Giuseppe Mazzarella
Guida
alla
Fotografia
(analogica e digitale)
Giuseppe Mazzarella —
Guida alla fotografia
— http://hotaku.altervista.org
Premessa
Sono un docente di trattamento testi ed economia aziendale nelle scuole superiori è mi occupo
anche dell’insegnamento dell’informatica nei progetti del Fondo Sociale Europeo (P.O.R., P.O.N.,
P.I.T., I.F.T.S., ecc.).
Il mio interesse verso le tematiche naturalistiche ed ambientali mi ha portato ad approfondire gli
studi sulla flora e la fauna dell’altipiano ibleo, nelle cui ricerche mi sono avvalso dell’uso della
macchina fotografica, analogica prima e digitale poi, da qui l’idea di scrivere un e-book che trattasse
in maniera semplice la fotografia e le sue tecniche in particolar modo nell’era del digitale.
Il lavoro non intende assolutamente esaurire l’argomento, tra l’altro l’universo digitale è in continua
espansione mentre numerose erano già in analogico le tecniche della fotografia, ma solo fornire una
guida il più semplice possibile a chi ne sa poco su questo argomento.
Anche questo piccolo opuscolo intende solo essere agevolmente recuperato e potersi leggere con
calma a casa propria, quindi nasce al solo scopo divulgativo, il suo contenuto è frutto di ricerche da
me effettuate a vario titolo e di esperienze ed osservazioni personali.
I marchi qui citati sono proprietà dei rispettivi aventi diritto, spetta a loro autorizzare per l’uso dei
predetti ed è possibile contattarli tramite le rispettive pagine web.
Qualora gli indirizzi eventualmente qui forniti, per la qualsiasi causa, non dovessero essere attivi si
consiglia di procedere ad una ricerca del marchio o della ditta mediante l’utilizzo di un motore di
ricerca, ogni portale ne possiede almeno uno!
Giuseppe Mazzarella
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Un po’ di storia
Il termine fotografia trae le proprie origini dai termini greci photos e graphos, indicanti
rispettivamente la luce e la scrittura. Infatti questa tecnica usa la luce per disegnare/scrivere le
immagini, risulta perciò appropriato il termine “scrittura della luce”.
La fotografia non è frutto di una sola invenzione o scoperta, ma di un lungo percorso fatto di
numerosi studi e differenti discipline: fisica, chimica, ottica, meccanica, ecc.
Il principio della camera oscura (ovvero il principio che in una camera buia la luce che attraverso un
foro produce un’immagine capovolta sulla parete opposta a questo) era già noto agli scienziati arabi
che lo impiegavano per lo studio delle eclissi. Trasmesso alla cultura occidentale con Aristotele, che
compì studi sulla luce, tornò in auge solo nel Rinascimento, quando divenne strumento comune tra
pittori e disegnatori per ottenere abbozzi per le loro opere.
Nel 1700 numerosi studi in ambito chimico permisero di scoprire la sensibilità alla luce dei sali
d’argento. Il chimico francese Joseph-Nicéphore Niépce ottenne la prima immagine interamente
incisa dalla luce nel 1827, mentre un altro francese che collaborò con lui, Louis-Jacques Mandé
Daguerre, nel 1739 mise a punto un procedimento noto come dagherrotipia. Nel 1839 l’inglese
W.H.F. Talbot ottenne la prima fotografia realizzata attraverso il procedimento positivo-negativo,
chiamato calcotipia, e considerata la nascita della fotografia. All’architetto inglese F. Scott Archer
si deve invece il procedimento al collodio e, su suo progetto, nel 1853 venne realizzata la prima
fotocamera “trasportabile” che conteneva anche l’occorrente per sviluppare le lastre. Nel 1854 le
lastre in rame vennero sostituite da una bobina in cui era arrotolata carta oleata: la prima pellicola a
rullo.
Nel 1888 G. Eastman realizza la “Kodak n.1”, una scatola con rullo in celluloide anziché in carta
trasparente, sufficiente per cento negativi. La scatola si restituiva alla fabbrica che stampava i
negativi migliori restituendoli, insieme alla macchina ricaricata, al proprietario: la fotografia era
diventata accessibile a tutti!
Allo statunitense E.H. Land si deve l’invenzione di una soddisfacente fotografia “istantanea” che
nel 1948 venne messa in vendita con la prima “Polaroid mod. 95”. Il 25 aprile 1972 Land presenta
la prima macchina che espelle il materiale, lo sviluppo si compie fuori dalla macchina in pochi
minuti (sistema SX-70).
La diffusione di reflex e compatte e la loro conversione in digitale è invece storia contemporanea.
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La macchina fotografica
L’apparecchio con cui si ottengono le foto è la macchina fotografica, detta anche fotocamera.
In commercio se ne trovano di modelli differenti, ma essenzialmente si può fare una duplice
bipartizione. Innanzitutto si distingue fra macchine reflex e non, tale distinzione risale ai tempi delle
macchine classiche o analogiche. Oggi invece si distingue principalmente fra apparecchi digitali ed
analogici, ma la prima distinzione vale anche nel campo delle digitali. Prima di addentrarci nel
concetto di macchine reflex analizziamo le varie componenti di una fotocamera.
La macchina fotografica basa il suo funzionamento sul meccanismo della camera oscura e proprio
quest’ultima è uno dei suoi componenti principali, ma vediamoli con ordine.
-
la camera oscura, è la parte impenetrabile alla luce in cui viene alloggiata la pellicola;
-
l’obiettivo, è costituito da un gruppo di lenti che permettono la formazione sulla pellicola di
immagini nitide, cioè a fuoco;
-
l’otturatore, permette alla luce di raggiungere la pellicola solo per il tempo stabilito;
-
il diaframma, regola l’apertura del foro centrale e quindi la quantità di luce che colpisce la
pellicola;
-
il pulsante di scatto, serve a comandare l’apertura del otturatore per impressionare la
pellicola;
-
il meccanismo di avanzamento della pellicola, la porta avanti permettendo di scattare altre
foto;
-
il meccanismo di riavvolgimento della pellicola, per la sua raccolta;
-
l’esposimetro, ha il compito di misurare l’intensità della luce;
-
il mirino, attraverso cui l’operatore inquadra il soggetto da fotografare.
La fotocamera reflex
La luce che attraversa l’obiettivo finisce dentro la camera oscura per impressionare la pellicola, ma
solo al momento dell’apertura del otturatore. Durante gli tutti gli altri momenti, in particolare
durante l’inquadramento del soggetto, la luce e la relativa immagine catturata dall’obiettivo può
essere redirezionata al mirino attraverso un sistema di specchi, esattamente uno specchio a 45°,
delle lenti ed un pentaprisma. Lo specchio davanti all’otturatore, che dovrà essere mobile per
spostarsi all’apertura del primo, altrimenti la luce non potrà raggiungere la pellicola, devia
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l’immagine (che passa attraverso una lente) al pentaprisma. Questi la raddrizza e la invia all’oculare
e infine al mirino.
Questo sistema di riflessione dell’immagine permette all’operatore di vedere in anteprima tutto
quello che andrà a finire sulla pellicola e caratterizza le fotocamere reflex, ovvero le macchine
fotografiche professionali e semi-professionali.
Tale sistema complesso manca invece nelle fotocamere compatte o comunque dedicate ad un’utenza
più economica e non professionale che presentano invece un mirino ottico, cioè separato
dall’obiettivo, e vengono chiamate in gergo tecnico non-reflex.
In tali apparecchiature l’immagine ripresa dal mirino è assolutamente autonoma da quella
dell’obiettivo ed ha un asse differente rispetto a quest’ultimo. Ciò determina una leggera differenza
tra quello che appare nel mirino e l’immagine che si andrà a formare sulla pellicola, che si chiama
errore di parallasse, ed è tanto maggiore quanto più vicino è il soggetto della fotografia.
È più evidente nel caso di primi piani, mentre tende a scomparire nelle foto panoramiche.
Per correggere, almeno in parte, questo errore i mirini presenti nelle compatte hanno disegnati degli
angoli all’interno di cui bisogna mantenersi per essere sicuri che il soggetto finisca interamente sulla
pellicola.
Le analogiche vengono classificate principalmente secondo il formato della pellicola utilizzato, le
più diffuse oggi sono le 35 mm (vedi pellicole e filtri), chiamate anche 135 o formato Leica
(contrazione di Leitz Camera, primo apparecchio ad utilizzare la pellicola 35 mm, del 1924).
L’otturatore
Ha il compito di lasciar passare la luce per un periodo di tempo prefissato e ben preciso.
Può essere collocato in due posizioni:
-
all’interno dell’obiettivo, detto otturatore centrale, e formato da una serie di lamelle
disposte circolarmente che si aprono; viene montato nelle fotocamere con obiettivo fisso;
-
sul piano focale davanti la pellicola, detto a tendina, è composto da una o due tendina che si
aprono in senso orizzontale o verticale; permette il cambio di obiettivi nelle reflex
Il tempo di apertura può essere impostato manualmente oppure in modo automatico (utilizzando i
dati forniti dall’esposimetro).
I tempi di apertura dell’otturatore, chiamati tempi di posa, vengono impostati attraverso un
dispositivo ad anello solitamente posizionato attorno al pulsante di scatto.
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I valori dei tempi di posa, espressi in secondi, sono: 1 – 1/2 – 1/4 – 1/8 – 1/15 – 1/30 – 1/60 – 1/125
– 1/250 – 1/500 e, in alcune, anche 1/1000 (gli otturatori centrali non vanno oltre), 1/2000 e 1/4000.
Ogni tempo è due volte più corto del precedente.
Il tempo di posa standard è di 1/125, per foto in piena luce o con soggetti in movimento si utilizzano
invece tempi di esposizione più corti (> 125), mentre per foto con soggetti poco illuminati si
possono utilizzare tempi più lunghi (< 125). Occorre tuttavia fare attenzione, in caso di esposizioni
più lunghe occorre avere la mano ferma e, se si scende sotto 1/30, conviene utilizzare un treppiede.
In caso contrario il movimento dell’apparecchio renderà la foto poco nitida oppure trasformerà le
luci in striscioline luminose ottenendo un effetto sicuramente molto artistico, ma altrettanto
sgradito.
Alcune macchine presentano anche un’opzione per la variabilità del tempo di posa che può essere
stabilito dall’operatore:
-
con l’opzione B (Bulb) si preme il pulsante di scatto per aprire l’otturatore e lo si tiene
premuto per il tempo desiderato, lasciandolo per ottenerne poi la chiusura;
-
Con l’opzione T (Time) si preme il pulsante di scatto per aprire l’otturatore che rimane
aperto, si ripreme nuovamente per ottenerne la chiusura.
Il diaframma
Si tratta di un congegno meccanico (un sistema ad anello) posto all’interno dell’obiettivo formato da
lamelle metalliche che serve a variare la quantità di luce che attraversa l’obiettivo. La grandezza del
foro del diaframma prende il nome di apertura e viene espressa mediante una scala di valori
preceduti da una f, chiamati numeri f o stop:
f1 – f1,4 – f2 – f2,8 – f4 – f5,6 – f8 – f11 – f16 – f22 – f32 – f45 – f64 – f90
Più grande è il valore più piccola sarà l’apertura/foro del diaframma e quindi la luce che entrerà
nella camera oscura ad impressionare la pellicola. Qual è il valore giusto per ogni occasione sarà
l’esperienza a suggerirlo, ma se volete farne a meno (anche come acquisizione) potete utilizzare
l’opzione “automatica” che alcuni obiettivi presentano insieme ai suddetti valori; sarà la fotocamera
ad impostare il valore di apertura seguendo il suggerimento dell’esposimetro.
L’apertura del diaframma è strettamente correlata ai tempi di posa. Una diminuzione del tempo di
posa (> 1/125), per riprese di soggetti in movimento richiederà un’apertura del diaframma maggiore
per consentire che la stessa quantità di luce entri in minor tempo, in caso contrario si potrebbe
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ottenere una foto più scura del normale (sottoesposta). Un’apertura eccessiva oppure un tempo di
posa più lungo del dovuto daranno luogo a foto troppo chiare/illuminate (sovraesposte).
Il pulsante di scatto
È il pulsante posto sull’anello di impostazione dei tempi di posa dell’otturatore. Comanda l’apertura
dell’otturatore e può essere meccanico oppure elettronico, in questo caso (insieme ad altre funzioni
elettroniche della macchina) sarà alimentato da batterie.
La funzione di autoscatto, ove presente, permette all’operatore di mettersi in posa per la foto (se ha
fissato l’apparecchio fotografico ad un supporto) attraverso uno slittamento di circa 10 secondi dello
scatto dell’otturatore rispetto alla premuta del pulsante. Nelle macchine elettroniche un segnale
acustico avvisa dell’attivazione della funzione (in seguito alla pressione sul pulsante) e, attraverso
un sempre minore intervallo del suono, dell’approssimarsi dello scatto.
Il meccanismo di avanzamento della pellicola
Anche questo dispositivo può essere meccanico oppure elettronico, nel primo caso dovrà essere
l’operatore ad utilizzare l’apposita leva di avanzamento, mentre nel secondo se ne occuperà
l’apparecchio dopo la chiusura dell’otturatore.
La disattivazione, ove possibile, di tale meccanismo permette di ottenere la sovrapposizione dei
fotogrammi (due o anche di più) con particolari effetti anche di tipo artistico.
Gli stessi effetti si possono ottenere oggi attraverso un programma di fotoritocco, sovrapponendo le
immagini su due livelli ed applicando a quella superiore una trasparenza del 50% (si possono anche
utilizzare valori differenti!).
Il meccanismo di riavvolgimento della pellicola
Anche quest’ultimo meccanismo può essere meccanico oppure elettronico, nel primo caso dovrà
essere l’operatore ad utilizzare l’apposita rotella per il riavvolgimento, al termine della pellicola,
azionando anche un pulsante di sblocco per tale meccanismo. Nel secondo caso, invece, sarà
l’apparecchio ad occuparsene, non appena rilevata la fine della pellicola.
È importante perché con il riavvolgimento della pellicola all’interno del rullino si impedisce che la
luce, al momento dell’estrazione di quest’ultimo, colpisca la pellicola alterando le immagini in essa
presenti. Se doveste aprire lo scomparto della pellicola senza avvolgerla rovinereste tutte le foto
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presenti nella parte di pellicola che viene colpita dalla luce, anche lieve: lo sviluppo della pellicola,
compreso il fissaggio dell’immagine, deve avvenire al buio.
L’esposimetro
Affinché una foto sia nitida e con tutte le tonalità corrette occorre, oltre ad una corretta messa a
fuoco, che la pellicola venga colpita dalla giusta quantità di luce, ovvero che sia correttamente
esposta. Tale risultato si ottiene dalla corretta combinazione del tempo di posa e dell’apertura del
diaframma, i professionisti (ma anche i principianti per ottenere un risultato professionale) a tale
scopo utilizzano l’esposimetro.
Serve a stabilire il corretto rapporto fra tempo di posa ed apertura del diaframma e può essere
separato dall’apparecchio oppure inserito all’interno dello stesso. Nel primo caso, molto più precisi,
permettono di valutare la luce direttamente in ciascun punto del soggetto. Nel secondo caso, invece,
sono collegati ai meccanismi della macchina e, grazie ad una fotocellula posizionata vicino
all’obiettivo possono suggerire i valori da impiegare (modo manuale) o direttamente impostarli
(modo automatico).
Le reflex presentano un sistema più raffinato delle compatte, chiamato TTL (Through The Lens,
attraverso le lenti), in cui la cellula fotoelettrica per la lettura dell’esposimetro è posizionata davanti
la pellicola quindi l’esposimetro misura solo la luce che colpisce il fotogramma presentando valori
più corretti.
I sistemi di esposizione
Sono quattro:
-
manuale, l’operatore può scegliere tempo di posa ed apertura del diaframma in tutta libertà: può
seguire le indicazioni dell’esposimetro o la propria esperienza;
-
automatico a priorità dei tempi, l’operatore imposta il tempo di posa mentre la macchina
accoppia la corretta apertura del diaframma: per foto di soggetti in movimento;
-
automatico a priorità dei diaframmi, l’operatore imposta l’apertura del diaframma mentre la
macchina accoppia il corretto tempo di posa: per foto di paesaggi con profondità di campo.
-
completamente automatica, la macchina sceglie sia tempo di posa che apertura di diaframma:
per foto di viaggio o per istantanee (foto fatte sul momento).
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Le fotocamere compatte e le altre
Sono gli apparecchi più economici, usati principalmente a livello dilettantistico con cui si riesce a
far fronte alla maggior parte delle situazioni standard: basta premere il pulsante e la foto è fatta.
Proprio per tale motivo non sono gradite ai professionisti che, invece, vogliono avere libertà di
azione.
Sono caratterizzati da obiettivi fissi, non-reflex, con la messa a fuoco automatica (autofocus), il più
delle volte dotati anche di flash, possono avere anche la funzione zoom. Il loro costo lievita con
l’aumentare delle funzioni.
Le fotocamere digitali sono principalmente delle compatte, anche perché le digitali professionali
hanno un costo notevolmente alto. La principale differenza che caratterizza le fotocamere digitali è
l’impiego di una scheda di memoria per la registrazione delle immagini anziché la pellicola
fotografica, questo consente di rivedere immediatamente la foto attraverso un schermo a cristalli
(LCD) posto nel retro dell’apparecchio, ma anche di utilizzarlo al posto del mirino.
Non bisogna invece confondere le compatte con le usa e getta, quest’ultime sono un involucro della
pellicola che va buttato al momento dello sviluppo delle foto.
Le fotocamere istantanee permettono invece di ottenere subito la foto, ma, non avendo come base
una pellicola e quindi il negativo, la foto che se ne ottiene rappresenta un esemplare unico, non è
possibile cioè ottenere duplicati o ingrandimenti.
Obiettivi ed accessori
Parte principale di un apparecchio fotografico, l’obiettivo è composto da una serie di lenti
complementari, che compensano tra loro i difetti o aberrazioni che ciascuna ha, allo scopo di
ottenere un’immagine il più perfetta possibile. Come risultato finale le lenti concentrano i raggi di
luce in un punto determinato chiamato fuoco che coincide con il piano di allocazione della pellicola.
Un’immagine ottenuta con una lente risulta ben visibile e definita solamente se la messa a fuoco è
perfetta, ovvero se il fuoco coincide perfettamente con la pellicola.
La luminosità
È una delle caratteristiche principali di un obiettivo e rappresenta la massima apertura possibile del
diaframma. Gli obiettivi più luminosi sono più costosi ed anche più pesanti.
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Viene definita da un rapporto che indica la luce ricevuta; ad esempio 1:4 sta ad indicare che 1 è la
luce ricevuta, mentre 4 è quella che raggiunge la pellicola; al diminuire di quest’ultimo numero
aumenta la luminosità dell’obiettivo (1:1,5 è più luminoso del precedente 1:4).
La messa a fuoco
Ruotando l’obiettivo si ottiene un movimento in avanti o all’indietro delle lenti presenti in esso, tale
operazione serve per posizionare il fuoco dell’immagine sulla pellicola in modo da ottenere
immagini il più nitide possibile e viene chiamata appunto messa a fuoco. È possibile effettuarla solo
nel caso di obiettivi professionali, mentre nelle compatte la natura fissa dell’obiettivo ed il sistema
non-reflex non consentono di farlo, mentre le elettroniche e le digitali godono di un sistema di
messa a fuoco automatico (autofocus).
Tutti gli obiettivi hanno una distanza minima oltre la quale non si può più mettere a fuoco che
solitamente si aggira intorno ai 40-50 cm (distanza del soggetto dall’obiettivo), mentre non c’è
distanza massima. Per fare foto a distanze focali inferiori alla minima si può ricorrere alle lenti
addizionali o close up (vedi il corredo per il close up), tuttavia alcune digitali hanno la funzione
macro che consente, se attivata, di ridurre di parecchio la distanza minima (anche fino a circa 10
cm).
Per facilitare la messa a fuoco molte reflex dispongono di un vetrino che mostra l’immagine
spezzata in due parti, quando non correttamente a fuoco, che combaciano quando la foto è
correttamente a fuoco.
Distanza o lunghezza focale
Elemento fondamentale nelle prestazioni di un obiettivo, la distanza o lunghezza focale è lo spazio
intercorrente fra il centro dell’obiettivo ed il punto nel quale si forma l’immagine a fuoco del
soggetto (la pellicola). Al crescere della lunghezza focale, aumenta l’ingrandimento e diminuisce
l’angolo di campo inquadrato.
Passando da un obiettivo 50 mm ad uno 100 mm fino ad uno 200 mm avremo un maggiore
ingrandimento dell’immagine, ma al contempo anche una diminuzione dell’angolo di campo.
L’angolo di campo
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Con questo termine si indica la superficie inquadrata dall’obiettivo, è fondamentale per stabilire
ciascuna inquadratura ottenuta dai vari obiettivi, è inversamente proporzionale alla distanza focale,
diminuisce all’aumentare di quest’ultima. Un obiettivo standard di 50 mm ha un angolo di campo di
47°, mentre in un grandangolo di 28 mm sale a 75,4° ed in un teleobiettivo di 105 mm scende a
23,2°.
La profondità di campo
È la distanza che intercorre fra il punto più vicino (soggetto in primo piano) e quello più lontano
(sfondo) all’obiettivo entrambi perfettamente a fuoco. In linea di massima, aumenta con l’aumentare
della distanza fra la fotocamera ed il soggetto posto in primo piano.
Per intervenire su questa grandezza occorre operare sul diaframma, minore è la sua apertura e
maggiore sarà la profondità: con f2 è di circa 4-5 metri, invece con f16 è compresa fra 1,5 metri e
l’infinito. È anche inversamente proporzionale alla distanza focale, a parità di diaframma, maggiore
è la distanza focale minore è la profondità di campo. Un obiettivo di 135 mm ha una profondità di
pochissimi metri anche con f16, mentre un grandangolo con f16 ha una profondità tra un paio di
metri e l’infinito.
In passato, con obiettivi molto chiusi, il problema non sussisteva, mentre oggi con obiettivi luminosi
(1:1,4) occorre prestare attenzione a questo problema. Nell’utilizzo di un teleobiettivo è
indispensabile operare in buone condizioni di illuminazione e tenere il diaframma più chiuso
possibile.
Tipi di obiettivi e loro classificazione
Vengono normalmente distinti in normali, grandangolari e teleobiettivi.
L’obiettivo normale fornisce un’immagine molto simile al nostro occhio, sia dal punto di vista
dell’ingrandimento sia da quello dell’inquadratura.
Obiettivo standard montato normalmente sulle fotocamere, ha una distanza focale di 50 mm.
L’obiettivo grandangolare presenta invece una distanza focale compresa fra 35 e 28 mm e viene
utilizzato quando un normale 50 mm non riesce a contenere per intero l’inquadratura: gruppi
numerosi, chiese, edifici, ecc. che non possono essere ripresi a distanza. Con distanza focale
inferiore (18 mm o meno) l’obiettivo, chiamato fish eye (occhio di pesce), deforma le immagini
ottenendo effetti particolarmente suggestivi.
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Il teleobiettivo si caratterizza per una grande lunghezza focale:
-
da almeno 80 mm a 135 mm: medio tele;
-
da 135 mm a 200 mm: teleobiettivi veri e propri;
-
da 200 mm a 500 mm: super teleobiettivi.
In quest’ultimo caso è indispensabile usare un cavalletto per evitare di avere immagini mosse.
I duplicatori di focale, dalla forma ad anello, si inseriscono fra l’obiettivo ed il corpo macchina allo
scopo di duplicare o triplicare la distanza focale. Il loro uso comporta in ogni caso una perdita di
nitidezza più o meno sensibile ed una diminuzione di luminosità, richiedendo tempi di posa più
lunghi.
L’obiettivo catadiottrico o a specchio è un tipo particolare di teleobiettivo necessario quando la
focale raggiunge o supera i 500 mm, in quanto un teleobiettivo classico è lungo, pesante ed
ingombrante.
Una lente frontale raccoglie i raggi luminosi provenienti dal soggetto e li invia su uno specchio a
forma di corona circolare che li riflette su uno specchio più piccolo. Infine una lente particolare ha il
compito di correggere le aberrazioni prima che l’immagine raggiunga la pellicola. Per motivi ottici,
tali obiettivi sono privi di diaframma, si deve quindi operare a tutta apertura.
Il vantaggio del loro uso sta nella maneggevolezza e nel minore costo rispetto ai teleobiettivi
classici.
L’obiettivo zoom che permette di passare a differenti distanze focali estendendolo semplicemente.
La differenza fra la focale minima e quella massima è chiamata escursione focale e può variare a
secondo del modello. Abbiamo zoom:
-
grandangolari, con distanza focale fra 24 e 50 mm;
-
normali, con distanza focale fra 35 e 80 mm;
-
tele, fra 80 e 200 mm.
Il vantaggio di impiego sta nel fatto che sostituisce alcuni obiettivi a distanza focale fissa, ma ha una
luminosità (1:4-1:5,6) inferiore ad un obiettivo normale. Il costo inferiore ai due o tre obiettivi che
sostituisce lo rende tuttavia conveniente.
Un corredo formato da due zoom da 28-70 mm e da 70-200 mm può essere una soluzione a tutte le
esigenze.
Il flash
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La necessità di effettuare foto in condizioni di scarsa luminosità o notturne evitando tempi di posa
troppo lunghi ha portato allo sviluppo dei flash, accessori che emettono una luce in grado di
illuminare il soggetto. Attualmente ne esistono di tre tipologie:
-
incorporati nelle macchine compatte;
-
a slitta, attraverso tale meccanismo si montano sul binario presente sopra la maggioranza
degli apparecchi, i contatti sono presenti sul binario;
-
professionali, si montano su una staffa agganciata all’apparecchio, il contatto è assicurato da
un cavetto.
Funzionano a batteria ed hanno bisogno di un intervallo di ricarica per il funzionamento. Gli
incorporati si azionano automaticamente o selezionando l’apposita voce e non sono direzionabili.
Quelli a slitta, a seconda del modello, possono essere parzialmente direzionabili e con diverse
intensità di luce, mentre i flash professionali sono totalmente direzionabili (senza considerare il
movimento sulla staffa) ed hanno varie modalità operative secondo la distanza del soggetto ed altri
parametri da calcolare. Entrambi possono essere azionati con un’apposita levetta oppure, nelle
fotocamere con l’anello di scelta dei tempi di posa, con un tempo di 1/60 (accanto presenta il
simbolo del lampo).
Il flash può avere particolari impieghi professionali anche in pieno giorno. Spesso si attenua la luce
del flash puntandolo sul soffitto anziché sul soggetto oppure mediante l’impiego di diffusori o altri
apparecchi professionali.
Principale problema causato dal flash è l’effetto occhi rossi, ciò è dovuto alla presenza dei capillari
sanguigni irrorati di sangue presenti nella retina che vengono illuminati dalla luce del flash,
amplificati dalla dilatazione della pupilla per scarsa luminosità (prima della luce del flash). I flash di
nuova generazione sono dotati di un sistema antiocchi rossi che emette un altro lampo precedente il
flash vero e proprio capace di far chiudere la pupilla attenuando sensibilmente il fenomeno.
L’effetto può anche essere evitato attraverso una sorgente secondaria di illuminazione o puntando il
flash verso una superficie riflettente come il soffitto, in questo caso si otterranno anche effetti di
ammorbidimento della luce e di riduzione del contrasto.
Cavalletti o stativi
In riprese con lunghi tempi di esposizione, anche di qualche decina di minuti (cielo stellato, città di
notte, paesaggi notturni con le scie luminose delle macchine, ecc.) occorre l’impiego di un sostegno
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per evitare che la fotocamera si muova e le luci ferme diventino delle scie luminose come serpi di
luce.
L’uso di un cavalletto o stativo, comunemente chiamato anche treppiedi, permette di mantenere
fermo l’apparecchio fotografico. Esistono anche stativi con un solo piede per casi particolari di
ripresa, in caso di uso occasionale si può anche sostituire con il treppiedi chiuso o poggiante solo su
un piede.
Il cavalletto è indispensabile con tempi di ripresa superiori a 1/30, a meno che non si abbia una
mano particolarmente ferma, o in caso di teleobbiettivi anche con riprese superiori a 1/125, al fine
di evitare che la foto risulti mossa.
Se vi trovate nelle condizioni sopra citate ma senza un cavalletto, si può ovviare trovandovi un
punto d’appoggio, anteriore per le braccia (il tetto di un’auto, un muretto, ecc.) oppure posteriore
per le spalle (una parete o altro), capace di mantenere il vostro corpo il più fermo possibile.
Il paraluce
Si tratta di un semplice accessorio da applicare all’obiettivo per impedire che la luce diretta lo
raggiunga alterando la foto, il fenomeno avviene solitamente nelle riprese controluce, ovvero
effettuate di fronte alla fonte luminosa (solitamente il sole).
Si può ovviare al problema anche usando il palmo della mano posto sopra l’obiettivo, ma occorre
fare attenzione affinché una parte della mano non venga ripresa nella foto.
Il corredo per il close up
Con il termine close up si indicano le riprese a distanza inferiore alla focale, che con un obiettivo
normale vengono fuori fuoco.
Il sistema più economico consiste nell’impiego di lenti addizionali, da applicare all’obiettivo, in
grado di aumentarne la distanza focale consentendo di effettuare foto a distanza ravvicinata. Le più
usate sono la +1, la +2 e la +3, che possono anche essere combinate tra loro.
Un altro metodo ricorre all’impiego degli anelli di prolunga, da inserire fra l’obiettivo ed il corpo
macchina, sempre per ottenere foto ravvicinate.
Risultati professionali si possono invece ottenere utilizzando un soffietto, sempre da applicare fra
obiettivo e corpo macchina, in grado di essere allungato o accorciato grazie alla presenza di una
slitta su cui scorre.
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Particolari adattatori permettono di applicare la macchina fotografica ad un microscopio
consentendo di scattare fotografie con ingrandimenti di migliaia di volte: si parla allora di
microfotografia.
Il corredo di base
Il corredo di base di un fotografo, o provetto tale, varia sensibilmente secondo gli interessi
professionali e personali, ma in linea di massima deve essere tale da consentire di affrontare ogni
situazione nelle più differenti condizioni di illuminazione e di ripresa.
Innanzitutto occorre una fotocamera reflex che consente l’intercambiabilità degli obiettivi, quindi
un obiettivo standard di 50 mm, un grandangolo (28 mm) e un medio tele (135 mm).
Il suddetto corredo di obiettivi può essere egregiamente sostituito da due zoom da 35-80 mm e da
80-200 mm o simili. Per completezza è conveniente aggiungere anche un teleobiettivo da 500 mm.
È indispensabile avere nel corredo anche un flash elettronico ed un treppiedi, eventualmente un
filtro UV ed uno polarizzatore (vedi pellicole e filtri), e delle pellicole (non è detto che dove vi
troviate abbiate la possibilità di reperirle).
Pellicole e filtri
Ci limiteremo ad una breve e generica trattazione sulle pellicole e sui filtri in quanto oggi il loro
impiego risulta molto limitato.
Le pellicole vengono ormai sostituite dai sensori CCD e dalle schede Flash sugli apparecchi digitali.
I filtri servono ad ottenere dei particolari effetti sull’immagine (che su pellicola non era più
modificabile), gli stessi effetti si possono oggi ottenere con l’impiego di un programma di
fotoritocco, sia su immagini digitali che su analogiche una volta digitalizzate (per esempio,
attraverso uno scanner).
Le pellicole
È il materiale sensibile su cui si forma l’immagine, si tratta di un supporto chimico costituito da sali
d’argento (generalmente cloruri e bromuri) che colpiti dalla luce depositano argento metallico in
proporzione alla luce ricevuta. Si creano così zone più scure e zone più chiare. Dal suo sviluppo si
ottiene il negativo, così chiamato in quanto presenta l’immagine al rovescio, con le zone illuminate
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in scuro e quelle in ombra in chiaro. Dal trattamento con la luce e particolari soluzioni chimiche si
ottiene poi l’immagine finale positiva o fotografia che riporta l’immagine reale.
Esistono differenti tipi di pellicole, diversificate per formato e sensibilità. All’aumentare del
formato della pellicola, e corrispondentemente anche del fotogramma che la compone, la nitidezza e
la qualità finale della foto che può essere ingrandita fino alle dimensioni di una gigantografia senza
avere la formazione di punteggiature e retini. La pellicola di maggiori dimensioni assicura anche,
grazie alla grana più piccola, le migliori rese cromatiche.
Il migliore compromesso fra nitidezza ed ingombro è stato raggiunto con le pellicole di 35 mm che
attualmente sono il formato più diffuso e corrispondentemente anche quello più economico.
La pellicola 35 mm fornisce dei fotogrammi di 24 x 36 mm, i fotografi invece utilizzano
solitamente pellicole con fotogrammi di 6 x 6 o 6 x 7 cm montati su apposite macchine.
La sensibilità
È in rapporto diretto con la dimensione dei granelli fotosensibili che compongono l’emulsione ed
aumenta all’aumentare delle dimensioni di tali granelli. Tuttavia, con pellicole ultrasensibili o con
ingrandimenti molto spinti, la struttura granulare tende a diventare visibile ottenendo un effetto
spiacevole. Conviene quindi usare pellicole a bassa sensibilità con soggetti ben illuminati o in pieno
sole e riservare quelle ad alta sensibilità per condizioni di scarsa illuminazione.
Personalmente, data anche l’impossibilità di cambiare rullino a metà uso, ho sempre risolto il
problema aumentando i tempi di posa. La pellicola sensibile si impressiona prima, quindi per
ottenere la stessa impressione su una pellicola a bassa sensibilità basta aumentare i tempi di posa. Di
quanto? Basterà seguire i suggerimenti dell’esposimetro.
La sensibilità di una pellicola viene espressa con un codice ISO/ASA: più alto è il valore maggiore è
la sensibilità. La pellicola più usata in condizioni normali di illuminazione ha una sensibilità di 100
ISO, mentre una a 400 ISO è quattro volte più sensibile (solitamente consigliata per foto notturne) e
si può arrivare anche a 1000 ISO.
Le pellicole per diapositive
Molto usate per il loro basso costo permettono di ottenere dei fotogrammi in positivo che, montati
su un apposito telaietto, possono essere proiettati. La stampa tuttavia è più costosa delle normali
pellicole, risultano perciò convenienti quando si vuole evitare la stampa.
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I filtri
Utilizzati per compensare certi effetti di luce o per ottenere effetti speciali, sono formati da lastre di
materiale trasparente e/o colorato montato su supporti ad anello che si inseriscono davanti
l’obiettivo mediante uno specifico aggancio (a vite o a slitta).
In una giornata in pieno sole, l’occhio umano registra il colore giallo come più luminoso, mentre la
pellicola registra l’azzurro come colore più luminoso, quindi la foto avrà la componente azzurra più
forte, tale effetto potrà essere corretto con un filtro colorato.
Sul mercato esistono numerosissimi tipi di filtri, noi analizzeremo solo i due più utilizzati.
Il filtro UV (ultravioletto) trattiene le radiazioni ultraviolette senza agire sui colori. Elimina il velo
grigio diminuendo la dominante blu, diventa indispensabile in montagna quando il sole illumina
distese di neve o ghiaccio. Grazie al fatto che non influisce sui colori ed al suo basso costo, i
fotografi lo mantengono sempre montato utilizzandolo anche come protezione dell’obiettivo.
Il filtro polarizzatore elimina i riflessi da molte superfici (indicato nelle foto attraverso il vetro) e
scurisce determinate zone del cielo, favorendo il contrasto delle nuvole. Tale filtro va ruotato per
ottenere un maggiore o minore effetto sulla luce, anche a secondo della direzione di questa.
Fra i filtri creativi i più impiegati abbiamo il filtro prismatico (suddivide l’immagine in 3, 5 o più
parti), i filtri a colorazione graduale (che permettono di ottenere effetti di un certo colore in
maniera graduata) ed il cross screen (tutte le luci assumono un aspetto a stella).
L’uso dei filtri può trovare applicazione soprattutto in campo pubblicitario.
La composizione dell’immagine
L’inquadratura
L’inquadratura è la porzione di spazio selezionata dal fotografo e inquadrata dall’obiettivo. I vari
tipi di inquadratura sono:
-
campo lunghissimo o lungo, l’inquadratura coglie paesaggi molto vasti o panoramiche viste
a distanza;
-
campo medio, l’inquadratura presenta figure, colte su uno sfondo o in un ambiente, che
occupano circa la metà del quadro;
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-
figura intera, l’inquadratura presenta per intero la figura della persona;
-
piano americano, la figura viene tagliata all’altezza della cintola;
-
primo piano, l’inquadratura mostra il volto e le spalle;
-
primissimo piano, si vede solo la testa fino all’altezza del collo;
-
dettaglio o particolare, viene mostra una parte del viso (occhi, piega della bocca, ecc.)
Le foto scattate da due fotografi allo stesso soggetto possono variare per visuale, inquadratura, tipo
di luce, ecc. Compito di un fotografo è fare in modo che il punto di interesse diventi ben visibile,
isolando i particolari e gli oggetti: si può, ad esempio, far apparire lo sfondo sfuocato scegliendo la
giusta apertura del diaframma. Inquadrando un soggetto dal basso (specie con un grandangolo) la
figura viene snellita e le gambe si allungano, una siffatta inquadratura potrebbe risultare
caratteristica nella foto di un qualche monumento.
Nelle riprese di piazze o luoghi di interesse è consigliabile fare una foto panoramica per una visione
d’insieme e poi procedere con qualche particolare per finire magari con qualche primo piano di
personaggi caratteristici del luogo.
Nel caso di eventi sportivi o di soggetti in costante movimento conviene scattare una sequenza di
foto (tecnica usata di fotografi di moda) alfine di cogliere il momento migliore fra quelle scattate:
l’attimo fra la visione nel mirino e lo scatto potrebbe essere fatale! Tale sistema ovviamente
comporta lo speco di pellicola, cosa che solitamente un fotoamatore non si permette, ma un
professionista certamente si! Spesso si impiega anche una pellicola sensibile in quanto la scarsità di
luce richiederebbe una lunga esposizione incapace di cogliere l’attimo.
Nell’inquadrare un soggetto ed uno sfondo, per evitare che il primo disturbi la visione del secondo,
si impiega le regola dei terzi: il soggetto principale, tranne nel caso di un primo piano, è preferibile
che si inquadri in modo da occupare una posizione uguale ad un terzo del fotogramma (cioè
parzialmente spostato a destra o a sinistra).
Sarà in ogni caso il proprio occhio a suggerire quale sia la posizione migliore. Occorre imparare ad
usare il proprio occhio come un apparecchio fotografico: se una particolare immagine o
inquadratura ci colpisce o ci sembra interessante allora proviamo ad inquadrarla con la fotocamera.
Un’immagine che ci appare bella può perdere punti dopo essere passata dal mirino, magari perché la
macchina non riesce a cogliere determinati aspetti, ma difficilmente accadrà il contrario.
Cambiando il punto di ripresa si possono scattare decine di foto diverse dello stesso soggetto.
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Per conferire ad una foto un certo senso di profondità si possono sfruttare fughe di alberi o disegni
naturalmente presenti nel soggetto: segni dell’aratro in un campo coltivato, ombrelloni nella
spiaggia, una fila di barche, ecc.
Per ricercare un’inquadratura originale, si può inserire un elemento che circondi il soggetto
caratterizzandolo e funga al contempo da cornice: un arco, dei rami, un fiore, un lampione, ecc.
Si può utilizzare una struttura moderna per caratterizzare un monumento di epoca antica attraverso
il contrasto tra i due.
Nella figura intera conviene collocarsi di fronte al soggetto, all’altezza del viso; si può anche
utilizzare l’inquadratura dal basso (il soggetto appare più snello e slanciato, inoltre il cielo o il
soffitto assumono aspetto predominante), mentre solitamente si sconsiglia l’inquadratura dall’alto
(il soggetto appare più tozzo e con le gambe corte, in questo caso sono terreno o pavimento ad
assumere aspetto predominante).
Nell’inquadratura dal basso, è importante che il soggetto non guardi verso la fotocamera in quanto
potrebbero apparire antiestetiche pieghe sotto il mento, ciò è valido sia nel caso di persone che di
animali.
Il “gusto” per una buona inquadratura si acquista esaminando con senso critico oltre alle proprie
foto anche quelle scattate da altri, in modo particolare quelle di qualificati professionisti.
Una foto può essere solo il documentario di una vacanza o di un viaggio oppure può assumere un
significato particolare o essere utilizzata per un determinato scopo (denuncia, pubblicità,
illustrazione, ecc.). Può anche essere manipolata dal fotografo per un determinato scopo: in un
matrimonio si fotografano i volti lieti di sposi e parenti, inserire dei volti o dei momenti tristi non
avrebbe alcun senso.
La macrofotografia
Abbiamo già accennato al fatto che con una distanza inferiore ai 40-50 cm la fotocamera non riesce
a mettere a fuoco il soggetto (il fuoco viene a cadere oltre la pellicola), occorre quindi fare ricorso a
particolari attrezzature di cui abbiamo già parlato e che adesso riprendiamo.
Occorre innanzitutto distinguere fra macrofotografia e fotografia a distanza ravvicinata. Con
quest’ultima si intende una foto eseguita da distanze di messa a fuoco normali, il più vicino
possibile al soggetto, fino da immagini che sulla pellicola sono dello stesso formato del soggetto
inquadrato: presentano un rapporto di ingrandimento 1/1.
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Il rapporto di riproduzione indica il rapporto fra la grandezza naturale e quella riprodotta sulla
pellicola e varia fra 1/10 (0,1) e 1/1 (1) nella fotografia a distanza ravvicinata, mentre si parla di
macrofotografia solamente quando diventa superiore.
Nella macrofotografia, infatti, gli ingrandimenti sul fotogramma vanno da 1/1 fino ad 50-80
ingrandimenti, anche se già oltre i 20-30x si tende a parlare di microfotografia poiché si utilizza il
microscopio.
Un metodo economico per fare foto ravvicinate consiste nell’uso delle lenti addizionali diottriche o
lenti close up, montate su anelli a vite o a pressione, che vanno montate davanti l’obiettivo.
Le lenti sono contrassegnate da numeri che ne indicano la capacità d’ingrandimento (le più comuni
sono +1, +2, +3, ma ne esistono anche con capacità maggiori). Non hanno bisogno di
compensazione di esposizione, ma perdono un po’ di nitidezza e producono una notevole curvatura
di campo e aberrazioni ottiche verso i bordi dell’immagine.
Una variante è la lente split-field che consente di mettere a fuoco la stessa inquadratura a due
distanze su porzioni separate del fotogramma.
Si può anche utilizzare un moltiplicatore di focale, un anello che va collocato fra corpo macchina ed
obiettivo: un duplicatore (2x) raddoppia la focale, un triplicatore (3x) la triplica e così via. È però
necessario aumentare l’esposizione di un valore equivalente alla potenza del moltiplicatore. Questi
riduce la risoluzione, ma produce poche aberrazioni.
Altra soluzione al problema possono essere i tubi di prolunga o il soffietto, anch’essi da applicare
fra corpo macchina ed obiettivo.
La soluzione migliore è tuttavia l’utilizzo di un obiettivo macro, di qualità superiore al normale e
fornito di meccanismo di messa a fuoco ravvicinata (da infinito fino a 1x, senza elementi di
prolunga).
L’obiettivo zoom macro offre invece un’ampia gamma di focali fornendo un buon ingrandimento
dell’immagine; lo svantaggio consiste nella minore capacità d’ingrandimento, nel maggiore
ingombro e peso e nella tendenza, alle massime aperture, a produrre bagliori.
Oltre l’ingrandimento 3x è consigliabile l’uso di un cavalletto.
L’ingrandimento si calcola confrontando l’area del soggetto con quella della pellicola (in
macrofotografia il soggetto è inferiore alle dimensioni del fotogramma): un soggetto di 2 x 3 mm
inquadrato con una 35 mm (24 x 36 mm) verrà ingrandito 12 volte (12x).
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Quando si lavora a brevissima distanza la messa a fuoco diventa determinante, la profondità di
campo è infatti minima e diventa allora estremamente importante utilizzare la massima chiusura
possibile del diaframma.
Quindi più si ingrandisce un soggetto e minore sarà la luce catturata, in molte macrofoto lo sfondo è
scuro nonostante la ripresa sia in pieno giorno; ad ingrandimenti elevati occorre usare il flash in
quanto la stessa immagine si presenta buia. Per una corretta illuminazione del soggetto, in questi
casi, esistono speciali flash anulari che si montano sull’obiettivo permettendone la diretta
illuminazione in modo uniforme, evitando le ombre create da un flash normale.
La fotografia digitale
La facilità di trasferimento ed i sempre più bassi costi hanno fatto sviluppare sempre più il digitale
in ogni settore, anche nel campo della fotografia; qui la velocità in campo giornalistico e la praticità
in quello pubblicitario hanno dato un notevole impulso alla conversione verso il digitale.
Il termine digitale deriva dall’inglese digit che indica “la cifra, il numero” e sta ad indicare che
l’immagine, come tutto ciò che riguarda il mondo digitale, viene rappresentata (codificata)
attraverso una sequenza di numeri costituenti il bit ed il byte.
Il primo (contrazione di binary
digit ovvero “cifra binaria”) indica la codifica in 0 e 1
dell’informazione, mentre il secondo (formato da una sequenza combinata di 8 bit) permette una più
ampia possibilità di informazione.
In un apparecchio fotografico digitale la pellicola viene sostituita con un sensore in silicio ricoperto
da elettrodi fotosensibili (photosite, cioè fotoelementi), chiamato CCD (acronimo di ChargeCoupled Device, cioè dispositivo ad accoppiamento di carica), che trasforma i fotoni (particelle di
luce) in elettroni (cariche elettriche).
Le radiazioni che raggiungono il sensore vengono convertite in flussi elettrici proporzionali alla
quantità di luce e memorizzati in byte dalla scheda di memoria della fotocamera.
Ritrasformando i byte in valori di luminosità si ottiene l’immagine, attraverso il display LCD della
fotocamera, il televisore (molte fotocamere permettono la visione direttamente in tv, tramite
cavetto) o il computer.
La risoluzione
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La definizione o risoluzione di un’immagine si indica attraverso i pixel (contrazione dell’inglese
picture element, cioè “elemento di immagine”), i quadretti che compongono l’immagine e che
corrispondono ai CCD della fotocamera, maggiore è il loro numero maggiore sarà la quantità di dati
e di conseguenza anche la qualità dell’immagine. Tuttavia ad elevate qualità (ovvero quantità di
informazioni) corrisponderanno elevate quantità di spazio per la loro memorizzazione.
Le memorie in dotazione solo alquanto piccole, tuttavia sono in commercio memorie molto più
capienti, capaci di riuscire ad immagazzinare oltre cento foto alla massima risoluzione. Ovviamente,
abbassando la risoluzione delle foto è possibile immagazzinarne un numero maggiore sulla stessa
scheda di memoria.
L’informazione relativa ad ogni pixel è organizzata in bit, con un solo bit il pixel può essere solo
bianco o nero, mentre con 8 avremo 256 (28) sfumature di grigio o tonalità di colori, all’aumentare
dei bit aumenteranno anche le tonalità.
Poiché l’occhio umano non è in grado di distinguere i singoli elementi se sono più piccoli di una
determinata dimensione, percepisce l’immagine “a tonalità continua” come nelle stampe
fotografiche.
Diventa quindi necessario avere un numero tale di pixel che in fase di ingrandimento non superino
quelle dimensioni che li renderebbero visibili, come per i granelli della fotografia classica. D’altro
canto, l’utilizzo di un numero eccessivamente elevato di pixel crea maggior ingombro e tempi
elevati di trasferimento senza miglioramenti percepibili. Qual è allora il numero corretto di pixel?
Una stampa di buona qualità richiede circa 300 dpi (dot per inch, punti/pixel per pollice),
corrispondenti a circa 120 punti per cm; ma se in un cm sono presenti 120 pixel, in un cm2 ve ne
saranno 120 x 120 = 14.400.
Trasformando in digitale la qualità di un comune fotogramma di 24 x 36 mm stampato in formato
12 x 18 cm (ingrandito cioè 5 volte) dovremmo avere un sensore di:
12 cm x 120 pixel = 1.440 pixel in altezza
18 cm x 120 pixel = 2.160 pixel in larghezza
con un’area totale di 1.440 x 2.160 = 3.110.400 pixel (ovvero circa 3 Mp, megapixel).
Se invece volessimo ottenere la stessa qualità su un formato 24 x 36 cm occorrerebbero 12.441.600
pixel, tuttavia si possono ottenere buone stampe anche da qualità inferiori. Inoltre molti utilizzi
richiedono un numero di molto più esiguo di pixel, la stampa sui quotidiani richiede 90 dpi mentre
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la visualizzazione a monitor ne richiede 72, molti di meno qualora si parla di internet dove tutto è
più “light”.
La sintesi additiva del colore (RGB)
Fin qui abbiamo considerato l’immagine acquisita in tonalità di grigio (1 pixel = 8 bit = 256 toni di
grigio = 1 byte), quindi con un ingombro finale nella memoria di 3.110.400 byte, ovvero 2,966 Mb
(1 Mb 0 1024 kb ed 1 kb = 1024 byte).
Un sistema digitale a colori utilizzerà tre canali di rilevazione della luminosità, uno per ciascun
colore fondamentale (rosso, verde e blu, ovvero Red, Green e Blue), l’immagine finale si otterrà
dalla sovrapposizione delle tre immagini monocromatiche, così come per la stampa a colori.
Questo sistema impiegherà perciò il triplo dello spazio in memoria (9.331.200), mentre una stampa
in quadricromia richiederà il quadruplo di spazio (12.441.600).
Molte fotocamere permettono la registrazione in formato j-peg, che compatta l’immagine di circa un
decimo rispetto al formato standard.
Dimensione stampa
Ingombro
Risoluzione per 300 dpi in RGB
10 x 15 cm
6 Mb
1181 x 1772 pixel
13 x 18 cm
9,3 Mb
1535 x 2126 pixel
21 x 29,7 cm (A4)
24,9 Mb
2480 x 3508 pixel
29,7 x 42 cm (A3)
49,7 Mb
4961 x 3508 pixel
Le fotocamere digitali
Abbiamo già detto che le fotocamere digitali utilizzano CCD e memorie al posto della pellicola, le
immagini vengono trasferite ai computer attraverso cavetti USB oppure attraverso lettori di schede.
Oggi sono in commercio stampanti con lettori di schede che, oltre ad avere qualità fotografica,
permettono di stampare direttamente dalla scheda senza l’ausilio del computer.
Si possono considerare buone (come la risoluzione di una pellicola 24 x 36 mm) le fotocamere con
CCD di circa 5 milioni di pixel colorati, cioè 5 megapixel, con risoluzione più elevata si possono
ottenere immagini migliori.
L’obiettivo presente nelle digitali ha lunghezza focale molto più piccola di quello nelle tradizionali,
poiché il CCD è molto più piccolo (da 8 a 16 mm di diagonale) rispetto alla pellicola 24 x 36 (con
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circa 43 mm di diagonale). Solitamente è indicato anche il valore equivalente di lunghezza focale
nella macchina tradizionale.
Quasi tutte le fotocamere presentano, oltre al classico zoom ottico, anche uno zoom digitale,
ottenuto ingrandendo l’area centrale del CCD utilizzata per creare l’immagine. Ciò avviene però a
scapito della qualità.
Elemento fondamentale di una fotocamera digitale è sicuramente lo schermo a cristalli liquidi
(LCD) presente nel dorso che permette di vedere la ripresa ed i relativi parametri, nonché di
rivedere anche immediatamente ciò che si è scattato.
Molte fotocamere permettono anche di realizzare dei brevi filmati (la loro durata dipende dalle
dimensioni della scheda di memoria) con relativo sonoro.
La gestione delle immagini
In dotazione con tutte le macchine fotografiche digitali si trova un cd-rom contenente il necessario
per la gestione delle foto: i driver per interfacciare il pc con la fotocamera, il programma per
scaricare le foto sul computer e, spesso, anche un programma di gestione delle immagini e di
fotoritocco. Qualora questi ultimi manchino, se ne trovano diversi di programmi di gestione
immagini gratuiti che spesso hanno anche qualche funzione di fotoritocco, inoltre tutti i principali
programmi di fotoritocco permettono di gestire ed organizzare le foto attraverso un proprio
programma browser.
Occorre invece fare attenzione che non manchino i driver ed il filo di collegamento, altrimenti sarà
necessario un lettore di schede, così da leggere direttamente dalla scheda.
Fotoritocco ed elaborazioni
Ritocchi ed elaborazioni si effettuavano in sede di sviluppo o successivamente sulla copia di stampa
attraverso tecniche particolari, oggi invece si ricorre al computer sia per le foto digitali che per
quelle analogiche.
Numerosi sono i software di fotoritocco ed elaborazione immagini, il più conosciuto è certamente
Adobe Photoshop giunto alla versione 9, meglio nota col nome di Cs 2.
Si tratta del programma utilizzato negli studi fotografici, presenta una miriade di programmi
aggiuntivi (plugin) prodotti da altre ditte che lo rendono capace di numerosissimi effetti (oltre quelli
già posseduti dal programma), molti di tipo artistico.
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Paint Shop Pro, giunto alla versione 10 (X) ed acquisito dalla Corel, risulta essere il fratello minore
del Photoshop in quanto presenta la funzione livelli ed è anche compatibile con i filtri creati per
Photoshop, presenta inoltre un costo notevolmente inferiore a motivo delle limitate prestazioni
(comunque ottime per un non-professionista)
Attraverso il programma di fotoritocco, anche il più elementare, si possono ottenere molti degli
effetti che venivano ottenuti in camera oscura:
-
raddrizzare le linee cadenti di un edificio;
-
ottenere l’effetto mosso su una foto;
-
fare la doppia esposizione;
-
ottenere immagini flou;
-
aggiungere scritte e disegni;
-
deformare l’immagine;
-
applicare effetti vari (solarizzazione, negativo, seppia, ecc.)
-
cambiare luminosità, contrasto, tonalità dei colori (viraggi)
Tutti questi effetti si possono applicare con diverse gradazioni e, attraverso le prove e l’esperienza,
si potranno ottenere ottimi risultati
La fotografia naturalistica
Ingrediente principale nelle riprese naturalistiche è certamente una dose abbondante di pazienza in
quanto i nostri soggetti non sono avvezzi a mettersi in posa per essere fotografati. I più preparati in
ciò sono, ironia della sorte, proprio i cacciatori in quanto abituati ad aspettare la loro preda.
Il principio è il medesimo: attendere fino a quando il nostro bersaglio si trova al punto giusto!
La differenza è ovvia: il cacciatore spara per uccidere mentre il fotooperatore scatta per immortalare
la propria preda.
Tuttavia non solo gli animali da preda possono essere soggetti di una foto naturalistica, ma anche un
bellissimo paesaggio, una suggestiva cascata, un piccolo rigagnolo, un minuscolo insetto, un fiore
multicolore e qualunque altro soggetto appartenente alla natura.
La fotografia naturalistica si può dividere tecnicamente in tre tipologie:
-
paesaggi
-
soggetti
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macrofotografia
Analizziamone le differenti caratteristiche tecniche.
I paesaggi naturalistici
Uno dei temi che maggiormente appassionano i fotografi è quello della natura e del paesaggio.
Le foto incentrate sulle bellezze naturalistiche, cariche d’atmosfera e suggestioni, ci introducono nel
mondo magico di forme e colori dove la natura sembra regnare ancora incontrastata sulla civiltà del
cemento e si trasformano in un invito alla riflessione ed alla salvaguardia dell’ambiente. Un invito
che non riguarda solo la tutela di un patrimonio naturalistico e culturale che è ricchezza comune, ma
anche un ritorno all’osservazione della natura con occhi nuovi.
Per far si che gli scenari e le straordinarie viste che si aprono davanti ai nostri occhi possano
diventare una bella fotografia, occorre la concomitanza di due elementi fondamentali: l’abilità del
fotografo e la sensibilità dell’artista.
Il fotografo manifesta la sua abilità attraverso la conoscenza tecnica degli strumenti, delle pellicole,
nell’esaltazione delle luci e nella scelta di angolazioni e prospettive suggestive; l’artista manifesta la
sua personale relazione con la natura e la sua sensibilità ricordandoci anche la preziosità di un fiore
ricoperto da cristalli di rugiada, l’allegria del risveglio primaverile, il fascino invernale di luoghi
incantati, da libro di fiabe.
È bene ricordare che le diverse angolazioni del sole variano nelle diverse ore del giorno e nelle
diverse stagioni, pertanto è consigliabile ritornare sul paesaggio che ha risvegliato l’interesse in
momenti diversi della giornata o anche in diverse stagioni per constatare gli effetti dei cambiamenti
di luce e fissare sulla pellicola l’immagine che maggiormente corrisponde alla sensazione che si
vuole cogliere, al messaggio che si vuole trasmettere e che ha indicato quel determinato luogo come
degno d’essere fotografato.
Come si intuisce, questo tipo di fotografia non è diversa da quella che facciamo quando andiamo in
gita, non occorre quindi disporre di particolari accessori. In città potremmo aver bisogno del
grandangolo (a motivo dello spazio esiguo per la ripresa), ma in natura è difficile trovare un
qualcosa di grande e non disporre della necessaria distanza per riprenderlo.
I soggetti naturalistici
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La foto di soggetti naturalistici è assimilabile alle foto fatte con le persone, l’unica differenza
consiste nel fatto che non possiamo chiedere loro di spostarsi, girarsi o mettersi in posa. Anzi è
proprio il caso di non farsi notare per evitare che scappino prima dello scatto.
Se fotografiamo piante o fiori, abbiamo tutto il tempo che ci occorre per scegliere inquadratura,
obiettivo, apertura del diaframma e quant’altro; possiamo avvicinarci senza il pericolo che il nostro
soggetto scappi.
Nel caso di insetti e di alcune specie di rettili, come le lucertole, ci si può avvicinare fino ad una
certa distanza senza che scappino, ma superata la quale si danno in fuga abbastanza velocemente.
Occorre allora utilizzare un buono zoom e mantenersi ad una certa distanza, sarà l’esperienza a farvi
capire qual è questa distanza giusta per ciascuna specie. Conviene fare in ogni caso qualche foto da
lontano (una sola se utilizzate l’analogica) e poi avvicinarsi per scattarne qualche altra, così se il
nostro soggetto scappa abbiamo comunque delle foto.
Nel caso di uccelli, serpi ed altri animali conviene invece utilizzare direttamente un teleobiettivo o
uno zoom di almeno 200 mm e scattare immediatamente, potreste non avere altre occasioni. Questi
animali percepiscono abbastanza velocemente la presenza e si danno immediatamente alla fuga:
quanto più ci si avvicina, tanto più aumentano le possibilità di essere scoperti.
Compito di un buon fotografo è soprattutto quello di saper cogliere l’esatto momento dello scatto.
Nel fotografare gli uccelli, meglio noto col nome di birdwatching, si possono presentare due casi, il
primo è quello già esaminato della “caccia in piena campagna” mentre il secondo riguarda la
fotografia ad uccelli acquatici che sostano in aree protette.
Spesso queste aree sono dotate di appositi capanni mimetici per l’osservazione degli uccelli, in tali
strutture occorre aspettare pazientemente che l’uccello si avvicini per poterlo fotografare, diventa
allora fondamentale l’ausilio di un treppiedi per mantenere l’apparecchio in posizione.
La macrofotografia naturalistica
Nel caso di fiori o insetti molto piccoli o di particolari molto significativi occorre ricorrere alla
macrofotografia e quindi ai suoi accessori, tenendo sempre presente la differenza fra piante ed
animali: un fiore ci permette di avvicinarci, ma un insetto non sempre è d’accordo.
Sia che utilizziamo un corredo close up o un obiettivo macro è conveniente avvicinarci per meglio
riprendere il fiore, mentre se si tratta di un insetto proviamo prima a fotografarlo alla distanza a cui
ci troviamo.
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Non bisogna dimenticare che in questi casi è utile disporre di un cavalletto per evitare che le foto
vengano mosse, inoltre ci permette di inquadrare con calma la nostra preda evitandoci di stancare e
impedendoci di far rumore.
Bibliografia
AA. VV., Enciclopedia generale – Compact, De Agostini, Novara, 1992.
Franco Arena, Tecnica fotografica e pubblicità, Editrice Padus, Cremona, 2002.
Maurizio Barbato, Esperti in fotografia digitale, in “Win Magazine”, n. 7 (54), luglio 2003.
Giorgio Cricco – Francesco P. Di Teodoro, Itinerario nell’arte, Vol. 3, Zanichelli, Bologna, 2001.
Stefania Gravilli, Tecnica fotografica, Hoepli, Milano, 2000.
Ben Long, Fotografia digitale, Apogeo, Milano, 2002.
Alexander Spoerl, Tutti i segreti della fotografia, Mondatori, Milano, 1981.
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Giuseppe Mazzarella —
Guida alla fotografia
— http://hotaku.altervista.org
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E-book n. 4
Guida alla Fotografia (analogica e digitale)
Realizzazione terminata l’1 settembre 2006.
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in formato Portable Document File (file con estensione pdf)
È possibile trovare questo file presso il sito personale dell’autore, al seguente indirizzo:
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Si tratta di un sito creato per scopi didattici avente per argomento principale i dati sulle sigle dei cartoni animati.
Il file potrà essere trovato presso l’apposita pagina di download oppure sulla pagina delle novità.
Altri e-book realizzati:
1. E.C.D.L. – Manuale d’uso
2. L’abete siciliano (arvulu cruci cruci)
3. La terra, l’acqua, la serpe e il Santo
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