Scienze di Bari per la sua
esposizione nella prestigiosa mostra “Canusium” presso il Monastero di S.
Scolastica in Bari.
Enrico Mazzone
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Recensioni________________________________________________
NEL 70° ANNIVERSARIO DELLA FONDAZIONE
DEL PARTITO POPOLARE ITALIANO
UN’INTERESSANTE RICERCA SULLE ORIGINI DEL PPI IN CAPITANATA
Un’interessante ricerca sulle origini del Partito Popolare Italiano in Capitanata è stata pubblicata in questi giorni a Troia dal mensile locale Civitas (il nome della testata trae origine dalla denominazione medioevale della cittadina pugliese, Civitas Troiana) diretto dal giornalista Franco Marasca.
L’elegante volumetto, intitolato ... E sbocciò il biancofiore! (45 pagine, L.
5.000), rievoca avvenimenti e personaggi, alcuni dei quali molto noti, come
l’allora vescovo della diocesi Troia-Foggia, Mons. Fortunato Maria Farina, ma
non per il ruolo che ebbero, 70 anni fa, nella diffusione del nuovo partito nella
Capitanata.
Nella sua agile trattazione, l’autore, Vincenzo De Santis, non perde mai
di vista gli avvenimenti nazionali, all’interno dei quali inquadra quelli locali,
all’indomani del Primo Conflitto Mondiale. Apprendiamo così, come anche in
Capitanata serpeggiassero il malcontento e le frustrazioni per una “vittoria mutilata”, anche qui ci fossero rigurgiti di nazionalismo e i socialisti, sin d’allora,
fossero divisi in lotte di correnti. Un periodo inquieto che il nascente partito
fascista sfruttò per il suo progetto di conquista del potere. E tuttavia, non mancarono i fermenti di militanza cattolico-sociale di cui furono espressioni di circolo “Manzoni”, ubicato nel palazzo vescovile di Foggia, animato da don Giuseppe Patané e don Luigi Cavotta; le associazioni cattoliche di San Severo e di
Cerignola guidate, rispettivamente, da don Felice Canelli e dal professor Tommaso Pensa; mentre a Troia, la fanfara dell’oratorio festivo, fondato dal giovane sacerdote don Luigi Savino, già nel 1918 suonava l’inno Bianco fiore.
Ricca, e per la maggior parte inedita, la documentazione iconografica che
invita il lettore a un vero e proprio tuffo nel passato; ogni singolo episodio infine trova riscontro in note e citazioni di prima mano, come la
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visita di don Sturzo al circolo “Manzoni”, su invito dell’allora vescovo Salvatore Bella (siciliano anch’egli), prima che lanciasse il famoso “Appello agli uomini
liberi e forti”, il 18 gennaio del 1919. “Merito - scrive nella prefazione ’lon.
Donato De Leonardis - è stato proprio quello di risvegliare questi ricordi sopiti
e farli diventare storia, in una descrizione piacevole, corredata da immagini pregevoli”.
F.M.
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Recensioni_______________________________________________
Bovino dal paleolitico all'alto medioevo, Quaderno n. 1 del
Museo Civico "Nicastro", a cura dei Comuovino
Settore Beni Culturali, Bovino 1989. 132 pne di B. tav.
Questo primo Quaderno sostanzia i propositi dei responsabili del Settore
Beni Culturali e di altri volitivi enti locali, da tempo impegnati per una conoscenza sempre più profonda e diffusa del significativo patrimonio archeologico, archivistico ed artistico della pervetusta città.
Conoscere le proprie radici per poter crescere compiutamente è un’idea
che condividiamo senza riserve, soprattutto quando, come in questo caso, la
conoscenza, cui si mira, poggia su basi di accurate indagini documentarie.
Il pregevole volume raccoglie, coniugandone il titolo, il Primo Ciclo di
Conferenze, tenute dal 22 aprile al 15 maggio 1987 da eminenti studiosi della Soprintendenza Archeologica della Puglia e dell’Università di Bari sullo stimolante
tema “Bovino dal paleolitico all’alto medioevo”.
Le cinque relazioni, in uno stile scarno ed incisivo, enucleano ed analizzano reperti e documenti di momenti importanti del plurimillenario passato di
Bovino.
La prima relazione “Bovino nella preistoria: le stele antropomorfe” dell’archeologa Anna Maria Tunzi riferisce su dieci stele antropomorfe inedite, recuperate nella
nota località Sterparo Nuovo al confine tra Bovino e Castelluccio dei Sauri.
L’analisi delle loro caratteristiche strutturali ed espressive induce l’autrice a significative conclusioni. Le evidenti analogie di questi singolari manufatti preistorici
con raffigurazioni del repertorio rupestre dell’arco alpino della metà del terzo
millennio a.C., nonché il riscontro in esse di forti componenti di origine egeoanatolica della stessa epoca, attestano la contemporanea comune matrice ideologica e quindi i legami dell’uomo dell’area vibinate con quello delle altre regioni
dell’Europa centro-meridionale e orientale.
La seconda relazione “Bovino in età romana” di Marina Mazzei della Soprintendenza Archeologica per la Puglia considera la vasta realtà archeologica
dell’area vibinate di questo periodo. La consistenza e la varietà dei reperti recuperati a partire dal ‘600, parte dei quali ora raccolti nell’ordinato Museo Civico,
le menzioni di Polibio e di Plinio, le molte epigrafi, i resti visibili o ancora interrati di rilevanti opere pubbliche consentono alla Mazzei di individuare un momento preciso della romana
193
Vibinum nella fase dell’istituzione municipale della prima metà del primo secolo
a.C. Ma le potenzialità in campo archeologico dell’area vibinate non si esauriscono qui. Il terreno tuttora vergine e i molti depositi non compromessi riserveranno a ricerche mirate conoscenze più precise dell’entità e della importanza
dell’insediamento romano, nel cui tessuto urbano oggi continua a vivere la città.
“Gli aspetti della cultura materiale in Capitanata nel Medioevo” è il tema della
terza relazione. L’autrice, Caterina A.M. Laganara Fabiano, prende in esame i
manufatti fittili inediti di epoca medioevale provenienti dal territorio di Bovino
e da altre località della Capitanata e ne evidenzia l’importanza come strumenti
primari di ricostruzione. Dall’analisi di questi manufatti profluiscono indicazioni
preziose non solo sulle tecniche artigianali e sulla evoluzione del gusto, ma altresì sulle condizioni sociali e sui rapporti economici e commerciali della popolazione bovinese e degli altri insediamenti di Capitanata in un’epoca, come quella
medioevale, piuttosto avara di notizie.
Nella quarta relazione “Contributi alla storia di Bovino nel Medioevo: le pergamene”, il prof. Pasquale Corsi dell’Università di Bari espone i risultati di una sua
prima rigorosa indagine su 15 pergamene, datate tra il 1100 e il 1390, e custodite nell’archivio capitolare della cattedrale. Esse riguardano le note donazioni
dei conti normanni di Loretello alla Chiesa e al Capitolo della cattedrale, le loro
conferme da parte di re e di papi, nonché altre donazioni, permute e vendite
intercorse tra i due enti ecclesiastici e privati cittadini. Le notizie di prima mano
che se ne traggono sono tante e consistente risulta il loro contributo per la storia medioevale della città.
La quinta ed ultima relazione “Bovino e il romanico pugliese” di Gioia Bertelli
dell’Università di Bari riferisce sui tre più significativi edifici sacri bovinesi: la
cattedrale, la chiesa di S. Pietro e il tempietto di S. Marco. La relatrice vi individua suggerimenti architettonici e scultorei provenienti dall’area campana e pugliese. Rileva altresì che i numerosi elementi scultorei reimpiegati nel rifacimento
della cattedrale (XII-XIII sec.) depongono per la presenza in Bovino di un architettonicamente importante edificio sacro sicuramente anteriore al Mille.
Ad impreziosire il volume, che auspichiamo sia il primo di una lunga serie, contribuiscono le pertinenti tavole illustrative che corredano le singole relazioni. Relazioni che possiamo senz’altro definire cinque insostituibili punti di
riferimento e di riscontro per quanti intendano conoscere o approfondire il
plurimillenario passato di Bovino.
Vincenzo Maulucci
194
________________________________________________________
Recensioni_______________________________________________
Vincenzo MAULUCCI, Il Governo pastorale del Beato
Antonio Lucci OFMConv. vescovo di Bovino (1729-1752): Analisi delle sue “Relationes ad limina”, Roma, Edizioni Miscellanea Francescana, 1989. 180 p. tav.
Per antichissima consuetudine risalente ai primi secoli del cristianesimo, i
vescovi, gli arcivescovi, i primati, i patriarchi, si sono sempre ritenuti in dovere
di recarsi di tanto in tanto a venerare le Tombe degli Apostoli, e a riferire al
Supremo Pastore sulle condizioni del proprio gregge per ricevere consigli e
direttive.
Sisto V con la Bolla Romanus Pontifex del 20 dic. 1585, stabilì tale visita
periodica con obbligo giuridico. Viene detta ancora oggi “Visitatio ad Limina”,
e cioè Visita alle venerate Tombe degli Apostoli, ma è naturalmente legata a
due altre Visite: quella che viene fatta nella stessa occasione al Successore di Pietro nella Cattedra Romana, e quella che lo stesso Vescovo ha già fatto nella sua
diocesi, la Visita pastorale, della quale fa ora relazione al Papa.
E’ durante la Visita pastorale che viene favorito in modo esauriente e specificatamente il diretto contatto tra il Vescovo e il suo gregge, tra il suo clero e i
fedeli del popolo di Dio, realizzandosi le condizioni di un incontro personale,
spesso di parecchi giorni, che rende possibile anche una verifica esauriente delle
strutture e dei mezzi destinati al servizio pastorale.
Buona occasione perché il Vescovo possa lodare, stimolare, confrontare
e spronare gli operai della vigna, rendendosi conto di difficoltà varie presenti, e
portandosi a contatto immediato con le miserie e angustie più disparate dei
suoi figli, il tutto in un aiuto glorioso e paterno.
Il novello beato Antonio Lucci, OFMConv, prescelto a presiedere una
piccola diocesi, qual’è appunto quella di Bovino, centro della Puglia (Foggia) a
646 m. d’alt., presso la stretta gola dell’Appennino meridionale della valle di Bovino, che mette in comunicazione la Puglia con la conca beneventana, realizzò in
pieno quanto ora rilevato.
Bovino ha una bella cattedrale secc. X-XIII, e palazzo ducale (ora vescovato). E’ la Bovinum dei Romani, divenuta roccaforte dei Bizantini, invano assediata da Ottone I di Germania. Fu sede di ducato. Nei suoi pressi è tenuto in
grande considerazione il santuario della Madonna di Valleverde.
195
***
Il Prof. Vincenzo Maulucci, conosciuto al vasto pubblico per alcuni pregevoli studi storici specie riguardanti località della diocesi bovinese, come L'assedio di Accadia del 1462 (Roma 1985, pp. 109, ill.), da qualche tempo ha fatto
precipuo interesse dei suoi studi la figura del pio e dotto Vescovo Lucci. Non
perché ne ritenesse imminente la beatificazione, ma solamente attratto dalla
splendida figura di questo Vescovo francescano conventuale del ‘700. Una figura così ricca e poliedrica, da spronarlo piacevolmente a laboriossime ricerche
d’archivio, iniziate da quello diocesano, e proseguite nell’Archivio Segreto Vaticano, in quello della S. Congregazione dei Santi e altrove.
Disponendo così di un imponente materiale archivistico da lui diligentemente raccolto, e del densissimo volume dei Processi di Beatificazione, egli ha saggiamente e con ammirevole logicità, utilizzato tutto l’insieme, scandendo le opere
e i giorni del Lucci, alla sola ed unica luce dei documenti, i quali ne ravvivano la
figura narrando fatti e momenti tra i più salienti e incisivi del suo lungo governo
(1729-1752).
Tale governo pastorale del Lucci, viene ritmato in ordinatissime e ammirevoli sei relazioni (1729-173l; 1731-1736; 1736-1740; 1740-1744; 1744-1747;
1747-1752), le quali con chiarezza e stile vivace, riescono a fornirci un quadro
oltremodo variegato, che verte dalle condizioni ambientali-spirituali a quelle
socio-politiche, che si dispiegano per circa un trentennio, quanto durò appunto
il magistero Lucciano.
***
La prima relazione (1729-1731), riguarda prevalentemente le condizioni
etnico-geografiche della diocesi, delineandone la consistenza delle famiglie con i
vari fuochi che le compongono, dando una valutazione sullo stato particolare
della vita religiosa dei fedeli, e avvertendo soprattutto, come frutto primario
della sua visita, la costruzione di un Seminario.
La seconda (1731-1736), si sofferma, in modo diretto, sulle condizioni
spirituali e materiali della Casa di Dio difendendone senza astiosa animosità ma
con grande prudenza e verità i diritti, così spesso violati da un pugno sparuto di
signorotti che agivano con una virulenza e prepotenza non comune.
La terza, quella cioè del 1740-1744, si attarda prevalentemente sui fatti
emergenti del quadriennio, come i mutamenti politici del Meridione d’Italia, cui
la chiesa di Bovino appartiene “In Beventana provincia sita”,
196
e cioè l’avvenuta conquista da parte di Carlo III dell’Italia Meridionale, assumendone anche il titolo di Re delle due Sicilie, titolo riconosciutogli
ufficialmente nel 1738 con la pace di Vienna.
Il dimorare per un breve periodo di tempo a Napoli diede modo al
Lucci di interessarsi anche del processo di beatificazione del Padre Bonaventura
da Potenza, OFMConv, e Dio sà con quanta gioia del nostro Vescovo.
E’ di questo periodo il ritrovamento nella Cattedrale di Bovino del corpo di S. Marco di Ecana, Vescovo di Aeca-Troia e patrono della città di Bovino, mentre la situazione spirituale unitamente ad alcune situazioni delicate, il
Santo Vescovo più che alle carte della Visita preferisce spiegarle personalmente
a viva voce alla Congregazione Romana.
La “suspicio pestis”, epidemia che in realtà si manifestò e duramente,
nell’estate del 1743, e infierì specie a Reggio Calabria ed a Messina provocando
circa 40.000 morti, non consentì al Lucci, ormai ultra sessantenne, di recarsi a
Roma, e così la sua Relazione datata “Bovini VIII Kal. Februarii 1744” (=25
gennaio), dopo essersi un pò attardata sull’accennata epidemia, privilegia a lungo questioni di grande importanza relative allo stato materiale e spirituale della
diocesi, originate prevalentemente dall’entrata in vigore del Concordato, tra Napoli e la Santa Sede e la formazione nel regno borbonico del Catasto onciario.
Sono proprio di questo periodo i vari editti emanati dal Lucci per dar
conoscenza delle direttive di Benedetto XIV, il quale doveva dimostrarsi più
presente nella vita delle chiese locali. Accento maggiore è posto anche sulla tutela dei Luoghi Pii e sulla situazione materiale e spirituale della stessa diocesi.
Pur desiderando vivamente recarsi a Roma per la quinta relazione (17441747), anche questa volta non poté farlo perché “aetas et senectus (65 anni)
hyemale tempus et huius dioecesis negotia” non gli consentirono di portarsi ad
“sacra limina deosculanda”. Momenti significativi di detta relazione sono la presenza di S. Alfonso e dei suoi missionari nella terra di Deliceto, e anche una
incresciosa situazione creatasi nella suddetta cittadina a causa di un canonico a
dir poco sobillatore e mistificatore.
La sesta ed ultima relazione (1747-1752) la si può definire come quella
dell’addio. Il pio Vescovo si rivolge al suo clero, ai suoi fedeli e soprattutto ai
suoi numerosissimi e amatissimi poveri, verso i quali, ormai spoglio di tutto, si
privò di quel pochissimo che gli rimaneva, pur di alleviarne le varie sofferenze.
Ribadisce la santità del clero, capace sola di preservare il gregge alle loro
cure affidato; ed è sempre per il clero che egli riserva cure speciali esigendone
però inappuntabilità e rettitudine di comportamento. Perorò
197
energicamente presso il Re di Napoli, in qualità di “padre dei poveri”, affinché
proprio a questi ultimi, e in presenza di una grave carestia, venisse concesso di
poter seminare anche in luoghi demaniali.
Morì in Bovino il 25 Luglio 1752, tra il rimpianto universale di tutta la
sua diocesi e di coloro che ebbero la ventura di conoscerlo.
Il volume del Maulucci in una veste elegante si arricchisce di un pregevole indice analitico ed onomastico, di una preziosa appendice di documenti
vari e pertinenti, di un elenco degli scritti (numerosissimi) del Lucci finora a noi
conosciuti.
p. Bonaventura DANZA OFMConv
198
la Capitanata
Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia
BOLLETTINO D'INFORMAZIONE
della
Biblioteca Provinciale di Foggia
Anno - XXIV
Luglio - Dicembre'87 - Parte II
L'ECONOMIA MERIDIONALE NEL RISORGIMENTO:
LA MASSERIA DI S. SPIRITO DAL 1806 AL 1865
L'antica postafissa di Parite o S. Spirito
"La separazione delle greggi, de' ricchi e potenti, sollecitata dal comune
de' pastori, ed ottenuta dalla clemenza del Savio Ferdinando I d'Aragona, era
necessaria a mantenere illesa la pastorale libertà, ed a sostenere la indipendenza,
ed uguaglianza della industria, senza farsi pregiudizio ai reali interessi; giacché
l'esazione dipendeva dalla sola rigorosa numerazione degli animali, onde
l'accrescere il numero delle locazioni particolari non importava altro, che
anticipare la particolare divisione delle poste, in favore di qualche dovizioso
possessore di animali. Il più antico esempio di questa separazione è quello della
posta di Parite, che fu divisa dagli erbaggi della locazione di Candelaro, per
comodo degli animali del monastero di Santo Spirito de' Celestini di Sulmona;
poiché nell'essersi eseguita la generale reintegrazione, fu dall'estima di quella
locazione dedotto il peso di pecore duemila, e duecento, caricato a quei
monaci, per gli erbaggi della posta di
* Abbreviazioni: A.S.F.: Archivio di Stato di Foggia; A.C.M.: Archivio Comunale
di Manfredonia; A.S.N.: Archivio di Stato di Napoli; d.: ducato/i; t.: tomolo/i; Cav.:
Cavaliere; v.: versura/e; m.: metro/i; Ha.: ettaro/i; C.C.: codice civile; R.R.: Regio Rescritto;
art.: artico lo; L.: lire.
1
Parite, riputata come un'altra particolare locazione; onde da quel tempo in tutti
gli squarciafogli, rimasti nell'archivio della Dogana, quella posta si vede
separatamente assegnata per la stessa antica estima, e nella quantità di carra
ventidue"1.
Con queste parole il De Dominicis definiva le poste fisse e separate
riconoscendo nella posta di Parite la più antica delle poste fisse.
Le poste fisse erano quelle poste occupate ogni anno, per concessione
sovrana o del Tribunale della Regia Camera, sempre dallo stesso locato,
generalmente un grande feudatario o un ente religioso, il quale, sicuro del
godimento annuale della medesima posta, vi aveva costruito un'abitazione
padronale ed altre costruzioni per ricoverare uomini, animali, attrezzi agricoli e
vettovaglie.
Sicuramente le condizioni di vita dei pastori di una posta fissa erano
migliori di quelli delle poste ordinarie, in quanto le prime (poste fisse) erano
dotate di costruzioni in muratura (ovili, case, fornello per formaggi, stalle, etc.)
le seconde erano costruite con ramoscelli e paglie palustri non assicurando che
una minima protezione dai rigori dell'inverno.
Nel 1586 l'unione di tutte le locazioni ordinarie e aggiunte e delle poste
particolari, le quali vennero sottoposte al sistema della professazione volontaria,
non fu applicato, con grande svantaggio per il fisco, su tre poste fisse: la posta
di Parite dei Celestini di Sulmona, la posta di Torre Alemanna della Badia di S.
Leonardo le matine e quella di S. Agata della Badia di S. Maria di Tremiti2.
Il privilegio concesso a questi grandi esponenti della nobiltà e del clero
meridionale fu la causa di ogni tipo di abuso e di speculazione; infatti molti
possessori di poste fisse trovarono molto vantaggioso fittare i loro erbaggi e le
loro greggi in modo tale da lucrare enormemente tra il dare al fisco e l'avere
dai fittuari; questi ultimi per via del regime di professazione non sempre
riuscivano ad ottenere erbaggi a sufficienza per le loro greggi. Con R.D. del
10-5-1747, il re Carlo I I, tra le altre cose, dispose l'eliminazione dei locati
specorati (cioè senza animali) e il fermo divieto a praticare questi
1 - DE DOMINICIS, Lo Stato economico e politico della Dogana di Puglia, Napoli
1781, vol. III, pag. 31.
2 - Ibidem, pag. 34.
2
illeciti traffici, ma come disse anni dopo il De Dominicis tale legge venne
inosservata dai possessori delle poste fisse che continuarono le speculazioni
sugli erbaggi in loro possesso "con sommo pregiudizio dei reali interessi"3.
A dimostrazione di quanto afferma il De Dominicis abbiamo la conferma che nei primi anni del seicento il capitano Domenicantonio De Santis di
Rocca del Casale (piccolo paese vicino Sulmona) risultava fittuario delle pecore
dei Celestini di Sulmona e dei loro erbaggi in Parite4.
Nella raccolta delle passate della lana dell'anno 17815, troviamo che i
Celestini di Sulmona erano possessori di 2.200 pecore e pagavano una regia
fida di d. 341,86; tale pagamento era fatto in tre rate, le prime due al primo di
maggio e la terza al sette luglio.
La produzione di lana di quell'anno fu di rubi 166,9 di lana maggiorina e
di rubbi 56,14 di lana agnellina; inoltre le pecore dopo la tosa, ai primi di
maggio, lasciavano la posta di Parite raggiungendo i pascoli estivi di Sulmona
attraverso il passo di Civitate.
La lana maggiorina venne esportata (forse per Napoli) dal porto di
Manfredonia, mentre la lana agnellina, di scarso pregio come quella nerina,
prese la via di Motta Montecorvino quindi ritornò in Abruzzo per essere
venduta sul mercato locale.
Il ricavo delle vendite fu certamente superiore a d. 1.100, infatti la voce
della lana per il 1781 dava: lana maggiorina d. 5,50 (1ª qualità) d. 5,35 (2ª
qualità) d. 5,20 (3ª qualità) lana agnellina e nerina d. 5,05 sempre al rubbio.
Considerando che la produzione di lana per pecora è di 1-1,5 rotoli di
lana, e che quella degli agnelli (si tratta solamente dei "vernerecci" allevati per la
riproduzione) è di rotoli 0,70-0,80 a capo, possiamo affermare con sícurezza
che in quell'anno a Parite pascolarono oltre duemila capi ovini di razza gentile.
La fida che per secoli era stata esigua, cominciò ad incidere sul bilancio
economico della posta di Parite quando, nel 1789, si diede l'avvio alla
3 - Ibidem, pag. 41.
4 - Ibidem, vol. I, pag. 412 ed anche A.S.F., Dogana, Serie I, volume n. 24.
5 - A.S.F., Dogana, serie V, n. 716.
3
Pianta di posta Parite (1814). (A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 503, INC. n. 2112)
4
Terreni oggetto di pennuta. (A.S.F., Tavoliere di Puglia. fascio n. 504, INC. n. 2126)
5
transazione sessennale che comportò un aumento di d. 8 ogni cento pecore a
titolo di fida ed inoltre un aumento di d. 4 a carra, tale da aversi per Parite il
seguente aumento 6:
R. Fida al 1788
d. 341,68
+ d. 8 per 100 pecore d. 176
+ d. 4 per carra
d. 67,40
Totale
d. 585,26
- 4% di abbuono
d. 23,42
Totale R. Fida al 1789 d. 561,84
Nel calcolo abbiamo verificato che la posta di Parite era di carra 16 e
versure 17 con un carico di 2.200 pecore.
Per quanto riguarda l'estensione della posta abbiamo calcolato carra
16,17 e non carra 22, in quanto in documenti di epoca posteriore abbiamo
appreso che carra 5 della Posta fissa vennero distaccate e date in censuazione ad
un locato ordinario; probabilmente il provvedimento doganale fu preso in
seguito a qualche infrazione al regolamento doganale da parte dei Celestini di
Sulmona.
Con la legge del 21 maggio 1806 i Padri Celestini diventarono censurari
della posta fissa di Parite dell'estensione di carra 16,17 di saldo erbifero,
perpetuando il loro possesso plurisecolare.
La stipula del contratto di censuazione è datata 4-11-1806, l'atto venne
rogato dal notaio Vincenzo Iorio di Napoli7. Il canone enfituetico venne
maggiorato del 10% sull'importo della fida precedente, arrivando alla somma
di d. 618,02 con un aumento complessivo in soli 18 anni, dal 1788 al 1806, di
oltre l'80%.
Il contratto venne stipulato dalla Suprema Giunta del Tavoliere, che era
preposta agli atti di censuazione del Tavoliere, e dal frate Giovanni Presutto
6 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 345, inc. n. 630.
7 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 112, inc. n. 5.
6
procuratore della Reale Badia dei Padri Celestini di Sulmona; nell'atto sono
elencati tutti gli articoli del capitolo II e del capitolo V della legge, riguardanti
l'enfiteusi delle locazioni (terre salde) e le disposizioni generali. Oltre alla
maggiorazione del canone annuo la legge dispose il pagamento di un'annata di
canone a titolo di entratura e la possibilità nell’affrancazione del canone stesso
secondo il dettato dell'art. 4. Infine lo Stato, a garanzia del suo credito,
richiedeva l'iscrizione ipotecaria dei beni immobili di proprietà dei censuari
debitori.
L’anno seguente la contigua posta ordinaria di Parite della locazione di
Candelaro venne censita dei seguenti censuari: 1) Romualdo Valentini di Castel
di Sangro8 per carra 8 versure 5 e catene 15 di saldo erbifero con il canone
annuo di d. 546,12; 2) Ignazio Celentani di Manfredonia9, quale tutore e
curatore dei figli minori del fu Nicola Celentani, per carra 8 versure 8 e catene
21 di saldo erbifero e paludoso con il canone annuo di d. 269,70.
La censuazione dei Celestini fu molto breve infatti con il R.D. del 13-2-1807
l'ordine religioso dei Celestini fu soppresso, e l'1-2-1809 avvenne la presa di
possesso della posta di Parite o Feudo di S. Spirito da parte
dell’amministrazione dei Regi Demani10 che l'affittò per quattro anni al
rnas,saro Vincenzo Barretta di Manfredonia11, ma con i decreti del 9-5-1810 e
del 12-9-1810 la posta fissa passò all'Amministrazione del Tavoliere che riuscì
a darla quasi immediatamente in censuazione ad un privato 12.
8 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 102, inc. n. 535; A.S.F., Tavoliere di Puglia,
fascio n. 38, inc. n. 731.
9 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 101, inc. n. 497; A.S.F., Tavolíere di Puglia,
fascio n. 27, inc. n. 443.
10 - A.S.F., Amministrazione interna, fascio n. 230, n. 750-77, pag. 95.
11 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 44, inc. n. 930.
12 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 42, inc. n. 850.
7
La censuazione e trasformazione agricola della
ex posta fissa di Parite o S. Spirito ad opera di Pasquale Tortora
La prima richiesta di censire la posta fissa di Parite degli ex Padri
Celestini venne fatta da Giuseppe Palatella di Foggia che offri d. 700 od anche
d. 800 ma in tal caso senza addivenire alle subaste ad estinto di candela1.
L'Amministratore del Tavoliere, il duca della Torre Nicola Filomarino
comunicò l'apertura delle subaste che si tennero i giorni 25, 26 maggio e 3
giugno sull'offerta base del Palatella di d. 700. Dopo tre vivaci giornate di
contesa il prezzo era arrivato a d. 930 e 20, ma alla fine, in grado di sesta,
giunse l'offerta di Giambattista Corradi, cassiere della Suprema Giunta, che
offri in più la sesta parte dell'ultima offerta cioè d. 155,03 e 1/3 che davano
complessivamente d. 1.085,23 e 1/32.
L'offerta del Corradi, che agì per conto del Cavaliere Don Pasquale
Tortora3 di Manfredonia, risultò la migliore e si diede il via alla stesura del
contratto. Nel luglio dello stesso anno venne versata nella Cassa del Tavoliere
l'entratura per d. 1.085,23 e 1/3, ma solo il 13 novembre 18 10 avvenne la
stipula del contratto di censuazione rogato dal notaio Giuseppe Maria Corradi.
Abbiamo visto nel paragrafo precedente come l'estensione originaria
della posta fissa fosse di carra 22 e che in seguito carra 5,3 vennero distaccate
per essere locate ad un privato.
1 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 110, inc. n. 827.
2 - Ibidem.
3 - TORTORA P., AS.A.R. il Duca di Calabria Vicario Generale del Regno. Rapporto
sull'amministrazione dei dazi indiretti e su i suoi mali urgenti, e rimedi pronti... Napoli 1820: "Il
Cavalier Don Pasquale Tortora di Manfredonia ricoprì molte cariche pubbliche nel ramo
dell'amministrazione finanziaria dello Stato. Riuscì a farsi una posizione grazie alle sue
importanti conoscenze tra cui il Cardinale Ruffo. Ricoprì per lungo tempo la carica di
direttore generale della dogana e dazi di consumo ed anche importanti cariche militari,
maneggiando grandi quantità di denaro pubblico, accusato di peculato e di corruzione
venne condannato a sanzioni pecuniarie e penali".
PIERO PIERI, Il Regno di Napoli dal luglio 1799 al marzo 1806, Napoli 1928, pag.
16: "Pasquale Tortora di Cerignola (?), come gli altri visitatori economici allora costituiti,
aveva l'incarico di ristabilire il vecchio sistema di esazione delle imposte, sconvolto nel
periodo repubblicano".
Pasquale Tortora era stato nominato Cavaliere dell'Ordine delle due Sicilie.
8
Nei primi mesi del 1810 in seguito ad una perizia dell'agrimensore
Domenico Rizzella a spese del locato R. Valentini vennero ritrovate incensite le
carra 5 e v. 3 distaccate un tempo dalla posta fissa di Parite4. Dopo una breve
contesa tra il Valentini, che si era proposto di censirle e il direttore della
Registratura e Demanio di Capitanata, le cui argomentazioni erano in contrasto
con lo spirito positivo della legge e con i supremi interessi fiscali, il della Torre
decise di dare inizio alle subaste che si tennero i giorni 4, 6 e 9 giugno all'offerta
base (del Valentini) di d. 2505.
L'asta fu molto vivace, in quanto le carra 5 vennero contese al Valentini
dal gruppo Celentani-Barretta, ma alla fine furono aggiudicate ad Onofrio
Quarto 6 di Manfredonia.
Questi offri d. 350 per le carra 5 di saldo di Parite su preciso incarico
dello stesso Cavalier Tortora che si trovava da pochi giorni censuario della gran
parte dell'antica posta di Parite. In base ad un accordo precedente il Tortora
cedette 3 carra al Valentini, tenendo per sé le restanti due, perciò i canoni dei
due censuari vennero a gravarsi di altri d. 210 per il primo e di d. 140 per il
secondo.
Così nell'atto di censuazione il Tortora assistito dal suo vicario generale
ed amministratore Onofrio Quarto acquistò in enfiteusi carra 18 e v. 17 della
posta fissa per il canone annuo di d. 1.225,23 da pagare metà al 21 maggio e
metà in novembre in moneta corrente di argento.
4 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 39, inc. n. 767.
5 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 110, inc. n. 828.
6 - A.S.F., Intendenza di Capitanata, carte varie, fascio n. 80, inc. n. 8332. Con Decreto
Reale del 16-2-1808 Onofrio Quarto di Manfredonia venne nominato ricevitore particolare
del distretto di Minfredonia. Per lungo tempo fu anche l'amministratore o meglio l'uomo
di fiducia del Cavaliere Pasquale Tortora.
9
Pianta di posta Parite (1841). (A.S.F., Consiglio d'Intendenza, II Camera Processi, fascio n.
67, INC. n. 2221)
10
Fabbricati della masseria (1988).
11
Nella seguente tabella riassumiamo i dati finora raccolti:
TAB. 1
La tabella 2 mostra l'esosità fiscale dello Stato:
TAB. 2
* Estaglio annuo per un fitto quadriennale
7 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 44, inc. n. 930; A.S.F., Tavoliere di Puglia,
fascio n. 46, inc. n. 992.
12
La considerazione principale e che più colpisce è il fatto che la posta di Parite sia
passata da una fida di d. 341,86 ad un canone di d. 1225,23 in soli 22 anni, con un
aumento vertiginoso del 358% e con un aumento a carro del 320%.
Come abbiamo visto il Cavaliere Pasquale Tortora divenne censuario della
posta di Parite in seguito alla subasta tenutasi nel palazzo della Dogana di Foggia.
Per quanto riguarda la presa di possesso materiale della posta censita il Tortora
dovette fare ricorso ben due volte all'autorità dell'Amministrazione Generale del
Tavoliere. La prima volta per evitare il pascolo statonico dei comunisti di
Manfredonia che non avevano alcun diritto di statonica sulle poste fisse e una
seconda volta per evitare la continuazione dell'affitto quadriennale cominciato nel
1809 da Vincenzo Barretta di Manfredonia8.
Tortora fece appello al duca della Torre in quanto Barretta, che aveva preso
in fitto il pascolo vernotico di Parite dai Regi Demani, aveva provocato dei danni
ai fabbricati della posta per incuria e in parte per dolo.
Ricordando la regola che era preferibile il censuario all'affittuario e che
l’interesse fiscale era meglio tutelato dal maggior valore del canone pagato dal
Tortora e dalla sua perpetuazione nel tempo, salvo l'affrancazione, il della Torre
non ebbe molte difficoltà a decidere in favore del censuario Tortora che entrò nel
possesso materiale della posta nel mese di settembre in seguito a circolare
ministeriale del 28-7-18109.
La constatazione dei danni provocati dal fittuario Barretta sono raccolti in
una interessante relazione, con piantina dei fabbricati allegata, ad opera
dell’architetto Renato Ferrara che venne incaricato dal duca della Torre sulla base
del ricorso di Tortora.
La posta di Parite era così costituita: un grande recinto per animali
completamente in muratura alto oltre m. 2,60 che cingeva una superficie di circa
una versura di terreno; all'interno del recinto vi erano delle divisioni parte in
muratura parte con muri a secco per dividere le varie mandrie di
8 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 44, inc. n. 927-930.
9 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 46, inc. n. 992.
Si veda la relazione e la pianta dell'architetto Ferrara nella seconda parte
dell'incartamento.
13
animali; vi erano due piccolissimi fabbricati da tempo in rovina. Inoltre, nella
parte antistante le fabbriche rurali si trovava un recinto circolare per ovini in
cattivo stato di conservazione.
Per quanto riguarda le fabbriche, la posta era dotata di una palazzina,
interamente in tufo, di due piani. Al piano terra vi erano tre stalle, di cui una di
grandi dimensioni, poco illuminate, con mangiatoia in pietra e porte di abete;
inoltre, vi era un sottano ad uso di legnaia dotato di porta di abete; un sottano
ad uso di legnaia dotato di porta di abete e di portale in pietra; infine, vi era la
stanza dei pastori con i giacigli e dove si lavorava il formaggio.
Non essendovi un camino le mura tufagne ed il soffitto di lamie erano
tutte affumicate dall'uso del fuoco che si accendeva nel mezzo della stanza; nel
luogo più fresco della stanza vi era un piccolo ripiano, su cui venivano fatti
seccare i formaggi.
Le stanze del piano superiore erano adibite ad abitazione padronale, ed
erano quasi tutte intonacate e lastricate, dotate di quattro camini in pietra, alcuni
dei quali di particolare pregio e di una decente mobilia tra cui spiccavano gli
stipi a muro. All'abitazione si accedeva tramite una scalinata interna in grave
stato di usura. La copertura dei lamioni era fatta con travi e tavole di legno
coperte da embrici (tegole di argilla).
La casa padronale era così suddivisa: un ingresso, due camere da letto,
una camera da pranzo-salotto, una dispensa, una grande cucina 10 e un'altra
camera per usi diversi.
Dalla descrizione e dalla pianta del Ferrara, la dotazione aziendale della
posta fissa di Parite, anche se non in buono stato di conservazione, era
sicuramente di prim'ordine per quei tempi.
Infine, la dotazione di capaci cisterne d'acqua piovana costituivano
elementi essenziali per la vita degli uomini e degli animali presenti nella posta.
La dotazione di fabbricati venne notevolmente migliorata dal nuovo
censuario che trasformò radicalmente la struttura della posta che divenne nel
giro di pochi anni una perfetta masseria di campo.
10 - Ibidem: "Vi è sopra la finestra della cucina una statuetta di marmo raffigurante
un angelo". Forse la statua di S. Michele di cui parla il perito Ferrara è la stessa che venne
rubata pochi anni or sono nella masseria.
14
Ecco l'elenco dei fabbricati costruiti dal censuario Tortora dopo il 1810
e di quelli esistenti al 1810 edificati dai Padri Celestini di Sulmona:
a) la cafoneria, cioè la stanza dei contadini; b) due grandi ricoveri per i
buoi aratori, recintati con macere; c) il cassero della meta in campagna, ove si
riponeva la paglia raccolta e la si preservava dagli agenti atmosferici; d) una
meta chiusa per la conservazione della paglia raccolta; e) una stalla per le
giumente: f) un gallinaio o pollaio; g) due magazzini ad uso dispensa di
attrezzature e vettovaglie con ripostiglio per il vino; la palazzina padronale, con
il piano inferiore descritto precedentemente e, costruita dai Celestini; i) torretta
dei gualani, cioè dei custodi degli animali bovini da lavoro; l) due cisterne di
acqua piovana; m) un pozzo di acqua sorgiva; n) cinque fosse interamente
scavate nella roccia e nel tufo, per la conservazione delle granaglie; (la capienza
stimata era di complessivi tomoli 3049, un valore che assicurava la
conservazione del prodotto raccolto da 80 a 120 versure, a seconda della bontà
dell'annata agraria); o) un palombaio sulla casa padronale; p) vari pilastri, i
grandi recinti in muratura e macerati (muri a secco) che chiudevano tutta la
mezzana, divisa in vari parchi (Parco Zecchino, Parco degli Agnelli, Parco de'
Puzzacchi, etc.), altre recinzioni con macere erano poste su alcuni confini della
proprietà11.
In questo sommario inventario, mancano gli ovili e i fornelli per la
lavorazione dei formaggi che sono tipici di una posta di pecore, mentre
ritroviamo fosse per il grano, cafoneria, depositi per attrezzi agricoli, che
precipui di una masseria di campo.
Ricordiamo che le costruzioni rurali del tempo erano di tre tipi: 1) le
poste adibite al solo allevamento zootecnico (ovino); 2) le masserie di campo
adibite alla sola coltivazione cerealicola ed in seguito arboricola (oliveti, vigneti,
etc.); 3) le masserie miste che combinavano le attività delle poste e delle
masserie di campo.
E’ evidente come Parite o S. Spirito fosse una masseria di campo in base
a questa classificazione perdendo totalmente i caratteri originari e distintivi di
una posta di pecore.
11 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 314, inc. n. 20.
Gran parte di questi fabbricati rurali sono ancora esistenti. Ricordiamo che questi
dati vennero raccolti ai primi di luglio del 1824 per una stima delle migliorie apportate dal
Cav. Tortora che era stato dichiarato retroceduto dal possesso enfiteutico della masseria di
S. Spirito.
15
La costruzione dei nuovi edifici rurali venne eseguita contemporaneamente alla dissodazione delle terre salde. La struttura calcarea del terreno con
roccia affiorante non permise la dissodazione dell'intera posta e perciò molti
terreni rimasero saldi; vi erano anche le cosiddette tare di superficie agraria, cioè
quei terreni d'incolto improduttivo privi di erbe pascolabili e quindi del tutto
inutilizzabili.
I lavori di miglioramento agrario durarono per due anni di seguito; il
primo anno si pulirono, i terreni prescelti, dalle erbe perenni e dagli arbusti, si
rimossero a mano le pietre mobili e, con "utensili di ferramenta" le pietre fisse e
semimobili. Si ricorse anche all'esplosivo per eliminare i banchi di roccia; infine,
si ingrassarono le terre ripulite con letame ovino copiosamente sparso in tutti i
punti delle pezze pronte alla rottura (aratura). Per le varie operazioni di
trasporto (stabbio pecorino, pietre, arbusti ed erbe infestanti) vennero utilizzate
decine di carrette ed un gran numero di lavoranti occasionali dato che per
l'eccezionalità dell'operazione non erano sufficienti le dozzine di salariati fissi
ingaggiati dal Tortora. Il secondo anno si eseguirono le operazioni colturali di
lavorazione del terreno, cioè si praticò il maggese nudo. Solamente nell'autunno
del 1812 si cominciarono le semine sulle oltre 166 versure, che corrispondono a
oltre ha. 200.
Nella relazione dei periti agrimensori effettuata nel 1824 per la
valutazione delle migliorie della masseria S. Spirito, vengono riportati la qualità e
il nome dato alle singole "pezze aratorie", i confini, l'estensione coltivata, le
operazioni di bonifica apportate (arature, spietramenti, letamazioni, etc.)12.
Le pezze aratorie avevano i seguenti nomi: Stingeta, Pezza Grande,
Confine, Provvidenza, Valle, Sopravalle, Perazzone, Timo. L'estensione totale
era, come abbiamo detto, di v. 166 a cui bisognava aggiungere versure 42,20 di
mezzana parcata o recintata.
Riportiamo senza correzioni, anche se parzialmente, il commento alla
pezza Stingeta fatto il giorno 5-7-1824 dalla commissione dei periti incaricati di
valutare le migliorie della masseria S. Spirito di Tortora, accompagnati
dall'agrimensore Ippolito Silvestri, dal guardiano Lorenzo Fascione e da un
coltivatore-fittuario Francesco Saverio Conoscitore:
12 - La valutazione delle migliorie venne fatta sulla base dei prezzi del 1824 e con
molta probabilità i valori vennero tenuti prudenzialmente bassi.
16
"Ci siamo primieramente portati nella pezza detta La Stingeta
detta pezza confina al nord col tratturo Regio che conduce in
Foggia, al Sud con una tenuta denominata Pareti delli Sig. Fratelli
Celentani detta anche Le Varicelle, all'Est col pascolo di Pareti,
censuazione di Valentini, all'Ovest co' Puzzacchi di S. Spirito.
Avendola fatta misurare si è trovata tensione di versure 12.20,
detta pezza siccome prima era inservibile per pascolo e coltura
per essere nella sua origine coverta di macchie di lentisco, e di
giunchi, così mediante l'estirpazione di dette macchie si è resa
servibile alla coltura. Una tale operazione per potersi eseguire ha
portato l’esito di d. 30 per ogni versura, avendosi avuto riguardo
a quel poco frutto che si è ricavato dalle radici delle sopradette
macchie, le quali di loro natura sono molto profondi. e la qualità
del terreno è duro, ed amaro, per cui calcolandosi le giornate
impiegate de' bracciali, pane, sale, olio per i medesimi ed il
consumo di ferramenti addetti allo scavo.... Per potersi queste
trasportare fuori della pezza ci ha voluto venti giornate di
carrette... Per raddolcire la qualità del terreno di sua natura secco
ed amaro si è dovuto buttare del concime il quale avendolo
esattamente osservato. lo abbiamo ritrovato essere tutto stabio
pecorino, e nella sua giusta quantità con aver anche domandato
conto del luogo, da dove era stato detto stabio trasportato, per
cui avendo calcolato che per ogni versura si erano consumati
cento viaggi di traino,... Siamo quindi passati ad esaminare le spese
occorse per dissodare, ossia arrompere detti terreni, ed abbiamo
calcolato che per la prima arrompitura, come la più forte e
difficile ci han voluto giornate 12 di aratro per ogni versura, per
farei il secondo coltivo, che si chiama ristoccatura, ce ne hanno
voluto per ogni versura giornate 6. Per il terzo, e quarto coltivo ci
ha voluto 7, sono in uno giomate 25 di aratro per versura che alla
ragione di d. 1 al giorno sono d. 25. Finalmente abbiamo
calcolato che detto territorio nel primo anno che si hanno dovuto
estirpare le macchie, non ha dato nessun frutto, nel secondo anno
molto meno, perché si è dovuto arrompere ossia maggessare,
all'opposto del censuario si è dovuto pagare il canone e la
fondiaria, la quale per quello che si è rilevato de' registri, ascende
di unità col canone a d. 78 il carro, che viene a ragione di Carlini
39 la versura, dunque se li debbono bonificare due anni..."13.
13 – A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 314, inc. n. 20. Insieme alla perizia delle
migliorie sono raccolti molti altri documenti interessanti sulla devoluzione di S. Spirito del
Cavalier Pasquale Tortora.
17
La decisa volontà di rifarsi subito delle onerose spese di censuazione, la
libertà concessa nel dissodare i pascoli, gli alti prezzi dei cereali e la grande
possibilità di investimento del cavalier Tortora, gli fecero dissodare anche
terreni infruttuosi (elevata presenza di radici, di roccia e con poca terra o
soggetti ad allagamenti) con grande dispendio di denaro valutabile per oltre d.
800014.
Infatti, la scarsa resa di parte delle ver. 166, comportò negli anni seguenti
ai primi raccolti l'abbandono di oltre ver. 40 di terreno bonificato a caro
prezzo 15.
Nella tabella 3 abbiamo riunito: le spese di migliorie (valutazione 1824)16,
l'estensione, la denominazione, la qualità delle pezze e le superfici abbandonate.
Gli animali presenti nella masseria di S. Spirito sono un dato che non
siamo riusciti a trovare, se non in parte e per via indiretta. Ad ogni modo è
possibile stimare il loro numero in base a diversi parametri: 1) capacità delle
stalle e dei recinti; 2) disponibilità di pascolo e di paglia nella masseria; 3)
necessità di animali da lavoro per le principali operazioni agricole (semina,
raccolto, etc.); 4) possibilità di fittare i pascoli limitrofi di privati e del Comune
di Manfredonia.
14 - TORTORA P. AS.A.R. il Duca di Calabria.... op. cit.
Un anonimo accusò il Cavalier Tortora di truffe, corruzioni ed altri illeciti nel suo
operato pubblico. Questo potrebbe spiegare la provenienza degli ingenti capitali investiti
nella trasformazione di masseria S. Spirito e di altri fondi censiti o di proprietà della
famiglia Tortora. Quasi certamente, i d. 8.000 spesi improduttivamente ai prezzi superiori
del biennio 1810-12 valevano oltre d. 10.000!
15 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 1024, inc. n. 6.
La ragione dell'abbandono di parte delle terre dissodate, oltre ai ben noti motivi,
fu da addebitarsi alle piogge torrentizie che non essendo convogliate in canalizzazioni di
dispersione del flusso, trascinavano a valle tutto ciò che incontravano distruggendo macere
ed anche portandosi via la poca terra delle pezze arative che ne rimanevano prive. Inoltre, i
terreni (Stingeta e Pezza Grande) limitrofi alla palude erano soggetti a dannosi allagamenti
di acque salmastre.
16 - Ricordiamo che la voce dei prezzi del grano duro (ducati per tomolo) negli
anni 1816 e 1817 raggiunse le cifre iperboliche di d. 3,46 e nell'anno successivo di d. 3,15,
questo spiega la tenuta in produzione delle pezze arative di cattiva qualità che vennero
abbandonate, dopo il 1818, quando i prezzi dei cereali si erano ridotti della metà e quando
i pesi imposti dalla legge 13-1-1817 cominciarono a diventare insostenibili per il Cav.
Tortora, come per molti altri censuari del Tavoliere di Puglia, si era alla vigilia della grande
crisi agrico la degli anni venti.
18
17 – Il giudizio sulla qualità delle singole pezze seminative riguarda le pezze ai
netto di quelle porzioni ritornate a pascolo.
18 – Le arature erano quattro:arrompitura, ristoccatura, rinterzatura e rinquartatura
(F. DELLA MARTORA, La Capitanata e le sue industrie, Napoli 1846, pagg. 17-28).
19
In base a questi parametri che consideremo standard per la nostra analisi
possiamo presumere che nella masseria trovassero posto i seguenti animali: 60
buoi aratori e 50 giumente per la trebbia; inoltre vi erano cavalli da sella, cani ed
animali da cortile.
Logicamente, i buoi e le giumente erano utilizzati anche per il traino delle
carrette e per tutti quei lavori di fatica dove si richiedeva all'animale grande
capacità di resistenza e di docilità.
Nella numerazione degli animali del 1816 apprendiamo che il Cav.
Tortora aveva i seguenti animali nella posta di Galiano in tenimento di
Manfredonia19:
SPECIE ANIMALE:
QUANTITA'
OVINI CAPRINI BOVINI BUFALINI EQUINI
3.044
624
102
95
53
Apprendiamo che il gregge transumava sui pascoli della Irpinia e del
Vulture e che prima di partire alla volta di questi luoghi veniva tosato nella
masseria di S. Spirito.
Tutti gli animali venivano contrassegnati quelli grossi (bovini, equini) con
un marchio a fuoco sulla coscia20 e delle volte anche sulla mascella, quelli
"gentili" con un'incisione ad un orecchio.
Queste misure di prevenzione servivano a limitare l'illecito commercio di
animali e a distinguere i propri animali da quelli degli altri proprietari nei pascoli
comunali soggetti alla fida civica.
Infine, abbiamo trovato una domanda di assegnazione di terre a pascolo
a firma di Don Onofrio Quarto, vicario generale del Cavalier Pasquale
Tortora, il quale dichiarava di aver dissodato parte dei pascoli della masseria di
S. Spirito ed avendo 4.096 ovini, 160 vacche, 151 bufale e 138 giumente
chiedeva all'Intendente di Capitanata di poter censire dei pascoli per non
smettere le sue industrie21. Questo tipo di domande erano molto frequenti e si
tendeva a maggiorare il numero degli animali per indurre l'Amministrazione a
fare una qualche concessione di terreno saldo erbifero.
19 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 333, inc. nn. 90-91.
20 - Il marchio riporta le iniziali del proprietario «PT».
21 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 292, inc. n. 645.
20
Infatti, i dati dichiarati da Onofrio Quarto nel 1817 sono sicuramente
gonfiati rispetto ai dati rilevati dall'addetto alla numerazione degli animali
dell'anno precedente.
Per quanto riguarda i salari, il numero e la qualifica dei lavoranti fissi ed
occasionali della masseria di S. Spirito non abbiamo che pochi dati, lo stesso
vale per le produzioni agricole e perciò non abbiamo dati sulle rese di quel
periodo ed anche sull'eventuale utile o perdita di gestione.
In ogni modo sappiamo per certo che venivano coltivate le majoriche
(grano tenero), i grani duri, le avene (biade), l'orzo ed anche le fave come
maggese, inoltre i terreni venivano messi a riposo da uno a due anni (maggese
nudo) e che non veniva praticato il sovescio delle leguminose22.
Infine, il gran numero di ricatti e di furti da parte dei briganti, che si
macchiarono anche di efferati crimini, obbligò i proprietari censuari a
mantenere, per legge, un certo numero di uomini armati23.
Nel 1810 Pasquale Tortora aveva assoldato ben 12 guardiani per la
difesa della sua proprietà24.
22 - G. ROSATI, Le industrie di Puglia, Foggia 1808.
F. DELLA MARTORA, op. cit., Napoli 1846.
23 - A.S.F., Intendenza di Capitanata, carte varie, fascio n. 96, inc. nn. 10562, 10564,
10565, 10574, fascio n. 187, inc. n. 19790.
Riguardano furti commessi nelle masserie di Fontanarosa, del Macerone e di Parite
di Valentini e di una denuncia di contrabbando con il nemico di merci varie nella masseria
del Mascherone del Cavalier Pasquale Tortora.
24 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 28, inc. n. 451, fascio n. 138, inc. n. 100,
fascio n. 314, inc. n. 20, ed anche A.S.F., Amministrazione interna, fascio n. 200, inc. n. 22. Si
apprende che il Cav. Tortora era proprietario di oliveti a Mattinata ed a Monte S. Angelo,
di vigneti agli Sciali di Manfredonia, di terre seminative in Parite a titolo di proprietà
privata, della masseria del Mascherone che apparteneva ad alcuni ordini religiosi, di un orto
chiamato La Tufara, di un palazzo padronale a Manfredonia e di altri sottani (locali al
piano terra), ad uso di abitazione e di deposito, sempre a Manfredonia.
21
La devoluzione della masseria di S. Spirito ed il periodo degli affitti
Come abbiamo visto precedentemente, nel 1818 la superficie agraria
coltivata della masseria di S. Spirito si ridusse all'incirca di un 30%. La ragione
di questa riconversione a pascolo di una porzione delle terre a coltura fu
determinata dal calo dei prezzi agricoli che rese antieconornica la coltivazione
delle terre marginali, cioè di quelle terre meno fertili e produttive.
La ragione del forte calo dei prezzi agricoli sono da ricercarsi nell'errata
politica di liberismo economico della restaurazione borbonica che ebbe come
conseguenza principale la crisi generale del sistema economico interno agricolo
e non. Infatti, l'apertura alle produzioni straniere ed al libero scambio
trovarono del tutto impreparati ed incapaci i produttori agricoli regnicoli che
per via degli alti costi di produzione, di trasporto e di commercializzazione
associati ad un inefficiente mercato interno dei capitali e del credito, di un
inesistente aiuto governativo e di una struttura rigidamente monopolistica del
mercato dei prodotti non riuscirono a fronteggiare l'agguerrita e competitiva
concorrenza straniera1.
Cosicché agricoltori e pastori cominciarono un lento indebitamento che
era in più aggravato dalla esosità fiscale della legge 13-1-1817 e moltiplicato dal
devastante ricorso ai prestiti usurari.
Le ragioni specifiche dell'indebitamento del Cav. Tortora e la chiusura
dei bilanci in perdita della masseria di S. Spirito sono da ricondursi alle
condizioni generali predette ma anche ad una mancanza di competitività
determinata dalla gravosità del canone e della fondiaria troppo elevati in
rapporto alla produttività delle terre censite.
Infine ci sono i rischi di gestioni imprenditoriali affidate ad amministratori, come in questo caso quelle di Onofrio Quarto accusato, poi, di
incapacità e disonestà.
Per finire il colossale investimento di trasformazione fondiaria condotto
in S. Spirito non rispondeva a criteri di economicità e non assicurava un ritorno
economico se non dopo un lungo lasso di tempo.
1 - GAETANO CINGARI, Mezzogiorno e Risorgimento, la Restaurazione a Napoli dal
1821 al 1830, Bari 1970.
22
Nel 1819 Tortora divenne debitore della Cassa del Tavoliere per la
prima volta; dopo due anni, nel 1821, il debito di Tortora era cresciuto fino a
superare i d. 3.000; nonostante le dilazioni di pagamento e le suppliche dello
stesso, venne ordinato dal Ricevitore Generale del Tavoliere, Salvatore Girardi,
il sequestro dei beni mobili della masseria di S. Spirito.
L'esecuzione del sequestro fu affidato al commissario Saverio Azzariti di
Foggia2 che depositò i beni sequestrati nel magazzino del negoziante Francesco
Serra; in seguito i beni sequestrati vennero venduti all'asta nella piazza pubblica
di Manfredonia.
A nulla valsero le proteste e i ricorsi, alla II Camera del Consiglio
d'Intendenza con a capo l'Intendente di Capitanata, di Pasquale Tortora, il quale
dovette pagare anche le spese processuali dei ricorsi presentati contro il
Ricevitore Girardi ed il commissario Azzariti.
Il 26-10-1821 il Ricevitore Generale Girardi pose termine alle coazioni
contro il debitore Tortora in quanto quest'ultimo assicurò la copertura dei suoi
debiti con il valore dei seguenti beni mobili di sua proprietà: 650 barili di vino
per un valore di d. 800, 500 staia d'olio per un valore di d. 1.000 e 50 giumente
per d. 2.5003. Inoltre, rilasciò titoli cambiari a firma di Nunziato Patini di
Roccaraso e di Giorgio Mascio di Rivisondoli, per l'affitto del pascolo di Parite
di Valentini che dal 1820 era passato nelle mani di Gennaro Tortora figlio di
Pasquale4. L'atto di cessione venne fatto con dolo
2 - P. DI CICCO, Censuazione ed affrancazione del Tavoliere di Puglia (1785-1865),
Roma 1964, pag. 106: "I commissari erano inviati, con autorizzazione del Direttore dei
Tavoliere, dal Ricevitore presso i censuari morosi, con facoltà di esigere i pagamenti o di
assicurare, mediante sequestri ed altri atti amministrativi, gli averi fiscali. Percepivano
diciassette carlini al giorno, e rappresentavano una vera calamità per i censuari, i quali, oltre
a dover pagare le loro diete, subivano ricatti per ottenere qualche dilazione. Questa «classe
di vampiri» fu abolita con R.D. del 29 novembre 1829,...".
3 - A.S.F., Consiglio d'Intendenza, II Camera Processi, fascio n. 15 bis, inc. n. 531.
A.S.F., Consiglio d'Intendenza, II Camera Processi, fascio n. 11, inc. n. 259.
A.S.F., Consiglio d'Intendenza, II Camera Decisioni, fascio n. 1, inc. nn. 118, 127,
146.
Il 3-7-1821 vennero sequestrati nella masseria di S. Spirito 300 tomoli di maiorche,
230 tomoli di grani duri e 140 tomoli d'avena A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 955, inc.
n. 36/6.
4 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 227, inc. nn. 1 e 3, fascio n. 222, inc. n. 6,
fascio n. 394, inc. n. 649.
La devoluzione a danno di Romualdo Valentini della posta di Parite avvenne il
22-9-1826.
23
in quanto non venne dichiarata pubblicamente la cessione con grave danno per
il Tavoliere nella percezione del canone e per il Comune di Manfredonia nella
percezione della fondiaria e, inoltre, non si pagò il laudemio previsto per legge.
Il Valentini come ricordiamo era censuario di oltre carra 11 di saldo ìn
Parite ed aveva un'industria di animali pecorini di ben 2.500 capi5. Il Valentini si
trovò ben presto in gravi difficoltà economiche in quanto il canone fissato sulla
sua censuazione era troppo alto se rapportato alla scarsa fertilità dei pascoli
censiti. L'assurdo è che Valentini pagasse di più del Tortora per S. Spirito
avendo terreni nettamente peggiori6.
Queste ragioni costrinsero il Valentini ad affittare le sue pecore e le sue
terre ad altri locati abruzzesi ed in seguito a cedere alle "minacce" di Gennaro
Tortora cedendogli la sua censuazione.
La sìtuazione precipitò nel 1822 quando, in seguito ad un'annata
fortemente siccitosa che culminò con la terribile grandinata del 26 maggio, gran
parte della produzione cerealicola del Tavoliere venne irrimediabilmente
perduta. La disperazione dei coloni e dei pastori raggiunse livelli drammatici, ed
il peggio venne scongiurato con un sussidio di d. 300.000 al tasso d'ìnteresse
del 6% concesso per un anno ai coloni di Puglia al fine dì poter far fronte alle
spese colturali della futura annata cerealicola7. Anche il Cavalier Tortora rìcorse
al sussidio governativo come ultima spiaggia per salvare le sue proprietà ed in
modo particolare la compromessa masseria di S. Spirito.
L'intendente B. Zurlo diede l'incarico al negoziante Francesco Serra di
amministrare le masserie che avevano richiesto il sussidio per seminare i propri
coltivi.
L'amministrazione Serra riguardò molte masserie di campo di grandi
censuari del Tavoliere; tra i personaggi più noti ritroviamo: Sarcinella, Corona,
Zezza, Barone, Tortorelli, Vema, Tozzi, De Luca e Tortora8.
5 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 39, inc. n. 7676.
6 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 298, inc. n. 215.
La rinnovazione del contratto di censuazione di Parite di Valentini è del 29-3-1817.
7 - F. VILLANI, La nuova Arpi, Salerno 1876, pag. 157.
8 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 998, inc. nn. 4, 5, 6 e 7.
24
Per quanto riguarda l'amministrazione della masseria di S. Spirito,
apprendiamo che, venne concesso un prestito al 6% da restituire a settembre
del 1823, per ducati 1966,64, che corrispondono a d. 17 la versura e che Don
Gennaro Tortora, vicario generale del padre Pasquale, dichiarò di volere
seminare nell'anno 1822-23 un totale di circa versure 120.
Nonostante l'accortezza nell'effettuare le spese colturali G. Tortora
denunciò all'Intendente la pochezza del prestito che aveva permesso solo di
seminare le terre; chiese perciò altri denari per pagare la manodopera di
giornalieri e di annaroli, per "accaparrare" i mietitori, per da loro le prestazioni
in natura (vino, olio, pane e sale), per zappettare le terre e per mondare i campi
dalle erbacce9.
La richiesta di Gennaro Tortora non venne accolta dall'Intendente, in
quanto i soldi del sussidio erano finiti, ma per non pregiudicare la somma
sborsata per la semina nell'interesse del Tavoliere, dei censuari morosi e dei
creditori, il Serra si accollò l'onere di portare a termine l'annata agraria
finanziando le operazioni colturali della masseria di S. Spirito.
In cambio il Serra pretese il diritto del "preferatur" su tutti i creditori del
Tortora al momento di monetizzare il raccolto futuro ad eccezione della sola
restituzione del sussidio che aveva la priorità assoluta. Inoltre, il Serra avrebbe
ricevuto la restituzione del suo credito con una pari quantità di grani e di
majoriche, però alla condizione di un carlino a tomolo meno della voce di
Foggia. La decisione della II Camera del Consiglio d'Intendenza del 16-4-1823
espresse parere favorevole ed accettò in pieno la richiesta d'aiuto del Tortora e
le condizioni poste dal negoziante Serra.
Ma la situazione precipitò nel giugno del 1823 quando nella masseria di
S. Spirito vennero inviati dei commissari dal Ricevitore Generale del Tavoliere
per il pagamento del canone e della fondiaria. Le molestie e l'azione di disturbo
compromisero l'amministrazione del Serra che ricorse, alla II Camera del
Consiglio d'Intendenza, per ottenere giustizia del comportamento scorretto dei
commissari.
Il raccolto del 1823 diede tomoli 814 di grani duri e tomoli 1242 di
majorche per un valore di poco superiore ai d. 3.000, che lasciarono ben
9 - A.S.F., Consiglio d'Intendenza, II Camera Processi, fascio n. 15 bis, inc. n. 524.
25
poco margine di utile al Serra dopo la restituzione dei d. 2.000 circa del
sussidio.
La Cassa d'Ammortizzazione e del Demanio Pubblico sequestrò nel
luglio 1823 diversi beni del Tortora debitore per d. 3.007,89 10.
Vengono venduti i seguenti beni del Tortora: 30 giumente, mosto d'uva,
quattro cantaia di paglia, dodici carri pesanti e utensili agricoli, olive del suo
oliveto di Monte S. Angelo.
Ma oltre a questi sequestri che impedirono ogni possibilità nel continuare
le produzioni con mezzi propri nella masseria di S. Spirito ed in altri terreni, il
Tortora fu costretto per circa un anno a darsi alla macchia in quanto essendo
stato direttore generale del Demanio Pubblico si era appropriato indebitamente
di denaro pubblico che non aveva restituito e venne condannato al carcere con
sentenza della Gran Corte dei Conti, in data 28-9-1821. Arrestato una prima
volta ottenne la libertà in cambio di parte del suo peculato, ma successivamente,
venne nuovamente condannato e ricercato; le ricerche durarono a lungo e si
estesero a tutto il territorio del Regno, solamente ai principi di agosto i
gendarmi lo arrestarono a Terlizzi e gli si concessero gli arresti domiciliari per
ragioni di salute. Infine, venne trasferito nel lugubre carcere di Manfredonia
sotto scorta armata.
Intanto, il 13-8-1823 Gennaro Tortora, vicario generale del padre
Pasquale, chiese la rescissione del contratto enfiteutico della masseria di S.
Spirito e di poterne pagare i debiti con il valore delle migliorie apportate ai
terreni ed ai fabbricati. Il 24-12-1823 con decreto ministeriale si decise la
retrocessione del Cav. Pasquale Tortora dalla masseria di campo di S. Spirito
ma solo dopo il termine dell'affitto della stessa da parte del negoziante Serra,
che l'affittò all'estaglio di d. 40 per carro e per la durata di un anno; quindi, si
procedette alle pratiche di retrocessione solo nella estate del 1824. La differenza
tra estaglio, canone e fondiaria era a carico o a vantaggio del Tortora. Questo
provvedimento venne applicato per non pregiudicare le ragioni fiscali.
Se si considerano il canone di 65 d. e la fondiaria di 17.10 d., si nota
come l'affitto (1823-1824) a Serra fosse estremamente oneroso per il
10 - A.S.F., Amministrazione Interna, fascio n. 200, inc. n. 22.
26
Tortora che dovette rimetterci oltre la metà di tasca propria per canone e
fondiaria. Infine, si decise che la valutazione delle migliorie di S. Spirito venisse
fatta a spese del Tortora e che per l'equità della valutazione venissero nominati
tre periti, due delle parti in causa (censuario Tortora e Direzione del Tavoliere)
l’altro invece, sarebbe stato nominato dall’Intendente di Capitanata.
La valutazione delle migliorie venne fatta in base all'art. 1703 C.C.: "E'
stabilito che il pagamento delle medesime quando la devoluzione si operi per
colpa dell'enfiteuta debba essere del minor valore tra lo speso ed il
migliorato"11.
Nella perizia condotta nella masseria di S. Spirito nel luglio del 1824 il
valore dello spesato fu di d. 33.560 ed il valore del migliorato di d. 31.125,26,
perciò al valore del migliorato si aggiunsero i d. 4.043,28 che costituivano il
valore delle fabbriche avendo un valore totale di ben d. 35.168,54.
Il 22-12-1824 venne comunicata all'Intendente di Capitanata la decisione
del Consiglio dei Ministri tenutasi il 14 dello stesso mese di dicembre, la quale
accettò la retrocessione del Tortora dalle terre di S. Spirito che ritornavano
all'Amministrazione del Tavoliere e, inoltre, al debito complessivo12 si doveva
contrapporre il valore delle migliorie, qualunque ne fosse stato l'ammontare,
che risultò dalla perizia. Perciò, la valutazione del luglio 1824 venne ignorata
come anche le varie disposizioni di legge e le diverse richieste di valutazione
fatte dalle parti in causa.
In questo modo, terminava l'enfiteusi perpetua di Tortora sulla masseria
di S. Spirito, durata solo 14 anni, ma che aveva modificato radicalmente e per
sempre l'antica posta doganale.
11 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 314, inc. n. 20.
12 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 406, inc. n. 777.
Il debito di Tortora era di d. 18.649, 36 così ripartito:
Alla Cassa del Tavoliere
d. 7.466,26
Al Regio Demanio
d. 3.500
Alla Tesoreria generale
d. 6.133,10
Al Gran libro
d. 1.550
Debito complessivo
d. 18.649,36
Si veda anche lo stato delle iscrizioni ipotecarie sui beni del Cav. Pasquale Tortora
ed il confronto del debito reale ed effettivo dello stesso anno 1825.
27
Il 2-3-1825 avvenne la presa di possesso «corporale» da parte del
Direttore del Tavoliere, Giuseppe Gualtieri, che delegò della cosa il ricevitore
del Registro e Bollo del circondario di Manfredonia Luigi De Santis a cui
Gennaro Tortora consegnò le chiavi principali del casino e degli altri sottani13.
La nuova gestione della Direzione del Tavoliere si avvalse dell'operato
del ricevitore De Santis che, in pratica, gestì gli affari della masseria.
Infatti i versurieri di Manfredonia, piccoli coltivatori con meno di venti
versure, e il locato Girolamo Angelone, fittuari di S. Spirito nell'anno 1824-25,
doverono al ricevitore l'estaglio pattuito con il Cav. Tortora retroceduto.
Inoltre, nel luglio del 1825 venne incaricato l'ex massaro di Tortora, Lorenzo
Fascione, della custodia e vigilanza della masseria di S. Spirito; questi ricevette
un cavallo, un fucile e una paga di d. 10 al mese. Successivamente, il Fascione
venne incaricato della vigilanza di altri fondi devoluti ritornati al Tavoliere14.
Il compito principale della Direzione del Tavoliere era quello di ricensire
il fondo devoluto; frattanto avrebbe cercato di fittare le terre libere con il
maggior vantaggio del fisco.
Nell'agosto del 1825 vengono fatte delle riparazioni ai fabbricati per d.
55 e il 15 aprile 1826 il ricevitore De Santis comunica al Direttore del Tavoliere
che la compassatura (misurazione) delle terre coltivate di S. Spirito era di v. 100
e passi 30, ed inviò lo stato dei versurieri del coltivo di S. Spirito per l'affitto
1825-26.
La masseria venne utilizzata anche per isolare eventuali animali infetti dei
diversi proprietari. Gli animali venivano tenuti in osservazione, nei grandi recinti
della mezzana, dal veterinario provinciale15.
13 - Ibidem.
14 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 953, inc. n. 34/1. Il custode L. Fascione
venne insediato formalmente in S. Spirito e Pagliete il 2-7-1825.
15 - A.C.M., Cat. XI, fascio n. 12. Nell'ottobre del 1826 nella masseria di S. Spirito
gli animali equini degli eredi Frattarolo di Manfredonia vennero messi in isolamento e
controllati dal veterinario provinciale che riscontrò la cosiddetta "morva o cimurro
contagioso", malattia infettiva e quasi sempre letale.
28
La devoluzione a danno di Don Pasquale Tortora16 della masseria di S.
Spirito aprì un nuovo periodo della storia della masseria che definiamo il
periodo degli affitti.
Il periodo degli affitti cominciò ufficialmente nel 1825 e terminò con la
ricensuazione della masseria avvenuta nel 1833. In questi dieci anni il dominio
utile ritornò ad unirsi col dominio diretto della masseria sotto l'accorta
amministrazione della Direzione del Tavoliere.
Il Direttore del Tavoliere17 incaricò il ricevitore distrettuale di
Manfredonia di curare gli interessi del fisco, cosa che avrebbe dovuto fare con
la riscossione degli estagli, con la vigilanza sull'operato del custode della
masseria, e con l'invio continuo di informazioni, relazioni, osservazioni ed altro
al Direttore del Tavoliere cui spettava la decisione finale.
Dopo la presa di possesso materiale della masseria di S. Spirito e la
riattazione di alcuni fabbricati bisognevoli di aggiusti, il ricevitore distrettuale
incassò gli estagli dell'annata agraria 1824-25 da poco terminata; gli estagli erano
stati pattuiti un anno prima da Gennaro Tortora18 con il ricco locato di
Roccaraso Don Girolamo Angelone e con un gruppo di versurieri di
Manfredonia19.
In seguito, il ricevitore procedette alla raccolta di nuove offerte per la
parte a coltivazione e per quella a pascolo della masseria, riuscendo a fittare per
un altro anno le due parti rispettivamente ai versurieri di Manfredonia a d. 6 la
versura e al pastore Nicola Basso di Monte S. Angelo per complessivi d. 30020.
16 - Il Don in origine era un titolo d'onore di nobili e di ecclesiastici in seguito
venne esteso anche agli esponenti della grande e media borghesia.
Nel 1799 i titoli nobiliari e il Don vennero aboliti e multate le infrazioni con una
sanzione pecunaria di d. 60!
17 - Giuseppe Gualtieri ricoprì la carica di direttore del Tavoliere dal 1817 al 1844.
18 - Gennario Tortora ricopri la carica di sindaco del comune di Manfredonia per
un breve periodo nel 1820 e dopo le note e scandalose vicende stupisce ritrovarlo sindaco
nel periodo 1826-28.
19 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 406, inc. n. 6.
20 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 266, inc. n. 10; fascio n. 267, inc. n. 41; fascio
n. 406, inc. n. 777; fascio n. 1024, inc. n. 6. Inoltre per gli affitti degli anni successivi e per
quelli della posta retroceduta da Valentini si veda: A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 267,
inc. nn. 48-51; fascio n. 268, inc. 103-113-125; fascio n. 269, inc. nn.
244-252-263-264-276-281-213-240-241; fascio n. 270, inc. nn. 336-337; fascio n. 272, inc.
nn. 456-463-488; fascio n. 271, inc. n. 409.
29
Il pessimo estaglio pattuito con il Basso fu causato dalla scarsa richiesta
di pascoli da parte dei pastori e solo verso la fine del 1825 giunse l'offerta di
Basso che venne accettata, in quanto si rischiava di non fittare per quell'anno gli
erbaggi.
Ricordiamo che, nell'annata agraria 1822-23, la masseria fu amministrata
dal negoziante pubblico Francesco Serra21 con il sussidio governativo di circa
d. 2.000 e, l'anno seguente (1823-24) la masseria venne interamente fittata da
Gennaro Tortora all'intraprendente commerciante per soli d. 40 al carro,
quindi, per complessivi d. 754.
Nel 1824-25 la masseria venne fittata per la parte a pascolo al ricco
locato Angelone e per il coltivo ai versurieri di Manfredonia; il primo
corrispose d. 924 mentre i versurieri diedero d. 6 a versura per complessivi d.
588 circa22.
Inoltre si possono vedere: fascio n. 252, inc. n. 476/33 (dilazione di pagamento a
favore di F. S. Conoscitore per fitto non pagato); fascio n. 256, inc. n. 480/64; fascio n.
953, inc. n. 34/2 (subaffitto del versuriere e sarto Giuseppe Zappetti. A.S.F., Consiglio
d'Intendenza, II Camera Processi, fascio n. 50, inc. n. 1804.
21 - F. Serra si distinse per aver importato nel Tavoliere un quantitativo di grani
duri speciali dalla Crimea e delle bianchette (grano tenero o maiorche) dalla Toscana con
grande dispendio monetario.
22 - A.C.M., cat. XI, fascio n. 2. Lo Stato de' raccolti di Manfredonia riporta i
seguenti dati (1825) per la masseria di S. Spirito:
TAB. 4
t. = tomolo; 1 tomolo = Kg. 41/45
Questi valori sono buoni se consideriamo le migliori produzioni unitarie
(tomoli/versura) ottenute nel comune di Manfredonia in quell'anno: grano duro tomoli
30 a versura; grano tenero tomoli 42 a versura; orzo tomoli 70 a versura; avena tomoli 70 a
versura.
30
Pertanto, Tortora era riuscito ad ottenere più del doppio nel 1824-25,
che non nell'anno precedente. Invece, nel periodo di gestione da parte della
Direzione del Tavoliere l'entrata globale per gli affitti non arrivava a d. 900.
Nella primavera del 1826 la verifica delle pezze "seminatoriali"
(compassatura della terra) riporta la superficie coltivabile dalle precedenti v.
96,30 alle effettive v. 100 e passi 30.
La superficie coltivabile venne incrementata nel 1829 di altre versure 13
di annichiarico, cioè di quei terreni che non sono stati seminati da alcuni anni,
raggiungendo così un totale di v. 113,30, quasi la stessa quantità di terreno
coltivata precedentemente dal censuario Tortora.
Nell'anno agrario 1825-26 i versurieri ottennero nuovamente le terre
coltive di S. Spirito al prezzo di d. 6 la versura e pagarono complessivamente
d. 603; la durata annuale dell'affitto non permise ai versurieri di ingrassare la
terra e ciò comportò una diminuizione della fertilità dei coltivi.
Nell'anno 1826-27 i versurieri riuscirono ad ottenere i terreni coltivabili a
d. 5 la versura e per tre anni, la durata triennale venne concessa a causa della
stanchezza delle terre che, seminate annualmente, avevano bisogno di essere
ingrassate e maggesate (maggese di fave e maggese nudo). Inoltre, i prezzi dei
cereali erano in fase calante e l'offerta di terre coltivabili abbondante.
Per i pascoli venne stabilito un fitto triennale a favore di Matteo
Frattaruolo e Francesco Paolo Totaro di Monte S. Angelo per l'estaglio di d.
522 incluso un carro della mezzana (l'altro venne concesso ai versurieri) al
prezzo di d. 60 a carro.
La scadenza del pascolo venne fissata per l'8 maggio 1829, data di
pagamento dell'estaglio e ricordiamo che in tali affitti non era incluso il pascolo
statonico ma solo quello vernotico.
Particolare degli affitti dei pascoli era il fermo divieto all'immissione di
animali neri (suini) nei pascoli, in quanto la loro presenza avrebbe potuto
provocare il morbo della schiavina letale per le greggi ovine.
Le offerte prima di essere accettate dovevano essere rese pubbliche ed
anche migliorate con le sessioni d'incanto delle subaste ad estinto di candela
vergine. Raramente, si procedeva alla stipula del contratto di fitto senza aver
prima adempiuto a questa regola generale, si veniva dispensati
31
dalle subaste solo in caso di un'ottima offerta o per particolari motivi (epoca
avanzata per la lavorazione dei terreni o grande difficoltà nel fittare le terre da
parte dell'amministrazione).
Coloro che affittavano preferivano pagare un estaglio più alto piuttosto
che addossarsi il peso della fondiaria corrispondente, in quanto si aveva poca
dimestichezza con gli uffici fiscali e si preferiva conferire l'estaglio in un'unica
soluzione a fine locazione.
Inoltre, i fittavoli rispondevano solidalmente delle obbligazioni nascenti
con il contratto di fitto e si prevedeva la risoluzione del contratto nel caso
avvenisse la censuazione del fondo, senza che i fittavoli potessero pretendere
alcunché per migliorie ed altro; si lasciava loro solo la possibilità di terminare
l'annata agraria in corso.
Il concedere le terre in fitto per breve durata (1-3 anni) e il mancato
riconoscimento di eventuali migliorie apportate, non produssero effetti benefici
all'economia del Tavoliere, anche se permisero la lenta ricostituzione di una più
solida classe agricola e armentizia.
Ritornando alla nostra masseria, dobbiamo ricordare che le fabbriche
rurali di S. Spirito vennero perfettamente divise tra i versurieri ed i pastori,
sotto l'attenta vigilanza del custode incaricato.
Nel 1829 vennero stipulati contratti di fitto triennali identici ai precedenti
(coltivo e saldo); sola differenza fu una diversa composizione all'interno del
numeroso gruppo dei versurieri.
Nella tabella seguente elenchiamo la professione principale dei versurieri
di S. Spirito.
TAB. 5
32
E' curioso notare la diversità di professione dei versurieri ed anche di
ceto sociale; vi erano esponenti del "popolino", della piccola e media borghesia,
pochi facevano del lavoro dei campi la loro principale professione23.
Nel 1831 vennero stipulati gli unici fitti sessennali per la parte a coltura di
S. Spirito sempre per d. 6 la versura; nello stesso anno i versurieri divennero
anche fittavoli del saldo di S. Spirito per tre anni; dopo una breve disputa con i
pastori Totaro e Frattaruolo nella sessione d'incanto di aggiudicazione del
pascolo i versurieri la spuntarono, con l'offerta definitiva di d. 535.
Il possesso dei pascoli e dei coltivi della masseria, come vedremo nel
prossimo paragrafo, sarebbe terminato due anni dopo.
23 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 406, inc. n. 777.
33
La masseria di S. Spirito, proprietà di Giuseppe Frattarolo di Manfredonia
Il 1832 fu un anno decisivo per la masseria di S. Spifito in quanto giunse
la domanda di censuazione di Raffaele Garzia di Manfredonia, la richiesta
venne respinta dal Cav. Gaetano Lotti, Intendente di Capitanata, in quanto
includeva la sola censuazione del coltivo e delle fabbriche con mezzana ad un
prezzo inaccettabile, lasciando incensite le terre salde1.
Successivamente, giunse (nel mese di novembre) all'Intendente Lotti, da
parte del censuario Raffaele Frattarolo di Manfredonia, una domanda di
censuazione che venne presa in buona considerazione, ma Frattarolo richiese la
sola parte coltivabile di S. Spirito, perché, essendo privo di animali, non
intendeva censire il pascolo 2.
Nello stesso periodo pervenne la supplica dei versurieri di Manfredonia
che chiesero la censuazione della masseria di S. Spirito adducendo motivi per
loro vitali, ed offrendo per la censuazione condizioni migliori di quelle offerte
da Frattarolo e dal cognato Garzia3 che aveva saggiato la disponibilità
dell'Intendente con la prima richiesta.
L' 1-12-1832, in una lettera al Ministro delle Finanze, Lotti espose il suo
pensiero dicendo che nonostante l'offerta dei versurieri fosse stata migliore di
quella di Frattarolo, i primi non mostravano garanzie sufficienti e perciò
chiedeva di poter censire la masseria al benestante proprietario don
1 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 259, inc. n. 50.
2 - Ibidem.
3 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 259, inc. n. 59; A.S.F., Consiglio d'Intendenza,
II camera decisioni, fascio n. 15, inc. n. 2121; A.S.F., Consiglio d'Intendenza, II camera
processi, fascio n. 67, inc. n. 2221.
R. Garzia censì nel 1836 oltre carra 8 della posta di Parite retroceduta da R.
Valentini con la facoltà di dissodare il quinto. Lorenzo e Giovanni Fascione (ex versurieri
di S. Spirito) sulla stessa posta censirono nel 1832, 1836 e 1837 carra 2 e v. 7 che in seguìto
ad autorizzazione regia dissodarono interamente. Anche l'ex versuriere F.S. Conoscitore
censi nel 1832 nella predetta Posta versure 9 e catene 6 di seminativo (A.S.F.,
Amministrazione del Tavoliere, Scrittore dell'Ufficio, fascio n. 20). Ricordiamo inoltre che le
autorizzazioni al dissodamento di territori del Tavoliere nella provincia di Capitanata
furono dal 1824 al 1832 per complessive versure 539 e catene 35 mentre nel solo 1833 si
ebbero autorizzazioni al dissodamento per complessive versure 1.147 e catene 5, questi
valori molto significativi spiegano la gravità in cui versava l'agricoltura durante gli anni
venti e la loro ripresa solo dopo il 1832. In questi valori non sono comprese le
dissodazioni abusive le quali erano molto frequenti e di vaste proporzioni.
34
Raffaele Frattarolo trattando alle seguenti condizioni: 1) pagamento
dell'entratura all'atto della stipula; 2) pagamento dell'arretrato in 16 anni; 3)
censuazione di tutta la superficie che ammontava a v. 377.
L'atto di stipula venne siglato dopo la valutazione delle migliorie fatte dai
versurieri di S. Spirito, che vennero pagate dal nuovo censuario. L'elenco dei
coloni al momento della censuazione, le loro opere di miglioramento ed il
denaro che ricevettero da R. Frattarolo sono racchiusi nella tabella seguente:
TAB. 6
Valore delle migliorie pagato: d. 249,08.
Il 16 giugno 1833 si stipulò il contratto di censuazione rogato dal notaio
F. P. Modula di Foggia, abilitato a fare contratti di terre del Tavoliere di Puglia,
in cui il nuovo censuario, Raffaele Frattarolo di Manfredonia, agiva per sé e per
i suoi fratelli Massimo e Giuseppe, come loro procuratore speciale. L'altro
autore del contratto, l'Intendente Cav. Lotti di Napoli, rappresentava ed agiva
in nome e per conto del Fisco e della Regia Corte4.
Le condizioni stabilirono: 1) pagamento dell'entratura all'atto della
stipula; 2) pagamento del canone ridotto (con R.R. 12-6-1829) pari a d.
1.017,90 per le carra 18,17 della masseria di S. Spirito in due rate, da pagarsi, i
2/3 a maggio e il restante 1/3 a novembre; 3) pagamento del debito dell'ex
censuario di S. Spirito Cav. Pasquale Tortora per complessivi d.
4 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 491, inc. n. 1845.
35
8.008,79 in 16 rate annuali costanti; 4) pagamento delle migliorie fatte dai
versurieri; 5) pagamento della fondiaria pari a d. 229 con soluzioni bimestrali;
6) ricensuazione delle terre a corpo e non a misura; 7) inammissibilità di
richieste di deduzioni o sconti sui canoni e sulla fondiaria con l'inaffrancabilità
del canone, salvo diversa disposizione sovrana; 8) sottoposizìone all'iscrizione
ipotecaria dei beni censiti e di proprietà dei Frattarolo, a garanzia del debito
verso il Tavoliere.
Il contratto avrebbe avuto vigore dal 1° ottobre 1833 per la fondiaria,
da maggio 1834 per il canone e dal 1° agosto 1834 per la 1ª delle 16 rate del
debito.
Lo slittamento di un anno fu dovuto al fatto che i versurieri avevano già
ottenuto l'autorizzazione all'affitto 1833-34 dallo Stralcio del Commissario
Civile.
I f.lli Frattarolo non interessati al pascolo della masseria si accordarono
con i locati abruzzesi Bartolomeo e Giovanni D'Onofrio ai quali cedettero
nello stesso anno della censuazione la parte settentrionale della masseria e per
l'esattezza carra 8 di saldo erbifero. Le parti convennero ad una pacifica
divisione di canoni e di fondiaria in base alle quote di terreno posseduto; i f.lli
Frattarolo si addossarono d. 6.008,79 del debito del Cav. Tortora cifra
maggiore del dovuto, in quanto si tennero i terreni migliori e il poggio della
masseria. Il nuovo canone fu così ripartito: d. 432 a carico dei fratelli
D'Onofrio e d. 585,90 a carico dei f.lli Frattarolo 5.
La nuova situazione che si era creata non provocò la revoca della
censuazione da parte dell'Intendente e del Ministro delle Finanze, anzi, si
espressero favorevoli alla stipula del nuovo atto di censuazione con i f.lli
D'Onofrio, ma vietarono categoricamente a questi ultimi ogni eventuale
dissodazione sul saldo ricensito.
D'altronde, l'eventualità di un dissodamento era molto difficile che si
verificasse in quanto i fratelli D'Onofrio erano allevatori di pecore6 e le terre,
da loro censite, sono talmente rocciose e sterili che neppure con le attuali
macchine agricole potrebbero essere coltivate.
5 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 490, inc. n. 1828.
6 -A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 979/2, inc. n. 77/2-40. Nelle Passate del 1843
vennero contati i seguenti animali:
segue
36
D'ora in poi, ci occuperemo solamente della parte di territorio censita
dai Frattarolo, in quanto la parte settentrionale, censita dai f.lli D'Onofrio, era
formata da terre a pascolo di qualità scadente, rappresentava la porzione
minore dell'antica posta doganale, non aveva alcun fabbricato o ricovero di
fortuna (questo al 1832), ed era sempre stata la parte marginale e periferica
dell'intera posta e tale ruolo secondario si accentuò con la trasformazione della
posta in masseria.
La gestione comune della masseria di S. Spirito dei Frattarolo terminò
dopo soli sei anni. Nel 1840, i tre fratelli si divisero la proprietà ereditata dal
padre ed acquistata in comune. Con l'atto di divisione la proprietà della
masseria di S. Spirito passò al più giovane dei fratelli, don Giuseppe Frattarolo,
mentre al primogenito Raffaele andò il resto della proprietà, e l'altro fratello,
Massimo, un uomo di chiesa, ebbe la sua quota di eredità in denaro7.
Dall'annata agraria 1840-41 abbiamo i dati sulla produzione e sulle
colture della masseria, precedentemente, erano cumulati con quelli dell'altra
masseria di campo di proprietà della famiglia8.
TAB. 7
* Gli animali di buttereria erano: somari, giumente, buoi, mentre i soli cani non venivano
rilevati.
Altre notizie sulla censuazione e successiva affrancazione dei F.lli D'Onofrio sono
raccolte in:
A.S.F., Tavoliere di Puglia, Consiglio d'Intendenza, II Camera Decisioni, fascio n.
26, inc. n. 3130. A.S.F., Tavoliere di Puglia, Consiglio d'Intendenza, II Camera Processi,
fascio n. 88, inc. n. 2739. A.S.F:, Intendenza di Finanza, ramo affranchi del Tavoliere, fascio
n. 6, inc. n. 877.
7 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 503, inc. n. 2102. L'intera proprietà indivisa
venne valutata per complessivi d. 54.000.
8 - A.C.M., Cat. XI, fascio n. 2. Si veda lo stato dei raccolti del Comune di
Manfredonia, dove sono riportati i dati riuniti delle produzioni cerealicole delle masserie
Fontanarosa e S. Spirito dei f.lli Frattarolo.
37
Lo stato dei beni componenti l’industria di campo di don Giuseppe
Frattarolo è riassunto nella tabella seguente.
TAB. 8
Giuseppe Frattarolo richiese la censuazione di altri pascoli al Tavoliere e
l'acquisto di pascoli pubblici al comune di Manfredonia e di S. Giovanni
Rotondo9.
Infatti, le carra 3 e versure 10 della palude dello Zurlaturo, ereditate
insieme alle carra 5 circa di pascolo e mezzana di S. Spirito, non potevano
9 - A.S.F., Intendenza di Capitanata, affari comunali vol. IV, fascio n. 541, inc. n. 572.
38
assicurare nutrimento a tutti i suoi animali, il cui numero corrispondeva a 3.000
pecore10.
Perciò, il Frattarolo dovette ricorrere, come d'altronde ci risulta avesse
fatto insieme ai fratelli negli anni precedenti, ai pascoli comunali pagando la fida
civica.
I pascoli comunali erano soggetti alla fida civica, molto meno onerosa
del fitto d'erba da pagarsi ai privati, e venivano custoditi, da guardiani pagati
dal Comune, al fine di evitare abusi nell'uso del pascolo (affollamento del
pascolo, controllo sulla salute dei capi, etc.). Gli animali dei vari proprietari
pascolavano in comune ed erano distinguibili attraverso le marcature11.
L'elenco del prezzo pagato per fida civica nei pascoli comunali di Sciale,
Pagliete, Candelaro12 e il numero degli animali pascolanti del proprietario
Giuseppe Frattarolo sono riportati di seguito:
TAB. 9
* 48 buoi
** 45 buoi
*** 35 buoi
A dato del 1859
B dato del 1860
10 - Si calcolava un bufalo o un cavallo ogni 15 pecore ed una vacca ogni 10 pecore.
11 - A.S.F., Consiglio d'Intendenza, I Camera processi, fascio n. 115, inc. nn. 2391 e
2539. A.S.F., Consiglio d'Intendenza, I Camera Decisioni, fascio n. 14, inc. n. 1137.
Epizoozia equina degli animali di Giuseppe Frattarolo nel 1858 e abbattimento di 18
cavalli infetti. Contravvenzione elevata a Don Giuseppe Frattarolo per aver immesso
abusivamente degli animali bovini negli erbaggi di Candelaro di proprietà comunale.
Ricordiamo che la multa consisteva nella doppia fida. Per i ruoli della fida civica si veda:
A.C.M., Cat. XI, fasci nn. 10- 11- 12.
12 - Il demanio delle Mezzanelle (carra 19 di pascolo roccioso) di proprietà
comunale era fidato agli animali gentili ed aveva nel 1863 il seguente carico animale: pecore
n. 2.201; capre n. 429, somari n. 19.
39
Dalla tabella risulta evidente l'incremento di animali, principalmente
bovini (buoi), immessi nei pascoli comunali da Frattarolo e questo per le
seguenti ragioni: 1) aumento della superficie a coltivo in S. Spirito dal 1851 in
poi; 2) acquisto di pascoli in località Sciale ed Amoruso adibiti alle sole
giumente; 3) disponibilità di pascoli paludosi nella sua proprietà della palude di
Zurlaturo adatti ai soli bufali.
Nel 1841 Giuseppe Frattarolo e l'ex locato Rocco Romito di
Rivisondoli si accordarono sulla permuta di alcuni terreni limitrofi alle loro
censuazioni, che erano causa di continui diverbi13.
La permuta riguardò una piccolissima parte di terreni: Frattarolo cedette
al Romito versure 0,51 di saldo e ricevette in cambio versure 2,31 e ¾di saldo
dissodato e la differenza di valore (d. 150) venne pagata da Frattarolo a
Romito; il primo si accollò le spese di stipula del contratto rogato nel 1845 e,
infine, entrambi pagarono il laudemio di d. 5.
Nel 1853 Giuseppe Frattarolo acquistò la masseria del Macerone di
carra 7 e v. 14 dall'indebitato censuario Paolo Prete di Manfredonia al prezzo
di d. 4.800 con un laudemio di d. 9614.
Ma, la compravendita più particolare e interessante, anche se,
soventemente praticata in quel tempo, venne fatta da G. Frattarolo nel
novembre del 1844, quando acquistò alla condizione della "ricompra entro
cinque anni", dal versuriere Francesco Saverio Conoscitore, l'utile dominio di
versure 9 e catene 6 di pascolo dissodato nella posta di Parite ordinaria15.
Il prezzo pagato fu di d. 500 con un laudemio di d. 10, certamente un
ottimo prezzo per quei tempi.
A.S.F., Consiglio d'Intendenza, I Camera Processi, fascio n. 10, inc. n. 197.
Apprendiamo che nel 1809 il demanio comunale delle Pagliete (pascolo paludoso) di carra
14 fu affittato per d. 354.
13 - A.S.F., Amministrazione del Tavoliere, Scritture dell'Ufficio, fascio n. 20; A.S.F.,
Tavoliere di Puglia, fascio n. 504, inc. n. 2126, fascio n. 938, inc. n. 8/14, fascio n. 522, inc. n.
2669/31.
14 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 514, inc. n. 2471; fascio n. 515, inc. n. 2497,
fascio n. 524, inc. n. 2689/2. A.S.F., Consiglio d'Intendenza, I Camera Processi, fascio n. 108,
inc. n. 2312.
15 - A.S.F., Tavoliere di Puglia, fascio n. 515, inc. n; 2491, fascio n. 524, inc. n.
2682/2.
40
Dopo l'accordo del 1844, il fondo rimase in affitto al Conoscitore per
l'estaglio annuo di d. 82,37, da pagarsi a Giuseppe Frattarolo d. 50 ed il resto
da versarsi alla Cassa del Tavoliere ed alla Ricevitoria di Manfredonia per
canone ed imposta fondiaria.
Risulta chiaro dai fatti finora esposti che le intenzioni di Frattarolo erano
rivolte ad incrementare i suoi possedimenti, soprattutto di terreni dissodati,
preferendo per gli animali da lavoro gli economici pascoli comunali.
Le nuove acquisizioni di terreni non modificarono però il ruolo centrale
e dominante della masseria di S. Spirito, che rimase a lungo la principale fonte
di reddito per la famiglia Frattarolo.
Per quanto riguarda, le produzioni vegetali della masseria di S. Spirito, le
abbiamo divise in due gruppi omogenei, che sono:
A) le produzioni per il mercato (grano duro, grano tenero);
B) le produzioni per l'alimentazione degli animali da lavoro (orzo, avena,
fave, paglia).
Inoltre, è possibile individuare un terzo tipo di produzione: la produzione per il consumo del proprietario e dei suoi dipendenti (autoconsumo).
Ricordiamo che nel prezzo pagato al curatolo ed al sottocuratolo era incluso il
diritto di seminare gratuitamente una certa quantità di terreno a grano e legumi
(ceci, fave, etc.).
Ma, il nostro interesse si rivolgerà principalmente ai gruppi A e B di
produzione vegetale.
Per la semina che veniva effettuata manualmente o a "mano volante", si
calcolavano 4 tomoli a versura per il grano, da 5 a 6 tomoli per l'orzo, da 7 a 8
per l'avena e da 2 a 3 per le fave16.
L'epoca della semina dei cereali nel tenimento di Manfredonia era: per i
grani duri nel mese di novembre, per l'orzo dalla fine di novembre ai primi di
dicembre, per l'avena dalla metà alla fine di ottobre e per le fave dal primo al
quindici di ottobre17.
16 - Per il calcolo delle rese dei coltivi di S. Spirito abbiamo considerato i valori
massimi. Ad es.: per l'orzo si è calcolato 6 tomoli di semenza a versura.
17 - A.C.M., Cat. XI, fascio n. 8. nello stesso fascio abbiamo trovato una multa di
carlini 15, per "ristoppie bruciate" nella masseria di S. Spirito prima del tempo previsto per
legge, rilasciata al censuario Giuseppe Frattarolo.
41
Le operazioni colturali (aratura, semina, scerbatura delle erbacce,
zappettatura, falciatura, trebbiatura, ventilazione) costavano da un minimo di d.
30 ad un massimo di d. 40 la versura a seconda della "diligenza e capacità" del
coltivatore18.
In base alla produzione di un ventennio della masseria di S. Spirito
possiamo costruire una tabella riassuntiva sull'abbondanza dei raccolti delle
diverse colture cerealicole.
TAB. 10
N.= numero
I raccolti del primo ventennio della gestione da parte di G. Frattarolo
permisero la copertura dei costi variabili e, quasi sempre, quella dei costi fissi
(ammortamento fabbricati e animali da lavoro, canone, fondiaria, salariati fissi,
utensili ed attrezzi agricoli, ecc.).
Una calamità per i raccolti era costituita dalle invasioni delle cavallette che
depositavano le uova a milioni nei terreni saldi e dopo breve tempo dalla
schiusa spiccavano il volo nei campi coltivati distruggendo i raccolti19.
18 - Ibidem.
19 - A.C.M., Cat. XI, fasci nn. 1-3. nel manifesto (del 17-7-1825) fatto affiggere dal
Sindaco di Manfredonia, Alfonso Puotti, si legge: "Non essendo difficile, che i bruchi della
specie malefica sfuggiti alla vigilanza delle commissioni, o rimasti dispersi, e campati dalle
operazioni di caccia, dando al volo, venissero, dalle Provincie limitrofe infette, ad
ingombrare qualche punto di questo tenimento; Sono avvisati i Possessori, e tutti i nostri
campagnoli, che se mai si rinvenissero in qualche fondo di questi malefici insetti, dati alla
copola, per deporre le uova, di tenerne immediatamente istruita l'Autolità Comunale, la
quale avrà cura di passarne subito l'intelligenza al Sig. Intendente dalla Provincia, per le
convenienti disposizioni al di loro espurgo".
42
La lotta alle cavallette aveva risultati positivi solo con un lavoro di
prevenzione e, quindi, comportava una buona organizzazione da parte dei
pubblici poteri.
L'Intendente di Capitanata dirigeva da Foggia le operazioni di distruzione di uova e larve di cavallette incaricando i vari Comuni della Provincia di
operare per il meglio.
I Comuni organizzavano delle pattuglie che dovevano controllare i
pascoli delle proprie circoscrizioni e verificare l'esistenza di aree infestate.
In caso di infestazione si formavano delle squadre di lavoratori che
erano impiegate per la raccolta, manuale o con le racane (panni di tela
grossolana), delle uova e delle larve dei dannosi insetti.
Le costose spese per queste necessarie operazioni erano a carico dei
coltivatori che pagavano un tanto a versura seminata. Anche, l'Intendente
inviava un contributo governativo ai vari Comuni per la lotta alle cavallette.
Da quanto ci risulta nella masseria di S. Spirito i danni provocati dalle
cavallette furono ingenti solamente nel 1819, mentre, negli anni in cui il flagello
delle cavallette si abbatté sulla zona di Manfredonia (1809-1813, 1834, 1871), S.
Spirito non venne affatto interessata dalle infestazioni.
Quindi, le cattive annate agricole, dei cereali seminati nella Masseria, non
furono dovute che in minima parte all'invasione delle cavallette. Ben più gravi
furono le avversità climatiche (siccità, gelate, grandine, ecc.) che incisero
notevolmente sulla quantità e sulla qualità dei raccolti.
* A fine paragrafo riporteremo due tabelle, particolarmente interessanti;
la tabella delle versure seminate e quella delle produzioni vegetali (grano, orzo,
fave, avena) della Masseria con le rispettive produzioni unitarie (tomoli a
versura) e complessive; la tabella delle diverse coltivazioni della Masseria distinte
in due gruppi di produzione A e B (visti precedentemente) sono espressi in per
cento della superficie complessivamente investita a coltura nelle diverse annate
agrarie.
I dati degli anni non riportati nell'intervallo 1841-1865 mancano, eccetto
quelli del 1847, che davano una superficie seminata di versure 100 ma, non
specificano la varietà colturale e le rese unitarie.
Dall'osservazione delle due tabelle, possiamo constatare che la produzione rivolta al mercato (grano duro e tenero) riguarda quasi sempre i 4/5
della superficie coltivata; la produzione per il consumo degli animali (avena,
orzo e fave) riguarda il restante 1/5 della superficie coltivata;
43
l'avena ricopre un ruolo dominante nel gruppo B costituendo oltre la metà
della superficie coltivata, molto utilizzata per gli animali da lavoro e da reddito
della Masseria; l'incremento della superficie coltivata ad avena cresce, dal 1850,
conseguentemente alla maggior estensione coltivata e al maggior fabbisogno
alimentare dell'accresciuta mandria di animali da lavoro.
Nello stesso gruppo di produzione al calo della superficie investita a
orzo (alimento più caro dell'avena e utilizzato esclusivamente come mangime
per polli, suini ed ovini), poco rispondente alle necessità alimentari degli animali
allevati nella Masseria si contrappone la crescente seminagione delle fave, la cui
introduzione tenderà a sostituire il maggese nudo (riposo delle terre).
Infine, il grano tenero (majoriche) prende il sopravvento sul grano duro
con l'aumentare della superficie seminata (1850) e tale variazione positiva non è
da ricercarsi in un vantaggio economico (si veda al proposito la tabella della
voce dei prezzi dei cereali di Foggia 1841-1858)20, né in una
20 - A.S.N., Voci di Vettovaglie, fasci n. 100-101; A.S.F., Amministrazione del Tavoliere,
Scritture dell'Ufficio, fascio n. 22.
TAB. 11
Majorica= Grano tenero
44
Particolare del fabbricato.
45
migliore resa, (si veda la collana delle rese unitarie del grano duro e delle
majoriche prodotte in S. Spirito nelle annate agrarie 1841-1865)21.
Probabilmente, la causa della maggiore estensione delle majoriche a
discapito del grano duro è di natura agronomica, in quanto il grano tenero
sfruttando in misura minore il terreno, non incide eccessivamente sulla sua
fertilità. Ciò consentì a Giuseppe Frattarolo di allungare la durata delle
rotazioni agrarie e - come abbiamo visto - di ridurre la superficie lasciata a
riposo sostituendola in gran parte con la coltivazione ristoratrice del maggese di
fave22.
Purtroppo, i dati sul commercio dei grani prodotti, dei lavoratori fissi
(curatolo, gualano, metarolo, garzone) e di quelli stagionali (mesarolo,
giornaliero) ci mancano totalmente, anche se, non è difficile ipotizzare che il
raccolto venduto venisse spedito, via mare23 e, via terra, a Napoli e in altri
importanti centri commerciali24.
21 - A.C.M. Cat. XI, fascio n. 2. La statistica dei cereali del Comune di Manfredonia
era fatta per garantire l'approvvigionamento alimentare della popolazione ed ogni anno,
verso la metà di luglio, il sindaco faceva affiggere all'albo pretorio un manifesto del
seguente tenore: "Il Sindaco del Comune di Manfredonia invita tutti i massari di campo, e
versurieri ancora, di venire a dichiarare sulla Casa Comunale fra trenta giorni a contare da
oggi, il quantitativo delle versure da ciascuno seminate in Grano, Maioriche, Orzo, Avena,
Fave, e legumi diversi, ed il prodotto di esse; come pure il quantitativo d'ogni sorta di
generi che tuttavia hanno, tanto ne' Magazzini di Città e di Campagna, che nelle fosse delle
Masserie o altro".
22 - L'introduzione del maggese di fave tra le coltivazioni cerealicole della masseria
di S. Spirito consentì di effettuare, per un breve periodo, una rotazione quinquennale:
I anno: grano duro;
II anno: grano tenero;
III anno: ringrano;
IV anno: orzo e avena;
V anno: maggese di fave e maggese nudo.
Per le terre meno fertili e più stressate si continuò ad attuare la rotazione
quadriennale, quindi con il maggese al IV e ultimo anno della rotazione.
23 - F. ASSANTE, Città e Campagne nella Puglia del sec. XIX, Ginevra 1974, pag. 84:
"Un ottavo del valore della merce era pagato per dazi e balzelli ed altro all'atto d'imbarco
della merce nel porto di Manfredonia..." e a pag. 183: "Nel secolo XIX l'importanza del
suo porto era solo un ricordo".
24 - G. CINGARI, op. cit., pag. 157. "Il mercato granario del Regno dì Napoli era
dominato da alcune grosse compagnie commerciali (Forquet, Volpicelli, Buono, ecc.) che
rastrellavano l'intera produzione agricola del paese; cosi facendo, potevano influire
notevolmente sull'andamento dei prezzi ed inoltre mescolavano i grani nuovi con i vecchi
e i buoni con i cattivi, così da alterare le buone e le cattive annate agrarie, riuscendo a
guadagnare bene in qualsiasi momento e situazione".
46
La possibilità di conservare il raccolto cerealicolo, nelle fosse granarie
della masseria di S. Spirito con la capienza di tomoli 3.049 e, nel magazzino di
Manfredonia, consentiva all'agricoltore Frattarolo di poter vendere ai
commercianti quando il prezzo dei cereali saliva, mentre la maggioranza degli
agricoltori era costretta a vendere il prodotto sull'aia accettando le basse
quotazioni dei prezzi dei mesi estivi, perché non potevano conservarlo per la
mancanza di magazzini propri o avevano urgente bisogno di denaro per
pagare i debiti scaduti (canone, fondiaria, prestiti usurari, ecc.)25.
Con la legge per l'affrancamento delle terre del Tavoliere di Puglia del
26-2-1865, n. 2168, si prescrisse l'affranco coattivo dei canoni del Tavoliere e la
riunione al dominio utile dei censuari anche del dominio diretto demaniale
(art.1).
Lo Stato riconoscendo la proprietà privata delle terre del Tavoliere ai
censuari, converti il suo dominio diretto in un credito ipotecario, composto da
un capitale pari a 22 volte il canone (art. 2).
Il credito si doveva esigere in 15 rate annue, a partire dal 1° gennaio
1868, coll'interesse a scalare del 5%. Sino al 31-12-1867 i censuari avrebbero
continuato a pagare il solo canone a titolo d'interesse (art 4)26.
Il 16-8-1872 don Lorenzo Frattarolo, del fu Giuseppe, si recò nel
Palazzo della Prefettura di Foggia per effettuare il pagamento della prima
25 - R. VILLARI, Mezzogiorno e contadini nell'età moderna, Bari 1961, pagg. 40-41: "I
contratti alla voce erano molto diffusi nelle campagne del Meridione, e consistevano nella
vendita anticipata dei prodotti da parte del coltivatore ad un prezzo che non veniva fissato
al momento dell'anticipazione del denaro ma successivamente, durante il raccolto: questo
prezzo, che «non era il prezzo vero ed effettivo del genere» si formava pubblicamente
quando i contadini, secondo gli obblighi contrattuali che ponevano un termine per la
restituzione (luglio-agosto per il grano, marzo-aprile per l'olio) vendevano i loro prodotti,
cioè nel momento in cui si riversava sui mercati agricoli locali la quasi totalità della
produzione destinata al commercio: era il momento in cui il ciclo annuale dei prezzi
agricoli raggiungeva, in periodi normali, le quote più basse".
26 - I censuari potevano liberarsi del loro debito, cedendo allo Stato titoli di
rendita al 5%, iscritti sul Gran Libro del Debito Pubblico, al loro valore nominale (art. 5),
mentre l'art. 10 stabiliva la conservazione dei tratturi e dei riposi del Tavoliere per comodo
della pastorizia fino a quando non ne fosse venuta meno la necessità e l'art. 11 aboliva la
somministrazione gratuita del sale a partire dal 1865.
La legge del 1865 fu prorogata, ed in seguito modificata, con le leggi 7 luglio 1868,
n. 4474, e 9 marzo 1871, n. 103.
47
48
rata di L. 8.000 circa del suo debito verso il Tavoliere e, dopo quindici anni, di
pagamenti allo Stato, ottenne la tanto desiderata e sofferta "conquista" della
proprietà privata sulla masseria di S. Spirito 27.
Michelangelo Laviano
TAB. 13
* I valori dal 1855 in poi sono comprensibili anche delle superfici seminate nella masseria
del Macerone calcolabili nella misura dal 20% al 30% del totale.
27 - A.S.F., Intendenza di Finanza, Ramo affranchi del Tavoliere, fascio n. 7, inc. n.
929; fascio n. 8, inc. nn. 1024-1025. Nell'agosto del 1873 la seconda rata fu di L. 7.770,76, e
quella di agosto del 1875 di L. 7.421,36.
49
LA CARTOGRAFIA TRATTURALE *
Alcuni fondi documentari dell'Archivio di Stato di Foggia offrono un
notevole esempio di cartografia tematica che, per il particolare territorio
rappresentato, il tratturo, può definirsi unico.
Esso si collega alla storia della pastorizia del regno di Napoli e quindi
all'organizzazione della Dogana delle pecore di Foggia e dell'Amministrazione
del Tavoliere, le due magistrature che dal XV al XIX secolo regolarono
quell'attività economica nel Mezzogiorno.
I tratturi, le strade erbose percorse nei secoli dalle greggi che si
spostavano fra l'Abruzzo e la Puglia, furono sempre elemento essenziale della
transumanza e frequenti destinatari di provvedimenti e di interventi di
salvaguardia.
In epoca remota dovevano essere soltanto delle piste di terra battuta che,
per ragioni di convenienza, i pastori annualmente utilizzavano per le loro
migrazioni e che dovevano corrispondere in parte alle calles o viae publicae del
periodo romano.
In seguito, in considerazione della loro necessità e con l'intento di
impedire le appropriazioni che a danno dei pastori ne facevano i proprietari
confinanti, ne fu fissata la larghezza, con norma che non ammetteva deroga.
Ogni tratturo, si decise fin dai tempi più antichi della Dogana, doveva
essere largo 60 trapassi (m. 111 circa), di modo che in esso le morre potessero
rinvenire e il comodo transito e la possibilità di una permanenza limitata alla
notte nonché un qualche pascolo.
Sui tratturi era vietato "mantenere vigne, ortali, arbusti, giardini, seminati,
difese" ed essi, anche se passavano attraverso territori feudali, conservavano
indenne la loro natura di "regalia del Principe" riconosciutagli dai giuristi, con la
conseguenza che dei reati avvenuti lungo queste vie delle greggi conosceva il
giudice speciale della Dogana e mai la corte baronale.
* Comunicazione fatta all'Incontro di studio sul tema "Fonti cartografiche e storia"
presso l'Archivio di Stato di Napoli (3-4 luglio 1987).
51
Quale importanza dalla Dogana si attribuisse ai tratturi viene indicato dal
fatto che apposite squadre di cavallari ogni anno erano incaricate di sorvegliarli
e di proteggere i pastori (locati) in transito lungo di essi, come pure da alcuni
bandi del doganiere Fabrizio di Sangro degli anni 1574 e 1575 che ai capitani,
mastrogiurati, sindaci ed eletti dei centri per cui passavano tratturi
comminavano la multa dì 1000 ducati, se ne avessero trascurata la custodia,
mentre gli occupatori si minacciavano addirittura di pena di morte.
I tratturi si distinguevano in principali, propri e fissi, ed in casuali ed
amovibili; il collegamento fra loro e quello con i centri minori abitati era
assicurato da percorsi meno spaziosi, detti tratturelli e bracci.
Tutti prendevano il nome distintivo dai paesi toccati dai loro punti
estremi o dai più importanti luoghi di attraversamento (ad es. tratturo
Aquila-Foggia; Celano-Foggia; Lucera-Casteldisangro; Pescasseroli-Candela;
tratturello Orta-Tressanti; Canosa-Ruvo; Orsanese; dei Pini, ecc.).
Nel 1959 vennero identificati come demaniali 14 tratturi, oltre a 71
tratturelli e 13 bracci.
Frequentemente i comuni, i baroni o altri proprietari dei fondi limitrofi
ai tratturi ed ai tratturelli occupavano una parte di questi o costruendovi edifici
o seminandovi, e ciò faceva indispensabile ogni tanto riportare le cose allo stato
pristino mediante operazioni chiamate reintegre che la Dogana effettuava con
propri tecnici ed esperti, i regi compassatori o agrimensori.
Le reintegre consistevano essenzialmente in nuove misure dei suoli
tratturali, sulla scorta di antichi documenti e anche di testimonianze di persone
anziane e pratiche dei luoghi, e nell'apposizione nel terreno di colonnine di
pietra (titoli), sulle quali erano scolpite le lettere R.T. (Regio Tratturo), per
segnare l'andamento e l'ampiezza del particolare itinerario.
Si concludevano con l'erogazione delle pene e con le multe inflitte agli
usurpatori di porzioni tratturali.
Si ebbero reintegre già nel 1508 e nel 1533 ma, perdurando il fenomeno
delle occupazioni, parve bene nel 1549 disporre che, necessitando per la
reintegrazione "diroccare qualche edificio o vigna, in caso che possa darsi
altrettanto tratturo in altra parte, pur che sia poco distante e comodo, si debba
fare a spese degli occupatori, senza abbattere detti edifici e vigne, per
52
la regola... che ciò che ad uno non nuoce ed all'altro giova, dee per equità
praticarsi".
Diverse altre operazioni di reintegre si effettuarono anche dopo, per
l'intera rete o solo per qualche tratturo, e le loro descrizioni possono ancora
leggersi in un importante volume dell'archivio doganale (s. I, n. 17). Riferite a
misure di tratturi disposte da varie autorità nel Cinquecento e nel Seicento
(doganiere Fabrizio di Sangro, 1574-1576; uditore doganale Lelio Riccardo,
1599-1600; presidente della Sommaria Pietro Antonio Mastrillo, 1601; duca di
Vietri, 1611-1612; duca della Regina, 1645), nessuna di esse fu accompagnata
dalla redazione di mappe dei terreni reintegrati.
In effetti la prima rappresentazione tratturale fu elaborata solo qualche
tempo dopo, nell'ambito della reintegra ordinata nel 1649 e terminata nel 1652
che prese nome dal governatore doganale Ettore Capecelatro, marchese di
Torello. Sia le relazioni dei vari tecnici misuratori sia le piante dei tratturi
disegnate in monocromia da Giuseppe de Falco si conservano tuttora (s. I, n.
18). In queste piante l'immagine del tratturo è inserita in quella del territorio
attraversato, del quale con tratto grafico non privo di freschezza e con l'uso di
varie prospettive si riproducono fondamentali dati di orientamento e di
localizzazione, quali centri abitati, edifici particolari, corsi d'acqua, ponti, rilievi
orografici, alberazioni e così via.
Un'altra rappresentazione di importanti percorsi tratturali (Aquila-Foggia,
Celano-Foggia, Casteldisangro-Lucera ecc.) venne elaborata nel 1712, durante
la reintegra ordinata dal governatore doganale Alfonso Crivelli, duca di Rocca
Imperiale (s. I, n. 19).
Alla redazione delle piante attesero, con varietà di contributo individuale,
i regi compassatori Giacomo di Giacomo e Michele Sarracca, compilandole a
colori ma, così come il de Falco, senza un rapporto di scala.
E piante a colori e senza scala, dovute ai compassatori Nicola Conte e
Vincenzo Magnacca, corredano anche la relazione sulla reintegra del tratturo
Pescasseroli-Candela fatta nel 1778 (s. I, b. 128, f.lo 2041).
La raffigurazione in mappa delle vie della transumanza meridionale si
rinviene non solo in questi specifici documenti che riflettono operazioni di
reintegra di vasto respiro, ma anche in numerosi altri dell'archivio della Dogana,
nei quali molto spesso sono piante singole di parti tratturali.
53
Anche gli atlanti a colori denominati "Michele" e "Della Croce",
finalizzati alla restituzione grafica dei molti territori soggetti alla Dogana,
presentano nelle loro tavole il disegno del tratturo che attraversava o sfiorava i
vari fondi a pascolo (s. I, nn. 20, 21).
Il primo, compilato da Antonio e Nunzio Michele di Rovere, risale alla
seconda metà del Seicento; il secondo, lunghissima fatica dell'agrimensore
Agatangelo Della Croce di Vastogirardi, agli anni 1735-1760.
Le loro piante - quelle del "Michele" sprovviste di scala, quelle del "Della
Croce" rapportate ad una scala di passi 1000, le une suggestive ma simboliche
ed approssimative, le altre essenziali, a base tecnica ed affidabili - si pongono
come espressioni emblematiche dei progressi compiuti, negli anni a cavallo fra
il XVII ed il XVIII secolo, dalla disciplina praticata dai compassatori doganali,
ed in particolare dal modo di riprodurre il percorso tratturale.
L'immagine del tratturo delineata dal Della Croce rivela una tecnica
ormai avanzata, distante dagli schematici schizzi del de Falco, nei quali le
lunghezze sono senza scala e dove i lati consecutivi formano angoli appena
accennati, o dai disegni del Di Giacomo e del Sarracca, più accurati ma
anch'essi non rapportati ad un qualsiasi modulo scalimetrico.
Moltissimi altri fascicoli dell'Archivio di Stato di Foggia si riferiscono ai
tratturi e appartengono a fondi di vario contenuto (ad es. "Tavoliere di Puglia";
"Intendenza di Capitanata, Amministrazione finanziera"; "Consiglio
d'Intendenza, II Carnera" oppure formano serie particolari "Tratturi I",
"Tratturi II"; "Direzione del servizio di custodia ed affitto dei regi tratturi".
Di grande e specifico interesse è poi il fondo denominato "Reintegra dei
tratturi", ricco, fra volumi di atti ed atlanti di piante, di 144 unità archivistiche.
Le scritture di questo fondo riguardano le maggiori reintegre del secolo scorso.
Decretando la fine della Dogana delle pecore, la legge 21 maggio 1806
affidò alla subentrata Giunta del Tavoliere anche l'incombenza di una nuova
sistemazione tratturale. Le operazioni relative si iniziarono solo nel 1809,
quando ormai l'Amministrazione del Tavoliere non era più diretta dalla Giunta
ma dal duca della Torre, e nel 1812 risultavano ancora non terminate.
54
Una folta schiera di regi agrimensori, sotto la direzione di commissari, fu
impegnata nella reintegra. Alla redazione delle mappe, tutte rapportate ad una
scala geometrica di passi 100 per la lunghezza e 60 per la larghezza, e nelle quali
si fece raro uso del colore, attesero principalmente Giuseppe d'Ecclesia,
Diomede e Lucio di Padova, Luigi Tansi, Michele Nicola de Dominicis,
Vincenzo d'Antinone, Vincenzo Magnacco, Pasquale Aratari, Vincenzo
Fantozzi, Mattia Freda, Benedetto di Capite, Domenico Sbano, Stefano Maggi,
Pietro Martire Ursitti (atlanti mi. 1-28, 32, 62-104).
Al tempo della Restaurazione, tra i molti provvedimenti normativi
adottati per i tratturi, dalla legge 13 gennaio 1817 (artt. 53-57) al decreto 14
dicembre 1858, una particolare rilevanza assunse il decreto 9 ottobre 1826, in
forza del quale l'Intendente di Capitanata, Commissario Civile del Re con i
poteri dell'Alter Ego, avviava una nuova generale reintegra, che nel 1843 non
risulta ancora conclusa. Quasi tutte le mappe allora compilate furono redatte
dal regio agrimensore Michele Jannantuono (atlanti nn. 29-31,33-61).
La legislazione postunitaria (1.26 febbraio 1865, n. 2163 e regolamento
23 marzo 1865, n. 221), abolitiva del sistema del Tavoliere, fece cessare anche il
sistema di amministrazione unica dei tratturi incentrato a Foggia presso
l'Intendente e il Direttore del Tavoliere ed affidò la loro conservazione alle
Direzioni delle Tasse e del Demanio delle province interessate.
Dieci anni dopo una circolare del Ministero delle Finanze, la n. 353823682 del 18 marzo, ordinava quella che sarebbe stata l'ultima reintegra
tratturale. Le relative operazioni, curate dall'Ispettorato forestale di Foggia,
durarono dal 1875 al 1884; i rilievi in pianta ebbero per autori i geometri
Pellegrino Prati, Giovanni Battista Varrassi, Luigi de Simone, V. Petrosillo, F.
Vallone, Eduardo Bonamici, Antonio Santoro, Carlo Ciampi, Vincenzo
Ventrella ed altri (atlanti nn. 105-142).
Gli elaborati cartografici delle tre reintegre ottocentesche (in scala 1:5000
quelli della seconda e della terza) consistono in tavole di grande formato
rilegate in album. Ognuna di esse presenta il corso del tratturo in un
determinato tenimento comunale.
Le planimetrie, includendo sempre l'indicazione delle occupazioni
abusive e venendo affiancate dalla lista degli occupatori, sono precedute negli
atlanti delle reintegre del 1826 e del 1875 da cenni storici sui tratturi
55
e sulle antiche reintegre e da specchi o prospetti in cui si riportano la lunghezza
dei lati e l'ampiezza degli angoli.
Diversamente dalle mappe della reintegra effettuata nel decennio
francese, che ricordano ancora per qualche verso la cartografia settecentesca,
quelle delle successive reintegre, pur non prive di qualche errore, contengono
una rappresentazione territoriale di tipo decisamente moderno.
Pasquale Di Cicco
56
NOTA BIBLIOGRAFICA
M.E. De Lisi, I. di Cicco, R. Di Rienzo, La misura e l'immagine del Tavoliere
e dei suoi tratturi, in ARCHIVIO DI STATO DI FOGGIA, Cinque secoli, un
archivio (catalogo della mostra), Foggia 1984; P. di Cicco, Percorsi delle vie
armentizie del Tavoliere di Puglia, in ARCHIVIO DI STATO DI FOGGIA, Le vie
della transumanza (catalogo della mostra), Foggia 1984; Id., La transumanza e gli
antichi tratturi del Tavoliere, in Regione Puglia, Assessorato alla P.I. e Cultura, Profili
della Daunia antica. Il ciclo di conferenze sulle più recenti campagne di scavo,
Foggia 1986.
57
IN RICORDO DI U. JARUSSI
Nel riproporre nella rivista "La Capitanata", al suo ventisettesimo anno
di vita, il saggio "Trasformazioni paesaggistiche e ambientali ad opera
dell'uomo nel Tavoliere di Puglia" di Ugo Iarussi, la Biblioteca Provinciale
intende ricordare con mestizia e con deferente omaggio l'amico carissimo,
urbanista, pittore, cultore delle vicende storiche della città di Foggia, da lui
appassionatamente amata, e delle peripezie della sua "Capitanata triste", oggi
risorta a nuova vita e in attesa di più esaltante futuro.
Tutte le sue pubblicazioni1 molto apprezzate presso la Società di Storia
Patria per la Puglia, della quale era socio ordinario, sono un tormentato
omaggio alla sua Città, della quale, con la precisione di un romantico
viaggiatore dal settecento ha saputo scoprire e mettere in evidenza i più
reconditi aspetti artistici del Centro antico, e il suo cruccio per lo stato di
abbandono in cui è tenuto dai suoi cittadini più responsabili.
1 - Tre fiamme sull'acqua. Simbologia iconoclastica e culti esoterici nella Antica Daunia,
Foggia, 1970.
- La torre del Fico in Manfredonia, Foggia, Amministrazione Prov.le, 1972.
- Discontinuità storica nello sviluppo urbano della città di Foggia, Foggia, Società Dauna di
Cultura, 1973.
- Foggia. Genesi urbanistica, vicende storiche e carattere della città, Bari, Adda, 1975.
- Trasformazioni paesaggistiche ed ambientali ad opera dell'uomo nel Tavoliere di Puglia, Bari,
Tip. Grandolfo, 1977.
- Il mito di Leda, Foggia, ed. tip. F. Leone, 1977.
- Polemiche e storia intorno al restauro di Palazzo Dogana a Foggia, Foggia, Amministrazione Prov.le, 1980.
- Il verde e la città, Foggia, ed. tip. F. Leone, 1982.
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Ma quel che preme in modo particolare ricordare in questa sede non è
soltanto il suo assiduo interesse alla fortuna della rivista "La Capitanata", della
quale è stato apprezzato collaboratore, ma soprattutto il grande, insostituibile
contributo dato alla nascita e alla costruzione della nuova Biblioteca di Foggia.
Stimolato dal direttore pro tempore, che gli esponeva tutti i problemi e
le necessità di una illuminata committenza, forte e feconda fu la collaborazione
tra l'Architetto Iarussi e la direzione della Biblioteca, fino alla compilazione di
un progetto e poi di un capitolato per il successivo appalto-concorso per la
progettazione e la costruzione, in tempi brevi, (1972 - ottobre 1974) della
nuova sede della Biblioteca Provinciale e del Sistema Bibliotecario Provinciale.
Gli elaborati furono attentamente esaminati e discussi da una speciale
Commissione, all'esito dei cui lavori fu determinante l'apporto dell'architetto
Ugo larus si, che, insieme con il direttore della Biblioteca Provinciale di Foggia,
si recò a Roma a illustrare le caratteristiche del progetto vincente e le particolarità del plastico relativo presentati dalla ditta Feal di Milano, allo scopo di
ottenere dall'allora direttore generale delle Accademie e Biblioteche, dr.
Salvatore Accardo e dalla Ispettrice Centrale, dr.ssa Virginia Carini Dainotti,
tutti i necessari illuminati consigli per migliorare, nella razionalità dell'uso
pubblico della Biblioteca, il progetto da realizzare. Non è da sottovalutare un
aspetto umano molto caratteristico della personalità dell'architetto Iarussi,
uomo di grande umanità e tolleranza, di squisita sensibilità e di grandissima e
ricca esperienza di vita. Intendiamo riferirci alla sua naturale affabulatrice
ricchezza di motti e di proverbi popolari, alla sua arguzia e al suo innato e
spiccato senso di umorismo.
60
Anche nelle occasioni di dibattito più lacerante e teso, sapeva trovare le
parole distensive e accattivanti che servivano a distendere l'atmosfera e a
riportare buonumore nell'ambiente surriscaldato. Ricordiamo le sue
complimentose galanterie, ben accette e apprezzate, a Roma, in casa della
dottoressa Carini Dainotti, che non possiamo non rammentare, con devota
riconoscenza, per il suo contributo di studio e di idee per la migliore
realizzazione della nuova Biblioteca di Foggia. La rivista "La Capitanata" e la
Biblioteca Provinciale di Foggia, ricorderanno agli studiosi e ai cittadini di
Foggia il compianto amico Ugo Iarussi, con iniziative e progetti importanti, in
cui riverseranno l'intelligenza e l'attenzione dovute a un uomo che, con la Sua
scomparsa, ha lasciato un grande vuoto nella sua amatissima città.
Il primo affettuoso contributo è dato dalla pubblicazione di questo suo
saggio, così ricco di notazioni storiche e culturali e di sagace "excursus"
attraverso le vicende tristi e liete del Tavoliere di Puglia. Il motto da lui
sottolineato, e tratto dalla "Ragione pastorale" di Stefano di Stefano, possiamo
ben ritenerlo emblematico di una vita esemplare di studio e di lavoro.
Si, amico Ugo: "Vel Carpitur Vel Colitur".
Angelo Celuzza
61
TRASFORMAZIONI PAESAGGISTICHE
ED AMBIENTALI AD OPERA DELL’UOMO
NEL TAVOLIERE DI PUGLIA
Nelle desolate zone destinate a "colture estensive", sui terreni già soggetti
a "vincoli doganali", oggi finalmente, viene spesso riproposto, in termini nuovi
per il Tavoliere di Puglia, l'antico tema della masseria.
Una volta la masseria era costituita da vasti fabbricati, per ospitare, solo
saltuariamente, uomini e bestie destinati a lavori stagionali.
Nelle nuove aziende, invece, viene realizzato un regime del tutto diverso.
Le costruzioni, prima isolate in vaste estensioni brulle, vengono
circondate oggi da verdi sistemazioni arborate e vanno inglobando, in un
complesso unico, capannoni preesistenti e vecchi magazzini; prevalgono, però, i
nuovi edifici che denunciano insediamenti umani talvolta permanenti, di grande
interesse per la storia del paesaggio rurale della "Puglia piana".
I locali per le industrie, i caseggiati per i salariati fissi e gli appartamenti
per le famiglie dei proprietari, sono organizzati come in antiche ricostruite
cittadelle, di nostalgico ricordo patriarcale, di sapore antico, anacronistico forse,
ma che non per questo risultano irrazionali o poco efficienti.
Com'è stato possibile passare dalla malaria di ieri, dallo scoramento e
dalla desolazione mortale, allo splendore, spesso opulento, di così nuove
sistemazioni?
Come ha potuto un'agricoltura povera diventare altrettanto nuova, ricca
e ferace, in una terra fino a ieri sfruttata principalmente a pascolo?
Quali forze nuove hanno potuto vincere regimi di obbligatorio sfruttamento, di pigrizia e di ignoranza?
Vel carpitur vel colitur
Con questo motto ed all'insegna di una bella incisione dello scultore F.
de Grado, Stefano di Stefano inizia il secondo volume di una sua complessa
62
opera sulla storia del Tavoliere di Puglia, «per tutto ciò che appartiene alla mena
delle pecore, al tribunale della Dogana ed alle concessioni dei terreni dati in fitto
per uso agricolo» (Della ragion pastorale, Napoli, Stamperia D. Rosselli, 1734).
Carpire o coltivare? Menare nei grandi pascoli greggi ed armenti liberi di
brucare le erbe spontanee dei campi, o raccogliere, con la fatica dell'uomo, i
prodotti delle sementi affidate alla fecondità della terra?
Nel Tavoliere di Puglia1 questo dilemma durò per secoli, portando
sempre a soluzioni errate sia per gli allevatori che per l'attività agricola: da una
parte le grandi morie di bestiame, soggetto a lunghe e faticose transumanze, e
dall'altra l'appantanamento di terre mai completamente dissodate.
I difficili bilanci di una economia povera e le coercizioni imposte da
regimi di sfruttamento determinarono l'arretratezza che, per lunghi anni,
doveva affliggere la parte più generosa del territorio pugliese.
Transumanza e pastorizia contribuirono a dare un volto triste al grande
Tavoliere, esasperando la inospitalità di un ambiente già degradato da violenti
precedenti storici e dove alla fine solo la malaria imperava mortale.
Il contadino veniva avversato dalla tracotanza pastorale, che considerava
intrusione estranea ai propri interessi ogni tentativo di stabile insediamento
umano; e, tuttavia, più che dal conflitto di contrastanti economie, egli veniva
vinto dall'insidia della perniciosa.
Solo pochi coraggiosi resistevano alle lotte e alla decimazione, ma non
riuscirono mai a modificare, in modo veramente definitivo e rinnovatore, una
situazione nata da errori antichi e codificata da leggi inique ed ottuse discipline.
1 - Per Tavoliere di Puglia s'intendeva l'insieme dei terreni soggetti alla Dogana
della mena delle pecore. La Dogana ebbe sede prima a Lucera e poi a Foggia. I terreni
destinati a pascolo oltre ad occupare gran parte della Capitanata proseguivano in terra di
Bari, in terra d'Otranto e nei paesi pedemontani della limitrofa Lucania, fino alla valle del
Bradano. Oggi deve distinguersi una certa differenza nell'uso del termine Tavoliere, a
seconda che venga inteso nel senso attuale e geografico della pianura di Capitanata o che
venga riferito all'oggetto storico della giurisdizione della Dogana. Si consideri a tal
proposito che il nome di Tavoliere può essere derivato dalle tavole censuarie (tabularium)
per l'applicazione dei censi pascolativi.
Il tabularium in dialetto veniva chiamato "U tabelliere".
63
La incomprensione di amministratori avidi e lo sfruttamento disamorato
di governi stranieri miravano all'unico interesse di spremere, a favore dell'erario,
l'ultima goccia di sangue ancora valido per incrementare al massimo le entrate
nelle casse dello Stato.
Nell'abbandono di campagne incolte e malsane, il Tavoliere diventava un
luogo sempre più brullo e selvaggio.
Oggi questo abbandono è solo un ricordo storico, anche se molto
recente. Nel secolo XVIII, invece, scrittori vari e viaggiatori stranieri in giro per
il mezzogiorno d'Italia potevano facilmente attribuire al paesaggio interessato
dai pascoli pugliesi, appellativi pittoreschi, ma drammaticamente veritieri, come
«deserto del Regno di Napoli», «Sahara delle nostre contrade», «steppa forzata»
«rifugio della barbarie» e «massimo campo della gloria e della legislazione dei
Tartari» (da Antonio Lucarelli, La Puglia nel Risorgimento, Bari, 1931, Vol. I, pag.
28).
L'antica ricchezza
Questa grande pianura non fu sempre così abbandonata, né sfruttata
fino all'impoverimento e alla degradazione.
Rilievi aerofotogrammetici, studi ed esplorazioni, sondaggi e scavi
vengono periodicamente coordinati dall'Istituto italiano di preistoria, allo scopo
di definire, in una mappa precisa, l'antica topografia dell'attuale Tavoliere.
Intanto, le località già sicuramente ubicabili permettono di individuare numerosi
stanziamenti umani, che vanno dal periodo neolitico a tutto il medio evo.
Evidentemente, fin dai tempi più lontani, la pianura pugliese poteva essere
abitata senza danni e senza pericoli per l'uomo; e ciò malgrado la presenza di
vaste zone umide che andavano continuamente mutando nel tempo il profilo
delle proprie coste. Infatti, la geografia locale subiva varianti paesaggistiche ed
ambientali per le continue modificazioni provocate da disgeli, alluvioni e
bradisismi.
L'uomo a tali mutamenti deve adattarsi spostandosi di volta in volta nei
siti più elevati ed occupando aree nate da colmate recenti e che consentono la
facile messa a coltura di terreni vergini, freschi e fecondi.
Egli, a questo punto, ha già rinunciato al primitivo predaggio, alla vita
nomade e alla caccia come sua unica risorsa di sostentamento. Diventa
agricoltore e lascia sulla terra i segni del suo lavoro. Ha dimore fisse: non
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più antri e caverne naturali, ma capanne riunite in semplici e sparuti villaggi.
Quando i villaggi diventeranno più grandi e le comunità più consistenti,
più popolose e più organizzate, lunghi fossati verranno scavati per difendere le
case dagli assalti notturni di fameliche fiere; grandi opere idrauliche
assicureranno in cisternoni comuni la provvista d'acqua durante la stagione
secca e recinti permanenti verranno innalzati per il ricovero degli animali allevati
in cattività.
Pur dovendosi sempre adattare alle esigenze di una giovane terra ancora
in formazione, questi primi laboriosi pugliesi già sono capaci di migliorare
l'ambiente, per assicurarsi più ricche possibilità di vita.
Dalle presunte palafitte di Passo di Corvo (agro di Foggia), ai villaggi
sorti sulle colmate di Marandrea (agro di Manfredonia) e via via, fino ai campi
delle stele antropomorfe daune (zona di Siponto), non meno di cento tracce di
insediamenti antichi possono essere individuati.
Per ognuno di essi, esami stratigrafici, reperti litoidi e ritrovamenti
ceramici permettono di risalire all'epoca dell'insediamento e di interpretare il
livello di civiltà raggiunto dalle popolazioni, oltre alla cultura che presiedeva alla
loro economia.
Il clan è quasi sempre pacifico e laborioso, tutto dedito all'agricoltura,
alla pastorizia ed all'allevamento di piccoli animali domestici, pur senza
rinunciare del tutto alla caccia e alla pesca. Attività, queste ultime, favorite dalla
persistente presenza di vasti e limpidi specchi d'acqua.
E' difficile, in mancanza di mappe ancora in corso di rilevamento,
immaginare con sufficiente attendibilità le caratteristiche di un paesaggio avvolto
dalle spesse nebbie di tempi troppo lontani.
Più facile è, invece, immaginare questo stesso paesaggio in epoca dauna
ed ellenistica e nel successivo periodo romano, fino alla caduta dell'impero.
Le «affaticate querce», che resistevano con tenacia agli impetuosi venti
adriatici, scendevano da monti del Gargano fino a valle, dove nella grande
pianura, diradandosi, cedevano il posto ai lecci ed al lauro, al pino, al salice e al
tamarice, o a cento altre essenze acquatiche e lacustri.
Strabone descriveva dettagliatamente i laghi di Salapia e di Siponto,
navigabili e collegati da canali navigabili, che assicuravano i traffici continui tra il
mare aperto ed i porti lagunari1.
2 - Geografia, 6-3-9.
65
Si sa anche dei grandi bacini di Arpi, navigabili ed anche essi collegati da
canali di immissione e di smaltimento, con i fiumi della zona.
In questi antichi laghi le acque mobili non favorivano la malaria, perché
venivano continuamente rinnovate dal ricambio di correnti, marine e fluviali,
disciplinate da canali artificiali tenuti in continuo stato di efficienza dall'opera
assidua dell'uomo.
L'abbandono
Il concetto di dissesto ecologico sembra derivato dalla conquista di una
nuova coscienza civile, legata al tormento sociale di questi ultimi tempi ed alla
paura di un negato futuro; ma, forse, di nuovo non c'è che l'uso di parole
create di fresco e subito diventate di moda.
Fu per evitare il dissesto ecologico della grande pianura che antichi nostri
progenitori si affannarono per secoli intorno alla manutenzione d'imponenti
opere di bonifica idraulica. Una bonifica intesa diversamente da quella odierna,
perché non mirava al prosciugamento delle acque, ma alla loro conservazione
in continuo stato di salubrità.
Solo l'abbandono di tali opere poteva portare le terre alla malaria e solo
la miseria poteva portare all'abbandono.
L'uno e l'altra arrivarono, purtroppo, nel nome di Roma.
Finite le guerre puniche, distrutta Cartagine, Roma impose pesanti
umiliazioni alle città che si erano apertamente schierate con Annibale.
Distruzioni parziali, onerosi tributi e controlli diretti ridussero a cosa
irrisoria la ricca economia di Arpi. Per il conseguente decadimento economico
di tutta la regione, ulteriori squilibri subirono Siponto e Salapia, specie per la
inerzia delle attività portuali, che dal commercio e dalle industrie di Arpi
traevano motivi di ricche attività marinare.
Non fu che l'inizio, ma così gravi furono i danni che non si ebbe tempo
di porvi riparo. Stentatamente le città sopravvissero fino alla caduta dell'impero:
poi, a poco a poco, si arrivò all'esodo dalle campagne ed allo spopolamento
dei centri abitati.
Nessuno più curava lo sgombero degli abbondanti detriti fluviali ed i
canali artificiali si intasavano, mentre gli sbocchi a mare venivano chiusi dalle
dune sabbiose depositate dai rigurgiti ondosi su acque di basso
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fondale. Tutto appantanava: acque immobili e fanghiglia verde presto
imputridivano, appestando l'aria. Mutate condizioni climatiche avevano
trasformato da continuo a torrentizio il regime dei fiumi. Durante la lunga
estate nessuna nuova adduzione di acqua rinnovava la massa inerte di grandi
specchi che, inesorabilmente, andavano morendo. E, nei sussulti della morte,
completavano l'opera distruttrice le grandi alluvioni invernali, dovute a piene
impetuose che non trovavano più sbocco al mare.
L'antica ricchezza lacustre era scomparsa del tutto, degradando fino allo
sfacelo, quando le incursioni barbariche vennero a gravare come nuove e più
tragiche disgrazie su popolazioni ormai stremate. Così, tra il V ed il VI secolo,
Arpi, Erdonea, Leocade, Salapia e Carmeia, vennero abbandonate una alla
volta da gente veramente atterrita e che cercava la salvezza solo nella fuga, senza
speranza di un possibile ritorno.
Successivamente e fino a tutto il XIV secolo, nello stesso modo che per
l'interno della pianura, anche la zona costiera del golfo adriatico venne
interessata dall'abbandono di un certo numero di villaggi, ancora non tutti bene
identificati.
Si sa di preciso, tuttavia, che Cupola, Salapia e Siponto risultavano
ancora abitate prima che Manfredi, scegliendo un sito più salubre, costruisse,
nel XIII secolo, la nuova città di Manfredonia per ospitare i profughi della
zona, cacciati dai propri focolari dalla malaria e dalle conseguenze disastrose del
forte terremoto del 1223.
Difficili tentativi di ripresa ed incremento della pastorizia
Si è detto che Manfredi non è stato il primo a tentare, con la fondazione
di Manfredonia, un ripopolamento delle terre abbandonate.
Si vuole infatti che anche Federico II mirasse a questi obiettivi quando
andava disponendo la costruzione di castelli disseminati per tutta la Puglia.
Ma i castelli di campagna di Federico non divennero mai incentivi per i
nuovi insediamenti umani, rimanendo solo posti di presidio strategico e di sosta
per vagabondaggi regali, che oltretutto risultavano molto costosi per lo stato.
D'altra parte, tutta la pianura degradata in palude (dal Gargano alle
prime balze murgesi e dall'Adriatico al Sub - appennino), pur essendo
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diventata una grande riserva di caccia per l'imperatore, non vide mai il sorgere
di castelli isolati, ma solo di rare magioni costruite in paesi e centri urbani, già da
lungo tempo costituiti, indipendentemente dalle opere federiciane.
Può rappresentare un'eccezione il castello di Lucera dove la colonia dei
Saraceni aveva dato vita ad un'agricoltura fiorente, irrigua ed intensiva, almeno
per l'epoca.
Questa laboriosa colonia ebbe però poca fortuna, perché sopravvisse
appena fino all'agosto del 1300, quando Carlo II dispose la strage di 20.000
saraceni, la cui soppressione aggravò la depopulatio di tutta la zona.
Ma già dal 1269 i saraceni avevano dovuto sottomettersi a Carlo I,
abbandonare l'agricoltura e ritornare alle armi, come mercenari. Allontanati
dalle attività agricole, commerciali e artigianali vennero inviati nell'Epiro,
nell'Albania e in Macedonia, dove gli angioini, a danno dell'impero d'Oriente,
cercavano nuovi limiti di espansione.
I terreni, sottratti alla cura costante dei contadini, si ridussero ben presto
in grave stato di sterile improduttività.
Allora Carlo I tentò di restituire all'agro di Lucera la perduta fertilità,
disponendo, nel 1274, un nuova colonizzazione a favore di contadini
provenzali, che importava attraverso migrazioni organizzate.
Intanto anche qui la malaria aveva avuto il sopravvento ed i provenzali,
vinti e decimati, si rifugiarono sulle più salubri e vicine montagne, fondando
Faeto e Celle S. Vito, dove ancora oggi si parla un dialetto di origine francese.
In pianura l'isolamento delle campagne diventa quasi totale e durerà per
lunghi anni ancora, danneggiando persino i pastori che cominceranno a
disertare i pascoli pugliesi.
E se ad un certo punto la pastorizia sugli stessi pascoli ritorna in massa, è
solo per un fatto di coercizione.
Nel 1447, Alfonso d'Aragona, nell'intento di incrementare l'erario,
riordina la transumanza, rendendola obbligatoria ed organizzando la Dogana
della mena delle pecore.
I nuovi ordinamenti non miglioreranno, anzi aggraveranno le condizioni
del Tavoliere, dove i terreni, quasi tutti demanializzati, non offrono che poco
spazio all'agricoltura, costretta a cedere sempre di più di fronte all'invadenza
pastorale.
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La sdemanializzazione del Tavoliere e le bonifiche
L'ordinamento della Dogana durò fino al 1806, ma il regime particolare
del Tavoliere (che sottraeva agli agricoltori la libera disponibilità dei fondi),
continuò ancora per oltre mezzo secolo.
Solo nel 1865 fu consentita l'affrancazione dei canoni infissi sulle terre del
demanio pastorale, venendosi così ad incrementare la proprietà privata.
I nuovi proprietari, quasi tutti provenienti dalla precedente classe
pastorale, non si orientarono subito verso trasformazioni, dissodamenti e
bonifiche. Né i precedenti tentativi statali vennero ricordati come motivi di
stimolo per nuovi incentivi.
Sia pure per considerarne solo l'importanza storica, bisogna qui richiamare le bonifiche francesi (1806-1815), interrotte con la caduta di
Gioacchino Murat, e quelle dei successivi interventi borbonici, iniziati ad opera
di Afan de Rivera e durati fino a tutto il 1860. Anche se nati per esigenze di
controllo del contrabbando del sale (disciplina dei bacini salanti di Barletta), i
tentativi borbonici dettero virtualmente avvio al tipo di bonifica per colmata
dei terreni salsi e bassi del golfo di Manfredonia.
Si devono ancora ai Borboni i primi esperimenti di colonizzazione delle
terre salde, con assegnazione di lotti a famiglie contadine chiamate a trasformare
per dissodamento antichi pascoli in terreni agricoli.
Venne a questo scopo fondata Poggio Imperiale (1761), mentre molto
dopo (1774) nacquero i reali siti di Orta, Stornara, Stornarella, Ordona e
Carapelle, seguiti, nel 1839, dalla fondazione della colonia di San Cassano
divenuta, nel 1848, comune col nome di San Ferdinando di Puglia.
Per quanto si trattò di ben poca cosa rispetto all'estensione da bonificare,
queste località rappresentarono i primi centri vitali e consistenti di reinserimento
umano nelle terre del Tavoliere.
Ma, dopo il 1865, ad opera dei privati proprietari non si ebbero che
grandi masserie pastorali; imponenti complessi edilizi, talvolta fortificati, ricchi
di corti spaziose e di stalle, vincolate spesso alle consuetudini del pascolo
transumante e tradizionale, rappresentavano rifugi di arrivo per una persistente
industria pastorale, più che stazioni di partenza per attività nuove.
Tuttavia, intorno a queste masserie, timidamente cominciarono ad essere
impiantati oliveti e vigne.
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La grande estensione rimane però a grano. Non si procede a scassi, né si
prevedono bacini per la raccolta di acque piovane, rinnovabili di stagione in
stagione, onde assicurare abbeveraggi più salubri di quelli stagnanti, dove solo la
bufala può guazzare immune da ogni pericolo.
L'estate torna sempre sitibonda nella grande pianura; pantani immondi e
febbri terzane ancora hanno il sopravvento sull'uomo e sull'ambiente.
Solo molto più tardi, nei primi decenni di questo secolo, l'assegnazione
di terre melmose a contadini eroici, coraggiosi e tenaci stimola, lungo gli arenili
di Zapponeta e di Margherita di Savoia, i primi lavori di bonifica a cura dì
privati. La bonifica avverrà per colmata, con riporti sabbiosi. Il materiale,
prelevato dalle dune marine, verrà trasportato con carri, carriole e a spalla,
quindi verrà stabilizzato con lunghe concimazioni provenienti da paglia di
lettiere e da stallatico.
La bonifica del Tavoliere aveva bisogno però di interventi ben più
consistenti, tecnicamente qualificati, razionali, moderni ed efficienti. I problemi
da risolvere erano troppi ed il peso delle necessità più impellenti molto
pressante.
Urgeva smaltire l'acqua dai pantani, colmare le zone sottoposte al livello
del mare, disciplinare le acque recuperabili in zone umide di preminente
interesse economico e sociale e portare l'acqua potabile in tutte le zone
sitibonde, comprese quelle sommerse, che non potevano certo utilizzare le
infette acque superficiali.
Solo all'inizio di questo secolo, col Testo Unico del 22 maggio 1900, si
ebbe una prima regolamentazione del governo italiano, per affrontare con serio
impegno la bonifica del Tavoliere.
I lavori ebbero grande impulso ad opera del Corpo reale del genio civile
di Foggia e si svolsero con grande organicità.
Le vasche di colmata dei laghi costieri, i relativi canali colmatori e le
idrovore per lo scarico a mare delle acque di supero, l'inalveazione e
l'innalzamento di argini per la disciplina delle acque torrentizie, l'escavo di canali
di smaltimento dalle zone depresse e, infine, la costruzione dei primi 100 km. di
strade poderali, cominciavano a dare segni manifesti di una situazione che
andava mutando.
La guerra 1915-1918 arrestò tutti i lavori. Molte opere andarono
perdute per gli intasamenti che la mancata manutenzione provocava nei vecchi
alvei fluviali e nei canali dì nuova apertura.
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Fino al 1927, epoca di costruzione dei primi Consorzi di bonifica, il
dopoguerra venne impiegato per il completo ripristino delle opere danneggiate.
Nel 1929 venne costituito il Consorzio generale di bonifica e di
trasformazione fondiaria di Capitanata che, come ente di secondo grado, riuscì
a coordinare verso obiettivi unitari e collimati i programmi dei diversi bacini
costituiti nel 19273.
Le iniziative del Consorzio generale (sorto ad opera dell'on.le Gaetano
Postiglione) vennero incoraggiate dal sottosegretario alla bonifica integrale
dell'epoca (Serpieri) e dal sottosegretario al ministero dell'agricoltura (Tassinari)
con l'approvazione ed il finanziamento del piano generale di bonifica per il
Tavoliere di Puglia, redatto dall'ing. Roberto Curato.
Nel 1938 superata la breve battuta d'arresto imputabile alla guerra
d'Africa, ultimate appena le bonifiche delle paludi pontine, il governo
incrementò quelle del Tavoliere, col nuovo piano di trasformazione agraria
(Carrante, Medici e Perdisa, approvato con D.M. 19 dicembre 1928, n. 12511)
e con l'esproprio di 28 mila ha. destinati ad appoderamenti a cura dell'Opera
nazionale combattenti (O.N.C., Direzione del Tavoliere).
Tanto impegno vide la dedizione di uomini di ingegno e di intelletto,
oltre che di funzionari provetti e laboriosi (primo fra tutti l'ing. Giuseppe
Colacicco): ma i fatti cruenti della seconda guerra mondiale dovevano
determinare una nuova e più lunga interruzione dei lavori.
Agli inevitabili danni per mancata manutenzione si aggiunsero quelli
provocati da bombardamenti a tappeto e dal passaggio dei pesanti mezzi di
smisurati eserciti stranieri.
I fiumi ripresero a straripare. Le città rimanevano spesso isolate per
l'allagamento di strade e campagne. L'Ofanto soprattutto ripropose agli stupiti
spettatori il terrificante spettacolo di acque impetuose, che quasi duemila anni
prima Orazio aveva descritto con versi nostalgici nei canti dedicati alle forze
possenti della sua lontana patria apula.
3 - Bacini del Fortore, di Lesina, di Varano, San Severo e Torre Maggiore, alto
Tavoliere, Cervaro e Candelaro, Tavoliere centrale, Cerignola ed Ofanto, per una superficie
complessiva di 460 mila ha.
71
Ma la ripresa economica non tardò a venire. Stimolata dall'irresistibile
istinto di conservazione e da una tenace volontà di risorgere, la gente di
Capitanata riprese il lavoro aggrappandosi con forza disperata a tutte le
provvidenze che lo Stato poteva elargire (piano E R P, Cassa per il
Mezzogiorno, Ente riforma).
Oggi le opere idrauliche sono quasi tutte ultimate e la costante manutenzione di esse ha consentito la restituzione ai campi di terre sommerse, nella
rinata salubrità dell'intera pianura.
La malaria è vinta anche nelle zone umide recuperate a scopo ecologico 4
e le quattro stagioni si avvicendano sul Tavoliere nell'alternarsi dei vari colori
che portano le vegetazioni dal verde novello ai frutti maturi.
Il nuovo volto
Tra l'oro delle messi pronte per la mietitura o tra il verde cinerino degli
olivi, attraverso la trasparenza metallica di estesi vigneti od in fondo
all'orizzonte giallo dei campi di girasole, nascoste appena dal mandorlo in fiore
od esaltate dalla freschezza cinabra della barbabietola da zucchero, dappertutto,
bianche case rurali oggi emergono dai campi. E con le case, nuove masserie e
grandi complessi si impongono in un paesaggio nuovo. Solo raramente si tratta
di insediamenti umani permanenti. La motorizzazione ha reso superflua la
costante presenza del contadino in campagna; anzi le stesse borgate realizzate
dal Consorzio di bonifica, dall'O.N.C. o dall'Ente di riforma fondiaria non
hanno più avuto incremento, sopraffatte dal nuovo ed artificiale dinamismo
moderno, che consente rapidi spostamenti con tempi minimi, anche attraverso
grandi distanze.
Talvolta fratture contrastanti turbano il senso di riposo dell'orizzonte
piano ed infinito, con silos lucenti o col freddo razionale di grossi volumi in
cemento armato. I grattacieli dei grandi mulini e i complessi industriali di
importazione difficilmente riescono ad ambientarsi in un paesaggio che non
sentono o che volutamente ignorano.
4 - Lago di Lesina, lago di Varano e riserve di caccia e pesca di Siponto.
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Ma questo è forse un prezzo che la civiltà deve pagare, da quando, per
l'ambizione della conquista, ha ceduto i diritti della ragione al predominio del
potere tecnologico.
Tuttavia, se pure qualche riserva può essere avanzata sul piano del
perfetto ambientamento, quello che più conta è rilevare che oggi l'uomo è
presente nella vasta piana, fino a ieri deserta, con mille testimonianze diverse
della sua opera, della sua intelligenza, della sua laboriosità e del suo ritorno
all'amore dei campi e al culto della terra.
Ugo Jarussi
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BIBLIOGRAFIA
CIASCA RAFFAELE: Storia delle bonifiche del Regno di Napoli, Bari,
Laterza, 1928.
COLACICCO GIUSEPPE: La bonifica del Tavoliere, Foggia, Consorzio
generale per la bonifica e la trasformazione fondiaria della Capitanata, 1955.
DELANO SMITH CATHERINE: Tipi di insediamenti nella zona costiera di
Foggia, in Atti del convegno internazionale di preistoria e protostoria della Daunia (Foggia,
24 - 29 aprile 1973), Firenze, Istituto italiano di preistoria e protostoria, 1973.
DI CICCO PASQUALE: Censuazione ed affrancazione del Tavoliere di Puglia
(1789 - 1865), Roma, Quaderni della rassegna degli archivi di stato, n. 32, 1964.
EGIDI PIETRO: La colonia saracena di Lucera e la sua distruzione, Napoli,
Stab. tip. Luigi Pierro e figli, 1912.
FERRI SILVIO: Le stele sipontine, in Atti del convegno di preistoria ecc., già
citati.
FERRI SILVIO - NAVA MARIA LUISA: Stele daunie, Azienda
autonoma di Soggiorno e turismo di Manfredonia, quaderno n. 2.
JARUSSI UGO: Foggia, genesi urbanistica, vicende storiche e carattere della città,
Bari, Editoriale Adda, 1975.
MARIN MELUTA D.: Topografia storica della Daunia antica, in Daunia
antica, Foggia, Amministrazione Provinciale di Capitanata, 1970.
TINE' SANTE: La civiltà neolitica del Tavoliere, in Atti del convegno di
preistoria ecc., già citati.
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LE RADICI AVVENTUROSE DI C. SERRICCHIO
Vi sono due piste da seguire, a mio parere, per arrivare al cuore del Il
castello sul Gargano (Serarcangeli, Roma 1990), il romanzo appena uscito di
Cristanziano Serricchio: la prima pista è una traccia mitica, un seducente
intreccio di racconti antichi e di moti favolistici che stringono da presso la
montagna sacra (il Gargano) e il luogo-spazio collocato sulla sua cima (il
castello), la seconda affonda le radici nel farsi della scrittura poetica e saggistica
di Serricchio che precede la fruttuosa e preziosa incursione narrativa. Come
tenteremo di capire, entrambe le piste, ad un certo punto, si riuniscono e
compongono una sorta di cerimonia laicamente religiosa della storia, dentro
una scrittura la cui apparente naturalezza cela un acuto e tormentoso corpo a
corpo con i bisogni conoscitivi che assediano la matura coscienza dello
scrittore.
Il Gargano, nell'immaginario della nostra cultura, è una montagna sacra:
sulle sue pendici hanno trovato più o meno stabile dimora il ladro Diomede,
l'indovino Calcante e un arcangelo disceso per combattere e respingere lo
spirito maligno: ritualità pagana, leggenda e sensibilità religiosa connotano già il
monte con segni misteriosi e magici, confidando spesso l'influsso benefico con
antiche presenze più inquietanti e sulfuree, se è vero che per fugare il male
bisogna pur ammetterne l'esistenza, circostanza, questa, che accresce il sottile
piacere antirealistico del confronto con la storia e con la pietà religiosa, accolta,
quest'ultima, in tutto l'ampio ed ambiguo suo arco semantico, dalla greco-latina
pietas ad una assai meno poetica pietà moderna (che reca in sé un sentimento
duplice nei confronti dell'umano, dal provare pietà al fare pietà).
Su quella montagna hanno agito elementi culturali magnogreci, oschi,
sannitici, longobardi, saraceni, normanni e bizantini: Federico II e Manfredi,
Giovanna I d'Aragona e Giorgio Castriota, i briganti e i piemontesi, i fascisti e
gli emigranti, i pellegrini ed ora anche i turisti, lontani eredi, fortunamente più
pacifici, di quegli antichi e bellicosi ospiti.
Che altro se non un racconto potrebbe riuscire a tenere insieme elementi
tanto disparati e non di rado velenosamente contrari fra loro: forse la
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letteratura, tra le altre sue prerogative, vanta anche quella di essere la
forma originaria del mito, la tendenza a rappresentare narrativamente il mondo
nel momento in cui si cerca di spiegarlo. Non è che il mito si identifichi con
l'originario (da ciò le incomprensioni ed i pericoli di uno sguardo nostalgicamente ripiegato verso le nebbie della protostoria), ma esso configura l'ansia
di raggiungerlo, il procedimento conoscitivo e costruttivo della letteratura come
la forma più duratura e solida della nostra memoria, di un immaginario
individuale che diventa (o vuole diventare) collettivo.
Ecco perché la pista mitica, in Serricchio, rannoda i fili sparsi delle stele
daunie, degli archi e dei giorni dentro l'immagine, splendidamente ambigua, del
castello, spazio chiuso e circondato che difende e che è difeso, che nasconde
quanto reca all'interno e rivela all'esterno una compattezza che spesso è negata
dalle ombre e dalle tenebre che può celare al di là delle mura. E' appena
necessario ricordare che, dall'Illuminismo ad oggi, il castello ha incarnato, a volta
a volta, il Medioevo feudale, l'orrido paesaggio di segrete e di camere di
tortura del romanzo gotico (ricordiamo il famoso Castello d'Otranto di Horace
Walpole) o le transilvaniche dimore del vampiro Dracula (fine Ottocento),
prima d'essere malinconicamente arruolato tra i beni culturali: luogo esemplare,
cioè, di favole e di leggende, di principesse e di maghi, di sortilegi impalpabili e
di documentabili eventi storici.
Eppure, a far parlare anche quegli accadimenti apparentemente
incontrovertibili e controllabili è sempre una scrittura, un laico e ricorrente
incantesimo che traccia segni neri su una nuda e bianca carta: e dunque, ancora
una volta, la poesia contribuisce a farci sapere qualcosa che altrimenti non
conosceremmo o almeno non conosceremmo in quel modo, poiché essa, nei
modi suoi specifici, ci svela aspetti inediti del reale, anche quando più
vertiginose appaiono le tentazioni evasive di fuga e di congedo dal mondo.
E questo castello si trova, naturalmente, in cima ad una montagna, e per di
più; non ad una montagna qualsiasi, ma al Gargano, massiccio estraneo al
disteso slargo della pianura del Tavoliere, eccentrico sperone proteso verso
l'Oriente, da sempre terra della seduzione mitica e fiabesca, probabilmente
mater illirica della nostra civiltà e patria di molti popoli che hanno mescolato il
loro al nostro sangue. Dal canto suo, il poeta Serricchio non arriva al castello romanzo privo di credenziali e di scritture: a non voler
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dire del suo lavoro saggistico e storico - documentario, vanta raccolte poetiche
che hanno riscosso non pochi ed autorevoli consensi e nelle quali, a ben vedere,
guizzavano i segni premonitori della scelta narrativa e del fascino del racconto
mitico.
Serricchio ha sempre operato, da poeta, dentro la tradizione della poesia
classica e di memoria, ad un raccordo tra le sollecitazioni archetipiche del
grembo dauno-troiano e le spinte evidenti di un ethos affascinante, nel quale gli
eroi omerici hanno avuto al loro fianco il quotidiano affannarsi dei braccianti,
dei pescatori, dei pastori che affollano il presente storico di una terra che ha
scoperto di avere anche in sé i veleni chimici di un futuro quanto mai incerto.
Le splendide atmosfere sospese e dense di echi e di richiami classici di
Stele daunie, gli angeli d'Oriente posti a guardia dei molti crimini, l'ansioso spiare
i segni dissepolti di antiche presenze, gli archi da cui sbucano giocando i
ragazzini della città di Manfredi e l'avvincente sequenza dei giorni che
scandiscono l'aspra conquista della maturità: tutte queste immagini e ritmi hanno
sempre indontrato il loro tragico rovescio, sono state negate e contraddette dai
segni paurosi del male, dall'incalzare di un'età dì ghiaccio, dalla insorgenza delle
trame del silenzio: e sempre la scrittura di Serricchio ha saputo trovare la sua
composta e maliosa misura per raccogliere la luce e il buio, i cieli profondi della
protostoria e il ferrigno passo del presente, il canto di Diomede e le seduzioni
degli elettronici congegni.
Eppure, in quelle sue prove vibrava sempre, variamente articolato, il
confronto con la storia, mai apertamente negata, se non sul versante di un
ottimismo di maniera, ma accettata e vissuta con dignità e senso istintivo della
sintesi.
Talvolta quella storia risultava quasi respinta fuori, letta soltanto come
presenza mostruosa ed implacabile, e lo aveva già notato, con grande finezza
Mario Sansone.
Il castello sul Gargano raccoglie quella sfida e la porta nel cuore stesso, mitico, della
storia, rannodando le sollecitazioni diffuse nelle scritture poetiche e tracciando il
profilo di un grande sogno-progetto: "L’esperienza insegna all'uomo che la
sventura è sempre in agguato. In questa attesa, egli dissipa la sua angoscia
inventando o adottando sventure immaginarie". Se ad immaginarie diamo il
pregante significato che ha
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all'interno della scrittura (e non dunque in opposizione a reale, ma come uno
dei livelli di una articolata e complessa realtà, nella quale la caduta della ragione
monolitica declina le forme pluralizzate della sua ansia conoscitiva), la battuta di
Raymond Queneau acquista l'emblematico e cifrato sapore del preambolo
necessario al romanzo di Serricchio.
Mi sia consentito ancora di accennare ad un'altra traccia ed ad un altro
castello, quello dei destini incrociati di Calvino, segnalazione opportuna non tanto
di riscontri e di parallelismi, sempre un po' arbitrari, quanto di un clima
narrativo che affida alla scrittura la capacità di illuminare l'assoluta contiguità del
terreno della fiaba con quello del romanzo: se è vero, come credo avvenga
nella coscienza critica di Serricchio, che la consapevolezza della caduta del
valore gnomico-sentenzioso della fiaba si accompagna con la intenzione di
trovare nelle fiabe l'archetipo della narrazione come avventura, in un mondo
nel quale gli eroismi e le avventure, appunto, non sembrano neppure più
narrabili, se non nelle forme, magari ed a torto dimezzate, della letteratura per
l'infanzia.
E proprio recuperando l'epicità del modulo che chiameremo fiabesco o
tout court narrativo, Serricchio riesce a darci l'unica descrizione possibile
dell'universo coercitivo che ci racchiude tutti. La funzione narrativa assume
consapevolmente l'artificio come leva di scrittura e la forma dell'avventura
media un rapporto conoscitivo con un presente sempre meno leggibile e,
soprattutto, descrivibile. L'arte del narrare, nell'epoca dell'informazione, spesso
unidimensionale e sottoposta al controllo sempre più inquietante, massiccio ed
evidente, del potere economico e del potere diffusivo dei media, può anche
trovare una sua possibile riarticolazione nell'assunzione cosciente del gioco e
dell'avventura come forma dell'artificio conoscitivo.
La prima sequenza narrativa già evidenzia alcune coordinate fondamentali: il disfarsi impalpabile della quotidianità della vita dei cinque ragazzi del
"paesino arroccato sulla Montagna dell'Angelo" (p. 5) sostituisce,
modernamente, il c'era una volta di ogni fiaba che si rispetti e libera, dalla
monotonia e dalla ripetitività dei gesti consueti dalla vita di ogni giorno, il
contesto ed il registro dell'avventura. Quest'ultima viene quindi a configurarsi
non con l'arroganza di uno spostamento geografico o temporale (la velocità a
noi contemporanea ha annullato, forse, anche la nozione di viaggio e ci ha
trasformati tutti da viaggiatori-esploratori in
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frettolosi turisti, i quali, spesso, dalle abbazie e dai monumenti rifluiscono nei
volgari e scontati labirinti dei negozi di souvenirs), ma con, la dimensione
profonda del vivere, conquistabile, con pochi accorgimenti, il primo tra i quali è
la magia del teatro, l'incantesimo che mette in relazione la vita dei personaggi e
la vita degli interpreti.
Un ampio scantinato buio e vuoto, uno spazio polveroso di essenziali
nudità, la capacità di costruire immagini e di volerle vive e vere dentro
l'emozione della conquista e dell'intelligenza, un teatrino di marionette: ecco
quanto basta a scatenare le facoltà visionarie (in senso teatrale) dei ragazzi ed
immergerli nell'ambiguità di sentimenti costruiti che assumono la terribile
violenza della verità: " ... le parole nascevano davvero da quelle labbra di legno
e venivano su dai petti di latta. Anche i gesti non erano più quelli impressi
dall'alto dai pupari. Parole, movimenti e personaggi acquistavano nel rettangolo
di luce una loro autonoma verità di vita e tutto il resto scompariva nel buio" (p.
8).
E il tempo dell'attesa, come in ogni sortilegio, o, se si preferisce, il
tempo sospeso suscita e scandisce la cerimonia del compenetrarsi dei vari livelli
della realtà, al punto che riesce difficile rintracciare il punto esatto in cui
l'immaginazione cessa di percepirsi in quanto tale. E gli oggetti, apparentemente
banali, funzionano come segnali della rivelazione, misteriosi frammenti e
complementi dell'avventura: l'argilla si fa non solo materiale armatura delle
marionette, ma promessa di una magica incarnazione nella quale lo spettacolo
finisce col rivelare sorprendenti richiami col mondo delle emozioni vergini,
dell'educazione sentimentale di quei ragazzi.
Il teatro recupera corposamente un suo statuto di coinvolgimento e di
verità e nulla ha a che fare col semplice rispecchiamento di un reale già dato:
anzi, è solo attraverso il costruito che si percepiscono meglio l'autenticità e la
profondità del reale della storia che sembra avvolgere e contenere quel buio
scantinato, mentre, come suggerisce Serricchio, è forse anch'esso uno spettatore
seduto su una di quelle panche silenziose e umide del sottano garganico.
I protagonisti di questa avventura, il cui tragitto strutturale di fondo è
accennato sapientemente, per scorci allusivi, nella sequenza iniziale, affrontano
viaggi, dialogano con le nebbie evanescenti degli spiriti, e, come in ogni fiaba
che si rispetti, devono conquistare un castello e subire
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prove, spesso dure e talvolta mortali, ma l'oggetto della loro ricerca è più
complesso dell'amore di una principessa o anche dello stesso castello: è la
conoscenza di sé, e, attraverso questa, la conoscenza degli altri come parte di sé
ed insieme differenza, diversità.
I giovani che nascono all'ombra del castello in cima al Gargano
incontreranno le grandi incarnazioni del male di vivere, non solo e non tanto i
tormenti filosofici ed esistenziali, ma le concrete brutalità della guerra, la
violenza, la rabbia che arrochisce la voce ed arma il braccio, la tentazione di un
gesto definitivo che chiude in un attimo la vita così piena di promesse e di
burattini. Eppure, in ogni circostanza, la sapienza della scrittura narrativa sa
intrecciare convincentemente il passo spietato degli eventi e il tocco lieve che
disancora la storia e la rende elemento di un gioco più pietoso e più alto, quello
dell'aura magica di leggenda che sa dire, in modo poetico, la durezza dei fatti,
non negandola (impresa impossibile e certamente patetica), ma trascrivendola in
un cielo che ha gli stessi colori, cangianti e maestosi, della montagna sacra.
Le grandi figure del passato della storia e della memoria popolare,
quanti hanno lasciato sicura traccia di sé nelle sale del castello o tra i boschi o
sulle balze del monte o nelle pieghe insidiose dell'immaginario collettivo, dagli
angeli ai demoni, da Federico II ai soldati piemontesi ed ai briganti, invadono le
pagine di Serricchio e si installano nella psicologia dei suoi personaggi,
conducendoli verso la delicata e mortale sfida col tempo e con se stessi.
In tale processo un ruolo determinante ha l'immagine del mare, la liquida
e misteriosa distesa su cui si eleva (o meglio, a cui è ancorata) la
montagna-vascello: è noto che da sempre, almeno per le popolazioni
continentali (per quelle isolane, come ci insegnano Pirandello e Sciascia, il
discorso è diverso e perfino opposto), il mare ha rappresentato la libertà, la
sfida contro l'ignoto, la via che unisce, ma anche la voce che attira, il canto delle
sirene, la seducente tentazione del mistero. Anche per Andrea, tra tutti i
personaggi quello più vicino, forse, al suo autore, la lontana presenza del mare
risulta decisiva per mettere in moto il desiderio della conoscenza e insieme la
volontà di scoprire e cercare un mondo diverso e fascinoso, alimentato dalle
spinte dell'immaginazione, sicché, fin dall'inizio, la sua educazione sentimentale,
nozione non ristretta alla sola sfera emotiva ed affettiva, e il progetto euristico
di Andrea forzano i limiti del
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dato e si esercitano in direzione di un intreccio più complesso, tendente a
trasformare, con l'aiuto dei sogni, le ingenue ed elementari conoscenze dei
"fatti".
Nessuno stupore, allora, nel vedere il Gargano trasformarsi in un grande
vascello ed affrontare straordinari viaggi suscitati dall'incontro col vento e con
l'oggettiva provocazione dell'immenso mare verde che lo circonda: Andrea,
proprio in una casetta vicino al mare, fa la conoscenza di una ragazza che
segnerà, per lui, la scoperta dell'altro da sé ed insieme la rivelazione di aspetti
inediti e sconvolgenti dello stesso mare.
Dalla voluttà affabulatoria della ragazza (p. 27) nasce l'altro mare, diversa,
segreta e sconosciuta dimensione dell'avventura, primordiale liquidità nella quale
ad Andrea sembra di avvertire il cuore nascosto delle cose, il riposto senso
della sua vita, la risposta temibile e cercata ai suoi grandi perché: la provvisorietà
dell'approdo, la sosta breve della terra, l'accettazione, cioè, del viaggio come
figura della conoscenza pluralizzata, il capovolgimento del buon senso che
vorrebbe la stabilità elemento decisivo, la scelta, in altre parole, della precarietà
come forma necessaria del rapporto iniziale con la vita e le sue contraddizioni.
Sarà la conquista di questa segreta consonanza col ritmo profondo delle forze
primitive della vita a determinare, in Andrea, il proposito di aprirsi ad orizzonti
più ampi e di accettare l'esperienza del mondo con l'istintivo pudore che cela le
parole più vere, quelle che non si dicono.
Andrea, tuttavia, non riassume interamente il pensiero del suo autore: gli
altri personaggi del romanzo sono tutti complementari ed utili a definire,
insieme, l'articolato comporsi del rapporto con gli eventi del reale, al cui interno
la scoperta del male è tratto decisivo, come avviene, ad esempio, nella sequenza
in cui Peppino, costretto a lavorare nella bottega del padre ed a rinunciare così
allo studio ed al piacere delle storie, assiste alla cerimonia pagana della "festa al
porco", cruenta e crudelissima tortura per l'animale ed occasione di gioia e di
salute per gli uomini.
Indimenticabili sono le pagine in cui si esegue la tremenda agonia della
bestia, l'incalzare dei gesti misurati e precisi dello scannaporco, l'ansia delle
donne che ne raccolgono il sangue "pensando al sanguinaccio con la cannella e
il cioccolato" (p. 40), l'immagine del maiale squartato e appeso, la soddisfazione
del massaro e il turbamento che assale Peppino: ha scoperto che gli uomini
sanno e possono essere malvagi e dentro di sé
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istintivamente associa al male la figura del padre che lo picchia e capisce che,
dall'infanzia favolosa, quel sangue lo immerge in un'età di violenza e di
contraddizione.
Per Andrea, invece, il padre è funzione importante, un uomo bersagliato
dalla fatica di un vivere stentato, sempre esposto all'arroganza ed all'arbitrio di
chi comanda. Alle offese del mondo, tratto vittoriano che fa pensare al padre
di Silvestro che recita Shakespeare nelle stazioncine della Sicilia interna, risponde
col silenzio amaro e con la convinzione, trasmessa al figlio, che la dignità di un
uomo non si misura dalle sue scarpe rotte, ma dalla capacità di non abbassare la
testa di fronte all'inclemenza di quanti ti umiliano: si può anche perdere,
l'importante è lottare, dimostrare che non ci si arrende.
Il figlio comprende il dramma senza parole del padre e quando costruisce le sue marionette, il suo Orlando sconfitto e vincitore, gli attribuisce la
fronte alta e i dignitosi occhi del padre e capisce che, all'intero del gioco
scenico, si agita la verità profonda della rivincita, la passione di ogni uomo che
affronta le difficoltà con coraggio e non si piega: il teatro, per Andrea, acquista
così una "forza magica" (p. 57) ed i saraceni abbattuti dalla spada del paladino
sono le tigri di carta dei nostri mali nascosti, le viltà di cui ci liberiamo
affrontando le offese del mondo e convincendoci che c'è ancora qualcosa che
si chiama speranza, voglia di combattere le ingiustizie e le prepotenze.
Sulla montagna, tuttavia, si muovono anche le presenze inquietanti degli
spiriti, i folletti o i morti, anime del purgatorio che vagano e cercano refrigerio
nelle preghiere o popolano le sale e gli spalti del castello o i sotterranei del
convento delle clarisse, segnali della credenza popolare secondo cui vita e
morte coesistono e si toccano dentro le nostre coscienze: queste presenze
diventano anche emblemi dell'inquietudine e della ricerca di maturità dei cinque
ragazzi, talmente presi dalla loro sete di conoscenza da smarrire, come avviene
nel corso della furtiva incursione nel castello, il confine tra realtà e sogno. Tutto
è avvolto, in questa ardua salita verso la conoscenza, in un'aura di favolosa
scoperta, la stessa meravigliosa visione della donna, una sirena abbagliante nella
sua improvvisa e rancorosa nudità o una ragazza animosa e soda che incita alla
danza e all'allegria i giovani convenuti per la mietitura: o anche il racconto del
carabiniere albanese, capace di sciogliere la storia tragica di Giorgio Scanderbeg
nei sapori aspri e dolci della natura.
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La guerra voluta dal fascismo sopraggiunge, a questo punto, nelle pagine
del romanzo e suscita le partenze dei giovani, segnando la fine del grande
sogno teatrale, ma non la sua sconfitta: l'ultima rappresentazione serve a capire
e misurare la feroce inutilità dell'immensa strage ed a consegnare ad essa i
ragazzi ancora carichi dell'insegnamento fondamentale, l'insoddisfazione del
presente e la tensiva coscienza del divario tra i desideri e l'incertezza quotidiana
del vivere.
Non è causale che, all'interno della conquista di più laceranti e cruente
verità, sia ancora il teatro, la rappresentazione, a giocare un ruolo decisivo:
perché la finzione teatrale acquista il rilievo decisivo del desiderio progettuale, la
caratteristica fondante di una realtà dinamica e proiettiva, tesa non al
compianto, ma al confronto con le contraddizioni di quella vita di cui essa è
parte, non rispecchiamento.
I consensi che salutano la rappresentazione colgono, infatti, la profondità
delle cose che i ragazzi son riusciti a dire con le marionette, l'incalzare della
guerra e della dura realtà, sentimenti veri e non finti: né manca il rimpianto per il
maestro inviato al confino nelle Tremiti, uno dei pochi antifascisti disposti
ancora al dissenso chiaro, l'insegnante che aveva aperto ai ragazzi l'orizzonte
della serietà del gioco teatrale, dentro la volontà di non rinunciare mai alla libertà
di essere se stessi, in un rapporto stretto con gli altri e col bene di tutti.
Lo scoppio della guerra provoca la diaspora dei giovani, partiti per
fronti diversi e richiede una interessante pluralizzazione dei punti di vista
narrativi, i quali, ora, inseguono il destino dei cinque ragazzi; ad ognuno dei
quali è affidato il compito di scoprire un aspetto particolare del rapporto con
la complessità del mondo.
A Luciano, ad esempio, tocca vivere la favola dell'emigrazione a Trieste,
di un matrimonio con la bionda figlia del suo padrone, di una promozione sul
lavoro a funzioni di responsabilità ed infine di un viaggio nella lontana India, nel
corso del quale il giovane, respingendo le lusinghe di una saggezza basata sulla
rinuncia (occorre estirpare il desiderio che è causa del dolore, p. 131) accetta di ritornare
in Italia e di affrontare il paesaggio della violenza e della guerra cui è chiamato a
partecipare.
La raggiunta maturità di Luciano (cfr. p. 138) consiste dunque nel
comprendere che il vecchio mondo, con la guerra, è condannato a perire e che
in quella rovina verranno coinvolti affetti privati e tragedie collettive:
83
ma non è possibile, capisce Luciano, sottrarsi al dovere di essere dentro quel
processo che, dalla dissoluzione di un'epoca, vedrà probabilmente nascerne
un'altra. E il figlio che la moglie porta in grembo rappresenterà, per Luciano, il
segno laico dell'eternità, la sopravvivenza di sé anche nella fisica scomparsa del
proprio corpo. Questo consapevole sciogliersi nell'evento sancisce la vera
morte di Luciano (perirà tra gli ulivi ed il mare di Cefalonia, trucidato dai
nazisti, quasi in un voluto ritorno alle sue radici garganiche), il suo contributo
alla conquista della libertà e della dignità, senza le quali non si può essere
considerati uomini.
Peppino è invece investito della funzione che spetta alla coscienza
politica, in senso estremamente ampio e dilatato: privato, fin dall'infanzia, dello
studio e del gioco, costretto a lavorare nella bottega del padre ed a scoprire,
negli occhi del genitore e nel comportamento degli altri, i segni della malvagità
umana, parte per la guerra, e, dopo fughe e peripezie, finisce partigiano con i
comunisti albanesi.
Stando insieme ai partigiani Peppino sente parlare, per la prima volta in
vita sua, del marxismo e del riscatto dei lavoratori, e, tornato in Italia,
comprende che, anche senza Marx e Lenin, è necessario lottare per sconfiggere
le prepotenze e le ingiustizie. In un impasto di istanze sociali che si richiamano al
marxismo e ad una sorta di equalitarismo evangelico, Peppino compie la sua
educazione politica e si accorge che la propria maturità giace dentro le
profonde disparità della sua gente e che il proprio posto è con chi lotta per una
giustizia senza violenza. Gli eventi precipitano, e, per impedire che il vento della
rivolta travolga anche le sacrosante premesse di giustizia sociale da cui la
ribellione era partita, Peppino tenta di fermare uno scontro tra chi invoca pane
e terra e i carabinieri: le cose si svolgono al peggio e l'ultimo, inutile sogno di
Peppino di fondare una giustizia non violenta si infrange contro le pallottole dei
carabinieri.
Il suo cadavere, pietosamente coperto da un lenzuolo che subito si
macchia di sangue, richiama l'immagine di quel porco scannato che aveva
spruzzato di rosso il candore della neve garganica, in quel lontano inverno in cui
Peppino aveva compreso la malvagità illimitata degli esseri umani. E come
quella bestia era stata la vittima sacrificale del pagano rito della salute e della
pancia piena, così Peppino diventa il candido agnello immolato alla violenza,
che, tragicamente, si annida anche dentro le istanze di una dovuta e giusta
uguaglianza sociale. Inerme paladino, Peppino
84
sconta così la crudeltà del mondo e verifica l'improbabilità di un riscatto
cristiano-sociale.
A Sandrino tocca invece la sorte di morire naufrago, dopo che la sua
nave è stata affondata dal nemico, senza aver potuto conoscere oltre la guerra
l'amore, proprio lui che, tra i pupari dell'infanzia, si era battuto per costruire
Angelica e vincere, in questo modo, la prevalenza dei fatti d'arme sulle vicende
d'amore. Anche il suo sacrificio sottolinea, dunque, il paesaggio cupo del male
che circonda la vita di tutti: ma un'avventura non può finire, neanche oggi,
senza lasciarci un segno, non vistoso, magari, non diciamo di ottimismo, ma,
almeno, di progettualità.
Ai due ragazzi superstiti, Angioletto ed Andrea, spetta l'ingrato compito
di testimoniare, senza trionfalismi e con l'amara serenità di una coscienza
matura, che la sfida col mondo è ancora possibile e che la partita non è del
tutto chiusa.
Angioletto, nel corso del romanzo, è subito connotato dalle sue facoltà
paranormali, proiezione forse estrema e paradossale della sua acutissima
sensibilità: le stesse capacità profetiche, in qualche modo apprese dal vecchio
eremita conosciuto in una grotta sul monte, non sono altro che segnali della sua
volontà di conoscere cose e parole al di là dello stretto confine assegnatogli
dalla sua sorte di figlio di un povero sellaio, irosamente attaccato alla
quotidianità del fare, alla apparentemente solida concretezza delle sue
cianfrusaglie e dei suoi strumenti di lavoro.
Svagato e distratto a scuola, Angioletto si rivela insospettabilmente
pronto e concentrato su tutto quanto riguarda le terre del Nord legate alle
imprese dei paladini e di Carlo Magno e cioè alle marionette del teatro allestito
dai ragazzi nell'umido sottano garganico. Nel dare vita e voce ai fantasmi
teatrali Angioletto realizza ed avverte la sua ansia conoscitiva, la sensibilità che gli
fa scorgere non solo aspetti inediti e sconvolgenti delle cose, neppure sospettati
dagli altri, ma illusioni ed apparenze che gli dischiudono la dimensione del
viaggio come scansione euristica: un moderno ulissismo che ricerca, al di là dei
confini del dato, il segreto palpito del mistero della vita.
Costretto a rinunciare, in un primo tempo, a viaggi in terre lontane, si
esercita a vincere, con la potenza evocativa della stravagante fantasia, la
condanna all'immobilità, ma la sua mappa è sempre il teatro, i paladini le sue
guide obbligate alla scoperta di un mondo diverso e migliore di quello
85
in cui gli tocca vivere. E così, quando scoppia la guerra, Angioletto si fa
paladino, e, diventato partigiano dopo l'otto settembre, capisce che l'apocalisse
annunciata dal vecchio eremita prima di morire è stata l'immane tragedia della
guerra: ed ora si sente investito del compito di riparare i torti e difendere gli
oppressi. Come un improbabile paladino, con la forza misteriosa che gli deriva
dall'inattualità, Angioletto attraversa, con purezza di coscienza, la ferocia dei
tempi e ritrova le proprie radici e ragioni di vita a Bruges, in una città e in una
terra nelle quali sente riafforare antiche memorie di altre esistenze e di splendide
finzioni teatrali. Ritrova, infatti, in un negozio zeppo come un bazar, le piccole
marionette raffiguranti i paladiní e comprende che il suo viaggio, forse, lo ha
ricondotto circolarmente al punto di partenza.
Non si meraviglierà, perciò, tanto nel ritrovare, in quel gioco tra passato
e presente, storia e leggenda, realtà e immaginazione, una ragazza amata e
perduta o un'altra che ha gli stessi occhi e la stessa rapita dolcezza davanti agli
eventi terribili della guerra. E' questo il suo approdo, il segno della libertà
interiore raggiunta, dell'equilibrio che potrà forse consentirgli di dare
consistenza alla sua avventura di moderno ed inquieto paladino che, non a caso,
reca nello stesso nome, le stimmate delle radici garganiche e dell'ostinata
volontà antimaligna.
A proposito di Andrea, abbiamo già detto della sua scoperta dell'altro
mare come rivelazione conoscitiva e provocazione del viaggio: e certo Andrea,
tra tutti i ragazzi, accarezza maggiormente alcuni miti cari al poeta Serricchio,
tra cui la volontà di inseguire i ricordi omerici (cfr. pp. 125 e 147) e la tranquilla
sensualità con cui vengono rivissuti e talvolta reinventati i paesaggi marini e la
natura della sua terra.
Eppure, non diremmo che in questo consista il più consistente contributo del personaggio di Andrea all'economia di tutto il romanzo di Serricchio.
A ben vedere, Andrea è portatore dell'ardua conquista della maturità,
della piena accettazione della vita nei suoi aspetti di pena come nei scatti di
gioia, nei suoi silenzi feroci di contraddizioni e di dubbi e nell'abbagliante luce
delle certezze faticosamente raggiunte.
Appena uscito dall'inutile crudeltà di una guerra, ritornato
miracolosamente al suo paese, Andrea scopre la madre invecchiata e diafana,
vicina ormai alla morte che, poco dopo, la ghermirà ed è proprio in occasione
del
86
suo trapasso che il giovane comprende l'essenza stessa della morte e la necessità
di costruirsi una sopravvivenza e credervi con tutte le forze: "La morte, pensò,
è una crudele privazione di parola. E' il silenzio, l'assenza. Riuscire a fare
emergere da tutto questo, attraverso la memoria, o la speranza, per meccanismi
ignoti, il sottilissimo filo della certezza nella sopravvivenza, è forse il modo per
superare i momenti del distacco, quando ci si accorge che la meravigliosa forza
che è la vita a poco a poco viene sopraffatta, e davanti agli occhi un corpo, che
fino a qualche istante prima era uno straordinario e intenso pulsare di sensazioni
e di pensieri, cede, in una frazione di secondo, al momento impercettibile nel
quale cessa lo slancio vitale e in ogni angolo dell'anima, come in ogni cellula,
subentra una stanca pace... L'intelligenza che ha pensato, costruito, creato, il
cuore che ha amato, sofferto, l'uomo che ha lasciato il suo segno nell'amicizia o
nell'invidia, nell'amore o anche nell'odio, nelle opere o nel ricordo, tutto questo
è solo un pugno di cenere e col tempo neppure questo. Ma non è possibile...
deve pur esserci qualcosa, di là, che sia e che continui ad essere (pp. 155-6)".
La rivelazione fisica della morte diventa così la scommessa ardua della
vita e la consapevole ricerca di una certezza che si pone come ragione possibile
e insieme deontologia dell'agire umano. Forse è religiosità, forse semplice istinto
di sopravvivenza: quel che conta è la qualità coscientemente umana di tale
inchiesta intorno alle radici ed alle giustificazioni del vivere.
Rimasto solo, recisi i legami, comunque protettivi, con la madre, senza
più le sue marionette e le sue splendide illusioni, Andrea comprende che tutto
ciò che gli è toccato non deve imputridire nella memoria, ma servirgli nel
presente e occorre "andare incontro alla realtà nuova" con la consapevolezza
che la vita è l'unico bene. Sradicando da sé paure e sofferenze, senza arroganze
o inutili proclami, Andrea accetta la sfida e si libera della falsa convinzione che
la vita consista in solide certezze, aprendosi alla contraddittorietà dell'evoluzione
e scoprendo, nella missione di insegnante, una delle possibili modalità di
riarticolazione della sua fame di conoscenza: non più una voluttà divinamente e
panteisticamente solipsistica (il limite del risarcimento cercato e trovato da
Angioletto), ma uno sforzo comune per aiutare gli altri a non rifugiarsi nella
memoria, a scegliere la carta della compromissione col mondo, in una
prospettiva, tuttavia, di modificazione e di trasformazione.
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La conoscenza, dunque, è arma per vivere e cambiare, il mutamento è
condizione dell'agire umano: ritrovare la ragazza che lo ha aiutato a scoprire
l'altro mare vorrà dire, per Andrea, l'approdo definitivo, la capacità di costruire
segmenti di solidarietà che rannodino Diomede e i Dauni alle vicende e ai
dubbi del presente e del futuro. Ai suoi alunni alla caccia di certezze Andrea
consegnerà la composta maturità del paesaggio verticale ed orizzontale della sua
terra, il mistero del mare e la magia della montagna, la necessità del viaggio e
delle domande e la conquista della provvisorietà delle risposte: l'avventura non
è finita.
Se provassimo a definire il romanzo di Serricchio all'interno della
letteratura meridionale, potremmo subito sottolineare il fatto che, proprio per il
suo passo mitico, Il castello sul Gargano riesce a non farsi catturare nei quadri
della letteratura di testimonianza, magari meridionalistica, ottima cosa, forse,
negli anni quaranta e cinquanta, oggi del tutto inservibile e come denuncia
(sappiano già tutto di tutto, e, soprattutto, la cosa non ci rende più felici
ponendoci di fronte a realtà che paiono sempre più immodificabili e vincenti) e
come scelta di registri stilistici e di forme di scrittura.
La migliore narrativa meridionale, oggi, e il caso di Nigro lo testimonia,
è quella che sa liberarsi dalle scorie della tradizione del romanzo-saggio di civile
rilevanza e si libra in una sorta di barocco "sudamericano", estremamente
critico e nei confronti della tranche de vie e del lamento "sudista": sicché, al limite,
non può neppure più dirsi "meridionale" in senso stretto, dal momento che
reinventandosi come parte di un discorso più generale, il piacere del racconto e
la dimensione della scrittura consentono di varcare il limite provinciale e di
giocare la carta di una contemporaneità non archeologica.
Il romanzo di Serricchio, pur non potendosi del tutto sciogliere dal tema
delle radici (ma anche tanti romanzi della Loy o di Mondo finiscono con
l'aggirarsi in quelle stesse tematiche, pur collocandosi in ambito piemontese),
riesce, tuttavia, a trovare una sua misura felicemente inventiva: nel suo castello si
aggirano ancora i fantasmi "meridionalisti", ma il sortilegio mitico-narrativo,
fortunatamente, li esorcizza e si apre, con ciò, ad una forte carica fantastica,
nella quale, dentro una scrittura che oscilla tra la memoria e il progetto,
Serricchio è capace di affrontare l'intreccio tra malinconia delle radici, invito alla
stabilità ed inquietudine centrifuga,
88
altro modo di nominare la condizione di perplessità pluralizzata delle nostre
coscienze di fine millennio.
Al di là dell'inerte documentarismo di certa tradizione meridionale e del
secco provincialismo in cui ancora gli epigoni si avvolgono, ma anche al di qua
di una linea di ricerca non sono sperimentale, il romanzo di Serricchio sembra
scavarsi una via di originale e felicissima reinvenzione epica della memoria,
evitando le secche della malinconia e le seduzioni, sempre un po' fallaci, del
natio loco ed offrendo quei relitti memoriali ai venti gelidi della contraddizione e
dell'angoscia, anche se, in ultimo, una luce di gioia sembra accendersi negli occhi
di Andrea. E tuttavia, non sembra opportuno dimenticare la qualità di superstite
di quel personaggio e il naufragio nel quale tutti hanno perduto qualcuno o
qualcosa, magari una vuota e retorica nozione di speranza e un bagaglio di
apparentemente solide certezze.
L'apertura progettuale dell'ultima pagina non può indurci a trascurare
tutto quanto la precede. Per questo, a me pare necessario sottolineare la misura
epica del romanzo di Serricchio come capacità dissipatrice d'angoscia, in un
confronto serrato e spietato col ferrigno passo di una storia troppo spesso
inestrinsecabilmente legata all'arroganza della sopraffazione dell'uomo
sull'uomo, non come segnale di un'armonica composizione dei contrari, magari
in un finale alla "vissero felici e contenti" che è, senza dubbio alcuno,
esattamente il contrario di tutto quello che il romanzo ci fornisce, a livello di
suggestioni tematiche e di procedimenti di scrittura.
Ettore Catalano
89
UN CARRETTO FITTILE GEOMETRICO, DA ORDONA
Il mondo daunio, almeno sino al V secolo a.C., destinò all'immagine
spazi e valori diversi. Da un lato, infatti, creò le stele, vere e proprio trionfo del
figurativo; dall'altro, invece, organizzò una ricchissima produzione vascolare a
decorazione geometrica nella quale le figure avevano uno spazio infrequente e
comunque molto marginale. Ma, come provano le stesse stele, quest'ultima
circostanza non è certo da imputare alla mancanza di un patrimonio figurativo
indigeno, piuttosto ad una tradizione artigianale che non necessitava di variare il
repertorio geometrico con l'inserzione di elementi ai quali affidare funzioni
narrative o simboliche.
Prima dell'ellenizzazione l'inserimento dell'immagine, dipinta o plastica,
nel tessuto geometrico del vaso daunio è un evento piuttosto raro, ma in questi
casi è sempre stringente il legame con la funzione rituale del vaso. Fra i soggetti
dipinti, in particolare, ricordiamo gli uccelli, isolati o in coppia1, particolarmente
frequenti sugli attingitoi, mentre le scene o i gruppi figurati sono rari e dipinti
sul labbro delle olle. In questi ultimi casi le composizioni si risolvono nello
schema piuttosto semplice di due soggetti affrontati, lo stesso che appare sulle
stele daunie. Agli esemplari a tutt'oggi editi è da aggiungere un frammento del
labbro di un'olla geometrica rinvenuto a Salapia2, sul quale appaiono una figura
maschile ed una femminile di fronte l'una all'altra, e due cavalieri a cavallo, che
ripropongono il medesimo schema e gli stessi costumi documentati da un
frammento analogo da Ordona 3. Dunque, per rimanere nel campo delle
1 - E.M. DE JULIIS, Un antico simbolo solare nella ceramica geometrica daunia, in Archeologia Classica, XXIII, 1971, pp. 37-51; E.M. DE JULIIS, La ceramica geometrica della Daunia,
Firenze 1977, p. 51 nota 1.
2 - San Ferdinando di Puglia, deposito archeologico. Frammento sporadico.
Segnalazione dell'Archeoclub locale.
3 - M.L. NAVA, Le stele della Daunia, in La civiltà dei Dauni nel quadro del mondo italico.
Atti XIII Convegno di Studi Etruschi e Italici, Manfredonia 1980, Firenze 1984, p. 167, tav.
XXVIII: 710R78. Un altro esemplare è nella collezione Sansone: NAVA, Atti Convegno
Studi Etruschi, 1984, p. 160, tav. XXVIII, b; P. IANNANTUONO, Olle geometriche daunie
nella collezione
91
Fig. 1 – Carretto fittile a decorazione geometrica. De Ordona. Foggia, depositi Soprintendenza.
Fig. 2 - Frammento di labbro di olla, con decorazione figurata. De Salapia. San Ferdinando di
Puglia, deposito archeologico.
92
produzioni locali sarà solo dal III a.C. che appariranno scene più complesse,
ma esclusivamente sui vasi decorati a liste fra le quali sono inseriti soggetti
chiaramente legati alla funzione funeraria del contenitore4.
Nel caso della plastica fittile i soggetti che compaiono sui vasi dauni,
oltre alle piccole protomi comprese fra le terminazioni cornute degli attingitoi,
sono figure isolate, come le statuette di offerenti adoranti e i volatili applicati ai
vasi filtro e agli askoi5. E' eccezionale, a questo proposito, il ritrovamento, nella
tomba 796 di Lavello, di un attingitoio biansato a decorazione geometrica
bicroma con un gruppo plastico rappresentato sul fondo, costituito da una
coppia di 'signori' (uomo e donna) fronteggiati da due cavalli, di notevole
significato ideologico 6. In realtà, ritrovamenti recenti, talvolta da scavi
controllati, più spesso da scavi abusivi immessi nel commercio antiquario
straniero, provano come il campo della plastica fittile della Daunia preromana
sia ancora molto vasto. Ne è testimonianza, ad esempio, la straordinaria
composizione di offerenti femminili disposte alla base di un kalathos, edito da
M Sguaitamatti7.
Dunque, la produzione plastica non pare una pecularità dell'artigianato
daunio, ma bisogna ammettere che essa realizza programmi, decorativi ed
ideologici insieme, di straordinario livello. E lo provano alcuni esemplari a tutto
tondo, non legati a contenitori vascolari, fra i quali una figurina
Sansone, in Rassegna di Studi del Civico Museo Archeologico edel Civico Gabinetto Numismatico di
Milano, XXXI-XXXII, 1983, pp. 25-26,figg. 16a-b. Cfr. inoltre, NAVA, Atti Convegno
Studi Etruschi 1984, p. 176 nota 10; M. MAYER, Apulien vor und während der Hellenisierung,
Leipzig-Berlin 1914, pp. 110- 113, tav. 10 n. 8; D. FEDDER, Daunisch -geometrische
Keramik und ihre Werkstätten, Bonn 1976, p. 247 n. 157. Citata, ma non ancora pienamente
edita, è una brocca da Melfi-Chiucchiari, del subgeornetrico daunio II, di produzione
canosina, con una scena di caccia a cavallo cfr. A. BOTTINI, Principi guerrieri della Daunia del
VII secolo, Bari 1982, p. 102 nota 38 e M. TAGLIENTE, I signori dei cavalli nella Daunia di
età arcaica, in Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Perugia,
XXIII, n.s. IX, 1985-1986, p. 310, e nota 20.
4 - D. YNTEMA, The Matt-Painted Pottery of Southern Italy, Utrecht 1985, pp.
380-387.
5 - K. MAES, La piccola plastica fittile della Daunia, in Acta Archaeologica Lovanensia,
Leuven 1975, pp. 353-378; DE JULIIS, La ceramica geometrica 1977, pp. 52-53; E.M. DE
JULIIS, I popoli della Puglia prima dei Greci, in Magna Grecia. Prolegomeni, Milano 1985, p. 170.
6 - TAGLIENTE, Annali Perugia, 1985-86, pp. 305-321.
7 - M. SGUAITAMATTI, Ein daunischer Kalathos mit plastischem Schmuck, in Antike
Kunst 26, 1983, pp. 50-54.
93
maschile d'impasto rinvenuta nei contesti della prima età del Ferro a Salapia8 ed
un gruppo di tintinnabuli, sagomati con protomi femminili o a forma animale9.
Un pregevole carretto fittile da Ordona, anch'esso con la funzione di
sonaglio per i bambini, appartiene ad un gruppo alquanto significativo di
terracotte raffiguranti questo stesso soggetto. Il caso più noto è quello del carro
geometrico di fattura daunia al British Museum, proveniente da Nola, trainato
da una coppia di cavalli e sormontato da una sedia o trono 10. Sono meno
completi, invece, due esemplari, uno portato alla luce fra il materiale di
riempimento del fossato di Monte Saraceno 11, l'altro, d'impasto, nella
collezione Bellak, a Vienna 12. In ambedue i casi si conserva un quadrupede,
acefalo, con un foro in corrispondenza della testa ed altri in corrispondenza
delle zampe che dovevano servire per il fissaggio delle ruote. Il carretto di
Ordona fu rinvenuto in una tomba a fossa del IV secolo a.C., insieme ad altro
materiale ceramico di corredo, un'armilla ed un anello 13. L'animale è composto
da un corpo di forma allungata con le terminazioni plasmate ad apice
triangolare appiattito con due fori di sospensione all'estremità, con due grandi
ruote fissate alla base. Una cordicella doveva consentire di trascinarlo
smovendo le palline fittili collocate all'interno, che, urtando fra loro,
producevano un suono. La caratteristica bifronte dell'animale rispondeva
certamente all'uso che veniva fatto dell'oggetto, cioè trainando8 - M.A. ALBERTI-A. BETTINI-J. LORENZI, Salapia (Foggia). Notizia
preliminare sugli scavi nella città dauna di Salapia. Campagne 1978-79, in Notizie degli Scavi di
Antichità, XXV, 1981, p. 168 ss. fig. 14.
9 - G. FAZIA, Due tintinnabuli geometrici al Museo di Foggia, in Taras, III, 1-2, 1983,
pp. 149-154. Oltre ai due esemplari editi si ricordano un askòs al Museo di Bari (MAYER,
Apulien, 1914, pp. 135-136, tav. 11, 7), uno al Museo di Amburgo con due protomi
(MAYER, Apulien, 1914, p. 131, tav. 13,9) ed uno da Ordona (M. MERTENS, Ordona VI.
Rapports ed Etudes, Bruxelles - Rome 1979, p. 26, tav. VI b).
10 - C.V.A. Great Britain 10, London 1932, p. 7, tav. 8, 6; MAES, Acta Archeologica
1975, p. 361, tav. IV, 7.
11 - DE JULIIS, Magna Grecia, 1985, fig. 233.
12 - R. PERONI, Archeologia della Puglia preistorica, Roma (s.d.), p. 123, fig. 27, 8.
13 - Il corredo era composto, oltre che dal carretto fittile, dai seguenti materiali: 1.
Olla acroma; 2-3. Brocche a decorazione geometrica monocroma; 4-5-6. Brocche a vernice
bruna; 7. Bicchiere kanthariforme a vernice bruna; 8. Coppa a vernice nera; 9. Armilla in
bronzo; 10. Anello in bronzo; 11. Spiedo in ferro. Scavo Soprintendenza Archeologica
della Puglia 1985.
94
lo da ambo i lati secondo gli stessi criteri ancora oggi proposti con i 'trainabili',
fabbricati in legno o plastica per i bambini.
Le raffigurazioni di carri, peraltro, sono note nel mondo daunio anche
attraverso altri tipi di documentazione. Ricordiamo il cosiddetto 'carrello di
Lucera', in bronzo, al quale appartengono tre complessi elementi forse
associabili fra loro, composti da una coppia di ruote a quattro raggi e da un
elemento nastriforme verticale sormontato da protomi animali cornute, una
importazione dall'area italica14, e, per ritornare all'ambito più squisitamente
locale, i carri che compaiono sulle stele, trainati da cavalli e piuttosto
identificabili come carri da parata, utilizzati nelle cerimonie funebri15.
La nuova acquisizione da Ordona viene così ad offrire contributi a più
tematiche di ricerca, come l'artigianato locale, l'uso dell'immagine, l'ideologia
funeraria ecc. e consente di recuperare altri e nuovi frammenti della società
daunia in età preromana.
Marina Mazzei
14 - Ancient Italy before the Romans, by A.C. Brown, Oxford 1980, p. 29, tav. IX.
15 - M.L. NAVA, Stele Dauníe I, Firenze 1980, tavv. CCXLVI, n. 748 A sin.,
CCCXXVI, n. 986 A.
95
UN RILIEVO CON SCENA DI VENATIO DA CANOSA*
Nella Villa Comunale di Canosa si trova un rilievo con scena di venatio di
provenienza incerta. La lastra giace capovolta, con il lato decorato immerso nel
terreno 1 ( vedi fig. 1).
Il rilievo è ricavato da un blocco di pietra calcarea locale. Le sue
dimensioni sono di m 0,62 per l'altezza, di m 1,27 per la lunghezza; lo spessore
è di m 0,20 superiormente e di m 0,32 inferiormente. Le figure sono alte m
0,48.
La lastra presenta un'ampia lacuna sul lato destro. La superficie è erosa e
ricoperta da incrostazioni, che rendono non chiaramente leggibili alcuni
particolari delle figure. Sulla parte inferiore della lastra si trovano due fori per
l'inserimento delle grappe di fissaggio.
Il rilievo di forma rettangolare conserva a sinistra la cornice liscia, a
fascia, che si allargava su i due lati corti: larghezza massima m 0,27, larghezza
minima m 0, 13. Sul piano ribassato sono raffigurati da sinistra verso destra lo
scontro tra un venator ed un cinghiale e la lotta tra un gladiatore ed un avversario
di cui si è perduta ogni traccia.
Il venator indossa una corta tunica, l'alicula, sollevata sui fianchi con pieghe
ad onde concentriche sul bacino e trattenuta in vita da una cintura; un elmo a
calotta con sottogola, il galerus, copre la testa del personaggio, il quale,
impugnando con entrambe le mani un hasta venatoria, trafigge la
* Ringrazio il Prof. Luigi Todisco dell'Università di Bari per aver seguito il lavoro
con utili consigli e suggerimenti e la Dott. Marina Mazzei della Soprintendenza
Archeologica della Puglia, per la disponibilità dimostratami.
* Foto di M. Carrozzino.
*Abbreviazioni dell'Archaologische Bibliographie.
1 - Per l'origine della venatio e la suadiffusione nell'arte romana: T. DOHRN,
Venatio, in EAA, VII, 1966, pp. 1120-1121; B. FELLETTI MAJ, La tradizione italica
nell'arte romana, Roma 1977, pp. 343-345; G. VILLE, La gladiature en Occident. Des origines à
la mort de Domitien, Rome 1981, pp. 51-56, pp. 88-99; pp. 106-118; pp. 123-128; pp. 129,
155, 158-173; pp. 200-224; pp. 345-380; pp. 401, 427; A.M. REGGIANI, La venatio.
Origini e prime raffigurazioni, in Anfiteatro Flavio. Immagine, testimonianze, spettacoli, Roma
1988, pp. 147-155, con ampia bibl. prec. e riferimenti alle fonti. D. MANCIOLI, Giochi e
spettacoli, Museo della Civiltà romana, Vita e costume dei Romani antichi, 4, Roma 1987, pp.
50-69.
97
gola del cinghiale alla sua sinistra2. Il cinghiale si avventa contro il venator, le sue
zampe anteriori sono sollevate come per un ultimo disperato tentativo di
difesa. Le fauci dell'animale sono aperte e si intravede la dentatura. Un
rigonfiamento sul collo fa pensare ad una schematizzazione del pelo. Dalla testa
fino alla coda, lungo la linea dorsale, si sviluppa una criniera formata da fitte
setole verticali. La coda è a ricciolo (vedi fig. 2).
Segue un gladiatore volto verso destra. Egli indossa un elmo a calotta
emisferico, con tesa circolare, ampio sottogola e paraguance. E' vestito di
subligaculum corto con pieghe ad onde concentriche, trattenuto in vita da un
balteus; ha ocreae alle gambe. Nella mano sinistra l'uomo impugna la parmula
rettangolare e nella destra la sica. Il gladiatore è rappresentato nel comune
schema di attacco, con la gamba destra tesa all'indietro e la sinistra piegata in
avanti3.
I caratteri strutturali e stilistici indicano che il rilievo appartenne ad un
monumento diverso da quello cui è attribuibile la lastra gladiatoria conservata
nell'area degli Ipogei Lagrasta di Canosa4. Questo rilievo, databile tra il I secolo
a.C. ed il I secolo d.C., presenta tre figure di gladiatori impegnati in
combattimento. Le dimensioni, il tipo di cornice e lo stile con cui sono
realizzati i personaggi differiscono notevolmente da quelli del rilievo con scena
di venatio.
Diversamente da altri rilievi venatori di area italica in cui la scena è
espressa in termini di arte ellenistica, nell'esemplare canosino prendono il
sopravvento i caratteri tipici dell'artigianato municipale. Prendendo, infatti, ad
esempio un rilievo con scena di venatio, proveniente dal territorio di Rieti5,
appare evidente il tentativo di disporre le figure su più piani, creando il senso
della profondità con la raffigurazione dei combattenti caduti in
2 - Per l'armatura usata dai venatores; A. REINACH, Venatio, in CH.
DAREMBERG, M. SAGLIO', Dictionnaire des Antiquites greques et romaines, V, 1919; pp.
682-686; V. SALETTA, Ludi circensi, Roma 1964, pp. 148-162.
3 - Per la posizione del corpo del gladiatore e l'annatura indossata: F.
FACCENNA, Rilievi gladiatori, in BullComm, LXXVI, Roma 1956-1958, p. 67 fig. 12
(Civitella S. Paolo); F. COARELLI, Il monumento di Lusius Storax. Il rilievo con scene
gladiatorie, in StMiscellanei, 10, 1966, p. 89 fig. D, 18; S. DIEBNER, Aesernia-Venafrum,
Roma 1979, pp. 245-246, tav. 69, Vf 39.
4 - A.G. BLUNDO, I rilievi funerari romani della Daunia, in Taras, VII, 1-2,1987, pp.
54-55, tav. IX, 1.
5 - REGGIANI, 1988, pp. 149-151, fig. 4.
98
primo piano e, sullo sfondo, una fiera disposta in diagonale. Lo stesso schema
iconografico viene utilizzato in un rilievo della collezione Torlonia6, con
un'attenzione ancora maggiore per i particolari delle armature, la resa anatomica
delle belve e l'architettura sul fondo. Nel rilievo canosino, invece, le figure sono
poste l'una accanto all'altra, senza alcuna ricerca prospettica; l'armatura del
venator è semplificata alla sola tunica e ad una lunga hasta venatoria.
Un elemento di notevole interesse è costituito dal cinghiale, uno degli
animali più feroci che fosse possibile procurarsi per i giochi in provincia7.
Dal punto di vista stilistico nell'esecuzione del cinghiale è particolarmente
evidente la povertà tecnica dell'artigiano che eseguì il rilievo. Questi, pur
rifacendosi ad un modello di probabile ispirazione ellenistica, come sembra
dimostrare lo schema in diagonale della belva, derivato dalle raffigurazioni di
caccia alessandrine8 e replicato in scene augustee di venatio di produzione
urbana 9, realizzò un cinghiale dalle dimensioni eccessive, che, sollevato sulle
zampe anteriori, raggiunge e quasi sormonta con la sua mole la figura del
venator. Le zampe dell'animale sono troppo magre ed allungate rispetto al
corpo e, per di più, sembrano slegate da esso. Soprattutto l'enfasi data alle
proporzioni del cinghiale, squilibrate rispetto a quelle delle altre figure
rappresentate, permette di affiancare il frammento canosino ai rilievi italici
caratterizzati da un più accentuato simbolismo. L'affidare al simbolo il
messaggio, è, com'è noto, elemento tipico della corrente artistica "plebea"
diffusa nell'artigianato municipale10.
Quindi, l'ispirazione allo schema ellenistico di caccia sussiste ancora in
questo rilievo, ma ormai solo come lontano ricordo formale, trasformato
profondamente dalle esigenze, dall'ideologia e dall'abilità tecnica del6 - REGGIANI, 1988, pp. 151-152, fig. 7.
7 - REINACH, 1919, p. 690; FELLETTI MAJ, 1977, p. 343-345; REGGIANI,
1988, pp. 153-155.
8 - REINACH, 1919, pp. 696-699; J. CHARBONNEAUX, R. MARTIN, F.
VILLARD, La Grecia ellenistica, Milano 1969, pp. 103-105, 109-111, figg. 95, 96, 99, 100;
figg. 105-108 (pitture e mosaici ellenistici); p. 237, figg. 248-249, (Sarcofago di Sidone con
caccia di Alessandro); FELLETTI MAS, 1977, p. 344; REGGIANI, 1988, pp. 153-154,
con bibl. prec.
9 - Cfr. note 5, 6.
10 - F. COARELLI, L'ara di Domizio Enobarbo e la cultura artistica in Roma nel II
secolo a.C., in DArch, II, 3, Milano 1968, pp. 302-368; R. BIANCHI BANDINELLI,
Roma. L'arte romana al centro del potere, Roma 1969, pp. 51-71, figg. 53-57; G.A.
MANSUELLI, Roma ed il mondo romano, Torino, 1981, I, pp. 60-61, pp. 150, 154.
99
Fig. 1
Rilievo con scena di venatio conservato nella Villa Comunale di Canosa.
100
Fig. 2
Particolare del rilievo: venator che affronta il cinghiale.
101
l'artigiano locale. Allo stesso modo un'attenta analisi del reperto ha evidenziato
analogie con un altro modello molto noto a Roma. Infatti sussistono notevoli
somiglianze tra la scena di venatio canosina e quella rappresentata su di una lastra
della Via Portuense a Roma, a sua volta derivata dallo schema adottato per la
raffigurazione di Meleagro in lotta contro il cinghiale Calidonio 11. Su questo
rilievo il venator, in semplice tunica e calzari, spostando il peso del corpo sulla
gamba sinistra, conficca con entrambe le mani una lancia appuntita nella gola
del cinghiale. La belva, presenta notevoli analogie con quella di Canosa per il
muso con zanne evidenziate, le orecchie appuntite, l'occhio sormontato da un
folto sopracciglio, le fitte setole dorsali sollevate a formare quasi una cresta sul
capo. Le uniche differenze si riscontrano nella clamide sulle spalle del cacciatore
e nella impostazione del cinghiale, che mentre nel nostro caso si avventa con un
salto contro il venator, nel rilievo romano è raffigurato semplicemente in corsa
verso l'uomo, schema, quest'ultimo, più vicino a quello usato per la Caccia
Calidonia su numerose urne etrusche tardo ellenistiche12, e sui sarcofagi con
raffigurazione del mito di Meleagro di età adrianea-antonina 13.
Il rilievo canosino, invece, mostra un ulteriore semplificazione del
modello ellenistico: il venator non ha lo slancio che caratterizza la figura di
Meleagro, la gamba destra subisce un'innaturale torsione e le mani sono delle
appendici amorfe delle braccia. La lastra di Canosa rivela l'ibridazione dello
schema calidonio con elementi ripresi dalle già citate scene di caccia alessandrine
di cui conserva soprattutto il motivo dell'animale raffigurato nel suo salto in
diagonale verso il cacciatore.
La diffusione di questo schema iconografico in area provinciale è
ampiamente confermato da altre scene di venatio, che presentano elementi in
analogia sia con il rilievo della via Portuense, che con quello canosino.
11 - D. BONANOME, in Museo Nazionale Romano. Le sculture, I, 8, Roma 1985,
pp. 113-115.
12 - G. KÖRTE, I rilievi delle urne etrusche, Berlino 1916, vol. II, tav. LVII, 3; tav.
LVIII, A5; tav. LIX, 6-7; tav. LX, 8-9; tav. XLXI, 10-11, pp. 141-155; vol. III, tav.
CXXIX, 1, 2, 3, p. 194; tav. CXXX, 4-5, p. 195.
13 - G. KOCH, Die Mythologischen Sarkophage. Meleager, 6, Berlin 1975; G.
RODENWALT, Ein attischer Jagdsarkopeag in Budapest, in Jahrbuch, des deutschen
archaelogischen Instituts 67, 1952, pp. 39-40, fig. 9; A. GIULIANO, Un sarcofago da Eleusi con
il mito di Meleagro, in AnnAtene, 33-34, 1955/56, pp. 183-184.
102
Su di una lastra da Sulmona 14, lo schema cacciatore-cinghiale è sostanzialmente identico a quello degli esemplari citati. Su di un cippo conservato
nel Museo Lapidario di Ferrara15, pur mancando la figura del cinghiale, il
venator in corsa verso sinistra con la clamide svolazzante sulle spalle è assai vicino
all'uomo del rilievo Portuense per lo slancio del corpo e la resa della tunica. In
un piccolo fregio su di una stele funeraria da Assisi16, invece, lo schema appare
ribaltato, con il cinghiale a sinistra ed il cacciatore a destra, ma le analogie nella
resa anatomica dell'animale, con le zampe leggermente sollevate nell'impeto
della corsa, l'abbigliamento e la posizione del corpo del venator sono tutti
elementi che confermano la derivazione da uno stesso modello noto in area
municipale. Il motivo della venatio, con simile impostazione delle figure, lo si
trova frequentemente nell'area campana. Esempi importanti sono i rilievi che
ornavano i monumenti funerari di Vestorio Prisco 17 e di Umbricio Scauro18 a
Pompei ed una lastra marmorea rinvenuta verso Porta Stabiana 19 sempre nella
stessa città. In questi casi le venationes si affiancano ai Ludi Gladiatorii in una
raffigurazione completa dei munera, ma lo schema venator-belva è, ancora una
volta, identico.
La lastra canosina con scena di venatio ripropone il problema, ancora in
discussione, della circolazione dei modelli di matrice ellenistica in area
provinciale. La direttrice che i modelli seguivano sembra chiaramente
14 - REGGIANI, 1988, pp. 154-155, fig. 13.
15 - REGGIANI, 1988, pp. 154-155, fig. 14.
16 - S. DIEBNER, Reperti funerari in Umbria a sinistra del Tevere, I secolo a.C. – I secolo
d.C., Roma 1986, tav. 21, p. 83, Ass. 72; S. DIEBNER, Aspetti della scultura funeraria tra
tarda repubblica ed Impero, in DArch, I, 1987, pp. 33-34, fig. 9.
17 - J.M. DENTZER, Le tombe de Vestorius dans la tradition de la peinture italique, in
Mefra, LXXIV, 1962, pp. 533-594.
18 - COARELLI, 1966, tavv. XLII-XLIII, figg. 106-109; FELLETTI MAJ, 1977,
p. 343; H. DÖHL, P. ZANKER, La scultura sepolcrale, in Pompei 79, Napoli 1979, pp.
188-189, fig. 97; L. KOCKEL, Die Grabbauten von dem Herkulaner Tor in Pompeji, 1983, pp.
75-85, tavv. 19-20; S. DIEBNER, I rilievi gladitori in rapporto ai giochi anfiteatrali, in
Anfiteatro Flavio, immagine, testimonianze e spettacoli, Roma 1988, p. 131, fig. 6.
19 - B. MAIURI, Rilievo gladiatorio di Pompei, in RendLinc, II, 1947, pp. 491-510,
tavv. I-II; COARELLI, 1966, tav. XL; FELLETTI MAJ, 1977, pp. 341-343; ZANKER,
1979, pp. 188-189, fig. 98; DIEBNER, 1988, p. 131, fig. 5.
103
provenire da Roma. Infatti gli esempi rinvenuti nella città (Via Portuense, Rilievi
Torlonia) o nei centri immediatamente limitrofi (Rieti), sono più vicini
stilisticamente ai modelli ellenistici, come avviene per le Lastre Campana in cui
vengono ugualmente utilizzati ambientazione architettonica e schemi in
diagonale20.
Questi modelli nel loro passaggio verso centri periferici subivano
ulteriori semplificazioni dovute sia all'abilità dell'artigiano, sia all'estrazione
culturale del committente. Si ottengono, così, scene estremamente stilizzate,
come quella, per esempio, della stele di Assisi21, con le immagini del venator e
della belva che sembrano come congelate, bloccate nei loro gesti di attacco o di
difesa senza alcuno slancio; predomina la paratassi, non viene usata alcuna
ambientazione che colleghi le immagini alla realtà, il messaggio è espresso con
mezzi molto semplici, anche se efficaci.
Il fenomeno della diffusione dei modelli da Roma verso l'area "provinciale", si fa più acuto soprattutto durante i primi anni dell'Impero, periodo al
quale si fa risalire la maggior parte degli esemplari citati.
I centri periferici risentono dei modelli iconografici e seguono le mode
diffuse da Roma22. I liberti che, specialmente con l'appoggio di Augusto,
giungono a rivestire anche importanti cariche politiche23 confluiscono nella
borghesia municipale accanto a mercanti e veterani delle legioni24. E' quindi
logico che il livello stilistico con cui erano realizzati i rilievi e le altre opere di
scultura municipale risentisse anche della cultura della committenza, legata e
determinati schemi espressivi, cristallizzatisi già alla fine dell'età
20 - Cfr. note 5, 6; REGGIANI, 1988, pp. 153-154, figg. 9-12.
21 - Cfr. nota 16.
22 - Sul problema si veda il recente testo di P. ZANKER, Augusto ed il potere delle
immagini, Torino 1989, pp. 281-297; pp. 330-331; pp. 335-338.
23 - ZANKER, 1989, p. 338.
24 - M. TORELLI, Monumenti funerari con fregio dorico, in DArch, 1968, II, 1, pp.
48-49; M. PANI, Politica e amministrazione romana, in Storia della Puglia, I, Antichità e
Medioevo, Bari 1979, p. 93; M. PANI, Economia e società in età romana, in Storia della Puglia,
cit., pp. 112-114; F. REBECCHI, Ritratto e iconografia romana. Aspetti del problema nella Italia
centro-settentrionale tra il I sec. a. C. ed il II sec. d. C., in ArchCl, 32, 1980, pp. 110-116; A.
CANDELARO, Il problema del fregio dorico nei monumenti funerari d'Abruzzo, in Papers in
Italian Archeology, II, 1985, pp. 62-63.
104
repubblicana, conservatrice anche se desiderosa di adeguarsi alle nuove mode25.
Canosa, come è già stato dimostrato, non è estranea a questa situazione26. Municipio romano e, quindi, strettamente legata a Roma grazie ai suoi
magistrati27 risente dei modelli colti importati e li imita.
Problematica è l'identificazione del secondo combattente, che presenta
un abbigliamento più complesso rispetto a quello del venator (fig. 3). Venatores
armati come gladiatori sono frequenti nei rilievi romani del I secolo a.C.28;
anche lo scudo e l'elmo facevano parte del loro abbigliamento in seguito
all'editto di Augusto che decretò un armamento più pesante per essi29.
Tuttavia, nel nostro caso, per una serie di elementi, è più probabile che la
figura in questione sia un gladiatore Trace. La sua armatura, infatti, presenta
delle caratteristiche ben definite: elmo con tesa pronunciata e paraguance,
coltello corto, subligaculum e scudo rettangolare, tutti elementi che si ritrovano in
analoghe figure di combattenti identificati appunto come Traci, per esempio
nei rilievi funerari di Sepino 30, della via Cassia31 e nel monumento tombale di
Lusius Storax a Chieti32 . E' quindi possibile che nel mutilo rilievo canosino vi
fosse la raffigurazione comple25 - COARELLI, 1966, pp. 96-98, delinea uno schema chiaro e conciso della
diffusione dei modelli in ambito "provinciale".
26 - F. D'ANDRIA, La Puglia romana, in La Puglia da Paleolitico al Tardoromano,
Milano 1979, pp. 307-310, 330; 356-357, dove si accenna al problema delle officine e dei
committenti a Canosa durante la romanizzazione; BLUNDO, 1987, p. 42, pp. 61-63.
27 - C. CAMODECA, Ascesa al senato e rapporti d'origine. La Campania e le regioni II e
III, in Colloquio Internazionale A.I.E.G.L. su Epigrafia ed Ordine senatorio, Roma 1981, II, pp.
108-110; E. LIPPOLIS, M. MAZZEI, L'età imperiale, in La Daunia antica, Milano 1984, p.
253.
28 - G. LAFAYE, Venator, in DAREMBERG, SAGLIO', cit., V, 1919, pp.
709-711: l'A. afferma che l'armatura pesante dei rilievi Torlonia è dovuta solo
all'eccezionalità dell'occasione in cui si tennero i giochi, l'inaugurazione del Teatro Marcello,
nell'11 a.C.; REGGIANI, 1988, pp. 149, 151, fig. 4.
29 - VILLE, 1981, pp. 99-128; A.M. REGGIANI, Rieti. Museo Civico. Rinvenimenti
dalla città e dal territorio, Roma 1981, tav. XXIX, 99, pp. 60-61.
30 - FACCENNA, 1956/58, p. 50, tav. VI, 1.
31 - S. RINALDI TUFI, Un frammento di rilievo gladiatorio, in ArchCl, 18, 1966, pp.
67-71, tav. 25.
32 - COARELLI, 1966, fig. B, 7; C, 9; D, 17; tav. XXIII, 78-80; tav. XXXV, 87-88.
105
Fig. 3
Particolare del rilievo: gladiatore.
106
ta, in sequenza, dei vari momenti dei giochi del circo, che si aprivano con le
venationes, (ludus meridianus), per proseguire nel pomeriggio con i ludi gladiatori33.
Non è insolito, infatti, trovare i due temi associati in varie classi di monumenti34
e soprattutto nei rilievi funerari per cui abbiamo già citato gli esempi di
numerose tombe delle necropoli pompeiane35.
La lacunosità del rilievo canosino rende difficile precisare l'originaria
utilizzazione; la lastra poteva essere, infatti, inserita in un monumento funerario
o far parte dell'apparato decorativo dell'anfiteatro, forse della stessa Canosa, di
cui alcune epigrafi ci forniscono notizia36.
Nessun dato, per chiarire l'impiego, del frammento architettonico, si è
ottenuto dall'analisi degli elementi strutturali. Le dimensioni sono risultate,
infatti, adeguate sia ad un monumento funerario che alla balaustra del podio di
un anfiteatro, come si è visto facendo un confronto con i rilievi dell'anfiteatro
di Lupiae37.
Comunque alla luce degli elementi scaturiti dalla ricerca, è possibile
affermare con una certa sicurezza che il rilievo canosino con scena di venatio
appartenne alla decorazione architettonica di un monumento funerario.
L'ipotesi è ampiamente avvalorata dalla lunga serie di rilievi simili
provenienti dall'area italica, con cui abbiamo riscontrato stringenti analogie, tutti
relativi a strutture tombali38. Ad essi si aggiungono i monumenti funerari di
Amiterno 39 e di Lusius Storax a Chieti40, i quali, pur mostrando
33 - G. LAFAYE, La venatio dans les jeux de l'anphitheatre, 1919, pp. 700-709;
DIEBNER, 1988, p. 134.
34 - I due temi si trovano spesso affiancati nelle decorazioni musive si veda ad
esempio: L. ROCCHETTI, Il mosaico con scene d'arena al Museo Borghese, in Riasa, 1962, p.
91, figg. 6-7; p. 92, fig. 8; pp. 96-97, figg. 14-16; p. 87, fig. 3.
35 - Cfr. note 18, 19.
36 - R. CASSANO, Canosa. I dati archeologici, in Società romana e produzione
schiavistica. L'Italia: insediamenti eforme economiche, Bari 1981, pp. 231-232; LIPPOLIS,
MAZZEI, 1984, pp. 264-266; V. MORIZIO, Le epigrafi romane di Canosa, Bari 1985, pp.
1-9, pp. 74-75.
37 - R. CORCHIA, Rilievi con venationes dall'anfiteatro di Lecce: problemi e proposte di
lettura, in Studi di Antichità, 2, Lecce, 1980, pp. 117-294.
38 - Cfr. note 5, 14, 15, 16, 17, 18, 19.
39 - L. FRANCHI, Rilievo con pompa funebre e rilievo con gladiatori al Museo dell'Aquila,
in StMiscellanei, 10, 1966, pp. 23-32, tavv. V-IX; A. LA REGINA, Monumento Funerario di
un Triumviro Augustale nel Museo di Chieti, in StMiscellanei, Roma 1966, pp. 39-53, tavv.
XIX-XXV, figg. 46-60.
40 - R. BIANCHI BANDINELLI, Dati generali e studi precedenti sul monumento di
Lusius Storax, in StMiscellanei, 1966, pp. 58-60; COARELLI, 1966, pp. 85-99, tavv.
XXXIII-XXXIX.
107
solo scene di munera gladiatoria non si allontanano per gli elementi morfologici e
stilistici degli esemplari citati.
Si è già dimostrato che Canosa non fu estranea a questo tipo di
decorazione architettonica. Lo testimoniano il rilievo conservato nei giardini
degli Ipogei Lagrasta, precedentemente citato, ed uno conservato al Museo di
Foggia, proveniente anch'esso da area canosina 41, per i quali è certo l'originario
inserimento in strutture funerarie, commissionate da magistrati locali, forse seviri
augistales42. D'altra parte, l'unico esempio finora conosciuto di lastre con scene
di venationes scolpite, provenienti dagli anfiteatri romani dell'area italica
centro-meridionale, è rappresentato dai rilievi dell'anfiteatro di Lecce, per di più
di epoca tarda43.
Nell'anfiteatro di Pompei, grandi lastre di calcare, formanti i baltei del
podio, presentano scene di giochi, ma esse sono dipinte e non scolpite e, per di
più, di esse ci sono rimaste solo disegni, che mostrano non vere e proprie
venationes, ma solo zuffe tra animali44.
Questi elementi, uniti al fatto che i caratteri stilistici ed i moduli espressivi
sono tipici della classe dei monumenti funerari edificati in centri "provinciali",
avvalorano l'ipotesi che il rilievo canosino fosse inserito, in origine, in una
struttura tombale.
Elemento fondamentale per la datazione del rilievo è il tipo di armatura
indossata dal gladiatore. In particolare si notano le ampie paragnatidi dell'elmo,
che si chiudono completamente sul viso lasciando solo i fori per
41 - BLUNDO, 1987, pp. 55-56, tav. IX, 2.
42 - DENTZER, 1962, pp. 587-591; VILLE, 1981, pp. 188-199; pp. 200-211, l'A.
affronta anche il problema del significato della raffigurazione dei giochi sui monumenti
funerari; BLUNDO, 1987, pp. 61-65, con bib. prec.
43 - Cfr. nota 37, anche dal punto di vista morfologico le figure di questi rilievi
leccesi sono diverse e si avvicinano maggiormente ai caratteri tardoantichi dei mosaici
tarantini del IV sec. d.C. L. MASIELLO, in Tappeti di pietra. I mosaici di Taranto romana,
Fasano 1989, pp. 76-78, fig. 50, V. 3.
44 - G. SPANO, Alcune osservazioni nascenti da una descrizione dell'Anfiteatro di
Pompei, Napoli 1953, pp. 43-62. P. CIPRIOTTI, Conoscere Pompei, Roma 1959, pp. 38-44,
figg.22-26; A. NEPPI MODONA, Gli edifici teatrali greci e romani, Firenze 1961, pp.
254-256 (Pompei); per un elenco completo degli anfiteatri italici e provinciali pp. 251-299;
A. DE VOS, Pompei. Guide Archeologiche Laterza, Bari 1982, pp. 150-154; p. 362, con bibl.
prec. A. FROVA, Edifici per spettacolo delle regioni II e III, in Aparchai, Pisa 1982, pp. 417-429,
per un elenco delle strutture anfiteatrali delle regioni II e III.
108
gli occhi. Questo stadio dello sviluppo formale dell'elmo gladiatorio fu
raggiunto nei primi anni del I secolo d.C., durante il regno di Augusto 45 .
La tipologia dell'armatura non è l'unico elemento che permette di datare
la scena di venatio, ad esso si aggiungono i confronti con i rilievi già più volte
citati, risalenti, anch'essi ai primi anni dell'Impero46. E' questo il periodo che
vede la maggiore diffusione in Italia di monumenti funerari con una tipica
decorazione architettonica, per la concomitante azione di cause politiche e
sociali. La propaganda politica di Augusto, basata in larga parte sulla diffusione
di modelli iconografici, trova nei centri municipali un fertile terreno; qui gli
appartenenti all'aristocrazia o i liberti giunti a rivestire cariche pubbliche
ostentavano il grado civile ed economico raggiunto, commissionando la
costruzione di importanti edifici pubblici, istituendo e donando al popolo
giochi gladiatori ed esaltando se stessi e le azioni compiute con grandi
monumenti funerari.
Anche se lo studio dell'architettura funeraria in Apulia è ancora agli inizi,
sono ormai numerosi i tasselli che concorrono a creare un quadro abbastanza
completo ed articolato della situazione locale nei primi anni dell'Impero.
Accanto alle citate lastre con scene gladiatorie47 si trovano stele e rilievi con
figure di coniugi affiancati, in posizione rigida e frontale e di bambini; in essi si
esprime la volontà della borghesia municipale di adeguarsi all'ideologia di
restaurazione degli antichi valori della famiglia, del lavoro, della dignità civica,
che Augusto aveva posto alla base del suo programma politico 48.
Il riferimento ad un modello ellenistico di imitazione urbana, che
abbiamo individuato nello schema iconografico del rilievo con scena di venatio,
non è l'unico caso presente in Daunia. Ne sono prova i sarcofagi
45 - COARELLI, 1966, pp. 92-93; DIEBNER, 1988, pp. 140-141.
46 - Cfr. note 5, 6, 14-20.
47 - Cfr. note 4, 41.
48 - E. FABRE, Libertus. Recherches sur les rapports patron-affranchis à la fin de la
republique romaine, Rome 1981, pp. 154-161; pp. 188-205, per l'adozione del tipo di
iconografia tradizionale da parte dei liberti; BLUNDO, 1987, pp. 47-50, tav. V, 1-2; tav.
VI, 1-2; tav. VII, 1-2, per la presenza di questo tipo di monumenti funerari in Daunia. G.
L'ARAB, Il mausoleo Bagnoli di Canosa, in AnnBari, XXX, 1987, pp. 5-28; M. MAZZEI, J.
MERTENS, Ascoli Satriano (FG), Sedia di Orlando, in Taras, X, 2, 1990, pp. 312-314.
109
a ghirlande sostenute e alternate a bucrani e rosette, motivi decorativi ripresi dal
tardo ellenismo e diffusi in Italia meridionale soprattutto nel I secolo a.C. - I
secolo d.C.49.
Sempre in area daunia e precisamente ad Ordona è stato rinvenuto un
frammento di fregio dorico con patera e bucranio 50, che prova l'esistenza di un
tipo di monumento funerario a dado e ad altare diffusi nelle aree italiche
profondamente romanizzate durante il periodo augusteo 51.
Si sono inoltre individuati numerosi leoni di destinazione funeraria,
sicuramente di epoca romana, anche se riutilizzati in strutture più tarde52.
Queste statue erano poste con funzione apotropaica e decorativa, in
monumenti tombali di vario tipo diffusi in tutta l'Italia romanizzata e nelle
provincie tra il I secolo a.C. ed il I secolo d.C. circa53. In tali leoni è
riscontrabile sempre la semplificazione in senso "provinciale" dei modelli, unita
ad una evidenziazione più o meno marcata di caratteri ellenistici a seconda
dell'abilità dell'artigiano 54.
A completare il quadro della scultura funeraria in Daunia, si deve citare la
Sfinge conservata nel Museo Civico di Bovino, unico esempio di tale tipo di
statuaria nella zona 55.
La sfinge, databile anch'essa nei primi anni del I secolo d. C. per alcuni
elementi stilistici, viene a confermare quanto detto in precedenza sulla diffusione
dei modelli da Roma in Apulia e a dimostrare gli stretti legami ideologici
esistenti tra la Regio II e la capitale.
La sfinge, infatti, aveva assunto durante il regno di Augusto, un
particolare valore politico e di conseguenza la sua iconografia aveva avuto
49 - La prima indagine approfondita su questa classe di monumenti è stata
condotta da: L. TODISCO, Il sarcofago-Meo-Evoli ed altri a ghirlande di produzione apula, in
Archeologia e Territorio. L'area peuceta, in Atti del Seminario di Studi, (Gioia del Colle 1987),
Bari 1989, pp. 136-137; 143-145.
50 - Il reperto, ancora inedito, è stato inserito nella tesi di specializzazione discussa
da chi scrive presso la Scuola Speciale per Archeologi di Pisa 1984-1985.
51 - TORELLI, 1968, pp. 32-54.
52 - L. TODISCO, L'antico nel Campanile Normanno di Melfi, in Mefran, 1, 1987/1,
pp. 123-158; ID, Leoni romani in Daunia, in RendLinc, XLI, 1986, pp. 163-180, tavv. I-VII;
ID, Leoni funerari di Luceria, in RendLinc, XLII, 1987/2, pp. 145-155, tavv. I-VI.
53 - TODISCO, 1986, pp. 171-176, Id, 1987/1, pp. 134-135, con bibl. prec.
54 - TODISCO, 1987/1, pp. 136-139.
55 - L'esemplare, ancora inedito, è in corso di studio da parte di chi scrive.
110
grande diffusione nelle regioni romanizzate56. In questo caso l'anonimo abitante
di un centro della Daunia, con l'utilizzare l'immagine della sfinge nel suo
monumento funerario, dimostra una forte volontà di integrazione con Roma57.
Per concludere, il rilievo canosino con scena di venatio si inserisce
perfettamente nella situazione culturale ed artistica esistente in Italia nel I secolo
d.C..
Si tratta certamente di un prodotto locale, uscito da una bottega
canosina, che, insieme ad altre, si dedicava ad un'intensa attività scultorea su
richiesta di una clientela con notevoli possibilità economiche. Nei moduli
formali si individua un eclettismo dovuto all'utilizzazione di schemi ellenistici, in
parte già noti localmente, in parte mediati dalle zone campane, dove maggiore
era stato l'influsso della cultura greca, ma il modello, ripreso dall'arte urbana,
viene qui trasformato in un linguaggio che si può certamente definire
"provinciale".
Anna Grazia Blundo
56 - ZANKER, 1989, pp. 285-287.
57 - ZANKER, 1989, pp. 290-297.
111
GROTTA TRAPPEDO E GROTTA DEI MIRACOLI
CENNI SULLA FREQUENTAZIONE PREISTORICA
IN TERRITORIO DI RIGNANO GARGANICO (FG)
GROTTA TRAPPEDO
Si apre in territorio di Rignano Garganico (Foggia), circa un chilometro
ad Ovest dell'abitato, quasi all'inizio del ripido pendio (q. 210 s.l.m.), formante
il primo scalino del Promontorio Garganico, che da circa q. 100 s.l.m. porta al
primo pianoro, quello che da Rignano si distende verso Coppa Casarinelle e
Borgo Celano, fra i 600 e i 700 mt. s.l.m.1
Ad una indagine di superficie la cavità risulta frequentata in due diversi
periodi. Il più recente, in età storica, si può far risalire al XIV sec. d.C.; quello
più antico, di epoca preistorica, ad una fase finale del Neolitico.
In questa sede metteremo in evidenza questa ultima frequentazione, che è
attestata da reperti non molto numerosi, ma significativi, sia litici che fittili.
Fra i manufatti litici si deve notare la presenza di un tratto di lama (fig. 1:
7) a sezione trapezoidale in selce bionda a grana fine, con profondi ritocchi e
sbrecciature di uso lungo i due margini; non manca uno strumentario atipico,
formato da schegge e scarti di lavorazione (figg. 1: 12; 2: 3).
I frammenti vascolari sono inquadrabili in due classi ceramiche: 1)
ceramica d'impasto; 2) ceramica di pasta parafigulina.
1 - Sentiti ringraziamenti vanno al Soprintendente Archeologico per la Puglia,
Dott. P.G. Guzzo ed all'Ispettrice Dott. A.M. Tunzi, che hanno reso possibile la
pubblicazione di queste note e di quelle su Grotta dei Miracoli, oltre che al Sig. S. Orlando
dell'A.S.C.R. di Rignano Garg.co ed al suo gruppo per la segnalazione della grotta. Il sito è
così localizzato: F156, III SO, I.G.M. Brancia 479138.
113
Ceramica d'impasto
A questa classe appartengono resti di vasi d'impasto depurato,
semidepurato e grezzo, che in frattura appare molto compatto, talvolta con
piccoli pori di cottura e di colore variante dal nero carbonioso al marrone
mattone carico.
Le superfici generalmente sono pareggiate con molta accuratezza, spesso
lisciate o con larghi lembi di brunitura; raramente si presentano nero-lucide,
talvolta porose e, soprattutto quando l'impasto è nero, appaiono ricoperte da
un intonachino marroncino scuro, formato da argilla molto depurata, farinosa
e ruvida al tatto; in alcuni frammenti questo intonachino appare consunto o
fluitato, facendo emergere per larghi tratti l'impasto sottostante.
Dal loro spessore, che oscilla fra mm. 4-5 e mm. 12, i reperti sembrano
essere pertinenti a vasi di piccola e media grandezza.
Nessuna forma è individuabile in modo definito a causa dell'eccessiva
frammentarietà dei reperti: tre resti di pareti con bordo appiattito, arrotondato
e sfinato fanno pensare rispettivamente ad un alto collo cilindrico (figg. 1: 9; 2:
4), caratteristico di una tipologia vascolare del Diana C, ed a due ciotole molto
aperte (figg. 1: 6, 8; 2: 7, 8); la impostazione sulle pareti delle anse a rocchetto
insellate e forate (fig. 1: 1-4) fa ipotizzare la loro pertinenza a ciotole e ad
orcioli; a quest'ultimo tipo di manufatti possono essere attribuiti i frammenti
delle figg. 1: 5, 1 l; 2: 2, 5.
Ceramica di pasta parafigulina
A questa classe si possono ascrivere alcuni frammenti di pasta colore
avano rosato ed avano rossiccio; depurata e semidepurata parafigulina,
perfettamente pareggiata, ruvida al tatto ed alquanto gessosa, con lembi di una
originaria lucidatura o ingubbiatura color avano verdognolo, che appare abrasa
e fluitata.
114
Fig. 1 - Grotta Trappedo (Rignano G. co - fg) 1~13.
Pian Savato (Castelnuovo della Daunia) 14.
C.S. Matteo - Chiantinelle (Serracapriola - Fg): 15 (grand. 40%).
115
Fig. 2 - Grotta Trappedo (Rignano G.co - Fg) 1~8 (grand. 40%).
116
Dai reperti pertinenti a vasi di piccola e media dimensione, tutti amorfi,
non si può desumere alcuna forma vascolare. Un solo frustolo (figg. 1: 10; 2: 1)
sembra appartenere ad un vaso di dimensione medio-grande, a corpo globoso,
con un'ansa ad anello massiccio, formato da un nastro molto ingrossato con i
tagli laterali fortemente sbiecati, tanto da assumere una configurazione
triangolare in sezione e lievemente rastremato nella parte superiore.
Un altro frammento a sezione regolarmente concava mostra una decorazione costituita da un "punteggiato" abbastanza profondo, formante figure
geometriche, che potrebbe sembrare occasionale, data la non buona
composizione della superficie, ma non lo è, in quanto nei fori è presente lo
strato della originaria ingubbiatura del vaso (figg. 1: 13; 2: 6).
Contestuali ai reperti di epoca preistorica molto probabilmente sono gli
abbondanti reperti ossei di ovi-caprini, attribuibili ad individui di giovane età,
che si devono ritenere macellati.
Considerazioni e confronti
Grotta Trappedo si aggiunge ad altri tre siti dello stesso genere, finora
conosciuti, posti tutti sul costone meridionale della montagna garganica: Grotta
delle Carrozze2, Grotta del Brigante3, Grotta Scaloria-Occhiopinto 4,
frequentate nello stesso periodo.
Tutti questi presentano le stesse caratteristiche: sono situati sul pendio, a
poche decine di metri di altezza sul Tavoliere e guardano la sottostante
2 - GRAVINA A.: Villaggi neolitici in Daunia, alle Isole Tremiti e sul Gargano, in: "Il
mondo dei cacciatori paleolitici garganici e la civiltà agro-pastorale neolitica", Foggia, 1977.
3 - GRAVINA A: Alcuni aspetti del Neolitico medio-finale nella Daunia
centro-settentrionale. Elementi di topografia, in "Atti XXVI Riun.Sc.I.I.P.P." Firenze 1987; ID.:
Caratteri del Neolitico medio-finale nella Daunia centro-settentrionale, in "Atti del VI Convegno
di Preist. Protost. e St. della Daunia", S. Severo, 14-16 dicembre 1984, S. Severo 1988, ivi
bibliografia.
4 - CAVALIER M.: La grotte de la Zinzuluse et la stratigraphie de Lipari, in "Melanges
d'Archeologie et d'Histoire", Roma 1960.
117
pianura dauna, da cui distano non più di due chilometri, dove lungo la fascia
pedemontana, corre il torrente Candelaro, in prossimità del quale sono state
ubicate almeno altre due località a cielo aperto (Brancia e Ciccallento) a
ceramica Diana-Bellavista.
I reperti di Grotta Trappedo mostrano strette analogie con quelli dei
villaggi dello stesso orizzonte culturale della pianura e dei primi rilievi
preappenninici5, soprattutto per la presenza della pasta parafigulina di
tradizione Serra d'Alto nei vasi stile Diana-Bellavista (come a Coppa Pallante6,
Mass. Istituto Di Sangro7, Pian Devoto 8, S. Matteo-Chiantinelle9, C.no
Chiarappa10) e per la caratteristica ansa ad anello massiccio (figg. 1: 10; 2: 1),
che, pur non essendo molto comune in contesti del genere, trova confronti
puntuali a Pian Devoto 11 (fig. 1: 14), a Mass. Istituto Di Sangro12 a San
Matteo-Chiantinelle (fig. 1: 15).
La peculiare decorazione a "punteggio", rarissima nei siti Diana-Bellavista
della Daunia, ha dei riscontri solo a C.no Chiarappa, ma su ceramica
d'impasto 13
L'utilizzazione delle cavità montane, sopra menzionate, si deve evidentemente a gruppi di pastori che praticavano forse una transumanza locale,
Gargano-Tavoliere, e che probabilmente si limitavano ad una frequentazione
non stabile, ma solo stagionale.
5 - Per un più ampio quadro del Neolitico medio-finale in Daunia, cfr. nota n. 3.
6 - GRAVINA A.: Le comunità neolitiche di Coppa Pallante, in "Atti del V Convegno
di Preist. Protost. e St. della Daunia", S. Severo 9-11 dicembre 1983, S. Severo 1987.
7 - GRAVINA A.: Masseria Istituto Di Sangro, un insediamento del Neolitico medio
finale della Daunia, in "Atti dell'VIII Convegno di Preist. Protost. e St. della Daunia", S.
Severo 12-14 dicembre 1986, in corso di pubblicazione.
8 - GRAVINA A.: Pian Devoto, un insediamento neolitico nella Daunia, in "Atti del VII
Convegno di Preist. Protost. e St. della Daunia", S. Severo 13-15 dicembre 1985, S. Severo
1989.
9 - GRAVINA A.-GENIOLA A.: Insediamento neolitico di C.no S. Matteo
Chiantinelle (Serracapriola - Fg.), in "La Capitanata", anno XIV, n. 16, II, 1976,
Napoli-Foggia 1978.
10 - GRAVINA A.-RONCHITELLIA: Il villaggio neolitico di C.no Chiarappa, in "La
Capitanata", anno XXI-XXII, I, Foggia 1984-85.
11 - Cfr. nota n. 8, pag. 72, fig. 6: 1, 2, 4, 5.
12 - Cfr. nota n. 7, fig. 5: 2, 3.
13 - Cfr. nota n. 10, pagg. 101-102, fig. 4: 11-18. Per una collocazione culturale di
questo elemento decorativo cfr. GRAVINA A.: Caratteri... op. cit. pag. 40.
118
Che si tratti di comunità con una rilevante attività economica di
allevamento in loco appare documentato dai reperti ossei sopra ricordati,
appartenenti ad animali giovani macellati, ma ciò non esclude un interesse di
questi gruppi per l'agricoltura, stante la vicinanza della pianura e del Candelaro,
che favorivano la pratica sia dell'una che dell'altra attività produttiva14.
GROTTA DEI MIRACOLI
E' ubicata* a circa Km. 2 ad Ovest di Rignano Garganico, all'altezza di
mt. 120 s.l.m. ed a circa mt. 100 sulla pianura del Tavoliere, dove corre il
torrente Candelaro, da cui attualmente dista poco più di Km. 1 in linea d'aria.
Questa grotta, come quella di Trappedo, è sita all'inizio del ripido
pendio che porta al primo pianoro della montagna garganica, posto fra i 600
ed i 700 metri s.l.m..
I reperti
I reperti recuperati in superficie indicano che la cavità è stata frequentata
in tempi preistorici.
La documentazione litica è alquanto scarsa ed è costituita sostanzialmente
da uno strumentario atipico.
I frammenti fittili sono quasi tutti in ceramica di impasto grezzo
semidepurato e depurato, che in frattura si presenta di colore avano chiaro.
14 - La tendenziale affermazione degli ovi-caprini, indizianti un vigoroso
incremento della pastorizia, è documentata nella fauna dello strato IV A di Grotta
Pippola, cfr. MANCINI F.-PALMA DI CESNOLA A.: Saggio di scavo a Grotta Pippola
(Ischitella), in "Bull. Paletn. It" n.s. XII 67-68, 1958-59, e fuori della Daunia a Cala
Colombo e Grotta Pacelli.
* - Localizzazione del sito: F 156 I.G.M., III N0, Brancia, 473143.
L'individuazione della grotta ed il recupero dei reperti sono dovuti al Sig. S.
Orlando dell'A.S.C.R. di Rignano Garg.co, che qui ringraziamo.
119
Fig. 3 - Grotta dei miracoli (Rignano G. co - Fg) 1~16 (grand. 40%).
120
Fig. 4 - Grotta dei Miracoli (Rignano G.co - Fg.) 1~15 (grand. 40%).
121
Le superfici ben pareggiate, ma spesso ben rifinite e ruvide al tatto, sono
prevalentemente di colore marrone dai toni vari: scuro, chiaro e soprattutto
rossiccio. Fanno eccezione alcuni frammenti di impasto nero, che presentano
vasti lembi di lucidatura in nero (fig. 3: 1, 2, 4) e quelli in pasta chiara.
Le forme dei vasi che possono essere individuate sono: la ciotola a
corpo emisferico, labbro a tesa orrizzontale a profilo ricurvo, profondo cm. 910, diam. bocca int. cm. 14, est. cm. 19 (figg. 3: l; 4: 1); le ollette a profilo
sinuoso più o meno marcato e labbro everso (figg. 3: 2, 4, 7, 14; 3, 5); un
probabile poculo (figg. 3: 10; 4: 7); le olle o grosse tazze con alta parete e
corpo a profilo emisferico (fig. 3: 16) o sinuoso e labbro everso (figg. 3: 3, 11;
4: 4, 6); alcuni vasi di dimensioni medio-piccole, forse olle, con orlo alquanto
everso (figg. 3: 8, 9; 4: 12, 15).
Fra le anse sono da evidenziare una, quasi a gomito, formata da un
nastro che si allarga all'attacco superiore, in prossimità del quale presenta una
"cuppella" o impronta di polpastrella (figg. 3: 13; 4: 9) ed un'altra a nastro
alquanto largo e spesso con taglio arrotondato e leggermente arcuato, apici
stondati e risvolto terminale che fa pensare ad una sopraelevazione di ansa
asciforme (figg. 3: 6; 4: 2).
I fondi tutti piatti si attaccano alla parete con spigolo vivo (figg. 3: 12; 4:
10) o stondato (fig. 4: 8, 14, 15), con una specie di tacco (fig. 4: 13); uno solo
presenta un rigonfiamento all'interno (fig. 4: 8).
La decorazione è presente su un solo frammento (figg. 3: 5; 4: 11) ed è
costituita da una borchia subcircolare, alta cm. 6, con una impressione al centro,
forse a polpastrella.
Considerazioni e confronti
Il materiale più antico di Grotta dei Miracoli può essere inquadrato, non
senza difficoltà, in una prima fase dell'Appenninico o in un momento,
immediatamente precedente, di passaggio a questa fase.
Gli elementi che suggeriscono questi riferimenti culturali sono: la
decorazione a borchia con l'impronta di pompastrella (figg. 3: 5; 4: 11), l'ansa
ad ascia non forata (figg. 3: 6; 4: 2), la mancanza della tipica decorazione del
pieno Appenninico e la ciotola delle figg. 3: 1; 4: 1, che per la forma trova
analogie fra i materiali della Grotta del Noglio e di località Cupola-Beccarini.
122
Sotto il profilo topografico, la frequentazione della Grotta dei Miracoli
riveste una importanza rilevante, in quanto lungo la zona pedegarganica che
guarda il Tavoliere non si hanno notizie di insediamenti di questo periodo
dell'età del Bronzo, ad eccezione della fase antica di Chiancata La Civita, nei
pressi di Borgo Celano (S. Marco in Lamis) e di Coppa Nevigata, pertanto la
nostra grotta rappresenta un altro tassello che si aggiunge al quadro - in verità
molto scarno - dei siti garganici e dauni frequentati prima dell'affermarsi
dell'Appennico medio.
Armando Gravina
123
BIBLIOGRAFIA
- COPPA NEVIGATA E IL SUO TERRITORIO. Testimonianze
archeologiche dal VII al II millennio a.C., Roma 1987.
- GRAVINA A.: L'età del Bronzo nel Gargano meridionale e sud-occidentale
(Cenni di topografia), in "Rassegna di Studi Dauni", Foggia 1977.
- GRAVINA A.: L'eneolitico e l'età del Bronzo nel bacino del basso Fortore e nella
Daunia nord-occidentale Cenni di topografia, in "Atti del II Convegno di Preistoria,
Protostoria e Storia della Daunia", S. Severo 1980.
- GRAVINA A.: Chiancata La Civita, un insediamento dell'età delBronzo in agro
di S. Marco in Lamis, in "Atti del Convegno sulla presenza francescana nel
Santuario di S. Matteo", 1979.
- GRAVINA A.: Nuove testimonianze preistoriche in località Chiancata
La Civita (presso S. Marco in L., Gargano meridionale), in corso di
pubblicazione.
- NAVA M.L.: L'età dei Metalli, in MAZZEI M. (a cura di), Civiltà della
Daunia, Milano 1984.
- PUGLISI S.M.: La civiltà appenninica, Origini delle civiltà pastorali in Italia,
Firenze 1959.
- VIGLIARDI A.: Il Bronzo "appenninico " della Grotta del Noglio (Marina di
Camerota - Salerno) in "Riv. Sc. Preist" XXX, 1-2, Firenze 1975.
124
LA SOCIETA OPERAIA DI MUTUO SOCCORSO
DI SANT'AGATA DI PUGLIA
Il processo di unificazione politica dell'Italia ebbe il suo culmine nel
decennio 1860-1870, cioè nel periodo che va dalla proclamazione del Regno
d'Italia alla conquista di Roma.
La borghesia agraria e manifatturiera, che ne fu la protagonista, perseguì
una politica economico-sociale che aveva due obiettivi particolari: completare la
rivoluzione borghese nelle campagne, senza modificare i rapporti di
produzione esistenti e attuare l'unificazione economica del paese, su base
liberistica. E' a quel momento che la maggior parte degli studiosi fa risalire i
primi grandi errori, che hanno aggravato il divario tra Nord e Sud o, secondo
alcuni, lo hanno addirittura creato.
Lo statuto albertino, le tariffe doganali, il sistema fiscale e il debito
pubblico furono estesi a tutti gli ex stati: l'Italia del 1861 si configurò come un
Piemonte allargato, con buona pace dell'Unità. La struttura industriale del
mezzogiorno, che andava crescendo all'ombra del protezionismo borbonico,
fu in pochi anni completamente distrutta dalla concorrenza settentrionale ed
estera.
L'introduzione del sistema fiscale piemontese, assai più pesante e
complicato di quello borbonico, colpì particolarmente, con l'imposta
fondiaria, l'agricoltura, che era la principale attività economica.
E, dulcis in fundo, l'unificazione del debito pubblico. Quello piemontese
era il doppio di quello napoletano, il che significava che il Sud doveva
contribuire al pagamento degli interessi ai possessori della rendita pubblica
settentrionale.
Le due Italie che avevano avuto, fino ad allora, differenti ordinamenti
politici ed economici, avvertono ora, nell'ambito di una stessa regola di
convivenza, l'estraneità reciproca della loro origine e natura e la profondità dei
loro contrasti strutturali.
Tutto questo aveva, come già detto, due mete: l'unificazione del mercato
interno, mediante la creazione di un più ampio ed organico sistema di
comunicazioni e la "Riforma Agraria". Questa si realizzò con una grande
vendita di beni demaniali, ecclesiastici e comunali e raggiunse, nel 1868,
125
il punto culminante, continuando, con intensità notevole, fino al 1880,
interessando circa due milioni e mezzo di ettari. Il sistema delle vendite all'asta,
le facilitazioni concesse agli acquirenti disposti a pagare più sollecitamente, la
mancanza di organizzazione di credito agrario, capace di aiutare i più poveri,
esclusero però la partecipazione delle masse contadine agli acquisti, a tutto
vantaggio dei grandi proprietari fondiari e della nuova borghesia terriera.
Questa trasformazione, in senso capitalistico, dei rapporti fondiari, si ripercosse
sulla proprietà contadina caratterizzata da una diffusa struttura particellare di
modeste dimensioni, spesso inferiore ad un ettaro, che poteva offrire una base
di sussistenza solo in rapporto con occupazioni sussidiarie e con l'uso delle terre
pubbliche. E qui sarà il caso di soffermarci un istante, per comprendere il
significato e la funzione del demanio e degli usi civici. Mi rifarò a quanto scritto
da Lorenzo Ratto nel libro "Le leggi sugli usi e demani civici". " ... demaniale,
nel linguaggio dei giuristi napoletani, significa terra libera, non infeudata, che il
principe può ancora infeudare...
Dietro ciò furono detti demani universali quelli la cui proprietà apparteneva al popolo, e l'uso individualmente a ogni cittadino... .
Demani feudali invece furono detti quelli spettanti in proprietà ai baroni
come tali; proprietà più nominale che reale, dacché gli abitanti della terra vi
esercitavano usi estesissimi... . In nessun altro stato d'Europa vi fu mai un
sistema feudale in cui, come nel Napoletano, i diritti dei cittadini fossero, per
diritto vigente, ... così assoluti, inviolabili e imprescrittibili e dove il giure civile
dominasse, con l'aiuto dei più eminenti dottori e giureconsulti, il giure del
feudo. La teoria degli usi civici e dei demani comunali ... è tuttora propria del
diritto napoletano".
Ma tutto ciò fu violentemente distrutto, turbando gravemente il tradizionale equilibrio dell'azienda contadina.
La situazione era destinata a precipitare, con la diffusione dell'usura e
l'aumento del peso fiscale. Il piccolo proprietario vide diminuire sempre più il
suo tenore di vita, ed esaurì sé, la sua famiglia, la terra stessa con un lavoro
bestiale e con metodi colturali di pura rapina. Cominciava, quindi, l'odissea dei
pignoramenti delle poche masserizie, dei frutti stessi del fondo. "Cresce ogni
giorno di più - dichiarava, il 4 giugno 1889, il conte Arrivabene, in una seduta
del Consiglio Superiore dell'Agricoltura - il numero dei piccoli proprietari che
scompaiono, sia per l'usura, sia per il
126
mancato pagamento dei censi; la proprietà va concentrandosi in poche mani".
Questa fu una delle principali cause dell'insurrezione del Sud, volgarmente
chiamata "Brigantaggio". Una vera e propria guerra che durò più di quattro
anni, conclusasi con 7000 morti, oltre 2000 fucilati, 20.000 prigionieri e decine
di migliaia di feriti1. Alcuni studiosi la considerano l'ultima lotta "reazionaria" e
la prima delle lotte economico-politico-sociali combattuta dalle classi più
povere nell'Italia dopo l'Unità.
Ho ritenuto necessario descrivere, sia pure per grandi linee, la realtà
economica e sociale di quei giorni, per comprendere le trasformazioni che si
verificarono all'interno della società.
Accanto alla grossa borghesia proprietaria e affittuaria cominciò a
nascere e svilupparsi una nuova figura sociale: il bracciante agricolo, giornaliero
e salariato. E con esso entrarono in gioco i problemi di salario, orari di lavoro,
di libertà, ecc.
La soluzione di questi e altri problemi fece sorgere l'esigenza ad
organizzarsi ed associarsi; vennero perciò costituite in questo periodo, in gran
parte d'Italia organizzazioni a base categoriale di Società Operaie.
Queste, che, prima del 1860 erano presenti solo nel Regno piemontese,
si diffusero con tale rapidità che, alla fine del 1862, secondo una statistica
ufficiale, erano ben 445. Dieci anni dopo il loro numero era salito a circa 1300,
con 218.822 iscritti2.
Ma è nel decennio 1874/1885 che raggiunsero la massima diffusione,
per declinare alla fine del secolo, sostituite da forme organizzative diverse: i
Fasci Operai, le Leghe di Resistenza, le Camere del Lavoro, le sezioni dei
partiti.
Di fronte ad un fenomeno organizzativo di tali dimensioni, le autorità ed
i gruppi più illuminati della borghesia assunsero una posizione attiva,
incoraggiandolo e controllandolo politicamente.
Infatti inizialmente la maggior parte delle Società si dedicò quasi
esclusivamente ad elevare le condizioni morali e materiali degli iscritti, pur
tuttavia, non c'è dubbio, che siamo di fronte alle prime attività del Movimento
Operaio.
1 - R. DEL CARRIA, Proletari senza rivoluzione, Vol. I, Milano, 1966.
2 - G. CANDELORO, Storia dell'Italia moderna, Vol. VI, Milano, 1978.
127
Il 1° gennaio 1874 si costituì ufficialmente in S. Agata di Puglia una
Società di Mutuo Soccorso fra operai con lo scopo di "promuovere col buon
esempio e con l'istruzione il perfezionamento morale e civile dei soci"3. Il suo
motto era "Istruzione-Carità fraterna".
L'iniziativa ebbe un grosso successo se dobbiamo registrare l'adesione di
211 soci. Lo statuto fu sottoposto al giudizio del sottoprefetto Perrino di
Bovino, che in una lettera del 31 marzo 1874 indirizzata a Nicola Morese,
segretario della Commissione provvisoria della Società, così rispondeva: "Ho
preso lettura dello Statuto di una Società operaia che intende fondarsi in
codesto comune, e per mia parte non posso che compiacermi con la S.V. e
con gli altri soci promotori della utile e civile iniziativa assunta. Tenendosi ai
principi che informano lo Statuto, la Società, ove giunge ad installarsi, del che
mi sarà grato venir informato, non potrà fare a meno di contribuire
potentemente allo sviluppo morale ed al benessere materiale di codeste classi
artigiane"4.
La Commissione provvisoria, che aveva redatto lo Statuto e gettate le
basi dell'Associazione era costituita da: Mancini Vincenzo, presidente, Florio
Antonio, Arrichiello Leonardo, Contillo Antonio, Morese Nicola, segretario. Il
12 aprile 1874 essa convocò l'Assemblea dei soci per l'elezione degli organi
definitivi e l'approvazione dello Statuto. Risultarono eletti: presidente, Tolve
Nicola all'unanimità e per acclamazione; vice presidente, Iuspa Francesco Paolo
con 71 voti. Consiglieri titolari: Mocciola Rocco, voti 87; Campanile Vincenzo,
74; Palazzo Leonardo, 60; Locurcio Lorenzo fu Giuseppe, 39. Supplementi:
Agnelli Giuseppe, voti 61; De Carlo Francescantonio, 28. Segretario, Carrillo
Pasquale, voti 85; vicesegretario Morese Nicola eletto all'unanimità e per
acclamazione. Cassiere, Mancini Vincenzo, anch'egli all'unanimità5.
Con la sottoscrizione del verbale, la Commissione provvisoria esauriva la
sua funzione e si aveva la nascita definitiva della Società di Mutuo Soccorso fra
gli operai di S. Agata di Puglia.
3 - ARCHIVIO DI STATO DI FOGGIA, Sottoprefettura di Bovino, Fascio 307.
4 - IBIDEM.
5 - IBIDEM.
128
"C'era - riferisce Agnelli nella Cronaca di S. Agata - un alito di
Confraternita religiosa e alcunché di Misericordia e di mutuo soccorso. Chi la
ideò e la congegnò mirava a farne una sussidiaria elettiva. In ogni modo era
innocua, mirava piuttosto indietro, che avanti e quando processionava sotto la
sua bandiera, l'avresti detta una compagnia di devoti"6.
Oltre ai soci fondatori, la Società, si componeva di soci effettivi e di soci
onorari7. Come soci effettivi si potevano iscrivere tutti i cittadini dai venti ai
sessanta anni di età (art. 7) "che esercitano un'arte, un mestiere, o un'industria
qualunque, tranne i borghesi, comunemente chiamati galantuomini, o che siano
nati tali, o che siano tali divenuti; come pure quelli, che siano forniti di cedola, o
di laurea" (art. 4).
Alla categoria dei soci onorari potevano appartenere tutti coloro che ne
facevano domanda, previa approvazione della maggioranza della Società (art.
5). Ad essi, però era vietato partecipare alle riunioni dell'assemblea, tranne al
presidente e al vice presidente onorari (art. 6).
Ma i "galantuomini", anche se non avevano diritto al voto, esercitavano
una notevole influenza, sia per il ruolo che occupavano in paese e sia perché
sapevano leggere e scrivere, erano istruiti e riuscivano nelle assemblee ad
imporre il loro punto di vista a gente che, nella maggior parte dei casi, era
analfabeta.
I 211 soci fondatori costituirono un fondo cassa di lire 573,10, versando
somme che variavano da lire 50 del presidente a lire 0,50, secondo le possibilità
e l'età dell'iscritto. C'erano poi le quote settimanali che erano di cent. 20 (art 8);
ne erano esonerati i soci che avessero raggiunto gli ottant'anni (art. 35).
In cambio l'attività della Società si esplicava in tre direzioni: Assistenza
malattia e vecchiaia, aiuti ai superstiti, attività creditizia.
I soci effettivi, nel periodo d'infermità, avevano diritto ad un sussidio
giornaliero di una lira per i primi due mesi e di 50 centesimi successivamente
(art. 22), previa presentazione di certificato medico ogni otto giorni (art. 23).
Anche i soci onorari, in caso di infortunio, avevano diritto ad un sussidio "a
seconda dei fondi di cassa disponibili".
6 - L. AGNELLI, Cronaca di S. Agata di Puglia, Cefalù, 1902.
7 - A.S.F., Sottoprefettura di Bovino, Fascio 307. Statuto della Società.
129
In caso di morte del socio effettivo, iscritto da almeno sette anni, la
famiglia bisognosa avrebbe ricevuto un contributo giornaliero che variava tra
50 e 75 centesimi. La Società si sarebbe fatto carico della educazione e
istruzione degli orfani (art 15).
Per la vecchiaia dei soci era previsto un sussidio giornaliero non inferiore
a cent. 50. Inoltre lo Statuto agli articoli 26 e 27 prevedeva per i soci il diritto di
chiedere prestiti alla Società. "Il socio ... presenterà istanza al Consiglio di
Amministrazione dell'associazione, con obbligo di offrire o un fideiussore, od
un pegno corrispondente, ed il Consiglio medesimo, visto i meriti del socio
parente, provvederà come di diritto" (art 27). L'interesse era del 5% annuo.
Ma un problema particolarmente sentito era quello dell'istruzione, la cui
mancanza poneva il lavoratore in condizioni di estrema inferiorità, basti pensare
che l'attribuzione dell'elettorato attivo era condizionato all'appartenenza a
determinate classi sociali o al possesso di una certa cultura. Per l'art 11 "i soci
che sono analfabeti hanno l'obbligo di assistere ogni sera all'insegnamento
serale", e l'art. 12 "il socio, che senza giusto motivo, il quale dovrà essere
approvato dal Consiglio di Amministrazione, mancherà all'insegnamento come
nell'articolo precedente, sarà soggetto la prima volta al pagamento di 50
centesimi, la seconda a 75, la terza a una lira, e se continua nelle sue assenze sarà
espulso dalla società...".
La Società era rappresentata dal consiglio di Amministrazione, che
rimaneva in carica un anno, i membri potevano essere rieletti, dopo tre anni,
eccetto il segretario. Per quanto riguarda l'Assemblea dei Soci" vi saranno in
ogni anno due adunanze generali, una avrà luogo il primo dell'anno, e l'altra
nell'ultima domenica di giugno, nelle quali il cassiere esibirà i conti semestrali"
(art. 50). "In dette adunanze, ed allo scadere del Consiglio di Amministrazione,
si procederà alla nomina del Consiglio successivo" (art. 51).
L'età minima per essere eletti era di 25 anni. Ma "in faccende di elezioni
voteranno i soli soci che sapranno leggere e scrivere" (art. 55). Non era certo
casuale questo articolo, ma rispondeva ad una chiara volontà di riservare a
pochi il controllo e la direzione della Società. "In ogni dì festivo, nelle ore
pomeridiane ... tutti i soci si raduneranno nella sala della Società, ove si terranno
utili conferenze sullo Statuto fondamentale del Regno, sui doveri morali e civili
dei cittadini; sull'igiene, sull'economia domestica... (art. 62).
130
"Lo stemma della Società è rappresentato da due gemelli stringentisi due
mani per indicare l'unione, mentre nelle altre due mani terranno uno un libro
aperto, e l'altro un obolo, per esprimere l'istruzione e la carità fraterna" (art. 90).
Questi i punti essenziali dello Statuto, composto da 91 articoli, di una
Società che nel giro di pochi giorni raggiunse il numero di 435 iscritti. Ma essa
era nata in un momento di particolare tensione sociale per la divisione del
demanio comunale.
L'intero Subappennino era divenuto un focolaio di agitazioni, ove la
questione dei demani si presentava in termini gravi. Basti pensare che in molti
comuni i terreni demaniali raggiungevano un'estensione addirittura superiore a
quella dei terreni liberi. Vorrei riportare alcuni brani della "Cronaca di S. Agata"
di Agnelli che descrivono l'atmosfera di quei giorni: "Gli speculatori si misero
in mezzo e soffiarono nell'incendio. Il contadino aizzato dagli oziosi, ... non
seminò, l'azienda familiare risparmiata fu dissipata. Vennero agenti ripartitori; le
prime misure si sbagliarono per imperizia o per calcolo ...
Taluni che per una mangiata s'avevano accaparrate le future quote dei
futuri quotisti, seppero porre a galla le sorti e s'acchiapparono le quote migliori
fatte a bella posta... . Le amministrazioni direttrici per mantenersi alla greppia, ...
soprabbondarono di promesse, promisero novelle quote e s'arrivò a denudare
le arsicce e ripidissime coste dei monti. ...
Non sappiamo... i criteri delle Amministrazioni quotizzatrici; poiché
guardandone il fatto, non appare alcuno. Ne ebbero i contadini, gli artieri, le
serve, le scapole generose, gli inabili al lavoro, ... i consiglieri municipali, i loro
aderenti, alcuni proprietari si, altri no. Per essere ammesso qualcuno di basso
nome... doveva portare la sportola a chi manipolava e ci fu chi... richiese ad
ogni aspirante un foglio di carta da c. 60 e ne formò risme. Ogni piccola o
grande quotizzazione che si ammanniva, era una Pasqua e un carnevale"8.
In questo clima si vengono a creare le condizioni oggettive di un
profondo malessere sociale e conseguentemente di un senso di irrequietezza e
malcontento e di un suo rapido esplodere.
8 - L. AGNELLI, op. cit.
131
La struttura organizzativa della Società Operaia si modificò, maturò la
coscienza della incompatibilità degli interessi proletari con quelli borghesi,
individuando nei notabili del paese la classe antagonista del popolo. In un
rapporto della polizia del maggio 1974 si legge: "La società per la vertenza della
quotizzazione dei demani comunali, ambita dai suoi amici, ha assunto in questo
mese una tendenza ad idee politiche molto spinte in odio soprattutto alle
primarie famiglie del paese non favorevoli alla quotizzazione".
Il controllo delle autorità divenne più intenso, agli inizi dì luglio in
un'altra nota informativa, la polizia scriveva: "Le idee politiche già accennate nel
decorso stato trimestrale si andarono sempre più accentuando, eseguendo gli
accertamenti di persone spinte da privati interessi si vanno ormai formulando
nel senso comunista, sebbene i promotori e membri della Società non
manchino anche di essere molto clericali"10.
In quei giorni il movimento anarchico nazionale decideva di organizzare
una grande sollevazione in Italia. Il 3 agosto 1874 i suoi maggiori
rappresentanti, si riunirono clandestinamente a Foggia sotto la guida di Enrico
Malatesta per coordinare l'insurrezione generale del Sud. L'11 agosto fallirono i
moti di Castel del Monte.
La repressione non si fece attendere. Oltre alle tradizionali misure contro
i dirigenti politici, in Capitanata la polizia, abolendo ogni residuo spazio di
libertà, mise in essere misure per la privazione di ogni diritto civile, che
coinvolsero la nostra Società Operaia.
Il 14 agosto 1874, in una nota sull'ordine pubblico diretta al
Sottoprefetto di Bovino, i Carabinieri scrivevano: " ... in questo circondario non
havvi alcun sospetto che possa attirare l'attenzione delle Autorità circa i partiti
internazionali e i moti sovversivi, e finora nulla si teme che abbia a svolgersi
alcuno dei succitati movimenti essendo apparentemente tutto tranquillo. Ciò
che dava a dubitare era il comune di S. Agata di Puglia per la società operaia
che colà esisteva, ma essendo ieri stata disciolta con il massimo ordine, anche
quel paese sembra sia acquietato..."11.
9 - A.S.F., Sottoprefettura di Bovino, Fascio 307.
10 - IBIDEM.
11 - A.S.F., Sottoprefettura di Bovino, Fascio 306.
132
Questa iniziativa rimase, purtroppo, isolata senza lasciare un'eredità
ideale, in quanto non vi furono ulteriori proposte di associazionismo ispirate
alla lotta antiborghese.
Raffaele Letterio
133
IL "TENERO TEMPO" DI SERRICCHIO
Firenze, 11 ottobre 1988
Caro Serricchio,
finalmente ho ricevuto la Sua Topografia dei giorni, situata nella collana "I
testi" del meritevole e coraggioso Lacaita, sapientemente diretta da Giacinto
Spagnoletti, antico promotore di iniziative del genere; acuta e partecipe la
presentazione di Maria Luisa Spaziani.
Libro di poesia della Sua piena maturità, consegue alle Stele Daunie
attraverso l'Arco di Boccolicchio nella soluzione piena, umana e storica, soggettiva e
oggettiva, della maniera "archeologica" e nella congiunzione per contiguità tra
regno dei morti, natura reale-metaforica, presenza dei vivi. E' novità un impeto
incoercibile di rinascenza, quella che Lei dice "la misteriosa dimensione della
storia" (125), lungo la quale la nostalgia e il rimpianto del passato perduto si
traspone dal presente nel futuro.
Questa attualizzazione e pre-visione ha approfondito il mito sipontino,
preistorico, protostorico, paleolitico "pugliese" della "vecchia Europa" e d'ogni
terra. Troviamo ancora "resti di naufragi; vestigi; relitti; fossili; antiche orme;
macerie umane sepolte; la selva primeva / della vita"; e "stele; papiri; templi;
codici; pergamene; graffiti". L'espressione letteraria-poetica si cifra
esplicitamente nel segno motivato, figurale-fonosimbolico, come nella
maggiore poesia novecentesca con regressione al gesto e al geroglifico del
linguaggio arbitrario-articolato, che si motiva nella figura della lettera e del
suono primordiale; così, leggiamo questa Sua elementarizzazione scrittoria da
congiungersi all'infanzia dei Suoi bambini ("latte; epifania") che Lei canta nella
sezione Storie minime: "sillabario della vita; palinsesto della memoria; condensare
in ventuno lettere; l'alfabeto nuovo dei fiori; geroglifici di vita; parole scaturite
dal dolce / latte delle cose; l'eterna/epifania di gesti e di parole; grani preziosi
della mia clessidra; alfabeto d'illuminanti approcci; i segni bianchi e neri della
vita". Fino agli ordigni dei calcolatori umanizzati: "Il computer / quotidiano
terminale delle nostre pene (140). Ritrovo l'alba poetica pura degli elementari
verbali quasimodiani di parola-cosa: "Cerco [ ... ] le rinate/sillabe dell'alfabeto
infinito" (21); di Quasimodo (del padre) il "libro / mastro dei giorni" e
135
perfino il titolo di una raccolta: "dare e [.] avere" (103), nonché il "video" e il
"ghigno".
Catacombali, amarginati in provincia, ma anche nel cuore delle
metropoli, sono poeti che osano proclamare "non più avere paura di sperare"
(28), perfino in endecasillabi ormai preistorici, da non confondere coi falsi poeti
che giocano coi negativi e le catastrofi che pagano bene. Poeti maiali nel brago
del pattume, solleticati dalla bomba atomica, dai genocidi, dai fantasmi, dalle
pesti virali, ridono e irridono computerizzando la realtà snoumenizzata ed
enciclopedizzata, i più furbi verbalizzandola ludicamente e nominalisticamente
(non senza dilettantismi ereticali) col rimestare in oscure tradizioni gnostiche ed
ermetiche. Parimenti nelle arti figurative (per così dire), nella musica, ecc.
Giacché nel caos, nel magma, nella farragine, nel pandemonio, tutto torna, è
impossibile sbagliare, dato il fondamento del negativo, dell'equivalenza, della
omogeneità di causa ed effetto, delle neutralizzazione d'ogni contrario o
diverso.
La Sua poesia, Serricchio, ch'io ora assumo indicativa d'ogni rara poesia
resistente, si fonda sulla "pietra di fuoco" (123) che è "pietra nuda della
coscienza" (104), "libera nei neri liquami della rovina", "di là del vetro gelido del
caos";
Scoprire nel cozzo di parole non più violenti
rabeschi d'invecchiati rimpianti e di sofferenze
rugose, ma la conciliante saggezza
di sciogliere nel nulla il male che divora.
Il poeta non ha paura del negativo, sapendo che il negativo ha paura
solo di se stesso, di autoannullarsi. E solo da questa intima catarsi può rinascere
[ ... ] limpida e intatta la forma
estrema el mondo in lucido cristallo.
Il poeta non si ritrae a riva, vile spettatore lucreziano del naufragio;
procede, oltre il crepuscolo, all'agonia ultima d'uomo e natura compenetrati;
sofferente e corresponsabile con tutti i moribondi, gli "uomini vuoti", già
eliotiani e montaliani porgendo la sua parola non illusa di salvare alcunché, ma
solo testimoniale nel poter "condensare in ventuno lettere i colori /
136
ultimi dell'aria e i grappoli vitali [ ... ]" (142), messaggio a un futuro sperato in
quanto esso stesso si formi la propria speranza. In un genere di poesie come la
VIII, la X, la LVIII, e la LXXX risento la voce dei maestri: la speranza
reboriana del riscatto dall'alienazione positivista scientista e urbana finiseculare,
l'impeto cosmico comianto di redenzione, l'afflato creaturale francescano di
Fallacara e di Betocchi; ma eminente la nota peculiare di sperimentare fino in
fondo l'oscuro disastro per adire la verità dei segni della natura e inventariarli al
limite dell'annientamento:
Andare oltre il fondo delle cose
[ ... ]
Scoprirle fin dentro e romperlo per sempre l'inferno d'oggi, sino all'acre angoscia
dello zolfo che inzacchera come porci
in brago i geni tunorali della morte
[ ... ]
e prima del diluvio ricontare
per non perderlo per sempre
questo francescano inventario
del mondo e della vita (LVIII).
Non mancano momenti enigmatici, come nella X, di contemplazione
della natura assente dalla coscienza e indifferente nella sua pura oggettività,
conglobato dal suo "azzurro", "azzurra mobilità", insieme con le
contaminazioni, misti i "colori di miele e di fiele", con il "neon ai crocicchi folli
di purulente / città-teschi di cemento", il tutto per sé d'un universo assente dai
"sensi", dalla coscienza, "senza specchi",
nella sconfinata comunione d'acqua-terra
in ascesa, anno per anno,
verso la vuota eternità dell'aria.
Ma sono smarrimenti, pur lucidi, che servono al risveglio e si
ricompongono subito nel soggetto umano, che è "memoria" e "desiderio",
afferrato e avaro dei relitti d’"erba esule fra cemento / e cemento", intento
all'estrema luce, a bere le ultime gocce d'acqua di vita, ansioso alla polla
137
che si dischiuda (LXXX). "In questo varco di vita [ ... ] non perdere neppure un
riflesso / della luce alla finestra del giorno". "Memoria" e "desiderio" contro
"paura", allegorie neogotiche novecentesche di persone tragiche in un conflitto
senza quartiere, essenziale la durata della lotta, cui s'affida l'accennata "speranza",
anche quel "ghigno" è quasimodiano, come sortì dalla disperazione della
guerra:
La vita muore al ghigno dorato
della memoria e il desiderio si frange
contro la roccia rossa della paura
[ ... ]
Fermarsi ancora a bere su queste
rocce con le ultime dita del tramonto
alle bottiglie vuote dei fiumi.
Uomini vuoti perduti e violenti
insieme brancoliamo nel nostro
regno perduto, con mani
a secco d'acqua, uccelli eremiti
sugli scogli.
Fermarsi a bere
ove il canto s'insinua nell'orecchio.
Ma qui è silenzio. Se da queste rocce
a secco d'acqua, come dai dorsi
dei delfini sepolti, sprizzasse acqua!
[ ... ] Uomini vuoti perduti e violenti
a secco d'acqua su inutili scogli.
Essere vivi e con queste parole
smantellare le nostre rovine
archi ciechi d'insaziate passioni
maturità e giovinezza nude,
con più cielo e meno inferno
al grido senza fine d'un gabbiano.
138
Il timbro è reboriano della "vita ch'è vita" e betocchiano alla fine di
Realtà vince il sogno: "con stupend'ali senza sussurro / verso una riva gioconda, /
profondamente vivi", computata l'ora diversa, di morte.
Ma da dove il poeta prende animo se non dall'interno / e
appropriazione della sciagura universale, sì che non apparisca retorica e gratuita
la risalita dall'inferno alla luce e non duri "tutta la vita e oltre / forse questa
macerante / via nel labirinto / senza uscita" (LXVI)? Gioca qui la dimora vitale,
prima radice della poesia, significata rappresentativamente nella sezione citata
delle Storie minime, dove si concentra il pathos larico, coniugale, puerile, fraterno,
paterno, d'umiltà e pietà, nella esperienza della consumazione minuto per
minuto dei giorni verso la morte e "primo vagito" delle rinascite (98); spazio
delle "domestiche certezze", della "domestica luce", dove, nella stessa poesia in
fieri, unamunescamente, tramite il lare di Fallacara e di Pierri, il poeta si vive la
presenza di voci e cose, densificati gli istanti in un "domani", che "cadrà per me
[ ... ] come nella stanza / il buio della ragione ignara/ al premere d'un
pulsante"; nell'hic et nunc la scrittura poetica è un evento accanto agli altri eventi,
scattando, come abbiamo visto per la natura, la funzione oggettivante
inversamente proporzionale alla intimità del soggetto: "Le voci [ ... ] il riso [... ],
l'odore [ ... ] l'insistente gridio dei passeri [ ... ] e questo nitido foglio / e la mia
biro / e le parole tormentate / che scrivo e la luce [ ... ] e le cose [ ... ] e i colori
del vivere / in ogni istante intensamente attento [ ... ]" (XLI).
Così nella seguente la tenerezza familiare si proietta e si assolve sul
"tempo" della "favola" vitale, mentre bruciano nel camino foglie e giorni in
mutuo simbolismo che si fa astrale e la campagna mitiga la potenza distruttrice
del fuoco:
Noi due - erte araucarie fra vecchie
mura - uniti ai bimbi nella veglia
antica. Divampano frasche d'eventi
e foglie di giorni fra scintille
pulsanti di stelle nei quadranti
ricurvi del cielo.
E il soffio arroventa con labbra
di favola gli ultimi tizzi
139
del mio forse e del tuo
tenero tempo, e accanto con occhi
lucidi blandendo vai
l'affettuosa coronata fiamma.
Il Suo umano è puro, esente da trascendenza e da immanenza, ed è la
nota prima che mi commuove, la giustezza ed equilibrio, umanizzata anche,
soprattutto, la morte e il suo "nulla", finale vocabolo della clausola strofica nella
XLVIII:
Dove emigra questo nostro
bene è amaro enigma
dell'alba che sì scioglie,
seme nuovo, suono,
e poi più nulla.
Grazie, caro Serricchio. Saluti e auguri.
ORESTE MACRI’
140
Recensioni
"SE QUESTO E’ UN UOMO"
DI PRIMO LEVI: TESTIMONIANZA
DEL NOSTRO TEMPO
Le tragedie collettive del nostro secolo che si ripetono periodicamente, i
progrom contro gli ebrei e gli armeni, i massacri della guerra civile in Russia del
'17, i gulag sovietici, i bombardamenti a tappeto sulle città indifese, i campi di
sterminio nazisti, i massacri nel Vietnam e in Cambogia, le sofferenze dei
palestinesi, il terrorismo cieco e diffuso, rendono quanto mai attuale il primo
libro di Primo Levi, "Se questo è un uomo", con il quale egli si rivelò al
pubblico nel lontano 1958, ritrovando un gran successo anche in occasione
della pubblicazione della "Chiave a stella", e ora purtroppo in seguito alla sua
tragica morte.
Lo si legge avidamente e lo si ritorna a leggere proprio come se fosse un
novello Vangelo per la sua testimonianza di verità e la pervicace ostinazione
umana a tentare di capire, attraverso le parole di un protagonista, uno degli
enigmi più tragici del nostro tempo: la creazione di campi di sterminio, in
opposizione alla nostra civiltà progredita, orgogliosa delle sue scoperte
scientifiche e delle sue tecnologie, qui purtroppo adoperate in senso sinistro e
bieco, quasi a dimostrare che il male naviga nell'idiozia.
La risposta che la persecuzione razziale sia servita a cementare il
consenso verso Hitler, con la lusinga di una superiorità del sangue, conferma
quanto sia fragile l'uomo nella sua superbia, pronto ad aderire a una ideologia
falsa e bugiarda ma atta a sedurlo con la sua perversità. Dal libro di Levi tale
risposta si deduce dal comportamento del dottor Pannowitz, che carica del suo
disprezzo il giovane prigioniero già distrutto dall'infame vita del campo,
incapace sia di cogliere la scintilla divina che si manifesta nella mente illuminata
dalla scienza, sia di vergognarsi della abiezione inflitta alla vittima. E' lo stesso
comportamento del Kapò, Alex, rozzo e bestiale, fierio di essere un
Reichsdeutscher, autorizzato a infierire contro gli Intelligenten sottoposti al suo
arbitrio. E poi c'è il blocco comune fra
141
S.S. e deportati tedeschi contro gli stranieri, quando la terra con il suo continuo
fremito annuncia l'avvicinarsi del fronte e l'arrivo dell'Armata Rossa. Neppure
una promessa di libertà serve a scuotere la torbida coscienza di questi esseri o
forse per istinto nel momento di passare dall'altra parte, quella dei vinti,
temono che la teoria del più puro perché più forte possa ritorcersi contro di
loro. Levi indugia ad analizzare la vita del Lager, strutturato in modo da
annientare prima psicologicamente e moralmente l'uomo, che sarà poi distrutto
fisicamente. L'immediata separazione dagli effetti personali per cui subito
l'internato giunge all'infinito grado di miseria, non potendo possedere più
neppure una lettera, una fotografia, un qualchecosa che sia suo e interessi
soltanto lui. "Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera
non c'è, e non è pensabile".
Ma l'operazione di annientamento va oltre, fino a rubare al prigioniero il
suo nome e a sostituirlo con un numero tatuato indelebilmente, senza il quale
non si potrà ricevere il pane e sperare di sopravvivere ancora per qualche
tempo.
L'immissione nel Lager è segnata da sapienti riti di introduzione. Dopo il
viaggio bestiale i prigionieri stanchi e assetati vengono tenuti nudi, con i piedi
immersi nell'acqua gelida, per tutta una notte in attesa della doccia; l'esperienza
crudele e gratuita sembra decisa a bella posta per schiantarne subito la
resistenza.
Le S.S., come terrificanti divinità, non compaiono in primo piano.
Tirano le fila dell'orribile rappresentazione, apparendo nei momenti cruciali
della vita del campo. Non a caso Levi non ne descrive nessuna: è evidente che il
terrore che ognuna di esse emanava era sufficiente a impedire che i prigionieri
potessero osservarle anche da lontano. Della loro ferocia resta la testimonianza
della fucilazione dei francesi sorpresi nel loro refettorio, quando il campo era
già abbandonato, e la salvezza vicina.
Poco parla dei carnefici l'autore, attento a osservare il comportamento
degli sventurati compagni e a trarne delle deduzioni applicabili alla vita
quotidiana. Perché che cos'è il lager se non un concentrato del sottofondo
dell'esistenza terrena, mutilato di quanto affiora in essa di nobile e bello?
La teoria dei sommersi, della gran massa destinata a scomparire nel giro
di tre mesi, evidenzia delle regole che ben possono essere vitali per
sopravvivere nella realtà quotidiana, quella di distinguersi, di crearsi la
142
fama di fortuna, di sviluppare particolari attitudini che ti possono rendere
"prominente" nella vita. Un altro insegnamento deriva dall'esperienza diretta del
prigioniero, una volta libero, nell'avvertire nei civili, oltre al compianto, la
convinzione che "per essere ridotti a questa nostra condizione, noi dobbiamo
esserci macchiati di una qualche gravissima colpa".
Il ricordo della poesia di Dante aiuta Levi a sopportare e a capire il
Lager, realizzazione concreta di uno dei miti più angosciosi dell'umanità,
percorso nel vasto e uniforme spazio dai gironi, nei più bassi dei quali si
trovano i Kapò e quanti dannati, per una comune sventura, aggiungono
malvagità a malvagità.
L'inferno dantesco è presente nella percezione globale di questo mondo
dell'aldilà, in cui Levi penetra in un giorno del febbraio del '44, ma lo si ritrova
nei particolari, la discesa agli Inferi scandita dal nome delle stazioni italiane,
attraversate dal convoglio, il passaggio per il Brennero quando tutti scattano in
piedi e si guardano muti l'un l'altro, come i figli del conte Ugolino, l'appellativo
di Caronte dato all'ottuso accompagnatore sul camion che conduce i prigionieri
dalla stazione al Lager, e poi il richiamo esplicito al canto di Ulisse, nel quale
Levi cerca la chiave per spiegare, a se stesso e agli altri, l'ardua impresa di
restare a galla nell'infido "mare aperto" del campo e cerca l'aggancio per
riaffermare la sua umanità umiliata e offesa, "fatti non foste per vivere come
bruti ma per cercare virtute e canoscenza".
Il linguaggio di Levi è scarno ed essenziale e perciò idoneo a tradurre
immediatamente senza veli interposti le emozioni dell'autore e a comunicarle.
Nella necessità di concentrare e trasmettere sinteticamente le esperienze vissute
in vari mesi, Levi trova in una lingua spoglia di artifici letterari e precisa, quale si
addice più a un chimico che a un letterato, lo strumento più duttile per riferire
la sua denuncia.
Fra i prigionieri che circondano Levi spesso catturano la sua attenzione
gli ebrei di Salonicco, dalla doppia parlata spagnuola e greca, la solidarietà del
gruppo, la duttilità e l'agilità della mente, il rifiuto della bestialità gratuita, eredità
di una lunga e filtrata civiltà li distinguono nella massa e raddoppiano l'entità del
delitto dei biondi ariani non solo contro l'individuo, ma contro il gruppo etnico
che custodisce antiche millenarie tradizioni.
Vittoria Pilone
143
SCAFFALE LOCALE
Rubrica di informazione libraria d'interesse locale
a cura di Antonio Ventura
ARCHEOLOGIA
- DE VITIS, Silvia.
Archeologia medievale a Grottaglie. La "Lama di Penziero". Grottaglie,
C.R.S.E.C., 1988.
81 p. tav. all.
Indagine archelogica sulle "Lame" di Grottaglie.
(C.R.S.E.C. Grottaglie. Grottaglie TA)
- MAGNA Grecia. Religione, pensiero, letteratura, scienza. A cura di Giovanni
Pugliese Carratelli. Contributi di Renato Arena, Angelo Bottini [ ... e altri].
Milano, Electa, 1988.
356 p. ill. tav.
Cultura e società della Puglia meridionale attraverso i reperti archeologici di VIII e VII
secolo a. C.
(Electa Editrice, via Trentacoste 7. Milano)
- STRICCOLI, Rodolfo.
Dolmen e sepolcri a tumulo nella Puglia centrale. Bari, Società di Storia Patria
per la Puglia, 1989.
382 p. tav.
Reperti archeologici funerari in Terra di Bari.
(Società di Storia Patria per la Puglia. Palazzo Ateneo. Bari)
145
ARCHITETTURA
- LEISTIKOW, Dankwart.
Castelli e palazzi nella Capitanata del XIII secolo. Introduzione e a cura di
Mario Gesualdi. Saggio fotografico di Gianfranco Gesmundo. Foggia,
Amministrazione Provinciale di Foggia, 1989.
134 p. tav.
Inventario architettonico delle costruzioni federiciane in Capitanata.
(Provincia di Foggia. Assessorato Cultura. Foggia)
- MONGIELLO, Luigi.
Chiese di Puglia. Il fenomeno delle chiese a cupola. Bari, Adda, 1988.
240 p. tav.
Inventario delle chiese a cupola pugliesi.
(Adda Editore, via Tanzi 59. Bari)
ARTE
- OTTAVA Biennale Nazionale di Pittura 1986-1987. Catalogo a cura di
Benito Mundi. Presentazione di Mariella Basile Bonsante. San Severo, Comune
di San Severo, 1987.
78 p. tav.
Biennale Nazionale di Pittura '86-'87 a San Severo. Catalogo.
(Comune di San Severo. Assessorato Cultura. San Severo FG)
BIBLIOGRAFIE-BIOGRAFIE-DOCUMENTI
- ANGELO FRACCACRETA. L'UOMO E L'OPERA. San Severo 28-29
giugno 1986.
Angelo Fraccacreta. L'uomo e l'opera. Atti del convegno San Severo 28-29
giugno 1986. A cura di Benito Mundi. San Severo, Comune di San Severo,
1988.
140 p.
146
Relazioni di: M. Santarelli, G. Cuomo, D. da Empoli, M. Fuiano, S. Colarizi, F.Assante,
A. Sarubbi, A.M. Fusco, N. Casiglio, F.M. de Robertis, B. Foà.
(Comune di San Severo. Assessorato Cultura. San Severo FG)
- FACCHINI, A. - IACOVINO, R.
Leone Mucci: il difficile cammino del socialismo. (Una biografia politica
attraverso la storia di San Severo: 1895-1946). Cavallino di Lecce, Capone
Editore, 1989.
415 p. ill.
La vita e l'attività politica di Leone Mucci.
(Capone Editore, via Caprarica 35. Cavallino LE)
- PORCARO MASSAFRA, Domenica.
L'archivio della basilica di S. Nicola di Bari. Fondo cartaceo. Studi e materiali
per la storia della chiesa di Bari. Bari, Edipuglia, 1988.
482 p. ill.
Inventario del fondo cartaceo dell'archivio della basilica di S. Nicola di Bari.
(Edipuglia, via Luigi Sturzo 38. Bari)
FOLKLORE-TRADIZIONI POPOLARI
- FARANDA, Laura.
Le tradizioni popolari in Puglia. Roma, Editrice Anthropos, 1989.
118 p. tav.
Tradizioni popolari pugliesi.
(Casa Editrice Anthropos, via Cola di Rienzo 212. Roma)
147
- WALTER, Jennifer Ann.
Diary of the Murgia Hills. Diario naturalistico della Puglia di Jennifer Ann
Walter. Bari, Adda, 1988.
150 p. ill.
Natura e folklore in Puglia.
(Adda Editore, via Tanzì 59. Bari)
GASTRONOMIA
- ARBUSTI, Giovanni Nino.
La cucina garganica. Il promontorio in padella. Firenze, Edizioni MCS, 1988.
271 p. ill.
Itinerari attraverso la gastronomia del Gargano
(MCS s.a.s. Firenze)
GUIDE
- VIAGGIO in Capitanata. A cura di Claudio Grenzi e Antonio Ventura.
Fotografie di Mimmo Attademo. Presentazione di Salvatore Giannella.
Contributi di Gloria Fazia, Antonio Lopez […e altri]. Foggia, Claudio Grenzi
Editore, 1989.
179 p. ill. tav.
Guida alla storia, all'archeologia, all'arte, alla gastronomia di Capitanata.
(Claudio Grenzi Editore, piazzale Italia 6. Foggia)
LETTERATURA-POESIA-NARRATIVA
- MAGALETTA, Giuseppe.
148
Musica e poesia alla corte di Federico II di Svevia. Foggia, Bastogi, 1989.
198 p.
Letteratura poetica e musica alla corte di Federico II.
(Edizioni Bastogi, viale Ofanto 142. Foggia)
MASS MEDIA
- Il BEL Corriere. Antologia delle grandi firme nei primi anni di vita del
quotidiano di Taranto. A cura di Narciso Bino. Taranto, Comune di Taranto,
s.d. [ma 1988].
135 p. ill.
Quaranta anni di vita del "Corriere del Giorno " di Taranto.
(Comune di Taranto. Assessorato Cultura. Taranto)
SOCIETA'
Le CONFRATERNITE PUGLIESI IN ETA' MODERNA. Bari, aprile
1988.
Le confraternite pugliesi in età moderna. A cura di Liana Bertoldi Lenoci. Atti
del Seminario Internazionale di Studi 28-29-30 aprile 1988. Fasano, Schena,
1988.
638 p.
Confraternite pugliesi tra XVIII e XX secolo.
(Schena Editore, viale Stazione 177. Fasano BR)
- PALUMBO, Giuseppe.
Famiglie troiane in giro per l'Italia. Monsampolo del Tronto, Tipografia
Grafica In, 1989.
137 p. tav.
Indagine socio-economica sugli emigrati troiani.
(Tipografia Grafica In, via Salaria 184/C. Monsampolo del Tronto AP)
149
- PALUMBO, Lorenzo.
Il massario zio prete e la bizzoca. Comunità rurali del Salento a metà Settecento.
Galatina, Congedo, 1989.
148 p.
Indagine sulla società rurale salentina.
(Congedo Editore, via Marche 24. Galatina LE)
- PAVONCELLI. Cerignola, Amministrazione Comunale di Cerignola, 1988.
125 p. ill.
Ristampa del volumetto: "Fermes et caves" del 1905 sulla azienda Pavoncelli e sulla economia
daunia.
(Comune di Cerignola. Assessorato Cultura. Cerignola FG)
- PERGOLA, Nicola.
Cerignola. I campi, le stagioni. Cerignola, Centro Regionale di Servizi Educativi
e Culturali, 1988.
129 p. tav.
Vita materiale e cultura dei contadini del Basso Tavoliere.
(C.R.S.E.C. Cerignola FG)
STORIA
- ANTONACCIO, Michele.
Foggia e la sua provincia. Foggia, s. ed., 1989.
139 p. ill.
Itinerario storico attraverso la provincia di Foggia.
(Edizione a cura dell'autore)
- BAMBACIGNO, Vincenzo.
150
Documenti e monografie della città di Troia. Monsampolo del Tronto,
Tipografia Grafica In, 1988.
278 p. tav.
Documenti sulla storia di Troia.
(Tipografia Grafica In, via Salaria 184/C. Monsampolo del Tronto AP)
- BOVINO DAL PALEOLITICO ALL'ALTO MEDIOEVO. Bovino,
aprile-maggio 1987.
Bovino dal paleolitico all'alto medioevo. 1° ciclo di conferenze. Bovino, 22
aprile - 15 maggio 1987 museo civico "Nicastro". Bovino, Comune di Bovino,
1989.
132 p. tav.
Relazioni di: A.M. Tunzi; M. Mazzei; C.A.M. Laganara Fabiano; P. Corsi; G. Bertelli.
(Comune di Bovino, Assessorato Cultura. Bovino FG)
- CAPRIGLIONE, Francesco.
Pirro ad Ascoli strategia e tattica di una battaglia. Ascoli Satriano, Michele
Popolo Libreria Editrice, 1989.
84 p. tav.
Analisi delle fonti antiche e degli studi moderni sulla battaglia tra Pirro ed i Romani presso
Ascoli Satriano.
(Michele Popolo Libreria Editrice, corso Umberto I, 9. Ascoli Satriano FG)
- COLAPIETRA, Raffaele - VITULLI, Antonio.
Foggia mercantile e la sua fiera. Foggia, Daunia Editrice, 1989.
413 p. tav.
Storia e cronaca della Fiera di Foggia dal XVII al XX secolo.
(Ente Fiere di Foggia. Foggia)
-CULTURA E SOCIETA' INPUGLIA IN ETA' SVEVA E ANGIOINA.
Bitonto, dicembre 1987.
151
Cultura e società in Puglia in età sveva e angioina. Atti del Convegno di studi
(Bitonto 11-13 dicembre 1987) a cura di Felice Moretti. Bitonto, Centro
Ricerche di Storia e Arte Bitontina, 1989.
376 p. ill. tav.
Indagine socio-culturale sulla Puglia nel XIII-XV secolo.
(Centro Ricerche di Storia e Arte Bitontina. Bitonto BA)
- DE SANTIS, Vincenzo.
…E sbocciò il biancofiore! Il Partito Popolare Italiano in Capitanata. Con
prefazione di Donato De Leonardis. Troia, "Civitas", 1989.
41 p. ill.
Storia del Partito Popolare Italiano a Troia.
("Civitas", casella postale 48. Troia FG)
- DI TURO, Matteo.
Osman il frate che non fu sultano. Manfredonia, Edizioni del Golfo, 1989.
122 p. ill.
La storia dei rapporti tra Ottomani e Cristiani nel Mediterraneo seicentesco attraverso le
vicende biografiche di Giacoma Tommasa Beccarini e suo figlio.
(Edizioni del Golfo, piazzale Perotto 2. Manfredonia FG)
- FINI, Giosuè.
Precisazioni sull'eccidio a San Giovanni Rotondo 14 ottobre 1920. La verità al
di sopra dei partiti. Saggio storico a cura di Giosuè Fini. Documenti raccolti da
Antonio Ripoli. Foggia, Leone, 1989.
207 p. tav.
Nuovi contributi sugli avvenimenti di San Giovanni Rotondo nel 14 ottobre 1920.
(Edizione a cura dell'autore)
- LINGUA TRADIZIONI E STORIA DEL BASSO TAVOLIERE.
152
Margherita di Savoia, ottobre 1986.
Atti 1° Convegno sul Basso Tavoliere 18-19 ottobre 1986. Lingua tradizioni e
storia del Basso Tavoliere. Margherita di Savoia, Associazione "Cultura e
Ambiente", 1989.
194 p. tav.
Relazioni di: F.M. De Robertis; P. Di Biase; S. Giannella; R. Mascolo; S. Piazzolla; R.
Poso; G. Rinaldi; S. Russo; P. Soccio; M.L. Troccoli Verardi; V. Valente.
(Associazione "Cultura e Ambiente", via Africa Orientale 36. Margherita di
Savoia FG)
- MONOPOLI nel suo passato. Quaderni di storia locale a cura della
Biblioteca Comunale "Prospero Rendella". 4. Fasano, Grafischena, 1989.
372 p. ill.
Ricerche di storia locale su Monopoli ed il suo territorio.
(Schena Editore, viale Stazione 177. Fasano BR)
- LA PUGLIA. A cura di Luigi Masella e Biagio Salvemini. Torino, Einaudi,
1989.
1033 p. tav.
Storia e società in Puglia dall'unità nazionale agli anni Settanta del Novecento.
(Einaudi s.p.a.. Torino)
- TORRE Alemanna fra passato e presente. Contributi di Antonio Ventura,
Saverio Spera, Giambattista La Notte. Cerignola, Centro Regionale di Servizi
Educativi e Culturali, 1988.
63 p. tav. allegati.
Storia di Torre Alemanna e proposte per una sua ristrutturazione architettonica e
valorizzazione culturale.
(C.R.S.E.C. di Cerignola. Cerignola FG)
153
URBANISTICA
- ANDREASSI, Giuseppe - RADINA, Francesca.
Archeologia di una città. Bari dalle origini al X secolo. Catalogo della Mostra
(Bari 6 marzo - 23 dicembre 1988). Bari, Edipuglia, 1988.
640 p. ill.
Evoluzione urbanistica di Bari dal X al XX secolo.
(Edipuglia, via Luigi Sturzo 38. Bari)
- IORIO, Raffaele.
Profilo urbanistico di Barletta medioevale. Barletta, Comune di Barletta, 1988.
56 p.
Barletta nel Medioevo attraverso le testimonianze documentarie.
(Comune di Barletta. Assessorato Cultura. Barletta BA)
VIAGGIATORI
- CUSTODERO, Gianni.
Puglia tra campagna e città passato e futuro. Introduzione di Fernando De
Dominicis. Cavallino di Lecce, Capone Editore, 1988.
133 p.
Itinerario storico-folclorico-letterario attraverso la Puglia.
(Capone Editore, via Caprarica 35. Cavallino LE)
- DOTOLI, Giovanni - FIORINO, Fulvia.
Viaggiatori francesi in Puglia nell'Ottocento. III. Fasano, Schena Editore, 1987.
447 p. tav.
Terzo volume dell'opera in continuazione curata da G. Dotoli. Sono presi in esame i seguenti
viaggiatori: X.M.J. Barbier de Montault, J. De Beauregard; E. Bertaux; G. Goyau.
(Schena Editore, viale Stazione 177. Fasano BR)
154
Recensioni
RECENSIONI
ARTIGIANATO
B. TRAGNI, Artigiani di Puglia. Bari, Adda, 1987. 381 p. tav.
Sempre più rari sopravvivono in Puglia gli antichi mestieri legati alla
lavorazione delle materie prime reperibili nel territorio: creta, legno, pietra,
ferro; a decretare la loro scomparsa è stata la trasformazione della società e
dell'economia regionali da agricolo-pastorale in industriale e terziaria. Nulla o
quasi resta, quindi, di quegli artigiani ambulanti che, in passato, andavano
vendendo, di porta in porta, il prodotto delle loro abili mani; né riecheggia più
per le strade pugliesi il caratteristico grido di richiamo dei vari "aggiustatori".
Delle botteghe artigiane, poi, una volta tanto frequenti, ne è in attività soltanto
qualcuna, mentre buona parte della loro produzione è ormai reperibile solo
nelle sale allestite all'interno dei vari musei demologici regionali.
Particolarmente preziosa risulta, pertanto, questa ricerca di Bianca Tragni,
intitolata, appunto, Artigiani di Puglia, che, edita da Mario Adda di Bari, fa il
punto sull'attuale situazione dell'artigianato pugliese, ma, nel contempo, non
trascura i suoi precedenti storici né dimentica di fornire utili suggerimenti per
una ripresa del settore sulla base della legge 443/1985.
Dalle splendide foto di cui il libro è corredato viene fuori un mondo
singolare ed affascinante che, purtroppo, non trova corrispondenza nella realtà.
Rari sono, infatti, oggi, i laboratori di creta grezza tanto diffusi sino a pochi
decenni fa ed in grado di immettere sul mercato quei savezarijelli, scutelle,
quartarelle, che, pur senza avere grandi pretese artistiche, rispondevano, tuttavia,
alle più elementari esigenze di contadini e pastori. Queste botteghe di "cocciari"
o "pignatari", operanti sull'intero territorio regionale, utilizzavano argilla bianca
o gialla, creta verde o grigia, e davano vita ad una produzione rispondente ai
bisogni materiali locali: le sarole, destinate a mantenere fresca l'acqua durante il
trasporto da parte degli
155
acquaioli; gli orci, utili per conservare a lungo olio e vino; le fasine, le fasinelle ed i
ciceni, che avevano la proprietà di garantire all'acqua una freschezza tale, da non
potere essere superata neppure da quella del ghiaccio.
Con la necessità del quotidiano era anche connessa la produzione degli
artigiani della canna, dei vimini e del giunco, offerti in grande abbondanza dalla
flora spontanea pugliese. Da queste piante la mano abile dell'uomo, usando
soltanto un ago per fissare e legare l'intreccio con un filo, era in grado di
ricavare attrezzi solidi e leggeri da usare nel lavoro domestico ed in quello dei
campi.
Pure la lavorazione del legno forniva utensili per la vita di ogni giorno:
sul Gargano si formarono, in particolare, artigiani raffinati ed abili nell'intagliare
arredi impegnativi, come sgabelli, seggiole e le famose cassapanche decorate ad
intarsio con figure di uccelli, fiori, piante; nel resto della regione, invece,
l'artigianato del legno trovò la sua espressione maggiore nei carradori e nei
bottai. Le botteghe della lavorazione del cuoio fornivano, invece, al mondo
agricolo tutti i finimenti dei cavalli e dei muli, avvalendosi della collaborazione
di più artigiani: il conciatore, il sellaio, l'intagliatore, l'incisore: tutti mestieri orinai
definitivamente scomparsi, dal momento che la macchina ha sostituito l'animale
nel lavoro dei campi.
Insieme con queste attività strettamente legate alle esigenze materiali
quotidiane sono venute meno, è l'amaro commento della Tragni, anche quelle
dell'artigianato artistico destinato a creare prodotti più o meno voluttuari ma
sempre caratterizzati dall'estrema ricercatezza di manifattura tipica dei tessitori,
delle ricamatrici, degli orefici, degli scalpellini, dei lavoratori della cartapesta.
Così è tramontata la raffinata lavorazione orafa garganica particolarmente
esperta nel creare oggetti di esotica suggestione e quella salentina della
cartapesta, abile nel creare capolavori che, tuttora, stupiscono per la bellezza
rimasta immutata anche a distanza di molti anni.
Nonostante, tuttavia, affondi le proprie radici nella cultura popolare,
l'artigianato pugliese, conclude Bianca Tragni, sta attraversando un momento di
grave crisi, perché la piccola impresa sempre più facilmente soggiace ai rischi
degli infortuni, della concorrenza, della committenza scarsa, degli oneri
finanziari. Non tutto è, però, perduto aggiunge con un pizzico di ottimismo
l'autrice: sembra, infatti, che politici ed operatori culturali ed economici stiano
attualmente riscoprendo il valore di tutto ciò
156
che è fatto a mano e mostrino interesse a tutelarlo e valorizzarlo. Esiste, quindi,
la speranza che gli antichi mestieri di una volta, ricchi delle loro antiche
tradizioni e rinnovati da esperienze moderne, possano tornare a vivere ad a
proiettarsi verso nuovi traguardi.
A.V.
ARCHEOLOGIA
E. DE JULIIS, Gli Japigi. Storia e civiltà della Puglia preromana. Milano, Longanesi,
1988. 206 p. tav.
La storia della Penisola italiana prima di Roma è costituita dalle vicende
dei diversi popoli che l'abitarono, ciascuno di essi, infatti, aveva cultura, lingua e,
spesso, origini proprie che lo rendevano diverso dalle altre "nazioni". Pertanto,
ricostruire il quadro storico dell'Italia antica nel corso del primo millennio a.C.,
significa analizzare le principali comunità politiche che vi risiedevano: Etruschi,
Latini, Sanniti, Greci dell'Italia meridionale, Punici, Galli.
Accanto ad essi, un contributo non secondario alla civiltà dell'Italia
preromana fu dato, anche, dagli Japigi sia per la loro posizione geografica a
metà tra la Grecia e l'Occidente, sia per i rapporti culturali e commerciali
stabiliti con le colonie elleniche del Golfo di Taranto, con i popoli italici e con
quelli "barbari" dell'Illiria.
Sulle vicende di questa popolazione, Ettore De Iuliis, soprintendente
archeologico della Puglia negli anni dal 1978 al 1985 e attualmente docente di
Etruscologia e Archeologia italica presso l'Università di Lecce, ha stampato
presso Longanesi di Milano, il libro intitolato, appunto, Gli Japigi. Storia e civiltà
della Puglia preromana, nel quale ha cercato di fornire un quadro ampio e
aggiornato della loro cultura, dai primi stanziamenti del secolo XI a.C. sino alla
conquista romana del 272 a.C., utilizzando soprattutto la documentazione
archeologica notevolmente incrementata dagli scavi degli ultimi decenni.
Chi furono, dunque, gli Japigi. La loro origine è controversa presso gli
autori classici: alcuni la fanno risalire a marinai cretesi che, approdati in
157
Sicilia, non furono, poi, più in grado di riprendere la rotta verso la madrepatria;
altri, invece, l'attribuiscono ad una ascendenza illirica, sulla base di connessioni
linguistiche e toponomastiche tra Puglia e Illiria, confermate, oggi, dalla ricerca
archeologica e da quella storico-glottologica.
Il De Iuliis fa datare al XII secolo a.C. le invasioni liriche destinate ad
occupare in momenti successivi l'intero territorio pugliese con stanziamenti
tanto sulla costa, quanto nell'entroterra: tra i primi, quelli di Salapia, Trani, Bari,
Otranto; tra i secondi, Arpi, Ascoli Satriano, Canosa, Andria, Oria. Molto
sommaria e primitiva doveva apparire la struttura di questi nuclei abitati,
costituiti da capanne con pareti e copertura di rami e canne, sostenute da pali e
rese impermeabili da strati di intonaco di argilla; la loro difesa era affidata a
fossati o ad aggeri di pietra, oppure, spesso, a semplici steccati. La nascita dei
veri e propri centri urbani si registrerà, però, tra il V-IV secolo a.C.: è in questo
periodo, infatti, che i nuclei sparsi in una vasta area e abbastanza autonomi si
fusero in insediamenti più compatti, circoscritti in un'area relativamente poco
estesa e difesi da solide fortificazioni.
L'economia degli Japigi si basava sull'agricoltura, integrata dall'allevamento, soprattutto nelle zone collinari del Subappennino Dauno e delle
Murge; mentre l'artigianato dovette limitarsi a soddisfare solo il mercato
interno. Una eccezione fu rappresentata dalla Daunia che, fa notare De Iuliis,
sin dal X-IX secolo a.C., esportò i propri prodotti ceramici sia verso le coste
tirreniche che quelle adriatiche.
Nei secoli XI-IX gli Japigi rimasero sostanzialmente omogenei e
compatti, ma, a partire dall'inizio del secolo VIII si cominciò a sviluppare al
loro interno un processo di differenziazione reso ancor più rapido e netto dai
contatti con popoli e cultura diversi. Così agli influssi ellenici riscontrabili nel
Salento, si contrapposero nella Daunia i rapporti con i Liburni e con le
popolazioni campane. E' per questo, quindi, che già dai primi decenni del
secolo VII si può legittimamente parlare, secondo il De Iuliis, dell'esistenza in
Puglia di tre culture distinte: Messapia, Peucezia, Daunia.
Di esse, però, è quella daunia che si differenzia dalle altre due sia per la
posizione geografica eccentrica, sia per l'assenza di quei contatti con il mondo
greco e magnogreco che, a partire dal VII secolo, presero ad influenzare la
cultura tradizionale della Messapia e della Peucezia. La Daunia divenne, perciò,
progressivamente autonoma e peculiare, senza, tuttavia, impoverirsi, bensì
espandendosi, tanto, nel territorio melfese, sino
158
a Banzi, quanto, verso sud, oltre Canosa, sino a Ruvo. Giustamente, pertanto, il
De Iuliis si è soffermato a segnalare alcuni elementi fondamentali della sua
società e cultura: le tombe cosiddette "principesche" per le dimensioni e per la
ricchezza del corredo funebre; oppure, le stele che, costituite da una lastra
calcarea rettangolare, venivano infisse a terra e rappresentavano il defunto in
veste talare, arricchita dagli ornamenti personali e dalle armi; o, ancora, i famosi
vasi a figure rosse prodotti tra Canosa ed Arpi; o, infine, le sculture in pietra
tenera, come i capitelli figurati provenienti da Arpi e conservati nel Museo
Civico di Foggia.
Il vasto mosaico tracciato da De Iuliis su storia, arte, società degli Japigi
si conclude con le vicende della conquista romana, dalla caduta di Taranto nel
272 a.C. sino alla guerra sociale contro Roma del 90-88 a.C..
Un libro da leggere, dunque, per conoscere le origini della civiltà daunia e
pugliese, il suo ricco e suggestivo patrimonio archeologico, oggi, purtroppo,
esposto ad ogni sorta di offese, e, infine, le cause lontane di quella
differenziazione culturale all'interno della regione, che è durata sino ai nostri
giorni.
A.V.
ARCHITETTURA
P. BELLI D'ELIA, La Puglia. Volume 8 di Italia Romanica. Milano, Editoriale
Jaca Book, 1987. 486 p. tav.
Una pregevole pubblicazione d'arte ma anche un attento strumento di
divulgazione scientifica è questo lavoro sulla Puglia Romanica di Pina Belli D'Elia,
studiosa da tempo nota agli ambienti culturali regionali, edito da Jaca Book in
collaborazione con la casa editrice francese Zodiaque.
Il volume si apre con una introduzione generale, in cui l'autrice, dopo
avere delineato sinteticamente il quadro storico nel quale il Romanico ha preso
l'avvio in Puglia, libera il campo del suo discorso da errori e pregiudizi,
svincolando questo fenomeno artistico-architettonico dalla conquista normanna
della regione. Secondo la Pina Belli D'Elia, infatti, le sue origini precedono tale
avvenimento storico e risalgono ai primi decenni
159
del secolo XI, quando buona parte del territorio pugliese era ancora soggetto
politicamente al dominio di Bisanzio e culturalmente all'influenza longobarda
oltre che bizantina. In questo periodo, ella aggiunge, si realizzò anche la rinascita
delle città e soprattutto la riorganizzazione delle chiese locali che,
riappropriandosi di antichi diritti, promossero, particolarmente in Terra di Bari
e in Capitanata, la costruzione di quelle cattedrali destinate a costituire, poi, con
la loro architettura, la base del linguaggio romanico pugliese.
La Belli D'Elia passa, poi, ad esaminare gli sviluppi di tale movimento
artistico nel 1200, quando avrebbe sortito risultati puramente ornamentali e
spesso ripetitivi e che, interessando le fabbriche dei secoli XI e XII, avrebbe
conferito loro molti dei caratteri considerati, in seguito, suoi particolari:
esuberante ornamento addensato attorno a finestre, portali, cornicioni, in
contrasto con le limpide e nitide superfici delle fabbriche, forme animali
plastiche aggettanti a tutta o a mezza figura dalle murature compatte e senza
risalti; monumentali rosoni irraggianti da facciate e transetti, finestre absidali
sontuosamente incorniciate e vigilate da mostruose creature di marmo
schiacciate da colonne ed archivolti.
La trattazione centrale del libro ha per oggetto sedici monumenti
romanici, di cui l'autrice consiglia la "visita" e di cui viene fornita nel testo
un'ampia e splendida documentazione fotografica in bianco e nero. La Belli
D'Elia ha inserito in questa sezione alcune delle maggiori costruzioni del secolo
XI e le grandi basiliche romaniche sorte tra la fine del secolo XI ed il XII, tra
cui, in Capitanata, la cattedrale di Troia, il santuario di San Michele e San
Giovanni in Tumba a Montesantangelo, San Leonardo di Siponto. Nella sua
analisi storico-artistica ella le ha presentate come segni della memoria collettiva
di una realtà fatta di tradizione manuale, di organizzazione del lavoro, di ricerca
di materiali e di volontà dei committenti, ma anche come risultato delle correnti
commerciali che legavano la Puglia all'Oriente mediterraneo ed al suo ricco
artigianato di avori, di tessuti ricamati, di metalli lavorati, tutti riprodotti nel
marmo dagli scultori pugliesi, i quali, così, aprirono la via ad una nuova
tradizione plastica.
Il volume si chiude con la sezione intitolata, Note su altri cinquanta edifici
romanici in Puglia, nella quale la Pina Belli D'Elia descrive in altrettanti agili schede
storico-artistiche ulteriori edifici sacri, raggruppandoli per aree definite: la Terra
di Bari, la provincia nei secoli più ricca di traffici
160
e tramite essenziale tra terraferma e mare, tra l'Europa e l'Oriente; la
Capitanata, corrispondente grosso modo all'attuale provincia di Foggia; il
Salento, comprendente le attuali province di Brindisi, di Lecce e di Taranto.
Dalla loro lettura salta agli occhi una caratteristica del romanico pugliese che già
si enucleava dalla parte centrale del libro: la diffusione in queste tre zone
fondamentali della Puglia di tipi di costruzioni strutturalmente dipendenti da
edifici modello: per la Terra di Bari, ad esempio, esso fu la basilica di San
Nicola; per la Capitanata, invece, dapprima Santa Maria di Siponto e,
successivamente, la Cattedrale di Troia.
Un libro da leggere, dunque, e soprattutto da seguire sul territorio,
perché la sua ampia panoramica di edifici romanici fornisce l'occasione per
avvicinarsi al ricco patrimonio artistico pugliese, che comprende celebri edifici
solennemente ufficiali ma anche costruzioni più modeste tuttora esistenti nelle
campagne.
A.V.
GASTRONOMIA
G. CRETI', Erbe e malerbe in cucina. Presentazione di Vincenzo Buonassisi.
Milano, Sipiel, 1987. 149 p. ill.
Proprio quando la dieta mediterranea con le sue pietanze semplici e
gustose a base di verdure e di altri ingredienti genuini va riacquistando un
credito sempre crescente anche presso medici, dietologi e cuochi di
professione, le Edizioni Sipiel di Milano, con singolare scelta di tempo, hanno
pubblicato questo libro, dalla elegante veste tipografica, intitolato
suggestivamente Erbe e malerbe in cucina. Ne è autore Giorgio Cretì, giornalista e
raffinato scrittore salentino, residente nel Capoluogo lombardo, che, lasciata
momentaneamente da parte la narrativa ha voluto cimentarsi con la botanica e
la gastronomia. Ha, così, raccolto con pazienza e precisione ogni sorta di
informazioni scientifiche e culinarie su circa ottanta erbe, per lo più poco note e
a torto trascurate, sinora, secondo l'autore, dai gastronomi e dai grandi maghi
della cucina, interessati soltanto alle piante aromatiche necessarie per manipolare
i sapori degli alimenti.
161
Per ciascuna delle erbe spontanee prese in esame, Giorgio Cretì fornisce
una perfetta riproduzione fotografica a colori ed una dettagliata descrizione
nella quale ha riportato le seguenti indicazioni: la famiglia vegetale cui
appartiene; il nome italiano e quello botanico; i termini dialettali con cui è
conosciuta nelle diverse regioni; gli elementi esteriori che ne consentono il
riconoscimento; gli ambienti dove abitualmente cresce e, infine, quali proprietà
possiede dal punto di vista benefico e malefico e quali impieghi può avere in
cucina in alternativa alle erbe che si acquistano dall'ortolano. Ne è venuto fuori
un vero e proprio manuale che, fornendo pure informazioni e curiosità sulle
erbe selvatiche nella storia, nella letteratura, nella tradizione contadina, è rivolto a
quei lettori che, già amanti della natura e portati a percorrere boschi e
campagne, possono essere attirati da queste nuove e meravigliose scoperte, ma
anche a quelle persone desiderose di conoscere semplicemente come esse,
raccolte e utilizzate in un passato neppure tanto lontano, possano esserlo ancora
oggi, dato l'alto valore rappresentato dalle verdure nell'alimentazione
quotidiana.
La parte più straordinariamente viva del libro, però, è quella
gastronomica vera e propria, nella quale Giorgio Cretì, con la collaborazione
di alcuni chef della Federazione Italiana Cuochi e, in particolare, del fratello
Antonio, ha pubblicato sessanta ricette, alcune delle quali sono di autentica
derivazione popolare, altre, invece, sono state elaborate da professionisti che,
recependo il messaggio naturalistico-culturale di Giorgio Cretì, hanno messo a
punto formule di piatti sicuramente gustosi al palato. Pertanto, pietanze umili
come la cicoria comune alla salentina, l'insalata alla brianzola, la crema di riso all'ortica, il
papavero alla mediterranea si alternano a piatti più raffinati ed elaborati, quali la
vellutata di lattuga selvatica, i fagottini di erbe e ricotta, la ruchetta violacea stufata e altri
ancora.
Per tutte le ricette il Cretì indica gli ingredienti necessari con le rispettive
quantità e con il procedimento da seguire per la preparazione, fornendo, in
questo modo, un servizio utile tanto alle massaie quanto agli chef di
professione: le prime potranno imparare qualcosa che non conoscono; gli altri
utili suggerimenti per la loro attività.
A.V.
162
OSPITIAMO IN QUESTO FASCICOLO QUATTRO CONTRIBUTI CHE
DOCUMENTANO
ALTRETTANTI
INCONTRI
CULTURALI
ORGANIZZATI NELL'AMBITO DELLE ATTIVITA' DEL LIONS E
LIONESS CLUB DI FOGGIA. LA RIVISTA DA' AD ESSI
ATTENZIONE, PERCHE' SONO RISULTATI DI STUDI E RICERCHE
SU ASPETTI E PROBLEMI STORICI E SOCIO-CULTURALI DELLA
CAPITANATA.
RINGRAZIAMO, PERTANTO, PER LA COLLABORAZIONE I DUE RISPETTIVI PRESIDENTI DI TURNO DEI CLUB, DR. MARIO
PELLEGRINI E DR. SSA TINA ARMIENTO.
163
FUGGI DA FOGGIA!
La città vista dagli altri, nel Settecento e nell'Ottocento
"Fuggi da Foggia!", così suona un beffardo gioco di parole a tutti noto,
che, divenuto proverbiale nel 1700, si è mantenuto intatto sino ad oggi nell'uso
popolare pugliese e meridionale con tutta la sua aggressiva carica di ingiuria
irriverente. Il "merito" di averlo reso celebre sembra debba spettare quasi
interamente al dotto abate Longano: egli, infatti, nel corso del XVIII secolo,
percorse in lungo e in largo la Capitanata per studio e per diporto e, più volte,
ebbe anche occasione di fare delle soste a Foggia, riportandone, però,
esperienze da cui sarebbe rimasto profondamente segnato per sempre, se si
deve giudicare da quanto venne scrivendo, di lì a poco, sul Capoluogo daunio,
nei suoi Viaggi per lo Regno di Napoli, una sorta di "Guida Michelin" dell'epoca.
Ebbene, alla voce "Foggia" questa guida non riportava neppure una stella di
qualità, anzi, secondo il compilatore, innumerevoli erano i disagi ed i pericoli in
agguato nella città e pronti ad aggredire l'incauto visitatore: aria mefitica,
sporcizia dilagante, locande scomode ed inospitali e, ancora, caldo
insopportabile, fetori ripugnanti, zanzare ed ogni altra sorta di insetti, oppure,
freddo intenso, umidità perniciosa, febbre terzana. Ma ciò contro cui metteva
in guardia l'invelenito abate, era l'indole perversa degli abitanti: svogliati ed
insolenti gli uomini, ma anche violenti e consumati da insana passione per vino,
gioco d'azzardo e furto; focose le donne, ladre pure esse e soprattutto inclini
alla lascivia godereccia. Su quest'ultimo particolare, poi, quasi a perfezionare,
con un ultimo sapiente tocco, il proprio capolavoro di sistematica demolizione
della città, il Longano si intratteneva, raccontando, con piccanti dettagli,
l'esperienza di un suo pellegrinaggio, l'ultima domenica di aprile, all'Incoronata,
dove aveva potuto constatare come la popolazione femminile foggiana,
vibrante di passione per gli incipienti tepori primaverili, praticasse in quel sacro
bosco ben altre devozioni che quelle religiose e si dedicasse, invece, con
trasporto e consumata esperienza al soddisfacimento di ogni sorta di appetiti,
sino al ritorno in città che, per il modo in cui avveniva, somigliava più al corteo
di sfrenate baccanti, che
165
non alla processione di pie pellegrine. Così, Foggia veniva liquidata per sempre
e l'abate si toglieva, finalmente, dalla scarpa il sassolino che, da tempo, vi
giaceva.
Un ritratto tanto nefasto, comunque, non è da credere che fosse solo la
conseguenza delle idiosincrasie o delle sfortunate esperienze personali del
Longano, perché impressioni negative analoghe alle sue ricorrono anche nelle
memorie dei viaggiatori italiani e stranieri che nel corso di '700 e '800 si
trovarono a passare per il Capoluogo daunio. Ebbene, dalle loro pagine affiora
una città del tutto differente da quella che ci hanno rappresentato gli storici
locali, facendosi interpreti delle aspirazioni municipalistiche di una borghesia
ristretta e frustrata: non un centro urbano ricco ed elegante, quindi, ma soltanto
un labirinto di strade e viuzze indecenti e un'accozzaglia informe di case basse e
sordide, dove conduceva la sua esistenza povera e piatta una becera umanità.
Il viaggiatore, appena entrato in città, sia che provenisse da nord, da sud,
da est o da ovest, veniva immediatamente colto, guardandosi intorno, da una
spiacevole sensazione di precarietà, di disordine, di sporcizia: ne restarono
addirittura sconcertati i turisti francesi che, poco distratti, a differenza dei
colleghi inglesi e tedeschi, dalle romantiche impronte sveve, erano più critici
osservatori di quelle dei contemporanei. Léon Palustre de Montifaut, il celebre
archeologo, scrisse, ai primi dell'Ottocento, nel suo Da Parigi a Sibari: "Foggia
dà a prima vista l'impressione di un immenso accampamento. Tutte le case
sono basse, sporche e sono dimora della gente di campagna che costituisce la
maggior parte della popolazione"; un giudizio sfavorevole, ma meno severo, in
definitiva, di quello di Cesare Malpica che, una trentina di anni prima, ne Il
giardino di Italia, aveva definito le case dei Foggiani "covili sudici e tenebrosi",
oppure di Giuseppe Ceva Grimaldi, il quale, nell'Itinerario da Napoli a Lecce, non
aveva usato mezze misure nel descrivere la città. Tra le altre brutture sue
peculiari, aveva fatto, in particolare, notare come le strade, tracciate
sommariamente e costruite senza quelle pendenze laterali necessarie a
raccogliere e fare scorrere via acque piovane e rifiuti liquidi, si trasformassero
con grande frequenza in una indecente fanghiglia, nella quale, in mezzo ad ogni
sorta di indescrivibili presenze, sguazzavano tranquillamente maiali, galli, galline,
anatre. Questa fastidiosa e repellente circostanza scatenò anche l'irritato
sarcasmo della scrittrice Juliette Figuier che, esasperata da quella melma
dilagante, nella
166
quale, non solo, affondava sino alle caviglie, ma era pure costretta a saltellare
poco dignitosamente, sollevando le gonne, a causa delle innumerevoli
pozzanghere e degli onnipresenti animali da cortile di ogni misura e specie,
fuggì, ad un certo punto, da Foggia, non senza averla prima immortalata, ne
L'Italie d'après nature, "regno per eccellenza dei porci e dei polli". Più tenace di
lei o, forse, più sognatore, Paul Bourget, poeta e saggista, trovò, invece, nel
fascino delle vestigia federiciane un motivo per resistere al fango; l'arco di
Federico II, però, non fu sufficiente a fargli vincere l’"infamia degli alberghi e la
sordidezza delle vetture", cui dedicò un istruttivo brano foggiano delle sue
Sensations d'Italie. Così, alla fine, anche lui fece tempestosamente le valigie per
lidi più ospitali.
La situazione non offriva spiragli di miglioramento con il sopraggiungere
della buona stagione e dell'estate: ai pantani subentrava un altro disagio, forse
anche più pericoloso, il torrido sole foggiano, contro il quale le strade larghe,
senza alberi, costeggiate da case basse non erano in grado di offrire il benché
minimo riparo. Percorrerle, quindi, specialmente nelle ore diurne, metteva
sull'avviso, ai primi dell'800, il frate naturalista Michelangelo Manicone, nella
Fisica Appula, significava esporsi al rischio di beccarsi il "causone", noto anche
come "chiodo solare", una febbre insistente, capace di condurre alla tomba
anche l'uomo più robusto. Un buon alibi, comunque, per la proverbiale
infingardaggine dei Foggiani, contro la quale si spuntarono le richieste,
dapprima insistenti poi accorate, del pur caparbio Charles Yriarte, giornalista
parigino, che, alla fine, rassegnato a non poter penetrare la corazza della pigrizia
locale, si sfogò nelle pagine de Le Rive dell'Adriatico, mettendo
precauzionalmente in guardia ognuno dal venire in Foggia, terra della
poltroneria, perché, avvertiva, "tutto si chiude in questa città da un'ora e le vie
rimangono deserte; le botteghe non si riaprono più sino alla fine della giornata
e per molte ore è impossibile comperar puranco un francobollo o un sigaro".
Il caldo e, in particolare, l'assenza di piogge, unico sistema allora in uso per lo
smaltimento dei rifiuti liquidi e solidi urbani, causavano, però, anche altri disagi:
rendevano meglio visibili nelle strade tutte le sconcezze che stalle, macellerie,
pescherie e popolazione vi scaricavano a getto continuo e, soprattutto,
ammorbavano l'aria tutto intorno. Il fetore, appunto, oltre alla sporcizia è l'altra
caratteristica che colpiva quanti giungevano a Foggia: un puzzo opprimente
aleggiava sull'abitato e, se si entrava nelle
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abitazioni, non scompariva, bensì si mescolava ad essenze ancora più
nauseabonde. La causa di fenomeni tanto fastidiosamente aggressivi da
offendere le raffinate narici del conte Friedrich Leopold Stolberg, letterato
tedesco di passaggio per il Capoluogo daunio alla fine del '700, e da indurlo,
come egli ricorda nel suo Viaggio in Italia, alla fuga soltanto poche ore dopo il
proprio arrivo, viene chiarita dal Manicone. Egli, infatti, spiega che fuori della
città si estendevano per largo tratto i così detti "saldoni", distese di terra mai
solcate dall'aratro, sulle quali, nel corso dei secoli, si era ammassato lo sterco di
innumerevoli ovini, bovini, equini, con conseguenze pestilenziali, soprattutto
quando il centro abitato si trovava sottovento; nelle case, invece, le esalazioni
mefitiche provenivano dal "comune" che, in alternativa alla campagna, era,
allora, il servizio igienico più diffuso in città: una sorta di pozzo nero molto
sommario, i cui effluvi, dovuti ai depositi organici mai rimossi di intere
generazioni, solo leggermente erano attenuati dalla polvere di carbone e dalla
terra umida usati a tale scopo dai proprietari.
Dalla sporcizia e dal fetore onnipresenti non andavano esenti neppure le
locande e gli alberghi, ai quali, pure, era affidato il delicato compito di
presentare il biglietto da visita della città presso quei visitatori che, per la prima
volta, vi fossero giunti. Ne fece le spese oltre a Paul Bourget, la già citata Juliette
Figuier, cui Foggia, sicuramente non menzionata nei già diffusi "Baedeker",
dovette fare l'effetto sgradevole di una esperienza allucinante. Annotò nei suoi
appunti: "La città non possiede che locande proprio miserabili. Quella in cui
scendiamo, che è la migliore, sarebbe tutt'al più buona per dei carrettieri. Ci è
impossibile toccare la minestra o la carne che ci presentano. Qui, poi, i
tovaglioli li passano, senza mai esser messi al bucato, da un viaggiatore all'altro.
Le posate sono unte, la tavola è poco pulita, i sughi sono pieni di mosche e il
soffitto di ragnatele". Ma il peggio doveva ancora arrivare e si presentò
puntuale, quando la Figuier, alle prese con particolari del servizio attinenti ad
una sfera più intima della persona, sbottò: "in questo paese mezzo barbaro, la
pulizia è lettera morta, come anche il pudore. I recipienti per l'acqua, e ogni
altro oggetto necessario alle cure della toilette sono qui sconosciuti". In
conclusione, la povera francesina fu costretta a mettere mano al borsellino per
avere da un'incredula e attonita cameriera indigena acqua pulita tutte le mattine
e, soprattutto, per potere usare, quando le necessità fisiologiche lo richiedevano,
168
con relativa serenità quel servizio igienico che, essendo l'unico della locanda ed
essendo considerato pubblico, ossia accessibile pure ai passanti, rappresentava
quasi un porto di mare, dove a tutti era lecito approdare, con conseguenze
facilmente immaginabili, sia per l'intimità necessaria in certi delicati momenti, sia
per i sorprendenti ritrovamenti che la famosa sporcizia di Foggia poteva
riservare. Nelle locande foggiane, però, si lamentarono Matilde Perrino ne La
Puglia del '700 e un suo contemporaneo, il tedesco Carlo Ulisse de Salis von
Marschlins, autore del Viaggio nel Regno di Napoli, non era neppure consentito
riposare, perché, ebbe a scrivere più diffusamente Giuseppe Ceva Grimaldi,
"l’infelice viaggiatore che vi arriva è ricevuto alla soglia di esse da falangi di
insetti che il clima genera e che il sudiciume delle stanze e de' mobili moltiplica.
Se, poi, la stanchezza ed il sonno l'obbligano a gittarsi sul letto scomodissimo,
allora quelle piccole arpie corrono a divorarlo; ed in vece di riparar le sue forze
con dolce riposo, egli è costretto a balzar via disperato dal letto inospitale".
Eppure, in questa realtà tanto poco confortevole e quasi ostile, il
commercio fioriva e prosperava; annotava un cronista settecentesco locale,
Gerolamo Calvanese: "Foggia cresce di giorno in giorno di abitatori forestieri",
numerosi erano, infatti, coloro che, proprio nel corso del XVIII secolo,
raggiungevano la città attratti dalle sue libertà mercantili. La qualifica
professionale di questi immigrati, provenienti da numerosi centri del
Napoletano, dell'Abruzzo, del Barese, risulta ben precisata nel catasto onciario
di metà '700 con un dato che deve fare riflettere: pochissimi i braccianti, molti,
invece, i mercanti. "Foggia è una gran piazza di commercio", scriveva, quindi, il
Galanti, prendendo atto di questa crescita economica legata all'importanza del
mercato agrario locale, basato, esclusivamente, sul commercio
agricolo-zootecnico: la fiera, con la vendita di bestiame selezionato e di lana,
costituiva un punto di riferimento obbligato per l'intero Regno, mentre,
accanto ad essa, i grandi quantitativi di cereali conservati nelle innumerevoli
fosse granarie alimentavano un fiorente traffico.
I Foggiani, allora, pur se un po' sporchi e disordinati erano, forse,
imprenditori audaci, abili mercanti e artefici di grandi patrimoni? Sentiamo cosa
ne pensavano i viaggiatori contemporanei. Non ne erano affatto convinti né
Antoine Laurent Castellan, né Charles Didier, scrittore svizzero, che, ai primi
dell'Ottocento, anzi, scrisse ne l'Italie pittoresque, " ci
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sono a Foggia enormi depositi di grano; lo si conserva in fosse, come in
Marocco, ma il popolo muore di fame sulla pietra che chiude quei depositi!". E
non era il solo a vederla così, perché anche il Castellan, suo contemporaneo,
nelle Lettres sur l'Italie, osservò che la maggior parte dei Foggiani non aveva
nulla a che spartire con l'enorme ricchezza giacente sotto i loro piedi, il suo
controllo, come quello degli ovini che appestavano la città, spettava soltanto a
mercanti, allevatori, imprenditori agricoli, residenti, per lo più, in Campania, in
Abruzzo, in Terra di Bari, dove, appunto, approfittando dell'assenza di
concorrenti locali e delle facilitazioni loro accordate dall'amministrazione
municipale, trasferivano e investivano i capitali guadagnati sotto il naso dei
Foggiani, costretti, così, a tenersi il fetore ed a rimanere all'asciutto di denari.
Potrebbe sembrare incredibile che la città ed il suo fiorente mercato, con
il complice consenso degli amministratori e buona pace degli abitanti,
costituisse una fonte di ricchezza quasi esclusivamente per gli speculatori
forestieri, eppure questa circostanza viene confermata anche dalle informazioni
di natura fiscale fornite su Foggia dal catasto onciario di metà secolo XVIII e
dai registri relativi a imposta personale e fondiaria istituite dai Francesci agli inizi
dell'Ottocento. Ebbene, nel Capoluogo daunio, su una popolazione residente
di oltre 18.000 unità, tra fine '700 e primo '800, soltanto una diecina di persone,
tra cui il marchese Filiasi, Francesco Paolo Celentani, Giuseppe la Rocca, il
marchese De Luca, disponendo di proprietà fondiarie ed immobiliari e di un
reddito annuo di circa 2.000 ducati, potevano essere considerate ricche; appena
un migliaio di individui, invece, percependo entrate annuali comprese tra i 400
ed i 150 ducati, rientravano nella classe di reddito di operai, artigiani, impiegati,
commercianti al minuto; la rimanente popolazione, infine, non arrivava, spesso,
neppure a guadagnare quei 120 ducati l'anno, ritenuti indispensabili per
sopravvivere, ed era da assimilare, quindi, ai salariati agricoli, il cui reddito si
aggirava intorno ai 60/70 ducati. Mancava, insomma, il ceto imprenditoriale
medio-alto. Nessuna meraviglia, pertanto, se Paul Louis Courier, ufficiale
napoleonico e scrittore, dopo essersi aggirato per le strade, annotasse nelle sue
Lettere dall'Italia: "il popolo la fa da padrone, a Foggia ancor più che a Napoli.
Non si vede che il popolo, non abbiamo potuto scorgere un solo borghese.
Dove si trova, in Capitanata, la classe alta? " alla fine, non senza stupore, capiva
che la componente prevalente
170
della società locale erano proprio quei poveracci dall'aria inequivocabilmente
campagnola e poco amante della fatica, descritti da Paul Bourget
"solennemente avvolti nei loro mantelli, immobili e silenziosi, in piazza, a
guardarsi gravemente da un giorno all'altro". Con la statuaria, sintomatica
immobilità degli adulti contrastava, però, lo straordinario dinamismo dei
bambini; osservava Juliette Figuier: "essi si muovono continuamente e sono
laboriosi; così si affida loro ogni tipo di incarico. Al caffè, al ristorante, non
trovate che bambini a servirvi. Si direbbe che, avendo sfruttato le proprie forze
durante l'infanzia, questo popolo non può più trovarne in età matura. Non si ha
l'idea della miseria, della noncuranza e dell'incuria di questa popolazione
indolente". Affermazioni in buona parte vere; tuttavia, il foggiano, quando non
riusciva a fare tacere i morsi della fame con gli espedienti, per cui andava
famoso, s'inventava, pure, alcuni lavoretti, descritti dal Manicone come originali
manifestazioni di folklore locale. Il più diffuso era la raccolta delle
ciammaruchelle: per tre o quattro mesi all'anno, da giugno a settembre
inoltrato, intere famiglie la praticavano nei campi intorno alla città, garantendosi,
cosi una minestra, ma anche un po' di denaro da parte degli immancabili
mercanti forestieri che facevano incetta di quelle lumache per un prezzo
bassissimo e si arricchivano, poi, esportandole, come ebbe modo di fare
notare, sul finire del secolo scorso, Raffaele Vittorio Cassitto, attento
economista, in uno studio-denuncia, volutamente ignorato dalle autorità
amministrative ed economiche locali.
Il Manicone, comunque, descrisse pure altri mestieri, che, per la loro
stranezza, possono costituire una singolare testimonianza della diffusa indigenza
foggiana dell'epoca: la caccia alle infestanti cavallette, ad esempio, piuttosto
evitata, però, perché da effettuare con la faticosa e pesante "spinata" e, più
largamente praticata, invece, in quanto meno gravosa, la caccia al sorcio
campagnolo, animale dannoso alle colture e talmente diffuso nei campi intorno
a Foggia - nel 1790 se ne catturarono trecentomila in una sola masseria -, da
fare nascere degli autentici professionisti, i "sorciari", che, alla pari dei "lupari"
abruzzesi, si facevano pagare dai massari i trofei delle proprie vittime. In un
regime economico tanto precario, l'alimentazione della popolazione non
poteva che essere molto povera; scriveva Leon Palustre de Montifaut con un
pizzico di ironia: "la carne, nella maggior parte dei casi, è sconosciuta, ma il
fortunato
171
foggiano deve solo allungare la mano per trovare tutto quello che occorre per
il suo nutrimento: una lattuga verde, un po' di finocchio". E, in realtà, come è
testimoniato anche dalla "Statistica" murattiana del 1809 e da quella dello Scelsi
del 1865, i Foggiani erano, volenti o nolenti, vegetariani; il loro piatto di più
largo consumo consisteva nella minestra di erbe e legumi, in genere fave; ma la
vera base del vitto quotidiano si riduceva, spesso, al solo pane, la così detta
acqua e sale, oppure, il pane cotto con l'olio, raramente d'oliva, più di frequente
di lentisco e, talvolta, unito alle erbe selvagge ed a qualche cipolla. Purtroppo,
però, proprio Foggia, mercato frumentario per eccellenza, aveva un pane poco
nutriente e di sapore tanto disgustoso, da indurre quanti, come Ceva Grimaldi
e Didier, ebbero occasione di assaggiarlo a non ripetere l'esperienza, perché,
scrissero, era "azzimo e mal cotto, mefitico e fetente". Due, a detta del
Manicone, anche lui tra le vittime, le ragioni di questi suoi difetti: la disonestà di
amministratori, commercianti di granaglie e fornai che, complici nel realizzare
illeciti guadagni, destinavano alla panificazione pubblica il così detto frumento
di "solìma", un prodotto di scarto, ammuffito e precocemente fermentato a
causa della lunga permanenza nelle fosse interrate; e, in secondo luogo,
l'inadeguatezza dei forni, che, alimentati, per la scarsezza di legna nel Tavoliere,
con il letame di stalla, lasciavano le pagnotte poco cotte e umide, ma anche
impregnate dell'orribile puzzo emanato da quel singolare combustibile, mentre
bruciava. L'unica nota di fantasia gastronomica, informa il solito Manicone, in
una dieta alimentare tanto povera e monotona, veniva ai Foggiani dal "rusco" o
"pungitopo" e dall’"orno" o "frassino", due piante abbastanza comuni nella
campagna dell'epoca: dalla prima, torrefacendone e manipolandone
opportunamente le bacche, essi si fabbricavano, in regime di assoluta autarchia,
una bevanda simile al caffè; dalla seconda, lavorando la manna, si procuravano
una sorta di economico dolcificante. Né l'una né l'altro, però, incontrarono tra
gli incuriositi cronisti dell'epoca, volontari disposti ad assaggiarli per
tramandarne la descrizione dell'aroma e del sapore, cosicché è oltremodo
legittimo il dubbio che fossero in grado di soddisfare soltanto palati non
troppo schizzinosi; come pure risulta chiaro dalle testimonianze sinora riferite
che per buona parte dei Foggiani, secondo quanto avevano ben visto Leon
Palustre de Montifaut e Charles Didier e denunciato Matilde Perrino, la
sopravvivenza era consentita proprio dalla raccolta, nell'incolto intorno al
172
centro abitato, di tutte quelle erbe spontanee che garantivano una integrazione
della dieta non meno importante di quella assicurata dalla spigolatura e, talvolta,
dal misero allevamento di autoconsumo costituito da qualche gallina.
Alla pari dell'alimentazione erano sommari anche gli abiti dei Foggiani:
niente, quindi, dei poco probabili costumi, eleganti e colorati, tramandati dalle
raffinate stampe settecentesche ed ottocentesche, ma, come si legge nella
"Statistica" murattiana e in quella dello Scelsi, d'estate, una camicia ed un
calzone, per gli uomini; un indumento di ruscetta ed una gonna, per le donne; ai
piedi degli uni e delle altre, poi, una rozza suola di cuoio fermata da ruvidi
legacci. Qualche rara signora della piccola borghesia locale ostentava pure,
annotava il Malpica, qualche modello dei sarti francesi Giroux e Cardon,
acquistato a Napoli, ma il tedesco Gustav Meyer preferiva, nonostante il
povero e sommario abbigliamento, o forse proprio per quello, di gran lunga le
avvenenti popolane, perché, scriveva nelle sue Escursioni in Puglia: "sono ben
fatte, sono chiare di viso e portano i capelli a trecce, fissati dietro la nuca, come
si possono ammirare nei busti antichi di donne greche". D'inverno, però, ogni
bellezza svaniva sotto scialli e mantelli di grossolana fattura; uomini e donne si
somigliavano un po' tutti nell'abbigliamento, con stupore della Juliette Figuier
che commentava: "gli indigeni rimangono sempre col corpo magistralmente
avvolto in un mantello di panno e con la testa coperta. Li si direbbe
musulmani", la "Statistica", infine, si limitava ad aggiungere laconicamente: "la
biancheria non si cambia che dopo 15 giorni e gli abiti due volte l'anno. I più
poveri, vestiti di cenci, non li cambiano se non quando ne cadono i pezzi".
Questa diffusa indigenza unita al regime alimentare carente di proteine animali e
di frumento, le baracche inadatte a proteggere da un clima caratterizzato da
forti escursioni termiche e da notevole umidità, l'inosservanza delle più
elementari norme di igiene, l'assenza di forme organizzate di assistenza sanitaria,
affidata per lo più alla pietà dei religiosi, contribuivano a rendere le infezioni e la
morte una minaccia sempre incombente sulla città, a causa di malaria,
tubercolosi, febbri terzane, tifo ed epidemie a carattere endemico. Nel
complesso, quindi, il centro urbano e la campagna circostante avevano fama di
essere malsane e pericolose, come si può rilevare dai timori, più volte,
manifestati da Juliette Figuier, Paul Bourget, Carl Ulisses von Salis-Marschlins e,
in genere, anche da tutti gli altri viaggiatori stranieri ed
173
italiani. Paure, comunque, dalle quali non si salvavano neppure gli abitanti del
Regno di Napoli: Natale Cimaglia, ad esempio, a metà '700, nella sua opera
Della natura e sorte delle biade in Capitanata, aveva scritto: "la morte della specie
umana è assai frequente a Foggia, come vi è attiva la riproduzione", mentre,
una cinquantina d'anni più tardi, anche Carlo Afan de Rivera, nella Memoria per
bonificare la pianura di Capitanata, aveva osservato come i Foggiani non
arrivassero ad invecchiare, perché morivano ancor giovani. In effetti,
confermano le statistiche mediche dell'epoca, a Foggia, tra '700 ed '800, la vita
media aveva una durata tra i 25 ed i 30 anni; il tasso di mortalità era del 60 per
mille ed i decessi superavano le nuove nascite. La condizione igienico-sanitaria
del Capoluogo non sarebbe cambiata per l'intero secolo XIX; Michele
Buontempo, infatti, nel suo Cenno storico-statistico di Foggia del 1842, rilevò che
solo in quell'anno, su una popolazione di 23.000 unità, erano morti 290 neonati,
201 bambini dai 2 ai 7 anni, 136 adolescenti dagli 8 ai 18 anni, 430 individui dai
19 ai 50.
Di fronte ad una situazione tanto poco allegra, anzi funerea, più che
logica, quindi, la conclusione: "Fuggi da Foggia!" e tutti, in verità, scappavano
via, senza farselo ripetere, un po' per la sporcizia e per i vari disagi, come si è
visto, ma soprattutto per paura di rimetterci la pelle. I viaggiatori si
intrattenevano giusto qualche giorno, per riposare e attendere il cambio dei
cavalli; i mercanti, per portare a termine i propri affari. La città, pertanto, quasi
prigioniera dei suoi numerosi problemi, rimaneva chiusa in sé stessa ed isolata
dall'esterno, cosicché Paul Louis Courier, confrontando la realtà foggiana con
altre e quasi descrivesse una colonia da incivilire, annotava: "Foggia sfugge
ancora all'impero del progresso e ha tutta l'originalità di un paese vergine; la
natura conserva qui l'aspetto selvaggio e il popolo la spontaneità dei suoi istinti".
A proposito degli istinti dei Foggiani, però, più dettagliate informazioni sono
sicuramente reperibili nei rapporti pubblicati sul Giornale dell'Intendenza dai
funzionari locali di polizia, che, alle prese nel Capoluogo con un perenne stato
di tensione sociale, erano costretti ad intervenire con frequenza, per arginare o
prevenire ogni tipo di reato contro persone e cose e, soprattutto, il furto,
considerato una pratica quasi legittima per superare le difficoltà della vita. "Chi
ara diritto, muore disperato", suonava, appunto, un proverbio locale che
ammoniva contro i disastrosi risultati dell'onestà; così tutti si davano
174
da fare, con maggiore o minore destrezza, a danno degli incauti forestieri. Tra
gli altri ne fece le spese lo scrittore Paul Louis Courier, il quale lasciò una
risentita memoria del danno subito nelle sue Lettere dall'Italia, dove scrisse: "a
Foggia, cioè in terra latronum, pullulano i ladri, ed è un'arte il rubar così onorata
e profittevole, e senza pericoli, che tutti la voglion fare". Accanto al furto, l'altra
risorsa locale più diffusa, anch'essa ai limiti della legalità, era "Pontescuro": un
vicoletto insignificante, eppure arcinoto ai Foggiani ed a tutti gli abituali
frequentatori della città, perché vi avevano eletto il proprio domicilio un gran
numero di professioniste dell'amore, di qui, quel continuo e lucroso viavai, che
suscitò nel Longano dapprima curiosità e subito dopo scandalizzata condanna.
E non aveva visto ancora tutto. Pontescuro, infatti, non rappresentava a Foggia,
pur essendo la più conosciuta, l'unica sede dei proficui traffici amatorii;
tutt'altro, pochissime erano, al contrario, le vie che non li ospitavano, così,
almeno, assicurava il frate Manicone, solitamente bene informato, il quale, anzi,
rimase talmente scosso dagli spregiudicati e scollacciati costumi delle donne
foggiane, da immortalarle, nella sua Fisica Appula, con la colorita immagine di
"femmine briffalde abituate a passare con naturalezza da una mano all'altra".
Foggia, però, era anche una città che, nonostante tutto o forse proprio
per quello, amava divertirsi: è un aspetto del suo carattere, cui immancabilmente fanno cenno quanti la visitarono, da Charles Didier a Cesare Malpica a
Juliette Figuier a Charles Yriarte a Georg Amold Jacobi, e messo in evidenza,
meglio di altri, dal Manicone che annotò: "non si può descrivere l'ardore, la
frega e la voglia spasimata che hassi qui dagli uomini e dalle donne, dai ricchi e
dalla plebe per le feste e gli spettacoli". E, in effetti, ogni avvenimento
diventava subito pretesto di baldoria generale e accadeva, così, che i Foggiani,
solo per il piacere di spassarsela a spese di qualcuno, festeggiassero con
naturalezza e pari entusiasmo i Francesi di Championnet ed i Sanfedisti di
Ruffo; le truppe di Napoleone e quelle dei Borboni; Francesco II di Napoli e
Vittorio Emanuele II di Piemonte. Insomma, in nessun luogo come a Foggia,
l'antico adagio "Francia o Spagna basta che si magna" trovò più entusiasti
sostenitori.
La vera passione cittadina, però, come sottolineano Cesare Malpica e
Juliette Figuier, era il teatro: i drammi buffi in musica e le commedie in prosa
venivano, di tanto in tanto, rappresentati anche da compagnie di buon
175
livello artistico provenienti dalla Capitale, i cui spettacoli riscossero
l'approvazione di autentici esperti, come il commediografo parigino Paul
Bourget che scrisse nelle Sensations d'Italie: "qualche sera, a Foggia, avevamo la
risorsa del teatro. Gli attori, e soprattutto le attrici, avevano una estrema
semplicità di tono e la loro interpretazione era così naturale, che facevamo
fatica a pensare ad uno spettacolo". Questo gusto per le rappresentazioni si era
educato, a Foggia, nel corso del Settecento, quando in città aveva funzionato
addirittura un'orchestra stabile che, mantenuta a spese del Doganiere,
organizzava periodicamente concerti e spettacoli in musica; per la prosa, invece,
nello stesso periodo funzionava un teatrino lercio e sporco, minuziosamente
descritto dal Manicone. Nel corso dell'Ottocento, invece, e soprattutto nella
seconda metà, furono operativi almeno quattro edifici teatrali, diversamente
importanti: accanto al più prestigioso, l'attuale Giordano, c'erano il Politeama,
costruito in legno, e l'Olimpia e l'Eden Parisien, autentici baracconi e, si direbbe
oggi, sale a luce rossa, data la natura degli spettacoli che ospitavano. Finirono
ambedue, verso la fine del secolo scorso, nelle fiamme.
Oltre al teatro, Foggia non offriva come occasioni di svago che
"Pontescuro", il vino e il gioco d'azzardo: molte le cantine, più o meno sordide,
e, ai primi dell'Ottocento, addirittura un casinò, segnalato da Paul Louis
Courier e confermato da Carlo Maria Villani, ubicato, con l'autorizzazione
dell'Intendenza, presso il palazzo del marchese De Luca e gestito dai soliti
forestieri, sempre pronti a speculare in Foggia, data l'assenza di qualsiasi
concorrenza imprenditoriale. Non a caso il regolamento della casa da gioco
vietava l'ingresso a domestici, artigiani, operai, contadini; insomma alla quasi
totalità dei Foggiani. Essi, però, non si persero d'animo e, manifestando uno
spirito d'iniziativa sino ad allora sconosciuto, si organizzarono autonomamente:
dovette, quindi, essere proprio in quei lontani anni che il "Totonero" mosse, a
Foggia, i suoi primi, timidi passi, perché, quasi d'incanto, come informa il
Giornale dell'Intendenza, fiorirono illecitamente riffe, lotterie, botteghini di
scommesse, dove non mancava mai chi, tra un bicchiere e l'altro, fosse
disposto a giocarsi quel poco che aveva su tutto e contro tutti. Alla fine, però,
le risse inevitabili e feroci, indussero l'autorità di polizia a proibire le uniche
evasioni da un'esistenza ingrata che i Foggiani avevano a portata di mano:
l'ebbrezza del vino e l'emozione del gioco d'azzardo.
176
Con quest'ultima nota ha termine l'itinerario, al seguito dei viaggiatori
italiani e stranieri, attraverso quella Foggia sette-ottocentesca che, se si deve
prestare fede alle loro parole, non aveva né aspetto allettante né popolazione
accattivante, pur disponendo, peraltro, di buoni presupposti per poter fornire
una diversa immagine di sé.
Di chi o di che cosa la responsabilità? Senza dubbio dell'indole fiacca e
svogliata dei Foggiani e della scarsa imprenditorialità della loro classe dirigente,
ma, in buona parte, anche di una lunga serie di sfavorevoli circostante storiche,
politiche e sociali che mettevano, con buona pace degli indigeni, nelle mani di
spregiudicati speculatori e imprenditori forestieri ogni risorsa locale,
condizionando, così, lo sviluppo della città e la crescita sociale e civile dei suoi
abitanti.
"Fuggi da Foggia"?, quindi, può darsi; ma gli unici, cui, paradossalmente,
sarebbe convenuto fare le valigie erano proprio i Foggiani, costretti a condurre
una magra esistenza e, per di più, con la beffa di avere a portata di mano
incredibili ricchezze, senza poterne disporre.
Ma, se tanto nera si presentava la condizione foggiana di ieri, com'è
quella di oggi? Insomma, l'antico detto "Fuggi da Foggia" può considerarsi
tramontato, oppure ancora valido?
Antonio Ventura
177
PIAZZE E STRADE DI FOGGIA ANTICA*
E' noto almeno agli urbanisti e agli storici che in Italia e nell'Europa
sorsero nuovi e vari centri a partire dal Mille e fino al secolo XII. Iniziative di
sovrani e di grandi feudatari favorirono l'afflusso nelle loro terre di grandi
forze lavoratrici per valorizzare i loro patrimoni rurali e per difenderli dalle
insidie assai frequenti a quei tempi. Tempi di grande ripresa produttiva ed
economica, ricchi anche di iniziative nei settori dell'artigianato.
Altri centri urbani sorsero per aggregazione spontanea di nuclei familiari
in cerca di migliori fortune. Essi preferirono attestarsi attorno ad un castello, ad
un'abbazia, ad una chiesa e, sovente, lungo una notevole strada o lungo un
fiume, ove cioè erano possibili più rapidi commerci e più facili
approvvigionamenti idrici.
A quei tempi era impensabile una scienza urbanistica normalizzata e
codificata, ma tutto era affidato alla spontaneità delle singole scelte basate
sull'orografia, sulle particolari condizioni dei luoghi e sui vincoli imposti dai
pochi proprietari fondiari.
Un'urbanistica spontanea e popolare, dunque, non pianificata, ma che
obbediva a criteri di buon senso che doverosamente e umilmente dobbiamo
riconoscere ai nostri lontani progenitori.
In ogni caso s'imponeva il "rispetto" verso il potere religioso e verso
quello civile, dal che derivavano ampi spazi (platee) attorno agli edifici religiosi e
a quelli rappresentativi del potere civile.
***
Il "villaggio di Foggia", di cui v'è chiara indicazione in un primo
documento del 1066, venne edificato poco dopo il Mille, se non prima,
* Note tratte dalle opere inedite: FOGGIA, Città territorio e genti (storia
documentata dal sec. XI) (1979) e L'ODOTOPONOMASTICA FOGGIANA NELLA
STORIA (1988)
179
quando i lontanissimi discendenti degli Arpani si erano ormai sparpagliati per
varie contrade vicine e lontane e non rappresentavano più una progenie con
proprie caratteristiche tradizionali. Il menzionato documento fa riferimento
generico anche alle chiese del villaggio, invero rappresentate da modeste
cappellette senza alcuna pretesa architettonica, dislocate lungo la strada che dalla
novella città fortificata di Troia conduceva all'importante porto di Siponto.
Era l'arteria che si dipartiva, allora, dalla quasi millenaria strada Traiana
negli immediati pressi di Troia e conduceva a Siponto e a Monte Sant'Angelo,
o meglio alla "grotta dell'Arcangelo Michele sul monte Gargano".
Si ha fondato motivo di ritenere che si trattasse della seconda "strada dei
pellegrini" se si tien conto che l'arteria in questione congiungeva quasi per linea
retta, attraverso Foggia e Troia, la città di Siponto col ducato di Benevento,
ultimo baluardo di quei Longobardi da gran tempo votati profondamente al
culto dell'Arcangelo Michele.
Lungo la stessa strada, specie nella tratta da S. Cecilia a Fazioli, non
mancavano chiesette e cappelle votive, né "hospitali" per i viandanti e, quindi,
per i pellegrini. Un "hospitale" era proprio a S. Cecilia, a pochi chilometri da
Foggia verso Troia, ed altri due almeno erano presso le chiese di S. Giovanni
Battista e di S. Marco, quest'ultima a pochi chilometri da Foggia verso Siponto.
E poi v'erano a poche centinaia di metri tra loro le chiese di S. Tommaso, di S.
Elena, di S. Andrea, del Sepolcro e di S. Lazzaro, quest'ultima pure sulla strada
per Siponto, all'altezza dell'attuale cimitero.
La tesi per la quale l'odierna via Arpi, la prima "platea" di Foggia,
sarebbe stata un tratto della seconda "strada dei pellegrini" acquista ancor più
consistenza per un documento del 1132 che cita la chiesa di S. Leonardo "que
sita est in territorio dicte civitatis (ossia Siponto) iuxta strata peregrinorum inter
Sipontum et Candelarium".
In ogni caso il "villaggio di Foggia", successivamente detto anche "S.
Maria in foce e S. Maria de Fogia e de fovea" a seguito del ritrovamento del
sacro Tavolo dell'Iconavetere, erasi attestato lungo una grande arteria stradale e
attorno alla chiesa di S. Tommaso, in luogo ove i "villici", dediti all'agricoltura,
all'artigianato e alla pastorizia, avevano la possibilità di facili approvvigionamenti
idrici mediante pozzi che pescavano in acque freatiche poco profonde.
180
Un'oasi, il villaggio, un'oasi come tante altre sorte dopo il Mille nella
Capitanata piana ancora invasa in tante zone da acque stagnanti e percorsa da
torrenti il cui regime nessuno provvedeva a regolare.
Al centro dell'abitato era la chiesa di S. Tommaso ubicata, come ancora
oggi, a margine della strada (oggi via Arpi) che, all'epoca, era chiamata "platea"
e "platea magna": piazza e piazza grande, con tracciato da nordest a sud-ovest
quasi come il noto "cardo" di origine romana. Trasversalmente, lungo la
facciata della chiesa, prima parrocchia foggiana in senso cronologico, si
sviluppava come al presente il "decumano" di romana memoria, oggi
rappresentato da via Ricciardi.
L'abitato non ebbe occasione di espandersi se non dopo l'inizio della
costruzione del nuovo "tempio di S. Maria" (probabilmente dal 1172) su quello
preesistente, e sarà nel primo periodo svevo che il nuovo edificio religioso
(oggi chiesa arcivescovile metropolitana e più comunemente cattedrale) sarà
completato e la città si amplierà sino all'odierna Porta Grande, da un lato, e sino
ad includere la chiesa di S. Agostino (allora S. Leonardo di Foggia) dall'altro
versante di via Arpi, ove trovavasi la Porta di Bassano.
Lo sviluppo urbanistico nel periodo federiciano quasi triplicò
l'espansione della città normanna e si ebbero, pertanto, le nuove "platee" oggi
individuabili nelle piazze De Santis e Pericle Felici, e nelle piazze Federico Il e
Vincenzo Nigri. E, di conseguenza, tante nuove strade di cui restano via
Duomo e corso Vittorio Emanuele II, limitatamente al tratto da Corso
Garibaldi a via Arpi.
La mancanza assoluta di una toponomastica urbana sin dalle origini
dell'abitato non permette un'elencazione specifica delle strade, ma solo quella
dei suburbi o rioni che nella detta epoca erano ben sei: S. Tommaso, Bassano,
Maniaporci, S. Andrea, S. Pietro e Tempio. Le strade elencate nello Scadenziere
e riportate in studi moderni come strade urbane erano, invece, vie extraurbane
come, ad esempio, la "via molendinorum" che andava verso sud-est, e la
"strada del ponte regio" che da Porta Grande menava al ponte sul Celone,
ossia al "ponte regio".
La successiva dominazione angioina, dal 1266 al 1442, non apportò
variazioni alla supeficie totale della città che fu ancora una volta racchiusa tra
mura e fossato verso la metà del Trecento. Le strutture difensive insistevano
praticamente su quelle fatte abbattere dall'imperatore Federico
181
182
183
II di Svevia nel 1230, e comprendevano una superficie urbana allora stimata in
dodici versure.
Ancora nessun riferimento toponomastico nei tanti documenti del sec.
XIV relativi all'interno dell'abitato, ma solo alcune variazioni nella divizione
amministrativa che venne evidenziata attraverso i "pittagi" (o rioni) di S.
Tommaso, di Bassano e di Maniaporci come in passato, e poi con quelli di S.
Maria, di S. Angelo, del Cambio e del Palazzo, secondo la nuova
amministrazione angioina.
Ma già all'alba del sec. XV le "platee" vennero ribattezzate genericamente
"piazze" ed a quelle già cennate si aggiunse la "piazza o strada della crusta".
Dopo i suburbi e i pittagi si ebbe un primo toponimo urbano che stava ad
indicare l'odierna via Campanile, allora ben più ampia, sulla quale affacciava il
palazzo del Cambio, poi della Dogana.
La strada, invero ben più antica, fu allora qualificata "piazza" per fini
amministrativi e fiscali, e traeva o dava il nome al "pectacia cruste", di cui si
trova menzione in un primo documento del 1418.
La sua importanza nello schema viario urbano era notevole se si pensa
che a quell'epoca, e fino alla metà del Seicento, era possibile percorrere in
carrozza l'intero circuito della chiesa collegiata di S. Maria (oggi detta anche
cattedrale) e poi andare, con direzione parallela a via Arpi, sino a "capo la
crusta" (oggi via Pescheria) e in fondo alle "mura della Terra".
Più breve, ma pur centrale e parallela alla precedente, era la "rua de lo
sacco", la quale terminava il suo percorso di fronte all'attuale chiesa del
Purgatorio.
La prima toponomastica urbana, pur avendo carattere spontaneo e
popolare, venne ufficializzata in atti privati che sono arrivati copiosamente fino
ai nostri giorni.
Subito dopo il 1468, quando l'amministrazione della Dogana si trasferì
da Lucera a Foggia sistemandosi nell'antico palazzo del "Cangio", la geografia
dei "pittagi" dovette subire una notevole variazione, poiché successivamente al
trasferimento rimase il "pittagio del Cangio", ma con riferimento all'area
dell'attuale mercato Arpi e fino a via Manzoni. Infatti, gli uffici del Cambio si
trasferirono a loro volta nell'area del mercato, zona posteriore all'odierna
chiesetta di S. Giuseppe, dando nome anche alla strada di accesso che si disse
"strada del Cangio" (oggi vico S. Giuseppe).
184
Nel Cinquecento sorsero nuovi edifici che non modificarono sostanzialmente l'assetto urbano, poiché essi quasi sempre sorsero su aree, centrali e
non, ov'erano anticamente vecchi "casalini".
Alla ripresa dell'attività edilizia fecero riscontro una più ricca
toponomastica e alcune notevoli variazioni nella stessa, quasi a voler indicare le
diverse mutazioni nel tempo. Per l'arrivo in città di un primo consistente nucleo
di zingari, che comunque non erano mancati nel passato, tutta l'area urbana tra
le attuali via della Pietà e via S. Domenico fu detta popolarmente "loco delli
zingari" e via della Pietà fu battezzata "strada delli zingari".
Nuovi toponimi urbani intervennero a modificare le più antiche denominazioni quasi a voler sottolineare la necessità di uscire da una genericità
toponomastica. In particolar modo la prima "platea", poi detta "piazza", ossia
l'asse principale della città, venne "frazionata" e caratterizzata variamente:
"Piazza di Porta Picciola" venne chiamato il tratto antistante i vecchi Ospedali
Riuniti, "Capo la Terra" quello seguente fino all'arco dell'Addolorata (ed anche
l'area urbana più antica), "Capo la Piazza" il prosieguo fino all'odierno vico
Peschi e "strada delli Mercanti" il tracciato più lungo fino a piazza Vincenzo
Nigri. Quest'ultima strada, alla fine del Cinquecento, era detta anche "piazza
Maggiore".
L'anzidetta piazza, a sua volta, a seguito della costruzione del "palazzo
dell'Università", iniziato nel 1547 ed oggi sede del Civico Museo, assunse il
nome di "largo dell'Università", abbandonando quindi per sempre il generico
appellativo "piazza". In diversi documenti, da quest'epoca fino al primo
Ottocento, si trova indicata anche come "piazza Mercantile".
Diversi dei precedenti toponimi resteranno inclusi nel Catasto
provvisorio del 1811 e nella pianta Mongelli del 1839 a significare uno degli
aspetti della continuità storica che caratterizza la città di Foggia.
Sempre racchiusa nelle sue "dodici" versure e caratterizzata da basse
costruzioni civili che di solito non superavano i due piani fuori terra, col nuovo
secolo la città avvertì la grave crisi degli alloggi nel lungo periodo da Maggio a
Settembre dell'anno successivo, e specie nei periodi di fiera primaverile, quando
in essa si riversavano i "locati" e tanti e tanti commercianti dalle più svariate
provenienze.
D'altro canto l'incremento demografico interno e l'imperio della
"Università dei locati" (organizzazione dei proprietari di armenti e di
185
greggi), che col sostegno dell'amministrazione doganale di fatto regolava la vita
cittadina, resero ancor più insostenibile la situazione, poiché l'attività edilizia
venne quasi del tutto bloccata all'estemo delle mura e dei fossato per il veto che
detta "Università" imponeva alle nuove iniziative.
Fuori città, a discreta distanza, v'erano alcuni edifici religiosi quali S.
Francesco e S. Nicola, cui si erano aggiunti nel Cinquecento Gesù e Maria, S.
Maria di Loreto e S. Rocco, nonché alcuni fabbricati civili tra i quali si
distingueva una "taverna con panetteria" su una dolce altura, sulla quale in
seguito sorgerà la "Taverna dell'Aquila", spacciata dai posteri come "caserma di
Federico II di Svevia".
Il Seicento, comunque, segnò la fine delle mura e del fossato, e quindi
l'inizio di una discreta attività edificatoria che interesserà sempre più
sensibilmente l'antico centro storico.
In questo si avranno sopraelevazioni, demolizioni e ricostruzioni, nonché
edificazioni anche su sedi stradali che apporteranno notevoli variazioni in parte
dell'antico schema viario ed urbanistico in genere. All'esterno, nella fascia
suburbana, verranno edificati alcuni edifici, tra cui quelli più significativi noti ai
posteri come "taverna dell'Aquila" e "palazzo della Pianara", in verità chiamato
dall'inizio (poco prima della metà del Seicento) "la Janara", dal nome dell'antico
orto e del pozzo ivi esistenti.
Una prima breccia nelle mura è documentabile al 1628, ma mentre
residui di esse resteranno ancora fino al primo decennio del successivo sec.
XVIII, il fossato sarà occluso in pochi anni per evidenti necessità di traffico
all'esterno dell'abitato.
Scomparve dalla geografia urbana la "rua de lo Sacco", occupata da
nuove costruzioni, e l'antica "strada della Crusta" si restrinse così come oggi è
riscontrabile in via Campanile. L'area innanzi indicata come "loco delli zingari"
non restò immune da variazioni anche per l'edificazione della chiesa del
Purgatorio o dei Morticelli verso la metà del sec. XVII. Ed alle variazioni
urbanistiche ed edilizie corrisposero variazioni toponomastiche.
Oramai, col trascorrere degli anni, non si trovava più il termine
"pittagio" poiché si preferì indicare gli immobili nelle tre parrocchie allora
esistenti. Il "loco delli zingari" era detto anche "contrada delli Morti o de'
Morticelli" e l'odierna via della Pietà venne indicata come "strada delli zingari
vecchi".
186
L'aggiunta dell'aggettivo vecchio si rese all'epoca necessario per
distinguere la strada da quella detta "de' zingari nuovi". Quest'ultima, oggi
denominata via Liceo secondo la topononiastica ufficiale, era nell'area urbana
allora detta "loco delli zingari nuovi" che comprendeva anche via Zingani.
Appare evidente come una seconda cospicua immigrazione zingaresca,
tra la fine del secondo decennio e l'inizio del terzo del Seicento, abbia
influenzato parte della toponornastica urbana i cui termini popolari erano
sempre recepiti negli atti giunti fino ai nostri giorni. Altrettanto evidente appare
l'origine dell'odierna piazza del Purgatorio nella "contrada de' Morti o de'
Morticelli".
A margine degli "zingari nuovi" prese intanto consistenza quella oggi
detta "piazza mercato Arpi" e, avanti la Cattedrale, la "piazza De Santis" sulla
quale affacciò anche la nuova chiesa dell'Annunziata.
Il Seicento, in sostanza, segnò la fine delle medioevali strutture difensive
e, nel contempo, l'accentuazione di una struttura urbanistica medioevale con le
sue tante piazzette, o "larghi", e le tante stradette che ancora oggi caratterizzano
l'antico centro storico.
I prodromi di un'apertura ampia verso nord-ovest si verificarono verso
la fine del secolo con l'inizio della costruzione della chiesa delle Croci; ma sarà il
Settecento, specie dopo il disastroso terremoto del 1731, che segnerà una
nuova tappa decisiva nella storia urbanistica foggiana. In questo secolo
s'arricchirà la toponomastica urbana più che nel passato, ma essa avrà il crisma
dell'ufficialità soltanto nel secolo successivo.
Già nei primi decenni del Settecento la fascia suburbana era costellata di
vari edifici religiosi e civili intervallati da orti e da orticelli. I disastri del
terremoto aggravarono la mai spenta crisi degli alloggi e quindi, scomparse
oramai le mura e allentata per la circostanza la morsa dell'Università dei locati, si
procedette con comprensibile alacrità alle riparazioni dei danni, alle
riscostruzioni e alle nuove edificazioni, queste ultime ovviamente sulle aree
ortive suburbane.
Tanta attività urbanistico-edilizia, non sorretta da una normativa ufficiale
codificata, e quindi quasi sempre spontanea, se non modificò sostanzialmente
l'impianto urbano consolidatosi nel passato, generò non solo il nuovo anello
periferico dell'antico nucleo normanno-svevo, ma anche nuove piazze e
ovviamente molte nuove strade e vicoli. Alcune, le
187
più importanti, si svilupparono lungo i tracciati delle antiche strade che
portavano ai centri abitati viciniori; altre lungo i confini tra gli orti privati ed
altre ancora vennero generate dalla "fantasia urbanistica" popolare.
Non potendosi in questa sede ampliare il discorso sull'argomento,
limiterò gli accenni ai casi più importanti iniziando proprio dal nuovo anello
che, allora, comprendeva verso ovest la "strada di Civitella", la "strada de'
Sassi" e quella dell'Epitaffio lungo il tracciato dell'odierna via Manzoni; mentre
a sud-est l'attuale corso Garibaldi veniva distinto in "stradone del Seminario" (o
"stradone del SS. Salvatore") e in "strada o piazza di Portareale".
Quest'ultima e l'ampio "largo Palazzo" (per la presenza del nuovo
palazzo Dogana) divennero allora il nuovo centro politico-amministrativo della
città, nonché il luogo d'incontro e di trattazione degli affari più diversi tra i
cittadini. La città si aprì finalmente verso sud e verso levante superando
decisamente i vecchi angusti confini e spingendosi verso l'attuale piazza del
Carmine e verso la chiesa e il convento di Gesù e Maria. La funzione e
l'importanza dei nuovi "quartieri o rioni" meridionali furono decisivi ai fini
degli sviluppi urbanistici futuri, e comunque tali da eclissare per sempre i rioni o
borghi sorti nello stesso periodo dalla banda opposta: il "rione delle quattro
corsee" e i borghi di "S. Eligio" e delle "Croci" gravitanti sulla nuova piazza
antistante la chiesa monumentale, oggi piazza S. Eligio.
La differenza si avverti in modo immediato attraverso la tipologia
edilizia: nei borghi quasi tutte "baracche di fabbrica" che avevano le
caratteristiche degli antichi "casalini", bassi ed umili generalmente; dal versante
opposto l'imponente mole del nuovo palazzo Dogana e le varie "case
palaziate" dei ceti benestanti conferivano all'ambiente urbano un ben diverso
aspetto arrivando ad occultare le tante "baracche" sorte anche in questo settore
della città.
L'antica prima strada, quasi punta nel suo orgoglio e per nulla rassegnata
al declassamento, seppe intanto reagire alla notevole azione centrifuga esercitata
dalla grande espansione urbana. Pur avvertendo qualche variazione
toponomastica nel tratto da via Fuiani all'arco dell'Addolorata, diviso nella
"strada Belvedere" e nella "strada Colauccio", via Arpi conservò "Capo la
Piazza" e la "strada delli Mercanti" a significare ancora il suo predominio
commerciale. La sosteneva periodicamente il limitrofo
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"piano delle fosse", mentre la sede dell'Università, da due secoli sistemata
nell'odierno Museo Civico, contribuiva ad animarla con la sua attività
amministrativa locale.
Vincenzo Salvato
189
LA CIVETTA DAGLI ALTARI AGLI SCONGIURI
Presupposti scientifici
Gli animali in ogni tempo e luogo hanno svolto un ruolo considerevole
nella vita e nel pensiero dell'uomo. I rapporti tra uomo e animale infatti sono
molteplici, complessi e spesso ambigui: l'animale può essere risorsa, oggetto di
paura, vittima rituale, essere sacro, simbolo sociale; e, in seno ad una stessa
cultura, può essere amato, cacciato, consumato, venerato e idealizzato. Reale o
immaginario è comunque onnipresente nei miti, nelle leggende, credenze e
tradizioni umane e non può essere sottovalutata l'importanza fondamentale dei
legami materiali e spirituali che esso ha con l'uomo, come dimostrano certi
poteri soprannaturali di cui si credevano dotati certi animali, divenuti simboli o
emblemi, che persistono in associazioni ancora oggi attuali, per esempio:
aquila/immortalità, leone/forza, volpe/astuzia, civetta/saggezza, etc. D'altra
parte neanche il cristianesimo è privo di simboli animali, basti pensare alla
colomba, all'agnello e di certo questo simbolismo affonda in remote antichità.
Tuttavia gli uccelli, in particolare, era naturale che fossero considerati
dagli antichi messaggeri del volere degli dei, perché volando, possono trovarsi
più in alto degli uomini e più vicini agli dei del cielo (Omero, Odissea, XV-v.
531).
Le loro voci, i loro voli ed i loro movimenti venivano osservati con cura
ed imperava la convinzione che essi potessero predire le sorti degli uomini. Gli
scrittori greci e latini dell'età classica hanno tramandato molte osservazioni
preziose in merito e nell'età successiva gli uomini continuarono a considerare gli
uccelli, in particolare i rapaci, come vaticinatori delle loro sorti e delle
condizioni del tempo.
I rapaci, ad uno stadio originario della cultura, erano considerati totemici,
ad essi venivano conferite caratteristiche particolari, ed erano temuti in quanto
venerati.
Il totemismo costituisce uno stadio dell'evoluzione cui l'umanità è
passata, e dal quale si sviluppano sistemi religiosi più perfezionati; in ogni
191
caso costituisce una delle forme possibili del rapporto ritualizzato dell'uomo
con la natura.
Per cercare le basi di certi miti nelle realtà del passato bisogna risalire alle
loro radici storiche, perché il mito è un prodotto della mentalità che a un certo
punto decade nel mondo popolare nel momento in cui avviene il passaggio da
una civiltà all'altra.
Seguendo le grandi fasi storiche ni tese naturalmente anche come fasi
economiche, secondo la scuola formalista, e cioè la prima fase, quella della
caccia e raccolta, la seconda fase, quella della agricoltura e quindi dell'allevamento, la terza fase, quella della navigazione, del commercio degli
scambi, ne deriva che, passando da una fase all'altra, questi animali totemici
perdono il loro primitivo significato e ne assumono un altro.
E questo è quanto avviene per la civetta, simbolo di saggezza, sacro alla
dea Atena, animale funzionale a quel tipo di società arcaica; poi evolvendosi la
società e legandosi ad altra economia, cambiando i costumi e le religioni, essa si
ripropone con una diversa funzione, anche perché nel frattempo la scienza e la
saggezza conoscono altri parametri; si sfaldano gli antichi elementi e la civetta
viene ridimensionata.
Se originariamente gli animali non erano dominabili da parte dell'uomo
si avvia poi, sia pure per gradi, un processo di domesticamento, per cui, ad un
certo punto compare, non a caso, la raffigurazione del cavallo alato,
considerato elemento legato al passaggio dalla fase della caccia a quella
dell'agricoltura.
Engels a questo riguardo scrive: "Il basso sviluppo economico del
periodo preistorico ha come integrazione, e talvolta come condizione e persino
come causa, una rappresentazione inesatta della natura". Da ciò deriva che uno
stesso motivo considerato nel tempo subisce una evoluzione (nel caso della
civetta una demitizzazione) per cui il motivo si trasforma in quanto calato in un
nuovo ambiente storico.
E' chiaro che una nuova economia introduce immagini nuove e queste
nuove forme creano anche nuove religioni. Quindi il cavallo alato subentra nella
nuova cultura quando gli uomini cominciano ad addomesticare gli animali.
La sostituzione dell'uccello col cavallo mostra chiaramente come il
nuovo animale assume le funzioni religiose dell'antico; ma questo cavallo
conserva in parte l'origine del mito al punto che presenta ali di uccello.
192
In poche parole si verifica l'assimilazione di un animale con l'altro.
Il cavallo assume non solo gli attributi dell'uccello (le ali) ma anche le sue
funzioni e come animale totemico ha di conseguenza la sua forma magica.
Presso i popoli primitivi gli uccelli, soprattutto i rapaci e in modo
particolare l'aquila, si rappresentano come trasportatori di anime, per cui si
ritiene che quando l'uomo muore l'uccello trasporta l'anima nel regno dell'aldilà.
Questa credenza ha avuto un riflesso in Egitto, in Grecia e poi anche a
Roma, dove, quando morivano gli imperatori, si liberava un'aquila affinché
portasse in cielo l'anima del sovrano.
E' doveroso aggiungere che, nell'immagine degli angeli alati, abbiamo nel
cristianesimo gli ultimi residui di questa credenza.
Man mano che l'uomo si impossessa della natura e della produzione,
svanisce il carattere magico di questi animali, come conseguenza dei mutamenti
nella vita economica e nel regime sociale dei popoli.
Testimonianze
Testimonianze sulla civetta in campo mitologico, letterario, folklorico e
linguistico, dimostrano appunto il passaggio dalla sacralità alle fantasie
superstiziose di questa straordinaria abitatrice della notte, che indubbiamente ha
una natura misteriosa e spettrale a causa del suo silenzioso volo da fantasma,
dell'agghiacciante verso lamentoso, degli espressivi dischi facciali, e degli occhi
di fuoco, che provocano nell'uomo, orinai lontano dalla natura, un senso di
brivido.
Quella della civetta è una voce onomatopeica; uccello dell'ordine Striges,
(cui appartengono come è noto, anche i gufi, gli allocchi e i barbagianni), dalla
voce scientifica Athene noctua, vive di preferenza nelle macchie e nelle
campagne alberate in prossimità dell'abitato, ma si stabilisce anche sotto i tetti
dei casolari e, in città, sulle torri e sui vecchi edifici in genere. Rapaci di abitudini
notturne, si ciba di topi, di pipistrelli, e di piccoli insetti e per questo può dirsi
animale utile all'agricoltura; infatti la legge italiana sulla caccia ne vieta l'uccisione
in qualsiasi tempo e ne permette la cattura soltanto a scopo di zimbello.
193
Infatti, avendo la facoltà di attirare a sé piccoli uccelli, la civetta può
essere addestrata molto bene a tale uso e viene adoperata specialmente per la
caccia alle allodole che durante il giorno volano eccitatissime nel luogo dove si
trova la civetta per una particolare idiosincrasia.
Buffa nel nome e nell'aspetto, per i suoi trascorsi leggendari e per le sue
mille sfaccettature simboliche, è stata amata e accettata da saggi e da
collezionisti, e, a partire dalla Grecia antica, per arrivare alle tradizioni dei
popoli nordici, in particolare degli anglosassoni, sino alle creazioni di Walt
Disney, i simboli di questo affascinante strigiforme si intersecano e si diramano
in un dedalo di significati diversi e tuttavia complementari.
Le civette sono animali saggi, come affermano i mitologi, e tendenzialmente solitari come sottolineano gli studiosi del comportamento animale;
amano la privacy, se ne stanno appartate e vedono dove noi uomini non siamo
in grado di vedere, cioè al buio.
La civetta però nella lingua italiana si identifica tanto con la signora della
notte che in quella dei salotti e diventa sia sinonimo di bello, grazioso, che di
ammiccamenti a causa del suo curioso contegno che fa pensare a movenze
adescatrici.
L'Athene noctua presenta infatti buffi atteggiamenti ma nello stesso
tempo è fiera e posata come un vecchio saggio; è un personaggio schivo, e
l'essere schivo è un carattere che ben si affianca alla saggezza; vive la maggior
parte del suo tempo in perfetta solitudine, a meditare, a scrutare nella notte e a
cacciare.
Tuttavia già nel 1494 il Poliziano intende con "civettare" l'arte dell'attirare
gli uomini attraverso moine; e ancora prima Giovanni Boccaccio adopera il
termine zimbello col significato figurato di lusinga, oltre che per denotare le
civette quali uccelli di richiamo.
Da ciò la derivazione del termine zimbellare, usato sia per indicare
l'adescamento con lusinghe, che la caccia con lo zimbello.
Le civette hanno quindi fama di seduttrici.
Nel De natura animalium di Claudio Eliano, scrittore romano del tardo
impero, a proposito delle civette si legge che queste sono simili alle donne
dedite a stregonerie e incantesimi, e che grazie a misteriosi artifici sono in grado
di attrarre gli altri uccelli. Il presupposto scientifico di Eliano è che la civetta,
con abile trasformismo, è in grado non solo di dare al proprio volto infinite
fogge, ma addirittura di mutarlo sino ad assumere le sembianze
194
della preda prescelta, la quale ammaliata dalla metamorfosi, cade nelle grinfie
del rapace.
In Eliano dunque sono già perfettamente costituite quelle connessioni che
faranno della civetta una femmina incantatrice e della civetteria un'arte
maliziosa. D'altra parte si ritrovano tracce analoghe già nei miti greci: qui la dea
Calispo, figlia di Atlante, unica abitante dell'isola di Ogigia, dimorava in un
antro movimentato, tra l'altro, anche da gufi e civette, che erano, appunto, il
suo emblema. Ella tentò, come sappiamo, in tutti i modi di attrarre a sé il
naufrago Ulisse, prospettandogli un'esistenza dedita agli ozi e protetta dagli dei;
il concetto di civetteria quindi si andava già fatalmente affermando.
Per la civetta l'oscurità è solo una variante del giorno, nel corso della
notte, infatti, pare che a lei tutto sia concesso, anche scorgere certe minuzie, certi
particolari, che a noi non è dato di discernere.
Questi uccelli vedono la luce 192 milioni di anni fa, formandosi dalla
carcassa di piccoli dinosauri; 235 milioni di anni fa compaiono i primi
strigiformi; a quell'epoca infatti risalgono i più antichi fossili ritrovati con
caratteristiche ascrivibili all'ordine dei rapaci notturni. Il primo contatto
documentato tra l'essere umano e gli strigiformi si ha nel paleolitico. Infatti, lo
storico romeno delle religioni, Mircea Eliade, afferma che un certo Abbé Breuil
trovò sulle pareti della grotta dei Trois-Frères in Francia, un'incisione davvero
curiosa e cioè una figura che battezzata poi "grande stregone" ha la faccia di
gufo e il corpo di uomo.
E' chiara l'idea dei riti propiziatori per accattivarsi questo animale
considerato totemico al punto da associarlo all'individuo. Di questo parla
molto ampiamente l'antropologo inglese Frazer nel Ramo d'oro, uno studio sulla
magia e la religione che sa creare potenti suggestioni. Egli afferma che nella
tribù Wotjobaluk, nel Sud-Est dell'Australia, si credeva che la vita di un
Ngunungunut (pipistrello) fosse la vita di un uomo, e quella di Yartatgurk
(gufo) fosse la vita di una donna, e che ogni volta che fosse ucciso uno di questi
animali, si troncasse la vita di un essere umano; e quando ciò accadeva ogni
uomo e ogni donna della tribù temeva di essere la vittima, e ne derivavano lotte
feroci tra i due sessi. In queste lotte fra uomini e donne la vittoria era tutt'altro
che certa. Questa credenza diffusa nella maggior parte dell'Australia del
Sud-Est probabilmente si estendeva molto più in là ed anche tra alcune tribù di
Victoria il pipistrello appartiene
195
agli uomini e per difenderlo essi arriverebbero quasi ad ammazzare la propria
moglie. Il gufo delle felci (Caprimuglio) appartiene alle donne, e, benché sia di
cattivo augurio e la notte le sue grida facciano paura, esse lo proteggono
gelosamente. Questa protezione non deriva da considerazioni egoistiche ma dal
fatto che ogni uomo e donna crede che non solo la propria vita ma anche
quella di tutti i suoi congiunti sia legata rispettivamente al pipistrello e al gufo.
Ma quando si suppone che la vita degli uomini sia contenuta in questi
animali è evidente che non si potranno più distinguere gli animali dagli uomini e
gli uomini dagli animali, tanto che, recita ancora Frazer "se la vita di mio fratello
è un pipistrello, il pipistrello diventa mio fratello". E allo stesso modo, "se
quella di mia sorella è in un gufo, il gufo è mia sorella e mia sorella è un gufo".
La fonte dei guai e della fortuna della civetta parte dal mito di Ascalafo,
figlio di Acheronte e di Orfne, cioè l'oscurità o la notte.
Acheronte, precipitato nell'inferno al tempo in cui i Titani
guerreggiavano contro Zeus, in questo luogo divenuto sua residenza, ebbe un
figlio, Ascalafo appunto. Costui incautamente rivelò a Zeus che Persefone, figlia
di Demetra, a dispetto del divieto emanato dal signore degli dei, aveva
mangiato sette chicchi di una melagranata, frutto considerato proibito.
Demetra indignata per la delazione trasformò Ascalafo in civetta,
pensando di fargli un dispetto, in realtà cominciò così la sua fortuna perché era
in grado di "vedere" nella notte. Così le civette diventano le fedelissime della
dea Atena e tengono ben aperti gli occhi per lei durante il riposo di questa.
Atena dunque affida alle civette la supervisione delle faccende notturne.
Infatti le strigi sono fornite di un occhio telescopico la cui struttura tubolare è
simile a quella dei nostri binocoli.
Ma anche nella simbologia cristiana la civetta vede nella notte più buia
poiché ha negli occhi una forza luminosa che dissolve le tenebre e secondo una
credenza della Francia meridionale e della Spagna questi rapaci alimentano la
loro fonte luminosa con l'olio delle lampade votive per cui vengono chiamati
succhialampade. E a questo proposito in Argentina si racconta ad opera di
Jsmael Moya, autore di un testo sulle superstizioni sud-americane che una
guaritrice vedeva le malattie e di conseguenza le curava, scrutando negli occhi
della sua civettina imbalsamata.
196
Testimonianza ulteriore di questa chiaroveggenza sono gli stemmi
araldici della Gran Bretagna: L'effige di una civetta d'oro in campo verde
rappresenta l'uomo sapiente che vede le cose anche occulte in quanto saggio.
Oscurità, saggezza, luce e vita solitaria; queste le atmosfere e le
caratteristiche che da sempre accompagnano gli uccelli notturni e si intersecano
tra loro. L'oscurità infatti non può essere disgiunta dalla luce e questa è a sua
volta strettamente connessa con la visione che dà luogo alla saggezza. Ma la
saggezza è una dote che si conquista con fatica e non senza invidia.
Allora, dall'atmosfera solitaria in cui vivono le civette scaturisce la
potenza simbolica delle loro spiccate attitudini conoscitive, ma nello stesso
tempo hanno origine anche le più tenaci superstizioni circa le loro virtù
malefiche.
Senza dubbio esse passano la maggior parte della loro vita in aristocratica solitudine e le loro curiose abitudini ed il loro costumi hanno finito con
l'attribuire ad esse un'anima malinconica o addirittura demoniaca proprio
perché abitano spesso i cimiteri.
In certe zone dell'America del Sud bisogna fare gli scongiuri allorché si
incontrano in simili luoghi e allontanarsi subito pronunciando la formula "credo
in Dio e non in vos", allo scopo di evitare il maleficio e respingere il demonio
che ha le sembianze di questo animale.
Quindi la solitudine notturna di un luogo come il cimitero non giova
certo all'immagine della civetta. Per gli stessi motivi di solitudine e di privacy
essa è considerata in Europa, in Asia e in Africa alleata della stregoneria; del
resto anche in America, durante la civiltà pre-colombiana non gode di migliore
reputazione. L'atmosfera di oscurità che predilige e il suo verso dalle molte
tonalità inquietanti non mancano di stimolare i costumi più bizzarri. Nel
Paraguay, ad esempio, ogni qual volta risuonava il canto di una civetta, gli
Araucani si davano un gran da fare nel tentativo di scacciare i demoni.
Allo stesso modo gli Indios, nel sentire il canto cupo di questi uccelli,
ritenevano che coprire di insulti i poveri volatili bastasse per scacciare il male
che portavano con sé. Inoltre sempre a causa della sua predilezione per le
rovine, la civetta viene considerata segnale di imminente distruzione.
197
Una antica leggenda spiega in altro modo l'emarginazione delle civette:
un tempo questo uccello era considerato soave cantore, ma ebbe la sventura di
assistere alla morte di Gesù e da allora il suo destino è stato quello di evitare la
luce del giorno e dalla sua gola non più canti ma versi lamentosi quali "cruz
cruz" che in spagnolo vuol dire croce.
Ma anche al tempo dei romani la fama della civetta non era certo
migliore. Plinio sottolinea che se per caso uno di questi uccelli entrava in
Campidoglio, bisognava sottoporsi a lavacri purtificatori per prevenire
eventuali sciagure e, sempre secondo i latini, Giulio Cesare avrebbe incontrato
la morte che tutti conosciamo perché un gufo, la sera precedente l'assassinio si è
affacciato alla sua camera; ugualmente dicasi per Aurelio Commodo, infatti
prima di morire un gufo era appollaiato nella sua stanza; e la stessa cosa
avvenne anche per Augusto ed Agrippa.
Sempre per le abitudini scontrose delle civette si dice che le loro grida,
che Eliano distingue in nove diverse tonalità, annuncino messaggi nefasti. Maria
Conte nelle Tradizioni popolari di Cerignola dice a questo proposito: "anche la
cuccuvascie col suo grido monotono e triste è lugubre messaggera di morte.
Come nelle altre parti di Italia, essa cova sul fabbricato di fronte a quello in cui
si trova il malato, al suo grido fa eco il pianto disperato dei parenti che,
facendosi il segno della croce ripetono: Biaite addò cove e maile addò cande"
(beato dove cova e male dove canta)". Là dove canta indica il luogo della
morte.
Giuseppe Gigli nelle Superstizioni, pregiudizi e tradizioni in terra d'Otranto
tenta una spiegazione di ciò e dice: "cattivo augurio porta il canto della civetta;
questo uccello, nei nostri paesi chiamato comunemente uccello della morte,
annuncia che qualcuno della famiglia, sulla cui casa si poggia deve morire". C'è
o c'era, quando eravamo circondati di boschi un po' di ragione: le strigi
assalgono di notte le loro prede e le uccidono all'improvviso, quindi
presagiscono la morte.
Inoltre, come afferma Zingaropoli, in L'anima delle bestie, i gufi e gli
allocchi quando fanno una diversione in regioni e case insolite, indicano che ivi
devono morire uomini, perché questi uccelli amano i cadaveri e ne hanno il
presentimento; quindi tali uomini sono già cadaveri in partenza.
Nella pubblicazione Il Folklore italiano del 1932, apprendiamo": la civetta
è risaputo essere stata in ogni tempo uccello di cattivo augurio; eppure da un
autore, Valletta, nella Cicalata sul fascino volgarmente detto
198
jettatura, si legge che erano di buon augurio "aves inauspicatae foribus affixae",
gli uccelli che si attaccavano alle porte e servivano a scacciare il malocchio.
In Animali e piante nella tradizione popolare di Giuseppe Calvia leggiamo alla
voce civetta: "quando canta sul tetto di una casa o in qualche sito dirimpetto è
segno di morte per qualche membro della famiglia. In Gallura il grido di
questo uccello maledetto, che voli in prossimità o sul tetto della abitazione,
dove in silenzio si riposa, incute forte spavento, poiché deve accadere o morte
naturale o assassinio o altra disgrazia. E se la strige passa in direzione di un
dormiente, costui si ammalerà di itterizia".
Bisogna ricordare ancora che nelle rappresentazioni del mondo infernale
c'è un posto per questo uccello, che nella poesia latina ha l'epiteto di feralis; ed
in alcune leggende popolari della Germania e della Scandinavia, la civetta è
considerata spirito dei boschi ed il costume di inchiodare nelle porte delle case
e delle fattorie le civette che si sono uccise, ubbidisce a queste idee.
A questo punto è opportuno smorzare i toni negativi che
accompagnano le civette e cercare invece di intravedere qualche atteggiamento
di benevolenza nei loro confronti riportando la testimonianza di Giuseppe
Gené che nel secolo scorso pubblicava un libro intitolato Dei pregiudizi popolari
intorno agli animali in cui condanna la barbara usanza diffusa in Europa di
inchiodare all'uscio di casa una civetta; uso che imperversava anche poiché si
riteneva che questi rapaci divorassero gli animali da cortile. Gené afferma che le
strigi non sono solo dannose, ma al contrario sono utilissime in quanto
mangiano i topi con maggiore abilità dei gatti ed inoltre cerca di spostare la
diceria che vede le civette messaggere di morte dal momento che cantano sul
tetto delle persone in fin di vita, osservando che nessuno si è mai preso la briga
di considerare i tetti della gente sana sui quali si posano e cantano questi volatili.
D'altra parte tutte le credenze popolari e le presunte ingerenze nefaste di questi
innocui, fieri, e bellissimi uccelli si poggiano su una base piuttosto vacillante,
mentre si può verificare l'opinione di Eliano circa la capacità metereopatica
delle civette. Eliano infatti era convinto che il canto della civetta col bel tempo
annunciasse un acquazzone, viceversa lo stesso canto in una giornata piovosa
annunciasse il sereno. E ne Gli animali nella meteorologia popolare degli antichi greci,
romani e bizantini di Demetrio Krekoukias è riportato che Teofrasto, Arato
199
e Virgilio considerano le voci tranquille della civetta preannunzio del bel tempo,
invece Artemidoro, Plinio ed Avieno di cattivo tempo.
Infatti Virgilio nelle Georgiche (I, vv. 402-3) dice: "Solis et occasum
servans de culmine summo nequiquam seros exercet noctua cantus"
(osservando dall'alto di un tetto il tramonto del sole, senza motivo la civetta fa
sentire i canti vespertini"). E Plinio nella Naturalis Historia "Noctua in imbre
garrula, et sereno tempestate" (XVIII, 362) (cioè la civetta canta quando c'è
cattivo tempo e quando annuncia la tempesta al posto del sereno). Anche
secondo i Geoponici i continui gridi notturni della civetta sono segno di bel
tempo.
Ma il periodo più movimentato e di maggiore prosperità per la civetta
rimane quello dell'antica Grecia.
Come raccontano i mitologi, la dea greca Atena balzò dal cervello di
Zeus, bella e armata, brandendo una lancia d'oro zecchino. Protettrice delle arti
e delle scienze, dea della sapienza e della vittoria, seconda nella gerarchia di tutti
gli dei soltanto al supremo genitore, la bellicosa Atena rappresenta la luce
dell'intelligenza e della ragionevolezza.
Conosciuta dai latini col nome di Minerva, insegnò agli uomini a
navigare, a tessere, a filare e a tenere gli occhi bene aperti. E la civetta divenne il
suo animale preferito.
In quella straordinaria città della Grecia antica che era Atene, le civette.
ben viste e amate in quanto rappresentanti dalla dea, svolazzavano liberamente.
Tuttavia restavano uccelli notturni, ma il loro significato era molto diverso da
quello che avrebbero avuto presso i latini e che la tradizione cristiana avrebbe
poi trasportato fino ai giorni nostri.
Essi, proprio perché simboli di Atena, erano animali lunari, e la luna era
l'astro della conoscenza razionale opposta a quella intuitiva della luce solare.
Quindi con la dea greca la civetta diventa colei che sa distinguere le cose anche
nel buio della notte, che vede dove altri non vedono e i suoi grandi occhi sono
proprio come la luna che riflette la luce del sole ed il suo nome greco
testimonia appunto questa facoltà: glaux, civetta, significa infatti rilucente.
Rapidamente questo uccello diventò l'attributo principale della dea Atena e di
conseguenza l'espressione simbolica della città di Atene. In generale si preferisce
considerare il nome della città formato su quello della dea, perché il culto attico
di Atena sovrasta di gran lunga, per importanza e magnificenza quello che la
dea riceveva nelle altre regioni della Grecia.
200
Quindi l'Attica è il paese favorito della dea, e Atene la città alla quale essa
elargisce tutti i suoi favori e tutti i suoi doni.
In questo periodo la civetta non è ancora presaga di sventure e il suo
grido è solo l'ammonimento che il saggio offre agli scellerati di questa terra.
Nell'antica Grecia un proverbio la dice lunga sulle strigi. "Portare le
civette ad Atene" era il proverbio dell'abbondanza, ma dall'abbondanza deriva
la ricchezza e così sulle monete ateniesi era raffigurata proprio la civetta ed il
suo nome divenne sinonimo di denaro. Infatti dalla fine del VI secolo a.C. in
poi compaiono nelle monete di Atene al recto la testa di Atena e al verso la
civetta con un ramo di olivo e le prime tre lettere del nome della città. Con
questo tipo di moneta, il tetradramma, siamo alle soglie della tirannide di
Pisistrato tanto che questa monetazione ateniese è considerata una creazione
della tirannide e la produzione di monete con la civetta andrebbe vista come un
deliberato atto politico; quindi al di là di una espressione ideologica essa fu un
atto ben calcolato di politica sociale ed economica. Dopo le guerre persiane, gli
Ateniesi, mantennero il tetradramma, con la testa di Atena al recto e la civetta e
l'ulivo al verso. Alla fine delle guerre, le monete ebbero una leggera
diminuizione di peso, ma i simboli non cambiarono.
Nel 483 a.C. quando le miniere del Laurio dettero improvvisamente un
largo gettito, di gran lunga superiore al passato, si coniarono nuove monete, del
valore di dieci dramme l'una e monete di due dramme; comunque in tutti i tipi
monetali, la testa arcaica di Atena e la civetta e l'ulivo sono sempre presenti;
l'unica variante le ali della civetta aperte o meno.
Michael Crawford in La moneta in Grecia e a Roma sostiene che monete
con le civette, dalle prime emissioni in poi, si trovano anche in Egitto e in
Levante nel IV secolo a.C. Secondo questo autore la monetazione ateniese della
civetta compare nel momento in cui compare anche Atene quale esportatrice
d'argento. L'Atene classica era, per una polis greca, relativamente industrializzata
e avanzata nel commercio; viveva in larga misura della esportazione di merci e
argento e della importazione di grano. Il fatto notevole è che l'origine di questa
attività può essere collegata con l'inizio della monetazione della civetta.
Ma anche sulle medaglie degli Ateniesi si vede spesso una civetta che
posa sopra un vaso, e secondo l'opinione di molti studiosi, i cittadini di
201
Atene, vollero conservare con questo emblema la memoria dell'invenzione dei
vasi di terra. L'uccello è raffigurato anche su medaglie di altre città e
dappertutto sembra testimoniare la sapienza. A supporto di ciò bisogna
ricordare una medaglia di Costantino, in cui appare una civetta, accompagnata
dalla legenda: "Sapientia principis providentissimi".
Filostrato, nella vita di Apollonio, dice che anche gli Egizi rappresentavano, con il nome di Neith, Atena sottoforma di una civetta e adoravano e
onoravano a Saite la dea con un culto speciale.
Ma la civetta era attributo, oltre che di Atena anche del divino medico
Asclepio, figliolo della dea, che dalla madre aveva ereditato oltre la sapienza,
anche la passione per questo animale e forse per questa ragione gli indiani
Kiowa sono convinti che esista un rapporto tra medicina e civetta arrivando a
sostenere che i medici dopo la morte si trasformano in gufi.
Ed il gufo è anche uno dei più antichi simboli cinesi.
Uccello araldico, quindi, venerato in numerose località, non si può
dubitare che la sua origine sia pre-ellenica ed il suo legame con la saggezza, la
scienza, la prudenza e la vigilanza consolidato sia dalla tradizione cristiana, che
malgrado l'avversione agli animali notturni, assume la civetta a simbolo di
eternità e di immortalità dell'anima, e sia dalla tradizione medioevale in cui la
civetta risente dall'influsso del periodo greco; nei monasteri essa infatti viene
intesa come ideogramma della meditazione ed è considerata alla stregua del
monaco saggio immerso in profondi studi. Non a caso tanti ex-libris e
frontespizi scelgono la civetta appollaiata sui libri come emblema. La collana
"Les Belles Lettres" ne è un esempio.
E questo è il clou della difesa.
Ma alla civetta vengono attribuite anche virtù portentose per le
operazioni magiche. Una frittata delle sue uova guarisce dall'ubriachezza; il
cuore ed il suo piede destro posti su un dormiente gli faranno svelare tutti i
suoi segreti, il suo fegato, appeso ad un albero, è un potente richiamo per gli
uccelli. Dal Dizionario di scienze occulte di Pappalardo si ricava che varie parti del
suo corpo servono alle manipolazioni delle streghe ed il suo brodo è
considerato filtro base per i più efficaci sortilegi. D'altra parte Ovidio non
trascura di enumerare gli ingredienti della pozione diabolica preparata da
Medea ai danni di Esone: tra i più significativi, fanno comparsa un paio di
"malagurate ali di civetta" che evidentemente dovranno servire a rinfor202
zare la vista del vecchio Esone il quale, bevuto il filtro, ringiovanirà di una
quarantina d'anni. Le sue uova si rivelano ottima terapia contro numerosi
fastidi: la zuppa di uova cura l'epilessia, per rinforzare i capelli deboli l'uovo
deve essere applicato sotto forma di impacco.
Frazer riporta che, essendo la vista acuta caratteristica peculiare delle
civette, è evidente che tali animali possono trasmettere a chi li mangia la capacità
di vedere anche attraverso le più fitte nebbie. E Plinio ricorda che un uovo di
gufo somministrato a una persona ubriaca la riporta alla lucidità.
Filostrato addirittura sostiene che un solo uovo suscita completa avversione al vino. Per queste ragioni si comprende l'ostilità nutrita da Dioniso,
Dio del vino e della gioia, nei confronti delle nostre amiche. Anche Ovidio ne
era a conoscenza, visto che l'inimicizia ben traspare dalla storia di Alcitoe,
Leucippe e Arsippe. Le tre giovani e laboriose sorelle, infatti si rifiutano di
sospendere il lavoro per andare alle feste in onore di Dioniso, preferendo
piuttosto continuare la tessitura ed il ricamo; faccende queste, guarda caso,
proprio sacre ad Atena. Il dio offeso perché non gli vengono tributati i dovuti
onori, piomba come una furia sulle ragazze e le trasforma seduta stante negli
odiati animali; vale a dire gufo, civetta e barbagianni; mentre dai telai sbucano
miracolosamente grappoli d'uva.
Attraverso altre testimonianze, restando la notte intera ad occhi
spalancati, la civetta non farebbe altro che opporsi ad una categoria sociale che
la prende proprio come emblema, cioè quella dei ladri. Infatti Artimidoro nel
Onirocriticon afferma che essendo di giorno preda al torpore, sognarla di notte è
presagio di contatti con persone ladre o comunque portatrici di insidie.
Tant'è che ancora oggi in Inghilterra simboleggia l'attività del contrabbandiere. Poiché rappresenta anche la vigilanza, il vigile urbano a Bologna
viene soprannominato gufo e civetta in tutta Italia è detta l'auto della polizia che
fa la ronda, o durante la prima guerra mondiale la nave che veniva camuffata in
modo da non essere riconosciuta. Inoltre foglio-civetta è quello esposto dai
giornalai, cioè il sommario di un quotidiano o di un periodico appeso alle
edicole per attirare l'attenzione dei passanti; e notizia civetta è l'informazione
pubblicata per sondare le reazioni dell'opinione pubblica.
Questo perché la civetta, a causa dei suoi grandi occhi scintillanti e
prominenti, e a causa del suo capo che può rotare in modo tale che, con
203
mossa fulminea, descrive un angolo di 270° diventa involontariamente un
grande comico che gira, volge, spinge in avanti, sposta lentamente, abbassa e
rialza la testa rannicchiandosi o raddrizzandosi allungando il cono.
Questi buffi gesti sono poi sottolineati dal gioco delle penne facciali per
cui presenta i più bizzarri tratti mimici al punto da sembrare vere e proprie
smorfie.
Si giustificano così per analogia le numerose locuzioni e derivazioni
Prima fra tutte proprio il termine "civetta" per intendere donna vanitosa
e leggera che ama attirare l'attenzione degli uomini con atti leziosi e poco
naturali al fine di farsi corteggiare. E quindi "civetteria".Un autore moderno la
paragona ad una donna simile alla dea Flora, dal portamento vivo e leggero,
dagli occhi che risplendono del seducente fuoco del desiderio, capelli che
ondeggiano a seconda degli ostinati capricci, la quale tiene in mano una sottile
reticella, tessuta di astuzie e stratagemmi, e la va agitando continuamente sopra
uno sciame di piccoli esseri, che in breve si vedono cadere ai suoi piedi,
nell'attitudine della collera, della schiavitù e della disperazione. Per estensione
civetteria significa anche insistenza per far notar aspetti caratteristici del proprio
essere o della propria attività.
Ma per civetta si intende anche un ballo greco, che si crede sia stato una
pantomima faceta. E per civettuolo, ciò che è allettante, aggraziato, ridente.
"Per gioco delle civette" gioco di ragazzi ove uno dei giocatori si pone al
centro e cerca di far cadere agli altri il berretto dal capo con una percossa. Questo gioco si fa a suon di musica e prende il nome dalla civetta perché essa
alza e abbassa la testa come appunto il giocatore che sta nel mezzo. "Fare a
civetta" vuol dire abbassare prontamente il capo, scansarsi con agilità per evitare
il colpo oppure spiare furtivamente con ansietà.
"Portare il capo a civetta" significa acconciarsi i capelli in modo vistoso,
e stravagante. Inoltre "civettare" significa letteralmente andare a caccia di uccelli
con la civetta e in senso figurato tentare di ottenere qualcosa con insidia e
inganno. E così "civettino" piccolo della civetta o anche uomo vanesio e
leggero e "civettone" grossa civetta oppure maturo dongiovanni. O ancora
"mangiare come le civette" cioè in fretta e furia senza masticare. E "tenere la
civetta per uccellare i pettirossi" detto che vuol significare guadagnare
ricorrendo ad espedienti.
Molti i riferimenti letterari riconducibili sempre a significati allegorici.
In Machiavelli: "civetta" or quell'amico, or questo, or quel parente".
204
In Gozzano: "tu civettavi con sottili schemi, tu volevi piacermi,
signorina".
In Verga: "quella civetta di S. Agata! andava dicendo la Vespa con la
schiuma alla bocca, tanto ha detto e tanto ha fatto che ha mandato via dal
paese compar Alfio!".
Svevo: "avevo da fare con una fanciulla delle più semplici e fu a forza di
sognare che mi apparì quale una civetta delle più consumate".
Palazzeschi: "dì a questi signori che cosa fai delle tue giornate/digli che
sei tanto civetta/che tutto il giorno ti fai toletta".
Alvaro: "in una successione fantastica vedevo ora i particolari di questa
donna e di altre. La gelosa, la crudele, la timida, la civetta, si succedevano nelle
pose più bizzarre e più contorte". E ancora Giusti: "non date retta a certi dotti
barbagianni, a certi civettoni chiarissimi partigiani della solitudine e del
nottambulismo. Costoro, 99/100, amano il silenzio e le tenebre, perché hanno
muto il cuore e buia la testa".
Pascoli, nei Poemetti Conviviali: "Ma Gryllo avvinse con un laccio un piede
della civetta, e la facea sbalzare e svolazzare al caldo sole estivo...
Ma là, nel sole, molleggiò più goffa sul pugno a Gryllo, s'arruffò,
chiudendo aprendo gli occhi, la civetta, e i bimbi ridean più forte. Onde il
custode: "O Gryllo figlio di Gryllo, tu che sei più savio, dà retta. Sai: codesto
uccello è sacro alla Dea nostra, a cui tu canti l'inno movendo nudo coi
compagni nudi per la città. La nostra Dea sa tutto, ché gli occhi ha grigi, di
civetta, e vede con essi per l'oscurità del cielo..."
E dall'inconscie dita il filo uscì con un lieve urto a Gryllo: e il sacro
uccello della notte in alto si sollevò con muto volo d'ombra.
E i compagni del morto ed i fanciulli scosse un subito fremito, uno
strillo di sopra il tetto, Kikkabau... dall'alto, Kikkabau... di più alto, Kikkabau...
dal cielo azzurro dove ardean le stelle.
E disse alcuno, udendo il fausto grido della civetta: "Con fortuna
buona!".
Nievo: "Questa sfacciatella era la Pisana. Figuratevi! una civettuola di 12
anni non ancora matura, un'innamorata non da terra quattro spanne! " e poi
Montale: "dal verde immarcescibile della canfora, due note, un intervallo di
terza maggiore, il cucco, non la civetta, ti dissi".
Quasimodo: "Uccello raccolto/ la civetta rotea meditazione/, un'ellisse
melodica col becco/fuso e perfetto"/
205
E così via, si potrebbe continuare.
Questo amico volante ha quindi mille risorse.
Dall'inconologia classica, dove fra l'altro rappresenta allegoricamente
anche l'astemio, concettualmente è di conforto, vigile, attento e infaticabile, in
positivo e in negativo, a infiniti valori con sfumature differenti al punto che il
mondo fantastico del mito e quello più duro della realtà appaiono
inestricabilmente intrecciati.
E, per concludere, alcuni versi di Baudelaire tratti dalla raccolta I fiori del
male.
"Sotto i tassi neri che li riparano, i gufi stanno allineati come tante divinità
esotiche, dardeggiano i loro occhi rossi. Meditano.
Staranno così senza muoversi fino all'ora malinconica in cui, allontanando il sole obliquo, le tenebre si stabiliranno.
Il loro atteggiamento insegna al saggio che in questo mondo egli deve
temere il tumulto e il movimento.
L'uomo, ebbro di un'ombra che passa, subisce sempre il castigo d'aver
voluto cambiare posto".
Maria Altobella Galasso
206
MODELLI DI CULTURA E IMMAGINI SOCIALI
NEGLI ANNI '70 E '80
(La Scuola/La Cultura/I Giovani/ Il Costume)
Edgar Morin, parafrasando Santayana, afferma che coloro che non
vogliono rammentare l'esperienza sono condannati a ripeterla.
L'argomento che affrontiamo non vuole essere un revival di fatti e
avvenimenti accaduti negli anni presi in esame, bensì una ulteriore riflessione su
alcuni fenomeni connotativi e interni alla società italiana. Molto si è scritto e
detto del '68, degli "anni di piombo", della crisi delle istituzioni, dell'editoria e
dell'informazione, delle generazioni giovanili e dei loro costumi. Tuttavia,
riteniamo che non è mai esaustivo riflettere sull'accaduto, fare bilanci, capire e
prendere coscienza di fenomeni che tipicizzano l'evolversi dinamico della
complessità sociale. Il ponte tra passato e futuro, trova nel presente un proprio
laboratorio progettuale in cui il meccanismo di sviluppo si concretizza non
sull'ampliamento, ma su ristrutturazioni continue. Venti anni di storia sociale e
culturale sono uno spaccato interessante per chi con gli strumenti dell'analisi
psicosociale tenta di cogliere modelli e immagini che hanno configurato in
modo inequivocabile un periodo di transizione e crisi evolutiva tra il
dopoguerra e l'appuntamento con l'Europa degli anni '90.
Verso la fine degli anni '60 matura in Italia - ma il fenomeno è già
diffuso altrove - una nuova dimensione sociale, che incalza attraverso precise
richieste, in specie per il radicale mutamento che avviene nelle classi sociali che
postulano una revisione dell'assetto strutturale e culturale della società. Lo
scontro con la nuova ed emergente realtà è inevitabile, proprio nel momento in
cui la classe dirigente si ostina a tenere in scarsa considerazione l'opportunità di
modificare l'organizzazione della società, per mettere i giovani nella condizione
di realizzarsi attraverso processi formativi più adeguati ai nuovi tempi, per
rivitalizzare e ristrutturare dall'interno le istituzioni pubbliche.
Si comprende bene come il carattere "mondiale" e la simultaneità delle
rivolte giovanili e studentesche siano la prova indiscutibile di siffatto stato di
tensione che ferve in ogni società, in ogni paese; e tutto ciò mette in
207
risalto anche quanto il mondo sia piccolo, in sostanza, proprio in virtù del
modo con cui le diverse culture vengono avvicinate tra loro dalla rapidità dei
trasporti e delle comunicazioni. Ciò che rende "mondiale" il fenomeno '68 non
è semplicemente la simultaneità delle agitazioni, bensì il fatto che i loro
protagonisti appartengono ovunque alla stessa generazione e presentano
caratteristiche sociali analoghe, individuabili in alcune "regole comuni", fatte di
corrispondenze di idee, di slogan, di tecniche di propaganda, frutto di una
circolazione internazionale, di momenti di scambio e di dialogo tra realtà
differenti. Il sociologo americano Shils, esperto in comunicazioni di massa,
nell'analizzare il fenomeno, parla di un modello narrativo-interpretativo della
circolazione delle agitazioni tra diverse università: da Barkeley a Londra, Berlino
e da esse a Parigi, Bruxelles, Milano e Roma.
Tuttavia, va precisato che il carattere internazionale delle agitazioni
studentesche è da imputare ad una "circolazione per identificazioni"; ed a
distanza di vent'anni affiora in tutta evidenza la caratteristica "generazionale" del
movimento, quale problema storiografico di grande complessità.
La spiegazione è nel fatto che negli anni '60 matura un filone di studi e
ricerche sulla gioventù, promosso da studiosi di psicologia sociale, che
ipotizzano l'emergere di una gioventù apatica, spoliticizzata, quasi totalmente
disimpegnata.
Il movimento studentesco sembra costituire una sfida a tale ipotesi.
postulando una revisione dell'assunto, sollecitando dibattiti, in cui il tema
dominante è il "conflitto con il padre". Da ciò deriva la diffusa interpretazione
configurata nell'etichetta freudiana di "rivolta edipica" attribuita al movimento,
che intende le ribellioni giovanili della fine degli anni ‘60 come un momento
inevitabile, ma passeggero, dello sviluppo di una giovane generazione.
Calandoci nella realtà del nostro paese, oggi una valutazione del
fenomeno '68 è da interpretare come un grande esperimento sociale "in vitro"
in una realtà socio-economica dove l'industrializzazione e il benessere di massa
giungono dopo la guerra. In Italia il '68 viene vissuto in una dimensione teatrale,
di rappresentazioni, con linguaggi irruenti di messa in scena, con un bisogno
molto forte di avviare un mutamento, una nuova comunicazione generazionale
e modelli di comportamento, il cui punto di riferimento è sempre la comunità
dei giovani.
208
Gli anni '70 sono carichi di fermenti e spinte innovative e la scuola è la
prima istituzione ad essere incalzata da ventate innovatrici, che intendono
rifondare il sistema formativo, tanto postulato dai giovani. Viene lanciata una
parola d'ordine: "Cambiamento", per rinnovare dal profondo la scuola e la
società nel suo complesso. Don Milani con la sua Lettera ad una professoressa
diventa il simbolo sul fronte cattolico di siffatto processo di rinnovamento,
mentre sul fronte laico si costituisce il Movimento di Cooperazione Educativa,
che fa capo a Codignola ed alla sua casa editrice La Nuova Italia.
Negli anni '70 vengono alla ribalta per la prima volta temi come "la
funzione sociale dell'educazione", "il rapporto studio-lavoro", "la comunicazione creativa", "il territorio come struttura formativa e laboratorio di
acculturazione". Si parla di insegnanti non passivi trasmettitori di cultura, ma
organizzatori del sapere e analisti di risorse e motivazioni.
Se con i Decreti Delegati si consolida un discorso di apertura della
scuola ad una partecipazione gestionale e culturale esterna, l'inchiesta condotta e
pubblicata con il titolo Le vestali della classe media di Marzio Barbagli e Marcello
Dei denuncia in modo aperto l'universo degli operatori della scuola, che
appaiono molto spesso demotivati nella pratica della professione docente. Il
dibattito nel mondo della scuola negli anni si fa sempre più vivace e, nonostante
le innovazioni, molti problemi attendono soluzioni ancora oggi; tra gli altri
citiamo la non risolta e spinosa riforma della "superiore" ed il conseguente
implicito problema, molto avvertito in ambito giovanile, del rapporto
formazione scolastica-mondo del lavoro ed orientamento universitario.
Fervono dibattiti e sperimentazioni, apertura della scuola alle agenzie e
istituzioni culturali del territorio (Musei, Biblioteche, Teatri, ecc.), la lunga
battaglia sulla riforina dei libri di testo (logorante braccio di ferro tra insegnanti
e industria editoriale!).
Gli inizi degli anni '70 risentono ancora dello shock degli avvenimenti
con cui si sono conclusi gli anni '60. Eventi travolgenti, imprevisti in varie
manifestazioni esterne, con parole d'ordine cariche di portata politica (Vietnam,
Che Guevara, Mao, ecc.). Lo stesso "Maggio francese" è ben più che un
episodio del movimento studentesco: la rivolta giovanile innesca in Francia uno
sciopero generale di proporzioni notevoli. Accanto a dieci
209
milioni di operai scendono in piazza anche gli impiegati, il ceto medio nonché i
tecnici ed i professionisti. Lo stesso "autunno caldo" in Italia esprime la ventata
di protesta verso una società ed un sistema che devono invertire le linee di
tendenza.
Negli anni '71 -'72 l'onda delle lotte studentesche, espressa nelle forme
del collettivismo massiccio, comincia lentamente a rifluire per dar luogo ad una
costellazione di gruppi e gruppuscoli in conflitto permanente tra loro, ma
pronti a rinascere dalle ceneri al primo segnale di rivolta generale.
La storia della nostra società ci ha insegnato che nulla avviene in modo
aprioristico e che a fondamento di ogni evento innovatore, di ogni fenomeno
che scuote gli assetti sociali e li solca vi sono i fermenti culturali, alimenti delle
ideologie, che, a loro volta, determinano e configurano le azioni degli uomini.
La "nuova cultura", che informa i movimenti e le ventate innovatrici, è
quella che si rifà alla Scuola di Francoforte ed ai suoi migliori esponenti:
Horkheimer, Adorno e Marcuse, emigrati dalla Germania hitleriana negli Stati
Uniti, le cui analisi sulla società industriale vengono ora scoperte, tradotte e
diffuse. La Scuola di Francoforte vive una sua imprevista fortuna, dovuta alla
forte compenetrazione di temi dialettici hegeliani (molte avvertiti nella cultura
accademica italiana!) ed alla critica radicale della società industriale moderna,
simboleggiata dagli Stati Uniti; nonché alla scelta di un impegno politico-sociale
a favore dei popoli del terzo mondo e degli emarginati, oppressi dai detentori
della civiltà dell'opulenza consumistica.
Se La dialettica dell'Illuminismo di Horkheimer e Adorno si configura come
critica alla società dei consumi ed all'industria della cultura che la governa, Eros e
Civiltà e L'uomo ad una dimensione di Marcuse giungono in Europa come
strumenti di analisi dirompente e di revisione culturale. E ben attecchiscono in
anni in cui la gioventù occidentale, che frequenta le università, elegge a modelli
di incontaminazione sociale il diseredato, l'emarginato, il povero. Marcuse
aveva già verificato tutto ciò con i propri studenti del campus di Berkeley:
scopre che i "figli" della società opulenta e consumistica amano "protrarre" la
loro stagione della vita. Matura, cioè tra i giovani americani la concezione
dell'adolescenza protratta, del "differimento" dell'impatto con il mondo, dopo
anni di parcheggio/studio nelle superiori e nelle università, per volere capire il
funzionamento del
210
sistema e qual'è il meccanismo che è alla base del principio di "prestazione di
efficienza", postulato dal sistema capitalistico-industriale. Le concezioni
marcusiane trovano un terreno molto fertile: Marcuse definisce nella categoria
dell’"Eros" il piacere, il godimento ed in quello di "Civiltà" la -repressione
addizionale", dovuta al fatto che la società capitalistica e industriale moderna,
per sopravvivere, ha bisogno di produrre e chiede sacrifici che reprimono
l’"Eros", rendono l'uomo irrazionale, mortificando la fantasia e
l'immaginazione. La proposta marcusiana è nel recupero dell’"uomo
unidimensionale" da realizzare attraverso la liberazione dal lavoro alienante di
una società che garantisce da una parte dei beni, dall'altra li sottrae; e che
opprime con i suoi ritmi produttivi intensi, con le sue richieste di consenso e
integrazione in un mostruoso ingranaggio che priva l'uomo di spazi da gestire
in autenticità. E' in questa analisi delle società moderne che matura la ideologia
marcusiana del "Gran Rifiuto al Sistema", per salvare l'uomo dall'integrazione
ed omogenizzazione di massa.
Una sorta di postulato anarchico che viene sposato dalla cultura dei
movimenti giovanili di quegli anni; che se da una parte è servito per costruire
proposte innovative, dall'altra ha registrato esisti negativi, provocando
fenomeni deteriori, come quelli, ad esempio, avvenuti nel nostro paese, della
violenza alle Istituzioni nelle forme della "P 38" e della lotta armata allo Stato
delle "Brigate rosse".
La diffusione dell'ideologia marcusiana e delle teorie della Scuola di
Francoforte non sono l'unico elemento connotativo della revisione culturale di
questo ventennio. Un ruolo determinante è giocato dalla presenza/ pressione di
fenomeni emergenti, quali, ad esempio, il grande mercato che attiva l'industria
culturale e la diffusione dei mass-media. Agiscono e si moltiplicano vecchie e
nuove strutture culturali: biblioteche in ogni comune, in ogni scuola, edicole di
giornali più diffuse, sale cinematografiche, televisore in ogni abitazione,
l'editoria di massa. Superata la fase delle enciclopedie "popolari", delle
"summae" a dispense, del libro tascabile da potere acquistare in edicola insieme
al quotidiano, l'industria editoriale intraprende in questi anni più ambiziose
iniziative, per soddisfare nello stesso tempo livelli diversi della nuova scala
produttivo-distributiva. Tuttavia, se da una parte si allarga la sfera delle
possibilità degli acquisti culturali, dall'altra non corrisponde un allargamento
della sfera della
211
lettura. Per cui, se nel centro e nel nord del paese il mercato editoriale in buona
misura tira; nel Mezzogiorno, nonostante la presenza di case editrici come la
prestigiosa Laterza e le nuove Dedalo e De Donato, nonché la Sellerio di
Palermo che si indirizza, sotto la guida culturale di L. Sciascia. a lettori raffinati,
nulla avviene di nuovo.
Molti acquistano libri con l'intento dell'arredo delle pareti domestiche e,
fatte salve alcune fasce di classi sociali e i giovani universitari, gli indici sulla
lettura sono molto bassi.
La "repubblica delle lettere" registra, un fenomeno alquanto singolare: da
una parte abbiamo l'assalto agli Oscar di cultura che in veste economica
riproducono la gloriosa collana mondadoriana della Medusa (un Oscar in un
solo giorno può bruciare una buona fetta di tiratura che normalmente con una
novità si esaurisce in alcuni mesi!); dall'altra prende piede il best-seller di
"qualità", in specie se rivestito della fascetta che lo segnala selezionato in qualche
premio. Così, negli anni'70 abbiamo Paura e tristezza dì Cassola (Einaudi) con
180.000 copie; Ritratto in piedi della Manzini (Mondadori) con 152.000 copie; I
cieli della sera di Prisco (Rizzoli) con 115.000 copie; sino a giungere alle 600.000
copie de La storia della Morante (Einaudi) ed agli inizi degli anni '80 al Il nome
della rosa di Eco (Bompiani) con 856.000 copie.
Chiaramente tutto ciò è solo un aspetto: ve ne sono altri nel mercato
editoriale, che sono legati alle arretratezze e ritardi di una società che vuole
diventare dinamicamente moderna.
Dietro le classifiche commerciali del best-seller letterario e dell'Oscar si
delinea una vasta area di non-lettori o di lettori di sottocultura. Per cui, "chi
legge" e "che cosa si legge" o "chi acquista quali libri legge" continua ad essere
oggetto di dibattito e analisi che devono necessariamente tenere conto della realtà
di un paese che al suo interno negli anni '80 continua a contenere sacche di
arretratezza socio-economico-culturale e che, nonostante la scolarizzazione di
massa, registra ancora tassi di analfabetismo nonché fenomeni di dispersione
scolastica. Il foglio n. 35 dell'ISTAT riferisce che nel 1970 in Italia la tiratura dei
libri è di 108.605.000 copie, una media, cioè, di n. 2 libri per ogni cittadino; nel
1980 è di 172.860.000 copie, ma la media percentuale non cambia.
Le relazioni ISTAT riferiscono anche dei generi tra i più letti, così
nell'ordine: erotici, fantascienza, gialli, neoromantici, teleromanzi, rosa
212
costume, astrologia e scienze occulte, best-seller, saggistica varia. Una inversione
di tendenza prende avvio intorno al 1982: il romanzo best-seller entra in crisi,
mentre si registra un incremento della "varia" (libri per il tempo libero, di
viaggi, di giardinaggio, di cucina) e di una certa saggistica di diverso livello (da
Ronkey a Pansa, da Bocca a Alberoni, Biagi e Luca Goldoni), nonché le
biografie.
Negli anni '70 entra nel vivo il dibattito su le nuove forme di politica
culturale; ed alla democratizzazione della cultura degli anni '60 si contrappone la
"democrazia culturale", vale a dire l'intervento diretto delle istituzioni in un
processo di decentramento e pluralismo. In realtà, la nuova linea di tendenza
non è quella di decentrare la cultura dalle grandi città ai piccoli comuni, bensì di
attivare iniziative coinvolgenti più cittadini ai banchetti di cultura, per sollecitare
le capacità creative collettive. Il Progetto '80 indica per la prima volta tra gli
impegni della programmazione economica la spesa per la promozione della
cultura, da perseguire con il controllo sociale dei mass-media e con la creazione
di interventi in ambito territoriale. I sociologi Bechelloni e Rositi nel Convegno
sul "Decentramento culturale in Italia", organizzato dalla Biennale di Venezia nel
1976 definiscono il "decentramento" come allargamento della base dei
produttori di cultura. Le Regioni, i Comuni, la Province si fanno promotori di
una miriade di iniziative: dal teatro in piazza, ai concerti negli stadi ed ai Festival
di musica jazz delle "Estati culturali", sino a mostre d'ogni genere, a
programmazioni di film d'autore ed ai revival della cultura locale-tradizionale.
Vi è un pullulare di cooperative teatrali, di gruppi di animazione, di cooperative
di arti visive che gestiscono in appalto i programmi promozionali degli Enti
locali. Un esempio vistoso è quello di Nicolini a Roma, che punta con una serie
di iniziative a contestare l'emarginazione sociale e culturale dei giovani nella
Capitale. Come spesso accade, molti di questi interventi sono gestiti e
programmati in modo selvaggio e nella prospettiva di fare crescere il consenso
elettorale di questo o quello Assessore alla cultura di turno, rivelandosi poco
incisivi e incapaci di innescare positivi meccanismi di crescita culturale.
Si sono profusi nel nome della cultura centinaia di milioni appartenenti ai
cittadini contribuenti che sono serviti, nella maggiore parte dei casi, a foraggiare
questo o quel gruppo teatrale o musicale, o a dare assistenza a cooperative di
improvvisati professionisti dello spettacolo.
213
Un fenomeno interessante si registra verso la fine degli anni '70 nei
generale clima del costume culturale italiano: il tanto conclamato "impegno
politico" va ormai attenuandosi in modo notevole, mentre si rilancia la vita
quotidiana ed i suoi valori: in breve, si ritorna al "privato".
Il sociologo Francesco Alberoni coglie l'importanza di un dibattito,
sorto intorno al 1978, sull'amore e l'adulterio (v. inchieste di Panorama. di
L'espresso); ed afferma che non esiste un netto contrasto tra momento collettivo
e politico e momento personale, per cui nel campo dell'amore
l'innamoramento appartiene alla stessa classe dei movimenti collettivi. Dice,
infatti, che l'amore è speranza, è rottura con il passato e nel contempo sua
memoria, ricrea il mondo attraverso la necessità di unione e fusione e quindi, si
concretizza come progetto. Se l'ondata femminista sessantottina ha elevato a
primato la politica e nell'apparenza ha provocato la frattura tra i sessi, secondo
il nostro sociologo ora l'amore si presenta come "nostalgia dell'amore". Siffatte
tesi Alberoni le sostiene in Innamoramento e amore, edito da Garzanti nel 1979,
registrando un notevole successo editoriale: dopo cinque mesi la vendita è di
100.000 copie!
La stampa divulga la dottrina alberoniana dell’"amore", definito dal suo
autore "stato nascente di un movimento collettivo a due", innescando un
dibattito che diventa moda e costume. Il cattedratico Alberoni autorizza a non
sorridere più dalle vicende sentimentali degli altri, a diffondere le proprie senza
ritegni, per sentirsi orgogliosi avversari di un sistema che tenta di reprimere
anche l'amore. E' sufficiente innamorarsi, raccontarlo per sentirsi dalla parte di
chi è progressista.
La sortita di Alberoni non è una semplice trovata commerciale per
l'editoria, ed al di là dello stupore ed ironia che suscita negli ambienti
accademici e degli intellettuali "impegnati", è il segnale eloquente di una stagione
politico-culturale che volge al tramonto. I sessantottini sono nella fase della
seconda età, quella che va dai quaranta ai sessant'anni e l'amore è una tematica
carica di implicazioni psicologiche di natura complessa, in cui il ritorno ai
sentimenti della vita a due è l'elemento trainante su cui si fonda il "riciclaggio
sociale" delle leve non più giovani.
Nel soffermarci sull'argomento che più ci interessa, vediamo che i
giovani, oggi, sono un problema culturale, sociale e politico, in specie per la
dilatazione notevole della fase adolescenziale, determinata dalla
214
scolarizzazione di massa. E' un nuovo e diverso stadio della vita, creato dalle
società industriali e post-industriali, in cui i modelli e le regole non vengono più
dai canali collaudati dalla tradizione, quali la famiglia, la chiesa e la scuola, bensì
dai coetanei, dai mass-media, dalla civiltà dei consumi. I giovani, più che gli
adulti, sono il terreno fertile su cui il consumismo attiva tutti i canali della
comunicazione che detiene e governa, orientando i comportamenti, plasmando
i gusti, inserendosi in un processo formativo che la famiglia e la scuola non
riescono a controllare.
L'industria culturale (dal cinema, alla stampa e alla televisione) e quella
della pubblicità si sono attrezzate di esperti che studiano i fenomeni giovanili
per rilanciare di volta in volta un mercato di nuovi miti e nuovi riti, di modelli a
cui conformarsi, in cui trovare identità che la società continuamente vanifica.
Nell'industria del cinema, agli inizi degli anni '80, viene lanciata per i
giovani una diva, una star "del riflusso", come l'ha definita la critica. E' Sophie
Marceau, protagonista di Il tempo delle mele: una giovane star che impone nel
mondo giovanile un modello di adolescente tutta casa e buoni sentimenti. Il
regista ci presenta l'iniziazione sessuale della protagonista bandendo dalla
narrazione filmica il sesso; ad attenta lettura, però, vediamo come esso sia
tenuto a distanza per essere meglio esorcizzato. Sophie Marceau incarna un tipo
di adolescente che tenta di rimuovere la sessualità proprio nel momento in cui
ne è assillata, ne è attratta.
Il ruolo della star riveste una grande influenza nel momento di
indeterminazione psicologica, tipico della fase adolescenziale, allorché la
personalità in evoluzione è alla ricerca di sé stessa, di una propria identità.
Una volta il cinema usava i divi adulti per offrire modelli ai giovani. Ora,
i mass-media propongono come divi i coetanei (si pensi alla forte presa della
rock-star Madonna!), divi che hanno la stessa età dei loro fans e che proprio
per questo interpretano in modo assai più credibile sentimenti e problemi.
Sono, cioè, modelli di proiezione/identificazione.
Le statistiche di qualche anno fa evidenziano come i giovani sono la
maggioranza del pubblico cinematografico: sono attratti dal cinema, sia perché
la loro autoeducazione individuale e le relazioni con i coetanei li spingono fuori
di casa a frequentare un ambiente sociale più vasto; sia perché cercano miti
culturali e modelli di comportamenti personali che il cinema può ancora loro
fornire come mezzi per scoprire il mondo ed il proprio posto in esso.
215
La televisione in questi anni ha ancora di più messo in crisi il grande
schermo ed i suoi miti. La TV crea nuovi miti e nuovi riti, più privati, quasi
personalizzati o familiari: le personalità televisive si distinguono per una loro
tipica rappresentatività, per una loro tipicità, per la volontà di essere ordinarie e
nel contempo accettate come familiari.
I divi del cinema sono spesso modelli eccezionali, stelle enfatizzate e per
questo hanno una maggiore presa sui giovani.
Il dopoguerra ha prodotto tutta una schiera di eroi solitari, scettici,
individualisti, insoddisfatti, in lotta con un mondo difficile, sconcertante e
ambiguo. I giovani amano molto gli eroi negativi, per loro sono i migliori
interpreti della decadenza, della crisi. I problemi dei giovani, infatti si
manifestano in tutta la loro evidenza in un momento in cui l'adolescenza li
sollecita a ripiegarsi su se stessi, a riflettere e prendere coscienza di una propria
identità, mentre la società non offre loro alcuna soluzione o comunque
possibilità di riconoscersi.
Deriva da ciò un fenomeno importante avvenuto verso la fine degli anni
'70: i giovani incominciano ad avere un atteggiamento diverso nei confronti del
divismo, che per anni ha imperversato. Essi continuano ad avere i loro modelli
preferiti, ma relativamente pendono dalle loro labbra. Li considerano
semplicemente dei loro rappresentanti ai quali affidano il compito di dare voce
ai loro sentimenti. Il divo di questi anni è problematico, una sorta di anti-divo;
all'happy-end si va sempre più sostituendo il finale tragico o elusivo. Il
benessere come soluzione esistenziale diventa problema e la vita piena di beni e
di divertimenti viene messa in discussione.
Le insonnie, le depressioni, le turbe psicosomatiche sono i primi segni di
un malessere che si diffonde e si fa più profondo: e la cultura di massa pone i
problemi della coppia, dell'amore, del matrimonio, del sesso, delle malattie
sociali in genere.
La mitologia euforica degli anni '60 trova il suo epilogo nella tragedia di
Marilyn Monroe, nel suicidio, cioè, della star trionfante. Quella degli anni '80 si
disincanta nelle euforie dei concerti della rock-star Madonna.
Sostanzialmente si è messo in movimento la crisi delle ideologie ed il
malessere giovanile è il malessere nei confronti della società dei consumi. di un
modello di vita fondato, per dirla con Fromm, più sull'avere che sull'essere,
con tutte le ansie e le angosce che ne derivano, e che una volta razionalizzate si
trasformano in manifestazioni di critica radicale, in depressioni, in impotenze.
216
I divi televisivi e della musica rock incarnano modelli di autorealizzazione
della vita privata, tendendo a spodestare sempre più quelli antichi e collaudati
rappresentati dagli educatori, dai genitori. Suggeriscono essi norme di
comportamento, seguono i loro fans passo passo, in modo indiretto, con
continui e allusivi messaggi. Sophie Marceau tiene ad informare i suoi giovani
fans che ama Sthendal e legge Sartre; Renato Zero impartisce con le sue
canzoni una "nuova etica"; Dalla e Morandi colgono nel segno alcune molle
emozionali. Le magliette unisex e le gonne a fiorellini dei giovani sessantottini
cedono il posto ad una moda fondata sul sex-appel: minigonne vertiginose,
pantacollant e niente reggiseno. Mike Buongiorno continua ad incarnare la
figura rassicurante del tuttologo formato famiglia che informa opinioni e
sentimenti dei telespettatori su un campo vastissimo. Costanzo, Minà e Arbore
mettono in piedi trasmissioni trasgressive e provocatorie, ma nella sostanza
omogenizzatrici e rassicuranti. Frassica inventa comunicazioni gergali all'insegna
della strasgressione linguistica fascinando i giovani, mentre Bennato e Episcopo
con i loro travolgenti concerti decantano le tensioni adolescenziali.
Gli eroi, i simboli, i nomi degli spettacoli di massa riprodotti su milioni
di supporti diversi, indossati da milioni di fans, trasformano questi ultimi in
viventi ripetitori di pubblicità, destinati a imprimere una accellerazione
simbiotica tra popolarità e indici di gradimento, tra successo di pubblico e
successo commerciale.
Quanto abbiamo detto è solo un versante del sofisticato e sottile gioco
in cui vengono coinvolti i giovani della nostra generazione. Un gioco che da'
vertigine, continuamente provocatorio, che tende al conformismo collettivo e
mette in moto meccanismi palesi e latenti incontrollabili, privilegiando la
provvisorietà e l'effimero.
In realtà, i giovani oggi vogliono certezze, sono desiderosi di conferme
che la società, l'industria della cultura fingono di dare. Nel momento in cui
matura in essi una coscienza critica e cercano di andare al di là delle apparenze
avvertono il vuoto, l'inconsistenza, la provvisorietà, la solitudine di questa
società, pur così piena di immagini e suoni.
L'angoscia li solca ed a livelli più stratificati crea le nevrosi, le ansie, le
turbe comportamentali che sono le matrici delle devianze più diffuse: dalle
manifestazioni di violenza gratuita alla droga, dalla vocazione all'etilismo al
rifiuto totale di ogni responsabilità di reinserimento.
217
La società dei consumi e il suo sistema informativo si sono incuneati con
ruolo cattivante - e legato alla logica della mercificazione - nelle strutture
formative tradizionali, quali la famiglia e la scuola. La famiglia vive oggi una
situazione di grave disorientamento, dovuto in modo peculiare alla dimensione
stessa della organizzazione del sistema sociale.
I genitori sono, spesso, assenti nel processo formativo dei propri figli.
perché delegano ad altri compiti che non possono, o non sanno, gestire.
La famiglia non coltiva al suo interno un buon patrimonio di relazioni
tra i membri che la compongono, la struttura stessa del dialogo e della
comunicazione è frammentata e ridotta spesso all'essenziale. I giovani si
avvertono sempre più soli e reagiscono cercando la loro identità di generazione
in momenti collettivi, nell'organizzarsi in gruppi, nell'affollare gli stadi per
applaudire i concerti dei loro autori preferiti.
La scuola, a cui la famiglia ha "scaricato" una pesante delega, non riesce a
stare al passo con i tempi, rivelandosi impreparata e aggravata da responsabilità
che, spesso, non le competono. Le procedure formative, che in essa si attivano,
sono molte volte lontane dal soddisfare le rinnovate esigenze che i giovani
reclamano. La società dei consumi li bombarda di messaggi molteplici, di
modelli che essi vogliono sapere leggere e bene interpretare. I giovani alla
scuola chiedono metodi e strumenti nuovi. L'esigenza di fondo è quella di
avere i pass-partout per la lettura della realtà, per rendersi conto in modo
diretto dei meccanismi che la predeterminano.
In breve, vogliono essere sostenuti, formati, laddove per formazione si
intende lo sviluppo delle capacità critiche, delle possibilità creative che
permettono ad ogni individuo di costruirsi una propria ed originale identità.
Luigi Mancino
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la Capitanata
Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia
Direzione: G. Pensato - L. Mancino
Direttore responsabile: Geppe Inserra
Redazione: Luigi Mancino
Autorizzazioni del Tribunale di Foggia 6 giugno 1962 e 16 aprile 1963
Registrazione presso la Cancelleria del Tribunale di Foggia n. 150
la Capitanata
Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia
* Hanno collaborato a questo numero: M. LAVIANO, A. CELUZZA, U. JARUSSI,
P. DI CICCO, E. CATALANO, M. MAZZEI, A.G. BLUNDO, A.
GRAVINA, O. MACRI’, R. LETTERIO, V. PILONE, A. VENTURA, V.
SALVATO, M. ALTOBELLA GALASSO, L. MANCINO.
SOMMARIO
MICHELANGELO LAVIANO: L'economia meridionale nel Risorgimento:
la masseria di S. Spirito dal 1805-1865
Pag. 1
PASQUALE DI CICCO: La cartografia trattuale
“ 51
ANGELO CELUZZA: In ricordo di U. Jarussi
“ 59
ETTORE CATALANO: Le radici avventurose di Serricchio
“ 75
MARINA MAZZEI: Il carretto fittile geometrico, da Ordona
“ 91
ANNA GRAZIA BLUNDO: Un rilievo con scena di "venatio " da Canosa
“ 97
ARMANDO GRAVINA: Grotta Trappedo e Grotta dei Miracoli
“ 113
RAFFAELE LETTERIO: La società di mutuo soccorso di S. Agata di Puglia “ 125
ORESTE MACRI’: Il "tenero tempo" di Serricchio
“ 135
VITTORIA PILONE: "Se questo è un uomo" di Primo Levi
“ 141
ANTONIO VENTURA: Scaffale locale
“ 145
ANTONIO VENTURA: Fuggi da Foggia
“ 165
VINCENZO SALVATO: Piazze e strade di Foggia antica
“ 179
MARIA ALTOBELLA GALASSO: La civetta dagli altari agli scongiuri
“ 191
LUIGI MANCINO: Modelli di cultura e immagini sociali negli anni
'70 e '80
“ 207
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