Anno XVIII N° 2 giugno – dicembre 2005 -Periodico Semestrale
Speciale convegno
Insieme per accogliere i minori
30 anni di attività del Movimento Gruppi Famiglia
Il primo ottobre abbiamo celebrato a Verona il trentennale del nostro Movimento, in collaborazione
con il Comune di Verona, e qui riportiamo una parte degli atti.
Il primo è il saluto - introduzione dell'assessore all'istruzione seguito da quello della presidente
Gemma Corazza.
Maria Luisa Albrigi
Se si dice che l’abito non fa il monaco, oggi è importante dire che questo luogo riservato dal
Comune di Verona ad un momento di celebrazione dei vostri 30 anni di attività è altamente
simbolico. E’ una delle scelte che la giunta ha fatto proprio per sottolineare, mettendo a
disposizione la Gran Guardia e offrendo anche un momento di convivialità, per dire grazie per i
vostri 30 anni.
Grazie per l’impegno, grazie per tutti i bambini e i giovani che avete incontrato e accompagnato, ai
quali avete dato il calore e i sentimenti di una famiglia, li avete addestrati all’amore dando loro
amore.
Quindi non sono i saluti che porto, perché credo non abbiano molto significato, ma la
condivisione piena e la riconoscenza dell’amministrazione comunale e del sindaco in primis.
Per voi, come per noi, lo ha già detto il dottor Molon, (resposabile dei servizi sociali, ndr.) è un
momento di sosta, di riflessione e di bilancio e i momenti come questi servono per rendersi conto,
voi per la vostra parte e noi per prendere atto della ricchezza che abbiamo che è quella parte di
cittadinanza attiva che rende veramente importante un lavoro nel quale l’amministrazione crede.
Quindi un momento necessario, anche perché essendo tutti molto impegnati corriamo dalla mattina
alla sera e non ci prendiamo mai il tempo per fermarci un attimo, per renderci conto di cosa viene
fatto e della sua importanza .
Oggi possiamo dirvi anche che siete stati bravi per ciò che in questi anni avete costruito, che è
molto, pur con gli errori, con le difficoltà, con i miglioramenti che si possono apportare alla propria
attività e al proprio comportamento.
Per noi assume un significato perché, credendo che non sia più giusto che l’ente locale vada per la
propria strada ma prenda atto di ciò che di buono e di importante c’è nella società civile, penso che
questo momento serva per stabilire insieme dei percorsi e delle tappe, correggendo, ciascuno per la
propria parte, le eventuali rotte non conformi all’obiettivo che insieme ci poniamo e quindi cercare
di andare avanti insieme, ciascuno nella propria specificità con le proprie caratteristiche.
Noi per dovere istituzionale, voi per scelta., però avendo in comune un obiettivo, quello di andare
incontro alle esigenze e alle necessità dei piccoli, dei ragazzi, dei giovani.
Un segnale preciso è stato dato da parte dell'ente pubblico proprio istituendo l'assessorato al terzo
settore del quale ho la fortuna di occuparmi.
Ci sono persone più preparate di me e che porteranno la loro esperienza ma credo che oggi più che
mai, come amministrazione, dobbiamo focalizzare il nostro impegno e la nostra attenzione proprio
su questo mondo.
Se per i piccoli credo sia già evidente l’impegno, credo che l'Amministrazione Comunale dovrà
dedicare le sue forze maggiormente a quelli un po’ più grandi, che comunque fanno parte della
vastissima area dei minori, nella convinzione che operando a questi livelli si cerca anche di
formare cittadini che siano in grado di andare incontro alla vita con responsabilità e che siamo
attrezzati ad affrontare la complessità e le difficoltà che essa presenta, con responsabilità.
Noi sappiamo, perchè lo vediamo tutti i giorni, la fragilità delle famiglie, le difficoltà che hanno,
soprattutto quelle giovani: vivono l’insicurezza e la fatica nell' affrontare i problemi
dell'accudimento di un bambino.
Ed è per questo che la terapia migliore, se opportunamente sostenuta, possa venire proprio dalla
famiglia. Se crediamo in questo obiettivo, comune per noi e per voi, è importante trovare proprio
all’interno quelle risorse affinchè la famiglia possa curare se stessa, tenendo presente un elemento
fondamentale, che è l’amore.
Per voi forse è più naturale considerare questo aspetto della cura, per noi diventa un impegno anche
se come classe politica spesso si ha pudore a nominarlo, ma del quale invece dobbiamo
riappropriarci.
Per voi diventa scelta quotidiana, per noi deve diventare comunque quel valore aggiunto che
qualifica le nostre azioni e i nostri interventi.
Vi invito quindi a vedere, pur nella difficoltà del percorso, l’ente locale come un partner, un
compagno di viaggio e non un antagonista, non una realtà che sta dall’altra parte e che non è in
grado di accogliere le vostre istanze, i vostri suggerimenti, e quindi non è in grado di dare quelle
risposte che voi vi aspettate.
Ci rendiamo conto che non riusciremo, lo sappiamo, a darvi tutto quello che chiedete ma ci
rendiamo altrettanto conto che se noi ci appropriamo anche dell'elemento amore, è una possibiltà
in più e in comune, tra noi e voi, per poter dire che siamo in grado di andare avanti insieme.
Per noi diventa un elemento nuovo da porre nel nostro impegno di amministratori, per voi è già una
realtà: il prendersi cura di altri figli vuol dire allargare i confini della propria famiglia, vuol dire
dare un segnale di generosità, di disponibilità ma nella consapevolezza che il primo ritorno positivo
è proprio per le famiglie che fanno questo tipo di scelta.
Quindi il mettere anche i nostri figli nelle condizioni di non pensare solo a se stessi, ma di
rinunciare a qualcosa per aprirsi agli altri e avere una famiglia allargata, significa avere un respiro
più ampio, vuol dire essere più forti, imparare anche a sottostare a delle regole, che in tante
situazioni oggi vediamo carenti e questo ci crea grossi problemi, anche dal punto di vista del nostro
intervento, per poter fare qualcosa per la famiglia in difficoltà.
Gemma Corazza
Presidente del Movimento
Mi sento di dire grazie all’assessore Albrigi che sentiamo molto in sintonia con noi.
Abbiamo pensato di rappresentare in vari momenti la vita e l’attività del movimento e quindi 30
anni concentrati in alcune persone che ne presenteranno ognuna, una piccola parte.
IL MGF è nato nel 1975.
Dopo una storia così lunga, il nome in questo anno viene modificato, non tanto per buttare via il
passato ma per tenere conto della nuova situazione, della realtà oggi presente nel movimento, che è
prevalentemente di famiglie affidatarie oltre che di gruppi e famiglie adottive.
Quindi il nuovo nome è Movimento per l’Affido e l’Adozione Onlus, un’associazione di
volontariato.
Stiamo sbrigando le pratiche per poter legalizzare anche il nome, però citeremo sempre che ci
chiamavamo MGF e magari qualche volta, ci scapperà anche di dirlo, nel presentarci. Noi che
facciamo parte adesso del Movimento, abbiamo quasi un debito di riconoscenza verso quelli che
l’hanno pensato, fondato e portato avanti.
Anch’io sono d’accordo nel definire il movimento come realtà vivace.
Sono presidente da poco ma ero già dentro il Movimento, quindi questa vivacità e questo impegno
per la tutela dei minori e per sostenere le persone che vogliono impegnarsi in questo percorso di
accoglienza, si sentivano e si sentono ancora. Mi sembra doveroso e mi fa anche piacere nominare
le persone che hanno guidato come presidenti il Movimento fin dalla sua nascita:
Pietro Ruatta è stato il primo presidente nominato dal gruppo dei fondatori per alcuni mesi nel
1975,
Maria Carrara dall’ottobre 1975 all’81,
Giorgio Vinco dall' 81 all’87,
Laura Arduini dall’87 al 93;
Anna Romboni Fiori dal 93 al 2002.
Questo solo per costruire un filo da cui adesso proseguiremo.
Per noi questo convegno è anche un’ occasione per celebrare 30 anni di storia e fare un bilancio,
riflettere e continuare il cammino, perché passato, presente e futuro sono sempre un po’ insieme
dentro di noi.
Per dare l’idea della consistenza del lavoro che è stato fatto voglio dare alcuni numeri anche se
dicono poco o tanto, a seconda di come li si legge:
210 sono i bambini e i ragazzi accolti e poi accompagnati verso la loro vita, tornati nella loro
famiglia, diventati autonomi, dall’inizio dell’attività dell’associazione ad ora.
Sicuramente un numero per difetto nel senso che poi alcune cose bisogna ricostruirle a memoria e la
memoria a volte tradisce un po’.
Sicuramente per difetto anche perché alcuni casi cosidetti “conclusi”, in realtà, nonostante questi
ragazzi e ragazze diventino adulti, rimangono come dire in cura alla famiglia affidataria, alle
persone che li hanno accolti. Alcuni ancora veramente bisognosi di accompagnamento, altri rimasti
con un legame affettivo e di condivisione di vita.
Attualmente accogliamo 75 tra bambini, ragazzi e ragazze nelle famiglie e nei gruppi famiglia.
Quindi sono 56 famiglie affidatarie impegnate in questa accoglienza. Altri bambini sono accolti in
un “gruppo famiglia” gestito direttamente dal movimento e in altri tre “gruppi famiglia” gestiti
autonomamente da soci del movimento. Ci sono delle gestioni un po’ diverse ma la sostanza non
cambia.
Qui, al tavolo di questo convegno siamo in tanti: soci, collaboratori del movimento, operatori dei
servizi, e ognuno presenterà una parte del percorso che abbiamo pensato per la giornata di oggi.
Contrariamente a quanto scritto nel programma non è presente la dottoressa Castellani perché ha
avuto un impegno improvviso molto importante e ringrazio molto il dottor Andrea Guandalini che
si è reso disponibile a fare una relazione per la parte riguardante i gruppi di formazione e di
sostegno.
Dietro a queste persone che si espongono un po’ nel dire alcune cose, c’è anche una cura tecnica
effettuata da Luciano Fiori, da Paolo Mantovani e da Antonietta Sperman.
Adesso sentiremo raccontare la storia cronologica e anche di pensiero del Movimento da Anna
Romboni Fiori che ha fatto una ricerca di tipo universitario, a titolo personale, per passione e per il
gusto di riscoprire le origini e il cammino del nostro Movimento.
Necessariamente la presentazione sarà estremamente sintetica per il poco tempo a disposizione e
sarà un po’ dura per tutti concentrare in pochi minuti l'esperienza di un trentennio, però siccome
sappiamo che vuole molto bene al Movimento, ne fa ancora parte e ci mette tanto cuore, anche in
questa esposizione le notizie, anche quelle cronologiche, saranno comunque cariche di sentimento.
La storia del Movimento
UN CAMMINO
PER RISPONDERE AI BISOGNI DEI BAMBINI
Dall’istituto al gruppo famiglia, alla famiglia affidataria
Il mio intervento è stato intitolato “Un cammino per rispondere ai bisogni dei bambini” ed è
questo che io ho colto rivisitando la storia dei 30 anni dell’Associazione leggendo i verbali delle
nostre riunioni, lo statuto, il Documento Base e attraverso depliant, lettere, progetti presentati.
Ne è uscito un lavoro molto interessante e ricco di notizie.
Di questa storia ora ne presenterò solo alcuni passaggi che considero significativi.
Non dirò nomi per non dimenticare qualcuno oppure mettere in risalto gli uni piuttosto che
gli altri.
Le uniche persone che voglio citare sono i fondatori perché sconosciute anche ai soci del
Movimento di adesso; come se non fossero mai esistite; invece è da lì, dalla loro iniziativa e dalla
loro attività che parte tutta la nostra storia. Anche le cose che stiamo facendo adesso, tutte le
vicende che sentirete esporre oggi, erano in embrione già presenti allora.
Nel verbale del 13 Gennaio 1975 si legge:
“Nel pomeriggio siamo stati convocati nello studio dell’avvocato Picotti dal
notaio NICODEMO ZORDAN per la firma dell’atto costitutivo del
“Movimento”, che ha dato inizio ufficiale alla nostra attività.
Il notaio ha dato lettura dei vari articoli e dopo aver illustrato il contenuto del
documento lo ha fatto sottoscrivere ai presenti che erano: Pietro Ruatta, avv.
Marco Picotti, Amalia Bolla, Albina Tebaldi, Elisa Garbo, Antonietta Guareschi,
Maria Carrara, Maria Ficicchia, Lorenzo Caprarella, Silvio Ferri, Margherita
Benassuti, M. Grazia Cordioli, Laura Arduini, Rosa Zardini, don Bruno Bersan.
Fra i presenti è stato eletto il gruppo operativo composto da: Pietro Ruatta,
presidente, Lorenzo Caprarella., Maria Carrara, don Bruno Bersan, Albina
Tebaldi, Antonietta Guareschi, Laura Arduini, segretaria tesoriera.
Detto gruppo operativo resterà in carica fino alla prossima assemblea in data da
destinarsi”.
Perché queste persone, che già facevano accoglienza e appartenevano ad altre e varie realtà
veronesi, hanno voluto fondare una nuova associazione?
Tale domanda può trovare risposta leggendo l’art. 2 dello statuto del Movimento:
“Art. 2:- Scopo del Movimento è quello di dare una famiglia ai giovani che ne
sono privi o la cui famiglia non è in grado di svolgere la sua funzione”.
Questo è il primo atto politico del Movimento: l’intuizione che hanno avuto i nostri fondatori
di pensare la famiglia capace di cura dei soggetti deboli della società, in questo caso i minori, cura
che per tradizione era riconosciuta, sia dall’ente religioso che dall’ente pubblico, agli istituti di
carità.
Lo Statuto prosegue.
“Per realizzare la sua finalità il Movimento si propone di:
a)
sensibilizzare l’opinione pubblica (a tutti i livelli mediante incontri,
dibattiti, gruppi di studio, ecc);
b)
c)
d)
collaborare attivamente con famiglie, associazioni ed enti assistenziali, (che
sono impegnati a rendere operanti le disposizioni legali concernenti
l’adozione e l’affidamento familiare);
costituire dei “gruppi famiglia” (composti preferibilmente da minori da
inserire totalmente nell’ambiente sociale del luogo come ogni altra
famiglia e dare loro assistenza, appoggio, amicizia);
avvalersi di persone competenti (medici, psicologi, pedagogisti, ecc.)
affinché possano aiutare i membri del Movimento a mantenersi in un
aggiornamento costante. [...]”.
Nel nostro statuto ci sono indicate tutte le attività che verranno svolte negli anni successivi
rendendole adatte ai tempi e ai luoghi, arricchite delle esperienze maturate.
A Costagrande il 19 ottobre 1975 si tiene la prima assemblea dei soci con l’elezione del
gruppo operativo.
La socia Maria Carrara, oltre alla formazione che si svolge alla domenica e aperta a tutti,
propone di organizzare degli incontri limitati ai responsabili dei gruppi famiglia, per uno scambio di
esperienze sui problemi educativi, per avere dei suggerimenti utili. E’ l’inizio dell’attività del
gruppo di auto-aiuto, prezioso strumento di sostegno della famiglia affidataria.
Il 24 febbraio 1979 c’è l’inaugurazione della nuova sede in via Campofiore numero 58.
Sono presenti i soci, amici e nuovi simpatizzanti. Si contano le persone: 70/80. E’ un
numero alto, quasi insperato.
E’ la Fondazione Canossa che ci concede questi locali che vengono utilizzati come sede al
piano terra e, nei piani superiori, come abitazione del gruppo famiglia gestito da Maria Carrara che
aveva avuto lo sfratto perché il suo padrone di casa l’aveva accusata di subaffitare l’appartamento
ai ragazzi che accoglieva.
Verso la legge 184
Negli anni 80 la formazione ha come scopo principale l’approfondimento di temi
pedagogici e lo studio dell’idea di volontariato; gli incontri sono organizzati dal Movimento o si
partecipa ad altri convegni in varie località d’Italia.
Alla Camera e al Senato del Parlamento Italiano intanto si sta lavorando per varare la legge
sull’adozione e l’affido che verrà emanata nel 1983..
Il gruppo operativo struttura la formazione dell’anno 1982 destinata ai soci del Movimento e
ai simpatizzanti sull’affidamento e sulle sue caratteristiche viste da varie angolature.
Si parla di cosa è l’affido, di come è il bambino in stato di abbandono e dei suoi problemi, di
quali interventi gli operatori mettono in atto per lui, delle esperienze accumulate all’interno dei
gruppi e delle famiglie affidatarie.
C’è una continua revisione dell’operato.
C’è bisogno di confrontarsi fra i soci e quindi il gruppo operativo stila una traccia di
discussione sulla quale lavorare, domenica 11 giugno 1982, per arrivare a una operatività più
concreta.
Da questo emerge sia il bisogno di approfondire temi di tipo psico-pedagogico-educativo
che la necessità di chiarire l’identità del Movimento.
Già lo statuto ne ha dato una fisionomia, ma l’esperienza ha portato a domandarsi quali
siano le basi fondamentali per guidare l’operato di tutti.
Non si tratta più di essere accoglienti con un determinato stile cioè di essere capaci di
coniugare l’amore per il prossimo con il dovere della formazione personale. Non basta più essere il
termine di aggregazione per chi si occupa di minori, ma si vuole diventare, come Movimento,
soggetto che collabora con pari dignità con i servizi sociali che sono i responsabili giuridici
dell’affido.
Si delinea la coscienza di dover assumere un ruolo politico.
Questo concetto viene espresso nell’editoriale del n° 7 de “Il Movimento”, giugno
1985: “Salvare il bambino che ci è stato affidato non è sufficiente; può essere
gratificante e quindi ingannevole mentre numerosi giovani vanno alla deriva per
mancati o inopportuni interventi istituzionali. Il nostro deve essere quindi, proprio
come associazione, un impegno politico; senza questa dimensione il Movimento
non avrebbe né significato né storia. Infatti solo in quanto la nostra presenza
favorisce un’opera sistematica del Comune o di altra pubblica istituzione
possiamo dirci soddisfatti”
Anche nell’opuscolo “Perché non crescano soli – Documento base” pubblicato dal
Movimento nel 1986 in occasione del decennale si evidenzia la presa di coscienza del ruolo
politico dell’associazione:
“Per noi è essenziale conoscere i meccanismi che producono emarginazione ed
integrare il servizio personale con il ruolo politico. In questa visione siamo
impegnati a contribuire per il nostro ambito al cambiamento dell’attuale assetto
assistenziale per un piano organico di servizi”
Per attuare questo ruolo politico si cerca di organizzare una sensibilizzazione a livello cittadino,
sulle problematiche minorili, coinvolgendo, oltre ai Servizi sociali del Comune, anche varie
associazione di volontariato.
Il territorio
come luogo privilegiato d’intervento
L’art. 1 della legge 184 afferma che il minore ha diritto di essere educato nell’ambito della
propria famiglia.
I soci del Movimento, che sentono il bisogno di lavorare in tal senso, organizzano sul
territorio, in collaborazione con i Servizi Sociali, un’attività pomeridiana indirizzata ad appoggiare
ragazzi in difficoltà. L’attività comprende l’aiuto nei compiti scolastici e l’organizzazione di
attività ricreative e di socializzazione.
La filosofia che sta alla base del lavoro sul territorio è ben espressa nell’intervista concessa
dai componenti il Gruppo Operativo al periodico “Note Mazziane” presentando le linee portanti del
Documento base “PERCHE’ NON CRESCANO SOLI”.
Si sottolinea come per il Movimento
“la scelta del territorio diventa fondamentale in quanto siamo convinti che è sul
territorio che si gioca la conoscenza dei bisogni e la ricerca delle soluzioni. [...] E’
sempre sul territorio che si debbono creare degli interventi di appoggio educativo
per quei minori che presentano situazioni di disagio e di rischio, in stretta
collaborazione con la scuola, con il servizio sanitario e con tutte le altre realtà
sociali presenti”.
Nel 1982-3 viene fatto come Movimento una prima esperienza pomeridiana. Si vuole
lavorare nel campo della prevenzione attraverso l’istituzione di momenti di aggregazione con
l’aiuto di soci, di volontari e di obiettori di coscienza in sinergia di lavoro.
Il primo esperimento avviene nel quartiere di Veronetta. L’attività viene poi ripetuta a Saval,
a Borgonuovo, a San Michele e, in provincia, a Isola Rizza.
Sono le prime esperienze di Centro Diurno.
A metà degli anni ottanta per far fronte al bisogno di educatori che si impegnassero in modo
costante nei centri diurni, il Movimento pensa di fondare una Cooperativa.
Nell’esporre le motivazione il Direttivo fa una duplice precisazione:
•
garantire ai minori la presenza degli educatori motivati che diano
garanzia di continuità e serietà,
•
assicurare agli educatori un contributo economico.
Per formare gli educatori della Cooperativa il Movimento organizza un vero e proprio corso
di 24 incontri.
Il 6 maggio 87 viene costituita ufficialmente la Cooperativa alla quale viene dato il nome
“L’Alba” come auspicio per la nuova attività che sta per nascere.
La formazione
Negli anni 90/93 avviene un grande cambiamento all’interno dell’associazione: viene
impostata sul territorio la sensibilizzazione verso l’affido in modo strutturato e nei vari quartieri
Sorvolo sul metodo e i luoghi in cui viene svolta; ciò che deve essere messo in risalto è il
coinvolgimento di un numero cospicuo di famiglie affidatarie coinvolte non solo come presentatori
di loro esperienze ma anche come conduttori dei sottogruppi in cui si divide l’assemblea per
approfondire l’argomento presentato dai relatori. In questo modo nelle famiglie affidatarie nasce la
coscienza di essere IL MOVIMENTO e non solo soci che usufruiscono dei servizi che il
Movimento mette a disposizione
Si imposta anche la formazione della domenica.
Si ripensa al ruolo dei genitori, alle problematiche dei figli in affido e in adozione ma anche
a quelle dei propri.
Si parla dell’adolescenza, dei timori dei genitori di fronte all’adolescenza, di orientamento,
fino ad arrivare a due anni di formazione sulla mediazione come strategia necessaria nella
complessità del vivere (come è stata chiamata nel nostro depliant di presentazione).
Questa tematica è stata scelta con uno sguardo alla famiglia di origine dei bambini che si
accolgono. Pur non essendo compito della famiglia affidataria prendersi cura dei genitori affidanti
si è arrivati alla consapevolezza che un buon modo di atteggiarsi può favorire o negare la relazione
con loro.
Dei Gruppi di sostegno ne parlerà più tardi il dottor Guandalini, ma in essi noi genitori
affidatari troviamo il luogo non solo per presentare i problemi dei ragazzi in affido ma anche per
conoscere le nostre dinamiche davanti ai loro comportamenti.
Studio di coppia
Nella seconda metà degli anni 90 siamo arrivati a sperimentare, e poi a far diventare prassi,
lo studio di coppia.
Il Movimento lo percepisce come un servizio alla famiglia nella sua totalità, con un
particolare rispetto ai figli presenti che, seguendo la scelta fatta dai loro genitori, si trovano a
condividere il loro stile di vita. E’ anche per loro che i genitori devono analizzarsi nelle potenzialità
e nei punti deboli per essere capaci di gestire la presenza in famiglia del bambino accolto senza far
cadere dei pesi troppo onerosi sui loro figli.
Da questa considerazione ne deriva un’altra legata al gruppo famiglia: nel momento
dell’inserimento di un nuovo minore bisogna tener conto delle caratteristiche e dei bisogni dei
minori che sono già accolti.
Il Movimento e l’adozione
“Siamo del parere che presso ogni consultorio dovrebbero nascere gruppi di
discussione di famiglie adottive, perché i problemi siano socializzati e discussi
con persone qualificate ed esperte.
Questo gruppo dovrebbe essere aperto
anche alla nuovo coppie che si sono dichiarate disponibili all’adozione” (dal
Documento Base ”Perché non crescano soli” – MGF – 1986).
Come associazione di famiglie affidatarie abbiamo ripreso questo aspetto che era stato
presentato nel 1986 e abbiamo fondato il gruppo degli adottivi (faccio presente che tra soci
fondatori c’era anche una coppia adottiva). Essi, in sinergia con il nostro, hanno fatto tutto un loro
cammino di formazione per i genitori che si preparavano all’adozione e di sostegno per quelli che
avevano già adottato. Non prendo spazio all’intervento che seguirà il mio, proprio su questo
argomento.
Ruolo politico
Con tutta questa nostra attività siamo coscienti d’aver svolto un ruolo politico che ha portato
avanti le istanze dei minori, le istanze della famiglia adottiva, ma anche le istanze della famiglia
d’origine.
Il gesto verso quest’ultima categoria è una novità sul territorio, anche se il problema è da
sempre conosciuto perché è da lì che nasce il disagio del bambino.
Lo si matura attraverso un lavoro interiore ma anche con la formulazione di un progetto per
la presa in carico della famiglia d’origine, progetto che viene presentato all’ente pubblico per la sua
realizzazione.
Cogliendo le nuove esigenze, che nascono specialmente con la presenza di immigrati e di
famiglie sole in territorio straniero, si attuano dei nuovi modi per aiutare un bambino, stando
accanto a tutta la sua famiglia. “Progetto famiglie a fianco” si intitola la nuova iniziativa del
Movimento ed rivolta a formare quelle famiglie che si sentono di esprimere il loro servizio
“diventando amiche” di altre, accogliendone la cultura, i modi diversi di essere genitori, ma
soprattutto riconoscendo il loro diritto alla genitorialità e fornendo gli strumenti per sostenerla.
E’ un cammino che ci è costato ma che è partito proprio da noi, dallo stare insieme, vicino ai
nostri bambini.
Questo argomento verrà ampliato nella seconda parte del Convegno
Conclusione
L’associazione spende la sua ultima (nel tempo) azione politica rivolgendosi al
riconoscimento delle potenzialità di cura insite nella famiglia e alla sua capacità di esercitare
molteplici interventi nei confronti dei minori e della società. A tale scopo, il Movimento stila il
documento “Linee guida per la collaborazione tra servizi pubblici e famiglie del Movimento”,
dove vengono esposti sia l’iter formativo della coppia che diventa affidataria, ma anche le modalità
da attuarsi al momento della collaborazione fra i soggetti chiamati in causa.
Vogliamo essere riconosciuti nella nostra attività, frutto dell’esperienza di 30 anni e scaturita
dall’impegno di tutte le persone che hanno contribuito a portare avanti le idee del Movimento.
Se c’è una speranza è che l’ente pubblico e i suoi operatori credano di più in questa
potenzialità di cura per dare alle famiglie la possibilità di esprimere in modo pieno la loro fecondità,
con le loro gioie e le loro fatiche.
Il dottor Andrea Guandalini, psicologo dell'ULSS 20, collabora con il Movimento. Illustrerà
i principi e le attività che portiamo avanti nei gruppi.
Per noi gli incontri di gruppo per la formazione ed il sostegno sono importantissimi e vi impegnamo
molte energie.
Percorsi di formazione e sostegno per coppie effidatarie e adottive
LA FORMAZIONE
I percorsi di formazione che il Movimento ha realizzato in questi anni sono stati a vari
livelli.
Giornate su tematiche particolari ritenute importanti dagli affidatari (cinque/sei domeniche
all’anno). L’argomento trattato negli ultimi anni ha riguardato in modo particolare
l’adolescenza e le difficoltà che gli adolescenti incontrano nella loro crescita.
•
Gruppi di preparazione all’affido per persone che hanno dato la loro disponibilità ad
accogliere bambini e hanno quindi bisogno di prepararsi. Sono gruppi in cui si lavora
attraverso la riflessione e/o con l’uso di varie tecniche (giochi di ruolo, psicodramma…),
che hanno come obiettivo il ripensamento delle motivazioni ed un confronto più concreto tra
i propri desideri e aspettative e le esigenze dei bambini.
•
Gruppi di sostegno per famiglie che già hanno con loro bambini in affido. Si riuniscono
normalmente una volta al mese e offrono ai partecipanti la possibilità di scambi di
esperienze e di verifica dei comportamenti e delle reazioni emotive, fornendo sostegno e
rinforzo a chi sta condividendo la stessa fatica.
•
Gruppo di valutazione dell’esperienza dell’affido. È un gruppo partito nell’ultimo anno. Si è
proposto di enucleare, partendo dalle esperienze di affido già fatte, le caratteristiche che
presumibilmente fanno sì che un affido vada bene e quelle che fanno ipotizzare che molto
difficilmente funzionerà. Il gruppo era formato da famiglie affidatarie, assistente sociale del
Comune di Verona, psicologo dell’ULSS 20.
RIFLESSIONI
Esporre in questo convegno i percorsi formativi realizzati dal Movimento a partire dalla sua
fondazione è in primo luogo un modo per dire quanto la formazione degli affidatari è sempre stata
ritenuta fondamentale. È una formazione che normalmente viene commissionata a psicologi o
pedagogisti, riconoscendo a queste figure una competenza sul conoscere quali sono le esigenze e i
bisogni più importanti dei bambini e su quali dovrebbero essere le risposte più adeguate dei genitori
o di chi ne svolge la funzione. Si riconosce loro anche la competenza nel conoscere le dinamiche
che nascono tra genitori e figli, tra adulti e bambini, e sui percorsi da attuare quando sorgono
problemi al riguardo, nonché sulle dinamiche tra famiglie di origine e famiglie affidatarie. Quando
mi è stato chiesto, da parte del Movimento, di partecipare a questa formazione seguendo dei gruppi
di affidatari, già avevo fatto un lungo periodo di lavoro nel servizio pubblico e quindi pensavo che
le mie conoscenze sui bambini e soprattutto sui bambini in difficoltà, sarebbero state rilevanti per
insegnare agli affidatari come comportarsi e di conseguenza far sì che gli affidi funzionassero bene.
Ora, dopo alcuni anni di questo lavoro, le mie idee si sono piuttosto modificate a causa di alcune
evidenze che ho sempre più rilevato:
•
le conoscenze sullo sviluppo del bambino, le presunte conoscenze che lo psicologo
dovrebbe avere sulle dinamiche tra bambini e genitori, sono ormai un patrimonio in larga
misura presente tra le persone che lavorano per l’affido, tuttavia molti problemi permangono
•
perché un affido funzioni bene è molto importante un lavoro costante di verifica di interessi
e motivazioni che sottendono questa scelta, una verifica che deve essere fatta da tutti i
soggetti in gioco nell’affido (famiglie, psicologi, assistenti sociali)
•
la buona riuscita di un affido dipende in piccola misura dalle conoscenze che si hanno sul
bambino, sul suo sviluppo o bisogni, mentre dipende in grande misura dal tipo di rapporti
che i vari soggetti implicati nel progetto riescono ad avere tra loro.
L’affido, l’aiuto a famiglie e bambini in difficoltà, è stato fatto anche in altri tempi, quando le
conoscenze sul bambino erano diverse, viene fatto anche in altre culture con idee differenti sulla
natura del bambino e sui suoi bisogni.
Nella nostra società, al momento attuale, per fare un affido interviene un’autorità, c’è una tutela,
intervengono dei tecnici della psiche, delle famiglie con una formazione sempre più vasta.
Tutte queste specializzazioni portano molti vantaggi ma complicano il livello relazionale e di
collaborazione tra i vari soggetti.
L’affido familiare è un lavoro con persone, basato essenzialmente sulle relazioni. Se queste non
funzionano è una grande illusione che possiamo far funzionare l’affido solo con bei progetti teorici.
Quando ognuno deve continuamente difendere le proprie posizioni, giustificare le difficoltà che
incontra con le mancanze o le incompetenze dell’altro, significa che le relazioni sono difficili, che
ognuno non può più fare la propria parte con la fiducia che l’altro ne faccia un’altra. In queste
condizioni, sperare che l’affido vada bene è pura illusione.
Una risposta concreta a questo problema è stato il gruppo che quest’anno ha lavorato sulla ricerca
delle condizioni che fanno riuscire un affido. È stato un lavoro svolto da famiglie affidatarie,
psicologo dell’ULSS, assistente sociale del comune, per riflettere su errori, comportamenti non
idonei, incomprensioni tra i vari soggetti. Speriamo abbia un seguito.
Un altro aspetto, che vedo carente, è il fatto che l’affido non riceve una valutazione adeguata.
Non si può dare un giudizio completo su un affido al momento della sua conclusione. I risultati di
un affido dovrebbero essere valutati quando un bambino è diventato adulto, rispetto alla sua salute
psicologica, alle sue capacità professionali e sociali. È una valutazione di certo difficile, ma che
potrebbe dare un senso compiuto a tutto il lavoro fatto dalle famiglie degli operatori.
Nati dal cuore: le famiglie adottive del Movimento
Daniela Zendrini, Aurora Allegrezza e Tiziano Recchia, genitori adottivi presentano l'esperienza di
gruppo e le riflessioni su “essere genitori” .
Viene presentato anche il libro “nati dal cuore”.
CHI SIAMO
Siamo una trentina di famiglie , ci incontriamo, chi da quasi quindici anni chi da un anno in via
Campofiore 58, Verona presso la sede del Movimento Gruppi Famiglia.
Attualmente lavorano due gruppi di cui uno ancora aperto nell’accogliere coppie che volessero
aggiungersi.
Ci troviamo mensilmente per raccontarci, confrontarci e riflettere.
Inizialmente eravamo un piccolo gruppo formato da famiglie che già avevano adottato; l’esperienza
positiva ha creato un effetto passaparola tanto da dare l’opportunità ad altre coppie di aggregarsi.
Ciò che ci ha coinvolto è stato il cercare , il definire, il costruire, “l’essere genitori” passando
attraverso i nostri limiti e le nostre grandezze di donne e di uomini, di madri e di padri, tessendo di
volta in volta la nostra amicizia.
Amicizia nata dalla condivisione delle personali esperienze sia gioiose che difficoltose .
All’interno dei gruppi ci sono famiglie con figli sia adottivi che biologici che creano una dinamica
di confronto tra queste due realtà.
L’atmosfera che si respira durante gli incontri è carica di emozioni, sentimenti, parole, delusioni e
speranze.
Ognuno di noi trova nel gruppo sostegno, calore, comprensione e la possibilità di esprimere e
condividere il quotidiano della genitorialità.
La nostra crescita è anche data dal confronto dei diversi modi di educare i figli, che non sempre ci
trova in accordo e che è fonte di discussione e arricchimento continuo.
ESSERE GENITORI
Essere genitori, che cosa significa!?
Spesso ce lo siamo chiesti e una risposta non l’abbiamo trovata, perché è in continua evoluzione e
cambiamento, perché diventiamo genitori insieme ai nostri figli.
Che differenza c’è tra l’essere genitore adottivo o biologico?
C’è differenza?
C’è differenza perché la nostra storia è nata in tempi e modi diversi dal consueto. Perché i figli che
abbiamo, hanno un tempo e uno spazio di storia diverso dal nostro e a noi sconosciuto. Talvolta, per
noi e per loro diventa un fantasma che si concretizza nei momenti di passaggio, nei momenti in cui
ci chiediamo sommessamente o a voce alta.. ‘ma da chi avrà preso…?’
Non c’è differenza per quello che si costruisce giorno per giorno: per le fatiche, i dubbi, le gioie, le
conquiste che a piccoli passi raggiungiamo.
Su una cosa siamo certi: ci appartiene la consapevolezza di essere importanti per la crescita umana,
personale, psicologica dei nostri figli.
I figli sono la cosa più preziosa che abbiamo.
In questo senso ci sentiamo semplicemente genitori.
PERCHE’ UN LIBRO
Nel corso degli anni abbiamo affrontato temi diversi: le origini, come dirglielo, le regole, la scuola,
le bugie, le fantasie, le paure, l’ autostima, il vivere il tempo, i rapporti con gli altri, le famiglie
d’origine…
Ad un certo punto abbiamo sentito l’esigenza di mettere nero su bianco, di concretizzare quello che
di volta in volta era stato elaborato nelle discussioni delle serate.
Il libro ci ha permesso di fare ordine, dare un filo conduttore ai molteplici pensieri e idee che nel
corso degli anni sono emersi.
Qui abbiamo raccontato i nostri sentimenti, i nostri vissuti, le emozioni le attese, le sofferenze e le
gioie che hanno caratterizzato il nostro percorso.
Il ritrovarci per imbastire il libro ci ha portato a ripensare e chiarire la nostra esperienza cercando di
renderla comprensibile agli altri e soprattutto ai nostri figli.
Attraverso le parole di tutti abbiamo provato a raccontare loro le sfaccettature di ciò che spesso non
riusciamo a comunicare .
Lo abbiamo pensato come dono ai nostri figli, anche se poi nel scriverlo non sempre siamo riusciti
ad usare un linguaggio adatto ai piccoli… glielo regaleremo tra qualche anno!!
TESTIMONIANZE DI FAMIGLIE AFFIDATARIE
AFFIDO FAMILIARE DI NEONATI
Due anni fa abbiamo preso in affido un bambino di 29 giorni con problemi sanitari , ricoverato in
ospedale e l’affido si è concluso con l’adozione in un’altra famiglia.
Noi abbiamo già due figli naturali di 18 e 15 anni e uno di 12 in affido da più di 5 anni, abbiamo
comunque deciso di accogliere un neonato, perché l’alternativa era che finisse in istituto: a nostro
giudizio, così piccoli hanno bisogno di una famiglia.
Ci siamo consultati con i nostri figli: il maggiore aveva delle perplessità, poi però ci ha aiutato
spontaneamente nei momenti critici, la seconda era favorevole ed è stata d’aiuto, il terzo era geloso,
ha avuto una regressione, poi però ha potuto rileggere la propria infanzia.
Abbiamo dovuto riorganizzare gli spazi della casa, recuperare una carrozzina, un lettino, i biberon,
e tutto l'occorrente per un neonato, riorganizzare il nostro tempo, affrontare notti in bianco e le
visite mediche in ospedale.
E’ stato importante l’appoggio della nostra associazione, il M.G.F.:
i consigli e l’amicizia del nostro gruppo di approfondimento, l’appoggio del tutor, il sostegno di una
psicologa, l’aiuto di un’educatrice per alcune mattine, ci hanno aiutato a vivere questa bellissima
esperienza.
E’ difficile comunicare la gioia nel vederlo crescere, il primo sorriso, le prime scoperte, …
Il neonato ha potuto vivere ventiquattro ore su ventiquattro il rapporto con una mamma e un papà,
con dei fratelli, una dimensione di famiglia reale che nessun istituto, per quanto ben strutturato, può
dare. Il bimbo ha sperimentato anche il rapporto con nonni, parenti e amici, tutto ciò ha contribuito
a renderlo un bambino allegro, vivace, che sorrideva spesso.
Quando abbiamo saputo che era stata individuata la coppia adottiva, eravamo contenti perché
finalmente la sua situazione era chiarita, ma ci chiedevamo: dove andrà il nostro bambino ? e se
non ci piacciono ? e se non lo amano abbastanza ?
Per noi affidatari era chiara la temporaneità dell’affido e che il compito più difficile è quello di
amarlo come un figlio e poi aiutarlo e accompagnarlo nel passaggio alla famiglia adottiva
Il distacco è il momento più difficile. E’ importante un passaggio graduale, con tempi precisi e
stabiliti in accordo con tutte le parti. In questa fase è importante accompagnare le due famiglie.
L’incontro con la famiglia adottiva è stata determinante e fondamentale il rapporto di
collaborazione reciproca spontaneo da entrambe le parti.
Il progetto con i servizi: è stato chiaro e ben articolato con tutti i soggetti ( famiglia d’origine,
famiglia affidataria, tribunale, famiglia adottiva); il rapporto con l’assistente sociale è stato molto
positivo professionalmente e umanamente, è stato presente con telefonate, visite a domicilio,
sollecitazioni al tribunale, aiuto nel gestire il passaggio alla famiglia adottiva,…
La nostra esperienza è stata molto arricchente, importante è stata la collaborazione reciproca tra le
due famiglie, abbiamo instaurato un ottimo rapporto con la coppia adottiva, con la quale
continuiamo a vederci, sia per amicizia sia perché siamo entrambi convinti che fa bene al bambino
non troncare col suo passato.
Alla fine dell’affido è stato fondamentale, per noi, darsi il tempo per digerire e sedimentare
un’esperienza così coinvolgente: bisogna fare sempre attenzione che il distacco è doloroso anche
per i figli, attenzione ai segni ( calo scolastico, pianti nascosti, voce registrata),
Concluderemmo con una lettera scritta dalla famiglia adottiva in previsione di questo convegno .
Sentiamo la famiglia che ha adottato un neonato che è stato in affida presso una famiglia.
“Ci è stato chiesto di raccontare la nostra esperienza di adozione di un bambino italiano di nove
mesi, prima in affido temporaneo presso una famiglia di Verona. Ci accingiamo, dunque, con un
po’ di trepidazione a raccontare la nostra esperienza, sperando che possa esservi in qualche modo
utile. Ci scusiamo fin d’ora se non tutto ciò che raccontiamo è facilmente comprensibile, ma
abbiamo ritenuto opportuno tutelare l’anonimato di nostro figlio e della sua storia.
Per noi, diventare genitori, è un’esperienza del tutto nuova, che ormai non cesserà più.
La dimensione più importante che abbiamo vissuto nel pensarci famiglia con un figlio (desiderato,
certo, atteso… ma un po’ veloce nel suo arrivo …) è stata quella del dono.
Non si diventa genitori per diritto, né si sceglie l’adozione come rimedio ad un nido vuoto… ce lo
siamo detti molte volte mentre nel nostro cammino di coppia maturavamo la disponibilità
all’adozione. Si diventa genitori, e con ciò fecondi di vita, nella misura in cui si è aperti alla gioia di
un dono che è stato pensato per esistere, per il bene del mondo… e di cui noi ora siamo
temporaneamente i custodi. Fino a quando?... Non sta a noi saperlo.
Anche la nostra attesa è stata gravida di imprevisti, incertezze e paure.
Raccogliamo in questa testimonianza, brevemente, anche un assaggio delle molte riflessioni e
pensieri che hanno affollato le nostre menti e i nostri cuori nei giorni in cui attendevamo di
conoscere nostro figlio… e i servizi sociali di Verona attendevano una risposta definitiva per dare a
O. una famiglia stabile.
L’incontro con la famiglia affidataria del nostro bambino è stato determinate, pur avendo già nel
nostro cuore deciso ed accolto O. come figlio. La frequentazione con loro nel tempo precedente al
passaggio definitivo da una famiglia all’altra e la continuità dell’amicizia che esiste tutt’oggi è una
fonte di grande ricchezza per la nostra crescita familiare.
Da parte di entrambe le coppie c’è stata la disponibilità al dialogo e all’accoglienza reciproca, che
ha permesso di operare insieme alcune scelte e di attuare piccole attenzioni che avrebbero agevolato
O. nel passaggio familiare.
Noi abbiamo respirato un clima di fiducia che ci è stata accordata ciecamente, nonostante la nostra
inesperienza genitoriale e la loro, invece, navigata. Questo atteggiamento è stato fondamentale per
costruire un rapporto di collaborazione e non di rivalità, che ha giovato anzitutto a nostro figlio, ma,
di riflesso, anche alle nostre due famiglie.
Decidere di accogliere O. non è stato né facile, né indolore: quando l’assistente sociale ci ha
presentato il caso, dopo il giudice onorario del tribunale, ci ha parlato in modo molto onesto di un
bambino con seri problemi, che probabilmente sarebbe cresciuto come disabile: non è possibile
definire chi dei due abbia descritto il quadro clinico in modo più duro. I medici ancora non
pronunciavano una chiara diagnosi riguardo la sua malattia che presumibilmente sarebbe stata
accompagnata ad un ritardo evolutivo.
Lo sguardo affettivo di una famiglia che accudisce quotidianamente un bimbo è stato però
indispensabile nel vivere con obiettività la nostra scelta: O. è un dono, accolto con riconoscenza. Il
dialogo con la famiglia affidataria non ha cancellato le nostre paure, né ha risolto le nostre
perplessità, ma è stata una voce contraria alle tante preoccupate di descrivere più i problemi che le
risorse. O. è un bambino molto vivace, brioso e piacevolmente socievole, che si adatta volentieri
alla compagnia degli altri.
Altro aspetto non meno importante è stata la collaborazione reciproca, del tutto priva di rivalità: non
è stato un atteggiamento premeditato, ma sorto spontaneamente da entrambe le parti. Loro hanno
avuto la delicatezza di presentarci ad O. gradualmente, prima lasciandoci del tempo (e la loro casa)
a disposizione per giocare e stare con lui, poi invitandoci ad affiancarli nei compiti quotidiani di un
genitore (preparare le pappe ed imboccarlo, operazione che ha richiesto una smisurata pazienza;
cambiarlo, cullarlo e farlo dormire). Ci hanno coinvolti, fin dal nostro arrivo, nelle scelte da fare,
anche se minime (per es.: il colore della tutina da indossare, la meta della passeggiata, l’uso del
marsupio o del passeggino, la scelta del menù per quanto possibile…) Piccole attenzioni
significative: ci stavano preparando (e forse preparavano anche se stessi) a prendere in mano la
situazione gestionale, per consegnarci poi tutta la vita di O. Stavano gradualmente permettendoci di
entrare nella sua vita e di sostituirli senza traumi per il piccolo, perché la fatica più grande è cedere
il posto e lasciar andare…
E’ stato importante non provare gelosia: questo figlio è un dono per chiunque ha avuto l’onore di
custodirlo.
I servizi sociali, dopo averci reciprocamente presentato, sono stati “dietro le quinte”: hanno lasciato
al nostro buon senso la gestione dei rapporti, occupandosi soprattutto dell’aspetto burocratico,
mantenendo i contatti telefonici settimanalmente con la famiglia affidataria e assicurando a noi
un’attenta disponibilità ad ascoltare e indirizzare i dubbi che emergevano.
E’ stato abbastanza naturale preparare un passaggio “morbido” tra le due famiglie: il “quando”
operarlo non è solo un problema burocratico: bisogna lavorare da entrambe le parti perché il
bambino sia corazzato per poter vivere il più serenamente possibile questo distacco che mai sarà
indolore. Dopo alcune visite da parte nostra alla loro famiglia, con frequenza bisettimanale,
abbiamo ospitato O. con i genitori affidatari e un loro figlio a casa nostra, per fargli conoscere
l’ambiente e il posto dove avrebbe vissuto; poi c’è stato un fine settimana “di prova”, nel quale O. è
rimasto con noi: siamo andati a prenderlo dalla famiglia affidataria ed abbiamo passato insieme una
giornata; poi siamo tornati a casa nostra con il bambino e siamo stati insieme con lui l’intero weekend (così ha potuto con calma conoscere nonni e zii – a turnazione!); infine, il terzo giorno, i
genitori affidatari sono venuti a prenderlo ed abbiamo trascorso tutti insieme la giornata a casa
nostra.
E’molto importante dedicarsi tanto tempo!
Riconosciamo la delicatezza con cui la famiglia affidataria ha mediato la nostra presenza nel
quartiere dove abitano: si sono premurati in ogni momento di non farci incontrare insieme a loro e
ad O., offrendoci anche la libertà di fingere di non conoscerli, per mantenere l’anonimato sulla
destinazione di O., finché hanno visto che in noi quest’aspetto non costituiva un problema.
Dopo il passaggio definitivo, i genitori affidatari sono venuti a farci visita la stessa settimana e poi
con un intervallo di tempo più diluito.
Oggi siamo amici e ci frequentiamo con una discreta costanza, impegni associativi e familiari di
entrambi permettendo! Questo serve a noi, ma siamo convinti che gioverà anche a O., che potrà in
futuro ricucire la propria storia affettiva, riconoscendo nella famiglia affidataria delle persone
amiche, e non un’ulteriore esperienza di abbandono.
Siamo anche da sempre convinti (e la nostra esperienza ha rafforzato quest’idea) che nessun
ambiente possa sostituire le cure e l’affetto di una famiglia, anche se questa non risultasse ancora
quella “definitiva” offerta al bambino. Quando il giudice ci ha convocati per illustrarci il caso,
sapere che O. era custodito in una famiglia ci ha tranquillizzati ed ha reso l’attesa (da questo punto
di vista) più serena, perché lo pensavamo in mani sicure ed attente. L’investimento, infatti, che due
genitori, in ogni caso, adoperano verso un figlio è totale e del tutto gratuito, in tempo, risorse ed
affetti; nessuno di noi, dopotutto, può sapere fino a quando potrà godere del dono del proprio figlio,
né a chi questo bene poi sarà offerto in futuro: è la legge su cui si regola la vita, si cresce un figlio
perché possa offrire il suo bene al mondo…
Attraverso queste poche righe desideriamo ringraziare vivamente tutte le famiglie che accettano di
accogliere temporaneamente una vita, in attesa di poterla poi consegnare ad una coppia adottiva; si
tratta di un “assegno in bianco” da custodire e far transitare fino a giusta destinazione. Desideriamo
altresì ringraziare i servizi sociali per aver reso possibile questa esperienza, sperando che possa
servire come esempio positivo e che in un prossimo futuro possa diventare prassi in ogni iter
adottivo l’accoglienza temporanea di un minore in attesa di adottabilità in un nucleo familiare
affidatario.”
AFFIDO FAMILIARE A LUNGO TERMINE
Nel preparare questo intervento ci sembrava quasi fuori tema andare a parlare di ciò che accade
dopo i 18 anni, ma riflettendoci sopra ci siamo resi conto dell’importanza fondamentale di una cosa
tanto banale da sembrare ovvia e scontata, ma che invece spesso non lo è: tutta l’azione educante
dei genitori verso i figli, che siano naturali, adottivi o affidati è semplicemente quella di prepararli
a gestire in modo autonomo e maturo la loro età adulta. E, almeno per la legge, l’età adulta inizia
con la maggiore età al 18° anno.
E se per i figli naturali questa data è spesso solo l’occasione per una festa di compleanno più
dispendiosa, per il diritto alla patente, alla firma sul libretto personale ed al voto elettorale, per il
poter dire “ora faccio ciò che mi pare” sicuri però che la famiglia mi accoglierà ancora per tanti altri
anni, nel caso di un affido accade una semplice, silenziosa ma enorme rivoluzione: l’AFFIDO
CESSA DI ESSERE TALE. Ed allora tutto quello per cui si è tanto faticosamente lavorato può
miseramente crollare come un castello di sabbia.
Quando viene proposto e presentato un affido, lo si progetta comunque per un rientro del minore
nella propria famiglia, anche se con tempi più o meno lunghi.
A volte però può accadere che il rientro non sia possibile, nonostante il sogno ed il desiderio del
minore di poter ritornare nella propria famiglia per trovarvi affetti ed attenzioni, che nel passato,
non si sono potuti o voluti vivere. E allora la famiglia affidataria, o meglio “ex affidataria”,
rimane l’unico luogo di riferimento e di accudimento possibile anche dopo i “fatidici 18 anni”.
Perché a quell’età la legge ritiene che il ragazzo – maggiorenne – sia in grado di gestirsi totalmente
da solo. Ed a conseguenza della Legge vengono meno anche tutti gli interventi delle strutture sociali
che a volte, garantiscono a mala pena il sostegno economico fino alla conclusione dell’anno
scolastico in corso .
Da quel momento per i servizi, la famiglia non esiste più, se non come”recapito” da contattare per
un altro eventuale affido.
La legge non dà nessun aiuto, ne alla famiglia né ai Servizi, per l’accompagnamento di questa
“persona” alla maturità completa.
D’altro canto come si può pensare che un/una diciottenne, spesso ancora con gli studi superiori in
corso, possa essere in grado di mantenersi e di auto – gestirsi, quando ciò è difficile anche per chi è
più adulto e magari ha già un lavoro?
E quindi questo neo-adulto si trova a vivere un momento di precarietà che è decisamente maggiore
di quello che vivono i figli “naturali”, si trova in conflitto con il richiamo verso la famiglia
d’origine ed il bisogno di esserne parte e però la consapevolezza che ciò non può avvenire, che
non può essere accudito, ma che deve raggiungere in fretta una maturità ed una stabilità che lo
porterà ad essere protagonista e a volte accudente della propria famiglia d’origine. Dall’altro lato
c’è il legame stretto con la famiglia ex-affidataria che ha il compito “non riconosciuto” di
accompagnarlo alla propria indipendenza.
C’è da dire che lo sforzo di questi ragazzi è veramente molto grande, e la voglia di sentirsi
indipendenti è molto forte, tanto da portarli, almeno per i primi momenti, ad incapacità nel gestire i
propri beni. Sono capaci di impegnarsi a fondo nel lavoro, ma nello stesso tempo, come cicale,
spendere in breve tempo quanto faticosamente guadagnato, forse per un malinteso senso di rivalsa
nel confronto con gli “altri”.
La famiglia ex affidataria si trova spesso a dover bilanciare tra ciò che giusto lasciar sperimentare e
la necessità di far riflettere sui “costi” che certe scelte comportano. Per chi esce dall’esperienza di
affido c’è continua conflittualità tra voglia estrema di indipendenza e bisogno di vincoli per non
sentirsi “figlio di nessuno”.
Favorevole può essere la presenza di famiglia di figli naturali (“fratelli affidatari”) di pari età vicina.
Con il loro atteggiamento essi possono avere funzione di esempio positivo e concreto, molto più
incisivo di mille discorsi degli adulti.
Durante l’affido, nei momenti di conflitto, è vitale il ruolo di mediazione che viene esercitato dai
Servizi o dalle regole stabilite dal Tribunale. Dopo il 18 anno tutto ciò viene meno e quindi il
rapporto è più diretto, non mediato, e quindi possibile di maggiori attriti.
Spesso anche il supporto psicologico ricevuto nella minore età, pur se ancora disponibile da parte
delle strutture, viene trascurato dall’interessato.
La difficoltà prima è stabilire i nuovi punti di riferimento: preparare al distacco tenendo conto della
maturazione psicologica ed affettiva ma anche dell’inserimento nel lavoro, della possibilità di
trovare un alloggio e di fare i conti con la spesa quotidiana.
D’altro canto una famiglia affidataria ha impostato tutta la filosofia di fondo della sua azione sulla
marcata differenza che c’è tra l’AFFIDO e l’ADOZIONE. E non può quindi, perché si è arrivati ai
fatidici 18 anni senza aver risolto i problemi fondamentali che hanno portato all’affido, ribaltare
tutti i presupposti e diventare, ORA, famiglia adottiva.
Per chi finora si trova a vivere questa esperienza di affido-non-affido over 18 rimane
a
disposizione l’unico strumento del buon senso (quello del buon padre di famiglia…) e
l’autorevolezza derivata dalla relazione di anni vissuti insieme. Ma tutto ciò si fonda su un supporto
di precarietà giuridica ed istituzionale vissuto nella sensazione che fin che va tutto bene non si è
oggetto dell’interesse di nessuno, ma se qualcosa dovesse andare storto…. Meglio non pensarci.
Varrebbe forse la pena, per non avere problemi, cercare di “scaricare” comunque l’affido quando si
è ancora un po'? lontani dai 18 ???
FAMIGLIE “A FIANCO” DI FAMIGLIE
Sono Roberta del Gruppo Famiglie Aperte di Bussolengo, che fa parte del MPAA, nato a seguito di
un percorso di sensibilizzazione all’affido famigliare. Sono anche famiglia affidataria.
Il percorso Famiglie A Fianco (FAF) finora fatto, e che continuerà con altri cinque incontri, è stato
molto interessante, emotivamente e umanamente coinvolgente, oltre ad aver cerato un gruppo, una
rete di famiglie che si sono maggiormente conosciute partecipando a questi incontri.
Nella prima parte del percorso ci siamo messi in gioco “attivo”:
• ripensando il vissuto personale per scoprire le nostre caratteristiche, i nostri punti di forza e
di debolezza, per arrivare ad apprezzare l’altro in sé, nella sua dignità e diversità, senza
giudizio;
• ripensando che ogni famiglia, a partire dalla nostra, utilizza risorse personali, sociali,
relazionali per superare momenti di difficoltà, in un modo unico e proprio (che deriva dalla
propria storia), che non funziona per tutte;
• scoprendo che solo l’ascolto profondo e sincero dell’altro porta a individuare le sue risorse
personali e le strategie per metterle in atto nell’affrontare le difficoltà;
• riflettendo che la FAF è parte di un percorso da fare insieme ad altri nel rispetto delle
capacità, modi di operare propri e dell’istituzione che lo progetta.
Proprio dall’ascolto di alcune esperienze nella seconda parte del percorso, abbiamo capito la
necessità di formazione che era maturata dalla revisione delle stesse esperienze:è difficile essere a
fianco, non davanti o dietro, per esempio di madri sole o famiglie straniere, concretamente
nell’affrontare le nostre strutture sanitarie, l’inserimento e accompagnamento dei figli nel mondo
della scuola, il mondo del lavoro…e altro.
Vi racconto alcune sottolineature da due esperienze condivise, che mettono in luce le possibilità di
una FAF:
• solo l’entrare nella casa della famiglia da affiancare, il frequentarla, ha permesso di
abbattere quei muri di diffidenza e ostilità intorno, agevolando l’accettazione della famiglia
straniera nella comunità locale : LA FAF HA FATTO DA PONTE
• la difficoltà di una famiglia, che nel suo Paese si sarebbe risolta secondo certi schemi che
qui in Italia non potevano funzionare, mancando di figure e ruoli di riferimento, si è
dipanata con l’intervento di una famiglia che era a fianco e che ha assunto questo compito.
LA FAF HA FATTO DA MEDIAZIONE
Il Movimento ha pensato, progettato, organizzato assieme ai servizi sociali questo percorso, perché
dopo anni di lavoro con i minori sa che il disagio del minore riflette il disagio, una inadeguatezza,
reale o sentita, della famiglia; intervenire o lavorare solo con il minore non risolve tutti i problemi.Il
percorso ci aiuta a capire, come famiglie affidatarie valori, risorse, comportamenti delle famiglie
d’origine, come famiglie in genere le nuove e proficue possibilità di affiancamento e relazione vera
con le altre famiglie che si incontrano.
Concludiamo questa rassegna di una parte degli atti del Convegno con la relazione della
dottoressa Emanuela Stoppele, psicologa e psicoterapeuta che collabora con il Movimento.
La sua relazione si collega con l'esperienza citata prima, dell'affido presso una famiglia, di
bambini molto piccoli in attesa di adozione.
Obiettivo di questo contributo è quello di portare all’attenzione degli operatori della prima
infanzia che operano nel campo dell’affidamento e dell’adozione un elemento di criticità nelle
procedure di cura/tutela dei bambini piccolissimi in attesa della dichiarazione di adattabilità,
intendendo per bambini piccolissimi quelli con età compresa fra gli 0 e i 3 anni; la criticità interessa
in particolar modo la tempistica con cui sono poste in essere tali procedure di cura/tutela del
neonato adottabile, tempistica che al momento attuale sembra in alcuni casi collidere con la
perentorietà dei bisogni di sviluppo del bambino nei primi tre anni di vita. Si intende in questa sede
mettere in luce una contraddizione inerente a tali procedure, proponendo correttivi che rispondano
maggiormente alle necessità maturative della psiche dell’adottando.
Generalmente i neonati adottabili, dopo un primo periodo di permanenza in ospedale, vengono
affidati temporaneamente in istituti, a gruppi famiglia o a famiglie affidatarie in attesa che le
procedure per l’adottabilità seguano le tappe previste dall’iter legislativo; tale periodo di transizione
ha una durata di alcuni mesi, nel corso dei quali i bambini stringono legami molto significativi con
le figure che si occupano di loro.
Lo sviluppo del bambino nel primo anno di vita è caratterizzato da fasi di maturazione ben delineate
sulla cui successione e sulla cui importanza sono concordi studiosi diversi nell’ambito delle scienze
psicologiche che si occupano della prima infanzia: la piattaforma scientifica di questo settore, pur
nella diversità di accenti e di interpretazioni, appare ormai consolidata e le considerazioni che ne
derivano hanno carattere di sostanziale unità.
In questa sede verranno privilegiate considerazioni di tipo psicodinamico con la citazione di autori
che si rifanno alla tradizione psicoanalitica. A partire dai classici studi clinici sulla sessualità
infantile e sullo sviluppo dell’Io (Anna Freud), sul precocissimo mondo pulsionale del bambino
(M.Klein), sugli organizzatori della vita psichica (Spitz), passando attraverso le considerazioni
osservative di M.Mahler e gli studi di Stem, per arrivare da un lato alle intuizioni di cliniche di
Bonaccorsi e dall’altro al paradigma etologico degli studi sull’attaccamento (Ainsworth, Bowllby)
(studi che – ricordiamo – consentono rilevazioni quantitative statisticamente significative), i diversi
autori sembrano concordare sulla nozione che lo psichismo della persona forma le sue basi
essenziali nel periodo temporale dei primi tre anni di vita (in particolare i primi dodici mesi) e nel
contesto della relazione primaria di attaccamento o – secondo il paradigma di studio più prettamente
psicodinamico – all’interno della relazione strettissima con l’oggetto primario, cioè con la persona
che fornisce al bambino vicinanza e investimento costanti, calore, cure, affetto, protezione
(generalmente la madre).
All’interno di questo legame, se sufficientemente stabile nel tempo e sicuro (termine che nella
teoria dell’attaccamento indica una precisa configurazione di legame osservabile dall’esterno in
base a indici comportamentali codificati), la mente si forma partendo da una iniziale grossolanità o
sincreticità nella percezione del legame con l’altro come persona (fase dell’oggetto parziale,
intendendo qui per oggetto sempre l’oggetto primario) ad una progressiva raffinazione della
percezione dell’altro e del legame affettivo con esso. Nel primo anno di vita accade cioè che il
bambino si rende progressivamente conto dell’importanza dell’altro e del suo apporto sostanziale
per il proprio benessere psichico, e per effetto di questa consapevolezza il suo legame con l’oggetto
diventa più stretto e quindi l’oggetto assume un’importanza vitale ai suoi occhi. Questo
riconoscimento d’importanza del legame è fondamentale per l’economia psichica del bambino, che
solo in questo modo accede all’esperienza del sentimento di perdita, uno dei grandi equilibratori
della vita psichica; tale capacità matura, in condizioni fisiologiche, intorno all’ultimo trimestre del
primo anno di vita.
L’occorrenza di accadimenti esterni significativi in coincidenza con questa fase delicata – sotto
forma di rotture intempestive del legame, improvvisi disinvestimenti da parte della madre per lutti o
problemi coniugali, malattie, ecc. – costituisce elemento di rischio poiché interferisce con il
consolidarsi della tappa maturativa sopra descritta. Il bambino, di fronte ad un importante
sconvolgimento del suo contesto di vita in questa fase, sperimenta una insicurezza tale da trovarsi
costretto ad arroccarsi in una posizione affettiva difensiva (generalmente di regressione a
meccanismi più arcaici di tipo schizoparanoideo e di fuga nell’onnipotenza; in sostanza può
diventare più diffidente rispetto al legame primario che è invece quello che nutre la sua mente, e
reagire affettivamente come una persona che ha subito una forte e intempestiva delusione: non si
fida più e si arrocca nell’onnipotenza del “ce la farò da solo, senza l’aiuto di quel qualcuno che mi
ha deluso”. Occorre ricordare che – poiché siamo in epoca preverbale – questi processi possono
anche avvenire in maniera assolutamente silente, o al massimo essere rappresentati da modeste
modificazioni comportamentali oppure ancora dall’esordio di una qualche sintomatologia di tipo
fisico.
Ognuno di noi può avere avuto esperienza di questa configurazione affettiva nella propria
esperienza di adulto nell’incontro affettivo con altre persone, ma nell’adulto gli effetti di queste
esperienze sono mitigati dalla maturità dell’apparato psichico e dalla molteplicità delle relazioni
significative e dei contesti di vita: poiché invece il piccolo è immaturo e il suo mondo personale è
quasi esclusivamente costituito dalle poche persone affettivamente significative per lui, questo
arroccamento difensivo tende a tradursi in una posizione emotiva stabile, durevole nel tempo,
difficilmente scalzabile e spesso non immediatamente evidente ad un’osservazione superficiale. Da
qui la tendenza alla distorsione evolutiva e il blocco, almeno parziale, della maturazione
psicologica, sotto forma di un irrigidimento psichico che lo fa diventare un bambino più difficile da
trattare. Possiamo quindi immaginare come una separazione fisica definitiva dall’oggetto primario
costituisca per il bambino in questa fase un forte elemento di rischio.
Fino a questo punto le riflessioni hanno avuto un carattere prevalentemente deduttivo, a partire dal
modello clinico psicodinamico di conoscenza del funzionamento della mente nella prima infanzia.
Ma di quali dati possiamo disporre nel provare l’effettiva esistenza di conseguenze sull’apparato
psichico in seguito a perturbazioni come quelle descritte e quindi giungere a definirne il grado di
rischio? Tra i molti dati che oggi la ricerca rende disponibili, citerò riflessioni provenienti da studi
clinici su pazienti e dati indiretti provenienti dalle ricerche sullo stress da separazione, non essendo
a conoscenza di estese ricerche catamnestiche sul livello di maturazione psichica in un campione di
adottati, ricerca di difficile attuazione che richiederebbe l’utilizzo estensivo del metodo
dell’osservazione clinica.
•
M.T.Bonaccorsi ha individuato – attraverso l’osservazione clinica in un setting di tipo
psicodinamico – una configurazione emotiva caratteristica nei pazienti che avevano subito
un’intempestiva e anche solo parziale rottura del legame in età evolutiva (rottura che,
ricordiamo, può essere causata non solo dalle separazioni fisiche dall’oggetto primario).
Tale costellazione, che Bonaccorsi definisce “rottura di simbiosi”, è responsabile del
costituirsi di nodi interiori che tendono ad autoperpetuarsi e a frenare l’evoluzione
fisiologica della personalità; la distorsione psichica che ne deriva può incitarsi e rimanere
relativamente silente nel tempo per evidenziarsi solo in particolari circostanze di
cambiamento; essa è visibile sia nei pazienti in età evolutiva che nei pazienti adulti ed è
rilevabile quasi esclusivamente dal clinico esperto che abbia condotto con successo la
propria analisi personale.
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Sul piano della ricerca valicata sul piano statistico troviamo dati che indicizzano il grado di
stress delle esperienze di separazione nei bambini piccolissimi e che costituiscono una
conferma indiretta – evidenziandone i correlati fisici - del fatto che si tratta di una
esperienza fortemente disturbante per il bambino. È di pochi giorni fa la notizia, divulgata
sui giornali nazionali, di uno studio inglese di Lamb e Ahnert del 2005 che evidenziano
l’innalzamento del tasso di cortisone dei bambini di età compresa tra gli uno e i due anni
separati dalla madre per l’inserimento al nido, rispetto ai loro coetanei accuditi dalla madre:
poiché l’idrocortisone è un indice fisico di attivazione del sistema di allerta dell’individuo, i
dati indicano che i bambini reagiscono alle separazioni intempestive (intempestive rispetto
al grado del loro sviluppo psichico) dall’oggetto materno con uno stato di allerta anche
fisico che tende a protrarsi nel tempo al di là di segni esteriori di malessere e/o di
adattamento apparente. Ciò che è sorprendente è che a 5 mesi di distanza dall’ingresso al
nido, questi stessi bambini mostravano un tasso di idrocortisone comunque superiore a
quello osservato in condizioni fisiologiche, come se a 5 mesi dall’inserimento il bebé stesse
ancora funzionando a livello fisico in uno stato di allerta. Se questo avviene nelle
separazioni temporanee e di durata limitata, quali saranno le conseguenze nelle separazioni
definitive? Abbiamo visto che il mondo mentale del bambino piccolo ha bisogno di prendere
forma lentamente, all’interno di un legame illusionale con l’oggetto primario; il contatto
intempestivo con una realtà troppo cruda sollecita in lui da una parte la fissazione a conflitti
primitivi disturbanti e dall’altra all’uso di meccanismi difensivi primitivi che tendono a
distorcere l’evoluzione della sua personalità: e non necessariamente questi processi sono
vistosi. Questi dati fanno riflettere sull’opportunità di rivedere le procedure messe in atto
con bambini piccolissimi affidati a famiglie o istituti in attesa dell’adozione: tali bambini
possono infatti essere inseriti da neonati in famiglie affidatarie (ma anche istituti) cui si
legano con un legame di tipo primario e da cui vengono separati intempestivamente, spesso
in coincidenza con la tappa di maturazione della capacità di legame selettivo con l’oggetto,
capacità che – come abbiamo visto – matura intorno ai 7-9 mesi di vita e che rende il legame
più forte e sostanzialmente insostituibile. Paradossalmente, se la separazione avvenisse
prima dei 6 mesi, quando questa capacità non è ancora fiorita, produrrebbe sul piano
psichico minori conseguenze. La contraddizione è costituita dal fatto che, producendo
artificialmente separazioni intempestive, l’istituzione rischia di produrre involontariamente
condizioni di rischio psicopatologico nella vita di quel bambino che sta tentando allo stesso
tempo di proteggere.
In conclusione, per le particolari caratteristiche dello psichismo del bambino di quest’età e per non
interferire con il consolidarsi delle sue acquisizioni maturative, sembra opportuno che l’adozione di
bambini piccolissimi scatti al massimo entro il quinto mese di vita del piccolo e che il passaggio da
famiglia affidataria a famiglia adottante preveda un periodo di doppio maternale: ciò richiede che i
procedimenti di valutazione dell’adottabilità dei bambini entro il primo semestre di vita seguano un
canale di urgenza e di precedenza rispetto agli altri procedimenti di adottabilità. Se questo non fosse
possibile, sembra preferibile che l’adozione avvenga dopo i 3 anni di vita e in seguito ad un
affidamento triennale in una famiglia stabile, al termine del quale – una vota stabilizzate le
principali conquiste della maturazione psichica dell’adottando – sia il bambino che la famiglia
affidataria possano essere aiutati ad attenuare progressivamente il legame reciproco in favore della
famiglia adottante.
Auguriamo Buone Feste e che
l' Anno Nuovo sia a tutti propizio
Direttore responsabile:Roberto Vinco
Autorizzazione del tribunale di Verona n. 779 del 13/10/87
Stampa: Tipolitografia Madonna - Bovolone Vr
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. Postale n.° 14105373 intestato ad Arduini Laura
c/o Movimento Gruppi Famiglia Onlus, via Campofiore,58 – 37129 VERONA
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Anno XVIII N° 2 giugno/dicembre 2005