Notiziario settimanale n. 480 del 02/05/2014
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Questa versione stampabile del notiziario settimanale contiene, in forma integrale, gli articoli più significativi pubblicati nella
versione on-line, che è consultabile sul sito dell'Accademia Apuana della Pace
09/05/2014: Assassinio di Giuseppe Impastato avvenuto il 9 maggio
1978
Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano
tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente
tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno,
dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha
perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero
decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana;
nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità. Si
comprenderà allora il duplice significato del termine "Campo di
annientamento"...
Primo Levi [da “e questo è un uomo”]
Indice generale
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2050
E' una totale vergogna (di Enrico Peyretti)................................................. 1
Dietro le quinte di Arena di pace e disarmo (di Mao Valpiana)..................1
Alcune riflessioni sull’euro (di Andrea Baranes)....................................... 2
“Non bull-arti di me”, intervista a Ilaria Zomer (di Elisa Bellardi) ............5
Qual'e' la lingua utilizzata negli atti e nella comunicazione delle pubbliche
amministrazioni con gli stranieri ? - Ricerca PRIN (di Associazione Studi
Giuridici sull'Immigrazione)...................................................................... 6
Dai dati F-35 unica certezza: ha senso solo la cancellazione del
programma (di Campagna "Taglia le ali alle armi")................................... 6
Il linguaggio di Grillo, di Renzi e di Mussolini (di Mario Pancera)...........7
Quando il comune aiuta (di Michela Giannone)......................................... 8
Una ‘fotografia’ del volontariato toscano (di CESVOT)............................ 8
Rwanda 1994-2014: un milione di motivi per ricordare (di Dario Lo
Scalzo)....................................................................................................... 8
Mininotiziario America Latina dal Basso n. 4/2014 del 24.04.2014 ..........9
Se dici guerra… (di G. Alioti, G. Casarrubea, R. De Simone, T. Di
Francesco, M. Di Nucci, A. Mazzeo, A. Pascolini)..................................11
Editoriale
E' una totale vergogna (di Enrico Peyretti)
E' una totale vergogna - e dobbiamo proclamarlo alto - che i due marò (al
massimo sparatori facili incappati in chi ne chiede conto giudiziario; ed è
vergogna pure l'India che la tira in lungo per calcolo politico) siano fatti
eroi dal Presidente della Repubblica, e veri resistenti (il giorno del 25
aprile !!), e onore della Patria: la Patria è il popolo che vive, lavora, fatica,
non è l'osceno fallo armato per uccidere, ché tale è l'esercito,
assurdamente eretto a simbolo di noi tutti il 2 giugno, festa del voto
democratico, il contrario delle armi (perché la procedura democratica,
contare le teste, è il contrario del tagliarle).
Ed è vergogna che il Presidente parli contro le "pulsioni anti-militariste",
perché il militarismo è causa di guerre e morte e ingiustizie e oppressioni,
e perché quelli che chiama "anti-militaristi" sono invece costruttori
positivi di cultura di pace e di metodi nonviolenti attivi per la soluzione
giusta, umana e non cruenta dei conflitti, e sono i maggiori difensori della
vera Patria, quella civile e solidale per la giustizia di tutti i popoli, come
hanno una volta di più espresso limpidamente nell'Arena di Verona (io
c'ero), in tanti, nel giorno stesso del 25 aprile.
Ed è triste e vergognoso parlare contro il taglio previsto degli F-35, armi
puramente offensive, ingiustificabili, spreco nazionale a favore di
fabbricanti di morte, pericolo per tutti.
1
Nel giorno della Liberazione e della Resistenza non è storicamente
ragionevole parlare di "popolo in armi". Con totale rispetto e gratitudine
per i partigiani combattenti, per i morti tra loro, si deve finalmente
ricordare che la base essenziale, condizione di esistenza, della lotta di
Liberazione fu la popolazione non armata, e specialmente le donne che,
con un moto profondo di liberazione della coscienza, si liberò dalla
soggezione fascista e sostenne praticamente e moralmente la Resistenza
anti-nazi-fascista, che fu in quantità più civile e non-armata che armata.
La storiografia sulla Resistenza (Bravo, Bruzzone, Parisella, Giannini,
Farina, Ongaro, .....) chi la conosce sa che è progredita dall'immagine solo
militare alla più vera e più giusta immagine di Resistenza popolare, certo
non al 100%, ma in misura tale da essere riconosciuta come riscatto vero
del popolo italiano dalla violenza fascista e bellica. La Costituzione fu
l'alto risultato storico, e oggi ricordare la Liberazione deve essere liberare
la Costituzione da chi la occupa per impedire di attuarla.
Enrico Peyretti
Evidenza
Dietro le quinte di Arena di pace e disarmo (di Mao
Valpiana)
Ci sono le foto a descrivere i volti, i colori, le bandiere arcobaleno che
gremivano l’Arena. Resta nella mente la musica di qualità che è stata la
colonna sonora della giornata. Sono sedimentate nell’animo le emozioni
venute dagli spalti e dal palco di un anfiteatro dove è stato messo in scena
un racconto di pace e disarmo.
Questo è stato il nostro 25 aprile: una storia di resistenza e nonviolenza.
Resistenza contro l’oppressione delle armi che preparano nuove guerre, e
nonviolenza per costruire politiche di pace.
Quando, un anno fa, abbiamo iniziato ad accarezzare l’idea di riconvocare un’Arena di pace, sembrava una sfida impossibile. Troppo
rischioso. Il clima non era più quello degli anni 80-90. Il movimento
frammentato, in una fase di ripensamento. E se poi non la riempiamo?
Tanti i dubbi, ma sentivamo che ce n’era bisogno. Ci voleva l’idea giusta,
bisognava crederci. Era necessario cambiare formula: non una riedizione
di “come eravamo”, ma la proposta di un nuovo percorso.
E così “Arena” ha cominciato a prendere forma. Ottenuta la concessione
del monumento, la possibilità di averlo proprio per il 25 aprile, datasimbolo, ci ha convinti che il legame Resistenza/Nonviolenza e
Liberazione/Disarmo avrebbe funzionato. Un’Arena nuova, che si
rivolgesse non solo alle tradizionali associazioni pacifiste, ma a tutto il più
vasto movimento, laico e religioso, capace di coinvolgerlo sui nostri temi.
La parola-chiave doveva essere “disarmo”.
Il progetto era convincente. La discussione, sia a Verona che a livello
nazionale, si è allargata per centri concentrici. Per evitare primogeniture,
si è deciso che l’Arena venisse convocata semplicemente dai firmatari
dell’appello. Un modo per farla sentire di tutti, con l’unica richiesta di
riconoscersi nei contenuti espressi, riassumibili nelle parole “pace e
disarmo”. Localmente si è formato un gruppo organizzatore sempre più
solido. Le reti per il disarmo, la nonviolenza, il servizio civile, la pace, ne
hanno assunto la promozione. Via via, si sono aggiunte associazioni,
piccole e grandi, e si sono moltiplicati gli incontri, in tutta Italia, di un
percorso “verso Arena di pace”. Tutto è stato condotto con metodo
nonviolento, e sappiamo che nel mezzo c’è già il fine, senza sotterfugi,
senza cordate, senza furbizie, senza primi attori, come sempre si dovrebbe
fare, superando steccati, creando nuove relazioni e alleanze.
link: http://arenapacedisarmo.org/dietro-le-quinte-di-arena-di-pace-e-disarmo/
Poi è nata anche l’idea di un nuovo formato per la giornata. Una sorta di
“spettacolo” che mettesse in scena le nostre politiche per la costruzione
della pace e della nonviolenza, con testimonianze e musica. Così si è
pensato ad una regia, una conduzione, una direzione artistica. E poi il
palco, e poi la scenografia. La preparazione dell’evento richiedeva sempre
più lavoro, più energie, più risorse, ma i volontari e le forze aggiuntive
sono sempre arrivati al momento giusto. Anche i soldi, abbiamo pensato,
salteranno fuori. Se ci crediamo, ognuno farà la propria parte. Se vogliamo
“riprenderci l’Arena”, ce la dobbiamo pagare tutti insieme.
Venerdì 25 è arrivato. Anche il meteo ho voluto contribuire, regalandoci
una splendida giornata di sole, inaspettato fino a poche ore prima. Poi,
dalle 13 in avanti, la platea, le poltroncine, le gradinate hanno iniziato a
riempirsi, sempre di più, fino a contarne oltre 13 mila, arrivati con 30
pullman e i treni, in bici o a piedi da Verona e da tutta Italia. La giornata è
iniziata alle 14 in punto con le note di Give Peace a Chance, “dai una
possibilità alla pace”, ed è terminata alle 20 con la strofa cantata “voglio
tornare per ricominciare”. Una scaletta di 6 ore che è un programma
politico.
L’Arena di pace e disarmo è stata una grande festa collettiva. Mentre
guardavo dal palco lo spettacolo che si svolgeva sui gradoni, con il lancio
di migliaia di aerei di carta colorati, o durante l’emozionante minuto di
silenzio assoluto dei 13 mila presenti, mi venivano in mente le parole di
Aldo Capitini: “Nella festa si trova una ragione più profonda della vita,
una solidarietà più salda, un anticipo della liberazione, un’atmosfera in cui
ci si purifica, ci si eleva, ci si abbandona”.
Una ragione più profonda di vita: i testimoni hanno saputo toccare le
corde dei costruttori di pace presenti in Arena, appellandosi ai valori di
coscienza che ci muovono.
Una solidarietà più salda: gli impegni presi vanno nella direzione da noi
auspicata: coniugare solidarietà con giustizia, diritti con doveri.
Un anticipo della liberazione: le tematiche affrontate, dal servizio civile
alla campagna NoF35, dagli interventi civili di pace alle spese militari,
dalla militarizzazione del territorio alla difesa ambientale, fino
all’amministrazione del bene pubblico con la nonviolenza, hanno
dimostrato che la liberazione nonviolenta è già in atto.
Un’atmosfera in cui ci si purifica: la musica è stata parte integrante della
manifestazione, non un riempitivo, ma espressione artistica tendente alla
bellezza della nonviolenza;
ci si eleva: la compresenza di amici che ci hanno preceduto è stata un
richiamo a dimensioni spirituali;
ci si abbandona: ogni singolo è entrato, con fiducia, nella dimensione
collettiva del movimento, abbandonando il proprio ego per riconoscersi
parte di Arena: dal tu al tutti.
Arena di pace e disarmo ha rimesso in moto energie, aspettative,
entusiasmi che da tempo attendevano di trovare un punto di riferimento; il
successo ottenuto (e non solo in termini di partecipazione fisica, ma anche
politica) è dovuto senz’altro al fatto che si è trattato di un percorso
condiviso, allargato, di un lavoro di “rete” che abbiamo saputo mettere in
campo. Ora dobbiamo saper capitalizzare questo patrimonio rivalutato,
che altrimenti rischiava di essere disperso, per proseguire nel cammino
comune che ci siamo dati con la “Campagna disarmo, difesa civile non
armata e nonviolenta”.
* Presidente del Movimento Nonviolento
P.S. Se sei arrivato a leggere questo pezzo fino in fondo, è forse perchè
Arena ti ha coinvolto.
Coinvolgiti anche economicamente, c’è bisogno del tuo contributo per
pagare le spese, e raccogliere fondi per avviare la Campagna.
Fai la tua donazione a:
Associazione Arena di Pace e Disarmo?
IBAN: IT16V0501812101000000170970
su Banca Etica
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Approfondimenti
Economia
Alcune riflessioni sull’euro (di Andrea Baranes)
L’Euro è sbagliato quindi fuori dall’Euro?
L’Euro è sbagliato. Tiene legate insieme economie diversissime per forza
economica, tassi di inflazione, competitività e produttività, senza che
nell’UE esistano meccanismi di riequilibrio o compensazione efficaci. In
breve, l’Italia si ritrova una valuta troppo forte, la Germania troppo debole
rispetto a quelli che sarebbero i fondamentali delle rispettive economie. La
Germania può esportare grazie a una moneta sottovalutata, l’Italia e gli
altri Paesi della periferia europea vedono al contrario i propri conti con
l’estero peggiorare sempre di più.
Non potendo aggiustare i cambi, tali squilibri si risolvono sui costi di
produzione, e tra questi, principalmente sul costo del lavoro.
Semplificando, se non puoi svalutare la moneta devi “svalutare” stipendi e
diritti di lavoratrici e lavoratori per tornare competitivo. Negli slogan del
governo, la soluzione passa dalla diminuzione del cuneo fiscale, ovvero
diminuire il costo del lavoro agendo sulla leva fiscale. In realtà, essendo
tale intervento del tutto insufficiente, l’unica strada è un calo degli
stipendi e un aumento della precarietà.
Ecco spiegata austerità, perdita di diritti, aumento della disoccupazione.
Con l’austerità diminuisce la spesa pubblica ma soprattutto si ha un
aumento della disoccupazione, il che porta lavoratrici e lavoratori ad
accettare condizioni di lavoro peggiori, permettendo all’Italia di
recuperare almeno in parte il gap di competitività con il centro dell’UE e
la Germania in particolare.
La conseguenza sembra essere semplice: se l’euro è sbagliato, usciamo
dall’euro. Torniamo alla lira (o ad altra valuta, non importa certo il nome),
permettendo alla nostra moneta, in un regime di cambi flessibili, di
svalutarsi e a quella tedesca di rivalutarsi. Questo significa per l’Italia
esportazioni più semplici e importazioni più care, ovvero un riequilibrio
della bilancia dei pagamenti (e in particolare del conto delle partite
correnti). Secondo alcune stime, se ci fosse un cambio fluttuante e non
bloccato la lira naturalmente si svaluterebbe di un 20-30% (alcuni
ipotizzano fino al 50%) rispetto al valore attuale dell’euro. All’opposto il
marco tedesco si rivaluterebbe di un 30% circa. Questo significherebbe
per l’Italia (il secondo Paese manifatturiero d’Europa proprio dopo la
Germania) un vantaggio competitivo enorme rispetto ai tedeschi.
In estrema sintesi, è questa la posizione di molti “no euro” che chiedono
l’uscita dalla moneta unica come elemento fondamentale per uscire dalla
crisi, o addirittura secondo i quali “l’euro è la causa principale della crisi”.
Un’affermazione che sembra dimenticare, o per lo meno sottovalutare,
come sia un sistema finanziario ipertrofico che si è trasformato in un
gigantesco casinò ad averci trascinato nella situazione attuale. Se non si
mettono in campo regole severe a partire da uno stretto controllo sui
movimenti di capitale, potremmo ragionare in euro, in lire o in sesterzi,
ma continueremmo a essere in balia dello stesso casinò speculativo.
Stiamo guidando un’automobile su cui scopriamo che è montata una
bomba ad orologeria al posto del motore. Possiamo preoccuparci di fare il
pieno di benzina e non di gasolio, ma probabilmente non cambierà molto.
In questo senso sono la finanziarizzazione dell’economia e le crescenti
diseguaglianze di reddito e di ricchezza le “cause principali della crisi”,
non l’euro che più propriamente è semmai uno dei fattori che
contribuiscono ad aggravarla e che rende più difficile uscirne. Questo non
è però il problema centrale. Anche ammettendo che l’euro sia alla base di
tutti i problemi attuali, anche affermando che l’euro sia sbagliato, la
domanda oggi deve essere: uscirne permetterebbe di risolvere gli attuali
problemi o ne creerebbe altri anche peggiori?
Come uscirne?
I cambi riflettono lo stato delle economie?
Il primo punto riguarda il percorso per un’eventuale uscita. Vanno
considerati non solo i rischi di un “referendum consultivo non vincolante”
sulla permanenza nell’euro (non entriamo nel merito giuridico della sua
fattibilità), ma più in generale quelli di una qualsiasi campagna di
pressione o iniziativa dal basso per costruire consenso intorno all’uscita
dall’euro.
Poniamo però che si riesca a procedere segretamente e nel giro di un
week-end. Da lunedì mattina abbiamo le lire, libere di fluttuare in un
mercato dei cambi non più bloccato. Cosa avviene? Come accennato,
naturalmente la lira tenderà a svalutarsi e il marco a rivalutarsi per
riflettere la forza delle rispettive economie. Per semplicità continuiamo a
considerare Italia e Germania, ma è chiaro che un discorso simile varrebbe
anche per altri Paesi dell’area euro che decidessero di uscire o per tutti nel
caso di una dissoluzione dell’euro.
Nell’UE vige la libera circolazione dei capitali. Posso prendere i miei
risparmi depositati presso una banca o un gestore italiani e spostarli in una
qualsiasi banca o gestore di un altro Paese. Mettiamo allora che la
posizione “no euro” inizi a guadagnare consensi. Questo può avvenire
perché vincono i “no” in un eventuale referendum consultivo o perché i
partiti “no euro” guadagnano consensi o per qualsiasi altro motivo che
possa spingermi a pensare che da qui a breve l’uscita dall’euro possa
diventare reale.
Posso prendere i miei risparmi e affidarli a un gestore o banca di un altro
Paese dell’Eurozona, mettiamo in Germania. Se l’euro rimane in piedi non
ho perso nulla (tranne pochi euro di commissioni bancarie). Se invece si
torna a marco e lira, ecco che i miei risparmi in Germania verranno
cambiati in marchi, che si rivalutano del 30%. A quel punto decido se
tenerli li o se riportarli in Italia, dove la lira si è svalutata del 30%. Senza
fare nulla, ho praticamente raddoppiato i miei risparmi rispetto
all’eventualità di tenerli fermi in Italia (se prima erano 100 euro, in marchi
“varranno” 130 e in lire 70). Se buona parte dei risparmiatori (e in primo
luogo le fasce più ricche della popolazione che hanno liquidità da spostare
senza problemi) seguono questo ragionamento, il rischio evidente è una
gigantesca fuga di capitali, corsa agli sportelli bancari e prosciugamento
finanziario dell’Italia.
La situazione sarebbe se possibile ancora peggiore per i nostri titoli di
Stato. In caso di uscita dall’euro tali titoli verrebbero ridenominati in lire,
e quindi svalutati del 30%. Il problema può non essere così rilevante per
un risparmiatore italiano, che vede tutto diminuire contemporaneamente
della stessa percentuale e non subisce quindi impatti. Ma un investitore
statunitense o giapponese dovrebbe accettare di perdere il 30% del proprio
investimento, nel momento in cui provasse a rivendere Bot e Btp (un
tedesco anche di più per ricambiare il suo investimento in marchi). Questo
significa che al minimo accenno di un successo dei “no euro” tali
investitori scapperebbero dall’Italia e andrebbero a investire in altri
mercati (magari proprio in Germania, se c’è la possibilità che la moneta si
rivaluti). Dovrebbero essere abbastanza chiari i rischi di una fuga degli
investitori esteri sullo spread e sulla capacità di rifinanziare il debito
pubblico. Un’uscita dall’euro dovrebbe quindi probabilmente andare di
pari passo con una ristrutturazione e rinegoziazione del debito pubblico
italiano. Se in assoluto non è detto che una ristrutturazione del debito
pubblico sia negativa, ed è anzi auspicata da diversi economisti,
abbastanza chiaramente il modo migliore per arrivarci non appare una
subitanea fuga degli investitori esteri che ci lasciano con il cerino in mano.
Per questo motivo, se si volesse uscire, evidentemente andrebbe fatto in
maniera diametralmente opposta: il più segretamente e velocemente
possibile. [Anche le ricerche che propongono percorsi di uscita dall'euro
riconoscono l'importanza di questo aspetto. Il paper “Leaving the euro – A
practical guide”, di Capital Economics, come primo punto segnala che
“non sarà possibile fare sapere dei preparativi se non per un tempo breve.
Il ministro delle Finanze, il Primo ministro, il governatore della Banca
Centrale e poche altre persone in posti chiave dovrebbero quindi
incontrarsi per discutere e pianificare l'uscita in segreto”. Come conciliare
tale necessaria segretezza con campagne pubbliche e referendum
consultivi?] Venerdì sera, a banche e mercati chiusi, l’annuncio del
governo che da lunedì mattina non abbiamo più gli euro ma le lire, con un
ferreo controllo sui movimenti di capitali (intervenendo quindi su banche,
gestori, e altri operatori finanziari) e durissimi controlli alle frontiere. E’
per lo meno decisamente improbabile pensare di potere fare una cosa del
genere di colpo e in completa segretezza.
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Le valute dovrebbero allora fluttuare per andare a riflettere la forza e i
fondamentali dell’economia italiana. Ma siamo certi che sia proprio così?
Oggi su scala globale il totale di beni e servizi importati ed esportati nel
mondo vale circa 20.000 miliardi di dollari l’anno. Il mercato delle valute
ha superato i 5.000 miliardi di dollari al giorno. Questo significa che
girano più soldi in 4 giorni sui mercati finanziari che in un anno di
“economia reale”, o in altri termini che il 99% delle transazioni in valuta
non è legato ad alcuna importazione o commercio. Sono soldi che
inseguono altri soldi per fare altri soldi.
E’ la forza commerciale dei singoli Paesi, ovvero l’1% delle transazioni, a
determinare il valore delle monete, o all’opposto sono molto più rilevanti
considerazioni puramente finanziarie che successivamente vanno a
influenzare i fondamentali economici? Alla City di Londra si usa
un’espressione per indicare il rapporto tra le attività economiche e la
finanza che dovrebbe essere al suo servizio: la finanza è oggi the tail that
wags the dog, letteralmente la coda che fa scodinzolare il cane.
Se mai c’è stato un qualche “dividendo” dell’euro, questo è identificabile
con il maggior peso della moneta unica sui mercati internazionali e quindi
con minori possibilità di attacchi speculativi e minori fluttuazioni. In un
momento di debolezza e rischio come quello di un passaggio da una valuta
all’altra, a quali attacchi speculativi potrebbe essere sottoposta la nuova
lira? E con quali conseguenze per la nostra economia? In ogni modo,
sarebbero nuovamente possibili fluttuazioni speculative tra diverse valute
europee.
Chiariamo. Non è detto che un attacco speculativo debba avvenire e che le
conseguenze debbano essere catastrofiche. Semplicemente, escludere tali
considerazioni significa “dimenticarsi” della natura del 99% delle
transazioni valutarie per guardare unicamente all’1% legato all’export di
beni e servizi. Un problema per lo meno troppo spesso sottovalutato.
Se uno degli obiettivi centrali del ritorno a una moneta nazionale è il
recuperare la “sovranità monetaria”, è possibile ignorare questo
argomento? Persino alcuni detrattori dell’euro riconoscono come in
presenza di cambi volatili, le economie aperte hanno per lo meno
un’autonomia monetaria estremamente limitata, se non unicamente
formale, perché le autorità devono rispondere alle oscillazioni del mercato
dei cambi.
Salari reali e salari nominali
Un argomento spesso ingigantito dai “si euro” è quello dell’inflazione.
Vengono evocate immagini del tipo “se torniamo alla lira andremo a fare
la spesa con le carriole di lire, che non varranno più nulla”. Questo
argomento appare a dire poco esagerato. Svalutazione e inflazione non
sono in nessun modo la stessa cosa, e diversi studi su analoghe situazioni
del passato confermano come un’eventuale svalutazione del 30% non
comporti un’inflazione in doppia cifra, soprattutto dopo una primissima
fase di assestamento. Ciò detto, una questione legata a una maggiore
inflazione comunque esiste e va considerata. Se con l’euro a rimetterci
sono i salari nominali, con l’uscita potrebbe esserci un impatto rilevante
sui salari reali, ovvero tenuto conto della maggiore inflazione. Come
ricorda Claudio Gnesutta, “con la moneta unica il conflitto si concentra
esplicitamente sulla riduzione del salario nominale, come modo per
rilanciare la competitività (di prezzo). […] Ritornando alla moneta
nazionale, il conflitto si presenta come processo inflazionistico per il
ridimensionamento del salario reale, in cui si inseriscono gli effetti delle
svalutazioni del cambio e le incertezze legate alla speculazione”.
Come per il paragrafo precedente legato a possibili fenomeni speculativi,
non è detto che impatti sui salari nominali con l’euro e sui salari reali in
caso di uscita siano simili, o che non ci sia comunque nel medio periodo
un vantaggio nel tornare alle monete nazionali. Nel proporre di uscire
dall’euro appare però per lo meno semplificativo guardare agli attuali
salari nominali “dimenticandosi” di analizzare i possibili impatti futuri sui
salari reali.
Esportare di più?
Il vantaggio di una svalutazione è abbastanza evidente: le importazioni
diventano più care e le esportazioni più semplici, il che permette di
migliorare la bilancia dei pagamenti. A fronte di questo vantaggio, bisogna
però fare alcune considerazioni. La prima è nell’andare a vedere cosa è
avvenuto storicamente a seguito di svalutazioni. Le indicazioni appaiono
abbastanza chiare. Le imprese possono sfruttare un vantaggio competitivo
rispetto alle omologhe estere (almeno finché altri Paesi non si lanciano in
una gara di svalutazioni competitive) e sono spinte a concentrarsi su
questa competizione di prezzo, spostandosi verso produzioni a minore
contenuto tecnologico.
Come spiega Giuseppe Travaglini, “nei lunghi anni della lira debole,
anche quando l’Italia partecipava allo Sme, il sistema produttivo italiano
si adagiò sul vantaggio implicito delle svalutazioni competitive senza
migliorare la qualità dei prodotti e la produttività del lavoro. Anzi, ad un
tasso di cambio prolungatamente debole si associò l’involuzione della
struttura produttiva industriale verso le medie e piccole dimensioni, e
verso i settori a basso contenuto tecnologico e bassa produttività
comunque mantenuti artificiosamente competitivi, nel mercato
internazionale, dalle continue svalutazioni. Oggi, nel mutato contesto della
globalizzazione appare velleitario difendere questa collocazione
commerciale, giacché nei settori a basso valore aggiunto avanzano i paesi
di nuova industrializzazione che competono sul costo del lavoro, e
impongono ai paesi economicamente avanzati che operano nei medesimi
settori la folle “necessità” di tagli salariali e l’erosione delle tutele del
lavoro”. [Giuseppe Travaglini, “Un paese in bilico – L'Italia tra crisi del
lavoro e vincoli dell'euro”, Ediesse, 2014, p.87]
Riassumendo, se l’obiettivo principale di uscire dall’euro è svalutare per
esportare di più, bisognerebbe domandarsi: 1. esportare cosa e con quale
contenuto di tecnologia; 2. a quale prezzo e con quali impatti su salari e
diritti del lavoro. Sommando queste considerazioni a quelle del paragrafo
precedente, gli eventuali vantaggi per lavoratrici e lavoratori appaiono per
lo meno sempre meno certi e consistenti.
Export e protezionismo?
Un ulteriore argomento. Se le esportazioni diventerebbero più semplici,
nella stessa misura lo sarebbero investimenti e acquisti dall’estero in
Italia. Semplificando, con una lira che si svaluta del 30% rispetto all’euro
e un marco che si rivaluta del 30%, per una banca italiana il patrimonio si
dimezza rispetto un’omologa tedesca (da 100 – 100 a 70 – 130, con un
conto estremamente approssimativo). Lo stesso discorso vale per
capannoni, fabbriche, terreni e qualsiasi altro cespite. Il risultato è che i
Paesi con valute più forti potrebbero acquistare con molta maggiore
facilità le imprese italiane, e in particolare quelle più pregiate (per capirsi
il fenomeno ricorda quanto avveniva ai tempi della sterlina forte e di
alcuni dei luoghi più pregiati della Toscana ribattezzati “Chiantishire”).
L’argomento dei cosiddetti fire sales o saldi è contraddittorio. Secondo
alcune analisi al contrario è proprio l’euro a provocare o per lo meno
intensificare il fenomeno. Con una propria valuta nazionale, le imprese
avrebbero, è vero, un “valore” minore, ma in direzione opposta
aumenterebbe la loro redditività, consentendo loro di resistere meglio a
eventuali tentativi di acquisizione. Anzi è proprio l’euro, che consentendo
una protezione dai rischi di cambio sul medio periodo, incentiverebbe tali
investimenti esteri, mentre nello stesso momento “strangola” le imprese
4
che sono quindi più facilmente acquisibili.
Il problema è che entrambi gli argomenti sono probabilmente fondati.
L’euro favorisce la circolazione dei capitali senza rischi di cambio e ha
degli impatti sulla redditività delle nostre imprese. Nello stesso momento,
se si uscisse “nel giro in un week-end” ci sarebbe una rapida diminuzione
del valore patrimoniale di imprese e banche, che potrebbe portare a un
aumento improvviso di acquisizioni di imprese indebolite da anni di
moneta unica troppo forte e dalla conversione dei propri attivi in una
debole. La svalutazione è un fenomeno di breve periodo, l’eventuale
aumento della redditività e quindi i vantaggi dovrebbero misurarsi dopo
anni. Nuovamente, perché “si euro” e “no euro” considerano
rispettivamente un solo lato della medaglia?
Per evitare tale rischio sarebbe probabilmente necessario, almeno per un
periodo di transizione, imporre dei vincoli su movimenti di capitali e
investimenti dall’estero. Se l’obiettivo di una uscita dall’euro è però
svalutare per esportare di più, le due cose appaiono decisamente
contrastanti. E’ difficile pensare di dire ai Paesi europei (e al resto del
mondo) che l’Italia svaluta per esportare ma che contemporaneamente
nell’altra direzione vengono messe in campo misure protezionistiche in
ingresso su capitali e investimenti. Quale partner commerciale
accetterebbe una simile situazione?
Il ragionamento sembra evidenziare l’apparente paradosso accennato
nell’introduzione: l’Euro è un problema e ha peggiorato la situazione per
gran parte delle imprese italiane, ma non è detto che uscirne possa
rappresentare una soluzione e non al contrario peggiorare ulteriormente le
cose.
Cambiare strada
Se oggi si può parlare di un’Europa “a guida tedesca”, prima ancora che
nella forza economica o nel peso sulle istituzioni europee, è proprio nella
visione neo-mercantilista, che fonda sull’export e non sulla domanda
interna il proprio successo e impone di conseguenza la “competitività”
come valore assoluto. L’idea di uscire dall’euro per svalutare e quindi
esportare di più non sta di fatto inseguendo e ricalcando lo stesso
approccio e lo stesso problema? L’unico nostro obiettivo deve essere
partecipare a una gara al ribasso in materia di diritti e tutele del lavoro,
fisco, normative ambientali, svalutazioni monetarie, o in ultima analisi è
esattamente questa corsa verso il fondo ad averci trascinato nella
situazione attuale?
In quest’ambito la sensazione è che se l’Euro è un disastro, uscirne rischia
di essere “un disastro al quadrato”. In un caso stiamo vivendo un declino
economico, produttivo e sociale. Nell’altro il rischio concreto è quello di
un salto nel buio e di impatti che non ci si può certo limitare a sminuire
come “vacanze all’estero un po’ più care e qualche turbolenza in fase di
transizione”. Le turbolenze rischiano di essere tsunami, la fase di
transizione dell’ordine di diversi anni, l’eventuale uscita da tale fase tutta
da dimostrare. E’ difficile capire perché i detrattori dell’euro insistano
sull’impatto delle politiche monetarie su quelle economiche e sociali in
una direzione ma sminuiscano o trascurino completamente quelle che si
avrebbero nella direzione opposta.
E’ in questo senso che la scelta non può essere tra un lungo declino
nell’euro o un repentino e profondo peggioramento uscendone, ma che
occorre immaginare ulteriori percorsi e ripensare nel loro insieme le
politiche finanziarie, fiscali, economiche, sociali e monetarie dell’UE.
Ripensarle alla radice per costruire un diverso modello economico. Un
modello che si sposti dai consumi agli investimenti, dall’export alla
domanda interna, non tagliando ma riqualificando la spesa pubblica per
indirizzarla in ambiti con elevati moltiplicatori e a forte contenuto di
lavoro, come nella ricerca o nel welfare, promuovendo e accompagnando
una riconversione ecologica dell’economia. Questo significa ridiscutere
gli assurdi vincoli europei, partendo dal rimuovere gli investimenti da tali
vincoli; significa una revisione del mandato e delle funzioni della BCE;
significa una politica fiscale espansiva mirata alla creazione di posti di
lavoro in diretta opposizione con l’attuale austerità, e via discorrendo.
[Vedi le proposte contenute nell'ultimo rapporto “Euromemorandum”]
Anche riguardo l’euro in sé, non è nemmeno detto che le uniche
alternative siano tra il rimanere in una moneta unica o l’uscirne per tornare
tout court alle valute nazionali. Una proposta è ad esempio quella di
trasformare l’euro da moneta unica in una moneta del comune,
riprendendo in qualche modo l’idea del Bancor e di una clearing union
avanzate da Keynes alla conferenza di Bretton Woods nel 1944. [Per
maggiori informazioni sull'euro da moneta unica a moneta comune vedi
http://keynesblog.com] Un’altra è quella di affiancare all’euro delle
monete locali o nazionali. In qualche modo, l’alternativa migliore tra
rimanere nell’euro o uscirne potrebbe essere: tutt’e due.
Più o meno Europa?
Agli argomenti precedentemente esposti ne va aggiunto uno fondamentale,
benché oggi appaia enormemente lontano e appannato: l’idea, o meglio
l’ideale, di una “unione” europea. Cosa ne sarebbe in caso di fine della
moneta unica? Come per i casi precedenti, secondo alcuni “no euro” è
proprio la moneta unica a distruggere il sogno europeo, e il ritorno alle
monete nazionali è l’unico modo per salvare l’Europa. Una UE
considerata irriformabile, con la conseguente necessità di ripartire da
monete nazionali per eventualmente riprendere il percorso di integrazione
su altre basi. I rigurgiti xenofobi e l’affermarsi di forze di estrema destra
ne sarebbero la più evidente testimonianza, mentre chi si ostina a parlare
di “più Europa” viene trattato con sufficienza se non con disprezzo.
Per gli argomenti ricordati in precedenza su diritti di lavoratrici e
lavoratori, su possibili attacchi speculativi, sul rischio di “guerre
valutarie” e di una vera e propria corsa verso il fondo nel nome della
competitività e dell’export, nuovamente viene da domandarsi quanto pro e
contro siano considerati con oggettività, e soprattutto quanto un’uscita
dall’euro permetterebbe di invertire la rotta, cancellare il recente passato
con un tratto di penna e ripartire.
Uscire dalla moneta unica renderebbe più semplice o più complesso
pensare a scambi commerciali ed economici e a un modello cooperativo in
sostituzione dell’attuale competizione interna all’UE? Avvicinerebbe
l’idea di una qualche unione fiscale e politica che oggi appare tanto
lontana? Un’uscita dall’euro non darebbe ulteriore impulso a una
competizione sfrenata tra Paesi? Non darebbe ancora più spazio alle forze
nazionaliste, se non a nuove forme di fascismi, che stanno purtroppo
prendendo piede in UE tanto in Paesi che hanno la moneta unica quanto in
altri che non l’hanno adottata? La proposta di un’uscita dall’euro per
rilanciare un percorso di integrazione “solidale” non è forse ancora più
utopica e irrealizzabile di quella pur estremamente complessa di una
profonda riforma delle istituzioni europee?
Per l’ennesima volta, l’integrazione monetaria in assenza di una reale
integrazione politica è stato un errore, ma questo non significa
assolutamente, anzi, che il tornare alle monete nazionali non possa essere
un errore ben più grave e pericoloso.
Uscire dal guado
Ferme restando queste considerazioni, oggi è oggettivamente difficile
sostenere e rilanciare il sogno europeo. Mettere in campo una profonda
riforma delle sue istituzioni, un reale processo di integrazione politico e
sociale, l’imposizione di regole e controlli per il sistema finanziario e via
discorrendo. Procedere lungo queste direzioni, o ipotizzarne e metterne in
campo di diverse, è complicato. Sono chiaramente percorsi più complessi
rispetto allo slogan “no euro” da sventolare in campagna elettorale. Il
problema è che non sembrano praticabili molte altre strade. Per lo meno,
sarebbe il caso di promuovere un dibattito “laico” e approfondito su
vantaggi e svantaggi di un’uscita.
Questo è l’ultimo punto, ma forse il più importante. Oggi il dibattito
sembra polarizzato tra i “si euro” che millantano di carriole di lire per
andare a comprare le patate e “no euro” che accusano chiunque abbia dei
5
dubbi o avanzi delle critiche di essere un completo cretino (di solito gli
epiteti sono più pesanti) o di essere in malafede perché complice di un
qualche complotto globale e “membro del PUDE” (Partito Unico
Dell’Euro n.d.r.). Solitamente si è giudicati dei cretini in malafede, così
non ci si sbaglia.
Forse il problema non è l’Euro in sé ma molto più in generale la
costruzione europea nel suo insieme. L’Euro si inserisce nel paradosso di
un’unica banca centrale e di politiche monetarie uguali per tutti in una
situazione in cui ogni Paese deve gestire autonomamente il proprio debito
pubblico e il bilancio europeo vale meno dell’1% del PIL dei Paesi
membri. Un’Europa a metà del guado, dove vige la moneta unica, una
banca centrale unica e la libera circolazione dei capitali ma non esiste
un’Europa fiscale, sociale e dei diritti. Il problema oggi è come uscire da
questo guado. Se sia possibile tornare indietro o se invece non sia
necessario, per quanto la strada appaia difficile e piena di ostacoli,
continuare a camminare per venirne fuori.
(fonte: Non con i miei soldi)
link: http://www.nonconimieisoldi.org/blog/alcune-riflessioni-sulleuro/
Formazione, pedagogia, scuola
“Non bull-arti di me”, intervista a Ilaria Zomer (di
Elisa Bellardi)
Ilaria Zomer è la responsabile di “Non bull-arti di me”, progetto, nato
all’interno del Centro Studi Sereno Regis, a cui partecipano una ventina di
persone sotto i 30 anni, che ha lo scopo di combattere l’ultima, più
insidiosa, forma di violenza presente soprattutto tra i giovanissimi: il
cyberbullismo. Nuovasocietà l’ha intervistata nel giorno del suicidio di
Chiara, quattordicenne di Venaria che si è buttata dal balcone di casa sua,
probabilmente perché non riusciva più a sopportare tutti gli insulti che
riceveva sui social network, Ask in particolare.
Quando nasce il progetto e in che cosa consiste?
L’idea di “Non bull-arti di me” ha origine a maggio 2013. Siamo rimasti
sconvolti quando è uscito il rapporto di Save the Children sul
cyberbullismo e, visto che nel frattempo era uscito un bando dell’Unione
Europea, abbiamo deciso di partecipare a abbiamo vinto. Da allora
abbiamo girato 13 classi nelle scuole superiori (dalla seconda alla quinta),
cerchiamo un dialogo sul tema e proponiamo laboratori, con l’intento di
creare video o strutture interattive riguardanti l’argomento. Queste
verranno presentate a settembre nelle scuole medie.
Quali sono i vostri intenti?
L’idea alla base è quella di educare i giovanissimi ad una maggiore
consapevolezza, soprattutto per quanto riguarda l’uso dei social network.
Si tratta di un tema delicato, dal momento che la cosiddetta generazione
duemila si trova ad avere a che fare con facebook e affini, fin da quando
sono in grado di avvicinarsi ad un computer, un cellulare o un tablet.
L’approccio è precocissimo e spesso indiscriminato, perché genitori e
insegnanti, facendo parte di un’altra generazione, la maggior parte delle
volte non sono in grado di dare, in questo senso, un’educazione. Mancano
i mezzi per farlo.
Voi, invece, avete tutti dai 18 ai 30 anni.
Noi siamo la generazione di mezzo: abituati ad usare i social, sì, ma in
modo solitamente più consapevole, perché li abbiamo conosciuti dopo
l’adolescenza. Per questo possiamo capire ed aiutare i ragazzi di oggi.
Quello che proponiamo, d’altra parte, vuole anche un po’ essere un
dialogo tra pari, senza paternalismi.
La ragazza suicida di Venaria pare fosse stata insultata pesantemente su
Ask. Pensa che questo social possa essere più pericoloso degli altri?
Sì, senza alcun dubbio. Se altri social nascono con un intento nobile che
poi può degenere, Ask, del tutto anonimo e con fini solo commerciali, è
già in partenza uno strumento potenzialmente dannoso, veicolo di frasi
spiacevoli, a volte insulti e, nei casi peggiori, violenze cibernetiche.
Quindi lei crede che possa essere fatto positivo dei social?
Credo di sì, e penso che i social in fondo siano in parte lo specchio della
vita reale. Per questo si possono creare circoli virtuosi, di aiuto, oppure
viziosi, di insulti e violenze. Ciò che è certo è che sono strumenti potenti,
per forza di cose nelle mani dei giovanissimi e troppo per esserci lasciati
senza alcun controllo.
(fonte: Centro Studi Sereno Regis)
link:
http://www.nuovasocieta.it/torino/non-bull-arti-di-me-intervista-a-ilariazomer/
Immigrazione
Qual'e' la lingua utilizzata negli atti e nella
comunicazione delle pubbliche amministrazioni con
gli stranieri ? - Ricerca PRIN (di Associazione Studi
Giuridici sull'Immigrazione)
Ricevere informazioni in una lingua comprensibile, avere accesso ad una
traduzione degli atti e all'interprete sono diritti dell'individuo riconosciuti
dalla normativa e dalla giurisprudenza nazionale, europea ed
internazionale
Tuttavia, questo riconoscimento, sempre maggiore nelle leggi, ancora non
trova piena corrispondenza nella prassi e nella pratica quotidiana.
L’Associazione Studi Giuridici Immigrazione, grazie alla partecipazione al
Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale riguardante “La lingua come
fattore di integrazione sociale e politica” ed in particolare nell’ambito
dell’unità di ricerca dell’Università degli studi di Milano-Bicocca su “La
lingua negli atti e nella comunicazione dei poteri pubblici statali, regionali
e locali” (responsabile il prof. Paolo Bonetti), ha attivato un monitoraggio
sulle norme, giurisprudenza, circolari e dati concernenti le tematiche
linguistiche relative ai rapporti tra Pubblica Amministrazione e stranieri.
Referente per l’attività di raccolta dati è l’avv. Anna Brambilla.
E' stato predisposto un questionario finalizzato a raccogliere dati sul
territorio al fine di verificare l’uso della lingua da parte delle pubblica
amministrazioni competenti all’ adozione nei confronti dei cittadini
stranieri di atti in materia di ingresso, soggiorno, trattenimento,
allontanamento e di diritto di asilo, considerando sia la lingua utilizzata
nella redazione degli atti stessi, sia la presenza di mediatori e/o interpreti.
Particolare attenzione, nella scelta degli atti e degli ambiti da indagare è
stata riservata al diritto di asilo e agli atti che dispongono l'allontanamento
ed il trattenimento dei cittadini stranieri.
Il questionario, formulato in una versione al fine di facilitare la raccolta di
informazioni, è compilabile online e richiede circa venti minuti di tempo.
Partecipando al monitoraggio e segnalandoci le prassi locali contribuirai a
verificare il reale riconoscimento dei diritti .
Il termine per l'invio dei questionari è il 15 maggio 2014
Cliccate qui per partecipare al monitoraggio:
https://docs.google.com/forms/d/1zU0Rgaev72Hfvq12snJkjuJibyn7n52lD
WOriag860w/viewform
Grazie per la collaborazione
Per contatti e informazioni
Anna Brambilla
[email protected]
(fonte: Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione)
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2049
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Industria - commercio di armi, spese militari
Dai dati F-35 unica certezza: ha senso solo la
cancellazione del programma (di Campagna "Taglia
le ali alle armi")
Nuovo report della campagna “Taglia le ali alle armi”: il programma Joint
Stike Fighter sta sfuggendo al controllo e continua a costare troppo. Già
spesi dall’Italia oltre 720 milioni di euro per acquistare i primi velivoli, i
cui costo medio sarà di 135 milioni di euro.
Presentato a Roma il rapporto “Caccia F-35 la verità oltre l’opacità” della
campagna “Taglia le ali alle armi”, nuovo contributo all’approfondimento
sui cacciabombardieri della mobilitazione che dal 2009 dice NO a questa
inutile spesa militare.
In presenza di opacità e carenze informative è ancora una volta il lavoro
delle reti della Pace e del Disarmo a mettere a disposizione di politica ed
opinione pubblica uno sguardo realistico sul programma militare più
costoso della storia.
Il programma di acquisto degli F35 ha molteplici risvolti, non è “solo” una
questione che riguarda i pacifisti: sono in gioco il modello di Difesa del
nostro Paese e le sue politiche di spesa militare, ma più in generale
l’impostazione strategica che guida le scelte economico-finanziarie del
Governo e l'impiego delle risorse pubbliche in una fase di crisi economica
e sociale drammatica che sta colpendo gran parte dei cittadini italiani.
Governare significa scegliere. Anche e soprattutto in tempi di forte crisi
come questi. Gli oltre 14 miliardi per l’acquisto e lo sviluppo dei
cacciabombardieri (e più di 52 per l’intera gestione del programma)
potrebbero essere spesi molto meglio.
Ciascuna componente acquistata di un F-35 sottrae le risorse necessarie
per affrontare le vere priorità del paese, quelle con le quali i giovani, gli
studenti, i disoccupati, i lavoratori in cassa integrazione, gli abitanti di
territori abbandonati all’incuria si confrontano ogni giorno: mancanza di
occupazione, disagio abitativo, servizi sociali insufficienti, territori a
rischio idrogeologico.
Di seguito i principali elementi messi in luce nel Rapporto:
Il costo complessivo del programma per l’Italia (se confermati 90 caccia)
è in minima ascesa ad oltre 14 miliardi di euro. Ciò dipende dalla crescita
dei costi unitari (e aumenterà ancora soprattutto considerando che gli USA
stanno pensando ad un taglio nelle acquisizioni); si vocifera di riduzioni
nell’acquisto anche nel nostro Paese e ciò comporterà rialzi sui costi
unitari.
La proiezione di costo totale “a piena vita” del progetto rimane su una
stima di oltre 52 miliardi di euro
Per la prima volta vengono elencati in dettaglio tutti i contratti sottoscritti
dall’Italia con gli Stati Uniti, e si dimostra come siano già stati spesi 721
milioni di euro nelle fasi di acquisto (oltre ai 2,7 miliardi per sviluppo e
FACO
Sono 126 i milioni di euro già spesi per i primi tre caccia (quelli del Lotto
VI in prospettiva meno utilizzabili), sforando qualsiasi precedente stima
del Ministero della Difesa. Secondo la nostra campagna la stima attuale
media (conservativa) per aereo è di 135 milioni di euro complessivi
Le problematiche tecniche e di gestione che continuano a rimbalzare dagli
Usa ci parlano di un programma in difficoltà, e per questo pericoloso
anche per i partner internazionali, anche se Pentagono e Lockheed Martin
minimizzano e continuano nel loro percorso. Tutto ciò però deve essere
elemento da considerare attentamente da parte del nostro Parlamento, se
vuole essere serio a riguardo di questa spesa pubblica
Nel corso del 2013 il Governo italiano ha proseguito l’acquisto dei caccia
non attenendosi alle indicazioni delle mozioni di metà anno votate alla
Camera e al Senato. Ciò è avvenuto non solo comprando definitivamente
3 + 3 aerei dei Lotti VI e VII con una giustificazione risibile (“si erano già
sottoscritti contratti per inizio acquisto”, ma tali tipi di accordi non erano
assolutamente vincolanti) ma anche facendo partire repentinamente anche
il nuovo procurement del Lotti VIII e IX appena qualche giorno dopo
l’ultimo voto in Senato
I dati relativi al ritorno industriale, estrapolati da diverse fonti e
confermati anche da Lockheed Martin, confermano ad oggi un rientro per
le aziende del nostro paese di circa il 19% in confronto all’investimento
pubblico (meno di 700 milioni di euro sui 3,4 miliardi già spesi dal
Governo italiano)
Le aggiornate stime di costo permettono di continuare il confronto tra la
spesa per i caccia ed altri utilizzi, più sensati, dei fondi pubblici. In
particolare con lo stanziamento medio annuale previsto per i prossimi tre
anni di 650 milioni di euro si potrebbero creare 26000 posti di lavoro
qualificati, o mettere in sicurezza circa 600 scuole all’anno oppure non
tagliare ma aggiungere risorse in più al Servizio Sanitario Nazionale
rafforzando anche i servizi di medicina territoriale H24
Inoltre ad un confronto diretto (sempre opportuno) un F35A (il cui costo
complessivo è attualmente stimabile in 135 milioni di euro) è pari alla
spesa necessaria per:
la retribuzione di 5400 ricercatori per un anno;
la messa in sicurezza di 135 scuole (rispetto norme antincendio,
antisismiche, idoneità statica);
accettata deve essere imposta». La impose e finì in una guerra mondiale:
1940-1945.
Quando parlava così, intere folle lo applaudivano. Aveva una grande
abilità oratoria, e politicamente era molto più colto di gran parte dei
politici di oggi. Direi, anche dell’attore Beppe Grillo e del primo ministro
Matteo Renzi. Usava con tempismo le pause (lo fa anche Grillo) e
utilizzava frasi ad effetto e aforismi (lo fanno, meno bene, Grillo e Renzi:
generalmente il primo per offendere, il secondo per difendersi). Nel 1939,
gridò ai suoi: «Credere. Obbedire. Combattere. In queste tre parole fu e
sarà il segreto di ogni vittoria», così come nel 1928, rivolgendosi agli
industriali aveva detto: «Io affermo che in tempi di crisi è nell’interesse
degli operai accettare una decurtazione dei salari». Sembra oggi.
Grillo si muove, si agita, aggrotta le sopracciglia, rotea gli occhi
arrotondandoli alla Mussolini, per attirare l’interesse del pubblico. Vuole
la disciplina, i suoi devono firmare: chi non si adegua paga una penale in
denaro. Incredibile. Recita, e il pubblico accorre anche perché si diverte.
Avendo ottima memoria come attore, ripete i testi che preparano i suoi
autori: quando è intervistato per strada, o ripropone frasi fatte o battute
oppure fingendo di sfuggire ai giornalisti (non ama la libertà che si
prendono i giornalisti) corre su una spiaggia o si allontana, incappucciato,
sotto la pioggia, non risponde. È bravissimo nel far parlare di sé, anche
quando non ha niente da dire.
Gioca con le boutades, i calembours (che poi sono i primi giochi di parole
dei bambini), e con la deformazione dei nomi degli avversari. Chiama
Renzi “Renzie”, Formigoni ”Forminchioni”, Letta “Barzelletta”, Monti
“Rigor mortis”, Elsa Fornero “Elsa Frignero”, Bersani “Gargamella”,
Napolitano “Morfeo”, Fassino “Salma”, Berlusconi “Al Tappone” e via di
questo passo. IL PD è Pdmenoelle e anche “la peste rossa”. Molti ridono,
ma in questo modo il grillosfascismo scala le classifiche dei sondaggi, che
danno il movimento alle spalle del PD. Il giorno che si impadronissero del
potere che cosa faranno Grillo e Casaleggio, i due amici cofondatori del
M5s ed esperti di marketing tv? Diranno: credere, obbedire, combattere.
l'acquisto di 21 treni per pendolari con 12.600 posti a sedere;
la garanzia di 33.750 borse di studio di 4000 euro per gli studenti
universitari;
la partecipazione di 20.500 ragazzi al Servizio Civile Nazionale;
la costruzione di 405 nuovi asili capaci di accogliere 12,150 bambini e
creare 3645 nuovi posti di lavoro;
l'accoglienza dignitosa di 10.567 richiedenti asilo per un anno.
(fonte: Controllarmi: rete per il disarmo)
link: http://www.disarmo.org/nof35/dai-dati-f-35-unica-certezza-ha-senso-solo-lacanc
Politica e democrazia
Il linguaggio di Grillo, di Renzi e di Mussolini (di
Mario Pancera)
Sentenze, aforismi, parole d’ordine. Chi accusa e chi si difende. I
lavoratori? In balìa di tutti.
di Mario Pancera
«La parola d’ordine non può essere che questa: disciplina. Disciplina
all’interno per avere di fronte all’esterno il blocco granitico di un’unica
volontà nazionale», diceva agli italiani, nel 1925, Benito Mussolini, allora
capo del governo e ormai padrone del Paese. Il fondatore del fascismo era
arrivato al potere, che quasi non se l’aspettava nessuno, visto il tasso di
analfabetismo e la scarsissima diffusione dei mezzi di comunicazione.
Eppure li aveva avvertiti fin dal 1922, quando in un discorso a Udine
aveva sentenziato: «La disciplina deve essere accettata. Quando non è
7
Diceva ancora Mussolini: «Noi andiamo forse verso un periodo di umanità
livellata sopra un tenore di vita più basso. Non bisogna allarmarsene.
Questa può essere un’umanità fortissima, capace di ascetismi e di eroismi
come noi in questo momento forse non immaginiamo». Era il 1934,
cinque anni dopo il crollo di Wall Street e verso la fine della grande crisi
mondiale che ne era seguita. Un’ “umanità fortissima” diceva il duce del
fascismo: quella che da una parte avrebbe ideato la soluzione finale, e
dall’altro l’avrebbe subita nei campi di sterminio.
E il linguaggio di Renzi?, domanderà qualcuno. Renzi che, parlando degli
80 euro per gli stipendi più bassi, dice «Questo è solo l’antipasto»? E poi
promette la «rivoluzione». Ahinoi. Ecco un paio di esempi: «La politica
deve essere conquista, deve essere senza rete. Bisogna sudare e
combattere, essere pronti a rimettersi in gioco. Come diceva Clint
Eastwood: “Se vuoi una garanzia allora comprati il tostapane”». E anche:
«Noi, parlo della mia generazione, siamo a un bivio. Dobbiamo scegliere
se fare i polli di batteria o avere il coraggio di usare un linguaggio
diverso».
Qui sono senza parole, ma questo è il linguaggio dei leader di oggi. Cerco
di stare soltanto alla cronaca. Dove è finito il lavoro: nel precariato. Gli
ideali: nei film western. I lavoratori sono disorientati, appaiono distrutti,
come individui e come organizzazioni sindacali. Se poi alle elezioni
europee vincessero gli anti-euro, una eventuale inflazione li porterà al
livello del quarto mondo.
Voce dal loggione: E come mai i partigiani oggi sono chiamati “ribelli”?
Seconda voce: È il linguaggio…
Terza voce: Chiamiamoli partigiani.
Prima voce: Meglio “patrioti”.
(Silenzio in sala)
Mario Pancera
NB. Ho preso le citazioni mussoliniane dal libro “Il linguaggio di
Mussolini”, ed. Bompiani, di Augusto Simonini, un grande studioso
scomparso trent’anni fa; le altre dai mass media.
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2054
Questione di genere
Quando il comune aiuta (di Michela Giannone)
È vero che una donna che lavora fa meno figli? Un’analisi mostra come
questa idea sia infondata. Contano i contesti territoriali e le politiche
predisposte dai comuni per i servizi all’infanzia. I quali a loro volta
rispondono a logiche ben precise. Vediamo quali.
Negli ultimi decenni si sono verificati importanti cambiamenti nel mondo
del lavoro e, in senso più ampio, nella società: è andata aumentando
l’occupazione femminile e le relazioni tra partner sono andate
orientandosi verso modelli famigliari improntati a forme più paritarie di
divisione dei compiti tra uomo e donna. Questi cambiamenti avrebbero
dovuto essere accompagnati da politiche del lavoro e dei servizi volti a
favorire il bilanciamento tra tempi di vita e tempi di lavoro. L’idea del
work-life balance nasce dalla ricerca di un equilibrio tra lavoro dentro e
fuori la famiglia, tema centrale delle politiche di promozione e sostegno
dell’occupazione femminile in Italia e in Europa. Conciliare significa
mettere le coppie nelle condizioni di poter prendere delle decisioni in base
alle proprie aspettative ed ai propri progetti di vita. Se le politiche della
famiglia non sostengono le scelte di lavoro, ne deriverà un impatto sulla
povertà e sulla distribuzione dei redditi nel paese. Occorre dunque
investire nella valorizzazione e nel sostegno del lavoro femminile, risorsa
preziosa per tutta la società.
L'obiettivo di questo lavoro consiste nell’analisi dell’offerta di servizi alla
prima infanzia in Italia, attraverso la valutazione di quei fattori che
influenzano maggiormente il tasso di copertura degli utenti di questi
servizi. L’Italia ha un livello di fecondità tra i più bassi dei paesi
sviluppati, risultato di una progressiva diminuzione delle nascite che è in
atto già dalla metà degli anni ‘60. Subito dopo il "baby boom", dal 1965 in
poi, è iniziato infatti un periodo di progressivo e rapido declino della
fecondità che ha portato l’Italia a toccare il suo minimo storico nel 1996
con 1,2 figli per donna. Solo negli ultimi anni si sta assistendo a una lieve
ripresa del tasso di fecondità totale, grazie anche al contributo delle donne
straniere.
Nell’analisi dei servizi all’infanzia è necessario tener conto delle
differenze territoriali che interessano le diverse aree geografiche del
Paese, riconducibili anche a diversi sistemi di welfare territoriale. Ciascun
sistema di welfare, infatti, si caratterizza per una diversa capacità di
risposta alla domanda di servizi all’infanzia. Per questo motivo, in questo
studio si è scelto di considerare le seguenti quattro aree di aree di welfare
territoriale: l’Italia rossa (Valle d'Aosta, Emilia Romagna, Toscana,
Umbria, Marche), l’Italia industriale (Piemonte, Lombardia, Liguria),
l’Italia bianca (Veneto, Friuli Venezia Giulia) e il Centro Sud (Lazio,
Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e
Sardegna)
...... (continua con grafici)
(fonte: InGenere: donne e uomini per la società che cambia)
link: http://www.ingenere.it/articoli/quando-il-comune-aiuta-le-donne-con-figli
Volontariato
Una ‘fotografia’ del volontariato toscano (di
CESVOT)
In Toscana 3359 associazioni di volontariato e 300mila volontari attivi.
Il 75% delle organizzazioni opera in ambito sociale e sanitario. In
aumento il volontariato culturale e ambientale
Volontari e associazioni in Toscana
Il volontariato toscano registra un incremento costante delle associazioni.
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Dalla banca dati Cesvot risulta, infatti, che nel 2003 le associazioni di
volontariato toscane erano 2144, nel 2006 erano 2544, nel 2011 erano
3209 ed oggi sono arrivate a 3359 di cui 3286 iscritte al Registro del
volontariato. I volontari attivi in Toscana sono 300mila.
Oltre l’80% delle organizzazioni di volontariato ha attivato forme di
collaborazione stabili con Cesvot, partecipando ad attività, progetti e
servizi promossi dal Centro Servizi. La gran parte delle associazioni
toscane è attiva nel sistema di welfare. Oltre 75% opera in ambito sociale
e sanitario: sono almeno 187 le associazioni toscane impegnate
nell’ambito della disabilità, 295 quelle a sostegno degli anziani, 600 quelle
che si occupano di donazione di sangue e organi.
A partire dal 2011 si registra un aumento consistente di associazioni che si
occupano di promozione culturale e tutela dei beni culturali (331), tutela
dell’ambiente (219), promozione dell’intercultura e dei diritti dei migranti
(167), protezione civile (188) e volontariato internazionale (95). Il 51%
delle associazioni toscane è di piccole dimensioni (meno di 20 volontari).
Il 71,3% dichiara una matrice aconfessionale. Il 48,6% delle associazioni è
nata tra i 5 e i 14 anni, il 39% è nata da più di 15 anni e il 12,6% è nata tra
1 e 4 anni.
Volontariato ed enti locali
I principali soggetti finanziatori del volontariato toscano sono i Comuni
(57%), ma se si considerano le organizzazioni che operano in ambito
socio-sanitario, l’83% ha come interlocutore l’Asl. Infine, circa il 20%
delle associazioni ha convenzioni con la Provincia e la Regione. Sulla
base dei dati di una ricerca sull’affidamento dei servizi pubblici alle
organizzazioni di volontariato toscane, promossa da Cesvot e realizzata da
Cnv, si stima che solo nel 2006 le associazioni di volontariato abbiano
attivato con i principali enti pubblici della Toscana oltre 600 convenzioni
per un totale di circa 50 milioni di euro.
Chi sono i volontari toscani?
Questo l’identikit dei volontari toscani: hanno mediamente un’età
compresa tra i 30 e i 54 anni, il 52% ha un’occupazione fissa, quasi la
metà sono donne (46%), ma a partire dalla metà degli anni 90’ si registra
un aumento delle organizzazioni in cui la componente femminile è
prevalente (che costituisce cioè oltre il 50% dei volontari). La gran parte
dei volontari giovani è studente universitario e ha un’età compresa tra 1924 anni.
Anziani e giovani sono presenti soprattutto in associazioni di piccole
dimensioni, mentre nelle organizzazioni medie e grandi è più consistente
la presenza di volontari con età tra i 35 e i 55 anni.
Il 45% dei volontari toscani dichiara che fare volontariato è una scelta
dettata da una motivazione etica (religiosa e/o laica). Il 63,8% dichiara che
per migliorare la loro organizzazione occorrerebbe favorire l’afflusso di
un maggior numero di volontari nell’organizzazione, mentre sono
soprattutto i volontari maschi ad evidenziare la necessità di favorire
l’afflusso di nuovi finanziamenti mediante opportune attività di fund
raising.
link: http://www.aadp.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2045
Notizie dal mondo
Africa
Rwanda 1994-2014: un milione di motivi per
ricordare (di Dario Lo Scalzo)
Venti anni dopo il genocidio, che ha sterminato in pochi mesi oltre un
milione di ruandesi, è doveroso rievocare e trasformare la memoria in una
forza positiva che possa fare convergere il passato al presente in maniera
da seminare un nuovo coraggio e nuove speranze contagiose. Parliamo del
coraggio di spingere tutti insieme il mondo verso la tutela dei diritti umani
e di sensibilizzare le popolazioni e i potenti del mondo verso una civiltà
nonviolenta, perché solo di nonviolenza potrà nutrirsi realmente il senso
della vita.
La vicenda ruandese si erge a simbolo di un’epoca insensata, quella che
stiamo vivendo, che ha posto la barberie e la disumanizzazione al centro
della scena mondiale come forme e modelli di consenso e di
appropriazione. Violenza e sopruso, piloti indisturbati del mondo
moderno, tracciano inevitabilmente la rotta del declino sociale e
l’appiattimento a un’epoca di profondo stallo che segna il disfacimento del
valore dell’amore e lo smarrimento dell’Umanità; sintomi e piaghe di gran
lunga più pericolosi della crisi congiunturale e di quella economica che
oggi sono sulla bocca di tutti.
allo stesso tempo si è fatto tanto e adesso è importante rafforzare
l’impegno nei confronti dei giovani e delle loro famiglie che vivono in una
tremenda povertà. E’ importante sostenere i diritti delle donne che sono
maggiormente impattate dalla povertà così come i sopravvissuti al
genocidio.
Abbiamo contattato Sulah Nuwamanya, responsabile dell’area Partnership
Development and Communications di ActionAid Rwanda, per avere una
testimonianza da parte di chi vive la quotidianità ruandese adoperandosi in
prima linea per garantire l’inclusione e la giustizia sociale.
Il Rwanda è un paese molto giovane e proprio per quello il suo futuro
dipende dal supporto ai bisogni delle nuove generazioni, dalla protezione
dei loro diritti e dalla capacità di fuoriuscire dalla povertà e da ogni forma
d’ingiustizia. Guardando indietro alle atrocità subite la gente si incupisce,
ma la maniera con cui si guarda avanti è positiva. C’è un aumento di
ottimismo tra i ruandesi. Il paese ha svoltato e specialmente i giovani
vogliono sentirsi parte di un Rwanda unito e sostenibile.
Siamo a 20 anni dal drammatico genocidio, come sono stati vissuti questi
vent’anni in Rwanda e che tracce rimangono di quell’assurdo periodo
storico?
Nel 1994, in Rwanda, con un atto premeditato nell’arco di 100 giorni
furono uccise oltre un milione di persone dalle milizie estremiste degli
Hutu. Oltre il 20% della popolazione venne uccisa in un vero e proprio
genocidio contro i Tutsi. Si è trattato di uno dei momenti più significativi
per il continente africano e probabilmente uno dei maggiori crimini contro
l’umanità del ventesimo secolo che ha avuto ed ha tuttora un’enorme eco a
livello mondiale. Vent’anni dopo, il genocidio continua a condizionare il
Rwanda, la politica ed anche la psiche del popolo ruandese. Il paese fu
ridotto al lastrico, l’intero tessuto socio-economico e politico fu distrutto;
le donne e i bambini in particolare furono lasciati a farsi carico del peso di
una società devastata. Tuttavia è importante guardare anche a ciò che è
stato ottenuto dopo il risveglio da una tale tragedia, così come è
ugualmente importante focalizzarsi su ciò che occorre ancora fare. Il
Rwanda ha ottenuto successi ragguardevoli negli ultimi anni, come la
riduzione della povertà in concomitanza con una forte crescita economica.
Grazie agli aiuti internazionali inoltre si è assistito a un impressionante
progresso di servizi essenziali come la salute, l’istruzione, l’agricoltura e
lo sviluppo delle infrastrutture.
Violenza, indigenza, povertà, violazione dei diritti umani, fame, tensioni
sul territorio congolese, cosa rimane concretamente di tutto ciò oggi?
Ci sono ancora milizie armate nelle Repubblica Democratica del Congo
dove covano ideologie di genocidio che rappresentano tuttora fattori
destabilizzanti nell’intera regione. ActionAid lavora proprio nelle aree del
Rwanda, del Congo e del Burundi ed è convinta che le Nazioni Unite e
l’Unione africana dovrebbero prendere la leadership ed esercitare una
maggiore influenza sugli attori coinvolti. In Rwanda, nessuno vuole che si
ritorni alle uccisioni. C’è troppo da perdere. Per questa ragione sono state
messe in piedi iniziative miranti all’unità, alla smobilitazione e al
reintegro delle forze armate ufficiali in maniera da incoraggiare tutti i
ruandesi a lavorare insieme e riconciliarsi. Siamo convinti che ci sia una
connessione tra il sostenere i diritti e rispondere ai bisogni base e che per
il progresso i ruandesi debbano potere scegliere liberamente un sistema
politico democratico ed beneficiare di un sistema giudiziario imparziale
Continuando a parlare di presente, che Rwanda è quello attuale?
Il Rwanda di oggi è un paese trasformato rispetto al genocidio del 1994
dal quale è fuoriuscito in frantumi. Negli ultimi vent’anni si è assistito a
una crescita annua di oltre il 5% trainata soprattutto dall’export del caffè e
del the e dal turismo. Ciononostante, la povertà rappresenta ancora un
serio problema e il Rwanda è dipendente dagli aiuti. Nel 2014 circa il 45%
dei ruandesi vive sotto la soglia della povertà rispetto al 60% del 2004. Gli
aiuti del governo sono calati dall’85% del 2000 al 40% se prendiamo in
conto il budget statale del 2013-2014. La maggior parte della popolazione
vive come piccolo proprietario terriero in condizioni di sussistenza e di
questa porzione di popolazione l’85% è rappresentata da donne che
sopravvivono coltivando piccoli appezzamenti di terra per sfamarsi. Ma
9
Il Rwanda è un paese giovanissimo con un’età media di quasi 19 anni e
con due terzi della popolazione al di sotto dei 15 anni. Una popolazione
più votata al futuro che a rievocare un passato così triste?
Pensi che il mondo occidentale e il resto del mondo abbiano imparato
qualcosa dalla vicenda ruandese e pensi che la memoria del genocidio
possa tracciare in qualche maniera un cammino di costruzione della
moralità su scala planetaria?
Il mondo sembra avere imparato qualcosa da quanto accaduto in Rwanda e
crediamo che adesso il genocidio rimbombi nelle menti delle persone
come garanzia che ciò che accaduto non possa accadere mai più e che non
accada mai in nessuna parte del mondo. Durante il genocidio, le Nazioni
Unite e paesi come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e il Belgio furono
criticati per la loro inoperosità e per il fallimento nel consolidare le forze e
il mandato dell’UNAMIR (United Nations Assistance Mission for
Rwanda). Alcuni attivisti di pace e altri osservatori criticarono il governo
francese per il fatto di sostenere il regime del genocidio. Il genocidio ha
avuto un profondo impatto sul Rwanda ma anche sui paesi vicini. Il
pervasivo ricorso allo stupro è culminato con la diffusione dell’infezione
dell’HIV, alla nascita di bimbi figli della violenza e dal proliferarsi di
madri infette; molte famiglie furono guidate da bambini orfani o da
vedove. La decimazione delle infrastrutture e della popolazione del paese
hanno mutilato l’economia. Ciò che è accaduto non deve mai più accadere
non solo in Rwanda ma in nessun’altra parte del mondo. Ciò che è
accaduto è stato totalmente folle e credo che il mondo abbia appreso la
lezione.
Dario Lo Scalzo
Fonte: pressenza.it
(fonte: Unimondo newsletter)
link: http://www.unimondo.org/Notizie/Rwanda-1994-2014-un-milione-di-motiviper-ricordare-145474
America Latina
Mininotiziario America Latina dal Basso n. 4/2014
del 24.04.2014
A CURA DI ALDO ZANCHETTA
www.kanankil.it / [email protected]
Questi documenti sono diffondibili liberamente, interamente o in parte,
purché si citi la fonte
Mettiamo un po’ di cose a posto nelle nostre idee sull’America Latina (con
l’aiuto di Andrés Soliz Rada)
Andrés Soliz Rada <<E’ un avvocato, giornalista, dirigente sindacale,
professore universitario e politico boliviano. E’ stato uno dei più
autorevoli difensori della risorse naturali della Bolivia e fu nominato
Ministro degli Idrocarburi dal presidente Evo Morales>>. Così Wikipedia
su questo rilevante personaggio. Un uomo duro, senza troppi
accomodamenti, con la lingua ben sciolta.
“Fu nominato Ministro degli idrocarburi dal presidente Evo Morales”.
“Fu”, appunto, ma venne dimissionato dallo stesso Morales. Ma su questo
Wikipedia tace. Soliz Rada era stato l’autore del progetto di
nazionalizzazione del petrolio e del gas del paese, rimasto però a metà
dopo le sue dimissioni, chieste dal governo brasiliano a Morales e
ottenutele nel giro di pochissime ore nel settembre 2006, dopo un duro
scontro fra il ministro boliviano e l’impresa petrolifera brasiliana
Petrobras. Ma per quasi tutti la Bolivia ha “nazionalizzato” le sue risorse
petrolifere e Morales ne riscuote il successo (in realtà, buona cosa certo,
ha solo aumentato sensibilmente le royalties che il paese riscuote).
Questi alcuni dei fatti che potrebbero aiutare a ripensare molte leggende
metropolitane quali il Brasile paese progressista leader dell’unità
sudamericana (ma non la pensa proprio così Raúl Zibechi nel suo libro
“Brasil potencia”)[1], Morales il presidente indio (che non parla alcuna
lingua indigena), autore di molte nazionalizzazioni (a metà, come quella
degli idrocarburi). E altre leggende che emergeranno dalla lettura di
questo articolo di Soliz Rada, interessante per molti versi.
LA
NATO,
IL
SUDAMERICA
E
BERGOGLIO
(www.elnacionaltarija.com/?p=57258)
di Andrés Soliz Rada
Poche settimane dopo che il Vicepresidente Álvaro García Linera ebbe
lanciato un appello all’Europa affinché “torni a illuminare il destino del
continente e del mondo” (“Página 7”, 13-04-14), la Nato ha realizzato
esercitazioni missilistiche atomiche nelle isole Malvinas (che certamente
avrà chiamato Falkland, ndt). Nel febbraio 2009 l’Unione Europea
informò di possedere istallazioni militari nelle isole argentine. La gittata
dei missili abbraccia tutto il Sudamerica e viola risoluzioni dell’ONU che
vogliono convertire l’Atlantico del Sud in oceano di pace e di
cooperazione (il caso vuole che questo fosse anche il progetto iniziale
dell’Unione Europea……ndt).
Le parole di García si inquadrano nella decisione ufficiale di esportare il
gas oltremare, attraverso un porto peruviano, in una riedizione dei progetti
degli ex-presidenti Jorge Quiroga e Gonzalo Sánchez de Lozada, terminati
con la defenestrazione di quest’ultimo. Per la verità, Bolivia manca di
riserve adeguate per questa impresa. Quello di cui in realtà si tratta è di
permettere che le società petrolifere iscrivano al proprio attivo le future
scoperte di gas che potranno verificarsi sul nostro territorio. Tuttavia,
nell’immediato, questo implicherebbe il suo virtuale abbandono del
MERCOSUR per unirsi all’Alleanza del Pacifico[2], assieme a Messico,
Perù, Cile e Colombia.
Allo stesso tempo Evo (Morales) e la COB[3] si sono accordati perché 4
miliardi di dollari dei fondi pensione dei lavoratori venissero prestati a
banche dell’Unione Europea e degli Stati Uniti a un tasso di interesse
inferiore allo 0,5% annuo. Questo ha portato Alejando Zegada[4] a
domandarsi se anche la ex combattiva COB sia diventata neoliberista (“El
País”, Tarija, 21-04-14).
Dallo scorso anno la Bolivia presta alla Banca mondiale il 90% delle sue
riserve monetarie, oltre agli elevati saldi di cassa di progetti non realizzati
da municipi, governi regionali e governo centrale. Quest’ultima
operazione è gestita dalla corrotta (banca statunitense ndt) J.P.Morgan. Il
paese esporta in prodotti minerari 3 miliardi di dollari all’anno e riceve
nello stesso periodo 150 milioni di dollari.
In altre latitudini l’abbandono di politiche difensive di fronte al potere
mondiale è molto grande. Società petrolifere statunitensi ed europee
controllano quasi interamente il petrolio messicano. Come potrebbero
cambiare le cose se PEMEX, PETROBRAS e PDVSA[5] fossero la base
di un’unica impresa latinoamericana del gas e del petrolio? La nuova
legge per gli investimenti di Cuba prevede che il capitale transazionale
servirà a risolvere i suoi problemi strutturali. Cosa penserebbe il Che
Guevara di questa politica? L’Argentina è strangolata dal suo debito
estero. Il Presidente Chávez non poté gestire ordinatamente la
macroeconomia del Venezuela. Il capitale finanziario approfittò di questo
errore per indebolire al massimo il progetto emancipatore.
L’imperialismo sta dimostrando che può strangolarci non solo tramite il
10
controllo delle nostre risorse strategiche: minerali, petrolio, sementi e
foreste, ma anche col fumo delle sigarette. Il CIADI[6] ha condannato
l’Uruguay, su richiesta della Philip Morris, al pagamento di 2 miliardi di
dollari per non aver proibito che le scatole delle sigarette avvertissero del
danno causato dal tabacco alla salute umana. La miope borghesia paulista
continua a proibire la nascita di una Banca che concentri le riserve
monetarie della regione.
Di fronte a queste sventure si deve segnalare come fatto positivo
l’allineamento di papa Francesco alla causa latinoamericana. Già nel 2005,
nel prologo al libro ““Una apuesta por América Latina” (Una scommesssa
per l’America Latina) dell’uruguayano Guzmán Carriquiry, Jorge Bergolio
scriveva: “Innanzi tutto si tratta di percorrere le vie dell’integrazione verso
il progetto dell’Unione Sudamericana e la Patria Grande. Soli, separati,
contiamo assai poco e non andremo da nessuna parte. Sarebbe una strada
senza uscita che ci condannerebbe come segmenti marginali, impoveriti e
dipendenti dai grandi poteri mondiali” (Marcelo Gullo: “Patria Grande”,
abril 2014). Se unissimo i documenti del CELAC[7], dell’ALBA[8], del
MERCOSUR[9] e dell’UNASUR[10], che riflettono i progressi della
coscienza emancipatrice dei nostri paesi, con le posizioni del Pontefice
concluderemmo che la causa bolivariana non è perduta.
POSTSCRIPTUM ovvero considerazioni del tutto personali, ammassate in
modo confuso, così come mi sono venute leggendo Soliz Rada. Uno
scritto breve come questo di un uomo libero come Soliz Rada dice tante
cose, a chi ha orecchi per intendere.
Il 18 giugno 2012, in occasione della visita del presidente Morales a Roma
scrivevamo: <<Con l’occasione Evo Morales ha dedicato parte del suo
tempo ad un incontro coi movimenti sociali romani che lo hanno
festeggiato calorosamente durante un incontro organizzato dalla Rete dei
Comunisti che per l’occasione hanno diffuso un manifesto di benvenuto
nel quale si legge fra l’altro: “Dopo decenni di dittature militari e di
governi venduti alle multinazionali e al Washington Consensus, la Bolivia
di Evo Morales ha dato un contributo decisivo al cambio di marcia
dell’America Latina. Un processo di trasformazione progressista
caratterizza l’America Latina del XXI Secolo indicando a tutti i paesi
emergenti, ma anche all’Europa in preda alla crisi, una alternativa
credibile al capitalismo e al modello liberale.” Fummo in pochi(ssimi) a
tenere le distanze. (Mininotiziario n 20 del 18.06.2012).
A questo proposito ricordo, per chi non ama le analisi semplificate al
punto da non avere più legame con la realtà, l’eccellente articolo di Raúl
Zibechi “Il socialismo del petrolio” apparso in questi giorni su
www.comune-info.org.
La denuncia da parte di Soliz Rada dei prestiti del governo boliviano alle
istituzioni capitaliste a tassi scandalosamente bassi sono reiterate nel
tempo, ma non sono raccolte come elemento essenziale di valutazione se
non da parte di una esigua minoranza.
L’Unione Europea sta trattando, in segreto, con gli Stati Uniti il TTIP,
ovvero il “Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli
Investimenti” infarcito di progetti come il CIADI di cui sopra. L’opinione
pubblica, con valido aiuto dei mezzi di informazione, sembra assente,
quasi le conseguenze non la riguardassero. Se ne volete sapere di più
leggete di John Hilary l’eccellente opuscolo “Il partenariato transatlantico
per il commercio e gli investimenti”.
L’accenno alla NATO e alle sue basi nelle isole Malvinas. Non vi ronza
nel cervello la bagarre per le vicende di Crimea? Due pesi e due misure?
L’accenno a papa Bergoglio. So che disturberà molti che hanno caro un
certo schema mentale, che non ammette evoluzioni né eccezioni. Ma,
come dice l’amico Roberto Massari di Utopia Rossa, il cambiamento della
chiesa di Roma è un fatto che deve interessare tutti coloro che hanno in
mente un cambiamento del mondo e che sono coscienti che questo non si
realizzerà senza una convergenza ampia di forze. Per questo la sua casa
editrice pubblica una eccellente collana di saggi sul cristianesimo che
consiglio vivamente anche a non credenti (www.massarieditore.it)
Concludo, per non annoiare oltre. Mi riferisco alla citazione che Soliz
Rada fa all’inizio del discorso tenuto da García Linera alla IV Assemblea
della Sinistra Europea di Madrid, terminata con l’incoronazione di Tsripas
come candidato alla presidenza dell’Unione europea. García Linera viene
considerato, forse giustamente, come uno dei più brillanti sociologi
latinoamericani. E il discorso fatto a Madrid resterà negli annali, come sta
accadendo per il discorso incantatore di Pepe Mujica a Rio. Ma averlo
invitato a tenere la lectio magistralis all’Assemblea della Sinistra Europea
(non “una delle” sinistre europee, ma “la” Sinistra Europea tout court,
secondo uno stile di auto-elezione un po’ volgare) può significare due
cose. O “questa” sinistra europea vive, per quanto riguarda l’America
Latina, di leggende metropolitane appena orecchiate, tanto da compiere
scelte sbagliate di persone da ascoltare, oppure ne condivide la pratica:
belle parole al di sopra e al di fuori delle pratiche.
Scusate, se credete, le molte impertinenze.
A.Z.
[1] Vedi anche il Mininotiziario n 4/2012, “Il Brasile e la sua funzione sub
imperialista” (ndt)
[2] Vedi il Mininotiziario n 30/2013 (ndt)
[3] COB, Central Obrera Boliviana già la più combattiva di tutto il
Sudamerica (ndt),
[4] Giornalista boliviano Per l’articolo vedi bolivia.patobot.com/?m=elpais-bolivia&s... (ndt)
[5] Rispettivamente compagnie petrolifere di Stato di Messico, Brasile e
Venezuela (ndt)
[6] Il CIADI è un’istituzione della Banca mondiale creata per definire le
vertenze fra imprese investitrici e governi nazionali (ndt)
[7] CELAC, Comunità degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi, creata
nel 2010 (ndt)
[8] ALBA, Alleanza Bolivariana delle Americhe promossa da Chavez e
Castro nel 2004 cui aderiscono altri paesi fra i quali Nicaragua, Ecuador,
Bolivia (ndt)
[9] MERCOSUR, Mercato comune fra Brasile, Argentina, Uruguay,
Paraguay, sottoscritto nel 1991. Attualmente il Paraguay è stato sospeso
dopo il golpe contro il presidente Lugo mentre nel 2012 è entrato a farne
parte il Venezuela (ndt)
[10] UNASUR, Unione delle Nazioni Sudamericane, costituita nel maggio
2008 (ndt)
Recensioni/Segnalazioni
Libri
Se dici guerra… (di G. Alioti, G. Casarrubea, R. De
Simone, T. Di Francesco, M. Di Nucci, A. Mazzeo, A.
Pascolini)
Abbiamo cercato, in questo lavoro collettivo, di definire la parola guerra
per restituirle tutti i suoi significati materiali. La guerra non è solamente
quella guerreggiata, quella che annichilisce le vite di una umanità già
sofferente per lo sfruttamento (sempre più senza limiti) di lavoro, risorse e
ambiente.
La guerra è, prima e dopo, il periodo di “pace” in cui viene
scientificamente preparata, apparecchiata, organizzata ed infine inoculata
e scatenata. In questo senso la guerra è davvero permanente e strutturale:
la guerra e la pace coincidono. Di fronte a questa tremenda evidenza,
l’approccio etico è sostanzialmente inutile perché la guerra è da molto
tempo soltanto il risvolto più brutale di un modo di produrre e consumare
che si regge su un’unica legge fondamentale: massimizzazione e
militarizzazione del profitto. Dopo l’89 l’Italia è diventata un paese
belligerante senza se e senza ma. Il persistente cieco atlantismo, la
cessione di sovranità a favore delle esigenze militari e strategiche
statunitensi, la creazione di un esercito professionale da offrire come
corpo di spedizione per le peggiori avventure, la volontà di convertire
Finmeccanica alla sola produzione militare, le porte scorrevoli attraverso
le quali sempre più alti ufficiali passano dai comandi ai consigli di
amministrazione, sono i cinque punti di forza su cui questa pericolosa e
criminale belligeranza si fonda. Il “che fare” di un pacifismo conseguente
11
ed incisivo non può prescindere da una lettura chiara ed organica di questi
aspetti né esimersi dall’individuare i punti deboli di questa catena per
tentare di farli saltare. Il tema della riduzione delle spese militari, se si
risolve in se stesso, può persino trasformarsi in uno strumento utile a
rendere più sostenibile la guerra stessa nel quadro di un grande corpo di
spedizione europeo al servizio degli interessi statunitensi e del big
businnes neocoloniale. Con questo libro vogliamo offrire al lettore la
possibilità di confrontarsi con la complessità delle questioni che ci portano
ad essere legati mani e piedi alle dinamiche della guerra permanente
globale ben sapendo che questa situazione ci trasforma tutti, in quanto
cittadini di un paese belligerante e “di parte”, in obiettivi strategici nostro
malgrado.
G. Alioti, G. Casarrubea, R. De Simone, T. Di Francesco, M. Di Nucci, A.
Mazzeo, A. Pascolini. A cura di Gregorio Piccin.
(fonte: Newsletter di Giuseppe Casarrubea)
link: http://casarrubea.wordpress.com/2014/04/22/se-dici-guerra/
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